Title: L'ultima primavera: romanzo
Author: Memini
Release date: December 11, 2019 [eBook #60905]
Language: Italian
Credits: Produced by Barbara Magni and the Online Distributed
Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was
produced from images made available by The Internet Archive)
MEMINI
L'Ultima Primavera
ROMANZO
MILANO
Casa Editrice BALDINI, CASTOLDI & C.º
Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80
—
1909
PROPRIETÀ LETTERARIA
MILANO — TIP. PIROLA & CELLA DI P. CELLA
[1]
Ritta, immobile dinanzi al grande specchio a tre comparti, Marina Negroni aveva testè compiuta la sua elegante acconciatura di passeggio. Ma la giovane si indugiava, pensosa, dinanzi alla propria immagine.
Sul volto suo, nessuna traccia di vanità, nè di compiacenza intima, non il sorriso trionfante della bellezza che si ravvisa. Pure, ell'era bellissima, Marina Negroni.
Alta, di forme decise, tendenti alla maestà del tipo giunonico. Bionda, d'un biondo acceso, quasi fulvo. Fattezze armoniche, regolarissime, un bello palese, non mutevole, invariabilmente sereno. Se Marina avesse avuto dei nemici, questi, parlando di lei, avrebbero potuto insistere su quell'eccessiva immutabilità della sua bellezza. Avrebbero potuto dire altresì, che ella dimostrava tutti quanti i suoi venticinque anni. Ma non altro appunto avrebbero potuto movere all'aspetto di quella fanciulla. Nè maggiore appiglio avrebbero offerto alla loro critica il carattere ed il contegno [2] di lei. Somigliavano, per l'appunto, alla sua formosa bellezza. Erano, al pari di questa, invariabilmente calmi e sereni.
Ella dunque non si ammirava, si studiava soltanto.
Era, non era ciò che doveva essere quel giorno, per quella data circostanza?
La circostanza era grave, e Marina lo sapeva. Si passò coscienziosamente in rivista. Qualche ritocco ancora, qua e là; una ciocchettina di capelli un po' ribelle da rimovere, più assestata sul fianco la falda della giacchettina, meglio stretta al collo la striscia di finissima trina che s'alzava oltre il goletto alto dell'abito.
Dopo un momento e stando sempre davanti allo specchio, Marina cominciò la sua esercitazione di sorrisi.
Ne eseguì parecchi, leggiadri tutti e discreti, una scala semitonata, progressiva di sorrisi per bene. Uno fra essi non riesciva a modo suo, lo ripetè pazientemente, sinchè riescì a fissarlo, determinato, sulla fisonomia. Doveva significare una serenità intima con un'ombra di meraviglia, quasi un accenno al destarsi di un vago interessamento. Poi susseguì il sorriso più palesemente animato e subito dopo, con una abile, rapida transazione di espressioni, il ritorno alla perfetta calma della fisonomia, quella calma grandiosa che dava all'aspetto di Marina Negroni qualcosa dell'immagine di una Dea che, assorta in divini pensieri, movesse a diporto sulle nubi di un Olimpo.
[3]
Un momento, tutto ciò venne meno. Marina tralasciò di esercitarsi. Aggrottò le ciglia e sorrise, ma sinceramente, involontariamente, per conto suo. E quel sorriso non narrava una lieta storia.
Un lampo di stanchezza, d'intimo disgusto passò nei grandi occhi azzurrini, tutta la persona ebbe una espressione accasciata e piena di sconforto.
— Ancora... sempre!... — mormorò la fanciulla. — E sempre per nulla. Son certa... lo sento che anche stavolta...
Ebbe un piccolo brivido. La lunga serie dei disappunti, dei tanti falliti tentativi, tornò, crudele, alla sua memoria.
Ma subito crollò le spalle.
— Sciocchezze, tutto ciò! E ad ogni modo bisogna tentare. Una volta o l'altra, oggi o domani, la cosa deve pur accadere!
Gettò sullo specchio un ultimo sguardo, si vide qual'era, bella, forte, risoluta. Ebbe un moto energico di approvazione. Prese un fine ombrello inglese (minacciava di piovere), il manicotto ed escì.
La cameretta di donna Marina Negroni era al terzo piano del palazzo d'Accorsi. Il duca d'Accorsi, uno straricco gentiluomo napoletano, aveva sposata la madre di donna Marina, vedova del conte Negroni, morto giovane e non ricco. Il secondo matrimonio della madre aveva fatto alla giovane Negroni, in casa d'Accorsi, una posizione speciale, non facile, [4] ch'ella sosteneva con dignità, a dispetto di certe ardue complicazioni. Molti la invidiavano, ed ella non sconosceva i vantaggi materiali della sua posizione. Ma pensava risolutamente a farsene un'altra.
Donna Marina scese, per l'altezza di due piani, una stretta scala di servizio e giunse sul pianerottolo di un grande scalone di marmo bianco. Aprì uno dei grandi usci di noce riccamente intagliati, e si trovò in un'ampia e fastosa anticamera. Un piccolo crocchio di domestici avvertì il passaggio della fanciulla. S'alzarono, salutando rispettosamente, ma senza sperpero di umile ossequio. Ella rispose con un piccolo cenno del capo e passò, sollevando da sola la greve portiera di velluto che metteva alla sala vicina. Ne attraversò parecchie, ricchissime tutte, addobbate ed ornate colla più raffinata eleganza artistica. Celebre infatti, a Firenze, l'appartamento di gala della Duchessa d'Accorsi, splendide le feste da ballo che ella soleva dare e delle quali erano avidamente ricercati gli inviti. E così scelte... per l'appunto!
Donna Marina gettò, passando, uno sguardo su una pendolina in Vieux Sèvres, e affrettò il passo. Non percorse tutto l'appartamento, ma svoltando a destra, ed evitando la sala da ballo, riescì in una specie di salotto-serra, piena d'azalee in fiore e di piante esotiche. Giunta ad una porticina a vetri, quasi celata da uno splendido drappeggio di stoffa orientale, s'arrestò, e battè sul vetro, discretamente, due colpi.
[5]
Una voce non fresca, quasi roca, rispose: — Avanti.
Donna Marina entrò nel salotto ove stava sua madre.
Una strana fantasia quel salotto, la prima impressione n'era quasi funebre. Molto raso nero con un profluvio di trine bianche. E quasi a correttivo di quelle tinte macabre, un'invasione audace, pressochè brutale, di mobili e di tendaggi di damasco rosso, chiaro, splendido, un colore di sangue appena spicciato.
La Duchessa sedeva allo scrittoio, un mobile antico, di stile Luigi XIV. Lo spazio n'era quasi tutto ingombrato da gingilli e da ritratti.
Alzò il capo e depose la penna, interrompendo la lettera che stava scrivendo.
Una donna sui quarantacinque, forse più. Non bella, non simulante la bellezza, non mascheratrice della propria età. Grande, un busto stupendo, questo sì. Due occhi grigi saettanti, pieni di fuoco, forti della scienza della vita. La bocca grande, sensuale, potente, il naso lungo, arcuato, colle nari larghe, palpitanti dei cavalli di razza. Nulla di leggiadro, di dolce nella fisonomia, ma una strana forza d'espressione. Violenti, perversi, forse, ma certo irresistibili, i voleri di quella donna. E sulla fronte ampia, il riflesso di un diadema invisibile; il bacio della cieca fortuna!
Donna Marina venne lentamente a mettersi di fianco allo scrittoio della Duchessa e sostenne senza [6] parlare, senza batter palpebra, l'esame che la Duchessa fece tosto, con un acuto, lungo sguardo, subire all'aspetto di lei.
— Non c'è male — disse finalmente la madre, con quella sua voce roca, che si faceva talvolta stridente, ma che possedeva una infinita varietà di eloquenze — non c'è male davvero, sei veramente ad hoc.
La giovane ebbe un freddo sorriso.
— Ti pare?
— Oserei persino dire una cosa. Come al solito, sei troppo bella.
Donna Marina alzò alquanto le spalle.
— Non è colpa mia — disse con lieve accento ironico — ed è il mio genere.
— Infatti. Ma pare che pel momento non sia quello degli altri.
La giovane non rispose, una piccola piega, duretta, anzi che no, si disegnò all'angolo destro della sua bocca.
— La tua sviscerata amica tarda alquanto a venire — osservò la madre dopo un istante.
— Oh! verrà! — disse Marina tranquillamente, essa non manca mai ad una promessa.
— E questa cosa le sta molto a cuore, nevvero?
— Pare.
— Veramente è curiosa... Non so affatto comprendere la cagione di queste sue manie matrimoniali.
— No? — ribattè Marina con una singolare, pacata [7] ironia. — E se fosse semplicemente perchè mi vuol bene? La cosa sarebbe strana, lo ammetto. Pure...
— Un affetto gratis... vuoi dire? Ebbene, infatti, perchè no? È capace di tutto quella contessa Elisa. Ti accerto che le sono riconoscentissima. E lo sarò più ancora se riesce nel suo pietoso intento, trovandoti cioè un marito. Il che dovrebbe esser fatto da parecchio tempo. Hai venticinque anni, mia cara figliuola.
— Lo so — disse Marina con quella pacatezza sforzata che torna talvolta, nei giovani, sì penosa a vedersi. — Comprendo di esser molto indiscreta. Dovrei essere maritata da parecchio tempo, come dici. Mi par equo però l'aggiungere che, se non lo sono, non è tutta colpa mia.
Mentre Marina diceva questo, il suo sguardo aveva errato di volo pei recessi del salotto. Ma, ad un tratto, s'arrestò sul ritratto fotografico di un bellissimo giovane. Il ritratto, incorniciato in una piccola quadratura di rose d'Olanda, stava su un tavolino di peluscio color fuoco, collocato assai presso allo scrittoio della Duchessa.
Sul volto di questa passò rapidissima, appena visibile, una contrazione nervosa. Ci fu nel colloquio un momento di sosta, grave, penoso, pieno di minaccie d'uragano.
Ma l'uragano non venne.
[8]
La Duchessa appoggiò il capo alla spalliera della sua poltroncina ed osservò a lungo, con una specie di curiosità umoristica, la giovane che teneva chinati gli sguardi.
— Marina, sta attenta — disse poscia Ginevra — tu diventi mordace, e questo è per l'appunto un difetto da zitellona. Non va, credimi. Ritorna al tuo sistema di amenità, ti sarà più giovevole.... per intenderci.
Madre e figlia scambiarono uno sguardo, pieno di amara ironìa.
— Hai ragione — disse Marina lentamente.
Socchiuse gli occhi per un secondo. Quando li riaperse, era calma, padrona di sè stessa.
— Dicevi, mamma?...
— Dicevo, mia cara Marina, che non è il caso di perder tempo. Eccoci dinnanzi ad una nuova occasione. Speriamo che tutto andrà bene, che il giovane ti piacerà...
— Mi piacerà — interruppe freddamente Marina.
— Davvero?... Allora tanto meglio. Voglio sperare ch'egli non sarà meno determinato di te. Il partito è eccellente. Sono però, te ne avverto, gente dell'altro mondo. Vivono in provincia e hanno delle idee... Ti senti di adottarle?
— O di farle mutare, — rispose Marina, dopo un istante di riflessione.
La Duchessa guardò sua figlia con un sorriso [9] enigmatico. — Tanto meglio — disse poscia — sarà un bene per loro. Ora, solo resta ad augurarsi che la cosa si faccia. Ti confesso però che vorrei vederla in altre mani. La contessa Elisa è un angiolo di donnina. Non sa come ammazzare il tempo, sa che non sei felice e...
Un rossore passò sul volto di Marina.
La Duchessa rideva.
— Ma sì, cara, cosa importa? Tanto meglio se hai rappresentata bene la tua parte, muta s'intende, di vittima interessante. D'altronde, hai sempre avuta la manìa della brava gente. Te la contrasto forse? Anzi, può essere che abbi tutte le ragioni. A proposito, spero che avrai data un'occhiata alla Guida e che non ti lascerai prendere alla sprovvista in fatto di nozioni artistiche. Ed è inteso che ignori tutto, nevvero? che il vostro incontro è dovuto alla più fortuita delle coincidenze?
Marina assentì con un cenno del capo.
— Benissimo! Sta attenta, non perder mai di vista il tuo scopo. Non tradirti. Credo che potrai agevolmente condur lei, ma bada a quel suo amico milanese, mi pare di tutt'altra pasta. E comincia subito, se ti piace; ecco la tua utilissima protettrice.
Un lieve strepito di passi veniva infatti dalle sale vicine. Poco dopo, un domestico annunziò la contessa di Serramonte.
La Duchessa mosse ad incontrare e salutò la sopraggiunta, colla massima cordialità.
[10]
Elisa Nardi, vedova Serramonte, era più bella e più giovane di donna Ginevra. Non toccava per anco la quarantina. Una figuretta fine, delicata, poco appariscente, distintissima d'aspetto e di modi. Il suo contegno era grave, riserbatissimo, privo di quella scioltezza un po' sprezzante che alle signore di oggidì sembra rappresentare l'ideale dell'effetto.
Ella era timida, di una timidità singolare, di sensitiva, che cercava nascondere, senza punto riuscirvi e che molti battezzavano per orgoglio. Ma non era orgoglio. Viveva molto per conto proprio, in tutto fedele a' suoi principii ed ai proprii istinti, e non aveva ancora potuto riescire a non soffrire quando li sentiva urtati o quando si sentiva costretta a sopprimere, esternamente, l'effetto di quell'urto. Quando, per esempio, ella doveva dare una stretta di mano a Ginevra d'Accorsi, provava una curiosa sensazione di sforzo intimo!
Pure, come non dargliela quella solita, superficiale stretta di mano? Il mondo diceva della Duchessa tutto ciò che si può dire di poco lusinghiero sul conto di una donna, ma perciò forse il mondo ristava dall'accoglierla, dal festeggiarla, dal correre alle sue feste?... Non era ella bene spesso chiamata a dare il suo verdetto (e un verdetto senza appello) sull'expedit, o meno, di ricevere una nuova arrivata, aspirante a penetrare nella migliore società fiorentina? Si scambiavano qualche visita, quelle due care signore, [11] e ora la contessa Elisa di Serramonte non veniva forse a prendere la figlia di Ginevra d'Accorsi per condurla a passeggio?
La Duchessa aveva talvolta avvertita la piccola nube rosea che passava sul volto della Serramonte, quando le loro destre s'incontravano.
Ciò la divertiva... diceva ridendo a sè stessa. Ma in realtà... no. Quel piccolo rossore le dava noia.
Aveva adottato, per vendicarsene, un curioso sistema. Quella donna che, senza volerlo, la condannava, ella la affascinava. Ginevra aveva per lei una cortesia speciale, piena di delicati sottintesi, di deferenza, non scevra d'una tinta di malinconia. La Contessa resisteva, non sempre però, e col segreto malessere di chi si sente strascinato. C'era bensì, fra quelle due donne, qualcosa d'indefinito e di latente, il germe forse di un'aspra lotta futura.
La Duchessa era proprio desolata di non poter andare anche lei a visitare quella bella cappelletta. Marina si riprometteva un sì squisito godimento artistico!
La contessa Elisa fu lì lì per arrossire come una colpevole, pensando al tranello che aveva preparato per quella povera Marina.
La madre lanciò all'amica di sua figlia una rapida occhiata d'intesa e le strinse di soppiatto la mano. La faccia di Marina ignorava tutto, serenamente.
La conversazione durava, tenuta viva dalla Duchessa. [12] Quella donna sapeva parlar d'arte, quando voleva. E lo voleva ora, e riesciva a tener Elisa sotto il giogo della sua parola viva, smagliante, originale... Subito, entrò nel campo personale:
Certo, ella invidiava profondamente la Contessa, che aveva il coraggio, l'indipendenza dei propri gusti. Che nobile esistenza aveva saputo creare a se stessa non immolandosi alla vita mondana che esige tanto e rende sì poco!
Elisa guardava attonita la Duchessa. Ell'era già quasi impressionata da quelle parole inattese, che parevano quasi involontariamente sfuggire dalle labbra di quella donna.
La Duchessa ebbe un lieve sospiro.
— Ah!... perchè non tutte possono fare come lei! A volte, creda, siamo trascinate nostro malgrado nel vortice di questa esistenza. Si ha bisogno di stordirci... di scordare... Si sente il vuoto, la stanchezza di tutto ciò. E poi, col passar degli anni...
Un bello spirito fiorentino aveva detto un giorno, della Duchessa Ginevra d'Accorsi, ch'ella aveva tutto canzonato nella vita, cominciando dal tempo. Ma con tutto ciò, Elisa sentiva levarsi in cuore un'insidiosa pietà di lei, del possibile stato d'animo che le strappava, in quel momento, quei lembi di confessione. Poichè, dopo tutto, il suo ingegno doveva pur qualche volta palesarle il vero, qualche buon sentimento doveva pur destarsi ogni tanto nell'animo di quella [13] donna! E forse, coltivato, sorretto da un'amicizia sincera...
— Duchessa, — disse timidamente, commossa, con una dubbiosità che faceva un po' tremula la sua voce, — la comprendo. So che non è sempre in poter nostro...
Non finì la frase suggestiva e pietosa.
Un uscio laterale, quello che metteva all'appartamento privato della Duchessa, s'aperse a un tratto con impeto e un bellissimo giovane entrò senza preamboli, seguito da un mops corpulento.
S'arrestò sulla soglia, perplesso, evidentemente confuso. Non si aspettava di trovar visite, a quell'ora, nel salotto della Duchessa. Quel giovane somigliava molto al ritratto sul quale lo sguardo di Marina Negroni si era posato sì efficacemente, nel colloquio di poc'anzi, colla madre sua. E davvero egli poteva somigliare a quel ritratto, n'era semplicemente l'originale.
La contessa Elisa tacque ed arrossì. Sapeva... La sua testina ebbe un involontario moto di alterigia, ed ella s'alzò di scatto. Marina si abbottonava i guanti. La Duchessa aveva per un secondo fulminato il giovane collo sguardo. Ma già ella rideva, il più normale, schietto riso del mondo.
— Ma bravo, Dino, che bella maniera di capitare così, come una bomba, con quel vostro orribile Brusco! Venite dalla scuderia, scommetto. Come sta Rudygore?
[14]
— Rudygore?... Ah!... sicuro. Meglio, oh bene... bene — rispose il giovane, cercando di rimettersi in carreggiata, ed avanzandosi per salutare la Contessa, che pareva restringersi nella persona, con un moto involontario.
— Ah! — sclamò la Duchessa con un sospiro di sollievo. — S'immagini — continuò vivacemente, rivolgendosi ad Elisa — uno dei nuovi cavalli da corsa, testè giunti da Londra, e che si era ammalato, ma sul serio, sa? Siamo stati tanto in pena! Pippo non si muove dalla scuderia, e ogni tanto mi manda le notizie. Bene dunque, Dino, proprio bene? Il veterinario è contento?
Il giovane afferrò la pertica e si tenne a galla con bastante disinvoltura. Incominciò, infiorandola di termini tecnici, una confortante relazione sul verdetto del veterinario.
Ma alla prima pausa, Elisa, che non si era rimessa a sedere, si rivolse quietamente a Marina.
— Si fa tardi, cara, vogliamo andare?
La giovane assentì, colla sua calma imperturbabile e le due signore si congedarono dalla Duchessa.
— Ebbene... mie care, divertitevi, — disse questa maternamente — spero che il tempo non vi farà dei brutti scherzi. No, Dino, non vi lasciate venir la tentazione. Si tratta di arte, non ci capireste nulla, mio caro. Marina invece e la Contessa se la godranno un mezzo mondo.
[15]
Le due signore si strinsero la mano, naturalmente. Ma forse più delle altre volte, quella di Elisa rimase fredda ed inerte nel momentaneo contatto. E la Duchessa se ne avvide.
Fe' cenno a Dino che accompagnasse le due signore sino all'anticamera. Poi queste scesero sole, in silenzio, il grande scalone di marmo.
Marina era alquanto pallida.
L'elegante vittoria della Contessa attendeva dinanzi al portone. Presso i cavalli e tutto immerso nella sapiente contemplazione di essi, stava un uomo piccolo, d'aspetto triviale, vestito d'un tout-de-même a larghi scacchi bianchi e neri e col volto ornato di due classiche fedine da cocchiere. Quell'uomo non era un cocchiere, era il duca Pippo d'Accorsi, il marito di Ginevra.
Si scosse al sopraggiungere delle due signore, e le aiutò ad entrare in carrozza, con qualche frase di circostanza. Aveva, con un forte accento napoletano, l'abitudine dell'imitazione secca, concisa dell'accento inglese.
— Dembo cattivo... ehm... pista rovinata... Omaggi, Condessa.
La Contessa rispose in fretta con un cenno di capo. Marina si acconciava con garbo nel suo cantuccio.
Dino, frattanto, tornava lentamente, trascinando il passo, verso il salotto della Duchessa, e il suo [16] volto recava palese l'espressione di un intimo turbamento. — Ah! la Duchessa! Ora, bisognava sentirla! Capiva d'aver commesso un grosso marrone capitando così, poc'anzi, nel salotto. Temeva, più del fuoco, la collera imperiosa di quella donna ch'egli amava, poveretto. A modo suo s'intende, ma sinceramente, l'amava.
Entrò adagino, procurando di non far strepito.
Ella non parve avvertirlo. Continuò a scrivere senza degnare il giovane d'uno sguardo. Si udiva, sulla superficie della carta inglese, lo stridere della penna che correva, mossa da una mano irritata. Sulla fronte di quella donna stava una nube di scontento.
Dino era più che mai sgomentato. Quel silenzio non prometteva nulla di buono ed egli avrebbe preferito di sentirla addirittura. Ma non osava parlare pel primo.
Mutò più volte sedile, tentò la lettura d'un giornale. Finalmente si recò presso al caminetto e prese a considerare, come se li vedesse per la prima volta, gl'innumeri gingilli che ne ornavano il davanzale. Tolse in mano un aereo calice del Salviati, e nel riporlo a posto, l'urtò alquanto contro una bomboniera di Vieux-Vienne.
La Duchessa alzò il capo, per muovere un acerbo rimbrotto a quel malaccorto. Ma Dino la guardava sì impensierito, la sua bella e stupida faccia recava [17] un'espressione sì comica di timore, che la Duchessa si sentì quasi disarmata.
— Ebbene, — disse bruscamente, — cosa fate costì?...
— Non s'è sciupato niente... — s'affrettò a rispondere Dino, — tutto incolume... guardi.
— Meno male. Mi pare che ne abbiate fatti abbastanza, oggi, dei guai!
La Duchessa non era più adirata, internamente, con Dino, ma pensava che una lezione non sarebbe inutile.
— Sì, davvero! Avete dimostrato un tatto... una delicatezza! Capitare a quel modo e da quella parte, con quel fare da ragazzaccio, col vostro cane alle calcagna. E cavarsela così bene, poi, con tanta destrezza!...
Sferzato da quell'ironia, il giovane tentò un briciolo di difesa.
— Non sapevo che aveste gente, così di buon'ora. So che siete sempre sola prima del mezzodì, o non vedete che le vostre amiche intime, quelle solite.
— Non importa, bisognava sapere. È curioso, non ne azzeccate mai una, neppure per isbaglio.
Egli chinò il capo, sospirando, e cercò un conforto nell'estremo splendore della vernice de' suoi stivaletti. La Duchessa si divertiva.
— Le mie amiche, — continuò con quel suo accento stridente. — E che sapete voi delle mie amiche? [18] E se per l'appunto volessi farmi un'amica intima di Elisa Serramonte?
Colto all'improvviso, Dino non pensò a dissimulare la sua meraviglia e questa fu sì palese, sì schietta, che la Duchessa cessò affatto di divertirsi ed aggrottò le ciglia.
— Ebbene, — disse duramente, con un'intima collera — perchè fate quell'aria grulla? Vi par forse impossibile la cosa?
— Io? Oh no, no... anzi! — s'affrettò a rispondere Dino. — È solo perchè so ch'ella conduce una vita tanto... ritirata, e si vede pochissimo e mi pareva d'avervi sentito dire ch'ella è terribilmente noiosa. Solo per questo... e poi... già; insomma, non capisco.
La Duchessa si mise a ridere, poichè la sua collera era già svaporata.
— Oh! mio caro Dino, ora siamo d'accordo. È il vostro forte, il non capire. Suvvia, non fate quel viso intontito. Un'altra volta, accertatevi se ho gente prima d'entrare.
— Ah! — diss'egli con trasporto — non siete più in collera?
Di nuovo ella rise, con uno sguardo enigmatico.
— No, non sono più in collera.
Egli si mosse, coll'evidente intenzione di andarla a ringraziare più da vicino; ma ella aveva ripigliata la penna, ed il piccolo cric cric metallico ricominciava sul foglio che stava davanti alla Duchessa. Dino non osò disturbarla.
[19]
Solo dopo una buona diecina di minuti, essa gli rivolse la parola.
— Ordinate il mio landeau, per le quattro. E oggi venite a cavallo alle Cascine. L'americana, con Fitz Maurice. Badate meglio all'attacco. Ieri, sul Piazzone, Poniatowski ha osservato qualcosa. Almeno in questo, siate irreprensibile.
— Farò quanto potrò. Stasera, alla Pergola, nevvero?
— Non so se ci andrò. Passate in prima sera. Oggi ho la visita all'asilo, alle tre.
— Devo venirvi a prendere?
— Venite... se volete. Aspetterete; perchè non so quando riescirò a sbrigarmi dalle suore. Ora andate, mio caro, ho un monte di faccende.
Egli obbedì... A malincuore, ma obbedì. Se ne andò chiotto, chiotto, senza ch'ella lo accompagnasse col saluto dello sguardo. Non lo reclamò, non voleva irritarla. Trovava d'essersela cavata a buon mercato, a paragone delle altre volte. Avrebbe dovuto invece impensierirsi di quella nuova indulgenza.
Quando fu escito, la Duchessa depose la penna e rimase un istante inoperosa ed accigliata. Poi crollò irosamente le spalle.
Ah! cominciava ad annoiarla colui... Dino di Follemare!
[20]
— Vedi, cara. È lassù.
La contessa Elisa accennava coll'ombrello ad una vecchia e semi diroccata chiesuola, eretta sulla vetta di un colle, dal quale poco distava ormai la carrozza. Il piccolo edificio era facilmente visibile, in mezzo alla boscaglia denudata dai recenti venti autunnali, ma, nell'estate, doveva a mala pena indicarsi nella ricchezza del frascato, nicchiandosi con un gentile aspetto di chiesetta idillica. Ma in quel giorno, sotto quel cielo triste, era triste anch'essa, la povera cappella abbandonata.
La carrozza si fermò sul sagrato mentre dalla porticina ogivale esciva ad incontrare le due signore un gentiluomo di nobilissimo aspetto, di volto ancor fresco e di belle fattezze, a cui davano strano rilievo una bella capigliatura affatto bianca, e due baffi grigiastri lunghi ed a punte. Alto di statura, aveva nell'assieme dell'esser suo un'imponenza geniale, simile a quella che fa dire a Calibano, quando s'imbatte con Prospero, nell'isola dove questi è approdato, [21] dopo la tempesta: — Avete qualcosa, signore, ch'io chiamerei volentieri padrone.
Aiutò le signore a scendere di carrozza, complimentandole del loro coraggio a sfidar le minaccie della piova. Poi scambiò colla contessa Elisa un rapido sguardo d'intesa. Erano vecchi, eccellenti amici, quei due!
Si fermarono un momento sul piccolo atrio a guardare la vista fantastica, sotto il suo disuguale velame di nebbia, mentre Marina girava assiduamente le rotelline del suo cannocchiale. Don Marcello Plana alla Contessa:
— Mi sono presa una libertà. Ho condotto qui un mio amico. Mi permettete di presentarvelo?
— Perchè no, Don Marcello? È un vostro concittadino?
— No, è bresciano. Il marchese Maurizio Fedimari. — Conoscete la famiglia?
— Oh benissimo... Bonne souche, certamente... E che fa? si trattiene a Firenze?
L'abilità di quella donna, per recitar la commedia, era qualcosa di sublime; le tremava persin la voce.
Ma Don Marcello l'ascoltava serio serio, e Donna Marina, che avea finalmente trovata la giusta misura del cannocchiale, guardava... oh lontano, lontano assai nel paesaggio.
— Secondo, — rispose sagacemente Don Marcello. [22] — È un tipo curioso quel mio amico. Forma la mia disperazione col volermi sempre obbligare a inventargli qualche nuova scoperta in fatto di arte. Si è divorato Firenze in un mese, colui! Ora, per dargli ancora un piccolo osso artistico da rodere, l'ho condotto qui. E, sentendomi al tutto esautorato, in fatto di musei e di gallerie, ho pensato egoisticamente di raccomandarlo a voi.
— Ma è un tradimento — disse la Contessa ridendo. — Come potrò?...
— Oh! con voi non c'è da sgomentarsi, in fatto d'arte. — Quando non ce n'è più, ce n'è ancora. Fatemi questa carità, lasciate che vi presenti il mio amico. E ora, entreremo in chiesa, se vi piace.
Entrarono in chiesa; una bizzarra vetusta cappelletta, le cui pareti serbavano ancora qualche vestigio di due distinti stili di antica dipintura.
Erano state evidentemente trattate a due riprese, e sotto la grossolana maniera di un mediocrissimo pittore del secolo scorso, emergeva l'austerità ideale ed ingenua di un pennello cinquecentista. Un tratto di processione sacra, coi suoi gruppi serrati, senza spazio, di profili bianchi, di testine rossiccie accatastate una a ridosso dell'altra, di bizzarre foggie medioevali d'abbigliamenti, era troncato bruscamente dai gonfi drappeggi del manto di una Giuditta, opera del pittore più recente, mentre la faccia apopletica di questa si perdeva alla sua volta in una nuvolaglia [23] di salnitro del più nebuloso effetto. Ogni tanto il mistico stile antico tornava a far capolino, due delicatissimi nudi si rivelavano, nella loro squisita snellezza di forme, al disopra di una ondulatura verdognola che, nell'intenzione dell'autore, rappresentava le acque del Giordano, raffigurando così un battesimo di Cristo abbastanza riconoscibile. In una cappella laterale era alzata su un piedestallo una Madonna moderna, colla faccia di legno di grossa bambola fatticciona, vestita di broccato, con sei vezzi di granate al collo e con un paio di buccole a pendente, ma dietro all'altar maggiore, nel vecchio trittico dall'oro spento, azzurreggiava idealmente, cinta d'angioli esultanti, una Madonna di frate Angelico.
In un angolo della chiesetta, presso all'uscio della piccolissima sacristia, il sacrestano aveva accatastato la sua scarsa raccolta di patate, ma a sommo dell'uscio stesso, nella sua cornice intrecciata di fiori e frutti, si sporgeva dal fondo cilestrino, in terra cotta verniciata di bianco, uno di quei dolcissimi gruppi di madre e bimbo ai quali si collega tuttora il pensiero di un caro nome, quello di Luca della Robbia.
Tremolava lievemente, davanti all'altare, in un orribile lucernario d'ottone, la fiammella devota, ma il lucernario, era appeso ad una catena di leggerissimo fantastico lavoro in ferro battuto, una meraviglia di squisito disegno e di quasi aerea esecuzione.
[24]
Il marchese Fedimari contemplava per l'appunto la catena del lucernario quando la piccola comitiva fece irruzione nella chiesetta. Si voltò naturalmente, e chiamato con un cenno da Marcello Plana, venne presentato alle signore. Prima alla contessa Nardi, poi a Donna Marina Negroni.
Questa e lui si guardarono, rapidissimamente. Entrambi sapevano. Egli pensò: No. Ella pensò: Sì.
La contessa Elisa gli parlò tosto di Brescia, di un'amica sua bresciana che... combinazione strana, era per l'appunto cugina di casa Fedimari. Poi mossero tutti assieme a visitare la chiesetta.
Maurizio Fedimari era un giovane di aspetto fine e molto serio. Intelligente, studioso e di tempra eminentemente sensibile, aveva cercato, nell'assorbente influenza degli studi artistici, una distrazione benefica e quasi un rifugio contro l'eccessiva suscettività nervosa del suo temperamento ed il malessere continuo che formentavano in lui la coscienza di una quasi insana timidità. Appunto per reagire contro questa, si costringeva talvolta a prendere delle grandi risoluzioni. Così era venuto nel divisamento di prender moglie e aveva detto a Marcello Plana: — Trovamela tu — in una specie di accesso di coraggio disperato. Si riservava, naturalmente, la conferma della scelta dell'amico. Per tutte le circostanze secondarie, gli aveva data carta bianca.
Povera Marina... Ella faceva serenamente, correttamente, [25] il dover suo. Ammirava con perfetta misura quanto c'era da ammirare nella cappella, ascoltava con doverosa simpatia le elaborate spiegazioni del giovane. La timidità naturale di Fedimari era sopraffatta colà dall'assoluto bisogno di un contegno sciolto e il terrore del ridicolo gli faceva trovare delle forze ignorate. Non parve nè impacciato, nè inferiore a sè stesso, benchè soffrisse alquanto nell'intimo suo.
Mentre egli parlava, Marina si ricordò della sua lezione di sorrisi. Uno dopo l'altro, con perfetta armonia di evoluzione, vennero sul suo volto e passarono. Ella ebbe un'attenzione sostenuta, una dignitosa personalità di apprezzamento. Non esagerò l'entusiasmo, ebbe solo alcune parole di fino commento. Quando credette giunto il momento opportuno, si rimosse alquanto dal gruppo e andò ad inginocchiarsi su un banco per farvi una breve preghiera. Ciò fece senza ostentazione di sorta, con una semplicità e una distinzione di mosse veramente mirabili. La figura spiccava, magnifica, sul banco isolato. La mossa, la posa, quella bella testina abbandonata per un istante fra le mani finemente inguantate, tutto fu artistico, nobile, riescito. E veramente in lui fu colpito l'artista. Ma Maurizio Fedimari restò freddo, ed egli ebbe degli strani pensieri d'indole curiosa e alquanto negativa, mentre la povera Marina diceva silenziosamente la sua piccola preghiera, appiè della Madonna bofficiona.
[26]
Ognuno, del resto, faceva doverosamente la sua piccola parte in quella piccola commedia crudele. Anche la Contessa fu all'altezza della situazione. Si era imposta una disinvoltura grande e bisognava sentire come parlava del più e del meno, di Luca della Robbia e di Mino da Fiesole... Citò Winckelmann tanto a proposito, quella cara donnina, che Maurizio Fedimari ne rimase incantato. Ma con tutto ciò il core le batteva forte e un momento, mentre Fedimari si trovava alquanto in disparte, con Marina, intento a farle osservare il delicato lavoro della catena, ella chiese in fretta, a bassa voce, a Marcello Plana:
— Ebbene, che vi pare?
Marcello si strinse alquanto nelle spalle.
— Eh! bisognerà sentire.
— Quando? Verrete stasera, nevvero? Mi direte... No, caro Plana, scusate, ma non sono del vostro parere. Della scuola, forse, di Luca. Ma sua, non credo.
Fedimari e Marina erano tornati lentamente indietro, giusto in tempo per udire l'opinione della Contessa su Luca della Robbia. Non avevano l'aria molto animata.
La visita continuò e si compì secondo il programma. I due signori accompagnarono alla carrozza la Contessa e la signorina. E lì, proprio all'ultimo, la contessa Elisa si fe' un coraggio da leone e annunziò [27] al marchese Fedimari che riceveva il sabato, dopo le cinque. Se ne rammentasse, se rimaneva a Firenze.
Il giovane accolse l'invito colla più doverosa riconoscenza. Ma parlò vagamente di certi progetti per Napoli. Era indeciso. Certamente, se non partiva, approfitterebbe col massimo piacere.
Marina si nicchiava nel suo cantuccio del legno, disponendo con grazia infinita sulle sue ginocchia l'elegante copertina foderata di pelliccia. La persona era ben riparata, ma un subito freddolino si fece strada sino al suo cuore. Il più squisito dei sorrisi, il sorriso della fine, non lasciò le sue labbra. Scomparve a tempo debito, quando non occorreva più, ma si cacciò dietro una effulgenza di serenità mirabile, mentre la giovane parlava, con sentita compiacenza, delle bellissime cose che aveva testè vedute.
La Contessa invece non era niente affatto entusiasta. Sempre così, quel Plana. Credeva sempre di scovare dei tesori inediti... e poi... Quella Madonna?... Della scuola di Luca... se pure! E il Trittico! Ritoccato atrocemente, rovinato addirittura.
Marina scoteva il capo placidamente. — Ma no... non mi pare. Mi sono piaciuti tanto quegli affreschi. E il luogo era così originale!
— Originale davvero! — ribattè la Contessa con quanto malumore poteva tradire la sua dolce fisonomia.
[28]
Sospirò, poi tacque, e Marina rispettò il suo silenzio. Ella pure aveva voglia di tacere. Pensava che anche quella era andata male. Lo sentiva... n'era sicura. Quante?... Non le contava più!
Sulla discesa i cavalli trottavano, Marina abbandonava la bella persona alle lievi scosse della carrozza, e pensava che la china degli anni si scende così, ch'ell'era stanca, inesprimibilmente stanca di... tante cose. E ogni tanto si presentava una probabilità, qualche cosa che pareva la fine... ma, sul punto di concretarsi, spariva. E il tempo passava...
S'era levato un venticello malinconico che se la pigliava colle ultime foglie, scordate sugli alberi dal suo predecessore. Ella guardava, pensando ancora: Così! Ma aveva ripreso a chiacchierare quietamente colla Contessa.
Andarono alle Cascine, ma il tempo inclemente aveva trattenuti in città molti dei soliti frequentatori. Poche carrozze al Piazzone. Le due signore non si fermarono molto alla passeggiata. La Contessa aveva premura di essere a casa e di chiedere a Plana come fossero realmente andate le cose. Poichè ella era sinceramente affezionata a Marina, e avrebbe voluto vederla maritata e fuori di quella benedetta casa d'Accorsi!...
Ve la ricondusse, cionullameno, e la giovane, congedatasi affettuosamente dall'amica, scomparve nel [29] vano del portone. Elisa le tenne dietro, sin che potè, collo sguardo.
— Povera ragazza! — sospirò.
— A casa! — disse poscia rapidamente al domestico che attendeva gli ordini.
[30]
La casa della contessa Elisa non era un palazzone. Un bel fabbricato signorile di stile moderno, nicchiato, con una leggiadra modestia di villa, in mezzo ad un giardino tutto cintato, il che lo isolava piacevolmente dalla via e dalle case adiacenti. C'erano molti sempreverdi, molti fiori e le mura erano quasi tutte ammantate di edere, pareva d'essere in campagna. Ciò piaceva tanto alla contessa Elisa, e i suoi fedeli salivano volentieri quella piccola scalinata dell'atrio, coi grandi vasi bleu di maiolica di Ginori, cogli arum sì belli e sì alti e le macchie di begonie e le belle lampadine pensili coll'edere sì verdi, e il capilvenere sì minuto, per poi penetrare in quella piccola fuga di sale arredate semplicemente, ma con molto gusto, e andar finalmente a parare in quell'amore di salottino in broccatello antico; tutto mezze tinte e cose gentili, e tocchi femminilmente artistici di addobbo e d'adornamento.
Appena scesa di carrozza, Elisa chiese al cameriere: — È venuto don Marcello?... — E udito che [31] sì, mosse frettolosa a incontrarlo dove sapeva che l'avrebbe trovato.
Egli era infatti nel salottino ultimo. Appena udì quel passetto frettoloso, depose il volume che stava leggendo e si alzò, appena in tempo per ricevere, in piedi, la buona stretta di mano dell'amica.
— Ebbene? — le chiese questa impetuosamente.
— Eh! che furia! — Toglietevi almeno il mantello. Vi sta così bene che è un peccato. Ma...
— Via, per carità! — rispose Elisa sbottonandosi nervosamente.
Egli la guardava, ridendo, ma subito fece una faccia lunga e contrita.
— Bastonate il vostro servitore, Contessa. Egli è reduce da un fiasco.
Ella rimase non sorpresa, ma accorata.
— Me l'immaginavo — sospirò. — Che disdetta! Un così buon partito... Ma cosa le trova poi... colui? Non gli par bella forse?
— Bellissima. Egli rende piena giustizia ai pregi fisici della vostra amica. Una sola cosa gli parve insufficiente in lei.
— E cosa?
— L'anima, cara Contessa.
Elisa buttò dispettosamente il guanto, testè toltosi, sul tavolino prossimo.
— E dàlli.... anche lui, con quest'anima! È una scusa così comoda, ora. Che anima volete che abbia [32] una povera ragazza al giorno d'oggi, coll'educazione che le si dà, colle leggi assurde che ha fatto la società! Vi accerto che Marina è una giovane piena di cuore, e ha dei bellissimi sentimenti, e il vostro amico non capisce...
Don Marcello incrociò le braccia sul petto in atto sì comicamente umile che la contessa dovette far bocca da ridere.
— No, no, vi assicuro..., sono contrariatissima. È un giovane simpatico, intelligente.
— Avete detto testè che non capisce niente.
— Un eccellente partito!... Mi rincresce all'anima. Fortuna che Marina non ne sapeva nulla.
— Uhm!...
— Ma no, vi accerto. Non le abbiamo fatto il più lieve cenno...!
— Tant'è.
— Dio, che ostinato!... Se vi dico che non ne sapeva nulla. E dopo tutto egli poteva non piacere a lei. Non è mica un Adone, il vostro amico. Scommetto ch'ella non lo avrebbe voluto.
— Perdereste la scommessa. — Ella sarebbe stata meno esigente di lui.
— Oh bella questa! Perchè?
— Perchè di sì... E se ci pensate un momento, converrete meco...
La Contessa pensò un momento, e in cuor suo convenne ch'egli non aveva torto. Ma scosse ancora il capo, dubbiosamente.
[33]
— Siete ingiusto per lei. Non l'avete mai potuta soffrire.
— Perdonatemi; non è esatto. Ho di lei molta stima, non avrei, se fosse altrimenti, pensato a proporla in moglie ad un mio amico. La benevolenza di cui l'onorate è la sua più valida commendatizia. Nelle sue speciali circostanze ella ha sempre dimostrato un tatto ed un senno commendevoli. Ma se fossi stato al posto di Fedimari...
— Avreste fatto come lui?
— Precisamente, Contessa.
Una pausa tenne dietro a questa schietta dichiarazione.
— Ebbene — disse la Contessa dopo un momento, tutto ciò è molto triste. Io, vedete... detesto tutte queste cose, questa forma di progetti di combinazioni. Mi pare che sia quasi una profanazione.
La sua bella fisonomia assunse inconsciamente un'espressione malinconica piena di sincerità e di sentimento. E continuò:
— Mi direte: ma a queste combinazioni, tu pure presti mano, mentre le critichi. Che volete!... Se ne vedono tutti i giorni, e a volte finiscono bene... meglio degli altri matrimoni. Ma è così triste, tutto ciò... sì dissimile dall'amore!
Modulò dolcemente, con dolcezza involontaria, l'arcana parola.
— Ma è la vita, Contessa. Due cose molto distinte, come vedete.
[34]
— Infatti. Si può vivere senza l'amore.
— Certo. Ad un patto però. Di non aver cominciato a provarlo.
— Non si comincia, ecco tutto; — rispose Elisa, sorridendo.
Egli ebbe un impercettibile moto delle sopracciglia. Ella sorrise ancora e soggiunse:
— E sopratutto non si comincia fuor di tempo.
Marcello Plana prese il libro che aveva testè deposto: Mad. Chrysanthème di Pierre Loti, e lo sfogliò un momento. Poi lo rimise sul tavolino.
— Insomma, questa volta abbiamo proprio fatto un buco nell'acqua! Me ne dispiace, credete.
— E a me pure, immensamente. Povera Marina!
— E contate rimettervi in campagna?
— Certo. In queste cose non bisogna mai fermarsi a contare i morti. Quella povera figliuola...
— Non la compiangete tanto. Anzitutto, ha un'amica come voi. Poi ha un'altra amica, pure tenerissima, di lei... lei stessa, cioè, colla tenacità del suo proposito. Vi assicuro che riescirà; col vostro concorso o senza.
— Dio lo voglia! Don Marcello. Vorrei vedere...
— Tutte le pecore sul monte? Che valida sostenitrice del matrimonio. Peccato che non vi ricordiate che, in certi casi, Cicero pro domo sua sarebbe il migliore degli argomenti.
[35]
Ella arrossì alquanto e scosse gravemente il capo.
— Oh! non si tratta di questo. Marina...
— Sì, lo so. Marina è abbastanza convinta, per conto suo, non siate in pena per ciò. Ma siete voi che...
Si arrestò; ella aveva lievemente aggrottate le ciglia e una espressione di tristezza passava sul suo volto.
— Voi... siete incorreggibile — completò Don Marcello. — Ed io pure, nel tormentarvi. Ma consolatevi, parto presto per Milano. Mi scriverete, nevvero, mi terrete a giorno dei vostri nuovi tentativi?
— Certamente. Benchè, a dir vero, in questo momento, non saprei proprio a che santo raccomandarmi per trovare...
— La rara avis? Il marito di Marina? Suvvia. Non v'inquietate. Verrà da sè... E ora rasserenate il vostro caro volto di missionario, e date un pensiero anche agli altri miseri mortali. Guardate la vostra posta che vi attende, chi sa da quanto.
— Infatti. Permettete?
Egli chinò il capo e tornò a recarsi fra le mani Mad. Chrysanthème, colle sue figurette birichine, mentre la Contessa andava rimestando in una piccola farraggine di carte, di giornali, di lettere che, giunte nella sua assenza, attendevano al posto solito, [36] là dove il domestico aveva ordine di deporle, in una larga coppa di antico Giappone.
Una viva esclamazione, sfuggita alla Contessa, fece alzare il capo a Don Marcello. Essa leggeva frettolosamente, con evidente sorpresa e crescente soddisfazione una lettera abbastanza voluminosa. Quando ebbe finito, si lasciò andare sulla poltroncina e cominciò a ridere, ma di gusto... quel suo bel riso sonoro, che pareva tornarla sì giovane.
Egli la guardava, curioso, aspettando.
— Oh! — diss'ella finalmente, non appena le venne fatto, e sollevando trionfalmente la lettera — quando si dice il destino!
Guardate qui! Lo sapete voi cosa c'è in questa lettera?... Ebbene! Immaginate... C'è dentro nientemeno che... il marito di Marina!
— Amen!... — disse gravemente Don Marcello Plana.
***
Era sola, oramai, e pensava!
Addietro, addietro negli anni, nei remoti recessi della memoria, ella trovava i ricordi dell'amica che le aveva scritto ora sì confidenzialmente e sì a lungo, dopo tanti anni di silenzio. Rivedeva i due giardini confinanti delle ville paterne, teatro dei loro giuochi, il pianoforte sul quale solevano assieme eseguire, con [37] tanto impegno le sonatine, applaudite dagli amici indulgenti. Tecla d'Oppado era maggiore di lei, di parecchi anni, e le faceva da mammina all'occasione, con grande disinvoltura.
Ma la contessa Elisa rammentava senza rammarico alcuno, quella specie di amorosa supremazia esercitata su di lei; non solo per l'autorità di qualche anno di maggiore età ma anche per una speciale precocità del carattere di Tecla, precocità sì marcata, che pareva avere affrettato per lei il corso naturale del tempo e tutto arrecatole in anticipazione.
Tutto: l'amore, il matrimonio, la maternità.
A sedici anni, alla sua prima festa da ballo, Tecla d'Oppado era colpita in pieno cuore da una passione romantica ma sincera, per un brillante ufficiale, molto bello, molto nobile e molto rovinato. Pieno di spirito e di brio, disinvolto ed elegante come un moschettiere di Dumas, con un taglio d'occhi azzurri che metteva nelle loro orbite la profondità d'un mare, egli si accorse subito dell'impressione da lui esercitata su quel cuoricino. Tecla non era brutta ed egli la sapeva ricca, forse l'amò pure alquanto, a modo suo. Certo è che seppe convincerla ch'ella non poteva essere felice altrimenti che con lui e manovrò sì bene l'azzurro degli occhi suoi che la indusse a dire gravemente ai vecchi nonni, i quali sostituivano per Tecla i perduti genitori: O quello, o nessuno!
[38]
I buoni vecchietti provarono bensì a ridere di quell'ultimatum; ma dopo cinque o sei mesi d'indugio, davanti a quella faccetta pallida e risoluta, su cui parevano andar segnandosi certe stimmate, della famiglia di quelle ch'erano un tempo impresse sul volto della madre di Tecla, morta a ventott'anni di mal sottile, i nonni mutaron parere, e un bel giorno la fanciulla entrando in salotto, vi trovò il conte Aynardo Rescuati Melli. Otto giorni dopo, i giovani erano fidanzati.
Ella fu felice, inenarrabilmente felice. Subito si riebbe. Ci sono di quelle donnine così fatte, per le quali l'amore è simile alla selvaggia canzone dello zingaro fattucchiero che attira specialmente i bambini. Li chiama dai palagi, dalle case, dagli abituri, li toglie ai giuochi, alle gonne delle madri, irresistibilmente! Ed essi vengono giulivi, danzando, battendo le mani in cadenza colla canzone che li guida, dove sa lei, nei labirinti ciechi, nelle solitudini misteriose di una foresta senza fine, nelle strade perse, senza sbocco, della vita.
Ella ubbidì a quell'appello e danzò, giuliva, correndo sulle traccie del fattucchiero!
Dapprima, sul sentiero misterioso fu un incomparabile fioritura di gioie, ed ella tanto ritrovò della sua vita da poterne dare ad un altro essere, dieci mesi soltanto dopo essersi sposata. E le parve allora di poter gettare al destino un osanna di completa, assoluta gratitudine.
[39]
Le parve.
Poichè non è nostra la felicità che ci dona esclusivamente l'amore. Noi, col nostro facciamo assai, ma a tutto non si arriva e l'amore è zingaro e frequenta le strade disagevoli che rasentano gli abissi. Il conte Aynardo Rescuati Melli cominciò a sbadigliare un poco, passata quella prima festa di felicità coniugale e paterna. E un giorno, ahimè! s'avvide d'esser molto giovane per un marito ed un papà!
Già... un po' lunghetta la storia! Le sue doti brillanti, l'acciaio terso del suo spirito si arrugginivano in quella cittaduzza di provincia, fra quelle due graziose foggie di bimbi che aveva in casa, la moglie cioè ed il figlio. Per non pensare a quelle malinconie cercava di distrarsi; poveretto! E per distrarsi, consumava molto della dote che gli aveva recato Tecla e sbocconcellava pure un poco di quella fede ch'egli aveva recato a Tecla. Il cambio non era generoso, Tecla se ne avvide e si destò ad un tratto, nel fitto della notte e della foresta. Sola, lo zingaro era scomparso! La canzone non aveva più che un ritornello; quello di Tecla.
Ella era molto giovane, molto inesperta, attorniata da persone vecchie che avevano scordata la scienza della vita. Fu bene, mal consigliata da esse o dal suo cuore? Fu saggia nel suo risentimento? Aggravò la scissura, coll'impetuosità appassionata del suo dolore? Certo; aveva ragione la poveretta. Ma quando mai, in amore, aver ragione fu una ragione valida?
[40]
Il conte rientrò al servizio militare ed ebbe la nomina di addetto ad un'ambasciata estera. Ella rimase nel suo vecchio palazzo, coi vecchi nonni e col bimbo. Non erano separati. Egli veniva ogni tanto in famiglia, e purchè non troppo prolungate, quelle visite erano piacevolissime per lui. Faceva un mondo di feste alla moglie e al bimbo, recava loro doni ricchissimi, di un gusto squisito, narrava dei piacevolissimi aneddoti ed alludeva volentieri al tempo in cui, stanco del servizio militare, verrebbe a casa a piantare i cavoli e far studiare quel birichino.
Ma invece, un brutto giorno, a Vienna, se ne morì, stupidamente, in duello per una donna, che non valeva un'ora sola della vita più inutile di questo mondo. A Tecla, dissero ch'era morto di bronchite fulminante!
Quando egli fu morto, ella seppe una cosa: che l'aveva sempre amato, anche offesa, anche lontana da lui. Ma di lui, ora non restava che Roberto. Ed ella amò Roberto per due, per lui e per il padre suo.
Ci sono due maniere di amare le persone: A modo loro e a modo nostro. Coll'idea del come vorremmo essere amati noi, o del come esse amano d'essere amate. Il primo metodo, Tecla lo aveva applicato al matrimonio e non era stato coronato da un brillante successo. Perciò volle, col figliuolo, fare un nuovo esperimento, amarlo cioè a modo suo, contentandolo in tutto. A dir vero, ella corteggiava un [41] fiasco, più colossale del primo, ma il destino, per questa volta almeno, chiuse un occhio sulla sua imprudenza. Nè ella, nè i nonni furono capaci di rovinare Robertino.
Il ragazzo era nato col bernoccolo della resistenza ai metodi sperimentali. Profittava naturalmente di quella tempesta di amore, ma a dispetto di quella trinità d'idolatrie, cosa incredibile... non diventava un ragazzaccio!
Era un ragazzo come gli altri, un po' più birichino forse, con una passione speciale per fare il chiasso ma comodamente, a casa sua. Non diceva bugìe, forse perchè non aveva mai avuto bisogno di dirne, voleva quel che voleva; spiattellato, senza rigiri. Tiranneggiava la mamma, questo va da sè, trattava i nonni con una disinvoltura notevole e dimostrava a loro riguardo una estrema libertà di spirito, ma era loro affezionato e stava volontieri in casa.
Non era un'aquila d'ingegno e studiare gli parve sempre una cosa perfettamente inutile, ma egli strinse le più cordiali relazioni cogli innumeri maestri che la mamma, pur di non mandarlo a pervertirsi nelle scuole pubbliche, gli faceva pullulare in casa. Tutte queste brave e colte persone, egli finiva invariabilmente collo scoraggiarle come istruttori, ma se ne faceva degli eccellenti compagni di escursioni e di cavalcate, nonchè dei caldi amici personali. Andava [42] a caccia col fattore, il quale lo adorava e lo derubava doverosamente e gli diceva sempre, accennando dei larghi tratti di paese: Vede, tutto questo è suo. Le piante, il grano, l'erba, i sassi, le bestie, tutto suo. E anche la roba dei vecchi, quelle belle tenute laggiù, sue anche quelle. Cosa vuol stare a rompersi il capo sui libri?... Lo lasci fare a noi, poveri disperati. E lei, stia allegro e se la goda.
E lui... sfido io, non dava torto al fattore, quel diavolo di ragazzo.
Elisa rammentava benissimo quel monello di Bertino. Doveva essere sugli otto anni quando ella e Tecla si separavano, ah! con quanto dolore di entrambe! Tecla, per andare a stabilirsi in un'orrenda cittaduzza delle Marche, ove uno zio canonico aveva testè lasciato una bella eredità a Bertino; Elisa per seguire il padre suo, in un giro scientifico in Sicilia.
Veramente fu un dolore, quella separazione. Erano amiche nel senso reale, sì raro della parola, malgrado la non lieve differenza d'età, malgrado la non pari posizione. Due anime proprio fatte per simpatizzare, quella vedovina malinconica, non ancora scevra di tutte le sue ubbie di fanciulla, e quella fanciulla grave, posata come una piccola matrona. Per tanti anni non s'erano più vedute, la corrispondenza erasi mantenuta per un tempo non breve, ma poi era venuta meno. Tecla era assorbita dalle sue [43] cure per Berto, ed Elisa aveva ormai delle mansioni speciali presso il padre suo.
Afflitto da un inesorabile e progressivo indebolimento della vista, il barone Nardi, soffriva crudelmente di non potersi più dedicare ai severi studi storici, cui doveva la sua alta fama di scienziato. Ma questo dolore, la figlia alleviava quanto era in poter suo, prestando al padre i suoi begli occhi di Antigone, la sua armoniosa voce di lettrice e la chiara calligrafia, della quale la sua mano elegante rivestiva il dettato di lui sui fascicoli della sua grande opera: Le rivoluzioni dei Comuni Italiani. E una cosa soleva dire, serenamente, Elisa Nardi, (che le attirò un buon rabbuffo della zia Balbina, la testa forte della parentela): ch'ella, cioè, sposerebbe tanto volentieri un uomo che somigliasse al padre suo! E il bello è, che n'era proprio convinta, e aveva chiesto seria seria: perchè? quando la zia Balbina le aveva detto alzando le spalle:
— Per amor di Dio, figliuola mia, non farti sentire a dire di queste corbellerie. Già! l'ho sempre detto, che tu vivi sempre nel mondo della luna.
La zia Balbina, dal suo punto di vista non aveva tutti i torti; ma convien dire che nel mondo della luna non ci si stia poi tanto male, perchè Elisa, coi suoi bizzarri ideali e colle sue funzioni d'amanuense, pareva, ed era proprio felice, e in fatto di matrimonio non se la pigliava con quel fervore più o meno ben [44] celato di molte fra le nostre belle signorine. In casa, la Signora era lei, suo padre l'adorava, attorno a loro s'era fatto un circolo, un po' esclusivo a dir vero, di vecchi amici di casa, quasi tutti assai colti.
Fedele all'antica amicizia con Tecla, Elisa non ne aveva contratte altre, con giovani signore o signorine. Coi giovani era alquanto a disagio.
Essa passava per una signorina eccezionalmente colta, ed alcuni giovinotti, che se ne sarebbero facilmente invaghiti, conoscendola sotto un altro nome, trovavano spiritoso di simulare un piccolo brivido di paura, o una smorfia di riverente sgomento, quando si parlava di lei.
Fanciulletta ancora, aveva perduta la madre. Priva dei suoi consigli, entrata giovanissima nel gran mondo, non aveva saputo evitare qualcuno dei tanti scogli di quel mare infido. Non aveva toccato che delle piccole ferite, subito rimarginate dalla reazione del buon senso e dall'innata equità; ma di quelle che in certe anime ultra delicate, lasciano una traccia e anticipano di anni ed anni il segreto disgusto del mondo. Così: alle grandi riunioni, alle feste, Elisa preferiva di gran lunga la compagnia del padre e quella che gli chiamava d'attorno la sua larga ospitalità di scienziato gran signore. Intelligenza veramente eccezionale, coadiuvata da profonde cognizioni, il barone Nardi amava coltivare le serie doti mentali di sua figlia, addestrando lo spirito di questa [45] al pregio tanto femminile della ricettività intellettuale.
In quell'ambiente ove nulla penetrava di frivolo, in mezzo a studii prediletti e a persone simpatiche ed omogenee, padre e figlia erano felici ed Elisa non si rammentava che alla sua età, a 24 anni, ella avrebbe potuto essere da tempo maritata. Non ci pensava, ecco tutto.
Ma qualcuno ci pensava per lei. La zia Balbina procurò un giorno di trovarsi sola col fratello e gli chiese, coll'intrepidità di chi sa di compiere un'opera meritoria, se contava di sacrificare definitivamente l'avvenire di sua figlia al piacere di averla a segretario dei suoi lavori storici.
L'autore delle Rivoluzioni dei Comuni Italiani cascò dalle nuvole.
Lui! sacrificare sua figlia!
Rimase senza parola, subitamente addolorato ed impensierito davanti alla categorica domanda di quella energica sorella. Il suo egoismo (se davvero n'era stato colpevole) era d'indole affatto inconscia, poichè gli era sempre parso che la figliuola fosse felice con lui, nè desiderasse di mutar vita. Così era infatti, per un assieme di circostanze affatto speciali; ma lo zelo della zia Balbina tanto seppe evocare l'immagine dell'avvenire e rammentare al barone quella tal legge di natura che sbarazza l'umanità della sua parte eccedente ed inutile (dei padri vecchi, per [46] esempio) ch'egli cominciò a ricordarsi che infatti, da qualche tempo in qua, si sentiva alquanto deperire in salute. Già, veramente... era stato un grande egoista.
Osservò umilmente alla sorella ch'egli, però, non aveva mai contrariata la figliuola. Elisa era perfettamente libera di scegliere chi più le piacesse per compagno della vita.
Oh! come rise di cuore la zia Balbina quando udì queste parole! Come rivelavano lo scienziato, l'uomo che non aveva mai avuto, scusasse... un po' di senso pratico della vita. L'Elisa aveva avuta in retaggio da lui, la stessa assenza di sano positivismo; era una piccola marmotta che non sarebbe mai stata capace di pescarsi un marito, con tutte le sue doti trascendentali. Oltre a ciò, era una ragazza eccezionale, che uno dei soliti giovanotti mondani avrebbe resa infelicissima. Per Elisa ci voleva un uomo serio, coltissimo, di uno spirito superiore. Penserebbe lei, insomma, a trovarlo.
A ciò non si oppose il barone. La zia Balbina lo aveva destato come da un sogno; e ora egli si chiedeva come avesse potuto farlo sì quieto, sì prolungato!... E giacchè c'era questa terribile necessità che le figlie dovessero prender marito e i padri rimaner soli, dopo averle tanto amate, dopo essersele tenute a fianco, sì care, per tanto tempo, compagne del cuore e della mente, luce e vita della casa... ebbene... facesse pure, la zia Balbina!...
[47]
È d'uopo convenire che la zia Balbina, ispirata dal suo zelo, non operò per nulla colla testa nel sacco, e compì la sua missione coscienziosamente e secondo la sua più stretta idea del dovere e di ciò ch'ella giudicava più atto alle speciali esigenze di sua nipote. Non ebbe pace sicchè non ebbe trovato un uomo, che, a farlo apposta colle mani, non poteva esser più adatto a quella cara Elisa. Uno scienziato anche lui... come quel benedetto papà, meno che la sua malattia era la numismatica. Ricco, nobile, istruito, un pozzo di scienza! Sui quarant'anni, ma un bell'uomo ancora. E un carattere così solido... così calmo, una perla d'uomo.
Insomma quello doveva essere proprio l'ideale di Elisa, quello che meglio rispondeva a tutte le sue idee, le sue abitudini, le sue tendenze! Zia Balbina sfidava chicchessia a trovare per Elisa un marito più ad hoc del conte Emilio Serramonti!
Tutto ciò era molto vero in sostanza e il cuore di Elisa era come una bella casettina nuova che non ha ancora avuto inquilini. Ella accettò fiduciosamente quello sposo, le cui qualità erano indiscutibili, e che aveva comuni con lei e col padre suo tante idee e tante simpatie. E quando, pochi anni dopo il matrimonio della figlia, il barone Nardi si sentì presso la sua fine (immatura dopo tutto, poichè non toccava i 50 anni) benedì in cuor suo il gran dolore che gli aveva imposto la zia Balbina. Oh! [48] sì! poteva chiuder gli occhi in pace, contento del suo sacrificio. Lasciava la sua Elisa nel pieno possesso di una calma, di una ragionevole felicità. Di una cosa soltanto si rammaricava: che ella non avesse figli. Da qualche tempo, più specialmente, questa circostanza lo impensieriva.
Ma zia Balbina, venuta in quei giorni dolorosi, a recare il conforto e l'aiuto della sua testa pratica, combattè colla più consolante energia quel rammarico del fratello.
Ma che! Ubbie! Una donna intellettuale, come Elisa, dotata di sì grandi risorse di spirito, con un marito, quale glielo aveva procurato lei stessa, poteva benissimo far senza della distrazione dei marmocchi. Suo marito amava ricevere, essa lo coadiuvava mirabilmente, avevano un salone letterario frequentato dalle più alte intelligenze. Che poteva desiderare di più, coi suoi gusti, quella povera cara Elisa!
***
Veramente, quando, in capo a poche settimane, quella povera cara Elisa perdette il padre suo, una cosa soltanto desiderò con intenso desiderio e fu che la lasciassero sola col suo dolore. Provò una violenta gratitudine pel marito, il quale la sottrasse alle consolazioni e ai ragionamenti pratici di zia Balbina, [49] conducendola seco a fare un lungo viaggio durante il quale egli si occupò assai colle sue medaglie e lasciò ch'ella si occupasse colle sue lagrime e col suo immenso rimpianto.
Non mai, come in seguito a questo pietoso salvataggio, ella fu tentata di credersi ciò che tanto si applicava ad essere: una moglie felice. E quando suo marito ammalò alla sua volta d'una lunga e gravosa malattia che li trascinò per anni ed anni, in caldi e lontani paesi, unica infermiera del conte Emilio fu la moglie sua. Veramente affettuosa ed intima e dolcemente fraterna fu l'esistenza di quei due!
Quando egli morì, dopo solo sei anni di matrimonio, di una dolce morte, confortata da sincere lagrime, ella si sentì veramente sventurata. Le parve che colla nuova si riaprisse in lei l'antica ferita. Nella sua completa solitudine morale, quelle due care memorie ella confuse in un culto di indole quasi pari, e le parve di sentir compiuta e chiusa la vita del suo cuore, nella duplice tristezza del suo lutto di figlia e di sposa...
················
A Costantinopoli ella aveva perduto suo marito, ed ella stessa ne ricondusse la salma in Europa.
Per un anno intero abitò in una sua bellissima villa sulla Riviera. Più tardi comperò una casa a Firenze e fu per lei una gradita occupazione quella di metterla in ordine e di addobbarla, seguendo le [50] ispirazioni del suo raro gusto artistico. In quella circostanza ella osò per la prima volta contrastare il parere di zia Balbina. La buona signora aveva avuto l'idea eminentemente pratica di invitare la giovane vedova a venir ad abitare in provincia presso di lei, allo scopo, diceva ella, di sconcertare le cattive lingue.
Ma la contessa Elisa non si sentì il coraggio di pagare a sì caro prezzo lo sconcerto delle cattive lingue. E seppe tanto bene e con sì amabile dignità viver sola a Firenze, nella sua bella casa, ricevendo come aveva sempre fatto, occupandosi d'arte, di letteratura, di beneficenza, che le cattive lingue, dopo aver provato a pungere, a portar via un po' di pelle a quella purissima riputazione, dovettero smettere. A nessuno venne mai la più lontana idea di poter far la corte a quella signora così gentile e così austera. Alcuni ebbero bensì, nei primi tempi, un'idea assai migliore, quella cioè di chiederla in moglie, ma ella ricusò sì pertinacemente che gli aspiranti desistettero. Uno di essi, più stizzito degli altri per la toccata ripulsa, avendo detto che la contessa Elisa era una donna fredda, egoista e per di più, di una pedanteria insopportabile, molte persone trovarono comodo di adottare sul conto di quella signora un'opinione già fatta, invece di darsi la briga di formarsene una propria e così fu assodato che la Serramonti, con tutte le sue qualità, non era per nulla [51] ciò che si chiama una persona attraente. E zia Balbina scrisse, ad alcune sue amiche di Firenze che le avevano chiesto ragguagli sulla nipote:
«Un angelo, mie care, una donna sublime, ma ostinata all'estremo, e di una deplorevole riluttanza a seguire le buone e pratiche influenze delle persone esperimentate. L'ho sempre detto a quella cara Elisa, ch'essa abita un pochino nel mondo della luna. Fortunatamente per lei, ha circa quarantamila franchi di reddito suoi, per cui in complesso può vivere come le pare e piace, e questo è senza dubbio un gran conforto, nella sua difficile e delicata posizione.»
Oh! un gran conforto, senza dubbio. E di quel conforto ella si giovava certamente, sopratutto facendo molto bene attorno a sè e soddisfacendo i suoi gusti raffinati di artista. Viveva molto quieta, sentendo i vantaggi della propria posizione, colla calma serena che le dava il convincimento, o giusto od erroneo, di essere entrata nella fase definitiva della propria esistenza.
Vestiva molto seriamente, con severa eleganza, e non si tingeva i capelli, benchè fossero qua e là irregolarmente striati in bianco; il che, chi nol sapesse, è la più odiosa maniera d'incanutire che possa capitare ad una signora... Ma la forma della testina era tanto graziosa, e in quel momento per l'appunto, mentre stava leggendo la lettera di Tecla, la contessa Elisa, col volto dipinto dall'emozione intima di [52] quella lettura, colla persona inconsciamente atteggiata ad una espressione veramente artistica di pensieroso abbandono, nella luce e nell'ambiente tanto omogeneo di quell'ora, formava un quadro gentile, pieno di una poesia fresca e squisita e davanti al quale nessuno certo avrebbe pensato di chiedere: Ma quella donna, quanti anni ha?
Oh, quella lettera di Tecla! E da tanto ella non scriveva più! L'assidua corrispondenza dei primi anni della loro separazione era venuta meno, naturalmente, col volgere degli eventi. A rari intervalli avevano nuove una dall'altra. Ma in questa lettera tutta l'antica confidenza tornava in campo, tutta la tenerezza un po' sgomentata di Tecla, le sue angosciose apprensioni materne si rivelavano nella fiducia di un appello caldo e malinconico. Elisa si sentiva il cuore riboccante di memorie e di simpatia e dovette recarsi il fazzoletto agli occhi per poter proseguire nella lettura del seguente brano:
«Il verdetto del dottore non mi ha sorpresa; da tempo avvertivo i prodromi del male che, affrettando ora il suo corso, farà in breve di me una povera inferma, inchiodata, Dio sa per quanto, su un seggiolone. Pure, non desidero di morire... Solo per lui, s'intende.
«Tu sai, cara, ciò che Roberto fu sempre per me. Non fosti madre, ma il tuo cuore è degno di essere un cuore di madre, e perciò sento di poterti dir tutto e chiederti tanto pel mio figliuolo.
[53]
«Premetto che, di tutto, la colpa è mia. Mia l'ostinazione di non volerlo allontanare da me. Cercai d'isolarlo da ogni fonte di contaminazione, sognando, follemente delusa anche dalla pieghevolezza del suo carattere, di poterlo tener sempre così, al riparo di tutto. Non seguì i corsi pubblici, fu educato privatamente. Credevo che avrebbe facilmente spiegata qualche attitudine ad una scienza qualsiasi, che si sarebbe volentieri occupato della gerenza del suo patrimonio. Se avesse spiegata qualche passione pei viaggi, l'avrei assecondata, accompagnandolo. Che vuoi? non seppi sviluppare in lui delle tendenze attive, e mi coglie a volte un acuto rimorso, poichè i risultati del metodo da me tenuto non sono certo soddisfacenti. Questa esistenza stagnante di piccola città di provincia, l'adulazione degli inferiori, l'esempio del più dei suoi pari, tutto insomma ha contribuito, non già a renderlo cattivo, nè corrotto... oh no!... questo sarebbe impossibile, col fondo aureo del suo carattere e col bene immenso che vuole a me; ma... egli è nulla... non fa nulla... e... ahimè, ha già soggiaciuto a qualcuna fra le più volgari seduzioni dell'ozio. Ora ciò è finito, la Dio mercè, ma temo per un altro lato, e il ricordo di altre, di antiche sofferenze di quel genere mi tiene in uno stato di incredibile agitazione.
«In una piazzetta remota della nostra piccola [54] città abbiamo un sucido cafferuccio, nel cui retrobottega, in mezzo ad un crocchio di giocatori di professione, i giovani delle migliori famiglie sogliono passare lunghe ore del giorno e della notte. Puoi immaginare le angoscie mie da quando so che Roberto frequenta quel ritrovo, e quando gli leggo in volto, nel pallore delle scomposte fattezze, la traccia di quelle emozioni, quelle che hanno trascinato, perso il padre suo... Ultimamente, ha subito perdite assai gravi. Ne ringrazio Iddio, e approfitto di un momento di disgusto da parte di Roberto per tentare un rimedio eroico. Cosa mi costa... ah! nessuno potrebbe dirlo! Ma non importa, se fu mia la colpa, la penitenza è giusta e deve esser mia!
«Allontano mio figlio da casa sua, da me; lo mando solo, perchè non posso seguirlo, in un centro più vasto, più attivo, ove egli abbia bisogno d'essere qualcosa per essere qualcuno. Voglio che vada in società, bramo che prenda moglie. Avrei potuto dargliela qui, ma preferisco che i legami abbiano altrove un centro di richiamo. Poi, le signorine nostre ricevono anche oggidì un'educazione troppo ristretta e subordinata alle influenze religiose e politiche. La sposa di Roberto deve avere delle vedute proprie, un carattere deciso, ingenuo e una certa cognizione della vita. Non ho esigenza alcuna personale, o fuori di quelle che naturalmente [55] importano la nostra posizione sociale. Mi basta che gli piaccia, che sia d'illibata condotta, di buona famiglia. Della dote non m'importa, è ricco abbastanza.
«Mia cara Elisa, mi hai compresa, nevvero? Accetti la missione che ti do?... Vuoi far le mie veci presso mio figlio, assumere il pensiero del suo avvenire e della sua felicità?
«Ho pensato a lungo; nessuno ho trovato più adatto di te. Il tuo senno, la tua posizione, l'alta stima di cui godi in società, le tue relazioni, tutto mi rassicura, tutto mi affida. È il mio solo conforto, nel dolore della separazione, il pensare che mio figlio è affidato a una donna come te. Fa per lui ciò che puoi, fa ch'egli trovi in te un'amica che gli tenga le veci di sua madre. E questa t'abbraccia con tutta l'anima, ti ringrazia e ti benedice.»
Elisa non leggeva più da qualche minuto. Ma ancora, sul suo dolce occhio castano, si stendeva un lieve umidore. Quanto doveva aver sofferto Tecla per giungere a quella risoluzione! E quanto era lei in quella confessione, come appartenevano al suo carattere quell'impeto d'abnegazione materna, quella rinunzia, quella cieca fede nell'amicizia di una donna!... Oh no, Tecla non s'ingannava, Tecla aveva fatto bene a rivolgersi a lei con quella missione, con quell'appello al suo sentimento materno... E veramente [56] ella la intendeva benchè non fosse mai stata madre!...
Fece un piccolo esame di coscienza, rapido, sincero. — Sì... — pensò poscia umilmente — posso tentare. Farò quello che potrò...
***
Il martedì, pranzo di amici dalla contessa Elisa Serramonti. Cinque invitati, uomini ed attempati. Marcello Plana, quand'era a Firenze. Il professore Starni, il famoso naturalista. Il commendatore Gerra, l'autore del famoso quadro: «La battaglia di Hastings e il rinvenimento del cadavere del re Aroldo.» Poi il principe di Cannera, lo straricco siciliano, sì modesto, sì benefico, e la cui colossale filantropia è più che sufficiente a fargli perdonare i suoi versi, mentre la sua prosa storica si difende da sola più che onorevolmente. Il conte Guaralli, quel bel vecchio poeta dalle ispirazioni sì caste. E quel tipo sì strano, sì nordico ed orientalista, Maurizio Parri.
Questi erano gli ospiti preferiti della Contessa, pei suoi delicati pranzetti del martedì. Ma ne aveva un altro piccolo crocchio, una specie di drappello di riserva, tutto dello stesso calibro, gente che pizzicava di lettere o notevole per qualche altro merito proprio. Dell'umanità, ella amava le api, non le vespe, e stava a disagio fra le persone frivole.
[57]
Dopo il pranzo, nell'appartamento di gala, tutto illuminato, cominciava verso le dieci a capitare una brigatella composta d'una ventina a una trentina di amici e di amiche. Si faceva musica e molto buona, di genere sempre serio, e non di raro classica. L'ambiente stesso di quella conversazione, non mai prolungata oltre il tocco, era piuttosto grave. Non si faceva che il minimum possibile della maldicenza, spesso vi si incontrava qualche autentica celebrità forestiera d'arte, di lettere. Erano assai ricercati gli inviti, che la contessa Elisa distribuiva molto parcamente.
Quando non esciva la sera, il che le accadeva di frequente, gli amici più stretti erano benvenuti nel suo salottino intimo, quello dove soleva stare anche quando era sola. Un amore di nicchietta quel luogo, tutto piante esotiche, palme, fiori, ninnoli, ricordi di viaggi. In alto, sulle due pareti opposte, sul damasco pallido a mazzettini di fiori dalle tinte sbiadite, campeggiavano due splendidi ritratti: la testa profonda, geniale del padre di Elisa, e la fisonomia patita, un po' insignificante di suo marito.
Colà venne a dirle addio, una sera, Don Marcello Plana. Partiva il domani per Milano.
Qualcuno era testè escito dal salotto. La Contessa e Don Marcello, soli ormai, parlavano di quel «qualcuno». Don Marcello le chiedeva, sorridendo, che impressione le avesse fatto Roberto Rescuati: quel suo figliuolo.
[58]
Accentuava, con una intonazione alquanto ironica, questa parola, godendo visibilmente del lieve imbarazzo che si dipingeva sul volto di lei e ch'ella tentò celare, spostando la domanda: — Piuttosto, che ne pare a voi?...
Ma egli insistè:
— Chiedo scusa, è la vostra opinione che occorre anzitutto. Suvvia, compromettetevi.
Ella esitò un istante.
— Non saprei — disse poscia. — Mi pare un giovane... come tutti gli altri.
— Saggia risposta, degna di una sibilla indulgente. Ora vi darò la mia. Quel giovane è bello, più bello degli altri!
— Trovate?... — chiese Elisa con sincera meraviglia.
— Trovo. Ha bellissimo fattezze, un corpo da Antinoo. Appartiene ad una razza forte, non degenere fisicamente.
Ella pensò un momento; poi disse: — Sì, è vero. Le fattezze sono regolari. Ma non mi sembra che la fisonomia esprima molto. Non è certo quello che si chiama una figura interessante.
— No, per ora e nel vostro senso. Voi siete soprattutto, troppo forse, abituata ad apprezzare, nella fisonomia d'un uomo, solo ciò che vi è di intellettuale. Vi siete fatta una strana idea della bellezza. Siete troppo esclusiva in favore di un dato sistema delle [59] sue manifestazioni. Permettete ch'io vi ripeta che il vostro figliuolo è bello, e che voi non lo sapete e, ciò ch'è più grave, che per ora non lo sa neppur lui.
— Ebbene tanto meglio! non sarà uno dei soliti Narcisi, ed io potrò più facilmente adempiere la mia missione.
Sulla nobile fisonomia di Don Marcello passò un'espressione rapida e bizzarra; un baleno, quasi tenero, di pietà.
— Sì — disse lentamente — vi credo.
Ella si mise a ridere: — Come siete grave!...
Subito si fece grave ella stessa. — Povera Tecla! — disse con un sospiro.
Egli ebbe una smorfia curiosa. — Uhm. L'amate molto, nevvero?
— Oh tanto! È così cara, così infelice! E voi pure, se la conosceste, ne sareste entusiasta!
— Perdonate, non ho l'entusiasmo facile. Mi pare che quella donna deva essere un po'... come dire?... avventata nelle sue imprese. Se foste a tempo, vi darei un consiglio. Anzi ve lo do, per ogni buon caso. Non accettate la missione che la vostra amica crede bene di affidarvi.
Elisa lo guardò bene in viso per vedere se scherzava. Poi disse semplicemente, con schietta meraviglia:
— Perchè?
[60]
Don Marcello sorrise. Un sorriso tutto suo, che impartiva un piccolo moto sarcastico ai lunghi mustacchi bianchi onde aveva sì forte rilievo la sua fine ed ancor giovane fisonomia di gentiluomo. Elisa lo guardava attentamente, nell'attesa di una spiegazione, che non venne.
— Perchè? — disse ancora serenamente. — Cosa sarebbe l'amicizia se non desse dei diritti e dei doveri? Tecla non mi dà forse la più alta prova di fiducia e d'affetto, credendomi degna di giovare a suo figlio?
Egli sorrise ancora, a modo suo.
— Oh... non abbiate paura. Ne siete degna e gli gioverete. Spero che avrete sufficiente influenza sull'animo suo per indurlo a mutar sarto, per esempio...
— Oh, si veste orribilmente, è vero. Ero sulle spine, martedì sera. Avete veduto come sogghignavano quei giovani? Che volete! È triste a dirsi, ma scommetto che è il portiere del suo palazzo che lo ha vestito sino ad oggi.
— Suvvia, coraggio. Non vi sgomentate così. Imparerà. Vi pare abbastanza intelligente per ciò e per il resto?
— Oh Dio! A dir vero, non so... Pare che per lo studio non abbia mai avuto trasporto. Martedì, a pranzo, l'avevo messo tra il comm. Gerra e il principe di Cannera. Ho una gran paura che si sia annoiato. Certo non aveva l'aria di divertirsi. E quei [61] due avevano fatto l'impossibile, glielo avevo tanto raccomandato! E alla sera, mentre si eseguiva il terzetto di Grieg... sapete, quella sublime cosa, in fa minore. Ebbene, lo credereste? lui, quel mio figliuolo, l'ho visto sbadigliare più volte dietro il gibus, e finalmente lemme lemme, nel più bel punto della suonata, si è rifugiato nel fumoir.
— Orribile, infatti. Dunque per voi è stata una delusione?
— Non potrei dire, coscienziosamente. Ero prevenuta. Ma lo speravo... che so io?... più fine, meno terra terra; speravo che somigliasse un pochino di più a sua madre.
Egli fece un comico gesto di rammarico.
— Anch'io vorrei che somigliasse assai più a sua madre... anche fisicamente... guardate.
— Ah!... Ma se lo trovavate tanto bello poco fa?
— Perdonate, lo trovo bello tuttora. Lasciate che si liberi dai suoi fracs esotici e che pigli un po' d'aria fiorentina. Sarà bello anche troppo, e se ne accorgeranno abbastanza e avrete del filo da torcere finchè vorrete, mia cara amica.
Ella sorrise, colla sua dolcezza tanto pura e geniale.
— Me lo immagino. Ma non si è mica mamme per nulla, nevvero?
— No — rispose don Marcello — voi non sarete mamma per nulla, nè a mezzo. Questo è ciò che più [62] mi irrita. Vedo il vostro programma, è bello, sublime, ma...
— Avanti — diss'ella ridendo, vedendo che l'amico s'interrompeva.
Egli scosse il capo e aggrottò alquanto le ciglia.
— No, non ve lo dico, cos'è. Non potreste credermi e non sapreste mutarlo. Tutto sta, d'altronde, nel risultato finale. Può darsi che la vostra imperdonabile audacia faccia capo ad un esito fortunato, per qualcuno almeno e per qualche tempo. Non parlo che per un'induzione tutta mia, e non ho neppure il diritto di spiegarvi più esplicitamente il mio pensiero o la mia ubbia, come credete. Un avvertimento preciso potrebbe parere una nota falsa e lasciar poscia un'eco stuonata. Ora bisogna che vada. Mi scriverete di tutto ciò?
— Ben inteso. Vi dirò dei nostri progressi, dei miei progetti... Sapete... il marito di Marina! Il coronamento dell'edificio!
— Ah! — diss'egli vivacemente: — Ma certo; avete da farvi perdonare il fiasco di quindici giorni or sono. Do la mia speciale approvazione a questo progetto. Fate, per amor del cielo, ch'egli sposi al più presto la vostra bellissima, ammirabile amica.
— Oh! — disse Elisa ridendo — vi ci ho colto. L'ammirate ora, vi siete convertito, eh? vi ha conquistato?
Don Marcello Plana ebbe un energico moto di protesta, ma subito chinò il capo come assentendo.
[63]
— Certo — disse — da qualche tempo, o, per essere più esatto, da qualche mezz'ora, è successa in me una reazione. Ma la mia conquista assoluta donna Marina Negroni la farà solo il giorno in cui vi libererà dalle vostre materne incombenze. E spero che sarà il più presto possibile.
— Oh! — diss'ella — come correte! il matrimonio immediato non entra nel mio programma. Vorrei aver prima il tempo di fare un po' di bene a quel giovane.
— Veramente? E quale?
— Vorrei destare in lui un senso della responsabilità che gli danno il suo nome e la sua fortuna. Non avrà grande ingegno, ma un pochino, del suo ozio, ci hanno colpa l'affetto troppo esclusivo della madre ed altre circostanze. Mi pare impossibile che un po' di aiuto, d'indirizzo, di buona influenza non abbiano a convincerlo, ch'egli non avverta un momento o l'altro l'assoluta necessità di affermare in qualche modo la sua personalità, che egli non provi il bisogno di rendersi utile al suo paese e a sè stesso, più degno di considerazione e di stima.
S'era animata, così parlando. La sincerità e il convincimento delle sue parole agivano su lei stessa, creandole in cuore un'emozione.
— Vi pare, credete che ci riescirò? — soggiunse, vedendo che l'amico la fissava arricciando nervosamente i lunghi baffi. — E non vi sembra che, ad [64] ogni modo, valga la pena di tentare, per la mia povera Tecla, se non altro?
— Dio la benedica, la povera Tecla, — rispose un po' bruscamente don Marcello. — Credo che riuscirete, se ho a dirvelo, e forse al di là di quanto sperate.
— Dunque tutto è per il meglio, nevvero?
— Già, tutto per il meglio. Ora, se permettete, mi congederò da voi. Mi spiace quasi di partire domani, sapete? Avrei assistito volentieri allo svolgimento di quest'azione, diremo così, educativa.
— Allora, quando è così, restate. Mi darete dei buoni consigli.
— Perdonate. Non li prodigo, quando non sono accetti. Ve ne ho dato uno più volte... No, no, non fate la faccia seria, non insisto. Quello di oggi non l'avete ascoltato, forse non l'avete neppur guardato in faccia abbastanza per ravvisarlo. Ma ora è tardi, e voi dovete andare dalla signora Peruzzi, che vi deve presentare Gregorovius, non è vero?
Essa lo lasciava dire, dubbiosa. Cercava di afferrare, attraverso la velatura del sorriso ironico, il pensiero ch'egli si ostinava a celarle.
Sentì di esser meno forte di lui e rinunziò a penetrare quel segreto.
Finalmente, egli si alzò per partire. Ma prima le ripetè una raccomandazione, quella di scrivergli. Ancora ella promise.
[65]
— Tutto? — chiese quell'incredulo ostinato.
— Tutto.
— Anche le disillusioni possibili?
— Anche quelle.
— Sta bene. E mandatemi al più presto la notizia del matrimonio di donna Marina col vostro figliuolo.
— Lo spero... con tutto il cuore.
Dopo di che, don Marcello Plana le baciò la mano, come soleva, e se ne andò.
[66]
È giunta anche da noi ora questa moda di prolungare la dimora in villa sino ai primordi dell'inverno, e i primi freddi si soffrono coraggiosamente in campagna, nei casoni dai vasti ambienti, con sì provvida cura destinati dagli avi nostri a riparo e sollazzo pei tempi estivi. Ma di ciò ne conforta il pensiero di essere delle persone molto chic e di condurre vita inglese e per questo, forse, degli agi cittadini si lascia generosamente il monopolio ai forestieri e specialmente agli inglesi. Ma, in qualunque epoca avvenga, è sempre gaia la rientrata della società fiorentina nei suoi quartieri d'inverno. Subito, senza attendere la pedantesca epoca fissa del prossimo carnevale, s'inaugura l'êra di alcune piccole riunioni intime, ove ogni beltà regnante fa il novero dei suoi fedeli, e dove si dispongono le avvisaglie delle fazioni campali della stagione. Ma il luogo ove ferve più palese la nuova manifestazione della vita elegante fiorentina è indubbiamente: le Cascine.
Quivi si tengono le prime riunioni, si fissano i [67] giorni pei tiri a quattro, coi drags o coi mails, quelli del tiro a quattro alla Daumont, quelli delle mezze gale o delle gran gale. Si rivedono zelantemente le buccie ai nuovi attacchi, e, ahimè, anche al contenuto dei nuovi attacchi! Si constata se la campagna ha data una ruga di più alla signora tale o dei colori troppo vivi alla signora tal'altra. Si segnala la comparsa di una nuova stella, l'americana o l'inglese dall'enorme assegno dotale, ovvero della piccina d'un'illustre famiglia paesana, che, a somiglianza d'una farfalluccia testè liberata dalla sua crisalide, ha lasciato in villa le gonnelline corte della ragazzetta e aspetta, con un gran batticuore, il primo gran ballo della stagione.
Si è generalmente lieti di ritrovarsi in quell'epoca e tutti hanno fretta di farsi vivi. Nel viale a destra, quello che costeggia l'Arno, e dove si accaparra sì a lungo il tepore e la gaiezza del sole, aumenta ogni giorno il concorso dei legni e della folla. Oggi, per esempio, in questo giorno ch'è dei primi di dicembre e che non ha nè nubi, nè vento, nè freddo, sono quasi le Cascine delle grandi epoche, le più belle dell'anno. Sembra una rassegna della grande armata mondana, tanto il viale brulica di equipaggi. A destra le vecchie foglie morte ed accartocciate prolungano negli alberi il lutto del morto estate, mentre la tunica di Nesso dell'edere poderose dà loro la scalata, coll'ingordo verde che le riveste e le consuma. [68] Lontano, sotto le arcate sforacchiate dei viali negletti, erra qualche coppia sentimentale cui la folla non attira; passa qualche chiuso brougham di convalescente, qualche carrozza signorile, il cui percorso è prestabilito da un marito vecchio e geloso, qualche equipaggio colle assise nere e un carico di bimbi e di governanti in lutto grave. E ogni tanto il trotto di qualche cavaliere solitario, che vuol gustare davvero, non distratto, il piacere di cavalcare, echeggia sonoro sul terreno.
La banda militare suonava, sul piazzale c'era ingombro di carrozze. Quella della duchessa d'Accorsi stava ad uno dei posti migliori. Non l'equipaggio di gala, bensì la giardiniera colle stoffe e le vernici verde olivo. Poco lungi, dietro la giardiniera, era fermo parimenti un leggiadro tandem da giovanotto, ma il groom soltanto stava a custodia del magnifico trotteur; il padrone, Dino di Follemare, era sceso, appena aveva visto arrestarsi la giardiniera e stava ora alla portiera di questa.
La duchessa Ginevra era sola nel legno. Donna Marina passeggiava nel viale dei pedoni, con una sua amica inglese. Sua madre l'avrebbe chiamata più tardi, all'ultimo giro.
Il posto della giovane era attualmente occupato da un cane accovacciato in dormiveglia sur uno scialle persiano. Fido compagno della Duchessa, quell'orribile Tom era un piccolo bull terrier bassotto, arcigno, dal muso nero, grottescamente feroce.
[69]
Sul sedile dirimpetto giaceva un vaghissimo mazzo di perus japonica. Una primizia anche a Firenze, in dicembre, quei boccioli di un cupo scarlatto, che parevano mettere una chiazzatura sanguigna sul verde dei cuscini.
La Duchessa era vestita di velluto grigio, con una guarnizione di grèbe, non di ultima moda, ma che pareva fatta apposta per lei, coi suoi riflessi splendidamente argentei. Il suo fitto velo di garza chiara, rialzato, le faceva quasi un diadema sul pallore giallastro della sua fronte.
Presso alla sua portiera non stava solo Dino Follemare. Parecchi fra i più noti frequentatori del Club, alcune fra le più notevoli personalità dell'aristocrazia fiorentina le avevano già fatto d'attorno un po' di corteo. Anche là ella teneva circolo, dominando ed avvivando sempre la conversazione col mordace suo spirito, coll'impunità da tanto tempo acquisita anche ai suoi detti. La conversazione era libera, viva, non pietosa a chi n'era oggetto. E veramente, di fianco a quella formidabile giardiniera, gli altri equipaggi non facevano lunghe soste. Le signore paventavano per istinto e per esperienza i commenti spietati di quel crocchio, la libertà del linguaggio su tutto e per tutto, quei decreti senza appello sull'eleganza o sulla bellezza. Provavano lo sgomento istintivo dello sguardo, spesso sì beffardamente sagace di lei. E lo sentivano tanto da scordare il diritto che avrebbero [70] avuto di giudicare lei. Ma che! Tutte s'erano abituate ormai a quell'eterno spettacolo del tandem di Dino Follemare fermo, in attesa, dietro la carrozza della Duchessa. Al più, qualche mamma sospirava pensando che Dino sarebbe stato un sì bel partito, un tempo, prima che si fosse sì nobilmente rovinato per tener dietro al lusso di cavalli di casa d'Accorsi. E certamente, se n'erano fatti e se ne facevano sempre dei bei matrimoni alle splendide feste della Duchessa! E ci si divertiva tanto: erano, curioso a dirsi, tanto scelte! Perciò, quasi tutte le signore, passando, salutavano con grande spesa di sorrisi gentili.
Varie carrozze s'erano già successe nello spazio prossimo alla giardiniera, quando giunse e si fermò un elegante calèche inglese, dalle morbidissime oscillazioni, molto apprezzate dagli intelligenti. All'interno stava una signora vestita di bruno. L'occhialino della Duchessa fu tosto in moto, e nel crocchio fu uno scappellare rispettoso e generale.
— La contessa Serramonti, che novità! — disse la Duchessa, dopo aver mandato ad Elena un saluto ed un sorriso, scelti nella gamma dei suoi migliori.
— È vero, viene di rado, — osservò Gino Casabello.
— Oh! — ribattè Gincora ridendo, — non è già una sfaccendata della nostra specie; ha meglio a fare, sapete.
— Ma no, — disse Sacha Dzworkoff, un russo malato di petto che veniva ogni anno a svernare a [71] Firenze ed era diventato più fiorentino del vero, — no, non ha nulla di meglio a fare, pur troppo.
— Oh per quello! — osservò Guido d'Aspano, che non capiva perchè gli altri ridessero del patetico «pur troppo» di Dzworkoff — è una donna assai occupata, è una delle più assidue frequentatrici...
— Del monde où l'on s'ennuie — interruppe il piccolo russo con tanta foga, che la fine della sua frase gli morì in un lieve accesso di tosse.
— Vi prego di osservare, — disse la Duchessa ridendo, — che viene sempre anche da me. Suvvia, Sacha, non calunniate una donna tanto esemplare. Fareste infinitamente meglio a tentare di farvi sposare da lei. Sarebbe una buona occasione per voi di far giudizio o di pagare i vostri debiti.
— Oh, Duchessa! Sapete quanto il freddo mi è proibito per la mia salute, e mi suggerite il Polo Nord in moglie. Volete proprio la mia morte, allora?
Là Duchessa rise di cuore a quell'uscita di quel capo scarico, dicendogli che era un monello incorreggibile, e ch'egli e tutti loro non sapevano nulla di nulla. Invece di dir tante freddure sul conto di quella cara Elisa, dovrebbero andare pietosamente a consolare la sua solitudine.
— Uhm, — ribattè Dzworkoff, — saremmo un po' in ritardo, per l'appunto. Guardate. Un cavaliere si accosta alla sua portiera.
— È vero, — sclamò Ginevra. — E un bel giovane anche! Curiosa!
[72]
Per un momento nel crocchio fu silenzio. Tutti osservavano, attenti, il giovane che, montato su un morello di elegantissime forme, veniva a presentare i suoi omaggi alla Contessa. La salutò con una certa grazia innata e naturalmente distinta, trattenendo con molto garbo ed abitudine della sella, il cavallo irrequieto.
Roberto Rescuati era ciò che si chiama un bel cavaliere, forte ed elegante ad un tempo. S'indovinava in lui una consuetudine antica e la passione di quell'esercizio.
Elisa era venuta appositamente alle Cascine per vedere il suo protetto, a cavallo.
Gli fece i suoi cordiali mirallegro, provando vero piacere a vederlo sì bello e sì disinvolto.
— Lo scriverò alla mamma, — soggiunse con un sorriso di approvazione indulgente. — Siete sotto lo sguardo di giudici competenti, e vedo che vi approvano.
Senza muovere il capo, colla coda dell'occhio accennò il gruppo di sportsmen che stavano osservando Roberto.
La fresca e rosea epidermide del volto del giovane si colorì vivamente, sotto l'impressione genuina dell'amor proprio soddisfatto.
— Com'è fanciullo! — pensò Elisa con una specie di commossa indulgenza.
La Duchessa frattanto aveva lasciato cadere il suo occhialino.
[73]
— Una bella creatura, quel cavallo! — sentenziò.
— Stupendo! — disse Guido d'Aspano. — Non sono venti giorni che è arrivato dall'Inghilterra. L'ho visto da Huber. Neri Speroni ne andava pazzo. Huber ne chiedeva cinquemila franchi. Ma Speroni l'avrebbe rovinato subito, mentre invece mi pare che il suo acquisitore sia un discreto cavaliere.
— So chi è, — disse Dino di Follemare. — È alloggiato alla Pace e desina al Doney. Di provincia... delle Marche, che so io. Ressuati... Rescuati, o qualcosa di simile.
— Rescuati Melli, forse? — chiese la Duchessa.
— Precisamente.
— Oh, conosco! Ho incontrato un Rescuati all'estero, in Germania! Simpaticissimo. Suo padre, mi figuro. Eccellente famiglia. Si trattiene?
— Credo di sì. Ha preso una scuderia nella mia casa di via della Scala, — rispose Brandino Berardi. — Pare un giovane per bene, benchè discretamente provinciale.
La Duchessa ebbe un sorriso silenzioso e passeggero. Ancora una volta, dietro il suo occhialino, il suo sguardo si trattenne, sagace, sul giovane.
— Decisamente è una bella creatura quel morello. Neri è stato uno scimunito a non prenderlo. Coprite Tom, Dino, e dite al cocchiere che si muova. Fa freddo qui. A stasera, nevvero? — soggiunse con uno sguardo di saluto generale, mentre la carrozza si metteva in moto.
[74]
Passando davanti al cocchio di Elisa, le mandò ancora uno dei suoi saluti speciali, che la Contessa ricevette senza nulla aggiungere alla correttezza un po' sostenuta di quello da lei reso. Poi Elisa disse dolcemente a Roberto:
— E così, quando si fa questa presentazione alla duchessa d'Accorsi?
— Come! — diss'egli altamente meravigliato — è quella la duchessa d'Accorsi?
— Sì, — disse Elisa, — ma perchè?
Egli si mise a ridere.
— Perchè, ecco. Avevo sentito certe storie! Scusi sa, ma proprio non capisco! Se è vecchia quanto il brodo, e brutta come.... Oh, lo direbbero così bene laggiù, da noi. Ma scusi, — soggiunse con un subito timore d'essere stato imprudente e scortese, — quella signora è forse una sua amica intima?
Ella ebbe un rapido, altero cenno di diniego.
— Oh no... no...
S'avvide, dall'aria attonita di lui, di essere stata troppo vibrata nel suo: no.
— Ci vediamo, — soggiunse con maggior pacatezza, — ci incontriamo di spesso, ma non siamo in relazione molto stretta. Ha una figlia alla quale sono molto affezionata, una cara giovane. La Duchessa riceve molto, ed ha molto spirito; vi sarà certamente utile per tutto ciò che riguarda la società. Per ciò avevo pensato di presentarvi.
[75]
— Oh! quando crede — mormorò il giovane, ma con accento sì poco entusiasta che Elisa ne rimase un po' scoraggiata. Era a Firenze da un mese, Roberto, ed ella non aveva ancora potuto scrivere a Tecla ch'egli fosse il beniamino delle signore. Sino a quel tempo aveva frequentato più che altro le scuderie, e, certo in quei pressi, aveva acquistate le sue nozioni elementari sul conto della società fiorentina.
— Ebbene, allora diciamo la settimana ventura, eh? Vi pare?
Gli parlava dolcemente, dandogli del voi, mentre egli le dava del lei, come era convenuto tra loro.
Egli s'inchinò pensando: Ouff! e non sapendolo ben nascondere. Proprio, non ne aveva voglia di quella presentazione. E quella cara Contessa ne aveva sempre una. O non l'aveva fatto trottare per tre ore, non più tardi di ieri, dagli Uffizi a Pitti per veder dei chilometri di tele dipinte! E l'altro giorno, quella lettura al Circolo... Misericordia!
Ella s'accorse di qualcosa. Uno sgomento l'invase. Ma Dio mio! come fare con quel benedetto ragazzo, che non s'interessava a nulla!
Sbagliava. Ma Roberto era abituato a far da sè, e quella specie di tutela, per quanto gentile, gli pesava alquanto. Glielo aveva detto la mamma, un po' troppo detto forse, che la contessa Elisa avrebbe fatto, detto, pensato per lui. Gli pareva finito, dopo [76] tutto, il tempo dei precettori. E di quello non se ne poteva fare certo un compagno.
Contuttociò, la presentazione alla Duchessa ebbe luogo nella quindicina e Ginevra fu gentilissima per Roberto, che invitò subito ai suoi famosi lunedì sera. Il giovane ci andò una volta e non si divertì punto. Ci tornò, ma dopo parecchie settimane, una sera che si ballava e che c'era anche Elisa. Questa ebbe un momento di contentezza intima quando lo vide schierarsi al posto per i lancieri vicino a Marina Negroni. — che bella coppia, pensò in cuor suo. — E se fosse il cominciamento?
Una bella coppia veramente: alti entrambi di statura, robusti, freschi. Un'analogia, quasi, una somiglianza nella calma delle loro parole, dei loro gesti, delle mosse. A più d'uno colpì lo sguardo quella strana armonia d'aspetto e una vecchia amica della Duchessa si credette in dovere di fargliela rilevare.
— Guarda un po', Ginevra, come stanno bene assieme tua figlia e quel nuovo. Chi è?
— Chi? Ah! il protetto di Elisa Serramonti. Sì, non c'è male.
— Pure, non ha l'aria di uno dei soliti suoi fidi. È ricco? Di buona famiglia?
— Conte Rescuati. Cinquantamila franchi di rendita.
— Ah! un partito, allora. Ma andrebbe benissimo per Marina.
— Oh! sai che di ciò non m'impaccio. Marina sa il fatto suo... Ma non credo che sia il caso...
[77]
Si arrestò, ridendo.
L'altra rise pure, ma un po' incerta.
— Come? — disse poscia con un sogghigno pieno di malizia interrogatrice.
— È qui da qualche tempo? — soggiunse.
— Oh, non so... un mese, due, tre... L'abbiamo trovato qui. Pare ch'ella faccia la sua educazione.
— Oh! — disse l'altra.
E di nuovo sulla sua bocca sdentata (era vecchietta assai quella cara contessa Flora Bandi Corvini) un lampo passò, maligno, fugace, ove pareva ricapitolarsi tutta la sua esperienza di tanti anni mondani.
— Quella cara Marina! — disse, dopo un momento. — Ma sarebbe un'occasione eccellente, anzi un'opera buona!...
— Mia cara Flora — rispose la Duchessa ridendo — Flora le opere buone le fa per conto suo e non di seconda mano. Del resto, come sai, la contessa Elisa è al disopra di ogni maligna interpretazione dei suoi atti. Ella santifica tutto ciò cui mette mano. Che direste di un'altra tazza di thè, mia cara Flora?
La cara Flora prese il thè, che le recò per ordine superiore e colla sua solita grazia rassegnata, Dino di Follemare.
Rimase ancora un'oretta, poi se ne andò. In anticamera vide la contessa Elisa, alla quale Roberto Rescuati offriva il braccio per scendere le scale.
Tenne dietro da presso a quei due. Udì che Elisa rimproverava dolcemente Roberto.
[78]
— Perchè venite via sì presto? Tornate.... Alla Duchessa dorrà di vedervi partire. V'accerto che posso benissimo rientrar sola. È la mia abitudine.
— Ma mi annoio, sa? Tanta gente che non conosco! E quel dover ballare... Poi... ho un impegno.
— Coi vostri nuovi amici?
— Già... coi miei nuovi amici. Neri Speroni e... gli altri.
Elisa ebbe un piccolo senso di contrarietà. Quel Neri Speroni... E gli altri... gli amici di Neri Speroni!...
— Oggi mi ha scritto la mamma — disse a Roberto, con una dolcezza accentuata d'intonazione.
— Davvero! — rispose il giovane. — Sta bene?
— Sì, e mi domanda tanto di voi.
— Ah! povera mamma! È un secolo che le devo scrivere. Anch'io, domani o doman l'altro senza fallo... Se le scrive, glielo dica.
Ma Elisa sapeva che Tecla non avrebbe sì presto lettera di suo figlio. Roberto non era assiduo corrispondente. Come aveva detto, aveva spesso degli impegni.
Ma dell'indole precisa di questi impegni non aveva creduto dover informare la sua protettrice. E questa pensava in cuor suo: Non è ancora il cominciamento, in ogni caso.
E dietro loro, soletta (ah! non soleva esser così un tempo) la contessa Flora Bandi Corvini, col suo riso silenzioso, pensava: Contuttociò.... voleva dir qualcosa Ginevra!
[79]
La contessa Elisa Serramonti aveva, lo sappiamo, molti amici. Il migliore fra questi era indubbiamente Marcello Plana.
Meglio di ogni altro, egli conosceva ed apprezzava quella donna. La sua ammirazione era più sagace di quella degli altri. Sapeva di lei qualcosa che essi e lei stessa ignoravano. La trovava troppo perfetta, troppo satura di saggezza e di ragione. Una volta le aveva detto ch'ella soleva esser giusta per tutti, meno che per una persona, la quale un giorno o l'altro avrebbe potuto vendicarsi. Elisa non era mai riescita a fargli dire chi fosse questa persona.
Marcello Plana ed Elisa Serramonti non erano sempre d'accordo. Forse era provvidenziale per la prospera sorte dell'amicizia loro che non abitassero nello stesso luogo.
Avrebbero finito col fraintendersi.
Egli era talvolta pungente nei suoi apprezzamenti, mordace nei suoi giudizi; la singolare sua penetrazione rendeva formidabilmente indovino il suo spirito. [80] Aveva per quella donna, che tanti invidiavano e che conduceva un'esistenza sì consona ai propri gusti, una specie di bizzarra pietà, ch'ella avvertiva bene spesso, provandone una vaga irritazione intima. Non amava d'essere compatita.
Su un punto, più specialmente, s'accentuava il loro disaccordo. Egli la consigliava a rimaritarsi. Ma ciò per l'appunto, ella non voleva. Adduceva a sua difesa cento e una ragioni, tutte stimabilissime e molto logiche. La litania cominciava e finiva invariabilmente con una nota antifona: «Ho trentasette anni. È troppo tardi per ricominciare la vita».
Ma anche in altri argomenti erano spesso di opinione opposta. Ed Elisa, seduta al suo scrittoio, una bella mattina, sulla fine del dicembre, mordeva lievemente la punta del suo artistico portapenne di tartaruga, pensando che ora doveva pure mantenere la sua promessa e parlargli di Roberto.
L'argomento era ingrato. Ella non sapeva come dirgli, nè come celargli che il giovane, da qualche tempo in qua, non aveva fatti grandi progressi nella perfezione, anzi.... Aveva lasciato apposta poco spazio nel foglio per non poter dilungarsi sul soggetto.
Depose la penna e sospirò.
Che peccato!... Non era un cattivo giovane. Non si poteva chiamarlo corrotto, nè perverso. Buono, dopo tutto, senza boria, franco, con una certa disinvoltura [81] e molta semplicità. Si vestiva meglio assai, ora, aveva perso subito, comprendendone tosto il ridicolo, alcune abitudini di vita di piccolo centro. Dimostrava un certo tatto, non aveva fatto passi falsi. Nella cricca esclusiva, diffidente, della gioventù dorata, aveva incontrate amicizie ed il minor novero possibile delle prove inevitabili ad un novellino. Era presto diventato uno dei loro. Pietro Galigay gli dava del tu, Cosimo Acciajoli lo aveva raccomandato al suo sarto di Londra e Dino Follemare faceva spesso colazione con lui da Giacosa, dietro quella grande invetriata che dà sulla via Tornabuoni, di faccia a palazzo Strozzi, il che significava a tutta Firenze come Roberto Rescuati fosse stato giudicato favorevolmente dal più schizzinoso e serenamente medioevale di tutti i gentiluomini fiorentini. Di Rescuati si parlava con simpatia, senza derisione. Uomini e donne avevano poi espresso con mirabile accordo l'opinione che Elisa aveva sì coscienziosamente combattuta quando l'aveva udita esternare da Marcello Plana.
Tutti e tutte opinavano che Roberto era un bellissimo giovane.
Questa bellezza, sulla quale alcune signore trovavano argomento di profonde osservazioni estetiche, non colpiva guari la Contessa. Non negava nè l'armonia delle fattezze, nè quella delle forme; pensava talvolta, vedendolo, ch'egli avrebbe potuto servir [82] di modello per qualche statua di Antinoo, per qualche ritratto di Narciso al fonte. Cioè, no... Narciso era vano e Roberto no... Questo no! decisamente no! Bisognava rendergli giustizia.
Riprese la penna e scrisse a Marcello Plana, come aveva promesso di fare, cioè sinceramente, sul conto di Rescuati. Gli disse che lo vedeva meno da qualche tempo, ch'egli frequentava molto la società dei giovani, poco quella delle signore, che, quanto al noto progetto, per ora non si potevano far pronostici.
Chiuse così il paragrafo riguardante Roberto. Avrebbe potuto prolungarlo, riferire una vaga diceria sul conto del giovane, e di una stella d'operette... diceria che qualcuno si era preso il divertimento di riferire a lei. Ma ella non l'aveva creduta e perciò non si credeva in obbligo di citarla. Oh Dio! una delle rondinelle dell'Augellin Bel Verde!... al Politeama. Impossibile!
Non accennò dunque all'Augellin Bel Verde, nella sua lettera a Plana, e credette di cader dalle nubi, quando nella pronta risposta dell'amico trovò una lontana sì, ma non dubbia allusione alle distrazioni musicali e drammatiche che il giovane provinciale aveva subito saputo trovare a Firenze. Ah! era vero, dunque!...
Ebbe un sorriso triste. Oh, ella non si era ingannata giudicandolo tanto fanciullo, tanto: come gli altri!
[83]
Pensò a Tecla, e sospirò. Povera donna... povera madre! L'Augellin Bel Verde! E Marina Negroni? e tutti i suoi progetti, i suoi sogni? Invece, l'Augellin Bel Verde!... Non già che si meravigliasse tanto... Un po' di vita la conosceva, e la dimora in Firenze è piuttosto atta a capacitare anche le anime più ingenue di quanto esse potrebbero forse ignorare altrove. Ma così, per l'appunto...
Un giorno, da Vieusseux, s'imbattè colla duchessa d'Accorsi, che cercava una pubblicazione d'arte industriale del 700, per certi suoi mobili d'un nuovo salotto. Le due signore non si vedevano da qualche tempo e la Duchessa ne espresse cortesemente il rammarico ad Elisa.
— Sempre occupata, mia cara? E neppure quel caro Rescuati non si fa vivo! Gli ho fatto le più commoventi avances per onorare la sua raccomandazione, ma mi ha dimostrata una nera ingratitudine. Peccato! un carissimo giovane. Ma una vera Pelle Rossa, per la sociabilità. Dovrebbe sgridarlo un tantino lei, Contessa... che ha tanta influenza sull'animo suo.
La Duchessa non era di buon umore quel giorno. Quei terribili nervi agivano sì direttamente, talvolta, sulla sua lingua.
Ma Elisa invece era molto calma e sorrise serenamente.
— Infatti, Duchessa, il conte Rescuati è colpevole [84] di molte negligenze. È ancora un po' selvaggio forse e stenta ad orientarsi. Bisogna perdonarlo.
— Oh! — interruppe la Duchessa, — è imperdonabile, con una stella polare come quella che il destino ha messo a capo della sua vita!...
Il complimento era detto con molto garbo; pure Elisa ebbe il senso di una puntura.
Guardò in volto, fissa, la Duchessa.
— È molto giovane — rispose con dolcezza — e in questi giorni sta organizzando la sua nuova dimora. Io stessa lo vedo assai poco.
— Male, — disse la Duchessa ridendo. — Mi hanno detto ch'ella ha molto a cuore l'avvenire di quel giovane.
— È vero — rispose Elisa. — È il figlio della mia migliore amica.
— Oh! naturalissimo che abbia dell'interessamento per lui. Ebbene, giacchè è così, mi permetta un consiglio. Lo esorti a frequentare la buona società. Ciò lo salverà forse dai pericoli della cattiva. Pare, che sia già un pochino sulla via di questa. Noi, naturalmente, ignoriamo tutto ciò, e parlarne a lei è una vera profanazione; ma ho sentito da questi scioperati... Carina, sa... oh! ha buon gusto il suo protetto, una colonna della Compagnia Scalvini! Una cosa da nulla, s'intende! Questione di un po' di tempo e di quattrini sciupati. Il suo protetto se la caverà benissimo come gli altri e tornerà, da buon figliuol prodigo... [85] all'ovile. Ma bisogna proprio che scappi, ho fatto tardi. Come son contenta d'averla veduta! Un amore quel suo mantello. Laferrière, nevvero? Si capisce lontano un miglio. Marina l'aspetta pel concerto martedì. Cara Contessa...
Le strinse la mano calorosamente, e se ne andò contenta. Stava meglio, ora, dei suoi nervi.
***
Ah! quell'orribile Augellin Bel Verde! Non solo dovette udirne parlare quella povera Contessa, ma un giorno fu proprio costretta a vederlo.
A tutt'altre sorti era stato predestinato quel giorno. Elisa lo aveva scelto, fra tanti, per la sua famosa gita a Vincigliata.
Conosceva personalmente il proprietario dell'antica dimora medioevale, da lui ritornata, con sì profonda e splendida intelligenza della storia e dell'arte italiana, all'antico essere. Non aveva d'uopo, per penetrare in quella splendida residenza, del permesso, limitato pel volgo dei curiosi ad un solo giorno della settimana. Il proprietario di Vincigliata si reputava fortunato, quando poteva farne personalmente gli onori, alla contessa Serramonti ed a quanti amici suoi ella volesse far partecipi del privilegio. E di questi amici ella aveva fatto stavolta un'accuratissima scelta.
[86]
Tre signore e quattro uomini. Lei, Marina Negroni e mad.e Cholet, la sapientissima moglie di un arcisapiente professore belga, venuto a Firenze per certe ricerche sui fasti Medicei e raccomandato alla Contessa da un vecchio collega del padre suo. Il comm. Gerra, il duca di Sant'Eremo e Roberto Rescuati.
A questo ella aveva già fatta la proposta della gita il giorno prima. Roberto, preso così all'improvviso, accettò l'invito, senza però dimostrare un soverchio entusiasmo. Breve, non osò ricusare, benchè ne avesse una voglia terribile, che la Contessa o non ravvisò o coraggiosamente neglesse.
Il convegno era per le otto in casa Serramonti. Si giungeva a Vincigliata alle nove e mezzo. Visita, lunch, due ore. Il ritorno poteva esser effettuato per il mezzodì.
Ell'era molto fiera di aver combinato tutto ciò. Era riescita finalmente a riunire, per quella geniale trottata, Marina e il suo protetto. Possibile ch'egli potesse sottrarsi completamente al fascino della bellezza di lei? Già parecchie volte i due giovani s'erano incontrati in casa sua o nel suo palco alla Pergola e non parevano trovarsi male quand'erano insieme. Marina sapeva qualcosa dell'arte ippica, non era mai noiosa, non sfoggiava cognizioni inquietanti. Era seria, con una semplicità di modi e di frasi che parevano far fede d'una mente solida, scevra da [87] preoccupazioni personali. Ella non pareva mai in causa. In realtà aveva un'unica, suprema preoccupazione: sè stessa e il suo avvenire; non si perdeva di vista, neppur per la frazione di un secondo. Aveva immediatamente subodorati i progetti della Contessa sul suo conto e sul conto di Roberto. Ma serbava accuratamente per sè quella cognizione. Istruita da una amara sequela di esperienze, non si faceva illusioni, ma stava in agguato degli eventi. Non aveva la fede, quella che salva, ma faceva lo stesso, coraggiosamente, il suo dovere.
Il che è ammirabile, come sapete.
La Contessa s'era alzata alle sette, ed era già pronta quando le recarono una letterina, testè consegnata ai suoi dal domestico di Roberto. Il conte Rescuati, dolentissimo, si scusava. Un violento raffreddore lo obbligava a letto. Mille scuse. Oh, un profluvio di scuse!
Dolente, ma soprattutto inquieta, la Contessa volle interrogare il domestico latore del biglietto. Un fiorentino puro sangue, raccomandato a Roberto da Neri Speroni. Corretto, inappuntabile, con un par d'occhi scintillanti, che dovevano averne viste di vario colore. Aveva profittato dell'occasione per condurre a spasso Arnetto, il cane lupetto, tutto bianco, del suo padrone.
Rassicurò rispettosamente la signora che lo interrogava.
[88]
— Il signorino era venuto a casa per tempo la sera prima, e s'era coricato con un forte dolor di capo. Gli aveva detto di svegliarlo per tempo la mattina; poi quando si doveva alzare... insomma... non aveva potuto, per il grande raffreddore. Ma cosa da nulla. Un po' di letto e tutto passerebbe.
Elisa congedò il domestico colla sua solita affabilità e rimase impensierita e mortificata. Che contrattempo per tutte le sue combinazioni!... E purchè davvero non fosse nulla quel raffreddore! A volte cominciavano così alcune malattie.
Volontieri avrebbe rimessa la gita ad un altro giorno. Ma era tutto combinato e non si poteva. Chiamò Pietro, il suo vecchio domestico, e gli raccomandò che andasse verso le undici e mezzo a prender notizie del conte Rescuati. Le avrebbe così, recentissime, al suo ritorno.
Gli altri invitati, non essendo stati colti dal menomo raffreddore, giunsero tutti all'ora indicata e udirono imperterriti l'annunzio dato loro dalla Contessa del mancato intervento del giovane Rescuati. La coppia esotica non lo conosceva. Gerra e Sant'Eremo non avevano per lui una simpatia molto pronunziata e Marina non parve affatto turbata da quell'annunzio. Sperò colla Contessa che fosse cosa da nulla.
La comitiva si mise in moto, con tutta la buona voglia immaginabile di godersi la gita. La mattinata [89] era freddina ma bella e nei due landeaux la conversazione non languiva. Nulla avrebbe potuto far sospettare le materne apprensioni della Contessa e l'acerbo, il cocente disappunto di Marina Negroni.
L'arrivo, la visita al Castello, il lunch, tutto ebbe luogo felicemente e nel modo più indicato. La coppia forestiera fu al colmo dell'ammirazione e dell'entusiasmo e tutti lasciarono quella strana e splendida dimora colla solita dose di trasporto per la bellezza delle cose vedute e per l'intensità dell'impressione generale. Al ritorno, la Contessa ebbe un'idea, anzi, ne ebbe due. Volle percorrere la strada dei Colli, per farne ammirare le bellezze ai suoi ospiti forestieri. La mattinata era sì bella che tutti ebbero voglia di una passeggiata. Scesero dalle carrozze e camminarono sino al Belvedere, ove fecero sosta per ammirare quella infinita vaghezza di prospettiva, quello spettacolo del quale sembra non potersi mai saziare l'occhio e l'animo di chi lo contempla.
Ma, mentre s'indugiavano lassù, alla Contessa parve vedere un po' di pallore sul volto di Marina. L'interrogò con premura... Si sentiva male?... — Ma no... tutt'altro!... Era un po' di appetito.
Si constatò il fatto, ridendo. Si constatò pure che, per una strana coincidenza, esso si riproduceva in varie proporzioni su parecchi fra i componenti la brigata. Il lunch era stato copioso, ma un'ora e mezzo di trottata, quel po' di moto fatto a piedi, l'arietta frizzante...
[90]
— Se si facesse colazione qui? — suggerì a un tratto la Contessa.
La proposta fu accolta ad unanimità di voti. Solo si trattava di trovare un luogo atto a realizzare il progetto sì bene accolto.
Il viale dei Colli è poco frequentato durante l'inverno.
Bello, ideale qual'è, oggetto d'ammirazione e d'invidia pei forestieri che lo visitano, non gode, quanto meriterebbe di goderle, le simpatie dei Fiorentini. Per questi l'attrazione delle Cascine è tuttora senza rivali, poi non amano stancare, sulla lunga salita dei Colli, le loro celebri pariglie di cavalli. Neppur durante l'estate quest'incantevole passeggiata riesce ad accaparrare gran concorso di gente. I non molti caffè, restaurants, birrarie che si trovano sul suo percorso, fanno affari discreti, ma nell'inverno sono chiusi quasi tutti. Sant'Eremo rovistò alquanto nei suoi ricordi del luogo, poi si offerse quale esploratore. Si assentò per un quarto d'ora e tornò trionfante, gridando da lungi: Eureka! Aveva trovato. Un piccolo restaurant civettuolo, a foggia di châlet, nicchiato in una specie di giardino. Un'abbondanza d'edere, di ligustri, di lauri, alternati a fitte e spesse macchie di bambù, davano a quel luogo una falsa, ma invitante apparenza di episodio estivo, in mezzo alla nudità jemale della campagna circostante. Perennemente aperto, quel piccolo stabilimento, filiale [91] della casa Doney e nipoti, gode di una certa riputazione gastronomica, ed è spesso fatto scopo delle gite di gaie comitive fiorentine.
Quella della Contessa fu premurosamente accolta dal personale disoccupato, nella vasta sala pressochè deserta, dove alcuni tavolini soltanto erano occupati da qualche esotica figura di touriste inglese o tedesco. Il duca di Sant'Eremo assunse la direzione degli eventi, e fece preparare un tavolo in disparte, in una specie di recesso, davanti ad una larga porta a vetri, che permetteva la vista del giardino e della vaghissima prospettiva sottostante. La colazione fu tosto imbandita, e già le chiacchiere s'incrociavano, quando un piccolo avvenimento venne a distrarre per un istante l'attenzione della comitiva. Un allegro schioccar di frusta echeggiò sul vialetto che faceva capo al restaurant e subito si vide avanzarsi con trionfale rapidità un drag a quattro cavalli con un carico di giovanotti, Neri Speroni e consorti, fra i quali spiccavano due toilettes femminili. Una di queste toilettes sfoggiava tutti i suoi pregi di vistosità sgargiante sull'alto seggio del legno, a fianco dell'auriga. E l'auriga era Roberto Rescuati Melli.
La contessa ravvisò tosto il suo «figliolo.» Indovinò (forse non era difficile il farlo, neppur per lei, tanto n'erano caratteristiche la bellezza e l'acconciatura) chi fosse quella specie di signorine ch'egli conduceva lassù, in sì gaia comitiva. Non era nè [92] abbastanza giovane, nè inesperta del mondo per dare soverchia importanza a un fatto che l'amabile disinvoltura della gioventù fiorentina le aveva messo qualche altra volta sott'occhio! Pure, provò un senso impetuoso e indicibile di pena.
Pensò a Tecla. Oh s'ella vedesse suo figlio così. E quella menzogna, così inutile, così bassa, del biglietto inviatole! Un violento rossore le salì alle gote, volse il capo con un atto involontario, affatto istintivo. Marina represse l'ombra di un sorriso e non battè palpebra. Gli uomini scambiarono un rapido sguardo d'intesa che si ripetè parecchie volte, quando Neri Speroni, recatosi a terra d'un salto, invitò con molta galanteria la bella compagna di Roberto a volersi gettare nelle sue braccia, se aveva la menoma idea di scendere e di far colazione. La signorina faceva delle difficoltà e mandava degli strillini da pavoncella spaventata, ma poi si decise e calò con mirabile arditezza, al conseguimento della quale non doveva essere estranea una certa abitudine dei ponti sospesi e d'altri praticabili della scena. Capitò dall'alto, come una vera rondinella ch'ell'era, mentre l'altra signora, evidentemente un olocausto al decoro della famiglia, fu laboriosamente calata a braccio da un domestico, in mezzo agli evviva incoraggianti di quei signori.
La lieta brigata fe' irruzione nella sala del restaurant, dirigendosi verso un tavolo poco lontano da [93] quello ove la Contessa presiedeva tranquillamente al suo déjeuner; ma, giunto presso a questa, Roberto ed i suoi compagni si arrestarono... e un momento di visibile imbarazzo si produsse nel gruppo. Una vampa di fuoco salì alle gote di Rescuati. Esitò, incerto, se dovesse salutare; poi salutò, ma, subito, mutando bruscamente direzione, condusse il suo drappello quanto più lungi potè, all'altra estremità della sala, dove l'Augellin Bel Verde cominciò tosto a discutere, a voce molto alta, il menu.
La Contessa aveva già ripreso la sua conversazione con Madame Cholet sulle impressioni di Vincigliata. Donna Marina intratteneva gli uomini colla sua solita grazia riposata e la colazione procedeva tranquilla, nella serena ignoranza della più effusiva allegria, che si andava suscitando all'altra estremità della sala. Laggiù le risate echeggiavano, il diapason delle voci si alzava alquanto; ad ogni minuto si andava producendo lo strepito caratteristico dello stappare d'una nuova bottiglia, benchè Neri Speroni dichiarasse, senza complimenti, di non aver mai visto così ingrullito quel caro Bertino.
Finita la colazione, Sant'Eremo ebbe una idea felice. Chiamò uno dei camerieri, e fece aprire l'invetriata che metteva nel giardino. E di là, senza traversare la sala, abbreviando piacevolmente la via, escirono all'aperto la Contessa e i suoi amici.
Il ritorno si effettuò felicemente e la brigata si [94] divise col solito scambio di congratulazione per la riescitissima gita.
La Contessa era appena rientrata nella sua camera, quando Pietro, fedele alle istruzioni ricevute, venne rispettosamente a darle conto della sua missione. Era stato, alle undici e mezzo precise, a prender notizie del signor conte Rescuati. Aveva parlato col suo cameriere, quello stesso ch'era venuto alla mattina. Il signor Conte era tuttora coricato, ma stava meglio e si alzerebbe per il pranzo. Faceva mille ringraziamenti.
— Sta bene — interruppe tranquillamente la signora e congedò Pietro.
Quando fu sola, si sentì, a un tratto, côlta da una grande malinconia. La volgarità brutale di quell'episodio le aveva fatto male. Oh lo sapeva bene che accadeva così... quasi per tutti: ch'era l'aria, l'atmosfera, l'immensa contagione della vita. Quelle piccole farfalle variopinte dall'esistenza effimera, quello sciametto di gaie tarme sotto il cui lievissimo morso, ripetuto all'infinito, finiva collo sbriciolarsi non ferito, no, solamente intignato, il cuore della gioventù!... Una passione, un'illusione, sincera per quanto errata, pazienza! Ma così!... E intanto, dall'altro lato, la schiera tacita, malinconica dei cuori condannati alla vana attesa, i poveri cuori assetati d'amore delle fanciulle, di quelle che vivono scordate, trascurate... a cagione delle altre! Ah! povera Marina! E sarebbe [95] stata così adatta per lui!... Stavano così bene assieme!... Facevano una sì bella coppia! Bellissimi entrambi.
Qui, un pensiero nuovo, inatteso, s'imbrancò fra quelli che irritavano la sua mente, e la fece sorridere. Si ricordò di ciò che le aveva detto Marcello Plana: lo troveranno bello e vi darà del filo da torcere.
A proposito, doveva mantenere la sua promessa. Scrivergli di lui. Lo aveva fatto già, qualche volta... due, tre. Ma sempre con un lieve senso di contrarietà. Poichè, in coscienza, non poteva dargli splendide nuove del successo della sua missione. Ed egli rispondeva in un certo modo, così curioso! Stavolta però ella provò un subito desiderio di scrivere a Marcello Plana, di parlargli a lungo di quel suo indocile, ricalcitrante pupillo. Pensò a scrivergli dell'episodio del mattino. Si accinse a farlo, ma s'accorse, non senza una specie di sorpresa, che, mentre cercava il modo spiccio, geniale, svolazzante della relazione, questo modo per l'appunto pareva sfuggire di sotto alla sua penna. Provò, cancellò, tornò a provare... niente. Diventava una storiella da Vie Parisienne. Per scriver bene quelle storielle, bisogna ridere di cuore, scrivendole, ed ella non poteva.
Tra lei e il suo solito buon umore c'era il pensiero di Tecla e quello di Marina... il senso, la pietà degli affetti condannati all'inerzia, il disgusto delle piccole [96] cause, delle piccole volgari tentazioni, della strettissima gora d'acqua stagnante, in cui affondano talvolta, incoscienti, noncuranti le non forti anime.
— Non posso — disse. — Scriverò un'altra volta. — E lacerò il foglio. Prese la Revue des Deux Mondes, si adagiò nella sua favorita poltroncina di velluto di Genova, e cominciò a tagliare i fogli di uno di quegli strani, dolci articoli di Renan sulle tradizioni bibliche e sulla vita degli Apostoli, quelle pagine ove l'autore sembra avere intinta la penna nella tavolozza sì umana e sì mistica a un tempo, del nostro Morelli.
Ma due o tre volte, dallo sfondo luminoso del grande paesaggio orientale, balzò fuori insistente, importuna, come un moscherino che penetri nell'occhio, l'immagine di una personcina snella, di una faccetta pallida di veloutine e di bianco mal tolto, con un cappellone impossibile e due immensi accroche-cœurs che tracciavano sulle tempie come due gran punti d'interrogazione. E l'Augellin Bel Verde calava, ridendo e strillando, dall'alto del drag, dove se ne stava Roberto colle quattro redini in mano e col gaio sguardo chinato su di lei.
[97]
Di ritorno dalla famosa gita, donna Marina Negroni salì direttamente in camera sua.
La cameriera venne a prestarle i suoi servigi. Ella lasciò fare, in silenzio, con una inerzia di tutto l'essere, che non le era solita. Quand'ebbe indossata la lunga vestaglia di flanella bianca, che metteva quando voleva rimanere sola nella quiete del suo appartamento, si diresse verso la sua lunga poltrona chinese. Ma, prima di adagiarvisi, si rivolse alquanto duramente alla cameriera, che rimaneva al suo posto in atteggiamento di attesa:
— Ebbene, che c'è ancora?
La Clelia aspettava gli ordini. A che ora doveva venire a pettinarla? Che abito comandava pel pranzo?
Allora soltanto Marina si rammentò. Infatti, gran pranzo di gala quel giorno in casa d'Accorsi: ci sarebbero i d'Urbino, un ex-ministro inglese di passaggio a Firenze, gli sposi d'Argovano e Sua Altezza il principe Luitpoldo Hetzengenfeld.
[98]
Un principe regnante, se vi piace. A dir vero, il suo Principato non era di una vastità ragguardevole; comprendeva un territorio le cui proporzioni erano una via di mezzo fra la Repubblica di S. Marino e quella di Val d'Andorra. Ma tant'è, anche in quel ritaglio di Principato ci capiva uno scampolo di Corte, un minuzzolo d'esercito e un campioncino di Sovrano... Incorreggibile, quella Germania!
Donna Marina rimase un istante sopra pensieri.
La cameriera attese ancora, attonita, tanto erano poco abituali nella sua padroncina l'indugio e la procrastinazione. Soleva discutere a lungo, diligentemente, ogni particolare della sua acconciatura, in siffatte occasioni. Ma stavolta disse soltanto: — Suonerò — con un gesto di commiato che non ammetteva repliche.
La cameriera non osò insistere. Si eclissò in silenzio.
Allora, quando fu sola, donna Marina fece qualcosa d'insolito. Venne meno alla perfetta moderazione della propria immagine. E inconsciamente, proprio senza pensarci, assunse una delle più belle e sincere attitudini che una mente d'artista abbia mai attribuito ad un'immagine di donna. Stette, come sta la Saffo di Pradier, seduta, col busto ripiegato su sè stesso, colle mani nervosamente intrecciate attorno al ginocchio destro rialzato. Il capo chino, il collo teso, le labbra compresse, le nari allargate. Nell'incavo marcato delle occhiaie, lo sguardo lungo, calmo e [99] disperato; lo sguardo saturo del convincimento dell'indifferenza di Faone!
Pure, donna Marina non aveva nulla di comune con Saffo. Era bella anzitutto e nessuno ignora che la storia ha ostinatamente negato questo privilegio all'infelice poetessa di Lesbo. Ma in quel momento, c'era un'identità. Anche lo sguardo di donna Marina vedeva qualcosa, qualcuno perdersi vagamente nelle brume dell'orizzonte. Non Faone per l'appunto... benchè... Oh! ma a ciò non bisognava badare... E quella che scompariva così, sempre così, era soltanto la solita larva!
Aveva venticinque anni ormai, quasi ventisei...
Oh! era terribile!... sentirsi bella, sapersi dotata di rare qualità di carattere e d'intelletto e colpita, ciò non ostante, dalla fatalità cieca di una condanna! Non poter essere amata, non saper destare una passione sincera, schietta, un desiderio acuto, irresistibile nel cuore di un uomo! Ma un uomo eleggibile, qualcuno ch'ella potesse sposare, che potesse darle una posizione normale, e toglierla a quella di ospite, di beneficata del Duca d'Accorsi. Ella che tutto sapeva, che tanto vedeva! Oh! sì, in quell'ambiente sì eletto, sì ricco, ove erano in apparenza sì largamente appagate tutte le vanità della donna, che continua flagellazione de' suoi più intimi e più sacri orgogli! E che brutale, che suprema necessità di non aver cuore, di difendersi sorridendo, senza allontanare, senza disgustare [100] alcuno, sentendosi di fronte all'incredulità più o meno celata della vera rigidità dei suoi principii, all'ingenua meraviglia ch'ella non fosse abbastanza... figlia di sua madre! Marina aveva, tanto per suo conforto quanto per suo tormento, un'implacabile serenità di raziocinio, la visione precisa, netta, infallibile delle ferree necessità della vita. S'era prefissa uno scopo unico e nulla doveva distrarla da questa preoccupazione. Fare un buon matrimonio, che le procurasse una posizione larga, comoda, circondandola della stima, della considerazione generale: poichè di ciò sopratutto ell'era assetata. Lo sapeva bene ciò che il mondo vuole, per accordarvi il sorriso del suo placeat, il privilegio delle sue indulgenze! E in questa sua guerra di conquista, colla coscienza della mancanza del più valido dei mezzi, il dono di piacere, Marina aveva accuratamente, a priori, esclusa la possibilità di un altro intervento, quello dei proprii sentimenti, del suo cuore. A che le avrebbe servito, col suo sistema, colla sua volontà di riescire, in ogni modo, con una già preparata, sempre pronta immolazione dei propri sentimenti personali?
Cominciava, però, a esser stanca. La lunga, interminabile attesa la snervava. Ogni tentativo fallito pareva lasciare una delusione sempre più dolorosa nell'intimo suo. Le pareva che ella e il tempo non lottassero più a condizioni uguali. Credeva sempre al suo sistema, lo riteneva il solo attuabile, nell'anormalità [101] crudele delle circostanze. Ma i sorrisi sereni, la calma imperturbabile, la grazia perfetta, l'uguaglianza tanto amena del suo carattere, oh lei sola sapeva cosa le costavano ormai! E quel doversi prestare, con apparente incoscienza, senza convincimento della riescita, ma solo per debito di coscienza, alle benevoli imprese degli amici... Quest'ultima, per esempio, il tentativo di Elisa, la sua ingegnosa trovata perchè ella potesse trovarsi col giovane Rescuati!
Non aveva mai creduto.... oh no.... neppure un momento. Non rammaricava che l'occasione perduta, s'intende.
Pure, stavolta, le pareva più dura, più crudele delle altre delusioni! Forse perchè veniva appunto dopo tante altre!...
Non volle chiedere altro al suo pensiero. S'indignava già seco stessa d'aver tanto sofferto per una cosa che non doveva tornarle nuova. Ma era stanca, stanca di tutto ciò; non ne poteva più!
Scompose la sua inconscia posa di Saffo, e celò il volto fra le mani, mordendosi forte le labbra.
Balzò in piedi ad un tratto! Qualcuno, senza aver avvertito nè chiamato, stava per aprir l'uscio della sua camera.
— Non si può, — disse Marina con accento irritato e supponendo fosse la cameriera.
Ma un tranquillo — Son io, — la colpì di meraviglia. L'uscio s'aperse senz'altro. Non era la cameriera, [102] era qualcuno che non soleva fare frequenti visite al terzo piano del palazzo, la duchessa Ginevra d'Accorsi.
— L'accoglienza non è troppo incoraggiante, per una persona che fa sei capi di scale per venirti a vedere. Bisognerà far mettere un ascensore anche da questa parte, a proposito!
La figlia accostò premurosamente una seggiola alla madre, che vi si lasciò cadere, guardando Marina con quell'espressione di freddo esame, che aveva per effetto immediato di rendere Marina più che mai cauta e padrona di sè stessa.
La giovane rimase in piedi silenziosa. La sua attitudine ora era pronta, vigile, difensiva.
A modo loro, quelle due donne si amavano. Nei tempi passati — quei tempi di estreme, di valorosamente dissimulate strettezze, il cui ricordo non pareva neppur possibile in casa d'Accorsi — la vedova Negroni aveva fatto molto, sofferto pure qualcosa, per tener seco la figlia, reclamata dalla famiglia del marito. Condizione sine qua non del suo matrimonio col duca d'Accorsi, che Marina fosse tenuta ed allevata in casa. E Marina non si era mostrata ingrata.
La Duchessa aveva ogni tanto delle malattie nervose, che non rendevano facili le mansioni dell'infermiera, e questa era invariabilmente ed esclusivamente sua figlia. Ma non avevano l'una per l'altra nè simpatie di vedute, nè omogeneità di carattere e di [103] principî. Coll'andar del tempo, la vita in comune veniva offrendo ad entrambe delle gravi, odiose difficoltà!
— Ebbene, — disse la Duchessa, allungandosi comodamente nel seggiolone, — come è andata questa gita?
— Benissimo, — rispose Marina.
— Ah! ti sei divertita?
— Assai.
— I cavalieri della brigata sono stati amabili?
— Amabilissimi.
— Specialmente il conte Rescuati, nevvero?
Marina si morse le labbra. Il suo primo impulso era stato quello di lasciar credere alla madre che il giovane avesse preso parte alla gita, ma il sorriso ironico della Duchessa ammonì la giovane che il suo giuoco sarebbe stato facilmente smentito.
— Ah! — disse con indifferenza — sai?...
— Ma certo! — rispose la Duchessa, ridendo. — Mi fu narrata tutta la storia or ora da Dino, il quale l'aveva udita mezz'ora fa, al Club, da Neri Speroni. Il raffreddore, le notizie. Ah... ah! Un vero bozzetto di Gyp... E l'incontro al Restaurant, mentre egli vi credeva lassù, da sir Temple! Neri dice che era qualcosa d'impagabile la faccia di Rescuati. Ah! avrei voluto esserci! Dev'essere stata assai comica... Pare ch'egli ne sia innamorato davvero. Pel quarto d'ora.
Marina non rispose. Alzò quasi impercettibilmente, [104] con una mossa piena di moderazione e di filosofia, le bellissime spalle.
— Bisogna convenire, — prosegui la madre, — che quella tua cara protettrice ed amica ha tutte le qualità di questo mondo, eccetto quella di riescire nell'esecuzione dei suoi benevoli intenti. Anche stavolta non ha avuto buona mano, come suol dirsi volgarmente. Me ne rincresce per te, benchè, a dir vero, non fosse un partito eccezionale. Ma per lei, ebbene, sì, ci ho un gusto matto!
Rise ancora, mettendo in mostra una dentatura larga un po' ingiallita, ma forte e sana. Di quei denti che, se si mettessero a mordere nel vivo, porterebbero via agevolmente il loro pezzetto di carne.
— Perchè? — chiese tranquillamente Marina. — Cosa ti ha fatto? Pensa che servigio ha tentato di renderti! Dovresti esserle grata, almeno della buona intenzione.
— E chi ti dice che non lo sia, — ribattè la Duchessa, mettendo, nel sarcasmo della sua risposta, lo stesso accento di moderazione del quale s'era valsa la figliuola. — A me non ha fatto nulla. Ma una lezione la meritava, colla sua manìa di protezione, colle ridicole arie materne che si dà con quel giovane, il quale mi sembra, dopo tutto, un grande imbecille. Almeno suppongo. Potrebbe darsi invece che non lo fosse per nulla.
Ebbe un sorriso enigmatico e bizzarro.
[105]
Ma tosto mutò voce e maniera e assunse quel suo fare incisivo e determinato che non ammetteva tergiversazioni.
— Marina, — disse alla figlia, — sono salita appositamente per parlare con te di qualcosa che preme. Ma la verità, nevvero? una volta tanto...
Marina chinò il capo con un cenno di calmo assenso; ma era ben decisa a non dire, in fatto di verità, più di quel tanto che le parrebbe conveniente.
— Non ti ho fatta una raccomandazione superflua, — insistè la Duchessa. — Ci sono dei casi in cui la semplice verità costituisce la migliore delle astuzie. Ma veniamo al fatto. Il conte Rescuati, per una ragione o per l'altra, non pensa a prender moglie e non pensa a te. Così è, nevvero?
— Così è, infatti. E poi?
— Allora tu, naturalmente, rinunzi...
— Scusa. Il termine non è esatto. Non sono io che rinunzio, è lui che non ci ha mai pensato; io non sono in causa.
— Sta bene. Ma (la domanda non ti sembri strana, non lo è) ti spiace questo fatto, più di quanto comporti lo svantaggio materiale della circostanza? Non hai provato per quel giovane.... No, non affrettare la risposta, pensa un momento, prima di rispondere.
Marina attese, infatti, docilmente un momento. Ma solo per adottare, immutabile, una linea di condotta.
— No, — disse poscia con tutta la voluta posatezza, — non ho provato nulla.
[106]
Mentiva ora, alteramente, per un senso d'intimo orgoglio, perchè, anche se non era, doveva esser così. Mentiva e a sè stessa ed alla madre sua. Roberto aveva avuto uno strano privilegio, senza saperlo e senza cercarlo. Aveva destata una segreta emozione, forse la prima, nel cuore di donna Marina Negroni.
— No, dunque? — insistè la madre...
— No, — rispose tranquillamente la figlia.
— Ebbene, meglio per te, mia cara Marina. Allora, nè in questa, nè in altre occasioni, hai mai provato...
— L'amore, vuoi dire?
— Sì, l'amore, se credi. Oh Dio, ha tanti nomi, tante personificazioni! Sentimento, capriccio, distrazione, che so io....
— Oh! Ha tanti nomi, infatti. Ma vedi; qualunque idea rappresentino questi nomi, essa non è fatta per me. Non ho, pare, il dono d'ispirare quest'amore, ma neppure, grazie a Dio, la capacità di sentirlo. È un divertimento che lascio ad altri.
Quest'ultima frase le era escita, calma, dall'anima in tempesta. L'esasperazione gliela aveva strappata, quasi inconscia, dal labbro.
Ma la Duchessa non parve avvertirne tutta l'acerba portata. Guardò sua figlia con una specie di benevolenza indulgente, che Marina non riusciva a spiegare a sè stessa.
— Ah! così... proprio? Oh! non ti do torto per nulla; anzi. Ma ora che abbiamo assodato che il [107] conte Rescuati ti è perfettamente indifferente... perchè è così nevvero? ti è perfettamente indifferente?
— Paganini non ripete, — rispose la giovane. — È assodato tutto ciò che vuoi. Scusa... dicevi?
— Dicevo, mia cara, soltanto questo. Cosa conti di fare stasera per la tua toilette? Abbiamo il principe di Hetzengenfeld... un uomo simpaticissimo, come sai.
L'accento sottolineava la frase. Marina comprese.
Una rapida, nuova specie di sofferenza le sfiorò rapidissima il cuore.
— Un'altra impresa? — chiese alla Duchessa, con un sorriso che le costò un grande sforzo.
— Un'altra impresa — rispose la Duchessa. — Ma la mia, questa volta.
[108]
Una cosa che a Firenze capita di raro, la neve. Era cominciata nella notte, ed ora, lì dalle quattro, s'era formato uno strato alto due buoni palmi e che dava un bizzarro aspetto travestito alla lieta città dei fiori. Un'uggia tetra e pallida incombeva sulle vie deserte, sui palazzoni severi e sui villini eleganti. I Lung'Arni erano vedovi della solita ressa di equipaggi e di pedoni; nelle vie interne, orribilmente infangate, passava frettolosa, sotto lo schermo dell'ombrello, qualche figura di forestiere o di affaccendato. Nella quieta, filosofica poveraglia fiorentina era lo stupore melanconico di quella novità, e il senso inquietante d'un freddo estraneo alle sue abitudini, un freddo cui non bastavano a riparare i soliti cenci, la sommaria e pittoresca divisa di chi sa di avere tutti i giorni un po' di sole in casa. Al Club i signorini sbadigliavano sonoramente. Che si farebbe oggi senza le Cascine? La sola persona che mostrasse [109] un po' di buon umore era quel bel tomo di Neri Speroni. Aveva vinto la sera prima sei mila franchi, giocando con Berto Rescuati. Ordinariamente soleva sempre dir male delle persone colle quali vinceva al gioco, era un suo vezzo speciale. Ma stavolta fece una eccezione, si degnò persino di giurare che gli dispiaceva... parola d'onore. Era proprio un buon figliuolo, colui, e l'avrebbe sempre sostenuto a spada tratta, in ogni emergenza.
Decisamente, il «provincialuzzo» era presto diventato uno dei loro. Il che non è tanto facile quanto potrebbe parerlo. La società fiorentina che prodiga veri tesori d'indulgenza e di ospitalità pel forestiero propriamente detto, non è di sì facile accontentatura sul conto degli ospiti piovuti da altre regioni italiane. Ha anch'ella i suoi capricci, le sue ubbie d'antipatia; certi noviziati li fa fare lunghi ed aspretti. Ma così non era avvenuto per Roberto. Era piaciuta a tutti la sua estrema semplicità, la franchezza bonaria ed accorta del suo carattere. Certo, non potevano trovargli nè grande ingegno, nè uno spirito al di sopra del comune. Ma a ciò ed a quant'altro gli mancava, suppliva con un'eguaglianza di umore piacevolissima e con una facoltà tutta istintiva di condursi prudentemente e di non mai ferire le suscettibilità d'alcuno, pur difendendo, in modo acconcio, le proprie. Per indole allegro, generoso, gentiluomo sempre, egoista forse, ma di un egoismo ragionevole, senza esitazioni [110] e colla piena coscienza del potere simpatico che esercitava senza fatica, era stato subito battezzato per un buon ragazzo. Era nota la sua famiglia, conosciuta la prosperità del suo patrimonio. La sua bellezza gaia, tutta vita, gioventù e salute, rallegrava gli occhi e il cuore. E le signore!...
Nell'Olimpo c'era già stato qualche tentativo d'accaparramento, non scoraggiato neppure dal poco misterioso riferto della storia dell'Augellin Bel Verde. Ma egli non sapeva ancora ravvisare il valore di certe mosse strategiche, eseguite a suo pro nelle alte sfere. Non era un'aquila quel caro Roberto e non aveva per anco acquistata la conoscenza completa di ciò che si potrebbe chiamare la sintomologia del futuro condizionale dell'amore. Ma forse questa ammirabile quanto involontaria ignoranza assumeva presso certi occhi interessati l'aspetto di una indifferenza o di una volontà che non ha fretta. Poichè suole talvolta la fortuna così maternamente e con tanta disinvoltura adoperare in pari tempo, in pro dei suoi favoriti, e le loro qualità e i loro difetti, ciò che possiedono e ciò che lor manca!
Quel giorno dunque a Roberto Rescuati mancava... il sole... appunto perchè, come sappiamo, nevicava. E gli mancava tanto quel matto sole fiorentino, ispiratore e complice di tanta gaiezza di vita! Come spenderle quelle due ore solitamente date alle Cascine? Che fare sino all'ora del pranzo, con quella neve che cadeva così, senza smettere!...
[111]
To'! E se andasse dalla contessa Elisa?...
Non c'era più tornato dopo quello sciagurato incontro lassù ai Colli! Una bella figura aveva fatto! Infatti, quando s'erano incontrati poche sere dopo, in casa Corsini, essa l'aveva accolto, gentilmente sì, ma non più coll'affettuosità speciale dei primi giorni. È vero che, per compenso, non gli aveva più parlato di Gallerie, di Musei, nè di serate al Circolo Filologico. E sua madre, che lo tempestava di raccomandazioni! Va dalla contessa Elisa... Spero bene che non trascurerai di recarti dalla contessa Elisa... Ah!... quelle signore trascendentali, che tutte avevano al loro attivo qualche specialità intellettuale e che parevano sempre in attesa d'una sua manifestazione di qualche genere. Ed egli, al suo attivo, aveva per l'appunto la storia della gita di Vincigliata!
Pure, sentì che, se non coglieva quella giornata favorevole, se indugiava ancora, non avrebbe più avuto il coraggio di presentarsi dalla sua protettrice ed avrebbe fatto, in ultima ratio, una figura da monellaccio. Perciò, si recò al palazzo di via S. Gallo, in carrozza e coltivando per tutto il tempo del tragitto un'intima e devota speranza che la Contessa fosse escita o non ricevesse.
Ma no, a farla apposta! Era in casa e riceveva.
Fu introdotto nell'ultimo salotto, quello dove ella soleva vivere la sua quieta vita intima. Elisa non aveva visite e stava leggendo. Le finestre erano [112] chiuse e la camera illuminata da due lampade a becco solare, come se fosse di notte. Ma la luce era raddolcita e fatta rosea da due grandi paralumi di tulle bianco, su trasparenti d'un rosso chiarissimo. Un'invisibile bocca di calorifero dava all'ambiente un tiepore di primavera e nel piccolo caminetto d'angolo, dietro lo schermo d'un cristallo sul quale era inciso lo stemma della Contessa, scambiettava, viva e lieta allo sguardo, la vampa di una bella fiammata. Non oppressivo ma delicatissimo e sentito solo ad intervalli, l'olezzo misto di viole di Parma, di calicanthus precox e di gaggie, distribuite qua e là in certe fine conchette di cristallo Baccarat, s'univa all'aroma lievissimo dei biscottini di vaniglia posati su un tavolino in disparte, accanto al piccolo Somovar che andava levando il bollore. La Contessa era in veste da camera, cioè in una di quelle sfoggiate vestaglie che hanno un'eleganza tutta intima e speciale e che a lei stavano tanto bene.
Provò un senso di grata meraviglia, udendo annunziare Roberto, poichè cominciava ad essere inquieta sul conto del suo protetto e a discutere seco stessa se doveva o no scrivergli un biglietto. Volle compensarlo d'averla prevenuta e d'aver vinto l'imbarazzo del piccolo evento dei Colli. Lo accolse affettuosamente, con un sorriso dolce, che non si ricordava.
Egli provò, entrando, l'impressione bizzarra dell'illuminazione [113] a quell'ora e questa valse a distrarlo dall'apprensione intima del primo incontro. Chiese subito cosa fosse quella notte anticipata.
Ella se ne scusò quasi. Ma era una vecchia, cattiva abitudine.
La sua vista, non molto forte, soffriva del riflesso crudo della luce nivea e tutto quel bianco le metteva un po' di malinconia. Perciò lo escludeva... Era ridicolo, naturalmente, sperava di non scandalizzarlo...
Oh!... scandalizzarlo... lui!...
Si mise a ridere di gran cuore. Non era facile a scandalizzarsi. Perchè non si dovrebbe far sempre ciò che accomoda? Gli piaceva anzi, quella notte in pieno giorno. E com'era elegante, la Contessa, con quella bella toilette!...
— Oh!... — diss'ella — è una satira questa?... Non è niente affatto regolare, la vesta da camera, a quest'ora. Ma mi sono alzata tardi e supponevo che, con questo tempo, nessuno avrebbe pensato a venirmi a visitare.
— Non mi aspettava dunque? — chiese il giovane.
Ella scosse il capo dolcemente.
— Non vi aspettavo più — disse con un accento in cui suonava un'affettuosa nota di rimprovero.
Egli arrossì e chinò la sua bella testina, dai finissimi ondulati capelli neri.
[114]
— Ha ragione — disse — e io ho tutti i torti. Ma ora mi perdona?
Aveva, così dicendo, una grazia insinuante, di bimbo abituato all'indulgenza, ma sincero nel pentimento.
Ella crollò il capo, ma con un sorriso così buono, che Roberto proseguì con marcata intenzione:
— Mi perdona... di tutto?
Ella comprese: la scena dei Colli tornò presente al suo pensiero. Ebbe un piccolo cenno, grave, di assenso. E quando, subito dopo, ella chiese a Roberto se aveva notizie di sua madre, c'era nella sua voce una calma assoluta, una dignità delicata di voluto oblìo di quell'argomento.
È sempre difficile, per una vera signora, il toccare certi tasti! Peggio per quelle che non hanno mai avvertito il valore di questa difficoltà. Molte hanno eletto di superarla e di ammettere quell'argomento. Non già che manchi plausibilità di motivi a questo sistema di concessione; sono tanto formidabili, ormai, quelle altre!... Si lasciano così poco ignorare! Ci può essere una specie di coraggio abile nella signora che si avventura su quel campo sdruccevole. Si può sfiorarlo, a rigore, senza insudiciare più in là che la suola delle scarpette e cavarsela con uno sfoggio guizzante di spirito e disinvoltura. Ma, per alcune signore, l'assoluta ignoranza, il noli me tangere dell'argomento è qualcosa che s'addice [115] loro specialmente e torna più armonico all'estetica morale del loro essere. Evitano per istinto, per una indefinita paura, per non farsi male alle labbra, consentendo loro quelle allusioni.
Roberto si sentì tolto un gran peso dal cuore. Comprese, una volta per tutte, che ella non l'avrebbe mai annoiato, come temeva, su quel proposito. Ah! che brava donnina, quella lì!
Si mise a chiacchierare, allegro, narrandole della sua vita, delle cose sue in quella maniera piana, semplice, senza pretesa alcuna, che gli era propria e colla quale, per una singolare dote di compensazione, egli suppliva alla mancanza di più brillanti facoltà discorsive. Non urtava mai le suscettività, anche appena accennate, d'altrui, ed evitava, come avvertito da un'intima cautela, tutto ciò che potesse tornar sgradito. Aveva molto tatto, assai più di quanto non paresse comportare la complessiva levatura del suo ingegno. Una maligna signora aveva detto di lui ch'egli era uno di quegli sciocchi che lasciano dire le sciocchezze alle persone di spirito.
La signora maligna diceva solo parte del vero; Roberto non era uno sciocco!
Quel giorno, forse per la contentezza di essersela cavata a buon mercato, forse per l'influenza combinata di quel tiepore pieno di quiete e di profumi discreti, il giovane si sentiva, colla Contessa, assai più ad agio di quanto nol fosse stato tempo addietro. [116] Era alla mano, buona, semplice; gli chiedeva dei fatti suoi con un interessamento che, dopo tutto, egli non meritava guari!
Ella sapeva tante cose di lui, dei suoi primi anni. Gli rammentò un episodio di quel tempo, quand'egli, piccino, ostinato, aveva fatto una bizza tremenda per un certo dolce che la nonna non gli aveva permesso di mangiare a tavola. Risero, ricordando assieme il cuffione della nonna e un certo vecchio domestico di casa Rescuati, un vecchio originale, che rispondeva in versi ai comandi dei padroni. Oh, Dio, sì, così buffo... nevvero? Era morto, ora, da un pezzo.
Rovistarono a lungo, amichevolmente, nei ricordi del passato. A Roberto la cosa tornava naturale e non sgradita. E del paro gli tornava piacevole il parlare ad Elisa delle persone nuovamente conosciute, del soggiorno sì bene iniziato a Firenze. Di tutto ciò, il giovane era (come doveva essere) assai soddisfatto ed espresse la sua soddisfazione con quella semplicità di termini e quell'assenza di facoltà critica che gli erano speciali. Il giovane non era molto entusiasta, nè profondo nei suoi apprezzamenti; ma in essi era sincero, scevro al tutto di quella specie di timidità irritata che dà la coscienza della sproporzione fra la propria capacità di sentire e definire qualcosa e la necessità di presentare questa definizione, secondo l'aspettativa critica di chi ascolta.
[117]
La contessa Elisa faceva in petto le sue riserve su quella incondizionata ammirazione della vita fiorentina. Un momento, provò la tentazione di discuterla con Roberto, di lasciarsi andare sulla china ed esporre i suoi fini e delicati perchè. Ma un istinto indulgente, squisitamente buono, la trattenne. Perchè annoiare quel ragazzo, togliergli delle illusioni, se ne aveva? Era così raro di trovare una persona contenta dei fatti propri, erano così stucchevoli i giovani che si davano delle arie annoiate, disilluse, a ventitrè anni! Così non discusse, assentì e la conversazione non languì per questo. Non vivacissima, ma quieta, cordiale, si potrasse oltre il solito limite di una visita e Roberto si era appena alzato per congedarsi, quando un domestico venne ad avvertire la Contessa che il pranzo era pronto.
— Volete farmi compagnia? — disse questa a Roberto.
Egli si scusò, aveva realmente un impegno. Ma con una fiducia nuova, venutagli lì per lì, soggiunse:
— Se mi permette... un'altra volta.
Si mise a ridere, colpito dalla meraviglia del suo ardire.
— M'invito da me... eh!... questa è curiosa?
— No; lo sapete che mi fate tanto piacere — rispose vivamente Elisa. — Venite martedì. Ho qualcuno, qualche amico.
[118]
Sul franchissimo volto di lui passò una smorfia involontaria e questa smentiva così palesemente il suo cerimonioso chinar del capo, quale atto di assenso, che la Contessa diè in una bella risata.
— No, no, dite pure, per me è precisamente lo stesso, un altro giorno o quello.
— Ah! — diss'egli, incoraggiato — proprio... davvero? Un giorno, per esempio, ch'ella non avesse nessuno... per l'appunto.
Ella lo guardò meravigliata.
— Ma, vi annoierete — disse sincerissimamente.
— No, — disse Roberto. — Delle persone forastiere ne vedo tutti i giorni al restaurant e la sua è tutta gente...
— Nuova... per voi... — suggerì pietosamente Elisa, vedendo che il giovane s'arrestava, temendo di esser trascinato dalla propria sincerità. Ma certo. Ebbene, facciamo così. Venite quando volete. Se passate di qui a quest'ora, ricordatevi di me. Addio, Roberto.
Egli baciò, con un certo suo atto gentile di omaggio, la mano che cordialmente ella gli porgeva. Quei baciamani che insegnano ancora le vecchie nonne, in provincia. Poi il giovane se ne andò, assai più contento di quando era venuto.
Quando fu nella via, vide che non c'erano carrozze. Era venuta la sera e la neve calava tuttora, scaraventata da una brezza acuta e pungente, che investì il giovane sgradevolissimamente. Provò una [119] subita tentazione, quella di tornare indietro, di rifugiarsi ancora presso quella signora così buona, con quel bell'abito da camera, in quel salottino così caldo e così ben rischiarato. Ma non cedette alla tentazione. Abbottonò con cura il soprabito, aperse l'ombrello e mosse in cerca di una carrozza, allontanandosi per la via, chiara di quell'albore speciale che dava tanta malinconia alla contessa Elisa.
***
Il fatto era vero e i commenti correvano, infiniti. Era accaduto un grosso guaio tra la duchessa Ginevra e il marchese Dino di Follemare. Egli non la seguiva più a cavallo, nè in legno alle Cascine. Lo si vedeva ancora la sera nel salottino bianco da gioco nel palazzo d'Accorsi o a Doney col Duca, ma con tutto ciò un freddo evidente esisteva nei rapporti del giovane colla famiglia. Egli era, a modo suo, assai malinconico, e sulla scipitezza fondamentale del suo bel volto si andava fissando una specie di perplessità dolorosa. Gli amici avevano bensì tentato di farlo parlare, ma Dino Follemare aveva sempre avuta una qualità, rara oggidì anche in chi dovrebbe avere il privilegio di essa: la discrezione nei fatti intimi e delicati del cuore.
Finalmente gli amici credettero d'aver trovato. Dino si era allontanato a cagione di ciò che tutta Firenze [120] cominciava a vedere; l'assiduità sempre crescente del principe di Hetzengenfeld presso la duchessa Ginevra d'Accorsi.
Dapprima egli aveva solo annunziata una tappa a Firenze. In realtà, aveva avuta l'intenzione di svernare a Roma. Ma Firenze, la sirena, lo tratteneva e il dolore per la morte della virtuosa Principessa che aveva fornito dieci eredi al trono di Hetzengenfeld, cominciava a prendere un'attitudine più riposata. Non si può credere quale conforto andassero recando allo spirito abbattuto del Principe la discreta simpatia e le infinite risorse intellettuali della duchessa Ginevra d'Accorsi! Il sovrano viaggiava appunto allo scopo di distrarsi dal suo dolore. Agli occhi di una società che la Duchessa d'Accorsi aveva sì vittoriosamente addestrata ad esser testimone compiacente di tanti cambiamenti «a vista», il fatto della caduta del povero Dino non poteva suscitare estrema meraviglia. Se di qualcosa s'eran fatte le meraviglie, era piuttosto che la cosa fosse durata sì a lungo e malgrado tante piccole varianti (passeggiere, a onor del vero) dal lato della Duchessa. E certamente quest'ultima era una delle più brillanti fra le imprese di quella eccelsa signora. Una testa coronata, si ha un bel dire, è sempre una testa coronata, quand'anche, come quella del Principe regnante di Hetzengenfeld, rappresenti, nella sua caparbia esagerazione del tipo militare germanico, una [121] lontana rassomiglianza con quella di un vecchio leone sdentato. Non era bello il Principe vedovo e i suoi cinquantasette anni suonati si accusavano, grevi nei forti solchi del volto e nella pinguedine floscia del corpo.
Con tutto ciò, non era d'aspetto spiacevole. I modi avevano una gravità altera, l'occhio tra grigio ed azzurro tradiva allo sguardo molto acuto una specie di dolcezza intima, un misticismo recondito ed austero. Egli era abbastanza istruito, un po' pedante. Si diceva che avesse condotta, in massima, una vita molto casta. Ciò faceva sorridere alcuni. Oh! la virtù tedesca, l'amore ufficiale, per decreto! Il retroscena delle Corti esemplari in Germania! Intanto però e in ogni caso, un po' di rivincita si iniziava a Firenze. E Firenze sogghignava, chiedendosi se un giorno o l'altro la Duchessa d'Accorsi, non avrebbe preso il volo, per andare a porre le basi di una pseudo sovranità sul modello di quella di Mad.e de Maintenon, meno il matrimonio, s'intende... almeno sino a nuovo ordine. Ma la duchessa Ginevra aveva ideato qualcosa d'altro pel futuro bene del Principato di Hetzengenfeld.
Dino Follemare aveva ricevuto un giorno un bigliettino di una ben nota calligrafia, che lo chiamava in una non meno nota località. Quivi il suo raziocinio era stato sottoposto ad una prova di fiducia, duretta anzichenò. Gli era stato proposto di non credere nè [122] ai propri occhi, nè alle proprie orecchie e di trattare la vox populi come un vano strepito. Erano venuti in campo dei gran personaggi, la generosità, l'abnegazione, ecc. A capo di quel nobile drappello stava l'amor materno, armato di tutto punto. Ciò che richiedeva assolutamente l'avvenire di quella povera Marina, ciò che imponeva a lei Ginevra... il più duro, il più crudele dei sacrifizi... temporanei.
Il marchese Dino aveva durato una certa fatica per raggiungere l'alta regione di dovere e di sentimento in cui spaziava con sì ampio volo l'eloquenza materna della Duchessa. Era un elemento nuovo e del quale egli non aveva grande pratica.
Stava immobile, taciturno, ascoltando.
— Ed ora — gli disse la Duchessa, terminando la perorazione con un sorriso, il suo sorriso di domatrice d'uomini — ora che sei pienamente al fatto della cosa, tu parti, nevvero?
Attese un istante, poi corrugò la fronte. Che!... esiterebbe forse... colui?
Pur troppo, egli esitava. Nel suo sguardo, per quanto affascinato, perdurava una inquietudine. E, per una volta, il docile, supino spirito trovò il coraggio di una resistenza.
— E se rimanessi, invece?
Essa lo guardò, con serenità veramente olimpica. Rispose, adottando senza transazione il freddo voi ufficiale:
[123]
— Padronissimo, mio caro. In fondo, ciò nulla muterebbe. Ma, come vi ho detto, ho d'uopo del campo libero. Vi sentite di non intralciare i miei progetti?
La domanda era categorica. Dino alzò su Ginevra uno sguardo pieno d'angoscia.
— Farò di tutto — mormorò.
— Non basta far di tutto — ribattè recisamente la Duchessa — bisogna che così sia. Ciò che vi dissi è la verità. Peggio per voi se non la credete. Io non mi curo di mentire... per così poco.
— Vi è facile chiamarlo così — rispose Dino. È poco infatti, per voi. Ma per me...
Ella alzò lievemente le spalle.
— Per voi, se aveste un po' di buon senso e un po' di pietà pel sacrificio di altri, sarebbe la cosa più adatta alla circostanza. Del resto, fate voi. Sapete che io non recedo da una presa risoluzione. Se vi piace di rimanere e di affrontare i benevoli giudizi dei comuni amici... padronissimo. Sarà un pochino più spiacevole per voi, ecco tutto.
Egli aveva curvato la testa e stringeva fra le mani la fronte affaticata dal dubbio. Lo sguardo di lei cadeva imperioso e sprezzante su quella testa bruna e chinata. Dino aveva bellissimi capelli, fini come seta e ricciuti. Ginevra passò sbadatamente una mano fra quelle ciocche. Egli trasalì.
Senza muoversi, come un fanciullo scorato, sussurrò: — Ginevra... non posso!
[124]
Un lampo d'ira passò nello sguardo di quella donna, la collera crudele di chi non ama più e non riesce a liberarsi colla sollecitudine bramata dell'amore di chi ama ancora... sempre... malgrado tutto!
Ma di nuovo, colle dita ella sfiorò i capelli del giovane: Bisogna potere, Dino. Io lo posso... eppure.
Di repente egli alzò il capo, per guardarla. Ginevra sostenne, sorridendo, il suo sguardo. E colla poderosa, evocatrice malia del proprio, ella circuiva, afferrava la memoria, i pensieri, la volontà di lui, tutto lui, nella sincerità e nell'irremediabilità della passione ch'essa aveva saputo ispirargli.
— Sia come volete — diss'egli finalmente. — Partirò... Ma non oggi, non subito, nevvero?
Ella ebbe un gesto d'impazienza.
— Oh Dio... che ragazzo. No.. quando vorrete. Suvvia... pensate che io pure, soffro tanto... Tornerete, ben inteso, subito dopo il grande evento. E allora... Si arrestò...
Egli tentò di sorridere, ma il suo volto tradiva ancora una riluttanza dolorosa.
— D'altronde... — disse allora quietamente Ginevra d'Accorsi — o questo o niente, figliuolo caro.
***
Dino Follemare non partì subito.
Non gli reggeva il cuore di abbandonare quel [125] luogo, ove pure soffriva tanto. Da dieci anni ormai viveva buona parte della sua vita in quella casa e le abitudini, l'atmosfera di essa erano diventate le sue. Erano innumeri i legami che lo stringevano a quell'ambiente. Nel lusso largo, diffusivo della famiglia, nella preponderanza sociale della quale essa godeva, nell'impianto della splendida ospitalità famigliare, Ginevra d'Accorsi aveva messo il violento riflesso della sua energia e della sua formidabile personalità. A tutto dava impulso ed irradiazione; qualcosa del suo fascino insolente si era comunicato alle mura stesse del palazzo. Vivere fra quelle mura, nel calore di quella irradiazione, era, per un uomo della tempra del marchese Follemare, la sola cosa possibile. Senza di lei, lungi da quelle mura, la vita non aveva pregio alcuno, tutto era un approssimativo, una larva di esistenza.
Essa l'aveva preso così, tutto quanto, sin da otto anni addietro, nell'impetuosa sincerità di un violento capriccio dei sensi. Lo aveva tolto alla vita attiva, alla carriera militare, al matrimonio, alla famiglia.
Non solo coll'amore e colla colpa, ma con mille altri mezzi di possesso, ella aveva incatenato a sè quel bellissimo giovane, dall'animo mite, dall'intelligenza limitata, fedele per temperamento e gentiluomo sino all'esagerazione. Egli si era rovinato per lei, solo per non allontanarsi da lei, per non far macchia nello sfoggio opulento della sua sfera. Ridotti ora ad [126] una diecina di mila franchi i già cospicui redditi di casa Follemare, Dino sapeva, per una di quelle misteriose facoltà che chiamerei volentieri segreti di razza, vivere ancora da gentiluomo, senza mancare ai doveri e alle esigenze delle sue speciali circostanze di fronte alla Duchessa. Era buono, ben voluto da tutti; alcuni avevano di lui una pietà ch'egli ignorava. Non si credeva infelice. Era completamente d'accordo col proprio destino. Non pensava all'avvenire, nè si rammaricava del passato. Avrebbe voluto vivere e morire così.
Quando si sparse la notizia della rottura (nessuno seppe mai come fosse avvenuta e chi ne avesse pel primo sparsa la nuova), ci fu nel pubblico la vaga attesa di qualche conseguenza. Ma nulla si produsse, non il più lieve scandalo. Allora fu un coro d'ammirazione per la Duchessa... s'intende! Che prudenza... che tatto, che profonda abilità di condotta! Certamente, il torto marcio doveva averlo lui. E, in ogni modo, che babbuino... lasciarsi «ringraziare» così... dopo tanti anni!
Una bella mattina, Neri Speroni andò a fare una visitina a Dino Follemare, nel Lung'Arno Acciaioli. Un appartamento di poche camere, ma squisitamente mobiliato ed adorno. Alcuni vecchi capi d'arte di famiglia, la raffinatezza dei gusti di Dino e gli eccellenti consigli della Duchessa, tutto aveva contribuito a fare di quel quartierino, pur lasciando intatto il [127] suo carattere di dimora mascolina e di scapolo, un nido di rara eleganza. Gli amici trovavano sempre colà un'ospitalità cheta e cordiale e il ricordo dei gusti speciali ad ognuno di loro in fatto di liquori, bevande, sigari e sigarette.
Speroni, per esempio, amava il cognac e i panatelas. Davanti a lui, stava un vassoio con un bicchierino e una bottiglia del suo liquore preferito e il tepido salotto verde era già invaso dal fumo di un secondo di quei preziosi sigari, ma il giovane non aveva ancora trovato il destro di esaurire il mandato impostogli dalla curiosità universale.
Finalmente gli parve d'aver trovato. Sulla scrivania dell'amico Dino stava, riccamente inquadrata, una fotografia della Duchessa.
Neri l'afferrò con una gran risata e sclamò energicamente:
— Come, ancor qui l'infida?
Dino gli tolse tranquillamente di mano la cornice e la rimise al suo posto. Non aveva schiuso labbro, ma s'era fatto pallido e sulla sua fronte si venivano addensando certe linee che avrebbero facilmente ammonita una persona di buon senso o un vero amico.
Ma Neri Speroni non voleva venir meno alla sua riputazione di stordito incorreggibile. Ci teneva caramente.
— Lo sai — continuò con un ghignetto confidenziale — che oggi la Duchessa va a fargli vedere la [128] villa Palmieri? Ceneranno, pare, lassù! Come mai hanno scordato d'invitarti?
Si fe' più intenso il pallore sulla faccia di Dino. Ma egli si frenò.
— La Duchessa — disse quietamente — è padrona d'invitare chi le pare e piace.
Speroni depose il panatelas e fece un grande inchino.
— Corbezzoli! Vedo con piacere che sei molto filosofo. Del resto, tutto sommato, hai tutte le ragioni. Non sarebbe certo il caso di prendersela a cuore per una...
Si scansò rapidissimamente, troncando di botto la frase, afferrando por aria, a pochi centimetri dal suo volto, la mano di Dino, che stava per piombargli addosso, con tutte le caratteristiche d'uno schiaffo.
— Ohe!... ohe! — sclamò concitato...
Ma subito si decise a prendere la cosa in scherzo, da buon amico.
— Ohe, ripetè, sei matto... ti pare? Dicevo così per chiasso! Ma... ma... ma... abbiamo da vederne ancora... di queste!
La memoria gli aveva suscitato proprio in quel momento il ricordo di un duello di Dino col conte d'Estonaz, un savoiardo che si batteva molto bene, ma che se n'era tornato in Savoia con tre quarti di naso, invece di quello che aveva portato, aquilino [129] ed intero, sul terreno del parco Stibber a Montughi.
Ci fu un momento di silenzio; poi Neri disse un: «andiamo... via!» così chiaramente propiziativo che Dino, alzate lievemente le spalle, tornò a sedere, pallidissimo sempre, ma calmo.
Prese la bottiglia e versò un secondo bicchierino di cognac all'amico Speroni.
— Una volta per tutte — disse con calma. — Non amo questi discorsi.
— Oh infatti... — s'affrettò a protestare Neri Speroni, figurati se volevo!... Dicevo, così per dire... del resto... Sei un bel tipo... tu. Questo cognac è divino, parola d'onore. Sai che abbiamo presto la compagnia Ciniselli al Politeama? Non mi pare che ci deva essere gran che in fatto di cavalli... Ma una ginnasta, mio caro... una ginnasta!
***
In capo a due settimane, Dino Follemare si recò a casa d'Accorsi per fare la sua visita di congedo. Andava in Inghilterra, alla ricerca di un cavallo e di un fantino per le corse del venturo maggio.
Trovò la Duchessa sola, nel salotto nero e rosso.
Essa fece le meraviglie.
— Come! partite davvero?
Convien dire ch'ella avesse già scordato il consiglio [130] datogli. Ad ogni modo, nei suoi occhi, dietro un velo di mestizia, ardeva un piccolo fuoco di gioia.
— Ho provato a rimanere — disse Dino — ma non mi è possibile.
Un tremore era nella voce di lui, una simulazione di tremore oscillò nelle parole della Duchessa.
— Oh Dino... che dolore!
La minima espressione di sentimento assumeva, in quella donna, un valore estremo, irresistibile.
Più che mai, in quell'istante Dino credette al sacrificio della madre. Non aveva a sua disposizione le frasi che avrebbe potuto suggerirgli quel convincimento. Pure, nelle sue poche, interrotte parole, Ginevra avrebbe potuto trovare quell'ospite sì raro nelle umane espressioni, un sentimento vero ed assoluto. Ma Ginevra sapeva da tanto tempo ormai che quel giovane la amava. Ed ella non lo amava più e mentre metteva nell'addio la seduzione che sapeva infallibile, mentre nel cuore di lui si assodava il convincimento che l'amore di quella donna lo avrebbe accompagnato dovunque, che lo avrebbe accolto, festante, al suo ritorno, nel cuore di quella donna tumultuava sola e spietata la gioia di un pensiero:
— Finalmente! Ah! finalmente!
Mentre scendeva lo scalone a capo basso e con una leggera nebbiolina sugli occhi, Dino si accorse ad un tratto che doveva ritirarsi per cedere il passo a due persone che salivano e ch'egli conosceva. Si [131] ritrasse dunque e salutò profondamente. Erano due suore di Carità. Appartenevano ad un conventino del vicinato, poverissimo di mezzi propri e in gran parte sostenuto dalle pie liberalità d'un Comitato di signore, del quale Ginevra d'Accorsi era presidentessa. Più volte egli era andato a prenderla al Conventino.
Quando le due suore l'ebbero oltrepassato, egli si voltò per vederle ancora. Salivano con passo pari e misurato. Sul tappeto cremisi, che copriva i gradini, strisciavano i lembi delle stinte gonne azzurre. A seconda dei moti delle teste, tremolavano le falde penzolanti degli immensi cuffioni bianchi; i rosari battevano in cadenza, audibilmente, sui grembiali azzurri.
All'ultima mano di scale, Dino fece un altro incontro. Lentamente, sbuffando alquanto, il principe di Hetzengenfeld solo, senza il minimo aiutante di campo, si dirigeva al piano superiore. Veniva a far visita alla Duchessa.
Come aveva salutato le suore, così il marchese Dino di Follemare, traendosi in disparte, salutò colla voluta espressione di etichetta l'alto personaggio. Il Principe rispose con un saluto affabile e dignitoso. Una folla di pensieri passò turbinando nella testa del giovane, un misto di collera, d'odio, d'intimo trionfo. Attese ancora un istante, incosciente, immobile, sotto il peso dell'emozione indefinita che lo signoreggiava.
Poi scese.
[132]
Elisa scriveva a Don Marcello Plana.
Non cercava le espressioni stavolta e mentre la penna correva veloce riempiendo un foglio dopo l'altro, un sorriso buono e lieto errava a sua insaputa sulle labbra di lei.
«Lo vedo più di frequente; credo ch'egli cominci a provare ormai la reazione della febbre di divertimento che l'aveva colpito nei primi mesi del suo soggiorno a Firenze. Del resto, era tanto naturale, alla sua età, nevvero? E poi, immaginate che cosa curiosa! Mi ha detto che i primi tempi gli mettevo tanta soggezione... Ho fatto finta di credere, ma credo che fosse semplicemente perchè si trovasse meglio altrove che in casa mia. Se vogliamo esser sinceri, un po' di colpa l'ho avuta io. Avevo delle idee troppo ambiziose, volevo avviarlo a modo mio. Ora mi limito a procurare che non si annoi, quando è con me; mi studio di parlargli di cose [133] che possano interessarlo. Sulle prime duravo una certa fatica e dovevo fare dei grandi sforzi d'immaginazione, ma a poco a poco mi sono abituata e adesso ridereste sentendomi parlare animatamente di cavalli, di mode, anche di pettegolezzi. Roberto non ha una conversazione brillante nè profonda, ma un buon senso, raro alla sua età, non gli permette mai di dire nè una sciocchezza, nè una cosa urtante. Forse perciò è ben voluto da tutti e ha tanti amici. Infatti è sempre di buon umore. Credo che un po' si lasci vivere. A volte m'impazienta e a volte mi riposa stranamente lo spirito quella specie di spensieratezza gaia, irresistibile. Penso che dopo tutto è la gioventù, la sacra, la sincera gioventù!...
«Penso alla mia ch'è passata da tanto tempo e che è sì lontana, ormai, che non mi par quasi neppure d'averla vissuta!... E (vedete che sciocchezza) mi par quasi, quando sono con Roberto, ch'essa ancor si ricordi di me e mi saluti da lungi.... Direte che faccio delle digressioni, nevvero?... Infatti; è assurdo. Forse m'indugio apposta, per parlarvi il più tardi possibile di ciò che mi avete chiesto nell'ultima vostra, del mio famoso progetto per Marina. Ecco qua: un altro fiasco.
«Non mi canzonate, non sarebbe generoso. Ne soffro già abbastanza. Fra quei due giovani non [134] esiste simpatia di sorta. Invano ho tentato, con tutta la sincerità del mio buon volere...
Si arrestò, mordicchiando l'estremità del portapenna. Ma subito proseguì:
«Roberto non potrebbe in questo momento offrire a Marina un cuore degno di lei. Speriamo che si tratti di un capriccio passeggero, che più tardi, forse... Ma intanto io amo troppo Marina per non rinunziare provvisoriamente al mio sogno. Se foste qui, mi dareste ragione, ne son certa. Perchè non sarebbe decoroso, non sarebbe onesto! Nevvero ch'è impossibile, affatto impossibile?...
«Firenze comincia a farsi animatissima. Ci sono molti forestieri. I ricevimenti sono cominciati dovunque. Non vi faccio l'elenco, lo conoscete e sapete che dovunque si vorrebbe vedere la vostra altiera figura di conte di Saint Bris. Io non esco molto alla sera. Ho sempre i miei soliti e in prima sera qualche volta Roberto mi sacrifica una mezz'ora. Si è un pochino abituato ai miei fedeli, ma è molto più carino quando è solo...»
Si arrestò, udendo nelle sale vicine accostarsi un passo spedito, ch'ella conosceva ormai... tanto bene!
Depose la penna e sollevò lo sguardo sul grande specchio inclinato che poggiava sulla caminiera di fronte all'uscio d'entrata. Colà vide riflettersi lo scompiglio della portiera, sollevata da una mano impaziente, poi sbucar fuori la testa giovanile, sorridente [135] di un uomo che recava fra le mani qualche cosa di roseo e di bianco. E un olezzo delizioso si fe' strada nella sala, assieme a Roberto.
Il giovane presentò alla Contessa un grosso mazzo di giacinti rosa e bianchi.
— Per me?... — disse la Contessa attonita, ma con un'aria sì lieta ch'egli si mise a ridere.
— Sì, signora, per lei. Li ho visti or ora, uscendo dal Club e mi son rammentato che un giorno mi disse che le piacevano. Non si sono sciupati... no? Tanto meglio. E adesso: un momentino e poi scappo.
— Come, senza neppur lasciarmi il tempo di ringraziarvi, senza sedere?
Egli sedette, ma senza lasciare il cappello.
— No, no! ho premura! — Contuttociò, le lasciò il tempo di dir grazie e in modo ch'egli fu convinto d'averle fatto un immenso piacere. Sollevò verso di lei quel suo bellissimo volto, ove brillava la contentezza del suo successo e in pari tempo il convincimento della penetrante bontà di lei, quella bontà che aveva avuta, che serbava tanta pazienza, tanta tolleranza.
Ed essa gli sorrise colla lieve emozione della sua sorpresa pel delicato pensiero. I giacinti avevano un olezzo acuto, di una freschezza inesprimibile!
Egli non accennava ad andar via colla fretta preannunciata. Rovistava qua e là fra i gingilli, le mille bazzecole del tavolino, sfogliava i giornali, specialmente se illustrati.
[136]
— Oh! — disse a un tratto, con evidente piacere, — l'ultimo Fliegende Blätter.
Erano la sua passione le caricature del Fliegende Blätter, e la Contessa s'era abbonata a quel giornale e lo teneva sul tavolino per lui, per obbligarlo, senza parere, a fare un po' d'esercizio di tedesco. Quando la leggenda era troppo difficile, gliela spiegava lei e insieme ridevano di quelle scene sì umoristiche, sì finemente trattate e che hanno talvolta un senso squisitamente sagace della vita. Ella coglieva a volo la segreta filosofia di quei frizzi; egli non cercava tanto e si contentava dell'impressione piacevole, del senso comico, quale balzava di scatto allo sguardo e al pensiero di lui, ma entrambi si divertivano colla stessa freschezza d'impressione, benchè Roberto, per farla arrabbiare, dicesse di preferire di gran lunga la Vie Parisienne a quelle pappolate tedesche.
Stavano chinati entrambi ridendo, su una delle centomilionesime satire a matita contro la troppo calunniata istituzione delle suocere, quando l'annunzio repentino di una visita li fece trasalire come due colpevoli. Nientemeno che: Monsieur Cholet.
Berto aveva avuto un'espressione di sgomento così palese, quando la Contessa s'era lasciato sfuggire: «Oh Dio! viene a leggermi dei brani del suo lavoro sui Fasti Medicei!» ch'ella dovette assolutamente dare in uno scoppio di risa! E l'entrata del Professore col suo scartafaccio fra le mani, con quel suo [137] fare impacciato e un po' pedantesco e quella sua faccia da scienziato rischiarata dal sorriso amabile di chi si ripromette una delle più delicate soddisfazioni di amor proprio che possa capitare ad un autore, faceva un tal contrasto colle loro chiacchiere, coll'ambiente del momento prima, che pareva impossibile non dovesse palesarsi agli occhi stessi del sopraggiunto. Il quale dal canto suo trovò assolutamente intempestiva, pei suoi progetti, la presenza di quel gamin. E quando il gamin si affrettò, pretestando un urgente impegno, a declinare l'invito di trattenersi, perfidamente fattogli dalla Contessa con un crudele e birichino ammiccare degli occhi, M. Cholet si sentì sollevato da un gran cruccio!
Erano soli ormai, ella e l'illustre scienziato belga. Il Professore era troppo grande e grosso per sedere ad agio nella poltroncina che aveva avuta l'inavvertenza di scegliere quando la Contessa gli aveva fatto cenno di sedere, una galanteria di peluche e di raso, ricamata a punto e fiamma, a tinte deliziosamente smorzate. E a farlo apposta, la poltroncina favorita di Roberto!
Nel silenzio tepido e profumato del salottino suonava monotona ed istancabile la voce di lui, narrando dei Fasti Medicei. S'era agli inizi del pontificato di Leone X e la Contessa, che aveva dato pochi giorni prima una ripassatina al suo Roscoe, si attendeva a sentirsi straordinariamente attirata. Amava ella [138] quel tipo e quei tempi sì splendidamente lumeggiati dallo splendore d'un torrente di luce artistica. Pure, cosa strana, quel giorno doveva fare uno sforzo intimo per applicarsi interamente all'audizione.
Il Professore leggeva senza interrompersi, senza essere interrotto; i grandi eventi e i grandi nomi sfilavano altisonanti nel suono monotono delle sue parole. Ma un grande mazzo di fiori, di un bianco tenero, di un rosso languido, fresco come una epidermide di fanciullo, giaceva sciolto sul tavolino. Elisa era distratta dall'aspetto di quei fiori. Erano troppo vicini, troppo belli, così accatastati uno sull'altro, chiamavano irresistibilmente il suo desiderio e la sua mano! Avevano un'attrazione ineffabile di bellezza, erano così squisiti nell'arricciatura delicata delle pendule testine digradanti sino ad un voluttuoso morire del colore sui tessuti carnosi dei petali!... E dalle bocche misteriose celate nel cuore d'ogni fiore esalava un alito inebbriante, d'una violenza spietatamente suggestiva di sensazioni, che colla storia fiorentina non avevano assolutamente nulla a fare! Era un non so che d'aperti cieli, di calda primavera, di giardini ridenti. Era una carezza allo sguardo, una blandizia all'odorato, un senso indicibile di dolcezze vaghe ed indeterminate, così acute, così assorbenti, che la Contessa chiuse vagamente gli occhi in una specie di piccola estasi nervosa, senza avvertire che proprio in quel punto Monsieur Cholet, giunto alla [139] fine del capitolo iniziatorio, si arrestava per riposarsi (ne aveva il diritto, poveretto!) e un poco anche nell'attesa di quelle fine parole di commento e di elogio che avevano bene spesso nelle pause delle precedenti letture sì dolcemente solleticato il suo amor proprio di autore.
A farla apposta, il capitolo era veramente interessante, uno dei migliori dell'opera. Ma che volete?... era così acuto l'odore dei giacinti, era così grata la Contessa al pensiero delicato del suo figliuolo!
Gli elogi ed i commenti, vennero, oh se vennero! E furono intelligenti, come il solito; anzi più del solito. Monsieur Cholet se ne andò; beato dei fatti suoi e veramente entusiasta di quella étonnante Comtesse!... Alla quale, però, per essere perfetta nell'estimazione dell'illustre autore dei «Fasti Medicei» (opera coronata dall'Accademia di Bruxelles), mancò da quel giorno in poi una cosa soltanto... ch'ella non patisse di distrazione. Oh, delle lievissime distrazioni... nulla più.
***
Nella corrente generale di simpatia che l'alta società fiorentina aveva sì prontamente manifestata a Roberto Rescuati, si andava da qualche tempo accentuando un'eccezione. Sacha Dzworoff non poteva soffrire il nostro eroe.
[140]
Il giovane russo era anch'egli, e da più antica data, ben visto e careggiato nei circoli eleganti. Ma la cosa era affatto diversa. Da Sacha si tollerava moltissimo, cose da far strabiliare; frizzi sanguinosi, capricci ed esigenze, che avrebbero bastato all'espulsione di qualunque altro frequentatore di quegli stessi salotti. Una intelligenza vivace ed originale, uno spirito pungentissimo e una straordinaria attitudine a braccare il ridicolo, dovunque stesse rintanato, rendevano talvolta pericoloso l'accordo di tacita indulgenza onde tutti erano prodighi per Sacha, indulgenza le cui fonti risalivano però ad una pietosa considerazione. Egli era malato di petto, condannato dai medici a corta scadenza e conscio della sua condanna.
Egli, che scherzava su tutti e di tutto, non risparmiava sè stesso nè il proprio destino. N'era un parlante programma il solo suo aspetto, la persona ridotta ai minimi termini, il pallor cereo della sua faccetta, la perpetua tosse che dilaniava l'esilissimo torace, la febbriciattola che lo assaliva ogni sera e che egli portava invariabilmente in piedi, colla reazione di un'altra febbre, quella d'un volere indomabile, ribelle ai consigli ed agli ammonimenti, sprezzante delle cupe minaccie di un peggioramento delle sue grame condizioni. Della sua prossima fine egli parlava con una disinvoltura canzonatrice, che aveva talvolta un valore di stoicismo filosofico e talvolta una grazia quasi cinica. Viveva frattanto intensamente, con una [141] furia di attività, che palesava una lotta intima e disperata. Tornava dunque impossibile giudicare quel gaio infelice alla stregua universale. Era ricchissimo e le favolose ricchezze profondeva in ogni specie di modi, buoni e cattivi, in bagordi ed elemosine, ora con profonda intelligenza, ora con una carità inconsulta, senza fermarsi a discernere i parassiti dagli amici veri. Era così riboccante di vita il suo essere morale che la morte gli pareva nella sua minaccia un assurdo inammissibile e le immense ricchezze, un controsenso di più nella farsa tragica del suo destino. E così egli, motteggiandola di continuo, ne sfruttava la tetra anormalità. E nessuno osava punirlo, ed egli era a volte esasperato da quella pietà che invano cercava stancare ed in cui andava leggendo la conferma della sua condanna.
Roberto non gli era mai andato a versi.
Sacha aveva avuto, sulla visibile benevolenza che il giovane Rescuati ispirava alle signore, dei giudizi di un'acerbità squisita. Il Club tutto quanto aveva echeggiato a lungo delle risa ch'egli aveva suscitato, parlando dell'infelice foggia di vestire che Rescuati aveva poscia saputo abbandonare. Nessuna delle piccole inavvertenze commesse da Roberto per la mancanza di pratica in una società della quale egli cominciava a diventar famigliare, era sfuggita all'osservazione e ai mordaci commenti del Sacha.
Più volte aveva apertamente preso di mira Roberto [142] coll'insidia di equivoche osservazioni, tentando di trascinarlo verso un terreno di motteggio, sul quale Rescuati avrebbe probabilmente toccata la peggio. Ma questi si difendeva a furia di semplicità e di cautela astensiva, attenendosi con fortuna a quel sistema di indifferenza dei fatti altrui che gli consigliavano del pari la bonarietà e l'egoismo dell'indole sua.
Sin dai primi tempi della sua dimora in Firenze e di fronte allo spettacolo di incredibile impertinenza che perennemente offriva Sacha Dzworoff, Berto Rescuati aveva candidamente espressa a Neri Speroni la sua meraviglia che nessuno avesse ancora trovato il tempo di dare un salato memento a quel piccolo calabrone nordico. Udito il perchè dell'indulgenza generale, non insistè sull'argomento e uniformandosi al prevalente andazzo, lasciò dire il piccolo russo, evitando di entrare con lui in polemiche o discussioni e non mostrando di avvertire la bizzarra antipatia che l'altro pareva invece farsi premura di addimostrargli in ogni plausibile e decente occasione.
Forse quell'antipatia aveva le sue fonti segrete appunto nel contrasto fondamentale di quelle due nature, nell'intima ribellione che eccita talvolta nell'animo del malato e del debole, l'aspetto di un vigoroso rigoglio di forza fisica. La manifestazione di questa forza era spiccata, marcatissima nella persona del giovane Rescuati. Egli era, a ventitrè anni, nel [143] fiore di una splendida gioventù virile. In mezzo ai tipi effemminati, troppo raffinati dei suoi nuovi compagni, prodotti di una razza esautorata dalla mancanza d'incrociamenti e dall'inerzia dalla molle vita fiorentina, il nostro marchigiano spiccava assai favorevolmente, esemplare raro e non dubbio di una razza più resistente. In lui la visibile gentilezza del sangue non andava disgiunta dall'integrità di un vigoroso temperamento.
Si pensava involontariamente, vedendolo, ad uno di quei giovani Pari che cavalcavano al seguito di Carlomagno, sui campi da conquistarsi, e destinati ad esser guiderdone della forza di quei giovani prodi, ricompensa delle vittorie vinte in una lotta corpo a corpo, a colpi di spadoni giganteschi e di mazze ferrate, sotto il peso di quelle montagne di ferro che si chiamavano armature! E quando Sacha Dzworoff, quel gingillo di omiciattolo, sempre al tu per tu colla minaccia della bara, quel giovane che rideva, che mordeva per non pensare, si trovava accanto a quell'uomo sì bello, sì pieno di vita e di affidamento alla vita, a quell'uomo, la cui vecchiezza giungerebbe sì tarda e durerebbe sì lunga, mentre egli, suo coetaneo, sarebbe da tanti anni scancellato dal novero dei viventi, egli sentiva quasi di odiarlo, soffriva di un doloroso bisogno di tormentarlo. Provava un continuo sospetto della calma e dell'ostinato buon umore col quale Rescuati evitava ogni [144] urto di parole, ogni occasione di discussione. Fosse pietà?... la terribile pietà ch'egli trovava sempre, così tenace, così insultante attorno a sè! Vedendolo, provava delle orripilazioni nervose, che Roberto ignorava serenamente.
Quella moderazione non era stata fraintesa dagli amici di Roberto e tutti l'approvano in lui, benchè alcuni maligni pretendessero, sotto voce, che molti dei frizzi di Sacha, Roberto li tollerasse anche perchè non gli apprezzava sufficientemente. Era, per gli sfaccendati, un vero divertimento il vieppiù stuzzicare i sentimenti di Sacha su quel proposito! La duchessa d'Accorsi poi, pareva essersene fatta una missione speciale. Al sarcasmo esacerbato di Sacha univa talvolta il suo, più moderato e più ambiguo. Per Sacha era un immenso conforto ogni visita in casa d'Accorsi. Di raro vi incontrava Roberto e sempre poteva sparlare di lui.
Una sera capitò, giubilante.
Gliel'aveva fatta a colui! Portata via, soffiata, proprio sotto il naso, una stupenda cagna Newfoundland... oh una bestia enorme, gigantesca, adorabile!
Per un caso provvidenziale aveva saputo che colui, l'Adone, si struggeva di comperarla. Figurarsi! Come se una bestia così intelligente dovesse aver l'umiliazione di appartenere ad un padrone così sciocco! Fortuna che quel tirchio era stato a tirar [145] di prezzo e aveva indugiato un giorno. E lui... s'era preso il gusto di fargli trovare, l'indomani, un bel pugno di mosche!
A dir vero, oltre il gusto d'averla fatta all'Adone, Sacha s'ebbe quello d'esser bellamente giuntato dal canattiere che aveva odorato il puntiglio e vendutagli la cagna pel valore circa di un discreto cavallo. Nè questo fu il solo profitto di Sacha, il quale, volendo far stizzire «colui», annunziò che avrebbe trionfalmente fatta alle Cascine la presentazione ufficiale della cagna, da lui battezzata Vittoria. Ma giunto il giorno prefisso, il tempo era pessimo, pioveva e una tramontana orribile scuoteva le cime delle alte piante con dei lugubri ouh!... ouh!... Certo, il medico non permetterebbe a Sacha, di uscire quel giorno, al più verrebbe nel suo brougham. Ma che! All'ora fissa apparve la solita vittoria di Sacha coi cavallini bai. All'interno, al posto della signora, stava, tutta avvolta in un gualdrappone di piuma, la cagna, enorme davvero e bellissima, e al suo fianco il padrone infagottato in non so quante pelliccie di volpe azzurra, frammezzo alle quali sbucava fuori la faccetta pallida e maliziosa illuminata dalla gioia della celia.
Giunto al Piazzone, con quel po' po' di vento e di fresco, egli fece fermare la carrozza, presentò Vittoria agli amici, poi condusse tutti da Doney per un lunch d'onore alla cagna. Al trionfo non mancò [146] che la presenza dell'umiliato avversario, Berto, il quale avendo dei polmoni modello, non s'era curato quel giorno di andarli a compromettere alle Cascine e si era invece tranquillamente recato a far visita alla contessa Elisa.
Sacha si divertì immensamente in quell'occasione, ma tornò a casa colla febbre e stette a letto quindici giorni. E Vittoria, ch'egli frustava a sangue per insegnarle delle grazie bojarde, gli scappò un bel mattino e il cocchiere, che sapeva dov'era, le serbò il segreto e la vendette poi ad un americano di passaggio a Firenze.
Ma il cattivo esito della prova non scoraggiò l'animosità di Sacha. Quand'anche avesse voluto mitigarla nell'animo suo, c'era sempre la Duchessa a rinfrescargli la memoria con mille punzecchiature.
— E così, Sacha... la vostra simpatia? Decisamente vi credevo più immaginoso! È vero che siete diventati Damone e Pizia, o i due fratelli siamesi?
E ciò indifferentemente, a quattr'occhi, o davanti alla gente, tanto che Sacha si arrovellava sempre più e avrebbe dato dei tesori per poter dar sfogo alla stizza che lo rodeva e che tutti si divertivano a fomentare.
Un giorno la duchessa si trovò sola con Sacha.
Egli era in uno di quei momenti d'estrema irritabilità nervosa che in lui solevano avvicendarsi a lunghi periodi di prostrazione. Stava muto, accigliato... soffriva.
[147]
— Ebbene, — diss'ella sbadatamente. — Cosa ne fate del vostro caro amico Rescuati?
Sacha scattò sulla seggiolina.
— Non me ne parlate. È un essere impossibile. Non c'è modo d'irritarlo. Quasi, quasi...
— Rinunziate? — interruppe Ginevra con una intonazione sì sottilmente beffarda che egli trasalì, come se avesse toccato un colpo di scudiscio.
— Non credo — disse poscia, con accento di assunta indifferenza. — Aspetto soltanto.
— Oh! aspettate! E cosa di grazia?
— Un'occasione. Ma non vorrei che arrivasse in ritardo per me. Ciò farebbe il giuoco di quell'imbecille.
La Duchessa alzò le spalle.
— Non dite corbellerie, Sacha. Volete invece un consiglio? Il consiglio di una buona amica?
Egli ebbe un moto del capo sì espressivo, uno sguardo sì vivace, sì pieno di comica malizia interrogativa, che la Duchessa non potè reprimere uno scoppio di risa.
— Grazie! — esclamò. — Ma ho voglia di consigliarvi e se il consiglio non vi pare da vera amica, non lo seguirete, ecco tutto. Ci tenete realmente a dar sui nervi a Roberto Rescuati?
Un eloquente scintillar dello sguardo di Sacha fu la sua risposta.
— Ebbene, udite. Avete portato via a quel giovine [148] una bestia ch'egli voleva comprare, poi, mi fu detto, un appartamento che desiderava prendere a pigione. Non c'è male. Ma non avete pensato a un'altra cosa... qualcosa di molto più elementare.
Egli non comprendeva ancora.
— Sarebbe?... — chiese ansiosamente.
Ella rise in modo bizzarro. — Andiamo, via. Che proprio, colla vita che avete fatta, non abbiate a supporre ciò che può premere ad un giovane, oltre i cani e la casa...
Non essa, ma un lampo del suo occhio grigio completò la frase.
— Ah, triplice imbecille che son io! — sclamò Sacha balzando in piedi. — Non averci pensato prima! Ma certo! l'Augellin Bel Verde!
Ella assunse un'aria scandalizzata. — Oh... oh... Sacha! — Ma rovesciò il capo sul cuscino della poltrona, ridendo sonoramente.
***
— Ebbene? — gli chiese quindici sere dopo, quando furono soli per un momento nel palco di lei, al Niccolini.
Egli era trionfante.
— Colpo riescito! — rispose più drammaticamente dell'attore che agiva sulla scena in quell'istante. — Ma ce n'è voluta dell'eloquenza! Figuratevi; sosteneva [149] d'esserne innamorata! E poi, vedete, credo che trovasse la mia proposta non troppo vantaggiosa, viste le probabilità di pronta recessione nell'avvenire. Ed io ho sì bene compresi i suoi sentimenti che le ho fatta una modesta rendita per clausola testamentaria. Ciò l'ha decisa e ora siamo eccellenti amici.
— Sacha! — disse la Duchessa quasi severamente.
Egli inarcò le ciglia, con una maligna aria ingenua.
— Oh Duchessa! Siate giusta, mettetevi nei panni di quella povera ragazza!...
E s'interruppe, come colpito dal suono di una enormità.
— Ah! — s'affrettò poi a scongiurare — per pietà, Duchessa, non rilevate quest'atroce bestialità che mi è sfuggita. Perdonatemi e non avvelenate la gioia che provo pensando alla faccia che farà colui domani quando troverà vuota la gabbia e volato via l'Augellin Bel Verde. E se sapeste, Duchessa, che lettera commovente gli abbiamo scritta!
Ella non avvelenò la gioia di Sacha. Lo guardò bensì con una bizzarra, indefinibile espressione. Ma non ebbe tempo di dirgli nulla. Il Principe di Hetzengenfeld sollevava la portiera del palco e veniva a far visita alla duchessa d'Accorsi.
***
Gli amici comuni erano naturalmente informati della nuova trovata di Sacha, il quale però non credette [150] necessario, parlandone, di palesare che gli fosse stata suggerita da altri. C'era un'attesa, più o meno dissimulata, delle conseguenze di questo fatto. E Neri Speroni, punto scoraggiato dall'insuccesso della sua missione presso Dino Follemare in una circostanza non priva di analogia col caso di Berto Rescuati, non credette doversi privare del piacere di far qualche indagine presso l'amico marchigiano.
Con garbo però, con una certa cautela. Lo aveva visto a un'accademia di scherma e doveva avere un polso... colui! Trattandosi poi di una personcina quale era Madamigella Augellin Bel Verde, l'argomento era meno difficile a intavolare e Neri non ebbe a pentirsi d'aver toccato quel tasto con Roberto. A dir vero questi non s'era dilungato in grandi spiegazioni e si vedeva che aveva presa la cosa in modo splendido, con filosofia non solo, ma con spirito.
Qualcuno sostenne che quest'ultima espressione fosse un pochino arrischiata trattandosi di Roberto, ma Neri Speroni mantenne l'integrità del significato con spirito. Berto aveva mirabilmente celato il suo sdegno, dicendo con una frase felicissima, che il fatto accaduto era stato per lui un vero sollievo, visto il carattere e i capricci della bella infedele. Insomma, aveva perfettamente dissimulato il suo dispetto. Sacha aveva fatto un bel buco nell'acqua, malgrado la celebre clausola testamentaria e Berto era decisamente, assolutamente un ragazzo di spirito!
[151]
No, Berto non era un ragazzo di spirito. Ma aveva avuta una grande accortezza, l'accortezza che più giova a burlare gli scettici e gli indiscreti, quella cioè di dire semplicemente la verità.
[152]
Una domenica mattina, la contessa Elisa era a messa a Santa Maria Novella. Stava inginocchiata divotamente nella Cappella dei Rucellai, appiè della gentile Madonna, ch'è un dei pochi dipinti autentici del Cimabue. La messa era sul finire, quando parve alla Contessa di udire, dietro a lei, raccostarsi di un passo che le era noto.
Roberto! pensò meravigliata.
All'Ite Missa est, mentre s'alzavano pochi divoti riuniti nella cappella, quel passo si accostò maggiormente ed Elisa non ebbe d'uopo che di una leggera flessione del capo per avvedersi che non s'era ingannata.
Era Roberto infatti. Scambiarono un saluto ed un sorriso.
Ella abbreviò alquanto il suo ringraziamento, si alzò e disse:
— Che novità — con voce sommessa, lieta come era lieto in quel punto l'animo suo.
Egli si scusò, quasi.
[153]
— L'ho vista entrare... e non c'ero ancora stato in questa chiesa.
— Oh! — diss'ella scandalizzata — volete vederla ora? volete che vi faccia un po' da cicerone? Oh, un poco solamente, le cose principali.
Egli annuì con aria di comica rassegnazione.
E non ebbe a pentirsene. Il cicerone non fu nè pedante, nè indiscreto. Non era noioso il procedere con lei per l'ampia navata, sotto quell'austera e meravigliosa intralciatura d'archi, che, scemando di dimensioni a misura che s'appressano all'altar maggiore, offrono all'occhio una prospettiva assai più prolungata del vero. Nello sfondo delusivamente lontano allo sguardo, dell'altar maggiore scintillavano tremule le facelle dei ceri e la melopea d'un canto corale, seguito in sordina da un velato accompagnamento d'organo, si diffondeva, austeramente armoniosa, pel lungo e divoto spazio. Ogni tanto si vedeva una virile figura claustrale, intonacata e incappucciata di bianco, passare rapida oltre le cappelle, andare o venire dalla sacristia, l'artistica e suggestiva figura del Domenicano...
La Contessa accennò a Roberto solo le cose principali. Trattenuta da un benevolo desiderio di non annoiarlo, non si dilungava in quelle spiegazioni raffinate che le avrebbe permesso il suo vasto corredo di cognizioni storiche, ma i pochissimi particolari che diede al suo compagno erano improntati dell'intimo [154] sentimento del soggetto e sul suo volto intelligente era il raggio del senso d'arte, in lei sì fine e comunicativo. Egli pensava ch'era bella... la Contessa e punto noiosa.
Fecero insieme il giro della chiesa.
All'altar maggiore, si fermarono ad osservare gli affreschi del Ghirlandajo, ed ella ebbe cura di accennare al suo compagno le figure in cui il pittore volle tramandate ai posteri le fattezze di due grandi suoi contemporanei, Marsilio Ficino ed Agnolo Poliziano; ma Berto trovò irriverentemente che avevano l'aria un po' rimminchionita tutti e due. Ma alla cappella dei Gondi, di fronte al Crocefisso del Brunellesco, quel pezzo d'anatomia, nero e incartapecorito come un vecchio cadavere e che sembra riassumere in sè tutto lo spirito del verismo ascetico del suo tempo, Roberto frugò nella memoria e vi rinvenne un brano delle Antologie che avevano infestata la pace della sua adolescenza.
— Ah! — disse — quello della scommessa con Donatello!
Elisa ebbe un piccolo trasporto di gioconda meraviglia.
— Ah! sapete?
— Questo sì... Ma nient'altro, sa; nient'altro!...
Senz'avvedersene, avevano alquanto alzata la voce e una vecchia pinzochera, che labreggiava rosari lì accanto sui gradini dell'altare, si voltò a guardarli severamente.
[155]
Era sì brutta quella vecchia, sì arcigna, c'era nella occhiataccia data a quei due una sì stizzosa acredine di riprensione ch'essi si guardarono come due fanciulli colti in fallo e subito si trovarono a vicenda sì comici nel loro momentaneo sgomento che, per non cedere alla voglia simultanea d'un violento scoppio di risa, dovettero fare un vero sforzo. E si allontanarono.
L'incidente li aveva messi di buon umore.
Uscirono dal piccolo chiostro che dà in via degli Avelli.
Per un momento sostarono presso il lungo muro di cinta, incrostato di lapidi e di lastre di marmi bianchi e neri. Un gaio spettacolo si offriva ai loro sguardi.
La giornata era bellissima, serena, punto fredda e il cielo d'un vago azzurro chiazzato da nuvole bianche che non parevano annunciare nessuna cattiva intenzione. La piazza, che si chiamò a lungo bizzarramente di S. Maria Novella Vecchia e che è attualmente quella dell'Unità italiana, era inondata dal mite sole jemale. Dalle arterie delle vie Valfonda, Banchi, Panzani, Sant'Antonino e del Giglio, affluiva una corrente non interrotta di persone. L'elemento elegante non primeggiava in quella folla pedestre, composta visibilmente di popolino e di minuta borghesia. Ma la parte femminile di queste classi ama i colori lieti e le pennellate di tinte tenere o vivaci, [156] e chiazzava luminosamente il suo percorso, riassumendosi in una sgargiante sinfonia di festoso colore. Costeggiando la folla, tentandola cogli allegri richiami delle fruste, batteva strepitoso il selciato un via vai di carrozzelle eleganti e pulite, spesso arrestate, colmate d'avventori e che ripartivano tosto con un ohe! trionfale dei cocchieri. Venditori ambulanti di torroni e di aranci aprivano tra la folla dei varchi segnalati da una nota ancora più spiccata di colori fiammeggianti e qua e là si alzavano nell'aria, trattenuti dalle cordicelle, riunite nella mano del venditore ambulante, i palloni di vescica rossi, verdi, azzurrini, che danzavano in alto, urtandosi lievemente, in una molle ridda di evoluzioni.
C'era in quello spettacolo qualche cosa che rallegrava gli occhi e il cuore della contessa Elisa. Ella si rivolse al suo compagno:
— Quanta gente e che bella giornata, nevvero?
— Sì, — rispose Roberto, senza entusiasmo alcuno. — Ella è avviata a casa? Mi permette di accompagnarla?
— Oh! figuratevi... Ma non voglio trattenervi; avete certamente qualcosa da fare. E... non vorrei rientrare subito. È così splendido questo sole e tutto ciò è così lieto!
La letizia di tutto ciò pareva riflessa sul suo volto, fresco, in quel momento, e sorridente come quello di una giovinetta.
[157]
— Ah! — osservò Roberto, — le piace questo popolo festante? Io preferisco gli altri giorni. Ma, non importa. Ha dei progetti?
— No... cioè sì... Ma veramente non voglio privarvi...
— Non mi privo di nulla, cara Contessa. Vengo perchè mi fa piacere di venire. Se mi vuole, ben inteso. Dunque?...
— Dunque, figuratevi che da tanto tempo ho voglia di andare a Boboli... Ci sarete stato, certamente.
— Io? no, neanche per idea. È una buona pista per i cavalli?
— Ma che, è un giardino delizioso.
— Ah... sta bene. Boboli, dunque... È lontano?
— Non tanto. Si va a palazzo Pitti.
— Grazie. Non pensa certo di andare a piedi!
Essa, a dir vero, avrebbe preferito di fare una passeggiata; ma non volle contraddire Roberto, il quale, senza aspettare la risposta, tanto era certo del tenore di questa, aveva fatto al conduttore di una carrozzella che passava uno di quei cenni quasi impercettibili che bastano a Firenze per attirarvi dattorno un nugolo di autodemonti, pronti a condurvi in capo al mondo, anche per mezzo prezzo, se avete il genio del contratto preventivo.
Ella si nicchiò in carrozza ridendo, col senso di commettere una stramberia gustosa. Roberto salì al suo fianco. Era di buon umore anch'egli. Come le [158] aveva detto, veniva appunto perchè gli faceva piacere di venire. Era il suo metodo, del resto; faceva sempre quanto gli accomodava di fare.
***
Boboli non gli dispiacque. Non c'era troppa gente, benchè fosse di festa. E la Contessa era di un umore così lieto, era così simpatica quel giorno!... S'arrampicarono su, proprio sino in cima al viale coperto, là dove si trova la statua dell'Abbondanza. Solo quando furono in cima, egli s'accorse ch'ella ansimava un poco per la fatica della salita che avevano fatta un po' troppo rapidamente per lei.
Espresse il suo dispiacere. Era stato un gran balordo. Era andato così di corsa, senza pensare. Ma ella lo interruppe subito. Aveva in realtà provato in quella rapida corsa, fatta al fianco di quel giovane dal passo sì vibrato, sì elastico, una strana sensazione di incitamento al moto. Il senso di un'accelerazione del sangue, di una energia nuova deliziosa, correva in tutto l'esser suo. Le pareva di avere ritrovata l'integrità di una forza muscolare del corpo che ella ricordava ora come una delle sensazioni tutte proprie della sua gioventù: le lunghe passeggiate ch'ella soleva fare in campagna, leggera, svelta, instancabile, col bisogno di una reazione dopo le lunghe immobili dimore nella biblioteca di suo padre. Con un rapido [159] gesto si tolse la veletta. La bianchezza dell'epidermide pareva essersi fatta più unita, più fusa sulle gentili fattezze, ed un roseo splendido e delicato si diffondeva sulle gote, dando agli occhi castani una lucentezza ed un risalto che li faceva sembrar neri.
Egli sedette ai suoi piedi per terra, in modo da poter veder lei e ad un tempo il panorama vaghissimo della città. Su questo fecero mille osservazioni, niente affatto sublimi, puerili anzi, meravigliandosi di quella distesa, del formicolìo di quella folla, che raffigurava tanti sciami di insettucci neri. Il sereno del cielo era scorrazzato da larghe nubi, che gettavano or qua or là sulla festante città, inondata dal sole, delle larghe chiazze d'ombra. Più giù, sotto i piedi di quei due, costeggiato a destra e a sinistra dal lungo viale di sempreverdi, nel suo isolotto colmo di piante, stava, gigantesco e bonario, l'Oceano del Gian Bologna.
Rimasero a lungo colà... senza avvertire che il tempo passava. Egli s'era un pochino allungato sul fianco, adagiandosi comodamente. Aveva gettato il cappello a terra e pareva completamente soddisfatto dei fatti suoi...
Non era nè stanco, nè vibrante come la Contessa.
Il suo volto aveva la mirabile freschezza rosea della gioventù. La Contessa ebbe ancora, guardandolo, l'impressione bizzarra di quel grosso mazzo di giacinti ch'egli stesso le aveva recati, il giorno in cui le era parsa così lunga la visita di monsieur Cholet.
[160]
Boboli non era affollato. Pochi salivano sino all'Abbondanza e quei pochi non davano noia a loro due. Passavano gettando su quel gruppo uno sguardo curioso ma scevro da pettegolezzo. Elisa e Roberto s'indugiavano nel piacere della quiete, d'una vaga contemplazione e di qualche chiacchiera indifferente per sè stessa, ma dalla quale traspariva la confidenza e l'intesa che s'era venuta rapidamente stabilendo fra loro, un'affettuosa e geniale intimità, a cui contribuivano del pari l'indulgente benevolenza della signora e la franca accettazione di quella benevolenza da parte di Roberto.
A un tratto, dopo una pausa di silenzio, la contessa Elisa ebbe, involontaria, incosciente, una piccola scossa del capo, che rispondeva ad un subito pensiero.
— Che ora sarà? — chiese a Roberto. — Non ho qui l'orologio.
Egli trasse il suo e lo guardò, ma non disse l'ora.
— Cosa le importa? disse. — Non si sta bene qui?
— Oh sì — rispose Elisa ridendo. — Ma deve esser tardi.
— Ebbene, scusi, che obbligo ha di rientrare a ora fissa? Ovvero sta male qui?
— Oh Berto!... Ma è tardi, me ne accorgo. E poi, guardate, mi pare che si guasti il tempo.
Accennò col suo ombrellino una massa di nubi che andava formandosi compatta e che velava sui loro capi l'azzurro del cielo.
[161]
Ma egli non se ne inquietò affatto. Non aveva sufficiente esperienza della rapidità colla quale si scapriccia il tempo fiorentino.
— Passeranno! — disse con grande filosofia.
Ella insistè, cionullameno. Le pareva che l'aria mossa, frizzante le dicesse all'orecchio: Andatevene, voi due.
— Davvero, credo che sia un po' tardi. E poi, anche per voi... per le vostre occupazioni.
S'alzò, con una mossa impercettibilmente nervosa.
A un tratto, la colse vivido il pensiero di una persona che poteva attendere Roberto, meravigliarsi della sua lunga assenza... E, come per istinto, provò il desiderio acuto, sprezzante, di non esser causa dell'indugio. Ma in pari tempo una violenta ondata di sangue le affluì al volto, inondandolo di una splendida porpora.
Roberto non si alzò, neppur vedendola in piedi.
La guardava di sotto in su e nell'occhio di lui si destava un'attenzione bizzarra.
— Le mie occupazioni? — disse dopo un momento.
E subito si decise a farle una confidenza.
— Le mie occupazioni, dice?... Ma non sa che da un mese non ne ho più e che son libero come l'aria?
Ordinariamente, non si fanno a una signora di queste confidenze, specialmente se non sono sollecitate. [162] Ma a una signora d'esperienza, che conosce il mondo e la vita, che ha parecchi anni più di voi e che vi tratta come un figliuolo... è un altro conto!
Ella non finse di non capire! Aveva capito tanto bene! Così bene che la trasfigurazione di una gioia sublime era già sul suo volto!
Sedette ancora e, forse senza accorgersene, porse una mano al giovane.
— Oh Roberto! Roberto!
Roberto prese quella mano ed ebbe il supremo buon senso di non entrare in particolari. Già; non avevano mai parlato di ciò. A che farlo ora? Poi a lui seccavano le spiegazioni. Non disse che fosse o no merito suo, questa libertà riacquistata. Così rimase solo ed incolume agli occhi di lei il fatto ch'egli era libero... come l'aria!
Forse la sensazione di quell'aria di libertà le impedì di accorgersi che un'altra aria, quella del cielo, si divertiva dispettosamente a chiamar le nubi da tutte le parti per riunirla su Boboli. Ce l'aveva con Boboli il cielo, quel giorno. Laggiù, sui Lungarni, pieni di gente, sfolgorava il sole...
Roberto non lasciò andare quella mano. Disse sommessamente, come un ragazzo che sa di essere stato buono e con quella musica curiosa che Dio aveva messo nella sua voce di monello ben educato:
— È contenta?
Ella, colla semplicità estrema che pareva a volte imparare da lui, rispose tranquillamente:
[163]
— Sì!
Oh! se lo era! Ah! quell'anima tanto raccomandata a lei, quella vita ch'ella aveva assunto di proteggere, quell'esistenza sulla quale ella imparava ch'era dolce il vegliare come è dolce il vegliare i sonni di un figliuolo, s'erano sciolti, liberati da un giogo indegno e triviale...
— Sì — disse ancora, mentre l'interna emozione dava al suo accento un'intensità tremula:
— Roberto, ciò non era degno di voi!
Roberto, nella sua eletta sincerità, fece un piccolo esame di coscienza e pensò umilmente che... l'Augellin dal volo infido non era poi neanche tanto da disprezzarsi, dopo tutto. In fondo non si considerava nè tanto colpevole, nè tanto privo di buon gusto!... Ma egli non contraddiceva mai le signore e la Contessa, in quel momento, era splendida di un misterioso splendore, che lo colpiva e gli faceva un effetto speciale.
Un'emozione colse anche lui, un'emozione ch'egli ebbe il talento di non definire nè a sè stesso, nè a lei. Lasciò ch'essa ardesse tranquillamente nei suoi occhi, quei bellissimi occhi bruni un po' infossati nell'arco... cinti di una sfumatura d'ombra, qualcosa come un vago azzurro entro cui lo sguardo pareva incupire e tingersi di una squisita espressione d'indefinito.
— Segga dunque, diss'egli tranquillamente.
[164]
Ella aveva al collo un lungo boa di piume bleu marin. Egli tirò dolcemente a sè un'estremità di quel boa e si carezzò con esso le guance, con un piacere infantile di quel contatto tepido e leggero.
Elisa sedette ancora, ma per rialzarsi vivacemente, dopo un minuto.
Le nuvole, lassù, s'erano ad un tratto decise a una capricciosa crisi di piova. Sul terreno battevano con un picchiettìo secco, gaiamente sonoro, dei goccioloni radi.
Egli s'alzò lentamente, come a malincuore, e guardò in aria con una smorfia.
— È una nuvola che passa. Non vai la pena di muoversi.
Ma Elisa si assestò il boa attorno al collo ed aprì l'ombrellino.
— Sì... sì... vedrete fra poco. Bisogna far presto, se vogliamo trovar giù una carrozza libera.
Egli si guardò d'attorno: — Allora, scendiamo pel viale; faremo più presto.
Si misero a destra pel viale ormai solitario. Il subito velarsi dell'atmosfera metteva una penombra fresca nel lungo corritoio verde in discesa, costeggiato da due pareti di foglie, sotto una volta di uguale contesto. Ai goccioloni d'avanguardia era successa una pioggerella regolare, minuta, di una tonalità quasi musicale, nella moderazione sussurrata del suo accento.
[165]
La discesa era piuttosto ripida. La Contessa rialzava con una mano la gonna che, un po' lunga, strisciava sul terreno. L'altra mano era impacciata dal manicotto, l'interno del quale era occupato dal fazzoletto e da un piccolo libro da messa, che minacciava sempre di scivolar via. Poi, c'era l'ombrellino, da reggere.
Roberto si fermò un istante.
— Permette?
Le tolse il libro da messa che mise in tasca, le tolse l'ombrellino, poi le porse il braccio, ch'ella prese senza esitare.
— Così... da brava, si appoggi.
Elisa passò il suo in quel braccio sì giovane e sì forte. Egli le teneva aperto sul capo il piccolo en tout cas e reggeva il suo passo nella discesa... La subita piova faceva sdrucciolevole il terreno; due o tre volte, la leggerissima calzatura di lei, urtando contro un sassolino, la fe' lievemente inciampare. Ma sempre il braccio di Roberto la sostenne, ed ella allora sollevava su di lui lo sguardo sorridente e grato. Ed egli ripeteva pure sorridendo: — Ma si appoggi dunque...
Erano vicini vicini, sotto il piccolo ombrello, che a mala pena riparava le loro teste. Egli avvertiva il leggero, appena percettibile profumo di violetta giapponese che usciva dall'interno del manicotto. E da quell'interno sbucava pure sino all'avambraccio [166] una mano lunga, elegante, coperta di pelle di Svezia, che poggiava, leggera leggera, sul braccio di Roberto.
Un momento, senza saper come nè perchè, rallentarono il passo... Poi si fermarono... Roberto chiese alla Contessa s'ella fosse stanca... Ma ella scosse il capo senza parlare. Ascoltava il tac tac, lieve, misterioso delle goccioline che cadevano sulle foglie con una cadenza più affettata. Poi le sue finissime nari ebbero una lunga, quasi nervosa aspirazione, mentre i suoi occhi si socchiudevano alquanto.
— Sentite, Roberto, l'odore della terra bagnata? È la mia passione.
C'erano veramente nell'aria i vaghi sentori di quel profumo di buccaro, che il Medio Evo, nel bizzarro lusso della sua sensualità, ha saputo utilizzare. C'erano ancora delle esalazioni indefinite, qualcosa come un vago accenno di lontana primavera.
Di nuovo si misero in via, ma senza affrettare il passo. Il volto di Elisa era tutto un sorriso dolce e affettuoso... Provava un senso affatto nuovo per lei... quasi il senso d'una protezione ricevuta, non data, l'impressione di sentirsi condotta e guidata da quel giovane sì forte, sì bello. Ed egli aveva saputo liberarsi da quella indegna schiavitù, ella poteva ora occuparsi di lui, influire sui suoi buoni istinti... adoperarsi per quell'anima che doveva aver tanto di [167] buono, di suscettibile al bene. Libero ora... era libero!
Lo guardò con una subita inconsulta espressione di tenerezza e d'orgoglio; il suo sguardo fu in quell'istante sì luminoso e sì dolce ch'egli provò una repentina, indefinibile sensazione... Strinse un pochino il braccio che posava sul suo e le sussurrò: — Cosa pensa... adesso?...
Elisa provò una piccola scossa. Che domanda curiosa! Ma dopo tutto, perchè non dire il vero?...
— Penso a voi — rispose dolcemente.
Egli si fece ancora più presso.
— E poi? — sussurrò con un'aria di monelleria, ove entrava una latente, esitante tenerezza.
— E poi — continuò Elisa sorridendo — penso quanto sarebbe contenta... vostra madre.
Aveva detto il vero, cioè quello che era, passato, colla parvenza del vero, nella purissima anima sua. Le aveva morso il cuore in quell'istante l'idea di quanto dovesse esser debole Tecla nel suo affetto materno, scusabile nella sua cieca adorazione del figlio. Così ella aveva velato a se stessa il suo pensiero!...
Roberto non rispose. Si morse vivamente il labbro inferiore. Un rossore impetuoso salì alla sua fronte e una durezza si accese nel suo sguardo.
— Ah! — disse brevemente — grazie tante!
L'accento era scevro d'ogni suono di gratitudine; [168] suonava anzi così acre ch'ella si voltò meravigliata a guardarlo.
Lo vide sì rannuvolato in volto che gli chiese con sollecitudine:
— Non vi sentite bene?... Che viso scontento!... Potrei quasi rivolgervi la domanda che mi avete fatto un momento fa: A cosa pensate?
Roberto ebbe un piccolo riso nervoso. — Penso ora per l'appunto, cara Contessa, una cosa che avevo scordato un momento fa. Un appuntamento con Neri Speroni, alle tre.
L'osservazione, fatta così, non aveva un'apparenza cortese e la Contessa n'ebbe un senso sgradito... il senso d'una puntura di spillo. Ma subito la sua bontà e la sua indulgenza ebbero il sopravvento:
— Mi spiace di questa dimenticanza — disse affrettando il passo... — è colpa mia. Ma non sapevo; avreste dovuto dirmelo.
— Oh! non importa. Infatti, avrei dovuto pensare... Scommetto ch'ella mi considera ora come un ragazzo male educato.
— No... — diss'ella sorridendo. — Ma che andate pensando, Roberto?
— La verità, Contessa. Ovvero — no... scommetto invece ch'ella ha per me dei tesori d'indulgenza, ispirata dal suo cuore... materno.
L'accento aveva un'acrimonia bizzarra, una ironia alla quale la Contessa non era preparata. Avevano [169] passate assieme così piacevolmente tutte quelle belle ore con tanta confidenza, così lieti! E adesso...
Scosse il capo dolcemente e scherzando: — Niente affatto — disse: — sono in collera. — Ma andiamo un pochino più in fretta. Piove sul serio, sapete?
Infatti la piccola piova prendeva l'aire d'un acquazzone, ed essi erano ancora lungi dall'uscita. Presero a camminare frettolosi e in silenzio, scambiando poche parole. E quando giunsero allo sbocco sotto il portone di Palazzo Pitti, Elisa era un pochino trafelata, perchè davvero aveva fatta una bella corsa. Pioveva ora che Dio la mandava.
Nel momento in cui erano giunti a riparo, ella aveva spiccato il suo braccio da quello di lui. Con sua grande sorpresa aveva sentito un lievissimo moto di resistenza. Ma poi, subito, l'aveva lasciata libera.
Roberto offrì d'andarle a cercare una carrozza e la lasciò sola per un momento. Tornò poco dopo colla carrozzella, che aveva agevolmente trovata. Nell'entrare in carrozza e vedendo ch'egli stava per accomiatarsi, Elisa gli chiese se volesse venire con lei. Lo lascerebbe al Club o a casa sua, come credeva.
Egli ricusò; preferiva andare a piedi.
— Con quest'acqua? Roberto, non vi farà male?... E poi, il vostro appuntamento?
— Oh non importa. E non soffro dell'acqua.
S'indugiava, come suo malgrado, presso la carrozzella. Elisa gli porse una mano.
[170]
— Allora, addio Roberto... e grazie della cara compagnia. È stata una giornata piacevolissima, e... se sapeste come mi ha fatto piacere! Mi avete fatta rivivere una specie di gioventù... Non venite proprio?... Dunque, a rivederci presto, nevvero?...
Egli s'inchinò, mormorando qualche parola cortese, poi si ritrasse con un cerimonioso saluto. La carrozza mosse celere verso via Toscanella. La Contessa frenò un impulso, quello di sporgere il capo fuor dal mantice calato per vedere ancora una volta quella bellissima faccia di Roberto Rescuati. Non lo fece; si spinse indietro, rannicchiandosi nel suo cantuccio.
— Come è capriccioso; — pensò, — come si è stancato così ad un tratto! Ma... è libero, ora, è libero...
Come strepitava lieta la piova sul lastricato, come trottava allegro il ronzino del fiaccheraio! Come echeggiavano sonore nell'aere le sue scudisciate! Perchè si era stizzito, all'ultimo, Roberto? Glielo chiederebbe subito la prima volta che verrebbe da lei: domani, forse...
Ma nè l'indomani, nè dopo, Roberto venne da lei. Invano ella non uscì per attenderlo, invano, ad ogni oscillazione della portiera riflessa nello specchio, ella alzò il capo, quasi commossa, nell'attesa del noto e simpatico aspetto. Il suo capriccioso figliuolo pareva avere scordata la strada della palazzetta in via S. Gallo.
[171]
Lo attese, stette in casa parecchi giorni, per non perdere la sua visita. Strano che le mancasse così... Perchè non veniva più? Se lo chiedeva ogni tanto con una specie di bizzarra angoscia. — Pure, ora... era libero. — Come occupava il suo tempo?
La domanda la crucciava, iterandosi di frequente nel suo pensiero... Ora la riferiva a Tecla... ora al suo progetto per Marina. Sicuro; per Marina. — Perchè anche stavolta le cose non si mettevano bene. — E forse un pochino per colpa sua... perchè non s'era adoperata abbastanza. — E ora correva una voce strana, di uno strano matrimonio in vista per la giovane Negroni. E se fosse colpa sua quel matrimonio... colpa di una vendetta del destino sul suo poco zelo, sulla sua negligenza a procacciare il bene di Marina, la felicità di Roberto?
Un timore la coglieva quando pensava a ciò.
[172]
La duchessa d'Accorsi aveva dato il suo primo gran ballo della stagione subito dopo Natale e così splendidamente inaugurato il carnevale. Dino Follemare era tuttora in Inghilterra e il principe di Hetzengenfeld non accennava a partire. Era uno degli ospiti più assidui di casa d'Accorsi. Un fascino lo tratteneva evidentemente e nessuno discuteva questo fascino. Si era abituati ai miracoli della duchessa Ginevra.
Sui primi dell'anno ci fu, per occupare le buone lingue, un altro piccolo avvenimento, il matrimonio di Luciano Carisi. Delle nozze era stata consigliatrice ed auspice la duchessa d'Accorsi. Oh! ella aveva sempre protetto Luciano Carisi.
Da nove anni egli abitava a Firenze, in occasione d'un impieguccio conseguito. Era siciliano, piombato anzi dalla più lontana provincia del Mezzogiorno d'Italia.
Quando venne aveva vent'anni, era povero e poeta. Ma poeta davvero. La sua lira aveva delle [173] corde vergini, vibrate, stridenti di un'armonia genuina e selvaggia. Egli stesso somigliava alla sua lira, colla sua strana originalità d'aspetto e di modi, con un nonsochè di attonito, di eccitato nella bruna, nervosa faccetta dal tipo Arabo. Quando la Duchessa lo conobbe, per mero caso, indovinò in lui un avvenire e le piacque avviarlo e farlo conoscere in un mondo ove egli non avrebbe certo mai creduto di poter penetrare. Stentava la vita col prodotto dell'impiego e col suo lavoro letterario. Scriveva versi ardenti, saturi ancora dell'ispirazione locale del suo paese, delle calde passioni popolari. Una specie di brutalità grandiosa e sonora scaturiva, come una bolla irruente, dalla maschia originalità di uno stile primitivo, ma robusto. Scriveva anche in prosa articoli di polso, pieni di poesia, illustrando storicamente la sua Provincia. Ma poco ne ricavava. Era altiero e male avveduto.
Le sue sorti mutarono quando la Duchessa si assunse caritatevolmente l'incarico di dare un più pratico indirizzo all'ingegno di quello ch'ella chiamava ridendo «il Figlio delle Selve.» Dire che l'opera buona non suscitasse qualche maligno commento sarebbe troppo asserire! Audace del pari tornerebbe l'asseverare che i maligni avessero tutti i torti... Certo è che una influenza pesò, benefica in un senso, deleteria nell'altro, sul carattere e sull'avvenire di quel giovane. Egli acquistò rapidamente disinvoltura, [174] garbo, uso di società; imparò ciò che piace ai più, seppe ciò che lo spirito deve lasciarsi dietro come un bagaglio inutile, per correre più spedito sulla via del successo. La penna selvaggia, dagli acri vigori, si fe' gradatamente più gentile, più discreta, accettò l'innesto dell'articolo corrente in fatto d'arte e di modernità. La fiera, squillante lira del montanaro mise una sordina alle sue corde più vibranti. Queste si fecero sottili, argentine, il loro suono acquistò il timbro equivoco di un elegante cinismo stuzzicante. Il poeta e la sua musa divennero mondani, attillati, si tinsero d'un'ibrida tinta tra heiniana e d'annunziana che entusiasmò specialmente le signore. Il Figlio delle Selve divenne inappuntabile nei modi, si fe' quasi un gentiluomo. Era l'ospite obbligato di tutte le feste, di tutte le partite, i suoi volumi erano dedicati a parecchie fra le signore dell'Olimpo fiorentino. Ebbe delle avventure, dei duelli. Viveva da signore, dacchè gli editori lo pagavano bene. Imparò a distinguere gli amici utili da quelli che non lo erano, ad evitare i colleghi a cui il successo non sorrideva, a comporre commedie gentili, incipriate, che si recitavano nei salotti con immenso plauso e ch'egli metteva stupendamente in scena. Dirigeva i cotillons artistici della Duchessa, dava alle signore dei preziosissimi lumi quando l'annunzio di un ballo in costume metteva sottosopra tutte le teste e le vanità femminili, insomma la Duchessa poteva esser [175] fiera dell'opera sua. Aveva trovato un ingegno reale ma ineducato, lasciava un ingegno ammansato, civilizzato, assai più utilizzabile. Aveva realmente diritto alla gratitudine «del Figlio delle Selve.»
Ma volle compiere l'opera sua.
Il giovane non lavorava più come prima. Il lavoro suo era attualmente meglio retribuito, ma egli non si contentava più della semplicità parca del tempo in cui egli era rozzo e non conosceva la duchessa d'Accorsi. La vita del giovanotto elegante è cara, carucci anzichenò i successi sicuri di un'operetta artistica, carissime poi le avventure, specialmente quando si tratta di persone per le quali deve essere naturalmente bandita ogni ignobile preoccupazione finanziaria. Egli s'era abituato ad un'esistenza signorile. Pur di continuarla seguì dolcemente, con mirabile abnegazione e libertà di spirito, i consigli della sua nobile protettrice. Chiese ed ottenne la mano di una giovane forestiera, sulla cui origine correvano voci poco favorevoli. Era bruttissima, ma assai ricca. E la Musa del poeta aveva d'uopo ormai ch'egli invocasse gli agi e le blandizie di una larga esistenza mondana.
La festa era stupenda quella sera in casa d'Accorsi e Luciano vi aveva condotta la sua fidanzata: una tedesca d'una bruttezza odiosa. Lo sposo era pallido, ma disinvolto. Molto del suo ingegno era diventato spirito ed egli ne faceva in quella sera un consumo straordinario.
[176]
Le sale erano stipate, ma tutto procedeva col mirabile ordine che aveva resi celebri i ricevimenti di casa d'Accorsi.
Il fiore della società fiorentina e forestiera sfilava per lunga fuga di sale illuminate con un eccesso di luce ch'era per sè sola una festa. Si ballava nell'immenso salone bianco e oro, la queue si formava all'uscio di destra, percorreva due sale processionalmente per giungere all'uscio parallelo a quello dond'era uscita e quivi sciogliersi nei meandri della danza, al suono dell'orchestrina celata nella galleria superiore in una nicchia di verdura. C'erano, quella sera, delle toilettes splendide, uno sfarzo insolito di gioielli; le signore, come le acconciature, erano fresche, non stancate ancora dai faticosi piaceri del carnevale. Una immensa prodigalità di fiori colmava gli angoli, i vani, quanto nello spazio era disponibile, senza ingombrare. E dovunque, nelle sale, nei salotti, nei gabinetti erano combinati recessi, nicchiette suggestive d'isolamenti, propri alle chiacchiere intime. Colà e in quei pressi, mentre la gioventù danzava sotto gli sguardi delle mamme e dei curiosi, si aggiravano coppie dall'andatura lenta, dai piccoli scoppi di risa represse, dai colloqui sommessi e sussurrati. Roberto, il quale errava senza ballare e coll'aria discretamente annoiata, sostò improvvisamente in uno di quei salotti.
Seduta su una delle tre poltrone circolarmente disposte [177] di un pâtè, stava la contessa Elisa. Parve a Roberto che dallo schienale della poltrona appoggiata a quella di lei emergesse qualcosa di nero, forse un braccio mascolino; ma di ciò egli non fece caso. Si accostò premurosamente, meravigliando di trovarla sola.
— E voi, come non ballate? — rispose ella — ciò è imperdonabile.
— Per carità, non mi tradisca. Sono sfuggito alla Duchessa, che voleva utilizzarmi presso una signorina forestiera. Sono sfuggito al supplizio cedendola ad un inglese di sua conoscenza. Mi lasci star qui un poco in santa pace.
Senza attender risposta, attirò a sè un morbido pouff, e sedette proprio dirimpetto alla Contessa.
— Ma davvero non ballate, Roberto?
— No, mi secca. E lei?
— Oh io... Ma la festa è magnifica, nevvero?
— Sì, splendida. Bisogna dire il vero. Tutto perfetto, riuscitissimo. È vero che la Duchessa fa le prove generali dei suoi balli, illumina le sale, dispone i domestici, i mobili, tutto insomma come dev'essere, due o tre sere prima?
— Dicono. Così è sicura del fatto suo, in ogni modo.
— Già... Per le feste e per tutto... nevvero?
L'intonazione dell'accento era alquanto monella.
Ma la contessa Elisa non incoraggiava le monellerie. [178] Finse di non aver capito e fece ancora l'elogio del buon gusto e della speciale arte di ricevere nella quale decisamente la duchessa d'Accorsi non aveva rivali. Poi gli chiese dolcemente:
— Avete visto come è splendida stasera Marina Negroni?
— Ah! — rispose egli con indifferenza. — Infatti, un magnifico granatiere.
— Avrete ballato con lei... spero?...
— Naturalmente, come padroncina di casa. Ma non so mai cosa dirle. Ora balla una conversazione col Principe tedesco. A proposito, è vero quel che si dice, che la Duchessa voglia far di sua figlia una Principessa regnante? Sarebbe proprio il colmo, nevvero? Dopo...
— Roberto! — interruppe vivamente Elisa con accento di rimprovero.
Egli rise. — Ecco com'è lei... Non si può dir niente. Bene; sia per non detto. Una bellissima festa. Com'è carino qui!
Era veramente carino: in quel gabinetto, tutto in raso azzurro pallido a riflessi perlacei nella luce discreta delle lampade dai globi velati di garze e di trine. Ci doveva essere negli angoli, nelle giardiniere, un'immensa quantità di mammole. Non si vedevano, ma un odore penetrante impregnava tutta l'atmosfera. A sommo del pâtè, sul quale sedeva la Contessa, un alto camerus diffondeva la pompa verdeggiante [179] dei suoi flabelli. Una di quelle foglie lambiva quasi la delicata testina col suo piccolo chou di piume bianche, in mezzo a cui scintillava tremolante, sulla montatura a spirale, un limpidissimo brillante.
Ella era in bianco. Dietro, un lungo strascico di raso, davanti uno spumeggiare leggero di trine ricchissime, qua e là trattenute da grossi mazzi di piume bianche. Le trine salivano sino alla scollatura modesta, appena tracciata sulla bianchezza immacolata dell'epidermide. Il collo, d'una meravigliosa rotondità e di una freschezza quasi verginale, era cinto da una riviera di brillanti, non molto grossi, ma di una purissima acqua. Fra le mani ella teneva un piccolo mazzolino di giacinti rosa e un enorme ventaglio di madreperla coperto di piume bianche di struzzo. Forse non lo sapeva di essere così squisitamente attraente in quel momento, in quel luogo, colla dolcezza tenera del suo sguardo, al tutto accaparrata dall'attenzione ch'ella prestava a ciò che le andava dicendo quel suo figliuolo, che protestava d'annoiarsi.
Veramente, in quell'istante, non aveva per l'appunto l'aria di un uomo annoiato. La guardava, sorridendo con una bizzarra espressione, che le ricordò Boboli... quella loro famosa gita!
A un tratto le chiese: — Permettete?... — E s'impossessò della sua mano; voleva veder da vicino un [180] braccialetto di minutissimo lavoro orientale, che cingeva il fine polso di lei. S'indugiò, come se studiasse quell'aurea manifattura.
La sua testa era chinata e prossima al busto di lei. Da lontano, dalla sala da ballo, giungevano gli accordi giocondi, spensierati di un valzer di Marco Sala.
Roberto ebbe un'idea curiosa. Senza lasciar quella mano, chiese alla Contessa: — Dica la verità, non è un pochino in collera con me?
Ella sorrise, poi disse: — Sì. Perchè non siete più venuto a trovarmi?
— Perchè? perchè temevo di seccarla. Perchè io so che è tanto buona e che ella mi trova un... — Si arrestò un momento, poi proseguì: — Ebbene, ha torto! L'accerto che ha torto.
Ella non capiva bene il senso di quella inattesa sortita, non capiva neppure perchè un violento rossore imporporasse la fronte di lui, perchè nei suoi sguardi si accendesse una specie di collera e assieme a questa un'arcana specie di luccicore.
— Come mai potete dir ciò, Roberto. Vi accerto...
— No, lo so, non ha voluto farmi dispiacere. Ma non sono uno sciocco, sa... nè un fanciullo. E solo perchè... No, la lasci stare dov'è, la sua mano.
Ella scosse il capo. — Ma, Roberto...
— No, no, — proseguì concitato il giovane, — non quell'eterna indulgenza! Scommetto che, a momenti, [181] uscirà a parlarmi della mamma e a dirmi che le ha scritto per darle nuove dei miei buoni diporti.
Elisa aveva una gran voglia di ridere, ma una irritazione, qualunque ne fosse la causa, era visibile in lui e un istinto tutto femminile le fece intuire ch'era meglio non contraddire quel fanciullo.
— Verrete domani a pranzo da me? — gli chiese dolcemente.
— Ha gente? — ribattè Roberto, raddolcendo a un tratto la voce e lo sguardo.
— No. Cioè.... potrei.
— Mi fa questo santo piacere di non invitar nessuno? Allora... sì. Ma badi, non voglio tradimenti.
— No — diss'ella, tentando ancora di ritirare la sua mano.
Roberto la tratteneva, ridendo, ed ella picchiava la mano di lui colla punta del grande ventaglio bianco, ridendo anch'ella d'un piccolo riso tra spensierato e nervoso.
A un tratto, alzando gli occhi, si accorsero che avevano vicina la padrona di casa.
Ginevra era vestita semplicemente quella sera, colla semplicità richiesta dalla sua qualità di padrona di casa.
Un velluto verde cupo cingeva, con audacissima scarsità di taglio, la forte persona, le ànche fortemente disegnate, il busto opulento, dalle arditissime [182] curve. Ella pareva ondulare, sirena, nella spoglia di un serpente.
— Ah! siete qui? — sclamò colla sua voce stridente. — Bravi! è questo il modo di far sciopero? A momenti finisce il valzer. Contessa, si ricordi che il Principe desidera di conoscerla. A proposito, avete visto Luciano Carisi?
Un lievissimo movimento si produsse nella poltrona dietro quella in cui sedeva la contessa Elisa, ma nessuno venne fuori da quel recesso avvolto in una penombra olezzante.
— No? — disse la Duchessa, vedendo che quei due movevano il capo ad un cenno di diniego. — Oh Dio... Dove si sarà cacciato? la signorina Helman lo va cercando. È molto chic nevvero quella signorina? Basta, bisogna che io scappi... Il buffet a momenti, cara Elisa... È un amore, stasera, splendida: badate, Rescuati, è una donna pericolosissima la Contessa; può far a meno di ogni coquetterie... Vi raccomando, in visceribus, se trovate Carisi, mandatemelo... Mi scusate, nevvero, se non mi trattengo?
Lanciò come una freccia l'ironia mordente di quella scusa e s'allontanò rapida, trascinandosi dietro il lungo strascico flessuoso.
Attraversò alcune sale e si fermò sulla soglia d'un salotto da giuoco, popolato soltanto di uomini. Socchiuse le palpebre per meglio acuire il formidabile sguardo e fece una rapida rivista.
[183]
— Dzworoff! — chiamò poscia con accento vibrato.
Il giovane buttò le carte sul tappetto verde e corse presso la signora.
— Volete rendervi utile? — gli chiese questa colla sua enigmatica precisione d'accento. Ma non attese risposta: — Andate nel salottino azzurro — proseguì; — c'è della gente che si diverte... Disturbateli; ciò vi divertirà.
Se ne andò senza voltarsi. Sapeva che Sacha avrebbe ubbidito.
Infatti, dopo un secondo d'esitazione, Sacha si diresse verso il salottino azzurro. Ma non potè giungervi subito. Il valzer era giunto alla fine in quel momento e le coppie accaldate si sparpagliavano per l'appartamento ingombrando gli sbocchi.
La contessa Elisa e Roberto erano rimasti immobili, dopo la rapida apparizione della Duchessa. Pareva ch'ella si fosse lasciato dietro un vago indefinibile sgomento, che Elisa tentò dissimulare dietro l'apparenza di una finta contrizione.
— Avete sentito, Roberto? turbiamo l'ordine della festa. Lasciatemi tornare in sala e voi rendetevi utile, mettetevi alla ricerca di Luciano Carisi.
— Grazie tante dell'incombenza. Come se ci tenessi a trovarlo, quel bel poeta colle sue arie tragiche. È un individuo che mi fa ribrezzo...
— Oh Roberto... che parolone!
[184]
— Ma sì, sì... — insistè il giovane, alzando la voce e dando sfogo ad un malumore che aveva forse tutt'altra causa. — Ha vista quella sua orribile sposa?... Un uomo che fa un matrimonio simile, nelle sue condizioni, è un uomo che si vende.
Non proseguì.
Un urto violento aveva scosso il pâtè; qualcuno era comparso, ad un tratto, fra quei due, gettandosi contro Roberto.
Roberto si dibattè un istante sotto la cieca stretta di Luciano Carisi. Elisa esterrefatta emise un grido. Quasi nello stesso momento apparve all'uscio la pallida figura di Sacha Dzworoff in cerca del maligno piacere promessogli dalla Duchessa. Senza rendersi conto di ciò che succedeva, ebbe l'accortezza di far rapidamente ricadere dietro di sè l'ampia portiera di velluto, poi corse fra quei due.
— Signori, — gridò — siete in casa d'Accorsi!
Quei due si separarono. Con un colpo difensivo, bene assestato, Roberto aveva respinto l'aggressore. Si guardavano ora frementi, pallidi, consci della gravità dell'accaduto.
— In nome di Dio, — sclamò Sacha frettolosamente... — non è questo il luogo. Una signora... la Duchessa...
Luciano Carisi era livido.
— Chiunque, al mio posto, avrebbe fatto così... Sono stato insultato... atrocemente.
[185]
— E io sono stato aggredito da un...
— Per carità... — interruppe Sacha — non uno scandalo... vien gente.
Infatti, l'onda dei reduci dal valzer si faceva sentire sempre più vicina, stava per invadere il salotto.
Quei due compresero. Compresero lo spavento col quale si dibatteva la contessa Elisa.
— Allora, a domani! — disse Carisi con subita calma e rivolgendosi a Roberto.
— A domani! — rispose questi con fredda alterigia.
Sacha Dzworoff non esitò un secondo. Infilò il suo nel braccio di Carisi e lo trascinò via.
Nell'uscire, sollevò la portiera e s'incontrò con una coppia che si dirigeva in cerca di riposo verso il salottino azzurro. La signora, che conosceva Dzworoff, lo salutò, ed egli la trattenne un istante, proprio sulla soglia, con un piccolo fuoco di fila dei suoi frizzi più gustosi, per impedire il passo quanto più si poteva e lasciar tempo a quegli altri due di riaversi.
Ma l'espediente non poteva prolungarsi troppo, ed egli dovè lasciar libero il varco.
Condusse Carisi in un corridoio, dove in quel momento non c'era nessuno.
— E ora, cosa contate di fare? — gli chiese perentoriamente.
[186]
— Di battermi — rispose l'altro — e all'ultimo sangue. — Volete esser mio padrino?
— Perchè no? — disse Sacha ridendo. — Non ho mai potuto soffrire colui... Ma voi, perchè siete così accanito con lui?
— Perchè ha detto la verità — rispose gravemente il montanaro.
***
La contessa Elisa non aveva frattanto seguito l'abitudine del più delle signore in siffatte emergenze; non era svenuta, nè si era lasciata sopraffare da una crisi nervosa. Il suo mento soltanto aveva un leggero fremito, ch'ella dominava, mordendosi il labbro inferiore.
Guardava Roberto intensamente, ed egli tentava di esser disinvolto. Ma era invece turbatissimo.
Una coppia era penetrata nel salotto, ma i due che la componevano erano molto occupati di loro stessi. Non così la susseguente. Guido d'Aspano e la sua ballerina andarono incontro alla contessa Elisa e bisognò ch'ella scambiasse con loro qualche frase. In quel mentre capitò Neri Speroni.
— È aperto il buffet — disse gaiamente. E scomparve.
L'annunzio aveva prodotto un movimento generale verso l'altra parte dell'appartamento. Elisa e Roberto si trovarono soli.
[187]
Per un momento, una suprema angoscia sconvolse le fattezze di Elisa.
— Roberto... — sussurrò — Roberto...
Egli strinse contro il suo il braccio di lei. — Mi rincresce per lei... Ma chi avrebbe pensato che fosse là dietro quell'imbecille. E ormai, è fatta.
Tre giovanotti, al seguito di una brillantissima signora, passarono ridendo e motteggiando con lei. Uno dei giovani guardò Roberto e la Contessa, poi si chinò all'orecchio della signora:
— È curioso; che aria tragica hanno quei due!
Passarono. Elisa si chinò verso Roberto.
— Consigliatevi con Geri Serristano... Non mettete di mezzo Neri Speroni. Siate calmo, ve ne scongiuro... Per... per vostra madre!
— Non dubiti, Contessa. Voglio farle vedere che non sono ciò ch'ella mi ha creduto ier l'altro... poc'anzi; che non sono un ragazzo. E allora... forse...
Tacque. Erano nella sala del buffet, splendidamente fornito e davanti al quale facevano sosta innumeri gruppi di convitati, fra i quali serpeggiava la Duchessa, col suo occhio di lince, accorta di tutti e di tutto. Uno spazio della sala era ingombro di tavolini, attorno ai quali sedevano le signore in attesa dei cavalieri che avrebbero conquistato per esse e per loro stessi il materiale della cena da farsi in comune, in un crocchio omogeneo. Il duca d'Accorsi si fe' presso ad Elisa.
[188]
— Contessa, desidera?... Consumé... Bordeaux?...
Ella stava per ricusare, quando le parve a un tratto di sentire che le venivano meno le forze sotto l'urto dell'interna emozione. Rispose affermativamente e mentre il padrone di casa si accostava al banco, ella disse a Roberto: — Lasciatemi ora. Laggiù c'è Serristano; andate a parlargli.
Il Duca tornava col consumé, ch'ella accettò e sorbì col sentimento di dover essere forte ad ogni costo. E mentre tentava di rispondere alle laconiche osservazioni del Duca, seguiva collo sguardo quasi ipnotizzato Roberto, il quale aveva raggiunto Geri Serristano e attendeva per parlargli che avesse finito di servire la sua dama.
Quasi simultaneamente vide Sacha farsi presso alla Duchessa e bisbigliarle qualcosa all'orecchio. La Duchessa aveva fortemente aggrottate le ciglia.
Alla Contessa pareva ora di vivere come in uno stato d'allucinazione. La grande luce della sala, l'acciottolìo dei piatti, il tramestìo dei domestici, il brusìo delle voci, le risate, gli appelli alla cena, il gorgoglìo dei vini zampillanti nei bicchieri, tutto quel caleidoscopio di toilettes femminili, a cui s'alternava il nero o il rosso delle giubbe mascoline, parevano determinare in lei la sensazione di una vertigine.
S'allontanò, lasciando libero il suo tavolino, subito invaso da un crocchio giovanile... Alcuni dei suoi fedeli vennero ad incontrarla, ed ella si vide costretta [189] a farsi presente a sè stessa, mentre una intollerabile angoscia pareva volerle spezzare il cuore.
La Duchessa passò rapida, senza vederla, seguita da Sacha, che le parlava vivamente. Ella udì solo una parola di lei, concitata: — Non voglio... non voglio!
Roberto raggiunse un istante la Contessa.
— Ebbene! — disse questa, sforzandosi a sorridere.
— Ho parlato con Geri. Accetta. Propone Guido San Firmino.
— Ah! E giudica... crede?
— Che domani Carisi manderà i secondi. Passerò da lei domani.
— Sì. Intanto siate calmo, nevvero?
— Altro che! — diss'egli ridendo. — Ma lei non si inquieti. Non è nulla. Anzi, è una cosa da prendere in ischerzo.
— Sicuro! — diss'ella e tentò di ridere. Ma lo sforzo fu così visibile ch'ella dovette sedere su una poltroncina vicina per riaversi alquanto.
L'orchestra ricominciava a suonare. Una nuova coppia passò rasentandoli. Il Principe di Hetzengenfeld dava il braccio a Marina Negroni e le parlava sommessamente. Ella era in bianco, pallida, correttamente splendida. Ascoltava ad occhi bassi le parole del suo compagno. Alzò gli sguardi freddi e luminosi solo quando fu davanti a quei due. Li fissò un momento, ma non tradì nè con una parola, nè con un [190] batter di palpebra l'impressione ricevuta dall'aspetto dei loro volti. Rispose, in tedesco, con perfetta calma d'accento, ad una domanda testè fattale dal Principe.
Il ballo procedeva allegrissimo, sempre più animato e brillante. La Duchessa, come sempre, pareva infondere nei suoi convitati una febbre di vivacità e di brio. Solo verso le tre, qualcuno disse vagamente ch'era accaduto qualcosa tra Carisi e Rescuati.
Il segreto trapelava. Una indiscrezione, forse, qualche parola detta a voce non abbastanza sommessa.
Non si sapeva. Cosa? Perchè?... Non bisognava dire... Le signore non dovevano sapere.
— C'era di mezzo una signora... Chi? La contessa Serramonti.
— No... Impossibile! Lei! Come?... A cagione di cosa?... Ma per lei... proprio per lei?
Il sussurro si diffondeva e la curiosità s'era fatta cocente.
Ma la gioventù danzava e la flirtation alata non ristava. Roberto si era eclissato e Luciano Carisi stava facendo le sue scuse alla sua fidanzata per un malessere che lo obbligava a ritirarsi in casa. Sacha, a cui il medico proibiva di ballare e di fumare, si era fatto centro di un circolo di mamme ancor giovani, coll'incarico di impedir loro di richiamar le figliuole che danzavano e la celia era inesauribile in quel crocchio. La contessa Elisa attese sino all'ora in cui aveva ordinata la sua carrozza. Allora soltanto [191] prese congedo, resistendo alle pressanti istanze della Duchessa. Quando questa si fu convinta che l'ospite voleva assolutamente partire, l'accompagnò sino alla anticamera assieme al Principe di Cannera, il quale doveva scortare Elisa sino alla carrozza. Mentre il vecchio gentiluomo si era allontanato per mettere il soprabito, Ginevra chinò rapidamente la sua bocca di serpente a livello dell'orecchio di Elisa.
— Coraggio! — le fischiò sommessamente. — Non tema di nulla.
Si ritrasse subito, con un sorriso amabile ed assestò meglio la pelliccia bianca al collo di Elisa. — Non pigli freddo, cara Contessa... Sono contenta che si divertano. Ora comincia il cotillon... A rivederci presto, nevvero?
S'involò mentre l'orchestra preludiava il cotillon, la danza che riesciva sempre così splendidamente in casa d'Accorsi. E affranta, pallida, colpita da un turbamento che ella non definiva e che pareva sconvolgere tutto quanto l'esser suo, Elisa scendeva le scale lentamente al braccio del Principe di Cannera, ascoltando gli elogi che il vecchio gentiluomo prodigava ai padroni di casa... Ma quella Duchessa poi... quella Duchessa... nevvero?
— Sì — disse quietamente Elisa.
Quando fu in carrozza, svenne. Ma solo per cinque minuti. Scese con passo fermo, dinanzi alla marquise della sua palazzetta.
[192]
I balli finivano sempre tardissimo in casa d'Accorsi. Battevano le dieci a Santa Trinità quando l'ultimo gruppo di convitati, gli intimi, rimasti per la colazione finale, si congedarono dalla Duchessa, dal Duca e da donna Marina.
Il Duca s'avviò verso le scuderie e Ginevra rimase nell'appartamento ove una squadra di domestici spegneva i lumi e spalancava le finestre.
Il passo della padrona di casa, il suo portamento non tradivano stanchezza alcuna, mentre ella passava per le sale in disordine, coi mobili fuori di luogo, coi tappeti sparsi di mille traccie della recente invasione di ospiti. Nella sala da ballo era un vero campo di battaglia: un polverìo roteante turbinava, dorato dai raggi del sole che entrava dalle finestre. Il pavimento era ingombro di lembi d'abiti, di fiori pesti, di coccarde, di reliquie del cotillon. Sotto il divano, una bella ciocchetta di capelli biondi rotolava leggermente, mossa dal vento fresco che alitava da un vicino balcone.
[193]
Ginevra diede ancora qualche ordine colla sua voce imperiosa e temuta. Poi si avviò verso il suo appartamento privato. Ma prima di giungervi, alzando una portiera, si trovò faccia a faccia con sua figlia. Malgrado i suoi venticinque anni, la giovane non aveva impunemente perduta la notte. Il suo volto recava nella cruda luce mattutina le traccie di una grande stanchezza.
— Che fai qui? — chiese attonita la Duchessa. — Perchè non sei coricata? Sai pure che alle tre abbiamo il concerto in casa Roscas. Hai bisogno di riposarti.
— Mi riposerò. Volevo parlarti...
— Allora ti prego di spicciarti. Non son di ferro neppur io, per tua regola. A meno che non fosse per darmi una buona notizia. A proposito, mi pare che la cosa abbia progredito stanotte. Il Principe viene al concerto, nevvero?
— Verrà. Ma non si tratta di lui.
— Ah! Allora si tratta...
L'accento era perentorio. Marina ebbe un leggerissimo moto d'esitanza.
— Si tratta — disse poscia — di qualcosa che è accaduto stanotte e che riguarda Luciano Carisi e Roberto Rescuati.
La Duchessa ebbe un piccolo scoppio di risa.
— Ah! quei due ragazzi. I miei complimenti, Marina, per esser così presto al fatto della cosa. Ti [194] credevo meglio occupata. Infatti, c'è stato un pettegolezzo.
— Che avrà conseguenze? — chiese Marina fissando sua madre.
In quel salotto stesso, poche ore prima, la Duchessa aveva avuto con Sacha Dzworoff un breve, concitato colloquio appunto sulle conseguenze del pettegolezzo. Il giovane russo aveva ricevuto delle precise istruzioni, che lo avevano alquanto meravigliato.
Ma la Duchessa alzò le spalle, sbadigliando lievemente.
— Chi può saperlo, mia cara Marina? Speriamo di no. E d'altronde, queste cose non si raccontano alle signorine. Ed ora ti consiglio ancora, fortemente, un po' di riposo. Stanotte eri splendida, ma stamane non sei a prova di luce. E poichè hai finalmente un buon gioco fra le mani, vedi di non gettarlo via come gli altri.
Si mosse per andare, ma la giovane la trattenne.
— Allora... — disse lentamente — non vuoi darmi altri ragguagli?
— Mia cara, sei decisamente curiosa. Non te ne do per la buona ragione che non ne ho io stessa. Oggi si saprà qualcosa. La tua amica intima, la contessa Serramonti, potrà forse essere più informata di me. Ma suppongo che non vorrai rivolgerti a lei. Davvero casco dal sonno. Buon giorno, mia cara.
Passò oltre e la sua lunga coda di velluto sparve ondulando per la fuga delle sale.
[195]
Marina rimase immobile per un istante, colle ciglia aggrottate, crudelmente perplessa. Strana, enigmatica, quella splendida figura di donna, così immobile, in abito da ballo, nella sala deserta e fredda, bianca d'invernale luce mattutina.
Si scosse con un piccolo brivido ed ebbe un energico cenno affermativo del capo, riassunto visibile di un rapido soliloquio.
Risalì nella sua stanza al terzo piano. Non chiamò la cameriera, si spogliò sola e si tuffò il volto ed il busto a più riprese in una vasca d'acqua fredda. Indossò poscia una corretta e scura toilette da mattino, una piccola giacchetta di panno grigio e si coprì il capo d'un cappellino nero, a cui sovrappose un velo. Poi scese una scaletta privata che metteva nella corte delle scuderie. Passò in una loggetta, ove sapeva che avrebbe trovata la figlia del portinaio. Benchè avesse vegliato tutta la notte, aggregata anch'essa al gruppo di cameriere che attendevano, in un salotto riservato, a riparare ai guasti avvertiti dalle signore nelle loro acconciature, la Gegia era tuttora alzata e narrava alla nonna gli splendori della notte trascorsa. Le accadeva qualche volta di accompagnare la signorina quando usciva la mattina per tempo. Non l'aspettava quel giorno e si meravigliò che non fosse andata a riposare; ma, senza muovere osservazioni, si approntò e fu ai comandi di donna Marina.
[196]
Uscirono assieme. Ma la Gegia arguì che la padroncina fosse più stanca di quanto pareva, perchè, svoltato il canto di piazza Curtatone a S. Lucia, ella fe' cenno a una vettura da piazza chiusa. Udì che, prima di salire, dava al fiaccheraio l'indirizzo di casa Serramonti.
Durante la corsa, Marina non aprì bocca. Giunte, ella scese sola e disse alla Gegia di aspettarla in carrozza. Al cameriere, che rispose alla sua energica scampanellata e che aveva l'aria alquanto incerta vedendola capitare sì per tempo, chiese se la Contesta era visibile. Vedendo ch'egli esitava, soggiunse:
— Ditele che sono io e per cose di premura.
Attese un istante immobile, pallida, sotto l'atrio di entrata. Aveva nelle ossa quel freddo speciale che si lascia dietro una nottata persa. Quando il cameriere tornò dicendole ossequiosamente che passasse pure, un'ondata di porpora salì sulla sua fronte e per un momento ella parve non aver capita bene la risposta. Ma subito tenne dietro al cameriere, che la precedeva.
La contessa Elisa le venne incontro. Era in veste da camera, una douilette di cachemire celeste. Doveva aver dormito poco. Aveva le labbra bianche, e un lividore sotto gli occhi li faceva parere quasi pesti e affaticati. Sulle guance non c'era vestigio di colore.
La Contessa dimostrava tutta la sua età, quella mattina, forse anche qualche anno di più.
[197]
Fece sedere la sua giovane amica, senza commentare la insolita venuta. Ma il suo sguardo aveva un'interrogazione angosciosa, che parve stranamente facilitare, per Marina, l'adempimento del suo proposito.
— Stanotte — disse con voce calma e con accento preciso — è successo in casa nostra un avvenimento... un diverbio.
— Ah! — interruppe Elisa — anche tu sai. E sai?...
Si arrestò. Ansimava alquanto.
— Non so. Vorrei sapere e per ciò sono venuta.
Un profondo disappunto si rivelò sull'alterata fisonomia della Contessa.
— Ah non sai?... E la Duchessa?
— La mamma non sa... o non vuol dire. Ma mi è parso... avevano detto... ch'ella fosse presente.
— Sì, infatti. Oh Marina che angoscia! Io parlavo con lui, e...
Si arrestò ancora, accorgendosi che stava per rivelare un secreto non suo.
— E...? — continuò Marina, curvandosi avidamente.
— E...? Carisi, che stava dietro a me, scattò fuori, e... accadde... non so bene. Per fortuna capitò Dzworoff e impedì una colluttazione al momento, ma...
— È inevitabile uno scontro — interruppe Marina.
Elisa chinò il capo, stringendo con un lieve moto convulso la mano della fanciulla.
Tacquero un istante, pallide, sotto l'oppressione di un pensiero che non dicevano.
[198]
— È il suo primo scontro? — chiese poscia Marina.
— Il primo.
— Chi sono i suoi secondi?
— Gli ho suggerito Serristano.
— Ha fatto bene. È un uomo di cuore e d'esperienza. E delle condizioni non si sa nulla?
— Ancora nulla. Aspetto. Ha promesso di scrivermi.
Diede un'occhiata piena d'angoscia alla piccola pendola in rocaille del caminetto. Segnava le undici.
— Ha ancora i suoi genitori? — chiese Marina.
— La madre! — rispose Elisa.
Di nuovo tacquero quelle due donne, assorte nella muta angoscia dell'attesa, senza che nè l'una, nè l'altra avvertissero quanto fosse strano, anormale il loro colloquio.
A un tratto la contessa Elisa balzò in piedi.
— È venuto qualcuno... ho sentito...
Infatti veniva il domestico. Recava un biglietto, del quale Elisa strappò vivamente la busta.
Lesse a voce alta e tremante:
«Cara Contessa,
«Pare che tutto sia disposto per domani. Per me, Serristano e San Firmino. Se posso, verrò un momento a dirle le condizioni. Sto benissimo, e le bacio le mani.
«Roberto.»
— Ecco — disse Elisa — è deciso.
[199]
Era calma. Non l'aveva neppur detto a sè stessa che aveva sperato, follemente, una soluzione diversa.
Ancora le due donne tacquero. Poi si guardarono, tentando di sorridere l'una all'altra, senza saper perchè.
— Speriamo — disse poscia Marina, alzandosi con un subito ritorno al suo fare indifferente — che tutto vada bene.
— Speriamo — ripetè Elisa. — Vai di già...?
— Sì, devo andare. Abbiamo un concerto alle tre.
— Ah! sicuro... Sarà bellissimo. Ti divertirai.
Si avviarono lentamente verso l'uscio, scambiando, come per una subita, muta intesa, parole affatto estranee all'argomento di poc'anzi. Giunte all'uscio, si fermarono per un istante, con un nuovo indefinibile senso d'incertezza..., come se allora soltanto le colpisse l'ardua e pur già superata difficoltà di quel colloquio od un vago pentimento dell'emozione tradita.
Pure, all'ultimo momento, scambiarono un bacio, breve, caldo... quasi appassionato.
***
Nel rientrare, sullo scalone, ancora ingombro della splendida decorazione della notte, Marina s'imbattè con Sacha Dzworoff.
Il giovane scendeva sì frettolosamente, a capo chino, che Marina dovette scansarsi in fretta per non essere urtata.
[200]
— Oh! oh! mille scuse — sciamò Sacha — sono un vero stordito. Ma la credevo a letto e nel primo sonno. Invece è già in giro... fresca come una rosa.
In cuor suo pensava: Com'è smorta e sbattuta anche lei! Si scusò, adducendo gran premura.
Marina ebbe per un secondo l'idea di trattenerlo. Ma nol fece ed egli scese in fretta e furia l'ultima mano di scale.
Verso le due e mezzo, Marina era pronta per il concerto, e se l'avesse veduta Sacha in quel momento, non avrebbe formulata in cuor suo l'opinione di poc'anzi.
Si recò calmissima, al tutto padrona di sè, nel gabinetto di sua madre.
Anche la Duchessa era pronta e calzava i guanti.
Fece come al solito la rivista dell'acconciatura di sua figlia.
— Stavolta, cara Marina, sei all'altezza della situazione. Suggerisci assolutamente delle idee regali.
Una lievissima contrazione passò sul volto di Marina, ma ella non rispose.
— A proposito — disse la Duchessa improvvisamente, — com'è andata la tua visita alla contessa Serramonti? Ci hai trovato Roberto Rescuati?
— No, — disse Marina, con superba calma.
— No? Curiosa!... Ma hai avuti da lei i ragguagli che bramavi?
— Sì, alcuni.
[201]
— Davvero? Ma è impagabile quell'Elisa! E ti ha detto anche la causa del duello?
Era sì ironico l'accento della Duchessa che Marina pensò, con un lampo di terrore, all'esitazione di Elisa.
— No — disse poscia.
— Ah! — rispose la Duchessa.
Il suo sguardo scintillava una luce sì beffarda che di scatto, involontariamente, Marina chiese: — Perchè?
— Perchè — rispose la Duchessa — perchè non poteva dirtela la vera causa del duello. E tu, mi spiace il dirtelo, ma hai fatta una singolare figura, per una signorina per bene. Nella tua curiosità di avere dei ragguagli sul duello di Roberto Rescuati, non ti sei contentata dei miei, ma sei andata giustamente a chiederli a...
Esitò un secondo, il secondo indispensabile al più abile tiratore per colpire il punto centrale del bersaglio.
— Alla sua amante — finì poscia tranquillamente. — Vuoi che andiamo, Marina? Si fa tardetto.
***
Sì... stavolta aveva oscillato davvero la portiera e l'immagine attesa s'era disegnata nello specchio. Lui!
Elisa non si mosse. L'attesa di quelle ore aveva esaurite le sue forze.
[202]
— Ebbene? — chiese.
Egli sedette. Era un po' scolorito in volto, ma ilare, animato.
— Tutto accomodato — rispose. — Domattina alle sette, in un certo parco, sulla strada di Fiesole... da un amico di Serristano... Un bravo giovane, quel Serristano.
— Sì... diss'ella a voce bassa. — E le...
— Le condizioni, vuol dire?... Oh discrete. Cioè, adesso... Ma stamane al primo abboccamento dei secondi, grazie! La pistola e venti passi di distanza. Frenetico quel Carlisi! E quell'altro, il suo padrino, più arrabbiato di lui. Ma ora l'hanno capita. Anzi, Serristano e Firmino non si rendevano ragione di quella subita arrendevolezza di Dzworoff. Adesso è ragionevole; si è scelta la sciabola. Almeno, non sarà una cosa illegale, se ci resto.
Un brivido scosse tutto il corpo di Elisa.
— Roberto! — disse con accento sì profondo e sì angosciato ch'egli ne rimase colpito.
— Dicevo per scherzo... sa? Sono di quelle solite cose, che finiscono con un buon déjeuner, da Donney. Per conto mio, non ho nessuna voglia di far strage. D'altronde, un duello non sta mica male nella vita di un giovanotto. Bisognava pure che ci capitassi un giorno o l'altro. Certo, se avessi saputo ch'era vicino colui non me la sarei presa così calda per quel suo matrimonio. Non è mica antipatico quel [203] giovane. Come mai è andato a finire così? È vero ch'è stata la Duchessa?
— Sì, — disse Elisa, — queste sono le opere sue; così esercita il suo potere.
Una condanna quasi sacra vibrava nelle sue parole.
Ma subito tornò a Roberto colla calma apparente che ella si era imposta quale supremo dovere della contingenza.
— Allora... Serristano consiglia?
— Nulla pel momento. Ho fatto due ore di scherma e stasera tornerà il maestro a casa mia. Ah sì... dice di riposarmi.
— Benissimo consigliato. Siete stato a casa? avete dormito?
— No. Volevo, ma non mi è riuscito. Invece, ho...
Stava per dire: — Ho fatto testamento. — Ma sostituì: Ho assestato alcune cose. Ho scritto alla mamma.
— Ah! — esclamò Elisa, che si era fatta color di fiamma.
— Per un caso soltanto. Perchè altrimenti, è meglio che non sappia niente. Sa, colle sue idee... Vuol dire... che, alla peggio... la commissione toccherà a lei, cara Contessa.
Tolse di tasca una lettera sigillata e la porse ad Elisa.
— Vuole?...
Un sudore pungente si levava alla radice dei capelli [204] di Elisa. Ma, con un sorriso, ella prese la lettera e la depose nel cassettino.
— Per accendere il fuoco domattina.
— Ben inteso. Ma se invece... dovesse... allora gliela porterebbe lei, nevvero?
Ella non rispose; chinò solo il capo.
Egli tacque un istante. Un'espressione grave, qualcosa d'indicibilmente triste ed affettuoso si dipinse nei suoi sguardi.
— Povera mamma! disse Roberto a voce bassa e come smarrita. — Se avessi saputo! In fondo, non sono stato quello che avrei dovuto essere per lei... Intendo ciò ch'ella avrebbe voluto ch'io fossi, colle sue idee. No, non è mica solo per... per la circostanza che dico così. L'ho pensato delle altre volte, specialmente da che conosco lei. Voglio dire... È difficile a spiegarsi, ma lei capisce, nevvero?
— Capisco... Credo di conoscervi meglio forse di quanto conosciate voi stesso. So di quanto sareste capace, solo volendolo. E di questi pensieri, di questo volere, bisogna ricordarsi poi, non è vero?
La sua voce aveva un accento di infinita tenerezza.
Egli l'ascoltava, sorridendo.
— Com'è buona, — le disse poscia colla sommissione d'un fanciullo affettuoso. — Sa che le voglio tanto bene?
— Anch'io, Roberto, vi voglio tanto bene.
[205]
La voce moriva, incolore, sulle sue labbra.
— Sì — diss'egli, balzando in piedi e con un atto quasi iroso, — mi vuol bene... lo so, come a un figlio!
Senza attendere, nè avere risposta, prese a passeggiare in su e in giù pel salotto. Parlava ora concitatamente del suo duello, di quanto aveva combinato con Serristano; questo, quest'altro colpo. Aveva frequentato la scuola di scherma; parlava colla sicurezza di un buono scolaro, col sangue freddo di chi è sicuro del fatto suo.
Ella ascoltava, pallida e in silenzio.
A un tratto, Roberto, cessò di parlare. Girellò ancora più volte pel salotto, toccando distrattamente libri e gingilli.
Poi con un piccolo brivido nervoso si fermò e disse come a malincuore: — Sono stanco!
— Lo credo. Non avrete dormito molto stanotte?
— Affatto. E l'altra notte e la notte avanti, avevo fatto tardi al Club.
Prese il suo cappello, per congedarsi. Ma invece s'indugiò irrequieto; poi sedette sur una chaise longue, che gli era vicina.
— Come si sta bene qui. Quasi, quasi...
Era realmente stanchissimo, in quell'istante, sotto l'influenza di un'improvvisa reazione di nervi. Lo aveva colto un subito, imperioso bisogno di riposo e di sonno.
[206]
Essa gli andò accanto.
— Volete riposare qui? — gli chiese.
Senz'attender risposta, abbassò alquanto un cuscino che giaceva sullo schienale; poi, con atto dolcemente autorevole, posò una mano sulla spalla di Roberto e gli disse:
— Riposate.
— Che, che! — replicò il giovane, tentando di reagire contro la tentazione dell'invito e la involontaria flessione delle membra. — Ma le pare?
Ma poi, come vinto, ubbidì e si allungò alquanto su quel letto improvvisato.
Elisa osservò che la guancia di Roberto era a un contatto disagevole col ricamo rilevato del cuscino. Con una rapida mossa, come avrebbe potuto fare una madre, passò il braccio dietro il capo di lui, lo sollevò alquanto, e stese rapidamente sul ricamo il suo fazzoletto di battizza.
Poi adagiò sul cuscino la testa di Roberto e gli chiese sommessamente:
— Va bene così?
Egli era già mezzo assopito. Riaperse le palpebre un istante per mandare alla Contessa uno sguardo affermativo, pieno di languido benessere, mentre la bocca aveva un sorriso vago, quasi infantile. Poi si addormentò.
Elisa stette immobile, ritta, accanto a lui, guardandolo.
[207]
Un grande silenzio regnava nel salotto. Si udiva da lungi l'eco affievolito dei pochi strepiti di via S. Gallo e il sordo ronzìo di un moscone, smarrito nei labirinti di seta e di trina, fra le doppie cortine applicate alla finestra.
Il respiro del dormente era sì lieve che la Contessa si chinò, per udirlo meglio, mentre un pensiero imperlava di sudore la sua fronte. Lentamente, inconsciamente, s'inginocchiò al suo fianco.
Così sentiva il suo respiro. Vedeva, tranquilla nel sonno, la poderosa forma dai nobili e fini contorni. Il volto era idealmente bello... le parve più bello del solito, con quel lieve pallore di stanchezza, colle labbra socchiuse sul lucido smalto dei denti, e appena ombreggiate all'alto da un disegno più che da una forma di bruni mustacchi. Attorno alle lunghe palpebre calate si allargava più diffusa l'ombreggiatura delicata, così suggestiva di confusi sensi di passione e di sentimento...
— Dio! — mormorò Elisa — com'è bello!...
Non l'aveva mai veduto così bello, non aveva mai compreso come in quell'istante la poesia ed il fascino di una giovane e maschia bellezza!
Pensò ciò che sarebbe quel volto improntato di un carattere tragico, in un sonno più greve, nel sonno che...
Balzò in piedi, con un senso folle di raccapriccio e per un istante il suo seno non ebbe respiro.
[208]
Scosse il capo, ridendo. Scacciò quell'impressione; poi, di nuovo, s'immerse nella contemplazione del dormente.
Sì, era bello... Una festa per gli occhi quel suo aspetto, un calore pel cuore la sua compagnia, la sua gioventù, la giovanile allegria del suo carattere, delle sue parole. Ah! Dio, era stato crudele per lei!... Non le aveva dato nessuno ch'ella potesse amare così, come Tecla amava suo figlio. Pure, anche per lei Roberto era un oggetto di inesprimibile affetto, ormai! Certo, ella soffriva ora come se egli fosse stato un figlio suo, in pericolo di morte.
Poichè era veramente in pericolo di morte, dopo tutto. Un momento, un colpo mal parato, una mossa abile di Carisi... Ah maledizione! Ma perchè, perchè?... E quegli sciagurati, Serristano e gli altri, che non avevano saputo impedire, che discutevano il modo di far ammazzare quel ragazzo... E tutto ciò... per una parola, un'inavvertenza! Ah non poteva... non doveva essere!
Ebbe un impulso frenetico di far qualcosa, qualunque cosa, per stornare il pericolo. Mille confuse suggestioni si urtarono nel cervello di quella donna. Scrivere a Serristano, avvertir la Questura, telegrafare a Tecla. Ma tosto, per una inevitabile reazione di buon senso, sentì quanto tutto ciò fosse impossibile.
Erano ancora i fantasmi della terribile notte insonne [209] da lei passata, le insane idee che un istante arrecava e l'altro metteva in fuga. Sorrise con una beffarda ironia di sè stessa.
No, la legge mondana voleva così; il pregiudizio, la voce pubblica. Se non si batteva, Roberto sarebbe stato un vigliacco. E non lo era... no... non lo era! Andrebbe sul terreno e in modo degno di lui, del suo nome, dell'amore di... sua madre.
Con uno strano impulso di orgoglio, si chinò ancora su di lui, frenando un subito desiderio di accarezzare quella giovane fronte.
Certo, l'avrebbe protetto il sangue freddo che ella aveva sempre rilevato nel suo contegno, quella padronanza di sè stesso che gli era propria e che pareva tutto propiziargli, tutto semplificare attorno a lui. Quella calma gaja dell'esistenza ch'egli pareva quasi comunicare anche a lei, mettendo come un riposo, un ambiente più aerato nella gravità complicata dei suoi pensieri e delle sue abitudini. Ah com'era mutata, in realtà, la sua vita, dacchè Roberto aveva cominciato a frequentar casa sua! Che raggio di sole, di gioventù aveva portato con sè! Qualcosa di così nuovo, di sì fresco... si dolce...
S'arrestò ad un tratto, nella mente di quella donna, l'irruenza di quei pensieri. Le parve notare che Roberto non dormisse più quietamente, come poc'anzi.
Così era. Il giovane si moveva di frequente: come se stesse a disagio. Lievi contrazioni agitavano i [210] suoi muscoli e non andò guari che le sue fattezze assunsero un'espressione angosciata. Evidentemente, lottava con un incubo.
Forse per l'inconscio sforzo d'una reazione, si destò ad un tratto. Balzò a sedere, aprendo due occhi sgomentati. Lo sguardo errò torbido, incerto per la sala, per fissarsi poscia, coll'espressione di chi trova uno scampo, sulla contessa Elisa.
Colle mani calde, tremanti, afferrò quelle di lei.
— Oh! son qui... È lei... Domani, nevvero?... domani?
Ella non parve avvertire la confusa angoscia di quella frase. Gli disse solo dolcemente:
— Siete qui, Roberto, da me, con me...
Egli era al tutto desto ormai, e aveva raccapezzate le sue idee. Diede in un piccolo scoppio di riso.
— Oh, curiosa! Niente, sa? Un sogno, una sciocchezza...
Elisa aveva in quel frattempo liberata una delle sue mani dalle strette di Roberto, e tolto dal cuscino il fazzoletto, lo andava passando dolcemente sulla fronte del giovane, bagnata di qualche stilla di sudore. E l'amorosa voce, tremante, sussurrava quiete, ilari parole di conforto e di rimprovero. Certamente, aveva sognato. Bella cosa, turbarsi così per un nonnulla!...
Egli ebbe ancora un piccolo brivido, subito vinto. Era stato terribile quel nonnulla. Ma era passato. Egli era lì, ora... con lei.
[211]
Senza lasciare la destra d'Elisa, afferrò l'altra mano di lei, quella che teneva il fazzoletto, e di nuovo le strinse entrambe nelle sue. Poi sollevò il volto ed i loro sguardi s'incontrarono da presso. Ella, pallidissima, solo intenta a velare l'intima angoscia di quegli istanti, lasciava che l'animo suo parlasse dentro i suoi occhi, pieni di immensa tenerezza. Ed in quelli di lui era una ineffabile espressione di gratitudine e di fiducia, insieme ad una indecisa, patetica forma di appello...
Lentamente, come sopraffatto dall'intensità delle lotte segrete ch'egli aveva sino a quell'istante saputo dissimulare, Roberto chiuse gli occhi, e, a guisa di uno stanco fanciullo, posò il capo sul petto della Contessa. Lo sguardo di quella donna ebbe lo smarrimento vago di un'estasi. Ella non si risentì nè si ritrasse. Tacque. Ma, sotto il morbido rialzo del seno, i violenti battiti del suo cuore giungevano all'orecchio di Roberto.
— Ah!... — mormorò questi, quasi inconsciamente, — morire... non sarebbe niente. Ma così... nevvero?...
— Così... — sussurrò Elisa, come un'eco lievissima, involontaria.
Ci fu una lunga pausa, di quella pace, di quel silenzio. Niente altro.
Lentamente, come lo aveva chinato, Roberto rialzò il capo. La stretta delle mani si sciolse. Egli si alzò e si allontanò. Elisa non lo trattenne.
[212]
Roberto si recò alla finestra, e, sollevate le cortine, guardò a lungo nel giardino. Dal caminetto, dalla pendolina rococò, che tante gaie ore di colloquii aveva noverate colla sua voce argentina, venne ora l'accento dell'ora tarda, quasi serale, che doveva separare quei due.
Egli tornò indietro e prese il cappello.
— Le cinque, nevvero? Come sono venute presto! Serristano mi aspetterà a casa.
— Certo, — disse lei — e vi sgriderà, perchè non avete seguito il suo consiglio.
S'arrestò... Sentiva di non potersi più fidare del suono della propria voce. Ed era sì pallida ormai, durava a reggersi in piedi una fatica così evidente che Roberto ebbe la subita intuizione di ciò che quella donna soffriva per lui. Un lampo di fiero, beato orgoglio passò nei suoi occhi, ma nel suo cuore destossi in pari tempo una nobile e generosa pietà.
— Ha ragione — disse dolcemente. — E Serristano pure. Vado a casa a riposarmi davvero. Ma, anche lei, deve promettermi d'esser buona. Non voglio che si senta male... sa?
Una bizzarra metamorfosi della situazione pareva aver subitamente invertite le circostanze. Era il giovane ora che, colle parole e cogli sguardi, infondeva in lei il coraggio e la calma, ella che subiva l'impero del sangue freddo di lui.
[213]
— Dunque — insistè Roberto — sarà buona?
Elisa chinò il capo, docilmente.
— A rivederci — diss'egli in tuono lieto.
— A rivederci.
Simultaneamente, diedero un rapido sguardo circolare attorno a loro, sulle pareti, alle cose del salotto.
Egli proseguì: — Saprà subito, naturalmente, domani. Vedrà che tutto avrà un lieto fine. Verrò subito a vederla.
— Certo... l'aspetto.
Egli prese la mano di lei e curvandosi la baciò. Era l'atto solito e cortese in cui egli sapeva mettere tanta grazia di omaggio. Senonchè stavolta in esso parve riassumersi l'appassionata riverenza, tutto l'ardore di gratitudine e di adorazione che irrompevano in quell'istante nel cuore del giovane. Ella comprese il significato di quel bacio. E quella mano, così baciata, scese poscia lenta con un gesto di sublime benedizione, sulla testa chinata di Roberto.
— Andate, Roberto — disse Elisa quietamente.
Egli non rispose. Alzò il capo, la guardò, le sorrise, ed uscì.
················
Ghita, la cameriera della contessa Elisa, entrando la mattina susseguente alle otto nella camera della sua signora la trovò già alzata. Lo era da parecchie ore. Stava allo scrittoio, ma non scriveva, nè si occupava altrimenti. Aspettava, soltanto.
[214]
Roberto le aveva detto: «alle sette.» Dunque, qualcosa doveva già essere accaduto.
Ma solo verso le otto e tre quarti le fu recato un biglietto scarabocchiato a lapis e pressochè illeggibile. Pure, ella lesse:
«Benissimo tutto, scalfittura per ridere. Verrò più tardi.
«Roberto.»
Al primo momento Elisa non avvertì di provar nulla; nè gioia, nè altro. Una ridda di confuse sensazioni sbalestrò lo spirito di quella donna nelle regioni di un cieco indefinito... Poi, d'improvviso, e sotto l'impressione di qualcosa che somigliava ad uno spasimo nervoso, strinse forte le mani sul petto anelante. E allora soltanto, quasi costretta da quell'atto inconsulto, si sprigionò l'esplosione di una gioia folle, ebbra! Un senso di trasporto inenarrabile si tradusse con un sol grido, con una sola parola:
— Roberto!
D'un balzo, Elisa fu allo scrittoio, ne strappò la lettera destinata a Tecla.
Con un breve, rauco scoppio di risa la gettò nel caminetto, sulla brace incandescente. La lettera si contorse dapprima senza ardere, con degli scatti di vipera ferita a morte. Poi si avvolse d'un denso fumo bianchiccio, poi, con un subito lampeggiar di fiamma, si accese. Oh! lo splendore di quella vampa, di quelle [215] lingue di fuoco che mordevano la carta, che cancellavano quelle parole...
E allora bruscamente, improvvisamente del pari, qualcosa, un'altra luce, un'altra fiamma, divampò nel pensiero di Elisa. Qualcosa ch'era nella sua gioia, oltre la sua gioia, che rivelava al suo pensiero tutto un fatale mistero di sè stessa, che spiegava tutte le complicazioni dell'agonia ch'ella aveva vissuta nelle ore scorse. Nella mente, nell'animo si fecero strada una certezza, un istinto irrecusabili. Ella si dibattè un istante contro lo sgomento supremo di quella rivelazione, si rifiutò al terrore di quel vero, spietato, incalzante! Ma solo un istante. Comprese a un tratto, brutalmente, che ella amava Roberto, e come lo amava.
— Ah! — gridò — misera me!...
***
Verso le cinque di quello stesso giorno, invece di Roberto si fece annunziare dalla contessa Elisa il marchese Geri di Serristano. Elisa ebbe un secondo di terrore. Che c'era di nuovo? Perchè lui, anzichè Rescuati?
Serristano la rassicurò. Roberto era in realtà lievemente ferito ad un braccio. Pel sorvenire di un piccolo accenno di infiammazione e solo per misura precauzionale, il dottore aveva ordinato qualche giorno di letto.
[216]
Strano a dirsi; la Contessa provò quasi un senso di sollievo, udendo che non avrebbe avuta occasione di veder subito Roberto. Il cuore ha talvolta di questi bizzarri controsensi; li ha più spesso che non si creda.
Elisa ascoltò con attenzione il particolareggiato racconto del duello. La vertenza era stata esaurita secondo le regole della più stretta cavalleria. Erano state bene interpretate le consuetudini e rigorosamente osservate; i due giovani s'erano condotti benissimo. Non era stato un duello facile; l'irritazione visibile di Carisi e la sua valentia di schermidore napoletano (era allievo di Parise) lo rendevano formidabile per l'inesperienza del giovane Rescuati. Ma questi aveva a suo pro un mirabile sangue freddo, e si era felicemente giovato delle sue cognizioni tecniche, rendendo all'avversario, pel colpo d'avambraccio ricevuto, un buon colpo di bandoliera.
— Ma non grave... speriamo — disse vivacemente la Contessa.
— Oh no! per fortuna. Un mesetto di cura e basta. E non è per cagion sua se non si è buscato di peggio. Si sarebbe detto che ci teneva a farsi accoppare... Forse ci teneva, per l'appunto.
— Povero giovane! — mormorò Elisa.
— Le prime trattative — continuò Serristano — dimostravano in lui l'intenzione che il duello avesse luogo in condizioni assai più gravi. E se le cose avevano [217] potuto assumere un'indole più mite, non era difficile attribuirle all'intervento di una volontà benefica e... femminile.
— Ah! — sclamò Elisa — la duchessa d'Accorsi!
Subito si morse le labbra e una confusione penosa si fece palese sul suo volto.
— Cioè, — mormorò — non voglio dire... è una mia supposizione...
— No, — disse Serristano, sorridendo — è per molti, come per lei, un convincimento, che non manca di una base plausibile... Si può sbarazzarsi con spirito di un passato che non ha più ragione d'essere, e in pari tempo adoperarsi perchè di questo passato non rimanga il corollario di una tragedia. Ora, la curiosità pubblica sarà eccitata dalla probabilità della rottura delle nozze di Carisi.
— Ah! ella crede?...
— Lo desidero per Carisi. Il conte Rescuati ha espresso, nella frase sfuggitagli, l'opinione che sta in fondo a tutte le coscienze oneste. E la duchessa d'Accorsi assume facilmente delle gravi responsabilità.
Elisa tacque un istante. Poi disse, come se parlasse a sè stessa, anzichè a Serristano:
— L'amore è sempre una responsabilità.
L'accento di Elisa era sì grave, ella pareva sì profondamente assorta nel senso di quelle parole che [218] Serristano la guardò meravigliato. Ella, che non soleva mai parlare di queste cose.
— Certo... — ripetè Elisa come un'eco, — se ama davvero.
Ancora, nella sua voce sommessa, vibrava la peculiare, inesplicabile coloritura dell'accento.
Serristano pensò un istante: — Cosa c'è in quella voce? Una curiosità o un segreto?
Dopo un momento, s'alzò per congedarsi.
— La contessa Rescuati — gli disse Elisa — non è ancora stata informata dell'accaduto. Il suo delicato stato di salute e la cognizione di alcune sue opinioni personali sul duello ci hanno dissuasi dal recarle sì grave scossa. Ma io credo di poter esprimere in suo nome il sentimento d'altissima gratitudine che ella, edotta del fatto, proverebbe per chi, come lei, ha, in così grave circostanza, sì amorevolmente assistito suo figlio.
Serristano si chinò commosso: — Non ho fatto che il mio dovere. So di dovere a lei, Contessa, l'onore di essere stato scelto a padrino del conte Rescuati, e di cuore ne la ringrazio, poichè il suo consiglio mi ha procurato la compiacenza d'essere utile ad un giovane tanto simpatico e che ha saputo condursi tanto bene in questa prima e difficile prova.
Essa chinò il capo, assentendo. E sul suo volto si diffuse una subita misteriosa bellezza, un non so che [219] di ideale, che parve trasfigurarla. Non pensava a sè in quel momento, pensava solamente a Roberto.
Ancora Serristano chiese a sè stesso: — Ma cos'ha quella donna?
Questo aveva soltanto: l'amore!
***
Fu per tutta Firenze un grande avvenimento questo del duello fra Rescuati e Carisi, e ne accrebbe non poco la simpatia di cui già godeva il primo. Da qualche tempo in qua, il poeta montanaro aveva spiegato un carattere nuovo e sgradito, un fare beffardo, diverso dall'antica spigliatezza, che gli aveva conciliata dapprima tanta benevolenza. Lo spirito suo s'era mutato in critico e mordace, e bisognava stare attenti, quando si parlava con lui, per non farsi canzonare. E il suo progettato matrimonio, benchè non unico esempio di transazioni poco consentanee ad un vero sentimento di dignità e d'indipendenza personale, benchè alcuni trovassero, in qualche basso fondo delle proprie segrete aspirazioni, un sospiro d'invidia pei vantaggi materiali di esso, non era certo tale da conciliare a Carisi l'aperto plauso dei più. Che fosse opera della Duchessa, ciò non meravigliava guari. Anzi... era consono al suo carattere. Anche dopo aver spezzati i vecchi trastulli, ella si divertiva talvolta a serbare una certa tal quale giurisdizione sui rottami e a disporne a suo grado. Era anzi una delle [220] sue speciali prerogative, e convien dire ch'ella avesse una straordinaria e prestigiosa abilità per coonestare la sistemazione di oggi coll'accaduto di ieri, poichè le cose finivano sempre coll'accomodarsi in un modo ovvio, ragionevole, vantaggioso insomma; quasi onorevole. Ed era tanto tempo che le cose camminavano così per quella privilegiata fra tutte le donne!
Il torto marcio l'aveva avuto lui, Carisi, con quella sua improntitudine di saltar fuori, così a sproposito, dal suo nascondiglio!... C'era; poteva starci quieto sino alla fine, invece di disturbare la gente a quel modo. Lo doveva pur sapere cosa pensavano di lui e del suo matrimonio! Ed era imperdonabile di esser rimasto senza appalesarsi, celato in quel terzo di pâtè traditore, testimonio indiscreto di un colloquio, (oh... la Duchessa aveva detto delle cose tanto carine, a questo proposito!) un colloquio che pareva assai bene avviato... E quella scenata in casa della Duchessa e quell'accanimento così sragionevole!... Mentre invece Rescuati era stato addirittura splendido. I padrini suoi e di Carisi n'erano rimasti incantati: Carisi stesso aveva resa giustizia all'inappuntabile contegno del suo avversario. Insomma, era un coro di lodi e un trasporto generale di simpatia e Roberto aveva toccati tutti gli onori della giornata.
Speroni era, s'intende, a capo degli entusiasti. Già, l'aveva consigliato lui, benchè in forma non ufficiale. [221] In realtà l'aveva seccato a morte coi suoi frivoli consigli, ma, ora che le cose erano andate bene, s'intende che il merito era suo. Infatti fu lui a proporre una piccola unione e sottoscrizione di amici per festeggiare il battesimo d'armi di quel caro Bertino, con un punch d'onore da Giacosa.
La peregrina idea fu accolta con plauso, e riescì una cosa piacevolissima... per gli amici. Ma non da Giacosa ebbe luogo la geniale e chiassosa riunione, bensì nel piccolo appartamento occupato da Roberto in via dei Serragli. L'eroe della festa non poteva uscir di casa. La sua ferita, benchè già chiusa, s'era fatta rossa assai, e un gonfiore s'andava levando attorno alla cicatrice. Il braccio era dolente e doveva esser recato ad armacollo. Il medico volle che Roberto rimanesse a letto, poichè s'era dichiarata un po' di febbre. Nel salotto attiguo alla camera da letto, e accanto all'immenso bol fiammeggiante, Speroni si investiva della sua duplice parte di iniziatore della festa e di rappresentante del festeggiato. Era un chiasso indiavolato, e Roberto avrebbe volentieri mandati al diavolo quegli allegri compagni, immemori del mal di capo che gli martellava le tempie. Non gli parve vero quando se ne andarono, rinnovando strette di mano, proteste d'ammirazione d'amicizia. E il male è che promettevano di tornare, alla spicciolata, per tener compagnia a quel simpaticone di Roberto. Ma il buon volere della gaia brigata [222] si urtò l'indomani nel veto assoluto del medico, che esigeva pel malato la calma e la solitudine. S'era dichiarato un flemmone al braccio ferito.
La sera stessa del giorno in cui aveva avuta da Serristano la relazione del duello di Roberto, la contessa Elisa aveva mandato il suo vecchio Andrea a prender notizie del conte Rescuati. E così di seguito sera e mattina, per parecchi giorni, sino a che le giunse il referto di questo flemmone... Quel nome le fece un senso bizzarro di terrore. Si ricordò di un domestico di suo padre, che, in seguito appunto ad un flemmone, era stato gravemente malato. E una grave lotta cominciò nel suo cuore, già tanto travagliato.
La luce improvvisa che s'era fatta nell'animo suo l'aveva profondamente sconvolta. Ella si dibatteva in un mare di terrori e d'angoscie, dalle quali la sollevava solo a volte ed artificialmente l'illusione di essersi ingannata, o la determinazione presa con una specie di energia disperata di annientare coll'opera, col fatto, colla propria azione sull'animo suo l'effetto di quella funesta rivelazione... No... non sarebbe... perchè non doveva, non poteva essere! Ella vincerebbe prontamente quella inesplicabile, quella fatale debolezza, che l'aveva colta a tradimento! A volte un rossore profondo saliva alle sue gote, un'indignazione contro sè stessa le mordeva il cuore nel rimorso della sua imprudenza, nella coscienza della sua fiacchezza, nella derisione di ciò ch'ella aveva [223] creduta la sua invulnerabilità! Sì, ella aveva passata una quasi intera esistenza scevra di passioni, di pericoli, nella calma austera d'un ambiente esclusivamente intellettuale, nello sprezzo tacito ed intimo di tutto ciò che si attiene al disordine, all'eccesso dei sentimenti, alla sregolatezza delle passioni, per giungere poi ora, in ritardo, tanto fuor di luogo, fuor di tempo... a soffrire così... in quel modo sì inatteso, sì terribile e, dopo tutto, sì inutile!
Poichè a lei il sacrificio soltanto parve l'ultima parola di quella sciagurata scoperta. Non pensò ad altro...
Iddio fa un dono immenso ad una donna quando le dà, per angioli custodi, il criterio ed il buon senso. Ma, quando la fatalità, l'imprudenza, ovvero la purezza stessa di questa donna, l'hanno esposta ad un pericolo ch'ella non ha saputo prevedere e ch'è più forte di lei, allora... oh, allora gli angioli custodi diventano due carnefici e i più spietati, che vendetta divina possa aver mai messi a fianco d'una umana esistenza. Con questi carnefici ella era dunque alle prese, quando una lettera di Tecla venne a vieppiù turbare l'animo suo.
***
La contessa Rescuati aveva avuto da suo figlio una lettera, in cui egli le diceva succintamente dell'accaduto e del suo malessere attuale.
[224]
Malgrado le assicurazioni fattele da Roberto, ella era in grave pensiero per lui. Sarebbe venuta immediatamente a Firenze, ma l'infermità di cui soffriva ella stessa s'era siffattamente inacerbita in quel tempo che i medici non le permettevano di lasciare il letto. Supplicava Elisa di recarsi presso suo figlio, e di renderle esatto conto dello stato di Roberto. Se no... ella riterrebbe il silenzio di lei quale una tacita conferma dei suoi terrori, e partirebbe... a qualunque costo.
La contessa Elisa aveva contezza precisa della malattia nervosa, che complicata da gravi affezioni reumatiche, aveva fatto della contessa Rescuati una povera invalida. Ravvisò nella lettera un'agitazione che Roberto non aveva certamente creduto di eccitare a tal grado, e pensò che, oltre ai rischi del viaggio per Tecla stessa, la visita di una donna sì evidentemente turbata d'animo non avrebbe certo giovato alla calma richiesta dallo stato di Roberto. Si ricordò che aveva promesso a Tecla di far le sue veci presso il figliuolo. Imprudente... ah, quanto imprudente... ma pur sacra, quella promessa!
Passò un'ora, sola, in camera sua, in intima communione con sè stessa, di fronte all'esatta idea di ciò che doveva essere la sua linea di condotta. Alle più virili facoltà dell'animo suo chiese consiglio. L'ora susseguente la trovò calma e risoluta nella sua determinazione.
[225]
Si vestì, e fece attaccare il suo coupé. Passò all'Ufficio telegrafico e vi lasciò un telegramma per Tecla, così concepito:
«Rassicurati. Nessun pericolo. Mi reco presso Roberto; scriverò ogni giorno. In tutto e per tutto, abbi calma a fiducia.
«Elisa.»
Un quarto d'ora dopo, il suo coupé si fermava al portone della casa ove dimorava Roberto. Ella diede ordine al cocchiere che ripassasse fra tre ore.
Salì la scala angusta che metteva al piccolo appartamento di Roberto, indicatogli dalla portinaia. Non ebbe d'uopo di suonare il campanello. Il cameriere era uscito, lasciando l'uscio socchiuso. Ella penetrò in una piccola anticamera, e di là in un salottino; tipo, a lei nuovo affatto, dei salotti di appartamenti ammobigliati. Non era certo dei peggiori, poichè Roberto pagava una elevata pigione, ma allo squisito gusto della Contessa, alla sua assoluta abitudine di ricercate eleganze intime, tornò alquanto ingrata la vista di quella stanza senz'alcun carattere proprio, coi mobili di velluto stinto, col volgare addobbo, privo di stile, colla convenzionalità plateale degli accessori. Un odore stantìo di fumo di sigarette riempiva l'ambiente, oscurato dal giallore polveroso delle cortine. Nel caminetto era spento il fuoco; sui tavolini, sulle odiose consolles dorate s'era adagiato un alto strato di polvere.
[226]
Elisa si arrestò esitante, colpita da uno nuovo e bizzarro sgomento dinanzi ad una porta che suppose dovesse condurre alla camera da letto di Roberto. Il cuore le batteva forte, mentre ella batteva dolcemente a quell'uscio...
Uno stizzoso abbaiare di piccolo cane le rispose dall'interno. Ella attese invano, ripetendo colla nocca delle dita guantate la domanda d'ammissione. Per un istante un desiderio la colse, quasi irresistibile, di non insistere, di tornare indietro. L'abbaiamento si ripetè più irritato che mai, ma ad esso si unì un fioco avanti, che troncò l'esitazione di Elisa.
Aperse e s'inoltrò nella stanza.
Roberto s'era rizzato a sedere sul letto. Era acceso in volto e si sosteneva penosamente sul braccio sano.
Ella si fermò un secondo ancora sull'uscio... Ma egli aveva avuto, vedendola, un'esclamazione di gioia sì viva, sì irrompente che ogni dubbio cessò in lei. Si avanzò dolcemente sino al suo capezzale.
— Sono qui — disse con grande semplicità. — La mamma è inquieta ed io le ho promesso di far le sue veci.
Il cane, che Roberto aveva fatto tacere con una energica scopola, s'era rifugiato sul copripiede del padrone, e di là, raggomitolato nella sua bellissima pelliccia bianca di lupetto, guardava sagacemente, studiandola, quella nuova visita capitata al padrone. [227] Ma dopo un istante, soddisfatto del suo esame, cessò di brontolare. Depose il muso appuntato fra le zampette e chiuse gli occhiuzzi sagaci, pensando che poteva dormire tranquillo. E non aveva torto quel monello di Arnetto. Il suo istinto non lo ingannava. Molti potrebbero trovare ch'egli fosse un cane stranamente illuso, giudicando dalle circostanze... Ma no, per l'appunto.
***
Il flemmone si dichiarò davvero e quel povero braccio di Roberto divenne enorme. Il giovane era vinto ormai, sbattuto da quella febbre che lo teneva desto talvolta per notti intere, lasciandolo poi in uno stato di abbattimento e di semi-torpore che contrastava stranamente coll'irrequietezza d'altri momenti. Non era un malato cattivo, nè intollerante del male, ma si seccava molto della forzata dimora a letto, delle ore solitarie che gli parevano sì lunghe, mentre le idee sfilavano rotte, confuse, come una processione scompigliata da un uragano, in quella sua bella testa febbricitante. Si trovava male, a disagio, in quell'appartamento ristretto, privo delle comodità, delle eleganze a cui era abituato a casa sua.
In tempi normali egli passava ben poche ore della giornata in quelle stanze un po' scure, un po' malinconiche, ma ora soltanto, dacchè non poteva lasciarle, [228] avvertiva quanto gli fossero antipatiche. Il suo domestico fiorentino lo serviva bene e con una certa specie di zelo, ma era giovanotto anche lui e colla testa un po' all'aria, e volentieri, quando lo supponeva addormentato, scendeva chiotto chiotto per andare a far quattro chiacchiere dal tabaccaio del canto o coi cocchieri di una vicina rimessa di vetture. Un altro domestico, fissato per la circostanza, era un fior d'imbecille. L'infermiere, mandato da Serristano, aveva una faccia color di gambero e dei capelli rossi. Ora, Roberto nutriva un odio speciale pei capelli rossi! Non voleva dirlo a Serristano e si faceva continuamente delle ammonizioni; ma tant'è, la notte, alla luce incerta della veilleuse, quella zazzera rossa chinata per lo più, perchè l'uomo scordava talvolta di star desto, gli faceva l'effetto di un incubo.
Non aveva punto deplorato il veto opposto alla buona volontà di Speroni e C.i di tenerlo allegro durante la sua malattia. Le poche visite di quella lieta brigata gli avevano lasciata una testa tanto fatta. Ma paventava ancor più le visite che ogni tanto si credeva in dovere di fargli la sua padrona di casa, una vecchia pinzocchera, che voleva guarirlo a modo suo, facendogli fare una novena a S. Bobi, e consigliandogli perennemente i rimedi del dottor Pagliano.
Serristano veniva ogni tanto a vederlo e le sue visite liete e confortanti erano care a Roberto. Anche [229] il medico curante era un simpatico giovane, che sapeva il fatto suo e aveva presa grande simpatia per lui; ma aveva una clientela estesissima, non poteva fermarsi da lui che il tempo strettamente necessario e a Roberto le giornate, come le notti, parevano eterne. Non era stato mai malato fuori di casa, e, ricordando in quali condizioni si era altre volte presentato un tal caso, quante e quali cure gli avessero prodigate in famiglia la madre, i nonni, i dipendenti; un confronto si presentava, triste, alla sua immaginazione, e una grande malinconia s'impossessava di lui, mentre cercava dissimularla agli altri e a sè stesso quanto poteva. Pensava con infinito desiderio alle sue allegre passeggiate, ai lieti ritrovi fiorentini, ma più ancora al salotto della Contessa. Nella sua solitudine e nell'eccitamento della febbre, pensava molto anche a lei. Non avrebbe certo osato chiederle di venire, ma quando vide accostarsi al suo letto quella persona sì elegante e sì gentile, quando vide chinato maternamente sul suo quel volto un po' sbattuto dalle passate angosce, ma pur così dolce a vedersi, nella sollecitudine e nella tenera pietà dello sguardo, quando sentì posarsi sulla fronte greve ed accaldata quella mano morbida e fresca, dalla delicata epidermide, egli non la sgridò d'esser venuta. La ringraziò soltanto, baciandole la mano e si abbandonò come un figlio, col senso di una sicurezza, di un benessere al tutto nuovi in lui, alle cure di quella [230] donna. Non pensò ad altro. Poi, lo sappiamo, pensare non era il suo forte.
***
La cosa fu presto organizzata e in questo modo:
La mattina per tempo Elisa gli mandava Andrea, il quale, ammesso nella camera di Roberto, stava a sua disposizione per due ore circa, assistendo alla prima visita del medico, tanto da poter fare il suo rapporto alla Contessa. Verso le tre, capitava ella stessa e alle quattro veniva il dottore per la seconda visita, ed ella conferiva con lui.
Poi il medico se ne andava ed ella prolungava la sua dimora per qualche po'.
Roberto amava specialmente quei momenti, in cui egli sentiva tanto benefica, tanto placatrice l'influenza di quella donna. Ella parlava poco, si muoveva pochissimo, non aveva nessuno di quei zeli incomodi, di quelle insistenze crucciose che esasperano talvolta i malati, ma senza ch'ella facesse gran che, tutto pareva farsi più facilmente e meglio da che c'era lei. La camera stessa, quell'uggiosa camera volgare, pareva avere acquistato un nuovo carattere. Ella aveva fatta qualche alterazione nell'ordine dei mobili e degli accessori, recato qualche ninnolo, distribuita meglio la luce, disposto nei vasi qualche fiore senza profumo. Le sue visite erano inesprimibilmente care [231] a Roberto, avrebbe voluto che non cessassero mai. Ma ella se ne andava invariabilmente quando nella camera calavano le prime ombre della sera. Ed egli, col rammarico di vederla partire, pensava dolcemente al domani. I suoi pensieri di malato non erano più inquieti, erano pieni d'abbandono e di una vaga spensieratezza beata.
La sera veniva Serristano, ma neppur egli faceva tardi, e, uscendo dall'abitazione di Roberto, soleva per un istante recarsi da Elisa a darle un piccolo resoconto finale. Ovvero, lo faceva incontrandola in società dove la Contessa doveva pure qualche volta fare un po' di comparsa e dove udiva chiedere sempre con molto interessamento della salute di Roberto Rescuati.
Prima di coricarsi, scriveva a Tecla. Era molto stanca quando si coricava. E dopo aver fatto uno stretto esame di coscienza, prima di addormentarsi e pur già come in sogno, pensava anch'ella dolcemente: domani....
***
— Oh! Oh! — esclamò Speroni un giorno in cui, uscendo dalla portineria ove era stato a chieder notizie di quel caro Roberto, si imbattè, sulla soglia, colla contessa Elisa; la quale era tranquillamente avviata, non alla portineria, ma verso le scale.
[232]
La Contessa non faceva mistero alcuno delle sue visite. Non osservò neppure l'aria stolidamente attonita di Speroni, nè la mossa incerta ed imbarazzata colla quale egli la salutò. Aveva fretta di salire quel giorno; il riferto d'Andrea non l'aveva al tutto soddisfatta, e sapeva che il medico deciderebbe dell'opportunità di operare il flemmone. Salutò con evidente distrazione, e salì.
Speroni la lasciò salire. Attese un istante per vedere se, avute informazioni più immediate dal domestico di Roberto, sarebbe ridiscesa. Attese a lungo anzi, con una gran paura che la Contessa ritornasse subito.
Ma no... Trascorse quasi un quarto d'ora, ed egli cominciò a gongolare. Una soddisfazione sincera ed ignobile si dipinse sul suo volto... Ora, era certo del fatto suo. Ma che toupet aveva quella donna!
Speroni amava far visite. Era ciò che gli inglesi chiamano a lady's man, un uomo da signore. L'espressione è bizzarra e da noi assumerebbe troppa varietà d'aspetti per essere facilmente adottata. Nel caso di Speroni, per esempio, avrebbe definito un uomo che della società delle signore avesse esclusivamente assorbite e fatte sue tutte le piccole viltà, le piccole cattiverie, i piccoli ignobili accanimenti che potessero mai, per avventura, lievemente adombrare lo splendore complessivo del carattere femminile, considerato da tutti i lati del poliedro.
[233]
Perciò Speroni provò subito un bisogno immenso di trovarsi fra delle signore e di farle divertire un pochino. Se si scandalizzavano, erano delle sciocche; se arrossivano, delle ingenue; se ridevano, delle donne di spirito. Se qualche volta toccava un'aspra o ben azzeccata risposta, rideva anche lui, ch'era un uomo di spirito alla sua volta. E, ad ogni modo, la novità era in corso e per merito suo.
Quel giorno cominciò a far visite ad ore impossibili e siccome ad ognuna non dedicava che poco tempo, quello necessario per narrare la sua «novità» e raccogliere il primo fiore dei commenti che suscitava, è facile credere ch'egli fornì in quel giorno una discreta carriera di visite. Erano solo le cinque e mezzo quando giunse da Mrss Glengham e in tempo pel suo five o clock tea.
Mrss Glengham era un'americana ultramilionaria alla quale non conferiva troppo l'aria circolante per tutta quanta l'atmosfera del Nuovo Mondo. Era un'aria troppo vibrata per i suoi polmoni, malati, poverini! La duchessa d'Accorsi le aveva accordata la sua protezione, e l'aveva sovvenuta dei suoi consigli sul modo da seguire perchè la società fiorentina aiutasse la buona signora a sbarazzarsi d'una incomoda pletora di quattrini, i quali non avrebbero forse, sul luogo della propria origine, osato mostrarsi sì bellamente alla luce del sole.
Aveva già dato parecchi gran balli, dei pranzi di [234] gala e delle soirées intime, alle quali gli invitati si divertivano immensamente; anche un pochino per le toilettes della padrona di casa e per gli spropositi che le facevano piacevolmente dire in italiano. Si divertivano assai delle malinconiche passeggiate, alla ricerca di un cantuccio quieto, del padrone di casa. Mr Glengham non capiva una parola di italiano, e aveva il «porter» malinconico e amico dell'ombra. Lo si trovava ordinariamente a cose finite, addormentato su un divano, o anche sotto qualche tavolo, d'onde poi era difficilissimo il persuaderlo ad uscire.
I five o clock teas di Mrss Glengham erano sempre molto frequentati. Quel giorno, c'era folla. C'era la duchessa d'Accorsi colla figlia, della quale si diceva ormai con molta insistenza che fosse davvero invaghito il Principe regnante di Hetzengenfeld; invaghito al punto di pensare sul serio a sposarla! Ah se faceva questo la Duchessa, se ci arrivava... chi avrebbe potuto negarle l'omaggio di una sconfinata ammirazione?
Il salotto era affollato e ad ogni istante capitavano nuove visite, che rendevano necessari spostamenti di gruppi e allargamenti di circoli. In mezzo alle ricchissime, ma semplici e scure acconciature da passeggio delle visitatrici, spiccava la stravagante e fantastica toilette d'intèrieur che Mrss Glengham si credeva in diritto di sfoggiare ai suoi ricevimenti di giorno. Era qualcosa di splendido e di grottesco [235] ad un tempo e lo squisito taglio Vatteau di quella creazione di Worth faceva assolutamente a pugni colla tozza, enorme corpulenza della donna che l'indossava e che aveva creduto di completarne l'intonazione capricciosa colla innovazione d'un foulard alla creola, negligentemente stretto attorno alla propria zazzera ribelle, che si ostinava a proclamarsi nera, sotto una generosa tintura d'aurocrome. Ma tutti stavano serii davanti a quella stonatura stridente, e il coraggio civile di fargliene i complimenti non mancò a qualcuno. Ed ella era felicissima, contenta di sè e degli altri, gongolante per il novero straordinario delle tazze di thè che avevano in quel giorno irrorati i petti di tanti rappresentanti dell'high-life fiorentina.
A questa gradita sì, ma accaparrante occupazione, ella doveva pure ogni tanto frapporre qualche pausa di riposo; ed allora la sostituiva al tavolo da thè, qualche visitatrice di buona volontà e fra le signorine specialmente si spiegava un gaio zelo di aiuto. Così fu che Marina Negroni, vedendo a un dato momento un po' intralciato il servizio, si offrì a far circolare le tazze e cominciò col recarne di qua e di là, secondo l'occorrenza: cosa non molto facile con tutta quell'agglomerazione di gente e di mobili. Ma ella seppe destreggiarsi benissimo, e aveva quasi sbrigato il suo incarico, quando giunse presso un gruppo di signore e di giovanotti, in mezzo ai quali Neri Speroni [236] narrava, come già l'aveva narrata tante volte in quel giorno, la sua famosa avventura del mattino.
Così n'ebbe piena contezza anche Marina Negroni, mentre aspettava, sorridendo, con una tazza di thè in una mano, con un adorabile bricchettino di Boemia, per la panna, nell'altra. E udì pure al centro del gruppo alzarsi la voce stridente di sua madre. Ella difendeva Elisa e canzonava Speroni.
— Mio caro, siete uno sciocco. Da quando in qua si dicono di queste cose? Può essere una cosa naturalissima. Rescuati è stato raccomandato a quella cara Elisa, e lei, che gli ha fatto sin qui da istitutrice, ora gli fa da infermiera. È nell'ordine.
— Ma come, come? — ribatteva energicamente Speroni, che per nulla al mondo avrebbe rinunziato a ciò che egli riteneva il valore intrinseco della sua novità — come interpretare altrimenti... E poi già, si sa, egli ci andava tutti i giorni sin da prima. Del duello, non si è mai potuto appurare la causa reale. E noi, che per tanto tempo abbiamo creduto... poveri gonzi!...
— Parlate per voi, — interruppe Ginevra, con una sì insolente e fina espressione di canzonatura che tutti si misero a ridere — e lasciate stare Elisa Serramonti, se vi piace. Sapete che non vi può vedere dipinto. Ovvero, provate a battervi e rovinarvi un braccio per vedere se Elisa viene a farvi da suora di carità. Ha tanto buon cuore, sapete!
[237]
La sortita della Duchessa ebbe un effetto di plauso e di risa che finì di annichilire il povero Speroni. Ma un altro effetto ebbe ancora. Che, pur difendendo generosamente la sua amica Elisa Serramonti, la duchessa d'Accorsi riuscì ad imprimere nell'animo de' suoi uditori l'impressione assoluta della realtà di ciò che egli, Speroni, aveva solo voluto insinuare.
Una delle signore componenti il gruppo si voltò, avvertendo qualcuno dietro di sè.
Era Marina colla sua tazza di thè, un po' oscillante, fra le mani, ma con un gentile sorriso d'invito.
— Con panna, nevvero, cara Sofia?
***
— Adesso — disse Elisa lietamente — siete proprio guarito.
— Le pare? — rispose Roberto dal seggiolone ove stava affondato, avvolto in una vesta da camera orientale, che gli dava un aspetto singolare, niente affatto disdicevole al suo tipo bruno e delicato.
— Mi pare ed è — replicò la Contessa. — Lo ha proclamato il dottore. Un po' di pazienza ancora e il braccio al collo per un po' di tempo e poi starete benone e non vi sarà più traccia delle vostre campagne.
Scherzava, ma aveva in cuore un'angoscia segreta, il pensiero che per l'ultima volta ella era venuta a trovare Roberto in casa sua.
[238]
Roberto taceva. Sapeva anch'egli che, dopo quel giorno, non sarebbe più tornata.
— Vorrei essere ancora malato!... — disse con un sospiro.
— Bravo... Mi rallegro. Bell'onore fate alla vostra infermiera! al dottore, a tutti quanti. E non vi bastano trenta giorni di dolori, febbre, tagli, chinino e compagnia bella?
— Sì... — diss'egli. — Ma c'era lei...
Elisa scosse il capo ridendo.
— Ma io ci sono sempre, Roberto; non scappo mica. Fra qualche giorno verrete a trovarmi, e riprenderete la vostra vita solita. A proposito, sapete che siete l'eroe del giorno? Vi preparano delle ovazioni. Sarete perseguitato dall'entusiasmo generale, non vi lasceranno in pace.
— Mi pare ch'ella canzoni alquanto, cara Contessa, — disse placidamente Roberto.
— Ma che, — protestò Elisa, — non canzono affatto. Ve ne accorgerete. E bisogna che vi spicciate di tornare all'onor del mondo. Il carnevale è agli sgoccioli.
— Come... è già finito il carnevale?
— Quasi; era breve quest'anno. Ma è stato brillantissimo. Lo pensavo sempre quando mi trovavo alla sera ad una festa: se ci fosse Roberto...
— Ah! pensava... Allora dunque pensava a me anche quando era nel mondo, quando non era qui?
[239]
Sul volto di lui era un sorriso tenero e beato, e la guardava con una espressione, involontaria forse, ma che a lei faceva sempre l'effetto di un brusco richiamo all'idea di un grande pericolo e di un grande dovere.
Ella sentì un moto più rapido dei battiti del cuore. Ma si attenne al sistema adottato. Ignorare...
— Certo, rispose semplicemente — Perchè no?
E prese a narrargli, col suo fare sciolto e quieto, i particolari delle ultime feste, quanto aveva in esse attirata l'attenzione dei curiosi. Il pettegolezzo non era il suo forte, ma ella sapeva, narrandolo, dare all'episodio di società un colore originale e divertente.
Egli l'ascoltò, interessandosi a quanto ella diceva. Senonchè, a volte l'attenzione dello sguardo pareva assorbita più dalla narratrice stessa, che dalla narrazione.
***
Egli stava bene ora, decisamente. Aveva superato, mercè la sua robusta costituzione, in un periodo relativamente breve, tutte le fasi di un male non lieve. Ma i dolori prolungati, le lunghe febbri prodotte dal processo d'infiammazione, la dieta prolungata l'avevano indebolito alquanto. La convalescenza era normale. E, cosa strana, egli non la affrettava, nè colla volontà, nè col desiderio, quei due sì validi efficienti al pronto ricupero delle forze giovanili. E [240] in quel momento, per esempio, così mollemente adagiato nel suo seggiolone, colla bellissima testa appoggiata al grande guanciale di piuma, collo sguardo accarezzato da un non so quale riflesso di benessere intimo, egli pareva assorto in una bizzarra e languida contentezza infantile.
Quando ella si alzò per andar via, egli non la trattenne. Lasciò che, per risparmiargli un moto incomodo al braccio tuttora fasciato e raccomandato ad un fazzoletto sospeso al collo, gli rialzasse il guanciale che s'era alquanto rimosso. Per fare ciò più speditamente, ella depose il suo manicotto sulle ginocchia di Roberto. Egli passò nell'interno di quel leggero batuffolo di trine e piume la mano che aveva libera, mentre, attorno alle cartilagini del suo naso affinato dalla malattia, si produceva una vibrazione, l'aspirazione d'un olezzo, sentito coll'acuità di sensazione speciale ai nervi delle persone convalescenti.
Frugò alquanto, sinchè trovò e ne trasse qualcosa con un'esclamazione di gaio trionfo.
— To'... cos'ha qui? dei misteri!
I misteri erano due foglie di violetta che cingevano cinque viole, in numero. Ma viole comuni, la volgare mammoletta del prato.
Si voltò verso Elisa:
— Come, già le viole? È dunque passato l'inverno?
[241]
— Oh non ancora. Siamo ai primi di marzo. Ma non è più l'inverno. L'ho avuto stamane, questo mazzolino, dal fattore delle Celle. Me le mandano sempre. È il mio messaggio di primavera.
— Quando mi sono coricato nevicava, e adesso è primavera... — disse Roberto, con accento bizzarramente pensoso.
— Quasi...
Il giovane tacque, odorando il profumo delle viole. Poi chiese:
— Fuori fa freddo?
— No, affatto.
Erano accanto alla finestra. Egli s'alzò e l'aprì. Era la prima volta, dopo tanti giorni.
La Contessa aveva detto il vero; non faceva freddo affatto. L'aria aveva un tepore straordinario, come accade talvolta a Firenze prima ancora che vi giunga la buona stagione.
Roberto aspirò quell'aria fortemente, con avidità. Era un'arietta vibrata, ma sciroccale. Veniva dai paesi caldi, era una di quelle arie inquiete, capricciose, che sembrano sature dei vaghi misteri della terra e del cielo.
La finestra guardava su una corte cinta da tre lati dal fabbricato della casa, e al quarto lato dall'alto muraglione d'un giardino limitrofo. Dalla parte del giardino s'alzava, sovrastando d'alquanto al sommo del muraglione, un mandorlo, i cui rami, [242] privi affatto di foglie, si andavano qua e là costellando di botoline bianche. E nello sfondo cupo di un'anticamera, nella casa dirimpetto, da una gabbia posata accanto a una finestra aperta, giungeva un acuto, giocondissimo gorgheggiare di canerini.
In tutto l'essere di Roberto si operò quasi una trasformazione. Un subito colore roseo subentrò al suo pallore di convalescente. Si eresse sulla persona e le sue nari aspiravano a lungo voluttuosamente quell'aria, mentre un leggero tremore scorreva la sua persona.
A un tratto, quasi inconsciamente, afferrò la mano di Elisa, ed ella se la sentì stretta come in una morsa, si sentì avvolta da uno sguardo di fuoco. Sentì da quella mano sprigionarsi un calore umido di febbre, vide sul volto di lui una rapida contrazione, il succedersi di violente indefinibili espressioni; ebbe il presentimento e il terrore di una esplosione.
Ma egli s'era già dominato; aveva lasciata la mano di lei e chiudeva tranquillamente la finestra.
— È la primavera, — disse, tornato al tutto padrone di sè. — Ecco il suo manicotto, Contessa. Le viole me le lascia, nevvero?
— Se vi fanno piacere... Roberto.
— Sì, tanto...
Ella si dispose a partire e non permise che egli l'accompagnasse sino all'uscio. Volle vederlo seduto [243] tranquillamente nel suo seggiolone. E gli mise accanto un giornale.
— Sarete buono, — gli chiese — non farete imprudenze?
— Sì — rispose il giovane asciugandosi la fronte ancora imperlata di un lieve sudore — io sarò buono... Ma ella non venga più, nevvero... non venga più!
***
Egli era affatto guarito: andava, veniva per conto suo, raccoglieva la sua messe a lungo differita di applausi, di mirallegro e di ammirazione. In tutti i salotti era accolto con grandi feste, poco meno che come un eroe. La duchessa d'Accorsi aveva saputo trovare e dirgli qualcosa di molto lusinghiero pel suo amor proprio, qualcosa di così francamente ed abilmente espresso ch'egli ne rimase incantato e dovette pur convenire seco stesso che, dopo tutto, la Duchessa era una persona di molto spirito e di una conversazione assai gradevole. Poi aveva saputo che aveva presa a cuore la cosa. Naturalmente, ciò si doveva attribuire all'interessamento per Carisi. Ma ella sorrise con sì fine ironia quando Roberto gli parlò di Carisi e del suo prossimo matrimonio... Ed il suo occhio grigio ebbe un'acuità finissima, improvvisa, che avrebbe potuto servir d'uncino ad una [244] più lunga conversazione. Ma Rescuati non era, come sappiamo, molto avveduto, nè pronto a cogliere la palla al balzo. E la Duchessa, per così dire, rintascò il suo sguardo, con un sorriso paziente, che Roberto non avvertì.
La contessa Elisa aveva riprese le sue abitudini. Riceveva i suoi amici, dava i suoi soliti pranzi, faceva le sue solite visite. S'era riavuta dal terribile sgomento della sua scoperta. Aveva detto alteramente a sè stessa che non era vero, ch'era stato il delirio, l'immaginazione di un istante, l'opera di una surrecitazione momentanea del pensiero. Una violenta ira beffarda le gonfiava il cuore, ora, quando pensava a ciò che l'era parso per un istante. La malattia di Roberto era venuta in buon punto per tranquillizzarla, per calmare la sua coscienza a torto allarmata. Ella amava Roberto... sì... ma come si amava un figlio, nulla più.
A furia di dirsela, di ripetersela, quella soluzione ingegnosa delle sue terribili dubbiosità morali, Elisa se ne fece una specie di convincimento. Visto che non poteva assolutamente essere altrimenti, la cosa doveva esser così per l'appunto. E così... poteva andare. Così infatti era andata per tutto il tempo della malattia di Roberto, così andava ancora... sinchè potrebbe andare. Il lato più pericoloso di tutto ciò era questo per l'appunto. La parte vera di quella ch'era in complesso nulla più d'una povera menzogna. [245] Poichè, realmente, nel cuore di una donna che non ha avuto figli e che ama, se ama un uomo più giovane di lei, il sentimento materno non può rimanere escluso, anzi ha una forma misteriosa, travestita finchè si vuole, ma pure irrecusabile, di partecipazione alla passione stessa, e reca all'amore un contingente speciale, che, pur fondendosi nella corrente di questo, gli imprime a volte l'esteriorità dei caratteri propri. Da questa non ravvisata fusione, dalla lotta dei due sentimenti, che, pur coadiuvandosi a vicenda, a vicenda pure si soverchiano e costituiscono la realtà relativa della situazione, fra l'urto ugualmente impetuoso di due tenerezze appassionate e che facilmente si scambiano i propri attributi, deve essere, ed è invero crudele il martirio di un cuore, non solo, ma di un nobile spirito femminile. È terribile essersi a lungo orgogliosamente ignorata donna e trovarsi a un tratto, per sorpresa, di fronte all'ignoto della propria femminilità, bruscamente destatasi... E, come per salvarsi da quella terribile visione di un paventato cielo... di un paradiso pieno di fiamme d'inferno... ecco l'illusione serena, calmante, rivestita di vero, di una pseudomaternità; ecco il primo, il supremo degli istinti... eccolo con tutta la sua purezza infinita, colla sua normalità di cure, di abnegazioni, di appassionato esclusivismo; ecco l'attrattiva ardente del sacrifizio... l'oblio assoluto di sè stessa, la tenerezza pura, paga di sè sola, senza esigenze, ignara dei suoi [246] diritti. Ecco il vecchio eterno istinto della protezione dell'amore, che vigila, che tutela... a qualunque costo! Ed ecco ciò che forse talvolta più di tutto, nel cuore straziato di Elisa affascinava il suo volere, dicendole: Vinci... a qualunque costo... Domalo, a furia di sprezzo, quel tuo indegno rivale, soffocalo, calpestalo, regna tu in sua vece, senza ch'egli sappia e se ne avveda! Ci giungerai, purchè non discuta il prezzo dei tuoi sforzi. Elisa non discuteva infatti. Il suo volere era gagliardo e la sosteneva. E Roberto aveva potuto dire a sè stesso: Ella è stata per me veramente una madre... Ed alla sua gratitudine si univa un senso di bizzarra e quasi amara umiliazione, ch'egli sentiva senza cercare di definirla. Egli non soleva studiare, nè discutere i propri sentimenti, come faceva Elisa. Perciò questa era tanto più infelice di lui.
***
Le cose si erano rimesse sul piede di prima. Il carnevale, ormai agli sgoccioli, toccava uno zenit quasi tempestoso di divertimenti e la società fiorentina pareva mossa da un turbine irresistibile. S'erano dichiarati parecchi matrimoni, ma non nella misura quantitativa sognata dalle mamme, le quali trovavano che i risultati finali minacciavano di presentare una rubrica molto più abbondante dal lato deplorevolissimo delle liaisons in cui il matrimonio non [247] entra che per uscirne assai maltrattato. Due o tre scandaletti ben condizionati avevano data una speciale dose di piccante alla stagione. Altre novità di quel genere erano alle viste, difendendosi ancora, benchè sempre più debolmente, contro le denegazioni degli increduli.
Oh! gli increduli di queste cose. Fortuna che sono pochi. Poichè, in realtà, chi più guastafeste di loro?
Una mattina la contessa Elisa, che conservava l'abitudine di uscir per tempo a passeggiare, passava in via Cavour e si trovava dirimpetto al palazzo Riccardi. Camminava con lena, recando in mano dei fiori che aveva testè ella stessa comprati da un fioraio in piazza S. Maria. Fiori di campo, a dir vero, niente di raro, ma di colori vivaci, crochi, anemoni di campo. Voleva metterli in mezzo al tavolo, in sala da pranzo. Chi sa che Roberto non capitasse quel giorno a colazione?
Sorrise. Ella amava quelle visite così improvvise, in cui egli, capitando, le diceva: — Ho fame, sa?...
Mentre sorrideva così, ai suoi pensieri, vide avanzarsi dall'altra parte della via una signora di sua conoscenza, accompagnata dalle figlie, due leggiadre signorine, per le quali ella aveva una speciale simpatia e che la madre loro, la marchesa di San Terenzio, aveva educate rigidamente nell'atmosfera di una speciale austerità d'ambiente.
[248]
Elisa, vedendole, ebbe un senso di rimorso... Soleva scambiare con esse, un tempo, frequenti visite. Ora, da qualche tempo le aveva trascurate. È vero che anche le San Terenzio da qualche tempo non s'erano fatte vive, ma certo, la colpa era sua. Le venne il desiderio, lì per lì, di andare a salutarle e a far loro le sue scuse. Fece un piccolo cenno da lungi coi suoi fiori e si disponeva ad attraversare la via, quando si fermò... a un tratto. Le tre signore non avevano avvertita la sua presenza e con un moto pronto, simultaneo, come obbedendo ad una parola d'ordine, invece di procedere per la via retta avevano improvvisamente svoltato l'angolo del palazzo Riccardi, filando strette, sollecite, per piazza S. Lorenzo.
L'incontro era dunque mancato.
Elisa restò alquanto perplessa. Non le era parso dapprima che le tre signore dovessero per l'appunto voltare da quella parte.
E proprio non l'avevano veduta? Era stata così subitanea quella loro mossa... così brusca!
Esitò un istante, stretto il cuore da un vago sgomento. Poi disse: — Non m'avranno veduta... La Marchesa è tanto miope infatti. Ma le figlie?...
Procedeva lenta, a capo chino, cercando di persuadersi che decisamente esse non l'avevano veduta, e meravigliandosi in cuor suo dell'inquietudine di quel dubbio. E così non si avvide che qualcuno camminava rapidamente dietro a lei, per raggiungerla... [249] Se ne avvide solo quando udì alle sue spalle una voce giovane, nota, inesprimibilmente cara al suo udito.
— Contessa!
— Ah! Roberto!
Si fermò. Una subita, folle emozione l'aveva colta; un repentino oblìo di tutto ciò che non fosse quella voce.
— Si può sapere dove va a quest'ora? — le chiese Roberto, mettendosele semplicemente a fianco.
— Oh! vado a casa. E voi, Roberto?
— Io?... vengo da lei, se me lo permette.
— Certo... faremo colazione assieme.
Egli s'inchinò. — Magari — disse. — Ho un appetito tremendo.
Ella sorrise, contenta.
Camminavano assieme, scendendo per Via Cavour, scambiando qualche parola, ma senza nessuno sforzo reciproco per mantenere la conversazione. Egli non aveva l'abitudine di spendere molte parole e non amava prendersi la briga d'intrattenere le persone colle quali si trovava. Una delle ragioni che gli rendeva sì cara la compagnia della Contessa era questa, che ella, nel suo squisito intuito di bontà, lo lasciava sempre a sè stesso, indovinando tutte le più riposte varietà della sua disposizione del momento, assecondandolo sempre, con una suprema delicatezza di indulgenza e di simpatia, ch'egli era troppo giovane [250] e troppo inesperto per apprezzare al tasso reale del suo valore, ma di cui sinceramente approfittava, senza studiarla, contento che così fosse e ch'ella, stando con lui, non lo molestasse obbligandolo a parlare di scienze e arti e di quelle altre storie delle quali ella faceva il suo pane quotidiano.
No... ella non parlava mai di ciò, con quel giovane, non lo seccava mai. Lo aveva accettato, lo amava qual'era, senza neppur studiarlo, imperfetto, mondano, fanciullo, lontano le mille e mille miglia dal suo ideale dell'uomo. Lo amava incondizionatamente, ciecamente, con una dedizione bizzarra e a lei stessa incomprensibile, di tutti i suoi vecchi sogni, di tutte le esigenze della sua immaginazione, della superfetazione della sua fantasia, tanto raffinata dal complicato, incessante lavoro della coltura. Forse tutto ciò non era che un'intima, crudele rivincita di quel destino di donna, lungamente offeso, disprezzato, rinnegato da lei.
Perciò ella gli camminava allato, queta, senza obbligarlo a discorrere, misurando il proprio sul passo di lui, celere e spedito. Pensava solo ch'era con lui, che per qualche ora starebbe con lui. Ciò le bastava. Un vago sorriso errava sulle sue labbra, una dolcezza vaga, diffusa per tutte quante le facoltà dell'esser suo le teneva luogo di tutto, per quell'istante, come per tutti quelli ch'ella passava con lui.
Sapristi! che appetito aveva quel Roberto!... Sparivano [251] quei piattini leggeri, delicati di colazione da signora che formavano il solito menu della Contessa; sparivano ch'era un piacere!
Andrea, quel buon vecchio domestico il quale conosceva ormai così bene i gusti dell'ospite della sua signora, aveva servito un supplemento improvvisato, qualcosa di solido e di meglio adatto al robusto appetito d'un giovane. E l'idea e l'esecuzione di essa erano state ben accolte e il vecchio domestico, il quale subiva come tutti il fascino della bellezza, del fare sciolto e bonario di Roberto, lo serviva con un piacere quasi visibile attraverso la correttezza austera del contegno.
Oh l'allegra colazione! e che gaiezza intima, squisita metteva la presenza di Roberto in quella sala, ove Elisa soleva talvolta trovare interminabili i pasti elaborati ch'ella consumava, sola, di fronte a quel lusso, nell'apparato austero, quasi oppressivo nel suo cerimoniale immutabile e silenzioso. C'erano i suoi pranzi di amici, è vero, i pranzi delicati, elegantissimi, tanto ricercati, in cui ella presiedeva un'accolta di persone intelligenti, celebri, che andavano a gara per farle provare tutte le compiacenze di un elettissimo ambiente, per darle tutte le soddisfazioni d'amor proprio che un ospite possa desiderare. Pure, cosa le parevano ora, di fronte alla bizzarra gioia che le procuravano quelle colazioni o quei pranzi con Roberto solo, lieto, affamato, che mangiava con [252] tutto lo spensierato appetito della sua età, che rideva di tutto, dicendo tutto ciò che gli passava per la testa, come se fosse in casa sua!
Non si accendeva più il fuoco in sala da pranzo. Era primavera ormai e dalle finestre aperte entrava un'arietta mite, in seno alla quale danzava sussurrando il traforo verde delle piccole fogliuzze nuove sugli alberi del giardino. Erano capitate di recente le prime rondinelle. C'erano dappertutto per la casa tante mammolette ed egli ne aveva sempre all'occhiello un mazzolino.
Era guarito bene ora, stava benissimo. Non portava più il braccio al collo. Della sua malattia non gli rimaneva ora che un leggero dimagramento della persona e questo, affinando ancor più le sue fattezze, pareva averle rese più cesellate e più belle. E attorno alle palpebre, nell'incavo profondo come quello di certe statue greche, l'ombra diffusa, indefinibile pareva essersi più intensa tra il naso profilato e la forma alquanto smagrita dell'ovale. La fisonomia diveniva così più espressiva, assumendo quasi una nuova dolcezza di sentimento.
Mentre egli sorseggiava tuttora il suo cognac, Elisa si alzò, pregandolo di rimanere per fumare la solita sigaretta. Ella darebbe frattanto un'occhiata alla posta del mattino, che aspettava da parecchie ore.
Elisa passò nel suo salotto e trovò infatti giacenti [253] al solito posto i giornali e parecchie lettere. Fra queste una da Milano, di Marcello Plana.
— Ah! — pensò con uno schietto senso di rimorso, mentre apriva la busta con mano tra esitante e impaziente — e io che non gli scrivo più da tanto tempo!
Infatti, era assai trascurata la sua corrispondenza da qualche tempo in qua.
Marcello Plana scriveva breve, senza lagnarsi del suo silenzio. Non era una delle sue solite lettere briose; parve anzi ad Elisa che l'intonazione fosse un po' fredda. Rileggendola, si avvide di un poscritto:
«E il marito di Marina: come sta?»
La lettera le cadde sulle ginocchia, ed un senso di malessere la invase subitamente, mentre un rossore impetuoso le saliva alle guance.
Un ricordo si fe' ad un tratto vivo, imperioso dinanzi a lei. Il ricordo del colloquio che avevano avuto cinque mesi prima, lei e Marcello, in quel salotto... Pensò al sorriso ironico di lui, alle velate parole in cui ella non aveva saputo ravvisare l'ammonimento...
Per un secondo ebbe un vivo rancore verso l'amico, che non le aveva parlato più esplicitamente.
Ma subito un senso di giustizia e di profonda umiliazione corresse in lei quel vago grido di rimprovero... Oh! come avrebbe egli potuto supporre [254] ch'ella potesse dimenticare così la sua età, le convenienze, le circostanze per lasciarsi vincere da una sì insana, sì ingiustificabile, sì sciagurata debolezza?
Visse un istante d'acuta angoscia intima, ripensando a ciò ch'era accaduto in quei cinque mesi, alla progressiva infatuazione del suo cuore, alla cecità colpevole, imperdonabile che l'aveva colpita. Per un minuto fu schiacciata dal senso della responsabilità che pareva essersi a un tratto aggravata su di lei. Poi, coll'intimo orgoglio di una reazione, quasi di una sfida:
— Ebbene, — mormorò. — Soffrirò... ecco tutto... Ma nessuno saprà... nessuno!
Squassò il capo, alteramente, gettando sul tavolino la lettera di Marcello Plana.
Prese le altre non ancora aperte. Su una delle buste ravvisò la calligrafia di zia Balbina. Provò un senso disaggradevole di sorpresa. Zia Balbina scriveva assai di rado. Ma sempre, dalla sua lettera rimaneva qualcosa di spiacevole, un'impressione o dolorosa o umiliante. Stavolta, lì per lì, Elisa non ravvisò subito il carattere solito delle epistole di zia Balbina. Ella scriveva soltanto per invitare Elisa a recarsi per qualche tempo presso di lei.
L'invito sorprese Elisa. Sapeva che zia Balbina le serbava tuttora un certo rancore pel suo rifiuto di andar ad abitare con lei, e le pareva strano che, [255] dopo parecchi anni, dopo un lunghissimo periodo di silenzio, così ad un tratto, ella reiterasse l'invito in quella forma secca, quasi imperiosa:
«Credo che il tuo buon senso non darà luogo ad esitazioni od indugi da parte tua. Ti aspetto dunque infallantemente. Il resto a voce; intanto spero ti sarai convinta che non sempre va errato nei suoi giudizi e nelle sue previsioni il criterio della tua affezionatissima zia
«Balbina.»
Per un momento ci fu un po' di caos nella mente di Elisa... Ma, poi, un raggio di fosca luce le penetrò nel cuore, col freddo di una lama. Si ricordò l'aspra profezia di zia Balbina: «Credi di cavartela così sola, senza un appoggio, un consiglio. Ma verrà un giorno che ti morderai le unghie e gli altri rideranno.»
Balzò in piedi spaventata. Ridere... gli altri! Di chi? di lei! del suo soffrire!
Strinse le tempia fra le mani... Le parve che una mano brutale, con un colpo subitaneo, la denudasse tutta da capo a piedi, in mezzo ad una piazza ingombra di una moltitudine.
Pensò disperatamente:
— Ma come? come?
Si ricordò ad un tratto di una circostanza. La San Terenzio era intrinseca di zia Balbina. Le due signore [256] mantenevano un nutrito carteggio a proposito di buone opere, di predicatori e simili. Sì, ora si ricordava senza equivoci, senza incertezze. Da qualche tempo in qua, le San Terenzio la trattavano con molta freddezza. Quella mattina stessa avevano, (non c'era dubbio ormai) evitato il suo incontro.
Zia Balbina era stata informata da loro. Certo ella alludeva a Roberto! Ma interpretando sinistramente la familiarità, l'amicizia...
Si arrestò, nella foga stessa dei suoi pensieri. Una voce si levò nella sua coscienza e ripetè come un'eco beffarda:
— Amicizia?
Ma dunque... si parlava di ciò, dunque quello ch'ella credeva il suo segreto era invece il segreto delle signore San Terenzio, di tanti, di tutti... Dunque credevano ch'ella fosse...
Mille piccole futili circostanze a cui non aveva posto mente, che aveva disprezzate, nell'assorbimento della sua nuova esistenza, le tornarono ad un tratto, inesorabilmente, vive al pensiero. Le visite diradate degli amici, una indefinibile e pur sentita alterazione nel modo in cui le parlavano gli uomini, certi sguardi curiosi in cui la riverenza solita era come attenuata da una curiosità ironica, nuova, certi sguardi di signore... Non ne rammentò uno, speciale, velenoso, pieno di ironia, che le aveva rivolto pochi giorni prima la Duchessa d'Accorsi.
[257]
Per un momento fu intollerabile l'angoscia di quella misera. E veramente terribile per una donna che, pur avendo scordato per un istante il mondo ed i suoi giudizii, li conosce e sa cosa possano. È terribile il sentirsi ad un tratto, a torto od a ragione, in balìa del mondo e dei suoi giudizii!
— Contessa, — disse all'uscio la voce fresca e sonora di Roberto.
Ma Elisa in quell'istante non l'udì; stava seduta accanto al tavolino, con la testa sprofondata tra le mani, rannicchiata su sè stessa, come inconsciamente ella volesse ridursi al minor spazio possibile, sopprimersi, annientarsi.
La involontaria posa era rivelatrice di una così intima angoscia che Roberto si spaventò.
Le venne presso rapidamente, si inginocchiò ai suoi piedi, e ripetè dolcemente, con un inquieto e tenero appello:
— Contessa! cara Contessa!
Colle mani, le sue belle mani morbide e nervose, cercava di rimuovere quelle di Elisa dalla fronte che esse celavano.
Il volto di lei apparve; apparve anche una contrazione dolorosa, che voleva essere un sorriso, uno sguardo che voleva essere calmo, ma che si tradiva saturo di un dolore ineffabile.
Egli era sempre inginocchiato ai suoi piedi. Una pietà turbata, crucciosa, gli gonfiava il cuore.
[258]
— Mi dica cos'ha. Contessa, cos'è accaduto. Suvvia, mi dica... Oh non si crucci così. Sono state quelle letteracce, nevvero, che le hanno fatto pena, che le hanno recata qualche brutta notizia.
Oh la pietà crudele di quella voce dolcemente imperiosa, pressante, che voleva sapere!...
Ella scosse il capo.
— No... no... Nulla, vi accerto.
Ma egli era convinto... Prese la lettera di zia Balbina. Era caduta a terra; la gettò sul tavolino accanto alle altre, cacciandole tutte quante in un fascio.
— Così... — disse. — E nuovamente si rimise come prima, trattenendo le mani che cercavano debolmente di ritirarsi, cercando colla pietà, coll'amore dei suoi sguardi, gli sguardi smarriti che volevano e non potevano fuggire.
— Perchè è così triste? Era così contenta un momento fa... E ora... cosa è accaduto? chi le ha dato pena? perchè non vuol dirmelo?
La voce aveva un tremore sempre più accentuato, una tristezza sempre più dolce, più incalzante.
— Oh, parli, dica, posso far qualcosa? Perchè non mi vuol dire? perchè mi nega la sua confidenza? E lo sa pure, lo sa che io le sono tanto grato, che io le voglio tanto bene!
Oh ella lo sapeva... Ella aveva ravvisata tardi, ma finalmente l'indole della simpatia, della gratitudine [259] che Roberto aveva per lei. Si sentiva amata da lui, da quegli che ella adorava. E per un secondo una gioia intima, acuta le innondò il cuore. Ma tenne il capo chino, stette immobile, padrona di sè, sotto la carezza inebbriante di quella voce, di quelle parole, obbedendo al crudele ammonimento d'un supremo istinto: «Se alzi il capo ora, se rispondi in questo minuto, sei perduta.»
Non si perdette... la calunnia non divenne una verità.
Roberto l'amava; ma era inesperto della passione. Non comprese... non seppe...
Quando rialzò il capo, ell'era già la più forte.
— Si, — disse dolcemente, — queste lettere mi hanno fatto pena; hanno...
Un dubbio colse Roberto. Egli stette perplesso un istante, guardandola non più teneramente, ma con un'aspra perentoria espressione, ch'era anche essa una conferma.
Un nuovo, un immenso senso di gioia colmò l'animo di Elisa.
— È geloso! — pensò.
Gli sorrise con una dolcezza infinita, arrossendo come una fanciulla.
— Oh! no — disse quasi inconsciamente... — no!
Ma subito, subito dopo, si fece seria, pacata, in tutto presente a sè stessa.
— In fondo — disse, alzando lievemente le spalle [260] e rivolgendosi con grande semplicità a Roberto... — sono io che sono una sciocca e che ho torto... Si tratta di pettegolezzi, cose da nulla.
— Sì? — chiese Roberto solo a mezzo convinto. — Ma allora... perchè se n'è crucciata così?
— Appunto, perchè sono una sciocca...
Roberto tacque un istante, guardandola fiso nel bianco degli occhi, mentre ella cercava di trattenere sotto il fuoco di quello sguardo la voluta quiete della sua fisonomia.
— Lei, cara Contessa, è un angiolo, nè più nè meno. Ma ha un benedetto vizio. Di prendersela troppo facilmente per ciò che le dicono, o dicono gli altri.
— Ma Roberto....
— Sì, signora... è proprio così... Crede forse che, quando abbia fatto tanti sacrifici e contentata una massa d'imbecilli, questi le saranno grati o la compenseranno in qualche modo? Mai più. E così, tutto il bello e il buono della vita se ne va... per niente.
— Per niente! — echeggiò una voce di supremo desiderio nel cuore di quella donna!
— Guardi — proseguì Roberto... — faccia come me... faccia ciò che vuole, ciò che le pare. Io, vede, di quello che possano dire o far gli altri non m'importa affatto. È il mio metodo, e me ne trovo bene.
— Ma voi siete un uomo. Roberto.
— E lei è una donna. Ma dev'esser sempre una [261] vittima perchè è una donna? Sacrificarsi sempre, perchè? Si vive una volta sola. Chi ce le ripaga le gioie che non abbiamo saputo godere?
Negli occhi di Roberto s'era accesa una strana intensa luce; le sue mani serravano, tremanti, quelle della Contessa.
Ma ella sorrise, e disse rapidamente, ridendo:
— Oh Roberto, ma questo è un ricordo classico di scuola. Siete un vero epicureo.
E rimase anelante, quasi convulsa, colla contrazione di quel riso fissa sulle labbra.
Roberto arrossì violentemente sotto la sferza di quel ricordo di scuola, gettatogli in pieno volto.
Neppur questa volta ravvisò l'estremo terrore che aveva suggerito a lei come uno scampo, quell'allusione. Un avvilimento lo colse, un'ira contro di lei, contro sè stesso. Con un atto violento afferrò il cappello.
— Buon giorno — disse bruscamente, avviandosi verso l'uscio.
Ma una subita vergogna lo colse a mezza via. Si fermò; guardò quella donna pallida, che gli teneva dietro collo sguardo angosciato, ansioso.
Tornò indietro lentamente. Pareva ora davvero un fanciullo confuso, incerto del perdono.
Quando le fu vicino, stette immobile, aspettando. Essa gli porse la mano senza parlare, ma con una grande dolcezza di sorriso.
[262]
— A rivederci — gli disse.
— Mi manda via? — sussurrò egli.
— Oh no! Roberto. Ma è tardi e... devo vestirmi per uscire.
— Oggi, alle Cascine?
— No, non credo, ho molte visite da fare.
— Allora stasera, alla Pergola...?
— Sì... cioè non son certa. Sono un po' stanca. Ecco; domani.
— Sino a domani? È lunga, sa, sino a domani.
Ma non osò insistere. Se ne andò lasciando, ignaro, dietro a sè un'anima affranta da mille lotte contradditorie, e pur già penetrata tutta quanta dal desiderio febbrile, inebbriante di quel domani, che le avrebbe ricondotto Roberto...
[263]
La voce prendeva molta consistenza; non si poteva fare una visita, nè frammettersi in un crocchio, senza udir parlare di quel benedetto matrimonio... Non era per anco dichiarato ufficialmente, ma si dava per certo. Marina Negroni era fidanzata al principe di Hetzengenfeld.
La duchessa d'Accorsi era portata a cielo. Un coro frenetico di entusiastico plauso si elevava da mille bocche, fatte turiboli. Poichè, indubbiamente, il merito della felice manovra era tutto suo. Marina non avrebbe mai saputo da sola, col suo mediocre fascino, tentare una impresa sì incredibilmente audace, raggiungere una sì portentosa fortuna. Ovvero ella aveva ingannati tutti quanti colla sua finta freddezza, colla sua calma imperturbabile. Si era abilmente riserbata per la sorte sognata dalla tacita ambizione. E se l'aveva raggiunta, buon per lei. Il mondo è di chi lo sa prendere.
Se qualche timida voce si alzava per trovare che, dopo tutto, l'immensa ventura di Marina sarebbe [264] stata più completa se si fosse trattato di uno sposo meno avanzato in età e di aspetto più aggradevole, la piccola nota andava tosto schiacciata nella sonorità incalzante del plauso generale e incondizionato. Fanciulle giovani, boccioli di rose appena sbocciate, invidiavano sinceramente Marina.
Non parlo dell'immensa invidia che le madri stesse di quelle fanciulle portavano alla duchessa d'Accorsi.
Pure, avrebbero dovuto tacere. Poichè sanno... le madri! Ma più di loro la sa lunga il criterio del mondo, la sua equità di estimazione dei sentimenti e dei fatti.
Contuttociò, la notizia trovò un'incredula, una donna che si ostinava a dire, pensando ai venticinque anni di Marina e ai sessanta del principe: — È impossibile.
E questa bizzarra ostinata era la contessa Elisa Serramonti.
Aveva una specie di terrore di quell'idea, una confusa apprensione di un male cagionato da lei, dalla fiacchezza del suo operato, dalla sua mancanza di coraggio e di perseveranza. Un picciol verme rodeva forse celato, in non so quale ripostiglio della sua coscienza?
Una mattina, dopo una notte insonne, Elisa s'alzò con un'idea fissa. Venire a capo del vero, a qualunque costo.
Marina Negroni aggrottò forte le ciglia quando [265] udì dalla sua cameriera che la contessa Serramonti chiedeva di lei e saliva per l'appunto le scale che conducevano al suo piccolo appartamento di signorina. Poi disse a sè stessa: — Meglio così — e si preparò a ricevere l'inattesa visitatrice. E quando questa coll'accento affettuoso, colla libertà a cui le davano pieno diritto l'antica amicizia e le prove di reciproco interessamento, le chiese semplicemente se avesse fondamento la voce che correva, Marina rispose, senza imbarazzo, senza ambagi, un semplice: Sì.
— Da ier l'altro soltanto — proseguì poscia Marina — girando sull'anulare un grosso rubino contornato di brillanti di uno splendore degno di una fidanzata regale. — Non è ancora ufficialmente annunciato, ma la mamma le avrebbe scritto certamente quest'oggi. Il matrimonio si farà presto; Enrico desidera di ritornare in Germania.
Parlava disinvolta e senza il menomo imbarazzo, come se tutto ciò fosse la cosa più semplice, più ovvia di questo mondo. Nè la fisonomia, nè l'accento tradivano la menoma emozione: la sua bellezza glaciale pareva già educata all'impassibilità serena di una sovrana. Non era mai stata molto espansiva, neppur con Elisa; ma Elisa, guardandola ora e udendola, provava come uno stringimento al cuore. Quell'immensa calma non era nuova in Marina; ma in quella novità di circostanze, nell'entità dell'avvenimento, [266] pareva ad Elisa ch'ella assumesse un significato strano e inammissibile. Nel cuore suo era una indefinita tormentosa lotta d'incertezze; ma non mai, neppur pel più lieve spiraglio, Marina, nel corso della conversazione, diede campo ad una spiegazione, ad una domanda. Solo quando fu in piedi per accomiatarsi, Elisa trovò ad un tratto, in un parossismo di angoscia che si tradiva nel tremito della voce, nell'alterazione della fisonomia, il coraggio di una domanda: — Sei felice? — Colta all'improvviso, Marina trasalì. Un lampo d'ira passò nei suoi occhi, qualcosa come un odio, una bieca meraviglia. Ma subito si spense. — Si, — disse ad alta voce.
— Lo ami? — insistè Elisa — lo ami? — sempre con quel cieco istinto di dover dire, premunire. Una immensa pietà di quella fanciulla s'era levata impetuosa, risoluta, nel suo cuore.
— Certamente, lo amo — ribattè Marina con una quieta determinatezza. Ma la menzogna appariva visibile nel moto stesso delle labbra. Con un vago senso di terrore Elisa pensò al suo passato, al giorno in cui s'era fatta sposa al conte Serramonti, alla strana realtà che aveva ad un tratto squarciato il velo delle sue caste ignoranze, e che non aveva ad ausiliario, a scusa... a ragione nulla più del convincimento del dovere ed un ragionato senso di stima e di omogeneità intellettuali. E ora, ora soltanto intuiva, comprendeva che tutto ciò era stato un sacrilegio e stava [267] per compierlo anche Marina, quell'inconscio sacrilegio.
— Marina, — le disse, con intensità profonda di sentimento — sei risoluta, lo vedo... Ma pensaci, per pietà, pensaci ancora. A un'altra non direi così... Ma io ti voglio bene... ti ho sempre voluto bene, ho sempre desiderato la tua felicità.
— Lo so, — interruppe tranquillamente Marina — più volte mi ha dato prove del suo interessamento. Si è adoperata anzi più volte per procacciarmi un collocamento. E allora... non le pareva necessario che io ci pensassi tanto per prendere una risoluzione, nevvero?...
Sotto l'ironia crudele di quell'allusione, Elisa si sentì di fronte ad un nuovo, inatteso ostacolo. Marina le appariva sotto un nuovo aspetto... un aspetto che non aveva mai sospettato in lei.
— Marina, — le disse, con la serietà dolorosa di un animo che si sente ferito a un tratto da un'ingiustizia e da un'ingratitudine — in tutti quei casi... tu avresti potuto amare. E ora? interroga il tuo cuore, Marina, interroga tutta te stessa.
Davanti al puro e chiaro sguardo di Elisa si abbassò quello audace e aggressivo della fanciulla. Ella non osò ripetere la sua menzogna.
— Ora, — disse tranquillamente, — la cosa è decisa, io ne sono contentissima... Non sia in pena per me, Contessa; questo matrimonio colma tutti i miei [268] voti, e quelli di mia madre. Tutto a questo mondo non si può avere. E l'amore. Oh! l'amore!...
Ebbe un bel riso perlato in cui suonava un amarissimo scherno.
— Ci crede, lei, all'amore? — soggiunse poi accostandosi ad Elisa, e piantandole in faccia uno sguardo quale Elisa non aveva mai conosciuto nell'occhio di quella fanciulla. Qualcosa, un impulso misterioso e irresistibile costrinse la Contessa a rispondere gravemente:
— Sì!
Di nuovo nella bocca di Marina stridette il piccolo riso cristallino.
— Ah! Contessa, meglio tardi che mai! nevvero?
Un grande pallore coperse il volto di Elisa, un pallore sì intenso che Marina stessa ne rimase un istante sgomentata.
Ma la contessa rimase immobile e quieta. Poi come dal profondo del cuore, dal profondo di un abisso di dolori e di lacrime, la risposta venne involontaria, precisa:
— No, Marina, meglio mai che tardi!....
················
Marina non replicò. Stettero mute un istante, raccolte ognuna nell'intensità delle proprie angoscie. Così erano state un'altra volta nel salotto della Contessa, quel giorno in cui Marina era venuta a chieder ragguagli sul duello di Roberto. Ma allora non sapevano! [269] Ora sì, sapevano, e forse in quel momento ebbero pietà l'una dell'altra!...
Quando ricominciarono a parlare, il colloquio parve avere ad un tratto ritrovate le antiche basi calme e cordiali. Elisa non reiterò i suoi consigli e nessuna allusione venne fatta agli intimi sentimenti di entrambe. Marina diede tranquillamente le notizie di quanto si atteneva alla circostanza, ai progetti di viaggio, ecc.
Nulla in Marina rivelava l'ubbriachezza del trionfo. Nulla dell'interno suo stato d'animo trapelò più in lei. Ell'era, adesso, quale era sempre stata, fredda, indifferente, intangibile..., padrona del suo destino. Senonchè, ora, nella serena normalità delle sue parole, c'era come una nuova dignità, una forma di riservatezza, un noli me tangere, che aveva veramente qualcosa di regale, che si elevava sovrano, imperante sulle confuse rovine d'una passata debolezza, rinnegata ora e dominata, per sempre...
***
Elisa stava dinanzi allo specchio e lo interrogava. Lentamente passò la mano sui proprii capelli, sulle piccole striature bianche che li chiazzavano. Ma la capigliatura era abbondante, morbida, finissima. Le sue mani ebbero l'impressione di una carezza.
Guardò ancora attentamente, come si guarda negli [270] occhi di un giudice. Si vide grande e snella. Le linee del suo corpo serbavano tuttora un'integrità giovanile, quasi virginea. Il collo era fresco, rotondo. Inalterato il fine ovale del volto, cesellate le fattezze. Una tinta delicata pareva dar loro un rilievo indefinito e brillante. E gli occhi suoi le parvero grandi, vivi di una luce diffusa, irradiante. Attorno ad essi le piccole rughe parevano essersi celate, fatte quasi invisibili.
Una suprema compiacenza le penetrò nell'animo, una gioia tenera di quella bellezza sua, rivelata a lei stessa, constatata in uno di quei momenti in cui l'anima a tutto s'avvinghia di ciò che può salvarla da un terrore segreto, senza nome.
— Sono bella, — mormorò Elisa, — sono bella!
Lo era in quel momento, squisitamente. Era bella del suo amore segreto, combattuto, messo alla porta da lei stessa cento volte al giorno, ma che cento volte al giorno, insidioso, prepotente tornava.
Si guardò ancora, e sorrise. Un senso di immensa gratitudine le irruppe dal cuore:
— Roberto, — mormorò sottovoce — Roberto, tu sei la mia gioventù!...
Si lasciò cadere come spossata nella poltrona e gli occhi, lentamente, si socchiusero. Una mano si levò, tremante con un inconscio gesto d'appello...
Roberto!... mormorò ancora una voce semispenta!
Ma Roberto non l'intese. Era al Club cogli amici.
[271]
***
La duchessa d'Accorsi diede una grande soirée extra per annunziare ufficialmente le nozze di sua figlia. Passò in persona, un momento, dalla contessa Serramonti per invitarla verbalmente, e rimase molto, ma molto attonita udendo da Elisa stessa ch'ella non avrebbe forse potuto approfittare del gentile invito. Partiva.
Partire! Ma che! non poteva crederlo. Partire ora, sul finire del carnevale e nel più bel momento della stagione. Impossibile! Sarebbe un dispiacere immenso per lei e per Marina se la loro cara Elisa non assistesse a quella festa. E ora ch'era sì bella, sì brillante! Ah! non l'avevano mai vista così bella, così fresca. Era l'opinione di tutti; un vero incanto.
La Duchessa ripeteva infatti ciò che da qualche tempo era la vox Dei della società fiorentina. Ma il complimento non era giustificato in quell'istante. Elisa non era nè giovane, nè bella. Dimostrava tutti i suoi anni, forse più dei suoi anni.
— Parto, — disse ancora. — Vado da una mia zia, malata, alla quale ho da lungo tempo promessa una visita.
— Malata... molto?... — chiese la Duchessa col suo formidabile sorriso.
Elisa non sapeva mentire. Arrossì.
— Sì... piuttosto gravemente.
[272]
— Ah! davvero! Me ne spiace.
Un sorriso stranamente equivoco schiuse le labbra di Ginevra. Ella si appressò con una mossa confidenziale, di compagna, alla poltroncina di Elisa.
— Quella cara Contessa! Misteriosa sempre! sempre avvolta di un velo di poesia. Ah!... la comprendo... sa!... più di quanto ella creda. Per quanto ciò le sembri strano, forse audace da parte mia, ho sempre avuta l'intuizione, che, un giorno o l'altro, fra noi dovesse esistere un'intesa più intima, meno superficiale di quanto lo concede la nostra esistenza così agitata, così frivola... A volte, non ho mai osato dirglielo; poichè ella vive in una sfera tanto superiore alla mia. Ma se sapesse quanto ho pensato all'isolamento della sua vita, del suo cuore....
La Duchessa seguiva attentamente sul volto di Elisa le tracce delle sue velate insinuazioni. Non invano era sì subdola e sì crudele. Voleva sapere e sapere da lei.
Poichè era in dubbio; un dubbio curioso. Ella aveva bensì, senza mai formulare un'accusa precisa, scatenata la calunnia sui passi di quella donna; ma in fondo, per conto suo, non era sicura. Sapeva, lei, ciò che il mondo bene spesso ignora, cioè che si può lottare vittoriosamente anche con una passione vera, che spesso le apparenze ingannano, anche nel senso del male, che ci sono delle anime schiave di un principio, di un ideale di altera purezza, e per le quali, [273] come per l'ermellino, l'idea della macchia è più dura... più crudele della morte stessa.
Elisa sentiva l'oppressione incalzante di quella volontà imperiosa. Un ipnotismo pareva costringerla a subire il fascino malvagio di quello sguardo.
Ginevra le si era fatta presso ora, assai presso. Il suo sguardo dardeggiava vicino, intollerabile. La mano della Duchessa accarezzava con un gesto furtivo, pieno di simpatia felina, la povera mano di Elisa. E un sorriso dolce, quasi amoroso pareva dire alla misera: — Suvvia, dunque, tradisciti; non vedi che son qui, che so, che voglio, che devi dirmi il tuo segreto?
— Ella ha sofferto!... sì, deve aver sofferto tanto! — continuò Ginevra. — Il mondo non le sa queste cose. Pure, è tanto naturale. Ci sono delle fatalità, oh... così dolci, nevvero? E la vita è così breve, così pochi i compensi delle sue amarezze. E certi spauracchi, che spaventano le anime timide, insufficienti, non bisogna curarsene... mia cara amica. La questione è tutta lì, dominare o essere dominata. E lei, dopo tutto, è libera, è uno spirito forte, superiore a tante meschine considerazioni. La società si contenta di così poco, in realtà... basta una piccola, oh... una così piccola dose di savoir faire, per assicurarsi la sua indulgenza, la sua simpatia, anche nelle questioni che riguardano noi... il nostro povero cuore.
Fu intollerabile per Elisa l'umiliazione di quell'istante. [274] Comprese ciò che quella donna voleva dire, ciò che implicava la benevolenza del suo consiglio, l'allusione tacita che creava fra loro un'analogia... che le metteva entrambe, per un momento, allo stesso livello!
E tosto, un istinto, un orgoglio la sovvenne liberandola da quel fascino abbietto.
Non si mosse, non ritrasse la mano fredda e rigida dalla mano di Ginevra. Rialzò il capo con un moto impercettibile, che non l'allontanava più di dieci centimetri dal volto della duchessa, ma che parve ad un tratto mettere fra loro una distanza infinita. E la calma del suo sguardo parve scendere da una smisurata altezza e ricercare la mota di una bassura, mentre ella rispondeva con grande chiarezza e pacatezza di voce:
— Duchessa, che intende dire?
Per un istante, forse l'unica volta in vita, Ginevra si sentì vinta, e rimase interdetta. Ella aveva provocato un atto inconscio di debolezza, un tradimento della volontà disarmata. Voleva la confessione di una disfatta. Ma non una discussione, non quel calmo, altero sprezzo di sfida!... E la sua crudele curiosità rimaneva insoddisfatta e delusa.
— Nulla — disse ridendo. — Ella, cara Contessa, è, e sarà sempre, un angelo, e queste cose profane non la riguarderanno mai personalmente. Contuttociò, non me ne voglia se ho osato darle... oh, non oserei [275] mai dire un consiglio; e se ne rammenti, all'occasione, come io non mi scorderò certo...
S'arrestò bruscamente. Elisa non l'ascoltava più. Il suo volto, poc'anzi sì pallido, era soffuso di un rossore squisito che non si riferiva a lei, che la metteva in disparte, subitamente.
Un rapido passo virile si accostava all'uscio; la portiera si mosse, e Roberto entrò, baldo, spigliato.
La Duchessa lo apostrofò vivamente.
— Oh, Rescuati, bravo, bene ispirato! Qua subito, alla riscossa, in mio aiuto. Mi aiuti a scongiurare un grande pericolo, a convertire un'ostinata, una cattiva, che vuole, proprio alla vigilia del mio ultimo ballo, fuggire, lasciar Firenze.
Sul volto del giovine si dipinse una intensa meraviglia. Si volse verso la Contessa, e le chiese con un impeto che non pensava a celare:
— È vero, Contessa, è vero?...
— Può essere. Credo infatti di dover recarmi a Foligno presso mia zia.
— Come? perchè? — interruppe Roberto. — Ma se non mi ha detto niente!
La frase gli era sfuggita imprudente... e la Duchessa l'aveva colta a volo. Si volse verso Elisa, ridendo:
— Ha udito, mia cara Contessa? Non bisogna fare così... non bisogna mancare di confidenza verso gli [276] amici. Vede cosa succede quando si vogliono tener per sè i segreti! Capita una stordita come me, che li tradisce ingenuamente, senza pensarci. Perchè, sicuro... non dovevate saper niente, voi, Rescuati! E adesso che ci penso... chissà che malanno ho fatto... eh, tra voi due?
— Nessun malanno — rispose tranquillamente Elisa. La Duchessa ha detto nulla più di quanto avrei tosto annunziato io al conte Rescuati, nonchè a quanti amici miei avessi veduti quest'oggi.
— Ma è deciso, proprio deciso? — chiese ansiosamente Roberto, avvolgendo la Contessa d'uno sguardo di sì calda ansietà che la Duchessa strinse alquanto, dietro le labbra sorridenti, quei tali larghi denti sì atti al morso.
— Oh non dica che è deciso — supplicò Ginevra. — Speriamo che la zia si rimetta in salute, che non si effettui questa fuga. Marina sarebbe impicciatissima se non avesse i suoi consigli pel corredo.
E s'alzò con una specie di grazia brusca, con un sorriso sagace e malizioso, come di persona memore ad un tratto che la sua presenza può essere inopportuna.
— No, cara, no! — rispose ad Elisa, che, pur alzandosi di scatto e simultaneamente a lei, mormorava qualche frase cortese. — Non posso trattenermi davvero: ho venti visite da sbrigare, s'immagini! E questo matrimonio mi dà un da fare! Marina è così [277] felice che non pensa a nulla! E potete immaginare se lo sono io! Contuttociò, pensate che fra un anno posso essere nonna. Orribile, n'è vero? Beata lei, cara Contessa, che non corre di questi pericoli, che si conserva così bella, così fresca, di persona, di cuore, di sentimenti, di affetti, di sensazioni...
Le parole piovevano alate, leggere, in un'onda di chiacchiere amichevoli, colla volubilità, la grazia di un'effusione quasi tenera. Ma così talvolta percuote la grandine, a chicchi piccini piccini, un povero fiore, e lacera i lembi delicati dei suoi petali.
Si voltò verso Roberto.
— E voi? — gli chiese a bruciapelo, — vi assentate pure?
Colto all'impensata, lì per lì, il giovine fu per tradirsi, esclamando ciò ch'era nel suo cuore. E solo un suo vago istinto salvò la donna ch'egli stava per compromettere agli occhi della sua nemica.
— No, — disse tranquillamente, — rimango.
— Ah! — disse la duchessa, dandogli una stretta di mano, che gliela lasciò indolenzita, — ecco un bravo figliuolo che non diserta al momento del pericolo.
L'ambiguità di quella frase fu subito corretta: — Parlo del mio ballo, naturalmente. E ora decisamente vi lascio. Fate le mie parti, Rescuati, presso questa bella ostinata. Ragionatele, ammonitela, e [278] sopratutto persuadetela a rimanere. La persuasione, oh... sono certa ch'è il vostro forte!
Baciò Elisa teneramente. Mentre la baciava, le sussurrò a mezza voce: Adorabile!
Elisa accompagnò la Duchessa sino all'uscio, e sostenne le sue frasi d'addio, un ultimo sforzo di lei, concretato in una rapida eloquente occhiata gettata verso il salotto ov'era rimasto Roberto, in attesa del ritorno di Elisa.
Elisa era affranta. Ma la Duchessa si mordeva le labbra scendendo le scale.
***
— Il diavolo se la porti! — esclamò calorosamente Roberto, mentre Elisa tornava indietro. — Cos'aveva in capo con tutte quelle storie? Io non ci ho capito. E lei?
— Credo, suppongo... Oh, Roberto è terribile quella donna!
— Uhm!... Certo... ha uno spirito, un brio! Ma... mi dica ora, Contessa, è vero, è vero?
Ella impallidì. — Vero? Ma cosa?
— Ch'ella parte!
Elisa ebbe un piccolo senso di spasimo — Forse... — mormorò.
Egli insistè — Ma perchè?
— Perchè? — Il perchè vero saliva impetuoso e appassionato alle pallide labbra di lei. Ma si dischiusero [279] solo per accampare i motivi plausibili della partenza, la malattia, l'appello della zia.
Egli disse irriverentemente: Al diavolo anche la zia!
Non era persuaso. Prese però a riflettere e si ricordò.
— Ah! — disse con accento iroso. — È stato quel giorno, quella lettera. Ho ben visto io...
Rimase pensoso, cogli occhi adombrati da una tristezza tenera.
— Quella lettera — disse Elisa — ha certamente contribuito. Ma da tempo si andavano realmente accumulando alcuni motivi e delle cause che...
Egli l'interruppe col fare nervoso che da qualche tempo pareva talvolta sostituirsi alla sua placida calma:
— Perchè non mi ha detto niente?
Ma non attese risposta e un amaro sorriso sfiorò le sue labbra. — Capisco... Non ho nessun diritto alla sua confidenza.
— Siete ingiusto... Roberto. Sapete pure quanto vi sono affezionata e il conto che faccio di voi. Vi accerto che siete nel novero... dei miei più cari amici.
— Certo! — diss'egli, con una specie di acredine — nel novero, assieme agli altri. Ma capisco. Sono così giovane, nevvero?
S'interruppe bruscamente. — È vero dunque che parte? — le chiese un momento dopo.
[280]
Ella chinò il capo, assentendo.
Roberto tacque, mordendo il pomo della sua mazza.
Poi, con un accento quasi smarrito, fioco, dolcissimo: — E io? — chiese.
La Contessa strinse le mani rigidamente. Le strinse così... per trattenerle, perchè non cingessero, appassionate, in un folle trasporto, il collo di Roberto.
Sorrise e gli disse:
— Oh! non vado mica via per sempre. Per un poco, così... Tornerò, mi scriverete... Andrò forse anche in campagna o da vostra madre e ci vedremo ancora presto.
La sua voce era tremante, ed ella cercava di farla risoluta e gaia, lottando anche contro un malessere fisico che l'invadeva.
Ma Roberto non era persuaso.. E colla crudeltà cieca, che è talvolta indivisibile dall'amore, insisteva, con quello sguardo, con quell'accento sempre più dolci, più teneri.
— Ma lo sa, lo sa pure ch'io non posso... che ho tanto bisogno di vederla!... che voglio vederla sempre; che non potrei vivere senza di lei!
Elisa volle ridere. Il riso indulgente di chi oda una gustosa corbelleria. Ma nella sua gola, subitamente stretta da uno spasimo, il riso, chiaro dapprima, assunse un suono sibilante. Si fe' persistente, convulso, mentre il corpo era scosso da violenti contrazioni e [281] la testa si riversava come quella d'una morta sulla spalliera della poltroncina, mentre gli occhi assumevano uno sguardo fisso e indeterminato.
Roberto non aveva esperienza di ciò che era, in realtà, nulla più che un semplice attacco nervoso.
Era realmente spaventato, non sapeva che fare. Gettatosi in ginocchio al fianco di Elisa, le stringeva le mani, la chiamava, scongiurandola a dirgli cos'avesse, cosa volesse. Ma ella rideva sempre, senza udirlo, senza vederlo, dibattendosi; solo un istante fra due scoppi di quel riso pauroso, fra il gorgoglio di frasi indistinte, egli udì, mormorato come un appello, come uno scongiuro, il suo nome...
Balzò in piedi. La guardò. Erano soli, ella era incosciente. Qualcosa, un'onda di sangue parve salire alla fronte di lui, qualcosa di simile al terrore di sè stesso che l'aveva assalito durante l'ultima visita di lei in casa sua, come infermiera. Per un minuto, come allora, larghe goccie di sudore imperlarono la fronte di Roberto, una confusione, un'onda di sensazioni lo scossero profondamente, in un rimescolìo di tutti i suoi buoni e cattivi istinti. Ma non invano s'alzò suprema un'altra voce, un senso di rispetto, di gratitudine, d'onore! Non invano il sangue freddo di lui reagì alla sua volta. Egli si mosse di là, andò dov'era il campanello elettrico e premette risolutamente il bottone.
Al domestico che giunse frettoloso: — La signora [282] si sente poco bene. Chiamate la cameriera — disse il giovane.
Quasi subito, Elisa ricuperò la coscienza di sè stessa, e con un brusco repentino atto di volontà si riebbe. Volle alzarsi, in un impeto inconsulto, ma Roberto la trattenne.
— No, no, si riposi.. Si è sentita male, nevvero? Ma non è nulla. Ho suonato... verrà la cameriera. Non si agiti, la prego, per farmi piacere!
Ella ubbidì come una bambina a quella voce sì cara. I suoi nervi s'acquietarono. Sorrise e chiuse gli occhi, senza pensare a nulla, nel fascino di quella sollecitudine, nell'incanto di quella preghiera, in quella specie di assoluta prostrazione di forze che la toglieva tuttora alla responsabilità di sè stessa.
La cameriera entrò in fretta, sgomentata, recando dei sali. Ma Elisa s'era già riavuta, la piccola crisi era passata.
***
Due settimane passarono e la contessa Serramonti non era partita.
Aveva assistito al grande ultimo ballo in casa d'Accorsi, aveva veduta Marina, a fianco del suo fidanzato, ricevere gli omaggi di tutta la società, con una calma e una dignità che avevano formata l'ammirazione universale. Era di una bellezza squisita, più marmorea, più olimpica che mai. Il Principe [283] era evidentemente sotto l'impero di un fascino e la sua vecchia faccia di soldato ad oltranza aveva dei luminosi riflessi di orgoglio; il suo busto si ergeva, dando alla persona una marziale rigidità di posa, quando il suo sguardo s'incontrava in quello limpido, grave della sua fidanzata. Si sussurrava di doni favolosi, di feste splendidissime che si preparavano nella piccola capitale in cui egli avrebbe condotta la fanciulla che il suo capriccio imponeva quale sovrana all'arcigna aristocrazia del suo piccolo regno.
Contuttociò, il contrasto degli aspetti era pure spiccato fra quei due, e avrebbe dolorosamente colpito chiunque avesse potuto in quella sera giudicare a mente fredda la realtà brutale o semplicemente illogica di quelle nozze. Ma chi ci pensava?... Un momento la contessa Serramonti (che tutti trovavano molto bella quella sera), si senti il cuore stretto da un senso di compassione. Ma a chi avrebbe potuto comunicarlo? E chi avrebbe compreso quel sentimento, se invano ella aveva tentato di comunicarlo a Marina stessa?
E ora, da qualche tempo in qua, non osava più giudicare, nè condannare. Si sentiva ella giudicata, malgrado il vero, dalla malevolenza, dal cinico scetticismo mondano. Indovinava la insolente curiosità dei più. Sentiva la indagatrice, la insultante nuova forma di ammirazione, tributatale da alcuni; avvertiva che le loro premure erano in realtà sollecitate da [284] quel vago olezzo di scandalo ch'ella stessa sentiva aleggiarsi d'attorno. Capiva che le apparenze, per quanto innocue in sè stesse, militavano contro di lei, che l'accettazione universale della calunnia, sì sottilmente sparsa, la precipitava non solo dall'antico piedestallo, ma all'ipotesi della disfatta aggiungeva una spruzzatura di ridicolo per le speciali circostanze del caso, per la differenza d'età, per l'indole della missione che tutti sapevano esser stata assunta da lei... E tutto ciò gratuitamente, perchè il mondo giudica così, e se ride ha, per ridere, la ragione migliore, quella del più forte. Ed ella si sentiva in preda a questo. E sentivasi altresì ch'ella giocava ormai un gioco pericoloso e crudele, che più volte già s'era trovata bruscamente di fronte a delle eventualità, ch'ella non avrebbe certo, tempo addietro, credute possibili.
Tentava bensì per quanto era in poter suo di attenuare le conseguenze della sua passata imprudenza, dell'incoscienza assoluta colla quale ella aveva dapprima fatalmente trascurata la situazione.
Pure, non doveva dar nell'occhio questo segreto intento; l'intimità ch'ella aveva sdegnato un tempo di temere e di nascondere poi, non doveva parere alterata, bisognava continuare come si era cominciato.
Roberto aveva certo, anch'egli, sentore del sospetto appena mitigato di dubbio, che molti intrattenevano circa l'indole delle sue relazioni colla Contessa. Non [285] faceva nulla per avvalorarlo e i suoi istinti di vero gentiluomo si sarebbero indubbiamente ribellati contro una palese allusione, che nessuno d'altronde avrebbe tentata, davanti alla correttezza del suo contegno e al suo fare risoluto ed indipendente. Noi sappiamo che, nel suo schietto amore per Elisa, c'era quell'elemento di rispetto per la donna amata che sembra quasi il correttivo ed il freno della passione a cui si accompagna. A questo sentimento, nonchè alla disperata risoluzione di Elisa d'ignorare l'amore di lui, egli, o meglio ella, doveva l'eccezionalità delle cose quali erano realmente. Ma con tutto ciò, Roberto era giovane, inesperto dell'incredibile attitudine umana a braccare lo scandalo, ignaro dell'arte consumata colla quale le vecchie esperienze mondane sanno decorosamente, in casi simili, dare, come suol dirsi, della polvere negli occhi.
Indifferente un po' per spensieratezza, un po' per logica naturale di enfant gâté, all'opinione altrui, egli non aveva della posizione sua in società, di fronte ad Elisa, quell'intuito preciso che avrebbe forse potuto meglio aiutare entrambi a difendere la situazione.
Nel suo carattere non entrava quel morboso terrore del ridicolo che ha talvolta sulla gioventù un'azione sì bizzarramente paralizzatrice. Prima di conoscere la contessa Serramonti, non avrebbe forse ammessa la possibilità ch'egli, a ventitrè anni, si [286] innamorasse di una donna che aveva sedici anni più di lui; ma dal momento che la cosa era accaduta così per l'appunto, che c'entravano gli altri? La contessa Elisa a trentanove anni era una donna che qualunque uomo sarebbe stato fiero d'amare. E se egli deplorava la differenza d'età, era solo pel timore (giustificato apparentemente dall'intuitivo sistema di difesa della Contessa) ch'ella lo trovasse troppo giovane, troppo ragazzo. Del resto, egli non pensava più che tanto; amava, semplicemente.
Gli pareva dunque la cosa più naturale del mondo di trovarsi con lei quanto più gli tornava possibile, di recarsi in tutti i luoghi ove sapeva che l'avrebbe incontrata, di rimanere, sinchè gli fosse concesso, nel raggio di quella dolce bellezza, nell'agio e nella gioia di quella simpatia, di quell'indulgenza amorosa, che non lo fraintendeva, nè lo tormentava mai.
Provava un senso di malumore quando in società la vedeva accaparrata da altri e non lo celava abbastanza, come non celava abbastanza il buon umore che susseguiva quando, poco dopo il suo sopraggiungere nel crocchio della Contessa, questo si andava talvolta gradatamente assottigliando, sino a lasciare, dopo un certo tempo, il campo libero. Tutto ciò era un poco egoista e crudele, ma in fondo non più biasimevole di quanto lo sia la contentezza di un piccolo naturalista che ha acchiappata una magnifica farfalla e la stringe alquanto perchè non gli voli via, [287] a rischio di ammaccarle un poco le ali. E non lo ha forse detto Lafontaine:
Cet âge est sans pitié!
***
Elisa soffriva naturalmente di tutto ciò. Era uno dei più gravi capi d'accusa che moveva a sè stessa, quello d'essersi fatta oggetto di siffatte sofferenze. E, a volte, ciò le pareva incomportabile e la causa più assoluta, più urgente della soluzione offertale... dell'unico scampo, la fuga!
Sola, non aiutata, cercava di attenuare gli effetti di quella falsissima posizione. Manovrava dunque perchè egli, in pubblico, le fosse vicino il meno possibile. A furia di ragionamenti, accampando mille pretesti, lo costringeva ad allontanarsi, ora per aiutare la padrona di casa, ora per far ballare questa o quell'altra signora o signorina... Ma quando egli, borbottando, se n'era andato, quando ella da lungi lo vedeva fatto segno alle più festose accoglienze, accaparrato alla sua volta dal più brillante elemento della festa, quando vedeva fissarsi su di lui qualche acuto sguardo di donna, una nuova forma di sofferenza si sovrapponeva a quell'altra e una specie di smarrimento si metteva nei suoi pensieri, un confuso terrore delle possibilità stesse, che a volte ella invocava, quasi imponendo al suo cuore la rude disciplina [288] di accettarle preventivamente!... E il suo ritorno accanto a lei, il primo sguardo in cui ella ritrovava l'imprudente passione, la prima parola che glielo rendeva premuroso, suo, come prima, le parevano una visione, una musica celeste, gettavano nel suo cuore un'intensità sì acuta di gioia che diventava un oblìo di tutto il resto!
Era riuscita quella sera, in casa d'Accorsi, a tenerlo quasi sempre lontano. Non aveva ballato che due contraddanze e un lanciere, e non con lui. Era andata al buffet col Conte e con Serristano, s'era trattenuta a lungo con alcune vecchie signore, e ora prolungava un fine colloquio con Sacha Dzworoff più tisico e più maligno che mai, e sempre incorreggibile nella sua antipatia per Roberto. Appunto in omaggio alla tenacità di questo sentimento, egli si era deliberatamente schierato fra gli ammiratori della contessa Serramonti.
Ciò aveva fatto rider molti. Egli che l'aveva sempre chiamata il Polo nord!... Ma se lo faceva, era, a detta sua, solo per far dispetto a quel ragazzaccio, del quale diceva con sottilissima ironia:
Aux innocents les mains pleines!
Strano davvero. Ora Sacha trovava dello spirito in quella donna, un fascino che non aveva mai avvertito e che accendeva in lui delle bizzarre fantasie.
Godeva, come si è detto, di una specie d'impunità. [289] Ed egli usava, abusava anzi, dei suoi privilegi di eterno monello moribondo. E ciò che disse quella sera, con quel suo equivoco sorriso, all'orecchio della contessa Elisa, mentre la riconduceva al suo posto dopo il secondo lanciere, fu abbastanza ardito perchè un senso d'indignazione intima facesse salire alla fronte di Elisa una subita vampa, perchè ella, senza esitare, con una breve, ma non dubbia frase, con un lampo fiero dei suoi splendidi occhi, rimettesse a segno la mala ispirata audacia del giovane. E fu così bella, così nobile, così signora nel suo sdegno che la faccia, già sì pallida, del Russo assunse una tinta livida, ed egli dovette attendere un momento perchè il suo spirito gli suggerisse qualcosa di simile alla solita imperturbabile disinvoltura. Ma non fu un tratto di spirito ciò che gli salì alle labbra, fu una sola, sincera, profondamente detta parola:
— Perdonatemi.
Elisa abbassò su di lui la subita pietà del suo sguardo. Lo vide, qual era, coi segni della morte sul volto, si rammentò essere ormai poco lungi il termine che la scienza presumeva fissato ai giorni di lui. Ed egli disse ancora:
— Perdonatemi. Sapete che muoio e siete così belle, la vita e voi!
La salutò e se ne andò bruscamente. Ed Elisa non la vedrà mai, mai più quella pallida faccia, sulla [290] quale ella sola, Dio sa da quanto tempo, aveva letta poc'anzi la espressione di un sentimento vero, di un sincero rammarico, non camuffato di sarcasmo mendace.
Poichè egli morì quindici giorni dopo, quasi inaspettatamente e con moltissimo spirito!
Ella era rimasta sola per un momento al posto dove Sacha l'aveva lasciata. La sua fisonomia recava visibile la traccia della recente eccitazione. Ma le parve ad un tratto d'essere investita da una corrente d'aria fredda. Si voltò e vide che l'aveva raggiunta la padrona di casa.
Ginevra pareva contemplarla ironicamente.
— Ebbene — le disse — ha messo in fuga anche il mio povero Sacha?...
Era una sofferenza quasi intollerabile, per Elisa, il suono di quella voce stridente. E il solo aspetto di quella donna pareva fugare, irridere quanto nel cuore era il senso esclusivamente suo della vita, del dolore, di tutto ciò che è umano.
Stava per rispondere, ma Ginevra non gliene lasciò il tempo.
— Ah! come è stata carina di non mancarmi stasera; non me ne sarei mai data pace. Ecco Berto Rescuati che viene in cerca di lei.
Il giovane veniva infatti in cerca di Elisa, e la Duchessa, con un sorriso discreto, si mosse per andar via. Ma tornò indietro un momento solo per dire: [291] — A proposito, cara Contessa, la zia è completamente ristabilita, nevvero? Quanto ne sono lieta!
Poi se ne andò, ridendo.
***
Elisa rientrava dopo una delle sue lunghe passeggiate mattutine.
Aveva scelte in quel giorno le Cascine, ove non andava più da parecchie settimane, per non incontrarsi con Roberto, il quale soleva recarvisi ogni giorno a cavallo. Nei tempi «inconsci» erano stati per lei uno dei migliori momenti della giornata quegli incontri non concertati nei grandi viali così diversi, nella loro solitudine mattiniera, dell'ingombro chiassoso della passeggiata propriamente detta. S'era attardata laggiù... piena il cuore dell'immagine di lui, memore dell'intuito che, sollecitando i battiti del suo cuore, l'avvertiva quale fra i vari passi di cavalli, ch'ella udiva echeggiare nei viali laterali, fosse per l'appunto il passo di Thor, il cavallo favorito di Roberto. Sentiva quel passo farsi più veloce, ad un tratto, quando Roberto l'aveva ravvisata. In un attimo le era accanto, ed era una piccola fermata di chiacchiere. Quando egli ripartiva, faceva impennare il cavallo, lo costringeva a degli scambietti, si compiaceva di tutto ciò che lo faceva figurar bene in sella, nella vanità dolce d'esser così visto da lei, ben [292] sapendo ch'ella gli terrebbe dietro collo sguardo... ma non sapendo ancora quanto ella mettesse, in quello sguardo, della illusa anima sua! A volte, egli mandava ad aspettarlo colà il suo palafreniere, e, raggiunta la Contessa, scavalcava e, affidato il cavallo all'uomo, veniva compagno ad Elisa pel resto della passeggiata. Ed ella allora non sapeva, non temeva, credeva di poter vivere così nella gioia cieca e pura di quelle ore sì belle, in cui il solo accento delle parole di lui bastava per dare al suo orecchio la percezione di una ignota scienza, di tutto quanto havvi di bello, di gentile, di sacro nella primavera dell'umana esistenza, la gioventù!
Ora, la lunga passeggiata l'aveva compita sola. Egli non era accanto a lei, si trovava con tutto il fiore della società mascolina di Firenze ai funerali di Sacha Dzworoff. Elisa rincasava col senso invano combattuto di un indefinibile vuoto, di una lassezza cagionata non solo dal lungo tratto di via percorso, ma anche dall'impressione deprimente della primavera che già si spiegava, mettendo nell'aria dei vaghi effluvi di campagna, degli olezzi indefiniti, che davano al corpo dei piccoli brividi nervosi, e alla mente una specie di assorbimento, d'inerzia, di disarmo. Sceglieva pel suo percorso, anche a costo di prolungarlo, le vie più isolate, per un istinto di solitudine, coll'idea che forse così potrebbe facilmente concretare la forma della decisione ch'essa doveva prendere di fronte a sè stessa a qualunque costo!
[293]
Dalla piazza degli Zuavi, costeggiò il viale Principe Umberto, poi si mise per via Luigi Alamanni. Senonchè, presso allo sbocco di questa sul Piazzale della Stazione, s'arrestò ad un tratto, e si ritrasse. Una musica funebre riempiva l'aria di note lamentose, una sfilata di persone vestite a bruno passava, formando corteo ad un carrozzone mortuario, sul quale, completamente affondata in mezzo ad una piramide di mazzi e di ghirlande di fiori freschi, stava la bara di Sacha Dzworoff. Davanti al carrozzone camminava il pope della sua chiesa, seguita da due accoliti e dai simboli del culto greco. Quando passò il feretro davanti allo sbocco della via Alamanni, un venticello fresco spinse in quella direzione un'acuta folata dell'olezzo di quei fiori, e quell'olezzo investì Elisa come se il povero Sacha volesse così, trovandola sul suo ultimo passaggio, salutarla ancora, fare omaggio di ammenda a quella donna che egli aveva offesa, ma di cui aveva sì umilmente implorato il perdono, dicendole ch'egli moriva e che erano così belle... lei e la vita.
Gli occhi di quella donna si velarono di lacrime, ed ella ebbe un pensiero d'infinita pietà per quel morto, che stava per cominciare il suo lungo viaggio verso la Russia, verso il grande sepolcreto di famiglia, ove lo voleva vicino, a portata del suo disperato dolore, la donna che lo aveva partorito! Gelata dietro un crocchietto di popolane, ammirate dello spettacolo, [294] Elisa assistè a tutta quanta la sfilata. E finalmente, quasi in coda al corteo, assieme ad altri giovani, ravvisò Roberto.
Egli non la vide dapprima. Camminava grave, decoroso, col corretto contegno della circostanza. Ma di subito, per un impaccio di carrozze avvenuto alla testa del corteo, questo si fermò... e Roberto svagato, chiamato forse magneticamente dall'appello, dalla fissità rapita dello sguardo di Elisa, mosse il proprio verso di lei, e nel suo quasi nascondiglio... la ravvisò.
Non si mosse, non la salutò. Parve intendere ch'ella non volesse essere avvertita da altri. Scambiò solo con lei un sorriso furtivo d'intesa, così luminoso, così pieno di gioconda sorpresa, di tenerezza, d'ardore che Elisa si sentì penetrata di una dolcezza ineffabile, di un senso folle di letizia cieca, assorbente, irresistibile. E nello sguardo col quale rispose a quello di Roberto... ella... obbliando per un secondo tutto ciò che era l'impressione del momento, mise tutta la sorpresa anima sua... tutta l'inconscia dedizione di sè stessa in un trasporto d'amore vittorioso, senza limiti...
Roberto ebbe come un abbagliamento, le sue palpebre si socchiusero.
Ma la sfilata ricominciava in quel punto, ed egli dovette rimettersi in via senza voltarsi. Dietro quel feretro, camminava lento, grave, colla gioia senza freno di ciò che gli era parsa una rivelazione suprema... una confusa, una appassionata confessione!... [295] E Sacha se ne andava davanti a lui, verso il sepolcro che aveva tanto paventato, nel gelo eterno che fiamma d'amore non discioglie!... E la contessa Elisa, nel suo nascondiglio, palpitava smarrita... inebbriata, con un solo pensiero, un solo istinto!... Roberto.
Collo sguardo folle, inebbriato anch'esso, seguiva nella sfilata il passo di Roberto. Di Sacha, morto, non si ricordava certo, in quell'istante, ma ancora alle sue orecchie, come un inno sonoro di gioventù, di felicità, vibravano quelle parole giustificatrici... assolvitrici di tutto: Siete tanto belle voi e la vita!
················
Quando giunse a casa, erano le undici e mezzo. Appena entrata udì una novità. Che, in assenza sua, un'ora prima, era giunta una signora che il portinaio, nuovo di casa, non conosceva.
La signora aveva detto di mandare alla stazione a ritirare due bauli. Intanto aspettava in sala.
Elisa, entrando, si trovò davanti a zia Balbina.
— La montagna non veniva verso di me, ed io son venuta verso la montagna, — le disse tranquillamente la degna signora. — Spero che andremo subito a far colazione. Ho un appetito formidabile, mia cara Elisa!
[296]
Per alcuni giorni non vi furono spiegazioni.
La zia Balbina non aveva accennato comechessia ai perchè della sua venuta, non aveva neppure alluso alla sua lettera, rimasta senza risposta. Era venuta per dar battaglia, ma si limitava per ora a studiare il terreno.
L'accoglienza di Elisa fu doverosa, nulla più. Ella aveva sempre avuta un'immensa considerazione pel famoso senno pratico di zia Balbina ed una sincera riconoscenza per le molte prove d'interessamento che n'aveva ricevute, ma in questi sentimenti non era mai entrata la simpatia. Ed un suo innato senso d'indipendenza si ribellava al despotismo un po' sprezzante che era sempre stato caratteristico della zia Balbina.
E poi... sciocchezze, ubbie, ingratitudine forse; ma strano a dirsi, era sempre lei, zia Balbina, quella che veniva a scuotere le persone quando erano in preda al sonno d'un'illusione!... Era lei, sempre lei [297] ad avvertire, a mettere il dito esattamente là dove la piaga era più dolorosa e più celata, lei ad insegnare il rimedio più amaro, la forma di rassegnazione più razionale, più consona al suo ideale di rassegnazione. Essa distribuiva benevolmente i tesori della sua farmacopea spirituale, ma coll'obbligo assoluto di trangugiarli, a tutte le persone che onorava della sua protezione.
Elisa era sempre stata prima fra queste, specialmente all'epoca in cui aveva la buona abitudine di lasciarsi assolutamente consigliare da lei.
A dir vero, questa preferenza aveva subìto una certa alterazione allorchè, rimasta vedova, la contessa Serramonti aveva opposto una imprudente opposizione alla magnanima offerta d'andare a star presso la zia. Ma la zia Balbina era tenace nel generoso proposito di voler far del bene alle persone che amava, anche se queste non fossero state completamente persuase della infallibile efficacia del suo intervento. Ella era assai ricca, e certi altri nipoti che accettavano devotamente i suoi consigli, anche correndo il rischio di una possibile delusione per l'avvenire, avrebbero dato di gran cuore molto del proprio perchè Elisa, con qualche amabile sproposito o in qualsiasi altra maniera, riescisse ad alienarsi un po' di quel formidabile bene che la zia Balbina non mancava di professarle, assieme ad un profluvio di elogi per quella nipote ammaestrata da lei. E quasi quasi, in fondo [298] a quel cuore di benefica virago, c'era un lievito di pia soddisfazione che la profezia emanata dal suo alto senno si fosse un pochino avverata.
Intendiamoci: un pochino, giusto quel tanto che ci voleva per rendere necessario il suo intervento, e persuadere Elisa che talvolta i consigli pratici possono tornare, dopo tutto, non inutili. Perchè in fondo sapeva benissimo, lei... ch'erano tutte ciarle. Figurarsi! Sua nipote! Una donna di tanto senno; educata da lei! Per i ciarlieri basterebbe la sua presenza... Per Elisa una sua parola!...
Elisa la sentiva in aria quella parola sospesa sul suo capo... come la spada di Damocle. Il giorno stesso del suo arrivo, a zia Balbina era stato presentato Roberto Rescuati. Povero Roberto! che sorpresa per lui, trovarsi di fronte inevitabilmente, quella degna signora, che lo guardava attenta, paziente, servendosi qualche volta dell'occhialino, come se si trattasse di un grazioso insetto d'una nuova specie! Era stata piuttosto gentile per lui e s'era degnata di dire ch'era abbastanza distinto, ma c'era nel tuono della sua voce, quando gli parlava, qualcosa di così serenamente sprezzante nell'apparente bonarietà, che Elisa, più ancora di Roberto, ne risentiva delle vere trafitture. La zia Balbina aveva subito assunto con Rescuati un fare leggermente ironico, lo aveva chiamato talvolta: giovanotto, e c'era proprio voluto lo sguardo supplichevole di Elisa [299] a lui rivolto, una specie di sorriso di semi confidenza, perchè egli mandasse giù, in santa pace, l'appellativo.
Il giovane era, come può credersi, potentemente seccato; un'irritazione violenta lo coglieva a volte davanti a quell'intervento inatteso, ingrato, e in cui subodorava un'ostilità sistematica. Quando c'era gente da Elisa, la zia Balbina si permetteva qualche assenza dal salotto, ma non appena era libero il campo, ella, come avvertita da un dispettoso spirito familiare, compariva tosto, sempre elegante nella sua ricca austerità di vestiario, col suo occhialino, col suo ricamo di tappezzeria, colle sue lane. Aveva un vezzo tutto suo di non dare importanza alla presenza di Roberto, di costringere Elisa ad occuparsi con lei di cose alle quali egli non poteva o non sapeva interessarsi: ora le chiedeva il suo parere su un'opera scientifica, ora la intratteneva di vecchie conoscenze, di vecchi episodi. Altre volte, rivolgeva a Roberto una specie d'interrogatorio sugli studi fatti, sulle sue idee a proposito delle questioni sociali, e ascoltava le risposte con un mezzo sorriso distratto, come di un professore che pensa: Quanti punti dargli a quell'allievo? In modo che Roberto, esasperato, finiva per lo più coll'andarsene, recando in cuor suo un vero impeto d'esecrazione per quella donna che nulla lasciava d'intentato per farlo figurare come un ragazzo agli occhi di Elisa. Tale era veramente il piano della zia Balbina. In sè, non sarebbe stato un cattivo [300] piano. Ma nell'attuarlo la donna superiore scordava due cose soltanto: il senso della misura e la forza della reazione.
Roberto si schermiva come poteva, e... tornava.
Il fascino che lo attirava presso Elisa pareva anzi fortificarsi nell'attrito dell'ostacolo. Gli pareva quasi una sfida l'insolenza di quella vecchia, in cui egli aveva subito odorata una nemica, e che, stuzzicandolo, destava in lui la fiera più o meno assopita nell'antro di ogni cuore umano, l'amor proprio. Dal contatto con quella arcigna aggressiva superiorità di virago, spiccava, per forza inevitabile di contrasto, quella sì squisitamente femminile di Elisa... quella superiorità pietosa, ignara di sè stessa, che pareva fondersi soverchiata, come un elemento assimilato, in una rivelazione diffusa dell'amatività squisita di quella donna. Pochi, ben pochi l'avevano compreso, il cuore di Elisa, meno di tutti la zia Balbina... Roberto ne aveva un sentore. Ci credeva appunto perchè sentiva direttamente egli il riflesso di quel raggio e godeva del suo calore, senza chiedersi bene donde diramasse, nè qual grado di intensità potesse raggiungere. Ci credeva colla cieca sincerità del suo intuito e coll'audacia della sua stessa inesperienza. E l'ostacolo sollecitava il suo desiderio; Elisa gli pareva ora più bella, più attraente che mai, come ringiovanita da quella incresciosa tutela di guardiana.
Essa aveva, per lui, quasi un segreto compenso [301] per la cortese pazienza colla quale egli tollerava con apparente filosofia, il nuovo stato di cose, una specie di più confidenziale e in uno di più seria familiarità. Talvolta certi sorrisi, certi sguardi anche involontari tradivano, come una tacita connivenza coi suoi sentimenti, una birichina intesa della sua dissimulata tolleranza. E allora c'era come una malizia tenera nei suoi sguardi, qualcosa che lo rapiva come una intima gioia, e gli faceva battere il cuore di una vaga speranza. Nei brevi momenti in cui erano soli, quei frammenti d'intimità assumevano un'indole di strana intesa. Elisa e Roberto respiravano allora un'aria di sollievo, che pareva quasi comunicarli nella coscienza d'una cara complicità di ribellione, creare fra essi come un legame nuovo, che diminuiva le distanze, parificava i sentimenti.
Pure quei momenti, quelle concessioni pietose di Elisa sortivano talvolta un effetto contrario. La reazione prendeva inaspettatamente un'indole pericolosa. Roberto si esaltava facilmente: c'era un pericolo, ravvisabile ora... nell'ardore con cui egli ne approfittava, e nell'esigenza con cui li voleva rinnovati, prolungati il più spesso possibile. Un non so che d'imperioso, di tormentato veniva sempre a galla, ora, in quei colloqui quasi furtivi e in cui Elisa, nel fanciullo tenero, amoroso, vedeva lampeggiare un altro essere, un uomo che soffriva, che si frenava, ma tormentosamente, alle prese con un segreto volere, [302] con un'aspirazione impetuosa non determinata, no, ma prepotente. Egli diventava allora irrequieto nei modi, con un non so che di aspro e insieme di snervato, aveva delle mezze frasi amare, sragionevoli, che Elisa rintuzzava dolcemente come se non le prendesse sul serio, ma che lasciavano non solo nel suo cuore, ma in tutto l'esser suo, un'impressione acuta, scottante, un senso vagamente appassionato e pauroso.
Intanto, zia Balbina non poteva trovare appiglio al contegno di loro due; era incensurabile.... ma, tant'è, quell'intimità, quella confidenza di lui, quella condiscendente bontà di lei... due o tre misteriosi sorrisi scambiati fra loro e colti a volo, le davano un certo pensiero.
E anche nei suoi rapporti con lei, Elisa non era più la stessa. Sempre deferente e rispettosa, piena di premure pel suo benessere, docile a qualunque espresso o solo accennato desiderio, poteva dirsi tuttavia una nipote esemplare.
Ma la remissività antica, l'adesione assoluta alle viste della zia erano scomparse. Elisa evitava con molta cura le discussioni che zia Balbina cercava talvolta d'intavolare su argomenti delicati e che avrebbero potuto condurla su un terreno scottante. Vigilante anch'ella, odorava l'agguato, e si sottraeva, per istinto più che per altro, per un vago, codardo terrore della brusca cessazione dei suoi dubbi, per [303] la paura di veder concretati, in forma precisa, i doveri assoluti della situazione. Il che non era eroico, certamente.
Ma a retroguardia di questo, c'era un altro sentimento, una naturale reazione di amor proprio di donna, una ribellione segreta contro quell'intervento non chiesto, e quell'inquisizione, che l'offendeva anche nel pudore delicato di quell'amore ch'ella aveva voluto mascherare a tutti e persino a sè stessa, che era la sua gioia e la sua tortura, feconda di emozioni, di angoscie intimissime, appartenenti ad un genere pel quale il linguaggio non ha parole, nè analisi possibile la scienza psicologica, tanto sono misteriose ed indefinibili le sue vibrazioni.
Pure, di queste emozioni, il mondo aveva avuto sentore prima ancora di lei, le aveva, colla brutalità logica de' suoi giudizi, spiate nel suo cuore. Snaturandole col solo alito suo, ne aveva fatto un balocco per suo uso speciale, uno scandaletto piccante, a cui alcuni non prestavano, altri fingevano di non prestar fede.
Ma la storiella, coi suoi vari aspetti, correva pei salotti. Ed Elisa lo sapeva, ed era per quella donna uno strazio senza fine. Reagiva bensì colla coscienza della sua battaglia, ch'era ancora una vittoria. Nella superiorità del suo spirito sì forte, poteva trovarsi, assieme all'acuto dolore, anche il disprezzo della calunnia. Ella poteva, dopo tutto, ignorarla!
Ma la cosa era diversa, ora, di fronte a zia Balbina.
[304]
***
Avevano recata la posta.
Non c'era nulla per Elisa, e zia Balbina chiese il permesso di aprire le due lettere venute per lei. Si ritrasse a leggerle presso la finestra.
Roberto approfittò di quella mossa per sedersi vicino alla contessa Elisa, e scambiare qualche parola con lei a bassa voce, naturalmente, per non disturbare la leggitrice.
— Oh... guarda Elisa, — escì a dire improvvisamente la zia Balbina. — Mi scrive l'avvocato per quell'affare che sai... la lite coi Montestano. Bisogna che io parta uno di questi giorni.
Chinò di nuovo sulla lettera il suo sguardo sagace. Ma questo aveva già fatto bottino di quello involontario, raggiante che s'erano scambiato in quell'attimo Elisa e Roberto. Già ella aveva veduta la subita alterazione del volto di sua nipote.
Finalmente! pensò, chiudendo con diligenza la lettera che non era affatto del suo avvocato e che non la chiamava per nulla in luogo alcuno.
Miserabile, lo stratagemma. Ma era riuscito. Ora poteva parlare ad Elisa.
[305]
***
Calmissime, entrambe.
La zia Balbina era in funzione. Già da dieci minuti il suo dito s'addentrava sapientemente nella piaga.
— Capirai che giudico per conto mio, senza preoccuparmi delle ciarle altrui. Sei mia nipote e tanto basta. Ma non avrei mai creduto che potesse nascere la necessità di tutelare il decoro di una donna della tua età e del tuo senno, di fronte ad un... scusami, monello di quella specie.
La guardava dall'alto in basso, così dicendole, con una posa da grande inquisitrice.
Elisa ricamava con molta diligenza.
— Il mio decoro? — ripetè, guardando bene in volto, anch'ella, la sua interlocutrice. E nel suo accento c'era una vibrazione che zia Balbina udiva per la prima volta in quella voce.
— Sì — ripetè severamente — il tuo decoro! Credi che faccia bell'effetto vederti quel blanc bec sempre appiccicato alle tue gonne? La tua condotta, mia cara, è per lo meno assai leggera.
Una lieve tinta di porpora salì alle gote di Elisa.
— Le piace giudicarlo tale, — rispose pacatamente. — Me ne duole assai, ma mi permetterà di farle osservare, cara zia, che sinora...
— Sinora, per l'appunto. Ma sinora non è tutto [306] nella vita. Si è sempre a tempo per far ridere la gente. E tutto ciò, sai, ha un po' di ridicolo... non ti pare?
Avanti, zia Balbina, coraggio. Un altro millimetro. A momenti ci siamo, al punto voluto. Guarda com'è già pallida la donna a cui stai parlando.
— La prego, zia, — disse Elisa brevemente, — vogliamo lasciare quest'argomento?
— No, — rispose zia Balbina, — bisogna esaurirlo anzi. Son venuta apposta per sincerarmi.
— Ah! — disse Elisa, con un lieve accento ironico. — E adesso, si è sincerata?
Voleva provarsi a giuocar d'audacia. Ma non era il suo forte. Un tremore nervoso agitava il suo labbro.
— Mi sono sincerata — continuò tranquillamente l'altra — che hai avuto molto torto di non seguire i miei consigli, e che ti trovi adesso assai imbarazzata.
— Io? — ribattè Elisa con un tentativo di allegra protesta.
— Sì... lo sei. L'hai sbagliata sin dal principio. Colle tue ubbie di sviscerata amicizia per Tecla e coll'incaricarti di quel ragazzo impertinente, che, fra parentesi, mi pare abbia tutte le prerogative di un bellimbusto di provincia e sia indietro in parecchie, anzi in moltissime cose, hai presa la tua parte sul serio. Il ragazzo... si sa... si è montata la testa... ci [307] vuol tanto, a quell'età! E tu invece di canzonarlo bellamente...
Elisa depose il suo ricamo con uno sguardo che produsse una leggera alterazione nel piano del discorso di zia Balbina. L'egregia donna ebbe un piccolo impeto di tosse, esaurito il quale, proseguì:
— Senz'accorgerti, dico, hai lasciato ch'egli si montasse la testa. Sfido io... la prima donna che si è occupata di lui. E poi, ben inteso, la donna... non una donna, come accade alla sua età. Sei ancora abbastanza conservata per piacere, e... insomma... è naturale sino ad un certo punto che egli sia innamorato di te. Ma s'egli è un ragazzo, tu non lo sei, mia cara. Hai per lo meno l'età della ragione! Hai trentanove anni, mia cara. Non si direbbe, certe volte, ma li hai. Oh! li porti benissimo ed è una eccellente età, relativamente. L'ho sempre detto, anzi, che dovresti rimaritarti, e giacchè ho già una volta la mano così buona...
— Zia, — interruppe Elisa con un movimento così vibrato che fece quasi trasalire la zia Balbina. Oh!... Oh! quella sua nipote, che vampe aveva gettate dagli occhi! che vibrazioni aveva in tutta la persona.
— Oh, — ribattè zia Balbina, cercando di dissimulare col sarcasmo lo stizzoso stupore che l'invadeva, — non temere. Lo so che una fortuna come quella che dovesti a me non capita due volte ad una donna, [308] neppure quando abbia il buon senso di apprezzarla. Ma ciò non entra nel mio argomento. E non discuto neppure sul resto, sai? Volevo solamente chiederti, e ti chiedo: cosa conti di fare?
Finalmente aveva toccato il fondo, quel dito sagace. C'era e non si moveva più.
Elisa incrociò le braccia con un calmo gesto di stanchezza.
— Nulla! — rispose laconicamente.
Un momento di cupo silenzio regnò nel salotto, e una nuvola calò visibilmente sulla fronte di zia Balbina. Le parve che pungesse un pochino, là dove aveva messo il dito. Prese una grande risoluzione.
— È la tua ultima parola? — chiese categoricamente ad Elisa.
— L'ultima.
La zia Balbina si sgomentò. Aveva tentato il categorico imperativo di Kant, coll'assoluta certezza di vincere. Ma questa era una Elisa nuova, ch'ella non conosceva, che si difendeva con delle armi ed un volere inaspettato. Che fare ora? Battere in ritirata?
Ebbe una subita ispirazione.
— Quella che avresti risposto a tuo padre?
Ora, aveva colpito giusto. Un estremo pallore sostituì sul volto di Elisa la fiamma della ribellione.
Alzò il capo, e lo sguardo pieno di angoscia incontrò sulla parete il quadro entro cui campeggiava la bianca testa sì nobile, sì dolce.
[309]
Un'onda di ricordi le si affollò al cuore, destandovi un subito ravvivarsi di appassionato rammarico, il senso di un supremo bisogno di simpatia, di consiglio, d'aiuto, quale lui, lui solo, avrebbe potuto darle.
— Papà, — mormorò. — Oh!... padre mio!... — Ed era piena di lagrime, d'intimo ed umile sgomento, quell'unica frase. Ah! se fosse stata sola, con quale impeto Elisa si sarebbe gettata ai piedi di quel ritratto, quale ardente sfogo di pianto avrebbe sollevato il suo cuore, forse rischiarata la notte di incertezze crudeli in cui si dibatteva quella povera anima appassionata!
Ma ciò non si poteva fare. C'era zia Balbina che detestava le scene. E quella sarebbe stata per l'appunto una scena...
Elisa vinse dunque quell'impeto, e rivolse a zia Balbina uno sguardo calmo e quasi sottomesso.
— Zia, la prego... lasciamo per ora questo argomento.
— No, mia cara, — ribattè zia Balbina. — L'abbiamo intavolato, e voglio che ne tocchiamo il fondo. Sei mia nipote e devi ascoltarmi. Per questa volta... perchè poi sarò io che non te ne parlerò più. È necessario che tu prenda una decisione. Sei in una posizione falsa e ridicola, e ci sei per colpa tua, unicamente tua. Capirai che non discuterò con te le cause di un'infatuazione assurda da tutti i lati e sotto [310] tutti i riguardi, e per la quale nelle tue circostanze non esiste una sola scusa plausibile, nè ammissibile. Ora, ciò deve cessare. È duopo far intendere a quel ragazzo che ormai le sue visite sono di troppo, e, se non vuoi farlo tu, me ne incarico io.
Elisa andò diritta verso la zia. Una formidabile ira splendeva nei suoi occhi, qualcosa come un'irradiazione di magnifico orgoglio, sì fiero, sì determinato che zia Balbina indietreggiò involontariamente d'un passo, e s'accorse di aver commesso un errore.
— Mia cara zia, — disse Elisa con somma calma, — lei non farà nulla, assolutamente nulla di simile. Le sono grata della sollecitudine che dimostra per ciò che mi riguarda, ma la prego di credere, al pari di me, che io sola ho il diritto di giudicare delle cose mie. E questo, zia Balbina, una volta per tutte.
Zia Balbina non rispose. Sulla sua fronte rugosa, sulle magre gote era salito quel rossore cupo d'ira repressa ch'è così penoso a vedersi sul volto dei vecchi. Ella si sentiva vinta.
— Sta bene — disse. — È quello che, si doveva, naturalmente, al mio zelo per il tuo decoro. Ma ti considero quale sei, una povera illusa. Come capirai, io non rimarrò qui a presenziare le assurde... sconvenienze sulle quali tu non ammetti discussioni. Parto domattina.
Oh, l'inesprimibile sollievo per Elisa! Ma in pari [311] tempo che improvviso senso di rimorso! Era sua zia, la sorella di suo padre, l'unica parente che avesse dopo tutto.
— Oh no — mormorò sotto l'impero d'un subito pentimento e con un accento pieno di sincera emozione — non faccia questo... la prego!
Zia Balbina dissimulò un sorriso di trionfo.
— Lo farò infallibilmente, mia cara. Domattina colla prima corsa.
***
Era per tempo assai, la prima corsa. Ma sin dalla sera avanti la zia Balbina aveva fatto preparare il suo baule dalla cameriera. Il treno partiva alle sette e quaranta, ed erano testè scoccate le sei e mezzo.
La luce mattina era ancora troppo fioca per rischiarare sola gli ultimi preparativi della partenza. Due candellieri accesi ardevano sul tavolino, e china su una grossa sacca da viaggio di zigrino nero, la grossa Viola, la cameriera di zia Balbina, insaccava colla massima diligenza l'immenso materiale che la padrona giudicava necessario al comfort dei suoi viaggi. La delicata operazione era sorvegliata da lei col solito corredo di raccomandazioni e rimbrotti pel ritardo.
Un lieve colpo, picchiato all'uscio, fe' volgere il capo a zia Balbina.
[312]
— Avanti! — disse.
L'uscio s'aprì e diè adito alla contessa Elisa.
Era completamente vestita da viaggio, col cappello in capo. Dietro la veletta si vedeva una faccia pallida e sbattuta, la faccia di chi ha passata una notte insonne.
Essa andò diritta verso zia Balbina.
Qualcosa nello sforzo, nell'espressione affranta del passo della nipote, fece vibrare nell'animo della zia una corda che ben di rado soleva vibrare in lei. Ed era del pari stanca, come sfinita, la voce che disse tranquillamente:
— Zia... parto con lei.
La presenza di Viola rendeva impossibile una spiegazione.
— Certo — disse soltanto zia Balbina — che bella sorpresa!
E partirono assieme, veramente.
***
Solo più tardi, alla stazione di Pisa, quando la cameriera scese per andar a prendere qualcosa per le signore rimaste nel vagone, zia Balbina si rivolse ad Elisa:
— Vieni da me — ben inteso!
— Sì, per qualche giorno.
La zia trattenne una smorfietta; avrebbe preferito [313] una misura più radicale. Stava per dire. — E poi? — ma si trattenne con uno sforzo così tradito e così meritorio che Elisa ebbe un pallido sorriso.
— Andrò alle Celle per una settimana o due. Poi farò un giretto a Milano, sui laghi, dai Plana forse, non so.
Zia Balbina non fe' commenti. In fondo il suo scopo era ottenuto. E l'istinto del suo vero buon senso le suggeriva di lasciar in pace sua nipote e di non provocare spiegazioni.
Il treno correva, celere, per l'ammirabile paesaggio alpestre della linea Firenze-Bologna.
Le due signore e la cameriera occupavano una carrozza riservata, e non avevano a temere moleste intrusioni di viaggiatori. Nessuna di esse parlava. Viola per un eccellente motivo, perchè dormiva. La zia Balbina, comodamente rincantucciata in un angolo, soccombeva gradatamente alla stessa tentazione, ma la sua posa era dignificata dal giornale: L'Univers, che tuttora trattenuto fra il seno e le braccia incrociate, le copriva buona parte del volto.
Il rombo cadenzato del treno scorrente sulle rotaie metteva nell'udito come l'impressione di una melopea, ripetuta all'infinito, il solfeggio ritmico di un eterno ritornello musicale.
Sulle ginocchia di Elisa stavano libri e giornali, ma ella non leggeva. Voltata di fianco, nel suo angolo, teneva la fronte poggiata al cristallo della finestrina, [314] seguendo collo sguardo abbandonato la vicenda incessante degli splendidi quadri del paesaggio, alternati ai bruschi periodi di oscurità prodotti dal passaggio nelle gallerie. Fuori, all'aperto, era la primavera montanina, ancora un po' in ritardo e in tutta la delicata poesia dei suoi primordi. Sui declivi dei vecchi sterri, sulle balze, dovunque, nell'intenso del primo verde, era una matta sterminata fioritura di primole, d'anemoni, di viole. Poi, ad un tratto, la notte soffocante, il cupo rimbombo delle gallerie, col loro senso di isolamento, di tenebra, di caos.
Elisa aveva tanto pensato la notte scorsa, tanto ragionato, tanto predicato a sè stessa, che ora, nel suo cervello stanco, i pensieri non si concretavano più in forma definitiva. Ella aveva solo una vaga impressione di strazio sofferto, di suprema gioia rinunziata, le pareva che, quando il treno correva all'aperto, quel tal ritornello nella sua eterna canzone dicesse sommessamente: con lui, e quando entrava nel buio: senza di lui. E una volta o due, quando un attrito delle ruote sulle rotaie produsse nella carrozza una repentina scossa oscillatoria, una grossa lagrima che Elisa non sapeva di avere tremolante sul ciglio, se ne spiccò bruscamente, e andò a cadere sulle inerti mani di lei...
[315]
La contessa Elisa Serramonti possedeva parecchie ville.
La più importante, la vera tenuta della famiglia, era nella Liguria, sulla Riviera, ed ella soleva passarvi l'estate. L'autunno lo spendeva per lo più in qualche viaggetto all'estero, ma trovava sempre una ventina o trentina di giorni da dedicare alle Celle.
Come possessione, le Celle non avevano grande importanza. Era un piccolo ed antico convento di suore, che il padre di Elisa aveva comperato, quasi a caso, per una subita simpatia del luogo pittoresco, lontano da cittadi e da villaggi, come la dimora del Sonno nell'Orlando Furioso. L'acquisto era stato fatto negli ultimi anni della sua vita e coll'idea di formarsene una specie di romitaggio, destinato all'assoluta quiete ch'egli desiderava pei suoi studi storici. Senonchè, un'altra quiete, la più assoluta, la più infallibile fra tutte, aveva tosto sopraggiunta quella gentile anima di gentiluomo.
[316]
Egli aveva detto un giorno ad Elisa che le Celle dovevano essere lasciate così precisamente, col loro carattere di piccolo chiostro antico, e l'amoroso culto di tutto ciò che era stato un pensiero del padre era in questo caso l'avvaloramento di quanto le avrebbe inevitabilmente suggerito il proprio senso estetico.
Non aveva recato alle Celle nulla dell'elemento mondano e della moderna eleganza di comfort, che soleva essere altrove come un indispensabile quadro della sua finissima personalità. L'antico chiostro colla sua cappella tuttora ufficiata da un cappellano, titolare del beneficio mantenuto dalla contessa, se ne stava in cima ad un'altura contornata da monti, che gli formavano al nord uno sfondo di severi profili alpestri, lasciando illimitata al sud ed all'est la vista di una immensa campagna, ove larghi spazi di piano si alternavano a concatenazioni di vaghissimi colli. La terra era toscana, uno di quei suoi lembi reconditi, ignoti, pieni d'intatti idillii, quali Ouida, in certi romanzi suoi, ha saputo trovare ed additare a noi italiani, sì freddi valutatori delle tante bellezze del paese nostro! Boschi immensi, quasi foreste, costeggianti immensi tratti di terreni coltivati con quell'immutabile amore estetico della terra ch'è come un retaggio tradizionale del sangue rusticano di quelle popolazioni.
Da un lato dell'altura, ove si alzavano le Celle, una di queste boscaglie si arrampicava e veniva a [317] finir quasi parallela al terrapieno sul quale poggiava il porticato che dalla casa metteva capo alla chiesina, quello che si chiamava ancora «la passeggiata delle suore.» Sulle praterie dal lato non boscoso, un viale di cipressi metteva la lunga striscia del suo verde cupo, e questa si arrestava all'orto, tuttora cinto da un muricciuolo.
La salita era impraticabile alle carrozze, perciò Elisa non portava mai alle Celle il suo treno di scuderia, e solo una ristretta parte del personale di servizio l'accompagnava lassù.
A dir vero, le Celle non erano per essi un soggiorno favorito. Non potevano capire come la signora potesse stare in quel luogo solitario, dove non capitavano mai visite, dove ella dormiva in una stanzona bianca, nuda, senza addobbi, senza specchi, con dei mobili vecchi, orribili, dove non si sentiva uno strepito, e dove, quando pioveva, non si poteva mettere il naso fuori di casa. Ci si andava d'autunno, e l'autunno veniva presto lassù, colle sue piove, colle sue nebbie, coi suoi venti che empivano l'orto di foglie morte, ed i vasti corridoi di ululati lugubri, da far venir la pelle d'oca. E ancora il primo, il più sentito rammarico, che non ci fosse «società.»
No, di quella non ce n'era davvero. Si sarebbero dovute fare sei o sette miglia almeno per trovare un'abitazione che arieggiasse di villa. Solo quando il vento spirava forte, si poteva avere una leggerissima [318] percezione del rombo della strada ferrata lungo la linea maremmana. Appiè del colle, c'era l'abitazione del cappellano e quella del fattore; per la spesa giornaliera bisognava andare al villaggio più vicino, circa tre chilometri di strada. E mai, mai una visita!
Elisa amava quel soggiorno, e lo serbava tal quale. Le piaceva l'erma posizione, l'aspetto poetico, quel non so che di casa d'anime, il profumo religioso ed austero che s'era lasciato dietro in quell'ambiente, il passaggio successivo di tutte quelle donne velate e preganti. Anche nella stagione cattiva, colla pioggia e il vento, gustava, per un certo spazio di tempo, quella reclusione, in cui le pareva di ritrovare certi istinti contemplativi che la vita mondana attutiva, senza al tutto spegnerli, nell'animo suo. Aveva scelta, per sè, la cella dell'ultima badessa, aggiungendovi solo ciò che è strettamente indispensabile alle più semplici abitudini di una signora. Pranzava in refettorio, e quando pioveva, passeggiava a lungo pel largo corridoio, costeggiando gli usci chiusi degli stanzini che avevano dato il nome al luogo e ricetto a tante anime prigioniere, forse non sempre volontarie, forse a volte inconsciamente ribelli, ma che pure avevano vissuto colà obbedienti, rassegnate, ed erano morte in pace.
Oh la pace... la pace! Elisa era venuta alle Celle solo in cerca di pace, coll'istinto di un uccellino ferito che cerca il più fitto dell'ombra per andarcisi a [319] nascondere, perchè nessuno veda quanto egli ha male, perchè nessuno parli di lui... Si ricordava della malinconia dei giorni autunnali, di quel morir dell'anno, così grave lassù, così suggestivo di forti pensieri di sprezzo delle umane gioie, di alti e generosi oblii delle gioie terrene, in cui trovavano alimento i suoi più austeri istinti, la serietà d'intenti, di studio, a cui l'aveva abituata la sua costante unione d'anima col padre. Quando aveva presa quella brusca risoluzione di fuga, le era parsa questa l'unica soluzione possibile di uno stato di cose in cui sentiva quasi sommergere il suo criterio e naufragare l'animo suo! Dopo quella notte d'angosce indimenticabili — in cui ella aveva avvertito d'essersi ribellata contro le parole di zia Balbina solo perchè quelle parole erano il vero, e ripetevano come lampi brutali quelle confuse scintille di luce che erravano confuse, ma pur visibili, nella tenebra del suo cuore — Elisa aveva pensato alle Celle, come ad un rifugio. E v'era accorsa, dopo una breve sosta in casa della zia, sosta piena della intollerabile noia di quella dimora, centro di minuti pettegolezzi aristocratici di piccola città. C'era stata a disagio, coll'ardente cruccio di celare a qualunque costo quelle prime ribellioni, quei primi morsi del rammarico, il folle, assurdo pentimento del suo coraggio! Ed era riescita a dissimulare sì bene l'interno turbamento che zia Balbina aveva infatti tentato un piccolo cenno di lode per lo spirito, il buon [320] senso di quella cara Elisa. A dir vero, questo era tutto un di più per zia Balbina... Non aveva mai ammesso neppur per un secondo che sua nipote potesse avere l'ombra di qualcosa di serio per quel bellimbusto.
Diamine! queste cose non accadevano! non erano «nell'ordine!» L'unico torto di Elisa era quello di aver lasciato che s'impiantasse quella stupida familiarità che aveva fatto ciarlare i maligni. Ma del resto... Sciocchezze... ubbie! Ora che il suo amor proprio era stato placato dalla subita sommessione di sua nipote, ella considerava il rimanente come cosa di accessoria importanza. Elisa ripiglierebbe l'esistenza solita e buona notte.
I primi giorni che Elisa passò alle Celle, padrona del suo tempo, dei suoi pensieri, furono quasi una felicità. Essa s'immerse nella piena reazione di quel contrasto. Poi, quando l'ebbe vissuta, esaurita (più presto, a dir vero, di quanto credeva) andò in cerca della pace, del santo regime d'anima che soleva offrirle ogni sua dimora alle Celle.
Ma, strano a dirsi, stranissimo a constatare. Pareva che quella solitudine destasse ora in lei delle vaghe sensazioni nuove, indefinibilmente pericolose, anche quando parevano assopirla in una specie di relativa calma. Anzi; era la calma del luogo, quella che più le tornava formidabile!
Ciò ch'ella obbliava lassù, ciò che le pareva ridursi [321] ad una non entità di importanza, era per l'appunto ciò che aveva più paventato tempo addietro... l'opinione del suo mondo. Pareva che l'eco di quelle voci crudeli tentasse invano il limitare di quella solitudine. Quivi ella trovava più palesemente sè stessa e la verità delle cose. Invece dell'avversa atmosfera mondana, era una vaga complicità della vita esterna del luogo, del tempo, della stagione. Tutto pareva dirle semplicemente: ama. È il tuo cuore quello che ha ragione.
S'alzava presto, ad un'ora che avrebbe fatto scandalo a Firenze. Nella freschezza dell'aria mattutina, ella provava una energia fisica della persona, un'elasticità delle membra che le davano la sensazione del possesso di un bene inestimabile! Aveva un orgoglio nuovo, quello della sua salute... una compiacenza di sentire bello di forma, di linee, di freschezza intatta, tutto il suo essere. Faceva lunghe, faticose camminate, senza mai sentirsi stanca, spinta da una specie di ebbrezza a cui tutto contribuiva, la gaiezza del sereno soleggiato, l'ombra indecisa delle piante, dal fogliame tenero, trasparente, il verde nuovo dell'erba, le tinte vive, determinate dei fiori.
Ella non sapeva che la primavera fosse così bella, così formidabile! Lo imparava... ora con un vago terrore di comprendere questa scienza nuova, di avvertire quanto intimamente si collegasse, nell'intimo senso di lei, alla rivelazione di un'altra primavera, [322] quella che in ritardo, a tradimento, le era spuntata, ineffabilmente dolce, nel cuore.
Prima di partire, gli aveva scritto.
Poche righe soltanto, per dirgli che una subita imprevedibile circostanza l'obbligava ad accompagnare sua zia a Foligno. Tornerebbe presto, scriverebbe. Scrivesse lui a Foligno, per dar sue nuove e quelle della madre...
Sottoscrisse: Affezionatissima amica Elisa.
A Foligno era venuta una lettera di lui, breve, che non era forse un campione di stile epistolare, e non somigliava, neppur da lontano, alle lettere ch'ella soleva ricevere dagli altri amici suoi, ma quella lettera l'aveva fatta passare per una rapida trafila di sensazioni. Il giovane le diceva semplicemente, (oh! quanto semplicemente), ch'era rimasto sì afflitto nel ricevere il suo biglietto... che era tanto triste! La pregava di tornare subito, perchè egli proprio desiderava di vederla e non poteva vedersi a Firenze... senza di lei... Che desiderava tanto di venirla a trovare! Ed era il sempre suo Devotissimo amico Roberto.
Ora, erano passati dieci giorni, ed ella non aveva più scritto.
Evitava di indugiarsi al tavolino. Sapeva quale tentazione l'assaliva colà, quale moto nervoso involontario pareva cacciare sotto la sua mano la penna, e costringerla a tracciare delle parole... Oh! sì poche, sì poche...
[323]
Due righe, un indirizzo, e basta... E domani forse... posdomani Roberto sarebbe stato lì... con lei. Lì in quel luogo, lungi da tutti, senza molestie! Insieme avrebbero udito i sommessi preludii degli uccelli nelle macchie, assieme aspirato l'odor delle viole, gli olezzi penetranti del bosco in fiore, le brezze che parevano mettere ovunque, passando, un brivido di gioia nuova. Insieme avrebbero fatto lunghe passeggiate, visitati i luoghi ch'ella vedeva soletta ora, con quel tormentoso desiderio della sua compagnia. L'avrebbe seguito dovunque gli fosse piaciuto di andare, lieta, agile come lui, ridendo, scherzando, mettendosi al livello dei suoi pensieri, vivendo quella sua vita piana, elementare, senza torture di sofismi.
Oh! che rivoluzione aveva fatto nel suo animo quel ragazzo! Come poteva ella aver percorsa tanta via senza accorgersene, per arrivare ad amarlo così... a soffrir tanto della sua assenza!... Tanto! Oh! ben più di quanto ella avrebbe creduto possibile... prendendo la risoluzione di partire.
Un giorno che rientrava ebbra di quel fermento sottile che era fuori, nell'aria, nella terra, dovunque, gli scrisse. Ma non la mandò la lettera. Ne fece mille pezzi.
Sì! Averlo lì... Rivivere!
Ma! E poi?
[324]
***
Elisa era stata quasi tutto il giorno in casa per un vento impetuoso, che era impossibile, lì su quell'altura, affrontare. Ma, verso le quattro, il vento cadde bruscamente, e una gran pace si mise nella campagna. Ella prese il suo ombrellino ed uscì.
Ora, era una giornata splendida. Il vento sciroccale s'era lasciato dietro nell'atmosfera un tepore estivo, insieme ad una tersità singolare, in seno alla quale l'assieme ed i dettagli del paesaggio parevano assumere un rilievo marcato. Ancora, di tanto in tanto, una brezza si levava non più impetuosa, leggiera. S'alzava, metteva un fruscio nell'aria, un tremore nelle foglie, una impressione come di bacio caldo sulla fronte di Elisa, poi scompariva.
Ella camminava lentamente pel viale. Non aveva scopo. Sentiva solo bisogno di muoversi, di stancarsi. A mezzo il viale, le venne veduto un sentiero, che, tagliando di sbieco la discesa, la faceva più corta. Si mise per quel sentiero, dando le spalle al viale che aveva testè abbandonato. E così non vide subito qualcuno che, camminando frettolosamente pel viale, nella direzione contraria a quella da lei lasciata, si fermò improvvisamente scorgendola, e prese a seguire collo sguardo tutti i suoi movimenti
Ella andava sempre, lentamente, per quel sentiero. [325] Allora egli le tenne dietro, cautamente, senza fare strepito, camminando sull'erba, che dissimulava meglio i suoi passi giovanili, impazienti.
Elisa sostò ad un tratto... Egli sostò pure, sorridendo... aspettando... Uno di quei lievi soffi d'aria calda passò fra loro. Elisa sentì un leggero brivido.
Si voltò, e vide Roberto.
Ebbe l'impressione d'un sogno, d'una visione. Mandò un piccolo grido, e protese inconscia ambo le mani, mentre la sua faccia tradiva tutto... tutto.
Egli le aveva prese le mani in una stretta appassionata, mentre ella tremava come una foglia, con un sorriso vago. Poi, rapidamente, le loro labbra si erano unite... senza progetto... senza volere di alcuno dei due. Così... perchè si amavano. E in quel secondo, incosciente e supremo, Elisa ebbe il primo bacio d'amore della sua vita... il primo fiore dell'ultima primavera.
Stettero le sue sulle labbra di Roberto... Stette ella così, stretta al cuore di quel fanciullo. Negli occhi di quella donna non c'era ira di sorta. Non fu in entrambi, per un istante, che una dolcezza ineffabile, la tenera, sacra gioia, di rivedersi, di ritrovarsi, d'essere ancora assieme, la confessione, il compenso di ciò che avevano entrambi sofferto, divisi...
— Cara... — mormorò Roberto con profonda emozione — perchè sei andata via così? perchè non sei tornata? Lo sai pure che non posso stare senza di te... Lo sai pure che ti amo!
[326]
Suonava la dolce, la suprema parola, la nuova, ardita formula confidenziale, nel tepore dell'aria sì mite, sì trasparente... L'udiva Elisa, rivolta a lei, l'udiva calda, vibrante, sincera... Vedeva quei grandi occhi bruni, cinti di appassionata penombra, versare nei suoi, a immensi fiotti, l'espressione di un sentimento, di una vita, di un mondo... l'amore!...
Egli seguitava, colla voce quasi smorzata dall'intima emozione:
— Perchè mi hai trattato così?... È stata quella vecchia che ti ha condotta via, nevvero?... Ma dopo, perchè non mi hai scritto che venivi qui?... Ma io ho fatto tanto che l'ho saputo, e ora... sono qui con te... con te...
Se la strinse ancor più d'appresso al cuore, con un rapido, brusco movimento, in cui, senza saperlo, mise la forza dell'intima accensione che l'invadeva crescente.
Un'abitudine, ch'era diventata un istinto, gridò all'animo di Elisa l'antico grido d'allarme...
E si scosse... spaventata.
— Roberto! — gridò con angoscia imperiosa, irresistibile.
— Non temere — diss'egli. — Ma io ti amo... sai.
Elisa s'era alquanto discosta da lui. Ma le loro mani erano ancora intrecciate.
— Ti amo. Come sia avvenuto, non so. Ma tu devi saperlo... Mi hai trattato come un figlio, ma io non [327] ti amo, no, come un figlio... Non te ne sei mai voluta accorgere, e mi hai fatto soffrire tanto. Poi sei andata via... Ma lo so... che anche tu forse, un poco, hai sofferto. E son venuto...
Si arrestò, vinto anch'egli, lottando contro l'effervescenza della passione, contro il senso di rispetto che assieme all'amore gli aveva sempre ispirato Elisa, lottando contro la sua inesperienza dei supremi momenti della vita.
— Ti amo, — disse ancora sommessamente... umilmente. Poi, ad un tratto, con un accento più alto, più imperioso: — Elisa... — gridò — vuoi esser mia?
— Oh!... — gridò Elisa, esterrefatta — io?...
— Sì... tu... Ti amo, ti voglio... ho bisogno di te, della tua vita, dei tuoi baci... Sei bella, ti amo. Come vuoi... tutto ciò che vuoi... purchè tu sia mia! Di'... vuoi?... vuoi fidarti di me?... sono giovane, ma non importa... Imparerò... saprò... Fammi, ciò che credi, tuo amante, tuo marito! Ma purchè tu mi appartenga, purchè io possa vivere con te... sempre...
Un delirio lo invadeva, un'ardente esplosione, determinata dalle sofferenze reali ch'egli aveva provato negli scorsi giorni, dal vuoto incomportabile che l'assenza d'Elisa aveva messo nella sua vita. L'emozione di lei, la subita certezza che ella lo amasse, avevano fatto divampare l'incendio a lungo soffocato.
Era sincero in quell'istante, sicuro di sè stesso, di tutto l'ardore dei suoi giovani anni, di tutto l'orgoglio [328] audace della sua indipendenza, nell'impulso irresistibile del suo desiderio eccitato sino alla follia dal semi abbandono di lei, dall'estasi vaga in cui andava nuotando lo sguardo di quella donna.
Di nuovo, bramosamente, con uno sguardo di febbre, con un brusco moto, la serrò sul suo petto, ricercò colle sue le labbra di lei. E con una specie di energia prepotente, quasi feroce:
— Di' la verità... — gridò — dilla... mi ami?
Essa lo guardò smarrita. Tentò un sorriso, un diniego, una parola evasiva. Ma come suo malgrado, come per una forza ineluttabile, le sue labbra mormorarono disperatamente: — Sì.
Allora si sentì avvinghiata dalle braccia robuste di quel fanciullo, sentì una pioggia di baci piombarle sul volto, senti un roco grido di gioia, di trionfo.
— Ah! dunque, sei mia!
Ma, con un moto sì rapido ch'egli non ebbe il tempo di opporvisi, ella si liberò da quella stretta. Si accampò ritta, severa, davanti a lui.
— Roberto! impazzite!
Roberto si arrestò... Rimase, anelante, pallido, di fronte a lei, che lo guardava fissa, austera, colla suprema autorità di sguardo di un domatore di belve, quando è solo, senz'armi, di fronte a un leone.
Entrambi rimasero così un istante. Si udiva l'alito rotto, affannoso, di Roberto... Si vedevano vibrare, come in un accesso di febbre, le vene del collo di [329] lei, tremare le sue mani avvinghiate una all'altra, palpitare violentemente il suo seno... Ma ella non si mosse, ed egli non osò muoversi. Dopo un istante, egli chinò il capo e sussurrò:
— Perdonami.
Tacque un istante, come sopraffatto dalla stanchezza subitanea della violenza fatta a sè stesso... Terribili, a volte, queste vittorie della volontà nell'uomo!...
— Dunque? — proseguì un momento dopo, non più colla foga di un fanciullo, ma con una specie di calma determinata, virile.
— Roberto... ho trentanove anni! — rispose ella con profonda angoscia.
Egli alzò le spalle sdegnosamente.
— Roberto, ho i capelli bianchi!...
Egli tese la mano, e una lunga, amorosa carezza passò su quei capelli brizzolati.
— Se sapessi come sei bella, — mormorò.
— Roberto! il mondo, l'opinione pubblica...
Roberto ebbe un bel riso sonoro, echeggiante.
— Il mondo?... ma lo sai pure che del mondo non mi è mai importato un bel niente. Quando siamo contenti noi, di lui cosa c'importa?... Facciamo quello che ci pare. Se son contento io, tocca a me a pensarci. Ti sembra?... Rideranno. Lasciamo ridere. Purchè siamo contenti, noi!... E se è vero che mi ami... — S'arrestò improvvisamente; poi continuò:
— Ancora non posso crederlo che tu mi ami. È [330] troppo... troppo! io non sono che un ragazzo. Ma, se lo vuoi, farai di me qualcosa che somigli di più alle tue idee. Non son mica cattivo, nè difficile da condurre... Tu mi hai fatto capire tante cose. No, degno, proprio degno di te non lo sarò mai; ma se tu vuoi, se tu vuoi... Oh Elisa, Elisa. Non vedi che non ne posso più di questo martirio!...
Non ne poteva più, infatti. La sua voce veniva meno nell'intenso ardore di quella preghiera, nello sforzo di quel dominio sopra sè stesso, che lo esauriva.
Ella anelava...
— Lasciami pensare, — supplicò.
Roberto sorrise tristamente.
— Se mi amassi veramente, non parleresti così. Fa ciò che credi. Ciò che ti ho detto, lo ripeto: ti amo.
Si appoggiò, pallido e spossato, contro un vicino tronco d'albero.
— Ti scriverò, domani — sussurrò Elisa con un filo di voce. — Ora, parti.
— Partire?..
Un rossore quasi verginale si diffuse sul volto di lei.
— Parti — ripetè. Ma nella sua voce c'era un tremore così giovanile, così eloquente, un sì profondo ed angoscioso senso d'amore, che un'ebbrezza di gioia invase il cuore di Roberto.
— Elisa! — gridò Roberto con un appello appassionato, supremo.
[331]
Ella non si fidò della sua voce. Fece un cenno di comando, d'addio...
— Pensa, — gridò egli — pensa!
Per un momento tutto nel suo essere ebbe ancora un impulso violento, verso di lei. Ma ancora lo vinse.
Con una vibratissima mossa egli si spiccò da quel luogo. Si voltò un istante, ed ella vide la sua splendida faccia irradiata d'amore, sublime della vittoria riportata. Vide un appassionato gesto di addio, di preghiera, vide una visione di bellezza, di gioventù, d'amore che la salutava, che se ne andava, ch'ella stessa aveva mandato via. Un grido morì nella sua gola, stretta da una convulsione. Poi, non vide più nulla. Era andato a Firenze a attender lei o la sua risposta.
[332]
Venne la risposta:
«Carissimo Roberto,
«È impossibile... Vi amo, sì, ma come una madre. Non posso prendere la vostra vita. Avete diritto a un'altra, ad una più razionale felicità. Questo, anche a vostra insaputa, sarebbe un sacrificio. Non posso accettarlo. Rimango ciò che ero, la vostra migliore amica. Dirvi ciò che provo in questo momento non mi sarebbe possibile. Ma immaginatelo, se lo potete, per non serbarmi rancore. Iddio vi benedica e vi ripaghi ciò che mi hanno dato il vostro affetto, la vostra fiducia, la vostra offerta! Da questa prova uscite forte, temprato ai dolori della vita. Più tardi, quando un amore più normale parlerà al vostro cuore, e vi guiderà verso una fanciulla degna di voi e che possa darvi la felicità nel modo in cui non è concesso a me di farlo; parlate di me a quella fanciulla, conducetemela, perchè io la baci in fronte e la benedica. [333] Allora, Roberto, sarete contento, e io pure. Ora soffrite forse... e anch'io... sapete, soffro anch'io. Ma ho fatto così per il meglio, e perchè è impossibile, nevvero, è impossibile che sia altrimenti?... Andate da vostra madre, ditele che non ho fallito alla mia missione, che più di questo nè Dio, nè lei potevano chiedermi... E voi, Roberto, ancora, perdonatemi e siate felice.
«Elisa.»
Questo fu tutto ciò che quella donna, (ch'era pure una donna d'ingegno), seppe trovare nella sua testa per scrivere a Roberto, per dirgli che non voleva esser sua. Così riescì quella povera cosa, urtata, fredda, contradditoria nella stessa sua intima disperazione. Forse saputa leggere, intuiva. Ma saper leggere una lettera tutta intera, colle parole scritte e colle altre, non è dato a tutti... È un'arte che s'impara tardi, quando si è già pagato lo scotto di parecchie altre ignoranze. E Roberto non aveva ancora aperta quella partita odiosa col destino, e lesse quella lettera, com'era scritta, soltanto. Provò due ferite: una, acuta di cuore; l'altra, acutissima, di amor proprio.
— Ah! — stridette fra i denti. — Sono sempre stato un ragazzo per lei!
[334]
***
Ella non lasciò le Celle. Fu malata per una quindicina di giorni. Li passò quasi sempre sola nella sua stanzetta claustrale. Dall'unica finestra godeva di una grande latitudine di libero orizzonte. Attorno alla finestra si diramava, salito all'alto dal terreno, un cespo di gelsomini in fiore. Quando c'era il vento (e soffiava di frequente lassù) era una danza sfrenata nei rami arcuati. Questa era la sua distrazione. Ne aveva un'altra, la posta, che lassù capitava una sola volta al giorno. Nei primi giorni specialmente, l'arrivo della posta aveva il privilegio di scuoterla da quella specie di assoluta noncuranza di tutto che pareva invaderla ed assopirla. Si alzava sul letto, o dalla poltrona, e, fra le sue mani smagrite, i giornali e le lettere scorrevano più volte, in fretta. Poi, rifattasi pallida e quieta, lasciava per un momento intatto ed ammonticchiato quel gran fascio di carte, che pure le recava ricordi di amici, di persone simpatiche, notizie del suo mondo, del mondo dell'arte, della scienza, di tutto ciò ch'era stato un tempo la sua vita.
Solo qualche ora dopo, sotto l'impero di una suggestione precisa della sua volontà, si dava tutta quanta alla lettura di quei fogli. Ma, in capo a qualche tempo, l'opuscolo, il giornale scivolava dalle [335] mani inerti, ed Elisa stava immobile collo sguardo distratto, fisso su quei rami esterni, che facevano alla finestra una cornice verde e danzavano in molle cadenza sulla solfa del vento.
Anche quando incominciò a star meglio, si limitò per qualche tempo a far moto, sulla passeggiata delle suore. La prima volta che uscì spingendosi sino all'estremità del viale, tornò a casa sì pallida, sì spossata che la Ghita se ne impensierì e ne fece motto con Andrea.
— Eh! — disse Andrea, — sicuro che non sta bene adesso, la Signora. È questa vita che non le conferisce. C'è l'aria troppo fine per lei.
Ammiccò leggermente... con un non so che di malizioso, che fece rimaner perplessa la Ghita e le chiamò sulle labbra una interrogazione.
— Volete dire... Andrea? Ovvero che abbia qualche dispiacere in cuor suo, eh?
— Ma! — disse Andrea, filosoficamente.
E non ci fu verso di cavargli altro!
***
Elisa cessò d'aspettare la posta. Cessò di fissare lo sguardo intento, dalla finestra, nella direzione del viale. Roberto non rispose. Roberto non venne a muoverle rimprovero, a lagnarsi di lei... Allora — ella disse risolutamente — sono libera.
[336]
***
Certo, era libera. Libera e contenta di sè! Si sentiva attorno alla fronte un'aureola, quella d'una santa, fra le mani una palma, quella del martirio. Diceva a sè stessa di aver fatto il suo dovere, di aver agito bene, da signora, da donna onesta, da donna assennata. Aveva dato ragione al mondo, al buon senso, a zia Balbina, agli amici ragionevoli; aveva evitato due terribili cose, un intrigo ridicolo e un matrimonio che lo sarebbe stato del pari. Non aveva tradita la fiducia di Tecla, non aveva approfittato d'un momento di vertigine, di uno scaldamento di fantasia di un fanciullo per fabbricare egoisticamente, su quelle basi fittizie, un edificio di felicità... chimerica.
Arrivata a questo zenit di congratulazione con sè stessa, Elisa non andava più in là. Il suo pensiero si fermava raccapricciando davanti all'immagine di quella felicità. Una spasmodica confusione si metteva nelle idee di quella donna, nel suo cuore, in tutta lei. Non era precisamente il rammarico del suo operato, bensì un lontano equivoco senso di disperazione incongrua, in contraddizione flagrante coi suoi mirallegro, era forse ciò che può provare un suicida che non è morto subito come credeva, ma sa che morrà tra breve, e ora non sa più se ha fatto bene o male a voler morire! Più volte disse a sè stessa: — Partirò.
[337]
Ma dove andare? L'idea di veder gente le dava delle acute orripilazioni di nervi. E in quella solitudine, ove pure soffriva tanto, c'era il ricordo, era rimasto il luogo ove s'erano incontrati.
Poteva vederlo ogni giorno quel luogo, se voleva. Era sempre là quello spazio erboso, una piccola spianata, come una sosta sul sentiero in discesa. Era là tuttora quel tronco d'albero a cui egli, pallido, s'era appoggiato. Vi si appoggiava ora, ella, pallida alla sua volta, cogli occhi socchiusi, colla bocca semi aperta. Là egli era apparso, era venuto a cercarla, a offrirle l'amore, la vita, l'avvenire. Là le sue braccia l'avevano stretta, là le loro labbra s'erano unite... Ah! il ricordo di quel bacio, di quella tempesta di baci! Le pareva di sentirli ancora, di dibattersi, di ricusarli... Ma essi non volevano andar via, tornavano irruenti, scottanti come uno sciame di farfalle di fuoco, ch'ella era impotente ad allontanare, che le gridavano: «Ma non vedi che sei tu che ci chiami, che ci vuoi, malgrado tuo; non lo comprendi che è la rivincita, che è ciò che doveva essere, ciò che non sapevi, ciò che ancora vorresti, ma che non puoi più ignorare?» E nella sua mente, nel suo spavento, nel suo sangue, l'eco di quei baci si ripercuoteva incessante sino a flagellarla nell'animo, nei sensi, sino a trarla di senno, sino a strapparle dalle labbra un grido in cui suonava, come un folle disperato richiamo, il nome di colui ch'ella aveva ricusato [338] e respinto... il nome di Roberto. E finiva col fuggire, disperata ella stessa, da quel luogo.
Ma per tornarci.
***
A volte non era più quella sensazione. Era l'antica larva della tenerezza materna che tornava, il bisogno acuto di un essere da amare, da educare, da avviare al bene, il rammarico dell'opera, della missione incompiuta. Ora in una forma nuova, con una inattesa entità di strazio, la colpiva una nuova immagine della sua vita, vuota, arida, incompleta. Ella non era stata amante, non era stata madre. Era bensì stata sposa... ma come?... Un tempo ella aveva avuto una specie d'insano orgoglio di quella sua esistenza a parte, in cui l'elemento intellettuale predominava, imponendo il proprio giogo alla femminilità stessa di lei, costringendola a rinnegare sdegnosamente il resto e a ignorarlo. Così, in quella specie d'intangibile Dea, molti avevano scordato la donna. Ella stessa l'aveva scordata!
Ed ecco ch'era venuto un uomo giovanissimo, senza esperienza, ignorante di una infinità di cose, nè più cattivo, nè migliore degli altri..., facile alle seduzioni, ma non corroso dallo scetticismo, indipendente dalle opinioni altrui, fedele a sè stesso e al suo desiderio, qualunque fosse. Era venuto fuor di [339] tempo, fuor di proposito, ma senza cruccio alcuno di tempo o di proposito. Era bello, forte, sano di cuore, sventato..., irresistibilmente portato all'amore, creato per subire il fascino ed il giogo della donna. Aveva subìto quello di Elisa, quello che per l'appunto ella ignorava di avere... Coll'audacia e la serena imprudenza della sua età e dell'indole sua, egli aveva avuta un'accortezza, pur sì facile, ma che non avevano avuta gli altri: invece di studiare o di ammirare quella donna, l'aveva amata semplicemente, insegnandole così il vacuo errore di cui ella aveva finito coll'esser vittima, a spese di sè stessa.
A un tratto e pur così tardi, all'undicesima ora dell'amore della donna, nella vita di Elisa aveva posto piede quel fanciullo, era andato diritto, coll'audacia dell'ignoranza, là dove i tesori di quel cuore giacevano inerti, inavvertiti. E nella Dea egli aveva semplicemente, ridendo, risvegliata la donna!
Per compiere il sacrifizio del rifiuto, ella aveva tutto chiamato a raccolta; non solo il suo senno, ma anche il cuore. Era la gratitudine; era l'amore stesso che le avevan detto: «Non accettare.» Era anche una segreta viltà, il vago spavento di ciò che avrebbe potuto, dovuto forse soffrire più tardi... S'era immolata, perchè Roberto potesse esser felice con una sposa giovane, più bella, migliore di lei. Aveva sacrificato il suo amore, perchè il mondo non lo deridesse! Questo aveva fatto, in un parossismo di sgomento, [340] coll'esaltazione, la cieca sete di martirio che sta talvolta in fondo al cuore della donna e che spesso e pur non sempre è la guida migliore del suo operato.
L'aveva fatto... sta bene! Ma ora?
Ora, soffriva. Sentiva cosa aveva fatto, sacrificandosi. Sentiva insultante, beffardo il dubbio della presa risoluzione, cominciava a temere che fossero intollerabili per lei, forse per entrambi, le conseguenze del sacrificio...
Egli aveva letta integralmente la sua lettera, non le aveva risposto, non era venuto... Naturale: l'aveva obbedita. Ora era sola, come aveva voluto, senza di lui. Sola, di fronte ad un incomportabile senso della solitudine... Erano le lunghe ore vuote della giornata, quelle ancor più formidabili della notte, in cui non osava spegnere il lume per non guardare in volto l'indole indefinita dei suoi pensieri. Era la quiete morta della Villa, l'austero rimprovero che pareva rivolgerle l'ambiente, pieno un tempo di Dio, servo ora e come profanato dal culto terreno di un cuore immerso nella follìa, nella sconfitta vergognosa di un culto idolatra; e tanto... oh tanto umano!
Fuori, l'aprile infuriava. Elisa non l'aveva mai vissuta così, la primavera! Le pareva una legge vivente d'amore universale, sorda a tutto ciò che non era sè stessa, una gran voce solenne che le [341] dicesse crudelmente: E tu... cosa fai? perchè ti sei scordata di me?
Elisa si inebbriava di lunghe contemplazioni tenere della campagna, aveva delle emozioni assurde, puerili, pei più piccoli particolari dell'esistenza animale e vegetativa. A tutte le effervescenze misteriose della natura ella prestava un'attenzione nuova, tutto le pareva una rivelazione, uno stato nuovo di sè stessa, quasi il repentino guarire d'una antica cecità, di una cecità di nascita. E in quella nuova partecipazione ad una luce ignota si univa una sensazione folle e pura, che tutto questo fosse semplicemente lui, e che ormai ella non potesse più in nessun modo vivere senza questo e senza di lui...
La coglieva una perplessità piena di strane angoscie. Doveva pur confessarlo a sè stessa, che non era forte, come aveva creduto di poterlo essere. Aveva calcolato di più sull'orgoglio e sul buon senso. Ora: quegli alleati infedeli, non la spalleggiavano più. Di fronte alla logica stessa a cui aveva dovuto il coraggio della sua risoluzione, s'alzava sottile, plausibile un'altra logica, che insidiosamente voleva da lei un'adesione.
E se, dopo tutto... si fosse ingannata?
Se, invece d'essere eroica, fosse stata nulla più che fredda e codarda? S'egli soffrisse così... al par di lei?
E allora ella perdette l'unica cosa che la sostenesse, la fede nel suo operato.
[342]
Passò un mese così, di fronte a questo dubbio... V'erano dei giorni ch'ella passava aspettando Roberto, sentendo, che se fosse venuto ella gli avrebbe detto d'avere ingannato lui e sè stessa. Ma egli non venne, nè scrisse, ed ella ebbe dei momenti in cui chiese a sè stessa:
— È così che s'impazzisce?
***
Un giorno, respinta da Firenze, le pervenne una lettera di Tecla.
La contessa Rescuati ignorava che Elisa fosse alle Celle. Le scriveva, dicendole di sentirsi assai poco bene, e rimproverandola pel suo lungo silenzio.
Anche Roberto non le scriveva quasi mai. Tempo addietro, circa un mese fa, aveva accennato alla possibilità di far ritorno a casa. Poi non aveva più scritto che all'agente per chiedere una forte rimessa di denaro. Nient'altro.
Nella lettera di Tecla era evidente un'angoscia di madre che non osava appalesarsi tutta. Nel cuore della Serramonti ebbe un'eco d'indefiniti sgomenti, quasi di un rimorso... Roberto voleva forse partire?...
— Partire... Viaggiare... Perchè... Forse?...
Ella non reggeva più all'urto contradditorio dei suoi pensieri.
***
A un tratto, in quella notte d'anima, guizzò come un lampo di luce la possibilità d'un'ipotesi...
[343]
Era la notte anche fuori, ma una notte divina, tra le ultime dell'aprile, immersa nel candore di un plenilunio tepente.
Elisa stava sulla passeggiata delle monache.
Attorno agli archi del porticato il gelsomino in fiore spiegava i suoi rami, i quali danzavano, cullandosi nella brezza.
— Tanto, così non potrei vivere, — disse Elisa. Parlava ad alta voce, alla notte, come un'insensata. Attorno a lei l'erbette, mosse dal vento in un leggiero scompiglio, sussurravano urtandosi una contro l'altra: «Guarda lassù, come soffre... colei!» Dal seno bianco dei gelsomini si spiccò un olezzo. Le passò rasente, e le disse: «Va.»
Dalla macchia vicina si levò, tremulo d'amore, un gorgheggio d'usignolo e disse parimenti: «Va.»
Solo da lungi, dietro un colle, nero di cipressi e di abeti, un lungo, cupo strido d'assiolo echeggiò. Quello parve che dicesse: «Bada!»
Ma Elisa non gli badò. Chinò il capo come se acconsentisse agli altri, alla maggioranza. La brezza notturna si quietò di repente, e qualcosa si quietò pure nello sfinito animo di lei. — Ha sofferto, — disse tra sè, ha sofferto tanto anche lei. Ha pure amato... Mi comprenderà!... Ed egli mi ama... E io... non posso più vivere così.
Amen! disse la notte serena.
[344]
La contessa Rescuati era sola in uno dei meno vasti fra i tanti saloni del palazzo.
Stava sdraiata su un lungo divano verde di foggia Impero. Nella penombra di un angolo, dietro a lei, biancheggiava confusamente un busto di marmo bianco, l'effigie del fu conte Rescuati. Di fronte, sulla lucentezza fredda della parete rossiccia a scagliola, spiccava in una greve cornice dorata un quadro, pregiato lavoro di Adeodato Malatesta. Il ritratto di Roberto a dieci anni, uno splendore di fanciullo baldanzoso, in sella, su un piccolo cavallino sardo.
A destra della Contessa e a portata della sua mano, un tavolino di certosina recava gli oggetti che potessero presumibilmente abbisognarle: libri, l'occorrente per scrivere, lavori incominciati... fialette di medicinali e d'essenze. E al centro, presso una minuscola statuetta d'argento dell'Immacolata, rigirata fra grani di madreperla d'un rosario, stava ancora un ritratto di Roberto, una fotografia-gabinetto: la testa soltanto, idealmente bella sulle larghe [345] spalle che andavano smarrite nella sfumatura delicata del lavoro.
In quella sala, fra quel busto e quei due ritratti, Tecla scendeva ogni mattino, quando poteva alzarsi. Alle sei del pomeriggio, sorretta da due domestici, passava nella vicina sala da pranzo, e quivi finiva la sera nell'ossequiosa compagnia del cappellano, del suo uomo d'affari e di qualche parente o amico di casa. Tardava quanto poteva a coricarsi, soffrendo di crudeli insonnie, cagionate da un quasi perenne stato nevralgico. Incomodi di lunga data l'avevano quasi al tutto privata dell'uso delle gambe. Aveva la cappella in casa, e non usciva, che due o tre volte all'anno.
Una vecchia zitellona povera, lontana parente della casa, aveva assunte presso di lei le funzioni di dama di compagnia. Ma la Contessa non era molto loquace, e il garrulo cinguettìo, l'ampia messe di pettegolezzi di Donna Marietta non erano fatti per distrarre i forzati ozi della sua benefattrice e patrona. La buona zitellona aveva imparato a passare molte ore con Tecla, pronta ai suoi cenni, ma in disparte, lavorando silenziosamente per conto proprio, rispettando i tentativi di riposo assoluto mercè i quali la Contessa tentava di conciliarsi almeno per qualche minuto il sonno che, nella notte, visitava sì scarsamente il suo capezzale.
Nella piccola contrada fuori mano, ove s'ergeva, [346] grandioso e tetro, nel suo carattere medioevale, il palazzo Rescuati, nulla accadeva di atto a turbare la quiete dei vasti appartamenti deserti. Da quel silenzio malinconico, necessariamente uggioso ad un giovane, la Contessa aveva voluto allontanare il suo figliuolo.
L'aveva fatto, e non se ne pentiva. Ma ora egli da tempo non scriveva. Ella pensava: — Se ci fosse qualcosa, me ne scriverebbe Elisa.
Ma anche Elisa da un mese non scriveva. E a Tecla venivano dei pensieri strani su sè stessa, sull'esito della sua malattia, mentre riposava in silenzio, inerte, sul divano verde, facendosi sempre più pallida, più stanca, nella sua gran casa, taciturna anch'essa, senza luce, senza sole, senza gioventù, senza bambini, senza Roberto.
Donna Marietta sollevò il capo dal suo lavoro, e diede un'occhiata alla signora. Vide che la Contessa teneva chiusi gli occhi e stava immobile.
Allora la zitellona, con un piccolo sospiro di sollievo, si alzò, sgranchì la sua ossea personcina ritta e rigida come un paracqua, nella sua fodera di vestimenti semi monacali e chiotta chiotta, in punta di piedi, se la battè alla volta di recessi meno splendidi, ma dove almeno si potevan barattar parole colle cameriere o colla moglie dell'agente.
Appena si sentì sola, Tecla aprì gli occhi con un pallido sorriso. Ah! gliel'aveva fatta a Donna Marietta! [347] Ma tosto si distrasse dal pensiero di Donna Marietta. Coll'acuta percezione auditiva che è tutta propria degli ammalati, aveva udito, mentre era tuttora quasi impercettibile, uno strepito di passi che s'accostavano per la lunga fuga delle sale vicine. Riconobbe quello pesante e strascinato del suo vecchio servitore, ma non l'altro, un passo femminile leggero, ignoto, e che pure le andava suscitando una forte, crescente impressione. Il suo povero cuore prese a batterle forte in seno, come presago dell'alta angosciosa emozione che le strappò un grido, quando, apertosi l'uscio, udì annunziare e farsi avanti la contessa Serramonti.
Non poteva alzarsi. Elisa le corse incontro colle braccia tese per abbracciarla. Ma nella mente di Tecla quell'arrivo improvviso parve talmente connettersi alle sue preoccupazioni di poc'anzi ch'ella ebbe un pensiero soltanto, un terrore, una domanda:
— Roberto?
— Sta bene, ti accerto — ripeteva Elisa, profondamente colpita da quell'angoscia, nonchè dal terribile deperimento di Tecla.
— No, no — ripeteva Tecla ansante, ostinata nel suo spavento — cosa c'è?... cos'è accaduto? per pietà! dimmi.
— Nulla, ti accerto, nulla — replicò Elisa. — Son io, soltanto io, che vengo a dirti...
Cadde in ginocchio dinanzi alla madre di Roberto.
[348]
E sul seno palpitante di questa, in uno scoppio irrefrenabile di amore e di pianto, celò il volto. — Perdonami... — sussurrò. Questo è accaduto, ch'io l'amo!
***
L'una di notte.
Nel grande stanzone da letto, coi parati di damasco pallido, la luce velata della veilleuse diffonde una luce sbiadita, insufficiente a rompere una penombra piena della confusa parvenza dei mobili e delle cose. Sul tavolino da notte, accanto al letto in cui giace Tecla Rescuati, la fiamma di una candela accesa in una piccola bugia d'argento rischiara, in una breve zona di riflessi, due forme femminili, vicine, quasi abbracciate, nell'intenso assorbimento di colloquio. Tecla, col capo affondato fra i guanciali, coi grandi occhi spalancati ascolta ciò che Elisa Serramonti, seduta su una poltroncina bassa e col busto appoggiato alla sponda del letto, le viene narrando sommessamente, per non destar la cameriera nella camera attigua. Un lieve odor d'etere si esala nell'ambiente. Il palazzo dorme silenzioso, nella grande pace notturna.
Ed Elisa narra, coll'irresistibile effusione di uno sfogo troppo a lungo represso, la strana storia del suo cuore. Cerca, nella tempesta appassionata dei suoi ricordi, di riannodare le sparse fila dei dettagli [349] di quel sentimento ch'ella ha lasciato giungere, nella sua ibrida forma, sino all'intero dominio di sè stessa. Ma, ogni inganno è scomparso ora; è la donna che parla, la donna che ama, che spasima, che sente vano ogni sforzo per tollerare ciò che ella stessa ha compiuto, che rinnega il suo eroismo e si confessa vinta e trascinata dal suo amore verso le vie, gli scopi, l'essenza di ogni vero amore!
Tutto disse a Tecla di quanto era accaduto, di quanto le aveva dimostrato e detto Roberto, di ciò ch'egli le aveva chiesto. La confessione fu completa, senza ambagi, e mentre Elisa andava così denunziando l'animo suo, sentiva ella stessa l'impressione di una rivelazione... la sorpresa di ravvisare in sè, di toccar con mano la propria attitudine a tutte le facoltà caratteristiche della passione. Ella tremava, nell'angoscia di quella confessione che atterriva il suo orgoglio; ma un'altra specie di orgoglio subentrava al primo, l'orgoglio di sentirsi finalmente, completamente donna.
Uno splendore d'intima fiamma irradiava il suo volto; l'occhio era umido, sfavillante di luce e di passione. Tecla comprendeva, vedendola così, il pericolo a cui, senza saperlo, aveva esposto suo figlio. Ascoltava, pallida, attenta. E quando Elisa ebbe finita la sua confessione, si lasciò scivolare in ginocchio, e con una completa remissività, con un appello supremo alla giustizia ed al cuore della madre, sussurrò, stringendo violentemente le mani di lei:
[350]
— Ora ti ho detto tutto... Tu sei sua madre. Decidi.
Tecla si raccolse un istante; pensò... Forse chiese a Dio, anch'ella, una forza. Non era stato quello il suo sogno di madre... Forse ella sentiva confusamente quanto è temerario ogni tentativo di felicità. Ma Roberto amava quella donna. Tecla sapeva ciò che ella era stata, ciò che saprebbe esser ancora per lui! Pensò che non glielo avrebbe portato via, per quel poco tempo ch'ella aveva ancora da vivere! E l'antico eroico spruzzo di tenero romanticismo, ch'era sempre stato nel suo cuore, disse anch'esso la sua parola! Elisa attendeva, bella... oh inesprimibilmente bella della sua passione e della sua fiducia disperata... Tecla risolse.
— Elisa — mormorò — non piangere... Io ti comprendo... in tutto... Sei stata sublime; di più non potevi fare!... E ora, poichè lo ami ancora, se egli t'ama sempre, prendilo il mio figliuolo... Io, sua madre, te lo do!
***
Dagli spiragli delle chiuse imposte trapelava ora uno scialbo biancheggiare del mattino; la candela era pressochè consumata e sulla faccia di Tecla stava il pallore delle notti più cattive. Ma ella in quel momento non avvertiva di soffrire. La intensa concitazione di Elisa era passata anche in lei. Tecla si eccitava [351] febbrilmente nei sogni di un avvenire che, dopo tutto, le rendeva suo figlio.
Era una conversazione rotta, confusa tra quelle due donne, soggiogate dallo stesso sentimento, ed entrambe così atte a subirne l'impero. Tecla comprendeva ora l'appassionata infatuazione di Elisa, come Elisa aveva alla sua volta compreso l'ardente, il cieco amore materno di Tecla. Parlavano a scatti, con un'assoluta sincerità, certe che, ora, non potrebbero fraintendersi in nulla.
— Bada, soffrirai! — aveva detto Tecla ad Elisa.
— Lo so, è inevitabile... Ma non importa. Era una viltà la mia... quella di non voler soffrire! Naturalmente, sarà questione di pochi anni... Ma avrò tanta cura, lo amerò tanto che, per qualche tempo, tutto sarà compensato... E poi... quando verrà il momento... oh... non lo tormenterò, sai... saprò soffrire, tacere quanto occorre. Alla peggio, morirò... Ma intanto... intanto!
Il delirio della sua gioia era in quel momento portato all'estremo. Pareva il trionfo di una rivendicazione... pareva quasi un diritto. E Tecla si accendeva anch'ella all'ardore di quel cuore amante che aveva, finalmente, trovata la sua via.
— Sì, sarete felici. Egli ti ama, tu sei degna del suo amore. Vedendoti, comprenderanno... E non me lo porterai via, nevvero, il mio figliuolo? Egli sarà felice qui con noi. Tu che sei forte, che hai il suo [352] amore, saprai indirizzarlo al bene, ispirargli il desiderio di una vita attiva, giovevole, lo spingerai a delle belle, a delle nobili occupazioni. Lo conosco, è il mio figliuolo... Son io che l'ho avvezzato un po' male, che l'ho fatto un po' pigro, un po' imperioso. Ma in fondo, per chi ama, egli è capace di sacrifici, di sforzi! Ha bisogno di affetto, di un ambiente suo, casalingo... Verrete qui nevvero... vivrete con me? Qui, vedi, le illusioni si possono serbare più a lungo, sono meno osteggiate dal genere di vita, si rimane indietro in tante cose; anche col tempo... E lo terremo qui con noi... veglieremo noi!... E tu farai in modo ch'egli sia sempre... sempre contento, nevvero?
— Sì, sì... — ripeteva Elisa con trasporto... — Non temere, farò tutto ciò che mi dirai... tutto ciò che sarà necessario perchè egli non si penta, perchè non rimpianga ciò che ha rinunciato per me. E così isolati, a furia d'amore, saremo felici a lungo... e Dio... forse mi perdonerà la mia audacia.
Tacque, vinta dall'emozione, sorridente, estatica fra le lacrime... Poi quelle due donne, per un impulso simultaneo, irresistibile, si strinsero in un abbraccio appassionato nel pensiero, nell'amore, nell'avvenire di Roberto!...
[353]
***
— Apri le imposte — disse Tecla ad Elisa.
Elisa obbedì e la luce del giorno fatto rischiarò il volto alterato di Tecla. Un periodo di reazione era già successo all'eccitamento di poc'anzi, non impunemente subito da quel fragile organismo.
— Vuoi che chiami la cameriera? non ti senti bene, mi pare — chiese Elisa.
— Oh no... non è nulla. È solo la mia solita crisi. Non suonare, aspetta, fra un momento... Voglio dirti ancora una cosa.... Che conti di fare?... Vuoi che gli scriva io?...
Un lieve cenno di Elisa l'avvertì che quel mezzo non le pareva adatto.
— Vuoi scrivergli tu?
Elisa arrossì violentemente.
— Oh no... no...
— Allora?...
— Vorrei — disse Elisa, turbata, con una sincerità di pudore che pareva metterle sulla fronte l'aureola d'una vergine — vorrei... che la cosa venisse da sè, naturalmente. Ecco... io tornerei ora a Firenze. Giusto, ai primi di maggio ci son le corse, è un ritrovo generale. C'incontriamo così come per caso e... allora... allora!
Tecla non pareva al tutto persuasa di questo ritardo. [354] Ma comprendeva che Elisa volesse, per un sentimento delicatissimo d'orgoglio e d'amore ad un tempo, scegliere un terreno neutro ed un'occasione fortuita per ricondurre Roberto al punto delicatissimo della ripresa degli antichi rapporti... Pure... tant'è!
Ma non seppe, lì per lì, concretare precisamente le proprie obbiezioni. E sentiva una confusione, cagionata dall'imminente crisi nervosa, mettersi nei suoi pensieri e scompigliarli.
— Fa come credi. Ma non perder tempo. Per tanti motivi. E ora, vuoi chiamare la donna? Non ti sgomentare, sai... È solo... solo...
Cadde inerte sul guanciale. Era solo la sua crisi. Ma, forse a cagione delle emozioni testè subite, l'aveva colta con una violenza che poteva realmente parer minacciosa ad Elisa, ignara di quanto può tollerare talvolta un fisico di donna nervosa, apparentemente inetto ad ogni sforzo di resistenza. Ci furono dei momenti di parossismo, in cui Elisa, raccapricciata, potè credere che fosse per spezzarsi, da un momento all'altro, il tenue filo di quell'esistenza.
Ma il filo non si spezzò, e otto giorni dopo quella notte, piena per entrambe di sì vive emozioni, Tecla ed Elisa si dicevano addio. Elisa partiva per Firenze per ritrovarvi Roberto, per dirgli che s'era ingannata, che lo amava e che sarebbe sua.
Tecla rimaneva, aspettando.
[355]
Il medico aveva raccomandato di evitare a Tecla ogni forte impressione. L'addio fu dunque calmo. Solo all'ultimo momento, mentre Elisa si chinava per baciare l'amica coricata sul divano, questa si sollevò alquanto, e tracciò un piccolo segno di benedizione sulla fronte di Elisa. Ed Elisa ebbe un rapido ricordo di quella benedizione che aveva messa, lei, come una madre, sulla fronte di Roberto, quando egli doveva battersi con Carisi. Un lampo di terrore, il senso indefinito di un rischio, di un pericolo le attraversò l'anima, come un razzo che fende l'aria gioconda d'una notte di festa.
Ma subito sorrise, libera da quel semi pensiero. Ah!... ma non eran passati due mesi!...
[356]
Sulla piattaforma interna della stazione Elisa aspettava il diretto che, proveniente da Milano, doveva portarla a Firenze. Le pareva che non giungesse mai, benchè solo di tre minuti, quando giunse finalmente, fosse in ritardo dell'orario. Seguita da un domestico di Tecla, che l'aveva accompagnata alla stazione e recava il suo piccolo bagaglio, ella stava in attesa della discesa dei passeggieri dai carrozzoni di prima classe, sperando di scoprirne uno vuoto per compiervi sola, possibilmente, il suo viaggio, quando, dall'interno per l'appunto di uno dei carrozzoni, udì una esclamazione di grata sorpresa, e il suo nome pronunciato da una nota voce.
Quasi in pari tempo, un viaggiatore balzò a terra. Era Marcello Plana.
— Oh Contessa! che sorpresa, che piacere!
— Andate a Firenze?
— Certo. E voi?
— Io pure. Volete salir qui?
Senza rispondere, Elisa fece un cenno al domestico [357] che depose la valigietta nel vagone. E dieci minuti dopo, Elisa e Don Marcello stavano seduti di fronte in quella carrozza, mentre il treno filava diritto verso Firenze. Erano soli, e Marcello guardava Elisa sorridendo, con quel suo inesorabile scrutinio dello sguardo.
Elisa rideva, conscia, con dei rossori, cercando invano di negarsi a quella divinazione che la perseguitava.
— Ebbene, cos'è avvenuto? Perchè siete così bella? Cosa c'è nell'animo vostro per avervi fatti sì splendidi gli occhi?
Questo dicevano i suoi, mentre la voce aveva accenti e parole quasi indifferenti. Sotto l'insistenza di quell'intima indagine ella sentiva ricercato l'animo suo; era un appello diretto, giustificato dall'antica confidenza reciproca, ma Elisa provava in quel momento una strana sensazione. Quella, cioè, che del suo amore fosse più facile il viverne che il parlarne.
Per qualche tempo, seguitarono così, con un battibecco di sorrisi, di parole, in cui penetrava una sottile incertezza di frasi accuratamente scevre d'ogni possibile appiglio alla non voluta interpretazione...
Poi, a un tratto Elisa bruciò le sue navi.
— Non mi chiedete da dove vengo?
— Lo vedo. Da ***, una bella cittadina, n'è vero?
— Sì, credo, non l'ho vista. Sono stata da...
Si arrestò bruscamente. Marcello non sorrideva più. Sapeva.
[358]
— Siete stata da Tecla Rescuati, nevvero?
— Sì.
Un filo di voce, sottilissimo per dir quel piccolo sì.
— Elisa, mia cara amica... voi avete un segreto!
Ella chinò il capo e gli occhi, come avrebbe potuto farlo da fanciulla, a vent'anni. E non era un anacronismo, non una stonatura. E c'era pure in quel moto una gravità nobile e dolce di donna matura alla vita.
Non si contraddicevano quelle due sfumature sì eloquenti d'espressione.
— Non me lo volete dire?
Attese un istante; poi proseguì, sommessamente, come un confessore:
— Volete che ve lo dica io? non volete proprio dirmelo, che io aveva indovinato?
— Indovinato?... Ebbene, sì, avete indovinato.
Il treno entrava in una galleria. Nel buio di quel transito egli le chiese:
— L'amate?
— L'amo!
Tacquero. Al primo chiarore, Elisa alzò gli occhi su di lui. Era, non era, una specie di immensa, di malinconica pietà? un'interrogazione indistinta, forse gratuitamente attribuitagli, ma il cui solo pensiero fe' salire alla fronte di lei una altera fiamma?
— Lo sposo, — disse semplicemente, come una risposta.
[359]
— Certo, — assentì Marcello.
E di nuovo, entrarono nel buio e nel silenzio delle viscere dell'Appennino.
***
Nel corso del viaggio, ella gli disse tutto. Da prima come a forza, per una violenza fattale dall'indole speciale e dal passato della loro amicizia. Poichè a lei pareva che le sue ragioni, le sue incongruenze, le sue successive disfatte, dovessero parergli qualcosa di grottescamente puerile, che dovevano tornare inconcepibili al suo senno pratico. Ma, al suono della voce concitata, tremante di Elisa, davanti a quel fiore d'anima amante che sbocciava trepido innanzi a lui, si risvegliava l'attenzione tenera dell'uomo a cui sono noti, e sa quanto sono rari a trovarsi, i genuini tesori del cuore. Ogni traccia di sollazzevole celia era scomparsa dalla sua fisonomia, fatta subitamente grave e dolce, come quella di un padre. Sotto l'impero di quel mutamento s'acquietava l'indistinto timore di Tecla, la sua idea che in lui si dovesse estrinsecare lo sprezzante giudizio dei tanti che avrebbero condannata la sua felicità avvenire. Ed egli l'udì senza interromperla, e quando ebbe finito, le disse solo quasi teneramente:
— Comprendo.
— L'avevate preveduto forse? — chiese Elisa, con un'inflessione di voce che implorava l'assenso.
[360]
— Presentito piuttosto. Sapete cosa mi ha fatto pensare al pericolo? L'assoluta vostra cecità nel volerlo ravvisare. Ma ciò poteva anche essere un elemento di salvezza per voi, perciò non volli precisare il mio consiglio. Più tardi, a misura che le vostre lettere si riempivano di lui, pensai che egli andava riempiendo il vostro cuore. Cessaste poscia, nelle vostre lettere, di parlarmi di lui. Vieppiù immaginai ciò che adesso mi è noto.
— E — chiese Elisa con un piccolo riso nervoso — mi trovate una grande imprudente, un essere assurdo, illogico?
— No, trovo anzi che tutto ciò, in un certo senso, è affatto logico. Non ve ne fo taccia alcuna. Avevate un immenso bisogno d'amore!... Dovete aver molto lottato, molto sofferto!
— Molto — rispose semplicemente Elisa.
— Ebbene, Dio benedica la vostra risoluzione! A me non resta che un'attesa soltanto; ch'egli sia degno di tutto ciò.
— Oh! — disse Elisa, — il mio Roberto!
E tutta la squisita passione del suo cuore, la cieca tenerezza di tutto l'esser suo, vibrò come una nota di paradiso nell'intonazione molle, sussurrata di quella parola.
Marcello la guardava, attento. Poichè di rado nella vita è concessa questa sublime cosa, di vedere in faccia l'amore, l'amore solo, unico supremo signore di un animo!
[361]
***
Davanti all'atrio della palazzina in via S. Gallo il landau nuovo della contessa Serramonti, coi due bellissimi Mecklemburghesi, stava in attesa della signora.
Con grande meraviglia di Giacomo, il cocchiere, la Contessa aveva preso uno speciale interessamento ai dettagli ed all'assieme della delicata funzione dell'attacco. Ce n'era voluto, perchè si chiamasse soddisfatta. Del resto, avrebbe potuto benissimo risparmiarsi l'incomodo. Un cocchiere fiorentino e il giorno delle Corse! Quasi personale, la questione!
Giacomo attendeva ora, e da un bel po', immobile nella maestà della sua classica posa di attesa. Un palafreniere stava ritto dinanzi ai cavalli, un po' snervati dall'indugio, e che protestavano a modo loro ora scalpicciando leggermente sul terreno, ora allungando il collo e stiracchiando i filetti. Pietro, il domestico, stava in piedi, pronto presso la portiera. In disparte, dietro una vicina macchia di oleandri, si dissimulavano le faccie curiose della moglie e della figlia del portinaio, mentre da una finestra a terreno si vedeva far cautamente capolino la berretta bianca e la faccia rubiconda del capo di cucina.
Di solito, la Contessa, non fa aspettare la carrozza. Ma oggi! L'ha ordinata per le quattro, e sono quasi [362] le cinque. Giacomo si rode un pochino in cuor suo. Ha paura di giunger tardi sul Prato, e che al suo equipaggio non tocchi un buon posto.
A un tratto, si scuote, si erige sulla persona, stringe più saldamente le redini fra le mani. L'invetriata interna dell'atrio viene spalancata da Andrea, il quale si ritrae tosto per lasciar passare la Contessa. Elisa si trattiene un istante sulla soglia per dare qualche ordine al suo vecchio cameriere. Nel piccolo gruppo di quelli che attendono non si produce il minimo atto che si permetta una qualsiasi espressione. Ma i loro sguardi tradiscono una specie di abbagliamento. Ella lo avverte, lo constata, e un assurdo lampo di gioia attraversa il suo cuore di donna. È il primo effetto ch'ella fa. Ma dunque è bella... anche per loro! dunque ha raggiunto il suo scopo!...
Lo ha raggiunto, perchè lo ha voluto, perchè, per raggiungerlo, ha riunite tutte le forze, perchè tutto ha contribuito docilmente a coadiuvarla. È bella in un modo nuovo, splendido, e pure indefinibile. La sua toilette è un'opera d'arte, creata col concetto del genere speciale, compromesso — non sempre facile a toccare — tra la toilette di giorno e quella di sera, quale il cielo e le consuetudini fiorentine permettono di sfoggiare alle Corse. Una raffinata poesia di tinte neutre, una squisita indecisione fra il colore della perla e quello del fior d'elitropio, su cui corre una trasparente sfumatura di trine. La sapiente [363] maestria del taglio ha secondata amorosamente la grazia femminile ed eletta delle forme.
In capo Elisa reca un piccolo diadema di tulle della stessa tinta dell'abito, una specie di corona aerea che non cela la tinta un po' varia della capigliatura, ma che neppure adombra la purezza raggiante della fronte, la gloriosa luminosità di due occhi beati. Ogni più minuto dettaglio di quell'acconciatura è un contributo sommesso, intonato alla perfetta armonia dell'assieme: da tutta quella delicata squisitezza di foggie, di tinte d'accessori si sprigiona una seduzione vaga, irresistibile, penetrante come l'olezzo strano d'un preziosissimo fiore di serra. Sul volto di Elisa sta una misteriosa poesia, una tenerezza ineffabile di emozione velata. Poche volte nella vita la donna ha titolo ad esercitare quella specie d'incanto; è solo quello dei grandi momenti, delle ore culminanti del suo destino. Per Elisa è una di quelle volte, per l'appunto! Entra in carrozza, si nicchia nel suo cantuccio in quella incosciente grazia di posa che le è tutta speciale. Andrea depone sui cuscini, di fronte a lei, un leggero pardessus, un piccolo panierino di paglia pieno di gallettine inglesi, di langues de chat, poi un grosso mazzo di vaniglia e di rose bianche. Il tempo non potrebbe essere più splendido, neppur esso, nè più complice di così. Elisa apre l'ombrellino grandissimo con un ampio falbalà di trine spioventi, e la testina s'incornicia adorabile sulla marcellina [364] bianca dell'interno. Consegna al domestico il biglietto speciale per l'entrata al recinto; quello lo ripone, chiude la portiera, d'un balzo è a cassetta, accanto al cocchiere che attende il cenno della partenza... Elisa indugia per un attimo, per un secondo. Ma tosto si decide:
— Avanti, — dice quietamente al cocchiere.
***
················
Testè compiuta la terza corsa. S'è appena estinto, nell'immensa folla, il lungo mormorio di acclamazione al fantino vincitore. Un triplice rango di equipaggi signorili ingombra il lungo tratto di via, appiè dell'altissimo terrapieno che regge il viale maggiore delle Cascine. A sinistra dello sbocco, l'altura è orlata d'una bassa siepe, dietro la quale si pigia e si protende un'altra e fittissima siepe di spettatori, giudici di lassù, al fresco ed all'ombra, delle vicende e della vaghezza dello spettacolo sottostante. Un'altra ressa di spettatori pedestri si è fatta strada abbasso tra il formicolio dei legni fermi al loro posto, e fa ala lungo il lato destro di questi, costeggiando il cordone che segna il percorso dei fantini. In fondo, a capo di quell'interminabile assembramento di pedoni e di carrozze, sventolano le bandiere e gli addobbi degli [365] steccati eretti per la circostanza, il palco reale, le tribune dei soci, delle signore, le scuderie e il locale del Jury. Di là vengono dati i segnali, là si pronunciano i verdetti, si registrano le scommesse e si concretano le più genuine emozioni del vero sportman. Colà si riuniscono attorno ai drags, ai breacks o ai dogcarts, dai quali sono stati staccati i cavalli, i membri più influenti della Società ippica. Quivi, all'alto di quei legni, che fanno pel momento ufficio di palchi, spiccano le più trionfanti bellezze del mondo fiorentino, le signore che più hanno o possono ostentare la passione dello Sport. Quivi s'accoglie il fior fiore della società mascolina, e, fra una corsa e l'altra, allegri pasti di sandwicks inaffiati di marsala o di champagne si consumano a ristoro delle lunghe attese e delle varie emozioni della giornata. Alla parte opposta, al centro del tracciato della pista, nereggiano, fatte piccine all'occhio dalla distanza, le carrozze escluse dal recinto privilegiato dei soci, ed un più scarso convenire di spettatori che non hanno temuto, per trovarsi colà ad agio, quietamente, di percorrere un lunghissimo tratto di via circolare. Lontano lontano, nello sfondo dell'immensa prateria, si disegna, vaporosa, la linea ondulata delle colline, e qualche grande fienile mette isolata la sua nota di fabbricato rustico. Verso la stazione, dei rombi, dei fischi, affievoliti dalla distanza, e qualche rapido trasvolar di treni stridenti sulle rotaie, accennano, quasi [366] importuni, al fervere di un'altra vita. Poichè chi può pensare a lasciar Firenze quel giorno, a spiccarsi da quel luogo ove tanta e sì varia gente è felice di trovarsi, in un solo impulso di sfoggio di godimento comune del paro ai grandi e ai piccini, all'aristocrazia regnante, ai forestieri, alla folla minuta del popolino, ricco di un magnifico senso estetico di ammirazione, pago della sua gaiezza filosofica di apprezzamento spruzzato d'umorismo critico... la folla, che ancora s'inorgoglisce dello sfoggio dei suoi signori, che adora i cavalli, che si elettrizza per ogni corsa, anche se ridotta a due soli corsieri, appartenenti alla stessa scuderia?... E, sopra quello splendido spettacolo, azzurreggia uno splendido cielo: Maggio ride nell'aria. Le fioraie circolano costantemente sul luogo. Dall'interno delle carrozze, dagli occhielli de' soprabiti, una superba e delicata magnificenza di colori, un olezzo persistente ricordano il privilegio a cui deve il suo nome la città. Le Cascine verdeggiano immense, piene d'ombra. Su negli alberi, all'altezza dei nidi risuona, immemore del fruscio sottostante, una confusa dolcezza di gorgheggi e di pigolii; talvolta persino, in un momento d'attesa, quando la folla per meglio vedere sta immobile e frena le sonorità del suo alito, un lungo perlato a-solo di usignolo si fa audibile e si diffonde di lassù, chiaro, patetico, come nella mistica calma di una solitudine!
Dall'alto del suo seggio, il cocchiere della contessa [367] Serramonti scambiava, col domestico testè balzato a terra, degli sguardi di stizzosa costernazione. Poichè erano giunti assai in ritardo, e i posti migliori, quelli a fianco del cordone, erano occupati dalle carrozze più sollecite a giungere, ed egli aveva dovuto fermarsi, ignominiosamente, in terza fila. Ciò gli amareggiava la gioia del trionfo. Era stato veramente un trionfo il suo procedere al piccolo trotto dei Mecklemburghesi corvettanti, mentre il sobbalzo leggero delle molle imprimeva al landau una mossa squisita di lieve altalena. Aveva ben visto egli, sul suo passaggio, gli sguardi ammirativi degli intelligenti, dei camerati, di quelli che possono criticare! Oh potevano guardare per l'appunto... E anche la signora non guastava.
No, Elisa non guastava. Nicchiata come la perla nell'astuccio, nell'eleganza inappuntabile del legno, consentendo la persona, con un'inconscia voluttà di abbandono, alla movenza morbidamente sussultante del carro, raccoglieva anch'ella sul suo passaggio la messe di un omaggio, che scendeva inesprimibilmente caro al nuovo orgoglio del suo cuore. Fra le molte conoscenze che, sorprese di vederla, così inattesa e così inattesamente bella, la salutavano ora, vivamente, come premurosi di ricordarsi a lei, fra i componenti di quei circoli che aveva sempre frequentati, ella passava quel giorno colla coscienza di una fiera battaglia combattuta e vinta, nell'audacia serena della [368] sua ribellione. Rispondeva ai saluti colla grazia sorridente di una sovrana. Un po' pallida ora, ma di un pallore rosato, che pareva anch'esso una trasfigurazione.
Ed ella si andava dicendo: — Ora, fra poco, da un momento all'altro.
Quando aveva dato ordine al cocchiere di fermarsi, era perchè aveva visto Don Marcello Plana. Appena i loro sguardi s'incontrarono, egli venne a raggiungerla. Egli l'aspettava, da tempo e ansiosamente. Per un secondo, rimase immobile, muto, sotto l'impero di quel fascino a cui nessuno poteva sfuggire quel giorno.
Elisa gli stese la mano; poi, colpita alla sua volta dall'espressione turbata del volto di lui, gli chiese affettuosamente:
— Cosa avete?
— Nulla... vi assicuro. Siete splendida. Usciste ieri? avete veduto gente?
— No, sono stata in istretto incognito come una regina.
— Ah! — fece Marcello, mordendosi le labbra.
Parve prendere a un tratto una risoluzione, e si chinò per dir qualche cosa all'orecchio di Elisa; ma Elisa si volgeva in quel momento verso l'altra portiera, alla quale s'era testè accostato, raggiante della contentezza di rivederla, il vecchio duca di Sant'Eremo.
[369]
Nè, da quel momento in poi, tornò possibile a Marcello intrattenere in disparte la contessa Serramonti. Attorno al landau si assiepò, rinnovandosi perennemente, una corte di amici e di conoscenti. Nelle carrozze vicine si ammirava, si invidiava quella signora tanto attorniata, a cui veniva offerto visibilmente l'omaggio che meritava la sua bellezza, l'incanto della sua figura, della sua conversazione. Poichè ella, conscia del suo potere, lo esercitava liberamente in quel giorno con un segreto, amoroso desiderio che anche l'amor proprio di Roberto fosse beato di ritrovarla così potente di attrattive e di fascino, prima ch'egli si sentisse dire da lei: Prendimi ora, sono tua!... E mentre rideva, scherzava, guardando, aspettando, il cuore precipitava le sue pulsazioni, e un piccolo spasimo faceva sussultanti le vene del suo collo nelle diramazioni dell'aorta.
***
Anche Pippo Gerri, nel corteo della Contessa.
Un buon figliuolo davvero quel bolognese spensierato, allegro, e che invecchia invano; sempre giovane nei gusti e nelle manìe. Fanatico di Sport, ha speso in cavalli il fiore del suo patrimonio e dei suoi anni. Non gli rimane ora che una magrissima rendita, da cui ritrae a stento quanto può consacrare a dei platonici pellegrinaggi sportivi nelle città d'Italia [370] dove hanno luogo le corse. Capita ogni anno a Firenze all'epoca consacrata, per una diecina di giorni, durante i quali rivive cogli amici fiorentini un po' della sua vecchia vita elegante e scapatina, e fa incetta di tutti i fatti del giorno, per recarli poi con sè, come un bottino, a conforto della sua morta vita di nobile spiantato e di sportman a piedi.
Passando, ha trasecolato d'ammirazione davanti all'equipaggio della Contessa. Poi vedendo che anche ella è molto ammirata, si ricorda per l'appunto che da un anno all'altro ella è sempre stata gentile per lui e si reca immediatamente a farle omaggio. Ma non s'è trattenuto cinque minuti con lei che... drelin, drelin, ecco la campanella della quarta corsa, l'handicap!
Ah cieli! come farà ora Pippo Gerri per vedere, per giudicare? Nella sua angoscia avverte che è vuoto il posto del domestico a cassetta. Con uno sguardo chiede il permesso; l'ottiene, s'arrampica, lesto, e su, brandisce la sua patent lorgnette, guarda, vede, è felice.
Nell'eccitazione improvvisa del momento, il crocchio della Contessa si è sciolto attorno alla portiera; tutti si sono accostati al cordone. I fantini passano quasi paralleli nel corso frenato del primo giro, le teste si voltano, i busti si protendono nella loro direzione, si ode, nel gran silenzio generale, il passo dei cavalli sulla pista, simultaneo, rimbombante come il [371] batter d'una piccola grandine, come un lungo fremito fischieggiante il fruscio dell'aria che gonfia le giubbe dei fantini. Tutti i canocchiali sono appuntati sovr'essi, li segue un lungo mormorìo della folla, le signore si alzano, stanno ritte in punta di piedi sui cuscini delle carrozze.
Ma Elisa non volge neppure il capo, non guarda alla corsa. Non è una sportwoman in quel momento. Non le par vero di poter riposare un secondo. È sola. Plana è testè andato per suo incarico a salutare un'amica comune.
Ad un tratto, con un violento sobbalzo del cuore, ella si china a destra sul passaggio di un giovane che cerca frettolosamente di farsi strada fra un legno e l'altro per recarsi verso gli steccati. Ma egli si ferma a un tratto. Elisa lo ha chiamato dolcemente per nome:
— Roberto.
Egli pare colpito, come se avesse toccata una scossa elettrica. È lei, lei ch'egli credeva lontana, immemore di lui... Lei, quella che lo ha respinto, trattato come un fanciullo e che ora lo chiama così, con un cenno, con un sorriso.
Si accosta alla portiera con un'esclamazione vaga, che gli muore in gola.
Sono isolati, in quel momento, dallo spettacolo che avvince l'attenzione della folla. S'ode da lungi il galoppo precipitato dei fantini al secondo giro. Elisa [372] sente che precipita la corsa, ormai sfrenata, del suo destino.
Ancora si china, lo avvolge d'uno sguardo sublime, in cui ha messo tutto ciò che ha sofferto, tutto ciò che ha deciso, il suo amore, tutti i suoi amori per lui, la rinunzia, la piena offerta di sè stessa.
— Venite stasera da me... Ho una cosa da dirvi.
Roberto trasalisce, il suo volto s'imporpora, fa col capo un gesto vago, che può essere un cenno di adesione; nei suoi occhi si riflette un disperato smarrimento.
È sempre bello come un Dio; ma quanto è smagrito! come son cerchiati, più di prima, i suoi occhi! Ah! grida il folle cuore di Elisa, ha sofferto dunque... anche lui!...
Di nuovo i fantini passano nella foga delirante dell'ultimo sforzo. Passano come lampi, con un violento mulinello delle braccia che sferzano i cavalli, con un rauco gridìo di bestemmie, d'incitazioni e subito dopo, da lungi, il campanello proclama l'arrivo fra le acclamazioni della folla. Attorno al cordone cessa l'assiepamento, il crocchio della contessa Elisa si ricompone attorno a lei, il suo colloquio con Roberto è interrotto.
Il giovane saluta i ritornati, cerca di prender parte ai commenti che s'incrociano vivaci sulla prova testè compiuta. Ma nella sua voce, nel suo sguardo c'è qualcosa che ispira ad Elisa un vago terrore, forse [373] quello ch'egli possa tradire la propria intensa emozione. Non lo trattiene dunque quando egli in termini confusi, colla voce strozzata in gola, si congeda da lei.
— A rivederci — dice Elisa. E gli porge una mano.
Roberto esita un istante, poi prende quella mano, la stringe come se volesse spezzarla. Saluta profondamente e si allontana.
S'è appena dilungato di pochi passi, quando Pippo Gerri, testè sceso dal suo pinnacolo, interrompe uno squarcio di eloquenza ippica per chiedere alla Contessa, col solito suo entusiasmo, chi sia quel bel giovane che è testè andato via.
— Il conte Rescuati.
Pippo Gerri si volta, per guardarlo ancora, quel bel giovane.
— Ah! — esclama — è quello? Per Bacco! L'eroe del giorno, dunque? Eh, eh! non ha mica torto lei, quella signora. Pare impossibile! alla sua età! Saprà certo anche lei, Contessa.
Ma la Contessa lo guarda attenta, calma, non sa...
L'altro ride maliziosamente, ammiccando.
— Povero Dino Follemare. È rimasto in Inghilterra. Ah! les absents ont toujours tort, nevvero? D'altronde doveva aspettarselo di essere remplacé. Era evidente, che da tempo la seccava. E ora, vedremo se questa sarà realmente l'ultima sorpresa della Duches...
[374]
Si arresta a un tratto confuso, rammentando che la Serramonti è una signora austera, d'idee arretrate, che non ama neppur l'odore degli scandali e dei fatterelli di quel genere. Infatti ella non sorride, non chiede nulla.
Ride egli, come un monello colto in fallo e muta abilmente conversazione mentre pensa in cuor suo:
— Peccato, quella bella donnina, così elegante! Ma non all'altezza dei tempi. Con lei è inutile aver dello spirito. Che danee traa via! direbbe Ferravilla.
***
Quando Marcello Plana fu di ritorno dalla visita fatta gli bastò uno sguardo per capire a un dipresso cosa fosse avvenuto. Il mutamento di Elisa non era ancora percettibile agli occhi d'altri. Ma egli lo avvertì.
Alla prima occasione propizia, ella lo chiamò.
— È vero? — gli chiese.
— Corre voce. Forse calunnie, pettegolezzi.
Ma Elisa lo fissò in volto. Poi disse sommessamente: — È la verità?
Era la verità. — Ginevra aveva saputo cogliere il momento migliore, quello in cui l'amor proprio dell'uomo che credeva di esser trattato come un fanciullo aveva bisogno immediato di una vendetta, d'una rivincita... pur che fosse. Essa lo aveva preso [375] là dove Elisa l'aveva lasciato. Ciò ch'era stato per la Serramonti un terrore, un ostacolo, il perchè della reazione, era stato per Ginevra semplicemente il... punto di partenza. Così l'aveva preso, così era diventato suo, così s'era fatto, come un tempo Dino Follemare, l'amico intimo di casa d'Accorsi.
Della contessa Serramonti non si parlava più. Era stato un episodio freddo, scipito, senza conclusione.
Parecchi invidiavano Roberto, altri ne ridevano. Ma tutto ciò era perfettamente accettato dalla società.
Un'altra pausa, un'altra occasione, e Marcello chiese sommessamente ad Elisa:
— Volete partire?
— No... rimango.
Ed egli non insistè. Comprendeva cosa reggeva quella donna nell'ora più crudele della sua vita.
***
Più tardi, Elisa chiese a sè stessa cosa fosse accaduto nell'animo suo, in quei momenti. Non seppe mai definirlo bene. Forse l'intensità stessa del colpo toccato le intorpidì il pensiero, la sensazione. La sovvenne forse un istinto cieco d'altera verecondia.
No! nessuno doveva sapere. Perciò non svenne, non si tradì comechessia. Così potè superare la vetta del suo calvario, il momento, cioè, in cui la Duchessa, camminando a piedi, seguita da un corteo di giovani [376] fra i quali era Roberto, ravvisandola a un tratto, venne festosamente a salutare quella cara contessa Serramonti.
Stava ella ora alla portiera a cui s'era poc'anzi accostato Roberto, le due signore scambiavano parole cortesi e indifferenti. Elisa era bianca come il marmo di un mausoleo, ma in pieno e guardingo possesso di sè stessa.
La Duchessa aveva sdegnato in quel giorno di vestirsi come il più delle signore. Portava il vero costume di corse, inglese, di una tinta oscura quasi monacale.
Ma era d'una sfrontata audacia, il suo modo di portarlo, l'aderenza assoluta delle stoffe sulle forti anche, sul celebre busto marmoreo, sulla cui violenta bellezza il tempo non aveva avuto presa. La faccia sempre uguale, brutta, sciupata, formidabile a vedersi, e pure attirante come quella di una sfinge.
Stavano di fronte, chiacchierando come due eccellenti amiche. La Duchessa sapeva tutto ciò che quella donna aveva sofferto. Ginevra aveva saputo strappare dalle labbra di quel fanciullo le malcaute parole di confidenza in cui ella aveva indovinato ciò che Roberto stesso non aveva saputo indovinare, l'amore immenso nel sacrificio, l'immolazione nella rinunzia di Elisa. Ma essa non aveva creduto di illuminarlo su quel proposito; l'aveva solo... consolato.
[377]
Così Elisa aveva tutto perduto, la battaglia e lo scopo di essa, il frutto della prima lotta e il fiore della seconda. Ora non le restava che di stare in piedi, ritta sul campo, acciocchè non si sapesse perchè era tornata, quali ferite avesse toccate.
La Duchessa, udendo di lei, e vistala così bella, aveva provato un vigliacco bisogno di stravincere. Per ciò solo era venuta a salutarla. Ma non era contenta, non stravinceva abbastanza. Un'irrisione crudele saettava dagli occhi di Ginevra, mentre ella andava accatastando lodi delicate della bellezza di Elisa, notizie della sbalorditoia felicità di Marina, relazioni di avvenimenti mondani, frizzi e commenti sulle corse, sul concorso della giornata. Ma l'acuto sottinteso dei suoi sguardi pareva spuntarsi davanti alla serenità invincibile di quelli di Elisa, davanti all'orgoglio di quella calma, che pareva risponderle soltanto: Ti comprendo, so chi sei.
— Decisamente, — continuava Ginevra — ha avuto torto d'andar via, cara Contessa; il cielo l'ha punita della sua fuga.
— Davvero, Duchessa? E come?
— Oh! in tanti modi. Abbiamo avuto una Quaresima splendida. Mentre ella ci lasciava in abbandono, parlavamo sempre di lei, cogli amici comuni, vecchi e nuovi. Dio sa, quante volte si è sentita fischiare le orecchie! È stata in campagna, nevvero? Si vede, è fresca come una rosa. E ora si trattiene? [378] Suppongo di no. Noi, in Svizzera, come il solito, coi nostri cavalli. Quest'anno abbiamo un rinforzo alla brigata, Roberto Rescuati colla sua quadriglia. L'ha veduta? Splendida, nevvero? Sarà piacevolissimo! A proposito, perchè non verrebbe anche lei?
Senz'attender risposta e voltandosi, con un fare negligente e pur imperioso, chiamò forte: — Roberto.
Il giovine ebbe un fremito, visibile. Ma lentamente, pallido, si accostò.
Elisa lasciò cadere su di lui uno sguardo di immensa pietà.
— Ebbene, — continuò la Duchessa, — cosa fate lì, come una marmotta? Venite ad ammirare la contessa Serramonti. Non è forse ammirabile? E voi, che foste sempre il suo beniamino, il suo protetto, fate una bella cosa, decidetela a venir con noi in Svizzera. Pensate che piacere farebbe a voi e a tutti quanti!
La sua voce strideva ora, gettando, in tuono scherzoso e disinvolto, quest'ultimo sforzo d'ironico insulto. Elisa la lasciò dire. Poi rispose a tuono, semplicemente, scusandosi, come se l'avesse ricevuto sul serio, e in condizioni normali, di non poter accettare l'invito.
E mentre così diceva, con una specie di calma quasi soprannaturale, il suo sguardo aveva ritrovata l'antica sfumatura di sprezzo quieto, triste, quasi involontario. E Ginevra fremeva, ritrovandolo in lei, [379] intatto, malgrado l'amore, lo strazio, la disfatta! Poichè quello era il primato intangibile della donna pura e leale, il primato ch'ella serba eterno, dinanzi a quella che non lo è, qualunque sia la complicità, il favore, che la codardia dei tempi e la viltà degli uomini possano a questa prodigare!
Ginevra ebbe una magnifica trovata di ultima parola, mentre si congedava dalla sua bellissima amica la contessa Serramonti. In realtà, quello sguardo di Elisa le aveva alquanto guastato il divertimento del trionfo. Ma a ciò non pensò Elisa. E quando la vide allontanarsi ridente, gaia, seguita da Roberto, non sentì più, ella, d'aver trionfato. Sentì solo che quella donna le aveva preso Roberto, che glielo aveva portato via definitivamente, per sempre...
················
Rimase sino alla fine delle corse.
Marcello Plana le stette sempre accanto, e quando, compiuta anche la malinconica cerimonia della gara di consolazione, si produsse nell'agglomeramento degli equipaggi l'ondulamento diffuso che precede la partenza, Elisa invitò Plana con un cenno a salirle accanto. Ora, non era più costretta a parlare, e non diede neppure ordini al cocchiere.
Ma Giacomo voleva rifarsi, voleva far vedere la sua pariglia in azione. Tenne dietro all'immensa sfilata degli attacchi che si mettevano pel viale delle Cascine. Poichè la folla si precipitava ancora colà, [380] insaziabile di vedere. Per una tacita convenzione, tutti i cocchieri facevano assumere ai cavalli un moto più rapido, più brillante degli altri giorni; era ancora una festa e una gara. Gli innumerevoli legni passavano, s'incrociavano fragorosi per tutta la larghezza del viale coi loro carichi di servidorame in gran gala, di signore eleganti, briose, eccitate dalla coscienza dei propri trionfi. A quel nugolo di carrozze signorili s'era venuta ora accomunando la squadra leggera dei veicoli d'affitto, le carrozzelle intrepide, gli svelti baroccini, mettendo una nota ippica più democratica, più chiassona nell'assieme dell'accolta, e facendo anche, col contrasto, maggiormente spiccare lo sfarzo degli attacchi signorili, il valore ed il pregio dei cavalli fini. E in quel giorno, tra le famose pariglie sì care all'amor proprio dei Fiorentini, le sfarzose daumont e i molti tiri a quattro, condotti dai proprietari, primeggiava, segnalandosi tanto per l'assoluta perfezione dell'attacco quanto pel supremo chic di quanti lo occupavano, il magnifico drag di Roberto Rescuati. Lo guidava egli, e al suo fianco stava la duchessa Ginevra. Dietro, quasi subito dopo, veniva la splendida daumont di casa d'Accorsi, che aveva condotto Ginevra sul prato, e che occupavano, soli, il duca d'Accorsi e Neri Speroni. Roberto non parlava; stava accigliato, assorto, cogli guardi fissi sulle redini. Ginevra gli torreggiava accanto, ridente talvolta quando il drag [381] s'incrociava con altri legni siffatti occupati da conoscenti ed amici, fingendo d'aver paura, di non fidarsi dell'automedonte novellino, parodiando dei piccoli segni di croce spaventati, che provocavano le più matte risate. E così ancora, più volte, nelle vicende della corsa rapidissima, Elisa vide passare dinanzi a sè il drag di Roberto, si vide guardata da Ginevra, così; dall'alto al basso. Ma non diede al cocchiere ordine di sorta.
Finalmente, l'ombra si mise, umida, sotto la volta del densissimo verde, e l'immensa sfilata, decidendosi al ritorno, sboccò pel Lung'Arno, costringendosi nello spazio fra i due marciapiedi destinati ai pedoni e ancor tutti neri di folla. Le finestre eran tuttora gremite di gente; agli sbocchi delle vie, dietro le spallette dei ponti, si pigiava una moltitudine borghese infronzolita e una minutaglia clamorosa di popolino. Allo scalpitio ritmico dei cavalli pareva tener bordone lo scroscio perenne della pescaja d'Arno, una sola immensa forza di impulsione pareva trascinare come una valanga verso l'interno della città quella massa enorme di cavalli, di carrozze, di gente. Dietro di essa, in una nube di polviscoli dorati, che parevano a volte velarla d'una nebbia fosforescente, il sole l'accompagnava, seguendola con gli splendori di un lungo tramonto d'oro, accendendo da tergo, nei cristalli delle finestre e dei lampioni, nella lucentezza delle vernici, nei bottoni delle assise, [382] negli ottoni e negli argenti delle bardature un'orgia, una confusione di riflessi abbaglianti, degli incendi di luci guizzanti, che davano agli occhi un senso di ebbrezza e di vertigine. Ed era uno spettacolo unico, eccitante, che pareva volere, glorificando così la sua fine, dare allo spettatore una matta violenza d'impressioni tumultuanti d'arte, di cielo, di sfarzo moderno, ippico, mondano, un'apoteosi insomma in pieno secolo decimonono, ma quale sola, esclusivamente, possono consentirla l'ambiente, le attitudini, i gusti, l'inesauribile incanto speciale della vita fiorentina!
***
Giunsero a casa.
Marcello Plana offerse il braccio ad Elisa per salire la piccola gradinata dell'atrio. Sentì ch'ella si appoggiava a lui per non cadere. Aveva il passo fiacco, trascinato di una vecchia.
— Posso venire a prendere vostre nuove, stasera?
— Sì, certamente.
E il timbro della voce era come spezzato.
Egli le baciò la mano. Ma la sentì inerte, fredda sotto le sue labbra. E sul volto di lei la serenità voluta, ottenuta a furia di pudore e d'orgoglio, aveva dato luogo a un pallore, a un'alterazione che pareva aver subitamente disfatta la splendida e delicata visione di poc'anzi. E, mentre ella stava immobile sulla soglia, assorta nella subita visione di ciò che [383] aveva avuto in cuore, lasciando quella casa, di ciò che aveva in cuore, tornandoci, egli ebbe l'impressione di qualcosa che somigliava allo spettacolo di una morte.
Non fece parola, se ne andò.
Quando venne, come aveva promesso, erano le dieci. Trovò la Contessa sola nel suo salottino. Non indossava più la toilette delle Corse, era vestita semplicemente d'un abito da casa. Sul tavolino di peluche stava la lucernetta di argento a strisce ondulate col grande paralume rosso, che, raccogliendo l'intensità dei raggi sugli oggetti immediatamente sottostanti, lasciava le cose e gli aspetti più lontani nella semi penombra rosata della sua trasparenza. Per un po', parlarono distrattamente di cose indifferenti alternando le pallide frasi svogliate a lunghi periodi di silenzio. Forse avrebbero continuato più a lungo così, se a caso i loro sguardi non si fossero incontrati su un piccolo mucchio di giornali e di lettere; il tributo, ancora intatto, della posta serale che giaceva sul tavolino al solito angolo. E quella piccola circostanza ebbe uno strano effetto. Tornò vivo, presente ad entrambi, il ricordo di ciò ch'era stato il principio di tutta quella strana, assurda storia, la sera in cui ella, tenendo in mano trionfalmente la lettera di Tecla, aveva esclamato ridendo: Ah!... il marito di Marina!
Si guardarono, memori. E sotto l'urto di quel [384] ricordo, dopo aver invano tentato di sorridere, di non parlare, ella ebbe irresistibile un'esplosione ch'egli, che pur non l'aveva sollecitata, non contradisse. Trovava anzi ch'era tempo. Lasciò ch'ella dicesse, confusamente dapprima, poi con incalzante intensità d'immagini, la intollerabile angoscia del suo cuore.
Poichè ella si sentiva in tutto colpita, oltraggiata, crudelmente punita. Poichè, dinanzi a lei, stava inesorabile la condanna di tutto ciò che aveva fatto, sentito, sofferto, la derisione irrecusabile di tutte le incongruenze e gli anacronismi dell'animo suo. Punita nella sua illusione di maternità, nella sua risurrezione all'amore, nel suo martirio, nei suoi scrupoli, nella debolezza del cedere finalmente a sè stessa, punita in tutte le contradditorie sincerità del suo cuore. E mentre ella diceva tutto ciò, Marcello l'ascoltava in silenzio, senza che un lampo di scetticismo passasse nel suo pensiero. Ah! egli sapeva la vita, egli conosceva la donna, la vera donna, quella che si serba, malgrado tutto, malgrado l'aria, il tempo, l'arte, il sangue di oggidì, oltre il livello della femmina, in un mondo che il mondo deride, che non comprende, la donna che il mondo soffoca talvolta, pur deridendola, nelle spire del suo bugiardo convenzionalismo, ma che rimane pur sempre, vinta o vincitrice, applaudita o fischiata, la donna del vero, di tutto il vero, egualmente donna, egualmente grande nel sogno, nell'errore, nella gioia, nel sacrifizio dell'amore.
[385]
Elisa difendeva Roberto:
— No — ripeteva angosciosamente, — non è colpa sua. Quando si è giovani, si può ingannarsi. Perchè avrebbe dovuto indovinare? Io, allora, quando gli scrissi, ero sicura, non sapevo di mentire a lui e a me stessa. Veramente credevo... Perchè l'amavo, l'amavo!...
— Egli non meritava quell'amore, — disse gravemente Marcello Plana. — Pensate a ciò; provatevi.
Ella si provò a pensare a questo, ad evocare il suo orgoglio, a sentirlo straziato sotto il peso di quella tremenda mistificazione.
Inabissò il volto fra le mani, e stette muta a lungo, con una piccola contrazione nervosa delle spalle.
Ma poi sollevò un volto grave, sicuro, e disse quietamente:
— Non posso, Marcello. Egli più volte è stato forte e buono!... Più volte ha avuto pietà di me! Mi ha amata, malgrado la mia età, come comportava la sua; mi ha offerto il suo cuore, la sua vita, il suo nome! La colpa è tutta mia. Io, dovevo sapere.
Il suo dolore, s'era fatto grave, tenero, indulgente, parlando di lui. Una dolcezza misteriosa di lagrime illuminava il suo sguardo.
— No, lui! — esclamò... non posso... — E se anche in questo frattempo, anche in sì breve tempo io avessi indovinata nel suo cuore una passione, una [386] simpatia per una donna giovane o una fanciulla, oh avrei saputo comprendere, continuare in silenzio, felice del mio sacrificio, del mio segreto non tradito, il mio primo sogno, quello della madre. Ma lei!... Marcello, lei!!...
Ebbe un piccolo grido acuto, di quelli che può strappare anche una sensazione incomportabile di dolore fisico. E le sue lagrime si asciugarono, come se, rapidamente, le fosse passato un tizzone acceso dinanzi agli occhi.
— Pensate, ah! pensate, cosa essa farà di lui, del mio Roberto! come saprà spegnere in lui ogni nobile germe, ogni aspirazione anche inconscia verso il bene, con qual cura sopprimerà nel suo cuore tutto ciò che io avrei rispettato, onorato... fatto fiorire. Essa farà di lui ciò che ha fatto di Follemare, di Carisi, degli altri, corroderà il fiore della sua gioventù nei lacci di un adulterio vile, abile, sereno, senza pericoli, come li accetta il mondo, come li approva la società. E credete forse che l'ami? che, esaurito il suo capriccio brutale, egli rimanga qualcosa per lei?... E pensate!... è vecchia, più di me! E io, io...
S'alzò, nel cieco parossismo del suo dolore, percuotendosi la fronte coi pugni chiusi.
Marcello afferrò quelle povere mani insensate, e accostando a sè quel corpo, convulso, sbattente, le piantò in volto l'austera serenità di un rimprovero. [387] E poichè conosceva Elisa, poichè sapeva a quale altezza di sensi era nata quell'anima, egli osò, in quel momento, rivolgerle una strana domanda:
— Ebbene, Contessa, vorreste esser voi ora, al suo posto?
Sotto quello sguardo, che voleva una risposta, si calmò ad un tratto quel folle impeto di rivale sconfitta. Due correnti si urtarono un istante violentemente in lei; la carne e lo spirito. Ci fu un secondo, un lampo di lotta.
Poi, ergendo il capo, assurgendo lentamente, con tutto quanto l'esser suo:
— No... — disse tranquillamente. — Meglio così!
***
Una cosa ancora accadde prima ch'ella si allontanasse di lì, e mentre Marcello, per sorreggerla, teneva ancora strette nelle sue quelle mani tremanti. Egli sentì ad un tratto che le unghie di quella donna si configgevano penetranti nelle sue palme. Sentì (era aperta la finestra che dava sul giardino) risuonare all'uscio del cancello una breve, quasi timida scampanellata.
Il corpo di Elisa ebbe un sussulto, un violento impeto verso quella direzione. Ma, con un'altra, con una forza più forte, ella si trattenne e rimase [388] nella stretta delle mani di Marcello. Egli pure la tratteneva. Stettero in silenzio, in attesa; ella colla bocca semi aperta, colle pupille dilatate.
Si udì il tardo passo del portiere che andava ad aprire; ci fu un minuto di conferenza con un visitatore. Il portiere aveva ordini precisi: la signora, indisposta, non riceveva. Il visitatore non insistè. Si udì un passo giovanile che si allontanava, si udì il cigolìo del cancello che si richiudeva, il passo tardo del portiere che rincasava.
Elisa non si era mossa. Solo, tre volte, con un crescendo sommesso, stridente, echeggiò nella sala un nome, un appello, un addio, disperato come quello di un'agonia:
Roberto! Roberto! Roberto!
Poi... più niente... — Finita, l'ultima primavera!
Fine.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.