Title: Le invasioni barbariche in Italia
Author: Pasquale Villari
Release date: September 14, 2017 [eBook #55545]
Language: Italian
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LE
INVASIONI BARBARICHE
IN
ITALIA
DI
PASQUALE VILLARI
CON TRE CARTE
ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
—
1901
PROPRIETÀ LETTERARIA
152-900. — Firenze, Tip. di S. Landi, Via Santa Caterina, 12
AL
Prof. ALBERTO DEL VECCHIO
[vii]
Il fine che mi sono proposto nello scrivere questo libro è assai modesto, ma è anche assai difficile a raggiungere. Il lettore giudicherà se sono riuscito. Io dirò solo in che modo sorse in me l'idea di accingermi all'opera.
Non si può negare che dopo la costituzione del regno d'Italia molto si è da noi progredito nello studio della storia. Ne sono una prova il gran numero di Archivi storici, che si pubblicano in ogni regione; le Deputazioni e Società di Storia patria, che sorgono per tutto; la grande quantità di documenti, che ogni giorno vengono alla luce; i progressi che han fatto la paleografia, la diplomatica, la filologia classica e la neo-latina, la storia del diritto, il metodo e l'erudizione storica in genere. Con tutto ciò libri che narrino gli avvenimenti del passato in modo facile e piano, agevolmente leggibili, i quali una volta erano assai numerosi in Italia, e servivano di modello alle altre nazioni, vanno oggi divenendo fra noi sempre più rari. Pure è certo che le ricerche d'archivio si fanno per poter sempre meglio e più sicuramente [viii] scrivere le narrazioni destinate alla gran maggioranza dei lettori.[1] Noi invece passiamo dai libri scolastici, che si leggono a scuola, e poi si gettano via, ai libri d'erudizione, che servono solo ai dotti di mestiere o, come oggi li chiamano, specialisti.
È facile capire qual grave danno tutto ciò debba recare alla nostra letteratura, alla nostra cultura; massime se si riflette, che la storia in genere, e quella dell'Italia in ispecie dovrebbe essere un mezzo non solo d'istruzione, ma anche di educazione nazionale, contribuendo efficacemente a formare il carattere morale e politico del nostro paese. Cesare Balbo, animato sempre di nobile patriottismo, deplorò in tutta la sua vita che noi non avessimo una storia popolare d'Italia, tale che tutti potessero leggerla con piacere e profitto. Egli si provò più volte a scriverla, ma rimase come sgomento dinanzi alle molte difficoltà che incontrava. Oggi, dopo la pubblicazione di tanti nuovi documenti, dopo tante nuove e così sottili dispute, le difficoltà sono cresciute piuttosto che scemare. Alcune di esse possono dirsi intrinseche alla natura del soggetto; altre invece dobbiamo riconoscerle conseguenza del nostro modo di trattarlo e dell'indirizzo che abbiam preso nei nostri studi.
Arduo assai deve certo riuscire il narrare in modo facile e chiaro la storia d'un paese che fu nel passato diviso in tanti Stati diversi, ciascuno dei quali ebbe il suo proprio carattere, le sue proprie vicende. Nel [ix] mezzogiorno abbiamo una monarchia feudale; nell'Italia centrale lo Stato della Chiesa, con un governo che è diverso da ogni altro, e la cui storia si collega con quella di tutta quanta l'Europa; più al nord abbiamo la moltitudine infinita dei Comuni e delle Signorie. Come, dove trovare un filo conduttore, che guidi chi scrive e chi legge? Queste difficoltà, è ben vero, non s'incontrano solamente in Italia; anche la Germania è stata sempre divisa e suddivisa. Nè sarebbero difficoltà insuperabili, se noi stessi non le rendessimo per colpa nostra anche maggiori; il che avviene in molti e diversi modi. In tutte quante le nostre scuole, in tutte le nostre pubblicazioni ci occupiamo oggi quasi esclusivamente di storia italiana. È divenuto poco meno che impossibile il vedere fra di noi apparire un libro sulla storia della Riforma, della Rivoluzione francese, della Germania, dell'Inghilterra, della Spagna, delle nazioni estere in generale. Ma la nostra storia è così strettamente connessa con quella di tutta l'Europa, che senza studiar l'una non è possibile comprendere l'altra. Chi infatti potrebbe mai intendere la storia italiana del Medio Evo, senza quella della Germania, o indagare le origini prime del nostro Risorgimento, senza occuparsi della Rivoluzione francese? Chi potrebbe farsi un concetto chiaro della Contro-Riforma in Italia, senza aver prima compreso la Riforma di Lutero? Ne segue perciò che, se questa tendenza verso un'erudizione esclusiva ed unilaterale ci fa sempre più diligentemente indagare ed esaminare i particolari problemi della storia italiana, ci rende invece [x] assai difficile comprenderne il carattere generale, e valutare con giusto criterio la vera parte che noi abbiamo avuta nella civiltà del mondo. Più di una volta ci tocca infatti l'umiliazione di vedere gli stranieri scrivere sulla storia dell'Italia antica, medioevale o moderna libri migliori dei nostri: e da essi la nostra gioventù deve apprendere la storia del proprio paese. Pur troppo questi libri, non ostante la molta dottrina ed il buon metodo, sono scritti non di rado con uno spirito ostile all'Italia; il patriottismo degli autori li spinge naturalmente ad esaltare la loro patria a danno della nostra. E così ne segue che si diffondono anche fra di noi sul carattere morale e politico degl'Italiani, sull'intrinseco valore della nostra civiltà, della nostra letteratura idee e giudizi poco esatti, che ci nocciono assai, facendoci perdere la giusta coscienza di noi medesimi.
Non lieve ostacolo a scrivere una storia nazionale che, pur essendo patriottica e popolare, sia imparziale, viene anche dalle relazioni in cui l'Italia si trova colla Chiesa. Noi abbiamo scrittori guelfi e scrittori ghibellini: i primi vorrebbero sempre lodare i Papi, giustificando tutto quello che fecero; i secondi vorrebbero invece sempre biasimarli, cercando di porre in ombra la parte, certo grandissima, che ebbero nella storia del nostro paese. A questo s'aggiunga l'abbandono in cui sono fra di noi gli studi religiosi, la storia della teologia e del Cristianesimo. E come si può senza di essi comprendere la storia d'un popolo, che ha fondato la Chiesa cattolica, d'un popolo la cui vita religiosa fu così intensa, [xi] così strettamente unita con la sua vita politica, letteraria, artistica e civile?
Pensando e ripensando a tutto ciò, mi parve che dovesse in Italia riuscire assai utile una collezione di volumi, che trattassero separatamente, in modo popolare, i vari periodi della storia d'Italia, sotto i suoi molteplici aspetti, e con essa anche la storia dei vari popoli civili. Di siffatte collezioni ogni regione d'Europa e gli Stati Uniti d'America ne hanno oggi parecchie; perchè non potremmo, non dovremmo noi averne almeno una? Mi decisi quindi a farne la proposta all'egregio editore comm. Hoepli, che l'accolse con favore, e si pose all'opera.
Due volumi sono già venuti alla luce. Il primo è una nuova edizione del ben noto libro del conte Balzani sulle cronache italiane, da lui riveduto e corretto. Il secondo è una storia del nostro risorgimento pubblicata dal prof. Orsi del Liceo M. Foscarini di Venezia. Altri tre volumi non tarderanno molto, io spero, a veder la luce. Uno, già quasi compiuto, è del prof. Errera, dell'Istituto Tecnico di Torino, sulla storia delle scoperte geografiche. Il prof. Salvèmini del Liceo Galileo di Firenze, ed il prof. Brizzolara dell'Istituto Tecnico di Reggio Calabria scrivono sulla storia moderna dell'Europa. Altri volumi sono in preparazione.
E per contribuire anch'io, come meglio posso, all'opera comune, pubblico ora questo primo volume di storia italiana, nel quale mi occupo delle invasioni barbariche. Non è un libro erudito, nè scolastico, e neppure di storia generale e filosofica, come [xii] il Sacro Romano Impero del Bryce, o le Rivoluzioni d'Italia del Quinet. I fatti debbono qui essere narrati nella loro cronologica successione e logica connessione, senza discutere o dissertare, e, per quanto è possibile, senza annoiare. Mi sono, com'è naturale, servito delle opere recentemente pubblicate, come quelle del Bury, del Malfatti, del Bertolini, del Dahn, del Mühlbacher, dell'Hartmann,[2] e più di tutte di quella dell'Hodgkin. Non ho trascurato alcuni autori più antichi come il Gibbon, il Tillemont ed il Muratori, che non invecchia mai; nè ho tralasciato di ricorrere alle fonti. Ma le citazioni, salvo casi eccezionali, sono di regola escluse. Credevo dapprima che lo scrivere questo piccolo volume, che si occupa d'un periodo solo della storia d'Italia, quando questa non era anche divisa e suddivisa, dovesse riuscirmi comparativamente agevole; ma ho dovuto pur troppo accorgermi che anch'esso era, per me almeno, assai difficile. Non mi sono però mancati aiuti e consigli preziosi di due dotti colleghi e carissimi amici, i professori Achille Coen ed Alberto Del Vecchio, ai quali mi è grato manifestar pubblicamente la mia vivissima riconoscenza. Nè posso dimenticare il giovane e valoroso professor Luiso, che volle aiutarmi rivedendo le bozze di stampa.
Se questi primi volumi incontreranno il favore del pubblico; se esso vorrà essere indulgente verso le imperfezioni inevitabili in un'impresa, che fra di noi [xiii] può dirsi nuova; e se non ci verrà meno la cooperazione degli studiosi, noi crediamo che la nostra collezione potrà riuscire utile alla cultura del paese, ed agevolare non poco la via a scrivere sempre meglio quella storia nazionale e popolare d'Italia, tanto desiderata e tanto desiderabile. Siamo in ogni modo persuasi, che una raccolta quale noi l'abbiamo ideata è oggi non solo utile, ma anche necessaria al nostro paese più che ad ogni altro. E crediamo che, quando pure fossimo condannati a non riuscire, l'impresa verrebbe assunta da altri più fortunati di noi, perchè risponde ad un vero bisogno dell'ora presente. Il materiale storico che si è raccolto, e va ogni giorno più aumentando, è immenso; nè deve rimanere il privilegio e la proprietà di pochi dotti, ma deve essere coordinato e reso accessibile a tutti. Solo così potremo riuscire ad infondere nel paese la coscienza di ciò che esso fu ed è veramente, la cognizione sicura della parte che l'Italia ebbe, di quella che può e deve oggi avere nella storia e nella civiltà del mondo.
[xv]
LE
INVASIONI BARBARICHE
IN ITALIA
[1]
Perchè cadde l'Impero Romano? La risposta che subito si presenta è questa: i Romani eran corrotti e dalla corruzione infiacchiti; i barbari, più rozzi, erano anche più morali e più forti. Quando passarono il Reno e il Danubio, la vittoria non poteva essere dubbia; l'Impero doveva crollare, una società nuova doveva formarsi. Ma perchè mai si corruppe e s'infiacchì un popolo, che per tanti secoli era stato l'esempio della disciplina, della virtù e della forza; che aveva saputo conquistare il mondo? La corruzione non era la causa, era la conseguenza, il primo segno della decadenza già cominciata. L'Impero, che Tito Livio già vedeva piegarsi sotto il peso della sua stessa grandezza, non poteva durare eterno.
Esso aveva formato l'unità civile e morale del mondo antico, la quale era stata necessario apparecchio alla costituzione delle nazionalità. Per vivere e prosperare, queste hanno infatti bisogno di essere in relazione fra di loro, di sentirsi come parti diverse d'una stessa famiglia. Ma il loro sorgere rendeva impossibile l'esistenza del [2] mondo antico, il quale riconosceva l'assoluto predominio d'una civiltà sola, al di fuori della quale tutti erano barbari. Se perciò da una parte, e vista da lontano, la caduta dell'Impero ci apparisce come qualche cosa d'inaspettato e straordinario; da un'altra reca maraviglia invece la sua lunga durata. Sotto una forma o l'altra, noi lo vediamo infatti sopravvivere a sè stesso in tutto il Medio Evo. E più tardi ancora tenta, sebbene invano, di rinascere dalla tomba, prima con Carlo V, poi con Napoleone I. Il vero è che l'unità dell'Europa e la diversità dei popoli che l'abitano sono due fatti innegabili del pari, dai quali risultano le vicende della storia moderna.
Roma era stata una città, un municipio, che aveva cominciato col conquistare e romanizzare le popolazioni vicine, con esse l'Italia, con l'Italia quasi tutto il mondo allora conosciuto. Ma il dominio d'una città sola sopra un così vasto territorio, sopra genti così diverse, imponendo a tutte lo stesso governo, la stessa legislazione, la stessa lingua ufficiale, doveva, con l'estendersi, incontrare difficoltà sempre maggiori. Era stato comparativamente facile assimilare le popolazioni romane; ma l'Africa, la Spagna, la Rezia, la Gallia resistettero invece sempre più ostinatamente. E una difficoltà nuova s'incontrò nell'Asia Minore e nella Grecia, dove per la prima volta i Romani trovarono una civiltà superiore alla loro. Conquistato colle armi il paese, furono essi conquistati dalla cultura greca, cui dovettero assimilare la propria, per diffonderle ambedue nel mondo. E così, quando l'Impero fu giunto al Reno ed al Danubio, esso non aveva più nessuna vera unità intrinseca, corrispondente a ciò che di fuori appariva. Non era uno Stato, non era una nazione; era un amalgama di popoli diversi, uniti insieme dalla forza, e sottomessi alla stessa civiltà. Al di là dei confini c'era un paese vastissimo, abitato da popolazioni [3] bellicose e barbare, che s'avanzavano minacciose come un fiume che straripa.
Da un tale stato di cose, la società romana fu profondamente turbata. E prima di tutto ne fu alterata la costituzione stessa dell'esercito, che era stato lo strumento principale della conquista e della fondazione dell'Impero. Una volta, così osservava giustamente il Gibbon, gli eserciti della Repubblica erano formati di proprietari e coltivatori del suolo, i quali pigliavano parte alle assemblee, votavano le leggi di Roma, e la difendevano colle armi. Il benessere della patria era immedesimato col proprio. Una battaglia vinta era la loro fortuna, una battaglia perduta era la loro rovina personale. Tutti gl'interessi morali e materiali, consacrati dalla religione, si univano a fare di essi cittadini e soldati eroici, che dopo la guerra tornavano tranquilli e modesti ai loro campi. Chi potrebbe mai supporre che gli abitanti della Rezia, della Spagna, della costa africana potessero combattere con lo stesso ardore, con la stessa fede, per difendere una potenza alla quale si sentivano spesso estranei o avversi? Questi eserciti mandati a difendere confini sempre più estesi, più lontani e continuamente assaliti, divennero di necessità eserciti stanziali. Chi era chiamato a farne parte, abbandonava il luogo nativo, i campi, se ne aveva, i quali perciò spesso restavano incolti, e rimaneva sotto le bandiere, in paese straniero, fino a che gli bastavano le forze. Di qui il bisogno sempre maggiore e le difficoltà sempre crescenti di trovar nuove reclute, che bisognava allettare con nuovi privilegi, con paghe maggiori. E quindi l'uso d'accogliere sotto le bandiere perfino gli schiavi, ma sopra tutto i barbari, che ben presto formarono la parte maggiore degli eserciti romani. La guerra divenne così un mestiere, e la forza delle armi risiedeva più nella disciplina che nel patriottismo. Pure tale era la potenza di questa disciplina, [4] tale il fascino maraviglioso che il nome sacro di Roma e dell'Impero esercitava sugli animi, che di elementi così diversi si riuscì a formare un esercito formidabile, il quale, per più secoli ancora, continuò ad operare miracoli.
A mantenere questo esercito numeroso e lontano occorrevano spese enormi. Era perciò necessario d'aggravare il paese di tasse. A poco a poco l'occupazione continua della Curia e dei Decurioni nei Municipi si ridusse a cavar denari da popolazioni già dissanguate. Costretti ad essere responsabili di ciò che occorreva, anche se i contribuenti non potevano pagarlo, il loro ufficio, una volta ambito come un onore, divenne un peso da cui ognuno cercava liberarsi, perfino con la fuga, con l'esilio volontario. E così anche qui l'interesse privato, che in altri tempi era immedesimato col pubblico, si trovava ora con esso a conflitto: principio inevitabile di debolezza e di decadenza morale in tutte le società.
Le continue guerre andarono sempre più aumentando il numero degli schiavi. I capi degli eserciti avevano accumulato enormi fortune, al pari dei fornitori di esso, e dei governatori delle province. I ricchi divenivano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, e l'usura li riduceva alla miseria. Questi finivano allora col mettersi alla dipendenza dei vasti possessori di terre, sotto forma di coloni più o meno attaccati alla gleba, pagando un affitto sulle terre che erano state già loro proprietà. Ne nacque una vera questione agraria-sociale, causa non ultima delle guerre civili e della totale decadenza. La classe media fu distrutta, e si formò quella dei latifondisti, che furono possessori di più diecine di migliaia di schiavi, di trenta, di quaranta miglia quadrate di terre, quasi d'intiere province. Il latifondo, che di sua natura tende ad ingrandirsi, aggregandosi le terre vicine, porta seco la cultura estensiva dei campi, esaurisce la fertilità [5] del suolo, e ne diminuisce il prodotto. Così l'Italia non bastò più a se stessa, al suo esercito, anche il grano della Sicilia essendo scemato. E cominciò a dipendere dall'Africa, senza il cui aiuto correva pericolo d'essere affamata.
Tutto il vasto territorio dell'Impero era disseminato d'un gran numero di città, molte delle quali, colonie civili o militari. Queste città erano ordinate a similitudine della capitale, colle loro assemblee, coi loro magistrati, le scuole, i tempii, i bagni, gli acquedotti, le caserme, gli anfiteatri. Esse erano congiunte tra di loro da una rete di strade, che è fra le opere più maravigliose di tutta l'antichità. Partendo dal Foro Romano, in mille direzioni diverse, arrivavano ai confini. Ad ogni cinque o sei miglia si trovava un numero sufficiente di cavalli, per tenere fra loro in pronta comunicazione tutte le parti dell'Impero. La campagna affatto deserta, sparsa qua e là di ville o masserie, era coltivata da schiavi e coloni, che non differivano molto fra di loro. La sera si riducevano nelle città o nelle ville. Anche l'industria, assai limitata, era affidata agli schiavi, che arrivarono ad un numero sterminato. Il Gibbon afferma che ai tempi di Claudio la popolazione dell'Impero contava 120 milioni, dei quali 60 erano schiavi. Ma anche senza dar piena fede a queste cifre, è certo che più d'una volta le ribellioni degli schiavi condussero l'Impero all'orlo dell'abisso.
Alla testa d'una tale società si trovava un sovrano con assoluto potere, e sotto di lui spadroneggiavano l'esercito ed i latifondisti. L'esercito volle ben presto fare e disfare, o almeno approvare esso gl'imperatori, dividendosi qualche volta in partiti, e proclamandone più d'uno nel medesimo tempo; il che fu causa di assai gravi e spesso sanguinosi conflitti. I latifondisti avevano i più alti uffici dello Stato, divenuti ereditari nelle loro famiglie, e [6] si trovavano alla testa d'una numerosa burocrazia. Abitavano nelle città insieme con una plebe di nullatenenti oziosi, alla quale, perchè non tumultuasse, era necessario far larghe e continue distribuzioni di grano, allettandola con spettacoli e giuochi: panem et circenses. Se a tutto ciò s'aggiunge che in una società così vasta, divisa e disorganizzata, quegli stessi barbari che la minacciavano al confine, erano già in maggioranza fra gli schiavi e nell'esercito, si capirà facilmente che ormai non c'era più forza umana che potesse evitare una spaventosa catastrofe.
A tutte queste cause civili, militari, economiche di divisione e debolezza, s'aggiungeva non ultima la questione religiosa. Il Cristianesimo s'avanzava trionfante dall'Oriente, annunziando il principio di una nuova rivelazione, d'una nuova vita morale. La sua teologia nasceva, è vero, dall'innesto della filosofia greca col Vangelo; ma esso mirava alla distruzione del Paganesimo, su cui l'Impero era fondato. Il monoteismo era la negazione del politeismo; la rivelazione non s'accordava con la filosofia antica. Il Cristianesimo condannava la forza e la violenza, proclamava tutti gli uomini, tutti i popoli uguali innanzi a Dio, e l'Impero aveva, colla forza e colla violenza, sottomesso tutti i popoli a Roma. Il Cristianesimo inoltre sottoponeva la Città terrena e degli uomini alla Città celeste e di Dio. Per esso la vita sociale in questo mondo aveva valore solo come apparecchio alla vita d'oltre tomba. La società, la patria, la gloria, tutto ciò per cui Roma era stata grande, per cui aveva vissuto, che più aveva ammirato, perdeva il suo valore. E così non si trattava solo di sostituire una religione ad un'altra; si trattava di demolire i principii fondamentali di una filosofia, di una letteratura, di una civiltà intera, di tutto un mondo morale, per sostituirvene un altro. È facile immaginarsi qual profondo sovvertimento tutto ciò dovesse portare [7] nell'animo dei Romani, quali profonde ferite vi dovesse lasciare. E si capiscono perciò le feroci persecuzioni, più crudeli che mai da parte dei migliori e più convinti imperatori. Ma il sangue dei martiri sembrava solo innaffiare la nuova pianta, per farla crescere più rigogliosa. Tutti gli oppressi accoglievano con ardore la nuova fede, che valendosi delle vecchie istituzioni romane, fondava una Chiesa universale, la quale s'impadroniva rapidamente di tutta la società. Abbatteva gli antichi altari, per costruirne dei nuovi; trasformava gli antichi tempii; fondava ospedali, istituti di beneficenza, scuole, che erano tante fortezze destinate a demolire sempre più la vecchia società. La caduta dell'Impero non spaventava punto i Cristiani, perchè menava seco la caduta del Paganesimo. La stessa venuta dei barbari, la più parte già convertiti, appariva loro come provvidenziale, perchè destinata a punire quelli che ancora adoravano gli Dei falsi e bugiardi, che tenevano sempre aperto il tempio di Giano.
Che tutto ciò portasse un profondo disordine morale, che gli uomini dell'antica società si abbandonassero allo scetticismo, alla disperazione, ai vizi più bassi ed osceni, non è da far maraviglia. Ma pur grande veramente doveva esser sempre la vitalità dell'Impero, se potè continuare a resistere più secoli, respingendo l'un dopo l'altro i ripetuti assalti delle numerose orde barbariche. Di questa sua vitalità, non solo materiale ma anche morale, fu prova la diffusione e la importanza in esso assunta dalla filosofia stoica, che venne di Grecia, ma ebbe in Roma un suo proprio carattere pratico, col quale tentò assumere la direzione della vita, pigliando quasi il posto della religione. Difficilmente nella storia del mondo si troverebbe un tentativo più nobile, più eroico e più disperato ad un tempo, di quello fatto dagli stoici. In mezzo alla unione forzata di tanti popoli, alla [8] fusione e confusione di tante religioni, di tante forme diverse del Paganesimo, che crollava da ogni lato, essi cercarono di rinnovarlo e salvarlo dagli assalti vittoriosi del Cristianesimo, fondandosi sul concetto, sul culto della più pura, disinteressata virtù. Rinunziando alla speranza d'una vita futura, ad ogni ricompensa in questo o nell'altro mondo, disprezzando la gloria presso i posteri, non curando la opinione dei contemporanei, raccomandavano la virtù come fine a sè stessa, scopo unico della vita, come quella che trovava in sè ogni compenso, sgorgava spontanea, irresistibile dal cuore dell'uomo. La serena tranquillità con cui gli stoici affrontavano la morte, per difendere la giustizia, parve un momento divenir contagiosa, quasi volessero con una nuova serie d'eroi rinnovar la gloria dell'antica Roma. Ma pur troppo non era che un tentativo filosofico, il quale non poteva esser che l'opera di pochi spiriti eletti. Non era sperabile che penetrasse nelle moltitudini e le esaltasse, come faceva il Cristianesimo, che parlava a tutti e di tutti s'impadroniva. Pure fu come un baleno, che per breve tempo illuminò di luce vivissima l'Impero, e che più tardi sembrò ripetersi novamente colla diffusione del Neoplatonismo, predicato da Plotino e da Porfirio.
Marco Aurelio fu la vivente e più splendida personificazione dello Stoicismo, il quale salì con lui sul trono imperiale. Indifferente alla gloria, disprezzatore d'ogni materiale ed appariscente grandezza, amico della giustizia e della virtù, era nemico della guerra. Ma quando i confini dell'Impero furono minacciati dai Marcomanni, che insieme con altri barbari avevano passato il Danubio, egli assunse il comando dell'esercito, e combattendo fino alla morte con valore di gran capitano, li respinse e disfece. Nè durante il conflitto tralasciò le sue meditazioni filosofiche; ma ritirandosi la sera nella tenda, continuava a [9] scrivere quei Pensieri che rimasero immortali. «Nessuno, dice il Renan, scrisse mai con uguale semplicità, per solo suo uso, senza volere altri testimoni che Dio. Il suo pensiero morale, puro, libero da ogni legame sistematico o dommatico, si sollevò ad un'altezza che non fu mai superata. Ed il suo libro, il più puramente umano che sia stato mai scritto, visse d'una eterna giovinezza.» Nè egli fu il solo dei veramente grandi Imperatori. Dalla morte di Domiziano all'ascensione di Commodo al trono (96-180 d. C.), noi troviamo, con Nerva, Traiano e i due Antonini, una serie di sovrani che rappresentano la giustizia, la sapienza e la virtù chiamate a governare il mondo. Il Machiavelli, repubblicano, aspro nemico di Cesare, esaltato lodatore di Bruto, è pieno della più entusiastica ammirazione per quel periodo dell'Impero. Il Gibbon afferma, che se gli fosse chiesto, in qual tempo mai, durante tutta la storia del mondo, il genere umano fu più felice, non saprebbe indicarne un altro. Ma egli, che qui appunto sorvola più che mai sulle crudeli persecuzioni dei Cristiani, per parte d'alcuni di questi medesimi imperatori, è pur costretto ad aggiungere, che tutto dipendeva allora dalla volontà d'un uomo solo e dall'esercito. Infatti prima e dopo di tali imperatori, ve ne furon dei pessimi. E subito le forze disorganizzatrici, che solo per breve tempo poterono rimanere latenti, si scatenarono, portando alla superficie quella corruzione e decomposizione sociale, che non poteva più essere fermata, e che doveva inesorabilmente aprire la via ai barbari.
[10]
L'assalto improvviso che nel 114 a. C. dettero i Cimbri, i quali si avanzarono con un impeto inaspettato, disfacendo ripetutamente i Romani, aprì a questi la prima volta gli occhi sul pericolo che li minacciava dalla Germania. C. Mario, è vero, in due grandi battaglie (102 e 101 a. C.), li disfece compiutamente, e per circa mezzo secolo i confini rimasero tranquilli. Ma Giulio Cesare, dopo molte vittorie, si trovò anch'esso di fronte ad un esercito germanico, comandato da Ariovisto che, passato il Reno, era penetrato nella Gallia, combattendo valorosamente. Cesare lo disfece e lo inseguì al di là del fiume. Ma ivi trovò come un mondo nuovo: un popolo numeroso, bellicoso e quasi nomade; una società in tutto profondamente diversa dalla romana; un clima assai rigido; un suolo pieno di paludi e di boschi, senza possibilità di approvvigionamenti, infesto all'avanzarsi d'un esercito romano. Col suo sguardo penetrante, col suo grande senno pratico, capì subito, che non era il caso di pensare ad una stabile conquista, molto meno a romanizzare quelle genti, e si ritirò novamente al di qua del Reno.
Dopo la sua morte, i Romani non imitarono la prudenza del valoroso capitano. Ripassarono il Reno, penetrarono nel cuore della Germania; vi portarono le loro leggi, la loro amministrazione, le loro tasse. E la conseguenza fu una tremenda insurrezione capitanata da Arminio, che distrusse un esercito di tre legioni. Il console Varo ed i principali suoi ufficiali, per non sopravvivere al disastro e al disonore, si dettero la morte (9 d. C.). Arminio era stato educato nell'esercito romano; [11] insieme col fratello aveva in esso valorosamente combattuto, ed era stato colmato di onori. Ad un tratto, tornato fra i suoi, messosi alla testa della insurrezione, aveva tratto in agguato gli antichi commilitoni, dei quali si fingeva sempre amico, e si era scagliato contro di essi con un impeto addirittura feroce. I prigionieri romani furono mutilati, impiccati, trucidati. A molti furono cavati gli occhi, fu strappata la lingua, insultandoli con ogni specie d'ingiurie più sanguinose. Venne perfino disseppellito il cadavere del Console, per poterlo insultare. Anche Marbodio, capo dei Marcomanni e nemico di Arminio, che aveva cercato di fondare un regno a similitudine delle istituzioni dei Romani, dai quali era stato educato, e dei quali si dichiarava fido alleato, venuta l'ora del pericolo, si manifestò nemico aperto. Da tutto ciò appariva evidente, che nelle popolazioni germaniche v'era un odio istintivo, inestinguibile contro i Romani; che nè i benefizi, nè la educazione o la disciplina militare potevano in modo alcuno estinguere. Germanico fu mandato a vendicare la disfatta di Varo, ma le vittorie del valoroso capitano furono pagate ad assai caro prezzo. Nel clima, nei boschi, nelle paludi, più di tutto nell'odio persistente delle popolazioni, trovò ostacoli sempre maggiori. Una formidabile tempesta, distrusse una parte non piccola dell'esercito, che si ritirava dalla parte del mare.
Negli ultimi anni della sua vita, Augusto si era persuaso che l'Impero doveva fermarsi al Reno ed al Danubio, senza pensare a nuove conquiste, e lo raccomandò nel suo testamento. Lungo i due fiumi venne infatti costruita una linea di fortificazioni, e l'Impero si attenne generalmente al savio programma. Solo Traiano, lasciatosi vincere dall'ambizione della gloria, passò il Danubio, avanzandosi vittoriosamente. E se più tardi, rinsavito [12] anch'esso, tornò indietro, la Dacia, al di là del fiume, restò sempre provincia romana, il che fu un grave errore, come poi si vide. Infatti la difesa del Danubio, che facilmente si poteva fortificare, venne trascurata, perchè esso non segnava più i confini dell'Impero, che s'erano portati innanzi fino alla Dacia orientale, dove non era ugualmente agevole fortificarli. Tuttavia, per circa duecentocinquant'anni dopo la disfatta di Varo, gli assalti dei barbari vennero sempre vittoriosamente respinti. Questa difesa anzi fu la costante occupazione dell'Impero, e quasi la sua principale ragione di essere.
Ma chi erano, che cosa volevano questi barbari, che assalivano con tanta persistenza? Vissuti una volta, come è generalmente ammesso, nell'Asia, insieme con coloro che più tardi furono i Greci ed i Romani, avevano con essi fatto parte di quella che venne dai moderni chiamata la famiglia ariana. Dopo un periodo di vita in comune, si divisero, partendo per direzioni diverse. Il clima più mite, il suolo più fertile, la posizione geografica più fortunata, la vicinanza dei Fenici e degli Egiziani, fecero fare un rapido progresso a quelli tra di essi che andarono nella Grecia e nell'Italia. Lo stesso non poteva seguire in Germania, dove invece, per le avverse condizioni del suolo e del clima, per il nessun contatto con popoli civili, s'andò formando, in un periodo di molti secoli, una società affatto diversa, che ai Romani poteva apparire di selvaggi. Non erano però selvaggi, ma barbari, e per poco che fossero mutate le condizioni in cui si trovavano, potevano, al contatto colla civiltà, come poi avvenne, progredire rapidamente.
Giulio Cesare è il primo che ci dia su di essi qualche notizia precisa. Li trovò, esso dice, in uno stato seminomade, con un'agricoltura affatto primitiva. Vivevano della caccia, della pesca, sopra tutto del prodotto degli [13] armenti, loro cura principale. Il latte, la carne, il formaggio erano il loro cibo consueto. Adoravano il sole, la luna, il fuoco, le forze della natura, tutto ciò che vedevano, e da cui ricevevano benefizio. Pieni di grossolane superstizioni, di costumi crudeli, non avevano ancora un ordine sacerdotale. Ma il fatto che sopra tutti richiamò la sua attenzione, si fu il vedere che queste popolazioni, in continuo moto, non conoscevano la proprietà privata della terra, la quale era invece posseduta collettivamente dai villaggi, anzi dalle parentele, Cognationes come esso le chiamava, Sippen come le dicono i Tedeschi. Appena si fermavano, i Magistrati o sia i loro capi, dividevano fra di esse il terreno occupato. E dopo un anno, le costringevano ad andare altrove, dividendo di nuovo, nello stesso modo, il terreno. Le case erano specie di capanne da potersi facilmente decomporre e trasportare, come proprietà mobile, sui carri, colle masserizie, coi vecchi ed i fanciulli. Era un genere di vita che educava mirabilmente alle armi. La caccia, le razzìe, le guerre coi vicini, per acquistar nuove terre, erano la loro occupazione continua, il bisogno costante d'una gente, la quale con la sua rozza agricoltura esauriva subito il terreno che aveva occupato. Cesare restò assai maravigliato in presenza d'un genere di vita tanto diverso da quello dei Romani, e ne chiese spiegazione agli stessi barbari. Gli risposero, che vivevano a quel modo, perchè una troppo assidua cura dei campi non li dissuefacesse dalla guerra, ed una costruzione più accurata e solida delle case, non li rendesse inabili a sopportare il freddo ed il caldo. Ed ancora perchè la disuguaglianza delle fortune e l'avidità del possedere non arricchisse i potenti, spogliando i deboli; si evitasse quella cupidigia da cui hanno origine le fazioni e le guerre civili; si mantenesse con la equità soddisfatta la plebe, che vedeva [14] i suoi campi uguali a quelli dei più potenti.[3] È difficile credere che questo fosse proprio il linguaggio dei barbari. Ma è di certo il concetto che più o meno sorgeva allora in tutti, paragonando la società romana alla barbarica.
Ed è il concetto che domina anche più esplicitamente nella Germania di Tacito, la fonte principale che abbiamo, per conoscere un po' più da vicino quelle popolazioni. Le notizie che ci dà Cesare sono poche e frammentarie, ma chiare e precise, suggerite dalla sua osservazione, dalla sua esperienza personale. Tacito invece ci dà addirittura un breve trattato sul paese. Non sappiamo con certezza se egli lo avesse davvero visitato. In ogni modo ne vide, se mai, una piccola parte, e le notizie che ci dà sono il più delle volte di seconda mano, cavate da Cesare, che egli chiama summus auctor, e da altri, che erano stati oltre Reno. A ciò si aggiunge, che il suo scritto ha uno scopo, anzi una tendenza politica e morale visibilissima. Egli s'era persuaso (simile in ciò agli scrittori del secolo XVIII) che i popoli primitivi, più vicini allo stato di natura, sono perciò, come erano stati gli antichi Romani, più puri, più onesti e valorosi di quelli che una civiltà raffinata ed artificiale ha corrotti, come era seguito ai Romani del suo tempo. Ispirato da un ardente patriottismo, con un sentimento quasi profetico della rovina che minacciava l'Impero, voleva scongiurarla col ricondurre i suoi connazionali all'antica virtù. E quindi descriveva con entusiasmo, esaltava, idealizzava la vita, i costumi dei barbari. Egli è certo un grande storico e pensatore; ma, a differenza di Cesare, sempre chiaro, sobrio e preciso, è anche un manierista, il cui stile vigoroso, ma spesso anche oscuro, si presta a [15] molte e diverse interpetrazioni. Ciò ha dato luogo a dispute infinite, massime quando egli non va pienamente d'accordo con Cesare, il che gli succede spesso. Ma siffatte divergenze hanno un'assai facile spiegazione. Tacito scriveva un secolo e mezzo dopo di Cesare, ed a suo tempo la Germania s'era non poco mutata. Il lungo contatto avuto dai barbari coi Romani, l'avere in questo mezzo trovato chiuso il passaggio del Reno e del Danubio, quando forse altre popolazioni li sospingevano dall'oriente, tutto questo cominciò a rendere impossibile quella vita seminomade dei tempi di Cesare, e li costrinse a prendere sulla terra occupata una dimora, in parte almeno, più stabile.
Comunque sia di ciò, Tacito descrive anch'esso gli abitanti della Germania in uno stato di barbarie, ignari delle lettere dell'alfabeto, con scarsa conoscenza dei metalli, tanto che ne facevano poco uso anche nelle armi; con nessuna conoscenza della moneta, della quale solamente coloro che erano ai confini avevano appreso l'uso dai Romani. Occupati anch'essi, come i loro antenati, principalmente nella caccia e nella guerra, lasciavano per quanto potevano la cura della casa e la cultura dei campi alle donne ed ai vecchi. Si cibavano tuttavia, più che altro, del prodotto dei loro armenti. Conoscevano il frumento e ne cavavano una bevanda, che usavano invece del vino. Temperati in tutto, meno che nel bere e nel giuoco, non vestivano più di sole pelli, ma usavano mantelli di lana. Le loro antiche divinità avevano cominciato ad assumere una forma personale, e Tacito cerca assomigliarle alle romane. Il Tius (Dyaus vedico), Dio supremo del cielo luminoso, divenuto, pel carattere bellicoso del popolo, anche Dio della guerra, è da lui confuso con Marte, e messo perciò in secondo luogo; in primo egli pone invece Wuotan (l'Odino dell'Edda), il Dio dell'aria e delle tempeste, che [16] chiama Mercurio. Donar,[4] figlio di Wuotan, Dio dei fulmini e dei tuoni, dotato di forza prodigiosa, è confuso ora con Ercole, ora con Giove. Queste e le altre poche divinità hanno passioni umane, lottano fra di loro, si mescolano alle querele degli uomini. Ad esse s'aggiungeva una quantità di demoni, che popolavano l'aria, la terra, l'acqua, i boschi, i monti. Un ordine sacerdotale, che Cesare non aveva trovato, si era adesso già formato. Per placare le loro divinità, i barbari usavano anche sacrifizi umani. E quindi non si può credere a ciò che Tacito dice poco dopo, che cioè essi non costruivano tempii ai loro Dei, quasi per non profanarli con un culto materiale, adorandoli invece, come in ispirito, nei boschi, quali esseri invisibili e presenti.[5]
Questi barbari, come già accennammo, avevano ora preso dimora alquanto più stabile sulle terre che occupavano. Ma non conoscevano ancora le città, che ad essi sembravano prigioni, nelle quali «anche i più feroci animali si sarebbero infiacchiti.»[6] Le case non erano più mobili capanne di solo legno; ma l'uso del cemento e dei mattoni era sempre ignoto. Poste, come anche oggi vediamo nei villaggi della Svizzera, del Tirolo, della Germania, le une separate dalle altre, eran circondate da piccoli orti, che insieme con esse appartenevano alla famiglia che vi abitava.[7] E qui si può notare un primo passo verso la proprietà privata, immobiliare. La terra rimaneva però sempre proprietà collettiva del [17] villaggio divenuto più stabile. Non si mutava luogo ogni anno, ma solo quando la necessità di emigrare lo imponeva, sia che fosse del tutto esaurita la fertilità dei campi, e che perciò non bastassero più alla popolazione, sia che le conseguenze di qualche guerra sfortunata costringessero a cercare altra sede. Ma dentro il territorio occupato dal villaggio, o come alcuni dicono la Marca, la mutazione era continua. In che modo poi la terra occupata venisse divisa, e la cultura si avvicendasse, e le famiglie mutassero il terreno che coltivavano, Tacito lo accenna in un luogo, che è dei più oscuri, interpetrato perciò in non meno di sei modi diversi. E la confusione delle molteplici interpetrazioni fu non poco aumentata dal volere in esso cercare, non solamente ciò che lo scrittore aveva voluto dire, ma quello anche di cui non aveva parlato, e che forse ignorava.
Dopo aver detto, che i barbari non conoscevano l'usura, la quale tante rovine aveva portato nella società romana, Tacito continua: «le terre sono occupate da tutti, secondo il numero dei coltivatori, fra i quali vengono divise; e questa divisione è resa più agevole dalla vastità del terreno che occupano. D'anno in anno si mutano i campi messi a cultura, e sempre ne avanza una parte (quella probabilmente abbandonata al pascolo). Non rimangono confinati in breve spazio, non si adoperano a mantenere la fertilità della terra. Si contentano del solo frumento, senza coltivare pometi, prati artificiali o giardini.»[8] Il villaggio aveva dunque perduto l'antica mobilità dei tempi di Cesare; ma dentro di esso la mutazione era continua, nessuno restando più di un anno a coltivare lo stesso campo. La parte via via lasciata a pascolo, rimaneva sempre d'uso comune, perchè la proprietà della terra [18] continuava ad essere collettiva. Altri particolari Tacito non ci dà, ed è superfluo cercarli. Dello stato di cose da lui descritto noi possiamo però farci un'idea più chiara, se gettiamo uno sguardo al modo in cui si trovava costituita la Marca[9] germanica assai più tardi, nel Medio Evo. Era questo uno stato di cose certamente diverso da quello dei tempi di Tacito, ma che pur s'andò da esso, per processo naturale, lentamente svolgendo, e che ne serbava perciò alcune tracce visibili. Una parte del terreno era occupata da case sparse per la campagna, cogli orti come li descrive Tacito. Un'altra era lasciata a pascolo comune. Una terza finalmente veniva posta a cultura con regole assai minute e determinate, che non sarebbero state possibili ai tempi di cui noi ci occupiamo. Questa parte era divisa fra i vari capi di famiglia, i quali dovevano coltivare il loro campo in maniera, che ogni anno un terzo di esso riposasse, ed ogni triennio tutte le tre parti avessero avuto il loro periodo di riposo. Sebbene questi campi fossero, coll'andar del tempo, per un periodo sempre più lungo, assegnati ai capi delle famiglie, pure la parte da ciascuno di essi lasciata a pascolo, tornava ad essere d'uso comune, il che ricordava l'origine antica, ancora non scomparsa del tutto, di proprietà collettiva. Come si vede, un tale stato di cose, pur non essendo quello descritto da Tacito, derivava da esso e giova a farcelo meglio comprendere.
Questi barbari, che non conoscevano le città, molto meno conoscevano lo Stato. Cesare e Tacito li trovarono divisi in molti popoli diversi, ciascuno dei quali ordinato, suddiviso in quelli che, con nomi latini, essi chiamarono [19] Vicus, Pagus e Civitas. Il Vicus o villaggio era l'associazione più elementare, ancora poco determinata, costituita dai vincoli di sangue, che formavano le parentele (Cognationes, Sippen, Sippenschaften), con le quali spesso si confondevano addirittura. La riunione di alcuni Vici formava il Pagus, in tedesco Gau, una specie di Cantone svizzero, che era il nucleo più forte, quasi l'unità organica di questa società. L'unione di più Pagi costituiva la Civitas, il popolo, la schiatta, come dicono alcuni, la maggiore unità sociale barbarica, che a tempo di Cesare apparisce assai più debole che a tempo di Tacito.
Questa società barbarica era in tutto militarmente costituita, tanto che populus ed exercitus, uomo libero ed uomo in armi, erano una sola e medesima cosa. Si direbbe che fin d'allora vi si ritrovasse il primo germe di ciò che, dopo secoli, doveva essere il servizio militare obbligatorio, e l'ordinamento distrettuale dell'esercito germanico. L'esercito era allora formato, secondo un sistema decimale, per centurie, che si raccoglievano e costituivano nei Pagi, con uomini venuti dai villaggi, fra loro imparentati, e comandati dai capi dei villaggi stessi o delle parentele, giacchè anche qui, come sempre, predominavano i legami di sangue. Tutto questo fece sì che alcuni scrittori moderni dettero al Pagus o Gau il nome di Centena, Hundertschaft. Se non che, il Gau era d'assai varia estensione, qualche volta grosso quasi come una Civitas, ed allora naturalmente le centurie si costituivano nei centri minori, e si era quindi indotti ad attribuire piuttosto ai villaggi il nome di Centene, ed a confonderle con essi. Da ciò altre dispute infinite. Ma l'ordinamento civile ed il militare, per quanto sieno in stretta relazione fra di loro, non potevano essere allora, come non furono mai, una sola e medesima cosa. E però, quando anche venisse dimostrato con assoluta certezza, che la [20] centuria si formava solo nel Vicus o solo nel Pagus, non ne seguirebbe perciò che centuria e vicus o pagus potessero confondersi fra di loro. Oltre di che bisogna pur notare che, per quanto simili fossero allora i molti popoli germanici, ed i caratteri generali del loro ordinamento civile e militare, v'era sempre nei particolari una grande varietà da luogo a luogo, da popolo a popolo. Solamente una esatta conoscenza, che pur troppo non abbiamo, e forse non avremo mai, di questi particolari, potrebbe darci modo di definire e determinare con precisione i caratteri generali d'uno stato di cose tanto diverso dal nostro, e che dovrà quindi, in alcune parti almeno, rimaner sempre per noi incerto ed oscuro.
Nel villaggio comandavano i Majores natu, i capi cioè delle famiglie o delle parentele, che nelle cose di più grave importanza consultavano il popolo, di cui in guerra assumevano il comando. Alla testa del Gau si trovavano uno o più Principes, ai quali gli scrittori romani dettero nome anche di Magistratus, e qualche volta di Reges. Erano eletti fra le principali famiglie dei villaggi, essendovi fra i Germani anche una nobiltà ed una schiavitù. La prima era composta delle famiglie più antiche, che avevano formato il nucleo primitivo del villaggio, attirando a sè le altre, o di quelle che più si erano distinte nelle armi. La schiavitù par che fosse abbastanza mite; lo schiavo riceveva dal suo padrone un campo da coltivare, pagando un canone in derrate o animali. Questi Principes erano circondati dai capi dei villaggi, che formavano intorno ad essi una specie di Consiglio ristretto, che decideva le cose di minore importanza. Per le faccende più gravi, sopra tutto se si trattava di deliberare la guerra, si consultava sempre il popolo. Le sue adunanze erano ordinarie, in alcune determinate stagioni dell'anno, e straordinarie. In tempo di pace i Principes [21] amministravano la giustizia nel Gau e nel villaggio;[10] in guerra comandavano l'esercito. Ai tempi di Cesare par che avessero anche un carattere religioso, scomparso in quelli di Tacito, essendosi allora formato già un ordine sacerdotale, che prima non c'era.
La Civitas, come dicemmo, sembra essere stata in origine assai debolmente costituita. Cesare infatti affermava di non avere in essa trovato, in tempo di pace, nessun comune magistrato (in pace nullus est communis magistratus).[11] E l'assemblea della Civitas (Consilium Civitatis), che in Tacito ha una così grande importanza, è di rado menzionata da lui, tanto da far dubitare che fosse allora veramente un organo vitale di quella società. Il Gau o Pagus aveva perciò ai tempi di Cesare maggiore indipendenza; faceva razzìe per proprio conto, senza troppo occuparsi di quel che voleva o non voleva la sua Civitas, da cui qualche volta si staccava addirittura, per andare a far parte di un'altra. Alla testa di essa erano i Principes, che formavano una specie di Senato, il quale deliberava sugli affari minori, ed apparecchiava le deliberazioni più gravi da sottomettere all'assemblea popolare, che approvava col percuotere le armi, disapprovava con grida di fremito. Quest'assemblea aveva le sue ordinarie adunanze in tempo di luna nuova o di luna piena, e le straordinarie, in tempi indeterminati, secondo l'occorrenza.[12] In essa venivano eletti i Principes, e possiam credere che ciò si facesse confermando coloro che erano stati prima proposti dai Pagi. Nella stessa assemblea venivano concesse le armi a quelli che avevano raggiunta l'età legale, il che, secondo [22] la espressione di Tacito, era il primo onore, la toga virile, con la quale venivano ammessi a far parte della Repubblica.[13]
Il governo della Civitas sembra davvero essere stato generalmente ordinato a repubblica, sebbene spesso apparisca un capo con la forma monarchica, massime quando uno dei Gau riusciva a prevalere sugli altri. Quello però che sopra tutto contribuiva a dar forte unità alla Civitas, e stringeva intorno ad essa anche Pagi di altri popoli o addirittura altre Civitates, formando così una confederazione, che pigliava nome dalla principale di esse, era la guerra. Questa richiedeva naturalmente un capo militare, un Dux, quali furono Ariovisto ed Arminio, una specie di dittatore, con assoluto potere, il quale, fatta la pace, rimaneva spesso al suo posto, divenendo allora un vero e proprio re, come di tanto in tanto ne troviamo, e più specialmente nella Germania orientale. Il duce veniva naturalmente eletto per le sue qualità militari; i principi invece per la nobiltà delle loro famiglie: Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt.[14]
Un'altra istituzione assai diffusa in questa società barbarica era il così detto Comitatus (Gefolgschaft), che circondava così il Princeps come il Dux. Lo formavano i giovani più nobili ed animosi, che si stringevano, quasi specie di paladini, intorno ad uno dei loro capi, di cui divenivano indivisibili compagni d'arme. E come era per essi un disonore il sopravvivere nella pugna al proprio capo, così era per questo un disonore il lasciarsi da essi vincere in valore.[15]
Se ora, gettando uno sguardo generale su quanto abbiam [23] detto, paragoniamo la società romana alla barbarica, il contrasto apparirà assai evidente. La prima era formata da una popolazione urbana, divisa in un gran numero di città collegate da strade, con campagne deserte, coltivate da schiavi o coloni. La seconda era invece una società rurale, sparsa pei campi che liberamente coltivava. E sebbene anche in essa vi fossero nobili e schiavi, v'era tuttavia un'assai maggiore uguaglianza. La differenza delle fortune si limitava più specialmente al numero degli armenti. La proprietà collettiva della terra contribuiva non poco a riunire gl'interessi di tutti, che colle armi difendevano il territorio comune, e nelle popolari assemblee deliberavano insieme. Quasi nulla era l'azione dello Stato, che in realtà non esisteva, e tutto aveva un carattere personale. La pena era una vendetta affidata all'offeso ed ai suoi parenti, e si poteva comporre dando soddisfazione ad essi, non alla comunanza. I legami di sangue costituivano la base stessa della società, ed in parte anche dell'esercito, ordinato in gruppi di parentele. A Roma invece predominava su tutti lo Stato, e la società era fondata interamente sulle relazioni giuridiche. I Romani erano stati inoltre i primi a creare la proprietà privata, liberandola dalla forma arcaica, dando così uno slancio febbrile all'attività individuale, al progresso sociale. Ma nella lotta per l'esistenza i più forti e più fortunati spogliarono i più deboli, e distruggendo la piccola proprietà, crearono i latifondi. Si ebbero da una parte fortune enormi; dall'altra una moltitudine tumultuosa di nullatenenti affamati, cui s'aggiungeva un esercito che aggravava ognuno di tasse.
Se ora per un momento, colla nostra immaginazione, ci provassimo a fondere insieme queste due società, noi vedremmo da un lato sorgere maggiore ordine e disciplina, con l'idea dello Stato, della legge, del diritto impersonale; [24] dall'altro vedremmo rinascere la piccola proprietà, ripopolarsi le campagne di liberi agricoltori. Ma queste chimiche combinazioni nella storia si fanno solo con la violenza, con la guerra; e però nell'urto sanguinoso delle due società, una, pur modificando sè stessa, doveva vincere ed abbattere l'altra. Chi doveva vincere? La società romana era una vasta, maravigliosa organizzazione, con una grande forza espansiva ed assimilatrice. Se non fosse stata minacciata da interna decomposizione, avrebbe di certo potuto continuare a sottomettere, a riunire ed assimilare nuove genti, respingendo qualunque assalto. È quello che aveva fatto per più secoli. Se non che, colle vittorie crescevano gli elementi di decomposizione all'interno, di debolezza all'estero. E intanto le popolazioni germaniche tornavano continuamente all'assalto, spinte dal bisogno irresistibile di nuove terre da coltivare, bisogno che tutte spingeva verso l'occidente. Si avanzavano tumultuose, in numero sempre maggiore, sempre crescente, come le onde di un mare in tempesta.
Fortunatamente per l'Impero, questo mare germanico, diviso in una moltitudine di popoli diversi, di continuo in guerra fra di loro, non aveva unità nazionale, come era provato dal fatto, che nel chieder nuove terre essi si offerivano spontanei a servire sotto le bandiere dell'Impero, e combattevano con valore contro i propri connazionali. Molte infatti delle battaglie romane contro i barbari furon vinte con soldati germanici. Questo poteva far nascere l'illusione, che fosse possibile, per mezzo della disciplina, impadronirsi d'una gran parte di loro, ed assimilarli, per sottomettere, con essi, stabilmente gli altri. Ma l'esempio di Arminio dimostrava la vanità d'una tale illusione. I barbari educati sotto le bandiere romane, divenivano soldati e capitani eccellenti; ma non perdevano mai il loro carattere germanico, fieramente avverso [25] al nome romano ed all'Impero, che pur tanto ammiravano. Anche quando non bastava a tenerli uniti la comune origine, li univa il comune odio. Nè questo, per benefizi ricevuti, si estingueva mai. I più grandi nemici di Roma, quelli che distrussero l'Impero, Alarico, Odoacre, Teodorico, erano stati educati nelle legioni romane. Il sentimento della comune origine, se nei tempi ordinari di calma s'infiacchiva, di fronte ad un pericolo comune, sopra tutto quando trovavano un capo valoroso che li guidasse, si ridestava potentemente, e riusciva ad unirli con una fulminea rapidità, in vastissime confederazioni, animate da uno stesso furore. Si avanzavano allora come un sol uomo, con un impeto irresistibile. Ciò s'era visto fin dal tempo dei Cimbri, di Ariovisto, di Arminio, e continuò a ripetersi continuamente. Questa unione, è ben vero, non durava a lungo. Dopo il pericolo imminente si scioglieva; ma finchè durava, poteva da un momento all'altro riuscire fatale all'Impero, massime se si pensa al numero stragrande di genti che la Germania poteva mettere in armi, ed al numero già grandissimo di barbari che erano nell'esercito e fra gli schiavi romani. Se non che, una volta aperta la breccia sul Reno o sul Danubio, ed inondato l'Occidente, ai barbari sarebbe stato assai difficile, anzi impossibile, organizzare qualche cosa di stabile. Questo, essi, lo sentivano, ed era un'altra causa di debolezza, perchè scemava non poco la loro fiducia in se stessi, di fronte all'Impero, che vedevano sempre fortemente costituito, civilmente non meno che militarmente; e però lo ammiravano come qualche cosa di sacro ed eterno, nel momento stesso che lo aggredivano con tanto furore.
Ma i guai, come abbiamo già visto, erano dall'altro lato anche maggiori. Per poco che quella mirabile unità, che riannodava e stringeva tutte le forze molteplici dell'Impero, [26] dinanzi all'impetuoso urto barbarico, si fosse anche per un momento solo spezzata, avesse in qualche punto ricevuto un forte strappo, tutto sembrava a un tratto minacciare rovina, appunto perchè tutto era collegato, e da questo collegamento riceveva la forza e la vita. L'individuo, educato a vivere per lo Stato e sotto la sua protezione, non capiva come senza di esso si potesse esistere. Quando appena si sentiva abbandonato a se stesso, era come un atomo perduto nel caos; non immaginava neppure che fosse possibile resistere a quella società germanica, di cui ognuno s'avanzava con una sete feroce di sangue. Era un sentimento simile a quello di chi veda improvvisamente, per tremuoto, crollare le case, e senta il terreno mancargli sotto i piedi, o si trovi chiuso in un teatro minacciato d'incendio. Questo sentimento invece era affatto ignoto ai barbari, i quali facevano parte d'una società divisa e suddivisa non solo in popoli, ma in gruppi o cantoni diversi, che colla massima facilità si univano e si separavano, per riunirsi di nuovo. Quando una Civitas era vinta e decomposta nei suoi Pagi, questi facilmente si reggevano da sè soli, o si fondevano con quelli di un'altra, senza perciò sentirsi punto sgomenti. L'individuo, che per la distruzione del villaggio o del gruppo cui apparteneva, si fosse trovato isolato e abbandonato, usato com'era nella foresta, a contare sopra tutto sulla forza del suo braccio e sul suo coraggio personale, non provava nessuno sgomento, si univa facilmente a quelli che prima incontrava. Tutto questo fece assai spesso credere ai barbari, e fece a molti ripetere poi, che dinanzi ad essi i Romani si spaventavano e tremavano come donne. E ciò, sebbene questi li avessero poco prima disfatti, ed ogni volta che riuscivano a riannodare le fila spezzate, tornassero a vincerli ed a metterli in precipitosa fuga.
Così fu che per circa due secoli e mezzo l'Impero [27] dovè non solo respingere i continui assalti parziali d'oltre Reno e d'oltre Danubio; ma più di una volta si trovò di fronte a formidabili eserciti di barbari confederati, che penetrarono dentro l'Impero, e resero necessarie a salvarlo battaglie addirittura gigantesche. Una di queste fu quella da noi già ricordata, combattuta da Marco Aurelio. A un tratto, non si sa come nè perchè, forse cacciate da altre genti, si videro le popolazioni germaniche avanzarsi, riunite in una immensa moltitudine, nella quale primeggiavano i Marcomanni ed i Quadi. Penetrarono nella Dacia, passarono il Danubio, invasero l'Impero, e per la prima volta il sacro suolo d'Italia venne toccato dal piede di soldati germanici (167 d. C.). Fu allora che Marco Aurelio, abbandonati i suoi studi, assunse il comando dell'esercito, e conducendosi da gran capitano, in una serie di battaglie fortunate, respinse il nemico al di là del confine, e combattè sino alla sua morte, seguita il 17 marzo 180. Ma in quella lunga e gloriosa lotta, si vide che le forze dell'Impero cominciavano ad esaurirsi. Era stato necessario combattere i barbari con altri barbari, ed alcuni di essi si erano anche dovuti accogliere dentro i confini, esempio pericoloso che più tardi riuscì funesto. Tuttavia si potè continuare per un secolo ancora a vivere abbastanza tranquilli, fino a che gli stessi eventi, ripetendosi in proporzioni sempre maggiori, portarono finalmente conseguenze assai più gravi.
Infatti un'altra di queste grandi battaglie si dovè dare contro i Goti, sui quali dobbiamo ora un istante fermarci, perchè furono essi che dettero più tardi il colpo mortale all'Impero. Una opinione largamente diffusa, li fa venire dalla Scandinavia, di dove, per ragioni a noi ignote, si sarebbero avanzati verso il sud. A tempo degli Antonini li troviamo nella Prussia orientale, alla bocca della Vistola; circa la metà del terzo secolo erano nella Russia [28] meridionale, verso il Mar Nero, insieme coi Gepidi, divisi in Ostrogoti e Visigoti, cioè Goti orientali ed occidentali. Questa derivazione dalla Scandinavia e questo lungo cammino verso il sud è messo in dubbio da altri scrittori, i quali ritengono invece che i Goti siano addirittura popolazioni germaniche orientali, e più che un popolo, un amalgama di genti diverse, le quali si distesero al nord ed al sud, avanzandosi poi verso l'occidente. Alcuni li fecero derivare dai Geti, coi quali vorrebbero confonderli. Sono però questioni difficili a risolversi con certezza, anche perchè nel Medio Evo il nome di Goti si dava a genti assai diverse.
Comunque sia di ciò, dalla Russia meridionale, avanzandosi verso occidente, cominciarono ad assalire i confini dell'Impero, che, come dicemmo, erano, sin da quando s'era fatta l'annessione della Dacia, divenuti da questo lato assai più deboli. E dopo molti assalti sanguinosi, si mossero finalmente nel 268, con un formidabile esercito, ad una vera e propria invasione, menando seco le donne ed i vecchi. Trovarono però anche questa volta virile resistenza nelle legioni romane, comandate dall'imperatore Claudio. Questi scriveva al Senato che, nonostante il disordine in cui i suoi predecessori avevano lasciato l'Impero, nonostante la mancanza d'armi e d'ogni cosa più necessaria, s'avanzava per difenderlo contro un esercito di 320,000 Goti, che avevano già passato il confine, deciso a vincere o morire. Un sì gran numero di armati è probabilmente esagerato, essendovi forse compresi anche i non combattenti. E così pure deve ritenersi esagerato il numero di 6000 navi, che alcuni danno ai Goti, e che altri riducono a sole 2000. In ogni modo, trattavasi d'una invasione, di cui non s'era mai vista l'uguale, e che pure in due grandi battaglie (268 e 269) fu vinta e respinta da Claudio. La prima ebbe luogo a Naissus, nella Serbia, [29] e fu d'incerto resultato. Pure coloro stessi che la dissero perduta dai Romani, ammisero che vi perirono 50,000 Goti. Nella seconda battaglia questi furono dalla cavalleria romana chiusi nei Balcani, ove dalla fame, dalla peste e dal ferro vennero quasi totalmente distrutti. Dei sopravvissuti una parte si salvò colla fuga, altri rimasero prigionieri o schiavi addirittura, altri accettarono di servire nelle legioni romane. Molta fu la preda, e così grande in essa il numero delle donne, che ogni soldato romano ne ebbe due o tre per sua parte. Il che viene a confermare sempre più, che si trattava non d'un esercito solamente, ma d'una vera e propria invasione. Claudio allora scriveva di nuovo al Senato, dicendo: — Ho disfatto un esercito di 320,000 Goti, ho mandato a picco 2000 delle loro navi. — E per questi fatti egli ebbe il soprannome di Gotico. Ma il gran numero di cadaveri fece scoppiare una peste crudelissima, che uccise anche lui, il quale così potè dirsi vittima della sua stessa vittoria.
Questa vittoria era certamente una prova novella della forza ancora grandissima dell'Impero. Ma quello che nello stesso tempo dimostrava le forze inesauribili dei barbari, si fu il vedere che, dopo perdite così enormi, essi continuarono i loro assalti senza interruzione. È chiaro che le perdite erano subito risarcite da altre e diverse genti, le quali da ogni parte sopravvenivano. L'imperatore Aureliano (270-75), che successe a Claudio, ed era buon soldato, non meno che accorto politico, dopo avere valorosamente resistito, finì col venire ad un accordo, cedendo spontaneamente ai Goti la Dacia, a patto che non avrebbero passato il Danubio. E così si abbandonava ai barbari una provincia fertile, in gran parte già romanizzata, dalla quale moltissimi de' suoi abitanti dovettero emigrare. Si restringevano però, secondo i consigli di Augusto, i confini dell'Impero alla linea più sicura del [30] Danubio. Di ciò infatti Aureliano venne generalmente lodato; e vi fu coi Goti quasi un altro secolo di pace relativa, interrotta solo da tre guerre, mosse a tempo di Costantino, nelle quali essi furono sempre respinti, l'ultima volta con la perdita, si dice, di 100,000 uomini, morti di fame, di freddo e di ferro. Tuttavia questa linea del Danubio, da lungo tempo indifesa, rimaneva ora il lato più vulnerabile dell'Impero. I Goti si trovavano nella Dacia in grandissimo numero, e andavano aumentando pel continuo sopravvenire di nuove genti. E ciò, quando era andato sempre crescendo il numero dei barbari che facevan parte di quell'esercito, che doveva contro altri barbari difendere il Danubio.
I pericoli continui a cui l'Impero si trovava esposto, avevano fatto più volte sentire la necessità d'una riforma, la quale fu infatti condotta a compimento da Diocleziano (284-305) e Costantino (323-337). Primo suo scopo era il bisogno di dare una maggiore unità amministrativa e militare, concentrando il potere nelle mani dell'Imperatore, facendone un vero autocrata, conferendogli anche un carattere sacro e religioso. A rendere più agevole l'opera del governo, sopra tutto ad evitare i continui pericoli delle tumultuose successioni, Diocleziano s'era associato, col titolo di Augusto, Massimiano; poi altri due, Costanzo e Galeno, col titolo di Cesari. La divisione del governo non portava quella dell'Impero, [31] che restava sempre affidato alla suprema sua direzione. Ogni volta che uno dei quattro governanti moriva, i tre superstiti dovevano eleggere il successore, e così si sperava di evitare le scosse ed agitazioni continue. Ma questa parte della riforma fallì interamente allo scopo. Infatti, dopo l'abdicazione di Diocleziano, l'Impero cadde, per circa venti anni (305-323), in preda a continui tumulti, fino a che non successe, unico imperatore, Costantino, il quale condusse a compimento la parte veramente utile e necessaria delle riforme di Diocleziano.
L'Impero venne diviso in quattro Prefetture dell'Italia, della Gallia, dell'Illirico, dell'Oriente. Il potere civile fu nettamente diviso dal militare, e procederono parallelamente, emanando però ambedue dall'Imperatore, capo supremo, che circondato dai suoi ministri, comandava ad ognuno. I Prefetti del Pretorio, abbandonato del tutto quel potere militare che avevano avuto in passato, furono messi, coi poteri esclusivamente civili, alla testa delle Prefetture, divise in Diocesi sotto i Vicari, e queste in Province sotto i Presidi, Consolari o Correttori. Seguiva poi una lunga serie di minori ufficiali, che si distendevan su tutto l'Impero, con attribuzioni e gerarchie minutamente, precisamente determinate, per meglio amministrare, e sopra tutto più rapidamente riscuotere le tasse. Lo stesso fu fatto nell'esercito coi suoi Magistri militum (peditum et equitum), sotto cui erano i Duces, i Comites, discendendo con pari ordine sino ai gradi ultimi. Questa riforma prolungò senza dubbio la vita dell'Impero, dandogli maggiore ordine, unità e disciplina, rafforzando l'esercito. Ma essa aumentò anche le tasse e le vessazioni del fisco nel riscuoterle; sottopose l'Impero ad una vasta rete burocratica, con le inevitabili e dannose conseguenze, che non tardarono molto a farsi sentire. Roma, col suo Senato, il quale conservava parte dell'antico [32] splendore, non però l'antico potere, ebbe un suo proprio Prefetto (Praefectus Urbi). Essa e l'Italia furono ridotte alla condizione di province, sottomesse non solo al governo, ma anche alla tassa provinciale sui terreni. Già da un pezzo Roma era solo di nome capitale dell'Impero. Infatti Diocleziano ed i suoi tre colleghi risiedevano a Nicomedia, presso il Mar Nero; a Sirmio, non lungi da Belgrado; a Treveri, a Milano. Il vero è che la necessità di difendere la linea del Reno, del Danubio, ed anche dell'Eufrate, a cagione della continua guerra persiana, spostava da un pezzo verso l'oriente il centro di gravità dell'Impero, come si vide adesso anche più chiaramente.
Costantino, lo abbiamo già detto, condusse a compimento la riforma di Diocleziano. Ma sotto questo Imperatore vi fu una dura persecuzione dei Cristiani, e Costantino invece, riconoscendo la forza irresistibile della nuova religione, l'adottò solennemente, sperando con essa di rafforzare l'Impero. L'altro fatto che, nella sua vita, ebbe una grande importanza storica, fu il trasferimento della capitale da Roma a Bisanzio, sul Bosforo. La scelta della nuova capitale, che da lui ebbe il nome di Costantinopoli, fu assai felice. Essa era non solo più vicina al Danubio, ed un centro commerciale di primissimo ordine, che poteva essere facilmente approvvigionato dall'Egitto; ma era anche strategicamente come una fortezza resa inespugnabile dalla natura. E ciò fu provato dalla resistenza che per molti secoli potè fare contro innumerevoli nemici, mentre che Roma veniva invece di continuo presa e saccheggiata.
Le conseguenze di tutto ciò furono molteplici. Roma e l'Italia si sentirono come abbandonate, lasciate fuori della vita politica. L'unione del Cristianesimo coll'Impero, ambedue di carattere universale, faceva naturalmente sorgere il concetto d'una Chiesa universale, la [33] quale infatti s'andò subito formando e modellando sulle istituzioni stesse dell'Impero. Ricordando il suo passato, ora che cessava d'essere la capitale politica, Roma si sentiva spinta a divenire la capitale religiosa del mondo. Il suo vescovo volle essere non solo il successore di S. Pietro; ma anche di Romolo e di Remo, di Cesare e di Augusto, formando un impero religioso non meno vasto, non meno potente e più solido di quello politico, che ormai minacciava rovina. Ed in ciò era mirabilmente secondato dalle popolazioni italiane, nelle quali la vita religiosa cominciò a manifestare un'attività, che fra poco doveva divenire così febbrile, così generale da confondersi con la vita stessa di tutta la nazione. Se non che l'imperatore Costantino, che era alla testa dell'Impero, cominciato con lui a divenir cristiano, voleva porsi anche alla testa della Chiesa. Convocava e presiedeva i Concili, prendeva parte alle dispute teologiche, faceva pesare la sua autorità nel deciderle, e proclamava le decisioni prese. Eran tutte cose che il vescovo di Roma non poteva tollerare a lungo, spesso anzi già combatteva. Così si ponevano fin d'ora i primi germi di quelle lotte che riempirono poi tutto il Medio Evo. Lo Stato venne ben presto a conflitto con la Chiesa; lo spirito religioso dell'Oriente, l'Imperatore ed il patriarca di Costantinopoli con lo spirito religioso dell'Occidente e col vescovo di Roma, contribuendovi non poco l'indole intellettuale e morale, affatto diversa, delle due popolazioni.
Una prova di ciò si ebbe ben presto nella disputa teologica sorta fra Ariani ed Atanasiani, che si diffuse come un rapido incendio da un capo all'altro dell'Impero. A noi può sembrare oggi assai strano che una sottile controversia sulla Trinità potesse allora tanto agitare gli animi. Si trattava però non solamente d'un domma fondamentale nel Cristianesimo, ma del concetto stesso [34] di Dio e delle sue relazioni con l'uomo. Iddio si presenta alla nostra ragione come causa prima, al nostro sentimento come provvidenza benefica, il che lo avvicina a noi, facendogli assumere forma quasi personale ed umana. Il Cristianesimo soddisfece a questo doppio bisogno del nostro animo, riconoscendo in Dio Padre il creatore del mondo, in Gesù Cristo, suo figlio, lo stesso Dio, che assume forma umana, e subisce la morte per redimerci dal peccato e salvarci. Lo spirito greco, che in sostanza è il creatore della teologia cristiana, cominciò ben presto a sottilizzare, ed Ario sostenne che il Figlio, essendo stato creato dal Padre, non poteva essere identico a lui, non poteva essere ab aeterno, doveva avere un principio, sia pure quanto si voglia remoto.
Contro questo concetto insorse Atanasio, che in Alessandria era stato educato alla filosofia di Platone, che aveva considerato Iddio sotto il triplice aspetto di causa prima, di logos o ragione, di spirito animatore dell'universo. Sostenne perciò risolutamente il concetto del Dio trino ed uno, già penetrato nel Vangelo di S. Giovanni, e disse ad Ario: — Colla vostra dottrina voi negate la divinità di Gesù Cristo. Il Figlio è della stessa sostanza (homoousios) del Padre. — E voi, gli rispondeva Ario, ammettete non più un Dio solo, ma due. — Sinodi e Concili si successero allora rapidamente gli uni agli altri. Vescovi e prelati erano di continuo in moto, a segno tale da far dire perfino che si disorganizzavano le poste dell'Impero. Per le vie, per le piazze, nelle chiese, nelle case non si parlava che del Padre e del Figlio, della loro sostanza identica o no. Il Concilio di Nicea (325), radunato da Costantino, proclamò la dottrina di Atanasio; ma l'Oriente inclinava decisamente a quella di Ario. I suoi seguaci cercarono dei mezzi termini, secondati in ciò da Costantino, il quale, anche per ragioni politiche, si sforzava [35] di mantenere l'unità religiosa dell'Impero. Alcuni, che presero nome di semiariani, dissero che il Figlio era non di sostanza identica (homoousios), ma pur simile (homoiousios) a quella del Padre. Tutta la differenza, osserva qui il Gibbon, si riduceva ad un dittongo, ad una sola lettera dell'alfabeto. Ma ciò non poteva bastare a far cessare l'ardore della controversia. Altri, adottando la formola detta di Sirmio, dal luogo dove fu concordata, cercavano evitare la disputa, sfuggendola con parole vaghe. Atanasio però non ammetteva transazioni di sorta, e respingeva ogni accomodamento. Accusato, calunniato dagli avversari, perseguitato dall'imperatore Costanzo, figlio di Costantino, deposto da patriarca d'Alessandria, cacciato in esilio, continuò la sua propaganda. Rimesso nella sua sede, ripigliò con più audacia che mai l'opera propria. E quando, nella notte del 9 febbraio 356, la chiesa in cui ufficiava fu circondata dalle milizie imperiali, egli, fermo sulla sua sedia, continuò la lettura dei Salmi, nonostante le insistenze de' suoi fedeli, che lo scongiuravano di porsi in salvo; ed ordinava invece che si mettessero essi al sicuro. In fine, quando i soldati s'avanzavano minacciosi contro di lui, ed egli era restato con pochi dei suoi, scomparve improvvisamente con essi, come per miracolo, e si ritirò nella Tebaide, donde continuò la sua propaganda.
Che un uomo solo, di carattere energico, eroico, mostrasse tanta fermezza nella propria fede, non era allora un fatto nè isolato nè strano. Ma ciò che dava alla battaglia da Atanasio così valorosamente sostenuta, un grande valore storico, era il fatto che dietro a lui stava tutto l'Occidente, con alla testa il vescovo di Roma, Liberio. Questi apertamente lo sosteneva, negando all'Imperatore il diritto di deporlo, parlando come se già la Chiesa di Roma fosse superiore a quella di Costantinopoli, e indipendente [36] affatto dall'Impero. Quando si cercò di vincerlo con le lusinghe, inviandogli ricchi donativi, li fece deporre sulla soglia di S. Pietro, perchè non profanassero il tempio del Signore. Quando si volle ricorrere alla forza, ne nacque un così violento tumulto, che solo di notte e di nascosto si potè portar via il Papa a Milano. Ivi, per indurlo a sconfessare Atanasio, gli venne offerta grossa somma di denaro. Ma la respinse indignato, dicendo: «Serbasse l'Imperatore il denaro per pagare i suoi soldati.» Ed all'eunuco che insisteva, aggiunse: «Un ladro tuo pari osa farmi limosina come ad un colpevole? Comincia col farti buon cristiano prima che tu osi rivolgermi la parola.» E piuttosto che cedere, accettò l'esilio.
L'Imperatore gli fece succedere a Roma il vescovo Felice. Ma il popolo disertò le chiese, nè mai lo riconobbe. Quando Liberio, oppresso dagli anni e dai malanni, si lasciò indurre ad accettare la formola incerta di Sirmio, l'Imperatore lo fece tornare a Roma, avendo la strana illusione, che potesse ivi risiedere insieme con l'antipapa Felice. Ma il popolo insorse furibondo, uomini e donne, giovani e vecchi, gridando unanimi: Un Dio, un Cristo, un Vescovo solo! (357). Essendosi Felice provato a resistere, si pose mano alle armi, e così fu messo in fuga. Liberio entrò invece trionfante. Non si tenne però conto alcuno dell'avere esso accettato la formola di Sirmio. Pei Romani l'accettazione fu come non avvenuta.
Questa lotta così vivace poneva in evidenza più cose. E prima di tutto si cominciava a veder chiaro, che lo spirito sempre pratico della Chiesa di Roma era deliberato a mantener salda l'unità della fede, senza venire a transazioni di sorta, senza spaventarsi di nulla, evitando le troppo sottili distinzioni teologiche, alle quali la stessa [37] lingua latina ripugnava, mentre la greca invece mirabilmente vi si prestava. Essa restò inesorabilmente ferma al concetto del Dio trino ed uno della dottrina atanasiana, destinata a trionfare. Si vide oltre di ciò, che il vescovo di Roma assumeva di fronte all'Imperatore una posizione indipendente di capo della Chiesa universale. In Italia, sopra tutto a Roma, s'era nelle catacombe andata formando una generazione nuova, che lo sosteneva, piena di audacia e di avvenire, senza paura nè dell'Imperatore, nè del suo esercito.
Non v'ha dubbio però che la disputa fra Ariani ed Atanasiani aveva diviso i Cristiani. E questo dovette agevolare la via ad un tentativo singolare davvero, ma non senza importanza storica, il quale ebbe luogo appunto allora, e mirava niente meno che a far risorgere il Paganesimo. S'era già visto a un tratto, con inaspettata rapidità, diffondersi in Roma, fra le classi più colte, una nuova dottrina filosofica col nome di Neoplatonismo, venuta d'Alessandria, per opera sopra tutto di Plotino (205-270) e del suo discepolo Porfirio. Con un misticismo e simbolismo orientale, svolgendo la filosofia di Platone, essa esaltava il concetto del divino nel mondo e nell'anima umana, la cui suprema felicità faceva consistere nella contemplazione di Dio, col quale essa cercava confondersi. Questa dottrina, che da una parte mirava alla risurrezione e riabilitazione del culto delle divinità pagane, da un altro risentiva visibilmente l'azione del Cristianesimo che essa, per mezzo del simbolismo, presumeva di porre in armonia con quelle. Era un fenomeno singolare, il quale sembra ricordare ciò che avvenne nel secolo XV, quando Gemisto Plotone voleva anch'esso, per mezzo del Neoplatonismo, rimettere fra noi in onore le antiche divinità greche. Se non che i tempi erano molto diversi. Nel quarto secolo era assai maggiore la [38] forza del Paganesimo, e più viva assai nelle moltitudini la fede cristiana.
Certo è che Plotino predicava con grande esaltamento la sua dottrina, e trovò in Roma ardenti seguaci. Egli aveva un supremo disprezzo pei beni di questo mondo, e si doleva perfino d'avere un corpo, perchè lo credeva di ostacolo alla divina contemplazione, la quale tuttavia, secondo il suo discepolo Porfirio, gli fu più volte concessa. L'oracolo aveva proclamato, che il genio che l'accompagnava era esso stesso divino. E morendo, le sue ultime parole furono: «Io faccio un ultimo sforzo per condurre ciò che v'ha di divino in me, a ciò che v'ha di divino nell'universo.» A Roma venne nella sua età di quaranta anni, ed acquistò subito una incontestata autorità. A lui ricorrevano tutti come ad arbitro, ed i morenti gli affidarono più volte la cura dei propri beni e delle loro famiglie. L'imperatore Gordiano fu tra i suoi seguaci, e fra di essi si trovavano anche parecchi senatori, uno dei quali, Rogaziano, s'era così esaltato nella nuova dottrina, che per essa abbandonò la cura dei propri beni, liberò i suoi schiavi, ricusò i più alti uffici. Tutto ciò è un'altra prova di quella vitalità morale, che continuava ancora nella società pagana della decadenza, sebbene da molti sia negata. Se non che il Neoplatonismo, più ancora dello Stoicismo, era una dottrina filosofica, capace di esaltare solo alcuni pochi spiriti eletti, troppo pieni delle idee del mondo pagano, per potere accettare senz'altro la dottrina del Vangelo.
Uno di questi spiriti fu Giuliano, detto l'Apostata, perchè abbandonò il Cristianesimo, nel quale era stato educato. Della famiglia di Costantino, ed uomo d'alto ingegno, venne più tardi iniziato al Neoplatonismo, all'ammirazione della poesia e mitologia greca, al segreto dei misteri eleusini, cominciando esso stesso colle proprie [39] mani a sacrificare in segreto vittime a Venere ed Apollo. Nel primo periodo della sua vita pubblica (355-61), si trovava, col titolo di Cesare, alla testa delle legioni di Gallia, dove acquistò gran nome, combattendo i Franchi e gli Alamanni, che furono cacciati al di là del Reno. Le legioni lo proclamarono Augusto, e dopo la morte di Costanzo (5 ottobre 361), entrò con esse l'undici decembre in Costantinopoli, cercando subito di rimettervi in onore il Paganesimo. E siccome egli era anche un filosofo, e proclamò generale tolleranza, così ebbe il favore di tutti coloro che erano stati o temevano di dover essere perseguitati. Fra questi furono gli Atanasiani in Oriente, e gli Ariani in Occidente, i quali, felici d'essere per ora lasciati in pace, capivano che il trionfo del Paganesimo non poteva ormai essere altro che un fenomeno effimero e passeggiero.
Il sogno di Giuliano era non solo religioso, ma anche politico. Voleva come Pontifex Maximus, per mezzo del Neoplatonismo, far risorgere le antiche divinità; e voleva, qual nuovo Alessandro Magno, marciare alla conquista dell'Oriente. Nel 363, in fatti, alla testa d'un formidabile esercito, s'avanzò contro la Persia, sempre nemica dell'Impero, ed ora in guerra con esso. Passò l'Eufrate, e respingendo il nemico, procedè fra mille difficoltà, attraversando una regione piena di canali, ed inondata. Sempre combattendo, sempre vittorioso, traversò il Tigri, e per togliere ai suoi ogni pensiero di ritirata, fece bruciare le navi, con cui aveva passato i fiumi; s'avanzò nell'interno del paese, che trovò abbandonato e deserto, bruciati i raccolti e le città. Il ritirarsi era divenuto impossibile, e Giuliano combatteva ancora vittoriosamente, quando il 26 giugno 363 venne mortalmente ferito. Nè in quell'ultima ora smentì se stesso, rallegrandosi cogli amici che l'animo suo, liberato dal corpo, s'andava a ricongiungere [40] con Dio. Ed augurò che l'Impero venisse nelle mani d'un uomo giusto. Con lui spariva il suo sogno, e gli succedeva Gioviano, incapacissimo, che per la fretta di ritirarsi a Costantinopoli, cedette al nemico che non era certo vittorioso, varie provincie; ed abbandonò la protezione dell'Armenia, stata sempre fedele all'Impero, disposta anche ora, pur di non essere separata da esso, a difendersi da sè. Così lasciava la porta aperta al nemico, senza nulla aver guadagnato a suo vantaggio personale, giacchè moriva prima di entrare in Costantinopoli nel febbraio del 364.
Un altro fatto, per le sue conseguenze di assai grande importanza, seguì pure durante la controversia tra Ariani ed Atanasiani, e fu la conversione d'una parte dei Goti al Cristianesimo. E ad essa tenne poi dietro a poco a poco, la conversione di tutti i barbari. Era quasi un secolo che i Goti dimoravano nella Dacia, dove cominciarono subito a sentire l'azione della civiltà romana, che in quella regione doveva essere già profondamente penetrata. Ciò vien provato dal fatto, che nonostante la lunga dimora colà delle popolazioni germaniche, nonostante la invasione e la dura oppressione seguita più tardi per opera dei Turchi, e l'essere ancora oggi quella regione circondata da Magiari e da Slavi, serba pur sempre visibilissimo e tenacissimo il carattere romano, come provano il nome di Romania che porta, la lingua che parla, la sua storia e la sua letteratura. Dimorando nella Dacia, i Goti si trovavano inoltre in continuo contatto con l'Impero. E così cominciarono lentamente ad incivilirsi, fino a che sorse fra di essi un uomo veramente grande, il vescovo Ulfila (311-381), che fu il vero iniziatore della loro conversione e della loro cultura.
Egli passò la sua giovinezza a Costantinopoli, dove apprese il greco, il latino, e fu iniziato al Cristianesimo. [41] Dedicò poi la sua vita intera a tradurre la Bibbia, ed a convertire i suoi connazionali, ai quali insegnò anche l'alfabeto gotico, cominciando così a dirozzarli. La sua traduzione, di cui alcune parti son pervenute sino a noi, è il più prezioso ed antico monumento della lingua e letteratura germanica. Si è molto discusso, per sapere quale potè esser la ragione per la quale Ulfila preferì l'Arianesimo alla dottrina atanasiana, tanto più che sino a che non si convertirono al Cattolicismo i Franchi, tutti gli altri barbari divennero ariani. Ulfila però era stato convertito a Costantinopoli, quando vi prevaleva l'Arianesimo, nel quale fu perciò educato. E si può anche ritenere, che alla mente rozza de' suoi connazionali, e in genere dei barbari, che uscivano da un paganesimo grossolano, dovesse essere più agevole ammettere una differenza tra Padre e Figlio, che arrivare, per mezzo della filosofia neoplatonica, al concetto della identica sostanza del Dio trino ed uno.
La conversione dei Goti però, se da una parte ne promosse l'incivilimento, da un'altra li divise più che non erano, indebolendoli di fronte ai Romani. Infatti gli Ostrogoti, che abitavano la Dacia orientale, distendendosi dentro la Russia meridionale, rimasero pagani, come i Gepidi che abitavano la Dacia settentrionale. Si convertì solo una gran parte dei Visigoti, che abitavano al sud-ovest, e si trovavano perciò a contatto coi Romani. A questa divisione religiosa se ne aggiungeva anche una politica. Gli Ostrogoti avevano in Ermanrico, della nobile famiglia degli Amali, un vero e proprio re, che come tale avrebbe dovuto governare su tutti. Ma da essi s'erano separati i Visigoti, dividendosi anche fra di loro. Alcuni di essi, rimasti sempre pagani, stavano sotto Atanarico, ed erano avversi a quelli divenuti cristiani, che, comandati invece da Fridigerno, si tenevano in assai [42] più stretta relazione coi Romani. Atanarico e Fridigerno portavano il titolo di Giudici, forse perchè erano stati in origine di quei capi di Pagi, ai quali, come vedemmo, gli scrittori romani davano nome di Principes o Magistratus, e che amministravano anche la giustizia.
Siffatte divisioni davano ragione a sperare, che, da questo lato almeno, l'Impero potesse lungamente ancora restare sicuro. E ciò tanto più che, quando nel 365 Procopio e Valente combattevan fra di loro, ed una parte dei Visigoti passò il Danubio, per aiutare Procopio, Valente che trionfò del suo competitore, potè, dopo averli ripetutamente combattuti (367-69), costringerli a concludere la pace ed a ritirarsi. Ma avvenimenti improvvisi ed inaspettati, che nessuna mente umana avrebbe potuto mai prevedere, mutarono affatto lo stato delle cose.
Tutti i popoli, che abbiamo finora incontrati, Greci, Romani, Celti, Germani, appartengono alla stessa famiglia ariana, che dall'Asia sud-ovest, movendosi per direzioni diverse, venne in Europa. Ma ora comparisce per la prima volta sulla scena un popolo affatto nuovo, che faceva parte di un'altra grande famiglia, sostanzialmente diversa, cui si dà il nome di turanica. Esso era destinato ad avere, per qualche tempo, non piccola parte nei destini dell'Impero.
In quel vasto altipiano dell'Asia centrale, che si distende dall'est all'ovest fino ai Monti Ural, e trovasi fra la catena altaica e quella del Tauro, il quale manda le sue diramazioni verso il sud, abita una vasta moltitudine [43] di popoli diversissimi. Sono all'occidente i Finno-Ugri, più all'oriente i Turchi, i Mongoli, i Mandsciù. Non ostante le molte e grandi loro diversità, essi hanno pure costumi e caratteri etnografici comuni. Anche le molte e molto varie lingue che parlano, sono tutte monosillabiche ed agglutinate. Le condizioni d'un clima assai freddo, con un suolo poco fertile, con fiumi che non irrigano abbastanza da poter rendere la terra coltivabile coll'aratro, non hanno mai lasciato uscir dalla vita nomade quelle popolazioni, che dimorano perciò nelle tende, circondate da numerosi armenti di cavalli, di vacche, e secondo i luoghi, d'altri animali. Si cibano principalmente di carne e di latte, dal quale cavano un liquore, che è loro ordinaria bevanda. Si vestono di pelli, vivono a cavallo, occupati sempre, quando non sono in guerra, della caccia anche d'animali feroci, come la tigre, l'orso, il cignale salvatico. Oltre la tenda, non hanno case, nè villaggi o città. Sono poligami e non conoscono altra forma sociale che la famiglia e la tribù. Ma queste tribù aderiscono facilmente le une alle altre, e quando trovano un capo valoroso che le comandi, s'uniscono qualche volta in moltitudini sterminate. Le quali, per la consuetudine che hanno di vivere in continuo moto, sempre in armi, possono, senza alcuna difficoltà, recarsi, colle tende, i carri, le donne, i bimbi, da una regione ad un'altra. Più volte queste popolazioni ebbero una gran parte nei destini del mondo. Di tanto in tanto le vediamo precipitarsi come valanghe dal loro altipiano, inondando, sconvolgendo tutto, formando dei grandi imperi, che sembrano un momento impadronirsi del mondo, per poi scomparire a un tratto con la stessa rapidità con cui si sono formati, per dar luogo più tardi, con uguale procedimento, alla rapida formazione d'altri imperi, che progrediscono e spariscono del pari. I Mongoli, sotto i successori di Gengis Kahn, [44] combattevano nello stesso tempo in Silesia e sotto il muro della China. È sempre un governo militare affidato a numerosi capi di eserciti, i quali governano con assoluto dominio, pagando solo un tributo al loro capo supremo. Qualche cosa di simile si vide anche negli Arabi, sebbene d'altra indole, d'altra razza, i quali si distesero dall'Indostan al Marocco, alla Sicilia ed alla Spagna. È una forma primitiva ed inorganica di Stato, la quale sembra potersi distendere all'infinito, sino a che l'amalgama dei vincitori coi vinti non ne comincia la decomposizione, che procede anch'essa rapidamente.
Queste popolazioni dell'Asia centrale o turaniche, non portano nel mondo nuove idee, ma spesso diffondono quelle degli altri popoli coi quali vengono a contatto. Esse sembrano dalla Provvidenza mantenute nelle loro prime sedi, in uno stato di perenne giovanezza e barbarie, per agitare e rinvigorire il mondo, ogni volta che intorpidisce e decade. A questa vasta famiglia di popoli appartenevano gli Unni, ritenuti antenati degli Avari e di quei Magiari che più tardi occuparono l'Ungheria, dove sono anche oggi. Erano Finni, che dimoravano nell'Ural. Nel quarto secolo, spinti forse da altre popolazioni più orientali, si precipitarono a un tratto verso il sud, con una furia indicibile, ispirando un terrore universale, producendo un grande spostamento di popolazioni verso l'occidente. Nel 374 piombarono sugli Alani, nella Russia orientale, e dopo averli disfatti, ne aggregarono una parte ai loro eserciti, che così ingrossarono, spingendosi fino alla Palude Meotide o Mare di Azov, dove si fermarono alquanto, prima d'avanzarsi verso i Goti. Il grande terrore che ispirarono in tutti apparisce assai chiaro nelle descrizioni che ce ne lasciarono i cronisti, nelle leggende che intorno ad essi si formarono. Jordanes, il più antico storico dei Goti, che nella metà del sesto secolo, compilò [45] la sua storia su quella che fu scritta da Cassiodoro, e che andò poi perduta, dice di questi Unni, nomadi, pagani e poligami: «Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe e il dorso dei cavalli che cavalcano. Piccoli di statura, agili di membra e robusti, sempre a cavallo; la loro faccia, più che a viso umano, somiglia ad un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti, invece di occhi. Hanno pochissima barba, perchè usano tagliar col ferro il viso dei loro bimbi, acciò imparino prima a sopportar le ferite, che a gustare il materno latte. Adorano per loro Dio una spada infissa nel suolo, e sotto forme umane vivono come animali. Nacquero dal connubio di spiriti maligni con streghe cacciate nelle foreste dai Goti, alla cui rovina esse li generarono. Questi medesimi spiriti furon quelli che insegnarono loro la via da tenere nell'andare all'assalto dei Goti. E fu in questo modo. Andando alcuni Unni a caccia, s'imbatterono in una cerva misteriosa, la quale, volgendosi nel suo cammino continuamente indietro, pareva li invitasse a seguirla. Così fecero. E dopo che essa ebbe, camminando, mostrato loro come e dove poteva facilmente passarsi la Palude Meotide, scomparve a un tratto, segno manifesto che essa era veramente uno degli spiriti maligni avversi ai Goti.»
Certo è che da un momento all'altro gli Unni si precipitarono contro gli Ostrogoti, con impeto tale che il resistere divenne impossibile. Il capo degli Ostrogoti, Ermanrico, si uccise colle proprie mani; i suoi, dopo essere stati affatto sgominati, finirono coll'aggregarsi all'esercito unno. E così continuarono per ottant'anni circa, rinunziando alla loro nazionale indipendenza, ma restando uniti sotto propri capi. In questo modo gli Unni, [46] sempre più ingrossati, sempre avanzando, arrivarono al fiume Dniester, al di là del quale erano i Visigoti. Lo passarono improvvisamente di notte (376), assalendo i Visigoti di Atanarico, ed incutendo loro tale spavento, che una parte di essi si rifugiò nei Carpazi, un'altra andò nella Dacia occidentale, dove erano i Visigoti di Fritigerno, ai quali si unirono, comunicando loro il proprio spavento. E fu tale questo spavento che, sebbene Fritigerno fosse assai valoroso e si trovasse, come affermano, alla testa di 200,000 armati, non potè pensare ad altro che a mettersi in salvo, insieme ai suoi, colla fuga. Fu uno spettacolo non mai più visto. Un esercito numerosissimo, con le donne, i vecchi, i bimbi, le loro suppellettili sui carri, sulle spalle; una moltitudine di gente, che si fa ascendere ad un milione, correva al Danubio, per passarlo e mettersi sotto la protezione dell'Impero. I soldati romani cercarono dapprima impedire questa specie di inondazione umana. Alcuni infatti vennero colle armi respinti nel fiume dove affogarono. Ma come si poteva resistere ad un milione di persone d'ogni sesso ed età, che si avanzavano tremando, e colle mani in alto imploravano pietà, accecati, impazzati dalla paura, la quale comunicava ad essi un impeto più irresistibile d'ogni coraggio? Fritigerno dichiarò, che essi erano pronti a servire sotto le bandiere romane, accettando ogni condizione. Ma chi gli poteva credere? Chi poteva prevedere che cosa sarebbe seguito? E chi poteva resistere?
Imperatore d'Oriente era allora Valente, che da suo fratello Valentiniano I era stato associato all'Impero, e dopo avere domata la ribellione di Procopio, regnava sicuro. Di natura debole ed incerta, non vedendo nessuna possibilità di fermare l'onda che s'avanzava, s'illuse nella speranza che l'acquistare un esercito di 200,000 uomini dovesse riuscire utile all'Impero. E [47] concesse loro il passaggio. I patti furono che dovessero cominciare col deporre le armi e consegnare ostaggi. Ma quali patti si potevano in tanta confusione mantenere? E come trovare a un tratto vettovaglie per un milione di persone sopravvenute all'improvviso? Si principiò col numerarli e disarmarli. Ma poi bisognò subito smettere. Alcuni già morivano estenuati dalla fame, altri senza dare ascolto s'avanzavano chiedendo, implorando da mangiare. Gli ufficiali romani, profittando di ciò, cominciarono a vendere cibi d'ogni sorta, anche corrotti, ad altissimo prezzo. Ed i Goti, che eran pronti a tutto, meno che a cedere le armi, davano denaro, suppellettili, stoffe, per aver da mangiare. Si dice, che alcuni, pur di non veder morire di fame le mogli e i figli, s'indussero a venderli schiavi.
E così un milione di barbari, duecentomila dei quali in armi, si trovavano dentro l'Impero. Non il valore, non la vittoria, ma la paura e la fuga avevano loro aperto la via. Ma intanto erano entrati, ed erano sofferenti, affamati, irritati per le violenze ed ingiustizie patite. Fritigerno, uomo valoroso, cercò subito raccogliere ed ordinare i soldati, ristabilire su di essi la disciplina, far rinascere la coscienza del proprio valore, della propria forza. Nel che egli era secondato dall'arrivo di sempre nuovi Visigoti ed Ostrogoti che, passato il Danubio, venivano a raggiungerlo, e dalle simpatie mal represse, che i barbari dell'esercito imperiale mostravano per lui ed i suoi. Ben presto si trasferì con essi a Marcianopoli, capitale della Mesia, a settanta miglia dal Danubio. Ivi i Goti si dimostrarono subito uniti e pronti a procurarsi da vivere anche colla forza delle armi. E si capì allora quali gravi conseguenze era per portare la decisione presa da Valente di lasciarli venire. Ma come avrebbe egli potuto impedire che un fiume così impetuoso, rotto l'argine, straripasse?
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La diffidenza fu subito da una parte e dall'altra grandissima. Si narra che, avendo il generale romano Lupicino invitato a banchetto i capi dei Goti, essi vennero, pieni di sospetto, con una scorta numerosa. E quando s'era ancora a banchetto, s'udirono grida di Goti e Romani venuti fra di loro alle mani. Fritigerno, sguainata la spada, uscì fuori, ponendosi senza indugio alla testa de' suoi. Ben presto, a poche miglia dalla città, vi fu uno scontro (377), nel quale Lupicino e gl'imperiali furono battuti. Quel giorno, scrive Jordanes, pose fine alle calamità dei barbari ed alla sicurezza dei Romani. Ed in parte era vero. La battaglia era stata per sè stessa di poco momento, ma grandissime ne furono le conseguenze morali. Coloro che erano entrati nell'Impero come fuggiaschi, implorando pietoso aiuto, s'erano a un tratto mutati in numerosi e minacciosi aggressori, che liberamente percorrevano la Tracia, saccheggiando. Tuttavia quando essi circondarono Adrianopoli, vennero facilmente respinti, giacchè, prima delle armi da fuoco, le mura delle città presentavano al nemico ostacoli quasi sempre insuperabili. Ritiratisi nella Dobruscia, furono dai Romani assaliti, con impeto degno degli antichi tempi, in un campo trincerato dai carri e bagagli; ed ebbe luogo una seconda battaglia, che essendo stata d'esito incerto, ne rese inevitabile una terza.
L'imperatore Valente, che in questo mezzo era a combattere i Persiani, saputo della ribellione dei Goti, concluse in fretta la pace, per venire con le sue genti ad affrontarli. Il 9 agosto 378, a dodici miglia da Adrianopoli, ebbe luogo una grossa e decisiva battaglia, nella quale il valore dei soldati romani dette splendida prova di sè; ma vennero guidati con una così inesplicabile incapacità, che la loro disfatta fu inevitabile. Dopo una lunga marcia, sotto il sole ardente di agosto, si trovarono di [49] fronte al nemico, in un luogo così stretto, che non potevano muoversi nè fare libero uso delle proprie armi. Quarantamila di essi incontrarono eroicamente la morte. Di Valente, che era nella battaglia, non si seppe più nulla, e ne fu quindi in diversi modi narrata la fine. La disfatta fu grande, ed alcuni scrittori, esagerando non poco, la paragonarono a quella di Canne. Certo è che quando i Goti si riprovarono ad attaccare Adrianopoli, dove era il tesoro imperiale, vennero respinti con una energia che non si aspettavano. E quando si ritirarono saccheggiando, dando poi l'assalto alle mura di Costantinopoli, ebbero una lezione anche più severa. La cavalleria saracena, assoldata dall'Impero, li inseguì, sui suoi cavalli arabi, con una fulminea rapidità, e con un furore addirittura selvaggio. Uno di essi fu visto correre nudo sul suo cavallo, inseguire un Goto, raggiungerlo, sgozzarlo e beverne il sangue. Ciò mise un gran terrore, perchè i barbari avevano trovato chi era più barbaro di loro.
In Oriente adunque non v'era più un Imperatore, e l'esercito era stato battuto. In Occidente, a Valentiniano I era successo il figlio Graziano, il quale, per volere delle legioni, aveva dovuto assumere a compagno il fratellastro Valentiniano II, di soli quattro anni, messo perciò sotto la reggenza della madre Giustina, celebre per la sua bellezza, superata da quella più celebre ancora della figlia Galla. Graziano dette a Valentiniano, cioè alla madre che ne faceva le veci, il governo dell'Italia e [50] dell'Africa. Egli intanto teneva fronte valorosamente, nella Gallia e nella Rezia, ai barbari che cercavano avanzarsi da quel lato. Urgeva però pensare anche all'Oriente, dove il pericolo era maggiore e più vicino. Consapevole della gravità d'un tale stato di cose, e della generale ansietà in cui tutti perciò si trovavano, egli prese una risoluzione assai fortunata. Elesse a suo compagno per l'Oriente Teodosio, nato nella Spagna, la quale aveva già dato grandi imperatori quali Adriano e Traiano. Teodosio era noto pel suo valor militare, per la sua prudenza, e quindi la scelta venne accolta con generale favore.
Senza perdere tempo, egli si recò a Tessalonica, punto strategico, dove raccolse e riordinò l'esercito, cominciando a provarlo in una serie di fortunate scaramucce, che ne rialzarono l'animo, deprimendo quello dei Goti. E quando, per la morte del loro capo Fridigerno, questi cominciarono a dividersi, egli ne seppe profittare, fomentando sempre più la loro discordia, accogliendone parecchi sotto le sue bandiere, mostrandosi loro favorevole per modo, che si fece la reputazione d'amico dei Goti. E così potè nel 382 concludere una capitolazione, con la quale venne ad essi concesso d'abitare stabilmente nella Tracia come foederati. Quali fossero con precisione i patti, nei loro più minuti particolari, noi non lo sappiamo. I Goti restavano come amici nell'Impero, di cui riconoscevano l'autorità, obbligandosi a difenderlo con le armi, ad ogni richiesta. Ebbero case da abitare, terre da coltivare, e i soldati ricevevano anche paga in danaro o in grano. Ma non facevano parte dell'esercito imperiale; restavano uniti come un popolo a sè, sotto i loro propri capi. E qui era il pericolo. Certamente se si pensa che Teodosio li aveva trovati nemici, armati, minacciosi, che scorrevano e saccheggiavano liberamente il paese, senza che fosse possibile ormai cacciare al di là del Danubio, e molto [51] meno distruggere un milione d'uomini, la capitolazione conclusa fu un savio atto di governo. E tale venne generalmente tenuta. Ma intanto l'Impero s'era messo la serpe nel seno. Questi barbari, che potevano da un momento all'altro insorgere, erano il richiamo continuo di altri, i quali passavano il Danubio alla spicciolata, o disertavano le bandiere romane, o spezzavano le catene della schiavitù.
Tuttavia, finchè visse, mercè la sua prudenza e la sua fermezza, Teodosio non ebbe dai Goti altre noie. E la fortuna lo secondava ogni giorno più. Graziano sembrava divenuto adesso un altro uomo. Trascurava il governo e dimostrava un eccessivo favore ai soldati barbarici, per il che le legioni romane, ingelosite, lo deposero, gli dettero per successore Massimo (383), e poi lo uccisero. Massimo ambiva di governar tutto l'Occidente, e quindi, dopo i primi accordi, venne in dissenso con Valentiniano II. Corse in Italia, obbligandolo a fuggirsene con la madre e la sorella in Costantinopoli, dove chiesero aiuto a Teodosio. E questi dapprima esitò, avendo già troppo da fare. Sentiva però i vincoli di gratitudine verso la famiglia di Valentiniano II, e s'era innamorato della sorella di Valentiniano II, che poi sposò, e che ora insieme colla madre lo spingeva alla vendetta. Così fu che nel 388 lo vediamo sulla Sava, alla testa d'un esercito, respingere Massimo, che poi ad Aquileia fu disfatto ed ucciso.
Giustina allora potè tornare in Italia col figlio Valentiniano II, che aveva ormai diciassette anni. Questi era intanto caduto sotto l'assoluto dominio del generale franco Arbogaste, che, essendosi in Aquileia condotto con gran valore, ed avendo colle proprie mani ucciso il figlio di Massimo, pretendeva ora farla addirittura da padrone. Tutto ciò lo fece venire in grande contrasto con Valentiniano, il quale voleva ora mandarlo via. Ma l'insolenza del soldato [52] franco crebbe a tal segno, che l'Imperatore, perduta la pazienza, pose mano alla spada per ucciderlo. Ne fu allora trattenuto dai suoi; ma poco dopo lo troviamo morto (15 maggio 392). Chi disse che s'era ucciso, chi invece che era stato ammazzato dai seguaci d'Arbogaste.
Questi era pagano, e fu il primo generale barbarico che osò farla da Imperatore romano, non di nome, ma di fatto, esempio che vedremo d'ora in poi molte volte imitato. Egli, come seguì poi sempre a questi barbari, non osava salire sul trono, assumendo in proprio nome l'Impero. Elesse invece il retore Eugenio, che doveva assumere la porpora, ed essere suo docile strumento. Infatti, sebbene cristiano, Eugenio, per secondare Arbogaste, si diede a favorire i Pagani, ancora abbastanza numerosi in Roma. Così credeva di trovar seguito contro Teodosio; ma invece gli accrebbe forza. Questi infatti veniva ora spinto alla guerra non solo da ragioni politiche, ma anche dalla moglie Galla, che voleva vendicar la morte del proprio fratello Valentiniano, e dai vescovi, dal clero, dal popolo, che lo incitavano a difesa della religione cristiana. Si decise quindi a prendere le armi. Se non che, sapendo che il generale franco aveva grande valore e molta autorità sui propri soldati, si apparecchiò per due anni interi all'impresa (393-4). La quale fu ritardata anche dalla morte dell'imperatrice Galla (maggio 394), che gli lasciò una figlia, Galla Placidia, più bella della bellissima madre, e destinata, in quel secolo corrotto, ad esercitare un gran potere politico, in mezzo ad una serie di strane vicende.
Riavutosi appena dal suo dolore, Teodosio mosse finalmente alla testa d'un poderoso esercito. Ne facevano parte, fra gli altri, ventimila Goti federati, sotto il comando dei loro migliori generali, e con essi era anche il giovane Alarico, destinato a maggiori imprese ed a [53] grande fama. Percorrendo la stessa via tenuta già per combattere Massimo, presso il fiume Frigido, in un punto equidistante da Emona (Laybach) ed Aquileia, Teodosio s'affrontò col nemico. La battaglia continuò per due giorni con varia fortuna. Ma finalmente, favorito anche dall'impetuoso vento Bora, che suole infierire colà, ed allora soffiava in viso al nemico, il 6 settembre 394 Teodosio ottenne piena vittoria. Eugenio fu preso dai soldati, che gli tagliarono la testa, ed Arbogaste, quando ebbe perduto ogni speranza, si gettò da Romano sulla propria spada. Questa vittoria di Teodosio ebbe una grande importanza storica. Per essa l'Impero rimase politicamente riunito sotto di lui, che lo tenne con mano assai ferma. Aveva nello stesso tempo distrutto gli ultimi avanzi del partito pagano, e potè quindi ricostituire anche l'unità religiosa col trionfo, in Oriente ed in Occidente, della dottrina di Atanasio, alla quale, sin dal principio del suo regno, egli era restato sempre fedele. Tutto questo determina il valore storico di Teodosio, ed è ciò che gli fece giustamente avere il nome di Grande.
Per la sua ferma adesione alla dottrina ortodossa, egli riuscì a stringere anche il connubio dell'Impero colla Chiesa più che non avesse potuto fare lo stesso imperatore Costantino. E la Chiesa se ne giovò grandemente, facendo rapidi progressi, come si vide nel gran numero che ebbe allora d'uomini eminenti per carattere e dottrina, quali S. Basilio, S. Gregorio Nazianzeno, S. Girolamo e S. Ambrogio, il celebre vescovo di Milano. Questo fu anche il tempo in cui s'andò formando la teologia latina, la quale si può veramente dire che sia insieme religione, filosofia e disciplina ecclesiastica. Essa mira sopra tutto a tener ferma l'unità della fede, l'autorità universale e la forza politica della Chiesa. Un altro dei grandi personaggi di questo tempo fu Damaso, il vescovo [54] di Roma, che successe a Liberio (366). Egli ascese sulla sedia episcopale, in mezzo ad un violento tumulto; proclamò subito il principio che la Chiesa di Roma è superiore alle altre, che gli ecclesiastici solo da ecclesiastici debbono essere giudicati.
Ma per quanto il connubio della Chiesa e dell'Impero desse forza all'una ed all'altro, v'erano in esso i germi di futuri conflitti, come si vide fin dai tempi di Teodosio. Egli era molto amico del lusso e delle spese, per tenere sempre più alto lo splendore e la dignità del suo grado. Ma ciò portava aumento di tasse, il che fu causa di replicati tumulti. In uno dei quali, seguito in Antiochia, le statue dell'Imperatore furono rovesciate, il suo nome venne ingiuriato. Questa volta egli finì coll'usare clemenza. Più tardi però, nel 390, un altro assai più grave tumulto si ripetè a Tessalonica, e ne fu pretesto l'imprigionamento d'un auriga del Circo. Un generale e parecchi ufficiali vennero uccisi, i loro cadaveri furono ignominiosamente trascinati per le vie. Teodosio, che era allora a Milano, rimase di ciò tanto sdegnato, che ordinò una punizione esemplare, anzi feroce, senza distinguere innocenti o colpevoli. Si parla di settemila uccisi, che alcuni fanno ascendere fino a quindicimila: certo è che il sangue corse a fiumi. E fu allora che il vescovo di Milano, S. Ambrogio, gli scrisse una lettera che è pervenuta sino a noi (Ep. 51), nella quale, condannando l'eccidio, lo invitava a penitenza, giacchè non avrebbe, egli diceva, potuto far entrare nel tempio del Signore, per pigliar parte alle sacre cerimonie, chi aveva ancora bagnate le mani del sangue di tanti innocenti.
S. Ambrogio era certo uno dei caratteri più notevoli del secolo, uno di coloro che dimostravan chiaro il rigoglio, la forza che andava prendendo la Chiesa in Italia. Disceso da una delle più nobili famiglie romane, tenne [55] prima alti uffici politici, e fu poi nel 374 vescovo di Milano, dove il popolo lo adorava. Nel 386 ebbe la fortuna e l'onore di convertire S. Agostino alla religione cristiana. In lui la fermezza della fede era uguale alla energia indomabile del carattere. Nel 385 non volle nella sua diocesi concedere alla imperatrice Giustina neppure una sola chiesa pel culto ariano. Nè fu possibile rimuoverlo. — L'Impero, egli disse allora, può disporre dei palazzi terreni, non della casa del Signore, nella quale non comanda la forza. — Quando, per minacciarlo, furono a lui mandati i soldati goti, egli li affrontò dinanzi alla chiesa, domandando loro: se era per invadere la casa del Signore, che avevano chiesto la protezione della Repubblica. E quando l'Imperatore sparse il sangue degli eretici, seguaci di Priscilliano, egli lo biasimò severamente. Nè meno severamente lo biasimò, quando ordinava che fosse ricostruita una sinagoga bruciata dal popolo. — Il vescovo, così gli scrisse allora, che avesse obbedito ad un tale ordine, sarebbe stato un traditore del suo ufficio. Non si deve ricostruire la casa in cui si rinnega il nostro Signore Gesù Cristo. — E nella basilica, dinanzi all'Imperatore, ripetè le stesse cose, aggiungendo che questi doveva lasciare libertà di parola al sacerdote, cui non è lecito nascondere il proprio pensiero. In armonia con tale suo procedere era la lettera cui accennammo, scritta quando avvennero le stragi di Tessalonica.
Si aggiunge da alcuni scrittori che, quando Teodosio si provò ad entrare nella basilica, S. Ambrogio lo fermò sulla soglia dicendogli: — Se la tua mondana potenza ti acceca a questo segno, ricordati che anche tu sei uomo, e devi perciò tornar nella polvere, rendere conto a Dio del tuo operato. Le anime di coloro che hai uccisi sono sacre quanto la tua. — Allora Teodosio avrebbe mandato a piegar l'animo indomito del vescovo, il suo ministro [56] Rufino, quello stesso che lo aveva incitato alla strage di Tessalonica. E questi si provò dapprima colle lusinghe; ma quando si vide sdegnosamente respinto, disse che l'Imperatore sarebbe in ogni modo entrato. Allora S. Ambrogio rispose: — Dovrà passare sul mio cadavere. — La leggenda ha voluto con tutti questi minuti particolari colorire un fatto vero; ed essi servono mirabilmente a ritrarre il carattere dell'uomo. Per entrare nel tempio Teodosio dovette piegarsi dinanzi a S. Ambrogio, e far penitenza (25 dicembre 390), ripetendo il Salmo CIX. 25: «L'anima mia è attaccata alla polvere; vivificami secondo la tua parola.» Nulla certo è più nobile d'una condotta così ferma, così eroica. Essa è anche una prova visibile della straordinaria potenza che aveva allora assunto la Chiesa, che andava di fatto formando in Italia una generazione nuova di uomini, ai quali spettava l'avvenire. Ma se tale era di fronte all'Impero l'ardimento d'un vescovo di Milano, quale sarebbe mai stato quello del Papa? A questa domanda risponde pur troppo tutta la storia del Medio Evo.
E se i germi di futuri conflitti erano nascosti nel connubio, che Teodosio aveva stretto fra l'Impero e la Chiesa, non minori pericoli minacciavano nell'avvenire le condizioni politiche generali, come si cominciò a vedere subito dopo la morte di lui, seguita nella sua età di cinquanta anni, a Milano, il 17 gennaio 395, quattro mesi circa dopo quella grande battaglia del Frigido, che sembrava aver dato un assetto definitivo all'Impero. Certo Teodosio lo aveva trovato diviso, disordinato, minacciato; e potè ricostituirlo, riunendolo ed infondendogli nuova vita. Ma era pur troppo una ricostituzione solamente temporanea. Sul Danubio, sul Reno, in Persia il pericolo non era mai cessato, era anzi sempre cresciuto. I Goti si trovavano nella Tracia, erano in armi, ed aumentavano [57] sempre. Solo la sua grande autorità ed energia aveva potuto riuscire a tenere in equilibrio forze così diverse e tra loro cozzanti, che da un momento all'altro potevano venire a conflitto. L'aver saputo mantenere un tale equilibrio gli procurò giustamente il nome di Grande; ma a farlo durare occorrevano costantemente una mano ferma e sicura, una mente superiore. Era quello che veniva appunto a mancare colla sua morte, quando l'Impero fu lasciato ai due suoi figli del pari incapaci.
Sino dai tempi di Diocleziano l'Impero era stato quasi sempre diviso in varie parti, sotto imperatori diversi, più o meno dipendenti da uno di essi. Questa divisione, che non escludeva il concetto della unità, era stata suggerita dalla grande difficoltà, che un solo doveva incontrare a voler governare e difendere tutto l'Impero contro i nemici, che da ogni parte contemporaneamente lo assalivano. Teodosio, come vedemmo, potè riunirlo sotto il suo scettro; ma alla sua morte lo lasciò nuovamente diviso fra i suoi due figli, Arcadio, cui assegnò l'Oriente, ed Onorio, cui assegnò l'Occidente, senza che intendesse con ciò di formare due Imperi separati,[16] come si è più volte ripetuto. Se non che, questa divisione seguiva ora in condizioni affatto nuove, che ne mutarono il carattere, e col tempo la resero definitiva. Nella elezione [58] degl'imperatori, fatta in modi assai diversi, sempre però con la partecipazione dell'esercito, s'era fin dal tempo di Costantino, e più ancora di Valentiniano I, andato introducendo il principio ereditario, cercandosi, per quanto era possibile, di non uscire dalla stessa famiglia. Prima di morire, Teodosio s'era a questo fine associati i due figli, che ora gli succedevano, l'uno affatto indipendente dall'altro. Ma essi erano ambedue di minore età, Arcadio avendo 18 anni, Onorio soli 10, e però l'uno e l'altro ancora incapaci di governare. E Teodosio, che ben lo sapeva, aveva lasciato il primo affidato alle cure del prefetto Rufino, suo primo ministro; il secondo, al valoroso generale Stilicone, Magister utriusque militiae, un Vandalo che aveva gloriosamente combattuto sotto di lui contro Eugenio, e ad esso aveva raccomandata la difesa dell'Impero. Così non solo i due imperatori minorenni erano l'uno indipendente dall'altro; ma erano stati affidati alle cure di due uomini potenti ed ambiziosi del pari, che tra di loro non potevano andare d'accordo. Tutto ciò portava inevitabili difficoltà per l'avvenire.
L'ordinamento del governo continuava sempre quale lo avevano formato Diocleziano e Costantino. Quattro Prefetti del Pretorio alla testa delle quattro Prefetture: l'Italia cioè con le sue isole e l'Africa, la Gallia con la Spagna e la Britannia, l'Illirico, l'Oriente. A Costantinopoli come a Roma v'era un Prefetto della città con un Senato, che andava sempre più perdendo il suo potere politico, per divenire come una Curia municipale. Le Prefetture erano divise in Diocesi, e queste in Province, a lor volta suddivise in Municipi, i quali erano ordinati a similitudine di Roma, col loro Senato o Curia e la plebe. Essi restarono, nel disfacimento generale dell'Impero, l'unico organismo destinato a sopravvivere, trasformandosi però sostanzialmente. Accanto a quest'amministrazione civile, [59] come abbiamo già visto, era l'ordinamento militare, coi Magistri peditum e Magistri equitum, due uffici che si univano spesso in una persona sola, chiamata allora Magister militum o Magister utriusque militiae. Il numero di questi grandi ufficiali militari variava spesso: in Oriente ne vediamo fino a cinque. In Italia si trova non di rado un Magister utriusque militiae, quale adesso era appunto Stilicone.
Se non che questo doppio ordinamento civile e militare, che procedeva parallelamente, avrebbe dovuto, come abbiamo già visto, metter capo alla sola autorità suprema dell'Imperatore. Ma ciò era divenuto impossibile ora che a due imperatori inesperti e indipendenti l'uno dall'altro, si aggiungeva la gelosia e l'antagonismo dei due consiglieri che dovevano guidarli. Rufino, oriundo della Gallia, avido, furbo, ambizioso e crudele, era per queste sue stesse qualità di grado in grado salito ai primi onori. Costretto a raccogliere danaro per l'amministrazione e per l'esercito, doveva aggravare di tasse il popolo, cui era perciò divenuto odioso. Ma essendo egli Prefetto del Pretorio per l'Oriente, avendo la sua sede nella capitale, ed essendosi a tempo di Teodosio, che negli ultimi anni di sua vita aveva riunito l'Impero, trovato a far le parti di primo ministro, presumeva ora di poter dirigere non solo la politica generale dell'Oriente, ma quella ancora dell'Occidente. Stilicone dall'altro lato, avendo colle armi contribuito a ricostituire l'antica unità, e trovandosi ancora alla testa dell'esercito, col quale aveva a tal fine vittoriosamente combattuto, godeva di questo la piena fiducia. Aveva inoltre sposato Serena, la nipote di Teodosio, che morendo (così generalmente si diceva) gli aveva affidato il mandato di vigilare sui due suoi figli. E però, se Rufino pretendeva di comandare politicamente, Stilicone pretendeva di comandare militarmente [60] su tutto l'Impero. S'aggiungeva a ciò, che come capo dell'amministrazione, Rufino rappresentava i Romani, e come capo dell'esercito, Stilicone, il quale era un barbaro egli stesso, per forza delle cose, rappresentava i barbari, che nell'esercito prevalevano. I due principali personaggi dell'Impero si trovavano adunque fatalmente alla testa di due partiti, con pericolo evidente in un avvenire non lontano.
Certo la posizione di Rufino era assai più difficile, perchè se egli aveva in mano la borsa, Stilicone aveva le armi. E per riempire la borsa erano necessarie le tasse, che partorivano odio. Nella Corte stessa non mancavano intrighi contro di lui, tanto più che Arcadio, non essendo come Onorio un fanciullo, già cominciava a mostrarsi intollerante d'una tutela permanente ed incomoda. E ne diè prova sposando la figlia d'un generale franco, Eudoxia, celebre per la sua bellezza, che gli era stata raccomandata dall'eunuco Eutropio, il quale aveva l'ufficio di Praepositus sacri cubiculi: tutto ciò a dispetto di Rufino, che avrebbe voluto dargli la propria figlia. Nondimeno la sua autorità era sempre grandissima, come si vide ben presto.
I Goti federati, dolendosi ora di non avere i consueti sussidi, e più di tutti dolendosi Alarico loro capo, perchè non aveva potuto avere il titolo chiesto di Magister militum, cominciarono a percorrere il paese, tumultuando e saccheggiando. Stilicone allora s'avanzò alla testa dell'esercito, per sottometterli; ma Rufino potè, in nome d'Arcadio, ordinargli che s'occupasse solo delle cose d'Occidente, e rimandasse a Costantinopoli i soldati che appartenevano all'Oriente, e che erano la più parte barbari, anzi Goti. Stilicone dovette obbedire, e li fece partire sotto il comando del generale goto Gainas, il quale si vuole che cospirasse con lui, d'accordo con [61] l'eunuco Eutropio, contro Rufino. Certo è in ogni modo, che quando i soldati furono presso Costantinopoli, ed il 27 novembre 395 vennero passati in rivista da Arcadio insieme con Rufino, questi si trovò a un tratto circondato; e subito si avanzò un soldato, che dicendo, — con questa spada ti colpisce Stilicone, — lo ferì mortalmente. Il suo cadavere venne dalla moltitudine fatto a pezzi. Alcuni ne portarono in giro pel campo la testa infitta sopra una lancia; altri ne portarono un braccio, con la mano tenuta in attitudine di chieder nuove tasse.
In conseguenza della morte di Rufino crebbe assai il potere di Eutropio, che gli successe; e pareva ancora che i barbari fossero addirittura divenuti i padroni in Costantinopoli, essendo riusciti ad occupare i principali uffici militari e civili. Ma ciò appunto provocava una reazione vivissima del sentimento romano. E di esso il retore Sinesio rendevasi interpetre presso l'Imperatore, incitandolo a porsi «alla testa dell'esercito, come gli antichi Cesari; e non permettere che i barbari piglino posto perfino nel Senato, che portino la toga da essi disprezzata, che riempiano le legioni e facciano tumulto, che mettano a pericolo l'Impero. L'esercito deve essere, egli concludeva, di Romani che difendano la patria.» Ma ciò nonostante il potere di Gainas e dei Goti era sempre grandissimo. Era cresciuto, è vero, anche il potere di Eutropio, che nel 399 fu nominato Console; ma questi, generalmente odiato, venne in discordia con la Imperatrice e con Gainas. Il quale riuscì a farlo condannare a morte, dopo di che assunse l'ufficio di Magister utriusque militiae, e fu davvero l'uomo più potente in Costantinopoli. Se non che, questo suo potere appunto ridestò più che mai la violenta reazione del partito nazionale, la quale s'accese maggiormente quando all'antagonismo politico s'aggiunse il religioso.
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Allora era vescovo di Costantinopoli S. Giovanni Crisostomo, uomo di grande autorità e fermezza, irremovibile anch'esso nella sua dottrina atanasiana, già fatta prevalere da Teodosio. I barbari erano invece ariani, e però Gainas loro capo mal tollerava che nella capitale dell'Oriente non vi fosse una sola chiesa destinata al loro culto, e che essi dovessero trovarsi costretti a cercarla fuori delle mura. Se non che tutto ciò era secondo le leggi e gli ordini di Teodosio; e Crisostomo, deliberato a non cedere in nulla, li fece leggere a Gainas, ricordandogli che aveva accettato di servire l'Impero, con l'obbligo di rispettarne le leggi. Non volendosi cedere nè da una parte nè dall'altra, gli animi s'accesero per modo che il 12 luglio 400 scoppiò contro i barbari un tumulto assai violento. Molti ne furono uccisi, gli altri si dovettero ritirare dalla città, e Gainas, combattuto, inseguito, cercò di salvarsi nella Dacia, passando il Danubio con alcuni dei suoi. Ivi fu ucciso dagli Unni, che credettero con ciò di far cosa grata all'Impero. Questo fu il più notevole avvenimento nella vita di Arcadio, giacchè Costantinopoli fu così libera dai barbari; l'Impero orientale riprese il suo carattere greco-romano, che serbò fino alla sua caduta; e l'Imperatore potè governare coll'appoggio del partito nazionale ortodosso. Restavano però sempre i Goti federati, che occupavano la Tracia e si stendevano nella Mesia, ingrossandosi ora con tutti i fuggiaschi dell'esercito sbandato di Gainas, trovandosi sempre più irritati e scontenti, perchè era un pezzo che i soldati non ricevevano le paghe. Che cosa bisognava dunque fare di questa enorme massa di gente scontenta, di questo popolo in armi e minaccioso?
Sin dal tempo di Rufino c'era stato in Oriente il disegno di spingere Alarico coi suoi in Occidente. Così non [63] solo si liberavano colà da un pericolo continuo, ma si dava del filo da torcere a Stilicone. Si voleva però evitare il pericolo che i due generali barbari facessero causa comune contro Costantinopoli; o pure che Stilicone, decidendosi a combattere sul serio i Goti e riuscendo a vincerli, finisse col divenire più potente che mai. E fu perciò che, poco dopo la morte di Teodosio, Rufino lo aveva costretto a fermarsi, togliendogli una parte dell'esercito. Da un altro lato Stilicone, sebbene fido soldato dell'Impero, era un barbaro anch'esso, e non poteva desiderare, quando anche avesse potuto, distruggere affatto i Goti. Non gli conveniva neppure umiliarli troppo, senza addirittura disfarli, perchè così li avrebbe resi sempre più avversi e pericolosi ad Arcadio e ad Onorio. Avrebbe quindi voluto dimostrar loro che poteva colle proprie armi tenerli a freno, e poi, secondo il pensiero stesso di Teodosio, aggregarli all'Impero, aumentandone così la forza. In tal modo se ne sarebbe anche avvantaggiata non poco la sua posizione militare e politica, quello appunto che a Costantinopoli si voleva evitare. Ne seguì quindi per qualche tempo, che l'Oriente spingeva i Goti verso l'Occidente, che a sua volta li rimandava indietro: erano come ballottati da una parte all'altra.
Tutto ciò doveva naturalmente sempre più irritarli. E così finirono verso il 395 (la data non è però sicura) coll'eleggersi un proprio re nella persona appunto di Alarico, che noi abbiam visto fin dalla sua prima gioventù combattere valorosamente in Italia sotto Teodosio. Esso era della nobile stirpe dei Balti, nome che Jordanes dice significare audace (id est audax), e che risponde infatti alla parola inglese bold, ardito. Educato alla disciplina militare romana, egli veniva adesso levato sugli scudi dai suoi connazionali; e ciò aveva una grande importanza, perchè così i Visigoti federati si ricostituivano come nazione, [64] o almeno come esercito indipendente dentro l'Impero. Tanto maggiore si doveva quindi a Costantinopoli sentire il bisogno di liberarsene, spingendoli sempre più verso l'Occidente. Se non che Stilicone si trovava anch'esso alla testa d'un formidabile esercito, di cui, per la debolezza d'Onorio, disponeva a suo arbitrio, e poteva quindi energicamente resistere. Infatti, quando Alarico s'avanzò, saccheggiando, nella Grecia (396), gli andò subito incontro, e respintolo dal Peloponneso, lo chiuse nei monti. Pareva allora che lo avesse già in suo potere; ma invece si seppe a un tratto, che Alarico, insieme con tutti i suoi e col bottino raccolto, s'era per l'Epiro settentrionale messo in salvo. Molte furono le voci allora diffuse. Chi diceva che era stata una sua abile manovra; chi supponeva che era stata negligenza o tradimento di Stilicone, e chi finalmente affermava che tutto era conseguenza di segreti accordi d'Alarico con Costantinopoli. Certo è che Stilicone se ne tornò tranquillo in Italia, senza inseguirlo, e che Alarico se ne andò in quella parte dell'Illirico che apparteneva all'Oriente. Ivi rimase col consenso di Arcadio, che gli concesse anche l'ambito ufficio di Magister militum. E si trovò come a cavallo fra l'Oriente e l'Occidente, con grande facilità di ripigliare la strada momentaneamente abbandonata. Intanto aveva modo non solo di nutrire i suoi, ma di provvederli anche largamente delle armi, che si trovavano nei magazzini dell'Impero.
La sua mira costante era adesso, per più ragioni, divenuta l'Italia. Ve lo spingevano da Costantinopoli, per liberarsi una volta di lui e dei suoi. Dopo la rivolta nazionale del 12 luglio 400, e lo sterminio dei barbari, l'Oriente non poteva più essere una sede nè sicura nè gradita ai Goti. Ve lo spingeva anche la sua personale ambizione ed un vero spirito di avventure. Secondo [65] la leggenda, una voce interiore gli andava continuamente ripetendo: Penetrabis ad Urbem! Quale fosse allora il suo disegno, è difficile dirlo con precisione; probabilmente non lo sapeva lui stesso. Alarico era un ardito soldato, senza un vero genio politico o militare; una specie di capitano di ventura, come la più parte dei generali barbarici di quel tempo, che non avevano una patria, e combattevano sopra tutto per meglio assicurare la loro posizione personale. Si trovava però a capo d'una immensa moltitudine di soldati, vecchi, donne, bambini, e questo gl'imponeva molti doveri, gli dava grandi pensieri. Che sognasse farsi imperatore dell'Occidente, non è possibile. Non avrebbe saputo come governarlo; ed inoltre un tale pensiero sarebbe allora ad un barbaro sembrato quasi un sacrilegio. S'avanzava quindi minacciando, saccheggiando, sperando sempre di trovar finalmente modo di far parte integrante e normale dell'Impero.
In Italia era intanto assai cresciuta la forza e l'autorità di Stilicone, specialmente dopo che gli era riuscito di far domare la ribellione di Gildone, seguìta in Africa nel 398. Egli aveva sposato una nipote di Teodosio, ed aveva dato sua figlia Maria in moglie ad Onorio; nel 400 fu anche nominato Console. Tutto questo lo faceva apparire come un possibile pretendente all'Impero, almeno pel suo figlio; e ciò gli cresceva autorità, ma gli procurava anche nemici. Per necessità delle cose si trovava divenuto come il difensore naturale dell'Italia. E quindi appena seppe che i barbari s'avanzavano, corse nella Rezia e respinse un esercito giunto colà sotto il comando di Radagasio, che era d'accordo, a quanto pare, con Alarico. Raccolse poi quanti più uomini potè, e col suo esercito così ingrossato, discese nell'alta Italia. Ivi pensò, innanzi tutto, a liberare e mettere al sicuro Onorio, che trovavasi allora in Asti, esposto al pericolo d'essere circondato [66] dai nemici. Lo indusse a trasferire la sua sede da Milano, ove s'era quasi sempre fermato, a Ravenna, che si poteva più facilmente difendere, ed aveva il vantaggio del mare. Così dal 402 al 475 essa restò sempre capitale dell'Impero d'Occidente, e poi fu capitale dell'Esarcato, che di là potè facilmente comunicare con Costantinopoli.
Ma ora bisognava provvedere alla difesa contro Alarico, che s'avanzava con un esercito numerosissimo. Stilicone richiamò quindi dalla Britannia la dodicesima legione, e quel che era assai più grave, richiamò anche le legioni che si trovavano a guardia del Reno, lasciando così da quel lato aperta la porta ad altri barbari. Voleva provvedere al pericolo imminente, pensando che, una volta vinto Alarico, avrebbe facilmente potuto respingere gli altri barbari, forse anche facendosi aiutare da lui, dopo averlo battuto. Il 6 aprile 402 (data incerta anche questa), i due eserciti s'incontrarono a Pollenzo sul Tanaro, a venti miglia da Torino, e vi fu una vera battaglia. Era di settimana santa, e Stilicone, senza occuparsi di ciò, sorprese il nemico nel campo, mentre celebrava le sacre feste. La vittoria fu sua, ma i Goti si poterono liberamente ritirare. E sebbene fossero di nuovo battuti presso Verona, se ne andarono a casa senza essere inseguiti. Si tornò quindi, come era naturale, a parlar di tradimento. Nondimeno nel 404 Onorio, accompagnato da Stilicone, entrò da trionfatore in Roma. E furono, in questa occasione, celebrati quei giuochi dei gladiatori, che più volte, per istigazione dei Cristiani, erano stati invano proibiti. Questa volta però un monaco orientale, Telemaco, si gettò in mezzo ai combattenti nell'arena del Colosseo, per separarli in nome di Gesù Cristo. Egli fu lapidato dalla folla, tra le grida d'indignazione; ma si afferma che d'allora [67] in poi i giuochi inumani cessassero davvero. La condotta ardita di Telemaco era un'altra prova dell'energia sempre maggiore, che lo spirito cristiano andava manifestando.
Dopo che Alarico si fu ritirato, Radagasio che era stato già prima battuto nella Rezia, si avanzò con un esercito, che Orosio porta a duecentomila uomini, altri fanno ascendere fino a quattrocentomila, il che prova la poca credibilità di queste cifre. Era in ogni modo un esercito assai numeroso, che Stilicone affrontò in Toscana, riuscendo a chiuderlo nei monti presso Fiesole, dove lo affamò e disfece, pigliando prigioniero lo stesso Radagasio, che fu poi ucciso (405). Tutti gli altri morirono o si sbandarono, andando per fame raminghi. E questa vittoria che avrebbe dovuto crescer favore al capitano che l'aveva ottenuta, rese invece più clamorose le voci di tradimento, massime quando poi arrivò la notizia che moltitudini di Alani, di Svevi e di Vandali, passato il Reno, rimasto indifeso, erano penetrati nella Gallia (406) e liberamente si avanzavano. — Se ha così facilmente disfatto Radagasio, si diceva, è segno che poteva, volendo, fare lo stesso con Alarico. Ma è un barbaro, e vorrebbe lasciar l'Impero in balìa dei barbari. Perciò ha richiamato le legioni dal Reno, lasciando invadere la Gallia, come fra poco sarà invasa anche la Spagna. Onorio dovrebbe imitar suo fratello Arcadio, che seppe liberarsi di Gainas, il quale se non era insieme coi suoi distrutto, avrebbe dato in mano dei Goti l'Oriente, che è invece tornato ad essere romano. Se in ugual modo non si provvede in Occidente, ben presto anche Roma e l'Italia saranno dominate dai barbari. —
Questi sentimenti infiammarono tutta la parte romana dell'esercito, a segno tale che le legioni della Britannia nel 407 proclamarono nuovo imperatore uno il quale pareva [68] non avesse altro titolo che il nome di Costantino, ma che nel fatto poi dimostrò maggiore energia che non si supponeva. Egli venne subito nella Gallia, per combattere i barbari; ma ormai non era più possibile ricacciarli al di là del Reno. Riuscì nondimeno a ripigliar la guardia del fiume, per impedire almeno che ne passassero altri. Intanto arrivavano dall'Italia nella Gallia nuove legioni, mandate da Onorio a ristabilire la sua autorità contro il tiranno, come era chiamato Costantino, perchè non si riteneva legittima la sua elezione. Così in Occidente si trovavano a contrasto due imperatori fra di loro e coi barbari. Tutto ciò si attribuiva a colpa di Stilicone, che veniva perciò sempre più odiato, sempre più calunniato. Infatti, sebbene avesse con tanta energia e fortuna combattuto Radagasio, il quale era pagano, pure lo accusavano di esser fautore dei pagani, aggiungendo che tale era suo figlio, e che egli aspirava a farlo imperatore d'Occidente. Più tardi, quando morì Arcadio (1º maggio 408), si affermava invece che egli presumeva farlo imperatore d'Oriente. — Non contento, dicevano, d'aver dato sua figlia Maria in moglie ad Onorio, dopo la morte di lei, lo aveva indotto a sposar l'altra sua figlia Termanzia, senza curarsi che il clero cristiano condanna le seconde nozze con la sorella della prima moglie. — Insomma ogni arme era buona contro di lui, e si riuscì infatti a renderlo odioso ai Cristiani ed ai Pagani.
Ma quello che era peggio, cominciava ora ad ingelosirsi ed insospettirsi di lui anche Onorio, il quale aveva un certo sentimento tradizionale dell'autorità imperiale, e mal tollerava, sebbene non lo dimostrasse ancora aperto, questo Vandalo che suscitava l'avversione di tutto il partito nazionale romano. Se non che la sua indole incerta e titubante lo faceva sempre oscillare. Dopo la battaglia di Pollenzo, pareva che avesse accettato [69] il disegno di Stilicone, che era di lasciare ad Alarico, sotto la dipendenza dello stesso Onorio, tutta la Prefettura d'Illiria, sebbene questa fosse stata da qualche tempo divisa fra l'Occidente e l'Oriente. Stilicone pensava che così si sarebbero resi contenti i Goti; si sarebbe avuto a propria disposizione tutto l'esercito di Alarico, e si sarebbe, col suo aiuto, potuto rimettere l'ordine nella Gallia e nella Spagna, contro i barbari e contro Costantino, che ora vi spadroneggiava. In conseguenza di ciò, Alarico s'era già mosso dall'Epiro, quando, per ordine improvviso di Onorio, fu inaspettatamente fermato. Un tal fatto, come era naturale, lo sdegnò in estremo grado, e quindi egli s'avanzò minaccioso verso l'Italia, chiedendo quattromila libbre d'oro, per essere indennizzato delle spese che aveva fatte. Ed essendosi Onorio sbigottito, la domanda fu col suo assenso portata e sostenuta da Stilicone in Senato, con la dichiarazione che bisognava consentire, perchè non s'era in grado di resistere. Ed il Senato dovè cedere anch'esso; ma parve che per un momento almeno l'antico spirito, l'antica energia romana si ridestassero, e che il senatore Lampridio esprimesse il sentimento comune, quando esclamò: Non est ista pax, sed pactio servitutis!
In verità Stilicone era un barbaro romanizzato. Dall'unione di questi due elementi, che ne costituivano la personalità, scaturivano la sua forza e la sua debolezza. Essi coesistevano nell'Impero, e fino a che vi si tenevano in equilibrio, e potevano continuare l'uno accanto all'altro, senza venire a conflitto, la personalità di Stilicone rappresentava la società in cui egli si trovava. Di qui la sua forza. L'idea di valersi dei Goti a vantaggio dell'Impero, poteva sembrare una continuazione della politica di Teodosio, che a lui lo aveva raccomandato, sperando che volesse e sapesse difenderlo. Una volta però [70] che dentro l'Impero fosse sorto il conflitto fra i due elementi che lo costituivano, la personalità politica di Stilicone sarebbe stata distrutta, ed egli avrebbe dovuto inevitabilmente soccombere. Purtroppo il conflitto si poteva dire adesso già cominciato. Infatti i Goti, anche dopo ottenuta la chiesta indennità, erano scontenti e minacciavano. Lo sdegno del partito romano era salito al colmo, e si accennava perciò a Stilicone come ad una vittima necessaria alla salute dell'Impero. Nè mancava chi soffiava nel fuoco più che poteva, e fra gli altri un ufficiale della guardia imperiale, di nome Olimpio. A Ticino (Pavia) si trovavano allora le legioni romane, destinate, a quanto pare, a ripigliare la guerra contro Costantino e contro i barbari nella Gallia, dove tutto era in disordine. La colpa d'ogni danno, d'ogni pericolo presente, veniva colà attribuita a Stilicone, che si trovava a Bologna. — Egli, così dicevano, aveva voluto salvare ad ogni costo i Goti; aveva lasciato indifeso il passaggio del Reno, perchè altri barbari come lui inondassero l'Impero, ciò che pur troppo era avvenuto. — Onorio allora si trovava appunto a Pavia, dove a un tratto scoppiò un tumulto violento (408). La città andò a sacco; gli amici di Stilicone furono messi a morte; e l'Imperatore, da nessuno offeso, pareva uno spettatore indifferente, forse già prima consapevole di ciò che ora avveniva.
Alla notizia della rivolta, Stilicone era per muovere subito da Bologna, alla testa de' suoi soldati barbari, per difendere Onorio e domare i ribelli. Ma quando seppe che questi non correva nessun pericolo, che non dava neppur segno di disapprovare quello che sotto i suoi occhi avveniva, non volle, egli generale dell'Impero, al quale era affezionato, provocare una sanguinosa battaglia fra una parte e l'altra dell'esercito. Questo fece scoppiare la rivolta anche fra i suoi, pronti a difendere [71] lui, ed a vendicare i compagni. Il tumulto fu tale che la sua persona si trovò in grave pericolo, e fu costretto a rifugiarsi a Ravenna, in una chiesa. Colà giunsero i messi di Olimpio, che gl'intimarono d'arrendersi, giurando solennemente d'avere ordine di prenderlo in custodia, salva la vita. Ma quando poi, stando alla fede giurata, Stilicone s'arrese, dissero subito che era sopravvenuto l'ordine di ucciderlo. Alcuni de' suoi, che lo avevano colà accompagnato, si dimostrarono pronti a metter mano alle armi, per difenderlo fino all'estremo. Ma esso aveva capito che ormai tutto era inutile; e pensando, anche in quell'ultima ora, alla salute dell'Impero più che alla sua propria, non volle, morendo, provocare la guerra civile. E ordinò ai suoi di deporre le armi, dichiarando d'essere deciso ad arrendersi. Il 23 agosto 408 sottomise tranquillo la testa alla scure. Suo figlio fu ucciso in Roma, sua figlia Termanzia venne dal palazzo imperiale rimandata alla madre Serena, cui era poco dopo serbata, nella stessa Roma, un'assai trista fine. Molti degli amici e parenti di Stilicone, sopra tutto i soldati barbari, vennero perseguitati; le loro mogli e i loro figli uccisi. E quasi a coronare l'opera nefasta, Onorio pubblicò un editto contro gli eretici, ai quali vietava di far parte della milizia palatina, e si mostrò avversissimo ai pagani, confiscando i beni dei loro tempii, ordinando la distruzione dei loro altari.
La prima conseguenza di tutta questa disgraziata tragedia fu, che un numero grandissimo di soldati barbarici, trentamila circa, così almeno si dice, andarono ad ingrossare l'esercito di Alarico, il quale divenne a un tratto più potente e minaccioso che mai. Ma che cosa poteva, che cosa voleva egli fare adesso? Certo non sognava neppure di rovesciare l'Impero o d'impadronirsene. Egli non se ne dichiarava neanche nemico. Si [72] trovava alla testa d'una moltitudine armata, che aveva bisogno di vivere, e però voleva, insieme coi suoi, in un modo o l'altro, ma in un modo riconosciuto e legale, far parte dell'Impero, pronto anche a servirlo, a ricostituirne l'autorità contro i ribelli nella Gallia o altrove, assumendo il grado di Magister utriusque militiae. Ma quando ciò fosse avvenuto, l'Impero sarebbe rimasto in balìa de' barbari, ed era quello appunto che Onorio non voleva consentire. Figlio di Teodosio, per quanto debole e vacillante, esso sentiva, in parte almeno, la dignità del suo grado, e pensava che, cedendo alle voglie d'Alarico, difficilmente avrebbe potuto resistere poi a domande simili di altri barbari. Meno che mai tutto ciò sembrava possibile ora, dopo la insurrezione vittoriosa a Pavia contro il partito barbarico, quando Costantino, alla testa delle legioni, minacciava di staccare dall'Italia la Gallia, la Britannia e la Spagna. Queste erano le grandi difficoltà di trovare una soluzione pratica; e di qui il pericolo gravissimo che correva adesso l'Impero.
Alarico intanto s'avanzava in Italia, con animo d'assediare Roma, e dettare le sue condizioni. Impadronito infatti che egli si fu della foce del Tevere e del porto d'Ostia, la Città eterna, che non aveva un esercito per difendersi, e non era stata approvvigionata, si trovò subito stretta dalla fame, cui tenne dietro la pestilenza. Fu forza quindi venire a patti; ma egli si dimostrava così duro, che gli abitanti, spinti dalla disperazione, minacciavano di uscire in massa fuori delle mura per combattere. — Più fitto è il fieno, così avrebbe risposto il barbaro, meglio si falcia. — E invece di scendere a più miti consigli, alzava sempre più le sue pretese. — Ma che cosa ci lascerai tu allora? — dissero i Romani. Ed egli: — La vita! — Le notizie però che noi abbiamo di questi tempi sono così incerte, e sempre così esagerate in un senso o nell'altro, che poca fede [73] si può prestare alla verità intera di simili aneddoti, tanto più che, se Alarico era un barbaro rozzo e feroce, non voleva essere tenuto un nemico, e molto meno un distruttore dell'Impero. Ma egli aveva bisogno di vivere coi suoi, che erano con le armi in mano, stretti dalla fame. Bisognò quindi rassegnarsi a pagare un tributo di cinquemila libbre d'oro e trentamila d'argento, oltre una quantità di vesti di seta e di droghe. E per raccogliere questa somma voluta dai barbari, i Romani dovettero fondere le statue delle antiche divinità, e gli ornamenti dei tempii pagani. Il che fu non solo una grande umiliazione; ma a molti pareva anche di sinistro augurio, perchè i Pagani non erano allora scomparsi affatto, e fra i Cristiani stessi non mancavano di quelli che speravano tuttavia qualche aiuto da quegli idoli, che sembravano avere così lungamente protetto Roma.
Un gran turbamento invase gli animi nel vedere l'antica capitale del mondo ridotta ad una umiliazione creduta fino allora impossibile, e che pur doveva essere superata da altre ancora più crudeli. Si vuole che ora appunto venisse uccisa l'infelice Serena, accusata, perchè vedova di Stilicone, di benevolenza verso Alarico. Si pretese, che dell'atto inumano e crudele fosse stata istigatrice Galla Placidia, la figlia di Teodosio, celebre per la sua maravigliosa bellezza. Ma essa aveva allora diciotto anni o poco più, e se è facile credere che la sorella d'Onorio dovesse essere avversa a Stilicone ed ai suoi, non è ugualmente facile persuadersi, che in sì giovane età potesse avere l'animo così perverso, ed anche l'autorità necessaria per riuscire a muovere essa il popolo alla vendetta.
Anche in questo momento Alarico era lontano dal voler abusare della forza. Cercava invece di venire ad un accordo, rinunziando a molte delle sue antiche pretese. Non chiedeva più d'esser Magister utriusque [74] militiae; gli bastava d'avere per sè e per i suoi la provincia del Norico, invece delle più vaste e fertili terre domandate in passato. Ma Onorio che, per la morte di Arcadio, sperava si potesse ristabilire l'armonia, se non l'unione dell'Oriente coll'Occidente, ed aspettava gli aiuti che aveva chiesti a Teodosio II, respinse ogni idea d'accordo. Nè bastò a muoverlo il vedere, che molte e molte migliaia di schiavi fuggitivi e di barbari sbandati dell'esercito imperiale, che alcuni fanno in tutto ascendere a quarantamila, andassero liberamente saccheggiando il paese.
Alarico allora impazientito, vedendo di non poterne cavar nulla, circondò Roma per la seconda volta, e tentando di mettersi d'accordo coi Pagani, che ivi si trovavano, e cogli Ariani, gli uni e gli altri irritati per gli ultimi editti contro di essi emanati da Onorio, proclamò nuovo imperatore Attalo, un greco allora Prefetto della Città (409). Sperava d'averlo docile strumento della propria volontà, e indurlo a sanzionare, con qualche forma legale, le sue pretese. Ma invece pareva che nessuno riuscisse a prenderlo sul serio. Lo stesso Onorio, che dapprima se n'era impensierito, e pensava a mettersi in salvo, avuto ora da Costantinopoli l'aiuto d'alcune migliaia di soldati, riprese animo, sentendosi sicuro di potersi con essi difendere in Ravenna. E quello che è più, neppure Alarico riusciva a mettersi d'accordo con Attalo, al quale, come greco, ripugnava d'abbandonare Roma e l'Impero in mano ai barbari, mentre che poi non sapeva prendere nessuna propria iniziativa. E la fame intanto era a Roma giunta a tale, che la moltitudine gli gridava furibonda: Pone praetium carni humanae. Quasi volessero dire: dobbiamo noi dunque mangiarci addirittura fra di noi? Così Alarico, persuaso che non c'era da cavar nulla neppure da lui, finì col deporlo, strappandogli le insegne [75] imperiali, che rimandò ad Onorio, col quale tentò di nuovo, ma sempre invano, d'intendersi. Si decise allora al passo più audace della sua vita, e che doveva avere un seguito funesto, una grande importanza nella storia del mondo.
Il giorno 24 agosto 410, sia per tradimento, sia per strattagemma di guerra, Alarico, senza incontrare resistenza, entrò col suo esercito per la Porta Salara nella città di Roma. Era un fatto nuovo, da otto secoli non mai avvenuto, nè creduto possibile. La maraviglia fu perciò così grande, che tutti restarono come sbalorditi, e lo stesso re visigoto sembrava esserne così sgomento, che dopo tre soli giorni s'affrettò a ripartire. Certo un esercito di barbari, venuti in sostanza come conquistatori, non potè restare in Roma senza molte violenze e saccheggi. Ma tutto quello che noi sappiamo di sicuro c'induce a credere che le violenze furono assai minori di quel che poteva supporsi, e che s'andò più tardi dicendo. Il palazzo di Sallustio, presso la Porta Salara, fu subito bruciato, ma d'altri incendi non si parla determinatamente, sebbene possa supporsi che ne siano avvenuti. E tutti gli aneddoti tramandatici dagli storici o dalla leggenda tendono solo a provare il grande rispetto che Alarico dimostrò ai Cristiani, alle loro chiese, sopra tutto alle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo, e al diritto di asilo. Infatti coloro che si rifugiarono nei luoghi sacri furono salvi. Ma anche fuori delle chiese i Cristiani, quelli sopra tutto che eran dati a vita religiosa, o che avevano la custodia di sacri oggetti, furono dai Goti rispettati, tali essendo gli ordini severissimi del loro capo. Orosio, S. Agostino, S. Girolamo parlano di questo sacco di Roma con orrore; ma vi riconoscono una giusta punizione di Dio contro gl'increduli, che ancora non s'erano convertiti e speravano aiuto dagl'idoli pagani. Per essi Alarico non è che uno strumento nella mano [76] di Dio, il suo ingresso in Roma è destinato ad accelerare il trionfo del Cristianesimo; e riconoscono che i danni furono assai minori di quanto poteva supporsi, e di quanto si disse da molti.
Onorio intanto se ne stava chiuso in Ravenna, dove si trovava anche il Papa, invano andato colà, per tentare un qualche accordo fra Alarico ed il sempre titubante Imperatore. Si narra, a provare sempre più la indifferenza ed indolenza d'Onorio, che, quando gli fu recata la desolante notizia, Roma è perita, egli credette che si trattasse d'un suo gallo prediletto, cui aveva dato il nome appunto di Roma; ed esclamò: «Ma come mai è ciò possibile, se poco fa gli ho dato da mangiare colle mie proprie mani?» Questo aneddoto però lo abbiamo da Procopio, che scrisse centocinquanta anni più tardi, e che quando s'allontana dai suoi tempi, non è più un autore molto credibile.
Certo è invece che, dopo tre giorni di dimora in Roma, Alarico mosse per l'Italia meridionale, e s'avanzò saccheggiando sino a Reggio di Calabria. Colà si apparecchiava ad imbarcarsi, per andare non si sa ben dove. Secondo alcuni voleva recarsi in Sicilia, secondo altri in Africa, che era il granaio dell'Impero, cui sperava così d'imporre condizioni d'un accordo tollerabile. Ma ad un tratto andò tutto a monte. Le navi, su cui doveva traversare lo stretto, naufragarono; ed egli stesso, improvvisamente ammalatosi, morì (410). I suoi, secondo si narra, deviarono il letto del fiume Busento e, dopo averlo colà seppellito, fecero riprendere alle acque il corso primitivo, per nascondere così a tutti la tomba del loro valoroso duce.
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La morte di Alarico mutò sostanzialmente lo stato delle cose. I Goti elessero a succedergli suo cognato Ataulfo, il quale, anche meno di lui, voleva esser nemico dell'Impero. Abbiamo di ciò una preziosa testimonianza in Orosio. Questi narra d'avere incontrato un compagno d'armi d'Ataulfo, del quale gli riferì i discorsi. «Dapprima, avrebbe detto il successore d'Alarico, era stata mia intenzione farmi padrone dell'Impero, ed assumere in esso il posto di Cesare Augusto, trasformando in Gotia la Romania.[17] Ben presto però l'esperienza mi persuase, che ciò non era possibile, perchè Roma aveva dominato il mondo, non solo con le armi, ma anche colle leggi e con la disciplina. E i Goti, per la loro indomita barbarie, non sanno obbedire alle leggi, senza di che Respublica non est Respublica. Pensai perciò di ricondurre, mediante le armi dei Goti, il nome romano all'antica sua gloria. Non potendo essere il distruttore dell'Impero, desiderai, colla pace, esserne il restauratore.»
Ad ispirargli questi sentimenti dovè contribuire ancora un altro fatto. Partendo da Roma, Alarico aveva menato seco, insieme con la preda, molti prigionieri. Fra questi era Galla Placidia, la celebre bellezza, che faceva parte d'una generazione di donne, tutte per questa loro bellezza famose, e che ebbero perciò, come già notammo, una gran parte nei destini del mondo. La sua ava Giustina [78] aveva dominato Valentiniano I. La loro figlia Galla conquistò l'animo di Teodosio I. Galla Placidia, nata dal loro matrimonio, trascinata ora prigioniera in Calabria, innamorò di sè perdutamente Ataulfo, che voleva sposarla, il che lo spingeva sempre più ad atteggiarsi da Romano. Certo è che, appena eletto, Ataulfo abbandonò ogni pensiero della Sicilia e dell'Africa, e ripartì per condurre i suoi nella Gallia, dove sperava trovar per essi una sede adatta, col consenso dell'Impero, di cui voleva possibilmente essere amico. Era il pensiero che, sotto forme diverse, rinasceva sempre, d'unire in qualche modo Romani e barbari, accogliendo i Goti come parte dell'Impero, valendosene a difenderlo. Lo avevano avuto Teodosio, Stilicone ed Alarico stesso; nulla di strano che lo avesse anche Ataulfo. Onorio, è ben vero, s'era a ciò dimostrato avverso; ma lo stato delle cose era divenuto tale adesso, che anch'egli poteva desiderare d'accettare il disegno più volte respinto.
Infatti l'intera Prefettura della Gallia era caduta in gran disordine, un vero caos, e pareva che fosse per staccarsi affatto dall'Impero. Dopo che Stilicone aveva ritirato le legioni dal Reno, i barbari, come vedemmo, erano entrati in essa numerosi (406); e poco dopo arrivava Costantino, già proclamato imperatore nella Britannia. Questi non potè ricacciare i barbari; ma, preso possesso della regione che è ora Alsazia-Lorena, era riuscito ad impedire almeno nuove invasioni, occupando molte città della Gallia, e più tardi anche della Spagna: le altre parti di queste province rimanevano però in potere dei barbari. Il fatto è che dopo la morte di Stilicone e di Arcadio (408), la disciplina militare era andata sempre più scomparendo. I generali, da un pezzo divenuti tutti più o meno quasi capitani di ventura, assai spesso si separavano gli uni dagli altri, operando ciascuno per [79] proprio conto, innalzando nuovi pretendenti all'Impero, che trovavano sempre appoggio in una parte dei soldati. E così, dopo che Costantino era stato eletto nella Britannia, venne nella Spagna proclamato Massimo. In quella Prefettura si trovavano dunque due pretendenti all'Impero, ed una gran moltitudine di barbari, che taglieggiavano e saccheggiavano il paese. Onorio mandò nella Gallia un esercito comandato da Costanzo, soldato valoroso, il quale tentò con energia di ristabilirvi l'autorità del legittimo Imperatore. Massimo allora, ben presto abbandonato dai suoi, fuggì; Costantino, assediato in Arles, si arrese, e fu col figlio Giuliano mandato ad Onorio, il quale, violando la parola del suo generale, li fece uccidere ambedue (411). Così pareva che, spariti i due pretendenti, non rimanessero che i barbari. Ma questi avevano già messo su un altro pretendente all'Impero nella persona di Giovino, appena che il generale Costanzo s'era ritirato in Italia. E da capo scorrevano liberamente per tutto.
In tali condizioni, l'andata d'Ataulfo colà non poteva dispiacere ad Onorio. Prima di tutto si liberava l'Italia dai Goti, il che era già molto. Ataulfo inoltre andava con l'intenzione d'occupare il paese, e per ciò fare doveva combattere Giovino ed i barbari che lo sostenevano. Questo spiega, in qualche parte almeno, il fatto, certo singolarissimo, che Ataulfo potè traversare tutta l'Italia dal sud al nord, senza che si sappia se egli trovò ostacoli di sorta, anzi senza che si sappia nulla addirittura di questo suo lungo viaggio. Entrato nella Gallia (412), egli tenne dapprima una condotta incerta; ma poi attaccò ed uccise Saro generale romano, che s'era volto a favore di Giovino. Subito dopo si mosse contro questo e contro il fratello di lui; li vinse ed uccise ambedue, inviando le loro teste ad Onorio, che le fece esporre a Cartagine. Ivi era stata poco prima domata un'altra ribellione, [80] la quale fece sentire la sua azione indiretta anche nella Gallia.
Ataulfo intanto si mostrava sempre più invaghito di Galla Placidia, e voleva sposarla. Ma ad Onorio ripugnava assai il concedere ad un barbaro la sorella e figlia d'imperatori, tanto più che ne era pazzamente innamorato anche il suo generale Costanzo, cui egli l'avrebbe data assai più volentieri. Ed Ataulfo era tanto desideroso d'accordi, che sembrava ora, non ostante la sua passione, disposto a rimandarla a Ravenna, avendo da Onorio avuto promessa di larghi approvvigionamenti di grano, del quale aveva urgente bisogno per l'esercito. La ribellione d'Africa rese però impossibile il mantener la promessa, ed Ataulfo si sentì allora libero da ogni vincolo verso di Onorio. Prese quindi, per conto proprio Narbona, Tolosa, Bordeaux, e tentò di prendere anche Marsiglia, ma gli fu impedito da Bonifazio, altro valoroso generale di Onorio (413).
Ma quello che è più, invece di pensare a restituire Galla Placidia, la sposò senz'altro a Narbona, nel gennaio del 414. Questo matrimonio, anche pel modo in cui fu celebrato, ebbe addirittura un'importanza storica. Quel giorno infatti non solo la sorella di Onorio, la figlia di Teodosio, sposava un barbaro; ma le nozze furono solennizzate con una pompa affatto romana, in casa d'Ingenuo, uno dei più autorevoli cittadini di Narbona. Il barbaro Ataulfo portava la tunica romana. Dinanzi alla sposa, adorna di splendidi abiti romani, s'inginocchiarono cinquanta giovani, ciascuno dei quali aveva nelle mani due vassoi, l'uno pieno d'oro, l'altro pieno di pietre ed oggetti preziosi, che eran parte della preda fatta nel sacco di Roma, e che ora venivano offerti a lei, preda più preziosa ancora, la quale di prigioniera diveniva regina dei Goti. A rendere sempre più solenne questa singolare cerimonia, si recitarono versi latini. E come per porre il colmo [81] a tutto ciò, il coro era diretto da Attalo, quel preteso imperatore, che noi vedemmo per breve tempo tenuto su da Alarico, il quale poi lo depose. Esso era stato costretto a seguire il campo goto, come una specie d'ostaggio di cui potersi valere qualora se ne presentasse l'occasione. Adesso dirigeva il coro che celebrava le nozze d'Ataulfo e di Galla Placidia! Tutto simboleggiava così quella unione goto-romana, che dopo essere stata un pensiero, un desiderio di moltissimi, doveva finalmente essere in parte attuata da Teodorico. Dal matrimonio allora celebrato nacque un figlio chiamato Teodosio, che ben presto morì.
Di tutto ciò rimasero, per diverse ragioni, scontentissimi Onorio e Costanzo, i quali si trovarono d'accordo nel contrariare i Goti in più modi, specialmente ponendo ogni sorta d'ostacoli all'approdo nella Gallia di navi con vettovaglie. E questo spinse Ataulfo a passare i Pirenei, per andare nella Spagna, paese assai fertile e ricco, non ancora esausto dalle invasioni, più adatto quindi a nutrire le sue genti. Ma qui egli cadde improvvisamente vittima del pugnale d'un assassino (415), sia che fosse una delle vendette molto comuni fra i barbari, sia che fosse opera del partito avverso alle simpatie romane d'Ataulfo, partito assai irritato per le ostilità che in più modi venivano ora dall'Italia. Certo è che fu eletto Singerico, il quale si dimostrò subito avversissimo al nome romano ed alla memoria d'Ataulfo, di cui uccise i figli avuti dalla prima moglie. Non osò fare lo stesso della vedova Galla Placidia; pure la trattò assai duramente, costringendola ad andare a piedi, per dodici miglia, in mezzo ai prigionieri e dinanzi al suo cavallo. Ma anch'egli durò poco, essendo stato dopo soli sette giorni ucciso. Gli successe Valia che, d'indole assai più temperata, venne ben presto ad un accordo con Onorio, cui cedette Galla Placidia, inviandogli anche Attalo; e [82] ne ebbe in compenso 600,000 misure di grano per le sue genti. Onorio celebrò allora il suo undecimo consolato, entrando in Roma come un trionfatore, menando seco, legato al suo carro, Attalo, cui fece tagliar due dita della destra, confinandolo poi nell'isola di Lipari. E Galla Placidia, la quale dapprima sembrava assai restìa a sposare Costanzo, sempre di lei perdutamente innamorato, perchè egli era un soldato rozzo e dedito solo alla vita militare, s'indusse poi a celebrare il matrimonio, e ne ebbe due figli, Onoria e non molto dopo Valentiniano (419), che fu terzo di quel nome come imperatore. Costanzo venne assunto a compagno nell'Impero da Onorio; Galla Placidia ebbe allora il titolo di Augusta, e più tardi, dopo la morte del marito (421) e del fratello (423), fu reggente, perchè suo figlio si trovava tuttavia in età minore.
Valia intanto, mantenendo le promesse fatte, combattè più volte vittoriosamente nella Spagna i Vandali e gli Alani. Prese poi con i suoi Goti stabile dimora nella Gallia (419), occupando varie delle città tenute già prima da Ataulfo, fra cui Bordeaux e Tolosa, dalla quale ultima ebbe nome il nuovo regno visigoto, che fu costituito col consenso d'Onorio, e che si estese poi oltre i Pirenei. Più tardi questo regno ebbe, come vedremo, una grandissima parte nella guerra che l'Impero d'Occidente dovè sostenere contro gli Unni. Narbona però, che da Costanzo era giudicata strategicamente necessaria ai Romani, e Marsiglia furon da essi ritenute. A settentrione e ad oriente scorrazzavano ancora liberamente altri barbari.
Questa può dirsi la fine del primo atto del tragico dramma, cominciato quando gli Unni cacciarono i Goti al di qua del Danubio. Una volta che la Tracia riuscì insufficiente a mantenerli tutti, una buona parte di essi si mossero, sotto Alarico, in cerca di nuove terre; e dopo aver molto vagato e molto combattuto, finalmente si fermarono [83] nella Gallia. E sebbene tutto ciò si fosse da ultimo compiuto d'accordo con l'Impero, fu nondimeno il principio della definitiva separazione dell'intera Prefettura della Gallia dall'Italia. La Britannia infatti, che ne faceva parte, era già abbandonata, e vicina a subire le invasioni barbariche. La Spagna era omai invasa, e tutte le successive spedizioni per riprenderla, salvo le temporanee vittorie di Belisario, non riuscirono a nulla. La Gallia propriamente detta, ad eccezione di poche terre al sud, era interamente nelle mani dei barbari, e quindi destinata anch'essa a separarsi per sempre dall'Italia.
In Roma, dopo la partenza d'Alarico, lo stato delle cose era andato migliorando. Molti che avevano abbandonato la Città, vi tornavano, e la popolazione quindi rapidamente cresceva. A Ravenna invece cominciavano a germogliare i semi di partiti avversi, ed una vicina crisi era inevitabile. Onorio continuava ad essere geloso della sua indipendenza da Costantinopoli, dove era assai più vivo il sentimento tradizionale della unità dell'Impero, e si mirava sempre ad una supremazia dell'Oriente sull'Occidente. Teodosio II, il quale allora regnava colà sotto l'ascendente della sorella Pulcheria, aveva disapprovato vivamente che Onorio avesse assunto a compagno nell'Impero il generale Costanzo. Ma questi poco dopo morì, e rimase la vedova Placidia, la quale, come figlia di Teodosio il grande, inclinava ad un accordo [84] coll'Oriente, a segno tale da non poter più vivere in buoni termini col fratello. Se ne andò quindi a Costantinopoli, dove rimase fino alla morte di lui, avvenuta nel 423.
Onorio fu un uomo certamente di poco valore, ma non quanto vollero far credere. Egli in sostanza rappresentò tre idee, che formarono il carattere del suo regno: il principio ereditario, la romanità, il Cristianesimo ortodosso. E ad esse si mantenne sempre fedele. Debole com'era, dovette lottare continuamente coi barbari, che invadevano da ogni parte l'Impero, e con un gran numero di pretendenti, che sorgevan di continuo. In teoria tutto l'Occidente obbediva a lui; ma in realtà l'Europa centrale, anzi l'intera Prefettura della Gallia, era già in potere dei barbari. Il dissenso con Costantinopoli, piuttosto che scemare, andò per opera sua crescendo. Ma Placidia, in ciò più accorta, gli si oppose. Essa capì che, di fronte a tanti barbari, i quali d'ogni parte s'avanzavano nell'Impero, solo da Costantinopoli si poteva sperare aiuto.
Così fu che, alla morte d'Onorio, si manifestarono in Ravenna due partiti. Quello che mirava alla indipendenza dell'Occidente scelse, come successore al trono, Giovanni, Primicerio dei notai. Quello invece che voleva l'accordo con l'Oriente, dove Teodosio II aveva subito cominciato ad assumere l'autorità di unico e solo Imperatore, favoriva Placidia come reggente del figlio Valentiniano III, attenendosi al principio ereditario. E per questa ragione anche i due primi generali a servizio dell'Impero d'occidente, Bonifazio ed Ezio, che per la loro nascita ed il loro valore, furon chiamati i due ultimi Romani, si trovarono in lotta fra di loro. Bonifazio, che era in Africa, si dichiarò per Placidia, alla quale mandò subito aiuto di uomini e di vettovaglie; Ezio si dichiarò invece per Giovanni. [85] Ormai i vincoli dell'antica disciplina militare erano sciolti, ed i generali parteggiavano anch'essi, guidati dal loro interesse personale.
Giovanni, per non sembrare di voler rompere ogni relazione coll'Oriente, aveva mandato a chiedere d'essere riconosciuto da Teodosio II; ma sapendo che questi s'era già dichiarato favorevole a Placidia, s'apparecchiava intanto alla difesa, raccogliendo anche una flotta nel porto di Ravenna. E ciò apparve più necessario ancora quando seppe che i suoi ambasciatori erano stati malissimo accolti a Costantinopoli. Non potendo sperare d'aver soldati dalla Gallia, quasi tutta occupata dai barbari; nè dall'Africa, dove comandava Bonifazio; e neppure potendo sperar molto in Italia, dove aveva non pochi avversari, mandò Ezio a chiedere aiuto dagli Unni, presso i quali questo generale era lungamente vissuto come ostaggio, ed aveva perciò parecchi amici. Ezio tornò ben presto con un rinforzo, che si fa ascendere a 60,000 Unni, e giunse in tempo per affrontare le genti mandate da Costantinopoli in aiuto di Placidia. La fortuna pareva che volesse secondarlo, giacchè il naviglio che portava una parte dell'esercito orientale fu disperso da un'improvvisa tempesta, ed il generale Ardaburio, gettato a terra nel porto di Ravenna, fu fatto prigioniero. Ma questi riuscì di dentro la città stessa a cospirare ed a mettersi d'accordo coi suoi compagni d'arme, i quali s'avanzavano per terra, sotto il comando di Aspar suo figlio. E così, quando Giovanni era per uscir di Ravenna a combattere il nemico, che doveva essere contemporaneamente assalito alle spalle da Ezio cogli Unni, Aspar, per gli accordi segretamente presi col padre, potè con un colpo di mano entrare in Ravenna, ed impadronirsi della persona stessa di Giovanni, che menato in Aquileia, dove era già arrivata Placidia, fu subito messo a morte (425). Ed [86] Ezio allora, sebbene avesse già avuto col nemico uno scontro sanguinoso, che fu però di esito incerto, capì che ormai la sua causa era perduta, e passò dalla parte di Placidia, che lo accolse a braccia aperte. Egli stesso riuscì a far tornare indietro gli Unni, mediante buona somma di danaro, e per diciassette anni fu il primo generale della Corte di Ravenna, essendo Bonifazio rimasto ancora in Africa.
La notizia della morte di Giovanni pervenne a Teodosio II, quando trovavasi nell'Ippodromo, a Costantinopoli. Egli fece subito sospendere i giuochi, e condusse il popolo nella Basilica, per rendere solenni grazie al Signore. Restituì a Placidia il titolo di Augusta, che le era stato tolto da Onorio, e quello di nobilissimus a Valentiniano III, il quale allora aveva appena sei anni, affidandolo alle cure della madre. Più tardi gli conferì addirittura il titolo di Augusto, inviandogli il diadema e la porpora. Così, dopo che l'Impero, in apparenza almeno, era stato qualche tempo riunito sotto Teodosio II, fu ora da capo diviso. E per un quarto di secolo (425-450) Valentiniano, o più veramente Placidia, rimase a governare quello che continuò a chiamarsi l'Impero d'occidente, sebbene molte parti già ne avessero occupate i barbari, ed altre dovessero via via andarne occupando, restringendolo finalmente alla sola Italia.
L'antagonismo fra Ezio e Bonifazio, che vedemmo manifestarsi sin dal principio, continuò sempre più vivo anche ora che l'uno e l'altro erano a servizio di Placidia. Ambiziosi e valorosi del pari, Ezio era un uomo assai accorto; Bonifazio invece eccitabile e mutabile in estremo grado. In Africa questi aveva reso grandi servigi tenendo a freno i Mori. Morta la sua prima moglie, pareva che volesse, per zelo religioso, ritirarsi dal mondo; e S. Agostino dovette dissuaderlo, nell'interesse dell'Impero. [87] Sposata allora una seconda moglie, che era ariana, mutò vita, abbandonandosi alle passioni dei sensi, trascurando il governo di quella regione, che restò quasi in balìa ai barbari africani, tanto che lo stesso S. Agostino lo rimproverava nelle sue lettere di non far nulla per evitare tanta calamità: Nec aliquid ordinas ut ista calamitas avertatur. Venne perciò richiamato (427) in Italia, ma non volle obbedire; ed essendo stato mandato colà un esercito, per metterlo a dovere, resistè colle armi. Così vi fu in Africa una specie di guerra civile fra i generali dell'Occidente.
È nota la leggenda a questo proposito narrata da Procopio, il quale dà la colpa d'ogni cosa ad Ezio, divenuto geloso di Bonifazio. Per rovinarlo, egli avrebbe detto a Placidia, che questi la tradiva. Se ne voleva le prove, lo invitasse a Ravenna, e vedrebbe che si sarebbe ostinatamente ricusato d'obbedire. Nello stesso tempo avrebbe segretamente fatto dire a Bonifazio, che Placidia ne tramava la rovina, e che a tal fine lo avrebbe invitato a Ravenna. Così fu che, quando venne richiamato, non solamente ricusò d'obbedire, ma per vendicarsi, si decise al funesto passo d'invitare i Vandali a passare dalla Spagna nell'Africa. Ma venuti che furono, egli, fatto accorto dai suoi amici dell'inganno in cui era caduto, si pentì dell'errore commesso, e voleva colle armi ricacciarli nella Spagna. Era però troppo tardi, e dovette invece tornarsene a Ravenna. Ivi ebbe un combattimento personale col suo rivale Ezio, da cui fu ucciso. E prima di morire, consigliò alla moglie di sposare il rivale, nel caso che fosse restato vedovo, perchè era il solo uomo degno di succedergli.
La forma leggendaria di questo racconto apparisce a prima vista, e ricorda molte altre simili leggende. Infatti anche la invasione della Gallia nel 406, sarebbe, secondo [88] la leggenda, avvenuta per tradimento di Stilicone, come più tardi la venuta dei Longobardi in Italia, per vendetta di Narsete. È sempre lo stesso procedimento, che spiega i fatti d'indole generale con cause esclusivamente personali, le quali certo non mancano anch'esse nella storia, ma non sono le sole. Il vero è che, secondo ogni probabilità, Ezio si trovava allora a combattere per l'Impero nella Gallia, e se anche vi fu inganno o tradimento ordito a Ravenna, non potè essere opera sua. Ma non c'è bisogno di ricorrere a queste spiegazioni, quando la guerra scoppiata in Africa fra i generali romani poteva per sè stessa essere un eccitamento bastevole pei Vandali a venire nel paese, che era il granaio dell'Impero. E s'aggiungeva che l'Africa, dove i Mori spesso si ribellavano, era allora fieramente travagliata anche dalle sette eretiche dei Donatisti, che negavano l'efficacia del battesimo dato da un sacerdote caduto in peccato, e dei così detti Circumcelliones, specie di fanatici vagabondi, che agitavano le moltitudini. Tutti costoro, perseguitati dagli editti di Onorio contro gli eretici, e però avversissimi ai Cattolici, favorivano naturalmente quelli che venivano a combatterli, come i Vandali che erano ariani intolleranti. Così, senza escludere che in mezzo alle passioni di queste lotte civili e religiose, essi fossero da qualche parte incoraggiati o anche chiamati, si spiega assai naturalmente come nel 429 passassero in Africa, mossi dal loro proprio interesse, ed occupassero la Mauritania, avanzandosi verso l'Oriente.[18]
I Vandali avevano stretta parentela coi Goti, insieme coi quali s'erano in origine trovati fra l'Elba e la Vistola. [89] Di là, avanzando verso il sud, presero parte alle guerre dei Marcomanni contro Marco Aurelio. Dopo di che si mantennero lungamente tranquilli, in buone relazioni coll'Impero, che a tempo di Costantino li accolse come federati nella Pannonia, dove restarono circa settant'anni. Quando Stilicone, per opporsi ad Alarico, chiamò in Italia le legioni che guardavano il Reno, essi, come vedemmo, passarono il fiume insieme cogli Alani, cogli Svevi, e nel 409 erano già nella Spagna. Più di una volta si trovarono in lotta coi Goti, dai quali vennero battuti; ed ebbero perciò la reputazione di poco valorosi, come avevano già quella d'avidi, infidi e crudeli fra tutti i barbari. Erano più sobri nei costumi, ma anche più ardenti nello zelo religioso, che li spingeva ad una intolleranza insolita nei barbari e qualche volta addirittura feroce. Nel 427 li troviamo riorganizzati sotto Genserico, che per la morte del fratello era rimasto unico loro capo. Piccolo e zoppo, in conseguenza d'una caduta da cavallo, di poche parole, ma di pronta risoluzione, era audace e crudele. Ariano al pari di tutti i Vandali, lo dissero, non si sa con qual fondamento, convertito a questa fede, rinnegando il Cattolicismo, in cui sarebbe nato, e quindi, come suole in questi casi, tanto più intollerante. Dopo avere sostenuto nel 428 un attacco fortunato contro gli Svevi, lo troviamo l'anno seguente in Africa, dove era andato colle donne, i vecchi e fanciulli: una vera invasione. Gli uomini in armi non superavano i 50,000.
Questo non era di certo un numero tale da poter facilmente conquistare il paese, se non fosse stato già indebolito dalle discordie, e se non vi si fosse trovato un partito favorevole agl'invasori. Essi s'avanzarono saccheggiando, distruggendo le chiese cattoliche, uccidendo vescovi e preti, molti dei quali fecero schiavi. E poterono procedere così rapidamente che nel 430 tre sole delle [90] principali città, Citra, Ippona e Cartagine, erano ancora in mano dei Romani. Bonifazio s'era ormai svegliato dalla sua inerzia, e quando i Vandali s'avanzarono, per mettere l'assedio ad Ippona, venne con essi a battaglia; ma fu vinto, e dovè chiudersi nella città che venne assediata. In essa trovavasi S. Agostino, il quale morì il 28 agosto 430, dopo tre mesi di quell'assedio, che ne durò poi altri undici. Allora, essendo finalmente arrivati da Costantinopoli aiuti sotto il comando del generale Aspar, i Vandali si allontanarono dalla città, e Bonifazio, unitosi ai Bizantini, li assalì; ma venne di nuovo battuto (431). Conseguenza di questa disfatta fu che l'Africa si trovò per qualche tempo come abbandonata al nemico. Aspar tornò a Costantinopoli, Bonifazio a Ravenna, dove Placidia, ricordando i servigi che questi le aveva resi, quando essa era combattuta da Ezio, la cui presunzione cresceva sempre, lo accolse con gran favore, facendo capire a tutti che lo preferiva. Così l'odio fra i due generali si accese, e finalmente vennero presso Rimini a battaglia. Secondo alcuni Bonifazio vinse, ma ebbe una ferita mortale, di cui poco dopo morì. Secondo altri, la vittoria invece fu di Ezio, il quale potè prendere i beni del rivale, e sposarne la vedova, quando esso poco dopo morì di malattia aggravata o cagionata dalla umiliazione patita. E da ciò sarebbe poi venuta la leggenda del duello, e della raccomandazione fatta dal morente Bonifazio alla moglie di sposare il rivale fortunato.
Lo stato delle cose a Ravenna non era di certo consolante. Placidia, dopo la disfatta di Bonifazio in Africa, e dopo la morte di lui seguita in Italia, trovavasi alla mercè di Ezio, il solo generale valoroso che ella ora avesse. E questi, sempre ambizioso, diveniva ogni giorno più imperioso. La Gallia e la Spagna erano corse dai barbari, che d'ogni parte s'avanzavano; i Vandali correvano [91] anch'essi liberamente saccheggiando l'Africa. Questi erano però in così piccolo numero di fronte alla vastità del paese occupato, da non sentirsi punto sicuri di resistere vittoriosamente ad un esercito che venisse da Ravenna, e che poteva essere rinforzato da nuove genti mandate da Costantinopoli. E così da ambo i lati si trovarono disposti, pel momento almeno, alla pace, che fu infatti conclusa il dì 11 febbraio 435 ad Ippona. Ai Vandali venne concesso d'abitare il paese già conquistato, compresa una parte della provincia di Cartagine; non la città stessa, nè il suo territorio, che restavano ancora ai Romani, cui si doveva pagare un tributo. Ma ben presto i patti furono violati, e nel 439 Genserico, profittando della guerra che i Romani avevano nella Gallia, s'impadronì di Cartagine. Essendo così in possesso dei migliori porti della costa, cominciò le sue escursioni marittime nelle isole vicine, massime in Sicilia, dove già sin dal 440 s'era avanzato saccheggiando. Intanto crescevano per l'Impero i pericoli nella Gallia, dove sempre nuove genti erano richieste; e si venne perciò nel 442 ad una seconda pace, per la quale i Romani ritenevano la Mauritania e la Numidia occidentale; ai Vandali restavano la Sicilia, la provincia di Cartagine o Proconsolare, la Bizacena, la Numidia orientale. Allora cominciava a governare in Ravenna Valentiniano III, che aveva ormai raggiunto la maggiore età, e fin dal 437 aveva sposato Eudossia, figlia di Teodosio II.
Con la pace del 442 ai Vandali non era stato solamente permesso d'abitare il paese come federati; era stata invece fatta una concessione incondizionata d'occuparlo, il che finora non s'era consentito mai a nessuno dei barbari. Si ammetteva così un vero e proprio smembramento dell'Impero; cominciava uno stato di cose affatto nuovo. Bisogna però notare che, sebbene i Vandali fossero [92] tenuti, ed erano veramente fra i barbari più crudeli, la loro occupazione riusciva, sopra tutto alle classi inferiori, assai meno gravosa che non si è creduto. Essi si concentrarono principalmente nella provincia di Cartagine, tenendosi uniti, ed impadronendosi delle terre, che divisero fra di loro, possedendole senza pagar tasse. Nelle circostanti province Genserico serbò per sè vasti possessi. Quelli che in tutto ciò gravissimamente soffrirono furono i latifondisti, spogliati di ogni avere, ridotti, quando non emigravano, alla condizione di ministeriali, dipendenti, qualche volta anche di schiavi; costretti ad amministrare o coltivare pei Vandali le terre che una volta avevano possedute, a cedere perfino la loro proprietà mobile. E con essi venne oppresso il clero, che era anch'esso latifondista, e che dai Vandali ariani fu sempre crudelmente trattato. I coloni, i contadini, gli artigiani delle città rimasero più o meno nelle condizioni di prima. E la stessa oppressione dei grandi proprietari non fu generale, restringendosi principalmente alla provincia di Cartagine. Il territorio occupato era così vasto, che la parte maggiore sfuggiva di necessità non solo alla oppressione, ma anche all'azione diretta del nuovo governo, troppo rozzo e primitivo, in confronto del romano, per far sentire al pari di questo il peso della sua fiscalità. Le altre province furono come abbandonate a loro stesse, lasciandovi i Vandali l'antica amministrazione romana, sottoponendole a gravi tasse, che tuttavia non raggiunsero mai la regolarità persistente, continua, opprimente di quelle riscosse dagli agenti imperiali. Qualche cosa di simile avvenne anche nella Spagna e nella Gallia, dove si lasciarono sopravvivere le assemblee provinciali dei notabili per gli affari amministrativi. Colà i Visigoti ed i Burgundi pigliarono due terzi delle terre. Ma anche questo peso, per quanto odioso, ricadeva principalmente sui soli latifondisti. Nell'Africa, [93] è vero, la oppressione esercitata dai Vandali fu più grave assai; era, però limitata ad una parte sola del territorio occupato. Grande fu nondimeno contro di essi l'odio degli spossessati e di tutto il clero, il quale, dove non veniva espropriato, era oppresso dalla intolleranza religiosa. E così si mantenne sempre vivo un rancore universale, anche da parte di coloro che erano meno oppressi, il che fu poi causa non ultima della rapida rovina dei Vandali quando i Bizantini vennero in Africa. Ma che la oppressione barbarica fosse davvero minore che non si crede, è confermato dal fatto che Salviano, scrittore del quinto secolo, dopo aver detto «che tutto nei barbari, persino il loro stesso odore, era odioso ai Romani,» poteva aggiungere, «che assai spesso questi, specialmente i poveri, preferivano la oppressione barbarica alla imperiale. Le assemblee dei ricchi Romani, egli diceva, impongono le tasse, ma essi non le pagano, le fanno pagare ai poveri. E quando per caso vengono scemate, il sollievo non va a questi, ma ai ricchi. Così, se si tratta di pagare tocca al popolo; se invece si tratta di scemare il peso delle tasse, si opera allora come se le pagassero solamente i ricchi. I Franchi, gli Unni, i Vandali ed i Goti non conoscono queste infamie.»[19] Bisogna però aggiungere che tutto ciò non era effetto di virtù o sentimento di giustizia; era invece conseguenza naturale d'un governo troppo imperfetto e rozzo, per riuscire a stendere su tutto il paese occupato una fitta rete amministrativa, cui nulla potesse sfuggire.
In questo mezzo Galla Placidia, che aveva quasi raggiunto i sessant'anni, moriva (27 novembre 450). Essa non ebbe di certo nè un grande ingegno nè un grande carattere; ma la sua accortezza e fermezza, paragonate con la incapacità di suo figlio, parvero a molti assai maggiori [94] che non furono. Essa potè continuare a governare per un quarto di secolo fin quasi alla sua morte; ed in un tempo di aspre lotte religiose, essendosi appoggiata costantemente al clero cattolico, questo assai naturalmente ne esaltò la memoria. Sostenuta, come figlia di Teodosio, dal principio della ereditaria legittimità, che le assicurava il favore di Costantinopoli; aiutata non poco dalla sua straordinaria bellezza, che le dava un grande ascendente sugli uomini, potè esercitare un'azione efficace e costante sulla politica del suo tempo. Chi anche oggi visita Ravenna, città unica al mondo pei monumenti del quinto secolo, che sola possiede in Italia, e vede le molte chiese innalzate colà da Placidia, in una delle quali essa ha la sua tomba accanto a quella d'Onorio suo fratello, di Costanzo suo marito e del loro figlio Valentiniano; chi vede i molti monumenti, gli splendidi mosaici, e ode le varie leggende che la ricordano, deve riconoscere la grande azione esercitata da lei in Ravenna. Il suo spirito sembra anche oggi presente fra quelle mura. Ma con tutto ciò, in parte per le condizioni dei tempi, in parte per le qualità stesse che ella ebbe, la politica che intorno a lei si fece fu una politica d'intrighi e di gelosie. E non ostante qualche guerra condotta, tanto nell'Africa quanto nella Gallia, con molto valore, ma con poca fortuna, si finì col veder l'Impero andarsi sempre più decomponendo e smembrando. Sotto di lei infatti le province cominciarono, l'una dopo l'altra, a staccarsi dall'Italia, che rimase come isolata ed abbandonata a se stessa. Morendo, Placidia lasciava l'Impero nelle mani deboli ed incapaci del figlio Valentiniano III, in un momento che era già grave, e stava per divenire gravissimo.
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Il problema che si presentava adesso nella storia di Europa, osserva il Ranke, era questo: i popoli latini e germanici, variamente sparsi e mescolati fra di loro, potevano amalgamarsi, fondersi insieme, dando origine ad un popolo solo, ad una civiltà nuova? O pure uno di essi doveva necessariamente sottomettere l'altro, levandogli del tutto la propria fisonomia? Un grande ed inaspettato avvenimento contribuì non poco ad avvicinarli di fronte ad un comune nemico.
Gli Unni, di stirpe, come vedemmo, affatto diversa dai popoli latini e germanici, erano rimasti per mezzo secolo nell'antica Dacia, al di là del Danubio. Fra di essi e l'Impero si trovavano le popolazioni germaniche, che da loro erano state spinte verso l'occidente. Più tardi Alarico era coi suoi Visigoti entrato per la Porta Salara; i Vandali, gli Svevi, gli Alani avevano passato il Reno. Tuttavia le relazioni degli Unni coll'Impero durarono lungamente abbastanza amichevoli, avendogli essi più di una volta reso utili servigi, col mandare in suo aiuto soldati, i quali combatterono accanto alle legioni. Questo contribuì ad insegnar loro una parte della disciplina romana, al che si aggiunse che, avendo Attila adoperato nell'amministrazione anche qualche Greco e qualche Romano, potè renderla più ordinata. Certo è che il suo regno s'era andato estendendo con una straordinaria rapidità, aggregandosi nuovi popoli, i quali restavano sotto i propri [96] capi, che dipendevano da lui, divenendogli subito obbedienti e devoti. Un tale processo d'ingrandimento pareva che si potesse continuare all'infinito sino a che durava l'autorità del comandante supremo. E intanto, secondo l'espressione del Thierry, la valle del Danubio somigliava ad un immenso formicaio di popoli, rovesciato a un tratto. Essi facevano da ogni lato, specialmente nell'Impero, escursioni minacciose, tanto che Teodosio II ricorse all'uso, sempre frequente in Costantinopoli, di pagare ad Attila un tributo, perchè insieme coi suoi restasse tranquillo. Ma ciò dava invece pretesto a nuove minacce, perchè i barbari solevano chieder sempre che il tributo venisse aumentato, e non ottenendolo, tornavano ai saccheggi.
Nel 445 Attila, dopo la morte del fratello Bleda, che forse da lui stesso era stato fatto uccidere, si trovò solo alla testa degli Unni. Per le sue selvagge crudeltà, egli è nella storia conosciuto col nome di Flagellum Dei. Basso di statura, di testa grossa, naso schiacciato, occhi piccoli, aveva il colore olivastro dei Tartari, agitava lo sguardo feroce a destra ed a sinistra: v'era nel suo incesso qualche cosa che gli dava veramente l'aspetto d'un dominatore di popoli. Non si può dire però che fosse un genio militare, perchè, oltre alle sue molte scorrerie, saccheggi e stragi, una sola grande battaglia esso dette, e la perdè. Non mancò a momenti d'una certa generosità, e quasi grandezza d'animo, per quanto ciò era possibile in un barbaro come lui. Ma pur singolare assai dovette essere la sua potenza di comandare e di organizzare, essendo riuscito ad aumentare di molto i popoli che lo seguivano, fra i quali erano Gepidi, Alani, Ostrogoti, Svevi. E si formò così uno dei più vasti regni conosciuti nella storia. Secondo gli scrittori contemporanei infatti, il dominio di Attila s'estendeva dalla Scandinavia alla Persia, [97] e minacciando Persepoli, confinava da una parte colla China, da un'altra coll'Impero. In sostanza però questa era più che altro una vasta agglomerazione di popoli indipendenti, sotto di lui confederati, e che a lui obbedivano, quando sapeva secondarli nelle loro voglie di guerra e di rapina, dalle quali egli stesso cavava profitto. Il potere effettivo e diretto lo esercitava nella Transilvania e nell'Ungheria. Dovendo però contentare e tenere occupate tutte queste genti irrequiete e feroci, egli fu per diciannove anni, dal 434 al 453, come una spada di Damocle sull'Impero d'oriente e su quello d'occidente, i quali perciò si trovarono finalmente uniti contro il comune nemico.
Ambasciatori andavano ed ambasciatori venivano da Costantinopoli e da Ravenna alla Corte di Attila, e viceversa. Invano si cercava di frenare le pretese sempre crescenti di quel barbaro, che si tirava dietro così sterminata moltitudine di popoli. Sin dal 433 due oratori erano stati mandati da Teodosio alla Corte degli Unni, sui quali regnavano allora i due fratelli. Si presentarono ad Attila, che li ricevette a cavallo, e neppur essi scesero di sella. Il resultato dell'ambasceria fu, che bisognò rassegnarsi a raddoppiare il tributo, che l'Impero d'oriente pagava. Ma non bastava; e non molto dopo Attila richiedeva minacciosamente gli arredi sacri d'una città da lui presa, sebbene fossero stati già impegnati per grossa somma di danaro. Il più singolare pretesto di guerra fu però un altro. Onoria, sorella di Valentiniano III, era stata nella sua età di sedici anni scoperta in intrigo amoroso con un basso ufficiale della Corte di Ravenna, e fu per punizione mandata dalla madre a Costantinopoli. Ivi il Palazzo pareva divenuto un convento, e Teodosio II passava la vita raccogliendo reliquie di santi, miniando manoscritti religiosi. Egli [98] era sempre dominato dalla sorella Pulcheria, che nel 421 gli aveva fatto sposare Atenaide, figlia d'un filosofo greco, battezzata col nome di Eudocia. Tutti della Corte passavano colà la vita in orazioni, salmi, visite ai poveri, processioni; e però, quando Onoria vi giunse, si sentì come chiusa in una carcere. Si narra che per disperazione ricorresse allora allo strano partito di mandare il proprio anello ad Attila, perchè venisse a liberarla, accogliendola fra le molte sue mogli. Attila avrebbe dapprima fatto della singolare proposta il conto che si meritava. Ma più tardi, quando voleva attaccar lite con l'Impero, se ne valse di pretesto per chiedere non solo la mano d'Onoria, ma anche l'eredità cui essa aveva, secondo lui, diritto. Nel 447 s'era avanzato fin sotto le mura di Costantinopoli, obbligando colle minacce Teodosio a triplicare il sussidio o tributo come lo chiamava. Ogni anno con nuove ambascerie aggiungeva domande a domande, pretese a pretese.
Fra queste ambascerie, ve ne fu una notevole fra tutte, perchè ne abbiamo assai minuta e autentica descrizione da chi ne fece parte. Nel 448 arrivarono a Costantinopoli Edecone, che alcuni credettero padre di Odoacre, il primo re barbaro in Italia, ed Oreste, padre di quel Romolo Augustolo, che fu l'ultimo degl'Imperatori d'occidente. Essi fecero varie domande, fra cui la restituzione d'alcuni Unni fuggitivi. E mentre che di ciò si trattava, un eunuco della Corte, promettendo danaro a Vigila, che era l'interpetre di quegli ambasciatori, fece, per mezzo suo, la proposta di far uccidere Attila. Edecone finse d'accettarla con animo però di rivelar poi tutto al suo Signore. E intanto, perchè meglio rimanesse nascosta la tenebrosa trama, si faceva, insieme cogli ambasciatori d'Attila, partir Massimino ed il retore Prisco, quello che ci descrisse il viaggio, lasciandoli [99] ambedue affatto ignari della tenebrosa trama ordita accanto a loro. E ciò perchè, ingannati, potessero inconsapevolmente ingannar meglio Attila. Menavano con loro diciassette fuggitivi Unni che dovevano restituire. Con essi, con Edecone, Oreste e Vigila traversarono paesi disertati dalle ripetute scorrerie degli Unni, trovando il suolo sparso di ossa e di teschi umani, e città quasi distrutte, nelle quali erano rimasti solo pochi vecchi e malati abbandonati. Passato il Danubio, arrivarono alla tenda di Attila, che tornava allora da una razzìa. Questi accolse i donativi; ma, sdegnato nel veder soli diciassette fuggitivi, rimandò indietro l'interpetre a chiedere gli altri, e invitò i due inviati di Costantinopoli a seguirlo più oltre nel paese, là dove era il suo palazzo, e dove avrebbe dato loro risposta.
Così Massimino e Prisco s'avanzarono nell'Ungheria, traversando i fiumi sopra alberi scavati o tavole connesse, e giunsero alla capitale unna. Colà videro Attila che arrivava a cavallo, preceduto da fanciulle, le quali cantavano canti nazionali; e passarono tutti sotto veli tenuti distesi da altre giovanette. Il re si fermò a cavallo dinanzi alla porta del suo primo ministro, la cui moglie uscì ad offrirgli cibo e vino, mentre altri tenevano una tavola d'argento accanto a lui. Il palazzo di Attila era come una grossa capanna costruita con tavole di legno, non senza qualche eleganza. Intorno ad essa si vedevano sparse le abitazioni delle sue varie mogli. Un solo edifizio di pietra si trovava colà, ed era un bagno costruito da un Romano. Ma ciò che v'ha di più notevole in questo singolarissimo viaggio, è il dialogo di Prisco con un Greco, che era a servizio degli Unni, dei quali aveva adottato il costume e gli abiti. — Qui, egli diceva, esaltando i barbari, quando non c'è guerra, si gode una piena libertà. Ma voi state male nella guerra [100] e peggio nella pace. Chiamate gli stranieri a difendere l'Impero, perchè i vostri tiranni non vi lasciano libero neppure l'uso delle armi, e siete oppressi dal fisco, dalle spie, dalla grande disuguaglianza: i ricchi sfuggono alle pene ed alle tasse, che s'aggravano invece sul povero. Tutto dovete pagare, perfino chi difende i vostri diritti. — Al che Prisco rispondeva: — Ciò dipende dalla divisione del lavoro, e dal concedere a ciascuno la dovuta mercede. Noi non possiamo, al pari di voi, ammazzare gli schiavi, ma cerchiamo invece come padri correggerli. Le vostre pretese libertà si restringono nel poter tutti andare alla guerra, senza disciplina. Abbiamo leggi a difesa di ogni giusto diritto. È sacra per noi anche la volontà dei morti, che possono per testamento lasciare a chi vogliono i loro averi. — Ah! sì, esclamò piangendo il Greco, le leggi son buone, la legislazione romana eccellente; ma chi le esegue, chi le rispetta? I vostri governanti, non più degni dei loro antenati, spingono lo Stato alla rovina. —
Dopo aver visto Attila rendere sommaria giustizia dinanzi al suo palazzo, i due inviati s'incontrarono cogli ambasciatori d'Occidente, dai quali sentiron dire che esso si teneva padrone del mondo, voleva comandare a tutto l'Impero, e si reputava invincibile, credendo possedere la spada di Marte. Un contadino l'aveva scoperta, confitta in terra, fra l'erba, andando dietro le tracce di sangue d'una sua bestia, che vi s'era ferito il piede nel camminare. Finalmente assisterono ad un gran banchetto nella sala del palazzo reale. Attila sedeva sopra una specie di canapè, dietro cui erano scalini, che conducevano ad un letto nascosto da cortine. Accanto a lui sedeva silenzioso il suo primogenito, alla loro destra ed alla sinistra erano il primo ministro Onégesh, ed un nobile Unno. «Così neppur [101] questi posti furon serbati a noi», osservava Prisco. Di fronte erano i figli del re; intorno alla sala, lungo le mura di legno, stavano i convitati, ai quali fu portato in giro del vino, e poi servito il cibo su piccoli deschi, ciascuno per tre o quattro persone: su di essi erano piatti d'argento e coppe d'oro. Attila invece, con grande semplicità, mangiava solo carne su piatti di legno, e di legno erano anche le coppe. Nè l'elsa della sua spada, che dietro di lui pendeva, nè la briglia del suo cavallo, nè i fermagli dei suoi stivali erano, secondo il costume barbarico, ornati di pietre preziose. Verso sera si cantarono, fra un generale entusiasmo, canzoni in lode delle imprese di lui. E poi vennero buffoni, fra cui un Moro, nano e gobbo, coi piedi torti, che fece ridere tutti, meno Attila, il quale ne pareva piuttosto disgustato. Sebbene egli si dimostrasse assai irritato, per aver saputo della trama contro di lui ordita, pure gli oratori, che sinceramente negarono tutto, dopo lunghe trattative, obbligandosi a pagar nuove somme di danaro, par che riuscissero finalmente a concludere un accordo temporaneo.
Nel 450 però lo stato delle cose mutò affatto. Teodosio moriva per una caduta da cavallo, senza lasciar figli maschi. La moglie Eudossia era da più tempo in esilio per accusa d'infedeltà. Successe la sorella di lui Pulcheria con Marciano, soldato valoroso, avanzato in età, cui pel bene dello Stato ella dette nome di marito, a condizione di non avere nessun contatto con lui. Ed egli cominciò a governare, condannando a morte l'eunuco Crisafio, che aveva ordito la trama segreta contro la vita di Attila. Ciò fece credere che il nuovo Imperatore volesse rendersi benevolo il re degli Unni. Ben tosto però si vide che egli non era della tempra mite di Teodosio II, perchè quando Attila, con le solite minacce, richiese il pagamento del tributo, rispose subito: «Agli [102] amici i doni, ai nemici il ferro.»[20] Così la guerra si poteva ritenere ormai inevitabile.
Attila si trovava allora nell'auge della sua potenza, alla testa d'un formidabile esercito, che alcuni fanno ascendere a 500, altri a 700 mila uomini. Tutto era pronto per mettersi in moto; bisognava solo decidere se attaccar l'Oriente o l'Occidente. Ad attaccar l'Oriente, che era più vicino, sarebbe stato necessario traversare un paese già più volte saccheggiato, per trovarsi poi sotto le mura di Costantinopoli, posizione fortificata, che avrebbe presentato una formidabile resistenza, specialmente ora che Marciano era deciso a difendersi. Inoltre un esercito barbarico come quello di Attila, composto di genti assai diverse, se non vinceva nel primo impeto, facilmente poteva disciogliersi. Nell'Occidente invece, sebbene più lontano, tutto pareva che promettesse una facile vittoria agli Unni. L'unico generale che vi fosse, era Ezio, valoroso di certo, ma stato sempre in buoni termini con Attila, e più volte da lui aiutato. La Gallia era occupata quasi tutta da barbari fra loro in discordia. Una parte dei Franchi già incitava gli Unni a passare il Reno. Il forte regno dei Visigoti era alleato dei Vandali, che promettevano di secondare l'impresa di Attila con uno sbarco nella Gallia meridionale. Pretesti di guerra a lui non mancavano mai. Chiese allora appunto non solo la mano d'Onoria, che gli aveva mandato il proprio anello, ma anche la parte d'Impero che le sarebbe, secondo lui, spettata in dote. E quando gli fu risposto, che essa era già moglie d'un altro, disse che lo avevano fatto per non darla a lui, e ordinò ai suoi di avanzare.
Se non che, lo stato delle cose in Occidente era in [103] realtà ben diverso da quel che pareva, e che Attila credeva. Prima di tutto Teodorico re dei Visigoti, uomo di molto valore, non che essere avverso ai Romani, inclinava non poco ad essi. Egli, è ben vero, aveva data la propria figlia in isposa al figlio di Genserico, e così s'era legato con vincolo di sangue ai Vandali, nemici acerrimi del nome romano. Ma Genserico, credendo o fingendo di credere, che la figlia di Teodorico lo volesse avvelenare, l'aveva rimandata al padre, mutilata del naso e delle orecchie. Così l'alleanza s'era mutata in nimicizia mortale, che richiedeva una delle sanguinose vendette barbariche. Il generale Ezio era stato amico degli Unni, ma si trovava in una posizione simile a quella di Stilicone; anzi, se questi era stato un barbaro romanizzato, egli era invece un Romano lungamente vissuto coi barbari. Non si poteva quindi supporre che, quando l'Impero si fosse trovato in guerra cogli Unni, Ezio potesse esitare, e non sentire scorrere nelle sue vene il sangue romano. Ma v'era di più. Gli Unni, essendo di sangue e di razza diversa affatto da quella dei Germani non meno che dei Romani; essendo nomadi, pagani e poligami, la loro vittoria sarebbe stata un trionfo della barbarie orientale, delle popolazioni turaniche e tartare sulle ariane. Sarebbe stato come se i Persiani avessero vinto a Salamina, o i Turchi a Lepanto. La storia del mondo avrebbe potuto non poco mutare il suo cammino. In ciò stava la grande importanza storica della prossima lotta. Tutto dipendeva ora dal sapere se i Visigoti erano di ciò consapevoli, e se nell'interesse comune di razza e di civiltà, si sarebbero uniti ai Romani. Ezio, per mezzo del suo amico Avito, cittadino autorevolissimo dell'Impero, seppe indurli a stringere l'alleanza. Lo scontro decisivo s'avvicinava a gran passi.
Nel 451 Attila, passato il Reno, s'avanzava saccheggiando [104] il paese, trucidando gli abitanti, che sembravano incapaci di resistenza, salvo in alcune poche città, nelle quali lo spirito religioso s'accendeva contro la pagana barbarie. Dopo infatti che Metz e Rheims furono desolate, santa Genoveffa riuscì ad animare la popolazione, assai scarsa allora, di Parigi, che restò, come per miracolo, incolume. Orléans, resa più tardi assai celebre dalla difesa di Giovanna d'Arco, fece anche allora viva resistenza, per eccitamento del suo vescovo, il quale, quando la vide d'ogni parte circondata, andò ad avvertire Ezio, che non era possibile tener testa all'onda sterminata dei nemici oltre il 24 giugno. E già la città era agli estremi, quando apparvero gli eserciti riuniti di Teodorico e di Ezio, che obbligarono Attila a retrocedere, per apparecchiarsi alla battaglia, la quale non molto dopo ebbe luogo, fra Châlons sur Marne e Troyes. Anche questa seconda città, che era aperta e poteva facilmente essere saccheggiata, fu salva per opera del suo vescovo Lupo, il quale seppe in modo singolare, quasi misterioso, imporre rispetto ad Attila.
Questi, secondo il suo costume, prima di cominciar la grande battaglia, fece consultar le viscere degli animali, e la risposta degli auguri fu, che gli Unni avrebbero perduto, ma che il generale nemico sarebbe morto. Ciò lo impensierì non poco; pure i due eserciti s'attaccarono finalmente (451). Gl'Imperiali si schierarono, ponendo al centro gli Alani, di cui non parevan molto sicuri. A destra erano i Romani, comandati da Ezio; a sinistra i Visigoti, comandati da Teodorico. Invece Attila stette al centro coi suoi Unni; a destra e sinistra pose i popoli a lui confederati: i Gepidi e gli Ostrogoti erano di fronte ai Visigoti. Questa battaglia, notevolissima per la sua storica importanza, fu anche una delle più terribili che si ricordi. Bellum, dice Jordanes, atrox, multiplex, immane, pertinax, cui simile [105] nullum narrat antiquitas. Ed aggiunge che il sangue versato fu tale e tanto, che mutò in grosso e rosso torrente un vicino ruscello, liquore concitatus insolito, torrens factus est cruoris augmento: e in esso dovevano dissetarsi i feriti! I Visigoti si batterono con molto valore, ma Teodorico perde la vita sul campo. Attila fece coi suoi sforzi sovrumani, e pareva un leone ferito. Ma ben presto cominciò a dubitare del resultato finale, tanto che aveva fatto apparecchiare un monte di selle, per farsi su di esse bruciar vivo, se la fortuna gli fosse stata veramente avversa. Jordanes afferma che in quel giorno morirono 162,000 combattenti, senza tener conto di 15,000 caduti in uno scontro precedente. Idazio fa arrivare i morti a 300,000. Ciò dimostra la parte non piccola, che in tutte queste notizie ebbe la fantasia, allora e per molto tempo di poi. Una leggenda posteriore illustrata dalla poesia e dalla pittura, aggiunge che, nella notte seguita alla battaglia, si videro in cielo le anime dei morti affrontarsi, e cominciar di nuovo a combatter fieramente fra di loro. Certo è che, sebbene l'esito della battaglia non fosse stato veramente decisivo, pure Attila si ritirò. E così, essendo morto Teodorico, si potè affermare che la profezia fatta dagli auguri si era avverata. Il merito principale del felice resultato fu certo di Ezio, che, oltre all'essersi mostrato soldato assai coraggioso e di gran valore strategico, era riuscito ad assicurare all'Impero l'alleanza dei Visigoti. Ma pareva fatale che il suo destino dovesse sempre somigliare a quello di Stilicone. Infatti, non avendo egli inseguito Attila, subito si disse che tradiva, che non voleva la totale distruzione dei nemico, per non lasciar divenire ancora più potenti i Visigoti, i quali avevano, secondo lui, già troppo contribuito alla vittoria. La verità è invece, che i Visigoti proclamarono sul campo stesso di battaglia il successore [106] di Teodorico nella persona di Torismondo, che dovè subito ritirarsi nel suo regno, per rafforzare la propria posizione già assai incerta e combattuta. Così non era facile allora misurarsi nuovamente con Attila, il quale dapprima, non vedendo che lo inseguivano, temette di qualche agguato; ma poi, fattosi anime, ripassò il Reno, e si ritirò nella Pannonia, per riordinare i suoi ed apparecchiarsi a nuove imprese.
Pareva che egli meditasse ora d'andare a Roma, giacchè s'avanzò subito verso l'Italia, e nel 452 era già sotto le mura d'Aquileia, dove trovò una così tenace resistenza, che stava per levare, scoraggiato, l'assedio. Narra però la leggenda, che in quel momento appunto vide alcune cicogne le quali, volando coi figli, abbandonavano la città; il che gli fece capire che dentro le mura non c'era più cibo per nessuno. Sospese quindi l'ordine di ritirata, e poco dopo la città si arrese a lui, che la distrusse a segno tale da lasciarne appena le vestigia. Altino, Concordia, Padova sopportarono la stessa sorte; altre terre si salvarono dalla distruzione, aprendo le porte e sottomettendosi, senza resistenza, al saccheggio.
Questi sono i fatti che fecero in Italia dare ad Attila il nome di Flagellum Dei, e spinsero i profughi d'Aquileia e delle vicine città a riparare nella laguna veneta, dove fu così fondata la città di Venezia, unica al mondo per la sua storia, la sua posizione e la sua incantevole bellezza. Molti fiumi, come l'Adige, la Brenta, la Piave, il Tagliamento, il Po ed altri, a breve distanza, l'uno dall'altro, sboccando nel mare Adriatico, e quasi tutti, eccettuato il Po, scendendo rapidamente dai monti vicini, portano sassi che, secondo la grossezza ed il peso, si arrestano più o meno lontano dalla riva. Così si formarono prima la Laguna, e poi il Lido, che costituisce dalla parte del mare come un forte antemurale, superato il quale, può navigare [107] nella Laguna solamente chi ne è assai pratico. Tutto questo costituisce come una grande fortezza naturale, a sicura guardia delle isole che vi sono sparse. Su di esse i profughi italiani, per salvarsi dalle orde finniche degli Unni, fondarono la città che, come osserva l'Hodgkin, doveva più tardi eroicamente difendere l'Europa contro i Turchi.
Nulla pareva che potesse ora fermare l'avanzarsi di Attila verso Roma. Se non che il suo numeroso esercito, che tutto distruggeva, facendo intorno a sè il deserto, cominciava a soffrire la fame, e ad essere decimato dalle malattie. Ezio, è vero, non s'era anche mosso, di che molti lo accusavano; poteva però da un momento all'altro apparire. L'imperatore Marciano non solo prometteva di mandare aiuti da Costantinopoli, ma pareva accennare a volere esso stesso direttamente attaccare le terre degli Unni. Tutto ciò poneva naturalmente non poca incertezza nell'animo di Attila. Pagano, barbaro e feroce, egli era anche superstizioso. Il nome stesso dell'Impero metteva a lui, come a molti dei barbari, una specie di spaventoso terrore, e la fine di Alarico gli era sempre presente. La religione cristiana, a cui egli non credeva, ma che pure, pel numero grande de' suoi credenti e per la sua propria natura, esercitava su tutti una straordinaria azione, anche a lui ispirava un'istintiva, misteriosa, irresistibile reverenza. A coloro che in nome di essa autorevolmente gli parlavano, pareva che non sapesse più che cosa rispondere: restava confuso. E fu quando era in queste disposizioni d'animo, che gli venne annunziata una solenne ambasceria, arrivata da Roma, e della quale facevano parte l'ex-console Avieno, l'ex-prefetto Trigezio. La guidava lo stesso capo venerabile della cristiana religione, il successore di Pietro, il rappresentante di Dio sulla terra, Leone I, il vescovo di Roma, l'uomo forse più grande in quel secolo.
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Nato da genitori romani, egli univa al suo spirito altamente cristiano l'antico spirito di Roma. Da questa unione nasceva e si determinava in lui per la prima volta chiaramente il concetto della chiesa universale cristiana, quale possiamo leggerlo anche oggi formulato ne' suoi discorsi. «S. Pietro e S. Paolo sono, egli diceva, i Romolo e Remo della nuova Roma, tanto superiore all'antica, quanto la verità è superiore all'errore. Se Roma antica fu alla testa del mondo pagano, S. Pietro, il principe degli apostoli, venne ad insegnar nella nuova Roma, perchè da essa si diffonda sulla terra la luce del Cristianesimo.» Questo concetto ricorre continuamente nei suoi discorsi semplici, chiari, precisi, pieni di senno pratico. Essi non hanno nulla della passionata sottigliezza teologica dei Greci, anzi non si occupano di teologia. Parlano assai poco dei santi e della Vergine, molto invece di Gesù Cristo; raccomandano la carità, condannano l'usura. E quando le questioni teologiche si presentavano inevitabili, egli non disputava, ma, con uno sguardo sempre sicuro, vedeva quale, fra le opposte dottrine, era destinata a trionfare nell'interesse della fede e della Chiesa, e la proclamava senza esitare. Non fu solo una grande intelligenza, ma sopra tutto un grande carattere. Mirabile è l'energia, la fermezza incrollabile di volontà, con la quale, in mezzo alla tumultuosa, disordinata agitazione di quel secolo, sostenne l'unità e l'autorità della Chiesa di Roma, fondata da S. Pietro, che solo ebbe da Dio la facoltà di legare e di sciogliere, e solo poteva trasmetterla ai suoi successori. Intorno ad essa vuole raccogliere tutto il mondo cristiano. «L'autorità regia e la ecclesiastica debbono, egli diceva, procedere d'accordo. La prima è data all'Impero per reggere i popoli e difendere la Chiesa, alla quale è affidato il governo delle anime. [109] Esulta, o Roma, festeggia i natali di S. Pietro e S. Paolo, pei quali da maestra d'errore sei fatta discepola di verità, e messa alla testa del mondo, per tenere con l'opera della religione più alta ancora la tua dignità.» E questi pensieri non solo riempiono i suoi discorsi, i suoi scritti, ma animarono tutta quanta la sua vita, formarono, costituirono il suo carattere; lo misero al di sopra di tutti i suoi contemporanei. Leone I lavorò continuamente per sottomettere all'autorità del Papa, come capo della Chiesa romana i vescovi non solo dell'Occidente, ma quelli anche della Chiesa d'Oriente. È ben vero che, fin da quando il Concilio di Sardica (344) sottopose alla decisione di Roma la questione sorta in Oriente per la deposizione di Atanasio, i Papi cercaron sempre di fondare su questo caso speciale un diritto generale a favore dell'autorità superiore della Chiesa romana. Ma Leone I dedicò la vita intera a far riconoscere, a porre in atto questo principio, ed in parte vi riuscì, avendo investito in nome di S. Pietro un vescovo della Macedonia; il che voleva dire estendere la sua autorità ecclesiastica in tutta la Prefettura dell'Illirico, anche in quella parte di essa che apparteneva all'Oriente. Così apparecchiò l'avvenire, entrando per la via che doveva essere costantemente percorsa dai suoi successori, fino al raggiungimento dello scopo prefisso, di fare cioè di Roma la capitale della Chiesa universale. Ed è singolare davvero l'osservare come tutta la storia posteriore del Papato si trovi già quasi in germe nella mente superiore e nella volontà incrollabile di questo grande vescovo, e che da esso si vada lentamente svolgendo attraverso i secoli.
Era questi appunto l'uomo, il quale, animato da quella fede inconcussa che nulla teme, si presentò ad Attila, alla testa dell'ambasceria venuta da Roma, come il vero rappresentante della Città eterna, la personificazione vivente [110] della Chiesa universale, e della sola vera religione, con la ferma persuasione che tutti ad essa, volenti o nolenti, dovevano obbedire. L'incontro ebbe luogo nella state del 452, presso Peschiera. Nessuno sa che cosa il Papa veramente dicesse ad Attila. Certo è che, dopo il colloquio, con generale maraviglia, questi si ritirò. Qual parte abbiano avuto a promuovere una tale risoluzione le parole e l'autorità del Papa, quale invece v'abbiano avuto lo stato generale delle cose, e le condizioni difficili in cui l'esercito unno si trovava allora, non è possibile dirlo.
La leggenda s'impadronì del fatto, dando tutto il merito a Leone I. Alludendo a lui ed al vescovo Lupo, che gl'impedì di saccheggiare Troyes, Attila avrebbe detto: Io so vincere gli uomini; ma un leone ed un lupo hanno saputo conquistare il conquistatore. Un'altra di queste leggende fu resa immortale dal pennello di Raffaello, il quale ci rappresentò nelle sale vaticane Attila spaventato al vedere dietro del Papa, che tranquillamente s'avanza a cavallo e gli fa segno di retrocedere, S. Pietro e S. Paolo librati in aria, colle spade sguainate e fiammeggianti. Ma quello che rese ancora più singolare, circondandola di maggiore mistero, la ritirata di Attila, fu il fatto che, avendo poco dopo sposato una nuova moglie, finito appena il lauto banchetto nuziale, venne soffocato da una emorragia. Quella stessa notte l'imperatore Marciano disse d'aver visto in sogno l'arco di Attila spezzato. Gli Unni deposero nelle pianure d'Ungheria, sotto una tenda, il corpo del loro eroe, tagliandosi il viso col ferro, perchè vi scorresse sangue invece di lacrime. E intorno alla tenda correva rapidissima una squadra di cavalieri, cantando canzoni nazionali, le quali celebravano le doti dell'estinto, e deploravano che fosse morto, non per mano nemica, non in mezzo ai pericoli di guerra, ma fra i piaceri e la gioia; e quindi non v'era [111] contro chi vendicarlo.[21] Per gl'Italiani Attila restò sempre il Flagellum Dei, e tale ce lo rappresentano le loro leggende. Quelle degli Ungheresi, degli Scandinavi e anche dei Teutonici ne esaltano invece le gesta. Dopo la improvvisa sua morte, il vastissimo regno si decompose e scomparve colla stessa rapidità con cui s'era formato.
Se l'ambasceria di papa Leone è il primo fatto che ci renda visibile la enorme potenza morale che andava assumendo il Papato, la battaglia contro gli Unni, che fu chiamata di Châlons, quantunque avvenuta assai lungi da questa città, fu a giusta ragione considerata come l'ultimo fatto eroico dell'Impero di Roma. La vittoria essendo stata attribuita al generale Ezio, questi fu tenuto come il salvatore dell'Impero, sebbene non si fosse poi fatto vivo quando gli Unni s'avanzarono in Italia. Certo esso era un gran capitano, di valore strategico singolare, di straordinaria forza muscolare: era perciò instancabile nel lavoro, che pareva gli aumentasse energia, come si legge nel suo panegirico. Ma la grande fortuna che ebbe e gli eminenti servigi che rese all'Impero, ne aumentarono l'ambizione a segno tale, che voleva farla addirittura da padrone, e si rese quindi sempre più insopportabile a Valentiniano III, il quale era senza figli maschi, e gli aveva promesso in isposa la propria figlia. Ma ora che non aveva più la paura degli Unni, divenuto orgoglioso e intollerante, mandava in lungo l'adempimento della fatta promessa, per la quale Ezio insisteva con tale alterigia, che l'Imperatore meditò di liberarsene, come Onorio s'era liberato di Stilicone. Verso la fine del 454 lo invitò [112] al suo palazzo in Roma, e quando egli tornò ad insistere sul promesso matrimonio, Valentiniano gli saltò addosso ferendolo colle proprie mani, ed aiutato subito da sicari ivi apprestati, lo finirono. Procopio racconta che, avendo l'Imperatore chiesto ad un Romano, se credeva che avesse fatto bene o male a disfarsi di Ezio, gli fu risposto: — Se bene o male non saprei; certo è però che con la sinistra voi avete tagliato la vostra destra. — E così fu veramente.
L'anno seguente Valentiniano venne ucciso nel Campo Marzio, mentre guardava i giuochi atletici, da due soldati, i quali vollero vendicare il loro generale, ed uccisero poi anche l'eunuco Eraclio, che aveva ordito il tradimento, facendo la parte stessa di Olimpio contro Stilicone. Con Valentiniano si estinse affatto la dinastia di Teodosio, la quale aveva governato settantaquattro anni in Oriente (379-453), e sessantuno in Occidente (394-455). Cominciava così per l'Impero un'epoca nuova, la quale si può dir veramente il principio della fine. Già la rapida decomposizione cui esso andava incontro appariva sempre più chiara nello straordinario potere politico, che erano andate assumendo le donne da un lato, i generali dall'altro. Dopo la morte d'Arcadio aveva di fatto governato Pulcheria, la quale ridusse la Corte ad un convento, e prese poi a compagno Marciano, che era un capitano valoroso. In Occidente aveva lungamente governato Placidia, e sotto di lei erano divenuti potentissimi Bonifazio ed Ezio, il quale ultimo, rimasto solo, divenne onnipotente fino a che non fu levato di mezzo a tradimento. Colla estinzione della casa di Teodosio quei generali simili a capitani di ventura divennero sempre più frequenti nell'Impero d'occidente, e ne affrettarono la precipitosa rovina. Intanto ora la sede di esso era vacante, ed i Vandali s'avanzavano minacciosi, facendo [113] escursioni continue nella Sicilia, nella Corsica, nella Calabria e più oltre ancora, senza che qualcuno fosse in grado di opporvisi.
Nel marzo 455 venne eletto imperatore Petronio Massimo, senatore romano, che era già stato Console e Prefetto: un uomo di circa sessant'anni, ritenuto avverso alla dinastia di Teodosio, e però a molti assai poco gradito. Questo malumore venne aggravato dal fatto che egli accolse subito fra i suoi protetti i due uccisori di Valentiniano, il che fece nascere il sospetto che avesse tenuto mano all'assassinio, di cui ora profittava. S'aggiunse che volle per forza sposare la giovane Eudossia, la quale aveva soli trentaquattro anni; era figlia di Teodosio II, vedova di Valentiniano III, ed avversissima ad unirsi con un vecchio, creduto assassino del proprio marito. Tutto ciò fece al solito nascere la leggenda che, per vendetta, ella avesse invitato a venire in Italia i Vandali, i quali allora presero e saccheggiarono Roma. Ma questa notizia, che è data da Procopio, è ignota affatto ai contemporanei, o è ricordata da qualcuno di essi con un semplice si dice. Il tempo che sarebbe corso fra la chiamata e la venuta dei Vandali è troppo breve, per potere dar fede alla leggenda. Il dubbio è poi confermato anche dal fatto, che Eudossia non fu risparmiata, ma venne menata in Africa, prigioniera colle due sue figlie. In ogni modo neppure qui v'è bisogno di artificiose spiegazioni, [114] giacchè l'invito d'avanzarsi veniva ai Vandali, che già più volte avevano fatto scorrerie sulle coste dell'Italia meridionale, dallo stato d'anarchia in cui si trovava adesso Roma, priva d'ogni mezzo di difesa, incapace affatto di qualunque resistenza. I Vandali, uniti ai Mori d'Africa, coi quali avevano ingrossato il loro esercito, erano divenuti una specie di pirati, che mettevano terrore nel Mediterraneo; e le loro selvagge crudeltà venivano esagerate dalla leggenda. Si raccontava, fra le altre cose, che quando non potevano subito prendere una città, facevano strage nel contado, accumulando i cadaveri sotto le mura di essa, perchè vi scoppiasse la peste, che obbligava poi la popolazione ad arrendersi; come se in questo caso non sarebbero stati essi i primi a soffrirne. Certo è che distruggevano le chiese, trucidavano o pigliavano prigionieri i prelati, i vescovi: spesso anche li menavano schiavi. La parola vandalismo è perciò rimasta nel linguaggio comune.
Per tutte queste ragioni, quando si seppe che i Vandali erano alle bocche del Tevere, vi fu a Roma come un timor panico, non avendo l'imperatore Massimo provveduto a nulla addirittura per la difesa delle mura. Egli non seppe far altro che dichiarare di lasciar libero chiunque volesse abbandonare la Città, apparecchiandosi egli stesso alla fuga. Ma di fronte a questa condotta vigliacca lo sdegno del popolo romano fu così grande, che ne scoppiò un tumulto violentissimo. L'Imperatore venne ucciso, ed il suo cadavere, fatto a brani, con grida feroci d'imprecazione fu portato in giro per le vie, e poi gettato nel Tevere. Intanto la Città restava senza Imperatore, senza governo e senza difesa, contro un barbaro nemico, che rapidamente s'avanzava. Il disordine e l'anarchia furono al colmo. V'erano amici della dinastia teodosiana, che maledicevano l'elezione di Massimo; pagani, [115] che si rivolgevano agli antichi Dei; cattolici, che di ciò restavano inorriditi, e prevedevano la vicina vendetta di Dio; barbari soldati in armi, i quali, essendo ariani, invece d'apparecchiarsi alla difesa, stavano a guardare che cosa stessero per fare i Vandali, ariani anch'essi.
In mezzo a questo spaventoso disordine, una sola voce si alzò ferma, dignitosa, sublime, e fu anche questa volta quella di Leone I. In uno de' suoi più celebri discorsi, fatto nel giorno di S. Pietro e S. Paolo, egli esclamava: «Umilia il dirlo, ma non si può tacere, che si ricorre adesso più ai demoni ed agl'idoli, che agli Apostoli, e più attenzione si presta ai nuovi spettacoli che ai beati martiri. Ma chi difende, chi salva questa Città, i giuochi del circo o la fede nei Santi? Tornate al Signore, intendendo le cose mirabili che Esso ha operato per noi, riconoscendo la nostra libertà non già, secondo l'opinione degli empi, dalla influenza degli astri, ma dalla misericordia dell'onnipotente Iddio, che s'è degnato di mitigare il cuore dei furenti barbari.» Questo discorso, che secondo alcuni (Papencordt) si riferisce appunto alla venuta dei Vandali, e secondo altri (Baronio e Milman) alla invasione degli Unni, ci descrive in ogni modo qual'era in Roma, nella metà del secolo quinto, lo stato degli animi, e quale la condotta del Papa. Anche questa volta Leone I fu il solo che osò uscire dalla Città per affrontare i barbari; ma con Genserico non potè ottenere lo stesso resultato che aveva avuto con Attila. I Vandali, insieme coi Mori anche più selvaggi, erano già vicini alla Città eterna, assetati di preda e di sangue. Fu tuttavia promesso che le chiese cristiane non sarebbero state bruciate, che sarebbe stata risparmiata la vita di coloro che non avessero fatto resistenza.
Pochi giorni dopo la morte di Massimo, i Vandali entrarono [116] in Roma (giugno 455), aiutati, a quanto pare, dal tradimento d'un barbaro ariano, che avrebbe insegnato loro la via più facile. Per quattordici giorni la Città andò a sacco; e tutto ciò che avevano di prezioso il palazzo imperiale e i tempii pagani fu messo sulle navi e portato via: oro, argento, pietre preziose, un gran numero di statue greche e romane. Lo stesso si fece nella Campania. Furono imbarcati anche i sacri e venerati arredi, che dal tempio di Gerusalemme erano stati portati in trionfo a Roma, e che si vedono ancora oggi scolpiti sull'Arco di Tito. Sebbene questo fatto sia stato messo in dubbio, esso trova conferma nel racconto di Procopio, il quale narrò più tardi, che Belisario li tolse in Africa ai Vandali, e li portò a Costantinopoli. Certamente si può credere che la rovina generale di Roma per opera dei Vandali, quale alcuni la descrivono, sia esagerata, come è provato dal fatto che, dopo la loro partenza, la Città si trovava tuttavia piena di chiese e di monumenti splendidi. Ma è certo pure, che dai tempi di Brenno in poi, essa non aveva sopportato mai uguale sventura e vergogna. Insieme colle statue, coi metalli e colle pietre preziose, i Vandali portaron via moltissimi prigionieri, la più parte dei quali ridussero in ischiavitù. E fra questi prigionieri v'erano, oltre un gran numero di religiosi, anche l'ex-imperatrice Eudossia con le due figlie Eudocia e Placidia. La prima di esse venne poi da Genserico data in isposa al suo figlio Unnerico, che così mescolava il sangue vandalico con l'imperiale; la seconda invece fu con la madre tenuta sette anni in onorevole prigionia, per essere finalmente rimandate entrambe in Costantinopoli all'imperatore Leone, che da lungo tempo le richiedeva. Tutti gli altri prigionieri vennero divisi come schiavi fra i barbari conquistatori, separati i genitori dai figli, i mariti dalle mogli. Grandi furono le loro sofferenze, alleviate [117] solo dalla carità veramente eroica del vescovo Deogratias in Cartagine. Egli trasformò le chiese in ospedali per i prigionieri ammalati; vendette gli arredi sacri d'oro o argento, i vasi preziosi, per comprare e liberare gli schiavi, riunire i figli ai genitori, i mariti alle mogli. La sua chiesa divenne l'infermeria generale, nella quale egli, vecchio com'era, assisteva giorno e notte i malati, fino a che ne morì di fatica e di stento. I suoi fedeli lo seppellirono allora devotamente in luogo segreto, per metterlo al sicuro dalle violenze ingiuriose dei barbari. E così, in mezzo alla spaventosa rovina del mondo romano, solo i rappresentanti della religione e della Chiesa sapevano dar prova di umana dignità e di eroica grandezza. Certo è che col sacco dato dai Vandali, l'antica Roma è caduta, la nuova già comincia a sorgere, facendo prova d'una grandezza diversa, ma non meno ammirabile. La gloria del Campidoglio più non esiste, comincia quella del Vaticano.
Lo sgomento in cui rimase l'Italia, dopo la partenza dei Vandali, fu tale, che per alcuni mesi essa non pensò punto ad eleggersi un nuovo Imperatore. Se ne occupò invece il re dei Visigoti, Teodorico II, il quale, secondato dall'aristocrazia gallo-romana, radunata in Arles, e dall'esercito romano, fece eleggere Avito, che nel luglio del 455 assunse la porpora. Questi era un nobile dell'Auvergne, valoroso soldato di Ezio, che per mezzo suo era riuscito a concludere l'alleanza dei Visigoti coi Romani contro Attila. Ma la sua elezione, come quella che rappresentava la prevalenza della provincia e dei barbari, piacque poco a Roma ed al Senato, sebbene venisse approvata a Costantinopoli.
Il pericolo maggiore per tutto l'Occidente, veniva adesso dai Vandali; e perciò contro di essi Avito mandò il valoroso generale Ricimero, figlio di padre svevo e [118] di madre gota, il quale era loro acerrimo nemico, e si mosse subito a combatterli. Nel 456 ottenne contro di essi una clamorosa vittoria, secondo alcuni nelle acque della Sardegna, secondo altri, della Corsica; ma in verità par che si combattesse presso l'una e presso l'altra isola. Questa vittoria fece di Ricimero un uomo più potente dello stesso Imperatore.
Egli si trovò a un tratto nella condizione medesima di Stilicone e di Ezio. Se non che, fatto accorto dalla esperienza del passato, pensò di non lasciarsi, come era seguito ad essi, disfare dagl'imperatori; ma invece disfarsi egli di loro appena che li vedeva divenire a lui pericolosi. E così, l'un dopo l'altro, ne mandò via dal mondo quattro, sostituendoli con sue creature, alle quali serbava sempre la stessa sorte. E fu questo il processo della finale distruzione dell'Impero d'Occidente, che, per mezzo appunto di Ricimero, passò definitivamente in mano dei barbari. Ciò avvenne non solo perchè un generale barbarico come lui faceva e disfaceva a sua posta gl'imperatori, ma ancora perchè, lasciando egli correre più mesi tra la morte dell'uno e l'elezione dell'altro, l'Occidente restava qualche tempo senza un proprio sovrano. E questi lunghi interregni finirono col persuadere, che si poteva facilmente fare a meno di un Imperatore, sostituendovi un barbaro, ciò che avvenne poi con Odoacre, che assunse il potere in suo proprio nome.
Primo a subire il duro destino che Ricimero serbava ai suoi eletti, fu Avito. Quando egli s'avvide che a Roma non trovava favore, che il barbaro faceva da padrone, si sentì come mancare il terreno sotto i piedi, e pensò d'andarsene nella Gallia, dove era stato eletto, per raccogliere colà un esercito e tornare con esso in Italia, sperando così di potersi meglio raffermare sul trono. Ma questo suo intendimento accrebbe invece le antipatie dei Romani, ai [119] quali non poteva certamente piacere il vederlo andare a cercare aiuto nella provincia, diffidando della capitale. E nell'ottobre del 456 Ricimero potè arrestarlo a Piacenza, costringendolo poi a prendere la tonsura ed a farsi vescovo. Il potere imperiale si trovò allora nelle sue mani, fino a che egli non si decise a far eleggere un successore.
Uno stato di cose affatto simile si riproduceva quasi contemporaneamente in Costantinopoli, per arrivare però ad opposti resultati. Dopo la morte di Marciano, si poteva dire anche in Oriente estinta ogni traccia della dinastia di Teodosio. Il potere effettivo cadde del pari nelle mani d'un generale barbarico, Aspar, il quale era ariano e comandava i soldati goti. Ciò nonostante, egli fece eleggere imperatore Leone I, valoroso soldato della Dacia, ortodosso, che fu acclamato dall'esercito il 7 febbraio 457. Questi assunse la porpora e fu consacrato dal patriarca di Costantinopoli, consacrazione che era un fatto assolutamente nuovo. Si volle forse con essa supplire alla mancanza d'ogni titolo ereditario. Non parendo che bastasse la sola acclamazione dell'esercito, si dette alla Chiesa un'autorità che essa non aveva mai avuta in passato, e della quale seppe meravigliosamente profittare nell'avvenire. Se ne avvantaggiò intanto il nuovo Imperatore, che ben presto dimostrò di essere un uomo atto più a disfare gli altri che a lasciarsi disfare.
Vedendo che l'Italia dal 456 ai primi mesi del 457 era rimasta senza imperatore, egli propose che s'eleggesse Giulio Valerio Maioriano. Questi era stato un altro valoroso soldato di Ezio, era amico di Ricimero; e dopo aver con onore combattuto i Vandali, l'aveva aiutato a deporre Avito, ricevendone in compenso la nomina di Magister militum. La proposta della sua elezione fu subito accolta con favore, non tanto da Ricimero, che in sostanza [120] pareva più che altro piegarsi per prudenza alla volontà di Leone I, quanto dai Romani e dal Senato, i quali, dopo un imperatore straniero come Avito, ne vedevano assai volentieri uno che tenevano dei loro. E così il 1º di aprile, presso Ravenna, Maioriano prese la porpora, e subito dopo scrisse al Senato una lettera nella quale, con un linguaggio degno degli antichi tempi di Roma, assicurava che la giustizia, la virtù, la lealtà avrebbero sotto di lui trionfato. E fece quanto potè per mantenere la promessa. Cercò di sollevar le province dalle troppo gravi tasse, sopra tutto dagli arbitrii del fisco, che le rendeva ancora più incomportabili; e tutte le sue leggi furono ispirate da questi nobili sentimenti. Egli sapeva d'essere stato messo sul trono con uno scopo più militare, che politico; appoggiandosi quindi al Senato ed ai Romani, cominciò col tenere a freno le province, sopra tutto i Visigoti, verso i quali die' prova di grande energia in una spedizione che fece nella Gallia.
Il pericolo dominante erano però sempre i Vandali. A combatterli, nell'interesse dell'Occidente e dell'Oriente, egli s'apparecchiò per tre anni continui, cercando di mettere insieme un poderoso esercito, che venne ingrossato ancora cogli aiuti mandati da Costantinopoli. Apparecchiò una flotta di 300 navi, essendo suo intendimento andare nella Spagna, e di là passare poi in Africa. Ma le difficoltà furono assai maggiori che non pensava. Ricimero sembrava starsene a guardare senza aiutarlo; i Visigoti nella Spagna gli si mostravano avversi. Genserico, sempre minaccioso e forte, devastò la costa africana, perchè il nemico non vi trovasse vettovaglie, ed avvelenò anche l'acqua dei pozzi. Ma quello che è più, riuscì a forza d'astuzie e di tradimenti ad impadronirsi d'una parte della flotta di Maioriano, ed a distruggerne il resto. Se questi fosse riuscito nella sua impresa contro i Vandali, [121] sarebbe certo divenuto potentissimo, ed avrebbe annullato la forza e l'autorità di Ricimero. Ma successe invece il contrario: fu vinto, e dovette ritirarsi umiliato. Traversando la Gallia, venne poco a poco abbandonato dai suoi alleati; e giunto al di qua delle Alpi, colla propria guardia, fu il 2 agosto del 461, a Tortona, affrontato, disfatto ed ucciso dai soldati di Ricimero, che di nuovo restò solo padrone in Italia.
Nel novembre egli fece eleggere Libio Severo, che stette quattro anni sul trono; ma di lui non si sa nulla, giacchè par che Ricimero continuasse a farla da padrone. Genserico intanto, il quale non aveva mai dimenticato la rotta che da questo aveva avuta nel '56, cercava ora di rendergli avverso Leone I, con la speranza, dopo averli prima o poi separati del tutto, di riuscire a far eleggere in Occidente un imperatore di suo gradimento. A tal fine aveva già mandato a Costantinopoli Eudossia con la figlia. Ma Ricimero sapeva anche giocare d'astuzia; e quando dopo la morte di Severo (novembre 465) l'Italia era restata diciotto mesi senza imperatore, e Leone I mostrò desiderio che venisse eletto Procopio Antemio, egli, pigliando la palla al balzo, lo fece subito eleggere (467), e poco dopo ne sposò la figlia. Così l'Oriente e l'Occidente si trovarono invece nuovamente alleati, e si cominciarono insieme grandi apparecchi di guerra, per farla una volta finita coi Vandali. Si narra che a Costantinopoli raccogliessero 130,000 libbre d'oro e mille navi, che partirono con 100 mila uomini nella primavera del 468. A questa impresa però, con tanta cura apparecchiata, nocque assai l'attitudine ostile dei due generali barbari, onnipotenti l'uno a Roma, l'altro a Costantinopoli. Essi temevano che la vittoria aumentasse, a loro grave danno, l'autorità dei due Imperatori. E quindi Ricimero colla sua opposizione fece sì che Maioriano mandasse poca gente [122] all'impresa, alla quale Aspar metteva dal suo lato più ostacoli che poteva. Fu lui che appoggiò l'infelice idea d'affidare la direzione della guerra a Basilisco, affatto incapace, ma fratello della imperatrice Verina che lo aveva proposto. E così, nonostante il numero preponderante ed il valore grandissimo dimostrato dai soldati romani, l'impresa andò a male, per gl'inesplicabili errori commessi dai generali, sopra tutto da Basilisco. La pubblica fama accusò di tradimento Aspar e più ancora Ricimero, il quale in un momento decisivo avrebbe, così almeno si diceva, impedito che andassero in Africa i rinforzi, necessari ad assicurare il resultato dell'impresa.
Le conseguenze di questa guerra furono molte e gravi. L'orgoglio dei Vandali ne crebbe a dismisura, l'Oriente ne sentì il danno finanziario per moltissimi anni; ma quello che è più, le relazioni tra Leone I ed Aspar s'inasprirono per modo da rendere inevitabile un'aperta rottura. Aspar andava da un pezzo divenendo sempre più insolente. S'era fatto promettere, che uno de' suoi figli sarebbe stato assunto dall'Imperatore a compagno nel governo, e più volte richiese con modi poco rispettosi l'adempimento della promessa. Queste sue pretese destavano nella popolazione vivissimo scontento anche perchè egli era ariano. S'abbandonò poi a una vita dissoluta, e nell'ultima guerra aveva, come vedemmo, per sua colpa messo a gravissimo pericolo l'Impero. A tutto questo s'aggiungeva che egli non aveva nè l'audace energia, nè il valore di Ricimero; che Leone I non era uomo da rassegnarsi a rimanere strumento passivo nelle mani d'un suo generale; e i barbari non potevano mai sperare d'acquistare in Oriente la forza che avevano in Occidente. Consapevole di tutto ciò, l'Imperatore aumentò nel suo esercito il numero degl'Isaurici, montanari indipendenti e valorosi del Tauro. Con essi cominciò subito a porre un argine alla prepotenza [123] dei Goti e degli altri soldati germanici; e quando nel 471 gli parve giunto il momento opportuno, per mezzo di questi suoi nuovi soldati, e di Tarasicodissa loro capo, che poi gli successe nell'Impero col nome di Zenone, fece uccidere Aspar. Ordinò anche l'uccisione dei tre figli di lui; ma uno si trovava lontano, un altro si riebbe dalle ferite avute, e quindi ne morì uno solo. Per questi fatti a Leone I fu dato il titolo di Macellus. Egli s'era però liberato da un padrone incomodo e minaccioso, liberando l'Impero dalla prepotenza dei Goti e dei loro compagni.
In Italia le cose finirono assai diversamente. Ogni giorno cresceva la discordia fra Ricimero e l'imperatore Antemio, che pubblicamente si doleva d'aver dovuto dare sua figlia in isposa ad un barbaro ancora vestito di pelli. Anche qui un conflitto era quindi divenuto inevitabile; se non che la forza e l'accortezza del generale barbarico erano assai preponderanti. Ricimero trovavasi a Milano, alla testa d'un esercito, col quale nel 472 mosse addirittura all'assedio di Roma, dove era Antemio, che aveva sempre il favore d'una parte della popolazione. Nell'esercito assediante si trovava Olibrio, un romano, che Ricimero voleva far salire sul trono dopo d'aver deposto Antemio. E così si vide un generale dell'Impero assumere la parte d'Alarico, assediando la Città eterna, dentro la quale era l'Imperatore stesso. L'assedio durò alcuni mesi, e finalmente Ricimero entrò in Roma, che s'arrese, parte per fame, parte per tradimento. Antemio fu ucciso l'11 luglio 472; poco dopo lo stesso Ricimero morì di emorragia (18 agosto), e ben presto lo seguì nella tomba Olibrio (28 ottobre). Così ebbe fine il lungo, confuso e penoso dramma di Ricimero, che lasciò tuttavia dietro di sè un breve strascico di avvenimenti non molto diversi da quelli finora narrati.
Egli era stato per sedici anni il padrone dell'Italia, [124] che per opera sua venne in piena balìa dei barbari. In ciò sta anzi il suo vero carattere storico. Egli fu il precursore di Odoacre e di Teodorico, che sono ora per sorgere sulla scena: quasi anello di congiunzione fra di essi e i generali Stilicone ed Ezio. Durante la sua vita l'Italia si assuefece a vedere il potere effettivo esercitato da un barbaro, spesso anche senza pur l'ombra di un Imperatore, che questo potere esercitasse almeno di nome. E non solo essa venne allora in piena balìa dei barbari, ma si andò sempre più staccando dall'Africa, dalla Spagna, dalla Gallia, per costituire una nuova unità politica. I vari elementi che costituivano ancora l'Impero, l'esercito, cioè, il governo di Costantinopoli e quello di Ravenna, finirono col venire fra di loro a conflitto, chiudendo un'epoca, iniziandone un'altra.
Pareva che a Ricimero, nella stessa singolare condizione, collo stesso potere, dovesse succedere il nipote Gundobaldo, un soldato burgundo, venuto in Italia per far fortuna coll'aiuto dello zio. Dopo aver lasciato per cinque mesi vacante il trono d'Occidente, egli fece nominare imperatore Glicerio, che era Comes domesticorum, e fu proclamato a Ravenna il 5 marzo 473. Ma ora appunto scoppiò il dissenso con Costantinopoli, dove essendo vicino a morte Leone I, sua moglie Verina, sempre inframmettente, fece nominare imperatore d'Occidente Giulio Nepote, suo parente, che però rimase in Oriente fin verso la metà del 474. Giunto in Italia, esso venne acclamato il 24 giugno di quell'anno, e vediamo scomparire dalla scena Gundobaldo, che pare andasse a prendere il posto di suo padre, re dei Burgundi, allora morto. Glicerio scomparve anch'esso, senza che si sappia nè come, nè perchè. Certo è solo che fu costretto a lasciarsi consacrare vescovo in Dalmazia, e che non molto dopo morì.
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Del governo di Giulio Nepote, che pur rappresenta la fine di un periodo storico, sappiamo assai poco. Imposto da Costantinopoli per opera del partito che aveva colà vinto i barbari, non piaceva punto all'esercito, che in Italia era barbarico ed aveva eletto Glicerio. Il fatto più notevole del suo regno fu la pace conclusa coi Visigoti della Gallia. Con essa, per salvare l'Italia dalla guerra, egli concedeva a quei barbari ariani l'Auvergne, che dopo essersi validamente difesa, voleva rimanere unita all'Impero. E ciò gli fece perdere la stima dei Romani, senza fargli riguadagnare quella dei barbari, che già aveva perduta. Così lo scontento andò sempre crescendo, e finalmente scoppiò una nuova ribellione, della quale, come per forza naturale dalle cose, si trovò a capo il generale Oreste. Questi non ebbe nessuna difficoltà, ora che l'Impero d'Oriente era in gravissimi disordini, a vincere Nepote, che, assalito a Ravenna, si rifugiò nell'agosto del 475 a Salona. Colà si trovava probabilmente ancora vivo Glicerio, che da lui era stato vinto e costretto a divenir vescovo in quella stessa città della Dalmazia.
Oreste è l'ultimo di quei generali, che per molti anni fecero e disfecero gl'Imperatori, tenendo nelle loro mani il potere, fino a che non lo lasciarono addirittura ai soli barbari. E questo definitivo mutamento fu compiuto appunto per mezzo suo. Nato nell'Illirico, egli era d'origine romana, e tale era anche sua moglie. Aveva però dimorato lungamente presso Attila, che lo aveva, come vedemmo, mandato ambasciatore a Costantinopoli. S'andò così immedesimando sempre più coi barbari; ed è questa forse la ragione per la quale, riuscito come i suoi predecessori barbarici ad impadronirsi del potere, non osò neppur lui assumere la porpora. Osò invece attuare quello che era stato il disegno invano vagheggiato lungamente da Stilicone e da Ezio. Fece cioè eleggere imperatore [126] suo figlio, il quale non era vissuto coi barbari, da parte di madre era più romano di lui: portava il nome di Romolo Augusto, che per la sua giovane età, venne mutato in quello alquanto dispregiativo di Romolo Augustolo. E così, come per ironia della sorte, colui che fu l'ultimo imperatore d'Occidente, portava il nome del primo re e del primo imperatore di Roma.
Sembrerebbe che Oreste, alla testa dell'esercito, col figlio ancora minorenne dichiarato imperatore, avesse dovuto sentirsi in una posizione incrollabile, tanto più che ora appunto Genserico, divenuto vecchio, s'era indotto a concludere con Ravenna e con Costantinopoli una pace, per la quale, durante due generazioni, l'Occidente e l'Oriente furono lasciati tranquilli dai Vandali. Ma invece il germe della debolezza era nascosto appunto là dove pareva che dovesse essere l'origine della forza. Le qualità di romano e di barbaro non si potevano facilmente immedesimare; una delle due doveva soccombere. In Stilicone noi vedemmo il barbaro soccombere al romano; in Oreste, pei tempi mutati, avvenne il contrario. L'esercito, alla testa del quale egli si trovava, era composto di molti e vari elementi: Turcilingi, Sciri, Eruli, che tutti poco differivano dai Goti. Questi barbari erano andati da principio aumentando, mediante una continua infiltrazione; ed ora che essi formavano addirittura l'esercito imperiale in Italia, volevano prendervi stabile dimora, assicurandosi nella pace e nella guerra la propria sussistenza, come era seguito in altre province occidentali dell'Impero. Chiesero perciò il terzo delle terre. Ma qui appunto nacque il conflitto, che doveva portar la rovina d'Oreste. La concessione delle terre voleva dire la permanente dimora dei barbari nell'Italia, lasciata in loro balìa. A questo passo Oreste, che era e si sentiva di origine romana, non potè decidersi, anzi deliberatamente [127] si oppose. Ne nacque allora una ribellione dei soldati che lo abbandonarono, levando sugli scudi Odoacre (23 agosto 476), un barbaro dell'esercito di Ricimero, con cui aveva assediato Roma. Egli promise di dare ai soldati quello che avevano chiesto, e che era stato loro negato. Oreste dovette fuggirsene a Pavia, dove fu inseguito dal suo rivale, e donde potè a mala pena scampare. La città venne messa a sacco con una strage che durò due giorni interi, e cessò solamente quando giunse la notizia che il 28 agosto 476 Oreste era stato preso ed ucciso a Piacenza. Questa tragedia somiglia molto a quella di Stilicone, nel 408 avvenuta nella stessa città. Allora però il grido era stato: morte al barbaro; ora invece era: morte al romano.
Odoacre corse a Ravenna, dove trovò il misero Augustolo, ultimo avanzo della imperiale romanità. Non lo uccise, ma lo confinò nella villa Lucullana a Pizzofalcone,[22] presso l'antica Napoli, con una pensione di 6000 solidi. Colà questi visse tranquillo, non si sa bene quanto tempo, e si adoperò, come vedremo, ad agevolare il trionfo di Odoacre. Dopo poco tempo morì Genserico, ed anche questo contribuì molto a rendere più sicura la condizione di Odoacre, col quale si chiude l'antichità e s'inizia finalmente il Medio Evo. L'Impero d'Occidente è caduto, la storia d'Italia incomincia.
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Odoacre era nato nel 433, e si trovava ora, a 46 anni, alla testa d'un esercito composto di popolazioni diverse, ognuna delle quali pretendeva che fosse suo connazionale. I più lo dicono Sciro, e qualcuno lo suppone figlio di quell'Edecone che insieme con Oreste vedemmo ambasciatore di Attila a Teodosio II. Certo era di quei barbari che a tempo di Attila si unirono agli Unni, separandosene poi alla sua morte. Era ancora assai giovane, quando con una banda di suoi seguaci si mosse a cercar fortuna in Italia. Traversò allora il Norico, provincia che per trent'anni (453-82) fu desolata, saccheggiata, abbandonata all'anarchia. Ivi non esisteva più nessuna forma di governo, e la sola autorità rimasta a mantenere in vita la società, pareva che fosse quella di S. Severino, il quale dal suo chiostro, nella solitaria cella, esercitava una prodigiosa azione morale sulle moltitudini, che volontariamente gli obbedivano. Ed in quella piccola cella, così narra la leggenda, entrò Odoacre, che era allora un uomo ignoto. Dovette piegarsi, perchè era assai alto, e chiese la benedizione del Santo, il quale, dopo avergliela data, disse: — Vade ad Italiam, chè, sebbene tu sia vestito di vilissime pelli, ti [129] aspetta colà grande fortuna. — Fra il 460 ed il 470 Odoacre infatti era già in Italia, e nel '72 combatteva nell'esercito di Ricimero sotto le mura di Roma. Nel '76 i suoi soldati lo levarono, come vedemmo, sugli scudi, e prese il posto di Oreste e di Augustolo ad un tempo. L'ufficio d'Imperatore d'Occidente, già ridotto ad un'ombra, per la soverchiante potenza dei generali che ne facevan le veci, è ora scomparso affatto nel barbaro che ne ha usurpato il posto. E per la prima volta nella storia del mondo, apparisce l'Italia come una nuova unità politica, indipendente. Ma un barbaro, che comandava in essa alla testa di un esercito di barbari, era un fatto talmente privo d'ogni precedente, che non si vedeva su quale base legale si potesse fondare la sua autorità. Odoacre non osò quindi assumere il titolo nè d'Imperatore, nè di re d'Italia; non fu che un re di barbari. E con quale diritto poteva egli allora comandare nella Penisola, sede antica dell'Impero?
Il solo vero e legittimo sovrano era adesso a Costantinopoli, ed a lui, tra il 477 e 478, si presentarono perciò due solenni ambascerie. L'una veniva da Salona, in nome di Nepote, che chiedeva d'essere reintegrato nei suoi diritti a Ravenna, di dove era stato colla violenza cacciato. L'altra veniva in nome del Senato e di Augustolo, il quale, assai probabilmente secondo un patto già prima stipulato con Odoacre, cercava ora ricompensarlo dell'avergli esso lasciato la vita nel privarlo del trono. Infatti gli oratori di questa seconda ambasceria erano venuti per dire, che i Romani non sentivano nessun bisogno d'avere un loro proprio Imperatore, bastandone uno solo per l'Oriente e per l'Occidente.[23] Odoacre avrebbe [130] potuto governare l'Italia col titolo di Patrizio, in nome dell'Imperatore, a cui rimandava perciò le insegne imperiali, ornamenta Palatii.
In Costantinopoli a Leone I era nel 474 successo il nipote Leone II. Questi essendo ancora un giovanetto, restò sotto la reggenza del padre Tarasicodissa, che i Greci chiamarono Zenone, e che, morto ben presto il figlio, divenne addirittura imperatore. Poco dopo insorse contro di lui Basilisco, monofisita, favorito dalla sorella Verina, vedova di Leone I, sempre intrigante, e lo cacciò dal trono, su cui fu nel 477 rimesso da una controrivoluzione ortodossa. Quando adunque, fra il 477 e '78, si presentarono a lui gli ambasciatori del Senato e di Augustolo, egli si trovò in una condizione molto difficile, perchè non voleva riconoscere Odoacre, che era fuori di ogni legalità; ma sentiva di non essere allora in grado di deporre chi s'era colla forza impadronito del potere in Italia. Ricorse perciò ad un mezzotermine diplomatico, di quelli che erano molto in uso presso i Bizantini. Ufficialmente rispose ai Romani: — Due imperatori vi furono mandati da Costantinopoli, Antemio e Nepote; il primo voi avete ucciso, il secondo deposto. Ora dovete rivolgervi a Nepote, che riman sempre in Occidente il solo sovrano legittimo e riconosciuto. — Se questa fu però la risposta ufficiale, scrivendo privatamente ad Odoacre, gli dava il titolo di Patrizio. In sostanza, accettando il fatto compiuto, intendeva fare ogni riserva sulla questione di diritto, tenendo ferma la sua propria autorità. Odoacre intanto assunse il governo d'Italia, teoricamente sotto la dipendenza di Costantinopoli, in realtà operando a suo modo, come principe indipendente.
Il primo e principale problema di cui si dovette subito occupare, fu la promessa divisione delle terre, promessa dalla quale aveva avuto origine il suo potere. In che [131] modo questa divisione, nei suoi particolari, venisse fatta, noi non sappiamo. Tutto si riduce a semplici ipotesi. Certo è però che non si tratta di un sistema nuovamente introdotto, come molti supposero, in conseguenza della conquista. Invece esso fu in Italia ed altrove, la modificazione d'un sistema già prima esistente nell'Impero. E l'aggravio che ne venne alle popolazioni, fu assai più apparente che reale. L'esercito, in un modo o l'altro, era stato sempre a carico delle popolazioni, come a loro carico erano stati i molti sussidi che si davano ai barbari per tenerli tranquilli, e le enormi spese sostenute per le guerre dell'Impero. Dove i soldati venivano alloggiati, occupavano di diritto un terzo delle case dei loro ospiti, nelle quali anch'essi erano chiamati ospiti: e ciò naturalmente oltre le paghe che ricevevano. Quelli poi che erano lasciati permanentemente a difesa dei confini (limitanei) avevano, oltre l'alloggio, una parte delle terre, e le coltivavano per proprio conto. Se dunque i soldati di Odoacre, i quali erano l'esercito che doveva difendere l'Italia, avevano adesso un terzo delle terre, per coltivarle e vivere del prodotto di esse, questo in fondo non era qualche cosa di sostanzialmente nuovo. Bisognava però adesso mantenere i barbari, anche quando non prestavano servizio, e non solo gli uomini atti a portare le armi, ma i vecchi, le donne, i bimbi. E ciò in conseguenza d'una ribellione militare, che imponeva la sua volontà colla forza. Questo era veramente odioso, se anche non era effetto della invasione e della conquista.
Non bisogna però credere, che una tale divisione si facesse a un tratto per tutto, nè che dove si faceva, tutte le terre venissero divise. L'esercito di Odoacre era ben lungi dal potere occupare l'Italia intera. I suoi barbari alloggiarono quindi in alcune province, ed in esse solamente fu fatta la divisione. I piccoli possidenti, là dove [132] ancora ce n'erano, furono lasciati in pace, non mettendo conto dividere le terre che bastavano appena a sostenere i loro possessori. Essi quindi restarono nello stato di prima, e furono anche meno aggravati dalle tasse, che i barbari non erano in grado di riscuotere o far riscuotere colla regolarità opprimente del fisco imperiale. Nè mutò gran fatto la condizione degli artigiani nelle città. E così anche i coloni, i contadini, gli schiavi che coltivavano le terre, e passarono con esse ai barbari, restarono più o meno nelle condizioni di prima, spesso anzi migliorarono. Quelli che veramente soffrirono furono i latifondisti, i quali è però da credere che pagassero minori imposte sulla parte che loro restava delle proprie terre. In ogni modo la proprietà fu assai più divisa. E siccome i barbari, per antica consuetudine, preferivano la campagna alla città, così i campi pei quali da un pezzo mancavano le braccia necessarie a lavorarli, furono ora più e meglio coltivati. In tutto il paese rimase inalterata l'antica amministrazione romana, ed anche l'antico sistema di tasse, le quali non crebbero; anzi, per quanto possiamo indurne, scemarono. Considerevoli esenzioni ottenne pei suoi fedeli il vescovo Epifanio a Pavia ed in tutta la Liguria, dove le imposte erano negli ultimi tempi enormemente cresciute.
Il regno di Odoacre, che durò circa 13 anni, era limitato quasi esclusivamente all'Italia, da cui si staccarono affatto le altre province. Anche la Provenza, la parte cioè più romanizzata della Gallia, venne abbandonata ai Visigoti. La Rezia, considerata sempre come appendice integrante dell'Italia, ne faceva parte al pari della Sicilia, la quale era però in più luoghi occupata dai Vandali, secondo il trattato concluso nel 442. Questi occupavano anche la Sardegna, la Corsica e le Baleari. Il nuovo stato di cose, per ora almeno, evitava quelle grosse guerre che [133] dissanguavano le popolazioni, e quindi il regno di Odoacre fu per qualche tempo come un periodo di sosta alle patite calamità, sebbene di tanto in tanto si trovino ricordate nuove violenze e spoliazioni, che negli ultimi anni andarono crescendo. Sotto un certo aspetto le condizioni in cui Odoacre si trovava, coll'andar del tempo migliorarono assai. Il suo regno infatti, che era cominciato coll'essere sostanzialmente illegale, e tale durò finchè visse il deposto imperatore Nepote, fu in assai diversa condizione quando questi nel 480 morì. Certo Odoacre restò ancora col solo titolo di Patrizio, non potè mai assumere quello d'Imperatore, e neppure di re d'Italia; ma potè sempre più agire da principe indipendente. Cominciò a nominare anche i Consoli occidentali, che furono riconosciuti in Oriente. L'unità generale dell'Impero, cui era a capo Zenone, teoricamente non fu mai messa in dubbio; ma l'autorità di Odoacre divenne di fatto assai maggiore, ed implicitamente almeno fu anche riconosciuta. A Ravenna egli potè mettere insieme una flotta, colla quale si difese dalle incursioni vandaliche, e fra il 481 e 482 si spinse fino alla Dalmazia, che aggregò al proprio Stato. E se questo passo spiacque assai all'Imperatore, nè restò più tardi senza gravi conseguenze a lui dannose, per ora egli accrebbe il suo territorio, e non ne risentì nessun danno.
In tale stato di cose la vita politica del popolo italiano può dirsi spenta del tutto. Con tanto maggiore energia si svolgeva quindi in esso la vita religiosa, alla cui testa si trovava il Papa. Ma in parte non piccola l'indirizzo dell'attività religiosa, era determinato dalle relazioni o per meglio dire dalla opposizione che persisteva sempre fra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, dove non avevano mai posa quelle dispute dottrinali, cui lo spirito romano-cattolico ripugnava affatto. In Oriente combattevano [134] ora accanitamente i Nestoriani, i quali dicevano che la Vergine era madre di Gesù Cristo, solo in quanto uomo; gli Ariani ed i Monofisiti, i quali ultimi sostenevano che la natura umana e divina di Gesù erano una sola e medesima cosa. Siccome però in nome appunto di questa dottrina Basilisco aveva cacciato dal trono Zenone, che v'era stato rimesso dagli Ortodossi, così questi voleva ora in ogni modo evitare il riaccendersi della disputa. Fra il 482 e 83 pubblicò quindi una sua lettera conosciuta col nome di Henoticon, la quale si credette suggerita o anche scritta dal patriarca Acacio. In essa, tenendo una via media, cercava di conciliare ortodossi e monofisiti. Ma Roma non ammise mai queste vie di mezzo, nè ammise mai che l'Imperatore decidesse le dispute religiose. Papa Simplicio (468-483) condannò quindi senz'altro l'Henoticon ed Acacio che lo aveva ispirato.
Questa lotta nella quale Simplicio, sostenuto dagl'Italiani, dimostrò al solito una tenacia veramente romana, mantenne vivo l'antagonismo fra l'Oriente e l'Occidente, il che riusciva a vantaggio di Odoacre. Il Papa era allora moralmente, e non solo moralmente, il personaggio più potente in Italia. Se Odoacre, come ariano, si fosse messo in aperta opposizione con lui, questi gli avrebbe facilmente potuto sollevar contro tutto il paese, e rendergli impossibile il reggersi a lungo in Italia. Ma finchè durava la lotta religiosa fra Roma e Costantinopoli, il Papa ed Odoacre si trovavano dal comune interesse spinti a sostenersi vicendevolmente.
Il 2 marzo 483 moriva Simplicio, e Odoacre dette allora un passo falso, del quale non tardò molto a sentire le conseguenze. Per lui era certo cosa di grande importanza assicurarsi della nuova elezione. Voleva non solo evitar quei tumulti che in simili occasioni avevano assai spesso insanguinato le vie di Roma, ma voleva anche [135] avere un Papa amico. E così, quando l'assemblea che doveva procedere alla elezione, non potè riuscire a mettersi d'accordo, v'intervenne improvvisamente, in nome di Odoacre, il Prefetto del Pretorio, Cecina Basilio, dichiarando che sarebbe stata nulla l'elezione, senza la rappresentanza del Re. Questi, egli aggiunse, procedeva in ciò d'accordo colla volontà del defunto Papa, il quale prima di morire gli aveva raccomandato la nuova elezione. Fu inoltre emanato un decreto col quale veniva proibita l'alienazione dei beni della Chiesa, minacciando l'anatema contro chiunque non avesse a ciò obbedito. S'invitava poi l'assemblea a sanzionare il decreto, ed a procedere alla elezione, la quale riuscì a favore di Felice II[24] (483-92), che era appunto il raccomandato di Odoacre. Non pare che allora sorgessero gravi lamenti contro questo procedere del Re. Ed in verità non solamente l'Imperatore di Costantinopoli aveva sempre avuto grande ingerenza nei Conclavi, nei Sinodi, nei Concili, in tutte le faccende della Chiesa; ma anche in Italia l'imperatore Onorio aveva nel 418 e 19 definito la contesa fra Eulalio e Bonifacio ambedue eletti pontefici. È provato poi che l'Imperatore d'Occidente aveva il diritto d'intervenire e decidere in siffatte questioni; anzi non di rado il clero stesso ricorse a lui per risolverle. Può supporsi perciò che, nonostante ogni contraria apparenza, Odoacre non avesse creduto di far nulla d'illegale, e molto meno di usare violenza per imporre un Papa di suo arbitrio; che la scelta di Felice II fosse veramente stata suggerita a lui da Simplicio. Se non che egli non era un Imperatore, ma un re barbaro ed un ariano. Non poteva quindi sperare che la Chiesa romana, sempre gelosa delle proprie [136] prerogative, avesse mai potuto approvare il suo procedere. Comunque sia di ciò, anche Felice II continuò con ardore la lotta contro l'Henoticon e contro Acacio, che scomunicò, inviando a Costantinopoli la sentenza. E tutto ciò fu causa d'uno scisma durato 35 anni (484-519), nei quali Roma non cedette mai, ottenendo finalmente il trionfo delle dottrine ortodosse. Ma se questo dissidio era tutto a vantaggio di Odoacre, l'essersi egli ingerito nella elezione papale aveva seminato nella Chiesa romana il germe pericoloso d'una profonda diffidenza verso di lui.
Intanto sorgeva un'altra e più grave complicazione d'indole politica. Al di là della Rezia c'era il Norico, la regione in cui ora è Salzburg, e che arrivava fino al Danubio, oltre il quale abitavano i Rugi. Questa regione, come già vedemmo, era stata desolata, ridotta ad estrema rovina dal continuo passaggio dei barbari; ed unica autorità, che vi avesse mantenuto ancora una qualche forma di vivere sociale, era stata quella di S. Severino, che il suo biografo Eugippo dice uomo interamente latino: loquela tamen ipsius manifestabat hominem omnino latinum. Nella sua cella raccoglieva abiti, cibi a sollievo dei miseri, e di là dava consigli e ordini cui tutti, anche i barbari, volontariamente obbedivano. Era questa un'altra prova visibile della forza quasi onnipotente, che la religione esercitava allora sugli animi. A S. Severino si dovè se la popolazione romana di quella regione non fu totalmente distrutta. Ma circa l'anno 482 egli morì, e fu questa una grande calamità per il Norico. I Rugi s'avanzarono subito devastando, saccheggiando ogni cosa, perfino il convento e la cella del Santo. Avrebbero, se avessero potuto, dice Eugippo, portato via anche le mura. E se i Rugi si fossero stabilmente impadroniti di quella regione, sarebbe stato di certo un gran pericolo [137] per Odoacre, che li avrebbe avuti ai confini del suo regno, colla voglia e, per la desolazione del paese, con la necessità d'avanzarsi. A questo li spingeva ora Zenone, per la solita politica orientale di neutralizzare i barbari, spingendo gli uni contro gli altri, e perchè era assai insospettito di Odoacre, il quale non solo agiva sempre più da principe indipendente, ma si era recentemente impadronito della Dalmazia. Oltre di ciò, a lui s'erano poco prima rivolti coloro che cospiravano contro Zenone; e sebbene egli avesse ricusato d'aiutarli, ciò non impedì che crescessero di molto i sospetti ed il mal animo dell'Imperatore contro di lui. La conseguenza fu che i Rugi s'avanzarono, ed Odoacre fu costretto a muover loro guerra.
Nel 487 egli si avanzò col suo esercito barbarico, nel quale, secondo Paolo Diacono, presero parte anche Italiani, nec non Italiae populi. Con esso vinse i Rugi, fece prigioniero il loro re, ne mise in fuga il figlio. Molte però e gravi furono le conseguenze di questa guerra. Una gran parte, la meno disagiata, della popolazione del Norico, emigrò in Italia, dove fu menato anche il corpo del Santo, che dopo essere stato portato in vari luoghi, venne finalmente, per intercessione d'una vedova, deposto presso Napoli, nel luogo che si chiama ora Castello dell'Uovo. Il figlio del re dei Rugi si ricoverò presso gli Ostrogoti, che erano allora comandati dal valoroso Teodorico degli Amali, e cercò d'incitarlo a muover guerra contro di Odoacre. Siccome poi lo stesso incitamento veniva a questo, come vedremo, anche dall'Imperatore, così ne seguirono avvenimenti di grande importanza nella storia d'Italia.
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La più parte degli Ostrogoti era rimasta unita agli Unni nell'antica Dacia, e se ne separarono, al pari degli altri popoli germanici, quando, dopo la morte di Attila, il suo impero andò in fascio e sparì come un sogno. Essi occuparono allora la Pannonia, sotto il governo di tre fratelli della nobile stirpe degli Amali. Ivi pare che restassero nella condizione, più o meno, di federati; ed ebbero al solito dispute continue coll'Impero, per le terre che chiedevano, per lo stipendio o tributo che pretendevano. Questo portò ad un conflitto, dopo del quale fu fissato un annuo tributo, e per garanzia di pace fu mandato in ostaggio a Costantinopoli il giovane Teodorico allora di soli otto anni, figlio di Teodemiro, uno dei tre fratelli Amali. Questo fatto ebbe grande importanza, perchè fu data così una educazione militare romana a quel giovinetto pieno d'ingegno, di valore e di ambizione, che era destinato ad un grande avvenire. Dei tre fratelli Amali intanto uno morì, un altro, cacciato dalla fame, andò con parecchi de' suoi a cercar fortuna in Italia, di dove, come già vedemmo, fu per mezzo di donativi, indotto ad andarsene in Gallia. Nella Pannonia restava così solo Teodemiro, il padre di Teodorico, che nel 472 tornò da Costantinopoli, nella età di 18 anni, gettandosi subito, per proprio conto, in una impresa militare contro i Sarmati, nella quale fece prova di gran valore. Nel 474 morì suo padre, e sebbene egli fosse figlio d'una concubina, pure il sangue illustre degli Amali ed il valore da lui dimostrato lo fecero agevolmente nominare capo del suo popolo. Allora incominciò per lui la difficoltà di far vivere [139] i suoi, perchè la Pannonia era esausta, ed i sussidi dell'Imperatore venivano assai scarsi.
Nell'Impero d'Oriente v'erano intanto altri Goti, comandati da un altro Teodorico figlio di Triario, e soprannominato Strabone, perchè guercio. Questi aspirava a prendere in Costantinopoli il posto del generale Aspar, la cui misera fine lo aveva irritato profondamente. Si era perciò unito a Basilisco, quando questi si sollevò contro Zenone, e lo cacciò dal trono. Teodorico degli Amali invece prese le parti di Zenone, che col suo aiuto trionfò, e come era naturale, lo colmò di onori, nominandolo Patrizio, Magister militum, suo figlio adottivo. Ma dopo ciò l'Imperatore si trovò stretto fra le pretese sempre crescenti dei due capitani goti, che, ambedue in armi, volevano del pari esser presi agli stipendi dell'Impero. Ben volentieri Zenone si sarebbe invece disfatto dell'uno e dell'altro; ma non era possibile. Consultò quindi il Senato, che rispose non doversi aggravare l'erario con la spesa necessaria a pagare i due capitani coi loro eserciti: ne scegliesse uno. E naturalmente egli scelse Teodorico l'Amalo, da cui era stato aiutato nel pericolo, e lo incaricò di tenere a freno l'altro. Ma quando i due barbari si trovarono di fronte, finirono coll'unirsi a danno di Zenone, cui non restava perciò altro che fare assegnamento sulla loro mutua gelosia, cercando con ogni mezzo di aumentarla. Così, costretto ad oscillare continuamente dall'uno all'altro, fino a che, morto nel 481 Strabone, Teodorico l'Amalo si trovò solo, più potente che mai, alla testa dei Goti insieme riuniti. E per sei anni lo vediamo ora avvicinarsi all'Imperatore, cui rendeva importanti servigi, ricevendone onori e danari; ora invece separarsene, ritornando a saccheggiare, per ottenere poi anche di più. Nel 483 fu Magister militiae praesentis; nel 484, Console. Rese allora di nuovo grandi servigi a Zenone, combattendone [140] i nemici; ma da capo cominciò a minacciarlo fin sotto le mura di Costantinopoli, saccheggiando la campagna, incendiando i borghi.
È chiaro che Zenone doveva desiderare di liberarsi in qualche modo da un sì incomodo vicino, e liberare l'Impero da questa barbarica prepotenza, che minacciava di far rinascere i tempi di Aspar, di fare anzi sorgere in Oriente un altro Ricimero. Ma come fare? L'antico sistema di opporre un barbaro ad un altro non sembrava più possibile ora che uno dei due goti rivali era morto. C'era però sempre in Italia Odoacre, di cui, per le ragioni da noi già esposte, Zenone doveva essere scontentissimo, massime dopo che s'era sparsa la voce di suoi segreti accordi coi ribelli all'Imperatore. Un tale sospetto, come già vedemmo, aveva indotto Zenone a far muovere i Rugi contro Odoacre. Ma questi li vinse, ed occupò il Norico, penetrò nel Rugiland, ne imprigionò il re colla moglie, ne mise in fuga il figlio, che andò da Teodorico per eccitarlo alla vendetta. E Teodorico pareva assai ben disposto a gettarsi nell'audace impresa, sia perchè i Rugi confinavano colla Pannonia, e la loro disfatta era per lui pericolosa; sia perchè sperava, vincendo, di occupare le fertili pianure d'Italia, e trovare così pei suoi una stabile e sicura dimora. A tutto ciò si aggiungeva, che la discordia già cominciata fra Odoacre ed il Papa aveva indebolito e reso quindi assai meno temibile il primo. L'occupazione della Dalmazia, l'entrata nel Rugiland, il farla Odoacre sempre più da sovrano indipendente, l'appoggio dato per lungo tempo al vescovo di Roma contro l'Imperatore facevano a questo desiderare un radicale mutamento in Italia. Teodorico, allontanandosi da Costantinopoli, fermandosi nella Penisola, avrebbe potuto non solo punire Odoacre, ma pigliare anche una più ferma attitudine di fronte al Papa.
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Tutto questo spingeva lui a partire, e Zenone a mandarlo. Gli storici hanno lungamente disputato se la prima iniziativa venisse dall'uno o dall'altro. Secondo Jordanes, Teodorico avrebbe fatto la proposta a Zenone, dicendo: — Se io sarò disfatto, non mi avrai più a tuo carico; se invece vincerò il tiranno (così chiamavano Odoacre, perchè non legittimo sovrano), governerò io il paese in tuo nome, vestro dono vestroque munere possidebo. — Procopio scrive invece che Zenone persuase Teodorico ad andare in Italia, e l'Anonimo Valesiano dice che lo mandò ad defendendam sibi Italiam. Il fatto vero è che l'uno voleva andare, e l'altro voleva mandarlo; i comuni interessi li spingevano verso la stessa meta. E però Teodorico si mosse finalmente per l'Italia nell'autunno del 488.
Non era una impresa esclusivamente militare, ma piuttosto la invasione d'un popolo in armi; giacchè Teodorico, che si moveva ora in nome dell'Impero, menava seco le donne, i vecchi, i fanciulli, con carri che trasportavano le masserizie, e servivano da case, durante il viaggio, con mulini mobili per macinare il grano. Tutta questa moltitudine portava il nome di Ostrogoti; ma era al solito una mescolanza di genti diverse, alle quali gli Ostrogoti, che in essa prevalevano, davano il nome. Erano riunite dal valore e dalla reputazione del loro capo, dalle guerre e saccheggi fatti sotto il suo comando, dal bisogno comune, urgente di trovare un paese in cui potessero stabilmente fermarsi e vivere. Non è possibile dire qual fosse il loro numero preciso. Chi li porta a 40,000 uomini in armi, chi ad una cifra anche maggiore. Tutto compreso, fra uomini, donne, vecchi e fanciulli, gli scrittori variano da 200 a 300 mila individui. Presero la via delle Alpi Giulie, e fu una marcia faticosa, qualche volta disastrosa. Il freddo era grande, il gelo induriva i loro capelli, la [142] barba, gli abiti. Dovettero procurarsi il cibo, strada facendo, colla caccia, o combattendo, o saccheggiando i paesi che traversavano. Un primo scontro sanguinoso lo ebbero coi Gepidi; ne seguirono poi altri, e finalmente, dopo otto mesi di pericoli e di stenti, percorrendo la stessa via percorsa già da Teodosio, da Alarico e da Attila, nel luglio del 489 erano in Italia. Il 28 agosto, sull'Isonzo, non lungi da Aquileia, ebbe luogo la prima battaglia con Odoacre.
Questi, che pur era capitano di valore, e si trovava alla testa di un esercito più numeroso, aveva preso anche una forte posizione. Ma dovette cedere dinanzi al primo impeto dei Goti, ed alla superiore capacità strategica del loro capo. Un'altra battaglia fu data sull'Adige, presso Verona, il 30 settembre 489, e sebbene anche questa fosse da Odoacre perduta, Teodorico dovette subire gravissime perdite, giacchè, invece di avanzare, si ritirò fino a Milano, per chiudersi poi in Pavia. Odoacre allora andò verso Roma, sperando di potere senza difficoltà entrare nella Città eterna, e stabilmente occuparla, il che gli sarebbe stato di grande aiuto, non solo morale, ma anche materiale, perchè gli avrebbe, nel continuare la guerra, assicurato alle spalle tutta l'Italia meridionale. Ma qui si cominciò invece a delineare assai chiara la difficoltà della posizione in cui si trovava. Roma gli chiuse le porte in faccia, e le popolazioni italiane gli si cominciarono a manifestare avversissime, in parte per la lotta da lui recentemente sostenuta con la Chiesa, in parte per le spoliazioni in numero sempre maggiore da lui fatte negli ultimi anni, sia pei cresciuti bisogni della guerra, sia per la poco regolare amministrazione. E di tutto ciò la Chiesa aveva saputo profittare, per eccitar contro di lui le moltitudini, tanto che poco dopo si parlò addirittura d'una generale cospirazione, di una specie di Vespro siciliano [143] organizzato contro di lui dal clero.[25] Ma quel che è più, nelle sue file cominciò la diserzione, la quale sembra che pigliasse proporzioni grandi davvero, dopo che il suo Magister militum Tufa passò al nemico insieme con altri. Se non che Tufa, avuti da Teodorico alcuni Goti a suo comando, disertò nuovamente, per tornare con essi a Odoacre, al quale li consegnò, e dal quale furon subito fatti uccidere. Si potè quindi dubitare, che il primo tradimento fosse stata una finzione per poter compiere il secondo. Diserzioni vere e proprie ve ne furono però non poche, ed anche fra i soldati di Teodorico. Il fatto vero è che questi eserciti misti di varie genti barbariche, erano, come abbiamo detto più volte, quasi compagnie di ventura al servizio dell'Impero, senza patria e senza fede, guidate dall'interesse personale dei loro capi, spesso anche dei sotto-capi, che agivano per proprio conto.
Così le difficoltà divenivano da una parte e dall'altra sempre maggiori; ma non meno grandi furono gli sforzi fatti per superarle, sì che la guerra andò assai in lungo. Odoacre si mostrò degno di tener testa a Teodorico, che s'era dovuto chiudere a Pavia, dove la calca, nel suo primo entrare, era stata tale e tanta, che le sofferenze de' suoi furono davvero enormi. A soccorso della loro miseria venne il clero, alla cui testa si trovava il vescovo Epifanio, il quale si adoperò eroicamente a sollievo di tutti coloro che soffrivano, senza distinzione di partito o di origine, pagando di suo per liberare dalla schiavitù coloro che erano stati fatti prigionieri da una parte o dall'altra. Intanto Odoacre, messe di nuovo insieme le sue forze, entrò con esse in Milano, pronto ad affrontare il suo rivale. Se non che, altri barbari vennero a mescolarsi ora in questa [144] guerra, modificandone e confondendone di molto l'andamento. Scesero i Burgundi a difesa di Odoacre, ma in realtà più che altro a saccheggiare il paese per proprio conto. I Visigoti invece, mossi dalla comunanza di sangue, vennero a difesa di Teodorico, e pugnarono con lui nella battaglia, che fu data sull'Adda il dì 11 agosto 490. E qui la disfatta di Odoacre fu inevitabile. Aveva potuto con energia resistere a Teodorico, in cui favore erano l'autorità dell'Impero e della Chiesa, non che le popolazioni insorte; ma di fronte alla coalizione dei Visigoti e degli Ostrogoti, dovè cedere ritirandosi a Ravenna. Ivi sostenne valorosamente un assedio che durò tre anni, non potendo Teodorico stringere il blocco dalla parte del mare, e dovendo dalla parte di terra resistere a sanguinose sortite dalla città. Intanto questi poteva dirsi già padrone di tutta Italia, nella quale andava ogni giorno acquistando maggior favore, divenendo sempre più forte. Quasi da per tutto pareva che fossero cessati il rumore delle armi ed il grande spargimento di sangue: ubi primum respirare fas est a continuorum tempestate bellorum.[26]
Presso Ravenna però la lotta continuava con gran vigore. Teodorico potè da ultimo bloccarla anche dal mare, quando, essendogli riuscito d'entrare in Rimini, gli fu possibile raccogliere un certo numero di navi. L'assediata città cominciò allora a soffrire crudelmente una fame, la quale, dice il cronista ravennate Agnello, uccise molti di coloro che il ferro aveva risparmiati. E finalmente, nel febbraio 493, quinto anno della guerra, terzo dell'assedio, Odoacre dovè cedere. Il 25 di quel mese egli consegnò suo figlio in ostaggio, ed il 27 l'accordo della resa era definitivamente concluso, per mezzo dell'arcivescovo di Ravenna. Altra prova anche questa della [145] straordinaria importanza assunta allora dal clero, e quindi dalla Chiesa in tutti gli affari di maggiore gravità.
I termini precisi dell'accordo non sono ben noti, e dettero perciò luogo a moltissime dispute. Certo è che Odoacre s'arrese, salva la vita, accepta fide, securus se esse de sanguine, come dice l'Anonimo Valesiano. Ma a questa condizione gli scrittori bizantini ne aggiungono un'altra assai singolare, secondo la quale il vinto avrebbe ottenuto di partecipare al governo insieme col vincitore, restando a capo anche d'una parte delle forze militari. Riesce in verità assai difficile capire come mai ciò potesse avvenire, tanto più che Teodorico era stato mandato da Zenone a sottomettere, a cacciare Odoacre. Ed ammessa pure la poco credibile esistenza d'un tale trattato, non è credibile che potesse essere stato concluso in buona fede da nessuna delle due parti, ed avesse potuto illudere qualcuno. Infatti il 5 marzo 493 Teodorico entrava solennemente in Ravenna, dove gli vennero incontro l'arcivescovo ed il clero recitando salmi. Il 15 dello stesso mese invitava a solenne banchetto Odoacre, il quale appena giunto venne aggredito da persone ivi nascoste; e poi lo stesso Teodorico sguainò la spada per ucciderlo colle proprie mani. — Dov'è Dio? — esclamò il decaduto principe. E l'altro, nel sentire che il fendente della sua forte spada scendeva, profondamente tagliando, senza quasi trovar resistenza, osservò con cinico e barbarico sorriso: — Si direbbe che non ha ossa. — I parenti e gli amici d'Odoacre subirono tutti, più o meno, la stessa sorte. Non mancò chi disse che Teodorico aveva scoperto, e perciò voluto vendicare insidie e tradimenti orditi da Odoacre contro di lui; ma ciò prova solo l'odio e la diffidenza reciproca, quindi la impossibilità di un vero accordo.
[146]
Dopo questo atto da vero barbaro, Teodorico si potè dire solo padrone in Italia. La condizione in cui egli si trovava adesso non era in verità molto diversa da quella di Odoacre. Questi aveva comandato una moltitudine incomposta di genti varie, Eruli, Turcilingi, sopra tutto Sciri. Teodorico era anch'esso alla testa d'una mescolanza di varie genti, Gepidi, Rugi, Breoni, e Romani o romanizzati,[27] principalmente però Ostrogoti, che davano a tutti un nome comune. Non era quindi neppur questo un popolo unito da sentimento nazionale; era una banda di ventura, unita dal bisogno di vivere saccheggiando e guerreggiando, organizzata, come quella d'Odoacre, colla disciplina militare appresa dai Romani. Teodorico veniva, noi lo abbiamo già visto, non come il re di un popolo germanico, ma come un Patrizio, rappresentante dell'Imperatore e da esso mandato. Al di sotto di lui c'era un Magister militum, ed a capo delle varie parti dell'esercito erano i Comites, che risiedevano nelle diverse province d'Italia. La grande differenza fra lui ed Odoacre stava solo nel carattere, nell'ingegno politico e militare assai superiore di Teodorico. La sua educazione, in parte anche il suo spirito, si erano formati a Costantinopoli, dove egli era divenuto ammiratore della civiltà romana, senza mai cessare affatto d'essere un barbaro. Quantunque sia certo che egli non avesse nessuna cultura letteraria, riesce difficile credere, come pur generalmente si dice, che egli non sapesse addirittura scrivere il proprio [147] nome. È vero che per firmare si serviva d'una lamina d'oro, in cui erano intagliate le prime quattro lettere del suo nome; ma questo poteva anche essere un modo di guadagnar tempo quando doveva sottoscrivere in forma diplomatica i molti atti ufficiali del suo governo.
Noi non dobbiamo aspettarci che negli Ostrogoti di Teodorico persistessero ancora le antiche e primitive istituzioni germaniche. Sebbene avesse menato seco anche i vecchi, le donne ed i bimbi, tutto un popolo, o per meglio dire una gran moltitudine, egli era in sostanza il capo militare, il duce d'un esercito di varie genti vissute dapprima cogli Unni e poi dentro l'Impero. Non era quindi possibile trovare più fra di loro la proprietà collettiva dell'antico villaggio germanico, nè quelle assemblee popolari che frenavano il potere regio. Teodorico comandava con assoluto imperio di capitano, solo in casi eccezionali consultando il suo esercito. In ogni modo essi non avrebbero potuto mai legiferare pei Romani, nè i Romani pei Goti. Egli era venuto col titolo di Patrizio, per riconquistare l'Italia all'Impero, che restava sempre, teoricamente almeno, nella sua unità, non mai interamente distrutta. Infatti anche quando v'erano due Imperatori, se quello d'Occidente moriva, il suo potere ricadeva in quello d'Oriente, fino a che non veniva eletto il successore. Di certo, come Ricimero, come Oreste, come Odoacre, anche Teodorico voleva essere il vero, effettivo padrone in Italia, possibilmente una specie d'imperatore d'Occidente. Ma questo potere cui egli mirava e che in parte raggiunse, era in contradizione manifesta con la missione a lui affidata, e che egli aveva accettata: bisognava quindi legalizzarlo, e ciò non poteva farlo che l'Imperatore, a cui egli si rivolse quindi senza indugio. Subito dopo la battaglia dell'Adda, nel 490, quando ancora non era entrato in Ravenna, ma già si sentiva padrone dell'Italia, [148] aveva mandato un'ambascerìa all'Imperatore, per potere assumere la dignità regia, ab eodem sperans se vestem induere regiam.[28] Questa ambascerìa non ottenne però nessun resultato, essendo nell'aprile del 491 morto Zenone, cui successe Anastasio, che non mandò risposta. E, Teodorico, il quale era allora già entrato in Ravenna dove aveva ucciso Odoacre, si lasciò nominare re dai suoi Goti, che non aspettarono la risposta del nuovo Imperatore.[29] Una tale elezione non gli dava però sui Romani, quella legale autorità che solo dall'Imperatore poteva venirgli. In sostanza non era un re, ma un tiranno come Odoacre, che egli perciò appunto era venuto a combattere in nome dell'Impero.
Questa sua difficile condizione migliorò non poco nel 498, quando, essendo divenuto di fatto assai più potente, riuscì finalmente, con una nuova ambascerìa, ad ottenere dall'Imperatore Anastasio le insegne, omnia ornamenta Palatii, che Odoacre aveva mandate a Costantinopoli. Non bisogna però credere che la nuova autorità gli fosse concessa, senza fissarne limiti e senza qualche determinazione. Tanto Cassiodoro quanto Procopio accennano a patti e condizioni. Il secondo di questi scrittori ci narra infatti come i Goti, quando più tardi furono vinti da Belisario, gli affermassero d'aver sempre fedelmente rispettato i patti e le condizioni imposte ad essi dall'Impero. Teodorico di certo aveva il comando dell'esercito, era giudice supremo, nominava tutti gli ufficiali dello Stato. Ma s'illuderebbe assai chi lo credesse perciò divenuto una specie d'Imperatore d'Occidente, o [149] anche un re dei Romani indipendente da colui che lo aveva mandato. Egli non poteva promulgar vere e proprie leggi, ma solo editti per l'Italia, i quali dovevano restare dentro i confini di ciò che avevano già prescritto le leggi, che si facevano a Costantinopoli, e si applicavano a tutto l'Impero. Continuò pure a far l'elezione dei Consoli, i quali erano una magistratura comune del pari a tutto l'Impero. Uno di essi veniva eletto in Oriente; l'altro era eletto in Italia da Teodorico, ma doveva essere confermato a Costantinopoli. E così pure solo l'Imperatore poteva coniar moneta colla propria effigie. Son tutte cose che riconfermano la persistenza della unità dell'Impero.
Il potere di Teodorico si limitava alla sola Italia, sebbene qualche volta egli pretendesse di esercitarlo anche nelle isole e nell'Africa. D'impero di Occidente non si parlava neppure. Anzi l'Imperatore non riconobbe mai un regno goto ereditario, e perciò i successori di Teodorico dovettero sempre essere riconfermati a Costantinopoli, altrimenti rimanevano solo tiranni. Il suo regno ebbe un altro carattere affatto speciale. Tutta l'amministrazione rimase nelle mani dei Romani; le armi restarono ai Goti, che formarono l'esercito. E questo fece dire a più d'uno scrittore, che fu allora vietato affatto l'uso delle armi ai Romani. Si fece confusione con un ordine di severa proibizione, emanato assai più tardi da Teodorico, quando egli cominciò a temere di una ribellione in Italia. Anzi non è facile neppur credere alla loro esclusione assoluta dall'esercito, massime se si pon mente al significato assai lato, che aveva allora la parola Romano, ed all'essere l'esercito goto composto di genti diversissime. Esso era certamente goto, e chiunque ne faceva parte aveva quel nome. Ma lo stesso Cassiodoro, il quale ripete più volte che la difesa dello Stato era affidata ai Goti, cita nelle sue lettere (VIII, 21 e 22) [150] l'esempio di qualche nobile romano, sotto la sorveglianza di Teodorico, educato nella lingua dei Goti, e insieme con essi nell'esercizio delle armi. Dei Romani certo ne furono ammessi pochi e con difficoltà, ma non vennero esclusi del tutto. Altra prova che l'uso delle armi non era ad essi vietato, l'abbiamo nel fatto ricordato dallo stesso scrittore, quando narra che una volta dovè abbandonare il proprio gabinetto, ed armare le sue genti per difendere l'Italia meridionale, minacciata da un assalto dei Bizantini. Una divisione assoluta e matematica non era possibile. E quindi sebbene l'amministrazione fosse certo in mano dei Romani, non si può neppure presumere che i Goti ne fossero esclusi del tutto. Alcuni dei loro grandi erano intimi consiglieri di Teodorico, e nella condotta della politica generale, esterna ed interna, avevano una parte importante, assai più reale che apparente.
I Goti serbarono le proprie leggi, e furono giudicati dai Comites Gothorum; lasciarono ai Romani le loro leggi, le loro istituzioni, i loro giudici, che erano i rettori delle province, nelle quali i Comites comandavano solo come capi militari. Nelle cause miste il magistrato goto doveva aggregarsi un Romano, e giudicare secondo equità, il che finiva col far prevalere anche in questi casi il diritto romano. Essendo poi i Goti un esercito, la loro legge aveva naturalmente un carattere principalmente militare. Nel diritto civile, e più ancora nel penale, che è di sua natura territoriale, prevaleva la legge romana. Così si spiega come quello che si chiama l'Edictum Theodorici, perchè è il più importante di quanti egli ne fece, venisse compilato su leggi romane, e fosse obbligatorio anche pei barbari, sebbene non si trovi in esso traccia visibile di quelle consuetudini germaniche, che certo non potevano presso di loro essere spente del tutto.
Quantunque le due legislazioni, gota e romana, restassero [151] in vigore, e si possa anche credere, che tra le condizioni imposte dall'Impero a Teodorico, vi fosse quella appunto di lasciare agl'Italiani l'uso della loro legge, pure si afferma che da principio egli non volesse concedere un tal privilegio a nessuno di coloro che avevano combattuto a difesa di Odoacre. — Un principe nuovo, egli avrebbe detto, si trova spesso nella necessità di punire, senza poter gustare la dolcezza della pietà. — Ma Epifanio vescovo di Pavia lo condusse a più mite consiglio. E Teodorico allora non solo rinunziò al suo primo proposito; ma gli dette anche larghi sussidi in danaro, per aiutare le oppresse popolazioni. Il concetto fondamentale del nuovo governo fu certamente la unione, la fusione dei Goti coi Romani. I primi dovevano avere le armi, i secondi dar loro da vivere. L'amministrazione doveva restare in mano dei Romani, cui correva l'obbligo di cedere una parte delle terre, di riscuotere le tasse, e raccogliere il danaro necessario allo Stato. I due popoli però restarono lungamente l'uno accanto all'altro, senza potersi mai fondere insieme; restarono anzi in continuo antagonismo fra di loro. Non era possibile andar contro le leggi della natura.
Liberio, che aveva fedelmente servito Odoacre, ebbe l'amministrazione delle finanze, e con essa l'incarico di condurre a termine l'operazione difficilissima della nuova divisione delle terre, che egli eseguì con tanta prudenza da non far nascere nessun malcontento. E non era poco. Si trattava di dividere fra i Goti quello che era stato dato ai soldati di Odoacre, e i Goti erano in numero maggiore. Ma questa divisione, come vedemmo, era omai divenuta nell'Impero un fatto quasi ordinario e normale. Molti dei seguaci di Odoacre erano morti, altri partiti, altri s'erano aggregati ai Goti, i quali, di fronte alla popolazione ed alla estensione del paese, erano anch'essi in piccolo numero. Le guerre, le stragi avevano, è vero, [152] diminuito non poco il numero degl'Italiani, ma ciò rendeva più estese le proprietà da dividere, e tornava perciò, in qualche modo, a vantaggio dei latifondisti, sui quali ricadeva il peso della divisione. Anche sotto Teodorico l'aggravio delle imposte fu minore che sotto l'Impero. Più di una volta egli avrebbe detto che gli doleva di dover riscuotere tasse da paesi esausti, da contribuenti impoveriti (Cassiodoro, III, 40). Le condizioni dell'agricoltura continuarono a migliorare. S'aggiunse, che per molto tempo non vi fu guerra, e che il governo barbarico aveva meno lusso, meno bisogno di danari. L'Italia quindi, sebbene fosse in balìa dei barbari, ebbe anche ora un periodo di pace e di tregua.
Fra i più ricchi e celebri latifondisti erano i Cassiodoro delle province meridionali. Colui che fra di essi fu terzo di questo nome, era anche un gran possessore d'armenti di cavalli, dei quali fece largo dono a Teodorico, che servì fedelmente come aveva già fatto con Odoacre. Egli fu padre di quel Cassiodoro, che ebbe anche il nome di Senatore, ed è notissimo come il Ministro per eccellenza degli Ostrogoti. Nato a Squillace, nella Calabria, verso il 480, fu Patrizio, Console, e nella sua qualità di Questore fece addirittura le parti di primo ministro; fu anche Magister officiorum, Prefetto del Pretorio. Le lettere d'affari, scritte da lui quando era in questi vari uffici, sono il monumento più prezioso della storia di quei tempi. Tutto pieno dell'idea romana, egli cercò di mantenerla viva sotto i Goti; la infuse in Amalasunta, la figlia di Teodorico, che sembra essere stata da lui educata, e che egli certo servì col suo solito zelo quando ella successe al padre. Continuò, anche dopo la morte di lei, a lavorare pel governo goto fino al 539, quando si ritirò definitivamente nel suo paese, dove fondò, come vedremo, due monasteri, dandosi in essi a [153] vita religiosa e letteraria. Egli era stato sempre un uomo dato agli studi, ai quali attese con ardore anche quando si trovava in mezzo agli affari: alle lettere infatti dedicò ogni momento di libertà, che gli restava. E così fece più che mai quando si ritirò finalmente nella solitudine. Scrisse, fra le altre sue opere, una storia dei Goti, dei quali cercò esaltare le origini ed il destino. Di essa c'è rimasto solo il compendio che Jordanes ne fece di memoria, come egli dice, dopo averla rapidamente letta una volta sola. Cassiodoro fu certo un uomo d'assai buona indole, che avrebbe voluto romanizzare i Goti, da lui sinceramente amati ed ammirati; un ottimo e fedele impiegato; un facondo e fecondo scrittore, ma senza originalità e senza energia di carattere. Cominciò la sua vita pubblica con un panegirico di Teodorico, e si piegò di continuo alla volontà dei suoi vari padroni. Come scrittore fu quasi sempre retorico ed ampolloso, affogando il proprio pensiero in un mare di parole e di frasi convenzionali, abbandonandosi a lunghe, eterne digressioni, le quali assai spesso poco o punto avevano da fare col soggetto che trattava. Si potrebbe dirlo addirittura il primo dei seicentisti. Era nondimeno un uomo d'ingegno, instancabile nel lavoro; e la stessa sua poco originale loquacità, con la quale riproduceva e ripeteva le idee, i sentimenti de' suoi tempi, ne fece come uno specchio di essi. Dei quali assai spesso potè darci un ritratto più fedele, perchè più impersonale ed obbiettivo, che non avrebbe saputo fare uno scrittore di più alto ed originale ingegno, di più vigorosa personalità.
Teodorico, che era in sostanza un alto ufficiale militare e politico, mandato dall'Imperatore a governare l'Italia, lasciò inalterate in Roma e nelle province l'antica amministrazione, le antiche magistrature, che affidò esclusivamente a Romani. Le province restarono sotto Judices [154] da lui nominati, che amministravano la giustizia. A Ravenna c'era un Prefetto del Pretorio, a Roma un Vicarius Urbis. Il Senato serbava l'antico splendore ufficiale, senza l'antica autorità. Esso non legiferava ora nè pei Goti nè pei Romani, pei quali ultimi le leggi vere e proprie si facevano a Costantinopoli. V'era però sempre una nobiltà senatoriale ereditaria, che aveva uffici determinati, ai quali erano annessi doveri e diritti. Ed accanto a Teodorico s'andò formando, per forza inevitabile delle cose, un'altra nobiltà di grandi personaggi goti, i quali facevano parte del suo seguito, lo circondavano e consigliavano sui grandi affari di Stato. In tutte le città continuava l'ordinamento municipale con a capo i Duumviri, ed insieme con essi, quasi come regi ufficiali, erano il Defensor, che sorvegliava l'amministrazione, ed il Curator, che s'occupava della finanza. La Curia continuava ad essere destinata più che altro a riscuoter tasse.
Questa monarchia era quindi, nello stesso tempo, una continuazione dell'Impero, ed una istituzione germanica; era formata cioè di due società diverse, che restavano sempre separate, ma che pure s'andavano vicendevolmente modificando, per la vicinanza e contatto in cui si trovavano. Il disegno però di fonderle insieme era un sogno: una delle due doveva inevitabilmente, prima o poi, soccombere, cedere all'altra. Teodorico non creò nessuna nuova istituzione; nulla anzi di veramente nuovo egli fece nè amministrativamente nè legislativamente. A tutto credeva di poter provvedere con una ben regolata amministrazione della finanza e della giustizia. Il Goto intanto restava sempre fuori dell'amministrazione, non era cittadino romano, nè tale poteva esser fatto dallo stesso Teodorico. Era un forestiero, che formava l'esercito, di cui i Romani non potevano come tali far parte: questi avevano diretta ingerenza nell'indirizzo generale della politica. [155] Il carattere sostanziale della monarchia rimaneva quindi militare e straniero, sebbene Teodorico fosse stato nominato Patrizio e Console, adottato come figlio dall'Imperatore che lo aveva mandato. Era uno stato di cose assai pericoloso, perchè pieno di sottintesi, di finzioni, di forme, che non rispondevano, che anzi contradicevano alla sostanza e realtà vera delle cose; non poteva perciò durare a lungo. Tuttavia il primo periodo di questo regno assicurò alle popolazioni alcuni anni non solo di pace, ma anche di prosperità.
Secondo Procopio, Teodorico «difese l'Italia, amò la giustizia, fu tiranno di nome, ma di fatto veramente re.» Molti esempi s'adducono della sua giustizia, della sua tolleranza religiosa, la quale qualche volta par degna di un vero filosofo, quasi d'uno spirito moderno. Nelle lettere scritte per lui da Cassiodoro, egli dice, «che non si può a nessuno imporre la fede religiosa, perchè nessuno può essere costretto a credere contro sua voglia.» (II, 27). Non solo rispettò i cattolici, ma adorò solennemente in Roma le reliquie di S. Pietro. Moltissimi sono gli edifizi e le opere pubbliche da lui compiute, sopra tutto in Ravenna, nella quale si può dire che lasciasse la propria impronta. Ivi è la chiesa bellissima di S. Apollinare; ivi sono gli splendidi mosaici, gli avanzi del suo palazzo, la sua tomba di stile romano, coperta da un gran monolite. Altre opere pubbliche fece a Verona ed in molte città dell'alta Italia. Restaurò gli acquedotti, le mura di Roma; prosciugò una parte delle Paludi Pontine; promosse l'industria, il commercio e l'agricoltura, a segno tale che il prezzo del grano scemò grandemente, e l'Italia cominciò a bastare a sè stessa, cosa che da lungo tempo non succedeva più. Nè sotto di lui fioriron solo le arti belle, per opera di quegli artisti italiani e bizantini, i cui lavori si ammirano anche oggi in Ravenna; ma rifiorirono [156] del pari le lettere. Se gli scritti di Cassiodoro, nonostante un valore incontestabile, hanno pur molti difetti nella forma ampollosa e retorica, quelli di Boezio, del quale avremo occasione di parlare più oltre, hanno anco nella forma pregi non comuni, che dettero al loro autore una fama ben meritata. Ma s'illuderebbe chi volesse attribuire tutto ciò all'opera esclusiva, all'azione diretta e personale di Teodorico: fu piuttosto conseguenza indiretta del suo governo. La pace da lui assicurata all'Italia, l'amministrazione affidata alle mani esperte di ufficiali romani contribuirono non poco a fare per qualche tempo prosperare il paese. Ma non era una civiltà nuova che nascesse; era l'antica società e l'antica civiltà che risorgevano di sotto alle rovine lasciate dalla barbarie.
Tutto ciò avvenne in modo così rapido e generale, che Teodorico stesso finì coll'impensierirsene assai. Ed era naturale, perchè diveniva sempre più evidente la diversità grande, irreconciliabile, che per sangue, tradizioni, lingua, costumi, religione, passava fra Goti e Romani. Ariano e capitano di barbari ariani, egli si trovava in un paese essenzialmente romano e cattolico. Generale di un impero teoricamente indiviso, e sotto la dipendenza di un imperatore, cui diceva di volere obbedire, era e voleva essere re indipendente dei Goti, che lo avevano levato sugli scudi. E però anche ora, come a tempo di Odoacre, fino a quando l'Imperatore si trovava in lotta col Papa, a questo ed al Re conveniva essere buoni amici, proteggendosi a vicenda contro le pretese di Costantinopoli. Il giorno però in cui Papa e Imperatore si fossero intesi, il pericolo per Teodorico poteva divenire gravissimo.
Ma anche senza di ciò, la questione politica era per sè stessa molto pericolosa. L'Impero era pieno di barbari. Seguendo il vecchio sistema bizantino di rivolgerli [157] gli uni contro gli altri, l'Imperatore poteva facilmente ripeter contro Teodorico quello che, per mezzo di lui appunto, aveva fatto contro Odoacre. Teodorico perciò volse ben presto il suo pensiero a fortificare il proprio Stato, essendo chiaro che non poteva fare sicuro assegnamento su Costantinopoli, dove non si era punto disposti a riconoscerlo in modo definitivo. Possedendo egli già la Rezia, tenuta sempre come parte integrante dell'Italia, s'avanzò nell'Illirico, l'anno 504, per impadronirsi di Sirmio, dove era stato in passato un Prefetto del Pretorio, e che era la prima stazione dei barbari, quando dal Danubio venivano in Italia. Così poteva difendere da quel lato i confini d'Italia contro nuove invasioni. Ma ciò appunto irritava grandemente l'Imperatore, perchè Teodorico s'impadroniva di quella parte dell'Illirico che apparteneva all'Oriente. E dette nel 508 occasione ad un assalto improvviso di navi bizantine contro le coste dell'Italia meridionale, dove esse riportarono, come dice uno scrittore del tempo, «una disonesta vittoria di Romani contro Romani.» Era sempre la stessa perenne contradizione, che si riproduceva. Le lettere di Teodorico riconoscono l'autorità dell'Imperatore di tutto il mondo, totius orbis praesidium. Da lui egli desidera essere riconosciuto, da lui ha imparato a reggere i Romani. Il suo governo altro non vuole, altro non può essere, «che una copia dell'unico e solo Impero, unici exemplar Imperii. Come si potrebbe separare da voi uno che da voi è plasmato? Una divisione fra le due Repubbliche, che hanno sempre formato un sol corpo, non è possibile. Un solo volere, un solo pensiero è quello che deve animare tutto il regno romano, romani regni unum velle, una semper opinio sit» (Variae, I, 1). E mentre che colla penna del suo ministro, Teodorico scriveva queste lettere, quando si trovava invece fra i suoi intimi consiglieri goti, [158] vedeva in ben altro modo lo stato delle cose, e mirava ad una politica assai diversa, se non addirittura opposta. Egli voleva allora comandare in Italia come un principe affatto indipendente, il che non piaceva certo all'Imperatore, che perciò da un momento all'altro poteva decidersi ad assalirlo o a farlo assalire da altri barbari. Questo suggerì a Teodorico il pensiero d'imparentarsi, ed allearsi con i barbari della Gallia, della Spagna, dell'Africa, costituendo sotto la sua egemonia, una specie di confederazione, quasi d'Impero barbarico di Occidente.
Una sua sorella, Amalafrida, egli dette in moglie a Trasamondo re dei Vandali; una figlia ad Alarico II re dei Visigoti, i quali a lui ed ai suoi erano affini; lo avevano aiutato a vincere Odoacre: essi occupavano la Provenza, gran parte della Gallia, della Spagna, ed avevano la loro capitale a Tolosa. Un'altra figlia dette all'erede presuntivo del regno dei Burgundi, il figlio di re Gundobaldo. Era un regno assai vasto, travagliato allora da interne dissensioni, delle quali profittarono ben presto i Franchi. Questi fin d'allora procedevano rapidamente alla formazione di un nuovo Stato barbarico più vasto e forte degli altri, sotto Clodoveo, che, convertitosi al Cattolicismo, ebbe l'appoggio potentissimo della Chiesa romana. Teodorico sposò la sorella di Clodoveo, Audefleda, da cui ebbe la figlia Amalasunta, sua unica erede. Il non avere figli maschi era ciò che lo rendeva sempre più ansioso d'assicurare la successione e la stabilità del proprio regno.
Fra i barbari, quello che continuò più di tutti a progredire era Clodoveo, il quale a forza di guerre, di violenze, di delitti d'ogni sorta, riuscì a disfarsi de' suoi nemici, de' suoi parenti e rivali. Vinse i Burgundi, che divennero suoi dipendenti; si volse contro i Visigoti che [159] sconfisse del pari, uccidendo il loro re. Ottenne poi non solo il favore del Papa, come abbiam visto, ma quello anche dell'imperatore Anastasio, che lo nominò Console onorario, mostrando così di volerlo opporre a Teodorico. E però questi, dopo che ebbe fatto invano ogni opera per impedire l'avanzarsi dei Franchi contro i Visigoti, si decise a muover loro guerra, quando vide che assediavano Arles, ed erano per prenderla. Due eserciti ostrogoti passarono quindi le Alpi fra il 508 ed il 509; e il primo di essi arrivò in tempo per liberare la città, che validamente si difendeva. I Franchi uniti ai Burgundi ebbero poi una rotta, nella quale, secondo Jordanes, che sempre esagera le cifre, perdettero 30,000 uomini. E così Teodorico fu padrone non solamente della Provenza, che ritenne per sè, come appartenente all'Italia; ma anche di quella parte della Spagna e della Gallia che era dei Visigoti, e che egli governò in nome d'Amalarico giovanetto, suo nipote, figlio di re Alarico II. Nel centro e nel nord della Gallia il forte regno dei Franchi, cominciò dopo la morte di Clodoveo (511) ad essere travagliato da interne dissensioni; e così per qualche tempo non fu più pericoloso all'Italia.
Teodorico allora, quasi fosse veramente divenuto Imperatore, ordinò nella Provenza un governo alla romana; mandò in Gallia un Prefetto del Pretorio, ed un Vicarius Urbis. A quest'ultimo scriveva, raccomandandogli di mostrarsi tal governatore, «quale un Romanus Princeps poteva mandare alle sue province» (Variae, III, 16). A quei provinciali diceva poi: «richiamati per divino aiuto all'antica libertà, adottate i costumi romani, vestimini moribus togatis, abbandonando la barbarie e la crudeltà; obbedite alle antiche leggi, e siate così degni nostri sudditi» (III, 17). Un'altra prova manifesta di questa affettata romanità si trova nella iscrizione a lui dedicata in Terracina, a proposito [160] del prosciugamento di una palude. Ivi Teodorico è chiamato victor ac triumphator semper Augustus, bono Reipublicae natus, custos libertatis et propagator romani nominis.[30] È sempre la ripetizione dello stesso singolare fenomeno, la stessa contradizione. Essendo e volendo essere un re barbaro, pretendeva di legalizzare e legittimare questo suo stato, atteggiandosi a principe romano, a nuovo Imperatore d'Occidente, cosa che Anastasio certamente non avrebbe potuta mai tollerare in un barbaro. E però invano il re ostrogoto fece di tutto per renderselo propizio. Il non potervi riuscire lo angustiava ora più che mai, giacchè avendo data sua figlia Amalasunta in isposa ad Eutarico, che era un barbaro, diveniva sempre più necessario, perchè questi potesse legalmente ascendere al trono, ottenere l'approvazione dall'Imperatore. Se però Teodorico non riuscì mai ad averla da Anastasio, l'ottenne invece dal successore Giustino, dopo che ebbe promosso un accordo fra questo ed il papa Ormisda. Le conseguenze però di tale accordo furono a lungo andare assai diverse e più gravi di quel che non si sarebbe pensato. La questione religiosa, che aveva in Italia una straordinaria importanza, mutò adesso sostanzialmente carattere, e s'aggravò in modo da divenire più tardi causa non ultima della rovina del regno ostrogoto.
Sebbene ariano, Teodorico era stato lungamente in buona armonia col Papa, favorendolo nel conflitto religioso, che tra Roma e Costantinopoli da lungo tempo continuava assai aspro. Già papa Gelasio I (492-6), sostenitore fermo e costante della supremazia della Chiesa di Roma, aveva, come vedemmo, condannato l'Henoticon, dichiarando eretico Acacio, aggiungendo, che se l'Imperatore [161] ne avesse seguito le idee, sarebbe stato eretico anch'esso. «Come romano, così egli scriveva, io dovrei esser sempre favorevole all'Imperatore; ma la tolleranza degli eretici è più pericolosa delle devastazioni dei barbari.» Nè c'era ragione che mutasse attitudine o linguaggio per favorire Teodorico, il quale non aveva interesse alcuno di contrariarlo nella disputa, perchè il dissidio era tutto a suo vantaggio. Se non che l'Imperatore d'Oriente che aveva mandato Teodorico, sperando fra le altre cose che egli avrebbe saputo meglio di Odoacre tenere a freno il Papa, restava affatto deluso, e quindi sempre più irritato contro di lui.
A Gelasio successe Anastasio II (496-8), che aveva il nome stesso dell'Imperatore, ed era un Romano d'indole assai più mite del suo predecessore. Teodorico ne profittò, per mandare a Costantinopoli un'amichevole ambascerìa, alla cui testa era il patrizio Festo, il quale s'adoperò molto ad ottenere una conciliazione politico-religiosa, lasciando sperare all'Imperatore di far piegare il Papa nella questione dell'Henoticon, ed in questo modo riuscì a far mandare a Teodorico le tanto desiderate insegne. Pace facta de praesumptione regni, dice a questo proposito l'Anonimo Valesiano. Ben presto però papa Anastasio moriva, e ne seguì una elezione violentemente contrastata, durante la quale Teodorico si condusse con grande prudenza. I candidati eran due. Lorenzo, tenuto più pieghevole e meno avverso all'Henoticon, aveva il favore dei Senatori, e quello sopra tutto di Festo, come era naturale per le speranze che appunto l'Henoticon egli aveva date a Costantinopoli. L'altro candidato, Simmaco, era invece più fermo nella dottrina ortodossa, e godeva quindi il favore degli ardenti cattolici. Così la lotta fra i due partiti s'accese per modo, che ne venne minacciato l'ordine pubblico, e Teodorico fu costretto ad intervenire. Con molto accorgimento [162] egli dichiarò, che l'eletto doveva essere colui al quale s'era dato un maggior numero di voti. E così vinse Simmaco (498), quegli appunto che a lui conveniva di più, perchè meno disposto a troppo sottomettersi a Costantinopoli.
Nell'anno 500 Teodorico fece il suo ingresso solenne in Roma. Fuori delle mura gli vennero incontro il nuovo Papa, il Senato, i nobili. Egli andò in S. Pietro ad adorare le reliquie del Santo; dichiarò di voler concedere tutto ciò che gl'Imperatori avevano promesso a vantaggio della Città eterna; attese con ardore al restauro dei monumenti; fece celebrare i giuochi nel Circo; assegnò al popolo un annuo sussidio di 120 mila moggia di grano. Intanto gli oppositori di Simmaco non si erano acquetati; mossero anzi contro di lui ogni sorta d'accuse, perfino di adulterio. Teodorico dichiarò di non volersene mescolare, e rimise la decisione ad un Concilio, che fu chiamato Sinodo palmare (501), nel quale mandò suo rappresentante il vescovo di Altino. Gli fu opposto che il Concilio doveva essere radunato dal Papa, non dal Re; e Teodorico rispose, che aveva in tutto proceduto d'accordo con Simmaco. Si protestò allora che non si voleva il regio visitatore, che non si poteva da nessuno giudicare il capo della Chiesa; e Teodorico disse che egli pregava solamente il Concilio di ristabilire la pace religiosa nel modo che credeva migliore. Si sarebbe, egli aggiunse, uniformato senz'altro alle deliberazioni prese, limitandosi da parte sua a mantenere l'ordine, a difendere da ogni minaccia la persona del Papa. Il Concilio finì col riconoscere Simmaco senza giudicarlo; e Lorenzo, dopo avere invano tentato di resistere, si ritirò. La pace religiosa fu così ristabilita in Occidente; ma ricominciò subito la lotta con Costantinopoli. Ben presto Simmaco assunse un'assai decisa attitudine; ed in un Concilio tenuto l'anno 502 fece leggere ed annullare i due decreti di Odoacre (483) circa la elezione papale e la proibizione d'alienare le proprietà [163] della Chiesa, ritenendoli illegali, come opera di un laico, indebitamente poi sanzionata. E quanto all'Henoticon, scrisse all'Imperatore: «Invano tu credi di poterti levare contro la potenza di S. Pietro, e liberarti dal giudizio di Dio.» Nè l'Imperatore poteva allora reagire, perchè il popolo era a Costantinopoli divenuto fautore della dottrina ortodossa. Il Papa quindi procedeva fermo e sicuro, occupandosi, senza altri pensieri, di costruire in Roma nuove chiese, dando le sue cure maggiori ad abbellire S. Pietro, iniziando la costruzione del Vaticano: e così, per opera sua e di Teodorico, l'antica capitale dell'Impero sembrava fiorire di nuovo. A Costantinopoli invece la disputa religiosa dava origine a tumulti, a ribellioni, che indebolivano l'Imperatore ed incoraggiavano sempre più il Papa. E quando a Simmaco successe Ormisda (514-23), anche questi continuò a lottare con energia contro l'Imperatore, che finalmente, perduta la pazienza, mandò via gli ambasciatori papali dicendo, che poteva sopportare d'essere addolorato ed anche ingiuriato, ma non voleva rassegnarsi a ricevere comandi da Roma.
Inasprite le cose fino a questo punto, cominciavano a dar grave pensiero anche a Teodorico, cui certo non giovava che l'Imperatore venisse troppo irritato. E fu questo il momento nel quale la questione religiosa subì la profonda modificazione, più sopra accennata. Morto l'imperatore Anastasio, gli era successo Giustino (518-27), un contadino ignorante della Dardania, valoroso soldato, affatto ortodosso in religione, che si lasciò guidare da suo nipote Giustiniano, uomo di grande ingegno e ortodosso al pari di lui. Fu questo veramente il principio di un nuovo indirizzo religioso e politico nell'Impero, anzi di un'era novella. Il popolo a Costantinopoli esaltava con grande ardore le dottrine cattoliche, e gli eretici erano perseguitati: il Papa naturalmente ne gioiva. Teodorico, [164] impensierito allora del nuovo stato di cose in Oriente, e della opposizione crescente che vedeva sorgere contro di lui in Italia, pensò di farsi addirittura iniziatore d'un accordo fra Papa e Imperatore, sperando così di guadagnarsi il favore dell'uno e dell'altro. La cosa riuscì dapprima assai facilmente; ma le conseguenze furon poi inaspettate. Nel 519 arrivavano a Costantinopoli gli ambasciatori del Papa, che furono solennemente accolti dal popolo, dal Senato e dall'Imperatore. Essi portavano il libellus, o sia la formola già concordata della esplicita sottomissione dell'Impero alle dottrine cattoliche; e fu subito accettata. L'Henoticon, cagione di tante dispute, venne solennemente condannato; Acacio fu anatemizzato. Così Roma, dopo una lotta sostenuta sempre con energia, senza mai nulla cedere, aveva finalmente trionfato. E pareva che l'Imperatore si fosse stabilmente messo d'accordo non solo col Papa, ma anche con Teodorico. Infatti Eutarico fu nominato Console e adottato come figlio, per arma filius (Variae, VIII, 1): era questa la formola usata. Se non che ben presto tutto si volse a danno di Teodorico, il quale era ariano, e non poteva andare a lungo d'accordo con un Papa e con un Imperatore, che, essendo ambedue ortodossi, dovevano trovarsi, come ben presto si trovarono, uniti contro di lui.
Verso il 524 l'imperatore Giustino cominciò a perseguitare gli Ariani, il che rese subito assai difficile la condizione di Teodorico, massime perchè suo genero [165] Eutarico era un ariano fanatico ed intollerante. Il Re fu quindi costretto a reagire, perseguitando i Cattolici, e si trovò subito in urto col Papa, eccitando lo scontento delle popolazioni. In questo tempo appunto, avendo il popolo bruciata la Sinagoga a Ravenna, Teodorico lo costrinse a ricostruirla; il che aumentò sempre più il malumore. E non era cosa di poco momento. Nei Romani, sopra tutto nei Senatori e nei latifondisti, che più avevano sofferto per la divisione delle terre, dirigevano l'amministrazione ed avevano i principali uffici civili, s'era, insieme colla prosperità favorita dalla pace, cominciata a manifestare una crescente avversione ai Goti, con una maggiore fiducia in sè stessi. Questa fiducia, come era naturale, aumentava grandemente ora che si poteva esser sicuri del favore del Papa e dell'Imperatore. Così la società e la cultura romana guadagnavano rapidamente terreno, e i fautori di esse cominciavano a intendersela direttamente coll'Imperatore. Tutto questo finì coll'irritare assai Teodorico, il quale vedeva a un tratto minacciato di rovina l'edifizio con sì gran cura innalzato. L'alleanza, la fusione dei Goti e dei Romani da lui tanto vagheggiate, apparivano ora come un sogno che s'andava a un tratto dileguando. Fu allora che egli emanò contro i Romani l'ordine ricordato dall'Anonimo Valesiano, ut nullus eorum arma usque ad cultellum uteretur. Ed a poco a poco parve che in lui andasse scomparendo ogni traccia di romanità; tornò ad essere il feroce barbaro d'una volta, quello stesso che colle proprie mani aveva, nel banchetto di Ravenna, assassinato Odoacre.
Non tutti i Romani erano però concordi, essendovi fra loro, anche negli ordini superiori della società, di quelli che restavano ciecamente attaccati ai Goti, e che, come tutti i rinnegati, erano intolleranti e vendicativi. [166] Alla loro testa si trovava il referendario Cipriano, che fu poi Conte delle sacre largizioni, Maestro degli uffici, e che non solamente aveva egli stesso preso servizio nell'esercito dei Goti, ma da essi aveva fatto educare nella loro lingua e nelle armi i suoi propri figli. Costui ad un tratto accusò il patrizio Albino d'avere scritto all'Imperatore lettere segrete, per cospirare contro Teodorico. Albino negò recisamente ogni tentativo di congiura; e la cosa non avrebbe avuto le grandi proporzioni che prese, se all'agitazione che già s'era manifestata nei Romani, ai sospetti già fieramente accesi nell'animo di Teodorico, non si fosse aggiunto l'intervento inaspettato e spontaneo d'un personaggio di grande reputazione ed autorità.
Il senatore Boezio della illustre famiglia Anicia era stato amico di Teodorico, e ne aveva fatto l'elogio in Senato; nel 510 era stato Console, dignità che nell'anno 522 venne contemporaneamente conferita ai suoi due figli, fatto eccezionale davvero. Egli era studiosissimo dell'antica filosofia, sopra tutto di Aristotele, di cui aveva commentato la Logica; di Platone e dei Neoplatonici. Aveva tradotto dal greco opere di matematica e di magia; aveva scritto opere filosofiche, ed anche teologiche: Cassiodoro ce lo descrive come un uomo enciclopedico. «A lui si ricorse, egli dice, quando si voleva costruire un orologio ad acqua, ed uno a sole pel re dei Burgundi; quando si cercava un buon citaredo per mandarlo al re Clodoveo, e così pure quando si volle scientificamente esaminare se era stata alterata la moneta con cui venivano pagati i soldati.» Egli era un cristiano, ammiratore dello spirito dell'antica Roma, animato fino all'entusiasmo da un sentimento stoico e neoplatonico. Una prova di questo suo esaltamento si vide nel modo con cui si gettò nella pericolosa disputa, a proposito di Albino. Ne difese a viso [167] aperto l'innocenza, sostenendo esser falsa l'accusa fattagli da Cipriano, aggiungendo che i sentimenti d'Albino erano quelli di tutto il Senato; che congiura non v'era stata, e se vi fosse stata, nessuno dei Senatori l'avrebbe rivelata. Cipriano allora portò falsi testimoni, che riconfermarono l'accusa mossa contro Albino, estendendola anche a Boezio. E così furono ambedue chiusi in carcere.
Non sappiamo qual fosse il destino finale di Albino, ma Boezio venne processato e condannato dal Senato. La forma del processo ci è però ignota: non si può dire con certezza se la condanna fu pronunziata da una commissione o da tutto il Senato. Ma quest'ultimo caso non par probabile, se si pensa ai sospetti che Teodorico continuò sempre ad avere contro i Senatori. Non si sa neppure qual fosse veramente la sentenza pronunziata contro Boezio, che se aveva con troppa audacia sparlato del Re, aveva però a viso aperto difeso il Senato. Assai probabilmente venne da una commissione condannato al carcere, pena che più tardi Teodorico, accecato dall'ira, mutò di suo arbitrio in una morte crudele, anzi barbara addirittura.
Nella lunga prigionia Boezio scrisse la sua Consolatio Philosophiae, che è la propria confessione ed apologia, il libro che rese immortale il suo nome. «Di che cosa sono io accusato?, egli diceva. Di avere amato la libertà di Roma, difeso la dignità del Senato.» Chiamava corrotti i suoi accusatori, e si doleva di essere stato condannato, senza venir prima interrogato, da quel Senato stesso di cui aveva assunto le difese. La ragione dell'accusa, egli proseguiva, «furono gli odii contro di me suscitati nell'adempimento del mio ufficio, opponendomi io alle ingiustizie di cui erano vittime i provinciali romani. L'avidità dei barbari, sempre impunita, diveniva ogni giorno maggiore verso le terre dei provinciali, dei quali [168] assai spesso volevano la testa, per aver poi gli averi. Quante volte non difesi e protessi i miseri contro le infinite calunnie dei barbari, che volevano divorarli!» Questo libro dettato nel carcere, senza l'ampollosa retorica di Cassiodoro, in buona e corretta prosa latina, di tanto in tanto interrotta da versi, è un vero inno alla virtù. E fu scritto colla certezza della morte vicina, perchè la irritazione di Teodorico, già arrivata al colmo, divenne, come era naturale, per questo audace linguaggio, addirittura furibonda. Boezio si dichiarava apertamente difensore della giustizia e degli oppressi, pei quali non aveva mai ricusato nessun sacrifizio. «Gloria, potenza, ricchezza, egli continuava, sono vanità. Solo la virtù ha valore, essa sola rende l'uomo veramente libero. Iddio che è il sommo bene, cui l'universo intero aspira, deve essere anche la mira costante del filosofo.» Fra i caratteri più singolari del libro, che ebbe una prodigiosa popolarità in tutto il Medio Evo, e fu tradotto in ogni lingua, v'è ancora questo, che, leggendolo senza conoscerne l'autore, sarebbe difficile dire se esso è l'opera d'un pagano o d'un cristiano. È di certo la manifestazione d'un eroismo, che potrebbe credersi pagano e cristiano ad un tempo. Non si può affermare che vi sia nulla di sostanzialmente contrario al Cristianesimo, ma è strano davvero che un cristiano, il quale s'apparecchia alla morte, non accenni una sola volta nè al Paradiso, nè all'Inferno, nè a Cristo, e neppure alla speranza d'una vita futura. Pare il linguaggio d'uno stoico, tanto che per qualche tempo si giunse a dubitare se Boezio fosse stato davvero cristiano e autore delle opere religiose a lui attribuite. Ma la grande popolarità che nel Medio Evo godette il suo libro fra i Cristiani, rendeva assai difficile ammettere il dubbio, ed oggi la critica storica lo ha interamente eliminato. C'è in lui qualche cosa che ricorda i Neoplatonici [169] italiani del secolo XV, come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, nei quali Paganesimo e Cristianesimo sembravano fondersi e confondersi in una dottrina sola. I cospiratori allora affilavano i pugnali contro i tiranni, invocando Bruto, e nello stesso tempo si raccomandavano alla Madonna, perchè guidasse il loro braccio, e non facesse fallire il colpo omicida.
Teodorico si decise finalmente a far morire il prigioniero. Una fune venne legata intorno al capo di Boezio così strettamente, che gli occhi quasi ne schizzarono fuori, ed allora con un colpo di mazza sulla testa lo finirono (524). Nè contento di ciò, Teodorico, che aveva ormai perduto il dominio di sè, temendo che Simmaco, capo del Senato, anch'esso della famiglia Anicia, e che aveva dato sua figlia in moglie a Boezio, potesse voler vendicare il parente suppliziato, fece prendere e porre a morte anche lui, senza neppur fargli processo. Ciò dimostra che Albino e Boezio non erano soli ad avere sentimenti romani nel Senato, e fa quindi sempre più credere che questo non sarebbe stato allora concorde a pronunziare, per ragioni politiche, la sentenza di morte contro uno dei suoi membri.
A papa Ormisda era successo Giovanni I (523-6), che si mostrò lieto anch'esso che l'Imperatore perseguitasse gli Ariani, ciò che spinse il furore di Teodorico fino al parossismo. Egli, nonostante la viva resistenza, costrinse il Papa a partire per Costantinopoli, pretendendo che andasse colà a difendere la causa degli Ariani, a chiedere la restituzione delle loro chiese; altrimenti minacciava severe rappresaglie. Il Papa assai di mala voglia partì per l'Oriente, e fu accolto con grande entusiasmo. Ottenne tutto quello che domandò nell'interesse del Cattolicismo; nulla però, com'era naturale, ottenne, nè gl'importava ottenere, a favore degli Ariani. Lo sdegno di Teodorico fu tale allora che, quando Giovanni tornò, lo chiuse in [170] carcere, dove il 25 maggio 526 morì. Ed ora il Re volle, per propria sicurezza, ingerirsi nella elezione del nuovo Papa, indicando colui che fu poi eletto col nome di Felice III. Tutto questo destò d'ogni parte uno straordinario ed universale malcontento contro di lui. Pareva che l'Impero ed i Vandali, profittando della occasione, fossero per mettersi d'accordo, e muovergli guerra da un momento all'altro. Ma quando egli con febbrile attività raccoglieva navi ed armati per difendersi, fu improvvisamente sorpreso dalla morte.
In questa morte, avvenuta solo novantasette giorni dopo quella di papa Giovanni, molti videro la mano di Dio, e più d'una leggenda s'andò formando intorno ad essa. Procopio racconta che, trovandosi Teodorico ad un banchetto, gli fu portato un grosso pesce, il quale, digrignando i denti e rivolgendo minacciosamente gli occhi, pareva che assumesse le sembianze di Simmaco. Spaventato di ciò, il Re si sentì preso da brividi che lo costrinsero a mettersi in letto, dove non vi furono panni che bastassero a riscaldarlo, ed il 30 agosto 526, in età di settantadue anni, fu da una forte dissenteria condotto a morte. Un'altra leggenda, narrata assai più tardi nei Dialoghi di Gregorio Magno, racconta che un collettore di tasse, passando per l'isola di Lipari, vi trovò un eremita che subito esclamò: — È morto Teodorico! — Come mai, rispose l'altro, se non è molto che io lo lasciai in buona salute? — Eppure, soggiunse l'eremita, io l'ho visto or ora passare colle mani legate, fra papa Giovanni I e Simmaco, ed essere gettato nel cratere del Vulcano di Lipari. — Questa leggenda si connette assai probabilmente al fatto, che qualche tempo dopo la morte, il corpo del Re non fu più trovato nel suo mausoleo, e se ne perdè ogni traccia. Nel 1854 si credette che alcuni muratori, i quali scavavano la terra non molto lungi dal mausoleo, [171] avessero trovato colà sepolto il suo cadavere. Ma anche allora, per colpa di quegli operai mal fidi, tutto scomparve insieme colla corazza d'oro, che era stata del pari trovata, e di cui solamente alcuni brani si salvarono.
Teodorico, morendo, lasciava la figlia Amalasunta, vedova per la morte già avvenuta del marito Eutarico, da cui aveva avuto un bimbo, Atalarico, che era allora di dieci anni circa. E però, quando Teodorico si sentì vicino a morte, chiamati intorno a sè i capi dei Goti, presentò loro il nipote, raccomandando, come dice Jordanes, «che lo rispettassero quale loro re, amassero il Senato ed il popolo romano, tenessero soddisfatto e propizio l'Imperatore: Principemque orientale placatum, semperque propitium haberent post Deum.» Necessariamente il governo venne di fatto nelle mani della madre Amalasunta, la quale aveva avuto un'educazione romana; parlava il goto, il greco ed il latino. Ella ci è descritta come bella e d'animo virile; ma in realtà non riuscì pari alle molte e gravi difficoltà in mezzo alle quali si trovò. A tempo di lei non solo l'Impero d'Occidente si decompose affatto, ma s'avviò a rovina anche il regno ostrogoto.
E prima di tutto, la sua successione al governo, non approvata dall'Imperatore, non era, neppure secondo le consuetudini gote, legale. Si cercò di rimediarvi, facendo prestare giuramento dal popolo goto e romano ad Atalarico, che a sua volta dovè giurare ad essi ed al Senato. Jurat per quem juratis, scriveva Cassiodoro (VIII, 3), il quale divenne ora nella Corte più potente che mai; fu Maestro degli uffici, Questore, e più tardi Prefetto del Pretorio, tanto che diceva di sè stesso: Erat solus ad universa sufficiens (IX, 25). Amalasunta sembrava che volesse seguire una politica mite e conciliatrice, senza troppo allontanarsi dalla via seguita da suo padre nei primi anni [172] del regno. Restituì ai figli di Boezio e di Simmaco i beni loro confiscati; e nello stesso tempo, con singolare contradizione, favorì ancora il partito avverso. Infatti Cipriano, l'accusatore, il calunniatore di Albino e di Boezio, ritenne i suoi alti uffici. Sotto di lei vi furono Romani che ebbero nell'esercito gradi elevati, e Goti che entrarono nel Senato.[31] La forza delle cose la costringeva a tenere una via diversa da quella seguìta da Teodorico; e ciò nella politica estera più ancora che nella interna.
Il concetto d'una grande confederazione barbarica, sotto la presidenza del re ostrogoto, andò in fumo. L'Italia si trovò isolata, ed a Costantinopoli s'aveva ora assai buon gioco, e si cercò presto di trarne profitto. Intanto Amalasunta faceva scrivere da Cassiodoro, in nome di Atalarico, una lettera che diceva all'Imperatore: «Mio avo fu innalzato da Onorio alla dignità di Console, mio padre fu da voi adottato per arma filius; questo è un titolo, che a me adolescente s'addice anche meglio» (VIII, 1). Ma nulla s'ottenne da Giustino, chè anzi l'Italia meridionale si trovò da lui minacciata di guerra, tanto che fu allora appunto che Cassiodoro dovè accorrere per assumerne coi suoi la difesa. A settentrione minacciavano i Gepidi; all'interno v'era un grandissimo scontento fra i Goti, i quali si dolevano aspramente, che il giovane Atalarico venisse educato alla romana piuttosto che alla gota, alle lettere piuttosto che alle armi. Nel 527 Giustino associava all'Impero suo nipote Giustiniano, il quale dopo quattro mesi (1º agosto 527), per la morte dello zio, divenne Imperatore. Egli era un uomo assai più accorto, che ad una grande ambizione univa un altissimo ingegno. Riconobbe subito la successione di Atalarico e la reggenza di Amalasunta, non per affetto che portasse [173] loro; ma perchè voleva assicurarsene il favore, meditando adesso di muover guerra ai Vandali. Finita questa, avrebbe poi pensato ad attaccare l'Italia. Intanto era lieto che il malumore dei Goti crescesse, perchè così si spianava a lui la via per mescolarsi nelle loro faccende, e trovar futuri pretesti di guerra. Già i loro capi protestavano ogni giorno più vivamente contro Amalasunta, per la educazione che dava al figlio. Teodorico, essi andavano ripetendo, aveva giustamente affermato, che non avrebbe saputo mai affrontare le spade nemiche colui che temeva la sferza del pedagogo. Ed un giorno che il fanciullo piangeva per una guanciata ricevuta, chi dice dal maestro, chi dalla madre, le sdegnose proteste arrivarono a tale, che essa dovette cedere, affidandolo a capi militari, i quali lo educarono fra le armi, le donne, il vino, i cavalli. Ed egli allora, per questo subito mutamento, datosi alla dissolutezza, cominciò a deperir tanto nella salute, che si previde subito non poter vivere a lungo.
In Italia si trovava un altro nipote di Teodorico per nome Teodato; questi era figlio d'Amalafrida e di un Goto, morto il quale, ella aveva in seconde nozze sposato Trasamondo re dei Vandali, l'uno e l'altro già morti adesso. Da lei Teodato aveva ricevuto un'educazione romana, ed era divenuto appassionato cultore della letteratura latina e della filosofia di Platone, il che lo rendeva poco accetto ai Goti. Pure, secondo le loro consuetudini, la successione sarebbe toccata a lui, come figlio d'una sorella di Teodorico, in caso che Atalarico fosse morto prima, cosa che pareva assai probabile. Ambizioso ed avido, egli s'era reso poco accetto anche ai Romani, per le sue prepotenze. Teodorico gli aveva concesso vaste terre in Toscana, ed egli le aveva, a forza di astuzie e di prepotenze, aumentate in modo da rendersi padrone di quasi [174] tutta quella regione. Amalasunta dovette quindi porre un freno a queste ingiustificate spoliazioni, e ciò le rese Teodato avverso per modo che cominciò a tramare contro di lei a Costantinopoli.
L'avversione dei Goti per Amalasunta era intanto giunta a tale, che ella dovette mandarne ai confini tre dei più potenti e riottosi. Tuttavia si sentiva sempre così poco sicura, che si rivolse anch'essa a Giustiniano, al quale aveva, come vedremo, reso già assai utili servigi nella guerra contro i Vandali (533). Voleva rifugiarsi presso di lui, ed a sua dipendenza governare poi l'Italia. Giustiniano, come è naturale, accolse la proposta; e già le aveva apparecchiato splendido alloggio a Durazzo (Dyrrachium), dove essa spedì sopra navi i tesori dello Stato, 40,000 aurei. Ma Amalasunta, che era donna assai mutabile, essendo in questo mezzo riuscita a disfarsi dei tre Goti che aveva confinati, richiamò le navi e depose a un tratto ogni pensiero di lasciare l'Italia.
Giustiniano allora, non sapendo qual fosse veramente l'animo di lei, mandò tre ambasciatori per indagarlo (534). Egli adesso aveva vinto i Vandali, e s'apparecchiava a fare l'impresa d'Italia. Aveva in passato chiesto ad Amalasunta la fortezza di Lilibeo (Marsala) in Sicilia, e la chiedeva ora nuovamente. Questa fortezza era stata concessa in dote ad Amalafrida; e i Goti ritenevano che, per la morte di lei, tornasse di diritto a loro. Giustiniano invece riteneva che, avendo egli sottomesso i Vandali, la fortezza spettasse a lui, e la chiedeva con insistenza anche perchè gli poteva giovare non poco nel cominciare l'impresa d'Italia. Amalasunta l'avrebbe facilmente ceduta; ma temeva lo sdegno del suo popolo, e però esitava.
Il 2 ottobre 534 moriva Atalarico, ed Amalasunta si [175] trovò in una nuova, difficilissima condizione. Non poteva essere regina, perchè le leggi dei Goti non lo consentivano; non poteva essere reggente, perchè il figlio era morto; non poteva quindi neppur trattare in proprio nome con Giustiniano. Capì allora che bisognava rivolgersi a Teodato, e gli propose d'associarsi a lei nel governo dell'Italia. Sperava di contentarlo coll'apparenza del potere, che egli invece intendeva assumere ben presto nelle sole sue mani. Ma intanto le lettere sempre ampollose e retoriche, scritte da Cassiodoro in loro nome, annunziavano all'Imperatore la nuova unione: «Come il corpo umano ha due orecchie, due occhi, due mani, così il regno goto ha ora due sovrani.» E con altre lettere, scritte sempre da Cassiodoro, essi facevano vicendevolmente le proprie lodi presso l'Imperatore, e dinanzi al Senato. Pare che Giustiniano, persuaso che non vi fosse da temer grande resistenza da parte di due sovrani deboli e discordi, si dimostrasse pronto a riconoscerli senza difficoltà. Ma intanto Teodato, già stanco d'avere il secondo posto, riuscì a confinare Amalasunta nel lago di Bolsena, dove fu ben presto strangolata nel bagno (535) dai parenti di quei Goti, che essa aveva fatti uccidere. Procopio, nei suoi Anecdota, pretende che istigatrice di questo assassinio fosse stata l'imperatrice Teodora, la quale temeva che Amalasunta, venendo a Costantinopoli, avesse colla sua bellezza potuto esercitare troppo grande predominio sull'animo dell'Imperatore. Teodato da parte sua si dichiarò affatto innocente, ma nessuno gli credette, massime quando si vide che gli uccisori furono da lui premiati. Chi intanto da tutto questo potè veramente cavar vantaggio fu Giustiniano. Appena che Amalasunta era stata messa in prigione, egli aveva protestato, dicendo che l'assumeva sotto la sua protezione. E quando la seppe uccisa, egli, sotto l'apparenza di vendicare la giustizia [176] offesa, si credette in pieno diritto di muover contro Teodato e gli Ostrogoti quella guerra, che già da lungo tempo meditava.
Ci è forza ora tornare un passo indietro, per parlare di Giustiniano, che così gran parte ebbe nelle cose d'Italia.
Egli nacque nella Dardania l'anno 482 o 83; ebbe a Costantinopoli una educazione ed istruzione greco-romana. Nel 521 fu da suo zio Giustino nominato Console. Ed in questa occasione vi furono feste straordinarie davvero, nelle quali si spesero 280,000 aurei, e furono adoperati venti leoni, trenta pantere ed altri animali feroci. Questo fu il primo segno di quel sontuoso lusso, di cui Giustiniano fu sempre assai vago, in parte per sua propria indole, in parte perchè lo credeva utile a crescergli autorità presso le moltitudini. Nel 527 venne associato all'Impero da suo zio, cui poco dopo successe. Egli era certamente un uomo di grande ingegno, ed aveva un alto concetto dell'Impero, che voleva restaurare in Occidente. Mirabile fu in lui l'attitudine a scegliere le persone adatte all'attuazione de' suoi disegni. Questo si vide nella scelta che fece prima di Belisario, poi di Narsete, il quale a sessant'anni venne per la prima volta messo alla testa d'un esercito, e riuscì ottimo generale. La stessa felice attitudine dimostrò nella elezione di Triboniano e degli altri che chiamò a compilare il Corpus Juris, non che degli architetti che costruirono il meraviglioso tempio di Santa Sofia. Non aveva però [177] capacità amministrativa; profondeva danari nelle opere pubbliche, nelle molte fortezze che costruì, nelle continue guerre. Tutto questo lo portò ad aggravar di tasse il popolo, provocando un gran malcontento, che, aggiunto alla continua mancanza di danaro, più d'una volta mandò a monte i disegni meglio concepiti. Oltre di ciò s'innamorò d'una bella e trista donna, che fu addirittura una specie di Lady Hamilton, dissoluta, crudele e di un orgoglio smisurato. Figlia d'un guardiano delle bestie del circo, morto il padre, essa si sarebbe, secondo la pubblica fama, prostituita a tutti, mostrandosi anche nuda nel teatro; e finalmente, tornata dopo molte peregrinazioni a Costantinopoli, sposò Giustiniano, che, salito sul trono, la volle partecipe al governo. Certo è però che d'allora in poi ella seppe frenarsi, menando vita decorosa, e si dimostrò donna di molto ingegno, di grandissimo coraggio.
La fonte principale e più autorevole di tutto questo tempo è Procopio, che accompagnò Belisario nelle sue guerre, delle quali ci lasciò un diario fedele e prezioso. Più tardi egli scrisse una seconda opera, conosciuta col titolo di Storia arcana o anche Anecdota, nella quale dimostrò contro Giustiniano e Teodora un'avversione di cui non v'è traccia nella prima storia. Pare che, dopo la loro morte, si sentisse più libero nello scrivere, e che ciò lo inducesse a parlare assai più chiaro, qualche volta anche ad eccedere ne' suoi giudizi.
Quello che più di ogni cosa tramandò ai posteri il nome di Giustiniano fu la sua opera legislativa. Varie commissioni da lui nominate, sotto la presidenza di Triboniano, riunirono in diverse raccolte tutte le fonti del diritto romano, aggiungendovi anche un Manuale (Institutiones) pei principianti, e formando così quel Corpus Juris, che è la gloria principale di Giustiniano. Una di queste raccolte è il Codice (Codex constitutionum), collezione [178] in dodici libri degli Editti imperiali; la più importante è però quella conosciuta col nome di Digesto o Pandette. In essa la Commissione riassunse tutti gli scritti classici dei giureconsulti, scritti che contenevano i loro pareri sulle Leges e sui Senatus-consulta, di cui qualche volta riproducevano preziosi frammenti. Fu un'opera veramente immane, divisa in cinquanta libri, nei quali erano compendiati duemila volumi. E venne condotta a termine nel breve spazio degli anni 530-33. Ciò che domina in tutto quanto il Corpus Juris è il concetto dell'assoluta autorità imperiale, uno spirito coordinatore ed accentratore, che era il carattere di quel tempo, privo d'ogni produttiva originalità intellettuale, come si vide anche nella filosofia e nella teologia. Gran torto fece a Giustiniano l'avere per eccessivo zelo religioso, soppresso la scuola di filosofia greca in Atene, che sebbene fosse già decaduta, aveva pur sempre un nome antico e gloriose tradizioni.
Nonostante le grandi qualità e le grandi opere di Giustiniano, la sua cattiva amministrazione, le continue spese, le tasse oppressive produssero ben presto uno straordinario malcontento. Si aggiungeva ancora un profondo dissenso religioso fra i Monofisiti, che erano protetti dalla Imperatrice, e gli Ortodossi, che erano sostenuti dall'Imperatore. E tutto ciò condusse ben presto ad una violenta rivoluzione, la quale scoppiò nell'Ippodromo, dove la moltitudine era già divisa negli Azzurri, che inclinavano ai Monofisiti, e nei Verdi, che inclinavano agli Ortodossi. Una tale divisione turbava allora ed agitava tutte le principali città dell'Impero; ma a Costantinopoli essa aveva preso proporzioni addirittura spaventose. L'Imperatore fu nell'Ippodromo insultato con una indegna violenza di linguaggio, specialmente da parte degli Azzurri, che, accusandolo di favorire i Verdi, gli davano di ladro, di traditore, [179] di asino. Per mostrarsi imparziale, egli fece uccidere alcuni malfattori dell'uno e dell'altro partito, ma ciò invece li unì tutti contro di lui. La rivoluzione che ne seguì ebbe il nome di Nika (Vittoria), dal motto d'ordine, che avevano assunto i due partiti temporaneamente riuniti. In conseguenza di essa, scoppiò un incendio, che durò cinque giorni, accumulando grandi rovine; e venne proclamato perfino un nuovo Imperatore, tanto che Giustiniano, persuaso di non poter più resistere, voleva abbandonare Costantinopoli e l'Impero. Teodora diè prova allora del suo virile coraggio. — Morire bisogna pure una volta, ella esclamò al marito, ma condurre l'esistenza da principe fuggiasco non è vita. Fuggi, se tu vuoi, io non voglio vivere senza la porpora. — E allora venne chiamato il giovane Belisario, il quale condusse la repressione con tale energia, che si parlò di 35,000 morti. Ipazio, che era il nuovo imperatore proclamato dai ribelli, fu anch'egli ucciso, e Giustiniano restò finalmente sicuro sul trono (532), che dovette a Teodora ed a Belisario.
L'Impero di Costantinopoli era una singolare mescolanza, non solo di Greci e di Romani, ma di popoli diversissimi: Slavi, Bulgari, Turchi, Finni, Armeni, Persiani, Egiziani, anche Mori. E tutte queste genti di razze, di costumi, di religioni, di lingue diverse, che non potevano essere unite da spirito nazionale, erano unite dalla legge e dalla disciplina romana. È questo un fatto veramente straordinario, reso ancora più notevole dalla lunga durata che, in mezzo a tante rovine, ebbe l'Impero d'Oriente, fino cioè alla metà del secolo XV. l'Imperatore, che si trovava alla testa dello Stato e della Chiesa, aveva ai suoi ordini una burocrazia accentrata e potente, una diplomazia accortissima, un esercito valoroso, che ai tempi di Giustiniano si faceva ascendere a circa 150,000 uomini. Composto principalmente dalle popolazioni [180] montanare della Tracia, del Tauro, della Valachìa, non fu in tutti i tempi uguale a sè stesso; ma più volte dette splendide prove del suo valore, ed ebbe una serie di generali di merito veramente eccezionale. Questi solevano come Belisario, che fu certo dei più illustri, avere anche una propria guardia d'alcune migliaia di soldati scelti, da essi dipendenti e da essi pagati. La flotta, che era composta di gente venuta dall'Asia Minore, dalla Tracia, dalla Grecia, mantenne del pari lungamente onorato il suo nome.
Giustiniano acquistò una grande importanza storica pel fermo proposito che ebbe di restaurare l'antica unità, l'antico splendore dell'Impero, iniziando una grande reazione del Romanesimo contro il Germanesimo: reazione che per qualche tempo fu davvero trionfante, sino a che la mancanza d'industria e di commercio, lo scontento prodotto dalle tasse eccessive e dalle angherie del fisco, la corruzione e le gelosie della Corte, che alimentavano sempre la discordia dei generali, non mandarono a rovina un'opera gloriosamente iniziata, e favorita anche dalla fortuna. Lo strumento principale di questa impresa fu Belisario. Nato (505) nella Dardania, come Giustino e Giustiniano, egli entrò assai giovane nell'esercito, e diè subito prove di grandissimo valore nella guerra contro i Persiani (530), nella quale con 25,000 uomini potè respingerne 40,000. Conchiusa la pace, tornò a Costantinopoli dove, come vedemmo, ebbe occasione di domare la rivoluzione del 532. Aveva allora già sposato Antonina, una donna che molto somigliava a Teodora. Figlia anch'essa di gente dell'Ippodromo, e già due volte madre quando sposò Belisario assai più giovane di lei, dissoluta, energica, intrigante, esercitò sul marito, che accompagnò in tutte le imprese militari, un'azione grandissima, la quale riuscì spesso a lui funesta.
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Scopo principale di Giustiniano fu il riconquistare l'Italia all'Impero; ma per ciò fare occorreva assicurarsi prima le spalle, ripigliando l'Africa, dopo aver vinto i Vandali. Colà da un pezzo i disordini interni e la conseguente debolezza del regno non erano molto diversi da quel che abbiamo visto in Italia. Nel 528 era salito sul trono Ilderico, poco atto alle armi, che dalla madre Eudocia, figlia di Valentiniano III, aveva ereditato simpatie romane e cattoliche. Questo provocò nei Vandali una reazione del sentimento ariano e barbarico, tale che ne scoppiò una rivoluzione, promossa da Amalafrida sorella di Teodorico, e vedova di Trasamondo, al quale era successo Ilderico. La rivolta fu domata, ed Amalafrida venne messa in carcere, dove restò fino alla morte di Teodorico, quando, non essendo più necessario usarle riguardi, la uccisero. Si accese perciò un odio profondo tra gli Ostrogoti ed i Vandali, che tornò a vantaggio di Giustiniano, il quale potè sperare, come difatti avvenne, d'essere secondato dai primi nel combattere i secondi. Ma Ilderico non restò a lungo sul trono, perchè i Vandali ne lo cacciarono, ponendovi invece Gelimero (531), uomo bellicoso, senza simpatie romane. E anche da ciò Giustiniano seppe trarre profitto, pigliando occasione a muover guerra ai Vandali, dal pretesto di voler difendere tanto il giusto diritto d'Ilderico, quanto i sentimenti romani e ortodossi di lui.
Nel 533 salpava finalmente da Costantinopoli una flotta condotta da un numero assai grande di marinari, con un esercito di 10,000 fanti e 5 o 6000 cavalieri, la più parte della Tracia. Li comandava Belisario, che era accompagnato dalla moglie e da Procopio, il quale era stato suo segretario anche in Persia. Sotto Belisario combatteva il valoroso capitano armeno Giovanni. Dopo due mesi d'una navigazione piena di pericoli, arrivarono a Catania, [182] dove poterono liberamente sbarcare, perchè avevano il favore degli Ostrogoti. Colà seppero che i Vandali erano affatto ignari della loro venuta, tanto che il fratello di Gelimero era andato ad una impresa militare nella Sardegna. Dato quindi l'ordine della partenza, Belisario sbarcò ben presto a nove giorni di marcia da Cartagine. Si presentò in Africa non come un conquistatore, ma come un liberatore dei Cattolici, dei Romani, del clero e dei proprietari, tutti ugualmente oppressi dai Vandali, eretici, stranieri e barbari. Dette ai suoi soldati ordine severissimo di rispettare le proprietà e le persone; e col favore delle popolazioni potè condurre assai fortunatamente la guerra. Il 13 settembre ebbe luogo la prima battaglia, che fu da lui vinta, nonostante il numero superiore dei nemici. Il 15 entrò in Cartagine, e prese alloggio nel palazzo stesso di Gelimero, dove invitò i suoi uffiziali superiori al pranzo, che il re vandalo aveva, nel giorno precedente, apparecchiato per sè e per i suoi, ritenendosi sicuro della vittoria.
Ritiratosi allora nella Numidia, dove fu raggiunto dal fratello venuto in fretta dalla Sardegna, Gelimero dette una seconda battaglia, che andò anch'essa perduta. E così, dopo avere assistito allo scempio de' suoi, dopo aver perduto il proprio fratello, si ritirò in mezzo ai Mori, sostenendo ogni sorta di crudeli privazioni. Narra la leggenda, che si ridusse a tale estremità da dover supplicare Belisario, perchè gli mandasse un pezzo di pane, chè da più tempo non ne aveva avuto; una spugna per lavarsi gli occhi, dal lungo piangere divenuti malati; ed una lira, per sollevar col canto lo spirito umiliato. Nel marzo del 534 finalmente si arrese, e fu allora assai onorevolmente accolto da Belisario.
Il resultato più notevole di questa guerra fu che i Vandali, dopo avere portato tanto terrore, tante rovine [183] nell'Impero, scomparvero affatto dalla storia, senza che più se ne sentisse parlare. Questa rapida caduta dovette essere in gran parte conseguenza del loro governo oppressivo e male costituito, come più sopra accennammo. Molti di essi furono mandati ai confini dell'Impero, verso la Persia; non pochi vennero incorporati nell'esercito di Belisario, ed alcuni furono ammessi addirittura a far parte della sua guardia. Quelli che, per conto proprio, rimasero in Africa, ebbero confiscati i beni, e furono cacciati dalle loro chiese, messi in carcere o fatti schiavi.
Dopo una sì pronta vittoria si cominciarono subito a vedere le conseguenze di quella gelosia, di quella discordia che, ora come sempre, era il verme roditore della Corte bizantina. Quando Belisario aveva in tre mesi compiuta una campagna che sembrava miracolosa, e doveva perciò aspettarsene riconoscenza ed onori, cominciò invece a sentire i morsi dell'invidia e della calunnia, che lo lacerarono sanguinosamente. Lo avevano accusato presso l'Imperatore di sfrenata ambizione, dicendo che voleva farla da re, avendo osato assidersi sul trono stesso di Gelimero. Giustiniano insospettito, lo invitò a mandare subito i prigionieri a Costantinopoli; ma Belisario volle andarvi anch'egli, per smentire le accuse degl'invidiosi. Il suo ingresso fu trionfale davvero: precedevano i prigionieri, fra cui lo stesso Gelimero, insieme con le spoglie ricchissime. Fra queste erano anche quelle che dal Tempio di Gerusalemme Tito aveva menate a Roma, di dove Genserico le aveva portate in Africa. E Giustiniano temendo che, come ai Romani ed ai Vandali, così anche a lui portassero sventure, le restituì al luogo di loro prima origine. In Africa rimase un governatore, e si mandò subito un esercito d'impiegati, che incominciarono a tormentare, a dissanguar colle tasse il paese.
Ed ora Giustiniano rivolse il suo pensiero alla guerra [184] d'Italia. La uccisione di Amalafrida, che aveva seminato odio fra gli Ostrogoti ed i Vandali, gli aveva offerto un primo pretesto. Trovandosi inoltre, per la disfatta dei Vandali, padrone dell'Africa, chiedeva, con maggiore insistenza, la fortezza di Lilibeo in Sicilia; ed Amalasunta, come vedemmo, esitava ancora, non volendo offendere sempre più l'amor proprio nazionale degli Ostrogoti, a lei già assai poco benevoli. Quando però, dopo la morte di Atalarico (534), Teodato la confinò, e poi la fece uccidere (535), Giustiniano che l'aveva presa sotto la sua protezione, disse di volerla vendicare, e si decise a cominciare la guerra.
Amalasunta era morta nella primavera, e già nella state un esercito di tre o quattro mila uomini partiva da Costantinopoli per la Dalmazia, a combattere i Goti che erano colà. Così si costringeva il nemico a dividere le sue forze, e si rendeva più facile il vincerlo in Italia, dove già s'era avviato Belisario con un esercito di 7500 uomini, oltre la sua guardia. Questo esercito, composto anch'esso principalmente di montanari della Tracia, della Georgia, dell'Isauria, fece ben presto prodigi di valore. Belisario, che lo comandava, disse un giorno a Procopio, che egli doveva in gran parte le sue vittorie alla cavalleria, la quale era stata da lui riformata. S'era accorto, che la cavalleria gota combatteva solo col giavellotto e la spada, occupata principalmente a difendere la fanteria, quando era impegnata corpo a corpo col nemico. Pensò quindi a fondare la forza del suo esercito sugli arcieri a cavallo, educandoli a questa nuova forma di combattimento. Ma nonostante il suo valor personale, i suoi infiniti accorgimenti, la sua capacità strategica, egli non avrebbe mai, con le poche sue genti, per quanto valorose, potuto fare tutto quello che fece, se non avesse avuto il favore e la cooperazione dei Romani, ai quali, con molta [185] accortezza, seppe presentarsi fin dal principio, come uno che veniva a liberarli dal giogo barbarico e dalla persecuzione ariana, ed anche come un restauratore dell'antica grandezza romana.
Infatti, appena sbarcato in Sicilia, tutti gli aprirono le porte, e potè facilmente percorrere l'Isola in lungo ed in largo, senza trovar vera resistenza che a Palermo, dove era una forte guarnigione gota, difesa dalle mura. Belisario allora fece entrare nel porto alcune navi cariche di soldati, i quali, arrampicandosi agli alberi di esse, poterono inaspettatamente coi loro archi saettar dall'alto nella città, con grande maraviglia e spavento della guarnigione, che poco dopo s'arrese. In sette mesi la Sicilia fu riconquistata all'Impero. Alla nuova di questi fatti Teodato rimase così impaurito, che già voleva cedere, offrendo addirittura di rinunziare allo Stato, mediante una ricca pensione. Ma quando la sua proposta era stata accolta, gli pervenne notizia di qualche rovescio avuto dagl'imperiali in Dalmazia, e subito, mutato animo, non volle più arrendersi. Poco dopo, verso la fine del 535, gl'Imperiali riguadagnarono anche colà il terreno perduto, entrando in Salona, la moderna Spalato; ed allora fu Giustiniano a non voler più sentir parlare di patti e di accordi con Teodato. Ogni decisione dovette quindi essere inesorabilmente rimessa alle armi.
Se non che, appunto allora Belisario venne improvvisamente chiamato d'urgenza nell'Africa, dove, per la tirannia e la incapacità di chi governava, era scoppiata una minacciosa rivoluzione capitanata da un tale Stuzza, che pareva volesse formare un principato indipendente, e si trovò subito alla testa di 8000 ribelli, cui s'aggiunse un migliaio di Vandali. La vita del governatore imperiale si trovò in grave pericolo, il moto si estendeva minaccioso; ed egli corse subito insieme con Procopio in Sicilia, [186] per informare di tutto Belisario, che partì come un fulmine, e si trovò in Cartagine quando i ribelli s'avvicinavano per impadronirsene. La notizia del suo improvviso arrivo bastò a sgomentarli per modo, che si ritirarono subito a cinquanta miglia dalla città, e colà furono raggiunti da Belisario, che con soli 2000 uomini osò affrontarli, e li debellò interamente. Dopo di che, saputo che un altro valoroso generale, capace di mantenere stabilmente l'ordine in quelle province, era già partito da Costantinopoli, se ne tornò in Sicilia; e lasciata una piccola guarnigione in Siracusa, un'altra in Palermo, passò sul continente.
Anche qui egli potè procedere assai rapidamente, aiutato non solo dal favore delle popolazioni, ma anche dalle diserzioni dei Goti, che incominciarono allora e furono in tutta quella campagna assai frequenti. A Napoli però la guarnigione e la popolazione si mostrarono decise a fare aspra resistenza; e quando Belisario parlò coi capi del popolo per indurli a cedere, li trovò insieme coi Goti risoluti a tutto. Gli stessi Ebrei, che s'erano adoperati molto a procurare gli approvvigionamenti, fecero ad una delle porte ostinata resistenza. Quel popolo adunque, romano o italiano che dire si voglia, che tanti scrittori presumono spento del tutto, combatteva e contava ancora nella decisione delle battaglie. Teodato intanto se ne stava lontano, e non s'indusse punto a mandare gli aiuti urgentemente richiesti. Secondo la leggenda, consultò la sorte in un modo assai singolare. In tre diverse stie pose dieci maiali, distinguendoli coi nomi di Goti, di Romani e d'Imperiali. Dopo dieci giorni, aprì le tre stie, e trovò che i Goti eran morti tutti, meno due; i Romani metà eran morti e metà vivi, avendo però questi perduto le setole; gl'Imperiali invece eran tutti vivi. E ne indusse la disfatta dei Goti e la vittoria degl'Imperiali con la [187] cooperazione dei Romani, metà dei quali avrebbero perduto la vita, metà i loro averi. È chiaro che una tale leggenda riconosce anch'essa nella guerra la cooperazione dei Romani, la quale poi apparisce più volte manifesta nella narrazione stessa di Procopio, sebbene questi, come greco, cerchi sempre di attenuarla, dimostrando poca o nessuna stima pei Romani. In ogni modo a Napoli la resistenza fu tale, che Belisario, contro il suo solito, ne fu addirittura sgomento, e pensava di ritirarsi, quando seppe che si poteva, pei condotti dell'acqua, entrare inavvertiti nella città. Ed allora egli mosse da una parte ad un finto assalto delle mura, per richiamare colà l'attenzione degli assediati, mentre che dall'altra 600 de' suoi, entrati per gli acquedotti, corsero improvvisamente alle porte, e dopo avere ucciso i soldati che v'erano a guardia, le aprirono. Allora l'esercito entrò, e cominciò subito il saccheggio; ma Belisario, minacciando pene severissime, lo fece cessare. Così gl'Imperiali furon padroni di Napoli, e presero prigionieri gli 800 Goti che la difendevano.
A Roma intanto lo sdegno contro Teodato, per la sua condotta vigliacca, era giunto al colmo. E quindi radunatisi i Goti nella Campagna, lo deposero, eleggendo in sua vece Vitige, che ben presto trovò modo di disfarsi di lui. Fece poi divorzio dalla moglie, per sposare una figlia di Amalasunta, colla speranza, certamente vana, di rendersi così amico o meno avverso Giustiniano. Ma ormai solo il ferro poteva decidere la lite; tutto il resto era inutile. La elezione di Vitige, che Cassiodoro, pomposamente al solito, annunziò a tutti come fatta «per grazia divina e volontà libera del popolo, nell'aperta campagna,» non fu punto felice. Egli era un soldato valoroso, non già un uomo di Stato, nè un buon capitano, ed aveva contro di sè il primo generale del secolo. Cominciò coll'abbandonare [188] Roma, lasciandovi una guarnigione di 4000 uomini, ritirandosi verso Ravenna per riunire colà tutte le sue forze. Non tenne conto dello straordinario effetto morale, che avrebbe avuto l'entrata di Belisario nell'antica capitale del mondo. Questi sarebbe sempre più apparso come il restauratore dell'Impero, e virtualmente padrone dell'Italia. Vitige intanto cercava da Ravenna di far pace a qualunque costo coi Franchi, che Giustiniano aveva tentato muovere contro di lui, per potere così assalire i Goti da tre parti contemporaneamente: dalla Gallia cioè, dalla Dalmazia, dall'Italia meridionale. E quindi Vitige, per poter ritirare le sue genti dalla Gallia, ed ingrossare con esse il proprio esercito in Italia, senza dover pensare a difendersi da più nemici ad un tempo, cedette loro la Provenza e il Delfinato, pagando anche 2000 libbre d'oro, cose tutte certamente umilianti per lui. Ma il pericolo era assai grave, ed il tempo stringeva.
Tutto andava invece per Belisario a seconda. Papa Silverio, che pur sembrava essere stato amico di Teodato e di Vitige, lo invitava adesso a Roma; ed egli, lasciata in Napoli una guarnigione di soli 300 uomini, potè avanzarsi per Cassino, favorito al solito non solo dalle popolazioni, ma anche da altre diserzioni dei Goti. Fra il 9 ed il 10 dicembre 536, senza difficoltà, entrava in Roma per la Porta Asinaria, mentre che i Goti ne uscivano per la Porta Flaminia. E così, dice Procopio, dopo 60 anni di barbarico dominio, Roma tornò di nuovo all'Impero. Belisario s'istallò sul Pincio, di dove, dato uno sguardo alla Città, piena ancora di quasi tutti gli antichi monumenti, ordinò subito che si cominciasse ad approvvigionarla, che si ponesse mano a restaurarne, fortificarne le mura. Costruite 260 anni prima da Aureliano e da Probo, dopo 130 restaurate da Onorio, erano rimaste da quel tempo in [189] poi affatto trascurate, ed avevano quindi grande bisogno di riparazione.
Vitige, che presso Ravenna raccoglieva quante più genti poteva, era riuscito a mettere insieme 150,000 uomini, coi quali s'avanzò verso Roma (537). Essendosi avvicinato a Ponte Salario, la piccola guarnigione che Belisario v'aveva posta si sgomentò per modo, che una parte di essa, composta di barbari, disertò al nemico; un'altra si ritirò, sbandandosi. Mille uomini che, nulla ancora sapendosi dell'arrivo d'un così formidabile esercito nemico, erano stati mandati a rinforzarla, incontrate le forze preponderanti dei Goti, dovettero retrocedere. Belisario allora, avvertito del pericolo, corse subito in aiuto, gettandosi in mezzo alla mischia. Il suo cavallo aveva sulla fronte alcuni peli bianchi, che formavano come una stella, e però i Greci lo chiamavano Phalion, e i Goti, Balan. Non appena questi ebbero riconosciuto il generale nemico, che subito tiravano tutti a lui, che ciò nonostante restò miracolosamente illeso. Dopo essersi dinanzi al suo impeto ritirati alquanto, i Goti, avuti altri rinforzi, ritornarono all'assalto in così gran numero, che gl'Imperiali dovettero retrocedere più che di passo fino alla Porta Salaria. La trovarono chiusa, nè vi fu modo di farla aprire, perchè i Romani temevano che amici e nemici sarebbero entrati insieme. Il sole cadeva; si era sparsa la voce che Belisario era morto; e però, quando egli sopraggiunse co' suoi, gridando che aprissero, trasfigurato com'era pel lungo combattere, non fu riconosciuto, e non gli dettero ascolto. Ma neppure in così grave momento si perdè d'animo. Visto il pericolo in cui si trovava, visto che i Goti già gli erano addosso, egli che più d'una volta, per le subite, audaci risoluzioni, ci apparisce quale un Garibaldi d'esercito regolare, rivoltosi improvvisamente ai suoi, e stringendoli intorno a sè, li [190] condusse ad un ultimo impetuoso ed inaspettato assalto contro il nemico, il quale, credendo che nuovi rinforzi fossero allora usciti dalla Porta, si ritirò spaventato. E così finalmente Belisario potè, alla testa de' suoi, entrare in Città, dove fu clamorosamente accolto.
Ed ora incomincia il più lungo assedio di Roma, che la storia ricordi. Esso durò dai primi del marzo 537 al marzo inoltrato del 538, un anno e nove giorni, nel qual tempo Belisario dette prove infinite del suo genio militare e del suo valore. Egli era partito con un esercito di 7500 uomini, oltre la propria guardia; ma aveva per via perduto parecchi de' suoi, massime dinanzi a Palermo ed a Napoli. Alcune guarnigioni aveva dovuto lasciare nelle città principali dell'Italia meridionale; e però si trovava adesso, secondo Procopio, con un esercito di soli 5000 uomini, in una città che aveva 12 miglia di circuito. Resistere con tali forze ad un esercito di 150,000 uomini sarebbe stato impossibile addirittura, senza la cooperazione efficace del popolo romano. E questa cooperazione apparisce ora manifesta dalle parole stesse di Procopio, sebbene egli cerchi al solito nasconderla. Certo nei casi più difficili, nei punti più pericolosi il prode capitano fece assegnamento principale sulle truppe regolari; ma nella difesa delle mura i Romani ebbero una parte notevole assai. Fortunatamente esse erano state già restaurate, quantunque in fretta, ad eccezione di quella parte che, presso la Porta Flaminia (del Popolo), è chiamata Muro torto. Questo [191] era assai forte, e generalmente si credeva che fosse sotto la protezione diretta di S. Pietro: nessuno infatti osò attaccarlo.
I Goti dunque circondarono la Città con sette accampamenti, dinanzi alle principali porte: uno di essi era al di là del Tevere, nel così detto Campo di Nerone. Infiniti furono gli accorgimenti da una parte e dall'altra adoperati in questo assedio. Vitige cominciò col far rompere gli acquedotti, costringendo i Romani a valersi della sola acqua dei pozzi, e privandoli così della forza motrice pei mulini. Belisario fece allora costruire nuovi mulini fra gli archi del Ponte Elio, ora S. Angelo, e altrove, mediante ruote mosse dal fiume. Ed i Goti subito mandarono giù per esso lunghe travi, cadaveri d'uomini e d'animali, per intralciare così il moto delle ruote, e corrompere sempre più l'acqua. A questo si riparò, in parte almeno, ponendo catene attraverso il fiume. Ma i Goti non se ne stavano, e ricorsero a molti altri stratagemmi di guerra. Idearono alcune torri mobili, tirate da bovi, che dovevano trascinarle presso le mura, perchè così i soldati potessero salire su queste. Quando però le torri erano vicine alla Porta Pinciana, Belisario ordinò ai suoi che mirassero ai bovi, uccisi i quali, esse restarono ferme in mezzo alla Campagna. Nello stesso tempo l'assalto nemico era dato anche ad altri punti della Città, e sopra tutto vicino alla Porta Prenestina (Maggiore), presso la quale era un doppio muro. Ma quando i Goti, superato il primo, si trovarono ammassati, coi loro arnesi di guerra, fra esso ed il secondo, che cercavano di superare, Belisario avvertito vi corse subito, ed uscito dalla Porta, ordinò che fosse dato contemporaneamente l'assalto alle spalle e di fronte. Il nemico allora si pose in fuga, abbandonando torri, arieti ed altre macchine d'assedio, che furono bruciate dai Romani. Un altro assalto dettero i Goti al di là del Tevere, presso la [192] tomba d'Adriano, ora Castel S. Angelo, rivestita allora di marmo, piena all'esterno di statue, e già ridotta a fortezza. Pareva dapprima che i Goti avessero il vantaggio; ma quando i difensori si videro a mal partito, cominciarono a gettar su di essi le statue, recando loro tali danni, che li costrinsero alla fuga. Procopio parla di 30,000 Goti uccisi, il che può essere un'esagerazione; ma prova in ogni modo che la strage fu assai grande. Belisario scriveva a Costantinopoli, che era stato veramente un miracolo l'aver potuto con un esercito di 5000 uomini resistere vittoriosamente a 150,000. Adesso era però necessario mandargli aiuti, se non si voleva da un momento all'altro essere esposti ad una catastrofe. Finora s'erano avute le simpatie e l'aiuto dei Romani; ma se questi per le continue sofferenze e i pericoli dell'assedio, per le tasse enormi, mutavano animo e divenivano favorevoli ai Goti, che cosa sarebbe mai seguito?
Le condizioni di Roma e dei Bizantini si facevano sempre più gravi. Vitige mandava ordini a Ravenna, che fossero uccisi i Senatori tenuti colà in ostaggio; occupava Porto, cosa che Belisario non potè far prima di lui, non essendogli possibile disporre neppure d'una guarnigione di 300 uomini, necessari a tenerlo. E fu grave danno, perchè da Porto sopra tutto Roma veniva pel Tevere approvvigionata. Ostia era allora assai meno adatta a ciò. La fame si faceva quindi sentire nella Città, e bisognò allontanare le bocche inutili. Gli uomini validi, divisi in ischiere, furono messi a guardia delle mura; alcuni vennero anche mescolati nell'esercito. Queste schiere mutavano assai spesso di luogo; i nomi di coloro che le componevano venivano riscontrati di continuo; le chiavi delle porte erano anch'esse di tanto in tanto mutate: tutto ciò per assicurarsi contro ogni possibile tradimento, ora che le sofferenze crescevano, e lo scontento [193] cominciava a manifestarsi. Sebbene Roma fosse ormai da gran tempo divenuta cristiana, pure vi furono allora alcuni i quali, non sapendo che fare in mezzo a tante calamità, cercarono aprire di nascosto il tempio di Giano, sperando aiuto dal Dio pagano, stato sempre favorevole ai loro padri. Se non che le porte di bronzo, da lungo tempo chiuse, s'erano arrugginite per modo che si potè appena muoverle tanto da lasciarle accosto.
Finalmente arrivò un rinforzo di 1600 cavalieri, la più parte Unni; e questo aiuto, con la speranza non lontana di altri, avendo rianimato gli assediati, fece subito incominciare una serie di nuove scaramucce che, nonostante la inferiorità del numero, riuscirono sempre assai fortunate ai Romani. Di ciò inorgogliti, essi volevano procedere subito ad un assalto generale, cui Belisario s'oppose energicamente, conoscendo lo scarso numero delle sue forze regolari. Ma il cieco ardore de' suoi soldati non conosceva adesso misura nè prudenza, e bisognò cedere. Ordinò quindi che da Porta Salaria a Porta Pinciana si movesse all'assalto; che al di là del Tevere, da Porta Aurelia (S. Pancrazio) si facesse un finto attacco verso il campo di Nerone, e ciò solo per impedire che i molti Goti ivi stanziati, passato il fiume, andassero in aiuto dei loro compagni, là dove si doveva combattere davvero. Le turbe popolari che volevano pigliar parte a questo finto attacco, non essendo ancora bene educate alle armi, ebbero ordine di restar ferme, contentandosi di tenere in rispetto il nemico col loro numero. Dall'altro lato del fiume, Belisario voleva combattere colla sola cavalleria, perchè di essa solamente si fidava, come quella che era più disciplinata e non aveva accolto nelle proprie file cittadini inesperti; ma dovette cedere alle insistenze della fanteria, che volle anch'essa prender parte alla mischia. E tutto ciò fu per riuscirgli funesto. [194] Cominciato infatti l'assalto, i Romani s'avanzarono vittoriosi; ed anche nel Trastevere i Goti, vedendo il gran numero di genti ivi schierate, cominciarono a ritirarsi. Allora però quelli che avevano avuto ordine di star fermi, vollero avanzarsi; ma invece d'inseguire il nemico, si dettero a saccheggiarne il campo, dandogli così modo di riordinarsi, di assalirli e metterli in fuga. Quando poi dall'altro lato del fiume, la cavalleria romana fu costretta a retrocedere dinanzi ai Goti che s'avanzavano numerosissimi, la fanteria, invece di venirle in aiuto, si dette alla fuga. Fortunatamente i capitani di essa, quelli appunto che avevano insistito per condurla al combattimento, fecero onore al loro nome, dando prova d'un grandissimo coraggio. Con pochi dei più valorosi tennero fronte al nemico fino a che vi lasciarono la vita; ed in questo modo assicurarono la ritirata dei Romani. Quando i Goti, arrivati alle mura, le videro guardate da una gran moltitudine d'uomini in armi, si ritirarono. Così tutto fu salvo, ma il grave pericolo che s'era corso fece capire quanta ragione Belisario avesse avuta di non volere arrischiare un generale assalto contro un nemico tanto più numeroso. Si ritornò quindi alle ripetute scaramucce, le quali riuscirono di nuovo vittoriose pei Romani, ed assunsero qualche volta carattere addirittura eroico.
Da Ostia intanto arrivavano vettovaglie, che entravano nella Città. I Goti non potevano impedirlo, perchè la estensione delle mura era tale, che riusciva assai facile ai Romani chiamar colle scaramucce l'attenzione del nemico in un punto, per potere in un altro liberamente aprire le porte ai soccorsi. Nel giugno del 537, terzo mese dell'assedio, secondo anno della guerra, si seppe che un drappello di cento uomini era giunto da Costantinopoli a Terracina, con denaro per dar le paghe [195] ai soldati. Era cosa di somma importanza, e Belisario, per assicurare l'entrata di questi aiuti in Città, ordinò una doppia sortita, che fu delle più vigorose. Al di là del Tevere, verso il campo di Nerone, i Goti vennero facilmente respinti. Fuori di Porta Pinciana invece la lotta fu accanita, ed i soldati di Belisario dettero prova d'un entusiasmo singolare, d'un valore straordinario, e vi furono episodi veramente omerici. Un capitano nativo della Tracia continuò a combattere quando aveva un giavellotto infitto nella testa; un altro combatteva del pari, quando una freccia gli era penetrata tra l'occhio ed il naso. Il primo di questi due valorosi dovè soccombere; il secondo potè, mediante un'operazione, farsi estrarre la freccia e salvarsi. Colui che aveva guidato il combattimento al di là del Tevere, per le molte ferite finì col soccombere anch'esso. Tutto questo ci racconta Procopio, il quale aggiunge che i combattimenti seguiti finora nell'assedio arrivavano già al numero di sessantasette.
Vitige adesso, ricorrendo ad un nuovo accorgimento di guerra, accampò 7000 de' suoi a tre miglia dalle mura, in un luogo dove s'incrociavano due acquedotti, formando così come un punto fortificato, assai adatto a porre di là ostacoli all'approvvigionamento degli assediati. Certo è che la fame divenne insopportabile; e di nuovo i Romani, spinti dalla disperazione, volevano uscire a combattere per vincere o morire. Ma di nuovo Belisario si oppose energicamente, cercando di calmarli coll'assicurar loro, che altri soccorsi di uomini e vettovaglie sarebbero giunti fra poco. Infatti egli mandava a Napoli Procopio, per vedere quanti ne fossero già arrivati colà; e questi trovò 500 uomini con vettovaglie, che avviò subito verso Roma, con altri che erano già nella Campania.
Ma se questa gita di Procopio riuscì utile agli assediati, [196] essa gli fece interrompere il racconto assai prezioso, che finora abbiamo avuto della guerra da un testimone oculare. Siamo quindi poco informati di quello che fece adesso Antonina, la moglie di Belisario, la quale da Napoli andò verso Roma per essere accanto al marito. Pare che, fra le altre cose, andasse a secondare le mene della imperatrice Teodora, che voleva far deporre papa Silverio, ed eleggere in sua vece Vigilio. Questi già da un pezzo aveva aspirato al papato, invano adoperandosi a ciò con ogni sorta d'intrighi. A Costantinopoli però s'era guadagnato il favore di Teodora, facendole sperare che avrebbe favorito il Monofisismo; e potè quindi, con una lettera dell'Imperatrice arrivare a Roma, dove fu assai bene accolto da Antonina, la quale s'adoperò energicamente a favore di lui. La conseguenza fu che papa Silverio venne da Belisario accusato di voler dare la Città ai Goti, e quindi fu deposto. Gli successe Vigilio (537), che tenne ora come sempre una condotta ambigua e mutabile, cominciando col non osservare le promesse fatte all'Imperatrice. L'arbitraria deposizione di Silverio, che morì esule nell'isola di Palmarola presso Ponza (21 giugno 538), e la non meno arbitraria elezione di Vigilio seminarono il primo germe di discordia fra Belisario e la Chiesa romana, il che fu poi causa di debolezza pel dominio bizantino in Italia.
Intanto arrivavano nuovi aiuti. Trecento cavalieri erano già entrati in Roma, 3000 Isaurici ebbero ordine di recarsi da Napoli ad Ostia, 2300 uomini sotto il comando del capitano Giovanni e di altri scortavano verso Roma carri di vettovaglie. Belisario faceva allora sortite vittoriose da Porta Pinciana e da Porta Flaminia, per agevolare l'entrata degli uomini e delle vettovaglie. Ed i Goti, stanchi finalmente del lungo ed infruttuoso combattere, fecero proposte di pace. — Poniamo fine, così dissero [197] a Belisario, ad una guerra che non giova a nessuno, e nuoce a tutti. Perchè mai combattete contro di noi, che in Italia venimmo, non di nostro arbitrio, ma per volontà dell'imperatore Zenone? Fu lui che mandò Teodorico, nostro capo, a combattere Odoacre, il quale s'era fatto tiranno, ed a prendere in suo nome legittimo possesso del paese. Noi rispettammo le leggi, le istituzioni, la religione romana. Teodorico ed i suoi successori non fecero nuove leggi; tutte le magistrature le lasciammo ai Romani, che ebbero anche il Consolato. Se dunque abbiamo rispettato i patti e gli ordini dell'Imperatore, che ci mandò, perchè ci fate voi guerra? — E chiedevano che i Bizantini si ritirassero, portando pur via la preda che sino allora avevano fatta. Ma Belisario rispose: — Teodorico fu mandato a punire Odoacre, a restaurare l'autorità dell'Impero, non a farsi signore dell'Italia. Che cosa importava all'Imperatore sostituire un tiranno ad un altro? Non sarà mai da noi ceduto un paese, che appartiene all'Impero. —
I Goti allora offrirono di abbandonare la Sicilia, Napoli, la Campania, e pagare anche un annuo tributo all'Impero; ma tutto fu vano. Proposero finalmente una tregua di tre mesi, per potere intanto trattar direttamente a Costantinopoli; e questa fu da Belisario accettata subito, profittandone per far entrare in Roma altri uomini e vettovaglie, fortificare le mura, prendere tutti i provvedimenti che voleva. E sebbene tutto ciò non fosse giustificato, non fosse legale, Vitige si tacque. Protestò invece, ma senza resultato, quando essendosi egli ritirato da Porto, da Albano, da Civitavecchia, quei luoghi furono senz'altro occupati da Belisario. Questi mandò inoltre il suo capitano Giovanni alla testa di 2000 uomini negli Abruzzi, con ordine di stare colà fermo finchè durasse la tregua; ma non appena venisse rotta, fare man bassa su [198] tutti i Goti, che si trovavano nel Piceno, e prenderli schiavi; confiscare, saccheggiare i loro averi e dividerli fra i suoi soldati. Infatti, quando i Goti, stanchi di veder Belisario giovarsi della tregua a tutto suo vantaggio, tentarono con un colpo di mano d'entrare in Roma, essi non solo furono respinti, ma Giovanni ebbe l'ordine di saccheggiare il Piceno. E questi, dopo aver messo quel paese a soqquadro, andò a Rimini, che prese facilmente, essendosi la guarnigione ritirata a Ravenna. Alla quale s'avvicinò subito Giovanni, perchè di là, retrocedendo, poteva anche minacciare alle spalle i Goti che erano accampati presso Roma. Tutto questo li sgomentò per modo che, finiti i tre mesi della tregua, levarono senz'altro l'assedio il 12 marzo 538, cioè trecento settantaquattro giorni dopo averlo cominciato; e bruciati i loro accampamenti, cominciarono a ritirarsi. Belisario non poteva, per la insufficienza delle sue forze, inseguirli e dar loro una vera battaglia; ma li assalì quando passavano il Tevere, ponendoli in gran disordine, sì che molti ne affogarono.
Nonostante questi suoi fortunati successi, si presenta naturale la domanda: Come mai Belisario che in tre soli mesi, con scarse forze, aveva quasi sterminato i Vandali, non era invece, dopo tre anni, riuscito a vincere del tutto i Goti, che resistevano ancora? Arrivato a Roma, non s'era potuto più avanzare, e solo dopo altri due anni potè entrare in Ravenna. Tutto ciò sembra anche più strano, se si tien conto dell'aiuto che ebbe dalle popolazioni, e delle diserzioni che di continuo avevano luogo fra i Goti. Il fatto è che Belisario era venuto in Italia con un esercito assai scarso, il quale, prima di giungere a Roma, fu ridotto a minime proporzioni, per le guarnigioni che era stato necessario lasciare in Sicilia e nel continente dell'Italia meridionale. Si [199] trovò quindi con assai deboli forze di fronte ad un formidabile esercito di Goti. Più tardi, è vero, cominciarono a giungere aiuti da Costantinopoli; ma allora appunto le gelosie dei cortigiani operarono sull'animo di Giustiniano in modo, che egli dette ai nuovi capitani che mandò in Italia poteri quasi uguali a quelli di Belisario; il che fu disastroso all'andamento d'una guerra, la quale desolava il paese, ed aggravava colle tasse le popolazioni. In esse cominciò subito uno scontento che andò sempre crescendo, e fu anche inasprito dalla condotta tenuta ora da Belisario verso il capo della Chiesa romana.
La guerra intanto continuava lungo la via Flaminia, che da Roma per Fano conduceva a Rimini. A sinistra v'erano, tutte più o meno sui monti, Orvieto, Chiusi, Todi, Urbino, occupate dai Goti; le città a destra, ad eccezione di Osimo, erano invece in mano dei Bizantini. L'avanzarsi perciò, senza prima impadronirsi di quelle tenute dal nemico, esponeva i Bizantini ad essere assaliti alle spalle. E però Belisario, temendo che Giovanni, con soli 2000 uomini, si potesse trovare a mal partito fra Rimini e Ravenna, gliene mandò in aiuto altri 1000, con ordine che, lasciata in Rimini una piccola guarnigione, tornassero tutti indietro per unirsi a lui. La cosa pareva che riuscisse felicemente, perchè le genti colà mandate s'avanzarono senza difficoltà. E giunte che furono al passo del Furlo, detto anche Pietra Pertusa, una specie di tunnel, che è come una fortezza naturale nell'Appennino, ebbero colà uno scontro coi Goti, i quali, dopo essere stati vinti, s'unirono ai Bizantini, proseguendo insieme con essi il cammino. Ma quando furono a Rimini, Giovanni dichiarò di non volere obbedire agli ordini che essi portavano da Roma, per il che dovettero senza di lui tornarsene a Belisario, che ne restò indignato.
Intanto sbarcavano nel Piceno nuovi aiuti, comandati [200] da Narsete, che veniva con ampi poteri di generalissimo, non solo per aiutare, ma anche per tenere a freno Belisario, contro il quale la Corte pareva ingelosita. Nato nel 478, questo nuovo capitano aveva allora già sessant'anni; era uomo accorto ed ambiziosissimo, di grado in grado salito ai più alti uffici amministrativi. Ma, quello che è singolare davvero, egli arrivava adesso in Italia investito dall'Imperatore del grado di generale, senza aver mai prima servito nell'esercito. Infatti, anche quando aveva efficacemente cooperato con Belisario a reprimere la rivolta seguita nell'Ippodromo, lo aveva fatto solo corrompendo i capi con danaro. L'avergli perciò, in tali condizioni, affidato il comando d'un esercito, era cosa davvero senza esempio. E l'essere poi Narsete riuscito uno dei primi capitani del secolo, fece grandissimo onore all'accortezza, alla conoscenza quasi divinatrice che, in questa come in tante altre occasioni, Giustiniano mostrò avere degli uomini. Se non che, arrivato che fu in Italia, Narsete, sicuro della piena fiducia della Corte, consapevole della crescente gelosia che v'era colà contro Belisario, lo trattò subito alla pari, senza punto curarsi di nascondere la propria alterigia. E di ciò si ebbe una prima prova nel Consiglio di guerra tenuto a Fermo in quello stesso anno 538. Giovanni chiedeva allora da Rimini soccorsi, perchè, dopo avere respinto i primi assalti dei Goti, si trovava, come Belisario gli aveva preveduto, ridotto ad assai mal partito, minacciato da tutto l'esercito di Vitige. Si trattava dunque di decidere se si doveva correre in suo aiuto, avanzandosi per la via Flaminia sino a Rimini, lasciando le città fortificate, come Osimo, in mano dei Goti, o pure abbandonar per ora al proprio destino chi aveva con la sua disobbedienza messo a grave pericolo il resultato finale di tutta la guerra. Belisario era per questo secondo partito, al quale [201] Narsete decisamente s'oppose. Si poteva, questi diceva, pensare più tardi a prendere Osimo; non si doveva intanto permettere che i Goti, appena sfiduciati, ripigliassero animo, e s'impadronissero di Rimini, colla disfatta ed umiliazione d'un generale romano e de' suoi soldati. Quanto al punirlo della disobbedienza, si poteva aspettare a farlo più tardi, senza mettere adesso a repentaglio la fortuna e l'onore dell'Impero.
Belisario assai di mala voglia si dovette arrendere a queste ragioni, che non eran di certo senza valore. Mandò quindi 1000 uomini a tenere in iscacco la guarnigione d'Osimo, ch'era di 4000 Goti. Ed a Rimini mandò una parte dei suoi per mare, un'altra per terra, avanzandosi egli con Narsete alla testa d'una colonna volante, per dare, quando se ne presentasse l'occasione, il colpo decisivo. L'esercito imperiale s'avanzava sparso per la campagna, accendendo la notte un gran numero di fuochi, che lo facevano parere assai più numeroso che non era. E però quando i Goti videro da un lato le navi entrare nel porto di Rimini, da un altro la campagna sparsa di uomini, che di notte sembravano coi loro fuochi occupare una vastissima estensione, temettero d'esser presi in mezzo, e si posero in ritirata verso Ravenna. La guarnigione di Rimini era troppo estenuata per inseguirli; ma gl'Imperiali sopravvenuti poterono saccheggiare i loro accampamenti. Giovanni si ritenne in questa occasione liberato dal grave pericolo per opera di Narsete, al quale solamente si dichiarò riconoscente. E questo fu il principio d'una discordia che doveva essere funesta all'Impero, alimentata com'era continuamente anche dagli altri generali.
Tutto ciò seguiva in un momento assai difficile. Vitige era a Ravenna con 30,000 uomini; Osimo, Orvieto, Urbino e molte altre città dell'Italia centrale erano occupate [202] dai Goti. Al nord i Franchi pareva che minacciassero di scendere in loro aiuto; a Milano si trovava una guarnigione di soli 300 imperiali, in mezzo ad un paese tutto in potere del nemico. E questo fu il momento in cui Narsete decise di mettersi addirittura in aperta opposizione col generale in capo. Belisario propose in un consiglio di guerra, che l'esercito si dividesse in due grosse colonne, una per occupare Milano e tutta la Liguria, l'altra per pigliare Orvieto e le città dell'Italia centrale; dopo di che si poteva pensare ad una grossa battaglia campale contro Vitige. Narsete voleva invece che si occupasse anche l'Emilia, e si attaccasse Ravenna, insistendo molto su di ciò. E quando Belisario impazientito gli disse che il comandante era lui, mostrando le lettere di Giustiniano, Narsete gli rispose, che esse imponevano di operare nell'interesse dell'Impero, e che questa solamente doveva essere la norma. La conclusione fu che nell'esercito mancava ora ogni unità di comando. Belisario si decise quindi a prendere Urbino, poi Orvieto (538), e Narsete insieme con Giovanni andò nell'Emilia. Vitige allora dette ordine a suo nipote di assediare Milano, mentre che Teudiberto, re dei Franchi, lasciava scendere in Italia 10,000 Burgundi suoi sudditi, i quali dicevano di venire in aiuto dei Goti, ma per ora non facevano altro che predare il paese. La piccola guarnigione di Milano, ridotta agli estremi, chiedeva aiuto a Belisario, che mandò alcuni de' suoi; ma questi, trovando già occupato il paese da Goti e da Burgundi, non poterono avanzare. E quando Narsete, sollecitato da ogni parte, si decise finalmente a mandare anch'egli i necessari aiuti, era già troppo tardi. La piccola guarnigione di Milano s'era dovuta arrendere, salva la vita; ma i cittadini furono trucidati fino al numero di 300,000, se si deve prestar fede a Procopio. Le donne vennero lasciate schiave ai [203] Burgundi, per l'aiuto da essi dato nell'assediare la città, che venne ora uguagliata al suolo. E così la Liguria fu ora dei Goti. Pure da tutto ciò ne venne un vantaggio a Belisario, il quale, rendendo conto a Costantinopoli del disastro seguito, potè dimostrare che esso era conseguenza inevitabile della mancata unità di comando, ed indurre finalmente Giustiniano a lasciar di nuovo a lui solo il comando supremo, richiamando Narsete (539).
E ve n'era veramente bisogno, perchè le difficoltà della guerra si andavano sempre moltiplicando. Vitige era riuscito a spingere la Persia a minacciare Giustiniano, il quale si mostrava perciò inclinato alla pace, che Belisario non voleva, pieno com'era sempre di fiducia nella vittoria. Questi si fermò intanto ad assediare Osimo, fece assediar Fiesole da due suoi capitani, ed inviò anche alcune genti nell'alta Italia, verso Tortona. In questo momento precipitarono giù dalle Alpi i Franchi, sotto il comando del loro re Teudiberto, in numero, dice Procopio, di 100,000. Pareva che venissero in aiuto dei Goti, ma giunti che furono a Pavia, la saccheggiarono, uccidendo uomini, donne, bambini. Corsero verso Tortona, e sbaragliarono i Goti, che si ritirarono a Ravenna; affrontarono poi gl'Imperiali che, presi alla sprovvista, si ritirarono anch'essi, cercando di raggiungere Belisario, il quale si trovava ancora all'assedio di Osimo. Fortunatamente questa bufera dei Franchi scomparve a un tratto, perchè essi, trovandosi in un paese esausto e privo di tutto, costretti a bere acqua del Po, furono colpiti da una dissenteria, la quale fece tra loro tale strage, che moltissimi ne morirono, e gli altri si ritirarono (539).
Fiesole adesso si arrendeva, e le genti che l'avevano assediata poterono riunirsi a quelle che circondavano Osimo. Essendosi poi dovuta arrendere anche questa, sebbene fosse in una posizione strategica importantissima, [204] la guarnigione gota, che s'era ivi battuta con valore, sdegnata di non avere ricevuto soccorsi da Ravenna, disertò, passando a servizio dell'Impero sotto Belisario. Il quale si mosse ora verso Ravenna, che sperava avere per accordi, non essendo possibile prenderla colla forza fino a che non riusciva ad avere un naviglio. E non si poteva sperare d'averlo ora che l'Imperatore, spaventato dalle minacce della Persia, e dalle promesse d'aiuti considerevoli che i Franchi facevano a Vitige, desiderava in ogni modo conchiudere la pace in Italia. I Franchi infatti promettevano di venire in aiuto dei Goti con un esercito di 500,000 uomini, quando Vitige avesse consentito a divider con essi il regno dell'Italia superiore. Ma questi preferiva dividere l'Italia coi Bizantini piuttosto che con barbari infidi, potenti e crudeli come i Franchi. E Belisario, che era anche accorto diplomatico, seppe aumentare la naturale diffidenza del re goto, ricordandogli i saccheggi che poco prima i Franchi avevano fatti in Italia, pur dicendo di venire ad aiutarlo. Intanto egli stringeva sempre più l'assedio di Ravenna, e d'ogni parte aumentavano le diserzioni dei Goti, che abbandonavano Vitige per venire a lui. A tutto ciò s'aggiungeva, che nella già affamata città bruciarono i magazzini del grano, chi diceva in conseguenza d'un fulmine che vi cadde, e chi a cagione d'un incendio provocato dalla trista moglie di Vitige, la quale nell'ora del pericolo lo tradiva (540).
Per tutte queste ragioni, quando Giustiniano cominciò a parlare d'accordi con Vitige, Belisario fece il sordo, affermando che prima condizione di pace doveva in ogni caso essere la resa di Ravenna. Ed i Goti, che si trovavano già ridotti all'estremo dalla fame, finirono col credere che l'Imperatore volesse ingannarli, fingendo di desiderare la pace; ed unitisi perciò a consiglio, mandarono ambasciatori a Belisario, facendogli la singolare proposta di riconoscerlo [205] come Imperatore d'Occidente, e di prestargli obbedienza, come a loro duce e signore. Ma Belisario, che era deciso a non tradire la bandiera sotto cui aveva finora combattuto, continuò a temporeggiare ed a trattare, sapendo che la fame avrebbe fra poco costretto i Goti a cedere senz'altro. Ed infatti non andò guari che egli potè entrare in città, promettendo solo di rispettare la vita e gli averi dei Goti: quanto al farsi Imperatore, se ne sarebbe parlato poi con Vitige. Così nella primavera del 540 Belisario, alla testa de' suoi soldati, entrò in Ravenna. I Goti che avevano ceduto la città senza dar prima una battaglia, e avevano proposto di rinunziare anche alla loro personalità nazionale, se ne stavano ora umiliati, quasi semplici spettatori, a guardare l'esercito bizantino che, assai meno numeroso di loro, s'avanzava trionfante per le vie della città. Più di tutti parevano sdegnate le donne, alle quali s'era parlato sempre del gran numero, della gran forza fisica dei Bizantini, e invece li vedevano ora pochi, piccoli e scuri, assai meschini di fronte ai Goti biondi, robusti, alti. Esse, dice Procopio, erano così inferocite, che sputavano in faccia ai loro mariti, chiamandoli vili.
Belisario, secondo il suo solito, serbò fede ai patti giurati. La vita e gli averi dei cittadini furono, sotto minaccia di gravi pene, fatti rispettare dai soldati. S'impadronì del tesoro reale, e tenne prigioniero Vitige insieme coi suoi nobili: tutti gli altri Goti, lasciati liberi, andarono dove vollero. Ravenna d'ora in poi fu dei Bizantini, che la tennero fino al 752, quando venne loro tolta dai Longobardi, ai quali poco dopo la tolsero i Franchi. Treviso, Cesena ed altre città s'arresero subito anch'esse; resistettero invece Verona e Pavia, nella quale i Goti offerirono la corona ad Uraias, valoroso nipote di Vitige. Ma egli la ricusò, per non volere aver l'aria [206] d'usurpare il trono dello zio prigioniero, e consigliò che l'offrissero invece a Ildibaldo, il quale si difendeva allora in Verona, ed era parente del re dei Visigoti. E Ildibaldo l'accettò, proponendo però che si facesse prima un altro tentativo d'indurre Belisario a farsi Imperatore d'Occidente, dichiarandosi pronto senz'altro a prestargli obbedienza. Ma tutto fu invano, perchè Belisario s'apparecchiava già a partir per Costantinopoli, dove era con grande istanza chiamato, e dove andò, menando seco insieme col tesoro goto, Vitige ed i nobili, che dovevano come prigionieri seguire il suo carro trionfale. Con l'entrata in Ravenna, e col trionfo di Belisario in Costantinopoli finisce il primo periodo della guerra bizantina in Italia. Avrebbero dovuto cominciare adesso i grandi trionfi ed onori resi a Belisario; ma ben presto cominciarono invece quelle sventure che ne dovevano avvelenare l'esistenza. Con tutti i molti elementi di forza, che si trovavano pur sempre nella società bizantina, la corruzione, l'invidia, la gelosia erano in essa tali da rendervi impossibile ogni vero e sicuro progresso. E noi vedremo fra poco colmata d'ingratitudine e di amarezza la vita di colui che aveva dato tante splendide prove di fedeltà all'Imperatore ed all'Impero, ai quali aveva reso così segnalati servigi in Persia, in Africa, in Italia; ed altri ancora, nonostante la nera ingratitudine, doveva continuare a renderne.
La guerra, che doveva ancora continuare in Italia, era già durata cinque anni, ed aveva desolato, esausto il paese in modo da superare ogni immaginazione, riducendolo [207] in condizioni tali da non essere sperabile, per lunga pezza, di vederlo più risorgere. Procopio descrive gli effetti che nel 538 la morte, la carestia e la fame avevano portato specialmente nella Toscana, nella Liguria e nell'Emilia. La cultura dei campi, egli dice, era stata da due anni abbandonata del tutto, ed il poco e cattivo grano, che spontaneamente vi nasceva, era spesso lasciato imputridire. Gli abitanti della Toscana si erano ritirati ai monti, dove si cibavano di ghiande; quelli dell'Emilia si recarono nel Piceno, sperando di trovare presso il mare di che sfamarsi. Ma la desolazione era tale colà che si parlava di 50,000 contadini morti per mancanza di nutrimento. Lo stesso scrittore ci descrive, come testimonio oculare, il modo e la natura di queste morti. Per eccesso di bile, egli dice, ingialliva il colore della pelle, che aderiva come cuoio alle ossa, essendosi la carne consumata affatto. Il giallo mutavasi poi in rosso cupo, in nero, con una espressione da maniaci negli occhi; e così quegl'infelici morivano. Perfino i corvi e gli uccelli di rapina non volevano cibarsi dei loro corpi disseccati. Quando poi quegl'infelici affamati trovavano per caso del cibo, ne mangiavano con tale avidità e in così gran misura, che ne morivano, avendo per debolezza perduto ogni forza digestiva. Si giunse a tale, che gli uomini divennero qualche volta addirittura cannibali. Procopio ricorda due donne, che rimaste sole presso Rimini, accoglievano i viandanti e li uccidevano nel sonno, per poi divorarli. E così, egli afferma, ne divorarono diciassette; ma il diciottesimo riuscì a scampare, ammazzandole invece ambedue. Si vedeva la gente trascinarsi carpone pei campi, mangiando come capre le erbe; spesso, non avendo più la forza di estirparle dal suolo, morivano estenuati, e restavano insepolti. In mezzo a tanti esempi di desolazione e ferocia lo stesso scrittore [208] ci racconta un caso assai pietoso. Traversando l'Appennino per andare a Rimini, egli vide un bimbo abbandonato, affettuosamente nutrito da una capra, che accorreva al pianto e non voleva che altri s'avvicinasse a lui, il quale a sua volta ricusava il latte offertogli dalle donne del vicino borgo. Pare che la madre, al passaggio dell'esercito di Giovanni rimanesse, fuggendo, separata a un tratto dal figlio, senza poterlo più ritrovare. Nè altro si seppe più di lei, rimasta forse prigioniera, o uccisa nei campi.
Il disordine, lo sconforto e la spaventosa desolazione, sin dal principio portati da questa guerra, andarono, per la sua continuazione, crescendo sempre più. Ed in mezzo a così prolungate calamità, non è da meravigliarsi che il pensiero si volgesse a Dio, e che un fatto nuovo, già da più tempo cominciato, ricevesse uno straordinario incremento. Il monachismo d'Occidente ebbe ora appunto una così rapida diffusione da parer che divenisse quasi contagioso. Suo definitivo riformatore, che parve perciò nuovo fondatore, era stato un uomo veramente straordinario e santo, il quale ad una grandissima bontà univa una profonda conoscenza dell'umana natura e del proprio tempo. Egli compiè la trasformazione del monachismo, rendendo nei monasteri dell'Occidente più tollerabile ed umana la vita religiosa, che gli anacoreti della Tebaide avevano spinta ad una esagerazione che confinava qualche volta colla follia, e trovava in Italia ostacolo insuperabile nell'indole del popolo. Il suo merito principale apparisce chiaro nella Regola monastica del suo Ordine, che fu da lui formulata. Per sette secoli, fino cioè a S. Francesco ed a S. Domenico, i Benedettini furono quasi i soli monaci nel mondo occidentale, e si diffusero dalla Polonia al Portogallo, dalla Gran Brettagna alla Calabria, obbedendo tutti al loro capo in Monte [209] Cassino, che fu come la nuova Roma, la nuova Gerusalemme, la Mecca dei Cristiani. La leggenda, la poesia, la pittura italiana hanno in mille modi illustrato la vita del Santo e de' suoi discepoli. Dalle mura dei chiostri, dagli affreschi, dalle tele dei pittori, dai versi dei poeti, che vennero ispirati da questi monaci, i quali vissero in tempi di feroci passioni, in mezzo agli orrori d'una guerra che faceva scorrere il sangue a fiumi, discende ancora oggi su di noi il loro spirito di pace, di fede, di carità, di tranquillo e costante lavoro, che in tutto il Medio Evo fu sorgente perenne d'arte, di poesia e di civiltà.
La nuova Regola, in settantatrè articoli, rispondeva certo ad un bisogno del tempo, e mantenendo rigorosa obbedienza, rifuggiva da ogni eccesso. Le sostanze di quelli che divenivano monaci, e tutto ciò che più tardi i parenti avessero voluto lasciar loro, andava integralmente al monastero, nel quale spariva ogni proprietà individuale. L'ozio era proibito, come dannoso alla salute dell'anima (otiositas inimica est animi). Questi religiosi infatti pigliavano direttamente parte al lavoro dei campi, a tutto ciò che era necessario alla comune esistenza. Un articolo assai notevole, utile e pratico nello stesso tempo, voleva che prima d'essere ammessi nel convento, si dovesse con un periodo di noviziato dar prova di vera vocazione alla vita monastica. S. Benedetto non faceva distinzione di sorta fra ricchi o poveri, coloni o schiavi, Romani, Bizantini o barbari. Dinanzi alla sua Regola tutti gli uomini erano, come dinanzi a Dio, uguali; e ciò spiega la rapida, la straordinaria diffusione che essa ebbe nel mondo.
La vita di questo, che fu il più grande monaco che sia mai vissuto, ci venne narrata da Gregorio I, forse il più grande dei papi, che da taluno si volle credere nato [210] il giorno stesso in cui moriva S. Benedetto (21 marzo 543). Sebbene la sua narrazione sia piena di miracolose leggende, essa ci fa pur comprendere quale era il vero carattere del Santo. Nato a Norcia (480), nei monti della Sabina, a venti miglia da Spoleto, a duemila piedi sul livello del mare, da un nobile romano, circa quattro anni dopo che Odoacre fu signore d'Italia, cominciò a studiare in Roma. Ma ben presto lasciò tutto, per ritirarsi nella solitudine e nella contemplazione, verso le sorgenti dell'Arno. La sua balia, che lo aveva accompagnato a Roma, lo accompagnò ancora adesso, dominata da quel nobile ascendente morale, che egli esercitava maravigliosamente su tutti. Ben presto i miracoli da lui compiuti, e la fama della sua santità affascinarono, attirarono un così gran numero di seguaci entusiasti, che egli pensò di rifugiarsi a Subiaco, dove erano solo alcuni pochi anacoreti. Ivi fu vestito dell'abito monacale, da un tale che si chiamava Romano; e si ritirò in una grotta, dove questi, a giorni fissi, gli portava dal suo convento il cibo necessario a vivere, facendolo con una fune, dall'alto d'una rocca discendere nella grotta. Ma Romano scomparve a un tratto, senza che più se ne sapesse nulla; ed allora il cibo fu portato prima da un santo uomo, che viveva assai lontano; poi da alcuni pastori miracolosamente ispirati dal Signore. Essendo ancora nel vigor degli anni, il Santo venne assalito dagli stimoli della carne, e per attutirli si gettò nudo sulle spine e sui pruni della foresta, che, lacerando le sue carni, furono fecondati dal sangue che ne scorse, e ne sbocciarono rose, le quali dopo sette secoli S. Francesco vide tuttavia fiorire, ed il viandante le vede fiorire anche oggi.
Essendo intanto grandemente cresciuta la fama di S. Benedetto, i monaci di Vicovaro, che avevano perduto [211] il loro abate, pregarono lui d'assumerne l'ufficio. E quando egli d'assai mala voglia si lasciò indurre ad accettare, furono subito scontenti della severa disciplina da lui imposta, e pensarono d'avvelenarlo. Liberato che fu miracolosamente da questo nuovo pericolo, si ritirò sdegnato nella solitudine. Ma anche colà la gente, attirata dalla fama della sua bontà, accorse numerosissima, e così tra il 500 ed il 520 si formarono intorno a Subiaco 12 monasteri, con capi da lui eletti. Egli se ne stava ritirato nel sacro speco, con pochi de' suoi, presso Subiaco, al di sopra della sua antica grotta. Nonostante però questa sua riserva, questo gran seguito, la gelosia di quelli che facevan parte del clero regolare non lo lasciava in pace. Ed uno di essi fece andar donne di mala vita a tentarlo, cosa di cui S. Benedetto fu così disgustato, che se ne andò via a Monte Cassino. Ivi trovò la statua d'Apollo con un altare, e li fece subito demolire, fondando sullo stesso luogo il suo principale convento, nel quale risiedette quattordici anni (529-543). Colà venne a visitarlo Totila re dei Goti (542), prostrandosi ai suoi piedi; ed il Santo gli rimproverò i mali recati all'Italia, annunziandogli vicina la morte. Un anno dopo questa visita morì anche lo stesso S. Benedetto. Poco prima era morta la sorella Scolastica, che lo aveva seguito a Subiaco ed a Monte Cassino, menando anch'essa vita religiosa, non molto lungi da lui, che andava a visitarla una volta l'anno, e che volle essere sepolto vicino a lei, là dove era stato l'altare di Apollo.
Una prova che l'opera di S. Benedetto era la creazione d'un uomo di genio, e rispondeva ad un vero bisogno dei tempi, noi l'abbiamo nella grande e rapida diffusione che essa ebbe, nel fatto assai notevole che, quasi nello stesso tempo e indipendentemente da lui, Cassiodoro, il quale aveva passato tutta la sua lunga [212] vita negli affari politici, iniziò anch'egli qualche cosa di simile nel suo paese nativo. A tempo di Vitige, quando già da un pezzo Imperiali e Goti erano violentemente venuti a conflitto fra loro, egli s'era dovuto accorgere che il concetto di Teodorico, al quale anch'egli così lungamente aveva dedicato tutte le forze, di fondere cioè in uno Italiani e Goti, era un sogno contradetto dalla realtà. Essendo adunque pervenuto all'età di 60 anni, quando aveva già raccolto le sue lettere e scritto il suo Trattato sull'anima, si ritirò nel paese nativo, dove fondò vicino a Squillace due conventi. Uno di essi era un semplice eremitaggio sul colle, per chi voleva assoluta solitudine; l'altro, il vero e proprio Convento, venne istituito poco più lungi, a Vivarium, presso il fiume Pellena (539). E come S. Benedetto, nel fondare i suoi monasteri, aveva voluto unire il lavoro manuale alla contemplazione, così Cassiodoro unì a questa il lavoro intellettuale, dandone egli stesso l'esempio. Infatti colà scrisse molte delle sue opere, fra le quali il comento ai Salmi, e quello alle Epistole degli Apostoli; la Historia tripartita, la quale è un compendio di tre storie della Chiesa, che per sua commissione Epifanio tradusse dal greco. Scrisse ancora alcune regole del ben vivere, ed il suo libro De ortographia, in cui sono precetti sull'arte del comporre. Cassiodoro era di certo più un letterato ed un retore, che un santo; non aveva le qualità d'un vero fondatore di Ordini religiosi. Pure il suo concetto d'introdurre nei monasteri il lavoro intellettuale, rispondeva, come quello del lavoro manuale imposto da S. Benedetto, talmente ad un bisogno dei tempi, che venne anch'esso accolto dai Benedettini. E così questi trascrissero molte delle più preziose opere antiche, le quali per opera loro vennero salvate dalla distruzione, cui sarebbero altrimenti andate incontro. Monte Cassino divenne come un faro di [213] civiltà, la cui luce, riflettendosi in tutti quanti i conventi benedettini, potè in mezzo alla oscura notte del Medio Evo rischiarare la via ad un migliore avvenire.
L'anno 540 in cui i Persiani presero Antiochia, Belisario arrivava a Costantinopoli alla testa di 7000 uomini della sua guardia, menando seco il tesoro dei Goti, con Vitige e gli altri prigionieri. Era il secondo re barbarico che egli conduceva nella capitale orientale. Aveva allora 36 anni; era quindi nel pieno vigore della sua forza, come era nel colmo della fortuna e della gloria. Ma pur troppo si cominciavano a vedere i non lontani prodromi di quelle sventure che dovevano lacerargli il cuore, avvelenarne l'esistenza, invecchiandolo prima del tempo. Non gli fu concesso un trionfo ufficiale, come quello avuto al ritorno dall'Africa, sebbene il popolo lo accogliesse di fatto come un vero trionfatore, quale egli era certamente. La sua prima sventura fu il sospetto della infedeltà della moglie, la quale amareggiò molto la sua esistenza. Partendo per la guerra persiana, con quest'atroce tormento nell'animo, perseguitato da Teodora, che proteggeva Antonina, non potè concludere gran cosa. Tornato a Costantinopoli, e non essendogli possibile avere più dubbi sulla sua domestica sventura, dovè decidersi ad imprigionare la moglie infedele, che pure amava. Ma il peggio era, che Antonina aveva saputo con grandissima arte guadagnarsi [214] l'animo di Teodora, secondandola ne' suoi intrighi, aiutandola a perseguitare i suoi nemici.
Da un pezzo era nella Corte divenuto potentissimo Giovanni di Cappadocia, uomo dato a tutti i vizi, divorato dall'ambizione, ma attissimo a riscuotere tasse, ricorrendo per esse anche ai tormenti più crudeli: dicevasi che per evitarli, qualcuno si fosse perfino impiccato. Giustiniano lo proteggeva, quale strumento utilissimo ad aumentare le entrate dello Stato, e Teodora invece l'odiava per la sua ambiziosa prepotenza. Antonina, che voleva conquistare sempre più il favore dell'Imperatrice, riuscì, con singolare accorgimento, a fargli confessare i suoi ambiziosi disegni, le sue mire segrete contro lo stesso Imperatore. In conseguenza di che, Giovanni fu mandato in esilio, ridotto alla miseria, costretto a vestir l'abito ecclesiastico, ad andare limosinando. Pare anzi, come osserva l'Hodgkin, che questa sua fine infelice desse origine alla leggenda che fece poi attribuire a Belisario una fine non molto diversa. Certo è che Teodora sempre più grata ad Antonina, sempre più avversa a Belisario, l'obbligò a liberare la moglie infida ed a riconciliarsi con essa, nè si stancò mai di tormentarlo e di umiliarlo.
Intanto, dopo la partenza di Belisario dall'Italia, donde aveva menato seco la sua guardia ed i migliori capitani, le cose andavano nella Penisola di male in peggio. Non v'era un capo autorevole che potesse comandare, non s'era ancora ordinata una nuova amministrazione. Tutto rimaneva affidato a capitani militari, sparsi coi loro soldati, in diverse città, ed ai riscuotitori delle imposte. Le entrate andavano rapidamente diminuendo, nè si poteva sperare danaro da Costantinopoli, dove bisognava provvedere alla guerra persiana, ed a mantenere, con sussidi continui, tranquille le vicine e minacciose popolazioni barbariche. Si ricorreva quindi in Italia ad ogni più misera [215] e meschina arte per risparmiare. Si tosavano le monete; si ritardavano le paghe e le promozioni dei soldati; si vendevano gli uffici; si lasciavano in abbandono le opere pubbliche più necessarie, come gli acquedotti; si trascuravano per tutto le più urgenti riparazioni. Lo scontento era quindi divenuto grandissimo nei soldati, che cominciavano a disertare, o cercavano rifarsi sulle popolazioni, che avevano assai contribuito al trionfo delle armi imperiali. Ridotte ora all'estremo d'ogni miseria, esse finivano col rimpiangere i tempi in cui erano state sotto il dominio dei Goti, la fortuna dei quali cominciava perciò rapidamente a risorgere.
Ildibaldo infatti, che era rimasto con soli 1000 uomini, vide a un tratto accrescere il suo esercito, e fu padrone di quasi tutta l'Italia settentrionale. Ma neppur tra i Goti le cose procedevano senza gravi disordini. Essi, che non avevano mai potuto formare in Italia una vera e propria nazione, apparivano sempre più come un esercito di ventura, sotto il comando di capitani che non andavan d'accordo fra di loro. Tra la moglie di Uraias, il quale aveva ricusato il comando supremo, e quella d'Ildibaldo, che lo aveva accettato, la gelosia era divenuta tale che si comunicò ai mariti. In conseguenza di che il primo venne ucciso dal secondo, e questi fu poi, a sua volta, ucciso nella primavera del 541. Insieme coi Goti erano in Italia venuti parecchi Rugi, i quali non s'erano potuti mai interamente amalgamare coi loro compagni; ed ora innalzarono sugli scudi Erarico, che fu dai Goti accettato. Ma questi non seppe far altro che trattare con Costantinopoli, tentando di costituirsi un piccolo Stato nell'Italia settentrionale, tra i Franchi ed i Bizantini, ponendosi alla mercè dell'Imperatore, tradendo così tutte le speranze de' suoi soldati, i quali, dopo cinque mesi d'inglorioso governo, lo uccisero, avendo [216] prima offerto la corona a Baduila, noto nella storia col nome di Totila. Questi era parente d'Ildibaldo, ed accettò a condizione che levassero di mezzo Erarico, il che essi fecero.
Totila rialzò il destino dei Goti, alla testa dei quali si trovò per undici anni, combattendo sempre gloriosamente. Egli fu il più nobile fiore del valore ostrogoto, dimostrandosi costantemente capitano non solo assai coraggioso, ma ancora di molta capacità strategica e politica. Mentre infatti i Bizantini, per sostenersi in Italia, taglieggiavano, saccheggiavano le popolazioni, favorendo così i latifondisti, che formavano il loro sostegno, sebbene poi scontentassero anche questi colle continue tasse, Totila invece s'appoggiava sul popolo, sui contadini e coloni, trattandoli meglio che poteva, accogliendo nel suo esercito gran numero anche di schiavi. «Ai contadini, dice Procopio, egli in tutta Italia non recò alcuna molestia; ma invitolli a lavorare liberamente la terra, secondo il consueto, pagando a lui i tributi, che già prima solevano dare all'erario ed ai proprietari» (III, 13). Aggravava invece la mano sui latifondisti, che spesso espropriava; s'impadroniva delle loro rendite, ed anche di quelle della Chiesa, che era già fin d'allora uno dei principali latifondisti, e che perciò fu a lui doppiamente avversa, essendo i Goti di religione ariana.
I generali imperiali, radunati a Ravenna, decisero d'avanzarsi con 12,000 uomini per assalire Verona e Pavia; ma dopo un primo fortunato successo, dovettero retrocedere a Faenza. Totila, che aveva potuto raccogliere già 5000 uomini, prese allora l'offensiva, passando il Po, e con abile strategìa riuscì ad infligger loro una vera disfatta, obbligandoli a ricoverarsi nella città. Dopo di che traversò risolutamente l'Appennino, con l'intendimento d'impadronirsi dell'Italia meridionale, dove poteva [217] sperare maggiore facilità di trovar vettovaglie, aiutato anche dalla vicinanza della Sicilia. Di là avrebbe potuto minacciare Roma, costringendo il nemico a dividere le sue forze. Ma intanto un primo tentativo d'assediare Firenze con parte dei suoi, fallì, perchè i Bizantini, avuto soccorso da Ravenna, uscirono dalle mura e lo respinsero. Furono però poco dopo disfatti, e così Totila potè procedere sicuro fino a Napoli (542). Gl'Imperiali si trovavano allora padroni solamente di Firenze, Spoleto, Perugia, Roma, Ravenna e Napoli. La presa di quest'ultima città avrebbe avuto pei Goti una grandissima importanza, sia perchè era una delle principali dell'Italia meridionale, ed in relazione colla Sicilia, sia perchè di là potevano facilmente cominciare le operazioni contro Roma. Totila portò quindi presso Napoli il suo quartier generale, inviando nello stesso tempo alcuni de' suoi verso le Puglie, la Basilicata e le Calabrie. Napoli aveva solo una guarnigione di 1000 fanti; e però Giustiniano, riconoscendone l'importanza strategica, vi spedì alcune navi con soccorso di uomini e di vettovaglie. Totila però seppe tener testa a tutto, e favorito da una tempesta, che ritardò l'arrivo d'una parte dei soccorsi, sconfisse il nemico e costrinse la città ad arrendersi (543). La guarnigione fu lasciata libera, e nulla soffrirono gli abitanti, avendo egli, con ordini severissimi, mantenuta la più stretta disciplina fra i suoi Goti, coi quali si apparecchiava ora all'assedio di Roma.
A Totila pareva d'esser vicino ad impadronirsi di tutta Italia, giacchè i Bizantini possedevano ora solo alcune poche città, i loro generali non andavano d'accordo, e già scrivevano a Costantinopoli, come se lo stato delle cose fosse disperato. Egli invece, pieno di fiducia, scriveva al Senato e spargeva ovunque proclami, invitando le popolazioni a fare con lui causa comune. [218] Tutto ciò finì col decidere Giustiniano a rimandar di nuovo in Italia Belisario (544), che non era però più quello d'una volta: infinite erano state le sue traversie, le ingiuste persecuzioni da lui sofferte. Affranto dai dolori e dalla più nera ingratitudine, costretto ad umiliarsi dinanzi alla moglie che lo aveva tradito, accusato d'aver rubato parte del tesoro goto, per sopperire alle sue spese eccessive, era stato richiamato dall'Oriente, dove, oppresso da tanti dolori, non gli aveva arriso la fortuna della guerra. Oltre di ciò la sua guardia era stata disciolta, ed egli privato d'ogni ufficio, d'ogni emolumento. Era vietato agli amici d'avvicinarlo; e quindi, abbandonato da tutti, si vedeva girar solo e pensoso per le strade di Costantinopoli, col sospetto di potere da un momento all'altro essere assassinato. Ed ora che la peste aveva desolato l'Impero, che lo stesso Imperatore ne era stato colpito, ed a fatica era scampato dalla morte; ora che tutto anche in Italia pareva andasse a rovina, bisognò di nuovo ricorrere a lui, restituirgli parte della sua fortuna, ridargli il comando supremo delle forze nella Penisola. Non potè però riavere la sua guardia, che era stata già disciolta; non gli si potè costituire un nuovo esercito, nè dar danari: doveva a tutto provvedere da sè; la guerra doveva alimentare la guerra. Ciò nonostante, dimenticando ogni cosa, si rimise con ardore all'opera, e raccolse a sue spese nella Tracia un corpo di 4000 Illirici, che condusse subito nella Dalmazia, dove li organizzò ed esercitò. Di là riuscì a far pervenire qualche soccorso di uomini e vettovaglie alla guarnigione assediata e pericolante in Otranto, per avere in sue mani un punto da cui ricominciare la conquista dell'Italia meridionale. Ed infatti i Goti che assediavano la terra, quando videro che di mezzo alle loro file erano potuti passare i soccorsi, si ritirarono per andarsi a ricongiungere con Totila. Questi s'era intanto avviato [219] verso Roma; aveva preso Tivoli, facendo strage della popolazione, e poteva di là impedire che pel Tevere scendessero vettovaglie nella Città eterna. Belisario avrebbe dovuto e voluto soccorrerla subito, se avesse avuto il danaro e gli uomini, che invece gli mancavano affatto. S'avviò quindi verso Ravenna, con la speranza di raccogliere colà i veterani sbandati; ma l'antico entusiasmo e l'antica disciplina più non esistevano. Impadronitosi infatti di Bologna, invano aspettò che i veterani tornassero sotto le sue bandiere. E i nuovi soldati illirici, che seco aveva e che intanto non ricevevano le paghe, avuta notizia d'un assalto che gli Unni movevano al loro paese, se ne partirono senz'altro. Totila allora, avanzandosi per la Via Flaminia, prese parecchie delle città rimaste ancora ai Bizantini (545); e la guarnigione di Spoleto non solo s'arrese, ma si unì a lui. Egli così potè impedire al nemico ogni comunicazione fra Ravenna e Roma, che fu subito da lui assediata. Belisario, convinto della estrema necessità di rialzare le sorti della guerra, ardeva del desiderio di tentare un colpo ardito, per liberare l'antica capitale del mondo; ma non aveva modo. Con grande insistenza chiese a Costantinopoli aiuto d'uomini e danaro; domandò sopra tutto d'avere la sua guardia, esponendo lo stato disperato delle cose in Italia, dove non c'era da aspettar più nulla dalle popolazioni esauste e disgustate. Corse poi con pochi de' suoi a Durazzo in Dalmazia, per andare incontro ai soccorsi che dovevano finalmente arrivare da Costantinopoli.
Erano passati già dodici mesi, nei quali egli nulla assolutamente aveva potuto concludere. Roma era assediata dai Goti, che occupavano da padroni il paese circostante, riscuotendo le imposte, raccogliendo il prodotto delle terre. Dentro le mura la guarnigione imperiale assai debole cominciava a mancare d'ogni cosa; la fame si faceva [220] già crudelmente sentire; e quello che era anche peggio, alcuni dei capitani, specialmente il comandante Bessa, avendo raccolto grano per l'esercito, ne vendevano ai privati, facendovi lauti guadagni, e cercavano perciò di mandare le cose in lungo. Molti, esausti dalla fame, si trascinavano a fatica, come spettri, per le vie della Città. Fu quindi necessario mandar fuori delle mura i non combattenti, che spesso venivano uccisi dai nemici, quando li vedevano lentamente traversar la Campagna.
Non è perciò da maravigliarsi se appena arrivati da Costantinopoli gli aiuti così lungamente attesi, Belisario che già ardeva del desiderio d'andare a soccorrere Roma, si mosse senza indugio. Ma di nuovo trovò ostacolo grandissimo in quella mancanza di disciplina, che pareva omai divenuta epidemica. Il generale Giovanni, che per la sua parentela aveva potenti relazioni nella Corte, era stato sempre nemico di Belisario, che per avere gli aiuti necessari aveva dovuto pur decidersi a mandar lui a Costantinopoli. E Giovanni adesso voleva dalla Dalmazia avanzarsi coi suoi nell'Italia meridionale, per combattere i Goti, i quali erano colà sparsi e deboli. Dopo averli vinti, egli diceva, sarebbe stato più facile ottener vittoria sotto le mura di Roma, dove egli e Belisario avrebbero nello stesso tempo potuto assalire il nemico da due lati, cooperando all'impresa comune anche la guarnigione con una vigorosa sortita. Ma Belisario, che riteneva invece non doversi metter tempo in mezzo, voleva recarsi direttamente per mare alla bocca del Tevere, e risalendolo, avanzarsi senz'altro a soccorrere Roma d'intesa con Bessa. Non essendo stato possibile mettersi d'accordo con Giovanni, si dovette finire al solito coll'appigliarsi al peggiore dei partiti: operare cioè ognuno per conto proprio. Così egli andò per mare a Porto, e Giovanni sbarcò a Brindisi, entrandovi dopo [221] aver battuto i Goti, sottoponendo poi l'antica Calabria (Terra d'Otranto), le Puglie e la Lucania. Di là, invece di pensare a raggiungere Belisario, s'avviò nel paese dei Bruzi (Calabria), ed occupò Reggio, sbaragliando i pochi Goti che v'erano, favorito dai latifondisti coi loro contadini. Così fu padrone dello Stretto di Messina, e potè annunziare a Costantinopoli, che aveva riconquistato l'Italia meridionale. Quanto ad avanzarsi verso il nord, come voleva Belisario, pare che non ci pensasse neppure. E quindi i pochi Goti, mandati da Totila nella Campania, erano più che sufficienti a tenerlo d'occhio.
Belisario intanto si trovava con poche genti a Porto, invano dolendosi d'esser lasciato solo. Ad Ostia, che egli poteva quasi toccar con mano, erano sempre i Goti, e per mancanza di uomini, non poteva cacciarli, sebbene anch'essi fossero colà in assai piccolo numero. A quattro miglia di distanza, là dove il Tevere è più stretto, Totila aveva potuto chiudere il fiume, mediante una catena ed un ponte galleggiante, difeso da due torri di legno, costruite sulle opposte rive. Pure Belisario era deciso a soccorrere Roma, sperando di farvi entrare le vettovaglie, e di penetrarvi poi egli stesso, giacchè neppure dopo tanti disinganni il valoroso capitano s'era perduto d'animo. Mandò quindi due finti disertori a misurare l'altezza delle torri; e poi, congiunte due barche con tavole, su di esse costruì una torre di legno, sulla quale pose una piccola barca con materie infiammabili, che erano una mescolanza di zolfo, di pece, di resina, qualche cosa di simile a ciò che più tardi fu chiamato fuoco greco. Alle due barche che lentamente s'avanzavano, teneva dietro una piccola flottiglia carica di grano, con uomini armati, accompagnata da altri a piedi ed a cavallo, i quali s'avanzavano sulle due rive, [222] in compagnia di coloro, che colle corde su pel fiume tiravano le navi.
Prima di partire, Belisario aveva lasciato Isaace d'Armenia a guardia di Porto, con ordine espresso di non abbandonar mai quel posto, neppure per soccorrere lui stesso, quando si fosse trovato in pericolo. Avvertì dei suoi movimenti Bessa, invitandolo ad uscir dalle mura in tempo, per potere ambedue contemporaneamente assalire i Goti, di fronte ed alle spalle. Ma Bessa, occupato più che altro de' suoi propri guadagni, non dette segno di muoversi, ed i Goti poterono liberamente andar contro Belisario, che sembrava avanzarsi con buona fortuna. Era infatti riuscito a levare la catena, ad incendiare una delle due torri, quando sopraggiunsero i Goti, coi quali venne subito a battaglia, e li respinse dopo averne uccisi 200. Il ponte galleggiante era rotto, il fiume pareva ormai libero al passaggio delle vettovaglie, quando a un tratto la ruota della fortuna girò a suo danno. Nè Bessa, nè Isaace d'Armenia, sebbene per diverse ragioni, avevano obbedito agli ordini ricevuti, e questo fu causa della rovina dell'impresa nel momento stesso in cui Belisario pareva che avesse già in pugno la vittoria. Giunta a Porto la notizia, che i Bizantini s'avanzavano vittoriosi verso Roma, Isaace non potè più stare alle mosse, e con 100 cavalieri traversò l'Isola Sacra, che divide Porto da Ostia, la quale egli prese senza difficoltà. Ma sopraggiunsero allora i Goti, che poteron facilmente disfare i 100 cavalieri, uccidendone la più parte, e facendo prigioniero Isaace, che li comandava in persona. La notizia assai esagerata di tutto ciò, arrivò a Belisario, come un fulmine a ciel sereno, nel momento appunto in cui egli si credeva decisamente vittorioso. E fu questa la prima volta in sua vita, che perdè veramente la testa. S'immaginò che Porto fosse stato occupato dal nemico, che [223] sua moglie, la quale pur sempre amava, fosse prigioniera, che i nemici potessero attaccarlo alle spalle e di fronte; ordinò quindi senz'altro la ritirata. Ma quando giunse a Porto, e vide come stavano veramente le cose, fu pel dolore della perduta vittoria, preso da una febbre che per qualche tempo lo rese affatto inabile a proseguire la guerra.
Bessa se ne stava intanto tranquillo in Roma, pensando a guadagnare sulla fame che aveva ridotto all'estremo i cittadini, irritatissimi perciò nel momento in cui l'opera loro era più che mai necessaria alla difesa delle mura. I soldati erano assai pochi ed anch'essi scontentissimi per essere trascurati affatto dal loro capo, che li lasciava senza paghe e senza vettovaglie. La conseguenza fu che quattro Isaurici, messi a guardia di Porta Asinaria, la tradirono al nemico. E così il 17 dicembre 546 i Goti entrarono nella Città, che i Bizantini abbandonarono, uscendo nello stesso tempo da un'altra porta in tal fretta, che Bessa dovè lasciare tutto il danaro da lui così disonestamente guadagnato. Vi fu allora come una fuga generale da Roma, dove, secondo Procopio, sarebbero rimaste appena 500 persone, che si ricoverarono nelle chiese, temendo la crudeltà dei Goti. Questi infatti cominciarono subito la strage; ma quando ebbero ucciso 26 soldati e 60 cittadini, furono con ordini severissimi fermati da Totila, il quale venne indotto alla clemenza anche dalle preghiere del diacono Pelagio, che in Roma faceva ora le veci di papa Vigilio, il quale trovavasi nella Sicilia in via per Costantinopoli.
Totila, che era vittorioso, e si sentiva sicuro del fatto suo, disse allora alle sue genti queste notevoli parole: — In principio della guerra 200,000 Goti furono vinti da 7000 Bizantini; ma oggi invece 20,000 Bizantini, [224] che tanti se ne trovano sparsi in Italia, furono vinti dai deboli e disprezzati avanzi dei Goti. Ciò è avvenuto, perchè allora i Goti si condussero ingiustamente verso i Bizantini, e vennero puniti; ma ora che abbiamo invece osservato la giustizia, siamo stati da Dio remunerati colla vittoria. — Entrato poi in Senato, rimproverò ai Romani la loro condotta favorevole agl'Imperiali, che li avevano spogliati di tutto. — Che male, egli esclamò, vi hanno mai fatto i Goti? — Mandò poi a Costantinopoli il diacono Pelagio, per concludere una pace definitiva. «Io, egli scriveva a Giustiniano, ti rispetto come un figlio deve il padre, e sarò sempre tuo fido alleato. Ma se tu non accetti la pace, distruggerò Roma, perchè da essa non possa venir nuovo danno ai Goti.» E Giustiniano a tali minacce non si degnò neppur di rispondere, rimettendosi in tutto e per tutto a Belisario, il che voleva dire alla sorte delle armi. Non c'era quindi da far altro, che apparecchiarsi a continuare la guerra.
Totila si vedeva ora costretto a recarsi nell'Italia meridionale, dove i Bizantini in buon numero occupavano molte terre, e rendevano sempre più difficile il fornire Roma di vettovaglie. Partendo, egli non poteva, per mancanza di uomini, lasciarvi una guarnigione sufficiente; cominciò quindi a demolirne le mura, con animo di distruggere addirittura la Città. Ma quando procedeva in quest'opera nefasta e di vera barbarie, ricevette una lettera di Belisario, che gli fece una profonda impressione. «Non sai tu dunque, questi gli scriveva, che le ingiurie fatte a Roma, sono ingiurie ai trapassati, ai posteri; sono una vera profanazione? Vuoi tu rimanere nella storia come il distruttore, piuttosto che come il preservatore della più grande e magnifica città del mondo?» Totila, secondo Procopio, restò da tali parole siffattamente colpito, che smise la mal cominciata demolizione, e parti senz'altro pel [225] Mezzogiorno, menando seco in ostaggio i Senatori, ordinando che tutti abbandonassero Roma, che, secondo lo stesso scrittore, rimase davvero per qualche tempo deserta. Lasciò sui monti Albani una piccola guarnigione, come a guardar da lontano la desolata Città, in cui sperava di tornare ben presto, dopo aver vinto i Bizantini. Questo racconto può sembrare una leggenda; è certo però che da una parte Totila non aveva modo di tenere occupata la Città eterna, e da un'altra il fascino grandissimo che essa esercitava ancora sui barbari era sempre tale, che le dava ai loro occhi qualche cosa di sacro e d'inviolabile: il distruggerla doveva quindi parere a tutti un delitto contro gli uomini e contro Dio. Si aggiungeva poi che Totila non voleva romperla addirittura coll'Impero, e chiudersi così ogni possibilità di nuove trattative.
Comunque sia, Roma si trovò ora per sei settimane affatto abbandonata, restando, così almeno si narra, addirittura deserta. E Belisario, lasciata una piccola guarnigione in Porto, respinti i pochi Goti che, scesi dai monti Albani, gli vennero incontro, entrò dentro le mura e si pose subito a restaurarle. Molti tornarono allora dalla Campagna, ed insieme coi soldati s'adoperarono a tutt'uomo per riparare i guasti portati ad esse. Mancavano però gli operai capaci di rimettere a posto gli usci delle porte, che erano stati abbattuti. Si provvide quindi alla meglio, chiudendole in fretta, essendosi saputo che Totila, avuta notizia dell'entrata di Belisario, tornava indietro a gran passi. Tre volte infatti diede l'assalto; ma fu sempre respinto ed inseguito, fino a che si ritirò a Tivoli. E Belisario allora potè trovar modo di far rimettere gli usci alle porte della Città, di cui mandò le chiavi a Costantinopoli. Correva l'anno 547, dodicesimo della guerra bizantina, terzo della seconda campagna.
[226]
I Goti erano sempre assai potenti in Italia. Padroni nel Settentrione, dove si trovavano ancora i Franchi venuti in loro aiuto, essi occupavano la Venezia, e s'erano avanzati nell'Italia centrale, che tenevano quasi tutta, ad eccezione di Ravenna, Perugia, Ancona, Roma e Spoleto. Nel Mezzogiorno invece dominavano i Bizantini, sebbene anche colà non mancassero Goti, disseminati in diversi punti, qualcuno dei quali strategicamente importante. Certo per gl'Imperiali riusciva di grande vantaggio morale e materiale il possesso delle due capitali, Roma e Ravenna. Ma l'opera di Belisario era paralizzata dal disaccordo persistente con Giovanni; nè l'Imperatore mandava aiuti di sorta. Così corsero ancora due anni, nei quali i Bizantini non fecero altro che accrescere sempre più il malcontento delle popolazioni, con vantaggio dei Goti, i quali perciò andavano ripigliando nuove terre, fra le altre Rossano e Perugia. Belisario era quindi in uno stato di sconforto disperato, tanto che sua moglie Antonina si decise a partire per Costantinopoli, sperando d'ottenere per lui i necessari aiuti, mediante la protezione che aveva sempre avuta di Teodora; ma, arrivata colà, trovò invece che questa era già morta il 1º luglio 548. E non potendo far altro, chiese ed ottenne il ritorno del marito, che nel 549 era da capo a Costantinopoli, carico al solito di ricchezze accumulate nella guerra, ma con la sua antica gloria molto offuscata, giacchè nulla d'importante aveva potuto concludere in questa seconda campagna d'Italia. E tutto ciò appariva anche assai più evidente, se si faceva il paragone cogli strepitosi successi ottenuti nella prima. Egli restò a Costantinopoli, sempre onorato, ma senza mai più avere, per dieci anni continui, il comando dell'esercito.
Nel 559 però gli Unni, essendo entrati nella Media e [227] nella Tracia, cominciarono a fare stragi crudeli, minacciando la stessa città di Costantinopoli. Ed allora Giustiniano, che era già vicino ai 77 anni, e s'era per modo spaventato, che voleva fuggire dalla capitale, ricorse di nuovo all'ormai vecchio, ma pur sempre glorioso capitano. Questi aveva già superato i 54 anni, e i dolori patiti lo avevano assai fiaccato; pure, senza esitare, corse alle armi, raccolse alcuni de' suoi veterani e parecchi contadini; formò così un piccolo esercito, e con un nuovo miracolo d'audacia, di accortezza e di valore strategico, respinse un nemico assai più numeroso, che lasciò 400 morti sul campo di battaglia. E fu allora appunto che Giustiniano, sopraffatto dalla puerile o per dir meglio senile gelosia, lo richiamò, preferendo accordarsi definitivamente col nemico mediante danaro, piuttosto che ottenere una pace onorevole che avrebbe fatto rivivere l'antica gloria del suo invidiato generale. Questi fu di nuovo accolto dal popolo come un trionfatore, ma restò poi sempre lontano dagli affari e dal comando dell'esercito. Ciò dette ai suoi nemici tanto ardire, che lo accusarono di cospirazione contro lo stesso Imperatore, il quale da capo lo privò d'ogni suo avere, ponendolo anche sotto sospettosa vigilanza. Ma alcuni mesi dopo, forse ravveduto o pentito, restituì ad esso gli emolumenti di cui lo aveva privato (luglio 563). Nel 565 il valoroso capitano trovò finalmente pace nella tomba, circa nove mesi prima che morisse l'Imperatore, da lui così fedelmente servito. La leggenda, secondo la quale egli avrebbe finito la sua vita, cieco, povero, seduto alla porta d'una chiesa, con una scodella di creta in mano, chiedendo limosina, Date obolum Belisario, si formò tra i secoli XI e XII; ma di essa nulla sanno i contemporanei, i quali tacciono quasi affatto degli ultimi suoi anni infelici. Assai probabilmente, come fu già osservato, [228] si fece confusione con quello che avvenne a Giovanni di Cappadocia, che realmente finì limosinando, non però cieco.
La definitiva ritirata di Belisario dagli affari segna la fine, anzi si può dire il fallimento della politica estera di Giustiniano. Da ogni parte infatti i barbari sembravano ora avanzarsi di nuovo. Più di tutti orgogliosi e sicuri del loro avvenire parevano i Franchi; la fortuna di Totila sembrava anch'essa rapidamente risorgere. In Roma v'era una guarnigione di soli 3000 soldati imperiali, poco o punto pagati, privi di tutto, e però scontentissimi, i quali avevano ucciso il generale Conon, che sembrava voler come Bessa, in mezzo alla comune calamità, far guadagno colla vendita del grano. Li comandava ora Diogene, stato già della guardia di Belisario, e che alla testa de' suoi aveva respinto gli ultimi ripetuti assalti di Totila. Questi potè tuttavia occupar Porto, di dove riuscì ad affamare la Città, fino a che alcuni soldati isaurici, stanchi di soffrire senza mai avere le paghe, la tradirono al nemico, aprendo la Porta S. Paolo, per la quale esso entrò, facendo strage della guarnigione. Diogene si salvò con parte de' suoi; altri 400 si chiusero nella tomba d'Adriano, ma dovettero poi anch'essi arrendersi per fame, unendosi ai soldati di Totila (549), che si mostrò generoso verso di loro, giacchè si riteneva omai sicuro di vincere, e cercava perciò di vivere in armonia colla popolazione romana. Diverse città s'andavano infatti ogni giorno arrendendo a lui come [229] fecero Rimini e Taranto, come promettevano di fare, se non venivano presto soccorse dagl'Imperiali, anche Civitavecchia ed Ancona. Egli pensò quindi d'andare verso il sud, prendere le isole, e colla flotta rendersi padrone del mare, per interrompere le comunicazioni degl'Imperiali con Costantinopoli. Passato quindi il Faro, sbarcò in Sicilia, e trovando resistenza a Messina, penetrò nell'interno dell'isola, e ne occupò facilmente la campagna.
Questo sarebbe stato per Giustiniano il momento di provvedere con energia alla guerra, se non voleva addirittura rinunziare all'Italia. Sfortunatamente però egli, già assai vecchio e più o meno invaso sempre da una manìa religiosa, s'era da qualche tempo siffattamente immerso nella teologia, che per essa trascurava i bisogni più urgenti della guerra e dello Stato. Aveva l'ambizione d'essere il sostenitore della vera fede, il restauratore della unità non solo dell'Impero, ma anche della Chiesa. Se non che l'Oriente e l'Occidente non riuscirono mai ad andar pienamente d'accordo sul concetto fondamentale della suprema autorità religiosa. Nelle cose della fede il Papa non poteva ammettere nè superiori, nè uguali, qualunque fossero d'altronde i meriti e i servigi che altri avesse resi alla Chiesa. Giustiniano invece, che faceva derivare la sua autorità politica non dal popolo, dal Senato o dall'esercito, ma direttamente da Dio, sebbene riconoscesse la superiorità del potere spirituale sul temporale, riteneva che l'uno e l'altro dovessero metter capo all'Imperatore. E però voleva, anche nelle cose della fede, stare alla testa della Chiesa, dei sacerdoti e dei credenti. «La nostra principale sollecitudine, così egli scriveva, è rivolta ai veri dogmi di Dio, alla onestà del clero.» Condannava perciò gli eretici e le dottrine eterodosse; non voleva riconoscere valore definitivo ai decreti dei Sinodi e del Papa, ma [230] solo a quelli del Concilio ecumenico, convocato da lui, che ne sanzionava e promulgava le deliberazioni. A tutto ciò Roma non poteva mai consentire.
Animato costantemente da siffatti pensieri, Giustiniano s'era da un pezzo stranamente esaltato per la scoperta che era stata fatta d'alcuni errori o piuttosto inavvertenze in cui era caduto il Concilio di Calcedonia, e voleva avere la gloria di correggerli: a tal fine si chiudeva assai spesso nel suo studio a meditare, a discutere ardentemente con preti e con frati. La questione di cui da qualche tempo s'occupava, è nota sotto il nome dei Tre Capitoli o sia tre punti controversi. Essa era molto oscura, molto intricata, e senza grande valore teologico; ma aveva per lui anche una importanza politica. Ora come sempre l'Imperatore desiderava piena concordia con Roma; ma questa concordia, appena veniva conclusa, suscitava la discordia in Oriente, dove, come in Egitto, numerosissimi e passionati erano i seguaci della dottrina monofisita, fieramente avversata dalla Chiesa romana. La nuova controversia versava sulle dottrine di tre vescovi orientali, nelle quali s'erano scoperte tracce evidenti d'eresia, sebbene il Concilio di Calcedonia non le avesse notate. Pare che Teodoro Ascida, iniziatore di questa disputa, facesse sperare all'Imperatore che, avendo quei tre vescovi aspramente combattuto la dottrina monofisita, il condannarli gli avrebbe potuto indirettamente conciliare i seguaci di essa, senza irritare la Chiesa romana. E Giustiniano, persuaso, non senza ragione, che i tre vescovi avessero veramente errato, ne fu come infatuato, ed «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», anatemizzò i Tre Capitoli, invitando i Monofisiti a fare adesione alla vera dottrina da lui esposta (544 e 551). Ma s'era questa volta pienamente ingannato. Il suo decreto non gli guadagnò punto i Monofisiti, [231] e suscitò invece una viva opposizione in Occidente, dove si vedeva in esso un'offesa all'autorità del Concilio di Calcedonia (451), ed a quella del Papa. Oltre di che, i tre vescovi condannati col decreto imperiale, non solo erano stati rispettati a Calcedonia, ma erano già morti da un secolo. A che dunque turbare adesso le loro ceneri? La disputa sollevata era per lo meno inopportuna, e senza pratico valore. Pure Giustiniano non sapeva pensare ad altro, e non voleva in nessun modo recedere.
Chi si trovava ora peggio di tutti era papa Vigilio, il quale, per gl'intrighi di Teodora salito sulla cattedra di S. Pietro, era stato chiamato a Costantinopoli, dove pareva che fosse fra l'incudine ed il martello. Se infatti condannava i Tre Capitoli, destava un vespaio in Occidente; se non li condannava, si poneva in lotta coll'Imperatore. E finì col cedere a questo, pubblicando nel 548 la condanna dei Tre Capitoli. Ma quando vide la fiera tempesta che si sollevò in Occidente contro di lui, della quale Giustiniano non teneva nessun conto, mutò avviso, ponendosi in aperta opposizione con l'Imperatore. Non intervenne nel Concilio ecumenico, del quale egli stesso aveva suggerito la convocazione, anzi protestò contro di essa (553). Il Concilio, come era da aspettarsi, condannò esplicitamente i Tre Capitoli; e ne seguirono disordini, nei quali fu in pericolo la vita stessa del Papa, che, dopo aver sopportato gravi violenze, venne confinato in un'isola del Mar di Marmara. Dopo sei mesi finalmente, stanco delle patite calamità, oppresso dagli anni, tormentato dal mal della pietra, cedette, ed il 23 di febbraio 554 pubblicò la condanna dei Tre Capitoli. Potè allora ripartire per l'Italia; ma appena che fu arrivato in Sicilia, morì il 7 gennaio del 555.
Pur tali erano allora la potenza della Chiesa e l'autorità dei Papi, che anche in questi anni di debolezza [232] e di patite violenze, si ottennero per essa dall'Impero nuove e notevoli concessioni. Nel 554 infatti era stata pubblicata quella Prammatica Sanzione, che sanzionando definitivamente il diritto giustinianeo in Italia, concedeva al clero nuova autorità anche nelle cose temporali. I giudici dovevano essere eletti dai Vescovi e dai principali cittadini; nei pesi e nelle misure si dovevano osservare le norme fissate dai Vescovi e dal Senato. E tutto ciò dopo molte altre concessioni fatte anche prima. Sin dal 546 era stato deciso che il clero doveva esser giudicato dai soli tribunali ecclesiastici. In molti casi si poteva dai giudici ordinari appellare al Vescovo, che diveniva così come una specie di tribuno della plebe: a lui era affidata la cura dell'annona, degli edifizi pubblici, degli acquedotti. Di certo tutte queste concessioni erano fatte ai Vescovi come ufficiali dipendenti dall'Impero. Ma la Chiesa le accettava senza discutere, e quando l'autorità dell'Impero cominciò a decadere, ed essa potè sempre più affermare la propria indipendenza spirituale, una uguale indipendenza si estese naturalmente anche all'esercizio di quelle temporali facoltà che, senza riflettere alle inevitabili conseguenze, le erano state concesse. L'Impero aveva dato alla Chiesa le armi con le quali essa doveva poi combatterlo. E la Prammatica Sanzione che poneva come il suggello a tali e tante concessioni, era stata pubblicata da Giustiniano, come in essa è detto esplicitamente, per seguire i consigli di quello stesso papa Vigilio che egli aveva così maltrattato, così umiliato!
Giustiniano, è vero, poteva esser lieto d'aver trionfato nella questione dei Tre Capitoli, essendo riuscito a farli condannare dal Papa; ma era ben lungi dall'avere ottenuto lo scopo finale che s'era prefisso, giacchè egli non aveva guadagnato alla sua causa un solo Monofisita, e s'era invece sempre più alienato l'animo delle popolazioni [233] italiane. La lotta religiosa da lui provocata aveva inoltre messo in chiaro, che sotto i Bizantini il Papa non era, non poteva essere libero. Per sei anni infatti Vigilio era stato costretto a fermarsi in Costantinopoli, dove risiedeva il Patriarca a lui avverso, ed era stato malmenato dall'Imperatore, che lo aveva trattato come un suo dipendente.
Certo la condotta di papa Vigilio era stata poco onorevole, e risultò a grave danno della Chiesa, che dopo di lui soffrì circa un mezzo secolo d'oscurità e di decadenza fino a che non venne a sollevarla Gregorio Magno. Ma in tutto ciò il procedere di Giustiniano fu assai imprudente, e causa non ultima della caduta del dominio bizantino in Italia e della venuta dei Longobardi. Il vero è che egli voleva ricostituire l'unità dell'Impero, ed i papi volevano invece fondare l'unità e l'autorità universale della Chiesa cattolica; ma nessuno di questi due disegni poteva essere pienamente attuato, perchè l'Oriente doveva politicamente e religiosamente separarsi dall'Occidente.
Già da gran tempo Giustiniano, chiuso nel suo studio, era talmente immerso nelle sue sottigliezze teologiche, che avrebbe per esse abbandonato anche quella guerra d'Italia, con tanto ardore da lui intrapresa, ma che con grande spargimento di sangue, con crudele rovina delle misere popolazioni, era durata assai più a lungo, che egli non avrebbe mai pensato. Se non che da tutte le parti gli si facevano premure, perchè conducesse una volta a compimento la restaurazione dell'Impero, e molti emigrati erano dall'Italia stessa venuti per deciderlo a ciò. Il problema principale per lui era allora: trovare un generale in capo, cui affidare quella unità di comando così necessaria a condurre con fortuna la guerra. A Belisario, dopo gli ultimi fatti, non era più da pensare. Elesse [234] quindi Germano suo nipote che, avendo sposata una nipote di Teodorico, vedova di Vitige, pareva dovesse ispirare qualche simpatia anche nei Goti. Egli era ricco di suo, e per poter condurre la guerra ebbe a sua libera disposizione la cassa dell'Impero. Ben presto si vide quindi da ogni parte accorrer gente sotto le sue bandiere, non esclusi anche alcuni Goti. Ma quando aveva raccolto in Dalmazia buon numero d'armati, ed era pronto a partire, fu colpito dalla morte. L'esercito rimase perciò a svernare presso Salona (550-551).
Totila aveva intanto assediato Ancona, città assai importante per gl'Imperiali, massime quando avessero voluto fare uno sbarco dalla Dalmazia nell'Italia centrale. E per questa ragione il generale Giovanni, uomo ardito ed ambizioso, che assai bene conosceva l'Italia ed i Goti, si decise, non ostante gli ordini avuti in contrario, a muoversi dalla Dalmazia per tentar di liberare quella città dalla parte del mare. Messosi quindi d'accordo con Valeriano, che era a Ravenna, riunirono i loro navigli, e nelle acque di Sinigaglia s'affrontarono con la flotta dei Goti, i quali sul mare non avevano potuto mai tener testa ai Bizantini, e la distrussero affatto, rimanendo padroni dell'Adriatico, che liberamente poterono percorrere. I Goti allora, levato l'assedio da Ancona, si ritirarono in Osimo, e Totila s'indusse a far nuove proposte di pace, dichiarandosi pronto a lasciare la Dalmazia e la Sicilia all'Impero, cui avrebbe anche pagato un tributo, riconoscendone la superiore autorità. In questo modo, egli diceva, si sarebbe impedito che tutto finisse a vantaggio dei Franchi, i quali occupavano sempre parecchi punti importanti nell'alta Italia. Ma ormai ogni discussione era vana, perchè Giustiniano aveva già nominato il nuovo generale in capo nella persona di Narsete (551).
Questo celebre eunuco aveva allora circa settantatrè [235] anni, era curvo e piccolo della persona. Fino a sessant'anni era stato sempre nell'amministrazione, acquistando in essa gran nome e grande perizia. Estremamente accorto ed ambizioso, era cattolico ardente, ed aveva la reputazione d'essere sotto la diretta protezione della Vergine, per la quale professava un culto speciale. Giustiniano, col suo istinto divinatore, lo aveva nominato generale la prima volta, quando era già arrivato a sessant'anni, senza aver mai avuto occasione di dare una prova qualunque delle grandi qualità militari che poi mostrò di possedere, e delle quali nessun altro s'era fino allora accorto. Mandato in Italia quando v'era sempre Belisario, non aveva potuto allora far conoscere il suo valore, perchè, venuto subito in urto col comandante in capo, aveva più che altro recato danno all'esito della guerra. Pure dimostrò un singolare ascendente non solo sui soldati, ma anche sui generali suoi compagni d'arme. Questo valse sempre più a confermar l'Imperatore nella grande opinione che di lui s'era come per istinto formata. E perciò lo mandava ora nuovamente in Italia, generale in capo, a rialzare le sorti della guerra e dell'Impero. Narsete, che era anch'egli ricchissimo, e sapeva come cavar danari dall'Impero, pensò innanzi tutto di porre insieme un grosso esercito, non parendogli punto sufficiente quello che era stato già riunito in Dalmazia. Fece quindi leva di uomini a Costantinopoli, nella Tracia, nell'Illirico. Raccolse anche 2500 Longobardi, i quali menaron seco altri 3000 armati, ed erano comandati da Audoino, padre di quell'Alboino, che sedici anni più tardi occupò coi suoi l'Italia; raccolse 3000 Eruli; ebbe a suo comando Gepidi, Unni, perfino Persiani. E con queste genti si recò nella Dalmazia, per unirsi a coloro che già v'erano, ordinarli, organizzarli tutti, e partire poi per l'Italia.
Sebbene gl'Imperiali fossero ora padroni dell'Adriatico, [236] pure non avevano naviglio capace di trasportare un grosso esercito. In ogni caso dava pensiero il pericolo d'una possibile tempesta o d'un improvviso assalto dei nemici contro navi da trasporto, cariche d'uomini e di materiale da guerra. Narsete decise quindi d'avanzarsi per terra, lungo la costa, accompagnato per mare da navi con vettovaglie, e di esse si giovò anche per traversare i grossi fiumi come il Tagliamento, l'Isonzo e la Brenta. Continuando il suo cammino, evitò i luoghi fortificati, e le terre occupate dai Franchi. Verona, che era tenuta dai Goti, sotto il comando del valoroso generale Teja, si trovava assai lontana. E così gl'Imperiali poterono arrivare sicuri fino a Ravenna, poi a Rimini, ove, disfatta una parte della guarnigione che uscì a sfidarli, ucciso il generale che la comandava, continuarono verso il sud per la via Flaminia. L'abbandonarono però nel punto in cui essa, allontanandosi dal mare, ripiega verso l'Appennino, che traversa al passo detto del Furlo o di Pietra Pertusa. È questo una specie di tunnel naturale, fortificato e tenuto allora dai Goti, difficilissimo quindi a sforzarlo. Narsete lo evitò, proseguendo la sua marcia lungo il mare, e volgendo poi a destra, raggiunse di nuovo la via Flaminia. Passato che ebbe l'Appennino, pose il campo là dove si distende una vasta pianura, tra Scheggia e Todino, che distano fra loro circa quindici miglia: ivi dette la sua prima grande battaglia.
Totila si trovava allora presso Roma, aspettando che le genti di Teja lo raggiungessero. Ed arrivata che fu la più parte di queste genti, s'avanzarono insieme contro gl'Imperiali, sebbene li sapessero in forze preponderanti. Narsete, esaminato il luogo, mise un manipolo di 50 uomini sopra un piccolo colle da lui riconosciuto come il punto strategico del campo. Quei pochi militi, durante una giornata intera, difesero il colle con un [237] valore, con un eroismo degno degli antichi Romani, respingendo i ripetuti assalti della cavalleria gota. Narsete aveva messo nel centro i barbari, dei quali poco si fidava, ordinando che, scesi da cavallo, combattessero a piedi, acciò più difficilmente, per paura o tradimento, potessero darsi alla fuga. A sinistra ed a destra erano i Romani, ed in ciascuna delle due ali si trovavano 4000 arcieri che, contro l'uso adottato da Belisario, combattevano anch'essi a piedi. Cinquecento cavalieri erano a sostegno dell'ala sinistra, distendendosi verso il colle, che abbiam visto già occupato come punto strategico del campo. Mille altri cavalieri eran tenuti in riserva, pronti ad ogni evento.
Il concetto di Narsete era: attendere l'assalto del nemico, il quale, trovando più debole il centro, avrebbe contro di questo diretto lo sforzo maggiore, e così, avanzandosi, sarebbe stato facilmente circondato dalle due ali. Totila che aveva allora indugiato, per aspettare altri aiuti da Teja, giunti che furono gli ultimi 2000 uomini, cominciò la battaglia. Gli arcieri imperiali fecero grande strage dei Goti. I Longobardi e gli Eruli, dopo un momento di esitazione, assalirono anch'essi con gran vigore il nemico, che volse le spalle. E la cavalleria gota, su cui Totila aveva fatto il maggiore assegnamento, si dette a così precipitosa fuga, che molti dei fanti morirono calpestati dai cavalli. Egli stesso, ferito gravemente, si dovè ritirare dal campo, e morì nella capanna d'un villaggio, detto allora Caprae, ora Caprara, a quindici miglia dal luogo della battaglia, fra Gubbio e Tadino (552).
I barbari dell'esercito imperiale, sopra tutto i Longobardi, insofferenti della disciplina, si dettero ad ogni eccesso, saccheggiando, bruciando le capanne dei contadini, violando le donne, suscitando un tale malcontento, che Narsete, il quale non era di certo nè mite, nè pietoso, [238] si dovette decidere a disfarsi dei Longobardi. Mediante buona somma di danaro li indusse quindi a tornarsene a casa, col loro seguito, per la via delle Alpi Giulie, accompagnati da Valeriano. Questi voleva nel ritorno assediare Verona; ma vi si opposero i Franchi, che occupavano molte terre nella parte orientale della regione transpadana, e che agl'Imperiali preferivano i Goti, più deboli assai ed aspramente combattuti ora nell'Italia meridionale. Oltre di che, avendo i Goti appunto consentito che i Franchi occupassero le terre che ora tenevano in Italia, poteva a questi sembrare atto di buona e leale politica il favorirli, ben inteso, fino a quando il proprio interesse non avesse consigliato altrimenti. Valeriano perciò, non volendo suscitare una seconda guerra, quando non era anche finita la prima, si fermò, cercando solo d'impedire che i Goti, i quali s'andavano raccogliendo sempre più numerosi nel nord, andassero verso Roma a rinforzare i loro compagni d'arme ora che nuovi scontri parevano inevitabili al sud. Dopo la disfatta e la morte di Totila, essi s'erano andati adunando a Pavia, la quale sin da quando perdettero Ravenna, era divenuta una delle loro principali città, e colà elessero a loro re il valoroso Teja, che venne accettato con favore universale. Questi cercò subito d'assicurarsi la sempre incerta amicizia dei Franchi; ma riuscì solo ad ottenere che restassero neutrali, ed anche ciò l'ottenne abbandonando ad essi il tesoro dai re Goti raccolto a Pavia. Certo ai Franchi metteva conto di starsene ora a guardare, aspettando che i due rivali si consumassero a vicenda, per dar poi addosso al vincitore.
Intanto le città dell'Italia centrale e meridionale s'arrendevano rapidamente ai Bizantini. Così fecero Narni, Spoleto, Perugia, così fece anche la guarnigione di Pietra Pertusa. Narsete già camminava verso Roma, occupata dai [239] Goti, i quali s'erano concentrati presso la Mole Adriana, che Totila aveva fortificata. Essi non erano in numero tale da poter difendere le mura della città, ma gl'Imperiali non erano sufficienti a circondarla. Si venne perciò da capo ad una serie d'assalti e difese alla spicciolata, fino a che uno dei capitani di Narsete, essendo riuscito a scalar le mura in un punto dimenticato, potè aprire le porte ai suoi, che entrarono rapidamente. I Goti si dettero allora alla fuga, e quelli che erano chiusi nella Mole Adriana, poco dopo s'arresero. Così furono di nuovo mandate a Giustiniano le chiavi di quella Roma invitta, che cinque volte, sotto questo solo imperatore, era stata presa e ripresa.
Ne seguì un periodo di nuove stragi. Molti dei Senatori ancora prigionieri nell'Italia meridionale, furono uccisi. E Teja macchiò la sua fama di valoroso, facendo trucidare anche 300 giovanetti romani, che erano stati scelti come paggi, ma che in realtà erano tenuti in ostaggio. Il fatto è che i Goti, omai pochi e dispersi, erano come inferociti per la disperazione; e così le più selvagge passioni si scatenarono sulla misera Italia, di cui pareva s'avvicinasse la fine. Alcuni di essi da Pavia andarono ad unirsi coi Franchi nel nord; altri nel sud, sotto il comando di Aligerno fratello di Teja, si chiusero in Cuma, dove era un'altra parte del tesoro nazionale. E Narsete vi mandò subito un drappello de' suoi, per tentare d'impadronirsene dopo aver preso la città. Ne mandò altri in Toscana, ad impedire che Teja, avanzandosi di là, s'unisse col fratello e cogli altri compagni nel sud. Ma quel valoroso riuscì ad evadere ogni ostacolo, e traversato l'Appennino, andò oltre verso il sud, ove da capo i Goti erano in gran numero. Una nuova battaglia era quindi inevitabile. Narsete perciò si mosse ad incontrare Teja prima che riuscisse ad unirsi al fratello; e lo raggiunse [240] presso Napoli, a Nocera, sul fiume Sarno. Colà il re goto s'era fermato, avendo alle spalle il Monte S. Angelo, e ricevendo dalle sue navi aiuto continuo di vettovaglie. Ma queste navi lo tradirono ad un tratto, passando ai Bizantini; ed allora egli retrocesse alquanto fra le balze del Monte Lettere (Lactarius), che è parte del Monte S. Angelo. Colà egli non poteva, per mancanza di vettovaglie, restare a lungo; dette perciò l'ordine di attaccare. I suoi allora si spinsero con irresistibile impeto contro il nemico, che non ebbe neppure il tempo d'ordinarsi: si dovette perciò combattere alla spicciolata. Teja si condusse eroicamente, alla testa de' suoi. Gl'Imperiali miravano tutti a lui, e le loro frecce restavano infisse nel suo scudo. Di tanto in tanto, non potendo pel grave peso più reggerlo, lo dava ad un soldato, che glielo mutava con un altro. Ed in uno di questi momenti, il suo petto essendo rimasto scoperto, egli venne mortalmente ferito. I nemici allora gli tagliarono la testa, e sopra una lancia la portarono in giro pel campo, dinanzi ai due eserciti. I Goti combatterono ancora due giorni, ma poi s'arresero, salva la vita, con facoltà di portar via i loro beni mobili, con l'obbligo però di non continuare a combattere contro l'Impero. Così molti di loro passarono le Alpi, andando a confondersi con altre genti; non pochi si sparsero per le terre d'Italia, con la speranza di farsi dimenticare. Nè mancarono quelli che, non avendo accettato i patti, s'andarono ad unire coi Franchi, cercando d'indurli ad attaccare i Bizantini, i quali, essi dicevano, dopo aver disfatto i Goti, avrebbero certamente voluto disfare e cacciar via dalla Penisola anche i Franchi. Altri finalmente preferirono chiudersi e difendersi, per proprio conto, in alcune città fortificate. Così fecero quelli che erano in Crema, così un migliaio che si rifugiarono a Pavia, così altri in altre città; ma furon tutti prima o [241] poi costretti ad arrendersi anch'essi. Il regno dei Goti ormai più non esiste in Italia; colla morte eroica di Teja esso è finito. Dopo aver fatto ancora in più punti una debole resistenza, scomparisce affatto dalla storia.
Questo era il momento in cui i Franchi potevano avanzarsi dalla Gallia in Italia; ma il loro re Teudebaldo non era uomo da imprese ardite. Consentì solo che due fratelli alamanni, i quali erano grandi del suo regno, s'avventurassero, per proprio conto, a passare le Alpi con un esercito di 75,000 uomini. Se vincevano, l'Italia avrebbe fatto parte del suo regno; se perdevano, egli avrebbe respinto da sè ogni responsabilità. I due fratelli s'avanzarono baldanzosi, perchè speravano di potere in ogni caso saccheggiare il paese, e portare a casa la preda; ma dovettero ben presto avvedersi che l'Italia era esausta, che si poteva finire di rovinarla, non però più sperare di farvi ricca preda. Anzi era divenuto in essa assai difficile trovar da vivere per un esercito che non avesse ricevuto aiuto di fuori.
Comunque sia di ciò, Narsete aveva ora contro di sè gli avanzi dei Goti, i quali erano chiusi nelle città fortificate, e l'esercito franco-alamanno, che non era piccolo, e se la fortuna lo secondava o la guerra andava in lungo, poteva avere rinforzi da casa sua. Egli lasciò quindi che si continuasse il blocco di Cuma, nella quale Aligerno pareva deciso a fare ostinata resistenza, e col [242] grosso de' suoi si recò in Toscana, dove le città occupate dai Goti s'arresero tutte facilmente, salvo Lucca che si difese con energia, sperando soccorso dai Franco-Alamanni, i quali allora appunto s'avanzavano con audacia. Infatti i Bizantini, che Narsete aveva mandati verso Parma, per affrontarli o almeno arrestarli nel loro cammino, furono invece battuti, e dovettero retrocedere verso Faenza, lasciando libera ai Franchi la via di Toscana. Tutto questo portò, come era naturale, un grande sgomento nel campo imperiale presso Lucca, temendosi di potere essere contemporaneamente assaliti alle spalle e di fronte, per qualche sortita fatta dalla città. Narsete però dette prova di tale e tanta fermezza, che non solo rialzò l'animo de' suoi; ma indusse la città ad arrendersi. Anche Aligerno, che si trovava sempre in Cuma, vedendo che era inevitabile arrendersi o all'Impero o ai Franco-Alamanni, che continuavano, come barbari che erano, a saccheggiare, a distruggere tutto quello che incontravano, si decise d'andare in persona a Classe, per presentarsi a Narsete, il quale s'era allora avanzato fino a Ravenna. Colà non solamente il Goto si arrese; ma egli, fratello di Teja, divenne fedele soldato dell'Impero, pel quale d'ora in poi si battè valorosamente (553).
Restavano adesso da vincere solo i Franco-Alamanni, che continuavano rapidamente il loro cammino verso il sud. Narsete riuscì a farne battere due mila da poche centinaia de' suoi, che li assalirono presso Ravenna. Si ritirò poi verso Roma, perchè quei nemici s'avanzavano saccheggiando senza mostrare nessuna voglia di venire a battaglia. Passato l'Appennino, essi si divisero in due schiere, una delle quali comandata da Butelin, che gl'italiani chiamavano Buccellino, si spinse per la Campania e la Lucania nei Bruzi; l'altra, comandata da Leutari, s'avanzò per la Puglia e l'antica Calabria fino ad Otranto. [243] Ma i due fratelli ben presto non andarono più d'accordo. Buccellino voleva continuare l'impresa; Leutari voleva invece ritirarsi verso casa coi prigionieri e la preda già fatta. A Pesaro però questi venne assalito dai Bizantini; perdette i prigionieri, che si dettero alla fuga, e la preda che gli fu tolta. Arrivato nel Veneto, la peste uccise con lui la più parte de' suoi. Non molto diversa fu la sorte di Buccellino. Avanzandosi attraverso un paese già devastato, che Narsete gli faceva trovar sempre più devastato, per privarlo d'ogni vettovaglia, dovè cibare i suoi soldati di sola uva, il che produsse una violenta diarrea, la quale costrinse anch'essi a retrocedere. Arrivato con 30,000 uomini sul Volturno, e saputo che i Bizantini gli venivano incontro con soli 18,000, si fortificò col fiume da un lato, i carriaggi da un altro, pronto a resistere. Narsete a sua volta rinforzò le ali del proprio esercito, con animo di cedere al centro, per ricevere il nemico che s'avanzava in forma di cuneo, e così facilmente circondarlo. La battaglia, in cui prese parte anche Aligerno, fu lunga e sanguinosa. I Franco-Alamanni vennero totalmente distrutti, e il loro capitano Buccellino fu ucciso (554). Scomparsa questa nuova e sanguinosa meteora, Narsete potè ritirarsi colla preda a Roma. Non rimaneva adesso che un sol luogo fortificato, a cinquanta miglia da Napoli, detto Campsa da alcuni, Conza da altri. Ivi si trovavano 7000 Goti, che finalmente s'arresero anch'essi, salva la vita; e furono mandati a Costantinopoli, dove assai probabilmente accettarono di servire l'Impero.
Così ebbe fine la guerra greco-gota, durata venti anni, che ridusse l'Italia all'estrema rovina. Il regno degli Ostrogoti, durato sessantaquattro anni, fu distrutto per sempre, ed essi, come popolo, scomparvero affatto al pari dei Vandali, quasi un esercito di ventura che si fosse disciolto. Alcuni, come vedemmo, passate le Alpi, andarono [244] in Oriente; altri restarono in Italia, combattendo per proprio conto o uniti ai Franchi. Certo è che nei quattordici anni, nei quali Narsete continuò ancora a comandare in Italia, dovè sostenere cogli uni e cogli altri parecchi scontri sanguinosi, dei quali pur troppo non abbiamo nessuna notizia precisa. La distruzione dei due fratelli alamanni e delle loro genti aveva naturalmente irritato molto i Franchi, i quali occupavano sempre alcune terre dell'alta Italia; e questa irritazione cresceva tanto più adesso che s'erano uniti a loro i Goti fuggiaschi, pieni anch'essi d'ira e rancore, assetati di vendetta contro i Bizantini. Nel 555 si trova infatti ricordato che i Franchi vinsero un esercito romano, il quale potè poi pigliar la rivincita, cacciando dall'Italia quei barbari (Muratori, Annali, VIII, 302). Paolo Diacono accenna più tardi ad un altro combattimento, nel quale un generale franco venne ucciso, ed un Conte goto fu preso e mandato prigioniero a Costantinopoli. Altri fatti d'arme sono ricordati nel 563 e nel 565, sempre a vantaggio degl'Imperiali. In sostanza si può affermare che, finita la guerra gotica, vi fu il pericolo, anzi addirittura il principio di un'altra guerra per parte dei Franchi, la quale sarebbe potuta divenire assai pericolosa, se essi non fossero stati appunto allora, come del resto continuamente seguiva, travagliati dalle civili discordie che per qualche tempo resero loro impossibile il passare le Alpi in gran numero. E così vi furon solo grosse scaramucce con quelli che già si trovavano nell'alta Italia, e che dovettero finire coll'abbandonarla, tornandosene a casa.
Narsete allora, alla testa del suo esercito, assunse il governo di tutta la Penisola col titolo di Maestro dei militi e di Patrizio. Egli non ebbe mai (come per errore fu creduto da alcuni) il titolo di Esarca, che in Italia apparisce ufficialmente solo più tardi. La Prammatica Sanzione [245] riconobbe il valore degli editti emanati dai primi re goti fino a quelli di Totila e di Teja, che rimanevano esclusi, perchè questi due sovrani erano tiranni e non re, non essendo mai stati riconosciuti a Costantinopoli. E perciò vennero annullate tutte le disposizioni prese da essi, quelle specialmente a vantaggio del popolo, dei contadini, dei piccoli proprietari, che i Goti avevano cercato di rendersi amici; e furono in loro vece messe in vigore le disposizioni delle leggi romane, quasi sempre favorevoli ai latifondisti. La Prammatica Sanzione inoltre manteneva, teoricamente almeno, il potere militare separato affatto dal civile, pel quale restava in Italia sempre un Prefetto del Pretorio. Ma Narsete era un generale, che alla testa del suo esercito, aveva riconquistato l'Italia, e con esso continuava a governarla, a difenderla. E però, non ostante ogni opposta teoria, i due poteri rimasero di fatto concentrati in lui, che continuò ad essere una specie di dittatore militare. Per la stessa ragione i Duchi che, sotto la sua dipendenza, erano sparsi nelle province, ed i Tribuni, che dipendevano dai Duchi, furono anch'essi ufficiali civili e militari ad un tempo. Tutto ciò portava incertezza e disordine. Sarebbe stato necessario riordinare il paese, dando forza alle leggi, sollevandolo alquanto dalle crudeli calamità così lungamente sopportate. Ed invece bisognava pensare a trovare in Italia danaro, per mantenere un grosso esercito, ora che da Costantinopoli non c'era da sperarne, perchè Giustiniano non ne aveva, e trovavasi sempre più immerso nella teologia. Si continuò quindi a dissanguare le già esauste popolazioni.
E ciò seguiva quando il malcontento era cresciuto anche a causa della questione religiosa. Morto infatti papa Vigilio, tanto malmenato a Costantinopoli, era stato eletto Pelagio, già da molto tempo favorito dall'Imperatore. Egli tergiversò alquanto nella questione dei Tre Capitoli, [246] ma finì poi col condannarli, pur dichiarandosi ossequente al Concilio di Calcedonia. Questa sua condotta provocò subito uno scoppio di sdegno nei vescovi e prelati italiani, massime del nord, alcuni dei quali lo accusarono perfino d'avere procurato la morte del suo predecessore, per potergli succedere. L'irritazione arrivò al colmo quando Narsete, pel quale, secondo il concetto orientale, la Chiesa doveva essere sottoposta all'Impero, fece prendere alcuni vescovi più riottosi, inviandoli a Costantinopoli, perchè colà venissero puniti. Così il disordine civile ed il conflitto religioso aumentavano la confusione. Tutte le opere pubbliche erano abbandonate; le mura cittadine, le case, le chiese, gli acquedotti andavano in rovina: alcune delle città, come ad esempio Milano, erano state nella guerra addirittura distrutte. Il mantenimento delle strade era abbandonato; i fiumi, lasciati senza argini, inondavano le campagne, ed aumentavano la malaria. Finalmente scoppiò la peste, che ammazzava in tre giorni, e desolò sopra tutto l'Italia superiore. Le campagne e le loro case, dice Paolo Diacono, rimanevano deserte; gli armenti vagavano pei campi senza pastore. Le messi abbandonate marcivano; le uve seccavano sui tralci delle viti, già privi di foglie. Ai primi casi del morbo, le città rimanevano spopolate per la fuga degli abitanti. I figli lasciavano insepolti i cadaveri dei genitori, e questi, senza aver viscere di pietà, abbandonavano i figli ammalati. Se qualcuno voleva seppellire le vittime del morbo, era preso dal male, e restava egli insepolto. Non era possibile numerare i morti, perchè gli occhi non bastavano a tanto: visum oculorum superabant cadavera mortuorum (II, 4).
Tale era lo stato delle cose in cui Giustiniano lasciava l'Impero. Non tutti i guai da noi accennati si possono dire conseguenze dirette della sua politica; ma conseguenze [247] più o meno indirette ne erano certamente. Egli era stato senza dubbio guidato da alcuni concetti i quali, se non sempre pratici, erano sempre elevati, ed esercitarono una grande azione nella storia del mondo. Ma se, come abbiam detto più volte, maravigliosa fu davvero la sua abilità nella scelta delle persone, per attuare questi concetti, la sua cattiva amministrazione, le spese eccessive che faceva sempre, i larghi tributi che allora si solevan dare ai barbari, quando non si poteva con essi adoperare il ferro, e le continue guerre esaurirono sempre più le forze d'un Impero in cui l'agricoltura era assai decaduta, e non fiorivano nè l'industria, nè il commercio. Tutto ciò, unito alla corruzione della società imperiale e della Corte, alla cui malefica azione Giustiniano non potè sempre sfuggire, gli resero impossibile il fondar mai nulla di veramente stabile.
In un Impero composto di tante parti e così diverse, circondato da tanti nemici, senza la possibilità di un vero patriottismo nazionale, e per la sua corruzione privo affatto di un'alta guida morale, v'era sempre il pericolo che un qualche generale, potente e fortunato, riuscisse ad insorgere, formando per suo proprio conto uno Stato separato ed indipendente, che qualcuno dei grandi ufficiali della Corte cospirasse a danno degli altri o dello stesso Imperatore, per accrescere il proprio potere. Era quindi una continua lotta degli uni contro gli altri, e se ne vedevano perciò sempre rapidamente salire e rapidamente precipitare, come era seguito allo stesso Belisario, nonostante la sua provata fedeltà, i continui e grandi servigi resi all'Impero. E se a tutto ciò s'aggiunge che negli ultimi anni Giustiniano, divenuto vecchio, trascurava assai il governo dell'Impero, si capirà facilmente a che punto dovessero allora essere giunte le pubbliche calamità. Tuttavia un grande risultato, se non duraturo, [248] temporaneo certamente, egli lo aveva ottenuto. I Persiani erano stati respinti; i Vandali e gli Ostrogoti distrutti; la Romanità aveva avuto una splendida vittoria sul Germanesimo; l'Africa, l'Italia erano state riconquistate. Tutto ciò dimostrava chiaro che, nonostante ogni contraria apparenza, v'era pur sempre nell'Impero una grande vitalità, quella che riuscì infatti a farlo vivere per otto secoli ancora, sebbene fosse continuamente circondato da sempre nuovi pericoli. Prodigiosa veramente dovette essere quella civiltà greco-latina che anche nella sua decadenza potè riunire, assimilare elementi così diversi, ed in mezzo a tanto disordine veder sorgere un grandissimo numero di accorti amministratori, di grandi e gloriosi generali, che seppero con intelligenza e valore difenderlo.
Ma alla morte di Giustiniano si vide subito, che i pericoli da noi qui sopra accennati dovevano crescere non poco. Da una parte minacciava la Persia eterna nemica dell'Impero; da un'altra ripigliavano vigore le popolazioni germaniche, specialmente pel rapido crescere della potenza dei Franchi. Nello stesso tempo gli Slavi s'avanzavano in gran numero verso l'Occidente, e così pure s'avanzavano dall'Asia le popolazioni finniche, mongoliche, tartare, che dovevano portare nel mondo un'altra grande rivoluzione. Sarebbe stato necessario che a Giustiniano succedesse nell'Impero un uomo di uguale o maggiore capacità; ma avvenne, come vedremo, precisamente il contrario. E peggio di tutti si trovava l'Italia. Esausta, disfatta da una lunga guerra, senza speranza di ricevere aiuto da nessuna parte; oppressa da Narsete, che per mancanza di danari vedeva ogni giorno scemare i suoi soldati, essa restava senza difesa efficace in un momento nel quale i barbari ripigliavano forze, e minacciavano d'avanzarsi. La distruzione del regno ostrogoto, [249] il quale si era esteso anche al Norico ed alla Pannonia, lasciava indifesa l'Italia appunto da quel lato di dove le genti barbariche eran sempre passate, e ricominciarono ben presto a passare.
E questo era il momento in cui a Giustiniano succedeva Giustino II, figlio d'una sorella di lui, la quale era nipote di Teodorico. Il nuovo Imperatore dichiarò subito di voler fare grandi economie, il che voleva dire mutar sostanzialmente politica. Egli infatti rinunziò alle grosse guerre, e sospese i sussidi fino allora pagati ai barbari, che si scatenarono perciò nuovamente contro l'Impero, nel quale mancavano ora i danari ed i soldati per difenderlo. Scontentissimo fra tutti era Narsete, il quale si vedeva ridotto all'impotenza nel momento in cui sarebbe stato necessario apparecchiarsi a difendere i confini nuovamente minacciati; nè poteva sperar nulla in Italia. Infatti allora appunto arrivava a Costantinopoli un'ambasceria di nobili romani, venuti per dire all'Imperatore che non era più possibile sopportare il dispotismo di Narsete, il quale aveva ridotto l'Italia a tale che ogni altro governo era divenuto preferibile. Se non si trovava modo di provveder subito, sarebbe stato agl'Italiani necessario gettarsi in braccio ai barbari, che certo li avrebbero trattati meglio. Le cose erano infatti giunte a tale estremità, che vedendo non esser ormai possibile indurre a mutare strada un uomo assai vecchio, usato a far sempre quel che voleva, si dovè finire col richiamarlo nel 567, nominandogli un successore, che ebbe ordine di partir subito.
E qui ha origine una leggenda, che non è ricordata dagli scrittori bizantini, ma si diffuse allora assai largamente in Italia, e fu narrata anche da Paolo Diacono. Secondo questa leggenda Narsete avrebbe ricusato d'obbedire, e l'imperatrice Sofia avrebbe allora esclamato: — Saprò [250] ben io rinchiudere il vecchio eunuco nel gineceo, che è il suo vero posto, costringendolo a filar lana con le donne. — Ed io, così avrebbe risposto Narsete, quando gli furon riferite le ingiuriose parole, saprò filarle una tale matassa, che in tutta quanta la sua vita ella non riuscirà mai a dipanarla. — Aggiungendo poi alle parole i fatti, Narsete avrebbe, per vendetta, chiamato i Longobardi in Italia, inviando, per meglio allettarli, ambasciatori, i quali portaron loro le più belle frutta che il fertile paese produceva. I Longobardi allora, accettando l'invito, si sarebbero mossi, passando le Alpi nel 568. Narsete che, sempre più accecato dallo sdegno, s'era ritirato a Napoli, s'avvide finalmente dell'errore commesso; e quando papa Giovanni III, successo a Pelagio nel 561, lo scongiurò, perchè si movesse a difendere il paese, andò subito a Roma; ma ivi fu sorpreso dalla morte. Il carattere leggendario di questo racconto è troppo evidente perchè vi sia bisogno di dimostrarlo. I Longobardi, come noi abbiam visto più sopra, erano in buon numero già stati in Italia, dove avevano combattuto sotto Narsete, e non avevano quindi bisogno, per conoscerne la fertilità, che egli ne mandasse loro le frutta, le quali poi, massime se spedite da Napoli, si può ben immaginare in quali condizioni sarebbero arrivate. Le ragioni che mossero i Longobardi a passare le Alpi furono ben altre che il dispetto capriccioso d'un uomo, sebbene non sia da escludere affatto, che questo dispetto possa avere contribuito ad agevolar loro la strada, lasciando andar tutto a rovina, senza apparecchiar nessuna difesa.
[251]
I Langobardi, poi Longobardi, così chiamati, secondo il loro storico Paolo Diacono, dalle lunghe barbe che portavano, sono ricordati da Velleio Patercolo, che li dice più feroci della germanica ferocia. Si trovavano allora presso l'Elba. Più tardi ne parlò Tacito, lodandone il coraggio. Essi sembrano aver preso parte a quel gran movimento di barbari, che s'avanzarono verso il sud, e furono respinti da Marco Aurelio nella guerra dei Marcomanni (178-79). Per tre secoli dipoi non se ne sente più parlare; ma par certo che fossero tra coloro che fecero parte del regno degli Unni a tempo di Attila, separandosene quando esso si disciolse. È un fatto però che ben poco sappiamo di certo sulla loro origine. Paolo Diacono ne parla a lungo, dandoci una serie di leggende, dalle quali non si può cavare nulla di veramente storico. Secondo lui i Longobardi sarebbero originari della Scandinavia. Di là, per la ristrettezza del luogo, un terzo di essi si sarebbero mossi verso il sud, sotto la guida di due fratelli, [252] Ibor e Aione, della famiglia dei Gungingi o Gugingi. Da Aione sarebbe nato Agelmondo, che fu il loro primo re, cui ne successero altri sei della stessa famiglia, l'ultimo dei quali fu Tato, che combattè e vinse gli Eruli, il che dovrebbe essere avvenuto verso il 508. Seguirono a questi, altri due re, sotto il secondo dei quali sarebbe divenuto onnipotente Audoino, quello stesso che mandò aiuti a Narsete, quando questi venne la seconda volta in Italia. Audoino fu il padre d'Alboino, col quale finalmente cessa la leggenda e comincia veramente la storia.
I Longobardi erano allora penetrati nel Rugiland, al di là del Danubio; al di qua, nella Pannonia, erano i Gepidi, per lungo tempo loro acerrimi nemici. E quest'odio crebbe quando gli Eruli, vinti e disfatti dai Longobardi, s'unirono ai Gepidi, i quali, vedendo così aumentate le loro forze, profittarono della guerra che ferveva tra i Bizantini e Totila, per occupare altre terre dell'Impero. Giustiniano allora, secondo la politica tradizionale di Costantinopoli, incitò contro di essi i Longobardi; e già nel 554 Alboino, ancora giovanissimo, dimostrò il suo valore, combattendoli, ed uccidendo in singolar tenzone Torismondo, il figlio del loro re Torisindo. Questi, secondo un'altra leggenda, avrebbe cavallerescamente accolto a mensa Alboino, per vestirlo poi delle armi dell'ucciso suo figlio. Ma vi mancò poco che non si venisse alle mani. Il re dei Gepidi, pensando a Torismondo ucciso da Alboino, sospirava malinconicamente; ed allora un altro de' suoi figli, alludendo ad una specie di ghette o fasciature di tela, che i Longobardi portavano alle gambe, avrebbe lor detto con disprezzo: — Voi siete come cavalle balzane. — Al che gli sarebbe stato da un Longobardo risposto: — Se vai al campo di Asfeld, capirai che calci sanno tirar queste cavalle, vedendo colà le ossa di tuo fratello, sparse al suolo come quelle d'un vile giumento. — E [253] si sarebbero subito sguainate le spade, se il Re non fosse personalmente intervenuto, in nome delle sacre leggi della ospitalità, vestendo Alboino delle armi di Torismondo. Comunque si pensi della leggenda, Alboino tornò trionfante a casa, e verso il 565 successe al padre, come re dei Longobardi.
Egli era allora giovane, forte, audace, ambizioso, e sembrava godere anche il favore dell'Impero. Se non che i Gepidi, valorosi al pari dei Longobardi, erano in numero maggiore, ed una guerra di sterminio pareva divenuta fra loro inevitabile, anche perchè non si poteva dimenticare la morte di Torismondo. Fortunatamente pei Longobardi, era sin dalla seconda metà del secolo quinto apparsa sul Caspio una gente nuova, che portava il nome di Avari, ed era della stirpe medesima degli Unni. Favoriti da Giustiniano, che voleva servirsene pe' suoi fini, avanzatisi sotto un capo, che portava il titolo di Cagàno, avevano formato un forte regno nel basso Danubio, dove ricevevano un sussidio imperiale. Così Longobardi, Gepidi ed Avari si trovarono ora a contatto in una regione che, desolata da continue guerre, non potendo nutrirli, li teneva sempre irrequieti e pronti ad azzuffarsi fra di loro. Fu questo il momento in cui Giustino, a un tratto, negò sdegnosamente il sussidio agli Avari, dicendo che l'Impero non doveva rendersi tributario dei barbari. Ed Alboino, profittando della occasione, propose loro che s'unissero a lui per combattere i Gepidi. Dopo averli disfatti, egli diceva, noi saremo più al largo in questo paese desolato, e volendo, potremo più facilmente occupare altre terre dell'Impero.
Bisogna credere che fin d'allora Alboino meditasse l'impresa d'Italia, e volesse prima, vendicandosi dei Gepidi, assicurarsi le spalle, altrimenti sarebbe difficile rendersi ragione dei patti che stipulò allora cogli Avari. Ad [254] essi infatti i Longobardi promettevano di cedere metà delle spoglie che avrebbero fatte al nemico, un terzo dei loro armenti, e le terre conquistate. Anzi, quando i Longobardi fossero partiti, gli Avari avrebbero potuto occupare le terre da essi abbandonate, e ritenerle, per restituirle solo nel caso che essi fossero tornati ad occuparle. I Gepidi quindi si trovarono di fronte a due nemici. Avrebbero, è vero, avuto ragione di fare assegnamento sugli aiuti dell'Imperatore; ma questi, fedele sempre alla politica orientale di far sì che i barbari si consumassero fra di loro, se ne stette più che altro a guardare, lasciando credere che avrebbe coi suoi tenuto a bada gli Avari. Allora i Gepidi si spinsero con grande impeto contro i Longobardi, sperando di potere, dopo averli vinti, rivolgersi contro gli Avari. Ma Alboino s'avanzò con impeto alla testa de' suoi, li vinse, e colle proprie mani uccise Cunimondo loro re, tagliandogli la testa, e facendo poi del teschio una tazza, per servirsene, secondo l'uso barbarico, nei solenni banchetti. Questo atto crudele doveva però, come vedremo, costargli assai caro. Ma per ora la sua vittoria fu piena. Si parla di 40,000 morti fra i Gepidi, certo è che d'ora in poi la storia non si occupa più di loro. Immensa fu la preda, grandissimo il numero dei prigionieri, che o accettarono di combattere sotto le bandiere del vincitore o ne furono schiavi. Fra questi prigionieri v'era Rosmunda, la giovane figlia di Cunimondo, della quale Alboino s'invaghì per modo che volle sposarla, non ostante la grande ripugnanza che ella mostrava d'unirsi coll'uccisore del proprio padre. E sebbene da poco fosse morta la sua prima moglie Clotsuinda, figlia di Clotario re dei Franchi, le nuove nozze vennero celebrate senza indugio. Dopo di ciò Alboino si volse all'impresa d'Italia.
A lui non poteva essere ignoto che questo paese era [255] adesso senza difesa. Parecchie città importanti avevano insufficientissime guarnigioni, altre l'avevano a mala pena un po' più numerose; solamente Pavia era in grado di fare lunga resistenza. Le popolazioni esauste e scontente non avrebbero di certo fatto causa comune coi Bizantini, dei quali anche il clero era scontentissimo. Gli ultimi avanzi dei Goti disseminati per la Penisola, erano naturalmente per unirsi ai primi barbari che avessero passato le Alpi. Narsete, privo del comando e già richiamato, se ne stava ritirato a Napoli, lieto forse che con la sua caduta tutto andasse a rovina. Il suo successore Longino, già arrivato, ma con pochissime genti, si dovette chiudere in Ravenna. Le porte d'Italia erano dunque aperte al nemico.
Il 2 di aprile 568 i Longobardi adunque lasciarono la Pannonia, e per Enona (Leibach) e la valle della Sava passarono le Alpi Giulie, avanzandosi nel Veneto. Menavano seco le donne, i vecchi, i bimbi e le suppellettili sopra carri, nei quali passavano la notte. Da una pittura alquanto posteriore, fatta per ordine della regina Teodolinda, essi apparivano vestiti con larghi abiti di tela e di vario colore; avevano i calzari aperti dinanzi e legati con lacci, i capelli tagliati fino all'occipite, divisi sulla fronte, donde cadevano da ambo i lati. Con i Longobardi si trovavano al solito mescolati Bavari, Bulgari, Gepidi, Svevi, sopra tutto Sassoni, i quali ultimi si facevano ascendere al numero di 20,000. Professavano quasi tutti l'Arianesimo, sebbene non mancassero fra di loro anche i pagani; non erano però intolleranti in fatto di religione. Molta incertezza regna sul loro numero, variando gli scrittori da 20 a 120,000 armati. Certo non erano molti; ma se i soli Sassoni arrivavano a 20,000, e poterono più tardi partire, senza che perciò ne risentissero grave danno i Longobardi, che continuarono le loro [256] conquiste, sarebbe assurdo ridurre questi a soli 20,000. La più comune opinione li fa variare da 60 a 70,000 uomini in arme; e non sono molti di certo, se si pensa alle perdite che dovettero avere, ed alle guarnigioni che era pur necessario lasciare nelle principali città da essi occupate. È però da credere che molte di queste perdite potessero facilmente essere risarcite venendosi ad aggregar loro gli avanzi dei Goti, forse anche alcuni degli sbandati bizantini, fra i quali erano non pochi barbari.
Nel maggio del 568, secondo i più, Alboino aveva già passato i confini d'Italia, e subito costituiva a Cividale del Friuli un Ducato, alla cui testa pose suo cugino Gisulfo con sufficiente numero d'armati. In questo modo egli prendeva subito possesso in Italia d'un punto strategico assai importante, che era come la porta di casa. Di là si poteva infatti impedire che altri passasse il confine, e si poteva anche, quando fosse stato necessario, ritirarsi liberamente. Ma tutto invece andò pei Longobardi a seconda: i Franchi erano occupati nelle discordie di casa loro; i Bizantini, per mancanza di uomini e di danaro, non potevano muoversi; le città italiane l'una dopo l'altra aprivano le porte al nemico. Il Patriarca d'Aquileia se ne andò subito a Grado, dove pose la sua dimora; ma il vescovo di Treviso, sentendo che Alboino era tollerante in religione, gli domandò che fossero garantiti i beni della sua Chiesa, ed avendolo ottenuto, fece aprire le porte della città. Dopo di che Vicenza e Verona fecero lo stesso. Ma Padova, Monselice e Mantova, che erano fortificate, resistettero, ed Alboino dovè quindi decidersi a svernare nel Veneto. Fortunatamente per lui, dopo una stagione fredda e nevosa, vi fu un'abbondantissima raccolta, colla quale si potè fornire di vettovaglie l'esercito. Ed egli allora, lasciate da parte Padova e Monselice, prese Mantova, dopo di che Brescia, [257] Bergamo, Trento si arresero coi loro territori. Finalmente il 3 di settembre del 569 si arrese anche Milano, che dopo la sua distruzione era stata solo in parte restaurata da Narsete: il suo vescovo si ritirò a Genova. E da questo momento si può dir cominciato il regno dei Longobardi, limitato per ora all'alta Italia.
Tuttavia parecchie città che erano sul Po, fra cui anche Piacenza e Cremona, in parte per essere fortificate, in parte perchè potevano pel fiume ricevere aiuto da Ravenna, resistevano ancora. Ma la sola che fece una resistenza davvero energica e prolungata fu, come dicemmo, Pavia. Essa, che era già una città importantissima, e divenne poi la capitale del regno longobardo, era non solo assai bene fortificata, ma aveva anche una sufficiente guarnigione, e si potè quindi difendere per tre anni continui (569-72). Alboino perciò, lasciata parte dell'esercito ad assediarla, se ne andò ad occupare altre terre dell'Italia superiore e centrale, come Parma, Reggio, Modena, Bologna, Imola. Occupò anche il passo del Furlo, avanzandosi fino ad Urbino. Si tenevano però sempre per l'Impero, oltre Ravenna e Pavia, anche Padova, Monselice, Cremona, Piacenza, Genova, parecchie città della Riviera, e quelle che formarono poi la Pentapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona).
Prima di spingersi più oltre, i Longobardi avrebbero dovuto pensare a consolidare il loro nuovo dominio, conquistando le città tenute ancora dai Bizantini. Ma essi, che non erano mai stati lungamente sotto la disciplina dell'Impero o della Chiesa cattolica, serbavano più degli altri barbari intatto il loro primitivo carattere germanico, e non dimostrarono perciò mai vere attitudini politiche, nè capacità di organizzare. Infatti cominciarono subito a procedere senza nessuna unità di comando, senza un disegno prestabilito, senza uno scopo determinato. Varie [258] schiere presero direzioni diverse per proprio conto. Alcune s'avviarono verso il sud, dove iniziarono la fondazione dei Ducati di Spoleto e di Benevento, i quali, divennero poi affatto indipendenti. Il resto dell'Italia meridionale, sopra tutto le coste dell'Adriatico e del Mediterraneo, restarono all'Impero, col quale si tennero unite specialmente Napoli e Roma, la cui comunicazione con Ravenna era agevolata da Perugia che, sebbene circondata per tutto da terre occupate dai Longobardi, continuò ad esser quasi sempre fedele all'Impero. E non solamente queste guerre e queste occupazioni di città procedevano alla spicciolata, senza un disegno prestabilito; ma tra il 569 ed il 571 alcune schiere di Longobardi si spinsero, per proprio conto, dall'Italia settentrionale ad assalire i Franchi nella Gallia meridionale. Non pensarono al pericolo che correvano di richiamare al di qua delle Alpi un nemico potentissimo, che avrebbe facilmente potuto strappar loro di mano le recenti conquiste, che essi avrebbero dovuto invece pensare a consolidare. Più volte ebbero la peggio in questi loro dissennati attacchi, e si sarebbero trovati certo ad assai mal partito, se i Franchi non avessero continuato a lacerarsi fra di loro. Pareva proprio che la fortuna li volesse secondare in tutto. Infatti da una parte le loro guerre contro i Franchi non ebbero le tristi conseguenze che potevano facilmente avere; e da un'altra le loro conquiste in Italia si succedevano senza difficoltà. Nel 572, dopo tre anni d'assedio, s'arrese finalmente anche Pavia, che fu sin d'allora la capitale del regno.
Alboino entrò trionfante nel palazzo di Teodorico, e trattò umanamente il popolo, sebbene avesse dapprima mostrato un gran desiderio di vendetta. Nella primavera del 573 (secondo alcuni del 572) egli morì nel palazzo di Verona; e di questa morte si dà una narrazione molto particolareggiata, che apparisce alquanto fantastica e leggendaria. [259] In un solenne banchetto Alboino, presa la tazza formata col teschio di Cunimondo padre di Rosmunda, l'avrebbe invitata «a bevere in compagnia del padre.» Ed ella ne fu offesa per modo che decise di vendicarsi. Manifestò il suo pensiero ad un fratello di latte del Re, chiamato Elmichi; ma questi, non volendo macchiarsi le mani nel sangue fraterno, le consigliò di parlarne ad un tal Peredeo, uomo audace e fortissimo. Siccome anche questi esitava, la Regina prese il luogo d'una cameriera amante di lui, e quando erano insieme, facendosi riconoscere, gli disse, che se esitava ancora, avrebbe rivelato al Re quanto era seguito fra di loro. Così venne finalmente deciso il delitto. Un giorno, dopo il meriggio, quando il Re avvinazzato s'era addormentato, Rosmunda legò la spada che pendeva a capo del letto, in modo che non si potesse sguainare. Non andò guari che Peredeo entrò nella camera, gettandosi sopra Alboino, il quale, dopo avere invano tentato di far uso della spada, si difese con un panchetto; ma dovè soccombere. Rosmunda sposò Elmichi, sperando di potersi con lui impadronire del trono. Lo sdegno dei Duchi longobardi fu però tale, che gli autori del delitto dovettero invece pensare alla fuga. Chiesero una nave a Longino, il successore di Narsete, che la mandò da Ravenna su per il Po. In essa con pochi soldati, con Albsuinda figlia d'Alboino, ridiscesero il fiume. Rosmunda, secondo la leggenda, concepì allora il pensiero di sposare Longino, ed a tal fine dette il veleno a Peredeo, quando egli era nel bagno. Ma essendosene questi accorto, obbligò colla punta della spada anche lei a beverlo, e così morirono ambedue. Longino mandò a Costantinopoli la giovane Albsuinda, con le gioie che la madre aveva portate seco fuggendo. Tutta questa leggenda proverebbe, secondo il Ranke, che fra i Longobardi v'era allora grave dissenso, una parte di [260] essi volendo aderire ai Bizantini, un'altra opponendovisi. Certo è che l'indignazione provocata dal tradimento fece andare a monte tutti i disegni di Rosmunda, e trionfare il partito nazionale.
Ma neppure i Duchi eran fra di loro d'accordo. A successore d'Alboino, elessero Clefi duca di Bergamo, del quale sappiamo solo che dopo un anno e mezzo di regno fu ucciso da uno schiavo (575). E intanto si continuava a tener sempre la stessa incerta condotta politica, senza cioè nessuna unità di concetto. Già nel 569 e '70, come accennammo, alcuni dei Duchi avevano assalito i Franchi ed erano stati battuti. Un altro assalto poco fortunato del pari era stato dato dai Sassoni, che facevano parte dell'esercito longobardo, e volevano vedere se era possibile aprirsi una via per tornarsene a casa. Essi erano, lo abbiamo già detto, in numero di 20,000, e non avendo potuto dai Longobardi ottenere di vivere in Italia, proprio iure, cioè secondo le loro consuetudini e le loro istituzioni, avevano deciso di andarsene. Nel 573 partirono colle famiglie e gli averi, ottenuto libero passaggio dai Franchi, ai quali non poteva certo dispiacere che le forze dei Longobardi si assottigliassero. Questi tuttavia, per la speranza di preda, continuarono nel 574-76, i loro mal consigliati attacchi, ma furono di nuovo respinti con energia. Finalmente si venne ad un accordo, che per qualche tempo assicurò la pace.
Ma questa pace, aggiunta al fatto che i Bizantini, occupati com'erano nella guerra persiana, nulla potevano fare in Italia, garantendo ai Longobardi la sicurezza esterna, provocò la discordia fra di loro. Infatti, morto Clefi nel 575, i Duchi non si poterono intendere fra loro sulla scelta del nuovo re, e finirono col farne senza, lasciando che ciascuno di essi governasse il suo Ducato in proprio nome, come sovrano indipendente. E così continuarono [261] per dieci anni, fino a che, tornato il pericolo esterno, dovettero decidersi a ricostituire la monarchia. Per ora l'Italia longobarda restava divisa in trentasei Ducati, d'una sola parte dei quali (come Pavia, Brescia, Trento, Cividale, Milano, Spoleto e Benevento) conosciamo con sicurezza i nomi. Di altri non pochi i nomi si sanno con qualche incertezza,[32] e meno ancora si conoscono quelli dei Duchi.
Questo nuovo stato di cose tornò certamente a danno delle popolazioni italiane. Da principio la venuta dei Longobardi, non ostante la violenza della conquista, assai poco contrastata del resto, aveva portato qualche sollievo, liberando le popolazioni dalla insopportabile oppressione fiscale dei Bizantini, costituendo una forma più stabile di governo, dando una maggiore sicurezza, dopo che Narsete, irritato per essere stato deposto, aveva abbandonato tutto al caso, per non dire all'anarchia. E di questo miglioramento al tempo d'Alboino, noi troviamo conferma nelle parole stesse di Paolo Diacono. Egli infatti, ricordando l'abbondantissima raccolta che s'ebbe nel primo anno del dominio longobardo, aggiunge che le popolazioni italiane «crebbero come le biade.» Non ci parla ancora della divisione che si fece poco dopo delle terre; sicchè è possibile supporre che incominciassero coll'impadronirsi dapprima solo di quelle che dai Goti erano passate al fisco bizantino, e del danaro da esso raccolto.
Sospesa però la monarchia, continua Paolo Diacono, le cose, durante l'interregno, peggiorarono assai, perchè [262] invece d'un padrone, se ne ebbero trentasei, i quali, ciascuno a suo modo, taglieggiarono il paese. Molti dei nobili romani, ricchi possessori di latifondi, furono uccisi dai Duchi, che s'impadronirono delle loro terre. Gli altri, divisi fra i vincitori, ne divennero tributari, costretti a pagar loro un terzo delle proprie entrate, tertiam partem suarum frugum. E questo, possiam noi osservare, era peggio che dare un terzo delle terre, perchè non restava agl'Italiani nessuna libera proprietà. Oltre di ciò, molte chiese furon saccheggiate dagl'invasori ariani, i quali uccisero anche parecchi sacerdoti, per spogliarli delle loro sostanze, come avevano fatto dei nobili; e così in mille modi angariarono le popolazioni.
Male assai si trovarono allora Roma ed il Papa, circondati, minacciati com'erano dai Longobardi, sopra tutto dai Duchi di Spoleto e di Benevento. Le comunicazioni con Ravenna erano interrotte per modo che, morto nel luglio del 574 papa Giovanni III, il suo successore Benedetto I solo dopo dieci mesi fu consacrato, non essendo stato possibile aver prima la sanzione imperiale, della quale nel 579 Pelagio II dovette decidersi a fare addirittura a meno. Tutto questo spinse più tardi a cercar di costituire in Roma un proprio esercito per difendersi, ed a trovare una propria forma di governo autonomo. Ma per ora si continuava sempre a sperare, a cercare aiuto dai Bizantini. Da Longino però non c'era, per la sua incapacità, nulla da aspettarsi. Baduario, parente dell'Imperatore, era stato, è vero, mandato da Costantinopoli a succedergli; ma prima che arrivasse a Ravenna, fu nella Campania, poco lungi da Napoli, battuto in uno scontro avuto coi Longobardi, e poco dopo morì (576). Si pensò quindi di rivolgersi direttamente all'Imperatore, cui furono spediti ambasciatori, che gli portarono tremila libbre d'oro, perchè mandasse dei soldati a difendere [263] il Papa e la Città eterna contro i barbari e contro gli Ariani, sostenendo così nello stesso tempo l'autorità dell'Impero e della Chiesa. Ma nel 578 l'imperatore Giustino II era ammattito, e Tiberio II, che ne faceva le veci e poi gli successe, trovandosi occupato nella guerra persiana, non poteva fare nulla per l'Italia. Consigliò quindi ai Romani, che si valessero del danaro che gli avevan portato, per indurre invece i Longobardi a desistere dalla guerra. Non riuscendovi, egli diceva, provassero di persuadere con esso i Franchi ad attaccarli. Certo è che i Bizantini erano in Italia ridotti a tale impotenza, che il Duca di Spoleto potè nel 579 impadronirsi di Classe, che era il porto di Ravenna sull'Adriatico, e rimase in mano dei Longobardi fino al 588. Essi scorrazzavano liberamente anche il territorio intorno a Perugia; e il Duca di Benevento assediava Napoli, che resistette però valorosamente (581). Fu saccheggiato e distrutto (l'anno preciso è incerto) il convento di Montecassino, e i monaci dovettero fuggirsene a Roma, portando seco la regola autografa di S. Benedetto, e fondando colà un nuovo convento.
Durante questo lacrimabile bellum, come lo chiamarono i cronisti, papa Pelagio II, abbandonato dall'Impero, minacciato dai Longobardi, si rivolse la prima volta ai Franchi. Il 5 ottobre 580[33] secondo alcuni, 581 secondo altri, egli scriveva al vescovo di Auxerre, perchè ricordasse ai Franchi «che essi, come ortodossi, avevano da Dio l'obbligo di difendere Roma e tutta Italia dalla nefandissima gente dei Longobardi, dai quali si dovevano separare, se non volevano esporsi alla stessa fine che a questi era certamente fra poco serbata.» E quello che è più singolare, [264] tali pratiche venivano ora secondate dall'Imperatore stesso, presso il quale, in nome del Papa, continuamente insisteva l'apocrisario Gregorio, quegli che fu poi Gregorio Magno, uno dei più grandi uomini del secolo. L'imperatore Maurizio di Cappadocia, che nel 582 era successo a Tiberio II, per indurre i Franchi ad assalire i Longobardi, mandava loro la somma di cinquantamila aurei. E così finalmente i Longobardi vennero a un tratto assaliti con tale impeto, che dovettero rinchiudersi nelle città per difendersi. Ma i Franchi al solito furono di nuovo travagliati dalla guerra civile, e quindi, mediante ricchi donativi, vennero facilmente indotti a tornarsene a casa.
È qui opportuno osservare come fin d'ora comincino chiaramente a delinearsi alcuni caratteri, che si riproducono poi costantemente in tutta quanta la storia d'Italia. Per opera dei Longobardi la Penisola è già divisa in brani staccati, che non si riesce più a riunire stabilmente fra loro. Il potere civile ed il religioso si trovano in opposizione, e comincia quella lotta fra la Chiesa e lo Stato che riempie tutto quanto il Medio Evo, nè ancora oggi è cessata. I Papi fin da questo momento iniziano coi Franchi quella politica, che per due secoli costantemente seguirono, che trionfò ai tempi di Pipino e di Carlo Magno, nè fu mai da essi abbandonata del tutto. In questo momento però i Franchi essendosi ritirati, il Papa si rivolse di nuovo all'Imperatore. Il 4 ottobre 584, egli scriveva al suo apocrisario Gregorio, perchè esponesse in Costantinopoli quali erano le necessitates vel pericula totius Italiae, e le tribolazioni con le quali i Longobardi continuamente affliggevano il Ducato romano, affinchè si mandasse almeno un Maestro dei Militi ed un Duca, non potendo l'esarca Decio far nulla per difendere Roma, giacchè a mala pena egli era in grado di difendere le altre province italiane dell'Impero. Questa lettera è notevole anche [265] perchè ci dà la prima menzione ufficiale che abbiamo finora del titolo di Esarca. Nel 585 venne da Costantinopoli Smaragdus o Smeraldo, con buon nucleo di genti, firmo copiarum supplemento. Egli che fu certamente uno dei primi Esarchi, si pose subito con grande energia ed accortezza a riannodare gli accordi coi Franchi contro i Longobardi.
Dinanzi alla minacciata alleanza dei Bizantini e dei Franchi, i Longobardi furono costretti a pensare sul serio ai casi loro. Si decisero quindi a ricostituire la monarchia, per dare unità all'amministrazione, e sopra tutto alla difesa. Adunatisi a Pavia, tra la fine del 584 e i primi del 585, elessero a loro re Autari figlio di Clefi. Era adesso necessario costituirgli un patrimonio, una lista civile, perchè potesse mantenersi con decoro, e pagare gli ufficiali della Corte. A questo fine i Duchi gli fecero cessione d'una metà dei loro averi, quelli che avevano tolti ai nobili uccisi o che in altro modo avevano confiscati. Restava sempre ad essi il terzo della rendita delle terre possedute dai Romani. Si vuole però da alcuni scrittori, che ora appunto questo terzo della rendita venisse mutato in un terzo delle terre, il che avrebbe lasciato gli altri due terzi in proprietà libera agli antichi possessori, e ciò sarebbe stato a loro vantaggio. Essendo poi negli ultimi anni cresciuto non poco il numero delle province occupate dai Longobardi, è assai probabile che [266] si procedesse ad una divisione delle nuove terre, a vantaggio di coloro che avevano dovuto cedere al Re parte dei propri averi. Su tutto ciò hanno avuto luogo dispute infinite, e le parole a questo proposito adoperate da Paolo Diacono furono torturate in mille modi, per trovarvi quello che non v'era, per fargli dire quello che non disse nè poteva dire sopra un argomento che forse egli stesso imperfettamente conosceva, essendo vissuto circa due secoli più tardi. Dice infatti solamente che i Duchi cedettero metà delle loro sostanze al Re, e che i popoli tributari furono divisi tra i vincitori (populi tamen adgravati per langobardos hospites partiuntur, III, 16). Dedurre da ciò, come molti pretesero, che i Romani non solo peggiorarono assai la loro condizione, ma furono ridotti allo stato di schiavi o quasi, non è possibile; si può anzi asserire che una tale deduzione contraddice alle parole dello storico. Paolo Diacono, dopo aver detto che la cessazione della monarchia fu a grave danno dei Romani, parlando della ricostituzione di essa, aggiunge: «in questo regno nessuno era angariato, oppresso o spogliato; a tutti si rendeva giustizia; non si commettevano furti; ognuno andava sicuro dove voleva.» Non sarebbe questo certamente il linguaggio di chi avesse voluto dire che sotto Autari le cose erano assai peggiorate. E noi sappiamo che tutto allora, nella pace e nella guerra, procedette con maggiore ordine e regolarità; che la lunga durata del dominio longobardo si deve alla ricostituzione della monarchia, ed in parte anche all'opera personale del re Autari.
Dinanzi alla minaccia d'un accordo tra Franchi e Bizantini, i Longobardi tentarono di fare alleanza coi primi. Ma non vi riuscirono, perchè l'accordo fu rotto quasi prima che concluso, e si combattè nuovamente da ogni parte. Nel 587 i Longobardi guerreggiavano nel Friuli e nell'Istria contro i Bizantini, ai quali l'anno appresso [267] tolsero l'isola Comacina che era fortificata. Nello stesso tempo Smeraldo ripigliava finalmente Classe, ed i Franchi scendevano per lo Spluga a combattere i Longobardi. Ma Autari era questa volta apparecchiato, e si precipitò contro di essi con tale impeto, che li vinse, facendone addirittura strage. Tantaque, dice Paolo Diacono (III, 29) ibi strages facta est de Francorum exercitu, quanta usque ibi non memoratur.
Il non avere Smeraldo, in questa occasione, dato nessuno aiuto ai Franchi dispiacque all'Imperatore. Ma ad aggravar la cosa s'aggiunse la condotta assai imprudente e poco misurata che egli tenne nella questione religiosa. Il Papa, per secondare l'Imperatore e porre termine alla disputa oziosa ed incresciosa dei Tre Capitoli, li aveva condannati, dicendo che la condanna si poteva tenere già implicitamente ammessa anche dal Concilio di Calcedonia. Ma le popolazioni dell'Istria e della Venezia vennero allora in preda ad una tale agitazione, che minacciavano addirittura uno scisma. E Smeraldo, invece di calmare quest'agitazione, come gli era stato ordinato da Costantinopoli, ricorse alla violenza, facendo imprigionare e condurre a Ravenna alcuni vescovi per punirli. In conseguenza di ciò fu richiamato, e gli successe l'esarca Romano (589) che si dimostrò assai più accorto.
In questo mezzo Autari, pensando sempre più a raffermare sul trono sè stesso e la propria famiglia, si decise a prender moglie, e chiese la mano di Teodolinda, figlia di Garibaldo duca di Baviera, che dipendeva da Childeberto re dei Franchi, col cui regno il suo Ducato confinava. La scelta era suggerita da ragioni politiche, perchè in caso di guerra coi Franchi, l'alleanza della Baviera poteva molto giovare ad Autari. Si narra che, giunta favorevole risposta alla prima domanda, egli, travestito da ambasciatore, partì subito con altri, per fare la richiesta [268] ufficiale (588). E come si trovò in presenza della giovane sposa, fu talmente preso dalla bellezza di lei, che quando ella, secondo il costume, portò loro da bere, non sapendo più trattenersi, le baciò furtivamente la mano, il che rivelò che egli era lo sposo. Giunto poi al confine, Autari, rizzandosi sulle staffe, si fece riconoscere da tutti, lanciando con vigore la scure ad un albero, ed esclamando: — Così ferisce il re dei Longobardi. — Alla notizia di queste trattative di matrimonio, Childeberto fu così irritato, che mosse guerra alla Baviera, e Teodolinda dovè fuggire in fretta col fratello Gundebaldo, il quale la condusse a Verona, dove fu incontrata dallo sposo; ed il 5 maggio 589 si celebrarono le nozze.
Questo matrimonio inasprì per modo i Franchi, che mossero ad un assalto improvviso contro Autari, il quale venne preso alla sprovvista, e si sarebbe trovato a mal partito, se la guerra civile scoppiata al solito nel loro paese non li avesse obbligati a ritirarsi. A questa ritirata contribuirono forse anche le inondazioni che desolarono per modo la Gallia e l'Italia, che Paolo Diacono dice non essersi mai visto nulla di simile dopo il diluvio universale. In conseguenza di che scoppiò poi anche la peste bubbonica, di cui, fra gli altri, fu vittima lo stesso Pelagio II. Successe papa Gregorio Magno consacrato il 8 settembre 590, che tanta parte doveva avere nella storia d'Italia, e che più volte si trovò a lottare energicamente contro i Longobardi.
Appena vi fu un poco di tregua a queste calamità, Autari continuò la sua opera di organizzazione del regno, estendendo sempre più le sue conquiste nell'Italia superiore. La leggenda però che egli giungesse fino a Reggio di Calabria, esclamando: — Qui sono i confini del regno d'Autari, — non merita nessuna fede. Si fece probabilmente confusione con Reggio d'Emilia. Nel sud già v'erano allora [269] i Ducati di Spoleto e di Benevento; oltre di che Autari non poteva troppo allontanarsi dal nord ora che l'Imperatore eccitava continuamente i Franchi a ripigliare la guerra che avevano promesso di fare, e per la quale invano egli aveva loro mandato danaro. «Era omai tempo, così scriveva, di passare dalle parole ai fatti, enarrata viriliter... peragere.» L'esarca Romano riuscì finalmente a stringere con essi gli accordi per un assalto da muoversi in comune contro i Longobardi. E nella primavera del 590 i Franchi s'avanzarono da una parte verso Milano, da un'altra, per la valle dell'Adige, verso Verona. Da Ravenna s'avanzarono nello stesso tempo i Bizantini, e molte terre, e parecchi Duchi longobardi spontaneamente si sottomisero ad essi. Fra i Duchi serpeggiava allora non poco scontento, alcuni essendo stati avversi alla ricostituzione della monarchia, altri avendo sperato d'essere eletti in luogo d'Autari. Profittando di ciò, s'era fissato, secondo gli accordi presi, che fra tre giorni i Franchi ed i Bizantini si sarebbero trovati insieme uniti contro i Longobardi. Il fumo del fuoco, che i Bizantini avrebbero acceso sopra un vicino colle, sarebbe stato il segnale del loro arrivo. Ma nulla di tutto ciò avvenne. I Franchi, senza aver fatto altro che saccheggiare, improvvisamente si ritirarono, accusando i Bizantini di non essersi avanzati, e di averli lasciati soli. L'esarca Romano invece scriveva a re Childeberto, «che s'era sul punto di circondare i Longobardi, quando seppe che già i Franchi trattavano accordo con Autari. Aveva dovuto ordinare la ritirata, appunto quando era giunto il momento di poter liberare affatto l'Italia dalla nefandissima gente dei Longobardi.» E poco dopo esprimeva la speranza, che il Re volesse ricominciare la guerra, «mandando in Italia fidati capitani, dignos duces, i quali non pensassero solo a far prigionieri i Romani, ed a saccheggiare le loro terre.» [270] Ma non se ne fece altro. Il fatto vero è che Franchi e Bizantini s'erano intesi nel voler cacciare i Longobardi dall'Italia, ma ognuno di loro la voleva poi tenere per sè. E però andavano d'accordo nell'attaccare il nemico comune; ma quando la vittoria diveniva probabile, subito si dividevano, ed agivano ciascuno per conto proprio, anzi gli uni a danno degli altri. Tutto questo, com'era naturale, riusciva a vantaggio di Autari, il quale s'era perciò assai rafforzato, quando il 5 settembre 590 cessò di vivere.
Autari si può ritenere uno dei principali fondatori del regno longobardo. Egli, come Odoacre, come altri barbari, prese il nome di Flavio, e con ciò sembrava volesse andare d'accordo coll'Impero. Ma Odoacre e Teodorico erano venuti in Italia a governarla in nome dell'Imperatore; Alboino ed i Longobardi invece erano venuti in loro proprio nome, e la nuova monarchia da essi fondata fu affatto indipendente, anzi più volte mosse guerra ai Bizantini, che voleva cacciare addirittura dall'Italia. I Longobardi furono i primi barbari che fecero in Italia vere e proprie leggi, sanzionandole senza punto occuparsi dell'Imperatore. Nè ai Romani fu lasciato allora nessuno dei privilegi concessi loro da Teodorico. In sostanza i barbari sono ora finalmente divenuti padroni del paese, e non vogliono riconoscere altra legge, altra autorità che la loro. E questo contribuì non poco a diffondere l'erronea opinione, che gl'Italiani fossero allora ridotti nella condizione di servi o per lo meno di aldi, il che vorrebbe dire una semi-servitù. A sostegno di questa tesi si torturarono, come già accennammo, le parole di Paolo Diacono. Altro argomento favorevole ad essa si credette trovarlo nel fatto, che la legge longobarda fissa il guidrigildo da pagarsi per la uccisione di un Longobardo, e nulla dice per quella d'un Romano. La vita adunque dei vinti, si disse, non aveva pei vincitori nessun valore, perchè essi erano [271] schiavi. Ma dedurre così gravi conseguenze dal solo silenzio della legge, è addirittura eccessivo. Il silenzio, fu osservato dal Capponi, potrebbe anche significare che il guidrigildo dei vinti era fissato dalla consuetudine. Potrebbe provare, arrivò a dire invece il Sybel, che teoricamente almeno non si facesse differenza alcuna tra la vita del Romano e quella del Longobardo; ed il guidrigildo sarebbe stato perciò nei due casi identico. Ma non è facile credere che i vinti non fossero trattati assai peggio dei vincitori.
Del resto la opinione una volta tanto diffusa della servitù dei Romani, è adesso abbandonata. Riesce piuttosto difficile comprendere come potesse essere stata accolta così largamente, senza tenere nessun conto delle enormi difficoltà che si oppongono a renderla credibile. Ed in vero è egli mai possibile che, se i Longobardi avessero tolto la libertà personale ai Romani, di un fatto così importante non si trovasse mai nelle cronache, nelle leggi, nei documenti pubblici o privati una sola esplicita menzione? E dato pure che ciò fosse possibile, si può supporre che questi schiavi o servi o aldi che siano, arrivassero, come arrivarono, alla piena libertà, senza che neppure d'una tale e tanta rivoluzione rimanesse traccia o ricordo alcuno? Siccome poi, nelle continue guerre fra Longobardi e Bizantini, molte erano le terre che passavano ripetutamente dagli uni agli altri, e viceversa, così bisognerebbe supporre ancora, che gli abitanti di queste terre passassero dalla libertà alla schiavitù e dalla schiavitù alla libertà, senza che un grido di gioia, di protesta o di dolore s'udisse mai; senza un tentativo di ribellione, senza che il fatto stesso venisse mai da nessuno ricordato. V'erano inoltre latifondi che appartenevano ad un solo proprietario, e si trovavano parte in territorio bizantino, parte in longobardo. Si deve forse [272] credere che i coltivatori, i possessori di queste terre fossero schiavi quando si trovavano in una parte del loro fondo, liberi quando si trovavano in un'altra? Le lettere di Gregorio Magno parlano di cittadini romani che dimoravano nelle terre longobarde di Brescia e di Pisa. Erano essi liberi? E allora perchè non potevano essere liberi anche gli altri Romani? Divenivano invece servi quando abitavano in paese longobardo? E allora si dovrebbe credere, che essi lasciassero le terre bizantine, dove erano liberi, per andare di propria volontà a divenire schiavi sotto i Longobardi? E se poi si ammettesse, come alcuni suppongono, che rimanessero liberi gli operai delle città, i quali nulla possedevano, e schiavi i proprietari, le cui terre erano state divise, si avrebbero i nulla-tenenti in una condizione superiore a quella dei latifondisti, nobili e Senatori. Le contradizioni sarebbero insomma tali e tante, che bisogna pur finire col riconoscere, come nonostante la grande dottrina adoperata a sostenerla, la teoria della servitù degl'Italiani sotto i Longobardi in nessun modo si regge in piedi.
NOTA
Non sarà forse inutile accennare qui in nota qualcuna delle molte dispute che, interpetrando in diversi modi le parole di Paolo Diacono, si sono fatte sulla condizione degl'Italiani sotto i Longobardi.
I brani discussi, come è ben noto, sono due. Il primo dice: His diebus multi nobilium Romanorum ob cupiditatem interfecti sunt. Reliqui vero per hospites divisi, ut terciam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tributarii efficiuntur (II, 32). I Longobardi, si è interpetrato, uccisero molti dei nobili Romani, gli altri (reliqui), cioè tutto il resto della popolazione, furono divisi tra gli ospiti longobardi, con l'obbligo di pagare ad essi il terzo delle loro entrate (tertiam partem suarum frugum), e divennero perciò tributari. Ma, lasciando da parte che il reliqui troppo evidentemente [273] si riferisce a nobiles, come sarebbe stato mai possibile render tributari tutti i Romani, obbligando a pagare il terzo delle loro entrate anche coloro che nulla possedevano? Il farli poi schiavi, come qualcuno ha supposto, è cosa che Paolo Diacono non accenna in nessun modo, e sarebbe anzi, come notammo, in contradizione con quello che dice poco dopo. Osserva poi il Sybel (p. 429), a questo proposito, che non si può interpetrare quel passo, supponendo che anche i nulla-tenenti venissero divisi per longobardos hospites, perchè la hospitalitas era una relazione che passava fra il proprietario romano ed il longobardo, il quale dei coloni e dei coltivatori della terra era patronus, non hospes.
L'altro brano che ha dato alimento alla discussione, si riferisce a ciò che avvenne nella restaurazione del regno, quando fu eletto Autari. Dopo avere affermato che i Duchi dettero al Re, per suo uso personale, e per pagare i suoi ufficiali o aderenti, metà dei loro averi, omnem substantiarum suarum medietatem, Paolo Diacono aggiunge: Populi tamen adgravati per langobardos hospites partiuntur (III, 16). Le parole populi adgravati fecero supporre che le popolazioni fossero state, dopo la elezione del Re, più duramente aggravate, perchè i Duchi si vollero su di esse rifare di quello che avevano dovuto dare al Re. Ma ciò non si trova punto nelle parole, e non era nel pensiero di Paolo Diacono, il quale dice invece che le popolazioni stavano assai meglio sotto i Re. Nel regno longobardo, secondo lui, nulla erat violentia, nullae struebantur insidiae; nemo aliquem iniuste angariabat, nemo spoliabat; non erant furta, non latrocinia; unusquisque quo libebat securus sine timore pergebat (Ibidem). I popoli aggravati adunque non sono altro che quelli stessi che già prima erano stati fatti tributari, e che perciò erano stati e rimasero divisi fra i proprietari longobardi, i quali avevano cedute al Re metà delle terre che erano di loro libera e piena proprietà, quelle cioè che avevano confiscate ai nobili romani uccisi. Si può anche supporre, come dicemmo, che, essendosi il regno ingrandito, avesse avuto luogo allora una nuova divisione di terre, e quindi una nuova distribuzione di vinti tributari fra i vincitori. Ma è solo una induzione, perchè Paolo Diacono non lo dice.
[274]
Siccome poi, in questo secondo brano, egli non parla più di rendite (frugum), così si è, non senza qualche ragione, da alcuni supposto, che a tempo di Autari non si facesse più una divisione delle rendite, ma delle terre stesse, di cui un terzo sarebbe divenuto proprietà dei Longobardi, e due terzi sarebbero restati libera proprietà dei Romani, con vantaggio evidente degli uni e degli altri. Questa interpetrazione troverebbe sostegno nella variante (che si legge però in un solo codice, e non dei più autorevoli), la quale, invece di per hospites partiuntur, dice, hospitia partiuntur: non sarebbero cioè stati divisi i populi nè le rendite, ma le terre stesse, hospitia. Più di questo non si può dire; ed è vana fatica sforzarsi, per trovare in Paolo Diacono quello che egli non dice, e che forse non sapeva, essendo vissuto tanto più tardi. Questo anzi può spiegare l'incertezza del suo linguaggio, della quale non bisogna però abusare, per fargli dire quello che a noi piace.
Importa ora formarsi un'idea chiara, almeno sommariamente, della forma di governo, che ebbero fra di noi i Longobardi, perchè se mai una volta, come alcuni pretesero, il filo della tradizione romana si spezzò del tutto in Italia, se ogni traccia di leggi e d'istituzioni romane sparì affatto, questo non potrebbe essere avvenuto che sotto il loro dominio. Non solamente esso durò su di noi più a lungo di ogni altro dominio barbarico; ma è certo che gli Ostrogoti lasciarono in vigore le leggi e le istituzioni romane, i Bizantini non ne avevano altre essi stessi, e i Franchi quando vennero più tardi erano già in parte romanizzati. I Longobardi, come vedemmo, avevano [275] invece avuto assai minore contatto coll'Impero, col quale s'erano messi in aperta guerra, per cacciarlo addirittura dall'Italia. Avendo però da lungo tempo abbandonate le loro antiche sedi, vagando sotto forma più o meno d'una compagnia di ventura, non potevano neppur essi aver serbate intatte le primitive istituzioni germaniche. E quelle che ora avevano, non potevano dirsi naturalmente, esclusivamente svolte dalle antiche, che di necessità erano state profondamente alterate dalle nuove condizioni in cui s'erano trovati, dal contatto che avevano avuto con altri popoli. Rimase tuttavia costante in essi la loro tendenza disgregatrice, la incapacità di costituirsi in una forte unità. Questo fu causa del disordine continuo in cui vissero; rese loro impossibile arrivar mai alla conquista di tutta Italia, e portò finalmente la totale rovina del regno.
Alla loro testa era un Re non del tutto ereditario, nè del tutto elettivo. Il popolo lo eleggeva o ne sanzionava la elezione fatta dai suoi capi, la quale soleva essere circoscritta nella cerchia d'una stessa famiglia o parentela. Qualche volta il popolo trasmetteva ad altri la facoltà di fare l'elezione. Così dopo la morte d'Autari, si dette facoltà alla sua vedova Teodolinda d'eleggersi un marito, che sarebbe stato, come poi fu, il nuovo Re dei Longobardi. Questi era il capo civile e militare della nazione; comandava l'esercito, amministrava la giustizia in compagnia di assessori, che di volta in volta sceglieva. Le leggi proclamate in suo nome erano le consuetudini stesse formatesi nel popolo, le quali egli, d'accordo coi grandi, formulava e sottoponeva poi all'approvazione dell'assemblea popolare, perchè decidesse se riproducevano esattamente le consuetudini. Il Re poteva anche di sua autorità emanare ordini o decreti, i quali, coll'andare del tempo e sotto l'azione persistente del diritto romano, [276] andarono crescendo di numero e d'importanza. Quello che soprattutto determinò il carattere di questa monarchia, fu la sua divisione in Ducati, i cui Duchi, nominati dal Re a vita, erano specie di Vicerè indipendenti, piuttosto che veri e propri ufficiali regi. Essi tendevano a rendersi non solo sempre più indipendenti, ma anche ereditari; e qualche volta vi riuscirono, come fecero quelli del Friuli, di Spoleto e di Benevento. Il duca di Spoleto assunse il titolo di Dux gentis Langobardorum, quello di Benevento divenne addirittura un vero e proprio sovrano autonomo ed ereditario. Tutto questo non poterono tuttavia riuscire a fare gli altri Duchi meno lontani, perchè il Re, come era naturale, vi si opponeva, per tenerli sottomessi alla propria autorità. Di qui un conflitto permanente, che fu causa di rivoluzioni continue, della morte violenta di molti Re, e produsse la debolezza continua del regno, che non si riuscì mai ad organizzare fortemente. Ed in più di due secoli di dominio, di violenze e di prepotenze i Longobardi, invece di germanizzare gl'Italiani, finirono coll'essere essi romanizzati, formando coi vinti un popolo solo.
Nel regno longobardo v'erano alcuni veri e propri ufficiali regi, chiamati Gastaldi, e nominati dal Re, che poteva revocarli. Essi amministravano la Curtis Regia, cioè i beni della corona nei Ducati, nei quali erano mandati. Sorvegliavano i Duchi, e là dove esercitavano il proprio ufficio, facevano anche da giudici e capi militari. Aumentare il numero di questi Gastaldi fu il pensiero costante dei Re, perchè era il solo mezzo di accrescere l'autorità propria, di dare una qualche organica unità al regno. E però, coll'andare del tempo, nelle terre nuovamente conquistate, cercaron sempre di porre Gastaldi invece di Duchi. Intorno al Re erano anche i Gasindi, specie di familiari o cortigiani, il cui potere andò col tempo anch'esso [277] aumentando. Ma quel che è più, v'era un Consiglio di Duchi, del quale naturalmente non facevano di regola parte i Romani; v'entravano però i Vescovi, i quali, massime in principio, erano sempre romani.
Tutto ciò, come è evidente, non bastava a formare un regno saldamente costituito. I Duchi cercavano continuamente ed in ogni cosa d'imitare il Re. Giudicavano nel proprio Ducato, ne comandavano l'esercito, facevano anche spedizioni militari per loro conto; qualche volta, per ordine del Re, assumevano in tutto o in parte il comando dell'esercito nazionale. Avevano anch'essi i loro Gasindi, ed ufficiali che facevano le veci di Gastaldi, ed altri che chiamavano Sculdasci, i quali tutti avevano, più o meno, poteri amministrativi, giudiziari e militari. Al Re sarebbe di diritto spettato il nominare gli ufficiali dei Duchi; ma questi tendevano sempre a nominarli essi, e spesso vi riuscirono. Nel Ducato di Benevento non vi furono i Gastaldi regi, ma solo ufficiali nominati dal Duca.
Si è molto disputato per sapere se i Longobardi in genere o i Duchi in ispecie risiedevano nelle città o nella campagna. E certo non è difficile trovare molti argomenti per sostenere che risiedevano in città, soprattutto nelle principali. Queste avevano ciascuna un proprio territorio, determinato dalle antiche circoscrizioni romane, su cui si erano formate le Diocesi vescovili, identiche alle così dette Giudiciarie dei Ducati. Tutto ciò, insieme riunito, aveva il nome di Civitas, ed in essa di certo dovevano risiedere i Longobardi in genere, e i Duchi in ispecie. Ma che risiedessero generalmente dentro le mura delle città, le quali erano ab antico la sede della popolazione romana, è, secondo noi, più facile affermarlo che dimostrarlo. Colle invasioni germaniche il centro di gravità fu trasferito nelle campagne. I Tedeschi erano popolazioni rurali, che non conoscevano le città; nei castelli del contado [278] si costituì più tardi il feudalismo, che dette la forma predominante alla società medioevale; ed i grandi feudatari del contado sono dai nostri cronisti continuamente chiamati i Teutonici, i Lombardi.
Di fronte al governo dei Longobardi, in tutti i luoghi di cui essi non riuscirono ad impadronirsi, restava sempre il governo bizantino, il che doveva contribuire non poco a far sì che, pel mutuo contatto, si modificassero l'un l'altro. Secondo la Prammatica Sanzione il potere civile ed il militare dovevano essere divisi. Alla testa del primo restava infatti il Praefectus Praetorio, che risiedeva a Ravenna; a Roma c'era un Vicarius Urbis; a Genova un Vicarius Italiae, e tutti e tre dovevano curare l'amministrazione. Le liti fra Romani venivano decise da Judices provinciarum eletti dai Vescovi. La Prefettura d'Italia, separata dalla Rezia e dalle isole, s'era andata sempre più restringendo, e s'era adesso ridotta ad alcuni brani solamente della Penisola. La Sicilia aveva un suo proprio Prefetto; la Sardegna e la Corsica dipendevano dall'Esarca dell'Africa. Siccome però lo stato di guerra continuava sempre, nè poteva cessare per ora, così, nonostante l'esistenza del Prefetto e dei Vicari, il potere civile ed il militare si riunivano di fatto nei Duchi bizantini. Questi, mandati a governare e difendere le province ancora dipendenti dall'Impero, le quali spesso erano non solo separate, ma anche assai lontane le une dalle altre, si trovavano di fronte ai Duchi longobardi, anch'essi separati e indipendenti. Così fin da ora l'Italia andò sempre più dividendosi e suddividendosi.
La tendenza burocratica, accentratrice dei Bizantini rendeva necessario un capo che rappresentasse l'Impero nella Penisola, e nel quale tutti i poteri si riunissero come nell'Imperatore. Questo capo era l'Esarca, cui si attribuiva [279] anche la dignità assai onorifica di Patrizio, e risiedeva a Ravenna. Il titolo di Esarca era generalmente dato a tutti coloro che conducevano una spedizione all'estero, ed in questo senso potè esser da qualcuno attribuito anche a Belisario ed a Narsete. Ma esso ebbe in Italia un significato, un valore affatto speciale, perchè concesso solo a chi governava in nome dell'Imperatore e lo rappresentava, quasi una continuazione o trasformazione dell'ufficio affidato già a Teodorico. In questo senso Belisario e Narsete non furono Esarchi, ma solo capi dell'esercito, e con esso governarono. Si è molto disputato per sapere chi fosse il primo Esarca in Italia. La più antica menzione ufficiale di questo ufficio si trova, come già dicemmo, nella lettera di papa Pelagio II, scritta in data 4 ottobre 584, che alcuni credono di dover mutare in 585. Decio perciò fu di certo Esarca, e prima di lui si ritiene da alcuni che anche Baduario (575-76) avesse quel titolo. A Decio, che governò breve tempo, successe (585) Smeraldo. I Duchi bizantini teoricamente dipendevano dall'Esarca, che li nominava; ma, separati e lontani gli uni dagli altri, agivano di fatto come indipendenti; e così l'Esarcato andò a poco a poco divenendo anch'esso una specie di Ducato, da cui gli altri dipendevano solamente perchè in esso governava il rappresentante supremo dell'Imperatore.
In questo senso più ristretto l'Esarcato si estendeva dall'Adige alla Marecchia, dall'Adriatico all'Appennino; conteneva Ravenna e Bologna coi loro territori, ed altre città di minore importanza. Accanto ad esso erano la Pentapoli marittima (Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona) e la Pentapoli annonaria (Urbino, Fossombrone, Jesi, Cagli, Gubbio), che, insieme riunite, secondo alcuni formavano la Decapoli, secondo altri invece questo nome [280] davasi alla seconda Pentapoli.[34] Nel settimo secolo appartenevano ai Bizantini anche il Ducato di Venezia, parte dell'Istria, l'Apulia e la Calabria (Terra d'Otranto), il Bruzio (Calabria moderna), Napoli, Roma, Genova con la Riviera. In generale tutte le città della costiera adriatica e mediterranea restarono ai Bizantini, non essendo i Longobardi stati mai navigatori. L'Esarca era mandato a governare Regnum et Principatum totius Italiae, perchè l'Impero restava attaccato sempre alle antiche formole, anche quando non rispondevano più alla realtà. Da principio l'Esarca nominava i Duchi ed i Maestri dei militi, due ufficiali che spesso si confondon tra loro, sebbene in origine questi fossero inferiori a quelli, e più esclusivamente militari: a Roma il Maestro dei militi comandava le milizie della città, il Duca quelle di tutto il Ducato. Di fatto poi finirono, così gli uni come gli altri, coll'esercitare le funzioni giudiziarie e militari, spesso anche amministrative, e vi fu fra di loro poca differenza. I Ducati eran divisi in sezioni, nelle quali comandavano i tribuni, che vennero spesso confusi coi Conti, risiedevano nelle città secondarie, e dipendevano dal Duca o dal Maestro dei militi, che risiedevano nelle città principali e comandavano in tutto il Ducato. Il numero e la estensione di questi Ducati variavano secondo le necessità della guerra. Prima della venuta dei Longobardi ne erano stati già formati parecchi ai confini, verso le Alpi, con soldati limitanei, che in pace coltivavano i campi loro concessi, lasciandoli poi in eredità ai figli con lo stesso obbligo della difesa. La tendenza a rendere ereditari gli uffici era, come è noto, assai generale presso i Bizantini. Colla venuta dei Longobardi, con la divisione e suddivisione dell'Italia, che [281] per opera loro ne seguì, i confini si moltiplicarono. Essi furono a poco a poco quasi per tutto, perchè ai Bizantini era necessario difendersi per tutto dal nemico. E s'andarono continuamente formando nuovi Ducati, i quali variarono di numero e di estensione, secondo che per le vicissitudini della guerra s'avanzava o si retrocedeva.
L'Esarca, come nominava i Duchi, perchè rappresentante dell'Imperatore, così per la stessa ragione s'ingeriva nelle cose ecclesiastiche. Esso presumeva di dover ricondurre i sudditi alla vera fede, imprigionava i vescovi, sorvegliava ed approvava la elezione del Papa: qualche volta ebbe da Costantinopoli persino l'ordine d'imprigionarlo. Da un tale stato di cose sorgevano, come era naturale, cause infinite di conflitti; e non solamente con Roma. A Costantinopoli si temeva sempre che l'Esarca volesse rendersi indipendente: più d'uno di essi infatti ci s'era provato. Si cercava quindi d'indebolirne il potere, favorendo invece l'autorità dei Duchi, facendoli nominar direttamente dall'Imperatore, o confermandoli quando il popolo cominciò esso ad eleggerli. E ne seguì non solo che i Ducati bizantini s'andarono sempre più separando gli uni dagli altri e dall'Esarca, dividendo sempre più l'Italia; ma finirono coll'emanciparsi, qualche volta proclamando addirittura la loro indipendenza. Questo avvenne a Venezia, a Napoli, a Roma ed anche a Ravenna, come vedremo.
Nel 584 noi vedemmo come papa Pelagio II, si dolesse che a Roma non vi fosse nè un Duca nè un Maestro dei militi. Nel 592 invece Roma aveva già un suo Maestro dei militi che ne difendeva le mura, e nel 625 l'Exercitus Romanus (che nel 640 è ricordato la prima volta dal Libro Pontificale) assisteva ufficialmente alla elezione del Papa. E non molto dopo troviamo che Gregorio Magno fa obbligo alle popolazioni del Ducato di difendere colle [282] loro armi contro i Longobardi le mura della città, la quale sembra così già avviarsi ad una propria autonomia. Si è lungamente voluto supporre, che sotto i Longobardi fosse scomparso ogni avanzo di diritto e di istituzioni romane, e che degli antichi municipi non fosse rimasta traccia alcuna. L'antica Curia, si è mille volte ripetuto, era ridotta a riscuoter tasse, che i Decurioni dovevano pagare anche quando non riuscivano a riscuoterle. L'appartenervi non era quindi più un onore, ma un onere incomportabile, che tutti cercavano di fuggire, anche col volontario esilio; nè dopo il 625 essa si trova più ricordata nei documenti. Nella stessa Italia bizantina, dove la legge romana era in pieno vigore, l'amministrazione municipale, si disse, era scomparsa, cadendo nelle mani del Vescovo e di ufficiali quasi governativi come il Curator ed il Defensor. Nell'Italia longobarda, secondo i medesimi scrittori, tutto sarebbe stato assorbito dalla Curtis regia, dai Duchi, dai Gasindi, più tardi dai Vescovi. Ma sono teorie ed ipotesi ora in gran parte abbandonate da coloro stessi che una volta le sostenevano con grande ardore. Se tutto ciò fosse vero, riuscirebbe assai difficile capire in che modo i Longobardi avrebbero potuto amministrare e governare le popolazioni italiane, in gran numero raccolte nelle città. Di queste popolazioni essi dovevano pure occuparsi, ne avevano bisogno, perchè esse esercitavano i mestieri, l'industria ed il commercio. Qualunque fosse poi lo stato legale delle cose, è assai difficile, per non dire impossibile, il credere che, anche volendo, i Longobardi avessero potuto impedire che, almeno di fatto e per consuetudine, continuasse fra gl'italiani a vivere una qualche parte della giurisprudenza e delle istituzioni romane. Esse avevano create fra di loro un gran numero di relazioni civili, delle quali i Longobardi ignoravano affatto l'esistenza e perfino il nome. Quanto poi a ciò che [283] seguì a tempo dei Bizantini, i quali vivevano essi stessi con le istituzioni e con la legge romana, la totale scomparsa del Municipio sotto il loro dominio, renderebbe inesplicabile il suo pronto riapparire a Venezia, a Roma ed in molte città del Mezzogiorno, che erano rimaste più o meno alla dipendenza di Costantinopoli. Ma è superfluo qui anticipare la discussione d'un argomento, che si presenterà più tardi con assai maggiore insistenza ed evidenza.
Nel 590 morirono Pelagio II e Autari. Mutavano così nello stesso tempo il capo della Chiesa e il re dei Longobardi, e ad essi succedevano due uomini, il Papa soprattutto, di grandissimo valore. Gregorio I, che prese il posto di Pelagio II, era nato a Roma circa il 540 da illustre famiglia senatoria. La madre ed il padre erano pieni di tanto zelo cristiano, che appena nato il figlio si dettero addirittura a vita religiosa. Questi studiò con ardore le lettere e la filosofia, ebbe alti uffici, e poco dopo la invasione longobarda, verso il 573, era Prefetto di Roma e Presidente del Senato. Ben presto però si sentì anch'egli invaso dallo zelo religioso, e cominciò a spendere il suo ricco patrimonio fondando conventi benedettini in Sicilia ed altrove. Uno di questi conventi, nel quale si chiuse poi egli stesso, vestendovi l'abito, a quanto sembra, nel 575, lo fondò a Roma, nel suo palazzo avito, sul monte Celio. [284] Si narra che, vedendo un giorno nel mercato alcuni bellissimi e biondi Inglesi, pagani, esposti alla vendita come schiavi, esclamasse: — Non Angli, ma Angeli si debbono chiamare; — e partì subito per andare in Inghilterra, con animo di convertir quelle popolazioni. Ma il popolo lo fece richiamare dal Papa, che lo nominò diacono; più tardi fu inviato apocrisario a Costantinopoli, dove seppe far sentire efficacemente nella Corte imperiale la sua azione personale a favore della Chiesa romana. Tornato a Roma, fu segretario del Papa, cui poi successe, eletto a voti unanimi. Dicono che facesse di tutto per evitare la enorme responsabilità d'assumere il Papato, che era in assai difficili condizioni; ma non gli fu possibile. La peste faceva strage, ed egli, per invocare l'aiuto divino, ordinò una processione solenne di tutto il popolo, la quale durò tre giorni continui. Vuole la leggenda che Gregorio allora vedesse apparire sulla tomba d'Adriano un angelo, il quale rimetteva la spada nel fodero, a significare che le preghiere erano state esaudite, e che la strage sarebbe cessata. In memoria di ciò, su quella tomba monumentale venne poi messa la statua dell'angelo in bronzo, da cui essa ebbe il nome di Castel Sant'Angelo. La statua che oggi si vede è però del 1740.
Venuta da Costantinopoli la conferma, il nuovo Papa fu il 3 settembre 590 consacrato col nome di Gregorio I, rimanendo per quattordici anni sulla cattedra di S. Pietro, fino cioè al marzo del 604. In lui v'era il doppio carattere d'un uomo contemplativo e ardentemente religioso, unito a quello d'un uomo operosissimo e pratico: due qualità che sembrano a molti poco conciliabili fra di loro, ma che pur si trovano assai spesso riunite in uno stesso individuo. Questo doppio carattere si riscontra anche ne' suoi scritti, alcuni dei quali, come i Dialoghi, le Omelie e i libri morali ci mostrano l'uomo contemplativo; altri mirano invece ad [285] uno scopo pratico, come son quelli che danno regole per la liturgia. Queste regole furono lungamente osservate: la messa si celebra anche oggi in gran parte secondo le norme fissate da papa Gregorio. A lui si deve anche la riforma della musica sacra, e la fondazione delle scuole di quel canto, che fu perciò chiamato gregoriano. I quattordici libri delle sue Epistolae sono un monumento davvero immortale per la sua vita e per la storia dei tempi. In esse impariamo a conoscere con sicurezza il carattere nobilissimo di quest'uomo, che si può dire il secondo fondatore del Papato; e vi risplendono di viva luce il suo senno pratico, la sua febbrile attività e carità cristiana, il suo ardore religioso. Vi si vede chiaro come egli fosse divenuto il primo personaggio del secolo, che guidava non solo la Chiesa, ma la politica italiana, e in parte quella anche dell'Europa. Dovette occuparsi d'amministrare l'enorme patrimonio che, per le continue donazioni dei fedeli, allora già aveva la Chiesa in Sicilia, in Sardegna, in tutta Italia. Di esso non è possibile determinare con esattezza il valore, che si fa da alcuni ascendere ad una estensione di 1800 miglia, con una rendita di 7,500,000 lire. E di questo denaro, che gli dava una gran forza, si valeva per aiutare non solo i conventi, il clero, la Chiesa; ma in assai più larga misura anche gli ospedali ed i poveri. Le sue lettere sono piene di savissime norme amministrative, di un affetto, di una cura singolare per l'interesse dei contadini. E oltre di ciò egli fa in esse una costante guerra ai Longobardi; anima le popolazioni italiane alla resistenza, alla difesa delle mura cittadine, invitando qualche volta il clero stesso a prendere le armi. Tutto questo suo ardore operoso, fervido, giovanile si manifesta in mezzo ad un mondo che sembra da ogni parte cadere in rovina, e nel quale egli sta sempre fermo a lottare, per salvarlo colla fede inconcussa in Dio [286] e nella virtù, con una passione, un affetto inestinguibile pel bene degli uomini. «I tempi sono tristissimi, egli scrive, i campi desolati e deserti, le città vuote, il Senato è morto, il popolo più non esiste, la spada pende sul capo di coloro che sono rimasti: noi siamo in mezzo alla rovina del mondo.» Eppure non cede, non piega, non si scoraggia mai. Con una energia indomabile, sostiene di fronte all'Impero la dignità della Chiesa romana, combattendo il Patriarca di Costantinopoli, il quale pretendeva d'assumere il titolo di patriarca ecumenico, che spettava solo al Papa, capo della Chiesa universale. E, come per contrasto, continuava sempre a portare il titolo già assunto di Servo dei Servi, sostenendo la lotta, senza mai piegare fino a che non ebbe ottenuto la vittoria.
Le sue lettere all'Imperatrice sono piene delle più nobili massime in favore degli oppressi, contro la corruzione amministrativa, contro gli eccessi degli agenti del fisco. «Piuttosto, egli le scriveva, che gravar di tasse i miseri a segno tale che per pagarle alcuni son costretti a vendere schiavi i propri figli, mandateci meno danaro per le spese d'Italia, ed asciugate invece le lacrime degli oppressi.» Indefessa, costante fu la sua opera per guadagnare al cattolicismo i Longobardi. Per convertire il loro re Agilulfo si valse della moglie di lui Teodolinda, che già era cattolica. Dell'arcivescovo Costanzo, che raccomandò ai Milanesi, si valse per combattere l'arianesimo nell'alta Italia. Molto fece per diffondere sempre più il cattolicismo tra i Franchi e nella Spagna; ma soprattutto si adoperò per convertire gli Anglo-Sassoni, presso i quali mandò una prima missione nel 596, una seconda nel 601. Rafforzò l'unità della Chiesa, sottomettendo a Roma i vescovi, sulla cui elezione vegliò severamente, per combattere la simonia e la scelta di uomini poco degni, pericolo che allora minacciava assai. A rafforzare la papale [287] autorità in Italia e fuori giovò molto anche il favore che egli dette al monachismo, sul quale il Papato aveva cominciato e continuò sempre più ad esercitare un'azione diretta, restringendo quella esercitata dai vescovi. Ma nello stesso tempo rafforzò il divieto d'accogliere nei monasteri chi ancora non aveva compiuti i diciotto anni, e chi aveva moglie, se questa non si dava anch'essa alla vita religiosa. In tutto si dimostrò un uomo superiore. Un giorno egli rimproverò il vescovo di Terracina, per avere a forza cacciati gli Ebrei dai luoghi in cui celebravano i loro riti religiosi, dicendo che coloro i quali dissentivano dalla vera fede, si dovevano richiamare alla dottrina di Gesù Cristo colla mansuetudine e la persuasione, non colla violenza.
Nell'anno stesso in cui fu eletto Gregorio I, si procedeva alla elezione del nuovo re dei Longobardi. Questi dissero a Teodolinda, di cui avevano giustamente un alto concetto, che si scegliesse un secondo marito, capace di governare, ed essi, fidando nel buon giudizio di lei, lo avrebbero senz'altro accettato per loro re. Teodolinda che aveva già cominciato a governare, e dato subito prova della sua accortezza politica cercando di stringere alleanza coi Franchi, tenuto ora consilium cum prudentibus, scelse Agilulfo duca di Torino, originario della Turingia, parente di Autari, bello, giovane, valoroso, prudente. Deliberata la scelta, si mosse francamente per andargli incontro verso Torino. E trovato che l'ebbe a Lumello, lo invitò a bevere nella stessa tazza, dopo di che, cum rubore subridens, si lasciò baciare in bocca, come per confermare la scelta che aveva fatta. Le nozze furono celebrate con generale letizia; e nel maggio del 591 Agilulfo assunse la potestà regia, solennemente acclamato dal popolo congregato a Milano.
La posizione in cui si trovava ora Agilulfo era assai [288] difficile. Da una parte minacciavano i Franchi, da un'altra i Bizantini. A Roma c'era un Papa avversissimo agli ariani ed agli stranieri, che aveva grandissima autorità sulle popolazioni italiane. Se questi tre nemici si fossero una volta messi veramente d'accordo, ai Longobardi non sarebbe rimasto da far altro che ripassare le Alpi. Ma fortunatamente per essi quest'accordo non esisteva e non era possibile. Il Papa era tutt'altro che contento dei Bizantini, dei quali scontentissime si mostravano le popolazioni. I Franchi, continuamente paralizzati dalle sanguinose discordie interne, quando queste cessavano, si ponevano, è vero, assai facilmente d'accordo coi Bizantini, per muover guerra ai Longobardi. Se non che, tanto essi quanto i Bizantini avrebbero voluto ciascuno l'Italia per sè; e così appena erano sul punto di abbattere i Longobardi, tornava subito la discordia fra di loro, e ognuno di essi cercava d'avvicinarsi al nemico, a danno dell'amico. Si formò così una specie di equilibrio instabile, in mezzo al quale Agilulfo poteva sperare di destreggiarsi a suo modo. A questi pericoli esterni si aggiungevano però anche gl'interni. Alcuni dei Duchi, scontenti per la speranza delusa di salire essi sul trono, minacciavano di ribellarsi. Altri non pochi, sopra tutto quelli assai potenti che erano ai confini, aspirando a sempre maggiore indipendenza, dimostravano di volersi anch'essi ribellare.
In mezzo a tutte queste gravi difficoltà, Agilulfo seppe dar prova di tale e tanta prudenza, da reggersi non solo, ma da riuscire anche ad essere, come fu giustamente affermato dal Ranke, il vero fondatore del regno longobardo. E prima di tutto, seguendo il savio concetto di Teodolinda, riuscì a concludere coi Franchi un accordo, del quale ignoriamo i termini precisi. Sappiamo però che, per lungo tempo, da questo lato vi fu pace. Ma il merito di un tale accordo non deve attribuirsi tutto [289] ad Agilulfo. Childeberto che aveva unito sotto di sè l'Austrasia e la Borgogna, lasciò morendo (596) due fanciulli, che si divisero fra loro le due parti del suo regno, dal quale la Neustria era adesso separata. Così tra i Franchi scoppiò di nuovo la guerra civile; ed il re dei Longobardi seppe trarne profitto, per concludere un accordo, che gli permise di darsi interamente a domare i Duchi ribelli, ed a mettere ordine nel Regno, per poter poi combattere vigorosamente i Bizantini.
Cominciò quindi col rivolgersi contro Mimulfo, duca dell'Isola di S. Giuliano, sul lago d'Orta, che fu da lui vinto ed ucciso. Andò poi contro Gaidulfo, duca assai potente di Bergamo, col quale, dopo averlo vinto, fece la pace; ma fu poi nuovamente assalito da lui, quando combatteva Ulfari duca di Treviso. Ciò non ostante, Agilulfo, vinto ed imprigionato Ulfari, si rivolse subito contro Gaidulfo, che s'era ritirato e fortificato nell'Isola comacina. Gli levò l'isola ed il tesoro ivi raccolto, lo inseguì a Bergamo, vincendolo di nuovo e facendolo prigioniero. Quando però tutti s'aspettavano di vederlo messo a morte, Agilulfo da vero uomo di Stato, dominando l'impeto delle sue passioni, gli fece grazia della vita. Sapendolo assai potente e di alto lignaggio, non voleva aumentar troppo il numero dei propri nemici. Rivolse poi il suo pensiero a Benevento, per far riconoscere anche in quel Ducato, già troppo indipendente, la regia autorità. Colà era morto il duca Zottone, ed Agilulfo invece di fargli succedere un parente come s'era fatto in passato, per arrivare, colla successione ereditaria, alla totale indipendenza di quel Ducato, vi mandò invece Arichi nobile longobardo del Friuli.
Il ducato di Spoleto aveva una estensione assai minore di quello di Benevento, ma gli dava grande importanza la sua posizione geografica. Posto sulla via [290] Flaminia, la quale va da Roma a Rimini, che per altra via è congiunta con Ravenna, esso trovavasi fra la Pentapoli e Roma, che di continuo minacciava. Papa Gregorio infatti si doleva ora amaramente all'Imperatore che l'esarca Romano, il quale pur era un uomo valoroso, lo lasciasse esposto ai nemici assalti, senza muovere un passo in sua difesa, tanto che doveva egli solo provvedere a tutto. Lo pregava perchè si movesse finalmente a difesa della causa Italiae. «Io non so più, egli diceva, se ora adempio l'ufficio di pastore o di principe temporale. Debbo provvedere alla difesa, a tutto; sono divenuto il pagatore dei soldati.» E veramente egli pensava a restaurare le mura, a dare ordini per la difesa; era l'anima della guerra in Roma e fuori; avvertiva i capi dei militi a stare di continuo attenti ai movimenti degli Spoletini. In qualche città inviava soldati, scrivendo che la difendessero sotto l'ordine del Magister militum (27 settembre 591). Con un'altra lettera, circa dello stesso tempo, indirizzata: Clero, ordini et plebi consistenti Nepae, mandava il clarissimum Leontium a difenderla. Nel giugno del 592 scriveva a due Maestri dei militi come a suoi dipendenti, dando loro ordini per la guerra. E nello stesso anno, alla città di Napoli che si trovava senza armi, ed era minacciata da Benevento d'accordo con Spoleto, il Papa mandava il «Magnifico tribuno» Costanzo, ordinando che gli si affidasse il comando dei soldati, perchè potesse dirigere la difesa. E intanto, senza aver dall'Esarca aiuto nè di uomini nè di danari, doveva difendersi da Ariulfo, che s'avanzava per assediare Roma. «I soldati regolari che qui sono, così egli scriveva al vescovo di Ravenna, non avendo più le paghe, hanno abbandonato la Città; gli altri a stento s'inducono a far la guardia alle mura. Ormai non resta che concludere la pace coi Longobardi. Questa è divenuta per Roma questione di vita o di morte.» Ed [291] assumendo sopra di sè ogni responsabilità, quasi fosse divenuto il capo legale, il rappresentante legittimo del Ducato romano, concluse con Ariulfo la pace.
L'Esarca fu di ciò irritatissimo, accusando il Papa d'avere compiuto un atto d'indebita sovranità, quasi fosse indipendente dall'Imperatore. Ormai, egli diceva, Ariulfo, sicuro alle spalle, poteva da un momento all'altro, unendosi con Agilulfo, procedere contro Ravenna. E nell'autunno del 592 s'avanzò verso l'Italia centrale, trovando a un tratto quelle forze che fino allora aveva sempre detto di non avere. S'impadronì di Perugia, di Todi, di Orte, di Sutri, che erano occupate dai Longobardi. Ed il Papa, di buona o di mala voglia, non ostante la pace fatta, dovette secondar questa guerra. Così il suo accordo coi Longobardi fu rotto; ed Agilulfo, nel maggio del 593, si mosse in persona contro Roma. Passato il Po, fece prigionieri alcuni Italiani, che mandò nella Gallia per venderli schiavi; altri arrivarono in Roma mutilati. Il Papa dovette allora solennemente annunziare al popolo, che interrompeva le sue predicazioni sopra Ezechielle, per occuparsi della guerra. «Nessuno ci potrà rimproverare, egli diceva, se cessiamo dal predicare in mezzo a tante tribolazioni, circondati come siamo dalle spade nemiche. Alcuni Italiani già tornarono fra noi colle mani mutilate; altri vennero fatti prigionieri, legati e venduti schiavi; altri uccisi!» Agilulfo intanto aveva già preso Perugia, ed ucciso il duca Maurizio che, dopo aver tenuto quella città pei Longobardi, la teneva ora pei Bizantini, ai quali l'aveva a tradimento ceduta. Pose poi l'assedio a Roma, e sebbene le notizie che abbiamo di questo fatto siano incertissime, sembra tuttavia che in parte la resistenza dei cittadini animati dal Papa; in parte la malaria che, a cagione della state, infieriva nella Campagna; in parte la ribellione dei Duchi non [292] ancora sedata nell'alta Italia, finissero coll'indurre Agilulfo a ritornare verso il Nord, dove l'un dopo l'altro sottomise i ribelli.
In mezzo a tutti questi eventi il Papa andava sempre più divenendo il personaggio principale in Italia, i cui interessi egli ora rappresentava, la cui storia sembrava concentrarsi intorno a lui, che sorgeva gigante in mezzo al secolo, dando al Papato inaspettata grandezza, iniziando un'epoca nuova, tenendo testa a tutti con straordinaria energia. Non poteva andare d'accordo coi Longobardi, stranieri, ariani, barbari, saccheggiatori, nemici del nome romano. Non poteva neppure andare d'accordo coi Bizantini, continui essendo con Costantinopoli i dissensi religiosi, continua essendo colà la pretesa di tenere la Chiesa sottomessa all'Impero. Il patriarca Giovanni era sempre ostinato nell'assumere il titolo di ecumenico; e l'Imperatore aveva, con nuovo editto, proibito a coloro che facevano parte dell'amministrazione, d'accettare uffici ecclesiastici o entrare nei conventi. Contro di ciò il Papa energicamente protestava. Oltre di che la continua velleità d'indipendenza manifestata dal clero di Ravenna, veniva favorita adesso dall'esarca Romano, «la cui condotta, scriveva Gregorio, era peggiore di quella dei Longobardi; tanto che sembrano più benigni i nemici che ci uccidono, dei rappresentanti della Repubblica, i quali dovrebbero difenderci, ed invece colla loro malizia e le loro rapine ci consumano lentamente.» Si valeva di tutti i mezzi per agire sull'Imperatore e sull'Esarca; mediante l'arcivescovo di Milano, agiva anche su Teodolinda. Ma in sostanza neppure a lui conveniva una vittoria o prevalenza decisiva dei Bizantini o dei Longobardi. Avrebbe voluto perciò un accordo, col quale venisse stabilito un equilibrio che lasciasse la Chiesa libera dagli uni e dagli altri.
Agilulfo, che si trovava anch'egli in mezzo a mille difficoltà, [293] pareva da parte sua disposto a stringere accordo col Papa; ma questi, dopo ciò che gli era successo per la pace conclusa con Ariulfo, non poteva arrischiarsi a provocare ora un'altra crisi. Si trovava quindi sempre più angustiato, e nelle sue lettere ripeteva che le continue tribolazioni non gli lasciavano neppur tempo di leggere o di scrivere. Tantis tribulationibus premor, ut mihi neque legere neque per epistolas multa loqui liceat. Ma quello che era peggio, non gli venivano risparmiate calunnie d'ogni sorta: lo accusarono presso l'Imperatore perfino d'avere ucciso un vescovo. Al che egli perdette addirittura la pazienza, e scrisse: «Se avessi voluto macchiarmi le mani nel sangue, a quest'ora la nazione longobarda non avrebbe nè re, nè duchi, nè conti, e sarebbe in estrema confusione. Ma io temo Iddio e rifuggo dal macchiarmi le mani del sangue di chicchessia.» L'Imperatore lo aveva accusato d'incapacità e fatuità nella sua condotta verso i Longobardi. «E come! esclamava il Papa indignato, in un'altra lettera del 5 giugno 595, si è rotta la pace da me conclusa con Ariulfo, ritirando i soldati e lasciandomi solo contro Agilulfo. Ho dovuto vedere i Romani presi, legati come cani, e mandati a vendere schiavi nella Francia! L'Imperatore non avrebbe dovuto giammai prestar fede alle parole dei miei nemici, ma guardar solo ai fatti.» E se ne appellava a Gesù Cristo. Intanto i Longobardi di Spoleto e di Benevento si allargavano sempre più nell'Italia meridionale, saccheggiando, conquistando; nè quelle popolazioni potevano trovare aiuto o incoraggiamento in altri che nel Papa, il quale così acquistava sempre maggiore importanza ed autorità, diveniva di fatto il capo legittimo delle popolazioni italiane, che per tale lo riconoscevano.
Nel 595 l'aspetto generale delle cose cominciava a mutare alquanto, perchè moriva il patriarca di Costantinopoli, [294] Giovanni, che era stato causa continua di dissidi, e ne succedeva un altro, Ciriaco, che era più accetto al Papa. Moriva non molto dopo l'esarca Romano, e gli succedeva Kallinicus (per corruzione detto Gallinicus), anche questi a lui molto più favorevole. Tutto ciò avrebbe agevolato non poco le trattative d'una pace generale coi Longobardi, se non si fosse trovato un ostacolo inaspettato nei duchi di Benevento e di Spoleto, i quali, volendo agir sempre per conto proprio, pretendevano di firmarla solo con speciali condizioni da essi imposte. Quindi nel 599 più che una vera pace, si concluse una tregua di soli due mesi. E, come papa Gregorio aveva già preveduto, dicendo: — si farà pace e non sarà pace; — così, quando non era anche scaduto il termine fissato, la tregua fu rotta senza poterla rinnovare. Nel 601 primo a cominciare le ostilità fu l'Esarca, cui rispose subito Agilulfo cercando d'incendiar Padova, che poi prese e distrusse. Egli fu in questa guerra secondato dagli Avari, ai quali mandò, ad faciendas naves, artefici italiani, probabilmente delle antiche scholae o associazioni di mestieri. A sempre più aumentare il disordine s'aggiunse, che da una parte gli Avari assalirono l'Impero e devastarono l'Istria, da un'altra i Longobardi di Spoleto ebbero più d'uno scontro cogl'imperiali di Ravenna.
Il mutamento più notevole e di generale importanza avvenne però a Costantinopoli, dove l'imperatore Maurizio era divenuto assai impopolare per la severa disciplina che voleva nell'esercito. Gli Avari gli avevano nel 600 proposto che riscattasse per danaro 12,000 prigionieri, i quali erano nelle loro mani; ma avendo egli decisamente ricusato, li uccisero, il che provocò un malumore grandissimo contro di lui. Qualche anno dopo, avendo egli dato ordine all'esercito di passare il Danubio e svernare al di là del fiume, lo scontento arrivò a tale che ne scoppiò [295] una rivoluzione, e fu proclamato imperatore Foca, il quale manifestò subito il suo carattere mostruosamente crudele. Nel novembre del 602 fece uccidere il suo predecessore, dopo averne fatto trucidare i figli sotto gli occhi stessi del padre. Siccome poi si doveva subito occupare della guerra persiana, così concluse la pace cogli Avari, richiamò l'Esarca, che aveva fatto scoppiare la guerra anche in Italia, vi rimandò Smeraldo, e pubblicò un decreto con cui riconosceva la supremazia del Papa. Questi allora gli scrisse una lettera nella quale, augurandogli ogni prosperità, diceva, «che gli angeli stessi del cielo avrebbero cantato un inno di lode al Signore,» per la nuova elezione. Un tale linguaggio restò sempre come una macchia indelebile nella vita del gran Papa. Ed in vero, per quanto Foca aiutasse il trionfo della Chiesa, che era lo scopo costante, unico, supremo, a cui Gregorio Magno tutto sacrificava, pure il congratularsi della elezione d'un tal mostro non era scusabile in nessun modo. Bisogna tuttavia osservare, che il linguaggio ufficiale di quei tempi, massime coll'Oriente, era assai ampolloso, e tutto si diceva con frasi altosonanti. Nè si può con certezza affermare, che quando il Papa scrisse quella lettera, avesse già avuto sicura e precisa notizia del sangue innocente con tanta crudeltà versato.
Agilulfo, come abbiamo notato, subiva l'azione che la ferrea volontà del Papa esercitava per mezzo della regina Teodolinda, cattolica e donna d'alti sensi, la quale lasciò gran nome di sè, e grandi opere pubbliche, sopra tutto a Monza. Una nuova prova dell'azione su di lui esercitata dal Papa si ebbe nella Pasqua del 603, quando Agilulfo fece battezzare cattolico il figlio Adaloaldo, nato verso la fine del 602. Alcuni sostengono che si convertisse anch'egli; ma certo è solamente che si dimostrò assai favorevole ai cattolici. Del resto siamo già al principio [296] della generale conversione dei Longobardi, la quale si dovette appunto all'opera di Gregorio, efficacemente aiutato da Teodolinda. Tutto questo non impediva però che Agilulfo continuasse le sue conquiste, e che il Papa politicamente gli si dimostrasse perciò sempre più avverso. Dopo aver preso Monselice, il re longobardo andò oltre verso Ravenna; e par certo che, in questa occasione, il Papa si occupasse d'indurre i Pisani ad aiutare l'Esarca. Abbiamo infatti una sua lettera, nella quale dice, che di questi non c'era da fidarsi punto, perchè avevano già pronti i loro dromoni (navi rapide) per metterli in mare, e servirsene solamente a proprio vantaggio. Si direbbe, che i Pisani fossero già ordinati in una qualche specie di municipale indipendenza, volendo e potendo deliberare da sè sulle guerre che loro conveniva fare o non fare. Comunque sia di ciò, Agilulfo, nuovamente favorito dagli Avari, assalì ed abbattè Cremona; prese Mantova di cui demolì le mura, e lo stesso fece di altre città, fino a che Smeraldo consentì ad una pace che doveva durare dal settembre del 603 all'aprile 605.
In questo mezzo erano per l'età cresciute di molto le malattie di Gregorio I; ma, per quanto può argomentarsi dalle sue lettere, era anche andata sino all'ultimo crescendo sempre la sua prodigiosa attività. Non cessava mai di raccomandare a tutti che si provvedesse alle sorti della misera Italia, adoperandosi costantemente per essa: e questo in mezzo a dolori, a infermità d'ogni sorta. L'anno 600 egli scriveva: «In undici mesi appena qualche volta la gotta mi ha lasciato levare di letto. La mia vita è divenuta tale che aspetto come un benefizio la morte.» Ed in un'altra: «Il dolore non è sempre uguale, ma non mi lascia mai; eppure non riesce ancora ad uccidermi!» Una delle ultime lettere fu scritta nel gennaio 604, poco prima di morire, per mandare abiti e [297] coperte ad un vescovo assai povero che pativa il freddo; e vivamente lo raccomandava alla pietà dei compagni. Poco dopo, l'undici marzo successivo, Gregorio moriva, ed era sepolto in S. Pietro.
In quello stesso anno Agilulfo, ad evitare le dispute che potevano nascere per la sua successione, fece a Milano proclamare erede il figlio Adaloaldo, che non aveva allora più di due anni. E ciò in presenza dei grandi e dell'ambasciatore di Teudiberto re dei Franchi, la cui figlia, in segno d'amicizia e di perpetua pace, veniva promessa sposa al giovanetto erede del trono longobardo. Nel 605 fu fatta pace coll'Esarca, rinnovata poi fino al 612. All'imperatore Foca era successo intanto Eraclio (610-41), che fu subito occupato nella guerra persiana. Anche all'esarca Smeraldo, che per la seconda volta teneva quell'ufficio, era successo, verso il 611, un altro esarca di nome Giovanni.
Pareva che dovesse esservi pace in Italia; ma appunto allora gli Avari, che erano stati in passato amici dei Longobardi, mossero una guerra violenta contro Gisulfo duca del Friuli; il quale, dopo viva resistenza, morì in battaglia con la più parte de' suoi, lasciando la vedova Romilda con otto figli. E questa, con essi, e cogli altri superstiti, la più parte dei quali eran donne, vecchi o fanciulli, si chiuse nella città di Foro Giulio (Cividale del Friuli). Quattro dei figli eran femmine, e quattro maschi, due soli dei quali, Tasone e Cacco adulti; gli altri due, fanciulli. Gli Avari assediarono la città sotto il comando del loro Cacàno. Narra la leggenda, che questi era così giovane e bello, che Romilda, appena l'ebbe visto, se ne invaghì per modo, che offerse di aprirgli le porte della città, se prometteva di sposarla. E così il Cacàno entrò, devastò, bruciò ogni cosa, e fece prigionieri gli abitanti, che divise fra i suoi seguaci. Quanto a Romilda, dopo che [298] l'ebbe sottomessa alle sue voglie, l'abbandonò agli ufficiali, per farla poi impalare, dicendo che questo era il solo matrimonio degno di una traditrice come lei. I primi tre figli maschi di Gisulfo montarono intanto a cavallo per salvarsi colla fuga. E perchè l'ultimo di essi, Grimoaldo, giovanetto, non cadesse in mano del nemico, volevano ucciderlo. Ma egli disse al fratello che già aveva sguainato la spada: — Non mi uccidere, chè io saprò ben reggermi in sella. — E salito a cavallo lo seguì. Se non che nella fuga, il giovanetto restò indietro e venne raggiunto da un Avaro, che lo prese. Questi però vedendolo così bello, giovane e biondo (i suoi capelli eran quasi bianchi), non osò ucciderlo, e lo menava seco tenendo le redini del cavallo. A un tratto il fanciullo inaspettatamente, cavò dal fodero la sua piccola spada, e con un vigoroso colpo sulla testa, distese a terra l'Avaro, raggiungendo al galoppo i fratelli. Le sorelle restarono prigioniere, e per salvare il loro onore, si posero in seno della carne cruda e corrotta, la quale mandava un tal fetore che gli Avari se ne allontanavano stomacati. La verità storica di un sì fantastico racconto può ridursi a questo, che gli Avari entrarono nell'Istria, devastarono il Friuli, uccisero il duca Gisulfo e presero Cividale; poi si ritirarono, assai probabilmente perchè Agilulfo si avanzava. Dei quattro figli maschi di Gisulfo, i due adulti, Tasone e Cacco, poterono assumere il governo, ma furono poi trucidati a tradimento; gli altri, che erano troppo giovani ancora, se ne andarono a Benevento, presso Arichi, che era del Friuli anch'egli, e loro parente. Arichi che li aveva già prima educati nel loro paese, li accolse adesso come figli a casa sua.
Ed ora Agilulfo, dopo venticinque anni di regno, moriva a Milano tra il 615 e 16, lasciando già, come vedemmo, proclamato erede il proprio figlio Adaloaldo, che [299] allora aveva dodici anni. Cominciò quindi di fatto a governare la madre Teodolinda, continuando a favorire con ardore il cattolicismo, e promovendo anche la cultura, in ispecie l'architettura dei Longobardi. S'apriva così la strada alla loro totale fusione coi Romani. Ricchi donativi essa fece alle chiese, e molte ne costruì, fra le quali viene ricordata la basilica di S. Giovanni a Monza, annessa al palazzo che Teodorico aveva costruito, e che ella ora restaurò ed ampliò. Fu in questo palazzo appunto che Teodolinda fece dipingere quelle pitture da cui Paolo Diacono potè darci la descrizione del vestire dei Longobardi. Nella basilica s'andò poi raccogliendo un vero tesoro, nel quale erano sopra tutto notevoli tre corone. Una di esse, tempestata di pietre preziose, con Cristo e gli apostoli scolpiti, aveva un'iscrizione, che la diceva offerta da Agilulfo Rex totius Italiae; il che fa credere che fosse di tempi posteriori, non sapendosi che egli abbia mai avuto un tal titolo. Questa corona venne da Napoleone I portata a Parigi, dove fu rubata e sparì. Un'altra, anch'essa di tempo posteriore, ha poca importanza. Celebre sopra tutte è invece quella che fu chiamata la corona di ferro, perchè dentro al cerchio d'oro, scolpito a frutta e fiori, con smalti e ventidue gioielli, specialmente perle e smeraldi, v'è un sottile cerchio di ferro, che dicesi formato da uno dei chiodi coi quali Gesù Cristo fu confitto sulla croce. Con essa vuolsi che fosse coronato Agilulfo; e certo furono più tardi, per molto tempo, coronati i re d'Italia.
Un fatto notevole, avvenuto in questo tempo, fu anche la protezione da Agilulfo e da Teodolinda accordata a S. Colombano, celebre nella storia della Chiesa e della cultura. Egli nacque verso il 543 nell'Irlanda, dove il Cristianesimo aveva suscitato un ardore, un entusiasmo indicibile, e la cultura cristiana era in quei conventi progredita [300] in modo veramente maraviglioso, diffondendosi di là nel resto d'Europa. Animato dall'ardente spirito di propaganda, S. Colombano andò in Francia, donde fu poco dopo cacciato, per avere aspramente biasimata la condotta di quei sovrani che, sebbene cattolici, erano crudelissimi. Lo lasciarono tuttavia tranquillo a Bregenz, sul lago di Costanza. Poco dopo egli andò più oltre verso il mezzogiorno, restando nella Svizzera qual suo rappresentante il discepolo S. Gallo, irlandese anch'egli, che dette il suo nome alla celebre abbazia ed al Cantone in cui si fermò. Venuto in Italia, verso il 613, fu cordialmente accolto da Agilulfo e da Teodolinda, sebbene continuasse a scrivere contro gli Ariani. Fondò il convento di Bobbio, famoso per molti codici ivi raccolti, che sono oggi sparsi nella Vaticana, nell'Ambrosiana, nella biblioteca di Torino, e rendono testimonianza del grande amore di lui e de' suoi seguaci per gli studi classici. La protezione da Agilulfo concessa a questo santo; l'aver lasciato convertire al cattolicismo i suoi due figli; l'aver concesso larghi donativi alle chiese, continui favori ai vescovi per lo innanzi perseguitati dai Longobardi, sembrerebbero avvalorare la opinione di Paolo Diacono, che anch'egli fosse divenuto cattolico. Pure è negli storici generalmente prevalso l'avviso contrario, che cioè questa sua condotta fosse dovuta piuttosto al poco ardore, quasi alla indifferenza religiosa dei Longobardi, all'azione efficacissima esercitata da Teodolinda sul marito, ed a quella che Gregorio I esercitò sempre su tutti.
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L'Italia andava adesso soggetta ad una doppia crisi. Erano scomparsi dalla scena due uomini grandi, quali Agilulfo e Gregorio I. La conversione già cominciata dei Longobardi aveva seminato fra di loro la discordia, e questa fece ben presto scoppiare una ribellione contro il giovane Adaloaldo, che era cattolico, e se ne dovette ora fuggire a Ravenna. Gli successe Ariovaldo il quale era invece ariano (625). Di lui, che pure regnò diversi anni, sappiamo assai poco; ed ignoriamo ancora che cosa pensasse o facesse in questo mezzo Teodolinda. Si direbbe che assistesse omai spettatrice impassibile a tutti i mutamenti che seguivano. Nel 628 cessò di vivere, ed Ariovaldo, che aveva sposato la figlia di lei, Gundeberga, morì verso il 636. Allora fu concessa alla sua vedova, come già a Teodolinda, facoltà di scegliersi un secondo marito, che sarebbe stato il nuovo re. Ed anche questa volta la scelta riuscì felice, essendo per essa salito sul trono Rotari, che fu il re legislatore dei Longobardi.
Intanto, per le difficili condizioni dell'Impero, occupato nella guerra persiana divenuta sempre più grossa e minacciosa, non solamente non si potevano mandare aiuti a Ravenna, ma si mutavano continuamente gli esarchi, per evitare che sorgesse in loro l'ambizione di rendersi indipendenti. Infatti a Smeraldo era successo quel Giovanni, che secondo alcuni era chiamato Lemigius Thrax (611-616), ed a questo un Euleterio (616-620), il [302] quale pensò di assumere in proprio nome il governo dell'Esarcato. Ma i soldati allora gli si ribellarono, lo uccisero e ne mandarono la testa a Costantinopoli, di dove fu spedito un altro esarca.
In questo mezzo grave assai era la crisi che traversava l'impero, ed essa naturalmente si ripercoteva sull'Italia. Il 5 ottobre 610 era morto l'imperatore Foca, al quale Smeraldo aveva eretto la celebre colonna nel Foro Romano, ed il cui regno crudele era stato turbato da continue cospirazioni. A lui succedeva Eraclio (610-41), un vero carattere orientale, che passava da una straordinaria attività ad una straordinaria indolenza. Infatti, salito che fu sul trono, pareva nei primi dieci anni che se ne stesse a guardare, senza impensierirsi del rapido avanzarsi dei Persiani, aiutati dagli Avari. Pure il pericolo era grande davvero, perchè i Persiani occuparono la Siria, entrarono in Damasco, poi nella Palestina, e s'impadronirono della stessa Gerusalemme coi luoghi santi (614 e 15), portando via perfino il legno della sacra croce. Dopo ciò s'avanzarono nell'Egitto, minacciando d'andare più oltre ancora. Dove queste gravi perdite si dovessero fermare, nessuno poteva prevederlo. Il nemico sembrava minacciare la stessa Costantinopoli, e neppure allora Eraclio si moveva: si sarebbe detto che era addirittura spaventato. Vi fu un momento (618) nel quale pareva che volesse trasportare la capitale a Cartagine, sperando potere di là meglio difendere l'Impero.
Fu questo invece il momento in cui tutto mutò a un tratto. Alla minaccia di perder la capitale, lo spirito pubblico, religioso e politico, si sollevò in Costantinopoli. E finalmente si ridestò dal suo letargo anche Eraclio, il quale si trovò alla testa d'una grossa guerra, combattuta a difesa non solo dell'Impero, ma anche della fede, per liberare Gerusalemme e le sacre reliquie dalle mani profanatrici [303] degli adoratori del fuoco. Egli parve divenuto allora un altro uomo. Fatta nel 620 una tregua cogli Avari per due anni, si apparecchiò febbrilmente alla guerra. Nel 622 si mosse coll'esercito, e quasi nuovo Belisario, in una serie di fortunate battaglie, nel 622-25, sconfisse ripetutamente i Persiani che dovettero ritirarsi presso il Mar Nero, dove svernarono. Cosroe loro principe si apparecchiò allora ad uno sforzo supremo; e fece alleanza coi Bulgari, cogli Slavi, cogli Avari. Questi ultimi, col loro Cacàno alla testa, mossero ad un formidabile assalto contro la stessa Costantinopoli, mentre contemporaneamente e con ugual vigore i Persiani movevano contro Eraclio. Ma a Costantinopoli il popolo, il clero, i soldati fecero una disperata difesa, che dovette esser vittoriosa davvero, perchè da questo momento non sentiamo più parlare degli Avari. Pare che Eraclio avesse deliberato di disfarsene affatto, dimostrandosi invece assai più favorevole agli Slavi. Certo è che d'ora in poi gli Avari cominciano quasi del tutto a scomparire dalla storia; gli Slavi, invece, ben più numerosi, s'avanzano, occupando prima la penisola balcanica, e dilatandosi poi anche in altri paesi verso l'Europa centrale. Eraclio continuò le sue vittorie fino a che Cosroe, umiliato per le ricevute sconfitte, fu nel 628 da una ribellione popolare deposto ed ucciso. Gli successe il figlio, che fece la pace coll'Impero, abbandonando tutte le conquiste fatte dal padre, restituendo i prigionieri ed il legno della sacra croce, che Eraclio, dopo d'essere entrato trionfante in Costantinopoli, riportò l'anno seguente a Gerusalemme, nella chiesa del Santo Sepolcro.
Di tutte le guerre sostenute nella lunga lotta contro i Persiani, questa di Eraclio fu certo la più vittoriosa, e pareva anche definitiva. Essa però mise sempre più in luce un lato assai debole dell'Impero d'Oriente, il quale [304] aveva uno spirito greco, seguiva una politica romana, ed era composto di province fra loro assai eterogenee. Il rapido avanzarsi dei Persiani sin dal principio della guerra, aveva fatto toccar con mano, quanta poca coesione vi fosse tra le varie province. Parecchie di esse non erano state assimilate all'Impero, da cui poterono perciò esser facilmente staccate. A riconquistarle era stata necessaria una grossa guerra, che aveva obbligato a lasciare indifese quelle che erano le parti più vitali o più assimilate, e che restarono esposte alle invasioni di altri barbari. Di ciò s'era già avuto un altro esempio a tempo di Giustiniano, il quale, per riprendere l'Africa, la Spagna e l'Italia, aveva trascurato la difesa della Tracia, della Macedonia, della Grecia, che vennero invase dai Bulgari, dagli Avari, sopra tutto dagli Slavi. Lo stesso fatto, ed in più larghe proporzioni, si era ripetuto a tempo di Eraclio. Gli Avari, è ben vero, erano scomparsi dalla scena, ma gli Slavi che fino a quel tempo avevano proceduto in loro compagnia, combattendo insieme, inondarono addirittura la penisola balcanica, avanzandosi nella Grecia, nella Dalmazia, nell'Istria, nella Carniola. Il destino di questi due popoli, gli Avari che erano finnici, e gli Slavi, indo-europei e numerosissimi, somiglia di molto al destino degli Unni e dei Germani. I primi, finnici anch'essi, cominciarono col combattere e vincere la potenza dei secondi, i quali, uniti poi ai Romani, li disfecero e li obbligarono a ritirarsi, dopo di che gli Unni scomparvero quasi del tutto. E così gli Avari, che erano sembrati dapprima prevalere sugli Slavi, furon poi da questi e dall'Impero distrutti o forse anche assorbiti ed assimilati: certo per lungo tempo non se ne sentì più parlare. Questi popoli finnici, turanici appariscon quasi tutti come un uragano, cui nulla può resistere. Ma se con grande facilità si avanzano, con grande difficoltà riescono ad organizzarsi stabilmente, e presto si decompongono per disciogliersi [305] e sparire colla stessa rapidità con la quale s'erano riuniti. Un'eccezione notevole sono però gli Ungari, detti poi Ungheresi, che vennero in Europa assai più tardi, e formano ancora oggi come un'isola compatta e forte in mezzo ai popoli ariani.
Certo è in ogni modo che tanto le imprese militari di Giustiniano, quanto quelle di Eraclio non ebbero effetto duraturo, perchè le province che essi riconquistarono finirono coll'essere definitivamente abbandonate. L'opera dei secoli VII e VIII mirò a riprendere e conservare almeno quelle più omogenee, che s'erano meglio assimilate. Il lavoro di disintegrazione, vittoriosamente combattuto da Eraclio, ricominciò prima che egli morisse. Ed il ripetersi di un tal fatto dimostrava che esso era tutt'altro che transitorio.
S'apparecchiava allora un grande avvenimento politico-religioso, che doveva turbare profondamente l'Oriente e l'Occidente. Maometto nel 628 cominciava dall'Arabia, colla predicazione e colle armi, a propagare la sua nuova dottrina. Essa era un monoteismo, che lasciava da parte tutte le sottili teorie e disputazioni filosofiche sulla Trinità, sulla doppia natura di Gesù Cristo, che egli riteneva suo predecessore. Queste dispute, che tanto infiammavano ed agitavano lo spirito dei Greci, non erano punto adatte alla intelligenza delle popolazioni in altre parti dell'Impero. La nuova religione non riconosceva inoltre distinzione di classi sociali, giacchè gli uomini, secondo Maometto, sono uguali «come i denti di un pettine;» prometteva nell'altro mondo un eterno paradiso, con tutti quanti i piaceri dei sensi, a coloro che per essa combattevano e morivano; ed inculcava un fatalismo che rendeva indifferenti ad ogni pericolo di morte. Certo è che l'esaltamento religioso degli Arabi e dei Saraceni (era questo il nome che i Bizantini davano a tutti coloro che professavano [306] la dottrina musulmana) divenne in breve tempo straordinario. Morto Maometto nel 632, le popolazioni arabe, di loro natura guerriere, educate nel deserto ad una vita perennemente militare, guidate dai Califfi che gli successero, andarono rapidamente di conquista in conquista ripigliando tutte quelle terre nelle quali s'erano poco prima avanzati i Persiani, respinti poi da Eraclio. Nel 635 fu presa Damasco, nel 636 Antiochia, nel 637 Gerusalemme, nel 638 la Mesopotamia, fra il 639 e 40 l'Egitto. L'imperatore Eraclio pareva ricaduto nella sua prima apatia, e dopo una debole, inefficace resistenza, morì nel 641, quando l'Impero aveva per sempre perduto le terre al di là del Tauro.
La conquista musulmana era stata preceduta ed apparecchiata dalla conversione religiosa, agevolata anch'essa dalla natura di quelle popolazioni. L'Egitto, la Mesopotamia, l'Armenia avevano sempre resistito alle dottrine del Concilio di Calcedonia sulla Trinità e sulla doppia natura di Gesù Cristo. Le abbiamo già viste inclinare costantemente al Monofisismo, che riconosceva in Gesù Cristo una sola natura, la divina, sostenendo che essa aveva assorbito l'umana. Quest'avversione ad ammettere la doppia natura di Gesù Cristo le rendeva ben disposte al monoteismo musulmano, pel quale le dispute sulla Trinità non avevano nessuna ragione di essere: si lasciavano quindi facilmente convertire alla nuova fede. E il dissidio religioso si mutava allora facilmente in conflitto politico, perchè quelli che divenivano musulmani, chiamavano in loro aiuto gli Arabi, per esser difesi contro l'Impero. Eraclio s'era avvisto in tempo del pericolo religioso, ed aveva cercato di mettervi riparo. Aiutato dal patriarca Sergio, si manifestò fautore della dottrina monotelita, che riconosce in Gesù Cristo una volontà sola, pure ammettendo la sua doppia natura. E con questa specie di compromesso, [307] che sperava di fare accettare a Roma, cercava di soddisfare le tendenze dei monofisiti, per evitare la loro separazione dall'Impero. Pare che papa Onorio fosse a ciò favorevole, avendo detto che l'insistere troppo sulla volontà unica o doppia era una disputa grammaticale ed oziosa. Ma lo spirito della Chiesa cattolica ripugnava sempre a queste transazioni, e più che mai a tollerare che le dispute religiose venissero decise dall'Imperatore: peggio ancora quando la decisione era ispirata da ragioni politiche. Nel 638 Eraclio, incoraggiato dall'attitudine del Papa, pubblicava l'Ecthesis o esposizione della fede, ordinando che non si disputasse più sulla doppia volontà di Gesù Cristo, essendo colla doppia natura ammissibile la volontà unica. Ma la opposizione che si sollevò allora in Italia fu tale, che lo stesso papa Onorio difficilmente si sarebbe potuto astenere dal condannare l'Ecthesis, se quando questo pervenne a Roma, egli non fosse già morto.
La discordia fra Roma e Costantinopoli s'era così di nuovo accesa, ed a farla crescere s'aggiungeva ora il fatto che l'esarca Isacco, venuto a Roma, portò via il tesoro del Laterano, sotto il pretesto d'averne bisogno per dare ai soldati le paghe, che da Costantinopoli non arrivavano. Eletto nel 640 il nuovo papa Severino, si cominciò col non volerlo confermare se prima non approvava l'Ecthesis; ma si dovette poi cedere e riconoscere l'elezione, sebbene egli avesse dichiarato di volere star fermo alla dottrina di Calcedonia. Pochi mesi dopo, nello stesso anno, gli successe Giovanni IV, che convocò subito un Concilio, il quale condannò la dottrina monotelita, senza nominar nè l'imperatore Eraclio, nè il patriarca Sergio, e molto meno papa Onorio, che la Chiesa naturalmente voleva lasciar da parte. La disputa monotelita continuò tuttavia ancora per un secolo, e così l'Ecthesis non era riuscito ad altro che ad aumentar la discordia, aggiungendo [308] ai molti che già v'erano un nuovo scisma, come era seguìto in passato con l'Enotikon.
Quando dunque nel 641 Eraclio moriva, potevasi dire che l'Impero, sempre più violentemente assalito dai Musulmani, sempre più diviso dalle dispute religiose, si trovava in un grandissimo disordine. Rotari quindi non aveva adesso nulla a temere da questo lato. Non mancavano però le discordie interne anche fra i Longobardi, i quali si trovavano in un periodo di transizione, per essersi già molti di loro convertiti al cattolicismo. Rotari, duca di Brescia, scelto a secondo marito da Gundeberga, cattolica e vedova di Arioaldo morto nel 636, era ariano, il che non poteva certo favorire la pace domestica. La divisione religiosa era tale e tanta che, secondo Paolo Diacono, non di rado in una stessa città si trovavano due vescovi, cattolico l'uno, ariano l'altro. Il nuovo re cominciò col fare uccidere parecchi nobili a lui avversi; trattò assai male la moglie cattolica, che tenne per cinque anni chiusa in carcere, nel suo palazzo di Pavia, non sappiamo se per dissensi religiosi o per altra ragione. Essa fu poi liberata per intercessione del re dei Franchi, Clodoveo II, e si dette sempre più a vita devota, facendo limosine, ricostruendo a Pavia la basilica di San Giovanni, nella quale fu poi sepolta.
Non ostante tutti questi turbamenti, Rotari sicuro dalla parte dell'Impero, che era sempre più minacciato ed assalito dai Musulmani, ne profittò per estendere il proprio dominio nella Lunigiana, avanzandosi nella Liguria sino al confine franco verso Marsiglia. E dopo di ciò si volse contro i Bizantini, prese Oderzo, e li battè sul Panaro in una battaglia campale, nella quale, secondo Paolo Diacono, l'esercito che essi avevano raccolto da Roma e da Ravenna, avrebbe perduto 8000 uomini.
In questo tempo (641) moriva il duca di Benevento [309] Arichi, il quale fu prode in guerra, ed aveva esteso il suo Stato nel Sannio, nella Campania, nelle Puglie, nella Lucania, nei Bruzi. Forse allora appunto anche Salerno venne annesso al suo territorio. E così il ducato di Benevento confinava a nord con lo Stato della Chiesa e col ducato di Spoleto, al sud s'estendeva in quasi tutta l'Italia meridionale, divenendo sempre più indipendente. Presso quel Duca s'erano, come vedemmo, rifugiati Rodoaldo e Grimoaldo, i due figli maggiori di Gisulfo suo parente, scampati alla strage fatta dagli Avari nel Friuli. Venendo ora a morte, Arichi raccomandò che si desse la successione ad uno di essi, piuttosto che al proprio figlio Aione, il quale pareva scemo di mente, in conseguenza, si diceva, d'una bevanda misteriosa datagli dall'Esarca. Tuttavia egli successe al padre, ma poco dopo morì (642), ucciso dagli Slavi, che dalla Dalmazia erano venuti a stabilirsi in Siponto. Allora solamente Rodoaldo, il quale li sconfisse e cacciò dal Ducato, potè impadronirsi del potere, che dopo cinque anni lasciò, morendo (647), al fratello Grimoaldo, che lo tenne fino al 662. Essi furono ambedue valorosi, ma dell'uno e dell'altro si sa assai poco. Ignorasi perfino se Rodoaldo si trovasse nel 643 alla grande assemblea di Pavia, dove venne sanzionato il celebre Editto di Rotari; come s'ignora se questo Editto fu allora messo in vigore anche nel ducato di Benevento.
L'Editto pubblicato nel 643, è certamente ciò che Rotari fece di più notevole in tutto quanto il suo regno durato fino al 652. Esso è un monumento storico di grande importanza, e costituisce un atto di vera e indipendente sovranità. Era la prima volta che un barbaro osasse legiferare in Italia, senza tener conto alcuno dell'Impero nè, consapevolmente almeno, della legge romana. Rotari, lo dice nel proemio, non fece altro che raccogliere in iscritto le consuetudini già prevalenti nel suo popolo, cercando di [310] compierle e migliorarle, levandone il superfluo. Tutto ciò «col consiglio e consenso dei Primati nostri Giudici, e di tutto il fedelissimo nostro esercito.» Giudici e Primati erano i Gasindi, i Duchi, i Gastaldi, che comandavano in guerra e giudicavano in pace: esercito, secondo l'uso barbarico, era il popolo stesso dei Longobardi in armi. L'usanza di consultare i Grandi ed il popolo nelle faccende di generale interesse, era antica presso tutti i popoli germanici, come sappiamo anche da Tacito. Ma questa usanza, per le condizioni affatto speciali di vita, e per l'organizzazione tutta militare dei Longobardi, aveva perduto il suo carattere primitivo, ed era divenuta affare più di forma che di sostanza. I Primati non deliberavano, davano solo un parere, un consiglio; il popolo si limitava ad approvare.
Fra le compilazioni di leggi barbariche, l'Editto di Rotari è certo una delle migliori. Ciò si deve al fatto, che gli altri barbari scrissero le loro leggi o consuetudini poco dopo entrati nell'Impero, ed i Longobardi assai più tardi. Sebbene poi questi non se ne avvedessero, è tuttavia per noi visibile nelle loro leggi l'azione indiretta del diritto romano, che apparisce non solo nella stessa lingua latina in cui sono scritte, ma anche in alcune frasi affatto giustinianee, in un ordinamento già fin dal principio alquanto sistematico, ed in alcune disposizioni che evidentemente non possono essere di origine germanica. L'Editto è diviso in trecento ottantotto capitoli, di cui gli ultimi dodici sembrano aggiunti più tardi.[35] Si comincia coi delitti contro [311] lo Stato e le persone; si prosegue col diritto ereditario, l'ordine della famiglia e della proprietà; di diritto pubblico v'è poco o nulla.
Si è molto disputato per sapere se questo Editto si applicava solo ai Longobardi o anche ai Romani. Generalmente le leggi barbariche avevano un carattere personale, erano cioè esclusivamente del popolo che le aveva scritte, e che le portava seco dovunque andava. Quelle dei Longobardi però, e non di essi solamente, avevano anche un carattere territoriale, perchè si applicavano a tutti i popoli venuti con loro in Italia. Prova ne sarebbe, secondo alcuni, il fatto che i Sassoni, i quali volevano vivere colle proprie leggi e le proprie istituzioni, dovettero andar via. Rotari dice nel suo Editto, che egli lo ha compilato per la giustizia, e per amore de' suoi sudditi, senza far tra di essi distinzione alcuna, il che farebbe credere all'applicazione della legge longobarda anche ai Romani: questione, come è noto, assai dibattuta. Certo è che più di una volta l'Editto accenna alla esistenza di altre legislazioni diverse dalla longobarda; e non pare credibile che, se la legge romana fosse stata veramente annullata del tutto, d'una cosa di così grande importanza non si facesse chiaramente menzione neppure una volta. Nè si può concepire come i Longobardi, anche volendo, avrebbero potuto distruggere un diritto, che aveva messo radici secolari, creando fra i vinti Italiani una quantità di relazioni giuridiche, molte delle quali erano ai loro vincitori sconosciute in modo, che per esse la loro legge non provvedeva e non poteva provvedere nulla addirittura. Non si capirebbe poi come, ammessa una volta l'assoluta distruzione del diritto romano nell'Italia longobarda, questo si ritrovasse più tardi in vigore, senza che del suo sparire e del suo riapparire si facesse nei documenti o nelle cronache cenno alcuno. La conclusione più probabile [312] cui bisogna, secondo noi, arrivare è che, sebbene la legge romana non venisse officialmente riconosciuta, pure in molte delle relazioni private che da antico correvano fra gl'Italiani, essa fosse lasciata vivere sotto forma per lo meno consuetudinaria.
Ed invero se dall'Editto di Rotari si può solamente indurre la persistenza del diritto romano,[36] questa apparisce manifesta come un fatto normale nella legislazione posteriore di re Liutprando. «Se un Longobardo, noi leggiamo in essa, dopo avere avuto figli, si fa chierico, questi continueranno a vivere sotto la legge stessa, sotto la quale viveva il padre prima di farsi chierico.» Ciò vuol dire non solamente che v'era un'altra legge, ma che ad essa era sottoposto anche il Longobardo che si faceva chierico. E quale poteva esser mai quest'altra legge se non la romana? Il diritto canonico, che pur vigeva certamente, non era forse pieno d'elementi di diritto romano, e non dovette perciò contribuire a favorirne quel rapido incremento, che apparisce infatti sempre più manifesto? La longobarda è una legislazione essenzialmente barbarica, sulla quale si scorge sin dal principio l'azione d'una civiltà superiore, esercitata per mezzo del diritto romano e del Cristianesimo. Lo stesso Rotari, che dice di raccogliere le consuetudini nazionali e migliorarle, dichiara assurdo l'uso barbarico del duello per risolvere questioni di diritto, e cerca diminuirlo, come cerca di aumentare le composizioni, per mettere un qualche freno alla vendetta (faida) barbarica. In alcuni casi egli condanna l'uccisione delle streghe, come contraria all'umanità ed ai principii del Cristianesimo. Liutprando dice addirittura, che egli crede poco al valore dei così detti giudizi di Dio. Certo [313] a misura che si è approfondito lo studio del diritto longobardo, più chiari sono in esso apparsi gli elementi nascosti di diritto romano. Risorge perciò sempre più la teoria sostenuta dal grande Savigny a favore della persistenza del diritto romano, vera di certo nella sua sostanza, sebbene egli l'abbia qualche volta esagerata. Anche l'esistenza in tutto il Medio Evo di scuole di grammatica e di diritto romano a Ravenna, a Roma ed altrove, apparisce sempre più dimostrata.
La legislazione longobarda è certo un prodotto sostanzialmente germanico, e manifesta costantemente questo suo carattere fondamentale, sebbene in alcuni punti apparisca alquanto alterato dalle condizioni speciali in cui essa venne formulata. È innanzi tutto la legislazione d'un popolo in armi, ma d'un popolo di agricoltori sparsi per la campagna, in case separate, con siepi che circondano i campi. Rotari dichiara fin dal principio d'essere mosso dall'interesse dei propri sudditi, «specialmente rispetto ai continui travagli dei poveri, ed alle esazioni inutili contro i deboli, che noi sappiamo aver patito violenza.» Un tale concetto si può in parte attribuire, come è stato sostenuto, al Cristianesimo; ma in parte si deve anche attribuire al fatto, che i barbari in generale rivolgevano la loro ostilità sopra tutto contro i latifondisti oppressori dei poveri; spogliavano, uccidevano i primi, e spesso favorivano i secondi, ai quali nulla potevano togliere. Certo furono verso i poveri meno oppressori dei Bizantini; nè si sa che nelle campagne o nelle città li opprimessero al pari dei ricchi.
La legislazione longobarda è inoltre, anzi è sopra tutto la legislazione barbarica d'un popolo armato e conquistatore; ed è di sua natura intrinsecamente, essenzialmente contraria allo spirito vero del diritto romano. Quello che vi domina non è il concetto giuridico dello Stato, ma il [314] concetto della forza. La famiglia, primo nucleo e fondamento di una società, in cui il governo è ancora assai debole, si trova fortemente costituita a propria difesa; ma non apparisce giuridicamente coordinata allo Stato, risultando invece unita dai primitivi vincoli del sangue. La donna, come debole, è sottoposta ad una perpetua tutela, che si chiama mundio, da cui non può mai liberarsi: non può mai essere selbmundia. La tutela a cui ella è sottoposta, secondo il diritto romano, è in gran parte determinata dall'interesse della famiglia, che si vuol tenere unita, e della quale non si vuole perciò dividere il patrimonio. Per questa ragione la tutela romana può in alcuni casi cessare. La donna longobarda passa dal mundio del padre a quello del marito, alla morte del quale va sotto il mundio dei parenti di lui, ed in alcuni casi anche dei propri fratelli o del proprio figlio; in ultimo, della Curtis regia: non essendo capace di portare le armi, ella dev'esser sempre sotto il mundio di qualcuno. I maschi la escludono quasi affatto dalla eredità, di cui, quando è nubile, ha solo una piccola parte. La famiglia longobarda non era come la romana una specie di monarchia assoluta, nella quale, massime sotto la Repubblica, il padre aveva un potere illimitato; però anche presso i Longobardi questo potere era grandissimo. La donna maritata trovava qualche protezione nell'autorità serbata ai suoi parenti; e l'autorità paterna sul figlio aveva dei limiti ignoti alla legge romana. Divenuto atto alle armi, esso poteva separarsi dalla propria famiglia, e costituirne un'altra. La legislazione barbarica in generale, come è noto, non conosceva il regime dotale; ma presso i Longobardi la donna possedeva quello che le veniva dal marito, il quale doveva liberarla dal mundio del padre o dei fratelli, pagandone il prezzo; darle la meta che si può dire una specie di dote, e il dono del [315] mattino, morgengab. Il padre le doveva solo il faderfium, che era un dono a suo beneplacito. Presso di essi la proprietà collettiva germanica era scomparsa quasi del tutto, essendone solo qua e là sopravvissuta qualche debole traccia. Osserviamo ancora che nei primi tempi non si trova il testamento, e quando, sotto l'azione del diritto romano, comincia ad apparire, esso è, come la donazione, di sua natura irrevocabile.
Il carattere germanico di questa legislazione, opposto a quello del diritto romano, apparisce più chiaro ancora nel diritto penale. La pena di morte, che era assai rara, si applicava, secondo l'Editto, innanzi tutto a chi attentava alla vita del re, che era tenuta sacra: «il cuore del re è in mano di Dio;» all'adultera, che poteva anche essere uccisa dal marito; alla donna che uccideva il proprio marito; allo schiavo che uccideva il padrone; a chi disertava al nemico, si ribellava contro il re o i duchi, eccitava i soldati alla ribellione. Quanto al resto, tutto il diritto penale longobardo era una serie di composizioni pecuniarie, graduate secondo le persone e secondo i reati. Ma questa pena era intesa a soddisfare la faida, o sia la vendetta privata, riconosciuta legale, ed affidata a tutta la famiglia; non era destinata, come presso i Romani, a ristabilire la giustizia, a vendicare la Repubblica. Qui era il contrasto fondamentale, che ai Romani doveva apparire una barbarie enorme, incomportabile. Il sistema della prova si fondava, oltrechè sul giuramento, sul duello, sul così detto giudizio di Dio, e sui sacramentali, che servivano a scemare i duelli. Il guidrigildo era la pena che si pagava per l'uccisione d'un uomo o d'una donna, ed andava dapprima alla famiglia dell'offeso, più tardi, parte ad essa, parte al Re.
Il vedere che nell'Editto di Rotari non si trova determinato nessun guidrigildo per il Romano ucciso, fece sostenere [316] che dai Longobardi non si desse alla sua vita valore alcuno, e che perciò fosse schiavo. Ma abbiamo già detto, che nessuno più crede alla schiavitù dei Romani, e quindi neppure che alla loro vita non si desse valore alcuno; nessuno più osa dal silenzio della legge dedurre così gravi conseguenze. È superfluo dunque fermarsi a combatterle.
Morto Rotari (652), gli successe il figlio Rodoaldo, che venne ben presto ucciso; ed a lui seguì il cognato Ariperto (653-61), figlio di quel Gundobaldo fratello di Teodolinda, venuto con lei di Baviera, e morto poi duca di Asti. Di Ariperto si sa poco o nulla; e subito dopo segue un periodo assai oscuro, alterato da molte leggende, dalle quali non riesce facile cavare un qualche costrutto storico.
Ariperto lasciò il regno diviso fra i suoi due figli Bertarido e Godeberto, divisione questa assai comune presso gli altri barbari, sopra tutto i Franchi; ma affatto insolita fra i Longobardi, il regno dei quali era già troppo diviso in Ducati. Nè meno singolare è il vedere che i due fratelli ebbero le loro rispettive capitali, il primogenito a Milano, il secondo a Pavia. Così non solo esse erano l'una vicina all'altra; ma il secondogenito risiedeva nella più importante delle due, Pavia essendo stata sempre la [317] capitale del regno. I due fratelli, com'era naturale in tali condizioni, furon subito in guerra fra di loro. E Godeberto mandò Garibaldo duca di Torino a Grimoaldo duca di Benevento, promettendogli in isposa la propria sorella, se veniva a Pavia per aiutarlo contro Bertarido. Grimoaldo allora, quello stesso che vedemmo scampato alla strage seguìta nel Friuli, uomo assai avventuroso, lasciato il governo di Benevento in mano del proprio figlio, si mosse subito con un piccolo esercito, che s'andò ingrossando per via. Arrivato a Pavia, secondo il racconto, che in parte almeno è leggendario, invece d'aiutare Godeberto, lo uccise inopinatamente, tanto che il figlio ebbe appena il tempo di mettersi in salvo. Bertarido, saputo quello che era seguìto, se ne fuggì anch'egli, ricoverando presso gli Avari in tal fretta, che lasciò indietro la moglie ed il figlio Cuniberto, i quali caddero ambedue nelle mani di Grimoaldo, che li mandò prigionieri a Benevento. Grimoaldo sposò poi la sorella di Godeberto, che gli era stata promessa per indurlo a venire in aiuto del fratello, da lui invece detronizzato ed ucciso. Il duca di Torino, che aveva secondato il tradimento, fu da un parente del tradito Godeberto ucciso; ma Grimoaldo venne confermato a Pavia re dei Longobardi (662). Questo fatto aveva grande importanza, perchè egli rimaneva anche duca di Benevento, dove suo figlio governava per lui; e fu la prima, anzi l'unica volta in cui quasi tutta Italia si trovò unita sotto un re longobardo, il che poteva, se fosse durato, avere gravissime conseguenze. Ma chi già se ne risentiva non poco era il Papa, il quale si trovò come stretto in un cerchio di ferro, circondato per ogni lato dai Longobardi. Ciò lo spinse ad avvicinarsi improvvisamente all'Imperatore, col quale era stato fino allora in assai aspro dissenso.
Noi abbiamo già accennato alla disputa monotelita, inasprita [318] dalla pubblicazione dell'Ecthesis, e dall'essersi nel 640 l'Esarca impadronito del tesoro lateranense. Seguì poi la pubblicazione del Tipo, nel quale l'imperatore Costante II (642-68) minacciava pene severissime a coloro che avessero continuato a disputare sulla doppia volontà di Gesù Cristo. Ma papa Martino I (649-53), che aveva un carattere assai energico, raccolse in Laterano un Concilio (649), nel quale intervennero 202 vescovi, che condannarono l'empiissima Ecthesis di Eraclio, e lo scelleratissimo Tipo di Costante. Era la prima volta che un Papa osasse condannare a questo modo editti imperiali; e però l'esarca Olimpio ebbe ordine d'impadronirsi colla forza della persona stessa di Martino I, e mandarlo a Costantinopoli. La leggenda narra che l'Esarca aveva dato ordine d'uccidere il Papa, mentre celebrava la messa; e che l'assassino il quale ne aveva assunto l'incarico accecò nel momento stesso in cui doveva compiere il delitto. Ma allora appunto il rapido avanzarsi dei Musulmani nel Caucaso, nella Siria, in Egitto, più oltre nell'Africa, e finalmente in Sicilia, costrinse Olimpio ad andar loro incontro nell'isola, donde, essendo essi in piccolo numero, si ritirarono. Ed in questo momento scoppiò di nuovo la lotta fra l'imperatore Costante ed il Papa, che il nuovo esarca Teodoro Calliopas, venuto a Roma con un esercito nel giugno del 653, doveva imprigionare. Arrivato che fu l'Esarca, lo trovò a letto, presso l'altare della Basilica lateranense. Il popolo voleva allora colla forza respingere la forza; Martino I però vi s'oppose, vietando che si venisse per lui a spargimento di sangue. Così si lasciò prendere e menare a Costantinopoli, dove sopportò la fame e la tortura; fu poi condotto con un anello al collo nella loggia dove si esponevano i malfattori, senza che con ciò si riuscisse a piegarlo. Finirono col mandarlo in Crimea, dove morì nel settembre [319] del 655, e fu dichiarato Santo dalla Chiesa. All'abate Massimo, che era stato ardente sostenitore delle due volontà, venne mozza la destra e strappata la lingua.
Or fu appunto, quando a questo Papa così iniquamente trattato successero prima Eugenio I (654-57) e poi Vitaliano I (657-72), che noi vediamo iniziato e concluso l'accordo politico coll'Imperatore, senza che questi avesse da Roma ottenuto nessuna concessione nella disputa religiosa. Ciò si dovette in parte al minaccioso e continuo avanzarsi dei Musulmani, i quali nel 655, in un luogo detto alle Colonne, presso il Monte Fenice, sulla costa della Licia, in una grande battaglia navale sconfissero e posero in fuga l'imperatore Costante. A questo fatto, che portò un vero spavento in tutta la Cristianità, s'aggiunsero la cresciuta potenza dei Longobardi, e i dissensi religiosi che agitavano l'Italia. In Aquileia s'era riaccesa la controversia dei tre Capitoli, sebbene i Papi avessero fatto ogni opera per sopirla. La Chiesa di Milano dava segni manifesti di volersi rendere indipendente a similitudine di quella di Ravenna, dove un tale desiderio era assai antico, e dove l'arcivescovo Mauro voleva ora assumere addirittura il titolo di Patriarca.
In conseguenza di tutto ciò, messo pel momento da parte ogni dissenso religioso, Papa e Imperatore si unirono. Nel 662 Costante partiva da Costantinopoli per venire con un esercito in Italia, dove nessuno sapeva indovinare con precisione che fine veramente egli avesse. Secondo alcuni voleva portar la sua sede in Sicilia, per farne centro dell'Impero, a meglio difenderlo contro i Musulmani; secondo altri veniva invece per frenare la potenza dei Longobardi. In questo caso il momento non sarebbe stato male scelto. Egli era infatti partito da Costantinopoli nell'anno in cui Grimoaldo fu proclamato re dei Longobardi; sbarcava a Taranto nel 663, ed ingrossato [320] per via l'esercito, andò subito verso Benevento, quando, per le discordie con violenza scoppiate nell'alta Italia, era assai difficile che Grimoaldo potesse mandare aiuti al figlio Romualdo. Il quale tuttavia, vedendo addensarsi sul suo capo la tempesta, mandò il proprio balio Sessualdo ad avvertire di tutto il padre in Pavia. Questi, senza metter tempo in mezzo, senza pensare al pericolo di lasciare un regno a mala pena conquistato con un colpo di mano e pieno perciò di scontento, si mosse subito in aiuto del figlio. Non lo sgomentarono le diserzioni seguite per via, nè la voce sparsa che egli non sarebbe potuto più tornare a Pavia. Sessualdo che lo aveva preceduto, tornando per avvertire il figlio del prossimo arrivo degli aiuti, fu fatto prigioniero da Costante, il quale lo condusse sotto le mura di Benevento, dove voleva colle minacce e con la violenza indurlo ad affermare a Romualdo, che il padre non sarebbe in nessun modo potuto venire a soccorrerlo. Ma Sessualdo invece, quando vide il giovane Duca alle mura, esclamò eroicamente: — Fatti animo, Grimoaldo è per giungere; questa notte sarà al fiume Sangro. — Dopo di che, prevedendo il suo inevitabile destino, gli raccomandò la moglie ed i figli. Infatti ben presto l'Imperatore gli fece troncar la testa, che fu con una macchina di guerra gettata dentro le mura di Benevento, dove Romualdo la baciò piangendo. Costante si ritirò, lasciando intorno a Benevento 20,000 uomini, che furon battuti dalle forze riunite di Romualdo e di Grimoaldo.
L'Imperatore andatosene allora a Roma (5 luglio 663), donde il Papa gli venne incontro a sei miglia dalle mura, visitò le chiese, lasciandovi donativi; ma portò via preziosi bronzi, fra cui anche il tetto del Panteon, che era dorato. Di là, per Napoli e le Calabrie, se ne tornò in Sicilia, dove per cinque anni, oppresse siffattamente il [321] paese, che nel 668 venne affogato in un bagno. Gli successe il figlio Costantino Pogonato (668-85).
Grimoaldo doveva pensare adesso a ristabilire l'ordine nel suo regno. Lasciato quindi il figlio al governo di Benevento, dette una sua figlia in isposa al conte di Capua, che lo aveva aiutato nella guerra contro l'Imperatore, e lo nominò duca di Spoleto. Tornato a Pavia, si diede a combattere coloro che lo avevano abbandonato o tradito. Quegli di cui più doveva temere era certo Bertarido, che rifugiatosi presso gli Avari, divenne subito il richiamo di tutti gli scontenti. Grimoaldo invano fece il tentativo d'indurre gli Avari a darglielo nelle mani. Allora Bertarido, fattosi animo, mandò il suo fido Unulfo a dirgli, che sarebbe venuto spontaneamente, sicuro della lealtà di lui; e Grimoaldo lo accolse amichevolmente nel suo proprio palazzo. Ma tale e tanto fu il numero di coloro che accorrevano a lui, che i sospetti crebbero ogni giorno, ed il Re decise finalmente di uccidere il suo ospite. Questi fattone consapevole, riuscì a fuggire coll'aiuto di Unulfo, a lui sempre fido compagno. Grimoaldo si diede allora a combattere Lupo, duca del Friuli, un altro di coloro che gli si erano ribellati durante la guerra; e gli mosse contro gli Avari, che lo sconfissero ed uccisero. Dopo aver fatto altre vendette, strinse amicizia coi Franchi nel 671, e poi morì. Forte, valoroso ed avventuroso, par che fosse anche tra i convertiti al cattolicismo. Nel 668 aggiunse alcuni nuovi capitoli all'Editto di Rotari. Fu certo fortunato nelle sue imprese guerresche; ma anche a lui mancò un concetto politico direttivo. Quando infatti l'imperatore Costante si era ritirato in Sicilia, egli avrebbe dovuto dedicarsi a compiere la conquista dell'Italia meridionale, ad impadronirsi di Napoli e di Roma, il che lo avrebbe reso più forte anche nell'Italia superiore; ma invece, tornatosene [322] subito nel settentrione, perdè il tempo in piccole vendette o guerre alla spicciolata. Così tutto ricadde nell'antico disordine; e morendo egli lasciò nuovamente l'Italia divisa. Il suo primogenito Romualdo ebbe il ducato di Benevento; il secondogenito Garibaldo governò sotto la reggenza della madre, che era sorella di Bertarido. Ma questi, che s'era rifugiato in Francia, accorse ora in Italia, dove fu subito riconosciuto re dei Longobardi; e di Garibaldo non si sentì più parlare. Bertarido che era anch'esso fervido cattolico, regnò diciassette anni, costruì molte chiese e conventi, favorì sempre più la generale conversione dei Longobardi, che procedette assai rapida, ma pel grande mutamento che portava, fu causa continua di disordini.
Il fatto più notevole che avvenne, fu la ribellione di Alachi duca di Trento, assai avverso al clero, che Bertarido invece favoriva con ardore. Ma questi, dopo averlo sottomesso, volle usargli clemenza, sebbene prevedesse che ciò sarebbe riuscito funesto alla sua famiglia. Infatti, morto che fu Bertarido nel 688, lasciando erede il figlio Cuniberto, Alachi insorse di nuovo e s'impadronì colla violenza del regno. Se non che il suo carattere violento e dispotico, la sua avversione al clero, la sua condotta sleale promossero una ribellione che richiamò Cuniberto, e così il regno si trovò diviso in due partiti, lacerato da due pretendenti, i quali finalmente s'affrontarono sull'Adda, dove Alachi venne sconfitto e rimase ucciso.
Durante questo tempo la società longobarda subiva una notevole trasformazione. Il progresso del cattolicismo promoveva la cultura, faceva a poco a poco un popolo solo dei vincitori e dei vinti, che sembravano risorgere a vita novella. E ciò si scorge nel linguaggio stesso adoperato da Paolo Diacono, quando descrive la lotta fra [323] Alachi e Cuniberto, dando allora per la prima volta importanza alle città della Penisola. Infatti egli dice che Alachi, passando per Piacenza e per la parte orientale del regno, cercò colla forza e colle blandizie di farsi amiche e socie le varie città, singulas civitates. Giunto poi a Vicenza i cittadini gli mossero guerra; ma dopo essere stati vinti, gli divennero anch'essi socii (V. 39). Queste ed altre espressioni finora insolite nella sua storia, farebbero credere che a lui apparisse già chiaro, come le città italiane cominciassero allora ad acquistar nuova importanza. Certo è in ogni modo che Cuniberto regnò fino al 700 in buonissimi termini col clero, e nella Corte di Pavia si videro allora per la prima volta fiorire i germi d'una nuova cultura.
Ma alla sua morte ricominciarono i disordini, perchè al figlio Liutberto, affidato alle cure del fido e valoroso Ansprando, si oppose il parente Ragimberto, che s'impadronì del trono e lo lasciò ben presto al figlio Ariberto II (701-12). Questi dovette però difendersi contro Ansprando, e lo vinse pienamente, costringendolo a cercare scampo in Baviera. Fece crudele vendetta contro la moglie e i figli di lui, ai quali tagliò le orecchie, cavò gli occhi, strappò la lingua. Lasciò tuttavia che presso il padre si ponesse in salvo solamente il giovanetto Liutprando, che per la tenera età egli credette innocuo; ma che invece era destinato ad essere il più illustre re dei Longobardi. Infatti, quando Ariberto pareva sicuro sul trono, e nonostante le molte sue crudeltà, era lodato e sostenuto dal clero pel suo zelo religioso, pei doni alle chiese, per la restituzione fatta al Papa o, come si diceva, a S. Pietro di alcune terre nelle Alpi Cozie, usurpate dai Longobardi, giunse invece il giorno della vendetta. Ansprando, che era riuscito in Baviera a mettere assieme un esercito, venne in Italia; ed Ariberto dopo debole resistenza [324] cedette, cercando di ricoverarsi in Francia. Corse perciò a Pavia, raccolse quanto oro potè, e si dette con esso a precipitosa fuga, tentando di ripassare a nuoto il Ticino, così carico come era; ma invece, pel peso che seco aveva, affogò. Ansprando allora salì sul trono, ed essendo morto poco dopo (18 giugno 712), lo lasciò al figlio Liutprando. Così ebbe fine questo lungo periodo di confusione e di disordine, quasi d'anarchia, cui fu in preda la società longobarda, durante la sua conversione al Cattolicismo.
Ma se grande fu in questo tempo il disordine nell'Italia longobarda, non minore era stato nell'Italia bizantina, a cagione soprattutto degli avvenimenti religiosi seguiti a Costantinopoli, e dei dissensi che in conseguenza di ciò sorsero fra il Papa e l'imperatore Giustiniano II (685-95 e 705-711). Questi tenne di suo arbitrio un Concilio (691), che dal luogo in cui s'adunò, una sala del palazzo imperiale, sotto una cupola (trullo), fu detto trullano o anche in trullo; altri lo chiamò quinisesto, perchè, ad evitare dispute con Roma, si pretendeva che non fosse un nuovo Concilio, ma solo un complemento del quinto e del sesto, essendosi occupato di sola disciplina e non di domma. Ma una tale convocazione era stata da parte dell'Imperatore un atto d'indipendenza religiosa, che il Papa non poteva certo tollerare. I nuovi canoni, se anche di sola disciplina, si allontanavano dalla disciplina di Roma; e perciò il nuovo Concilio fu dai cattolici chiamato erratico, e papa Sergio (687-701) non volle sottoscriverne [325] le deliberazioni. L'Imperatore fu di tutto ciò sdegnato per modo, che mandò il protospatario Zaccaria ad imprigionare il Papa. Ma le milizie di Ravenna e della Pentapoli corsero armate verso Roma a difenderlo; e l'esercito romano, che allora era già costituito, par che se ne stesse a guardare senza punto muoversi. I ribelli sopravvenuti furono perciò subito padroni della Città, ed il Protospatario, per salvare la propria vita, finì col nascondersi sotto il letto del Papa. Questi, fattogli coraggio, si presentò dal balcone al popolo, raccomandando la calma; ma la moltitudine non si mosse fino a che Zaccaria non fu ignominiosamente partito da Roma.
Tutto questo avveniva fra il 693 e 94, e Giustiniano II non ebbe modo di far di ciò le sue vendette, perchè era allora assai combattuto a Costantinopoli, dove non andò guari che una rivoluzione lo sbalzò per alcuni anni dal trono (696-705). Nè per questo cessava la lotta dei Bizantini con Roma. A papa Sergio era successo Giovanni VI (701-705), quando s'avanzò minaccioso il nuovo esarca Teofilatto; e, secondo la espressione del Libro pontificale, la Militia totius Italiae[37] corse tumultuosamente a Roma, dove il Papa a fatica potette sedarla. Ma allora appunto una rivoluzione seguìta a Costantinopoli, rimetteva da capo sul trono Giustiniano II, il quale, di natura sua sanguinario e crudele, voleva adesso vendicarsi de' suoi nemici, non solo in Oriente, ma anche in Italia. Qui era stato eletto nuovo papa Costantino (708-15); e poco dopo si vide arrivare a Ravenna una flotta comandata dal patrizio Teodoro, la quale venne accolta come amica. Ma ad un tratto i principali nobili ed ecclesiastici furono fatti prigionieri e condotti in catene sulle navi; dopo di che i Bizantini scesero a terra in buon numero, [326] e posero a sacco ed a fuoco la città, facendo sommaria ed aspra punizione dei ribelli. Parecchi dei prigionieri che erano, come dicemmo, fra i più autorevoli cittadini, vennero per ordine di Giustiniano II messi a morte. Ed è ricordato fra gli altri un tal Giovanniccio, assai noto per gli alti uffici che aveva tenuti, per la profonda conoscenza della lingua e letteratura greca e latina. L'arcivescovo Felice di Ravenna fu, secondo l'uso bizantino, abbacinato, e poi mandato esule in Crimea. Così l'Imperatore si vendicò contro i ribelli, che avevano osato umiliare i suoi rappresentanti in Roma. Ed il Papa, che non era punto amico dell'Arcivescovo, perchè questi, al pari di molti de' suoi predecessori, era stato ed era sempre pronto a sostenere la propria indipendenza da Roma, lasciò fare all'Imperatore senza alcuna protesta da parte sua. Anzi, chiamato a Costantinopoli (710), v'andò, e raggiunto Giustiniano nell'Asia Minore, par che fra di loro si mettessero d'accordo; dopo di che, festeggiato in Oriente ed in Occidente, tornò a Roma il 24 ottobre 711.
Ma l'agitazione non s'era in questo mezzo punto calmata in Italia, anzi ogni giorno cresceva. I fatti di Ravenna avevano prodotto una grande irritazione nelle città bizantine, soprattutto dell'Esarcato. Agnello Ravennate, dopo aver descritto i giuochi atletici, le lotte sanguinose e la fierezza de' suoi concittadini, narra che l'Imperatore assetato ancora di vendetta, mandò colà nuovo esarca Giovanni Rizocopo. Questi, arrivato a Roma quando il Papa era già partito per l'Oriente, fece prendere e decapitare alcuni dignitari della Chiesa, e ciò fu causa di un'altra violenta ribellione nell'Esarcato, in conseguenza della quale, appena arrivato colà, il nuovo Esarca v'incontrò la morte. Il popolo era corso alle armi, eleggendosi a proprio capo Giorgio, il figlio di quel Giovanniccio che vedemmo trucidato dai Bizantini. Egli divise la cittadinanza [327] in dodici bandi o compagnie armate, una delle quali era composta del clero e de' suoi dipendenti, divisione che un secolo dopo durava tuttavia a Ravenna. Giorgio arringò le popolazioni con un linguaggio, che fa pensare a Cola di Rienzo. E con Ravenna allora insorsero contro l'Impero le città di Sarsina, Cervia, Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, quasi tutto l'Esarcato.[38] Questo è il primo esempio d'una confederazione di città italiane, che appariscono a un tratto come già aventi una propria personalità. E vero che il solo a parlarne è Agnello Ravennate, scrittore ampolloso che visse un secolo dopo, il quale non dà nessun altro particolare d'un fatto così importante, del quale perfino l'anno rimane incerto fra il 710 ed il 711. Ma noi abbiamo già visto in Paolo Diacono accenni alla importanza che andavano allora assumendo le città italiane, e abbiamo visto anche de' segni precursori di questa ribellione, che ben presto si ripeterà sotto altra forma.
Giustiniano II non potè pensare a nuove vendette, perchè una seconda rivoluzione, seguita a Costantinopoli, privò della vita lui ed il figlio, proclamando imperatore Filippico (711-13), il quale pareva che volesse conciliarsi col Papa. Egli rimandò a Ravenna l'Arcivescovo che era stato crudelmente abbacinato, e che, appena tornato, fece ora atto di sottomissione a Roma; mandò anche la testa di Giustiniano II, che tutti corsero a vedere con feroce avidità. Ciò non ostante, ben presto scoppiò da capo più viva che mai la discordia col Papa, perchè il nuovo Imperatore, che era monatelita, volle radunare i vescovi monoteliti, che dichiararono nulle le decisioni del sesto Concilio; il che sollevò subito una tempesta in Roma, dove fu sdegnosamente respinta una tale deliberazione. In [328] S. Pietro e nelle altre chiese venne proibito il ritratto dell'Imperatore eretico, ed il suo nome non fu pronunziato nella messa; il popolo ne respinse gli editti, nè volle dar corso alle monete d'oro colla sua immagine. Il Libro pontificale, narrando questa nuova ribellione, menziona per la prima volta il Ducatus Romanae Urbis; ricorda anche il suo Dux, e la parte presa dal Populus Romanus nei tumulti. Nobili, esercito e popolo si trovarono ora uniti contro l'Imperatore, che voleva sostituire un nuovo Duca, di nome Pietro, a quello designato dal suo predecessore. Ne nacquero violenti tumulti, perchè una parte del popolo faceva a ciò aperta opposizione. Il disordine era durato quasi un anno, quando il Papa si pose di mezzo per calmarlo; e gli riuscì facilmente, perchè allora appunto giungeva la notizia che l'Imperatore eretico era stato deposto ed accecato. Gli era successo (713) Atanasio II, il quale, fatta dichiarazione della sua fede ortodossa, mandò a Ravenna l'esarca Scolastico; ed i Romani accettarono il duca Pietro, dopo che esso ebbe giurato di rinunziare a far vendetta de' suoi oppositori. In Oriente seguirono ancora alcuni anni di gran disordine, fino a che il 25 marzo 717 venne eletto imperatore Leone III l'iconoclasta, col quale incomincia addirittura un nuovo periodo storico.
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Sulla scena del mondo appariscono ora tre grandi personaggi: Liutprando, che sin dal 712 era salito sul trono dei Longobardi, e fu il loro più gran re; Gregorio II, che fu eletto papa nel 715, e non era punto indegno del glorioso nome che portava; Leone III proclamato imperatore nel 717, il quale col suo celebre editto contro le immagini (726) produsse una grandissima agitazione in tutto quanto l'Impero.
Liutprando, valoroso, forte, intelligente, conquistatore e legislatore, regnò anni 31; ma dovette cominciare collo sventare varie congiure ordite contro di lui, e porne a morte gli autori. Il suo lavoro legislativo dopo quello di Rotari fu il più importante, avendo egli, fra il 713 e 735, pubblicato 153 leggi, in quindici assemblee, d'accordo «coi Grandi, coi Giudici, con tutto il popolo», o come dice altrove, d'accordo «cogl'illustri Ottimati e con tutti i nobili longobardi.» In queste leggi visibile assai apparisce l'azione del diritto canonico e della Chiesa; e Liutprando stesso dichiara d'averle scritte per divina ispirazione e per avvicinarle sempre più alla legge di Dio, qualche volta scrive anche, quia Papa per epistolas nos adhortavit. Nella sua legislazione il carattere di primo re longobardo cattolico apparisce più volte assai manifesto, specialmente nei testamenti a vantaggio dell'anima, nel [330] matrimonio riconosciuto come sacra istituzione, nei privilegi accordati alla Chiesa, nell'invito a guardarsi dagli eretici. Visibile ancora si scorge l'azione del diritto romano in alcune disposizioni sul testamento e sui diritti successorii delle donne. Assai chiara apparisce ancora una grande avversione ai giudizi di Dio, ed una crescente premura a favore dei miseri contro la oppressione dei regi ufficiali. Tutto questo non riesce però mai ad alterare il carattere longobardo della legislazione, che rimane sempre sostanzialmente intatto.
L'imperatore Leone III, come abbiamo già detto, fu cagione d'una grande agitazione negli affari generali del mondo. Egli dovette lottar prima contro i Musulmani, che s'avanzarono nell'Africa, nella Spagna, nella Provenza, e minacciavano la stessa Costantinopoli. Dopo averli valorosamente combattuti per terra e per mare, riuscì non senza grave fatica e pericolo a respingerli. Dovette inoltre reprimere parecchie ribellioni, la più grave delle quali in Sicilia, dove si giunse addirittura a proclamare un nuovo Imperatore. Non era appena domata questa ribellione, che scoppiò la lotta per le immagini, la quale parve mettere subito l'Oriente e l'Occidente, ma specialmente l'Italia, in fiamme; e quest'agitazione venne anche più inasprita dal fatto che papa Gregorio II non era uomo da lasciarsi intimidire nè piegare. Egli s'era subito messo in attitudine di difesa contro i Longobardi, fortificando le mura di Roma. Liutprando però, che era fervente cattolico, si dimostrò verso di lui assai rispettoso; confermò la restituzione da Ariberto II già fatta delle terre usurpate alla Chiesa nelle Alpi Cozie. La ricostruzione avvenuta circa il 719 del Monastero di Montecassino, più di un secolo prima distrutto dai Longobardi, era un'altra prova del loro mutamento religioso.
La lotta per le immagini divampò con una singolare [331] rapidità, avendo essa trovato il terreno già apparecchiato. Per sfortuna la cronologia dei fatti allora seguiti è disperatamente intricata ed oscura. E di ciò gli scrittori ecclesiastici profittarono, per giustificare sempre ed in tutto la condotta del Papa, cercando di dar carattere religioso anche a quei suoi atti, che precedettero la lotta e movevano solo da interessi politici. Così la storia di questo periodo riesce ne' suoi particolari assai confusa. Sembra certo che non molto prima che fosse cominciata la lotta, Liutprando, profittando delle difficili condizioni dell'Impero, si fosse avanzato verso Ravenna, impadronendosi di Classe. Pure d'un avvenimento così importante non si trovano notate nè le cagioni, nè le conseguenze: resta perciò come isolato ed inesplicabile. Circa l'anno 717 o 718 il duca di Benevento, Romualdo II, s'era impadronito di Cuma città fortificata, che dominava l'unica comunicazione rimasta libera fra Napoli e Roma. Il Papa cercò d'allontanare il pericolo, dando aiuto di consiglio e di danaro a Giovanni I duca di Napoli, il quale infatti con un assalto improvviso ripigliava quella città, dopo avere ucciso 300 Longobardi, ed averne presi prigionieri 500. Oltre di ciò, prima che la lotta delle immagini cominciasse, troviamo pure che l'Imperatore ordinò all'Esarca d'imporre nuove tasse in Italia, senza esentarne i beni ecclesiastici, anzi impadronendosi, ove occorresse, dei tesori delle chiese. È possibile che ciò avvenisse in parte per avversione al Papa, ma senza dubbio anche pel bisogno che c'era di danaro a continuare la guerra contro i Musulmani. Certo è però che il Papa ritenne siffatta deliberazione come un'ingiuria da non sopportarsi, e ordinò ai suoi dipendenti di non pagare, dando un esempio assai contagioso, che provocava la rivolta.
L'Esarca ne fu quindi oltremodo indignato, ed ebbe così origine un'aspra lotta fra lui ed il Papa, contro la [332] vita del quale scoppiò in Roma una congiura, non si sa bene se promossa dall'Esarca, o da coloro che così operando speravano di renderselo amico. Si dice che anche il duca di Roma, Marino, la secondasse, e che parte non piccola v'avessero i nobili della Città e i dignitari stessi della Chiesa. La leggenda aggiunge che il Duca venne a un tratto miracolosamente colpito da paralisi, per il che si dovette ritirare da Roma, e la tenebrosa impresa andò a vuoto. Se non che allora appunto arrivava in Italia il nuovo esarca Paolo, ed i cospiratori ne presero animo; ma il popolo romano insorse, facendo man bassa su di essi. Il cartulario Giordanes ed il suddiacono Giovanni furono uccisi; un duca Basilio venne costretto a farsi monaco. L'esarca Paolo allora, più che mai irritato, mandò a Roma un esercito con ordine di deporre il Pontefice, e condurlo via. I Romani però corsero alle armi, ed aiutati anche dai Longobardi di Spoleto e di Benevento, occuparono il ponte sul fiume Anio, e respinsero i soldati dell'Esarca. Questi sono i fatti che, secondo alcuni scrittori, precedettero la lotta per le immagini, secondo altri invece non furono che episodi di essa. È molto probabile che fossero come i prodromi politici della lotta religiosa, cui apparecchiarono il terreno, rendendola anche più aspra. Certo è che una grandissima irritazione dovette produrre nell'animo dell'Imperatore il vedersi avversato dal Papa in Italia, nel momento in cui assai gravi pericoli in Oriente minacciavano lui e la Cristianità. Ed è anche la ragione per la quale gli scrittori ecclesiastici inclinano a far seguire tutti questi fatti più tardi, ed a presentarli come episodi della lotta religiosa, giustificando così pienamente la condotta del Papa.
Comunque sia, certo è che solo nel 726 Leone III pubblicò il suo celebre editto contro il culto delle immagini. La dottrina iconoclasta si connetteva strettamente colle [333] dispute monotelite e monofisite; era una conseguenza anch'essa di quello spirito orientale sempre in opposizione coll'Occidente, e veniva secondata da ragioni politiche. Il rapido avanzarsi dei Musulmani era apparecchiato e promosso dal largo diffondersi dell'Islamismo, il quale, lo abbiamo già detto, trovava favore in alcune popolazioni dell'Oriente ed in quelle dell'Africa settentrionale, perchè si presentava come uno schietto monoteismo senza dispute sulla Trinità, sulla doppia natura di Gesù Cristo, senza il culto dei santi. Col suo editto l'Imperatore, anche se non lo faceva a disegno, dava una qualche soddisfazione a queste tendenze dello spirito orientale, e non s'allontanava punto dal Cristianesimo.
Il culto delle immagini, grandemente favorito dalla natura delle popolazioni meridionali dell'Occidente, traeva la sua origine dal Paganesimo. L'esagerazione cui si giunse col venerare non solo le immagini visibili di Dio, di Gesù, della Vergine, dei santi, ma il segno della croce, le reliquie d'ogni sorta, era stata ben presto biasimata dai più autorevoli Padri della Chiesa. Ciò non ostante quel culto divenne parte integrante della religione cattolica, bisogno ardente delle popolazioni italiane. Il contrasto scoppiò quindi con una violenza simile a quella che si vide più tardi, ai tempi della Riforma. L'Imperatore ordinò che venissero tolte dalle chiese, o distrutte, le immagini, imponendo al Papa di riconoscere il suo editto sotto minaccia di deposizione. Ed il Papa, senza esitare, lo accettò invece come una dichiarazione di guerra, ordinando che l'editto imperiale fosse ritenuto nullo addirittura. La distruzione di alcune celebri immagini credute miracolose portò al colmo lo sdegno delle popolazioni. A Roma, a Ravenna, nella Pentapoli, nell'Istria esse corsero alle armi, eleggendosi propri duchi. Ben presto anche Venezia insorse a favore del Papa. A Ravenna [334] vi fu per un momento pericolo di guerra civile, essendovi un partito imperiale, che sembrava favorito dall'arcivescovo Giovanni, il quale cercava profittar del disordine per rendersi indipendente da Roma. Ma ben presto vinsero anche colà i fautori del Papa; l'Arcivescovo fu bandito, e l'esarca Paolo, dichiarato scomunicato, venne ucciso. A Roma il duca Pietro, che era sospettato d'accordo con Costantinopoli, fu accecato. Si parla anche di un duca Esilarato[39] nel Napoletano, il quale, essendosi opposto al Papa, sarebbe stato nella Campagna ucciso dai Romani insieme col figlio. Tutto questo seguì circa il 726 o 27, ed è un'altra prova dell'autonomia che andavano sempre più assumendo le città bizantine dell'Italia. A Roma, insieme col Ducato e col Duca, andava acquistando sempre maggiore importanza l'Exercitus Romanus, di cui erano capi i nobili, che incominciavano addirittura a governare la Città.
Come era assai naturale, Liutprando cercava profittare d'un tale stato di cose, per impadronirsi più che poteva dell'Italia; e già molte città dell'Emilia e della Pentapoli si arrendevano a lui senza resistenza. Prese anche Sutri, a trenta miglia da Roma; ma ben presto la restituì alla Chiesa, cui apparteneva, e con la quale non voleva mettersi ora in aperta lotta. Il Papa allora capiva bene, che l'aumento della potenza dei Longobardi era a lui più che ad altri pericolosa. Se infatti si fossero impadroniti di tutta Italia, egli sarebbe divenuto come un vescovo del loro Re, assai più vicino, e quindi più incomodo ed oppressivo dell'Imperatore. A tutto ciò s'aggiungeva che i Romani, sempre più desiderosi di assicurare la loro indipendenza, erano avversissimi ai Longobardi, dai quali la [335] vedevano minacciata. Essa in verità era pel Papa un vantaggio ed un pericolo nello stesso tempo, non convenendo a lui di trovarsi senza difesa in mezzo ad una popolazione armata ed assai spesso in ribellione. Tutto compreso, egli doveva quindi preferire che Longobardi ed Impero si tenessero in equilibrio fra loro, senza che nessuno dei due fosse interamente vincitore, perchè così avrebbe potuto più facilmente tenere a freno i Romani. Noi lo vediamo infatti adoperarsi ora a sedare la ribellione stessa che aveva provocata. E quando le popolazioni insorte volevano addirittura eleggere un nuovo Imperatore, egli vi si oppose con tutta la sua autorità, esortandole a rispettare il legittimo signore, che forse, egli diceva, avrebbe finito col tornare alla vera fede, senza che l'Italia rompesse i legami con l'Impero, sempre necessario alla salute del mondo.
Era questa una posizione equivoca ed intricata, che apparve tale anche più quando nel 727 giunse in Italia il nuovo esarca Eutichio. Il Papa, sebbene fosse in lotta coll'Imperatore, aveva certo compiuto verso di lui un atto amichevole, adoperandosi a sedar la ribellione; ma egli era nello stesso tempo in buoni termini con Liutprando, che gli aveva reso Sutri, e questa sua amicizia non poteva in nessun modo piacere ai Bizantini, dei quali Liutprando andava occupando le terre. E però l'Esarca non si astenne punto dall'avversare il Papa, contro il quale mandava anzi un suo inviato a cospirare, tanto che le popolazioni, essendosene accorte, volevano metterlo a morte. Ed anche ora il Papa dovette intervenire, per salvargli la vita. L'Esarca allora, mutato animo, s'avvicinò a Liutprando, secondandolo nel desiderio che aveva di sottomettere alla propria autorità i Duchi di Spoleto (Trasamundo II) e di Benevento (Farovaldo), i quali giurarono allora fedeltà al Re, cui dettero ostaggi. Poco dopo Esarca e Longobardi si trovavano [336] minacciosi sotto le mura di Roma. Ma Gregorio II, senza punto sgomentarsi, valendosi della sua grande autorità religiosa, uscito dalle mura, andò prima incontro al Re, che condusse in Città dinanzi all'altare di S. Pietro, dove esso, in segno d'ossequio, depose la corona, la spada ed il manto; e dopo di ciò il Papa fece accordo anche coll'Esarca. Erano però accordi passeggeri ed effimeri.
Il dì 11 febbraio 731 Gregorio II moriva, e gli succedeva Gregorio III (731-41), che pareva volesse avversare i Longobardi e favorire l'Imperatore; ma quando radunò il Concilio (731), che dichiarò esclusi dalla Chiesa i nemici delle immagini, la rottura con Costantinopoli fu da capo inevitabile, e la lotta s'andò sempre più inasprendo. L'Imperatore infatti aggravò le tasse in Italia, massime nella Calabria[40] e nella Sicilia, dove erano vasti possessi della Chiesa. E questo par che fosse anche il momento in cui le chiese di quelle province furono unite al patriarcato di Costantinopoli, separandole da Roma, il che fu causa che l'Italia meridionale rimanesse lungamente grecizzata.[41] Fu però l'ultimo colpo recato alla Chiesa di Roma dall'Impero, ormai occupato sempre più nella lotta contro i Musulmani, e lacerato dalle civili discordie. Intanto il Papa si trovava senza aiuto esposto alle minacce dei Longobardi.
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Era questo un periodo di grande trasformazione, di continua mutabilità e di crisi profonda così per l'Italia come pel Papato. Da una parte le minacce dei Longobardi lo spingevano verso l'Imperatore; da un'altra questi era lontano, occupato, impotente a dare aiuto; ed anche quando avesse potuto darlo, la disputa delle immagini avrebbe resa vana ogni speranza d'accordo. Tale fu la ragione per la quale i Papi, con quell'accortezza politica che loro non mancò mai, con uno sguardo veramente profetico, cominciarono fin d'ora a volgere la loro attenzione verso i Franchi. Già da un pezzo convertiti al Cattolicismo, e sempre più potenti, questi erano divenuti strenui difensori della Chiesa e della religione cattolica. Essi combattevano ora valorosamente contro i Musulmani, che dall'Africa, per la Spagna, erano penetrati minacciosi in Francia; e come vedremo, li ricacciarono al di là dei Pirenei. Nel volgere lo sguardo ai Franchi, già balenava nella mente dei Papi il concetto d'un nuovo ordinamento politico del mondo, tale che li liberasse dalla continua minaccia dei Longobardi, senza farli cadere in balìa dei Bizantini, che nel momento del pericolo li abbandonavano, per volerli poi opprimere quando il pericolo si dileguava. Intanto tutto era disordine e confusione, tutto continuamente mutava; non era quindi possibile seguire nessun disegno prestabilito e determinato: dominava il caso, bisognava perciò aspettare che venisse un momento opportuno.
Ravenna si trovava in mano dei Longobardi, senza che si possa saper con precisione come e quando ciò avvenisse. Troviamo alcune lettere di papa Gregorio III (che altri vorrebbe attribuire al suo predecessore), nelle quali verso il 734 egli scriveva al doge di Venezia Orso e ad Antonino patriarca di Grado, invitandoli ad andare coi Veneti e coll'esarca Eutichio (727-50), che s'era allora rifugiato presso [338] di loro, a ripigliare per l'Impero la capitale dell'Esarcato, levandola di mano ai Longobardi. Il Doge, accettato l'invito, mosse insieme coll'Esarca all'assalto, questi dalla parte di terra, quegli dal mare, sbarcando le sue genti. Ravenna fu presa; Ildeprando, nipote di Liutprando, fu fatto prigioniero; il duca Peredeo venne ucciso. Un tal fatto, per quanto sia ne' suoi particolari oscuro, ci dimostra che Venezia era ornai già costituita poco meno che a Stato indipendente; e ci fa anche vedere qual mutabile, vertiginosa politica seguissero allora i Longobardi, il Papa e l'Imperatore. Ognuno di essi voleva assicurarsi il predominio in Italia a danno degli altri, e quindi s'univa ora a questo ora a quello, mutando di continuo, per non render troppo potente nessuno dei due rivali. Quando i Longobardi minacciavano di prevalere, il Papa s'avvicinò all'Impero; ma la discordia con questo ricominciò subito, ed allora il Papa favorì da capo Liutprando, che ne profittò, come abbiamo già visto, per estendere la sua potenza in Italia, e sottomettere alla sua autorità Benevento e Spoleto. Il Papa che si sentiva allora come stretto in un cerchio di ferro, e vedeva i Romani minacciar di correre alle armi, mutò di nuovo la sua condotta, aiutando i due Duchi contro il Re. Le relazioni di Roma con Spoleto e Benevento hanno quindi una grande importanza; sono quelle che costituiscono, determinano ora il carattere predominante della politica italiana. Trasimondo di Spoleto, che poco prima s'era, come il duca di Benevento, sottomesso a Liutprando, lasciandogli ostaggi, si ribellò, e Liutprando lo assaliva, obbligandolo a fuggirsene in Roma. Avrebbe voluto che il Papa ed i Romani glielo dessero nelle mani; ma essi ricusaron di ciò fare, ed il Re decise d'avanzarsi subito oltre il confine, occupando quattro castelli del Ducato romano.
Fu questo il momento in cui Gregorio III scrisse la [339] prima lettera che ci sia pervenuta fra quelle dirette a Carlo Martello, colui che seppe davvero consolidare la dinastia franca dei Carolingi. Gli chiedeva aiuto contro i Longobardi, i quali avevano osato devastare perfino la chiesa di S. Pietro, che allora era fuori delle mura di Roma. Il momento era assai male scelto, perchè Carlo Martello si trovava allora occupato nella guerra contro gli Arabi, ed aveva chiesto l'aiuto di Liutprando, che si mosse subito verso il nord. Ma se Carlo non potè allora venire a difendere la Chiesa contro Liutprando, contribuì pure indirettamente a farlo allontanare da Roma. Il Papa ne profittava subito per aiutar Trasimondo a ripigliare il suo Stato; ed egli l'occupò con la promessa, che poi non mantenne, di riconquistare e restituire a lui le terre del Ducato romano indebitamente usurpate da Liutprando. Questi, quando fu giunto nell'Italia superiore, seppe che la guerra contro gli Arabi era in Francia finita, e si diresse allora verso Ravenna, saccheggiando le terre che erano proprietà della Chiesa. Traversata la Pentapoli, tornò di nuovo nello Spoletino, di dove, nonostante la valida resistenza delle popolazioni, penetrò nel Ducato romano (740), facendo man bassa sugli armenti, sulle terre, sulle masserizie appartenenti alla Chiesa.
Gregorio III scriveva allora un'altra lettera a Carlo Martello, chiedendogli che mandasse in Roma i suoi messi a vedere coi loro occhi quale era lo stato vero delle cose. Non abbandonasse, egli diceva, la Chiesa per l'amicizia dei nefandissimi Longobardi. I duchi di Spoleto e di Benevento meritavano di essere da lui favoriti contro Liutprando, il quale li perseguitava solo perchè amici del Papa. E concludeva ricordando la precedente lettera, mandata con una solenne ambasceria, che gli aveva portato le chiavi d'oro della tomba di S. Pietro. Queste erano una preziosa reliquia, perchè si poneva in esse la limatura [340] delle catene del Santo. Ma neppure adesso Carlo Martello si trovava in grado di poter soccorrere efficacemente il Papa, il quale era scontentissimo anche perchè Trasimondo non gli aveva mantenute le promesse fatte. Pareva perciò che volesse per disperazione avvicinarsi di nuovo a Liutprando, quando il 10 dicembre 741 cessò di vivere. Due mesi prima (22 ottobre) era morto Carlo Martello, lasciando la Francia divisa fra i due figli Carlomanno e Pipino. L'anno precedente (18 giugno) era morto l'imperatore Leone III. E così in breve tempo scomparivano dalla scena la più parte di coloro che l'avevano occupata. Restava ancora, ma per breve tempo, Liutprando.
Quando dopo soli quattro giorni di sede vacante venne eletto papa Zaccaria (741-52), greco e perciò amico dell'Impero, egli aveva poco da temere per parte dei Franchi o di Costantinopoli; doveva invece pensar seriamente ai Longobardi. La sua pronta consacrazione è assai notevole, perchè la brevità del tempo fu tale, che bisogna supporre che l'approvazione venisse dall'Esarca per mezzo del duca di Roma, o direttamente da questo. Sin dal 739 duca di Roma era Stefano, il quale portava anche il titolo di patrizio, cosa fino allora insolita. Si può quindi ritenere che, come altrove, così anche il Ducato romano s'andasse separando dall'Esarcato, e divenisse quasi indipendente, riconoscendo però sempre la suprema autorità dell'Imperatore. Certo Roma appariva ogni giorno più una città autonoma, ed il suo territorio, che formava il Ducato ed abbracciava su per giù tutto il cosiddetto Patrimonio di S. Pietro, partecipava della medesima indipendenza. Essa aveva, come vedemmo, un proprio esercito, comandato dal Duca, e sotto di lui dai nobili, che la governavano. Grande v'era però sempre la papale autorità; e tutto ciò dette nel Medio Evo una speciale fisonomia a questo [341] che divenne poi il Municipio romano. Venezia e Napoli s'andarono anch'esse, in un modo o l'altro, separando dall'Esarcato, il cui antico carattere perciò sempre più scompariva.
Il Papa non poteva adesso far altro che cercare d'avvicinarsi a Liutprando, per non averlo nemico, e tentar di riavere le terre usurpate, che infatti gli furono rese. Trasimondo allora, abbandonato a sè stesso, dovè prendere la tonsura e allontanarsi da Spoleto, dove Liutprando pose un suo nipote. Anche a Benevento pose come nuovo duca Gisulfo II (732), che aveva educato presso di sè a Pavia, ed era figlio di Romualdo II. Concluse poi una pace direttamente col duca di Roma, il che dimostra sempre più la importanza politica che questi andava prendendo. Liutprando si trovava ora direttamente o indirettamente padrone di una grandissima parte d'Italia, senza dover temere nè dell'Impero, nè dei Franchi, travagliati ambedue da interne dissensioni. Sarebbe stato quindi il momento opportuno per cercar di riunire la Penisola sotto il suo dominio, cacciandone affatto i Bizantini, annettendosi interamente i ducati di Benevento e di Spoleto, frenando il Papa, sopprimendo tutte le tendenze crescenti di autonomie locali. Ma neppur lui era un vero uomo di Stato, capace di prendere a guida costante della sua vita politica un grande concetto. Oltre di che si trovava già innanzi cogli anni e malato. Pareva ora che volesse occupare Ravenna, ma si lasciò dissuadere dal Papa, e nel gennaio del 744 cessò di vivere, lasciando erede suo nipote Ildeprando, che era assai mal veduto e dovette ben presto abbandonare il potere.
[342]
L'Esarcato come abbiamo già visto s'era andato rapidamente decomponendo; ormai non esisteva che di nome, era poco più che un Ducato come gli altri. Già Roma s'era costituita in una specie di repubblica col suo esercito, che più di una volta, senza esitare, aveva combattuto contro di esso, da cui anche l'Italia bizantina del sud s'andava staccando. I tumulti avvenuti a Ravenna e nella Pentapoli avevano naturalmente reso sempre più vivo il sentimento d'indipendenza. Prima e più di tutti s'era avviata per questa via Venezia, grandemente favorita dalla sua posizione geografica. Noi abbiamo già visto che fin dai tempi di Teodorico Cassiodoro scriveva, in nome del suo sovrano, ai Tribuni veneti; e dalla sua lettera apparisce che nelle isole della laguna s'era già formata una popolazione ardita e navigatrice, che viveva in uno stato di semi-indipendenza, con Tribuni nelle varie isole, le quali assai probabilmente erano fra loro già confederate. Certo Venezia era allora in qualche modo dipendente dai Goti; e quando Belisario e Narsete s'impadronirono dell'Italia, anch'essa venne naturalmente sotto il dominio bizantino, e vi sarebbe per lungo tempo restata, se non fossero più tardi sopravvenuti i Longobardi. A questi il possedimento di Venezia poteva essere di una grandissima utilità, e quindi, per impedire che cadesse nelle mani dei loro avversari, i Bizantini cercarono sempre di contentarla, lasciandole una qualche indipendenza. Nel 580 il patriarca d'Aquileja, stanco della dura oppressione esercitata colà dai Longobardi, se ne fuggì a Grado, il che dette ai Veneti anche un proprio capo ecclesiastico. I Longobardi [343] ne furono scontentissimi, e Liutprando chiese allora ed ottenne dal Papa, che il vescovo di Cividale venisse trasferito in Aquileja, mutandolo in Patriarca. Ma quando egli pretese, che da questo nuovo Patriarca dipendesse anche quello di Grado, i Veneti vi si opposero, ed il Papa li contentò; per il che i Longobardi dovettero accorgersi, che se erano stati soddisfatti nella forma, nulla avevano ottenuto quanto alla sostanza. Così Venezia restò politicamente ed ecclesiasticamente libera da essi, governata invece da Costantinopoli, per mezzo di Tribuni eletti dal popolo, e confermati dall'Imperatore. Questi Tribuni erano probabilmente dodici quante le isole, e si trovavano anche in altre città bizantine dell'Italia centrale e meridionale, come Napoli, Gaeta, Rimini, ed anche nella Pentapoli. Già la Prammatica sanzione voleva che i Judices delle province (Tribuni, Duces, Praesides) fossero eletti dai Vescovi e dai più ragguardevoli personaggi fra gli abitanti del territorio che dovevano amministrare. Essi venivano confermati in nome dell'Imperatore.
Coll'andar del tempo, le continue insurrezioni degli Slavi da una parte e dei Longobardi dall'altra fecero sentire il bisogno d'una maggiore unità di governo, per poter fare una più energica difesa; e si pensò quindi alla creazione di un Doge. Secondo le norme allora prevalenti, l'Esarca avrebbe dovuto invitare i vescovi ed i notabili a farne la elezione. Ma il cronista Dandolo ci narra invece che nel 697 s'adunò il popolo col patriarca di Grado, coi vescovi, i notabili, i tribuni, i quali elessero Paoluccio, uomo «egregio ed onorevole», o sia nobile. Questo Doge non pare che avesse allora il potere militare, che, secondo la Prammatica sanzione, doveva esser diviso dal civile, ed era rappresentato dal Magister Militum. Il Doge convocava il popolo, nominava i tribuni e giudici perchè rendessero giustizia al popolo ed al clero, escluse naturalmente [344] le cause ecclesiastiche, per le quali v'era un Foro speciale, da cui si appellava al Doge. Questi, secondo le consuetudini bizantine, convocava anche i Sinodi, invitandoli ad eleggere i vescovi, che da lui ricevevano l'investitura. Pare che la sua elezione venisse allora confermata dall'Imperatore, e che a tutti gli uffici fossero dal popolo eletti i nobili. Morto Paoluccio nel 717, gli successe Marcello, stato prima Maestro dei militi, che governò nove anni, dopo dei quali gli successe Orso. E fu sotto il costui dogato che Liutprando, profittando della lotta per le immagini, prese Ravenna, di dove l'esarca Eutichio fuggì a Venezia. Colà pervennero le lettere del Papa, che invitarono il doge Orso ed il patriarca Antonino a riprendere la capitale dell'Esarcato, per ristabilirvi l'Esarca, il che fu fatto; e dimostra l'autonomia e la forza che la città della laguna aveva sin d'allora già acquistata. Nel 737 il doge Orso venne ucciso in conseguenza d'una guerra civile scoppiata fra il partito nazionale, alla cui testa egli si trovava, ed il partito che voleva una maggiore dipendenza da Costantinopoli, e che ebbe un temporaneo sopravvento. Allora per cinque anni (737-41), invece del Doge a vita, fu eletto un Maestro dei militi, il quale durava solo un anno come i Tribuni. Ma verso la fine del 741 una nuova rivoluzione depose ed accecò il Maestro dei militi Giovanni, e ripristinò l'ufficio del Doge (742) nella persona di Diodato, figlio di Orso. Il quale, essendo avverso al partito imperiale, s'appoggiò invece ai Longobardi, e cadde quando questi furono sconfitti dai Franchi. La grande lotta tra i Franchi ed i Longobardi, che fu provocata dai Papi per assicurare la propria indipendenza, ed aprirsi la via al potere temporale, rese, come vedremo, inevitabile la caduta dei primi, favorì la potenza dei secondi, e più tardi anche l'autonomia municipale delle città.
[345]
Assai diversa da quella di Venezia è la storia del ducato di Napoli, dove il popolo, diviso probabilmente in Scholae come in altre città bizantine dell'Italia, era del pari governato dagli Optimates. L'antica Curia municipale v'era affatto decaduta, e nella Campania, cui la città di Napoli apparteneva, comandava un Giudice o capo della provincia, alla dipendenza del Prefetto, mandato dall'Imperatore in Italia. La Prammatica sanzione v'accrebbe assai il potere civile dei Vescovi, e sotto la loro sorveglianza veniva eletto il Giudice fra coloro che erano nati nel territorio. Dopo il 638, vediamo che invece del Giudice governava il Vescovo, accanto al quale si trovava un capo militare, Duca o Maestro dei militi. Dapprima erano due magistrati diversi, ma poi si fusero in uno, che governò quello che fu chiamato il ducato di Napoli. Il Duca era inviato dall'Imperatore a comandare l'esercito, o più veramente il popolo armato della città, ed aveva a sua dipendenza conti e tribuni, che erano a capo dei vari presidii del territorio. Così Napoli potè non senza gloria resistere ai Longobardi, a quelli soprattutto di Benevento e di Spoleto, salvando la propria indipendenza, che andò sempre crescendo.
Ai tempi di Gregorio I troviamo che la città non aveva nè un Duca nè un Maestro dei Militi, di che il Papa moveva lamento all'Imperatore, pregandolo che provvedesse. Ma quando vide che non si otteneva nulla, mandò egli un Tribuno, eccitando il popolo alla difesa; e ciò gli dette una grande autorità su tutto il Ducato, che restò per qualche tempo sotto la sorveglianza del Papa. Questi infatti s'occupò lungamente a frenare la corruzione dei Vescovi della città, a difendere i Decurioni e i cittadini dalle oppressioni fiscali degli agenti imperiali. Circa il 661, venuto l'imperatore Costante in Italia, dette nuova forma al Ducato, per formarvi un nucleo di più forte resistenza [346] contro i Longobardi. E d'allora in poi noi vediamo che Napoli resiste sempre più energicamente contro di essi, contro i Musulmani, e più tardi anche contro i Normanni, ai quali dovè finalmente soccombere. Il nuovo Duca, a cui si dette pure il nome di Console o Maestro dei militi, fu assai diverso dell'antico, col quale ebbe in comune poco più che il nome. Non sappiamo però con precisione quali fossero le sue vere attribuzioni. Eletto dal popolo di cui faceva parte, comandava l'esercito, ed in lui, con l'antico Duca e l'antico Maestro dei militi, s'era fuso anche l'antico Giudice, assumendo, al pari dell'Esarca, l'autorità civile e la militare. Non sappiamo neppure quali erano esattamente i confini geografici di questo Ducato, che da principio almeno dovette estendersi a quasi tutta l'antica Campania, e quindi contenere anche Amalfi e Gaeta, che più tardi se ne staccarono. Certo è che il ducato di Napoli formò parte integrante dell'Impero e dell'amministrazione imperiale. La sua lingua ufficiale era la greca, e sulle monete, da una parte v'era l'immagine dell'Imperatore col suo nome in greco, dall'altra il nome della città anch'esso in greco. Dopo la morte di Costante, gl'Imperatori cominciarono a trascurare l'Italia continentale, specialmente la meridionale, della quale non potevano occuparsi coloro che erano mandati a governare la Sicilia, perchè dovevano pensare a difender questa dai Musulmani, che di continuo l'assalivano. Il ducato di Napoli, abbandonato allora a sè stesso, dovè fare assegnamento sulle sole sue forze, e vivere combattendo, tanto che prese anche il nome di Milizia o Milizia dei Romani o anche Milizia dei Napoletani. Lentamente s'andò sempre più staccando dall'Impero, per arrivare a reggersi addirittura come uno Stato autonomo. E fino al 764 ebbe tredici Duchi, che restarono in ufficio durante periodi diversissimi di tempo, tanto da far credere che fossero eletti a vita.
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Molte e varie furono le vicende del Ducato. Dapprima, ai tempi di Gregorio I, l'abbiam visto sotto la preponderanza del Papa; più tardi lo vedemmo aggregato all'Impero, cui rimase unito anche durante la lotta per le immagini, non pigliando parte veruna alla ribellione di Ravenna e della Pentapoli; finalmente cominciò a staccarsi dall'Impero, da cui il duca Stefano II, eletto nel 755, lo separò affatto, rendendolo indipendente, avvicinandolo di nuovo a Roma. Allora la lingua ufficiale non fu più la greca, ma la latina; e nelle monete più comunemente in uso, all'immagine dell'Imperatore venne sostituita quella di S. Gennaro, che fu simbolo d'indipendenza. Il suo nome fu scritto in latino, e sul rovescio, al nome greco della città si sostituì quello del Duca, anch'esso in latino; sopra altre monete però, e sugli atti pubblici continuò a porsi il nome dell'Imperatore. Ma i duchi, oramai indipendenti, fanno la guerra e la pace, concludono trattati in proprio nome. In questo mezzo Stefano II s'era siffattamente avvicinato alla Chiesa, che, restato vedovo con figli, dopo che nel 766 era morto il vescovo di Napoli, venne egli nominato vescovo, ed ebbe a Roma la tonsura, continuando a governare insieme col figlio Gregorio II, che gli successe, e fu duca per 27 anni e sei mesi. Con lui il Ducato cominciò a divenire, in parte almeno, ereditario.
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Da un pezzo i Franchi s'avanzavano nella Gallia pigliando una posizione sempre più importante. La loro forza diverrà fra non molto preponderante in tutta l'Europa, ed essi conquisteranno anche l'Italia, iniziando addirittura un'epoca nuova. È quindi necessario gettare un rapido sguardo alla loro storia. I Franchi erano una riunione di molte e diverse tribù germaniche, che abitavano la sponda destra del Reno. Dapprima cominciarono a filtrare lentamente nell'Impero: se ne trovavano nell'esercito, negli agricoltori, fra gli schiavi. Quando Stilicone, per poter combattere Alarico, richiamò in Italia le legioni, che erano a guardia del Reno, i Franchi, al pari di altre popolazioni germaniche, passarono il fiume in grandi masse (406). Non fecero però, come i Goti, i Vandali ed i Longobardi, una rapida emigrazione, trasferendosi d'una regione in un'altra, lungi dal proprio paese. S'avanzarono invece lentamente, conquistando a poco a poco la Gallia, senza mai staccarsi affatto dalla Germania, dalla quale riceverono sempre alimento ed aiuto di nuove genti. Serbarono quindi, dentro l'Impero, più a lungo i loro costumi e le loro istituzioni, come ad esempio la proprietà collettiva. [349] E i Romani, coi quali si trovarono a contatto, fecero altrettanto colle loro leggi ed istituzioni. Nella Gallia infatti, più che altrove, vediamo persistere la Curia municipale. La fusione dei due popoli fu assai meno rapida, ma anche meno violenta e più organica. Non pare che i Franchi pigliassero, come gli altri barbari, un terzo o più delle terre dei vinti. Grandi proprietari romani si trovano accanto a grandi proprietari franchi; ed i Romani sono ammessi agli uffici, non sono esclusi neppure dall'esercito. Unica differenza notevole, che sin dal principio si notasse fra di loro, era nel guidrigildo, quello che si pagava per la uccisione d'un Franco, essendo doppio di quello pagato perla uccisione d'un Romano.
L'essere, come dicemmo, i Franchi una federazione di varie tribù, portò per conseguenza che ben presto si trovarono, con consuetudini e costumi diversi, divisi in Salici e Ripuari, i quali si suddivisero formando vari regni, che di continuo combatterono aspramente fra di loro, ritardando il progresso nazionale. Ogni volta che sorgeva fra di essi un principe di genio politico e militare, venivano riuniti in un regno solo, per dividersi di nuovo alla sua morte. E così continuò per più secoli la loro storia fino a che Carlo Magno riuscì per breve tempo a sottoporre quasi tutta l'Europa al suo scettro.
Il primo che seppe riunire i Franchi fu Clodoveo, col quale s'iniziò la dinastia dei Merovingi. Capo d'una tribù salica, egli successe al padre nel 481; riuscì, mediante il suo ingegno ed il suo valore, ad unire Salici e Ripuari, e fu ritenuto come il fondatore della monarchia. Ma pur troppo fu anche un uomo senza scrupoli, che per ottenere il suo intento, si coprì d'ogni più crudele delitto contro alleati e contro parenti, ricorrendo al tradimento ed al sangue, per mezzo di sicari o colle stesse sue mani. La lunga serie di crudeli delitti, attribuiti a lui ed ai suoi successori, [350] fu tale da far credere che siano stati molto esagerati dalla leggenda; ma per quanto se ne levi, resta pur sempre tanto da doverne raccapricciare. Questi delitti uniti a grandi dissolutezze contribuirono finalmente ad indebolire la dinastia per modo da renderne inevitabile la caduta. Tra i fatti che nella vita di Clodoveo più agevolarono la costituzione della monarchia, furono le guerre contro gli Alamanni, e la sua conversione al cattolicismo, invece che all'arianesimo, come avevano fatto gli altri barbari. La guerra alamanna ebbe una grande importanza storica, perchè con essa cominciò quella reazione dell'Occidente contro l'Oriente, che fu continuata dopo di lui, e pose fine alle grandi migrazioni dei popoli germanici. La conversione al cattolicismo, della quale durante la stessa guerra egli aveva fatto voto a Dio, se gli concedeva la vittoria, iniziò la conversione del suo popolo. E la monarchia ne ebbe subito il favore della Chiesa romana, che, per mezzo de' suoi vescovi, era organizzata ben più fortemente dell'ariana. I Franchi così divennero il popolo eletto da Dio a difesa del Papa e della religione, il che agevolò anche la loro fusione coi Romani. Ed è singolare davvero il notare come sin d'ora apparisca chiaro nella mente degli uomini il futuro destino di questo popolo. Gregorio di Tours che scrisse poco dopo, nel narrare i continui delitti del Re, ripete spesso: ogni giorno Iddio faceva cadere un nuovo nemico di Clodoveo, ingrandendone il regno, perchè egli «camminava diritto nelle vie del Signore, e faceva ciò che gli era grato.» Altrove lo chiama addirittura un novello Costantino. E così altri scrittori più o meno vicini parlano in modo da far chiaramente capire, che in questo nuovo Costantino essi già prevedono Carlo Magno. Maravigliosa addirittura è la persistenza con la quale i Papi continuarono attraverso i secoli l'opera loro, quasi imponendo ai Franchi la missione voluta, preveduta dalla [351] Chiesa; e non smisero mai fino a che essa non ebbe il suo adempimento con la coronazione di Carlo Magno e la fondazione del potere temporale. L'imperatore Atanasio intanto conferiva a Clodoveo le insegne del Patriziato ed il Consolato, che egli assunse a Tours, nella chiesa di San Martino, dove i vescovi lo salutarono uomo di Dio, nuovo Costantino. La capitale fu fissata a Parigi.
Alla sua morte (511) il regno restò diviso fra i quattro figli, e cominciò quel periodo di corruzione e lussuria, di guerre civili, di sanguinosi tradimenti e delitti, che lo fecero paragonare al regno degli Atridi. Nel 558 Clotario I, l'ultimo sopravvissuto dei figli di Clodoveo, riunì di nuovo i Franchi, e dopo la Sua morte la monarchia si divise nuovamente fra i suoi quattro figli: e così si continuò per lungo tempo. Molto si è discusso sulla vera natura di queste divisioni, che gettarono il paese in una serie continua di guerre civili. Sostengono alcuni storici francesi, che si divise la royauté plutôt que le royaume. Ma il vero è che i Franchi non formavano ancora un sol popolo, che mancava affatto il concetto di nazionalità e di Stato, che la Francia non esisteva. Secondo le idee barbariche il loro regno, che solo dalla violenza e dalla conquista era unito, appariva quale proprietà del conquistatore, e quindi per legge di eredità veniva diviso tra i suoi figli. Anche i servizi pubblici erano più che altro resi alla persona del re. Mancava l'idea di un'amministrazione accentrata ed organica; il diritto pubblico assai poco si distingueva dal privato. E per quanto disgregata fosse ancora questa società barbarica, il contatto continuo che essa ebbe con la romana, l'azione della Chiesa, l'unità geografica del paese fecero sì che i Franchi tendessero lentamente, ma pur costantemente a coordinarsi in unità. I quattro regni (Austrasia, Neustria, Aquitania, Burgundia), sorti e risorti dopo la morte di Clodoveo I, si ridussero nel secolo VII [352] sostanzialmente ai soli due primi. Nella Neustria, formata dalla Gallia occidentale e meridionale, erano i Salici, ed in essi avevano acquistato maggior forza gli elementi romani; nell'Austrasia erano i Ripuari, ed in essi avevano invece maggiore prevalenza gli elementi germanici, favoriti dal contatto e dalle relazioni continue colla patria antica.
Dapprima il predominio spettò alla Neustria ed ai Salici, ai quali appartenne Clodoveo, il fondatore della monarchia e della dinastia merovingia. Alla Neustria appartennero ancora i primi quattro re, che in tempi diversi unirono di nuovo la monarchia, l'ultimo dei quali fu Clodoveo II (638-56). Il centro di ciascuno di questi governi soleva essere allora il Palazzo, in cui primo ufficiale era il Maestro o Maggiordomo. Il suo ufficio si riduceva dapprima ad amministrare la proprietà regia; ma coll'andare del tempo il suo potere andò crescendo sempre più, sino a che egli divenne ministro delle finanze, poi primo ministro, e finalmente addirittura capo del governo. A poco a poco, dopo che i quattro regni si erano ridotti a due, la Neustria cioè e l'Austrasia, il centro di gravità passò dalla prima alla seconda. I Ripuari prevalsero sui Salici, e naturalmente gli elementi germanici sui romani. Andò allora crescendo il numero delle adunanze o assemblee popolari, crebbe il potere di quei nobili germanici, che formarono più tardi l'aristocrazia feudale. Ed essi s'andarono nell'Austrasia stringendo sempre più intorno al Maestro di Palazzo: qualche volta lo elessero e riconobbero come loro capo. Così a poco a poco egli fu più potente dei Re merovingi, che rapidamente decaddero, divenendo tanto deboli e spregevoli, da essere chiamati rois fainéants: da ultimo dovettero cedere il posto ai loro rivali. Alla dinastia merovingia successe allora quella assai più potente, più intelligente ed anche più morale dei Carolingi.
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Dopo la morte di Clodoveo II (656) i Maestri di Palazzo erano divenuti nell'Austrasia così potenti, che pareva tendessero a formare colà un Ducato separato ed autonomo. Ma i legami sempre stretti fra Salici e Ripuari, e l'unità territoriale del paese spingevano invece inevitabilmente alla formazione di un solo regno con la prevalenza dei Ripuari. E questo nuovo regno fu iniziato per opera di Pipino, detto d'Héristal dal suo castello. Egli era Maestro di Palazzo nell'Austrasia, dove assunse anche titolo di Duca, e finì coll'esser di fatto padrone di tutto il Regno. Alla sua morte (16 dicembre 714) seguì un periodo di disordine e di lotte fra i suoi eredi, dalle quali uscì finalmente vittorioso Carlo Martello suo figlio naturale, che sebbene non arrivasse ad essere altro che Duca nell'Austrasia e Maestro di Palazzo nella Neustria, pareva invece che fosse successo al padre come un principe ereditario di tutto il regno. Uomo d'alto ingegno politico e di grande valor militare, riuscì a fondare stabilmente la sua dinastia.
Con una serie di guerre vittoriose contro i Sassoni, i Frisi, i Bavari e gli Alamanni (718-30), pose termine alle invasioni germaniche; e quando si fu assicurato da quel lato, si rivolse contro gli Arabi, i quali, essendosi coi Musulmani d'Africa avanzati nella Spagna, avevano già passato i Pirenei. Nel 732 dette loro a Poitiers una rotta, che fu davvero memorabile, non solo pel gran numero dei morti, i quali la leggenda fece ascendere a 375,000; ma anche perchè venne con essa fiaccata in Francia la minacciosa potenza dei Musulmani, che furono poco dopo respinti al di là dei Pirenei. Nel 737 Carlo Martello occupò anche la Provenza, e così riuscì ad esser padrone di tutta la Francia, che tenne fino alla sua morte (741).
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Ma Carlo Martello non era solamente un soldato, era anche un grande uomo di Stato; ed a lui si deve se fin d'allora l'aristocrazia franca andò pigliando quella forma che doveva portar poi alla costituzione del feudalismo, il quale dette più tardi una nuova forma alla società in Europa, e merita di essere studiato per la grande importanza che ebbe anche in Italia. Sulle sue origini si è molto discusso, alcuni credendole romane, altri invece germaniche. Il vero è però che esso, come tutte le istituzioni del Medio Evo, risulta da elementi germanici e romani, i quali s'incontrano, s'intrecciano e si confondono fra loro. È un'aristocrazia germanica, se si guarda a coloro che la costituirono, e ne fecero parte; ma è anche una istituzione composta di elementi romani, che dalla società germanica furono profondamente alterati.
Il feudo è certo una nuova forma di quella proprietà individuale, affatto ignota alla primitiva società barbarica. Al concetto del dominio assoluto e personale dell'uomo sulla terra s'aggiunse in esso il concetto, romano del pari, del dominio giuridico sull'uomo. E così nella società germanica, alterata e trasformata da questi elementi che ad essa sono estranei, s'andarono allora formando, come nella romana, dei potenti signori. Resi dalla conquista padroni delle terre, essi furon capi dell'esercito, e pigliarono parte principale al governo.
Nel tempo stesso in cui la società germanica, seguendo [355] questo cammino, s'allontanava dalla sua origine e perdeva il suo primitivo carattere, la romana, seguendo un cammino diverso, subiva anch'essa una trasformazione. I latifondisti, aumentando sempre più le loro terre, erano riusciti ad esser padroni di vastissime estensioni; ma questi enormi possessi non davan loro diritto di pigliar parte al governo, che teoricamente almeno emanava dal solo Imperatore. Il fatto però non rispondeva alla teoria, da cui invece sempre più si allontanava. Colla decadenza dell'Impero, indebolendosi la forza del governo centrale, i ricchi proprietari divenivano, insieme colle terre, padroni degli uomini che le coltivavano o le abitavano, e così cominciarono a comandarli ed a governarli. Questo fatto, che nella società romana appariva come effetto della decadenza, sembrava invece essere nella germanica effetto d'una trasformazione progressiva, che ne cresceva la coesione e la forza. Le due società, partendo da due punti opposti, avanzandosi in due direzioni contrarie, finivano coll'incontrarsi e confondersi fra loro, per dare origine ad una società nuova.
I latifondi romani, coltivati da schiavi o da coloni che pagavano un canone in natura, continuavano sempre ad ingrossare, annettendosi le terre dei piccoli proprietari vicini. I quali, oppressi dalle tasse e dai debiti, quando non si potevano più reggere, finivano col cedere volontariamente le loro terre al latifondista, per riprenderle in affitto come suoi coloni. Perdevano così, con la proprietà, la loro indipendenza; ma trovavano un protettore, che li liberava dalle tasse e dall'usura, e rendeva loro almeno tollerabile la vita. I grandi proprietari solevano avere uffici che in qualche parte li esentavano dalle tasse, e l'aumento delle terre non aumentava per essi le spese generali di amministrazione: così tutto era a vantaggio loro, e anche de' loro dipendenti. Entrati una volta in [356] questa via, si procedette sempre più rapidamente in essa. Perfino interi villaggi finivano coll'abbandonarsi al latifondista, che pareva già un piccolo sovrano feudale.
Tutto ciò seguiva del pari coi grandi proprietari ecclesiastici. I vescovi ed i conventi erano infatti, pei molti donativi dei fedeli, divenuti anch'essi latifondisti. Le continue immunità e privilegi, da essi ottenuti in numero sempre maggiore, finivano col porli in condizione anche più vantaggiosa dei laici. Cominciarono ben presto a dare in affitto i loro grandi possessi sotto forma di precaria, che era una concessione revocabile della proprietà, con un canone che, per la sua tenuità, dava alla concessione stessa il nome di benefizio.
Questi privilegi, sia dei laici che degli ecclesiastici, andavano crescendo di numero e di entità a misura che da una parte s'indeboliva la forza dello Stato, e dall'altra aumentava la potenza della Chiesa. E fin dal secolo VI il latifondista esercitava una specie di giurisdizione non solo sugli schiavi, ma anche sui coloni e dipendenti. Responsabile per essi verso l'autorità governativa, questa interveniva solo quando egli la invocava. Nell'Italia bizantina i grandi proprietari, divenuti capi dell'esercito, assunsero i maggiori uffizi, che venivano trasmessi per eredità nelle loro famiglie. L'ufficio si connetteva colla proprietà di colui che ne era investito, il quale aveva una duplice giurisdizione, come possessore cioè e come ufficiale civile o militare. In questo modo s'andò formando un'aristocrazia di possidenti, divenuti alti funzionari in conseguenza della loro proprietà, e di funzionari che s'arricchivano in conseguenza dei loro uffici. Essi armarono qualche volta i loro schiavi, i coloni, i clienti e gli amministratori, come vedemmo fare a Cassiodoro, per difendere sè stessi ed i loro averi dai pericoli che li minacciavano durante le invasioni.
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In conclusione, la società romana s'andava decomponendo in una quantità di ricchi potenti, chiamati honesti, clarissimi, nobiles, che disprezzavano la vilissima plebs dei nullatenenti. Nella società germanica invece, la quale non conosceva lo Stato e non aveva idea alcuna d'accentramento, il potere sociale naturalmente cadeva diviso in mano dei forti, che disprezzavano i deboli e gl'inermi, e divenivano ricchi in conseguenza della conquista. Così cominciò a formarsi quella nuova aristocrazia che si doveva più tardi costituire col nome di feudalismo.
Ed anche questo avvenne nella società ecclesiastica al pari che nella laica. I vescovi, le chiese, i conventi, concedevano le terre in forma di benefizi. Il vario possesso della terra cominciò a qualificare la diversa condizione degli uomini, che è un altro dei caratteri del feudalismo; ed intorno ai vescovi, ai conventi, alle chiese, s'andarono formando gruppi di beneficiari, che erano in germe i futuri vassalli. I re merovingi abbondarono nelle concessioni d'immunità ai vescovi; esentarono da imposte i beni ecclesiastici, dal che derivava naturalmente il divieto agli agenti del fisco d'entrare nel territorio immune.
Se ora noi consideriamo quali saranno più tardi i caratteri del feudo, troveremo che essi sono già tutti in formazione nella società romana, dalla quale passarono poi nella germanica, alterandosi sostanzialmente. Nella storia non v'è mai nulla di affatto nuovo; il presente e l'avvenire sono sempre costruiti coi rottami del passato.
Abbiamo già visto come Tacito racconti, che presso i re barbari si trovava un Comitatus composto dei loro più intimi, i quali non solo vivevano col principe, ma con lui e per lui combattevano. Da essi vennero poi gli Antrustiones franchi, simili ai Gasindi longobardi, e precursori dei Paladini di Carlo Magno. Ed a questi loro fidi, come ai capi dell'esercito, i re franchi fecero altri larghi donativi, [358] dando terre in benefizio. E in benefizio si dettero allora anche gli uffici, i quali nella società germanica erano sempre una concessione personale del re. Persino le tasse e l'amministrazione della giustizia mancavano di quel carattere pubblico, giuridico, impersonale, che è proprio dello Stato romano. Lo stesso obbligo del servizio militare derivava dal legame di fedeltà personale verso il re, non già da un dovere verso lo Stato. Tutta la società s'andava così sempre più dividendo in gruppi di protetti e di protettori. E quando i re cominciarono ad avvedersi che questi nuovi signori minacciavano di divenire più forti di loro, riducendo la monarchia in una confederazione di potenti, stretti al sovrano dal solo vincolo della fedeltà, era troppo tardi per portarvi rimedio.
Il primo passo veramente notevole verso ciò che doveva poi essere il feudalismo, lo dette Carlo Martello. A suo tempo i vescovi erano divenuti così ricchi che si crede possedessero un terzo di tutte quante le terre coltivabili nella Francia. E questi loro possessi, colle immunità annesse, promovevano la loro indipendenza non solo politica di fronte al re, ma anche religiosa di fronte al Papa. Carlo Martello fece però sentire su di essi la sua mano potente, iniziando una riforma che fu tra le più notevoli del suo regno. Le necessità della guerra, quella sopra tutto contro i Musulmani, l'obbligarono a cercar modo di remunerare largamente i capi dell'esercito. E senza molti scrupoli, cominciò col deporre alcuni vescovi, investendo dei loro vescovadi i suoi fedeli, il più delle volte uomini di guerra. Ciò non aveva nulla di strano in un tempo, nel quale i vescovi combattevano alla testa degli eserciti al pari dei grandi signori laici. Spogliò più tardi molte chiese, vescovi e conventi d'una parte considerevole delle loro tenute, che dette ai capi dell'esercito, i quali sostenevano le spese della guerra, pagando del proprio gli uomini che [359] sotto di loro combattevano. Così, danneggiando il clero, rese i nobili sempre più potenti ed a lui più affezionati.
Non è quindi da maravigliarsi, che la tradizione ecclesiastica gli divenisse fieramente avversa, e lo chiamasse nemico dei vescovi, spogliatore della Chiesa. Se non che a questa ed alla religione Carlo Martello aveva reso così grandi servigi, che fu pur forza perdonargli il danno che aveva ad esse recato per meglio condurre a termine la guerra contro gl'infedeli. Anche le guerre da lui fatte in Germania riuscirono a vantaggio della religione. Le battaglie furono colà precedute dalle missioni religiose, che vi fondarono la organizzazione definitiva della Chiesa cattolica, spianando la via alle conquiste, da cui venivano a lor volta aiutate. Le missioni, come vedemmo, erano già da un pezzo cominciate dalla Irlanda. Le continuarono più tardi i missionari anglosassoni, fra i quali tutti primeggiò Vinifrido, chiamato poi S. Bonifazio. La sua opera nella Germania, già convertita dagl'Irlandesi, fu appunto la organizzazione della Chiesa cattolica, che egli pose in relazione con quella di Francia, sottoponendole ambedue all'assoluta autorità del Papa. Così S. Bonifazio, aiutato da Carlo Martello, spianava in Germania la via alle vittorie di lui, all'assimilazione di quelle genti, e nello stesso tempo alla futura costituzione dell'Impero carolingio. Sin da questo momento, papa, principe e missionario cooperavano inconsapevolmente a quella unione civile, religiosa e militare, che doveva poi attuarsi col nuovo impero di Carlo Magno. Da per tutto vennero per opera di S. Bonifazio fondate nuove chiese e nuovi monasteri, fra i quali quello assai celebre di Fulda (744). E così per lungo tempo egli continuò, fino a che, credendo d'aver compiuto l'opera sua in Germania, e sentendosi sempre più mosso dallo spirito ardente ed irrefrenabile del suo apostolato, che [360] non lo lasciava star fermo, se ne andò a convertire i pagani della Frisia, dove trovò finalmente l'ambito martirio circa l'anno 754.
Che in presenza d'un tale stato di cose, i Papi si volgessero per aiuto ai Franchi, non c'è da maravigliarsene. E noi abbiamo già visto come sin dal 739 Gregorio III, minacciato da Liutprando, e sapendo che l'Imperatore non l'avrebbe aiutato, si rivolse due volte a Carlo Martello, riponendo in lui e nei Franchi ogni sua speranza. Si è affermato che il Papa facesse allora dichiarare a Carlo Martello, che egli ed il popolo romano si volevano separar dall'Impero. Questa affermazione, fatta mezzo secolo dopo dal cosiddetto continuatore di Fredegario, prova in ogni modo quali erano già fin d'allora le idee intorno al dissidio esistente fra Roma e Costantinopoli, dissidio che doveva portar ben più gravi conseguenze nell'avvenire.
A Carlo Martello che di fatto, sebbene non di nome, era divenuto re dei Franchi, successero i figli Carlomanno e Pipino, i quali legalmente non erano anch'essi che Maestri di Palazzo, tanto che fu sentito il bisogno di cavar dal convento Childerico dei Merovingi, e metterlo su quel trono (743), sul quale egli fu l'ultimo dei rois fainéants, l'ombra addirittura d'un re.
C'era da aspettarsi prima o poi una lotta aspra e sanguinosa tra i due fratelli; ma invece Carlomanno, dopo le stragi da lui compiute nella guerra contro gli Alamanni [361] (746), si ritirò, disgustato del mondo, prima in un convento da lui fondato sul Soratte, poi a Montecassino; e così Pipino restò senza rivali. Se non che allora appariva anche più chiaro che, giuridicamente parlando, unico sovrano legittimo era Childerico, per quanto non sembrasse altro, e di fatto altro non fosse che un re spodestato. Era una questione che non si poteva risolvere colla violenza, e senza risolverla Pipino sarebbe restato sempre nella falsa posizione di un usurpatore. Pensò quindi di rivolgersi a papa Zaccaria III, perchè coll'autorità della religione facesse quello che la spada non poteva fare. E mandò a lui una solenne ambasceria chiedendo se era lecito che assumesse il titolo di re colui che non faceva nulla addirittura, e non piuttosto colui che di fatto governava, ed in tutto ne esercitava l'ufficio. In vero solo il Papa poteva sciogliere i sudditi dal giuramento d'obbedienza, e tranquillizzando la loro coscienza, por fine ad uno stato anormale di cose. Che doveva, che poteva rispondere Zaccaria III? La nuova dinastia ormai esisteva di fatto, era padrona della monarchia, aveva difeso la religione ed era essa sola in grado di dare alla Chiesa quell'aiuto che nessun altro più le voleva o poteva dare. Nell'Impero il principio ereditario di successione al trono non era stato mai sanzionato, e nei barbari era assai comune la elezione dei loro re. Il Papa adunque rispose, che ove fosse a vantaggio del paese, e se ne promovesse davvero il benessere, era conveniente che assumesse il titolo di re colui che di fatto ne esercitava l'ufficio. E così fu che Pipino si decise a compiere il suo colpo di Stato. Nel novembre del 751, in un'assemblea di Grandi radunati a Soissons, egli venne solennemente innalzato al trono, e proclamato re, «per consiglio e consenso di tutti i Franchi, coll'assenso della Santa Sede, per elezione della Francia intera, con la [362] consacrazione dei vescovi e l'obbedienza dei Grandi.» A questa elezione, che fu fatta secondo il costume germanico, s'aggiunse la consacrazione celebrata, in nome del Papa, da S. Bonifazio alla testa dei vescovi, consacrazione che ricordava quella di Saul per mano di Samuele. Il misero Childerico ebbe la tonsura, e fu chiuso in un convento insieme col figlio.
Se si getta ora uno sguardo a tutto quello che abbiam detto finora, si vedrà subito quante e quanto gravi ragioni spingessero i Papi a favorire i Franchi, per esserne poi protetti. Ma Zaccaria III, che voleva star bene con tutti, s'era incontrato con Liutprando, ed aveva fatto ogni opera per concludere con lui una pace durevole. Il re longobardo gli aveva promessa la restituzione dei beni patrimoniali usurpati alla Chiesa nell'Esarcato, nella Pentapoli ed altrove; aveva promesso anche di ripigliare e restituire al Papa i quattro castelli che nel Ducato romano erano stati indebitamente occupati da Trasimondo. Se non che, appena fissate queste condizioni d'una pace che doveva durare venti anni, occupò invece lo Spoletino, e lo dette ad un proprio nipote; pose a Benevento Gisulfo il figlio di Romualdo II (742). Poco dopo, avuto a Terni un altro colloquio col Papa, restituì i castelli e mantenne la più parte delle promesse fatte. Ma nel 743, essendo tornato a Pavia, di nuovo mandò l'esercito nell'Esarcato, contro Ravenna. E di nuovo stava per cedere alle preghiere di papa Zaccaria, che andò a visitarlo in Pavia nel 742, quando nel gennaio del 744 morì.
Gli successe il figlio Ildebrando, che si dimostrò assai inetto, e fu subito sostituito da Rachi, duca del Friuli, che regnò cinque anni, dei quali si sa assai poco: ritiratosi più tardi dal mondo, vestì l'abito monacale. Allora ascese al trono Astolfo, valoroso, impetuoso in guerra, ma politico assai poco accorto; e s'avanzò verso Ravenna che [363] prese, ponendo in tal modo fine all'Esarcato. Subito dopo si diresse minaccioso verso Roma nel 752, quando era già morto Zaccaria. Allora fu eletto Stefano II, che morì tre giorni dopo. Il successore prese lo stesso nome, e per la brevità del Papato di colui che lo aveva preceduto, venne chiamato anch'egli Stefano II e non III (752-57). Questi che fu uomo di molto valore politico, uno dei grandi Papi, mandò subito ambasciatori ad Astolfo per conchiudere un'altra pace, che doveva durare quarant'anni, e venne rotta invece dopo quattro mesi, senza possibilità di rinnovarla (752). Alle ripetute ambascerie il re longobardo rispondeva con minacce contro il Ducato romano. Da questo lato adunque non v'era adesso nulla da sperare.
Il Papa trattava perciò con Costantinopoli, donde arrivava ambasciatore il silenziario (capitano della guardia imperiale) Giovanni; e lo mandò col proprio fratello Paolo ad Astolfo, provandosi a chiedere la retrocessione dei possessi e delle città indebitamente occupate nell'Esarcato e nella Pentapoli: ut Reipublicae loca.... usurpata proprio restitueret dominio.[42] Ma Astolfo rispose che di ciò avrebbe trattato, per mezzo di suoi ambasciatori, direttamente coll'Imperatore. Il Silenziario allora tornò indietro, ed il Papa mandò con lui i suoi messi a Costantinopoli, per dire che era omai inutile fidarsi dei Longobardi; piuttosto era il caso di spedire un esercito per difendere Roma e l'Italia contro le loro aggressioni. Finora dunque le relazioni del Papa coll'Imperatore appaiono amichevoli. A questo infatti Stefano II si rivolgeva quando Astolfo, dopo d'avere occupato l'Esarcato, fremens ut leo, minacciava di tutta la sua ira Roma ed il popolo romano. Il pericolo era veramente grande e vicino. Il Papa fece [364] infatti solenni preghiere e litanie, andando in processione con gran seguito, scalzo e coperto di cenere, a S. Pietro, a S. Maria Maggiore, a S. Paolo, portando innanzi, sospeso ad una croce, il patto di pace violato da Astolfo. Da Costantinopoli non veniva intanto nessun aiuto, nè c'era speranza che venisse. Lo stato delle cose pareva disperato.
Si presentava quindi più che mai naturale il pensiero di rivolgersi ai Franchi. Pipino non poteva dimenticare che ai Papi doveva la sua consacrazione. A lui dunque Stefano II si rivolse, facendogli sapere che desiderava andare solennemente a visitarlo; ma voleva prima essere invitato, sia per rispetto alla propria dignità, sia per essere garantito contro gli ostacoli che al suo viaggio poteva mettere Astolfo. Il re non esitò a manifestare il suo buon volere; prima però di dare un passo che avrebbe potuto obbligarlo a far poi la guerra, volle esser sicuro dell'assenso dei Grandi, senza i quali non sarebbe stato facile, quando la necessità se ne presentasse, di condurre l'esercito in Italia. I magnati franchi non potevano avere ragione di speciale avversione contro i Longobardi, che, appena invitati, s'erano mossi per venir loro in aiuto nella guerra contro gli Arabi. A quei Grandi perciò il Papa, che era anche politico accortissimo, scrisse una lettera che ci è rimasta, esortandoli a non venir meno all'amore verso S. Pietro e la Chiesa. Quando Pipino li convocò in assemblea, fu subito deliberato d'inviare a Roma una solenne ambasceria, con le più ampie assicurazioni, per invitare il Papa a venire in Francia. Ambasciatori furono due grandi dignitari franchi, Crodegango vescovo di Metz ed il gloriosissimo duca Auticario. Essi arrivarono a Roma nel 753, quando i Longobardi di Astolfo s'erano impadroniti di Ceccano, che faceva parte del Ducato di Roma. Poco prima (settembre 753) era tornato [365] da Costantinopoli il silenziario Giovanni, con la missione d'invitare il Papa a recarsi in persona da Astolfo, per indurlo a restituire all'Impero le terre che gli aveva tolte. Ed il 14 ottobre 753 Stefano II insieme col Silenziario, con i due ambasciatori franchi e con gran seguito, andò a Pavia per tentar di persuadere Astolfo a restituire a chi di diritto, propria restitueret propriis,[43] le terre indebitamente usurpate. Ma non si concluse nulla, perchè Astolfo accettò i doni che gli furono recati, e ricusò ogni concessione.
Il Papa allora continuò il suo cammino, e nonostante ogni tentativo contrario fatto dal re longobardo per dissuaderlo, passate le Alpi, andò in Francia. Nel mese di dicembre, quando era ancora cento miglia lontano dalla villa di Ponthion, fra Vitry e Bar-le-Duc, incontrò il giovanetto Carlo primogenito del Re, quegli che fu poi noto nella storia col nome di Carlo Magno. Il 6 gennaio 754 incontrò il Re stesso che, sceso da cavallo, lo accompagnò per un buon tratto. Assai solenne fu l'ingresso in Ponthion, fra una moltitudine festante, che cantava sacri inni. Non erano appena entrati nel palazzo, che il Papa chiese al Re che volesse egli personalmente difendere la causa di S. Pietro e della Repubblica romana, causam Beati Petri et Reipublicae Romanorum. Ed il Re senza esitare giurò di «restituire in ogni modo l'Esarcato e gli altri luoghi e diritti della Repubblica». Come mai questo mutamento di linguaggio? Dopo avere chiesto la restituzione delle terre all'Impero, si parla invece di S. Pietro e della Repubblica dei Romani; e d'ora in poi si continua a parlar sempre della Repubblica, di S. Pietro e della santa Chiesa di Dio, lasciando l'Impero assolutamente da parte.
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Dopo l'esplicito rifiuto di Astolfo, era chiaro che la restituzione delle terre richieste si poteva ottener solo colle armi. Ed il Papa, che naturalmente pensava sopra tutto ai casi suoi, arrivato in Francia, dovette accorgersi con gran piacere, che se Pipino era ben disposto ad aiutar lui e la Chiesa, non aveva nessuna voglia di fare una guerra nell'interesse dell'Imperatore. Le terre che gli fosse riuscito di prendere colle sue armi, quando non le avesse egli ritenute per diritto di conquista, avrebbe potuto darle, in forza del sentimento religioso, alla Chiesa ed al suo Capo, non però mai ad altri. Anche i Longobardi, piuttosto che vederle in mano dei Franchi o dell'Imperatore, avrebbero preferito che fossero concesse al Papa, a cui più facilmente potevano sperare di ritoglierle. Era perciò naturale che Stefano II, uomo assai accorto, cercasse profittare di un tale stato di cose. E quindi nei suoi discorsi, nelle sue lettere, invece di restituzione all'Impero, cominciò a parlare di restituzione a Roma, a S. Pietro, alla Chiesa. Pipino intanto lo aveva invitato a passar l'inverno nella Badia di S. Dionigi, presso Parigi, e di là così l'uno come l'altro fecero ripetuti, ma vani tentativi d'indurre Astolfo a volere, per evitare ogni effusione di sangue, pacificamente «restituire alla Repubblica, alla santa Chiesa i suoi diritti, le sue proprietà.» In sostanza par che si chiedessero ora pel Papa l'Esarcato e la Pentapoli, che dai Longobardi erano stati tolti all'Impero. L'idea di succedere a questo in Italia era balenata nella mente dei Papi fin dal momento in cui Astolfo aveva occupato l'Esarcato. Non volevano che, impadronendosi di esso e della Pentapoli, i Longobardi divenissero troppo potenti. E se Pipino, dopo aver conquistato quelle province, avesse ricusato di restituirle all'Impero, l'occasione sarebbe stata opportunissima per rendere potente la Chiesa, facendole dare ad essa. E così fu che [367] invece d'Impero si cominciò a parlare di Repubblica e di popolo romano, che, secondo le idee del tempo, erano sotto la speciale protezione di S. Pietro, rappresentato in terra dal Papa, capo visibile della Chiesa. Il popolo romano aveva eletto l'Imperatore, ed eleggeva il Papa; era una cosa sola coll'Impero e con la santa Repubblica, la quale, nel linguaggio comune, si confondeva allora colla Chiesa. Sostituire quindi all'Impero la Chiesa ed il Papa pareva la cosa più semplice e naturale del mondo. Anche le quattro terre o castelli, che da Liutprando erano stati tolti al Ducato romano, il quale, teoricamente almeno, era già tenuto come legittimo possesso del Papa, furono dallo stesso Liutprando restituiti «a S. Pietro.»
Il vero è che Astolfo, senza punto occuparsi di queste sottili distinzioni, non voleva ceder nulla a nessuno. Bisognava quindi fare la guerra. Pipino radunò i Grandi in due assemblee, tenute la prima il giorno 1º marzo 754 a Braisne, non lungi da Soissons, e la seconda il 14 aprile, giorno di Pasqua, a Quierzy, presso Laon. In questa fu deliberata la guerra. Si parla anche d'uno scritto, nel quale Pipino avrebbe allora fatto solenne promessa, che le terre le quali egli si proponeva di conquistare, sarebbero da lui restituite al Papa. Della esistenza di un tale scritto alcuni dubitano non poco; certo è però che, scritta o non scritta, la promessa fu fatta, e venne poi mantenuta.
Le ansietà del Papa erano state in questo tempo grandissime. L'aver dovuto passare le Alpi nella fine di autunno, il crudo inverno della Francia, le continue opposizioni che alcuni dei Grandi avevano fatte alla guerra, erano state più che sufficienti a turbarne l'animo ed alterarne la salute. A tutto ciò s'aggiunse che, in questo mezzo appunto, Carlomanno, il fratello di Pipino, per istigazione, [368] a quanto pare, di Astolfo, uscito improvvisamente dal convento di Montecassino, era venuto in Francia a perorare presso il fratello la causa longobarda. Il che aumentò lo sgomento del Papa, ed irritò non poco anche Pipino, il quale naturalmente temeva che questa venuta potesse ridestare nei figli di suo fratello la speranza di succedere al trono paterno. Ma che cosa poteva mai fare un frate contro l'autorità del Papa, e contro la forza del Re, che ormai era padrone di tutto il regno riunito? Carlomanno infatti fu ben presto costretto a rinchiudersi in un convento di Vienne presso il Rodano, dove poco dopo morì. Anche i suoi figli dovettero prendere la tonsura.
Fra tante angoscie Stefano II finalmente s'ammalò, e durante la malattia gli apparvero, secondo la leggenda, S. Dionigi, S. Pietro e S. Paolo, che gli promisero guarigione perfetta, a condizione che facesse erigere un nuovo altare in S. Dionigi. Ed il 28 luglio 754 non solamente l'altare era costruito, ma nella stessa chiesa si compieva un atto solenne, il quale dimostrava la grande accortezza e perseveranza del Papa. In questa stessa chiesa egli consacrava ed incoronava Pipino e la moglie Bertrada, consacrava anche i due figli Carlo e Carlomanno. Ma Pipino, si può qui domandare, non era stato già coronato, non era stato consacrato da S. Bonifazio per ordine del Papa? A che fine ripeter la cerimonia? Non solamente la consacrazione per mano propria del Papa era assai più autorevole; ma questi, consacrando anche la regina ed i figli del Re, consacrava addirittura la dinastia. Quel giorno infatti, sotto pena di scomunica, egli imponeva ai Grandi franchi di non mai più eleggere nell'avvenire un re «che fosse disceso da altri lombi». Così erano per sempre messi da parte non solo i diritti dei Merovingi, ma quelli ancora che potevano avanzare i figli di Carlomanno.
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Oltre di ciò Stefano II, nel consacrare Pipino, gli dette anche il titolo di Patrizio, cosa che ha fatto molto disputare, perchè questo era un titolo dato solo dall'Imperatore a grandissimi personaggi come Odoacre, Teodorico, gli Esarchi; ed ora veniva concesso dal Papa a Pipino, senza che l'Imperatore protestasse. Qualcuno ha supposto che questi avesse dato a Stefano l'incarico di conferirlo, quando lo aveva inviato a chiedere la restituzione delle terre all'Impero. Arrivato però il Papa in Francia, e conosciuto lo stato vero delle cose, mutato animo, decidendosi a prendere esso in Italia il posto dell'Impero, avrebbe creduto anche di poter conferire in suo proprio nome il titolo di Patrizio. Questo titolo era semplicemente onorifico, ma soleva darsi solo a chi aveva già un altissimo ufficio; ed il Papa lo dava a re Pipino come a difensore della Chiesa. Questi infatti è d'ora in poi chiamato indistintamente Patrizio o Difensore della Chiesa.
Nell'estate del 754, poco dopo la sua consacrazione, Pipino raccolse l'esercito per l'impresa d'Italia, non senza fare un ultimo tentativo di risolvere pacificamente la gran lite, promettendo ad Astolfo anche buona somma di denaro. Ma fu tutto inutile, e l'esercito franco dovè porsi in cammino. I Franchi s'avanzarono con alla testa il loro Re; li accompagnava il Papa col suo cappellano, con l'abate Fulrado di S. Dionigi, e con altri prelati. [370] Passato il Cenisio, alle Chiuse presso Susa, vi fu uno scontro nel quale l'avanguardia dei Franchi sostenne l'urto di tutto l'esercito longobardo, che nella ristrettezza del luogo non potè spiegare le proprie forze, e fu così fieramente battuto, che la disfatta venne attribuita a miracolo.
Astolfo dovette allora ritirarsi a Pavia, dove fu ben presto assediato e costretto a venire a patti, che furono: restituire Ravenna e diverse altre città, con la promessa di non più molestare il Ducato romano, dando in garanzia quaranta ostaggi. E questi patti, secondo il Libro pontificale (I, 451), sarebbero stati formulati in una pagina scritta. Le terre così ottenute vennero da Pipino cedute al Papa, che ormai senza più esitare cercava di sostituirsi in Italia all'Imperatore. Più volentieri, più risolutamente che mai lo faceva adesso che questi aveva radunato un sinodo (753), il quale condannò il culto delle immagini, dichiarandolo nuova idolatria. Ma quando i Franchi ed il Papa si furono ritirati, ciascuno a casa sua, Astolfo, dopo che ebbe ceduto Narni ai Franchi, non solamente violò i patti, senza ceder più nulla a nessuno; ma s'avanzò col suo esercito nel Ducato romano, saccheggiando perfino le chiese. Il 1º di gennaio 756 egli era sotto le mura di Roma, e minacciava che se non gli aprivano le porte, e non gli davano nelle mani la persona stessa del Papa, avrebbe messo i cittadini a fil di spada.
Stefano II allora mandava a Pipino lettere sopra lettere, con solenni ambascerie, descrivendo le «stragi e le iniquità dei nefandissimi Longobardi». L'ultima di queste lettere era indirizzata al Re ed ai suoi figli, in nome addirittura di S. Pietro, il quale, dopo aver detto che le ingiurie recate alle popolazioni, ai luoghi sacri e profani erano tali che le pietre stesse ne avrebbero pianto, [371] finiva invocando il pronto aiuto del popolo franco, eletto da Dio a difesa della Chiesa. Ogni indugio diveniva adesso una grave colpa, di cui si sarebbe dovuto rendere stretto conto a Dio.
Pipino non fu sordo all'invito del Santo, e nella primavera del 756 mosse di nuovo per la stessa via contro Astolfo, che, abbandonato l'assedio di Roma, durato già tre mesi, corse a Pavia. Di là mandò l'esercito contro i Franchi; ma questi, passato il Cenisio, dettero una nuova rotta al nemico, e procedettero oltre. Nel suo cammino Pipino s'incontrò con un ambasciatore che veniva da Costantinopoli, e che si provò a persuaderlo di restituire all'Impero le terre indebitamente occupate dai Longobardi. Egli allora rispose chiaro, che non era venuto in Italia a far la guerra «per nessun interesse mondano, in favore di nessun uomo; ma per amore di S. Pietro e venia de' suoi peccati.» Dopo di che andò all'assedio di Pavia, dove Astolfo dovette ben presto arrendersi di nuovo. E questa volta naturalmente i patti furono assai più duri che nel 754. Oltre una forte contribuzione di guerra ed un annuo tributo, dovette cedere un maggior numero di città, e dar nuovi ostaggi. Il Libro pontificale dà la lista di queste città, comprendendovi Comacchio, Ravenna, tutto il paese fra l'appennino ed il mare, da Forlì a Sinigaglia: la Marca d'Ancona, Faenza, Bologna, Imola e Ferrara non vi sono comprese. Si tratta in sostanza dell'Esarcato e della Pentapoli, quali però erano stati ridotti dopo le conquiste fatte dai Longobardi prima di Astolfo. L'abate Fulrado fu allora incaricato d'andare personalmente, con buon numero di soldati franchi, a prendere la consegna delle città, facendosi dare le chiavi, e per maggiore sicurezza anche nuovi ostaggi. Le chiavi furono in Roma consegnate al Papa insieme con l'atto di donazione [372] «a S. Pietro, alla Santa Repubblica romana, ed a tutti i successivi pontefici». Questa donazione scritta fu messa nella Confessione di S. Pietro, e vi si trovava ancora, secondo l'autore della vita di Stefano II, quando egli scriveva (L. P., I, 453). Ben presto, come vedremo, i Papi cominciarono a chiedere assai di più.
In quello stesso anno 756, pochi mesi dopo che Pipino s'era ritirato in Francia, Astolfo moriva. Egli era stato un sincero cattolico, aveva fondato chiese e conventi, e se aveva portato via dalla Campagna romana reliquie e corpi di Santi, lo aveva fatto per averli nelle chiese del suo regno: tuttavia era stato in lotta continua col Papa. Valoroso in guerra, seguì anch'egli, come la più parte dei re longobardi, una politica capricciosa ed inconseguente, che lo condusse nella seconda parte del suo regno a perdere tutto quello che aveva guadagnato nella prima. Alla sua morte vi fu tra i Longobardi una minaccia di guerra civile, a causa della successione. Rachi uscì dal convento di Montecassino, per tentar di succedere al fratello; ma ebbe a competitore Desiderio duca di Toscana, che, mediante larghe promesse al Papa, ne ottenne il favore. Questi indusse Rachi a tornarsene nel suo convento; scrisse a Pipino esaltando i meriti di Desiderio, e le molte promesse che aveva fatte alla Chiesa; pregava perciò anche lui di volerlo favorire e d'incoraggiarne le buone intenzioni. Si trattava adesso, diceva il Papa, di condurre a compimento la bene incominciata impresa, facendo restituire a S. Pietro ed alla Chiesa anche le terre che prima di Astolfo avevano fatto parte dell'Esarcato e della Pentapoli. Non era possibile governare quel paese, tenendo separate popolazioni che assai lungamente erano state unite. «Ora, così concludeva il Papa, che è morto Astolfo seguace del demonio, divoratore del sangue dei cristiani, e che, mediante [373] l'aiuto vostro e dei Franchi, è successo Desiderio, uomo mitissimo e buono, noi vi preghiamo non solo di spronarlo a perseverare nella retta via; ma di cooperare con lui a liberarci dalla pestifera malizia dei Greci, ed a farci riavere le proprietà indebitamente tolte alla Chiesa.»
È chiaro che ora non si tratta più della pura e semplice attuazione delle antiche promesse fatte da Pipino, ma di nuove domande. Il Papa chiedeva l'Esarcato e la Pentapoli nella loro primitiva ed assai più vasta estensione; chiedeva inoltre anche le terre, le proprietà della Chiesa, sparse altrove, che erano state indebitamente occupate dai Longobardi o dai Bizantini. Il momento pareva opportuno per attuare ciò che Desiderio gli aveva fatto sperare in compenso dei grandi servigi a lui resi per farlo salire sul trono. Se non che ben presto si vide, che neppure il nuovo re dei Longobardi aveva voglia di mantenere le sue promesse. Infatti, dopo aver ceduto Faenza e Ferrara, non dette più altro. Stefano II però fu dalla morte, che lo colpì il 26 aprile 757, liberato dal dolore di questo crudele disinganno.
La successiva elezione, che fu assai tumultuosa, cominciò a mettere in evidenza i grandi mutamenti che dovevano seguire a Roma, in conseguenza della nuova politica dei Papi. La donazione di Pipino rendeva il capo della Chiesa sovrano temporale. Se era divenuto padrone dell'Esarcato e della Pentapoli, voleva naturalmente essere anche padrone effettivo del Ducato romano. Infatti a Roma d'ora in poi non si trova più un Duca, perchè il Papa vuol farne esso le veci. Ma questo appunto sollevò la nobiltà laica, o sia i Judices de Militia, i quali si trovavano alla testa dell'esercito, e vennero in fierissima lotta con la nobiltà ecclesiastica, o sia i Judices de clero, i quali, per la nuova autorità assunta dal Papa, avrebbero voluto comandar essi in Roma. Fortunatamente, il 29 maggio [374] 757, venne consacrato nuovo papa il fratello del defunto, che prese il nome di Paolo I. Questi dovette subito accorgersi che c'era ben poco da fidarsi di Desiderio; si volse perciò a Pipino, annunziandogli la sua elezione, come prima soleva farsi all'Esarca, e chiedendogli aiuto contro i nobili, che divenivano sempre più riottosi. Ad essi Pipino scriveva raccomandando obbedienza al Papa; ed abbiamo la lettera con cui il Senatus atque universi populi generalitas rispondevano «all'eccellentissimo Signore da Dio eletto, e vittorioso Pipino re dei Franchi, patrizio dei Romani.» In essa promettevano obbedienza al Papa, che chiamavano «Padre comune.»
Il conflitto principale continuava però sempre ad essere coi Longobardi, e si complicava ora, perchè Desiderio era d'un carattere mutabilissimo, che doveva poi essere la rovina sua e del suo regno. Quando i duchi di Benevento e di Spoleto accennavano a ribellarsi a lui, avvicinandosi invece al Papa ed ai Franchi, egli, per mantenere intatta la sua autorità, andò subito con la forza a deporli, sostituendoli con altri di sua fiducia. E dopo di ciò il suo primo pensiero fu di volgersi all'imperatore Costantino V, detto Copronimo, promettendo d'aiutarlo a ripigliare l'Esarcato e la Pentapoli. Ma quando s'accorse che per questa via non riusciva a nulla, perchè l'Imperatore era occupato altrove, mutò nuovamente pensiero, e da capo s'avvicinò al Papa, che, sebbene di mala voglia e senza fidarsene, pur lo accolse. In verità anche il Papa si trovava in una difficilissima posizione. Non poteva sperar nulla da Pipino, trattenuto ora nelle guerre d'Aquitania e di Sassonia; e doveva nello stesso tempo impensierirsi delle nuove difficoltà che gli suscitava l'Imperatore, giacchè al conflitto politico coll'Oriente s'aggiungeva ora quello religioso a causa delle immagini. Costantino Copronimo, infatti, profittando della tendenza [375] del clero franco, che sembrava essere avverso al Papa non solo nella disputa delle immagini, ma anche in quella sulla Trinità, cercava di venire con Pipino ad un accordo religioso, cui sperava dovesse facilmente seguire l'accordo politico. Ma Pipino, sebbene accettasse la discussione, finì col restar fedele alla Chiesa di Roma.
Siamo evidentemente in un periodo di transizione, nel quale lo stato delle cose muta ogni giorno, ed ognuno quindi muta la sua condotta politica. Pipino trattava coll'Imperatore, ed era amico del Papa, che scriveva e riscriveva in Francia, perchè lo difendessero dai Bizantini, eretici e nemici di Santa Chiesa. Il Papa, disperato, s'avvicinava ai Longobardi nemici suoi e dei Franchi, i quali da lui e dal suo predecessore erano stati chiamati a combatterli. L'Imperatore cercava d'avvicinarsi ai Franchi, che gli avevano tolto l'Esarcato e la Pentapoli dandoli al Papa, contro cui egli ora voleva spingerli.
Ma il 28 giugno 767 moriva Paolo I, il 24 settembre 768 moriva Pipino, e ciò doveva necessariamente dare origine ad un nuovo e grande mutamento.
La morte di Paolo I fu come il segnale dato ad un nuovo e più violento scatenarsi dei partiti. Si vide allora chiaramente che cosa volesse dire l'aver distrutto affatto l'autorità dell'Imperatore in Roma, nell'Esarcato e nella Pentapoli, senza nulla sostituirvi, lasciandovi padrone il Papa, che era disarmato. Il Ducato romano, che [376] abbracciava presso a poco quella che oggi si chiama la provincia di Roma, è ricordato la prima volta nel Libro Pontificale l'anno 712 (I, 392), e l'Exercitus romanus è già ricordato nel 638 e nel 643 (I, 328, 331 e 395, n. 28). Questo era diviso in scholae, comandate, come già dicemmo, dall'aristocrazia laica, potentissima nella Città e nella Campagna. Alla loro testa era il Duca mandato prima da Costantinopoli, dopo il 727 (I, 404) eletto dall'aristocrazia, scomparso a tempo di Pipino, perchè a capo della Città e del Ducato si pose allora il Papa. Questi si trovava ora combattuto fra l'aristocrazia laica, che comandava l'esercito ed in parte anche le Città, e l'aristocrazia ecclesiastica, che, amministrando la Chiesa ed i suoi vasti possessi, non era certo in Città meno potente della sua rivale. Un conflitto tra l'una e l'altra appariva adesso inevitabile.
Infatti Paolo I riposava ancora sul suo letto di morte, quando Toto, duca di Nepi, raccolse nella Campagna più gente che potè, ed insieme coi fratelli Costantino, Passivo e Pasquale, corse a Roma dove fece colla forza nominar papa il fratello maggiore Costantino. Questi era però laico, e quindi il vescovo di Palestrina fu costretto, nonostante ogni sua resistenza, a consacrarlo successivamente chierico, suddiacono e diacono, dopo di che lo proclamarono papa lo stesso giorno 28 giugno 767. Egli restò sulla sedia episcopale solo tredici mesi, che furono pieni di sanguinosi tumulti, perchè contro la sua strana elezione insorse violentemente l'aristocrazia ecclesiastica, la quale era stata da lui privata d'una parte de' suoi ricchi uffici. Essa avrebbe naturalmente dovuto inclinare al partito dei Franchi; ma, non potendo ora sperare nessun aiuto da Pipino, tutto occupato nelle sue guerre, si vide costretta a rivolgersi ai Longobardi, ed ebbe subito il favore di Desiderio. Cristoforo, che era Primicerio nella cancelleria [377] papale, e suo figlio Sergio, che era Secundicèrio, poterono, coll'assenso del Re longobardo, raccoglier gente nel Ducato di Spoleto, ed il 29 luglio 768 si trovarono a Porta S. Pancrazio, dove vennero alle mani cogli avversari, cioè coi capi dell'aristocrazia laica. Questi furono vinti, perchè tra loro c'erano dei traditori, i quali, appena che la lotta si volse in favore del proprio partito, ferirono alle spalle i compagni, che così furono vinti. Passivo, il fratello del Papa, con alcuni de' suoi più fidi, corse in Laterano per salvargli almeno la vita; ma vennero invece tutti presi e tenuti prigionieri. Allora un tal Valdiperto, prete longobardo, che aveva cooperato coi vincitori, raccolse tumultuariamente i suoi amici, e fece eleggere papa un prete Filippo, che fu subito consacrato in Laterano, sedette sulla cattedra di S. Pietro, e benedisse il popolo. Ma questa elezione, fatta esclusivamente a favore del partito longobardo, non poteva piacere a nessuno dell'aristocrazia romana, la quale era insorta solo a vantaggio della propria preponderanza. Essa perciò costrinse subito Filippo a dimettersi, e raccolti gli amici, l'esercito, il popolo, il clero, fece una nuova elezione, che riuscì a favore di Stefano III (1º agosto 768), stato già amico fedele di Paolo I.
La nuova elezione, che venne finalmente riconosciuta valida, non potè calmare gli animi, perchè i vincitori, prima che il nuovo Papa fosse consacrato (7 agosto), vollero far vendetta della elezione di Costantino. Ad alcuni dei suoi fautori vennero, secondo il crudele costume bizantino, cavati gli occhi, e strappata la lingua. La turba inferocita corse poi alla casa in cui era stato rinchiuso il già decaduto Papa, e copertolo d'insulti, lo menarono, a cavallo sopra una sella da donna, in un monastero. Di là il 6 agosto fu condotto alla basilica laterana, dove i vescovi ivi radunati lo deposero solennemente, facendogli strappare [378] il pallio e levare i calzari pontifici. Poco dopo, tiratolo fuori del convento, i suoi nemici gli cavarono gli occhi lasciandolo quasi esanime nella strada. La stessa sorte toccò ad altri. Non fu risparmiato neanche il prete Valdiperto, perchè avendo egli di suo arbitrio fatto eleggere Filippo, che era stato deposto, si temeva che, messosi d'accordo coi suoi compagni longobardi, volesse ora vendicarsi. Per questa ragione quelli stessi che poco prima erano stati suoi partigiani, lo cercarono adesso a morte; nè gli valse l'essersi rifugiato in S. Maria dei Martiri (Panteon), dove teneva strette in mano le sacre immagini, sperando così di salvarsi. Lo trascinarono con violenza nel campo del Laterano, dove anche a lui cavarono gli occhi, in conseguenza di che morì poco dopo di cancrena alle occhiaie. Stefano III non fece nulla per opporsi a queste iniquità; nè basta a scusarlo il dire che, quando avesse voluto, difficilmente sarebbe riuscito ad impedirle.
Nell'aprile 769 venne radunato in Roma un Sinodo, per prendere le misure necessarie ad evitare che nelle future elezioni si rinnovassero gli scandali, e vi intervennero anche dodici vescovi franchi. Ma neppure questo Sinodo procedette pacificamente. Il misero ex-papa Costantino già accecato, jam extra oculos, fu chiamato a dichiarar come mai avesse osato farsi eleggere, essendo laico. Rispose che aveva dovuto cedere alla forza del popolo tumultuante, e chiese perdono de' suoi peccati. Ma nel giorno seguente, avendo osato aggiungere a sua scusa, che prima di lui v'erano pure stati a Ravenna e Napoli vescovi eletti, sebbene laici, vi fu nel Sinodo uno scoppio irrefrenabile d'indignazione. Gli troncarono la parola in bocca, ordinando poi che fosse dagli assistenti preso a ceffoni e cacciato via. Furono bruciati il decreto della sua elezione e gli atti del suo pontificato. Stefano III, i vescovi, il clero, i cittadini presenti nella basilica pregarono [379] in ginocchio, facendo penitenza per aver tollerato un Papa così irregolarmente eletto, e accettato da lui la comunione. Fu inoltre, sotto pena d'anatema, proibito di far mai più salire al pontificato un laico. Venne anche deliberato, che non potesse in nessun caso essere eletto chi non era diacono o prete cardinale, e che non fosse lecito a nessuno portare armi nel luogo della elezione, la quale d'allora in poi doveva esser fatta solo dai cardinali, dai primati della Chiesa, e dai chierici di Roma, restandone escluso il popolo, che insieme coll'esercito avrebbe solo acclamato il nuovo eletto.
A far sempre più peggiorare le tristi condizioni della Città, contribuiva adesso non poco lo stato delle cose all'estero. Dopo la morte di Pipino infatti il regno franco era rimasto diviso fra i suoi due figli Carlomanno e Carlo, i quali subito furono in grave discordia fra di loro. Questa discordia toglieva al Papa ogni speranza d'aiuto da parte dei Franchi, e cresceva l'audacia dei nobili romani, specialmente di Cristoforo e di Sergio. Essi avevano fatto prima deporre Costantino, poi Filippo; avevano fatto eleggere Stefano III, e si credevano perciò in diritto di dominarlo, di farla in tutto da padroni. Nella lotta tra Carlomanno e Carlo parteggiavano pel primo, che li favoriva a dispetto del Papa, il quale mal tollerava la loro prepotenza. Questa discordia dei due principi franchi divideva gli animi anche in Italia, perchè bastava dichiararsi avverso ad uno di essi, per avere subito il favore dell'altro. E così venivano non poco alimentati i partiti in tutta la Penisola, ma sopra tutto in Roma ed in Ravenna. In quest'ultima città lottavano fra di loro i diversi aspiranti alla sedia arcivescovile, i quali andavan d'accordo solamente nel volerla rendere sempre più indipendente dal Papa, e ciò anche ora che l'Esarcato era stato a lui concesso da Pipino.
[380]
Bertarida, la madre dei due re franchi, faceva invano ogni opera per pacificarli fra di loro. A questo fine essa era venuta in Italia, e cercava imparentarli coi Longobardi. Riuscì infatti a concludere il matrimonio fra Carlo e Desiderata, figlia di Desiderio. Si parlava anche d'un matrimonio da concludersi fra Carlomanno ed un'altra longobarda. A tali notizie il Papa, che in questi accordi vedeva un grandissimo pericolo per gl'interessi della Chiesa, una minacciosa rovina di tutti i disegni così lungamente meditati, fu preso da una collera irrefrenabile. Il linguaggio da lui adoperato nella lettera che allora scrisse ai due fratelli era infatti tale che, sebbene essa si trovi nel codice carolino, venne da alcuni ritenuta apocrifa. Chiamava diabolica ogni unione «fra la nobilissima gente dei Franchi e la iniquissima dei Longobardi.» Sembrava credere che i due fratelli avessero già moglie, e quindi che i nuovi matrimoni proposti non potessero esser altro che concubinaggi. E concludeva: «abbiamo posto questa nostra lettera di ammonimento sulla tomba di S. Pietro, celebrandovi sopra la messa, e da questo luogo la mandiamo a voi colle lacrime agli occhi.» Carlo però non aveva moglie legittima, non v'era quindi ostacolo al suo matrimonio con Desiderata, che fu celebrato; ed il Papa si dovè rassegnare al fatto compiuto. A che invero avrebbe potuto giovare l'irritare Carlo e Desiderio? Si aggiungeva che Cristoforo e Sergio erano divenuti sempre più insopportabili, s'erano avvicinati a Carlomanno, e questi aveva mandato presso di loro a Roma il suo ambasciatore Dodone con alcuni militi, il che li aveva resi più audaci che mai. Inoltre dopo la deposizione di Filippo e la uccisione di Valdiperto, essi erano necessariamente divenuti nemici dei Longobardi, e per questa ragione Bertrada potè riuscire a riannodar buone relazioni fra il [381] Papa e re Desiderio, che tornò subito a largheggiar di promesse.
Sotto pretesto d'un religioso pellegrinaggio, il re longobardo con buon seguito d'armati s'avvicinava ora a Roma, per incontrarsi col Papa in S. Pietro, ed aiutarlo contro Cristoforo e Sergio, che erano sempre più minacciosi, e non si lasciarono prendere alla sprovvista (771). Dalla Città e dalla Campagna avevano chiamato i loro amici, radunandoli insieme coi pochi soldati franchi venuti coll'ambasciatore Dodone; e quando il Papa e Desiderio s'incontrarono in S. Pietro, tutto era pronto per la rivolta. Ma neppure il Papa se n'era stato ozioso, avendo dato la direzione della difesa ad uno degli alti ufficiali della Curia, il cubiculario Paolo, soprannominato Afiarta, uomo audacissimo. Questi, senza por tempo in mezzo, quando Stefano III tornava da S. Pietro al Laterano, chiamò il popolo alle armi, e levò il tumulto. Cristoforo e Sergio corsero colle loro genti al Laterano, chiedendo ad alte grida che si desse loro nelle mani l'Afiarta. Ma sfortunatamente per essi quelli che li seguivano, entrati nel Palazzo, non seppero trattenersi dal saccheggiarlo, e penetrarono armati perfino nella Basilica, dove il Papa s'era rifugiato. Che cosa precisamente seguisse allora noi non lo sappiamo. Stefano III scrisse d'aver corso pericolo della vita; ma il giorno dopo andava accompagnato da molti armati e dallo stesso Afiarta, ad abboccarsi nuovamente con Desiderio in S. Pietro. Sembra certo che Cristoforo e Sergio non si spinsero fino a far violenze al Papa, sia che essi non osassero porre le mani sul Capo visibile della Chiesa, nel tempio del Signore, sia che i loro seguaci allora li abbandonassero, o, come è più probabile, che l'Afiarta arrivasse in tempo per resistere. Certo è che il giorno dopo, quando Stefano III era tornato in S. Pietro, caddero ambedue nelle [382] mani dei difensori del Papa, il quale ordinò che restassero nella Basilica fino a notte avanzata, per farli poi, così almeno disse, coll'aiuto delle tenebre, condurre dall'Afiarta più sicuramente salvi in città. Ma invece, quando erano per entrar dentro le mura, sopraggiunsero improvvisamente alcuni manigoldi ivi appiattati, che li malmenarono e cavaron loro gli occhi. Cristoforo fu trascinato nel monastero di S. Agata, dove dopo tre giorni morì; Sergio invece fu tenuto prigioniero nel Laterano, donde poi scomparve. E Desiderio, che era stato il segreto istigatore di queste sanguinose violenze, alle quali non si può credere che rimanesse affatto estraneo il Papa, se ne tornò a Pavia.
In tal modo i due antichi capi dell'aristocrazia ecclesiastica, che si erano uniti ai Longobardi per poi tradirli, furono abbattuti. Ma papa Stefano, sempre debole e mutabile, s'era liberato da una tirannia, per cadere sotto un'altra. In Roma spadroneggiava ora l'Afiarta col favore del partito longobardo, di che erano scontentissimi i Franchi. Carlomanno infatti aveva favorito Cristoforo e Sergio; e neppure a suo fratello Carlo poteva piacere di vedere in Roma trionfare i Longobardi. Con ambedue i fratelli e con la loro madre Bertarida il Papa si scusava dicendo che tutto era stata colpa dell'ambasciatore Dodone, il quale s'era unito «coi diabolici promotori d'un tumulto, che aveva messo a grave pericolo la sua propria vita in Laterano. Quanto alle violenze usate a Cristoforo ed a Sergio, nel loro rientrare in Città, esse eran seguite contro ogni suo volere, per opera di volgari malfattori, che non si fu in tempo a fermare, perchè erano sbucati inaspettatamente dai loro nascondigli.» La lettera del Papa concludeva facendo le lodi di Desiderio, a cui egli diceva di dovere la propria salvezza, e che già cominciava a mantenere la promessa [383] di restituire le terre usurpate. Ma tutto ciò non era poi vero, come ben presto si vide.
Lo stato generale delle cose mutava ora non poco in Italia e fuori. Carlo, che era stato sempre avverso ai Longobardi, ripudiava la moglie Desiderata, rimandandola al padre, e ciò, come è naturale, apriva fra di loro un abisso. Il 4 dicembre 771 Carlomanno moriva, lasciando un figlio, che aveva solo un anno; ed i Grandi elessero Carlo a successore del fratello, volendo colla unione del regno aumentarne la forza. Il Papa, mutando ancora una volta la sua politica, si allontanava da Desiderio, che non manteneva le promesse fatte, e s'avvicinava a Carlo. Egli era molto irritato contro il re longobardo, perchè quando aveva a lui ricordato gli obblighi assunti, questi gli aveva risposto, che doveva invece essere contento, e ringraziarlo di quanto aveva già fatto per lui, che per opera sua era stato liberato dalla prepotenza di Cristoforo e di Sergio. Tutte queste agitazioni, tutti questi continui e pericolosi mutamenti turbarono assai l'animo debole ed incerto del Papa, già malato del male che doveva condurlo alla tomba. L'Afiarta poi non gli lasciava pace, perchè voleva apparecchiare a proprio vantaggio la nuova elezione; e quindi di suo arbitrio mandava in esilio, faceva mettere in carcere tutti i nobili più avversi a lui ed ai suoi. Finalmente ai primi di febbraio 772 Stefano III moriva, il che dette origine ad un altro grande mutamento in Roma e nell'Italia.
[384]
L'Afiarta riuscì a fare in modo, che la nuova elezione procedesse rapidamente e senza tumulti, non però a fare scegliere un papa quale a lui sarebbe convenuto. Sulla cattedra di S. Pietro saliva infatti Adriano I (772-95), uomo saldo nella fede religiosa, e di carattere fermissimo, che, a differenza del suo predecessore, non esitava mai. Quando infatti arrivarono a lui gli ambasciatori di Desiderio, facendo al solito larghe promesse in nome del loro signore, egli rispose, che non poteva prestar fede a chi aveva sempre mentito al Papa defunto. Tuttavia, siccome essi insistevano, e non volendo Adriano mancare del tutto all'usanza ed alle convenienze, mandò a Pavia ambasciatori il notaio Stefano, e Paolo Afiarta. Arrivati però che essi furono a Perugia, dovettero fermarsi, avendo saputo che Desiderio, già mutato animo, s'era impadronito di Faenza, di Ferrara e Comacchio, dopo di che le sue genti correvano liberamente per l'Esarcato, e minacciavano Ravenna, di dove l'arcivescovo chiedeva aiuto al Papa. La vedova di Carlomanno s'era in questo mezzo rifugiata coi figli presso Desiderio, il quale, per odio a Carlo, l'aveva accolta sotto la sua protezione, e voleva che il Papa facesse lo stesso, che anzi ne consacrasse i figli. Ma Adriano «si mostrò duro come adamante;» mandò anzi una seconda ambasceria a Pavia, [385] per far nuovi rimproveri al re longobardo, ed indagare più precisamente l'animo di lui.
In questo mezzo l'Afiarta, avendo compreso quanta era l'avversione del Papa per lui e pei Longobardi, aveva cercato di mettersi d'accordo con Desiderio. Questi voleva avere un abboccamento con Adriano, sperando, mediante nuove lusinghe, di poterlo tirare alle sue voglie; e l'Afiarta promise di condurglielo, «anche se fosse stato necessario trascinarlo con una corda al collo.» Aveva però fatto i conti senza l'oste, giacchè appena giunto a Rimini, venne arrestato dagli agenti dell'arcivescovo di Ravenna, che ne aveva ricevuto ordine dal Papa. Il quale, essendo deciso a farla finita colle prepotenze dell'Afiarta, aveva richiamato quasi tutti coloro che da questo erano stati esiliati, e fatti uscir di carcere quelli che aveva imprigionati. Ordinò inoltre una severa inchiesta, per sapere che cosa fosse mai avvenuto di Sergio. E fu scoperto che, otto giorni prima della morte di Stefano III, in sul far della notte, quel disgraziato era stato, per ordine dell'Afiarta e di altri, condotto sull'Esquilino, presso l'Arco di Gallieno, dove l'avevano ucciso e sepolto. Il cadavere venne infatti trovato con i segni ancora visibili delle percosse, e col capestro alla gola. I complici del delitto, appena scoperti, o fuggirono o vennero esiliati. Gli atti del processo furono mandati a Ravenna, perchè anche l'Afiarta venisse giudicato, e, se colpevole, punito della stessa pena. Ma l'arcivescovo, che era ardente partigiano dei Franchi, e però anche più del Papa nemico dell'Afiarta e dei Longobardi, lo fece condannare a morte, sentenza che venne subito eseguita. Il Papa se ne mostrò assai scontento, perchè egli che era fermo, non voleva appunto perciò apparire eccessivo.
In ogni modo adesso il partito dei Longobardi era in Roma sgominato, ed il loro capo Afiarta non poteva più [386] dar noia a nessuno. Desiderio faceva gravi minacce al Papa, che non si voleva accordare con lui; e subito dopo occupava l'Esarcato, entrava nella Pentapoli, e tra la fine del 772 e i primi del 773 era già in via verso il confine del Ducato romano. Adriano però non se ne stava inerte; ma raccoglieva gente dalla Campagna, dalle province, e dalle città, per esser pronto alla difesa. Nello stesso tempo scriveva, sollecitando aiuto da Carlo, che allora era spinto a venire in Italia anche da alcuni Grandi longobardi nemici di Desiderio. Ben presto infatti gli ambasciatori franchi arrivarono a Roma con la notizia che Carlo aveva deciso di passare le Alpi. E però, quando Desiderio era giunto a Viterbo, i messi del Papa, che aveva ripreso animo, si presentarono a lui, intimandogli di ritirarsi sotto pena d'anatema. Ed il re longobardo, saputo che i Franchi s'avanzavan davvero, si ritirò. Carlo, come già aveva fatto Pipino con Astolfo, prima di venire alle armi, anch'egli avanzò proposte di pace al re longobardo, promettendogli 14,000 soldi d'oro, se restituiva al Papa le terre promesse. Ma nessun accordo fu possibile.
Nella primavera del 773 i Franchi s'avanzarono perciò di nuovo verso l'Italia, divisi in due eserciti. Uno, che prese la via di Monte Giove, oggi Gran S. Bernardo, era comandato da Bernardo, figlio di Carlo Martello e zio di re Carlo. L'altro s'avanzò pel Cenisio, condotto dal Re in persona, che, arrivato alla Chiusa di S. Michele, tentò nuovamente d'indurre Desiderio a cedere colle buone. Ma fu tutto invano, e si dovè venire a battaglia. E qui più d'una leggenda altera la storia in modo, che resta assai difficile scoprire il vero. Si narra che il passaggio delle Alpi era così fortemente chiuso da un grosso muro, costruito dai Longobardi a propria difesa, che i Franchi, sgomenti, volevano ritirarsi, quando, per [387] divina volontà, i nemici si dettero invece a precipitosa fuga. Un'altra leggenda dice che ciò avvenne, perchè alcuni dei capi longobardi tradirono. Una terza narra che, quando re Carlo si trovò nella impossibilità di andar oltre, un giullare longobardo si presentò a lui, offrendosi d'indicargli un sentiero sconosciuto, pel quale poteva passare inavvertito. E così i Franchi, discesi nella pianura, avrebbero preso il nemico alle spalle, ponendolo in rotta. Si sarebbe allora chiesto al giullare che compenso voleva, ed egli, salito sopra un colle, e dato fiato al suo corno, avrebbe chiesto che fin là dove il suono s'udiva, il terreno fosse suo. E gli fu concesso. Ma lasciando da parte queste ed altre leggende, noi possiamo dir solo che tra Franchi e Longobardi vi fu una battaglia, vinta certamente dai primi, della quale però non sono conosciuti i particolari. Sembra che, mentre re Carlo combatteva di fronte i Longobardi, l'esercito comandato da Bernardo, avanzatosi rapidamente per una via poco conosciuta, li prendesse alle spalle, ponendoli così in fuga precipitosa. Desiderio allora si ritirò a Pavia per difendersi, e suo figlio Adelchi si chiuse in Verona, dove si era rifugiata anche Gerberga, la vedova di Carlomanno, coi figli.
Carlo s'avanzò subito coll'esercito, occupando varie terre importanti, fra cui Torino e Milano. Poi mise l'assedio a Pavia, che poteva resistere a lungo. Adesso lo scopo della guerra non era più, come a tempo di Pipino, di far restituire le terre alla Chiesa. Carlo non voleva venire a patti, faceva ai Longobardi addirittura una guerra di sterminio, per annientarne la potenza, ed impadronirsi di tutto il loro regno. Prevedendo che l'assedio, già regolarmente cominciato, dovesse andare in lungo, fece di Francia venir la moglie Ildegarda, e compiè parecchie secursioni, occupando altre città, che s'arresero senza [388] resistere. Fra queste fu anche Verona; e caddero allora nelle sue mani Gerberga e i figli, che finirono in un convento. Adelchi invece riuscì a scampare, e dopo essere rimasto qualche tempo a Salerno, se ne andò a Costantinopoli.
Essendo passati già sei mesi, senza che la fine dell'assedio si vedesse vicina, Carlo pensò d'andare quell'anno (774) in Roma, a passarvi, com'era allora il sogno di tutti i credenti, la Pasqua, che cadeva quell'anno il 2 di aprile. Il Re avrebbe anche avuto a Roma il modo d'accordarsi col Papa sulle grandi questioni politiche, che in conseguenza della guerra presente, dovevano sorgere inevitabilmente. Infatti, conquistato che avesse il regno longobardo, che cosa doveva farne? Non certo restituirlo all'Impero, perchè vi si sarebbe opposto Adriano I, nè egli era venuto in Italia per ciò. Darlo tutto alla Chiesa non avrebbe voluto, nè il Papa, disarmato come era, sarebbe stato in grado di governarlo. Tenerlo tutto per sè, sarebbe stato un mancare alle promesse fatte al Papa, col quale voleva andare d'accordo: per difenderlo e favorirlo egli era venuto in Italia, ed aveva intrapreso la guerra. Era dunque necessario intendersi, ed anche per ciò la sua gita a Roma riusciva assai opportuna.
Quello a cui già da un pezzo miravano i Papi, ed a cui mirava più che mai Adriano, adesso che il regno longobardo era vicino a cadere, trasparisce abbastanza chiaro dalle loro lettere e dalla così detta donazione di Costantino, la quale, sebbene sia un documento falso, compilato in questo tempo appunto da qualcuno della Curia, ha certo un notevole valore storico, perchè scopre chiaramente le mire ambiziose, che da lungo tempo aveva sempre avute la Chiesa. Questa donazione, che vien fuori adesso, ed è ben presto citata dai Papi come un documento autentico, diceva che l'Imperatore, dopo aver [389] concesso al Papa il palazzo Laterano insieme con i più alti onori imperiali, dopo aver riconosciuto la superiorità della Chiesa, e riconosciuto nei prelati e nei cardinali la dignità senatoria, concedeva «la città di Roma e tutti i luoghi, le province e città d'Italia al beatissimo papa Silvestro ed ai suoi successori.» Per quanto vaghe e fantastiche potessero sembrare queste concessioni, risulta sempre più chiaro che i Papi aspiravano a prendere in Italia il posto che l'Impero era costretto a lasciare; e i fatti provano che Adriano I non si contentava più delle sole terre che Pipino aveva tolte all'Impero. Appunto ora gli Spoletini, per evitar di cadere sotto il dominio di Carlo, erano venuti in Roma a fare atto di sottomissione al Papa, giurandogli obbedienza, facendosi, secondo l'uso di quel tempo, tagliare i capelli e radere la barba; ed il Papa aveva accettato, riconoscendo, quasi fosse già loro legittimo signore, il nuovo Duca che si erano scelto. Osimo, Fermo, Ancona e Città di Castello imitarono l'esempio di Spoleto. Che Adriano I però pensasse sul serio di potere in Italia succedere all'Impero ed ai Longobardi, non è facile crederlo. Egli doveva ben capire che, anche avendola, non avrebbe mai potuto, nè saputo governar tutta la Penisola. Il concetto perciò che a Carlo si presentava come più pratico e più facilmente attuabile, era quello di formare nella Lombardia e nella Liguria un regno franco, cedendo al Papa, oltre il Ducato di Roma, l'Esarcato e la Pentapoli, dandogli altrove anche i territori e le proprietà su cui la Chiesa avesse potuto dimostrare d'avere giusti diritti patrimoniali. Tutto questo però non era ancora ben definito nella mente di nessuno; era sempre un argomento fluttuante, aperto alla discussione, che si sarebbe potuta fare a Roma.
A trenta miglia di distanza dalla Città, presso il lago di Bracciano, Carlo incontrò i primi dignitari mandati [390] dal Papa. Ad un miglio di distanza dalle mura incontrò le Scholae della milizia, gli studenti con rami d'ulivo, tutta una moltitudine che s'avanzava cantando inni religiosi, portando in mano grandi croci, come s'era usato nel ricevere l'Esarca. Appena che Carlo li vide, discese da cavallo, ed andò a piedi sino a S. Pietro. L'antica chiesa, che la tradizione diceva costruita per ordine di Costantino, era assai diversa dalla presente, ed assai più bella, pel suo carattere veramente originale. Si trovava fuori delle mura, le quali ancora non circondavano il quartiere vaticano, che era come un sobborgo della Città. La vasta basilica a forma di croce aveva cinque navate, la principale delle quali finiva con un abside semicircolare. Alla chiesa s'arrivava traversando un atrio spazioso a forma di chiostro, detto il Paradiso di S. Pietro. Il pavimento così della chiesa come dell'atrio, si trovava alcune braccia più in alto della piazza. Vi si ascendeva per una scala larga quanto la facciata o muro esterno. Le novantasei colonne, nonchè i mattoni coi quali erano state costruite le mura e gli archi, erano stati tolti dal vicino anfiteatro di Nerone, e da altri edifizi pagani: si vedeva una grande varietà di sagome, di capitelli, di colonne. E questo gran tempio cristiano, composto coi frammenti di tempii pagani, sembrava sfavillar da lontano, perchè il tetto era formato da tegoli di bronzo dorato, tolti anch'essi dagli antichi tempii di Roma e di Venere. Nell'interno i diversi colori dei mosaici e delle pitture davano a quella chiesa una solenne e severa varietà, che armonizzava col sentimento religioso assai più del S. Pietro moderno, che sembra quasi un'immensa galleria. Molte erano le statue di marmo e di bronzo, alcune delle quali anch'esse tolte ai tempii pagani, e adattate ad uso cristiano. A tutto ciò s'aggiungevano ricchi broccati, veli a trapunto, lamine d'oro e d'argento. Nel [391] mezzo della croce era la Confessione dell'Apostolo, rivestita d'argento, coperta da un tempietto con sei colonne di onice a spira, con un centinaio di lampade e candele, le quali ardevano giorno e notte. Ivi erano tutti i giorni prostrati in ginocchio migliaia di fedeli d'ogni sesso ed età, d'ogni condizione sociale, venuti da tutte le parti del mondo a chiedere perdono dei loro peccati. Insomma era un tempio unico veramente, che poteva dirsi il centro religioso del mondo.
In cima della scala d'ingresso, circondato dal clero, da numeroso popolo, il Papa sin dal mattino aspettava il Re, che nel vederlo cadde in ginocchio ai piedi della scala, ed in ginocchio ne salì gli scalini, baciandoli l'un dopo l'altro. Giunto che fu dinanzi alla porta, il Papa lo baciò, e poi strettagli la mano, traversato con lui l'atrio, lo condusse nel tempio fino alla Confessione, dove il clero ed i cantori intonarono il versetto: «Benedetto chi viene in nome del Signore». Quel giorno stesso, sabato santo, 1º di aprile, Re e Papa, circondati da nobili franchi e romani, scesero nella Confessione, dove era la tomba di S. Pietro, e si giurarono mutua fedeltà. Dopo di che andarono a S. Giovanni in Laterano, dove il Re assistette al battesimo amministrato dal Papa. Il giorno seguente, era la Pasqua, ed il Re ascoltò la messa solenne, celebrata in S. M. Maggiore dal Papa. Il terzo giorno, che era la prima festa di Pasqua, vi fu gran banchetto; il quarto venne solennizzato in S. Pietro, dove colle lodi del Santo furono celebrate quelle del Re; il quinto in S. Paolo.
Ma più importante di tutti fu il sesto giorno, 6 aprile, quarta festa di Pasqua. Il Papa usciva di città, in solenne processione, e s'incamminava nuovamente col Re a S. Pietro, dove prese a scongiurarlo perchè volesse adempiere interamente le promesse fatte da Pipino, e [392] da lui confermate. Allora, secondo il Libro pontificale, che è la fonte quasi unica che qui abbiamo, Carlo si fece leggere la donazione fatta da Pipino a Quierzy, la quale venne da lui e dai suoi Grandi riconfermata. Ordinò poi che venisse trascritta dal suo cappellano e notaio, nuovamente impegnandosi a concedere le terre in essa menzionate, facendone anche più specificatamente designare i confini, che si trovano infatti ripetuti nel citato racconto. Questa carta di donazione, che noi più non abbiamo, sottoscritta dal Re, dai suoi vescovi, abati, duchi e conti, fu messa sull'altare di S. Pietro; poi dentro la sacra Confessione; e finalmente venne data al Papa con solenne giuramento che sarebbe osservata. Una seconda copia, di mano dello stesso notaio Eterio, fu, a maggiore solennità e sicurtà, messa nella Confessione, là dove era il corpo di S. Pietro, sotto gli Evangeli, che ivi si solevano baciare: una terza restò nelle mani del Re. Questa narrazione ci è data dal Libro pontificale, nella vita di Adriano I, il cui autore dice d'aver visto coi propri occhi l'atto di donazione. Ciò nondimeno, sulla esistenza di esso e su tutto il racconto si sono fatte dispute infinite, che hanno dato origine ad una intera letteratura: si è parlato di falsificazioni, d'interpolazioni, e simili. Il resultato della lunga disputa è stato però, che oggi si presta fede allo scrittore della vita d'Adriano: le divergenze sorgono piuttosto sul modo d'interpetrare le sue parole.
Secondo lui adunque l'atto di donazione dava al Papa l'Esarcato, nella sua più antica e vasta estensione. Non ricordava espressamente la Pentapoli, ma par certo che intendesse d'includervela; aggiungeva poi i Ducati di Spoleto e di Benevento, la Toscana intera e la Corsica, la Venezia e l'Istria. Così il nuovo regno che Carlo avrebbe serbato esclusivamente per sè, si sarebbe ridotto in assai [393] angusti confini nell'Italia settentrionale, ed il Papa sarebbe divenuto padrone di quasi tutta l'Italia centrale e meridionale, con una parte anche della settentrionale. È certo però, che i confini delle terre concesse al Papa, al di fuori del Ducato romano, dell'Esarcato e della Pentapoli, sono indicati in un modo assai indeterminato. E bisogna concludere, che o s'intese accennar solamente ai beni patrimoniali che la Chiesa affermava di possedere nelle altre province, ed il cui possesso credeva di poter documentare; o se si volle veramente promettere in queste un vero e proprio diritto di sovranità, siffatte promesse non furono certo mantenute. E ciò potè essere avvenuto non perchè il Re avesse mutato animo, o avesse voluto ingannare; ma perchè ben presto dovette accorgersi che il Papa non era in grado di conservare neppur quello che gli era stato già concesso. In ogni modo, anche volendo, nel 774 era assai difficile determinare con precisione quello che gli si sarebbe veramente potuto dare. Da una parte le pretese del Papa crescevano ogni giorno; e da un'altra si trattava di conceder quello che si doveva ancora conquistare. L'incertezza ne seguiva perciò come necessaria conseguenza, ed apriva la porta a molte discussioni, a cui solo l'esito finale della guerra poteva porre un termine.
Tra la fine di maggio ed i primi di giugno, re Carlo, fatta a Roma un'assai breve dimora, se ne tornava a Pavia, che dopo avere già resistito circa otto mesi, dovette finalmente arrendersi. E qui la leggenda viene di nuovo a mescolarsi colla storia. Si narra che una figlia di Desiderio, innamoratasi di Carlo, gli facesse, per mezzo d'un proiettile spinto attraverso il Ticino, pervenire una sua lettera, e che dalla risposta avuta s'accendesse vieppiù nel suo amore. Furtivamente allora prese le chiavi della città, che erano sospese al letto del padre, e di notte aprì [394] la porta al nemico. Quando però ella andò incontro a Carlo, venne dai cavalieri franchi, che furiosamente s'avanzavano, calpestata ed uccisa. Tutto questo sembra significare, che Pavia s'arrese non solo per la fame e per le malattie, ma ancora per le discordie interne dei Longobardi. Il re Desiderio fu condotto via, con la moglie e la figlia, in Francia, dove morì oscuro monaco. Il valoroso Adelchi s'era già, per la resa di Verona, che alcuni vorrebbero avvenuta dopo quella di Pavia, rifugiato a Costantinopoli. Tutte le altre terre longobarde, nell'alta e nella media Italia, cedettero l'una dopo l'altra. E così può dirsi colla caduta di Pavia caduto il regno dei Longobardi, che era durato più di due secoli.
Carlo, che era giunto appena alla età di circa trentadue anni, ed aveva da ogni parte assicurato il suo vasto regno, reso vastissimo dalle conquiste, prese ora il titolo di re dei Franchi, re dei Longobardi e patrizio dei Romani. La sua cancelleria cominciò nei pubblici atti a computare gli anni del regno dalla presa di Pavia, e così fecero anche i privati: il nome dell'Imperatore di Costantinopoli fu in questi documenti come dimenticato. Il nuovo regno dei Franchi nell'alta Italia si estese al di là dell'Isonzo fino all'Istria; ma la supremazia di fatto esercitata da Carlo si allargò a tutta l'Italia centrale. Spoleto che aveva giurato obbedienza al Papa, se ne allontanò, [395] per sottomettersi a Carlo. Il duca di Benevento, Arichi, continuava però a farla da sovrano indipendente; quello del Friuli s'era sottomesso assai di mala voglia, ed aspettava una qualche occasione per ribellarsi. In ogni modo il titolo di Patrizio dei Romani assunto da Carlo non era più un semplice ornamento, ma cominciava ad acquistare un valore reale, perchè egli era divenuto davvero il protettore e difensore della Chiesa. Infatti anche le province più esplicitamente proprie di essa giurarono a lui fedeltà. Par che egli si serbasse il diritto di decidere le condanne capitali, togliendole alle autorità ecclesiastiche; più di una volta infatti lo vediamo sedere pro tribunali, e giudicare nella stessa Roma. Con grande accorgimento non assunse però mai il titolo di re d'Italia, ma quello solamente di re dei Longobardi; e non volle aggregare alla Francia neppur quella parte d'Italia, che ritenne per sè. Ne formò come una provincia separata, quasi un regno autonomo, cui lasciò le antiche istituzioni e gli antichi Duchi: in qualche luogo pose, invece del Duca, un Conte. A Pavia però cominciò subito ad ordinare un'amministrazione nuova, pigliando per sè i beni della corona longobarda, una parte dei quali dette ad alcuni conventi in Francia, il che si potrebbe dire un principio di assimilazione.
Ad un tratto re Carlo fu costretto a ripassare improvvisamente le Alpi, per correre a domare la ribellione dei Sassoni, contro i quali vinse nel 775 una grande battaglia, dopo di che tornò, come vedremo, in Italia a sottomettere il duca del Friuli; ma dovette di nuovo traversare le Alpi, per continuare contro i Sassoni quella lotta, che pareva non dovesse aver mai fine. Sebbene però la resistenza loro e degli Alamanni fosse oltre ogni dire ostinata, gli uni e gli altri, come popolazioni più omogenee, finirono coll'essere assimilati ai Franchi. Lo [396] stesso non potè mai seguire degl'Italiani, che resistettero assai più debolmente e furono più facilmente domati. Durante i due secoli vissuti insieme, Longobardi e Romani s'erano fusi in un popolo solo, e quindi v'era una generale e persistente ripugnanza degli uni e degli altri contro i Franchi, soprattutto poi nei Duchi ed in genere nella classe governante. Nè meno profonde erano queste antipatie nelle terre occupate ancora dai Bizantini, i quali, essendo irritatissimi per ciò che era stato loro tolto dai Franchi, si sforzavano in ogni modo di seminare nelle popolazioni odio contro di essi. Tutto ciò fu causa di grandi disordini, cui se ne aggiunsero, come inevitabile conseguenza, altri di natura diversa, ma non meno gravi.
Gli arcivescovi di Ravenna avevano, noi già lo vedemmo, dato origine a molti dissensi e conflitti con Roma; e questi, nel disordine presente, rinascevano più vivi che mai. L'arcivescovo Leone era riuscito nel 771 ad assumere l'alto ufficio, vincendo il suo rivale con l'aiuto di Carlo ed il favore del Papa, al quale si dichiarò allora obbediente; ma adesso, mutati i tempi, cominciò invece a fare opposizione. Gli pareva che, cessato in Ravenna il dominio bizantino, l'Arcivescovo dovesse nella sua sede assumere quella medesima autorità che il Papa assumeva in Roma. Si faceva forte non solamente delle speciali condizioni in cui s'era sempre trovato il seggio episcopale nell'Esarcato; ma anche della Prammatica sanzione, che dava ai Vescovi facoltà di nominare i giudici, i quali erano anche amministratori. — Non s'era a lui stesso rivolto Adriano I, quando si trattava di far giudicare l'Afiarta; non aveva egli fatto eseguire la sentenza di morte, senza neppur consultare il Papa? Le facoltà concesse dall'Imperatore ai Vescovi non potevano diminuire per la donazione fatta da Carlo a quello di Roma; nè potevano esser distrutte dall'autorità che il titolo di Patrizio dava al Re. [397] I mutamenti avvenuti erano stati fatti in nome del popolo romano, il quale non poteva certo essere tenuto superiore all'Imperatore. — Così pare che ragionasse l'arcivescovo di Ravenna: certo si può affermare che la sua condotta appariva guidata da queste idee. E però egli voleva nell'Esarcato e nella Pentapoli assumere la stessa posizione (e per le stesse ragioni), che il Papa assumeva nelle terre da cui l'Impero si ritirava. Trovò, è vero, una viva resistenza nella Pentapoli, che si dichiarò favorevole al Papa; ma nell'Esarcato gli riuscì d'insediare i suoi ufficiali, facendo respingere quelli mandati da Roma. L'Arcivescovo aveva avuto l'accortezza di mostrarsi avversissimo ai Longobardi, favorevole ai Franchi; e però Carlo non poteva osteggiarlo. Un tale stato di cose riusciva utile al Re, per tenere un po' a freno l'ambizione sempre crescente del Papa.
Di tutto ciò Adriano I era naturalmente scontentissimo, e ne moveva lamento a Carlo, incitandolo a tornare in Italia, per ristabilirvi l'autorità della Chiesa, e mantenere le promesse fatte. E continuando ne' suoi rammarichi, gli rendeva conto d'una congiura tramata in Italia, d'accordo con Costantinopoli, contro i Franchi. Egli esagerava non poco la parte che solo indirettamente potè avervi presa l'arcivescovo di Ravenna, il quale s'era, come dicemmo, dichiarato amico dei Franchi; e quella ancora che vi avevano presa i duchi di Benevento e di Spoleto, che nuovamente s'erano alienati da lui. Il Papa affermava, fra le altre cose, che una lettera, nella quale il patriarca di Grado gli rendeva conto della congiura, eragli pervenuta coi suggelli rotti dall'Arcivescovo, che l'aveva aperta per renderne conto ai due Duchi coi quali cospirava. La verità è che una cospirazione si tramava davvero da parecchi duchi longobardi contro i Franchi e contro il Papa. Chi diceva [398] che Rodogaudo duca del Friuli aspirava alla corona di Desiderio, e chi diceva che i Longobardi volevano ripristinare l'interregno che s'era avuto dopo la morte di Clefi. Si aggiungeva che da Costantinopoli erano partite navi, comandate da Adelchi, per secondare la trama. È possibile che l'arcivescovo Leone la favorisse, perchè essa riusciva a danno del Papa, col quale si trovava in lotta; ma non è credibile che egli avesse voluto cooperare alla cacciata dei Franchi, dei quali era amico, ed alla ricostituzione del dominio longobardo, al quale s'era manifestato avverso. Sembra però certo che a Spoleto si era tenuta un'adunanza, nella quale fu deliberata la congiura di cui il Papa, esagerandola, avvertiva re Carlo.
Questi, pigliando la cosa con molta calma, cercò prima di tutto di separar dagli altri cospiratori i duchi di Spoleto e di Benevento, promettendo di lasciar loro una maggiore indipendenza. Oltre di ciò, la notizia arrivata in Italia nel febbraio del 776, che l'imperatore Copronimo era morto, levava ai cospiratori il principale appoggio su cui avevano fatto assegnamento. Intanto il Re, che si trovava allora libero dalla guerra contro i Sassoni, si mosse con poche genti verso l'Italia, dove pervenne colla rapidità del fulmine, ed attaccò battaglia col solo Rodogaudo, che fu subito vinto, e pare anche ucciso. Così Carlo fu padrone del Friuli, avendo ben presto superato anche la poca resistenza fatta da Treviso, dove il 14 aprile 776 potè celebrare la Pasqua. Se nella sua prima venuta in Italia egli s'era dimostrato assai indulgente, adesso, invece, irritato dalla congiura, si dimostrò severissimo. Molti furono, per la confisca dei loro beni, ridotti alla miseria, e quando non vennero chiusi in carcere, andarono pel mondo raminghi. Fu imprigionato tra gli altri anche il fratello dello storico Paolo Diacono. E questi, dopo aver lodata la generosità dimostrata dal Re nella sua prima [399] venuta in Italia, dovette ora lamentare la lunga e crudele prigionìa del proprio fratello, la cui moglie andò limosinando coi figli, laceri e privi di tutto. Carlo cominciò adesso a porre nelle città italiane, molto più che non aveva fatto prima, Conti invece di Duchi. I primi erano meno potenti, più sottomessi a lui che li nominava, e quindi più obbedienti. Ai confini del regno, per meglio difenderli, egli soleva costituire le Marche, riunendo in una più contee, che affidava a conti di Marche, i quali erano perciò non meno potenti dei duchi: e così fece ora nel Friuli. Dopo di ciò, dovendo da capo ripigliare la guerra contro i Sassoni, ripartì dall'Italia, senza avere neppure visitato il Papa, verso il quale par che fosse questa volta un po' freddo, dimostrando invece, almeno in apparenza, qualche favore all'arcivescovo di Ravenna. Vinti dopo fiera resistenza i Sassoni, Carlo dovette andare rapidamente verso la Spagna, e, passati i Pirenei, mosse guerra agli Arabi, prese Pamplona, e s'avanzò fino a Saragozza. Ma allora fu subito costretto a tornare indietro per combattere di nuovo i Sassoni. La sua retroguardia venne per via fieramente assalita dai Baschi, e addirittura distrutta nella celebre rotta di Roncisvalle (778), nella quale morì il fiore dei paladini franchi, e fra gli altri quell'Orlando, il cui valore è tanto celebrato nei poemi cavallereschi. Ciò non ostante, Carlo continuò il suo cammino, inflisse nel 779 una nuova disfatta ai Sassoni, e poi ripassò per la terza volta le Alpi, venendo in Italia, dove lo stato delle cose imperiosamente lo chiamava.
A Ravenna allora era morto l'arcivescovo Leone, ma non era cessata del tutto l'opposizione al Papa, al quale avversissimi si mostravano sempre più anche i duchi di Spoleto e di Benevento. Questi davano animo a tutti i nemici, a tutte le terre che a lui si ribellavano, come [400] ora aveva fatto Terracina, che, seguendo l'esempio di Gaeta, s'era dichiarata pei Bizantini. Di ciò il Papa amaramente si doleva col Re, invocandone l'aiuto. Ed ora per la prima volta faceva ufficialmente allusione alla donazione di Costantino a Silvestro. Nel determinare però quali erano i dominii che pretendeva per la Chiesa, si manteneva in limiti assai più modesti di quelli indicati nella donazione. Infatti egli accennava solamente ai patrimoni spettanti a S. Pietro nella Toscana, nello Spoletino, nel Beneventano, nella Corsica e nel territorio sabino, patrimoni che i Longobardi avevano usurpati, ma che erano della Chiesa, in conseguenza di donazioni fatte da Imperatori, da Esarchi e da altri per la salute delle loro anime, come poteva con documenti provare. Sembrerebbe perciò che, ad eccezione del Ducato romano, dell'Esarcato e della Pentapoli, si trattasse, per ora almeno, solo di poderi, di terre, e di case sparse in diversi luoghi. Il Libro pontificale avrebbe quindi, in modo più o meno indeterminato e vago, esagerato, mutando il diritto di proprietà sopra alcuni terreni in diritto di sovranità sulle province in cui essi si trovavano.
Il Papa si rivolgeva ora a Carlo, come a legittimo signore, chiedendogli ciò che secondo lui apparteneva alla Chiesa, difendendosi nello stesso tempo dalle calunnie che gli erano state fatte da' suoi nemici circa la corruzione del clero, circa il commercio degli schiavi, che dicevano da lui favorito, e che egli invece aveva condannato e cercato d'impedire. Ma quello che è più notevole, come prova della grandissima autorità che il Papa riconosceva sempre nel Re, gli chiedeva ora il permesso di tagliare alberi nei boschi dello Spoletino, per avere le travi necessarie a restaurare il tetto della chiesa di S. Pietro. Ciò dimostra ad evidenza che Adriano era ben lungi dal presumere di volerla far da padrone in quasi [401] tutta l'Italia centrale e meridionale, come vorrebbe far credere il Libro pontificale.
Verso la fine del 780 Carlo passava il Natale a Pavia con la moglie Ildegarda, e i figli Carlomanno e Lodovico. Sebbene fosse questa volta venuto in Italia senza un esercito, la sua dimora fu pure importantissima, per le leggi o capitolari che allora pubblicò, cercando di dare assetto definitivo al governo del paese. Alcune di queste leggi, già pubblicate in Francia, vennero ora sanzionate in Italia; altre furono fatte specialmente per essa, e quasi tutte a vantaggio della Chiesa. A questa egli assicurava la riscossione delle decime, aumentava le rendite; cercava di regolare anche il pagamento dei censi che le eran dovuti, di determinare la dipendenza dai metropoliti, e di render sicura l'amministrazione della giustizia per parte dei conti. Tutto ciò, com'è naturale, di pieno accordo e con soddisfazione del Papa, col quale il 15 aprile 781 passava la Pasqua in Roma, dove fece da lui ribattezzare il proprio figlio Carlomanno, che prese allora il nome di Pipino. E perciò d'ora in poi Carlo nelle lettere papali è chiamato sempre compater noster. Nello stesso giorno Pipino venne dal Papa consacrato re d'Italia, e Lodovico re d'Aquitania: atto questo di pura forma, giacchè l'uno di essi aveva appena compiuto quattro anni, e l'altro due solamente.
Certo tutto ciò accresceva non poco l'autorità del capo della Chiesa, il quale sembrava assumere ognor più la facoltà di fare e disfare i regni. Ma il potere supremo, effettivo e reale, anche in Italia, rimaneva nelle mani di Carlo, il quale solo firmava i pubblici documenti del regno, che uscivano ora dalla cancelleria franca.
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Adesso tutto sembrava andare a seconda di re Carlo. In Costantinopoli a Costantino Copronimo era successo Leone IV iconoclasta, ed a questo succedeva nel 786 la vedova Irene, la quale venne incoronata insieme col figlio Costantino VI di soli dieci anni. Ella, che era favorevole al culto delle immagini, ed aveva, come donna, bisogno di consolidare la sua posizione sul trono, fece subito adesione alla Chiesa di Roma, e mandò a Carlo ambasciatori, chiedendo sposa per suo figlio la primogenita del Re, Rotruda, la quale aveva soli otto anni. Così pareva si potesse sperare non solo che a Costantinopoli s'andasse d'accordo coi Franchi, ma che non si dovesse porre alcun ostacolo al libero possedimento concesso alla Chiesa dell'Esarcato, della Pentapoli e delle terre sulle quali essa poteva dimostrare di avere legale diritto. Se non che appunto quando sembrava che si fosse per venire ad accordi, Carlo dovette improvvisamente partire, per ripigliare l'eterna guerra contro i Sassoni, di nuovo violentemente insorti. Egli li vinse e punì severamente, avendone, si dice, in un sol giorno condannati a morte 4500. Ma questo, invece di domarli, li fece insorgere con maggior violenza. Nell'anno 783, in cui perdette prima la moglie e poi la madre, dovè combatterli da capo, e dette finalmente ad essi un'altra decisiva [403] disfatta. Dal campo di battaglia, che lasciò coperto di cadaveri, se ne tornò ricco di preda in Francia, ove diede sepoltura alla madre ed alla moglie, sposandone ben presto un'altra, Fastrada. Nella state del 785 egli dette ai Sassoni una nuova e grande disfatta. Il loro celebre capo Viduchindo, che li aveva sempre guidati, si sottomise e si convertì al cattolicismo, il che fu come il principio della sottomissione e conversione di tutto il popolo. Ma per arrivare a un tal resultato Carlo dovette successivamente spedire contro i Sassoni undici eserciti, nove dei quali furono comandati da lui in persona.
Sebbene in questo mezzo le cose d'Italia fossero andate sempre migliorando, e sempre a vantaggio dei Papi, favoriti da coloro che governavano la Penisola in nome di Pipino, ma sotto l'autorità effettiva di Carlo, pure Adriano I non era soddisfatto. Egli si rallegrava dei trionfi del Re e della conversione dei Sassoni, ma chiedeva con crescente insistenza le giustizie di S. Pietro, senza determinar mai con precisione quali e quante veramente fossero: pareva che le andasse di continuo allargando. Ora insisteva più specialmente sul territorio della Sabina, che era stato, egli diceva, sempre promesso, non però mai reso. E di simili lamenti son piene le sue lettere dal 781 al 783. — Il Re, così concludeva il Papa, aveva fatto fare le sue indagini, per accertarsi dello stato vero delle cose; s'erano per tutto interrogati gli anziani, e dopo essersi venuto in chiaro d'ogni cosa, non s'era poi nulla concluso. — Le stesse domande il Papa faceva alla imperatrice Irene, per quelle terre che erano state tolte alla Chiesa dai Bizantini nella Calabria, in Sicilia e altrove. E procedendo d'una cosa in un'altra, finiva col proporre anche un pieno accordo della Chiesa d'Oriente con quella d'Occidente, «affinchè non continuasse ad esservi [404] ancora un'infausta scissura, quando si parlava sempre di concordia e di amicizia.»
Certo le cose in Italia non erano quiete. Il Papa si doleva sempre di non aver le sue terre; Arichi duca di Benevento, ritenendosi affatto indipendente, minacciava di continuo i vicini per la voglia che aveva d'ingrandire il proprio Stato. Carlo tornava perciò da capo in Italia, e dopo aver passato a Firenze il Natale del 786, continuava il suo cammino verso Roma, avanzandosi alla volta di Benevento. Arichi s'era armato con la intenzione di difendersi in Salerno, dove poteva dal mare ricever soccorso; ben presto però venne ad un accordo col Re. Il Duca si sottomise a lui nel modo stesso in cui i suoi antecessori erano stati sottomessi al re dei Longobardi; pagò un'indennità, e diede in ostaggio il proprio figlio Grimoaldo. Ma ora si turbarono le relazioni con Costantinopoli. Nel 787 andò a monte il matrimonio della figlia di Carlo con Costantino figlio d'Irene, il quale nell'anno seguente sposò una moglie armena. Carlo tuttavia non poteva adesso pensare a ciò, perchè, celebrata la Pasqua del 787 a Roma, dovette tornare in Germania a combattere il duca di Baviera, che in quell'anno finalmente si sottomise del tutto.
Verso la fine del 787 s'udì ad un tratto che nell'antica Calabria era sbarcato Adelchi. Il Papa affermava che questi veniva in aiuto del duca Arichi, con intenzione di metterlo alla dipendenza di Costantinopoli, per poi fare insieme con esso uno sbarco a Ravenna. Ma quali che fossero siffatti disegni, ben presto il duca Arichi e suo figlio Romualdo morivano, lasciando al governo la vedova Adalberga, accorta e risoluta, che parteggiava manifestamente pei Franchi. Ella chiese a re Carlo che liberasse l'altro suo figlio Grimoaldo, tenuto sempre in ostaggio. Questi fu rimandato, e subito prese possesso [405] del Ducato, senza punto occuparsi del Papa, nè delle richieste che esso continuamente faceva di terre, di diritti, di giustizie di S. Pietro. Il Duca s'apparecchiava intanto alla guerra contro i Bizantini, d'accordo con Carlo, occupato sempre in Germania ove ben presto dovette combattere gli Avari. Questi erano gli avanzi che, scampati alla rovina del loro impero ai tempi di Eraclio, s'erano rifugiati nella Pannonia, e per un momento ancora ricompariscono sulla scena, avanzandosi un momento sino al Friuli.
Nel 788 soldati bizantini sbarcavano nell'Italia meridionale in aiuto di Adelchi; e contro di essi marciavano insieme con alcuni Franchi mandati da Carlo, Grimoaldo coi suoi Beneventani e Ildebrando cogli Spoletini. I Bizantini furono ricacciati in Sicilia; Adelchi si ritirò, senza che se ne sentisse più parlare. E per tutti questi fatti la potenza e l'autorità di Carlo ne crebbero a dismisura in Italia. Egli dimostrava però sempre una grandissima deferenza verso il Papa, così nelle grandi come anche nelle piccole cose. Gli chiedeva perfino, quasi ad autorità superiore nell'Esarcato, il permesso di esportare da Ravenna alcuni marmi e mosaici, per servirsene nelle costruzioni che voleva fare in Aquisgrana ed altrove.
La sua operosità pareva che non dovesse aver mai posa: ogni giorno sorgevano nuovi pericoli, ai quali egli prontamente riparava. Nel 791 era occupato nella guerra contro gli Avari in Germania e nel Friuli. Nel 792 dovè reprimere una congiura del suo figlio naturale Pipino, detto il gobbo, il quale si ribellò perchè era assai scontento d'essere stato escluso dalla successione al trono a vantaggio, come sembrava credere, del fratello legittimo, a cui s'era, già lo vedemmo, dato recentemente lo stesso suo nome. Ma ben presto fu vinto e chiuso in un convento. Anche Spoleto e Benevento davano assai da fare colle loro continue minacce di ribellione.
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A questo tempo appunto, quando cioè gli Avari minacciavano il Friuli, dovrebbe riferirsi il fatto cui accenna una carta, che ha la data dell'824. Volendosi restaurare le mura di Verona per metterla in istato di difesa, sarebbe sorta una grave disputa tra la città ed il Vescovo, a cui essa voleva imporre un terzo della spesa, quando egli credeva di esser tenuto a pagarne solo un quarto. Si venne perciò ad una specie di giudizio di Dio, il quale riuscì a favore del Vescovo. Da una tal narrazione s'è voluto dedurre, che fin d'allora esistesse un principio d'autonomia in qualcuna delle città longobarde. Ma non si è punto sicuri che la carta sia autentica, ed assai probabilmente essa accenna a fatti di tempi posteriori.
Nel por mano alla sua opera legislativa e di organizzazione dello Stato, Carlo si occupò continuamente della organizzazione della Chiesa ed anche delle questioni religiose. Nel 794 radunava un Sinodo a Francoforte, pigliando parte vivissima alle dispute teologiche. In una di esse combattè la così detta dottrina dell'Adozianismo, che era venuta di Spagna, ed ammetteva la doppia natura di Gesù Cristo, dichiarando che, come Verbo, era sostanzialmente figlio di Dio, come uomo era figlio solo per grazia e libera volontà del Padre. L'altra disputa religiosa, non meno vivace, fu d'indole diversa. Il settimo Concilio generale tenuto a Nicea (787), nel sanzionare il culto delle immagini, aveva ammesso che alle immagini dei Santi si dovesse come alla Croce rivolgere la preghiera, accendere i lumi, bruciare l'incenso. Tutto ciò poteva non sembrare eccessivo in Oriente, dove s'accendevano i lumi e si bruciava l'incenso anche dinanzi all'immagine dell'Imperatore; ma così non era in Occidente. E la cosa divenne anche più grave, quando nel tradurre, per ordine di papa Adriano, le conclusioni del [407] Concilio, alla parola onorare i Santi, quale era nell'originale, si sostituì l'altra ben diversa, adorare. E quindi il Re con ragione, dopo essersi opposto all'Adozianismo, si oppose anche alla pretesa che ai Santi si prestasse lo stesso culto in forma di latria, dovuto alla Trinità. Se non che questo era un combattere mulini a vento, essendosi a Nicea parlato di onorare, non di adorare. Il Papa perciò, senza consentire alla condanna (e non avrebbe potuto) delle recenti conclusioni di Nicea, non le approvò neppure. E ciò egli fece, non solamente per la forma insolita che avevano, ma anche perchè voleva far conoscere il suo malcontento a Costantinopoli, dove non mostravano nessuna voglia di restituire le terre che egli diceva usurpate alla Chiesa nell'Italia meridionale. In sostanza si dimostrò contento delle deliberazioni prese a Francoforte. Il 10 agosto dello stesso anno 794, re Carlo perdeva la moglie Fastrada, e subito dopo dovette ripigliare ancora una volta la guerra sassone, che fu continuata energicamente nel 795.
Il giorno di Natale del medesimo anno moriva Adriano I, sotto il cui papato erano, come abbiam visto, seguiti avvenimenti di grande importanza, sebbene non sempre per sua personale iniziativa. È ben vero che egli chiamò in Italia re Carlo, il quale distrusse il regno longobardo ed iniziò il potere temporale dei Papi; ma pareva che ciò fosse avvenuto più per forza inevitabile delle cose, che per opera personale di lui. Nelle lettere a Carlo egli ricordava sempre Costantino, «che aveva fatto la gran donazione, perchè non era giusto che l'Imperatore terreno esercitasse la propria potestà là dove l'Imperatore celeste aveva costituito il suo principato sacerdotale.» E teneva tanto alla propria autorità, che si dolse col Re, quando questi accolse alcuni abitanti della Pentapoli, i quali erano andati a lui senza averne ricevuto il permesso [408] dal Papa. «Come i Franchi, egli scriveva, non vengono a Roma senza licenza del Re, così costoro non avrebbero dovuto andare in Francia senza licenza del Papa. E come questi rispetta il Patriziato del Re, così il Re dovrebbe rispettare quello di S. Pietro.» Nè voleva ammettere che Carlo s'ingerisse negli affari di Ravenna, perchè l'Esarcato e la Pentapoli appartenevano ormai a S. Pietro. Ma queste erano tutte più o meno teorie; padrone di fatto era il Re. Adriano potè evitare molti pericoli, riconoscendo il vero stato delle cose, e sottomettendosi con prudenza alla necessità, non ostante le sue proteste e le continue riserve per mantenere intatti i diritti della Chiesa. Il suo successore, che fu d'un carattere più intransigente, e rispettava un po' meno le apparenze, ebbe ben presto, come vedremo, a soffrirne gravi conseguenze.
Il giorno dopo la morte di Adriano I veniva eletto Leone III, consacrato il 27 dicembre 795. Il suo predecessore, che nel 772 datava ancora le Bolle pontificie secondo gli anni in cui l'Imperatore aveva governato, cominciò, dopo che Carlo fu padrone d'Italia, a datarle secondo gli anni del proprio pontificato, riconoscendo però sempre la superiore autorità dell'Imperatore. Leone III invece le datò subito secondo gli anni del regno di Carlo «re dei Franchi e dei Longobardi, Patrizio [409] dei Romani, dopo la sua conquista d'Italia.» Così fu rotto il legame della Chiesa con Costantinopoli, da cui il nuovo Papa veniva di fatto a dichiararsi indipendente. Il suo primo atto fu di annunziare a Carlo la morte del predecessore e la propria elezione, inviandogli le chiavi d'oro di S. Pietro e la bandiera della città di Roma, come a Patrizio, di cui egli senza esitare riconosceva la superiore autorità. Lo invitava nel medesimo tempo a mandar suoi messi in Roma, per ricevere il giuramento di fedeltà dal popolo.
Il concetto che Leone III s'era formato del nuovo stato di cose lo fece chiaramente vedere anche nel celebre mosaico da lui ordinato, per metterlo nel triclinio del Laterano. Esso è ora scomparso, ma una riproduzione, fatta nel 1743 da una copia in disegno, se ne vede oggi nella Piazza di Porta S. Giovanni in Laterano, vicino alla basilica, sul muro esterno dell'edifizio della Scala Santa. Di là le figure di quel mosaico sembrano contemplare, attraverso la Campagna, gli uliveti di Tivoli, e più lungi ancora gli Appennini umbri e sabini, il cui diafano colore di tanto in tanto, durante l'inverno, sparisce sotto la cortina di neve che li ricopre. Esso è diviso in tre compartimenti. In quello di mezzo, che è il più ampio, si vede la figura maestosa di Cristo circondato dagli Apostoli, che manda pel mondo a predicare il Vangelo. Una mano è distesa a benedire, l'altra tiene un libro su cui è scritto: Pax vobis. Nel compartimento a destra si vede di nuovo Cristo che siede tra papa Silvestro e l'imperatore Costantino, i quali, in assai più piccole proporzioni, sono inginocchiati ai due lati. Nel compartimento a sinistra la grande figura di S. Pietro sta con le chiavi sulle ginocchia, e ai due lati sono inginocchiati Leone III e re Carlo, anch'essi in piccole proporzioni. San Pietro dà al Papa una stola, ed al Re [410] la bandiera di Roma. Sotto si legge: Beate Petre donas vitam Leoni PP. et bictoriam Carulo Regi donas.
All'ambasceria mandata da Roma, Carlo rispondeva con un'altra, di cui parte principale era l'abate Angilberto, noto per la sua dottrina ed il suo amore alla poesia, che gli fecero dare il soprannome di Omero. Le istruzioni avute erano assai semplici. Doveva ricordare al Papa la necessità di «serbare la santità della vita, e di provvedere alla osservanza dei sacri canoni.» Ed il Re scriveva poi direttamente ad Adriano: «Angilberto viene a discorrere con Voi di tutto ciò che crederete necessario alla esaltazione di Santa Chiesa e di Dio, alla stabilità del vostro onore e del nostro Patriziato. Noi vogliamo con Voi, come già col vostro predecessore, stringere patti d'alleanza, ed avere la vostra benedizione. Spetta a noi, mercè l'aiuto di Dio, difendere di fuori con le armi la Chiesa contro i pagani e gl'infedeli, proteggerla dentro con la conservazione della cattolica fede. Spetta a voi, o Santo Padre, assistere le nostre milizie, con le mani levate al cielo, come Mosè, affinchè il popolo cristiano possa conseguire vittoria contro i nemici di Cristo.» Carlo prendeva adunque l'attitudine non solamente di protettore del Papa, ma anche di sostenitore della vera fede. L'ammonizione sulla necessità di serbare il buon costume, dimostrava che era giunta in Francia notizia delle molte e gravi accuse che in Roma si movevano al Papa dai suoi nemici e calunniatori.
Tutto intanto continuava ad andare a favore del Re, ed insieme con la fortuna cresceva l'animo suo e dei suoi seguaci. Il suo dotto consigliere Alcuino gli ricordava continuamente, che era stato chiamato da Dio ad essere non solo il più potente sovrano del mondo, ma anche il sostenitore della vera fede. Adesso non c'era più da temer nulla dall'Impero d'Oriente, divenuto tale che nessuno [411] osava parlarne senza arrossire. Di là non poteva minacciare nessun pericolo, nessuna opposizione alla soverchiante potenza di Carlo. Irene aveva cominciato a governare col figlio Costantino VI, tenendolo sottoposto sino ad umiliarlo non solo, ma anche a batterlo. Egli se ne emancipò finalmente, escludendola dal governo, e confinandola. Ma era così debole, così dissoluto, capriccioso e violento, che nel 797 una rivoluzione rimise sul trono la madre, la quale potè non solamente deporlo, ma anche adoperare contro di lui ogni violenza, facendogli da ultimo cavare gli occhi: non riuscì però a farlo morire come aveva sperato. Non solo adunque sul trono di Costantinopoli si trovava una donna, il che non era mai sino allora seguito, e pareva perciò enorme; ma questa donna, colla sua condotta verso il figlio, aveva dimostrato di essere un mostro.
Nè andavano gran fatto meglio le cose a Roma, dove la debolezza dell'Impero e la lontananza di Carlo avevano di nuovo fatto scatenare selvagge passioni. I judices de clero, e i judices de militia, che già da qualche tempo comandavano nella Città, si sollevarono. I primi, come già vedemmo, eran ricchi prelati, amici o parenti dei Papi. Di mezzo ad essi si sceglievano i sette ministri che reggevano la Curia, ed amministravano gl'interessi della Chiesa; ed alla loro testa si trovava il Primicerius, che nelle pubbliche cerimonie veniva subito dopo il Papa. Quest'ufficio, sotto Adriano I, la cui famiglia, già nobile e potente, divenne allora potentissima, era stato tenuto da suo zio Teodato, che ebbe anche il titolo di Consul et Dux. Gran potere avevano avuto pure i due nipoti del Papa, Teodoro e Pasquale, il secondo dei quali fu, dopo Teodato, nominato Primicerio, ed alla morte di Adriano ritenne l'ufficio, giacchè secondo l'usanza esso non mutava col mutare dei Papi. S'era quindi assuefatto [412] a farla da padrone, e veniva perciò avversato da Leone III, di cui era naturalmente nemico. Egli ed il sacellario Campulo (forse altro nipote del Papa defunto) si posero alla testa dei judices de clero, e dei judices de militia, i quali ultimi, formando l'aristocrazia laica, comandavano l'esercito; e tutti insieme volevano ora impadronirsi affatto del governo della Città.
Il 25 di aprile 797, giorno di S. Marco, destinato alla processione delle solenni litanie, Leone III, accompagnato da Pasquale e da Campulo, s'avanzava a cavallo, seguito dal clero, per la via che da S. Giovanni in Laterano conduce a S. Lorenzo in Lucina. Appena che furono giunti a S. Silvestro in Capite, sbucarono colle armi sguainate i congiurati, che assalirono il Papa, gettandolo giù da cavallo e ferendolo. Cercarono poi, secondo la barbara usanza bizantina, di accecarlo e di strappargli la lingua, lasciandolo a terra semivivo. Pasquale e Campulo, che eran d'accordo coi congiurati, s'unirono con essi, e chiusero il Papa nel vicino convento; poi, per maggiore sicurezza, lo condussero a Sant'Erasmo sul Celio. La leggenda vuole che colà egli miracolosamente riacquistasse gli occhi e la lingua, che la storia invece crede non avesse mai perduti. I congiurati non osarono procedere alla elezione d'un nuovo Papa, tanto più che essi non avevano cospirato contro il capo della Chiesa, ma contro il signore della Città. Essendo Leone III guarito ben presto delle sue ferite, fu da alcuni dei suoi famigliari, tra cui il ciambellano Albino, calato con funi dalle mura del convento, e menato in S. Pietro. Colà venne il duca di Spoleto, Guinigildo, coi suoi armati, in compagnia d'un messo di re Carlo, e lo condussero a Spoleto. Un'ambasceria fu subito mandata in Francia, per render conto al Re dell'accaduto, aggiungendo che il Papa voleva parlargli. Carlo rispose che sarebbe [413] subito venuto in persona, se non fosse stato trattenuto da una nuova spedizione contro i Sassoni. Lo aspettava perciò a Padeborn, ed avrebbe inviato ad incontrarlo l'arcivescovo Ildibaldo di Colonia, il conte Ascario ed il proprio figlio Pipino re d'Italia, che lo avrebbero, per maggior sicurezza ed onore, accompagnato fino a lui. Il viaggio del Papa, in compagnia di molti prelati, fu trionfale. Incontrò prima l'Arcivescovo, poi Pipino, che con una parte dell'esercito lo accompagnò a Padeborn, dove Carlo lo accolse solennemente, alla testa delle sue schiere, le quali ricevettero in ginocchio la benedizione papale. Il Re lo intrattenne poi con grandi feste, e gli fece anche larghi donativi.
Da Roma, dove la rivoluzione imperversava, continuavano intanto ad arrivare gravissime accuse contro il Papa, e si pregava il Re che volesse sottoporlo ad un giudizio, perchè si trattava di colpe tali da doverlo deporre, se non riusciva a dimostrarsene innocente. La cosa appariva infatti tale che Carlo, sebbene trattenuto dalle cure della guerra, par che si decidesse a consultare l'opinione del suo fido Alcuino circa l'opportunità di continuare in persona la guerra, o recarsi invece subito a Roma, per provvedere allo stato ivi sempre incerto e tumultuoso delle cose. Ed Alcuino allora scrisse al Re una lettera assai notevole, in cui gli diceva: «Fino ad ora vi sono state nel mondo tre potestà: il Vicario di San Pietro, sacrilegamente oggi ingiuriato e maltrattato; l'Imperatore, laico, dominatore della nuova Roma, il quale, in modo non meno barbaro, venne balzato dal trono, su cui fu messa una donna; e finalmente la regia dignità da Gesù Cristo a Voi affidata, per reggere il popolo cristiano. Essa ora sovrasta a tutti in sapienza e potenza; in Voi perciò è riposta la salute della Cristianità. Bisogna che prima pensiate a portare rimedio al [414] capo (cioè Roma), per pensare dopo a guarire i piedi (cioè i Sassoni e gli altri nemici), i cui mali son sempre meno pericolosi.»
Il Re, che si vedeva adesso invocato quale suprema autorità dal Papa e dai Romani, era compreso della gravità delle cose, e desiderava recarsi senz'altro indugio in Italia. Pure, non essendogli ancora possibile muoversi, lasciò ripartire Leone III, accompagnato dagli arcivescovi di Colonia e di Salisburgo, da cinque vescovi, da tre conti, i quali andarono col Papa, non solamente in segno d'onore, ma anche per iniziare il processo sui fatti seguiti in Roma, e sulle accuse che gli erano mosse. Per la sua qualità di capo della Chiesa, per la reazione già cominciata in suo favore, e per la protezione che aveva dal Re, il Papa fu accolto trionfalmente per tutto. Il 29 novembre 799 era a Pontemolle, dove gli vennero incontro il clero, le suore, il Senato, cioè i nobili, l'esercito romano, il popolo, le scholae degli stranieri, cantando salmi, e portando le bandiere in mano. Leone III andò in S. Pietro ove dette la benedizione, ed amministrò la comunione. Il giorno seguente si recò in Laterano, e colà, dopo pochi altri giorni, i commissari regi iniziarono il processo nel nuovo triclinio, dove era il gran mosaico da noi ricordato più sopra. Pasquale e Campulo si presentarono tranquilli coi loro compagni; ma non avendo potuto provare le accuse, ed essendo invece manifeste le sanguinose violenze da essi usate contro il Papa, furono arrestati e inviati in Francia, per essere sottoposti al giudizio supremo e definitivo di Carlo, il quale rimandò la decisione al suo ritorno in Italia.
Nè il Re si poteva muovere ancora, a cagione delle guerre contro i Sassoni, contro i Bretoni, e contro i Musulmani nella Spagna. S'aggiunse che il 4 giugno dell'800 moriva la terza ed ultima sua moglie legittima, Liutgarda. [415] Finalmente nell'autunno di quell'anno intraprese il suo quarto e più memorabile viaggio in Italia. Veniva alla testa d'un esercito, in compagnia di suo figlio Pipino, che da Ancona egli spedì contro il duca di Benevento, che nuovamente minacciava di ribellarsi. Il 23 novembre era a Mentana, a 14 miglia da Roma, e colà gli venne incontro Leone III col clero, l'esercito ed il popolo romano. Si trattennero insieme e desinarono; dopo il Papa ritornò a Roma. Il giorno seguente Carlo fece il suo solenne ingresso in S. Pietro, dove Leone III lo aspettava col clero.
Il 1º di dicembre il Re, circondato dai suoi vescovi, abbati e baroni, sedeva come supremo giudice in S. Pietro, dove aveva convocato una grande assemblea, alla quale assistevano le due aristocrazie ed il clero di Roma. Carlo vestiva la toga e la clamide di Patrizio dei Romani, ed accanto a lui sedeva il Papa, i cui accusatori, ricondotti di Francia a Roma, erano ivi presenti. Il Re espose allora d'esser venuto, come Patrizio e difensore della Chiesa, per restituire in essa l'ordine turbato dalle ingiurie e dalle accuse mosse al capo della Cristianità. La suprema autorità di Carlo era da tutti riconosciuta; ma ciò non ostante riusciva assai difficile arrivare ad una conclusione in questo giudizio. Provare davvero le accuse mosse contro il Papa non era possibile, ma non era facile neppure dimostrarle false. I vescovi inoltre dichiararono unanimi che ad essi non era in nessun modo lecito giudicare il capo supremo della Chiesa, che doveva invece essere il loro giudice. I particolari del processo ci sono ignoti, e non conosciamo neppure la precisa natura delle accuse. Certo è che il 23 dicembre, alla presenza del Re, dei vescovi, del clero, dei Franchi, dei nobili e del popolo romano, solennemente radunati in S. Pietro, il Papa, salito sull'ambone, posando la mano [416] sugli Evangeli, con chiara e sonora voce, dichiarava che, seguendo l'esempio dei predecessori (fra i quali si poteva infatti citare Pelagio, accusato d'aver contribuito alla morte di papa Vigilio), di sua spontanea volontà, senza che nessuno potesse giudicarlo, giurava d'essere affatto innocente di tutte quante le colpe di cui lo avevano accusato. Il clero cantò allora solenni litanie, in ringraziamento a Dio ed alla Vergine. Certo Leone III s'indusse a quest'atto, perchè era parso necessario al Re, senza il cui aiuto egli non avrebbe potuto governare. La sua autorità di fronte alla Chiesa ed al popolo fu però salva. Pasquale, Campulo ed i loro compagni vennero condannati alla pena di morte, commutata poi nell'esilio perpetuo in Francia, per intercessione, a quanto si disse, del Papa stesso. Quel giorno arrivarono a Roma due rappresentanti del Patriarca di Gerusalemme, che consegnarono a Carlo le chiavi della città e del S. Sepolcro. Il giorno di Natale egli assisteva alla messa solenne, celebrata in S. Pietro dal Papa, finita la quale andarono insieme a pregare nel sepolcro del Santo. Quando Carlo si levò in piedi, Leone III improvvisamente gli pose sul capo la corona imperiale, e si narra che subito dopo, inginocchiatosi, lo adorasse. Il popolo romano freneticamente allora acclamò: Carolo, piissimo, augusto, a Deo coronato, magno, pacifico Imperatori vita et victoria. Questa coronazione iniziava un'epoca nuova nella storia del mondo.
L'annalista Eginardo afferma che essa fu un atto improvviso ed inaspettato del Papa, compiuto ad insaputa di Carlo, il quale avrebbe anzi dichiarato che, se avesse potuto prevederlo, si sarebbe, non ostante la solennità di quel giorno, astenuto dall'andare in S. Pietro. Molto si è disputato sulla verità di una tale affermazione. Alcuni la credettero pura invenzione del cronista, altri invece [417] una finzione del Re, il quale avrebbe fatto come Tiberio, che pretendeva di ricusar l'Impero da lui pur tanto ambito. Sin dal tempo in cui il Papa era a Padeborn sarebbe, secondo essi, stato fissato tutto, per la imperiale coronazione, la quale in nessun modo avrebbe potuto essere un atto improvviso ed inaspettato. Bisognava almeno aver prima ordinato, preparato la corona, concertato la solennità della funzione, la quale infatti non riuscì punto inaspettata ai presenti, che subito intesero ed applaudirono unanimi e clamorosamente.
Nella storia non mancano esempi simili, i quali provano che, per spiegare le parole del Re, non c'è bisogno di ricorrere alla finzione ed alla malafede. Il Persigny racconta, nelle sue Memorie, come fu lui che affrettò quasi violentemente la proclamazione dell'Impero, contro la volontà di Napoleone III, il quale pur tanto e da così lungo tempo lo ambiva e lo preparava. Gli sembrava però che non fosse ancora giunto il momento opportuno, che il Persigny credeva invece arrivato, e non voleva lasciarlo passare. È probabile quindi che Carlo, il quale certo ambiva l'Impero, avesse desiderato di apparecchiarne meglio la proclamazione e determinare prima la forma della solennità; e che il Papa invece, appunto per non esser costretto ad accettare qualche formola o condizione a lui poco gradita, avesse affrettato la decisione, presentando il fatto compiuto. A lui importava sommamente, che la coronazione e la proclamazione dell'Impero apparissero come opera del capo visibile della Chiesa, quale strumento di Dio, coll'acclamazione del popolo romano, che rappresentava l'universo popolo cristiano. Leone III voleva essere l'iniziatore, il creatore del nuovo Impero, perchè tutto riuscisse a vantaggio della religione, a sempre maggiore incremento dell'autorità della Chiesa.
Su questo grande avvenimento, come è naturale, molto [418] si discusse e molte teorie si esposero. Carlo, secondo alcuni, fu proclamato imperatore dal Senato e dal popolo romano; secondo altri invece lo elesse e consacrò il Papa; secondo altri ancora l'Impero fu conseguenza della conquista. Causa prima fu però sempre riconosciuta la volontà di Dio, di cui gli uomini sono strumento passivo. Il fatto vero è che l'Impero non fu conseguenza di nessuna teoria, ma resultato inevitabile di una storica necessità. La Chiesa aveva bisogno d'essere difesa e protetta; il Papa perciò aveva chiamato i Franchi, e con le sue mani, di propria iniziativa, in nome del Signore, incoronò Carlo. Ma, dopo averlo incoronato, si era inginocchiato dinanzi a lui. Chi dunque era superiore l'Imperatore o il Papa? Questo è ciò che solo l'avvenire potrà decidere. Per ora è il Papa che ha creato l'Impero, della cui protezione ha bisogno. La Chiesa, separatasi da Costantinopoli, è dentro il nuovo Impero, alla testa del quale si trova Carlo, a cui la posterità dette il titolo di Magno. Di fatto sin d'ora egli solo veramente comanda, perchè solo ha la forza.
Ma l'Impero era di sua natura universale, e quindi non poteva essere che uno solo, quello cioè d'Oriente, la cui sede si trovava a Costantinopoli. L'Impero che in passato venne chiamato d'Occidente, non era stato che un episodio passeggiero ed effimero già da lungo tempo scomparso. Erano infatti decorsi tre secoli, dacchè gli ambasciatori d'Odoacre e di Augustolo avevano deposto le insegne imperiali nelle mani di Zenone, dicendogli che l'Occidente non aveva bisogno di un proprio imperatore, bastando a tutti quello di Costantinopoli, di cui l'Italia, sede primitiva, era sempre parte integrante. Il nuovo Impero franco, adunque, pur essendo conseguenza d'una storica necessità, non aveva nessun fondamento giuridico. E forse anche perciò Carlo aveva desiderato di [419] proceder cauto circa il tempo ed il modo della proclamazione. Tuttavia il momento che Leone III aveva scelto era stato assai opportuno. Il re franco aveva allora vinto tutti i suoi nemici, aveva fortemente costituito ed esteso il proprio regno; il Papa, riconosciuto innocente, era tornato sulla cattedra di S. Pietro più autorevole che mai. Il giorno della incoronazione era stato quello a tutti sacro della nascita di nostro Signore, della redenzione cioè del genere umano. Sul trono di Costantinopoli, come abbiam visto, si trovava una donna, e questa donna era un mostro, che non poteva far paura a nessuno. Ciò non ostante, il grande avvenimento ora compiuto era pieno di equivoci e di pericoli, dei quali si dovevano sentire le gravi conseguenze. Per ora l'autorità morale del Papa ne era cresciuta a dismisura.
Dopo una dimora di cinque mesi, nell'aprile 801, celebrata la Pasqua, e lasciato a Pipino l'incarico di continuare la guerra contro Benevento, Carlo se ne tornò a Pavia dove pubblicò alcune altre leggi, che aggiunse a quelle dei Longobardi, ed assunse il titolo di «Serenissimo Augusto, coronato per divino volere, reggente l'Impero dei Romani, e per grazia di Dio re dei Franchi e dei Longobardi.» All'Italia superiore egli lasciò una propria autonomia, senza annetterla alla Francia, considerandola piuttosto come una sua conquista personale. Invece dei Duchi pose dei Conti, che scelse fra i Longobardi, e che erano, come già dicemmo, meno potenti e più sottomessi, con territori meno estesi. L'unità e la forza del governo, la fusione dei vinti e dei vincitori fecero allora un grande progresso. I Gastaldi, non più necessari, si mutarono in semplici amministratori, e dipesero dai Conti, che rendevano giustizia, non più di propria autorità come i Duchi, ma per delegazione del sovrano. L'eribanno, o la convocazione dell'esercito, appartenne al solo Imperatore [420] che andò ognor più limitando il potere dei Duchi, per mezzo dei Missi dominici, i quali presso i Franchi divennero una istituzione regia di primaria importanza, e per mezzo di essi l'Imperatore vegliava su tutta l'amministrazione. Nei giudizi egli giudicava come vero sovrano, anche secondo equità, quando mancava una speciale disposizione di legge. Questa facoltà che in parte era concessa ai duchi longobardi, non l'avevano i conti franchi.
Carlo si occupò anche dell'ordinamento giudiziario, che presso i barbari serbò lungamente le tracce della sua origine. Dapprima ognuno si faceva giustizia da sè; poi la giustizia venne amministrata dal popolo; più tardi ancora dal sovrano, che rappresentava lo Stato. Nel Medio Evo prevalse un sistema misto. Il popolo partecipava all'amministrazione della giustizia insieme col Re, che giudicava solennemente, circondato dai Grandi della Corte, e dai suoi giudici palatini, dinanzi alle assemblee popolari, chiamate placita, che per delegazione potevano essere presiedute dai Conti. Accanto al sovrano o al suo delegato v'erano magistrati che dirigevano queste assemblee, e conoscevano bene le consuetudini. A poco a poco il popolo cominciò a non intervenire regolarmente ai placita; e le leggi scritte che vennero aggiunte alle consuetudini, o furono sostituite ad esse, erano meno facilmente conosciute. Divenne allora necessario nominare magistrati temporanei periti nelle leggi e capaci di formulare le sentenze. Questi magistrati furono da Carlo resi permanenti, e vennero chiamati Scabini. Erano eletti nei placita in presenza del Conte; e i Missi dominici ne approvavano la nomina quando li trovavano idonei.
La forma generale della società e del governo franco differiva molto dalla longobarda, specialmente nel suo maggiore accentramento, nella maggiore autorità politica, militare e giudiziaria del sovrano. Pei Franchi non [421] c'era differenza tra il patrimonio dello Stato e quello del Re. Curtis regia, Palatium publicum, Res publica erano una sola e medesima cosa: il sovrano poteva concederli in beneficio o anche donarli. Le terre demaniali, e quelle confiscate che per mancanza d'eredi venivano al demanio, facevano parte anch'esse del patrimonio regio. Il Re dava l'amministrazione di tutto ciò a suoi ufficiali, che non erano indipendenti come i Gastaldi longobardi; ovunque e sempre la sua forte individualità aumentava la sua morale e materiale potenza.
La continua e febbrile attività di Carlo si manifestava in mille modi diversi. Forte, alto, bello della persona, facondo e valoroso, con occhi vivacissimi, sempre instancabile, egli era non solo un capitano ed un uomo di Stato di primissimo ordine, ma anche un gran promotore di opere pubbliche, come furono generalmente tutti i grandi sovrani. Nel 793 lo vediamo occupato ad esaminare la proposta d'un canale, che avrebbe dovuto congiungere il Reno ed il Danubio, impresa gigantesca, superiore alla capacità di quei tempi e che solo ai nostri giorni potè essere eseguita. Molti canali, strade, ponti, tra cui uno grandissimo sul Reno a Magonza, furono da lui costruiti. E così pure molte chiese, fra le quali è celebre, pel suo tesoro, le sacre reliquie e le memorie, quella che anche oggi è continuamente visitata dal forestiero in Aquisgrana, e venne costruita a similitudine della chiesa di S. Vitale in Ravenna. Ma la più parte di questi edifizi è ora scomparsa, nè a Carlo, non ostante i suoi lodevoli sforzi, riuscì di fermare la decadenza dell'architettura. Quello che dà un'altra prova della sua varia attività e del suo alto intelletto, si è l'osservare come, sebbene egli fosse così poco culto, che imparò assai tardi a leggere, nè mai riuscì a scrivere con facilità, e sebbene fosse di uno spirito e di un carattere essenzialmente germanico, fu [422] anche uno dei più grandi promotori della cultura greco-romana. Quando appena la guerra gli lasciava un momento di riposo, noi lo vediamo nello stesso tempo legislatore, giudice supremo, iniziatore di opere pubbliche, e gran Mecenate, circondato di dotti, con piena intelligenza di quella cultura, che non possedeva, ma di cui comprendeva tutta l'importanza.
Presso di lui troviamo fra gli altri Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi; uomo di varia cultura, che conosceva il greco, e scrisse parecchie opere in prosa ed in verso. Caro a Rachi ed a Desiderio, fu prima nella Corte di Pavia, poi in quella di Benevento; assistè alla rovina del regno longobardo, e si ritirò frate benedettino a Monte Cassino. La sua famiglia dovette essersi mescolata nelle congiure contro Carlo, giacchè un suo fratello, come già vedemmo, fu tenuto dal Re in dura prigionia. Questo indusse Paolo, che sapeva in quanta stima l'Imperatore tenesse i dotti, a scrivergli e perorare la causa del fratello. Dopo di che andò egli stesso alla Corte, dove fu assai bene accolto, vi restò negli anni 783-86, e par che la sua preghiera fosse esaudita. Ma l'amore della patria lontana lo richiamava, e se ne tornò a Monte Cassino, dove scrisse la sua Storia dei Longobardi. Per mezzo di altri dotti, che vennero in Francia o che vi erano nati, Carlo potè fondare nel proprio regno molte scuole, la principale delle quali soleva risiedere nel suo Palazzo in Aquisgrana, e spesso lo seguiva con la Corte nelle sue peregrinazioni. Essa fu diretta da Alcuino, nato in Inghilterra, dove venne educato nella scuola di York, in cui fioriva quella cultura, che dall'Irlanda era passata nell'Inghilterra. In essa il dotto Inglese acquistò la conoscenza della filosofia e dei classici latini, pei quali ebbe grande ammirazione. Carlo lo conobbe in Italia, e lo invitò subito in Francia, dove Alcuino [423] andò con alcuni suoi compagni, e fu ivi l'iniziatore della grande scuola, che diresse, e che era una specie di Accademia, alla quale il Re soleva assistere coi suoi figli. Vi s'insegnavano il Trivio, il Quatrivio, la Teologia; e i suoi principali componenti, assumevano nomi greci, romani o biblici. Re Carlo era chiamato David, Alcuino ebbe il nome di Flacco, il suo compagno Angilberto quello d'Omero, e così gli altri. Dal 782 al 796, Alcuino rimase alla testa della scuola, la quale promosse grandemente la cultura non solo in Francia, ma anche in Europa. Ed il Re, fra le altre non poche elargizioni, concesse a questo suo dotto e fido consigliere la ricchissima abbazia di S. Martino, nella quale esso finalmente si ritirò e potè scrivere molte delle sue opere. Parecchi altri furono i dotti che vissero nella Corte di Carlo. Eginardo, nobile dell'Austrasia (770-844), ebbe anch'egli dono di ricche abbazie dal sovrano, di cui scrisse la vita; e fu autore di Annali preziosi per la storia del tempo. Angilberto, nobile della Neustria, dopo avere avuto vari figli, si fece ecclesiastico e divenne autore di poesie e di opere storiche. Altri non pochi nobili furono da Carlo incitati a coltivar le lettere, e fondarono scuole nelle loro città episcopali. Questo glorioso sovrano promosse la cultura non solo nelle lettere, ma in tutte quante le possibili manifestazioni; anche la musica ed il canto furono da lui protette. Si occupò della revisione dei manoscritti della Bibbia, e della sua diffusione, come della diffusione delle opere dei SS. Padri. Persino la scrittura sotto di lui migliorò, e prese una forma nuova, che si chiamò carolingia.
La costituzione dell'Impero franco fu il fatto capitale, centrale di tutto quanto il Medio Evo. Esso strinse temporaneamente in una forte unità paesi e popolazioni assai diversi, promosse la fusione dei vinti e dei vincitori, dei Teutonici e dei Romani, dello spirito germanico [424] e della cultura greco-romana; favorì, temporaneamente almeno, l'accordo dello Stato colla Chiesa, la quale fu da Carlo colmata di favori. Egli cercò costantemente di proteggerla e di migliorarne la costituzione, presumendo assai spesso di vegliare anche alla purità della fede. Fuori d'Italia egli nominò i vescovi, e cercò da per tutto tenerli d'accordo fra di loro, col Papa e coi Conti, valendosi a ciò dei Missi dominici, i quali, appunto perchè dovevano provvedere alla giustizia ed alla religione, solevano esser due, uno laico, l'altro ecclesiastico.
Ma tutto questo grande organismo dell'Impero, se era un fatto storico e necessario, era anche l'opera personale di un uomo di genio: doveva perciò, in parte almeno, cadere insieme con lui. Dopo la morte di Carlo infatti, i suoi successori, come tante volte era seguito tra i Franchi, furon subito tra di loro in guerra. E questa guerra, per la vastità dell'Impero, e per gli elementi così diversi di cui esso era composto, divenne anche più aspra. Una società nuova s'era andata formando, nella quale il diverso spirito nazionale dei vari popoli cominciò a reagire, a manifestarsi irresistibilmente, decomponendo la temporanea unità formata dal genio militare e politico di Carlo. In Italia l'Impero non andò oltre il Garigliano, ivi essendosi fermata la conquista vera e propria. Il ducato di Benevento riuscì a salvare la sua indipendenza, e quindi colà sopravvisse per qualche tempo ancora la società longobarda. È da questo momento infatti che l'Italia meridionale comincia ad avere una storia separata e diversa assai da quella di tutto il resto della Penisola. Oltre di ciò la Chiesa e lo Stato, il Papa e l'Imperatore ben presto si trovarono fra di loro in lotte aspre e violenti, che contribuirono non poco a indebolire sempre più la nuova società, formata dall'Impero franco, la quale s'andò, con la costituzione del feudalismo, [425] sgretolando in mille gruppi secondari. In mezzo al feudalismo ed in opposizione con esso si formeranno e sorgeranno rigogliosi i nostri Comuni, i quali saranno il primo resultato della fusione di due popoli e di due società, iniziata dall'Impero, e daranno origine alla civiltà moderna. Ma prima che i Comuni riescano a costituirsi, bisogna che l'Europa e l'Italia percorrano ancora un nuovo periodo di profondo dolore, di grande disordine e quasi di anarchia.
[427]
Acacio, patriarca di Costantinopoli. Condannato e scomunicato, 134, 136, 164.
Adalberga, vedova d'Arichi (II) duca di Benevento, 404.
Adaloaldo, figlio di Agilulfo re de' Longobardi. Fatto da lui battezzare, 295; e proclamare suo successore, 297. Costretto a fuggire, 301.
Adelchi, figlio di Desiderio re de' Longobardi. Si chiude in Verona, 387. Riesce a scampare dopo la resa di quella città ai Franchi, e si rifugia a Costantinopoli, 388, 394, 398. Torna, ma è respinto, 404, 405.
Adozianismo, dottrina teologica, 406.
Adriano I, papa, 384. Resiste alle lusinghe e alle minacce di Desiderio re de' Longobardi, 384. Fa imprigionare Paolo Afiarta, capo del partito longobardo in Roma, 385. Si apparecchia a resistere con l'armi a Desiderio, e sollecita gli aiuti di Carlo re de' Franchi, 386. Spoleto e altre città gli fanno atto di sottomissione, 389. Riceve in Roma il re Carlo, 391; e della donazione di terre da esso fattagli, 391 e segg. D'un conflitto tra lui e l'Arcivescovo di Ravenna, 396. Chiama di nuovo re Carlo in difesa dell'autorità della Chiesa, e dei suoi dominii, 397; e quali fossero i dominii cui pretendeva, 400, 403. Chiede la restituzione di alcune terre tolte alla Chiesa in Italia dai Bizantini, 403, 407. Muore, 407. Riassunto del suo pontificato e delle sue relazioni con Carlo re de' Franchi, 407, 408. Come datasse le sue bolle, 408.
[428]
Adrianopoli. Combattuta da' Goti, 48, 49.
Afiarta. V. Paolo cubiculario.
Africa. Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. Fornisce grano all'Impero, 5. Forma, con l'Italia, una delle quattro Prefetture di esso, 31, 58. Vi scoppia una guerra tra i generali romani; e della invasione in essa de' Vandali, 87 e segg. Resta divisa tra questi e i Romani, 91. Riconquistata all'Impero, 181 e segg. Vi scoppia una rivolta, tosto domata da Belisario, 185.
Agilulfo, duca longobardo. Sposa Teodolinda, e diventa re, 287. Si trova in grandi difficoltà, e si regge con altrettanta prudenza, 288. Conclude un accordo co' Franchi, 288. Attende a risottomettere alcuni Franchi ribelli, 289. Assedia Roma, 291; poi si ritira, 292. Disposto ad accordarsi col Papa, 293. Prende e distrugge Padova, 294. Il Papa ha grande azione su lui, 295. Fa battezzare il figliuolo, 295. Prende ed abbatte altre città de' Bizantini; poi fa pace con loro, 296. Fa proclamare suo successore il figliuolo, 297. Rinnova la pace co' Bizantini, 297. Muore, 298. Del favore da lui accordato ai Cattolici, 300; e della opinione che anch'egli si convertisse al Cattolicismo, 300.
Agnello, cronista ravennate, 146, 326, 327.
Aione, duca di Benevento, 309.
Alachi, duca longobardo di Trento. Si ribella al Re, e usurpa il regno, ma n'è cacciato, 322; e ucciso, 322. Accenni alla sua guerra per ricuperare il regno, 323.
Alani. Disfatti dagli Unni, 44. Invadono la Gallia, 67. Combattuti e vinti dai Goti, 82. Seguono gli Unni, 96.
Alarico. Educato all'armi nelle legioni romane, 25. Combatte sotto l'imperatore Teodosio, 52; ed è capo dei Visigoti, federati dell'Impero, 60. Si disegna di spingerlo dall'Oriente in Occidente, 62. Eletto per loro re dai Visigoti, 63. Fa una invasione in Grecia, ed è respinto, 64. La sua mira diventa l'Italia, 64. Battuto da Stilicone, 66; dopo la cui morte si fa più potente e minaccioso, 71. Non intende impadronirsi dell'Impero ma di farne parte, 71. Assedia Roma e la costringe a pagargli un tributo, 73. Vorrebbe venire a un accordo con l'Imperatore, che si rifiuta, 74. Pone di nuovo l'assedio [429] a Roma, 74; e vi entra, 75; ma poco vi rimane, 75; Muore, 76.
Alarico (II), re de' Visigoti. Sposa una figlia di Teodorico, 158.
Albano. Occupata dai Bizantini, 197.
Albino, patrizio romano. Accusato di congiurare contro Teodorico, 166; e condannato, 167.
Alboino. Uccide Torismondo figlio del re dei Gepidi, 252. Succede al padre nel regno de' Longobardi, 253. Della sua alleanza con gli Avari, 253. Vince e stermina i Gepidi, 254; e uccide Cunimondo loro re, e ne sposa la figliuola, 254. Sua invasione e conquista d'Italia, 254 e segg. Della sua morte, 258.
Albsuinda, figlia d'Alboino, 259.
Alcuino, consigliere di Carlo re de' Franchi, 410. Sue lettere a Carlo, ricordate, 410, 413. Altre notizie di lui, 422.
Aligerno, goto, fratello di Teja. Si chiude in Crema, 239, 241. Si arrende, e combatte poi per l'Impero, 242, 243.
Alsazia-Lorena, 78.
Amalafrida, sorella di Teodorico. Sue prime e seconde nozze ricordate, 158, 173; e altre notizie di lei, 174, 181.
Amalarico, figlio di Alarico II re de' Visigoti, 159.
Amalasunta, figliuola di Teodorico degli Amali re degli Ostrogoti, 158. Moglie di Eutarico, 160. Vedova, e tutrice del figliuolo Atalarico, 171. Suo governo, 171 e segg. I Goti le sono avversi, 172 e segg. Vorrebbe andare a Costantinopoli, poi ne depone il pensiero, 174. Morto il figliuolo, si associa nel regno Teodato; da cui viene poi confinata e uccisa, 175.
Amali. Nobile stirpe degli Ostrogoti. V. Teodorico.
Anastasio, imperatore. Sue relazioni con Teodorico re degli Ostrogoti, 148, 160. Favorisce Clodoveo re de' Franchi, 159. Muore, 163.
Anastasio II, imperatore, 328.
Anastasio II, papa, 161.
Ancona. È in mano de' Bizantini, 226; ma in procinto di arrendersi ai Goti, 229. Questi si ritirano dall'assedio, 234. È sempre in mano de' Bizantini, 257; e fa parte della Pentapoli, 279. Giura obbedienza al Papa, 389.
[430]
Angilberto (abate). Ambasciatore di Carlo re de' Franchi al Papa, 410. Altre notizie di lui, 423.
Anglo-Sassoni. Gregorio I vuol convertirli al Cattolicismo, 286.
Ansprando. Perseguitato da Ariberto II, usurpatore del trono de' Longobardi, che poi costringe a fuggire, 323, 324. Sale sul trono, che poi lascia al figliuolo Liutprando, 324.
Antemio (Procopio). Eletto imperatore d'Occidente, 121. Si unisce con quello d'Oriente contro i Vandali, 121, 122. Discordia tra lui e il generale Ricimero, 123; e sua uccisione, 123.
Antonina, moglie di Belisario, 180. S'adopra per l'elezione di papa Vigilio, 196. Sua infedeltà verso il marito, e suoi intrighi alla corte di Costantinopoli, 213, 214. È col marito in Italia, 223. Torna a Costantinopoli per ottenergli aiuti d'armi, 226.
Antonino, patriarca di Grado, 337, 344.
Antrustiones nel regno dei Franchi, 357.
Aquileia. Presa e distrutta da Attila, 106. Ivi presso avviene la prima battaglia tra Odoacre e Teodorico, 142. Il suo patriarca l'abbandona nell'invasione de' Longobardi, 256.
Aquitania, regno franco, 351.
Arabi. V. Musulmani.
Arbogaste, generale franco, 51. Domina l'imperatore Valentiniano II, 51; e pretende all'Impero dopo la sua morte, 52. Sconfitto dall'imperatore Teodosio, si uccide, 53.
Arcadio, imperatore d'Oriente, 57. Affidato da Teodosio suo padre alle cure di Rufino, 58; di cui in breve si mostra intollerante, 60. Sposa Eudossia figlia d'un generale franco, 60. Sotto di lui l'Oriente è liberato dai barbari, 62. Consente ad Alarico di stabilirsi coi Goti nell'Illirico, 64.
Ardaburio, generale dell'Impero d'Oriente, 85.
Ariani, eretici. V. Ariani e Atanasiani. Editto pubblicato contro di loro, 71, 74. Ricordati, 134. Perseguitati, 164, 169.
Ariani e Atanasiani, 33 e segg. La loro disputa divide i Cristiani, 37. Durante la loro controversia una parte dei Goti si converte al Cristianesimo (Arianesimo), 40.
Ariberto II, re de' Longobardi. Suo regno, sue crudeltà, 323; sua morte, 324.
[431]
Arichi, duca longobardo di Benevento, 289. Accoglie i figliuoli orfani di Gisulfo, duca del Friuli, 298; che gli succedono, uno dopo l'altro, dopo la sua morte, 309.
Arichi (II), duca di Benevento. Si comporta da sovrano indipendente, 395. Cospira contro Carlo re de' Franchi ed il Papa, 397 e segg. pass. Si prepara a resistere a Carlo, poi viene con lui a un accordo, 404. Muore, 404.
Ario. Sua dottrina teologica, 34 e segg.
Ariovaldo, re de' Longobardi, suo avvenimento al trono, e sua morte, 301, 308.
Ariovisto, 10.
Ariperto, re de' Longobardi, 316.
Ariulfo duca di Spoleto. Minaccia Roma, 290; e il Papa conclude con lui una pace; che poi si rompe, 291.
Armenia (di) Isaace, 222.
Arminio, 10.
Aspar, generale dell'impero d'Oriente, 85, 90. Sua potenza, 119, 122. Sua rovina e sua morte, 122, 123.
Assemblea generale presso i popoli germanici, 21.
Astolfo, re de' Longobardi. Occupa Ravenna, e minaccia Roma ed il Papa, 363; e inutili tentativi fatti dal Papa e dall'Imperatore per indurlo alla restituzione, 363, 365; onde il Papa si rivolge ai Franchi per aiuto contro di lui, 364 e segg. Altri inutili tentativi del Papa e di Pipino re de' Franchi presso di lui, 366, 369. Costretto ad arrendersi ai Franchi e a ceder Ravenna e altre terre, viola l'accordo fatto e di nuovo invade il territorio romano, 370. Di nuovo assalito, e di nuovo costretto ad arrendersi e a fare altre cessioni, 371. Muore, riassunto della politica da lui seguìta, 372.
Atalarico, figlio di Amalasunta, e nipote e successore del re Teodorico in Italia, 171. Chiede di essere adottato dall'Imperatore, ma non l'ottiene, 172. Educato alla romana, di che si dolgono i Goti, 172, 173. Muore, 174.
Atanarico, capo d'una parte dei Visigoti, 41, 46.
Atanasiani. V. Ariani e Atanasiani.
Atanasio. Sua dottrina teologica, e come fortemente la sostenga, 34 e segg. Essa trionfa sotto l'imperatore Teodosio, 53.
[432]
Ataulfo, re de' Goti, 77. Sue buone disposizioni verso l'Impero, 77. Conduce i suoi nella Gallia, 78; e sue imprese, 79, 80. Sposa Galla Placidia, sorella d'Onorio imperatore, 80. Vuol trasferirsi nella Spagna, 81. Ucciso, 81.
Attalo, greco, proclamato imperatore d'Oriente, 74. Preso e mandato a Costantinopoli, 82.
Attila, re degli Unni. Estensione del suo regno; sue qualità fisiche e morali, 95, 96. Sue relazioni con l'Impero, 97 e segg. Di una congiura ordita in Costantinopoli contro di lui, 98. Del suo palazzo e di un gran banchetto, 99 e segg. Muove guerra all'Impero in Occidente, 102. Grande battaglia tra il suo esercito e quello dei Romani e Visigoti presso Châlons, 104; dopo la quale si ritira, 105, 106. Viene in Italia, distrugge varie città ond'è appellato Flagellum Dei, 106. Minaccia Roma, 107. Influenza che esercitano su lui l'Impero e la religione Cristiana, 107. Gli è inviata da Roma un'ambasceria con a capo il pontefice Leone, 107; e dopo il colloquio avuto con lui si ritira, 109. Sua morte, 110; e scomparsa del suo vastissimo regno, 111.
Audefleda, moglie di Teodorico re de' Goti, 158.
Audoino, padre di Alboino, 252.
Aureliano, imperatore. Cede ai Goti la Dacia, 22.
Austrasia, regno franco, 351 e segg.
Autari, re de' Longobardi. Sua elezione, 265. Dà una grande sconfitta ai Franchi, 267. Delle sue nozze con Teodolinda, 267. Organizza il regno ed estende le sue conquiste, 268 e segg. Muore, e suo elogio, 270.
Avari, 44. Delle loro relazioni coi Longobardi e coi Bizantini, 253, 294, 295. Loro invasione nel Friuli, 297, 298. Alleati coi Persiani contro l'Impero, 302, 303. Scompaiono dalla storia, 303, 304. Presso di loro si rifugia Bertarido cacciato dal trono dei Longobardi, 321. Sconfiggono e uccidono un duca del Friuli, 321. Accenni a una guerra di Carlo re de' Franchi con loro, 405, 406.
Avito. Mediatore d'un'alleanza tra Visigoti e Romani, 103. Eletto imperatore d'Occidente, 117. Deposto e costretto a prendere la tonsura, 119.
[433]
Baduario. Mandato da Giustino imperatore in Italia, 262, 279.
Barbari. Arrolati negli eserciti Romani, di cui presto formano la maggior parte, 3, 5. Invasori dell'Impero. V. Germani, Goti, Unni, Vandali, Franchi.
Basilio, duca bizantino, 332.
Basilisco, generale romano. Combatte infelicemente contro i Vandali, 122. Caccia dal trono Zenone imperatore d'Oriente, 130, 134.
Belisario, generale bizantino, 176. Sue prime imprese militari, ricordate, 179, 180. Sua guerra in Africa contro i Vandali, 181 e segg.; dopo la quale è calunniato presso l'Imperatore, 183. Della sua guerra in Italia contro i Goti, 184 e segg. Conquista la Sicilia, 185. Accorre a sedare una rivolta in Africa, 185. Ritorna, e conquista Napoli, 186; e indi Roma, 188 e segg. Infinite prove di valore e di genio militare date da lui nel lungo assedio posto a Roma dai Goti, 190 e segg. Respinge le proposte di pace fattegli da loro, e accetta una tregua, 197. Gelosie contro di lui alla corte di Costantinopoli, 199, 200. Opposizione fattagli da Narsete mandato per stargli a fianco da Costantinopoli, 200 e segg. Altre sue operazioni militari, 202, 203. Si muove contro Ravenna e l'assedia, 204. Di nuovo respinge la pace, nonostante la contraria inclinazione dell'Imperatore, 204. Respinge l'offerta de' Goti di farlo imperatore d'Occidente, 205. Entra in Ravenna, 205. Gli è di nuovo offerto l'Impero, 206. Torna a Costantinopoli, 206; e come accoltovi dalla Corte e dal popolo, 213. Sua guerra contro i Persiani, ricordata, 213. Rimandato in Italia, e in quale stato d'animo e di forze vi torni, 218. Tenta per ogni via, ma inutilmente, di soccorrere Roma di nuovo assediata dai Goti, 219 e segg. Vi rientra, e la difende da nuovi assalti, 225. Posto nella impossibilità di continuare la guerra, 226. Suo ritorno a Costantinopoli, 226. Respinge un'invasione degli Unni, 227. Ultimi anni della sua vita, 227.
Benedetto I, papa, 262.
Benevento (Duca e Ducato longobardo di). Assedia Napoli, 263. Diventa ereditario e indipendente, 276. Risottomesso dal re Agilulfo, 289. Minaccia Napoli, 290; e allarga il suo [434] dominio, 293. Ancora della sua indipendenza, 294, 309. Sua estensione, 309. Assediato dall'imperatore Costante II, 320. Ricordato a proposito della donazione fatta dai Franchi al Papa, 392. Riesce a salvare la sua indipendenza, 424. V. anche ai nomi dei Duchi: Aione, Arichi, Arichi II, Farovaldo, Gisulfo II, Grimoaldo, Grimoaldo II, Rodoaldo, Romualdo, Romualdo II, Zottone.
Bergamo. Presa da' Longobardi, 257. Uno dei loro Ducati, 261, 289.
Bernardo, figlio di Carlo Martello. Combatte e vince i Longobardi, 386, 387.
Bertarido. Divide il regno de' Longobardi col fratello Godeberto, 316. Si inimica con lui, 317. Cacciato da Grimoaldo, si rifugia presso gli Avari, 317; a' quali è inutilmente richiesto da Grimoaldo, 321. Si rimette spontaneamente nelle sue mani; gli è attentato alla vita e si salva con la fuga, 321. Eletto re, suo regno, 322.
Bertrada, moglie di Pipino re de' Franchi, 368. Cerca pacificare tra loro Carlomanno e Carlo suoi figli, 380.
Bessa, comandante la guarnigione imperiale in Roma, assediata dai Goti, 220, 222, 223, 228.
Bisanzio. V'è trasferita la capitale dell'Impero da Costantino, e da lui è detta Costantinopoli, 32.
Bizantini. Loro guerra contro i Goti in Italia, 183 e segg. Assediati in Roma, 192 e segg. Successive vicende della guerra, 199 e segg. Le cose loro declinano, e vanno di male in peggio dopo la partenza di Belisario, 214. Guerre con gli ultimi re Goti, 216 e segg., 228, 234 e segg. Impotenti a resistere ai Longobardi, 256. Quello che resti loro nella prima invasione di quelli, 257, 258; e ancora della loro impotenza a resistere, 262, 263. Dei loro accordi e della loro azione comune coi Franchi, 265, 266, 269. Del loro governo in Italia di fronte a quello dei Longobardi, e parte d'Italia che possedevano nel settimo secolo, 278 e segg. Continua la guerra alternata da paci, 291 e segg. pass. Un loro esercito sconfitto, 308. Si ribellano loro Ravenna e Roma, 325 e segg. Congiurano coi Romani e i Longobardi contro i Franchi, 396.
[435]
Bleda, fratello di Attila, 96.
Bobbio (Convento di), 300.
Boezio. Sua grande scienza e reputazione, 166. Difende il patrizio Albino, accusato d'una congiura contro il re Teodorico, 166; ed è processato e condannato, 167. Della sua Consolatio Philosophiae scritta nel carcere, 167 e segg. Suo estremo supplizio, 169. I beni confiscatigli sono restituiti ai suoi figli, 172.
Bologna, 219. Presa da' Longobardi, 257. Fa parte dell'Esarcato dei Bizantini, 279.
Bonifazio, generale romano nell'Impero d'Occidente, 84. Antagonismo tra lui ed Ezio, altro generale, 84, 85. È in Africa, 85. Sue qualità, 86. Richiamato dall'Africa, non obbedisce, 87; ed è accusato di chiamarvi i Vandali, 87. Sue fazioni militari contro di loro, 90. Torna in Italia, combatte con Ezio, e muore, 90.
Brescia. Presa da' Longobardi, 256. Uno dei loro Ducati, 261.
Brindisi. Tolta dai Bizantini ai Goti, 220.
Britannia, 66, 67, 72, 78, 83.
Bruzio di Calabria, 336.
Buccellino e Leutari. Invadono l'Italia con un esercito di Franchi-Alamanni, che è vinto e distrutto, 241 e segg.
Bulgari. Alleati coi Persiani contro l'Impero, 303.
Burgundi. Vengono in difesa di Odoacre contro Teodorico, 144. Travagliati dai Franchi, divengono loro dipendenti, 158. Mandati in aiuto dei Goti in Italia contro i Bizantini, 202.
Burgundia, regno franco, 351.
Cacco, figlio di Gisulfo duca del Friuli, 297, 298.
Cagli. Fa parte della Pentapoli annonaria dei Bizantini, 279.
Calabria. Tenuta dai Bizantini, 280. Le sue chiese vengono unite al patriarcato di Costantinopoli, 336. Ducato bizantino, 336.
Callinico, esarca, 294. Richiamato, 295.
Campulo, sacellario della Curia romana. V. Pasquale primicerio, ec.
Cappadocia (di) Giovanni, ministro dell'imperatore Giustiniano, 214, 228.
[436]
Caprara, luogo della morte di Totila, 237.
Capua (Conte di), 321.
Carlo figliuolo di Pipino, re de' Franchi (detto poi Magno). Consacrato dal Papa, 368. Alla morte del padre divide il regno tra lui e il fratello. V. Carlomanno. Sposa una figliuola di Desiderio, re de' Longobardi, 380; poi la ripudia, 383. Succede al fratello, e riunisce il regno, 383. Sua venuta in Italia contro i Longobardi, suoi primi acquisti, 386, 387. Assedia Pavia, 387. De' suoi intendimenti circa il suo futuro regno d'Italia, della sua andata a Roma e della donazione al Papa, 388 e segg. Torna all'assedio di Pavia, che gli si arrende, e leggenda relativa a quella resa, 393. S'intitola re de' Franchi e de' Longobardi e patrizio dei Romani, 394; e datazione de' suoi atti, 394. Estensione del suo regno in Italia, e come lo costituisca, 394, 395. Accorre a domare una ribellione dei Sassoni, 395. Incitato dal Papa a tornare in Italia, dove si cospira contro di lui, 397. Ritorna, e tratta con grande severità i cospiratori, 398. Sue nuove disposizioni nella costituzione del regno, 399. Riparte, e altri accenni alla sua guerra contro i Sassoni, 399. Torna per la terza volta in Italia, a istanza del Papa; e ancora della sua donazione ad esso, 399 e segg. Pubblica i Capitolari, 401. Passa in Roma la Pasqua del 781, 401. Pratiche d'accordo tra lui e Irene, imperatrice di Costantinopoli, 402. Ancora della sua guerra contro i Sassoni, 402, 403. Perde la madre e la moglie, e sue nuove nozze, 403. Torna in Italia, 404. Fa il Natale del 786 in Firenze, 404. Sottomette il Duca di Benevento, 404. Si turbano le sue relazioni con Costantinopoli, 404. Va contro il Duca di Baviera, 404; e contro gli Avari, 405. Sua deferenza verso il Papa, 405. Piglia parte vivissima ad alcune dispute teologiche, 406. Perde la nuova moglie, 407. Ripiglia di nuovo la guerra contro i Sassoni, 407. Iniziatore del potere temporale de' Papi, 407. Leone III data le bolle dagli anni del suo regno d'Italia, 408. Gli sono dal Papa inviate le chiavi d'oro di S. Pietro e la bandiera della città di Roma, 409. Raffigurato col Papa in un celebre mosaico, 409. Di una sua ambasceria e d'una lettera al Papa, 410. Accoglie a grande onore il Papa [437] perseguitato e cacciato da Roma, e lo rimanda con grande accompagnamento, 412 e segg. Continua la sua guerra coi Sassoni, 413, 414. Gli muore la terza e ultima moglie, 414. Intraprende il suo quarto e più memorabile viaggio in Italia, 415. Siede come giudice tra il Papa e i suoi avversari, 415. Da Gerusalemme gli vengono le chiavi di quella città e del Santo Sepolcro, 416. Coronato imperatore; e dei vari giudizi che si fecero di questa incoronazione, 416 e segg. La posterità gli dà il titolo di Magno, 418. Pubblica altre leggi; e ancora della costituzione d'Italia sotto il suo regno, 419 e segg. Delle opere pubbliche e della cultura greco-romana da lui promosse, 421 e segg. Grande importanza dell'Impero da lui costituito, e sguardo generale ai tempi che seguirono alla sua morte, 423 e segg.
Carlomanno, figliuolo di Carlo Martello, 340. Si ritira in un convento, 360. N'esce e poi vi rientra, 367.
Carlomanno figliuolo di Pipino, re de' Franchi. Consacrato dal Papa, 368. Alla morte del padre si divide il regno tra lui e il fratello Carlo, 379; e discordia tra loro, 379, 380; che fomenta i disordini che sono in Roma per la lotta tra la nobiltà civile e la ecclesiastica, 380 e segg. Muore, 383. La sua vedova si rifugia coi figli presso Desiderio re de' Longobardi, 384.
Carlomanno, figliuolo di Carlo re de' Franchi, 401.
Carlo Martello, fondatore della dinastia carolingia de' re Franchi. Gregorio III si volge a lui per aiuto contro i Longobardi, 339; ma egli non può soccorrerlo, 339, 340. Muore, lasciando divisa la Francia tra i figli Carlomanno e Pipino, 340, 360. Riepilogo della sua vita e del suo regno, 353. l'aristocrazia franca piglia sotto di lui quella forma da cui poi viene il feudalismo, 354, 358. Arricchisce i suoi fedeli e i nobili laici coi beni del clero; ma d'altra parte rende grandi servigi alla Chiesa e alla religione, 358, 359. Aiuto chiesto a lui da Gregorio III, di nuovo ricordato, 360. Se non di nome, è di fatto re de' Franchi, 360.
Carolingi, dinastia di Re Franchi, succede ai Merovingi, 352.
Cartagine. Occupata dai Vandali, 91. Ritolta loro da Belisario, 182, 186.
[438]
Cassiodoro, famiglia, 152.
Cassiodoro, ministro de' re Goti. Varie notizie di lui, 148, 149, 152. Sue lettere, ricordate, 155, 156, 175. Cresce la sua potenza sotto il governo di Amalasunta figlia di Teodorico, 171. Accorre a difendere l'Italia meridionale minacciata dall'imperatore Giustino, 172. Fonda due monasteri, e vi scrive molte delle sue opere, 212.
Ceccano, terra del Ducato bizantino di Roma. Presa da' Longobardi, 364.
Centene presso i popoli germanici, 19.
Châlons (Battaglia di) tra gli Unni e i Romani, 104; e sua grande importanza storica, 104, 111.
Chiesa, Chiesa di Roma. Fin dal suo nascere assume carattere universale, 32. Primi germi della lotta tra essa e l'Impero, 33. Costantemente ferma in sostenere la sua unità e autorità universale; e suoi dissidi con l'Impero e la Chiesa di Costantinopoli, 36, 53, 54, 108, 109, 133 e segg., 156, 160 e segg., 229 e segg., 245. In mezzo alla rovina del mondo romano, solo i suoi rappresentanti danno prova di dignità e di grandezza, 117. Sua autorità di consacrare gl'Imperatori, ricordata, 119. Favorisce i Franchi sotto Clodoveo, 158, 159. Sua temporanea decadenza dalla morte di papa Vigilio all'assunzione di Gregorio I, 233. Inizi della sua politica coi Franchi contro i Longobardi, 263, 264. Del suo patrimonio al tempo di Gregorio Magno, 285. Di nuovo della sua fermezza in sostenere la sua dignità e unità, e de' suoi dissidi con l'Impero e la Chiesa di Costantinopoli, 286, 292, 295, 307, 317 e segg., 324 e segg. Delle donazioni fattele dai re Franchi, e principii del suo dominio temporale. V. Carlo Martello, Pipino e Carlo. Non dipende più dalla corte di Costantinopoli, 409.
Chiesa di Costantinopoli. V. Chiesa, Chiesa di Roma.
Childeberto, re de' Franchi, 267, 289.
Childerico, re de' Franchi, ultimo dei Merovingi, 360, 361.
Chiusi. È in mano de' Goti, 199.
Cimbri, 10.
Cipriano, romano, partigiano de' Goti. Sua falsa accusa contro Albino e Boezio, 166, 167, 172.
[439]
Ciriaco, patriarca di Costantinopoli, 294.
Civitavecchia. Occupata da' Bizantini, 197. In procinto di arrendersi ai Goti, 229.
Civitas presso i popoli germanici, 19 e segg., 26.
Classe, porto di Ravenna. Tolto dai Longobardi ai Bizantini, 263. Ripreso da questi, 267; e di nuovo dai Longobardi, 331.
Claudio, imperatore. Sua grande vittoria contro i Goti, 28.
Clefi, duca di Bergamo. Eletto re de' Longobardi, 260. Muore, e per dieci anni non si elegge altro Re, 260.
Clodoveo, re de' Franchi. Convertito al Cattolicismo, 158. Del suo regno e delle sue imprese, 159. Vinto da Teodorico, 159. Con lui s'inizia la dinastia dei Merovingi; e di nuovo della sua conversione e del suo regno, 349; e divisione d'esso alla sua morte, 351.
Clodoveo II, re de' Franchi, 308, 353.
Clotario I, re de' Franchi, 351.
Clotsuinda, prima moglie d'Alboino, 254.
Comacina (Isola). Tolta dai Longobardi ai Bizantini, 267.
Comitatus presso i popoli germanici, 22.
Concilio di Calcedonia. Ricordato a proposito d'una controversia tra l'imperatore Giustiniano e il Papa, 230, 231, 246, 267.
Concilio ecumenico, convocato da Giustiniano, 231.
Concilio Lateranense, adunato da Martino I, 318.
Concilio di Nicea, adunato dall'imperatore Costantino, 34.
Concilio di Nicea, settimo generale, 406.
Concilio di Sardica, 109.
Concilio detto trullano, 324.
Conon, generale dei Bizantini in Roma, ucciso, 228.
Consilium civitatis presso i popoli germanici, 21.
Conti franchi. V. Duchi e Conti.
Conza. Ultimo luogo fortificato de' Goti, che si arrende ai Bizantini, 243.
Corpus Juris di Giustiniano, 177.
Corsica. Dipende dall'Esarca dell'Africa, 278. Donata da Carlo re de' Franchi al Papa, 392.
[440]
Cosroe, re di Persia, 303.
Costante II, imperatore. È in lotta col papa Martino I, e lo fa condurre prigione a Costantinopoli, 318. Per l'avanzarsi dei Musulmani contro l'Impero fa un accordo politico col successore di lui, 319. Viene in Italia e assedia Benevento, poi si ritira, 320. Va a Roma e poi in Sicilia, dove muore, 320.
Costantino, antipapa. Sua elezione, deposizione, e torture inflittegli, 376 e segg. pass.
Costantino, imperatore. Riforma e divide l'Impero, 31. Abbraccia il Cristianesimo, e trasferisce la sede dell'Impero a Bisanzio, 31, 32. Si pone in conflitto con la Chiesa di Roma, 33. Parte da lui presa nella disputa tra Ariani e Atanasiani, 34. Della sua così detta donazione alla Chiesa, 388 e segg., 400.
Costantino. Proclamato imperatore contro Onorio, gli ribella la Gallia, 68 e segg. pass., 78, 79. Preso ed ucciso, 79.
Costantino, papa, 325. S'accorda con l'Imperatore in perseguitare Felice arcivescovo di Ravenna, 326.
Costantino Pogonato, imperatore, 321.
Costantino V Copronimo, imperatore. Sue relazioni con Desiderio re de' Longobardi, 374; e con Pipino re de' Franchi, 374. Partecipa a una congiura ordita in Italia contro i Franchi, 397. Muore, 398. Gli succede Leone IV, 402.
Costantino VI, imperatore, 402. Notizie del suo regno, e nimistà tra esso e l'imperatrice sua madre, 411.
Costantinopoli. Nuova capitale dell'Impero Romano, 32. Assalita da' Goti, 49; che vi sono accolti dall'imperatore Teodosio, 50. I Goti vi commettono gravi disordini e vi acquistano gran potenza, 60, 61; ma infine ne son cacciati, 62. Vita che si mena a quella corte sotto l'imperatore Teodosio II, 97. Di una ribellione che vi accade contro Giustiniano, 178. Le chiese della Calabria e della Sicilia son riunite a quel patriarcato, 336.
Costanzo, generale romano, mandato da Onorio a ricuperare la Gallia, 79. Sposa Galla Placidia sorella dell'imperatore, ed è associato all'Impero, 82. Muore, 83.
[441]
Cremona. Resiste a' Longobardi, 217. Presa da loro, 296.
Cristianesimo. Sua essenza, 6. Combatte e trionfa del Paganesimo 6 e segg. La sua unione coll'Impero fa sorgere il concetto d'una Chiesa universale, 32. Diviso per la disputa tra Ariani e Atanasiani, 37. Ad esso si convertono parte de' Goti, poi tutti i barbari, 40.
Cristoforo, primicerio della cancelleria papale. Egli e il figliuolo Sergio sono capi della nobiltà ecclesiastica contro la laica, 377. Loro atti, e loro fine, 377, 379, 381, 382, 385.
Cuma. Resiste ai Bizantini, dopo le ultime disfatte de' Goti, 239, 241. Si arrende, 242. Presa dal Duca di Benevento, indi da quello di Napoli, 331.
Cuniberto, re de' Longobardi, 317. Gli è usurpato il regno, 322; ma lo ricupera, 322, 323.
Dacia. Provincia romana al di là del Danubio, 12. Ceduta ai Goti, 29. Oggi appellata Romania, 40.
Dalmazia. Vi si raccoglie un esercito di Bizantini, destinato alla guerra d'Italia contro i Goti, 234 e segg. pass.
Damaso, papa, 53.
Danubio. Confine dell'Impero Romano, 2, poi oltrepassato, 11, 30.
Decapoli, 279.
Deogratias, vescovo di Cartagine, 117.
Desiderata, figlia di Desiderio re de' Longobardi. Maritata a Carlo re de' Franchi, 380. Ripudiata, 383.
Desiderio, re de' Longobardi. S'acquista il favore del Papa con larghe promesse, 372; che poi non attiene, 373. Suo carattere mutabile, e sua politica col Papa, coi Franchi e coll'Imperatore di Costantinopoli, 374. Favorisce la nobiltà ecclesiastica di Roma nei tumulti successi tra essa e la nobiltà laica, 376. Del matrimonio d'una sua figliuola con Carlo re de' Franchi, 380, 383. Aiuto da lui prestato al papa Stefano III nei tumulti di che sopra, 381; e successive sue relazioni con lui, 381 e segg. Sue relazioni col papa Adriano I, 384 e segg. Occupa varie terre della Chiesa, 384, 386; e [442] minaccia tuttavia, 386. Non obbedisce alle intimazioni del Papa di ritirarsi, e respinge le proposte di pace di Carlo re de' Franchi, 386. Vinto da lui in una battaglia si ritira a Pavia, 387. È condotto in Francia, dove muore, 394.
Diocleziano. Sua riforma dell'Impero, 30.
Diodato, doge di Venezia, 344.
Diogene, generale dei Bizantini, 228.
Diritto Romano e Legislazione Longobarda, a proposito dell'Editto di Rotari, 311 e segg.
Dodone, ambasciatore di Carlomanno a Roma, 380, 381, 382.
Donatisti, eretici, 88.
Duchi e Conti franchi, 419, 420, 424.
Duchi e Ducati bizantini, 278. Dipendono dall'Esarca, ma in fatto sono indipendenti, 279, 281. Divisione ed estensione, numero e nomi dei Ducati, 279 e segg.
Duchi e Ducati longobardi. Prime fondazioni dei Ducati, 258. Discordie tra i Duchi, 260; che per dieci anni governano senza il Re, 260. Quanti e quali fossero a quel tempo i Ducati, 261. Dell'autorità e potenza dei Duchi, e della loro maggiore o minore indipendenza dai Re, 276, 277; e della loro residenza, 277. Alcuni minacciano di ribellarsi, 288; e il Re corre a risottometterli, 289.
Dux, capo militare presso i Germani, 22.
Edecone, ambasciatore d'Attila a Costantinopoli, 98. Supposto padre di Odoacre, 128.
Eginardo, annalista de' Franchi, 416, 423.
Elmichi. Richiesto d'uccidere Alboino, si ricusa, 259.
Epifanio, vescovo di Pavia, 143, 151.
Eraclio, eunuco, 112.
Eraclio, imperatore d'Oriente, 297. Della sua guerra coi Persiani, 302, 303. Cerca di comporre le dispute religiose che dividono l'Impero, 306 e segg. Muore, 306, 308.
Erarico, re de' Goti, 215.
Eretici. V. Ariani, Monofisiti, Nestoriani, Donatisti, Monoteliti.
Ermanrico, re degli Ostrogoti, 41. Disfatto dagli Unni, si uccide, 45.
[443]
Eruli. Vengono in Italia con Odoacre, 126, 146. Si uniscono coi Gepidi contro i Longobardi, 252.
Esarca. Questo titolo è attribuito per errore a Narsete, 244. Prima menzione ufficiale di esso, 264, 265, 279. Rappresenta in Italia l'Impero, suo ufficio e autorità, 278, 280, 281. Risiede a Ravenna, 279. Di capo di tutto il governo diventa capo d'un ducato, 279. S'ingerisce anche delle cose ecclesiastiche, 281, 292. Sue inimicizie e persecuzioni contro i Papi, 318, 331, 332.
Esarcato. Territorio di cui si compone, 279. Si solleva contro l'Imperatore, 326. Si va decomponendo, e non esiste più che di nome, 340, 342. Finisce, occupato dai Longobardi, 363, 366. Tolto loro, in parte, dai Franchi, e donato al Papa, 371; che mira a ottenere anche il resto, 372, 373. Di nuovo invaso dai Longobardi, 384, 386. Di nuovo donato, e interamente, al Papa, 392, 400. V. anche ai nomi degli Esarchi: Callinico, Decio, Euleterio, Eutichio, Giovanni, Giovanni Rizocopo, Isacco, Olimpio, Paolo, Romano, Scolastico, Smeraldo, Teodoro Calliopas, Teofilatto.
Esilarato, duca bizantino, 334.
Eudocia, figlia di Eudossia imperatrice; fatta prigione dai Vandali e data in moglie a Unnerico figlio del loro Re, 116.
Eudocia o Eudossia, moglie di Teodosio II imperatore, 98, 101.
Eudossia, figlia di Teodosio II e moglie di Valentiniano III, 91; poi di Petronio Massimo, 113. Della leggenda che chiamasse i Vandali in Italia, 113. Condotta da loro in ischiavitù, 116. Liberata, 121.
Eugenio I, papa, 319.
Eugenio, retore. Pretende all'Impero, 52. Vinto dall'imperatore Teodosio, e ucciso, 53.
Eugippo, 136.
Euleterio, esarca, 301.
Eutarico, marito di Amalasunta, 160. Adottato dall'Imperatore, 164. È ariano, 165. Sua morte, ricordata, 171.
Eutichio, esarca. Sue ostilità contro il Papa, 335, 336. Ricupera Ravenna caduta in mano de' Longobardi, 337.
Eutropio, eunuco di Costantinopoli, 60. Congiura contro Rufino, [444] dopo La morte del quale cresce il suo potere, 61. Sua morte, 61.
Exercitus romanus, e sua divisione in Scholae, 376.
Ezio, generale romano nell'Impero d'Occidente, 84. Antagonismo tra lui e Bonifazio, altro generale, 84. Chiama gli Unni, 85; poi li fa retrocedere, 86. Accusato di tradimento contro Bonifazio, 87. Viene con lui a battaglia, 90. Sua guerra con Attila e gli Unni, 102 e segg.; nella quale è sospettato di tradimento, 105. Sue virtù militari, sua ambizione, 111. Ucciso, 112.
Fano. È in potere de' Bizantini, e fa parte della Pentapoli, 257, 279.
Farovaldo, duca longobardo di Benevento. Giura fedeltà al re Liutprando, 335. Perde lo stato, 341.
Fastrada, moglie di Carlo re de' Franchi, 403. Muore, 407.
Felice, antipapa, 36.
Felice, arcivescovo di Ravenna. Accecato e cacciato dalla sua sede, 326. Restituito, 327.
Felice II, papa. Sostiene fermamente, come i suoi antecessori, l'autorità della Chiesa Romana, 135, 136.
Felice III, papa. Sua elezione, 170.
Festo, patrizio, ambasciatore di Teodorico a Costantinopoli, 161.
Feudalismo. Delle sue origini, 354 e segg.
Fiesole. Ivi presso è sconfitto Radagasio, 67. Assediata e presa dai Bizantini, 203.
Filippico, imperatore, suo dissidio con la Chiesa di Roma, 327, 328. Deposto, 328.
Filippo, antipapa, 377.
Finni, 44.
Firenze. Totila tenta d'assediarla, ma è respinto, 217. Carlo re de' Franchi vi passa il Natale dell'anno 786, 404.
Foca. Proclamato imperatore d'Oriente, 295. Sua crudeltà, 295. Proclama la supremazia del Papa; e di una lettera scrittagli da Gregorio I, 295. Gli succede Eraclio, 297, 302.
Fossombrone. Fa parte della Pentapoli annonaria dei Bizantini, 279.
[445]
Franchi. Del loro regno sotto Clodoveo, 158, 159. Vengono in Italia in aiuto de' Goti contro i Bizantini, 202. E di nuovo, e vi occupano delle terre, 238. Neutrali tra Bizantini e Goti, 238. Di una loro impresa dopo la cacciata de' Goti, 241. Accenni alle loro guerre coi Longobardi nella Gallia, 258. Tornano in Italia contro i Longobardi, poi si ritirano, 263, 264. Dei loro accordi coi Bizantini contro i Longobardi, 265, 266, 269; e nuove guerre con questi ultimi, 267 e segg. Gregorio Magno cerca diffondere tra loro il Cattolicismo, 286. Accordo tra essi e i Longobardi, 288. Ancora della loro conversione al Cattolicismo, 337. A loro si rivolgono i Papi per aiuto contro i Longobardi, 337 e segg., 360; riassunto della loro storia fino a questo tempo, 348 e segg. Potenza e ricchezza della Chiesa e del clero nel loro regno, 356 e segg. Loro discese in Italia con Pipino contro i Longobardi, 369, 371; e con Carlo suo figliuolo. V. Carlo. Costituzione del loro regno in Italia, 394, 395, 399. Longobardi, Romani e Bizantini cospirano contro di loro, 396 e segg. pass.
Fridigerno o Fritigerno, capo d'una parte dei Visigoti, 41. Accolto co' suoi barbari, fuggiaschi, dentro i confini dell'Impero, 46; presto li riorganizza e s'impone a' Romani, 47, 48; ma la sua morte porta la divisione tra loro, 50.
Friuli, ducato longobardo, 256, 261. Diventa ereditario, 276. Occupato dagli Avari, 297; poi rilasciato, 298. Di nuovo minacciato dagli Avari, 405, 406. V. anche Rodogaudo.
Fulda (Monastero di), sua fondazione, 359.
Fulrado, abate di San Dionigi. Accompagna Pipino nelle sue imprese contro i Longobardi, 369, 371.
Gaidulfo, duca longobardo di Bergamo, 289.
Gainas, generale goto. Va a Costantinopoli, 60; e vi acquista gran potere, 61. Cacciato, e ucciso, 62.
Galeno Cesare, 30.
Galla, sorella di Valentiniano II, 49. Sposa l'imperatore Teodosio, 51. Muore, 52.
Galla Placidia, figlia dell'imperatore Teodosio e sorella d'Onorio, 52. Creduta istigatrice dell'uccisione della vedova di Stilicone, [446] 73. Fatta prigione da Alarico, 77. Di lei s'innamora Ataulfo successore d'Alarico, 78; e la sposa, 80. Dopo la morte di lui è maritata a Costanzo, generale romano, che viene associato all'Impero, 82. Morto anche Costanzo, va a stabilirsi a Costantinopoli, 84. Reggente del figlio Valentiniano III, 84; nel cui nome governa, 86 e segg. pass. Muore, suo elogio, 93.
Gallia. Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. Una delle quattro Prefetture dell'Impero, 31. È invasa da Alarico e altri barbari, e si ribella all'Imperatore, 67 e segg. pass. Vi è gran disordine, 78. Vi va Ataulfo re de' Goti e vi doma la ribellione, 79. Diventa stabile dimora de' Goti, 82. Conquistata a poco e poco dai Franchi, 348, 349.
Garibaldo, duca di Baviera, 267.
Garibaldo, duca di Torino, 317. È ucciso, 317.
Garibaldo, re de' Longobardi, 322.
Gasindi nel regno Longobardo, 276, 277, 357.
Gastaldi nel regno Longobardo, 276, 277; nel regno Franco, 419, 421.
Gelasio I, papa. Sostenitore costante della supremazia della Chiesa di Roma, 160. Gli succede Anastasio II, 161.
Gelimero, re de' Vandali, 181. Vinto e fatto prigione da Belisario, 182, 183.
Genova. Vi risiede pei Bizantini un Vicarius Italiae, 278.
Genserico, re de' Vandali. Invade l'Africa, 89. Fa una pace co' Romani, e poi la rompe, 91. Serba per sè grandi possessi nelle terre occupate, 92. Legato di parentela coi Visigoti, poi loro nemico, 103. Prende e saccheggia Roma, 115, 116; e fa prigione l'imperatrice Eudossia, 116; che poi rimette in libertà, 121. Fa un'altra pace con l'Impero, 126. Muore, 127.
Gepidi, 28. Abitano la Dacia settentrionale, 41. Seguono gli Unni, 96. Un loro scontro con gli Ostrogoti, 142. Vengono in Italia con Teodorico, 146. Delle loro inimicizie e guerre coi Longobardi, 252 e segg.; da' quali finalmente sono sterminati, 254.
Gerberga, vedova di Carlomanno re de' Franchi. Si rifugia coi figliuoli presso Desiderio re de' Longobardi, 384. È chiusa in Verona, 386; e cade in mano di Carlo re de' Franchi, 388.
[447]
Germani. Loro prime invasioni nell'Impero, 10 e segg. Notizie datene da Giulio Cesare, 12; e da Tacito, 14. Loro stato di barbarie, 15; religione, 15; abitazioni, 16; divisione delle terre, 17. Divisi in molti e diversi popoli, 18, 24. Loro costituzione civile e militare, 18 e segg. Paragone tra la società loro e quella de' Romani, 22 e segg. Educati sotto i Romani, divengono soldati eccellenti, ma non perdono la loro avversione all'Impero, 24. Altre loro invasioni, 27 e segg.
Germanico. Sue vittorie contro i Barbari, 11.
Germano, nipote dell'imperatore Giustiniano, destinato da lui alla guerra d'Italia contro i Goti, muore, 234.
Gerusalemme. Presa dai Persiani, 302; e ricuperata all'Impero, 303. Ne son consegnate le chiavi a Carlo re de' Franchi, 416.
Geti, 28.
Gildone, 65.
Giordanes, cartulario, 332.
Giorgio, figlio di Giovanniccio, 326.
Giovanni, arcivescovo di Ravenna, 334.
Giovanni, capitano armeno nell'esercito Bizantino, 181, 196. Sue operazioni militari, 197 e segg. pass.; e suoi dispareri con Belisario, 197, 220. Altre sue fazioni militari, 220, 234.
Giovanni I, duca di Napoli. Prende Crema, 331.
Giovanni, maestro de' militi di Venezia, 344.
Giovanni I, papa. Costretto a recarsi a Costantinopoli a sostenere la causa degli Ariani, 169. Al suo ritorno è carcerato, e muore, 170.
Giovanni III, papa, 250. Muore, 262.
Giovanni IV, papa, 307.
Giovanni VI, papa, 325.
Giovanni, patriarca di Costantinopoli. Sue differenze col papa Gregorio I, 292. Muore, 293.
Giovanni, primicerio. Scelto a successore dell'imperatore Onorio dal partito che vuole l'accordo tra' due Imperi d'Oriente e d'Occidente, 84, 85. Preso ed ucciso, 85.
Giovanni Rizocopo, esarca, 326. Ucciso, 326.
[448]
Giovanni Silenziario, 365.
Giovanni, suddiacono, 332.
Giovanniccio, ravennate. Mandato a morte dall'Imperatore, 326. Un suo figliuolo è capo del popolo ribellato, 326.
Gioviano, imperatore, 40.
Giovino, pretendente all'Impero, 79.
Gisulfo, duca del Friuli, 256. Assalito dagli Avari, muore, 297.
Gisulfo II, duca di Benevento, 341, 362.
Giuliano l'Apostata, imperatore. Sue dottrine e sue imprese militari, 38, 39.
Giulio Cesare. Disfà e insegue oltre il Reno un esercito germanico, poi si ritira, 10. Notizie che ci dà di quei barbari, 10, 12; e in che differiscano da quelle date da Tacito, 14.
Giulio Nepote, imperatore d'Occidente, 124. Cacciato, 125. Cerca di ritornare, 129. Muore, 133.
Giustina, madre di Valentiniano II, 49. È cacciata d'Italia, col figliuolo, poi vi ritorna, 51.
Giustiniano, nipote di Giustino imperatore, 163. Associato, e indi successore di lui nell'Impero, 172; sue qualità, suoi disegni, 172, 173. Sue relazioni con Amalasunta, reggente del regno Goto in Italia, e ancora de' suoi disegni, 174, 175; che si scuoprono dopo la morte di Amalasunta, 176. Sua origine, sue doti e suoi difetti, 176. Della sua opera legislativa, 177. Rivoluzione a Costantinopoli contro di lui, 178; repressa, 179. Suo fermo proposito di restaurare l'unità dell'Impero, 180, 181. Caccia i Vandali dall'Africa, 181 e segg. Imprende la guerra d'Italia contro i Goti, 183 e segg. Inclina alla pace, 203, 204. Invia soccorsi a Napoli, minacciata da Totila, 217. Richiesto di pace da Totila, non risponde, 224. Come si comporti con Belisario, 227. Si arroga autorità nelle cose di fede, e di una particolare controversia tra lui e il Papa, 229 e segg. Riprende la guerra d'Italia, 233 e segg. pass. Morendo, lascia l'Impero in triste condizioni; sguardo riassuntivo alla sua politica, 246 e segg.
Giustiniano II, imperatore. Suoi dissensi e crudeltà coi Papi e i cattolici d'Italia, 324 e segg. Una rivoluzione lo caccia [449] dal trono, e un'altra ve lo rimette, 325. È ucciso, e la sua testa è mandata a Roma, 327.
Giustino, imperatore, 160. Succede a Anastasio, 163. Professa le dottrine della Chiesa Romana, 163; e suo accordo col Papa, 164. Perseguita gli Ariani, 164. Minaccia il regno dei Goti in Italia, 172. Associa all'Impero Giustiniano suo nipote, 172.
Giustino II, nipote di Giustiniano, a cui succede nell'Impero; sua politica contraria a quella dello zio, 249. Nega un sussidio agli Avari, 253. Ammattisce, 263.
Glicerio, imperatore d'Occidente, poi vescovo in Dalmazia, 124, 125.
Godeberto. Divide il regno dei Longobardi col fratello Bertarido, 316; e si nimica con lui, 317. Manda per aiuti a Grimoaldo duca di Benevento, ed è da lui ucciso, 317.
Goti. Della loro origine, 27. Divisi in Ostrogoti e Visigoti, cioè in Goti orientali e occidentali, 28. Loro prima invasione nell'Impero, respinta, 28, 29. I Romani cedono loro la Dacia a patto che non passino il Danubio, 29. Cominciano ad incivilirsi, e parte di loro si converte al Cristianesimo, 40; ma la loro conversione li divide e indebolisce di fronte a' Romani, 41. V. Visigoti e Ostrogoti.
Graziano, imperatore d'Occidente, 49. Si associa, per l'Oriente, Teodosio, 50. Deposto ed ucciso, 51.
Grecia. I Romani la conquistano, e sono conquistati dalla sua cultura, 2. Saccheggiata dai Goti, 64.
Gregorio II, duca di Napoli, 347.
Gregorio I Magno, papa. Sua vita di S. Benedetto, ricordata, 209. Notizie di lui anteriori al pontificato, 264, 268, 283. Sua elezione, 268, 283, 284. Suo carattere, suoi scritti, e atti del suo pontificato, 284 e segg. Difende per ogni via da' Longobardi Roma e altre città d'Italia, di cui perciò diventa il principale personaggio, 290 e segg. Di una sua lettera all'imperatore Foca, 295. Sue relazioni con Agilulfo re de' Longobardi, 295. Ancora della sua prodigiosa attività a vantaggio dell'Italia, e sua morte, 296.
Gregorio II, papa. Sua elezione, 329. Si mette in attitudine [450] di difesa contro i Longobardi, 330. Delle sue discordie politiche con l'imperatore Leone III, 331; e della sua lotta con lui per il culto delle immagini, 332 e segg. Ancora delle sue relazioni coi Longobardi e della sua condotta politica tra essi e i Bizantini, 334 e segg. Muore, 336.
Gregorio III, papa. Delle sue relazioni e della sua condotta politica coi Longobardi e i Bizantini, 336 e segg. Chiede aiuto ai Franchi contro i Longobardi, 338; e di nuovo, 339, 360. Muore, 340.
Gregorio di Tours, storico de' Franchi, 350.
Grimoaldo, figlio di Gisulfo duca del Friuli, 298; poi duca di Benevento, 309; e poi re, 317. Sposa una figliuola del re Godeberto, 317. Accorre a liberare Benevento assalita dall'Imperatore, 320. Torna, altre sue imprese, e sua morte, 321. Giudizio del suo governo, 321.
Grimoaldo (II), figlio d'Arichi (II) duca di Benevento, 404. Succede al padre, 405; e aiuta Carlo re de' Franchi contro Adelchi, 405; poi minaccia di ribellarsi, 405; e di nuovo, 415; e guerra contro di lui, 419.
Gubbio. Fa parte della Pentapoli annonaria dei Bizantini, 279.
Guidrigildo presso i Longobardi, 270, 315; e presso i Franchi, 345.
Guinigildo, duca di Spoleto. Mandato da Carlo re de' Franchi in aiuto del Papa, 412.
Gundeberga, moglie di Ariovaldo, poi di Rotari, re de' Longobardi, 301, 308.
Gundobaldo, fratello di Teodolinda, 268, 316. Duca d'Asti, 316.
Gundobaldo, re de' Burgundi, 124. Un suo figliuolo sposa una figlia di Teodorico, 158.
Henoticon. Lettera in materia religiosa, 134; condannata dalla Chiesa di Roma, 134, 136, 160, 161, 163, 164.
Ildebrando, duca di Spoleto. Aiuta Carlo re de' Franchi contro Adelchi, 405; poi minaccia di ribellarsegli, 405.
Ildebrando, nipote del re Liutprando. Fatto prigioniero, 338. Succede per breve tempo a Liutprando, 341, 362.
[451]
Ildegarda, moglie di Carlo re de' Franchi, 387. Muore, 402, 403.
Ilderico, re de' Vandali, 181. Cacciato, 181.
Ildibaldo, arcivescovo di Colonia. Va a ricevere il Papa per Carlo re de' Franchi, 413; e lo riaccompagna, 414.
Ildibaldo, parente del Re de' Visigoti. Succede a Vitige re degli Ostrogoti, in Italia, 206. Suo prospero principio, e sua morte, 215.
Illirico. Una delle quattro Prefetture dell'Impero, 31. Resta per un tempo diviso tra l'Oriente e l'Occidente, 69. Vi fa un'impresa Teodorico re de' Goti, 157.
Immagini sacre. N'è proibito il culto da Leone III imperatore; e lotta che ne segue tra lui e il Papa, e agitazione in tutto l'Impero, specie in Italia, 329 e segg. pass. Nuovi e successivi accenni a detta questione, 374, 402, 406.
Imola. Presa da' Longobardi, 257.
Impero Franco costituito da Carlo Magno, durante la vita di lui, 417 e segg.; e dopo la sua morte, 424.
Impero d'Occidente. V. Impero Romano. Continua a chiamarsi tale benchè in gran parte occupato dai Barbari, e infine ristretto alla sola Italia, 86. Si unisce con quello d'Oriente per opporsi agli Unni, 97; e sue relazioni con essi, 97 e segg. Gli è mossa guerra da Attila, 102; e quale fosse allora il suo stato, 102. Si approssima la sua fine, 112. Perisce con Odoacre, 129.
Impero d'Oriente. V. Impero Romano. S'unisce con quello d'Occidente per opporsi agli Unni, 97; e sue relazioni con essi, 97 e segg. Diviso dalle dispute religiose, e in lotta con la Chiesa di Roma. V. Chiesa. Abbraccia le dottrine cattoliche, 164. Le molte e varie genti di cui si compone sono tenute unite dalla legge e disciplina; donde la sua lunga durata, 179. Tristi sue condizioni alla morte di Giustiniano, 246 e segg.; e ancora della sua lunga durata, 248. Nuovo accenno alla mancanza di coesione tra le sue parti, causa di debolezza, 303 e segg. La Chiesa si emancipa dalla sua dipendenza, 409. Sue condizioni alla costituzione del nuovo Impero Franco, 418, 419.
Impero Romano. La corruzione non è la causa ma l'effetto della sua decadenza, 1. In ragione del suo estendersi perde [452] di unità, 2; e prima a risentirne è la costituzione dell'esercito, per l'introduzione in esso dei barbari e degli schiavi, che presto ne formano la maggior parte, 3. Le imposte per mantenere l'esercito dissanguano i popoli; la classe media è disfatta, e si formano i latifondi che esauriscono la fertilità del suolo, 4. La scarsa cultura de' campi e la poca industria in mano degli schiavi, 5. L'esercito e i possessori dei latifondi vi spadroneggiano, 5. Alle cause civili, militari, economiche, di debolezza s'aggiunge la guerra e il trionfo del Cristianesimo sul Paganesimo, che n'è il fondamento, 6. Per la sua grande vitalità resiste più secoli, ma finalmente la corruzione e decomposizione sociale aprono la via ai Barbari, 7, 90. Suoi confini sotto Augusto, 11; oltrepassati da Traiano, 12; onde per due secoli e mezzo è costretto opporsi alle invasioni dei Barbari, 26 e segg. Riformato e diviso in quattro Prefetture, 30, 31. N'è trasferita la sede a Costantinopoli, 32. Dalla sua unione col Cristianesimo nasce la lotta tra esso e la Chiesa, 33 e segg. Diviso tra' due imperatori d'Oriente e d'Occidente, 46 e segg. pass. Politicamente riunito sotto Teodosio I, e concordia tra esso e la Chiesa, 53, 56. Di nuovo diviso tra' due imperatori d'Oriente e d'Occidente, indipendenti l'uno dall'altro, 57 e segg. Disaccordi e antagonismo tra loro, 83, 84. Nuova apparente riunione sotto Teodosio II, 84, 86; e nuova divisione, 86. Comincia un vero smembramento d'esso con la cessione d'una parte dell'Africa ai Vandali, 91. Sua unità, ma solo di nome, dopo la caduta dell'Impero d'Occidente, 129, 133. Giustiniano si propone di restaurarne l'unità e lo splendore, 180.
Ipazio, 179.
Ippona, Assediata da' Vandali, 90. Vi si fa una pace tra essi e i Romani, 91.
Irene, imperatrice di Costantinopoli. Fa adesione alla Chiesa di Roma, 402; e avvia pratiche d'accordo con Carlo re de' Franchi, 402. Il Papa le domanda le terre tolte da' Bizantini alla Chiesa, 403, 407. Si turbano le sue relazioni col re Carlo, 404. Altre notizie del suo regno, e nimicizie tra essa e l'Imperatore suo figliuolo, 411, 419.
[453]
Isaace. V. Armenia (d').
Isacco, esarca, 307.
Isaurici, montanari del Tauro, 122.
Istria. Si agita per una questione religiosa, 267. È in parte de' Bizantini, 280. Ricordata, a proposito della donazione fatta da Carlo re de' Franchi al Papa, 392.
Italia. Una delle quattro Prefetture dell'Impero, 31, 32, 58. Incursioni in essa di Visigoti, 64 e segg., 72 e segg.; di Unni, 106 e segg.; di Vandali, 113 e segg. Ad essa sola, per le continue invasioni de' barbari, si restringe a poco a poco tutto l'Impero d'Occidente, 86, 124; e staccandosi sempre più dalle altre provincie, finisce per costituire una nuova unità politica, 124, 129. Divisione delle sue terre sotto Odoacre e, per incidenza, nei tempi anteriori, 130 e segg. Spenta in essa la vita politica, vi si svolge meglio quella religiosa, 133. Suo stato sotto Teodorico, 146 e segg.; divisione delle sue terre tra i Goti, 151. Guerra tra Goti e Bizantini, 184 e segg.; e sua desolazione, 206 e segg. Quali parti ne abbiano i Goti e quali i Bizantini durante la guerra tra loro, 226, 229, 238. Termina il regno de' Goti, 241. Di un'invasione de' Franchi, 241 e segg. Sue misere condizioni sotto il governo de' Bizantini, 244 e segg. Invasa e conquistata dai Longobardi, 254 e segg. Divisa da loro in ducati, 258, 260, 261; e sua condizione sotto di essi, 261. Ricostituita in regno; e di nuovo delle sue condizioni, e della divisione delle rendite e delle terre tra Longobardi e Romani, e della pretesa servitù di questi, 265, 266, 270 e segg.; e di nuovo del governo de' Longobardi e dei Bizantini, 274 e segg. Quasi tutta unita sotto un re Longobardo, 317; e nuovamente divisa alla sua morte, 322. Dissensi religiosi, 319. Le sue città cominciano ad acquistare una importanza nuova; e germi in essa di una nuova cultura, 323. Primo esempio di una confederazione di città italiane, 327. Ancora dell'autonomia che vanno sempre più acquistando le sue città, 334, 340. Costituzione in essa del regno Franco, 394 e segg., 403, 419. La sua parte meridionale comincia ad avere una storia separata da quella di tutto il rimanente, 424.
[454]
Jesi. Fa parte della Pentapoli annonaria de' Bizantini, 279.
Jordanes, storico de' Goti. Sua descrizione degli Unni, 45. Ricordato ad altri propositi, 48, 63, 104, 153.
Latifondi e latifondisti romani, 4, 5, 92, 132, 152, 165, 355, 356.
Leone, arcivescovo di Ravenna. Suoi conflitti con la Chiesa di Roma, 396 e segg. pass. Muore, 399.
Leone I, imperatore. Sua elezione, 119. Altre notizie di lui e del suo governo, 119 e segg. pass. Vicino a morte, 124.
Leone II, imperatore, 130.
Leone III l'Iconoclasta, imperatore, 328, 329. Respinge un'invasione dei Mussulmani, 330; e reprime alcune ribellioni, 330. Delle sue discordie politiche col Papa, 331; e della sua lotta con esso «per il culto delle immagini», 332, 336. Muore, 340.
Leone IV, imperatore, 402.
Leone I, papa. Capo d'un'ambasceria ad Attila, 107. Del suo concetto d'una Chiesa universale cristiana con a capo Roma, 108, 109. Dopo il suo colloquio con Attila, questi si ritira, 110. Si oppone anche, ma senza effetto, all'avanzarsi de' Vandali sopra Roma, 115.
Leone III, papa. Sua elezione, 408. Datazione delle sue bolle, con che di fatto si dichiara indipendente dall'Impero di Costantinopoli, 409. Manda a Carlo re de' Franchi le chiavi d'oro di S. Pietro e la bandiera della città di Roma, 409. Quale concetto si formi dello stato delle cose; mosaico da lui ordinato, 409. Ambasciata mandatagli in risposta dal Re, 410. Molte e gravi accuse si muovono in Roma contro di lui, 410. Assalito all'improvviso da' suoi nemici, è maltrattato e ferito, 412. Invitato dal re Carlo a Paderbona, vi va ed è accolto solennemente, 413. Continuano le accuse contro di lui, e si prega il Re di sottoporlo a un giudizio, 413. Rimandato con grande accompagnamento a Roma, dov'è trionfalmente ricevuto, 414. S'inizia il processo contro di lui, 414. Riceve il re Carlo in S. Pietro, e giura d'essere innocente delle colpe appostegli, 415. Pone sul capo del Re la corona imperiale; [455] e dei vari giudizi che si fecero di questa incoronazione, 416 e segg.
Leutari. V. Buccellino.
Liberio, ufficiale civile nei regni di Odoacre e di Teodorico, 151.
Liutberto, figlio di Cuniberto re de' Longobardi; gli è usurpato il trono, 323.
Liutgarda, moglie di Carlo re de' Franchi, 414.
Liutprando, re de' Longobardi. Sua legislazione, ricordata, 312. Scampato alla persecuzione di Ariberto II contro la sua famiglia, 323. Succede al re Ansprando suo padre, 324. Sue doti, suo lavoro legislativo, 329. È fervente cattolico e si comporta bene col Papa, 330. Profittando delle difficili condizioni dell'Impero, s'impadronisce di Classe, 331; e profittando della lotta tra il Papa e l'Imperatore, cerca di stendere sempre più il suo dominio in Italia, 334. Riesce a sottomettersi i ducati di Spoleto e Benevento, e di nuovo delle sue relazioni e condotta politica coll'Imperatore e col Papa, 335 e segg. pass., 362. Sua morte ricordata, 341, 362.
Lodovico, figlio di Carlo re de' Franchi, 401.
Longino, successore di Narsete, generale de' Bizantini in Italia, 255, 259, 262.
Longobardi. Nell'esercito di Narsete contro i Goti, 235, 237; commettono grandi eccessi, 237; e son licenziati, 238. Della leggenda che poi Narsete li chiamasse in Italia, 250. Della loro origine, 251; e delle inimicizie e guerra coi Gepidi, 252 e segg. Loro invasione e conquista d'Italia, 255 e segg. Si impegnano in una guerra coi Franchi nella Gallia, 258. Per dieci anni non si eleggono il Re, 260. Il Papa e l'Imperatore chiamano contro di loro i Franchi, 263; che potentemente li assalgono, e poi si ritirano, 264. Ricostituiscono la monarchia, 265. Accordi tra Bizantini e Franchi contro di loro, 265, 266, 269. Tentano invano di fare un'alleanza coi Franchi, 266; che poi invece vengono contro di loro, ma sono sconfitti, 267. Di nuovo guerreggiati dai Franchi, 268, e in comune coi Bizantini, 269. Paragone e differenze tra il loro [456] regno e quelli di Odoacre e dei Goti, 270; e dei Bizantini, 278 e segg. Gregorio I si adopera di tirarli al Cattolicismo, 286; e di una sua pace con loro, 291. Ricomincia la guerra tra essi e i Bizantini, 291 e segg. pass. Comincia la loro conversione al Cattolicismo, ma ad un tempo la loro divisione, 296, 301, 308. Loro legislazione in sè, e rispetto al Diritto Romano, 309 e segg. Del crescere della loro conversione e insieme dei disordini, 322, 323, 324. Ancora della loro legislazione, 329. Ancora del loro mutamento religioso, 330; e condotta politica dei Papi con essi durante «la lotta per le immagini» tra la Chiesa e l'Impero, 330 e segg. pass. Sconfitti dai Franchi sotto Pipino, 370; e di nuovo, 371; e sotto il re Carlo, 386. Fine del loro regno, 394. Cospirano coi Romani e i Bizantini contro i Franchi, 396 e segg. pass. Carlo Magno aggiunge alle loro altre leggi, 419.
Lorenzo, candidato al papato contro Simmaco, 161, 162.
Lucca. Resiste a' Bizantini dopo le ultime disfatte de' Goti, poi si arrende, 242.
Lupicino, generale romano, 48.
Lupo, duca del Friuli, 321.
Lupo, vescovo di Troyes, 104, 110.
Magiari, 44.
Maioriano (Giulio Valerio). Eletto imperatore, 119; suo governo, 119, 120. Suoi apparecchi contro i Vandali, 120. Sua morte, 121.
Majores natu presso i popoli germanici, 20.
Mantova. Presa da' Longobardi 256; e demolitene le mura, 296.
Maometto. Sua dottrina, e propagazione d'essa, 305, 333.
Marbodio, capo de' Marcomanni, 11.
Marca presso i popoli germanici, 17, 18.
Marcello, doge di Venezia, 344.
Marciano, marito di Pulcheria imperatrice, 101. Si rifiuta di pagare certi tributi ad Attila, 101; e minaccia d'invadere le sue terre, 107.
Marco Aurelio. Suo elogio, 8. Respinge un'invasione barbarica, 8, 27.
[457]
Marcomanni, popoli germanici, invadono l'Impero e son respinti, 8, 11, 27.
Maria, figlia di Stilicone e moglie d'Onorio imperatore, 65. Sua morte, ricordata, 68.
Marino, duca di Roma, 332.
Mario (C.), vincitore dei Cimbri, 10.
Martino I, papa. Condanna certi editti imperiali, 318. Condotto prigione a Costantinopoli, e sua morte, 318.
Massimiano Augusto, 30.
Massimino, ambasciatore di Teodosio II ad Attila, 98.
Massimo, pretendente all'Impero, 79.
Massimo, successore dell'imperatore Graziano, 51.
Maurizio, duca bizantino a Perugia, 291.
Maurizio di Cappadocia, imperatore. Cerca di muovere i Franchi contro i Longobardi, 264. Sue relazioni col papa Gregorio I, 290 e segg. Rivoluzione contro di lui, 294.
Mauro, arcivescovo di Milano, 319.
Merovingi, dinastia di Re Franchi, 349. Le succede quella dei Carolingi, 352.
Messina, 229.
Milano. Vi risiede l'imperatore Onorio, 66. Assediata e presa dai Goti, 202. Si arrende a' Longobardi, 257, e diventa uno dei loro ducati, 261. Quella Chiesa vuole essere indipendente, 319. Presa da Carlo re de' Franchi, 387.
Mimulfo, duca longobardo, 289.
Missi dominici nel regno Franco, 420, 424.
Modena. Presa da' Longobardi, 257.
Monofisiti, eretici. Loro dottrina, 134, 306. Ricordati a vari propositi, 178, 230, 232, 333.
Monoteliti, eretici, 305 e segg. pass., 317 e segg. pass., 333.
Monselice. Resiste a' Longobardi, 256, 257. Presa da loro, 296.
Monte Cassino, monastero, 211, 212. Distrutto dai Longobardi, 263; e da loro stessi ricostruito, 330. Vi si ritira Carlomanno figlio di Carlo Martello, dopo la morte del padre, 361.
Monza. Basilica di S. Giovanni, fondatavi da Teodolinda, e palazzo di Teodorico, ricordati; e del tesoro raccolto nella basilica, 299.
[458]
Mori dell'Africa. Sono in continua guerra coi Romani, 86, 88. Si uniscono coi Vandali, e con essi prendono e saccheggiano Roma, 114, 115.
Mosaico celebre di S. Giovanni in Laterano, 409.
Musulmani. Accenni alle loro conquiste e guerre nell'Impero, 306, 318, 319, 330 e segg. pass. Debellati da Carlo Martello, 353.
Napoli. Tolta da Belisario ai Goti e riconquistata all'Impero, 186. Costretta ad arrendersi ai Goti, 217. Vi si ritira Narsete, 255. È sempre in mano de' Bizantini, 258. Assediata da' Longobardi, 263. È un ducato Bizantino, e fa parte dell'Esarcato, 280; ma a poco a poco acquista indipendenza, 341. Riassunto della sua storia, e sua costituzione politica e sociale fino a questo tempo, 345 e segg.
Narni. S'arrende ai Bizantini, 238. Ceduta dai Longobardi ai Franchi, 370.
Narsete. Mandato da Giustiniano in Italia contro i Goti in aiuto di Belisario, 200; e come si comporti con lui, 200, 202. Richiamato, 203. Rimandato come generale in capo, suo carattere e qualità, 234. Raccoglie l'esercito, 235; e per che vie e con quali accorgimenti lo meni a combattere, 236. Sconfigge Totila, 237. Assedia e prende Roma, 239. Sconfigge Teja e distrugge il regno de' Goti in Italia, 240. Respinge un'invasione di Franco-Alamanni; suoi fatti d'arme contro di loro e contro le reliquie dei Goti, 241 e segg.; dopodichè assume il governo di tutta Italia, 244 e segg. Gl'Italiani si dolgono di lui all'Imperatore, 249. Di nuovo richiamato a Costantinopoli; e della leggenda ch'egli chiamasse in Italia i Longobardi, 249. Vive ritirato in Napoli, 255.
Neoplatonismo, dottrina filosofica, 37 e segg.
Nestoriani, eretici, 134.
Neustria, regno franco, 351 e segg.
Norico, provincia dell'Impero, 74. Desolato dal continuo passaggio dei barbari, 128, 136. Devastato dai Rugi, 136. Una parte della sua popolazione emigra in Italia, 137.
[459]
Occidente (Impero di). V. Impero.
Oderzo, 308.
Odoacre. Educato all'armi nelle legioni Romane, 25, 127. Caccia di Ravenna Romolo Augustolo, 127. Chi fosse, e altre precedenti notizie di lui, 128. Accordi tra lui e l'Imperatore d'Oriente, 129, 130. Assume il governo d'Italia, sotto la dipendenza di lui, ma in realtà come principe indipendente, 130. Suo regno, 130 e segg. Si aggrega la Dalmazia, 133. Sue relazioni coi Papi, 134, 135; e con l'Imperatore, 137. Combatte e vince i Rugi, 137. Ancora delle sue relazioni coi Papi, 140, 142. Sua guerra con Teodorico e gli Ostrogoti, 141 e segg. Sua morte, 145. Differenza tra lui e Teodorico, 146.
Olibrio, romano, 123.
Olimpio, esarca, 318.
Olimpio, ufficiale della guardia imperiale, 70, 71, 112.
Onoria, sorella dell'imperatore Valentiniano III, 97. Relegata a Costantinopoli, invita Attila a liberarla, 98, 102.
Onorio, imperatore d'Occidente, 57. Affidato da Teodosio suo padre alle cure di Stilicone, 58; di cui sposa una figlia, 65. Trasferisce la sua sede da Milano a Ravenna, 66. Entra da trionfatore in Roma, dopo una sconfitta de' Goti, 66. Sposa un'altra figliuola di Stilicone, 68. Comincia a ingelosirsi e insospettirsi di lui, 68, 69. È a Pavia, dove scoppia un tumulto contro di lui, 70. Pubblica un editto contro gli eretici, 71. Non vuol fare accordi con Alarico e i Goti che minacciano Roma, 72 e segg. pass. Come senta la presa di Roma fatta dai Goti, 76. Si adopra a risoggettare la Gallia ribellata, 78. Suoi accordi e relazioni con Ataulfo successore d'Alarico, 78 e segg. Di nuovo trionfa, 82. Dissenso tra lui e l'Imperatore d'Oriente, 83, 84. Carattere del suo regno, 84. Alla sua morte due partiti si scuoprono in Occidente, 84.
Onorio, papa. Ricordato a proposito d'una disputa religiosa che divide l'Impero, 307.
Oreste, padre di Romolo Augustolo. Ambasciatore d'Attila a Costantinopoli, 98. Caccia da Ravenna l'imperatore Giulio Nepote, e altre notizie di lui, 125. Fa eleggere imperatore il [460] figliuolo, 126. È a capo dell'esercito, 126; che gli si ribella, 127. Preso ed ucciso, 127.
Oriente. Una delle quattro Prefetture dell'Impero, 31, 58.
Oriente (Impero di). V. Impero.
Orléans. Assediata dagli Unni, 104.
Ormisda, papa, 160. Succede a Simmaco, e continua a lottare, come lui, per la supremazia della Chiesa di Roma, 163. Gli succede Giovanni I, 169.
Orso, doge di Venezia. Aiuta l'Esarca a ricuperare Ravenna caduta in mano de' Longobardi, 337, 344. È ucciso, e gli succede un figliuolo, 344.
Orte, 291.
Orvieto. È in mano de' Goti, 199, 201. Presa da Belisario, 202.
Osimo. È in mano dei Goti, 199, 200, 201. Assediata da Belisario, si arrende, 203. Giura obbedienza al Papa, 389.
Ostia. È in mano de' Goti, 221. Presa da' Bizantini, 222.
Ostrogoti. V. Goti. Vinti e sottomessi dagli Unni, 45. Sono nell'esercito d'Attila e combattono contro i Romani e i Visigoti loro alleati, 96, 104. Si staccano dagli Unni dopo la morte d'Attila e la rovina del suo regno, 138; e occupano la Pannonia, 138. Si uniscono con loro quelli che sono in Costantinopoli, 139; e invadono l'Italia, e se ne impadroniscono, 140 e segg. Le antiche istituzioni germaniche sono mutate presso di loro, 147. Eleggono Teodorico loro re, 148. Loro condizione nel nuovo regno di fronte ai Romani, 149 e segg. pass. Teodorico tenta inutilmente la fusione tra i due popoli, 165. Divisione delle terre tra di loro, 151. Loro stato dopo la morte di Teodorico, 172, 173. Loro avversione ad Amalasunta figliuola di lui, 173, 174. Della guerra mossa loro dall'imperatore Giustiniano, 183 e segg. Assediano Roma, 191 e segg. Fanno proposte di pace ai Bizantini assediati che le rifiutano, 197; indi propongono una tregua ch'è accettata, 197. Levano l'assedio, 198. Continuazione della guerra, 199 e segg. La loro fortuna risorge dopo la partenza di Belisario, generale dei Bizantini, 214 e segg. Tengono l'alta Italia e quasi tutta la centrale, 226. Sbarcano in Sicilia, 229. [461] Assediano Ancona, e la loro armata è distrutta, 234. Disfatti da Narsete succeduto a Belisario, 237; e di nuovo, 240. Fine del loro regno in Italia, 240, 241. Loro ultime resistenze, 241 e segg. Quello che rimanesse della loro legislazione, 245.
Otranto, 218.
Padova. Resiste a' Longobardi, 251, 257. Presa da loro e distrutta, 294.
Paganesimo, 6. Gli Stoici cercano, ma invano, di salvarlo dagli assalti del Cristianesimo, 8; e i Neoplatonici, pure inutilmente, di risuscitarlo, 37 e segg.
Pagus presso i popoli germanici, 19 e segg., 26.
Palude Meotide, 44.
Pannonia. Occupata dagli Ostrogoti, 138.
Paolo, cubiculario, soprannominato Afiarta. Difensore di Stefano III papa contro le violenze dei capi dell'aristocrazia ecclesiastica in Roma, 381. Spadroneggia, dopo la loro caduta, col favore de' Longobardi, 382 e segg. Ambasciatore del papa Adriano I al re Desiderio, 384. Cerca accordarsi col Re contro il Papa, 385. Imprigionato ed ucciso, 385.
Paolo, esarca. Manda un esercito a Roma contro il Papa, 332. Scomunicato e ucciso, 334.
Paolo I, papa. Consacrato, 374. Chiede aiuto a Pipino contro la nobiltà laica di Roma, 374. Sua politica tra i Franchi, i Longobardi e l'Impero, 375.
Paolo Diacono, storico dei Longobardi, ricordato a vari propositi, 249, 251, 261, 308; in ispecie a proposito della condizione dei Romani sotto i Longobardi, 266, 270, 272; e dell'importanza che acquistarono col tempo sotto di loro le singole città italiane, 323, 327. Un suo fratello è fatto imprigionare da Carlo re de' Franchi, 398. È alla corte di esso Carlo, e altre notizie di lui, 422.
Paoluccio, doge di Venezia, 343, 344.
Parma. Presa da' Longobardi, 257.
Pasquale primicerio, e Campulo sacellario, della Curia romana. Congiurano contro il papa Leone III, e lo accusano a [462] Carlo re de' Franchi, 411, 412. Non potendo provare l'accuse, sono arrestati e mandati in Francia, 414. Ricondotti a Roma, 415; e dannati alla pena di morte, commutata poi nell'esilio, 416.
Pavia. Vi accade un tumulto, 70, 72. Vi si rinchiude Teodorico durante la sua guerra con Odoacre, 142, 143. Saccheggiata dai Franchi, 203. Assediata dai Bizantini, 205. Una delle principali città de' Goti dopo la loro perdita di Ravenna, 238. Cade anch'essa in mano de' Bizantini, 240. Fa lunga resistenza a' Longobardi, 255, 257; ma infine s'arrende, 258; e diventa uno de' loro ducati, 261. Ricostruzione della sua basilica, ricordata, 308. Vi è sanzionato l'Editto di Rotari, 309. Capitale del regno Longobardo, 317. Assediata dai Franchi, 370; e di nuovo, 371. Vi si rinchiude il re Desiderio, ed è di nuovo assediata da Carlo re de' Franchi, 387; cui finalmente s'arrende, 393, 394.
Pelagio, diacono. Fa le veci del Papa assente, 223. Mandato da Totila a trattare di pace con Giustiniano, 224. Eletto papa, 245; si mette in opposizione coi vescovi e prelati italiani, 246. Gli succede Giovanni III, 250.
Pelagio II, papa, 262. Si rivolge a' Franchi e all'Imperatore contro i Longobardi, 263, 264, 279. Si accorda coll'Imperatore in una questione religiosa, 267. Muore, 268, 283.
Pentapoli de' Bizantini. Città che la compongono, 257. Divisa in marittima e annonaria, 279. Occupata da' Longobardi, 366. Tolta loro in parte da' Franchi e donata al Papa, 371; che mira a ottenerla tutta, 372, 373. Di nuovo donata, e interamente, al Papa, 392, 400.
Peredeo, duca longobardo, 338.
Peredeo, uccisore d'Alboino, 259; sua morte, 259.
Persia e Persiani. Sempre nemici dell'Impero; accenni alle loro guerre con esso, 39, 48, 202, 204, 213, 214, 248, 301. Loro conquiste, 302. Ripetutamente sconfitti, 303.
Perugia. È in potere de' Bizantini, 217, 226; che indi la perdono, 226; e poi la ricuperano, 238; e la conservano, 258. Occupata da' Longobardi e ripresa da' Bizantini, 291; e di nuovo da' Longobardi, 291.
[463]
Pesaro. È in potere de' Bizantini, e fa parte della Pentapoli, 257, 279.
Petronio Massimo. Eletto imperatore, 113. Ucciso, 114.
Piacenza. Resiste a' Longobardi, 257.
Piceno. Posto a soqquadro da' Bizantini, 198.
Pietra Pertusa, 236. Si arrende a' Bizantini, 238.
Pietro, duca bizantino di Roma, 328. Accecato, 334.
Pipino d'Héristal, franco, 353.
Pipino, figliuolo di Carlomanno, 340, 360. È eletto e consacrato re de' Franchi, 361. A lui si rivolge il papa Stefano II per aiuto contro Astolfo re de' Longobardi, 364; ed egli lo invita a recarsi in Francia, e accoglienza e promesse che gli fa, 364 e segg. Di nuovo consacrato e incoronato dal Papa, 368; e datogli da lui il titolo di Patrizio, 369. Tenta inutilmente di indurre Astolfo a «restituire alla Repubblica Romana e alla Chiesa» le terre da lui occupate, 366, 369. Viene con l'esercito in Italia, toglie ad Astolfo Ravenna e altre città e le cede al Papa, 369, 370. Non mantenendo Astolfo i patti, ritorna; gli toglie altre terre e le dona come le precedenti, 370 e segg. Esorta la nobiltà laica di Roma, levatasi contro la nobiltà ecclesiastica, ad obbedire al Papa, 374. Sue relazioni con l'Imperatore, 374, 375. Muore, 375; e il regno si divide tra Carlomanno e Carlo suoi figliuoli, 379.
Pipino, figlio naturale di Carlo re de' Franchi, detto il gobbo. Congiura contro il padre, ed è rinchiuso in un convento, 405.
Pipino re d'Italia, figliuolo di Carlo re de' Franchi. Mandato dal padre incontro al Papa, 413. Spedito contro il Duca di Benevento, 415, 419.
Pisa. Accenno alla sua condizione politica al tempo della lotta tra Bizantini e Longobardi, 296.
Placidia, figlia di Eudossia imperatrice, 116.
Placiti, assemblee sotto i Franchi, 420.
Plotino, capo del Neoplatonismo, 37, 38.
Pollenzo. Vi accade una battaglia tra Goti e Romani, 66.
Porfirio, discepolo di Plotino, capo del Neoplatonismo, 37, 38.
Porto, città. Occupata da' Goti, 192. Ripresa da' Bizantini, 197; e notizie successive, 220, 221, 222.
[464]
Prammatica Sanzione pubblicata dall'imperatore Giustiniano, 232, 244, 245, 278, 343, 345.
Principes presso i popoli germanici, 20 e segg.
Prisco, ambasciatore di Teodosio II ad Attila, scrive una descrizione del suo viaggio, 98 e segg.
Procopio, 42, 46, 141, 148. Accompagna Belisario nelle sue guerre, delle quali lascia un prezioso diario, 177. Citato a vari propositi, 190 e segg. pass., 207, 216, 224. Mandato in esplorazione a Napoli, 195.
Provenza. Tolta da Teodorico a' Franchi, 159; e governo da lui costituitovi, 159.
Pulcheria, sorella di Teodosio II imperatore, 83, 98; a cui succede, 101.
Quadi, popoli germanici, 27.
Rachi, re de' Longobardi, 362, 372.
Radagasio. Battuto nella Rezia, 6; e di nuovo in Toscana, e fatto prigione, 67.
Ragimberto. Usurpa il trono de' Longobardi, 323.
Ravenna. Capitale dell'Impero d'Occidente, 66. Divisa tra chi vuole l'indipendenza di quell'impero dall'Oriente e chi un accordo con questo, 83. Ricordata a proposito dei monumenti erettivi da Galla Placidia, 94. Assediata e presa da Teodorico, 144, 145; e opere pubbliche da lui compiutevi, 155. Vi è bruciata la sinagoga degli Ariani, 165. Vitige re de' Goti vi raccoglie un esercito, 188, 189. Vi si accosta un capitano di Belisario, 198; e poi egli stesso vi pone l'assedio, 204. Si arrende, 205. Sempre in potere de' Bizantini, 255, 257. Vi risiede il loro Prefetto del Pretorio, 278; e l'Esarca rappresentante dell'Impero, 279. Posta a sacco da' Bizantini, 326. È in mano de' Longobardi, ed è loro ritolta da' Bizantini, 337. Ripresa da' Longobardi, 362. Ritolta loro da' Franchi, e donata al Papa, 371. Di nuovo minacciata da' Longobardi, 384. Quegli Arcivescovi cercano rendersi indipendenti dalla Chiesa di Roma, 379, 385, 396.
Reggio di Calabria. Tolta da' Bizantini a' Goti, 221.
[465]
Reggio d'Emilia. Presa da' Longobardi, 257.
Reno. Confine dell'Impero Romano, 2.
Rezia. Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. Vi è sconfitto un esercito barbarico, 65. Posseduta da Teodorico, 157.
Ricimero, barbaro, generale dell'Impero d'Occidente, 117. Riporta una vittoria sui Vandali, 118. Fa e disfa gl'Imperatori, 118 e segg. pass. Muore, 123. Per opera sua viene l'Italia in piena balìa de' Barbari, 124.
Rimini. Occupata dai Goti, 144. Tolta loro dai Bizantini, 198. Di nuovo assediata da' Goti, 201; a' quali si arrende, 229. È di nuovo in mano de' Bizantini, 257; e fa parte della Pentapoli, 257, 259.
Ripuari. V. Salici.
Rodoaldo, figlio di Gisulfo duca del Friuli, poi duca di Benevento, 309.
Rodoaldo, re de' Longobardi, 316.
Rodogaudo, duca del Friuli. Cospira contro Carlo re de' Franchi, 395, 398; ed è da lui assalito e sconfitto, 398.
Roma. Accenno allo stato suo dopo la divisione dell'Impero e il trasferimento della sede imperiale a Costantinopoli, 31, 32; dopo la quale è spinta a divenire la capitale religiosa del mondo, 33. Assediata e presa da Alarico re de' Goti, che poi si ritira, 72 e segg.; e il suo stato va migliorando, 83. Minacciata dagli Unni, manda ad essi una solenne ambasciata, 107. Incapace di ogni resistenza nella venuta de' Vandali, 114; dai quali è presa e posta a sacco, 115. Chiude le porte in faccia a Odoacre, 142. Teodorico vi lascia le antiche magistrature, 153. Tolta da Belisario ai Goti, e riconquistata all'Impero, 188 e segg. Se ne restaurano le mura, 188. Del lungo assedio postole da' Goti, 190 e segg. Liberata, 198. Assediata da Totila, Belisario tenta per ogni via di soccorrerla, ma finalmente cade in mano de' Goti, 219 e segg. Totila vorrebbe distruggerla, 224; poi l'abbandona, 225. Vi rientrano i Bizantini e vi riparano i guasti fattivi e la difendono da nuovi assalti dei Goti, 225. Ripresa da Totila, 228. Assediata e ripresa da Narsete, 239. Resta ai Bizantini nella prima invasione de' Longobardi, 258; ma è [466] continuamente osteggiata da questi, 262. V'è pei Bizantini un Vicarius Urbis, 278; e un Maestro de' militi, 281. Minacciata dal Duca longobardo di Benevento, 290. Assediata dal re Agilulfo, 291. Sollevazioni in essa pei dissensi religiosi fra l'Imperatore e il Papa, e in difesa di questo, 325, 327; e di nuovo, 332. Inizi della sua indipendenza e libertà municipale, 334, 335. Si va a poco a poco staccando dall'Esarcato, 341; e costituendo in una specie di repubblica, 342. Disordini e tumulti che vi accadono per la nuova autorità acquistatavi dal Papa dopo la donazione di Pipino, 373, 375. Il Papa manda a Carlo re de' Franchi la bandiera della città, 409, 410. Nuovi disordini e tumulti che vi accadono per la debolezza dell'Impero e la lontananza del re Carlo, 411 e segg.
Roma (Chiesa di). V. Chiesa ec.
Roma (Ducato bizantino di), 328. Molestato e invaso dai Longobardi, acquista a poco a poco indipendenza dall'Impero e viene in possesso della Chiesa, 334, 338 e segg. pass., 362 e segg. pass., 367, 370, 373, 376. Donato da Carlo re dei Franchi al Papa, 393, 400.
Romani. Paragone tra la loro società e quella de' Barbari, 23 e segg. Loro condizione di fronte ai Goti sotto il regno di Teodorico; antagonismo tra i due popoli, 149 e segg. pass., e come si scopra in manifesta avversione, 165. Della loro condizione sotto i Longobardi. V. Italia.
Romania. V. Dacia.
Romano, esarca, 267. Stringe un accordo co' Franchi contro i Longobardi, 269. Si sdegna d'una pace contratta da Gregorio I papa con loro, 291; e toglie loro alcune città, 291. Gregorio si lagna di lui con l'Imperatore, 292. Muore, 294.
Romilda, vedova di Gisulfo duca del Friuli, 297.
Romolo Augustolo. Eletto imperatore, 126. Deposto e confinato, 127.
Romualdo, figlio d'Arichi duca di Benevento, 404.
Romualdo, figlio di Grimoaldo duca di Benevento e re. Governa per lui quel Ducato, 317, 320; e gli succede, 322.
Romualdo II, duca di Benevento. Piglia Crema, 331; presto ritoltagli, 331.
[467]
Rosmunda, figlia di Cunimondo re dei Gepidi, 254. Alboino le uccide il padre e la costringe a sposarlo, 254. Sua vendetta e sua morte, 259.
Rossano, 226.
Rotari, re de' Longobardi. Sua ascensione al trono, 301. Riporta una vittoria sui Bizantini, 308. Del suo Editto, 309 e segg. Muore, 316. Editto, di nuovo ricordato, 329.
Rotruda, figlia di Carlo re de' Franchi, 402.
Rufino. Tutore di Arcadio imperatore d'Oriente, 58; e prefetto del Pretorio, 59. Oriundo della Gallia, 59. Antagonismo tra lui e Stilicone tutore d'Onorio in Occidente, 159. Ucciso, 61.
Rugi, barbari. Devastano la provincia del Norico, 136. Vinti e cacciati da Odoacre, 137. Il figlio del loro Re si rifugia presso gli Ostrogoti, 137; coi quali poi vengono in Italia, 146, 215.
Sabina. Quel territorio è chiesto dal Papa a Carlo re de' Franchi, 403.
Salerno. Sua annessione al ducato di Benevento, 309.
Salici e Ripuari (Franchi), 347 e segg. pass.
Sallustio. Suo palazzo in Roma, incendiato, 75.
S. Ambrogio vescovo di Milano, 53. Suo carattere, sue relazioni, con l'imperatore Teodosio, 54 e segg.
S. Basilio, 53.
S. Benedetto. Di lui e dell'Ordine da lui fondato, 208 e segg. Sua Regola, ricordata, 263.
S. Bonifazio. Accenni al suo apostolato, 359. Consacra in nome del Papa Pipino eletto re de' Franchi, 362, 368.
S. Colombano, 299.
S. Genoveffa, 104.
S. Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli, 62.
S. Girolamo, 53.
S. Gregorio Nazianzeno, 53.
S. Pietro, chiesa di Roma, nella sua primitiva forma, 190.
S. Severino. Profetizza a Odoacre la sua fortuna in Italia, 128. Benefica azione da lui spiegata nel Norico, 128, 136.
S. Sofia, tempio di Costantinopoli, 176.
[468]
Sardegna, 278.
Sassoni. Misti coi Longobardi nella loro invasione d'Italia, 255, 260. Accenni alle loro guerre con Carlo re de' Franchi, 395, 398, 399, 402, 403, 407, 413.
Scabini nel regno Franco, 420.
Schiavi romani. Arrolati negli eserciti dell'Impero, 3; e in numero sterminato, 5.
Scholae nell'ordinamento militare di Roma, 376, 390, 414.
Sciri. Vengono in Italia con Odoacre, 126, 146.
Scolastica, sorella di S. Benedetto, 211.
Scolastico, esarca, 328.
Sculdasci nel regno Longobardo, 277.
Serena, moglie di Stilicone, e nipote dell'imperatore Teodosio, 59, 71. Uccisa, 73.
Sergio, papa, 324. L'imperatore Giustiniano II manda a imprigionarlo, ma non l'ottiene, 325. Sua morte, 325.
Sergio, patriarca di Costantinopoli, 306, 307.
Sergio, secundicerio della cancelleria papale. V. Cristoforo primicerio.
Sessualdo, balio di Romualdo, governatore di Benevento, 320.
Severino, papa, 307.
Severo (Libio), imperatore, 121.
Sicilia. Tolta da Belisario ai Goti e riconquistata all'Impero, 185. Vi sbarcano i Goti, 229. Ha un suo proprio Prefetto, 278. Si ribella, ma è risottoposta, 330. Le sue chiese vengono unite al patriarcato di Costantinopoli, 336.
Silverio, papa, 188. Deposto, 196.
Simmaco, capo del Senato, fatto morire da Teodorico, 169. Si restituiscono ai suoi figli i beni a lui confiscati, 172.
Simmaco, papa. Sua elezione contrastata, 161, 162. Suoi atti, 162, 163.
Simplicio, papa. Sostiene fermamente, come i suoi antecessori, l'autorità della Chiesa Romana, 134.
Sinesio, rètore, 61.
Singerico, re de' Goti, 81.
Sinigaglia. È in potere dei Bizantini, e fa parte della Pentapoli, 257, 279.
[469]
Slavi. Loro conquiste nel dominio dell'Impero, 303, 304. Entrano nel Ducato di Benevento, poi ne sono cacciati, 309.
Smeraldo, esarca. Mandato da Costantinopoli in Italia contro i Longobardi, 265. Toglie loro il porto di Classe, 267. Sua imprudente condotta in una agitazione religiosa dell'Istria e della Venezia, 267. Richiamato dall'Imperatore, 267. Ricordato, 279. Rimandato con la stessa carica in Italia, 295; e di nuovo sostituito, 297.
Sofia, imperatrice, 249.
Spagna. Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. È invasa dai barbari, e da ribelli all'Impero, 67, 69, 72, 78, 79, 82.
Spoleto. È in potere de' Bizantini, 217; che indi la perdono, ma poi la ricuperano, 238. Diventa un ducato longobardo, 258, 261. V. Spoleto (Duca e Ducato di).
Spoleto (Duca e Ducato di), 258, 261. Assedia Napoli, 263. Diventa ereditario e indipendente, 276. Forte posizione di quel Ducato, 290. Minaccia Roma, 290; e il Papa conclude seco una pace, che poi si rompe, 291. Si allarga nell'Italia meridionale, 293. Ancora delle sue mire d'indipendenza, 294. Ricordato, 321. Giura obbedienza al Papa, 389. Ricordato a proposito della donazione fatta da Carlo re de' Franchi al Papa, 392. Si allontana dal Papa per sottomettersi a Carlo, 395; poi gli si aliena e cospira contro di lui, 397, 398. V. anche ai nomi dei Duchi: Ariulfo, Guinigildo, Ildebrando, Trasimondo.
Stefano, duca bizantino di Roma, 340.
Stefano II, duca e vescovo di Napoli, 347.
Stefano, notaio. Oratore del papa Adriano I al re Desiderio, 384.
Stefano II, papa. Minacciato da Astolfo re de' Longobardi, cerca inutilmente di far pace con lui, 363. Si rivolge invano per aiuti all'Imperatore, 363. Si rivolge a Pipino re de' Franchi, 364. Cerca inutilmente di persuadere Astolfo a restituire le terre tolte all'Impero, 365. Va in Francia, e delle promesse fattegli da Pipino, 365 e segg. S'ammala, e guarisce miracolosamente, 367, 368. Consacra ed incorona il Re, 368. Cessione fattagli da Pipino di terre tolte ad Astolfo, 370. Di nuovo minacciato da Astolfo, di nuovo ricorre al Re de' Franchi, [470] 370. Donazione fattagli di altre terre, 371. Sue relazioni con Desiderio successore di Astolfo, 372. Muore, 373.
Stefano III, papa. Sua elezione, 377. Quello che faccia e gli accada nei tumulti seguiti a suo tempo in Roma tra la nobiltà civile e la ecclesiastica, 378 e segg. pass. Sua condotta tra Franchi e Longobardi, 380 e segg. pass. Muore, 383.
Stilicone. Tutore d'Onorio imperatore d'Occidente, 58. Sposa una nipote dell'imperatore Teodosio, 59. Antagonismo tra lui e Rufino tutore d'Arcadio in Oriente, 59 e segg.; riesce a farlo uccidere, 61. Come intendesse procedere coi Goti, 63. Respinge un'incursione d'Alarico, ma non lo insegue, ed è sospettato di tradimento, 64. Cresce la sua potenza e autorità in Italia, 65. Dà in moglie a Onorio una sua figliuola, 65. Respinge Radagasio, 65; e di nuovo Alarico, 66; e di nuovo Radagasio, e lo fa prigione, 67. Crescono contro di lui le accuse di tradimento, 67, 68. Dà un'altra figliuola in moglie ad Onorio, 68. Consiglia Onorio ad accordarsi con Alarico, 69. È un barbaro romanizzato, donde insieme la sua forza e la sua debolezza, 69. Suo attaccamento all'Impero, 70. Cade in mano dei suoi avversari, ed è ucciso, 71.
Stoicismo. Si sforza, ma inutilmente, di combattere il Cristianesimo, 7. Ricordato a proposito del Neoplatonismo, 38.
Subiaco, monastero, 211.
Sutri. Tolta dai Bizantini al Papa, 291; dai Longobardi ai Bizantini, e restituita al Papa, 334, 335.
Svevi. Invadono con altri barbari la Gallia, 67.
Tacito. Della sua descrizione dei popoli germanici e confronto con quella di Giulio Cesare, 14 e segg.
Taranto. Si arrende ai Goti, 229.
Tasone, figlio di Gisulfo duca del Friuli, 297, 298.
Teja, generale goto. È in Verona, 236. Manda aiuti a Totila, 236, 237. Eletto re dopo la morte di Totila, 238. Fa trucidare trecento giovani romani, 239. Sua disfatta e sua morte, 240. I suoi editti non sono riconosciuti dai Bizantini, 245.
Telemaco, monaco orientale, 66.
[471]
Teodato, figlio d'una sorella di Teodorico, 173. Avverso ad Amalasunta figlia di lui, 174. Associato da Amalasunta nel regno, in breve la caccia e fa uccidere, 175. Perde la Sicilia, 185; e Napoli, 186. Deposto dai suoi Goti, 187.
Teodato, primicerio della Curia romana, 411.
Teodemiro degli Amali, ostrogoto, padre di Teodorico, 138.
Teodolinda. Del suo sposalizio con Autari re de' Longobardi, 267. È cattolica, 286. Suo savio governo, ricordato, 287. Sposa Agilulfo, 287. Ricordata, 292, 295, 296. Governa il regno nella minorità del figliuolo, 299. Della protezione accordata da lei e da Agilulfo a S. Colombano, 300. Muore, 301.
Teodora, imperatrice e moglie di Giustiniano. Creduta istigatrice della uccisione d'Amalasunta, 175. Sua origine, sue qualità, 177. Coraggio da lei spiegato in una rivoluzione di Costantinopoli, 179. Fa deporre papa Silverio ed eleggere Vigilio, 196. Perseguita Belisario, 213, 214. Sua morte, ricordata, 226.
Teodorico degli Amali. Educato all'armi nelle legioni Romane, 25. Capo degli Ostrogoti, 137. Notizie di lui anteriori alla sua discesa in Italia, 137 e segg. Sua discesa, 141. Sua guerra contro Odoacre, 142 e segg.; che è costretto ad arrendersi, 144; e delle condizioni dell'accordo, 145. Uccide Odoacre, 145; e resta solo padrone d'Italia, 146. Condizione in cui si trova, come capo de' suoi barbari e insieme rappresentante dell'Impero, 146 e segg. Sua autorità e suo governo, 148 e segg. Non potendo fare assegnamento sull'Impero, cerca fortificarsi, 157; e s'imparenta con altri Re barbari, 158. S'impadronisce della Provenza, e governo che vi ordina, 159. La questione tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli e tra il Papa e l'Imperatore torna a suo danno; ed ei si adopera a risolverla, 160 e segg. Perseguitandosi gli Ariani, egli perseguita i Cattolici, 165, 169. Di una pretesa congiura contro di lui, 166 e segg.; e della sua vendetta, 168, 169. Sua morte, e leggende intorno ad essa, 170. Presenta ai Goti per suo successore il nipote Atalarico, 171.
Teodorico, re de' Visigoti. Alleato dei Romani contro gli Unni, 103, 104. Muore, 105.
[472]
Teodorico II, re de' Visigoti, 117. Fa eleggere Avito all'impero d'Occidente, 117.
Teodorico, soprannominato Strabone, capo dei Goti stabiliti in Oriente, 139.
Teodoro, patrizio. Pone a sacco e a fuoco Ravenna, 325, 326.
Teodoro Ascida, 230.
Teodoro Calliopas, esarca, 318.
Teodosio, imperatore. Eletto a suo compagno, per l'Oriente, dall'imperatore Graziano, 50. Conclude una capitolazione coi Goti, 50. Rimette sul trono d'Occidente Valentiniano II statone cacciato, e sposa Galla sua sorella, 51. Morto Valentiniano, vince altri usurpatori del trono e riunisce politicamente l'Impero, 52; e vi ricostituisce l'unità religiosa, 53. Nato un tumulto contro di lui, fa uccidere rei ed innocenti, 54. Chiamato a farne penitenza da S. Ambrogio, dapprima gli resiste, poi si umilia, 54 e segg. Sua morte, dopo la quale rinascono e crescono tutti i pericoli minaccianti l'Impero, 56. Lascia l'Impero diviso tra i suoi due figliuoli, 57.
Teodosio II, imperatore d'Oriente, 74. Dissensi tra lui e Onorio imperatore d'Occidente, 83, 84; dopo la cui morte assume l'autorità d'unico imperatore, 84. Poi rimette l'Occidente nelle mani di Valentiniano III, 86. Costretto a pagar tributi, e sempre maggiori, agli Unni perchè non molestino l'Impero, 96 e segg. pass. Sua vita religiosa, 97, 98. La sua moglie ricordata, 98. Sua morte, 101.
Teofilatto, esarca, 325.
Termanzia, moglie d'Onorio imperatore, 68, 71.
Terracina. Iscrizione ivi dedicata a Teodorico, 160.
Teudebaldo, re de' Franchi, 241.
Teudiberto, re dei Franchi. Manda, e poi viene egli stesso, in aiuto de' Goti contro i Bizantini, 202, 203. Promette altri aiuti, 204.
Teudiberto II, re de' Franchi. Una sua figlia è promessa sposa a un figliuolo di Agilulfo re de' Longobardi, 297.
Tiberio II. Supplisce e poi succede all'imperatore Giustino II, 263. A lui succede Maurizio di Cappadocia, 264.
Tivoli, 219.
[473]
Todi, 291.
Tolosa, capitale del regno de' Visigoti, 158.
Torino. Presa da Carlo re de' Franchi, 387.
Torisindo, re de' Gepidi, 252.
Torismondo, figlio di un Re de' Gepidi, 252.
Torismondo, re de' Visigoti, 106.
Toscana. Ricordata a proposito della donazione fatta da Carlo re de' Franchi al Papa, 392.
Totila, re de' Goti. Visita S. Benedetto, 211. Rialza le sorti dei Goti in Italia, 216. Sua molta abilità strategica e politica, 216. Fatti vari della sua guerra coi Bizantini, 216 e segg. Va all'impresa di Napoli, che gli s'arrende, 217. S'apparecchia all'assedio di Roma, 217; e vi s'incammina, 218. L'assedia, 219; e se ne impadronisce, 223. Vorrebbe trattar di pace con l'imperatore Giustiniano, che si rifiuta, 224; ond'egli s'accinge a distrugger Roma; ma poi se n'astiene, 224; e l'abbandona, 225. Torna per ricuperarla, 225; e la ricupera, 228. Sbarca in Sicilia, 234. Assedia Ancona, ma è costretto a levarsene, 234. Rinnova proposte di pace, 234. È presso Roma e attende rinforzi, 236. Va incontro a' nemici comandati da Narsete, 236; ed è sconfitto e muore, 237. I suoi editti non sono riconosciuti da' Bizantini, 245.
Toto, duca di Nepi. Capo della nobiltà laica in Roma contro la ecclesiastica, 376.
Trasamondo, re de' Vandali. Sposa una figlia di Teodorico, re degli Ostrogoti, 158, 173. Ricordato, 181.
Trasimondo, duca longobardo di Spoleto. Giura fedeltà al re Liutprando, 335; poi gli si ribella, e perde e ricupera e di nuovo riperde lo stato, 338 e segg.
Tre Capitoli. Questione teologica detta de' Tre Capitoli, agitata tra la Chiesa di Roma e l'imperatore Giustiniano, 229 e segg.
Trento. Presa da' Longobardi, 257; e uno de' loro Ducati, 261. V. anche Alachi.
Triboniano, giureconsulto, compilatore del Corpus Juris, 176.
Troyes. Scampa a un saccheggio per opera del suo Vescovo, 104, 110.
Tufa, maestro dei cavalieri di Odoacre, 143.
Turcilingi. Vengono in Italia con Odoacre, 126, 146.
[474]
Ulfari, duca longobardo di Treviso, 289.
Ulfila, goto, vescovo. Inizia la cultura e la conversione de' Goti al Cristianesimo, e traduce la Bibbia, 40.
Ungari, poi Ungheresi, 305.
Unnerico, figlio di Genserico re de' Vandali, 116.
Unni. Grande famiglia di popoli a cui appartengono, 42 e segg. Disfanno gli Alani, 44. Descrizioni lasciatene dai cronisti, e leggende intorno ad essi, 44. Sottomettono gli Ostrogoti, 45. Assalgono e inseguono i Visigoti, 46. Chiamati in Italia, poi fatti retrocedere da Ezio generale romano, 85, 86. Durano a lungo le loro amichevoli relazioni con l'Impero, 95. Poi mutano, estendendosi sempre più il loro regno sotto Attila. V. Attila. Alcuni di loro mandati da Costantinopoli a soccorrere Roma assediata da' Goti, 193. Una loro invasione respinta da Belisario, 226.
Unulfo, 321.
Uraias, nipote di Vitige re de' Goti, ricusa di succedergli, 205. Ucciso, 215.
Urbino. È in mano de' Goti, 199, 201. Presa da' Bizantini, 202. Fa parte della loro Pentapoli annonaria, 279.
Valdiperto, prete longobardo, 377, 378.
Valente, imperatore d'Oriente. Concede il passo ai Visigoti, cacciati dagli Unni, 46; poi li combatte ed è sconfitto, 48.
Valentiniano I, imperatore d'Occidente, 46, 49.
Valentiniano II. Gli è dato dall'Imperatore il governo dell'Italia e dell'Africa, 49. È cacciato d'Italia, poi vi ritorna, 51. Sua morte, 52.
Valentiniano III, 84. Fatto imperatore d'Occidente, sotto la tutela della madre, 86. Comincia a governare da sè, 91; sue nozze, 91. Uccide Ezio generale dell'Impero, 111, 112. È ucciso lui, 112.
Valeriano, generale bizantino in Ravenna. Sue fazioni militari, 234, 238.
Valia, re de' Goti, 81. Suo accordo con l'imperatore Onorio, 81. Fonda il regno Visigoto nella Gallia, 82.
Vandali. Invadono la Gallia, 67. Combattuti da' Goti nella Spagna, [475] 82. Della loro invasione in Africa, 87 e segg.; e del loro governo e dominazione in essa, 91 e segg. Alleati de' Visigoti, 102; e poi loro nemici, 103. Fanno continue scorrerie sulle coste d'Italia, 112. Delle loro crudeltà e della loro venuta a Roma, 113, 114; che prendono e saccheggiano, 115. Sono sconfitti in una battaglia da Ricimero, generale romano, 118; poi vanno a vuoto altre imprese tentate contro di loro, 120, 121; e il loro orgoglio cresce a dismisura, 122. Sono cacciati dall'Africa, 181; e scompaiono dalla storia, 182.
Varo, console romano, sconfitto da' Barbari, 10.
Venezia. Sua fondazione, 106. È in potere de' Goti, 226. Dal Veneto incomincia l'invasione de' Longobardi in Italia, 256. Si agita per una questione religiosa, 267. È un Ducato bizantino, 280; e fa parte dell'Esarcato, ma a poco a poco diviene indipendente, 338, 341. Riassunto della sua storia, e sua costituzione politica e civile fino a questo tempo, 342 e segg. Ricordata, a proposito della donazione fatta da Carlo re dei Franchi al Papa, 392.
Verina, moglie di Leone I imperatore, 122, 124, 130.
Verona. Assediata da' Bizantini, 205. Difesa da Teja, 236. Di nuovo voluta assediare, 238. Si arrende a' Longobardi, 256. Vi muore Alboino, 258. Vi si rinchiude Adelchi figlio di Desiderio re de' Longobardi, 387. Cade in mano de' Franchi, 388, 394. Accenno a una questione tra la città e il suo Vescovo, 406.
Vicenza. Si arrende a' Longobardi, 256.
Vicovaro (Monaci di), 210.
Vicus presso i popoli germanici, 19, 20.
Viduchindo, capo de' Sassoni, 403.
Vigila, interpetre d'un'ambasceria d'Attila a Costantinopoli, 98.
Vigilio, papa. Sua elezione, 196. Chiamato a Costantinopoli, e di una controversia religiosa tra lui e l'imperatore Giustiniano, 231. Suo ritorno a Roma, e sua morte, 231. Danno recato alla Chiesa dalla sua condotta con l'Imperatore, 233.
Visigoti. V. Goti. Si convertono in parte al Cristianesimo, e divisione tra loro e dagli Ostrogoti, 41. Dalla Dacia settentrionale passano il Danubio, ma son respinti, 42. Inseguiti dagli Unni, lo ripassano, e guerra tra essi e i Romani, 46 e [476] segg. Discordie tra loro, 50; fanno una capitolazione coll'imperatore Teodosio, per cui è loro concesso di stabilirsi nella Tracia, 50. Combattono in un esercito dell'Imperatore, 52. Aumentano sempre a danno dell'Impero, 56. Si dolgono di non ricevere da esso le paghe de' soldati, 60, 62. Con loro si uniscono altri Goti cacciati da Costantinopoli, 62. Fanno loro re Alarico, 63; e con lui invadono la Grecia, poi l'Italia e Roma. V. Alarico. Dopo la sua morte chiamano re Ataulfo, 77. Vanno nella Gallia, 79; e vi fondano il regno Visigoto, 82. Alleati de' Romani, combattono con essi contro gli Unni, e si trovano a fronte gli Ostrogoti confederati di questi ultimi, 103 e segg. Si uniscono agli Ostrogoti contro Odoacre, 144, 158. Estensione del loro regno, 158. Sconfitti da' Franchi in una battaglia, 158.
Vitaliano I, papa, 319.
Vitige, re degli Ostrogoti, 187. Della guerra mossagli dall'imperatore Giustiniano, 187 e segg. Dell'assedio da lui posto a Roma, 191 e segg. Sta chiuso in Ravenna, con grosso esercito, 201. Ordina d'assediar Milano, 202. Fa minacciare dai Persiani l'Imperatore, 203, 204. Assediato in Ravenna, 204. Tradito dalla moglie, 204. Fatto prigione, 205; e menato a Costantinopoli, 206, 213.
Zaccaria III, papa. Sua elezione, 340. Sue relazioni co' Longobardi, 340, 341. Dà licenza a Pipino d'intitolarsi re de' Franchi, 361; e lo consacra, 362. Ancora delle sue relazioni coi Longobardi, 362. Muore, 363.
Zaccaria, protospatario, 325.
Zenone, imperatore d'Oriente, 123; e solo legittimo imperatore dopo la caduta dell'impero d'Occidente, 129. Suoi accordi e altre relazioni con Odoacre, 130, 133, 137. Pubblica una lettera per conciliare due opposte dottrine teologiche, 134. Spinge in Italia i Rugi contro Odoacre, 137; e poi gli Ostrogoti, 137; e sue relazioni con Teodorico loro capo, 139 e segg.
Zottone, duca longobardo di Benevento, 289.
[477]
Prefazione Pag. VII
LIBRO PRIMO
DALLA DECADENZA DELL'IMPERO ROMANO FINO AD ODOACRE
Capitolo I. — La decadenza dell'Impero 1
Capitolo II. — I Barbari 10
Capitolo III. — La riforma dell'Impero. Diocleziano e Costantino. L'agitazione religiosa. Ariani ed Atanasiani. Neoplatonismo. Giuliano l'apostata. Il vescovo Ulfila, e la conversione dei Goti 30
Capitolo IV. — Gli Unni 42
Capitolo V. — Teodosio 49
Capitolo VI. — Arcadio ed Onorio. Rufino, Stilicone ed Alarico 57
Capitolo VII. — Dalla morte di Alarico alla costituzione del regno dei Visigoti nella Gallia 77
Capitolo VIII. — Galla Placidia. L'invasione dei Vandali in Africa 83
Capitolo IX. — Attila e gli Unni. La battaglia di Châlons. Il generale Ezio. Papa Leone I 95
Capitolo X. — Massimo imperatore. I Vandali saccheggiano Roma. Ricimero, Oreste ed Augustolo 113
[478]
LIBRO SECONDO
GOTI E BIZANTINI
Capitolo I. — Odoacre 128
Capitolo II. — Teodorico e gli Ostrogoti in Italia 138
Capitolo III. — Il regno di Teodorico 146
Capitolo IV. — Fine del regno di Teodorico. Governo di Amalasunta 164
Capitolo V. — Giustiniano e Belisario. La guerra vandalica. Il principio della guerra gotica 176
Capitolo VI. — Roma assediata dai Goti. I Bizantini vittoriosi entrano in Ravenna 190
Capitolo VII. — Desolazione dell'Italia. S. Benedetto fonda il suo Ordine 206
Capitolo VIII. — Totila re dei Goti. Belisario torna in Italia, ed occupa Roma. Suo ritorno a Costantinopoli e sua morte 213
Capitolo IX. — La disputa dei Tre Capitoli. Ritorno di Narsete in Italia. Disfatta di Totila e di Teja. Fine del regno ostrogoto 228
Capitolo X. — Morte di Giustiniano e di Belisario. Nuove difficoltà in cui si trova l'Impero. Narsete, richiamato a Costantinopoli, non obbedisce 241
LIBRO TERZO
I LONGOBARDI
Capitolo I. — Guerra dei Longobardi contro i Gepidi. Loro venuta in Italia e loro conquiste. Morte di Alboino. Elezione di Clefi e sua morte. Interregno. Duchi. Divisione delle terre. Il Papa si rivolge la prima volta per aiuto ai Franchi (580) 251
Capitolo II. — Ricostituzione della Monarchia. Elezione di Autari. Sue guerre coi Bizantini e coi Franchi. Matrimonio con Teodolinda. Condizione dei vinti 265
[479]
Capitolo III. — Ordinamento del regno longobardo e del governo bizantino 274
Capitolo IV. — Gregorio I. Agilulfo sposa Teodolinda e pacifica il regno. Gregorio I fa pace coi Longobardi di Spoleto. Agilulfo assedia Roma. L'imperatore Maurizio è deposto; viene eletto Foca. Morte di Gregorio I e di Agilulfo. S. Colombano 283
Capitolo V. — Rotari re. Eraclio imperatore. Guerra persiana. Maometto. L'Ecthesis. L'editto di Rotari 301
Capitolo VI. — Grimoaldo re. Lotta e poi accordo tra Papa e Imperatore. Costante II in Italia. Morte di Grimoaldo. Bertarido. Cuniberto. Conversione dei Longobardi al cattolicismo. Liutprando 316
Capitolo VII. — Sollevazione di Ravenna e delle città dell'Esarcato contro l'Impero. Filippico imperatore. Ribellione in Roma 324
Capitolo VIII. — Liutprando, Gregorio II e Leone III. La lotta per le immagini. Liutprando ne profitta ed assale il Ducato romano. Il Papa si rivolge la prima volta ai Franchi. Non potendo avere da essi aiuto, si riavvicina ai Longobardi 329
Capitolo IX. — Venezia e Napoli 342
LIBRO QUARTO
I FRANCHI E LA CADUTA DEL REGNO LONGOBARDO
Capitolo I. — I Merovingi e l'origine dei Carolingi 348
Capitolo II. — Carlo Martello e le prime origini del Feudalismo. Il Papa si volge per aiuto ai Franchi 354
Capitolo III. — Pipino eletto re dei Franchi, consacrato dal Papa per mezzo di S. Bonifazio. Il Papa, minacciato da Astolfo, va in Francia a chiedere aiuto 360
Capitolo IV. — Pipino e i Franchi vengono in Italia e vincono i Longobardi. Donazione dell'Esarcato e delle Pentapoli al Papa. Muore Astolfo. Desiderio re dei Longobardi. Disordini in Roma. Elezione di Paolo I e sua morte 369
[480]
Capitolo V. — Nuovi e gravissimi tumulti in Roma. Elezione di Stefano III. Matrimonio di Carlo re dei Franchi con Desiderata. I nemici del Papa sono oppressi. Stefano III muore 375
Capitolo VI. — Elezione di Adriano I. Condanna e morte dell'Afiarta. Discesa di Carlo re dei Franchi in Italia. Disfatta dei Longobardi, assedio di Pavia. Carlo va a Roma, dove passa la Pasqua del 774 384
Capitolo VII. — Formazione del regno franco in Italia. Congiure e ribellioni contro il Papa, che chiede aiuto a Carlo. Questi torna in Italia, e celebra in Roma la Pasqua del 781 394
Capitolo VIII. — Irene governa in Costantinopoli. Carlo sconfigge di nuovo i Sassoni. Torna in Italia e sottomette il Friuli e Benevento. Combatte gli Avari. Dispute religiose. Morte di Adriano I e suo carattere 402
Capitolo IX. — Elezione di Leone III. Ambasceria franca a Roma. Irene imperatrice. Gravi tumulti in Roma. Il Papa a Padeborn. Suo ritorno a Roma. Carlo viene a Roma, dove è coronato imperatore dal Papa, il giorno di Natale 800 408
[481]
ERRATA-CORRIGE
Pag. | 39, | verso | 7: | 5 ottobre 561 | leggasi: | 5 ottobre 361 |
» | 259, | » | 20: | l'uccisore del marito | » | Elmichi |
» | 304, | » | 30: | non se ne sentì | » | per lungo tempo non se ne sentì. |
1. In un suo recente discorso anche il prof. Romano, dell'Università di Pavia, insisteva su queste condizioni degli studi storici in Italia.
2. Il secondo volume della sua Storia d'Italia, ora pubblicato, non l'ho anche visto.
3. De bello gallico, IV, 1; V, 22; VI, 21 e 22.
4. Questi nomi si riscontrano in quelli dei giorni, nell'italiano, nell'inglese e nel tedesco. Come da Marte venne Martedì, così da Tius o Dyaus vennero Tuesday e Dienstag. Come da Mercurio venne Mercoledì, così da Wuotan venne Wednesday. Da Giove si ebbe Giovedì, e da Donar, Donnerstag e Thursday.
5. Germania, 5, 6, 15, 17, 19.
6. Historiae, IV, 64.
7. Germania, 16.
8. Germania, 26.
9. Mark, Marca, quasi da marcare, indica il territorio del villaggio, spesso anche delle comunanze (Markgenossenschaften), che facevano parte del villaggio. Qualche volta invece la Marca è il terreno lasciato a pascolo comune.
10. «Jura per pagos vicosque reddunt». Germania, 12.
11. De bello gallico, VI, 23.
12. Germania, 11 e seg.
13. Germania, 13.
14. Germania, 7.
15. Germania, 14.
16. «Arcadius Augustus.... et Honorius Augustus.... commune imperium, divisis tantum sedibus, tenere coeperunt.» P. Orosio VII, 36. Marcellino ripete presso a poco le stesse parole.
17. «Esset, ut vulgariter loquar, Gothia quod Romania fuisset, et fieret nunc Athaulfus quod quondam Caesar Augustus» VII, 43.
18. Tutto ciò che s'attiene alla venuta dei Vandali, ed alla parte avuta da Bonifazio, fu esaminato nuovamente dal Freeman nella Historical Review del luglio 1887.
19. Salvianus, De Gubernatione Dei, lib. V, cap. V, 7, 8.
20. Quiescenti munera largiturum, bellum minanti viros et arma obiecturum, Prisci, Fragmenta. XV.
21. Jordanes che ci dà il sunto delle canzoni scrive: «Non vulnere hostium, non fraude suorum, sed gente incolumi, inter gaudia laetus, sine sensu doloris occubuit. Quis ergo hunc dicat exitum, quem nullus aestimat vindicandum?»
22. Molti a torto credettero che la villa di Lucullo fosse nel piccolo Castello dell'Uovo.
23. «Proprio Imperatore se non indigere; unum Imperatorem sufficere, qui utriusque Imperii fines tueretur.» Malchus, Fragm. 10.
24. Altri lo chiamano Felice III, disputandosi se Felice II (355-65), il rivale di papa Liberio, fosse stato o no regolarmente eletto.
25. Dahn II, 80 seguìto da Hodgkin III, 225-6, fondandosi ambedue sul Panegirico di Ennodio.
26. Così dice una lettera di papa Gelasio, che si crede del 492.
27. Sybel, Entstehung des deutschen Königsthums, 2ª ediz., pag. 283-4.
28. Anonimo Valesiano, XI, 53.
29. «Gothi sibi confirmaverunt Theodoricum regem, non expectantes jussionem novi Principis.» An. Val., XII, 57. Ciò conferma che finora egli non era stato un vero re dei Goti; ma forse solo un Princeps germanico, o come dice il Sybel, un Gaukönig.
30. Corpus Insc. lat., vol. X, 1, n. 6850.
31. Cassiodoro, VIII, 6, 9, 10, 11; XI, 1.
32. Pavia, Milano, Bergamo, Trento, Forogiulio (Cividale) o Friuli, Spoleto, Torino, Asti, Benevento, Ivrea, Isola di San Giuliano nel lago d'Orta, Verona, Vicenza, Treviso, Ceneda, Parma, Piacenza, Chiusi, Lucca, Firenze, Fermo. Sono ricordati anche i Ducati di Rimini, Brescello, Reggio, Istria ed altri; ma non si sa bene se tutti questi furono istituiti veramente allora o più tardi.
33. Secondo il Weise, Italien und die Langobardenherrscher; il Troya invece ha la data 5 ottobre 581.
34. Comprendendo in essa anche Osimo, Umana, Montefeltro, il Territorio Valvense e Luccoli. V. Bury, History of later roman Empire, II, 146, n. 4.
35. Altre aggiunte fece Grimoaldo nel 668, e più ancora Liutprando, che dal 713 al 735 pubblicò 153 leggi, sanzionate in 15 assemblee, riunite dall'Austria, dalla Neustria (cioè le province orientali ed occidentali del regno) e dalla Tuscia. Poche altre disposizioni promulgarono Rachi ed Astolfo, che fu l'ultimo dei re longobardi legislatori (V. l'ediz. del Bluhme nei Mon. Germ.).
36. Nessuna donna che vive secondo la legge longobarda può essere selbmundia. Dunque vi sono donne che non vivono secondo la legge longobarda.
37. Liber Pontificalis, I, 383, edizione Duchesne.
38. Agnello Ravennate, in Mon. Germaniae Historica, I, 369-70.
39. Non poteva essere, come pur si disse, duca di Napoli, perchè questo ufficio, osserva lo Schipa, era allora tenuto da Teodoro, eletto nel 719.
40. Il nome di Calabria, dato originariamente alle Puglie ed a Terra d'Otranto, fu esteso nel secolo VII al Bruzio, che fece parte anch'esso del ducato di Calabria, così chiamato da quella regione che ne fu allora la parte maggiore. Quando però la conquista longobarda si estese a poco a poco a tutta quella che era allora chiamata Calabria, il Ducato si trovò ristretto al solo Bruzio, cui nel 757 restò il nome di Calabria, che ritenne poi sempre. Era antica usanza dei Bizantini il continuare a conservar nella forma e nelle parole ciò che nella sostanza e di fatto avevano perduto. V. Schipa in Arch. Stor. per le Province napoletane, anno XX, fasc. 1. Napoli, 1895.
41. È strano che ciò avvenisse senza che si veda una seria resistenza da parte del Papa. Hodgkin, VI, 465, Bury, II, 466.
42. Liber Pontificalis, I, 442.
43. Liber Pontificalis, I, 446 e seg.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 481 ("Errata-corrige") sono state riportate nel testo.
Di seguito sono presentate le carte suddivise in sezioni per facilitarne la lettura.