The Project Gutenberg eBook of Le origini degli Stati Uniti d'America This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Le origini degli Stati Uniti d'America Author: Gennaro Mondaini Release date: April 8, 2018 [eBook #56943] Language: Italian Credits: Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE ORIGINI DEGLI STATI UNITI D'AMERICA *** Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) GENNARO MONDAINI LE ORIGINI DEGLI STATI UNITI D'AMERICA ULRICO HOEPLI EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA MILANO 1904 _PROPRIETÀ LETTERARIA_ Tipografia Umberto Allegretti — Milano, via Orti, 2. A TE, MIA BUONA GISELDA, CHE NELL'AMORE TUO E DEL NOSTRO NINO MI HAI DATO LE GIOIE PIÙ VERE DELLA VITA, IL FARMACO INFALLIBILE D'OGNI PIÙ AMARA DELUSIONE. INDICE DEL CONTENUTO PREFAZIONE DELL'AUTORE _Pag._ XI CAPITOLO PRIMO. =La sede della civiltà anglo-americana: abitanti Indigeni e pretendenti europei.= § 1. Il paese — § 2. I Mound-builders — § 3. I Normanni — § 4. Gli Indiani — § 5. Prime esplorazioni e ricognizioni europee » 1 CAPITOLO SECONDO. =La democrazia puritana nella Nuova Inghilterra.= § 1. I pellegrini e la colonia di Nuova Plymouth — § 2. I Puritani e la colonia di Massachusetts — § 3. Roger Williams ed origine di Rhode Island — § 4. La colonizzazione del Connecticut — § 5. L'estremo nord e il New Hampshire — § 6. Svolgimento della N. Inghilterra — § 7. La società neoinglese e la sua forza d'espansione » 65 CAPITOLO TERZO. =L'aristocrazia fondiaria nelle colonie meridionali.= § 1. Virginia — § 2. Maryland — § 3. Caroline — § 4. Georgia — § 5. La società meridionale: suoi elementi e sua coesione » 133 CAPITOLO QUARTO. =La società commerciale del centro.= § 1. La Nuova Olanda e New York — § 2. Puritani e quaccheri nel New Jersey — § 3. Pennsylvania e Delaware — § 4. Caratteristica delle colonie centrali » 193 CAPITOLO QUINTO. =Solidarietà coloniale e rapporti con la madrepatria.= § 1. Isolamento delle singole colonie e forze destinate a fonderle insieme — § 2. Politica economica della madrepatria — § 3. Maturità delle colonie per l'indipendenza » 231 CAPITOLO SESTO. =La lotta pel continente.= § 1. La società franco-canadese e la sua fittizia espansione — § 2. La lotta politico-commerciale tra la N. Francia e le colonie inglesi — § 3. La lotta per la terra » 265 CAPITOLO SETTIMO. =La lotta per la Indipendenza.= § 1. Disegni liberticidi della madrepatria e reazione delle colonie — § 2. Resistenza passiva ed attiva delle colonie agli arbitrii della madrepatria — § 3. Confederazione e guerra d'indipendenza » 295 CAPITOLO OTTAVO. =L'organizzazione politica della nuova società.= § 1. Impotenza della Confederazione — § 2. La convenzione di Filadelfia ed i suoi dibattiti politici, economici e sociali — § 3. La costituzione federale e l'amministrazione locale » 349 =Lineamenti e tendenze della società anglo-americana all'inizio della vita nazionale= » 395 APPENDICE I. =Dichiarazione fatta dai rappresentanti degli Stati Uniti d'America, riuniti in Congresso= » 407 =Costituzione degli Stati Uniti= » 414 =Emendamenti alla Costituzione= » 432 APPENDICE II. Area degli Stati Uniti= » 443 =Indice dei nomi e delle cose= » 445 PREFAZIONE Delle società nuove, sorte su vergine suolo dalla vecchia Europa, gli Stati Uniti non sono soltanto quella che col suo territorio, la sua popolazione, le sue colonie, i suoi prodotti agricoli ed industriali, l'accumulazione del suo capitale, la coscienza infine superba della sua forza ha oggi il maggior peso sulla bilancia politica ed economica del mondo, ma anche quella che presenta l'assetto più stabile, frutto d'una vita nazionale ormai secolare, preparato da un periodo ancora più lungo di laborioso sviluppo. Mentre infatti gli altri paesi nuovi (Australia, Capo, Canadà, Sud-America) per l'origine affatto recente o della loro colonizzazione o della loro autonomia, per la poca densità degli abitanti, per l'immensità dei territori ancora da sfruttare sono appena usciti dal periodo delle origini, gli Stati Uniti hanno già una storia, la quale richiama ogni giorno più l'attenzione del pensatore, dello statista, del sociologo sulla varietà immensa delle forme e sulla grandiosità dei fenomeni, ch'essa offre. Di questa storia però male può comprendere lo spirito e lo stesso aspetto esteriore, chi non si riporta al periodo delle origini, al periodo cioè coloniale: in esso i germi di tutta la storia passata, presente e futura di questa «democrazia d'atleti», come nell'ovulo più microscopico l'animale più gigantesco. Gli stessi avvenimenti decisivi sopravvenuti nella società anglo-americana dopo l'emancipazione politica, l'acquisto cioè successivo del continente in tutta la sua larghezza, la navigazione transatlantica a vapore e lo sviluppo derivatone dell'immigrazione, che portò seco un movimento non più veduto di colonizzazione interna, le strade ferrate e le vie trascontinentali, la scoperta delle miniere d'oro e di argento, l'abolizione della schiavitù, se hanno cangiato l'aspetto di tale società, ne hanno lasciato intatte, può dirsi, quelle basi fondamentali, quei lineamenti imperituri, che il periodo delle origini aveva fissato. Il territorio anzitutto degli Stati Uniti contemporanei, non eccettuata quella parte stessa acquistata dopo l'indipendenza, fu, può dirsi, assicurato ad essi, ipotecato storicamente per essi dall'età coloniale, durante cui furono eliminati i pretendenti più seri al vasto paese; e col territorio le enormi risorse agricole e minerali nonchè l'impulso industriale e le multiformi attività economiche inevitabilmente determinate dalla madre terra presso un popolo capace di seguirne l'invito. Le istituzioni politiche in secondo luogo, salvo qualche leggera modificazione, rimontano esse pure al periodo delle origini, alla cui opera sapiente gli Stati Uniti devono non solo la stabilità più che secolare dei loro ordinamenti, stabilità di vantaggio tanto più inestimabile fra così rapido evolversi di forme sociali in quanto è ben lungi dal significare cristallizzamento, ma anche la possibilità, cosa questa pure preziosa per la democrazia americana, di tenere sotto uno stesso governo senza i mali dell'accentramento europeo una popolazione di decine di milioni oggi, di centinaia domani, disseminata in mezzo un continente, fatto nuovo nella storia dell'umanità. La costituzione stessa infine della società anglo-americana è ancor oggi nella sua essenza retaggio dell'età coloniale, patrimonio etnico morale ed intellettuale che le nuove correnti di sangue di vita e di pensiero hanno pervaso, ma non cancellato. La società americana infatti, quale il periodo coloniale la consegna al periodo nazionale, si presenta così solidamente assisa sulla sua base bissecolare, che lungi dal venire assorbita e travolta dal mare magno dell'immigrazione europea nel secolo XIX, come avvenne ad esempio della primitiva società pastorale dell'Australia dopo la scoperta delle miniere d'oro, assorbe essa i nuovi venuti e, pure appropriandosene gli elementi più utili, li fonde nell'immane crogiuolo della sua nazionalità, li americanizza in una parola. E qui in verità, più forse che in alcun altro campo, appare all'occhio del pensatore l'importanza straordinaria del periodo delle origini in tutta la storia posteriore: in esso si formò quell'aristocrazia etnica, per dir così, che rimase il propulsore ed il freno al tempo stesso di tutta la evoluzione ulteriore, l'elemento conservatore e dirigente della società. Territorio, organizzazione politica, composizione sociale, tutti insomma gli elementi costitutivi della nazione anglo-americana risalgono al periodo delle origini: alla saldezza mirabile di queste basi materiali e morali, gettate dal lavoro collettivo di oscure generazioni, si deve se l'edificio colossale erettovi sopra nel breve volger d'un secolo lungi dal barcollare va innalzandosi ogni giorno più maestoso e ricopre già della sua ombra, attraverso gli oceani, i paesi più potenti del vecchio mondo. Dimostrare ciò sotto la veste tangibile del fatto storico, far balzar fuori in altre parole dalla rappresentazione di esso l'importanza nella storia americana susseguente di questo lavoro collettivo, che non solo creò ma anche diede la materia prima del futuro lavoro alla democrazia anglo-americana, è il fine di questo volume sulle origini degli Stati Uniti d'America. L'intento spiega largamente ed il perchè di esso ed il metodo impiegato. Mentre infatti non mancano certo nella letteratura italiana (citerò fra gli altri il Romussi, _Storia degli Stati Uniti d'America_, Milano 1877; la traduzione italiana del Wentworth Higginson, _Storia degli Stati Uniti_, Città di Castello 1888, opera egregia della Fortini-Santarelli; quella dell'Hopp, _Storia degli Stati Uniti d'America_, nella _Storia Universale_ dell'Onken, edita ora dalla Società editrice libraria di Milano) e tanto più nella straniera, americana ed inglese in prima linea, com'è naturale (citerò fra gli altri il Carlier, _Histoire du peuple américain_, Paris 1863; il Winsor, _Narrative and Critical History of America_, Boston 1888: l'Andrews, _History of the United States_, London 1895: e sopratutto il Bancroft, _History of the United States from the discovery of the american continent_, London 1854: senza contare le opere pregevoli del Mc Master e dello Schouler, che pigliano le mosse della Rivoluzione la prima, della Costituzione la seconda) storie degli Stati Uniti d'America o generali o limitate particolarmente alle origini (non parlo poi delle cento monografie speciali), non ve ne ha una, ch'io sappia, che rappresenti la genesi della società anglo-americana in tutti i suoi elementi ed al tempo stesso nello spazio d'un modesto volume: o sono grandi storie, in cui se non tutti sono sparsi quasi tutti questi elementi, o sono semplici per quanto magari ottimi manuali (tali ad esempio quello citato del Giani e l'altro popolare del Judson: _The growth of the american nation_, New York 1885). Fa forse eccezione il bel libro di Goldwin Smith: _The United States, An outline of political history, 1492-1871_, New York 1893, il quale è appunto informato al concetto, che m'ha guidato in questo lavoro; ma anche questo si limita sovratutto alla formazione politica della società anglo-americana, senza contare poi che il periodo delle origini vi è riassunto in un centinaio di pagine. Non m'è parso quindi fare con questo libro opera del tutto vana non solo pei cultori di scienze sociali, che nell'America vedono a buon diritto il maggior laboratorio sociale dell'epoca nostra, ma anche e più pel gran pubblico delle persone colte, che mentre non hanno il tempo od il modo di attingere alle fonti voluminose, non sanno d'altra parte sobbarcarsi alla lettura d'un più o meno ben fatto manuale, il quale, tramontati in breve dal cervello e nomi e fatti, lascia solo una vaghissima idea d'un periodo storico, della vita d'un popolo. Consono ad un tale perchè, conseguenza inevitabile di esso, è quindi il metodo tenuto, il quale consiste nel dare il più largo sviluppo allo svolgimento sociale, limitandomi a rappresentare del fatto puramente politico, militare, personale, aneddotico solo quel tanto, che spiega o incarna tale svolgimento: la rappresentazione di questo soltanto è infatti il fine delle discipline storiche, giacchè questo solo costituisce il fondo della storia umana, in questo si trova la sostanza che elaborata collettivamente da un popolo attraverso alle forme più varie e sotto le parvenze più individuali dei geni e degli eroi, vien tramandata col nome di civiltà ad altre generazioni, ad altre genti, ad altri lidi per suscitarvi nuove forze, nuove energie, seme fecondo e indistruttibile che sopravvive alle forme esteriori ed agli uomini che lo elaborarono. Se pertanto dalla semplice lettura di questo libro il lettore si sarà formato senza tedio e senza sforzo una idea chiara della genesi sociale degli Stati Uniti d'America ed un'immagine indelebile della loro società al principio della vita nazionale, se più ancora in questa società egli ravviserà allo stato latente tutti quasi i fattori fondamentali del successivo sviluppo anglo-americano, in modo da comprenderlo in quanto ha di più strano e meraviglioso, il fine del modesto volume sarà perfettamente raggiunto, ed incoraggiamento migliore non potrà venire all'autore per un altro volume, che tale sviluppo successivo rappresenti con lo stesso metodo e con gli stessi fini. GENNARO MONDAINI. _Urbino, dicembre 1903._ NB. Fonti del lavoro mi sono state oltre alle opere citate nella presente Prefazione (prima e più largamente usata di tutte, com'era naturale, la storia grandiosa del Bancroft) quelle, che verrò indicando nelle Note a fine di capitolo. CAPITOLO PRIMO La sede della civiltà anglo-americana: abitanti indigeni e pretendenti europei. § 1. Il paese — § 2. I Mound-builders — § 3. I Normanni — § 4. Gli Indiani — § 5. Prime esplorazioni e ricognizioni europee. § 1. IL PAESE. — _Situazione e conformazione._ — Tra il 25º ed il 49º grado di lat. N. ed il 67º ed il 125º di long. O. da Greenwich si estende quel paese, il quale coll'aggiunta dell'Alaska, posta fra il 55º ed il 71º di lat. N. ed il 130º ed il 168º di long. O. da Greenwich, costituisce oggi gli Stati Uniti d'America[1]. Nella loro massa continua confinano essi a settentrione coll'America inglese lungo una linea, che dalla foce del St. Croix sull'Atlantico va fino al canale Haro sul Pacifico, fra l'isola Vancouver e l'arcipelago S. Juan, correndo lungo il 49º parallelo dallo stretto di S. Juan de Fuca sino ai Grandi Laghi, poi traverso a questi e il San Lorenzo fino all'Atlantico al 45º parallelo. A mezzogiorno confinano coll'America latina lungo una linea, che dalla foce del Rio Grande nel Golfo del Messico va al sud del porto di San Diego sul Pacifico, correndo lungo il Rio Grande fino al parallelo 31º 47′, quindi dirigendosi al Colorado ed oltre questo alla costa. L'Oceano Atlantico ad oriente, il canale della Florida ed il Golfo del Messico a mezzogiorno, il Pacifico ed il mare di Bering ad occidente, l'Oceano glaciale artico a settentrione bagnano il vastissimo paese, che si estende per oltre 9 milioni di kmq. Posto fra l'Asia e l'Europa, dal lato della quale ha rivolti colle foci de' suoi grandi fiumi navigabili gli sbocchi naturali della sua produzione, esso si trova tra i paesi più ricchi e più progrediti del vecchio mondo, fra i centri massimi della civiltà gialla e di quella bianca, posizione quanto mai favorevole allo scambio degli uomini, delle merci, delle idee, della civiltà. La forma massiccia, la mancanza d'alcun mare mediterraneo che penetri entro terra, le stesse coste per lo più infelici nella loro monotona uniformità, dove basse ed imbarazzate da banchi isole e cordoni litorali, dove alte e chiuse come muraglie, sarebbero a dire il vero ostacoli formidabili allo sviluppo economico e sociale del paese: ma la provvida natura, prima ancora che l'uomo colle strade i porti e le ferrovie, ha menomato questi gravi inconvenienti coll'abbondanza di fiumi, i quali sono navigabili nel versante dell'Atlantico cioè in quello appunto più vasto più ricco più fertile, interrotti invece da rapide e cascate ed incassati entro doccie anguste ed irte di scogli nel versante del Pacifico più ristretto e deserto. E sull'Atlantico invero indirettamente e sul golfo del Messico direttamente si apre quel bacino del Mississippi, che, occupando da solo oltre 3 milioni di kmq., forma il vero cuore del paese denominato dal Tocqueville con ardita espressione sintetica la «_valle degli Stati Uniti_». Ad una valle infatti possono questi paragonarsi, ad una valle immensa, di cui due grandi elevazioni in senso longitudinale costituiscono le sponde, ed uno dei più grandi fiumi della terra il fondo: sono rappresentate le sponde dal sistema compatto degli Allegani ad Oriente e da una zona più ampia, foggiata ad altipiano fiancheggiato da sponde montuose, dal nome generico di Cordigliere, ad occidente; il fondo da una vasta depressione intermedia, entro cui scorre il «padre dei fiumi», come suona il nome nell'immaginoso linguaggio degl'indiani, il Mississippi. Chiude al Nord l'immane vallata, separandola dai Grandi Laghi canadesi e dalla valle del San Lorenzo, una zona di media altezza, che congiunge le due grandi elevazioni, mentre una pianura costiera si estende ad oriente degli Allegani, lungo l'Atlantico, appuntandosi tra questo ed il golfo del Messico nella penisola della Florida, che può dirsi per gran parte una maremma circondata da scogli, e confondendosi quindi colla larga cornice, bassa pur essa, del Golfo del Messico. _Gli Alleghany._ — Il sistema Appalachiano, di cui gli Allegani a mezzogiorno costituiscono la sezione principale, corre parallelamente all'Atlantico dal Maine all'Alabama per una lunghezza di oltre 2000 km., su una larghezza massima di 300 ed una media di 200, con cime che superano appena, ed anche questo di raro, i 2000 m. Consiste esso in una serie di catene parallele, a cui s'addossano degli altipiani lungo il lato d'ovest e di nord-ovest: breve e ripido è generalmente il declivio orientale, ampio e disteso l'occidentale pel trasformarsi del sistema da creste in terrazze. Colle loro creste uguali, senza forti picchi, coi loro fianchi uniti essi risulterebbero ben monotoni, nella sezione media in ispecie, se non aggiungessero loro ornamento le folte foreste che li ricoprono, facendo spiccare il loro verde cupo sul verde chiaro delle pianure basse anteposte. Maggior varietà presentano essi nella parte più settentrionale, cioè nei monti della Nuova Inghilterra, dove le valli sono ricoperte da foreste d'alberi frondosi e aciculari interrotte da campi coltivati, e scene alpestri bellissime di rupi, torri, laghi, cascate, burroni, giustificano il nome di Svizzera della Nuova Inghilterra dato ai monti Bianchi, tratti montuosi che contrastano col rude paese, da cui si elevano, di suolo granitico, disseminato di morene, massi erratici e torbiere. Verso mezzogiorno le selve sono più fitte e quasi interamente di alberi frondosi, aceri, tigli, quercie e poi di superbe magnolie, finchè nell'estremo lembo meridionale la bassa vegetazione, costituita in gran parte da arbusti del genere dei rododendri, si addensa al punto da non permettere altro passaggio se non sui rami e cespugli infranti e calpestati dagli orsi. Il ferro, di cui abbonda l'intero sistema, il carbon fossile, che si trova in estesissimi giacimenti di preferenza sul declivio occidentale, il petrolio, le cui sorgenti si trovano su una zona lunga e stretta che tutto accompagna, da nord-ovest a sud-ovest, dal lago Erie al Tennessee, l'orlo occidentale del sistema, sono le principali ricchezze minerarie degli Allegani. _Le Cordigliere occidentali ed il bacino della California._ — Come un altipiano chiuso fra pareti montuose, anzichè come una serie di catene parallele, si presenta invece nel suo complesso l'altra grande sponda della «valle degli Stati Uniti», quella occidentale, ben più vasta ed interessante. Due cordigliere ne costruiscono la pareti, i monti Rocciosi ad oriente, le Sierre Nevada e della Costa, riunentisi quasi in un'unica catena, detta delle Cascate, ad occidente. Sono i Rocciosi un accozzo di catene costituite per lo più di rocce cristalline, che divergono e s'incrociano, dove spingendo dalle cime elevatissime, dove abbassandosi in superfici piatte (_mesas_): i loro vertici possono gareggiare colle Alpi, ma non ne hanno l'aspetto grandioso per lo zoccolo altissimo da cui sorgono. La regione offre nondimeno tutti gli spettacoli d'un gran paese montuoso: pendii selvaggi da cui sporgono cime rocciose, valli erte e profonde, rivi montani, precipizii in cui scendono buie foreste: nudi e nevosi i picchi estremi; scarsissimi però i ghiacciai. Caratteristica poi notevole di essa sono i famosi _Parchi_ o bacini chiusi fra due catene e due barre trasversali passanti dall'una all'altra, tutti ricchissimi di vegetazione ed abbondantissimi di selvaggina; ed i _cañons_ forre pittoresche e spaventose, percorse dai _creeks_ o fiumi conducenti dalla zona delle praterie all'interno dei Rocciosi, vere e proprie fenditure del suolo, profonde talora parecchie centinaia di metri. Le formazioni vulcaniche si mostrano in questi parchi, in quello _nazionale_ in ispecie, una delle meraviglie del mondo, in tutta la loro potenza: correnti calde minerali ingemmano di loro incrostazioni le rupi, costruendovi le più strane forme di vasche, pignatte, marmitte da giganti; migliaia di _geysers_ slanciano nell'aria ad altezze vertiginose colonne formidabili d'acqua bollente e turbini di vapore; vulcani di fango e sorgenti sulfuree od alluminose interrompono vaste distese di lava; candidi ghiacciai si rispecchiano in acque tranquille, dove le alghe multicolori contrastano coll'azzurro uniforme del fondo ed il bianco delle sponde. Meno interessante, ma non meno pittoresca si presenta la cordigliera occidentale, costituita nella sua parte meridionale da due catene, la _Sierra Nevada_ ad est e la _Catena Costiera_ ad ovest, le quali chiudono l'ampio e fertile bacino di California attraversato dalle valli del San Gioacchino e del Sacramento, che da opposte direzioni portano le loro acque alla baia di S. Francisco. È la prima una catena potentissima, con cime oltre i 4000 metri, con declivi dove le sequoie gigantee, mastodonti arborei alzanti a cento e più metri lor vette, formano colossali foreste, con bellezze naturali, che passano fra le più meravigliose del mondo: calva e rocciosa invece verso sud, meglio rivestita a settentrione si presenta la seconda, le cui cime non oltrepassano i 2500 metri. Il bacino della California, compreso tra le due catene, vera oasi tra i monti e i deserti, si rassomiglia per clima e prodotti, nella valle del Sacramento in ispecie più fertile e ridente di quella del San Gioacchino, alla nostra regione mediterranea: qui colle macchie di arbusti e coi boschetti di quercie i giardini i vigneti e gli uliveti, qui col grano e colle frutta più squisite i cedri e gli aranci, mentre attrattive ancora più forti danno al paese le ricchezze minerali, il mercurio e più ancora i ciottoli e le sabbie aurifere dei fiumi, che fanno della California il maggior centro di produzione dell'oro di tutti gli Stati Uniti, pur così ricchi d'oro in tutta, può dirsi, la loro parte occidentale. Al nord del Sacramento le due catene pel minore intervallo frapposto sembrano come riunirsi in una sola, la quale ricca di vegetazione per la forte umidità, rivestita di pini d'abeti di cedri, continua verso nord col nome di _Catena delle Cascate_, interrotta solo dalla valle della Columbia, fino allo stretto di S. Juan de Fuca, per riunirsi poi e confondersi oltre il confine degli Stati Uniti nella grande massa della Cordigliera orientale, quella dei Rocciosi. La valle del Gran Colorado o Colorado dell'ovest, fiume che non costituisce alcuna via commerciale nonostante i 2000 km. di corso, per difetto di navigabilità, la valle del Sacramento navigabile per 250 km. cui s'unisce alla foce il S. Gioacchino in parte navigabile pur esso, ed infine quella della Columbia od Oregon di difficile e breve navigazione anch'essa nonostante i suoi 2000 km. per l'impetuosità del corso i banchi e le cascate, sono gli unici sbocchi, può dirsi, della Cordigliera sul mare. La costa infatti dal porto di S. Diego allo stretto di Juan de Fuca si mantiene uuiformemente alta e dirupata: chiusa per lunghi tratti a guisa di bastione o muraglia, essa è rotta soltanto dalle foci de' fiumi e da qualche baia per lo più aperta e poco tagliata per entro il continente, se ne eccettui quella di San Francisco dalle sponde ricoperti di verdi boscaglie, simile ad un lago alpino cui fanno corona le vette rocciose e nevose della Sierra Nevada. Frastagliata oltre ogni dire, vera costa da fiordi, è al contrario quella che si protende a settentrione, dallo stretto sopranominato a quello di Bering, se ne eccettui sulla foce del Jucon nella fredda terra d'Alaska, sulla cui costa s'affollano un'infinità di isole. Unica può dirsi di tutta l'America del Nord, questa regione costiera del Pacifico gode un clima oceanico e perciò mite d'inverno, fresco d'estate. _Gli altipiani occidentali_. — Fra le due cordigliere si estende una serie di altipiani, che dalla loro situazione hanno preso il nome di _altipiani occidentali_. Un'infinità di giogaie in direzione da sud-est a nord-ovest sorgono qua e là a rompere la monotonia degli altipiani, dando alla regione con le catene secondarie correnti in direzione diversa l'aspetto come d'uno scacchiere smisurato di innumeri bacini: ora sono valli e terrazze, oasi bene spesso di verdura fra sterili piani, ora depressioni paludose e salate. Di laghi e di paludi salate è disseminato in ispecie il Gran bacino interno, dall'aspetto prevalentemente del deserto, la cui superficie da una media altezza tra i 1300 ed i 1500 metri s'abbassa in qualche punto, come nella valle della Morte, fin sotto il livello del mare. Ancor più spiccata che in esso è poi l'aridità del suolo nella parte meridionale dei grandi altipiani, tutta a magre steppe od a vero e proprio deserto, in quello del Colorado in ispecie tutto rosso e levigato come un mattone, cosparso di piccole conchiglie. Ragione principalissima di tanta aridità, cui servono di compenso dal punto di vista economico le ricchezze minerali dei Rocciosi, l'argento in ispecie, è la straordinaria scarsezza di pioggie, impedendo le grandi catene che vi giunga l'aria umida tanto dal Golfo e dall'Atlantico quanto dal Pacifico. La stessa altezza delle catene, che li ripara dai venti, offre il vantaggio d'una relativa mitezza del clima, nonostante i salti della temperatura giornaliera, cagionati dall'enorme assorbimento del calore da parte di un suolo nudo o quasi e dalla rapidissima irradiazione attraverso ad un'atmosfera quanto mai asciutta, salti che arrivano in qualche luogo perfino a 50 gradi! _Gli altipiani mediani_. — Ponte immenso gettato, per così dire, dalla sponda orientale alla occidentale, dagli _Allegani_ alle _Cordigliere_, a chiudere verso nord la grande vallata degli Stati Uniti, è una ampia zona di elevazione, che può comprendersi sotto il nome generico di _altipiani mediani_: rasenta essa il bacino del S. Lorenzo ed i cinque grandi laghi canadesi, tocca quindi le sorgenti del Mississippi e prosegue poi verso ovest, ora scendendo ora risalendo, fino ai Rocciosi. Corre su questa elevazione lo spartiacque tra i fiumi, che sboccano nell'Atlantico settentrionale nella baia d'Hudson e nell'Oceano glaciale, ed i fiumi che sboccano nel golfo del Messico; cosicchè essa si presenta come un confine naturale oltrecchè politico: al nord l'America inglese, che declina verso i mari settentrionali, al sud gli Stati Uniti che s'aprono verso il Golfo del Messico. L'altitudine di tale zona è di circa 200 metri sulla piattaforma dei cinque Grandi Laghi canadesi, che comunicando tra loro costituiscono un vero mediterraneo d'acqua dolce per l'estensione di ben 238.000 kmq.: sono essi il Lago Superiore su cui trovasi la più ricca zona di rame del mondo, l'Huron dalle rive erte e rocciose, dalle molteplici baie, penisole ed isole, il Michigan monotono nell'uniformità delle sue rive basse e piane, l'Erie e l'Ontario che nella loro sagoma allungata sembrano segnare il passaggio dalla forma lacustre a quella fluviale del S. Lorenzo, il magnifico fiume dalle acque chiare e dalle rive selvose: fra l'Erie e l'Ontario la famosa cascata del Niagara, vera forra tagliata in un gradino, che l'immane valanga d'acqua salta a precipizio da un livello di 172 metri ad uno di 72. All'ovest dei Grandi Laghi l'altezza media degli _altipiani mediani_ va aumentando fino ai 300 e 400 metri, ed il paese presenta l'aspetto più variato per un intrecciarsi continuo di foreste, steppe, praterie, laghi, rupi, massi erratici, barriere moreniche, di cui abbonda un terreno costituito nel periodo glaciale con materiali d'erosione e d'alluvione. Più ad ovest ancora il dileguarsi degli arbusti e dei cespugli, il diradare degli alberi, il succedersi dei tappeti erbosi alla massa dei frutici ingombranti le foreste annunziano il passaggio dalla regione nord-americana delle foreste a quella delle praterie, oltre le quali s'arriva ai Rocciosi. _Il bacino del Mississippi_. — A mezzogiorno di questi altipiani mediani si distende, come dicemmo, il grande avvallamento del fiume mastodontico, che nasce da essi ad un'altezza di circa 514 metri, è lungo 4200 km. e contando il Missouri 6750, largo in media quasi costantemente da 500 a 1400 metri e profondo dai 40 ai 60: dal piede degli Allegani come da quello delle Cordigliere il terreno scende con doppio pendio fino al bassopiano, costituito dalla valle propria del fiume al sud del suo confluente col Missouri e dalla grande zona che incornicia il Golfo del Messico. Il pendío occidentale è costituito per la massima parte dalla regione dei _Plains_ e _Praterie_, enorme triangolo col vertice tra i Rocciosi e gli altipiani mediani la base tra la stessa Cordigliera e la valle del Mississippi: in esso predomina la prateria (_praîrie_) dai grassi pascoli nella parte più orientale, la steppa (_plain_) rivestita di cespugli e di sterpi, che soffocano le vere erbe, in quella più occidentale. Torme innumerevoli di bisonti, detti bufali dagli Americani, ristrette dalla civiltà in minori confini, tutto popolavano un giorno quel mare di erbe e di fiori che costituisce la prateria: è questa infatti nella stagione migliore un vero mare, cui le masse arboree danno le isole, i venti le tempeste. Il colore suo predominante è il rosso in primavera, il bleu in estate, il giallo in autunno; ma quando il vento soffia impetuoso tra le foglie delle leguminose dal rovescio biancastro e vellutato, allora si vede la massa verdeggiante moltiplicarsi in onde infinite orlate d'argento. Nel pendio orientale predomina invece la foresta ed in questa le specie vanno mutando col procedere dal nord al sud, dalle quercie e dai faggi ai castagni alle palme alle magnolie fino al trionfo completo della natura tropicale nella zona adiacente al Golfo del Messico. Le due forme di vegetazione, che in perfetta corrispondenza con le condizioni climatiche si dividono il suolo degli Stati Uniti, la forma di foresta ad oriente e quella di steppa o prateria ad occidente, vengono così ad incontrarsi nel bacino del Mississippi: in esso, ad ovest del gran fiume, lungo il 95º meridiano O. di Greenwich, abbiamo può dirsi il passaggio dalla regione delle foreste, che deve all'abbondanza delle precipitazioni atmosferiche il suo splendido manto e la sua grande fertilità, alla regione delle praterie e delle steppe, la cui esistenza si deve ascrivere principalmente, nonostante altre ipotesi diverse (grossolanamente ingenua fra le tante quella indiana del fuoco devastatore) all'asciuttezza del clima, al diverso grado della quale corrispondono appunto le sottodivisioni in prateria e steppa, e col variar della quale di epoca in epoca si sposta pure il limite delle foreste e delle praterie. Dal confluente del Missouri in giù, tra i due pendii dei Rocciosi e degli Allegani, si estende per una larghezza, che varia dai 60 ai 120 km., la valle propria del Mississippi, antico golfo ricolmato nei secoli dalle alluvioni: _bluffs_ sono dette le rive dell'antico letto, in cui correvano un giorno i rami paralleli del fiume costituenti oggi il bassopiano alluvionale, porzioni di suolo naturalmente più solido per la maggiore grossezza dei materiali costitutivi, le quali di tratto in tratto spingono fino alle rive del fiume attuale degli speroni, su cui sorgono le città; _bottoms_ (fondi) i tratti di bassissimo livello, d'ordinario paludosi, inondati dal fiume nelle sue piene. Allagano queste annualmente enormi territori, dove la mano dell'uomo non v'abbia opposto nelle dighe un ostacolo sufficiente, inondano un suolo sabbioso rendendolo fertile col limo ferace depositato, sradicano e trasportano seco nel ritirarsi un'infinità d'alberi e di piante dalle allagate foreste di pioppi quercie cipressi tulipiferi noci, che arrivano sino alla sponda del fiume. A destra ed a sinistra il padre dei fiumi protende, smisurato Briareo, le sue enormi braccia, massime fra tutte l'Ohio a sinistra, che coi suoi affluenti e subaffluenti conduce alla piattaforma dei Grandi Laghi ed agli Allegani, e a destra il limoso Missouri coi suoi innumeri tributarii che conducono per le praterie ai Rocciosi, affluenti tutti navigabili i quali formano coi 3000 km. navigabili del Mississippi e coi 3000 e più, che vanno dalla foce del San Lorenzo all'estremità occidentale dei grandi laghi, un'immensa rete fluviale preparata dalla natura ai bisogni della civiltà e completata dall'uomo mediante canali che mettono in comunicazione le regioni più produttive del Nord-America, cioè la zona costiera orientale, il bacino dei Grandi Laghi e quello del Mississippi. Al confluente del Red River comincia in senso largo il delta del Mississippi, iniziandosi da esso la diramazione delle sue acque in vari rami: in senso stretto però, intendendo per delta la sola regione costituita dalle alluvioni del fiume, esso si limita ad una lingua di terra che s'avanza per 80 km. nel mare e si divide in tre punte, percorse ciascuna da un ramo del fiume, formando la così detta _Zampa d'oca_. Sono ben 32000 kmq. d'un suolo alto sul mare appena 1 metro, tutto paludi e pascoli, coll'unico porto di New Orleans sulla sinistra del gran fiume. La febbre gialla desola questa regione come quasi tutta del resto la costa paludosa, con cui termina il largo bassipiano che incornicia il Golfo del Messico. La baia di Galveston, laguna in cui sbocca la navigabile Trinity, ad ovest e l'estuario di Mobile, formato dall'Alabama e dal Tombigbee, fiumi in parte navigabili, ad est, sono con New Orleans gli unici sbocchi, può dirsi, del largo bassopiano che per clima culture e prodotti appartiene alla zona tropicale. _La Florida_. — Dove però la natura tropicale si manifesta in tutta la sua forza è nella Florida, la quale sia pel livello sia per le coste può considerarsi come un prolungamento della zona costiera, vero tratto d'unione tra la fascia orientale e quella meridionale degli Stati Uniti. È questa penisola tutta una bassura di paludi e di laghi, terminante all'estremità sua in un intreccio di formazioni coralline analoghe a quei _key_ od isolotti schierati a sud ovest di essa. Nelle parti non paludose della penisola sorgono foreste naturali di pini e cipressi, boscaglie di quercie ed allori, cespugli sempre verdi di gelsomini e, lungo i rivi, di magnolie, a cui si frammischiano alberi da gomme, jucche, agavi, cactus, palme arboree; mentre la mano dell'uomo può trarre dal suolo, come nel rimanente bassopiano costiero, tabacco cotone maiz frutta meridionali: nella parte meridionale abbondano i pascoli adatti al bestiame bovino: ne' luoghi sabbiosi sono i soliti _pine barren_ od oasi di pini: nelle paludi infine, animate da una quantità stragrande di uccelli acquatici di pesci e di tartarughe, prospera il riso e nelle isole da esse sommerse lo zucchero. I fiumi della penisola, che scorrono totalmente in pianura con un corso lentissimo per la mancanza di pendìo, sono in gran parte innavigabili perchè ingombri di taxodie di giunchi di canne. Inospitali quanto mai sono le coste: «gli ancoraggi, inaccessibili a grosse navi, sono deserti e muti recessi, in cui tutto è immobile, le acque mezzo stagnanti, la lussureggiante vegetazione tropicale simile più ad una corona mortuaria che a un serto festivo, sovrano il silenzio e la quiete rotta solo da un'infinità di uccelli acquatici»: unici porti e mediocri anch'essi per la vasta penisola Sant'Agostino sull'Atlantico e Pensacola alla foce dell'Escambia sul Golfo del Messico. _Il Piedmont e la zona costiera dell'Atlantico_. — A nord della Florida continua sempre quel bassopiano costiero, che fascia, può dirsi, gli Stati Uniti ad est come a sud, dalla foce del Rio Grande del Norte sul Golfo del Messico a quella dell'Hudson sull'Atlantico. Tra gli Allegani ed il litorale dell'Atlantico si distende la larga zona pianeggiante del _Piedmont_ dalle culture subtropicali: il suolo è qui costituito da una triplice serie di terrazze, che dal piede dei monti vanno successivamente degradando fino a terminare dopo una sessantina o più di km. al livello quasi dell'Oceano ed anzi in alcuni tratti al di sotto di esso. Le due prime terrazze alte rispettivamente una sessantina ed una trentina di metri sul mare e larghe insieme una sessantina di km. seguitano come i declivi orientali degli Allegani ad essere vestite di ricca vegetazione arborea, (aceri, quercie, noci) e sono suscettibili delle più ricche culture; la zona più bassa, perfettamente orizzontale, è un succedersi di tratti asciutti e sabbiosi e di tratti paludosi e fangosi, tutti coperti di macchie di cedri pini cipressi (_pine barren_), ma lungo i fiumi ha alberi frondosi e tratti coltivati; l'estremo lembo infine, detto _Sea Island_, è conteso può dirsi dalla terra e dal mare: i fiumi si allargano in forma di laghi e la costa termina in cordoni litorali e paludi separate dal mare da lembi ristretti di terra ferma, che vengono essi pure come i cordoni allagati dalle onde burrascose e superati dalle forti maree. Una vegetazione fittissima e impenetrabile di piante spinose e allaccianti, sulla quale dominano i cipressi, donde il nome di _Cypress swamps_, ricopre queste paludi, di cui può offrire il tipo la _Dismal swamp_ (palude letale) sulla costa della Carolina Settent., fra la baia di Chesapeake ed il Capo Fear. In queste paludi e lagune muoiono in generale i fiumi del paese, il quali dopo un brevissimo corso montano corrono per la maggior parte in pianura. Conseguenza di tutto ciò è la difficoltà estrema della navigazione in questa parte della costa atlantica: unici porti e cattivi ancor essi pei banchi di sabbia anteposti sono quelli attuali di Charleston, sul confluente dell'Ashley e del Cooper, e di Savannah sul fiume omonimo. Oltre il capo Hatteras, in mezzo alla _Dismal swamp_, il litorale diretto fin lì verso nord-est piega bruscamente verso nord-ovest, e col cambiamento di direzione cambia pure la natura di esso, come muta del resto l'aspetto tutto del paese per la maggiore vicinanza dei monti al mare e pel passaggio dalla zona subtropicale alla temperata. Colla profonda baia di Chesapeake, dove mettono foce vari fiumi tra cui il Potomac, ed abbondano i porti tra cui l'attuale Baltimora, la costa comincia ad essere frastagliata ed a crescere sempre più di rilievo col procedere verso nord. Le minime valli diventano lunghi estuarii, le più piccole ondulazioni del terreno lunghe penisole, donde rade immense e meravigliosamente protette, capaci di ricettare flotte intere, la cui navigazione continua in quei fiumi lenti e profondi, che attraversano regioni favorite da incalcolabili ricchezze naturali, minerali in ispecie: tali la profonda baia del Delaware colla città attuale di Filadelfia, che a 150 km. dall'Oceano ne sente nondimeno la marea, e quella, dove oggi sorge New-York, dell'Hudson, il fiume solenne dal letto largo e profondo simile ad un braccio di mare, che sente la marea a ben 230 km. dalla foce ed è messo in comunicazione mediante canali coi Grandi laghi e col San Lorenzo. E mentre con la navigabilità del corso medio e inferiore questi fiumi favoriscono prodigiosamente il commercio, colla forza motrice da essi somministrata nel corso superiore in ispecie sembrano invitare all'esercizio dell'industria. _La Nuova Inghilterra._ — Ciò s'avverte tanto più oltre l'Hudson, nel tratto più settentrionale della zona atlantica degli Stati Uniti: costituisce questo tratto la Nuova Inghilterra, paese dal suolo roccioso e poco fertile e dal clima freddo e continentale nonostante la posizione sul mare per la prevalenza dei venti occidentali. I monti seguono qui da presso la costa ed i fiumi, scorrendo quasi totalmente fra essi in letti ampi ma rocciosi con rapide e cateratte frequenti, se non sono che in piccola parte adatti alla navigazione, possono in compenso dar vita ai maggiori stabilimenti industriali. Ai traffici marinari sembra invece invitare gli abitanti la costa alta varia dai mirabili contrasti di rupi e di cupa vegetazione, ricca di ottimi porti fra cui maggiore di tutti Boston sulla baia di Massachussets. _Regione costiera dell'Atlantico_, _bacino del Mississippi_, _altipiani occidentali_, _regione costiera del Pacifico_ sono dunque a grandissime linee i territori, che si aprivano dall'Atlantico al Pacifico alla colonizzazione europea: alle paludi del litorale succedevano fertili terre pianeggianti e poi montagne non facili a superarsi pel fitto manto di boschi; oltre le montagne continuavano le foreste, seguite più in là da praterie da steppe e finalmente da regioni aride o da veri deserti; quindi un'altra zona quanto mai impervia di altipiani salati e monti nevosi, finchè sul Pacifico, l'oceano futuro degli Americani, s'apriva quale compenso adeguato alle difficoltà del cammino l'incantevole vallata californiana. Questo passaggio successivo da un paese ad un altro affatto diverso per flora ed aspetto del suolo, che corrisponde al succedersi delle varie zone climatiche, determinerà appunto il processo della colonizzazione interna e della civiltà americana; la quale, ostacolata nella sua marcia da oriente ad occidente da catene montuose e sterilissime lande, non troverà invece alcun intoppo alla sua espansione da nord a sud, dalla N. Inghilterra alla Florida, dai Grandi Laghi al Golfo del Messico, mentre in un senso e nell'altro troverà nella varietà straordinaria di sedi, diverse fra loro per clima aspetto e prodotti, un'abbondanza e moltiplicità di elementi naturali di progresso non offerta forse mai ad alcun altro popolo. Nè a garantire le sorti dell'agricoltura, la ricchezza prima del paese, a mantenere perenne la fertilità della terra di fronte agli sperperi dell'avidità umana, la natura mancava di assicurare una riserva enorme di forze produttive nel guano, di cui abbondano alcune isole, e più ancora nei vasti depositi di _grunsand_ e fosforite, ottimi concimi minerali, frequenti lungo le coste dell'Atlantico[2]. Ma quali erano gli abitatori del fortunato paese, quando l'alba della società anglo-americana spuntava appena sul cielo della storia? § 2. I MOUND-BUILDERS. — Nella vallata del Mississippi, lungo l'Ohio il Wisconsin lo Jowa, l'occhio del visitatore è preso da meraviglia e l'animo suo si lascia andare alle ipotesi più varie alla vista dei _Mounds_. Consistono questi, come dice il nome, in terrapieni: ora sono ridotti d'area spesso estesissima, circondati da dighe o bastioni, e contenenti serbatoi d'acqua artificiali; ora arginature lunghe in certi casi le 15 e le 16 miglia[3]; ora piattaforme di varia grandezza, alte 60 e 90 piedi[4] sul suolo, alle quali si sale mediante una scala scavata nella terra; ora infine una serie di piccole opere disposte a distanze quasi uguali ed in linea retta per parecchie miglia. Fine ed ufficio loro, a giudicare dagli avanzi, deve essere stato di difesa in alcuni casi, di abitazione o di tempio in altri; varia pure ne è la forma, da quella geometrica di circoli, di quadrati, di poligoni, di elissi regolarissime, a quelle assai strane d'animali o d'esseri umani. Famosi tra gli altri il _mound_ del serpente nell'attuale contea di Adams nell'Ohio, costrutto sopra un rialzo del terreno, che costeggia il fiume, tutto a spirali come un immenso serpente, lungo un migliaio di piedi e largo cinque, colla coda attorcigliata in tre giri e con una specie d'uovo lungo 160 piedi nella bocca; il _mound_ dell'elefante nel Wisconsin lungo 135 piedi e molto simile a quell'animale; il _mound_ dell'orso nel Kentucky ed altri. I luoghi dove sorgono sono evidentemente scelti ad arte per ragioni commerciali o di difesa, in genere lungo i fiumi navigabili od alle loro confluenze: il materiale adoperato generalmente è la terra, ma non mancano avanzi di mattoni, pietre lavorate e persino legname: utensili ed ornamenti in rame argento e pietre preziose, scuri, scalpelli, braccialetti, coltelli, pezzi di tessuto, stoviglie primitive e vasi di terra dagli svariati ornamenti, oggetti in creta della forma d'uccelli quadrupedi uomini, graffiti e bassorilievi rappresentanti essi pure uomini ed animali, scheletri in polvere, ecco quanto hanno lasciato i _Mound-builders_, i costruttori cioè dei _mounds_; abbastanza per tramandare il ricordo di sè, troppo poco per svelarci l'enigma della loro storia. Erano essi i progenitori degli Indiani, cosa ben difficile quando si paragoni la civiltà di questi alla loro? Erano tribù affini a quegli Indiani Pueblo del Nuovo Messico, che abitano tuttora in enormi edifici di pietra dalle mura altissime scavalcate in mancanza di porte mediante scale a piuoli, edifici costrutti in cima ai colli e contenenti persino 5000 persone, opinione anche questa improbabilissima, quando si consideri la diversità sostanziale tra queste costruzioni in pietra ed i misteriosi _mounds_ in terra? O sono questi i monumenti di quell'impero grande e civile fondato, come suona la tradizione irochese, dalla tribù indiana dei Lemni Lenapi, scesi dal nord-ovest nella vallata del Mississippi e scacciati di qui da genti più barbare, che li avrebbero costretti a cercare rifugio nei più impraticabili _cañons_, dove pur trovansi vestigie di costruzioni stranissime? O sono opera infine di genti asiatiche, derivate da naufraghi cinesi o giapponesi sbattuti dalle tempeste sulle coste del Pacifico; o di genti venute dal Golfo del Messico, come parrebbero far credere le figure di foche e d'altri animali marini incisi nei loro strumenti? Nulla fino ad ora ci illumina sull'origine e sulla storia di questi uomini. Il Bancroft ne nega addirittura l'esistenza, ritenendo i loro _mounds_ opera della natura, strane forme geologiche e nulla più, opinione distrutta dall'esattezza matematica della costruzione, che attesta non solo una mente ma perfino l'uso di strumenti, e dagli avanzi scopertivi; il Reclus all'opposto, asserendo che _mound-builders_ erano in grado minore gli stessi Seminoli della Florida ed i Cherochesi della Georgia, ed i Natchez del Mississippi, non vede nei _mounds_ che l'opera di tribù nord-americane per nulla dissimili salvo pel grado di civiltà da quelle attuali; il Morton infine, con più ragione forse d'ogni altro, li attribuisce a quel tipo _tolteco_, rappresentato pure dagli abitanti primitivi del Messico, tipo distinto fisicamente da quello nord-americano vero e proprio per essere dolicocefalo anzichè brachicefalo. Qualche pestilenza distruttrice o qualche invasione barbarica avrà probabilmente scacciato dalle lor sedi settentrionali e spinto verso sud-ovest a confondersi coi loro fratelli questi Toltechi, vissuti a quanto ritiensi dallo stato degli scheletri un duemila anni or sono, arrivati ad un grado di civiltà relativamente agli Indiani avanzatissima e passati poi come un'ombra senza lasciare altra traccia che quella dei muti ricoveri testimoni dei loro amori, dei loro sacrifici, delle loro lotte, altro ricordo che quello della loro esistenza. § 3. I NORMANNI. — Se dei costruttori dei _mounds_ rimangono pur in mezzo alla più fitta oscurità traccie indiscutibili di esistenza, d'altre genti venute un giorno sul suolo nord-americano parlano solo vaghe leggende dei popoli nordici. Sarebbero questi i Norsi, i padri di quegli arditi navigatori scandinavi resisi terribili non per pura leggenda a tanti paesi d'Europa. Certa pare infatti, nonostante la veste fantastica di cui si ammanta nella saga islandese, la venuta degl'Irlandesi a partire dalla metà del VII sec. in un paese da loro in seguito colonizzato e denominato la _Grande Irlanda_, ch'era probabilmente l'estremo N-E. del Canadà e il N. Brunswick. Un fitto velo copre le vicende di questi arditi, che forse soccombettero alle ostilità degli indigeni ed all'epidemie o furono soppiantati da quei Normanni, i quali dopo essersi stabiliti nel sec. 8º e 9º nelle Färöer e nell'Islanda, pur esse precedentemente occupate da Irlandesi, approdarono e si stabilirono in Groenlandia ed in altre terre più occidentali lungo i secoli X e XI. Winland (terra del vino) Helluland (terra rocciosa) Markland (terra selvosa) furono i nomi immaginosi che Leif Eriksen, figlio di Erik Raudi, l'islandese stabilito in Groenlandia, ed il compatriotta di lui Thorfinn Karlsewne davano in sull'alba del 1000 alle terre americane, in cui la critica moderna ravviserebbe rispettivamente Nuova Scozia, Labrador, Terranuova e tutt'al più un lembo del Canadà, escludendosi la costa degli Stati Uniti sino al Capo Cod, com'era opinione comune sino pochi anni addietro. Le relazioni fra l'Islanda la Groenlandia e la terra delle viti selvatiche, il Winland, si protrassero, pare, ad intervalli e riprese per qualche secolo, ed i Normanni si spinsero forse, se è da credere a vaghe tradizioni messicane, fino al Messico. Certo è ad ogni modo, che stabile colonizzazione bianca non vi fu neppure sulla costa dei futuri Stati Uniti, giacchè non solo manca ogni prova diretta od indiretta di essa ma non si trova neppure presso le genti del nord dell'Europa la cognizione di terre, che le relazioni commerciali o la fama avrebbe in quel caso rivelate. I soli ed unici abitatori primitivi adunque, a noi noti, del territorio nord-americano sono quelle tribù di razza rossa ivi trovate all'epoca della scoperta e conosciute in Europa col nome generico di Pelli-Rosse o di Indiani, così detti dall'erronea opinione dei primi esploratori d'esser giunti alle Indie. § 4. GLI INDIANI. — Gli Indiani appartengono a quella razza americana, che per la struttura somatica e pel tipo linguistico polisintetico presenta qualche lontanissima analogia colla razza mongolica, pure rimanendo una famiglia a sè, diversa da tutte le altre. Prima della scoperta europea gli Indiani degli Stati Uniti attuali s'aggiravano, secondo i calcoli[5] più fondati, intorno al milione, di cui un 180.000 soltanto all'est del Mississippi, ripartiti in una infinità di tribù, che oggi dopo tre secoli e più di colonizzazione bianca con relativa distruzione di alcune fra esse, migrazione o spezzamento di altre, riesce ben difficile localizzare con precisa esattezza. Le affinità linguistiche nondimeno hanno permesso al Buschmann di riunire in gruppi queste tribù, ciascuna delle quali aveva propria parlata, raggruppamento su cui il grande antropologo Waitz basò la sua classificazione. Nel sec. XVIII noi troviamo in tutto l'estremo est, dalla Nuova Scozia alla Carolina settentrionale, gli _Algonkini_, divisi in un'infinità di tribù; all'ovest di essi, nel New-York centrale e settentrionale, presso i Grandi Laghi, gli _Irochesi_, tra i quali i _Seneka_ i _Kayuga_ gli _Onondaghi_ gli _Oneida_ e i _Mohawki_ formavano la fortissima lega delle Cinque nazioni, cui s'aggiunse più tardi come sesta la tribù dei _Tuscarora_, lega in guerra perpetua cogli _Huroni_, tribù pur essi della stessa stirpe; nella parte sud-est degli Stati Uniti attuali, gli _Appalachiani_, tra cui famosi per bravura i _Cherochesi_ nella valle delle Tennessee, i _Natchez_ sul basso Mississippi, i _Seminoli_ nella Florida; di là dal Mississippi, nelle praterie, i _Dakota_ e i _Sioux_, divisi essi pure in molteplici tribù, ed ancora più all'ovest negli altipiani occidentali una serie di tribù, appartenenti a quel gruppo dei _Kenai_ estesisi per successive migrazioni dall'Alaska al Golfo del Messico. Per quanto varie di lingua di sede di origine di grado di civiltà, belligere le une e cacciatrici, pacifiche ed agricole le altre, queste tribù presentano pur sempre qualche cosa di comune che permette di parlare di un tipo fisico e sociale indiano. Brachicefalo il capo, color di rame la pelle, prominenti gli zigomi, piccoli e neri gli occhi, ispidi i capelli, l'Indiano era generalmente inferiore al bianco per forza muscolare, infinitamente superiore per forza di resistenza: agilissimo, svelto poteva percorrere in un giorno solo settanta od ottanta miglia; figlio della natura, dei cui fenomeni era osservatore finissimo, percepiva i suoni più lontani e notava i segni meno appariscenti in quei boschi, ch'egli sapeva per quanto folti attraversare in linea retta, prendendo a guida l'aspetto della borraccine e la scorza degli alberi; grave e dignitoso nelle assemblee, vivace ne era il parlare e nella sua semplicità altamente poetico; valorosissimo in guerra combatteva con disperato coraggio, mostrandosi altrettanto crudele e spietato coi nemici quanto era paziente nel sopportare se vinto la prigionia o i tormenti senza un lamento; vendicativo per eccellenza quando si teneva offeso, ricordava ed era grato dei benefici ricevuti; attivo, instancabile, animato da vero furore in guerra nella caccia nella danza, le occupazioni preferite, era neghittoso in tutto il resto, lasciando alla donna il lavoro quotidiano per abbandonarsi bene spesso a fantastiche contemplazioni; vivo sopra tutto in lui il bisogno dell'aria aperta, radicato quell'istinto della vita nomade che la necessità economica di sempre nuove caccie, di sempre nuove boscaglie da ardere aveva istillato e mantenuto. Le superstizioni del totemismo erano in fondo la religione degl'indiani, ma ad esse congiungevano l'idea vaga della divinità e dell'immortalità, non senza un principio di giustizia retributiva nell'altra vita, riservante pei buoni ricchissime caccie. «I nostri bambini non hanno peccato; quando muoiono, dove vanno?» chiedeva un indigeno a John Eliot, l'apostolo degli Indiani del Massachussets. Credevano in un Grande Spirito, di cui era simbolo il sole, ed a questo in mancanza di templi rendevano omaggio all'aria aperta, accendendo in suo onore dei grandi fuochi, intorno ai quali cantavano e danzavano con immane frastuono; un culto superstizioso tributavano pure ad animali, che rappresentavano gli altri spiriti secondari dispensatori dei beni e dei mali o simbolizzavano quel _clan_ di cui costituivano ad un tempo e l'_otem_[6] od insegna tatuata ed il nume tutelare: tali ad esempio il lupo, il cervo, la tartaruga, il castoro, l'orso, l'airone, il falco. Il grande problema dell'origine del male s'affacciava in modo rudimentale alla loro mente: «perchè Dio non ha dato un buon cuore a tutti gli uomini?» chiedeva un indiano all'Eliot; ed un altro: «poichè Dio è onnipotente, perchè non uccide il diavolo che ha reso sì cattivi gli uomini?». La natura tutta del resto era oggetto di adorazione per l'Indiano ai cui occhi ed i venti e le stelle e le acque, come canta il Longfellow nel suo «_Hiawatha_», erano animati non meno degli animali e degli uomini. Nello stesso senso del sopranaturale sviluppatissimo in loro trovavano origine i magi ed i sacerdoti dotati di miracolosi poteri. Primitiva era la loro organizzazione politica e sociale, basata la prima sul legame gentilizio anzichè territoriale, la seconda sull'uniformità di condizioni e funzioni degli individui. Si dividevano in tribù e queste alla loro volta in _clans_ o genti legate insieme dal vincolo della comune discendenza: alla testa dei _clans_ vi era uno o più capi detti _sachem_, uomini di regola ma talora anche donne: ogni villaggio costituiva uno stato indipendente, una piccola democrazia, a cui erano ignote generalmente e schiavitù e caste privilegiate. Come presso gli antichi Germani, in cui tutti erano uguali, i capi dovevano la lor elezione alla stima personale, ispirata dal loro valore, e duravano in carica finchè sapevano mantenersi tale stima: in guerra essi stimolavano colla voce sonora i commilitoni, in pace trattavano coi _sachem_ degli altri _clans_ gli affari generali della tribù. Il grado più alto di sviluppo politico, se così può chiamarsi, di questa razza era dato dalle confederazioni fra le varie tribù, più famosa di tutte quella già ricordata delle Cinque nazioni irochesi, retta da una specie di consiglio federale di 50 capi alla cui testa stavano due comandanti supremi. Come l'autorità nell'opinione, così la legge risiedeva nell'uso e nella tradizione orale: i loro concetti giuridici erano ancora allo stato embrionale: la vendetta del sangue il modo più comune di punire le offese. Proprietà collettiva era la maggior parte del suolo, sia coltivato che lasciato ad uso di caccia; ma dalla proprietà collettiva s'era svolta e viveva accanto ad essa una proprietà privata, il cui concetto era altrettanto rigido in seno alla tribù quanto elastico nei rapporti con le altre tribù. La famiglia era generalmente su base monogamica, ma anche la poligamia era permessa: frequentissimo perciò il divorzio per le più futili ragioni, schiava dell'uomo la donna. Non conoscevano linguaggio scritto ma coi segni tracciati sulle roccie e sugli alberi comunicavano fra loro benissimo: i loro annali erano dei segni simbolici semplicissimi incisi sugli alberi, dopo averne tolta la corteccia più esterna, dei canti guerreschi, delle cinture di _wampun_ o chicchi forati fatti colle conchiglie; a queste affidavano pure per anni ed anni la memoria dei trattati, cui mantenevano fede incrollabile. Non conoscevano moneta, in cui vece servivansi dei _wampun_, uso imitato dagli stessi coloni bianchi nei primi tempi. Abitavano ora isolati in capanne dette _wigwams_, costruite di pelli e di scorza d'albero, ora raccolti in parecchie famiglie in ricoveri assai ampi costrutti di scorza e di pali; vivevano dei prodotti della caccia e della pesca, di maiz, di bacche; usavano il tabacco ma non conoscevano bevande inebrianti; costruivano insieme coi rozzi utensili d'uso più comune, come stuoie di vimini, mortai di legno, vasi di terra, ami d'osso e reti di canapa, degli ingegnosi arnesi imitati poi dagli stessi coloni, come i patini da neve e le canoe. I patini, con cui scivolando sulla neve riuscivano a raggiungere alla corsa lo stesso cervo ed il daino, consistevano in un ramo d'acero, curvato nel mezzo finchè le due estremità si riunivano in punta, e riempito nel vuoto con una rete fatta di pelle di cervo cui s'attaccava con corregge il piede coperto soltanto da un leggiero _moccason_ o pianella: ogni tribù aveva uno stampo diverso di patini. La canoa consisteva in una corteccia di betulla bianca, che si sbucciava tutta intera dall'albero, distesa sopra una leggerissima ossatura di cedro bianco, cucita ad essa con radici di cedro e spalmata al di fuori d'una pece ricavata dalla gomma degli alberi: erano imbarcazioni dalla forma svelta ed elegante, che contenevano al massimo 10 o 12 uomini, e pescando pochissimo scivolavano rapidamente sulle acque meno profonde. Si dipingevano il corpo, vestivano pelli di animali, si ornavano il capo di penne, le rozze vesti di conchiglie. I lavori domestici, la poca agricoltura affatto primitiva era lasciata dall'Indiano alla sua _squaw_ o donna; sua occupazione pressochè esclusiva era la caccia o la guerra esercitata più che altro a scopo di rapina. Quale fonte normale di sussistenza, come suole accadere presso i selvaggi ed i barbari, aveva pertanto la guerra una parte importantissima nella vita sociale delle tribù indiane, sempre in lotta fra loro, ora sole ora federate. Cerimonie singolarissime la precedevano: digiuni e preghiere al Grande Spirito da parte del _sachem_, che tintosi di nero andava a nascondersi nei boschi per interrogare la divinità, e ottenuto nel sogno responso favorevole tornava fra i suoi, invitava nel proprio _wigwam_ i guerrieri a lauto banchetto, finito il quale cominciavano le danze guerresche, che si protraevano tutta la notte tra il bagliore dei fuochi, tra i canti marziali e le grida selvaggie. Al mattino partivano per la spedizione dopo essersi spogliati di tutti gli ornamenti che consegnavano alle loro donne: entrati in campagna più che battagliare in campo aperto ricorrevano alle sorprese, ai tradimenti, agli stratagemmi d'ogni sorta, alle imboscate; loro armi d'offesa le freccie ed il _tomahawk_ o scure di pietra, di difesa scudi di pelle di bisonte o corazze di vimini; sul nemico vinto praticavano lo _scalp_, atto nazionale per eccellenza di inaudita ferocia, che consisteva nell'incidere la cotenna alla base del capo e quindi strapparla afferrando quel ciuffo, che unico portavano gli Indiani in mezzo alla testa rasa; erano questi i più gloriosi trofei che i padri tramandassero ai figli. Un milione dunque all'incirca di questi esseri deboli, miti in pace, in guerra feroci bensì ma armati di freccie di legno e scuri di pietra, privi delle più elementari risorse di vita e di resistenza di una qualsiasi civiltà un po' avanzata, dispersi sovratutto su un immenso territorio pressochè vergine e divisi in un'infinità di tribù ostili fra loro e separate bene spesso da enormi spazi vuoti, favorevoli quanto mai all'incunearvisi della colonizzazione bianca, ecco i padroni del suolo, dove la razza ariana sarebbe salita alla più alta potenza nel mondo, ecco l'elemento etnico indigeno, di fronte a cui veniva a trovarsi la colonizzazione bianca[7]. Chi erano i pionieri di questa? quali fra le genti d'Europa schiudevano prime questo vasto campo all'umana attività ed ai trionfi del più avanzato progresso? § 5. PRIME ESPLORAZIONI E RICOGNIZIONI EUROPEE. — Se la storia generale della scoperta americana è iniziata _ex integro_ dalla triade tutta italiana, Cristoforo Colombo, Paolo Toscanelli del Pozzo ed Americo Vespucci, sulle cui orme materiali od intellettuali si spinge baldanzosa dai porti dell'Occidente una pleiade di navigatori italiani e stranieri a scoprire ed esplorare le nuove terre; la storia speciale dell'esplorazione nord-americana, pur cominciando anch'essa a stretto rigore cogli ardimenti del genio latino, trova la sua preistoria in quelle audacie normanne, consacrate dalla leggenda, ed in quell'esercizio della pesca continuato per secoli nei mari più settentrionali d'America da parte degli occidentali: di quelle infatti si presentano continuatrici non più leggendarie ma storiche, di questi risolcano la via le navi del veneziano Giovanni Caboto, che sul finire del secolo XV pone il piede pel primo sul continente nord-americano. Se l'Italia però dava al mondo i geni maggiori della navigazione, essa non dava al Nord-America più che al Sud-America i pionieri della colonizzazione: prima tra le nazioni europee per lo sviluppo di civiltà, essa non poteva entrare per la sua posizione geografica e per le sue condizioni politiche in un arringo coloniale, cui quella e queste spingevano gli altri paesi dell'Occidente. L'Europa occidentale si presentava allora quanto mai adatta alla conquista ed alla colonizzazione del nuovo mondo. Le grandi scoperte geografiche avevano portato con sè una completa rivoluzione, trasportando il centro della civiltà fuori di quel bacino del Mediterraneo, che per tanti secoli era stato il teatro degli smerci internazionali e la sede d'ogni potere politico e commerciale: tracciata dai porti occidentali la nuova strada alle Indie, scoperta dai medesimi porti l'America, ad essi faceva capo quel commercio mondiale, che abbandonate le terre ed i mari chiusi si esercitava attraverso l'Oceano, e col commercio la ricchezza e la forza politica, lo sviluppo della civiltà. Alla difesa di questi nuovi commerci erano necessarie delle flotte armate, a compiere le nuove conquiste nei mondi lontani occorrevano potenti organismi politici, e di tali mezzi potevano disporre appunto quei grandi Stati allora allora costituiti in Occidente sulle rovine del feudalismo, quelle società in cui l'industria nascente e la stampa andavano accrescendo la fortuna e l'influenza di robuste classi medie. Portoghesi, Spagnuoli, Francesi ed Inglesi, sentinelle avanzate del mondo bianco sulle coste dell'Atlantico, sono infatti i popoli che compiono le prime esplorazioni, le più antiche ricognizioni, per dir così, sul suolo nord-americano, prima che gli Olandesi sorti a gagliarda vita nazionale s'aggiungano ultimi per tempo, non per fortuna, a contendere loro il primato dei mari. _I Portoghesi_. — Famosi per le loro scoperte nei mari d'Africa e d'Asia, i Portoghesi, se lasciarono di sè traccia imperitura in tanta parte dell'America meridionale, non ne lasciarono affatto in quella settentrionale. Mentre invero il Cabral navigava a mezzodì e veniva dalle tempeste gettato sulle coste del Brasile, ignoti navigatori portoghesi compievano delle scoperte intorno al 1501 lungo le coste della Florida e forse della Carolina ed il Cortereal tra il 1500 ed il 1502 navigava per incarico ufficiale della corona portoghese a settentrione del continente americano: però il suo primo viaggio, in cui approdava alla spiaggia del Labrador e spaventato dalla crudezza del clima rivolgeva verso sud la prora delle sue navi, non aveva altro effetto che la rapina d'alcune decine d'Indiani tratti in schiavitù ed una relazione della flora rigogliosa dei paesi esplorati; nel secondo viaggio poi periva lo stesso esploratore, massacrato forse col suo equipaggio dagli Indiani; nè più dopo di lui il governo portoghese pensava all'America settentrionale. _Gli Spagnuoli_. — Più fortunati dei loro confratelli, ma non destinati a raccogliere nella parte settentrionale del nuovo continente gli allori grondanti sangue della parte centrale e meridionale, furono gli Spagnuoli, quantunque abbiano fondato nel Nord-America la prima stabile colonia e vi si siano mantenuti fino al secolo XIX. Un anno prima infatti che Vasco Nuñez de Balboa, superato l'istmo di Darien, rivelasse all'Europa il Grande Oceano, constatando così l'esistenza indiscutibile d'un nuovo continente, quando già i viaggi di Colombo, Alonso Hojeda, Vicente Yanez Pinzon, Diego de Lepe, Pietro Alvarez Cabral, Diego di Nicuesa hanno scoperto ed esplorato buona parte dell'America centrale e meridionale; gli Spagnuoli sbarcavano nel 1512, il giorno della Pasqua di Rose, a quella penisola che appunto per ciò fu detta Florida. Venivano essi da Porto-Rico e li guidava il vecchio Ponce de Leon, già governatore di quell'isola, uno dei più intraprendenti e feroci avventurieri coloniali, il quale aveva armato a proprie spese tre bastimenti per conquistarsi un regno e ritrovare ad un tempo quella fonte di eterna giovinezza, che la leggenda affermava esistere in quei paraggi. La superstiziosa speranza rimase naturalmente delusa, nè più soddisfatta fu quella di grandi tesori auriferi, ch'era stata tra i moventi primi della conquista: Ponce de Leon ottenne dal Re di Spagna il governo della Florida col patto di colonizzarla, ma tale opera incontrò le più vive difficoltà da parte degl'indigeni maltrattati dai conquistatori; e lo stesso Ponce de Leon, ferito mortalmente dagl'Indiani nel 1521 in una seconda spedizione, andava a morire a Cuba, non lasciando d'immortale, egli che aveva aspirato all'immortalità materiale, che il nome, strettamente legato alla conquista spagnuola della Florida. Nè maggior fortuna ebbero gli altri avventurieri spagnuoli, sbarcati colà per appagare insaziabile sete di guadagno, massimo fra tutti quel Ferdinando de Soto il quale, geloso dei bottini peruviani di Pizzarro, di cui era stato compagno, navigava da Cuba alla volta della Florida nel 1539 alla testa d'oltre 600 spagnuoli armati pomposamente e pieni di entusiasmo, caccia febbrile ai vantati tesori auriferi del paese più che conquista territoriale, spedizione disastrosa condotta per anni fra stenti ed ostacoli insormontabili, impresa in cui religione superstizione avidità orgoglio e tenacia indomabile s'uniscono insieme a darci uno dei quadri più smaglianti dello spirito di avventura dell'epoca, uno dei tipi più genuini di avventuriero spagnuolo: guidato dalla febbre dell'oro attraverso il continente, il De Soto non vi trovava e scopriva che la sua tomba, il grande fiume Mississippi da lui risalito fino al Missouri; e la sua salma, in esso gettata dai superstiti nel 1542, pareva quasi consacrare alla conquista spagnuola l'intera vallata del gran fiume. Diversi i moventi ma triste del pari era nel 1549 la fine del domenicano Cancello, invano recatosi nella Florida per convertirvi gli indigeni: pareva che la morte medesima stesse a guardia della penisola infausta contro l'orgoglio castigliano, che vittorioso in ogni parte altrove non riusciva qui a conquistare un paese imbevuto ormai di tanto sangue d'_hidalghi_ e tanto calorosamente agognato. All'orgoglio castigliano non tarda anzi a contrastare il passo quello della nazione rivale, la Francia. Una colonia ugonotta, guidata da un ardito navigatore di Dieppe, Giovanni Ribault, intraprende l'opera ideata dall'ammiraglio Coligny, che sognava di fondare in America un impero francese protestante quale rifugio dei perseguitati ugonotti, sbarcando nel 1562 alla Florida: Forte Carlo fu detta la colonia e Carolina il paese, in onore di Carlo IX. La fame e gli stenti fecero naufragare l'impresa, che fu ripigliata con più fervore all'arrivo di una nuova comitiva di emigrati ugonotti nel 1564 sotto il comando del Laudonniere, e parve dover riuscire al ritorno del Ribault sbarcato con granaglie strumenti e coloni. La classe inferiore dei coloni si componeva di spregevoli avventurieri, i quali fecero della colonia regalata alla madrepatria dalla fede e dall'entusiasmo un nido di pirati, che gabellavano per patriottismo la preda delle navi spagnuole. Ma ecco alla sua volta ridestarsi contro questi eretici francesi il fanatismo coloniale e religioso spagnuolo nel feroce capitano Pedro Melendez de Aviles, il quale ottiene da Filippo II la carica di governatore della Florida con tutti i vantaggi relativi al patto di conquistarla in tre anni, ridurla al cattolicesimo mediante l'introduzione di preti e gesuiti, e colonizzarla: abituato alle stragi ed ai saccheggi, il restauratore del dominio spagnuolo e della chiesa cattolica nella Florida assale e massacra senza ombra di scrupolo i coloni francesi e prende possesso in nome del re di Spagna di tutta l'America settentrionale, procedendo subito alla fondazione di Sant'Agostino, la più antica città degli Stati Uniti attuali. Il governo francese non si mosse per vendicare i coloni massacrati e la Spagna grazie al delitto del Melendez rimase signora incontrastata di questi territori, non ostante il tentativo fatto nel 1568 dal coraggioso guascone Domenico de Gourgues di vendicare col massacro di coloni spagnuoli quello dei suoi compatriotti. Nonchè però crearvi una civiltà nuova, la Spagna era incapace di colonizzare in modo duraturo un lembo solo del vastissimo paese, che nelle carte spagnuole dell'epoca ad essa è assegnato col nome generico di Florida, dal Golfo del Messico al Canadà. Anche in questo, come in altri campi della sua attività, il carattere di quella nazione offriva un singolare miscuglio d'ingorda avidità e di fanatismo religioso: navigando alla volta dell'Occidente i suoi eroi, pieni ancora dello spirito cavalleresco e dell'entusiasmo della crociata secolare contro i Mori, credevano in buona fede di muovere ad una nuova crociata, in cui la più brillante fortuna sarebbe stato il premio immediato della loro pietà. Miniere d'oro e di argento inesauribili, fiumi dalle sabbie preziose, provincie ed imperi da guadagnare in poche settimane colla punta della spada, città dai templi e dai palazzi d'oro da saccheggiare, popolazioni deboli ma ricchissime da convertire alla fede ed asservire alla corona cattolica, ecco quanto sognavano questi avventurieri nella loro esaltata fantasia, ecco quanto loro mostravano coll'esempio i più fortunati, i Pizzarro ed i Cortez. Non eccesso di popolazione in patria, non bisogni commerciali od industriali, non idealità religiose politiche o morali spingevano verso il nuovo mondo questi fanatici d'oro di gloria militare e di conquista, i quali la propria esaltazione ed ambizione non i destini di un popolo portavano seco: ben potevano essi mantenersi nelle Indie Occidentali, nel Messico, nell'America meridionale, dove l'oro la fertilità straordinaria del suolo lo sfruttamento spietato degli indigeni e ben presto dei Negri appagava immediatamente la loro ingordigia; ma non già in un paese, dove solo una lotta senza tregua contro la natura e gli indigeni avrebbe strappato al suolo le ricchezze inesauste, dove la fortuna sarebbe stata premio del lavoro non già della semplice conquista. Ponce de Leon, de Soto, Melendez e simili avventurieri coloniali, per quanto esuberanti di vita, erano rappresentanti troppo genuini della loro stirpe per dar vita ad una civiltà nuova, che avrebbe dovuto basarsi su principi diametralmente opposti a quelli della società spagnuola dell'epoca. I Francesi. — Più atti senza confronto degli Spagnuoli a colonizzare tali paesi sarebbero stati per le loro condizioni sociali e psicologiche i Francesi, se il loro governo distolto dalle lotte religiose e politiche, che ardevano in patria, non avesse lasciato miseramente svanire l'occasione, come vedemmo, di fondare nella parte meridionale del Nord-America un immenso impero coloniale. Più fortunati invece riuscirono essi nella parte settentrionale, dove dall'esplorazione del golfo di San Lorenzo, per opera di Dionigi d'Honfleur nel 1506, è un succedersi per tutto il secolo XVI di viaggi e scoperte dovute alla loro intraprendenza, al loro amor proprio nazionale. Lo spirito d'avventura l'ambizione la gelosia contro il fortunato rivale fanno trovare presso Francesco I la migliore accoglienza ai disegni di Giovanni da Verrazzano, che s'impegna di scoprire la via al mistico regno del Catai per l'occidente; ed il navigatore fiorentino nel 1524 sbarca sulla bassa spiaggia della odierna Carolina settentrionale, esplora senza naturalmente trovare la via agognata le coste americane dal 34º grado al 50º e colla descrizione particolareggiata di esse, la prima comunemente nota, mandata al re da Dieppe al suo ritorno, dà maggior aire ai sogni fantastici di ricchezze e di conquiste. Il disegno del fiorentino è ripreso poco dopo da un favorito del monarca, da Filippo di Brion-Chabot, che al desiderio di raggiungere la meta invano sognata dal Verrazzano accoppia lo zelo di convertire alla chiesa cattolica gli infedeli del nuovo mondo per compensarla delle anime sottratte a lei dall'eresia di Lutero e di Calvino: Giacomo Cartier, audace navigatore di San Malò, è scelto a tradurre in atto i suoi disegni; ed il Cartier, dopo aver una prima volta nel 1534 toccato il San Lorenzo, in un secondo viaggio condotto dal 1535 al 1536 dava il nome al golfo di San Lorenzo e fra lo stupore e lo sbigottimento degli Indiani della regione si spingeva coi suoi fino alla loro capitale Hochelaga, un misero villaggio d'una cinquantina di edifici fatti con tronchi d'alberi, là dove ora sorge Montreal, nome dato a quel monte dallo stesso Cartier, il quale chiamava il fiume «fiume di Hochelaga o fiume del Canadà» dal nome generico che in indiano significava città o villaggio. Una croce ed una bandiera coi gigli fissata sul suolo, ecco quanto lasciava il Cartier ad affermare il dominio francese nel futuro Canadà, portandone via dei miseri selvaggi attirati con inganno sulle navi, perchè dessero fede colle loro parole al racconto delle meraviglie vedute e dei tesori ancor più meravigliosi destinati ai Francesi. Quando pertanto un gentiluomo della Piccardia, Giovanni de la Roque, signore di Roberval, riprende i disegni del Chabot, ottenendo dalla corte fra gli altri titoli pomposi quello di vicerè e luogotenente generale del Canadà, il Cartier si presenta come il più adatto capitano generale del futuro vicereame e l'organizzatore della spedizione, i cui proventi dovevano andare per 1/3 agli autori di essa, per 1/3 al re e per 1/3 a coprire le spese occorse. Lasciata l'Europa nel maggio 1541 con un equipaggio reclutato per buona parte nelle prigioni, il Cartier vi faceva ritorno un anno dopo, abbandonando al proprio destino e vicereame e vicerè: carestia e scorbuto decimavano le genti del Roberval, che rimpatriato si recava poi una seconda volta in America nel 1549 per trovarvi una fine a noi non meno ignota di quella dello stabilimento da lui fondato sul S. Lorenzo. Ancora meno di questo poi riusciva il tentativo consimile fatto più tardi nel 1598 da un gentiluomo della Brettagna, il marchese de la Roche, nominato egli pure luogotenente generale del territorio transatlantico; mentre il tentativo calvinista, fatto come vedemmo nel frattempo nel sud, non aveva lasciato di duraturo che la denominazione di Carolina data ad un paese molto più vasto dell'attuale Carolina. Al cadere pertanto del secolo XVI le pretese della Francia su tutta quella parte del Nord-America, che nelle carte dell'epoca si chiamava _Francesca_ o _Canadà_ o _Nuova Francia_, al nord della spagnuola _Florida_, ben più vasta anch'essa dell'attuale, non avevano altro corrispondente nei fatti che la pesca della balena e del merluzzo da parte delle barche francesi insieme con quelle delle altre nazioni occidentali, pesca cui s'era associato oramai il commercio lucroso delle pelli di orso e di castoro e dei denti di tricheco, su scala così vasta che intere flottiglie partivano per esso dal porto di San Malò. La gloria di gettare le basi reali della grande per quanto effimera potenza francese nel Nord-America era riservata ad un eroico biscaglino, Samuele di Champlain. Se infatti il progetto di fondare un grande impero francese nel nord-America, riaffacciatosi più vivo di prima all'ambizione francese durante il regno felice di Enrico IV, sembrava naufragato per sempre dopo il nuovo ed infausto tentativo del marchese de la Roche, una molla diversa ma non meno potente spingeva la Francia alla colonizzazione, la prospettiva di lauti guadagni commerciali: un mercante di San Malò, il Pontgravè, era l'anima di tali imprese, per le quali nel 1603 fondavasi a Rouen una compagnia di mercanti, che sceglieva per dirigere la spedizione il Champlain, uomo di profonda cultura marinaresca, di spirito penetrante, di perseveranza infaticabile, di coraggio indomito, il quale aveva già concepito nei suoi precedenti viaggi nel nuovo mondo il luminoso per quanto prematuro disegno d'un canale interoceanico nell'America centrale e se n'era fatto il banditore presso la corte ed il ceto dedito alle imprese coloniali. Quando il Champlain ritornava in Francia da questa spedizione, senza aver trovato più alcuna traccia di Hochelaga e dei compatriotti ivi rimasti, Enrico IV, revocate tutte le concessioni commerciali e coloniali precedenti, aveva già dato a un suo ciambellano, Pietro de Monts, il permesso di colonizzare La Cadie o Acadia, nome con cui fu designato il territorio americano estendentesi dal 40º al 46º grado di latitudine nord, cioè dalla attuale Filadelfia fin oltre Montreal. Il nuovo luogotenente generale d'Acadia, al quale coll'autorità di vicerè ed il monopolio del commercio delle pelli, cosa ben ostica ai mercanti francesi dei porti dell'Atlantico, era stato concesso di reclutare a forza vagabondi malandrini e prigionieri pei suoi equipaggi, armava una spedizione che doveva conquistare e colonizzare il paese per fini commerciali, convertendone al cattolicesimo gl'indigeni; disegno per cui il De Monts, quantunque calvinista, conduceva seco dei preti cattolici: il Champlain il Pontgravè ed il barone di Poutrincourt furono a lui compagni nell'impresa iniziatasi nel 1604. Dato il nome a Port-Royal, che fu concesso in dono al Poutrincourt, ed al fiume S. Giovanni, fondato uno stabilimento col nome di Santa Croce alla foce del fiume omonimo, il De Monts ed il Champlain si spinsero verso sud in cerca di clima più dolce e terre più fertili, esplorando in nome della Francia le coste ed i fiumi dell'attuale Nuova Inghilterra fino al capo Cod; ma, non avendo trovato un luogo adatto per costruirvi la capitale, ritornarono a Port-Royal, dove fondarono una nuova colonia. Nel frattempo i nemici del De Monts lavoravano ai suoi danni, eccitati e comperati per di più da quei commercianti e pescatori dei porti normanni bretoni e guasconi, che la esclusione dal lucroso commercio delle pelli aveva danneggiato ed irritato oltremodo. Il De Monts tornava allora in Francia per sventare tali trame; ma ciò nonostante il monopolio concessogli veniva revocato ed i capi dell'impresa fallita, che primi tra gli Europei avevano tentato fondare nel nuovo mondo una colonia agricola pure servendosi a tal fine di pessimi elementi sociali accanto ai buoni, approdavano vinti ma non domi a S. Malò nell'ottobre del 1607. Il barone di Poutrincourt, non volendo rinunciare ai suoi disegni, otteneva dal re Enrico IV la conferma del donativo di Port-Royal, ma i suoi piani venivano ostacolati dalla potenza dei Gesuiti i quali, fiutata nella Nuova Francia un nuovo e più vasto campo alla loro attività, volevano servirsi della grande influenza già acquistata alla corte per ridurre quel territorio sotto il loro dominio. Il Poutrincourt, buon cattolico ma tutt'altro che amico dei Gesuiti, non volle saperne di condurli seco nel nuovo mondo, dove si diede con zelo all'opera di convertire gli Indiani per dimostrare che anche senza i Gesuiti potevasi cristianizzare la Nuova Francia; ma l'intrigo e la tenacia della compagnia di Gesù, cui l'assassinio di Enrico IV rendeva più potente, la vincevano sopra l'energia del barone sfornito di mezzi e nel gennaio del 1611 i Gesuiti salpavano trionfanti per la Nuova Francia dopo che il padre Briard ebbe comperato per 3800 lire in nome della «Provincia di Francia della Compagnia di Gesù» il diritto di partecipare all'impresa del Poutrincourt cui s'erano associati due mercanti ugonotti di Dieppe! Esaurite ben presto le risorse del Poutrincourt, la bella e virtuosa marchesa di Guercheville, Antonietta de Pons, dama d'onore di Maria de' Medici e grande fautrice dei Gesuiti, comperava da lui il diritto di partecipare alla sua impresa, dal De Monts a corto lui pure di denari i suoi diritti sull'Acadia, mentre si faceva donare dal giovane re Luigi XIII tutti i paesi dell'America settentrionale, dal fiume San Lorenzo alla Florida! Così la Compagnia di Gesù, di cui la pia marchesa non era che il _medium_, divenne padrona di gran parte del suolo dei futuri Stati Uniti. La compagnia si accingeva subito all'opera; ma la prima impresa inspirata da essa falliva completamente, giacchè la colonia fondata nel 1613 dal Saussaye sulle coste del Maine veniva aggredita da un avventuriero inglese, Samuele Argall, capitano d'una nave contrabbandiera, che s'impadroniva coll'astuzia associata alla violenza delle lettere regie contenenti i pieni poteri dati al Saussaye: i coloni sopraffatti a tradimento venivano parte uccisi, parte lasciati su un cannotto in balia delle onde, parte condotti prigionieri. Fornito in seguito a ciò di una piccola flottiglia dal governatore inglese della Virginia, l'Argall saccheggiava e incendiava gli stabilimenti francesi, quantunque non vi fosse guerra tra Francia ed Inghilterra, assalto brigantesco, ammantato per giustificarlo dei pretesi diritti inglesi su quelle coste, col quale s'iniziava per quanto inavvertita la lotta secolare tra Francia ed Inghilterra pel possesso del Nord-America. Se l'iniziativa presa dalla marchesa di Guercheville in favore dei Gesuiti non riusciva a dare alla Francia un vasto dominio nel nuovo continente, ben vi riusciva la costanza eroica dei predecessori di essa, del Champlain in prima linea. Il tenace de Monts infatti, riuscito dopo molta fatica nel 1608 ad ottenere un nuovo monopolio commerciale per la durata di un anno, aveva armato due navi affidandole l'una al Pontgravè, perchè commerciasse cogli Indiani e nella vendita delle pelli trovasse i mezzi finanziari dell'impresa, l'altra al Champlain perchè fondasse la progettata colonia ed esplorasse l'immenso paese. Risalito quindi di nuovo il S. Lorenzo, il Champlain fondava un fortilizio in legname alla confluenza del fiumicello S. Carlo col S. Lorenzo, su un promontorio che circondato da due parti dalle acque formava come una fortezza naturale. Questo punto strategico per eccellenza, sul quale sorge oggi la città di Quebec, doveva servire al Champlain di base commerciale da un lato, prestandosi esso in modo mirabile a chiudere a qualsiasi concorrente il bacino del San Lorenzo ed a monopolizzare così il traffico delle pelli, di base militare dall'altro per compiere le scoperte e conquiste ch'egli intendeva di fare, sempre fermo nel duplice intento di trovare la nuova via per l'Oriente e di strappare al demonio le tribù selvagge d'America. Iniziatore della politica francese di attirare nell'orbita della propria influenza le tribù indiane, il Champlain, invitato dagli Huroni abitanti sul lago omonimo, s'intrometteva nelle lotte fra questi, alleati agli Algonchini, e le tribù loro affini degli Irochesi, stretti nella terribile lega già ricordata delle Cinque Nazioni. Pochi colpi sparati dal Champlain, che durante la spedizione scopriva il lago omonimo, e dai pochi suoi compagni, se mettevano in rotta i terribili Irochesi spaventati da tale novità, acquistando così alla Francia la gratitudine e la simpatia degli Huroni e d'altre tribù, gettavano d'altra parte il seme di future lotte sanguinose tra coloni ed indiani. Ritornato in Francia col Pontgravè nel 1610, il Champlain aveva fatto ad Enrico IV un rapporto soddisfacentissimo; tanto che il De Monts, il quale si trovava egli pure alla corte invano adoperandosi per farsi rinnovare il monopolio, aveva risolto, d'accordo cogli antichi compagni di lotta, di continuare a ogni costo per proprio conto l'ardita impresa. Il Champlain, ottenuta carta bianca, salpava di nuovo pel Canadà, aiutava di nuovo gli Huroni contro gli Irochesi, fondava un fortilizio col nome di Place Royale non lungi dall'odierno Montreal e, tornato in Europa, cercava d'infiammare del suo entusiasmo coloniale il principe Carlo di Borbone, il quale infatti, creato luogotenente generale della Nuova Francia, affidava i suoi poteri al Champlain. La vita di questo non fu più sino al giorno della sua morte che un apostolato costante a favore della colonizzazione della Nuova Francia, le cui sorti posavano solo sul suo entusiasmo, sul suo ardimento, sul suo genio. Mentre in Francia, dov'egli si reca quasi ogni anno, l'opera sua si spiega nel ricercare calorosamente nuovi proseliti, nel raccogliere sussidi armi danari coloni, nel mettere insieme compagnie mercantili interessate al traffico delle pelli; di là dall'Atlantico essa è tutta rivolta ad esplorare il paese, a crearvi nuovi stabilimenti, a convertirlo al cattolicesimo, a difenderlo dagli assalti inglesi, a far della potenza francese il perno ed il centro d'una vasta lega fra tutte le tribù erranti del Canadà contro i comuni nemici, i terribili Irochesi delle Cinque Nazioni, contro i quali egli spesso combatte dando prove d'un coraggio personale non inferiore al suo genio. La fede del Champlain riusciva a trionfare e la sua opera poteva dirsi ormai assicurata, quando dopo mille tentativi di colonizzazione si fondava finalmente nel 1627 sotto gli auspici dello stesso Richelieu, che se ne metteva alla testa, una società di 100 mercanti detta «_Compagnia della Nuova Francia_» con un capitale di 300,000 lire e due navi da guerra regalate dal re. Essa otteneva a perpetuità e con poteri sovrani l'intero paese dalla spagnuola Florida al circolo polare col monopolio perpetuo del traffico delle pelli ed un monopolio di 15 anni per ogni altro ramo di commercio: in compenso era obbligata a trasportare subito da 200 a 300 artigiani e lavoranti nella Nuova Francia, accrescendo il numero di essi fino a 4000 prima del 1643, ed a provvedere questi coloni di terreni coltivabili, mantenendoli intanto pei primi tre anni; i coloni poi dovevano essere francesi e cattolici; proibita d'allora in poi agli Ugonotti l'entrata nel paese ed espulsi quelli della setta ivi domiciliati; obbligata la compagnia a tenere tre preti almeno per ogni stabilimento. Gli Ugonotti fuggiaschi meditarono allora d'impadronirsi della Nuova Francia e riuscirono infatti, sotto bandiera inglese, a conquistare Quebec invano difesa audacemente dal Champlain: la città veniva però poco dopo restituita alla Francia e ritornava la capitale dei possessi della Compagnia, rappresentata dal Champlain fino alla sua morte. Con lui si spegneva la notte di Natale del 1635 una delle figure più nobili di quella storia coloniale pel solito intessuta di delitti e di sangue, un soldato audace ed un leale politico, un grande esploratore, un credente ardentissimo senza esser bigotto, un conquistatore senza essere massacratore, un cavaliere senza macchia e senza paura. Per opera sua i fondamenti della potenza francese erano ormai gettati nel Nord-America, ma l'edificio posava su basi troppo mal fide per essere duraturo. L'assolutismo della vecchia dinastia capetingia e la potenza dei Gesuiti, che erano ormai ritornati in America e si erano dati col solito entusiasmo spinto fino alla sete del martirio a convertire gl'indiani per fondare in quelle regioni un nuovo Paraguay, una monarchia feudale ed un sacerdozio sovrano, erano puntelli troppo tarlati dall'opera dei secoli per resistere all'onda impetuosa delle nuove idee, agli assalti vigorosi d'una razza incarnante quello spirito nuovo, che andava ormai aleggiando sulla vecchia Europa ed aveva trovato un focolare di sviluppo e d'energia nella stessa America, nello stesso territorio diviso fra le pretese francesi e quelle spagnuole: sulle rive dell'Atlantico, tra gli Allegani ed il mare, s'erano stanziati o si stavano stanziando Inglesi Olandesi e Scandinavi. _Gli Inglesi._ — Era appena terminata, può dirsi, la guerra delle Due Rose, che l'Inghilterra approfittava della tranquillità assicuratale dalla mano energica di Enrico VII per sviluppare le sue industrie e allargare i suoi commerci ristretti fino allora più che altro ai mari settentrionali: così, mentre da un lato le fiere inglesi attiravano in gran numero i mercanti lombardi, dall'altro la città trafficante di Bristol, chiamata dai contemporanei la Lubecca o Venezia inglese, diventava e per la sua postura occidentale e per le tradizioni sue commerciali, quale centro della pesca nei mari d'Irlanda, il centro maggiore di quel vivace spirito d'intrapresa, che ben s'accordava coi disegni del monarca geloso delle grandi risorse fruttate alla Spagna dalle scoperte marittime dell'epoca. Ed un mercante veneziano infatti residente a Bristol, Giovanni Caboto, induceva senza fatica il re inglese a concedergli nel 1497 una patente di monopolio coloniale, che desse a lui ai figli ed eredi il diritto esclusivo di percorrere a proprie spese i mari dell'ovest dell'est e del nord, prendendo possesso delle nuove terre da scoprire quali vassalli della corona inglese; salvo l'obbligo pei concessionari di sbarcare nel porto di Bristol al ritorno da ogni viaggio e di pagare alla corona il quinto dei profitti di esso. Il primo viaggio, come del resto i seguenti, non apportò al Caboto alcun lucro, ma in compenso egli s'acquistava la gloria imperitura di aver scoperto per il primo il continente nord-americano e dava su questo all'Inghilterra tutti gli eventuali diritti, che derivavano secondo lo spirito dell'epoca dalla priorità della scoperta. Se mancarono quindi i vantaggi immediati, non andò perduto per l'avvenire di quella nazione l'impulso dato alla marineria britannica dalle scoperte di Giovanni e più ancora del figlio Sebastiano Caboto, che nel 1498 toccato una seconda volta il Labrador si spingeva lungo la costa americana fino all'attuale Maryland, e più tardi, messosi alla ricerca d'un passaggio al nord-ovest, entrava nella baia denominata un secolo dopo dall'Hudson. La posizione geografica, lo sviluppo considerevole della popolazione, la passione dei viaggi e delle scoperte propria dell'epoca con tutti i sogni romantici ad essa inerenti, la gelosia per le scoperte spagnuole e la necessità di difesa marittima contro quel popolo, l'esercizio del commercio sulle coste dell'Africa, la politica di Enrico VII curante degli interessi commerciali nonostante il suo tirannico governo, e più ancora quella di Elisabetta animata dall'intento di assicurare al paese il primato nei mari, erano tutte cause che dovevano spingere l'Inghilterra ad assecondare prima e continuare poi anche nei mari del nuovo mondo, come in quelli settentrionali dell'antico, l'opera iniziata dal suo «grande pilota» e da lui condotta, con costanza non inferiore al suo genio, sino alla morte. Marinai e lavoratori, scienziati ed avventurieri fanno delle terre d'oltre Atlantico l'oggetto del loro pensiero, la sede dei loro castelli dorati: ed ecco nel 1576 e negli anni seguenti i viaggi nei mari polari d'America organizzati, qualcuno a spese della stessa Elisabetta, dalla tenacia indomita del Frobisher, che considerava la scoperta del passaggio del N. O. «come la sola cosa al mondo che vi fosse ancora da fare e che potesse procurare ad un genio distinto la gloria e la fortuna», viaggi importanti per le scoperte geografiche più che per i risultati pratici, che si ridussero al trasporto di vascelli carichi di pietre scambiate per oro dall'ingordigia febbrile degli esploratori; ecco le prodezze, segno anche queste dei tempi, di Francesco Drake, vero pirata a danno dei nemici dell'Inghilterra, il quale, inteso a saccheggiare dal 1577 al 1580 i forti spagnuoli dell'Oceano Pacifico, prende piede per il primo sulla costa occidentale dei moderni Stati Uniti, denominandola _Nuova Albione_; ecco infine dei progetti non di semplice scoperta e conquista di terre americane ma di colonizzazione vera e propria con sir Umfredo Gilbert, che nel suo «_Discorso per dimostrare il passaggio di Nord-Ovest per il Catai e le Indie Orientali_» scrive: «Noi potremmo abitare una parte di quei paesi e trasportare colà quella gente bisognosa, che adesso disturba la nostra società, e per le tristi condizioni in patria è portata a commettere misfatti e cattive azioni, talchè ogni giorno la vediamo salire il patibolo». Ottenuto un brevetto abbastanza largo, per quanto concepito secondo le teorie commerciali dell'epoca, e riunita una schiera di emigranti volontari, il Gilbert metteva alla vela per l'America nel 1579 una prima volta, ed una seconda nel 1583 ma senza alcun risultato; in quest'ultimo viaggio anzi naufragava egli stesso, mentre seduto a poppa con un libro tra le mani incoraggiava filosoficamente i suoi colle parole «per mare come per terra siamo del pari vicini al cielo»! Ai rischi di tale spedizione aveva partecipato un fratellastro del naufrago, Gualtiero Raleigh, il quale in quell'elevato patriottismo, in quella gelosia dell'onore della prosperità del progresso dell'Inghilterra, che lo facevano l'antagonista inesorabile delle pretese spagnuole, trovava la forza di volontà per continuare e compiere ad ogni costo l'opera del Gilbert. Se Elisabetta nella speranza di un iperboreo Perù nei mari glaciali d'America favoriva le spedizioni polari, il Raleigh animato dalle idee stesse del Gilbert non risparmiava sacrifici pur di colonizzare a vantaggio del proprio paese il nuovo mondo, diffondendone al tempo stesso in Inghilterra in tutti i modi la conoscenza ed ispirando per esso il più vivo interesse. La prima spedizione organizzata dal Raleigh ma condotta da altri ebbe luogo nel 1584 senz'altro risultato che quello di prender nominalmente possesso d'una parte della costa già detta dai Francesi Carolina, regione chiamata ora Virginia in onore della vergine regina innamorata del paese dalla descrizione fattale. L'anno dopo partiva sotto il comando del Grenville una nuova spedizione di 7 navi con 108 coloni, i quali ben presto sgomenti dei disagi sopportati abbandonavano la colonia, non senza però aver gettato il primo germe della lotta tra indigeni e bianchi col dare alle fiamme un villaggio di Indiani, rei d'avere rubata una tazza d'argento. A guardia del possesso inglese rimanevano nell'isola Roanoke una quindicina di uomini, ma di costoro non ritrovava che le ossa una terza spedizione, condotta dal White nel 1587, la quale abortiva completamente essa pure per mancanza d'aiuti dalla madre patria, spedizione famosa soltanto per aver dato al suolo nordamericano il primo oriundo inglese nella nipote del governatore Dare, denominata appunto Virginia. L'Inghilterra era allora impegnata in una lotta per la vita contro l'_invincibile armata_, e d'altra parte il Raleigh aveva esaurito tutto il suo patrimonio in questi tentativi coloniali costatigli un 40000 sterline, senz'altro risultato diretto che quello di introdurre in patria le patate ed il tabacco. Animato però sempre dallo stesso entusiasmo, egli riusciva a costituire una compagnia coloniale per venire in aiuto della Virginia; ma all'arrivo della nuova spedizione, intrapresa nel 1590, nei paraggi di Roanoke la colonia era scomparsa, ed essa come le spedizioni seguenti nonchè fondare una stabile colonia non riuscì neppure a mettere in luce la fine dei compatriotti, massacrati probabilmente dagli indigeni od internati nel paese. I progetti del Raleigh fallivano così completamente, spezzando la forte fibra del grande patriota, prima che una ignominiosa condanna di morte venisse a compensarlo in modo indegno dei servigi resi al suo paese: a lui rimaneva la gloria, come sempre grondante di lacrime, dei precursori; di lui rimaneva il nome dedicato per riconoscenza e venerazione circa due secoli dopo alla capitale della Carolina del Nord. I primi timidissimi successi dell'opera, di cui il Raleigh era stato l'apostolo infelice, dovevano riportarsi, ironia del destino, sotto gli auspici dello stesso suo carnefice, del tirannico Giacomo I. Lo stato politico dell'Inghilterra si presentava ora quanto mai favorevole alle imprese coloniali; chè la popolazione vi era sovrabbondante, ed agli elementi più risoluti ed irrequieti di essa, occupati dalla politica di Elisabetta in tante imprese di terra e di mare, non rimaneva più dopo l'avvento al trono del timido Stuart che l'alternativa di partecipare in qualità di mercenari alle lotte straniere o di tentare l'alea del Nuovo Mondo. Gli ultimi viaggi, i tentativi ripetuti di colonizzazione avevano fatto rivolgere sulla Virginia gli sguardi di un gran numero di gente che eccelleva per grado sociale, per istruzione, per spirito d'intraprendenza. L'interesse pei progetti coloniali intepidito ma non spento negli associati del Raleigh, tra cui anzi il più chiaro, Riccardo Hakluyt, lo storico delle spedizioni marittime dell'epoca, aveva conservato tutto il prisco entusiasmo nonostante i continui insuccessi. Nuovo impulso a questa tendenza coloniale veniva nei primi anni del regno di Giacomo I dall'energia del bravo esploratore Bartolomeo Gosnold, il quale aveva iniziato nel 1602 una rotta diretta dall'Inghilterra al Nord-America, abbandonando quella più lunga per Madera le Azzorre e le Indie occidentali, e primo fra gli Inglesi aveva calpestato il suolo della Nuova Inghilterra, esplorato subito dopo dal Pring e dal Weymouth. Convinto per propria esperienza della fertilità del suolo nordamericano, il Gosnold si era dato a sollecitare il concorso degli amici per stabilirvi una nuova colonia ed era finalmente riuscito a tirare dalla sua Edoardo Maria Wingfield, un piccolo commerciante dell'ovest dell'Inghilterra, Roberto Hunt, un prete pieno di fermezza e capacità unita a grande modestia, e John Smith, uno spirito di avventuriero dotato d'una mente geniale e d'un grande cuore. La piccola società andava così maturando il progetto della sognata piantagione, quando i racconti del Weymouth accendevano vieppiù il desiderio già vivo in un ricco ed influente inglese, sir Ferdinando Gorges, di possedere un dominio di là dall'Atlantico, e questi guadagnava al suo disegno il gran giudice d'Inghilterra, sir John Popham. La causa della colonizzazione acquistava così dei difensori zelanti, i quali indipendentemente dai partiti religiosi e politici nutrivano la più ferma fiducia in un prospero stato da fondarsi per opera degli Inglesi nelle regioni temperate dell'America settentrionale. Il re d'Inghilterra, che troppo timido per agire era però troppo vanitoso per rimanere indifferente e d'altra parte aveva già tentato nel proprio paese una colonizzazione interna per diffondere nella Scozia, nell'Irlanda e nelle isole Ebridi le industrie e la civiltà, quando vide una compagnia di gente di affari e d'uomini altolocati, la quale per l'esperienza d'un Gosnold, l'energia d'uno Smith, i lumi di un Hakluyt, le ricchezze e l'influenza d'un Gorges e d'un Popham dava le più serie garanzie, chiedere a lui la autorizzazione «di condurre una colonia nella Virginia», incoraggiò senz'altro la magnifica opera ed accordò per essa una patente larghissima. Due compagnie rivali, quella di Londra e quella di Plymouth, dovevano colonizzare il territorio americano compreso dal 34º al 45º grado di lat. nord, dal capo Fear ad Halifax, salvo forse il piccolo cono dell'Acadia posseduto allora dai Francesi. Alla prima delle due compagnie, composta di nobili di personaggi influenti e di negozianti di Londra, veniva assegnata la parte tra il 34º e il 38º vale a dire dal capo Fear alla frontiera meridionale dell'attuale Maryland; alla seconda, composta di cavalieri e di mercanti dell'Ovest, la parte tra il 41º ed il 45º: il territorio intermedio doveva rimanere aperto a tutt'e due, col patto però, ad evitare contese, che una zona neutrale di 100 miglia intercedesse tra gli stabilimenti estremi delle due compagnie. Il solo obbligo imposto ad esse era di prestare omaggio al re e di corrispondergli un canone pari ad un quinto del prodotto netto dell'oro e dell'argento e ad un quindicesimo del rame. La direzione suprema delle colonie era affidata ad un consiglio di nomina regia e revocabile, sedente in Inghilterra; l'amministrazione era lasciata ad un consiglio locale sottoposto esso pure al controllo regio, vera aristocrazia che non aveva da rendere alcun conto agli amministrati del proprio operato. Il potere legislativo sia per gli interessi generali che per quelli particolari era riservato al re, al quale sarebbe spettata pure un'imposta sulle navi entranti nei porti della colonia, imposta però che per 21 anni doveva essere consacrata al miglioramento della colonia. Quanto agli emigranti, la carta stabiliva le condizioni più favorevoli per l'occupazione delle terre e conservava ad essi ed ai loro figli la cittadinanza inglese con tutti i diritti ad essa inerenti pel caso di ritorno in patria, ma non offriva loro alcuna garanzia di fronte agli agenti coloniali, se ne eccettui il giudizio per giuria nel caso di reati punibili di morte. Quanto alla religione era prescritto di conformarsi in tutto e per tutto alle dottrine ed ai riti della chiesa d'Inghilterra. Quanto agli indigeni infine si raccomandava di trattarli con bontà e di fare il possibile per convertirli. La compagnia mercantile non riceveva dunque che un territorio deserto col diritto di popolarlo e di difenderlo: il monarca si riservava il potere legislativo assoluto, la facoltà di nominare a tutti gli impieghi e la prospettiva d'un'immensa rendita: gli emigranti, privi della più elementare libertà, d'ogni franchigia elettorale, d'ogni diritto di governarsi da sè, dovevano sottomettersi agli ordini d'una corporazione commerciale, di cui non potevano far parte, all'autorità d'un consiglio locale, di cui non potevano eleggere alcun membro, al controllo d'un consiglio superiore ancora più estraneo ad essi, ed infine agli abusi del sovrano! Tale la prima carta data nel 1606 al paese, che doveva divenire il soggiorno prediletto della libertà e del _self government_! Coll'anno seguente, 1607, incominciava la colonizzazione inglese in America. La compagnia di Plymouth falliva nell'intento, giacchè le piantagioni, tentate in quell'anno alla foce del fiume Kennebec nell'odierno Maine, venivano pel rigido clima abbandonate dai coloni l'anno dopo, e questi per di più tornati in patria dissuadevano gli altri dal ritentare la prova; ma ad ogni modo la bandiera inglese sventolata sul forte di S. Giorgio, da essi per breve tempo occupato, dava all'Inghilterra un nuovo titolo al possesso di quel paese. I foschi colori, con cui i reduci delusi ne dipingevano i rigori del clima e l'aridità del suolo, non vi impedivano un viaggio d'esplorazione da parte del benefattore della Virginia, Giovanni Smith, il quale nel 1614 ne rilevava le coste dalla foce del Penobscot al capo Cod, dandogli il nome di N. Inghilterra, vi tentava nel 1615 un inizio abortito di colonizzazione e, per nulla scoraggiato dall'insuccesso, si dava ad una propaganda entusiastica in favore di essa nell'Inghilterra, promettendo ai nobili vasti domini, alle municipalità lauti guadagni commerciali, agli irrequieti ed agli oppressi libertà illimitata, agli avventurieri soggiorni incantevoli, lucido aere acque tranquille ai sognatori. L'entusiasmo di questo apostolo della colonizzazione riusciva finalmente a trasfondersi nei membri della tramontata compagnia di Plymouth, i quali aprirono trattative per rinnovare le vecchie patenti con poteri analoghi a quelli della compagnia della Virginia. Le rimostranze di questa e la gelosia dei Londinesi contro gli Occidentali ritardavano fino al 1620 la concessione da parte di Giacomo I della nuova carta, una delle più ampie non solo negli annali americani ma in tutta la storia coloniale. Per essa quaranta sudditi inglesi, tra cui i più ricchi ed influenti nella nobiltà e qualche membro della stessa casa reale, venivano eretti, essi ed i loro successori, in corporazione sotto il nome di «_Consiglio stabilito a Plymouth, nella contea di Devon, per colonizzare, amministrare, organizzare e governare la Nuova Inghilterra in America_». Il territorio conferito ad essi come proprietà assoluta, con giurisdizione illimitata, potere esclusivo di legislazione, facoltà di scegliere tutti gli agenti e tutte le forme di governo, si estendeva in larghezza del 40º al 48º grado di latitudine settentrionale ed in lunghezza dell'Oceano Atlantico al Pacifico. Senza l'autorizzazione del consiglio di Plymouth, dall'isola di Terranova alla latitudine dell'attuale Filadelfia non un vascello poteva entrare in una rada, non si poteva comprare una pelle nell'interno delle terre, nè pescarvisi un pesce sulle coste, nè stabilirvisi alcun emigrante! Date così le maggiori garanzie alla cupidigia dei proprietari, la patente non prendeva neppure in considerazione i futuri coloni: essi venivano lasciati alla più illimitata mercè d'una corporazione, che tra i suoi poteri illimitati aveva quello di legiferare per essi e di governarli! Due mesi prima però che questo odioso monopolio economico e politico fosse nonchè attuato concesso, un manipolo eroico d'emigranti inglesi erano salpati dal vecchio mondo per fondare nella Nuova Inghilterra la prima colonia permanente, senza alcuna garanzia del sovrano, senza alcuna carta della compagnia, senz'altro capitale che le loro braccia ed il loro cuore. Tredici anni prima sotto auspici ben diversi, ma con risultati non meno grandiosi la razza inglese aveva gettato salde radici sul suolo meridionale dei futuri Stati Uniti per non esserne divelta mai più. I coloni infatti della «compagnia di Londra», sbarcati, nel 1607 pur essi, alla foce d'un fiume della Virginia, chiamato James in onore del re, erano rimasti ed avevano iniziato, nonostante le mille peripezie i disagi le sofferenze dei primi tempi, la colonizzazione inglese sul continente nordamericano. Non ispirata nè al preconcetto politico di fondare un vasto impero feudale e teocratico, come quello francese, nè all'errore economico di limitarla a spedire nella madrepatria galeoni carichi d'oro e d'argento, come quella spagnuola, ma alla nuova concezione coloniale di fondare degli stabilimenti agricoli, essa racchiudeva in sè anche per questo i germi d'un grande avvenire. «Qui non bisogna sperar nulla, se non dal proprio lavoro» era la massima che predicava lo Smith, il padre della Virginia, nella sua convinzione profonda che il vero interesse dell'Inghilterra non era di cercar oro ed arricchirsi subitamente, ma di dare nel lavoro vigoroso e regolare una solida base economica alla nascente colonia. Umili dunque, come vedremo meglio in seguito, i principii inglesi nel Nord-America, ma tali per un complesso di cause materiali e morali da giustificare i voli dell'immaginazione brittannica, che già sognava di là dall'Atlantico un popolo nuovo avente l'inglese per lingua materna. «Chi sa, diceva il Daniel, poeta laureato dell'Inghilterra all'epoca di Elisabetta, chi sa dove col tempo noi potremo portare i tesori della nostra lingua? In quali rive straniere noi manderemo il nostro migliore e più glorioso prodotto per arricchire delle nostre risorse selvagge nazioni? Quali mondi, in questo occidente ancora informe, si civilizzeranno ai nostri accenti?» E lo Shakespeare, il grande tragico che incarna in sè con lo spirito tutto dell'umanità quello particolare del suo popolo, trasfondeva nell'opera sua e tramandava ai posteri l'entusiasmo del momento, inneggiando a re Giacomo I, protettore delle colonie, da lui paragonato «al cedro delle montagne che copre dei suoi rami tutte le circostanti pianure». «Dovunque risplenderà la brillante luce del sole, profetava l'amico del conte di Southampton, uno dei capi della compagnia virginiana di Londra, appariranno la grandezza e la gloria del suo nome, ed egli farà sorgere novelle nazioni». Ed una nuova nazione per verità stava per sorgere dal vecchio ceppo anglosassone sul continente nord-americano, una nazione, di cui per maggior fortuna se il sangue inglese costituirà il cemento altri elementi etnici, Olandesi e Svedesi in prima linea, presiederanno alle origini, elementi troppo scarsi per non venire assorbiti da quello predominante ma però sempre sufficienti a portargli nuovo contributo di sane energie, di forze materiali e morali. Nè una nuova nazione soltanto, ma una società nuova sorgerà quivi, una civiltà nuova, che contrasterà con pieno successo a quella vecchia rappresentata da Francesi e Spagnuoli il possesso del Nord-America. Mentre le potenze più retrive della vecchia società europea, il feudalesimo vinto ma non domo la monarchia trionfatrice e la chiesa romana galvanizzata dal pericolo protestante, invadono in veste di conquistatori più che di colonizzatori, da settentrione e da mezzogiorno il Nord-America, coi loro _hidalghi_ coi loro nobili coi loro soldati coi loro preti, rappresentanti genuini d'una vecchia razza corrotta dal dominio mondiale e d'una classe parassita, usa ad attingere i mezzi di vita dallo sfruttamento dei soggetti più che dal lavoro, s'incunea nel cuore stesso del loro dominio, fra gli Allegani predestinati dalla natura all'industria e l'Oceano aperto ormai dagli uomini al commercio mondiale, nella parte più adatta del continente allo sviluppo d'una grande civiltà, una forza nuova, che sorta, lottando col passato in Europa, agguerrita dalla lotta viene a cercare pel suo trionfo completo un vergine suolo, dove i ruderi del vecchio mondo non soffochino i germogli della pianta novella, inceppandone l'espandersi rigoglioso. Incarnano per di più questa potenza uomini appartenenti a giovani razze, entrate allora allora nell'arringo della civiltà dopo avere spezzato colla Riforma le ultime pastoie che le avvincevano ancora al carro delle vecchie razze dominatrici, uomini appartenenti di regola alle classi laboriose della società, che sbarcano sul suolo americano per popolarlo e fecondarlo del loro sudore anzichè per conquistarlo e sfruttarlo soltanto. È una nuova concezione coloniale, che la razza germanica contrappone all'antica: non già l'oro il saccheggio la distruzione la riduzione d'intere popolazioni al servaggio per fornire all'Europa le merci di lusso dei climi tropicali sono il fine di tale colonizzazione, ma la fondazione di stati, lo stabilimento di colonie cristiane, la formazione per gli oppressi e gli intraprendenti di luoghi di rifugio e d'abitazione, con tutti gli elementi d'una esistenza nazionale indipendente. Così là, dove la vecchia Europa colla sua monarchia feudale ed il suo sacerdozio sovrano non cerca altro che un nuovo e più vasto campo alla conquista e allo sfruttamento, proiettando sul nuovo mondo la sua storia di ambizioni di guerre fratricide di infamie, quadro dai vivaci colori in cui spiccano più smaglianti figure sovrane di santi di delinquenti e di eroi; la giovane Europa cercava una patria, iniziando una storia nuova di libertà spirituale e di progresso materiale, una società dove i colpi di spada e la pompa dei titoli e i lampi del genio non creassero dei piedistalli da cui dominare gli altri ma il lavoro oscuro tenace e paziente di tutti assicurasse alla comune convivenza i maggiori vantaggi. NOTE AL CAPITOLO PRIMO. [1] Prendo in esame in questo capitolo tutto quanto il territorio degli Stati Uniti attuali anzichè la regione limitata di essi, in cui si svolge la storia delle loro origini, per metter in luce in questo volume, conforme a quanto dissi nella _Prefazione_, tutti i fattori fisici, etnici, storici che concorsero insieme a creare la società anglo-americana, fattori tra cui l'elemento territoriale occupa senza alcun dubbio il primo posto per la sua importanza decisiva nello svolgimento d'una società essenzialmente economica, quale è oggi l'anglo-americana. [2] Per maggiori ragguagli geografici sugli Stati Uniti vedi il I volume dell'opera magistrale del RATZEL (_Die Vereinigten Staaten von Nord-Amerika_. München, 1878-80), il libro XVI (_Les États Unis_) dell'opera del RECLUS (_Nouvelle Géographie Universelle_. Paris, 1892), ed infine la sezione riguardante gli Stati Uniti del vol. II dell'opera _La Terra_ del MARINELLI (pag. 3-198), dovuta alla penna del prof. _Porena_, lavori dai quali ho desunto questo quadro a grandi linee del paese anglo-americano, pure servendomi di preferenza come dello scritto sull'argomento più diffuso in Italia di quello del _Porena_, che spesso ho riassunto con le stesse parole. [3] Il miglio lineare inglese è di 1609 metri; il miglio quadrato corrisponde a circa km.^2 2.56. [4] Il piede inglese equivale a circa m. 0,30. [5] Sulla valutazione numerica degli Indiani, incerta al massimo grado come quella di tutti i popoli selvaggi, vedi le acute osservazioni del RATZEL nella 2ª edizione del 2º volume, dal titolo _Politische Geographie der Vereinigten Staaten_ (München, 1893), dell'opera citata (pp. 210-213). [6] Secondo i risultati filologici del Cuoq (Citato in _Reclus_: op. cit. XVI 34) _otem_ e non _totem_, come trovasi scritto generalmente, sarebbero stati tali animali protettori. [7] Cfr. sugli Indiani oltre al cap. XXII del vol. I del _Bancroft_ (ediz. citata), le pag. 188-234 del vol. II (2ª ediz.) del _Ratzel_ (op. cit.), e le pag. 37-73 del vol. XVI del _Reclus_ (op. cit.). CAPITOLO II La democrazia puritana nella Nuova Inghilterra. § 1. I pellegrini e la colonia di Nuova Plymouth — § 2. I Puritani e la colonia di Massachusetts — § 3. Roger Williams ed origine di Rhode Island — § 4. La colonizzazione del Connecticut — § 5. L'estremo nord e il New Hampshire — § 6. Svolgimento della N. Inghilterra — § 7. La società neoinglese e la sua forza d'espansione. § 1. I PELLEGRINI E LA COLONIA DI NUOVA PLYMOUTH. — Il 16 dicembre del 1620 un centinaio di protestanti inglesi d'umile condizione, sbattuti di qua c di là dalle procelle della persecuzione religiosa, sbarcavano in pieno inverno, senza mezzi, può dirsi, di sussistenza, senza la garanzia d'una carta regia, senza altro orizzonte che di stenti e sacrifici, sulla spiaggia fredda e deserta della Nuova Inghilterra. Un edificio comune sostituito in seguito da tanti casolari coperti di paglia, un baraccone ad uso di deposito, un piccolo spedale per gli ammalati, una chiesetta sormontata per difesa da quattro cannoncini, una vita aspra di improbo lavoro sostenuta dal prodotto della caccia e della pesca, rigori della natura e conseguente mortalità spaventosa, ecco gli indizii materiali ben poco lusinghieri della prima colonia della N. Inghilterra: perfetta eguaglianza nel campo sociale, libertà democratica in quello politico, indipendenza assoluta in quello spirituale, ecco le sue caratteristiche fondamentali, i suoi massimi beni. Ne erano fondatori i Pellegrini, un manipolo eroico di puritani, la cui esistenza e le cui vicende costituiscono uno degli episodi più gloriosi e più fecondi di risultati nella storia or lieta or triste, or nobile ora infame della Riforma inglese. La coscienza dei grandi principi, in nome dei quali era stata bandita sul continente europeo la rivoluzione religiosa del sec. XVI, preparata di lunga mano da cause economiche e sociali, fu in Inghilterra l'effetto più che la causa efficiente della Riforma. Questa fu introdotta nell'isola dal dispotismo e dal capriccio d'un monarca, che voleva separarsi da Roma per meglio soddisfare le proprie passioni, ed ebbe perciò il carattere d'uno scisma più che d'una vera riforma ecclesiastica: tutte le dottrine della chiesa cattolica, se ne eccettui la supremazia di Roma, venivano conservate; e Clemente VII avrebbe potuto continuare come Leone X a lodare Enrico VIII per la sua ortodossia cattolica, pure scomunicandolo per la sua autoelezione a papa dell'Inghilterra. L'atto di supremazia infatti mirava tanto poco ad affrancare la chiesa d'Inghilterra e tanto meno il popolo e lo spirito inglese dall'assolutismo del dogma, che non conteneva la minima clausola favorevole alla libertà religiosa, la quale in seguito fu anzi compressa da Enrico VIII ancor più violentemente di prima: esso non aveva altro fine se non quello di rivendicare la franchigia sovrana del monarca inglese contro il seggio di Roma, facendo dell'autorità ecclesiastica un ramo della prerogativa regia. Ma con ciò la ribellione capricciosa del brutale monarca raggiungeva nel campo nazionale l'effetto stesso di quella maturata del monaco di Wittemberga: per essa la nazione inglese si affrancava realmente da ogni intervento straniero, ed Enrico VIII appariva quasi l'ultimo e più fortunato campione di quella resistenza secolare spiegata dai re inglesi contro le usurpazioni dell'autorità ecclesiastica tra il plauso della nazione, d'una nazione per di più che le teorie ed i seguaci di Wickliffe avevano preparato di lunga mano ad accogliere i principii della Riforma. La separazione da Roma non rimase così l'atto egoistico d'un despota, che perde con la morte di esso ogni effetto, ma il primo passo d'una rivoluzione religiosa, che precedenti storici, interessi sociali, spirito dell'epoca, esempio infine di razze sorelle imponevano al popolo inglese. Il protestantesimo fu tanto poco imposto alla nazione inglese dal dispotismo di Enrico VIII, che non solo la chiesa anglicana nel suo ordinamento dogmatico ed ecclesiastico, posteriore alla sua morte, s'allontanò dalla cattolica ben più di quello ch'egli non volesse, ma una parte del popolo inglese procedette per proprio conto su quella via dell'emancipazione spirituale, di cui la neonata chiesa ufficiale non rappresentava che un primo, timidissimo passo. Una minoranza, che incarna lo spirito progressivo dell'epoca, non si accontenta dello modeste ed innocue riforme, dell'abrogazione del cerimoniale più assurdo; ma, una volta ammesso il principio del libero esame, continua a sottoporre alla critica rigorosa di questo l'intero sistema religioso, arrivando all'austero principio che in materia di fede e di culto niente possa farsi «se non in virtù della parola di Dio». Non basterà quindi che la Sacra Scrittura non parli contro una cosa qualsiasi nel campo della fede per accettarla, ma occorrerà che parli espressamente in favore di essa. Fu questo il _Puritanesimo_, che nel suo stesso dogma fondamentale sonava ribellione aperta contro ogni sorta di compressione spirituale. Esso infatti non accettava altra garanzia che la Bibbia, altra regola di condotta che la parola precisa di Dio: nè re, nè parlamento, nè gerarchia ecclesiastica potevano interpretare a loro modo questa regola; nessuna regola ufficiale poteva quindi venire riconosciuta dal puritano, il quale, non volendo sottostare ad una chiesa presieduta dal sovrano temporale, diventava con ciò un vero ribelle anche nel campo politico. La semplicità, la purezza evangelica, ecco il fine del puritanesimo, che s'informa così nel campo religioso ad uno spirito democratico, il quale non potrà non tradursi nel campo politico e sociale. In nome di che cosa infatti se non del loro diritto alla libertà naturale potevano i puritani attaccare i poteri costituiti? In un'epoca, in cui il pulpito era lo strumento più efficace per penetrare nello spirito delle masse, la loro pretesa di avere «la libertà di profetare» equivaleva alla domanda moderna della libertà di stampa; mentre il libero esercizio di giudicare con franca parola di tutti gli avvenimenti del giorno non minacciava solo di rompere l'unità della chiesa nazionale, ma di erigere l'opinione pubblica in un tribunale, dinanzi a cui poteva un giorno esser chiamato lo stesso principe. Ed il pericolo era ancora più grave in quanto che il progresso logico dalla libertà spirituale a quella politica era diventato ancor più facile dopo che, fallito il tentativo di restaurazione cattolica fatto da Maria la Sanguinaria, i puritani più intransigenti, riparati sul continente durante l'imperversare della bufera, erano ritornati in patria pieni del nuovo vigore d'austerità spirituale attinto alle dottrine calviniste, della nuova energia democratica attinta alla severa semplicità della repubblica di Ginevra. I ministri puritani erano divenuti ormai dei veri tribuni del popolo, il loro pulpito un libero tribunale di giudici inflessibili ed incorruttibili, la loro influenza sempre maggiore nelle classi sociali medie e inferiori, la rappresentanza dei loro seguaci sempre più numerosa nella Camera bassa. 1 puritani vengono così in pochi decenni a costituire un partito politico potente, che non reclamava soltanto la riforma degli abusi ecclesiastici, ma discuteva della forma di governo, s'opponeva ai monopoli, cercava di limitare la prerogativa regale. Veri precursori d'una rivoluzione, essi venivano troppo logicamente accusati dai difensori dell'episcopato anglicano di desiderare uno Stato popolare, meritandosi l'elogio d'uno storico ad essi non certo favorevole (lo Strype): «la scintilla preziosa della libertà non è stata accesa e conservata che dai Puritani». La regina Elisabetta dichiarava nel modo più esplicito ch'essi erano più pericolosi degli stessi cattolici, i quali almeno erano partigiani convinti della monarchia per quanto nemici di chi la rappresentava; Giacomo I nei primi anni del suo regno scriveva che avrebbe preferito vivere da eremita in una foresta piuttosto che regnare su un popolo simile «a questa banda di Puritani che dominano la Camera bassa», e dichiarava che «la setta dei Puritani non poteva esser tollerata in uno stato ben governato, qualunque esso fosse!». Nessuna meraviglia pertanto che l'intolleranza più vergognosa accompagni passo passo il progresso della Riforma nella Gran Brettagna; che Enrico VIII faccia bruciare chi nega la dottrina cattolica dell'eucarestia, che le leggi di Edoardo VI puniscano invece chi vi crede, che Maria tenti di lavare col sangue dei martiri protestanti l'onta della Riforma inglese, che infine Elisabetta stessa, la rappresentante del protestantesimo in Europa, volendo ad ogni costo nell'interesse proprio e del trono mantenere l'unità della chiesa nazionale, detesti i non conformisti di ogni specie, li consideri come ribelli nel proprio campo e perseguiti violentemente quei puritani cui pure dovevasi la conversione del popolo inglese al protestantesimo. La persecuzione di quest'ultima però trova una grande attenuante nell'imperioso bisogno d'unità religiosa, mentre i sovrani cattolici cospirano contro l'Inghilterra, i cardinali propongono nelle loro conventicole di deporre Elisabetta, il papa scomunicandola ecciti i sudditi suoi alla ribellione. Ciò spiega come, se tutti i puritani, vera falange estrema del protestantesimo sul suolo inglese, desiderano una riforma e battagliano per essa contro l'episcopato e la corona, non tutti vogliono uno scisma. Se però come corpo evitano di separarsi dalla chiesa stabilita domandandone solo imperiosamente una purificazione, una minoranza fra essi spinge ben più in là l'opposizione alla chiesa anglicana, denunciandola come una istituzione pagana contraria ai principi del cristianesimo e della verità e ricusando perciò di rimanere più oltre in comunione con essa. Questa setta separatista, che rappresentava lo spirito più democratico del puritanesimo, era di origine prettamente plebea, cosicchè il sorger di essa segnava proprio l'ultimo estendersi della riforma in seno ai più bassi strati sociali. Iniziata dalla corona, propagatasi in seno alla nobiltà, sviluppatasi sotto il patronato dell'episcopato, diffusa nelle classi medie e basse dall'austera propaganda puritana, essa scendeva col separatismo all'infima plebe; e questo processo d'espansione sociale aveva portato seco fatalmente un processo di democratizzazione sempre maggiore. Enrico VIII infatti aveva affrancato la corona, Elisabetta la chiesa anglicana, i Puritani avevano reclamato l'eguaglianza pel clero plebeo, i Separatisti affrancavano l'intelligenza umana da ogni principio d'autorità, proclamando la libertà per ogni individuo di scoprire «la verità nella parola di Dio». Le persecuzioni di Elisabetta e più ancora di Giacomo I nulla poterono contro il fatale andare dell'idea: per una nemesi non rara nella storia il Puritanesimo conculcato si rizzava sempre più formidabile sino a far rotolare dal palco la testa di Carlo I; ed il Separatismo, nonostante lo sterminio feroce dei suoi seguaci, andava ad informare del suo spirito un mondo novello, vena di libertà che zampillava inesauribile dalle latebre più profonde del suolo sociale. Ai separatisti infatti appartengono i _Pellegrini_. Verso la fine del regno di Elisabetta «la parola di Dio, dicono le fonti separatiste, aveva rischiarato della povera gente» del nord dell'Inghilterra, che abitava le città ed i villaggi del Nottinghamshire, del Lincolnshire e le frontiere del Yorkshire: la vista dei loro ministri costretti a sottomettersi al conformismo in materia di fede e di culto, la persecuzione contro i non conformisti aveva loro aperti gli occhi, convincendoli che non solamente «le miserabili cerimonie del culto erano dei ricordi dell'idolatria» ma che «era necessario non sottomettersi al potere sovrano dei prelati». Molti allora di essi «di cui il Signore aveva toccato i cuori d'un zelo divino per la verità» si erano decisi a scuotere «questa servitù anticristiana» ed a costituirsi per un _covenant_, «come il popolo libero del Signore» in una chiesa basata sui principi d'uguaglianza del Vangelo, rinunciando ad ogni autorità umana, attribuendosi il diritto illimitato ed indistruttibile di progredire verso la verità, «di marciare in tutte le vie che il Signore aveva lor fatto conoscere o rivelerebbe loro in seguito». Come segugi dietro alla preda gli agenti più fanatici e brutali dell'episcopato cominciarono a dar la caccia a questa chiesa riformata ed al suo pastore John Robinson, finchè «l'infelice gregge di Cristo perseguitato» per eludere la vigilanza dei suoi nemici, disperando ormai di trovare riposo in Inghilterra, aveva risoluto nel 1607 di cercare salute nell'esilio, rivolgendo i suoi sguardi a quell'Olanda, dove trionfava la dottrina calvinista nella chiesa e l'ordinamento repubblicano nel governo, dove gl'infelici «avevano sentito dire che a tutti era accordata libertà di religione». Superate le maggiori difficoltà, delusi o fiaccati col loro eroismo gli sforzi dei loro nemici, essi riuscivano finalmente ad imbarcarsi, cominciando così dall'isola loro al continente, da Amsterdam a Leyda, dall'Europa all'America quella corsa errabonda, quella via crucis pel trionfo della libertà spirituale, quel doloroso pellegrinaggio, da cui presero il nome. «Essi sapevano ch'erano dei _Pellegrini_, e non s'affannavano troppo delle peripezie che loro toccavano, ma rivolgevano gli occhi al cielo, loro patria diletta, e trovavano così la calma del loro spirito». L'austerità, l'amore al lavoro, l'elevatezza morale acquistarono ai Pellegrini la stima l'affetto la venerazione del nuovo paese; ma questo era pur sempre per essi una terra d'esilio, dove la lotta per la vita si presentava con colori ben più foschi che per l'innanzi: abituati al lavoro dei campi, avevano dovuto darsi ai mestieri ed alle industrie per sottrarsi alla più squallida miseria dei primi giorni; austeri nel fondo dell'anima, mal potevano adattarsi alla gaiezza per quanto posata degli Olandesi; fortemente attaccati alla nazionalità ed alla lingua propria, soffrivano di nostalgia morale nel paese straniero, tremavano al pensiero di vedere i loro figli soggiacere all'influenza di questo; decisi finalmente e più che tutto a mantenersi uniti, stretti insieme nella loro comunità, vedevano avanzarsi il giorno fatale di dovere e per le esigenze materiali dell'esistenza e per l'aumento della popolazione disperdersi o soccombere. L'amore di patria e lo spirito religioso fa trovar allora ai Pellegrini una soluzione del problema nelle vicende stesse dell'epoca. Perseguitati in patria essi potevano bene crearsene un'altra di loro esclusiva pertinenza, un'altra a somiglianza della prima e dalla prima dipendente, in quelle vergini terre che i viaggi di Gosnold, di Smith e d'Hudson, le imprese di Raleigh, di Delaware e di Gorges, le descrizioni e le compilazioni di Eden, di Willes e d'Hakluyt facevano correre sulle bocche di tutti. Oscuramente coscienti della loro attitudine a rappresentare una parte ben più grande che quella di esuli raminghi nel dramma dell'umanità, essi si sentirono animati «dalla speranza e dall'intimo ardore di far conoscere il Vangelo del reame di Cristo nelle regioni lontane del Nuovo Mondo, quand'anche non dovessero servire che di marciapiede da altri destinato a calpestarsi per compiere questa grand'opera». Così facendo essi si sarebbero per di più riconquistata la protezione dell'Inghilterra, cui erano rimasti devoti nonostante i mille torti subiti. Tutti pieni ormai del generoso proposito, i Pellegrini col mezzo dei loro delegati partiti per l'Inghilterra tanto fecero, tanto insisterono per ottenere dal governo il permesso, dalla società della Virginia il terreno, da privati i fondi necessari al viaggio, che finalmente dopo anni di negoziati riuscivano nell'intento per quanto a patti ben sfavorevoli: Giacomo I, da una parte coll'idea di liberarsi di loro, dall'altra nella speranza di veder fiorire ancor più la pesca inglese nei mari d'America, non dava alcuna carta ma lasciava vagamente sperare che non si sarebbe fatta attenzione ad essi nei deserti americani; la compagnia della Virginia accordava una patente che per quanto ampia a nulla serviva, perchè concessa ad una persona che non faceva parte della spedizione e per un paese diverso da quello dove contro lor voglia sarebbero sbarcati i coloni; un mercante londinese infine, commosso dallo zelo di quei profughi, imprestava loro del denaro a gravissime condizioni. Nel 1620 due navi, lo _Speedwel_ di 60 tonnellate ed il _Mayflower_ di 180, dovevano portare in America sotto la guida dell'abilissimo predicatore Brewster, l'antico agricoltore mutato in tipografo, i più giovani ed animosi tra il migliaio di Pellegrini di Leyda; gli altri rimanevano per il momento in Olanda affidati al loro pastore, il Robinson, che al momento doloroso del commiato spiegava nelle parole d'addio una libertà d'opinione, uno spirito d'indipendenza da ogni principio d'autorità allora pressochè ignoti nel mondo: «io non intendo, diceva l'illuminato pastore ai pionieri d'una nuova civiltà, davanti a Dio ed ai suoi angeli benedetti, che voi non mi seguiate più oltre di quello che non abbiate veduto me stesso seguire il Signore Gesù Cristo. Il Signore ha ancora ben altre verità da farvi scoprire nella sua santa parola. Io non saprei deplorare abbastanza la condizione delle chiese riformate, che sono giunte ad una certa fase della religione e che attualmente non vogliono andare più lontano dei promotori della loro riforma. Lutero e Calvino furono menti grandi e luminose pel tempo in cui vissero; ma neppure essi nondimeno hanno penetrato l'insieme dei disegni di Dio. — Io ve ne scongiuro, ricordatevene — è un articolo del _covenant_ della vostra chiesa — voi dovete esser disposti ad accogliere tutte le verità, quali esse siano, che saranno portate a vostra conoscenza dalla parola scritta di Dio». Delle due navi allestite pel viaggio la più piccola si mostrava però così disadatta alla navigazione, che lasciata appena la costa inglese doveva tornare indietro; ed il solo «_Fior di maggio_» continuava nell'inverno del 1620 la lunga e burrascosa traversata di 63 giorni, portando nei suoi fianchi i destini della N. Inghilterra. Decisi infatti a sbarcare nel paese dell'Hudson, come la posizione migliore della costa, i Pellegrini erano gettati invece verso la parte più sterile ed inospitale del futuro Massachusetts, toccando essi nel novembre il capo Cod. Dopo avere veleggiato lungo la spiaggia per parecchie settimane in cerca d'un luogo adatto ad una colonia, approdavano finalmente il 16 dicembre in un punto che per ricordo del porto di Plymouth, dove erano stati accolti benevolmente, fu chiamato Nuova Plymouth. Prima però di sbarcare i Pellegrini deliberarono sulla forma di reggimento ad essi più convenevole. Eguali di condizione sociale, non legati da alcun altro vincolo che quello della religione, privi per loro fortuna di qualsiasi carta regia, di qualsiasi patente vantaggiosa di privata corporazione, essi si formavano in corpo politico per mezzo d'un patto volontario e solenne. «In nome di Dio, amen (era il patto firmato dagli emigranti maschi della futura colonia). Noi sottoscritti sudditi leali del nostro sovrano, il re Giacomo, avendo intrapreso, per la gloria di Dio, il progresso della fede cristiana e l'onore del nostro re e della nostra patria, un viaggio col fine di fondare la prima colonia nella regione settentrionale della Virginia, ci formiamo solennemente e scambievolmente, pei qui presenti, in presenza di Dio e gli uni degli altri, un _covenant_ e ci associamo insieme in un corpo politico e civile, per in migliore nostra organizzazione e conservazione possibile e pel conseguimento dei fini sotto menzionati; ed in virtù di quest'atto noi decreteremo e stabiliremo e formeremo, di tempo in tempo, tali leggi, ordinanze, atti, costituzioni ed impieghi, giusti ed equi, che si giudicheranno i più convenienti pel bene generale della colonia. Noi promettiamo la più completa sottomissione ed obbedienza legittima a queste disposizioni». Così l'umanità ricuperava a bordo del Mayflower i suoi diritti, fondando un governo basato su «leggi eque» in vista del «bene generale»; ed i Pellegrini, datosi in Giovanni Carver un governatore annuale, sbarcavano ad iniziare una «vera democrazia». Un'epidemia scoppiata qualche anno innanzi nella regione aveva spopolato quella piaggia, cosicchè i coloni non ebbero nulla a temere da parte degli Indiani. Gli ostacoli pressochè insormontabili provenivano dalla natura, dai rigori del clima che decimavano in breve una popolazione priva di tetto: in cinque mesi ne moriva più della metà, il governatore compreso. L'arrivo di una nuova schiera di emigranti sprovvisti di viveri, nell'autunno seguente, costringeva tutta la colonia a vivere di mezze razioni per sei mesi; nè col giungere di nuovi pellegrini le cose mutavano: ancora al terzo anno dal primo sbarco vi furono tempi in cui non sapevano alla sera che avrebbero mangiato la mattina seguente; il bestiame bovino non fu introdotto che al quarto anno. La proprietà collettiva della terra fu il sistema imposto ai coloni sulle prime dalle condizioni stesse del momento; ma dopo qualche anno il bisogno d'una maggiore produzione consigliò loro quello della proprietà individuale del suolo: questo fu in sulle prime diviso fra le famiglie in quote trasmissibili e proporzionali al numero dei loro membri, e l'anno dopo in quote individuali ed a titolo di feudo perpetuo. L'aumento nella produzione alimentò ben presto uno scambio lucroso cogli Indiani più vicini, che ricorsero ai coloni per le loro provviste dando in compenso pelli di castoro. La popolazione cresceva assai lentamente, chè le terre non erano fertili e nessun incoraggiamento od aiuto veniva allo stabilimento dal di fuori: quattro anni dopo che era fondata, la colonia non aveva che 184 abitanti, dieci anni dopo 300. Se però l'abbandono da parte della madrepatria ritardava lo sviluppo materiale di essa, ciò, fortificando ognor più la tempra dei suoi fondatori, costituiva la miglior garanzia di successo. Gli amici d'Inghilterra, raffreddati dall'opposizione che incontravano e dal poco frutto dei capitali investiti in quell'impresa, cessavano affatto di sovvenirla più a lungo e l'usura del 30 e del 50 per cento venne a colpire i coloni, se vollero quei capitali a loro tanto necessari. Nel 1627 però otto dei più intraprendenti fra essi assumevano sopra di sè, dietro cessione d'un monopolio del commercio per 6 anni, tutte le obbligazioni dello stabilimento calcolate in 1800 sterline; e la compagnia di Londra, che aveva fornito i capitali, rinunziò ad ogni sua pretesa: le terre venivano divise egualmente e l'agricoltura si assideva sulla solida base d'una proprietà individuale e libera da ogni peso. Per quanto proprietari incontestabili del suolo, garantito loro per le forme d'acquisto dalla legge inglese oltrecchè dal diritto naturale, i coloni non avevano punto diritto, secondo i principi ammessi in Inghilterra, di praticare quel _selfgovernment_, che solo una patente regia poteva sancire. Nonostante però la mancanza di essa al primo sbarco ed il rifiuto reciso di accordarla di fronte alle ulteriori richieste, i Pellegrini abbandonati a sè stessi continuarono nel sistema adottato fin dai primi giorni della colonia, provvedendo da sè alla legislazione ed alla giustizia criminale, dapprima con una certa timidezza, ma in seguito con la stessa sicurezza degli stabilimenti provvisti di carte regie. L'organizzazione politica era naturalmente della massima semplicità. Messi in condizioni pressochè primitive, essi ritornarono per quel legame indissolubile tra la terra e l'uomo alle istituzioni primitive degli antichi padri anglo-sassoni, modificate solo in quanto lo richiedeva una più avanzata civiltà. Il governatore era nominato dal suffragio universale; ed il suo potere, subordinato sempre alla volontà generale, era ristretto per di più, dopo qualche anno, da un consiglio speciale di 5 e più tardi di 7 assistenti: suo privilegio l'aver doppio voto nel consiglio. Tutti i maschi adulti entravano a far parte della assemblea generale, che non s'occupava solo di legislazione, ma anche di questioni esecutive e giudiziarie: solo nel 1639 col crescere della popolazione ed il suo disperdersi su un territorio più vasto, il sistema diretto venne sostituito nella colonia da quello rappresentativo, pel quale ogni centro abitato mandava il suo deputato all'assemblea generale. Tale l'origine della libertà costituzionale popolare, il primo esempio delle istituzioni politiche americane. A tanta semplicità di vita sociale e politica corrispondeva un'austerità di costumi non più forse veduta in una comunità civile. Basti il dire che un colono, considerato pernicioso alla comunità per aver messo su uno spaccio di vino e di birra, fu rimandato in Inghilterra a spese comuni «poichè egli corrompeva il popolo!» Se questa rigidità degenerata ben presto in una intolleranza, che tutto proibiva se ne eccettui «maritarsi e guadagnar denaro», ci rende meno simpatici i Pellegrini, certo è d'altra parte che questo disprezzo sovrano per quanto allieta ed abbellisce la vita portava in sè la garanzia del successo in quel rude paese, per cui erano necessari uomini di ferro: lavoro diligente e paziente, tenacia e perseveranza, entusiasmo religioso, una fede profonda nella fratellanza degli uomini e nella paternità di Dio, la stessa intolleranza proveniente dal non avere una idea della illimitata libertà universale, preparavano alla nuova patria generazioni oneste, libere e forti. Fu questo il grande merito del Puritanesimo, in questo sta il secreto dell'influenza straordinaria, che esso ebbe nel plasmare il carattere della N. Inghilterra e per essa dell'intera società anglo-americana. Più anglosassoni che frutti dell'incrocio anglosassone-normanno, data l'umiltà della loro origine sociale, puritani, perseguitati per le loro idee, ammaestrati alla scuola del dolore, i Pellegrini non furono solo i pionieri della colonizzazione inglese nella N. Inghilterra, ma i padri genuini d'una società nuova, i primi creatori della coscienza civile e religiosa del popolo anglo-americano. Attraverso a scene di tristezza, di miseria, essi non avevano soltanto aperto una via maestra agli oppressori per sottrarsi all'intolleranza religiosa e politica, ma avevano fondato una democrazia pura, di cui fratellanza, uguaglianza e lavoro costituivano le basi economico-sociali, libertà e _selfgovernment_ le basi politiche. «Non affliggetevi, scrivevano d'Inghilterra ai Pellegrini di Nuova Plymouth per consolarli nei giorni delle maggiori sofferenze, non affliggetevi, se voi avete servito d'istrumento a rompere il ghiaccio per altri, la gloria sarà vostra sino alla fine del mondo.» § 2. I PURITANI E LA COLONIA DI MASSACHUSETTS. — La colonia dei Pellegrini era, può dirsi, appena assicurata, che nuove schiere d'emigranti sbarcavano sul suolo della N. Inghilterra ad assicurarvi il trionfo del Puritanesimo. Il Gran Consiglio di Plymouth, incapace di stabilire delle colonie per proprio conto, si era dato a far commercio di lettere patenti, come unico modo di trarre qualche guadagno dall'ottenuta concessione. Un'accolta d'uomini zelanti ed entusiasti comperavano da esso nel 1628 un vasto territorio dall'Atlantico al Pacifico, dai pressi della baia di Massachusetts a quelli del Merrimac, per fondarvi coi «migliori» dei loro concittadini una colonia inaccessibile per sempre alla corruzione ed alla superstizione degli uomini. Il rigido puritano Giovanni Endicot, uno dei concessionari, uomo energico e zelante, fu scelto dai compagni ad essere «lo strumento adatto per cominciare quest'opera del deserto». Quell'anno stesso un centinaio di emigranti sbarcavano nella baia di Massachusetts, mentre in Inghilterra cresceva ogni giorno più il numero degli entusiasti desiderosi di tener loro dietro: erano questi per lo più puritani insofferenti del giogo dell'episcopato, giacchè i conformisti non avevano alcun motivo profondo per abbandonare il loro paese. La libertà puritana era in generale il fine di tale organizzazione, che veniva favorita da una carta concessa nel 1629 da Carlo I in seguito alle poderose influenze, di cui disponevano a corte i soci dell'Endicot. Costoro venivano costituiti in una corporazione detta «_Governo e Compagnia di Massachusetts nella N. Inghilterra_», l'amministrazione dei cui affari era affidata ad un governatore e a 18 assistenti eletti annualmente dai soci: tutti i poteri amministrativi ed esecutivi erano conferiti non agli emigranti ma alla compagnia, che aveva il diritto di pubblicare ordinanze, organizzare il governo, nominare i suoi agenti politici, confezionare un codice criminale; interdetto solo di stabilire leggi ed ordinanze in opposizione cogli statuti del regno. I coloni venivano così abbandonati, come il solito, senza la minima franchigia, alla mercede di una corporazione residente in Inghilterra: la stessa libertà religiosa, ch'era il movente e divenne il risultato di questa colonizzazione, non trovava nella carta la minima clausola, la quale nonchè garantirla, cosa nemmeno sognata se non basta voluta dal re, accennasse ad essa. La carta, in base alla quale gli uomini liberi del Massachusetts riuscivano ad innalzare un sistema di libertà rappresentativa indipendente, non concedeva loro alcuno dei privilegi del _selfgovernment_. La forma di governo stabilita pel Massachusetts consistette in un governatore ed un consiglio rivestito di tutti i poteri legislativo, giudiziario, ed amministrativo, composto di 13 consiglieri, di cui 11 dovevano essere eletti dalla compagnia, 2 dai coloni quale generoso favore per allontanare ogni causa di malcontento. Fra le istruzioni date all'Endicot v'era quella di non fare alcun torto agli indigeni ma di cercar il possibile per convertirli e civilizzarli, e di non commettere la minima usurpazione a loro danno, riscattando i titoli, che eventualmente avessero sulle terre da occupare. La composizione e la partenza dei nuovi emigranti, circa duecento, sotto la guida del venerabile predicatore non conformista Francesco Higginson, caratterizzano tale colonizzazione: tutta la gente di mala vita era stata respinta, giacchè «nessuna vespa oziosa può vivere in mezzo a noi» dicevano gli emigranti; e nel perder di vista la terra inglese essi non la maledivano quale teatro delle loro sofferenze, ma la salutavano quale terra dei loro padri e dimora dei loro amici: «Non diremo, esclamava l'Higginson, come dissero i separatisti nel lasciare la patria «addio Babilonia, addio Roma!»; ma diremo «addio cara Inghilterra! addio chiesa di Dio in Inghilterra, addio cari fratelli cristiani che vi rimanete!» Tale lo spirito, tali i propositi dell'intrepida comunità, destinata a trasformare la sterile Nuova Inghilterra in un gruppo di floridi stati. Salem, che in ebraico significa pace, fu la colonia che questi rigidi calvinisti, entusiasti più che fanatici, fondarono, sottoscrivendo anch'essi un patto sociale, un _covenant_, che si pronunciava per le virtù più austere. Meglio che un corpo politico essa fu una chiesa in mezzo al deserto, chiesa libera e indipendente, di cui i membri sceglievano i dignitari e questi si consacravano ed ordinavano l'un l'altro, dove erano bandite le inutili cerimonie, pressochè annientata la liturgia, ridotta a forme ancora più semplici la semplicità del calvinesimo, costituzione così rispondente all'idea puritana da servire poi di regola a tutti i puritani della Nuova Inghilterra. Anche i nuovi coloni furono sottoposti a dure prove, morendone nel primo inverno soltanto un'ottantina, ma non per questo diminuiva l'intima loro soddisfazione, la gioia d'adorar in pace il loro Dio. Ritenuti dai fratelli rimasti in patria quali predestinati dal Signore a compiere una grande missione, il loro esempio trovava in Inghilterra sempre nuovi imitatori, da null'altro animati se non dal desiderio di stabilire la religione in tutta la sua purità. E per riuscir meglio nell'intento, girava tra i puritani inglesi la parola d'ordine di scegliere pel nobile fine solo «i migliori», selezione morale cui s'accompagnava anche quella sociale, non appena l'assemblea della compagnia dichiarava nel 1630 che il governo e la patente sarebbero trasportati di là dall'Atlantico e stabiliti nella N. Inghilterra, trasferimento il quale senza urtare nei principi della carta mutava senz'altro una corporazione commerciale, governante da lontano una colonia, in un governo provinciale indipendente ed esercitato sul luogo. Sicuri di portare seco nella carta la base delle loro libertà civili, entrarono nel nuovo contingente d'emigrazione uomini forniti di fortune e d'educazione, dotti e letterati, ministri del culto tra i più eloquenti e pietosi. Nel 1630, 17 navi, contenenti ben 1500 emigranti, puritani in gran parte e scelti tra i più onesti del paese, partivano alla volta della baia di Massachusetts sotto la guida del coscienzioso Giovanni Winthrop, scelto a governatore, anima in fondo di democratico sincero per quanto partigiano d'un governo «del più piccolo numero», composto però «dei più saggi fra i migliori». Nel lasciare l'Inghilterra essi pure volgevano commoventi parole d'addio al paese natale: «i nostri cuori, dicevano ai compatriotti, verseranno torrenti di lagrime per la vostra costante felicità quando abiteremo le nostre povere capanne nel deserto». Ad essi ed agli emigranti, che loro seguirono in appresso, si devono le prime umilissime origini di Boston, la metropoli puritana, nonostante i disagi, le malattie, le carestie dei primi tempi; i più deboli spaventati da una vita di pene e di sofferenze inaudite ritornarono in patria, i più forti rimasero sostenuti dall'ideale religioso, e Roxburg, Dorchester, Charlestown, Watertown ed altri centri minori attestavano dopo non molto che nessuna procella poteva più oramai svellere da quella terra la ben radicata quercia puritana. «Qui godiamo Dio e Gesù Cristo, scriveva alla moglie il governatore Winthrop, non basta forse? Ringrazio il Signore di trovarmi così bene qui e di non avermi mai fatto pentire d'esserci venuto. Anche se avessi preveduto tutte queste afflizioni, non avrei fatto diversamente. Non sono mai stato così tranquillo e contento». Si capisce come di questa libertà i coloni fossero gelosi quanto mai. Quando infatti per le mene dei loro nemici d'Inghilterra, l'episcopato e più ancora i proprietari della Nuova Inghilterra spodestati di fatto delle loro terre dal successo trionfale dei puritani, si ordinerà loro di produrre in Inghilterra le lettere patenti della compagnia, essi faranno orecchi da mercanti. E quando si ordinerà una commissione speciale per le colonie, diretta dallo stesso arcivescovo di Canterbury, con poteri arbitrari, tra cui quello di «regolare» le loro condizioni ecclesiastiche e di revocare ogni carta ottenuta coll'astuzia a danno della prerogativa regia, il Massachusetts in preda alla più viva emozione risolverà unanimemente d'opporre la resistenza armata all'istituzione d'un governatore generale od all'introduzione di mutamenti ecclesiastici. E lo zelo sarà così forte che, nonostante le misere condizioni dell'incipiente colonia (s'era allora nel 1635 soltanto!), si riuniranno 600 sterline per fortificare Boston! La commissione inglese si limitò in realtà a porre ostacoli d'ogni sorta all'ulteriore emigrazione puritana dal paese, e le susseguenti vicende di Carlo I permisero alla N. Inghilterra di godere in pace le sue libertà; ma ad ogni modo questa levata di scudi del 1635 era un fatto sintomatico, arra non dubbia della futura indipendenza. La purità della religione e la libertà civile, fini ultimi dell'emigrazione puritana, non tardarono a fondersi insieme, originando una democrazia confessionale in cui non già la nascita la ricchezza od il grado d'istruzione conferiva i diritti politici ma la partecipazione alla chiesa: una disposizione infatti d'un'assemblea generale tenuta nel 1631 dava il suffragio ai soli membri della chiesa «affinchè il corpo dei comuni non fosse composto che di persone probe ed onorabili», pure senza conceder al clero neppur l'ombra del potere politico. Era il regno della visibile chiesa, la repubblica del popolo scelto, che i calvinisti volevano fondare nel Massachusetts: Dio stesso doveva governare il suo popolo. Nè lo spirito teocratico poteva soffocare la libertà popolare, giacchè chiesa e popolo erano una cosa sola, e l'ordinamento della prima era strettamente democratico: già nel 1632 si stabiliva che il governatore ed i suoi assistenti, scelti fin allora per un tempo illimitato e con poteri pure illimitati, venissero nominati anno per anno; e si stabiliva inoltre che ogni _town_ o centro abitato designasse due persone, le quali unite cogli assistenti concertassero un piano d'organizzazione del tesoro pubblico. La misura era divenuta necessaria perchè un'imposta, decretata dai soli assistenti, aveva già sollevato, tanto era vivo nei coloni il concetto e la tradizione inglese in materia, allarmi ed opposizione! E questi primi germi di governo rappresentativo si sviluppavano rapidamente negli anni seguenti, in mezzo alla lotta fra il Winthrop, che d'accordo con altri maggiorenti riteneva l'autorità suprema risiedere nel consiglio degli assistenti, e la generalità dei coloni animati da tendenze più democratiche: trionfavano i più, deliberando che l'assemblea generale non sarebbe stata più convocata che per l'elezione dei magistrati, mentre dei deputati designati dai singoli centri avrebbero condiviso con quelli il potere legislativo ed il diritto di nomina agl'impieghi. Si gettavano così le basi d'una vera democrazia rappresentativa, dove il governatore ed i suoi assistenti nominati dalla colonia costituivano come un senato; i rappresentanti delle singole città una specie di camera di deputati; e ciascun corpo dopo molte lotte otteneva il diritto di veto sulle decisioni dell'altro (1644). Questa tendenza spiccata al _selfgovernment_ prova chiaramente come i coloni del Massachusetts non fossero degli idealisti metafisici, ma degli uomini pratici, che erano fuggiti al deserto non per farvi gli anacoreti ma per crearvi una comunità attiva, informata alle dottrine religiose ed alle forme di libertà civili care a loro più della vita. Questo carattere si manifesta sovrano anche nel campo religioso: corpo di credenti sinceri anelanti alla purezza della religione, non già di filosofi professanti il principio della tolleranza, questi emigranti non intendevano punto che si lasciasse spezzare quella conformità religiosa, ch'era non solo fonte di pace per essi, ma più ancora pietra angolare dello Stato: la collettività politica altro non era che la comunità religiosa, ed i legami della fede confondendosi con quelli della politica convivenza, ne risultava uno Stato assiso su basi incrollabili. Costituiti in una corporazione, di cui essi stessi potevano aprire l'entrata sotto le condizioni che loro piacessero, tenevano nelle proprie mani le chiavi del loro asilo e potevano usare del loro diritto di chiudere le porte a tutti i nemici della loro concordia e sicurezza. E di questo diritto si servivano senza il minimo scrupolo: fin dai primi tempi i fratelli Brown, che volevano rimaner fedeli alla chiesa episcopale, erano stati scacciati dalla comunità e rimandati in Inghilterra; più tardi l'irreligioso Samuele Gorton, che affermava non esservi nè paradiso nè inferno ma ambedue risiedere nel cuore dell'uomo, sarà incarcerato; e persecuzione ancor più fiera incontreranno gli Anabattisti ed i Quaccheri, quattro dei quali verranno perfino impiccati. «I nostri padri, dirà Giorgio E. Ellis, non pensarono di fare del territorio, da essi conquistato e comprato per mezzo d'una patente, un asilo per ogni specie di credenze religiose, anzi lo destinarono, come ogni uomo la propria casa, a luogo di pace di agio e d'ordine per quanti fossero d'un medesimo sentimento, di una medesima coscienza e di un medesimo pensiero». E nel 1681 un pastore puritano, Increase Mather, esprimerà apertamente l'opinione che le colonie avevano diritto d'allontanare quanti riuscissero ad esse d'incomodo, applicazione pratica del principio teorico espresso pochi anni prima dal reverendo Shepard «essere politica satanica quella che insegue una tolleranza indeterminata e sconfinata». Il genere però di persecuzione, cui nei primi tempi s'appiglia il puritanesimo, ha un carattere suo tutto particolare, puramente negativo. Sorto come arma di difesa non già d'offesa, esso non sogna neppure di convertire gli animi all'ortodossia col terrore e le torture, non punisce le opinioni per se stesse, ma scaccia chi combatte il puritanesimo, perseguita o sopprime chi non vuol andarsene. Nella lotta per la libertà, la fede era un'arma potente, l'alleato più sicuro nel momento della battaglia; ed il fanatismo religioso, non essendo in ultima analisi che un mezzo di prevenire perfino l'ombra d'un attentato alla libertà, altro non era che fanatismo di libertà. Se l'esclusivismo religioso del Mass. trovava nel sentimento di auto-conservazione la sua giustificazione, urtava però sempre in quel senso umano di tolleranza, che la stessa persecuzione sofferta in patria non aveva potuto instillare nei coloni: per quanto diversi i moventi, il non conformismo rimaneva per essi non meno che per i loro persecutori un delitto capitale. Contro questa concezione politica d'uno stato direttore spirituale sorgeva però fin d'allora un apostolo sublime della tolleranza, il quale fondava su questa un organismo politico, ch'era preludio glorioso ed immagine viva della futura società anglo-americana: Roger Williams fu questo nume benefico, Rhode Island lo stato da lui fondato. § 3. ROGER WILLIAMS ED ORIGINE DI RHODE ISLAND. — Nel febbraio del 1631 arrivava a Nantasket nel Mass. dopo una burrascosa traversata di 66 giorni «un giovane ministro, dotato di qualità preziose, pieno di zelo ed animato dallo spirito di Dio», Roger Williams. Superiore per elevatezza morale agli altri puritani, egli non voleva solo cambiare il proprio paese con un altro, dove il puritanesimo non fosse delitto, ma con uno, dove il delitto d'opinione non fosse neppur concepito. «Santità della coscienza» ecco la formula, in cui il filosofo pratico compendiava la sua teoria spezzante tutte le pastoie imposte all'umano intelletto, e di cui accettava senza indietreggiare le ultime conseguenze: la coscienza dell'uomo è sacrario inviolabile, in cui nessuna forza nè individuale nè sociale ha diritto di penetrare; e quindi lo stato deve reprimere i delitti, ma non esercitare il suo controllo sull'opinione, punire il colpevole ma non violare la libertà dell'anima. Persecuzioni e roghi, culto ufficiale e decime obbligatorie, aiuto scambievole di trono e d'altare, quanto insomma aveva per secoli contristato e dovea ancora contristare l'umanità sedicente civile, tutto veniva rovesciato dal sublime principio: la moschea mussulmana come la chiesa cristiana, la pagoda buddistica come la sinagoga ebraica potevano ricevere diritto di cittadinanza nello stato dell'umanità, che Roger Williams vagheggiava. Il Mass. basato sul più egoistico conformismo veniva minato nei suoi fondamenti stessi da questo ardito puritano, la cui predicazione diventava incompatibile con lo spirito e le istituzioni del paese. Salem, che l'aveva preso a suo predicatore e sostenuto contro gli attacchi del governo coloniale, parve quasi tradire la causa della religione e della patria e, spogliata di tutte le sue franchigie, doveva finalmente cedere e confessare il suo torto: l'apostolo della tolleranza, sconfessato dalla comunità, abbandonato dai seguaci, amareggiato dai rimproveri della stessa sua sposa, dopo aver sostenuto davanti all'assemblea generale che «i suoi principi erano fermi come la roccia» e che era «disposto a subire la prigionia o l'esilio, e la morte stessa nella N. Inghilterra» piuttosto di rinunciare alla sua dottrina della libertà intellettuale, nel 1635 veniva esiliato. Timorosi però ch'egli, com'era sua intenzione, non rimanesse nelle vicinanze della colonia a predicare un principio, che veniva a «rovesciare le basi dello Stato e del governo di quel paese», i rappresentanti del Massachusetts decidevano d'inviarlo su apposito bastimento in Inghilterra. Ribelle allora per la prima volta agli ordini del suo paese, Roger Williams si sottraeva con la fuga al rimpatrio e per quattordici settimane andava ramingo tra le nevi e le intemperie, dovendo mille volte la vita all'ospitalità di quegli Indiani, di cui la sua filantropia l'aveva fatto già prima ben noto campione. Ammirato e rispettato dagli avversari per la nobiltà del carattere, lo stesso governatore Winthrop gli indicava la baia di Narragansett come luogo non preteso ancora da alcuno, dove poter fondare quella comunità libera, di cui non aveva smesso per nulla l'idea. «Io considerai questo saggio consiglio, diceva Williams, come la voce di Dio»; ed un fragile canotto indiano, su cui egli s'imbarcava con cinque compagni, portava a quella volta il fondatore del Rhode Island ed i suoi primi cittadini. Ad attestare la immutabile confidenza nella bontà di Dio volle chiamare Providence il nuovo soggiorno, ch'egli intendeva destinato «a servir d'asilo a tutti quelli che si trovavano nell'avversità per motivi di coscienza». Gli Indiani cedevano largo tratto di paese al loro benefattore e questi, nulla volendo per sè, lo legava in retaggio insieme con le istituzioni più libere, che il mondo civile avesse ancora veduto, ai sopravvenienti coloni, profughi la più parte, spiriti fieri della loro libertà di coscienza. Il Rhode Island fu sin dalle origini una democrazia pura, nella quale la volontà della maggioranza dovea governare lo Stato, ma «solo nelle materie civili»: in nessun altro stato, nonchè della futura Unione del mondo intero, ebbero così poco potere i magistrati e tanto i rappresentanti della comunità. «Gli annali di Rhode Island, se fossero scritti in uno spirito filosofico, dice il grande storico Giorgio Bancroft, esporrebbero le forme della società sotto un aspetto tutto particolare; se il territorio di questo Stato fosse stato in rapporto coll'importanza e l'originalità dei principi della sua prima esistenza, la sua storia fenomenale avrebbe riempiuto il mondo di meraviglia». Mentre infatti l'intolleranza insanguinava l'Europa, facendo teatro la Germania di guerre religiose, l'Inghilterra di feroce dispotismo, la Francia di persecuzioni, l'Olanda stessa di lotte intolleranti d'opposte fazioni, la Spagna ed i suoi possessi di iniqui _auto-da-fè_, di là dall'Atlantico uno dei più grandi e più veri benefattori dell'umanità, Roger Williams, s'acquistava la gloria imperitura di fondare uno Stato sul principio della tolleranza e di imprimere in caratteri indelebili la impronta di questo sulle nascenti istituzioni americane. Se la società nuova d'oltre Atlantico non sapeva neppur essa liberarsi completamente da quell'intolleranza, per reagire alla quale era sorta, essa sapeva pur sempre creare per le sue e per le altrui vittime un rifugio, un castello franco della libertà intellettuale in tutte le sue forme. «Chi ha perduto la sua religione, correva il detto, può star sicuro di ritrovarla in qualche villaggio di Rhode Island»; così svariate erano le opinioni religiose della colonia nella quale secondo il principio di Roger Williams, confermato dall'Assemblea generale, «a tutti gli individui, di qualunque paese o nazionalità, Papisti, Protestanti, Ebrei o Turchi» dovea essere garantito il libero esercizio del loro culto. Nello stato di Rhode Island troveranno così rifugio sicuro i perseguitati d'ogni paese; adesso ricorrerà tra altri, bandita dal Mass., una donna di raro intelletto, Anna Hutchinson, la cui teoria improntata al principio della tolleranza l'aveva resa a quello stato pericolosa. Agli amici appunto di questa eroina della libertà, guidati da John Clarke e da Williams Coddington, si deve la colonizzazione dell'isola, detta, per una veduta somiglianza con quella di Rodi, Rhode Island. Anche questa nuova comunità si inspirò ai principî di quella di Providence: base del governo fu il consenso universale di tutti gli abitanti, un vero patto sociale fondato sull'amore reciproco. Escluso pei suoi principî dalla lega stretta nel 1643 fra le altre colonie della N. Inghilterra e minacciato di smembramento a loro vantaggio, il Rhode Island trovava nel suo fondatore il salvatore: imbarcatosi per l'Inghilterra, Roger Williams per le potenti intercessioni di Sir Henry Vane, che glorificava il suo zelo coloniale ed i suoi risultati, otteneva dal Lungo parlamento nel 1644 una carta che conferiva a lui ed ai suoi amici il diritto di stabilire un governo di lor gradimento nella nuova colonia, riconosciuta autonoma col nome di «Piantagioni di Rhode Island e di Providence». L'assemblea generale nella sua riconoscenza voleva che il Williams ottenesse dal governo inglese la carica di governatore di tutta la colonia per un anno; ma l'uomo, che altra volta aveva dato prova d'infinita bontà intercedendo presso bellicose tribù indiane, pronte alla distruzione, in favore dei suoi persecutori del Mass., mostrava ora tutto il suo amore per la libertà: egli non acconsentiva ad una misura, che sarebbe stata un ben pericoloso precedente, ed il Rhode Island continuò a godere della sua illimitata libertà non solo religiosa ma anche politica. In esso tutti erano uguali, tutti potevano riunirsi e prender parte ai dibattiti nelle pubbliche assemblee, tutti aspirare agli impieghi. E la volontà popolare, pure in mezzo alle dispute alle rivalità alle lotte, frutti inevitabili d'una sconfinata democrazia, riusciva sempre a raggiungere come per istinto l'interesse generale, «Il nostro governo popolare, dicono gli atti di esso, non degenererà, come alcuni congetturano, in anarchia nè per conseguenza in una tirannia generale; perchè noi desideriamo al più alto grado di garantire a ciascuno sicurezza per la sua persona, la sua riputazione ed i suoi beni». — «Noi, diceva l'indirizzo rivolto dalla colonia nel 1654 al generoso Henri Vane, suo benefattore, noi siamo stati da lungo tempo affrancati dal giogo di ferro di quei lupi di vescovi; noi non siamo stati macchiati dei torrenti di sangue sparsi per le guerre nel nostro paese natale. Noi non abbiamo risentito le nuove catene dei tiranni presbiteriani, ed in questa colonia noi non siamo stati consumati dallo zelo troppo ardente di magistrati cristiani sedicenti pietosi. Noi non abbiamo appreso che voglia dire balzello; noi abbiamo quasi dimenticato che sia decima; noi abbiamo bevuto a larghi sorsi alla coppa della grande libertà quanto nessun altro popolo che noi conosciamo sotto tutta la volta del cielo». § 4. LA COLONIZZAZIONE DEL CONNECTICUT. — Una medesima purezza di fini, una stessa sublime semplicità possono vantare gli inizi del Connecticut. Considerata come la via più propizia pel commercio delle pelliccie e passata ben presto in proverbio per la fertilità del suolo, la vallata del Connecticut non tardava a diventare oggetto di rivalità tra gli Olandesi, che primi l'avevano scoperta col Block fin dal 1614, ed i coloni della N. Inghilterra: senonchè, mentre i primi vi penetravano, risalendo il fiume, in veste di trafficanti e vi fondavano stazioni commerciali; i secondi immigrativi in veste di colonizzatori non tardarono a giungervi anche per via di terra, aprendosi il passo attraverso le vergini foreste. Una prima carovana di sessanta Pellegrini, uomini donne e fanciulli, arrivatavi nel colmo dell'inverno, nel 1635, sembrava dovesse cogli stenti subiti distogliere altri dal tentare la difficile prova, alla quale molti non resistendo erano tornati alla costa sfiduciati attraverso alle nevi; ma l'anno dopo s'internava a quella volta una seconda carovana più numerosa ed entusiastica, sotto la guida d'un celebre ministro, Thomas Hooker, «lume delle chiese dell'ovest». La componeva un centinaio di Puritani, reclutati fra i coloni più notevoli delle più antiche chiese della baia di Mass.: inesperti la più parte del lusso e degli agi della società europea, attraversavano a piedi le foreste, senz'altra guida che la bussola, cacciandosi avanti il bestiame; s'aprivano il passo con la scure dov'era necessario, facendo a malapena dieci miglia al giorno; valicavano con stento e pericolo fiumi e tratti paludosi; si nutrivano di latte e dormivano sulla nuda terra. Arrivati finalmente alle rive «deliziose» del Connecticut essi ed i loro seguaci si accingevano salmodiando ad un'opera non meno rude, quella di trasformare col loro lavoro una natura selvaggiamente feconda in un fertile suolo, esposti ad un tempo agli assalti feroci degli indigeni, qui più numerosi che in qualunque altra parte della N. Inghilterra, ed alle ostilità degli Olandesi. Assicuratasi la tranquillità con la completa distruzione della tribù degli indiani Pequod, i coloni di quello, che allora rappresentava il lontano Ovest, potevano darsi una costituzione politica, basata qui pure sul principio dell'associazione volontaria ed ispirata quindi alla massima libertà. Tutti coloro, che avessero prestato il giuramento d'obbedienza alla comunità, erano cittadini e ad essi spettava eleggere annualmente i magistrati ed i membri della legislatura, questi ultimi proporzionalmente alla popolazione dei singoli luoghi: tale il sistema mirabile di governo formato da umili emigranti, cui nè consuetudini inveterate, nè disuguaglianze ereditarie, nè interessi stabiliti, nè imposizioni estranee impedivano l'applicazione più semplice dei principî supremi della giustizia. Colla stessa indipendenza era sorta l'anno innanzi, nel 1638, un'altra colonia puritana, fondata sul Connecticut da emigranti inglesi, guidati dal loro pastore John Davenport e dal rigido calvinista Theofilo Eaton. La primavera non rallegrava ancora il vergine paese, quando i coloni tenevano sotto una nuda quercia la loro prima assemblea, ed il pastore diceva loro che «come il figlio dell'Uomo» erano stati condotti nel deserto per esservi tentati. Dopo aver digiunato e pregato per un giorno, essi organizzarono la prima forma di governo sul suolo concesso loro mediante trattato dagli indigeni, costituendosi semplicemente in un'associazione di piantatori, i quali si davano reciproca promessa di sottomettersi «alle prescrizioni che loro traccerebbero le Scritture». Fine essenziale dell'ordinamento politico era infatti per essi quello di assicurare l'osservanza della purità e della pace, e con tale intendimento sette persone competenti, tra cui il Davenport e l'Eaton, venivano incaricate di organizzare il governo. Furono questi «i sette pilastri» della nuova «Casa della Saggezza» nel deserto. Essi ammisero a far parte dell'assemblea generale tutti i membri della chiesa, stabilirono annuali le elezioni dei magistrati e proclamarono che unica regola degli affari pubblici sarebbe stata la parola di Dio: la Bibbia diventava così il libro degli statuti di New-Haven! Ogni nuova comunità sorta in seguito nel suo territorio fu considerata essa pure una Casa di saggezza, sostenuta dai suoi sette pilastri ed aspirante ad essere illuminata dall'eterno lume! I mistici coloni ai preparavano per tal modo alla seconda venuta del Cristo, in cui fermamente credevano, mentre il lavoro positivo delle lor braccia dissodava sempre nuove terre ed estendeva di fronte a Long Island la colonizzazione inglese! § 5. L'ESTREMO NORD ED IL NEW HAMPSHIRE. — Origini alquanto diverse ebbe la colonizzazione inglese nella parte più settentrionale della N. Inghilterra. Dopo i primi infruttuosi tentativi da parte della società di Plymouth, la quale come vedemmo nel 1607 vi fondò uno stabilimento di ben poca durata, e dei Francesi, ivi stanziati per esercitare la pesca ma ben presto scacciati dai coloni della Virginia, si susseguirono intrepidi avventurieri, attratti più che altro dai ricchi proventi della caccia e della pesca, senza che sorgessero vere colonie: erano gruppi di capanne sperse qua e là a grandi intervalli, senz'alcun centro comune di attrazione, senza alcuna giurisdizione politica da cui dipendere. Il consiglio di Plymouth, proprietario come vedemmo del paese, emanava dal 1629 al 1631 una serie di lettere patenti, che dividevano fra diversi concessionari tutto il territorio dal Piscataqua al Penobscot. La poca precisione però di queste patenti era tale da presagire infinite discordie fra essi; mentre l'indeterminatezza dei confini colla Nuova Francia doveva produrre inevitabili contese tra i coloni delle due nazioni. S'aggiunga a ciò la condotta dei proprietari, i quali intendevano di trarre un provento da quelle terre più che di colonizzarle, e la natura del paese sfavorevole alla fondazione di colonie agricole. La caccia, la pesca, la foresta offrivano agli abitanti mezzi di vita più immediati e sicuri che non l'agricoltura; dispensandoli per di più dal comperare dai concessionari un palmo di suolo. I membri del Gran consiglio di Plymouth, ridotti all'inazione dopo aver concesse tutte le terre situate tra il Penobscot e Long Island, si risolvevano alla fine a rassegnare la loro carta, destituita oramai del minimo valore. Parecchi membri di esso però, volendo diventare individualmente proprietari d'immensi territori, fecero prima annullare le concessioni anteriori; quindi, convocata nel 1635 una riunione dei _lords_, tutta la costa a partire dall'Acadia fino di là dall'Hudson fu divisa in lotti e sorteggiata fra essi: provincie intere divennero così proprietà privata in virtù d'una lotteria, benchè la difficoltà maggiore dovesse consistere nell'entrare in possesso di questi lotti, occupati qua e là dalle nascenti colonie. Ferdinando Gorges inviava un nipote a rappresentarlo nella porzione americana di sua pertinenza; e Saco, villaggio allora di 15 abitanti, vedeva così nel 1636 un primo tribunale, una prima parvenza di governo nel paese, che in onore a quanto pare della francese Enrichetta Maria, regina d'Inghilterra, si chiamò Maine. Riconosciuto poi lord proprietario del territorio in virtù d'una carta regia del 1639, il Gorges si diede con più lena ad escogitare fantastici piani di governo con deputati, consiglieri, marescialli, maestri d'artiglieria e via di questo passo, benchè tutte le prerogative regie, che il suo rappresentante potè trovare nel principato, fossero appena sufficienti ad ammobigliare meschinamente una capanna! Morto lui, e non essendosi alcuno curato di raccogliere la sua poco proficua eredità americana, i commissari europei, che ripetevano i loro poteri dal proprietario, si ritiravano; ed i coloni abbandonati a sè medesimi di loro libero ed unanime consenso si costituivano nel 1649 in una associazione politica autonoma, seguendo l'esempio oramai comune nella N. Inghilterra. Ben presto però il Mass. avanzò delle pretese su quel territorio, basandole sulla sua carta, e se l'aggregò: i diritti di proprietà furono scrupolosamente salvaguardati; la libertà di coscienza fu garantita a tutti gli abitanti, gli episcopali compresi; il diritto di cittadinanza esteso a tutti i coloni. Il Maine godette così nel campo politico, nonostante l'unione, quella libertà, che era imposta del resto dalle stesse condizioni sociali d'una popolazione rara, disseminata su vasto territorio, e data più alla pesca e alla caccia che all'agricoltura, e divenne esso pure un luogo di rifugio pei perseguitati a motivo di religione. Così quando i proprietari residenti in Inghilterra vollero far valere presso Cromwell i loro diritti, degli abitanti del Maine protestavano dicendo che separarli dal Mass. sarebbe stato per essi «il rovesciamento d'ogni ordine civile». Nè solo sul vecchio possesso del Gorges, che non gli sfuggirà sino al 1820, ma anche su quello del Mason il Mass. elevava pretese appoggiandosi alla sua carta. Era esso il New Hampshire, così denominato dalla contea inglese da cui erano partiti alcuni dei primi coloni. La sua colonizzazione aveva avuto origini non molto dissimili da quella del Maine e non molto più rapido ne era stato lo sviluppo; giacchè i suoi stabilimenti, fra cui Portsmouth e Dover s'erano fondati già nel 1623, avevano per scopo più che altro la pesca. Narrasi anzi che ad un predicatore, il quale pretendeva che la religione fosse stata il fine della loro venuta in quei luoghi, i coloni rispondessero: «sbagliate, signore; credete forse di discorrere colla gente della baja di Mass.? il nostro fine principale è stato quello di prendere i pesci». Rimasti dopo la morte del Mason in balia di se stessi fra le contese dei pretendenti, gli abitanti del New Hampshire ad evitare i pericoli dell'anarchia avevano pensato bene di cercare un rimedio nell'esercizio dei loro diritti naturali e con un atto da parte loro spontaneo s'unirono ai potenti vicini del Mass., non come provincia ma sul piede d'uguaglianza, come parte integrante della colonia. Le rive del Piscataqua non erano però abitate da puritani, e l'organizzazione del Mass. mal poteva convenire ai nuovi acquisti. L'assemblea generale di esso adottava così nel 1642 una risoluzione prescritta dalla giustizia, non esigendo nè che gli uomini liberi nè i deputati del New Hampshire fossero membri della chiesa. Nel 1680 il New Hampshire veniva staccato dal Massachusetts e posto sotto un governatore regio; e più tardi ancora al cadere del secolo seguente dal seno di esso usciva un nuovo Stato della Unione Americana, il _Vermont_ (o Monte Verde), esplorato per la prima volta dal Champlain nel 1609 ma rimasto per lungo tempo pressochè disabitato. § 6. SVOLGIMENTO DELLA N. INGHILTERRA. — Fratellanza etnica, conformità d'ideali politici e religiosi, identità di origini, affinità di vita e di costumi, uniformità di clima e di suolo, comunanza di pericoli prepararono così nella N. Inghilterra una società compatta, facendo delle sue colonie un tutto pressochè omogeneo, per quanto separato fosse il governo e la storia interna di ciascuna di esse. Ed a rinsaldare quasi queste affinità interveniva alle origini della sua storia una lega fra le varie colonie. Bisognosi d'aiuto contro le ostilità degli Olandesi i coloni del Connecticut ne avevano slanciata la prima idea fino dal 1637, e nel 1643 le «colonie unite della Nuova Inghilterra» non «formavano più che un sol corpo». Protezione contro le usurpazioni degli Olandesi e dei Francesi, sicurezza di fronte alle tribù indiane, libertà d'insegnare in perfetta pace il Vangelo nella sua pienezza, ecco i motivi di questa confederazione, che non abbracciava però tutte le colonie della N. Inghilterra: non vi si ammisero infatti gli abitanti situati di là dal Piscataqua perchè «seguivano una via diversa» dai puritani «così negli affari del culto come nell'amministrazione civile»; nè tanto meno i piantatori di Providence quantunque desiderassero d'entrarvi, e neppure quelli di Rhode Island, perchè non intendevano di aderire alla clausola di esser incorporati nella giurisdizione di Plymouth. I singoli governi dell'unione si riservavano intatta la loro rispettiva giurisdizione locale: le questioni d'interesse comune, prime fra tutte quelle attinenti alla pace ed alla guerra ed alle relazioni cogli Indiani, spettavano ad una commissione composta di due delegati per ogni colonia, quali che ne fossero la importanza e la popolazione, e la sola condizione richiesta per esercitare tale carica era quella di membro della chiesa; la commissione non possedeva alcun potere esecutivo, spettando ai singoli governi di eseguire le sue deliberazioni: le spese comuni dovevano essere ripartite secondo la popolazione. Sentimento d'indipendenza, spirito democratico, gelosia di _selfgovernment_, ascetismo religioso, i fondamenti in una parola delle singole colonie, diventavano così la base di questo primo governo federale, che nonostante la sua organizzazione semplicissima fece della Nuova Inghilterra un'unione, la quale si mantenne per circa quarant'anni ed anche rovesciata rimase un precedente storico destinato a risorgere anzichè a tramontare nella coscienza del popolo americano. È nella lotta coll'elemento indigeno specialmente che questa unione dimostra la sua utilità. I rapporti dei bianchi cogli indigeni nella Nuova Inghilterra erano stati in sulle prime cordiali. Massasoit, _sachem_ dei Wampanoag, tribù un giorno potentissima ma allora indebolita dalle epidemie, aveva stretto coi Pellegrini un trattato di alleanza religiosamente rispettato dal capo indiano. Tanto nella colonia di Plymouth che in quella del Mass. nessuno doveva prender nulla dagli Indiani senza dar loro un equivalente convenuto; nel 1631 il tribunale del Mass. decretava che «Giosuè Plastone, per aver rubato quattro panieri di granturco agl'Indiani dovesse renderne loro otto; poi che dovesse pagare cinque sterline di multa e che d'allora in poi fosse chiamato semplicemente Giosuè invece di signor Giosuè come lo chiamavano prima». Tali scrupoli giuridici salvavano però la legalità più che l'equità; i poveri Indiani andavano spogliandosi delle loro terre migliori, cedendole dietro regolari trattati o vendendole per un nonnulla, per una coperta per un coltello per un gingillo qualunque, senza che lo stretto diritto naturalmente trovasse in tali casi nulla a ridire. Ben più sincero invece era lo zelo dei primi ministri puritani, i quali, desiderando ardentemente di salvare «questi naufraghi dell'umanità», fecero gli sforzi maggiori per convertirli e ridurli al lavoro metodico della vita civile, riunendoli in villaggi permanenti: John Eliot, l'apostolo degli Indiani, si acquistava in quest'opera una fama ben meritata traducendo in indiano il Vangelo e raccogliendo nella città di Natick, Mass. i convertiti alla fede ed alla civiltà; e l'esempio suo seguito da altri portava alla fondazione d'una trentina di chiese dei così detti «Indiani preganti». Ma l'elemento indiano nel suo complesso era troppo refrattario alla nuova vita civile, troppo fiero per lasciarsi spogliare in un modo o in un altro delle sue terre migliori senza reagire. Ed allora i coloni stretti dalle necessità della vita ricorrevano di fronte alle tribù più bellicose a quei mezzi di sterminio, di cui la civiltà li forniva, a quelle armi da fuoco di fronte cui ben poco potevano le misere freccie indiane per quanto avvelenate: così al capo dei Narraganset, che mandava in atto di sfida al governatore Bradford un fascio di freccie avvolte in una pelle di serpente a sonagli, questi rinviava la pelle piena di polvere e palle, gettando lo scoramento nella tribù; così i coloni del Connecticut, come vedemmo, minacciati nella loro esistenza dai bellicosi Pequod li avevano, aiutati dagli abitanti delle altre colonie, addirittura distrutti in breve guerra, infliggendo un così salutare terrore agli indigeni, che per circa quaranta anni la pace fra le due razze non fu turbata. Fossero così pacifici o belligeri i rapporti fra le due razze, il risultato di essi era sempre lo stesso: l'accrescimento costante dei Bianchi toglieva ogni giorno più ai Pellirosse i mezzi ordinari di sussistenza, limitando il campo delle loro cacce, le acque delle loro pesche, il suolo della loro grama e sporadica coltivazione. Verso il 1675 gli Indiani potevano elevarsi ad un 30.000 in tutta la N. Inghilterra ad ovest del fiume Santa Croce; il forte di essi era specialmente nel Connecticut e Rhode Island, dove a differenza del Mass. non v'erano state negli ultimi tempi epidemie devastatrici: in essi le forti tribù dei Narragansetts, dei Pokanokets, dei Mohegans ed altre. Prendendo quindi per linea di divisione il Piscataqua verso il 1675 si sarebbero trovate all'ovest 50.000 bianchi ed appena 25.000 Indiani; all'est circa 4000 bianchi e forse qualche cosa di più di Pellirosse. Preoccupato del triste avvenire della sua razza il sachem indiano Filippo, figlio di quel Massasoit amico fedele dei primi coloni, risolveva in quell'anno di riunire in uno sforzo disperato tutte le varie tribù per scacciare i bianchi dal paese e dal Maine al Connecticut riusciva a stringere insieme le sparse tribù, preparando il suo piano con tanta sagacia che la guerra scoppiava quasi repentina su una linea larga un duecento miglia. Fu questa la guerra indiana detta «_del re Filippo_», terribile per gli incendi, le distruzioni, i saccheggi, gli improvvisi attacchi notturni, in cui tutta consisteva la tattica degli Indiani, troppo deboli per misurarsi in campo aperto coi bene armati coloni. Ebbe a soffrire specialmente di essa il Mass. occidentale, che vide l'una dopo l'altra incendiate le sue città; nè d'altra parte stettero meglio gli Indiani, una delle cui tribù, quella dei Narragansetts, veniva pressochè sterminata. Filippo, risoluto nonostante i disastri dei suoi di tener testa fino all'ultimo, si batteva disperatamente per un paio d'anni, uccidendo perfino, a quanto dicesi, un suo guerriero che gli consigliava la pace: solo quando gli catturarono la donna ed il figlio, rimaneva infranta la fibra dell'eroe nazionale, che poteva essere finalmente schiacciato: «ho il cuore spezzato, esclamava egli, ora son pronto a morire». Preso cadeva sotto i colpi di coloro, che gli davano la caccia, ed il figlio suo, ultimo rampollo d'una stirpe potente, veniva venduto come schiavo alla Bermuda. Il primo sforzo collettivo degli Indiani contro gli usurpatori bianchi veniva così infranto miseramente e colla rovina di esso era rimosso nella N. Inghilterra il maggior ostacolo al diffondersi della colonizzazione bianca, fino allora ristretta di preferenza alla costa, nell'interno del paese. Nè solo la lotta per la conquista cruenta del suolo ma anche quella per la difesa della libertà trovava nella lega neoinglese un valido istrumento: su essa la Nuova Inghilterra poteva fidare per tener testa alle malfidenze del Lungo Parlamento, per strappare il favore del Protettore, per resistere alla censura degli Stuart dopo la Restaurazione. Gli avvenimenti interni della madrepatria, i torbidi, i lutti, le agitazioni di essa si risolvevano così in un vantaggio inestimabile per le colonie settentrionali, permettendo loro di godere per lunghi decenni d'una effettiva indipendenza, durante la quale i germi importati si sviluppavano in una fiorente società democratica. Già Carlo I, non sordo ai consigli di chi gli sussurrava all'orecchio che questi emigranti «avevano in vista non solo una nuova disciplina ecclesiastica ma la potenza sovrana», aveva in animo di ritirare le patenti concesse; ma il _covenant_ nazionale degli Scozzesi ed il precipitare degli avvenimenti dietro ad esso gliene toglievano il tempo e la voglia. Salvate così miracolosamente dalla rivoluzione contro il monarca, le libertà della Nuova Inghilterra venivano però minacciate dal Lungo Parlamento, il quale intendeva di limitarle, pretendendo il diritto di riformare le decisioni delle corti di giustizia coloniali e di esercitare la sua vigilanza sui governi locali; ma il Massachusetts, che era il più minacciato, risolveva nel 1646 in mezzo alla generale agitazione degli animi di non restituire l'antica carta «regia», nè di accettare quella nuova, già presa in esame dal Parlamento, e così grazie al suo atteggiamento risoluto lo _statu quo_, dopo lungo battagliare da ambo le parti, rimaneva inalterato nella N. Inghilterra. Il protettorato del Cromwell lasciò pur esso la N. Inghilterra godere dei benefici del _selfgovernment_ e della libertà del commercio, ancor più radicando così alla terra quel popolo, che, invitato, rifiutava di stabilirsi nonchè in Irlanda, sotto il cielo ridente delle Bahama, sul fertile suolo della Giamaica o della Trinità. La restaurazione incominciò essa pure sotto buoni auspici: Carlo II, che una caricatura del tempo rappresentava ballando, con un'amante per braccio, mentre ghignanti cortigiani gli rubavano di tasca le provincie, se regalava a parenti ed amici con incosciente generosità le terre d'America, senza curarsi di chi oramai le aveva fatte sua patria, inaugurava d'altra parte il suo governo con segni di benevolenza verso alcune delle colonie americane. Così il governatore Winthrop il giovane otteneva pel Connecticut una carta, che univa insieme gli stabilimenti di Hartford e Newhaven in una sola colonia, estendendone i confini sino al Pacifico, e le concedeva tali franchigie da costituirla anche di diritto libera e come indipendente quale era stata fino allora di fatto. Ed una consimile patente riceveva nel 1663 la colonia di Rhode Island. Solo faceva il viso dell'armi tra il giubilo pressochè generale il ferreo Massachusetts, il quale si rifiutava di consegnare tre degli stessi giudici del decapitato Carlo I rifugiatisi in esso: un anno dopo la restaurazione soltanto il nuovo governo inglese veniva riconosciuto in questa colonia, la quale però approfittava di tale occasione per riaffermare i suoi diritti. Gli Stuart alla loro volta vi mandavano dei commissari inglesi, coll'incarico di regolarsi a seconda delle circostanze, nell'intento di limitare le libertà della colonia, e li portava in Boston la stessa flotta che doveva conquistare la Nuova Olanda: la popolazione assumeva però un atteggiamento minaccioso; si mandava al re un indirizzo pel ritiro dei commissari, e la questione pel momento rimaneva sospesa in seguito anche a vicende interne dell'Inghilterra. Il disegno di diminuire il territorio e l'influenza del Mass. e d'annullarne infine la patente non veniva con ciò abbandonato: dapprima veniva sottratto alla sua giurisdizione il New Hampshire, che nel 1680 diventava una colonia regia, la prima della N. Inghilterra; e poi nel 1684 si revocava la carta della colonia, senza che questa potesse colla forza opporsi al colpo di lunga mano preparato. L'ostacolo maggiore era così tolto di mezzo a quel disegno d'unificazione delle colonie settentrionali e centrali, che il governo sognava e di cui era incaricato l'energico sir Edmondo Andros, mandato in America come governatore di Nuova York nel 1674. L'opera sua non assecondata abbastanza dal debole Carlo II pel momento non trionfava; ma veniva ripresa con maggior fortuna sotto gli auspici dell'assolutista Giacomo II, che procedette in essa senza il minimo scrupolo dei diritti acquisiti delle colonie in possesso di carte regie. L'Andros nel 1686 si recava a Boston quale governatore regio di tutte le colonie settentrionali, il che era a dire distruttore delle loro immunità. I puritani del Mass. videro profanato il loro ritiro dall'introduzione della chiesa episcopale; i cittadini di Rhode Island si videro spogliati della loro patente; quelli del Connecticut la conservavano materialmente per l'ardire di Giuseppe Wadsworth, che, sottrattala di soppiatto dalla sala dell'assemblea, la nascondeva nel tronco d'un albero rimasto storico per secoli col nome di «quercia della carta», ma la videro conculcata nel fatto dall'Andros, che di suo pugno apponeva irritato la parola _finis_ in fondo al libro dei protocolli delle sessioni. La rivoluzione inglese del 1688 salvava però ancora una volta il libero reggimento della Nuova Inghilterra: Boston insorgeva alla notizia di essa, il governatore regio veniva gettato in carcere; e tutto il paese, rivendicando le antiche sue carte, ripristinava di fatto le sue repubbliche democratiche, dipendenti di nome dal re d'Inghilterra, governate in realtà dalla sola rappresentanza popolare. § 7. LA SOCIETÀ DELLA N. INGHILTERRA E LA SUA FORZA D'ESPANSIONE. — All'epoca della seconda rivoluzione inglese circa 75.000 bianchi, che rappresentavano in buona parte una vera selezione morale della razza inglese, abitavano la N. Inghilterra ed avevano iniziato la trasformazione del deserto con tale successo da destare l'ammirazione del mondo contemporaneo: più della metà di questa popolazione apparteneva alla colonia del Massachusetts, il quale comprendendovi il Maine e la prima colonia dei Pellegrini, la gloriosa per quanto poco sviluppata Nuova Plymouth che nel 1692 entrerà a far parte di esso, annoverava un 44.000 anime; il Rhode Island e Providence un 6.000; altrettante New Hampshire; da 17 a 20.000 il Connecticut. La libertà aveva portato i suoi frutti, permettendo al paese di sviluppare senza alcun ostacolo tutte le sue energie: gli atti di navigazione della metropoli non erano stati rispettati; nessuna dogana era stata stabilita. Alla penuria dei primi tempi era successa l'abbondanza: la produzione era ormai superiore al consumo, e s'esportavano pelli, legname, pesce e grano, quest'ultimo nelle Indie Occidentali: l'industria navale, la quale già prima del 1643 dava bastimenti di 400 tonnellate, era quanto mai progredita e con essa la navigazione, monopolizzata può dirsi dal Massachusetts, che faceva il trasporto delle mercanzie per tutte quasi le colonie e mandava i suoi navigli sotto tutti i climi del mondo, mentre la rada di Boston vedeva già bastimenti di Spagna e d'Italia, di Francia e d'Olanda: la stessa industria vi aveva già da un pezzo fatto il suo ingresso, fino cioè dal 1643 in cui erano sorte le prime fabbriche per la lavorazione del cotone fatto venire dalle Barbados. Scarsa era invece la moneta, giacchè dall'Inghilterra ben poca ne veniva, mentre le colonie dovevano mandarne per le loro provvigioni: nei primi tempi anzi al difetto di essa si era sopperito con lo scambio dei generi e l'uso dei _wampun_, delle pelli di castoro, del granturco, delle palle di piombo; ma col 1653 s'era impiantata nel Mass. una prima zecca. La vita degli abitanti era ancora semplicissima, per quanto generale fosse la prosperità, la mendicità ignota e rarissimo il furto. Gli stabilimenti consistevano essenzialmente in comunità d'agricoltori, situate presso la riva del mare: al nord del Piscataqua erano villaggi che dovevano la loro origine al commercio delle pelli di castoro più ancora che al traffico dei legnami ed alla pesca; più al sud città isolate in riva all'Oceano ed ai fiumi necessari pei molini; nell'interno del paese la colonizzazione incominciava appena allora a penetrare. Le case per lo più erano in legno e mattoni, più rare quelle in pietra; dimessi gli abiti; gli uomini in calzoni corti, casacca, bavero, manopole bianche, mantello corto e cappello alto a larga tesa, nelle solennità una fusciacca a colori smaglianti, bottoni di oro o d'argento e stivaloni colla rivolta; le donne un modesto abito di panno tessuto in casa e alla domenica il cappuccio di seta, le maniche e le cuffie ricamate; frugali i pasti consistenti in granturco bollito nel latte, carni di maiale, legumi, erbaggi, pane di segala, sidro e birra. Data la parità di condizione dei primi coloni più o meno mantenuta grazie alla povertà del suolo ed alla divisione dell'eredità in parti uguali, che non permettevano un troppo rapido formarsi ed accumularsi della ricchezza colla sua conseguenza inevitabile, il riflettersi cioè delle disuguaglianze economiche nella costituzione politica e sociale, regnava in quella società, cui erano ignote le ingenti fortune, una grande uguaglianza. Nè questa era una convinzione filosofica, ma la constatazione d'un fatto evidente e palpabile: _goodman_, _goodwife_ (buon uomo, buona donna) si chiamavano famigliarmente fra loro, riservando per ben pochi il _mister_ o _mistress_ (signore o signora), per gli ecclesiastici ed i magistrati più che altro. Lo sviluppo d'una coltura largamente diffusa per quanto elementare favoriva poi ancor più questa eguaglianza, togliendo di mezzo quell'abisso intellettuale, che ordinariamente separa le classi abbienti da quelle non abbienti. Costume alle origini era diventata ben presto legge nei codici della Nuova Inghilterra che «nessuno dei fratelli dovesse soffrire nella sua famiglia una grossolanità spinta al punto di non dare ai figliuoli ed ai dipendenti l'istruzione necessaria per metterli in stato di leggere perfettamente la lingua inglese». Così fino dal 1647 i legislatori del Mass. stabilivano che in ogni luogo, dove abitassero cinquanta proprietari d'immobili, dovesse esservi un maestro «affinchè la cultura dei nostri progenitori non rimanga sotterrata nelle loro tombe» ed ogni ragazzo crescesse sapendo leggere e scrivere la propria lingua; in ogni centro, dove vivessero cento o più famiglie, una scuola di grado superiore o di «grammatica» che desse poi l'adito all'università. Il bisogno d'una elevata cultura era infatti tanto vivo fra i primi Puritani, molti dei quali erano stati allevati nelle università inglesi, che fino dai primi tempi avevano pensato alla fondazione d'una università: Harvard College rimonta infatti al 1636 e si ricollega al ricco emigrato Giovanni Harvard, che morendo nel 1638 legava al collegio la sua biblioteca oltre alla metà dei suoi beni; ulteriori donazioni di privati e perfino regolari contributi dei cittadini assicuravano in seguito la floridezza dell'istituto. Questo del resto come gli altri stabilimenti congeneri, più che vere università nel senso moderno della parola erano scuole medie, paragonabili ed anzi inferiori, se ne eccettui per certi studi professionali, ai nostri licei. Se gli alti studi facevano però difetto, l'istruzione media ed elementare era più diffusa che in alcun altro paese. La favoriva oltre delle scuole la lettura, che in una società, dove nei primi tempi in ispecie ballo, teatro, giochi d'azzardo ed altri divertimenti del genere erano severamente proibiti, costituiva uno dei rari passatempi concessi agli abitanti in quelle lunghe e monotone veglie d'inverno, ch'essi passavano bloccati dalla neve nelle lor case; la favoriva ancor più la stampa locale, che già dal 1639 s'era introdotta nella N. Inghilterra: dei racconti di viaggi, dei _pamphlet_ politici, i classici più noti, le opere dei moralisti formavano può dirsi tutta la cultura del paese. Più ancora dell'istruzione poi era curata la morale, posta essa pure sotto l'egida della legge, che s'intrometteva nella vita privata, proibendo ad esempio come nel 1634 «mode nuove ed immodeste, maniche così corte da potersi vedere il braccio ignudo, maniche e calzoni smisuratamente ampi etc.», obbligando ciascuno a vestire a seconda della sua condizione, e così via. Santa la famiglia, la cui purezza era gelosamente custodita dalla legge: la donna adultera e il suo complice erano condannati a morte; mentre il seduttore d'una fanciulla era obbligato a sposarla: di divorzio mancano esempi nei primi tempi, ma una clausola di uno degli statuti riconosceva la possibilità di tale avvenimento, mentre respinta affatto era la separazione di corpo e di beni, l'anomalia della legislazione moderna per la quale il colpevole è bene spesso premiato, l'innocente punito. Considerata delitto pubblico la crudeltà verso gli animali; ritenuta peste del paese gli uomini di cattivi costumi, ai quali bene spesso era interdetto il soggiorno e tolti i diritti civili. Si poteva vivere là più anni senza vedere un ubbriaco, senza udire un giuramento, senza imbattersi in un mendicante. Mite relativamente all'epoca la legislazione, se ne eccettui nelle cose di religione: un gran numero di misfatti puniti altrove di morte erano stati quivi cancellati dalla lista dei delitti capitali; la protezione della proprietà non arrivò mai al sacrificio della vita umana; le pene inflitte pel furto e pel brigantaggio erano meno severe di quelle della stessa legislazione americana del secolo XIX. Feroce invece la legge nei suoi rapporti col culto, nei primi tempi in ispecie, quando nessuno poteva sottrarsi senza plausibile motivo alle pratiche religiose, che obbligavano a rimanere in chiesa per ore ed ore, e chi non vi si faceva vedere per un mese intero veniva messo al palo od esposto al pubblico per ludibrio in una gabbia di legno! Ancora nel 1692, in seguito al triste influsso esercitato sullo spirito pubblico da un libro del fanatico pastore Cotton Mather sulla stregoneria, scoppierà una vera follia religiosa contro le supposte streghe: una ventina di persone verranno in breve regolarmente giustiziate ed oltre una cinquantina tormentate e martoriate sino alle più strane confessioni, finchè l'orrore per questi veri assassini metterà un alt all'infame follia, gettando il discredito sulla feroce bacchettoneria dei pastori. Austero e spirituale quanto mai il culto puritano; chè i Puritani, liberandosi di tutte le inutili formalità, non invocavano santi, non elevavano altari, non adoravano crocefissi, non baciavano libri e pile, non veneravano reliquie, non chiedevano assoluzioni, non pagavano decime, non vedevano nel matrimonio un atto religioso nè un essere sacro nel ministro del culto, il quale veniva confermato dai fratelli o dagli altri ministri. E mentre nel campo religioso il puritanesimo spiritualizzava ogni giorno più il calvinismo, da cui era derivato, nel campo sociale lo umanizzava ogni giorno più. Cessando infatti sul democratico suolo della Nuova Inghilterra, dove non c'erano caste ereditarie da rovesciare, di fare la sua idea dominante di quel principio della predestinazione, con cui il fondatore plebeo del calvinesimo aveva opposto all'aristocrazia feudale la nobiltà senza macchia degli eletti predestinati dal principio del mondo, il puritanesimo s'imprimeva a poco a poco un carattere proprio, arrivando ad adottare la carità come base del suo insegnamento morale. Dio sarà per esso l'«essere universale», la natura in tutta la sua complessità null'altro che «una emanazione della pienezza infinita di Dio»; cosicchè l'amore del creatore comprenderà l'amore per quanto esiste, si ridurrà cioè nell'attaccamento per tutti, in una benevolenza universale, e la gloria di Dio implicherà la salute e la gloria dell'umanità. Combattere per la salute di essa, lottare cioè per una giusta causa, sarà il modo migliore di eseguire la volontà del Signore, sarà farsi strumento addirittura dei suoi decreti ab eterno. Così la N. Inghilterra per una sublime inconseguenza concilierà il fatalismo panteistico, incarnato nella sovranità assolata di Dio, con la libertà umana e, rifuggendo da ogni ozioso ascetismo, riporrà nell'energia del volere, nell'agire per un nobile fine l'ideale pratico della sua vita pubblica e privata. Individuo e società venivano così ad imbeversi di questo spirito religioso, ed il rigore straordinario d'una credenza austera, la forte disciplina ecclesiastica dei primi nuclei scolpivano il tipo morale del paese. Il fanciullo venendo al mondo era allevato al genio del paese; nel suo cervello non entravano può dirsi nozioni che non fossero marcate d'una impronta cristiana: il suo primo ed in molti casi ultimo libro, il suo _vademecum_ per la vita oltrecchè per la scuola elementare, sarà quel _New England primer_, il quale redatto da un'assemblea di 120 ministri conterrà il Credo, delle preghiere, dei piccoli inni o delle canzoni religiose in versi corti, delle massime tolte dai libri santi o da opere teologiche, delle esortazioni morali, ed alla fine il dialogo fra Cristo, la gioventù ed il diavolo: se oltrepasserà poi la cultura inferiore, troverà nella grama letteratura del paese la stessa impronta morale. In perfetta corrispondenza con lo stato materiale e morale del paese, la letteratura infatti della N. Inghilterra, iniziata può dirsi dal governatore Bradstreet con una storia della colonia di Plymouth, sarà necessariamente ben povera, mentre altre e più urgenti occupazioni assorbivano gli animi ed impiegavano i corpi, si riduceva più che altro a qualche traduzione, a qualche libro di morale e di teologia, a qualche noioso poema epico o religioso: così Riccardo Mather insieme col Welde e l'Eliot dava una traduzione dei Salmi, elegante nella sua fedeltà e semplicità; Beniamino Thomson dettava un lungo poema epico sulla celebre lotta del 1675-76 dal titolo «Crisi della N. Inghilterra»; Michele Wigglesworth ne componeva uno assai più popolare intitolato «Il giorno del Giudizio». Era insomma una letteratura antimondana per eccellenza, la quale, frutto dell'ambiente, contribuiva alla sua volta a plasmare le nuove generazioni sullo stampo di esso. La severa concezione della vita individuale si convertiva in una non meno severa della vita sociale; la missione morale dell'uomo si integrava in quella politica del cittadino, compenetrando di sè tutta la vita di quello stato, che era una cosa sola con la religione. Le istituzioni della N. Inghilterra non sono altro che calvinesimo in azione: la sua teocrazia è tale solo in apparenza, riducendosi in sostanza ad una perfetta democrazia; giacchè, se i ministri della chiesa governavano lo Stato, essi venivano però eletti dai membri di quella chiesa, cui tutti potevano anzi dovevano partecipare. Il principio puritano la «voce della maggioranza essere la voce di Dio» portava infatti per conseguenza necessaria la sovranità del popolo. Dalla convinzione profonda che fede indipendenza e prosperità pubblica erano aspetti diversi d'una cosa stessa, che non si poteva disinteressarsi di una senza metter in pericolo le altre, si generava quel patriottismo fervente, quella potente unità morale e sociale della N. Inghilterra che ne faranno l'antesignana della libertà. Quando infatti lo spirito calvinista avrà perduto per forza di tempi, di esigenze sociali, di contatti diversi quella sua rigidità primitiva, quell'intolleranza fanatica che non si limitava a predicare contro l'uso dei veli e dei capelli lunghi, ad imporre nomi biblici ai neonati, a togliere la croce dalla bandiera inglese, ma arrivava pur troppo a stringer capestri al collo di quaccheri e ad abbruciare povere donne accusate di stregoneria, rimarrà pur sempre l'essenza di esso: l'intolleranza della legge disarmerà, ma per essere supplita da quella dell'opinione, fortificata dall'abitudine e divenuta un istinto; la tolleranza trionferà, ma se potrà menomare la vivacità e la spontaneità della fede negli spiriti non potrà indebolire il vigore della disciplina nei costumi; il fanatismo della libertà tramonterà, ma dopo aver creato una società, cui sarà ignota ogni autorità che non sia quella razionale della libera convinzione dello spirito pubblico. Come l'intolleranza fu il sale che conservò pura la moralità del paese (prova non dubbia quel Rhode Island il quale, fatto rifugio oltrecchè delle coscienze perseguitate delle eccentricità insofferenti d'ogni freno e della gente irrequieta o viziosa bandita da altre sedi, si troverà al cadere del periodo coloniale in uno stato di vera demoralizzazione pubblica e privata, con scuole miserabili, indietro di più che cent'anni rispetto a quelle del Massachusetts); così l'ordinamento amministrativo fu la garanzia più valida di quelle libertà, che i primi coloni avevano inaugurato. È merito infatti della democrazia di villaggio inaugurata nei primi tempi e fedelmente mantenuta in seguito, se potè svilupparsi nella N. Inghilterra quella rigogliosissima vita politica, ch'era integrazione ultima della sua prosperità economica e della sua elevatezza intellettuale e morale. Se all'occhio di un osservatore superficiale la N. Inghilterra risulta composta dalle quattro colonie di Massachusetts, Rhode Island, Connecticut e New Hampshire, essa si presenta a chi penetri nella sua storia come un aggregato di tante piccole democrazie, quanti erano i suoi stabilimenti, i suoi comuni. Il _township_ infatti era stata ed era la cellula di quell'uniforme tessuto sociale. Per una specie di _covenant_ tra gli abitanti, frutto da un lato dell'abitudine di vivere e governarsi in congregazioni religiose indipendenti, tendenza dall'altro innata nella razza pel _selfgovernment_, il _township_ della N. Inghilterra s'era costituito, come vedemmo, in organismo politico completo: più tardi i _township_ si erano avvicinati, obbedendo alla necessità d'una cooperazione contro gli Indiani ed anche d'una intesa comune per difendere e godere dei diritti e privilegi dichiarati comuni da una carta a tutti gli abitanti di quel dato territorio; e così era sorta la colonia, la quale però non aveva distrutto il _town_ primitivo. Nel Rhode Island ad esempio a termini della carta del 1647, primo patto segnato fra i 4 _towns_ indipendenti, l'assemblea non era chiamata a decider su progetti di legge se non dopo che ciascun _town_ per conto suo li aveva votati: il governo coloniale non aveva che un potere di ratifica e di revisione; l'iniziativa continuava ad appartenere alla località. Il patto stesso perfino non era intangibile, ma si allentava o si scindeva, come avvenne nello stesso Rhode Island nel 1651, quando si ritornò a due confederazioni particolari di due _towns_ ciascuna, e più ancora nel 1686 quando l'assemblea si disciolse dopo aver reso a ciascun _town_ la cura di governarsi da sè isolatamente. Così mentre presso la maggior parte delle nazioni moderne l'esistenza politica cominciò nelle classi più elevate, allargandosi successivamente ed incompletamente alle inferiori, mentre lo stato non fu che lo strumento della dominazione dei vincitori sui vinti; nella N. Inghilterra invece l'esistenza politica fu dagli inizi della prima colonizzazione a tutti comune, e la colonia non fu che l'aggregato di organismi autonomi ed indipendenti. Il comune, ecco la pietra angolare del grande edificio politico futuro; l'indipendenza comunale, ecco il principio vitale della libertà americana. Nel comune regna una vera vita politica, attiva ed essenzialmente democratica e repubblicana. La colonia riconosce il primato della metropoli; ma, se la monarchia inglese detta leggi allo stato, nella vita municipale vive già la repubblica. Il comune nomina i suoi magistrati, fissa le imposte, le riparte, le riscuote, arma i cittadini in caso di bisogno, pensa alla loro istruzione, soddisfa ai bisogni generali della popolazione: suo cardine è la sovranità popolare con tutte le sue conseguenze, cioè universalità del suffragio, libero voto dell'imposta, responsabilità ed eleggibilità di tutti i funzionari pubblici, libertà personale, giudizio per giuria, governo infine diretto. Al pari delle piccole repubbliche della Grecia, nel comune neoinglese i cittadini trattano essi stessi gli affari pubblici. Come tutti gli uomini al di sopra dei 16 anni erano soldati ed una volta al mese venivano chiamati a raccolta per le necessarie esercitazioni; così tutti, ricchi o poveri, saggi od ignoranti, erano membri dell'assemblea di villaggio, di quella minuscola legislatura, dove si fissavano le imposte e si decretavano i ponti, le strade e le scuole, dove con la scelta dei magistrati locali e dei ministri del culto si davano pure le istruzioni opportune ai rappresentanti mandati all'assemblea dello stato. A questa scuola si formava l'educazione politica del popolo; in essa si acquistava quella pratica degli affari, che sarà tanto preziosa per il paese. Di mano in mano che il progresso della società esigerà degli sforzi su un campo più vasto, lo spirito pubblico si farà più maturo a sopportarli, saprà portare nella politica generale dello stato prima, della confederazione in seguito la sagacia e la saggezza, che s'era svolta nel regolare gli affari del villaggio. Il _selfgovernment_, esercitato da tutti sino al punto di divenire seconda natura, presso una società d'agricoltori, cui avanza del tempo per pensare ed istruirsi, che sono pieni di sollecitudine per l'educazione, che non hanno fra loro nè nobiltà nè popolaccio, ecco insieme con la scuola e la milizia locale il segreto, che fece la grandezza della N. Inghilterra, come fu la linfa vitale della sua rigogliosa democrazia. Linfa vitale, dicemmo, non già causa essenziale di questa democrazia, come fecero e fanno molti pensatori, i quali scambiando gli effetti per le cause attribuiscono nel caso nostro speciale come in quello generale un dato tipo di società a quelle istituzioni politiche, che sono esse stesse il frutto di quell'ambiente sociale. La democrazia di villaggio fu infatti, come vedemmo, il risultato naturale delle condizioni originarie, nelle quali incominciò la colonizzazione neoinglese. Ed allora che cosa più naturale che ascrivere, come fecero altri, alle origini soltanto, al punto di partenza della società neoinglese il suo sviluppo ulteriore? Delle vecchie istituzioni europee, fu osservato, nessuna, può dirsi, emigrò nella N. Inghilterra: non la monarchia, la quale è presente nelle colonie come un'ombra; non l'aristocrazia feudale, la quale, già fiaccata sul vecchio continente, non poteva certo assurgere a nuova vita nel deserto in mezzo agli stenti ed alle privazioni cui tutti erano sottoposti i coloni; non la dominazione del clero, troppo solidamente attaccata al vecchio edificio dalla catena dell'interesse; non le ghilde, le maestranze, le consorterie, le mille corporazioni in una parola sorte in Europa per reazione ai castelli baronali o per soddisfare bisogni sociali ignoti all'America. Vi immigrava solo un popolo libero, che, affrancatosi da tutti gli elementi inceppanti della civiltà lasciata, poteva crearne una nuova basata su principi più conformi al diritto di natura. Erano uomini per di più appartenenti a quella razza germanica così gelosa della sua indipendenza personale da farle attribuire, per quanto a torto, da alcuni quale caratteristica massima l'individualismo: uomini infine che uscivano dalle classi inferiori, dove più puro s'era conservato il sangue sassone, senza mistura con quello normanno, ed univano così alla purezza della razza l'umiltà dell'origine, eccitamento maggiore a forme sociali più largamente democratiche. Erano infine cristiani, che dello spirito più puro e più umano del cristianesimo pascevano l'anima loro, e per di più protestanti, seguaci cioè di quella Riforma, che aveva rappresentato il risveglio della libertà intellettuale nella massa del popolo. Nessuno può certo mettere in dubbio l'influenza straordinaria di tale genesi sullo sviluppo della democrazia neoinglese: ma non da essa soltanto essa ripete sua vita. Le colonie meridionali, nonostante origini non molto dissimili, nonostante il primo assetto, che vedremo democratico, terminavano col plasmare una società affatto diversa. Ed allora si cercherà la spiegazione del fenomeno in qualche cosa di esclusivo alla N. Inghilterra, al calvinesimo, meglio ancora al puritanesimo. Ora nessuno può certo negare l'influenza democratica del calvinesimo, visibile dovunque esso si affermi, a Ginevra, in Olanda, in Francia come in America; nè tanto meno quella ancor più potente del puritanesimo, che tutto informò di sè la società della Nuova Inghilterra. Ma non per questo tale società fu il frutto del puritanesimo e tanto meno del calvinesimo: il calvinesimo si trova pure in qualche colonia centrale diversa socialmente dalla N. Inghilterra; il puritanesimo stesso non sa impedire sul democratico suolo della N. Inghilterra l'introduzione e peggio ancora la consacrazione del più antidemocratico degli istituti, d'un istituto, che trionfando avrebbe soffocato sul nascere ogni democrazia dando un indirizzo totalmente opposto a quella società, voglio dire la schiavitù dei negri. Nel 1641 il Massachusetts, retto fin'allora da magistrati elettivi senza alcun codice scritto, adottava un corpo di leggi fondamentali, il famoso «_Body of Liberties_», ed appunto questa «_magna charta_» della libertà puritana ha il triste vanto, ironia della storia, d'esser il primo statuto americano che sancisca la schiavitù: così il codice dei Pellegrini, fuggiti in America per difendere tra le foreste la propria libertà, anticipava di parecchi anni quelli della Virginia e del Maryland nell'istituzione più disumana e liberticida![8] E per trovare un appoggio di essa, per mettere in pace la coscienza coll'utile il legislatore puritano ricorrerà al Vecchio Testamento, al rigore della legge mosaica strettamente nazionale, anzichè al Nuovo Testamento dallo spirito più largo ed umano: il diritto della schiavitù si baserà infatti sulla differenza di religione, sul paganesimo dei negri. Così nel cristianissimo Massachusetts, infiammato dal più ardente zelo religioso che mai abbia conosciuto una collettività umana, si vedranno dei cristiani negare ai proprî schiavi il battesimo, perchè questo avrebbe reso insostenibile di fronte alla coscienza puritana la condizione servile. Gli è che le origini dei popoli, come delle istituzioni, conservano la loro purezza solo quando trovino un ambiente favorevole al loro sviluppo, perchè solo allora i fattori iniziali si associano ai successivi, traendone nuova forza e vigore, anzichè venire elisi da questi: il cristianesimo si tuffa nel sangue dei Borgia e tramonta nei baccanali di Leone X; dalle più democratiche origini sorgerà, come vedremo, nelle colonie meridionali dello stesso Nord-America una società a ritroso dei tempi, che rinnova superandole le infamie peggiori del mondo romano a base di conquista e di schiavitù. Per fortuna della pia ed egalitaria coscienza puritana le condizioni climatiche e territoriali, più forti della volontà umana individuale e collettiva, s'incaricavano esse di metterla d'accordo con l'interesse. Gli schiavi negri costavano quattro o cinque volte più dei servi bianchi: gli schiavi negri non erano adatti come i servi bianchi alla costruzione dei navigli, industria che arricchiva il paese assai più dell'importazione negra; i negri emancipati da molti zelanti antischiavisti costituivano un pericolo ed un aggravio per la colonia, mentre i bianchi ritornati liberi dopo il periodo fissato di loro servitù divenivano cittadini preziosi per essa; gli schiavi negri infine erano soggetti per ragione del clima rigidissimo ad una mortalità, ignota alle altre colonie, donde le perdite notevoli dei loro proprietari. Tutto questo non sarebbe forse bastato a determinare quella corrente antischiavista, cui la coscienza puritana e la società democratica ad essa informata preparava il terreno migliore, se, cagione questa principalissima, non fosse stata affatto contraria alla schiavitù dei negri l'economia agricola del paese, determinata dalle sue condizioni climatico-territoriali: era questa la causa fondamentale per cui, mentre la schiavitù negra nasceva morta può dirsi sul suolo della N. Inghilterra, vi si salvavano gli ottimi germi importati dai coloni, sviluppandosi nel più florido organismo democratico. La democrazia della N. Inghilterra s'assideva per essa sulla base meno bugiarda e più sicura, che la storia conosca, l'eguaglianza cioè delle condizioni economiche. Se ne eccettui lungo la costa del paese, che ricca di porti invitava alla pesca, alla navigazione ed alle industrie a questa annesse, le quali costituivano infatti le forme quasi esclusive di vita economica delle città litoranee, l'agricoltura era col taglio dei boschi l'industria predominante della N. Inghilterra. Il suolo ed il clima non permettevano però la cultura su vasta scala di articoli d'esportazione; sicchè l'agricoltura doveva limitarsi a produrre quanto bastasse ai bisogni locali, cioè maiz, frumento, avena e orzo, prodotti per di più che, data la sterilità del suolo e la mancanza delle risorse meccaniche del giorno d'oggi, rendevano impossibile la coesistenza, grazie al provento d'uno stesso fondo, di proprietario e fittavolo, di padrone e schiavi. Nonchè allignarvi il latifondo, la stessa piccola proprietà dissociata dal lavoro era impossibile in tali condizioni, di mano in mano specialmente che i bisogni sociali cresciuti spingevano l'agricoltura su terre di qualità inferiori: il _farm_, cioè il pezzo di terra coltivato direttamente dal proprietario, rimaneva pertanto come ai primi giorni la base dell'agricoltura e su di essa sorgeva una classe di proprietari agricoltori, di sua natura democratica e repubblicana. Nella lotta quotidiana per strappare di che vivere al suolo ingrato sotto un cielo inclemente, nella piena libertà della natura, nella semplicità della vita operosa e devota dei campi coltivati con le mani proprie e dei figli, si manteneva così intatta quella democrazia rurale, che abbracciava la grande maggioranza della popolazione: ancora al 1797 gli agricoltori staranno al resto degli abitanti come 100 ad 11. A differenza pertanto degli altri paesi, dove le campagne coltivate ma non possedute da una plebe analfabeta rappresentano la palla di piombo d'ogni progresso sociale e politico, il ceto agricolo della Nuova Inghilterra costituirà il vero nerbo della democrazia neoinglese, rinforzo anzichè pericolo per quella democrazia mercantile, che le industrie navali ed i traffici marinari vanno sviluppando in Boston e sugli altri punti della costa. Così le forme economiche, imposte alla N. Inghilterra nell'ambiente storico del sec. XVII dalle sue condizioni climatico-territoriali, assicurando al paese per lungo tempo una certa eguaglianza economica ed intellettuale, impedivano di tralignare alla democrazia puritana importata dai primi coloni e svoltasi rigogliosa nel _township_. La società creata da essa, una volta affermatasi, potrà durare per coesistenza sua propria anche senza la dottrina confessionale, da cui era proceduta: quando l'arco troppo teso del puritanesimo si distenderà, quando le ultime traccie della costituzione teocratica dei primi tempi saranno sparite dalla N. Inghilterra, vi sopravviverà pur sempre la razza da quelle forze modellata. Il rigoroso cristianesimo e l'idea democratica si perpetueranno allo stato di forte suggestione ereditaria, sottomettendo il primo alla sua norma tutte le attività superiori dello spirito, informando la seconda di sè tutta quanta la vita sociale; e dal loro connubio uscirà quel tipo _yankee_[9], dalla veduta limitata e bassa ma tenace e forte delle cose, che con la sua energia informerà alla sua volta di sè l'intero popolo americano. Grazie ai germi straordinariamente vivaci del sec. XVII, ad un primo movimento di concentrazione seguirà infatti un moto d'espansione tanto più notevole quanto più densa diventerà la popolazione della Nuova Inghilterra, la quale al 1754 conterà già un 436.000 abitanti, di cui soli 11.000 schiavi negri. Così, mentre l'Est ed il Nord-Ovest dei futuri Stati Uniti saranno figli diretti della N. Inghilterra, l'elemento neoinglese guadagnerà o materialmente coll'immigrazione o moralmente col suo influsso le popolazioni del Centro e dello stesso Sud, condannate le prime dalla poca coesione ed omogeneità, le seconde dalla mancanza assoluta d'istruzione e di lumi a subire l'ascendente d'una superiorità intellettuale e sociale. Non è pertanto esagerazione l'affermare che l'_yankee_ farà l'Americano, tanto è il peso del solido nucleo democratico della N. Inghilterra sui destini sociali dell'intera gente anglo-americana. NOTE AL CAPITOLO SECONDO. [8] Nel 1645 la corte generale del Massachusetts condannava un mercante di schiavi, che aveva rapito dei negri sulle coste d'Africa, a restituirli alla loro contrada nativa; e su questo fatto aggiunto ad una falsa interpretazione d'una clausola del codice del 1641 alcuni storici, troppo zelanti difensori degli antichi Puritani, si basarono per negare la schiavitù nella colonia: ma questo fatto è perfettamente consono al codice del 1641, nel quale veniva permesso solo l'acquisto legale dei negri e punito invece di morte il furto di uomini; contraddizione del resto patente, giacchè i legislatori sapevano bene che il furto nella più parte dei casi era l'origine prima di quella proprietà umana, di cui permettevano l'acquisto legale ai coloni (Cfr. Mondaini, _La questione dei Negri nella storia e nella società nord-americana_, Torino, Bocca 1898). [9] Parola d'origine incerta, con cui si designano in genere gli Anglo-Americani, in ispecie i neoinglesi; pare fosse in origine il soprannome algonchino dei primi coloni. CAPITOLO III L'aristocrazia fondiaria nelle colonie meridionali. § 1. Virginia — § 2. Maryland — § 3. Caroline — § 4. Georgia — § 5. La società meridionale: suoi elementi e sua coesione. § 1. VIRGINIA. — Una chiesa rovinata ed un paesello chiamato Jamestown indicano oggi il luogo, dove il 13 maggio 1607 sbarcavano dalle tre navi mandate dalla compagnia di Londra i 105 emigranti iniziatori della colonizzazione inglese nell'«_Antico Dominio_». Erano essi avventurieri della peggior specie, la maggior parte _gentlemen_ andati in rovina, qualche antico recluso, qualche raro mercante, e più raro operaio, tutta gente attirata nel Nuovo Mondo chi dall'ingordigia dell'oro, chi dall'illusione puerile di trovarvi una ricca esistenza senza faticare, chi dalla speranza di arrivare al Pacifico, creduto molto vicino alla costa atlantica: comandava quest'accozzaglia irrequieta e turbolenta, animata da desideri insoddisfatti, non sorretta da alcun ideale, il bravo capitano Newport; ma chi esercitava su tutti la maggiore influenza per l'ingegno, l'energia, la sagacia e sovratutto la conoscenza profonda delle cose e degli uomini, era il capitano Giovanni Smith, la cui vita venturosa dal giorno in cui a 13 anni vendeva i libri di scuola per far danari e poter così mettersi in mare, alla sua prigionia in mezzo ai Turchi, al suo imbarco per l'America, era stata tutta un romanzo, di cui l'approdo nella Virginia non doveva segnare l'ultima pagina. A rendere ancora più vivo il contrasto collo sbarco dei Pellegrini, il paese, dove approdavano questi avventurieri, era tale per clima e per suolo da sembrare in quel maggio ridente un paradiso, di cui lo Smith poteva scrivere «che il cielo e la terra non eransi mai trovati così bene d'accordo nel formare un luogo tanto adatto all'abitazione dell'uomo». La terra li invitava fertilissima ad un lavoro fecondo, garanzia d'un lieto avvenire; ma non per questo avevano essi lasciato il paese nativo: chi si dava alla ricerca dell'oro, chi del Pacifico, supposto in comunicazione con la baia di Chesapeake; mentre la delusione più amara, l'apatia, l'anarchia s'impadronivano dello stabilimento, specie dopo la partenza del Newport, e gli stenti e la malaria riducevano già nell'autunno alla metà i malaugurati coloni. Li salvava da un'ecatombe completa la fermezza e l'abilità del capitano Smith, l'unico che in una sana concezione coloniale trovasse i requisiti indispensabili a ben superare la prima prova: lungi dal cercare un oro chimerico, egli s'industriava a procurarsi i mezzi primi di vita per sè e la colonia, stringendo cogli indigeni ostili tali rapporti d'amicizia da averne spontaneamente maïs e cacciagione, mentre insegnava egli stesso ai compagni ad abbattere gli alberi ed a costruirsi delle rudimentali capanne. Poi nell'inverno iniziava un viaggio di ardita esplorazione nella baia di Chesapeake, risalendo alcuni dei fiumi sboccanti in essa: preso dagli Indiani ed ammazzatigli i compagni, egli riusciva con le sue risorse a meravigliare e divertire quegli uomini primitivi, sfuggendo così a certa morte non solo ma accaparrando anche amici preziosi alla nascente colonia, ch'egli al ritorno trovava però ridotta ad una quarantina d'uomini miseri e scoraggiati. Ritornava è vero ben presto il Newport con altri 120 emigranti; ma l'arrivo di costoro, in gran parte sullo stampo dei primi, non migliorava per nulla lo stato delle cose: il loro aiuto si riduceva a sterrare, lavare ed epurare una terra brillante dei dintorni, scambiata per oro dall'accesa fantasia degli orefici venuti a tal fine in America. Lo stesso Newport, deluso nella speranza di trovare il Pacifico di là dalle cateratte del fiume James, se ne tornava in Inghilterra con un vascello carico di terra senza valore; mentre lo Smith, disgustato di tanta follia, ripigliava i suoi viaggi di esplorazione, risalendo per lungo tratto il Potomac ed il Susquehannah, e costruendo una carta di quelle sconosciute regioni. Ritornato nello stabilimento, veniva nominato nel 1609 presidente del consiglio coloniale; e la sua energica amministrazione incominciava a far rifiorire l'ordine ed il lavoro, quando il Newport entrava nel fiume con un secondo rinforzo di settanta emigranti. Erano anche questi però della stessa risma degli altri, benchè, buon preludio, vi si trovassero anche due donne; tanto che lo Smith era obbligato a scrivere in Inghilterra: «se organizzate una nuova spedizione vi scongiuro di non inviarci che una trentina di falegnami, agricoltori, giardinieri, pescatori, fabbri, manuali, e gente capace di sradicar alberi, piuttosto che delle migliaia d'individui simili a quelli che abbiamo già». La compagnia di Londra però era in un ordine di idee ben diverse da quelle del bravo organizzatore coloniale; essa, stanca di spender senza guadagnare un quattrino, illusa di poter col colpo di bacchetta magica dei suoi ordini trasformare la terra in oro, dischiudere il continente, far risuscitare i morti, esigeva che si mandasse un mucchio d'oro, o che si scoprisse un passaggio certo al mare del Sud, od almeno si ritrovasse uno dei compatriotti perduti della spedizione del Raleigh, pena in caso diverso l'abbandono della colonia al suo destino. Lo Smith per tutta risposta si dava con più ardore ad organizzare la demoralizzata colonia, costringendo tutti gli immigranti, i _gentlemen_ della _city_ non meno degli altri, a lavorare sei ore al giorno, giacchè era sua massima «chi non lavora non mangia». Anche l'opinione pubblica inglese cominciò a sospettare che la delusione delle speranze dorate non dovesse forse ascriversi se non ad una politica troppo impaziente di immediati profitti; cosicchè l'entusiasmo coloniale lungi dall'affievolirsi s'accrebbe, la compagnia della Virginia s'arricchiva di nuovi capitali e di nuovi soci, ed otteneva per di più nel 1607 una seconda patente, che le attribuiva molte prerogative prima riservate al re. Per essa il consiglio coloniale residente in Inghilterra doveva d'allora in poi venire eletto dai soci, essere indipendente dal monarca nell'esercizio del potere legislativo ed amministrativo, e venir rappresentato nella colonia da un governatore di sua fiducia. Lord De la Warr o Delaware fu nominato governatore a vita e capitano generale della Virginia, alla cui volta lo precedevano suoi rappresentati seguiti da centinaia d'emigranti. Lo Smith, esautorato, incapace di tener a freno il riottoso elemento, era costretto per salvare la sua stessa vita a riparare nel 1609 in Inghilterra. Mancato lui, la fame e le malattie facevano strage nella colonia, che in sei mesi vedeva ridotti da 490 a 60 i suoi abitanti: maledicendo il lor fato, i superstiti abbandonavano Jamestown, di cui senza l'energia del Gates rappresentante del Delaware avrebbero perfino bruciate le costruzioni, per ritornarsene in Inghilterra, quando alla foce del James incontravano il governatore, che arrivava con nuovi coloni e ricche provvigioni. Tornarono indietro e le sorti della Virginia non corsero d'allora in poi altro pericolo capitale, nonostante le immancabili difficoltà straordinarie dei primi anni: le cure di lord Delaware, l'energia del successore sir Tommaso Dale, che ricorreva alla legge marziale, e l'abilità infine del Gates ne assicuravano l'avvenire. La introduzione della proprietà privata del suolo, di cui ad ogni singolo colono venivano assegnati alcuni acri almeno per proprio uso e consumo, avvantaggiava di molto le condizioni degli emigranti e della colonia stessa, migliorando il lavoro fatto fino allora di malavoglia; mentre una terza patente, la quale trasferiva tutti i poteri dal consiglio coloniale all'intera compagnia, se non migliorava per nulla lo stato politico dei coloni, veniva per lo meno a trasformare nel 1612 in senso democratico la corporazione, facendo delle sedute di questa un teatro di ardite discussioni non inutili per l'avvenire degli stessi coloni. Anche le relazioni colle tribù indigene, a qualcuna delle quali gli emigranti avevano preso non solo le terre ma le stesse capanne ed i magri depositi di viveri, si facevano molto più cordiali e rassicuranti, dopo specialmente il primo matrimonio anglo-indiano suggerito al giovane Rolfe da misticismo religioso. La colonia, che nel 1612 contava già 100 abitanti, andava sviluppandosi, e nuovi stabilimenti si fondavano grazie specialmente alle leggi territoriali, che l'energico governatore Dale vi andava introducendo con grande vantaggio della cultura. Per esse l'assetto della proprietà variava coll'origine dei coloni: quelli inviati e mantenuti a spese della compagnia ne rimanevano servi e, quantunque ottenessero in proprietà individuale tre acri di terra, dovevano lavorare per essa 11 mesi all'anno, riservandone uno per sè, condizione questa però rappresentata da un numero sempre minore di persone, che si riducevano nel 1617 a sole 54, donne e fanciulli compresi: quelli non mantenuti dalla compagnia divenivano livellari, dovendo come tali pagare al deposito comune un tributo annuo di due staia e mezzo di grano e consacrare alla compagnia un mese all'anno di lavoro, esclusa l'epoca della mietitura e della semina: quelli venuti del tutto a proprie spese ricevevano cento acri di terra, limitati più tardi a 50 subito e 50 dopo la coltivazione dei primi: chi sborsava 12 sterline e mezza otteneva ugualmente 100 acri di terra subito ed altri 100 in seguito: proibita infine una proprietà d'oltre 2000 acri nelle mani d'un solo individuo. E mentre tali leggi permettevano il costituirsi d'una vigorosa proprietà fondiaria, s'introduceva nella Virginia e vi attecchiva splendidamente una cultura tanto ricca, da imprimere alla colonia uno slancio neppure supposto. L'oro era stato una chimera, il costoso tabacco una realtà: il partito dei cercatori d'oro era ormai tramontato; ed i campi, i giardini, le piazze pubbliche, le vie stesse di Jamestown si coprivano di tabacco, mentre i coloni si disperdevano su un'area sempre più vasta, trascurando nella smania del guadagno la stessa sicurezza personale. Il tabacco risvegliava tutte le energie degli abitanti, diventando ad un tempo il pegno della durata della colonia ed il prodotto pressochè esclusivo di essa; la popolazione grazie ad esso cresceva, prosperava, cominciava a sentire per un processo storico inevitabile i primi desideri di libertà: come sempre, dal miglioramento delle condizioni economiche si svolgeva, quale superbo riflesso ideale, la vita politica. Le estorsioni e il dispotismo del violento e truce governatore Argall sollevavano le proteste dei coloni, e l'amministrazione dell'ottimo Yeardley, destinato a succedergli, apriva per essi una nuova era. L'autorità del governatore veniva limitata da un consiglio locale, ed i coloni erano ammessi alla formazione delle leggi: nel mese di giugno del 1619 si radunava in Jamestown la prima assemblea coloniale della Virginia, composta del governatore, del consiglio coloniale allora nominato e di due rappresentanti per ciascuno degli undici borghi esistenti. Era il primo corpo rappresentativo, che si riunisse nell'emisfero occidentale; era l'aurora luminosa della libertà americana. Coloro, che fino allora avevano dipeso dal beneplacito d'un governatore, reclamavano i loro privilegi di cittadini inglesi e domandavano un codice basato sulle leggi inglesi. Due anni dopo nel luglio 1621, la compagnia di Londra, la quale democratizzata dall'ultima carta aveva rivendicato i suoi diritti, nominando a tesoriere il conte di Southampton contrariamente ai desideri del re, ed aveva pensato sul serio ad assicurare i benefici della libertà alla colonia, dava a questa una costituzione scritta modellata su quella inglese e destinata a diventare con poche varianti il modello dei sistemi introdotti più tardi nelle altre provincie regie. Un governatore nominato dalla compagnia, un consiglio locale permanente pure da essa nominato, un'assemblea generale da riunirsi tutti gli anni, composta del consiglio e di due deputati per ogni piantagione scelti dagli abitanti; piena autorità legislativa all'assemblea, salvo il veto del governatore e la ratifica della compagnia; ratifica degli ordini della compagnia da parte dell'assemblea per entrare in vigore; conformità delle corti di giustizia alle leggi ed alla procedura inglese: tale nelle sue linee generali questa costituzione, per la quale i coloni, cessando di essere i servi d'una corporazione mercantile, diventavano liberi cittadini. Fu questa la base sulla quale la Virginia innalzò l'edificio delle sue libertà, l'atto, che fece dello stabilimento nascente un semenzaio di uomini liberi. Nè l'influenza sua si limitò alla Virginia, ma si estese a tutto il Sud: quando nuove colonie si formarono, i loro proprietari non poterono sperare d'attirarvi degli emigranti se non accordando loro franchigie non meno ampie di quelle concesse alla rivale Virginia. Nel 1625 la compagnia, lacerata da interne fazioni, odiata da re Giacomo «quale scuola d'un parlamento sedizioso», com'ebbe a definirne le sedute un inviato spagnuolo, veniva sciolta, e, revocatane la patente, la Virginia diventava una colonia regia; ma ciò non portava alcun mutamento immediato nel governo interno e nelle franchigie della colonia. Nè il successore Carlo I, pure cercando di ritrarre dal monopolio del tabacco il maggior vantaggio possibile, attentò alla libertà della Virginia, la quale abitata da episcopali rimase altrettanto fedele a lui quanto attaccata alla sua effettiva indipendenza, che potè conservare anche durante il protettorato di Cromwell, pure assoggettandosi all'«atto di navigazione». Nata dalla prosperità, la libertà diveniva di questa alla sua volta la fonte maggiore: nascevano per essa i motivi d'attaccamento al suolo, e la Virginia, i cui coloni erano immigrati coll'intenzione di farvi fortuna non già di stabilirvisi definitivamente, vedeva ormai sbarcare migliaia d'emigranti, che coll'aratro iniziavano la conquista della terra e col matrimonio il suo popolamento, accasandosi con donne fatte venire appositamente dall'Inghilterra dietro un compenso in tabacco pagato alla compagnia: nei soli tre anni dal 1619 al 1621 ben 3500 persone si dirigevano alla sua volta: nel 1648 gli abitanti salivano a 20.000. I coloni erano andati disperdendosi lungo il fiume James e verso il Potomac, dovunque la ricchezza del terreno permettesse di coltivare il tabacco con successo: gli stessi luoghi più solitari e più esposti quindi alle ostilità degli indigeni non erano stati dimenticati, perchè in essi minore era la concorrenza per l'appropriazione della terra. Gl'indigeni, privati del loro suolo, incapaci per la debolezza e scarsità loro (un 8000 circa verso il 1620 in un territorio di 8000 miglia^2) di scacciare in guerra aperta gli usurpatori, avevano covato in segreto il loro odio ed organizzato un complotto, che nel 1622 era scoppiato in un feroce macello, in cui sarebbero periti ben più dei 347 bianchi massacrati se Jamestown e gli stabilimenti vicini non fossero stati preavvertiti da un indiano convertito. Da allora in poi i coloni non ebbero più ritegno e, mentre si intraprendevano tratto tratto spedizioni di sterminio contro gli indigeni, se ne occupavano senza il minimo scrupolo i campi ed i villaggi, situati nelle migliori posizioni, in riva alle acque più limpide e sulle terre più fertili. Il paese invitava all'agricoltura in tutti i modi con la fertilità del suolo, coll'abbondanza dei fiumi, che dagli Allegany al mare costituivano ottime vie naturali pel trasporto delle merci, colla mitezza del clima; la terra si estendeva libera davanti agli emigranti e ad essa si chiedeva più che grano, la cui coltivazione da qualche governatore fu imposta perfino sotto ammende penali, tabacco, vale a dire un prodotto idoneo quanto mai al grande commercio. Nel 1621 un'altra coltivazione dello stesso genere vi si era introdotta, il cotone, benchè la grande era cotonifera dovesse iniziarsi quasi due secoli dopo. La richiesta continua di tabacco importava seco un allargamento sempre maggiore della coltivazione e con esso l'ampliamento delle proprietà individuali, il costituirsi cioè del latifondo, imposto dalla cultura esauriente del tabacco, cui necessitano sempre nuovi terreni, e reso possibile dalla sconfinata estensione di terre disponibili. La stessa esistenza però d'una terra libera e fertilissima minacciava di rendere pressochè inutile al proprietario l'ampiezza di terre messe a sua disposizione, sottraendogli le braccia necessarie al lavoro: egli non può trattenere ai suoi servigi il libero lavoratore, che trova nelle terre inoccupate un fondo suo proprio e nella feracità di esso la possibilità di coltivarlo quasi senza capitale, mentre l'abbondanza di selvaggina lo dispensa da un'anteriore accumulazione di sussistenza. Si ricorre, è vero, alla servitù del bianco, ma l'offerta di braccia è pur sempre troppo inferiore al bisogno, mentre non c'è da contare sulla scarsa e fiera popolazione indigena per coltivare le terre. Ed allora, determinata dalla necessità sociale di instaurare una forma di lavoro corrispondente ai bisogni dell'agricoltura ed all'avidità dei latifondisti, prende piede sul libero suolo della Virginia un'istituzione nefanda, che giunta ormai al suo tramonto in Europa era sorta a vita nuova e più tenace nelle colonie americane, quella schiavitù, che i coloni vedevano applicata con successo da un secolo nei vicini possedimenti spagnoli ed incoraggiata dalla stessa madrepatria, dove il governo nel 1618 concedeva a sir Roberto Rick un privilegio speciale pel trasporto di negri nelle colonie inglesi e nel 1631 autorizzava ad esso una compagnia appositamente istituita. Nel 1619[10] era approdato a Jamestown per difetto di provvigioni un vascello negriero olandese, ed i coloni ne avevano comperato di buon grado il carico umano, lieti di aver trovato una sorgente inesauribile di braccia schiave, di lavoratori su cui la terra libera non avrebbe esercitato alcun influsso. Si ebbe così fin d'allora di fatto se non di diritto la schiavitù negra, benchè solo nel 1662 essa riceva la sua sanzione giuridica in un atto statutario, che la riconosceva legale e la rendeva ereditaria, basandola sulla vecchia massima «_partus sequitur ventrem_». La popolazione negra, il che vale a dire schiava, si diffonderà però lentamente nella colonia: nel 1622 v'erano solo 22 negri, nel 1634 solo 300; ma coll'estendersi della coltura a nuove terre, coll'aumento della popolazione bianca e della ricchezza del paese cresce rapidamente anche il numero dei negri, i quali nel 1671 saranno già 2000, 23.000 nel 1715 di fronte a 72.000 bianchi, nel 1754 non meno di 116.000 di fronte a 168.000 bianchi. Mentre il latifondo coltivato a tabacco dà origine e mette su solide basi la schiavitù dei negri, con tutte le sue piaghe e tutti i suoi pericoli, esso uccide pure la eguaglianza dei bianchi, distrugge la società democratica dei primi tempi per sostituirvene una aristocratica. I primi coloni non avevano portato nel nuovo mondo altra fortuna che il loro spirito d'intrapresa, altra dignità che quella d'uomo, altri privilegi che quelli di inglesi. N'era uscita così una società nei primi tempi strettamente egalitaria, una democrazia pressochè indipendente con un governo organizzato sulla base del suffragio universale goduto da tutti i liberi indistintamente: nel suo seno non industrie, non manifatture ma solo la coltura del tabacco, venendo tutto il resto importato d'Inghilterra; il commercio stesso era esercitato da mercanti forestieri. L'abbondanza e la fertilità delle terre facevano della Virginia «il miglior paese del mondo per il povero», il quale del resto anche senza lavorare trovava di che vivere nell'abbondanza della cacciagione e della pesca, nelle mandrie erranti di porci, nei prodotti insomma spontanei del suolo. Dispersi su vasto territorio, il che permetteva loro di sottrarsi all'influenza diretta della chiesa ufficiale e del governo, acuendone l'avversione istintiva per ogni freno politico, i suoi abitanti, veri figli della foresta, crescevano nella libertà della solitudine: non città, non stampa, non scuole, non giornali soltanto, ma neppure strade e ponti; dei sentieri appena segnati attraversavano i boschi; le visite si facevano in barca od a cavallo; il colono col suo sacco di tabacco in luogo di moneta attraversava a cavallo le foreste, a nuoto le acque, quando non era possibile farlo a guado od in barca. Le case di legno e ad un piano erano sparse sulle due rive della Chesapeake, dal Potomac alle frontiere della Carolina: era raro di scorgere tre case raggruppate insieme; Jamestown stessa non era che un miserabile villaggio, composto dell'edificio del governo, d'una chiesa e di 18 case. Solo i maggiori piantatori vivevano più comodamente nelle loro vaste tenute, circondati dai loro servi e dai loro schiavi, primo nucleo d'una casta tra la patriarcale e la feudale, che in breve avrebbe dominato il paese. Per quanto infatti mancasse ancora all'epoca della Restaurazione una classe privilegiata, giacchè universale era il suffragio e di nomina direttamente o indirettamente popolare tutti i funzionari, la disuguaglianza fra chi possedeva molto e chi possedeva poco o nulla andava accentuandosi ogni giorno più con lo svilupparsi del latifondo. Veniva questo imposto, come vedemmo, dal genere delle colture e favorito oltrecchè dal diritto fondiario e dalle leggi contrarie ad uno sminuzzamento soverchio della proprietà, dal fatto che i guadagni del tabacco, il cui consumo in Europa andò sempre aumentando nei sec. XVII e XVIII, venivano impiegati nell'ampliamento della cultura stessa, mentre i terreni depauperati si lasciavano a pascolo. Il piccolo fondo invece coltivato direttamente dal proprietario comincia a non essere più rimunerativo col trionfare della cultura estensiva esercitata da schiavi; e così al di sotto della classe latifondista va sorgendo una classe di bianchi nullatenenti, cui, se il vergine suolo e la scarsità dei bisogni assicurano la vita, è chiusa nondimeno in un paese esclusivamente agricolo ogni fonte di guadagno, che derivi da un lavoro metodico, sistematico, continuo delle proprie braccia. I servi liberati allo spirare del loro termine, i nuovi coloni sbarcati senza mezzi ingrossano questa classe, cui la mancanza assoluta di scuole pubbliche toglie per di più ogni mezzo d'istruirsi. La cultura diviene pertanto un privilegio dei ricchi, che possono procurare ai loro figli un maestro o mandarli all'estero; e così la disuguaglianza economica va traducendosi in disuguaglianza sociale, tanto più che fra i grandi proprietari di terre, circostanza questa del maggior rilievo, non sono rari i figli della superba nobiltà inglese, i cavalieri rifugiatisi nella monarchica Virginia dopo la sconfitta subita in patria. Una classe siffatta, che sola possiede ogni capitale e sola ogni istruzione, che nel suo latifondo impera dispoticamente su una mandra di schiavi, non può non aspirare al governo del paese: nel suo seno infatti si recluta il consiglio della colonia, di essa sono membri o candidati gli eletti alla legislatura e creature i magistrati, essa ottiene i brevetti d'ufficiale nella milizia. La dispersione degli abitanti e la conseguente divisione del paese in contee, spesso assai vaste, cui è ignota col concentramento urbano l'attività politica del _town_ settentrionale, favorisce ancor più la potenza politica di questa classe, giacchè i magistrati esercitano qui poteri ben più ampi che nella N. Inghilterra: i giudici di pace ad esempio fissano essi l'ammontare delle tasse nella contea, ne hanno la percezione e ne sorvegliano l'impiego. Ogni potere giudiziario, amministrativo, militare, la direzione tutta in una parola degli affari pubblici, si trova così direttamente o indirettamente nelle mani di un numero ristretto di uomini, i quali possessori della terra, padroni di un gran numero di servi e signori di schiavi, cominciano già a presentare i primi indizi d'un'aristocrazia costituita. All'epoca della Restaurazione le due classi dei latifondisti e dei nullatenenti sono già chiaramente delineate in quella società sorta sotto auspici tanto democratici, e la nascente aristocrazia aspira a scolpire nel diritto un predominio, che ormai esercita nel fatto. La aiuta nell'intento quel potere regio, il quale dopo un'eclissi, che aveva lasciato la Virginia nella più completa indipendenza, ricompariva nella colonia come alleato naturale del latifondo. I Virginiani, devoti agli Stuart per quanto gelosi della loro autonomia, s'affrettavano a riconoscere il risorto governo; ed il Berkeley da governatore eletto popolarmente diventava governatore di nomina regia. La nuova assemblea, convocata in nome del re nel marzo 1661 e composta di proprietari e di cavalieri, smascherava fino dai primi atti i suoi sentimenti politici, destituendo un magistrato popolare «a causa della sua condotta faziosa e scismatica», e quindi si dava a modificare il carattere della costituzione in senso aristocratico e favorevole alla supremazia della corona. Il governatore e gli altri ufficiali regi venivano sottratti del tutto alla dipendenza della legislatura coloniale, imponendosi per il loro mantenimento un'imposta fissa sul tabacco esportato; l'ordinamento giudiziario veniva del pari sottratto al controllo popolare, affidandosi esso ad un tribunale coloniale supremo, costituito dal governatore e dai membri del consiglio, e ad otto giudici di pace per ogni contea, nominati dal governatore ed incaricati oltrecchè degli affari giudiziari di fissare e riscuotere le tasse della contea; si emanava un codice, dove le norme fino allora vigenti erano inasprite a dismisura; si dichiarava chiesa di Stato quella ufficiale della madre patria, imponendosi a ciascuno di contribuire alle spese del culto, quantunque la dispersione degli abitanti fosse tale da impedire a non pochi di approfittare di esso, e conculcandosi ogni libertà di coscienza colle pene severe comunicate contro i quakeri ed i non conformisti in genere. Quasi tutto ciò non bastasse, l'assemblea eletta per due anni non deponeva allo spirare del termine i suoi poteri, ma ad immagine di quanto avveniva nella madrepatria rimaneva in carica un sedici anni, durante i quali non solo decretava pei suoi membri emolumenti esorbitanti a spalle dei coloni, ma, degno coronamento all'edificio, colpiva alle radici stesse la democrazia, limitando il suffragio universale. Sotto il pretesto comune ad ogni classe conservatrice che «il modo ordinario di scegliere i _borghesi_ (rappresentanti) per mezzo del voto di tutti gli uomini liberi» produceva «dei disordini e dei torbidi», che non tutti gli elettori erano in grado «di scegliere delle persone sufficientemente adatte ad esercitare una missione sì alta», si decretava nel 1670 che «nessuno, se ne eccettui i liberi proprietari del suolo ed i capi di famiglia, avrebbe d'ora in avanti il voto per l'elezione dei borghesi». La maggioranza del popolo si vedeva così spogliata di quelle franchigie elettorali, di cui era gelosa come del privilegio più prezioso e più caro. Assemblea senza limite di tempo, governo regio indipendente perfino nello stipendio dalla colonia, sistema elettorale ristretto ed indebolito, libertà religiosa soffocata, magistrati di contea irresponsabili e padroni di levar tasse a loro beneplacito, ostilità manifesta ad ogni elevamento intellettuale del popolo, ecco quanto il latifondo alleato al potere regio dava in pochi decenni ad una colonia, che era sorta su basi diametralmente opposte. Gli stessi latifondisti però non avevano troppo da lodarsi di quel governo regio, cui s'erano alleati solo per consolidare il loro potere politico: mentre Carlo II, sempre prodigo di quello d'altri, dispensava a larghe mani le terre della Virginia ai suoi cortigiani, senza nessun riguardo ai diritti acquisiti, i produttori di tabacco si vedevano danneggiati oltremodo dalla politica coloniale della madre patria, che stabiliva un monopolio commerciale altrettanto rovinoso per la Virginia quanto poco sentito nei primi tempi dalle colonie settentrionali. Da una parte i prodotti coloniali dovevano essere trasportati solo in Inghilterra o nei possessi inglesi e per di più su navi inglesi; dall'altra i coloni non potevano ricevere da navi estere le mercanzie loro necessarie, arrivandosi nel 1672 ad ostacolare con dogane interne lo stesso traffico intercoloniale. Mentre le colonie settentrionali per la facilità del contrabbando esercitato su vasta scala, per le incipienti industrie locali e sopratutto per il genere dei loro prodotti agricoli non risentivano gran danno da tali disposizioni; queste, fatte osservare scrupolosamente nel mezzogiorno, unico produttore dei generi d'esportazione, colpivano in pieno petto la società virginiana, la cui vita economica si riduceva tutta alla cultura del tabacco. Sottratto alla concorrenza mondiale, l'unico prodotto del paese veniva venduto a prezzi più bassi sul ristretto mercato inglese; mentre da questo solo ed a prezzi quindi più alti potevano i Virginiani fornirsi degli oggetti alla vita indispensabili. Agli atti di navigazione s'era aggiunta poi la guerra anglo-olandese a danneggiare maggiormente la colonia, le cui poco floride condizioni venivano inasprite ancor più dal dispotismo e dalla rapacità del governatore Berkeley. Il malcontento per tante cause diffuso nella popolazione, nella bassa in ispecie privata delle sue franchigie, non aspettava più che un'occasione per divampare in un incendio, che le condizioni demografiche del paese rendevano ancor più temibile. Una guerra cogli Indiani, che invano tentavano colle armi nel 1675 la difesa del proprio paese da ulteriori usurpazioni bianche, guerra condotta come il solito ferocemente da ambo le parti, dai Pellirosse come dai coloni, che moschettavano perfino i messaggeri di pace, ne fornì il pretesto: un giovane e ricco piantatore d'idee liberali, Nathaniel Bacon, nato in Inghilterra durante le lotte del Parlamento contro il re, si metteva alla testa dei coloni nella lotta contro gli Indiani massacratori nonostante le proibizioni del governatore, geloso di lui e timoroso d'una levata in armi della popolazione. Bacone dietro le istigazioni della fazione più aristocratica veniva dichiarato dal Berkeley ribelle, ed i ricchi coloni lo abbandonavano; ma egli continuava la sua spedizione alla testa dei pochi rimastigli fedeli, mentre una rivoluzione popolare obbligava il governatore a sciogliere la vecchia assemblea. La nuova assemblea, di cui era eletto membro anche Bacone ritornato vittorioso, abrogava tutte le restrizioni imposte dall'altra alle libertà del paese, ed una completa amnistia veniva concessa. Era questa però violata dall'orgoglioso governatore, il quale dichiarando una seconda volta traditore Bacone, ripartito contro gli Indiani, scatenava sulla colonia con la rivoluzione popolare una guerra civile, nella quale la Virginia rivelava già quell'ardire e quell'entusiasmo per la libertà, di cui darà prova un secolo dopo. Contro il popolo il Berkeley radunava una massa di servi affrancati per l'occasione, di Indiani reclutati, di mercenari, di soldati inglesi dei vascelli ancorati in quelle acque; ma i coloni, presa Jamestown, la bruciavano per non lasciarla al nemico: due delle case migliori appartenevano a Laurence ed a Drummond, e i due patriotti per primi vi appiccavano il fuoco. La Virginia offriva così il suo unico villaggio in olocausto alla libertà! Bacone però moriva di febbri malariche durante la lotta, ed i suoi partigiani privi del loro energico capo venivano ben presto domati: vent'uno fra essi, tra cui il Drummond, aprivano il martirologio della libertà americana. La reazione fu così stolta e sanguinaria, che lo stesso Carlo II la sconfessava, dicendo: «il vecchio folle ha sacrificato più vite in quel paese deserto, che non io stesso per l'assassinio di mio padre». Non per questo però i principii sostenuti da Bacone venivano riconosciuti dalla metropoli, troppo gelosa della sua supremazia assoluta sulla colonia. Il Berkeley ritornava in Inghilterra per scolparsi e vi moriva appena arrivato; ma l'antico ordine di cose economico e politico veniva ristabilito, le misure prese dall'assemblea di Bacone abrogate, e la legislazione, conforme alle istruzioni regie, le quali raccomandavano «d'aver cura che i membri dell'assemblea non fossero eletti che dai liberi proprietari», conservava tutti gli elementi aristocratici introdotti in essa anteriormente. § 2. MARYLAND. — Come il Massachusetts nel Nord, così la Virginia nel Sud fu per ragioni cronologiche e più ancora sociali la madre d'un gruppo di colonie, affini per clima, per suolo, per ordinamento politico. Prima tra queste fu il Maryland[11] uscito può dirsi dalle sue viscere, giacchè il territorio, che sotto tal nome venne ad aggiungersi quale colonia autonoma all'Antico Dominio, era compreso nei limiti assegnati alla Virginia nella seconda sua carta (1609). Un inglese intraprendente e risoluto, mandato in America nel 1621 dalla compagnia di Londra per costruire la carta del paese e diventato in seguito membro del consiglio virginiano, Guglielmo Clayborne, aveva esplorato il paese al nord del Potomac, avviato il primo commercio in pelli cogli indigeni, creato per esercitarlo una compagnia munita di regia patente ed infine fondati alcuni stabilimenti sull'isola di Kant, nel cuore della futura colonia, e presso la foce della Susquehannah; quando il cattolico sir Giorgio Calvert, lord di Baltimore, che, partecipe fin da giovine dell'entusiasmo generale per le piantagioni americane, aveva tentato senza successo di fondarne una in Terra Nuova, gettava gli occhi sulla Virginia come paese più adatto ai suoi disegni. Vi si recava infatti personalmente per dar corpo ai suoi sogni, ma l'intolleranza religiosa gli faceva capire subito che a lui, convertito nel 1624 al cattolicesimo, mal sarebbe stato possibile fondare pacificamente una colonia in terra di episcopali. Egli si rivolgeva allora direttamente al re, di cui nonostante la conversione aveva conservato il favore per le doti eminenti, i servigi prestati, la moderazione, il credito ampio presso tutti i partiti; ed una carta gli concedeva come proprietà privata assoluta e trasmissibile quel paese di là dal Potomac, su cui già fissavano cupido l'occhio e Francesi ed Olandesi e Svedesi: così nel 1632 veniva staccata dalla Virginia e costituita in provincia autonoma col nome di Maryland, in onore della regina inglese, il paese dal 40º grado di latitudine al Potomac e dalle sorgenti di questo all'Atlantico. Accanto ai diritti del proprietario, cui la corona cedeva ogni sua prerogativa, salvo il giuramento di fedeltà, l'omaggio di due freccie indiane all'anno, ed il tributo d'un quinto dell'oro e dell'argento da scavare, questa carta contrariamente alle altre garantiva sufficienti libertà ai coloni, stabilendo non solo che l'autorità del proprietario non potesse estendersi sulla vita, sulla libertà, sui beni di alcun emigrante, ma che i coloni partecipassero essi stessi alla legislazione della provincia, che nessun statuto fosse valido senza l'approvazione della maggioranza degli uomini liberi o dei loro deputati. Il governo rappresentativo andava così indissolubilmente attaccato alla carta fondamentale del Maryland, la quale per di più, riconoscendo religione del paese il cristianesimo in generale e non già una data confessione di esso, assicurava l'eguaglianza religiosa come quella civile e faceva della nuova colonia un asilo, che lo spirito illuminato del saggio e buono colonizzatore voleva rifugio sicuro ai dissenzienti religiosi d'ogni chiesa cristiana, ai perseguitati «papisti» in prima linea. Giorgio Calvert moriva nello stesso anno 1632 prima di poter realizzare il bel sogno, ma il figlio Cecilio col patrimonio ed il grado ereditava pure le idee del padre e s'accingeva a compierne i disegni in America, fondandovi con spese ingenti una colonia rimasta poi per parecchie generazioni alla sua famiglia. Nel 1633 suo fratello Leonardo Calvert conduceva sull'«Arca e Colomba» un duecento emigranti, che fondavano l'anno dopo un primo stabilimento non lungi dalla confluenza della St. Mary col Potomac, su un territorio coltivato, che gli indigeni disposti già prima ad emigrare regalavano dietro compenso di tela, coltelli, penne ed altro. Tutto sembrava cospirare alla fortuna d'un paese prediletto dalla natura: dolcezza di clima, fertilità di suolo, tolleranza religiosa, munificenza del proprietario, attaccamento devoto al suo liberale governo da parte dei coloni garantivano un prospero svolgimento a quella colonia, la quale in sei mesi fece più progressi della Virginia in molti anni, senza conoscerne le ansie ed i stenti dei primi tempi. Subordinata ad un capo ereditario, la sua popolazione non dimostrava meno per questo la coscienza profonda della propria missione, l'attitudine straordinaria al _selfgovernment_: sin dalle prime sessioni l'assemblea popolare, composta di tutti gli uomini liberi, rivelava lo spirito del popolo nascente, formulando una dichiarazione di diritti, che, mentre riconosceva l'obbligo di fedeltà al re e garantiva le prerogative di lord Baltimore, confermava agli abitanti tutte le libertà godute in pratica dagli Inglesi: si stabiliva un sistema di governo rappresentativo, in cui erano attribuite all'assemblea generale tutti quasi i poteri spettanti in Inghilterra alla camera dei Comuni. I torbidi sollevati in seguito dalle pretese del Clayborne sul territorio, pretese sostenute anche ma invano a mano armata e con effusione di sangue, la lotta fra cattolici e puritani, i quali combattendo durante il protettorato del Cromwell il diritto del proprietario volevano togliere agli avversari la stessa libertà di religione, lungi dal far naufragare le franchigie degli abitanti, le consolidarono ancor più dando alla libertà salde radici negli animi: i suoi abitanti amavano la libertà anche se turbolenta, ed in essa cercavano gli eterni rimedi dei mali passeggeri da essa prodotti. E l'attaccamento alla libertà si manifesta più vivo che mai nei rapporti della colonia col suo proprietario. Mentre qui infatti, come nelle altre colonie di proprietari, la potenza del popolo non correva nessun rischio da parte della corona, che non si era riservata altro diritto se non di annullare le leggi che fossero contrarie a quelle dell'Inghilterra, altra ingerenza che quella di imporre gli ufficiali delle dogane e delle corti dell'ammiragliato, essa veniva ristretta dall'autorità del proprietario. Questi invero s'era riservato un triplice veto sulle decisioni dell'assemblea, veto da esercitarsi dal suo consiglio, dal suo luogotenente o da lui stesso; istituiva le corti di giustizia e ne designava i membri; nominava tutti i funzionari della colonia e delle singole contee; possedeva in proprietà assoluta le terre ancora vacanti e ricavava un tributo dalle altre, tenendo così la popolazione intera come sua livellaria non solo ma ottenendo anche ad ogni concessione nel dominio inculto una cauzione in denaro, e traendo altri proventi di origine feudale o giudiziaria o commerciale. Più ostico poi d'ogni altro riusciva ai coloni il potere del proprietario di imporre esso e riscuotere le imposte nelle contee. A cancellare tale odiosa prerogativa, negli ultimi anni di vita di Cecilio Calvert si concludeva tra il proprietario ed i rappresentanti del popolo una serie di patti costituenti un compromesso, conosciuto col nome di «_atto di riconoscenza_», in virtù del quale il potere del primo di levare imposte fu ristretto, applicandosi in compenso un dazio di esportazione sul tabacco, il cui provento dovea per metà esser consacrato alle spese della colonia, per metà costituire la rendita del proprietario. Con ciò però l'assemblea si privava del principale suo strumento per imporsi al proprietario, al governatore ed agli altri funzionari, i quali non dovevano più aspettare da essa anno per anno l'assegnamento delle somme occorrenti. La successione di Carlo Calvert al padre, morto nel 1675, dava un forte colpo all'autorità del proprietario, basata sul rispetto e la riconoscenza, ma contraria allo spirito democratico della colonia, presso cui la rivolta di Bacone trovava un'eco profonda di simpatia. Ad evitare allora che il dissidio ormai manifesto scoppiasse in aperta rivolta, il nuovo lord proprietario limitava arbitrariamente nel 1681 il suffragio, restringendolo agli uomini liberi possessori d'un feudo di 50 acri od aventi una fortuna personale di 40 sterline. Ma al principio della sovranità popolare si intrecciava allora il fanatismo religioso: il protestantesimo si trasformava, come altrove, in setta politica, e l'opposizione a lord Baltimore come sovrano feudale fece causa comune col fanatismo degli anglicani, i quali ricevuti nella colonia sul piede della più completa eguaglianza, coi cattolici volevano monopolizzare per sè la libertà di coscienza e di culto. Nel 1689, approfittando del trionfo di Guglielmo e Maria, il partito protestante si impadroniva del governo, che nel 1691 veniva sottratto del tutto al proprietario colla revoca della sua carta e la trasformazione del Maryland in colonia della corona: l'episcopato diventato religione predominante confiscava la libertà religiosa dei cattolici in una colonia fondata da cattolici, in un paese dove gli stessi papisti avevano dato esempio allora sublime di tolleranza! Solo quando il figlio del proprietario, Benedetto Calvert, si convertiva alla chiesa anglicana, i Baltimore venivano ristabiliti nel loro diritto di proprietà sulla colonia, nel 1715. Le dissensioni intestine e le vicende esterne non avevano impedito intanto lo sviluppo progressivo del paese: il Maryland divenuto ricco e fiorente annoverava già nel 1660 un 12.000 persone; al 1688 un 25.000 circa; nel 1754 quasi 150.000 di cui oltre 40.000 schiavi negri. Come la Virginia anche il Maryland era una colonia di piantatori, di cui il tabacco costituiva il prodotto principale, la servitù temporanea dei servi e la schiavitù a vita dei negri la forma di lavoro predominante, il monopolio economico della madre patria incarnato negli atti di navigazione il cancro roditore: qui pure gli abitanti erano dispersi in mezzo ai boschi e lungo i fiumi; rarissime e tali di nome più che di fatto le città, che invano la legislatura dei primi tempi aveva perfino cercato di creare con decreti; un piccolo mondo a sè ogni piantagione; trascurata affatto l'istruzione popolare. Tabacco e schiavitù avevano plasmato insomma nel Maryland una società non molto dissimile nelle linee generali da quelle della Virginia. Ben più della carta fondamentale del Maryland, che aveva concesso al proprietario il diritto di creare nella colonia tutta una gerarchia feudale, ben più di questo principio feudale che, dove morto dove morente nel suo paese di origine, non avrebbe potuto certo ringiovanire trapiantato sul vergine suolo, la grande proprietà fondiaria, determinata dal genere delle culture, e la schiavitù dei negri creavano anche nel Maryland, come già in Virginia, come in tutte le altre colonie meridionali, una potente aristocrazia, anacronismo imposto dal clima, dal suolo, dal momento storico all'egalitaria società anglo-americana. Accanto al tabacco però andava qui sviluppandosi anche qualche altra cultura, tra cui principalissima quella del lino e della canapa con le industrie tessili relative; cosicchè il Maryland coi suoi lavoratori bianchi più numerosi non offrirà l'uniformità di vita economica e sociale della Virginia: posto al confine tra le colonie meridionali e le centrali, esso parteciperà fino ad un certo punto della vita di queste oltrecchè di quelle. Dove invece clima e suolo cospireranno insieme a portare alle ultime conseguenze il sistema sociale basato sul latifondo e sulla schiavitù, sarà nelle colonie poste a mezzogiorno della Virginia, nella parte bassa cioè delle Caroline, nella Georgia, e più tardi nell'ulteriore sud. § 3. LE CAROLINE. — Se il Maryland uscì dalle viscere, può dirsi, dell'Antico Dominio, da figli di questo ricevette i primi stabili colonizzatori il paese chiamato già nel secolo precedente Carolina dagli ugonotti francesi del Ribault, i quali dal nome in fuori null'altro vi avevano lasciato di duraturo dopo lo scempio fattone dagli Spagnuoli. Già dal 1622 degli intraprendenti Virginiani facevano una prima ricognizione nel paese al sud del fiume Chowan, e dal 1642 in poi si ripetevano con insistenza sempre maggiore incursioni ed esplorazioni nel territorio compreso tra il capo Hatteras ed il capo Fear col fine di colonizzarlo, tentativi incoraggiati dalla legislatura virginiana mediante vaste concessioni di terre. A questa spontanea immigrazione dovevano loro vita i primi stabilimenti sul fiume Albemarle; mentre 160 miglia a sud-ovest di questo, sulla costa del capo Fear, sbarcavano a fondarvi una piccola colonia di pastori, su un suolo fattosi loro cedere dagli indigeni, degli arditi emigranti della Nuova Inghilterra: ad essi venivano ad aggiungersi subito dopo dei piantatori delle Barbados, desiderosi di fondare uno stabilimento proprio, e la nuova colonia prendeva un certo sviluppo sino a contare già nel 1666 un ottocento abitanti. Oltre ai Virginiani, agli emigranti della Nuova Inghilterra ed a quelli delle Barbados vantavano diritti su questo territorio gli Spagnuoli, che dalla loro fortezza di Sant'Agostino nella Florida potevano illudersi di possedere un paese bagnato di sangue castigliano e macchiato vergognosamente di sangue francese ma non fecondato del loro sudore. Ad una terra però, che per la sua posizione subtropicale prometteva le derrate più preziose, avevano già rivolto i cupidi sguardi dei rapaci cortigiani di Carlo II; e questi munifico come al solito, senza punto curarsi nonchè degli altri pretendenti della stessa concessione fatta già dal padre Carlo I nel 1629 a sir Roberto Heath ed eredi, concedeva nel 1663 ad otto nobili inglesi, che l'avevano chiesta di nome «per la propagazione del Vangelo», di fatto per accrescere la loro fortuna, la provincia della Carolina, il territorio cioè compreso fra il 36º grado di lat. ed il fiume S. Matteo: due anni dopo, nel 1665, una nuova carta ne ampliava ancor più i confini, per includervi dentro i nuovi stabilimenti d'origine virginiana, dandole per limite il 36º 30′ parallelo al nord, il 29º al sud, l'Atlantico all'est, il Pacifico all'ovest! Lo storico Clarendon, avido per quanto sagace ministro, il generale Monk già compensato dei suoi servigi col titolo di duca d'Albemarle, lord Craven vecchio soldato, lord Ashley Cooper più tardi conte di Shaftesbury, sir Giovanni Colleton, lord Giovanni Berkeley, il fratello sir Guglielmo, governatore della Virginia, e sir Giorgio Carteret diventavano così proprietari e sovrani immediati d'un paese, che doveva abbracciare i futuri stati della Carolina settentrionale, della Carolina meridionale, Georgia, Tennessee, Alabama, Mississippi, Louisiana, Arkansas, gran parte della Florida e del Missouri, quasi tutto il Texas e porzione notevole del Messico! Il loro diritto di proprietà dovea essere illimitato e la loro autorità sovrana assoluta, non essendosi il re riservato che una sterile sovranità; ma ai coloni era nella carta garantita, cosa allora notevole, piena libertà di coscienza e riservata, cosa non meno importante, una certa partecipazione alla legislazione locale, cui doveano concorrere le assemblee dei liberi proprietari. Uno splendido impero feudale ricco di tutti i prodotti dei tropici già balenava alla mente dei proprietari, i quali incaricavano di redigerne una costituzione, una costituzione perfetta, degna di attraversare i secoli, il più capace ed attivo della compagnia, quel Shaftesbury ch'era il rappresentante più genuino e cosciente dell'aristocrazia territoriale inglese, il campione più formidabile delle sue libertà, vale a dire dei suoi privilegi, da lui scambiati con la stessa grandezza e prosperità della nazione, e si trovava allora all'apogeo della vita, in tutta la maturità del suo genio speculatore, della sua eloquenza, della sua ambizione. Spirito penetrante, costui aveva scoperto i tesori d'intelligenza d'un filosofo ancora sconosciuto, Giovanni Locke, entusiasta pur esso di quelli che si chiamavano i «principi inglesi», convinto lui pure esser l'aristocrazia il baluardo più sicuro contro ogni dispotismo monarchico come oclocratico, l'aveva fatto suo amico e lo prendeva ora a consigliere e collaboratore nella grande opera. Quale legislazione dovessero dare alla Carolina il futuro prototipo della rivoluzione del 1688, il conservatore geniale in cui sembrava incarnarsi tutta la classe aristocratica e rivivere tanti secoli di lotta a difesa del privilegio, ed il filosofo che nella rigidezza del suo sistema, tutto cervello e niente cuore, definiva con brutale sincerità il potere politico «il diritto di fare le leggi per regolare e conservare la proprietà», è facile immaginarlo: ne saltò fuori un sistema politico nonchè ridicolo inattuabile, date le condizioni reali del paese cui doveva applicarsi! Il governo doveva risieder nelle mani d'un'aristocrazia territoriale, alla cui testa stavano gli otto proprietari presieduti dal più anziano, intitolato Palatino. Il paese dovea dividersi in contee di 480.000 acri[12], divisa ciascuna in cinque parti, di cui una proprietà inalienabile dei proprietari, una patrimonio inalienabile ed indivisibile della nobiltà, costituita d'un langravio o conte e di due cacicchi o baroni, e tre infine riservate al popolo o possedute da signori feudali insieme col potere giudiziario: grado e feudo erano ereditabili ma inalienabili. Al di sotto della feudalità una classe ristretta di piccoli agricoltori; più sotto ancora una di servi della gleba, provvisti dietro annuo compenso di 10 acri di terreno e non solo privati d'ogni diritto politico ma attaccati al suolo, essi ed i loro figli, di generazione in generazione; all'ultimo grado infine di abbiezione una classe di schiavi negri, su cui era riservata al padrone autorità e potere assoluto. Il potere esecutivo e giudiziario sarebbe spettato ai proprietari, che l'avrebbero esercitato mediante una gerarchia di funzionari, Palatino, cancelliere, giudice supremo, connestabile, ammiraglio, tesoriere, gran maggiordomo, ciambellano, coadiuvati ciascuno dalla loro corte scelta tra i langravi, i cacicchi, i popolani liberi: proprietari o loro deputati, funzionari e rispettive corti doveano costituire il Gran consiglio. Il potere legislativo sarebbe affidato ad un parlamento composto di quattro stati, dei proprietari o loro deputati, dei langravi, dei cacicchi, dei comuni o rappresentanza di liberi possidenti per i quali occorreva un possesso di 50 iugeri per l'elettorato e di 500 per l'eleggibilità: per maggior garanzia però le proposte di legge doveano partire dal Gran consiglio, ogni stato poteva opporvi il suo veto nel caso di incostituzionalità, ed infine i proprietari si riservavano il diritto di rigettare gli atti del Parlamento! Tutte le chiese venivano tollerate in questa costituzione col patto però che riconoscessero l'esistenza di Dio, l'obbligo del servizio divino, la necessità del giuramento, e che nelle loro adunanze non si attaccasse il governo e l'ordine costituito: una sola religione vera ed ortodossa veniva riconosciuta, l'anglicana, proclamata contrariamente al desiderio del Locke religione nazionale nella Carolina. Interesse dei proprietari, desiderio di fondare un governo di pieno aggradimento della corona, timore d'una potente democrazia erano i moventi di questa costituzione modello, per la quale tutto doveva cristallizzarsi, tutto venire minutamente regolato, non solo la stampa sottomessa alla sorveglianza d'una corte aristocratica ma perfino i gusti delle donne e dei fanciulli, che cadevano sotto il controllo d'una corte speciale, cui spettava tra le altre conoscere «delle cerimonie e delle genealogie, dei divertimenti e delle mode»! CAROLINA SETTENTRIONALE. — Mentre politica e filosofia stendevano sulla carta dei piani mirabolanti di legislazione grettamente aristocratica, farneticando di palatini e langravi, di baroni e feudatari, di ammiragli e corti araldiche da introdurre fra povere capanne disperse nel deserto e pei boschi della Carolina; gli abitanti della parte settentrionale di questa, porgendo ascolto soltanto alla voce della natura, ispirandosi semplicemente ai loro bisogni ed alle loro condizioni reali, si davano un ordinamento certo meno smagliante ma senza confronto più sapiente: un governatore di piena fiducia, un consiglio di dodici membri, di cui sei eletti dai proprietari e sei dall'assemblea, un'assemblea composta del governatore, del consiglio e di dodici delegati dei liberi possidenti, ecco il governo semplicissimo, ma rispondente al suo fine, di Albemarle, il primo nucleo della futura Carolina del Nord. Le leggi emanate da questo governo locale convenivano in tutto e per tutto alla rozza società agricola del paese, lasciavano ad essa piena libertà di coscienza, accordavano piena garanzia contro ogni tassa non votata dalla legislatura coloniale, ne assicuravano lo svolgimento colla legge sui debiti, per cui nessuno poteva durante cinque anni venir perseguitato per debiti contratti fuori della colonia, colla parificazione del matrimonio ad un puro e semplice contratto civile davanti ad un magistrato e a due testimoni, coll'esenzione da ogni imposta per un anno ai nuovi coloni, cui dopo due anni di residenza si assegnavano terre in proprietà. Queste leggi corrispondenti ai bisogni del paese venivano confermate nel 1670, ratificate di nuovo nel 1715 e restavano in vigore per più d'un mezzo secolo nella parte settentrionale della Carolina; mentre la legislazione del Locke rimaneva lettera morta, nonostante i tentativi ripetuti di applicazione, che a nulla riuscivano se non a produrre malcontento ed anarchia nel paese, tratto tratto veniva modificata tra l'indifferenza generale, e nel 1698 terminava coll'esser abolita quasi tutta anche formalmente, riducendosi il potere dei proprietari alla scelta del governatore. La realtà aveva, come sempre, trionfato sui piani chimerici di assetti sociali: le condizioni territoriali da una parte, dall'altra l'amore innato pel _selfgovernment_, più ancora l'olimpico disprezzo per ogni autorità esteriore in uomini quivi riparati in cerca di fortuna, l'avevano vinta sui sogni dei dottrinari. Se v'era infatti paese nord-americano, dove tutto favorisse la più sconfinata indipendenza, questo era appunto la parte settentrionale della Carolina. Cattivi i porti e pressochè impossibile quindi ogni sviluppo commerciale, impraticabili le foreste, ghiaioso e sterile il suolo, occupato inoltre per tratti vastissimi da paludi: la popolazione era composta di emigranti riottosi ad ogni freno, spesso violenti, energici sempre, i quali, incoraggiati dalla legislazione della colonia, capitavano lì da ogni parte, dalla Virginia come dalla Nuova Inghilterra, dalle Barbados come dall'Europa: erano avventurieri, che cercavano vita e libertà, erano quackeri o «rinnegati» che sfuggivano la persecuzione religiosa. Il taglio dei boschi, la caccia all'orso ed al castoro, la preparazione della pece e della trementina, le frotte di maiali che inselvatichiti andavano errando, offrivano loro di che vivere: abitavano dispersi per la foresta, senza altro guardiano che un cane vegliante intorno al solitario asilo, senz'altra compagnia che la moglie, i figli, qualche schiavo negro, senz'altri spettacoli che quelli della natura, senz'altro godimento che quello dell'eterna primavera e della più sconfinata libertà. Non città, non villaggi, non ponti, non scuole, non chiese, non industrie; unica strada fra i boschi le tacche incise sugli alberi a guidare il cammino: prima del 1703 non vi fu nella colonia alcun stabile ministro del culto, non alcuna chiesa prima del 1705, non una stamperia prima del 1754! In siffatto paese l'azione del governo si trova naturalmente paralizzata dallo spirito d'indipendenza degli abitanti, che si fa ogni giorno più selvaggio: il dominio dei _proprietors_ si riduce ad un'ombra, ed il malaugurato governatore, che si azzarda di far riconoscere tale potere, od intende di far sentire la propria autorità, od impone tasse gravose od altro, vede il popolo ribellarsi, come nel 1678, nel 1688, nel 1711, e ristabilire la sua selvaggia libertà: dal punto di vista politico questa rozza società viveva allo stato può dirsi di natura ancora un mezzo secolo dopo la fondazione della colonia, senza curarsi minimamente dei poteri costituiti, senza dar nulla nè a Dio nè a Cesare: «De tributo Cæsaris nemo cogitabat Omnes erant Cæsarea nemo censum dabat». Se un'Arcadia «di bricconi e di ribelli», come pretendevano i realisti, la Carolina settentrionale era pure il paradiso dei quackeri, e ciò basta a chiarirci come un soffio d'umanità non cessasse d'alitare in questa società primitiva, la quale più che un'accozzaglia di delinquenti era una raccolta di uomini sciolti da ogni legame politico e religioso: alla rivoluzione essi non erano trascinati da vendetta o da odio, ma da geloso furore di quella libertà, che volevano intera, come senza garanzie così senza inquietitudini. Solo la schiavitù dei negri, che qui del resto non prendeva nei primi tempi molto sviluppo date le condizioni economiche del paese, faceva un doloroso contrasto con quella sconfinata libertà, di cui i coloni bianchi volevano fruire. Nel 1729 anche l'ombra del governo dei _proprietors_ svaniva, ed il paese diventava una colonia della corona col nome di Carolina settentrionale, colonia che nel 1754 annoverava già un 90.000 abitanti, di cui un 20.000 schiavi negri, limitati di preferenza alle parti del paese più favorevoli alle colture tropicali. CAROLINA MERIDIONALE. — Diverso affatto sin dagli inizi fu invece lo svolgimento della parte meridionale della Carolina, del paese di cui gli emigranti del capo Fear avevano iniziato la colonizzazione, qualche anno innanzi che questa fosse oggetto dei profondi studi del Locke. 1 primi coloni mandati dai _proprietors_ della Carolina, quando le sorti dello stabilimento precedente volgevano già a rovina, vi arrivarono su tre bastimenti nel 1670 ed, esplorati i luoghi dove già gli Ugonotti un secolo prima avevano inciso i gigli di Francia, prendevano lor stanza presso il fiume Ashley in un punto che sembrava «favorevole alla coltivazione ed alla pastura», su una costa che le epidemie e le guerre di tribù contro tribù avevano pressochè spopolata di indigeni. Prima di congedarli pel nuovo mondo, i proprietari li avevano muniti d'una copia imperfetta delle costituzioni fondamentali, non ancora ultimate; ma fino dal primo sbarco riusciva evidente qui pure, come nella Carolina settentrionale, l'impossibilità di «dar esecuzione al grande modello». Si tenne dagli emigranti una convenzione parlamentare, e ne uscì un governo rappresentativo, di cui costituivano gli elementi semplicissimi un governatore, un Gran consiglio formato da cinque membri nominati dai _proprietors_ c da altri cinque eletti dai coloni ed avente diritto di veto sugli atti del potere esecutivo, una legislatura costituita dal governatore, dal consiglio e da venti delegati scelti dal popolo. L'anno dopo veniva inviata nella colonia una copia completa delle costituzioni-modello, accompagnata da tutto un assortimento di regole e d'istruzioni; ma, se il consiglio aristocratico riconosceva la loro validità, i rappresentanti del popolo vi si opposero risolutamente. Così la nuova colonia racchiudeva già in sul nascere elementi di divisione politica: in essa si troveranno di fronte due partiti, quello del popolo e quello dei proprietari, lotta pro e contro la libertà cui i dissensi religiosi imprimevano maggior accanimento, schierandosi i partigiani della chiesa anglicana sempre in minoranza dal lato dei proprietari, facendo i dissidenti di tutte le categorie causa comune col partito popolare. La gran maggioranza degli abitanti intenderà di darsi le istituzioni, che ad essa più convengono; i lords proprietari, troppo deboli per affermare il loro potere, saranno abbastanza forti per intralciare ed ostacolare mediante il loro partito, costituente una vera oligarchia, ed i governatori da essi eletti il _selfgovernment_ dei coloni; donde l'anarchia che di tratto in tratto funesta il paese. È su questa trama, che si intesse infatti per un mezzo secolo l'agitata vita politica della Carolina meridionale, in cui le frequenti rivoluzioni contro i proprietari ed i loro rappresentanti, famosa quella del 1681 contro il Colleton, attestano il fervore d'indipendenza, il desiderio di _selfgovernment_ degli abitanti. Ed intanto la colonia va rapidamente sviluppandosi, mentre la capitale Charleston estende larghe e regolari le sue strade, mentre nuovi elementi etnici vengono a fondersi nella sua popolazione: sono emigranti dei Nuovi Paesi Bassi, che sperano di far fortuna impiegando le loro braccia ed i loro capitali in terre di fertilità leggendaria; sono europei, che vengono a tentarvi le culture più ricche del Mediterraneo; sono sovratutto perseguitati per motivi di coscienza, che trovano in essa un rifugio altrettanto sicuro ma molto più ridente e grato della Carolina settentrionale, dissidenti inglesi del Sommersetshire, cattolici irlandesi, presbiteriani scozzesi avanzi della cospirazione di Monmouth, ugonotti francesi infine sbattuti dalla raffica della reazione religiosa dopo la revoca dell'editto di Nantes, uomini onesti, laboriosi, intraprendenti che possedevano tutte le virtù dei puritani inglesi senza averne il fanatismo. La Carolina meridionale ci presenta così un aumento di popolazione ben più rapido della settentrionale: ne è causa fondamentale la ricchezza del suolo, il proficuo sfruttamento di esso col lavoro di schiavi negri. Coeva delle prime piantagioni, giacchè gli emigranti delle Barbados avevano portato seco i loro schiavi, la schiavitù negra aveva trovato qui il terreno più adatto a svilupparsi. Nel Maryland e nella Virginia, favorevolissime pel loro clima al lavoratore bianco, prevalse a lungo la servitù dei bianchi, e la classe dei lavoratori bianchi non venne mai a sparire; nella Carolina settentrionale il suolo era troppo ingrato per imporre d'un colpo coi suoi prodotti il lavoro dei negri; della meridionale invece e clima e suolo fecero sin dall'origine uno stato piantatore sulla base della schiavitù. I coloni s'accorgevano subito che il clima non solo conveniva agli Africani assai meglio di quello delle colonie più settentrionali, ma era pei bianchi ingrato nei lavori faticosi dei campi. Nè basta. La fertilità del suolo, il caldo clima avevano fatto vedere nella Carolina meridionale il paese più adatto alle colture del mezzogiorno d'Europa; ed emigranti olandesi, e proprietari, e lo stesso Carlo II in un momento di tenerezza, si affannavano nei primi anni di essa ad introdurvi la coltura dell'olivo, della vite, degli agrumi, la coltivazione del gelso e l'allevamento del baco da seta. Altri prodotti più facili e più proficui, più adatti sopratutto a quel suolo avevano soffocato però quei tentativi e con la loro completa riuscita preparato un avvenire agricolo e sociale affatto diverso al paese, il cotone e più ancora il riso, considerato quest'ultimo il migliore del mondo e coltivato in così vasta scala, che già nel 1691 la legislatura metteva a premio la scoperta di nuovi processi per mondarlo. La coltivazione di essi, possibile solo coi negri sotto quel clima così caldo, in quelle paludi così micidiali, dava alla schiavitù uno sviluppo quale non s'era veduto fino allora che nelle Indie occidentali: «acquistare schiavi negri, senza i quali un piantatore non può mai fare gran cosa» divenne da allora in poi la grande preoccupazione degli emigrati; e la tratta dei negri, esercitata in quel tempo sulla più vasta scala da mercanti europei ed americani, da commercianti olandesi di New York e da schiavisti puritani di Boston, ne fornì in tanta copia al paese che nel 1754 essi erano circa 40.000 di fronte ad altrettanti bianchi, proporzione la quale salirà in seguito a 22 schiavi contro 12 liberi, nonostante la distruzione dei negri operata dal clima e dal lavoro! E con tutto ciò il prodotto era pur sempre inferiore alla richiesta d'un mercato ogni giorno più vasto; cosicchè, non bastando i negri all'avidità dei coloni, che con febbre crescente allargavano le colture sul vergine suolo, anche gli indigeni, com'era avvenuto nei possessi spagnoli, furono sottoposti alla schiavitù. Da ciò nuove ragioni di ostilità da parte degli Indiani spogliati del loro suolo e lotte fierissime tra bianchi e Pelli Rosse, i quali trovavano non di raro un ausiglio potente in quegli Spagnuoli, che pretendevano essi pure al possesso del paese. Malcontenti dello sviluppo della Carolina, adirati che in Charleston trovassero rifugio i pirati dei loro possessi, gli Spagnuoli già nel 1686 armavano da S. Agostino una spedizione che saccheggiava e distruggeva lo stabilimento scozzese di Edisto: nei primi anni del secolo seguente i Caroliniani prendevano la rivincita saccheggiando Sant'Agostino, donde più tardi un nuovo attacco spagnuolo contro la stessa Charleston, andato però a vuoto. In queste lotte la Carolina doveva difendersi da sè, chè i «_proprietors_» non solo mancavano di forza sufficiente a salvaguardarla, ma bene spesso le impedivano per fini politici o personali di condurre con troppo vigore la lotta; donde il dilagare del malcontento nei coloni, insofferenti della supremazia ed irritati della politica finanziaria per loro gravosa di quei «_proprietors_», che «non davano alcun aiuto nel momento del bisogno e si ricordavano d'aver solo dei diritti, ma però nessun dovere», malcontento della colonia, cui faceva eco, spalleggiandola, il Parlamento inglese avido di estendere anche sopra di essa il suo dominio. Nel 1719 una generale per quanto pacifica insurrezione poneva fine al sistema dei proprietari, ed il governatore della Virginia prendeva le redini del governo in nome della corona inglese: dieci anni dopo i «_proprietors_» rinunciavano dietro compenso di 17.500 sterline ad ogni loro diritto. Il paese costituiva così una nuova colonia autonoma, col nome di Carolina del Sud, una colonia che meglio ancora della Virginia era destinata ad offrire il vero tipo d'una società a schiavi. Mentre infatti nella Virginia i piantatori sono costretti a far istruire i loro figli all'estero, in un ambiente cioè diverso e sotto l'impulso quindi di altre idee, quelli della Carolina trovano in Charleston, dove passano una parte dell'anno, la vera capitale del loro mondo ristretto, la città dove possono con tutta sicurezza educare alle idee schiaviste i propri figli. Nella Carolina meridionale si vedeva così la schiavitù divenire la pietra angolare del sistema sociale, il fattore capitale della sua storia. § 4. GEORGIA. — L'esperimento politico del Locke era svanito come bolla di sapone prima ancora d'esser iniziato, ma non per questo l'America cessava d'esser il campo di nuovi esperimenti sociali, destinati essi pure a naufragare contro gli scogli di quella realtà, che non si svolge sulla trama segnata dalla mente individuale ma su quella preparata dai precedenti storici e geografici. Quando anche l'ultima ombra di dominio spariva pei proprietari della Carolina, già si pensava nell'Inghilterra di tentare nell'estrema zona meridionale di essa un «santo esperimento». Lo concepiva un ardito e tenace generale inglese, Giacomo Oglethorpe, nel quale il mestiere dell'armi non aveva soffocato i sensi più generosi del cuore, l'amore sentito per l'umanità sofferente. La ferocia della legislazione dell'epoca, di quella in ispecie contro i debitori insolventi, di cui ben 4000 all'anno venivano condannati al lento martirio di crudo carcere, non pochi per non uscirne mai più, aveva richiamato l'attenzione del generoso filantropo, il quale cercando i rimedi di tanto male, ideava un salvataggio per questi infelici nella creazione d'una colonia, di cui facevasi apostolo caldissimo presso il parlamento, presso la corte, presso il pubblico. La sua propaganda aveva luogo in un'epoca in cui l'Inghilterra mirava ad estendere i suoi possessi, proprio negli anni che lo stabilimento di nuove piantagioni al sud della Carolina meridionale diventava oggetto di ripetuti progetti, cui solo il timore degli Spagnuoli pretendenti a quel paese impediva di dare pratica attuazione; cosicchè non riuscì difficile all'influente uomo politico di ottenere da Giorgio II nel 1732 una patente, che gli accordava per 21 anni il paese compreso tra i fiumi Savannah ed Alatamaha, fra l'Atlantico ed il Pacifico, per tentare il suo «santo esperimento» di colonizzazione in quel disputato territorio. La definizione di «deposito fiduciario pei poveri» ed il sigillo portante un gruppo di bachi da seta col motto «_non sibi sed aliis_» indicano che doveva essere materialmente e moralmente nell'animo del suo fondatore la futura colonia, la quale veniva aperta a tutti, anche agli ebrei, meno che ai papisti, col nome di Georgia Augusta in onore del re. Salpato l'anno stesso con 120 emigranti alla volta d'America, l'Oglethorpe drizzava la sua tenda all'ombra di quattro pini sulla riva collinosa del fiume Savannah, là dove sorge la città omonima. La fama l'aveva preceduto in quelle solitudini ed al «bianco grande e buono» si presentava un capo indiano, offrendogli una pelle di bufalo, sul cui interno erano dipinte rozzamente la testa e le penne d'un'aquila: «le penne dell'aquila, diceva l'indiano, sono morbide e significano amore; la pelle del bufalo è calda ed è il simbolo della protezione. Quindi ama e proteggi le nostre famiglie». Ed il saggio accoglieva con amore quei poveri diseredati della natura, pagava loro il territorio da occupare e rimaneva tutta la vita l'amico fedele della razza conculcata; mentre gl'infelici ed i perseguitati della razza conculcatrice venivano essi pure a cercare un rifugio nella sua colonia. Erano sopratutto fratelli moravi, che perseguitati ferocemente nell'Austria fondavano nel 1734 in Ebenezer nella Georgia un florido stabilimento, dato alla frutticultura, alla produzione dell'indaco, e con successo ancor maggiore all'allevamento dei bachi da seta, che rimase fiorente in Georgia fino alla Rivoluzione. Nè meno prosperi furono gli stabilimenti fondati nel paese da Highlanders scozzesi e dati allo stesso genere di colture. L'istruzione, trascurata o non voluta addirittura nelle altre colonie meridionali, era qui in pregio, cospirando con le intenzioni dell'Oglethorpe, colla coltura intensiva del suolo e coll'origine dei coloni alla riuscita del «santo esperimento». Minacciavano, è vero, di farlo abortire gli Spagnuoli della Florida, i quali durante la guerra anglo-ispana attaccavano la nascente colonia, ma senza alcun risultato; chè, se l'Oglethorpe doveva rinunciare nel 1740 al tentato assalto di S. Agostino, gli Spagnuoli invasori dovevano essi pure ritirarsi dopo avere impinguato di loro cadaveri le zolle della Georgia. Ben diverso era il nemico, che dovea qui pure annientare in brevi decenni l'opera dell'Oglethorpe, un nemico impersonale e perciò invincibile: nel 1736 alcuni cittadini di Savannah avevano fatto una petizione per l'introduzione di schiavi negri, ma la proposta aveva naufragato contro la tenacia dell'Oglethorpe, il quale, coerente ai principî della sua filantropia ignara di ogni distinzione di razza, dichiarava che «se gli schiavi vi fossero stati introdotti, egli non si sarebbe più occupato della colonia». Partito però l'Oglethorpe nel 1743 alla volta dell'Europa per non ritornare mai più nella sua colonia, la schiavitù dei negri non tardava ad introdursi nella Georgia insieme coi figli dei piantatori della Carolina e della Virginia: latifondo e schiavitù soppiantavano in breve quella coltura intensiva, su cui riposava il trionfo della filantropia del fondatore, e coi prodotti della vicina Carolina s'iniziava anche nella Georgia un tipo di società da quella non dissimile, una società in cui sulla base infame della schiavitù aumentava rapidamente la popolazione e la ricchezza: da 3000 anime, chè tante ne contava al 1755, la Georgia salirà nel 1783 a ben 80.000! E come nella forma sociale così in quella politica la Georgia terminava coll'uguagliare la Carolina, chè i «fiduciari» investiti di essa insieme con l'Oglethorpe, divenuti impopolari per la loro legislazione vessatoria, terminavano col rinunciare alla carta; e la Georgia si trasformava così in colonia regia. § 5. LA SOCIETÀ MERIDIONALE: SUOI ELEMENTI E SUA COESIONE. — Dalle frontiere settentrionali del Maryland a quelle meridionali della Georgia noi vediamo dunque, nonostante la diversità d'origine, d'abitanti, di tradizioni, costituirsi sotto l'influsso degli stessi fattori economici una società, che offre tratti comuni, che presenta una grande conformità di vita, una perfetta omogeneità d'interessi e di tendenze. La schiavitù è il cemento che unifica socialmente queste colonie, lo stampo comune in cui si plasma la loro vita. Introdotta senza distinzione in tutte quante le colonie, nel settentrione e nel centro come nel mezzogiorno, qui sola essa trova quel complesso di condizioni, che ne fanno la forma di lavoro predominante dapprima, esclusiva in seguito, elaborando una società in cui i rapporti economici, politici, intellettuali e morali si fondano su di essa. Nelle altre parti del paese invece, per quanto largamente rappresentata, la schiavitù rimane sempre una forma di lavoro sussidiaria, tale cioè da non impedire lo sviluppo del lavoro libero con tutte le sue conseguenze economiche e sociali. Laddove infatti nelle colonie settentrionali e centrali i prodotti più adatti al suolo ed al clima sono i cereali, nelle meridionali sono il tabacco, il riso, lo zucchero, il cotone, tutti prodotti cioè, la cui cultura a differenza dei primi richiede come condizione essenziale associazione ed organizzazione di lavoro su vasta scala, unitamente a concentrazione di lavoratori su un piccolo spazio di terreno, ed è possibile solo dove abbonda un suolo fertile e nella pratica illimitato. Questo secondo requisito non mancava certo nel Sud: al primo, alla grande richiesta cioè di braccia, si cercava di soddisfare in sulle prime con la servitù dei bianchi. Malfattori, che commutavano la galera inglese col lavoro obbligatorio della piantagione americana, debitori insolventi, emigranti che doveano pagare col proprio lavoro le spese del viaggio, servi per contratto legale, prigionieri di guerra scozzesi ed irlandesi, avanzi della ribellione scozzese del 1666, della cospirazione di Monmouth del 1685, dell'insurrezione giacobina del 1715, malviventi reclutati nella madrepatria in una specie di razzie amministrative, costituivano l'elemento servile, a fornire il quale non pensava solamente il governo inglese ma era sorto un vero commercio regolare di carne umana, che, per quanto si macchiasse di furti di ragazzi rubati alle case, alle officine ed ai campi, procurava pur sempre buoni guadagni ai negozianti di Bristol. Questa stessa immigrazione servile non offriva però braccia sufficienti ai piantatori per allargare successivamente le culture in modo adeguato alla richiesta di prodotti ogni giorno maggiore. Al poco abbondante mercato bianco si sostituiva così quello negro: l'Africa era un serbatoio inesauribile di lavoratori, che avevano su quelli europei il vantaggio di poter essere tenuti a vita, di esser più adatti alle fatiche nelle calde pianure della Virginia e più ancora fra i miasmi delle paludi caroliniane coltivate a riso, di costare assai meno pel mantenimento, di riuscire infine un perfetto automa incapace di ribellione, uno strumento agricolo e nulla più. Esisteva, è vero, il danno economico d'un lavoro meno intelligente e meno produttivo per esser dato di mala voglia, ma la terra era così fertile e così vasta che il danno riusciva insensibile di fronte ai grandi vantaggi. Il vantaggio individuale dei coloni collima per di più con quello nazionale della madrepatria, che, ingaggiatasi nell'infame commercio dei negri sin dai tempi di Elisabetta, nei sec. 17º e 18º vi si slanciava a capofitto tanto da riportarne il primato su tutte le nazioni. Nel 1662 si fondava la «_regia compagnia africana_» alla cui testa stava il duca di York, ed in cui era impegnato lo stesso re; il libro degli statuti inglesi del 1695 dichiarava esser la tratta, secondo l'opinione del re e del Parlamento «altamente benefica e vantaggiosa al reame ed alle colonie»; nel 1698 e nel 1711 delle commissioni dei Comuni peroravano la libertà della tratta, dichiarando «doversi provvedere di negri le piantagioni ad un prezzo ragionevole»; la regina Anna raccomandava ai governatori americani «di prestar il debito incoraggiamento ai mercatanti di schiavi ed in particolare alla regia Compagnia Africana»; nel 1739, abolito ogni monopolio in tale ramo di commercio, la tratta si lasciava libera a tutti i sudditi inglesi e le colonie americane, inglesi e spagnole, venivano talmente inondate di schiavi che nel solo anno 1771 i cento e più negrieri della sola Liverpool scaricavano nel Nuovo Mondo ben 28.600 schiavi negri!! Mercanti di schiavi, armatori, capitani marittimi, marinai, agenti speciali sulle coste d'Africa e d'America, banchieri e così via, tutti trovavano lavoro e lucro in questo infame commercio, pel quale militavano sì potenti interessi, che non fa meraviglia se nel secolo 18º si osò affermare, e non una volta, nel parlamento inglese che la tratta era una faccenda decisamente «nazionale». Vantaggio economico immediato da parte del piantatore, eccitamento da parte della madrepatria spiegano quindi come la schiavitù dovesse svilupparsi tanto rapidamente, da diventare in breve la forma di lavoro esclusiva dovunque le condizioni territoriali lo permettessero. Legata infatti alla madre terra non meno di quello che lo fosse il lavoro libero nel Nord, essa è propria della pianura costiera e dei terreni paludosi del Sud, andando le sue sorti di pari passo con quelle del tabacco, dello zucchero, del riso, del cotone; laddove essa s'arresta anche nel Sud davanti alle alture della Virginia, della Nuova Carolina, della stessa Sud Carolina e della Georgia, nelle quali può mantenersi nell'età coloniale come in seguito la piccola agricoltura esercitata esclusivamente o quasi da bianchi. È questa però l'eccezione, che non altera per nulla nelle linee generali la vita del paese, dove il latifondo coltivato a schiavi costituisce la pietra angolare di tutto il sistema sociale. Alla base di questo sta la casta degradata ed oppressa degli schiavi, cui è patria d'origine l'Africa tenebrosa, dove vanno a comperarli lungo la costa per un raggio di circa 40 gradi, dal capo Bianco al capo Negro, nella Senegambia, Sierra Leone, Liberia, Alta e Bassa Guinea, gli infami mercanti di carne umana. Centinaia e centinaia di tribù, appartenenti nella grande maggioranza al tipo negro, il meno sviluppato socialmente ed intellettualmente delle razze africane, ma diverse fra loro per lingua usi e costumi, costituivano la grande riserva della schiavitù coloniale: il loro stato sociale passava per tutte le più insensibili sfumature da una semibarbarie, ad una vita puramente vegetativa; l'assolutismo più feroce, il feticismo, i sacrifici umani, la poligamia, spesso il cannibalismo erano e sono tutt'oggi il retaggio di tali tribù, non uscite ancora per la massima parte da quella fase, che il Letourneau chiamerebbe della «morale bestiale». Condotti al mare dopo una marcia spesso penosissima e di lunga durata, i poveri schiavi venivano stipati nella stiva d'un negriero ed ivi senz'aria, senza luce privi di cibo e d'acqua sufficiente, esposti ai tormenti ineffabili del tragitto transoceanico; al minimo cenno di ribellione si massacravano senza pietà, spesso in caso di burrasca si gettavano ai pescicani per alleggerire il vascello. Per quanto aspra fosse la condizione dei negri durante la cattura ed il tragitto transoceanico, la sorte, che li attendeva nelle colonie meridionali, era forse peggiore. Quivi il negro diventava oggetto della legge, anzichè soggetto, cessava di esser persona e diventava cosa. Come cosa egli non poteva posseder nulla in proprio: il padrone poteva o no rispettare il peculio dello schiavo, il quale non riceveva alcuna sanzione nel giure coloniale, dove mancano quelle minute disposizioni sul _peculium_ che si riscontrano invece nel giure romano; così lo schiavo non poteva impegnarsi per una somma, sia pure inferiore al suo peculio, senza il consenso del padrone, nè poteva col suo peculio emanciparsi. Gli oggetti, atti a facilitare la fuga o la ribellione degli schiavi, come cavalli, bestiame, barche, veicoli, armi etc., venivano rigorosamente esclusi per legge dal peculio, il quale consisteva d'ordinario nel piccolo pezzo di terra assegnato allo schiavo, perchè vi conducesse a proprio vantaggio la coltivazione che più gli piaceva. Ciò nelle piccole piantagioni costituiva un vantaggio pel padrone, giacchè lo schiavo ricavava talora dal suo peculio gran parte dei mezzi di sussistenza: dove invece i viveri erano a buon mercato o la piantagione ne provvedeva in abbondanza pel consumo di tutti gli schiavi, il padrone trovava più conveniente negare allo schiavo anche questo pezzo di terra, per sfruttare così a proprio vantaggio esclusivo tutta la sua forza di lavoro. Quanto al trattamento dello schiavo nelle piantagioni del Sud troviamo orrori e miserie senza nome: dall'alba al tramonto un lavoro faticoso, che dura le 16 e perfino le 18 ore, sotto la sferza del sole e lo scudiscio del sorvegliante, un alimento ed un vestito appena sufficienti alla vita, una lurida capanna di assi mal connesse fra loro, ecco in breve la vita fisica dello schiavo, vita però che non ha raggiunto ancora quel _maximum_ d'orrore, che raggiungerà coll'aprirsi dell'era cotonifera. Nè migliore è la condizione morale dello schiavo: come cosa anzichè persona egli non ha alcun diritto riconosciuto dalla legge, neppure quello del matrimonio; i suoi rapporti famigliari sono ridotti ad una crudele ironia, la sua famiglia minacciata continuamente di separazione. Condannato dalla nascita all'ultimo grado dell'abbiezione sociale, il negro non può rialzarsi neppure in seguito al battesimo, giacchè su questo punto è avvenuto un tacito accordo fra proprietari e chiesa: molti padroni del resto sia per uno scrupolo di coscienza, sia pel timore che il cristianesimo diventi nella mente del negro avvilito un fomite di ribellione, vietano addirittura ai loro schiavi il battesimo. Lo stesso timore impedisce nella massima parte dei casi l'insegnamento religioso agli schiavi, come pure ogni forma d'istruzione, contro la quale non mancano delle leggi positive. Quando poi si concede l'insegnamento religioso, questo viene dato in una forma molto grossolana e diretto a rafforzare col suggello ecclesiastico la schiavitù più degradante per la natura umana: in una raccolta di prediche stampate nel 1749, per servire di modello a ministri della religione cristiana, è detto chiaramente che Dio ha fatto gli uomini alcuni per dominare, come i mercanti ed i piantatori, altri per lavorare e servire, e che nulla può mutarsi della volontà divina; che se i servi avessero obbedito ai padroni, avrebbero lavorato per la propria felicità in cielo, dove ognuno sarebbe diventato un libero ed agiato fannullone ed avrebbe trovato quelle ricchezze e quei piaceri, che aveva desiderato in vita; che il dovere infine degli schiavi era di lavorare durante la settimana, pregare la domenica, perchè solo a questo modo sarebbero giunti alla beatitudine[13]. Se questa turba senza nome di negri abbrutiti costituisce la base della piramide sociale, il vertice ne è dato dai proprietari di essa, dai latifondisti, i quali possedendo le terre più fertili e l'unico capitale del paese, gli schiavi, formano l'aristocrazia, la classe dominante anche nel campo politico. Essa sola vive nell'agiatezza o nella ricchezza, essa sola ha modo di istruirsi. Esonerata dalla necessità di impiegare l'intelligenza e l'opera nell'impresa privata pel processo automatico di produzione proprio della schiavitù, la vita pubblica diventa il fine pressochè unico della sua attività; ed in essa porta tutti quegli istinti d'orgoglio, d'ambizione, d'arbitrio, di dispotismo, che va innestandole nell'animo fra le mura domestiche il potere assoluto sullo schiavo: «ogni proprietario di schiavi, diceva il Mason, è nato tiranno». Nè solo la direzione politica del paese, ma quella stessa spirituale è riservata a tale classe, giacchè il clero della chiesa dominante, la episcopale, si compone generalmente di piantatori. Non mossi per lo più che dal desiderio d'impinguare le loro rendite nell'assumere il sacro ufficio, questi ministri del culto penseranno bene spesso alla caccia, al giuoco ed alla bibita più che alla cura delle anime, mutando in tante occasioni d'orgia i matrimoni, i battesimi ed i funerali. Non mancherà fra essi chi al momento della comunione griderà al sacrestano «ohi Giorgio, questo pane non è buono nemmeno pei cani»; nè chi si batterà in duello nel cimitero attiguo alla chiesa; nè chi alla festa si farà portare a casa su un seggiolone, ubbriaco fradicio. Fra l'incudine ed il martello, fra la classe degli schiavi negri e quella dei latifondisti, sta la classe dei bianchi senza possesso, dei futuri «_mean whites_», la quale per quanto vittima della schiavitù ha così poca coscienza di ciò da farsi la sostenitrice più zelante di essa. L'estensione illimitata della terra fertile e l'alto prezzo dei suoi prodotti, l'inesauribilità delle braccia schiave fanno dell'agricoltura l'impiego più proficuo e più facile del capitale, cosicchè questa per la legge psicologica del minimo sforzo bandisce dal mezzogiorno ogni forma d'attività economica, che non sia l'agricola. In esso quindi nessuna industria, nessuna manifattura: perfino gli oggetti di legno verranno importati dal di fuori. Anche il commercio d'esportazione ed importazione non sarà fatto per il vasto paese che da tre o quattro centri, da Baltimora per il Maryland e la Virginia, da Charleston per le Caroline, da Savannah per la Georgia. L'unica industria del paese rimane dunque l'agricoltura, ma anche da questa è esclusa la popolazione bianca senza capitali, giacchè per una legge economica troppo nota il lavoro schiavo soppianta il libero, tanto più che il lavoro manuale, retaggio dello schiavo, sembra una vergogna agli occhi del bianco povero. Questi si mette quindi ai servigi del latifondista, come soprintendente, amministratore, maestro, cliente in una parola; e quando non trova come occuparsi si dà alla vita semiselvaggia, pago ai prodotti della caccia e della pesca. La schiavitù infatti, mentre condanna i bianchi poveri all'inazione, offre pur loro i mezzi di vivere senza lavorare. Il carattere capitale dell'agricoltura a schiavi è invero l'esaurimento rapidissimo della terra, dovuto all'impossibilità delle rotazioni agrarie con lavoratori così poco versatili quali gli schiavi negri. Col mancare della fertilità del terreno però il lavoro schiavo, dato l'enorme suo costo, diventa addirittura passivo, donde la necessità pel piantatore d'aver alla mano sempre nuove terre feconde da sostituire a quelle già sfruttate, donde insieme col latifondo la presenza di lande deserte, caratteristica delle stesse regioni popolate del Sud. Queste lande appunto divengono il rifugio dei bianchi poveri disoccupati, i quali possono condurvi la loro vita errabonda: ad essi i dominatori del paese possono ricorrere per salvare i loro possessi dalle scorrerie degli Indiani, per ispegnere il minimo tentativo d'insurrezione servile. Da qualunque lato insomma si consideri, da quello economico come da quello politico, la piantagione si presenta come la cellula fondamentale di questa società composta di piantatori e di schiavi. Con la sua unica abitazione centrale, col suo sbocco sul fiume in riva a cui per lo più siede, col suo signore attorniato da schiavi e da clienti, la piantagione circondata bene spesso dal deserto è un mondo a sè e basta a sè stessa; le piantagioni vicine si aggruppano per gli interessi comuni nella contea, i cui affari vengono amministrati da pochi piantatori col titolo di «giudici di pace». La vita collettiva dei centri abitati, palestra di educazione politica, intellettuale e morale, è ignota può dirsi a questo paese, dove i piantatori vivono isolati gli uni dagli altri nei loro immensi dominî senz'altro commercio quotidiano che coi loro schiavi, dove mancano nonchè le città le abitazioni in vista ed a portata l'una dell'altra, dove la popolazione è tanto dispersa che vi sono parrocchiani distanti talora decine di miglia dalla loro chiesa! L'ignoranza estrema del popolo sarebbe, insieme con l'assenza completa di ogni attività politica presso di esso, la conseguenza necessaria di tale stato di cose, quand'anche i latifondisti non fossero gelosi di ogni istruzione impartita alle masse. «Io ringrazio Dio, diceva nel 1671 il dispotico governatore virginiano William Berkeley, che non esista nella colonia nè stampa, nè scuole libere, e spero che non ne avremo da qui a cent'anni, perchè la scienza ha generato l'insubordinazione, l'eresia e le sette che desolano il mondo; la stampa le ha propagate; è essa che ha divulgato così i libelli contro il migliore dei governi. Che Dio ci preservi da tutte e due!». La stampa s'introdurrà più tardi, nonostante questo scongiuro, nella colonia; ma fino al 1776 la Virginia non avrà che una sola stamperia interamente sotto la mano del governatore. Lo stesso «Collegio di Guglielmo e Maria», una specie di università virginiana inaugurata nel 1700, non sembra che esercitasse troppa influenza intellettuale sulla colonia, a giudicare almeno da quanto scriveva uno studente nel 1730: «abbiamo qui un collegio senza oratorio e senza statuti, una biblioteca senza libri ed un preside senza autorità». Gli stessi figli dei proprietari minori, che non potevano recarsi all'estero nè frequentare il mediocre istituto superiore della colonia, venivano educati da precettori presi bene spesso in mancanza di meglio fra gli ex-galeotti. Nel Maryland buona parte della stessa classe dirigente era analfabeta! Le due Caroline prese insieme non avevano più di cinque scuole al cadere del periodo coloniale. In nessuna di queste colonie esisteva ancora al 1749 una bottega da libraio. Prese tutte insieme ed aggiuntavi la Georgia, avevano un numero di giornali pari a quello del solo Connecticut! In questa specie di vuoto intellettuale, di deserto sociale gli uomini non intendevano e seguivano più che la voce dei loro istinti. L'isolamento, la mancanza di lumi, il potere arbitrario sugli schiavi, la lotta cogli Indiani alle frontiere, sviluppavano in essi una specie d'individualismo violento e feroce, che produceva come regola dei semibarbari, allo stato d'eccezione degli uomini superiori, nati per comandare, penetrati d'una specie di coscienza ingenita del loro diritto ad esser presi per capi: da questi usciranno e Washington e Jefferson e Monroe e Madison, tutti uomini che non dovranno la loro superiorità politica ai pochi o punto studi fatti, ma a quella fecondissima scuola dell'azione, in cui tutta quanta può dirsi si riduceva la società del loro paese. Senz'averne le attrattive cavalleresche, la società meridionale aveva così i tratti caratteristici di quella feudale del Medio evo: la servitù della gleba, la facile ospitalità, il lusso ostentato, le lunghe giornate d'ozio rotte sole da duelli, da risse brutali, da giuochi, da combattimenti di galli, da caccie alla selvaggina od agl'indiani, ricordavano i costumi dell'Europa feudale; mentre l'allegria sensuale, la franca mondanità, la nota satirica, la grazia signorile alternata con la ruvidezza scherzosa davano alla letteratura spontanea del Maryland e della Virginia una lontana analogia con l'arte del menestrello non solo ma anche con quella più raffinata del trovatore occitanico. Mentre così nella Nuova Inghilterra sulla base della piccola proprietà lavoratrice e del _township_ si sviluppa una società eminentemente progressiva, attivamente politica, veracemente democratica ed egalitaria; nelle colonie meridionali sulla base del latifondo coltivato a schiavi negri si sviluppa una società stazionaria, in cui l'agricoltura soltanto viene esercitata, in cui le classi sociali terminano col ridursi in sostanza a due sole, padroni e schiavi, caste più che classi per l'abisso che le separa, in cui la dispersione degli abitanti impedisce ogni istruzione, ogni progresso del viver civile, in cui il carattere e l'ignoranza della classe lavoratrice impedisce ogni perfezionamento tecnico, in cui sopratutto l'originaria uguaglianza politica dei bianchi viene necessariamente distrutta dalla prevalenza economica, intellettuale, sociale in una parola del latifondista sui bianchi nullatenenti. Ecco perchè il principio democratico, comune agli inizii ad ambedue i paesi, intristisce e muore nel secondo cedendo il campo a quello aristocratico, che si svolge in una aristocrazia fondiaria. In questa la forza politica, la grande coesione della società meridionale: l'organizzazione strettamente gerarchica è per essa quello che la disciplina ecclesiastica per la società della N. Inghilterra, la forza che, irregimentandoli, tiene avvinti insieme gli individui in un paese, dove tutto tenderebbe a dissociarli, l'unica forza centripeta, che si opponga vittoriosamente alle mille altre centrifughe di questa società. È questa coesione mirabile, che nella mancanza d'ogni altro ascendente intellettuale e morale farà pesar tanto nella bilancia politica della futura nazione l'aristocrazia fondiaria del Sud. NOTE AL CAPITOLO TERZO. [10] Fu molto questionato sulla data, che per due secoli e mezzo fu posta dagli storici della Virginia al 1620, data che appare pure in gran parte dei libri europei: la vera data è invece il 1619 (Cfr. Williams, _History of the Negro Race in America from 1619 to 1880_ — New York, 1882). [11] Metto il Maryland fra le colonie meridionali pel tipo sociale, ch'esso offre, benchè a rigore deva esser messo fra le centrali. [12] Un acro equivale a 40 are (4/10 di ettaro). [13] Sulla schiavitù negra oltre alla storia generale della schiavitù dell'_Ingram_, vedi quella speciale del _Kapp_ (Geschichte der Sclaverei in den Vereinigten, Staaten Leipzig, 1856) e la monografia del _Goodell_ (The American Slave code — New York, 1853.) — Sulla costituzione poi del lavoro nelle colonie meridionali vedi, oltre alla monografia generale del _Waltershausen_ (Die Arbeits-Verfassung der Englischen Kolonien in Nordamerika — Strassburg, 1894), quella particolare del _Von Halle_ (Baumwollproduktion und Pflanzungswisthschaft in der Nord-amerikanischen Südstaaten — _Erster Teil_, Die Sklavenzeit — Leipzig, 1897). CAPITOLO IV La società commerciale del centro. § 1. La Nuova Olanda e New York — § 2. Puritani e quaccheri nel New Jersey — § 3. Pennsylvania e Delaware — § 4. Caratteristica delle colonie centrali. § 1. LA NUOVA OLANDA E NEW YORK. — Mentre la Nuova Inghilterra ed il mezzogiorno sotto l'azione di fattori conformi vengono a costituire due società omogenee, viventi della stessa vita e pervase dalle stesse idee, nonostante la divisione politica delle loro singole colonie, manca al centro dei futuri Stati Uniti quell'uniformità di origini, quella identità di vita economica, che ne faccia un tutto omogeneo nel campo sociale per quanto diviso in quello politico. L'elemento anglosassone termina qui pure col prevalere su quello olandese e svedese, cui si riconnette la prima colonizzazione della contrada, ma rimangono le caratteristiche sociali ed intellettuali, che diversità di origini hanno creato e attività economiche diverse sviluppato. Come la colonizzazione neoinglese si riattacca alla storia della Riforma inglese, così quella, per cui i Paesi Bassi si dividono coll'Inghilterra la gloria d'aver fondato i primi stabilimenti dei futuri Stati Uniti, si riattacca in ultima analisi alla storia della Riforma olandese, dalla quale procede in via diretta il grande movimento d'espansione neerlandese. Determinata dalle usurpazioni degli Absburgo di Spagna, i quali avevano tentato di abbattere le antiche libertà degli Stati fiamminghi, le vecchie franchigie municipali del paese, la rivoluzione olandese si era mutata ben presto di fronte all'assolutismo ed al fanatismo di Filippo II da una lotta in difesa di privilegi e consuetudini feudali in una lotta per la religione e l'indipendenza. Il mare, fonte prima di vita economica pel paese, era stato il grande alleato degli Olandesi nella loro crociata nazionale contro la Spagna: sul mare s'erano dati convegno i patriotti, sul mare avevano combattuto e vinto i nemici della religione e della libertà. Natura del paese, tradizioni economiche ed origini politiche portavano così lo stato nascente ad essere una repubblica commerciale per eccellenza; e nella prima moneta di essa infatti si scolpiva come emblema un vascello lottante coi flutti, senza vele nè alberi. L'istinto marinaresco innato nell'Olandese per le condizioni del paese riceveva nuovo impulso ad operare da quell'energia nuova infusa in esso dalla lotta per la vita contro la Spagna; e questa guerra santa in difesa della libertà era divenuta una fonte insperata di sviluppo economico, una garanzia di non mai veduta prosperità. Il popolo, che prima dell'insurrezione non possedeva quasi di che riparare le sue dighe contro l'imperversar dell'Oceano, si trovava in grado ben presto di armare flotte sopra flotte, di riunire gli emisferi col suo commercio. La bandiera della neonata repubblica sventolava ormai su tutti i mari, dalla punta meridionale dell'Africa al circolo polare artico: i vascelli olandesi sorpassavano in numero, secondo il Raleigh, quelli dell'Inghilterra e di dieci altri reami; Amsterdam, deposito dei prodotti d'Europa e del Levante, soppiantava Lisbona ed Anversa, divenendo il centro del commercio europeo anzi mondiale; mentre l'industria, quella tessile specialmente, riceveva pur essa nuovo impulso da tanto rigoglio di vita economica. Sicuri ormai all'interno, floridi i commerci, ripiene le casse dello stato, gli Olandesi passano dalla difesa all'offesa, attaccando la Spagna nelle sue colonie, ruinandone o minandone i commerci in tutti i mari del mondo. Doveva l'America soltanto rimanere indisputata alla corona spagnuola, mentre abbondavano in Olanda i marinai ed i capitali stagnavano? Non più la semplice spogliazione del commercio spagnuolo, nè l'India stessa; ma l'America coi suoi tesori minerali e vegetali, coi suoi enormi territori maldifesi dalle rare cittadelle spagnuole poteva fornire all'intrapresa batava un campo degno di essa e dare alla madrepatria ristretta nuove terre, alla vera religione di Cristo nuovi adepti. Nel 1590 Guglielmo Wesselinx, che aveva vissuto alcuni anni nella Castiglia, nel Portogallo, nelle Azzorre, proponeva la formazione d'una compagnia delle Indie Occidentali; ma il progetto parve allora troppo ardito per la giovane nazione: sette anni dopo, nel 1597, Bikker d'Amsterdam e Leyen di Enkhuysen organizzavano due compagnie private per commerciare con le Indie Occidentali, ed i successi di esse facevano ardere più viva la discussione sull'opportunità o meno d'una compagnia privilegiata delle Indie Occidentali, per la quale nel 1600 si formulava persino un progetto presentato agli Stati generali per esaminarlo ed approvarlo. L'America era però un campo nuovo, in cui era pur sempre possibile la sorpresa; i mari dell'Africa meridionale e dell'Asia erano invece in pieno possesso del commercio olandese; e ciò spiega come si agisca risolutamente in quanto riguarda il commercio con l'Oriente, mentre per quello coll'Occidente si proceda coi piè di piombo. Nel 1602 infatti si costituiva la Compagnia delle Indie Orientali, la cui carta non faceva che attribuire ad una corporazione commerciale i privilegi signorili accordati in Inghilterra ai Caboto ed ai Raleigh, favorendo con ciò gli Stati Generali il commercio del paese senza esporlo ad una guerra in Oriente. Alla nuova compagnia si rivolgeva qualche anno dopo l'inglese Enrico Hudson, abbandonato nei suoi disegni dagli armatori di Londra, ai quali nulla fruttavano per quanto gloriose le scoperte nei mari settentrionali d'America, fatte in quegli anni dall'ardito esploratore per trovare il passaggio di nord-ovest. Ascoltato da essa, egli ritentava nel 1609 la ricerca dell'agognato passaggio sulla «Mezzaluna» con un equipaggio per metà inglese, per metà olandese: costretto dai ghiacci a tornare indietro toccava la costa del Maine, quindi il capo Cod cui dava il nome di Nuova Olanda, credendosene il primo scopritore, ed arrivava sempre costeggiando verso sud sino alla Virginia, donde rivolta la prua a settentrione entrava nella baia superba dell'attuale New York, risalendo primo tra gli Europei lo splendido fiume da lui nominato. Più che per le bellezze naturali della vallata dell'Hudson, paragonato ancor oggi col Reno, più che per la rigogliosa vegetazione, la regione scoperta dall'inglese era importante per la sua posizione, che la predestinava per secoli a centro del commercio nord-americano. Nei suoi confini le sorgenti di parecchi fiumi, che versano le loro acque nel golfo del Messico, nella baia di Delaware ed in quella di Chesapeake; sulla sua spiaggia dalle rive alte ed in parte scogliose una baia incomparabile, che veniva continuata, a dir così, nell'interno da un superbo fiume navigabile, pel quale l'Atlantico era messo in comunicazione coi Grandi laghi canadesi. Ben prima che l'Hudson gettasse l'ancora in quelle acque, i selvaggi delle Cinque nazioni s'erano serviti di quei canali naturali nelle loro escursioni a Quebec, sull'Ohio, sulla Susquehannah: la civiltà bianca non avrebbe dovuto far altro che imitare con mezzi centuplicati l'iniziativa insegnata dalla natura ai poveri indiani. Tornato in Europa nello stesso anno, l'Hudson presentava una brillante relazione delle sue scoperte ai patroni olandesi, i quali però rinunziarono lo stesso a ricercare più oltre il passaggio di nord-ovest. Le Provincie Unite reclamavano tuttavia il possesso del paese scoperto dall'agente della compagnia olandese; e l'anno, dopo dei mercanti d'Amsterdam avviavano con esso un primo commercio regolare, mentre l'Hudson tornato su nave inglese alle sue scoperte settentrionali periva miseramente, abbandonato su una fragile scialuppa in balìa delle onde dall'insorto equipaggio. L'isola di Manhattan divenne il primo rifugio degli Olandesi, i quali con Adriano Block esploravano qualche anno dopo Long Island, scoprivano il Connecticut e costruivano nel 1615 col nome di Orange un fortilizio dove oggi sorge Albany, sentinella avanzata del commercio olandese cogli Indiani. Il commercio infatti più che la conquista e la colonizzazione era ancora il fine predominante dei Paesi Bassi in quei paraggi, chè la colonizzazione della Nuova Olanda dipendeva dall'esito della lotta civile che dilaniava la madrepatria. L'abbattimento coi mezzi più violenti del partito ad essa contrario, guidato dal Grotius e da Olden Barneveldt, ne segnava l'inizio. Nel 1621 infatti si costituiva finalmente la compagnia olandese delle Indie Occidentali, cioè una corporazione mercantile investita dalle Provincie Unite del privilegio esclusivo di trafficare e stabilire colonie oltrecchè sulla costa africana su quella d'America, dallo stretto di Magellano all'estremo limite settentrionale. La società, che era aperta per la formazione dei suoi capitali agli abitanti di qualsiasi nazione ed annoverava tra i suoi soci gli stessi Stati Generali, era autorizzata da questi a conquistare paesi ed esercitarvi i poteri sovrani, ma tutto a suo rischio e pericolo, giacchè il governo non le garantiva affatto i possessi, considerandosi in caso di guerra come semplice alleato o protettore. Quanto ai futuri coloni essi venivano lasciati in piena balìa della Compagnia coll'unica restrizione, che gli atti di questa dovessero sottostare all'approvazione degli Stati Generali. Lo sviluppo del commercio olandese in America ben più della colonizzazione era nondimeno l'obbietto principale della Compagnia; il che non toglie però che il sorgere di essa non segni l'inizio della colonizzazione per le rive dell'Hudson. Nel 1626 infatti si comperava dagli Indiani al prezzo di 60 fiorini olandesi l'isola di Manhattan, e nel 1628 la colonia di Nuova Amsterdam contava già 270 abitanti ed esportava per ben 57.000 fiorini di pelli, che salivano a 130.000 tre anni dopo. Nel 1629 anzi la Compagnia per favorirne lo sviluppo adottava una carta di privilegi pei patroni, che volessero fondare colonie nei Nuovi Paesi Bassi. Chiunque nello spazio di 4 anni fosse pervenuto a fondare uno stabilimento di 50 persone, ne diventava il _patrono_; il _manor_, di cui il patrono era signore assoluto, poteva avere una lunghezza di 16 miglia o di 8 miglia per ciascuna riva se posto su un fiume, ed una larghezza limitata solo dalle esigenze del luogo, col patto però di comperare dagli Indiani il terreno; le città che sorgessero in esso doveano dipendere per l'organizzazione del governo dal patrono, che vi eserciterebbe pure il potere giudiziario, salvo il diritto d'appello alla Compagnia. Ai coloni era interdetto di stabilire la più piccola manifattura di lana, lino o cotone per non danneggiare il monopolio dei fabbricanti olandesi; raccomandata invece l'agricoltura, per la quale la Compagnia s'impegnava di fornire ai _manors_ degli schiavi negri, a condizione però che il traffico ne fosse rimunerativo. La Compagnia si riservava la sola isola di Manhattan, come stazione commerciale della colonia. Questa carta di privilegi fu fatale agli interessi non solo del paese ma anche della corporazione stessa, i cui direttori ed agenti, i von Rensselaer, i Pauw, i Godyn, i Bloemart non si limitarono ad appropriarsi i terreni più fertili, ma s'impadronirono pure dei luoghi più adatti al commercio cogli indigeni. Da ciò una serie di contese da un lato fra questi latifondisti e la compagnia, che voleva a sè riservato il commercio coloniale, ed un grave impedimento dall'altro allo sviluppo agricolo e sociale del paese, ostacolato da quel sistema feudale di patronato. La dominazione e la colonizzazione olandese andavano nondimeno guadagnando terreno ed occupavano ben presto anche l'odierno stato del Delaware. Un rivale le sorgeva però di contro in quegli anni in un popolo, sorto pur esso a nuova vita autonoma colla Riforma e come vivificato allora da uno spirito nuovo. Erano questi gli Svedesi, il cui re Gustavo Adolfo, intravedendo i vantaggi derivanti al suo popolo dalla colonizzazione, porgeva facile orecchio ai consigli e progetti dell'olandese Guglielmo Usselinx passato in Isvezia. Si costituiva allora, nel 1626, una «_compagnia svedese del mezzogiorno_», rivestita dagli Stati di Svezia del privilegio esclusivo di trafficare oltre lo stretto di Gibilterra e di fondare colonie, il cui governo sarebbe riservato ad un consiglio reale: l'Europa intera poteva contribuire per via di sottoscrizioni alla formazione del capitale sociale, cui il re stesso partecipava per circa due milioni, e da ogni parte d'Europa dovevansi invitare i futuri coloni. Era questa la conseguenza di quello spirito umanitario, che aleggia in tutto il progetto: l'accesa fantasia scandinava vedeva già fiorire di là dall'Atlantico una nuova Svezia, che avrebbe offerto sicurezza «per l'onore delle donne e delle figlie» dei profughi cacciati di patria dalle guerre e dal fanatismo, che sarebbe diventata un luogo di benedizione «per l'intero mondo protestante» o meglio ancora, per usare le parole stesse del grande eroe svedese, «_totius oppressae Christianitatis_». Nè la nuova patria si sarebbe macchiata della servitù, instaurata nelle altre colonie: «gli schiavi, diceva l'«Argonauta Gustaviana» scritto dell'Usselinx pubblicato nel 1633, costano molto, lavorano con ripugnanza e soccombono ben presto ai cattivi trattamenti. Gli Svedesi sono laboriosi ed intelligenti, e noi ne guadagneremo certo di più coll'impiego d'uomini liberi accompagnati dalle loro mogli e dai loro figli», parole ispirate oltrecchè dalla coerenza ai principi fondamentali del progetto, da una larghezza di vedute, da una intuizione sociale così profonda da sembrare quasi una profezia. Mentre però si pensava in Isvezia a creare un rifugio per le vittime della persecuzione religiosa, in Germania si combatteva una lotta la quale, per quanto determinata da ragioni molto più materiali, mirava a render impossibile tale persecuzione; cosicchè Gustavo Adolfo, prima di eseguire i seducenti progetti coloniali, vola col suo popolo bravo in difesa degli oppressi fratelli a sostegno della libertà di coscienza pericolante, pur senza dimenticare un momento la progettata colonizzazione, ch'egli raccomandava al popolo tedesco pochi giorni prima di morire. Perdeva con lui l'umanità sui campi di Lützen uno dei suoi più gloriosi benefattori, ma non cadevano con Gustavo Adolfo i progetti coloniali svedesi affidati alla saggezza del calmo cancelliere Oxenstiern, che interessava ad essi i governi della Germania, ottenendo nel 1633 a Francoforte una promessa di partecipazione all'impresa da parte dei quattro circoli superiori tedeschi. Ritornato in Isvezia, il grande statista entrava in trattative col renano Pietro Minnewit, già direttore generale o governatore di Nuova Amsterdam, che, indicate al sagace cancelliere le rive del Delaware come le più adatte ad una prospera colonizzazione, partiva sopra due navi alla volta di quelle sul cadere del 1637, seguito da una cinquantina di Svedesi e Finlandesi. Arrivati i nuovi coloni sul principio del 1638 nella baia di Delaware comperavano dagli Indiani il territorio, che va dal capo meridionale, detto da essi nati sotto il freddo cielo settentrionale «Punta del Paradiso», fino alle cateratte del fiume presso l'attuale Trenton, e vi fondavano una colonia. Invano il governatore di Nuova Amsterdam protestava contro l'usurpazione d'un territorio spettante alla compagnia olandese; chè da una parte la fama ed il prestigio delle recenti vittorie proteggevano la bandiera svedese anche nel Nuovo Mondo, e dall'altra l'energia del governatore Minnewit ed il fortilizio di Christiana da esso innalzato sventavano le minacciate ostilità: i limiti olandesi venivano abbattuti e le tavole, poste in loro luogo, colla scritta: «Cristina regina di Svezia» dicevano agli Scandinavi che il sogno del loro eroe era diventato realtà. Il racconto infatti dei successi svedesi, la fama della bellezza e ricchezza del paese, vi facevano accorrere svedesi e finlandesi; e la Nuova Svezia, come fu detta, andava ben presto guadagnando terreno anche nell'attuale Pennsylvania, la quale come il Delaware deve le sue origini agli Svedesi che fondarono un sobborgo della futura Filadelfia ben prima che Guglielmo Penn ne divenisse il proprietario. La morte del Minnewit avvenuta nel 1641 toglieva però alla Nuova Svezia il suo appoggio più saldo: ne minacciavano l'esistenza i Nuovi Paesi Bassi, racchiudenti una popolazione dieci volte superiore alla sua, mentre non poteva aiutarla la metropoli spossata dalle lunghe guerre, dilaniata dai partiti, retta da una donna giovane e licenziosa, avida di celebrità letteraria ma priva affatto di capacità politica. La potenza svedese dei tempi pur vicini di Gustavo Adolfo non era più che un ricordo dopo il ritiro dell'Oxenstiern, e la compagnia olandese poteva senza timore ordinare all'energico governatore di Nuova Amsterdam, Pietro Stuyvesant, di «scacciare gli Svedesi dai loro stabilimenti o di costringerli a sottomettersi». Nel 1655 l'ordine veniva eseguito; la «Nuova Svezia» cessava d'esistere, ritornando a far parte del dominio neolandese. Quella tinta cosmopolitica dei Nuovi Paesi Bassi, di cui Nuova Amsterdam, la città mondiale fin dalle origini, era l'espressione più genuina, diventava così ancora più intensa. Fondati da gente, che proveniva da un paese fatto rifugio dei perseguitati d'ogni nazione, si trovavano sul loro suolo accanto agli Olandesi i figli dei Calvinisti francesi, degli Ussiti boemi, dei Valdesi italiani, dei Luterani tedeschi, degli Zuingliani svizzeri, della proscritta razza ebraica ivi attirata dall'attività commerciale del Nuovo Mondo: l'antico carattere olandese andava sparendo di fronte a questa immigrazione cosmopolita, che nel decennio 1650-1660 si accentuava con maggior forza di prima, trasformando non solo la fisonomia nazionale dei Nuovi Paesi Bassi ma anche quella economica, col sorgere di fabbriche e di opifici, coll'entrare in gioco di nuove tendenze ed attività. «Che tutti i cittadini pacifici, raccomandavano allo Stuyvesant i direttori della Compagnia, godano della libertà di coscienza; questa regola ha fatto della nostra città il rifugio degli oppressi di tutti i paesi; continuate nella stessa via e sarete benedetto». Era questa la migliore garanzia d'un rapido sviluppo, la politica più confacente alle domande dei Nuovi Paesi Bassi, che con larga veduta richiedevano insistentemente «operai ed agricoltori, stranieri e proscritti, uomini induriti al lavoro ed alla povertà». E la popolazione infatti andava ogni giorno aumentando, e con essa la prosperità e la ricchezza dovuta all'agricoltura, alle industrie e sovratutto ai commerci, tra cui non ultimo per importanza e lucro quello degli schiavi negri, che essa forniva anche alle colonie meridionali. Un pericolo capitale però minacciava il dominio olandese, l'espandersi cioè di quell'elemento anglosassone, che chiudeva a nord ed a sud i Nuovi Paesi Bassi e dalla vallata del Connecticut s'infiltrava in essi talmente da riempirne la stessa Manhattan e rendere ivi necessario nelle ordinanze ufficiali l'impiego delle due lingue, olandese ed inglese. Città intere non erano popolate più che da emigranti della Nuova Inghilterra, i quali non si limitavano a soppiantare gli Olandesi nella fertile vallata del Connecticut, ma strappavano loro una parte della stessa Long Island. Nella lotta pel suolo tra i _farmers_ della Nuova Inghilterra, interessati direttamente alla vittoria, ed i servi dei grandi «_manors_» la vittoria non poteva rimaner dubbia. Che se poi le tendenze sociali predestinavano alla vittoria questo elemento invadente, i principi politici di esso rivoluzionavano il paese invaso. Il concetto puritano della sovranità popolare dava corpo concreto alle aspirazioni vaghe degli animi, mostrava una meta a quel malcontento, che l'esclusione da ogni diritto politico, la negazione d'ogni diritto di riunione, la mancanza della libertà più elementare per lo sviluppo dell'agricoltura e del commercio, la gravezza dei diritti di dogana avevano già fatto sorgere nei Nuovi Paesi Bassi, ai quali s'erano concesse solo delle libertà municipali, analoghe a quelle della madrepatria, ma non già dei diritti politici individuali, ai quali s'era assicurata un'aristocrazia commerciale e fondiaria, ma non già una nazione di liberi ed uguali. Sotto il lievito dell'elemento neoinglese il malcontento popolare si mutava in aperta agitazione, che costringeva il duro governatore Stuyvesant a permettere la riunione di un'assemblea generale, composta di due deputati per ogni villaggio: primo atto di questa era una petizione, dove i Nuovi Paesi Bassi chiedevano in sostanza di dipendere direttamente dall'Olanda anzichè dalla Compagnia delle Indie Occidentali a guisa di «popolo soggiogato», di avere gli stessi diritti e privilegi degli abitanti della madrepatria, di non veder introdotta alcuna legge, imposta alcuna tassa, concesso alcun impiego nel paese senza il consenso del popolo. Per tutta risposta lo Stuyvesant, convinto in buona fede dell'incapacità del popolo a governarsi da sè, diceva esser queste «idee visionarie degli abitanti della Nuova Inghilterra», dichiarando che il direttore ed il consiglio avrebbero continuato a far leggi come per l'innanzi e non avrebbero mai reso conto della loro amministrazione «ai loro soggetti»; ed alla replica dei deputati, che si appellavano ai diritti inalienabili della natura, rispondeva col disperdere la convenzione, consolandola col messaggio rude quanto sincero ch'egli teneva la sua autorità «da Dio e dalla compagnia delle Indie Occidentali, non già dal beneplacito di qualche suddito ignorante». La compagnia ne approvava l'operato dichiarando che il rifiuto di sottomettersi ad imposte arbitrarie era «opposto alle regole d'ogni governo illuminato» ed incoraggiando lo Stuyvesant a «non far attenzione all'approvazione del popolo», a «non permettere che esso si abbandonasse più a lungo a questo sogno da visionario»! Ma questo sogno era troppo conficcato nelle menti, era un fatto troppo evidente e di cui era troppo gelosa quella Nuova Inghilterra, donde affluivano ogni giorno più gli immigranti, per non diventare anche nei N. Paesi Bassi dolce realtà: a renderla tale s'incomincia ad accarezzare l'idea di una sottomissione all'Inghilterra. Il vecchio progetto del Cromwell d'impadronirsi dei Nuovi Paesi Bassi trova quindi ausiliari nello stesso campo nemico, e la Restaurazione, che lo riprende, mette alle strette ogni giorno più i possessi olandesi. Dal Nord come dal Sud, dal Connecticut come dalla Virginia e dal Maryland i coloni inglesi avanzano pretese su quel territorio, spalleggiati dalla madre patria, ed ai negoziatori olandesi, che chiedono impotenti per quanto indignati «dove si trovano dunque i N. Paesi Bassi?», rispondono con aria provocatrice, mentre li occupano, «noi non lo sappiamo». La superiorità delle colonie inglesi, dove liberi ordinamenti avevano fatto sorgere un popolo, su quelle olandesi, dov'erano solo dei sudditi d'una compagnia commerciale, apparve allora manifesta: mentre gli abitanti delle prime nell'ora del pericolo sapevano difendersi da sè medesimi, nelle seconde non solo gli Inglesi, vero «cavallo di Troia dentro le mura» come li definiva in quei giorni lo Stuyvesant, ma gli stessi Olandesi rifiutavano di esporre la loro vita per la Compagnia delle Indie Occidentali. Nè questa d'altra parte poteva arrischiare una bancarotta per la difesa d'un paese, ch'essa nella sua grettezza bottegaia considerava come una semplice «proprietà»; cosicchè i Nuovi Paesi Bassi, non difesi da alcuno, cadevano senza lottare in mano dell'Inghilterra, la quale, nonostante fosse allora in piena pace coll'Olanda, mandava nel 1664 una squadra navale a rivendicare quel paese tra il Connecticut e la Delaware, di cui il re aveva già investito il duca d'York. Mentre lo Stuyvesant infuriato metteva in pezzi la lettera dell'ammiraglio inglese, che gl'intimava la resa di Nuova Amsterdam, i notabili di questa nonchè difenderla stendevano una protesta contro il governatore; ed al nemico, il quale dichiarava che avrebbe discusso della resa nella stessa Manhattan, la deputazione cittadina mandata alla flotta rispondeva che «gli amici vi erano sempre i benvenuti»! Prevalente dapprima nella lotta etnica pel possesso del suolo, nella lotta politica in seguito tra le libertà aristocratiche dell'Olanda e quelle popolari della democrazia puritana, l'elemento inglese coronava ora la sua vittoria col colpo di mano della madrepatria: Nuova Amsterdam diventa New York, Orange si muta in Albany, i Nuovi Paesi Bassi cessano d'esistere, nonostante l'effimera rioccupazione olandese di New York nel 1673-74, durante la guerra anglo-olandese. La sottomissione all'Inghilterra, se unificava i possessi inglesi del Nord-America dal Maine alla Georgia, smembrava i Nuovi Paesi Bassi, sulle cui rovine sorgevano col tempo quattro colonie, New York, New Jersey, Pennsylvania e Delaware. Il duca di York riservava per sè col nome di New York una parte soltanto dei Nuovi Paesi Bassi, vendendo il resto ai due proprietari della Carolina, lord Berkeley e sir Giorgio Carteret. Il nuovo governo di New York si rivelò non meno tirannico ed arbitrario del precedente, cosicchè continuò anche contro di esso l'opposizione del paese, deluso nelle sue speranze e deciso non meno di prima a far trionfare il diritto di governarsi da sè. Nel 1683 finalmente il proprietario inviava un nuovo governatore coll'incarico di convocare un'assemblea legislativa, e questa si dava una «_carta di libertà_», che metteva New York nelle stesse condizioni politiche del Mass. e della Virginia: divenuto sovrano col nome di Giacomo II, egli violava le concesse franchigie, ma la seconda rivoluzione inglese, sbalzandolo dal trono, assicurava alla provincia pur sotto forma di colonia regia le sue libere istituzioni. L'Inghilterra però non possederà giammai l'affezione di questo paese ottenuto con la conquista, colonizzato da repubblicani olandesi, danneggiato dalle leggi commerciali della nuova madrepatria più che ogni altra colonia, sostenuto nei suoi diritti di fronte all'invadente prerogativa regia da legisti per la più parte presbiteriani ed allevati nel Connecticut, eccitato alla lotta da quella stessa classe di grandi proprietari, i quali si vedevano limitare dalla potenza inglese gli immensi territori loro concessi senza limiti e senza regola, contestare il loro titolo ai medesimi, pendere infine sul capo la spada di Damocle d'una contribuzione fondiaria per atto del Parlamento. Nè, mentre fa il viso dell'armi ai nuovi dominatori, la prisca aristocrazia coloniale desiste dalla lotta contro il partito democratico, reclutato nelle classi popolari, fazioni intestine che non impediscono però lo svolgimento della florida vita commerciale del paese ed il rapido incremento della sua popolazione, la quale da 20.000 anime nel 1688 saliva a 96.000 di cui 11.000 negri nel 1754. § 2. PURITANI E QUACCHERI NEL NEW JERSEY. — A differenza del territorio, che il duca di York aveva riserbato per sè, il paese fra le foci dell'Hudson e la Delaware, denominato New Jersey da uno dei nuovi proprietari stato già governatore dell'isola di Jersey, era ancora al 1664 quasi deserto; cosicchè sir Giorgio Carteret, padrone del New Jersey orientale, e lord Berkeley, padrone del New Jersey occidentale, dovevano pensare anzitutto a popolare i loro dominii. Consci per quanto realisti delle seduzioni della libertà, essi cercavano perciò di attirarvi la maggior copia di immigranti con l'ampiezza delle concezioni. Sicurezza delle persone e delle proprietà, assemblea legislativa composta del governatore dei membri del consiglio e d'un numero almeno uguale di rappresentanti del popolo, affrancamento da ogni imposta non approvata da essa, libertà di coscienza e di culto per tutti i cittadini, concessione di terre mediante modesto tributo richiamarono subito nel paese i Puritani della N. Inghilterra, i quali stamparono le loro impronte sulla colonia nascente. Favorita dal facile accesso del paese, dalla produttività del suolo, dalla salubrità del clima, dalla vicinanza di stabilimenti più vecchi, la corrente immigratrice non s'arrestò coi Puritani, chè ad essi tennero dietro i perseguitati del vecchio mondo, i presbiteriani scozzesi ed i Quakeri in ispecie. Era quest'ultima una setta eminentemente plebea, basata su uno dei principi morali più democratici, che mai fossero stati predicati, la ferma credenza cioè che ad ogni uomo, al contadino analfabeta non meno che al filosofo, la voce interna della coscienza apra la via della verità. L'origine di essa si riattacca a quel movimento schiettamente popolare di emancipazione intellettuale, che dalle teorie di Wickliff e dalla politica di Wat Tyler giù giù sino alla Riforma aveva avuto in Inghilterra tutta una storia di sviluppo ininterrotto. L'avevano predicata uomini semplici, primo fra tutti il fondatore della setta, Giorgio Fox, figlio di un tessitore del Leicestershire, spirito melanconico, portato alla meditazione, il quale giovanetto ancora tra la custodia degli armenti a lui affidati aveva incominciato a meditare angosciato sul destino dell'uomo e non aveva trovato requie finchè un giorno del 1646 una gran luce non era discesa ad illuminarlo. Un uomo, gli aveva suggerito la coscienza, può aver seguito le lezioni d'Oxford e di Cambridge senza essere per questo capace di risolvere quel problema dell'esistenza, che può risolvere invece l'analfabeta. Era stato questo il filo d'Arianna, che lo aveva condotto passo passo dall'inferno del dubbio alla coscienza tranquilla della verità. Per giungere a questa bisogna ascoltare la voce di Dio nell'anima nostra; nessuna setta, nessuna forza del mondo esteriore può dare una regola fissa di morale; solo la legge che risiede in fondo del cuore, deve essere accolta senza prevenzioni, adottata senza cangiamenti, obbedita senza timore. L'oscuro pastore promoveva così una rivoluzione morale, affermando la libertà assoluta dell'intelligenza come un diritto innato ed inalienabile, proprio nell'epoca in cui la Camera dei Comuni ne compieva una politica abbattendo monarchia e paria. Una mattina che il prete anglicano, nella chiesa di Nottingham, spiegava coll'esistenza delle Sacre Scritture le parole di Pietro «noi d'altra parte abbiamo una parola profetica più certa», Giorgio Fox lo interrompeva gridando: «No, non sono le Scritture è lo Spirito». L'ultima barriera dogmatica ed ecclesiastica cadeva così completamente: il Puritano stesso s'arrestava alla parola delle Scritture, pure rivendicandone la più ampia libertà individuale di interpretazione; il Quakero cercherà la verità nel cuore dell'uomo, vero tempio della divinità. Presa la «voce interiore», oracolo non menzognero, come guida infallibile, il Fox, che da anglicano era diventato dissidente, termina col rinnegare ogni organizzazione ecclesiastica; mentre nel campo sociale, convinto della assoluta eguaglianza tra gli uomini, corollario inoppugnabile della legge d'amore di Dio, padre comune, rifiuta di levarsi il cappello davanti a chicchessia, al re non meno che al mendicante, ma ama e rispetta del pari tutti gli uomini senza distinzione di grado o di età, di sesso o di razza. Il grande principio veniva così non solo ad abbattere in piena breccia ogni sorta di compressione, religiosa come politica, intellettuale come sociale, ma perfino a cancellare ogni formalità esterna, ogni distinzione di ceto o di grado. Si capisce perciò l'opposizione, che si scatena da ogni parte furibonda contro una teoria, la quale sembra sovvertire ogni ordine sociale, e contro l'apostolo di essa, il quale, credendosi destinato da Dio a predicarla agli uomini, trae da questa convinzione la forza per resistere alle persecuzioni, alla prigionia, alla berlina, allo scherno, alla minaccia ripetuta del capestro, ai travagli d'una vita errabonda, come la eloquenza altrettanto semplice quanto formidabile per battere i dottori delle università e convincere le masse, che dalle campagne in ispecie accorrono a lui e pendono dalle sue labbra. Sorge così dal seno delle classi inferiori la setta degli Amici o Quakeri i cui membri, veri crociati della libertà spirituale e sociale, si spargono per il mondo a predicare il principio sovversivo del «lume interiore», vale a dire della voce di Dio nell'anima, il nuovo vangelo dell'affrancamento universale. Libertà assoluta di coscienza, abolizione d'ogni gerarchia ecclesiastica sostituita con la semplice comunione dei fedeli, negazione di caste, di classi, di gradi ed eguaglianza di condizioni economiche, orrore per la guerra e rifiuto di prender le armi, resistenza passiva all'oppressione ed al dispotismo, protesta coraggiosa ed aperta contro ogni forma di ingiustizia, fede cieca nel progresso morale quale molla del progresso sociale, nella corrispondenza eterna fra governo e governati, nel trionfo immancabile della verità e della giustizia sociale confuso con quello della democrazia, erano i principi religiosi, sociali e politici di questa specie di filosofia democratica, in cui lo spirito più liberale dell'epoca s'ammantava dell'entusiasmo della religione. Così, mentre Pietro il Grande nell'assistere in Inghilterra ad una riunione di Quakeri esclamava «ch'è felice una società governata dai loro principi!»; essi vengono dipinti dagli avversari d'ogni chiesa, di ogni classe, d'ogni colore politico come una «setta abbominevole», i cui «principi non possono conciliarsi con nessuna specie di governo» nonchè nella vecchia Europa, nella stessa Nuova Inghilterra. L'odio generale definisce posa di melanconia la loro aria di preoccupazione, presunzione sguaiata la loro fierezza, avarizia la loro frugalità, incredulità la loro indipendenza religiosa; mentre ad estirpare materialmente la setta si ricorre alle carceri, agli esigli, alla frusta, alla servitù, alla fame, al patibolo, ai massacri, ai tormenti. Tutto è inutile però contro questi assetati di giustizia, che vanno essi stessi ad aizzare gli avversari, rimproverando loro l'ingiustizia, predicando una legge morale e sociale così stridente con quella dell'epoca: dal martirio la setta, come sempre avviene, trae nuove forze e si diffonde non solo in Inghilterra e sul continente, ma anche e meglio, per le condizioni sociali più favorevoli, nelle colonie nord-americane, specialmente dopo il pellegrinaggio attraverso di esse, dal Rhode Island alla Carolina, da parte di Giorgio Fox, che rimaneva entusiasta della loro libertà. Nel 1674, qualche mese dopo tale pellegrinaggio, una compagnia di Quaccheri comperava per mille sterline dal Berkeley la metà occidentale del New Jersey; ed in esso stabilivasi a Salem, sul Delaware, una comunità, le cui leggi fondamentali redatte nel 1677 riconoscevano il principio dell'eguaglianza democratica in un modo altrettanto assoluto ed universale che quello della setta: per esse nessun potere nè legislativo, nè esecutivo, nè giudiziario che non derivasse dall'unica fonte legittima, dalla sovranità popolare esercitata nelle elezioni; per esse nè servitù, nè schiavitù, nè usurpazione del suolo a danno degli Indiani, nè altra forma di oppressione politica ed economica; per esse insomma la nuova società veniva messa su una base altrettanto semplice quanto ignota al mondo contemporaneo, sui principii cioè dell'umanità. Era uno stato ideale, una patria conveniente a Fenelon. Puritani e presbiteriani nella parte orientale, quaccheri in quella occidentale iniziavano la colonizzazione del New Jersey con un idillio di operosa tranquillità e purezza di vita, dandogli insieme quel carattere misto e quel fervore religioso ed intellettuale, che ne forma una delle caratteristiche più salienti. Unica causa perturbatrice del paese fu nei primi anni la lotta fra i proprietari della colonia, i quali avevano ridotto l'opera loro ad una speculazione sui terreni, lotte che fruttavano al New Jersey orientale per qualche anno, dal 1689 al 1692, l'assenza di qualsiasi governo ufficiale, e terminavano nel 1702 colla cessione d'ogni diritto nelle mani della corona, la quale riuniva i due New Jersey in una sola colonia regia, che verso il 1754 contava già un 80.000 anime, di cui 6000 negri. § 3. PENNSYLVANIA E DELAWARE. — Per quanto importante nella colonizzazione del New Jersey, il quaccherismo veniva pur sempre temperato in esso dallo spirito ben diverso del puritanesimo, cui dovevasi tra le altre la rapida introduzione e diffusione di quel sistema delle scuole libere, così ricco di risultati nella Nuova Inghilterra. Dove invece le idee degli Amici possono svolgersi in tutta la loro pienezza fino al punto che la realtà sociale lo permette, è nella vicina Pennsylvania, nella colonia cioè fondata da uno dei campioni della setta, da Guglielmo Penn. Nato nel 1644 dal grande ammiraglio, che conquistò la Giammaica agli Inglesi, e tenuto a battesimo dallo stesso duca di York, questo figlio prediletto della fortuna, che per la nascita, l'ingegno, la raffinatezza dell'animo, l'eleganza dei modi, sembrava destinato a brillare alla corte tra la pompa dell'oro e l'ebbrezza del potere, mostrava invece fino dai primi anni un'indole melanconica, inclinata all'ascetismo ben più che ai divertimenti della sua età. Giovanetto ancora si faceva scacciare da Oxford per le idee poco ortodosse ed il suo entusiasmo per un predicatore quacchero, che l'aveva tocco nel cuore; e suscitava le collere violente del padre perch'egli, convinto della vanità del mondo, lungi dal frequentare gli splendidi circoli della capitale conduceva una vita da anacoreta, a contatto bene spesso con gente della più umile condizione. Nè le sfuriate paterne però, nè le seduzioni di Parigi, dove era mandato a convertirsi, nè i viaggi per l'Europa, che allargavano le sue cognizioni, nè gli studi e la pratica della giurisprudenza, cui si dava con successo al ritorno in Inghilterra, guarivano della malinconica austerità il giovane Penn, il quale veniva confinato dal padre nei suoi possessi d'Irlanda. Ma qui per l'appunto le parole d'un vecchio «amico» sulla fede, che vince il mondo, terminavano col convertire alla setta dei quaccheri l'espulso di Oxford; ed il figlio dell'ammiraglio famigliare del re, proprio nell'età in cui più gli sorrideva la vita, a ventidue anni, rinunziava alle lusinghe della fortuna per seguire il sentiero della virtù: dal carcere, dove era una prima volta gettato per le sue idee, egli protestava che «la religione, suo delitto e sua innocenza, lo faceva prigioniero agli occhi dei malvagi, ma lo lasciava padrone di se stesso». Cacciato di casa dal padre, impotente nonostante l'angoscia del cuore di cangiare l'inflessibile figlio, canzonato e rinnegato dagli amici, fuggito come un lebbroso dalla sua società, comincia pel Penn la vita poco sicura del quacchero infamato, la vita errabonda di chi senza risorse gira pel mondo a predicare un ideale incompreso, apostolo entusiasta della nuova fede e teorico fecondo dei suoi principî. Prigioniero per lunghi mesi nella torre di Londra, egli non si piega, ma piega anzi con la sua commovente costanza il vecchio padre, che riconosce nel figlio la propria energia, gli perdona, lo ammira, lo difende contro nuovi attacchi del prete e del giudice, lo raccomanda prima di morire al re e al duca di York, che gli promettono di proteggerlo, e lo incoraggia in sul momento dell'estremo abbandono col dirgli: «figliuol mio Guglielmo, se tu ed i tuoi amici persevererete nel vostro semplice modo di predicare e di vivere, metterete fine al regno dei preti». Padrone ormai di sè, il Penn impiegava d'allora in poi le sue ricchezze, i suoi talenti e la sua influenza nel soccorrere i correligionari perseguitati, guadagnandosi nuova prigionia; insieme con Giorgio Fox e Robert Barclay andava ad evangelizzare l'Olanda e la Germania, e di ritorno in patria si dava con più ardore a combattere in tutti i modi per la libertà di coscienza, in favore dei papisti non meno che dei quaccheri. Disperando alla fine di veder trionfare il suo ideale in un paese, dove la tirannide del fanatismo era più forte che mai, rivolgeva il suo pensiero a quell'America, che fin da giovanetto era stata il teatro dei suoi sogni di felicità. Ora maturo d'intelletto, provato e fortificato dalla vita, meditava non solo di aprire colà un asilo ai correligionari perseguitati, ma addirittura di fondarvi una comunità in cui potesse incarnarsi l'ideale quacchero. Spinto dall'entusiasmo pel generoso progetto ed aiutato da potenti intercessori, già amici del padre, egli riusciva nel 1681 ad ottenere il possesso del paese ad ovest del Delaware per una estensione di 3 gradi di latitudine e 5 di longitudine. Era questo per Carlo II un mezzo assai comodo di soddisfare il debito di 16.000 sterline, che il governo inglese doveva al padre di Penn, e per l'ardente filantropo il mezzo sospirato di «offrire un esempio ed un modello alle nazioni», di tentare il «santo esperimento» nel vasto paese, ch'egli voleva detto Sylvania pel suo aspetto, nome mutato da Carlo II in Pennsylvania. La riva occidentale della baia di Delaware, il paese cioè colonizzato già dagli Svedesi, veniva però in sulle prime conteso al Penn dal duca di York, che voleva riservarselo come una dipendenza di New York; ma dopo lunghe trattative questi acconsentiva ad infeudarne il Penn, il quale lo aggregava per pochi anni alla Pennsylvania nonostante le contestazioni di lord Baltimore, che pure avanzava delle pretese su quel territorio. La carta, analoga a quella del Maryland, mentre garantiva al re coll'approvazione delle leggi dell'assemblea coloniale la sovranità ed al Parlamento coi diritti di dogana la supremazia commerciale, accordava al proprietario i soliti privilegi feudali. Che uso il re quacchero, come fu chiamato, intendesse di fare dei poteri concessigli sul territorio, in cui erano compresi i principali stabilimenti svedesi e qua e là qualche fattoria olandese ed inglese, appariva manifesto dal proclama indirizzato nello stesso 1681 ai suoi sudditi: «Voi sarete governati, era detto, dalle leggi, che vi darete voi stessi e vivrete come un popolo libero e, se lo desiderate, come un popolo sobrio ed industrioso. Io non usurperò i diritti d'alcuno, io non opprimerò alcuno. Dio m'ha ispirato una risoluzione migliore e m'ha accordato la sua grazia per compierla. In una parola, tutto quello che degli uomini liberi e temperanti possono ragionevolmente desiderare, per assicurare e migliorare la propria prosperità, io lo concederò di tutto cuore. Io supplico Dio di guidarvi nella via della giustizia e di fare felice voi e dopo voi i figli vostri. Sono vostro amico sincero, Guglielmo Penn». E poco dopo egli indirizzava un messaggio agli indigeni della foresta, dichiarando loro che tutti, essi come lui, erano responsabili della loro condotta davanti uno stesso e solo Dio, ch'essi avevano tutti la stessa legge scritta nel fondo del loro cuore e che tutti erano egualmente tenuti ad amarsi, a soccorrersi, a farsi reciprocamente del bene. Un suo rappresentante veniva intanto mandato in America coll'incarico di mantenere lo _statu quo_ sino al suo arrivo, mentr'egli preparava i mezzi per colonizzare il paese, cominciando con lo spedirvi una compagnia d'emigranti quaccheri. Ben più dei piani materiali di colonizzazione, che pur dissestavano il suo patrimonio aggravandolo di debiti, preoccupava però il suo animo il pensiero del governo da dare ai suoi sudditi: insensibile agli allettamenti dell'avarizia e dell'ambizione, come l'aveva tante volte mostrato, egli rimaneva un momento perplesso di fronte alle seduzioni del potere assoluto, che sembrava garantirgli l'esercizio illimitato della sua appassionata filantropia; ma, coerente al suo dogma politico che «la libertà senza obbedienza non è che confusione e l'obbedienza senza libertà diventa schiavitù», seppe eroicamente resistere alla tentazione. «Io mi propongo, decideva, in quanto riguarda le questioni di libertà, di non lasciare, cosa che non è ordinaria, nè a me nè ai miei successori, il minimo potere di far del male; io non voglio che la volontà d'un sol uomo possa divenire un ostacolo alla felicità di tutto un paese». Con tali idee egli s'imbarcava nel 1682 sul «Welcome» pel suo possesso americano, dopo aver raccomandato alla moglie di vivere colla massima frugalità e di fare dei figli suoi degli agricoltori e delle donne di casa: con sè portava un progetto di governo, ben diverso da quello di Locke, da sottomettere all'approvazione degli uomini liberi della Pennsylvania. Accolto dai coloni con entusiasmo commovente quale padre benefico anzichè signore, il sovrano quacchero rimontava il Delaware, messaggero di pace e d'amore ai fratelli bianchi ed a quelli indigeni. Sotto un grande olmo a Shakamaxon, come lo rappresenta un quadro del West, Guglielmo Penn circondato da alcuni amici riceveva una numerosa deputazione delle tribù Lemni Lenape e stringeva con queste un accordo, ch'era ben più dei soliti acquisti di terreno dagli indiani: era il riconoscimento della perfetta uguaglianza fra Bianchi e Pelli-Rosse, la proclamazione degli stessi diritti: «Noi ci incontriamo qui, diceva il Penn, sul gran cammino della buona fede e della buona volontà; da alcuna parte non ci riserveremo dei vantaggi; tutto si combinerà con franchezza e carità.... Io non voglio chiamarvi miei figli, perchè i genitori reprimono talora troppo severamente i lor figli; nè solamente miei fratelli, perchè i fratelli sono dissimili. Io non paragonerò l'amicizia che ci lega ad una catena, perchè le pioggie possono arrugginirla e gli alberi, cadendo, spezzarla. Noi siamo la stessa cosa che due parti del corpo d'un uomo, se potessero esser separate; siamo tutti una stessa carne ed uno stesso sangue». Ed i figli della foresta commossi: «noi vivremo, dicevano, in buona amicizia con Guglielmo Penn e coi suoi figli, finchè sussisteranno il sole e la luna». Quanto progresso da Melendez a Penn, quale abisso tra il contegno degli Spagnuoli verso gl'Indiani e quello dei Quaccheri! L'anno stesso dell'arrivo il Penn convocava un'assemblea generale dei coloni, ma il popolo invece preferiva inviare dei rappresentanti, i quali in tre giorni compilavano in Chester un primo abbozzo di legislazione provvisoria improntata ai principi dei quaccheri: libertà assoluta di coscienza, perfetta eguaglianza giuridica, riposo settimanale, suffragio universale, approvazione del popolo per le imposte, abolizione della pena di morte in tutti i casi eccetto l'assassinio, soppressione del giuramento nei processi, il matrimonio puro contratto civile, abolizione delle decime, proibizione d'ogni divertimento sensuale, mascherate, balli, spettacoli, combattimenti di tori ecc., ne erano le principali disposizioni. Si dava quindi mano fra lo Schuylkill e la Delaware, su una lingua di terra per bellezza, salubrità e posizione geografica quanto mai adatta, alla fondazione di Filadelfia, la città «rustica e verdeggiante» come la ideava il fondatore, la città «dell'amore fraterno» che nella vita tranquilla ed operosa delle case nascoste fra i giardini ed i parchi non doveva smentire il suo nome. L'anno dopo nella capitale nascente, composta ancora di poche capanne, si riuniva la prima legislatura provinciale, costituita di 9 rappresentanti per ciascuna delle 6 contee, e fra i tronchi d'alberi abbattuti della foresta redigeva e datava da Filadelfia, in segno d'augurio, la «carta di libertà» della Pennsylvania. Nel presentare ad essa il piano di governo, redatto in Inghilterra, il proprietario diceva: «voi potete emendarlo, cambiarlo o farvi delle aggiunte; io sono disposto a fondare tutte le istituzioni che possono contribuire alla vostra felicità». Dal pieno accordo tra le due parti uscì una costituzione; che, se ne eccettui la carica ereditaria del proprietario, faceva della Pennsylvania una perfetta democrazia rappresentativa: dal diritto di veto riservato al proprietario in fuori, ogni altro potere era lasciato al popolo, che non solo eleggeva esso il corpo legislativo ma anche, direttamente o indirettamente, nominava tutti i funzionari del potere esecutivo e perfino del giudiziario. Il Penn a differenza di lord Baltimore non voleva il menomo diritto d'imposta in compenso della sua proprietà e delle spese sostenute per la colonia, rifiutando anzi la rendita che la provincia gli offriva con tale intendimento, contento delle vaste terre riservatesi quale proprietà personale. «Splendida cosa!, diceva Federico di Prussia un secolo dopo, nel leggere l'organizzazione della Pennsylvania; tutto ciò sarebbe perfetto se potesse sussistere!» Le istituzioni democratiche, grazie agli elementi della popolazione ed alle condizioni del suolo, rimasero salde in Pennsylvania, come rimasero inalterati verso di essa i sensi del suo fondatore, il quale, nonostante la rovina del patrimonio speso nella colonia e la conseguente prigionia per debiti, ancora otto anni prima di morire scriveva ai coloni: «se nei rapporti che esistono fra noi, il popolo ha bisogno di qualche cosa da parte mia, che possa renderlo più felice, io sono dispostissimo ad accordargliela». Così pure si conservarono buone nei primi tempi le relazioni tra gli Indiani e gli Amici, per quanto sia pura leggenda che i Quaccheri non abbiano mai avuto molestia dai Pelli-Rosse. Quello che non rimaneva, nè poteva rimaner saldo era la sovranità del proprietario ereditario. Quando il re quacchero, gettate le basi materiali e morali della colonia, s'era imbarcato nel 1684 per l'Europa, lasciando alla libertà la cura di svilupparsi da sè, l'addio dei coloni era stato commovente e sincero: egli però aveva lasciato nel governo della colonia due elementi incompatibili fra loro, la democrazia da lui fondata e la sovranità feudale cui non aveva rinunciato. Il Penn infatti non solo si era riservato delle porzioni considerevoli di territorio come proprietà privata, ma anche un diritto esclusivo di preempzione del suolo, che egli solo poteva comperare dagli indigeni per cedere poi mediante canoni ai coloni. La Pennsylvania attaccò subito il diritto feudale del suo proprietario, esigendo che la rendita proveniente da tali canoni fosse almeno in parte destinata a coprire le spese pubbliche. Le agitazioni e le scissure arrivarono anzi al punto che la Pennsylvania veniva tolta al Penn dal governo inglese e vi si inviava nel 1693 un governatore; ma il Penn poco dopo veniva reintegrato nei suoi diritti ed in un secondo viaggio in America poteva nel 1699 ristabilire la calma nella colonia. Moriva egli nel 1718 dopo una triste vecchiaia, afflitta da malattie, da prigionia pei debiti contratti a vantaggio della colonia, da altre avversità ancora, compenso ben doloroso ad una esistenza tutta spesa, nonostante l'aspro giudizio del Macaulay, che lo accusa di subdolo papismo, al culto ed al trionfo della verità e dell'umanità. La lotta tra democrazia e sovranità feudale, mantenuta dentro certi limiti durante la vita del Penn dalla gratitudine dei coloni, avrà libero corso dopo la sua morte, e la storia politica del paese non sarà altro che una sequela di contestazioni, destinate a risolversi nella più completa indipendenza popolare. Nel secolo XVIII infatti la Pennsylvania apparteneva solo di nome ai proprietari ed all'Inghilterra: in essa il popolo era divenuto più che in ogni altra colonia padrone di se stesso. La sua legislatura, non composta che di una sola branca, aveva un'esistenza affatto indipendente; si convocava e si scioglieva da se stessa senza bisogno d'alcun intervento estraneo: il diritto di veto negato per lunga consuetudine nonchè al consiglio, eletto dai proprietari, ai proprietari stessi, e riservato solo al governatore luogotenente, era reso nella pratica illusorio per la dipendenza strettissima del governatore dall'assemblea, la quale anno per anno votava il suo trattamento: la nomina dei giudici, negata ai proprietari, era riserbata anch'essa al luogotenente, e tali giudici per di più dipendevano essi pure dall'assemblea pei loro emolumenti: le imposte erano votate dall'assemblea e da essa percepite col mezzo di commissari provinciali: ai proprietari era lasciato solo il controllo sull'ufficio delle terre, ma a bilanciarne l'influenza politica l'assemblea da parte sua esercitava la più stretta sorveglianza sull'ufficio dei prestiti e della carta monetata. A tanta libertà politica corrispondeva l'affrancamento completo del pensiero, garantito dalla legge. Grazie ad esso la stampa poteva svolgere tutta la sua efficacia sull'opinione pubblica e nelle mani del Franklin diventare uno strumento prezioso di libertà per l'intero paese. Un'altra cosa poi oltre alla sovranità del proprietario doveva eclissarsi col tempo, il quaccherismo cioè nelle sue applicazioni alla vita quotidiana. La schiavitù dei Negri anzitutto prese piede anche nel suolo colonizzato dai quaccheri, nonostante le loro teorie umanitarie contrarie ad ogni differenza di casta e di razza. Essa s'introduce del pari nella Pennsylvania, nonostante gli sforzi in contrario del Penn, il cui primo atto in proposito obbligava ad affrancare i negri dopo 14 anni, e nel Delaware, nonostante i buoni propositi della comunità svedese dei tempi di Gustavo Adolfo, nonostante che gli Amici colà venuti di Germania proclamassero ancora una volta che non era permesso a cristiani comperare o tenere negri schiavi, nonostante il messaggio di Giorgio Fox ai fratelli del Delaware «che la vostra luce rischiari gli Indiani, i negri ed i bianchi», nonostante infine l'apostolato sublime dell'antischiavista John Woolman nel sec. 18º. Se la linea Mason e Dixon, così detta dal nome dei due commissari che nel 1761 la tracciavano, dopo quasi un secolo di contestazioni fra il Penn ed il Baltimore ed i rispettivi eredi, separando il Maryland dalla Pennsylvania, diventerà nel sec. 19º la linea di divisione fra stati liberi e stati a schiavi, ciò dipenderà anche qui ben più che dalla filantropia dei quaccheri da ragioni di clima, di suolo, di culture. Nè solo la schiavitù dei negri, ma il complesso tutto della vita sociale andrà allontanandosi ogni giorno più dalla rigidità quacchera, possibile in una setta non già in una società, con lo sviluppo d'una florida vita economica, dovuta alla fertilità del suolo e più tardi alle ricchezze minerarie, carbone, ferro, petrolio, del sottosuolo, con l'aumento rapido della popolazione, che, valutata ad un 12.000 anime tra Pennsylvania e Delaware presi insieme nel 1688, saliva a 176.000, di cui 11.000 negri, verso il 1754. Di questi coloni, i quali dall'Inghilterra, dalla Scozia e dalla Germania immigravano nella Pennsylvania, ben pochi rimanevano fedeli alle costumanze quacchere, troppo contrarie agli istinti predominanti dell'uomo, alla sete di piacere, di godimento, di potenza, di ricchezza, ben pochi comprendevano e pura tramandavano ai figli una religione affatto filosofica, non confacientesi alle moltitudini per l'assenza completa di forme e l'altezza sublime dei principî. L'elemento quacchero infatti rappresenta oggi circa un centesimo della popolazione della Pennsylvania, ed ancor meno poi del Delaware, di quel paese cioè che, colonizzato già dagli Svedesi e disputato in seguito fra il duca di York ed il Penn e poi fra questo e lord Baltimore, aveva finito dopo alcuni anni di unione con la Pennsylvania per costituire nel 1702 una colonia regia autonoma. Esulato però grado grado dalla vita materiale, lo spirito quacchero modificato ma non cancellato rimase in fondo agli animi, imprimendo l'orma sua quietista nel carattere d'una colonia, nella cui origine la setta aveva rappresentato la parte principale: la Pennsylvania conserverà la sua tinta scialba in tutta la storia americana; non sarà mai, nonostante la sua floridissima vita industriale, una forza direttiva ed impulsiva della futura confederazione; in essa non si svolgerà nè lo spirito «yankee» di cui la Nuova Inghilterra è il laboratorio, nè quello «aristocratico» del Sud, nè quello «cosmopolita» dell'antica Nuova Amsterdam. Sembra proprio che le origini cospirassero con la posizione geografica a fare della Pennsylvania l'anello d'unione tra Nord e Sud, riserbandole intatta la sua missione storica, quella di stringere insieme le due parti del paese: il fondatore di essa, Guglielmo Penn, s'adoperava già nel 1697 per un congresso annuale di tutte le colonie coll'intento di regolarne il commercio, fatidica per quanto vana divinazione del futuro; la capitale di essa, Filadelfia, dava i natali meno d'un secolo dopo all'indipendenza americana e diventava il pegno dell'Unione. § 4. CARATTERISTICA DELLE COLONIE CENTRALI. — Non la sola Pennsylvania del resto ma tutte quante le colonie centrali adempievano alla missione di avvicinare nel campo sociale e fondere in quello politico, come congiungevano in quello geografico, le varie parti del paese. Zona di transizione fra il latifondo coltivato a schiavi ed il _farm_ coltivato dal proprietario, crogiuolo dove la rigidità puritana si fonde col misticismo quacchero e si tempera di cento altri elementi cosmopolitici, esse rappresentano un compromesso sociale fra Nord e Sud, che bene si rispecchia in quel compromesso artistico per cui nelle colonie centrali la nota letteraria dalla cupa tetraggine della N. Inghilterra va cangiando rapidamente verso la luce e la gaiezza del Maryland e della Virginia. Ed in questa zona per l'appunto si concentra, può dirsi, l'interesse politico della madrepatria all'intero dominio nord-americano, come suo in ispecie è l'interesse ad una unione eventuale di tutte le colonie: basti pensare a quella New York, la quale col suo porto, primo sull'Atlantico, le comode baie ed il corso dell'Hudson ha in mano le chiavi del Canadà e dei Grandi Laghi, mentre con la sua frontiera male delimitata all'interno è più esposta agli assalti degli Indiani ed alle rappresaglie dei vicini Francesi. Nè, grazie in prima linea a questa cosmopolita New York, il centro è solo la zona grigia, in cui vengono a fondersi le opposte correnti, che derivano dalle società compatte e ben caratterizzate del nord e del sud, ma benanche il laboratorio massimo d'un terzo elemento, che informerà di sè la vita americana, l'utilitarismo più gretto e feroce. L'immenso e rapido sviluppo commerciale ed economico dei futuri suoi Stati, di cui le città sono centri di scambi, officine di produzione e depositi di mercanzie, favorito dall'origine degli abitanti, divisi dalla discendenza del sangue ed accomunati solo dall'intento economico, vi produrrà una classe, di cui l'oro sarà l'unico dio, gli affari l'unica cosa per cui valga la pena di vivere, una classe dominata dalla febbre del guadagno e di questo solo curante. La massima inglese che il tempo è danaro troverà in essa il maggior favore; la legge psicologica del minimo sforzo la maggiore applicazione. Non perdere un minuto, non lasciar passare un'occasione, non trascurare la minima cosa capace d'un effetto utile, diventerà la sua regola d'azione suprema e pressochè unica: tutto il resto, convenienze sociali non meno di scrupoli morali o di legami religiosi, passerà in seconda linea. I moventi più alti dell'uomo, la morale, l'arte, la scienza, la bellezza, rimarranno in essa annegati per lasciar libero il campo al solo stimolo economico: il futuro industriale della Pennsylvania per quanto più illuminato non sarà posseduto dalla febbre del guadagno meno del negoziante di New York prodigiosamente ignorante. Il senso pratico diventerà il sesto senso di questi uomini; l'americanata troverà qui la culla d'origine. Ed invero in questa corsa sfrenata al guadagno, corsa che non conoscerà nè gli spini della via nè la difficoltà degli ostacoli, la capacità dello sforzo facendosi ogni giorno maggiore, lo sforzo stesso diventerà una seconda natura, un vero bisogno, mentre per contatto si comunicherà dagli individui all'intero corpo sociale: dissipare una fortuna pur di avere il piacere di rifarla, ecco un esempio non raro! La riuscita più che i suoi frutti termina così, ed in ciò la moralità finale di essa, col diventare l'ideale di questa società, nella quale la vita dell'individuo sarebbe un puro e semplice gioco di azzardo senza alcun contenuto etico, senza alcun fine sociale, se la riuscita stessa non fosse da raggiungersi solo per mezzo dell'individuo e non dovesse risolversi in un vantaggio per la collettività, come vorrebbe il filosofo dei miliardi, l'americano Andrea Carnegie, nel suo libro recente «_The empire of business_». CAPITOLO V Solidarietà coloniale e rapporti con la madrepatria. § 1. Isolamento delle singole colonie e forze destinate a fonderle insieme — § 2. Politica economica della madrepatria — § 3. Maturità delle colonie per l'indipendenza. § 1. ISOLAMENTO DELLE SINGOLE COLONIE E FORZE DESTINATE A FONDERLE INSIEME. — Le grandi braccia della civiltà attuale, la locomotiva, il telegrafo, la stampa quotidiana, la navigazione a vapore, che oggi legano una popolazione di 80 milioni, sparsa sulla metà d'un continente in una sola nazione, l'anglo-americana, erano sconosciute o quasi alle tredici colonie disperse nel secolo XVIII lungo la costa atlantica del Nord-America senz'altro legame che quello della comune dipendenza dall'Inghilterra. I mezzi di comunicazione e trasporto fra le colonie erano assai primitivi. Le strade erano rare, spesso rotte, in molti punti, in vicinanza delle città specialmente, quasi impraticabili pel fango. Occorrevano sette giorni per andar in diligenza da Philadelphia a Pittsburgh, quattro da Boston a New York, tre da New York a Philadelphia: nel 1766 parve cosa miracolosa il fare in due giorni questo viaggio, tanto che la diligenza ad esso destinata fa detta «la macchina volante». Dov'era possibile, il viaggio si faceva per acqua, affidandosi al vento, ragione per cui lo stesso viaggio ora si faceva in due giorni ora in due settimane. Il servizio postale era perciò inadeguato e lento quanto mai: talora in inverno una lettera impiegava settimane per andare da Philadelphia nella Virginia. Occorrevano decine e decine di giorni perchè le notizie attraversassero l'Atlantico, un tre settimane circa perchè un'idea attraversasse tutte le colonie. Pochi i giornali, senza importanza le loro notizie, limitata per forza ad una piccola area la loro circolazione. Si è calcolato che il contenuto di tutti i 43 giornali, esistenti all'epoca della Rivoluzione, non avrebbe riempito dieci pagine dell'attuale _New York Herald_: le notizie erano tanto scarse, che durante la stessa guerra d'indipendenza il «_Massachusetts Spy_» per mancanza di novità pubblicava successivamente l'intera «History of America» del Robertson. Questo stato materiale di cose sarebbe bastato da sè solo a condannare le singole colonie a quell'isolamento, che è il fatto caratteristico della vita americana dell'epoca, quand'anche cento altre ragioni non avessero a ciò cooperato. Origini, nazionalità, religione, suolo, clima, forme sociali e politiche erano diverse, si può dire, da colonia a colonia: nessun principio di coesione in sulle prime, nessun centro di vita comune fra queste provincie, che si guardavano con occhio diffidente quando non geloso, che sembravano riprodurre tutti i dissensi religiosi e politici della madrepatria, che avevano in una parola una coscienza così aliena da ogni simpatia intercoloniale, così spiccatamente individuale, che oggi mal saprebbe concepirla nonchè un europeo un americano degli stessi Stati Uniti. Nessuna meraviglia pertanto che il dotto svedese Peter Kalm, viaggiando per le colonie dal 1748 al 1751, rimanesse meravigliato dell'isolamento di ciascuna nelle leggi, nella moneta, nei piani militari, negli usi sociali; nessun miracolo se, nonchè nella nota letteraria diversa da regione a regione, nella stessa lingua, affetta da un arresto di sviluppo in confronto di quella della madrepatria, si fossero affermate tali differenze che Beniamino Franklin nel 1752 poteva dire che ogni colonia aveva «alcune espressioni peculiari, famigliari alla sua popolazione ma straniere ed inintelligibili alle altre». Se però l'isolamento è il fatto più appariscente di questa società coloniale, di cui ogni singola unità sembra tener nelle proprie mani il destino che essa crede di elaborare a modo proprio e nel proprio interesse esclusivo, in cui la vita si svolge in tanti teatri separati quante sono, può dirsi, le provincie; la tendenza alla comunanza, la solidarietà, è invece la risultante ultima delle forze, le quali la agitano, colmando lentamente l'abisso che la divide in tanti mondi nonchè separati discordi, stringendo fra questi i legami indissolubili della futura nazionalità. Col succedersi anzitutto delle generazioni i coloni erano andati perdendo a poco a poco il ricordo della patria individuale, mentre l'incrocio fra essi aveva creato, nelle sedi più antiche in ispecie, un tipo nuovo, distinto da quello della metropoli, un tipo che le ragioni ideali come gli interessi materiali rendevano più attaccato al proprio paese che a quello degli antenati. Alla formazione di questo tipo, che non è più inglese od olandese o svedese, ma può dirsi già americano per le caratteristiche comuni a tutte le colonie da esso presentato, aveva contribuito l'ambiente fisico. Il cielo abitualmente sereno e luminoso in gran parte del paese, l'aria secca ed elettrica, i grandi squilibri di temperatura massima e minima, cause tutte che oggi ancora trasformano in poche generazioni gli immigranti in un tipo unico, l'anglo-americano, avvicinandoli non già ai progenitori ma all'elemento autoctono primitivo, all'indiano, coll'appiattirne i piedi e le mani, coll'incavarne le orbite, col renderne più scura la pelle, collo svilupparne le apofisi ossee, coll'esaltarne infine l'attività nervosa e produrre in essi una capacità di resistenza superiore a quella degli altri popoli, lavoravano anche allora alla formazione d'un tipo affine con risultati tanto più rapidi d'oggi quanto minore e più omogenea dell'attuale era l'immigrazione. Aggiungasi quella fisionomia comune a tutti i coloni, che viene dall'affinità morale dei loro progenitori: diversi per razza, per religione, per lingua, i pionieri di quella società erano tutti fratelli nel vigore della volontà, nello spirito d'avventura, nella indomata energia; li avesse tratti sulla sponda americana dell'Atlantico l'amore alla libertà, la passione del nuovo, il desiderio della ricchezza, erano pur sempre, salvo poche eccezioni, il fior fiore dell'energia europea. D'altra parte l'elemento inglese predominante aveva finito coll'assorbire gli altri, fondendoli nella grande massa anglosassone, cosicchè tutte le colonie si trovavano avvinte ormai dal grande legame d'una lingua e d'una civiltà comune. Al nord-est ed al sud infatti del dominio coloniale s'erano creati due forti nuclei sociali, adatti ad esercitare il loro influsso su tutto il paese. Nella Virginia la casta aristocratica dei piantatori, nel Massachusetts la forte organizzazione delle chiese congregazionaliste, che facevano una cosa sola con lo stato, avevano inquadrato, a dir così, gli uomini in società compatte, dotate d'una forza d'espansione capace di assimilare a sè gran parte dell'intero dominio anglicizzandolo: la Virginia invia coloni in tutto il Sud, le genti della Nuova Inghilterra non cessano d'affluire nelle provincie dell'Ovest e dello stesso Sud. Più forte poi di questo cemento etnico era quello dato da una coscienza comune, basata su idee radicate in tutte le colonie, più ancora che dalla comune loro discendenza dall'Inghilterra. L'intervento del popolo negli affari pubblici, il voto libero dell'imposta, la responsabilità degli agenti del potere, la libertà individuale, il giudizio per giuria erano principii, che per avere loro radice nella tradizione inveterata di libertà civile, compendiata nelle garanzie della _common law_ inglese, erano sacri per tutte le colonie; come in tutte esisteva, sotto una forma od un'altra, un governo locale, per cui ognuna in maggiore o minor grado faceva ed eseguiva da sè le proprie leggi, una autonomia municipale, per cui ogni comunità amministrava da sè i propri affari. La libertà ed il _selfgovernment_, ecco il talismano capace di fondere armoniosamente tutte le differenze etniche, suscitando nel paese una vita politica più cara agli emigranti della loro lingua materna, dei loro ricordi, della loro parentela. Olandesi, Francesi, Svedesi e Tedeschi rinunziavano alle loro rispettive nazionalità per reclamare i diritti di cittadini inglesi. Unico elemento tradizionale importato dall'Europa nel nuovo mondo, la _Common Law_ inglese dava alla libertà americana un passato immemorabile; unico patrimonio storico comune, essa faceva dell'ideale politico comune una parvenza lontana di patriottismo. La costituzione civile e politica della madrepatria era oggetto di venerazione per tutte quante le colonie, le quali non vedevano nella propria se non una copia migliorata dell'inglese, come quella che rinchiudeva privilegi addizionali, di cui non godeva la massa del popolo in Inghilterra. Le franchigie elettorali vi erano infatti più equamente ripartite, non essendovi l'anomalia di città prive di rappresentanza e di borghi pressochè scomparsi largamente rappresentati; l'assemblea si eleggeva in generale annualmente, e l'epoca di convocazione ne era fissata da una legge fondamentale; la lista civile in tutte le colonie, salvo una, si votava anno per anno, e per maggior sicurezza contro le malversazioni e le dilapidazioni insieme coll'impiego del denaro si notava pure la retribuzione degli agenti chiamati a dirigere le spese; le libertà municipali erano più indipendenti e più estese; in nessuna colonia vi era corte ecclesiastica e nella più parte di esse non vi era chiesa stabilita nè giuramento religioso per entrare negli uffici pubblici; il villanaggio e la servitù dei bianchi più non esistevano; permesso a tutti i cittadini il porto d'armi e dovere civico degli ascritti alla milizia l'esercitarsi in esse. Tanta libertà civile, tanto sviluppo di democrazia facevano così sorelle le colonie in quello spirito di indipendenza, che tutte le animava nei loro rapporti con la madrepatria; la strenua lotta per la difesa della carta, su cui riposavano le sue libertà, combattuta ad intervalli dal Massachusetts dal 1638 al 1685, fino al giorno in cui gli veniva tolta con la violenza dal governo inglese, non è un caso isolato ma un semplice episodio di quella gagliardia spiegata sempre da tutte le colonie regie, a carta o di proprietari, democratiche od aristocratiche a vantaggio della loro autonomia locale. Trascurate dal governo inglese, finchè povere ed oscure, le colonie nord-americane divenute prospere e ricche avevano attirato sopra di sè l'attenzione della madrepatria; l'ingerenza di questa era aumentata, gli statuti coloniali erano diventati sempre più uniformi, il tipo infine della colonia regia aveva terminato col prevalere. In essa la corona designava con scrittura privata il governatore ed una specie di gabinetto consultivo o consiglio, il quale formava come la camera alta della legislatura, mentre il popolo eleggeva la camera bassa: i giudici di pace e gli ufficiali della milizia erano nominati dal governatore e dal consiglio, dal governatore o dal re i giudici provinciali, che conservavano la loro carica secondo il beneplacito del monarca; quanto alle corti di ammiragliato, i lords dell'ammiragliato vi nominavano un giudice, un cancelliere ed un maresciallo; i commissari delle dogane facevano scegliere dei controllori e collettori, di cui ve n'era uno in ogni porto considerevole. Anche le altre colonie però, sia quelle corporative a carta, sia quelle stesse di proprietari, dove originariamente la corona inglese non era rappresentata che dalle corti di ammiragliato e dai commissari di dogana, dopo la rivoluzione del 1688, col manifestarsi della tendenza a restringere il potere dei proprietari, col prevalere della dottrina che si potevano concedere i territori ma che l'autorità amministrativa doveva esserne riservata alla corona, erano state sottoposte a forza di modificazioni delle carte o delle primitive concessioni, o in un modo diretto o indiretto, al controllo del governo inglese. Ciò avveniva specialmente per l'amministrazione della giustizia, riguardo alla quale la corona non solo aveva ottenuto la facoltà di nominare i giudici in quasi tutte le colonie, ma coll'imporre a tutte il diritto negli abitanti di appellarsi in Inghilterra, aveva fatto di questa il tribunale d'ultima istanza di tutte le contestazioni sollevate in America. Senonchè il metodo adottato di confidare la soprintendenza degli affari americani ad un «ufficio del commercio e delle piantagioni» (_Board of Commissioners for Trade and Plantations_), che non aveva nè voto deliberativo in seno al gabinetto nè accesso presso il re, lungi dal fissare una volta per sempre quei rapporti politici tra le colonie americane e l'Inghilterra, sia col re sia col parlamento, che sin dal principio erano stati vaghi e mal definiti, tendeva ad aumentare la confusione, a complicare la situazione. L'ufficio infatti redigeva delle istruzioni senza poterle metter in vigore; prendeva conoscenza di tutti gli incidenti e poteva far delle inchieste, dare delle informazioni o degli avvisi, ma non aveva autorità di formulare una decisione definitiva, perchè il potere esecutivo in quanto concerneva le colonie era riservato al segretario di Stato posto alla testa del dipartimento del Sud, cui spettava la direzione di tutti i rapporti colla penisola spagnuola e la Francia. L'ufficio del commercio, organizzato in sulle prime col fine di ristorare il commercio e di incoraggiare le pescherie della metropoli, si vedeva perciò obbligato d'intendere i lamenti degli ufficiali del potere esecutivo in America, di loro comunicare le istruzioni, di raccogliere e di esaminare tutti gli atti delle legislature coloniali, ma non aveva in definitiva alcuna responsabilità quanto al sistema di politica, che poteva esser adottato per l'America. In seguito a questa debolezza congenita i lords del commercio erano sempre disposti ad impazientirsi alle minime contraddizioni; si sentivano facilmente contrariati ad ogni disobbedienza ai loro ordini; e non erano che troppo portati a consigliare i mezzi più rigorosi di coercizione, sapendo troppo bene che la loro vivacità si sarebbe tradotta nei documenti ufficiali per poco che essa eccitasse l'orgoglio o svegliasse il sentimento del ministro responsabile, della corona e del parlamento. Per quanto però sottoposte tutte col tempo ad uno stesso e quasi uniforme controllo politico, l'amministrazione delle singole colonie aveva continuato ad essere affatto separata. Fuvvi, è vero, un momento che l'Inghilterra meditò l'unificazione di esse in un solo e vero dominio nord-americano; e ciò, come vedemmo, ai tempi di Giacomo II, quando l'Andros, venuto nel 1674 come governatore di New York, si recava nel 1686 in Boston quale governatore di tutte le colonie nordiche, tentativo che la rivoluzione del 1688 mandava a vuoto: ma, se ne eccettui questo tentativo di abrogare le carte di alcune colonie coll'intento di porle sotto una sola amministrazione, non fu fatto alcun altro sforzo dalla metropoli verso la centralizzazione dei governi locali. La tendenza fu piuttosto a mantenere delle barriere fra essi, per quanto il sistema di alienarli l'uno all'altro non sia stato portato dalla corona inglese al punto, cui ispirò ad esempio la sua politica la Spagna nel Sud-America. A dispetto però di qualunque precauzione dell'Inghilterra, le relazioni degli stabilimenti nord-americani andavano irresistibilmente portandoli ad una più stretta amicizia. Le colonie specialmente affini per condizioni di vita, per clima, per suolo, per origine etnica, per aspirazioni e bisogni di difesa, per costituzione sociale formavano, nonostante la separazione politica, dei gruppi, di cui l'egemonia materiale e morale spettava alla colonia più antica o più florida, a quella che nei suoi caratteri e nel suo sviluppo sintetizzava, a dir così, l'intero gruppo: le colonie non si dividevano solo geograficamente, ma anche socialmente in settentrionali, centrali e meridionali, tre società di cui Massachusetts, Virginia e New York erano, come vedemmo, i centri storici oltrecchè naturali. Nella mancanza d'una densità di popolazione sufficiente a sviluppare con la forza di coesione sociale una comune coscienza, altre cause avevano sopperito a ciò: nella prima la stretta disciplina religiosa; nella seconda l'organizzazione sociale fortemente gerarchica; nella terza la facilità per quanto relativa delle comunicazioni. L'affinità anzi s'era mutata in certi casi ed in certi momenti in vera e propria lega, com'era stato delle «colonie unite della Nuova Inghilterra» nel 1643: tale confederazione, che, nell'assenza di qualsiasi rappresentanza della metropoli, aveva presentato lo spettacolo d'un potere sovrano indipendente, aveva mostrato col fatto ai coloni la forza effettiva dell'unione e lasciato ai posteri un esempio da imitare quando che fosse. Dove poi l'affinità di vita veniva a mancare, subentrava fra le colonie un altro legame, che la stessa metropoli andava ciecamente creando tra esse, un legame più forte d'ogni altro, più pericoloso per il dominio della madrepatria, la solidarietà cioè degli interessi economici, violati tutti, nel nord come nel centro come nel sud, dalla politica economica dell'Inghilterra verso le sue colonie. Le basi di questa si confondevano, può dirsi, colla stessa concezione coloniale, prevalente in Europa dal XVI al XVIII secolo, per la quale le dipendenze erano riguardate solo come sorgenti di provviste, come mercati privilegiati della madrepatria: nessuna meraviglia quindi che l'egoismo più brutale presieda a questa politica, che l'Inghilterra, pur essendo prodiga di libertà civile e religiosa ai coloni americani, sia loro tanto avara di libertà economica da inceppare sin dagli inizii a suo esclusivo vantaggio lo svolgimento della loro vita materiale. § 2. POLITICA ECONOMICA DELLA MADREPATRIA. — Già all'origine dell'espansione inglese oltre l'Atlantico Enrico VII, conscio dei vantaggi che potevano risultare da un monopolio coloniale, pur accordando i più ampi privilegi agli avventurieri che facevano vela pel Nuovo Mondo, aveva stipulato che l'Inghilterra sarebbe stato il deposito esclusivo dei prodotti del commercio di quelle contrade. Gli sconfortanti risultati dei tentativi coloniali del secolo XVI avevano fatto abbandonare ai re inglesi tale clausola nelle patenti successive; ma, non appena nel secolo seguente la colonizzazione si presentò sotto buoni auspicii, si tornò pure a manifestare lo spirito di sfruttamento coloniale. La Virginia promette una produzione di tabacco inesauribile, ed ecco l'articolo ricchissimo diventare oggetto precipuo della politica inglese a danno dei coloni. Nel 1619 Giacomo I, che già nel 1604 aveva trovato nella sua antipatia per l'uso del tabacco un motivo sufficiente per colpirne fortemente il consumo, impone sulla vendita di esso in Inghilterra una imposta esorbitante e con nuovi decreti vieta di coltivarlo in Inghilterra, per assicurarsi i lauti proventi dell'importazione di esso. Carlo I cerca egli pure durante tutto il suo regno di fare del tabacco una sorgente di lucro per la corona, dichiarando apertamente che «sua volontà e suo beneplacito erano di riservarsi per lui solo il diritto di comperare prima d'ogni altro tutto il tabacco» delle colonie inglesi: solo la fermezza dei Virginiani e più ancora il disinteresse del popolo inglese per un monopolio, inteso ad esclusivo vantaggio del re, fecero naufragare tali disegni, contrari del pari alla prosperità dei coloni ed allo spirito d'intrapresa dei mercanti inglesi. Ma, quando il re, per riuscire nei suoi piani, immaginò l'espediente di proibire ai vascelli, carichi di mercanzie delle colonie, di far vela dalla Virginia per altri porti che non fossero gli inglesi, tale sistema trionfò come quello che, proibendo in ultima analisi ogni commercio coloniale per opera di navi straniere, non otteneva il solo risultato di sacrificare i diritti dei coloni alla corona inglese ma riusciva ad identificare gli interessi dei mercanti inglesi con quelli del governo, coalizione destinata ad opprimere i piantatori americani ancor troppo deboli per reagire efficacemente. Il Lungo Parlamento si mostrò più giusto; giacchè, pur cercando nel 1647 di assicurare alla marina inglese il trasporto dei prodotti delle colonie, richiedeva il libero consenso di queste, riconoscendo così per compenso il diritto nelle assemblee coloniali di regolare i proprî interessi economici. Ai porti virginiani soltanto e come semplice arma di guerra contro una colonia, rimasta fedele alla monarchia, si vietava nel 1650 ogni commercio con navi straniere; ma coll'adesione della Virginia alla Repubblica, mentre le si garantivano tutte le libertà dei cittadini inglesi nati liberi, le veniva concessa pure libertà di commercio, nonostante l'uscita nel frattempo del famoso «atto di navigazione». Nell'ideare infatti questo sistema, il quale, riserbando ai vascelli inglesi il trasporto delle derrate, preparava in sostanza il monopolio inglese del commercio coloniale, il Cromwell non era mosso da fini di lucro a danno delle colonie ma dal fermo proposito di assicurare al proprio paese la superiorità marittima di fronte a quei successi olandesi, di cui il Protettore era tanto geloso. La libertà commerciale aveva fatto la grandezza marinara dell'Olanda. Mentre le grandi nazioni navigatrici dell'età prima delle scoperte, la Spagna ed il Portogallo, coi loro torbidi sogni di monopolio del commercio mondiale, con le loro stolte proibizioni agli stranieri di esercitare il commercio nelle loro colonie, con le infami confische, le prigionie e le scomuniche contro i trasgressori di esse, non avevano fatto altro che rivoltare il senso morale degli altri popoli contro le ingiuste ed esorbitanti pretese ed alimentare il contrabbando, la pirateria, il saccheggio dei loro stabilimenti, la cattura o l'affondamento dei loro galeoni d'oro; l'Olanda, rivendicando ed in teoria per bocca di Ugo Grozio ed in pratica con la resistenza il principio della libertà dei mari contro queste mostruose usurpazioni dell'Oceano e dei venti, contrarie affatto ad ogni senso di giustizia naturale come ad ogni sviluppo della civiltà, s'era conquistata con la concorrenza commerciale la superiorità marittima su tutte le nazioni, aveva accaparrato nelle sue mani il commercio mondiale nonchè quello coloniale. La piccola nazione, sorta da poco a vita indipendente, non aveva battuto solo i suoi dominatori, la grande Spagna sui cui domini il sole mai tramontava, ma tutte le altre nazioni marinare d'Europa: nella stessa Inghilterra l'arte delle costruzioni navali ormai deperiva, mentre marinai inglesi s'ingaggiavano sui bastimenti olandesi che s'affollavano nei porti dell'isola. Geloso di tanta potenza ed infiammato della nobile ambizione di assicurare al proprio paese il primato sui mari, il Protettore emanava il suo atto di navigazione, pel quale il commercio dell'Inghilterra con le sue colonie come col resto del mondo doveva praticarsi solo da vascelli costrutti nel paese stesso e montati principalmente da inglesi; mentre gli stranieri non potevano importare in Inghilterra che i prodotti delle loro rispettive contrade o quelli, di cui queste erano il deposito riconosciuto. Tale atto diretto contro il commercio degli Olandesi, dovendo servire soltanto a proteggere la marina mercantile dell'Inghilterra, non conteneva perciò alcuna clausola relativa ad un monopolio coloniale o particolarmente sfavorevole ad alcuna colonia d'America: di per sè esso non ledeva in nulla la Virginia o la Nuova Inghilterra; Cromwell non voleva intralciare lo sviluppo economico della Virginia, del Maryland, della Nuova Inghilterra, ma soltanto fare dell'Inghilterra il deposito commerciale del mondo, donde la cessione ch'egli si fa fare di Dunkerque ed altri porti francesi, donde la conquista della Giammaica ed il tentativo infruttuoso su Hispaniola, donde la lotta vittoriosa coll'Olanda, donde le trattative con la Svezia nel segreto intendimento di assicurarsi i porti principali del Baltico. Ormai però l'abbrivo era dato: l'opera politica di Cromwell, innalzata sull'arena, crollava collo sparire del suo genio dalla scena politica del mondo; ma l'opera sua economica, consacrata nell'Atto di navigazione, continuava ricca dei maggiori risultati. La protezione della marina inglese, una volta stabilita in modo permanente, diveniva una base essenziale della politica commerciale dell'Inghilterra: i mercanti inglesi domanderanno nuovi incoraggiamenti, per quanto meno giustificati, insisteranno per ottenere il monopolio assoluto del commercio con le colonie, e, divenuti ormai una potenza, lo otterranno da quel Parlamento, di cui essi dispongono. Ed ecco infatti che il «Parlamento-convenzione», subito dopo la restaurazione degli Stuart, rinnovando l'atto di navigazione del 1651, lo modificava in modo che da semplice misura, intesa ad assicurare alla marina inglese il commercio dei porti inglesi, diventava strumento di monopolio del commercio coloniale, sacrificando agli interessi della madrepatria i diritti naturali dei coloni: una clausola infatti diceva «alcuna mercanzia non sarà importata nelle piantagioni se non da vascelli inglesi, montati da un equipaggio inglese, sotto pena di confisca». I bastimenti stranieri si vedevano chiusi così i porti delle colonie, le quali venivano spogliate ancor più risolutamente dei benefici della libera concorrenza colla disposizione, che solo i nativi del paese od i naturalizzati potessero divenire mercanti o fattori nelle piantagioni inglesi. Nè basta ancora. Si stabiliva che i prodotti specifici delle colonie americane, come zucchero, tabacco, indaco, cotone, legno tintorio, ecc., tutta roba che non poteva far concorrenza ai prodotti inglesi, non potessero esser esportati se non alla volta dei paesi dipendenti dalla corona inglese, sotto pena di confisca; mentre le mercanzie, che i mercanti inglesi non trovavano conveniente comperare, potevano esser imbarcate pei mercati stranieri, quanto più lontani tanto meglio per evitare maggiormente la concorrenza con le merci inglesi: una clausola del nuovo atto di navigazione assegnava a tal fine ai coloni i porti situati al sud del capo Finistère. A misura poi che nuovi articoli della prima categoria appariranno in America, la lista ne sarà regolarmente aumentata. Gli armatori ed i commercianti inglesi non tardano però ad accorgersi che i guadagni alle spalle dei coloni sono suscettibili di ben maggiori aumenti; ed ecco nel 1663 una nuova legge proibire l'importazione nelle piantagioni delle merci europee, che non fossero trasportate su vascelli inglesi provenienti direttamente dall'Inghilterra. La madrepatria non s'accontentava così di essere semplicemente il deposito dei prodotti più ricchi delle sue colonie ma anche delle forniture da far loro, ed i coloni erano costretti a comperare da essa non solo gli articoli commerciali inglesi ma anche quelli degli altri paesi. Nelle colonie stesse però s'annidava un nemico, di cui l'avidità mercantile della madrepatria cominciava a concepire i più esagerati timori: lo sviluppo marittimo della N. Inghilterra, la quale esercitava un proficuo commercio con le colonie meridionali, turbava i sonni degli armatori di Bristol, di Liverpool, di Londra, ed il Parlamento mosso a pietà dei loro lagni si decideva nel 1672 ad interdire ai commercianti della N. Inghilterra di far concorrenza agli Inglesi in quel campo, ostacolando così con divieti e diritti doganali il libero traffico fra le stesse colonie. Tutte queste però non erano che disposizioni isolate, non erano che l'avviamento ad un vero e proprio sistema di monopolio coloniale: questo doveva essere l'effetto dell'onnipotenza del Parlamento, creata dalla rivoluzione inglese del 1688. Guglielmo e Maria rappresentavano il trionfo del protestantesimo, ed il loro avvento al trono veniva salutato quindi dalle colonie con un entusiasmo ignoto fino allora all'America nei suoi rapporti con la madrepatria. Il fatto però, ben lungi dal segnare un'êra di libertà irrevocabile per le colonie nord-americane, le dava in piena balìa d'una aristocrazia commerciale mille volte peggiore per esse del dispotismo d'un solo, rappresentato dagli Stuart. La rivoluzione del 1688 infatti, pur facendo epoca non solo nella storia inglese ma in quella delle libertà costituzionali di tutta Europa, quale nuova tappa nella marcia della democrazia europea, in quanto s'era imposta senza effusione di sangue con la semplice forza dell'opinione pubblica, in quanto aveva riconosciuto il diritto di resistenza e misconosciuto il principio della legittimità per sostituirlo con la teoria del contratto politico, base della monarchia costituzionale, non aveva mirato per nulla al trionfo di vasti principî democratici, ma solo dell'antico ordine di cose. Rivoluzione in nome della storia anzichè del diritto e quindi essenzialmente conservatrice, essa non aveva rivendicato la libertà ma le libertà, quelle libertà aristocratiche dell'Inghilterra che derivavano dall'esperienza del passato, dagli archivi, dalle carte, dalle prescrizioni, vale a dire i diritti di primogenitura, le carte delle corporazioni, la paria, le decime, la prelatura, le franchigie acquistate per prescrizione, le immunità tutte e tutti i privilegi stabiliti: l'elenco di tali libertà, fatto dalla Rivoluzione, era diventato la legge fondamentale del paese. Depositario e custode geloso di esse divenne il Parlamento, che per avere spogliato della regalità una dinastia in nome della nazione e messane un'altra sul trono sotto condizioni ben definite, era riconosciuto l'unica sorgente della sovranità, il padrone assoluto dell'Inghilterra. E di questo Parlamento non erano parte soltanto i rappresentanti dell'aristocrazia fondiaria, i _lords_ della camera alta, ma anche e più i commercianti stretti nelle loro corporazioni, gli armatori, gli industriali, i banchieri, i rappresentanti in una parola della proprietà mobiliare la cui straordinaria importanza nella storia sociale dell'Inghilterra data appunto da questa rivoluzione. L'aristocrazia del capitale, che dispone della ricchezza e dà al governo i fondi necessari, diverrà arbitra ben presto dei destini politici e sociali della nazione, imporrà o romperà pei suoi fini economici le alleanze, susciterà o troncherà le guerre, regolerà in una parola pel vantaggio proprio, immedesimato collo sviluppo economico del paese, tutta la politica interna ed esterna dell'Inghilterra. Le colonie americane, sorte sotto gli Stuart e favorite indirettamente nel loro sviluppo dalla politica illiberale di costoro, sfuggivano così al dispotismo politico di essi, che aveva tentato d'affermarsi in America non meno che in Europa, ma per cadere sotto la supremazia assoluta del Parlamento, vale a dire sotto la sovranità di un'aristocrazia commerciale, sorda ad ogni voce che non fosse quella del proprio interesse: sorta pel trionfo dei diritti inglesi non già di quelli dell'uomo, la rivoluzione inglese del 1688 darà maggiore impulso ad una politica coloniale, mirante solo all'interesse dell'Inghilterra non già alla giustizia naturale, ad una politica che sacrificherà senza scrupolo i diritti dei coloni come uomini e come inglesi agli interessi della madrepatria. Il nuovo sistema politico basandosi ormai sugli interessi permanenti dei mercanti e degli armatori inglesi acquistò una consistenza ed una durata, che non avrebbero mai potuto ottenere l'egoismo, i capricci del momento, il favoritismo degli Stuart. L'applicazione infatti del sistema mercantile spinto alle ultime sue conseguenze costituisce uno degli elementi caratteristici della rivoluzione aristocratica dell'Inghilterra. Nel 1696 gli affari delle piantagioni venivano confidati definitivamente all'ufficio già ricordato del commercio e delle colonie, e tutte le questioni concernenti gli interessi o le libertà dei coloni si decisero dal punto di vista del commercio inglese. Tutti gli atti anteriori concedenti qualche monopolio all'Inghilterra sul commercio delle colonie furono rinnovati e, per realizzarne la stretta esecuzione, si proclamò rigorosamente l'autorità suprema del Parlamento in materia. Il commercio coloniale non poteva effettuarsi che da navigli costrutti, posseduti e comandati da abitanti dell'Inghilterra o delle colonie. Tutti i governatori, quelli delle colonie a carta non meno di quelli delle provincie regie, erano obbligati ad impegnarsi sotto giuramento di far il possibile perchè tutte le clausole di questi atti fossero puntualmente osservati. Gli impiegati del fisco, in America, erano investiti di tutti i poteri conferiti per atto del parlamento a quelli di Inghilterra. Il commercio intercoloniale era stato gravato d'imposte, il cui pagamento era stato interpretato come un diritto d'esportare le mercanzie dove che fosse: questa libertà ora veniva tolta. L'immenso territorio americano fu riservato esclusivamente ai sudditi inglesi od a coloro che ottenevano dal Consiglio privato l'autorizzazione di acquistarne una parte. I mercanti inglesi insomma dovevano ad ogni costo arricchirsi a spese dei coloni, i quali, obbligati a comperare da essi soli quanto loro occorreva ed a vendere ad essi soltanto i loro prodotti, venivano danneggiati doppiamente dalla mancanza di concorrenza, e come consumatori e come produttori, senza che il popolo inglese fosse messo almeno a parte come consumatore del disumano banchetto coloniale imbandito al ceto mercantile, il quale esportava altrove i prodotti coloniali eccedenti la richiesta inglese. Col crescere poi degli interessi inglesi impegnati nel sistema coloniale, colla richiesta di lucri a danno delle colonie da parte di ceti muti fino allora a tale riguardo, della grande proprietà fondiaria e manifatturiera in ispecie, crescevano pure i pesi iniqui di tale sistema, non accontentandosi più l'Inghilterra di gravare il solo commercio esterno delle colonie. La lana era il principale prodotto mercantile dell'Inghilterra, donde l'invidia di coltivatori ed industriali per ogni gregge, che belasse, per ogni fuso, che girasse nelle colonie. Il preambolo d'un atto del parlamento confessa che il motivo d'una legge restrittiva risiede nella convinzione che l'industria coloniale «diminuirebbe infallibilmente il valore delle terre». «A partire dal 1º dicembre 1699, diceva una clausola, nè lana nè alcun oggetto fabbricato in tutto od in parte di lana, che sia stato prodotto o manifatturato in una od altra delle piantagioni inglesi dell'America, potrà esser caricato su un naviglio o vascello qualunque, sotto alcun pretesto che sia — nè caricato sur un cavallo, una carrettella od ogni altra vettura — per esser esportato dalle piantagioni inglesi non importa in quale altra delle dette piantagioni o in quale altro luogo che si sia». Così i fabbricati del Connecticut non potevano cercare un mercato nel Massachusetts, nè esser trasportati ad Albany per scambiarli con gli Indiani. Un marinaio inglese non poteva comperare della lana a Boston per un valore superiore ai 40 scellini. Nella Virginia la povertà obbligava gli abitanti a fabbricarsi da sè delle stoffe grossolane, se non volevano rimaner nudi: ciò non impediva ad un governatore regio di esporre con faccia tosta il parere che il Parlamento avrebbe dovuto proibire ai Virginiani di confezionarsi i propri vestiti, per rivolgere la loro attività «verso qualche fabbricazione meno pregiudizievole al commercio della Gran Brettagna»! Al principio del secolo XVIII i _lords_ dell'ufficio del commercio rimproveravano alle colonie provviste di carta «d'incoraggiare e di propagare la fabbricazione della lana e d'altri articoli propri dell'Inghilterra». La preoccupazione della lana diventava una vera ossessione per la metropoli, al punto che un agente americano così ragionava in quel secolo: gli Inglesi non devono temere la conquista del Canadà, perchè al Canadà «dove il freddo è eccessivo e la neve copre sì lungamente la terra, i montoni non si moltiplicheranno mai al punto da permettere lo stabilirsi di manifatture laniere, il che è la sola cosa che possa rendere una piantagione pregiudizievole alla corona». A Boston si costituisce una società per incoraggiare le manifatture domestiche, ed in seguito ai buoni risultati ottenuti la città costruisce una fabbrica, incoraggiando con premi i produttori di tela. Apriti terra! L'Ufficio del commercio s'allarma a tanta iniquità, biasima il governatore di non averla impedita, spinge la camera dei Comuni a far un'inchiesta sul fatto inaudito, a proporre quindi nuove leggi proibitive e tanto fa che alla fin fine la manifattura di Boston, destinata ad incoraggiare l'industria dell'intera provincia, va in decadenza, avendo servito soltanto a mostrare la sollecitudine previdente dell'Inghilterra per le sue colonie. E come la manifattura della lana così le altre venivano col tempo vietate. All'America, ad esempio, che era la patria del castoro, veniva vietato di fabbricarsi i cappelli: chi voleva fare il cappellaio nelle piantagioni doveva esser stato sette anni apprendista, e nessun maestro poteva adoperare più di due apprendisti in una volta, coll'esclusione assoluta dei negri: il commercio poi dei cappelli fra piantagione e piantagione era assolutamente proibito. Peggio ancora per le industrie minerarie: impeditole di stabilire alti forni, acciaierie o magone, l'America doveva rinunciare alle immense ricchezze di ferro, di carbon fossile, di lignite, che teneva nel seno. Una disposizione della camera dei Comuni sul principio del secolo XVIII dichiarava che «nessuno nelle colonie doveva fabbricare mercanzie in ferro di alcuna specie»: ragione di ciò la gelosia degli industriali inglesi per l'industria americana; pretesto il fatto «che l'erezione di manifatture nelle colonie tendeva ad indebolire la loro dipendenza dalla Gran Brettagna». «Dovesse il nostro potere sovrano di controllo legislativo e commerciale venir sconfessato, dirà il primo Pitt, io non soffrirei che un solo chiodo di ferro da cavallo fosse fabbricato in America»! S'interdiva così agli Americani non solo di fabbricare gli articoli capaci di far concorrenza a quelli inglesi sui mercati esteri, ma perfino di fabbricarsi in casa propria e col proprio lavoro gli oggetti indispensabili alla vita! Si faceva eccezione, è vero, per le industrie navali: ma ciò non già per dare un qualche compenso a tante enormità, ma solo per combattere meglio nel campo mercantile le nazioni rivali, tanto è vero che a siffatto favore s'accompagnava l'estendersi della giurisdizione del Parlamento su tutti i boschi situati al nord del Delaware. Ogni pino, non compreso in un lotto individuale, fu ormai consacrato ai bisogni della marina inglese; e nessun tronco del territorio vacante, che fosse adatto a fare un albero od un'antenna, poteva esser abbattuto senza l'autorizzazione della regina! Questa la carità pelosa del Parlamento inglese, che dai coloni non voleva lana ma legname per la marina. Dove però questo sistema mercantilistico si manifesta in tutta la sua odiosità, è nell'appoggio incondizionato, che dava agli orrori della tratta africana, fatta parte integrante di esso. Fra le tante limitazioni al commercio delle colonie, questo ramo era andato immune, giacchè per quanto dannoso ai negrieri inglesi pure tendeva ad allargare la schiavitù nelle colonie, cosa d'interesse capitale per la metropoli. Quando infatti nel secolo XVIII il commercio degli schiavi fu lasciato libero a tutti gli Inglesi, le città marittime della Nuova Inghilterra vi parteciparono su vasta scala, accumulando grandi ricchezze: ancora nel 1789 la città di Boston, che pur sarà la culla del movimento abolizionista, impiegava nell'infame commercio una trentina di negrieri! Ma, se vantaggiosa alla classe mercantile del Nord ed a quella dei piantatori del Sud, la tratta era ancor più proficua all'Inghilterra: nel Nord come nel Sud i coloni non erano ignari che la metropoli favoriva il commercio dei negri non solo pel guadagno economico, che ne ritraeva, ma anche perchè esso, allargando la schiavitù negra, ribadiva le catene politiche ed economiche che avvincevano le colonie alla madrepatria. Ad esse la schiavitù avrebbe permesso solo l'agricoltura, lasciandole così strettamente tributarie della metropoli nel campo industriale. In un opuscolo politico infatti, avente per titolo «Il traffico degli schiavi africani colonna e sostegno delle piantagioni inglesi in America», un mercante inglese così si esprimeva: «quando fosse possibile sostituire nelle piantagioni il lavoro dei bianchi a quello dei negri, allora le nostre colonie recherebbero danno alle fabbriche di questo reame, ed in tal caso avremmo veramente ragione di paventare la prosperità delle nostre colonie; ma fino a tanto che noi possiamo provvederle abbondantemente di negri, non c'è ragione di abbandonarsi a simili apprensioni»; e più oltre: «il lavoro negro manterrà le nostre colonie nella debita sommissione agli interessi della madrepatria, perocchè fino a tanto che le nostre piantagioni dipenderanno meramente dal lavoro dei negri, non vi sarà pericolo che le nostre colonie rechino alcun danno alle manifatture inglesi o si rendano indipendenti dal loro impero». A completare il fosco quadro dei guai arrecati alle colonie nord-americane dalla politica economica dell'Inghilterra verso di esse, s'aggiungano le perturbazioni del loro mercato interno dovute alla viziata circolazione monetaria. Costrette dalla madrepatria a non intrattenere relazioni commerciali se non con essa ed alle condizioni sfavorevoli da essa imposte, negata loro ogni altra fonte di credito che non fosse il mercato inglese, credito tanto necessario a paesi nuovi bisognosi quanto mai di capitale per sviluppare le ricchezze naturali del suolo, le colonie si erano trovate ben presto in uno stato permanente di debito verso la metropoli, a soddisfar il quale s'era ricorso alle tratte. Coll'uso e l'abuso di queste però le specie metalliche non avevano tardato a sparire, e l'America era stata lasciata senza moneta corrente. Allora, data l'impossibilità da tutti ammessa di conservare una moneta corrente metallica nello stato di dipendenza delle colonie, queste, comprese del dovere d'ogni governo di procurare alla popolazione la moneta necessaria agli scambi, avevano perduto ogni ritegno nel fabbricare carta-moneta; ogni qualvolta occorreva denaro, il governo coloniale metteva in circolazione carta monetata pagabile a lunghissima scadenza e garantita sulle terre pubbliche, vantandosi del doppio risultato di soddisfare ai bisogni più urgenti del popolo e di creare un cespite di entrate senza ricorrere a tasse. Vittime così del mercantilismo inglese, nella prima metà del secolo XVIII tutte le colonie, eccettuata la Virginia che continuava ancora nel suo sistema di economia naturale, erano ricorse a questo comodo sistema, il quale coi suoi eccessi aveva fatto sparire a tal punto la moneta d'oro e d'argento, emigrata in Inghilterra, che «quando ne capitava, si considerava come mercanzia». I primi frutti dell'accrescimento fittizio della moneta erano parsi saporiti, vedendosi l'impulso apparente dato al commercio: ma ben tosto se ne videro gli effetti disastrosi. Lungi dal rimediare al male, esso aumentava sempre più la sete di nuove emissioni, ogni qualvolta in ispecie la classe dei debitori insolventi otteneva il predominio nelle legislature: il paese era inondato di carta deprezzata, che ad ogni nuova emissione subiva delle fluttuazioni nel suo valore con danno enorme di quanti vivevano su salari od altre rendite fisse, con disordine inaudito del commercio, data l'incertezza da cui necessariamente erano colpiti i valori in tutti i contratti della vita giornaliera. Tale incertezza non tardò a guadagnare tutto il paese. Nel 1738 la moneta corrente della Nuova Inghilterra non valeva che 100 per 500; quella di New York, di New Jersey, della Pennsylvania e del Maryland 100 per 160 o 170 o 200; della Carolina del Sud 1 per 8; mentre che la carta della Carolina settentrionale, lo stato per sua natura meno commerciale di tutti, non era stimata valere a Londra che 1 per 14 e nella stessa colonia che 1 per 10. E con tutto ciò questa politica non venne mai ripudiata dall'Inghilterra, i cui statisti non proposero o non manifestarono mai il desiderio di mettere la moneta corrente interna delle colonie sul piede d'uguaglianza con quella del gran mondo commerciale: l'America, segregata economicamente dal resto del mondo se ne eccettui dalla madrepatria, poteva bene anche senza moneta anzi perchè senza di essa rimanere la tributaria di questa, la schiava che non sapeva rompere le secolari catene. Tale politica, che il maggior economista inglese dichiarava «una violazione manifesta dei diritti dell'umanità», doveva necessariamente mutare un legame prezioso di pace e d'accordo, quale il commercio, in una sorgente violenta d'ostilità tra madrepatria e colonie, gettando in queste ultime il seme indistruttibile della guerra civile: essa conteneva il pegno dell'indipendenza finale dell'America, giacchè le relazioni fra essa e la metropoli più non si riducevano ormai che all'applicazione a suo danno d'una legge fatta esclusivamente dal più forte ed a proprio esclusivo vantaggio, diritto della forza contrario ad ogni principio d'equità naturale, che non poteva durare più della superiorità della forza stessa. Relazioni siffatte, ponendo la proprietà, l'iniziativa individuale, l'industria, le libertà dei coloni consacrate da carte, alla mercè e sotto «il potere assoluto» della legislatura inglese, non potevano che condurre alla indipendenza del Nuovo Mondo. Gli Inglesi furono i primi a notare questa tendenza. Già dal 1689 l'insurrezione della Nuova Inghilterra eccitava l'allarme, come indice del fiero spirito di libertà dei coloni. Nel 1701 i _lords_ del commercio dichiaravano in un documento ufficiale «la sete d'indipendenza delle colonie attualmente evidente». Nel 1703 Quarry scriveva: «Le idee di repubblica fanno strada tutti i giorni; e se non vi si mette ostacoli in tempo, i diritti ed i privilegi di sudditi inglesi saranno riguardati come troppo ristretti». Nel 1705 si leggeva nella stampa: «col progredire del tempo, i coloni si sbarazzeranno della loro dipendenza dall'Inghilterra e si daranno un governo di loro scelta»; ed un pochino alla volta si venne perfino a sentir ripetere «da gente di ogni condizione e qualità, che il loro numero e le loro ricchezze crescenti ed inoltre la loro grande distanza dalla Gran Brettagna avrebbero fornito loro l'occasione, al termine d'un piccolo numero di anni, di scuotere il giogo della metropoli e di dichiararsi libera nazione, se non fossero stati domati a tempo e sottomessi alla corona». Molti personaggi autorevoli convenivano della possibilità di tale avvenire e della probabilità del suo realizzarsi ad un momento o ad un altro. Un conservatore moderato americano, il Logan, nel 1728 diceva: «si parla d'un atto del Parlamento avente per fine di proibirci di confezionare sbarre di ferro, perfino per nostro uso. Ora io non conosco niente che possa contribuire più efficacemente ad alienare lo spirito delle popolazioni di questa contrada ed a scuotere la loro sottomissione alla Gran Brettagna». Quando nel 1750 il Parlamento discuteva le misure intese a proibire l'industria del ferro esercitata dagli Americani, tra l'applauso dell'Inghilterra e le proteste dell'America, misure di cui l'agente del Massachusetts sosteneva l'incompatibilità coi diritti naturali dei coloni, lo stesso realista Kennedy, membro del Consiglio di New York e partigiano della tassazione per parte del Parlamento, faceva notare pubblicamente al ministero che «la libertà e l'incoraggiamento sono la base delle colonie»: «procurarci quanto ci occorre col mezzo delle nostre manifatture, è cosa facilissima; ed allorchè in tale circostanza un popolo è numeroso e libero, esso tenterà quanto riterrà del suo interesse; in tutte le leggi proibitive egli vedrà degli atti d'oppressione, e specialmente in leggi che, conforme all'idea che ci facciamo della libertà inglese, non si ha il diritto di discutere o di proporre: non si possono tenere i coloni in dipendenza impoverendoli»; e ricordava al ministero il consiglio già da altri suggerito, il quale diceva che il mezzo di impedire alle colonie di staccarsi era quello di non farlo loro volere. Verso quell'epoca il già ricordato viaggiatore svedese, Pietro Kalm, nella relazione del suo viaggio attraverso le colonie, dopo averne dipinta l'oppressione economica, scriveva: «Queste oppressioni hanno fatto sì, che gli abitanti delle colonie inglesi siano meno attaccati alla propria madrepatria; la qual freddezza è accresciuta per opera dei molti stranieri, che si sono domiciliati in esse, poichè Olandesi, Tedeschi e Francesi qui sono misti con Inglesi e non nutrono nessun affetto particolare per la vecchia Inghilterra. Inoltre v'è assai gente sempre scontenta, che vede volentieri un mutamento, mentre per di più crescente prosperità e libertà formano uno spirito pubblico indomabile. Non solo nativi americani, ma perfino emigranti inglesi mi hanno detto apertamente che fra 30 o 50 anni le colonie inglesi dell'America nordica forse formeranno una stato separato, affatto indipendente dall'Inghilterra». § 3. MATURITÀ DELLE COLONIE PER L'INDIPENDENZA. — L'egoismo mercantile dell'Inghilterra preparava così la via all'indipendenza politica dell'America, chè la resistenza contro di esso da parte di un paese destinato dalla natura ad una vita economica e statale autonoma doveva diventare tanto più forte, quanto più le colonie si sviluppavano sotto l'aspetto economico e sociale, quanto più stretti si facevano i loro legami, quanto più energica la loro coscienza di uomini liberi, quanto più maturo infine diventava il loro processo di differenziazione dalla madrepatria. In tutto il continente la libertà nazionale e l'indipendenza guadagnavano ogni giorno più in vigore ed in maturità. Non era questo un prodotto cosciente della previdenza e della riflessione, ma il risultato inconsapevole dei rapporti fra madrepatria e colonie. Il bisogno di libertà economica doveva tradursi fatalmente in una aspirazione oscura dapprima ma sempre più chiara in seguito a quell'indipendenza politica, che sola avrebbe assicurato la prima: l'oppressione economica preparava l'indipendenza delle colonie in doppio modo, determinando in esse una resistenza sempre più viva alla madrepatria, sviluppando in esse con la solidarietà coloniale una coscienza propria diversa non solo, ma in opposizione con quella della vecchia Inghilterra. Del resto, indipendentemente anche da ciò, i vincoli nazionali, che avevano unito alla madrepatria i primi coloni, andavano ogni giorno più rilassandosi: le nuove generazioni nate e cresciute in America conoscevano la Gran Brettagna soltanto dai funzionari poco graditi ch'essa loro inviava; imparavano dalla tradizione essere quella la terra la quale, matrigna più che madre, aveva bene spesso costretto i loro avi, poveri o perseguitati dal fanatismo religioso e politico, a cercare in una nuova patria condizioni migliori di vita; vedevano in essa il governo, dai cui attacchi dovevano costantemente guardarsi in difesa della propria libertà: per di più gli emigranti tedeschi, francesi, olandesi, che dopo una dimora di sette anni nelle colonie ricevevano il diritto di cittadinanza, non potevano nè nutrire simpatie nè avere riguardi per l'Inghilterra, freddezza ed ostilità che non poteva essere controbilanciata in favore della metropoli nè dalla chiesa episcopale britannica soppiantata nelle colonie dalle chiese rivali, presbiteriani in maggioranza, puritani, quaccheri, cattolici, nè dal debole elemento realista di qualche città, come Boston e New York, che per interessi di solito personali si appoggiava sul governo inglese. Questo processo di differenziazione dalla madrepatria andava così maturando le colonie americane, già use a governarsi da sè, per quella vita statale indipendente, cui sembrava facesse del suo meglio per spingerle con le gravezze economiche il governo inglese: «le colonie, diceva giustamente il Turgot a questo proposito, si assomigliano a frutti, che stanno attaccati all'albero, finchè non sono maturi: tostochè l'America sia in grado di reggersi da sè, farà ciò che un tempo fece Cartagine». Ben prima del 1776, a vero dire, le colonie americane sarebbero state in grado di governarsi da sè; ma, a parte la coscienza di loro debolezza di fronte all'Inghilterra, il momento storico e l'interesse futuro si sarebbe opposto ad ogni idea di indipendenza da essa. Gli Americani anzitutto non erano semplicemente coloni dell'Inghilterra, ma erano legati ad un sistema coloniale, che tutti gli stati commerciali dell'Europa avevano contribuito a formare e che abbracciava tutto il mondo: un loro tentativo di indipendenza sarebbe stato nel secolo XVII o nei primi del XVIII non già, come al cadere di questo, il primo strappo ad un sistema ormai logoro e consunto, una lotta favorita o almeno veduta di buon occhio dall'Europa, gelosa della potenza commerciale dell'Inghilterra, ma bensì una insurrezione immatura contro tutto un sistema ancora vigoroso, rivoluzione commerciale oltrecchè politica, che la Francia soltanto avrebbe forse tollerato per rivalità con l'Inghilterra, ma nessun'altra nazione d'Europa avrebbe certo incoraggiato. I coloni inglesi in secondo luogo liberatisi, quand'anche l'avessero potuto, dai ceppi economici della madrepatria, si sarebbero trovati esposti senza difesa alle brame ingorde di quella potenza, che dal Canada s'era inoltrata nella valle del Mississippi ed aveva spinto ormai i suoi avamposti sino al golfo del Messico, sbarrando ad essi il passo per ogni ulteriore progresso. «Tutte le colonie inglesi, scriveva in una lettera diretta in Francia il futuro difensore del Canadà, il generale Montcalm, si trovano in floride condizioni, sono popolose e ricche ed hanno in sè i mezzi per soddisfare a tutti i bisogni della vita. L'Inghilterra fu tanto folle da lasciar introdurre fra esse arti, commercio e industria, di permettere loro cioè di spezzare la catena di bisogni, che le avvinceva alla metropoli e le rendeva dipendenti da lei. Quindi tutte le colonie inglesi già da un pezzo avrebbero scosso il giogo, ogni provincia avrebbe formato una piccola repubblica indipendente a sè, se il timore dei Francesi non le avesse frenate. Per quanto come signori preferiscano i loro connazionali a stranieri, si sono fatti una regola di prestare obbedienza alla madrepatria il meno possibile. Ma aspetti un po' che il Canadà sia conquistato e i Canadesi e queste colonie formino un popolo, crede lei che gli Americani seguiteranno, a rimaner soggetti alla metropoli, come prima l'Inghilterra sembri preoccuparsi soltanto dei suoi interessi? O che hanno in vero da temere, se si rivoltano?». CAPITOLO VI La lotta pel continente. § 1. La società franco-canadese e la sua fittizia espansione — § 2. La lotta politico-commerciale tra la N. Francia e le colonie inglesi — § 3. La lotta per la terra. § 1. LA SOCIETÀ FRANCO-CANADESE E LA SUA FITTIZIA ESPANSIONE. — Mentre nella regione costiera, tra gli Allegani e l'Atlantico, s'andava sviluppando una società anglo-americana, ch'era in gran parte frutto di immigrazione spontanea, nel paese contermine andava svolgendosi in modo affatto diverso quella società franco-canadese, la quale era più che altro una creazione politico-militare del governo, che ne aveva preso la direzione ed assunto il controllo. Colonizzazione che mirava a costituirsi una nuova patria, la prima procedeva in modo normale, non occupando più suolo di quello che bastasse alla sua attività immediata: commercianti e marinari lungo le coste, agricoltori nell'interno i coloni inglesi procedevano lentamente ma vigorosamente con la scure e con l'aratro, mettendo salde radici su ogni palmo di terreno conquistato fecondato e popolato, creando via via nuove collettività di uomini liberi attaccati al suolo dalla idealità della patria non meno che dai bisogni della vita. La colonizzazione francese invece, come quella che non sorgeva dalle viscere profonde del popolo, ma obbediva soltanto agli interessi di compagnie mercantili ed ai fini politici del governo, ha per fine immediato lo sfruttamento e la conquista del paese. I coloni canadesi non sono sin dagli inizi che agenti, preti, soldati. Nel 1640, cinque anni dopo la morte del Champlain, il centro pressochè unico del dominio francese nel N. America, Quebec, sorpassa appena i 200 abitanti, costituiti in gran parte da agenti dei «Cento compagni», da servi, da gesuiti e da monache, senza che la compagnia coloniale possa per mancanza di mezzi e deficienza di emigranti effettuare il trasporto nel N. America dei 4000 coloni, cui s'era impegnata pel 1643. Poco tempo dopo due mistici francesi, mossi dal desiderio di convertire gli Indiani, fondano un'altra società con fini puramente religiosi, ed ottenuta dai «Cento compagni» un'isola posta alla confluenza del S. Lorenzo coll'Ottawa, costruiscono ivi nel 1642 Villemarie de Montreal, l'odierna Montreal, sotto la guida d'un gentiluomo pio e valoroso, il signore di Maisonneuve. Cresciuta assai lentamente nei primi decenni, sì da non sorpassare alla salita al trono di Luigi XIV i 2500 abitanti, la popolazione canadese riceveva sotto questo monarca un incremento adeguato all'espansione politica della Francia in quell'epoca. A meglio raggiungere i fini, cui non sarebbe bastato il capitale e l'iniziativa individuale, sorgevano allora sotto gli auspicii dell'onnipotente Colbert e l'influsso delle idee mercantilistiche da lui denominate numerose compagnie coloniali, fra le quali notevolissima la «Compagnia dell'Occidente» del 1664, cui oltre a parte dell'Africa, dell'America Meridionale e delle Antille veniva concessa pure a perpetuità la Nuova Francia. Dal solito omaggio alla corona in fuori, tali compagnie di nome almeno erano sovrane assolute del paese, di cui ottenevano il monopolio commerciale, potendo esse sole fornirlo dei viveri e delle mercanzie necessarie, esse sole esportarne i prodotti. Prediletto però tra le colonie per le grandi speranze su di esso riposte e per la potenza dei gesuiti in esso impegnati, al Canadà rivolgeva speciale attenzione lo stesso Luigi XIV, desideroso di fondarvi una nuova Francia in tutto simile all'antica. Venivano a tal fine emanate pel Canadà leggi speciali, che incoraggiavano con premi in denaro ed altri modi i matrimoni e la prolificazione; mentre appositi agenti percorrevano le provincie della vecchia Francia in cerca di emigranti e convogli di donzelle d'ogni classe, scelte con tutte le cure, venivano mandate ad accasarsi nel Canadà, e centinaia di soldati del reggimento Carignano vi erano spediti per mutarsi in coloni essi, in signori feudali di vasti territori i loro ufficiali. Qualunque personaggio importante poi avesse voluto passare in America coi suoi servi della gleba otteneva vaste terre, ch'egli poteva distribuire come gli pareva, colla sola condizione che il vassallo servisse nella milizia contro gli indigeni in caso di bisogno: caccia, pesca, molini erano diritti riservati al signore come nella vecchia Francia. Giovani nobili in cerca di avventure, baroni spiantati desiderosi di ritornare al primitivo splendore il blasone avito, ottenevano così con tutta facilità delle terre nel Nuovo Mondo, tanto che veniva in esso formandosi rapidamente una nobiltà locale. Quanto era facile però creare la casta feudale, altrettanto era laborioso creare quella dei paesani; giacchè, senza contare la natura del popolo francese in ogni tempo troppo attaccato al suo focolare per abbandonarlo, lo stesso sistema feudale coi mille gravami imposti all'agricoltura s'opponeva alla coltivazione d'un paese, che, per essere vergine, solo dal frazionamento della terra in piccoli lotti, sufficienti ai bisogni d'una famiglia, avrebbe potuto aspettarsi una larga immigrazione, mentre pel suo clima e pel genere dei suoi prodotti non poteva contare sulla schiavitù dei negri. Gli emigranti erano per conseguenza nella maggior parte delle classi più basse, che non avendo un tetto in patria erano disposte a tutto pur di migliorare la loro sorte; ma una volta raggiunte le nuove sedi, l'antica disposizione al vagabondaggio risorgeva più forte di prima in quell'ambiente così propizio, traducendosi nella preferenza per la pesca, la caccia, la vita randagia anzichè per la vita sedentaria e faticosa dei campi. E quasicchè non bastassero i ceppi imposti al commercio a vantaggio delle compagnie, i mille privilegi concessi alla chiesa ed al sacerdozio a danno dei coloni, ed infine, terzo e più gravoso monopolio, il sistema feudale ad ostacolare lo sviluppo della Nuova Francia, allontanandone ogni sana immigrazione, anche il più rigido assolutismo accentratore veniva a toglierle coll'ombra perfino dell'autonomia locale e della libertà politica, ogni possibilità di movenze. Il feudalismo infatti, introdotto quale base della società franco-canadese, non era più quello di vecchio stampo, chè non invano il cardinale di Richelieu aveva spianato la via a Luigi XIV: anche nelle colonie come nella madrepatria la volontà regia, sinonimo di accentramento, conservavasi superiore alla potenza feudale; e per quanto il Canadà fosse ceduto di nome ad una lega di mercanti, questi, contenti del monopolio delle pelli, ne lasciavano arbitro pur sempre il monarca, il quale lo trattava in tutto e per tutto come una provincia francese che da lui direttamente dipendesse. Conservata pertanto ai grandi signori feudali una certa giurisdizione entro il loro territorio, il governo centrale fu affidato ad un governatore, cui spettava comandare le milizie e dirigere i rapporti colle colonie straniere e colle tribù indiane; ad un intendente regio, che vigilava le finanze, i tribunali, i lavori pubblici, le faccende amministrative, e di tutto, la condotta del governatore compresa, faceva ogni anno minuzioso rapporto al sovrano; ad un consiglio supremo o corte di giustizia, che formava il più alto tribunale d'appello, salvo pei casi concernenti il re o le relazioni tra signori e vassalli, che competevano al solo intendente: questi i signori assoluti del Canadà, ai cui abitanti veniva tolto ogni e qualsiasi partecipazione agli affari pubblici, sia d'interesse locale che generale. L'assolutismo e l'accentramento della madrepatria dovevano regnare qui pure; cosicchè quando l'energico conte di Frontenac, nominato governatore, nel 1671, costituiva alla meglio e convocava in Quebec i tre ordini tradizionali della nobiltà, del clero e del terzo stato, il Colbert gli scriveva: «La sua convocazione degli abitanti per prestare il giuramento di fedeltà e la divisione di essi in tre ordini può avere avuto, pel momento, buoni effetti, però è meglio per lei aver di continuo presente che ella nel governo del Canadà deve sempre attenersi alle forme vigenti presso di noi. E dacchè i nostri re, da lungo tempo, hanno reputato conveniente di non radunare gli Stati generali del regno, per sopprimere forse l'antica consuetudine senza dar nell'occhio, sarebbe suo obbligo di dare solo rarissimamente o, per esprimermi con maggiore precisione, di non dar mai una forma corporativa di governo agli abitanti del Canadà». Struttura intima e costituzione politica coincidevano così col bisogno economico di quella società per farla quanto mai atta ad effettuare il poderoso disegno francese d'espansione territoriale, che ideato in Francia veniva elaborato per ragioni politiche e personali da governatori ed intendenti sul suolo stesso del Canadà, sotto l'influenza immediata delle circostanze locali. Ben più che dell'agricoltura il paese viveva del commercio delle pelli, donde la necessità di strade libere e d'uno spazio praticamente illimitato, necessità cui la popolazione obbediva tanto più volentieri, in quanto era costituita anzichè da uomini liberi ed indipendenti, attaccati al suolo della nuova patria, da coloni che vivevano in uno stato di servitù temporale e spirituale, da agenti di compagnie commerciali, da avventurieri senza patria, da soldati, tutta gente che il desiderio di lucro, lo spirito di ventura e la disciplina militare facevano cieco strumento dei capi. Lo spirito di ventura, la grandiosità dei progetti senza la forza di poterli eseguire, la vastità del fine senza i mezzi corrispondenti, l'immensità in una parola dei territori dominati senza una densità di popolazione adeguata nonchè a coltivarli a difenderli, dovevano essere le caratteristiche necessarie di questa colonizzazione, così diversa dall'inglese. I coloni francesi infatti, anzichè diboscare, coltivare, popolare il suolo occupato, come quelli inglesi, si accontentano di appendere piastre di piombo, in cui è incisa l'insegna francese, d'intagliare gigli e croci negli alberi più alti, mirando solo ad occupare militarmente gli sbocchi delle vallate ed i punti strategici, dove il fortilizio funge ad un tempo da stazione commerciale, da casa per le missioni, da luogo di rifugio in caso di bisogno pei rari agricoltori, che costruiscono sempre le loro case lungo la riva dei fiumi. La stessa conformazione geografica del paese favoriva l'espansione della società franco-canadese. Da nord a sud, dai Grandi laghi al Golfo del Messico nessun ostacolo naturale sorgeva ad arrestarla: i suoi figli non avevano che da seguire la corrente del Mississippi e dei suoi affluenti e subaffluenti per disperdersi in tutta la immensa contrada; mentre la colonizzazione inglese, a prescindere anche dal suo carattere affatto diverso, solo nell'aumento della popolazione avrebbe trovato l'impulso a superare quella barriera degli Allegani, che la obbligavano a concentrarsi nello stretto versante dell'Atlantico prima di espandersi nel cuore del continente. A differenza così degli Inglesi, i Francesi gettano i lor germogli in tutte le direzioni, perdendo in profondità quanto guadagnano in estensione, s'internano nelle regioni più selvagge, esplorano e conquistano di nome un continente, senza riuscire a metter salde radici che in una piccolissima parte di esso, nella vallata cioè del S. Lorenzo e su un lembo del Golfo. Mentre i coloni inglesi al soffio della libertà si moltiplicano in modo meraviglioso nella stretta zona loro riservata, sull'area immensa pretesa quelli francesi, nonostante gli sforzi del loro governo, anzi a causa di questi, da 3418 nel 1666 non salivano che ad 82.000 nel 1759. Se il fanatismo religioso non avesse acciecato i dominatori della Francia, e gli Ugonotti dopo la revoca dell'editto di Nantes avessero potuto trovarsi un asilo di pace tra le selve americane, le valli dell'Occidente si sarebbero popolate d'una gente laboriosa ed onesta, che avrebbe assicurato alla Francia un immenso dominio; ma ciò non permise il carattere religioso di quella conquista, di cui erano strumento principalissimo i Gesuiti. Ed invero, mentre il mercante attirava l'Indiano colla compera delle pelli, il prete lo soggiogava con la conversione al cattolicesimo. Se l'introduzione infatti d'una gerarchia ecclesiastica privilegiata nelle nuove terre fu di grave danno allo sviluppo progressivo di esse, non fu però meno favorevole alla rapida dominazione di mezzo il continente: la chiesa cattolica più ancora dello spirito d'intrapresa commerciale, più della stessa ambizione politica, portò la potenza della Francia nel cuore del Nord-America. Essa fondò Montreal ed innalzò nel Canadà ospitali e seminari insieme cogli altari; i suoi monumenti ed i suoi nomi si trovano sempre accanto a quelli della feudalità; i suoi militi più valorosi, i Gesuiti, hanno spianato sempre la via alla dominazione politica, chiudendo bene spesso con la morte eroica del martire una vita intessuta di sacrifici ignoti al mondo civile nonchè ricompensati. Obbediente alla voce del dovere ed a quella del cuore ardentissimo, il gesuita, imparata la lingua dell'Hurone o dell'Algonchino, si recava impavido fra le erranti tribù; sacerdote le convertiva, maestro le educava, commerciante le impiegava a vantaggio della compagnia, assennato politico le amicava alla Francia. La cura dei Gesuiti per gli Indiani rientrava del resto nel piano generale della politica francese, dei cui successi il trattamento fatto agli aborigeni era cagione non ultima. Alla Nuova Francia era sconosciuta quella rigida barriera, che nelle colonie inglesi separava il bianco dal rosso: in esse non solo il governo s'adoperava con ogni cura di cattivarsi le tribù indiane per farle ausiliarie del suo commercio ed alleate contro i suoi nemici, gli Inglesi, ma gli stessi coloni trattavano da pari a pari gli indigeni. Lungi dal deriderne le idee religiose, gli usi ed i costumi, i Francesi mostravano di apprezzarli anzi cercavano addirittura di imitarli: lo stesso Frontenac, se dovea recarsi presso un capo, si pitturava come lui e come lui ballava la danza guerresca; se un capo alla sua volta veniva a visitare un forte francese, le salve dei cannoni lo salutavano ed i brillanti ufficiali, cui non erano ignote magari le seduzioni di Versailles, lo accoglievano come ospite onorato alla loro tavola. Mentre tale politica cercava d'infrangere idealmente la barriera, che altrove esisteva tra bianchi e rossi, la rompeva materialmente quella razza mista, che risultava dall'incrocio tra essi, e più ancora quella classe di rinnegati della civiltà, i quali dalla lingua e dal colore in fuori per nulla più si distinguevano dagli indigeni. Era essa costituita specialmente da quei _coureurs de bois_ o scorritori di boschi, da quelle centinaia e centinaia di refrattari alla vita civile, che facevano da intermediari fra i mercanti e gl'Indiani, e guidavano i canotti dei primi sui laghi, sui fiumi. Dispersi nella solitudine delle foreste, questi vagabondi rinselvatichivano e nel contatto con gli indigeni si sprofondavano nella più oscura barbarie. Dimenticato ogni vincolo di sangue, bandito ogni ricordo della patria e della civiltà, diventavano affatto simili ai selvaggi nella vita e nei costumi, più feroci di loro nell'animo: conducevano la vita del _wigwam_, dove passavano sdraiati le giornate d'ozio, con la pipa in bocca, mentre la loro donna, per lo più indiana, preparava la selvaggina; si ornavano i capelli di piume, si tatuavano, gareggiavano col pellirosso nella caccia, nella danza, nel canto, nello stesso _skalp_. Al di sopra di questi rifiuti della civiltà stavano quegli avventurieri, nobili bene spesso, che per un bisogno irresistibile di libertà sconfinata, per amore di lucro, per desiderio di fama, per spirito di conquista si davano alla vita errabonda: mescolati colle tribù indiane, ne diventavano oracoli in pace e condottieri in guerra; seguiti da bande di _coureurs de bois_ esercitavano di contrabbando il commercio delle pelli, che monopolizzato dalle compagnie era prescritto ai privati da regi decreti; accompagnati da pochi entusiasti esploravano il corso dei fiumi, rivelavano al mondo civile catene di monti, gettavano le prime fondamenta di future città. Determinata da moventi politici religiosi e commerciali anzichè da una vera corrente immigratoria, la colonizzazione della N. Francia aveva così plasmato una società quanto mai atta a raggiungere i fini, per cui era sorta, una società feudale e militare, aggressiva ed espansionista per eccellenza, che sarebbe stata la nemica naturale della società agricola e mercantile dell'America inglese, quand'anche profonde rivalità politiche tra Francia e Inghilterra non le avesse spinte alla lotta per la supremazia e la conquista dell'intero continente. § 2. LA LOTTA POLITICO-COMMERCIALE TRA LA N. FRANCIA E LE COLONIE INGLESI. — Basandosi sulla scoperta del Caboto, gli Inglesi reclamavano tutto il paese dal Labrador al nord ai possessi spagnuoli al sud, dall'Atlantico al Pacifico. I Francesi invece, negando ogni valore al preteso diritto di scoperta, basavano sull'occupazione e più ancora sulla fortificazione dei punti strategici occupati il loro diritto sulla vallata del S. Lorenzo, sui Grandi Laghi, sulla vallata del Mississippi. Non si trattava dunque soltanto d'una lotta tra Francia e Inghilterra per la baia d'Hudson e l'Acadia, come sembrava in sulle prime, nè d'una tra Nuova Inghilterra e Canadà per le pescherie di Terranova; ma il grande duello, concernendo in teoria l'intero continente, doveva avere per obbietto la conquista di esso, non appena le pretese territoriali delle due metropoli avessero trovato sul luogo ragioni ineluttabili di lotta senza quartiere tra coloni francesi ed inglesi. Nè queste mancavano; senonchè, prima d'assumere la forma d'una lotta per la terra, la grande contesa assumeva la forma di una lotta commerciale. Inglesi e Francesi si disputavano infatti il primato nel commercio delle pelli dell'intero continente, servendosi gli uni e gli altri a tal fine delle bellicose tribù indiane. Le regioni occidentali in ispecie attorno ai Grandi laghi erano tutte in mano di tribù, che direttamente o indirettamente subivano l'influenza francese; cosicchè la produzione di pelli e pelliccie di buona parte del continente terminava in mani francesi. Favorevoli invece alle colonie inglesi erano nei primi tempi gli Irochesi, i quali dipendevano economicamente dal mercante olandese ed inglese, che somministrava loro in cambio delle pelli di castoro le armi da fuoco, la polvere, il piombo, l'acquavite, le stoffe dagli smaglianti colori, gli articoli tutti di cui l'europeo aveva creato in essi il bisogno. E poichè il loro territorio non bastava ad appagare la richiesta di pelli, i «Romani del nuovo mondo», fidenti nel terrore che ispirava la lega delle Cinque nazioni, si accingevano coll'aiuto inglese ad impadronirsi di tutto quel traffico ed a trasferirlo nelle mani dei loro alleati, soggiogando le tribù propense alla Francia, disegno la cui attuazione avrebbe rovinato il Canadà. Da ciò uno stato pressochè permanente di lotta lungo i confini, dalla parte della Nuova Inghilterra e di New York in ispecie, lotta che si mutava in vere e proprie guerre intercoloniali quando sopraggiungevano altre cause interne od esterne di dissidio, le guerre tra Francia e Inghilterra in prima linea. L'indiano, alleato al bianco, conduceva la guerra all'uso nazionale, portandovi tutta la crudeltà innata; ed il bianco pieno d'odio e smanioso di vendetta lasciava fare o perfino aizzava alla ferocia il selvaggio: cosicchè, se il nome solo di Canadà rievocava alla mente dei coloni inglesi lugubri scene di stragi notturne, d'incendi, di donne e bambini sorpresi e sgozzati; d'altra parte i loro alleati, gli Irochesi, in una sol volta, bruciato Montreal, scannavano due mila persone e ne facevano prigioniere altrettante. In questa lotta pel commercio, sia che il movente venisse dalle rispettive metropoli sia che risiedesse in antagonismi etnici e religiosi od in rivalità economiche, il più forte era il francese. Mentre infatti la Nuova Francia, senza agricoltura, senza industria, compatta ed obbediente ciecamente ai suoi capi, era organizzata, può dirsi, per la guerra; le colonie inglesi date all'agricoltura, al commercio, all'industria, divise in governi separati, rette a democrazia e perciò in mano ora d'un partito favorevole alla guerra ora d'uno contrario, agitate bene spesso da interni dissidî, male sorrette dalla madrepatria, prive di truppe, di organamento militare, di capi erano assai meno adatte alla lotta. Aggiungi le condizioni locali dei due paesi; chè non solo la frontiera esposta agli assalti del nemico era senza confronto meno estesa dalla parte francese che dall'inglese; ma le abitazioni stesse per esser costrutte lungo la riva dei fiumi davano agio ai coloni francesi di rifugiarsi in caso di pericolo nel forte più vicino, bene armato e difeso, mentre i poderi ed i casali dei coloni inglesi dispersi tra le foreste, lontani da ogni centro fortificato, non permettevano agli abitanti di riunirsi in breve tempo e difendersi al sopraggiungere delle orde indiane o delle bande canadesi, che piombavano di notte sulla preda, incendiavano e scannavano senza misericordia, ritirandosi indisturbati col loro bottino. Le cose doveano procedere però diversamente il giorno, in cui la lotta pel primato commerciale si fosse mutata in lotta per la terra, ed il sentimento della propria conservazione avesse trascinato in essa tutte quante le colonie inglesi: allora i pacifici agricoltori combattendo _pro aris et focis_ sarebbero diventati soldati invincibili, e la società democratica dell'est del continente, più ricca, più colta, più popolosa sopratutto, trascinata dalla necessità economica e dalla nuova idealità della patria, avrebbe soppiantato quella feudale-militare dell'ovest. Il giorno venne quando le colonie inglesi, che s'erano sviluppate per forza propria, senza alcun aiuto estraneo, senza seguire alcun piano determinato di capi o di principi, superati gli Allegani, si trovarono sbarrato il passo per un ulteriore sviluppo dai Francesi, signori oramai dell'intera vallata del Mississippi. Il disegno del Colbert di estendere la dominazione francese a tutto l'interno del continente americano, limitando gli Inglesi alla stretta zona costiera dell'Atlantico, gli Spagnuoli alla Florida, diventato programma pratico dei governatori ed intendenti canadesi, Frontenac, Talon e De Courcelles in ispecie, aveva cominciato ad effettuarsi dopo che un illuminato e geniale avventuriero di Rouen, Roberto Cavalier de la Salle, aveva dischiuso alla colonizzazione bianca la vallata del gran fiume. Nato di agiata famiglia borghese nel 1643 ed educato in un seminario di gesuiti, il La Salle era partito poco più che ventenne per la Nuova Francia in cerca di fortuna e di gloria. Confinato nelle solitudini dell'alto Canadà, dove aveva ricevuto in dono dai gesuiti vasti terreni, il giovane ardente, di cui la descrizione dei viaggi di Colombo e delle avventure di Soto eccitavano la fantasia, aveva ripreso il vecchio disegno, condiviso da tanti altri esploratori prima di lui, di trovare un passaggio per il Pacifico, una via commerciale per la China ed il Giappone, via che poteva forse esser data da quel grande fiume, che gli Indiani gli dicevano sboccare nel mare dopo mesi e mesi di navigazione. Animato da questa fede, egli aveva già esplorato nelle sue spedizioni il corso dell'Ohio e forse dell'Illinois, quando il canadese Luigi Joliet lo preveniva il 1673 nella scoperta del Mississippi, di cui discendeva la corrente sino alla confluenza dell'Arkansas, mettendo in sodo il fatto che il Mississippi, anzichè nel mare della Virginia o nel Pacifico, sboccava nel Golfo del Messico. Piantare sulla riva di questo, a dispetto di Spagnuoli ed Inglesi, la bandiera francese, trapiantare la civiltà francese dal rigido Canadà nella prodigiosa vallata del «padre dei fiumi» e mandare direttamente in Europa i tesori di essa, divenne da allora il fine immediato dell'entusiastico La Salle. Ottenuta in Francia pei suoi meriti insieme con una patente di nobiltà la concessione del forte Frontenac, l'odierna Kingston, presso il lago Ontario, ed un monopolio commerciale, della sua rocca, donde avrebbe potuto senz'altro rischio sfruttare il traffico d'un continente intero, egli fece la vedetta da cui gettare ben più lungi lo sguardo aquilino, la base d'operazione per esplorare e colonizzare l'intera vallata del Mississippi. Dopo anni di progetti e di tentativi, condotti con energia meravigliosa in mezzo ad ostacoli insuperabili, a pericoli formidabili, tra la gelosia dei mercanti canadesi suoi emuli e la sorda ostilità dei gesuiti minacciati nella loro potenza, il La Salle, aiutato nei suoi disegni e sorretto nei momenti più terribili da un veterano italiano, Enrico de Tonti, arrivava finalmente il 6 aprile del 1682 al delta del Mississippi ed il 9 aprile innalzava presso la foce una colonna con le armi di Francia prendendo possesso in nome del re dell'immenso paese, cui dette il nome di Luigiana. Se a lui però tutta la gloria dell'iniziativa, l'opera grandiosa da altri doveva esser compiuta. Di ritorno infatti dalla Francia, dove tra l'entusiasmo generale aveva ottenuto uomini e mezzi per impiantare la prima colonia francese alle foci del Mississippi, il La Salle oltrepassava con le sue navi senza avvedersene la bocca del fiume, e nelle steppe deserte del Texas invano cercando fra stenti e sofferenze indicibili il «padre dei fiumi» veniva assassinato dai suoi uomini ammutinati nel 1687. Spariva così dal campo della sua gloria il padre della colonizzazione bianca del Mississippi e la colonia soggiaceva alla fame ed agli assalti degli Indiani; ma il seme da lui gettato doveva col tempo germogliare in una messe grandiosa di ricchezza. Mentre però a settentrione le cose procedevano felicemente e dal Canadà i Francesi lungo la via segnata dal La Salle andavano guadagnando il cuore del continente; a mezzogiorno essi trovavano ostacoli formidabili nell'illusione e nell'errore ben più che nella natura. Non convinti ancora che in quel vergine suolo la ricchezza sarebbe stata frutto del lavoro, i rari coloni dispersi nell'immenso territorio, invece di darsi all'agricoltura, base indispensabile per una colonia nascente, vivevano di caccia e di pesca errando affamati in cerca di quell'oro, per cui il vicino Messico era diventato famoso. Quando poi il traffico del paese fu affidato alla compagnia del Mississippi diretta da un filibustiere della finanza, il famigerato Giovanni Law, la Luigiana divenne per la madrepatria un vero Eldorado e la fama, artificialmente creata, della sua ricchezza uno strumento di più nelle mani di Law per far salire in modo vertiginoso le azioni dei «Mississipesi». Avventurieri, delinquenti, poveri, cortigiane venivano mandati volenti o nolenti nella Luigiana, dove sorgeva Nuova Orleans in onore del Reggente, sotto la cui non disinteressata protezione si stava preparando la più grande catastrofe finanziaria che la storia moderna avesse ancora veduto. La rovina della compagnia del Mississippi non segnava però la rovina della Luigiana più di quello che i suoi trionfi ne avessero fatta la floridezza; l'avvenire di essa, non riposava sugli sforzi del Law ma su quei 300 schiavi negri, che erano stati introdotti nella colonia: il lavoro servile permise la coltivazione della canna da zucchero, e questa divenne la base della vita economica del paese, la cui popolazione andò da allora in poi costantemente aumentando. Da nord come da sud, dall'alto Canadà come dalla foce del Mississippi i coloni francesi nella loro espansione militare e religiosa andavano così guadagnando tutta la vallata centrale del Nord-America; mentre battevano oramai alle porte di essa nella loro espansione agricola dalla parte d'oriente i coloni inglesi: nel mezzo fra le parti contendenti solo poche tribù indiane, tutto inasprite contro gli Inglesi, le Cinque nazioni comprese, le quali abbandonate da questi parteggiavano ormai pei Francesi. Il momento supremo della lotta fra le due razze, rappresentanti due civiltà diverse, era giunto. Guerre intercoloniali non erano mancate nemmeno per l'innanzi: già in una prima guerra, nel 1629, un colpo di mano, come vedemmo, aveva dato per poco agli Inglesi Quebec; in una seconda, detta la «guerra del re Guglielmo» (1689-97), terminata senza risultati notevoli con la pace di Ryswick del 1697, mentre il Frontenac meditava la conquista di Nuova York, le milizie di questa unite con schiere della Nuova Inghilterra avevano tentato quantunque invano di invadere il Canadà e quei di Boston avevano veduto perire miseramente la loro flotta inviata contro Quebec; in una terza, detta la «guerra della regina Anna» (1702-1713), mentre i confluì venivano devastati dai Canadesi, una flotta inglese conquistava l'Acadia (Nuova Scozia), che per la pace di Utrecht del 1713 passava insieme con Terranova alla Gran Brettagna, la quale nel 1755, non potendo costringer alla guerra contro la Francia i semplici paesani brettoni dell'Acadia, infamemente li caccerà in massa dalle loro terre, pietoso argomento alla futura «Evangelina» del Longfellow; in una quarta (1744-48) gli abitanti della Nuova Inghilterra s'erano impadroniti della fortezza di Louisburg, la chiave del fiume S. Lorenzo, che veniva però restituita ai Francesi in seguito alla pace d'Aquisgrana del 1748. Ma tutte queste non erano state che il prologo della vera lotta. Questa più che nella rivalità tra Francia e Inghilterra, più che negli odii mortali tra coloni francesi ed inglesi, più che nelle stesse ragioni commerciali di cui parlammo più sopra, aveva sue radici nell'antagonismo tra le due società cresciute sul continente nord-americano: più che una guerra di rivalità mercantile-coloniale fra le due metropoli, questo dovea essere un duello all'ultimo sangue tra le due colonizzazioni per la conquista definitiva del continente, una lotta per la terra nel senso più stretto della parola. § 3. LA LOTTA PER LA TERRA. — Diretta da oriente ad occidente, la colonizzazione inglese della costiera Atlantica era stata salvata da una dispersione precoce da quella catena degli Alleghani, i quali se non coll'altezza delle cime colla larga massa delle loro selve ininterrotte costituivano un'ottima barriera naturale all'espandersi d'una prima società essenzialmente agricola. Col raddensarsi però della popolazione fra il mare ed i monti, le pendici orientali di questi erano state guadagnate, risalendo le vallate dei fiumi; e l'avanzarsi dei coloni facilitato dalla superficie stessa del sistema, fruttifera e quindi abitabile, qualche cosa di simile nella costituzione come nell'aspetto al Giura europeo, non aveva trovato alcun ostacolo di roccie o di ghiacci da superare per affidarsi agli opposti versanti. Il movimento d'espansione, com'era naturale date le condizioni demografiche e geografiche del paese, aveva suo centro in quella colonia di Virginia, che in virtù d'un trattato concluso nel 1744 s'arrogava il diritto di estendere la sua giurisdizione su tutto il paese situato all'ovest sino al Mississippi; ed in essa si fondava una Compagnia dell'Ohio, che nel 1750 mandava l'avventuriero Cristoforo Gist ad esplorare il paese all'ovest delle «Grandi Montagne». Questi infatti esplorava la vallata dell'Ohio e del Kentucky; ma i mezzi della Compagnia erano troppo limitati per assicurare ai coloni inglesi dei territori, in cui ormai s'inoltravano con successo i Francesi, laonde nel 1751 si riunivano ad Albany, nella colonia di New York, i rappresentanti di varie colonie, New York, Connecticut, Massachusetts e Carolina del Sud, per avvisare al modo di promuovere un'azione collettiva in proposito. Di fronte poi all'avanzarsi costante dei Francesi lungo le vallate degli affluenti settentrionali dell'Ohio, il governatore della Virginia nel 1753 chiedeva in nome dell'Inghilterra lo sgombero di quei territori. Portava il vano messaggio ai Francesi un giovane di 21 anni, allora aiutante generale della milizia virginiana, che doveva in breve riempire il mondo del suo nome, Giorgio Washington. Nato sulle rive del Potomac sotto il tetto d'un fittavolo del Westmoreland, la sua sorte fin dall'infanzia era stata quella, può dirsi, d'un orfano: leggere, scrivere e far di conto erano state le cognizioni di questo giovane, che a 16 anni aveva cominciato a guadagnarsi il pane col lavoro faticoso dell'agrimensore in mezzo alle foreste degli Alleghani, senz'altri compagni che analfabeti o indiani selvaggi, senz'altro strumento scientifico che la sua bussola, senz'altri agi che una pelle d'orso per letto ed un pezzo di legno levigato per piatto! Nella primavera dell'anno dopo una compagnia di Virginiani, che valicando i monti muoveva alla volta dell'attuale Pittsburgh, era costretta dai Francesi a retrocedere; ma tornata sul luogo con gli aiuti condotti dal Washington impegnava una mischia violenta, che durava una giornata intera. Così, prima ancora che i governi d'Inghilterra e di Francia si fossero dichiarati la guerra, questa veniva ingaggiata con moto spontaneo dalle rispettive colonie, e per decidere di essa si radunavano di nuovo in Albany nell'estate dello stesso 1754 i delegati delle varie colonie inglesi. I convenuti dichiaravano all'unanimità che era necessaria l'unione di tutte le colonie; ed allora veniva presentato al congresso un completo progetto di federazione, basato su un compromesso tra la prerogativa regia e la volontà popolare. Philadelphia la città centrale per eccellenza doveva esser la sede del governo federale, il quale veniva ripartito tra un governatore generale, rappresentante della corona, che possedeva il diritto di veto, ed un Gran consiglio triennale, eletto dalle legislature delle singole colonie: queste alla loro volta conservavano ciascuna la propria costituzione ed amministrazione locale, essendo di pertinenza del governo federale solo gli affari generali, come i rapporti di guerra e di pace cogli Indiani, le relazioni commerciali, la fondazione e l'ordinamento di nuovi stabilimenti, le forze militari di terra e di mare e così via. L'autore di questo progetto, l'uomo che cercava di dar corpo all'idea di un'Unione americana, lanciandola in seno al paese fra la meraviglia e lo sbigottimento del _Board of trade_ inglese, presago ormai dell'avvenire delle colonie, era Beniamino Franklin, il prototipo della freddezza e dello spirito pratico americano. Nato in Boston nel 1706, aveva appreso nei primi suoi anni il mestiere del tipografo presso il fratello Giacomo, che vi pubblicava dal 1721 una gazzetta, _The Boston Courant_: ma, ammonito in seguito agli attacchi di quel giornale contro la bacchettoneria religiosa del clero, era passato in Filadelfia dove la libertà di stampa maggiore che altrove lo aveva favorito in quell'opera di diffusione e popolarizzazione del giornalismo, pel quale a buon diritto va considerato come il babbo della stampa americana. Uomo di pensiero al punto da meritarsi l'elogio del Kant di «Prometeo del nuovo tempo», s'era rivelato pure uomo d'azione per eccellenza come nella vita privata, in cui s'era fatto col lavoro e la sobrietà una discreta fortuna arrivando a possedere una stamperia propria, così nella vita pubblica, quando s'era trattato di difendere la Pennsylvania dalle scorrerie dei selvaggi, dalle stragi, dagli incendi delle tribù indiane di confine. Laddove infatti l'assemblea della colonia, fedele all'ideale quacchero, s'opponeva ad ogni armamento, rifiutando i fondi e gli uomini per la guerra contro quei feroci devastatori; il Franklin non solo avea preso il moschetto in difesa del paese, ma anche contribuito a costituirvi una forte milizia, ideata ed attuata una lotteria per armare di batterie la città, mentre nella legislatura si opponeva in ogni modo alla politica quietista della maggioranza, ricorrendo ai più astuti stratagemmi, come quello di chiedere dei fondi per la compera d'una «macchina da fuoco», che dovea essere un forte cannone, anzichè una tromba da incendio. Il progetto d'Albany, per quanto popolare apparisse l'idea d'una lega, per allora naufragava, rigettato ad un tempo e dalla corona inglese, che paventava l'eccessiva potenza concessa al popolo e più ancora l'unione, e dalle stesse colonie, le quali attaccate tenacemente alle loro autonomie locali, non sapevano rassegnarsi ad un accentramento, che avrebbe rafforzato il potere regio. Se il progetto di lega abortì, rimase però l'unione delle colonie di fronte al nemico comune nella guerra ingaggiata tra i coloni e secondata poi col maggiore accanimento dalle due metropoli. Fu una guerra senza quartiere per la conquista d'un continente, combattuta per mare tra le flotte francesi e le inglesi, per terra tra gli eserciti e più ancora tra i coloni delle due nazioni in mezzo a paludi impraticabili, a vergini foreste, dove l'ascia del guastatore spianava la via alla baionetta del soldato. Il piano degli Inglesi era di attaccare contemporaneamente i Francesi da ogni parte e di occupare così d'un colpo i loro possessi: una divisione infatti di truppe provinciali doveva mirare ai possessi della baia di Fundy, un'altra dirigersi sul lago Champlain, una terza contro il forte di Niagara, ed una quarta infine, composta di Virginiani ed Inglesi e comandata dallo stesso generale in capo, il Braddock, contro il forte di Dunquesne nella regione più contrastata. La guerra però cominciava male per l'Inghilterra, chè dal primo obbiettivo in fuori gli altri fallivano completamente: lo stesso Braddock, caduto in un'imboscata, veniva sconfitto terribilmente, ed i suoi si davano alla fuga nonostante l'eroismo del capo, ferito a morte, e quello del Washington impavido tra il grandinar delle palle, che gli foravano il mantello. La sconfitta inglese per di più alienava all'Inghilterra le tribù indiane pencolanti, scatenando sulle colonie tutte le crudeltà e gli orrori d'una guerra indiana, che desolò in ispecie le frontiere della Pennsylvania e della Virginia; mentre l'inetto successore del Braddock mal poteva competere col valoroso Montcalm, comandante in capo dei Francesi. Salito però al ministero negli anni seguenti l'energico Pitt, la guerra era ripresa con maggior vigore ed il Canadà, esausto di forze ed assalito contemporaneamente da tre eserciti, ad occidente a mezzogiorno ed a levante, vedeva cadere l'una dopo l'altra le sue fortezze: nel giugno del 1759 il generale Wolfe alla testa di 8000 uomini piantava il suo campo sotto Quebec nell'isola d'Orleans e, fallitogli miseramente il tentativo di dar la scalata alle posizioni inespugnabili del Montcalm, con abile mossa strategica lo prendeva alle spalle, lasciando poche forze nel campo e traghettando le rimanenti oltre il fiume sulle alture, che dominano la città. Colti così alla sprovvista e costretti ad uscire in disordine contro il nemico ormai alle porte di Quebec, i Francesi venivano sconfitti il 13 settembre 1759 nella pianura dell'Abraham perdendo lo stesso Montcalm, il quale ferito mortalmente si rallegrava di ciò per non assistere alla resa di Quebec, proprio nell'ora che tra i vincitori il Wolfe impartiva morente gli ultimi ordini, ringraziando il Signore della vittoria. Il 18 settembre Quebec s'arrendeva e lo stesso faceva l'anno dopo Montreal, stretta da tre eserciti vittoriosi: l'8 settembre del 1760 il marchese di Vaudreuil consegnava alla corona brittannica il Canadà con tutte le sue dipendenze. Nella pace di Parigi del 1763 l'Inghilterra otteneva tutto il paese ad est del Mississippi, la Spagna la città di New Orleans e la cessione per sè di tutte le pretese francesi sul territorio all'ovest del Mississippi, come ricompensa delle perdite subite per aiutare la Francia, prime fra tutte la Florida. La carneficina della guerra dei sette anni terminava coll'esaurimento della Francia, con lo spopolamento e la miseria più orribile di certe parti della Germania, senza che i confini territoriali dell'Europa fossero per nulla mutati; ma le conseguenze della guerra erano della più alta importanza per l'avvenire delle razze europee nel grande teatro coloniale: alla potenza inglese, ottenuta la supremazia nelle Indie Orientali, si apriva un campo sterminato di ricchezze incalcolabili e di acquisti territoriali illimitati; mentre alla civiltà anglosassone veniva assicurato nel Nuovo Mondo un continente intero, in cui svolgere e migliorare i germi portati dall'antico. Il Nord-America infatti non era diviso più che tra Inglesi invadenti e Spagnuoli incapaci nella loro debolezza di tenersi saldi ai loro possessi, nonchè di minacciare quelli dei primi: nessun forte francese sbarrava più il passo agli Anglo-Americani nella loro marcia trionfale alla conquista d'un continente. Rimanevano, è vero, gli Indiani; ma questi, soli nella lotta, mal potevano arrestare la fiumana bianca che stava per dilagare nel loro paese. Consci ormai della sorte che li attendeva, essi tentano invano un ultimo sforzo contro quell'espansione agricola degli Inglesi che, a differenza di quella francese, politico-commerciale soltanto e quindi più nominale che effettiva, era incompatibile con la loro esistenza, perchè li spogliava senza ritegno delle lor terre. Il momento sembrava quanto mai propizio, giacchè la Francia dava lusinghe e promesse di aiuto e le colonie estenuate dalla lunga guerra erano prive di mezzi e di eserciti, mentre rinfocolata dall'elemento francese covava la più profonda irritazione contro i coloni inglesi negli animi degli indigeni, di cui l'ultima guerra aveva rovinato il commercio delle pelli, privandoli di mercanzie ormai indispensabili. L'odio compresso scattava dapprima in insurrezioni terribili, veri flagelli devastatori, che, domate verso sud con una sconfitta sanguinosa inflitta ai Cherochesi, scoppiavano poco dopo più vive nel nord e, per la grandezza dell'uomo messosene alla testa, assumevano il carattere d'una vera guerra nazionale contro gli invasori bianchi. La concepiva un selvaggio, il Pontiac, che la saggezza politica, la vastità del fine, l'abilità dei mezzi, l'amore sublime di patria mettono alla pari dei più famosi tra i bianchi civili. Nato fra gli Ottawa e venerato da tutte le tribù comprese fra gli Alleghani ed il Mississippi come capo d'una setta misteriosa e potente, questo «re delle selve», dotato al sommo grado dei caratteri salienti della sua razza, intelligente, facondo, astuto, coraggioso, crudele, riprendeva le idee del re Filippo di stringere insieme le Pellirosse per una lotta di liberazione contro la potenza inglese. Incoraggiato e lusingato dalle promesse francesi egli preparava tutto un piano di attacco generale contro le colonie stanche di guerreggiare, mandando attorno il suo grande _wampun_ di guerra. La guerra di distruzione s'ingaggiava pressochè simultaneamente nel maggio del 1763 sopra un vastissimo territorio, nella regione dei Grandi laghi ed in quella selvaggia dell'occidente. I punti fortificati cadevano in mano degli Indiani, i presidii fatti a pezzi, gli sparsi casali incendiati; ma Detroit, l'obbiettivo precipuo del Pontiac, benchè a lungo assediato, resisteva vittoriosamente, e le schiere indiane combattute dagli Inglesi, non aiutate dai Francesi, decimate da pestilenze e carestie, si sbandavano: la confederazione indiana si dissolveva ed il Pontiac, costretto alla pace, infranto il cuore per l'insuccesso, veniva assassinato qualche anno dopo da un mercante inglese. La via alla colonizzazione interna era spianata per sempre agli Anglo-Americani. Tra le fitte selve dell'occidente il colono inglese non trovava ancora altra via che il sentiero tracciato dalle orme dei bufali; il suo casolare, rozzamente costrutto, non aveva ancora finestre nè pavimenti; suoi vestiti, in mancanza d'altro, doveano esser ancora le pelli, suoi stivali i mocassini del selvaggio; di legno i suoi vasi ed i suoi piatti; giacigli formati di pelli e di coperte i suoi letti; maiz e selvaggina i suoi unici cibi; dura, terribile la vita ridotta ad una lotta d'ogni giorno e d'ogni ora contro la verginità della natura e la barbarie degli Indiani sempre all'agguato: ma ormai un continente era suo, e stati popolosi, floridi di vita di ricchezza di civiltà, stavano compendiati nella capanna, ch'egli intrepido spingeva sempre più avanti dagli Alleghani al Mississippi[14]. NOTE AL CAPITOLO SESTO. [14] Sulla società franco-canadese e sulla sua lotta coll'anglo-americana abbiamo l'opera classica di Francis Parkman: _France and England in North-America_ (Boston, 1897, vol. 13). L'edizione popolare dei lavori del Parkman sull'argomento, fatta dalla casa Macmillan C.^le (London and New York) abbraccia i seguenti volumi: _Pioneers of France in the New World_ (1 vol.) — _The Jesuits in North-America_ (1 vol.) — _La Salle and the Discovery of the Great West_ (1 vol.) — _The Oregon Trail_ (1 vol.) — _The Old Regime in Canada under Louis 14º_ (1 vol.) — _Count Frontenac and New France under Louis 14º_ (1 vol.) — _Montcalm and Wolfe_ (2 vol.). CAPITOLO VII La lotta per la indipendenza. § 1. Disegni liberticidi della madrepatria e reazione delle colonie — § 2. Resistenza passiva ed attiva delle colonie agli arbitrii della madrepatria — § 3. Confederazione e guerra d'indipendenza. § 1. DISEGNI LIBERTICIDI DELLA MADREPATRIA E REAZIONE DELLE COLONIE. — Vi sono periodi nella storia dei popoli, in cui gli anni all'occhio dell'osservatore superficiale, il quale non intravede il lavorio lento di cui questi sono la sintesi, sembrano quasi contare per secoli; tanto è il contrasto fra la brevità loro e l'importanza decisiva nella vita politica e sociale ulteriore. Uno di questi appunto è nella storia d'America l'ultima guerra tra Francia e Inghilterra, la quale per la elaborazione della società anglo-americana è quello che la scintilla elettrica per certi corpi: come prima dello scoccare di essa abbiamo dei semplici elementi, e poscia il composto; così prima di quella guerra noi vediamo agire delle colonie, dopo una nazione. In essa per la prima volta le colonie avevano tutte partecipato ad un'impresa comune, ad una impresa nazionale più ancora che inglese: i loro figli s'erano conosciuti e stimati sui campi di battaglia, i loro governi avevano imparato ad agire all'unisono per la difesa comune, il paese tutto aveva conosciuto la propria forza e la debolezza della madrepatria, incapace per la distanza e le difficoltà economiche di fare un grande sforzo militare sul continente americano. Non per nulla un popolo oppresso s'accorge di poter mettere in mare, com'era avvenuto durante la guerra, ben 400 incrociatori, ed una colonia, New York, può ricordare all'Inghilterra d'aver fornito essa sola 60 navi da corsa con 800 cannoni e 7000 marinai; non per nulla le milizie provinciali, disciplinandosi alla guerra al punto da far arrossire i veterani del Braddock in quegli scontri, dove s'era formato il genio strategico di Washington e la valentia di Gates, Montgomery, Stark, Putnam, avevano rivelato alle colonie come i soldati regolari della madrepatria nonchè invincibili fossero inferiori agli stessi agricoltori ed artigiani del nuovo mondo. Di fronte al protervo disprezzo, con cui tutti senza distinzione gli ufficiali coloniali erano stati trattati dagli alti papaveri militari della madrepatria, le gelosie regionali avevano taciuto ed il risentimento comune s'era convertito in orgoglio nazionale offeso; mentre il denaro e le truppe che le colonie più meridionali, per quanto sicure del pericolo, avevano mandato alle sorelle della frontiera, testificavano una solidarietà, ch'era garanzia della più larga cooperazione a qualsivoglia altro fine nazionale comune. Un primo spirito di patriottismo si era sprigionato così da quella coscienza comune, che s'era venuta elaborando nel crogiuolo dei secoli. Nè questo, per quanto fosse molto nei destini immediati del popolo anglo-americano, era ancor tutto. La conquista del Canadà e della Nuova Francia, affrancando le colonie inglesi da ogni timore sul continente, rendeva ormai inutile affatto per esse la tutela inglese. Finchè la Francia, ambiziosa e bellicosa, teneva un piede nel Nuovo Mondo, la protezione della madrepatria per quanto costosa era pur sempre un parafulmine per le colonie; ma scongiurato il pericolo, l'Inghilterra cessava di esser necessaria alla loro salvezza. «Li abbiamo cacciati in trappola» avrebbe detto il Choiseul al momento dell'abbandono definitivo della Nuova Francia all'Inghilterra; o il Vergennes, ambasciatore francese a Costantinopoli, alla notizia delle condizioni della pace diceva: «Le conseguenze della cessione dell'intero Canadà sono evidenti. Io sono persuaso che non passerà gran tempo prima che l'Inghilterra si penta d'aver scartato il solo ostacolo che potesse tenere in rispetto le colonie. Esse non hanno più bisogno oramai della sua protezione; l'Inghilterra vorrà obbligarle a contribuire a sopportare i pesi, che esse hanno contribuito ad attirare sulla metropoli, e le colonie risponderanno scuotendo ogni dipendenza». Nè da queste profetiche parole differiva molto la dichiarazione di lord Mansfields, il quale spesso ebbe a dire che «dopo la pace di Parigi non aveva giammai cessato di pensare che le colonie del Nord meditavano di formare uno stato indipendente dalla Gran Brettagna». I coloni infatti vedevano bene come la conquista inglese, non solo li avesse liberati da un nemico formidabile, ma avesse per di più procurato loro amicizie preziose, per quanto interessate. La preponderanza ottenuta dall'Inghilterra nel campo estra-europeo in seguito alla guerra dei sette anni aveva distrutto l'equilibrio del sistema coloniale: strappata una parte del dominio della Spagna in America e quasi tutto intero quello della Francia nei due emisferi, le grandi potenze marittime d'Europa lungi dall'avere una comunanza d'interessi coll'Inghilterra per sostenere tale sistema, avevano invece tutto l'interesse ad abbatterlo come quello che le escludeva economicamente da tanta parte del mondo, dagli stessi paesi che esse avevano scoperto e colonizzato. E questo interesse generale del mondo antico, che collimava colle aspirazioni alla libertà ed all'indipendenza del nuovo, era tanto più sentito dalla Francia, nella quale le ragioni commerciali e politiche si univano all'orgoglio offeso e al desiderio cocente d'una rivincita per farle desiderare l'affrancamento delle colonie inglesi. Se la Francia infatti avesse ritenuto i suoi possessi d'America, è ben dubbio se lo stesso odio contro la rivale l'avrebbe indotta ad aiutare le colonie inglesi ribelli; una volta invece che il suo sogno d'un grande impero occidentale era svanito per sempre, essa aveva tutto da guadagnare e nulla da perdere ad aiutarle. Sicure così d'ogni pericolo, entrate dopo la pace in un periodo di rinnovata prosperità ed energia, mentre nuovi stabilimenti si fondavano dal Maine alla Florida, mentre nel nord mitigatosi il fanatismo religioso e la ruvidezza dei costumi la vita assumeva carattere più largo ed umano e nel sud la popolazione e la produzione crescevano in modo straordinario, mentre una vera febbre d'espansione spingeva dalle vecchie sedi gli arditi pionieri oltre i conquistati Allegani, le colonie si trovavano in grado come mai per l'innanzi, se non basta di resistere alle pretese inglesi, di svolgere addirittura un potere politico indipendente. L'Inghilterra invece, nonchè rinunziare allo sfruttamento economico, aveva atteso con ansia la conclusione della pace per imporre la sua volontà assoluta alle colonie anche nel campo politico. Creatosi ormai un immenso impero coloniale nel Nord-America, l'Inghilterra riteneva giunto il momento sospirato di trarre da esso quei vantaggi, che corrispondessero alla vastità dei territori ed alla loro prosperità scambiata per ricchezza inaudita dalla metropoli, dove gli ufficiali reduci dalla guerra dipingevano coi più vivi colori il lusso dei coloni. Per far ciò non v'era che un mezzo, sottoporre anche le colonie nord-americane in tutto e per tutto alle decisioni del Parlamento. L'idea del resto non era nuova. Già al principio del secolo XVIII, i _lords_ del commercio e delle piantagioni, proponevano di far riprendere dalla corona tutte le carte, in virtù d'una misura del potere legislativo del reame, di quel potere che, per essersi messo al di sopra dell'autorità che aveva concesso tali carte, ben poteva ritenersi superiore alle colonie che le possedevano. Dopo aver legiferato sul commercio e sull'industria, il Parlamento voleva legiferare anche sul governo delle colonie; e se ebbe cura di non allarmare queste ultime con la dichiarazione formale ch'esso poteva legiferare per esse in tutte le circostanze possibili, non ne riguardò meno per questo il principio come incontestabile, in materia specialmente di tassazione. Su questo principio appunto si basava la proposta di sir Guglielmo Keith nel 1726 d'estendere per mezzo d'un atto del Parlamento anche all'America le imposte sulla pergamena e sulla carta bollata; disegno che ripreso da commercianti londinesi, dieci anni dopo, trovava se non effettuazione certo largo favore presso il ministero inglese. Sarebbe venuta così a distruggersi implicitamente quella libertà coloniale, di cui il diritto esclusivo delle corporazioni legislative locali di imporre ed approvare le tasse, costituiva come il punto saliente così la rocca più salda. Come l'influenza della Camera dei Comuni in Inghilterra riposava sul suo diritto esclusivo d'accordare tutti gli anni le risorse necessarie alla marcia del governo; così la forza del popolo in America consisteva nel diritto esclusivo delle assemblee di levare le tasse coloniali e di determinarne l'impiego. In Inghilterra il re otteneva la sua lista civile a vita; in America la rapacità dei governatori rendeva necessario di far dipendere i loro emolumenti da un voto annuale: l'importo ne era regolato d'anno in anno, prendendosi a tal fine in considerazione i servigi del funzionario come lo stato economico della provincia. Così i governatori potevano bene ottenere istruzioni ministeriali esigenti uno stanziamento considerevole, uniforme e permanente; ma le assemblee ritenendo tali istruzioni valide solo per i funzionari del potere esecutivo, continuavano ad esercitare una libertà senza controllo di deliberazione e decisione. Per risolvere la contraddizione il re avrebbe dovuto pagare i suoi ufficiali col mezzo di un fondo indipendente, o cambiare le sue istruzioni. Di qui i lagni di cui sono pieni per tutto il secolo XVIII i rapporti al ministero da parte dei governatori inglesi, che, mandati in America, bene spesso per far fortuna, si vedevano costretti a capitolare tutti gli anni per la loro sussistenza davanti al popolo, il quale rendeva così più illusoria che reale l'amministrazione degli ufficiali del re, di cui esso era arbitro! L'impotenza dei governatori, delle colonie nordiche in ispecie, di fronte all'arma onnipotente posseduta dall'assemblea aveva terminato col convincere il governo inglese della necessità che i governatori fossero pagati direttamente dalla metropoli; il modo poi di sopperire a queste spese era non meno implicitamente indicato alla metropoli dai governatori e dai realisti d'America, la tassazione diretta degli Americani per atto del Parlamento. A questi criteri direttivi s'ispirava appunto il piano d'una stabile lista civile americana, che l'Ufficio del commercio andava ponzando e maturando in quegli anni. A determinarlo ancor più sopraggiungevano le nuove esigenze militari per la difesa delle colonie. Già nel 1751 ad esempio, essendo in vista una lotta con la Francia per la vallata dell'Ohio, il governatore di New York consigliava ai _lords_ del commercio per le spese necessarie a conservare il possesso del lago Ontario «un'imposta generale per atto del Parlamento: giacchè sarebbe pura immaginazione calcolare che tutte le colonie consentirebbero ciascuna a parte a decretar ciò». E di tale avviso era pure il Kennedy, ricevitore generale di New York, che caldeggiava «una riunione annua dei commissari di tutte le colonie a New York od Albany» e la costrizione per tutte al pagamento delle contribuzioni necessarie per atto del Parlamento, «altrimenti tutto sarebbe finito in chiacchere e contese». A tale fine nel 1753 si facevano in Inghilterra proposte di tasse sull'America, dichiarando l'Ufficio del commercio alla Camera dei Comuni che era assolutamente necessario procurarsi un'entrata coloniale: a tal fine l'Halifax progettava nel 1754 un piano dispotico di unione fondato sulla prerogativa regia, nell'intento di stringere tutte insieme le colonie contro la Francia, di far loro pagare le spese della guerra, e di sottoporle in blocco all'autorità del re o del Parlamento, di regolare cioè ad un tempo e d'un colpo tutte le questioni d'unione, di tassazione e di governo, che si facevano ogni giorno più scottanti ed insolubili. All'unione coatta, che doveva organizzarsi in Inghilterra nel modo da essa voluto e mettersi in vigore con atto del Parlamento per intenti fiscali e dispotici, i coloni per opera del Franklin contrapponevano una libera unione con intenti affatto opposti in quel progetto già veduto di Albany che il Shirley, governatore regio del Massachusetts, dipingeva un'applicazione del vecchio sistema delle carte ad una confederazione americana, sistema che avrebbe annichilito l'autorità regia nelle colonie unite, come l'aveva pressochè annichilita nelle singole colonie dov'era stato applicato, e compromesso la dipendenza dell'intero dominio di fronte alla corona. Rimasto allo stato di progetto tutti questi disegni, il governo inglese ciò nonostante aveva approfittato delle necessità della guerra per estendere l'autorità del Parlamento sulle colonie: si stabiliva infatti un potere militare per tutto il continente, potere nonchè indipendente dai governi coloniali ad essi superiore, non avendo questi facoltà di dar ordini nelle rispettive provincie se non nell'assenza del comandante continentale e dei suoi delegati. L'America tutta intera veniva posta così sotto il regime militare, i suoi magistrati erano sottomessi all'autorità del comandante in capo, le sue assemblee obbligate «a comprendere chiaramente e distintamente» che il re «esigeva» da esse un fondo comune, di cui il comandante in capo «disporrebbe e regolerebbe l'impiego», ed «approvvigionamenti di ogni genere che potrebbero risultare dalla necessità di fornire alloggi ai soldati». Tali istruzioni, contrarie allo spirito della stessa costituzione inglese, rimanevano in vigore durante l'intero periodo della guerra e perfino dopo il termine di essa; non senza però la più viva resistenza da parte dei coloni ai nuovi arbitri della madrepatria, ben più temibili delle stesse limitazioni commerciali e industriali, che il contrabbando poteva dopo tutto almeno in parte frustare. Ai mali consigli del Loudoun, comandante supremo delle forze inglesi, il quale, di fronte al rifiuto di sussidii e di armati da parte delle assemblee quacchere del Jersey e della Pennsylvania, aveva suggerito al Pitt di imporre un tributo per la guerra alle colonie col mezzo d'un decreto del Parlamento brittannico, ed alle decisioni di questo che «la pretesa legale in un'assemblea coloniale di poter levare e adoperare denaro pubblico soltanto con proprio decreto scemava il potere della corona e i diritti del popolo della Gran Brettagna», la Pennsylvania aveva risposto energicamente per bocca del più ardito propugnatore dei diritti e della libertà legislativa d'America, Beniamino Franklin, mandato nel 1757 come agente di quella colonia in Inghilterra. Alla nomina poi del giudice supremo di New York a semplice «beneplacito» del re, senza osservare alcuna delle norme stabilite a tale riguardo per garanzia delle colonie, l'assemblea di New York aveva risposto dichiarando inconciliabile con la libertà americana il nuovo modo di conferimento del potere giudiziario e proclamando che non avrebbe pagato più oltre lo stipendio dei giudici, se non si fosse ritirata quella nomina. Dati simili precedenti, si capisce quale ansia destasse nelle colonie la notizia diffusasi nell'inverno stesso, che seguì la presa di Quebec, che l'Inghilterra meditava di inaugurare la nuova politica verso le colonie non più a pillole e per eccezione, ma in blocco e come sistema, procedendo ad un riordinamento generale di queste. Messo infatti da parte un politico eminente, quale il Pitt, il giovane monarca Giorgio III prendeva nel 1761 come primo ministro il suo educatore, Carlo di Bute, un vivace gentiluomo scozzese, altrettanto elegante ed insinuante quanto gretto di idee, e questi chiamava al posto di primo lord dell'Ufficio del commercio Carlo Townshend, destinandolo a strumento della mutazione da farsi nelle colonie americane. Sarebbe questa consistita nell'abolire le patenti coloniali e nell'assoggettare completamente le colonie al governo inglese, fine ultimo cui doveva servire di avviamento l'indipendenza assoluta dei funzionari regi dalle assemblee coloniali, sia riguardo alla nomina come alla durata dell'ufficio ed allo stipendio, e la costituzione d'un esercito stanziale, che tenesse soggetti gli abitanti. Una cosa e l'altra però richiedeva nuove spese e l'Inghilterra, aggravata d'un grosso debito pubblico, accasciata sotto i pesi finanziari della guerra contro la Francia, nonchè pensare più oltre alla sicurezza militare ed all'amministrazione delle colonie americane, meditava di assoggettarle col fine precipuo di farle contribuire ai bisogni finanziari dell'impero britannico, di cui esse formavano indubbiamente parte integrante. Nè a stretto rigore l'imposizione di tasse alle colonie era di per sè ingiusta: se l'unione statale dell'America nordica coll'Inghilterra doveva continuare, era logico che anche l'America fosse assoggettata ad imposte; altrimenti non solo sarebbe stata di fatto indipendente dall'Inghilterra, ma questa avrebbe dovuto anche pagarle l'amministrazione e la sicurezza interna. Aggiungasi che l'Inghilterra aveva speso per la guerra d'America contro la Francia somme ingenti, tanto che il suo debito pubblico da 75 milioni di sterline, quale era nel 1756, saliva nel 1763 a ben 133 milioni, cifra per quell'epoca addirittura impressionante. È vero che l'Inghilterra, come faceva osservare ad essa il Franklin, non aveva combattuto la Francia nell'interesse esclusivo delle colonie; è vero che la madrepatria con la sua politica economica ricavava già abbastanza denaro dalle colonie, e che a queste principalmente dovevano il loro fiorire le città marittime di Liverpool e di Glasgow e quelle industriali di Manchester, Leeds, Sheffield, etc.; ma il principio della tassazione delle colonie non era per questo in teoria meno giusto. Solo però si doveva badare al modo di applicarlo. Se le colonie dovevano sopportare gli stessi pesi del territorio metropolitano, dovevano godere anche gli stessi diritti, dovevano avere anch'esse rappresentanza e voto nel Parlamento, dovevano poi esser trattate anche economicamente come politicamente alla stessa stregua dell'Inghilterra anzichè sacrificate ad essa. Ciò appunto chiedeva il fiduciario della Pennsylvania. La madrepatria invece non voleva rinunziare al dominio politico sulle colonie, donde la necessità di assoggettarle con la forza, quando non avessero obbedito ai suoi voleri in materia di tasse come in quella legislativa. Senonchè, sembrando cosa ancora immatura mentre la guerra con la Francia continuava, di imporre tasse alle colonie con atto legislativo, si ricorreva pel momento ad un mezzo indiretto di trar denaro da esse. Il contrabbando, quanto mai fiorente, eludeva in gran parte gli atti di navigazione contrari alle colonie: i bastimenti della Nuova Inghilterra non solo fornivano di merci inglesi le colonie spagnuole e francesi, non solo introducevano in America i prodotti caricati di soppiatto ad Amburgo e nei porti olandesi ed italiani, ma perfino attendevano presso le coste occidentali dell'Africa i vascelli olandesi francesi e danesi, per prendere direttamente da essi carichi interi di tè. Le cose erano giunte al punto che dal milione e mezzo di libbre di tè, che l'America nordica consumava annualmente, solo 150.000 provenivano dall'Inghilterra, e che i dazi d'esportazione dalle colonie per le Indie Occidentali francesi e spagnuole, nonostante la loro gravezza, davano solo un 2000 sterline all'anno, cioè il quarto circa della somma, che l'Inghilterra spendeva annualmente per l'amministrazione doganale! Il cancelliere dello scacchiere, Giorgio Grenville, faceva pertanto passare in poche settimane una sua proposta di legge, per la quale tutti gli ufficiali ed i marinai della flotta inglese erano autorizzati a far da ufficiali di dogana e denunziatori, ad assoggettare qualsiasi bastimento americano in alto mare a perquisizione e porlo sotto sequestro. Questo procedimento sommario con gli abusi ed arbitrii infiniti, cui apriva la via, con la seduzione dei grossi guadagni per gli agenti inglesi e la facilità da parte dell'ammiragliato di condannare i vascelli sequestrati, si riduceva ad una vera caccia alla proprietà americana; tanto più che i _writs of assistence_ o pieni poteri concessi ai doganieri di farsi assistere nell'esazione dei diritti doganali da tutti i funzionari governativi e di penetrare perfino a loro piacimento nei fondaci e nelle abitazioni dei cittadini, minacciavano le stesse libertà individuali dei coloni, attentando ad uno dei principi più sacri per ogni anglo-sassone, l'inviolabilità del domicilio. Il fervore di libertà, infiammato per di più dalla voce che il governo inglese meditava d'introdurre ufficialmente in tutte le colonie la chiesa episcopale, divampava irresistibile nella Nuova Inghilterra, dove il valoroso ed ardente avvocato Giacomo Otis davanti alla corte giudiziaria di Boston negava ogni legalità a quegli ordini di sequestro in nome dei principi fondamentali del diritto pubblico, li chiamava strumenti di dispotismo e, facendosi interprete della coscienza dell'intero paese, «io sono risoluto, esclamava, di sacrificare la proprietà, il benessere e la salute, anzi addirittura la mia vita, ai sacrosanti diritti della mia patria nel resistere contro una specie di prepotenza, la cui pratica è già costata ad un re la testa, ad un altro il trono!». L'agitazione vivissima contro le misure dispotiche della madrepatria era ancora però ben lontana dall'assumere la minima parvenza di separatismo: i coloni esigevano d'esser trattati come gli altri sudditi inglesi e nulla più. «Alcuni spiriti tanto di corta vista quanto maligni, diceva lo stesso Otis in un pubblico comizio di Boston nel 1763, si sono affaticati a suscitare meschine gelosie colle colonie, ma i veri interessi dell'Inghilterra e delle sue figliuole etniche sono reciproci, e ciò che Dio nella sua sapienza ha congiunto, nessuno deve osar di separare». E Beniamino Franklin infatti, interrogato più tardi in Inghilterra, nel 1766, quale fosse il sentimento degli Americani verso la madrepatria prima del 1763: «Il migliore del mondo, rispondeva. Essi si sottomettevano di buona voglia al governo della corona, e prestavano obbedienza agli atti del Parlamento. Per numerosa che fosse la popolazione in alcune delle più antiche provincie, essa non costava nulla per forti, cittadelle, guarnigioni, armi con cui tenerla soggetta: essa fu governata da questo paese colla sola spesa d'un po' di penna, inchiostro e carta; essa era guidata da un filo. Essa aveva non solo rispetto ma affezione per la Gran Brettagna, per le sue leggi, costumi, usi e perfino un debole per le sue mode, che aumentò di molto il commercio. I nativi d'Inghilterra furono sempre trattati con particolare riguardo; appartenere alla _Old England_ era di per se stesso un carattere di rispetto e dava una specie di distinzione fra noi». § 2. RESISTENZA PASSIVA ED ATTIVA DELLE COLONIE AGLI ARBITRII DELLA MADREPATRIA. — Lo stato degli animi però doveva insensibilmente mutare e l'idea del distacco farsi strada di mano in mano che il piano politico dell'Inghilterra andava scoprendosi ed attuandosi fra l'ostilità aperta e le resistenze dichiarate dei coloni. Caduto nella primavera del 1763 il ministero Bute, ne raccoglieva la spinosa eredità Giorgio Grenville, il quale, da buon credente nel dogma mercantilistico che le colonie erano fatte per l'utilità della madrepatria, si faceva un dovere personale oltrecchè politico di sacrificare l'America alla prosperità del commercio inglese, le libertà degli Americani alla supremazia assoluta della madrepatria. Così mentre il Townshend presentava in Parlamento la proposta di imporre alle colonie una tassa sul bollo pel mantenimento d'un esercito stanziale di 20 reggimenti, il ministero preparava per esse una nuova legge doganale che veniva votata nell'aprile del 1764: per questa si stabilivano nuovi dazi d'importazione su derrate e manufatti di prima necessità fino allora esenti, proventi doganali pagabili in oro anzichè in carta che dovevano passare alla tesoreria inglese come fondo speciale con cui coprire le spese coloniali, calcolate ad oltre 300.000 sterline annue. Per di più si dava pochi giorni dopo dal Parlamento un altro colpo formidabile al commercio delle colonie, con decreti che deprezzavano la loro carta monetata, cresciuta troppo durante l'ultima guerra, screditandola e negandole oltre certi limiti validità sul mercato inglese. Traffico marittimo e contrattazioni commerciali con la madrepatria venivano così distrutti per le colonie, le quali nell'impossibilità di procurarsi a sì caro prezzo i prodotti inglesi si vedevano impedite da altri atti non meno iniqui di diventare esse stesse industriali. E quasicchè non bastasse il fiero colpo ad irritare gli animi, s'aggiungeva la prospettiva ancor più insopportabile della tassa sul bollo, proposta contro la quale diverse colonie mandavano memorie e rappresentanti in Inghilterra, mentre in Boston l'opposizione contro di questa, diretta dall'Otis e da Samuele Adams, prendeva proporzioni ogni giorno maggiori e già gli abitanti decidevano di non servirsi più di prodotti inglesi e di esercitare per conto proprio l'industria della lana. Invano il Franklin, il quale per aver ricevuto pieni poteri da molte colonie era diventato una specie di rappresentante del dominio americano, diceva chiaramente agli stessi Inglesi che gli Americani non si sarebbero mai lasciati tassare senza loro approvazione e che la nuova misura avrebbe messo a grave cimento l'unità dell'impero brittannico: il re nel discorso d'apertura del parlamento, il 10 febbraio 1765, presentava la questione americana come questione «d'obbedienza alla legge e di rispetto all'assemblea legislativa del regno»; ed il Grenville vi presentava le sue famose 55 risoluzioni, che contemplavano i particolari d'una legge sul bollo per le colonie americane e ne deferivano le infrazioni alla corte di giustizia dell'ammiragliato. Durante la discussione della legge, avendo il Townshend tenuto in favore di essa un discorso che terminava colle parole — «Ed ora questi Americani, che per nostra cura furono colà trapiantati e per nostra condiscendenza e sollecitudine sostenuti, finchè crebbero in forza e agiatezza, e che sono stati difesi dalle armi nostre, si rifiuteranno di conferire il proprio obolo per aiutarne a liberarci dal grave carico che ci opprime?» — il colonnello Barré, che ben conosceva l'America ed il suo popolo per aver combattuto allato del Wolfe contro Quebec, balzava su dal suo stallo improvvisando una difesa sublime degli Americani: «Per cura vostra, egli tonava, sono stati colà trapiantati, dite voi? No, le vostre oppressioni li hanno trapiantati in America! Essi fuggirono, davanti alla vostra tirannia, in paese allora incolto e deserto, dove s'esposero a tutte le fatiche, a cui è soggetta la natura umana, e inoltre alla barbarie d'un nemico selvaggio, il più scaltro e — ve ne dò la mia parola — il più spaventevole fra tutti i popoli sulla faccia della terra, e nonostante hanno sopportato con gioia, animati dai principii d'una vera libertà inglese, tutti i travagli solo per sfuggire a ciò che, nel proprio paese, bisognava soffrissero per opera di coloro, che avrebbero dovuto esserne gli amici. Per la vostra condiscendenza e sollecitudine essi sono stati sostenuti? Essi crebbero e prosperarono in conseguenza della vostra trascuranza. Tostochè voi cominciaste a darvi pensiero di loro, manifestaste la vostra sollecitudine mandando a quella volta delle persone per governarli in questo o quel rapporto, persone, che forse erano gl'inservienti di inservienti di alcuni membri di questa camera ed erano inviati collo scopo d'esplorare le libertà degli Americani, di presentarne le azioni in falsa luce e di sfruttarne l'industria, persone, la cui condotta in più d'una occasione ricacciò a quei figli della libertà il sangue verso il cuore, poveri diavoli, che furono promossi ai più alti uffici giudiziari, mentre, in parte, come so positivamente, eran lieti di poter andare in un paese forestiero, per non essere essi stessi in patria condotti innanzi alle sbarre d'un tribunale. Dalle vostre armi sono essi stati difesi? Generosamente hanno impugnato le armi in nostra difesa, hanno, in mezzo all'attività loro pertinace e faticosa, dato prova di virile prodezza nella difesa d'un territorio, i cui confini erano inzuppati di sangue, mentre l'interno del paese sacrificava tutti i suoi piccoli risparmi a vostro vantaggio. E credetemi — ricordatevi che oggi v'ho detto simili parole — che quel medesimo spirito di libertà, che infiammava quel popolo da principio, l'animerà anche nell'avvenire. Ma la prudenza mi vieta d'esprimermi con maggiore chiarezza. Dio sa che io, in questo momento, non parlo per motivi di spirito di partito; ciò che dico sono i veri sentimenti del mio cuore. Per quanto gli onorevoli, che seggono in questa camera, possano superarmi in scienza ed esperienza in generale, pure ho la pretesa di conoscere l'America meglio dei più di loro, poichè conosco quel paese per pratica mia propria. Quel popolo là è, a mio parere, sinceramente leale, quanto tutti gli altri sudditi del re, è però un popolo che è geloso delle sue libertà, e le difenderà e guarderà contro ogni assalto». Il discorso generoso del Barré, giunto dopo qualche mese nella Nuova Inghilterra e diffuso a migliaia di copie per tutto il paese, vi sollevava la commozione più intensa, e le più vive speranze: il nome di «figli della libertà», dato dal Barré agli Americani, diventava il motto fatidico delle giovani generazioni. Poco dopo di esso però giungeva anche la notizia che la legge sul bollo, approvata dal Parlamento, era stata sanzionata, per quanto in un accesso di pazzia, da Giorgio III e che col 6 novembre 1765 sarebbe entrata in vigore. Il vaso del malcontento già colmo doveva per forza traboccare a quell'annunzio. La servitù economica delle colonie, l'atto di navigazione, la stessa legge doganale, per quanto danneggiassero l'intera popolazione, non si facevano sentire direttamente che su pochi ceti di essa, sulla classe commerciale in ispecie; ma la nuova legge colpiva tutti in modo diretto, agricoltori e commercianti, operai e professionisti, ricchi e poveri, ed in tutti suscitava impeti di ribellione: la stampa non meno del traffico, la vendita come la permuta, il testamento ed il matrimonio, tutti gli atti insomma della vita, economici e civili, dovevano esser tassati; e per maggiore offesa ad uomini gelosi della loro libertà, le contravvenzioni a questa tassazione non riconosciuta dai coloni doveano esser deferite non già ai tribunali indigeni ma alla corte di giustizia dell'ammiragliato, dove sedevano dei giudici inglesi e non erano ammessi giurati! Alla prima notizia della legge infame il fermento più vivo s'impadroniva delle colonie: la condannavano dal pulpito i predicatori in nome della religione, la assalivano con violenza nelle pubbliche riunioni i patriotti più intemerati, la frantumavano a forza d'argomenti giuridici i giornali, le negavano ogni valore le assemblee legislative, dove s'elevavano voci, come quella del bollente patriotta ventinovenne Patrizio Henry della Virginia, che ricordavano minacciose a Giorgio III la fine di Cesare e di Carlo I! Alla testa dell'opposizione si trovava il Massachusetts, trascinato dalla parola eloquente dell'Otis e di quel Samuele Adams, scrittore politico pieno di forza, che pel suo fanatismo calvinista e liberale meritava d'esser chiamato «l'ultimo dei puritani». E dal Massachusetts appunto, dove si era già innanzi stabilito un comitato di corrispondenza per un'azione concorde fra tutte le colonie, partiva l'iniziativa d'un «Congresso contro la legge sul bollo», che, tenuto nell'autunno a New York con la rappresentanza di nove colonie e l'adesione illimitata di altre tre, riproduceva ma con intenti ben diversi quello di Albany del 1754! L'unione americana era già in germe in questo congresso, dove il Gadsden della Carolina meridionale esortando le colonie tra l'assentimento dei colleghi a porsi sul terreno del diritto naturale, cosa questa della più alta importanza per lo svolgimento ulteriore dei fatti, diceva tra l'altro: «Certo la conferma dei nostri essenziali e comuni diritti come Inglesi può esser guarentita per mezzo delle patenti; ma il far ancora troppo capitale su di esse potrebbe di leggeri produrre fatali conseguenze. Noi tutti dobbiamo stare sull'ampio e comune terreno dei diritti naturali, che noi tutti come uomini e discendenti di Inglesi conosciamo. Io non vorrei che le patenti, alla fin fine, c'impastoiassero, inducendo le diverse colonie a procedere in questa grave faccenda con criteri disuguali. Posto che il caso dovesse avverarsi, è finita per noi tutti; questo continente non deve conoscere nè abitanti della Nuova Inghilterra, nè di New York, ma noi tutti soltanto come Americani!». Fra le 14 deliberazioni del Congresso, accanto a quelle contrarie alla competenza delle Corti dell'ammiragliato e più ancora alla tassazione non deliberata dalle assemblee coloniali, ve n'era una contraria perfino ad una eventuale rappresentanza delle colonie nel parlamento britannico, cosa della più alta importanza perchè dimostra come negli Americani quanto era vivo il desiderio di rimaner nel fatto indipendenti dalla madrepatria altrettanto era viva la riluttanza a formare un tutto con essa, a sobbarcarsi ai suoi pesi finanziari e politici. Nè soggezione dunque nè unione, ma continuazione di quel sistema che garantiva alle colonie tutti i vantaggi di far parte del potente impero britannico senza subirne i pesi. Nel novembre la nuova legge entrava in vigore, ma tanta era l'ostilità delle popolazioni da renderne impossibile l'esecuzione: i venditori di marche da bollo venivano insultati ed assaliti, le loro case svaligiate, le provviste di carta bollata bruciate, i procuratori preferivano di sospendere gli affari piuttostochè far bollare gli atti, i tribunali civili dovevano chiudersi; mentre la legislatura del Massachusetts deliberava che tutti gli atti civili compilati in carta semplice avessero lo stesso piena validità, ed il Connecticut dichiarava apertamente che il popolo poteva ritogliere l'autorità concessa al governo legale ogni qualvolta questo non avesse più il suo consenso. All'insurrezione, che si esplicava da parte della plebaglia in incendi e saccheggi, alle dichiarazioni rivoluzionarie delle aule legislative, s'accompagnava poi una generale resistenza passiva più formidabile d'ogni altra per gl'interessi inglesi. Il ceto commerciale di New York s'impegnava dal 1º gennaio 1766 in poi di non far venire più nessuna merce straniera sottoposta a dazio, di non prenderla in deposito e di ritirare le commissioni già fatte: altrettanto facevano i mercanti di Boston e di Filadelfia; i cittadini di questa s'impegnavano a non soddisfare più i debiti contratti in Inghilterra; l'intera popolazione americana rinunziava ad ogni agio di origine straniera, ad ogni prodotto inglese, pure di conservare la propria libertà. L'industria della madrepatria veniva pertanto paralizzata dalla perdita repentina di un mercato così importante di fornimento della materia greggia e di spaccio dei prodotti lavorati: il suo commercio verso il nuovo mondo s'arrestava; gli affari ristagnavano: si sollevava un coro generale di lamenti, di proteste, di preghiere, mentre le corporazioni mercantili di Londra, di Bristol, di Liverpool, di Lancaster, di Hull, di Glasgow peroravano questa volta presso il Parlamento la causa della giustizia in nome dell'interesse! Le voci in difesa degli Americani si facevano così ogni giorno più spesse nella Camera dei Comuni, dove tra gli altri il vecchio Pitt, sempre vigoroso d'animo per quanto infermo di corpo, esclamava: «Gli Americani sono sudditi di questo regno, hanno lo stesso titolo di noi a tutti i diritti naturali dell'uomo ed agli speciali privilegi dell'Inglese, sono nello stesso modo legati dalle leggi inglesi e partecipano egualmente alla costituzione di questo nostro libero paese: chè gli Americani sono figli legittimi dell'Inghilterra, non bastardi. Se questa camera tollera che la legge sul bollo rimanga in vigore, la Francia guadagnerà più per mezzo delle colonie, di quanto non avrebbe guadagnato, ove le sue armi fossero rimaste vincitrici nell'ultima guerra.». Ed a chi gli si opponeva: «Io mi rallegro, esclamava fra l'altre cose, che l'America resista. Tre milioni d'uomini, il cui sentimento di libertà fosse così morto che si facessero incatenare spontaneamente, sarebbero strumenti acconci a rendere schiavi tutti gli altri. In una causa giusta voi potrete stritolare l'America, ma la tassa sul bollo sarebbe un'ingiustizia troppo grave ed io sono proprio convinto che in tal cosa sarebbe perfino una vittoria il perdere. Se voi rovinate l'America, essa sprofonderà come un gigante, stringerà colle braccia le colonne dello stato e sotterrerà la nostra costituzione fra i suoi rottami. È questa la pace magnificata, che voi cacciate la vostra spada non nel fodero, ma nelle viscere dei vostri compatriotti?». Frattanto il governo era passato dalle mani del Grenville a quelle del Rockingam, il quale diceva di voler «revocare cento leggi sul bollo piuttostochè eseguirne una con la forza»; cosicchè più facile apparve appianare un conflitto, di cui il Franklin mostrava di nuovo ai ministri inglesi in una conferenza divenuta famosa le pericolose conseguenze. Il Parlamento infatti nei primi mesi del 1766 abrogava l'infausta legge, pure riconfermando il diritto di tassare le colonie; e la decisione veniva accolta tra il giubilo dei due popoli: le navi inglesi s'imbandieravano sul Tamigi; ed a Giorgio III decretavano statue New York e la Virginia. La legge sul bollo però non essendo stata che la causa occasionale di tanta agitazione, la revoca di essa non fu più efficace quanto agli effetti dell'olio versato sul mare in procella: le onde cessano per un momento d'accavallarsi a fior d'acqua, ma la burrasca continua negli strati inferiori e riguadagna ben presto la superficie. La madrepatria non poteva dimenticare l'umiliazione subita, tanto più che al ministero Rockingam succedeva nel 1766 un ministero Grafton-Pitt, in cui la disparità di vedute dei componenti e la malattia del Pitt lasciavano libera la mano al famoso Townshend, cancelliere dello scacchiere, nelle faccende americane. Dopo la morte anzi del Townshend ed il ritiro del Pitt, la direzione stessa del ministero passava nel 1768 nelle mani di lord North, avversario deciso dell'autonomia americana. Si escogitavano pertanto nuovi mezzi diretti e indiretti di tassare l'America, si tentava di privarla delle sue patenti e di sottoporla ad un regime militare affidato al generale Gage, comandante supremo dell'esercito regio nelle colonie. Queste rispondevano dal canto loro alle provocazioni della metropoli con la resistenza passiva e con quella attiva senza però alcuna idea di separazione dalla madrepatria, di indipendenza. Lo stesso banditore della «resistenza con la forza» alle sopraffazioni della metropoli, Giovanni Dickinson di Pennsylvania, nelle sue famose «_Lettere d'un agricoltore_», destinate a scuotere come corrente elettrica tutte quante le colonie, esclamava in quell'epoca: «Se mai noi ci separiamo dalla madrepatria, quale nuova forma di governo adotteremo? dove troveremo noi un'altra Inghilterra per riparare la nostra perdita? Staccati dalla nazione alla quale siamo uniti dalla religione, dalla libertà, dalle leggi, dall'affetto, dalla parentela, dal linguaggio ed il commercio, noi dobbiamo perdere del sangue da tutte le nostre vene». È una lotta pertanto puramente difensiva, nella quale ogni colpo della metropoli trova nelle colonie una trincea, in cui infrangersi; ogni protesta delle seconde trova nei provvedimenti della prima la più amara accoglienza: era da ambo le parti una serie di vittorie e di scacchi, attraverso cui prendeva consistenza nelle colonie l'idea dell'unione per la difesa delle comuni libertà. Nella lotta fierissima del Massachusetts per conservare la sua costituzione sembrava così compendiarsi in quegli anni la lotta di tutte le colonie. Gli avvenimenti di Boston, dove comizi si succedevano a comizi nel severo palazzo di città «Faneuil-Hall», dove i conflitti tra governatore e popolo, tra cittadini e soldati arrivavano al sangue come nel «macello bostonese» del 1770, accrescevano il fermento dell'intero paese e lo eccitavano sempre più alla resistenza attiva oltrecchè passiva. E già il Massachusetts, sotto la guida di Samuele Adams e Giacomo Warren, formulava nel novembre 1772 una serie di lagnanze contro le usurpazioni del parlamento, l'imposizione di gravezze non acconsentite dai coloni, l'impiego di forze militari in tempo di pace senza il permesso delle singole legislature, la giurisdizione illegale del tribunale dell'ammiragliato, l'investitura di vescovi e tribunali ecclesiastici senza il consenso della colonia, i vincoli infine opposti all'industria ed al commercio, chiedendosi nelle riunioni se di fronte ad una ulteriore negazione delle franchigie assicurate dalle patenti non fosse il caso di formare uno stato indipendente a guisa dei Paesi Bassi. E la Virginia, aderendo pienamente nel marzo del 1773, alla dichiarazione bostonese, costituiva un comitato, dove entrava Tommaso Jefferson, incaricato di attivare la corrispondenza con le altre colonie e di abboccarsi con eventuali comitati di esse per un'azione comune di resistenza. Mentre l'opposizione aperta cresceva ogni giorno più e, peggio ancora, si organizzava sistematicamente secondo un piano federale, la resistenza passiva continuava tenace a danno dell'Inghilterra: l'«Unione per non importare nessuna merce inglese», estesasi da New-York a tutte le altre colonie, veniva coscienziosamente obbedita, e l'esportazione inglese per l'America nordica scendeva nel 1769 di ben 744.000 sterline in confronto dell'anno precedente; mentre le esportazioni per la madrepatria dalle colonie scendevano da 100.000 sterline nel 1767 a 7000 nell'anno successivo ed a 3000 nel 1769. Siccome poi lord North, di fronte alle proteste degli esportatori inglesi contro le nuove tariffe doganali, le faceva dal Parlamento mitigare, mantenendo però intatto il dazio sul tè come segno del potere supremo del Parlamento in tale materia, l'opposizione economica venuta meno per gli altri prodotti si concentrava contro il tè inglese, la cui importazione dalle 132.000 sterline del 1768 si riduceva ad 11.000 due anni dopo, facendo discendere da 70 a 40 i bastimenti impiegati per tale commercio dalla compagnia delle Indie Occidentali. Quando poi questa, per rialzare le sue azioni rovinate e pagate le 400.000 sterline annue dovute al governo, tentò colla complicità della madrepatria di imporre il suo tè all'America, riuscite vane le nuove proteste delle colonie, la «società bostonese per il tè», come fu chiamata scherzosamente una moltitudine di bostonesi camuffati da Indiani Mohawki, s'impadroniva il 28 dicembre del 1773 d'un bastimento contenente 340 casse di tè e ne gettava in mare l'intero carico del valore di 18.000 sterline! Alla notizia di tale fatto lord North il 14 marzo 1774 presentava al Parlamento una proposta per l'immediata chiusura del porto di Boston, che avrebbe durato finchè la città non avesse indennizzato la compagnia del tè gettato in mare: all'approvazione di tale progetto teneva dietro poi quella d'un'altra legge «per un migliore assetto della costituzione del Massachusetts», la quale annullava la patente della colonia. Governatore civile di questa veniva intanto nominato il generale Gage, comandante militare supremo dell'intera America nordica. Il Massachusetts riceveva così un ordinamento militare ed assoluto analogo a quello che con la «_legge su Quebec_» era dato al Canadà: la libertà americana veniva colpita a morte nel corpo della colonia, che ne era da secoli il baluardo più strenuo, il ridotto inespugnabile. Il guanto di sfida era gettato: la società americana, che ad ogni attacco dell'Inghilterra aveva risposto con un contrattacco, agli atti di navigazione col contrabbando, alla legge doganale colla rottura del traffico, alla tassazione illegale colla resistenza, all'impiego della forza non poteva ora rispondere se non colla forza, uso della forza cui era vano ricorrere senza l'unione di tutte le colonie: indipendenza e federazione, preparate così da cause secolari, nascevano ad un parto a gettare le basi d'una struttura statale nuova non solo pel continente ma per la terra tutta, gli Stati Uniti d'America. § 3. CONFEDERAZIONE E GUERRA D'INDIPENDENZA. — La chiusura del porto di Boston ed il conseguente «decreto d'ordinamento», che annullava la patente del Massachusetts, da oltre 80 anni legge fondamentale della colonia, furono la scintilla che accese il gran fuoco rivoluzionario. Però, se l'indipendenza doveva esser il risultato ultimo della lotta, che stava per impegnarsi, essa non era per questo il fine cui mirassero generalmente le popolazioni nell'ingaggiarla. Anche qui doveva avverarsi la grande legge, che regola i destini dell'umanità: la moltitudine è sempre un protagonista incosciente del dramma, che rappresenta, obbedisce sempre all'interesse del momento anzichè a remote finalità; che queste si raggiungano, è conseguenza fatale di cause antecedenti, non già conseguenza voluta di un piano determinato d'azione. Il 25 settembre 1774 dietro accordo preso fra i comitati di corrispondenza delle colonie, si radunava in Filadelfia, la città centrale già prescelta a tal fine 20 anni prima dal «progetto d'Albany», il primo di quei congressi continentali, che d'allora in poi avrebbero dovuto raccogliersi tutti gli anni. Nella modesta sala dei falegnami di quella città si radunavano in numero di 51 i rappresentanti di 12 colonie, tutte cioè meno una, la neonata Georgia: ma di essi solo i rappresentanti della Nuova Inghilterra e della Virginia, le regioni più mature per densità di popolazione e compattezza sociale, si mostravano già risoluti ad un aperto distacco dalla metropoli, chè gli altri non volevano neppur sentir parlare di ciò. Il presidente Peyton Randolph aveva ben potuto nel prender possesso del suo ufficio farsi portare una corona, spezzarla in dodici parti eguali e consegnarne i pezzi alle deputazioni delle colonie rappresentate come simbolo dell'annullamento del potere regio e dell'uguaglianza fra le colonie; ma quando il bollente Henry Patrick, enumerate le ingiustizie subite, affermò che per essersi sfasciato il vecchio regime le colonie erano ritornate allo stato di natura e dovevano perciò darsi un governo affatto nuovo, il Jay, interpretando il pensiero della grande maggioranza degli intervenuti, interrompeva: «Io non posso pensare che il vecchio governo sia finito in tutto e per tutto e che noi siamo giunti al punto di abbozzare una costituzione americana, invece di fare il tentativo di correggere i difetti dell'antica». Ed il congresso infatti, dopo aver preso varie deliberazioni, fra cui notevolissima quella che in esso e nei futuri ogni colonia avrebbe avuto un voto soltanto senza riguardo alla sua grandezza e popolazione, si limitava a reclamare la revoca di tutti i decreti parlamentari e delle ordinanze, che violavano i diritti delle colonie, e si chiudeva rivolgendo un appello alla nazione britannica, d'Europa e d'America, ed una petizione al re. «Alla vostra equità, era detto nel primo, noi ci richiamiamo. Vi si è raccontato che noi eravamo stanchi del governo e sospiravamo l'indipendenza. Queste sono calunnie. Lasciateci liberi, come siete voi, e noi stimeremo sempre l'unione con voi come la nostra gloria più grande e la nostra fortuna maggiore. Ma se siete risoluti a lasciar trescare scelleratamente i vostri ministri co' diritti umani, se nè la voce della giustizia, nè le prescrizioni della legge, nè le massime della costituzione, nè le esortazioni dell'umanità non valgono a impedire alle vostre mani di versar sangue in una cosa così empia, allora noi vi dobbiamo dire che non ci assoggetteremo mai a nessun ministero e a nessun popolo del mondo. Noi siamo così lontani, era detto nella seconda, dall'esigere innovazioni che per questo ci siamo anzi opposti a voi — noi non esigiamo altro che pace, libertà e sicurezza, noi non desideriamo nessuna diminuzione della prerogativa regia, nè la concessione di qualsivoglia nuovo diritto. Sempre appoggeremo e manterremo la vostra autorità regia su di noi e la nostra unione coll'Inghilterra». La difesa dei propri diritti, il ristabilimento del passato e nulla più, ecco l'idea che moveva ancora quella società in sugli albori della stessa indipendenza a combattere con le armi la potenza inglese. Ma intanto il dado era gettato: agli avvenimenti decidere del risultato. Tutte le buone intenzioni, tutte le proteste sincere di lealtà pel monarca non potevano invero privare di loro efficacia i fatti salienti del giorno. I coloni anzitutto si erano creati stabilmente un unico corpo rappresentativo, fatto capitale pel futuro come quello che trasformava la solidarietà intercoloniale precedente in un vero e proprio legame politico: questo corpo rappresentativo in secondo luogo, negando al parlamento britannico ogni autorità di legiferare per le colonie americane, affermava l'indipendenza di fatto di esse: la provincia infine del Massachusetts, non riconoscendo il nuovo governo piantato sulle canne dei fucili in base al «decreto di ordinamento» e prestando obbedienza soltanto alla sua assemblea trasformatasi in «congresso provinciale», dava il primo esempio di governo rivoluzionario indipendente dall'Inghilterra; mentre Boston, perduta ogni vita commerciale e industriale con la chiusura del porto e costretta a vivere delle provvigioni, che tutte le colonie con slancio fraterno le inviavano, diventava nell'ozio forzato un semenzaio di soldati della libertà, disposti coi fratelli della provincia, che oramai s'armavano ed organizzavano, ad attaccare i soldati regi, unici puntelli del dispotismo. Ed alle armi ricorrevano ormai quasi tutte le colonie, dopo che gli appelli del Congresso furono respinti e le concilianti proposte del Franklin, rimasto a parlamentare in Inghilterra fino al 20 marzo 1775, naufragarono. Alle minaccie non vane del Congresso americano di abolire del tutto il commercio degli schiavi oltre il 1º dicembre 1774, di non importare più nulla dall'Inghilterra ed Irlanda oltre quella data e di non esportare nulla per esse e per le Indie Occidentali oltre il 10 settembre dell'anno seguente, se i suoi reclami non fossero stati esauditi, lord North, spinto suo malgrado alle misure estreme dalla volontà personale di Giorgio III, rispondeva, nonostante i lamenti e le suppliche dei commercianti e dei creditori inglesi, col vietare alle colonie già sollevate il commercio colla madrepatria e la pesca nei mari nordici, col cercar di dividere le colonie favorendo gl'interessi delle meridionali, con lo spedire sovratutto navi ed armati contro gli insorti, contro cui il Gage cercava invano di scatenare la guerra dei Canadesi, la furia degli Indiani, l'insurrezione degli schiavi negri. Gli avvenimenti avevano ormai posto chiaro il dilemma che l'Inghilterra o sarebbe riuscita ad assoggettare colle armi le colonie o ne avrebbe dovuto riconoscere l'indipendenza completa. Mentre infatti i primi rinforzi inglesi navigavano alla volta dell'America, in questa avvenivano già i primi scontri. Sullo scorcio di aprile del 1775, nei dintorni di Boston, a Lexington ed a Concord, il popolo americano iniziava gloriosamente la guerra d'indipendenza: compagnie improvvisate di «_minute men_» o milizia civica che doveva tenersi pronta da un momento all'altro a combattere, frotte di agricoltori usciti in maniche di camicia dalle loro case al suono delle campane, che li chiamava a difendere la libertà, armati di fucili da caccia, senza ordine nè disciplina, obbligavano a ritirarsi in Boston le truppe regolari, bene agguerrite e meglio addestrate, che il Gage aveva spedito per imprigionare i capi-popolo Adams ed Hancock! Poco appresso a Bunker-Hill, in una giornata caldissima, il 17 giugno dello stesso anno, pure nelle vicinanze di Boston, circa 3000 di questi soldati improvvisati, senza uniforme, senza pratica di guerra, senza vettovaglie, senz'acqua, senza quasi munizioni, dietro trincee di terra costrutte nella notte e non ancor terminate, attendevano impavidi fino a 10 metri di distanza 4000 veterani protetti da batterie, li decimavano sotto il loro fuoco micidiale, vedevano gli ufficiali inglesi spingere a colpi di sciabola i loro uomini riluttanti contro le trincee, ed erano costretti finalmente a ritirarsi per mancanza di munizioni soltanto! «La milizia ha sostenuto il fuoco?» chiedeva Washington all'annunzio del combattimento; ed alla risposta positiva esclamava: «le libertà del paese sono allora sicure». Il secondo congresso generale, apertosi in Filadelfia il 10 maggio 1775 e presieduto da quel Giovanni Hancock, ricco mercante bostonese che il Gage aveva dichiarato ribelle, non poteva nascondersi le necessità del momento; e per quanto respingesse l'idea d'una separazione definitiva dalla metropoli, per quanto protestasse la sua fedeltà verso l'Inghilterra, si diportò realmente come un potere sovrano, riconosciuto tale da tutte le colonie insorte. Nello stesso maggio infatti prendeva la deliberazione che le «Colonie unite» erano costrette a cagione delle ostilità dell'Inghilterra a porsi senz'indugio in stato di difesa; nel giugno incaricava alcuni dei suoi membri d'organizzare per la durata d'un anno un «esercito continentale», di cui nominava ad unanimità Giorgio Washington comandante in capo e pel cui mantenimento emetteva due milioni di dollari in banconote, garantite dalle «Colonie unite», istituendo ad un tempo una forma rudimentale di potere esecutivo in una tesoreria ed un dipartimento per gli affari indiani; nel colmo dell'estate, essendo l'esercito inglese chiuso in Boston, mandava contro il Canadà una spedizione agli ordini dei generali Schuyler e Montgomery; nel settembre spediva alle colonie perchè l'approvassero una specie di costituzione, ispirata dal Franklin, intesa a regolare provvisoriamente le «13 colonie unite dell'America nordica» finchè l'Inghilterra non avesse revocato le ultime ordinanze, risarcito Boston dei danni sofferti pel blocco e richiamato dall'America tutte le sue truppe; nello stesso mese costituiva una giunta secreta sotto la presidenza del Franklin, coll'incarico di annodare trattative diplomatiche dapertutto in Europa ed in ispecie in Irlanda, dopo che erano già stati inviati agenti secreti a Parigi, a Madrid, all'Aja, a Berlino, a Copenhagen, a Pietroburgo per interessare le potenze continentali alla sorte degli Americani; nel gennaio 1776 faceva chiudere tutte le dogane dichiarando liberi d'ogni dazio tutti i porti americani per le navi europee, libertà di traffico concessa perfino alle navi inglesi con la garanzia per di più d'un carico completo di ritorno qualora esse portassero armi e munizioni, mossa questa abilissima giacchè non solo chiamava l'interesse commerciale dell'Europa in difesa della causa americana ma sfruttava l'avidità degli stessi mercanti inglesi a danno dell'Inghilterra. Questa d'altra parte, sanata ormai dell'illusione di potere con gli spauracchi e qualche migliaio di soldati frenare gli Americani, s'apprestava ad una guerra regolare: nella mancanza d'uomini in patria ingaggiava dei mercenari tedeschi, pagandoli un tanto a testa agli spiantati principotti di Brunswick, di Waldeck, d'Anhalt, dell'Assia in ispecie, allestiva un esercito campale di 55.000 uomini, di cui 25.752 destinati all'America, mentre l'ammiragliato chiedeva per l'anno 1776 un complesso di 28.000 marinai su 76 vascelli da guerra. A tanto apparato di forze il congresso continentale non poteva opporre nel 1775 che un esercito per modo di dire composto di 14.000 uomini male armati, senza disciplina militare, senza ingegneri, senza artiglieria, ed un'armata di 7 navi, 7 fregate e 38 legni minori, forze marittime però integrate dagli incrociatori delle singole colonie e più ancora dalle navi corsare da queste patentate, le quali fecero durante tutta la guerra una vera distruzione di navigli commerciali inglesi. Fu singolare fortuna per gli Americani, che il Congresso avesse scelto come comandante in capo Giorgio Washington; giacchè solo la resistenza fisica e la tenacia incrollabile acquistata nella vita precedente, l'esperienza militare conseguita nelle guerre contro i Francesi e gli Indiani, il sano giudizio, il coraggio sublime, l'ammirabile padronanza di sè sopratutto e la devozione incondizionata alla patria ed alla libertà di quest'uomo allora sui quarantatre anni, il quale nella maestosa figura congiungeva la dignità all'affabilità, avrebbero potuto superare i mille ostacoli, che attendevano il duce d'una guerra condotta con le mani legate, senza uomini bene spesso e senza denaro, con poche munizioni, con rari ufficiali provetti ed anche questi non immuni da gelosie personali o provinciali. Ai primi di luglio del 1775 il Washington veniva a porsi alla testa dei 14.000 uomini, che tenevano bloccato in Boston l'esercito inglese; ma per mancanza di polvere era costretto a rimanere inattivo sino alla primavera seguente: solo allora, divenuta ormai insostenibile la piazza sotto i colpi delle batterie innalzate dal Washington sulle alture di Dorchester, il generale inglese Guglielmo Howe, successo al Gage nel comando supremo, il 17 marzo 1776 sgombrava Boston coi suoi 7000 uomini e con circa 1500 cittadini favorevoli al re, i così detti _lealisti_, imbarcandosi su 150 navi alla volta di Halifax nella Nuova Scozia. Anche nel sud le cose andavano bene per gli Americani, giacchè una flotta inglese, che invano aveva attaccato vari punti della costa, battuta a Charleston, S. C. dalle artiglierie di Fort Moultrie, abbandonava al cadere del giugno 1776 quelle acque per veleggiare alla volta di New York, cui miravano ormai le forze inglesi di terra e di mare. Falliva invece completamente la spedizione, che il Congresso nell'estate del 1775 aveva mandato contro il Canadà sotto gli ordini dello Schuyler e del Montgomery, nella speranza di sollevare con tutta facilità contro l'Inghilterra e di occupare quel paese da poco strappato ai Francesi; chè la campagna, cominciata felicemente colla presa del forte di S. Giovanni seguita da quella della stessa Montreal nel novembre, finiva male sotto Quebec, cui gli Americani cercavano invano l'ultima notte dell'anno di dare la scalata nonostante la neve ed il ghiaccio che coprivano il suolo, rendendo pressochè impossibile l'avanzarsi: lo stesso Montgomery cadeva da prode nell'assalto disastroso; e l'esercito americano, dopo esser rimasto qualche altro mese sotto Quebec, di fronte ai rinforzi inglesi doveva abbandonare anche le piazze occupate del Canadà, che rimaneva per sempre nelle mani dell'Inghilterra. Iniziatasi così la guerra, le proteste di fedeltà alla madrepatria non sarebbero state oramai che finzioni, e l'idea d'una separazione completa da essa andava guadagnando ogni giorno più le colonie, conquistate dalla propaganda in proposito di Tommaso Paine, il quale nel suo pamphlet dal titolo «_Senso Comune_» ricorreva all'autorità della Bibbia non meno che ai dettati della ragione: «quando presi la prima volta il comando dell'esercito, diceva lo stesso Washington in quei giorni, aborrivo dall'indipendenza, ma ora sono pienamente convinto che null'altro può salvarci». Il governo inglese infatti qua abbattuto là esautorato aveva fatto luogo dove a governi locali dove all'anarchia; cosicchè urgeva prendere una decisione collettiva, che arrestasse la seconda e legalizzasse i primi. Il 7 giugno 1776 Riccardo Enrico Lee di Virginia, obbedendo alla volontà del suo stato, propose al Congresso la risoluzione «che le Colonie Unite sono e di diritto devono essere Stati liberi e indipendenti». La mozione caldeggiata da John Adams suscitava un fiero dibattito, dal quale appariva come New York, New Jersey, Pennsylvania, Maryland e Sud Carolina non fossero ancora decise a tale passo estremo. Sospesasi pel momento ogni decisione in proposito, finchè non si fossero vinte le resistenze delle colonie ancora titubanti o addirittura contrarie, come New York, si incaricava intanto di compilare una eventuale dichiarazione d'indipendenza una giunta composta di Beniamino Franklin per la Pennsylvania, di Roberto L. Livingston per Nuova York, Ruggero Sherman per il Connecticut, Giovanni Adams per il Massachusetts e Tommaso Jefferson per la Virginia: in realtà veniva essa stesa da quest'ultimo, giovane e valente avvocato allora sui trentatre anni, assai versato negli studi filosofici storici letterari e già noto per la sua abilità nel comporre note politiche del genere. Il Franklin e l'Adams la modificavano leggermente e la difendevano poi con tutte le loro forze dalle critiche e dagli attacchi spesso violenti in seno al Congresso, il quale la adottava il 2 luglio 1776 senz'altro notevole cambiamento che la soppressione d'una clausola relativa alla schiavitù, troppo ostica per la Sud Carolina e la Georgia. Il 4 luglio 1776, il giorno stesso in cui ventidue anni prima s'era approvato dalle colonie il «progetto di Albany», la Dichiarazione veniva firmata dal Presidente del Congresso. «Noi siamo costretti a rompere ogni vincolo politico coll'Inghilterra, dicevano in sostanza le colonie per mezzo dei loro rappresentanti in tale Dichiarazione, ma riteniamo necessario dichiarare al mondo quali ragioni ci spingono a far ciò». Quindi, esposti pochi principî incontrovertibili, che garantivano diritti positivi ed erano troppo radicati nella coscienza del popolo per aver bisogno di spiegazione, ne traevano la conseguenza che il dominio inglese, avendoli tutti violati, doveva essere abolito per sempre. Alla lunga enumerazione dei delitti politici del re Giorgio III contro le colonie, fatta anche nell'intento di metter sott'occhio al paese tutti i mali della servitù, seguiva infine la dichiarazione formale che le Colonie Unite d'allora in poi avrebbero costituito degli stati liberi ed indipendenti. Era una pagina di logica serrata e tagliente come la lama d'un pugnale, densa di fatti più che di parole, essenzialmente nazionale anzichè universale: vero specchio del passato, da cui si poteva dedurre l'avvenire, essa dimostrava come fossero nate e si fossero svolte le colonie, quali diritti avessero portato dalla madrepatria e come la violazione di essi imponesse loro di separarsi dall'Inghilterra. Nulla di mistico, di generale in questa Dichiarazione, in cui il carattere politico della razza lungi dallo smentirsi riceveva nuova e più solenne conferma[15]. Si direbbe che l'autore di essa avesse presa a modello la Dichiarazione presentata nel 1688 a Guglielmo III dalla nazione inglese, se non ci fosse stato tramandato che il Jefferson la compose tutta di sua testa senza consultare alcun libro, se il linguaggio del documento famoso non fosse proprio di dichiarazioni consimili fatte in quegli anni da città e contee americane. Già nel gennaio 1773 infatti la città di Sheffield, Mass., primo esempio forse di ciò, proclamava le lagnanze e i diritti delle colonie, tra cui il diritto di _self-government_; e nello stesso anno e nella medesima colonia Mendon votava delle risoluzioni contenenti tre proposizioni fondamentali della grande Dichiarazione stessa, che cioè tutti gli uomini hanno un eguale diritto alla vita ed alla libertà, che questo diritto è inalienabile, che il governo deve trarre sua origine dal libero consenso del popolo. Sul popolo infatti ricadde la sovranità dopo che la Dichiarazione d'indipendenza, adottata successivamente dalle singole colonie meno New-York che s'astenne dal votare, le ebbe affrancate di diritto oltrecchè di fatto dalla sovranità inglese. I nuovi governi derivarono dapertutto la loro autorità solamente e direttamente dal popolo, e questa autorità per di più non fu delegata per sempre al governo ma affidata ad esso come ad agente temporaneo del popolo sovrano, che rimase la sorgente esclusiva del potere politico. Questo del resto era apparso chiaro già dalla nomina dei delegati al Congresso, fatta dai corpi locali assai più che dai governi coloniali. Mentre infatti il New Hampshire e le altre colonie dell'Est avevano proceduto come delle confederazioni di _towns_, erano state le _contee_ nel New Jersey, nel Maryland, e nella Virginia ad elegger separatamente dei comitati per la nomina dei deputati: nel New York, accanto ai delegati proposti dalla città di New York e ratificati generalmente dalle campagne, la contea di Suffolk aveva nominato un rappresentante distinto, la contea d'Orange un po' più tardi eleggeva il suo deputato, che si presentava al Congresso e produceva il certificato della sua elezione da parte della contea: la Georgia, molto tepida al principio della guerra, non si era fatta rappresentare al Congresso fino al 15 luglio 1775, ma ciò non aveva impedito alla parrocchia di Saint John d'inviare un delegato, che era stato ammesso al Congresso. Così ora, mentre il Connecticut ed il Rhode Island per volontà del popolo continuarono ad usare le loro carte regie, il primo sino al 1818 il secondo sino al 1842, gli altri Stati si diedero generalmente nelle singole assemblee popolari delle nuove costituzioni, le quali per quanto imperfette e difettose li salvarono dall'anarchia sovrastante e permisero loro di superare la burrasca della rivoluzione. La nuova nazione, affermatasi in faccia al mondo nella Dichiarazione d'indipendenza, non tardava ad adottare un simbolo comune, che la rappresentasse: alle varie bandiere usate in sul principio dagli insorti, tra cui notevole quella che il Washington aveva derivato dalla bandiera inglese aggiungendo alla croce bianca e rossa di questa tredici striscie alternate bianche e rosse, il Congresso ne sostituiva una sola esclusivamente nazionale, deliberando il 17 giugno 1777 che «la bandiera dei tredici Stati Uniti fosse di tredici striscie alternate bianche e rosse, e che l'unione fosse rappresentata da tredici stelle bianche in campo turchino»: le tredici striscie rimasero poi sempre a ricordo delle antiche colonie, che lottarono per l'indipendenza, ma le tredici stelle andarono ogni giorno aumentando coll'entrare di sempre nuovi Stati nella bene auspicata Unione. Duri cimenti attendevano però gli Americani prima che l'indipendenza da essi dichiarata fosse riconosciuta da chi voleva con le armi ridurli in ischiavitù: la loro bandiera doveva sventolare su campi di battaglia cruentissimi, in accampamenti dove la fame il freddo le malattie decimavano uomini ed ufficiali, doveva affondarsi in seno all'oceano sugli alberi di navi sventrate ed incendiate, assistere a carneficine d'inermi perpetrate da Indiani e da bianchi più fedeli al re che alla patria ed all'umanità, prima che sicuro all'ombra di essa un popolo nuovo potesse svolgere nella pace feconda le mille sue attività, strappare alla terra ed al mare le inesauste ricchezze. Caduta Boston in potere degli Americani, gl'Inglesi avevano concepito di impadronirsi degli Stati di mezzo per dividere le forze degli insorti; ed il Washington, prevedendo un tal piano, aveva spostato il suo esercito verso New York, che pel suo porto eccellente era presa specialmente di mira dal nemico. Riunitosi davanti a New York col fratello ammiraglio e portato l'esercito coi nuovi rinforzi a 30.000 uomini, nell'agosto 1776 il generale Howe attaccava gli Americani radunati in Long-Island e dopo un combattimento di circa sei ore li obbligava a ritirarsi colla perdita d'un migliaio di uomini. Il Washington, non volendo per la vana speranza di conservare New York perdere l'intero esercito, si ritirava, abbandonando la città al nemico, ed incalzato invano da questo riusciva a valicare il Delaware; mentre il suo esercito, scorato e sensibilmente ridotto dalle perdite subite, pressochè si scioglieva e gli Inglesi, fatto prigioniero il generale Carlo Lee, che risultò poi traditore, occupato il Rhode Island il New York ed il New Jersey, minacciavano la stessa capitale Philadelphia, donde il Congresso, nel timore perfino d'una rivolta in favore dell'Inghilterra, trasportava nell'interno la sua sede. A rialzare l'abbattuto coraggio dei suoi il Washington la notte di Natale del 1776 ripassava sul ghiaccio il Delaware e verso l'alba dopo una marcia notturna tra la pioggia ed il fango assaliva di sorpresa un migliaio di Assiani alloggiati in Trenton, facendoli prigionieri: pochi giorni dopo vinceva pure per sorpresa a Princeton, riconquistando il New Jersey. L'effetto morale di tali vantaggi fu sorprendente: gli Americani, aiutati nel frattempo da illustri stranieri venuti a difendere la causa della libertà, come il marchese di Lafayette, il De Kalb, i polacchi Pulaski e Kosciusko, i baroni prussiani Wodtke e Steuben, fatte nuove leve, organizzata alla meglio la difesa del Delaware, cercarono di opporsi agl'inglesi, che forti d'un 50.000 uomini si avanzavano su Philadelphia. Sulle rive però del fiume Brandywine, un affluente del Delaware, l'11 settembre del 1777 il Washington veniva completamente battuto; e qualche settimana dopo, mentre la città quacchera accoglieva giubilante le truppe di lord Cornwallis, i magri avanzi dell'esercito americano si ritiravano dietro lo Schuylkill nelle selve a sopportare nella vallata di Forge insieme coi loro capitani, primo fra tutti per sublime abnegazione l'eroe intemerato, gli orrori della fame del freddo e delle malattie, in quartieri che Lafayette diceva a ragione «assai meno ridenti d'un carcere», fra le nevi su cui i loro piedi scalzi lasciavano impronte di sangue. L'andamento della guerra nel settentrione cambiava però totalmente le cose per gl'insorti. Quivi al generale inglese Burgoyne, il quale, direttosi dal Canadà alla volta di Albany per unirsi colle truppe inglesi rimaste col Clinton in New York ed impedire così il congiungimento fra gli Stati nordici, aveva riportato ottimi successi, aprendosi la via all'Hudson, si facevano incontro i generali Arnold Lincoln e Gates, i quali concentrate le loro forze battevano completamente l'esercito canadese sull'alto Hudson e lo bloccavano a Saratoga. Il Burgoyne, non vedendo speranze di aiuto dal Clinton, che si era indugiato a devastare il paese, e non rimanendogli che soli tre giorni di viveri per le truppe, convocava un consiglio di guerra, in cui si decideva di capitolare quando fossero concessi patti onorevoli: il 17 ottobre 1777 questo corpo d'esercito, forte ancora d'un 6000 uomini, si arrendeva alle condizioni di lasciare il campo cogli onori militari ed, abbassate quindi le armi, imbarcarsi a Boston per l'Europa col patto di non servir più in questa guerra. La capitolazione di Saratoga, mentre rialzava gli spiriti degli Americani, sbigottiva l'Inghilterra e riempiva di giubilo le potenze ad essa nemiche, spingendole ad un passo decisivo in favore degli Stati Uniti. Così, mentre a Parigi Beniamino Franklin, che di nuovo s'era recato in Europa, non stentava molto nei primi mesi del 1778 a trascinare in una lega cogli Stati Uniti quella Francia, che anelava al momento di abbattere la potenza inglese nel Nord-America, a Londra lord North presentava e faceva approvare dal Parlamento progetti intesi a riconciliarsi le colonie ribelli, mandando per di più in America cinque plenipotenziarii per gli opportuni accordi e pel ristabilimento dell'autorità regia. Ormai però era troppo tardi: l'alleanza colla Francia era un fatto compiuto, ed i commissari inglesi dovettero ritornarsene a Londra senza che si fosse loro nemmeno permesso di aprire le trattative. L'adesione della Spagna e dell'Olanda alla lega franco-americana obbligava poco dopo l'Inghilterra a difendere in tutti i mari del mondo il suo commercio ed i suoi possessi; mentre un nuovo colpo alla sua potenza e prepotenza marittima veniva assestato nel 1780 da quella lega della neutralità armata fra Russia Danimarca e Svezia, la quale, garantendo la massima libertà al traffico dei neutri, toglieva il predominio illimitato esercitato fino allora dall'Inghilterra sulle flotte di questi. Con tutto ciò la condizione degli insorti non era ancora delle più invidiabili. La flotta francese inviata sotto il conte d'Estaing in aiuto degli Americani nel 1778, se aveva ristorato l'esercito scalzo seminudo affamato di Walley-Forge e spinto sir Enrico Clinton, successo al generale Howe nel comando supremo, a sgombrare Filadelfia per ritornare sopra New York, s'era però ritirata ben presto senza poter snidare da alcun punto gli Inglesi, i quali non solo avevano conservato New York, ma avevano portato la guerra anche nelle colonie del Sud, scatenandovi una lotta feroce di distruzione reciproca fra _lealisti_, quivi numerosi, e partigiani dell'indipendenza; mentre il Washington, privo di forze, non aveva potuto, ed anche questo a mala pena, che mantenere la sua posizione difensiva nelle alte terre di New York e di New Jersey. Potevano bene le deliberazioni del Congresso fissare a circa 40.000 uomini il contingente militare, chè lo stesso generale supremo per la negligenza nel reclutamento da parte dei singoli Stati non poteva disporne di più di 10.000; poteva bene il barone di Steuben introdurre opportune riforme militari nell'esercito americano sul modello di quello prussiano, chè il reclutamento regionale e l'arruolamento di cortissima durata, rinnovando di continuo i contingenti di truppa, rendevano impossibile ogni offensiva vittoriosa contro gli eserciti regolari del nemico. L'impotenza dell'esercito americano, che secondo una lettera del Washington nel maggio 1781 non possedeva carne neppure per un giorno, non era che la conseguenza di quella del Congresso, cui l'assoluta autonomia dei singoli Stati, frutto della storia secolare delle colonie, non dava i mezzi di garantire la salvezza comune: lo stato delle finanze era ormai disperato; le confische dei beni appartenenti ai realisti andavano ad esclusivo vantaggio dei singoli Stati; la carta monetata, discesa ad un duecentesimo del suo valore nominale, veniva ormai sconfessata; il commercio esterno era distrutto, mentre quello interno diventava ogni giorno più miserevole per la scarsezza estrema di denaro, che mancava pei bisogni ordinari della vita; la flotta federale non annoverava più che due fregate, riducendosi la marina da guerra alle pure navi corsare. La situazione degli Stati Uniti non s'era mai trovata così triste. Nel Sud gli Inglesi, i quali fin dal 1778 tenevano la Georgia senza che il generale americano Lincoln sorretto dalla flotta francese avesse potuto scacciarneli, presa Charleston, avevano occupato nella primavera del 1780 anche la Carolina meridionale; poi, battuto completamente nell'estate presso Camden il Gates venuto in soccorso della Carolina settentrionale, erano rimasti padroni anche di questa nonostante i nuovi tentativi falliti di riprenderla da parte del Greene successo al Gates; ed intanto il generale Arnold, tradita vilmente per bassi interessi personali la causa americana, scorrazzava per la Virginia alla testa di milizie inglesi e lealiste, mettendo a sacco il paese e distruggendo i depositi di tabacco, che costituivano l'ultima risorsa del Congresso ormai privo affatto di denari. I nuovi rinforzi militari e più ancora pecuniari, che il marchese di Lafayette recatosi appositamente in Europa aveva potuto ottenere per gli Americani dalla corte francese, salvarono la situazione: il corpo di soccorso francese mandato in America agli ordini del Rochambeau risollevava il coraggio e le speranze degli insorti, infondendo nuova energia nel Congresso per un tentativo estremo; mentre il nuovo prestito francese di 6 milioni di lire dava modo al ministro americano delle finanze, il bravo Roberto Morris, di equipaggiare e ristorare l'esercito glorioso ma miserabile del Washington, mettendolo in grado di riprendere l'offensiva. Riunitosi coi Francesi, che avevano tolto al nemico Rhode Island, il generale supremo s'apprestava infatti nell'estate del 1781 ad eseguire un piano di lunga mano meditato ma tenuto secretissimo, quello cioè di concentrare in New York le forze inglesi coll'apparente minaccia di attaccarla e di distruggere nel frattempo il corpo di lord Cornwallis, che gravava come incubo sugli Stati del Sud, per quanto a rigore non fosse padrone se non del suolo dove successivamente piantava le tende. Il piano riusciva a meraviglia: il Clinton richiamava su New York quante più truppe poteva, sfornendone lo stesso corpo del Cornwallis, il quale molestato dal Greene e dal Lafayette ed abbandonato dalla flotta inglese, tornata ai primi di settembre a New York dopo uno scontro infelice con quella francese, si trincerava coi suoi 7000 uomini in Yorktown, nella penisola posta tra i fiumi James e York. L'esercito collegato forte d'un 12.000 soldati regolari Benza contare un 4000 uomini di milizie vi arrivava con la flotta nel mese di settembre ed al cadere di esso investiva la piazza con oltre 100 pezzi di artiglieria grossa, che in pochi giorni smantellavano le fortificazioni del Cornwallis, togliendogli ogni speranza di resistenza. Tentava egli allora di evadere audacemente coi suoi la notte del 18 ottobre, attraversando il fiume York; ma una fiera tempesta disperdeva le barche, obbligandolo due giorni dopo ad arrendersi a discrezione: solo i lealisti americani più compromessi potevano sottrarsi alle mani del vincitore, riparando su un vascello, che il Cornwallis otteneva di spedire a New York senza che fosse visitato dal nemico. Colla capitolazione di Yorktown terminava, può dirsi, la guerra d'indipendenza. L'Inghilterra invero teneva ancora sul teatro di essa ben 42.000 uomini oltre alla flotta e poteva contare per di più su un 30.000 realisti armati; ma gli avvenimenti degli ultimi sei anni le avevano dimostrato la difficoltà enorme per non dire l'impossibilità di soggiogare quel vasto paese, di cui nonostante i 112.000 soldati ed i 22.000 marinai impiegati contro l'America ed i 115 milioni di sterline spese nella lotta contro gl'insorti ed in quella marittima contro Francia Spagna ed Olanda, non aveva saputo conservare che Savannah, Charleston e New York; mentre il trionfo dei nuovi principî di diritto internazionale incarnati nella neutralità armata, cui aderiva nel 1781 anche la Prussia, minacciava con un ulteriore protrarsi della lotta di annientare il suo primato marittimo, già scosso dall'interruzione del commercio durante la guerra. Nè meno disposti dell'Inghilterra alla pace erano i nemici di essa in Europa. La guerra marittima infatti, se era sembrato per un momento dovesse terminare col trionfo dei Franco-Ispani, i quali avevano conquistato l'isola di Minorca da tre quarti di secolo in possesso dell'Inghilterra e tenevano bloccato nella rocca di Gibilterra fin dal 1779 il bravo generale Elliot, togliendogli quasi ogni speranza, volgeva ormai favorevole agli Inglesi in tutti i mari del mondo. L'ammiraglio Rodney sconfiggeva e distruggeva al capo S. Vincenzo la flotta spagnuola; attaccava vittoriosamente alle Antille, fra le isole di Dominica e Saintes, la flotta francese, che meditava di congiungersi con quella alleata per occupare la Giamaica, e ne faceva prigioniero lo stesso ammiraglio de Grasse; mentre l'Elliot, arse le batterie galleggianti, nuova invenzione dell'ingegnere francese d'Arçon, vedeva respinte definitivamente da Gibilterra le navi nemiche al sopraggiungere nel settembre 1782 dell'ammiraglio Howe. Così la Spagna, che poco prima non voleva sentir parlare di pace se non a condizione della resa di Gibilterra, e la Francia, che aveva proposto all'Inghilterra l'abbandono di tutte le conquiste indiane salvo il Bengala, venivano a più miti consigli, delusa la prima nelle mal concepite speranze, esausta finanziariamente la seconda; ed a trattative pure scendeva l'Olanda attaccata anch'essa nelle sue colonie e rovinata nel suo commercio. Il trattato provvisorio pertanto, cui avevano condotto già nel novembre 1782 i negoziati susseguiti alla resa di Yorktown e pel quale gli Angloamericani ottenevano il riconoscimento completo della loro indipendenza e sovranità da parte della madrepatria, trovava presto piena conferma nella pace generale. La pace di Parigi del 3 settembre 1783 registrava ufficialmente la nascita di quella nuova nazione, cui 70.000 martiri della libertà avevano dato col sangue il battesimo; ed un contemporaneo, il Watson, poteva scrivere senza dover essere smentito dal futuro, che l'esito fortunato della rivoluzione americana avrebbe, secondo ogni verisimiglianza, esercitato «un'efficacia reale sulla storia dell'intera specie umana». Nel 1776, allorchè le colonie ribelli avevano proclamato la loro indipendenza, gli Stati Uniti si limitavano alla riva dell'Atlantico, non oltrepassando all'ovest la catena degli Appalachiani che per toccare le rive dei due grandi laghi Erie ed Ontario e le foreste rivierasche dell'Ohio, in tutto un milione circa di kmq. Questa superficie veniva invece più che raddoppiata nella pace del 1783, stipulandosi in essa che la linea mediana del Mississippi avrebbe limitato il territorio degli Stati Uniti lungo tutto il confine occidentale sino al 31º grado di latitudine, col quale cominciava la Louisiana. Al sud il territorio veniva limitato dalla Florida appartenente agli Spagnuoli; al nord il confine veniva fissato al corso della riviera Saint Croix e rimaneva invece mal definito più oltre, correndo a mezzogiorno dei Grandi Laghi sino al Mississippi lungo un territorio non bene esplorato[16]. Su questa grandiosa base territoriale, destinata inoltre ad essere più che quadruplicata dalle compere, annessioni e conquiste successive, una nuova democrazia plebea, assisasi accanto dei più superbi imperi, elevava un nuovo edificio, rappresentante il trionfo dell'eguaglianza naturale sui privilegi, della sovranità popolare sulle autorità irresponsabili, della libertà più assoluta di pensiero di parola di stampa d'industria di commercio sul connubio liberticida fra chiesa e stato, sulle limitazioni e restrizioni di tutte le umane attività. Esempio ed incoraggiamento migliore di questa prima e fortunata insurrezione contro il passato non poteva il nuovo mondo, in compenso del patrimonio ereditato, dare all'antico per l'opera generale di rinnovamento, cui tendevano le nuove forze sociali dell'epoca. NOTE AL CAPITOLO SETTIMO. [15] Vedi tale _Dichiarazione_ in appendice al volume. [16] Sulla Rivoluzione americana cfr. _Frank Moore_: Diary of the American Revolution from newspapers and original documents (New York 1860): sulla parte avuta in essa dal Washington vedi _Vie, correspondance et écrits de Washington, avec une introduction de_ M. Guizot. Paris, 1839. 4 vol. in-4. CAPITOLO VIII L'organizzazione politica della nuova società. § 1. Impotenza della Confederazione — § 2. La convenzione di Filadelfia ed i suoi dibattiti politici, economici e sociali — § 3. La costituzione federale e l'amministrazione locale. § 1. IMPOTENZA DELLA CONFEDERAZIONE. — «Le leggi erano lettera morta; gli Stati, tutti insieme e singolarmente considerati, erano falliti. Ogni Stato andava contro gli altri, talchè il frutto della nostra lotta settennale per l'indipendenza allora non sembrava meritevole della fatica, che era costato il raccozzar le colonie. Eravamo disuniti dal Maine alla Georgia; parevano perduti gli elementi del governo autonomo e precipitavamo velocemente in una anarchia e confusione generale»: tale lo stato della società politica anglo-americana all'indomani della nascita secondo la pittura non esagerata d'un contemporaneo, il Breck, nei suoi «Ricordi». La guerra era costata circa 150 milioni di dollari e per essa il debito era salito nel 1783 a ben 42 milioni, di cui 8 contratti in Francia ed Olanda, il resto in seno al paese: gli Stati contribuivano in così piccola misura che non si potevano pagare nemmeno gli interessi. Un sordo malcontento diffuso nell'esercito, cui erano dovuti in paghe arretrate ben 5 milioni di dollari, scoppiava in aperta rivolta: nella primavera del 1783 un minaccioso _ultimatum_ al Congresso sotto il nome di «_Indirizzo e memoriale degli officiali_» veniva redatto nel quartier generale di Newburgh e nel giugno un pugno di truppe della Pennsylvania si presentava a baionette in canna al Congresso, intimando all'assemblea di appagare le loro richieste nel termine di venti minuti. Se l'esercito si sciolse alla fine quietamente con la paga di soli tre mesi e fatta per di più in certificati deprezzati per nove decimi, ciò si dovette quasi unicamente all'influenza del Washington. L'Inghilterra si lagnava dell'insufficiente esecuzione dei patti della pace e minacciava rappresaglie, danneggiando intanto in tutti i modi il traffico americano, cui venivano chiuse quelle Indie Occidentali inglesi, il commercio con le quali era stato sempre la fonte principale della ricchezza delle colonie, aizzando gl'indiani contro i coloni, e differendo lo sgombro delle piazze occidentali a tempo indeterminato senza che il Congresso potesse far altro che protestare. L'entusiasmo dei primi giorni era andato scemando cogli anni ed il particolarismo radicato negli animi aveva ripreso il sopravvento sull'effimero patriottismo nazionale. I governi dei singoli Stati nella loro meschina gelosia, lungi dall'aiutar il Congresso ad attivare i provvedimenti più necessari, lo inceppavano in tutti i modi possibili. Dove poi si facevano sentire più rovinosi gli effetti gli questa impotenza del Congresso, era nel campo commerciale. La mancanza in esso d'uniformità danneggiava non solo il paese nel suo complesso, giacchè il Congresso non poteva negoziare trattati validi di commercio coll'estero, finchè ogni Stato poteva a suo beneplacito imporre dazi e stabilire tariffe, ma anche gli Stati presi paratamente, potendo uno di essi far pagare ad un altro i diritti doganali, ch'esso esigeva: se la Pennsylvania ed il New York ad esempio avessero imposto dei dazi su manufatti stranieri, questi sarebbero stati pagati in realtà dalle popolazioni del New Jersey e del Connecticut una volta che fossero stati quivi importati; così per la stessa ragione la N. Carolina diventava una tributaria coatta della S. Carolina e della Virginia, come alcune parti del Connecticut e del Massachusetts tributarie del Rhode Island. Era un nuovo fomite di discordia che veniva ad aggiungersi a quello strascico di odii e di vendette rimasto nei paesi, del mezzogiorno in ispecie, dove pel grande numero di sudditi schieratisi coi regi la lotta per l'indipendenza aveva assunto il carattere d'una vera lotta civile. Più misere ancora delle condizioni politiche e morali erano poi quelle economiche, spaventosamente depresse. Il paese era inondato di carta nazionale e di Stato pressochè senza valore, la moneta metallica era rarissima, gli affari stagnanti, il numero dei debitori insolventi ogni giorno maggiore, piene di essi le prigioni. Qua e là s'alzavano voci minacciose a chiedere leggi, che annullassero i debiti pubblici e privati ed attuassero una nuova distribuzione della proprietà: nel Massachusetts si metteva alla testa dei malcontenti, quivi più che altrove numerosi per l'esaurimento generale dello Stato, un ex-capitano dell'esercito continentale, Daniel Shays, sotto il quale turbe di facinorosi impedivano colla violenza il funzionamento delle corti di giustizia e tentavano perfino di impadronirsi del potere finchè non venivano vinte e disperse con le armi dal governo. Di tante calamità pubbliche e private approfittava nei singoli stati un branco di avventurieri senza coscienza, che una volta riusciti a dominare nelle legislature ne diventavano i tiranni, obbligandole nel proprio interesse a deliberazioni rovinose per la generalità del popolo. Di questa deplorevole situazione però la colpa più che negli individui stava nelle cose stesse: la società anglo-americana passata bruscamente dal vecchio regime, che nel campo economico regolava con norme ben fisse commercio e produzione ed in quello politico contrapponeva alle singole colonie una autorità distinta e ad esse superiore, al nuovo, che lasciava i singoli Stati arbitri della loro vita economica e politica, esaurita dalla lunga lotta sostenuta ed afflitta dal suo immancabile strascico di rovine materiali e morali, di disastri finanziari e di impulsi criminosi e violenti, non trovava in una coscienza nazionale, ancora di là da venire, la forza di coesione necessaria alla sua vita interna ed esterna. La sua compagine s'era sfasciata, come colpita da paralisi: caduti gli argini, che ne avevano regolato il corso nel periodo coloniale, quel limpido fiume s'era disperso in mille rigagnoli limacciosi, incapaci nella loro povertà di muovere la grande ruota della vita. «L'estero vede e tocca con mano, scriveva a tale proposito il Washington in quei giorni, che l'Unione o i singoli Stati sono sovrani, come appunto meglio conviene ai fini loro; in una parola che oggi siamo una e domani tredici nazioni. Chi vorrà, in tale stato di cose, trattare con noi?» La vecchia Confederazione, succeduta al dominio inglese, aveva fatto bancarotta: era necessario sostituirla con qualche cosa di più saldo, se non si voleva che la nuova società smunta, discorde, impotente ritornasse sotto il giogo straniero o trovasse nel dispotismo cesareo la tomba della sua neonata libertà. Che rappresentava infatti la vecchia Confederazione, fondata sugli articoli formulati dal Dickinson di Pennsylvania e adottati dal Congresso continentale nel novembre 1777, se non la dissoluzione ufficiale della compagine politica del paese? La Confederazione legava insieme gli Stati in una «salda lega d'amicizia» per la difesa ed il benessere comune, e questa «unione» doveva esser perpetua: ogni Stato riteneva la sua «sovranità» e «indipendenza» come pure ogni potere non «espressamente delegato» al governo centrale; gli abitanti d'ogni Stato avevano diritto a tutti i privilegi di cittadini nei diversi Stati; i prigionieri fuggitivi da uno Stato ad un altro dovevano esser restituiti; il Congresso era composto di delegati scelti annualmente, venendo ogni Stato rappresentato da non meno di due e non più di sette delegati ma avendo un sol voto: tassazione e regolamentazione del commercio erano riservati ai governi di Stato; mentre il Congresso solo poteva dichiarare guerra o pace, far trattati, batter moneta, stabilire uffici postali, trattare cogl'indiani fuori dei limiti degli Stati, dirigere le forze di terra e di mare e nominarne i capi-supremi, erigere corti pei processi di fellonia o di pirateria in alto mare e nominare giudici per dirimere le contese fra gli Stati, fare infine il preventivo delle spese nazionali ed esigere da ogni Stato la sua quota parte: per emendare tali articoli era richiesto il voto di tutti i 13 Stati; per misure meno importanti, come quelle attinenti alla pace od alla guerra, alla moneta, ai prestiti, ecc., era necessario il voto di 9 Stati; per altre ancora bastava la maggioranza: un comitato, composto di un delegato per ogni Stato, sedeva durante la chiusura delle legislature per esercitare il suo controllo sugli affari nazionali. A prescindere da altri minori, tre in ispecie erano i difetti essenziali di tale Confederazione: il Congresso non poteva dar forza alla sua volontà, non poteva raccogliere un'entrata, non poteva regolare il commercio; esso non poteva toccare gli individui ma doveva agire col mezzo dei governi di Stato, senza avere alcun potere di coercizione su di essi. Ora se tale Confederazione, agitando davanti alla mente dei coloni un'immagine sbiadita di governo nazionale ed abbattendo le barriere fra Stato e Stato mediante i suoi provvedimenti per l'estradizione dei criminali e la sua cittadinanza interstatuale, aveva in realtà spianato la via ad un'unione più perfetta, di questa appariva ed era in sè la negazione completa. Nè di ciò si sarebbe lagnata quella società, nonostante l'anarchia e la debolezza generale che ne derivavano, tanto era forte il sentimento d'indipendenza assoluta dei singoli Stati e debole per non dire inesistente quello nazionale; se il danno economico più tangibile d'ogni altro non avesse disposto gli animi a mutamenti radicali. L'idea di riforma che incontrava maggior favore, la sola anzi che avesse sin dalle prime qualche probabilità di realizzarsi, era quella di dare al Congresso il potere addizionale di regolare il commercio. Eppure anche questa proposta così moderata aveva tanti nemici, in ispecie nel Sud il quale si temeva sacrificato dal Nord, qualora trionfasse, che solo dopo esser stata posta sul tappeto da uno Stato meridionale, la Virginia, nell'ottobre del 1785, cominciò a dissipare le diffidenze ed infrangere le ostilità accumulantisi da ogni parte su essa: ne era stato paladino in seno alla legislatura di quello stato James Madison, il quale incominciava così quell'opera indefessa a favore d'un più forte governo centrale, che doveva meritargli il titolo di «_padre della costituzione_». La proposta però veniva così mutilata dalla legislatura, che lo stesso Madison ed i suoi amici votavano contro. In quell'anno stesso nondimeno una commissione di rappresentanti della Virginia e del Maryland, tra i quali il Madison, radunatasi per una delimitazione di confini sul Potomac e sulla baia di Chesapeake, trascendendo le istruzioni ricevute, aveva raccomandato ai due Stati un'unione monetaria e commerciale, ed il suo rapporto era stato approvato dalla legislatura del Maryland, la quale vi aveva aggiunto la proposta che il Delaware e la Pennsylvania fossero pur essi invitati a partecipare a tale sistema ed a mandare commissari. Venuto il rapporto della commissione insieme coll'operato del Maryland davanti alla legislatura della Virginia, il Madison prendeva la sua gloriosa rivincita, presentando una mozione che invitava tutti gli Stati a mandare loro commissari a quel fine e la mozione passava a grande maggioranza. Frutto di essa era la convenzione di Annapolis del 1786, alla quale aderivano nove Stati per quanto cinque soli, New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware e Virginia, mandassero loro rappresentanti: essa dopo matura deliberazione, avvisando cosa inconsulta procedere all'opera in numero così limitato, si scioglieva, facendo voti per un'ulteriore convocazione dei commissari di tutti gli Stati in una convenzione generale che «doveva radunarsi in Filadelfia il secondo lunedì del futuro mese di maggio per esaminare la situazione degli Stati Uniti ed escogitare quei provvedimenti che sembrassero ad essi (commissari) indispensabili per far corrispondere la costituzione del governo federale ai bisogni dell'Unione». Ne nasceva così quella convenzione federale di Filadelfia del 1787, dalla quale doveva dipendere il consolidamento o la rovina dell'Unione. La coscienza di ciò era così viva, che lo stesso Washington, l'eroe intemerato della guerra d'indipendenza, il quale deponendo la spada aveva abdicato alla vita pubblica dopo essersi fatto rimborsare dal Congresso le sole spese sostenute, rimaneva esitante se doveva o no accettare per tale convenzione quel mandato, di cui gli uni lo scongiuravano gli altri lo dissuadevano. § 2. LA CONVENZIONE DI FILADELFIA ED I SUOI DIBATTITI POLITICI, ECONOMICI E SOCIALI. Dal maggio al settembre del 1787 Philadelphia, il cuore del paese, vide riunito il fior fiore di quella società. Erano stati eletti alla convenzione 65 delegati ma non vi parteciparono in realtà che 55: v'erano rappresentati tutti gli Stati, meno il Rhode Island, e vi si trovavano, se ne eccettui John Adams e Jefferson ambedue all'estero in quell'epoca, Samuele Adams non favorevole alla convenzione, John Jay e Patrick Henry, tutte le personalità più eminenti della politica della guerra della cultura, primi fra tutti Giorgio Washington di Virginia, presidente dell'assemblea, e Beniamino Franklin di Pennsylvania allora di 81 anni, il membro più vecchio di essa, Roberto Morris pure di Pennsylvania, il finanziere della rivoluzione, Alessandro Hamilton di New York, Giacomo Madison di Virginia, Giovanni Dickinson del Delaware, Carlo Pinckney della Carolina Meridionale, Rufus King del Massachusetts: dei suoi membri 8 avevano firmato la grande Dichiarazione, 6 gli articoli della Confederazione, 7 l'appello di Annapolis del 1786; una mezza dozzina erano stati generali della Rivoluzione, 5 erano stati od erano ancora governatori dei loro rispettivi Stati, 40 su 55 avevano appartenuto al Congresso. La saggezza politica di quest'assemblea fu la salute dell'Unione: senza di essa sarebbe stato vano sperare che rappresentanti di collettività gelose ciascuna della propria indipendenza, diverse ed antagonistiche per forme economiche e sociali, avessero trovato una formula politica, nella quale conciliare pel bene comune gli opposti e cozzanti interessi. L'idea soltanto di introdurre un nuovo ordinamento statale su basi nazionali riusciva così ostica, che la discussione in proposito, fatta prima d'ogni altra nel seno di questa costituente, finiva dopo una lotta brevissima coll'uscita di due su tre delegati del New York, il Lasing ed il Jates, i quali, interpreti in ciò non della loro regione soltanto, dichiaravano che «il loro Stato non avrebbe mai inviato delegati, se gli elettori avessero presentito che si sarebbero orditi disegni simili». Il compromesso, fondato su concessioni reciproche, diventava in tale stato di cose l'unica soluzione possibile e ad esso si ricorse con maggiore o minore abnegazione in tutte le questioni più vitali, dopo burrasche che minacciarono di far naufragare l'intero progetto: compromesso fra coloro che volevano un forte potere centrale, i così detti _federalisti_, e coloro che volevano mantenuta integralmente la sovranità dei singoli Stati, gli _antifederalisti_; compromesso fra partigiani del libero scambio, interpreti degli interessi di alcuni Stati, e partigiani del protezionismo, interpreti degli interessi di altri; compromesso infine e sopratutto fra difensori ed oppositori della schiavitù. Fu questo appunto il soggetto delle maggiori discussioni, giacchè per la molteplicità degli interessi politici materiali e morali, in essa coinvolti, la questione della schiavitù dei negri si presentava fin dall'alba dell'Unione come la più urgente delle questioni nazionali. Durante il periodo coloniale la schiavitù dei negri era stata introdotta legalmente in tutte le colonie; ma le diversità di condizioni climatiche e territoriali, di prodotti e colture agricole, di indirizzo economico, di origine infine e di carattere fra esse avevano fatto sì che lo sviluppo di tale istituto insieme con quello della popolazione negra fosse stato affatto diverso nelle varie parti del paese: così all'epoca della Rivoluzione, mentre la schiavitù negra per ragioni più materiali che morali era pressochè agonizzante nel Nord, dove il New Hampshire ad esempio aveva 330 liberi per ogni schiavo, essa si manteneva ancora fiorente nel centro, e formava poi addirittura la base sociale del Sud, dove nella Virginia ad esempio il rapporto fra liberi e schiavi arrivava quasi al 100 per 100. Fino allora però la questione della schiavitù era stata una questione semplicemente locale: se ne eccettui quell'opposizione generale alla tratta, che mirando a danneggiare il commercio inglese era una forma di opposizione politica tutt'altro che indifferente contro la madrepatria, ogni colonia s'era diportata verso la schiavitù nel modo più conforme ai suoi interessi materiali ed alle sue aspirazioni ideali. Ma quando l'ostilità contro l'Inghilterra divenne aperta ribellione, la schiavitù negra e la tratta, dalla prima ancora indissolubile, si presentavano agli Americani sotto un nuovo aspetto ancor meno desiderabile. La schiavitù viveva legalmente in tutte le colonie: quale doveva essere dunque il loro atteggiamento di fronte alla popolazione negra, mentre imperversava la lotta contro l'Inglese oppressore? Giacchè bisogna pensare che su una popolazione bianca poco superiore ai 2 milioni v'erano in quell'epoca più di 500.000 schiavi, i quali in certi luoghi, come s'è detto, costituivano quasi la metà degli abitanti; se l'Inghilterra dunque fosse riuscita ad eccitare una rivolta generale dei negri, schiavi o no, contro i bianchi, la causa della libertà avrebbe per le colonie inevitabilmente naufragato; mentre gli insorti Americani avrebbero trovato nei negri un vantaggio non indifferente, se avessero potuto averli dalla loro od almeno neutrali. La preoccupazione dei coloni a questo riguardo si rispecchia fedelmente nella corrente antischiavista, che attraversa le colonie poco prima della Rivoluzione, come ne fa fede una lettera del Franklin in data 10 aprile 1773, dove è detto che molti in Pennsylvania emancipavano i propri schiavi. Ma è specialmente nel Sud, dove gli schiavi sono in numero così considerevole e sono stati trattati così aspramente fino allora che le apprensioni si traducono per semplice opportunismo in politica filantropia. Le istruzioni, che la Virginia dava ai suoi delegati al Congresso continentale nell'agosto 1774, sono informate al concetto, molto opportuno in quei giorni, dell'uguaglianza naturale di tutti gli uomini, ed acerbo rimprovero è mosso in esse alla corona inglese d'aver sempre impedito alle colonie di protegger i «diritti dell'umana natura», imponendo loro la schiavitù dei negri. Frutto pratico di questo agitarsi a favore, apparentemente, dei negri fu la deliberazione, conosciuta col nome di «_Non importation Covenant_», emessa dal Congresso continentale di Philadelphia il 26 ottobre 1774, per la quale si proibiva l'importazione e la compera degli schiavi venuti dal di fuori dopo il 1º dicembre di quell'anno: tutti i delegati delle 12 colonie intervenute firmarono e tutte poi le colonie, la Georgia non rappresentata al Congresso compresa, ratificavano nelle loro assemblee quest'accorta misura politica, intesa nel tempo stesso a danneggiare il commercio inglese e ad accaparrare ai coloni le simpatie della popolazione negra, libera e schiava. E i negri infatti, che avevano dato nel mulatto Crispus Attucks, massacrato dai soldati inglesi nell'eccidio di Boston (5 marzo 1770), uno dei primi martiri dell'indipendenza americana, risposero anch'essi nel Nord al grido di guerra, che scuoteva il paese, e molti negri liberi corsero ad arruolarsi sotto le insegne della libertà. E dal principio alla fine della guerra, dalla battaglia di Bunker Hill, in cui un negro, Peter Salem, aprì il fuoco contro il maggiore inglese Pitcairn, da lui ucciso, sino alla resa di lord Cornwallis, i negri si mostrarono non solo utili sussidiari negli accampamenti e nelle fortificazioni, ma anche ottimi soldati sul campo di battaglia: nella giornata di Rhode Island (1778) il reggimento negro del colonnello Greene si copriva di gloria, respingendo un attacco decisivo degli Assiani, e tre anni dopo a Point's Bridge si faceva decimare, quantunque invano, per difendere il suo comandante sorpreso dal nemico. Il soldato negro occupò così per vari anni la posizione affatto anormale di schiavo e di cittadino nel suo attributo più alto, senza che l'arrolamento nell'esercito americano avesse nella pratica, come alcuni ritennero, l'effetto dell'emancipazione: soldato nell'ora del pericolo divenne di nuovo proprietà al chiudersi della guerra: molti negri furono ritornati ai rispettivi proprietari, a pochi soltanto fu concessa la libertà in premio del loro valore. Se però il Congresso continentale non aboliva la schiavitù, nè la rivoluzione dei bianchi contro la tirannide si sposava all'emancipazione dei negri, certo è che la lotta per la libertà del paese influì moralmente a detrimento della schiavitù; come la guerra cooperò materialmente, nelle colonie del Nord e del centro in ispecie, a indebolirla in modo considerevole, giacchè durante quel periodo quasi impossibile divenne l'importazione dei negri da parte del mare ed attenuato di molto si trovò l'impiego economico degli schiavi, senza contare poi tutti gli schiavi catturati dalle truppe inglesi. Non fa quindi meraviglia che già nel 1780 la Pennsylvania, la terra dei Quackeri, avendo solo il 3 o 4% della sua popolazione costituito dall'elemento negro, passi nonostante l'opposizione d'una minoranza schiavista una legge intesa ad abolire gradualmente la schiavitù. Mentre però qui l'emancipazione impiegherà ad effettuarsi ben mezzo secolo, rapida è la scomparsa della schiavitù nel Nord, quantunque manchi spesso alcuna legge speciale di abolizione. Così ad esempio nel Massachusetts il primo articolo della nuova Costituzione del 1780, il quale proclamava la libertà e l'uguaglianza per tutti gli uomini, abbracciò teoricamente anche i negri, senza che ne risultasse per questo nella pratica una immediata abolizione della schiavitù. Solo nel 1783 un tribunale superiore in un suo verdetto invocava l'articolo 1º della costituzione di Stato a favore della libertà dei negri nel Massachusetts: nel 1790 infatti non si troverà più uno schiavo in tutto lo stato, senza che i proprietari abbiano ricevuto alcun indennizzo per l'avvenuta emancipazione. Analogo fu il processo di emancipazione nel New Hampshire, dove un principio generale proclamato nella nuova costituzione di Stato del 1783 segnò la fine della schiavitù, perchè in base ad esso fu stabilita la massima che ad incominciare da quell'anno nessuno più nascesse schiavo nel New Hampshire e fosse vietata una ulteriore importazione di schiavi. Il 1784 segnava pure l'abolizione della schiavitù mediante leggi speciali negli stati di Rhode Island e Connecticut. Così negli anni 1780-84 gli stati della Nuova Inghilterra e la Pennsylvania, nei quali debolissimo è il rapporto numerico della popolazione schiava alla libera, procedono in modo spontaneo all'abolizione della schiavitù negra: gli stati invece di New York e New Jersey, in cui molto più elevato è questo rapporto, raggiungendo l'1 per 12 o 14, tarderanno altri 20 anni prima di conceder l'emancipazione, aspetteranno che l'affluenza degli immigranti bianchi faccia più densa la popolazione, che le industrie sorgenti rendano sempre meno rimuneratrice la schiavitù. New York nel 1799, quando in essa vi saranno 29 liberi per ogni schiavo, e New Jersey nel 1804, quando ve ne saranno 18 per 1, copieranno nelle sue linee principali la legge sulla emancipazione adottata in Pennsylvania. Mentre in 7 dei 13 Stati originari la schiavitù correva rapidamente alla fine, altri e ben più vasti territori stavano per aggregarsi all'Unione, territori in alcuni dei quali la schiavitù s'era già introdotta coll'apparirvi dei primi coloni, in altri non aveva potuto piantarsi per lo condizioni fisiche del paese e quelle morali dei colonizzatori. Dopo l'adozione degli articoli della Confederazione, il Congresso continentale dovette decidere dei reclami fatti sul vasto territorio, situato all'ovest dell'Ohio. La guerra ed il conseguente pagamento del debito pubblico avevano prostrato pel momento le energie economiche dei 13 Stati: a rifarsi dei danni patiti Massachusetts, Connecticut, New York, Virginia, Nord Carolina, e Georgia reclamavano tratti illimitati di terre oltre i loro confini; mentre New Hampshire, Rhode Island, New Jersey, Maryland, Delaware, e Sud Carolina, rinunziando per sè all'aggiunta di nuove terre, proponevano che anche gli altri Stati lasciassero i territori in questione al governo degli Stati Uniti, il quale se ne sarebbe servito per liquidare l'intero debito. La proposta fu in massima accettata, ed una commissione parlamentare, presieduta dal Jefferson, presentò nel 1784 una Ordinanza pel governo del territorio ad occidente dei 13 Stati originari fino al 31º di latitudine. Una clausola di tale Ordinanza, la quale nel suo complesso veniva dal Congresso adottata il 13 aprile 1784, stabiliva l'abolizione della schiavitù nei nuovi territori a datare dal 1800, clausola che passava nonostante la viva opposizione dei rappresentanti delle Caroline. L'ultimo Congresso continentale, tenuto a New York nel 1787, riaprì però la questione sul governo del territorio d'occidente. La commissione all'uopo nominata, presieduta da Nathan Dane del Massachusetts, presentò una Ordinanza pel territorio a Nord Ovest dell'Ohio, abbracciante gli odierni stati dell'Ohio, Indiana, Illinois, Michigan e Wisconsin, la quale incorporava in sè molte disposizioni del bill Jefferson, provvedendo per esso ad un governatore, un consiglio e dei giudici da nominarsi dal Congresso e ad una camera di rappresentanti da eleggersi dal popolo. La sua eccellenza consisteva in una serie di patti fra gli Stati ed il territorio, che garantivano libertà religiosa, facevano concessioni di terre ed altri provvedimenti liberali per scuole e collegi, e, cosa principalissima fra tutte, proibivano per sempre la schiavitù in tale territorio e negli Stati, che da esso sarebbero risultati. Il passaggio dell'Ordinanza in tale forma fu probabilmente dovuta in larga misura all'influenza della Compagnia dell'Ohio, nuova società colonizzatrice di questo nome fondatasi in Boston l'anno innanzi, composta del fior fiore dell'esercito rivoluzionario e provvista di mezzi, di energia, di intelligenza. Quando il suo agente apparve al Congresso per trattare la compera di 5 milioni di acri di terra nella vallata dell'Ohio, era alla vigilia di passare un bill pel governo di quel territorio, non contenente nè la clausola antischiavista nè gli immortali principi di quei patti. La compagnia composta in gran parte di gente del Massachusetts, desiderava ardentemente che la sua futura dimora fosse su libero suolo e la sua influenza prevalse nel Congresso bramoso di vendere a buone condizioni quelle terre. A controbilanciare quasi l'effetto della clausola antischiavista, ne veniva aggiunta una per la consegna degli schiavi fuggitivi; ed in questa forma l'intera Ordinanza passava il 13 luglio 1787 e, confermata dal Congresso due anni dopo, acquistava forza di legge. Benchè più fortunata di quella del 1784, essa però riusciva solo ad escludere la schiavitù dal territorio di Nord-Ovest, paese di sua natura poco favorevole all'attecchire di essa. Il territorio al sud dell'Ohio rimase invece, nonostante gli sforzi in contrario del settentrione, retaggio di futuri Stati a schiavi. Per quanto generali anzichè locali queste però non erano che prime schermaglie pro e contro la schiavitù: la grande battaglia doveva impegnarsi in seno alla convenzione di Filadelfia. Quale sarebbe stata la sua attitudine di fronte ad essa? Che avrebbe deciso in proposito il nuovo patto statutario della sorgente nazione? Basato sul concetto dell'assoluta eguaglianza di diritti per ognuno alla vita, alla libertà, alla proprietà, esso avrebbe dovuto portare di logica conseguenza la abolizione della schiavitù; ma la logica in questo caso avrebbe impedito l'Unione, e quindi la schiavitù fu lasciata tra gli affari di competenza dei singoli Stati, accettandosi per essa quel concetto della sovranità di Stato, che il Sud in tale occasione aveva tutto l'interesse di sostenere a spada tratta. La nuova Costituzione, che non nomina mai la parola «schiavo», ammise di fatto la schiavitù negli Stati Uniti, pur senza darle una esplicita sanzione, come risulta troppo chiaramente dal contenuto degli articoli 1º (sezione 2ª e 9ª) e 4º (sezione 2ª), dove la parola «_persons_» del testo si riferisce agli schiavi negri. Sul tema della schiavitù avvennero poi dei compromessi fra le colonie, dove essa era in sull'estremo declinare, e quelle, dove era in completo fiorire. Il primo di questi compromessi riguardò la rappresentanza dei singoli Stati al Congresso, punto controverso dal quale balzava fuori per la prima volta nella storia americana tutta l'importanza politica della questione della schiavitù. Quanto al Senato si convenne che tutti gli Stati, grandi e piccoli, vi avrebbero avuto lo stesso numero di rappresentanti, fatto questo della più alta importanza, giacchè in esso la vittoria o meno della schiavitù sarebbe dipesa non già dal numero e dalla potenza economica ed intellettuale della popolazione favorevole o contraria a tale istituto, ma semplicemente dal numero degli stati schiavisti od antischiavisti. Quanto alla Camera dei Rappresentanti si convenne che la rappresentanza vi sarebbe stata proporzionale alla popolazione: ma quale popolazione, la libera soltanto o la complessiva? I delegati nel Nord stavano per quella libera esclusivamente; i delegati del Sud, com'era naturale, per quella complessiva, gli schiavi quindi compresi. Il problema fu posto dal Wilson di Pennsylvania sotto una forma assai logica: «se gli schiavi sono ammessi come cittadini, perchè non godono della uguaglianza cogli altri cittadini? se sono ammessi come proprietà, perchè non è ammessa nel computo dei voti anche la proprietà d'altro genere?» Ma anche questa volta pur troppo la logica dovette cedere di fronte alla tenacia del Sud, le cui pretese furono in gran parte, se non del tutto, esaudite: venne stabilito infatti di calcolare i 3/5 degli schiavi nella tassazione, e di fare della tassazione la base della rappresentanza; fu questa la famosa «regola dei tre quinti» tanto utile al Sud, per la quale ogni 5 schiavi contavano nel governo generale come 3 liberi, accrescendo così immensamente la potenza della classe schiavista nel governo dell'Unione. Il secondo compromesso fu quello relativo all'importazione degli schiavi da una parte, alla tassazione ed agli atti di navigazione dall'altra. I delegati delle Caroline e della Georgia chiedevano, con minaccia di negare in caso diverso il proprio assenso alla costituzione, che al Congresso non fosse lasciato il potere di proibire l'importazione degli schiavi prima del 1808, mentre a ciò erano contrari non solo alcuni delegati del Nord ma quelli anche dello stesso Maryland e Virginia, paesi ormai ben provvisti di schiavi e divenuti anzi fornitori dell'estremo Sud in questo ramo di commercio. Più compatto invece si mostrò il Sud, paese essenzialmente agricolo, nel chiedere dei limiti ristretti alle tasse d'esportazione e nel negare al Congresso il potere d'emanare atti di navigazione, intesi a favorire la marina mercantile americana a danno della forestiera, sopprimendo così quella concorrenza internazionale che garantiva ai piantatori del Sud una esportazione a più buon mercato dei loro prodotti: i delegati degli Stati dell'Est, dove la navigazione era tanta parte della vita economica del paese, volevano pel contrario lasciata piena libertà al Congresso di legiferare su essa. Per metter tutti d'accordo il Morris, governatore della Pennsylvania, propose che si votassero insieme la clausola sull'importazione degli schiavi e quelle relative alla tassazione, dicendo che questo complesso di misure avrebbe potuto costituire un «patto» fra gli Stati del Nord e quelli del Sud: nonostante l'opposizione del Maryland e della Virginia, il patto venne sancito; ai mercanti del Nord fu concesso il potere nel Congresso di emanar leggi di navigazione, col solo limite dei due terzi dei voti, ai piantatori di riso delle Caroline e della Georgia fu assicurata la continuazione legale della tratta africana per un altro ventennio. Questo secondo compromesso, benchè involgesse pel Nord a differenza del primo un sacrificio non solo politico ma anche morale, aveva però il vantaggio sull'altro d'essere temporaneo anzichè permanente. Le discussioni ardentissime, che condussero la Convenzione a questo compromesso, ci rivelano già al 1787 alcuni dei risultati economici e morali della schiavitù, ci mostrano il dualismo ormai vivo fra Nord e Sud, ci fanno toccare con mano la varietà d'interessi economici e conseguenti vedute politico-morali, che vengono al cozzo fra loro. È una grande lotta economica, la quale sta per ingaggiarsi fra le varie parti della sorgente nazione: agricoltori-proprietari del Nord, armatori dell'Est, commercianti banchieri e industriali della Nuova Inghilterra New York e Pennsylvania, allevatori di schiavi del Maryland e della Virginia, piantatori del Sud, tutti hanno interessi fra loro del tutto od in parte antagonistici, donde una lotta che è ancora allo stato embrionale ma andrà ingigantendo nel volger di pochi decenni: nell'equilibrio di tutti questi interessi starà la forza della schiavitù, nella preponderanza d'alcuni sugli altri la sua rovina irreparabile. Il fatto capitale, che balzava fuori evidentissimo da questa grave lotta, era la vittoria del Sud: s'era veduto chiaro che la costituzione degli Stati Uniti od avrebbe accontentato i delegati del Sud, delle Caroline e della Georgia in ispecie sostenitrici accanite della schiavitù, o non avrebbe raccolto sotto di sè tutte le antiche colonie. Il mezzodì del resto più compatto del Nord e del Centro per la sua stessa costituzione sociale, inteso tutto al trionfo d'un solo interesse economico, quello dell'agricoltura esercitata da schiavi, anzichè diviso da mire diverse e bene spesso discordi come le altre parti del paese, era rimasto trionfante in quasi tutti i compromessi segnati dalla costituente. La costituzione stessa anzi fu in ultima analisi formulata da uomini del mezzogiorno, derivando essa per la massima parte da quell'abbozzo, opera del Madison, presentato dalla Virginia alla Convenzione, con aggiunte d'un altro progetto presentato da Carlo Pinkney in nome della South Carolina. Dopo circa tre mesi e mezzo di fieri dibattiti; dopo che l'opera intera era stata parecchie volte sul punto di naufragare, dopo titubanze ed esami di coscienza senza numero, dopo rinvii a commissioni, il progetto finale di costituzione veniva accolto e firmato dai delegati il 17 settembre 1787. Con questo però la costituzione era ben lungi dall'essere diventata legge fondamentale del paese: le occorreva la ratifica di nove Stati almeno per entrare in vigore negli Stati, che l'avevano approvata, e tale ratifica non doveva esser data dalle legislature dei singoli Stati ma da apposite convenzioni. Il dibattito, che in seno alla Convenzione nazionale aveva potuto risolversi solo a forza di compromessi, si riaccendeva perciò in condizioni ben meno favorevoli in seno a singole convenzioni, su cui più diretta si faceva sentire l'influenza perturbatrice delle discussioni accanite, delle dispute violente, delle polemiche a sangue da cui era agitato l'intero paese. Il federalismo abbracciato per ragioni utilitarie più che sgorgante da una qualsiasi coscienza nazionale, ed il regionalismo, radicato nei cuori e fatto nell'estrema difesa più ispido ed intrattabile che mai, si contendevano il campo furiosamente. Mentre i «_Federalisti_» rappresentavano coi più vivaci colori lo stato lacrimevole delle cose, l'impotenza all'estero, la miseria e l'anarchia all'interno, deducendone la necessità della nuova forma di governo non certo ideale ma pur sempre superiore agli articoli della Confederazione; i particolaristi detti «_Repubblicani_», sostenitori ora in buona fede ora per fini egoistici dei diritti particolari, dell'assoluta sovranità degli Stati, aizzavano le popolazioni contro il nuovo progetto federale in nome della pretesa «libertà», agitando davanti ai loro occhi lo spettro d'un potere centrale tirannico, soffocatore d'ogni libertà individuale e d'ogni autonomia locale, nuova e peggiorata edizione del dispotismo inglese. Rhode Island si rifiutò addirittura in sul principio di convocare una convenzione ed ultimo aspettò di ratificarla il 20 maggio 1790, quando ormai il nono Stato necessario a darle vigore era entrato da quasi due anni nell'Unione. Nel Massachusetts e nella Virginia, prototipi e campioni del Nord l'uno del Sud l'altra, la costituzione fu accolta piuttosto tardi e con una meschina maggioranza soltanto: 187 voti contro 168 nel primo, 89 contro 79 nella seconda. Nella Carolina del Nord l'assemblea si separò senz'aver nulla concluso e solo al cadere del 1789 quello Stato entrava, dodicesimo, nell'Unione. Il New York, a differenza degli altri Stati centrali, Delaware Pennsylvania e New Jersey, che davano primi la loro ratifica ancora sullo scorcio del 1787, consci della loro importanza derivante dalla posizione geografica, di questa appunto faceva tesoro per lesinare e subordinare a determinate condizioni il proprio voto, tanto più necessario di quello di altri Stati centrali inquantochè la mancanza di esso avrebbe diviso l'Unione in due metà sconnesse. Si dovette solo alla ferrea energia, all'entusiasmo ardente ed all'acutissimo ingegno politico d'un giovane poco più che trentenne, già distintosi nella guerra d'indipendenza, Alessandro Hamilton, oriundo scozzese nato a Nevis nelle Indie Occidentali da una famiglia di mercanti e naturalizzato newyorkese, se il debole partito federalista riusciva a spuntarla contro quello particolarista in uno Stato tutto imbevuto di idee antifederaliste, dove, per dirla con le parole dello stesso Hamilton, «due terzi dell'assemblea e quattro settimi del popolo erano contro di esso». «_The Federalist_», la raccolta di saggi politici in difesa della Costituzione, opera in sostanza dell'Hamilton coadiuvato dal Madison e dal Jay, fu allora uno dei più grandi coefficienti della disputata vittoria come rimase in seguito fra i capolavori della letteratura politica americana. Il 26 luglio 1788, un mese dopo della Virginia, Nuova York con 30 voti contro 27 entrava, undecimo Stato, in quell'unione, che la ratifica di Nuova Hampshire del 21 giugno 1788 aveva sostituito come fatto compiuto all'antica Confederazione del 1777: il periodo critico della storia americana, come lo chiama a ragione il Fiske, era stato felicemente superato.[17] § 3. LA COSTITUZIONE FEDERALE E L'AMMINISTRAZIONE LOCALE. — L'infuriare vivissimo della lotta pro e contro la costituzione in seno al paese dopo i dibattiti ben noti nella convenzione di Philadelphia, la stessa incertezza della vittoria, rivelata dalla quantità di emendamenti spesso capitali presentati invano nelle convenzioni locali, e più ancora la tenuità di essa, rispecchiata nelle esigue maggioranze ottenute nei principali Stati, erano prova documentata del fatto che la costituzione americana, com'ebbe a dire giustamente Giovanni Quinzio Adams, fu «strappata ad un popolo ripugnante dall'opprimente necessità». Eppure se v'è paese al mondo, della cui costituzione il popolo vada superbo, considerandola non solo come la più adatta al caso suo ma addirittura come una costituzione ideale, come l'opera politica più perfetta che mente di statista potesse mai ideare, questo paese è proprio l'America; fatto che, pur tenendo il debito conto dello _chauvinismo_ americano, non capirebbe, data l'accoglienza primitiva di essa, chi non conoscesse il significato speciale assunto da quella costituzione nella vita politica degli Stati Uniti. Cessata col trionfo dei federalisti la lotta pro e contro la costituzione, cominciò quella pro e contro la sua interpretazione: la indeterminatezza di certe norme, l'ambiguità di dati articoli, la malleabilità sopratutto di essa, che per fortuna della società americana le impediva di cristallizzarsi, divenivano armi formidabili in mano a ciascuno dei partiti in lotta per ammantare la loro merce del drappo costituzionale, non essendo difficile per via di deduzioni logiche ricondurre a qualche articolo della costituzione i principii da esso sostenuti. Per un troppo logico processo di psicologia politica collettiva la costituzione, riconosciuta superiore a tutto ed a tutti, fatta perciò piattaforma arma e scudo dei partiti, degli Stati, delle classi, degli individui nella difesa dei loro interessi, divenne l'arca santa della nazione, il palladio più sicuro della libertà che le generazioni potessero trasmettere alle generazioni; si ebbe, come fu detto con parola felicissima, la canonizzazione della costituzione, ragione per cui la costituzionalità o meno d'un provvedimento qualsiasi ebbe ed ha davanti alla mente del popolo americano maggior peso della stessa opportunità o meno di esso. Così mentre i «padri» stessi della costituzione avevano dubbi sull'opera loro, ritenendola solo quanto in quel momento poteva farsi di meno peggio, i figli ed i nipoti s'abituarono a considerarli come semidei messaggeri della verità politica infallibile; e la costituzione degli Stati Uniti rimase così nell'opinione pubblica dell'America e per riflesso di tutto il mondo civile l'opera più perfetta che l'intelletto umano, innamorato degli ideali filosofici del secolo XVIII, avesse un giorno compiuto per la felicità d'una gente, anzichè il risultato affatto impersonale di precedenti storici secolari e di necessità impellenti del momento. Come infatti la ribellione delle colonie contro la madrepatria era stata in sulle prime difesa di libertà secolari anzichè lotta cosciente per un'indipendenza non sognata; come la dichiarazione del 1776 era stata rivendicazione di diritti positivi anzichè enunciazione di astratti diritti teorici; così la costituzione degli Stati Uniti si riattacca da una parte, come ben dimostra il Bryce, agli statuti ed agli usi coloniali preesistenti, si spiega dall'altra, come dimostra la storia imparziale, con la necessità di conciliare gli antagonismi stridenti fra i più vitali interessi, politici ed economici, di quella società in formazione. Lo stato federale non fu anzitutto se non il prodotto naturale delle forze, che avevano generato gli stati particolari. Identica ne era la genesi, identico il processo: degli uomini uguali e liberi si erano raggruppati, come vedemmo, in _townships_ od in contee; dei _townships_, delle contee, eguali e libere avevano volontariamente organizzato lo stato coloniale, _Commonwealth_, per loro sicurezza e comodità; degli stati eguali e liberi organizzano volontariamente per un interesse non meno positivo lo Stato federale, dotandolo con mano avarissima dei poteri indispensabili soltanto. Come la società coloniale era cominciata coll'individuo, con un individuo autonomo completo cosciente, realizzante quasi l'ipotesi d'un contratto sociale; così la società federale cominciava con un patto esplicito tra le singole persone morali strettesi in una unità politica. L'intero sistema politico non fu infatti che un'espansione del _selfgovernment_ locale: come prima della costituzione, così dopo lo Stato non fu che un aggregato di corpi locali. Questi invero più ancora delle stesse colonie avevano fatto la costituzione, giacchè questi avevano raccolto il potere sovrano al cadere insieme con la sovranità britannica delle carte da essa concesse alle colonie: in quel momento d'incertezza, in cui mal si sapeva in chi sarebbe ricaduto e chi avrebbe esercitato il potere politico, depositari della sovranità erano stati, come vedemmo, i corpi locali dapprima, il popolo intero delle singole colonie in appresso. Lo Stato, che usciva dalla rivoluzione americana, era così un prodotto della nazione, invece di esser questa il prodotto dello Stato, come era avvenuto in Europa. Qui però lo Stato storico, mistico, fatale, in cui si è concentrata ed incarnata una potente coscienza nazionale, sopra le teste curvate degli individui; in America invece quasi punto patria, appena una nazione, uno Stato senza passato e senza prestigio, un puro espediente del momento, l'opera volontaria e riflessiva d'uomini eguali e liberi. Invece d'uno Stato soldato, giustiziere, creatore laborioso dell'ordine, tardo artefice e dispensatore circospetto del diritto comune, lo Stato americano sarà per così dire uno Stato scioperato, dispensato per la forza od il favore di circostanze da ogni incombenza, avanzato e supplito nelle sue leggi dai costumi, preceduto nel mondo dei fatti dalla libertà e dall'eguaglianza. Non esso quindi, ma l'individuo sarà la sola personalità morale e giuridica completa; non esso farà le concessioni necessarie all'individuo, ma questo investirà mano mano lo Stato dei poteri necessari, dandogli funzioni espresse e ben delimitate. Lungi pertanto dall'esser lo Stato arbitro delle parti, da cui risulta, le singole parti saranno per comune consenso le arbitre dello Stato federale. A questo si darà infatti sino dai primi momenti solo quel minimum, che è necessario perchè possa sussistere; tanto più che alla diffidenza assoluta contro ogni potere centrale unico e forte si univa qui la mancanza di quell'interesse vitale della difesa esterna, che era stato in Europa la causa principale dell'accentramento politico incarnato per tanti secoli nella monarchia conquistatrice ed unificatrice del paese.[18] Un rapido esame della costituzione ci convince largamente di ciò. Nella costituzione americana il potere legislativo spetta ad un Congresso, composto del Senato e della Camera dei Rappresentanti. La Camera è biennale e si compone di cittadini oltre i 25 anni di età scelti dagli elettori dei singoli Stati in proporzione al numero degli abitanti, in modo da non eccedere l'uno su 30,000 abitanti, ma sì che ogni Stato ne abbia uno almeno; essa sceglie il suo presidente e sola ha il diritto di mettere in istato di accusa i propri membri. Il Senato è sessennale, ma rinnovabile per un terzo ogni due anni, e si compone di cittadini oltre i 30 anni d'età, scelti in numero di due per ogni Stato dalla legislatura dello Stato stesso; il vice presidente degli Stati Uniti ne è presidente, però senza voto, salvo il caso che i voti siano pari: esso solo può giudicare dei suoi membri e, presieduto dal giudice della Corte suprema, giudicare del presidente degli Stati Uniti. Il tempo, il luogo, la maniera di procedere alle elezioni dei senatori e dei deputati sono prescritti per ogni Stato dalle singole legislature. Il potere spetta alla maggioranza, ma la minoranza può rinviare le adunanze; ogni proposta di legge votata dal Congresso deve, prima d'entrare in vigore, esser sottoposta al Presidente degli Stati Uniti: se egli non l'approva, la rimanda alla Camera, donde è partita; se dopo averla riveduta i due terzi di questa Camera le sono favorevoli, essa viene inviata con le obbiezioni del Presidente all'altra Camera, e, nel caso che anche i due terzi di questa l'approvino, ha vigore di legge. Il potere esecutivo è attribuito ad un presidente d'oltre 35 anni, quadriennale, e ad un vicepresidente, eletti nel modo seguente: ogni Stato deve scegliere un numero di elettori uguale al numero dei rappresentanti che ha nelle due camere federali, ed essi si riuniscono per l'elezione definitiva; chi riporta il maggior numero di voti è proclamato Presidente, chi vien subito dopo Vice-presidente. Il potere giudiziario è conferito ad una Suprema Corte Federale ed a quei tribunali inferiori, che al Congresso piaccia di stabilire a seconda del bisogno: il potere giudiziario soltanto può decidere nei casi relativi alla Costituzione. È la Corte suprema, che dà al potere giudiziario una forza immensa, superiore a quella che non abbia negli altri governi rappresentativi; per essa il potere giudiziario è agli Stati Uniti il conservatore della Costituzione, il solo che abbia il potere di abrogare una legge, dichiarandola contraria alla Costituzione. La sua importanza ci appare subito immensa, se pensiamo ch'essa è arbitra inappellabile nei conflitti, che, con una Costituzione siffatta, possono nascere tra la Confederazione e gli Stati, tra i vari Stati, tra i cittadini e lo Stato, tra i cittadini e la Confederazione e così via. Nessuna meraviglia perciò se, avuto riguardo agli ottimi risultati pratici, questa è ritenuta la più utile istituzione americana, se il Bryce non dubita ch'essa abbia salvato la costituzione. «Gli Stati Uniti garantiscono ad ogni Stato dell'Unione una forma di governo repubblicana, e la difesa da qualunque invasione; ed a richiesta della Legislatura anche la tutela dai disordini interni»: queste sono le parole testuali con cui la costituzione stabilisce i rapporti che devono correre fra gli Stati ed il governo federale. Così, mentre nelle questioni di carattere generale gli Stati Uniti figurano come un solo Stato, spettando al governo federale quanto riguarda la guerra e la pace, la diplomazia, i trattati, la moneta, gli accordi commerciali ecc., nelle questioni regionali invece essi figurano come un insieme di Stati, in cui i rapporti fra cittadino e cittadino, lo sviluppo della vita economica intellettuale e morale sono governati da leggi particolari emanate dalle singole legislature di Stato. Quanto poi alle modificazioni, che potessero occorrere nella Costituzione, il testo di essa dice: «Il Congresso, ogni qualvolta i due terzi di ambedue le Camere lo credano necessario proporrà emendamenti a questa Costituzione, od a richiesta delle Legislature di due terzi dei vari Stati radunerà una Convenzione per proporre emendamenti, che in ambedue i casi saranno validi, ad ogni fine ed effetto, come parte di questa Costituzione, quando sieno ratificati dalle Legislature di tre quarti dei vari Stati, ovvero da convenzioni parimenti composte di tre quarti di essi». Netta come si vede è in questa Costituzione la distinzione dei tre poteri, legislativo esecutivo e giudiziario, ciascuno dei quali è provveduto d'un organo a parte; ma unica la sorgente da cui emanano. Il Presidente, eletto dal popolo, senza intervento del Congresso o dei legislatori, rappresenta la nazione. Dei due corpi che compongono il Congresso, uno solo, la Camera dei Rappresentanti, emana direttamente dal suffragio universale popolare; ma l'altro, il Senato, non ripete un'origine meno nazionale per quanto diversa. Esso, che riceve il suo mandato da legislature elette le quali rappresentano gli interessi generali di ciascun Stato, rappresenta delle alte parti contraenti, le antiche sovranità distinte associate per la difesa ed i progressi comuni: diversa quindi nella natura l'autorità sua è non meno grande e sentita di quella dell'altra Camera. Se avverranno quindi conflitti fra questi tre poteri, non potendo alcuno di essi per una origine speciale considerarsi l'arbitro della situazione, dovere morale di ciascuno sarà di resistere sino in fondo non già semplicemente di fare una dimostrazione di forza per intimidire, correggere, rimettere sulla via creduta migliore gli altri, come succederà negli stati costituzionali d'Europa, dove uno solo generalmente avrà la forza morale ed il prestigio che deriva dal suffragio popolare. Il dissidio quindi rimarrà quivi inconciliabile ed insanabile finchè dureranno al potere le parti contendenti. Ma non solo nell'origine, bensì anche nei rapporti reciproci fra i tre poteri, questa costituzione manteneva ad arte la stessa causa di debolezza. Mentre col governo di gabinetto adottato dall'Inghilterra e imitato poi da altri paesi d'Europa i poteri dirigenti dello Stato, il legislativo e l'esecutivo, sono fusi insieme per assicurare e fortificare l'azione politica di esso, e stabilite le norme per un pronto ritorno alla sovranità d'un'unica volontà, nel caso di conflitto fra essi, la Costituzione americana li ha tenuti irrimediabilmente separati, li ha creati tutti deboli, lasciando loro soltanto la forza di tenersi a vicenda in iscacco. I ministri infatti non fanno parte delle Camere, mentre le due Camere praticamente oltrecchè teoricamente hanno gli stessi poteri. Ne segue che l'esecutivo non ha i mezzi di procurarsi le leggi e le risorse finanziarie di cui ha bisogno per la sua missione, rimanendo a lui semplicemente un veto sospensivo per opporsi ai deliberati delle assemblee; mentre nessuna delle due branche del potere legislativo, quando siano in lotta fra loro, ha dovere o motivo di cedere. Come ciò poi non bastasse, esecutivo e legislativo sono esposti a vedersi annullare virtualmente dal potere giudiziario le leggi e gli atti di governo, che stimano più necessari. Con maggior arte non si sarebbe potuto costituire un governo centrale più debole, più innocuo per le libertà particolari dei singoli Stati. La stessa prospettiva d'un conflitto prolungato fra i vari poteri, lungi dal presentarsi come un pericolo sociale, apparirà una garanzia di queste libertà; e la Costituzione non si cura perciò di assicurare la pronta risoluzione della controversia. Nè le Camere infatti possono obbligare i ministri a dimettersi, nè il ministero può dissolvere la Camera, nè il Presidente può appellarsi alla nazione come giudice supremo: la macchina del potere s'arresta colpita dalla paralisi voluta dalle singole sue parti, finchè non sia spirato il termine elettorale garantito a ciascuna di esse.[19] La stessa noncuranza artificiale dell'unità d'azione e della forza del governo si avvertirà del resto nelle Costituzioni degli Stati particolari[20]: nella sfera degli Stati come nella sfera federale l'attività legislativa non verrà meno ristretta dell'attività amministrativa: e la tendenza nella storia successiva sarà per un'accentuazione sempre maggiore di tale impotenza del potere politico. Come nella Costituzione federale si è cercato di garantire al massimo grado l'indipendenza dei singoli Stati, così in quelle particolari si cercherà di garantire quello dell'individuo. Nella mente d'un popolo, che tutto portava ad una concezione quanto mai individualista della vita, il potere politico doveva avere fini negativi più che positivi; in esso anzichè vedere uno strumento, si temeva un ostacolo del progresso. Dalla convinzione che il progresso è opera dell'individuo, il quale non ha bisogno che di libertà per effettuarlo, nasceva logicamente la preoccupazione di premunirsi contro la legge piuttosto che di farvi appello. Anche nei singoli Stati infatti non solo il suffragio popolare sarà la fonte di tutti i poteri, legislativo esecutivo e giudiziario; ma, cosa ancor più grave, nella generalità di essi i ministri saranno eletti individualmente dal popolo, anzichè collettivamente dal governatore, diventando così dei puri e semplici capi-servizio affatto indipendenti, anzichè dei membri concordi d'uno stesso organo politico: lungi dall'aversi per tal modo un'unità vigorosa di governo, il governo stesso verrà a mancare, riducendosi ad una pura e semplice amministrazione, sprovvista d'ogni coordinamento fra i singoli suoi servizi affatto indipendenti l'uno dall'altro. Il governatore infatti, in teoria centro di coordinamento del potere come presidente ufficiale dello Stato, non avrà che rare ed innocenti attribuzioni, quali il comando della milizia locale e della polizia, la convocazione della Camera in sessione straordinaria, il diritto di grazia e così via: possederà, è vero, un diritto di veto, ma solo sospensivo, venendo anch'esso annullato da un secondo voto preso a maggioranza di 2/3 o 3/5 dei membri della legislatura. Con la sua relazione annuale davanti a questa sulla situazione dello Stato, egli sarà un vero agente d'informazioni, più che il capo d'una compatta amministrazione. Anche questa del resto mancherà del tutto, non avendo lo Stato singolo a sua disposizione neppure quel mezzo fondamentale d'azione, che è la burocrazia. Nè i suoi agenti politici e giudiziari infatti nè perfino i suoi agenti tecnici costituiranno una vera burocrazia; perchè, eletti individualmente dal popolo del distretto in cui dovranno esercitare le loro funzioni, non dipenderanno nè direttamente nè indirettamente dal potere centrale, non formeranno alcuna classe, i cui membri siano subordinati gli uni agli altri dal legame gerarchico. In sui primi tempi il governatore o la legislatura o tutti due insieme nomineranno un certo numero di funzionari di Stato, i giudici in ispecie, al centro o nei distretti, ma col procedere dei tempi nella grande maggioranza degli Stati tutti i funzionari preposti ad un servizio, non solamente locale ma generale, saranno elettivi, scelti dagli abitanti del distretto stesso in cui dovranno operare. Più che funzionari dello Stato saranno essi quindi mandatari d'una frazione dello Stato, agenti locali incaricati d'una funzione di pertinenza dello Stato: lo stesso sceriffo, il rappresentante del governatore e l'unico depositario dell'autorità centrale esecutiva nella contea, colui che deve mantenere la pace pubblica e reprimere al caso ogni rivolta contro lo Stato, sarà eletto dal suffragio universale! Dello Stato quindi non vi sarà se non il nome perfino là, dove esso mediante pseudo-rappresentanti esercita le funzioni di sua competenza; i singoli distretti non solo si amministreranno ma perfino si governeranno da sè, formando ciascuno un piccolo Stato. Non si potrà da questo lato parlare neppure di decentramento ma addirittura di disgregazione del potere centrale, di decomposizione amministrativa. Dal controllo mediato o immediato sulla ripartizione delle imposte in fuori, non vi sarà nella maggior parte degli Stati altro esempio effettivo di tutela confidata al potere esecutivo: e lo stesso estimo dei valori imponibili e la stessa percezione delle imposte sarà opera dei _townships_ anzichè dello Stato! Se in tanto indebolimento del potere centrale, i fini dell'amministrazione pubblica saranno in generale raggiunti e soddisfatti i bisogni ed assicurato il progresso dei consociati, ciò si dovrà in primo luogo al senso pratico di essi, allo stesso esercizio secolare delle libertà, al vecchio istinto anglo-sassone di rispetto profondo all'ordine legalmente dato, all'autorità legalmente costituita; in secondo luogo all'opera in proposito della legislatura, la quale, conformemente ad una pratica inglese immemorabile, supplirà essa fino ad un certo punto alla tutela amministrativa, negata al potere esecutivo, coi suoi statuti generali quanto mai minuziosi e più ancora coi suoi atti privati speciali o locali, che si moltiplicheranno all'infinito: il corpo legislativo diventerà così nei singoli Stati un corpo regolamentare, il vero superiore gerarchico dei funzionari pubblici; la tutela dell'amministrazione più ancora che la legislazione il suo compito principale. Lo Stato non sarà così rappresentato nell'Unione da un governo che disponga d'una burocrazia, ma da una legislatura organo quanto mai disadatto ad amministrare un paese. L'esser governati il meno possibile diventerà ogni giorno più l'ideale dell'Americano; e, lungi dal mostrare qualsiasi assodamento del potere esecutivo, federale o di Stato, la storia degli Stati Uniti mostrerà una diminuzione nello stesso potere legislativo, in quello di Stato specialmente, con la durata sempre più corta delle sessioni parlamentari dei singoli Stati, con la negazione alle legislature del diritto di redigere e modificare esse stesse il regolamento di procedura parlamentare, con una serie insomma ogni giorno maggiore di limitazioni, nel campo finanziario in ispecie, dove s'arriverà in certi Stati a rendere impossibile nella pratica la contrattazione d'un debito pubblico! Anche nello Stato come nell'Unione trionferà il proposito di ridurre ai minimi termini l'autorità centrale non solo, ma anche di legarla in modo da renderla una parvenza più che una sostanza. Tra governo federale poi e governo di Stato sarà teoricamente impossibile ogni attrito: la Costituzione fa una divisione netta recisa capitale fra i poteri federali e quelli di Stato, e dà a ciascuno i mezzi indipendenti per esercitarli: i rapporti fra essi hanno un carattere pressochè internazionale. Quando sorga quindi un conflitto tra governo nazionale e governo provinciale, quando uno Stato nei limiti della propria competenza prenda delle misure contrarie agli interessi generali dell'Unione, nessuna via per appianarlo è offerta dalla legge fondamentale: si uscirà in tal caso dal campo del diritto amministrativo, per entrare in quello del diritto delle genti, del diritto naturale per eccellenza, ed il conflitto si risolverà immediatamente in una questione di forza, in una guerra, che sarà quindi guerra civile. Questa organizzazione politica, che annichilisce addirittura lo Stato sia federale che regionale per garantire al massimo grado la libertà dell'individuo, era possibile agli Stati Uniti, perchè in essi nè la sicurezza nè l'amministrazione della nazione avevano bisogno d'un forte potere federale o d'un forte potere di Stato: la prima era garantita dalla posizione geografica, la seconda da quei corpi locali, che continuavano ad essere le sorgenti pure ed inesauribili della vita nazionale. Ristretta infatti ed inceppata nel governo nazionale, languente e screditata in quello di Stato, la vita pubblica continuava a manifestarsi in tutta la sua vivacità nei corpi locali, nei _townships_, nelle contee, nelle città: questi rimanevano il vero focolare di essa. I _townships_ negli Stati più settentrionali, le contee o parrocchie nei più meridionali eserciteranno un gran numero di servizi, che sul continente europeo hanno carattere generale, addirittura nazionale, come l'assistenza pubblica, la giustizia criminale e civile inferiore, la polizia, l'istruzione elementare, la viabilità, le carceri, le imposte, ecc.: essi saranno come delle piccole repubbliche indipendenti, il vero seggio di quasi ogni attività amministrativa, d'una attività estesissima, svariata e pressochè autonoma, in vivo contrasto coll'inerzia ed il languore dell'Unione e dello Stato. Torpida al cuore, la vita pulserà impetuosamente eppur semplicemente alla periferia; e gli antichi corpi locali, in cui tutta s'assommava la vita pubblica nell'età coloniale, rispettati dalla Costituzione, sopravviveranno con la stessa forza della gioventù alle condizioni politiche e sociali che li avevano determinati. Nel nord i cittadini del _townships_ si riuniranno insieme una o più volte all'anno nel palazzo di città, in una chiesa, all'aria aperta; e questa assemblea generale nominerà i suoi _selectmen_, sorta di municipalità collettiva, la commissione scolastica, i capi dei servizi comunali; procederà all'esame di tutti gli affari portati all'ordine del giorno; eserciterà i poteri legislativi della sua sfera d'azione, senza che alcun'altra autorità ne esamini ed approvi o rigetti le deliberazioni; fisserà il suo bilancio; udirà le relazioni dei magistrati eletti e ne rivedrà i conti. Nel Sud, dove il latifondo e la dispersione degli abitanti hanno reso impossibile il costituirsi del _township_, il posto di questo sarà occupato da una circoscrizione più vasta, la _contea_: in essa non vi sarà, è vero, data la poca densità della popolazione, alcuna assemblea generale; ma l'autonomia, di cui godrà nel campo dei servizi locali, sarà eguale a quella del _township_. Negli Stati centrali infine dove coesisteranno il _township_ e la contea, la seconda eserciterà sul primo una specie di tutela rudimentale, che non andrà più in là della revisione dei conti, del controllo sull'estimo dei valori imponibili e sulle scuole. Negata invece nel Nord, come nel Centro, come nel Sud sarà l'autonomia alle grandi corporazioni urbane, alle _città_, le quali, creazione dello Stato, dipenderanno dalla legislatura di questo, che se ne riserverà in gran parte l'amministrazione. La costituzione delle città sarà modellata in generale sul governo federale: una specie di sindaco, corrispondente al presidente, due assemblee, corrispondenti al Congresso, con le loro commissioni, un corpo di funzionari nominati dalle assemblee od eletti dal popolo: anche in essa lo stesso sminuzzamento del potere notato nelle Costituzioni federale e di Stato. Le attribuzioni del resto, spettanti a questi corpi municipali, saranno poche e di poca importanza, cioè quelle soltanto menzionate espressamente nella carta particolare o nelle leggi generali d'incorporazione, in virtù delle quali prenderanno origine le municipalità stesse: nel concedere tali carte e statuti la legislatura dello Stato avrà cura di riservare per sè le attribuzioni più importanti, affidando ai corpi municipali soltanto quelle indispensabili, sistema al quale si dovranno appunto gli abusi scandalosi, l'immane corruzione amministrativa di molte città americane nel sec. XIX. Tale l'organizzazione politica ed amministrativa, che si dava la nuova nazione, istituzioni non dettate ad essa da alcun principio teorico ma tolte senz'altro da una pratica secolare, ispirate dai caratteri e dai bisogni della sua società. Popolazione poco densa e fluttuante in un territorio immenso, sicurezza da ogni pericolo esterno, bisogno di libertà assoluta d'azione per produrre la ricchezza più che di ordine sociale per difenderla e conservarla, attitudine spiccata e capacità provetta al _selfgovernment_, coscienza nazionale appena incipiente e coscienza regionale sviluppatissima, tutto portava alla negazione, può dirsi, dello Stato, sia federale che particolare, alla piena indipendenza di questo da quello, al rigoglio della vita municipale in tutte le sue forme. La prosperità non si aspettava dallo Stato, ma dall'energia dell'individuo; allo Stato non si chiedeva che la garanzia della più sconfinata libertà individuale, della più completa autonomia locale. Con questi auspici politici la società anglo-americana iniziava il periodo nazionale della sua storia. NOTE AL CAPITOLO OTTAVO. [17] _John Fiske_: The critical Period of American History 1783-89 (Macmillan and C.^o London), opera notevole su questo periodo veramente decisivo della sorgente nazione americana. [18] Sulla psicologia politica del popolo anglo-americano vedi il bel lavoro di _Émile Boutmy_ (_Éléments d'une Psychologie politique du peuple américain_ — Paris 1902), cui ho largamente attinto in questo ed in qualche altro capitolo. [19] Sulla _Costituzione federale_, di cui in appendice diamo il testo, vedi sovratutto il cap. VIII della parte I dell'opera classica di _Alessio di Tocqueville_ (La Democrazia in America; trad. ital. in _Biblioteca di scienze politiche_, vol. I, Parte II, Torino, Unione Tipografico-editrice, 1884); il volume II dell'opera pure classica del _Bryce_ (The American Commonwealth, London 1888), riassunto nell'ottima recensione analitica del Villari (La Costituzione degli Stati Uniti d'America, in Saggi storici e critici — Bologna, 1890); gli scritti speciali dello _Sterne_ (Storia Costituzionale e sviluppo politico degli Stati Uniti), del _Davis_ (Sviluppo dei rapporti fra i tre poteri dello Stato nelle Costituzioni americane), del _Boutmy_ (Le origini e lo sviluppo della Costituzione degli Stati Uniti d'America), del _Sumner Maine_ (La Costituzione federale degli Stati Uniti d'America), del _Cooley_ (Principi generali di Diritto Costituzionale negli Stati Uniti d'America) raccolti tutti sotto veste italiana nella _Biblioteca di Scienze politiche_, del Brunialti, vol. VI, parte I; la monografia del _Palma_ (Costituzioni moderne — Gli Stati Uniti d'America [Nuova Antologia, set.-nov., 1880).] [20] La _Costituzione di Stato_ è pel singolo Stato quello che la _Costituzione federale_ per l'intera Unione, la legge cioè fondamentale generale decretata direttamente dal popolo d'ogni Stato e revocabile o modificabile solo per opera del popolo, non già dei corpi rappresentativi dello Stato, le cui deliberazioni o leggi hanno valore solo finchè siano compatibili con la Costituzione dello Stato. Queste Costituzioni di Stato sono così i monumenti politici più antichi del paese, giacchè non sono che la continuazione cronologica e logica delle carte, privilegi, patenti, statuti, ecc., su cui si basavano i governi coloniali anteriormente alla Rivoluzione. Nell'evoluzione dei governi di Stato, quali emanano da queste Costituzioni, si possono distinguere tre periodi. Il primo abbraccia circa un trentennio, dal 1776 al 1802, e contiene le prime Costituzioni dei 13 Stati originari e quelle degli Stati di Kentucky, Vermont, Tennessee ed Ohio, costituzioni nelle quali, mentre si manifesta chiara la maggiore diffidenza verso il potere esecutivo e militare, si lasciano amplissimi poteri all'Assemblea, fatta, a dir così, procuratore generale del popolo da essa rappresentato: «l'esperienza prova, diceva il Madison nella Convenzione di Filadelfia del 1787, che vi ha nei nostri Governi la tendenza di gettare tutti i poteri nel vortice del potere legislativo. I poteri esecutivi degli Stati sono più che altro vane parvenze. L'Assemblea legislativa è onnipotente». Il secondo periodo, che abbraccia la prima metà circa del sec. XIX fino al giorno cioè in cui l'intensità della lotta pro e contro la schiavitù interruppe lo svolgimento progressivo dell'Unione, è contrassegnato da una generale democratizzazione di tutte le istituzioni, dovuta oltrecchè allo sviluppo naturale dei primi germi all'influenza delle idee repubblicane di Francia, influenza che venne meno solo dopo il 1815 e cessò affatto con la metà del secolo: è questo il periodo in cui comincia a prender fondamento e ad applicarsi il principio che gli istituti politici e giuridici debbono esser opera diretta anzichè indiretta del popolo sovrano. Questo concetto trionfa sempre più nel terzo periodo, che comincia circa al tempo della guerra civile, periodo però nel quale accanto a questa maggior efficacia della sovranità popolare esercitantesi direttamente a danno bene spesso dell'Assemblea legislativa, cui vengono tolti molti poteri per darli al popolo, si fa viva la tendenza a rafforzare i poteri esecutivo e giudiziario. I tipi poi, cui possono ridursi questi governi di Stato nel corso del sec. XIX, sono tre: il vecchio tipo coloniale (Nuova Inghilterra ed antichi Stati centrali), il tipo degli Stati meridionali o già a schiavi (nel quale è evidente la influenza della prima Costituzione virginiana) ed il tipo degli Stati nuovi od occidentali. Dopo la guerra di Secessione però e l'abolizione della schiavitù con la conseguente trasformazione radicale del Sud nel campo politico non meno che in quello economico-sociale, gli Stati meridionali si diedero in generale nuove Costituzioni non molto diverse da quelle degli Stati nuovi del Nord-Ovest e Pacifico; cosicchè i tipi si ridussero a due, quello dei vecchi Stati dal potere esecutivo generalmente più forte, dalle costituzioni meno particolareggiate e quindi meno bisognose di mutamenti, e quello degli Stati nuovi o rinnovati dai poteri popolari più ampli, dalle costituzioni più lunghe, più particolareggiate, più ricche di materia, più soggette sopratutto e per lo stesso loro carattere minuzioso e per la mobilità e le trasformazioni economico-sociali molto più rapide nelle nuove che nelle vecchie sedi a continui mutamenti. Su queste Costituzioni di Stato vedi in particolare il II volume del _Bryce_: The American Commonwealth (London, 1888). Quanto al testo di esse, la miglior raccolta per il tempo fino cui arriva è quella pubblicata per incarico del Congresso americano da Ben. Perley Poore, col titolo _Federal and State Constitutions_ (Washington 1878) in 2 volumi. Anche in Italia furono pubblicate parecchie di queste Costituzioni di Stato nel vol. II della _Raccolta di Costituzioni_ (Torino, 1848). Un ottimo cenno complessivo su esse seguito dal testo di alcune trovasi nel vol. VI, parte I, della _Biblioteca di Scienze politiche_ del Brunialti, col titolo «_Le Costituzioni degli Stati Uniti d'America — Testi e commenti_» (p. 959-1242, Unione Tipografico-editrice Torinese). Lineamenti e tendenze della società anglo-americana all'inizio della vita nazionale. Il 29 maggio 1790, giorno in cui Rhode Island entrava, completandola, nell'Unione, costituisce una data memoranda nella storia americana: benchè il periodo coloniale cessi colla Dichiarazione d'indipendenza del 4 luglio 1776 od, a più stretto rigore, con la pace di Parigi del 3 settembre 1783; per chi guardi la sostanza più che la forma, col 1790 soltanto cessa in tutto il paese la vita coloniale ed incomincia quella nazionale della società anglo-americana. Paragonabile al valico di alpestre catena, cui mettono capo i mille sentieri che salgono su dalle valli e da cui si dipartono i mille altri dell'opposto versante, è questo il punto critico, cui fa capo tutta la storia passata, e da cui sulla trama distesa dall'epoca precedente comincia a svolgersi quella futura. Non abitata da popoli vetusti per civiltà da spogliare, priva in apparenza di metalli nobili, non coperta di piante preziose, la parte settentrionale dell'America, a differenza di quella centrale e meridionale, era stata lasciata quasi in disparte nella prima ricerca affannosa dei popoli colonizzatori dell'Occidente: se ne eccettui gli Spagnuoli, che vi avevano posto stabile piede all'estremo Sud, nella Florida, nessun altro popolo aveva fondato in esso stabilimenti duraturi nel secolo XVI. La vera colonizzazione del continente nord-americano incomincia nel secolo XVII: la iniziano con successo i Francesi nella vallata del S. Lorenzo e sulla costa atlantica gli Inglesi nella Nuova Inghilterra e nella Virginia, centri originari di colonizzazione tra cui s'incuneano Olandesi e Svedesi. Troppo pochi per contrastare l'espansione neerlandese, questi ultimi vengono ben presto assorbiti dagli Olandesi, i quali alla loro volta inferiori per numero e per energia, sopratutto per istituzioni, più atte ad ostacolare che a favorire la colonizzazione, a quel vigoroso elemento inglese, che li serra come in una morsa da nord a sud, terminano coll'essere vinti ed assorbiti da questo. La colonizzazione inglese si diffonde così rigogliosa per quanto lenta su tutta la costa atlantica, costretta dal suo carattere essenzialmente agricolo a spezzare col ferro e col piombo la resistenza degli Indiani spogliati delle loro terre. Nel secolo XVIII, occupato ormai il territorio fra l'Atlantico e gli Allegani, i coloni inglesi s'apprestano a valicare questa catena per entrare nel cuore del continente; ma vi trovano un ostacolo insormontabile in quei Francesi, che nel frattempo, oltrepassati i Grandi Laghi canadesi, si erano spinti sino al golfo del Messico, ed, in grado per il carattere esclusivamente commerciale della loro colonizzazione di accarezzare anzichè distruggere la razza indigena, avevano potuto col favore di questa estendere il loro controllo militare e politico su tutto il bacino del Mississippi. Nella lotta per la terra, che necessariamente ne consegue, la colonizzazione di razza degli Inglesi, sorretta efficacemente dalla madrepatria, finisce col prevalere su quella ecclesiastico-feudale dei Francesi, il cui impero nord-americano cade tutto in mano dell'Inghilterra, se ne eccettui le foci del Mississippi, passate alla Spagna. Signora di così vasto dominio, la Gran Bretagna vorrebbe ridurlo tutto quanto sotto il suo impero assoluto; ma se non trova in ciò difficoltà alcuna nel Canadà, nato e cresciuto sotto il dispotismo accentratore della Francia, vede sollevarsi le sue antiche colonie, le quali, sfruttate sino allora nel campo economico ma rispettate fino ad un certo punto nelle loro autonomie locali e nelle loro libertà politiche, approfittano dell'occasione favorevole, offerta loro ciecamente dalla madrepatria, per rivendicare quell'indipendenza cui le aveva rese mature lo sviluppo prodigioso della vita economica e sociale. Al termine dell'epica lotta l'Inghilterra non conserva più del Nord-America che la parte posta a settentrione dei Grandi Laghi, vale a dire il Canadà; mentre il resto del continente, diviso fra gli Anglo-Americani, che si estendono dal Maine alla Georgia e dall'Atlantico al Mississippi, e gli Spagnuoli, che occupano con la Florida la costa del Golfo del Messico ed avanzano le loro pretese sulle terre d'oltre Mississippi, rimane aperto alla colonizzazione interna dei primi, troppo superiori materialmente e socialmente agli Spagnuoli ed ai Francesi, che per qualche anno sostituiranno i primi nella Luigiana, per non soppiantare gli uni e gli altri entro pochi decenni in tutto l'immenso territorio, parco di caccia, violabile a piacimento, d'un pugno d'indiani. Le tredici colonie inglesi non si sono unite insieme però se non per resistere con più successo al comune nemico; cosicchè, acquistata l'indipendenza, il particolarismo frutto necessario d'una storia secolare torna a prevalere nella forma più cruda, minacciando di travolgere l'opera della Rivoluzione. La nuova costituzione federale, la quale mentre assicura ai singoli Stati quella completa autonomia, ch'era sacro retaggio delle vecchie colonie, permette loro di costituire una sola nazione, arresta il dissolvimento palese della nuova società e le garantisce nella forma politica federale, l'unica capace di tener insieme nonchè le vecchie colonie troppo gelose della propria indipendenza le decine e decine di Stati che sarebbero sorti accanto ad esse in mezzo un continente, lo svolgimento di quelle autonomie locali e di quelle libertà individuali in nome delle quali, sbocciate e fortificate nella serra calda del periodo coloniale, l'America era sorta a nazione. Il 1790 raccoglie tutte le sparse collettività all'ombra d'una comune bandiera, sotto l'egida d'una legge comune di libertà e d'uguaglianza per esse e pei cittadini loro, inaugurando colla presidenza dell'uomo, al cui valore ed alla cui saggezza si doveva in parte non piccola l'esito fortunato della guerra d'indipendenza, Giorgio Washington, eletto l'anno innanzi, la storia nazionale degli Stati Uniti d'America. L'Unione americana contava allora una popolazione di 3.929.414 abitanti. Il 95% di essa abitava ancora quella striscia di terra larga in media un 255 miglia e lunga dai 14 ai 15 gradi, che si estende fra l'Oceano e gli Allegani, dal Maine alla Florida, ed in cui vivono oggi pur senza accalcarsi soverchiamente un 25 milioni d'abitanti. Rara perciò quanto mai la popolazione nelle stesse sedi più antiche, se ne eccettui la costa del Massachusetts, la parte meridionale della Nuova Inghilterra e le vicinanze di New York, i punti più densamente abitati: gli otto noni a dir poco del suolo della Virginia, che pur era la più popolata delle colonie meridionali, erano inoccupati; il New York settentrionale ancora pressochè deserto, faceva parte di quello che allora si chiamava il _Far West_. Oltre i monti poi, nelle nuove sedi, solo degli arditi pionieri sparsi qua e là nella Virginia occidentale, sul lago Ontario e presso le riviere ed i laghi suoi tributari; degli avamposti, come Detroit, Vincennes, Green River ed altri, nel territorio di Nord-ovest; dei nuclei più solidi di colonizzazione nel Kentucky settentrionale lungo l'Ohio e nel Tennessee lungo la vallata del Cumberland, in tutto meno di 200.000 abitanti, avanguardia più che altro di quella fiumana che allora soltanto cominciava a riversarsi sull'occidente per le quattro strade del Mohawk ed Ontario, del Potomac superiore, della Virginia sud-occidentale e della Georgia occidentale. La vita era ancora dappertutto essenzialmente rurale: salvo i pochi porti, dove il commercio era fiorente, salvo pochi centri urbani, fra cui Boston, New York, Philadelphia, Baltimora e Charleston soltanto oltrepassavano i 10.000 abitanti, la popolazione nella sua quasi totalità (il 96% ancora al 1800) viveva dispersa per la campagna, ed il nerbo di essa era dato nel Nord da una classe di agricoltori, che coltivava con le proprie mani il piccolo _farm_, nel Sud da una classe di latifondisti che coltivavano coll'opera degli schiavi le vaste tenute. La vita industriale del paese era rappresentata in gran parte dalla manifattura domestica: chè l'industria vera e propria, se ne togli quella navale in alcuni punti della costa, era ancora in sul nascere, impedita fino allora dalla poca densità della popolazione e dalla poca accumulazione di capitale più ancora che dal monopolio industriale e commerciale dell'antica metropoli. Solo allora il lavoro incominciava gradualmente a cangiare la sua forma, passando da un complesso di operazioni manuali isolate ad un sistema di lavoro organizzato, condotto mediante imprese regolari, con vasti capitali, col sussidio delle nuove macchine inventate in Europa; tanto che ancora nel 1810 alla manifattura domestica spettavano oltre i 2/3 delle stesse vesti e dell'intovagliato consumati agli Stati Uniti, quantunque già dal 1786 degli artigiani scozzesi abbiano cominciato a costruire a Bridgewater, Mass. le prime macchine da filare sul modello di quella d'Arkwright, e dal 1790 l'operaio inglese Samuel Slater detto «il padre delle manifatture americane» abbia fondato a Pawtuchet, R. I. una grande officina per fabbricarvi tutte le macchine imparate a fabbricare in Inghilterra. Anche le comunicazioni erano ancora difficili, chè la stessa navigazione fluviale a vapore, quest'anticipazione della strada ferrata in un paese solcato da una rete naturale di fiumi e di laghi, non esisteva può dirsi nella pratica prima degli ardimenti del Fulton sull'Hudson nel 1807 e sul Mississippi nel 1811, nonostante i tentativi ripetuti qua e là dal 1763 in poi da William Herny, da John Fitch, da Oliver Evans, dal Rumsey ed altri. Nulla insomma era venuto ancora a modificare profondamente nel campo materiale la vita americana dell'epoca precedente, come nulla era venuto a sconvolgerla in quello morale ed intellettuale: gli effetti perturbatori della Rivoluzione non hanno ancora avuto il tempo di svolgersi; l'immigrazione europea è tuttora così scarsa (10.000 immigranti nel 1790, 4000 soltanto nel 1804 e 1805), che il vecchio elemento coloniale lungi dall'esserne modificato radicalmente, la assorbe senza quasi accorgersene. Usi, costumi, idee sono su per giù quelli dell'età coloniale. Certo in New York, fino al 1790, e poi in Filadelfia, capitali provvisorie prima del trasporto del governo nella neonata Washington, avvenuto nel giugno 1800, si svolge una vita sociale straordinariamente vivace, che nell'_entourage_ del presidente e nell'ambiente governativo in ispecie assume per dir così un aspetto nazionale; ma la società americana continua a svilupparsi separatamente e con caratteri distinti nelle varie sedi della colonizzazione, nella democratica Nuova Inghilterra dalla semplice vita e dall'alto livello intellettuale e morale delle popolazioni, nelle grosse colonie centrali dedite al commercio e dalla tinta cosmopolita, nel Sud aristocratico e feudale dai vivi contrasti fra la gaia vita della sua classe dominante dove più dove meno raffinata e quella dolorante dei suoi schiavi; mentre l'elemento più ardito di queste vecchie sedi, il pioniere imbevuto di solito dell'idea _yankee_, va a spianare alla futura immigrazione europea la via del lontano Occidente, dove presto andranno sorgendo come per incanto nuove città, si apriranno nuove strade commerciali, si organizzeranno territori, si getteranno insomma le basi d'un nuovo raggruppamento di Stati, diverso da ciascuno di quelli del territorio orientale. Sono tante società distinte, diverse, talora addirittura antagonistiche, al punto da non escludere perfino eventuali conflitti terribili fra loro, non v'è ancora la nazione; chè per la diversità delle origini e l'isolamento dello sviluppo, per la mancanza cioè di una storia comune, manca pure quel sentimento di solidarietà ereditaria, che lega fra loro i membri d'una stessa generazione nella comunanza dei ricordi, dei trionfi, dei dolori dei padri: mentre da parte della popolazione dispersa su vastissimo territorio, priva di quei veri e propri laboratori di civismo che sono le grandi agglomerazioni urbane, dotata sopratutto di quella mobilità estrema di espansione, cui la invita una terra libera praticamente illimitata, non è ancora cominciato se non in qualche focolare isolato quel moto di riflessione e concentrazione in se stessa, di cui un forte sentimento di nazionalità è il risultato immancabile ed il compendio più fedele. Questa società, che finora s'è limitata a vivere, lottando oscuramente e moltiplicandosi nel silenzio sotto l'altrui dominazione, fatta arbitra del proprio destino e dalla raggiunta maturità ad una vita statale indipendente e dalla virtù dei suoi figli, tutti uomini nuovi, anch'essi senza passato come il popolo da cui uscivano, entra nell'arringo della civiltà e della vita internazionale con una prospettiva ben diversa da quella delle vecchie genti d'Asia e d'Europa. Davanti a sè su tutto un continente nient'altro che alcune popolazioni selvaggie in ritirata ed in via di scomparire, alcune colonie spagnuole lasciate in deplorevole abbandono, che estendono su territori ben più vasti le loro pretese ma non hanno la forza di farle valere, un dominio inglese infine di recente acquisto che ha tutto l'interesse di vivere in pace coi potenti vicini: alle sue spalle più d'un migliaio di leghe, che la separano dalle nazioni potenti e prepotenti del vecchio mondo. Essa è dispensata pertanto dal tenersi in istato di difesa contro eventuali o, peggio ancora, probabili aggressioni; mentre l'immensità delle terre messe dalla natura a sua disposizione la dispensano da cupide brame di rapina, sorgenti di torbida gloria militare. In luogo d'una visione di campi devastati, di città incendiate, di turbolenti dominazioni, in luogo di quel sogno di sangue e di fumo, ch'è retaggio ed incubo del vecchio mondo, la nuova società vede disegnarsi l'attività futura dei suoi figli su un fondo sereno di pace e di progresso, su quell'immenso territorio vacante, il quale non aspetta se non la mano dell'uomo civile per dare le ricchezze inesauribili che cela nel seno. Occupare questo territorio, dissodarlo, utilizzarlo, ecco l'appello che la voce stessa delle cose rivolge alla nuova sociètà, ecco il compito ch'essa si vede assegnato, compito semplicissimo e modestissimo nella sua forma esteriore ma grandioso nella sostanza oltrecchè pei risultati per la colossità dell'impresa: la colonizzazione interna accelerata dall'emigrazione europea diverrà così la forma naturale d'espansione della società anglo-americana; lo sfruttamento di questo enorme capitale fondiario diventerà il fine nazionale per eccellenza di essa, darà l'impronta al suo carattere, ne costituirà la forza nel mondo, ne darà i vizi ed i pregi, l'utilitarismo gretto e feroce come lo slancio industriale e civile; il presentimento ed il vaticinio dell'avvenire terrà luogo nell'anima collettiva del popolo di quel sentimento di patria, che non può salir su dai profondi ipogei della storia, dando a lui la stessa ebbrezza nazionale che l'antico dominatore del mondo sentiva nel ripetersi _civis romanus_. La repubblica americana potrà quindi rimanere ancora per secoli quello, che era prima dell'indipendenza, una società cioè anzitutto e sopratutto economica, politica solo in via secondaria ed in quanto i vincoli statali e giuridici sono necessari al raggiungimento degli stessi fini economici: questi soltanto forniranno la chiave di volta delle sue istituzioni, come ne spiegheranno i pregiudizi e le idee, i pregi e i difetti, donde la lucidità meravigliosa della storia e della psiche americana, simile a massa d'acqua che nella sua limpidezza lasci scorgere il fondo roccioso, da cui zampilla. Una società di tal fatta, per nulla guerresca, appena politica, essenzialmente economica, senza avanzi di famiglie regie, di caste sacerdotali militari od aristocratiche, senza alcun elemento insomma monarchico od aristocratico da svolgere ed elaborare, nonchè abbandonare svilupperà anzi fino alle ultime sue conseguenze col carattere elettivo di quasi tutte le cariche, con la brevità dei termini di esse, colla rotazione negli uffici, quella forma di democrazia egalitaria, che radicata nel passato sino al punto da divenire seconda natura trova nella legge generale e locale del paese la sanzione e l'usbergo. Libertà sarà quindi la base della nuova convivenza politica, uguaglianza la base della nuova convivenza sociale. Frutto però dell'assenza assai più che dell'intervento del potere politico nella vita dell'individuo e della società, fatto naturale anzichè rivendicazione di un principio di giustizia, questa uguaglianza sarà ben lungi dal significare livellamento generale di condizioni: essa sarà semplicemente uguaglianza legale, assenza completa cioè di disuguaglianze legali. Lungi pertanto dall'impedire o semplicemente dall'attenuare le disuguaglianze economiche, che all'origine sono frutto della vittoria nella lotta per la vita, questa democrazia egalitaria, la quale obbedisce anzitutto e sovratutto alle esigenze di quell'attività economica che è la sua prima e massima funzione, lascerà anzi libero il freno alla caccia della ricchezza, alla formazione delle fortune più colossali, di nulla curandosi più nelle istituzioni come nelle opinioni che di offrire ai combattenti una parità legalmente almeno assoluta di condizioni, agli individui un campo il più possibile livellato nella lotta per la vita. E gli individui alla lor volta, sapendo di non dover attendere nulla dalla società ma sicuri d'altra parte di non trovare nelle sue leggi o nei suoi pregiudizi alcun ostacolo all'estrinsecarsi di tutte le loro energie, sentiranno come raddoppiato l'innato vigore, donde quell'individualismo potente, quell'esaltazione della propria personalità e della propria razza, quello spirito energico di iniziativa che diventeranno caratteristiche del popolo americano, del popolo che il più superbo e cosciente dei suoi bardi, Walte Whitman, chiamerà senz'ombra di iattanza «democrazia di atleti». Il fine supremo di questi atleti non sarà d'altra parte diverso da quello della società loro, vale a dire la ricchezza. In una società profondamente livellatrice, egalitaria sino alla monotonia, antigerarchica per eccellenza, dove un uomo ne vale un altro, qualunque ne sia la nascita l'educazione l'ingegno il posto sociale o politico, dove perciò bandita ogni altra superiorità personale e tanto più trasmissibile non ne rimane che una, personale e trasmissibile, la ricchezza, questa diventerà il fine supremo di quanti mirano ad eccellere. La società americana così, sorta per un fine essenzialmente economico, elaborerà col seme più scelto delle vecchie stirpi europee ringiovanite come nuovo Anteo al contatto della vergine terra, una razza quanto mai atta a produrre la ricchezza, innalzerà sulla sua base territoriale superiore nel complesso a quella d'ogni altro popolo l'edificio economico e per riflesso politico e civile più superbo, che la storia umana abbia ancora veduto. APPENDICE I Dichiarazione fatta dai rappresentanti degli Stati Uniti d'America, riuniti in Congresso. Quando, nel corso delle vicende umane, diventa per un popolo una necessità lo spezzare i vincoli politici che l'uniscono con un altro ed il prendere tra le potenze della terra quel posto separato ed equo a cui gli danno diritto le leggi di natura ed il Dio della natura, un conveniente rispetto alle opinioni dell'umanità gl'impone di dichiarare quali sono le cause che lo costringono alla separazione. Riputiamo di per sè evidentissime le seguenti verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che il Creatore gli ha investiti di certi diritti inalienabili; che tra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire tali diritti, furono istituiti fra gli uomini i governi, i quali ritraggono i loro poteri dal consenso dei governati; che quando una forma qualsiasi di governo è dannosa a quei fini giusti, il popolo ha il diritto di abolirla o di mutarla, istituendo un nuovo governo e dando a questo per fondamento quei principî e quell'ordinamento di poteri che al popolo stesso sembrino più adatti a provvedere alla propria sicurezza e felicità. La prudenza, è vero, consiglia che non si mutino per cause leggere e transitorie i governi da lungo tempo stabiliti, e perciò la esperienza ha sempre dimostrato che l'umanità è più disposta a sopportare i mali, finchè essi sono sopportabili, che a ripararli ed a far giustizia da sè medesima coll'abolire le forme a cui è abituata. Ma quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni invariabilmente dirette a conseguire lo stesso fine, mette in piena evidenza il disegno di ridurre un popolo alla soggezione di un dispotismo assoluto, esso ha il diritto ed il dovere di abbattere un simile governo e di provvedere con nuove garanzie alla propria sicurezza futura. E così hanno lungamente pazientato queste Colonie, e tale è adesso la necessità che le costringe ad alterare gli antichi sistemi di governo. La storia del presente Re della Gran Brettagna è una sequela di ripetute offese ed usurpazioni, dirette tutte al fine di stabilire su questi Stati una tirannide assoluta. Per dimostrarlo esporremo al mondo imparziale i fatti seguenti: Ha rifiutato di acconsentire alle leggi più salutari e più adatte al pubblico bene. Ha proibito ai suoi governatori di sancire leggi di utilità grande ed immediata, che pur non potevano andare in vigore finchè non giungesse il suo consenso, e mentre erano così in sospeso, ha trascurato affatto di prenderle in esame. Ha rifiutato di sancire altre leggi necessarie al buon ordinamento di vasti e popolosi distretti, perchè gli abitanti non rinunziarono al diritto di rappresentanza nella legislatura: diritto per essi preziosissimo e formidabile soltanto pei tiranni. Ha convocato le assemblee legislative in luoghi inusitati, incomodi, e distanti dai depositi dei loro registri pubblici, e ciò pel solo fine di stancarle e renderle più pieghevoli alle sue volontà. Ha sciolto, ripetutamente, le camere legislative perchè hanno fatto con virile fermezza opposizione alle sue usurpazioni sui diritti del popolo. Ha rifiutato per molto tempo, dopo avere sciolto le camere, di permettere che altre ne fossero elette; e però l'esercizio di quei poteri legislativi, che non si possono distruggere, è tornato in mano dell'intero popolo, rimanendo intanto lo Stato esposto a tutti i pericoli delle invasioni di fuori e dei torbidi dentro. Ha cercato d'impedire l'incremento della popolazione in questi Stati; e ciò avversando le leggi per dare la cittadinanza ai forestieri, rifiutando di approvarne altre per favorire la loro immigrazione e facendo più duri patti pei nuovi acquisti del suolo. Ha posto ostacolo all'amministrazione della giustizia, rifiutando la sua sanzione a leggi intese a stabilire poteri giudiziari. Ha creato giudici dipendenti soltanto dai suoi voleri per la conservazione dell'ufficio e godimento dello stipendio. Ha creato un'infinità di nuovi uffici, inviando ad occuparli sciami di impiegati per angariare il popolo e spolparlo fino all'osso. Ha tenuto tra noi, in tempo di pace, eserciti stanziali e ciò senza il consenso delle nostre legislature. Ha cercato di rendere il potere militare indipendente dal civile ed anche ad esso superiore. Ha fatto lega con altri per sottoporci ad una giurisdizione estranea alla nostra costituzione e non riconosciuta dalle nostre leggi; ed ha quindi sancito i suoi atti di pretesa legislazione: Col mettere tra noi in alloggiamento grossi corpi di soldatesche armate; Col sottrarli mediante giudizi irrisori al meritato castigo che potessero incorrere quando uccidessero qualche abitante di questi Stati; Col distruggere il nostro commercio in tutte le parti del mondo; Coll'imporci tasse senza il nostro consenso; Col privarci in molti casi del benefizio della procedura per giurati; Col trasportarci di là dai mari, a farci processare per delitti immaginari; Coll'abolire il libero sistema delle leggi inglesi in una provincia prossima e stabilirvi un governo arbitrario; per allargarne quindi i confini, e farne al tempo stesso un esempio ed un istrumento per introdurre lo stesso governo assoluto in queste Colonie; Col toglierci le nostre Carte, annullare le nostre leggi più preziose, e mutare sostanzialmente le forme dei nostri governi; Col sospendere l'azione delle nostre legislature e dichiararsi investito della facoltà di far leggi per noi in qualsivoglia caso. Ha abdicato alla sua sovranità in questi paesi, quando ha dichiarato che non eravamo più sotto la sua protezione e ci ha mosso guerra. Ha saccheggiato le nostre navi, devastato le nostre coste, incendiato le nostre città, sterminato i nostri cittadini. Anche adesso sta trasportando grossi eserciti di mercenari forestieri per compiere l'opera di morte, di desolazione e di tirannide già incominciata con atti di crudeltà e di perfidia, i quali trovano appena riscontro nelle più barbare età e sono assolutamente indegni del capo di una nazione civile. Ha costretto i nostri concittadini, catturati in alto mare, a portare le armi contro la patria loro, a diventare i carnefici dei loro fratelli ed amici, od a cadere essi medesimi per mano dei loro cari. Ha eccitato tra noi la ribellione interna ed ha cercato di spingere addosso agli abitanti delle frontiere gli spietati Indiani, i quali, come ognuno sa, non fanno in guerra nessuna distinzione d'età, di sesso o di condizione ed uccidono tutti. Ad ogni successivo stadio di questa oppressione abbiamo chiesto giustizia in termini umilissimi; alle nostre rinnovate petizioni è stato sempre risposto con rinnovati insulti. Un principe, il cui carattere tirannico si manifesta con simili atti, non è degno di reggere un popolo libero. Nè mancammo di riguardo ai nostri fratelli britannici; di tempo in tempo gli abbiamo avvertiti dei tentativi che la loro legislatura faceva per sottoporci ad una giurisdizione ingiustificabile ed abbiamo loro rammentato le circostanze della nostra immigrazione e del nostro stabilimento in questi paesi. Invocando i sentimenti di giustizia e di magnanimità innati nella nazione Inglese, gli abbiamo scongiurati, in nome dei legami di sangue che ci uniscono, a sconfessare quelle usurpazioni, che avrebbero inevitabilmente rotto tra noi ogni comunicazione e rapporto. Anch'essi sono rimasti sordi alla voce della giustizia e del sangue. Ci troviamo dunque costretti a cedere alla necessità, dichiarando il nostro distacco, e considerandoli come consideriamo il rimanente dell'umanità, nemici in guerra, in pace amici. Per conseguenza: Noi rappresentanti degli Stati Uniti d'America, adunati in Congresso generale, invocando il Supremo Giudice dell'universo e chiamandolo a testimone della rettitudine delle nostre intenzioni, pubblichiamo e dichiariamo solennemente a nome e per autorità del buon popolo di queste Colonie, che queste Colonie Unite sono e per diritto devono essere _Stati Liberi ed Indipendenti_; che esse sono svincolate da qualsiasi soggezione verso la corona brittannica, e che qualsiasi legame politico tra esse e lo Stato di Gran Brettagna è, e deve essere assolutamente sciolto; e che, nella loro qualità di _Stati Liberi ed Indipendenti_ hanno piena facoltà di muovere guerre, concludere pace, contrarre alleanze, stabilire commerci e compiere tutti gli altri atti e cose che hanno diritto di compiere tutti gli _Stati Indipendenti_. Ed in sostegno di tale Dichiarazione, e fidando fermamente nella protezione della Divina Provvidenza, impegniamo reciprocamente l'uno all'altro le nostre esistenze, i nostri beni ed il nostro sacro onore. GIOVANNI HANCOCK. Nuovo Hampshire — _Giosuè Bartlett, Guglielmo Whipple, Matteo Thornton_. Baja di Massachusetts — _Samuele Adams, Giovanni Adams, Roberto Treat Paine, Elbridge Gerry_. Rhode Island — _Stefano Hopkins, Guglielmo Ellery_. Connecticut — _Ruggero Sherman, Samuele Huntington, Guglielmo Williams, Oliviero Wolcott_. Nuova York — _Guglielmo Floyd, Filippo Livingston, Francesco Lewis, Luigi Morris_. Nuova Jersey — _Riccardo Stockton, Giovanni Witherspoon, Francesco Hopkinson, Giovanni Hart, Abramo Clark_. Pensilvania — _Roberto Morris, Benjamino Rush, Benjamino Franklin, Giovanni Morton, Giorgio Clymer, Giacomo Smith, Giorgio Taylor, Giacomo Wilson, Giorgio Ross_. Delaware — _Cesare Rodney, Giorgio Read, Tommaso M'Kean_. Maryland — _Samuele Chase, Guglielmo Paca, Tommaso Stone, Carlo Carroll, di Carrollton_. Virginia — _Giorgio Wythe, Riccardo Enrico Lee, Tommaso Jefferson, Benjamino Harrison, Tommaso Nelson, Jr. Francesco Lightfoot Lee, Carter Braxton_. Carolina Meridionale — _Eduardo Rutledge, Tommaso Hayward, Jr. Tommaso Lynch, Jr. Arturo Middleton_. Carolina Settentrionale — _Guglielmo Hooper, Giuseppe Hewes, Giovanni Penn_. Georgia — _Button Gwinnett, Lyman Hall, Giorgio Walton_. Costituzione degli Stati Uniti. Noi, popolo degli Stati Uniti, col proposito di formare una più perfetta unione, di stabilire la giustizia, di assicurare la tranquillità interna, di provvedere alla comune difesa, di promuovere il benessere generale e di garantire i benefizi della libertà a noi stessi ed alla nostra posterità, ordiniamo e determiniamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d'America. _Articolo I._ Sez. 1. Di tutti i poteri legislativi qui entro concessi sarà investito un Congresso degli Stati Uniti, composto di un Senato e di una Camera di Rappresentanti. Sez. 2. La Camera dei Rappresentanti si comporrà di deputati scelti ogni due anni dal popolo dei vari Stati, e gli elettori di ogni Stato dovranno avere le qualità che si richiedono per essere elettori del ramo più numeroso della legislatura dello Stato. Nessuno potrà essere rappresentante se non avrà raggiunta l'età di venticinque anni e non sarà da sette anni cittadino degli Stati Uniti; come pure se nel momento in cui viene eletto non ha stabile dimora nello Stato che lo ha scelto. I rappresentanti e le tasse dirette saranno ripartiti nei diversi Stati che potranno esser compresi in questa Unione, a seconda della rispettiva popolazione: questa sarà determinata aggiungendo al numero totale delle persone libere, comprese quelle impegnate in servizio per un periodo d'anni ed esclusi gl'indiani non tassati, tre quinti di tutte le altre persone. Il calcolo dovrà esser fatto entro tre anni dopo la prima riunione del Congresso degli Stati Uniti ed entro ogni successivo termine di dieci anni nella maniera che indicherà la legge. Il numero dei rappresentanti non eccederà l'uno sopra trentamila, ma ogni Stato dovrà averne almeno uno; e finchè non sia fatta questa enumerazione lo Stato di Nuova Hampshire avrà diritto di scegliere tre deputati, il Massachusetts otto, il Rhode Island e le Piantagioni Providence uno, il Connecticut cinque, Nuova York sei, il Nuovo Jersey quattro, la Pensilvania otto, il Delaware uno, il Maryland sei, la Virginia dieci, la Carolina Settentrionale cinque, la Carolina Meridionale cinque e la Georgia tre. Quando in uno Stato si verifichi una vacanza, il potere esecutivo del medesimo darà gli ordini occorrenti per una nuova elezione. La Camera dei Rappresentanti sceglierà il proprio presidente e gli altri suoi ufficiali; essa sola avrà il diritto di mettere in stato d'accusa i deputati. Sez. 3. Il Senato degli Stati Uniti si comporrà di due senatori per ogni Stato, scelti dalla legislatura dello Stato stesso, per il termine di sei anni; ogni senatore disporrà di un voto. Appena radunati, dopo la prima elezione, i senatori verranno divisi, colla maggior possibile uguaglianza in tre classi. I seggi dei senatori di prima classe rimarranno vacanti al termine del secondo anno, quelli della seconda classe al termine del quarto, e quelli della terza al termine del sesto, in modo che ogni due anni un terzo dei senatori sia rinnovato; e se, nel periodo di chiusura della legislatura di qualche Stato si verifica, o per dimissione del senatore o altrimenti, una vacanza, il potere esecutivo di detto Stato, potrà fare una nomina temporanea fino alla nuova sessione della legislatura, e questa, riaprendosi, provvederà a riempire il posto. Non potrà essere nominato senatore chi non avrà raggiunta l'età di trent'anni, chi non sarà da nove anni cittadino degli Stati Uniti, come pure chi, nel momento dell'elezione, non avrà stabile dimora nello Stato che lo ha scelto. Il Vice Presidente degli Stati Uniti sarà Presidente del Senato, ma non avrà voto, salvo il caso che i voti siano pari. Il Senato sceglierà da sè gli altri suoi ufficiali ed anche un presidente _pro tempore_, quando il Vice Presidente sia assente o quando eserciti l'ufficio suo di Presidente degli Stati Uniti. Il Senato solo avrà facoltà di giudicare i membri delle due Camere posti in stato d'accusa; quando i senatori sederanno a tal fine, presteranno giuramento o affermazione. Allorchè si tratti di procedere contro il Presidente degli Stati Uniti, presiederà il Giudice della Corte Suprema, e nessun individuo potrà esser condannato o assolto se non sieno presenti due terzi dei senatori. I giudizi non potranno estendersi oltre la remozione dall'ufficio e l'incapacità di esercitare uffici di onore di fiducia e di lucro; ma la parte condannata dovrà ciò nonostante andare soggetta ad accusa, a giudizio, a condanna ed a pena, secondo le leggi comuni. Sez. 4. I tempi, i luoghi e la maniera di procedere alle elezioni dei senatori e dei rappresentanti saranno prescritte per ogni Stato dalla rispettiva legislatura; ma il Congresso potrà in qualunque tempo, mediante legge, fare od alterare quei regolamenti, eccettuato quello relativo ai luoghi scelti per l'elezione dei senatori. Il Congresso si adunerà almeno una volta all'anno, che sarà il primo lunedì di Dicembre, salvo che un decreto del Congresso medesimo fissi un giorno diverso. Sez. 5. Ogni Camera sarà giudice delle elezioni, poteri e qualifiche dei propri membri ed in ognuna la maggioranza costituirà un _quorum_ per il disbrigo degli affari; ma la minoranza potrà rinviare le adunanze e potrà essere autorizzata a costringere i deputati assenti a venire alle adunanze stesse in quella maniera e sotto quella comminatoria che ogni Camera sancirà. Ogni Camera potrà determinare le regole dei suoi procedimenti, punire i suoi deputati per la cattiva condotta, e, con due terzi dei voti, espellerli dal suo seno. Ogni Camera terrà un giornale dei suoi procedimenti, pubblicandolo periodicamente, ad eccezione di quelle parti che a suo giudizio richiedano il segreto; ed i _si_ ed i _no_ dei membri della Camera, su qualunque questione, saranno, ad istanza di un quinto dei presenti, registrati nel giornale. Nessuna delle due Camere, durante la sessione del Congresso, potrà senza il consenso dell'altra differire le sue tornate al di là di tre giorni, nè cambiare il luogo di riunione. Sez. 6. I senatori ed i rappresentanti riceveranno pei loro servizi un compenso, determinato per legge e pagato dal tesoro degli Stati Uniti. In tutti i casi, eccetto quello di tradimento, fellonia e violazione della pace, non potranno essere arrestati mentre assistono alle sedute delle loro rispettive Camere, nè quando vi si recano o escono; e non potranno neppur esser chiamati a render conto in altri luoghi dei discorsi tenuti alla Camera o delle discussioni a cui avranno preso parte nel suo seno. Nessun senatore o rappresentante potrà durante il termine pel quale è stato eletto, essere nominato a qualsiasi ufficio governativo creato in quel tempo o del quale sia stato accresciuto lo stipendio; e finchè esercita qualsiasi ufficio governativo non potrà essere membro nè dell'una nè dell'altra Camera. Sez. 7. Tutte le proposte di legge per imporre tasse ed accrescere le rendite dello Stato dovranno partirsi dalla Camera dei Rappresentanti; ma il Senato potrà proporre gli emendamenti o concorrervi come per le altre proposte. Ogni proposta di legge votata dalla Camera dei Rappresentanti o dal Senato, dovrà, prima di diventar legge, esser sottoposta al Presidente degli Stati Uniti; se egli l'approva, la sottoscriverà e se non l'approva la rimanderà, accompagnata dalle sue obbiezioni, alla Camera da cui è portata; la quale registrerà per disteso le obbiezioni nel suo giornale, e tornerà ad esaminarla. Se dopo averla riveduta, due terzi della Camera si troveranno sempre d'accordo nel votare la proposta di legge, questa sarà rinviata, insieme colle obbiezioni del presidente, all'altra Camera, dalla quale sarà ugualmente riveduta, e se due terzi dei membri l'approvano, diventerà legge. Ma in tutti questi casi, i voti di ambedue le Camere saranno per _si_ e per _no_ ed i nomi degli individui, o favorevoli o contrari, verranno iscritti nel giornale delle rispettive Camere. Se entro dieci giorni (non contando la Domenica) il presidente non avrà respinto la proposta di legge che gli è stata presentata, questa diventerà legge come se fosse stata firmata, salvo che il Congresso, aggiornandosi, non impedisca il rinvio: in tal caso la proposta non diventerà legge. Ogni ordine, risoluzione o deliberazione, per cui sia necessario il concorso del Senato e della Camera dei Rappresentanti (ad eccezione della questione di rinvio) dovrà essere presentata al Presidente degli Stati Uniti; e prima che possa entrare in vigore dovrà essere approvata da lui; se la disapprova, dovrà secondo le regole e le restrizioni prescritte nel caso della proposta di legge, esser nuovamente votata dalle due Camere, entrando in vigore soltanto se raccoglierà i due terzi dei voti. Sez. 8. Il Congresso avrà la facoltà d'imporre e cogliere tasse, diritti, imposte, dazi di consumo, e ciò per pagare i debiti, per provvedere alla comune difesa ed al pubblico benessere degli Stati Uniti; ma tutte le tasse, imposte e dazi dovranno essere uguali in tutto il paese; Di fare imprestiti sui credito degli Stati Uniti; Di regolare il commercio colle nazioni straniere, tra i diversi Stati e colle tribù Indiane; Di stabilire una regola uniforme di naturalizzazione, e leggi uniformi in tutti gli Stati Uniti riguardo ai fallimenti; Di coniare moneta, regolando il valore della medesima e quello della moneta forestiera, e di fissare la norma dei pesi e misure; Di provvedere alla punizione dei falsificatori dei titoli pubblici e della moneta in corso agli Stati Uniti; Di creare uffici e strade postali; Di favorire lo svolgimento della scienza e delle arti utili, col garantire per un periodo di tempo determinato agli autori ed agli inventori l'esclusivo diritto alle loro opere ed alle loro invenzioni; Di costituire tribunali inferiori alla Corte Suprema; Di determinare e punire le piraterie e le fellonie commesse in alto mare e le offese contro il diritto delle genti; Di dichiarare la guerra, concedere patenti di corsa o di rappresaglia e di fare regolamenti relativi alle prede di terra e di mare; Di levare e mantenere eserciti: ma senza che nessuna concessione di danaro per tale oggetto possa esser fatta per un termine più lungo di due anni; Di provvedere e mantenere un naviglio; Di fare regolamenti per il governo e per l'amministrazione delle forze di terra e di mare; Di provvedere alla chiamata della milizia per mettere in esecuzione le leggi dell'Unione, reprimere le sedizioni e respingere le invasioni; Di provvedere all'organamento, l'armamento e la disciplina della milizia, ed al buon governo di quella parte della medesima destinata al servizio degli Stati Uniti; rilasciando ad ogni singolo Stato la nomina dei rispettivi ufficiali e la facoltà di istruire la milizia secondo la disciplina prescritta dal Congresso; Di esercitare, in qualunque caso, la legislazione esclusiva su quei distretti (purchè oltrepassino le dieci miglia quadrate) che potessero, per cessione di qualche Stato e per accettazione del Congresso, diventare la sede del governo degli Stati Uniti, e di esercitare una simile autorità su tutti i luoghi comprati col consenso della legislatura dello Stato in cui essi si trovino, per costruirvi forti, magazzini, arsenali, cantieri ed altre opere di pubblica utilità; E di fare tutte le leggi necessarie e convenienti all'esercizio dei suddetti poteri e di tutti gli altri dei quali la Costituzione ha rivestito il governo degli Stati Uniti, od i suoi dipartimenti ed i suoi ufficiali. Sez. 9. La immigrazione o importazione di quelle persone[21] che ad ogni Stato possa sembrare opportuno di accogliere, non sarà proibita dal Congresso prima dell'anno mille ottocento otto; ma esso potrà imporre su quella importazione una tassa o dazio non eccedente dieci dollari a testa. Il privilegio dell'_habeas corpus_ non sarà sospeso che nei casi di ribellione o quando possa esigerlo la sicurezza pubblica. Non si voterà mai alcuna legge di proscrizione nè di _ex post facto_. Non s'imporranno nè tasse dirette nè testatico se non in proporzione del censo o delle anagrafi più sopra ordinate. Non vi saranno tasse nè dazi d'importazione sugli articoli provenienti da qualsiasi Stato. I regolamenti del commercio o del reddito pubblico non accorderanno nessuna preferenza ai porti di uno Stato su quelli di un altro; nessuna nave entrando od uscendo da uno Stato che non sia il suo, avrà obbligo di fare dichiarazione o pagare dazi di sorta. Dal tesoro non si potranno prendere denari se non in virtù di assegni fissi ed ordinati per legge; e di tempo in tempo verrà pubblicata un'esposizione ed un conto regolare degli introiti e delle spese del pubblico erario. Gli Stati Uniti non accorderanno alcun titolo nobiliare e nessun individuo il quale eserciti un ufficio governativo di fiducia o di lucro potrà senza il consenso del Congresso, accettare alcun regalo, emolumento, ufficio o titolo di qualsiasi specie da nessun re, principe o stato straniero. Sez. 10. Nessun singolo Stato potrà entrare in trattati, alleanze o confederazioni; nè accordare patenti di corsa o di rappresaglia; nè batter moneta, nè emettere biglietti di credito; nè rendere obbligatoria l'accettazione, in pagamento dei debiti, d'altra cosa che la moneta d'oro e d'argento; nè votare leggi di proscrizione o di _ex post facto_ e che alterino l'obbligo dei contratti; nè accorderà alcun titolo nobiliare. Nessun Stato potrà, senza il consenso del Congresso mettere nessuna imposta o dazio sulle importazioni od esportazioni, eccettuato quelli che sieno assolutamente necessari per supplire alle spese volute dalle sue leggi d'ispezione e di sorveglianza; ed il prodotto netto di tutte le imposte ed i dazi messi da uno Stato sulle esportazioni e sulle importazioni dovrà essere versato nel tesoro degli Stati Uniti; e tutte queste leggi dovranno esser sottoposte alla revisione ed al sindacato del Congresso. Nessun Stato potrà senza il consenso del Congresso imporre alcun dazio di tonnellaggio, tener soldatesche o navi da guerra in tempo di pace, contrarre accordi o patti con un altro Stato o con una potenza straniera, nè entrare in guerra a meno che non sia realmente invaso o minacciato da un pericolo così imminente da non ammettere indugi. _Articolo II._ Sez. 1. Il potere esecutivo sarà attribuito ad un presidente degli Stati Uniti d'America, il quale terrà l'ufficio per un periodo di quattro anni ed insieme col Vice presidente, scelto per egual termine, sarà eletto nel modo seguente: Ogni Stato sceglierà nella maniera che sarà prescritta dalla propria legislatura, un numero di elettori eguale al numero totale di senatori e di rappresentanti che lo Stato stesso avrà diritto d'inviare al Congresso; ma non potrà esser nominato elettore nessun senatore, o rappresentante, o persona che eserciti agli Stati Uniti un ufficio governativo di fiducia o di lucro. Gli elettori radunatisi nei loro rispettivi Stati, nomineranno per scrutinio due persone, una delle quali almeno, non dovrà dimorare nel medesimo Stato a cui appartengono gli elettori; questi faranno un elenco di tutte le persone che hanno avuto voti e del numero dei voti che ciascuno ha riportato; sottoscriveranno e legalizzeranno questa nota, e la trasmetteranno poi sigillata alla sede del governo degli Stati Uniti, indirizzandola al Presidente del Senato. Il Presidente del Senato in presenza del Senato e della Camera dei Rappresentanti, aprirà tutti i certificati; quindi si conteranno i voti. La persona che ne avrà riportato il maggior numero sarà il Presidente, ove quel numero costituisca la maggioranza del numero totale degli elettori designati; e se più di una persona abbia ottenuto tale maggioranza ed i voti sieno pari, allora la Camera dei Rappresentanti sceglierà immediatamente, per scrutinio una di esse a Presidente; se nessuno ottenga la maggioranza allora nella stessa maniera si sceglierà il Presidente fra i cinque primi nell'elenco. Ma nella scelta del Presidente, i voti si dovranno computare per Stati, cioè la rappresentanza di ogni Stato avrà un voto; a questo oggetto, il _quorum_ sarà costituito da uno o più membri di due terzi degli Stati, e per la scelta occorrerà una maggioranza di tutti gli Stati. In ogni caso, dopo l'elezione del Presidente, la persona che avrà riportato il maggior numero di voti degli elettori, sarà scelta a Vice-presidente. Ma se ve ne fossero con voti eguali più d'una, il Senato sceglierà tra esse, a scrutinio, il Vice-presidente. Il Congresso potrà determinare il tempo per la designazione degli elettori ed il giorno in cui dovranno dare il voto; questo giorno sarà lo stesso in tutti gli Stati Uniti. Non saranno eleggibili all'ufficio di Presidente se non i cittadini nati negli Stati Uniti o quelli diventati cittadini al tempo della promulgazione di questa Costituzione; e non sarà neppure eleggibile a quell'ufficio chi non abbia raggiunta l'età di trentacinque anni e non sia da quattordici anni residente negli Stati Uniti. In caso di remozione del Presidente dall'Ufficio suo, o di morte, di rinuncia od incapacità ad adempiere i doveri ed i poteri di detto ufficio, questo sarà devoluto al Vice-presidente; ed il Congresso in caso di remozione, morte, rinuncia od incapacità simultanea tanto del Presidente quanto del Vice-presidente, potrà con una legge provvedere quale ufficiale debba fare allora da Presidente; e quell'ufficiale rimarrà in carica, finchè non cessi l'incapacità o non sia eletto un nuovo Presidente. Il Presidente riceverà pei suoi servigi ed in tempi determinati un compenso, il quale non potrà essere nè accresciuto nè diminuito durante il periodo pel quale è stato eletto; egli non potrà ricevere in quel termine altri emolumenti nè dagli Stati Uniti, nè dai singoli Stati. Prima di entrare nell'esercizio del suo ministero il Presidente dovrà prestare il seguente giuramento o affermazione: «Giuro (o affermo) solennemente di adempiere fedelmente l'ufficio di Presidente degli Stati Uniti e di conservare, tutelare e difendere del mio meglio la Costituzione degli Stati Uniti.» Sez. 2. Il Presidente sarà comandante in capo dell'esercito e del naviglio degli Stati Uniti, come pure della milizia dei vari Stati quando questa venga chiamata in servizio attivo dagli Stati Uniti; potrà richiedere l'opinione in iscritto dei principali ufficiali dei dipartimenti esecutivi, sopra ogni argomento relativo ai loro rispettivi uffici, ed avrà la facoltà di concedere sospensione di giudizio o perdono per le offese contro gli Stati Uniti, fuorchè nel caso di delitti di Stato. Avrà la facoltà, per e con il consiglio ed il consenso del Senato, di concludere trattati, purchè concorrano due terzi dei senatori presenti; e nominerà per e con il consiglio ed il consenso del Senato, gli ambasciatori, gli altri ministri pubblici, i consoli, i giudici della Corte Suprema, e tutti gli altri ufficiali degli Stati Uniti alle cui nomine non provvede la Costituzione e che saranno creati per legge; ma il Congresso potrà per legge affidare la nomina di quegli ufficiali subalterni che crederà necessari, al Presidente solo, alle Corti di giustizia ed ai capi di dipartimento. Il Presidente avrà la facoltà di riempire tutti i posti che potessero rimanere vuoti durante le vacanze del Senato, e ciò concedendo commissioni che termineranno alla fine della successiva sessione del Senato. Sez. 3. Il Presidente darà di tempo in tempo informazioni al Congresso sulle condizioni degli Stati Uniti, raccomandando alla sua considerazione quei provvedimenti che gli parranno opportuni o necessari; potrà, in occasioni straordinarie, convocare ambedue le Camere, od una sola, e nel caso di un disaccordo fra loro rispetto al tempo della proroga potrà egli stesso differirle quando ciò stimi conveniente; riceverà gli ambasciatori ed altri ministri pubblici; curerà la fedele applicazione delle leggi; ed assegnerà le loro commissioni a tutti gli ufficiali degli Stati Uniti. Sez. 4. Il Presidente, il Vice presidente e tutti gli ufficiali civili degli Stati Uniti saranno rimossi se accusati o convinti di tradimento, corruzione, od altri delitti capitali o malversazioni. _Articolo III._ Sez. 1. Il potere giudiziario degli Stati Uniti sarà conferito ad una Corte Suprema ed a quei tribunali inferiori che al Congresso piacerà di creare e stabilire di tempo in tempo; tanto i giudici della Corte Suprema quanto quelli dei tribunali inferiori rimarranno in ufficio finchè lo meritano per la loro buona condotta; ed a tempi determinati riceveranno pei loro servigi un compenso che non potrà esser diminuito per tutta la durata del loro ufficio. Sez. 2. Il potere giudiziario si estenderà, in diritto ed equità a tutti i casi relativi a questa Costituzione, alle leggi degli Stati Uniti, ai trattati fatti o che si faranno sotto la loro autorità; a tutti i casi concernenti gli ambasciatori, altri ministri pubblici e consoli; a tutti i casi d'ammiragliato e di giurisdizione marittima; alle controversie in cui potranno aver parte gli Stati Uniti; alle controversie fra due o più Stati, tra uno Stato ed i cittadini di un altro Stato, tra cittadini dei diversi Stati, tra cittadini del medesimo Stato i quali reclamassero terre concedute da diversi Stati o tra uno Stato o suoi cittadini e Stati, cittadini e sudditi stranieri. In tutti i casi relativi agli ambasciatori, altri ministri pubblici o consoli ed in quelli in cui uno Stato sia parte litigante, la Corte Suprema avrà giurisdizione primaria; in tutti gli altri casi mentovati di sopra la Corte Suprema avrà giurisdizione d'appello tanto in diritto quanto in fatto, con quelle eccezioni o regolamenti che saranno dal Congresso ordinati. Il giudizio per tutti i delitti, eccettuato il caso di delitto di stato, si farà per mezzo di giuria; ed il processo sarà fatto nello Stato ove saranno stati commessi quei delitti; ma quando i delitti non sieno avvenuti in nessuno Stato, il giudizio si farà nel luogo o luoghi che il Congresso avrà indicato con una legge. Sez. 3. Il tradimento contro gli Stati Uniti consisterà soltanto nel muovere loro guerra, o nel far lega coi loro nemici, prestando a questi aiuti e soccorsi. Nessuna persona potrà esser convinta di tradimento se non lo attestano due testimoni dell'atto manifesto o se l'accusato non lo confessa pubblicamente in tribunale. Il Congresso avrà la facoltà di determinare la punizione del tradimento, ma nessuna sentenza di tradimento porterà seco infamia o altro effetto penale salvochè durante la vita del condannato. _Articolo IV._ Sez. 1. Piena ed intera fede sarà data in ogni Stato agli atti pubblici, registrazioni, e provvedimenti giudiziari di ogni altro Stato. Ed il Congresso potrà con leggi generali prescrivere il modo col quale si debbano provare e possano avere effetto tali atti, registrazioni e procedimenti. Sez. 2. I cittadini d'ogni Stato avranno diritto a tutti i privilegi ed immunità di cittadini nei vari Stati. Una persona accusata in uno Stato di tradimento fellonia od altro delitto, la quale sia sfuggita alla giustizia e trovata in un altro Stato, dovrà a richiesta dell'autorità esecutiva dello Stato da cui è fuggita, esser consegnata e ricondotta nello Stato a cui appartiene la giurisdizione sul delitto commesso. Nessuna persona obbligata a servizio od a lavoro sotto la sanzione delle leggi d'uno Stato potrà, fuggendo in un altro, profittare delle leggi e dei regolamenti di quest'ultimo per esentarsi dal servizio o lavoro suddetti, ma dovrà esser consegnata dietro richiesta della parte a cui è dovuto tal servizio o lavoro. Sez. 3. Il Congresso potrà ammettere nell'Unione nuovi Stati; ma nessuno Stato nuovo potrà esser formato o creato entro la giurisdizione di nessun altro Stato; nè alcuno Stato potrà formarsi colla fusione di due o più Stati, o parti di Stati, senza il consenso della legislatura degli Stati interessati e senza quello del Congresso. Il Congresso avrà facoltà di disporre del territorio o altre proprietà appartenenti agli Stati Uniti e di fissarvi tutte le regole e regolamenti che crederà necessari; e nessuna parte di questa Costituzione dovrà interpretarsi in modo che possa pregiudicare i diritti degli Stati Uniti o di alcuno Stato in particolare. Sez. 4. Gli Stati Uniti garantiranno ad ogni Stato dell'Unione una forma di governo repubblicana, e la difesa da qualunque invasione; ed a richiesta della legislatura (o del potere esecutivo quando la legislatura non possa convocarsi) anche la tutela dai disordini interni. _Articolo V._ Il Congresso, ogni qualvolta i due terzi di ambedue le Camere lo crederanno necessario, proporrà emendamenti a questa Costituzione, od a richiesta delle legislature di due terzi dei vari Stati, radunerà una Convenzione per proporre emendamenti, che in ambedue i casi saranno validi, ad ogni fine ed effetto, come parti di questa Costituzione, quando sieno ratificati dalle legislature di tre quarti dei vari Stati ovvero da Convenzioni parimenti composte di tre quarti di essi; il Congresso proporrà l'uno o l'altro modo di ratifica; purchè nessuno emendamento fatto anteriormente all'anno mille ottocento otto alteri in nessuna maniera la prima e la quarta clausola della nona sezione del primo articolo; e purchè nessuno Stato sia, senza il proprio consenso, privato del voto che gli spetta in Senato. _Articolo VI._ Tutti i debiti ed impegni contratti prima dell'approvazione di questa Costituzione, saranno validi sotto di essa di fronte agli Stati Uniti, come sotto la Confederazione. Questa Costituzione e le leggi degli Stati Uniti che ne deriveranno, e tutti i trattati già stipulati o da stipularsi in avvenire, sotto l'autorità degli Stati Uniti, saranno la suprema legge del paese; ed i giudici di ogni Stato saranno costretti ad uniformarvisi nonostante tutto quello che potessero contenere in contrario la Costituzione o le leggi di qualsiasi Stato. I senatori e rappresentanti summentovati, i membri delle legislature dei vari Stati e tutti gli ufficiali esercenti il potere esecutivo o giudiziario, tanto degli Stati Uniti quanto dei vari Stati, dovranno impegnarsi con giuramento od affermazione a mantenere questa Costituzione, ma nessun giuramento religioso sarà mai richiesto dal governo degli Stati Uniti come qualifica o condizione ad esercitare uffici od incarichi pubblici. _Articolo VII._ La ratifica della convenzione di nove Stati sarà sufficiente per stabilire questa Costituzione tra gli Stati che l'avranno ratificata. _Fatta in Convenzione, per unanime consenso degli Stati presenti, il decimo settimo giorno di settembre nell'anno di Nostro Signore mille, settecento ottantasette, e duodecimo dell'Indipendenza degli Stati Uniti d'America._ _In fede di che abbiamo tutti sottoscritto._ GIORGIO WASHINGTON, _Presidente e Deputato della Virginia._ _Nuovo Hampshire_ — Giovanni Langton, Nicola Gilman. _Massachusetts_ — Nataniele Gorham, Rufus King. _Connecticut_ — Guglielmo Samuele Johnson, Ruggero Sherman. _Nuova York_ — Alessandro Hamilton. _Nuova Jersey_ — Guglielmo Livingston, David Brearly, Guglielmo Paterson, Gionata Dayton. _Pensilvania_ — Benjamino Franklin, Tommaso Miflin, Roberto Morris, Giorgio Clymer, Tommaso Fitzsimons, Jared Ingersoll, Giacomo Wilson, Gouverneur Morris. _Delaware_ — Giorgio Read, Gunning Bedford, Jr. Giovanni Dickinson, Riccardo Bassett, Giacobbe Broom. _Maryland_ — Giacomo Mc Henry, Daniele di San Tommaso Jenifer, Daniele Carroll. _Virginia_ — Giovanni Blair, Giacomo Madison, Jr. _Carolina Settentrionale_ — Guglielmo Blount, Riccardo Dobbs Spaight, Ugo Williamson. _Carolina Meridionale_ — Giovanni Rutledge, Carlo Cotesworth Pinckney, Carlo Pinckney, Pierce Butler. _Georgia_ — Guglielmo Few, Abramo Baldwin. Rogato: GUGLIELMO JACKSON, _Segretario._ Emendamenti alla Costituzione[22]. Art. 1. Il Congresso non potrà fare alcuna legge relativa allo stabilimento di una religione, o per proibirne alcuna; non potrà similmente restringere la libertà della parola o della stampa, nè menomare il diritto che ha il popolo di adunarsi pacificamente e di mandar petizioni al Governo onde ottenere riparazione dei torti subiti. Art. 2. Una milizia ben ordinata, essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero, non si potrà restringere il diritto che ha il popolo di tenere e portar armi. Art. 3. Niun soldato, in tempo di pace, potrà essere alloggiato in una casa senza il consenso del proprietario; e neppure in tempo di guerra, salvo nel modo che verrà prescritto per legge. Art. 4. Il diritto che ai cittadini spetta di godere della sicurezza della loro persona, del loro domicilio, dello loro carte e robe, al riparo da indagini e sequestri ingiusti, non potrà esser violato; non si rilascierà alcun mandato fuorchè su presunzioni fondate, corroborate dal giuramento o dall'asseverazione; e simili mandati dovranno contenere la designazione speciale del luogo in cui le perquisizioni avranno a farsi, non che delle persone od oggetti che si dovranno colpire. Art. 5. Niuno sarà in obbligo di rispondere ad una accusa capitale od infamante, salvo il caso in cui emani da un gran giurì, ad eccezione dei delitti commessi da individui appartenenti alle truppe di terra o di mare, o dalla milizia quand'essa è in servizio attivo, in tempo di guerra o di pubblico pericolo; il medesimo non potrà soggiacere due volte per uno stesso delitto ad un procedimento che compromettesse la sua vita od uno dei suoi membri. In nessuna causa criminale, l'accusato potrà essere forzato a deporre contro sè medesimo, nè potrà esser privato della vita, della libertà o dei beni se non in seguito a procedimento legale. Niuna proprietà privata potrà essere volta ad uso pubblico senza un giusto compenso. Art. 6. In ogni procedimento criminale, l'accusato avrà il diritto di essere giudicato prontamente e pubblicamente da un giurì imparziale dello Stato e del distretto in cui il delitto sarà stato commesso, i limiti del qual distretto saranno stati previamente per legge segnati: egli verrà informato della natura e del motivo dell'accusa; sarà posto a confronto coi testimonî che contr'esso depongono; avrà la facoltà di far comparire testimonî in suo favore e di farsi assistere da un difensore. Art. 7. Nelle cause che dovranno essere giudicate a norma della legge comune, il giudizio per giurati sarà mantenuto ogniqualvolta il valsente dell'oggetto litigioso eccederà i venti dollari; niun fatto giudicato da un giuri potrà essere sottoposto alla disamina d'un'altra Corte negli Stati Uniti, fuorchè conformemente alla legge comune. Art. 8. Non si potranno esigere cauzioni esorbitanti, nè imporre ammende eccessive, nè irrogare pene crudeli e dissuete. Art. 9. L'enumerazione fatta nella presente Costituzione di alcuni diritti non potrà essere interpretata in modo che ne rimangano esclusi o debilitati altri diritti conservati dal popolo. Art. 10. I poteri non delegati agli Stati Uniti dalla Costituzione, o quelli che essa non vieta agli Stati di esercitare, sono riservati ai rispettivi Stati, ovvero al popolo. Art. 11. Il potere giudiziario degli Stati Uniti non sarà organizzato in modo che possa venir esteso per interpretazione ad una procedura qualunque, iniziata contro ad uno degli Stati dai cittadini di un altro Stato, o dai cittadini o sudditi di un Governo straniero. Art. 12. Gli elettori si riuniranno nei rispettivi loro Stati o procederanno con voto segreto alla nomina del presidente e del vicepresidente, uno dei quali almeno non sarà abitante del medesimo Stato a cui gli elettori appartengono: nella scheda, questi ultimi designeranno la persona per cui votano come presidente, e in scheda distinta, quella ch'essi portano alla vicepresidenza. I medesimi formeranno liste distinte di tutte le persone portate alla presidenza, e di tutte quelle che vennero designate per la vicepresidenza, e del numero dei voti per ciascuna di esse; tali liste saranno dagli elettori firmate e certificate e trasmesse, sigillate, alla sede del Governo degli Stati Uniti, all'indirizzo del presidente del Senato. Il presidente del Senato, presenti le due Camere, aprirà tutti i verbali, ed i voti saranno numerati. Colui che riunirà il maggior numero di suffragi, per la presidenza, sarà presidente se tal numero forma la maggioranza di tutti gli elettori riuniti; e dove niuno avesse una simile maggioranza, la Camera dei rappresentanti sceglierà immediatamente fra i tre candidati che ottennero per la presidenza maggior numero di voti, il presidente, per via di scrutinio segreto. Ma, in questa scelta del presidente, i voti si conteranno per Stato, avendo la rappresentanza di ciascuno Stato un voto: a questa operazione dovranno essere presenti un membro o membri di due terzi degli Stati, e la maggioranza di tutti gli Stati sarà necessaria per la scelta. E se la Camera dei rappresentanti non sceglie il presidente, allorchè questa scelta sarà a lei devoluta, prima del quarto giorno del seguente mese di marzo, il vicepresidente sarà presidente, non altrimenti che nel caso di decesso o d'altra inabilità costituzionale del presidente. Colui che riunisce un maggior numero di suffragi per la vicepresidenza, sarà vicepresidente, se detto numero forma la maggioranza del numero totale degli elettori riuniti; e se niuno ottenne questa maggioranza, il Senato sceglierà, in tal caso, il vicepresidente fra i due candidati che ebbero maggior numero di voti: la presenza dei due terzi dei senatori e la maggioranza del numero totale sono necessarie per questa scelta. Niuno che sia costituzionalmente ineleggibile all'ufficio di presidente, sarà eleggibile a quello di vicepresidente degli Stati Uniti. Art. 13. _Sezione 1ª._ — Nessuna schiavitù o servitù volontaria, tranne che per pena di un delitto, per cui l'imputato sia stato condannato, esisteranno in tutta l'estensione degli Stati Uniti, nè in alcun luogo soggetto alla loro giurisdizione. _Sezione 2ª._ — Il Congresso avrà il potere di mettere in vigore questo articolo per mezzo di leggi acconcie. Art. 14. _Sezione 1ª._ — Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono. Nessuno Stato farà o metterà in vigore alcuna legge che restringa i privilegi e le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; così pure nessuno Stato priverà alcuna persona della sua vita, della sua libertà, della sua proprietà, senza una procedura legale nella dovuta forma, nè rifiuterà a chicchessia nei limiti della sua giurisdizione l'eguale protezione delle leggi. _Sezione 2ª._ — I rappresentanti saranno ripartiti tra i diversi Stati in proporzione alla cifra della loro popolazione rispettiva, comprendendo la totalità delle persone di ciascuno Stato, ad esclusione degli Indiani non tassati. Ma, allorquando il diritto di voto ad una elezione qualunque per la scelta degli elettori del presidente e del vicepresidente degli Stati Uniti, per la scelta dei rappresentanti al Congresso, dei funzionari esecutivi e giudiziari di uno Stato o dei membri della sua Legislatura, è rifiutato ad abitanti maschi di questo Stato dell'età di anni ventuno e cittadini degli Stati Uniti o quando questo diritto è ristretto in un modo qualsiasi, tranne che per causa di partecipazione ad una ribellione o per altro delitto, la base della rappresentanza di questo Stato sarà ridotta proporzionalmente alla differenza fra i cittadini maschi esclusi e il numero totale dei cittadini maschi dell'età di anni ventuno nello Stato suddetto. _Sezione 3ª._ — Non potrà essere senatore o rappresentante al Congresso, nè elettore del presidente o del vicepresidente, nè coprire alcun impiego civile o militare dipendente dagli Stati Uniti o da qualche Stato, chi, avendo antecedentemente prestato giuramento come membro del Congresso, o funzionario degli Stati Uniti, o membro della Legislatura di uno Stato, o funzionario esecutivo o giudiziario di uno Stato — di mantenere la Costituzione degli Stati Uniti, avrà preso parte a un'insurrezione o ribellione contro la Costituzione, o prestato aiuto o concorso a' suoi nemici; ma il Congresso potrà, con un voto dei due terzi dei membri di ciascuna Camera, togliere questa incapacità. _Sezione 4ª._ — La validità del debito pubblico degli Stati Uniti autorizzato mediante legge, compresi i debiti contratti pel pagamento di pensioni e ricompense in ragione dei servigi resi per la repressione dell'insurrezione o della ribellione, non sarà messa in questione. Ma nè gli Stati Uniti, nè alcuno Stato potranno prendere a loro carico o pagare alcun debito o alcuna obbligazione contratta per venire in aiuto all'insurrezione o ribellione contro gli Stati Uniti, nè alcuna indennità sarà reclamata per la perdita o l'emancipazione di schiavi; ma le obbligazioni e i reclami per questi debiti saranno tenuti per nulli. _Sezione 5ª._ — Il Congresso avrà il potere di mettere in vigore le disposizioni di questo articolo con leggi acconcie. Art. 15. _Sezione 1ª._ — Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere ricusato nè ristretto dagli Stati Uniti nè da alcuno Stato per causa di razza, di colore o di condizione anteriore di servitù. _Sezione 2ª._ — Il Congresso avrà il potere di mettere in vigore questo articolo con leggi acconcie. NOTE ALL'APPENDICE I. [21] Eufemismo per non dire _schiavi_. [22] Per maggior intelligenza del lettore riteniamo bene dare insieme colla Costituzione i mutamenti da essa subiti sotto forma di _Emendamenti_, quantunque essi sconfinino dal periodo storico illustrato in questo volume. I primi 10 emendamenti del resto furono prodotti insieme quali articoli addizionali ed integranti della Costituzione nella stessa ultima sessione del Congresso nel 1789 e ratificati nel dicembre 1791, in seguito alle lagnanze di vari Stati che i diritti dei cittadini non fossero abbastanza espressamente e formalmente garantiti. L'11º venne proposto dal Congresso nel 1794 e ratificato nel 1798. Il 12º proposto nel 1803, per evitare con una nuova forma di procedura delle elezioni presidenziali l'inconveniente avveratosi nell'elezione del 4º presidente in cui due personaggi, Tommaso Jefferson ed Aaron Burr, ottennero lo stesso numero di voti e la maggioranza assoluta, fu ratificato nel 1804. I tre ultimi emendamenti (13º, 14º, 15º) adottati successivamente nel 1865, 1868 e 1870, sono relativi alla schiavitù abolita dopo la guerra civile (1861-65) ed all'eguaglianza dei diritti civili e politici accordata agli ex-schiavi ed ai negri in genere. APPENDICE II[23] Area degli Stati Uniti. Miglia quadrate ingl. Area originaria degli Stati Uniti 820.680 Louisiana, comprata dalla Francia nel 1803, per Dol. 15.000.000 899.579 Florida, comprata dalla Spagna nel 1819, per Dol. 5.000.000 66.900 Territorio confermato dal Trattato dell'Oregon del 1842 e 1846 308.052 Texas annesso nel 1846 (debito del Texas Dol. 7.500.000) 318.000 Nuovo Messico e California conquistate nel 1847 (spese di guerra Dol. 15.000.000) 522.955 «Compra Gasden» dal Messico nel 1853 per Dol. 10.000.000 45.535 Alaska, comprato dalla Russia nel 1867, per Dol. 7.200.000 577.390 ---------- Totale 3.559.091 [23] Anche questa appendice viene data per maggior intelligenza del lettore sullo sviluppo graduale degli Stati Uniti, quantunque questo sconfini dal periodo trattato nel presento volume. INDICE DEI NOMI E DELLE COSE A Absburgo, 194, Acadia, 42, 44, 56, 100, 275, 283. Adams Samuele, 310, 314, 320, 327, 357. Adams John, 331, 332, 357, 373. Africa, 33, 50, 131, 179, 180, 181, 195, 196, 306. Africana, Compagnia, 180. Agostino (Sant'), città, 15, 36, 161, 173, 177. _Agricoltura_, 128-29, 138-39, 144, 146-50, 177, 228, 400. Aja, 328. Alabama, stato, 162. Alabama, fiume, 3, 14. Alaska, 1, 8, 25. Alatamaha, fiume, 175. Albany, città, 198, 208, 252, 284, 302, 337. Albany (congresso di), 285-87, 314, 323, 332. Albemarle, fiume, 160. Albemarle, colonia, 165. Albemarle, (duca di), 161. Albione (Nuova), 51. Algonkini, 24, 46, 273. Alleghany, 3, 4, 9, 11, 12, 13, 15, 16, 49, 61, 142, 265, 271, 283, 293. Alpi, 5. Altipiani mediani, 9, 10. Altipiani occidentali, 8. Amburgo, 306. America, 32, 38, 49, 51, 52, 56, 59, 73, 109, 110, 124, 125, 126, 134, 153, 174, 175, 180, 195, 196, 198, 199, 247, 306. America inglese, 1, 9. America latina, 1. Amici, o Quaccheri, 213, 215, 223, 225. Amsterdam, 73, 195, 197. Amsterdam Nuova, 199, 202, 203, 208, 227. Anabattisti, 89. Andrews, _prefazione_. Andros Edmondo, 110, 111, 240. Anglicana (chiesa), 67. Anglo-americani, 131, 290, 291, 344. Anhalt, 329. Anna, regina inglese, 180. Annapolis (convenzione di), 355, 357. _Antifederalisti_, 358, 371-72. Antille, 313. Anversa, 195. Appalachiano, sistema, 3, 314. Appalachiani, tribù indiana, 25. Aquisgrana (pace di), 283. Arca e Colombo (nave), 155. Arcadia, 168. Arçon (d'), 313. Argall, Samuele, 44, 139. Arkansas, stato, 162. Arkansas, fiume, 279. _Aristocrazia_, 144-49, 159, 184-185, 190-91. Arkwright, 400. _Armata invincibile_, 53. Arnold, 338, 341. Ashley, fiume, 16, 169. Ashley, lord... Cooper, 161. Asia, 2, 33, 196. Assia, 329. Assiani, 337, 361. Atlantico, 1, 2, 3, 9, 15, 18, 19, 32, 49, 51, 55, 59, 60, 82, 85, 93, 94, 154, 161, 175, 197, 201, 228, 232, 265, 347. Attucks, Crispus, 361. Austria, 176. Azzorre, 54, 195. B Babilonia, 84. Bacino, Gran.... interno, 8. Bacon, Nathaniel (rivolta di), 151-52, 157. Bahama, 109. Balboa (Vasco Nuñez de), 34. Baltico, 245. Baltimora, città, 17, 186, 399. Baltimora (lord di), 153-58, 218, 222, 226, 227. Bancroft, _prefazione_, 21, 64, 93. _Bandiera_, 335-36. Barbados, 112, 160, 161, 167, 171. Barklay, Robert, 217. Barneveldt, Olden, 198. Barré, 311-13. Bengala, 344. Berkeley Guglielmo, 148, 151, 153, 161, 188. Berkeley lord Giovanni, 161, 208, 210, 214. Bering (mare di), 2. Bering (stretto di), 8. Berlino, 328. Bermude, 107. Bianchi, monti, 4. Bianco, capo, 181. Bikker, 195. Block Adriano, 96, 198. Bloemart, 200. _Bluffs_, 12. _Board of Trade_, V. _Commercio e piantagioni._ _Bollo_ (_Legge sul_), 311-18. Borbone (Carlo di), 46. Borgia, 126. Boston, 18, 85, 87, 110, 111, 112, 129, 172, 231, 252, 253, 255, 263, 286, 307, 308, 310, 316, 319, 321, 322, 325, 326, 328, 330, 336, 365, 399. Bottoms, 13. Boutmy Emile, 391. Braddock, 288, 296. Bradford, 106. Bradstreet, 118. Brandywine, 337. Breck, 349. Brettagna, 40. Brettagna (Gran), 70. Brewster, 75. Briard, 44. Bridgewater, 400. Brion-Chabot (Filippo di), 34. Bristol, 49, 179, 247, 316. Brown, 89. Brunialti, 391, 393. Brunswick, 329. Brunswick Nuovo, 22. Bryce, 375, 379, 391, 393. Bunker-Hill, 327, 361. Burgoyne, 337-38. Buschmann, 24. Bute (Carlo di), 311-18. C Caboto Giovanni, 31, 49, 50, 196. Caboto Sebastiano, 50, 196, 275. Cabral, 33, 34. California, 5, 6, 7. Calvert Benedetto, 58. Calvert Carlo, 157-58. Calvert Cecilio, 155-57. Calvert Giorgio, 153-55. Calvert Leonardo, 155. Calvino, 39, 75. Calvinesimo, 119, 125. Calvinisti, 204. Cambridge (Università di), 211. Camden, 341. Canadà, 22, 23, 37, 39, 46, 47, 228, 253, 264, 265-89, 321, 326, 328, 330-31, 337, 397. Cancello, 35. Cañons, 5, 21. Canoa, 29. Carlo I d'Inghilterra, 71, 82, 87, 108, 109, 141, 161, 242, 314. Carlo II d'Inghilterra, 109, 110, 152, 161, 172, 218. Carlo IX di Francia, 36. Carlo (Forte), 36. Carlo (San..., fiume), 45. Carignano (reggimento), 267. Carlier, _prefazione_. Carnegie Andrea, 230. Carolina, regione, 33, 40, 52, 145, 160-65, 177, 186, 189, 208. Carolina meridionale, 162, 168-174, 181, 258, 284, 331, 330, 340, 351, 364, 368, 369, 374. Carolina settentrionale, 16, 22, 39, 54, 162, 165-68, 169, 171, 181, 258, 341, 351, 364-368, 369, 371. Cartagine, 263. Carteret (sir Giorgio), 161, 208, 210. Cartier Giacomo, 39, 40. Carver Giovanni, 77. Cascate (Catena delle), 5, 7. Castiglia, 195. Catai, 39, 51. Cesare, imperatore, 168, 314. Champlain Samuele, 41-42, 45-48, 103, 266. Champlain, lago, 288. Charleston, 16, 170, 173, 174, 186, 330, 340, 343, 399. Charlestown, 86. Cherochesi, 21, 25, 290. Chesapeake (baia di), 16, 17, 134, 135, 145, 197, 355. Chester, 221. China, 279. Choiseul, 297. Chowan, 160. Christiana, 202. _Città_ (_Amministrazione delle_), 388. Clan, 26, 27. Clarendon, 161. Clarke John, 94. Clayborne Guglielmo, 153, 156. Clemente VII, 66. Clinton, sir Enrico, 338, 339, 342. Cod, capo, 23, 42, 58, 76, 196. Coddington William, 94. Colbert, 267, 270, 278. Coligny, 35. _Collegio di Guglielmo e Maria_, 188. Colleton, sir Giovanni, 161, 170. Colombo Cristoforo, 31, 34, 279. Colorado, 2, 7, 9. Columbia, fiume, 7. Commercio, 112, 186, 228-29, 250-51, 255, 270-71. _Commercio e Piantagioni_ (Ufficio del), 238-39, 250, 252, 253, 259, 286, 299, 301-02, 304. Concord, 326-27. _Condizioni politiche_, 235-40, 299-306. _Condizioni sociali_, 111-30, 178-91, 228-30, 261-64, 268-75, 395-406. _Confederazione_, 331-32, 349-73. Connecticut, colonia, 96-99, 103, 106, 107, 109, 110, 111, 121, 189, 207, 209, 252, 284, 316, 335, 351, 362, 364. Connecticut, fiume, 97, 98, 198, 204, 205, 207. Cooley, 391. Cooper, fiume, 16. Cooper, lord Ashley, 161. Copenhagen, 328. Cordigliere, 3, 5, 9, 11. Cornwallis, lord, 337, 341-42, 361. Cortereal, 33. Cortez, 37. Cosmopolitismo, 203-04, 227. Costa, (Sierra della), 5, 6. Costantinopoli, 297. _Costituzione federale_, 373-381, 391, 414-32. _Costituzione_ (_Emendamenti alla_), 432-441. _Costituzione di Stato_, 382-86, 391-93. _Covenant_, 77, 121. Craven, lord, 161. _Creeks_, 5. Cristina di Svezia, 202-03. Cristo, 118, 195. Croix (St.), 1, 42, 106, 345. Cromwell, 101, 109, 141, 156, 207, 244-46. Cuba, 34, 35. Cumberland, 399. Cuoq, 64. _Cypress swamps_, 16. D Dakota, tribù, 25. Dale, sir Tommaso, 137, 138. Dane Nathan, 364. Daniel, 60. Danimarca, 339. Dare, 53. Darien, 34. Davenport John, 98. Davis, 391. Dazi, 306-07, 309-10. De Courcelles, 279. De Kalb, 337. Delaware (baia di), 17, 197, 202, 210. Delaware, colonia, 200, 203, 208, 215, 227, 355, 356, 364, 372. Delaware, fiume, 207, 208, 254, 336, 337. Delaware, lord, 74, 137. _Democrazia_, 127-29. Detroit, 291, 399. Devon, 59. _Dichiarazione d'indipendenza_, 332-35, 395, 407-12. Dickinson Giovanni, 319, 353, 357. Diego (San), 1, 7. Dieppe, 35, 39. _Dismal swamp_, 16, 17. Dixon, linea di Masone..., 226. Dominica, 343. _Dominio, Antico_, 133, 153, 160. Dorchester, 86, 330. Dover, 102. Drake Francesco, 54. Drummond, 152. Dunkerque, 245. E Eaton Teofilo, 98. Ebenezer, 176. Ebrei, 94. Ebridi, 55. Eden, 74. Edisto, 173. Edoardo VI, 70. Eliot John, 26, 105, 118. Elisabetta d'Inghilterra, 50, 51, 52, 54, 60, 70, 71, 72, 180. Elliot, 343. Ellis Giorgio C., 89. Endicot Giovanni, 82, 83. Enrichetta Maria d'Inghilterra, 100. Enrico IV di Francia, 41, 42, 43, 46. Enrico VII d'Inghilterra, 50, 51, 52, 54, 60, 180. Enrico VIII d'Inghilterra, 66, 67, 70, 71. Erie, 4, 10, 344. Erik Raudi, 23. Estaing (conte d'), 339. Escambia, 15. _Esplorazioni_, 31-63. Europa, 1, 22, 23, 31, 32, 34, 48, 62, 63, 70, 73, 124, 143, 146, 167, 171, 177, 189, 195, 197, 200, 201, 213, 217, 223, 263, 289, 328, 376, 380, 400. Evans Oliver, 401. F _Faneuil-Hall_, 319. Farm, 128, 228, 400. Färöer, 23. _Far-West_, 399. Fear, Capo, 16, 56, 160, 169. _Federalisti_, 358, 371-72. Federico II di Prussia, 223. Fenelon, 215. _Feudalismo_, 269. Filadelfia, v. Philadelphia. Filippo II di Spagna, 36, 194. Filippo sachem, 106-7, 291. Filippo guerra del re, 107. Finistère, 247. Finlandesi, 202. Fiske John, 373, 391. Fitch John, 401. Florida, regione, 37, 44, 47, 176, 289, 298, 345, 396, 397. Florida, stato, 162. Forge (vallata di), 337, 339. Fox Giorgio, 211-13, 214, 217, 226. Francesca, regione, 41. Francesca, Compagnia, 47-48, 266. Francesco I di Francia, 38. Francese, colonizzazione, 38-49, 265-289, 396. Francesi, 32, 52, 61, 103, 151, 275, 276, 281, 288-89, 341-342, 396, 397. Francia, 41, 46, 93, 112, 125, 169, 264, 266, 267, 272, 275, 277, 280, 285, 289, 290, 297, 298, 305, 338-39, 343, 344, 349. Francia (Nuova), 41, 43, 44, 46, 48, 99, 267, 289, 297. Francisco (baia di S.), 6, 8. _Franco-canadese_ (_Società_), 265- 275. Francoforte, 202. Franklin Benjamino, 225, 233, 286-87, 302, 304, 305, 308-309, 310, 318, 325, 328, 332, 338, 357, 360. Franklin Giacomo, 286. Frobisher, 51. Frontenac (conte di), 270, 273, 279, 282. Frontenac, forte, 280. Fuca (S. Juan de), 1, 7. Fulton, 400. Fundy (baia di), 288. G Gadsden, 314-15. Gage, 319, 321, 326, 327, 330. Galveston (baia di), 14. Gates, generale, 296, 338, 341. Gates, vicegovernatore, 137. Georgia, 21, 160, 162, 174-78, 181, 186, 189, 208, 323, 332, 334, 340, 349, 361, 364, 368, 369, 399. Germani, 27. Germania, 93, 201, 202, 217, 226, 289. Gesuiti, 43, 48, 272-73. _Geysers_, 6. Giacomo I d'Inghilterra, 54, 58, 61, 70, 71, 74, 77, 141, 242. Giacomo II d'Inghilterra, 111, 209, 240. Giamaica, 109, 216, 245, 343. Giani, _prefazione_. Gibilterra, 200, 343, 344. Gilbert Umfredo, 51-52. Ginevra, 69, 125. Gioacchino, fiume, 6, 7. Giorgio (forte di S.), 58. Giorgio II d'Inghilterra, 175. Giorgio III d'Inghilterra, 304, 310, 313, 314, 318, 326, 333. Giovanni (forte S.), 330. Giovanni (fiume S.), 42. Gist Cristoforo, 284. Giura, 284. Glaciale artico (oceano), 2, 9. Glasgow, 306, 316. Godyn, 200. Golfo del Messico, v. Messico. Goodell, 192. Gorges, sir Ferdinando, 55, 74, 100, 101. Gorton Samuele, 89. Gosnold Bartolomeo, 54, 55, 74. Gourgues (Domenico de), 37. Grafton, 318. Grasse (de), 343. Grecia, 122. Green River, 399. Greene, 341, 342, 361. Greenwich, 1, 12. Grenville, ammiraglio, 52. Grenville, ministro, 307, 309, 311, 317. Groenlandia, 23. Grotius, 198, 244. Grunsand, 19. Guercheville (marchesa di), 44, 45. _Guerra d'indipendenza_, 326-44. _Guerre intercoloniali_, 48, 282-283, 287-89. Guglielmo III d'Orange, 218, 333. Guinea, 181. Guizot, 347. Gustavo Adolfo di Svezia, 200-202, 203, 225. H Hakluyt Riccardo, 54, 74. Halifax, città, 56, 330. Halifax, lord, 302. Hamilton Alessandro, 357, 372. Hampshire (New), 99-103, 110, 111, 121, 334, 359, 363, 372. Hancock Giovanni, 327. Haro, canale, 1. Hartford, 109. Harvard, College, 114. Harvard, Giovanni, 114. Hatteras, 17, 160. Heath, sir Roberto, 161. Helluland, 23. Herny William, 401. Hiawatha, 27. Higginson Francesco, 83, 84. _Highlanders_, 176. Hispaniola, 245. Hochelaga, 39, 42. Hojeda Alonso, 34. Honfleur (Dionigi d'), 38. Hooker Thomas, 97. Hopp, _prefazione_. Howe, ammiraglio, 336, 343. Howe, generale, 330, 336, 339. Hudson (baia d'), 9, 275. Hudson, Enrico, 60, 74, 196-98. Hudson, fiume, 15, 17, 76, 100, 197, 199, 210, 228, 338. Hull, 316. Hunt Roberto, 55. Huron, 10. Huroni, 24, 46, 273. Hutchinson Anna, 94. I Illinois, fiume, 279. Illinois, regione, 364. Indiana, regione, 364. Indiani, 2, 24-31, 48, 53, 104, 105, 106, 107, 142, 151, 176, 198, 199, 202, 214, 220-21, 223, 226, 272, 273-74, 276-277, 279, 286-87, 290-91, 326, 398. Indiani preganti, 105. Indie occidentali, 38, 54, 112, 172, 195, 307, 326, 350. Indie occidentali (Compagnia delle), 196, 198-208. Indie orientali, 32, 51, 195, 289. Indie orientali (Compagnia delle), 196-198. _Industria_, 112, 186, 252-54, 400. Inghilterra, 49, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 58, 60, 66, 72, 73, 84, 85, 86, 92, 93, 100, 101, 110, 111, 137, 141, 145, 150, 151, 156, 175, 194, 195, 196, 207, 208, 209, 211, 214, 216, 226, 231, 242, 245, 247, 250, 251, 255, 262, 263, 264, 275, 277, 285, 297, 298, 299, 300, 304, 305, 308, 326, 327, 336, 338, 342, 350, 380, 400. Inghilterra (Nuova), 4, 17-18, 19, 42, 54, 58, 59, 65-130, 147, 160, 161, 167, 190, 193, 205, 206, 210, 213, 214, 227, 228, 235, 245, 247, 255, 258, 259, 277, 282, 283, 306, 307, 313, 323, 363, 369, 396, 399. Inghilterra, Colonie unite della N. I., 103-108, 241. Inglesi, 32, 49-63, 156, 207, 216, 276, 290, 396. Ingram, 192. Irlanda, 49, 55, 109, 216, 326, 328. Irlanda (Grande), 22. Irlandesi, 22, 23. Irochesi, 24, 46, 47, 276, 277. Islanda, 23. _Istituzioni politiche_, 119, 120-123, 185, 235-40, 269-70, 373-89. _Istruzione_, 113-15, 118, 188-189. Italia, 31, 112. J James, fiume, 60, 135, 137, 142, 342. Jamestown, 133, 137, 139, 142, 144, 145, 152. Jates, 358. Jay John, 323, 357, 372. Jefferson Tommaso, 189, 320, 332, 333, 357, 364. Jersey, 210. Jersey (New), 208, 209-215, 258, 303, 331, 334, 336, 337, 339, 351, 356, 363, 364, 372. John (parrocchia di Saint), 335. Joliet Luigi, 279. Jowa, fiume, 19. Jucon, 8. Judson, _prefazione_. K Kalm Peter, 233, 260-61. Kant, filosofo, 286. Kapp, 192. Kayuga, 24. Keith, sir Guglielmo, 300. Kenai, 25. Kennebec, fiume, 57. Kennebec, stabilimento, 57. Kennedy, 260, 301. Kent, isola, 153. Kentuchy, fiume, 284. Kentuchy, regione, 20, 399. King Rufus, 357. Kingston, 280. Kosciusko, 337. L Labrador, 23, 33, 50, 275. Lafayette, 337, 341, 342. Laghi (Grandi), 1, 3, 10, 13, 17, 19, 24, 197, 228, 271, 275, 345, 396, 397. _Lana_, 251-53. Lancaster, 316. La Salle (Roberto Cavalier de), 279-80. Lasing, 358. _Latifondo_, 144, 146-50, 177, 228. Laudonniere, 36. Laurence, 152. Law Giovanni, 281. _Lealisti_, 339, 342. Lee Carlo, 336. Lee Riccardo Enrico, 331. Leeds, 306. Leicestershire, 211. Leif Eriksen, 23. Lemni Lenapi, 21, 220. Lepe, Diego de, 34. Leone X, 66, 126. Letourneau, 182. _Letteratura coloniale_, 118-19, 189-90. Levante, 195. Lexington, (combattimento di), 326-27. Leyda, 73, 75. Leyen di Enkhuysen, 196. Liberia, 181. Lincoln, 338, 340. Lincolnshire, 72. Lisbona, 195. Liverpool, 180, 247, 306, 316. Livingston Roberto L., 332. Loke Giovanni, 162-65, 166, 169, 174, 220. Logan, 260. Londinesi, (mercanti), 58. Londra, 56, 196, 217, 247, 316, 338. Londra (Compagnia di), 56-57, 60, 61, 79, 133, 136, 140, 141, 153. Longfellow, 27, 283. Long Island, 99, 100, 198, 205, 336. Lorenzo, (golfo di San), 38, 39. Lorenzo (fiume San), 1, 3, 9, 10, 13, 17, 39, 44, 45, 266, 272, 275, 283, 396. Loudoun, 303. Lonisburg, 283. Lubecca, 49. Luigi XIII, di Francia, 44. Luigi XIV, 266, 267, 269. Luigiana o Louisiana, regione, 280-82, 345, 397. Luigiana o Louisiana, stato, 162. Luterani, 204. Lutero, 39, 75. Lützen, (battaglia di), 202. M Macaulay, 224. Macello bostonese, 319. Madera, 54. Madison, James, 189, 355, 356, 357, 370, 372. Madrid, 328. Magellano, 198. Maine, 3, 44, 57, 101, 102, 107, 111, 196, 208, 298, 349. Maisonneuve, 266. Malò (San), 41. Manchester, 306, 361. Manhattan, 198, 199, 200, 205, 206. _Manors_, 199, 205. Mansfields, lord, 297. Markland, 23. Maria la Sanguinaria, 69, 70. Maria Stuart, 158. Maria sposa di Guglielmo III, 248. Maria dei Medici, 44. Marinelli, 64. Mary, St., 155. Maryland, 50, 56, 126, 153-60, 171, 178, 186, 188, 190, 192, 207, 218, 226, 228, 245, 258, 331, 334, 355, 356, 364, 368, 369. Mason, 101, 102. Mason (linea di), 226. Massachussets, 26, 76, 81-90, 91, 95, 101, 102, 104, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 114, 120, 121, 125, 126, 131, 153, 235, 237, 240, 252, 260, 284, 314, 316, 319-20, 321, 322, 351, 352, 361, 364, 365, 371. Massachussets (baia di), 18, 82, 85, 97. Massasoit, 104, 106. Mather Increase, 89. Mather Riccardo, 118. Matteo, (fiume San), 161. _Mayflower_ (nave), 75, 76, 77. Mc Master, _prefazione_. _Mean whites_, 185-86. Mediterraneo, 32, 170. Melendez, 36, 38, 221. Mendon, 333. _Mercantilismo_, 241, 250-60. Merrimac, 82. _Mesas_, 5. Messico, 22, 23, 38, 281. Messico (Nuovo), 21. Messico (Golfo del), 1, 2, 3, 9, 10, 11, 12, 14, 15, 19, 21, 25, 37, 197, 264, 271, 272, 279, 396, 397. _Mezzaluna_, nave, 196. _Mezzi di comunicazione e trasporto_, 231-32. Michigan, lago, 10. Michigan, stato, 364. Minnewit Pietro, 202-203. Minorca, 343. _Minute men_, 326-27. Mississippi, fiume, 2, 3, 9, 10, 11, 12, 13, 19, 21, 24, 25, 35, 264, 271, 275, 279-80, 292, 344, 345, 396, 397. Mississippi, stato, 162. Mississippi (Compagnia del), 281. Missouri, fiume, 11, 12, 13, 35. Missouri, stato, 162. Mobile, (estuario di), 14. _Moccason_, 29. Mohawk, 399. Mohawki, 24, 321. Mohegans, 106. Mondaini, Gennaro, 131. _Mondo_ (_Nuovo_), 54, 133, 180. 202, 204, 242. _Moneta_, 256-58, 310. Monk, 161. Monmouth, (congiura di), 171. Monopolio coloniale, 150-51, 159, 242-55, 267. Monroe, 189. Montcalm, 264, 286-89. Montgomery, 296, 328, 330-31. Montreal, 39, 42, 266, 273, 277, 330 Monts, (Pietro de), 42, 43, 44, 45, 46. Moore Frank, 347. Mori, 37. Morris Roberto, 341, 357, 368. Morte, (valle della), 8. Morton, 22. Moultrie, (Fort), 330. Mound-builders, 19-22. N Nantasket, 91. Nantes, (editto di), 171, 272. Narragansett, (baia di), 92. Narragansett, tribù, 105, 106, 107. Natchez, 21, 25. Natick, 105. _Navigazione_, (_Atto di_), 141, 243-46. _Nazionalità_, 233-42, 286, 295-97. _Nazioni_, (_lega delle Cinque_), 24, 27, 46, 47, 197, 282. Negri, 38, 131, 144, 158, 171. 180-85, 192, 209, 215, 282, 359-63. Negro, Capo, 181. Nevada, Sierra, 5, 6, 8. Nevis, 372. Newburgh, 350. New-Haven, 99, 109. Newport, 133-35. Niagara, cascata, 10. Niagara, forte, 288. Nicuesa, (Diego de), 34. Nord-America, 13, 31, 33, 41, 48, 54, 60, 61, 62, 126, 208, 290, 321. _Nord-Ovest_, (passaggio di), 51. _Nord-Ovest_ (Territorio del), 364-66, 399. Normanni, 22-24. Norsi, 22-24. North, lord, 318, 320-21, 326, 338. Nottingham, 211. Nottinghamshire, 72. O _Occidente_,(_Compagnia dell'_), 267. Oceano (Grande), 34. Oglethorpe Giacomo, 174-77. Ohio, (fiume), 13, 19, 197, 279, 284, 344, 399. Ohio, stato, 364. Ohio (_Compagnia dell'_), 284. Ohio, altra _Compagnia dell'_, 365. Olanda, 73, 75, 93, 112, 125. 193, 195, 198, 206, 207, 208. 217, 244-45, 339, 343, 344, 350. Olanda (Nuova), 110, 170, 193- 209. Olandesi, 33, 49, 61, 73, 96, 97, 103, 154, 194-209, 244-45, 396. Oneida, 24. Onondaghi, 24. Ontario, 10, 280, 344, 399. Orange, contea, 334. Orange, forte, 198, 208. Oregon, 7. Orleans, isola, 288. Orleans, Nuova, 14, 281. Otem, 26, 64. Otis Giacomo, 307-308, 310, 314. Ottawa, fiume, 266. Ottawa, tribù, 291. Oxenstiern, 202, 203. Oxford,(università di), 211, 216. P Pacifico, Oceano, 1, 2, 8, 9, 18, 21, 51, 59, 82, 109, 133, 134, 135, 161, 175, 279. Paesi Bassi, V. Olanda. Paesi Bassi (Nuovi) V. Nuova Olanda. Paine Tommaso, 331. Palma, 391. Paraguay, 48. _Parchi_, 5. _Parco nazionale_, 5. Parkman Francis, 293. Parigi, 216, 326, 338. Parigi, pace di, 289, 297, 344, 395. _Parlamento_,(_Lungo_), 95, 108, 243. Patriko, Patrizio Henry, 314, 323, 357. Pauw, 200. Pawtuchet, 400. _Pellegrini_, 66, 72-81, 96, 104, 111, 126, 134. _Pelli_, (commercio delle), 270, 272, 276. Pelli-Rosse, V. Indiani. Penn Guglielmo, 203, 215-24, 225, 226, 227. Pennsylvania, 203, 208, 215-27, 229, 258, 286-87, 288, 303, 304, 306, 331, 350, 351, 355, 356, 360, 362, 363, 369, 372, Penobscot, 58, 99, 100. Pensacola, 15. Pequod, 97, 106. Perley Poore, 393. Perù, 52. Peyton Randolph, 323. Philadelphia, 17, 42, 59, 203, 222, 231, 232, 285, 286, 316, 336, 337, 339, 356, 399, 401. Philadelphia (Congresso di), 323-24, 327. Philadelphia (Convenziono di), 357-70. Piedmont, 15, 16. Pietro, apostolo, 211. Pietro il Grande, 213. Pietroburgo, 328. _Pilastri_, (_i Sette_), 98, 99. Pinckney Carlo, 357, 370. _Pine barren_, 15. Pinzon, (Vicente Janez), 34. Piscataqua, 99, 102, 103, 106, 112. Pitcairn, 361. Pitt, il vecchio, 254, 288, 303, 304, 317, 318. Pittsburgh, 231, 285. Pizzarro, 37. Place Royale, 46. Plaine, 11. Plastone Giosuè, 104. Plymouth, 76. Plymouth (Compagnia di), 46-57, 58, 59, 81, 99, 100. Plymouth, Nuova, 76-81, 103. 104, 111, 118. Point's Bridge, 361. Pokanokets, 106. Ponce de Leon, 34, 38. Pontgravè, 41, 42, 45, 46. Pontiac, 290-91. Popham John, 55. Porena, 64. Portogallo, 195, 244. Portoghesi, popolo, 32. Portoghesi, scoperte, 33. Portorico, 34. Port-Royal, 42, 43. Portsmouth, 102. Potomac, 17, 135, 142, 145, 153, 154, 155, 285, 355, 399. Poutrincourt, barone di, 42-44. Praterie, 11. Princeton, 337. Pring, 54. Prometeo, 286. _Proprietà fondiaria_, 128, 138-39. _Proprietors_, delle Caroline, 161- 174. Providence, 93, 94, 95, 103, 111. Province Unite, V. Olanda. Prussia, 343. Pueblo, 21. Pulaski, 337. Puritanesimo, 68-70, 81, 209, 210. Q Quaccheri, 89, 209, 210-15, 221, 226-27, 362. Quarry, 259. Quebec, 45, 48, 197, 266, 270, 282, 288-89, 304, 311, 321, 331. _Quercia della carta_, 111. R Raleigh Gualtiero, 52-53, 54, 74, 195, 196. _Rappresentanza, in seno al Congresso_, 366-67. Ratzel, 64. Reclus, 21, 64. Red River, 13. Reggente, duca d'Orleans, 281. _Regionalismo_, 231-33, Reno, 197. _Repubblicani, partito_, 371. _Restaurazione, degli Stuarts_, 108, 146, 148, 207, 246. Rhode Island, 90, 91-96, 108, 106, 109, 110, 111, 120, 121, 335, 336, 341, 351, 357, 363, 364, 371. Ribault Giovanni, 35, 36, 160. Richelieu, 47, 269. Rick Roberto, 144. _Riforma inglese_, 66-72, 214. _Riforma protestante_, 62, 124, 193, 200. Rio Grande, 1, 2, 15. _Rivoluzione inglese_, 248-50. Roanocke, 53. Robertson, 232. Robinson John, 72, 75. Rocciosi, monti, 5, 7, 9, 10, 11, 12, 13. Rochambeau, 341-42. Rockingam, 317, 318. Rodney, 343. Rolfe, 138. Roma, 66, 67, 84. Romussi, _prefazione_. Roque (Giovanni de la), 40. _Rose_ (_Guerra delle Due_), 49. Rouen, 41, 279. Roxburg, 86. Rumsey, 401. Russia, 341-42. Ryswick (pace di), 282. S _Sachem_, 27, 105. Saco, 100. Sacramento, 6, 7. Saintes, 343. _Saggezza_ (_case della_), 98-99. Salem, colonia, 84, 91. Salem, sul Delaware, 214. Salem, Peter, 361. Saratoga (resa di), 338. Saussaye, 44. Savannah, città, 16, 177, 186, 343. Savannah, fiume, 175, 176. Scandinavi, 49, 203. _Schiavitù_, 125-27, 130, 143-44, 159-60, 168, 171-73, 174, 177, 178-91, 192, 199, 201, 209, 225-26, 252-56, 282, 326, 358-69. Schouler, _prefazione_. Schuyler, 328, 330-31. Schuylkill, 222, 337. Scozia, 55, 226. Scozia, Nuova, 23, 24, 283, 330. _Sea Island_, 16. _Selfgovernment_, 121-23, 333, 375, 386-88. Seminoli, 21, 25. Senegambia, 181. Seneka, 24. _Separatismo_, 71, 72. _Servitù_, 143, 159, 179. Shaftesbury (conte di), 161, 162-165. Shakamaxon, 220. Shakespeare, 61. Shays Daniel, 352. Sheffield, città inglese, 306. Sheffield, città del Mass., 333. Shepard, 90. Sherman Ruggero, 332. Shirley, 302. Sierra Leone, 181. Sioux, 25. _Skalp_, 30, 274. Slater Samuel, 400; Smith Goldwin, _prefazione_. Smith John, 55, 58, 60, 74, 134-37. Sommersetshire, 171. Soto (Ferdinando di), 35, 38, 279. Southampton (conte di), 61, 140. Spagna, 36, 37, 93, 112, 194, 195, 240, 244, 298, 339, 343-344. Spagnuola (colonizzazione... del Nord-America), 33-38. Spagnuoli, 32, 61, 160, 161, 173, 176, 177, 194, 220, 290, 345, 395, 397. Speedwel, 75. Spirito, Grande, 26, 30. Stark, 296. Stati Uniti, 44, 60, 64, 130, 194, 233, 322, 331-36, 338, 340, 344-45. Sterne, 391. Steuben, 337, 340. Strype, 69. Stuart, dinastia, 55, 108, 109, 148, 248. Stuyvesant Pietro, 203, 204, 205, 206, 207. Sud-America, 31. Suffolk, 334. Sumner Maine, 391. Superiore, Lago, 10. Susquehannah, 135, 153, 197. Svedesi, 61, 154, 200-203, 218, 227, 396. Svezia, 200, 201, 202, 203, 245, 339. Svezia, Nuova, 200, 203. Svizzera, della N. Inghilterra, 4. T _Tabacco_, 139, 143, 146, 159, 242. Talon, 279. Tamigi, 318. _Tassazione_, 300-06, 309-18. Tennessee, fiume, 4. Tennessee, stato, 162, 399. Terranova, 23, 59, 153, 276. 283. Testamento, Nuovo, 126. Testamento, Vecchio, 126. Texas, 162, 260. Tè, 306-07, 321. Thomson Benjamino, 119. Thorfinn Karlsewne, 23. Tocqueville, Alessio di, 3, 391. Toltechi, 22. Tomahawk, 30. Tombigbee, 14. Tonti, Enrico de, 280. Toscanelli del Pozzo, 31. _Totemismo_, 26. Townshend Carlo, 304, 309, 311, 317. Township, 121-23, 386-88. _Tratta_, 180-81, 255-56, 368-69. Trenton, 202, 337. Trinità, isola, 109. Trinity, fiume, 14. Troia (cavallo di), 207. Turchi, 94, 134. Turgot, 263. Tuscarora, 24. U Ugonotti, 48, 169, 272. Usselinx, v. _Wsselinx_. Ussiti, 204. _Utilitarismo americano_, 228-29. Utrecht (pace di), 283. V Valdesi, 204. Vancouver, isola, 1. Vane Henry, 95, 96. Van Rensselaer, 200. Vaudreuil (marchese di), 289. Venezia, 49. Vergennes, 297. Vermont, 103. Verrazzano (Giovanni da), 39. Versailles, 274. Vespucci Amerigo, 31. Villari, 391. Vincennes, 399. Vincenzo, capo San, 343. Virginia, colonia, 44, 52, 55, 58, 60, 77, 99, 126, 133-53, 154, 155, 158, 159, 160, 167, 171, 173, 174, 177, 179, 181, 186, 188, 190, 197, 207, 209, 228, 232, 235, 240, 242, 243, 245, 252, 284, 288, 318, 320, 323, 334, 341, 351, 355, 356, 359, 360, 364, 368, 369, 370, 371, 396, 399. Virginia (Compagnia della), 74, 75, 136. Virginia, donna, 53. Von Halle, 192. W Wadsworth Giuseppe, 111. Waitz, 24. Waldeck, 329. Waltershausen, 192. Wampanoag, 105. _Wampun_, 28, 112. Warren Giacomo, 320. Washington Giorgio, 189, 284-85, 286, 296, 327, 328, 329-30, 331, 335, 336, 337, 339-42, 347, 350, 353, 356, 357, 398. Washington, città, 401. Wat Tiler, 211. Watertown, 86. Watson, 344. _Welcome_, nave, 220. Welde, 118. Wentworth Higginson _prefaz_. West, 220. Westmoreland, 285. Weymouth, 54, 55. White, 53. Whitman, Walte, 406. Wickliffe, 67, 211. Wigglesworth Michele, 119. _Wigwam_, 28, 30, 274. Willes, 74. Williams Roger, 90, 91-95. Williams, storico, 192. Wilson, 367. Wingfield, 55. Winland, 23. Winsor, _prefaz_. Wisconsin, fiume, 19. Wisconsin, stato, 20, 364. Wittemberga, 67. Wodtke 337. Wolfe, 288-89, 311. Woolman John, 226. Wsselinx Guglielmo, 195, 200, 201. Y _Yankee_, 129, 130, 227. Yeardley, 139. York, fiume, 242. York (duca di), 180, 207, 208, 209, 216, 218, 227. York, New, città, 17, 110, 172, 196, 208, 228, 229, 231, 263, 314, 316, 320, 330, 336, 338, 339, 341, 342, 343, 364, 399, 401. York, (New), colonia, 24, 193-209, 218, 240, 258, 277, 284, 296, 301, 304, 318, 331, 332, 334, 336, 339, 351, 356, 363, 364, 369, 372, 399. _York_, (_New Herald_), giornale, 232. Yorkshire, 72. Yorktown, (capitolazione di), 342, 344. Z _Zampa d'oca_, 14. Zuingliani, 204. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE ORIGINI DEGLI STATI UNITI D'AMERICA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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