Title: Storia degli Italiani, vol. 06 (di 15)
Author: Cesare Cantù
Release date: September 20, 2021 [eBook #66347]
Language: Italian
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
STORIA
DEGLI ITALIANI
PER
CESARE CANTÙ
EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI
TOMO VI.
TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1875
[1]
Un pregiudizio attaccatoci da moderni scrittori confonde il Comune colla repubblica, la libertà civile colla libertà politica; onde, al nominare l’istituzione dei Comuni, immaginiamo una di quelle formidabili sollevazioni del dolore irritato, ove le plebi insorgessero contro i governanti, risolute di partecipare ai diritti politici di questi.
Nulla di ciò. Erano i deboli, che aspiravano ai diritti dell’umanità, a scuotersi di dosso il giogo feudale divenuto intollerabile, staccarsi dalla gleba, tornare liberi della persona, degli averi, della volontà, unendosi coi signori sotto una comune giustizia. In Italia queste franchigie crebbero fino a costituire gloriose repubbliche; in Francia, al contrario, diedero fondamento all’autorità monarchica; in Inghilterra i Comuni si congiunsero coi baroni onde fare a quella contrappeso; insomma possono associarsi con qual sia forma di governo, essendo il Comune un’estensione della famiglia, anzichè uno sminuzzamento del principato.
L’origine de’ Comuni è uno dei punti che più vennero esaminati e controversi, dopochè le molte carte tratte in luce, e l’esame de’ varj elementi della vita sociale mostrarono l’importanza di quella oscura transizione dal vecchio mondo al moderno, donde cominciò il [2] medio ceto, o, come dicono, il terzo stato, che in sostanza è il popolo d’oggi. Gli scrittori municipali troppo poco s’avvidero dell’interesse che ispirerebbe ai loro racconti il tratteggiare la vita interna e il particolare incremento degli uomini e della società comunale: sicchè noi non abbiamo, ch’io sappia, la compiuta storia d’alcun Comune. Il Sismondi saltò di netto la quistione, che pur era capitalissima in una storia delle repubbliche. Il Muratori adunò preziosi documenti, ma non ne dedusse un concetto generale e coerente, pur in massima allineandosi co’ suoi contemporanei nel credere che i Comuni nostri fossero una continuazione degli antichi. Ciò fu sostenuto incidentemente da molti e con erudizione dal Savigny e dal Pagnoncelli; il quale avrebbe avanzato assai questo tema se avesse meglio distinti i tempi. Altri sentirono col Raynouard, che in Francia, e principalmente nella parte meridionale, vedea le antiche municipalità sopravivere al naufragio barbarico, e al lentare dell’oppressione rigalleggiare per formare il Comune[1]. S’egli in ciò (come in quella sua lingua romanza, alla quale pur aderirono spensieratamente altri Italiani) abbia recato un’erudizione di buona lega, se con rettissima coscienza sostenuto un paradosso, non è qui luogo a discuterlo: basti che in quistioni sì delicate bisogna stare guardinghi di non attribuire un senso generale a ciò ch’è particolare, nè applicare ad una nazione quel che in un’altra si avveri.
V’inciamparono in senso opposto i Tedeschi, sostenendo i Comuni nostri figliati dalla società germanica; essere in ogni città rimasti uomini della stirpe conquistatrice, e in conseguenza liberi, sebbene non possessori [3] di feudi, e dipendenti soltanto dal re; i quali moltiplicaronsi mediante le emancipazioni ed il commercio, tanto che il loro Comune esclusivo divenne il nuovo Comune generale[2].
L’eclettismo, riprovevole quando assonni in mezze verità gli spiriti non bisognosi di profonde convinzioni, merita lode quando, nessuna escludendone, tutte le pondera senza predilezione, onde raggiungere la certezza relativa dove l’assoluta è inarrivabile. E in Italia appunto tutti que’ sistemi hanno alcuna parte di verità, attesa la diversissima sorte che corsero i paesi nostri, da diversissimi elementi derivando.
Prima di Roma, l’Europa civile era disposta in municipalità sovrane, mai non essendosi alzato un grande impero che le singole riducesse ad unità di legge e di amministrazione; e in ciò risiede la capitale differenza dei popoli nostri dagli asiatici. Roma stessa fu un municipio, il quale prevalse dapprima agli altri italici, poi a tutti d’Europa, e quei governi parziali restrinse all’amministrazione civile. Tali noi gli abbandonammo allo sfasciarsi dell’Impero; tali li trovarono i Barbari. Questi forse lasciarono sussistere qualche forma di regime comunale, non già per generosa indulgenza, ma per ignoranza e per difetto d’ordini surrogabili; ma se permisero alla stirpe vinta qualche resto di paesano reggimento, [4] non potè essere che ristretto e precario quanto il portava una militare oppressione. Tassarsi fra loro per conservare un ponte, una via; eleggere chi riscotesse le taglie imposte dal vincitore; congregarsi per nominare i parroci e i vescovi; qualc’altro atto di non maggiore rilievo, erano per avventura i soli residui di costituzione cittadina. Vero è che ogni memoria quasi ce ne manca nel IX e X secolo[3]: ma di quant’altre cose non è allora interrotta la ricordanza fra tanto scompiglio e sì poche scritture?
Nè questa persistenza sotto i Barbari parrà fuori di buona congettura a chi veda persino i Turchi abbattere [5] amministrazione, istituzioni, costumi, gerarchia dell’impero orientale; eppure ai tributarj non imporre nè le loro forme amministrative, nè la legge civile, talchè le istituzioni adottate dai raja si mantennero indipendenti affatto dal canone musulmano.
Quel che meno comprendo è come mai il Comune potesse conservarsi sotto le sbricciolate dominazioni feudali, quando ogni villaggio avea, direi quasi, un re che immediatamente amministrava, giudicava, provvedeva; e forse perì del tutto il sistema comunale ove il feudalismo si assodò. In Italia, per altro, a conservarne almeno la memoria valse il non esservi mai caduto in totale dimenticanza il diritto romano, il quale forse si insegnò sempre nelle scuole, certo modificò le barbare legislazioni, spesso fu applicato nelle decisioni dei tribunali, massime degli ecclesiastici. Un codice romano del secolo IX o X nell’archivio di Udine mostrerebbe magistrati municipali, e che le città avessero decurioni, nominassero giudici per amministrare la giustizia e per sovrantendere ai beni ed alle entrate loro, con giurisdizione però dipendente dalla pubblica, e limitata agli affari civili dei Romani, cioè dei vinti, e ai minori delitti delle classi basse[4]. Ma, qual l’abbiamo alle stampe, quel documento è rozzo e incoerente, nè tampoco sappiamo per qual paese venisse compilato.
Alle città che rimasero sottoposte ai Greci era stata, pel codice Giustinianeo, tolta la scelta de’ proprj magistrati, che costituisce il privilegio capitale del Comune. Ma molte, inviolate dai Barbari, dall’impero greco [6] dipendeano di mero nome; onde non v’è ragione che n’andasse abolita la costituzione comunale. Tali ci pajono Roma, Gaeta, le isole venete, ove, allo sfasciarsi dell’Impero, le curie presero le redini, l’amministrazione traducendo in governo. Gl’imperanti di Costantinopoli, che agio, che forza aveano per provvedere a queste disgregate provincie? onde anche quelle che stavano a loro obbedienza, si videro spinte ad amministrarsi e difendersi da sè. A tal uso applicarono il tributo che riscotevano col metodo antico; come ebbero erario, così formarono una milizia; regolarono la polizia; fecero anche decreti quando li sentissero necessarj. Il duce che soleva essere mandato da Costantinopoli, fu eletto fra cittadini, a nessun più importando di venire fin qui ad una dignità di molto peso e di scarso profitto; poi ogni legame andò sciolto in tempi di vacanza o di anarchia, e definitamente nella guerra che gl’imperatori teologastri indissero alle sacre immagini; talchè ne uscì un governo affatto a popolo.
Questi vivi e vicini esempj e le non cancellate reminiscenze poterono nutrire o ridestare il desiderio della libertà ne’ residui Italiani, appena l’oppressura si rallentasse a segno, che non dovessero pensare unicamente alla vita e alla sicurezza.
Ma non dal solo elemento romano costituironsi i Comuni; bensì, come ogni altra cosa del medioevo, dal germanico insieme e dal cristiano. L’invasione dei Longobardi avea ridotto i natii a condizione quasi servile; esclusi interamente dal governo perchè esclusi dall’armi, restavano uomini altrui, mentre i conquistatori formavano la classe dei liberi, de’ quali soli la legge prendeva cura; e non si disse più un cittadino milanese o bergamasco, ma soltanto un Longobardo o un Romano. Altrettanto seguitò sotto i Franchi; ma la prosapia vinta fu più ravvicinata alla vincitrice, giacchè si prefisse [7] un guidrigildo anche sulla vita e sulle offese recate ai Romani; e se ciascuna stirpe conservava le leggi proprie, i capitolari emanati dai Carolingi obbligavano tutti; allo stesso diritto longobardico faceansi glosse e commenti di senso romano, alterandoli per modo che, restando longobarda la legge, romanamente giudicava il fôro.
Spezzatosi l’impero di Carlo Magno, coll’estendere dei feudi si spegnevano le differenze d’origine, poichè l’uomo non era più longobardo o franco o romano, ma del tal feudo o del tal signore; e nell’autonomia, propria di ciascun feudatario, restava assorta la varietà di diritti. I feudi passo a passo s’intrusero anche nelle terre dominate dai Greci, massime dopo la conquista dei Normanni; sicchè per la più parte d’Italia restò mutata la natura delle proprietà, e ciascuno fu l’uomo del proprio terreno, e corse la fortuna di quello.
Ciò in campagna. Ma delle città le più non dipendevano da un feudatario, bensì da un conte, magistrato regio. I conti si rendeano sempre meno dipendenti da imperatori fiacchi e distanti; onde screditavasi l’autorità regia, mentre invigoriva la feudale. Squarciato il corpo politico in infiniti brani si può dire indipendenti, e scomposta l’unità governativa, i grandi vassalli operavano di pieno arbitrio nella loro giurisdizione, quasi la tenessero non dai re, ma in patrimonio; negli interregni strascinavano in lungo la nomina del successore, e lo desideravano debole perchè non pensasse a ricuperare il ceduto od usurpato dominio. Duranti poi le violenze che descrivemmo fra l’Impero e la Chiesa, tutto andava in frazioni e sêtte, che ondeggiavano a seconda dei capi e degli accidenti; nè ben accertandosi qual fosse il re legittimo, se ne togliea pretesto di non obbedire a nessuno, o poneasi la docilità a prezzo di crescenti privilegi. [8] In società d’origine feudale, stante il generale principio che ogni podestà emana dal re, nessun diritto si trova che non sia privilegio e concessione; lo saldano, lo garantiscono, lo dilatano, ma sempre come concessione. Laonde la libertà cui allora si aspirava, non era un governo fondato sull’assenso di tutti i membri del corpo sociale adunati, ma un privilegio concesso ad alcuni in particolare.
Sarebbesi allora potuto scomporre affatto la monarchia, ma le città non sentivano ancora la propria forza; i gentiluomini e la nobiltà inferiore, discendenti dai primitivi conquistatori, temeano che il cessare di essa non li riducesse dipendenti da altri nobili, sicchè preferirono di cercare dal re immunità, cioè d’esercitare giurisdizione sulle proprie terre o sui proprj dipendenti, senza che il conte regio vi potesse. Primi a domandarla furono gli arimanni[5], cioè uomini liberi, residuo dei conquistatori, non legati a verun feudatario, e protetti dal conte come appartenenza del re; poi i monasteri, i corpi d’arte, gli ordini cavallereschi. Re e gran signori non rendeansi malagevoli ad emanciparli, contenti anzi di far con ciò acquisto di sudditi per sè, e [9] indebolire i vassalli dipendenti. I feudatarj poi e i vescovi domandavano immunità più estese, cioè che il conte regio cessasse da ogni giurisdizione anche sovra i liberi, abitanti nel loro terreno, nel quale ne istituivano una loro propria, dove erano richiesti alla pari e i liberi discendenti dai conquistatori, ed i villani e censuali, gente per lo più romana. Eccovi un embrione del Comune.
Stanno dunque a fronte molti poteri. I re, mirando a ridurre in prerogativa monarchica il primato feudale, desiderano comandare direttamente al popolo senza l’interposizione dei baroni, e perciò quello da questi emancipare. I baroni, all’opposto, eransi affaticati ad assicurarsi l’indipendenza e convertire il politico dominio in reale e personale privato, e v’erano riusciti col rendere vitalizj i feudi, poi ereditarj. Da ultimo i vinti, non gravati più dal peso sproporzionato di un potere centrale, ridestavansi per conservare o ricuperare i possessi antichi, le leggi non dimentiche, la contrastata religione, partecipare ai privilegi dei vincitori, ed essere considerati pari alla gente dominatrice ne’ servigi e nella giustizia. In Francia si strinsero attorno al re, che venne per tal modo via via rinforzandosi: in Italia non poteano altrettanto, perchè la regia era accoppiata all’autorità imperiale, che si mutò da Franchi a Italiani, poi a Tedeschi, controbilanciati sempre dai papi e dai grandi vassalli.
Mentre a questi dava rinforzo la lontananza del principe, gl’indeboliva l’aumentarsi dei piccoli feudatarj e il prevalere degli ecclesiastici, che, come ogni altra cosa d’allora, aveano preso sembianza feudale, cioè congiunto ai possessi la sovranità. La Chiesa è costituita con forme a popolo; assemblee, rappresentanza, giurisdizione propria mantenne anche sotto ai Barbari; unica aveva asili contro la prepotenza, richiami contro [10] la tirannia. Il popolo dei vinti, privo d’ogni diritto legale in faccia al conquistatore, più volentieri recava le sue querele ai sacerdoti che non ai baroni; a chi le giudicasse per prudenza e per leggi scritte, che non a chi le recideva a colpi di sciabola; onde l’autorità ecclesiastica erasi ingrandita perchè popolare. L’innalzarsi dunque del clero importava sollievo del popolo; e tanto avvenne allorchè, sotto ai Franchi, esso diventò essenziale elemento della civile società, e i vescovi entrarono nelle assemblee legislative, e finirono col signoreggiarle. Venuti di tanto peso nelle pubbliche rivolture, ottennero dai re l’immunità dei proprj possessi, indi delle città ove sedevano, per modo che al conte più non restasse giurisdizione, ma fosse trasferita nel vescovo. Così la esercitavano sopra i liberi borghesi, i quali non godeano rappresentanza nella costituzione, ma crescevano d’importanza col crescere del commercio e delle industrie.
Il primo esempio sicuro d’immunità in Italia è di Carlo il Grosso, che al vescovo di Parma concede di «giudicare, definire, deliberare, come il conte del nostro palazzo, tutte le cose e le famiglie, sì de’ cherici come di tutti gli abitanti d’essa città». Lamberto imperatore a Gamenulfo vescovo di Modena nell’898 confermava tutti i possessi, e che, secondo il costume delle altre chiese, gli affari della modenese siano esaminati da persone idonee e veraci, fin alla piena giustizia; nè alcun conte pubblico o curatore della repubblica vada a cercar ragione ne’ monasteri o nelle chiese, o ad esigere fredi e tributi nei possessi, o farvi mansioni e parate, o levarne statichi, o pignorare od obbligar uomini, siano servi o liberi, nè condurli in oste o chiederli d’illeciti servizj; nella città stessa continuino ad esservi chierici che stendano libelli e citazioni negli affari ecclesiastici; possa la chiesa, invece del re, esigere [11] il censo dovuto dalle strade, porte, ponti, e da quanto già pagavasi anticamente alla città e ai curatori della repubblica; e cavar fossi, costruire mulini, eriger porte e forti a due miglia in giro, e aprire e chiudere l’acqua senza pubblica opposizione[6].
Nel 904 re Berengario privilegiava il vescovo di Bergamo di riedificar le mura della sua città a riparo dagli Ungheri, dovunque esso vescovo e i suoi concittadini credessero necessario; e a lui assicurava la libera giurisdizione sopra la città e i distretti[7]. Ottone II nel 973 concedeagli di nuovo omnes districtiones et publicæ functiones villarum et castellorum, quæ sunt in circuitu ipsius civitatis de eodem comitatu pertinentes, usque ad spacium et extensionem, [12] per omnes partes ejusdem civitatis, trium miliarium, fin ad Aciano e Seriate; inoltre la val Seriana fino alla Camonica. Enrico III nel 1041 confermava a quel vescovo tutto il contado bergamasco sino alla Valtellina, all’Adda, all’Oglio, a Casal Butano, con piena autorità di fare e disfare, senz’essere impedito da veruna autorità superiore.
Ottone il Grande aveva largheggiato di tali concessioni a segno, che ne fu tenuto l’autore universale: al vescovo d’Acqui assicurava la giurisdizione della città e di quattro miglia in giro[8]; a quel di Lodi, l’esenzione per sette miglia; per tre miglia a quel di Novara[9]; per cinque a quel di Cremona; e così a Reggio, a Bologna, a Como, il cui vescovo ebbe anche il contado di Bellinzona; quel di Firenze credeva pure aver da lui ottenuto la giurisdizione di sei miglia.
Al vescovo di Pavia nel 977 Ottone II concedeva e confermava i possessi e il dominio, e che castella, ville, eidem episcopo subjecta, ita sub ditione episcopi maneant, ut residentes in eis ad nullius hominis placitum eant neque distringantur: sed si quis ab eis legem poposcerit, presentia ejusdem episcopi vel ejus missi justitiam quam exigent accipiet[10]. Anche nel diploma del 1004 di re Enrico, attesi i molti litigi e scismi, che dalla parte del conte venivano alla chiesa, [13] è concesso al vescovo il muro di Parma, il distretto, il teloneo e ogni funzione pubblica nella città e fuori sin a tre miglia in giro[11]. Morto il conte, Corrado Salico nel 1035 estese a tutto il contado la giurisdizione del vescovo.
Guido vescovo di Volterra sporgeva querele contro il conte e gli altri ministri pubblici per la fierezza con cui esigevano dal clero e dai loro servi i diritti regj: laonde Enrico III nel 1052 lui e il clero esentuava dai conti, autorizzando il vescovo a trarre a sè le cause in tal materia, e definire le contestazioni mediante il duello. Più tardi da Federico Barbarossa il vescovo Galgano ebbe titolo di principe, e il governo della città e di molti luoghi, l’elezione dei consoli e la zecca, retribuendo al regio erario sei marchi d’argento.
Nel 1055 Eriberto vescovo di Modena, coi cittadini suoi, invocò da Enrico III di poter riedificare, fortificare, ingrandire essa città; e quegli il permise, concedendone al vescovo tutte le regalie e la giurisdizione, pure confermando alla chiesa e ai cittadini le buone consuetudini antiche: ai quali cittadini presenti e futuri concede di derivar canali dalla Secchia, dalla Scultenna e da qualunque altro fiume[12].
Enrico IV confermava a Landolfo vescovo di Cremona la giudicatura della città e di cinque miglia in [14] circuito, già attribuitagli da’ suoi antecessori[13]. A Gregorio vescovo di Vercelli concedeva Casale, Olceningo, Oldenigo, Momolerio, Scherino, Rodingo, con tutti gli arimanni e con quanto spetta al contado[14], vale a dire le giurisdizioni che il conte esercitava, fra cui era quella sugli uomini liberi. Molti abitanti di Treviglio, borgata della Geradadda, si sottoposero alla badia di San Simpliciano in Milano, e nel 1081 Enrico confermava questo fatto, e che essi e i loro figli o discendenti rimanessero perpetuamente in podestà di quel monastero, non dovendo più alcuna funzione pubblica od angaria o altro servizio a chichefosse, eccettuato il fodero al re quando venga in paese, e la sculdassia ai conti ogni anno[15].
Talvolta queste concessioni davansi in premio di prestato favore, tal altra per castigare un conte sleale: e poichè ogni giorno cresceva il numero de’ semplici [15] cittadini, i quali, invece del magistrato regio, si mettevano in tutela de’ signori immuni, i re non iscapitavano gran fatto col cedere ai vescovi i contadi, che ormai non teneano dipendenti se non di nome.
Ecco dunque città e borgate dalla giurisdizione del conte passare a quella del vescovo o d’un monastero; e mentre dapprima la popolazione restava divisa fra dipendenti dalle chiese e dipendenti dal re, fra la giurisdizione laica e l’ecclesiastica, vennero a formare un Comune solo conquistati e conquistatori; nobiltà feudale e semplici liberi si trovarono chiamati al medesimo tribunale; e gli scabini dei nobili e quelli dei liberi costituirono un collegio unico, sottomesso al vicario secolare del vescovo, detto l’avvocato o il visdomino o il visconte appunto perchè esercitava gli uffizj devoluti una volta al conte.
Il vescovo di Mantova era stato fatto immune da Ottone III nel 997, col diritto di nominare avvocati e batter monete; e nel 1084 Ubaldo vescovo, costituendo visdomino un suo nipote, divisava i diritti attribuitigli. I quali sono di andare per tutta la diocesi di qua e di là dal Po, tenendo albergaria e placito, esaminando e definendo discordie, liti, offese personali e reali, infliggendo la pena a sua volontà. Tutto il denaro percepito in tali operazioni lo lascia a lui, e un terzo del ricavo della pesca, dell’investitura, degli approdi, dello sterpatico. Da ciascuna masseria del vescovo abbia due majali grossi, e così la decima delle giumente e dei porci di tutte le terre vescovili. Promette che gli uomini di lui non saranno giudicati dal vescovo nè da’ suoi successori o messi o gastaldi o decani, nè richiesti al placito, a prestar garanzia o albergo o fodro[16].
Al popolo tornava vantaggio dall’essere i contadi [16] attribuiti ai vescovi piuttosto che ai conti, crescendo probabilità di vederli affidati al merito, anzichè distribuiti dal capriccio della nascita o dalla volontà d’un re straniero; e se la plebe e i manenti restavano ancora senza diritti nè rappresentanza, ne migliorava la giustizia, che è il bisogno più immediato de’ popoli.
La decisa predilezione del clero pel diritto antico indurrebbe a credere che le forme municipali romane, dove ancora sopraviveano, si sodassero dacchè il vescovo si trovò investito del governo cittadino. Ma poichè ogni cosa aveva a conformarsi al reggimento che unico allora si conoscesse, i vescovi, fatti conti delle città, ridussero a feudali le cariche municipali, alterandone la natura senza forse annichilarle.
Pertanto dal vescovo dipendevano le città e i beni immuni; dal conte il resto, cioè la campagna, la quale da ciò prese il nome di contado. Ma que’ beni immuni trovavansi intarsiati ai contadi per modo, che vescovi e signori s’impacciavano a vicenda nell’esercizio della mal determinata giurisdizione. Tendevano i primi a dilatare la propria anche sul contado; i signori vi si opponeano, e cercavano ingrandire a spese de’ vassalli minori: sicchè la lotta intestina discendeva sino agl’infimi elementi della società. Epperò Corrado Salico emanò la famosa legge dei feudi (t. V., p. 443), per cui anche i piccoli passassero in eredità, e non si potessero togliere se non per sentenza degli scabini.
Si trovava allora il dominio feudale partito fra i capitanei o valvassori maggiori, immediatamente investiti dalla corona; i valvassori, cioè vassalli de’ capitanei; e i valvassini, che ritraevano dai predetti. Valvassori e valvassini, assicurati d’esistenza indipendente, più non furono stromenti agli arbitrj de’ vescovi, i quali non poterono, come in Germania, riuscire principi ecclesiastici.
[17]
Ma altrove i nobili vassalli e i semplici liberi, formato il Comune, aveano costituito rappresentanti e giudici proprj, che equipollevano alla curia vescovile, e indipendentemente da questa assumevano aspetto di civile ordinanza. Altrove ancora la gente raccoltasi sopra terre di un feudatario, crescendo di ricchezze per l’industria, e a quello rendendosi necessaria, lo costringeva a concessioni, che non davano la civile indipendenza, ma favorivano il prosperamento e l’importanza del Comune.
Scomposta ogni centrale potestà per lasciar solo associazioni limitatissime e poteri meramente locali, più facilmente poterono costituirsi da sè le città, nelle quali gli uomini trovavano maggior numero d’interessi comuni. Queste allora ebbero giurisdizione propria, e l’affidarono agli scabini, del che ricrebbe il terzo stato; e nobili e liberi venendo abbracciati nel Comune medesimo, cioè sotto comune giustizia, mozzavasi la prerogativa feudale, atteso che, chi bisognava di sicurezza, non andavala a chiedere sotto la rôcca d’un barone, ma tra le mura d’una città.
Benchè il feudalismo togliesse importanza alle città, le nostre non la perdettero mai, ed erano abitate da ricchi e nobili col nome di arimanni[17], i quali anzi costituivano un’università o corporazione, e avevano possessi e ragioni comuni. Nel 1014 Enrico II agli arimanni della città di Mantova e d’altri luoghi confermava i possedimenti con tutte le loro eredità paterne o materne, e i beni comunali e il teloneo e ripatico a Garda e Lazise e Riva, e che niun magistrato li turbasse. I cittadini di Mantova, cioè gli arimanni abitanti in essa città, ricorsero a Enrico III contro le eccedenti esazioni e gl’importuni aggravj (superstitiosas exactiones [18] et importunas violentias); ed esso decretò che queste cessassero e s’abolissero radicalmente, e nessuna autorità grande o piccola si mescolasse dei costoro beni comuni, de’ benefizj precarj o livelli, de’ servi, delle ancelle, o d’altro qual fosse loro possesso mobile o immobile. Tanto confermava Enrico IV il 1091, volendo avessero «la buona e giusta consuetudine che ottiene qualunque città del nostro impero». Donde parrebbe che gli arimanni avessero una tal quale signoria di Mantova[18].
Il Gennari, negli Annali della città di Padova, sotto il 1077 adduce un placito ivi tenuto avanti a due messi regj, al conte della città Ogerio avvocato, e a varj giudici e buoni uomini. Ai quali Giovanni abate di Santa Giustina dichiarò come i cittadini dentro e fuori della città gli avevano intentato lite (cives vel intra civitatem vel extra nobis intentionem mittunt) circa al possesso della val del Mercato e del prato col Zairo, dell’acqua del fiume Rodolone, e degli altri possessi del monastero. Fu dato torto ai cittadini, ed obbligati all’intera cessione; la quale fecero col prendere una lunga verga, e trasmetterla al vescovo, che la consegnò all’abate.
Anche nel peggior tempo del dominio militare questi arimanni formavano tra loro delle gilde, le quali non [19] m’hanno aria di fraternite religiose, bensì di quelle associazioni, di cui maggiore si sente il bisogno quanto più lentato è il legame sociale. In effetto esse fecero paura ai forti; e Carlo Magno decretava che «nessuno presuma far giuramento per gildonia; se vogliono disporre delle limosine per incendj o naufragi, il facciano in altro modo che giurando». E più rigorosamente Lotario I: — Non vogliamo che alcuno per giuramento nè per obbligazione faccia gildonia; e se l’oserà, chi primo ne diede consiglio venga dal conte mandato a confine in Corsica, e gli altri paghino multa»[19].
Ripetiamo che qualche rappresentanza il popolo aveva sempre goduta in faccia alla Chiesa; e a tacere le lettere di Gregorio Magno già indicate (t. V, p. 133), il Diurno Romano offre la formola, con cui il clero e il popolo invocano dal papa e dal metropolita che confermi il vescovo da essi eletto: all’elezione di Guido vescovo di Piacenza il 904, sono sottoscritti preti, diaconi, suddiaconi, acoliti, e infine ventisei e populo[20]: Giovanni vescovo di Modena nel 998 faceva al monastero di San Pietro una donazione con notizia e consenso dei canonici, de’ militi e del popolo: l’anno stesso in Ravenna si tenne un placito, assistentibus in judicio pollentibus et bonæ opinionis et laudabilis famæ viris de civitate Ravennæ[21]; e nel 1004 Turbino giudice di Cagliari, col consenso de’ suoi parenti e di tutto il suo popolo, donava alcuni dazj ai Pisani amici suoi, affinchè quel popolo gli fosse amico[22].
Ecco qui pure una rappresentanza e un esercizio di diritti comuni, che avviava all’emancipazione. Viepiù [20] vi condusse l’essersi nella città pel commercio formate compagnie, le quali offrivano l’embrione d’un governo a comune, e poteano divenir tali per poco che si ampliassero.
Una lapida sotto al portico della notabilissima cattedrale di Lucca riferisce come nel 1111 i cambisti e mercanti, che allora stavano di bottega nella corte di San Martino, ove pure gli alberghi de’ forestieri, giuravano di non far frode[23]; antichissima sistemazione del commercio in consorzj, con consoli per risolvere i litigi.
Già nel 1046 Enrico III confermava agli abitanti della bergamasca val di Scalve il diritto di negoziar di ferro per tutto l’impero, col solo aggravio di mille libbre di ferro secandum suorum parentum morem; nessun duca, marchese, vescovo, conte o altra qualsiasi persona hominibus in prædicto monte Scalvi habitantibus audeat aliquam molestiam aut aliquam superpositam inferre; e a chi violi l’ordine commina cento libbre d’oro, metà da darsi alla Camera, et medietatem prædictis hominibus. Poi nel 1091 nella città di Bergamo tenendo placito il conte Corrado, messo regio ad justitias singulorum hominum faciendas ac deliberandas, con molti giudici e conti e col vescovo, gli si presentarono alcuni vicini et consortes de loco Burno, che è in val Camonica, e gli chiesero pronunziasse un bando super nos et super nostros vicinos vel consortes a proposito del monte Negrino, che era stato ad essi usurpato da quelli di val di Scalve: e il conte [21] Corrado gli esaudì[24]. Non sono queste evidenti forme comunali con possessi consorziali? I querelanti nel loro libello citano una decisione già riportata anteriormente; e come in tali litigi centum quinquaginta librarum denariorum mediolanensium veteris monetæ inter judices et advocatos dispendio in Bergamo perpessi sumus damnum; e gli Scalvini usarono ad essi prepotenze molte, onde reclamano giustizia, quia dedecus est omnium nostrum.
Esempj di simili comunanze ricorrono in Toscana, ove nel 1004 Filippo di Fidante e Benedetto di Martino furono nominati consoli del comune ed università di Monte Castelli[25]. Chiavenna, borgo della diocesi comasca, situata allo sbocco di due valli che mettono ai paesi transalpini del Reno e dell’Inn, faceva una concordia, citata già come antica nel 1155, tra gli abitanti suoi e quelli del vicino Piuro, per la quale quattro uomini di ciascuno di essi giuravano di guidare i due Comuni e le persone e i beni loro con buona fede e senza frode in pace ed in guerra, non usurparsi roba alcuna, ma d’ogni acquisto ripartire tre quarti a’ Chiavennaschi, uno a’ Piuriesi, e nell’eguale proporzione le spese[26].
[22]
N’era vantaggiata l’industria; e poichè essa è gran conduttrice di libertà, si cominciò a levar lamenti delle violenze che turbavano il commercio; i lamenti procedeano a minaccie; e se queste non trovassero ascolto, riuscivano in aperta rivolta, cacciando gli esattori e gli espilatori del barone, assalendone anche il castello, e opponendogli barricate e mura; e unitisi sulla piazza del mercato o nella chiesa, gl’interessati giuravano sostenersi contro chiunque pretendesse sopraffarli. E a noi si fa credibile che uno de’ più efficaci addirizzi a costituire i Comuni fossero appunto le società mercantili e artigiane, che trovandosi già ordinate con una gerarchia, con regolamenti, con statuti[27], con cassa, [23] non aveano a dare che un passo per chiedere di partecipare coi nobili al Governo.
Talvolta i re medesimi ne’ loro bisogni esibivano di vendere le regalìe, cioè dogane, zecche, mercati, pedaggi; e i Comuni s’affrettavano a comperarle, o le ottenevano in premio della fedeltà e del favore prestato. Tal altra i grandi vassalli insorgevano contro dei vescovi, e gli uni e gli altri armavano i cittadini, che per tal modo venivano a conoscere le proprie forze, e invocavan diritti, in prezzo degli offerti soccorsi. Nella contesa, capitanei e vescovi apprendevano che ricchezza principale era l’abbondare d’uomini, lo perchè ne favorivano l’incremento sminuzzando i possessi, e contentandosi d’una tenue prestazione, purchè vi andasse congiunto l’obbligo di servire nelle milizie.
Stiamo dunque a gran pezza da chi crede che i Comuni derivassero da generosità dei re, o da accorgimento loro politico. Erano conseguenza del risorgimento popolare; ma i diritti che i liberi traevano in campo, non erano astrazioni costituzionali, e accademici divisamenti repubblicani, bensì un richiamo alle norme dell’umanità, a quella libertà d’innocui atti, di cui ciascuno sente mestieri come dell’aria. L’associazione dirigevasi non a riforme amministrative, ma ad acquistar forza per diminuire la propria servitù; specie di mutua assicurazione delle inferme moltitudini contro i pochi armati. Non che fosse rivoluzione contro il Governo regio, a questo appoggiavansi coloro i quali scotevano il giogo feudale. E poichè il feudatario, il re ed il vescovo trovavansi spesso a cozzo, e dividevano tra sè i possessi e le città, all’uno ricorreva chi fosse malcontento dell’altro, sicuri di trovarlo favorevole, non per generosità ma per proprio interesse.
Neppure fu una rivoluzione sola che mutasse la forma politica, giacchè non v’aveva un potere unico da [24] abbattere; e a ciascun Comune sovrastando un signore particolare, in ciascuno richiedevasi una particolare rivoluzione. Variissimi dunque erano gl’impulsi, variissimi i mezzi e i risultamenti, e molto vi poteva il caso, nè sempre riuscivasi all’intento; ma la libertà, fallisca cento volte, non però dispera.
Sarebbe peraltro stato difficile strappare ai feudatarj anche sì poco, quando essi soli e i loro castelli fossero stati muniti, e tutto il resto inerme; atteso che la forza brutale può a lungo conservare gli ordini più repugnanti alla ragione. Ma allorchè gli Ungheri avevano passato le Alpi, non si potè combattere in campagna rasa e con eserciti ordinati le loro bande scorridore, ma dovette munirsi ciascun villaggio, ciascuna casa, ciascuna persona; le città rinnovarono le mura, diroccate dai Barbari o sfasciate dal tempo[28]; ogni monastero, ogni borgata scavò una fossa, rizzò uno steccato; e le armi, adoperate soltanto dagli uomini del feudatario e per suo cenno, si affilarono per l’individuale sicurezza. Qual cosa infonde tanto coraggio, quanto il conoscere di bastare alla propria difesa? e i nostri padri, che si erano misurati contro l’Unghero, più non temeano d’affrontare la masnada del vescovo o del castellano.
Di più, in Italia l’aristocrazia non avea messo così robuste radici come oltr’Alpi; e nella vasta Lombardia soli forse il marchese di Monferrato e il conte di Biandrate estendeano tanto i possessi, da abbracciare borghi e città. La supremazia che i re di Germania pretendevano [25] qui, era d’opinione più che di forza. Dalla lontananza o dalle guerre proprie erano impediti di venirvi sovente in persona, unico modo di farvi valere la propria autorità; se venissero, senza truppe nè rendite mal si reggevano, e lagnavansi che i vassalli non gli sovvenissero del necessario, e li riducessero a cascar di fame. Maggiormente si protraevano gl’interregni di qua dell’Alpi, atteso che non bastava che un re fosse nominato in Germania, ma conveniva venisse a farsi coronare in Milano e Roma; nè di rado i signori nostri negavano omaggio all’eletto dai Tedeschi. Tutto ciò fece la contesa men dura, e più pronto l’effetto.
Questo restituire gli uffizj da signorili a municipali ed elettivi cominciò attorno al Mille, crebbe mentre Ottone II combatteva gli emuli in Germania e i Greci in Calabria, e più nei tredici anni che Ottone III indugiò a scendere in Italia. Allora i Comuni cittadini costrinsero i baroni ad accasarsi nelle città, che si trovarono popolate non più da soli artieri ed arimanni, ma anche da potenti, e crebbero di lustro e considerazione. Alcune gelose ottennero che gli imperatori non entrassero più nelle loro mura; altre ne demolirono il palazzo, per edificarlo nei sobborghi; sicchè debole e limitata restava la giurisdizione dei re, i quali tanto più facilmente cedevano per denaro o per favore ciò che nè ricusare potevano, nè conservato fruttava. Pavia nel 1024 distrusse il palazzo regio, e quando Enrico III volle costringerla a riedificarlo, gli si oppose con un giusto esercito, avendo alleati molti signori.
Gran destro ne porse la contesa fra il Sacerdozio e l’Impero, giacchè in quelle reciproche esagerazioni, dove più che le armi poteva l’opinione, si trovavano messe in bilancia le competenze delle due autorità, richiamato a discussione quanto la conquista germanica aveva innestato sul tronco romano, la legittimità del [26] potere nato dalla forza, il dominio della spada sovra gli spiriti, l’intrusione delle discipline militari nell’ordine civile e fin nella gerarchia ecclesiastica; e l’una e l’altra parte si credette obbligata a dimostrare le proprie ragioni ai popoli, di cui le bisognava l’appoggio. E i popoli impararono che avevano diritti, che per argomenti potevano scegliere a quale prestare il sussidio dell’oro, del brando, delle convinzioni; e di quelli e di queste misurata la potenza, vollero servirsene ad assicurare e crescere quei diritti, che avevano appreso a conoscere e stimare. Trattavasi poi di combattere? bisognava che il conte o il vescovo si servissero del braccio delle plebi: e guaj pe’ tiranni il giorno che han bisogno de’ loro oppressi!
Contesa tanto vitale non limitavasi a battaglie in campo aperto, ma penetrava nelle città e nelle case: spesso una chiesa trovavasi disputata da due vescovi, uno papale ed uno intruso, i quali si perseguivano in guerra; diuturne le vacanze, perchè o il papa negava l’investitura, o i cittadini obbedienza al nominato dall’imperatore; e sempre i vescovi sentivansi sotto ai piedi vacillare il terreno, perchè o non investiti dal re, o non riconosciuti dal papa; e per formare e mantenersi partigiani, cedevano particelle de’ loro diritti ai Comuni. Esse città giuravansi con altre del sentire medesimo, onde in armi tener testa alle contrarie. Uscita poi vittoriosa la parte ecclesiastica, ingegnavasi di menomare le prerogative regie, ma con ciò raccorciava anche la podestà temporale de’ vescovi, fondata sopra regie concessioni.
Col carroccio (t. V, p. 439) i popolani s’erano avvezzi a considerarsi, non più guerrieri obbligati d’un signore, ma d’una bandiera cittadina, del Cristo che allargava le braccia su quell’antenna, del sant’Ambrogio, del san Zenone, del sant’Alessandro che li benediceva dal [27] gonfalone. Quel parteggiare per l’imperatore o pel papa avea misto i varj ordini d’uomini, per modo che non si guardava tanto se uno fosse capitaneo, nobile o plebeo, ma se imperiale o pontifizio. Le armi e i campi comuni, e la necessità di usare concordemente le braccia o l’ingegno nella mischia o nei parlamenti, scemavano le distanze fra quelli della parzialità medesima; poi la trionfante conseguiva vantaggi o privilegi sull’altra, sicchè gli ordini fin allora scrupolosamente distinti venivano ad unirsi nel Comune cittadinesco; e i giudici della città, che già, duranti le vacanze del vescovado, decidevano in propria testa senza riguardo al visconte, qualora al conte o al vescovo strappassero alcuna nuova porzione di autorità, la esercitavano più piena sovra maggior numero di cittadini, e con restrizioni minori.
Insegnati a discutere dei diritti, prendono in dispetto gravezze fino allora tollerate di cheto; alla prima taglia troppo pesante si ammutinano; cominciato che uno abbia, il seguono altri; la torre, da cui il feudatario o il conte minacciava, diviene spesso il ricovero degli affrancati; spesso i monumenti dell’antica magnificenza convertonsi in difese di nuova libertà; e si preparano lotte, risolute perchè di scopo evidente e semplice, e non per capriccio o per obbedienza, ma per tutela dei diritti più sacri. Il tentativo fallisce? sono smantellati i fortilizj, uccisi gl’insorti: riesce? i sollevati comprendono la necessità di unirsi.
Non poca opportunità vi aggiunsero le crociate; per passare a terrasanta molti baroni vendettero od impegnarono i dominj, o per denaro cedettero qualche parte della giurisdizione ai cittadini, che, durante l’assenza loro, rassodarono i diritti, e di nuovi ne acquistarono; mentre gli uomini che combattevano in Palestina s’abituavano alla libera disciplina dei campi, s’accostavano fra loro ed ai padroni, e ne riportavano più libere idee, [28] men servili sentimenti. Quelli poi che fossero capaci di riflettere e di ponderare i civili ordinamenti, dovevano rimanere attoniti allo spettacolo di Venezia, di Pisa, d’altre città marittime, che già si reggevano a popolo: poi nelle Assise di Gerusalemme trovavano un governo, baronale bensì, ma dov’era provveduto anche alla plebe, chiamata pur essa a parte delle discussioni.
Ecco dunque risalire alla dignità civile quei che l’avevano perduta fin dall’invasione dei Longobardi: ecco vincitori e vinti ricondotti sotto una giustizia ed un governo medesimi. E poichè le reliquie degli antichi Romani, sentendo rivalere l’ingegno sopra la forza, tornavano su quelle antiche memorie che un popolo perde per ultima cosa, e che servono spesso di lievito acciocchè l’inerte massa non imputridisca; e i discendenti medesimi de’ conquistatori rispettavano quelli che un tempo avevano soggiogati; perciò si ridestarono i nomi e le forme romane, e i magistrati cittadini non s’intitolarono più scabini alla tedesca, ma consoli.
Adunque in due atti spiegavasi quel movimento: sottrarsi con braccio forte alla dominazione armata, poi colla prudenza costituirsi. Che se era difficile quel primo contro conquistatori armati, difficilissimo è sempre il secondo, e allora viepiù quando di costituzioni non s’aveva alcuna esperienza.
Ma in che consistevano le pretensioni dei Comuni? Domandavano libertà materiale di andare e venire senza pagar pedaggi; di vendere, comprare, possedere il proprio, e lasciarlo ai figli; contrar matrimonj anche fuori del feudo, e con persone di qualsiasi condizione; sicurezza della casa e della persona; una misura fissa nei dazj, nelle decime, nelle prestazioni di corpo dovute al signore, ne’ giorni in cui servirlo colla marra o colle armi, nella retribuzione pel forno o pel mulino privilegiato in tutto il feudo; se qualche bestia si svii, [29] non venga al castellano, ma rendasi al proprietario; possa tagliarsi legna morta al bosco; nessuno arresti un comunista senza intervenzione di giudici; siavi un tribunale a cui richiamarsi anche dei torti ricevuti dal signore, e dove giustificarsi col giuramento o per testimoni, anzichè col duello.
Scossi che si fossero dal giogo, non d’un Tedesco o d’un Franco, ma d’un tiranno, vinto in unanime concorso il contrasto del vescovo o del conte, cercavano un titolo ai loro diritti col farseli non dare ma confermare dal re in quelle che chiamaronsi carte di Comune. I re vi trovavano il proprio conto, perchè, oltre deprimere i feudatari privandoli della giurisdizione, con esse carte davano regole di diritto criminale e civile, traendo a sè una parte sì principale della regia autorità qual è la legislativa, istituendo o convalidando le costumanze locali.
Le carte che ci rimangono, per quanto variate, importano l’abolizione delle servitù personali e delle tasse arbitrarie, assicurato agli abitanti lo scegliersi i magistrati municipali, e data a questi autorità di movere in armi i comunisti quando il credano necessario a tutelare i diritti e le libertà del Comune, sia contro i vicini, sia contro il signore. In quelle medesime ove propriamente veniva riconosciuta una giurisdizione distinta, non si stabiliva già chiaro e preciso in qual relazione starebbe d’allora innanzi il Comune col re, col feudatario, col vescovo, bensì riducevasi in iscritto l’ordinamento sociale interno, tutto ciò che potesse contribuire alla civile sicurezza, e massime all’applicazione della giustizia; la parte ove i popoli sentono più immediatamente la servitù o la libertà.
V’avea però Comuni propriamente stabiliti da baroni o da re, sulle proprie terre aprendo asilo ai vagabondi e agli avveniticci, costituendo città nuove, borghi nuovi, [30] castel franchi, franche ville, sotto un preposto del re o dei signori, con una carta, alla quale davano pubblicità affine di allettare gente forestiera a stanziarvisi e comprare terreni. Il conte Guido Guerra, suocero del famoso Bellincion Berti, nel 1208 dava nel suo viscontado di val d’Ambra il diritto ad uno per ciascuna terra di formare insieme uno statuto, unirsi per deliberare degli interessi pubblici, e assistere lui, capo dello Stato; il quale delegava i suoi poteri al podestà, salvo l’arbitrio di modificarne le sentenze.
Siffatte carte occorrono men frequenti in Italia, forse perchè, sussistendo alcuni Comuni fin dall’età romana, od essendosene costituiti durante il reggimento feudale, non si trovava bisogno di nuovi diplomi per regolare l’amministrazione interna, i diritti de’ magistrati, le relazioni col signore e coi vicini. Pure d’alcune abbiamo gli apografi, d’altre fondatissima presunzione, tanto da poter asserire che i Comuni nostri sono i più antichi del mondo moderno, e fin anche di quello di Leon in Ispagna, conceduto da Alfonso V coll’assenso delle Cortes entrante l’XI secolo.
Venezia dall’origine sua medesima si trovò stabilita in repubblica; e a lei somigliare dovevano le altre città marittime di maggior fiore, Pisa, Amalfi, Napoli, Gaeta. Adria, ancora di qualche conto, nel 1017 menò guerra coi Veneziani, i quali vincitori obbligarono il vescovo Pietro e i primati a venire al doge, chiedere scusa, e promettere fedeltà. Dall’alto di tal sommessione esso vescovo appare anche capo politico del Governo; ma contraeva coll’intervento de’ suoi canonici e di varj laici, de’ quali il primo è Anastasius consul. Le città del litorale istriano, aggregato talvolta al regno d’Italia, conservarono le forme comunali all’antica, e nel 991 Capodistria faceva col doge Pietro Orseolo II una convenzione, stipulata da un conte Sicardo suo governatore, [31] e cunctos habitantes civitatis Justinopolitanæ, tam majores quam minores[29]. Anche Ragusi, città mista che per tante ragioni s’annesta alla storia italiana, e che sotto una costituzione aristocratica gareggiò con Venezia, e fu l’Atene della letteratura slavo-illirica, degna di storia più che i vasti imperj da cui fu ingojata, antichissimo esempio ci è di governo municipale, poichè in un diploma del 1044 Pietro detto Slaba (slavo) priore, cum omnibus pariter nobiles, atque ignobiles mei, tam senes, juvenes, adolescentes, quam etiam pueri, restituisce alcuni beni all’abate di Santa Maria di Lacroma, presente il vescovo Vitale[30].
I Genovesi, costretti a schermirsi dai Saracini di Frassineto, buon’ora si ordinarono a comune sotto il vescovo, dividendo le città nelle compagne di Castello, Borgo, Piazzalunga, Maccagnana, San Lorenzo, Portanuova, Sosiglia e Portoria, ciascuna avente consuetudini proprie e gonfalone, e deliberando per consigli e parlamenti. All’888 si fanno risalire i suoi primi consoli, il senato, l’assemblea del popolo e le forme municipali, che ricevettero conferma da un diploma di Berengario II del 958, il quale assicurava ai Genovesi le proprietà, già jure acquistate[31]. Poi nel 1056 Alberto marchese giurava osservare le consuetudini di essi, che sono le seguenti:
«Qualora si contenda sopra la sincerità d’una carta tra Genovesi e forestieri, se il notajo e i testimonj sieno presenti, basta che il presentatore della carta giuri non l’avere corrotta in veruna parte: se manchino notajo e testimonj, il presentatore trovi quattro persone che il giurino con lui. La femmina longobarda può vendere e donare senza l’assenso dei parenti e l’autorità del [32] principe. Così pure i servi, gli aldj delle chiese e i servi del re vendano e donino liberamente le cose di loro proprietà, ed anche le livellarie. I villani de’ Genovesi, che abitano sui poderi dei padroni, non sono tenuti a dare fodro, fodrello, albergaria o placito ai marchesi, nè ai visconti, o loro mandati. I livellarj delle chiese, che per gravi casi non possono soddisfare l’annuo canone, non perdano un fondo livellato, se prima del decimo anno paghino i livelli scaduti. Gli abitanti di Genova non devono stare in giudizio fuori di città, nè obbediscano a sentenza renduta fuori. I rettori di Sant’Ambrogio possano conceder beni a livello. I forestieri abitanti in Genova devono fare la guardia coi Genovesi contro gl’insulti dei Pagani. Chi giura con quattro testimonj di aver posseduto per trent’anni un podere, sia cheto contro qualunque podestà ecclesiastica o laica, nè v’abbia luogo a duello. Quando i marchesi vengano a tener placito a Genova, il bando non duri che quindici giorni. Un laico a cui un cherico abbia ceduto i beni ecclesiastici, li posseda tranquillamente finchè il vescovo vive. Se uomo o femmina prese a livello beni ecclesiastici, o per compra, o per eredità, niun altro può acquistare livello sui medesimi: e se nasce controversia, chi è in possesso giuri con quattro testimonj che da dieci anni egli od i suoi antecessori possedono quei beni a livello. I cherici legittimamente investiti di beni ecclesiastici li tengano alla sicura quanto vivono, nè altro cherico acquisti ragioni su quelli. Gli uomini dei Genovesi, che vogliono risedere sui poderi de’ padroni, sieno franchi da ogni servizio pubblico».
Nel 1109 il conte Bertrando donava al Comune di Genova la terra di Gibeletto in Siria: nel 1130 Pavesi e Genovesi stipulavano concordia e reciproca difesa. Nel 1166 i consoli de’ mercanti e de’ marinaj di Roma agli uomini del Genovesato da Portovenere fino a Noli [33] concedeano pace e sicurezza della persona e degli averi per terra e per mare da Terracina a Corneto, cassando le rappresaglie e qualunque procedura per rapine da trent’anni in poi; renderanno buona giustizia e riparazione; potranno condurre a Roma qualsiasi merce, e farvi contratto; obbligheranno a giurar questa pace i visconti e balii di Terracina, Stura, Ostia, Porto, Santasevera, Civitavecchia; se alcun Romano rechi danno a Genovesi, l’obbligheranno a rifarli, e se non possa, li rifaranno dal Comune; non soffriranno si armino a danno loro legni di corso da Capodanzo a Terracina, e da Caponaro a Corneto; terranno per nemici i Pisani, nè gli accoglieranno sul loro territorio; serberanno pace cogli uomini di Albenga, Portomaurizio, Diano, San Romolo, Ventimiglia, se i loro consoli la giurino ad essi. Di rimpatto i consoli del Comune di Genova giuravano pace ai Romani coi patti medesimi[32].
Siena, città primaria sino al tempo de’ Longobardi, e dove il vescovo appare lungamente anche capo temporale, già avea Comune nel 1151 quando il conte Paltonieri dava in pegno al sindaco il castello di San Giovan d’Asso col suo distretto, per dieci anni: anzi nel 1137, in communi colloquio molti nobili di Staggia e Strove donavano alcuni castelli a Ranieri vescovo e capo civile di Siena. Poi nel 1186 Enrico di Svevia, vivo Federico Barbarossa, dava e confermava a questo Comune la zecca, la libera elezione de’ consoli, del rettore, del podestà, con giurisdizione sopra tutto il contado, salvo ai giudici imperiali l’ultimo appello delle cause, e pagando alla Camera imperiale settanta marche d’argento[33].
Pisa, a comodo anche dei tanti avventicci, raccoglieva, fin dal 1160, gli statuti precedenti, fin allora tenuti per [34] memoria, donde ricaviamo l’interno suo ordinamento e la persistenza del diritto romano; aggiungeva regole per le contestazioni marittime, che voglionsi approvate il 1075 da papa Gregorio VII; poi nel 1085 Enrico IV, oltre varie esenzioni, le prometteva osservarne le consuetudini di mare, lasciare che i seniori facessero le leggi e rendessero giustizia, non mandare in Toscana verun marchese se non approvato da dodici uomini, eletti nell’assemblea dei cittadini di Pisa, raccolta a suon di campana[34]. Prometteva inoltre non distruggere [35] le case, non incendiar la città nè diroccarne le mura, non esigerne alloggi; se rechi offesa ad alcuno, ne giudicherà per mezzo di dodici sacramentali senza duello, salvo se si tratti della vita o dell’onore del re; non impedirà i viaggi, e di mariti che siano in viaggio non arresterà le mogli; non porrà altro aggravio se non quello che tre seniori per ciascuna villa e castello giurino essersi praticato al tempo del marchese Ugo; lascerà che vedove e fanciulle si maritino, senza [36] costringerle a sposarsi a chi egli voglia, o esigerne prezzo; non torrà nè farà lavorar le terre a mezzo miglio in giro, che furono paludi o pascoli pubblici o delle chiese; il pezzo del muro vecchio sin all’Arno lascerà libero a comune vantaggio, non permettendo vi si eriga casa; se alcuna nave sia fermata da Gaeta a Luni, nessuno ardisca predarla.
Lucca, prediletta sede dei marchesi di Toscana, in un documento del 1124 chiamata gloriosa civitas, multis dignitatibus decorata, atque super universam Tusciae marchiam caput ab exordio constituta, possiede uno de’ più ricchi archivj d’Italia, da cui potrebbe trarsene la storia comunale. Fra il 965 e il 972 Ottone I conferiva a quella Chiesa un’immunità, la quale era piuttosto personale ed ecclesiastica, salvo che cedevasi ad essa Chiesa e al clero la facoltà regia di eleggere il proprio avvocato, e dispensavasi dal giurare nelle cause con molti sacramentarj. Ottone II nel 981 confermò ed estese questi privilegi, volendo che tutte le persone dimoranti nelle terre e castella d’esso vescovado fossero sottoposte unicamente al tribunale del vescovo, che potesse citarli e giudicarli (distringere) a modo della potestà regia. Nessun duca, marchese, conte, visconte, giudice pubblico o gastaldo o qualsiasi altro magistrato presuma porvi piede per udir cause, esigere multe, far foraggio, levare sfatichi; chiunque possedesse beni del vescovado ingiustamente, li restituisca[35]; seguono [37] altri provvedimenti opportuni al libero esercizio del dominio e dei diritti vescovili, e comminando ai contravventori mille libbre d’ottimo oro, da pagare [38] metà al fisco imperiale, e metà alla chiesa di Lucca ejusque vicario. Alessandro II papa attribuì a quel Comune per sigillo una bolla di piombo[36].
Vedemmo Anselmo vescovo di Lucca zelantissimo per Gregorio VII contro l’imperatore; onde i cittadini gli si ribellarono, ed Enrico IV, da Roma il 23 giugno 1081, in premio della fedeltà e de’ servigi prestatigli, conferiva ai Lucchesi un privilegio, nel quale vieta ai vescovi, duchi, marchesi, conti e qualsiasi persona o autorità di demolire il recinto delle mura nè i casamenti urbani o suburbani; o di fabbricare castelli nel circuito di sei miglia, nè di esigervi il fodro o il ripatico; abolendo le consuetudini perverse, introdotte dalla durezza del marchese Bonifazio; non vi abbia palazzo imperiale in città o nel borgo, nè siano tenuti agli alloggi; chi per negozj va a Lucca sia pel Serchio sia per terra, non venga molestato nè derubato, nè alcuno lo impedisca o svii; i Lucchesi possano negoziare sopra i mercati di Parma e San Donnino ad esclusione dei Fiorentini; siano giudicati solo da chi ha legittima giurisdizione; non venga obbligato al duello chi adduca il possesso di trent’anni, o altro documento; il giudice longobardo non possa proferirvi giudizio, se non in presenza del re o del suo cancelliere[37].
[39]
Qui avete sott’occhio una vera carta di Comune; e quantunque v’appajano come concessioni quelle che oggi si hanno per generale giustizia, pure alleggeriva la soggezione immediata ai marchesi e conti; la mediata moderava nell’esigenza delle tasse e ne’ giudizj; dava a Lucca un’esistenza comunale in faccia ad altri Stati, sicchè l’università e i singoli cittadini fossero rispettati come tali.
Benchè, col cessare della guerra delle Investiture, rivalesse l’autorità dei marchesi, questa non tolse al Comune di Lucca di operare indipendente: dal 1088 al 1144, ebbe guerra coi Pisani; distrusse i castelli Castagnoli, Vaccole, Vecchiano, Ripafratta, appartenenti a Cattanei o conti rurali; da Uguccione e Veltro, visconti di Corvara nella Versilia, comprò questo tenimento e il castello di Vorno che spianò; e chiamò a giudizio arbitrale i vescovi di Luni e i marchesi di [40] Malaspina[38]. Non sapremmo dunque definire a che si riducesse la supremazia dei marchesi di Toscana, che pur sussistette fino a che il marchese Guelfo della casa di Matilde, principe di Sardegna, e duca di Spoleto, nel 1160 al popolo lucchese cedette ogni diritto, azione, giurisdizione, che gli competessero sia a titolo del marchesato, sia per l’eredità della contessa; solo per novant’anni riservandosi il censo di mille soldi, sebbene non siano pur la metà di quel ch’egli potrebbe ritrarne[39]. Così que’ cittadini furono riscattati da ogni [41] servitù particolare, e l’assicurata libertà garantirono col giurar fedeltà e sommessione all’imperatore.
Benchè Lucca sia così ricca di documenti, il Tommasi, nel Sommario della storia di essa, dice non potersi «fissar con sicurezza quando v’incominciasse la repubblica, gli storici lucchesi segnando un’epoca chi più chi meno remota;..... se narrano i primi scrittori fatti bastantemente provati donde traspirano manifesti segni di libertà e d’indipendenza, producono i secondi tali carte contemporanee da smentire appieno gl’indicati segni, perocchè mostrano esse più presto soggezione gravissima, che la ben menoma franchigia». Quest’incertezza è di gran lunga maggiore per gli altri Comuni, e deriva dal fatto dei mal determinati poteri, tanto dominante nel medioevo, che non deve presumere d’intendere la storia civile chi non l’abbia sempre sott’occhio.
Ampio privilegio fu concesso il 1129 da re Ruggero, e confermato il 1164 da re Guglielmo alla città di Messina, in benemerenza de’ sussidj prestati a snidare i Normanni. Portava che i Messinesi, tranne i casi di Stato, non potessero convenirsi in civile o in criminale se non da giudici eletti da loro, neppur nelle cause col fisco; il re non operasse dispotico, ma si attenesse alle leggi, e se contrario a queste dava alcun decreto, fosse irrito e nullo; non nominasse uffiziali pubblici che messinesi e benevisi; e fosse reputato cittadino coronato di Messina. I deputati di questa tenessero il primo [42] luogo nelle assemblee convocate dal re; solo colà si coniasse la moneta del regno; nel tribunale suo fosse un consolato per deliberare in affari marittimi, composto di Messinesi, nominati dai padroni delle navi e dai negozianti. I Messinesi andassero esenti da dogana per tutto il regno; potessero senza compenso tagliar nelle foreste regie quanto occorresse a fabbricare e risarcir le navi: nessuno d’essi fosse forzato al servizio militare; la galera di Messina inalberasse lo stendardo reale; nelle assemblee dal re convocate per gl’interessi di quella città non si deliberasse che in presenza dello stratego, dei giudici e d’altri uffiziali della città; gli ebrei vi godessero diritti e immunità pari ai cristiani. Tale carta, confermata poi ed accresciuta, rendeva il comune di Messina quasi sovrano[40].
Al popolo di Ferrara Enrico III nel 1055 concedeva che i cortensi fossero assolti dal dare la terza pel placito; i villani nelle lor terre abitanti non andassero al placito pubblico, ma per loro rispondessero i padroni; le navi e i cavalli loro non fossero obbligati a servizio se non quando esso imperatore venisse in Italia; non pagassero il ripatico se non a Pavia; e così vien fissato quanto retribuire pei pesci, pel sale a Cremona, a Venezia, a Ravenna; tutt’altrove si era immuni d’ogni esazione. Due volte l’anno tengano il placito generale per tre giorni, in ciascun de’ quali diano tre porci, cento pani, una libbra di pepe, una di cinnamomo, tre sestieri di miele, e in tutto una vezza di vino; al quarto giorno diano a colui che tenne il placito, un majale e cinquanta pani[41].
[43]
Anteriori diritti possedevano le comunità del lago di Como, giacchè Ottone il Grande nel 962, ad istanza dell’imperatrice Adelaide, confermava agli abitanti dell’Isola Comacina e di Menaggio i privilegi che avevano ottenuti dagli antecessori suoi, assolvendoli da molti pesi e dal venire al placito, se non tre volte l’anno in Milano[42]. Verso il 1090 troviamo i Comaschi alle prese coi popoli della riva dell’Adda, quando il beato Alberto, fondatore del famoso convento di Pontida, s’interpose di pace: i Comaschi lacerarono il suo lodo; mal per loro, giacchè nel combattimento ebbero la peggio.
Fin dal 990 il popolo di Cremona sosteneva briga con Olderico, suo vescovo insieme e conte, e cacciatolo, abbattè la città antica, e una maggiore ne fabbricò contro l’onore imperiale[43]. Il 1114 Enrico V confermava i privilegi de’ Cremonesi, cioè i beni ch’essi in loro lingua chiamano proprietà comunali[44], e di fabbricare fuor di città il palazzo imperiale, il che equivaleva a promessa di non entrarvi coll’esercito.
[44]
Del Comune di Brescia trovansi vestigia al 1000: nel 1020 già sono citate le concioni pubbliche che si tenevano in San Pietro de Dom, e il banditore comunale, a nome di esso Comune, investiva gli uomini degli Orzi del castello, delle fosse e degli spaldi di Orzi: essi a vicenda promettendo difendere quella rôcca contro chi fosse ardito a disputarne il possesso al Comune di Brescia, presterebbero ogni quindici anni il giuramento, pagherebbero alla madonna d’agosto cinque soldi milanesi. Del 1029 si conosce uno statuto che concerne anche i feudi. Nel 1037, per togliere le contese tra il vescovo e il Comune, più di cencinquanta uomini liberi di Brescia si radunano, e Odorico vescovo promette non eriger fortilizj sul colle Cidneo, e cedere al popolo alcuni boschi di Castenedolo e di Montedegno, pena duemila libbre d’oro se fallisca al promesso.
I Bresciani nel 1102 avevano promulgato una legge contro gli usuraj: e due anni appresso Ardizzo Aimone, console di colà, girava per le città lombarde onde indurle a federarsi in difesa comune, convenendo nel monastero di Palazzuolo[45].
Dicemmo come a Mantova fosse costituito il Comune degli arimanni. Ai 27 giugno 1090 la contessa Matilde gittava un bando qualmente i fedeli suoi Mantovani cittadini ricorsero alla clemenza di essa, bramando esser rilevati dall’oppressione d’alcuni loro concittadini e domandando fosser loro restituiti gli arimanni, e le cose tutte comuni, tolte ad essa città dai predecessori della contessa. Al che annuendo, abolisce e sterpa tutte le esazioni ed angarie non legali, imponendo che nè essa nè gli eredi suoi od altra persona grande o piccola di sua podestà possa molestare i cittadini di Mantova per le persone loro, i servi, le ancelle, i liberi dimoranti [45] in quella terra, e l’arimannia e le cose comuni ad essa città spettanti sulle rive del Mincio, o le cose mobili e immobili. Nessuno alloggi in qualsiasi casa della città, o in quella d’un gentiluomo (militis) nel sobborgo, o nella canova di chicchessia, contra lor voglia. Restituisce loro i beni occupati, in modo che pascolino, seghino, caccino a voglia; possano sicuramente andare e venire per acqua e per terra senza pagar pedaggio, ed avere quella buona e giusta consuetudine che ottiene ogni miglior città di Lombardia[46]. Nel 1133 Lotario II confermava al popolo di [46] Mantova i privilegi conceduti già dall’imperatore Enrico II, compresa l’arimannia e le cose comuni di essa città, su ambe le rive del Mincio e del Tàrtaro; abbiano facoltà di trasferire il palazzo imperiale dal borgo San Giovanni al monastero di San Rufino di là dal Mincio; restino liberi dall’albergaria, e possano andare e venire a tutti i mercati dell’Impero, senza molestia nè esazione di teloneo. Concede inoltre l’isola dov’era stato il castello di Ripalta, sicchè altro fabbricarne non potesse egli nè i successori suoi[47].
Nella vita del beato Lanfranco, sotto il 1030, leggesi che il padre di questo era di coloro che custodivano le leggi e i diritti della città di Milano[48]; e lo storico Landolfo di San Paolo nel 1107 chiamasi secretario dei consoli[49]. In quell’anno stesso i Milanesi erano alle mani colla città di Lodi, e la stringevano d’assedio; [47] Pavia cavalcava Tortona, la quale chiese l’alleanza dei Milanesi, mentre Pavia univasi co’ Lodigiani e Cremonesi, e presa la città nemica, la mandò a fuoco. E di vita propria ci diè sentore Milano sia nell’antica contesa coll’arcivescovo Landolfo, sia più chiaramente in quelle delle Investiture e pel matrimonio dei preti; poi i principi di Germania e Federico arcivescovo di Colonia nel 1118 scrivevano ai consoli, capitanei, cavalieri e all’intero popolo milanese, come a Comune indipendente, istigandoli contro Enrico V a tutelare le proprie libertà, fidati nell’ajuto di Cristo[50]. Nel 1117 i Lombardi, sgomentati da fenomeni straordinarj, pioggie di sangue, nascite di mostri, tuoni sotterranei, risolsero provvedere alla giustizia, all’ordine, alla penitenza; onde l’arcivescovo Giordano radunò in Milano una dieta straordinaria, dove non comparvero più principi e conti o feudatarj, ma sovra un palco da una parte si posero tutt’i vescovi, dall’altra i consoli delle varie città, i giurisperiti e popolo immenso, e trattarono del metter pace[51]: assemblea di liberi, che da se stessi consultano il proprio meglio, e che forse allora avvisarono come adempiere al difetto della giurisdizione reale, caduta così in basso. Sembra difficile che si abbia a intendere qui soltanto del Comune dei conquistatori, senza partecipazione del popolo.
Di questa distinzione del Comune dei nobili dal [48] popolano ci presentò insigne documento Mantova; un altro abbiamo in Bergamo, dove i nobili troviamo più volte convocati insieme col clero a trattare di possessi ecclesiastici[52]. Poi re Corrado nel 1088 teneva in quella città un placito, assistenti varj giudici del sacro palazzo, alquanti vescovi, marchesi, conti, valvassori milanesi e bergamaschi, e varj cittadini di essa città[53].
Quanto alle terre del Piemonte, nel 1090 Ottone Riso e Benedetta sua moglie vendono una casa e una cascina omnibus vicinis de Bugella; acquisto comune, che indica una comune amministrazione dei Biellesi, benchè qui pure potrebbe supporsi dei soli conquistatori. Due anni appresso, gli abitanti di Saorgio maschi e femmine fanno una donazione a Sant’Onorato di Lerino. Nel seguente trovasi già in Biandrate un Comune con dodici consoli, e quei conti Guido e Alberto fanno patto di assistenza coi militi, cioè coi valvassori, per conservare i possessi e feudi che ottennero, promettendo lasciar che trasmettessero ai loro figli maschi e femmine i terreni di cui gli abbiano infeudati, nè proibire che vendano un edifizio che v’abbiano eretto, purchè non [49] vendano essa terra senza consenso dei conti. I quali conti non imporranno pena ai militi di Biandrate se non per omicidio, spergiuro, furto, adulterio con una parente, tradimento, duello giudiziale e aggressione; gli altri delitti rimetteranno al laudo di dodici consoli. I militi a vicenda giuravano stare ligi ad essi conti, conservarne di buona fede i feudi; e tra loro stessi promettevano garantirsi i possessi contro chicchessia, nelle discordie rimettersi ai dodici consoli[54]: i quali pure giureranno risolvere le liti in Biandrate al miglior vantaggio del Comune e ad onor del luogo[55].
Nel 901 Lodovico IV imperatore al vescovo d’Asti Eilulfo concedeva la corte e il castello di Bene, Cervere, Niella, Salmour, e la contea di Bredulo fra il Tanaro e la Stura: ma nella città non aveano que’ vescovi che il castelvecchio, sin quando Ottone III nel 992 a Pietro concesse anche la città con quattro miglia in giro, e giurisdizione, il letto del Tanaro e le rive, e tutti i diritti camerali, e le successioni agli intestati, vietando a qualsiasi conte di pigliarvi ingerenza[56]. L’anno [50] stesso agli abitanti d’Asti esso Ottone concedea facoltà di trafficare ove loro paresse; poi Corrado Salico nel 1037 li faceva esenti da ogni dazio e dogana in qualunque parte arrivassero mercatando, sempre ad istanza del vescovo. Al quale però già stavano mal soggetti, talchè due volte la principessa Adelaide dovette venire ad assisterlo, gettando il fuoco alla città; poi alla morte di essa, vi si formò il Comune, e li troviamo ben presto sostener guerra col marchese Bonifazio di Savona, e nel 1098 già stringer lega con Umberto II di Savoja erede di essa Adelaide. Amedeo III di quella casa, morto il 1148, dava franchigie comunali a Susa; Tommaso ad Aosta nel 1188, ricevendola in protezione: attesochè l’esser costituiti in Comune non repugnava alla dipendenza da un signore.
Chi cercasse, troverebbe in quel torno stabilite a Comune tutte le città italiane; ma l’accertarne il principio è difficile tra quell’agitazione costituzionale, reggimento indeciso fra la pace e la guerra, fra la sommessione e la rivolta, fra l’opposizione legale e l’insurrezione.
D’altro passo erano proceduti i paesi di Romagna. Inviolati da Barbari, aveano essi conservato l’ordinamento quale sotto l’Impero bisantino, con consoli sopra il Governo e i giudizj, e con tribuni che comandavano ai borghesi, distribuiti in scuole militari. Staccati che furono da quello, la difesa venne commessa ai vassalli, e il loro capo assunse l’aspetto generale d’allora, cioè di signore feudale ereditario, e trasse il titolo dalle terre che possedeva. L’ordinamento civile vi si trasformò [51] quando i varj vescovi, che pretendevano alla superiorità, dopo Ottone il Grande s’inchinarono al pontefice; sicchè a questo rimase la primazia sovra la Romagna, e ai vescovi la giurisdizione e il nominare i magistrati, che, secondo allora solea, retribuivansi con terre feudali. A capo pertanto d’ogni contado aveasi un visconte, sotto cui i capitanei vescovili, indi i vassalli e i valvassori, e da ultimo il Comune dei liberi, i quali formavano il consiglio municipale coi vassalli del vescovo.
In qualche città, e nominatamente a Ravenna e sue dipendenti come Bologna, durava traccia delle istituzioni bisantine, essendo i cittadini distribuiti per scuole d’arti, che erano ad un tempo divisioni militari, aventi alla testa decurioni finchè durò l’antica costituzione romana, e con magistrati particolari per definire i loro affari, detti consoli de’ mercanti, de’ pescatori, de’ calzolaj, e così via. In ciascheduna corporazione un capitolario vigilava che fossero mantenuti i capitoli, vale a dire i diritti speciali di ciascuno, regolava i mercati, e risolveva le controversie. Il popolo di Bologna nel 1116 ottenne da Enrico V la conferma dei privilegi e delle consuetudini sue.
Più tardi si riscosse la campagna. La conquista dei Barbari aveva arrestato lo spopolamento, prodotto dall’affluire della gente nelle città; poi collo stabilirsi dei feudi la politica prevalenza fu trasferita dalle città alla campagna[57]. Attorno al castello del barone o [52] al sagrato della chiesa accoglievasi una gente laboriosa, manufattrice, mercadante, che presto cresceva in borgate. I signori, accortisi come potessero vantaggiarne d’entrate e di forza materiale, concessero alcuni privilegi, che non li facevano indipendenti, ma ne cresceano le ricchezze e gli abitanti; e quest’incremento rendeva necessarj nuovi privilegi, per quanto poco garantiti contro la prepotenza. Alcuni anche per bisogno li vendevano, nè denaro mancava ai sudditi per tale acquisto, [53] avessero pur dovuto togliersi il pane di bocca. Altrove non erano concessi ma pretesi, e l’esempio delle città ispirava ai campagnuoli desiderio di scuotere la dipendenza, e fiducia di riuscirvi. Rifuggiti in un bosco, sovra un colle, dietro un terrato, sfidavano di colà lo sdegno del signore finchè egli non calasse a ragionevole componimento.
Del come si formassero le borgate attorno alle chiese un bel documento ci resta. Compita nel 1093 la chiesa di Empoli, una delle più antiche collegiate di Toscana, prete Rolando ne divenne custode e prevosto, al quale nel 1119 la contessa Emilia promise quel che il marito suo Guido Guerra signore di Empoli già aveva giurato, cioè che a tutti gli uomini del distretto empolitano, o vivessero sparpagliati o riuniti in castelli e ville, imporrebbe di stabilirsi attorno alla chiesa matrice di Sant’Andrea, donando a tutte le famiglie un appezzamento di terra per costruirvi le abitazioni, oltre uno per erigere il castello: prometteva pure difendere esse case, di modo che, se mai, per guerra o per violenza dei ministri regj o per altro, fossero abbattute, i conjugi Guido le rifarebbero a loro spese[58]. Di poi nel 1182 i Fiorentini obbligarono gli Empolitani a giurar loro obbedienza e fedeltà contro chicchefosse, eccetto i conti Guido antichi loro signori, pagar cinquanta lire annue nel giorno del Battista, un cero più grosso di quel che gli uomini di Pontormo offerivano quand’erano vassalli del conte Guido Borgognone di Capraja.
Il parabolano frà Jacopo d’Acqui ricorda che, al tempo del Barbarossa, molte terre grosse si formarono in Piemonte coll’unire ville: e prima Chivasso, per opera de’ Milanesi: poi alquanti rustici, congregati in opposizione ai marchesi di Saluzzo, edificarono Savigliano, [54] che vuol dire savio-villano, per venire dalla servitù di essi marchesi a libertà: altri coll’ajuto de’ Milanesi fra la Stura e il Gesso fecero una città detta Cuneo, perchè avea tal forma: così furono costituiti Fossano, Mondovì, Cherasco, per tenere in freno quei di Asti e di Alba[59]. Nel 1251 molte famiglie di Marmirolo nel Mantovano, trovandosi angariate da Guidone Gonzaga, abbandonarono in unanime concorso la patria, e si mutarono nel paese di Imola: il qual Comune donò loro molte terre colte e incolte, che essi obbligaronsi di mettere a frutto, pagandone annuo censo, e abitando uniti in un villaggio che Imola fabbricherebbe apposta, e che fu Massa Lombarda[60]. Fin dal 1157 il popolo di Marti e quello di Montopoli nel Valdarno inferiore discutevano de’ proprj confini, e si citarono i consoli a far dichiarare dai più vecchi e probi quali fossero veramente[61]. Firenze, l’anno 1300, decretava si facessero tre terre nel Valdarno superiore, per frenare gli Libertini di Gavelle e quei di Soffena e i Pazzi; le quali furono Terranova, Castelfranco di Sopra e San Giovanni.
Ad emanciparsi erano i borghi ajutati dalle medesime città, cui giovava l’aversi in giro consenso di liberi, anzichè minaccia di tiranni. Perciò i fuggiaschi s’accoglievano sopra le terre suburbane, che anticamente erano appartenute al vescovo, o, come allora dicevasi, al santo patrono, e perciò si chiamavano corpi santi in Lombardia, e appodiato a Bologna, camperie nella Toscana, sottoposte alle leggi e al podestà medesimo della città. Se i Comuni cittadini avessero dichiarato [55] sciolti i feudi, tutti i campagnuoli sarebbero affluiti nelle città: ma queste non aveano mai avuto mente a costituire un diritto nuovo demolendo il preesistente, onde non attentavano ai legami che tenevano l’uomo alla terra ed al padrone, sebbene volentieri aprissero ricovero a’ fuggiaschi, e sostenessero chi si ribellava ai conti rurali.
Milano nel 1211 concedeva a tutti i contadini e borghesi di accasarsi in città, e li faceva esenti da ogni gravezza rurale, e accomunati ai diritti di cittadini, purchè non lavorassero di propria mano la terra, abitassero in città trent’anni, eccetto il tempo del ricolto. Imola nel 1221 prometteva la quinta parte degli uffizj a quei di Castello Imolese che andassero accasarsi in città. L’anno stesso Bologna prometteva immunità ai forestieri, e il consolato ad ogni venti famiglie che venissero a formar villa nel territorio bolognese.
I signori si opponevano a che i loro dipendenti giurassero il Comune; ed essendosi i terrazzani di Limonta e Civenna accomandati al Comune di Bellagio sul lago di Como, l’abate di Sant’Ambrogio, che n’era feudatario, protestò non averne mai dato concessione, e chiese sentenza, per la quale furono assolti dalla vicinanza dei Bellagini, dal contribuire il fodro, e venire al placito e alla giurisdizione[62].
Ad alcuni signori le comunità indissero guerra, poichè il diritto della personale vendetta, allora universalmente riconosciuto, rendeva alle città legittimo l’osteggiare i baroni, che fin sotto le loro mura aveano piantato fortifizj; e bandivasi pace alle capanne e guerra ai castelli. I conti d’Acquesena dominavano sei popolose terre in val di Belbo, e sorretti dal marchese di Monferrato e dalle armi, mille soprusi si permettevano [56] sopra i vassalli, ed esigevano una oscena primizia. I terrieri soffersero un pezzo come sbigottiti; poi fecero popolo, e al tocco della campana di Belmonte assalsero determinatissimi le rôcche dei signori, questi uccisero, quelle diroccarono; e difesisi dal marchese Bonifazio mediante l’ajuto degli Alessandrini, trasferirono le proprie abitazioni là dove la Nizza sbocca nel Belbo, e vi edificarono Nizza della Paglia[63].
Altre volte non colla forza, ma otteneasi cogli accordi: come i conti Guido cedettero a Firenze i loro castelli per cinquecento fiorini; e come troveremo spesso nel procedere. Ma gli abitanti di Montegiavello, scontenti della dominazione d’essi conti Guido, scesero a stormo dall’altura, e compro un prato sul Bisenzio, vi costituirono il Comune, che poi fu la cittadina di Prato[64].
Nel 1200 la città d’Asti dai molti consignori comprava il castello e il territorio di Manzano, obbligando gli uomini a trasferirsi nel nuovo paese di Cherasco. Nel 1228 Genova comprava dai marchesi di Clavesana i castelli e le ville di Diano, Portomaurizio, Castellaro, Taggia, San Giorgio, Dolcedo, per l’annua prestazione di lire ducencinquantadue genovesi: nel 1233 faceva altrettanto con Laigueglia. Nel 1180 il Comune di Vercelli comprava in moltissime porzioni il castello di Casalvolone.
Converrebbe fare la storia di ciascuna borgata chi volesse dire come le città crescevano dalle ruine della feudalità campagnuola. Alcuni signori abbracciarono spontanei lo stato civile, fosse per maggior sicurezza o per godere l’autorità che l’opulenza, il dominio antico, le aderenze procacciano sempre in una comunità; sicchè discendendo dalle minacciose rôcche, giuravano il Comune e fedeltà ai magistrati cittadini, sottoporre [57] i loro terreni alle tasse, servire alla patria colla persona e coi vassalli, e parte almeno dell’anno fissar dimora nelle città[65].
[58]
I Transalpini, avvezzi ancora a non vedere nei loro paesi che dominio de’ baroni, meravigliavano allo scorgere che le città di Lombardia aveano ridotto tutti i [59] signori della diocesi a coabitare; talmente che a fatica si trovava alcun nobile o grande che non obbedisse alle leggi della città[66]. Alquanti duravano ancora nei loro castelli, massime ove li francheggiava la montagna, circondandosi di armigeri e di donzelli, per conservare l’antico potere: ma sebbene dissoggetti dai Comuni, non poterono mai costituire una salda aristocrazia, attraversati com’erano dalle altre classi. Restava dunque che sfoggiassero in lusso e in finte prodezze, assaltando un pagliajo od una grancia, o ferendo torneamenti, ovvero empiendo il tempo con giocare alle palle, agli [60] aliossi, alla quintana, e mettersi attorno buffoni, nani, cantastorie, sonatori: finchè impararono a vendere ai pacifici Comuni il valore, cui si erano educati ed esercitati.
A tal modo formaronsi i Comuni; e combinando le idee classiche colle nuove, definivano la città essere un convegno di popolo, raccolto a vivere secondo il diritto; e che tutti gli uomini d’una città, e massimamente delle principali, devono operare civilmente e onestamente[67].
Se dunque ricapitoliamo la storia del popolo, dopo Carlo Magno ci occorre anarchia e scompaginamento universale; città e stirpi discordi; ogni barone, ogni guerriero animato da interessi diversi; non un pensiero della povera plebe. La feudalità comincia a collegare duchi e conti col vincolo di devozione allo stesso capo e di servizj reciproci; i possessori di allodj, franchi di ogni carico pubblico, indipendenti fra loro e quindi antisociali, consentono o sono forzati a divenire vassalli, cioè a prestare ligezza ad un signore, nella cui protezione trovano un compenso alle servitù, all’omaggio, agli obblighi. L’uomo preferisce sempre lo stato socievole all’isolamento, e il governo feudale offriva la [61] combinazione per allora migliore di sforzi materiali onde organizzare la pace e dirigere la guerra.
Nelle città non v’era modo come uno potesse distinguersi: ignote le lettere; a soli nobili le ricchezze; dei gregarj le armi. In conseguenza le plebi rimanevano ancora fuori della società, e ad insinuarvele s’industriarono i Comuni, dove conquistati e conquistatori, uomini dipendenti dal re o dal vescovo o dai signori, venivano fondendosi in una stessa cittadinanza, a giurisdizione dei vescovi; poi anche da questi si emanciparono, istituendo il Comune laico. Nè era un tremuoto popolare che diroccasse i castelli: essi non domandavano la libertà, ma l’eguaglianza sotto un signore, un freno alla gerarchia feudale, o di potere in questa pigliar posto. Per tal modo la gente bassa diventa un ordine; la ricchezza mobile si erige a fianco alla fondiaria; e il feudalismo, che dianzi era la società intera, si restringe a sola la nobiltà.
L’Italia non avea di quei duchi o conti, poderosi quasi piccoli re: l’autorità regia, annessa all’imperiale, restava lontana e controversa; sicchè le città trovarono minori ostacoli a costituirsi, tanto più che avevano sugli occhi l’esempio delle marittime. Perciò, caduta la Casa Salica, i Comuni lombardi muovono guerra ai capitanei, togliendo loro le entrate e la giurisdizione di conti, e la esercitano in vece loro. I Comuni si valgono degli imperatori e dei papi per cacciar le picche più a fondo nelle viscere de’ nemici; e li strascinano nelle microscopiche loro inimicizie; laonde queste parziali associazioni, combinate per salvarsi dalle baronali prepotenze e dal politico scompiglio, vennero ottenendo o conquistando giurisdizione particolare, diritto di guerra e di moneta[68], governo proprio, insomma a farsi [62] piccole repubbliche. Gli uffiziali, non più dai vassalli, ma sono scelti fra’ comunisti; onde sottentra l’abitudine agli affari, e ne vengono magistrati da far fronte allo Impero, giuristi che in parlamento potranno pettoreggiare i capi della feudalità, e dottori alle cattedre, e cherici che saliranno ai vescovadi e alla tiara.
Consoli era l’antico nome de’ magistrati civili, detti alla tedesca scabini o giudici perchè principale loro uffizio il giudicare. Altri consoli erano i capi delle maestranze e delle compagnie mercantili, la cui efficacia nella istituzione de’ Comuni fu maggiore che non soglia credersi. Man mano che si affrancassero, le città attribuivano i poteri a questi magistrati, che allora dalle funzioni giuridiche fecero tragitto alle amministrative, dalle particolari alle pubbliche. Il vescovo di Luni avea guerra col marchese di Malaspina, che compose nel 1124 coll’interposto dei consoli di Lucca[69].
I consoli erano due o più: Perugia, che vuolsi già facesse guerra a Chiusi nel 1012, a Cortona nel 49, a Foligno nell’80 e 90, ad Assisi nel 94, era governata da dieci consoli nel 1130, quando in piazza San Lorenzo gli uomini dell’isola Palvese fecero la loro sommessione[70]: Bergamo n’avea dodici: Milano sei o sette per ciascuno dei tre ordini di capitanei, valvassori e cittadini[71]: probabilmente anche altrove erano scelti in questa proporzione, ovvero da cittadini e nobili, dove questi costituissero un unico stato, o anche da uno stato solo, che fosse agli altri prevalso. A Firenze [63] furono quattro, poi sei, secondo la città era divisa per quartieri o sestieri; ma uno godeva maggior fama e stato, e dal nome di esso qualche cronista notava l’anno.
Nè le sole città, ma anche borghi e castellari ebbero consoli proprj: e per mille esempj valga Pescia, non ancora città, i cui consoli e consiglieri nel 1202 concordavano con quelli delle limitrofe comunità di Uzzano e Vivinaja intorno all’elezione e alle attribuzioni dei consoli, per evitare le controversie[72].
Niuno confonda i Comuni del medioevo coi municipj che trovammo fra gli antichi. Questi ultimi erano formati da coloni venuti da Roma, che, sostenuti dalle armi della metropoli, si piantavano sopra il territorio [64] conquistato per tenere i vinti in soggezione: nel medioevo sono i vinti stessi che aspirano ad esser pareggiati ai vincitori, acquistando i diritti, prima d’uomini, poi di cittadini. Nel Comune romano il padre è in casa sua magistrato e sacerdote: nel nuovo, il clero costituisce classe distinta e indipendente, e l’autorità paterna rimane circoscritta entro i limiti della pietà. Alla comunanza romana non partecipava propriamente che l’ordo, vogliam dire le prosapie senatorie iscritte nell’album, per eredità trasmettendo il potere e l’amministrazione; che se una si estinguesse, l’Ordine medesimo sceglieva tra le megliostanti della città quella che dovesse empiere il vuoto: pochi ricchi, in possesso della piena cittadinanza, erano circondati da una turba di schiavi, alle cui mani abbandonavano tutti i servizj. Nel nuovo Comune invece, per la prima volta al mondo, l’industria si esercita libera, e frutta ricchezze e franchigie. In quello gli uomini di miglior diritto stanno adunati nelle città, rimanendo alla campagna i servi: nel medioevo i prepotenti vivono ne’ castelletti foresi, mentre le città sono di gente industriosa, che poc’a poco e a forza di lavoro si affranca. Colà insomma è aristocrazia, qua democrazia: quello provvede alla politica potenza d’una classe eccezionale, questo ai diritti dell’intera popolazione: in quello i privilegiati si conservano col gelosamente escludere le classi inferiori; nel moderno ognuno si travaglia verso miglior condizione, e nella lotta invigorisce la personalità.
Ma la prima rivoluzione dei Comuni può considerarsi come aristocratica, tanti elementi signorili abbondarono nella sua composizione, i quali vedremo poi sistemare i governi, dettar leggi a tutto loro pro, combattere più valorosamente che non avrebbe saputo una plebe inesercitata. Dipoi si ampliò il Comune a segno, che chiunque avesse pane e vino proprio, esercitasse mestiere [65] d’importanza, o si trovasse agiato di sue fortune, ebbe parte almeno indiretta alla municipale autorità, e contribuiva ad eleggere i magistrati nel generale convegno degli abitanti. Allora nella classe degli uomini liberi si trovarono accomunati gli antichi arimanni, liberi quantunque non possessori; gli abitanti delle città municipali, sempre rimasti indipendenti; i borghesi affrancati delle città feudali; gli abitanti sollevati dei Comuni; alfine anche i servi emancipati della campagna.
Ma dalla libertà civile e dall’equità suprema, ch’è ora il fondamento d’ogni Stato, stavano ben lontane. Dappertutto le persone rimaneano libere in grado diverso; sopra viveva qualche antico arimanno; in alcuni Comuni, sebbene già redenti, sussistevano borghesi del re e borghesi dei signori, i primi più alteri e in migliore stato, gli altri affrancati sì, ma in mezzo a parenti ed amici tuttavia servili; poi i nobili, i liberi uomini del Comune, del barone, dei privati; ecclesiastici privilegiati, guerrieri assoldati, viventi con diritto straniero.
Tutto ciò derivava dal sistema feudale, che non fu già distrutto, come sarebbe avvenuto in una rivoluzione radicale, ma in esso presero posto i Comuni, che perciò si potrebbero chiamare repubbliche feudali; carattere che non vuolsi dimenticare da chi brami intenderne la storia e le evoluzioni. I Comuni entravano nella feudale società, traendo a sè i diritti già proprj de’ signori, come giudizj, imposte, zecca, guerra, e via discorrete: e conseguivano un grado in quella gerarchia, rilevando da re o dall’imperatore, e tenendo sotto di sè altre persone o corpi morali. Il concetto feudale non ammette esistenza indipendente; e però i Comuni si consideravano vassalli d’un signore, ed obbligati verso lui a certi doveri pattuiti, siccome un uomo. Tale dipendenza non era più del cittadino, bensì del Comune; ma coloro che a questo non appartenessero, restavano [66] quasi iloti, senza impiego, nè nomi, nè le esenzioni o i privilegi degli altri. Come membri della società feudale, i Comuni aveano il diritto della vendetta privata, in conseguenza la guerra. Ciascuno era poi tenuto a quel solo per cui si era personalmente obbligato; donde una grande indipendenza personale; e il Comune provvedeva non al meglio degli individui, bensì all’oggetto di sua formazione, cioè a francarsi dalle vessazioni.
In conseguenza voleasi garantire la sicurezza o la prosperità col costituire altri Comuni nel Comune, fossero quelli di nobili, d’ecclesiastici, di borghesi, o i minori di ciascun’arte, o de’ singoli quartieri. E ogni Comune avea vita propria, con magistrati, borsa, leggi, tutto ordinato sempre alla propria conservazione, nè cooperante al ben generale se non in gravi contingenze.
Gli elementi stessi ond’eransi formati, doveano sfiancare i Comuni, uscendo da una società costituita guerrescamente, e da una sovrapposizione di conquiste. Da ciò confusione e mistura nei diritti; e per tradizione o per usurpamento o concessione o pietà, chi l’uno assumeva, chi l’altro; e v’avea possessi e contratti ed eredità a legge romana, a salica, a longobarda[73]. Il signore [67] feudale o il vescovo a cui eransi sottratti, conservava diritto ad alcune tasse o a privilegi, e a nominare il magistrato coll’assistenza dei deputati comunali. All’arcivescovo di Milano rimaneva sottomessa la parte di [68] città che si chiamava il Brolo; in nome di lui si proferivano le sentenze, quantunque non vi prendesse più parte; suo un pedaggio alle porte, sua la zecca: privilegi ottenuti dagl’imperatori, o che forse erasi riservati quando volontario o costretto depose l’autorità principesca di conte della città. Quel di Genova partecipava al governo insieme coi consoli, anche in suo nome faceansi i trattati e si segnavano gli atti, e nel suo palazzo s’adunava il consiglio[74].
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Volta veniva che, nel medesimo Comune, sopra certi reati avesse giurisdizione il conte, sopra altri il vescovo; a questo pagavasi una taglia, a quello una dogana; alla tal chiesa un canone speciale, un altro alla comunità, un terzo all’imperatore, forse il quarto ad un privato od al Comune confinante. Chi dunque dalla città uscisse al territorio, passava sopra uno Stato diverso: da una città all’altra v’era la differenza che oggi da regno a regno: che più? una città era qualche volta divisa in [70] due o fin tre giurisdizioni; una ecclesiastica intorno al vescovado, una regia intorno al palazzo o al castello, una comunale; nè di rado ciascuna era cinta di mura proprie, con porte che si custodivano gelosamente. Qualche villaggio era diviso fra due o più condomini, aventi ciascuno diverse gabelle, giurisdizioni distinte: l’università godeva privilegio di foro pe’ suoi scolari, le maestranze una giurisdizione sopra i loro consociati, il monastero sopra la tal fiera da esso istituita: poi diritti d’asilo, poi immunità personali. A Como il vescovo riscoteva il teloneo da’ fornaj: a Pisa la pubblica pesa era privilegio dei Casapieri della Stadera. Talora diversi Comuni costituivano una sola repubblica senza reciproca dipendenza, com’era in Piemonte la Valsesia, e così i dodici cantoni della val di Maira, sottopostisi poi ai marchesi di Saluzzo[75], e come fin oggi vediamo ne’ Comuni de’ Grigioni. Talora un Comune ne soggiogava altri, formando più estesa signoria.
Uniformandosi a questa natura feudale, anche i Comuni, divenuti persone con privilegi e rappresentanza, assunsero una bandiera propria e uno stemma. I più dei nostri ebbero la croce, variamente colorata, partita, campeggiata: Venezia adottò il leone del santo suo patrono; Napoli la sirena; Sicilia le tre gambe che ricordano la forma triquetra dell’isola; Empoli la facciata del tempio di Sant’Andrea, attorno a cui si formò la nuova città. Milano aveva l’insegna bianca colla croce rossa; poi ogni quartiere spiegava insegna propria, cioè porta Romana rosso, la Ticinese bianco, la Comacina scaccato rosso e bianco, la Vercellina rosso sopra e bianco sotto, la Nuova un leone a scacchi rossi e bianchi, la Orientale un leon nero. Delle regioni di Roma, quella de’ Monti ebbe per insegna tre monti in campo [71] bianco; Trevi, tre spade in campo rosso; Campo Marzio, la mezzaluna in rosso; Ponte, il ponte Sant’Angelo in rosso; Parione, l’ippogrifo in campo bianco; Regolo, un cervo in campo azzurro; Sant’Eustachio, una testa di cervo portante la croce; Pigna, una pigna. Così delle otto compagne di Genova quella di Castello avea per arma un castello sopra archi sormontato da una bandiera, avente in campo bianco croce vermiglia; di Maccagnana, partito di azzurro e bianco; Piazzalunga, scudo terzato in palo d’azzurro; San Lorenzo, campo ondato rosso; Portoria, orlo di rosso, e in campo un P; Sosiglia, banda di rosso in campo bianco; Portanuova, inquartato d’azzurro e bianco; Borgo, palato in otto pezzi d’azzurro e argento. Altrettanto dicasi dell’altre città.
Sul vago e artistico pavimento della cattedrale di Siena vedesi, fatto nel 1373 a pietre tessellate, un rosone, artifiziosamente intrecciato di nove, oltre quattro tondi agli angoli del quadrato circoscritto; e figura lo stemma di questa città, cioè una lupa che allatta due gemelli, e attorno ad essa il nome e i simboli di dodici città amiche; il leone per Firenze, il lupo cerviero o pantera per Lucca, il lepre per Pisa, l’unicorno per Viterbo, la cicogna per Perugia, l’elefante colla torre per Roma, l’oca per Orvieto, il cavallo per Arezzo, il leone rampante con rastrello per Massa, il grifone per Grosseto, l’avoltojo per Volterra, il drago per Pistoja; animali diversi da quelli che esse città portavano di consuetudine.
Monza, posseditrice della corona ferrea, la improntò sul suo suggello, nel quale già da antico leggevasi Est sedes Italiæ regni Modæcia magni. Lucca portava Luca potens sternit sibi quæ contraria cernit. Verona, Est justi latrix urbs hæc et laudis amatrix. Padova, i proprj confini, Muson, Mons, Athesis, Mare certos [72] dant mihi fines. Bologna, un san Pietro in pontificale, e Petrus ubique pater, legum Bononia mater; e così Urbs hec Aquilegie capud est Italie; — Est aquilejensis fides hec urbs Utinensis; — Ferrariam cordi teneas, o sante Georgi; — Salvet Virgo Senam quam signat amenam; — Herculea clava domat Florentia prava e Det tibi florere Christus Florentia vere. Messina dopo i Vespri siciliani alzò lo stendardo colla croce portata da un leone, e il motto Fert leo vexillum Messana cum cruce signum. Pistoja scrive attorno agli scacchi del suo stemma Quæ volo tantillo Pistoria celo sigillo. Firenze ebbe da principio la bandiera partita bianca e rossa, cui unì la luna rossa di Fiesole; dappoi il giglio, o piuttosto il fior di giuggiolo (ireos florentina): e quando i Guelfi prevalsero, si adottò il giglio rosso in campo bianco, mentre i Ghibellini tennero il giglio bianco, unendovi l’aquila nera imperiale. Inalberava anche il leone, il quale pure sta nel sigillo di Cortona colla scritta Tutor Cortonæ sis semper Marce patrone.
Spesso l’arma era parlante: come a Torino il toro rampante; a Monsumano e Montecatino, un monte sormontato da una mano o da un catino; a Barga una barca; a Pescia un pesce coronato. Gli animali stessi dello stemma si mantenevano vivi nelle città, come a Venezia e Firenze i leoni, una lionessa a Parma, gli orsi a Berna, Appenzell e Sangallo. Quando i tirannetti s’impadronivano d’un Comune, vi univano il proprio stemma, come i Visconti diedero a Milano la vipera; la quale poi insieme col leone veneto entrò nel petto dell’aquila bicipite austriaca.
Nati dal bisogno sentito di esimersi da ingiuste gravezze, non determinati da mutua fiducia ma da mutuo timore, de’ loro poteri non trovandosi in verun luogo la definizione e il confine, i Comuni, siccome si erano [73] congiurati per la difesa, congiuravansi di nuovo per sostenere o una fazione o un capriccio; i signori per ricuperare le giurisdizioni; i mestieri e le università per sottrarsi ai pesi ed agli abusi: donde reciproca diffidenza, sfrenato egoismo, gelosia che induceva a ricorrere a particolari aggregazioni di classe o di sella, le quali generano il sentimento di corpo, tanto micidiale al sentimento di patria. Mancando un legame universale fra tanti parziali, si perpetuava la lotta de’ vassalli colle corporazioni tra sè, de’ confratelli di ciascuna corporazione, delle suddivisioni di ciascun Comune: mancando un freno e una direzione centrale, rompevano a guerre, tenevansi armati nel cuor della pace, edificavano le case a foggia di torri, e l’amministrazione era esercitata in mezzo e coll’aspetto d’un perpetuo stato di guerra.
Fondati non su libertà generali, ma su privilegi esclusivi e reciproca gelosia, tutti i Comuni cercavano prerogative a scapito degli altri; ciò che un tempo avevano praticato i feudatarj, allora lo facevano essi, imponendo pedaggi e taglie ad arbitrio, servizj gravissimi ed obbrobriosi: i magistrati municipali operavano con altrettanta prepotenza che i feudali; i prevalenti voleano soperchiare: gli oppressi se ne rifaceano sopra chi non fosse cittadino: l’oligarchia rinnovava le scene dell’aristocrazia antica; anzi, nel mentre i tiranni opprimevano l’uomo, qui toglievasi qualche volta la vita civile a classi intere; e uno statuto milanese del Comune aristocratico, al nobile che uccidesse un plebeo non comminava che tenue multa.
Mal si andrebbero dunque a cercare fra quei Comuni gli esempj della libertà politica, come oggi la intendiamo; alla quale nulla è più avverso che lo spirito di famiglia e di paese. Onde sottrarsi all’anarchia di piazza, i possessori cercavano stabilire qualche ordine [74] restringendosi col re o coll’antico feudatario, donde i partiti interni, fomite di nuove dissensioni. Altre volte ricorsero a que’ signorotti medesimi da cui s’erano emancipati, e questi, unita la forza all’abilità, riuscirono a costituirsi tiranni. E tanto più che bastavano bensì a frangere l’ingrata soggezione, e prevalere al barone e al vescovo; ma allorchè que’ signori si collegassero, o venisse contro di loro il re o l’imperatore, l’impeto, comunque volonteroso, di borghesi e mercanti non valeva contro eserciti agguerriti, e bisognava ricorrere a capitani addestrati.
I Comuni dunque a principio crebbero a grande importanza, poi cozzarono tra loro; e se in paesi stranieri, annodatisi intorno al monarca, ebbero meno splendore, ma condussero all’unità nazionale, qui la impedirono. Come in fatto si sarebbe potuto maturare la coscienza nazionale ove ciascuna comunità avendo l’occhio soltanto a sè, nella sua piccola indipendenza per nulla brigavasi del ben generale? anche quando nell’universale pericolo le città s’allearono, come vedremo nella Lega Lombarda o nella Toscana, il vincolo era troppo lasso, troppo scarsa la civile sperienza, sicchè potessero costituire una regolata federazione.
Nei patimenti aveano i borghesi invigorito il carattere per modo, da sdegnare la servitù: ma è mai possibile arricchirsi a un tratto di civile sperienza? Furono dunque costretti procedere tentoni, parte servendo alle idee rimaste delle antiche istituzioni municipali, parte imitando l’ecclesiastica gerarchia, poi innovando via via che il bisogno si sentiva o cadeva l’opportunità. Ma se non riuscirono a coronare l’edifizio civile, niuno corra ad incolparli prima di riflettere che costoro erano un pugno di popolani inermi e disorganati, ignari della guerra come della politica, circondati da villani rozzissimi e incalliti al servire, contrastati dall’autorità regia, [75] dalla signorile, dalla sacerdotale; talchè ci dee piuttosto toccare di grata meraviglia che essi abbiano osato ripudiare la servitù e aprire la nuova era del popolo.
E immensi furono i vantaggi venuti dai Comuni, chi li guardi meno come rivoluzione politica, che come sociale. Mentre la scala degli antichi proprietarj scendeva dal barone o valvassore fino al semplice fittajuolo, quella dei redenti si elevava dal servo della gleba al semplice libero, talchè le razze servili poterono sottrarsi dalle nobili, per arrivare ad un’amministrazione propria e indipendente. In siffatta comunanza d’uffizj e di servigi ribattezzavansi nel nome di cittadini, disimparavano a tenere come unico diritto la conquista e la forza, e obbligati ad uscire dall’angusto circolo de’ personali interessi per provvedere ai pubblici, ripigliavano la coscienza delle magnanime cose.
Coi Comuni crebbe l’importanza delle famiglie e degli individui, e in conseguenza si dovette notarli e distinguerli meglio che non si facesse quando l’uomo non era nulla se non per la terra che possedesse, o pel signore cui apparteneva. L’uso latino de’ nomi, prenomi, cognomi e soprannomi, accumulati all’eccesso negli ultimi tempi[76], cadde coll’Impero; giacchè non rimasero quasi che schiavi d’un nome solo, e stranieri che un solo pure ne usavano. I nomi dei santi ebraici o cristiani prevalsero ben presto, e si applicavano o mutavano nel battesimo, il quale soleasi conferire in età già fatta, ovvero nella cresima; talora le donne lo cangiavano al matrimonio, e frati e monache conservarono fin ad oggi di cangiarlo all’atto del professarsi. E poichè ai costumi antichi sta tenace la Chiesa, oggi medesimo [76] i vescovi non soscrivono che col nome di battesimo, e i frati si distinguono solo dalla patria, come usava al tempo della loro istituzione.
Per quanto scarse fossero le relazioni, è facile scorgere quanta confusione dovesse produrre l’indicarsi l’uomo col nome soltanto[77]; tanto più che, nelle scritture, il nome stesso ci si presenta mozzo, diminuito, accresciuto, storpiato[78]. Vi si rimediava in parte coi soprannomi, dedotti da qualità personali, dal luogo d’abitazione o di provenienza, dall’impiego[79], e spesso anche beffardi[80].
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Queste però erano denominazioni personali, che non si trasmetteano alla parentela. Solo quando i feudi si resero ereditarj verso il Mille, da questi si dedusse il titolo delle famiglie; donde quelli di Ro, di Este, di Romano, di Muntecuccoli: e poichè talora veniva da paesi tedeschi, alterandosi nel tragitto in Italia, n’è scomparsa l’etimologia[81]. Non è però sicuro indizio d’antico possesso d’un paese l’averne il cognome, attesochè spesso plebeamente traevasi dalla terra da cui uno si fosse mutato in un’altra. Ma le famiglie che spingono l’albero genealogico più indietro del Mille, e que’ cataloghi di vescovi, di cui si nota il casato fin in antichissimo, sono vanità e imposture.
I Veneziani, reliquia latina, aveano ritenuto i cognomi antichi, e tali pajono que’ Crassi, Memmi, Cornelj, Querini, Balbi, Curzj; fin nell’800 troviamo i dogi indicati col cognome de’ Particiaci, Candiani, Giustiniani e simili; e in una scritta del 1090 sono firmate cencinquanta persone, a nessuna delle quali manca il cognome[82]: Cornuinda Molino, Stefano Logavessi, Bonfilio Pepo, Giovanni de Arbore, Sebastiano Cancanino, Manifredo Mauroceni, Stadio Praciolani, Domenico Contareno, e così via. Anche Genova conservò molti cognomi latini: Apronj, Asprenate, Balbi, Bassi, Bibulini, Calvini, Camilli, Carboni, Cerchi, Clementi, Costa, Crarsi, Erminj, Fabiani, Forti, Galerj, Galli, Galleni, Gavi, Gemelli, Giusti, Graziani, Laberj, Lena, Longhi, Lupi, Mari, Marciani, Marini, Massa, Montani, Muzj, Natta, Nigri, [78] Ottoni, Palma, Pansa, Persi, Persici, Pisani, Ponzj, Ruffini, Sabini, Salvi, Serrani, Settimj, Sertorj, Staieni, Stella, Valenti, Veri, Viviani; non gliene mancano di greci: Bisio, Cybo, Grillo, Macarj, Medoni, Parodi, Partenopei; e in una carta del 1117 vi si trovano nominati i buoni uomini che presero parte a un laudo, fra’ quali Lanfranco Roca, Oberto Maluccello, Lamberto Gezone, Uggero Capra, ed altri quorum nomina sunt difficilia scribere.
Era consuetudine nei nobili di rifare l’avo nel nipote, talora anche il padre nel figlio, o riducendolo a diminutivo, o aggiungendo juniore, novello o simile; onde Guido Novello da Polenta, Malatestino, Ezelino da Etzel. Siffatto nome di predilezione si trasformò spesso in casato, onde i Pieri, i Ludovisi, i Carli, i Mattei, gli Agnesi: o adottavasi quel d’un personaggio che si fosse distinto, come i Degiorgi, i Delpietro: talvolta anche vi si prefisse la parola figlio sincopata, onde i Figiovanni, i Fighinelli, i Firidolfi; o il titolo, come i Serangeli, i Serrislori. Talora nella bassa Italia, ad esempio degli Arabi, enumeravasi tutta l’ascendenza[83].
A molti venne il nomignolo dalla nazione, come Franceschi, Lombardi, Milanesi: a molti più dal soprannome d’alcuno, ridotto ereditario, ovvero dalla sua professione o dignità; onde i Grossi, i Grassi, i Villani, i Caligaj, i Molinari, i Calzolaj, i Sartorj, i Malatesta, i Balbi, i Cavalieri, i Barattieri, i Fabbri, i Cacciatori, i Ferrari, i Cancellieri, i Medici, i Visconti, gli Avvocati, e i tanti Confalonieri e Capitanei o Cattanei. La bella moglie acquistò il titolo ai Dellabella; ai Dellacroce un [79] crociato; il pellegrinaggio a Roma ai Romei e Bonromei: l’amore di re Enzo prigioniero per una fanciulla bolognese è ricordato nei Ben-ti-voglio; un’invenzione preziosa nei Dondi dell’Orologio. Poi il carretto, la rovere, il tizzone, la colonna, la spada, la luna, la stella che uno assumeva per impresa del torneo o per stemma nelle spedizioni, diventava nomignolo; come il colore bianco, rosso, verde, nero, di cui si divisava nelle comparse, o che distingueva la fazione.
Son dunque i cognomi o aristocratici, dedotti dalla terra o dallo stemma; o borghesi, derivati dal mestiero; o popoleschi, tratti dai soprannomi; e molti rustici, dalla località o dalla coltivazione, come i Demonte, Dell’era, Dellavalle, Delprato, Delpero, Dellavernaccia. Si sbizzarrì poi assumendo nomi che consonassero o contrastassero col cognome, onde Castruccio Castracani, Spinello Spinelli, Nero Neri, Buontraverso de’ Maltraversi, e somiglianti.
I Latini usavano lo schietto tu, dicevano semplicemente Cesare saluta Mecenate, ed Augusto ricusò fermamente il titolo di dominus, e s’adontò quando si volle offrirlo a’ suoi nipoti. Tosto però l’accettarono i successori suoi, e fin nelle medaglie trovasi surrogato a quel di divus: indi irruppero titoli più pomposi, di nobilissimo, felicissimo, piissimo: religiosissimo fu intitolato Costante da un concilio, dopo convertiti i Donatisti dell’Africa: poi nelle acclamazioni il senato fe gara di aggettivi encomiastici agl’imperatori. Allora pure invalse di non parlar più alla persona loro direttamente, ma alla clemenza, alla celsitudine, all’eternità di essi. Nell’ordinamento del Basso Impero, la gerarchia delle cariche vedemmo distinta coi titoli d’illustre, illustrissimo, eccelso, chiaro.
Coi Barbari tornò la semplicità antica, ma al tu fu sorrogato il voi; il titolo di domnus, proprio di vescovi, [80] abati e re, s’accomunò a tutti i monaci; più tardi se l’arrogarono anche i laici, raccorciato in don. Ambito era il nome di cherico, che sonava uom di lettere, per contrapposto di laico od illetterato[84]; indizio di tempi, in cui la scienza era tutta ristretta ne’ sacri recinti.
Nel secolo XIV, monsignore intitolavasi un principe della Chiesa, messere un cavaliero e gentiluomo, e madonna la moglie sua; maestro l’avvocato o magistrato o chi sapesse, il che continuano gl’Inglesi. Nelle legazioni del Cinquecento vediamo col tu trattati ancora gli ambasciadori dalle repubbliche e dai principi; e «s’usa comunemente (dice il Varchi de’ Fiorentini nel XVI secolo) se non è distinzione di grado e di molta età, dire tu e non voi ad un solo; e solo a cavalieri e canonici si dà del messere, come a’ medici del maestro, e ai frati del padre». Dagli Spagnuoli ci fu poi attaccata la prurigine dei titoli; quando Carlo V s’intitolò maestà, moltiplicaronsi le altezze, e colle aggiunte di serenissima e di reale; l’eccellenza restò ai nobili, tanto che Urbano VIII nel 1631 trovò pei cardinali il nuovo titolo d’eminenza: quelli di cavaliere, dottore, notajo, conte del sacro romano imperio furono pascolo della vanità borghese.
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Nell’attuazione dei Comuni, tra i fatti isolati se ne consumava uno grandissimo, l’emancipazione del servo. Sempre la religione vi si era adoperata, e molti per pietà e per salvezza dell’anima propria affrancavano i loro schiavi[85]. I Comuni, appena costituitisi, aprivano asilo ai servi cui riuscisse importabile il giogo del padrone, o a denaro li ricompravano; e quando movessero in armi contro i baroni del contorno, li sollecitavano a vendicarsi in libertà, sicchè fuggendo lasciavano questi indeboliti, mentre invigorivano la città. Si estesero le manomessioni, e talvolta vennero affrancati tutti gli abitanti d’un borgo, o certe professioni. Così a Bologna nell’anno 1256 il prefetto Bonacursio raduna anziani, consoli, maestri dell’arti e dell’armi, e tutti i membri del grande e del piccolo Consiglio, e propone si liberino i servi e le serve del Comune tutto. Passato il partito, si stanzia chi ne possiede li venda al prefetto e al pretore, per soldi dieci se di quattordici anni, otto se meno, sborsati dall’erario; e furono annoverati tra i fumanti, coll’obbligo di dare certa quantità di grano[86]. Erano descritti in un libro chiamato Paradisum dalla parola con cui cominciava, e dove esponeasi la creazione [82] dell’uomo, il peccato, la redenzione, per la quale gli uomini son rifatti liberi: laonde Civitas Bononiæ quæ semper pro libertate pugnavit, avea redenti a prezzo i servi, statuens ne quis, adstrictus aliqua servitute, in civitate vel episcopatu Bononiensi deinceps audeat commorari, ne massa tam naturalis libertatis, quæ redempta pretio, ulterius corrumpi possit fermento aliquo servitutis, cum modicum fermentum totam massam corrumpit, et consortium unius mali bonos plurimos dehonestet. Un atto solenne del 1289 appella a uno statuto del Comune di Firenze, pel quale, essendo di naturale diritto la libertà individuale e il non dipendere ciascuno che dal proprio arbitrio, laonde le città pure e i popoli si schermiscono dall’oppressione, e i proprj diritti difendono e sviluppano, veniva provveduto che nessuno, di qual paese o condizione si fosse, potesse comprare, o altrimenti acquistare coloni, servi, censiti, nè angherie o altro vincolo alla libertà delle persone[87]. Due anni dopo, la legge fu confermata, perdonando a quei che l’avessero trasgredita per lo addietro.
Erano tentativi isolati, come ogn’altra cosa di quel [83] tempo; nè un generale provvedimento per abolire la schiavitù mai fu preso: pure si vedono scemare i servi personali nel XII e XIII secolo, succedendovi i famigli o servi moderni, i quali a volontà possono togliere congedo dal padrone. Le chiese, che erano state di tanto sollievo agli schiavi, furono di ritardo alla totale loro affrancazione, atteso che non credeansi in diritto d’alienare le proprietà, delle quali l’attuale investito si considera solo utente: la stessa larghezza con cui li trattavano, facea non si trovasse tale schiavitù ripugnante all’umanità e alla religione. Perciò servi della gleba in Italia trovanti ancora nel secolo XIV.
Nei capitoli del 1296 di Federico I d’Aragona pel legno di Sicilia, frequente memoria ricorre di schiavi anche cristiani; del qual tempo anche lettere papali e contratti ne menzionano: tra i Veneziani ne incontriamo eziandio nel seguente, come nel Friuli sottoposto al patriarca d’Aquileja[88]. Del 1365 abbiamo un contratto, ove uno schiavo consente di passare da uno ad altro padrone[89]. Fra i provvedimenti fatti per [84] sostenere la guerra di Chioggia, s’imposero tre lire d’argento il mese per ogni testa di schiavo; anzi nel 1463 i Triestini obbligavansi a restituire ai Veneziani i loro schiavi disertori[90].
A contatto con paesi non cristiani, i nostri poterono trarne di là, o imparare a tenerne per lusso, talchè la schiavitù si prolungò sotto la forma domestica. Gli statuti di Lucca fin nel 1537 dichiarano che il padrone d’una schiava può costringere il violatore di essa a comprarla pel doppio valsente, oltr’essere multato in cento lire. Le leggi genovesi opponeansi al trasportare gli schiavi in terra d’Egitto[91]; ma il divieto si eludeva col recarli a Caffa, dove il soldano spediva a farne accatto, giovandosi della franchigia di quel porto. Lo statuto criminale di Genova del 1556 pronunzia pene contro chi ruba schiavi, e considera il servo qual proprietà del padrone[92]: quello dell’88 lo tiene qual mercanzia, e caso che devasi far getto, si riparta il danno [85] per æs et libram all’antica, comprehensis pecuniis, auro, argento, jocatibus, servis masculis et fœminis, equis et aliis animalibus. Probabilmente questi [86] tardi servi erano di gente infedele, e massime prigionieri musulmani, quando la tolleranza religiosa neppur di nome si conosceva. Altre volte i soldati per abuso della vittoria vendevano schiavi i vinti, come i ribaldi dello Sforza fecero nel 1447 coi Piacentini: alla schiavitù condannavano pure le scomuniche. N’era però sempre tenuissimo il numero: come eccezione si notavano nel catasto delle città; e voglionsi intendere piuttosto come dipendenti, giacchè il famoso Bartolo a’ suoi tempi già dichiarava che servi propriamente detti non v’erano più.
Nei Comuni adunque non s’ebbero i vantaggi rapidi [87] d’una subitanea e radicale rivoluzione; ma neppure la terribile responsalità d’un’insurrezione fallita. Riuniti per la resistenza, ponendo questa per primo dovere e mezzo e scopo, invece di sistemare aveano a distruggere, invece di fondare sconnetteano. Nella lotta si vince, ma l’odio sopravive e diventa seme di discordie; i dinasti mal frenati si rialzano per soggiogare i Comuni; i re ingrandiscono favorendo questi; la spada prolunga la guerra contro l’industria e la capacità. Que’ mali passarono, ma restano gli effetti; resta la rivoluzione da loro operata, perpetua e legittima come quelle che migliorano la sorte delle classi numerose: lo schiavo [88] non è più cosa, ma uomo, dall’impersonalità sollevato ad avere nome proprio e responsalità: nè sforzi e sangue e rovine pajono soverchi a questo fine sacrosanto. Dove a pochi è data la forza e l’intelligenza, facile è guidar la moltitudine: dove tanti esercizj s’aprono alle facoltà morali e intellettive, come avviene nelle fazioni, grandemente sono eccitati gl’ingegni, e ne esce una gente operosa, accorta, che cerca e trova mille occasioni di segnalarsi: e l’uomo dall’angustia degl’interessi domestici volgendosi alle pubbliche cose, mentre cresce di pratica, nobilita le passioni, dilata l’accorgimento, scopre e pondera i diritti. Che se a noi Italiani i Comuni non lasciarono una patria, lasciarono la dignità d’uomini; ed offrono nella storia moderna le prime di quelle pagine, tanto attraenti, dove si vede un popolo travagliarsi contro i suoi oppressori, ingrandire col proprio coraggio, rassodarsi con opportune se non sempre savie istituzioni.
Sciolta la servitù della gleba, raccolti sotto un’amministrazione e una giudicatura sola i tre ordini ridetti cittadini, e da tutti scegliendo i consoli, e una specie di unità ricevendo dalla supremazia del papa, l’Italia trovavasi in essere di nazione assai più che non la Francia o la Germania. Non condensata, è vero, intorno ad una reggia, ma vigorosamente ripartita attorno ai tre centri d’autorità, il castello, la chiesa, il palazzo comunale, sarebbe camminata ad altissime fortune se gl’imperatori [89] non l’avessero scompigliata col crearsi un partito.
Deboli erano questi, in Germania osteggiati dai maggiori feudatarj, che aspiravano alla sovranità territoriale; e in Italia dai papi nel lungo certame delle Investiture. Enrico V, ambizioso ed avido ma operoso, accorto, sprezzatore della pubblica opinione, poco sopravisse all’accordo di Worms col papa, e in lui si estinse la stirpe francona, che avea per un secolo dominato la Germania. Lotario II datogli successore (1125), rassegnò il suo ducato di Sassonia, e molt’altri possedimenti al genero Enrico di Baviera, della casa Guelfa: glieli disputò Federico il Losco di Hohenstaufen duca di Svevia, uno degli aspiranti al trono germanico: sicchè fra le due case cominciò l’inimicizia, che, dopo mutato natura ed oggetto, sconvolse Germania e Italia sotto il nome di Guelfi e Ghibellini.
Questi ultimi traevano il nome dal castello di Waiblingen nella diocesi di Augusta, appartenente agli Hohenstaufen; gli altri dalla famiglia bavarese dei Guelfi d’Altdorf. Azzo, marchese di Lombardia, morendo centenario nel 1097, avea lasciato tre figli: Guelfo, che, come nato da Cunegonda erede dei Guelfi di Baviera, andò a ducare questo paese, e divenne stipite della casa di Brunswick, salita poi al trono d’Inghilterra; Ugo si condusse alla peggio, e vendè le proprie ragioni all’altro fratello Folco figlio di Garsenda principessa del Maine, e progenitore dei marchesi d’Este in Italia. Signoreggiava egli il paese dal Mincio fin al mare, cioè Este, Rovigo col Polesine, Montagnana, Badia, oltre molte terre nella Lunigiana e nella Toscana. Guelfo ne pretendeva una porzione; e venuto a ripeterla coll’esercito, collegandosi al duca di Carintia e al patriarca d’Aquileja, di molti paesi s’impadroni: infine fu stipulato che la linea di Germania [90] tenesse un terzo della città di Rovigo e la terra d’Este, senza pregiudicare alle pretensioni che ostentava sull’eredità della contessa Matilde.
Da questa linea proveniva Enrico, che per la cessione di Lotario era divenuto il più ricco signore d’Europa e il più potente di Germania, tenendo una serie di paesi dal mar Baltico al Tirreno. Ma dalla parte ghibellina Corrado duca di Franconia, fratello di Federico il Losco, aveva redato di qua dell’Alpi i beni allodiali della casa Salica, e scese in Italia cercandone la corona. Un principe non d’altre forze provveduto che di quelle somministrategli dal paese, non poteva riuscir pericoloso alla nascente libertà, onde fu il ben arrivato. A Milano lo storico Landolfo di San Paolo e il cavaliere Ruggero de’ Crivelli, deputati dall’arcivescovo Anselmo, discussero le ragioni dei due principi emuli davanti al popolo, il quale indusse il metropolita a coronar re Corrado (1128): molte città gli prestarono omaggio e doni; ma Pavia, Novara, Piacenza, Brescia e Cremona stettero contrarie a Milano, fin a dichiararne scomunicato l’arcivescovo che aveva unto l’usurpatore; anche la Toscana repugnò da lui; e Onorio II papa, che aveva riconosciuto imperatore Lotario, scomunicò questo pretendente. Il quale tentò invano occupar Roma; sicchè gli stessi che s’erano chiariti a lui favorevoli per farsene un appoggio, l’abbandonarono quando il videro incentivo di guerre. Maneggiatosi alcun tempo, egli si riconciliò con Lotario, e dopo essere stato a carico de’ Milanesi e Parmigiani, partì dall’Italia covando contro i Comuni lombardi un dispetto che trasmise al nipote Federico Barbarossa.
Essi Comuni, appena costituitisi, esercitavano nimicizie un contro l’altro; e particolarmente in quel piano che dalle alpi Retiche e Leponzie declina sino al Po ed al mare, ricco di nove città indipendenti, Como, [91] Bergamo, Brescia, Milano, Lodi, Crema, Cremona, Pavia, Novara, frequenti appigli di risse porgeano i terreni confinanti, le rivalità di mercato, la comunanza delle acque irrigatorie. Presosi quel diritto del pugno, cioè della guerra particolare, che fin là avevano esercitato i feudatarj, i Comuni, non compressi da superiorità materiale, non da morale ritegno, abbandonavansi a quella ostilità di vicini a vicini, che sembra inesorabile maledizione degl’Italiani. Non avevano ancor finito di abbattere i conti rurali, e già rompevano guerra (1110) Cremona a Crema e Brescia, Pavia a Tortona, Milano a Novara e Lodi; l’ambizione e la forza davano ai poderosi il desiderio e l’ardire di opprimere i deboli.
Pavia, memore di essere stata sede dei re goti e longobardi, e Milano superba d’antichità, di vasto territorio, di popolazione maggiore e della superiorità metropolitica, gareggiavano di preminenza, e si contrariavano in ogni fatto. Nella lite delle Investiture Pavia propendeva alla parte imperiale, alla pontifizia Milano, con cui parteggiarono Lodi, Cremona, Piacenza; e per insinuazione della contessa Matilde, giurarono lega di vent’anni onde osteggiare re Enrico, e sostenere Corrado quando al padre si ribellò. Le due parti erano equilibrate di forze; e poichè nessuno stabile nodo le congiungeva, era sicura della vittoria quella che arrivasse ad isolar la rivale. In fatto, secondo preponderasse una parzialità o l’altra, le città mutavano bandiera; e girati pochi anni, a Milano troviamo unite Crema, Tortona, Parma, Modena, Brescia (1117); mentre con Pavia parteggiavano Cremona, Lodi, Novara, Asti, Reggio, Piacenza.
Quella mescolata che allora si faceva delle prerogative secolari colle ecclesiastiche, portava a nuove scissure. Crema col suo contado, che chiamavasi Isola di Folcherio, era stata a giurisdizione de’ marchesi di [92] Toscana, fin quando nel 1098 la contessa Matilde ne fe cessione al vescovo e alla città di Cremona. Tale dipendenza spiacque ai Cremaschi, che coll’armi assicurarono la propria libertà: ma di qui cominciarono nimicizie lunghe e vergognose[93].
Milano pretendeva non solo alla superiorità che il suo metropolita traeva dal posto gerarchico, e per cui ordinava i vescovi della provincia e li convocava a concilio; ma che a lui competesse anche l’eleggerli, mentre le chiese particolari tenevano gelosamente al diritto antico di nominare i proprj pastori. Da ciò elezioni tempestose, contrastate, doppie, complicate dall’appoggio del papa e dell’imperatore, e per le quali il litigio delle Investiture dalle sommità sociali scendeva fin a contingenze affatto particolari. Per simili ragioni, e insieme per gelosia del ricco mercato che vi si teneva, i Milanesi campeggiarono Lodi, rinnovando le ostilità, cioè lo sperpero della campagna e la rapina delle messi per quattro anni, in capo ai quali ridottala per fame, la smantellarono (1111); gli abitanti dissiparono in sei borgate del contorno, sottoposte a rigide condizioni; sciolsero il ricco mercato, nè Lodi-vecchio risorse più.
Eguale contesa per l’elezione dei vescovi cagionò la guerra di Milano contro Como, descritta da un rozzo poeta contemporaneo[94], dolente di pubblicare il duolo anzichè la letizia d’un popolo da molti secoli fiorente. Aveano i Comaschi eletto canonicamente Guido de’ Grimoldi di Cavallasca; mentre il milanese Landolfo da Carcano, destinatovi da Enrico V, si fece ordinare dal patriarca d’Aquileja, parziale d’esso imperatore; intruso di rapina nella sede, procurava mantenervisi ad [93] onta del popolo, e fortificatosi nel castello di San Giorgio presso Maliaso sul lago di Lugano, scialacquava in privilegi e donazioni il patrimonio della mensa. Risoluti a tor di mezzo lo scisma e lo sperpero, i consoli comaschi Adamo del Pero e Gaudenzio da Fontanella coi vassalli di Guido vi assalgono Landolfo, e fattolo prigione, lo consegnano a Guido. Essendo nella mischia rimasto ucciso Ottone insigne capitano milanese (1116), Giordano da Clivio arcivescovo di Milano, invece d’insinuare pace e perdono, espone alla basilica Ambrosiana le vesti insanguinate e le vedove degli uccisi, le quali strillando chiedono vendetta; e serrata la chiesa, egli dichiara resteranno sospesi i sacramenti, finchè non sia vendicato il sangue sparso.
In quelle assemblee tumultuose, dove la passione è unica consigliera, e l’urlo predomina sulla ragione, fu decretata la guerra; i Milanesi, mandato un araldo a denunziarla, assalsero Como, e incominciarono una guerra, paragonata all’assedio di Troja per la durata, e meglio per l’accordarsi delle forze lombarde contro una sola città.
Il guerreggiare d’allora non conduceva a pronti esiti, come le imprese comandate e dirette da volontà unica e robusta. Un Comune avea ricevuto un torto, e nel consiglio erasi decisa la guerra? più giorni rintoccava la campana, acciocchè gli uomini capaci s’allestissero d’armi; uomini che mai non s’erano esercitati insieme, che fin allora aveano badato ai campi o alle arti, e che non usavano nè vestire nè armi uniformi, unicamente diretti a vincere e far al nemico il peggior male. A buona stagione traevasi fuori il carroccio, e dietro e attorno a quello moveva la gente contro il territorio nemico, stramenava le campagne, sfasciava i casali, rapiva gli armenti che non avessero avuto tempo di ridursi nel recinto della città, alla quale poi mettevasi [94] assedio, procurando il più delle volte prenderla per fame, giacchè, prima de’ cannoni, le terre murate aveano sempre il vantaggio sopra gli assalitori. Nelle guerre feudali vedemmo i soldati abbandonare il capo a mezzo dell’impresa, allo scadere dell’obbligato servizio. Qui gli assalitori erano gente che avevano campi, arti, famiglia, interessi, onde mal sopportavano i diuturni accampamenti, e alla mietitura o all’avvicinarsi della vernata tornavano a casa a rifocillarsi, per ripigliar poi col nuovo anno la campagna.
Di tal guisa fu condotta la guerra contro Como. I Comaschi erano valorosissimi fra i Lombardi, come montanari e avvezzi in opra di caccia e battaglie: e chiuso colla Camerlata e col castello Baradello il passo verso Milano, poterono impedire gli approcci al patrio suolo. Li secondavano gli abitanti della Vallintelvi, intrepidi petti, e insieme abilissimi a inventare congegni militari. Maggior numero di città prese parte con Milano, quali Cremona, Pavia, Brescia, Bergamo, la Liguria, Vercelli colla mercantile Asti, e colla contessa di Biandrate recante in braccio il giovane figliuolo: Novara venne spontanea, invitata la forte Verona, e Bologna dotta nelle leggi, e Ferrara non meno famosa che Mantova per bravissimi arcadori, e Guastalla e Parma coi cavalieri della Garfagnana, benchè avesse guerra con Piacenza[95]. La politica gli avrebbe stornati dal favorire la poderosa città contro la inoffensiva, ma v’erano costretti dalla prepotenza. Ch’è peggio, gli abitanti dell’isola Comacina e di quei contorni si chiarirono [95] ostili a Como, sicchè anche il lago fu contaminato di battaglie navali. Fin a Varese si allargò la guerra e al lago di Lugano; ardite le fazioni, alterni i successi; or una parte or l’altra innalzavano al cielo inni per vittorie fratricide. Se non che fra tanto ardore poca era l’abilità, pochissima la disciplina, nessuna autorità preponderante; e come avviene nelle mosse tumultuarie, ognuno volea comandare, nessuno obbedire. La campagna era una desolazione, straziati i fecondi oliveti e le vigne della spiaggia, rapite le mandre.
Moriva intanto il vescovo Guido, causa e fomento della guerra; moriva esortando a star saldi nella cattolica fede e nella carità e difendere la patria. I Comaschi aveano perduto molti valorosi; soffrivano da dieci anni di devastazione sì per terra, sì dal lago, del quale la sponda orientale apparteneva ai Milanesi, che con tutti i loro alleati s’accinsero all’estremo sforzo. Tratti legnami da Lecco, ingegneri e costruttori da Genova e Pisa, strinsero dappresso la città (1127), i cui abitanti, sprovveduti d’ogni altro riparo, l’abbandonarono notturni, per ricoverarsi nel munito borgo di Vico; e quivi interposero di pace Anselmo arcivescovo di Milano. E ne fu condizione, che, salve le vite, si sfasciassero le mura e le fortificazioni della città e dei sobborghi; Como riconoscesse Milano con annuo tributo. Eppure i vincitori sfrenati posero a sacco e fuoco la città, menarono in cattività agricoltori, servi, cittadini. Non s’aveano allora guarnigioni per tener in ceppi i vinti, e perciò bisognava disperderli: in fatto i Comaschi furono costretti abitare [96] all’aperto, pagare annualmente il viatico e il fodro, e smettere il solito mercato. Ciò per altro non li privava del governarsi a comune, con leggi e magistrati proprj.
Di questa guerra narrammo le particolarità, come esempio di tutte le altre allora agitate. Ne inorgoglì Milano, che poco poi osteggiò Crema, e tutta Lombardia andava a scompiglio per fazioni interne; laonde papa Innocenzo II s’argomentò al riparo spedendo san Bernardo, borgognone, fondatore de’ Cistercensi ed anima della società cristiana di quel tempo. Ne’ monasteri non voleva egli si cercasse un rifugio contro il mondo, bensì forza di combatterlo e guidarlo; l’operosità essere principio di salute, e perciò i monaci addestrava alle lettere e all’agricoltura. Dottissimo coi teologi, popolarissimo coi campagnuoli, vigilava sull’intera cristianità, maneggiava gl’interessi delle nazioni, pur sempre ribramando la sua devota solitudine, alla quale tornava appena avesse finito di riconciliare i re, di far riconoscere i papi, o di spingere tutta Europa contro l’Asia; e preparava libri che il fecero collocare allato ai santi padri, e fra gli ascetici prediletti alle anime contemplative. Quand’egli calò in Lombardia, accorreva la gente per udirlo, e il riceveano a ginocchi, e mettendo fuori argento, oro, arazzi, quanto aveano di meglio; e beato chi ottenesse un filo della sua tunica. Riuscì egli ad esaltare lo zelo, sicchè uomini e donne si vedeano in capelli raccorci e vesti dimesse, e sulle tavole acqua invece dei vini generosi; liberati prigionieri, emendati i costumi, e ciò che più era difficile, ristabilita dappertutto la pace. I Milanesi, meravigliati all’unione di tanto senno con tanta bontà, il voleano arcivescovo (1135); ma egli, per cui i gradi e le comparse erano una condanna, s’affrettò di tornare alle maschie voluttà della solitudine penitente, lasciando presso Milano il monastero di Chiaravalle, dal quale e dagli altri di Morimondo e di Cerreto [97] i Cistercensi tolsero a sanare le pantanose pianure, introducendovi i prati irrigatorj, la fabbrica de’ formaggi e la coltivazione del riso.
Non avea fatto che partire Bernardo, e gli sdegni ribollirono; e Cremona e Pavia, dove l’eloquenza di lui poco aveva approdato, si ritorsero contro Milano. Il vescovo pavese guidò le milizie; e i Milanesi non solo lo sconfissero, ma lui stesso fecero prigioniero con molti de’ suoi, i quali rimandarono colle mani legate al tergo, e attaccato un fascetto di fieno acceso tra i fischi plebei. Tornarono i Pavesi alla riscossa, ma a Maconago furono rotti ancora. I Milanesi portarono pur guerra a Novara e Cremona, la quale oppose loro il castello di Pizzighettone sull’Adda. Violenze che partorivano violenze, e colle violenze doveano finire.
Quel che intitolavasi regno d’Italia era diviso tra molti feudatarj, quali il marchese di Monferrato tra gli Appennini, il Po e il Tànaro; il marchese del Vasto, che poi fu detto di Saluzzo, fra il Po e le alpi Marittime; ai quali due s’interponeva il contado d’Asti, e accanto quel di Biandrate che dominava il Canavese fra la Dora Riparia e la Baltea. Gl’imperatori, per assicurarsi il passo in Italia, aveano sottoposto a duchi tedeschi anche il pendio meridionale dell’Alpi; onde la Baviera stendeasi fin a Bolzano, cioè di qua dall’alpi Retiche che ci separano dai Tedeschi; i Guelfi e il ducato d’Alemagna fino a Bellinzona, di qua dalle Lepontine; quel di Svevia fino a Chiavenna, di qua dalle Retiche; le alpi Giulie erano a dominio del duca di Carintia, al quale furono recate la contea di Trento, e le marche di Verona, d’Aquileja, d’Istria, tenendo in rispetto la Lombardia da un lato, dall’altro gli Ungheresi. Ma i re tedeschi, intenti ad assicurare la prevalenza della gente germanica sopra la slava, vollero estenuare la Carintia, sicchè abbondarono di concessioni col Veronese, che [98] poi da quella restò separato del tutto quando i patriarchi d’Aquileja ebbero la sovranità del Friúli, poi dell’intera Istria, succedendo alle famiglie ereditarie degli Eppenstein, Sponheim, Andechs. Allora Verona, tornata italiana, maturò pur essa i germi repubblicani, sotto un vescovo cui dava importanza il custodire gli sbocchi dell’Alpi e il passo del fiume, che coprono l’Italia dai Tedeschi.
Il marchese Obizzo Malaspina, oltre la Lunigiana, avea possessi nel confine di Cremona, e da Massa presso il Lucchese fino a Nazzano presso Pavia: tratto di settanta miglia[96]. La Casa savojarda di Morienna usciva dalle sue valli allobroghe per allargarsi sempre più di qua dall’Alpi, occupando i marchesati d’Ivrea e di Susa; e Ulrico Manfredi, al tempo d’Enrico I, possedeva dall’alpi Cozie fin alla riviera di Genova, e da Mondovì ad Asti: la qual città era signoreggiata da un suo fratello vescovo. Ma troppo spesso suddivisa per eredità, la casa di Savoja non accennava all’importanza che trasse più tardi dalla sua postura.
Nell’Appennino toscano avanzavano conti e marchesi e molti dominj immuni di nobili; ovvero monasteri, badie, beni vescovili isolati, sceveri dal movimento repubblicano. La potenza dei marchesi, poi della contessa Matilde, avea nell’Etruria frenato le fazioni, e assicurato il predominio papale, sicchè rado o non mai s’era veduto un vescovado diviso fra due competitori. I governi liberi vi tardarono dunque a svolgersi fin quando, disputandosi fra il papa e l’imperatore la successione a quella signoria, i popoli, incerti a chi obbedire, furono men soggetti ad entrambi i competitori, e nella negligenza di questi provvidero da sè al proprio ordinamento.
[99]
Roma offriva sempre gran mescolanza d’antichissimo e di novissimo, e dei tre elementi di popolo, di feudo, di sacerdozio. Prefetto, consoli, senato offrivano una costituzione repubblicana, i feudatarj e i castelli rappresentavano il diritto della spada, il papa la sovranità; e si urtavano e prevaleano a vicenda. Nel X secolo, tutto forza, sormontarono i feudatarj, oligarchia turbolenta, che quasi assorbì la ecclesiastica. Colla restaurazione degli Ottoni la nobiltà fu repressa e il papato rialzossi, appoggiandosi però allo straniero, che riservava a sè la moneta e la giustizia.
I pontefici, mentre aveano assodata l’autorità su tutto il mondo, pochissima ne godevano nella città di loro residenza. Per le ripetute donazioni imperiali dominavano l’antico ducato di Roma, l’Esarcato e la Pentapoli: ma erano cinti da robusti signori, quali il duca di Spoleto nell’Ombria meridionale, nel Piceno e in parte del Sannio; a mezzodì il marchesato di Guarnerio fra gli Appennini e l’Adriatico, da Pésaro ad Osimo; di qui alla Pescàra quel di Camerino e di Fermo; quel di Teate dalla Pescàra a Trivento: principi indipendenti non appena l’imperatore avesse vôlto le spalle all’Italia. Le città poi a levante del Lazio e a maestro della Toscana formavano altrettanti ducati sotto vescovi e signori. La stessa campagna romana era sparsa di signorotti, che da Palestrina, da Tùsculo, da Bracciano ne faceano infelice governo, impedivano la coltura de’ campi, e perfino nei sepolcri di Cecilia Metella e di Nerone, o nelle terme di Caracalla fortificandosi, teneano serva ai loro capricci l’antica capitale del mondo: fra le sue mura stesse, sovente una fazione dal Coliseo, un’altra dalla torre di Crescenzio, una terza dal Pincio venivano a provocarsi.
Urbs, cioè la città per eccellenza, chiamavasi Roma, e senato il suo consiglio comunale come ai tempi di [100] Cesare e di Scipione. Dieci elettori di ciascuno dei tredici rioni della città, ogn’anno sceglievano cinquantasei senatori; è probabile fossero tutti nobili, e che alcuni formassero per turno il consiglio secreto del patrizio, rappresentante della repubblica. Geroo, prevosto di Reichersperg, nel 1100, scrive ad Enrico prete cardinale: — I senatori romani giudicano delle cause civili; le maggiori e universali spettano al pontefice o al suo vicario, ed all’imperatore o al vicario di lui prefetto della città; il quale la dignità propria rileva da entrambi, cioè dal papa a cui fa omaggio, e dall’imperatore da cui riceve le insegne della dignità, cioè la spada sguainata. E come coloro cui spetta guidar l’esercito sono investiti col vessillo, così per lungo uso il prefetto della città è investito colla spada, sguainata contro i malfattori. Il prefetto della città poi della spada usa legittimamente a sgomento de’ malvagi e conforto dei buoni, a onor del sacerdozio ed a servizio dell’Impero»[97].
I nomi pomposi mal mascheravano il decadimento, giacchè i palazzi si sfasciavano[98]; la liberazione di Roberto Guiscardo avea ridotto deserti i quartieri fra il Coliseo e il Laterano, che la mal’aria finì di spopolare; il suo territorio abbracciava angusto circuito, di là del quale Roma trovava nemici i Comuni di Albano e di Tusculo come ai tempi di Romolo, ed ogni primavera bisognava uscire a combatterli, e devastare la già povera campagna. Unica ricchezza della città erano il [101] denaro e i forestieri che vi traeva la presenza del papa: ma mentre questo nella restante Italia era venerato come capo del partito nazionale e tutore della libertà, quivi era esoso come principe; spesso n’era cacciato dai signori che ricusavano stargli dipendenti; ma il popolo che, con vezzo non più disimparato, avea gridato Morte e Fuori, ben tosto ne sentiva bisogno e desiderio, e gridava Viva e Torna, con quegli schiamazzi plateali che stoltamente si giudicano pubblico voto.
Dividevano allora la città due fazioni, guidate l’una da Leone de’ Frangipani, l’altra da Pier di Leone; e con violenze e tranelli faticarono a dare un successore a Calisto II. I Frangipani portavano Lamberto vescovo d’Ostia (1124), che prevalse col nome di Onorio II: ma alla costui morte si rinnovano bucheramenti e tumulti a favore d’un figliuolo di Pier di Leone: e sebbene i migliori s’accordino ad eleggere Gregorio cardinal di Sant’Angelo (1130), che volle chiamarsi Innocenzo II, gli altri vi oppongono il loro creato col nome di Anacleto II[99], e ne nasce uno scisma scandaloso. Anacleto colle spoglie della basilica Vaticana compra fautori ed armi; Innocenzo, che non poteva se non tenersi nei palazzi muniti dei Frangipani, stabilisce andarsene, e dalle navi pisane portato in Francia, in Inghilterra, in Germania, ricevette omaggio e riverenza, giovato dall’eloquenza di San Bernardo. La cella di questo, al concilio di Pisa, vedeasi affollata di prelati, ansiosi di trattar seco degli affari del mondo e dell’anima.
[102]
Per assistere Innocenzo contro l’antipapa e per frenare le città emancipate, Lotario imperatore (1133) calò dall’Alpi, non accompagnato da verun cavaliere di Svevia nè di Franconia, ed avendo per portastendardo quel Corrado, che dianzi aveva accettato la corona d’Italia. Ma a Milano si vide chiuse le porte in faccia, essendosi Anacleto amicato quell’arcivescovo Anselmo, scomunicato da Onorio II, talchè non potè farsi coronare re d’Italia; a Roma Anacleto respinse il competitore, fortificandosi in Vaticano, mentre Innocenzo doveva munire il Laterano, ove coronò Lotario.
Messa allora in campo la controversia dell’eredità della contessa Matilde, fu conciliata con questo patto, che Innocenzo investisse Lotario vita sua durante, e dopo lui il duca di Baviera genero di esso imperatore, siccome di feudi della Chiesa, alla quale dovessero retribuire cento marchi d’argento l’anno, poi al morire dell’ultimo tornerebbero alla santa sede. Con quest’atto l’imperatore veniva a riconoscersi vassallo e tributario del pontefice[100].
La fazione d’Anacleto rialzò ben presto il capo, sicchè Innocenzo invocò Lotario, il quale, riconciliatosi colla casa di Hohenstaufen, tornò con maggiori forze: ma gli effetti furono poco meglio felici che la prima volta; perchè, se Milano il favorì, gli si avversarono Cremona, Parma, Piacenza, che egli dovette per forza ridurre ad obbedienza.
Restavano sempre avversi all’Impero nelle parti meridionali i Normanni, che avendo ormai sottratte tutte le città greche ai catapani, e occupata la nuova [103] Longobardia, eccetto Benevento che rimaneva ai papi, e Napoli che di nome dipendeva dai Greci, viepiù sentivano il bisogno dei forti, l’indipendenza. Quantunque sostenitori del pontefice contro gli stranieri, poca mostravangli condiscendenza nell’interno loro dominio, nè si tenevano in dovere di ricevere legati papali in paesi che essi col proprio braccio aveano sottratti agl’Infedeli o ai Greci, e restituiti alla vera Chiesa. Urbano II erasi guadagnato Ruggero, nominandolo legato in Sicilia (1098), cosa mai più concessa a verun regnante, e donde derivò quel che chiamarono poi tribunale della monarchia di Sicilia, cioè che esso e i suoi discendenti godessero il titolo ed esercitassero i diritti di legati ereditarj e perpetui della santa sede, per ciò portando nelle solennità mitra, anello, sandali, dalmatica, pastorale[101]. Morto poi Guglielmo II duca di Puglia, anche il dominio di qua dal Faro restò a Ruggero (1127), che così possedeva tutto quel che fu poi regno di Napoli.
Onorio II vide lesa la sua superiorità nel fare un tanto acquisto senza sua adesione, ben conoscendo come il gran conte dominando la Sicilia, la Puglia, la Calabria, avrebbe dettalo la legge a Roma. E perchè quegli assalì Benevento, città pontifizia, Onorio lo scomunicò, e mosse contro di esso in armi, dando perfino indulgenza plenaria a chi perisse in quella guerra. I principali conti assecondarono il pontefice; ma Ruggero, venuto di Sicilia con buon esercito, prese le città primarie; e il papa, che vedeva ogni giorno diminuirsi le sue truppe, s’accontentò d’investirlo della Puglia e Calabria. Non andò troppo sottigliando sui diritti l’antipapa [104] Anacleto, e bisognoso di fautori, a Ruggero consentì il titolo di re di Sicilia, l’investitura della Puglia, Calabria, Salerno, e la supremazia sul ducato di Napoli e il principato di Capua; in Palermo fu celebrata la pomposa coronazione, e restò costituito il regno delle Due Sicilie, terminando le antiche repubbliche nel mezzodì, quando nel settentrione d’Italia sbocciavano le nuove.
I baroni e conti, fin allora tutti pari di potenza, mal soffersero di vedersi imposto un superiore; e Roberto dovette star sempre coll’armi in pugno, e con ferro, fuoco, prigioni soffogando le rinascenti rivolte, cagionò guasti non minori di quelli de’ Musulmani. Anche Amalfi fu costretta demolire le fortificazioni e a lui sottoporsi. Roberto principe di Capua, primo tra i baroni normanni e che intitolavasi per la grazia di Dio, vedendosi rapita l’indipendenza, si unì coi signori che voleano difenderla e collo straticò di Napoli. Soccombuto, andò invocare soccorsi dai Pisani, ma Ruggero colla flotta di Sicilia e della soggiogata Amalfi assalì Napoli, il cui straticò seppe resistere all’armi e alla fame.
Tanta possa di Ruggero ingelosiva e gl’imperatori d’Oriente, già altre volte minacciati dai Normanni; e Lotario, a cui esclamavano i tanti oppressi da Ruggero; e più Innocenzo, che vedea sempre peggio rimossa la speranza di ricuperare la sua sede. Lotario, spinto dalle preghiere di Roberto di Capua, ed esortato da san Bernardo a toglier via lo scisma (1137), mosse contro Ruggero, allargò Napoli, rimise Roberto in Capua, sicchè Ruggero, perdute tutte le terre di qua del Faro, dovette ricoverare in Sicilia. I Pisani, vedendo il bel destro di vendicarsi dell’antica emula, con ben cento navi assalirono Amalfi, e costrettala a cedere, vi esercitarono fieramente i diritti della vittoria. Da [105] quel punto (1157) Amalfi più non contò, sebbene le forme repubblicane conservasse internamente fin quando nel 1350 i re di Napoli le abolirono. I suoi banchi in Levante restarono deserti, od occupati da più felici successori; a’ suoi porti non concorsero più se non i devoti a visitare il corpo di sant’Andrea, che il cardinale Capuano rapì alla chiesa di Costantinopoli nel 1207, e che stillava manna. Chi oggi, andando a interrogare i tanti problemi della storia nazionale, visita la patria di Flavio Gioja e di Masaniello sulla deliziosa riva dove il mare frange tra Napoli e Salerno, sentesi stringere il cuore ai pochi e luridi abituri sopravanzati colà dove sorgeva l’antica legislatrice del Mediterraneo; e sedendo pensoso su qualche barca pescareccia nel porto a cui affluivano le ricchezze d’Oriente, invece dell’operoso tumulto di ottantamila abitanti, non vede che l’abbandonata negligenza di pochi pescatori, non ode che il gemito de’ limosinanti.
Era quello il momento di mettere al nulla il dominio de’ Normanni se, al solito, non fossero entrate contestazioni tra i federati. Alla presa di Salerno i Pisani recaronsi a dispetto che l’imperatore segnasse la capitolazione senza loro intervento: poi il papa pretendeva quella città appartenesse a lui, e volendo sminuzzare il dominio coll’eleggere un nuovo duca di Puglia, disputavasi a chi toccasse dargli l’investitura; alfine conchiusero gliela conferirebbero e il papa e l’imperatore, tenendo entrambi il gonfalone. Altre controversie nacquero per Montecassino: ma pure rappattumati, Innocenzo e Lotario ripresero la via di Roma, ove il papa coll’armi imperiali potè rientrare. Lotario, devastata l’Italia nell’andata e nel ritorno, se ne partiva con poca gloria e meno frutto, allorchè morì (5 xbre) vicin di Trento: uom prode e d’onore, amico del retto, ma non robusto quanto ai tempi occorreva.
[106]
Ruggero, che aveva aspettato il consueto scomporsi dell’esercito imperiale, tornò bentosto, riprese la città senza dare ascolto a san Bernardo, venuto consigliatore di pace: anzi pretese erigersi arbitro fra Innocenzo e l’antipapa Anacleto; e morto questo, ne nominò un altro (1138) in Vittore IV. Però Bernardo tanto fece, che menò l’antipapa a’ piedi d’Innocenzo, al quale pure si sottomisero i dissidenti. Ed egli raccolse in Laterano l’XI concilio ecumenico (1139) con duemila prelati, ai quali disse: — Voi sapete che Roma è capitale del mondo; che le dignità ecclesiastiche si ricevono per concessione del sommo pontefice, siccome feudo; nè senza di ciò possono legittimamente possedersi».
Ivi scomunicò Ruggero, poi in persona mosse con buone armi, disposto a guerreggiarlo se non accettasse le proposizioni di pace. Rejette queste, attaccò il pertinace, ma incontrò sfortuna eguale al suo predecessore Leone IX, e come lui ne trasse profitto: perocchè, caduto prigione con molti cardinali, vide il suo vincitore gittarsegli a’ piedi e domandargli perdono dell’averlo vinto; laonde egli conchiuse pace con Ruggero, rinnovandogli l’investitura già avuta dall’antipapa, purchè prestasse alla romana Chiesa l’omaggio e seicento schifati d’oro ogn’anno[102]. Nel titolo restava eccettuato Salerno, sul cui principato i papi ebbero sempre pretensioni; ma erano comprese Capua, tolta al perseverante Roberto, e Napoli colle sue dipendenze, la quale, avendo perduto in battaglia il duca, accettò di sottomettersi al nuovo re.
[107]
Di qui restò confermato l’alto dominio della santa sede, già da essa acquistato mezzo secolo prima, sopra il Reame. Ruggero da nuove vittorie, da bandi e confische cercò una legittimazione, che al secolo nostro garba meglio che non la benedizione papale.
A re Lotario in Germania parea dovesse succedere il guelfo Enrico, ma prevalse Corrado di Franconia, che, abdicata la corona italica, poco dopo andò crociato (1147) con settantamila cavalieri e innumerevoli fanti, pochi de’ quali dopo orribili patimenti lo accompagnarono al ritorno. Nella sua lunga assenza, i Comuni presero incremento in Italia; e sotto diverse sembianze ma in ogni parte appariva la libertà, e manifestavasi nel cozzarsi di Venezia con Ravenna, di Pisa e Firenze con Lucca, di Vicenza con Treviso, di Fano con Pésaro, Fossombrone, Sinigaglia, di Verona con Padova perchè avea stornato il letto dell’Adige; di Modena con Bologna perchè a questa erasi data la badia di Nonantola; di Cremona e Pavia con Milano, che già non paga della libertà, voleva anche dominio sulle città del contorno. Mal sostenuti dal potere imperiale, i baroni soccombevano agli sforzi de’ Comuni, che venivano estendendo l’eguaglianza popolare; sicchè questa prevalse anche in Toscana. Firenze, Siena, Pistoja, Arezzo primeggiavano sui Comuni e sui dinasti limitrofi; e, secondo una lettera di Pietro abate di Cluny a re Ruggero, «miserabile era l’aspetto della Toscana, confondendosi le cose umane e le divine; città, castelli, borgate, ville, strade pubbliche, fin le chiese erano esposte a omicidj, sacrilegi, rapine; pellegrini, cherici, monaci, abati, preti, vescovi, patriarchi v’erano presi, spogliati, battuti, uccisi»[103]. I principi normanni reprimevano a mezzodì il movimento repubblicano; ma non che favorissero [108] gl’imperatori, stavano in sospetto delle antiche pretensioni che potessero addurre contro il recente loro dominio.
In ogni parte la podestà imperiale era dunque in calo: nè prosperava la pontifizia, alla quale nuovo genere di sfide recò Arnaldo da Brescia. Educatosi in Francia alla scuola di Abelardo, libero pensatore, più rinomato per gli amori e le sventure sue che per l’ardimento del suo eclettismo, Arnaldo fu prima guerriero, poi monaco, e cominciò a propagare in Italia le dubitanti e negative idee del suo maestro, e censurare la depravazione del clero. Bel parlatore, e ascoltato avidamente com’è sempre chi esercita la maldicenza, prese a battere la potenza ecclesiastica; repugnare al buon diritto che il clero possedesse beni, e regalie i vescovi, mentre avrebbero dovuto vivere all’apostolica di decime e di oblazioni, restituendo i possessi al principe cui appartenevano[104]; e in ciò metteva convinzione ed entusiasmo maggiore che non que’ novatori, i quali più tardi sull’orme sue vennero a scassinare col ragionamento il regime cristiano dello Stato e della Chiesa. Paragonava egli i Governi d’allora colle antiche repubbliche, sogno o delirio perpetuo degl’Italiani, che allora veniva infervorato dai rinnovati studj classici de’ giureconsulti. Volentieri lo ascoltavano i laici, che tenendo [109] feudalmente privilegi dai vescovi, bramavano rendersene indipendenti; e i Politici, come si chiamavano i suoi fazionieri, crescendo più sempre di numero, scotevansi risolutamente dall’obbedienza del papa.
Era questo venuto in ira anche ai popolani perchè, essendosi rivoltati i cittadini di Tivoli e avendo sconfitto in malo modo i Romani, esso gli assalì da vero, e coll’assedio li costrinse a capitolare, ma non sterminò le vite e le mura loro. Imprecando dunque a tale benignità col solito titolo di tradimento, i Romani traggono tumultuosi al Campidoglio (1141), e come pegno della rinnovata repubblica rintegrano il senato di cinquantasei membri, e in nome di questo e del popolo romano intimano guerra ai vicini. Innocenzo morì prima di poterli domare (1143); e Celestino II, succedutogli per pochi mesi, tolse a perseguitare Arnaldo, benchè già amico suo, e che, mal sorretto dalla volubile aura vulgare, fuggì a Zurigo, prevenendo Zuinglio nel predicare contro la Chiesa, poi in Francia, in Germania, inseguito dappertutto dall’occhio e dalla voce di san Bernardo.
Le famiglie primarie dei Pierleoni e dei Frangipani, fin allora nemiche, si mettono d’accordo per umiliare la fazione democratica e svellere l’ordine repubblicano: ma i popolani, guidati dalla nobiltà inferiore, invocano l’immediata sovranità dell’imperatore, qual soleva ai tempi di Roma antica. Lucio II papa (1144), che in processione armata marciava al Campidoglio per isnidare i nuovi magistrati, è respinto a sassi, così che ne muore. Imbaldanzì la fazione avversa, e a fatica si potè nominare Eugenio III discepolo di san Bernardo (1145), il quale, per non dovere a forza riconoscere il senato, fuggì di Roma. Arnaldo soldò duemila Svizzeri, e questa forza mercenaria condusse a raffermare la magistratura repubblicana del Campidoglio. Proponevasi egli istituire un ordine equestre, medio tra il popolo ed il senato, [110] ristabilire i consoli e i tribuni, insomma con una pedantesca e intempestiva restaurazione del passato ingrandire l’autorità imperiale, mentre il papa restringeva ai soli giudizj ecclesiastici.
Il vulgo è facile a credere che cogli antichi nomi ritornino le antiche grandezze; e coll’entusiasmo dell’applauso accoppiando al solito l’entusiasmo del furore, abbatte le torri e i palazzi dei nobili avversi e de’ cardinali, non senza ferirne alcuni, abolisce la dignità di prefetto di Roma per nominare patrizio Giordano, fratello d’Anacleto antipapa, ed obbliga tutti a prestargli giuramento. Eugenio, tentata invano la riconciliazione, scomunicò costui; poi, unite le sue forze con quelle di Tivoli, costrinse a tornare all’obbedienza, e fu accolto con tante feste, con quante n’era stato escluso[105]. Breve trionfo: e ben tosto costretto uscirne di nuovo, passò in Francia a sollecitar la crociata; mentre i repubblicani chiamavano Corrado III, vantando non avere operato ad altro fine che per restituire l’Impero nella grandezza che aveva sotto Costantino e Giustiniano, e perchè egli ricuperasse tutti gli onori che gli competevano e gli erano stati usurpati; avere perciò demolito le fortezze dei prepotenti; venisse in persona a compier l’opera, collocare sua sede in Roma, e abbattere i Normanni fautori del papa[106].
L’imperatore, mal fidandosi a quel popolo leggero, provvide di truppe il pontefice; che con queste e con altre di Francia piantossi a Tusculo, e da quei terrieri [111] e dai Normanni sostenuto, potè rinnovare i patti col popolo, lasciandogli il senato, ma nominando egli stesso un prefetto, giusta la prisca consuetudine. Però se il popolo voleva conformare lo statuto ai concetti di Arnaldo e della storia, senza sgomentarsi delle idee classiche sopra l’illimitata autorità del principe, l’alta nobiltà desiderava mantenere la condizione feudale, impedendo e ai papi di dominare e al popolo di emanciparsi. Continuò la repubblica sotto Anastasio IV; ma Adriano IV inglese (1153-54), avendo la plebe assassinato il cardinale di Santa Pudenziana, diede lo straordinario esempio di interdire la capitale del cristianesimo finchè Arnaldo non fosse espulso. Il popolo sgomentato, massime che s’avvicinava la pasqua, cacciò Arnaldo, che rifuggì presso un conte di Campania.
Anche Ruggero, che teneva carezzati i pontefici sol in quanto gli giovavano, poco avea tardato a venire in nuova rotta con essi, ne devastò le terre, guerreggiò e depredò Montecassino. Guerra più gloriosa recò ai Barbareschi d’Africa, assalendo Tripoli nido di corsari, Bona, Tunisi, e menandone schiave le donne in Sicilia. Gl’imperatori d’Oriente non cessavano di credere usurpati a sè i possessi de’ Normanni, e li molestavano; onde Ruggero mandò un’armata verso l’Epiro, prese Corfù, Cefalonia, Corinto, Negroponte, Atene, asportandone immense ricchezze e persone da ripopolarne la Sicilia, ma specialmente operaj di seta. L’imperatore bisantino, cognato di Corrado III, sollecitava questo a venire in Italia e rintuzzare il baldanzoso Normanno; [112] intanto egli medesimo faceva grosse armi, e col soccorso de’ Veneziani assalse Corfù; ma Ruggero ardì spingersi a Costantinopoli, gettando razzi incendiarj contro il palazzo imperiale. Pure Corfù gli venne tolta, e la sua flotta battuta dalla veneta e genovese.
Corrado accingevasi a calare in Italia per la corona, e insieme per guerreggiare Ruggero (1152), quando morì a Bamberga, si volle dire avvelenato da medici della famosa scuola di Salerno, ch’erano rifuggiti a lui fingendo paura di Ruggero.
Federico di Buren, feudatario della Svevia, che oggi diciamo Baviera, Baden, Würtenberg, a poche miglia da Goeppingen fabbricò s’un’altura un casale, detto perciò Hohenstaufen, donde trasse il titolo la sua famiglia. Quanto coraggioso, tanto fu leale verso l’imperatore Enrico IV, che in compenso gli diede il ducato di Svevia e la mano di sua figlia Agnese. Morendo vecchissimo, lasciò due figli, Federico e Corrado, il primo de’ quali fu investito da Enrico V de’ feudi paterni, l’altro della Franconia (1137), e fu anche coronato re d’Italia dai Milanesi (pag. 90), ed eletto imperatore da alcuni, poi da tutti alla morte di Lotario di Sassonia. Morendo lasciò un figliuolo, ma conoscendo non esser tempi da fanciulli, raccomandò un figlio di suo fratello, Federico di nome, di soprannome Barbarossa. Alla dieta di Francoforte, dai principi dell’Impero e da molti baroni di Lombardia, di Toscana e d’altri paesi italici eletto re (1152), coronato in Aquisgrana, mandò ad [113] Eugenio III e all’Italia notificando la sua elezione, che fu generalmente aggradita, anche nella speranza ch’egli riconciliasse Guelfi e Ghibellini, giacchè, capo di questi pel padre, per madre era nipote di Guelfo di Baviera, capo degli altri.
Sul fiore dei trent’anni, già era famoso nelle battaglie, ne’ tornei, nelle crociate; saldo d’animo e di corpo, pronto d’ingegno, di memoria prodigiosa, dolce nel favellare, semplice nei costumi, paragone di castità, provvido ne’ consigli, valentissimo in opere di guerra, dai Tedeschi vien noverato fra i principi più insigni; certo fu de’ più robusti caratteri del medioevo; proteggeva i poeti e verseggiava egli stesso, sapeva di latino e di storia, e volle che dal cugino Ottone vescovo di Frisinga fossero scritte le sue geste[107]. Offuscava tante doti coll’ambizione e l’avarizia, o almeno così qualificarono gl’italiani il suo desiderio di ristabilire qui la regia prerogativa, e d’ottenerne i mezzi, cioè il denaro. Certamente a una profonda idea del dovere come egli lo intendeva, sagrificava interessi, sentimenti, pietà; e dovere supremo pareagli il rintegrare l’autorità imperiale, come tipi di questa togliendo Costantino e Giustiniano nell’aspetto ch’erano presentati dalla risorta giurisprudenza romana; e le idee sistematiche proseguiva coll’ostinatezza propria della sua nazione. Di qui le città, acquistato vigore, meno docili si manifestavano; di là la Chiesa aveva dimostrato la sua indipendenza, almeno in diritto; i baroni si tenevano in armi per assicurarsi la supremazia territoriale; e Federico si propose di frangere tutti questi ostacoli [114] col riformare il sistema ecclesiastico e il feudale, e abolire i Comuni.
Coronato appena, ecco deputati del pontefice a pregarlo di soccorsi contro i Romani rivoltosi; ecco Roberto di Capua invocare d’essere rimesso nel principato, toltogli dal re di Sicilia; ecco cittadini di Como e di Lodi, che, trovandosi colà per traffici, senza missione delle proprie città se gli buttano ai piedi, cospersi di cenere e con croci alla mano, implorando riparazione, e vendetta delle loro patrie soccombute ai Milanesi.
Diedero pel talento a Federico queste occasioni di assumere aspetto di vindice dei deboli, cui potrebbe poi a sua volta regolare; mentre alleandosi coi forti, non avrebbe fatto che crescere a questi la baldanza. I Lodigiani stavano talmente allibiti, che invece di saper grado a quei loro concittadini, li caricarono d’ingiurie; a Sicherio, che il Barbarossa spediva con lettere di rimprovero ai Milanesi, non osarono fare accoglienze: di pessime poi n’ebbe costui allorchè le presentò ai Milanesi, che le calpestarono urlando; e fu gran che s’egli potè uscire dalle lor mani e camparsi in Germania. Dello smacco s’inviperì Federico; e i Lodigiani vollero mansuefarlo collo spedirgli una chiave d’oro, e raccomandarsegli caldamente; anche Cremona e Pavia gli inviarono grossi regali; Milano pure ravveduta il donò d’una coppa d’oro piena di denaro: omaggi di paura, e i re li credono d’amore.
Pubblicato l’eribanno, Federico coll’esercito feudale mosse verso l’Italia, perocchè la potenza e il primato di questi imperatori non valeano se non discendendo in persona. Per via raccoglievano dai feudatarj immediati il donativo, il foraggio e la tangente di milizie; mandavano ad esigere dalle città le dovute regalie; e poichè reprimevano coll’armi i contumaci, il loro [115] viaggio era segnato da devastazioni. All’arrivo del re rimaneva sospesa la giurisdizione dei magistrati feudali, ed egli in persona rendeva giustizia, e ascoltava in appello chiunque si credesse gravato dal proprio signore o inesaudito. Altrettanto avveniva nelle città; le quali pertanto consideravano come di gran conto il privilegio che non entrassero nelle loro mura i re, i quali, quanto vi stavano, erano despoti; iti che se ne fossero, tornava ognuno a fare il proprio talento[108].
A questa forma calossi il Barbarossa, e truppe non minori delle sue gli menava Enrico il Leone, de’ Guelfi d’Este. A questa famiglia l’imperatore avea dato l’investitura della marca di Toscana, del ducato di Spoleto, del principato di Sardegna, e dei beni allodiali della contessa Matilde; ed Enrico, gran prode, possedendo i ducati di Sassonia e Baviera, acquistata Lubecca, avuto il diritto di erigere vescovadi di là dall’Elba, e adopratosi [116] a sottoporre gli Slavi, era riuscito de’ più potenti di Germania, nè inferiore al Barbarossa se non perchè gli mancava la corona.
Convocati i baroni nel solito piano di Roncaglia (1154), minacciando spossessare del feudo chi non intervenisse, Federico vi ricevette pure i consoli delle varie città che gli giurarono fede. Ottone vescovo, suo storiografo, tuttochè nemico, ammirava i popoli d’Italia, i quali nulla ritenevano della barbarica rozzezza longobarda, ma nei costumi e nel linguaggio mostravano la pulitezza e leggiadria degli antichi Romani. Gelosi di loro libertà (prosegue egli), non soffrono il governo di un solo, ma eleggono dei consoli fra i tre ordini de’ capitanei, valvassori e plebei, di modo che nessun ordine soperchii l’altro, e li mutano ogn’anno. Per popolare le città costringono i nobili e signorotti di ciascuna diocesi, comunque baroni immediati, a sottomettersi alle città, e starvi a dimora. Nella milizia poi e ne’ pubblici impieghi ammettono persino i meccanici e i braccianti; per le quali arti esse città superano in ricchezza e potenza tutte quelle d’oltr’Alpi. Da ciò derivano la superbia, il poco rispetto ai re, il vederli malvolentieri in Italia, e non obbedirli se non costretti dalla forza[109].
Federico incominciò ad unir le sue truppe con quelle del cugino Guglielmo marchese di Monferrato, uno dei pochi che conservava la feudale potenza, malgrado le città[110]; e gli diè mano ad assalire e disfare i liberi Comuni di Asti e Chieri.
I Milanesi, avuto sentore dei mali uffizj fatti dai Pavesi, gli avevano assaltati senza pietà: e l’imperatore, ben [117] vedendo che, se avesse parteggiato coi Milanesi, questi monterebbero in tal forza da più non obbedirlo[111], si chiarì pei Pavesi, nella loro città prese il diadema regio, mandò guastare il territorio de’ Milanesi, e quanti ne colse attaccò alle code de’ cavalli; soddisfece all’ira dei Pavesi col mettere a sterminio Tortona dopo robusta resistenza; bruciò Rosate, Galliate, Trecate, Momo, colle fiere esecuzioni sperando incutere spavento e distorre dal resistergli. A tacere la crudeltà, fu improvvido questo baloccarsi in fazioni parziali, invece di difilare sopra Milano. Nè per allora fece altro che sgomentare; poi mosse su Roma[112].
Ivi durava la repubblica proclamata da Arnaldo da Brescia; e i novatori, ridotto il papa alla Città Leonina, gl’intimarono rinunziasse ad ogni podestà temporale, accontentandosi del regno che non è di questo mondo: ma Adriano IV repulsava quelle domande. Al venir dunque dell’imperatore, tutti gli animi stavano sospesi. Ajuterebbe egli i repubblicani per umiliare il papa, antico avversario dell’impero? o vorrebbe reprimere questo slancio della gran città verso la forma sempre prediletta in Italia, e che annichilava la prerogativa imperiale? Federico non tardò a chiarirsi: dal conte [118] di Campania, a cui erasi rifuggito, richiese Arnaldo, e lo consegnò (1155) al prefetto imperiale della città; e Roma, dalle tre lunghe vie che sboccano in piazza Popolo, potè vedere il rogo su cui l’eretico e ribelle era bruciato[113].
[119]
Non atterriti dal supplizio di Arnaldo (1155), i cittadini vollero patteggiare con Federico prima di riceverlo in città; ed i senatori, scesi dal Campidoglio a prestargli il giuramento, sciorinarongli una diceria sulle antiche glorie romane, e sull’onore che gli facevano accettando cittadino lui straniero e cercandolo oltr’Alpi per farlo imperatore; giurasse osservar le leggi, e mantener la costituzione della città e difenderla contro i Barbari; per le spese pagherebbe cinquemila libbre.
Di frasi retoriche i nostri furono sempre vaghi; ma il Tedesco positivo ai vanti postumi oppose la presente umiliazione; lui esser loro re, perchè Carlo e Ottone Magni gli avevano colle armi soggiogati, nè dovere i sudditi imporre legge al sovrano, bensì questo a quelli[114]: e mandò dietro loro un migliajo di cavalieri, che occuparono Castel Sant’Angelo e la Città Leonina. Colà fu coronato dal papa (18 giug), e si piegò alla rituale consuetudine di tenergli la staffa. I Romani, ch’erano stati esclusi da quella cerimonia e costretti a rimanere sull’altra riva del Tevere, levano rumore, e dalle grida passando ai fatti cominciano un’abbaruffata, ove molti cittadini rimangono uccisi, ma anche non pochi Tedeschi: gli altri al domani, per manco di viveri, dovettero abbandonare la città.
Tale era omai il solito accompagnamento della tedesca coronazione. Poi le febbri romane, come spesso, fecero [120] giustizia contro la pioggia di ferro che la Germania versava sull’Italia[115]; e spirando il termine prefisso ai vassalli per militare, il Barbarossa dovette risolversi al ritorno. Non avea dunque abolito la repubblica romana, non francheggiato le pretensioni sue sovra la Puglia. Il re di Sicilia, avuto nelle mani Roberto di Capua, lo fe accecare, poi sepellire in carcere; e prese o battè gli altri baroni che avevano levato il capo fidando in Federico, il quale si volse indietro, ancora squarciando città. I Lombardi, rincoraggiati al vederlo in ritirata, lo bersagliarono con insistenza, e massime i Veronesi con tronchi abbandonati alla corrente arietarono il ponte di barche, per cui l’esercito tragittava l’Adige: poi nell’angusta valle di questo fiume il cavaliere Alberico di Verona lo molestò con pietre, e pretendeva da esso re ottocento libbre d’argento, e una corazza e un cavallo per ogni cavaliere tedesco, se volesse liberamente passare; ma il palatino Ottone di Wittelsbach lo snidò dalle alture. Federico, tornato in Germania, della sua spedizione diede ragguaglio allo storico con una lettera che si conserva, dove alla sconfitta trova le solite scuse, quand’anche non la maschera sotto una sicurezza minacciosa.
Come una molla al cessare della compressione, i Milanesi rialzano la testa; raddoppiano lamenti i tanti cui egli avea tolto la patria; per dispetto si vuol disfare ogni fatto di lui. Dugento cavalieri e dugento fanti di due quartieri di Milano vanno a riporre Tortona, che per loro amore si era sagrificata, e le consegnano la tromba da convocare il popolo, la bandiera, e un sigillo collo stemma delle due città, in segno d’unione. Lanciansi poi contro chi stava al segno dell’imperatore: [121] ma i Pavesi li sbaragliano, assalgono la città, e v’entrano anche con due bandiere; alfine son ridotti a umilianti condizioni, battuta Novara, spianato Vigevano, presi venti castelli del Luganese e i fortissimi di Chiasso e Stabbio, sfasciata di nuovo Como, punita Cremona e i marchesi di Monferrato. Anche i Bresciani ruppero guerra ai Bergamaschi, e nell’infausta giornata di Palusco tolsero loro, con molti prigionieri, il gonfalone, che poi spiegavano ogni anno nella chiesa de’ Santi Faustino e Giovita. Devastazioni fraterne punivano le devastazioni straniere.
Il lamento de’ soccombenti arrivò di là dall’Alpi, e Federico struggevasi di riparare la vergogna e il danno. Anco assai gli coceva che il papa, senza sua partecipazione, avesse conferito il titolo di re della Puglia a Guglielmo figlio di Ruggero: onde moltiplicò querele, e proibì agli ecclesiastici de’ suoi Stati di volgersi a Roma per collazione di benefizj nè per qual si fosse motivo.
Federico non fondavasi più soltanto sul brutale diritto delle spade, ma era circondato di leggisti, i quali, gonfi d’una scienza nuova, proponevansi d’imitare gli antichi giureconsulti non solo collo zelare le prerogative imperiali, ma col cavillar le parole e sottigliare sulle interpretazioni. Avendo i Tedeschi arrestato un vescovo, il papa diresse all’imperatore un richiamo, ove diceva tra le altre cose: — Noi ti abbiamo concesso la corona imperiale, nè avremmo esitato ad accordarti benefizj maggiori, se di maggiori ne poteano essere». Colla sofisteria di chi vuole azzeccar litigi, i legulej di Federico pretesero il papa con ciò indicasse che l’Impero fosse benefizio, vale dire feudo e dipendenza della Chiesa. Se ne levò dunque un rumor grande, e trattandosene nella dieta di Besanzone, invelenì la contesa il cardinale legato Rolando Bandinelli esclamando: — Ma [122] se l’imperatore non tiene l’Impero dal papa, e da chi dunque?»
Pretensione siffatta era tutt’altro che nuova nel diritto pubblico d’allora; ma Ottone di Wittelsbach, che portava la spada dell’Impero, lanciolla per trapassare il legato, che a fatica si salvò, e che ebbe ordine di andarsene senza vedere convento o vescovo per via. L’imperatore diede straordinaria pubblicità all’incidente per eccitare l’indignazione tedesca contro le tracotanze papali: se non che Adriano dichiarò aver usata la parola benefizio non per feudo, ma nel senso scritturale; nè altrimenti poterla intendere chi avesse fior d’intelletto[116].
Importava a Federico di venir prontamente a farla finita con questi Comuni italiani, che ormai si risolvevano in repubbliche. Perciò la cavalleria (che tale era principalmente la truppa feudale) d’Austria, Carintia, Svevia, Borgogna e Sassonia scende divisa per le tre vie del Friuli, di Chiavenna e del San Gotardo; l’imperatore medesimo conduce per val d’Adige il fiore de’ militi romani, franchi, bavaresi, con Vladislao re di Boemia, e conti e duchi e vescovi assai; e giunto sul territorio milanese (1158), proclama la pace del principe. Consisteva questa in regolamenti di militare disciplina, diretti a reprimere e punire legalmente le ingiurie, affine di prevenire le private battaglie, delle quali durava [123] sempre il diritto. A tal uopo si prefiggevano pene proporzionate agl’insulti che fossero provati da due testimonj, cioè, secondo i casi, la confisca dell’equipaggio, le sferzate, il taglio de’ capelli, il marchio rovente sulla mascella; per gli omicidj poi la morte: che se mancassero testimonj, doveasi ricorrere al duello; e se si trattasse di servi, alla prova del ferro rovente. A protezione del commercio si statuì che il soldato il quale spogliò il mercante, renda il doppio, se pur non giuri non conosceva la condizione del derubato. Chi abbrucia una casa, sia battuto, tosato e bollato. Chi trova vino sel prenda, ma non rompa i dogli, nè tolga i cerchi alle botti. Un castello espugnato saccheggino a voglia loro, ma non lo abbrucino senz’ordine. Se un Tedesco ferisca un Italiano il quale possa provare con due testimonj d’aver giurato la pace, sia punito[117]. Diritto di guerra violento; ma pure tanto quanto assicurava le persone.
Allora Federico comincia le ostilità contro Brescia (1158), e quantunque «ricca d’onor, di ferro e di coraggio», ne guasta i deliziosi contorni finchè la costringe ad arrendersi: passata l’Adda a Cassano, preso il castel di Trezzo, rifabbrica Lodi-nuovo sull’Adda alquanto lungi dal luogo ove Pompeo avea posto il vecchio[118]. Riedifica anche Como, e ad un suo fedele dà a custodire quel castel Baradello[119]; e spedisce colà il boemo Vladislao perchè rimetta i Comaschi in concordia coi Cremaschi e cogli isolani del lago, gente ricca, forte, bellicosa, avvezza al corseggiare, e che repugnò da ogni accordo finchè l’imperatore non vi andò in persona[120]. [124] Isolati così i Milanesi, s’accinse a combatterli, convocando all’oste tutti i popoli di questo regno. E vennero armati da Parma, Cremona, Pavia, Novara, Asti, Vercelli, Como, Vicenza, Treviso, Padova, Verona, Ferrara, Ravenna, Bologna, Reggio, Modena, Brescia, ed altri di Toscana, sommando a quindicimila cavalli, oltre innumerevole fanteria[121]; e con questi piomba sopra Milano.
Questa città, oltre rifare i ponti rotti sull’Adda e sul Ticino, e rialzare i castelli e le borgate sue amiche, erasi preparata di fosse e di mura, spendendo cinquantamila marchi d’argento puro[122]: valorosamente si difese, ma tanta turba dalla campagna e dalle circostanti borgate vi s’era rifuggita, che presto si trovò ridotta a dura fame, e alla conseguente epidemia. Accettò dunque la mediazione del conte di Biandrate, mercè del quale ebbe dall’imperatore patti da vinta ma pur libera potenza: rendesse la franchezza a Como e Lodi; fabbricasse all’imperatore un palazzo; pagasse novemila marchi d’argento, cioè circa mezzo milione; rinunziasse alle regalie usurpate, come la zecca e le gabelle; eleggesse da sè i proprj consoli, ma questi giurassero fedeltà all’imperatore, il quale nella città non entrerebbe coll’esercito. I nobili a piè scalzi e con le spade ignude, il clero colle reliquie dei santi, il popolo con soghe al collo, vennero a giurare obbedienza a Federico, a cui furono dati cento ostaggi per ciascuno dei tre ordini de’ capitanei, de’ valvassori e de’ plebei: e la bandiera imperiale sventolò sulla torre della metropolitana di Milano[123].
[125]
Coll’umiliazione della principale città di Lombardia sgomentate le altre, da tutte ebbe ostaggi, e da Ferrara li tolse per forza: e approfittando di quel terrore, intimò una dieta in Roncaglia per definire le regie prerogative. Le città (quante volte lo ripetemmo?) non pretendevansi immuni dalla dipendenza verso l’imperatore, nè questo credeva che la corona gli conferisse pieno arbitrio, come potrebbero chiedere i re del secol nostro, non aventi nè patto coi popoli, nè rispetto a moralità superiore. Ma perchè i reciproci doveri venivano diversamente apprezzati in Germania e in Italia, ne nascevano perpetue controversie. I Tedeschi, deducendo la loro costituzione dalle consuetudini germaniche, non vedevano nel re se non l’eletto dai capi del popolo, primo tra i pari; in Italia, le città volevano tenersi verso l’imperatore soltanto in una dipendenza feudale, come a caposignore, e come all’unto dal pontefice: ma i ridesti studj della storia e della giurisprudenza romana abituavano gli eruditi ad ampliare la podestà, guardandolo come successore di quei Cesari, la cui volontà era unica legge a Roma antica. Federico amava, come dicemmo, ritemprare coi testi le sue [126] spade, e alla dieta invitò Bùlgaro, Martin Gossia, Jacopo e Ugone da Porta Ravegnana, cima de’ giureconsulti d’allora, insieme con due deputati di ciascuna delle quattordici repubbliche, perchè determinassero in che consistevano le regalie. Ma da che la giurisdizione di conte divenne ereditaria, consoli e scabini non erano stati più nominati dagl’imperatori; e ciascuno di questi re che calò in Italia, fece diversa stima dei proprj diritti, a norma della propria forza; laonde dalle consuetudini non si poteva nulla dedurre. Si ricorse dunque al diritto romano; e nel sentimento di questo, e con parole vecchie onestando la tirannia nuova, i giureconsulti definirono che competeano all’imperatore tutte le regalie, compresi i ducati, marchesati, contadi, la moneta, il fodro, ossia diritto d’essere nodrito e albergato dai vassalli e dalle città quando soggiornava in Italia; e così i ponti, i mulini, l’uso de’ fiumi, la capitazione, il far guerra e pace, e il nominare i consoli e i giudici, il popolo non avendo che a prestarvi l’assenso; di modo che gl’investiti dovettero rassegnarli all’imperatore, se pur non avessero a mostrare i titoli del possesso. I conti e i vescovi, che dal costituirsi dei Comuni erano stati sbalzati di dominio, applaudivano a queste esuberanti pretensioni, sperando trarne a sè alcuna particella; e l’arcivescovo di Milano, colla scienza appoggiando la servilità, gli diceva: — State ben fermo, poichè trovasi scritto che la volontà del principe fa legge, attesochè il popolo gli concesse ogni imperio e podestà»[124]. Le città poi quale eccezione potevano contraporre sopra un fatto che mai non era sussistito, [127] e sopra diritti sostenuti da un forte esercito? onde fremevano nel veder l’imperatore, da sovrano feudale, mutarsi in assoluto padrone d’Italia.
I Genovesi erano venuti alla dieta non per isporgere querele o ricevere ordini, ma come indipendenti, per far mostra e regalo di lioni, struzzi, papagalli e dei prodotti dell’Oriente; e furono i primi a protestare contro quel lodo; e ne spacciarono avviso alla patria, la quale subito con vivissimo ardore si rifece di mura, lavorandovi uomini e donne, e l’arcivescovo Siro dandovi il valore de’ proprj arredi; e (fatto nuovo) soldò truppe a difesa. Chi vuol pace prepara la guerra; e di fatto Federico calò con essa a patti, assentendole di eleggere i proprj consoli, i quali potessero chiamare all’armi tutti gli abitanti della riviera da Monaco sin a Portovenere; la privilegiò del commercio in ogni luogo a mare, neppur eccettuata Venezia; esenzione da imposte e servizj militari e da regalie, sol che pagasse milleducento marchi.
Federico aveva in quella dieta proibito di lasciare feudi alle chiese; poi, sempre mal vôlto a papa Adriano, volle rammemorargli l’apostolica umiltà; e poichè la cancelleria romana trattava seco col tu solenne, ordinò facesse altrettanto la sua col papa, e nelle soscrizioni il nome se ne posponesse a quello di lui imperatore: asseriva ancora che il patrimonio papale rilevava dall’Impero, e pretendeva di mandare a Roma ad amministrare la giustizia, e di alloggiare i proprj nunzj ne’ palazzi vescovili. Il senato romano al solito favoriva le pretensioni di Federico, sicchè il papa scontento [128] intendevasi colle città lombarde, e preparava forse la scomunica contro il prepotente.
Il quale, dichiarato unico depositario del potere legislativo e giudiziale, deputa in ogni paese suoi magistrati, che furono detti podestà perchè esercitavano i regj poteri e giurisdizione in molte cause. Questo e le leggi sulla pace pubblica e il divieto delle guerre private non urterebbero punto colle idee d’oggi; ma secondo i privilegi d’allora, stabiliti meglio che sulla carta, erano un grave attentato alla libertà e all’indipendenza comunale: onde i Milanesi, a cui nella capitolazione aveva garantito magistrati proprj, e a cui, in onta di quella, avea sottratte non solo Como e Lodi, ma Monza e il Seprio e la Martesana, capirono ch’e’ non tenevasi obbligato a convenzioni fatte coi sudditi, e fremendo insorgono (1159); accolgono a sassate i messi regj venuti per attuare i decreti di Roncaglia, gridando Fora fora, Mora mora; cacciano la guarnigione dal castello di Trezzo che assicurava ai Tedeschi il passo dell’Adda, e si serrano alla difesa. Anche i Cremaschi, loro alleati, cui egli mandò intimare di demolir la mura, risposero coll’avventarsi alle armi.
Federico, messili al bando dell’Impero, giura non cinger più il diadema che non gli abbia domati, e tosto dalla Ponteba al San Gotardo ogni valle versa Tedeschi sovra il piano lombardo; qui il Palatino del Reno, i duchi di Svevia, di Baviera, d’Austria, di Zaringen, il figliuolo del re di Boemia, il conte del Tirolo, gli arcivescovi di Colonia, di Magonza, di Treveri, di Magdeburgo, il fiore insomma della Germania. E cominciano guerra da Barbari (1162), sperperano il paese, uccidono, appiccano: una volta l’imperatore fa acciecar una banda di foraggiatori, lasciando sol un occhio ad uno per ricondurli: assediata Crema, pone i figliuoli che teneva ostaggi, a bersaglio de’ colpi paterni, onde proteggere [129] le macchine[125]: e dopo sei mesi d’ostinati assalti presala per tradimento dell’ingegnere, la abbandona alla brutalità de’ suoi e alla vendetta de’ nemici Cremonesi.
Milano non si lasciò sbigottire a quell’insolita ferità; cercò rialzare Crema; e il castello di Carcano sporgente nel laghetto d’Alserio, e le colline fra Cantù e il monte Baradello furono teatro di sue vittorie sopra gl’imperiali. Ma sentivasi indebolita dalla ripetuta devastazione de’ suoi campi e dal distacco di tutti i vicini, quando Federico la assalì (1162) scorrazzando colla cavalleria e vietando di portarle viveri, sin col tagliare le mani a venticinque villani in un giorno, côlti in tale servizio. Resistè ancora vigorosa: ma dai tradimenti, dalla fame, da un incendio de’ magazzini, dalla superiorità dell’armi feudali, collegate pur troppo con quelle non solo dei castellani e dei conti di Malaspina e di Biandrate, ma anche de’ Comuni italiani, fu costretta cedere alle grida del vulgo, e rendersi a discrezione. Al quartier generale in Lodi venne il popolo in abito penitente, con croci in mano, dietro al carroccio, che avvezzo un tempo a pavesarsi di trionfate bandiere, allora chinò l’antenna e il gonfalone di sant’Ambrogio avanti all’imperatore, fra il mesto squillo delle trombe; e il sacro carro e novantaquattro stendardi furono dati al nemico; otto consoli degli ultimi tre anni, trecento cavalieri, tenendo in mano le spade ignude, fecero atto di sommessione. Non soltanto Italiani e il conte di Biandrate, [130] ma fin i baroni tedeschi e la corte supplicavano Federico di clemenza: ma egli, dalla vittoria fatto sordo alla compassione, e stimolato anche dalle invide città che all’uopo gli diedero grosse somme[126], ordinò a’ Milanesi tornassero a casa e v’attendessero le sue risoluzioni. Dieci giorni passarono i nostri in quella affannosa aspettazione che è peggio del male istesso: alla fine Federico arrivò, e nell’imperiale sua clemenza perdonando alle vite, impose che, usciti i cittadini, Milano fosse abbandonata alla distruzione. A ciascuna delle città alleate ne assegnò un quartiere a diroccare, quasi volesse che tutte si contaminassero col fratricidio, e i rancori allontanassero la possibilità di nuovi accordi.
Esultarono i Lombardi all’umiliazione della gran nemica; ma un senso di sgomento occupò tutta l’Italia. Brescia, Piacenza, Bologna evitarono la distruzione col sottomettersi. Genova, dianzi così risoluta alla difesa, sbigottì; mandò ambasciadori con gratulazioni e proteste; il suo storico uffiziale Caffaro tributava a Federico i titoli di sempre augusto, sempre trionfante, che elevò l’Impero al colmo della gloria. E Federico in Pavia cingevasi di nuovo il diadema che avea giurato più non portare finchè Milano sussistesse; e datava i suoi atti dalla distruzione di Milano[127].
[131]
Le città lombarde non andarono guari ad accorgersi quanti abbia pericoli la lega col potente: perocchè, toltasi d’in su le braccia la città che unica potea [132] reggere seco in bilancia, Federico cessò da ogni riguardo verso le altre, le angariò a baldanza, pretendendo esigerne nuove gravezze e smantellarle; a’ Cremonesi, Pavesi, Lodigiani, suoi fedelissimi, permise bensì d’eleggersi consoli proprj, ma a Ferrara, Bologna, Faenza, Imola, Parma, Como, Novara, che pur seco tenevano, mandò podestà imperiali, fossero Tedeschi o di que’ vili che col maltrattare i compatrioti vogliono farsi perdonare la colpa d’essere Italiani[128].
[133]
All’eguale stregua meditava Federico ridurre il Patrimonio di san Pietro. Quel Rolando Bandinelli da Siena, che poc’anzi accennammo, celebratissimo per dottrina, virtù, esperienza del mondo, era succeduto papa col nome di Alessandro III (1159); ma il cardinale Ottaviano romano, fautore di Federico, turbolentemente s’indossò le divise pontificali, tenne prigione il papa e i cardinali, e prese il nome di Vittore IV. Il popolo e i Frangipani liberarono Alessandro, che si ritirò da Roma; mentre l’antipapa comprava vescovi, e blandiva l’imperatore, il quale sostenendo questo, poi tre altri antipapi (Pasquale III, Calisto III, Innocenzo III) squarciava la cattolica unità egli che n’era il rappresentante secolare. Allora scomuniche contro lui, contro i vescovi e i principi e i consoli di Cremona, Lodi, Pavia, Novara, Vercelli suoi aderenti. Di queste trascendenze e de’ soprusi de’ luogotenenti imperiali chiedevano fine o moderanza vescovi, marchesi, conti, capitanei ed altri magnati, e cittadini grandi e piccoli; ma Federico non usò nè giustizia nè misericordia[129]; e svallato con un nuovo esercito (1164), andava rimettendo al freno le città che tumultuavano. Ma Veronesi, Vicentini, Padovani, Trevisani, coll’ajuto dei Veneti, aveano cacciato i podestà di lui, e quand’egli andò per domarli, sentì non potere fidarsi delle truppe italiane che l’accompagnavano, onde voltò come in fuga (1166), mentre essi munivano le chiuse perchè non potesse rimenare eserciti.
Tutto ciò rendeva più sentiti i lamenti dei Milanesi, che senza patria tapinavano di città in città, invocando [134] soccorso e vendetta. Perchè lo straniero era prevalso alla comune libertà? perchè li trovò disuniti e nemici. Per tornar forti e mantenersi liberi di che han dunque bisogno? di concordia e d’unione. Lo compresero; e quelli che nella prosperità non s’erano scontrati che coll’ingiuria sul labbro, col pugno sul brando, nella depressione rinnovellarono la fratellanza, e posti giù gli odj e le gelosie, nel convento di Pontida (1167 aprile), terra sull’orlo del Milanese e del Bergamasco, si strinsero in lega, e i varj popoli della Lombardia, della Marca e della Romagna sul santo Vangelo giurarono d’ajutarsi reciprocamente, compensarsi a vicenda dei danni che patissero a tutela della libertà, non far tregua o pace con Federico imperatore o co’ suoi se non di comune accordo, non soffrire che esercito tedesco scendesse in Lombardia; o se scendesse, combatteranno l’imperatore e qualunque persona lo favorisca, sinchè esso esercito non esca d’Italia, talchè si possano recuperare i diritti che la Lombardia, la Marca e la Romagna possedevano al tempo d’Enrico III[130]. Oltre le città che [135] firmarono, fu lasciato (come oggi si dice) protocollo aperto a quelle che volessero accedervi.
Posata una mano sulla spada, stesa l’altra ai fratelli, conobbero la potenza dell’unione. Primo atto de’ collegati Lombardi fu rifabbricare Milano per concordi cure, come per ira concorde l’avevano sfasciata; poi tentate invano le persuasioni, mossero a soggettar le città, che la gratitudine o la paura serbava con Federico, e costringerle ad entrare nella Lega Lombarda.
Papa Alessandro III erasi ricusato di rimettere a un concilio, raccolto in Pisa da Federico, la decisione fra lui e l’antipapa; ma vedendo occupate tutte le terre di santa Chiesa da scismatici e imperiali, dovè cercare rifugio in Francia; dove ebbe grandi onori, e i re di questa e d’Inghilterra camminarono allato al suo cavallo tenendogli le staffe. Di là favoriva di conforti o di benedizioni la Lega, e lanciò contro Federico la scomunica, in cui, come «vicario di san Pietro costituito da Dio sopra le nazioni e i regni, assolve gl’italiani e tutti dal giuramento di fedeltà che a quello li legasse fosse per l’impero o per il regno; toglie coll’autorità di Dio che egli abbia mai più forza ne’ combattimenti, o vittoria sopra Cristiani, o in parte veruna goda pace e riposo, finchè non faccia frutti degni di penitenza»[131].
Favoriva pure ai collegati Guglielmo II di Sicilia, desideroso che Federico si trovasse impelagato in Lombardia [136] così, da non poter minacciare alla Puglia. Enrico III d’Inghilterra, se ottenessero che il papa degradasse l’arcivescovo di Cantorbery avversario suo, offriva trecento marchi ai Milanesi e di restaurarne le mura, altrettanti ai Cremonesi, mille a’ Parmigiani e Bolognesi. Fin Manuele Comneno di Costantinopoli, che rimeditava i suoi diritti sull’Italia, spedì ambasciadori al pontefice per trattare di togliere lo scisma e ricongiungere la Chiesa greca alla latina, purchè egli pure riunisse sul capo di lui la corona dell’impero d’Occidente e d’Oriente, esibendo quant’oro bastasse a snidare d’Italia i Tedeschi; intanto concedette sposa una figlia ad Ottone Frangipani, principalissimo in Roma, cercò l’amicizia de’ Genovesi, e ai collegati Lombardi somministrò oro per comprare i mercenarj, allora introdottisi nelle nostre guerre. Però il papa, fido all’idea de’ suoi predecessori, voleva la sede del rannodato impero non fosse che a Roma; il Comneno ostinavasi per Costantinopoli, tantochè restarono disconchiusi.
A soffogare quest’incendio, Federico scende di nuovo per la val Camonica, e imparato linguaggio più mite a fronte de’ popoli concordi, promette far ragione delle querele. Intanto di nuove ne eccita con trattamenti da nemico, devasta il Bolognese per vendicare Bosone suo ministro ivi ucciso, e leva contribuzioni e ostaggi. Ma udito che gli abitanti di Tusculo e d’Albano, a lui favorevoli, erano stati aggressi dai Romani coi soliti guasti, accorse, e diede una battaglia sanguinosissima ai Romani, poi volse sopra la loro città. La pose in difesa Alessandro, secondato dai Siciliani; ma Pasquale antipapa inanimava Federico, che per prendere il Vaticano gettò fuoco alla chiesa di San Pietro, e dal suo papa si fe novamente coronare. Allora propone ai Romani che inducano Alessandro ad abdicare, ed egli a vicenda vi indurrà Pasquale, in tal modo [137] finendo lo scisma: e i Romani, desiderosi di pace, gli davano ascolto; sicchè Alessandro, nè tampoco tenendosi sicuro nelle incastellate case de’ Frangipani, ricoverò a Gaeta. I Pisani secondavano l’imperatore, e misero in fuga il loro arcivescovo che li dissuadeva dall’osteggiare il pontefice, e lo ajutarono a prender Roma. Ma la mal’aria decimò il suo esercito, ed uccise l’arcivescovo di Colonia, sette vescovi, molti principi e magnati; onde Federico si levò in isconfitta, perdendo per istrada gran parte dell’equipaggio, e forse duemila baroni e prelati e cavalieri, oltre i soldati. A Pavia, mantenutasegli fedele, mette al bando dell’Impero le città federate, e gitta in aria il guanto in segno di sfidarle; ma non osa assalirle, per tema che negl’italiani che seco militavano, l’amor de’ fratelli non prevalga alla feudale lealtà; infine, con solo un pugno d’uomini riprende la strada della Savoja, lasciando appiccati qua e là ostaggi lombardi. I cittadini di Susa gli tolsero gli altri, e insidiavano lui pure, che col promettere monti d’oro[132] e ogni grazia e bene al conte di Morienna ottenne di passare per le sue terre (1168) travestito in Germania.
Ne’ sei anni che Federico stette fuori, ingrandirono di numero e vigore le nostre repubbliche, ripigliammo le città imperiali, costringemmo l’antipapa a venire alla devozione di Alessandro III, togliemmo le fortezze ai fazionieri dell’imperatore, e specialmente al conte di Biandrate, distruggendone la rôcca, levandone gli ostaggi, e uccidendo la guarnigione. Federico mandò un grosso di truppe, guidate da Cristiano arcivescovo di Magonza e cancelliere dell’Impero, guerriero terribile, che una volta colla mazza sfracellò trenta nemici, e insieme voluttuoso sì, che traeva dietro donne e muli [138] tanti, da costare più che il corteggio imperiale. Malmenò costui la Lombardia, e guastatine i dintorni, assediò Ancona, città molto cara all’imperatore Comneno come opportunissima a sbarcare in Italia; e lo ajutarono i Veneziani per disgusto che presero coll’imperatore bisantino, o per emulazione commerciale. La città fu ridotta a pascersi di sorci e di cuojo secco, pur resistette con coraggio degno degli antichi eroi. Raccontano che un prete Giovanni con una scure andò nuotando a tagliar la gomona d’un grossissimo naviglio veneto detto Tutt’il mondo, per quanto lo saettassero i marinaj, che a stento si salvarono; mentre altri sull’esempio suo recisero le àncore di sette altre navi, che dalla tempesta furono fracassate. La vedova Stamura vedendo i suoi dare indietro da una sortita fatta per incendiare le macchine nemiche, prese un tizzone e si avventò verso quelle, malgrado le freccie appiccandovi la fiamma. Un’altra donna, visto un combattente estenuato perchè da più giorni non assaggiava cibo, gli porse il poco latte del suo petto, sottraendolo al proprio bambino[133]. E la perseveranza ebbe premio, perocchè Ancona fu liberata dai Ferraresi e dalla contessa di Bertinoro.
Non che la parzialità imperiale fosse spenta, sopravviveva quasi in ciascun paese, e dove prevalesse lo traeva a quella bandiera. Così in Bergamo il vescovo Gherardo parteggiava pel Barbarossa, mentre il popolo pe’ suoi avversarj. Cremona e Tortona accettarono l’alleanza di Federico. Como era spinto a vicenda da un partito o dall’altro; e quando gl’imperiali rizzarono [139] le creste, distrussero il castello di Gravedona, e la memorabile isola Comacina (1169), la quale più non risorse.
In Roma il senato non volea spossessarsi dell’acquistata autorità, sicchè Alessandro non potea rimettervi piede. Si continuava pure ostinata guerra ai Tusculani, i quali non videro scampo che nel porsi alla tutela del papa stesso. Ma i Romani proposero a questo di pacificarsi e riceverlo entro se li lasciasse abbattere le mura di Tusculo: ed egli acconsentì: ma essi, sfogata l’ira, non si curarono della promessa, sicchè il papa (il cui nome or si sparnazza fra i liberatori d’Italia) fu costretto stare in armi nella campagna.
Costanti coll’Impero in Lombardia teneansi principalmente la città di Pavia e il duca di Monferrato, e per la vicinanza si sorreggeano l’un l’altro. I collegati lombardi pensarono dunque porre una barriera fra costoro: e uniti i loro stendardi, invece di più ricostruire Tortona, una nuova città piantarono (1168) ove la Bòrmida confluisce col Tànaro; dal nome del pontefice la dissero Alessandria, e i nemici la soprannomarono della paglia, perchè di paglia si coprirono le case fretta fretta fabbricate, e recinte di nulla più che un siepato, un terrapieno e liberi petti. Ebbe subito quindicimila cittadini, privilegio di libero Comune, e sette anni dopo il vescovado[134].
Appena gli affari di Germania glielo assentirono, Federico in persona calò un’altra volta; fra via distrusse Susa in vendetta dello smacco soffertovi; coll’assedio [140] costrinse Asti a rinunziare alla Lega; e rinforzato da nuova gente di tutta Germania e di mezza Italia, assediò la neonata Alessandria. Ma per quanto vi moltiplicasse valore, crudeltà e astuzie, dovette allargarla al sopravvenire di un esercito lombardo, che il sagrifizio della magnanima cittadella avea dato tempo di radunare. A questo si fe incontro Federico. Onest’uomini e religiosi s’interposero, al cui lodo si rimisero ed egli e i Lombardi. Ma quegli volea salvi i diritti imperiali, questi salve le libertà loro e della Chiesa; sicchè del conchiudere fu nulla, e Federico avendo consumato anche il sesto esercito, mandò a sollecitarne un nuovo, che di Germania gli fu condotto dalla moglie per l’Engadina, Chiavenna e il lago di Como. A incontrarlo mosse egli coi Lodigiani, e ritornava accompagnato dai Comaschi per congiungersi ai Pavesi e ai Monferrini, quando nella pianura di Legnano (1176 — 29 mag.) ecco gli si attraversa l’esercito de’ collegati. Sulle prime egli ebbe il vantaggio, e vide le spalle de’ nostri; ma la Compagnia della Morte, giovani risoluti a perire anzichè perdere, si strinse attorno al carroccio, scompose l’ordinanza nemica, e la mandò a sbaraglio. Federico stesso non campò la vita che tenendosi rimpiattato sotto i cadaveri; e la moglie, da lui lasciata nel castel Baradello di Como, il pianse per morto finchè nol vide ricomparire umiliato e fremente.
Il Tedesco aveva trovato sostegno da alcune repubbliche marittime, che lo bramavano favorevole alle loro ambizioni. Barisone d’Arborea, uno de’ giudici o re di Sardegna (1163), agognando tutta l’isola, ne aveva impetrata da Federico l’investitura per quattromila marchi d’argento: ma nè l’imperatore avea diritto a disporre di quella, nè Barisone i denari da pagarla. Questi gli furono anticipati da Genova, desiderosa d’accorciare i panni all’emula Pisa, che colà teneva sovranità: ma [141] Barisone, non essendo in grado nè di restituire ai Genovesi nè di resistere ai Pisani, si conciliò con questi; talchè i Genovesi rimasero peggiorati della somma e della speranza. Ne venne guerra sanguinosa di molti anni, dove i Liguri riuscirono superiori, attenendosi a Federico, promettendogli la flotta per l’impresa di Sicilia, e ricevendo da lui promessa di cedere Siracusa e ducencinquanta feudi in val di Noto, appena dell’isola si fosse insignorito. Di rimpatto i Pisani si volsero all’imperatore di Costantinopoli, e mandati e ricevuti ambasciadori, conchiusero un’alleanza che assicurava loro la franchigia in tutti i porti dell’impero greco, ogni anno il tributo di cinquecento bisanti d’oro, e due tappeti di seta a Pisa, e di quaranta bisanti e un tappeto all’arcivescovo. Invano Federico intimò che Genovesi e Pisani rimettessero in lui le loro differenze, e gli uni e gli altri speravano da esso l’investitura della Sardegna, e intanto lo accarezzavano e lo provvedevano per le sue imprese.
Tanto bastava perchè gliene volessero male i Veneziani, i quali, se dapprima l’aveano favoreggiato per isbaldanzire le repubbliche di terraferma, s’adombrarono poi delle crescenti pretensioni; diedero incoraggiamenti alla Lega Lombarda, e ricovero al fuggiasco Alessandro III. E quando Federico minacciò piantar le sue aquile vincitrici in faccia a San Marco, risposero alla bravata armando settantacinque galee; e il doge, cui il papa cinse la spada d’oro, sbarattò la flotta che Genovesi e Pisani aveano allestita all’imperatore. Côlto lo stesso figlio di costui, lo trattarono decorosamente, e rinviarono con proposizioni di pace.
E pace dovea desiderare Federico, dopo logorati ventidue anni e sette eserciti[135] contro il clima e le [142] libertà d’Italia. Pertanto s’industriò di staccare dalla Lega Alessandro, e gli inviò deputati ad Anagni, i quali gli dissero: — È indubitato che, dai primordj della Chiesa, Dio volle vi fossero due capi, dai quali venisse governato questo mondo: la dignità sacerdotale, e la podestà regia. Se queste non si appoggino in vicendevole concordia, non potrà mantenersi la pace, e il mondo andrà in subugli e guerre. Cessi dunque la nimistà fra voi due, capi del mondo; e vostra mercè sia resa la pace alla Chiesa e al popolo cristiano»[136]. Alessandro rispose, ben egli volerla, ma questa dover essere comune anche a’ suoi alleati e difensori. Il pontefice trattava di ciò pubblicamente; gli ambasciadori imperiali avrebbero voluto stipulare in privato, col pretesto che alcuni avversavano la loro concordia: ma sebbene per quindici giorni si disputasse, nulla fu tratto a riva. Federico dunque chiese un abboccamento con Alessandro, e questi (tanto si fidava) volle da lui, da suo figlio e dagli altri grandi il giuramento di non nuocere alla sua persona, e andò a Venezia coi deputati delle città lombarde[137].
[143]
Federico proponeva o si stesse al dettato della dieta di Roncaglia, oppure a quanto osservavasi al tempo di Enrico IV: i Lombardi rifiutavano la prima, non convenzione, ma ordinanza di Roncaglia; quanto all’altra, dicevano mal ricordarsi di quegli usi; sapere che da un pezzo godeano le regalie e il diritto di eleggere i magistrati, e voler conservarlo; sicchè non potè venirsi a conchiusione. Bastò dunque appuntare un accordo (1177), ove Federico riconosceva il pontefice escludendo gli antipapi, e prometteva tregua per quindici anni col re di Sicilia, per sei colle città lombarde, duranti i quali egli non n’esigerebbe il giuramento di fedeltà, e si stabilirebbero de’ treguarj che terminassero le contese eventuali, impedendo di farsi ragione colle armi. Esso imperatore in compenso godrebbe per quindici anni i beni allodiali della contessa Matilde, che poi cederebbe alla Chiesa romana; e a tali condizioni verrebbe ricomunicato.
Fu Alessandro III uno sleale, che abbandonò gli alleati suoi per patteggiare in disparte? o fu un inetto che non seppe cogliere il destro di distruggere la potestà imperiale e l’ingerenza tedesca, e assicurare per sempre l’indipendenza d’Italia?
Nè l’un nè l’altro può crederlo chi non confonda le idee e le aspirazioni dei tempi nostri con quelli d’allora. I Lombardi non aveano mai inteso d’annichilar l’imperatore, e fino ne’ momenti più prosperi chiesero soltanto di vedere assicurati i proprj privilegi, sotto la primazia di quello: come gli arimanni si consideravano liberi perchè dipendenti dal solo re, così libere chiamavansi le città che non avessero altra superiorità che l’imperatore. Anzi i capi della Lega dinanzi al papa nella chiesa di Ferrara il 1177 dichiaravano: — Sia noto alla santità vostra e alla potestà imperiale, che con riconoscenza riceveremo la pace dall’imperatore, [144] salvo l’onore dell’Italia, e che desideriamo essere rimessi nella grazia di lui, secondo le vecchie consuetudini, nè ricusiamo le antiche giustizie: ma non consentiremo mai a spogliarci della nostra libertà, che abbiamo ereditata dai padri e dagli avi, e non la perderemo che colla vita, essendoci più caro il morir liberi che il vivere in servitù»[138].
A tale intento avviava appunto la tregua, durante la quale fu stipulata una soda pace. Quanto al pontefice, abbattendo l’imperatore avrebbe disfatto l’opera de’ predecessori suoi, i quali avevano ridesto il nome d’imperator romano, e affidato a quello la primazia temporale della cristianità; e quand’anco gli ebbero contumaci e ribelli, mai non pensarono distruggerli, ma al più surrogarne uno, meglio docile e religioso.
I Veneziani che aveano giurato ad Alessandro, finch’egli vi stesse, non ricevere nella loro città Federico, dispensati dalla promessa, andarono a prenderlo da Chioggia colla splendidezza che la sposa dell’Adriatico pose sempre nelle sue feste. Federico, approdato alla piazzetta, baciò il piede del papa, al quale poi servì da mazziere, allontanando colla verga la folla; della predica che Alessandro recitò in latino, il patriarca d’Aquileja fece la spiegazione in tedesco, onde contentare la devozione dell’imperatore; il quale assolto, dopo il credo baciò ancora il calcagno del pontefice e fe l’oblazione; poi ne ricevette la comunione; e finita la messa, lo accompagnò per mano sino alla porta della basilica, gli tenne la staffa, e lo menò per la briglia fino al palazzo[139]. Che il papa mettesse il piede sovra il [145] collo dell’umiliato imperatore, proferendo il versetto del salmo Sovra l’aspide e il basilisco passeggerai, calcherai il leone e il drago, e che Federico rispondesse di rendere quell’omaggio non a lui ma a san Pietro, è un fatto controverso, ma che nulla ripugna coi tempi; che se gli spiriti forti del secolo passato, striscianti appiè dei troni, lo negarono con orrore, la [146] libera Venezia non esitò a farlo dipingere tra i fasti nazionali.
In nome del Barbarossa, Enrico di Diesse giurò sui vangeli, sulle reliquie, e sopra l’anima dell’imperatore, che questo manterrebbe la pace: altrettanto fecero dodici principi dell’Impero, gli ambasciadori di Sicilia, e i consoli di Milano, Piacenza, Brescia, Bergamo, Verona, Parma, Reggio, Bologna, Novara, Alessandria, Padova, Venezia. I vescovi di Padova, Pavia, Piacenza, Cremona, Brescia, Novara, Acqui, Mantova, Fano, che in opposizione alle loro plebi aveano favorito all’imperatore e all’antipapa, furono ribenedetti.
Alessandro III fu ricevuto festivamente anche dai Romani, avendo conceduto che il senato durasse, ma con giuramento di fedeltà al papa, al quale si restituissero la basilica di San Pietro e le regalie. L’antipapa venne all’obbedienza dacchè si trovò abbandonato dall’imperatore: ma un avanzo di coloro che credono fermezza l’ostinazione, nominò un altro che presto fu imprigionato. Un concilio ecumenico in Laterano di trecentodue vescovi procurò rimarginar le piaghe della Chiesa.
Federico, ch’era tornato in Germania per racconciarne il freno, mandò deputati, i quali in Piacenza stesero i preliminari d’un accordo. A Costanza, memorabile città lietamente posta colà dove il Reno sfugge dal lago, e al verdeggiante declivio fan contrasto le ghiacciaje del Sangallo e d’Appenzell, fu poi conchiusa tra le città lombarde e l’Impero la pace (1183 — giugno) che coronava i magnanimi sforzi, e consolidava le repubbliche nostre, non più come un fatto ma come un diritto. L’imperatore dichiarava avrebbe potuto castigare i colpevoli, ma per clemenza e dolcezza preferiva perdonare, e far loro del bene. Comprese nel trattato furono Milano, Vercelli, Novara, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, [147] Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma, Piacenza: come alleate dell’imperatore figurarono Pavia, Cremona, Como, Genova, Alba, Tortona, Asti, Alessandria che, anticipando la pace, n’aveva conchiusa una particolare, e mutato il nome in Cesarea. De’ signori feudatarj non appajono che Obizo Malaspina di Lunigiana colla parte imperiale; colla nostra i conti di Biandrate e di Monferrato. A Ferrara si lasciò arbitrio di accedere fra due mesi. Restarono escluse nominatamente Imola, Castro, San Cassiano, Bobbio, Gravedona, Feltre, Belluno, Céneda. Venezia non v’è tampoco nominata, giacchè, essendo indipendente affatto dall’Impero, non voleva pregiudicarsi con questo trattato.
A tenore del quale, le città della Lombardia, della Marca e della Romagna, entro il loro recinto godrebbero le regalie che da immemorabile possedevano, e fuori di esso, solo in quanto n’avessero concessione dall’imperatore; il vescovo con deputati imperiali esaminerebbe quali infatti fossero tali diritti, se pure le città non volessero declinare quest’indagine col pagare ciascuna annui duemila marchi d’argento, o meno, a volontà dell’imperatore. Questi, salva la sua supremazia, conferma le immunità e i diritti concessi avanti la guerra da lui o da’ predecessori, purchè non cadano a pregiudizio d’un terzo. I vescovi che per lo innanzi solessero per imperiale concessione confermare i consoli, continuassero; nelle altre città si facessero tra cinque anni confermare dai commissarj imperiali, e in appresso ricevessero l’investitura dall’imperatore. Il quale ponesse in ogni città un giudice, cui appellarsi nelle cause civili eccedenti il valore di venticinque lire imperiali (lire 1575), e che giudicassero fra due mesi, ma secondo le leggi della città. Tutti i cittadini dai sedici ai sessant’anni giureranno fedeltà all’imperatore [148] ogni dieci anni; a questo, ogniqualvolta venisse in Italia, daranno il fodro e gli alloggi, ripareranno le strade, apriranno mercato pel suo approvvigionamento: egli però non si baderà a lungo in nessuna città o diocesi, per non esserle di soverchio aggravio. Del resto sia in arbitrio delle città il fortificarsi e confederarsi, e rimangano cessate le infeudazioni che si fossero concedute dopo la guerra a pregiudizio di esse[140].
L’imperatore tornò poi la sesta volta in Italia, ma in aspetto amico; sicchè le città nostre gareggiarono in mostrare che, come gli aveano resistito in campo, sapeano accoglierlo ed onorarlo pacificato. A Verona durò tre mesi molto alle strette col pontefice Lucio III intorno ai beni della contessa Matilde, senza riuscire ancora ad una definizione. I Romani, tornati ben tosto sugli umori vecchi e sulle idee di Arnaldo, ostinavansi non tanto ad aver repubblica quanto a disobbedire al papa, che tennero sempre fuori di Roma; e marciati contro Tusculo, dove s’erano fortificati gli avversarj, presi molti cherici, gli accecarono, conservando gli occhi a un solo che li riconducesse in città sovra giumenti e con mitere in capo. Così i nostri emulavano la brutalità tedesca: e qual bene promettersi da una repubblica mancante di quel che n’è primo fondamento la morale? Il papa li scomunicò (1188); ma solo a Clemente III venne fatto di sopire la rivolta di quarantacinque anni, col solito scapito della libertà; poichè egli ridusse sotto la propria autorità il senato, il Comune, la basilica di [149] San Pietro, e le altre chiese e i diritti regali, pochi lasciandone alla città.
Federico, malgrado la pace, ad or ad ora abbandonavasi allo sdegno; indispettito coi Cremonesi che, da fedelissimi, gli erano poi mancati, non solo edificò Crema a loro dispetto[141], ma li guerreggiò; col papa Urbano III ebbe nuovi diverbj per l’eredità della contessa Matilde; de’ vescovi che morissero occupava i beni; col pretesto di punire badesse scandalose, invadeva possessi de’ monasteri; impediva il passo dell’Alpi a quei che andassero a Roma. Fe’ cingere la corona di ferro a suo figlio Enrico; e perchè quello di re d’Italia non fosse un titolo senza soggetto, procurò congiungere alla primazia sui Lombardi il dominio del reame meridionale: ma donde sperava il consolidamento della grandezza di sua casa, ne venne la ruina.
Commessi gli affari d’Italia ad Enrico, il Barbarossa tornò in Germania a domare i baroni che gli aveano recato molestia durante la guerra d’Italia, ed esercitò l’autorità imperiale con rigore qual altri non aveva usato da Carlo Magno in poi, fisso soprattutto nel pensiero di renderla ereditaria nella sua famiglia. Singolarmente gli diede a fare Enrico il Leone. Avendo esso imperatore saputo indurre il vecchio Guelfo a rinunziargli i beni di sua casa in Italia e in Germania, fra cui l’eredità della contessa Matilde, Enrico da quel giorno negò soccorrerlo nelle guerre d’Italia, benchè [150] supplicato a ginocchi; messo al bando dell’Impero, fu vinto, e a stento ottenne di conservare il Brunswick e il Luneburg: ma l’abbassamento di quella casa lasciò rialzarsi i baroni secolari ed ecclesiastici, che si assicurarono il pieno dominio del proprio territorio.
Repente un gemito universale annunziò che Gerusalemme, la santa città, liberata col sangue di tutta Europa, era stata ripresa dai Musulmani, e il colle di Sion e la valle del Cedron echeggiavano ancora alle invocazioni di Allah. Il gran Saladino, profittando della rivalità dei principi latini, gli assalì (1187) e sconfisse, occupò Acri, Cesarea, Nazaret, Betlem, e alfine Gerusalemme stessa: ed ebbe prigioniero il re Guido di Lusignano. Menò egli strage particolarmente de’ cavalieri del Tempio e dell’Ospedale, moltissimi fece prigioni, fra cui Guglielmo di Monferrato, cugino del Barbarossa, il cui figlio avea sposato Sibilla sorella di Baldovino re di Gerusalemme, che gli portò in dote la contea di Joppe. Un altro suo figlio Corrado, trovandosi allora pellegrino in Terrasanta, tolse a difendere Tiro, durando intrepido, benchè Saladino minacciasse uccidergli il vecchio padre se non rendesse questa città.
La nuova di tali disastri fu portata in Italia da messi vestiti a bruno, che andavano tratteggiando gli esecrandi oltraggi usati alla religione, la santa croce trascinata per le vie, il sepolcro insozzato, i fanciulli educati al Corano, le donne tratte negli harem, e mostravano una immagine dove Cristo era battuto e calpesto da un Arabo, nel quale doveva riconoscersi Maometto. Quest’annunzio accelerò la morte ad Urbano III, che prima aveva scritto a tutti i potentati cristiani eccitandoli a soccorrere Terrasanta. Come avviene nei gravi disastri, una riforma generale parve diffondersi; tregua si convenne fra tutti i combattenti; i cardinali raccolti a Ferrara per eleggere il nuovo pontefice, non solo [151] incitarono i re alla crociata, ma proposero voler guidarla essi stessi; bandirono la tregua di Dio per sette anni, e scomunicato chi la violasse; e cominciando l’ammenda da sè, promisero vivere poveramente, e non ricever doni da sollecitatori, non montare a cavallo (1187), finchè la terra santificata dalla presenza di Cristo non fosse ricuperata. Gregorio VIII, vecchio di santa vita e macero da penitenze, nel brevissimo regno non fece che predicare la spedizione, e a tal uopo cercò rappattumare i discordi, e principalmente Genovesi e Pisani che si erano continuato feroce guerra. Clemente III succedutogli persistette nell’intento: fra gli altri, Guglielmo arcivescovo di Tiro, ministro di Baldovino IV e storico delle crociate, predicò a Milano, a Bologna, ove duemila cittadini presero la croce, e in altre città: si permise ai re di riscuotere una decima Saladina sopra tutte le rendite d’ecclesiastici e di secolari per le spese della guerra: si comandò il magro ogni mercoledì, digiuno ogni sabbato, non giurare, non giocare a dadi, non imbandire più di due piatti, non portare vesti scarlatte o vajo o zibellino, ed altre manifestazioni che durano quanto l’entusiasmo.
Gl’Italiani, che, appunto in quest’occasione, Corrado abate uspergense chiama «bellicosi, discreti, sobrj, lontani dalla prodigalità, parchi nelle spese quando non sieno necessarie, e soli fra tutti i popoli che si reggano a leggi scritte», corsero primi all’impresa; e Toscani e Romagnuoli, sotto la guida degli arcivescovi di Pisa e di Ravenna, approdarono a Tiro. Guglielmo il Buono ordinò un generale registro di tutti i feudatarj del regno di Sicilia e degli uomini che ciascun doveva[142], intimando stessero pronti a partire; [152] ed essi s’obbligarono a contribuire il doppio d’uomini: e una flotta condotta dall’ammiraglio Margaritone di Brindisi valse non poco a sostener Tiro. Saladino, costretto a lasciare questa città, tentò sorprendere Tripoli; ma i nostri giunsero in tempo a salvare quegli ultimi resti del glorioso acquisto.
Federico Barbarossa, che giovane avea fatto l’impresa di Terrasanta, volle coronare la faticosa vita coll’assumere di nuovo la croce. Imbevuto del concetto della onnipotenza imperiale qual gli era stata definita a Roncaglia, mandò intimare a Saladino lasciasse la città santa a lui, signore universale perchè successore degli antichi cesari. Saladino vi oppose il diritto della conquista, e si preparò a sostenerlo. Il Barbarossa col proprio figlio e con sessantotto signori, trentamila cavalieri e ottantaduemila fanti passò dunque in Palestina e prosperò; ma traversando il fiume Salef restò annegato; e la crociata riuscì a fine disastroso.
Il Barbarossa, come gli eroi della tragedia antica, operava in forza del carattere, non della moralità; postosi un principio, voleva seguirlo. I Comaschi gli applausero come restauratore del diritto, punitor delle violenze; altrove fu esaltato come liberatore d’Italia, mirando solo agli interessi particolari e a quella indipendenza che spesso fu considerata come idea principale, mentre non è che secondaria. Tutti poi i nostri lo inneggiarono quando rinunziò alle idee germaniche, conservando sola la lealtà, con cui accettò il patto di Costanza. I Germani lo venerarono qual rappresentante della loro stirpe, e non lo credettero morto, ma che si fosse ridotto nel campo dorato sul Kiffhäuser, tenendo corte colla figlia e coi burgravi, sedendo a una tavola di marmo, attorno alla quale crebbe la sua barba rossa. E verrà giorno che uscirà ancora co’ suoi fedeli, e farà grande il popolo tedesco sopra tutti gli [153] altri. In Italia altrimenti; e mentre a Carlo e Ottone, perchè favorevoli alla causa popolare, fu mantenuto il titolo di Grandi, Federico, non inferiore ad essi, vien tuttora ricordato con orrore dal popolo, cui si mostrò infesto[143].
Così scarsi tornano nella nostra storia i momenti, ai quali possa confortarsi la ragione ed esaltarsi il sentimento, che è ben dritto se gl’italiani si fermano con compiacenza sopra la Lega Lombarda.
Legame puramente esterno e di momentanea provvisione, essa non cambiava le condizioni de’ singoli Stati, ciascuno de’ quali come indipendente proseguiva nella fatica di ordinarsi. Abbastanza ripetemmo che la rivoluzione dei Comuni, tanto decisiva, non fu radicale, [154] e lasciò sussistere molte parti del passato, che oggi sarebbero le prime a distruggersi. Oggi poi si vorrebbe innanzi tutto precisare i diritti dei cittadini, farli tutti eguali in faccia alla legge, concentrare i poteri maestatici in un magistrato supremo, abbastanza robusto nella sua azione; separare la podestà legislativa dall’esecutiva, e dare indipendenza e stabilità alla giudiziale, distribuita in una gerarchia di tribunali con precise attribuzioni; proclamare leggi fisse, ed evitare ogni tumultuosa applicazione di esse; discutere pubblicamente i conti, scompartire con equità l’imposta, ottenere l’esercizio rapido e uniforme dell’autorità, sottraendola all’arbitrio di un capo, alle gelosie dell’aristocrazia, alle tumultuose incostanze del vulgo; trovare il modo più conveniente a rendere rappresentato ogni bisogno, ogni forza, ogni capacità, ed anche la provincia per togliere la prevalenza oppressiva della capitale; chiarire e sodare le relazioni cogli Stati vicini, e i diritti e doveri reciproci; e principalmente assicurare l’indipendenza dello Stato per maniera che nessuno estranio s’intrometta dell’interno suo ordinamento.
Non a questo senso intendevasi allora la libertà, nè chiaro concetto si avea di ciò che or chiamiamo lo Stato; e dal tentonare d’inesperti sarebbe troppo l’attendersi quel senno e quella prudenza, che sì spesso fallisce a noi pure, a noi insegnati da lunghissima esperienza e da tanti errori. Ingegniamoci di orientarci per quanto è possibile fra tanta varietà di ordini, di statuti, di vicende.
Sottoposta che fu la campagna alla città, limite di ciascuna Repubblica rimase ordinariamente quello delle giurisdizioni vescovili; onde oggi ancora le diocesi, colla bizzarra loro conformazione, indicano il territorio di quelle. Da ciò, se non originata, mantenuta la prodigiosa differenza dei dialetti; da ciò la moltiplicità [155] di edifizj civili e religiosi, nessuna volendo restare di sotto della vicina; da ciò le guerricciole; da ciò fatti meno penosi i frequenti esigli, poichè il fuoruscito a due passi trovava sicurezza, senza aver mutato nè favella nè clima.
La pace di Costanza ebbe sanzionata la rivoluzione, che da serve ridusse franche le città, ma non attribuiva loro l’indipendenza, bensì la libera podestà di governo, il diritto d’eleggere ciascuna i proprj magistrati, far leggi, munirsi, conchiudere pace e guerra, imporsi tributi e ripartirli, regolare la polizia rurale e l’industria, militare sotto la propria bandiera, non essere obbligati andar fuori del Comune per pagare tributo o rispondere a citazioni, esercitare liberamente la pesca e la caccia. Essa pace non conferiva però nuovi diritti, neppure uguagliava gli antichi; ciascuno rimaneva nella condizione ove l’avea trovato la guerra, con più o meno privilegi, secondo gli aveva compri, estorti, acquistati, ottenuti. Nè tampoco si distruggeva veruna delle antiche dipendenze; e nella città libera potevano ancora durare un conte feudale, un vescovo con diritti sovrani, qualche uomo indipendente dai comuni magistrati, e servi fuor della legge.
Di sopra poi di tutti stava un re o un imperatore, la cui supremazia in sostanza si riduceva a mettere il proprio nome sulle monete e agli istromenti, riscuotere annuo tributo, e la paratica al primo suo venire in Italia, determinata per ciascun Comune con particolari convenzioni. Nel 1185 Federico I «volendo viemeglio premiare quelli che più perseverano nella devozione alla sacra maestà dell’Impero, ed osservando il valore, la fede, la devozione de’ suoi diletti cittadini milanesi, il cui affetto, più degli altri ardente, li mostra di giorno in giorno meglio meritevoli de’ suoi favori»[144], [156] cede loro tutte le regalie che esso teneva nell’arcivescovado di Milano in terra e in mare, determinando il tributo in lire trecento, oltre la paratica. Quest’ultima dagli abitanti di Treviglio fu fissata in sei marchi d’argento. Il Comune di Brescia ricompravasi nel 1192 da tutte le regalie per due marchi l’anno, e gliene faceva carta Enrico VI.
I diritti regali non espressi nel patto di Costanza era convenuto sarebbero ponderati dal vescovo di ciascuna città insieme con probi uomini; ma essi non competendo se non al re che fosse eletto dal voto nazionale, pochi fra’ successori del Barbarossa li godettero; e per lo più s’accontentarono d’un omaggio e del giuramento di fedeltà, trattando i nostri a maniera d’alleati. Enrico VI e Federico II, bisognando d’ajuti in guerra, strinsero leghe con qualche città, assolvendola dagli obblighi imposti dalla pace di Costanza; di modo che o per cessione del re, o per ritrosia de’ popoli, s’andò smettendo ogni aggravio, eccetto il fodro, che venne convertito in sussidio grazioso.
Anche dalla conferma dei magistrati, riservata all’imperatore o a’ suoi messi, le città si riscossero a denaro; sebbene le ghibelline, per condiscendenza, gliela chiedessero ancora. Nel 1195, davanti alla porta Torre di Como, Girardo de Zanibone, Tettamanzo de Gaidaldi, Odone di Medolate, consoli del Comune di Cremona, col mezzo della lancia e del gonfalone rosso con croce bianca, riceveano da Enrico VI l’investitura di quanto si contiene nel privilegio di esso Comune[145].
Federico I erasi riservata l’appellazione delle cause[146], [157] e a riceverla delegava vicarj; venuti però questi di peso, le città se ne fecero esentare, traendo anche tale diritto ai proprj magistrati o ai vescovi[147].
Dapprima i messi regj ed i vicarj imperiali poteano ogni cosa quanto l’imperatore, salvo che conferire i feudi maggiori o di trono, e alienare o ipotecare beni e diritti dell’Impero. Abbiamo l’investitura che Federico II dava nel 1249 a Tommaso conte di Savoja quale vicario della Lombardia da Pavia in giù, affinchè conservasse la pace e la giustizia; concedendogli perciò il mero e misto imperio e podestà della spada contro i malfattori, principalmente quei che molestano le strade; udire e risolvere le quistioni civili e criminali, competenti all’imperatore; imporre bandi e multe; interporre decreti per l’alienazione di cose ecclesiastiche e per tutela de’ pupilli; dar tutori e curatori, restituire in intero, ricevere l’appello dalle sentenze dei giudici ordinarj; ma dalla sentenza di lui possa ricorrersi al trono[148]. Sì estesa autorità andò restringendosi; i [158] messi regj si ridussero a poco meglio che nodari; e il vicariato, non che sostenere l’autorità imperiale, servì ad ampliare quella de’ grandi, che compravano esso titolo per assodare la propria dominazione. Guarnieri conte di Humberg, vicario d’Enrico VII, dovette abbandonare la Lombardia per assoluta mancanza di denaro: per la causa istessa Princivalle del Fiesco, vicario di Rodolfo d’Habsburg, vendette alle città di Toscana le giurisdizioni dell’Impero[149].
[159]
Ne’ ricchissimi archivj di Lucca investigammo altrove la formazione di quel Comune (pag. 38): studiandovi ora le relazioni delle Repubbliche coll’Impero, troviamo che nel 1162, alla presenza dell’arcivescovo di Colonia, arcicancelliere dell’Italia e legato imperiale, i consoli maggiori giurarono sugli evangeli fedeltà a Federico I, e di nulla attentare a suo danno, anzi soccorrerlo a sostener la corona e l’onor suo, o recuperarli; non palesare gli ordini secreti ch’egli trasmettesse; e per la guerra o per la pace in Toscana e per le regalie starà alla sua parola, l’ajuterà a riscuotere il fodro nel vescovado di Lucca, da tutti i cittadini farà dargli il giuramento, non guastare nè lasciar guastare la strada, dare all’imperatore venti militi nella spedizione verso Roma e la Puglia, pagare l’annuo tributo convenuto di quattrocento lire, in ricompra di tutte le regalie per sei anni. L’imperatore concede in ricambio alla città di Lucca di eleggere i consoli, i quali vadano a ricevere da esso l’investitura, e gli giurino fedeltà[150].
[160]
Qui è riconosciuta la piena libertà del Comune: eppure, due anni dopo, esso Federico confermava il mero e misto imperio al vescovo di Lucca sopra gran quantità [161] di terre, ville, castelli, autorizzandolo a far leggi e giustizia, e governare per sè o pel suo nunzio, come farebbe l’imperatore o un nunzio suo[151]. Poi nel 1185 dava un diploma in favore dei Comuni e signori di Garfagnana, di Montemagno, di Versilia, di Camajore, prendendoli in protezione, esimendoli da ogni dominio di città o di autorità qualunque, come soggetti a sè solo; abroga le occupazioni di terre, borghi, castelli fatte da consoli; obbliga Lucca a riedificare i castelli che v’avesse demoliti[152]. L’anno vegnente, Enrico VI rinnovava a questa il privilegio della zecca, delle giurisdizioni e regalie nella città e nel distretto, non accennando più all’obbligo d’andare i consoli a giurare fedeltà; però, anche ne’ trattati con altre potenze, riservino la fedeltà all’Impero, e gli paghino sessanta marche d’argento l’anno. Nel 1209 Ottone IV, imperatore disputato, confermava la carta anticamente datale da Enrico IV, con questo che nessun mai guastasse le mura della città o le case; non dovessero avere palazzo per l’imperatore, nè dare alloggi; non paghino alcun pedaggio da Pavia sino a Roma o in Pisa; non abbia molestia chi vien a commerciare con Lucca pel mare o pel Serchio; non si fabbrichi castello o fortino a sei miglia di circuito; nessun giudice di Lombardia eserciti giurisdizione in Lucca, se non presente l’imperatore o il suo cancelliere[153].
[162]
Dall’assicurare il libero governo interno, le esazioni, i mercati, le caccie, le pesche, i forni, i mulini, le Repubbliche passarono a pretendere dominio sopra i vicini, e ne chiedeano ancora la ratifica dagl’imperatori. Pertanto nel 1244 Federico II al Comune di Lucca concedeva che i castelli di Motrone, Montefegatese e Luliano nella Garfagnana con tutte le loro pertinenze gli stessero sottoposti; accettasse come concittadini le persone della Garfagnana che il vogliano; e i Comuni e le persone di questa possano ricevere i podestà e rettori di Lucca: vale a dire, li sottraeva alla giurisdizione imperiale per sottoporli alla comunale[154]. Quando i [163] Lucchesi parteggiarono col papa, esso Federico cassò quelle concessioni, investendone invece il figlio e vicario suo Enzo; ma riconciliatosi, le restituì al Comune di Lucca come feudo, talchè questa città, internamente repubblicana, riguardo agli esterni avea posto nella gerarchia feudale[155]. Eppure lo stesso Federico donava in perpetuo a Pagano Baldovin messinese il territorio di Viareggio.
La libertà dei Comuni guardavasi dunque non come un diritto primitivo, ma come una concessione sovrana; dal re si chiedevano come privilegio fin le giustizie; dal re si facevano confermare i successivi acquisti: ma, [164] secondo il senso feudale, consideravasi indipendenza il non aver altro superiore che gl’imperatori.
Tanto però bastava perchè questi potessero turbare le Repubbliche colle loro pretensioni. Altre ne mettevano in campo i feudatarj e conti, che solo per necessità aveano rassegnato i diritti antichi. Già dicemmo (pag. 69) come i vescovi fossero ricchissimi e signori di tanta parte di feudi e di giurisdizione. A quello di Brescia spettava un quinto dei feudi della diocesi: ed erano tanti, che Enrico imperatore avendone sequestrati alcuni in pena del favore dato ai papi, trovaronsi ammontare a tremila biolche di terra; che poi il Comune di Brescia ritolse alla Camera imperiale, dandole a livello a tremila poveri. Arimanno vescovo cercò ricuperare quei feudi ed altri che l’imperatore aveva investiti a laici; ma i nuovi investiti si opposero, fecero lega cogli arimanni, irati al vescovo e al Comune che li gravava di contribuzioni ad onta dell’antica immunità: ne venne guerra di fortuna varia, sinchè anche gli arimanni ottennero per patto i privilegi che già godeano i valvassori, e assoluzione da ogni tributo e servizio di corpo[156].
I vescovi essendo stati sovrani, consideravano come usurpatore o astiavano come vincitore il Comune, e sofisticavano sui diritti di quello. Intendo in questo senso una carta del 1158, ove i canonici di Santa Maria di Novara giurano fra loro di non dar mano a far passare al Comune le cose di essa chiesa, nè col fatto o col consiglio permettere che questa paghi fodro o dazio al popolo o ai consoli; nè ajutarli in ciò che spetti al fortificare la città; nè daranno canonicati ai discendenti dei consoli che aveano aperto a forza il granajo del capitolo, sinchè i padri son vivi, nè di quei consoli che [165] in alcun modo pregiudicassero alla chiesa, o entrassero per forza nella canonica o nelle case de’ fratelli[157].
Sempre poi i vescovi serbarono qualche resto dell’autorità loro; e come ricchissimi che manteneansi ancora, e capi d’una gerarchia e di un tribunale ecclesiastico, guardavansi quai primi cittadini, opinando prima di tutti, e facendo la prima comparsa negli affari. Questo intralciamento di diritti e di pretensioni potea non recare trista sequela di cozzi e di gelosie?
In mezzo a queste, le Repubbliche si organizzarono ciascuna distintamente con una varietà che è mirabile sintomo d’estesa ragione negl’Italiani, ma che è impossibile a seguirsi se non nelle storie domestiche. Accennando que’ sommi capi in che le più s’accordavano, dirò come la suprema signoria stesse nell’assemblea dei cittadini, alla quale, a suon di trombe o di campana, convocavansi plebei insieme e nobili, sommati talvolta a centinaja e migliaja. In Milano era di ottocento, poi fu cresciuta e là ed altrove sino a millecinquecento e a tremila, escludendo solo i mestieri sordidi. A Firenze vi entravano le ventiquattro arti e i settantadue mestieri. In quella generale adunanza, a voti si decideva della pace, della guerra, delle alleanze. Sembra non vi si favellasse molto, e che ciò fosse un male lo lascerem dire ad altri; ma i partiti non si pigliavano generalmente a semplice maggioranza, volendosi ove i due terzi, ove i tre quarti; in alcun luogo si raccoglieva complessivamente il voto di ciascuno de’ corpi che componeano il gran consiglio.
Pei molti affari dove occorre segreto e decisione spedita e spassionata, venne istituito il consiglio minore o di credenza[158], composto de’ più ragguardevoli, [166] giurati di non palesare i trattamenti. Erano di spettanza sua le finanze, il vigilare sopra i consoli, le relazioni esterne, e vi si disponevano i partiti da sottoporre alla deliberazione del popolo.
I consoli, magistratura, come dicemmo, di attribuzioni particolari, e che al formarsi de’ Comuni furono posti al governo, erano scelti per suffragi; e senza la cauta divisione de’ poteri, doveano render giustizia e amministrare la guerra, quasi non corresse divario fra i perturbatori dell’ordine interno e dell’esteriore. I campagnuoli non erano partecipi della pubblica amministrazione; ma molti castelli e borghi, massime di Lombardia, crearono consoli proprj, più limitati di autorità, sebbene intenti ad emulare i consoli cittadini.
I doveri dei consoli venivano annoverati nel giuramento che essi prestavano entrando in carica, e che inscrivasi negli statuti. In quelli di Genova, i più antichi che si conoscano[159], leggesi il seguente:
— In nome del Signore, noi piglieremo il magistrato questo giorno della purificazione della Madonna, e nel medesimo giorno, terminata la compagnia, il deporremo.
«Opereremo sempre a utilità del vescovado e Comune nostro, e ad onore della santa madre Chiesa.
«Esamineremo le quistioni private sulle istanze degli [167] interessati, le pubbliche anche senza istanza, di buona fede, secondo ragione e con perfetta egualità, non pregiudicando al Comune in favore de’ privati, nè ai privati in favor del Comune.
«In caso di disparere tra noi, varrà la pluralità; in caso di parità, ci riporteremo a un savio, di cui non sia conosciuto il parere.
«Rivocheremo e miglioreremo le sentenze fatte dal nostro consolato, qualunque volta il richieda la giustizia.
«Sentenzieremo in pubblico entro quindici giorni dopo presentato il libello, quando non cada in dì festivo, o l’attore non si ritiri.
«Per una sentenza non percepiremo direttamente o indirettamente più di tre soldi.
«Quando alcuna parte non trovi avvocato difensore, a sua istanza glien’eleggeremo; e se l’eletto ricusi, o non si adoperi di buona fede, gli vieteremo di comparirci dinanzi per tutto il nostro consolato.
«Imporremo a’ testimonj chiamati in giudizio dalle parti, di comparire e deporre il vero, obbligandoli, in caso di rifiuto, al rifacimento del danno. Nelle cause maggiori non si vorrà meno di dodici testimonj. Di chi citato a testimoniare, negasse comparire davanti a noi e giurare il vero, faremo vendetta a nostro arbitrio, ancorchè sia negli ordini sacri, perchè così vuole ragione.
«Le proprietà, i feudi e i diritti posseduti pacificamente per trent’anni, conserveremo intatti a’ possessori.
«In caso d’omicidio premeditato e palese, manderemo in esiglio il colpevole, daremo il guasto a’ suoi beni, e il possesso di quelli a’ più stretti congiunti dell’ucciso, o, quando li rifiutassero, alla cattedrale. Se non sia provato chiaramente il reo, permetteremo a’ congiunti fino in terzo grado di domandargli d’ammenda quanto vorranno, o quanto almeno potrà dare l’accusato. E [168] s’egli rifiuterà pagarla, e sfiderà a battaglia l’accusatore, sarà lecito, e il soccombente puniremo come avremmo punito il palese omicida.
«Chiunque portasse armi dal suono del campanone sin alla fine del parlamento, condanneremo in lire dieci se n’abbia almeno cinquanta, o in una se n’abbia sopra dieci, e in meno a nostro arbitrio se povero.
«Non permetteremo torri più alte di ottanta piedi, e a venti soldi per piede condanneremo i trasgressori.
«I falsatori di monete e i complici loro spoglieremo d’ogni avere e d’ogni diritto a favore del pubblico erario; proporremo al parlamento che siano banditi in perpetuo; e venendo in nostro potere, farem loro troncare la destra. Sarà però necessario a un tanto castigo o la confessione del reo, o ch’e’ sia convinto mediante legale deposizione de’ testimonj.
«Ad ambasciatori assegneremo solo l’onorario approvato dalla maggioranza del parlamento.
«Vieteremo il portare nel nostro distretto merci pregiudicievoli alle nostrali, salvo i legnami e guarnimenti di nave.
«Non imprenderemo guerra, nè faremo oste, divieto o imposizione senza il consenso del parlamento; nè aumenteremo i dazj marittimi, fuorchè all’occasione di nuova guerra in mare; e i pesi cadranno uguali su tutti.
«Chiunque, invitato da noi o dal popolo ad ascriversi nella nostra compagnia, non avrà aderito entro undici giorni, ne sarà escluso per tre anni avvenire; non accetteremo in giudizio le sue istanze, salvo fosse per difesa; nè lo nomineremo ai pubblici uffizj, e farem divieto che nessuno della nostra compagnia lo serva delle sue navi, o lo difenda ai tribunali.
«Qualunque volta un estranio sarà accettato nella nostra compagnia, gli daremo il giuramento di abitazione [169] non interrotta nella nostra città, secondo il consueto degli altri cittadini. Pe’ conti, pe’ marchesi e per le persone domiciliate fra Chiavari e Portovenere basterà l’abitazione di tre mesi l’anno.
«Osserveremo fedelmente l’appalto delle monete a coloro che si sono obbligati verso il Comune, e saranno leali alle convenzioni co’ principi e popoli forestieri».
Per correggere lo sconcio feudale di lasciare nelle mani stesse l’amministrazione e la giustizia, si distinsero i consoli minori o dei placiti, specialmente applicati ai giudizj, a differenza di quei del Comune o maggiori[160]. Trattavano collegialmente le cause: tenendo giurisdizione separata in distinti quartieri: e il tribunale di ciascuno distinguevasi con insegna particolare, dicendosi del bue, dell’aquila, dell’orso, del leone, e così via; a Piacenza erano dipinti sul tribunale il griffone e il cervo, a Verona l’ariete; a Mantova diceansi del banco di san Pietro, di sant’Andrea, di san Giacomo, di san Martino[161].
Consoli chiamavansi, fin prima della libertà, altri sovrantendenti alle grasce, alla marina, alle arti o simili, e così continuarono. Nel 1172 Milano creava otto consoli de’ mercanti, collo stipendio di sette lire di terzuoli, e l’obbligo di sopravvedere alle misure, riscuotere le multe dei bandi, delle bestemmie e di somiglianti trasgressioni, e provvedere che i mercanti andassero sicuri. I consoli delle faggie doveano rivendicare e difendere i diritti del Comune sovra i pascoli intorno alla città, e sopravvegliare alle strade: il quale [170] uffizio a Chieri chiamavasi dei sacristi, a Siena de’ viaj. Di poi ciascun corpo volle avere o piuttosto conservò consoli proprj; e così le parrocchie e le terre, dove sussistettero fin ai giorni nostri quali agenti del Comune.
Nell’elezione dei consoli operavano spesso l’intrigo e l’ingerenza delle famiglie potenti; e trovandosi scelti da case e da fazioni nemiche, si contrariavano gli uni gli altri, incagliando gli affari, e per tema o preghiere o disservigio lasciando lesa o monca la giustizia. La potenza de’ consoli annui ed elettivi non era bastante a reprimere i faziosi, nè potea reggersi che appoggiata ad un partito, mancando dell’imparzialità necessaria a garantire i diritti di tutti. I consoli, nemici personali de’ castellani ch’essi aveano spossessati, poteano esserne giudici? Tornando cittadini dopo un anno, trovavansi esposti alle vendette de’ ribaldi che avessero puniti o delle famiglie offese. Per dominar l’anarchia bisognava un tribunale che da più alto reggesse cittadini e castellani, che non fosse nè feudale nè borghese, che potesse reprimer robustamente le lotte; popolare così che i cittadini lo potessero opporre ai nobili, eppur nobile affinchè l’aristocrazia l’accettasse, e che per origine non avesse e per lunga dimora non adottasse le passioni de’ cittadini. A tale intento Bologna chiamò il faentino Guido di Ranieri da Sasso, che esercitasse il potere de’ consoli del Comune, e presedesse a quelli de’ placiti. Questo nuovo magistrato s’intitolò la podestà, come quelli che il Barbarossa ai Comuni sottomessi aveva imposti invece dei consoli; e dovea rappresentare l’antico elemento imperiale, quasi custode della legale società, e di quella giustizia che, anche dopo l’emancipazione, si considerava come privilegio imperiale.
Tale novità si conobbe spediente per ridurre nel Comune anche quest’avanzo delle pretensioni imperiali, ottenere più disinteressata l’applicazione delle leggi, e [171] operare ne’ casi urgenti colla prestezza che viene dall’unità dell’esecutore. Fu dunque adottata, e cernivasi il podestà fosse dalla nobiltà castellana rimasta indipendente, fosse da città della fazione medesima, fosse tra persone celebrate per onestà o per conoscenza di leggi. Proposto nel pubblico consiglio, era eletto a pluralità di voti, ovvero se ne comprometteva la nomina in un certo numero di probi: taluni lo chiedeano al papa o all’imperatore, ma presentandogli le convenzioni o lo statuto ch’ei dovea giurare anche prima di conoscerlo. Da Perugia si mandavano cittadini, e più volentieri frati, a conoscere nelle città forestiere gli uomini di maggior vaglia, da’ cui nomi imborsati si sortiva il nuovo podestà[162].
Al designato spedivasi un’ambasceria; ed egli, al Capodanno o al san Martino, entrava con solenne incontro de’ cittadini e del vescovo, e con messa e panegirica orazione; e venuto sulla piazza maggiore, recitava una diceria, giurava osservare gli statuti, non ritenere la carica oltre un anno, e non partirsi prima d’aver subìto il sindacato[163], e nel nome di Dio assumeva l’uffizio.
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Egli menava seco due cavalieri per guardia ed onoranza; assessori e giudici per consiglio, notaj, siniscalco, ministri, servi, cavalli. La giustizia talvolta esercitava col solo privato consesso, in alcuni paesi coi consoli de’ placiti come a Milano, o co’ giudici de’ collegi come a Parma[164]. Funzionario unico, riuniva l’autorità politica e la giudiziaria de’ consoli, ridotti a semplici consiglieri col titolo di priori, anziani, rettori o simili: straniero come gli antichi conti, eppur magistrato responsale come un cittadino, uom di toga e di spada, giudice e dittatore, reprime e castellani e borghesi del [173] pari, eseguendo egli stesso i suoi decreti, e usava poteri discrezionali come in tempo di guerra. Qui pure il giuramento specificava i doveri del podestà, alcuni dei quali erano generici, altri speciali d’un tempo e d’un luogo.
Lo statuto genovese porta che il consiglio nomini ogni anno trenta elettori, i quali procedano all’elezione del podestà per via di polizze: all’eletto accettante due nunzj portino a giurare i seguenti capitoli, presente il consiglio della natìa sua terra: — Non vedrà gli statuti di Genova se non dopo giurato di osservarli: sarà servito da venti persone, e accompagnato da tre cavalieri e da due a tre giudici a sua elezione, i quali con titolo di vicarj o luogotenenti terranno gradatamente sue veci in caso di assenza, malattia o morte: salarj, pigioni, spese di viaggio resteranno a carico di lui, ma riceverà provvisione di lire milletrecento di Genova (da mezz’oncia d’oro), due lire al giorno di più nelle campagne marittime, nelle terrestri quattro, nelle ambascerie quanto deciderà il consiglio: l’anniversario del giorno che avrà preso il magistrato, dovrà uscire di Genova, e seco i suoi terrazzani e distrettuali, del che si rogherà speciale istromento.
Il podestà di Milano giurava comportarsi col miglior modo e senno all’utile della comunità, specialmente per la pace e le guerre; le convenzioni e concordie tra Milano ed altre città o private persone farà mettere in iscritto e conservare; il Comune manterrà nelle concordie e convenzioni e nelle concessioni e dazj, e a ricuperarli e serbarli; non sarà guida nè spia a danno della città, per servizio di niun suo nemico. Quando si trovi entro i pubblici fossati, ogni giorno monterà al suo uffizio, e la giustizia eserciterà a pro della repubblica, nè oltre venti giorni in tutto l’anno starà fuori del Comune; non commetterà furto nè frode, nè consentirallo [174] ad altri, ed i commessi denunzierà nel pubblico arringo. A titolo d’uffizio non piglierà cosa alcuna nè egli nè sua moglie o figliuoli, e neppure nelle legazioni; nè avrà altro stipendio che di lire duemila, e il salario di cinque giudici. Nelle cause pertinenti a’ consoli di giustizia o del Comune, non darà alcun consiglio se non ai giudici; delle sentenze sue piglierà soltanto dodici denari per libbra, cioè dieci pel Comune e due pe’ giudici suoi; le sentenze da proferire non manifesterà se non ad un suo giudice ed al notaro che ha a scriverle, e saranno conformi alle leggi di Milano. L’appalto del viatico, del fodro, della moneta non delibererà, se non avuto il consiglio de’ savj. Rileverà i consoli di tutte le cause che pronunziarono di suo comando o precetto, e parimenti d’ogni giuramento in fine dell’uffizio suo. Non farà remissione di alcuna taglia, se non per cagione d’incendio, tempesta, povertà nota, od altra giusta causa approvata dal consiglio di credenza. Non prenderà alcun prestito se non fuori della giurisdizione in benefizio della repubblica. Ogni mese riceva e renda i conti, stendendone autentica scrittura; e si faccia rileggere il giuramento, diligentemente ascoltandolo. Villa nè borghigiano o rustico alcuno affranchi dai carichi imposti per la repubblica, senza il consentimento del comune consiglio. Le costituzioni del Comune non muti senza il consiglio di credenza. Faccia eseguire le sentenze proferite, e le pene contro i fornai delinquenti e i malfattori. Quelli posti nel bando per omicidio o congiurato, non permetta abitare nel comune di Milano, e le terre o abitazioni di quelli tenga incolte e devastate: non conceda verun uffizio o ambasciata a banditi, nè a falliti od infami: definisca le appellazioni fatte sopra cause di omicidj, bandi, incendj, battaglie, eccetto se l’appellante non dia all’avversario sicurtà della restituzion delle spese, giurando non aver dato niente al [175] giudice delle appellazioni, nè ad altra persona fuor dell’avvocato, o per cavare scritture. Fedelmente ricercherà se niun ufficiale faccia frode: tutti i provvisionati del Comune costringerà a dar conto ogni quattro mesi de’ denari avuti per la comunità. Non farà o lascerà far ricerca sulle condanne date per gli antecessori suoi, nè sui denari spesi dal Comune per tali uffiziali. Giudei ed eretici deve sbandire da Milano e suo contado, dopo che per l’arcivescovo gli sieno denunziati; quelli che gli avessero ricettati ammonisca perchè fra venti giorni gli abbiano espulsi, altrimenti essi pure saranno posti nel bando, dal quale non si potranno cavare senza licenza ecclesiastica; le case loro faccia diroccare. Se alcuno statuto ritrovasse contrario alla Chiesa, lo annullerebbe. Finito il suo reggimento, quindici giorni dimorasse a Milano insieme colla sua comitiva, aspettando il sindacato (Corio).
La spada sguainata che si recava innanzi al podestà, esprimeva il diritto di sangue: ma spesso doveva esercitarlo con aspetto di guerra e di violenza. Alcun pubblico delitto era denunziato? dal balcone del palazzo egli sciorinava il gonfalone di giustizia, colle trombe chiamava i cittadini alle armi, e a capo loro moveva ad assediare la casa del reo. A Perugia sono uccisi due giudici, e si ordina di tener chiuse le botteghe finchè non siano scoperti i rei; e così stettero per tre mesi. — Giuro che, se alcun nobile, o non giurato in popolo, ucciderà o farà uccidere o consentirà che si uccida alcun anziano o notajo d’anziani o uomo giurato in popolo..., senza intervallo farò sonare la campana del popolo, e con quel popolo o alcuna parte di esso, con sterminato furore andrò alla casa di quel cotale uccisore, e innanzi che quindi mi parta, infino alle fondamenta farò disfare... E insino a tanto che la distruzione e il guastamento di tutti i beni del malfattore [176] predetto, così nella città come nel contado, non sia compiuto di fare, nulla bottega d’arte o mestiere, o corte alcuna della città fia tenuta aperta». In tale sentenza ogn’anno giurava il capitano del popolo di Pisa; e aggiungeva che punirebbe il figlio pel padre, il padre pel figlio, non lascerebbe mai più coltivare o comprare i loro beni, darebbe un premio a chi li pigliasse o uccidesse[165].
Tanto fin la giustizia assumeva aspetto di violenza, perchè le Repubbliche, a modo de’ feudatarj, traevano il diritto punitivo da quel della guerra privata e della vendetta personale, e i signori erano avvezzi a obbedire soltanto alla forza; onde non era se non la pubblica sostituita alla privata, e i castighi somigliavano alle rappresaglie delle passioni, le quali non si erano spente ma solo dirette, ignorandosi ancora la pacifica amministrazione.
In somma il podestà comprendeva in sè l’antitesi della società d’allora. Come dittatore, veste carattere politico, assale, difende, bandisce, uccide, dirocca case [177] e castelli, arma e disarma la città, conduce l’esercito; e riconoscendo due partiti ostili, due tendenze contrapposte, le regola col reprimerne una, cioè col limitare la libertà. Come giudice, veste carattere legale, semplice stromento della legge, innanzi alla quale si eclissano partiti, persone, famiglie; nè egli dee permettersi verun passo che offenda la libertà. Giurato ad osservar gli statuti, contornato da persone di legge, venuto da paese estraneo per amministrar con imparzialità; esposto al sindacato; eppure come dittatore è costretto a un’ingiustizia continua fra i due partiti in lotta; è esposto all’eventualità de’ conflitti; robusto in un momento di sollevazione, è inetto allorchè le due fazioni s’accordino in modo, che egli non possa valersi dell’una per reprimere l’altra.
Di tanta autorità poteva facilmente abusare; onde fu assiepato di gelose precauzioni: ad invitarlo si deputavano persone religiose, estranie alle brighe; talvolta a sei e fin a tre mesi se ne limitò la durata, benchè talaltra venisse allungata[166]; in città non dovea contrarre parentele, non mangiare presso alcuno. La breve durata cagionava gli scomodi d’un perpetuo tirocinio; eppure durante l’effimera magistratura il podestà rimaneva arbitro delle vite, per la latitudine concessa dalle consuetudini. Il potere giudiziale esercitavasi troppo mescolatamente col politico, e la ragion di Stato soffocava la schietta voce della giustizia. Nelle rivoluzioni poi al podestà concedevasi balìa dittatoria, sicchè castigava a tumulto i rei, cioè la parte avversa e la [178] soccombente. I Bolognesi nel 1192 tolsero a podestà Gherardo Scannabecchi loro vescovo, ma nojatisi di lui, vollero sostituirvi i consoli: il vescovo s’ostinava a tener il potere, sinchè una levata di popolo lo gittò in fuga. I Pisani chiesero podestà papa Bonifazio VIII, ed egli accettò collo stipendio di quattromila fiorini: altrove fu podestà un re. Il sindacato non era una cautela politica contro gli abusi del potere, giacchè si facea sol dopo scaduto di carica, ma una salvaguardia della moralità e un risarcimento ai danni privati, derivato esso pure da consuetudini romane[167]. N’usciva con lode? il podestà riceveva dal Comune un pennone, una targa o altro segno; a Giovanni Raffacani fiorentino gli Orvietani nel partire posero in capo una corona d’oro, e gli diedero una spada e uno scudo con gran trionfo[168]; e non v’è città che non serbi una lapida o l’effigie d’alcuno: onorificenze dappoi profuse per piacenteria o per amistà[169].
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Procedendo a tentone come gente inesperta, al primo sconcio che apparisse mutavano forma di governo, salvo a tornare fra pochi mesi al primiero. Fu volta che, scontenta del comune aristocratico, la plebe elesse un capitano suo proprio, straniero anch’egli, che per un anno o per sei mesi la tutelasse[170]; talaltra nominavasi un capitano di guerra, che dimezzava il potere dei predetti, avendo in mano la forza. In Bologna il comune dei nobili era preseduto dal pretore; i non nobili formavano il popolo, con un prefetto o capitano. Milano nel 1186 eleggea primo podestà Uberto Visconti; l’anno appresso tornò al consolato; nel 1191 usava ancora un podestà, tre nel 1201, cinque nel seguente, tre ancora nel 1204. Firenze erasi divisa in dodici arti; sette maggiori, de’ giureconsulti e notaj, de’ mercanti di panno in Calimala, de’ cambisti, lanajuoli, medici e speziali, mercanti di seta, pellicciaj; e cinque minori, de’ bottegaj, macellari, calzolaj, muratori e falegnami, mariscalchi e magnani: ed anche il nobile che volesse impieghi doveva essere in qualcuna matricolato. Nel 1294 creatasi la signoria dei priori delle arti e della libertà, alla prima elezione non presero parte che le tre prime, alla seconda sei, a ciascuna delle quali toglievasi un priore, rinnovandoli ogni terzo mese. Viveano in comune a pubbliche spese, non uscendo di palazzo per quanto la balìa durava; rappresentavano lo Stato, ed esercitavano il potere esecutivo; ed uniti coi capi e coi consigli o capitudini delle arti maggiori, con alcuni aggiunti (arroti) nominavano a scrutinio i proprj successori[171]. Mal rassegnandosi i nobili a questa oligarchia [180] plebea, fu introdotto nel 1292 il gonfaloniere della giustizia, per reprimere i perturbatori della quiete: e quand’egli esponesse la bandiera sul pubblico palazzo, i capi delle venti compagnie doveano raggiungerlo, per assalire con lui i sediziosi e punirli. Quest’esempio trovò i seguaci.
Un abate del popolo o molti incontriamo altrove: un doge al modo di Venezia assumevano ne’ maggiori frangenti Pisa e Genova; trasferendo in esso ogni pubblico potere, salvi però i collegi delle arti e i pubblici ordinamenti. In Bologna l’autorità sovrana era divisa fra il podestà, i consoli e tre consigli, cioè il generale, lo speciale e quel di credenza: nel primo entravano tutti i cittadini sopra i diciott’anni, esclusi gl’infimi artieri; il secondo era di seicento; nell’altro di minor numero aveano luogo tutti i giureconsulti paesani. Dicembre entrante, i due primi consigli venivano convocati dai consoli o dal podestà, e messe innanzi al loro tribunale due urne coi nomi dei componenti essi consigli; e da ciascuna delle quattro tribù in cui era partita la città, estratti a sorte dieci elettori, venivano rinchiusi insieme, ed obbligati, entro ventiquattr’ore, a nominare, colla maggioranza di ventisette voti, quei che dovessero entrare ne’ consigli. Ai consoli o al podestà spettava l’iniziativa degli affari, che poi erano decisi dai consigli, dove per lo più quattro oratori soli avevano la parola, gli altri limitavansi a votare.
È questo uno dei mille modi coi quali fu dai Comuni del medioevo affrontato quel che oggi pure è intricato problema dei paesi costituzionali, le elezioni. Nulla è men sincero che il voto emesso dall’intera nazione radunata, dove esso va confuso collo schiamazzo plebeo o la tresca astuta, dove non tutte le classi sono equamente rappresentate, dove l’ignaro e l’intrigante valgono l’onesto e illuminato, e la libertà ne va il più spesso alla [181] peggio. Si procurarono dunque varj ripari, per lo più ricorrendo alla sorte o a complicatissime combinazioni, di cui Venezia e Lucca particolarmente offrono bizzarri esempj.
In Venezia il doge ne’ primi sei secoli era scelto dal popolo; dopo il 1173 da undici elettori; dopo il 1178 il maggior consiglio cerniva quattro commissarj, ciascun de’ quali nominava dieci elettori, cresciuti poi a quarantuno nel 1249. Così durò fino al 1268, quando, per cansare il broglio, s’introdusse la più strana complicazione. I membri d’esso consiglio metteansi a squittinio con palle di cera, trenta delle quali chiudevano una cartolina iscritta elector: dei nove cui toccavano le fortunate, due venivano esclusi, gli altri designavano quaranta elettori, i quali col metodo stesso riduceansi a dodici. Il primo di essi ne eleggeva tre, due gli altri, e tutti venticinque doveano essere confermati da nove voti; poi ridotti a nove, ciascuno doveva indicarne cinque, e tutti i quarantacinque ottenere almeno sette voti. I primi otto tra questi ne cappavano quattro ciascheduno, e tre i tre ultimi; onde venivano quarantun elettori, che messi ai voti, doveano riportare almen nove delle undici palle. Se un elettore nel maggior consiglio non conseguisse l’assoluta maggioranza, restava escluso, e gli undici dovevano surrogarne un altro. Così cinque ballottazioni e cinque scrutinj producevano i quarantun elettori. Di botto erano chiusi in una sala, finchè non avessero nominato il doge; trattati splendidamente, liberi di chiedere qualunque capriccio, ma quel che uno domandasse era dato a tutti: uno volle un rosario, e se ne recarono quarantuno; un altro le favole d’Esopo, e fu fatica il ritrovarne altrettanti esemplari. Gli elettori nominavano tre presidenti priori; indi due segretarj che restassero chiusi con essi. Allora per ordine d’età venivano chiamati innanzi ai priori, e ciascuno di proprio [182] pugno scriveva sopra una scheda il nome del proposto, che dovea aver compiuti i trent’anni ed appartenere al maggior consiglio. Un segretario, tratto a sorte uno di que’ viglietti, ne pubblicava il nome, e ciascuno potea fare gli appunti che credesse. Passatili tutti in rassegna, mandavasi ai voti, e sortiva doge quel che ne conseguisse almeno venticinque. A questo modo fu eletto per la prima volta Lorenzo Tiepolo[172].
A Lucca era condizione d’eleggibilità il censo[173]; e supremo magistrato i nove anziani, tra cui il gonfaloniere; poi un consiglio di trentasei, e il consiglio generale di settantadue. La signoria sedeva due mesi, e chi era seduto avea divieto due anni; essa scompartivasi coi trentasei gli onori e gli utili dello Stato. «Imborsano (dice il Machiavelli), ogni due anni, tutti quelli signori e gonfalonieri, che nelli due anni futuri debbono sedere; e per fare questo, ragunati che sono i signori con il consiglio de’ trentasei in una stanza a questo [183] ordinata, mettono in un’altra stanza propinqua a quella i segretarj dei partiti con un frate, ed un altro frate sta sull’uscio che entra ai segretarj, quello a chi ei rende il partito, e a chi ei vuole che altri lo rendano; dipoi ne va innanzi ai segretarj, e mette una ballotta nel bossolo. Tornato che è il gonfaloniere a sedere, va uno dei signori di più tempo, poi vanno tutti gli altri di mano in mano; dopo i signori va tutto il consiglio, e ciascuno quando giunge al frate domanda chi è stato nominato ed a chi egli debba rendere il partito, e non prima; talchè non ha tempo a deliberarsi, se non quel tempo che pena a ire dal frate ai segretarj. Renduto che ciascuno ha il partito, e’ si vôta il bossolo, e s’egli ha tre quarti del favore, egli è scritto per uno dei signori; se non l’ha, è lasciato ire fra i perduti. Ito che è costui, il più vecchio dei signori va e nomina un altro nell’orecchio al frate; dipoi ciascuno va a rendergli il partito, e così di mano in mano ciascuno nomina uno, e il più delle volte torna loro fatta la signoria in tre tornate di consiglio. E ad avere il pieno loro conviene che gli abbiano centotto signori vinti, e dodici gonfalonieri: il che come hanno, squittinano infra di loro gli assortitori, i quali assortiscano che questi siano i tali mesi, e quelli i tali, e così assortiti, ogni due mesi si pubblicano».
Tanto basti a chiarire quanto lontani dall’uniformità fossero quei reggimenti. Nell’interno durava la diversità delle persone: e primi erano i militi, derivanti dagli antichi feudatarj e da arimanni e baroni; seguivano gli ecclesiastici; poi i leggisti, col nome di judices, advocati, procuratores; indi i paratici, cioè le corporazioni d’artieri; ultimi i popolani[174]. Allato della [184] libertà comunale sussistevano privilegi feudali, ecclesiastici, regj, consorzj di famiglie e d’arti; servitù di possessi e di persone; libertà romana, clericale, barbarica. In alcuni paesi, massime nel Piemonte, molti Comuni rimanevano sotto la supremazia immediata dell’imperatore o de’ suoi vicarj, laonde non godeano l’intera sovranità, cioè il diritto di pace, guerra, moneta, e la suprema giurisdizione, ma del resto si governavano senza differenza dagli altri, giacchè le franchigie comunali si credeano parte del diritto pubblico interno, e l’amministrare distinguevasi dal regnare. La città d’Ivrea, dandosi nel 1313 ad Amedeo V conte di Savoja, stipulava che il podestà, i giudici e gli altri uffiziali di giustizia conserverebbero il mero e misto imperio, e si farebbero gli statuti come per l’addietro.
Rimanevano traccie del diritto personale alla germanica[175]; ma prevaleva il diritto romano, nelle diverse [185] città modificato da una moltitudine di ordinanze municipali. Gl’imperatori seguitarono a far leggi nella dieta nazionale, ma concernevano soltanto feudi, vassalli, monasteri: mentre era nella natura de’ popoli germanici che o la consuetudine o il consenso de’ migliori e maggiori della terra producessero un gius privato.
Profittando della facoltà ottenuta nella pace di Costanza, tutte le repubbliche tradussero le consuetudini in leggi compilando statuti proprj; e fin borgate, fin monasteri vollero averne di particolari[176]. Erano decreti [186] relativi all’uffizio de’ magistrati o all’amministrazione del pubblico; poi alla polizia, a pesi e misure, alla salubrità, all’annona, ai traffici, a quanto insomma occorreva ai bisogni ed ai costumi. Obbligavano soltanto gli accomunati, non i feudatarj, non i corpi o le persone immediatamente dipendenti dal re. Aggiravansi ora sopra l’applicazione della legge romana o longobarda, ora sopra la consuetudine; e v’avea talvolta regolamenti distinti per le due giurisprudenze, come a Pisa un constitutum legis e un constitutum usus.
Francesco da Legnano diceva a Matteo Visconti: — Voi giurerete reggere il popolo nel nome del Signore da oggi innanzi fino a cinque anni con buona fede, senza frode; e di custodire e salvare esso popolo e gli statuti; e dove questi taciano, starete alle leggi romane». È questo il cenno più antico del diritto comune, chiamato in supplimento alla legge municipale[177]. Il diritto comune conteneva i principii generali [187] di giustizia, applicabili nell’interesse sì del pubblico sì de’ privati; il municipale era legge di eccezione, riguardante le qualità e i diritti particolari di ciascun Comune. Il primo era spiegato per scienza, e solo l’imperatore avrebbe potuto aggiungervi qualche costituzione: negli statuti venivano fatte aggiunte o deroghe secondo l’opportunità dai magistrati municipali. Il primo conteneva la ragione scritta, e progredita mediante gli studj legali e filosofici: negli statuti si trova la storia contemporanea di cadaun Comune, e l’espressione dei costumi e delle credenze.
Sopravviveano le consuetudini germaniche del mundio, del comporsi a denaro, delle prove di Dio, del duello giudiziario, non però colla spada ma con bastone e scudo in presenza del popolo e d’un console. Pene sproporzionatamente feroci si applicavano, come era nello statuto milanese lo strappar un occhio al ladro la prima volta, la seconda troncargli le mani, alla terza la forca[178]. Dalle libertà germaniche proveniva la legge in molti ripetuta di non arrestare alcun cittadino se non per ordine de’ consoli; l’habeas corpus, di cui si compiaciono così giustamente gl’Inglesi[179]. Qualche vestigio vi rimane ancora delle antiche associazioni, dove tutti erano interessati alla sicurezza de’ singoli, perchè del danno sofferto doveano compenso: così in [188] una convenzione del 1219 fra Bergamo e Brescia è statuito che se qualche Bresciano, fra giorno, sia da’ masnadieri derubato sulla strada reale che mette a Milano, il comune di Bergamo deva fra venti giorni risarcirlo; altrettanto pei Bergamaschi[180]. Quel di Mantova rifaceva i danni per manomessione di argini e campi, e così per incendj; del forestiero rendeva garante l’ospite o l’albergatore, che doveva subito notificarlo[181].
In generale tu vi scorgi una diffidenza continua verso i vicini e tra gli stessi accomunati; poi sottentra la cura di mantenere distinte le classi; e i beni e l’autorità ristretti in poche famiglie; una fiscalità argutissima; le donne escluse dalle successioni, ricevendo a saldo la dote. Da alcuno vedemmo abolite le servitù personali; quel di Modena del 1221 cancellò perfino ogni possesso o dipendenza feudale[182]; e le tante gelosissime diligenze attorno ai contratti, ai fitti, alle enfiteusi, alle usure, danno a vedere la crescente importanza della ricchezza mobile e della agricola, e come questa si sminuzzasse affinchè un maggior numero ne ritraesse vantaggi individuali. Ma di quel volere ingerirsi d’ogni atto gli appunteremo noi, se fin oggi i governi non hanno imparato che la loro attribuzione razionale si riduce alla legittima difesa dei diritti degli individui?
Ne conseguiva che non potesse uniformemente amministrarsi la giustizia: e la parte peggiore d’esse Repubbliche era appunto questa, che è quella di cui più immediatamente i cittadini risentono. V’avea giudici del re, ve n’avea del municipio, del podestà, del feudatario, oltre gli ecclesiastici. I rettori della Lega Lombarda, [189] quando si univano or qua or là per gl’interessi comuni, ricevevano anche l’appello da sentenze di consoli, al modo che soleano un tempo i re d’Italia[183]; i quali pure non cessarono d’esercitare questa supremazia qualvolta qui tenessero dieta.
La giurisdizione dei vescovi si restrinse ai loro feudi; e ampliandosi il reggimento repubblicano, i consoli talvolta pretesero sentenziare anche sopra persone ecclesiastiche, per quanto i concilj vi si opponessero[184]. I feudatarj laici o cherici amministravano la giustizia personalmente, o per via di gastaldi e nunzj, i quali solevano affidarla a giudici scelti fra gli abitanti del luogo; e da loro davasi appello al giudice feudale, il quale però nulla poteva direttamente sopra i cittadini che abitassero nel fondo. Le cause feudali erano riservate a un doppio tribunale de’ pari maggiori e minori, ed alla regia curia.
In Firenze il podestà e il capitano di giustizia, sempre forestieri, abitavano quello nel palazzo del Comune, questo nel palazzo del popolo, entrando nell’annuo uffizio l’uno a maggio, l’altro a gennajo, e ambidue conoscendo delle cause civili e delle criminali. Il podestà conduceva sette giudici, tre cavalieri, diciotto notaj, nove berrovieri, tutti non toscani; e quello colla sua famiglia riceveva seimila lire, l’altro seimila cinquecento. Il podestà deputava uno de’ suoi giudici ogni due [190] sestieri della città per inquisire ne’ casi criminali: nessuno poteva dar querela se non al giudice del proprio sestiere: il reo seguiva il fôro dell’attore, i forestieri sceglievano qual volessero. Nelle cause di poco momento si procedeva sull’istanza dell’ingiuriato o di un suo parente; nelle gravi, di chicchefosse, purchè sottoscritta; d’uffizio, nel caso che l’ingiuriato ricusasse di farlo. L’accusatore giurava proseguire la causa, dandone malleveria per cento soldi: il reo citavasi a spese dell’attore. Le esamine si scriveano, convincevasi per testimonj, e al reo si assegnavano dieci giorni a difendersi. Entro venticinque giorni il giudice doveva esaminar la causa, e conferirla con altri giudici e col podestà; poi fra cinque altri proferire la sentenza. Le cause civili in prima istanza conoscevansi dai giudici de’ sestieri, cittadini dottori, mutabili ogni sei mesi e pagati. L’appello recavasi al giudice annuo, forestiero e dottore; se confermasse, la causa passava in giudicato; se no, recavasi al podestà, con quattro giudici collaterali pronunciava definitivamente. Del capitano del popolo erano competenza le violenze, estorsioni, falsità a lui denunziate, le cause riguardanti estimo e gabelle, e i delitti di cui il podestà non proferisse fra trenta giorni. I cavalieri andavano in volta coi berrovieri, cercando i violatori degli statuti; in molti casi non poteasi catturare alcuno se non in loro presenza; o in difetto supplivano i notaj, cui uffizio era coadjuvare i giudici. S’aggiunga la corte del vescovo, l’inquisitore dell’eresia, il giudice sopra le gabelle, quello dell’appellazione, e forse altri, chè ciascuno teneva ragione e corda da tormentare. Ciò che è più strano, cittadini nelle proprie abitazioni esercitavano il diritto punitivo, e i Bostichi «collavano gli uomini in casa loro, in mercato nel mezzo della città, e di mezzodì li mettevano al tormento»[185].
[191]
Tante giurisdizioni nel territorio d’una sola repubblica! Collegi di giureconsulti trovansi fin nell’XI secolo[186]; crebbero nel XIII in tutte le città, dove pure se ne formarono di notaj, che pigliaronsi il diritto di nominare i proprj colleghi. I giudici milanesi giuravano valersi del voto d’un giurisprudente, sentenziare in buona fede secondo le leggi, non concedere al reo oltre otto giorni per rispondere, proferire fra quattro mesi dopo la contestazione, e mettere in iscritto la sentenza nelle cause che eccedessero i soldi quaranta di terzuoli[187]. La semplicità e la speditezza mal redimevano dal pericolo dell’ignoranza, della passione, dell’arbitrio; e troppo mal si pensava a concordare la libertà di tutti colla sicurezza de’ singoli. Al senatore di Siena un Cenni accusa per ladro Durdo di Naccino: quegli trovando tutto il contrario, fa vestire Durdo di bianco, e andare innanzi coll’ulivo in mano, e dietro a lui il Cenni vestito di nero; e giunti al luogo del supplizio, questo è appiccato, l’altro dimesso. Un Fiorentino avendo rotto il bando, fu condannato alle forche. Il podestà Nicola Rosso, prima di mandarvelo, gli domandò se avesse moglie. — L’ho, e bella; e se la tiene il tal cittadino». Era il cittadino appunto che avea brigato per farlo eseguire, poi denunziatolo per la rottura [192] del bando; e il podestà fe togliere il capestro al condannato e stringerlo a costui, per quanto reclamassero i parenti[188]. Sarà stata giustizia, ma chi, se non un Turco, soffrirebbe modi così assoluti?
Uno dei Ricci di Firenze, sullo scorcio del secolo XIV, scrisse di alcuni insigni personaggi della sua famiglia, tra’ quali molto lodato messer Rosso di Ricciardo, che fu capitano de’ Fiorentini nel 1370 contro Bernabò Visconti. Essendo podestà a Perugia, ebbe deposizione da un ladro che, ascososi in una cava per rubare, vide un cittadino condurvi un suo nipote, e quivi ucciderlo e sepellirlo. Il Ricci mandò a cercare nella cava, e trovate le ossa, fece recarsele in un sacco. Ma poichè l’uccisore era di grand’animo e séguito in città, lo chiamò a sè con amichevoli apparenze, poi mostrategli le ossa, lo indusse a confessare il delitto. Subito in città si leva gran rumore, gente armata viene in piazza; e il podestà li tiene a buone parole, ma intanto fa impiccare il cittadino. Quella fermezza sgomenta i faziosi, che tornano a disarmarsi; e quando scadde egli fu commendato e onorato. Al ladro denunziatore avea promesso salva la vita, ma gli fece troncar le mani.
In Norcia redimevasi ancora l’omicidio a denaro: e mentre vi sedeva podestà esso Ricci, due cittadini uccisero un altro. Presi per ordine di lui, quelli confessarono il delitto, ma d’aver pagato ducento lire per ammenda. Ciò non ostante esso li condannò a morte: e andando i signori del paese a lamentarsene, rispose che così gli era paruto il giusto; ma se ad essi sembrassero morti immeritamente, ecco, pagava loro l’ammenda. Così li chiariva come fosse iniqua tal legge, e «la fe correggere che, chi uccidesse alcuno, lo dovesse pacificare colla propria vita e non altrimenti»[189].
[193]
Rechiamo un esempio di giudizj regolari. Andrea vescovo di Luni e i marchesi Malaspina e Guglielmo Francesco essendo in guerra, la città di Lucca, che gli aveva presi in amicizia, spedì persuadendoli a pace. Le due parti subito vennero a Lucca, e in Sant’Alessandro si congregarono da sessanta consoli e molte altre savie persone, e chiesero che le parti li costituissero arbitri della contesa; e quelle promisero stare al lodo, sotto pena di cento libbre d’oro fino. Qui Guglielmo d’Apulia, avvocato dei Malaspina, narrò come, essendo questi andati coi loro militi al Pozzo nel Monte Caprone per edificarvi un castello, l’esercito del vescovo si fè loro incontro per cacciarneli, con grave guasto d’uomini e di cavalli: i marchesi, valorosamente resistendo, ascesero il poggio, e cominciarono la fabbrica. Chiedeva dunque al consolato che il vescovo dovesse rifare i danni che recò coll’esercito, senz’avere tampoco premoniti i marchesi, come a vescovo conviene.
Il vescovo rispose che al marchese Guglielmo, il quale gli aveva giurato libertà, esso avea fatto sentire che il fabbricar quel castello gli sarebbe rincresciuto quanto il cavargli il fegato, perchè ne rimarrebbe diminuito e quasi annichilato il vescovado: al Malaspina non fe motto perchè gli era nemico. Maginardo di Pontremoli arringò pel vescovo; non dover questi verun compenso, attesochè quel castello fabbricavano a ruina del vescovado, e sopra terra in gran parte a questo appartenente. Interrogato intorno a tale possesso dall’avvocato avversario, Maginardo rispose che il vescovo Filippo comprò la parte che spettava al marchese Folco, parte ebbe in legato da Malnevote, parte in dono dal marchese Pelavicino[190].
[194]
Oppose Guglielmo che del lascito di Malnevote non era a tener conto, perchè lo fece da disennato e in odio del fratello: il Pelavicino poi e il Folco non poteano disporre di esso monte, perchè il monte e i coloni suoi erano stati divisi in modo, che una metà toccò in comune al proavo del Pelavicino e a quello del marchese Guglielmo; l’altra metà al proavo di Malaspina e all’avo di Atone marchese, nella qual parte cadeva il poggio disputato; che, fatta la divisione, rimase al proavo di Malaspina.
Bisognando recar le prove di lutto ciò, fu chiesta una proroga, spirata la quale, produssero gli istromenti e i testimonj, nessun de’ quali era decisivo. E poichè i consoli erano arbitri non solo secondo le leggi e il diritto, ma anche come meglio volessero, proferirono che metà d’esso poggio spettava alla chiesa di Santa Maria, vietando ai marchesi di fabbricarvi il castello od altro; dovendo i vescovi esser più benigni ai laici, che non questi a quelli, il vescovo compensi dei danni fatti ai marchesi con mille soldi lucchesi; i marchesi prometteranno nè essi nè i loro eredi più nulla pretendere di quella metà del poggio; se no, paghino cento libbre d’oro; e così pure il vescovo; gli uomini dei marchesi abbandonino quella metà, e sia distrutto ogni cominciamento del castello; in presenza loro si diano la parola e il bacio di pace.
Gregorio legisperito fu rogato di quest’atto al 15 avanti le calende di novembre 1124, e vi si sottoscrissero le parti e i consoli: la sentenza fu confermata e sottoscritta da Leone, giudice costituito dall’imperatore Enrico, ed eletto arbitro in questa causa[191].
[195]
Qui parlammo dei Comuni sovrani; ma questi s’erano sovraposti a ville e borgate, cui lasciavano la giurisdizione solo in limiti ristretti; ed anche città, nelle quali esercitavano superiorità, e ne impedivano il libero governo, senza però riformare il Comune per assimilarlo a sè. Como mandava il podestà a Lugano, Mendrisio, Bellagio, Menaggio, Teglio, alle Tre Pievi del Lago, ai terzieri della Valtellina, a Chiavenna, Poschiavo, Sondrio, Ponte, Porlezza, Bormio, i cui abitanti doveano tre volte l’anno condursi a Tresivio per ricevere giustizia dal podestà di Como, e recarvi le appellazioni. Pisa inviava il capitano a Piombino, che amministrasse la giustizia anche a Populonia, Porto Baratti e all’isola d’Elba.
I Fiorentini nel 1181 sottoposero il Comune d’Empoli, appartenuto dapprima ai conti Alberti, e l’obbligarono a giurare sui vangeli di custodire e ajutare ogni persona di Firenze e de’ suoi borghi: se alcuno del loro Comune danneggi qualche Fiorentino, l’obbligheranno a rifare i danni tra quindici giorni: chiesti dal magistrato di Firenze, andranno a oste e a cavalcata e guerre e paci, e faranno come quello vorrà, purchè non sia contro il conte Guido. Al san Giovanni d’ogni anno davano ai consoli di Firenze cinquanta libbre di buoni denari, e alla chiesa maggiore un cero[192].
[196]
I Perugini si erano sottomessi non solo i Catani, ma le città vicine, che tutte doveano mandare il pallio nella solennità di sant’Ercolano; Spoleto doveva aggiungervi [197] un cavallo covertato di scarlatto; così Sarteano, oltre cento fiorini d’oro in una coppa d’argento; le città di Castello e di Gubbio lasciavano che Perugia prendesse [198] parte all’elezione dei consoli; Montepulciano ne riceveva il podestà, che per sei mesi doveva esser de’ nobili, per sei de’ popolani, con piena giurisdizione criminale e civile, e la custodia delle chiavi delle porte e de’ fortilizj; e nel giorno di sant’Ercolano spedire il pallio che valesse almeno venticinque fiorini d’oro, da presentarsi a piè della scalea di San Lorenzo. Assisi scosse l’ubbidienza; ma costretta calare a patti, i Perugini v’entrarono il 1322, uccisero più di cento ribelli, e ridussero quel paese a contado, diroccandone le mura.
Padova si arrogò di eleggere il podestà di Vicenza. A quest’uopo raccolto il maggior consiglio, estraevansi da un’urna quaranta polizze, e quelli cui la polizza toccasse [199] divenivano elettori. Questi quaranta si chiudeano nella chiesa del palazzo, accendendo una dopo l’altra due candelette da due denari; e prima che fossero consumate, essi doveano eleggere, fuor di loro, tre cittadini: fra i quali poi la sorte designava il podestà. Se non fosse cavaliere, veniva fatto; avea tremila lire di stipendio, dovea dar mille marche d’argento per malleveria al Comune, e la sua corte era tutta di Padovani.
Casale sul Po, fabbricato, dicono, da re Liutprando appo una chiesa di Sant’Evasio, fu città libera, ma debole, sicchè presto venne a soggezione de’ Vercellesi. I quali nel 1170 impongono agli uomini di esso che di buona fede salvino e custodiscano le persone e cose dei Vercellesi; di là alla festa di san Michele abbiano [200] alzate e finite cento braccia delle mura di Vercelli, dove i consoli consegneranno loro i rottami d’altra cerchia: se i Vercellesi assumano guerra, essi pure l’abbiano di buona fede: ogni decennio i Casalaschi dai quindici anni fino ai sessanta prestino il giuramento ai consoli di Vercelli: se questi domandino il passaggio del Po per tragittare l’esercito o una cavalcata, non devono negarlo[193]. Lo stesso Comune agli abitanti di Trino concedeva di cacciare, pescare, pascolare nel loro distretto; non daranno alloggi; per cinque anni li provvederà di fieno, paglia e legno, purchè osservino i bandi di Vercelli; in tempo di guerra non riscoterà fitto delle terre; non saran tenuti a venire al podestà o ai consoli vercellesi per contratti fatti da qui indietro, salvo che per omicidj o per appellazioni; possano far legna nel bosco pagando un fitto[194].
Il Ghirardacci reca la formola con cui quelli di Monteveglio si sottomisero al Comune di Bologna: — Noi uomini di Monteveglio diamo il castello nostro al popolo di Bologna, con tutti i cavalieri e i fanti, per far guerra contro tutti i nemici suoi che sono o saranno, come più piacerà al pretore o a’ consoli; e con giuramento affermiamo di salvare i Bolognesi e le fortune loro, promettendo mandarvi l’esercito a nostre spese qualunque volta ne saremo richiesti, insino al fiume Secchia e dalle alpi alle paludi; e promettiamo pagare il tributo per quei che abitano dalla parte del fiume Samoggia. E tutto questo osserveremo contro chicchessia, eccettuato l’imperatore o duca o altro che tenga o terrà il patrimonio della contessa Matilde a nome [201] dell’imperatore. Domandiamo però che i consoli bolognesi insieme col consiglio giurino conservare Monteveglio e i suoi abitatori e le facoltà loro, e che non ci abbiano a togliere il castello; e se in alcun tempo i Bolognesi facessero guerra all’imperatore, ci difendano colle nostre fortune, e ottenendo la pace, la impetrino anche per noi».
Altre volte i Comuni fondavano ville e borghi con diritti e riserve speciali.
I consoli e gli uomini di Vercelli nel 1197 stabiliscono che il luogo di Villanova rimanga libero e assoluto in perpetuo, ad onore e comodità del Comune vercellese, talchè nessuno presuma dagli abitanti estorcere fodro o bando o curadia o correggio o capponi o focaccie o spalle; nè pretenda sulla pesca, su alloggi, su giurisdizione qualunque. Essi abitanti coi loro eredi sieno liberi e immuni; salvo che, quei che n’hanno diritto, possano costruire molini, e dare terre da coltivare sia a terzo, o a fitto, o con qualsiasi altro patto. Essi abitanti restino liberi possessori dei sedimi a loro assegnati, potendo venderli, donarli, mutarli, distrarli. Nessuna forza vi si possa introdurre, se non dal Comune vercellese. Nessun de’ signori deva abitare in esso borgo, nè avervi diritto o giurisdizione.
Nel 1217 Vercelli stessa fondava Borgofranco, con fossati, quattro porte, quattro battifredi, chiesa di legno e graticci, coperta di tegoli, agli abitanti assegnando un sedime di casa ciascuno, sul quale si conduceano tre carri di legname d’opera a spese del Comune, e mattoni e tegoli quanti occorrono. Abbiano la strada da Casale e da Pontestura, mercato, pascolo verso Vercelli. Gli abitanti non devano render ragione ad uomini che non siano della giurisdizione vercellese, de’ contratti o danni fatti anteriormente, se non sul luogo stesso e sotto i loro proprj consoli. Avranno venti mansi del [202] bosco di Lucedio a venti soldi il manso di fitto. Siano loro concesse per quattro anni tutte le spese del Comune: dopo cinque anni pagheranno il fodro, come i cittadini vercellesi: e come questi pagheranno la legna del bosco di Lucedio. Se alcuno muore senza erede, possa la sua parte vendersi ad altri fuor della giurisdizione di Vercelli.
Ivrea nel 1250 fondava Castelfranco, invitando ed anche costringendo andarvi ad abitare gli uomini di Bolengo, Pessano, Anipesso, e farvi guaite, scaraguaite, e ogni arredo di castello: a ciascuno si daranno abitazioni in proporzione di quelle che lasciano. Saranno considerati come abitanti d’una porta di Ivrea: liberi e franchi, giacchè inestimabil dono è la libertà, nè ben si venderebbe per tutto l’oro del mondo. Siano dunque immuni dal fodro, dal banno, dalla giurisdizione, dall’esercito, dalla cavalcata, dalla successione; abbiano il mero e misto imperio; si farà uno statuto, che le podestà di Ivrea giureranno d’osservare[195].
1 Comuni erano una specie d’associazione contro gli abusi e le prepotenze: sicchè quando la forza pubblica non sapesse o volesse provvedervi, formavano associazioni particolari, solito rifugio delle libertà, perchè coll’attenzione e anche colla forza garantissero i diritti, e che venivano a formare uno Stato nello Stato. E come già v’aveva alberghi di nobili, cioè aggregazioni di famiglie derivanti da ceppo comune, o unite per accordo, così il popolo pensò fare altrettanto col restringersi in leghe o in maestranze, onde col numero equilibrare la potenza o l’accortezza maggiore.
Nel 1198 il popolo di Milano, scontento dei nobili, istituì la credenza di Sant’Ambrogio, detta anche de’ Paratici, cioè degli artigiani, affidando la propria tutela [203] ad un tribuno, e assumendo per divisa una balzana bianca e nera; i mercanti e le arti liberali stabilirono la Motta, che inclinava al governo d’un solo; i nobili rinserraronsi in quella de’ Gagliardi; i catanei e valvassori, che teneano fondo dai nobili, ne formarono una quarta sotto l’arcivescovo, pretendendo recuperare a questo il dominio temporale della città: ciascuna avea consoli proprj, pubblicavano editti e decreti, ed esercitavano atti di giurisdizione sovrana.
Siffatte erano in Bologna la lega della Giustizia; in Vercelli le società di Sant’Eusebio e Santo Stefano; in Asti quelle di Castello e dei Solari. A Firenze verso il 1260 i pivieri di campagna eransi raccolti in quarantatre leghe, ciascuna delle quali ricevea dalla Signoria ogni semestre un capitano cittadino e popolano della città di Firenze e veramente guelfo; prometteano non ricettare i banditi l’una dell’altra; nessuno potea ricusare gli uffizj affidatigli dalla lega[196]. Siena era divisa per terzi, e ciascuno di questi in circa venti contrade, ognuna delle quali eleggeva un capitano e un alfiere, preseduti dal gonfaloniere del terzo. A Genova fin dal 1130 fra sette poi otto compagne vedemmo divisi tutti i cittadini: e ognuno ajutava i proprj membri contro ingiustizia e violenza qualsifosse, fin alla morte degli avversarj; e da ciascuna si traeva un’egual contribuzione di cavalli, fanti e denaro[197].
Talvolta tre o quattro persone con atto pubblico si costituivano in fratellanza, stipulando comunione di beni e reciprocamente difenderli e succedersi. Talaltra alquante famiglie formavano una consorteria, pigliando [204] un nome comune, fabbricando una torre per difesa e ricovero di tutti, come i Pugliesi e i Maladerra di Sanminiato, che presero il nomignolo di Paraleoni[198]. Forse teneva dell’indole stessa quella delle tredici famiglie di Borgo Sansepolcro, che insieme aveano fabbricato la torre di piazza. In Lucca già nel 1203 esisteva la società di Concordia de’ pedoni (probabilmente detti in opposizione ai cavalieri o nobili) con priori e capitani e giuramento d’ajutarsi a vicenda con armi e senza, rifarsi reciprocamente dei danni; e guaj a chi offendesse alcun di loro: nessuno poteva essere accusato ad altro giudice prima d’informarne i priori[199].
Non di rado i Comuni affidavano il governo, o parte di esso, o un affare, od un’amministrazione, o l’eseguimento d’una condanna a qualcuna di siffatte compagnie; e dove l’una esorbitasse, se ne innalzava una contraria.
In Chieri erano le società de’ Militi e di San Giorgio; e della seconda abbiamo gli statuti, preziosi a qui ricordarsi[200]. Vi si entrava per successione o per nomina: [205] chi ne uscisse per passare in altra, era passibile di cinquanta lire e dell’infamia. La società pagava le imposte di ciascuno; e solo ai membri di essa poteano vendersi le case e le terre. Come il Comune, quella città era ordinata sotto quattro rettori cittadini o un solo forestiero, che duravano quattro mesi, con notaj e massari per le spese ed entrate. Eravi un minor consiglio ed uno maggiore, il quale eleggeva i rettori. Non poteansi proporre per gli uffizj del Comune se non membri della società; non arringare contro il partito preso da questa; e poteva obbligarsi ogni membro a dir nel consiglio pubblico il suo parere; che se per ciò incadesse in una multa, era pagata dalla compagnia. Ai rettori di questa incombeva di difendere i membri, e mantenerli illesi, dovess’anche urtare contro le deliberazioni del Comune. Alcun di essi era insidiato? lo facevano custodire: ferito o percosso? domandavano riparazione e compenso: non l’ottenevano? toccavasi a stormo, e tutti tutti gli accomunati erano tenuti prender le armi, e correre a mettere a ferro e fuoco i beni dell’offensore; e così gli anni successivi, in sino a che non si fossero accordati. A chi rifiutasse obbedire alla chiamata, o non soccorresse al compagno avvolto in contese, multa di cinquanta lire. Niuno praticasse con chi aveva offeso uno della compagnia.
Non è questa una repubblica costituita nella repubblica? e gl’interessi de’ consorti poteano essere in collisione con quelli del Comune, e la loro unione facea che fossero pronti a sorreggere una parte o l’altra nelle insurrezioni, che così invelenivano di ciò ch’era preparato [206] per loro rimedio. A Siena nel 1371 i lavoranti di lana garriscono coi loro maestri, pretendendo essere tassati secondo le leggi del Comune, non secondo quelle dell’arte; e levano rumore, minacciando sangue: ma la forza pubblica prevale, e presine tre, li mette alla corda; i compagni per liberarli s’avventano alle armi, la città prende partito per essi; la querela diventa politica, gli ordini pubblici ne restano mutati, e gli artigiani dominarono in Siena, fin quando nel 1384 i nobili, unitisi al popolo minuto, li spodestarono, e fin a quattromila ne espulsero: onde la città perdette le arti, e se ne bonificarono l’Anconitano, il Patrimonio, il Regno e Pisa[201].
Le taglie che già si solevano pagare ai re o ai conti, furono forse conservate, pagandole al Comune: ma di esse e del sistema di esazione non si raccoglie soddisfacente concetto; e il variare di qualità e quantità secondo i tempi, a fatica si seguirebbe in una storia municipale, non che in questa generale. La rendita maggiore proveniva da gabelle e dazj che, secondo la scarsa economia d’allora, molto gravavano sulle merci introdotte ed esportate. Da principio quelle che entrassero nelle città o sul distretto pagavano per teloneo un tanto al carro o alla bestia: dipoi più equamente si prefinirono tariffe sul valore. La prima milanese è del 1216, e impone quattro denari per lira del prezzo delle mercanzie, cioè un mezzo per cento: poi nel 1396 fu alzata al dodici per lira, cioè cinque per cento, senza distinzione[202]. Fruttavano pure all’erario le [207] multe de’ condannati e le confische. Poi il genio fiscale altre imposizioni introdusse, come quella del sale[203], dei forni, del bollo alle misure, del vino al minuto, delle acque di pubblica ragione.
In maggiori strettezze ricorrevasi a prestiti, dando in pegno qualche preziosità, come i Milanesi diedero più volte il tesoro di Monza. Quel Comune, per combattere Federico II, supplì alla carezza del denaro con carta monetata, prefiggendo potessero con essa scontarsi le pene pecuniarie; il creditore privato non fosse tenuto riceverla in pagamento, ma il debitore non restasse esposto al sequestro se in cedole avesse tanto da spegnere il suo dovere. Per togliere di giro questa carta monetata si pensò formare il catasto de’ beni, neppure eccettuati gli ecclesiastici, misurati da geometri, e prezzati dall’uffizio degli inventarj. Con tale provvedimento il debito fluttuante restò rimborsato nel 1248; ma per fare il Naviglio grande, poi per uno o per altro titolo la tassa venne prolungata[204].
I Milanesi lagnavansi che i nobili, abitando in campagna, si sottraessero ai carichi dello Stato; nella concordia del 1225 questi soli, e non la plebe, si volle soggetti alle taglie. A Firenze, il 1362, non trovandosi [208] chi prestasse al cinque per cento, ser Piero di Grifo, uomo molto saputo in tali materie, suggerì che, a chi prestasse cento fiorini, gliene fosse scritto trecento; onde quel monte fu detto dell’uno tre. Poi, per altra guerra, a chi prestava cento si scrisse ducento, e chiamossi il monte dell’uno due. Nel 1380 fu ridotto tutto al cinque per cento, e il capitale nominale al reale; dal che nacque grandissima confusione a motivo di quelli che aveano venduto e comprato.
Il catasto sovra dichiarazione giurata del possessore e di testimonj si eresse a Genova nel 1214, a Bologna il 1235, a Parma il 1302. In Firenze al 1336, secondo Giovan Villani, i tributi erano, la gabella della mercanzia, del sale, de’ contratti, il vin minuto, le bestie, la macina, e l’estimo del contado, fruttanti in tutto trecentomila fiorini. Pare da ciò che solo il contado fosse colà sottoposto a taglia, forse per conguagliare le gravezze particolari ai cittadini: e in fatto l’estimo della città non potè farsi stabilmente che per opera di Giovanni Medici nel 1427, obbligando a descrivervi tutti i beni mobili od immobili che ciascuna famiglia possedesse dentro o fuori del dominio fiorentino, compresevi le somme di denaro, i crediti, i traffichi, le mercanzie che avevano, gli schiavi e le schiave, i bovi, i cavalli, le gregge d’altri animali, regolando al sette e mezzo per cento, sicchè ogni sette fiorini di rendita se ne poneva cento di stima. Sottraevansi le spese e i carichi, poi dell’avanzo si riscoteva la decima. Chi non pagasse metteasi a specchio, cioè si registrava in un libro, e rimaneva escluso dalle magistrature.
Chiese, monasteri, ecclesiastici andavano immuni, coi loro contadini e livellari, e fin coi beni di nuovo acquisto, per quanto le Repubbliche tentassero aggravezzare almeno questi; e a malincuore i preti s’inducevano a pagare pei beni patrimoniali, non però in mano [209] di laico, ma del vescovo, cui per tale occorrente comunicavano il registro dei loro beni[205].
Le imposte moderate, tali cioè che il gravato creda poterle sostenere col crescere di operosità, servono di stimolo; scoraggiano allorchè costringono a mutare le abitudini; giudicate importabili, svogliano dagli sforzi, e uccidono l’industria. I Comuni nostri mostravansi al fatto persuasi che ogni spesa fatta dal Governo al di là di quel che occorre a conservare e proteggere l’ordine sociale, è un dissipamento e un’ingiustizia oppressiva: ma per questo vorremo noi misurare la felicità d’un paese dai centesimi dell’estimo?[206].
Il valutare le rendite è difficilissimo, prima perchè di lor natura sono variabili, poi perchè la scarsezza del denaro faceva se ne esigesse gran parte in derrate; oltrechè le forme della contabilità erano troppo diverse dalle odierne.
Variissimi erano i modi dell’esazione, i tesorieri, i deputati alle grasce e all’annona, eletti parte dal pubblico consiglio, parte dal podestà, parte a sorte, e da’ feudatarj nelle proprie giurisdizioni, ma sempre sottoposti al sindacato. Spesso la riscossione affidavasi a qualche monaco, od a corpi religiosi, come più disinteressati; e per renderla più sicura ordinavasi perfino a chi non l’avesse ancor pagata non venisse resa [210] giustizia[207]; del quale ripiego si valeano principalmente per tassare anche i cherici. Nel contado a ciascuna pieve si assegnava una quota da ripartire fra le ville ed esigere: al qual uopo v’avea consigli o adunanze; dove sussistevano ancora i visconti vescovili, questi presedevano a tal bisogna insieme coi consoli di campagna.
Le case costituivano quasi la garanzia del cittadino in faccia al Comune. Pertanto il venderle equivaleva a perdere la qualità d’accomunato; per ciò stesso di chi fosse espulso veniva demolita l’abitazione, e al forestiere non si permetteva di possederne; e i nobili di campagna, quando fossero accettati in città, per prima cosa vi fabbricavano un palazzo. Ad Ivrea si considerava cittadino chi vi abitasse, possedesse pel valore di dieci lire, fosse scritto nel libro dell’imposta del Comune[208].
Zecche ebbero già i Longobardi a Pavia, a Milano, Verona, nel Friuli, a Lucca, e forse a Spoleto e Benevento; e possiam credere continuasse così sotto ai Franchi e agli imperatori tedeschi: ma presto conti e marchesi domandarono o pretesero moneta propria. [211] Per privilegio dell’imperatore Lotario I a Manasse, gli arcivescovi soli poteano coniarne a Milano; diritto che conservarono finchè la repubblica il trasse a sè. Altrettanto sarà addivenuto nell’altre città, e ci restano monete di più di cento zecche nostrali: anche alcune famiglie n’aveano il diritto, come in Piemonte i discendenti di Aleramo, marchesi di Monferrato, di Saluzzo, di Ceva, di Busca, di Savona, del Carretto; e alcuni feudatarj dell’Impero, quali i conti di Desana, di Crescentino, di Cocconato, ecc. Per lo più quelle monete aveano corso soltanto nel paese.
Tentò il Barbarossa ritrarre a sè questa regalia, e fece battere i soldi imperiali nei villaggi dove avea distribuito i cittadini della distrutta Milano; ma poi la dovette consentire alle città federate, le quali ben presto all’effigie dell’imperatore surrogarono i santi patroni[209]. Cadute le repubbliche ai tiranni, Azzone [212] Visconti a Milano diede il primo esempio di stampare del proprio nome le monete: Genova ne battea prima del 1139, quando ne chiese e ottenne privilegio da Corrado II di Germania. A imitazione del genoino, i Fiorentini nel 1252 batterono il ducato, che da una parte recava il Battista, dall’altra il giglio, donde il nome di fiorini che si propagò in tutta Europa, con oro di ventiquattro carati, e il peso d’un ottavo d’oncia, o un sessantaquattresimo di marco, e divideasi in venti soldi[210]. Subito gl’imitarono Francesi, Ungheresi ed altri popoli, e fra noi i re di Napoli, i conti di Savoja, i marchesi di Monferrato, i Veneziani; e molto accreditato fu in commercio lo zecchino veneto, battuto primamente nel 1284, sul quale si conservarono sempre la rozza impronta primitiva del doge che riceve lo stendardo [213] da san Marco, e la barbara e devota iscrizione Sit tibi, Christe, datus quem tu regis iste ducatus.
Dacchè la lira cessò d’equivalere veramente al peso d’una libbra d’oro o d’argento, variò senza limite la proporzione, solo sussistendo la divisione in venti soldi, e del soldo in dodici denari. Non entreremo nel pecoreccio degli avvicendati valori delle monete e del conguaglio fra l’oro e l’argento; e basti dire che quest’ultimo era principalmente adoperato nel commercio di Levante e che in generale vuolsi fare stima che la scoperta dell’America ne ridusse il valore a un sesto, e a un terzo quel dell’oro.
Monete di rame non si conoscono de’ tempi barbari, onde o mancavano al giornaliero commercio, o si dovea coniarne di argento troppo sottili, o peggiorare la lega.
È argomento dell’opulenza italiana che Venezia, all’entrare del secolo xv, battesse l’anno un milione di zecchini; e Firenze quattrocentomila fiorini in oro, e più di ducentomila libbre d’argento; e dal 1365 al 1415 vi si erano coniati undici milioni e mezzo di zecchini d’oro. Se vogliansi lodare come manifatture e come lusinga alla nazionale vanità che tanto lega i cittadini, ognun però vede quanta confusione dovesse derivare da tanta varietà. Il disordine introduceva il solito morbo de’ cambisti, che soli tenendo il filo di quel labirinto, vantaggiavano alla grossa.
La scienza amministrativa e finanziera nacque in Italia, o qui prima si pensò a ridurre in un quadro tutte le entrate e le uscite, formandone il bilancio, come si chiamava con nome espressivo[211].
Pisani, Genovesi, Amalfitani, ma principalmente i Veneziani, estesi in tanto commercio, sentirono il bisogno [214] di conoscere le condizioni proprie e dei popoli con cui erano in relazione di traffici e di politica. Fin dal xii secolo Venezia ordinò ne’ suoi archivj i pubblici atti, fe scrivere la storia civile, e stabilì le forme secondo cui gli agenti diplomatici dovessero raccogliere e presentare al senato i ragguagli dei paesi ov’erano spediti[212]. Quindi nessun governo fu altrettanto istruito; e que’ ragguagli su’ principi, sulle forze, sulla potenza de’ varj Stati, allora anticipavano l’esperienza, ora sono miniera di statistiche cognizioni. Anche nell’interno i governanti doveano dare minuto ragguaglio delle provincie loro; poi nel 1338 vi troviamo traccie di anagrafi. Nel 1330 Jacopo Tondi, uno della Signoria di Siena, eseguì una visita uffiziale dello Stato sanese e ne compilò una relazione, che è il primo saggio di quei prospetti statistici, dei quali si fa vanto la nostra età[213]. Le altre repubbliche adopravano a somiglianza, e potrebbero raccogliersi le statistiche dagli storici e dagli archivj, dove pure giaciono gli atti verbali de’ consigli d’allora, ricchissimi d’insegnamento.
Se fra tante disparità vogliamo cercare i fattori comuni, troviamo dappertutto la sovranità del popolo, che ne’ casi più rilevanti la esercitava direttamente, negli ordinarj la delegava a rappresentanti. Erano questi divisi in un consiglio maggiore, specialmente incaricato del potere legislativo; e in un minore, che assisteva il capo dello Stato nell’esecutivo. I pubblici uffizj erano elettivi, di breve durata, e sottoposti a sindacato. Ogni Comune aveva uno statuto, in cui si comprendevano le leggi organiche della repubblica, i diritti e le consuetudini di tutti e de’ singoli, le leggi criminali e i decreti civili, mescolati di romano e di germanico; e dove gran parte aveano le ordinanze censorie e suntuarie. Questi statuti [215] obbligavano in quanto ciascuno li giurava o all’atto di divenir cittadino, o nell’assumere una magistratura; avanzo del diritto feudale, per cui la fede rimaneva un fatto personale. Ciascun quartiere o consorzio o maestranza era responsale della condotta dei consorti; e il reo sottoponevasi alle loro speciali giudicature prima di trasmetterlo al tribunale del Comune. Queste divisioni del Comune stesso in corpi moltiplicavano occasioni di conflitto: lo perchè speciale studio degli statuti era il conservare la pace pubblica.
L’età nuova comincia dunque colla stessa varietà di forme che già trovammo nella prisca. Tante erano quante le città, le quali, costituitesi ognuna indipendentemente dall’altra, aveano provveduto come credevano al proprio meglio; di che infinite varietà, spesso stravaganti, sempre inesperte.
Ma il fatto più appariscente è che esistevano municipi, non provincie, non Stati. Nè qui soltanto, ma in tutta Europa presentavasi allora questa moltiplicità di centri sopra angusto spazio, senza nesso comune; e dove il ben generale terminava ai limiti del territorio, considerando proprio vantaggio il danno del vicino. Quindi diversità di statuti, di pesi, di misure, di dogane; quindi un incomodo succedersi di pedaggi, mentre rimanevano degradate le strade, sia perchè non vi aveva accordo a mantenerle, sia perchè ad ogni rompere di nimicizia venivano guastate. E di nimicizia era seme la vicinanza stessa; e quando ogni Comune costituiva uno Stato, sconnesso dal vicino, le investiture, i privilegi, gli statuti si assimilavano a trattati di pace e di mutua assicurazione.
Niuna podestà sovremineva; giacchè il re vigilava bensì perchè fosse pagato il censo dovuto alla Camera, e dati i doni o i sussidj convenuti; e perchè i giudici del feudo o del Comune non proferissero sui casi riservati [216] agli uffiziali regj, nè di persone o beni al re solo sottoposti; ma non dovea nè potea mescolarsi dell’interna amministrazione. Ne derivava come difetto generale la debolezza, essendo il Governo diretto da troppi, e spesso dalla piazza, la peggiore delle tirannie e delle miserie. I magistrati (solito effetto del voto universale) non erano tanto solleciti del vero bene, quanto dell’opinione degli elettori; e non tiranneggiavano, ma dove complisse peccavano d’ingiustizia.
Mentre poi ciascuna repubblica studiava a formarsi una legislazione particolare, nessuna seppe prepararsi statuti che garantissero la sua libertà, frenassero i prepotenti, limitassero i depositarj del potere. In sottigliezza di costituzioni mal s’intende il grosso del popolo, mentre di ciascuno è bisogno la giustizia, dalla quale dipendono persone e beni. Solleciti della sicurezza dei contratti, di ordinare le successioni, reprimere i piccoli delitti, non provvidero ad assodare una buona struttura pubblica con quel ch’è primo scopo della politica, un Governo regolato insieme e libero. Adunque non previdenza per l’avvenire, non freno all’ambizione de’ pochi o alle esuberanze della moltitudine, paghi della libertà senza sfuggire l’anarchia, nessuno pensò a combinarla colla sicurezza personale e pubblica, a secondare lo svolgimento delle istituzioni. Le passioni, più impetuose quando non temperate da costumi e da studj, rendevano frequenti i delitti; e quello sminuzzamento di Stati agevolava il sottrarsi al castigo. Quindi incerte idee sulla moralità, un delitto portando pena diversa a pochi passi di distanza: quindi mancato quel ch’è efficacissimo carattere della giustizia, la certezza della punizione, giacchè il delinquente trovava vicinissimo un asilo su terra forestiera: quindi il Governo costretto occuparsi quasi unicamente d’amministrare la giustizia criminale, ed ai magistrati doveva affidarsi un potere [217] illimitato, che facilmente diveniva micidiale della libertà, o che portava per reazione la vita privata a ribellarsi alla pubblica, l’individuo a nuocere al cittadino, cercando l’affrancazione in quell’isolamento che era stato carattere della feudalità.
Così delle singole repubbliche: tutte insieme poi non seppero stabilire una buona federazione, che non solo le avrebbe salvate dai nemici, ma poteva offrire un modello alla restante Europa. La Lega Lombarda, esemplarmente gloriosa ne’ primi effetti, non conobbe altrettanto la civile prudenza; non seppe quel che spesso noi pure dimentichiamo, che non v’è autorità senza unità, e senz’autorità non v’è pace e libertà: e il formare una salda confederazione che avesse centro a Milano, patria dappertutto, e feste ed esercito comune, e tesoro e patti e assemblee determinate; il vedere che il torto fatto ad una era fatto a tutte, minaccia di tutte la morte di una; il rassegnarsi a un male immediato per reprimere un abuso che causerebbe mali remoti, era un troppo aspettarsi da gente abbagliata dal trionfo, e nuova negli accorgimenti politici.
D’unità nazionale neppur nacque il pensiero, tant’era cosa insolita; come a Napoleone non venne l’idea di valersi de’ battelli a vapore o dell’inescazione fulminante. Che le libertà parziali non valgono senza l’indipendenza, chi allora lo capiva? Non ebbero parlamenti savj come l’inglese, non rivoluzioni iniziatrici come la francese: ma questi sarebbero riusciti tali senza la esperienza de’ nostri Comuni? Il reggere ai mali che accompagnano la libertà è difficile, lento il successo; talchè il grosso degli uomini cade per istanchezza o precipita per impazienza. Troppo rari il Cielo suscita di quegli eroi civili che vagliano ad erigere tutta la popolazione alla propria altezza, e che tengano per condizione e per unico mezzo di riuscita il libero concorso [218] di quella. Le nazioni libere possono aspirare alla vittoria, non al riposo; e i Comuni nostri, nel fervore della lotta, nell’ebbrezza della vittoria e nella fiducia della rinnovata fratellanza, si abbandonarono al buon volere dei collegati e al senno dei rettori, che, qualvolta occorresse, doveano raccogliersi per discutere dell’interesse universale; tutti gli spedienti furono attuali e momentanei, senz’avvisare al tempo in cui sarebbe allontanato il pericolo, sbollito l’ardore, sottentrate le brighe e le gelosie, ahi! troppo pronte seguaci delle vittorie popolari.
Abbiam veduto come il paese più meridionale d’Italia, cuna di tante magnanime repubbliche prima della conquista romana, poi dopo l’irruzione dei Barbari suddiviso tra molti principati longobardi e molti Comuni greci, venisse concentrato dai Normanni in un dominio, che d’allora gl’italiani chiamarono per antonomasia il regno (1130). Re di Sicilia, duca di Puglia, principe di Capua, Ruggero II assunse la pomposa divisa Appulus et Calaber, Siculus mihi servit et Afer; anzi Falcone Beneventano riferisce un documento, ov’egli s’intitola Dei gratia Siciliæ et Italiæ rex, Christianorum adjutor et clypeus.
Colle genti che rapì sì nella spedizione di Grecia, sì in quella contro Tripoli e l’isola delle Gerbe, ripopolò la sua isola. Come sapesse a tempo chinarsi e resistere ai papi, narrammo; si mostrò sempre riverente a san Brunone, che in Calabria avea fondato i Certosini; le [219] scienze amò e protesse; all’Edrisi, famoso geografo musulmano, diede un feudo perchè dimorasse alla sua corte compilando le Peregrinazioni d’un curioso che vuol conoscere a fondo i diversi paesi del mondo, ove dispose in nuovo e bizzarro sistema le cognizioni geografiche degli Arabi, ad illustrazione d’una sfera d’argento, pesante ottocento marche, dov’erano incisi tutti i paesi conosciuti. Il palazzo di Palermo sua capitale, colla magnifica cappella di san Pietro, avente le pareti e il pavimento a musaici squisiti, e dove ancora si legge l’iscrizione trilingue da lui apposta al primo oriuolo che ivi collocò; la cattedrale di Cefalù e quella di Salerno, ricca delle spoglie di Pesto; le chiese di San Nicolò a Messina e a Bari, il monastero della Cava, sono monumenti della magnificenza di Ruggero. A Palermo, oltre edifizj spiranti dovizia e splendidezza, aperse un vasto parco, popolato di selvaggina, e ricreato d’acque condotte sotterra[214]: dalla Grecia e dall’Africa trasferì la coltura dell’albero del pane, del papiro[215], del pistacchio, della canna da zuccaro; e dalla Morea i gelsi e i filugelli, e operaj di seta. Che però questa già vi si lavorasse dagli Arabi, lo prova il famoso manto imperiale, fatto per ordine di Ruggero, con iscrizione cufica [220] del 528 dell’egira, rispondente al 1133; e che poi portato in Germania da Enrico VI, ora conservasi a Norimberga. Ma allora i telaj rompevano il silenzio della reggia di Ruggero per preparare d’ogni genere tessuti, e broccati, e fiorami, e arabeschi, con gemme interposte e colori variatissimi[216]; oltre che vi si convertiva in panni la lana francese.
Tornando d’Oriente, Pisani, Veneziani, Genovesi rinfrescavano a Palermo: Spedalieri e Templari rizzarono conventi in Trapani, ordinaria posata de’ Crociati[217]: i Veneziani aveano a Palermo una società mercantile con magistrati proprj, cassieri e presidente; i Genovesi un banco a Siracusa e casa forte a Messina: gli Amalfitani empivano una strada di Napoli di loro botteghe, massime di stoffe di lana e seta, e avevano un quartiere a Siracusa, un consorzio mercantile a Messina.
I Musulmani conservavano ancora alcune campagne, godendo eguaglianza di leggi, con una tolleranza unica a quei tempi; quartiere proprio nelle città con franchigie, [221] magistrati e notaj, e libero culto; sin feudi ottennero; e se alcuni come prigioni di guerra teneansi in condizione servile, più di centomila distribuiti in tribù sotto i loro sceicchi lavoravano liberamente il val di Màzara ed altri territorj. Filippo, uno degli eunuchi di Ruggero, musulmano convertito, salì fino grand’ammiraglio, e fu spedito ad espugnare Bona in Africa (1149). Ne presero gelosia i baroni normanni, che l’accusarono di mangiar carne il venerdì e in quaresima, andare con repugnanza nelle chiese, e di piatto tornare alle moschee: e Ruggero l’abbandonò al loro rancore, sicchè, legato alla coda d’un cavallo indomito, fu fatto a pezzi, e i pezzi gettati al fuoco[218].
Pochi anni dappoi il musulmano Mohammed ebn-Giobair, che viaggiò in Sicilia, scriveva: — Re Guglielmo, commendevole ne’ suoi portamenti, si giova de’ Musulmani, e ha paggi eunuchi per intimi, fedeli all’islam benchè nascostamente; ha gran confidenza ne’ Musulmani, e v’affida anche gli affari più delicati; tiene una compagnia di Negri musulmani sotto un comandante musulmano; i visiri e i ciambellani trae dai molti paggi, i quali sono e impiegati del Governo e persone di Corte, e sfoggiano lusso di vesti, agili cavalli, e tutti hanno corteggio e seguito proprio. Il re a Messina ha un palazzo bianco come una colomba, dove stanno occupati molti paggi e fanciulle; esso s’abbandona ai piaceri della Corte a modo dei re musulmani, cui imita nel sistema delle leggi, nell’andamento del Governo, nella distribuzione dei sudditi, nella magnificenza. Molto deferisce ai medici e astrologi suoi: dicono legga e scriva l’arabo, e un suo intimo ci assicurò abbia adottato il motto Lode a Dio, giusta è la sua lode; come il motto di suo padre era Lode a Dio in riconoscenza [222] de’ suoi benefizj. Le fanciulle e concubine del suo palazzo sono musulmane tutte; e un cameriere di nome Yahia, impiegato nella manifattura de’ panni, dove ricama a oro le vesti del re, ci assicurò che le cristiane Franche dimoranti in palazzo erano state convertite dalle nostre senza che il re lo sapesse, e molto s’industriavano in opere di carità.
«A Palermo i Musulmani conservano un avanzo di fede; tengono pulitamente le moschee, fan la preghiera alla chiamata del muezzin, dimorano in borgate distinte dai Cristiani, tengono e frequentano i mercati. Proibita la pubblica professione di fede (khotbah), fanno solo l’adunanza del venerdì, ma ne’ giorni del beiram pregano per i principi abbassidi. Hanno un cadì, che giudica i loro processi: una moschea principale ed altre innumerevoli, nella più parte delle quali si dà lezione del Corano. Le donne cristiane nell’eleganza del parlare e nel modo di velarsi e di portare i mantelli imitano le musulmane. A Natale escono in vesti di seta color d’oro, avvolte in mantelli eleganti, coperte di veli di colore, con stivaletti dorati, e pompeggiano nelle chiese, cariche di collane, d’essenze, di belletto come le musulmane.
«Non è guari, arrivò a Trapani il caid Abu’l-Kassem, capo de’ Musulmani in Sicilia, caduto in disgrazia del re per calunnie; e sebbene sfuggisse la condanna, gli furono estorti trentamila denari d’oro, senza rendergli alcuna delle case e terre avite. Dianzi riebbe il favore del re, che lo pose in un servizio di governo, ed egli vi si rassegnò, come lo schiavo di cui siansi presi la persona e gli averi»[219].
E segue raccontando come qualunque Musulmano, per sottrarsi alla collera de’ parenti, rifuggisse in una [223] chiesa, era battezzato; che i Musulmani offrivano le loro figlie ai pellegrini perchè le sposassero, e queste lasciavano liete la famiglia per sottrarsi alla tentazione dell’apostasia e per vivere in paese musulmano. Sono le consuete esagerazioni de’ partiti soccombenti; ma ne trapela come i principi normanni procurassero usufruttare la civiltà orientale; e lungamente noi incontreremo ancora quegl’Infedeli nelle vicende della Sicilia.
Anche gli Ebrei, altrove perseguitati, ivi ebbero sicurezza, e Beniamino di Tudela nel suo viaggio del 1172 ne contava millecinquecento a Palermo, ducento a Messina.
Bizzarra mescolanza dovea presentare in quei tempi il paese; indigeni abbattuti da lungo servaggio, cavalieri normanni in corazza e morione, Musulmani con turbanti; santoni insieme e frati; corse del gerid e tornei; Nordici ignoranti e corrotti Meridionali; fastosi Asiatici e severi Scandinavi: vi si parlava greco, latino vulgare, arabo, normando, e in ognuna di queste lingue si pubblicavano i bandi; i quali doveano tanto quanto acconciarsi al codice Giustinianeo pei Greci, al Coutumier pei Normanni, al Corano pei Saracini, al codice longobardo pei precedenti signori.
I Normanni, pochi e deboli, dovettero fiancheggiarsi di politica e d’astuzie, formando un governo più abile che robusto, e sprovvisto di quella vigorosa unità che è necessaria per tiranneggiare un popolo, e convergerne gli sforzi ad unico intento, massime in paese come il napoletano, così spezzato e vario di origini. Delle istituzioni de’ Longobardi e de’ Greci non cangiarono se non ciò ch’era richiesto dall’introdurvisi della feudalità al modo dei Franchi. Magistrati e conti longobardi, resisi ereditarj, aveano già formato la classe de’ baroni, che conservò la nobiltà anche dopo avere, per la conquista normanna, perduto le giurisdizioni. I [224] Normanni investiti di feudi li sottinfeudavano a cavalieri, cioè vassalli nobili, e a gran dignitarj ecclesiastici. Ma que’ primi Normanni, e gli altri continuamente chiamati di Francia ad esercitare il lor valore, voleano sulle proprie tenute regolarsi col diritto patrio: dal che vennero i feudj al modo Franco, la cui principale differenza dai longobardi consisteva nell’esservi ammesso alla successione soltanto il primogenito, mentre in questi ciascun figlio ereditava.
Il sistema feudale fu comunicato anche ai paesi fin allora sottoposti ai Greci, e Ruggero a tutti i cavalieri di Napoli infeudò cinque moggia di terra con cinque coloni affissi a quella[220]; lo trapiantò anche nella Sicilia, che mai non n’avea gustato, scomponendovi ogni regolamento de’ Saracini. I coloni da liberi vennero dipendenti; le praterie furono aggravate di pascere i cavalli del vincitore; sottoposti a taglie i boschi e i servi della gleba; un’amministrazione fiscale e investigatrice, surrogata alla larga e tollerante dei Saracini, deteriorò l’agricoltura e il commercio.
Usati in patria a raccogliersi in adunanze legislative e giudiziali, i Normanni non ne interruppero l’uso; e il nome di parlamento trasportarono, come nella conquistata Inghilterra, così pure nel paese di qua e di là dal Faro. Aperto sulle prime soltanto a Normanni, vi si traforarono poi anche indigeni, fondendosi vinti e vincitori. Ma al popolo non potea farsi luogo colà dove del suolo non avevano la proprietà che abati e signori; sicchè non v’erano ammessi che i due bracci de’ baroni e degli ecclesiastici. Poi le città acquistarono il diritto di riscattarsi dai baroni, e rendersi libere, cioè non dipendenti che dalla regia autorità; ed allora all’ecclesiastico ed al baronale fu aggiunto il braccio [225] demaniale, cioè che rilevava solo dal dominio del re. Quest’opera vedremo compiuta da Federico II.
Ruggero accentrò l’amministrazione nella Corte di Palermo, intorno a sè disponendo sette grandi cariche, e sotto queste gli altri signori. A capo di ciascun distretto stavano baroni e connestabili; di tutta la nobiltà il gran connestabile; della marina il grand’ammiraglio: il gran cancelliere serviva d’anello tra gli incaricati e il principe: aggiungeansi il gran giustiziere, il gran cameriere, il gran protonotaro, il gran siniscalco. L’archimandrita o abate generale, eletto dai monaci, confermato dal re, aveva ispezione sulle chiese, e specialmente le vacanti; pure i vescovi doveano a Roma ricevere la consacrazione dal papa.
Gastaldi e sculdasci aveano ceduto i giudizj a balii, giustizieri, castellani, i quali, col re a capo e con privilegi distinti, formavano una gerarchia d’amministrazione, che fu la prima foggiata alla moderna, non composta di vassalli feudalmente congiunti al signore, ma di uffiziali che coordinatamente esercitavano la porzione di potere ad essi affidata. Mentre dunque l’antica nobiltà restava in opposizione ai conquistatori, una nuova nascea di gente ammessa agli impieghi, fosse natìa o forestiera[221]: nel che pure il siciliano differiva dagli altri diritti.
Alle leggi longobarde, che fin allora avevano forza di diritto comune, con qualche mistura delle romane e delle consuetudini scandinave, Ruggero sostituì le Costituzioni, promulgate nelle pubbliche assemblee di baroni, uffiziali e vescovi, e che valeano in ambe le parti del Regno. Desunse dal diritto romano la legge che dichiara sacrilegio il mettere in disputa i fatti, i [226] consigli, le deliberazioni del re. Morte comminò a chi tosa o áltera la moneta; a chi rapisce una dal monastero, sebbene non ancora velata e a titolo di sposarla; al magistrato che malversa il pubblico denaro, o al giudice che si lasciò corrompere; a chi dà farmachi per ispirare avversione, o ferisce a morte alcuno nel rotolare o menare un sasso o una trave senza darne avviso. Vietò severamente di vendere o alienare i feudi, nè che i feudatarj contraessero matrimonj senza consenso del re, e tanto meno maritassero le proprie figlie aventi l’eventualità di succedere. Nessuno eserciti la medicina se non licenziato: nessuno sia fatto cavaliere nè giudice se non venga da stirpe di militi e notaj. Molte pene concernono le adultere e le prostitute. Chi vende un uomo libero è ridotto in servitù[222].
Ruggero è da’ suoi esaltato colle lodi che sogliono prodigarsi al fondatore dell’indipendenza d’uno Stato, e all’ambizione fortunata di chi non tien conto della moralità dei mezzi. Perduti i figliuoli Alfonso e Ruggero, l’unico superstite Guglielmo fe coronare come collega (1154); e poco stante morì a sessantun anno, dopo ventiquattro di regno.
Avaro, sospettoso, pusillanime, inetto riuscì quel suo successore; e chiuso nella reggia fra sozzi e barbari piaceri, del ben pubblico non si dava pensiero. Gl’imperatori d’Oriente e d’Occidente ne presero baldanza di mettere in campo opposte pretensioni sopra il Reame, mossero armi, e sollecitarono i baroni sempre inquieti. Questi aveano avuto ricorso al Barbarossa, e quand’egli scese in Italia la prima volta, si sollevarono dappertutto; ma esso non potè ajutarli. Bensì gl’imperatori greci, che anelavano vendicarsi delle spedizioni dei due Ruggeri, e che già possedeano Ancona ed altri porti [227] sull’Adriatico, occuparono Brindisi, che divenne il quartiere de’ baroni rivoltosi: ma Majone, oliandolo di Bari, coll’ingegno, l’eloquenza e l’arte del simulare e dissimulare divenuto cancelliere e grand’almirante del regno, ed arbitro de’ consigli e degli atti di Guglielmo, riprese questa città, e i ricoverati fece uccidere, abbacinare, sepellire nelle carceri di Palermo. Di ciò si volle gran male a Majone, e dell’aver lasciato che la fortezza di Mahadia sulle coste d’Africa, tenuta dai Siciliani, soccombesse ad Abd al-Mumin re di Marocco. Spargeasi pure che colui volesse impossessarsi della corona; onde i baroni cospirarono contro di esso; Campania e Puglia si sollevarono; lo stesso conte Matteo Bonello, da lui predestinato genero, se gli avversò, e riuscì ad ucciderlo e a tenere prigioniero Guglielmo (1161). L’abuso della vittoria fece esosi i congiurati, onde alla fine Bonello fu preso ed accecato, rimesso l’ordine coi supplizj, e Guglielmo serbò nella storia il titolo di malvagio.
Quel di buono fu dato a suo figlio Guglielmo, che succeduto (1166) sotto la tutela di Margherita di Navarra, bello e giovane, procurò cattivarsi i cuori scarcerando quella folla di prigionieri di Stato; ma le fazioni inferocirono per disputarsi influenza nella tutela; e le eterogenee parti ond’erasi compaginato ma non formato quel regno, tendevano a separarsi. Margherita cercò appoggio empiendo la corte di Franchi, tra i quali Ugo Falcando, detto il Tacito della Sicilia pel nero e vibrato modo con cui descrisse quelle turbolenze; e di varj prelati e gran savj in diritto. Ma da contrasti e guerre il paese era tutto sovvolto, non meno che da tremuoti, pei quali Catania fu distrutta, squarciate Taormina, Lentini, Siracusa; le fonti versarono acque sanguigne; il mare nel Faro si ritirò, poi ringorgando verso la riva elevossi fin sopra le mura di Messina, tutto miseramente lavando (1169).
[228]
Guglielmo, tenutosi amico di Alessandro III, impedì che il Barbarossa attentasse al suo regno; ebbe nobil parte alla conchiusione della lega Lombarda e della pace di Venezia; poi armato per ristabilire Alessio Comneno sul trono d’Oriente, prese Durazzo, Tessalonica ed altre piazze di Grecia, ma da Costantinopoli fu respinto. Ajutò pure Antiochia, Tiro, Tripoli contro il Saladino; ma di soli trentasei anni morì (1189). La tradizione raccontò che Guglielmo il Malvagio avesse voluto smungere tutto il denaro del suo popolo; e per far prova se alcuno ne avesse ritenuto, mandò a vendere in piazza per tenue prezzo un suo bellissimo cavallo arabo. Un giovane signore lo comprò in fatto, il quale, chiesto in processo, confessò aver violato la tomba del proprio padre per tôrre quel poco denaro. Tutto quel tesoro fece Guglielmo sotterrare, poi corrervi sopra un fiume: ma Guglielmo il Buono riuscì miracolosamente a scoprirne il posto, ed ivi, in riconoscenza, fabbricò la magnifica badia di Monreale, dove ebbe la tomba, e che attesta la suntuosità e il progresso dell’arti sicule in quell’età.
Di Guglielmo non restando figli, l’eredità ricadeva in Costanza figlia postuma di Ruggero II e perciò sua zia[223]. Benchè di là dai trent’anni, il Barbarossa erasi affrettato a cercarla sposa per suo figlio Enrico; e l’inglese Gualtiero Ofamiglio, arcivescovo di Palermo, [229] indusse il debole Guglielmo a consentirgliela. Costanza partì con più di cencinquanta cavalli carichi d’oro, argento, sciamiti, pallj grigi, vaj ed altre buone cose[224]; e le nozze furono celebrate in Milano con istraordinaria magnificenza, ma non colla benedizione dell’arcivescovo, che era papa Urbano III, reluttante da un connubio che saldava in Italia una famiglia ereditariamente avversa ai pontefici per la successione della contessa Matilde, e che li privava dell’appoggio avuto sin allora contro le esuberanze imperiali, e preparando l’unione anche di quella corona all’Impero, scassinava l’edifizio eretto dall’ardita perseveranza di Gregorio VII.
Guglielmo avea chiuso gli occhi fra i preparativi della terza crociata che dicemmo; ed essendo allora i feudatarj occupati oltremare, Enrico VI non potè mandar forze ad occupare violentemente il Regno; sicchè estremo disordine vi irruppe. Poco badando ad Enrico e Costanza lontani, chiunque teneva al lignaggio dei Normanni pretendeva una porzione di dominio, e se la disputavano[225]; nell’isola i baroni ripetevano il prisco diritto elettorale delle assemblee nazionali come in trono vacante; nella terraferma (solita peste) si amava il contrario per gelosia verso Palermo: l’arcivescovo Gualtiero sosteneva il diritto ereditario di Costanza, e il giuramento ad essa prestato in Lecce; Matteo d’Ajello, vicecancelliere, vecchione abile a condurre un partito, animava quei che repugnavano dal vedere la Sicilia, fatta indipendente pel valore de’ Normanni, or in piena pace cadere a re straniero e avverso, e negava che, come a feudo, potesse una donna succedere; i più aborrivano la dominazione tedesca, e lo storico Falcando ripeteva: — Dio vi guardi da cotesti [230] armati di Germania, barbari, grossolani, stranieri ai costumi e alla civiltà vostra! Sotto il Tedesco, Sicilia più non sarebbe che una miserabile provincia, disgiunta dal suo sovrano, abbandonata alle espilazioni de’ suoi uffiziali. Già parmi vederla invasa da quelle orde portate dall’impeto a stremare col terrore, colla strage, colle rapine, colla lussuria, e far serva quella nobiltà di Corintj che pose anticamente nido nella Sicilia, indarno bella di filosofi e poeti tanti, e cui sarebbe tornato men grave il giogo degli antichi tiranni. Guaj a te, Aretusa, volta a tanta miseria, che mentre solevi modulare i carmi de’ poeti, or odi l’ebbrietà delle tedesche baruffe, e servi alle loro turpezze!»[226].
Come avviene quando l’autorità è sfasciata, la ciurma e gli arruffapopolo alzarono il capo; e poichè in tali occasioni vuolsi sempre qualche capro espiatorio, si buttarono sovra i Saracini. Per quanto tollerati, non poteasi sperar pace fra antichi padroni e nuovi, fra due religioni così repugnanti, l’una guardante a Marocco, l’altra a Roma. Gli Arabi aveano trescato nella minorità di Guglielmo, e Abu’l-Kassem degli Amaditi d’Africa s’era accordato cogli eunuchi di palazzo e coi baroni malcontenti per isvertare Stefano da Perche francese. Ora i Palermitani saccheggiarono le case de’ Saracini, e molti uccisero; gli altri a forza s’apersero la ritirata fino in val di Mazara, ove i centomila loro fratelli presero l’armi per vendicarli, nè chetarono finchè non ebbero promessa di sicurezza e de’ primitivi privilegi.
Quand’anche tali incendj nascono spontanei, v’è chi vi soffia, acciocchè la necessità dell’ordine costringa a prendere il partito che il primo scaltro suggerisce: e il partito or fu si convocasse il parlamento de’ baroni e si eleggesse un re.
[231]
Ruggero duca di Puglia, fratello maggiore del primo re di Sicilia, dalla figliuola di Roberto conte di Lecce avea generato Tancredi, e presto lasciatolo orfano. Guglielmo il Malvagio perseguitò questo bastardo, e prima in carcere, poi lo spinse in esiglio: l’altro Guglielmo l’accolse, gli affidò l’esercito contro la Grecia, e lo titolò conte di Lecce. Istrutto dalla sventura, prudente, educato alle matematiche, all’astrologia, alla musica, parve degno della corona e l’ottenne: la matrice di Palermo, specioso monumento di architettura moresca mista a normanna, e dove ancora si ammirano, benchè guaste dall’incendio del 1811, le tombe di porfido di quei re, risonò d’applausi alla coronazione di Tancredi e del suo figlioletto Ruggero; e fu riconosciuto pure da tutte le provincie di terraferma, e investito ben volentieri dal pontefice.
Di quel tempo i Crociati d’Inghilterra e di Francia, guidati dai loro re Ricardo Cuor di Leone e Filippo Augusto, eransi data la posta a Messina, onde di conserva, dopo la svernata, passare in Terrasanta. Fiera burrasca gittò la flotta genovese sulle coste di Calabria, per modo che i Francesi, perduti cavalli e provvigioni, poveramente approdarono in Sicilia. Ricardo, di gente normanna e d’impaziente arditezza, quasi solo traversò a cavallo le montagne di Calabria, e si tragittò a Messina. La caccia era rigorosissimamente osservata in Inghilterra: non così in Sicilia: onde Ricardo, mentre a quella si divertiva, udito un falco stridire nell’abituro d’un villano, entrò per portarglielo via. I nostri, men chinati nella servilità, a pietre e bastoni respinsero il prepotente, che solo alla fuga dovette la salvezza.
A Tancredi dava noja l’arrivo di Filippo Augusto, alleato d’Enrico VI, e di Ricardo fratello della vedova di Guglielmo, da lui tenuta prigione. In fatto fu costretto rilasciar questa, restituendole la dote di ventiquattromila [232] once d’oro; ma Ricardo pretendeva anche, come assegno vedovile, quantità di vasi d’oro e d’argento, un trono, due tripodi, e una tavola larga mezzo metro e lunga quattro, tutti d’oro, una tenda di damasco bastante a ducento cavalieri, inoltre cento galee provvigionate per un anno. Tanto era di ricchezze famosa la Sicilia! Ricusato, l’Inglese aggredì Messina; ma questa si difese a sassi, tanto che Ricardo dovette venire ad accordo, giurando pace e protezione, e fidanzando una figlia di Tancredi all’erede d’Inghilterra.
Enrico VI, coronato re dei Romani, per sostenere i minacciati suoi diritti venne in Italia (1191) coi feudatarj, che rovinatisi nella crociata, qui speravano rifarsi; e come suo padre fantasticando la dominazione universale, si prefiggeva di conquistare la Sicilia, farsi coronare a Roma, avere in arbitrio la Lombardia e la Toscana, sottomettere le coste d’Africa già tributarie ai Normanni, conquistare il trono di Costantinopoli, preda immancabile del primo occupante. Ma, non che gli bastassero forze a sì larghi disegni, dovea cercarne alle città lombarde col conceder loro la sua alleanza e sempre nuovi privilegi.
Coi soccorsi di esse e delle repubbliche marittime, calò verso Roma. Celestino III, sortito allora papa d’ottantacinque anni, procrastinava la propria consacrazione per non dovere coronare Enrico; onde i Romani offersero a questo di costringervelo, purchè egli abbandonasse alla loro vendetta Tusculo, contro di cui non aveano cessato mai l’odio, e di rado la guerra. Compiacque Enrico al fratricida desiderio (1191 — 13 aprile); unto il papa, Enrico e sua moglie dopo iterati giuramenti furono ricevuti in città. Entrati da porta Collina gettando denari al popolo perchè applaudisse, procedettero per Borgonuovo fin a Santa Maria Transpontina, donde il clero in processione li condusse al Vaticano. Precedeano il [233] prefetto di Roma colla spada sguainata, il conte del sacro palazzo, i magistrati della repubblica, poi i giudici, i camerieri, l’imperatrice, i vescovi tedeschi e italiani, i principi e dignitarj dell’impero. Celestino stava sopra elevato trono in capo alla scalea di San Pietro, coi cardinali, vescovi e preti alla destra, i diaconi alla sinistra, e dietro i suddiaconi colla nobiltà romana e gli uffiziali di palazzo. Il re, scavalcato, andò al bacio del piede pontifizio, e ginocchione colla mano sul Vangelo giurogli fedeltà, e di soccorrerlo a mantenere i possessi, gli onori, i diritti. Il papa gli chiese tre volte se volesse rimanere in pace colla Chiesa, e mostrarsene figlio rispettoso; e avuto il sì, ripigliò: — Ed io ti ricevo come figlio diletto, e ti do la pace come Dio la diede a’ suoi discepoli», e lo baciò.
Allora mossero in processione; e alla porta Argentea esaminato sulla fede religiosa, l’imperatore ebbe il chiericato, promettendo riprovare gli eretici, ed assister poveri e pellegrini. Il cardinale d’Ostia unse Enrico al braccio destro e fra le spalle; il pontefice gli porse l’anello, la spada, lo scettro, e impose la corona d’oro a lui e alla moglie[227]. Poi si celebrò il santo sacrifizio, durante il quale si cantava vittoria e lunga vita al papa, all’imperatore, all’imperatrice; l’imperatore offrì pane, cera, oro, e ricevette l’eucaristia. Finita la messa, dal conte del palazzo gli furono posti gli stivaletti imperiali [234] e gli sproni di san Maurizio; poi tenne la staffa del cavallo bianco del papa, e l’addestrò fin al Laterano: al pasto, sedette alla destra del pontefice, mentre l’imperatrice in separata sala convitava vescovi e grandi.
Non mancò lo spettacolo del sangue, poichè la guarnigione tedesca uscì di Tusculo, ed i Romani, senza udir prego nè pianto, uccisero, accecarono, mutilarono quegli abitanti, e disfecero il paese[228]. Alcuni poterono fuggire tra le montagne; altri, per amore del luogo natìo, si tennero vicino alla patria devastata sotto frascati, che poi dieder nome al paese che vi succedette.
Lasciato così deplorabile segno di sua presenza, Enrico con grosse armi, colle promesse, colla corruzione procede alla conquista; e contraddetto dal papa[229], ajutato dall’abate di Montecassino, prende e devasta Roma, e senza incontrare ostacoli arriva sotto Napoli e l’assedia. Questa, ristretta allora al quartiere che dalle falde di Sant’Elmo e di Capodimonte declina al mare, difesa da robusti spaldi e da buone truppe comandate dal prode Aligerno Cuttone, e col mare aperto, resiste: Pisani e Genovesi menano navi per secondare i Tedeschi, che intanto devastavano la campagna: ma le malattie puniscono gli invasori, sicchè Enrico è costretto tornare in Germania pensieroso più che pentito; Genovesi e Pisani cessano di caldeggiare un alleato infelice; i Salernitani arrestano Costanza e la consegnano a Tancredi, che la tiene prigioniera in Sicilia, finchè, ad istanza del papa, la restituì senza patti nè riscatto, fidando nella gratitudine.
[235]
Tancredi, che non avea saputo mostrarsi degno del diadema col difenderlo in persona, morì ben presto, ed essendogli premorto il primogenito (1194), non lasciava che il fanciullo Guglielmo III in tutela di sua moglie Sibilla d’Acerra, in mezzo a gare de’ baroni coi cavalieri, inviperite, lunghe, disastrose e a nulla conducenti. Era uscita alla peggio la crociata; e Filippo Augusto, sbarcato a Otranto, ebbe a Roma dal papa dispensa dal voto e la palma de’ pellegrini: anche il Cuor di Leone, dopo imprese da paladino, tornò in Europa travestito per isfuggire ai molti nemici; ma il duca d’Austria lo colse, e lo cedette all’imperatore (1192) per sessantamila marchi d’argento; e questi lo rivendette all’Inghilterra per centomila, oltre metà tanti per finire l’impresa di Sicilia[230].
Al fiuto di questa somma accorsero i baroni tedeschi ad offrirsi ad Enrico, che allestitosi, scese nella Lombardia. La trovava in nuovi subugli. I vescovi aveano perduto l’autorità temporale, nè i Comuni ancora assodata la propria in modo d’aver pace. I diversi ordini partecipavano diversamente al Governo, e secondo i varj paesi variavano le relazioni coi vicini, per modo che ogni città regolavasi con politica e leggi differenti, demolito l’antico, non istabilito il nuovo. Le leghe riuscivano meno a stabilir la concordia che ad impacciare la legge; i signori conservatisi indipendenti [236] s’arrogavano diritti di sovranità; le città maggiori voleano sottomettere le vicine, ed eroismo era l’energia dell’odio. Che se tra quella confusione (del resto naturale ad ogni reggimento nuovo) alcuno ergevasi a metter ordine, sì il faceva con guise tiranniche.
Essendosi Enrico mostrato propizio a Pavia e Cremona (1194), permettendo a quella di valersi di tutte l’acque del Ticino, e a questa sottomettendo Crema, le due imbaldanzite eransi collegate con Lodi, Como, Bergamo e col marchese di Monferrato a’ danni di Milano; la quale nelle giornate campali riusciva superiore, è vero, ma trovavasi cinta di nemici, che le sperperavano le campagne e rompevano i commerci.
Enrico, raccolti gli stati a Vercelli, procurò instaurare la quiete; ma lontano e dalla politica e dalla forza del padre, scarsamente approdò; onde seguì sua via per Genova, anch’essa sovvertita da fazioni, da frequenti zuffe, da effimeri Governi, e che allora stava sotto al podestà Oberto di Olevano pavese. Ai Genovesi scrisse: — Se, ajutanti voi, io ricupero il Reame, mio sarà l’onore, vostro il profitto: giacchè non io od i Tedeschi miei vi soggiorneremo, ma voi stessi»; e seguiva confermando le esenzioni precedenti, e dando nuove giurisdizioni e privilegi, la città di Siracusa, ducencinquanta feudi in val di Noto: a Pisa parimenti concesse in feudo Gaeta, Mazara, Trapani, e metà di Palermo, Salerno, Napoli, Messina, oltre molti ingrandimenti in Toscana. Così largheggiando di promesse quanto meno intendeva mantenerle, ottenne soccorsi; poi entrato nel Reame, ebbe spontanee tutte le città, perfino quella Napoli, che poc’anzi si era con tanta costanza sostenuta. Salerno, sentendosi rea d’aver tradito l’imperatrice Costanza, si difese ostinata; ma presa, fu messa a sacco e ferro, neppur risparmiando le chiese, e i cittadini migliori impiccando, torturando, cacciando [237] in prigione o in esiglio, sicchè la città, di famosa importanza sotto i Longobardi e i Normanni, più non risorse. Capua pure fu espugnata a forza da Guglielmo di Monferrato e da’ Genovesi e Pisani: Eraclea (Policora), patria di Zeusi, colonia fiorentissima in antico, fu distrutta: qualunque città esitasse a sottomettersi, era devastata senza pietà. In Sicilia sottoposte Messina e Palermo, l’imperatore, colla pompa che suggerisce la paura, fu incoronato, e tutta l’isola gli giurò obbedienza.
Con fallaci lusinghe aveva egli tratto Sibilla ed i figliuoli dal castello di Calatabelotta, dove s’erano fortificati coi loro fedeli; poi raccolti gli stati a Palermo, accusò lei e molti grandi di una congiura. Non la fondava che sopra una lettera consegnatagli (diceva) da un frate; ma bastò perchè quanti aveano tenuto col partito nazionale, laici od ecclesiastici, fossero mandati alla forca o al palo, accecati, arsi vivi, esposti alle beffe, relegati in Germania; re Guglielmo, toltogli il vedere e il generare, fu tenuto prigione finchè andò monaco; Sibilla e le figlie rapite in carcere, poi nella badia di Hohenbruck in Alsazia; turbate le ossa di Tancredi per istrappare il diadema a lui e al figlio Ruggero; bruciati quanti aveano contribuito alla loro coronazione.
Fu spenta così nel sangue la dinastia normanna, di cui i regnicoli ricordano ancora con compiacenza i tempi e le famose ricchezze. Re Tancredi avea dato ventimila oncie d’oro per dote di sua figlia; Arnaldo di Lubecca ci rammentò le tavole, i letti, le sedie d’oro nel palazzo di Palermo; Ruggero Hoveden fa trovare da Enrico nel tesoro di Salerno ducentomila oncie d’oro; e in quel di Palermo senza fine armi ricche, stoffe d’oro e d’argento, sete ricamate, altre preziosità, con cui potè far larghezza a’ suoi fedeli; eppure [238] censessanta somieri vi vollero per trasportarne il resto nel castello di Trifels[231].
Con tirannia stolidamente feroce sottentrava la dinastia sveva, che mal per lei. Anche le città sottomessesi volontarie, furono trattate come conquista; Siracusa e la risorta Catania incendiate, senza riguardo a nobiltà o a grado; Napoli e Capua smantellate, e per le vie di questa trascinato a coda di cavallo, poi impeso pei piedi, indi strozzato da un buffone Ricardo conte d’Acerra, cognato di Tancredi, ultimo lustro dell’antica dinastia. Giordano e Margaritone, più ligi all’imperatore perchè un tempo avevano sguainato pe’ suoi nemici, inventavano delitti e trame, affine d’intitolar punizione la vendetta. Uno ch’erasi millantato di poter rendere la libertà e il trono a Sibilla, fu collocato sopra un seggio di fuoco, con corona di ferro rovente: massime su ecclesiastici e prelati s’infierì, e chi fu arso, chi scorticato, chi mutilo, chi mazzerato.
Non che mancare alle condizioni promesse a Genovesi e Pisani, Enrico li fraudò degli antichi privilegi, proibendo vi tenessero consoli, e proscrivendo tutti i negozianti forestieri. Del papa non si curò più che tanto, nè gli chiese l’investitura; onde questo l’avrebbe scomunicato, se nol tratteneva la naturale bontà, e la speranza che mantenesse la ripetuta promessa di crociarsi.
Dava fiducia di presti cambiamenti il non aver successori il re svevo; quando si annunziò che Costanza era feconda. Enrico volle venisse nel Reame, quasi per dare un re indigeno; e avendo essa partorito a Jesi, al bambino pose nome Federico Ruggero, come quello che univa i due sangui nobilissimi. I Ghibellini ne fecero galla; i Guelfi sparsero ogni sorta di dicerie [239] su questo intempestivo natale[232]; ed Enrico ne prese baldanza a compiere il disegno del Barbarossa di far ereditario l’impero in sua casa, tanto più da che trovavasi favorito dalla vittoria e dai tesori della Sicilia.
Cominciò dal sistemare la media Italia in modo di tener soggetta tutta la penisola. Pertanto a Filippo, ultimo figlio del Barbarossa e che poi divenne duca di Svevia, diede in moglie Irene figlia d’Isacco Langelo imperatore di Costantinopoli, e vedova del primogenito di Tancredi; e in feudo la Toscana ed altri beni della contessa Matilde: a Markwaldo d’Anweiler suo siniscalco, e ministro delle crudeltà, infeudò la marca d’Ancona: a Corrado di Svevia quella di Spoleto usurpandola alla Chiesa con titolo di rintegrare le imperiali prerogative, e restringendo il papa a poco più che all’indocile Roma. Vedendosi riminacciato il giogo degli Svevi, le città guelfe di Lombardia, da lui poste al bando dell’Impero, rinnovarono a Borgo Sandonnino la Lega Lombarda (1193 — 13 giugno), alla quale diedero il nome Verona, Mantova, Modena, Faenza, Bologna, Reggio, Padova, Piacenza, Gravedona, oltre Crema, Brescia e Milano. Così i Guelfi perseveravano nell’assunto loro di campare Italia dalla straniera servitù.
E servitù veramente minacciava Enrico, avvicendando crudeltà e perfidie contro i nostri non solo ma anche contro i Tedeschi. Raccolti gli stati a Magonza, propose di rendere in sua casa ereditario l’Impero, al quale aggregherebbe Puglia, Calabria, Capua e Sicilia, rinunzierebbe alla pretensione regia sulle spoglie de’ vescovi e abati defunti, riconoscerebbe ereditarj i feudi anche nelle donne. A proposte sì lusinghiere ben cinquantadue [240] principi aderirono: e per vero quel suo concetto potea tornar buono onde evitare le contestazioni che rinasceano tra le famiglie aspiranti alla corona della Germania, e ridur questa sotto leggi uniformi. Ma poteasi mai sperare v’assentisse il papa, il quale con ciò perdeva un preziosissimo diritto, e snaturava una dignità, attribuibile non alla nascita ma al merito personale? Poi a riuscirvi si voleva altro accorgimento politico, e carattere ben più stimabile che non l’avesse Enrico, il quale, mentre inorgogliva del tenersi come successore dei romani augusti, operava da inetto e crudele, scambiava per grandiosi disegni le velleità della sua ambizione; prometteva alle repubbliche privilegi, al papa di crociarsi, ai principi di favorirli, e a tutti perfidiava sfacciatamente; poi trovandosi impotente ai concetti, saltava in furore.
Il divisamento medesimo egli rivoltò in altra guisa, meditando cavare dalla nullità l’impero bisantino assalendolo come aveano fatto i predecessori, e sedutosi sul trono di Costantino, congiungere le due Chiese, e ridurre il papa alla docilità dei patriarchi orientali. A tal uopo, fingendo secondare la predicazione della crociata, tutto dispose per questa in Italia e in Germania, e un esercito mandò in Sicilia; ma in realtà non fece che raddoppiarvi le taglie, e supplizj di nuova invenzione, fin cinquecento nobili in un sol giorno facendo bruciare al piè del palazzo[233], quasi tenesse fitto il pensiero di sterminare tutti i Normanni; sicchè meritò il titolo che i Siciliani gli applicarono di Ciclopo. Indarno Costanza sua procurava mitigarlo, compatendo a quelli fra cui era nata e cresciuta, e ch’erano sua eredità; e di cui ella acquistò l’amore mentre governava, lui assente. Quand’egli fe mutilare Margaritone [241] grand’ammiraglio, ella s’affiatò coi nemici dell’imperatore; i Palermitani uccisero molti Tedeschi, la sommossa scoppiò in diversi punti; e fra questi bollimenti Enrico fu côlto dalla morte a Messina (1197), di trentatre anni. In agonia assalito dal rimorso, largheggiò cogli ecclesiastici, offrì compensi a Ricardo cuor di Leone, alla Chiesa romana fece concessioni amplissime[234] confessandone la fin allora rinnegata supremazia.
Gl’Italiani spiegarono soprumana allegrezza di questa morte: ne gemettero i Tedeschi, e sparsero che sua moglie l’avesse attossicato per vendicare sul marito la patria, resa infelice da quella sciagurata conquista, che tanti altri mali dovea trarre sull’Italia. Costanza cercò far cessare in Sicilia il dominio militare e quei che chiamavansi costumi tedeschi, cioè la violenza e il ladroneccio[235]; allontanò l’odiato Markwaldo, che a stento fuggì la popolare vendetta: ma anch’essa morì ben presto (1198 — 27 8bre), lasciando solo un bambino, Federico Ruggero. Di quattro anni, odiato dai popoli, massime dagli [242] Italiani che d’ogni parte insorgevano, insidiato dagli emuli e dagli stessi fedeli di suo padre che carpivano i brani del dominio, non trovò ricovero che sotto al manto del papa, che poi egli dovea faticarsi a stracciare.
L’elezione de’ pontefici era stata da Nicola II ristretta nei cardinali, vescovi e preti; poi Alessandro III, il promotore della Lega Lombarda, ascrisse al sacro collegio i capi del clero romano (1179) formandone i cardinali diaconi, escluse gli altri ecclesiastici, ed ordinò che, per essere papa legittimo, convenisse ottenere i suffragi di due terzi de’ cardinali.
Colla nuova forma fu eletto Lucio III (1181), che sedette a Vellètri, poi a Verona[236], sfuggendo dalla plebe romana, irrequieta e riottosa tanto, che avea preso a sassi fin il cadavere del suo predecessore, e accecati quanti cherici colse nell’espugnato Tusculo. A Urbano III fu precipitata la morte (1185) dalla notizia della presa di Gerusalemme; alla cui ricuperazione (1187) s’applicò Gregorio VIII nel brevissimo suo regno. A Clemente III succedutogli riuscì alfine di conchiuder pace coi Romani, abbandonando alla loro vendetta Tivoli e Tusculo. Il nuovo pontefice Celestino III (1191) non aveva potuto impedire che [243] Enrico VI disponesse dell’eredità della contessa Matilde, e assegnasse a’ suoi baroni molte terre della Romagna, e fino alle porte della città, lasciando a San Pietro soltanto la Campania, dove pure l’imperatore più era temuto che il papa[237].
Da Alessandro III in poi era dunque in calo l’autorità pontifizia, sicchè i cardinali sentirono la necessità d’affidarla a un robusto, qual fu Lotario (1198) dei Conti di Segni, col nome di Innocenzo III. Erudito se alcun n’era dell’età sua, in gioventù avea dettato Del disprezzo del mondo, e delle miserie dell’umana condizione, non come uno scettico che nauseato predica la vanità delle cose terrene senza por mente a quelle di sopra, ma elevando il cuore alle non peribili. Versò a lungo negli affari, alla prudenza del concepire aggiungendo la fermezza dell’effettuare e l’abilità del trovarne le guise.
Assunto pontefice nella vigorosa età di trentasette anni, del tesoro che trovò fe mettere in disparte una porzione per le emergenze imprevedute, il resto distribuì ai conventi di Roma; provvide agl’istituti di beneficenza; destinò ai poveri i doni offerti a san Pietro ed a’ suoi piedi, e la decima di tutti i suoi proventi; in una carestia mantenne ottomila poveri al giorno, oltre le distribuzioni per le case; molti riceveano quindici libbre di pane per settimana, alcuni presentavansi allo sparecchio per raccogliere i rilievi della sua mensa.
Di que’ giorni i pescatori ebbero a raccorre dal Tevere tre bambini gettati; e Innocenzo ne fu sì tocco, che stabilì provvedere a quest’infelici; onde rifabbricò ed estese l’ospedale di Santo Spirito in Sassia, dotandolo lautamente, e stabilendo che in perpetuo, l’ottava dell’Epifania, il papa in solenne processione vi recasse il santo sudario, ed esortasse i Cristiani alla carità, dandone [244] egli stesso esempio col distribuir pane, vino e carne a quanti vi assistevano. Millecinquecento malati vi dimoravano costantemente; ospitati i poveri d’ogni condizione e paese; ed anche ora annualmente vi sono raccolti ottocento esposti, di cui più di duemila vi stanno ordinariamente; e la spesa se ne calcola a centomila scudi l’anno.
A tanto fiore di carità univa una fervorosa devozione nel celebrare gli uffizj divini e nel predicare: i trattati e le omelie sue il mostrano versatissimo nelle sacre carte; compose diversi inni, e ancora si cantano dalla Chiesa il Veni, sancte Spiritus e lo Stabat mater.
A tali qualità di cristiano e di pontefice accoppiava quelle di principe; principe in ben miglior senso di cotesti altri suoi contemporanei. Amò Atene per le antiche glorie, Parigi per l’università, alla quale diede regole e privilegi; rifabbricò chiese, e fecele dipingere da Marchione d’Arezzo primo scultore e architetto dei tempi rinnovati, e da altri; crebbe e ornò San Pietro e il Laterano; e sulla piazza di Nerva fece alzar la torre dei Conti, meraviglia di quel tempo[238], e che gli è rinfacciata come una condiscendenza ai parenti, della cui grandezza in fatto fu tutt’altro che negligente.
Ne’ suoi Stati non affidava la giustizia che a persone di senno e bontà: profondo nelle leggi, ristabilì la consuetudine di presedere tre volte la settimana a una congregazione di cardinali, ove a tutti era dato portar quistioni. Credesi abbia istituito il processo in iscritto, per escludere il sospetto di frode, e attestare la regolarità degli atti; e fece abolire i giudizj di Dio[239]. A Roma allora recavansi in supremo appello tutte le cause [245] di rilievo; e Innocenzo, assiduo ai concistorj ove le si dibattevano, spesso udiva le parti egli stesso in privato, esaminava gli atti, addolciva coi modi le sentenze ch’era obbligato portar contrarie. Ci rimangono di lui tremila ottocencinquantacinque lettere, la più parte di sua mano, e che dividendosi sopra quattordici anni (di quattro mancano), danno un medio di ducensettantacinque l’anno: e tanto credito ottennero, da divenire testo nelle università.
Tenace di memoria, esuberante d’erudizione, elevato nell’ideare, perseverante nell’eseguire, sagace nell’antivedere gli effetti, attingeva forza dagli ostacoli, rispondeva e operava pronto non precipitato, circospetto non oscillante, e sempre dopo consultati i cardinali; severo coi pertinaci, benevolo ai docili, propenso all’indulgenza e a credere il bene; degli ordinamenti che uscirono sotto il suo regno, nessuno fu derogato.
Colle idee di Gregorio VII egli sottentrava ai carichi che pesavano sopra un pontefice allora, quando non dovea soltanto curare la salute delle anime e l’interesse della cattolica verità, ma attendere al miglior governo della società cristiana e difendendo la libertà della Chiesa, vigilare agl’interessi dei popoli, e a mantenerli ne’ loro doveri come ne’ loro diritti. Assicurare la purezza dell’operare e del credere contro i simoniaci, eretici, re adulteri, impedire si accumulassero i benefizj, dare e rinnovare privilegi a conventi, a ordini, a chiese, e cassare i pregiudizievoli, introdur feste, proteggere i deboli contro prelati o capitoli prepotenti, pronunziare generali decisioni di fede, e risolvere dubbj e casi particolari, confermare o rivedere sentenze dei legati, far rispettare gli ordini de’ predecessori suoi, revocar quelli carpiti con frode, reprimere gli arbitrj dei re e dei baroni, raccomandar funzionarj o poveri preti, sancire convenzioni fra ecclesiastici, ribenedire [246] scomunicati, canonizzare santi, tali e assai più erano gli uffizj che un pontefice estendeva a tutto il mondo. E Innocenzo con intima persuasione proclamava quest’autorità, stabilita nel cristianesimo per congiungere tutti coloro che lo professano, tutelare i diritti, determinare i doveri di tutti, far rispettata la legittimità dal suddito e dal principe, egualmente servi a Dio per la verità e la giustizia.
Prima raccomandazione a’ suoi legati era d’aver gli occhi e gli orecchi ai portamenti del clero, francheggiare la ragione, svellere gli abusi, comporre le differenze, frenare la cupidigia di guadagno. Anche di mezzo ai laici procurava estirpare gli scandali, introdurre usi che mettessero gravità ne’ modi; ordine nella vita, e tutelava il matrimonio contro i voluttuosi capricci de’ principi. Qui prescrive limiti all’usura, là disegna il vestire de’ laureati di Parigi o de’ cavalieri Teutonici; oggi ammonisce il clero milanese del come trattare i nunzj in viaggio, domani il doge di Venezia di ritirare un ordine troppo severo contro un privato; scrive ad alcuni principi perchè vigilino alla sicurezza delle strade, ad altri perchè non alterino le monete, o non aggravino i tributi, o non impongano nuovi pedaggi. Non una legge della Chiesa è violata, ch’e’ non la ripristini; non fatta un’ingiuria al debole, ch’e’ non ne chieda riparazione. Prende in tutela Federico II, Ladislao d’Ungheria, Enrico di Castiglia, l’infante d’Aragona, orfani reali: Gualtieri di Montpellier sbandito a lui ricorre; a lui le nazioni trafficanti per risolvere i loro piati. Pietro II d’Aragona, il re de’ Bulgari, lo stesso re d’Inghilterra non credettero meglio assicurare la propria corona che facendola vassalla della santa sede: i regni di Navarra, di Portogallo, di Scozia, d’Ungheria, di Danimarca si gloriavano di mettersi sotto l’alto dominio del papato.
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Le basi del quale già eransi assodate; ogni nuovo pontefice v’avea recato una pietra, Innocenzo s’accingeva a porvi il colmo. Alla morale e alla dignità de’ prelati credeva, come Gregorio VII, fosse spediente render la Chiesa al possibile indipendente dalla podestà temporale. Cominciò dall’assicurare il dominio pontifizio in Roma, i cui eterni contrasti obbligavano a tener ristretto fra i sette colli lo sguardo che dovea girarsi su tutto il mondo. La nobiltà vi era cresciuta di baldanza fra le contrarie pretensioni dell’imperatore e del pontefice, parteggiando coll’uno o coll’altro secondo l’interesse.
La parte cesarea era rappresentata dal prefetto di Roma, investito dall’imperatore colla spada: poi dai tempi d’Arnaldo sussisteva un senato, la cui autorità era dal popolo stata ridotta in un solo, straniero, capo supremo della giustizia, del governo civile e della forza armata, centro insomma del governo, siccome altrove il podestà. Quando Clemente III ritornò in Roma, patteggiò col popolo confermando la dignità del senato, la città, la zecca; di questa però riservavasi un terzo, mediante il quale la chiesa di san Pietro e le chiese e vescovadi tassatisi per la guerra venissero anno per anno esonerati fin all’estinzione dell’obbligo assunto. Restituiva le regalie in città e fuori; egli difenderebbe i capitani e gli altri magistrati della città: i senatori giurerebbero annualmente fedeltà al papa; resterebbero alla romana Chiesa i possessi di Tusculo, in qualunque modo esso possa soggiogarsi, dando ogn’anno cento libbre dal ricavo di essi, onde restaurare le mura di Roma. Di rimpatto i senatori assicuravano pace e sicurezza al papa, ai vescovi, ai cardinali, a tutta la curia, e chi v’andava e dimorava. Il papa eleggerà dieci o più persone per ciascuna delle regioni della città, dalle quali i senatori faran giurare questa pace. Se occorra [248] difendere il patrimonio di san Pietro, i Romani vi andranno colle spese consuete[240].
Tale era trovato il governo di Roma da Innocenzo. Il quale, conoscendo come alle repubbliche pregiudicassero queste ingerenze imperiali, risolse torle di mezzo; fe snidare i Tedeschi dai contorni di Roma, recuperando i castelli da loro presidiati; obbligò il prefetto a non prestar più all’imperatore l’omaggio ligio, ma ricevere da esso papa il manto, con giuramento di rinunziarvi ogniqualvolta ne fosse richiesto; il senatore ridusse ad esercitare la podestà, non più in nome del popolo, ma del papa.
Spenta così l’autorità regia in Roma, invitò gli abitanti della marca d’Ancona a cacciare il tedesco Markwaldo, «giacchè nessuna violenza può abolire i diritti»; onde Ancona, Fermo, Osimo, Camerino, Fano, Jesi, Sinigaglia, Pesaro vennero all’obbedienza papale: altrettanto, espulso Corrado Moscaincervello, avvenne del contado di Spoleto, che abbracciava Rieti, Assisi, Foligno, Nocera; seguirono Perugia, Gubbio, Todi, Città di Castello, cosicchè i nostri esultarono di vedersi sbrattati da Tedeschi; e lo Stato della Chiesa non fu più soltanto un nome, ma diveniva una realtà.
Innocenzo bramava aggiungervi l’esarcato di Ravenna e i beni della contessa Matilde; ma poichè saldo li difendeva Filippo di Svevia, esso si diede a fomentare gli spiriti liberali de’ Toscani, spiacenti di durare in tirannia mentre i Lombardi s’erano assicurata la libertà. Inanimiti da esso a confederarsi al modo de’ Lombardi per tutelar le franchigie (1199), Firenze, Lucca, Volterra, Prato, Samminiato ed altre giurarono pace e lega, invitandovi tutti gli Stati e i liberi o nobili che [249] vi volessero aderire, affine di vigilare all’osservanza della legge, combattere chiunque facesse guerra ad alcun collegato, rimetter pace se tra questi nascesse dissidio, obbligandosi a stare alla decisione di arbitri. I rettori s’adunerebbero sotto un priore per provvedere al meglio della Lega, la quale prometteva obbedirli: si punirebbero severamente i trasgressori. I consoli o podestà farebbero giurar essa Lega da tutti i loro cittadini; così i vescovi e conti da tutti i loro militi e pedoni, e dai loro figli. Non si riconoscerebbe imperatore, o legato o nunzio d’imperatore o principe, duca o marchese, senza speciale assenso della Chiesa romana. A questa si assisterebbe affinchè recuperasse i beni, purchè non fosse contro qualche membro della Lega. Se il papa e i cardinali non adempissero i loro obblighi verso questa, la Chiesa se ne terrebbe esclusa[241].
Ma Pisa, Pistoja, Poggibonsi mantenevansi coll’Impero, sicchè, scissa la Toscana in due, cominciò a divulgarsi ivi pure la qualificazione di guelfo e ghibellino.
Gente raffinata come vedemmo essere i Siciliani, e che cominciava in sua favella a far intendere i suoni della nuova poesia, considerava per barbari i Tedeschi. Enrico VI, accortosi d’avere preparato cattivo letto al suo fanciullo Federico, morendo il raccomandò al papa. Accettò questi; ma oltre volere che n’uscissero le truppe tedesche, scopo all’ira popolare, pose per patto alcune modificazioni nei quattro capitoli della monarchia, ed erano che i vescovi fossero eletti canonicamente, e i re li confermassero; a ciascun ecclesiastico siciliano fosse permesso appellarsi a Roma; il papa potesse deputare legati nell’isola: di rimpatto riduceva il censo a mille schifati. Costanza non seppe ricusare; e anch’essa, [250] quando morì (1198), lasciò la tutela di Federico ad Innocenzo, colla provvigione di trentamila tarì (lire 80,000).
Innocenzo gli diede per aji gli arcivescovi di Palermo, Monreale e Capua, e tosto spedì un legato che traesse a sè il governo; onde nelle stesse mani trovandosi il potere ecclesiastico e il civile, ogni contestazione restava tolta di mezzo. I baroni del Regno sel recavano in sinistra parte; e il duca Markwaldo, che, espulso di Romagna, erasi ridotto nel suo contado di Molise, erettosi capo della parzialità imperiale, pretese alla tutela del giovane re, come via di farsi indipendente, assediò San Germano, e ajutato dai Pisani sbarcò in Sicilia. Lo favorirono i Siciliani, paurosi d’una persecuzione; ma mentre i nobili, tenendo coi Ghibellini, avvicendavano arroganza e viltà, il popolo esecrava i Tedeschi a segno, che nè tampoco i pellegrini di questa nazione potevano traversare impunemente il Reame per andare in Terrasanta.
Gualtieri conte di Brienne, francese povero ma di gran valore e nobiltà, avea sposato la primogenita del re Tancredi, che era stata messa in libertà per istanza del papa; e ridomandava Taranto e Lecce, che i figli di Tancredi si erano riservati nel cedere il diritto ereditario alla corona. Venne egli a Roma con Sibilla e colla moglie; e il papa, lieto d’aversi un tal vassallo, lo sostenne, sicchè egli, messi insieme sessanta Francesi, mille lire tornesi, e cinquecento oncie d’oro dategli dal papa, riportò nel Reame molte vittorie; ma Gualtieri Paliario, arcivescovo di Palermo ed arcicancelliere del regno, che tramestava la Sicilia a suo talento, e dava e toglieva contadi e feudi, vi oppose proteste e forza. Innocenzo scomunicollo, ma per conservare integro il patrimonio al suo pupillo fu costretto ricorrere alle armi: la fortuna de’ combattimenti si bilicò, ma alfine arrise a Markwaldo, che avendo in mano Federico, e [251] spargendo voce ch’e’ fosse un parto supposto[242], tenne suddita la Sicilia, e faceasene re ove non l’avesse rattenuto paura del conte di Brienne. Nel farsi operar della pietra morì (1201), ma Capperone continuò la parte di lui, sempre opponendosegli il conte di Brienne, il quale però, sebbene vantasse che Tedeschi armati non avrebbero tampoco osato affrontare Francesi disarmati, fu sorpreso e imprigionato all’assedio del castello di Sarno, e morì di ferite. Delle turbolenze siciliane vollero profittare i Pisani per occupare Siracusa: ma i Genovesi, perpetui avversarj di essi, accorsero, ne trucidarono quanti vollero, e posero in quella città chi la governasse a nome loro. Finalmente il pontefice trionfò dappertutto, ristabilì le città nelle antiche franchigie, e da Federico ottenne il contado di Sora per suo fratello Ricardo, principale autore di quelle vittorie.
Qui i parziali interessi cedono a fronte della crociata, interesse generale non solo pel pio intento, ma pei tanti Europei che eransi piantati nell’Asia, fondando colonie, scali di commercio, principati, e confidandosi sugli ajuti promessi dai fratelli d’Europa. Dicemmo dello sgomento propagatosi allorchè Gerusalemme ricadde ai Musulmani: ma quando il gran Saladino, glorioso di quel trionfo, morì (1193), diciassette suoi figli si disputarono il dominio, onde il vigoroso regno degli Ajubiti si disciolse in piena anarchia. Innocenzo III credette caduto con quello l’antemurale dell’islam, e opportunissimo l’istante di ricuperare la santa città, sicchè bandì la croce: Enrico VI la prese, poi, fallendo alla promessa, si valse dell’esercito nelle sue gare private, e lasciò che altri principi andassero in Palestina (1195), ove Malek Adel, fratello di Saladino, li fece mal capitati.
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Innocenzo, come voleva il perfezionamento della Chiesa per mezzo della morale e dell’indipendenza, così s’infervorò al ricupero della santa città; proibì gli spettacoli e tornei per cinque anni, mandò a raccattare denaro per tutta cristianità, egli stesso fece fondere il suo vasellame d’oro e d’argento, riducendosi ad argilla e legno. Folco curato di Neuilly predicò per Francia la crociata, e moltissimi baroni e prelati gli ascoltarono, all’impresa non accettandosi la turba, ma solo gente disciplinata. Spedirono essi ambasciadori a Venezia per chiederle navi da trasporto e ajuti: ma mentre i papi e gli altri popoli lanciavansi a quell’impresa (1198) con impeto devoto e pio disinteresse, le repubbliche nostre marittime vi scorgeano occasioni di guadagno, e opportunità di fondar banchi e scali e prevalere agli emuli; anzi non si faceano scrupolo di somministrar navi, arredi e piloti a que’ Saracini, contro cui la cristianità combatteva. Già in molte città della Siria e della Grecia teneano colonie, regolate colle patrie leggi; ma il contatto coi Greci avea portato ai Veneziani disgusti e sanguinose animadversioni. Sentendosi cresciuti in forze dacchè i Latini dominavano nel Levante, cessarono gli antichi riguardi verso gl’imperatori; dicemmo come gli osteggiassero, e covavano sempre il desiderio di umiliare i Greci sprezzati, e insieme di distruggere i banchi che quelli aveano concesso ai Pisani.
A Venezia soleano prendere imbarco i pellegrini per Terrasanta, ai quali restava permesso vagare per la città con croci e gonfaloni; e alcuni uffiziali, detti Tolomazzi, erano eletti al solo uopo di assisterli e consigliarli nell’acquistare il bisognevole pel viaggio e pattuire i noli; i signori di notte decidevano sommariamente le cause e querele loro; e il pellegrino alle processioni poteva intervenire appajato ad un patrizio, che gli cedeva la destra e gli regalava il cero. Ma questa volta [253] non vi vennero solo devoti palmieri, bensì ambasciatori della più alta baronia di Francia.
Sedeva allora doge Enrico Dandolo (1201), che colle armi e coi maneggi avea sempre sostenuto la gloria nazionale, nè languiva benchè nonagenario. Personalmente era stato offeso dall’imperatore di Costantinopoli, e quasi accecato, sicchè dovette accogliere volonteroso l’occasione di vendicarsi con un’impresa che tornerebbe di onore e vantaggio della patria. Convocato il popolo in San Marco, dopo la messa dello Spirito Santo si levò ed espose: — I baroni francesi chiedono a voi, popolo veneziano, navi per trasportare quattromilacinquecento cavalli, ventimila fanti e provvigioni per nove mesi. Noi domandammo per compenso ottantacinquemila marchi (4,250,000 lire). Inoltre, se a voi piaccia, la Repubblica armerà cinquanta galee, purchè le sia ceduta metà delle conquiste che si faranno. Piace a voi, popolo veneziano, la proposta e il patto?» I messi francesi in ginocchione tendeano le mani supplichevoli ripetendo la domanda, persuasi che i soli potenti fossero i Veneziani sul mare, i Franchi per terra; e giuravano sulle armi e sul vangelo di mantenere le convenzioni.
Il popolo a gran voci applaudiva al trattato, e più crebbe il fervore quando il doge dal pulpito soggiunse a’ suoi: — Voi siete accompagnati alla miglior gente del mondo, e per la più nobile impresa che mai alcun popolo assumesse. Vecchio son io e fiaccato, e avrei mestieri di riposo e di pensare alla fine del mio corso: ma vedo che nessuno vi potrebbe regolare come io vostro capo. E però, se volete che io pigli la croce per custodirvi e governarvi, e in luogo mio lasci i miei figliuoli a guardia della patria, io verrò a vivere e morire con voi e coi pellegrini». Tutti ad una voce gridarono Si faccia, Dio lo vuole; egli attaccossi la croce [254] al corno ducale; e inteneriti si mischiavano in abbracci i baroni francesi coi veneti negozianti[243].
La gelosia fe stare inoperose Pisa e Genova, tanto più che esse si faceano guerra accannita, dalla quale tentò invano distorle il papa: però Lombardi e Piemontesi vi vennero, fra cui Sicardo vescovo di Cremona, che nella sua storia ci descrisse questi fatti; e capo della spedizione fu eletto Bonifazio II marchese di Monferrato, fratello del prode Corrado marchese di Tiro. Da Francia, da Borgogna, da Fiandra accorrevano cavalieri a Venezia, dove trovarono arredati i navigli; ma altri imbarcaronsi altrove, con pregiudizio proprio dell’impresa. Imperocchè vennero a mancare i denari onde pagare il noleggio ai Veneziani, benchè giojelli e vasi fossero convertiti in zecchini, dando tutto fuorchè i cavalli e l’armi, e confidandosi nella Provvidenza. Pertanto il doge disse: — Ebbene, noi rimetteremo questo debito ai Crociati, purchè ci ajutino a riprendere Zara, sottrattasi a noi per darsi al re d’Ungheria». Molti faceansi coscienza del voltare contro Cristiani l’armi giurate contro Infedeli; più si oppose il papa, sul riflesso che quel re, avendo anch’egli preso la croce, restava protetto dalla tregua di Dio: ma il doge non vi badò, con grave scandalo de’ Settentrionali avvezzi a sottoporre interessi e calcoli al volere pontifizio.
Salpata la più bella flotta che mai avesse veleggiato l’Adriatico, prendono Trieste, spezzano le catene del porto di Zara; ma qui pullulano fiere discordie fra i [255] Crociati, che si uccidono gli uni gli altri, e il papa disapprovando l’impresa, ordina di restituire il bottino, e far penitenza e riparazione: e poichè i Veneti in quella vece diroccano le mura, li scomunica, senza per questo disobbligarli dal voto, mentre ribenedice i Francesi che mandarono a scusarsi, ed ordina che, senza volgersi a destra nè a sinistra, passino in Siria.
Frattanto gravi accidenti complicavano l’intento della spedizione. Benchè gl’imperatori bisantini dominassero sempre su molta parte dell’Italia, noi reputammo alieno dal nostro soggetto il seguirne la serie e i fatti. Del resto il lettore che si ricorda degli ultimi tempi di Roma imperiale può figurare vi continuasse quel sistema di serraglio, con regnanti dappoco, favoriti onnipotenti, da null’altro temperati che da frequenti rivoluzioni, per cui un intrigo di palazzo cambiava o gli imperatori o i ministri; e Costantinopoli vi applaudiva, e tutto l’Impero non facea che mutare il nome di quello a cui obbedire. In quella Chiesa non vi era stato l’antagonismo col Governo; e sottomessa com’era, non potè impedire la corruzione del potere, che a vicenda era trascinato negli errori dell’autorità che aveva a sè riunita. Intanto assalti sempre più stringenti di nemici esterni; intanto le coscienze turbate dalla regia pretensione d’interporsi ai dogmi e ai riti; intanto una letteratura, non ancor rimestata da stranieri, eppure impotente, che degl’insigni classici non sapea valersi se non per commentarli, e la lingua più bella e forbita adoperava soltanto a trastulli senili e a sofistiche controversie.
Questo quadro tengano sott’occhio coloro che non hanno se non vilipendio pei paesi invasi da Barbari, e rimpianto per la dominazione romana schiantata dall’Italia. Qualche nuovo vigore parve recare su quel trono d’orpello la famiglia Comneno, di cui era quell’Alessio [256] che vedemmo barcollante amico e coperto nemico dei Crociati: e per poco ch’e’ valesse, nessuno l’eguagliò de’ suoi successori. Giovanni Comneno (1118) menò per ventiquattro anni guerre felici. A Manuele (1143), succedutogli con spiriti cavallereschi più che prudenza a dirigerli, Ruggero II di Sicilia portò l’assalto che dicemmo, in cui desolò le coste del Jonio, espugnò Tebe e Corinto, menando via quanto di meglio trovò d’uomini robusti, di belle donne, d’abili operaj. Manuele divisò allora snidare i Normanni d’Italia (1155), e in fatto i suoi presero Bari e Brindisi: ma ben presto seguì la pace.
Alessio II suo figliuolo gli succedette (1180), reggente la madre Maria d’Antiochia; ma questa affidavasi tutta al protosebaste Alessio nipote di Manuele, scandolezzando e scontentando la Corte, sicchè fu tramato a favore di Andronico Comneno. Costui, tenuto prigione dodici anni, fuggì, e dopo romanzesche avventure perdonato, osteggiò di continuo il protosebaste; e dal patriarca eccitato a liberare la patria, si mosse raccogliendo gli scontenti. Appena compare a Calcedonia, il popolo lo acclama reggente (1183); ed egli fa accecare Alessio, trucidare senza distinzione quanti Latini coglie in Costantinopoli, avvelenare Maria sorella dell’imperatore e il marito di lei marchese di Monferrato, strangolare l’imperatrice madre; e così cacciatosi addosso la porpora, la conservò, e viepeggio quando Guglielmo II di Sicilia, aspirando alla conquista dell’Impero, prese Durazzo e Tessalonica, e marciò sopra Costantinopoli.
Vittima designata dal tiranno era Isacco Langelo, cittadino di molto seguito: ma questi uccide il carnefice, rifugge in Santa Sofia, e dal popolo tumultuante è, mal suo grado, proclamato imperatore (1185). Andronico, abbandonato al furore del popolo, fu per più giorni tratto a strapazzo, in fine appiccato per li piedi in teatro, rinnovando le scene che erano famigliari alla [257] Roma del Basso Impero. Con questo vecchio di settantacinque anni terminò la stirpe dei Comneni.
Femminesco di vita e inetto di mente, Isacco abbandonava le cure a ministri indegni; ebbe contese con Federico Barbarossa, a cui danno (1195) sollecitò le repubbliche lombarde: poi da Alessio fratel suo fu deposto, accecato e messo in carcere col figlio. Questi, Alessio anch’egli di nome, riuscì a fuggire presso Filippo di Svevia suo cognato, appunto allorchè più in Europa caldeggiavasi la crociata; e poichè de’ cavalieri armati in questa era divisa il difendere l’innocenza, raddrizzare i torti, sostenere gli oppressi, andò invocare il loro braccio, proponendo assalissero Costantinopoli, e rimettessero in trono lui, che gli avrebbe poi d’ogni sua possa ajutati alla santa impresa. Invano altri insinuava che non per ciò aveano impugnato le armi, che i Greci non moveano lamento contro l’usurpatore, che gl’imperatori s’erano pôrti scarsamente favorevoli ai Crociati: gli scaltri trovavano miglior conto nel guerreggiare Costantinopoli, più vicina e più ricca; a molti sapea di meritorio l’assalire gente scismatica; presa Costantinopoli, diverrebbe la base della spedizione contro Gerusalemme. Si narrò che Malek Adel facesse vendere i beni del clero cristiano in Egitto, e col ricavo comprasse fautori in Venezia, promettendo alla repubblica ogni agevolezza di traffici in Alessandria se stornasse la spedizione dalla Siria: del resto, occorrevano altri stimoli ai Veneziani per volere vendicarsi degli imperatori, e schiantare i banchi fondati in Grecia dai Pisani?
L’imperatore bisantino, non meno fiacco del predecessore, angariava e anneghittiva; vendeva la giustizia per rifarsi dello speso nell’usurpazione; e mentre Bulgari e Turchi straziavano i confini, dentro lasciavasi governare dalla moglie Eufrosina. Quando Enrico VI [258] professava voler rinnovare l’antico impero romano, e frattanto gli ridomandava le provincie fra Durazzo e Tessalonica, o per equivalente cinquanta quintali annui d’oro, Alessio non allestì resistenza, ma mercanteggiò facendolo accontentare di sedici, per adunare i quali spogliò le chiese e fin le tombe degl’imperatori: ma la tempestiva morte di Enrico lo assolse dal tributo tedesco. All’addensarsi della nuova procella, ricorse al papa acciocchè non permettesse di così snaturare la santa impresa: nulla però prometteva a vantaggio della crociata, nè di quel che tanto ai papi stava a cuore, la riconciliazione della Chiesa greca colla latina. Pure Innocenzo III, che metteva la giustizia innanzi a tutto, interdisse l’impresa ai crociati; i quali litigando pel sì e pel no, si logoravano a vicenda. Ma il sì prevalse, ed Alessio figlio d’Isacco Langelo fu salutato imperatore (1203), e colla sua presenza infervorò la spedizione.
L’armata fece testa a Corfù, donde veleggiò sopra Costantinopoli; e trenta migliaja d’uomini accinti a conquistare un impero di molti milioni, la vigilia di san Giovanni gettarono l’àncora sulla costa asiatica, tre miglia dalla capitale. Quivi all’attonito loro sguardo spiegossi l’impareggiabile bellezza della Propontide, colla vegetazione rigogliosa, i frutti succulenti, le dolci uve, ridondante pescagione, limpidi ruscelli, freschi bagni, canti di rosignuoli, e tutta la pompa che nella vigorosa sua maestà spiegava l’estate. Sopra le onde increspate da leni zefiri, l’occhio scorreva verso le rive ammantate di fiori, e sui giardini e le campagne ridenti di laureti e olezzanti di perpetui rosaj, e sulle ville e le case cittadine, che all’ombra de’ platani e dei cipressi dalle falde lambite dal mare ascendono fino in vetta alle colline che contornano l’orizzonte.
Fra tante bellezze, come la luna fra le stelle, pompeggiava Costantinopoli, serpeggiante per immenso spazio [259] sulle sette colline, cinta d’elevate mura, con trecentottantasei torri, e chiese e conventi senza numero, raddoppiati dal riflesso delle onde, che parevano baciarle il piede come servi, o fremere come difensori minacciosi. Ai Crociati, non che parole a descrivere, appena bastavano i sensi per ammirare quel porto immenso di due mari: diamante che scintilla tra il zaffiro delle onde e lo smeraldo delle campagne; il soggiorno più bello dell’uomo per comodi e sicurezza, emulo di Roma per dignità, di Gerusalemme per reliquie e santuarj, di Babilonia per vastità.
L’imperatore aveva lasciato per avarizia ridurre allo stremo l’esercito e la flotta; e mal si difendea col braccio de’ Varanghi, mercenarj settentrionali, coll’assistenza de’ Pisani, e col fuoco greco, liquido combustibile che parve inventato per prolungare l’agonia di quell’impero, e che con esso perì. I nostri, spezzate le catene del porto, prendono Galata (17 luglio), e danno l’assalto: Enrico Dandolo, sulle spalle de’ suoi si fa mettere a terra col vessillo di san Marco, che ben presto sventola sopra una torre, e Costantinopoli è presa.
Alessio fuggì per nave, abbandonando ogni cosa, bestemmiato da quelli che jeri l’incensavano: suo fratello Isacco dalla prigione è portato al trono, compianto dei mali suoi or che sono cessati. A lui si presentano i messi dei Crociati imponendogli, — Ratificate la promessa fatta da vostro figlio di darci ducentomila marchi, vitto per un anno, ed ogni ajuto per la guerra santa»; ed egli deve accettare, solo pregandoli di tenersi accampati a Gàlata, cioè sul lido opposto.
Quel subito mutamento, quel vedersi risparmiate le battaglie temute, portavano al colmo il tripudio dei nostri, che forniti d’ogni abbondanza, ammiravano tante magnificenze, e più di tutto le reliquie, di cui era una devota profusione. Il nuovo imperatore, coronato [260] fra il corteggio dei baroni, pompa inusata agli augusti orientali, pagò parte della promessa somma; e se le cose fossero procedute da buon a buono, forse era il momento di svecchiare l’Impero, rimettendolo nell’alleanza cattolica, a parte della comune impresa, e d’accordo respingere il nemico di tutta la cristianità.
Cavallerescamente i baroni mandarono araldi ad annunziare il loro arrivo al sultano del Cairo e di Damasco, in nome di Cristo, dell’imperatore di Costantinopoli, de’ principi e signori d’Occidente; informarono anche il papa e i principi cristiani del prospero successo, invitandoli a parteciparvi; ma il papa rispose rimproveri, e negò benedirli; solo accettò le scuse di Alessio Langelo, esortandolo a mantenere le promesse.
E le promesse erano di dar denari, e ricongiungere la Chiesa greca colla latina. Per la prima Alessio si gettò in rovina, spogliando fin le chiese; per l’altra obbligò i suoi ad abjurare lo scisma, ed i Crociati non risparmiarono la forza contro i renitenti. Così egli venne a procacciarsi l’odio dei sudditi, portato al colmo da un incendio che per otto giorni guastò Costantinopoli, e che s’imputò a questi stranieri. Alessio dunque supplicava i Crociati: — Non partite, altrimenti io soccomberò alle rivolte, e l’eresia risorgerà; aspettate la primavera; intanto io vi fornirò d’ogni bisogno».
Ma convivendo coi nostri, scapitava nella loro riverenza; e talvolta qualche nicoletto veneto, toltogli il gemmato diadema, gli sostituiva il suo berretto. Ne fremevano i Greci, ne ingelosiva il cieco Isacco: e Alessio, sentendo non poter fare gran conto sopra i Latini, nè i monaci e astrologi di cui si cingeva sapendo dargli buoni consigli, alle ribellioni non conosceva rimedj migliori che trasportare dall’ippodromo al suo palazzo il cignale caledonio, simbolo del popolo furioso, [261] come il popolo abbatteva una statua di Minerva, accagionata delle presenti sventure.
Ecco intanto da Palestina messi in gramaglia (1204), narrando come i Crociati di Fiandra e di Champagne, che con molti Inglesi e Bretoni, spiccatisi dall’esercito a Zara, erano sbarcati in Siria ed unitisi al principe di Armenia, fossero stati dai Musulmani sorpresi e sbarattati; fame e peste desolassero il paese, e a Tolemaide si sepellissero duemila cadaveri in un giorno. I Crociati allora, risoluti d’avacciare l’impresa, sollecitavano i sussidj promessi: ma i due imperatori, che non osavano mostrarsi all’aperta per non ammutinare il popolo, mascherano la paura col rispondere insolentemente; gli animi si esacerbano; i Latini s’accingono a prendere un’altra volta Costantinopoli. I Greci attentano alla flotta veneziana, e diciassette battelli incendiarj lanciano nottetempo contro di essa, e già dalle mura applaudiscono al fuoco che s’avanza contro i Latini: ma questi riescono a sviarlo, e infelloniti alla vendetta, più non badano a proteste del loro creato. Murzuflo, scaltro sommovitore, che fingendosi amico a tutti, tutti ingannava, sparge che i Langeli vogliano consegnare Costantinopoli ai Latini; onde il popolo, che suol essere più feroce quando ha maggior paura, a gran voci chiede un nuovo imperatore; Alessio IV è strangolato, Isacco muor di spavento e crepacuore, e Murzuflo è portato trionfalmente in Santa Sofia.
Il doge e i baroni latini, che poc’anzi si svelenivano contro i due imperatori, or giurano vendicare que’ loro creati, e assaltano Murzuflo. Costui non mancava del valore che dee avere un capopopolo, e colla spada e la mazza ferrata scorreva, rattizzando col proprio il coraggio de’ Greci; tentò di nuovo incendiare e sorprendere i Latini; ma quando cadde in man di questi lo stendardo di Maria Vergine, i Greci si credettero abbandonati [262] dalla loro tutrice, e si chiusero nella capitale. Quivi giorno e notte centomila uomini lavoravano ad allestire difese, e i Crociati sentivano la difficoltà di espugnare una piazza sì mirabilmente situata. Pure raccolti a parlamento, deliberarono: — Non cesseremo finchè non sia deposto Murzuflo; gli sostituiremo un imperatore latino, che possieda un quarto delle conquiste; il resto sarà diviso fra Veneziani e Franchi, e determinati i diritti feudali degli imperatori, dei sudditi, de’ grandi e de’ piccoli vassalli».
Mossi poi all’assalto dalla banda di mare, superano le bastite, Murzuflo fugge, e Costantinopoli è presa un’altra volta. Chi sarìa bastato a tenere a freno quella moltitudine, lieta d’aver conseguito una preda sì lungamente appetita? Non onestà, non santità di chiese o di tombe fu rispettata: una meretrice assidevasi sulla cattedra di Santa Sofia; muli straccarichi di spoglie, feriti insanguinavano gli altari; v’era intanto chi vestiva gli strascicanti abiti de’ Greci, e bardava i cavalli coi berretti di tela e coi cordoni di seta degli Orientali; e scorrevano le vie, in luogo di spade brandendo calamaj e carta per beffare la imbelle dottrina de’ Greci, ed esclamavano: — Da che mondo è mondo, mai non fu visto più pingue bottino».
Le spoglie, che doveano mettersi in comune (e furono appiccati molti che ne distrassero), sommarono a cinquecentomila marchi d’argento (24 milioni), dopo due incendj, dopo il molto trafugare, dopo messo in disparte un quarto pel futuro imperatore, e compensati i Veneziani del noleggio; ond’è poco il valutarle cinquanta milioni: e se si fosse ceduta la preda ai Veneziani, com’essi proponeano, ne avrebbero ricavato di più e con minori sevizie. Il bottino fu distribuito in tal proporzione, che un cavaliere toccasse quanto due uomini a cavallo, uno a cavallo quanto due fanti. I monumenti, [263] onde Costantino e i successori avevano arricchita la città, andarono guasti o predati[244]; non men che l’oro e i tappeti, avidamente erano rubate le reliquie, con frodi e violenze e fin sangue; e il mondo se n’empì. Dopo di che i Crociati celebrarono divotamente la Pasqua.
A sei elettori veneziani e altrettanti ecclesiastici francesi fu affidata la scelta d’un imperatore. Candidati Enrico Dandolo, il marchese di Monferrato e Baldovino di Fiandra: il Dandolo alla signoria d’una città vinta preferì rimaner capo della gloriosa conquistatrice, come nessun antico Romano avrebbe voluto cessare d’esser cittadino per divenir re di Cartagine. D’altra parte i Veneziani s’adombrerebbero del vedere il loro doge a capo del grande Impero: chi gli assicurava che la cosa non passerebbe in esempio? e non potrebbe la loro patria diventare colonia all’Impero? Perciò il Dandolo ricusò la corona; e la gelosia de’ Veneziani per l’ingrandimento del signore del Monferrato li fece favorire Baldovino, che fu acclamato. Feste all’occidentale e cantici latini nelle chiese celebrarono il nuovo imperatore, cui il legato pontifizio indossò la porpora, e, secondo il costume, gli fu offerto un vaso pieno d’ossa e polvere, e dato fuoco ad un fiocco di bambage, per rammentare come passa la gloria del mondo.
Questo colpo, che già avea dato per lo desiderio ai primi Crociati, era un trionfo del papato, sebbene fatto contro sua voglia. Baldovino assunse il titolo di [264] cavaliere della santa Sede; ad Innocenzo III annunziava essere stata sottomessa una nuova gente al pontefice, e l’invitava venisse a godere di quella vittoria; il marchese di Monferrato protestavasi disposto a tornare o morir colà, secondo i cenni del papa; il doge implorò d’essere assolto di quella conquista, a scusa adducendo l’essere Costantinopoli scala necessaria per Gerusalemme. Innocenzo, amante d’una politica netta ed evidente, volea la guerra contro l’islam, non già che a redimere l’Oriente si cominciasse coll’impadronirsene; onde, non valutando il vantaggio della santa Sede, li rimproverava d’aver preferito le utilità terrene alle celesti; della licenza militare e delle violate cose sacre chiedessero a Dio perdonanza, e la meritassero collo adempiere al voto di liberar Terrasanta: nella quale fiducia ribenedisse gl’interdetti, congratulatosi coi vescovi del castigo toccato all’ostinazione dei Greci, e invitava altri a partecipare alle glorie ed alle nuove fatiche.
Secondo il convenuto, Baldovino ebbe un quarto dell’impero greco, Venezia tre degli otto quartieri della città, e un quarto e mezzo dell’impero, cioè la più parte del Peloponneso, le isole dell’Arcipelago, Egina, Corcira, la costa orientale dell’Adriatico, quella della Propontide e del Ponto Eusino, le rive dell’Ebro e del Varda, le terre marittime della Tessaglia, e le città di Cipsede, Didimotica, Adrianopoli, insomma sette in ottomila leghe quadrate di dominio con sette in otto milioni di sudditi e una catena di banchi lungo la marina da Ragusi fino al mar Nero. I Franchi sortirono la Bitinia, la Tracia, la Tessalonica, la Grecia dalle Termopile al Sunnio, e le maggiori isole dell’Arcipelago: i paesi di là dal Bosforo e Candia furono attribuiti al marchese di Monferrato, il quale poi fu coronato re di Tessaglia, e assediata Napoli di Malvasìa e Corinto [265] tenute ancora dall’usurpatore Alessio, prese questo colla famiglia e il mandò per Genova nel Monferrato, ma poi combattendo gl’infedeli perdè la vita. Anche le chiese di Costantinopoli furono ripartite fra Veneziani e Francesi, ed assunto a patriarca Tommaso Morosini. Splendidissima vittoria, ma poco sicura.
Concitate le fantasie da questi rapidi acquisti, già i baroni figuravansi regni e ducati sulle rive dell’Oronte e dell Eufrate, mentre altri convertivano il bottino in comperare feudi nell’impero conquistato e non ancora ben soggetto. Tornarono da Palestina quei che vi si erano affrettati; accorsero nuovi Crociati dall’Occidente[245]; accorsero Templari e Spedalieri, dove erano imprese facili e lucrose: talchè in ogni parte formavansi Stati nuovi, pel diritto della spada.
Come i Longobardi s’erano dato un codice per soli essi vincitori, così i Latini promulgarono le Assise di Gerusalemme nel nuovo impero, che come quelli si erano diviso, e che governarono a foggia dei feudi di Europa. Venezia, per nulla smaniosa di conquiste cui dovea piuttosto difendere che usufruttare, le abbandonò la più parte a’ suoi nobili, concedendo che ciascuno potesse armare e sottomettere le isole greche e le città delle coste, riconoscendole come semplice feudo perpetuo della repubblica. E i Sanuto fondarono il ducato di Nasso, che abbracciava anche le isole di Paro, Melo, Santorino; i Navagero ebbero il granducato di Lemno; i Michiel il principato di Ceo; quello d’Andros i Dandolo; i Ghisi quel di Teone, Micone e Soiros; altri le signorie di Metelino e Lesbo, di Focea, di Enos, le contee di Zante, di Corfù, Cefalonia, il ducato di Durazzo; poi i Vicari fondarono quel di Gallipoli nel [266] chersoneso Tracio. Anche a stranieri furono concessi feudi; come a Michele Comneno il paese fra Durazzo e Lepanto, a Robano delle Carceri Negroponte, Adrianopoli a Teodoro Brana.
Tutti que’ signori prestavano giuramento, tributo e sussidio in guerra: ne’ loro paesi era privilegiato ai Veneziani il far traffico; e i Veneziani che vi dimorassero, restavano indipendenti e con governo proprio: a Costantinopoli sedeva un balio. Per tal modo Venezia assicuravasi una dominazione scarca di cure, facile a conservare mediante le flotte. Fu anche messo al partito se tornasse meglio trasferire a Costantinopoli la sede della repubblica; e due soli voti fecero prevalere il no[246].
Il marchese Bonifazio vedendo non poter conservare Candia, la vendette ai Veneziani coi crediti verso Alessio per mille marchi d’argento, e per tanto territorio nella Macedonia occidentale che rendesse mille fiorini di oro[247]. Candia era più importante al traffico che non Costantinopoli, e dovette esser regolata con maggiori cure. Gli abitanti erano gente incostante e perfida; il che forse non esprimeva se non repugnante al dominio forestiero. Essendo troppo vasta per concedersi a un solo, vi fu introdotta una colonia, come più opportuna a tenere in soggezione i vinti. Difficilmente però si trovava chi volesse rinunziare alla patria, per quanto gli si offrissero ricchezze, dignità, potere; onde da’ sei sestieri della città si scelsero cinquecentoquaranta famiglie, a cui capo fu posto un duca biennale che rappresentava [267] il doge, eletto dal maggior consiglio di Venezia, assistito da due consiglieri superiori, e sotto di lui i magistrati come a Venezia: e colle opere obbligate dei servi si edificò e munì la città di Canea.
La giurisdizione d’essa città e del distretto spettava al capitano e consigliere della repubblica eletto a Venezia: del Comune veneto erano gli Ebrei, il porto, l’arsenale, le porte. Il paese fu distribuito in trentadue feudi di cavalieri e centotto di sergenti: ogni cavaliere era obbligato aver buona armadura, e condurvi da Venezia e tenere due cavalli, uno del valore almeno di lire ottanta venete, ed uno di cinquanta, e dell’età di tre anni; poi fra un mese e mezzo comprarne un altro di lire venticinque; inoltre avere un sergente con bel cavallo armato a ferro, e tre scudieri pure con corazza e ogni arma di cavalleria; e due balestre di corno, con due scudieri almeno che sappiano trarle, latini, fra i venti e i quarant’anni. I sergenti che hanno mezza cavalleria, conducano da Venezia un cavallo di lire cinquanta almeno, e due scudieri; poi fra un mese e mezzo procaccino un altro cavallo di lire venticinque, e siano ben in arme. Le cavallerie non potranno impegnarsi o staggirsi per debito, e lo stipendio di settecento lire deve convertirsi anzitutto nell’acquisto d’essa terra. Del resto ajutino in ogni modo i rettori dell’isola, e in essa il Comune di Venezia[248]. Ai nobili del paese si ebbero riguardi, e si diede partecipazione al governo; e il gran consiglio, composto d’indigeni, eleggeva i magistrati minori. I Musulmani furono sofferti, ma in istato di servitù.
Così trentamila vigorosi, avidi di bottino e di preda, erano prevalsi facilmente a milioni di Greci, fradici nel lusso, nelle abitudini depravate, nella vanità delle frivole [268] cose. Ma la conquista, fatta senza senno, essiccava le fonti della prosperità, sin a difettare del vivere; il sistema feudale toglieva l’accordo in guerra ed il buon ordine in pace; alcune città governavansi metà con leggi feudali, metà colle venete e colle ecclesiastiche; poi la mollezza di quel clima non tardò a sdulcinare i soldati, e lo spregio reciproco impedì si fondessero vincitori e vinti. Baldovino dopo due anni periva prigioniero dei Bulgari: anche Enrico Dandolo era morto a Costantinopoli dopo vista la rapida decadenza dell’impero latino. Venezia ne trasse più danno che vantaggio, poichè troppa gente si sviò dalla navigazione e dal commercio per buttarsi alle imprese cavalleresche e a conquiste che non doveano durare; e quel che peggio, coll’abbattere Costantinopoli rompeva la sua barriera più salda contro i Musulmani, che doveano divenirle formidabili vicini.
In quell’innesto della teocrazia col feudalismo l’imperatore, detto perciò romano, non si teneva per tale sinchè non fosse coronato dal papa, quale rappresentante di Dio per cui solo regnano i re; e l’imperatore gloriavasi del titolo di avvocato e difensore della Chiesa. Primato sovra gli altri re gli attribuiva l’opinione, favorita dai leggisti, i quali nella dieta di Roncaglia udimmo sentenziare, secondo i codici di Teodosio e Giustiniano, lui essere la legge vigente; e il cancelliere del Barbarossa chiamava reges provinciales gli altri potentati. Ma nel fatto, oltre che i re operavano indipendenti, [269] il sistema feudale da un lato, dall’altro l’incremento delle repubbliche attenuava di giorno in giorno la potenza degl’imperatori. Perfino nella Germania il regnante procacciavasi fautori col largheggiare franchigie, cioè lentare più sempre la dipendenza dei dinasti e delle città, le quali, ora mercè del commercio, ora mediante le leghe, venivano a quella prosperità materiale, che più non tollera l’oppressione politica. Pure le città non poterono colà elevarsi a repubbliche come da noi, perchè vi dimoravano soltanto minuti trafficanti e artieri, mentre i signori si tenevano nei castelli, soli agitando le lotte fra lo scettro e il pastorale, fra Guelfi e Ghibellini: nelle nostre, al contrario, si comprendevano e dotti e signori, avanzi romani e avanzi longobardi e franchi, e i parteggiamenti giunsero fino alle plebi, le quali appresero a discutere i diritti, a combattere per un’opinione, e così a divenir libere.
Il re di Germania, che dominava pure sui regni di Lorena, d’Arles, di Pomerania, veniva eletto dai grandi signori, non esclusi i primarj baroni d’Italia. Però ciascun imperante adoprava l’ingerenza che gli davano il suo grado e la devozione de’ proprj vassalli, onde farsi destinare successore uno della famiglia stessa.
Al re fruttavano i molti beni della corona sparsi per tutta Germania, i pedaggi, i fiumi, le foreste, le miniere, porzione delle multe, e lo spoglio de’ vescovi ed abati defunti: le città doveangli alcune contribuzioni, e così gli Ebrei per ottenere protezione siccome servi della Camera imperiale, e i Lombardi o Caorsini che andavano in giro vendendo spezie e guadagnando d’usure, o, come diciam ora, facendo commercio di banca. Essendo elettiva la corona, non si aggregavano ad essa i possedimenti patrimoniali de’ nuovi re eletti: anzi questi, potendo disporre dei feudi ad essa ricadenti per mancanza d’eredi o di fellonia, ne arricchivano le [270] famiglie proprie, col qual modo salirono tanto alto in prima la Casa sveva, poi le povere dei conti di Luxenburg e d’Habsburg.
All’imperatore spettava il far guerra: ma dovendo i soldati essergli somministrati dai feudatarj, occorrevagli il consenso di questi. Ora le lunghe e malarrivate spedizioni di Federico I in Italia aveano svogliato i signori dallo sciupare forze e denaro per interessi cui erano estranj; sicchè da quell’ora fino a Sigismondo più non fu decretata veruna spedizione generale, per quante minaccie o promesse replicassero gl’imperatori, per quanto paressero richieste dal bene della patria o della cristianità. Agli imperatori dunque nelle loro guerre non rimanevano se non gli uomini dovuti dai loro vassalli particolari, ovvero da paesi a loro direttamente soggetti, come era la Sicilia per gli Svevi, o da principi e città con cui avessero alleanza.
La Germania era povera; sebbene Lubecca, Anversa, Colonia, Ratisbona, Vienna, qualche altra città sul Reno o sul Danubio fiorissero di traffici e industria, e la Fiandra fabbricasse pannilani, il mancare di strade e di prodotti da cambiare ne impediva la prosperità; molto denaro n’era anche portato via dalle crociate. Pure allora il commercio s’andava estendendo; eransi scoperte le miniere d’argento della Sassonia; col che e colle libertà comunali la Germania avrebbe potuto vantaggiarsi del primato fra le nazioni europee, e del predominio che acquistava sopra le genti slave, a domare e incivilir le quali fortunata lei e noi se avesse dirizzato il suo ardore. Sciaguratamente gl’imperatori non si contentarono della cristiana supremazia sull’Italia, e vollero direttamente mestarne gli affari; dove urtatisi colle repubbliche e coi papi, ebbero conflitti, a’ quali già vedemmo soccombere una dinastia, e presto vedremo un’altra.
[271]
Morto Enrico VI (1197), i signori di Germania credettero a tempi così momentosi non convenirsi un imperatore fanciullo, com’era Federico Ruggero. Vero è che suo padre gli aveva indotti a prestargli omaggio, ma essi non vi si tenevano obbligati perchè non era ancor battezzato. Filippo di Svevia, figlio del Barbarossa e duca di Toscana, come il più prossimo parente dell’imperatore, erasi preso lo scettro, la spada, la corona, il globo d’oro riempito di polvere, la sacra lancia e il diamante detto smisurato (der Weile): fuggendo di qui fra gli strapazzi degli Italiani, che uccisero anche molti del suo seguito, andò in Germania, e brigò tanto, che gli stati di Svevia, Baviera, Sassonia, Franconia e Boemia lo elessero re (1198 — marzo). Ma i Guelfi gli opponevano Ottone di Brunswick, figlio di quell’Enrico il Leone duca di Sassonia e Baviera, che lottato col Barbarossa, n’era stato spossessato, e nipote di Ricardo Cuor di Leone re d’Inghilterra.
Ottone, ardito come questo, gigante della persona, prodigo, soldatesco, risoluto a reprimere le prepotenze, onde i grandi l’intitolarono Superbo, e i popoli Padre della giustizia, impadronitosi d’Aquisgrana, vi si fece ungere dall’arcivescovo di Colonia; e genti e signori svaginarono le spade per sostenere ciascuno il proprio eletto. Onde risparmiare il sangue civile, fu rimessa la decisione al papa, e questi, esaminatala sotto il triplice aspetto del diritto, della convenienza e dell’utilità, escluse Federico perchè non se ne conosceano l’intelletto e il cuore, e la Scrittura dice: Guaj alla terra, cui re è un fanciullo; riprovò Filippo come usurpatore delle giustizie della Chiesa in Toscana[249], e perchè teneva ancora prigioni il vescovo di Salerno [272] e la famiglia reale di Tancredi; lodò Ottone, ma parvegli eletto da troppo scarsi voti. Professavasi dunque imparziale tra una famiglia sempre ostile e l’altra sempre favorevole alla Chiesa, sicchè, scontenti del pari, i due emuli avventaronsi all’armi; sinchè, indotto dai Guelfi, il papa mandò un legato che scomunicasse Filippo e i suoi, e dicesse Ottone legittimo imperatore.
Questi, davanti a tre legati pontifizj (1201 — 8 giugno), prestò un giuramento siffatto: — Io Ottone, per grazia di Dio, prometto e giuro proteggere con ogni mia forza e di buona fede il signore papa Innocenzo, i suoi successori e la Chiesa romana in tutti i dominj loro, feudi e diritti, quali sono definiti dagli atti di molti imperatori, da Lodovico Pio fino a noi; non turbarli in ciò che già hanno acquistato, ajutarli in ciò che lor resta ad acquistare, se il papa me lo ordini quando sarò chiamato alla sede apostolica per la corona. Inoltre presterò il braccio alla Chiesa romana per difendere il regno di Sicilia, mostrando al signore papa Innocenzo obbedienza e onore, come costumarono i pii imperatori cattolici fino a quest’oggi. Quanto all’assicurare i diritti e le consuetudini del popolo e delle Leghe Lombarda e Toscana, m’atterrò ai consigli e alle intenzioni della santa Sede, e così in ciò che concerne la pace col re di Francia. Se la Chiesa romana venisse in guerra per causa mia, le somministrerò denaro secondo i miei mezzi. Il presente giuramento sarà rinnovato a voce e per iscritto quando otterrò la corona imperiale».
I Tedeschi, che vorrebbero vedere sempre l’imperatore sovrapposto al pontefice, e l’Italia sottomessa alla Germania, rinfacciano a Ottone quest’atto, dove in sostanza ciò che il papa esigeva era l’indipendenza della Chiesa e dell’Italia. I principi tedeschi se ne indignarono, e ne scrissero parole risolute ad Innocenzo, il cui [273] favore non toglieva che svenisse il partito di Ottone, considerato scialacquatore della nazionale sovranità. Intanto Filippo di Svevia moriva trucidato (1208), quinto figlio del Barbarossa che finiva in valida età, lasciando sol quattro figlie; nè di quella casa sopravviveva che Federico Ruggero. Allora, dopo dieci anni di contesa fra guerresca e politica, mediante le premure di Roma i suffragi si raccolsero tutti sopra Ottone: anzi, per togliere in avvenire le scissure e insieme le ambizioni di qualc’altra famiglia, fu istituito che nessuno pretendesse alla corona germanica per diritto ereditario; l’elezione fosse devoluta a tre principi ecclesiastici, cioè gli arcivescovi di Magonza, Colonia, Treveri, e tre laici, cioè il palatino del Reno, il duca di Sassonia, il marchese di Brandeburgo; e quando i voti fossero pari, anche il re di Boemia. Da quel punto al popolo non rimase più parte alcuna nelle nomine, e gl’italiani ne restarono affatto esclusi. Ottone avendo sposato Beatrice (1209) figlia dell’ucciso Filippo, rannodò le due case de’ Guelfi e degli Hohenstaufen, e svelse dalla Germania quella gramigna funesta de’ Guelfi e Ghibellini mentre appunto essa pigliava rigoglio in Italia.
Qui, in dodici anni dacchè tedeschi eserciti non apparivano, le Repubbliche aveano preso incremento. Determinate da bisogni individuali, esse non avevano preteso estendere le franchigie su tutto il paese, distruggere ogni orma della sofferta oppressione, piantare l’uguaglianza di tutti in faccia alla legge. Del Comune da principio facevano parte soltanto i capitanei e valvassori e arimanni; poi vi si aggiunsero i borghesi liberi, ceto medio, cresciuto sì per l’arricchimento del commercio, sì per molte case nobili che giurarono la città, sì per quelli che vi rifuggivano dai signori feudali o ecclesiastici. Il resto degli abitanti dipendeva ancora dai nobili o dai visconti vescovili, in qualità di servi o [274] d’uomini ligi, con patti che spesso riducevansi in carta, e che tanto vagliono a manifestare la condizione personale de’ popolani[250].
Gli antichi conti della città eransi ritirati alla campagna, dove conservavano i possessi e le giurisdizioni; sicchè i contadi rurali od erano frazioni d’antico contado cui era stata tolta la città, o porzioni assegnate da un conte ai proprj figliuoli. Quei di Bergamo nel X secolo aveano avuto per quattro generazioni la suprema [275] dignità di conti del regio palazzo, e furono imparentati coi marchesi d’Ivrea e di Toscana: costretti poi ad uscir di città, si indebolirono suddividendosi nei conti Almenno, Martinengo, Camisano, Offenengo ed altri[251]. Sotto il 1222 gli storici annoverano una quantità di castelli donati o ceduti a Bergamo dai possessori, come Morníco, Cologna, Grumello, Solto, Plenico, Cene, Civedate, Telgate, Villadadda, Morengo, Calepio, Sárnico, la Bretta e via; e già prima v’erano stati indotti o costretti i canonici e il vescovo. Milano, che prima limitava la sua giurisdizione a un raggio di tre miglia, sottopose i contadi del Seprio, della Bulgaria, della Martesana, di Parabiago, di Lecco[252]. I conti di Verona si ritirarono a San Bonifazio, donde presero il titolo: quei di Padova, fra i colli Euganei, coi titoli di Baone, Àbano, Maltraverso e altri. E tutti dominarono sulla campagna, rubando, ponendo pedaggi, escludendo, serrandosi attorno a un principale, che intitolavasi vicario imperiale e che aveva una scorta di Tedeschi: del resto avversando i Comuni, ridendo dei consoli e degli statuti, pronti ad affollarsi intorno al piccolo esercito che l’imperatore conducesse in Italia, trasformando in valanga l’impercettibile nucleo degli oltramontani; e continuar battaglie e invasioni anco dopo partito quello.
Non poteva darsi che le città libere gran tempo tollerassero attorno a sè borghi servilmente sottoposti a feudatarj privilegiati d’assoluta giurisdizione, conservatori [276] degli abusi detestati. Se a Costanza avean acquistato il diritto di far guerra alle città lontane, tanto più ai castelli vicini: onde coglievano le occasioni di portarvi la più legittima delle guerre, quella che propaga e francheggia i diritti dell’uomo. Talora scendeasi a patti, e la campagna restava emancipata dalle parziali servitù. Asti mosse contro ai duchi di Monferrato, Chieri agli arcivescovi di Torino: quei di Borgo Sansepolcro intimarono ai tanti castellani di val Tiberina di lasciare le rôcche, chi non volle costrinsero, e diroccato il castello di Mansciano, ne portarono via le pietre, di cui edificarono i proprj baluardi, e una campana che posero sulla torre di Berta[253]. Gli abitanti di Vico, Vasco, Breo, Carassone, guasti dalle male intelligenze coi Lombardi e coll’imperatore, si proposero una reciproca unione, della quale fu frutto la terra di Mondovì. I Pavesi respinsero il conte rurale, che si rifuggì a Lumello; ma quivi pure incalzato, ebbe a smettere la sua giurisdizione, e rendersi cittadino e suddito della sua città[254].
I consoli di Biandrate appajono già in una carta del 5 febbrajo 1093, dove quei conti ai militi abitanti le loro terre danno una specie di costituzione, e «delle discordie e concordie attenderanno quel che decidano [277] i dodici consoli eletti; i quali giurano giudicare le liti insorte come meglio sapranno giovare al Comune, salva la fedeltà ai signori». A Guido di Biandrate, che tanto di lui ben meritò, Federico Barbarossa concedeva ampio privilegio, togliendolo in protezione, confermandogli i beni e onori che aveva avuto da’ suoi antecessori, stabilendo non deva esser chiesto in giudizio se non davanti all’imperatore; per tutto il vescovado di Novara gli conferma la capitananza (conductum), e che niuna battaglia si faccia se non lui presente; gli uomini di quel contado abbiano egual diritto di vendere e comprare in tutto il vescovado di Novara, Vercelli, Ivrea, quanto i mercanti d’essa città. Poi il conte di Biandrate nel 1170 fece concordia coi Vercellesi, cedendo il suo castello di Montegrande, i cui abitanti siano ricevuti pacificamente a Vercelli, senza ch’egli però perda la fedeltà d’essi castellani; cede pure quanto ha in Candelo, Arborio, Albano e di qua dalla Sesia; due volte l’anno farà per essi campo, e sarà in oste con trecento uomini; abiterà in Vercelli, e farà giurare a quaranta suoi militi di comprarvi case; darà della sua cassa diecimila lire pavesi; farà dare il fodro da essi militi agli uomini di Vercelli, come sogliono gli altri concittadini; farà fine e pace di tutti i danni recati a sè e alla casa sua; non porterà guerra senza il consiglio de’ consoli maggiori e dei consoli di Santo Stefano e di tutta la credenza; non alzerà castello dalla valle della Sesia e da Romagnano in giù, nè vi farà conquista di castello o torre o corte. Erano quei di Biandrate i più potenti signori del contorno di Milano, ma ben presto il loro castello fu assediato e distrutto, e dispersine gli abitanti in quattro villaggi: e Novara facea statuto, che il console giurasse di tener distrutto Biandrate, ogn’anno visitarlo due volte, e se nel ricinto della fossa sorgesse alcuna casa, la demolirebbe fra venti giorni. Altre terre rimaste [278] dovetter quei conti cedere a Novara nel 1247 per ottomila lire, con cui comprare una casa e terreni nel distretto. I conti infestavano tuttavia la val di Sesia, volendo contaminar tutte le fanciulle: sinchè i paesani indignati li scannano tutti, sol una fanciulla serbando, alla quale infliggono gli oltraggi che le loro aveano sofferto. Altre terre possedeano sull’Astigiano, e avendo nel 1250 rubato del panno a mercanti, la città li punisce privandoli dei villaggi. Su un di questi avventavasi notturno nel 1290 il conte Manuele; ma gli Astigiani invadono le terre di esso, ne devastano i vigneti e le biade, uccidono suo figlio: talchè il conte, per salvare il resto, cede il castello di Porcello alle città, e vende a chi più ne dà i castelli di Montacuto e Santo Stefano.
Patti consimili ma più largamente esplicati si convennero tra i Vercellesi e i marchesi di Monferrato, aggiungendo la promessa di ajutar questi dalla Lega Lombarda, cioè col pregare i collegati e intercedere per essi.
Il Comune di Brescia (se la cronaca di Ardicio è genuina) fin dal 1104 avea lega e società con altri della Lombardia e del Trevisano, giurata nel chiostro di Palazzuolo: dai Martinengo comprava il castello di Orzivecchi, dai conti Lumellini quanto possedeano nella diocesi a titolo feudale, dai conti Calepio i castelli di Sárnico, Merlo, Calepio, obbligandoli ad impiegare il prezzo in acquistare allodj nel Bresciano; riceveva in protezione gli abati di Leno e Sant’Eufemia; distruggeva il forte di Montechiaro e quel di Gavardo cacciandone il presidio; così smantellò Asola ch’era dei conti di Casalalto, e il forte di Monterotondo. Un consiglio del 1203 stabilisce che gli abitanti di ville e castelli comprati da nobili non addetti al Comune devano prestar giuramento alla repubblica. Ne’ cui statuti è prescritto, chi vuol diventare cittadino, fabbrichi una casa [279] nella città, e rimangavi sempre, eccetto un mese di primavera, uno d’autunno; privati non possano eriger forti in Pontevico, Palazzuolo, Mura, Quinzano, Caneto, Gavardo, Iseo; e tutti i curati e dignitarj ecclesiastici siano bresciani[255].
I conti di Treviso si piantarono ne’ loro possessi sul Piave, ma senza nimicarsi colla città, nella quale sostennero molti uffizj comunali, e conservarono anche il titolo, che poi mutarono in quel di Collalto. Di Treviso stessa presero la cittadinanza nel 1183 Vecello e Gabriele da Camino, e nel 1190 Matteo vescovo di Céneda, pattuendo che quel Comune esercitasse la giurisdizione nella sua diocesi. Bertoldo patriarca d’Aquileja nel 1220 si ridusse cittadino di Padova, e in segno vi fabbricò palazzo, si sottopose ai dazj e alle taglie, e mandava ogn’anno dodici cavalieri a giurare obbedienza al nuovo podestà: lo che imitò pure il vescovo di Feltre e Belluno[256]. Padova stessa obbligò i marchesi d’Este a venir cittadini, ed immurare le porte della loro rôcca. Parma sottomette Salsomaggiore, obbligandolo a pagare dieci soldi ogni san Martino(1138), e Uberto Pelavicino che le fa omaggio di San Donnino (1140): Piacenza sottomette Caverzago, Collagura, Specchio, Fabricà; nel 1138 compra metà del castello di Montalbo, metà nel 48; sottopone la valle e il borgo di Taro; Moruello Malaspina nel 1194 prende la cittadinanza [280] di Piacenza, mentre altri di quella famiglia si accomandavano a Lucca. I Córvoli del Frignano nel 1156 affidaronsi con Modena a questi patti: ajutare la città contro chicchefosse, eccetto il duca Guelfo d’Este e suoi ligi e vassalli; dimorare in città colle lor donne ogni anno un mese in tempo di pace, due in tempo di guerra; lasciare ai cittadini traversar liberamente le loro terre, nè tenere mai chiusi i castelli a’ magistrati della città; obbligare i loro villani a pagare sei denari lucchesi per ogni par di bovi, eccetto i castellani, valletti e gastaldi. Modena obbligavasi di rimpatto a investirli di certi beni e castelli ch’essi doveano conquistare, ajutarli a rivendicare certe ragioni da altri nobili, e proteggerli contro i nemici[257]. Faenza demolisce Selvamaggiore (1098), combatte i conti di Cunio (1115), demolisce la Pergola (1135); distrugge Solarido (1138) diviso fra le due lottanti famiglie de’ Silingardi e de’ Guglielmi, sbrattando così la via di San Giuliano; nel 1144 assalta Castelleone; nel 1149 Cunio, Donigaglia, Bagnacavallo, che pretendeano un censo da’ Faentani che vi tenesser banchi. Il conte dovette cercar pace mettendo casa in Faenza, lasciando mettere in Cunio guarnigione faentina, e ritraendosi dalla politica: ma ben presto, sotto titolo che abbia mancato ai patti, è assalito e distrutto il castello. Poi vien la volta di Lacerata, di Modigliana, di Bagnacavallo.
Terracina ai Frangipani, già signori della città, poi ritiratisi a Circello e Traversa, vieta di accostarsi oltre la chiesa di S. Nicola fuor le mura, fuorchè per affari e senz’armi nè seguito. Benevento sfascia Apice, Terroggia, Sableta, ove Roberto Sclavo ora imprigionava i passeggeri, or li spogliava od uccideva, come faceano pure i signori di Frassineta, per ciò spodestati.
[281]
I Bolognesi avevano preso i castelli di Corbara, Sassatello, Monteveglio, Monte Cadumo, Ibora, Dozza, Fagnano, e avuti a soggezione i signori Cetolani, Savignanesi, di Oliveto, Moreto, Caneto[258]. Egual movimento ci si mostrerà in Toscana.
Casse in tal guisa le giurisdizioni feudali, le tenute appartenevano tutte a cittadini, ed erano coltivate da pigionanti e mezzajuoli, trasformandosi il sistema tedesco dei possessi, e ai servi sottentrando liberi coltivatori.
Liberi, ma non per questo erano considerati come popolo, cioè donati della piena cittadinanza; e l’infima gente e gli operaj non restavano rappresentati nel Governo, non votavano le imposizioni che essi medesimi pagavano, o la conversione di esse. Ma in ogni rivoluzione, al primo passo che consiste nel liberarsi, suole tener dietro l’altro, ove la classe liberatrice vien giudicata tiranna o insufficiente, e una più bassa pretende prima eguagliarla, poi soverchiarla. Alla rivoluzione che affrancò i Comuni aveano data principal opera i nobili e i meglio stanti, che in conseguenza diedero i consoli e i magistrati; gloria particolare di molte prosapie nostre, di derivare la loro nobiltà dai liberatori della patria.
Ben presto i plebei pretesero parte al governo, e questa seconda êra delle repubbliche valse un secolo [282] intero di agitazioni, ora costituzionali, ora violente. Dentro le città cominciarono dunque a contendere nobili e borghesi, quelli volendo ricuperare l’autorità che un tempo aveano posseduta, questi pretendendo in prima parteciparvi equamente, poi arrogarla a sè soli. La quale contesa non è altro se non quella che tuttodì si agita nei paesi costituzionali, cioè se a’ soli proprietarj devasi concedere pienezza di diritti: stantechè non al sangue si faceva mente, ma ai possessi; nobile era chi avesse.
I grossi nobili o casatici, discendenti dagli antichi conti e marchesi e capitanei, tradizionalmente poderosi, e sostenuti dagl’imperatori, s’erano abituati al comando sui loro feudi; ed anche giurandosi cittadini, conservavano i possedimenti e le rôcche, dalle quali sì spesso erano invitati alle magistrature urbane. Alla plebe, attenta alle arti e ai traffici, non era possibile esercitarsi nell’armi, che al contrario formavano l’occupazione e il sollazzo dei nobili; onde a questi bisognava ricorrere ne’ casi di guerra, massime per la cavalleria. Anche dopo svestite le armi, al comandare erano predisposti dal patronato che esercitavano sopra gli antichi loro servi e gli attuali clienti; dall’inclinazione a riverire nei figliuoli le doti e i meriti de’ padri; dal trovarsi fra sè legati per parentele o per ispirito di corpo; dall’avere sì larghi possessi che poteano a loro voglia affamare la città. Chiamati podestà o capitanei in paesi forestieri, contraevano l’abitudine dal maggioreggiare, che tanto facile s’acquista quanto difficilmente si smette; e anche nel proprio Comune ottenevano onoranze sì per le cariche sostenute, sì pel fregio della cavalleria. In qualche città soli nobili aveano gli impieghi, come sembra fosse in Bergamo, ove non appajono contese fra nobili e plebei, ma de’ nobili fra loro.
Altre volte questi, impediti di prepotere legalmente, [283] volgeansi all’infima classe, esclusa dal governo e tributaria della città; la blandivano perchè più docile, e perchè non aveva nè diritti da opporre ai loro, nè ricchezze per egualiarli; e se le facevano sostegno ne’ tribunali, o nei richiami contro l’oppressione: di che sorgevano due fazioni, la nobiltà unita ai plebei, e i borghesi indipendenti da quella. Si contrariavano esse ne’ partiti, nelle elezioni, nei piati, e spesso il litigio incalorivasi fino a venire alle mani. Vincevano i nobili? eccoli padroni delle cariche, arbitri delle leggi, e decretare quanto meglio torna al loro ordine; applauditi dalla ciurma, che al solito astiava i cittadini grassi. Soccombevano? ritiravansi nelle avite rôcche, aspettando di ritornar necessarj per essere ridomandati, o, data occasione, rientrare a forza. Come avviene dei conflitti in città, la plebe per lo più restava vincitrice; e inetta a governarsi, e facile ad essere raggirata dagli scaltri, s’appoggiava ad un signore territoriale, concedendogli poteri illimitati, quali deve averli chi rappresenta il popolo, e così spianando la via alle tirannidi. Quei medesimi baroni che aveano giurato il Comune, oltre esercitare nelle città il potere o l’ingerenza che deriva dall’antica abitudine del comando, dalla ricchezza e dalla pratica delle armi, negli accordi eransi riservati certi diritti di guerra e di alleanza, e prerogative.
Per quel carattere personale che aveano tutti gli obblighi nel sistema feudale, a simili accordi poteasi rinunziare ad arbitrio; e poichè talvolta il nobile era cittadino di due Comuni, cercava appoggio dall’altro qualora coll’uno cozzasse: fomento a fraterni dissidj. Difficilmente poi rinunziavano al diritto preziosamente mantenuto delle guerre private, e dentro le città stesse moveansi battaglie tra loro; perciò munivano i palazzi a guisa di fortezze, con ponti levatoj e torri e catene [284] per le vie. Trentadue torri coronavano o minacciavano Ferrara, cento Pavia, poco meno Cremona e Bologna: diecimila a Pisa, dice Beniamino da Tudela, e «creda chi vuole» esclama il Muratori; a Firenze l’architettura massiccia, coll’enormi bugne, le anguste finestre, le molte torri, e le porte ferrate, attesta ancora quello stato di guerra da vicino a vicino. Lo statuto di Genova proibiva di lanciare projetti dalle torri, neppure in occasione di combattimento: se ne seguisse omicidio, la torre veniva demolita; se no, multa di venti lire; e se il padrone non potesse pagarla, distruggevansi due solaj d’essa torre. Talvolta una città era divisa tra più signori, e per esempio in Mantova i Bonaccossi e i Grossolani erano capi-parte nel quartiere di Santo Stefano, gli Arlotti e i Poltroni in quello di Cittavecchia, i Riva e i Casaloldi in quel di San Jacopo, i Zanecalli e i Gaffari in quel di San Leonardo. Bisognava dunque munire un quartiere contro l’altro, serragliare i ponti, sorvegliare le strade.
Nelle città più floride per commercio, i mercanti vollero partecipare alla sovranità d’una patria, al cui prosperamento sentivano aver tanto contribuito. E fin qui chiedeano il giusto; ma l’irritamento prodotto dal contrasto e la baldanza del successo li spinsero a volere esclusi quelli, cui da principio non avevano che domandato di compartecipare. Firenze rimosse dalla Signoria chi non fosse matricolato in un’arte; i nove signori di Siena e gli anziani di Pistoja dovean essere mercanti o della classe mezzana; altrettanto in Arezzo; di maniera che per infamia notavansi tra’ nobili chi mal meritasse del Comune. Modena pure ebbe un registro sì fatto, e l’imitarono alcun tempo Bologna, Padova, Brescia, Genova ed altre città libere sullo scorcio del xiii secolo. Anzi a Pisa i nobili erano esclusi dal far testimonianza contro un plebeo; pena la testa se uscissero [285] di casa con arme o senza quando si faceva rumore; e bastava la voce popolare per condannarli[259]. Il cencinquantesimo del libro I degli statuti di Roma prescrive che un barone o una baronessa, i quali abbiano una lite civile o criminale con un popolano, non possano entrare in palazzo, ma solo i loro avvocati e procuratori; e se il popolano comprometter voglia la lite in due popolani, essi baroni sieno costretti starvi: nè tampoco il giudice della causa possa mai parlare con essi barone e baronessa.
A Lucca soli i cittadini abitanti in città costituivano propriamente la repubblica; gli altri chiamavansi foretanei se oriundi lucchesi, e foresi se avveniticci, e non partecipavano ai privilegi urbani. I cittadini poi divideansi in potenti o casatici, e popolari. I casatici non solo erano esclusi dal governo e dalle società delle armi del popolo, come i cavalieri e cattanei, ma non si ammettevano a testimoniare contro popolani; mentre [286] questi non erano puniti di calunnia se non potessero provare la incolpazione data ad un patrizio[260]. Era insomma un ricolpo de’ mercadanti contro l’aristocrazia, della ricchezza industre contro la territoriale. I commercianti e i possessori apparecchiavano governi a tutto vantaggio della propria classe e a danno dell’altra, senza riguardo al grosso della popolazione, che però acquistando di forza, sorgeva colle sue pretensioni, ed aumentava quel bollimento universale.
Noi non teniamo vera repubblica se non il governo di tutti per vantaggio di tutti: l’antagonismo conduce necessariamente a rotture, e queste riescono a rivoluzioni o di governo o di piazza; ma come evitarle sinchè stanno a fronte due razze non ancora fuse, i conquistatori e i conquistati? I nobili si agitavano e combattevano perchè n’aveano i mezzi; atteso il gran numero di parenti, avvolgeano ne’ loro litigi lo Stato intero; e perciò diceasi che i nobili erano la ruina del paese. Pure in essi si suppongono educazione più accurata, sentimenti meno interessati, spirito di famiglia conservato: vi occorrono maggiori esempj di fermezza, come a Sparta, a Roma, a Venezia, attesochè, non conoscendo superiore che Dio, elevano gli spiriti sovra il resto della nazione, e di grandi cose li fa capaci l’emulazione de’ loro pari. Ma facilmente trascendono in oligarchia, non soltanto insuperbendo della propria indipendenza, ma minacciando l’altrui; e per restare tirannetti ne’ castelli, piaggiano i regnanti, despoti e schiavi al tempo stesso.
D’altro lato è agevole e comune il lanciare un motto di sprezzo sui governi di mercanti: ma oseremo noi farlo quando vediamo Firenze durare sì lunghi e magnanimi [287] sforzi, elevarsi a splendidissima civiltà, ed ultima conservare sua franchezza in Italia? Certo, la esclusione dei nobili sottraeva forze utilissime alle repubbliche italiane; il Governo decretava parzialissimo; i popolani grassi e la gente nuova trascorsero a fasto e prepotenza quanto i nobili, senz’essere sostenuti come questi dal lustro de’ padri, che pur lusinga le plebi. Le quali se veneravano nel signor d’oggi la memoria del magistrato e del capitano antico, mal si rassegnavano all’aristocrazia mercantile, sia perchè più speculatrice e men generosa, sia perchè duole il veder coloro che soleansi riverire conculcati da altri, cui unico merito erano i sùbiti guadagni. Adunque sprezzati dalle famiglie, sgraditi alla plebe, minacciati da superiori e da inferiori, dovettero i mercanti reggersi anch’essi con modi arbitrarj ed assoluti.
Non che dunque la gara fra nobili e plebei fosse misero parto della libertà, nasceva dal non essersi, al tempo della rivoluzione, ottenuta intiera la franchezza e lasciate accanto ai liberi Comuni la campagna servile, le giurisdizioni feudali, e dappertutto la sciagurata ingerenza degl’imperatori. In grazia della quale le contese cittadine furono inacerbite dalla divisione di Guelfi e Ghibellini.
Questi nomi, nati in Germania (pag. 89), furono troppo presto adottati dall’Italia per designare due partiti, in lei da secoli contrariantisi; li conservò quando più non s’udivano negli altri paesi, e per essi straziò le proprie viscere anche quando già era fatta cadavere. «Quelli che si chiamavano Guelfi, amavano lo stato della Chiesa e del papa; quelli che si chiamavano Ghibellini, amavano lo stato dell’Imperio e favorivano l’imperatore e suoi seguaci» (Villani). Ne’ primi prevaleva il desiderio di vendicarsi della dinastia sveva, e sviluppare da ogni legame forestiero la libertà dei [288] Comuni: i Ghibellini credeano che il conservarsi ciascun paese in libertà, senza dipendere da un poter superiore, recherebbe inevitabilmente a discordie, per le quali gli Italiani si logorerebbero colle proprie forze. Gli uni dunque aspiravano come a supremo bene alla indipendenza dell’Italia, e che potesse ordinare i proprj Governi senza influsso forestiero: gli altri vagheggiavano l’unità del potere, come unico modo di fare l’Italia concorde entro e rispettata fuori, dovesse pure sminuirsene la libertà fortuneggiante.
Erano dunque due partiti generosi e con aspetto entrambi di equità; e solo que’ liberalastri che nel passato rivangano ragioni di oltraggiare i presenti, possono sentenziare infamia o apoteosi all’uno o all’altro. I due partiti riconoscono un principio superiore a tutte le rivoluzioni, la distinzione del potere temporale dall’ecclesiastico, dello spirito dal comando, della fede dal diritto, della coscienza dell’individuo dal vigore della società, dell’unità umana dall’unità civile. Il prevalere d’ognuna di queste tesi porta necessariamente l’antitesi dell’altra; se la Chiesa si fa democratica col popolo, l’impero si fa democratico colla plebe; se i Guelfi stabiliscono l’eguaglianza, i Ghibellini vogliono tutelarla colla legge; se prevale l’idea della libertà individuale, rendesi necessario frenarla colla potenza sociale. Il sapere con qual dei due stesse la miglior ragione è viepiù difficile a chi non sappia trasferirsi in quell’età e valutarne le condizioni e gli avvicendati mutamenti; giacchè può ben disputarsi se le fasce convengano o no al bambino, ma traviserebbe la quistione chi rispondesse che all’uomo adulto non stanno bene. Quelli che non apprezzano la libertà se non politica, e questa negativa, oppositrice, non sanno credere che il papato rapresentasse per tutto il medio evo la parte più franca ed avanzata, unico oppositore alle prepotenze, unica voce [289] del popolo contro i guerrieri, del pensiero contro le lancie.
Matteo Villani chiamava la parte guelfa «fondamento e rôcca ferma e stabile della libertà d’Italia, e contraria a tutte le tirannie, per modo che, se alcuno diviene tiranno, conviene per forza ch’e’ diventi ghibellino, e di ciò spesso s’è veduto l’esperienza». E soggiunge: — L’Italia tutta è divisa mistamente in due parti; l’una che séguita nei fatti del mondo la santa Chiesa, secondo il principato che ha da Dio e dal santo Imperio in quello; e questi sono denominati Guelfi, cioè guardatori di fe; e l’altra parte seguitano l’Imperio, o fedele o infedele che sia nelle cose del mondo a santa Chiesa, e chiamansi Ghibellini, quasi guida belli, cioè guidatori di battaglie, e séguitane il fatto che per lo titolo imperiale sopra gli altri sono superbi e motori di lite e di guerra. Gl’imperatori alamanni hanno più usato favoreggiare i Ghibellini che i Guelfi, e per questo hanno lasciato nelle loro città vicarj imperiali con loro masnade; i quali continuando la signoria, e morti gli imperatori di cui erano vicarj, sono rimasti tiranni, levata la libertà a’ popoli, e fattisi potenti signori e nemici della parte fedele a santa Chiesa e alla loro libertà. E questa non è piccola cagione a guardarsi dal sottomettersi senza patti a detti imperatori. Appresso è da considerare che i costumi e i movimenti della lingua tedesca sono come barbari e strani agl’italiani, la cui lingua e le cui leggi e costumi, e i gravi e moderati movimenti, diedono ammaestramento a tutto l’universo, e a loro la monarchia del mondo. E però venendo gli imperatori d’Alemagna col supremo titolo, e volendo col senno e con la forza d’Alemagna reggere gl’italiani, non lo sanno e non lo possono fare: e per questo nelle città d’Italia generano tumulti e commozioni di popoli, e se ne dilettano per essere per controversia quello che [290] essere non possono nè sanno per virtù o per ragione d’intendimento, di costumi e di vita. E per questo la necessità stringe le città e i popoli, che le loro franchigie e stato vogliono mantenere e conservare, e non esser ribelli agl’imperatori alamanni, di provvedersi e patteggiarsi con loro; e innanzi rimanere in contumacie con gl’imperatori, che senza gran sicurtà li mettano nelle loro città»[261].
Da qui, e più dalla serie storica appare come i Guelfi non volessero sottrarsi da ogni soggezione degl’imperatori, bensì non sottoporvisi che a patti; sicchè oggi si paragonerebbero al partito costituzionale. Chi guardi i mali che gl’imperatori cagionarono all’Italia, e l’esecrazione che popolare dura fin oggi contro il Barbarossa; chi pensi che le più generose città, Milano e Firenze, stettero sempre antesignane della parte guelfa, e che quest’ultima diede l’estremo ricovero all’indipendenza italica, mentre chi voleva tiranneggiare un paese ergeva bandiera ghibellina, propende a desiderare che i Guelfi fossero prevalsi, e le città ordinatesi a comune sotto il manto del pontefice, che coi consigli le dirigeva, e coll’armi spirituali reprimeva gli stranieri.
Gli alti e insegnati uomini che caldeggiarono il sentimento ghibellino, od erano gente stipendiata dagl’imperatori come Pier dalle Vigne, o infatuati dell’antichità [291] come i giureconsulti, o trascinati da passione come Dante, il quale, sbandito da’ Guelfi, si fe ragionato propugnatore della opinione avversa: eppure nel suo libro Della monarchia, ove (credo senza servilità d’animo, ma per quella stanchezza del parteggiar cittadino che cerca riposo fin nel despotismo) assoda la incondizionata tirannide, brama che l’Italia riducasi sotto un imperatore, bensì a patto che questo sieda in Roma. Chi più ghibellino del Machiavelli? eppure con magnanimo voto chiude l’abominevole suo libro.
D’altra parte i diritti imperiali intendevansi allora ben altrimenti da oggi, importando essi nulla meglio che una supremazia, innocua alle particolari libertà. Pertanto i Guelfi ideando la teocrazia si mostrarono più immaginosi, probi utopisti; i Ghibellini, più reali e pratici, ricordavano che le società sono fatte d’uomini e per uomini: lo spirito democratico dei primi declinava all’insolenza individuale e alla sregolatezza; l’idea organatrice degli altri li portava alla forza e alla tirannide: ma in fondo la loro è la causa stessa, la stessa divisione che appare in tutte le storie, di plebei e patrizj, di schiavi e franchi, di Rose Rossa e Bianca, di Cavalieri e Teste Rotonde, di progressisti e retrivi, di liberali e servili.
È natura delle fazioni di svisare il più onesto scopo; e abusandone o esagerando o traviando, porre il torto dov’era la ragione. I grandi feudatarj che i perduti privilegi ambivano ricuperare, non ne vedeano via che coll’attaccarsi all’imperatore e appoggiarne le pretendenze: sempre poi amavano meglio dipendere da esso, grandissimo e lontano, che non dai borghesi, da villani rifatti, da un frate che talora li dirigeva. Chiarivansi dunque ghibellini, stimolavano l’imperatore a calare in Italia, e per contrariare al papa furono sin veduti favorire gli eretici.
[292]
Gran potere davano ai papi nella bassa Italia l’alto dominio sopra la Sicilia; nell’alta, i radicati rancori contro gli Svevi; dappertutto le insinuazioni del clero e massime dei frati, guide dell’opinione, la quale può tutto ne’ governi a popolo, dove si delibera secondo fantasia e sentimento. L’imperatore valeva sulle repubbliche soltanto colla forza delle armi, giacchè non è facile guadagnare tutta una gente, sempre gelosa di chi possiede l’autorità. Al pontefice non restava che l’efficacia della persuasione: ma anch’egli principava, e disponeva d’eserciti, e spesso, come uomo, serviva a private passioni; e i Guelfi sposavano talora una causa, non perchè giusta e confacevole alla libertà, ma perchè dal pontefice preferita. I Ghibellini han vinto; Italia non ha ancora finito di piangerne.
Nè li crediate meri nomi di taglia: avevano Comune, sindaci, podestà proprj; nascevasi d’una tale parzialità, e diserzione consideravasi il passare ad altra; i trattati si facevano a nome della repubblica e della fazione prevalente. Fin nei minuti costumi doveano fra loro sceverarsi: questi un berretto, quegli un diverso usavano; due finestre aprivano i casamenti dei Guelfi, tre i Ghibellini; quegli alzavano i merli quadrati, questi a scacco; e la nappa, o un fiore[262], o l’acconciatura de’ capelli, o il saluto, e fin il modo di trinciare il pane o di piegare il tovagliuolo discernevano il Guelfo dal Ghibellino. I Ghibellini giurano alzando l’indice, i Guelfi il pollice; i primi tagliano i pomi di traverso, i secondi [293] perpendicolarmente; quelli adoprano vasi semplici, cesellati questi; il modo di passeggiare, di scoccar le dita, di sbadigliare, di arnesar gli animali, la dritta o la sinistra, il numero due o il tre, tutto insomma divien segnale; i Bergamaschi conobbero che certi Calabresi eran di fazione opposta al modo di tagliar l’aglio. A Firenze, coi beni tolti ai Ghibellini espulsi si formò una massa guelfa onde mantenere e invigorire la parte trionfante; un magistrato apposta la amministrava con tre capi bimensili, consiglio secreto di quattordici membri ed uno grande di sessanta, tre priori, un tesoriere, un accusatore dei Ghibellini; società regolare e permanente, armata e ricca, che si sostenne quanto la repubblica.
Al tempo di Carlo d’Angiò e per suo suggerimento i Parmigiani formarono (1266) una Società de’ Crociati per sostenere la causa guelfa, sotto la protezione di sant’Ilario vescovo di Poitiers; e a quella si aggregarono altre corporazioni del paese, talchè divenne potentissima, comprendendo molte migliaja d’uomini, che erano iscritti in un registro. Aveano un capitano e alquanti primicerj, che doveano anche tor di mezzo ogni dissensione, senza usar forza. Molti statuti furono fatti ad incremento di questa Società, ed uno vietava agli abitanti della città e del territorio di parte guelfa di entrare in parentela con chi non fosse della parte stessa. Il capitano de’ crociati, e che poi fu detto capitano del popolo, e aveva il comando delle milizie, era forestiero, durava sei mesi, aveva un giudice, un socio, [294] due notaj, il che attesta che esercitava una parte di giurisdizione, benchè sussistesse anche il podestà: e questo e quello subivano il sindacato. Il gran consiglio di cinquecento doveva, come i magistrati, essere eletto tra quei che formavano la Società de’ Crociati, la quale così divenne arbitra del Comune, e sorgente unica del potere legislativo, benchè non perdesse il carattere di milizia[263].
Solo tardi i nomi di Guelfi e Ghibellini perdettero la primitiva significazione, e parve non designassero che partiti, nati dalle ambizioni di persone e di case; s’abbracciava l’uno senz’altro motivo se non lo stare coll’altro gli avversarj; uomini e città li cangiavano dalla state al verno; pretesto a rancori privati, a baruffe, a sbranarsi tra sè, finchè riuscissero all’ultimo conforto degli stolti, il servir tutti[264].
[295]
In popolo libero non si governa che per via di fazioni, anzi una fazione è il Governo stesso, il quale tanto è più forte e perseverante, quanto tra il popolo si trovano partiti più permanenti e compatti. Ma siffatti [296] non si formano e mantengono se non dove fra gl’interessi de’ cittadini esistono dissomiglianze e opposizioni così evidenti e durevoli, che gl’intelletti siano condotti e fissati da sè in opinioni opposte: all’incontro, è difficile restringer molti in una politica uniforme là dove i cittadini rimangono ad un bel circa eguali, giacchè allora bisogni effimeri, frivoli capricci, interessi particolari creano e scompongono ogni istante fazioni, l’incertezza e avvicendamento delle quali fa agli uomini nojosa l’indipendenza, e mette a repentaglio la libertà, non in grazia dei partiti, ma perchè niun partito è in grado di governare.
Nè essi portano gran pregiudizio quando rampollano dalla costituzione, giacchè allo scopo loro si connette sempre la speranza di migliore governo; anzi a quelli vanno debitrici di loro prosperità le nazioni che liberamente si reggono, e in cui, pendasi ad aristocrazia o a democrazia, a governo personale o a ministeriale, sempre si tende e spesso si giunge al meglio del paese. Ma quando si mescoli, come in Italia, un fomite forestiero, l’interesse della fazione prevale a quello della patria, e s’immola fin la libertà per conseguirlo. Toscana e Venezia furono l’una democratica, aristocratica l’altra, eppure stettero: in Lombardia Guelfi e Ghibellini spingevano l’occhio fuor della patria, e del pari la sagrificavano.
Robusti, caldi di superbia e d’invidia, nel consiglio impugnano il parere più sano, perchè proposto dalla parte avversa; poi mene segrete e intelligenze parziali; [297] poi sconnesse le famiglie dal campeggiare padri e fratelli sotto bandiera diversa; poi per ogni lieve occasione rompere ai peggiori termini di nemici. «Quasi ogni dì, o di due dì l’uno si combattevano insieme cittadini in più parti della città, di vicinanza in vicinanza, come erano le parti; e aveano armate le torri, che n’avea la città (di Firenze) in gran quantità e numero, e alte cento e cenventi braccia l’una. E sopra quelle facevano màngani e manganelle per gettare dall’una all’altra, ed era asserragliata la strada in più parti. E tanto venne in uso questo gareggiar fra’ cittadini, che l’un dì si combattevano, e l’altro dì mangiavano e beveano insieme, novellando delle prodezze l’un dell’altro che si facevano a quelle battaglie»[265].
Cominciasi da un conflitto in piazza, determinato da qualche accidente in apparenza frivolo, ma realmente derivato dall’intima natura della città; e subito i cittadini dividonsi in due partiti, i quali non cercano che annichilarsi un l’altro, senza riguardi, senza capitolazione. L’ira è unica ispiratrice; una parte trovasi inferiore, e non tanto perchè impotente a sostenersi, quanto pel dispetto di non voler obbedire agli avversarj, esce di città. I suoi fautori rimasti, deboli e vinti, sono uccisi senza pietà da quella rabbia che si esacerba nello sfogarsi; dei profughi sono demolite le case, confiscati e sperperati i terreni, e la metà trionfante stabilisce nella città quella pace che viene dalla mancanza di nemici. Presto però i vincitori medesimi si suddividono in moderati ed eccessivi; i fuorusciti, congiunti dalla sventura, si rannodano alla campagna con altri di lor colore, e con sussidj di borgate o città consenzienti, riminacciano la città, l’assalgono, la prendono, [298] e alla lor volta uccidono, incendiano, proscrivono.
È la parte de’ popolani che leva il rumore? tocca a stormo; le vie si asserragliano per impacciare i cavalli, nerbo della nobiltà; questa assalgono ne’ palazzi fortificati, ne espugnano le torri. I gentiluomini, rincacciati di posto in posto, a grave stento possono aprirsi un varco, mentre i vincitori malmenano i clienti e le robe dei vinti, il tempio del Dio della pace profanano cogl’inni della vittoria fratricida. Ma appena in campagna aperta può la loro cavalleria spiegarsi, i nobili tornano superiori; ricorrono per ajuto ai signori castellani o ad altri paesi di egual fazione, trattano con quelli come potenze riconosciute, li persuadono a guerra; allora bloccano la patria, l’affamano, e v’entrano a forza, alla lor volta diroccando ed esigliando; oppure rientrano a patti, e giurano paci centenarie che fra un mese saranno violate. Queste alterne espulsioni formano la quasi unica storia del tempo.
Così si amplia la guerra cittadina in cospirazioni, adunanze, consigli, alleanze; cercasi una città anche nemica, perchè del partito medesimo; i fuorusciti figurano come una potenza distinta; le fazioni interne si intralciano colle esterne; e l’economia geografica è sbilanciata dalla logica de’ partiti, finchè questa viene a identificarsi con quella.
Nè gli uni nè gli altri però vogliono la distruzione della città, bensì di possederla e dominarla. A questo intento, anche allorchè vi stanno entrambi i partiti, devono tenersi in guardia e in disciplina, avendo magistrati proprj, riunioni, erario, forza, e di fuori alleanze speciali, alle quali rifuggendo allorchè in città non son sicuri di poter dimorare tutto il domani, cominciano a considerarsi qualcosa più che semplici cittadini, a concepir l’idea d’un partito, d’una nazione, nella quale tutta quanta si trovano alle prese i due [299] partiti. Ma la lotta, fondandosi su passioni non su principj, è necessariamente interminabile, non avendo un esito, non portando una vittoria definitiva, ma intanto elevando un sempre maggior numero di persone alla dignità di cittadini.
I popolani di Piacenza nel 1234, espulsi i loro nobili, si allearono coi popolani di Cremona, i quali aveano tolto a capitano il marchese Pelavicino; e questo con cento cavalieri e molti balestrieri delle due città ruppe i nobili fuorusciti. Essi fanno lega con quei di Borgotaro, di Castellarquato, di Firenzuola, e presentano a Gravago battaglia, dove lasciano prigionieri quarantacinque uomini d’arme e da ottanta fanti. I popolani cremonesi e piacentini prorompono di nuovo in armi, assediano il castello di Rivalgario, ma non possono espugnarlo. Alfine, per intromessa di Sozzo Colleoni di Bergamo, si riconciliano coi nobili, pattuendo che questi avessero metà de’ pubblici onori e due terzi delle ambasciate.
I vincitori non sempre erano moderati, nè solo momentanei i danni; e nell’ebbrezza del trionfo si spingeva la città a guerra coi vicini, o nello statuto si introducevano mutazioni non per utilità comune, bensì per corroborare la parte trionfante; ma sicurtà vera non si trovò mai, restando sempre una fazione malcontenta e una turba fuoruscita, gagliardissimo strumento ad ogni tentatore di novità. In una sola volta escono dal Cremonese centomila esigliati nel 1226; nel 1274 trecento famiglie da Bologna, composte di dodicimila persone: quando Castruccio nel 1323 osteggiava Firenze, per ottenere perdonanza venivano ad offrirsi di servire contro di lui ben quattromila Fiorentini, piccolo resto di quelli cacciati vent’anni prima[266]. Non durerà [300] mai quieto il paese che ha molti fuorusciti, i quali, per desiderio della patria, per la baldanza che dà il non aver nulla a perdere, per le facili speranze che sono il retaggio degli esigliati, movono, praticano, irritano dentro e fuori.
Quindi per tutta Italia un combattersi da terra a terra, e talvolta per ragioni sì frivole, quanto oggi ne’ duelli. Nomi d’obbrobrio ciascuna città aveva affisso all’avversaria, e da questi cominciavansi diverbj che terminavano col sangue[267]. Un cardinale romano convita l’ambasciatore di Firenze, e udendogli lodare un suo bel catellino, glielo promette; sopraggiunge l’ambasciatore di Pisa, che del cagnuolo s’invoglia anch’esso, e n’ha promessa eguale: da ciò discordia e guerra viva. Una secchia, dai Bolognesi rapita a quei di Modena, diede soggetto a guerra e al poema del Tassoni. Un catorcio involato suscitò guerra fra Anghiari e Borgo Sansepolcro, di che il Tevere andò tinto in rosso. Quei di Chiusi combatterono i Perugini per l’anello pronubo di Maria Vergine, che essi conservano preziosamente, che un frate aveva sottratto.
Quali cronache non sono piene di queste rivalità energiche e clamorose, e de’ vergognosi trionfi sopra i vicini? I Modenesi assediano Ponte Dosolo, e smantellatolo ne involano la campana che pongono nella torre maggiore: un’altra volta da Bologna portano via le petriere e le collocano nella cattedrale, e voltano lo Scultenna su quel territorio per guastarlo. Genova impone [301] a Pisa di abbassar tutte le case fin al primo solajo: e ancora vi stanno sospese le catene strappate a Porto Pisano; e sull’edifizio del Banco un grifo che adunghia l’aquila e la volpe, simboli di Federico I e di Pisa, col motto Griphus ut has angit, sic hostes Genua frangit. Lucca mette degli specchi sulla torre d’Asciano perchè le donne di Pisa vi si possano mirare; e Pisa va ad assediar Lucca, e mette grandi specchi affinchè i loro nemici vedano come impallidiscono; un’altra fiata fabbricano il forte d’Illice, e vi scrivono: «Scopabocca al genovese, crepacuore al portovenerese, strappaborsello al lucchese». Perugia erge innanzi a Chiusi la torre Becca questa, e i Chiusini vi oppongono la Becca quella. All’arco di Galieno in Roma era attaccata la chiave della porta Salciccia di Viterbo, ribellatasi contro il senato: i Perugini dalla vinta Foligno asportarono le porte sovra il carroccio de’ vinti, e da Siena le catene della giustizia, che collocarono sovra la porta del podestà: i Lodigiani eternarono (si dice) nelle medaglie uno scorno usato ai vinti Milanesi: questi faceano giurare al podestà di non lasciar più mai rifabbricare il distrutto Castel Seprio; Siena imponeva altrettanto per quel di Menzano, i Novaresi per quel di Biandrate.
È fatica persino in una storia municipale il seguitar quelle guerre senza gloria, interrotte da paci senza riposo, varie negli accidenti, ma uniformi negli impulsi; nè noi vogliam dare che i lineamenti e il carattere generale di quella età. Brescia stava sempre in armi da un lato contro Cremona, massime in causa delle acque dell’Oglio, dall’altro contro Bergamo pei disputati confini del lago d’Iseo e della val Camonica; e avendo essa, come dicemmo, nel 1191 aggiunto al suo territorio i Castelli di Sarnico, Calepio e Merlo, i Bergamaschi, per vendicarsene, s’unirono ai Cremonesi, [302] già da essi ajutati contro i Bresciani. Subito una parte e l’altra si prepara di alleanze, e Pavia, Lodi, Como, Parma, Ferrara, Reggio, Mantova, Verona, Piacenza, Modena, Bologna vengono contro i Bresciani, e assediano i castelli di Telgate e Parlasco; ma i Bresciani, capitanati da Biatta di Palazzo, gli affrontano a Rudiano, e li mettono in tal rotta, che rimase al luogo il nome di Malamorte.
I nobili, che aveano in mano il governo di Brescia, istigati dai Milanesi, vollero poco dopo spingere a nuova guerra contro i Bergamaschi; ma il popolo, svogliato di tanti sacrifizj, ritorse le armi contro i nobili, e sanguinosamente li cacciò di città. Essi ricoverarono sul Cremonese, e formarono la società di San Fausto, alla quale i plebei opposero un’altra, detta Bruzella: e quelli si allearono con Cremona, Bergamo, Mantova, questi coi Veronesi, e lungamente agitarono le nimistà. Altre ne mossero il 1199 Parma e Piacenza, disputandosi Borgo Sandonnino: e colla prima campeggiarono Cremona, Reggio, Modena, Bergamo, Pavia; coll’altra i Milanesi, Bresciani, Comaschi, Vercellesi, Novaresi, Astigiani, Alessandrini, finchè l’abate di Lucedio non riuscì a metter pace. Nel 1225 Genova trovavasi impegnata in guerra contro gli Alessandrini, collegati questi con Vercelli, Alba, Tortona; con lei Asti, il conte Tommaso di Savoja, le due Riviere, i conti di Ventimiglia, i marchesi del Carretto, di Ceva, di Cravezana, del Bosco, tutti i castellani del Garessio e val di Tanaro, ed altri baroni e capitani.
Nel 1208 il marchese Azzo d’Este coi Ferraresi del suo partito e col Comune di Ferrara[268] combinava lega coi Cremonesi, obbligandosi a guardare, salvare, difendere, in tutta la terra e l’acqua del vescovado e [303] del distretto loro nell’andare, stare e tornare, tutti gli uomini di Cremona nella persona e negli averi; soccorrerli a mantenere o recuperare la loro terra contro qualsifosse gente o persona, e nominatamente Crema e l’isola Fulcheria e le terre di qua dall’Adda; ogni anno andranno al servizio di Cremona col carroccio[269] e coi loro cavalieri e fanti; e due volte l’anno con tutti i soldati e arcieri della città e del vescovado staranno in servizio loro a spese e danni proprj per quindici giorni; nè partiranno senza licenza de’ rettori di Cremona, data in parlamento o nel consiglio di credenza. Passati quei giorni, se i Cremonesi vogliono rifare i danni e le spese, dovranno quelli rimanere quindici altri dì, ove ne siano richiesti. Altrettanti opreranno qualvolta siano richiesti dai rettori o dai consoli o per lettere sigillate del comune di Cremona; e quindici dì dopo l’avviso movendo col carroccio e altre forze, al più presto si metteranno nell’esercito di Cremona, e a tutti i nemici di questa vieteranno il passo, i soccorsi e ogni negozio sulle lor terre. Se mentre essi campeggiano in servizio di Cremona prendono alcuni dei nemici di questa, li daranno a quel Comune fra otto giorni, salvo il cambio se sia stato preso alcuno dei loro. Ogni anno il podestà o console delle città prelodate giurerà questi accordi, e si farà ogni quinquennio giurare da tutti i cittadini di sopra dei quindici anni e di sotto dei settanta.
Le gare talvolta componeansi a giudizio d’amici o di arbitri; come le differenze tra città e vassalli o Comuni si compromettevano ne’ consoli di giustizia o nei savj. Quando poi l’ire infierivano peggio, nè altro riparo trovavasi, soccorreva quello che in essi tempi era universale, la religione, che tra le baruffe private, tra [304] le file dei combattenti inviava l’inerme sua milizia, a sospendere le izze fraterne in nome del Signore. Ma poichè ognuno era persuaso che chi non otteneva supremazia rimarrebbe all’ultima oppressione, le discordie ben presto divampavano: talvolta, nel mentre stesso che giuravasi la pace, un’occhiata dispettosa, un motto frizzante, un gesto mal interpretato, facea di nuovo sguainar le spade.
Le gelosie e le gare rinascenti indebolivano la coscienza dei doveri da Stato a Stato, da uomo a uomo; impedivano si consolidasse uno spirito pubblico, fondamento di nobile avvenire; alla patria restava tolto di valersi dei migliori, esclusi perchè guelfi o perchè ghibellini; consigliandosi coll’ira o col favore anzichè colla giustizia, non si cercava il più giusto e libero governo, ma il trionfo d’una parte, adoprandovi mezzi che sovvertivano la libertà. Quello stuolo di fuorusciti, intenti sempre a governare il paese da di fuori e con passioni malevole, stoglieva dall’opposizione legale e dallo sviluppo progressivo; abituava a non regolarsi su principj ben posati, a non calcolare l’andamento dei fatti e la situazione, ma sempre attendere dall’esterno avvenimenti impreveduti, e fidare ne’ cataclismi: funesta abitudine, che gl’italiani più non doveano disimparare.
Nessun momento più pericoloso alle franchigie che quello d’una vittoria. Inebbriati da questa, i popoli più non ravvisano pericoli, e non che por limiti a chi li guidò al trionfo, credono acquisto il fortificarlo in modo, che possa impedire un nuovo rialzarsi della fazione avversa. Ma i mezzi offertigli a quest’uopo facilmente può egli convertire a disastro della patria. A Como rimasti vincitori i Rusca nel 1283, i tre podestà del Comune, del popolo e della parte dominante ebbero facoltà di stabilire, col consiglio di savj eletti, [305] qualunque statuto giudicassero opportuno ad essi Rusca e al comune di Como. Rivalsi i Vitani nel 96, il podestà di questi decretò che ogni mese si creassero due podestà di essa fazione, i quali attendessero all’innalzamento di questa e alla depressione dei Rusca; di cui si abbattessero le insegne, si cassassero le vendite e le donazioni, i loro vassalli e clienti si spogliassero d’ogni diritto acquistato da diciotto anni in poi, s’annullassero i giuramenti fatti a loro, e se ne squarciassero le torri e le abitazioni.
Guardiamoci però dal giudicare quei subugli colle idee d’un secolo che reputa primo elemento di felicità il riposo; e di far bordone alle sentimentalità di chi non sa vedervi che ricchezze sperperate e fratelli uccisi da fratelli. Capricci di re, puntigli di ministri, guerre dinastiche, ambizioni napoleoniche in qualche anno scialacquarono il decuplo di sangue e denaro, che non in secoli tutte le battaglie de’ Comuni italiani. Le quali nelle storie leggiamo accumulate così, che facilmente crediamo continui i macelli; e a tacere le lunghe paci, non vogliamo ricordarci che quelle guerre finivano in un giorno o in pochi; che le battaglie riuscivano sì poco sanguinose, da attirare le beffe degli inumani politici del secolo xvi, i quali vedeano le ben diverse qui recate dagli stranieri[270].
L’odierna civiltà strappa alle famiglie un figliuolo sul quale vivono padre e madre, e lo obbliga a servire [306] la società per un prezzo che a pena basta al sostentamento, e ciò negli anni suoi migliori, per poi dopo molti rimandarlo senza un mestiere e disusato dalla fatica. I nostri coscritti videro tremando scuotersi il loro nome nell’urna che dovea decidere qual d’essi lascerebbe le occupazioni e le consuetudini della sua gioventù, per militare in causa che ignora, sotto capitani che non conosce, obbedendo come una macchina, e trattato come inferiore agli altri cittadini. Lontano dalla patria, dai cari, alcuni si logorano per le fatiche inconsuete, molti pel tedio e per ribrama dei paterni tetti. Perisce? è un soldato di meno, un nome di più sulla lista dei morti. Vince? non altro godimento gliene viene che di veder trionfare i suoi capi, o forse di poter incrudelire contro i vinti. È ferito? lo gettano negli spedali a cura di medici principianti o subalterni. Finisce la sua capitolazione? torna alla famiglia avvezzo al bagordo, al prepotere, al non far nulla.
Allora, al contrario, la guerra era un momentaneo dovere, un episodio della vita. Dalla fanciullezza s’addestravano agli esercizj; divenivano soldati quando il bisogno lo richiedesse; cessavano appena il bisogno finisse; combattevano sotto le mura della patria per salvezza de’ suoi, o per quella causa ch’essi aveano giudicata migliore. I monotoni patimenti de’ quartieri e delle guarnigioni non erano conosciuti: al tocco della campana, l’uomo piglia le armi, ancora ammaccate dalle ascie tedesche o dal brando feudale; corre sotto la bandiera della sua parrocchia; va all’assalto; vince? la sera stessa o il domani torna alla patria, ostentando i trofei rapiti al vinto; è ferito? trova ristoro nella propria casa; muore? la patria il compiange, e quella venerazione alimenta il valore degli altri, e lenisce il lutto di quei che sopravivono.
Queste guerre faceano soffrire; chi lo nega? Il Machiavello [307] ne’ Guelfi e Ghibellini non vede che umori di parte, follie di malcontenti e di ambiziosi, pestilenza derivata alla sua città da una prima discordia di famiglie. Anche il Muratori esce dalla dabbene sua calma per irritarsi contro queste frenesie di sêtte diaboliche e maledette, ove per vane parole si sagrificavano ricchezze, sangue, vita, senza riflettere se la causa fosse utile o giusta. Ma quelle risse erano inevitabili fra piccoli Stati, e fra tanti elementi eterogenei che conveniva o assimilare o svellere: non erano frutto della libertà, ma sforzi per conquistarla, effetti del non possederla intera. L’unirsi Guelfi e Ghibellini, Repubblicanti e Imperiali a tempesta e bonaccia pel pubblico interesse, concentrarsi in un pensiero generale, subordinare le personali inclinazioni a un vantaggio comune ben avvisato, garantirsi a vicenda in imprese che riuscendo devono profittare anche a quelli che le impacciano, insomma il patriotismo qual noi l’intendiamo eppure nol pratichiamo, poteva sperarsi da gente ancor nuova, da passioni non ammansate? poteva sperarsi che quegli inesperti conciliassero la libertà coi governi forti, se nol sappiamo far noi dopo tante misere prove?
Più che da stizze, nascevano le nimicizie da intelletto acuto, che reca a conoscere il meglio, e dolersi di non possederlo; sicchè nello squilibrio fra i bisogni e il modo di soddisfarli, l’uomo contende e s’affatica, nè può fare che non dia d’urto ai vicini. In altri tempi sembra unanimità nazionale la quiete prodotta dalla comune oppressione: in quelli invece ogni uomo pensava ed operava da sè; ingegnavasi ad un fine ch’egli nettamente ravvisava, e con mezzi che da sè sceglieva; e quell’agitazione, l’esistenza occupata ne’ pubblici interessi, il dramma continuo, le passioni cozzanti, le quistioni di diritto e d’onore più che d’interessi materiali, il tendere animato verso una meta sempre varia ma sempre [308] alta, il soffrire per un oggetto nobile, il trionfare nei trionfi della patria o della propria fazione, erano parte di felicità.
Mal ci apponiamo ancora quando non vediamo in queste battaglie che fraterne riotte. Gli stranieri aveano occupato il paese, spodestati i natii, e ridottili a servi o a plebe senza diritti; mentr’essi, col nome di feudatarj o di nobili, si presero i privilegi e il dominio e i possessi tutti, e dichiararono nazione se medesimi. Per noi, cui il nascer plebe o patrizio non importa che qualche distinzione nel povero senno dei vulgari, ha del ridicolo e del compassionevole quel combattersi fra i due ordini: ma allora significava la prevalenza de’ forestieri o de’ nazionali; se i nostri padri dovessero languir sulla gleba sudata e non posseduta; se il signore di questa, che la tenea per ragione di conquista, dovesse poter fare di loro ogni sua voglia, sino ad ucciderli per pochi denari.
Prevalgono i popolani: ma la parte già dominatrice usa forza e astuzia per reprimerli e corromperli, e all’uopo s’associa colla potenza forestiera, da cui trae l’origine sua. Col procedere del conflitto, lo scopo ne diviene men chiaro, ma in fondo sussiste; poi ravvicinandosi e innestandosi i partiti, nel nome della fazione dimenticano la diversità dell’origine, e tutti si chiamano Italiani.
Ciò non toglie di deplorare quell’assiduo parteggiamento, le cui conseguenze nocquero alla più tarda posterità. Le città guardandosi con odio e sospetto, non si poterono mai accordare in una federazione di utilità universale e comune difesa; le scissure interne producevano lotta anche nell’alta politica, ambi i contendenti sapendo di trovare un appoggio esteriore; alla fine quasi dappertutto la parte popolare ebbe il sopravvento, e meno esperta delle faccende pubbliche, ombrosa [309] per natura sua, e troppo occupata per applicarsi al pubblico reggimento, rimetteva l’uso delle proprie forze e l’esercizio de’ proprj diritti al valore del più prode o al senno del più avveduto; e così le tirannie vennero eredi delle comunali libertà.
Altre famiglie non aveano mai perduto i possessi aviti, anzi gli estendevano, e massime quelli compresi nella disputata eredità della contessa Matilde; poi nelle guerre parteggiando coll’imperatore, ne ottenevano privilegi e immunità, e diventavano feudatarj. Gl’imperatori, che da principio avevano favorito i Comuni a popolo contro i signori feudali, dacchè li videro ingigantire trovarono di loro conto spalleggiare i nobili liberi, contrappeso alla potenza cittadina, e scolte disposte sul loro passaggio. Altri s’erano conservati indipendenti negli aviti castelli, massime se piantati fra i monti, e cercavano acquistare sulle vicine città il dominio che un tempo vi avevano tenuto i conti: tali erano i marchesi del Monferrato e di Este, i più poderosi dell’Italia settentrionale, ingranditi dal Barbarossa come suoi fedeli.
Nella marca Trevisana, ove le estreme falde dell’Alpi e le colline Euganee si sporgono in mezzo a liete campagne e città fiorenti, dalle ben munite alture i signori poterono continuare a tenere una mano sopra le città, nelle quali fabbricarono anche palazzi, somiglianti a fortezze. Tra queste famiglie erano prevalsi i Salinguerra di Ferrara, i Camposampiero di Padova, i Guelfi d’Este, gli Ezelini da Romano. Gli Ezelini discendeano da un Tedesco passato in Italia con Corrado II, e infeudato delle terre d’Onàra e Romano nella marca di Treviso: colle violenze e l’abilità crebbero i suoi discendenti, costituitisi corifei della parte ghibellina là intorno, imparentatisi di voglia o di forza con grosse famiglie, ed alleatisi con Verona e Padova. A fronte a loro stavano [310] gli Estensi, di famose ricchezze, e parenti di quei Guelfi che vedemmo dominare in Baviera e Sassonia, donde la parte guelfa nell’alta Lombardia prese il titolo di marchesca. Padova gli aveva obbligati a giurare la loro città, lasciar deserta la rôcca d’Este, e porsi sotto la protezione del popolo che i loro padri aveano calpesto; e spesso chiamati podestà e capitanei, all’ombra repubblicana ricuperavano la primazia, perduta secondo l’aspetto feudale.
Ferrara, sobbalzata dalle fazioni, diede nel 1208 il primo esempio di signoria col domandare a principe il marchese d’Este, conferendogli pieno arbitrio di fare e disfare leggi, paci, alleanze, guerre. Ne fu tocco al vivo Salinguerra di Torello, primario in Ferrara e caporione de’ Ghibellini, e ne originarono baruffe e sangue, e avvicendate espulsioni, e ripetuti e sempre falliti accordi, sinchè rimase convenuto che tra i due emuli, ossia tra le due fazioni, restassero partiti gli uffizj della città; il marchese non potea venire a Ferrara che con un determinato numero di seguaci, e Salinguerra gli usciva incontro con tutta la nobiltà guelfa e ghibellina, e si celebrava un cortese banchetto[271].
Anche altrove questi signori si facevano guerra dall’un all’altro, onde preponderare nelle città del contorno, che pertanto piegavano ad infelice oligarchia, turbata da incessanti dissidj, spesso prorompenti in guerre guerreggiate. Tra queste li trovò Ottone IV allorchè scese dall’Alpi, e sperava che i Guelfi l’appoggierebbero per l’origine sua e pel favor papale (1209), mentre i Ghibellini non gli avrebbero negato favore come a re di Germania. Rappaciò egli infatti molti discordi, e singolarmente Ezelino da Romano con Azzo d’Este; ma poco durò la costoro benevolenza, e Guelfi e Ghibellini si [311] brigavano delle proprie pretensioni, non già dell’imperatore, cui non favorivano se non in quanto sentissero d’averne bisogno.
Pure egli fu accolto a festa dai tanti nemici della Casa sveva; Innocenzo III gli mosse incontro sin a Viterbo, e lo coronò; ma breve fu l’armonia. Già l’arroganza tedesca stomacava i Romani, che ebbero una delle solite abbaruffate in città, dove perirono molti cavalieri; un grosso di cardinali mantenevasi ostile ad Ottone, il quale coll’eredità della contessa Matilde pretendeva revocare alla corona Viterbo, Montefiascone, Orvieto, Perugia, Spoleto, donati alla santa sede, e che militarmente occupò. Certo l’avranno istigato i giureconsulti, indefessi apostoli della sovranità imperiale: e quando il papa gli rammentò le promesse e il giuramento, rispose che un giuramento anteriore lo obbligava a ricuperare all’Impero quanto ne fosse stato distratto: favorì la famiglia Pierleoni, ghibellina arrabbiata; investì la marca d’Ancona ad Azzo d’Este in nome proprio, non in nome del papa; per fare smacco a Federico di Svevia entrò nella Puglia pretendendovi la primazia imperiale, ed alleossi co’ generali tedeschi che colà erano rimasi. Papa Innocenzo vide imminente quell’aggregazione della Sicilia coll’Impero, alla quale sempre erasi opposto, e viepiù pericolosa perchè fatta dal capo de’ Guelfi, i quali lo secondavano per odio agli Hohenstaufen; nè trovando altro riparo, scomunicò l’imperatore (1210): ma questo proseguì la conquista nella Puglia, ed accingevasi a passare in Sicilia.
Se non che l’anatema aveva sommossa la Germania; la morte di Beatrice sua moglie lentò i legami che a lui univano la fazione ghibellina; intanto il papa era riuscito a sottrarre dai custodi tedeschi Federico di Svevia, e a grande onore accolto in Roma, colla sua benedizione e colle sue galee l’inviò a Genova (1212). Il giovane [312] reale, bello, colto, attraente per l’ingegno non meno che per le agitazioni della prima sua età, attraversò la Lombardia procacciandosi amici coll’affabilità e colla munificenza, pur sempre contrastato dalle città guelfe, memori del Barbarossa: il marchese d’Este suo cugino sotto buona scorta pel lago di Como lo convogliò a Coira, il cui vescovo fu primo a salutarlo re di Germania. Ottone, poco atto a guadagnarsi i cuori, avea dovuto uscire dalla Puglia senz’altro lasciarvi se non raccomandazioni di fedeltà calde e poco sentite; a Lodi convocò le città lombarde, ma non vennero se non le dichiarate amiche di Milano, la quale tenevasi con lui per astio contro gli Svevi. Laonde nessun frutto colse, nè le fazioni sospesero il combattersi; peggiorando anzi per le sêtte religiose allora pullulanti, e che logoravano la potenza clericale, avvezzavano a non curar di scomuniche, e conculcavano il dogma dell’autorità. Venezia osteggiò Padova che voleva precluderle il commercio di terraferma: Milano combattè con Pavia e co’ marchesi del Monferrato, i Malaspina della Lunigiana con Genova, questa con Ventimiglia; i Carraresi, i signori di Montemagno, i Porcaresi contro Pisa, i Sanminiatesi contro Borgo Sanginnesio, i Salinguerra con Modena: Lucca non cessò mai guerra a Pisa, e fabbricato il castel di Cotone in val del Serchio, pose patto ai nuovi abitatori che non contraessero parentela o aderenza coi Pisani: la rivalità de’ Buondelmonti cogli Amidei fe sentire primamente in Firenze i nomi di Guelfi e Ghibellini.
Ottone avea procurato chetar la tempesta suscitatagli in Germania, fin col sottomettersi al giudizio degli stati; ma tale umiliazione crebbe ardire ai malcontenti: quando poi, marciato a’ danni del re di Francia, fu sconfitto e vôlto in fuga a Bovines (1214), scaduto d’ogni credito si ritirò ne’ suoi Stati ereditarj, talchè Federico di [313] Svevia fu di nuovo coronato re di Germania ad Aquisgrana. Secondo il convenuto con Innocenzo, Federico confermò tutte le prerogative e i possedimenti della Sede romana, promise recuperarle dai Pisani la Sardegna e la Corsica, e cedere la Sicilia appena divenisse imperatore: condizione che il papa esigeva come nuova garanzia all’indipendenza d’Italia, troppo minacciata se un suo re fosse anche capo dell’Impero. A Federico aveva egli sposata Costanza d’Aragona, sua pupilla anch’essa; e avendo collocato sul trono un allievo della santa Sede, poteva a questa sperar pace e nuova grandezza: eppure allora si rinnovò la guerra fra il Sacerdozio e l’Impero. Prima di divisare la quale, giovi por mente alle nuove armi, di cui l’uno e l’altro venivano accinti al secondo duello.
All’autorità pontifizia davano grande appoggio i frati. Benedettini, Agostiniani, Basiliani continuavano a pregare, studiare, cantare, conservar libri e monumenti; gli austeri Certosini, i mistici Carmelitani, i caritatevoli Trinitarj o del Riscatto (istituiti da san Giovanni di Matha gentiluomo nizzardo), ed altri monaci fondati in quei tempi, si estesero in Italia; e massime gli operosi Cistercensi, qui portati da san Bernardo, oltre l’opere dello spirito, grandemente giovarono a ridurre a fertilità stagni e valli, principalmente nel Milanese e nel Lodigiano[272].
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Alcuni Milanesi, trasportati prigionieri in Germania nelle guerre coll’Impero, disingannati del mondo, fecero voto, se ricuperassero la patria, di dedicarsi a speciale [315] devozione di Maria. Resi alla terra natale, istituirono l’Ordine degli Umiliati (1200), vivendo ciascuno nella propria casa, ma solinghi e in opere sante, avvolti in sajone cinericcio. Crebbero, e, compra una casa, vi si congregavano la festa a salmeggiare e ad opere di pietà; e sull’esempio de’ mariti, anche le donne si ritrassero in devozione e lavori. Avuta da san Bernardo una regola, gli Umiliati si separarono dalle mogli, ed oltre gli uffizj spirituali, procacciavano nel lanifizio e nella mercatura; indi il beato Giovanni da Meda, che li piantò a Como, perfezionò l’istituto, promovendo alcuni alla dignità sacerdotale, e mettendo a ciascuna casa un preposto. Così si estesero, e col traffico e col lavorio dei pannilani arricchirono l’Ordine e il paese. Alla quale società, che, a parte la devozione, potrebbe servir di modello a quelle che propongono e non sanno effettuare gli odierni Socialisti, aggiungiamo quelle che un buon romito di Parma raccolse per fabbricare un ponte sul Taro e custodirlo.
Silvestro da Osimo, al veder morto un uomo bellissimo, si ricoverò tutto a vita di spirito, e nel monastero di Monte Fano della Marca fondò nel 1231 i Silvestrini, presto propagatisi. L’anno seguente, sette signori fiorentini, membri d’una confraternita di Maria Vergine, ebbero in visione il comando di rinunziare al mondo; sicchè, distribuito ogni aver loro ai poveri, coperti di sacco e di cenere, e vivendo d’accatto, presero il nome di Servi di Maria, ed apersero il primo convento sul monte Senario appo Firenze.
I frati, oltre portare nella comunione dei Fedeli tanta messe di preghiere, adempivano molti uffizj, oggi attribuiti all’autorità amministrativa, e principalmente a curar malati, assistere pellegrini, assicurare strade. A Sant’Egidio di Moncalieri il ponte e l’ospedale erano affidati a’ Templari; ai Vallombrosani il tragitto sulla [316] Stura presso Torino; ad altri i passi del grande e del piccolo Sanbernardo; quelli di Sant’Antonio curavano i malati di fuoco sacro, quelli di San Lazzaro i lebbrosi, i Trinitarj d’ogni aver loro faceano tre parti, una pel proprio mantenimento, una pei poveri e infermi, una pel riscatto de’ Cristiani presi da Saracini. Le repubbliche poi se ne valeano a servigi gelosi; ambascerie, custodire denari, riscuotere dazj, metter paci: il Comune di Mantova lasciava alla loro guardia il libro dei decreti[273].
In tanti rami già erasi variato il vivere monastico, che Innocenzo III decretò non se ne introducessero altri: eppure sotto di lui nacquero due Ordini che eclissarono i precedenti, i frati Minori e i frati Predicatori.
Alla moglie di Pier Bernardone, agiato negoziante d’Assisi, un angelo comandò andasse a partorire sulle paglie d’una stalla (1182). Ivi nacque Giovanni, il quale, condotto in Francia da suo padre, s’addestrò sì bene nella lingua di là, che ne trasse il soprannome di Francesco. Balioso, vivace, gajo compagnone, buon poeta fino ai venticinque anni, allora consente alla chiamata di Dio, e va e vende le sue merci a Foligno, porta i denari a un prete, e perchè questo ricusa riceverli, li getta dalla finestra. Il padre, che da buon massajo computava la bontà coll’abachino, lo crede scemo della mente, e trattolo al vescovo, lo fa interdire. Giubilante, Francesco si spoglia nudo nato, se non che il vescovo gli getta addosso il proprio mantello; e rinunziato alla famiglia, fa adottarsi da un pitocco, veste cenci, e comincia ad [317] esalare in prediche l’esuberanza interna della carità, per la quale si lusinga di conquistare il mondo colla predicazione popolare.
A Bernardo cittadino d’Assisi, suo primo discepolo, che gli chiedeva se abbandonare il mondo, rispose: — Chiedilo a Dio». Aperto il vangelo a caso, vi legge: Se vuoi esser perfetto, vendi quanto hai, e dallo ai poveri; lo riapre, e trova: Non portate in viaggio oro nè argento nè bisaccia nè tunica o sandali o bastone. — Questo io cerco, questo desidero di cuore, quest’è la regola mia», esclama Francesco, e gitta quanto gli restava, eccetto una tunica col cappuccio e una corda a cintura. Così nel mondo inebbriato di ricchezze e piaceri, esce predicando la povertà; nel mondo dell’ira, delle superbie, delle guerre, d’Ezelino e di Federico II, va a bandir l’amore; e attiratisi undici compagni, si sottomette con loro a rigide penitenze e a povertà così assoluta, da non considerare suo nè l’abito tampoco o i libri. Dai Benedettini impetrò una cappelletta nel piano d’Assisi, che fu detta la Porziuncula, e rifabbricatala (1208), vi pose i fondamenti del suo Ordine, che per umiltà intitolò dei Frati Minori, eleggendo di stare fra poveri, malati, lebbrosi, lavorar per vivere, e mendicare.
Rinnegata affatto la propria volontà, Francesco diceva: — Beato il servo il quale non si tien migliore quand’è dagli uomini esaltato che quand’è preso a vile; perchè l’uomo è quel ch’egli è avanti a Dio, e nulla più». All’amor suo non bastando abbracciare tutti gli uomini, lo estende ad ogni creatura; e va per le foreste cantando, e invitando gli uccelli, che chiama fratelli suoi, perchè celebrino seco il Creatore; prega le rondini sue sorelle a cessare il pigolìo mentre predica; e sorelle son le mosche, e sorella la cenere[274]. Una [318] cicala canta? gli è stimolo a lodare Iddio; alle formiche rimprovera di mostrarsi troppo sollecite dell’avvenire; storna dal cammino il verme che può esservi calpestato; porta miele alle api nell’inverno; salva le lepri e le tortore inseguite; vende il mantello per riscattare una pecora dal macellajo; il giorno di Natale voleva si porgesse miglior nutrimento all’asino e al bue; anche biade, vigne, sassi, selve, quanto han di bello i campi e gli elementi, per lui sono eccitamenti ad amar Dio; nell’orticello d’ogni convento da’ suoi dovea riservarsi un quadro a’ più bei fiori, per lodarne il Signore[275].
La piena di questo affetto espandea Francesco in poesie, originali come lui stesso, ove niuna reminiscenza d’antichità, ma viva effusione di cuore, impeti d’amore infinito[276]: fu dei primi ad usar nelle laudi la [319] lingua volgare; e frà Pacifico, suo allievo, meritò la laurea poetica da Federico II.
Vedendo moltiplicati i Minori, Francesco pensò dettarne la regola; e stando sopra tale pensiero, ecco la notte gli pare aver raccolto tre bricciole di pane, e doverle distribuire a una turba di frati famelici. E temeva non gli andassero perdute fra le mani, quando una voce gli gridò: — «Fanne un’ostia, e danne a chiunque vuole cibo». Fece, e chi non ricevea devotamente quella particella, coprivasi di lebbra. Narrò Francesco la visione ai fratelli senza intenderne il senso; ma il giorno dappoi, mentre pregava, una voce dal cielo gli disse: «Francesco, le bricciole di pane sono le parole del vangelo, l’ostia è la regola, lebbra l’iniquità».
Ritiratosi dunque con due compagni s’un monte, digiunando a pane e acqua, fe scrivere la sua regola secondo il divino spirito gli dettava entro. Essa comincia: — La [320] regola de’ Frati Minori è d’osservare il vangelo, vivendo in obbedienza senza nulla di proprio e in castità». Chi v’entrasse dovea vendere ogni aver suo a profitto de’ poveri, e subire un anno di prove rigorose prima di proferire i voti. Tutti essendo frati minori, gareggiavano d’umiltà, e lavavansi i piedi un all’altro: i superiori chiamavansi servi: chi sa un mestiere, può esercitarlo per guadagnare il vitto; chi no, vada alla busca, ma non di denaro. Neppur l’Ordine può possedere altro che il puro necessario. Prendano in ispecial cura gli esuli, i mendicanti, i lebbrosi. Chi stando ammalato s’impazienta o sollecita medicine, è indegno del titolo di frate, perchè mostra maggior cura del corpo che dell’anima. Non vedano femmine, e a queste predichino sempre la penitenza: che se alcuno pecca in esse, venga tosto cacciato. In viaggio rechino l’abito e null’altro, nè tampoco il bastone; e se diano nei ladri, si lascino spogliare. Non predichi chi non vi sia autorizzato; e prometta insegnar la dottrina della Chiesa senza formole di scienza profana, senza cercare suffragi. Un generale, eletto da tutti i membri, risiede a Roma, assistito da un consiglio, e da esso dipendono i provinciali e i priori. Ai capitoli generali prendono parte i capi di ciascuna provincia, i priori e i deputati dei monaci di ciascun convento. Ogni comunità tiene capitolo una volta l’anno: i superiori d’Italia si congregano ogn’anno, e ogni tre quelli di là dall’alpe e dal mare.
Francesco si presentò al papa chiedendo la conferma del suo Ordine, cioè il diritto di predicare, mendicare e non posseder nulla. Innocenzo III fu d’avviso che l’assunto trascendesse le forze d’uomini: quand’ecco in visione parvegli la chiesa di San Giovanni Laterano barcollare, minacciando rovina; e sorreggerla due uomini, un italiano ed uno spagnuolo, Francesco d’Assisi e Domenico [321] Gusman. Pertanto approvò l’Ordine solennemente nel IV concilio di Laterano (1215).
Chiara, nobil donna d’Assisi, tocca all’esempio ed ai sermoni di Francesco, abbandona il mondo (1212) e istituisce le povere donne Clarisse, colla regola stessa. Non sapea Francesco risolvere qual fosse meglio, la preghiera o la predicazione; e Chiara e frà Silvestro il persuadono a quest’ultima, ond’egli compare a Roma ballonzando per gioja, e chiede al papa licenza d’andare apostolando in traccia di conversioni e del martirio. E va per la Spagna, la Barberia, l’Egitto; crociata incruenta, ove grido di guerra era La pace sia con voi. In Africa arrivò mentre i Crociati osteggiavano Damiata (1219); e presentatosi a Melik el-Kamel (Meledino), gli espose il vangelo, sfidò i dottori di quella legge, s’offerse di saltare in un rogo divampante per dimostrare la verità della sua dottrina. Melik l’ascoltò, e rimandollo senza nè la conversione nè il martirio.
A’ suoi che inviava a predicare, Francesco diceva: — In nome del Signore camminate due a due con umiltà e modestia; in particolare con esattissimo silenzio dal mattino fino a terza, pregando Dio nel vostro cuore. Fra voi non parole oziose e inutili: ed anche per via comportatevi umili e modesti, come foste in un romitaggio o nella vostra cella; imperciocchè, in qualunque parte siamo, è sempre con noi la nostra cella, che è il corpo nostro fratello, essendo l’anima nostra il romito che dimora in questa cella, per pregare e pensare a Dio. Perciò, se l’anima non istà in riposo in questa cella, la cella esteriore nulla serve ai religiosi. Sia tale la vostra condotta in mezzo alla gente, che qualunque vi vedrà o ascolterà, lodi il celeste Padre. Annunziate la pace a tutti; ma abbiatela nel cuore come nella bocca, anzi più. Non porgete occasione di collera o di scandalo, ma colla vostra mansuetudine fate che [322] ognuno inclini alla bontà, alla pace, alla concordia. Noi siamo chiamati per guarire i feriti e richiamare gli erranti; molti vi sembreranno figli del diavolo, che saranno un giorno discepoli di Gesù».
Questi frati erano membri d’una repubblica che avea per sede il mondo, per cittadino chiunque ne adottava le rigide virtù: e scalzi, col vestire dei poveri d’allora, coll’idioma dei vulghi, diffondeansi per tutto, al popolo parlando come esso vuol gli si parli, con forza, con drammatica, e fino con vulgarità, destando al pianto e al riso col ridere e piangere essi stessi, affrontando e provocando i tormenti come le beffe. Egli medesimo, il santo fondatore, se mai talvolta rompesse il digiuno, volea lo strascinassero per le vie, battendolo e gridandogli dietro: — Ve’ ve’ il ghiottone che s’impingua di carne di polli senza che voi lo sappiate». A Natale predicava in una vera stalla, ove il presepio e il fieno e l’asino e il bue; e nel pronunziare Betlemme, belava come un pecorino; e nel nominare Gesù, leccavasi le labbra, quasi ne sentisse dolcezza. Poi alla sera di sua vita portava le stigmate delle piaghe di Cristo impresse sul proprio corpo.
L’uomo stesso gittava il balsamo della sua parola sopra gli spiriti inveleniti. Udito stare in cagnesco i magistrati e il vescovo d’Assisi, mandò i suoi fratelli a cantare al vescovado il suo cantico del Sole, al quale aggiunse allora le parole: Lodato sia il Signore in quelli che perdonano per amor suo, e sopportano patimenti e tribolazioni. Beati quelli che perseverano nella pace, perchè saranno coronati dall’Altissimo». Tanto bastò per mitigare gli sdegni. — Il dì dell’Assunta del 1220 (scrive Tommaso arcidiacono di Spalatro), stando io agli studj a Bologna, vidi Francesco predicare sulla piazza davanti al pubblico palazzo, dove tutta quasi la città era raccolta. E fu esordio al suo predicare Angeli, [323] uomini e demonj; e di questi spiriti tanto bene propose, che a molti letterati ivi presenti recò non poca meraviglia un parlare sì giusto di persona idiota. E tutto il contesto del suo ragionare tendeva ad estinguere le nimicizie, e far accordi di pace. Sordido d’abiti, spregevole d’aspetto, di faccia abjetta, pure Iddio aggiunse tanta efficacia alle parole di lui, che molte tribù di nobili, fra cui inumana rabbia d’inveterate nimicizie aveva infuriato con molta effusione di sangue, vennero ridotte a consiglio di pace»[277].
Così il padre serafico seguì fino ai quarantaquattro anni, allorchè morì. Per la sua Porziuncola invocò dal cielo e dal pontefice un’indulgenza, a lucrar la quale non fosse mestieri di veruna offerta. E quando ogni 2 d’agosto essa è proclamata nell’ora solenne dell’apparizione di Maria, una folla sterminata accorre da quei fortunati contorni ad implorare l’effusione della grazia gratuita. E noi, che non sappiamo pellegrinare soltanto alla zazzera di Voltaire e all’isoletta di Rousseau, cercammo commossi le colline e i laghi attorno a quella deliziosa vallata, piena di tante benevole memorie; e nel maestoso tempio di Maria degli Angeli, eretto sopra quell’umile cella, monumento alla povertà fra i tanti consacrati alla forza e al fasto, meditammo compunti quanta santità ne uscisse, quanta potenza.
Alla povertà stettero fedeli i suoi: al papa, che la esortava ad assicurare la sussistenza del suo Ordine coll’acquistare beni sodi, e offriva assolverla dal voto, santa Chiara rispose: — Non domando altra assoluzione che de’ miei peccati»: sant’Antonio i doni offertigli da Ezelino rifiutò costantemente, dicendo non volere dei frutti del peccato: frà Egidio, per vivere in Roma, andava a far legna e venderla: gli altri campavano [324] accattando, e dappertutto erano accolti a suon di campane e rami d’ulivi. E perchè mai gli Ordini mendicanti esercitarono maggior potenza degli altri sul popolo? perchè con esso divideano il pane quotidiano; perchè il popolo rispetta un’indipendenza acquistata con sacrifizj volontari.
Affine di più addentro insinuarsi nella società, oltre i professi e i frati laici, v’ebbe un terz’ordine, cui poteva aggregarsi qualunque secolare per via di certe devote pratiche volesse partecipare ai tesori delle preghiere senza abbandonare il mondo, senza cessare d’essere moglie, padre, vescovo, cavaliere, pontefice. Quattro le condizioni: restituire ogni mal tolto, riconciliarsi col prossimo, osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa, le donne abbiano il consenso del marito; e perchè non vi fosse altro legame che il libero volere, si ammonivano gli adepti che l’osservanza della regola non obbligava sotto pena di peccato mortale. Sbandito il lusso e la cupidigia del guadagno, non teatri, non festini; a prevenire i litigi, ciascuno abbia preparato il suo testamento; le differenze fra loro si compongano, se no volgansi ai giudici naturali, non a fòri privilegiati; non diano mai giuramenti, che rendano ligi ad un uomo o ad una fazione; non portino armi che per difendere la Chiesa, la fede, la patria[278]. Oh, Francesco mostrava ben conoscere come le riforme devono cominciare dalla vita domestica, dalla famiglia.
Contemporaneamente Domenico Gusman, illustre castigliano, assetato di dolori e d’amore, introdusse il nuovo ordine de’ Predicatori (1216), destinato alla scienza divina e all’apostolato. Qui pure tutte le cariche erano elettive, obbligo la povertà: e al santo istitutore in [325] Bologna, ove morì (1221), fu posta un’urna fregiata nel più bel modo che sapessero frà Guglielmo, Nicola di Pisa, Nicola di Bari, Alfonso Lombardi; indi un tempio magnificentissimo.
Appena quattro anni dopo l’approvazione, Francesco radunò il primo capitolo detto delle stuoje perchè fu in campo aperto sotto trabacche, ov’erano cinquemila frati della sola Italia, e da cinquecento novizj si presentarono: poi crebbero tanto, che, malgrado mezza Europa perduta per la Riforma, dicono alla rivoluzione francese sommassero a cenquindici mila, in settemila conventi, suddivisi fra molte regole e riforme. Anche i Domenicani si diffusero rapidamente; a Siena nel 1219 si posero nello spedale della Maddalena, finchè nel 27 i Malavolti li regalarono d’un terreno per fabbricare quel sontuoso convento; a Milano nello spedale de’ pellegrini a San Barnaba il 1218; e presto ebber fabbricate le chiese di Santa Maria Novella in Firenze, di Santa Maria sopra Minerva in Roma, di San Giovanni e Paolo in Venezia, di San Nicolò in Treviso, di San Domenico a Napoli, a Prato, a Pistoja, di Santa Caterina a Pisa, delle Grazie a Milano, ed altre, segnalate per ricca semplicità, e per lo più architettate da frati.
Fin dal principio i due Ordini destarono meraviglia e simpatia nei migliori[279], e in folla attrassero pii ed illustri proseliti. A Domenico s’unisce Nicola Pulla di Giovenazzo appena uditolo a Bologna, e l’accompagna e seconda sempre, finchè, operati gran frutti di santità, muore a Perugia: a lui Renoldo da Sant’Egidio, professore [326] di scienza canonica a Parigi; il medico Rolando di Cremona, che da capo della scuola bolognese passa a professare la teologia nella parigina; il Moneta, famoso maestro d’arti; frà Ristoro e frà Sisto, architetti de’ migliori; frà Cavalca, frà Jacopo Passavanti, frà Giordano da Pisa, dei primi prosatori italiani; i sommi pittori frà Angelico e frà Bartolomeo; indi Vincenzo da Beauvais l’enciclopedista; i cardinali Ugo Saint-Cher ed Enrico da Susa, autori d’una Concordanza della Bibbia e di una Somma aurata; e Tommaso d’Aquino, il maggior filosofo del medio evo.
Con Francesco si arruolano Pacifico poeta laureato, Egidio portento di semplice sapienza, Giovanni da Pinna nel Fermano, Giovanni da Cortona, Benvenuto d’Ancona poi vescovo d’Osimo, altri ed altri: più tardi ne cinsero il cordone il gran teologo Scoto, il gran mistico san Bonaventura, Ruggero Bacone ravvivatore delle scienze sperimentali. Mogli e figlie di re vestono quell’abito; Margherita, scandalo di Cortona, diviene specchio di penitenza; Rosa da Viterbo, in diciassette anni appena di vita, merita le persecuzioni di Federico II e l’ammirazione del popolo, il quale diceva che la pietra da cui essa gli predicava si alzasse da terra, e che il cadavere della beata si conservasse incorrotto fin da un incendio.
Que’ frati andavano a diffondere la pace, e spandere la rugiada della Grazia sovra le moltitudini, avendo per unica rettorica una fede inconcussa e universale, e lo accettare tuttociò che servisse all’edificazione. Le prediche morali e dogmatiche d’alcuni di essi conservateci, evidentemente non sono che tessere d’aridezza scolastica; nè può render ragione della portentosa loro efficacia chi non le immagini rivestite d’una parola animatissima, e dirette a un uditorio che non vi portava la critica ma la convinzione. Poveri, penitenti, amici del [327] popolo e contraddittori dei tiranni, specchi di bontà e di dottrina, ecco perchè gli ordini de’ Minori e de’ Predicatori tanto poterono, e divennero il più valido sostegno della santa Sede. Dovunque si trovassero, poteano essi confessare e predicare, anzi ogni curato dovea ceder loro il pulpito; il popolo volonteroso gli udiva, li consultava, dividea con essi il pane dalla Provvidenza compartito; e quegli atti di astinenza e di abnegazione toccavano gli uomini, che riconoscono l’amore nel sagrifizio, e la virtù nell’amore.
Le anime non volgari trovavansi obbligate a scegliere fra due strade: o nel mondo procelloso farsi largo colla fierezza e la perfidia; o voltargli le spalle, rinnegandone la vanità e le opinioni. I primi diventavano Ezelino, Salinguerra, Buoso da Dovara; gli altri Francesco, frà Pacifico, Antonio da Padova, gente che assumeva tutti i pesi del clero senza i vantaggi, e che anzi coll’umiltà e povertà sua faceva contrasto alle pompe e all’orgoglio di quello, una delle piaghe della società d’allora, ed uno dei più forti appigli per gli eretici.
Quest’antitesi dei caratteri si manifesta ben anche nelle fabbriche d’allora: da un lato castelli, fortezze di baroni e principi, sgomento de’ popoli; dall’altro badie e monasteri, preparati al pellegrino, al soffrente, alle anime che han bisogno d’amare, di giovare, di pregare. Collo spirito di devozione e beneficenza viveva ne’ monaci il sentimento del bello, onde sceglievano situazioni ove l’anima, estatica nella contemplazione della natura, elevasi a benedire chi la creò. A venti miglia di Firenze, nella romantica valle dell’Arno superiore, tra magnifiche abetine sorge Vallombrosa, e nell’altura l’eremo del Paradisino, dal quale la vista, spaziando per immenso orizzonte, si perde negli interminabili fiotti del Mediterraneo. Qual potevano i monaci [328] scegliere più opportuno asilo per riposare dalle tempeste della società, e prepararsi ai casti godimenti della vita interiore? Se di colà tu risali verso le sorgenti dell’Arno, per entro il fertile Casentino eccoti Camaldoli, ricovero di San Romualdo da Ravenna, e culla d’un altro Ordine. Donde pure elevandoti alla schiena degli Appennini, giunto sul poggio agli Scali, trovi il Sacro Eremo, che par veramente inviti l’uomo a lodare il Creatore delle meraviglie che profuse sopra questa Italia, della quale puoi di lassù vedere i due pendii scendere, ridenti di diversa bellezza, a bagnarsi nel Mediterraneo e nell’Adriatico. Nè molto avrai a viaggiare per giungere all’Alvernia, il devoto ritiro di san Francesco, posto anch’esso in vetta d’un monte, che incanterebbe se già non si fossero veduti gli altri due. In questi amenissimi soggiorni si raccoglievano quegl’ingenui ammiratori di Dio, e mentre il mondo dilagava di fraterno sangue, essi passavano i giorni nella contemplazione del bello, nella ricerca del vero, nella pratica del buono.
In un altro uffizio s’adoperarono vivamente i nuovi frati, qual fu di combattere colla parola gli eretici, farli ricredenti, o castigarli. Perocchè, sebbene il genio europeo non s’ingolfasse in sottigliezze e sofisterie come l’orientale, pure anche qui, e precisamente in Italia, tratto tratto scoprivansi degli eretici; e forse una tradizione di siffatti non fu mai interrotta fin dai Gnostici e dai Manichei dei primi tempi. A mezzo il secolo ix, Pietro vescovo di Padova trovò nella sua diocesi una setta che ghiribizzava sulla Redenzione, e che solo cinquant’anni dopo fu dissipata dal vescovo Gozelino. Nel Mille, a Ravenna un Vitgardo fondava non so quali delirj sopra Orazio, Virgilio, Giovenale. Eriberto, il famoso arcivescovo di Milano, seppe che alcuni eretici tenevano convegni nel castello di Monforte presso Asti, [329] e citatone uno di nome Gerardo, l’esaminò sulla sua fede: — Noi tutti (rispose) osserviamo la castità benchè ammogliati; non mangiamo carne, digiuniamo strettamente, leggiamo ogni giorno la Bibbia, molto preghiamo, e i nostri maggiori s’alternano dì e notte orando. I beni consideriamo come comuni; e il morir nelle pene ci è dolce per isfuggire i castighi eterni. Crediamo nel Padre, nel Figliuolo e nello Spirito Santo, che hanno la facoltà di sciogliere e legare: e il Padre è l’eterno, in cui e per cui tutte le cose sono; il Figliuolo è lo spirito dell’uomo, cui Iddio amò; lo Spirito Santo è l’intelletto delle scienze divine, dal quale tutte le cose sono regolate. Non riconosciamo il vescovo di Roma o verun altro, ma un solo che ogni giorno visita i nostri fratelli per tutto il mondo e gli illumina; e quand’è mandato da Dio, presso lui è a trovare il perdono de’ peccati»[280]. Sembrò pericolosa quest’eresia al vescovo, tanto che menò contro Asti i suoi vassalli, e presi per forza i miscredenti, nè potendo indurli a ritrattarsi, li mandò al fuoco, ch’essi subirono come un martirio.
Le opinioni ebbero viva scossa dalla lotta fra gl’imperatori e i pontefici, e l’opposizione a questi risolvevasi in eresia, e ad ogni modo scassinava l’autorità. Poi lo spirito di controversia, introdotto dalla logica scolastica e dalla giurisprudenza, recò spesso ad opporre alla credenza comune l’individuale sentimento; e si mescolarono di bel nuovo i dogmi cogli atti, la quistione religiosa colla sociale.
Pietro Valdo, mercante di Lione aliquantulum literatus, venduti gli averi suoi come poi fece san Francesco, si eresse riformatore de’ costumi come questo, ma non sottoponendo la propria alla volontà della [330] Chiesa, anzi asserendo questa avere traviato dal vangelo e volersi richiamarla alla semplicità primitiva: a che il lusso del culto, la ricchezza dei preti, la potenza temporale de’ papi? povera umiltà come nei primi tempi. Perciò i suoi seguaci si dissero Poveri di Lione, e Catari cioè puri, e tanto erano persuasi di non uscire dal vero, che chiesero al pontefice la permissione di predicare[281]: ma ben tosto negarono l’autorità del papa, e dietro a ciò il purgatorio, l’invocazione dei santi, altri dogmi cardinali; proclamarono fosse libera anche ai laici la predicazione.
Come mai, sotto un Dio buono, tanti mali opprimano [331] il mondo, è problema che tormentò e tormenterà i pensatori di tutte le generazioni. Col supporre un altro principio autor del male, lo scioglievano i Manichei, i quali, vinti fin dai tempi di sant’Agostino, sopravivevano però in Oriente, e coi varj nomi di Patarini, Bulgari, Pauliciani si propagarono in Europa e primamente a Milano. Quivi ebbero per vescovo un tal Marco, stato ordinato in Bulgaria, e che presedeva alla Lombardia, alla Marca e alla Toscana. Essendovi comparso un altro papa per nome Niceta, riprovò l’ordine della Bulgaria, e Marco ricevette quel della Drungaria, cioè di Traù (Tragurium) in Croazia[282]. A Milano, distingueano [332] i Catari vecchi, venuti di Dalmazia, Croazia e Bulgaria, cresciuti singolarmente quando il Barbarossa li favoriva per far onta a papa Alessandro; e i nuovi, usciti circa il 1176 di Francia, che sarebbero i Valdesi.
Questi si erano molto diffusi tra le Alpi, ma viepiù nella Linguadoca, fra il Rodano, la Garonna e il Mediterraneo, paese più dirozzato della restante Gallia, e dove le città, memori o fors’anche avendo conservato gli avanzi delle istituzioni municipali romane, eransi costituite a comune, con una specie d’eguaglianza fra nobili e mercanti, opportuna all’incremento della civiltà; sicchè vi si erano svolti e grazia d’immaginazione e gusto delle arti e dei piaceri dilicati: colà prima s’intesero versi nelle lingue nuove, sulla mandòla dell’elegante trovadore, che vagava pei castelli cantando l’amore e le prodezze, o satireggiando i magnati e i preti. E perchè in Alby, città principale, primamente furono tolti a perseguitare, vennero chiamati Albigesi.
Non è facile sapere appunto i loro dogmi, o se avessero un fondo comune, sotto l’infinita varietà che è propria dell’errore. Un libro depositario di loro credenze [333] non ebbero: in coloro che li confutano e negli storici che raccolsero dal vulgo, li troviamo imputati di colpe le più contraddittorie; or proclamando creatore Iddio, ora il demonio; or facendo Iddio materiale, ora riducendo Cristo a ombra e null’altro: chi li fa ammettere alla fede tutti i mortali, chi escludere le donne dall’eterna felicità; chi semplificare il culto, chi ordinare cento genuflessioni il giorno; chi licenziare alle voluttà più grossolane, chi riprovare persino il matrimonio[283]. Impugnata l’autorità, e ridotti alla ragione individuale, doveano necessariamente variare in infinito: e frà Stefano di Bellavilla racconta che sette vescovi di credenza diversa si adunarono in una cattedrale di Lombardia, per accordarsi sui punti di loro fede; ma, non che riuscire, si separarono scomunicandosi reciprocamente.
Tre sêtte primeggiavano quivi, i Catari, i Concorezzj, [334] i Bagnolesi. I Catari, che si dicevano anche Albanesi (corrotto probabilmente da Albigesi), venivano suddivisi in due parzialità: alla prima era vescovo Balansinanza veronese, all’altra Giovanni di Lugio bergamasco. Oltre le credenze comuni che sopra noverammo, i primi dicevano che un angelo avesse portato il corpo di Gesù Cristo nell’utero di Maria, senza ch’ella v’avesse parte; solo in apparenza il Messia esser nato, vissuto, morto, risorto; i patriarchi essere stati ministri del demonio; il mondo eterno. Gli altri tenevano che le creature fossero state formate quali dal buono, quali dal tristo principio, ma ab eterno; che la creazione, la redenzione, i miracoli erano accaduti in un altro mondo, affatto diverso dal nostro; Dio non essere onnipotente, perchè nelle opere sue può venir contrariato dal principio a sè opposto; Cristo aver potuto peccare. — I Concorezzj (probabilmente così chiamati da Concorezzo, borgata presso Monza) ammettono un principio unico; aver Dio creato gli angeli e gli elementi; ma l’angelo ribellato e divenuto demonio formò l’uomo e quest’universo visibile; Cristo fu di natura angelica. I Bagnolesi (denominati dal Bagnolo di Piemonte o da quello di Provenza) volevano le anime fossero state create da Dio prima del mondo, e allora avessero peccato; la beata Vergine fosse un angelo; e Cristo avesse bensì assunto corpo umano per patire, ma non l’avesse già glorificato, anzi deposto all’ascensione.
Frà Ranerio Saccone distingue sedici chiese di Catari in Lombardia: degli Albanesi, che stanno principalmente a Verona, e sono cinquecento; de’ Concorezzj, che fra tutta Lombardia sommeranno a un migliajo e mezzo; de’ Bagnolesi sparsi a Mantova, Milano, nella Romagnola, in non più di ducento; la chiesa della Marca, che saranno cento; altrettanto in quelle di Toscana e di Spoleto; un cencinquanta della chiesa di [335] Francia, dimoranti a Verona e per Lombardia; ducento delle chiese di Tolosa, di Alby, di Carcassona; cinquanta di quelle di Latini e Greci in Costantinopoli; e cinquecento delle altre di Schiavonia, Romania, Filadelfia, Bulgaria. Ma questi quattromila (avverte l’autore) sono da intendere per uomini perfetti; giacchè di credenti ve n’ha senza numero.
Sembra fosse comune la credenza nei due principj, ed al malvagio essere dovuto il mondo e il Vecchio Testamento. Appoggiati all’Obedire oportet magis Deo quam hominibus, si emancipavano d’ogni autorità terrena; non papa, non vescovi, non canoni o decretali, non dominio temporale dei preti; la Chiesa romana non essere concilio sacro, ma congrega di malignanti; non darsi risurrezione della carne, ridevole la distinzione dei peccati in veniali e mortali, prestigi del diavolo i miracoli; non doversi adorare la croce, simbolo d’obbrobrio; per niuna cosa giurare; nè esser diritto ai magistrati d’infliggere pena corporale. Quanto ai riti, repudiavano l’estrema unzione, il purgatorio e di conseguenza i suffragi pei morti, l’intercessione dei santi e l’Ave Maria; per il matrimonio bastare il consenso de’ contraenti, senz’uopo di benedizione; non valere il battesimo amministrato agl’infanti; non discendere Dio nell’ostia consacrata da un indegno; i sacramenti non furono istituiti da Cristo, ma inventati dall’uomo.
Del sacramento dell’Ordine teneva luogo l’elezione dei loro gerarchi, ch’erano disposti in quattro gradi: il vescovo, il figliuolo maggiore, il figliuolo minore e il diacono. Al vescovo spettava di preferenza l’imporre le mani, frangere il pane, dir l’orazione: mancando lui, suppliva il figliuolo maggiore, se no il minore o il diacono; e in difetto, un semplice credente, e fin anche una catara. I due figliuoli coadjuvavano al vescovo, visitavano i fedeli, e in ogni città v’era un diacono per [336] ascoltare i peccati leggieri una volta al mese; il che dai Lombardi (i quali ritennero la distinzione dei peccati veniali) dicevasi caregare servitium. Il vescovo poi, avanti morire, inaugurava a succedergli il figliuolo maggiore imponendogli le mani.
Quotidianamente, allorchè sedevano a mangiar di brigata, il maggiore fra i convitati sorgeva, e recatosi in mano il pane ed il vino, proferiva Gratia domini nostri Jesu Christi sit semper cum omnibus vobis, spezzava quel pane, lo distribuiva, e quest’era la loro eucaristia. Il giorno della cena del Signore, imbandivano più solennemente; e il ministro, postosi ad un tavoliere, su cui erano una coppa di vino ed una focaccia d’azimo, diceva: — Preghiamo Dio ci perdoni i peccati per sua misericordia, ed esaudisca alle nostre petizioni; e recitiamo sette volte il Pater noster a onor di Dio e della santissima Trinità». Tutti s’inginocchiano; orato, sorgono; esso benedice il pane e il vino, frange quello, dà mangiare e bere; e così è compiuto il sagrifizio.
Confessione non particolareggiata, ma uno recitava a nome di tutti: — Confessiamo innanzi a Dio ed a voi, che molto peccammo in opere, in parole, colla vista, col pensiero, ecc.». In casi più solenni, il peccatore presentandosi al cospetto di molti col vangelo sul petto proferiva: — Io sono qui avanti a Dio ed a voi, per confessarmi e chiamarmi in colpa di tutti i peccati che ho sin ora commessi, e ricevere da voi la perdonanza». Era assolto col posargli il vangelo sopra il capo. Se un credente ricadesse, doveva confessarsene, e ricevere di nuovo l’imposizione delle mani in privato. L’imposizione delle mani, o consolamento, o battesimo spirituale, era necessaria per rimettere il peccato mortale, o comunicare lo spirito consolatore; e se uno dei perfetti le imponga a un moribondo, e ripeta l’orazione domenicale, quello va a sicura salvazione. Fu per opporsi [337] al consolamento de’ Patarini che il concilio Lateranense IV ingiunse ai Cattolici di confessarsi almeno una volta l’anno.
Frà Ranerio aggiunge che, data la consolazione al moribondo, gli chiedevano se volesse in cielo andare tra i martiri o tra i confessori: eleggeva i primi? lo facevano strangolare da un sicario a ciò stipendiato; i confessori? più non gli davano bere nè mangiare. Atrocità gratuite, solite apporsi dall’ignoranza o dalla malignità a tutte le congreghe secrete. E per vero non c’è misfatto di cui non siansi tacciati i Patarini; essi ladri, essi usuraj, essi sovrattutto carnali, con connubj promiscui e contro natura; adulterio e incesto in qualsiasi grado; non poter l’uomo peccare dall’umbilico in giù, perchè il peccato origina dal cuore. Ma come credere questa bacchica santificazione del libertinaggio, quando altrove, e ne’ libri de’ loro stessi nemici, troviamo che giudicavano peccato fino il commercio maritale, imponeansi penose astinenze onde reprimere la carne ribelle alla volontà ed opera del principio cattivo, tre quaresime l’anno, perpetua astinenza da carni e latte, replicati digiuni, iterate preghiere? e san Bernardo, implacabile indagatore di loro colpe, dice: — Non v’era cosa in apparenza più cristiana che i loro discorsi, nè più lontana da ogni taccia che i costumi loro»[284].
Non esitiamo a rifiutare per ispurie alcune professioni di fede esibiteci da loro antagonisti, secondo le [338] quali gl’iniziati rinunziavano, non solo a tutte le sane credenze della religione, ma ad ogni costume, pudore, virtù. Ranerio, uno dei Consolati egli medesimo, indi acerrimo loro persecutore, narra come per l’iniziazione, adunati i credenti, il vescovo interrogasse il neofito: — Vuoi tu renderti alla fede nostra?» Questo afferma, s’inginocchia e pronuncia il Benedicite; al che il ministro ripete tre volte — Dio ti benedica», sempre più discostandosi dall’iniziato. Il quale soggiunge: — Pregate Iddio mi faccia buon cristiano». L’interroga poi: — Ti rendi a Dio ed al vangelo? Sì. — Prometti non mangiar carne, ova, formaggio, nè altra cosa se non d’acqua e di legno? (cioè pesci e frutte). Sì. — Non mentirai? non giurerai? non ammazzerai, neppure vitelli? non farai libidini nel tuo corpo? non andrai scompagnato quando puoi avere compagni; non mangerai da solo potendo aver commensali? non ti coricherai senza brache e camicia? non lascerai la fede per timore di fuoco, d’acqua o d’altro supplizio?» Risposto che avesse il neofito a ciascuna domanda, l’universa assemblea mettevasi ginocchione: il sacerdote posava sopra il novizio il volume dei vangeli, e leggeva il principio di quel di san Giovanni, poi lo baciava tre volte: così facevano tutti gli altri, che egualmente si davano l’uno all’altro la pace: indi veniva messo al collo dell’iniziato un fil di lana e di lino, ch’e’ non doveva levarsi giammai.
La colpa, onde più grave e concordemente sono rinfacciati i Patarini, è l’ostinazione. Fra strazj e tormenti, al cospetto di morte obbrobriosa, non che convertirsi, più s’induravano, protestavansi innocenti, spiravano cantando lodi al Signore, colla speranza di presto congiungersi nel suo abbraccio. In Lombardia serbarono memoria d’una fanciulla, di cui la bellezza e l’età mettevano in tutti compassione; talchè, deliberati a salvarla, [339] vollero assistesse mentre padre, madre, fratelli venivano consunti dalle fiamme, così sperando si sarebbe per terrore convertita: ma no; poi ch’ebbe durato alquanto lo spettacolo atroce, si svincola dalle braccia de’ suoi manigoldi, e corre a precipitarsi nelle fiamme, e confonde l’ultimo suo anelito con quello dei parenti[285].
La più grave urgenza di queste eresie era la guerra che portavano alla Chiesa esteriore, scassinando i dogmi inerenti all’unità del sacerdozio, per costituire società religiose speciali. Pur troppo i loro attacchi trovavano appiglio nello scarmigliato vivere del clero, di cui e predicatori e poeti si accordano nell’attestare la depravazione.
Agli errori la Chiesa oppose da principio i rimedj che a lei convengono, riformare i suoi, ammonire o scomunicare i dissenzienti, e vi drizzò lo zelo principalmente dei nuovi frati: poi si valse anche di mezzi mondani e del braccio secolare. Che la società pagana non tollerasse le religioni diverse è attestato, non fosse altro, dalle migliaja di martiri. I padri della Chiesa proclamarono la libertà delle credenze, finchè la loro fu perseguitata; ma come, prevalsa questa, videro gli eretici turbarla, argomentarono che il reprimere gli errori fosse diritto e difesa legittima contro della persecuzione e della seduzione. Se la Chiesa è unica depositaria e interprete della verità, e in essa sola vi è salute, non dovrà con ogni modo opporsi alla propagazione dell’errore? Gl’imperatori di Roma cristiani, memori di quanto univano in sè i due poteri quali capi dello Stato e supremi pontefici, credettero che la legge dovesse, come i beni e la persona, così tutelare le credenze e il culto; e moltiplicarono decreti in tal [340] proposito[286]; diverse pene comminando, di rado la morte, perchè vi si opponevano i vescovi: a questi era affidato il decidere se un’opinione fosse ereticale; la cognizione del fatto e la sentenza spettavano al magistrato secolare.
Così procedette la cosa nel declino dell’Impero Occidentale; così continuò in Oriente: ma fra noi, dopo l’invasione, se accadesse di punire un trasgressore delle leggi ecclesiastiche, i vescovi usavano quell’autorità mista di sacro e di secolare, che vedemmo ad essi attribuita. Talvolta ancora, considerandosi l’eresia come politica disobbedienza, procedeasi colla forza, siccome dicemmo di Eriberto arcivescovo di Milano.
Ridesto il diritto romano, come alla tirannia, così vi si trovò appoggio alle persecuzioni contro i miscredenti, poco ricordando che la legge d’amore aveva abolita quella fiera legalità. Ottone III poneva Gazari e Patarini al bando dell’Impero e a gravi castighi. Federico Barbarossa, tenuto congresso a Verona con papa Lucio III, ordinò ai vescovi d’informarsi delle persone sospette d’eresia, e distinguere gli accusati, i convinti, i pentiti, i ricaduti; quelli convinti d’eresia sieno spogliati dei benefizj se religiosi e abbandonati al braccio secolare; i sospetti si purghino, ma se ricadono, vengano puniti senz’altro. Sgomentato dal vedere i Valdesi distendersi fra le Alpi, Giacomo vescovo di Torino pensò reprimerli anche col braccio secolare; laonde da Ottone IV ottenne ampia facoltà di espellerli dalla sua diocesi[287]. Indi Federico II al tempo della sua coronazione [341] fulminò pene temporali contro gli eretici, e le ripetè da Padova con quattro editti, ove, «usando la spada che Dio gli ha concesso contro i nemici della fede», vuole che i molti eretici ond’è singolarmente infetta la Lombardia, sieno presi dai vescovi e dati alle fiamme ultrici, o privati della lingua[288].
[342]
È questa la prima legge di morte contro i miscredenti: egli stesso poi nelle Costituzioni del regno di Sicilia ne pose un’altra, lamentandosi che dalla Lombardia, ove n’era il semenzajo, i Patarini fossero largamente penetrati in Roma e perfino nella Sicilia[289], e a perseguitarli spedì l’arcivescovo di Reggio e il maresciallo Ricardo di Principato.
[343]
Sull’esempio e coll’autorità dei decreti imperiali, le varie città fecero statuti contro gli eretici: il senatore di Roma giurava non usare indulgenza ai Patarini, o incorrerebbe la pena di ducento marchi d’argento: in Milano fu posto che qualunque persona a sua libera voluntate potesse prendere ciascuno heretico; item che le case dove eran ritrovati si dovessero rovinare, e li beni che in esse si ritrovavano fossero pubblicati[290]. L’arcivescovo Enrico di Settala, allora istituito inquisitore, jugulavit hæreses, come lo loda il suo epitafio; ma i cittadini lo discacciarono. Resta ancora in Milano la statua equestre di Oldrado da Trezzeno podestà, lodato nell’iscrizione perchè Catharos ut debuit uxit[291].
Nè per questo cessavano gli eretici, e da Tolosa, Roma de’ Patarini, spargeano missionarj. L’armi spirituali essendo uscite indarno, Enrico cardinale vescovo di Albano implorò il braccio laico, e menato un esercito ad estirpar l’errore, mandò a ferro e a fuoco la Linguadoca. Innocenzo III, appena unto papa, divisò i modi di svellere quei bronchi dalla vigna di Cristo, e spedì monaci a predicare (1205), esortando i principi a secondarli; e quando Ranerio e Guido inquisitori avessero scomunicato uno, i signori doveano confiscargli i beni e sbandirlo, e far peggio a chi resistesse. Di qui cominciò la crociata contro gli Albigesi, che non è da questo luogo il raccontare, ma dove sotto l’apparenza religiosa dibatteasi la nazionalità, giacchè la Francia, per ottenere quell’unità che tanti desidererebbero a qualsiasi costo anche per l’Italia, volle sottomettere la [344] Provenza e la Linguadoca, che come romane repugnavano dalle ordinanze germaniche, prevalse nel paese settentrionale (1208). La spedizione fu accompagnata da tutti gli orrori delle guerre civili; ma solo gli adulatori del potere secolare poteano versarne ogni colpa sul papa e sulla religione. Oggimai la storia accertò che Innocenzo, mal informato delle iniquità commesse da ambe le parti, non avea mai cessato di predicar pace e moderazione, e dopo la vittoria spedì legato a-latere il cardinale Pietro di Benevento, perchè riconciliasse colla Chiesa gli scomunicati, e riducesse Tolosa a repubblica indipendente, purchè convertita; assolse i capi della insurrezione, e al figlio di Raimondo da Tolosa, condottiero della guerra, prodigò consolazioni, assegnò il contado Venesino, Beaucaire e la Provenza, e ripeteva: — Abbi pazienza fino al nuovo concilio».
Sotto i suoi successori la guerra fu proseguita colla ferocia delle guerre nazionali, finchè la Provenza restò sottoposta affatto al re di Francia. Questo era san Luigi, e al nuovo acquisto volle accomunare i provvedimenti che contro l’eresia vegliavano in Francia, dov’essa, secondo il diritto comune, era considerata delitto contro lo Stato, e punita del fuoco. Romano, cardinale di Sant’Angelo, per ottenerne la estirpazione raccolse un concilio (1213), dove si stabilì che i vescovi nominerebbero in ciascuna parrocchia un sacerdote con due o tre laici, i quali giurassero inquisire gli eretici, e farli noti ai magistrati; chi ne celasse alcuno, fosse punito; e distrutta la casa dove uno fosse côlto. Tal è l’origine del tribunale dell’Inquisizione, specie di corte marziale in paese sovvertito da lunga guerra, e dove rinasceva la mal repressa sollevazione. Invece delle precedenti stragi, e dei tribunali senza diritto di grazia, l’inquisizione era esercitata da ecclesiastici, gente più addottrinata e meno fiera; ammoniva due volte prima di [345] procedere; solo gli ostinati e recidivi arrestava; riceveva al pentimento, e spesso contentavasi di castighi morali; col che salvò moltissimi, che i tribunali secolari avrebbero condannati. Gregorio IX poi la sistemò (1233) col togliere ai vescovi i processi, onde riservarli ai frati Predicatori.
L’Inquisizione avea potestà su tutti i laici, non esclusi i dominanti; ed anche sul basso clero. Arrivato nella città, l’inquisitore ne dava avviso ai magistrati invitandoli a sè; e tosto il capo giurava far eseguire i decreti contro gli eretici, ed ajutare a scoprirli e coglierli; se alcun uffiziale del principe disobbedisse, l’inquisitore poteva sospenderlo e scomunicarlo, e mettere all’interdetto la città. Le denunzie aveano effetto soltanto se il reo non si presentasse di voglia; scorso il termine, era citato; e i testimonj interrogavansi coll’assistenza dell’attuaro e di due ecclesiastici. L’istruzione preparatoria riusciva sfavorevole? gl’inquisitori ordinavano l’arresto dell’accusato, più non protetto da privilegi od asili. Arrestato, nessun più comunicava con esso, faceasi la visita della sua casa, e il sequestro de’ beni.
Secondo il diritto germanico, ogni libero è obbligato intervenire al giudizio e alla sentenza; le prove di Dio traevano il popolo a spettacolo; il signore feudale convocava i vassalli per rendere giustizia; e la natura dei giudici e del giudizio portava semplicità di procedure. Ma ne’ paesi di stirpe romana conosceansi le leggi antiche, di molti affari faceasi carta, il giudizio stesso si scriveva; pure non si pensava ancora di occultare i testimonj al prevenuto, nè di torgli i sussidj che sogliono concedersi in negozj di minore importanza, come sono i civili.
Una costituzione di Celestino III e d’Innocenzo III, riferita nel Diritto canonico[292], distingue le procedure [346] per accusa secondo il codice romano, per denunzia, e per inquisizione; ma in tutte sono pubblicate le testimonianze, ammesse le difese e il dibattimento. Gli eretici dunque, giudicati secondo la legge canonica, benchè mancassero del giudizio dei pari, poteano conoscere i testimonj e l’accusatore, avere un consiglio, e pubblico dibattimento. Solo Bonifazio VIII dispensò gli inquisitori da tante forme qualora ne derivasse pericolo ai testimonj[293]; Innocenzo VI, dichiarando che tal pericolo può presumersi sempre, generalizzò la riserva, e così venne la procedura secreta, per quanto ostassero i leggisti, la nobiltà, gli uomini comuni che si trovavano esposti all’arbitrio. Tolta la discussione pubblica, ai giudici cessò il modo d’acquistare intima convinzione, e a regole aritmetiche fu sottoposta la coscienza, inventando una convinzione legale diversa dalla convinzione morale, frazionando le prove, e portando fino alla odierna illiberalità.
Dalla quale è chiaro quanto fossero lontani i primi tribunali d’inquisizione. Ne’ governi teocratici, come quelli del medioevo, la religione non va distinta dalla politica; laonde l’eresia è giustiziabile dal braccio secolare. Poi gl’inquisiti erano imputati d’altri delitti contro i cardini della società, come sono la famiglia, la proprietà, l’onore, i quali oggi pure si castigherebbero: se ne fossero colpevoli o no, è difficile assicurarlo, come in tutti i processi secreti. Piantato un tribunale, potea sperarsi differente dagli altri del suo tempo? onde si videro rinnovate tutte le sevizie de’ processi di Roma pagana, e il cavillo e la tortura e supplizj esacerbati.
L’Inquisizione desta raccapriccio ai buoni Cristiani per le taccie che attirò sopra la religione nostra, e perchè parve giustificare incolpazioni gravissime. Ma [347] oltre essere, nel fatto e in relazione co’ suoi tempi, assai meno orribile che non si sparnazzi, essa proponevasi almeno un fine morale, a differenza delle istituzioni oggi sostituitele, ove si procede e castiga nell’interesse d’un principe o per mantenere un dominio costituito sulla forza: se restringeva il pensiero, il faceva o credea farlo per salvezza delle anime, non per puro vantaggio d’un potere dominante: nè quegli spaventi tolsero il sorgere di grandi e robusti pensatori.
La Chiesa poi, sebbene non ne abbia mostrato orrore, e siasene valsa come d’una legittima difesa e di una prevenzione contro mali gravissimi, non approvò mai, almeno in concilio, un’istituzione siffatta. Sopratutto vuolsi ben distinguerla dalla Inquisizione spagnuola, fiera e indipendente a guisa d’una vendetta nazionale, giacchè nei Mori perseguitava non solo i nemici della religione, ma gli stranieri conquistatori contro cui erasi menata per otto secoli la guerra. La congregazione del Sant’Uffizio a Roma, composta di sei cardinali, e fondata da Paolo III nel 1542, non versò sangue[294], benchè fosse il tempo che uomini bruciavansi in Francia, in Portogallo, in Inghilterra. Ecco perchè nel secolo xvi vedremo i nostri respingere fin coll’armi l’Inquisizione spagnuola, mentre invocavano la romana.
Stando ai primi tempi, non mancò da fare all’Inquisizione anche fuori di Linguadoca, e in Italia variissime di forma ed estese furono le eresie. Intanto la vicinanza del papa e l’esservi egli anche principe temporale abituava a resistergli; e nei conflitti di Guelfi e Ghibellini si metteva in discussione l’autorità sua, col passaggio [348] che troppo è facile dalla mondana alla spirituale. I Comuni aveano acquistato la libertà strappandola ai vescovi, sicchè era scemata la riverenza a questi, e in molte lettere i pontefici ne movono querela alle nostre repubbliche, le quali anche non di rado violarono e i beni e le persone dei vescovi[295].
Uscente il XII secolo, Orvieto formicolava di Manichei, introdotti dal fiorentino Diotisalvi, e da un Girardo di Marsano; e diceano nulla significare il sacramento dell’eucaristia, il battesimo non occorrere alla salvezza, non giovarsi ai morti con limosine ed orazioni. Espulsi questi dal vescovo, comparvero Melita e Giulita, che uomini e donne sedussero con aspetto di santità, finchè il vescovo col consiglio di canonici, giudici ed altri, ne esigliò ed uccise molti. Un Pier Lombardo vi venne poi da Viterbo, contro del quale Innocenzo III deputò Pietro da Parenzo, nobile romano, che ricevuto fra ulivi e palme, proibì i combattimenti che si costumavano in carnevale e che finivano in sangue; ma poichè gli eretici stimolarono a disobbedire, il primo giorno di quaresima si mischiò fiera zuffa, e Pietro fece abbattere le torri donde i grandi aveano ferito il popolo, e diè buoni provvedimenti. A Pietro tornato il papa domandò: — Come hai bene eseguito gli ordini nostri? — Così bene, che gli eretici mi cercano a morte. — Dunque va, persevera a combatterli, chè non possono uccidere se non il corpo; e se t’ammazzeranno, io t’assolvo d’ogni peccato». E Pietro, fatto testamento e congedatosi dalla desolata famiglia, ritornò[296].
Innocenzo mosse in persona contro i molti Manichei di Viterbo, rimbrottò i cittadini che tra quelli sceglievano [349] i consoli, e ordinò che, qualunque ne fosse trovato sul patrimonio di san Pietro, lo consegnassero al braccio secolare per castigarlo, e i beni dividerne fra il delatore, il Comune e il tribunale giudicante[297]. D’altri abbiam ricordo in Volterra, dove gl’inquisitori, a malgrado del vescovo, atterrarono alcune case di eretici in Montieri[298]. Nel 1193 il vescovo di Worms, legato dell’imperatore Enrico VI, venuto a Prato, fece distruggere case e possessi dei Patarini, con severo divieto di dar loro consiglio od ajuto, o di mettere ostacolo a lui quando li facesse incarcerare[299]. Bandi severissimi contro Catari e Patarini e d’altro nome novatori pubblicò Gregorio IX in qualità di sovrano di Roma, volendo fossero mandati al fuoco, o se si convertivano, a carcere perpetuo; e guaj a chi li raccogliesse o non denunziasse. Molti in fatto furono arsi, molti chiusi a penitenza nei monasteri di Montecassino e della Cava.
Come ricettatore d’eretici fu assalito, per insinuazione d’Innocenzo IV, il conte Egidio di Cortenova nel Bergamasco, e distruttone il castello. Molti ne avea Brescia, così sfacciati, che dalle torri scagliando fiaccole ardenti scomunicavano la Chiesa romana. Contro di loro papa Onorio III inviò il vescovo di Rimini, il quale abbattè più chiese da essi contaminate (1225), e le torri dei Gàmbara, degli Ugoni, degli Oriani, dei Bottazzi. Altri in Piacenza bruciò il podestà Raimondo Zoccola; sessanta a Verona frà Giovanni di Schio in tre giorni subito dopo la pace di Paquara (1233). Nè il Regno ne mancava, ed è probabilmente come una protesta contro le costoro predicazioni che un eremita calabrese andava attorno gridando nel dialetto patrio: Benedittu, laudatu e santificatu [350] lu Patre; benedittu, laudatu e santificatu lu Fillu; benedittu, laudatu e santificatu lu Spiritu Santu[300]. Ivone da Narbona scriveva a Gerardo arcivescovo di Bordeaux, come viaggiando in Italia e’ si finse cataro, lo perchè in tutte le città ebbe lietissime accoglienze; e «a Clemona, città celebratissima del Friuli, bevvi squisiti vini de’ Patarini, robiole, ceratia, ed altri lachezzi»[301]. Costoro vescovo era un tal Pietro Gallo, che, scoperto di fornicazione, fu cacciato di seggio e dalla società.
Contraddisse vivamente all’errore Antonio di Padova (1195-1231), nativo di Lisbona, italiano di dimora, che dai Padovani impetrò remissione ai debitori incolpevoli, e che a nome della religione e dell’umana libertà protestò contro Ezelino, il quale diceva aver più paura de’ frati Minori che di qualsiasi persona al mondo. Singolarmente in Rimini combattè gli eretici colla parola e coi miracoli, giacchè una volta non badandogli gli uomini, furono veduti i pesci venir su per la Marecchia, e collocarsi a bocca aperta ad ascoltarlo; un’altra un giumento, da lungo tempo digiuno, si prostrò davanti all’ostia consacrata, benchè il padrone patarino gli porgesse il truogolo dell’avena. Egli fu da Gregorio IX dichiarato arca dei due Testamenti, armadio delle divine scritture; e dai popoli il taumaturgo, il santo; per ornare il cui tempio parvero a gara risuscitare le arti.
Martello degli eretici fu detto san Tommaso d’Aquino; nè men fervoroso apparve san Bonaventura. In Toscana, una matassa di proseliti avea fatti il vescovo Paternon: Gregorio IX aveva ordinato a frà Giovanni da Salerno (1128) compagno di san Domenico e ad altri di procedere giuridicamente contro costui; e il Paternon [351] abjurò, ma ben tosto ricadde, e la potenza de’ suoi settarj lo assicurava d’impunità, e quando per prudenza mutò paese, gli furono surrogati nel ministerio Torsello, poi Brunetto, infine Jacopo da Montefiascone, che con un Marchisiano e un Farnese erano da prima ministri di esso vescovo.
Il primo inquisitore domenicano stabilito regolarmente a Firenze fu frà Ruggero Calcagni, con autorità d’aver tribunale in convento; cominciò un processo nel 1243, citando gran numero di Patarini, ed oltre le pene pecuniarie e la censura ai contumaci, il papa aveva ingiunto alla Signoria di consegnare i rei in mano degli ecclesiastici. Caporioni degli eretici comparivano Baron del Barone e Pulce di Pulce, appoggiati dalla fazione imperiale, e secondati da Gherardo Cavriani e casa sua, Chiaro di Manetto, conte di Lingraccio, Uguccione di Cavalcante, i Saraceni, i Malpresa, e da molte dame, fra cui Teodora Pulce, un’Aldobrandesca, una Contrelda, un’Ubaldina ed altre, che erano sempre le prime a dare impulso alle collette apertesi a favore dei poveri e de’ predicanti. Teneansi le adunanze in casa de’ baroni, che, come dipendenti dall’Impero, rimanevano esenti dalla giurisdizione comunale: Ruggero però ne fece carcerare alquanti, e avendoli i baroni rimessi in libertà, il papa esortò la Signoria a conservar forza alle leggi, e per appoggio inviò frà Pietro da Verona.
Il costui zelo s’infervorò contro di essi; la piazza di Santa Maria Novella era angusta alla folla accorrente per udirlo, sicchè ad istanza di lui la Signoria dovette farla ampliare; la società de’ Laudesi, da lui istituita, cantava Maria e il Sacramento (1244), quasi a sconto degli oltraggi che questi riceveano dai Patarini. Sistemò pure alquanti nobili per guardia al convento dei Domenicani, ed altri che eseguissero i decreti di questi, donde sorse la sacra milizia dei Capitani di Santa [352] Maria[302]. Crebbero allora processi ed esecuzioni, per quanto i signori le gridassero inumane e illegali, e si appellassero all’Impero: e avendo il podestà Pace da Pesannola bergamasco tolto a difendere i Patarini e protestato contro le sentenze, dagl’inquisitori con solennità fu interdetto (1255); ne nasce parte e tumulto, le chiese sono manomesse, di macello contaminati il Trebbio, la Croce, piazza Santa Felicita, finchè i Cattolici riescono superiori.
Segnalato per tanto zelo, Pietro viene a farne prova sui Cremonesi e Milanesi, i quali, esacerbati dalle battaglie mal riuscite contro Federico II, bestemmiavano il cielo, insultavano ai riti, e sospendeano capovolti i crocifissi. Cominciò egli la persecuzione; ma Stefano de’ Gonfalonieri di Agliate e Manfredi da Olirone congiurarono, e lo fecero uccidere mentre passava da Milano a Como. Egli trafitto intrise il dito nel proprio sangue, scrisse per terra Credo, e spirò (1252). D’egual moneta aveano i Patarini pagato frà Rolando da Cremona sulla piazza di Piacenza mentre predicava: Pietro d’Arcagnago, frate Minore, fu scannato in Milano presso Brera per opera di Manfredo da Sesto caporione dei Patarini lombardi con Roberto Patta da Giussano; frà Pagano da Lecco, trucidato co’ compagni mentre andava a stabilire l’Inquisizione in Valtellina; ed altri. Nel 1279, avendo gl’inquisitori condannata al fuoco una Tedesca in Parma, i cittadini insorsero, saccheggiando [353] il convento de’ Domenicani, alcuni anche ferendone, talchè i frati a croce alzata partirono. Ma il podestà e gli anziani e i canonici li seguirono e gl’indussero a tornare, promettendo rifarli dei danni e punire gli offensori[303].
A Pietro da Verona, subito venerato col nome di san Pietro Martire, successe frà Ranerio Saccone suddetto, che spianò la Gatta ritrovo degli eretici (1259), e fece bruciare i cadaveri di due loro vescovi, Desiderio e Nazario, tenuti in venerazione; nè si rallentò finchè Martin Torriano nol fe cacciare.
Nè per tanto Milano restò purgata, e vi levò rumore una Guglielmina, diceano oriunda di Boemia e di gente reale, e che spacciava essere lo Spirito Santo incarnato; da Raffaele arcangelo annunziata a sua madre il dì della Pentecoste, come mandata a redimere i Giudei, i Saracini e i cattivi Cristiani; dover morire, poscia risorgere, ed elevare al cielo l’umanità femminile. Quanto visse, il popolo la venerò; morta, fu tumulata splendidamente a Chiaravalle, casa de’ Cistercensi presso Milano, e tenuta in conto di santa: ma poi l’Inquisizione cominciò ad esaminare i miracoli spacciati, e il vulgo colla solita versatilità suppose che le adunanze de’ suoi proseliti fossero convegni di nefandi peccati; onde le ossa di lei furono gettate alle fiamme coi primarj suoi seguaci.
Anche alcuni frati Minori, lasciata la loro religione, viveano solitarj, affettando estremo rigore, ed erano chiamati Fraticelli, Bizocchi, Beghini, principalmente negli Abruzzi e nella marca d’Ancona, ed ebbero a maestri un frà Pietro da Macerata e frà Pietro da Forosempronio. Scoperti di errori, vennero condannati e perseguitati (vedi Cap. CXVII).
[354]
Gerardo Segarella, frate Minore di Parma, dedito alla contemplazione, e fissando un quadro ov’erano rappresentati gli Apostoli avvolti in mantelli cogli zoccoli e la barba, credette doverli imitare in quel vestito, e fin nel circoncidersi e farsi fasciare e adagiare in cuna al modo del celeste bambino. Formò seguaci che si dissero Apostolici; vendette quanto possedeva, e dalla ringhiera di Parma gittò il denaro a una ciurmaglia che giocava; ed iva predicando, da chi creduto santo, da chi sentina di vizj. Opisone vescovo il fe cogliere (1280) e metter prigione; ma egli si finse pazzo, onde tenuto cortesemente in vescovado, divenne ludibrio del servidorame; poi sbandito, e di nuovo al fine richiamato, convinto di vizj, fu bruciato il 18 luglio 1300.
Frà Dolcino e Margherita sua donna predicavano attorno a Novara, togliendo ogni restrizione fra i sessi, e permettendo lo spergiuro in cose d’inquisizione; traevansi dietro migliaja di proseliti, sinchè, per ordine di Clemente V, furono cerchiati ed uccisi[304].
L’Inquisizione fu ammessa in Venezia il 1286, composta di tre giudici, che erano il vescovo, un Domenicano, e il nunzio apostolico, sotto la sorveglianza dei magistrati ordinarj; nè poteano sedere in tribunale senza commissione sottoscritta dal doge. Procedere doveano puramente contro l’eresia; non contro Turchi ed Ebrei che non erano eretici; non contro Greci, perchè la loro controversia coi papi non era per anco stata risolta; non contro i bigami, perchè il secondo matrimonio essendo nullo, aveano violato le leggi civili, non il sacramento; gli usuraj pure non intaccavano [355] alcun dogma; i bestemmiatori mancavano di riverenza alla religione, ma non la negavano; neppure stregoni e fatucchiere doveano essere passibili a quel tribunale, se non si provasse che avessero abusato de’ sacramenti.
Agli erranti la Chiesa contrastava anche col crescere devozione alle cose che da quelli erano conculcate. La compagnia dei Laudesi dalla Toscana erasi propagata nella Lombardia. Giovanni da Schio, il famoso paciere, instituì il pio saluto del Sia lodato Gesù Cristo. La venerazione verso il Sacramento fu cresciuta da miracoli che allora si narrarono: Urbano IV estese a tutta la Chiesa la festa del Corpus Domini, e Tommaso d’Aquino ne compose la bella uffiziatura. A Maria poi si tributò l’entusiasmo col quale i cavalieri veneravano le dame loro; e il dogma dell’immacolata sua concezione fu sostenuto fervorosamente dai Francescani; ad onore di lei si formò un salterio sulla forma del davidico; di lei parlarono Pier Damiani, Bernardo, Bonaventura, con un ardore che rimembra quel dello sposo de’ Cantici; e fu una gara di circondarla colla poesia del perdono e con fiori di tenerezza. L’ave Maria si rese generale verso il 1240. San Domenico introdusse il rosario; divozione che fu poi connessa alla ricordanza della vittoria di Lèpanto (1573), quella in cui fu decisa la superiorità de’ Cristiani sopra i Turchi, nell’ora appunto che in tutto l’orbe cattolico recitavasi quella semplice formola di saluto, di congratulazione, di condoglianza, di preghiera.
Maria ispira le opere d’arte d’allora: il suo scapolare, propagato dai monaci del Carmelo, orna il petto di tutti, come una divisa di combattenti contro le passioni: ai tre ordini del Carmelo, dei Serviti, della Mercede sotto gli auspizj di lei, quello s’aggiunge dei Gaudenti, da Linguadoca passati in Italia (1208), ove singolarmente si resero memorabili. Continuavano essi a vivere nel [356] mondo e nel matrimonio, «solo imposto odiare e fuggire il vizio, desiare e seguir la virtù, ed alcuna soave soavissima regola, data in segno di onestà, in remissione d’ogni peccato, ed in premio d’eterna vita» (Frà Guittone).
Questi conflitti della ragione contro l’autorità, questo esame delle credenze, quest’indipendenza del pensiero attestano che non fosse così servile la fede, così intera l’ignoranza, come cianciano alcuni.
Hanno intitolato il decimo secolo di tenebre e di ferro, giacchè, cessato l’impulso dato da Carlo Magno, alle grandi sventure soccombeva ogni tentativo di pacifiche ricerche. Eppure un chierico di Novara interrogava per lettera i monaci di Reichenau, se tenessero per Aristotele il quale non crede agli universali, o per Platone che gli ammette; ed essi rispondeano, entrambi godere tale autorità, che non si osa l’uno all’altro preferire[305]. Dunque conoscevansi i grandi pensatori, si studiava, si dubitava, si chiedeva, s’intrecciavano su ciò corrispondenze lontane, si agitavano le quistioni supreme, e fra gente incatenata alle regole durava l’indipendenza del pensiero, esercitata nei modi del tempo. Chi sia imbevuto de’ pregiudizj filosofistici dee restare attonito allorchè di buona fede osservi come, nella neghittosa ignoranza de’ chiostri, il bisogno del pensare [357] agitasse que’ monaci vilipesi; come senza scrupolo e senza apprensioni usando della propria ragione, affrontassero i problemi cardinali dell’intelligenza.
Le scienze, giusta la divisione di Marciano Capella, erano distribuite in sette, formanti un trivio e un quadrivio: al primo appartenevano la grammatica, la retorica, la dialettica; al secondo l’aritmetica, la geometria, l’astronomia, la musica[306].
Ma come la religione era base della società, così scienza capitale la teologia; nè quasi altri che il clero avea tempo e mezzi di volgere l’attività dagl’interessi del secolo a quelli della dottrina e della verità. I primi Padri del cristianesimo aveano fondata la loro scienza sulla Bibbia, spiegandola e commentandola giusta il sentimento loro particolare e quel della Chiesa. I successivi arrestarono lo studio su quelli, facendone estratti e catene per proprio comodo, onde all’uopo fiancheggiarsi delle loro asserzioni: e come la giurisprudenza romana sopra certi assiomi, così la teologia posava sull’autorità, limitandosi ad applicarla con argomentazione sottile, affar di logica e nulla più, trascurando l’indagine dei fatti e il sentimento della realtà.
Boezio, usando la filosofia greca e pagana per raffinare la scienza cristiana, nell’Organon svolse il raziocinio senza intaccare la fede, e divenuto autore universale, [358] abituò gl’intelletti a una rigorosa coerenza di discutere, dimostrare, difendere, impugnare per via di regole prefinite; quella dialettica insomma, che prima l’italiano Zenone d’Elea aveva insegnata, e che fu delle primarie coadjutrici della scienza greca, ma che, se si restringa a pure forme e categorie, impaccia la ragione, mentre intende soccorrerla. Tale divenne nelle scuole, onde prese il nome di scolastica, troppo a torto derisa.
Questa geometria della ragione mette innanzi precisamente il suo teorema, da principj inconcussi deduce con raziocinio serrato, senza abbellimenti nè svaghi, valendosi solo di parole chiaramente definite, eliminando le idee vaghe e i termini equivoci, e procedendo sempre dal noto all’ignoto. Que’ principj generali indubitabili non potea darli che la rivelazione. Si esercitavano sulle due nozioni fondamentali del Creatore e della creatura, per trovarne e chiarirne la relazione ch’è la fonte d’ogni morale, e conciliare la fede rivelata colla ragion pura e coi fenomeni della vita esterna; limitavansi insomma a difendere e chiarire dogmi parziali, a vedere in che modo accettar la rivelazione e conoscere il sentimento comune, rinunziando alla disputa non appena la Chiesa avesse sentenziato.
Nulla più facile che l’abusare della logica. Il minuzioso speculare disgiunto dall’applicazione, dalla sperienza, dalla erudizione, da ogni bellezza, le frivole distinzioni, il sillogizzare non tanto per raggiungere la verità, quanto per uniformarsi a certe regole o per avviluppare gli avversarj, il puntigliarsi fin sulla distinzione di sillabe, congiunzioni, preposizioni, e innestare alla dialettica quanto di vano comprendevano la grammatica e la geometria affine di dimostrare ogni cosa, perfino i contrarj, furono gli abusi della Scolastica, che mettendo la disputa per iscopo non per mezzo, e confondendo [359] il metodo colla sostanza, faceva invanire e delirare nella presunta onnipotenza della logica.
Suo oracolo era Aristotele, per verità maestro eccellente, perchè in esso trovasi anche la critica degli altrui sistemi e il modo di confutarli, mentre Platone non dà che il proprio dogma. Ma lo Stagirita che erige in principio supremo la natura, come poteva essere l’oracolo d’una scienza tutta religiosa? Poi esso giungeva in Europa nelle versioni e commenti de’ Musulmani e degli Ebrei, che gli aveano prestato assurdi sentimenti e sofisterie. I nostri, nel tradurre quelle traduzioni, nuovi errori vi sovraposero; nè la critica e la filologia sapevano riconoscervi l’alterazione, mentre l’idolatria professatagli impediva di crederlo in fallo. Anzichè duce, ne venne un ingombro d’errori, fatica erculea a quelli che voleano conciliarli colla teologia dogmatica. Più tardi Federico II ne procurò una versione sopra il testo greco, e la fece deporre nell’università di Bologna; Manfredi suo figlio la spedì a Parigi: ma nulla ce ne rimane per poter dire quanto avviasse alla retta intelligenza di quello che per antonomasia chiamavasi l’Autore.
Quest’esclusiva predilezione incagliava lo sviluppo cattolico delle scienze, e le logiche speculazioni sviavano dalle ricerche storiche, baloccandosi attorno a frivole quistioni. Cosa faceva e dove stava Iddio prima di creare? se nulla avesse creato, qual sarebbe la sua prescienza? potè egli fare le cose in altro modo da quel che le fece? v’ha tempo in cui egli conosca più cose che in un altro? può fare che ciò che è non sia, e per esempio, che una meretrice sia vergine? Iddio, incarnandosi, si unì all’individuo od alla specie? il corpo di Cristo alla destra del Padre sta seduto o in piedi? e le vesti con cui comparve agli apostoli dopo risorto, erano reali od apparenti? e le assunse con sè [360] in cielo? e ve le tiene ancora? e nell’eucaristia sta nudo o vestito? che divengono le specie eucaristiche dopo mangiate? in qual maniera s’operò l’incarnazione nel seno di Maria? san Paolo fu rapito al terzo cielo nel corpo o senza? il pontefice potrebbe cassare i decreti degli apostoli, e formare un articolo di fede? o abolire il purgatorio? è semplice mortale, o una specie di divinità? e tutta la Bibbia diveniva un’arena di disputazioni, secondo che gli uni vi rintracciavano il senso letterale, altri l’allegorico, altri il mistico. Censurare, come si fa, la scienza per gli abusi che ne derivarono, è ingiusto come di chi condannasse la letteratura odierna a cagione de’ giornalisti; e tanto più che quelle formole e quello spineto non erano frutto della barbarie, ma già si trovano ne’ dialettici antichi, anzi in Aristotele stesso.
La Chiesa non soffogava quell’attività, ma stava in occhi a tutelare i dogmi, e ben presto fu chiaro che con questi tutelava la verità e la ragione. Accortasi degli errori che rampollavano sopra la dottrina aristotelica, talora ne proibì l’insegnamentò: onde altri si diedero a sceverare due ordini di verità, la filosofica e la religiosa: e lasciando arbitri di questa i santi Padri, discutevano secondo Aristotele i fenomeni dell’intelletto, l’origine e il valore delle idee, i fondamenti della conoscenza, in somma la metafisica.
Altri hanno faticosamente tratteggiato i procedimenti del pensiero in que’ secoli mal conosciuti; e noi, limitandoci alle glorie italiane, ricorderemo gl’insigni Lanfranco di Pavia e Anselmo d’Aosta, che in Inghilterra rappresentarono il principio spirituale a fronte del potere politico. Il primo, nato da famiglia senatoria (1005-89), educato nelle scuole di arti liberali e di legislazione secondo il patrio costume[307], andò frate, e non sentendosi [361] vigore bastante pei lavori campestri a cui si dedicavano i monaci, già godendo grido di dialettico e giureconsulto nella patria scuola de’ giudici longobardi, recossi in Normandia. Aggresso da masnadieri e lasciato avvinto a un albero tutta la notte, aspettando la morte volle pregare, e trovò che neppur una preghiera sapeva a memoria. Vergognoso, stabilì darsi tutto a Dio, e liberato da alcuni passeggeri, si fe da loro indicare il convento più umile e povero. Gli nominarono Bec, ed egli vi si rese, subì un severo noviziato, tacendo per tre anni, e quando leggeva in refettorio, il priore lo rimproverava di proferir male il latino: una volta lo corresse dell’aver fatta lunga la seconda di docere, e il valente dottore si rassegnò a proferirla breve, stimando un errore di prosodia minor male che una insubordinazione.
In questa docilità imparò a comandare, e presto fu assunto arcivescovo di Cantorberì, a consigliere e ministro di Guglielmo conquistatore dell’Inghilterra; e sostenendo l’interesse cattolico in quell’isola dopo soggiogata dai Normanni, favorì a questi perchè credea giovassero a quello. Negl’impacci di chi è a parte dell’autorità e sembra farsene strumento, quante volte ribramò e chiese la solitudine del suo chiostro, ove ad assicurar la pace della coscienza basta una cosa, obbedire! Ma il terribile conquistatore spesso correggeva o frenava; udendo un cortigiano paragonare la reggia alla maestà del cielo, come avrebbe potuto fare un poeta napoleonico, esortò a farlo vergheggiare perchè più non osasse bestemmie tali: se accondiscese a Guglielmo, seppe evitare il conflitto che prevedeva imminente col potere ecclesiastico.
I tanti affari non lo distolsero dagli studj, e risuscitando [362] l’arte critica, confrontò, corresse i testi che Berengario avea falsati per negare la presenza reale nell’eucaristia: sviluppandosi dalle fasce scolastiche, spaziò in modo oratorio; e riprovando la sottigliezza dei tropi e dei sillogismi e l’inane dialettica d’Aristotele, chiama sapiente chi conosce e glorifica Dio, e pienezza della dottrina l’intenderne il mistero e la sapienza.
Discepolo suo, e successore nel priorato di Bec, poi nell’arcivescovado, Anselmo d’Aosta (1033-1109), con fermezza calma e dolce, non affrontando la persecuzione, ma non isviando punto dal sentiero per evitarla, intelletto elevato e cuor puro, carattere amabile che traeva grandezze dalla fede profonda e dall’amor di Dio, per sagacia e pietà fu qualificato un secondo Agostino, e sulle traccie di questo diede dimostrazioni ancor venerate sopra l’essenza divina, la trinità, l’incarnazione, la creazione, l’accordo del libero arbitrio colla Grazia. I suoi monaci l’aveano pregato a valersi di forme agevoli, e d’argomenti adatti alla comune capacità, e provare per via di raziocinj rigorosi e necessarj[308]: e in fatto nel Monologium s’industria a spiegare la scienza delle cose soprannaturali per via di razionali principj, cercando l’alleanza della fede colla ragione, proteggendo la religion naturale e la rivelata da tutte le objezioni mediante un argomentar sottile; estendendosi anche alla metafisica e alla fisica, che speculano l’una sulla parola rivelata, l’altra sulla natura manifestata dai sensi; e digredendo su altre materie non immediatamente connesse col dogma. Al supremo problema dell’intelletto cercò egli spiegazione nell’idea universale, la quale non potrebbe sussistere come percezione dello spirito senza la realità dell’oggetto; eccedette fosse quella della perfezione infinita di Dio, il quale nell’ordine logico sta a capo di [363] tutte le idee, come di tutti gli esseri nell’ordine reale.
Lo stolto che dice Non v’è Dio, concepisce un essere a tutti superiore, sebbene affermi che non esiste. Affermazione assurda, atteso che quest’ente resterebbe inferiore a un altro che a tutte le perfezioni congiungesse l’esistenza. Sono gli argomenti stessi che furono svolti poi da Cartesio; ed un monaco dell’XI secolo trovava e precisamente esponeva la sola prova compiuta e soddisfacente dell’esistenza di Dio, cioè elevava la coscienza fino alla nozione dell’essere, ed edificava una teologia dottrinale sovra un concetto della ragione. Mettendo in scena un ignorante che cerca la verità colla scorta dell’intelletto puro, vuol mostrare che la ragione non riprova ma comprova le verità rivelate; e protestando insieme che la fede non cerca comprendere ma credere, chiaramente determina i confini della filosofia e della teologia.
Ricondurre le quistioni scolastiche al punto ove i padri le aveano lasciate fu l’assunto di Pier Lombardo (1100-1164), fanciullo novarese, mantenuto per carità agli studj, poi vescovo di Parigi. Nei quattro libri Sententiarum raccolse in un ordine alquanto arbitrario le proposizioni dei santi Padri intorno ai dogmi, sicchè non rimanesse che d’applicarle nelle varie quistioni. Ma poichè delle difficoltà esposte non porgeva la soluzione, apriva campo a troppe dispute dialettiche ed a sottigliezze, per quanto egli richiamasse continuo verso gli studj positivi e i monumenti della prisca filosofia cristiana. Inoltre dava in argomenti speculativi: — Iddio padre, generando suo figlio, generò se medesimo o un altro Dio? generò di necessità o per elezione? egli stesso è Dio spontaneamente o necessariamente? Gesù Cristo potea nascere d’una specie d’uomini differente dalla stirpe d’Adamo? potea prendere il sesso femminile?» accettava autorità apocrife; e quando la logica gli paresse [364] condurre a conclusioni diverse dalla fede, diceva: — Su questo punto amo meglio udire altri, che non parlare io stesso». Pure il maestro delle sentenze, com’egli fu titolato, rimase il testo delle scuole, ebbe replicate edizioni ne’ primi tempi della stampa; Racine, nel ristretto di storia ecclesiastica, gli dà ducenventiquattro commentatori, che, a detta del conte di San Raffaele, si potrebbero facilmente raddoppiare; e fin a mezzo il secolo passato l’università di Parigi celebrava l’anniversario di lui con esequie assistite da tutti i baccellieri licenziati.
D’altra levatura e originalità fu Tommaso dei conti d’Aquino (1227-74), castello di cui vedonsi gli avanzi presso Montecassino. Pronipote di Federico Barbarossa, cugino di Enrico VI e di Federico II, discendente per madre dai principi normanni, abbandonò le delizie e le speranze della condizione sua per vestirsi domenicano, malgrado de’ parenti. Gracile di salute, taciturno, assorto nelle meditazioni, i condiscepoli canzonando quel suo fare semplice, gli occhi incantati, la bocca chiusa, lo chiamavano il bue muto di Sicilia. Ma ben presto mostrò intelletto filosofico s’alcun mai, erudizione estesissima, passione de’ grandi risultamenti; e a quarantun anno si propose coi materiali sparsi della scienza coordinare la prima volta in sistema compiuto la teologia e la filosofia. I conflitti che da dodici secoli la Chiesa sosteneva intorno ai fondamentali articoli della fede, e quanto aveano insegnato, approvato, riprovato i Padri, i dottori, i papi, i concilj, compendiò in un volume. La scienza e l’erudizione tutta che al suo tempo avessero Cristiani od Arabi, svolse sotto la forma del sillogismo, in maestosa sintesi tendendo a riprodurre l’ordine assoluto delle cose, Dio uno, la Trinità, la creazione, le leggi del mondo, l’uomo, la Grazia; e opporre la verità agli errori moltiformi che venivanle opposti dal Corano, [365] dal Talmud, dal manicheismo. Ch’egli si occupasse di scienze al tempo suo non esistenti, o usasse una lingua che l’età sua non gli dava, nessuno lo pretenderà; mentre eccitano meraviglia la chiarezza, la brevità nervosa, la schietta indagine della verità, che con bella e profonda definizione egli fa consistere in un’equazione tra l’asserto e il suo oggetto[309].
All’ispirazione ed elevazione dei primi Padri non arriva egli, ma porge formole dotte e profonde distinzioni, il suo metodo consistendo nell’appoggiare col sillogismo una maggiore assiomatica, data da quelli. Pertanto posa un teorema, poi sillogizza tutte le opposizioni filosofiche (videtur quod non), mettendo l’objezione condensata, multipla, in tutta la sua forza, per modo che poterono da lui attingere eresie e difficoltà quanti ebbero la mala fede di sopprimere le risposte. Non si ferma a confutarla, ma in contraddizione (sed contra) adduce alcuni passi di Aristotele, della Bibbia, dei Padri, principalmente di sant’Agostino, e prova conciso e preciso, facendo brillar la vera luce accanto alla falsa, sicuro che ne risulterà la certezza. Allora ripiegandosi sopra l’objezione, la distrugge invincibilmente (conclusio) collocando la sua risposta in termini concisi, enucleandoli poi dialetticamente, e non di rado con poche parole d’inarrivabile precisione recidendo avviluppatissimi problemi; e adoprandovi un mirabile buon senso ognora calmo, imparziale, lontano da sistematiche esclusioni, disposto ad accettar tutto il vero, approvare tutto il buono.
Quanto al fondo, sostiene che la scienza deriva da Dio e a Dio si riferisce, atteso che il filosofo, sempre in traccia del primo ente e della cagion delle cose, e [366] proponendosi il perfezionamento dell’uomo, è costretto elevarsi alla causa ed alla ragion prima. E siccome nella società umana dirige colui che maggiore intelletto possiede, così nelle dottrine quella che si occupa delle cose più intelligenti, cioè la metafisica, scienza dell’essere in generale e delle sue proprietà, che considera le cause prime nella loro purezza e comprensibilità maggiore.
Scienza di Dio, dell’uomo, della natura, la teologia risale a Dio per contemplarlo, e col raggio che ne attinge discende la scala del creato illuminando le sfere inferiori. Fra i corpi puramente materiali e il mondo delle pure intelligenze, riflesso della vita e delle perfezioni di Dio, sta l’umanità, partecipe degli uni e degli altri: tre mondi connessi da legami infiniti, donde risultano l’ordine naturale e il soprannaturale, e in seno all’opera di Dio nasce l’opera dell’uomo, mediante la libertà creata. Di qui la mistura di bene e di male, di verità e di errore, che costituisce la storia umana. Delle creature alcune sono assolutamente immateriali, altre materiali, altre miste; e nel formarle Iddio si propose il bene, cioè di assimilarle a sè. Del qual bene partecipano anche i corpi, in quanto possiedono l’essere e sono l’effetto della bontà divina; e concorrono alla perfezione dell’universo, che deve contenere una gradazione di esseri, gli uni subordinati agli altri secondo che più o meno perfetti. Chi li consideri uno ad uno, non ne vede che l’inanità: ben altrimenti chi li guardi come istromenti degli spiriti; avvegnachè tutto ciò che si riferisce all’ordine spirituale appar più grande quanto più viene conosciuto.
Culmine della creazione è l’uomo, il cui spirito vive di triplice vita, la sensiva, la vegetativa e la razionale, la quale ancora si divide in intelligente e volitiva. A quest’ultima san Tommaso assegna regole rettissime, [367] giacchè fondate sugl’insegnamenti della Chiesa: ma poichè il nostro lavoro verte tanto sulla scienza degli Stati, noi lasceremo il resto per arrestarci alquanto sul diritto e la politica di lui, che insomma sono quelli professati dal clero, quand’anche non applicati.
Fonda Tommaso la sua teoria del diritto sopra la legge. Questa è quadrupla: l’eterna, legge del governo divino generale del mondo; la naturale, partecipazione della legge eterna, valevole per tutti gli enti finiti razionali; l’umana, riferibile alle condizioni particolari degli uomini; la divina, che consiste nell’ordine di salute da Dio stabilito nella sua speciale provvidenza per gli uomini. Il diritto nello Stato è naturale, fondato nella natura invariabile dell’uomo, o positivo, stabilito per convenzione o promessa: e concerne solo la legalità degli atti esterni, mentre la giustizia interiore impone di fare il giusto per amor di Dio.
La legge è una misura imposta ai nostri atti, un motivo che ci spinge o distoglie dal fare, una dipendenza della ragione: ed ha per iscopo il ben essere comune. Dovendo il fine essere adempito da chi vi ha interesse immediato, le leggi saranno opera di tutto il popolo, o di chi del bene di esso è incaricato; e però la legge può definirsi «un ordine ragionevole a comune vantaggio, promulgato da chi ha cura del pubblico interesse». Diretta a mantenere la pace e propagare la virtù fra gli uomini, deve conformarsi alla giustizia pel fine che si propone, per l’autore da cui deriva, per le forme che osserva, cioè mirare al bene dei più, non trascendere l’autorità del legislatore, ed equamente distribuire i pesi che ciascuno dee portare pel comune vantaggio. È ingiusta ove s’opponga al bene relativo dell’uomo, o al bene assoluto che è Dio: e in tal caso non è legge ma violenza, nè obbliga al fôro interno, se non fosse per gli scandali che produrrebbe la trasgressione. [368] E per natura e per ragione si deve a gradi procedere dal meno al più perfetto; onde i cangiamenti nella legislazione sono giustificati dalla mobilità della ragione, dalla mutabilità delle circostanze. Popolo pacifico, grave, oculato ai proprj vantaggi, ha diritto di scegliere i suoi magistrati; lo perde se corrotto.
Vuolsi che durino la città e la nazione? tutti abbiano parte al governo generale, acciocchè tutti sieno interessati a mantenere la pace pubblica; nella forma politica le autorità si bilancino. La più destra combinazione sarebbe un principe virtuoso, che sotto di sè ordinasse un certo numero di grandi cariche per governare secondo l’equità, cernendoli da ogni classe e sottoponendoli ai suffragi della moltitudine, col che associerebbe al governo l’intera società. Il principe deve al suddito la fedeltà stessa che ne esige: se avvilisce Dio ne’ poveri, imita i soldati che percotevano Cristo colla canna messagli in mano: se grava le imposte, pecca d’infedeltà agli uomini, d’ingratitudine a Dio, di sprezzo agli angeli custodi, sopra i quali ricadono le offese recate ai loro custoditi.
Colpa mortale sarebbe la ribellione contro alla giustizia e all’utilità comune, non il resistere e combattere pel pubblico bene. Principe che si propone il personale soddisfacimento anzichè la comune felicità, cessa d’essere legittimo, e l’abbatterlo non è più sedizione, se pur non si operi con disordine tale da cagionare mali maggiori della tirannia stessa. Il tiranno si tiene fra certi limiti? convien tollerarlo per cansare pericolo di peggio; eccede? può essere giudicato e anche deposto da un potere regolarmente costituito: attentare contro la sua persona per fanatismo e vendetta non è mai lecito.
Su questi larghi principj posavasi il liberalismo, che la Scuola talora spinse fin al di là; donde la taccia che [369] il secolo nostro, ipocrito in parole come sguajato in fatti, le dà di avere giustificato il regicidio. Al moderno diritto delle genti pose Tommaso le fondamenta, che lo distinguono dal micidiale degli antichi: e certi missionari d’un nuovo cristianesimo, che credono nati jeri i concetti della libertà e dell’eguaglianza, stupirebbero leggendo quel che Tommaso pensava della nobiltà[310].
Ma come la pensava egli sul propagare la fede per mezzo della forza? Degli Infedeli alcuni non abbracciarono mai la fede, come Pagani ed Ebrei; altri ne disertarono, come gli eretici e gli apostati. Questi sono mentitori d’una promessa, e ne sono puniti: gli altri non devono per verun modo essere forzati alla fede, ma solo a non manometterla con bestemmie, con prediche, con violenze. I fedeli muovono spesso guerra agl’infedeli, non già per costringerli a credere, ed anche dopo la vittoria se ne lascia libertà al prigioniero, ma perchè non impediscano ai credenti il convertirsi o il perseverare[311].
Sì grand’uomo, eppure umilissimo, ricusò nell’Ordine ogn’altra dignità fuor quella di definitore: e nella [370] contemplazione talmente restava assorto, che navigando non s’accorse d’una fiera burrasca; tenendo una candela non sentì da quella bruciarsi il pugno; sedendo al banchetto col re di Francia, repente battè sulla tavola esclamando: — Ecco un argomento invincibile contro i Manichei». La leggenda dice che, avanti morire, stava davanti a un Crocifisso, e questo piegossi, e dissegli: — Tommaso, bene hai scritto di me: qual ricompensa domandi? — Niun’altra cosa che voi stesso», egli rispose. Quando poco dopo si trattò di canonizzarlo, gli oppositori notavano ch’e’ non aveva operato miracoli; ma papa Giovanni XXII esclamò: — Ne fece tanti, quanti articoli scrisse»; e soggiungeva: — Tommaso rischiarò la Chiesa più che tutti insieme i dottori, e maggior profitto si trae dallo studiare un anno agli scritti suoi che dal leggere tutta la vita que’ degli altri».
Diversa eppur non avversa alla scolastica argomentatrice, la scuola mistica cercava non esercizio allo spirito ma nutrimento all’affetto; tutto riconduceva al sentimento ed alla contemplazione, assegnando i gradi onde con questa elevarsi al primo vero; in luogo dell’arida dialettica adoperava linguaggio immaginoso, simbolicamente interpretando la natura appoggiandosi sulla misteriosa attrazione verso il bene assoluto e l’infinito, e sulla dilezione estatica, fondo della nostra sensibilità.
Giovanni Fidanza da Bagnarea (1221-74) fu salvato da una malattia infantile per intercessione di san Francesco, il quale disse a sua madre: — È una buona ventura»; onde vestitosi francescano, fu noto col nome fratesco di [371] Bonaventura. Dotto di tutta la scienza d’allora, sommesso insieme e indipendente, cautamente valutando le forze relative della credenza e dell’intelletto, tentò conciliare Aristotelici, Platonici, Arabi; cioè il raziocinio e l’intuizione, il misticismo e la didattica dirigere in armonia, non ad arguzie curiose, ma a supreme quistioni. Non che negare ogni certezza ai sensi, tende a rintegrare l’infallibilità della ragione, facendo che Dio abbia poste le premesse nell’intelletto, e conformatolo in guisa che sia costretto assentire al vero, non come ad una percezione nuova, ma quasi riconosca cose innate in sè. Osò anche tentare un albero enciclopedico dell’umano sapere, men lodato, non men lodevole di altri posteriori[312], e che mostra come sapessero d’alto luogo riguardare la scienza questi Scolastici cui si dà taccia di angusti e meschini.
Bonaventura fu noverato fra’ più insigni del tempo: quando san Tommaso suo amico gli domandava da quai libri traesse tanta scienza, gli mostrò il crocifisso; e tutte pietà sono la sua Vita di san Francesco, lo [372] Specchio della Vergine, l’Itinerario dell’anima al cielo. A forza di preghiere si fece esonerare dall’andare arcivescovo di York; e stava lavando le scodelle quando gli fu annunziato che era fatto cardinale. Alle sue esequie assistettero Gregorio X, il re d’Aragona, cinquanta vescovi, sessanta abati, più di mille preti; ottant’anni dopo morto fu canonizzato, e iscritto col titolo di serafico[313] fra i dottori della Chiesa, dopo Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio Magno e l’Aquinate.
Anche la scuola contemplativa ebbe i suoi deliramenti, e Giovanni di Parma pubblicò un Introduttorio all’evangelo eterno, ove annunziava che, siccome il Testamento antico avea dato luogo al nuovo, così questo non bastava più alla perfezione, e un altro ne verrebbe tutto d’intelligenza e di spirito. Altri caddero nel panteismo e nella negazione del proprio essere, ed applicati alle scienze s’abbujarono nell’astrologia e nell’alchimia.
Del diritto romano mai non erasi perduta affatto la memoria; ma quella legislazione è troppo complicata e dotta per gente incolta, troppo difficile ad armonizzare col sistema barbaro. Si dovette dunque applicarsi ad agevolare l’uso quotidiano del gius longobardo, e ridurlo a sistema per via d’un testo intelligibile, di dichiarazioni, di formole di processo. A ciò diede principale opera la scuola di Pavia, che volta solo alla letteratura nei tempi de’ Carolingi, da quelli di Ottone I vi unì la giurisprudenza, e compilò il Liber [373] legum Longobardorum. I maestri di quella erano anche giudici, e accoppiando la teoria alla pratica, e conoscendo il diritto romano, composero una glossa che fu equiparata al testo legale. Ebbero nome tra essi Sigefredo, Guglielmo, Bajlardo, Buonfiglio, e quel Lanfranco da Pavia, di cui dicemmo[314]. Man mano che le città italiane crescevano di ricchezze, di commercio, di potenza, occorreano nuove complicazioni, cui non era sufficiente il diritto germanico, mentre si trovavano risolte nel romano; sicchè a questo applicaronsi gl’ingegni, costituendo una nuova classe di cittadini, i giureconsulti.
Quando i Pisani espugnarono Amalfi nel 1135, ne tolsero l’unico esemplare delle Pandette, e Lotario II in benemerenza lo cedette a loro, decretando che nella pratica si sostituisse il gius romano al germanico, e cattedre per insegnarlo. Così dicono: ma nessun vide questo diploma, ed è dimostrato che in verun tempo le Pandette erano cadute in dimenticanza[315]; sicchè questa è una novella che traduce in racconto di tempo e di luogo determinato un avvenimento d’incerta origine. Esso codice fu gran tempo custodito a [374] Pisa come una reliquia, nè mostrato che con solennità, poi trasferito a Firenze, monumento d’altre vittorie, ove può non difficilmente vedersi in quel tesoro di manoscritti ch’è la biblioteca Laurenziana. La scrittura il prova contemporaneo di Giustiniano; e che sia l’unico originale risulterebbe da questa bizzarria, che avendovi il legatore per isbaglio trasposto un foglio, tutti gli esemplari conosciuti hanno l’errore medesimo, come materialmente trascritti. Eppure sembra che i glossatori possedessero altri testi, collazionando i quali ne formarono uno bolognese, detto la vulgata: pure la loro rarità è attestata dall’importanza attaccata al possesso di questo codice, la cui scoperta e il trionfo menatone fissarono su quello l’attenzione dei molti che la progredita civiltà avea disposti ad una legislazione più raffinata. Allora dunque lo studio del romano diritto penetra nelle scuole, in gara colla teologia e la scolastica, mentre s’applica alla vita.
Irnerio, che prima aveva insegnato grammatica, passò a leggere le Pandette a Bologna sua patria (1100-20); e i giovani che trassero in folla a questa scienza nuova, reduci ai loro paesi, ne applicavano i canoni ai casi particolari, se non altro come supplemento alla legge locale. Restano in gran parte le glosse di quest’illustre, e memoria d’altre opere sue ad uso della scuola, dalla quale poi si staccò per servire all’imperatore. Pensator rigoroso, trasse ogni cosa dal proprio capo, ignorando i lavori intorno al diritto, fatti o tentati ne’ secoli precedenti[316].
Si nominano fra’ suoi discepoli più insegnati i bolognesi [375] Bùlgaro os aureum, Martin Gossia copia legum, Jacopo e Ugone da Porta Ravegnana. La Somma del Codice di Roggerio è il primo tentativo di sistemar la scienza del diritto. Il Piacentino, che alcuni chiamano Ottone, per quanto assoluto e di smisurata vanità, non manca di intelletto scientifico e cognizione delle fonti. Assalito nottetempo da Enrico di Baila, di cui avea confutato un’opinione, a stento campò, e ricoverato a Montpellier, v’aperse la prima scuola di diritto (1192). Giovanni Bassiano da Cremona, preciso nell’esposizione, trovò forme ingegnose, benchè talvolta buje; professò a Mantova.
Pillio da Medicina professava giovanissimo a Bologna, quando i magistrati lo costrinsero a giurare che per due anni non insegnerebbe altrove: i Modenesi, cui forse importava più il toglierlo agli emuli che il possederlo essi medesimi, gli offersero cento marchi d’argento purchè venisse nella loro città, anche senza insegnare, siccome fece. Scrive per lo più in dialoghi fra la giurisprudenza e l’autore, con molta vanità e affettazione logica[317].
Lodano pure Guglielmo di Cavriano da Brescia, Alberico da Porta Ravegnana che per l’affluenza di scolari dettava nella sala del Consiglio, Giovanni Azzon da Bologna che aveva fin mille uditori, ed altri che lungo sarebbe il recitare. Francesco Accursio da Bagnòlo presso Firenze, nella Glossa continua (1129) abbracciò le anteriori, così conservandoci l’opinione di molti, ma senza [376] tropp’arte nello scegliere. Al suo tempo citavasi nei tribunali come legge, e fu in gran nominanza finchè parve merito il cumulo di erudizione; ma nel Cinquecento, quando si studiarono l’antichità e gli storici, prevalse un miglior gusto, mentre minorava l’elevatezza de’ pensieri.
Que’ glossatori possedevano le Pandette, il Codice, gl’Istituti, le Autentiche, l’Epitome di Giuliano, nè altro. Scarsi di storia e filologia, invece di raddrizzare i testi, accertare i tempi, insinuarsi nella intenzione delle leggi, si fermano a spiegare che etsi equivale a quamvis, admodum a valde; derivano il nome del Tevere dall’imperatore Tiberio; fanno vivere Ulpiano e Giustiniano avanti Cristo, uccidere Papiniano da Marc’Antonio; interpretano pontifex per papa o episcopus; se trovano una parola greca, la saltano, onde il proverbio Græcum est, non potest legi. Pure non mancano di sagacia e industria, massime Accursio, nel ravvicinare passi, conciliare apparenti divergenze, ricorrere per l’interpretazione alle fonti quanto poteasi in quell’ignoranza della storia, che durerebbe anche oggi se la fortuna non avesse scoperto Ulpiano ed altri giureconsulti vetusti.
Ben presto seguirono pedestri imitatori, destri nella dialettica quanto sforniti di scientifico intelletto; prolissi, d’inesauste minuzie, che affogano il testo ne’ commenti, multorum camelorum onus, nulla rimettendo all’intelligenza degli scolari; espongono in uno stile barbaro, da cui non sa forbirsi neppure Dino da Mugello. Il quale godette tanta riputazione, che ancor vivo i vescovi stabilirono, ove le leggi municipali e le romane e le chiose dell’Accursio tacessero o si contraddicessero, a Dino si riportasse la risoluzione.
Sconciatesi le repubbliche, e andata ogni cosa per fazioni, poi per arbitrio di tiranni, senza quella libertà [377] che è necessaria alla ponderazione delle leggi, nel metodo prevalsero sempre più le forme dialettiche, con distinzioni e restrizioni senza termine; l’argomentare non si aggirò sul testo ma sulla glossa, la quale divenne un ostacolo a intenderlo; ogni originalità rimase tolta dal porre ognuno il piede sull’orme dell’altro.
Cino da Pistoja scolaro di Dino (-1337), cacciato dai Guelfi, torna coi Ghibellini. Ammira i dialettici, pure sa emanciparsi dalle triche di scuola, e pensare di sua testa; e si fiancheggia cogli statuti de’ varj popoli e la pratica de’ tribunali. Bartolo da Sassoferrato scolaro di lui, maestro a Pisa e Perugia, ove morì in fresca età, superiore in fama a tutti i giureconsulti, spiegato dalle cattedre, tenuto in conto di legge nella Spagna, per critica e metodo sta a gran distanza dagli antichi glossatori, impacciato dai troppi commenti.
Avanzandosi i tempi, ebbe grido Baldo da Perugia (-1400), che professò per cinquantasei anni, e versò nei pubblici negozj. «Nella smania di distinzione (dice il Gravina) egli non divide, ma sfrantuma il soggetto tanto, che i frantumi ne van col vento; ma per quanto ciò nuoccia all’interpretazione della legge romana come codice positivo, fu utilissimo al giureconsulto pratico per la moltiplicità dei casi che lo spirito suo fecondo ritrovò; sicchè ben rado si dà di consultarlo senza trovarvi una soluzione qual ch’ella sia». Luca di Penna negli Abruzzi, autore del commento sui Tres Libri, supera i contemporanei per metodo e stile, e ricorre direttamente ai testi coll’indipendenza datagli dal non essersi formato nelle scuole ma negli affari. I successivi, più che nelle magistrature, presero pratica nei consulti, fonte di rinomanza e di ricchezze.
Come questi il diritto romano, altri studiarono il feudale, di applicazioni ancora frequenti; e Oberto dall’Orto e Gerardo del Negro, consoli milanesi, attorno [378] al 1170 radunarono le costituzioni imperiali e le consuetudini delle varie città, le sentenze in proposito e le interpretazioni proprie e d’altri giuristi. Valore di legge non ebbero mai, ma autorità perfino ne’ tribunali pontifizj. Infiniti commenti e glosse ebbero da Bulgaro, Pileo, Ugolino, Corradino, Vincenzo, Goffredo..., e principalmente da Giovanni Colombino; tutti superati dal napoletano Andrea d’Isernia, e più tardi da Matteo degli Afflitti. Nel 1436 Antonio Mincuccio di Pratovecchio bolognese avea ridotti i libri feudali in miglior forma, e l’imperatore Federico III li confermò, onde in Bologna erano letti pubblicamente. L’illustre Cujacio con maggior critica ed eleganza, e deponendo il disprezzo che i giuristi soleano avere per ciò che non fosse romano, migliorò ed illustrò quella raccolta, la quale si compie colle leggi feudali pubblicate dal Barbarossa, che sono le più numerose e precise, e da cui era stata proibita l’alienazione dei feudi, ristabilite le regalie imperiali in Italia[318].
Contemporaneamente si compiva il diritto canonico. Una raccolta autentica delle leggi ecclesiastiche emanate dai concilij e dagli imperatori, disposta da Giovanni Scolastico patriarca di Costantinopoli a mezzo il secolo VI, divenne legge della Chiesa d’Oriente. In Occidente, dopo le collezioni che accennammo (t. V, p. 472) di Dionigi il piccolo e d’Isidoro, Reginone abate di Pum, uscente il secolo IX, ne fece una, poi Burcardo [379] vescovo di Worms il Magnum decretorum volumen, che da uno storpio del nome suo è chiamato Brocardo, e passò ad indicare quistioni scabrose ed incerte. Ivone di Chartres dispose metodicamente il Decreto in diciassette libri; finchè Graziano di Chiusi benedettino, nella Concordantia canonum o Decretum (1151), compì sistematicamente la giurisprudenza canonica. Eugenio III dicono l’approvasse, e l’autore con Ranieri Bellapecora pei primi professarono tale materia in Bologna. L’opera sua comprende i canoni degli Apostoli, quelli di cencinque concilj, le decretali de’ papi, non escludendo quelle del falso Isidoro, e molti passi tratti da santi padri, da libri pontificali, dal codice Teodosiano e da altri. Autorevole nel canonico, come il codice Giustinianeo nel diritto civile, il Decreto di Graziano trovò moltissimi commentatori: lo sceverarne la mondaglia doveva essere cura di secoli meglio veggenti[319].
Successive consultazioni diedero luogo a nuove decretali, di cui una raccolta fece Bernardo Circa, vescovo di Faenza poi di Pavia; una fu ordinata a Pier di Benevento da Innocenzo III, ed approvata per pubblica autorità; poi un’anonima dopo il 1215. Nessuna era completa, e v’avea decreti incerti: pertanto Gregorio IX incaricò Raimondo di Pegnafort barcellonese di raccorre le decretali posteriori al 1150, ove finisce la compilazione di Graziano; onde venne il secondo corpo e principale del diritto canonico, cresciuto anch’esso con successive aggiunte.
Suprema efficacia ebbe lo studio del diritto, facendo rivivere a pro de’ moderni l’esperienza degli antichi, [380] disposta in un sistema di leggi, ove tutto ciò che essenzialmente importa alla civile società era determinato con sagacia, equità e precisione, ben superiore ai tentativi de’ codici barbari. Introdotta la prova testimoniale, lo spirito umano s’addestrò nell’indagare le verità ed applicarle, risalì agli studj classici per meglio chiarire il senso, e quel ragionare sodo e sopra i fatti emendava l’inclinazione sofistica delle scuole.
Ai baroni nè dottrina nè pazienza bastando, i leggisti presero il luogo de’ feudatarj negli uffizj giuridici. Allettati dalla costituzione romana, stabilirono essi una scuola teorica e pratica di governo, cui primo canone era l’unità e indivisibilità del potere sovrano, talchè guardava come usurpazione le signorie feudali, come non avvenuta l’occupazione dei Barbari, e indegne del nome di leggi quelle emanate da loro: fatto meraviglioso ed unico, che la legislazione morta d’un popolo perito divenisse scienza politica e sociale per tutta Europa, e che fin ad oggi i codici trovino appoggio, commento o supplemento nelle decisioni di Papiniano e nell’opinione de’ glossatori.
Ben fa dolore che le nazioni nuove non abbiano pensato estrarne quel solo che ad esse confacevasi, anzichè adottare intero un cumulo di cose estranee ai costumi e all’ordine sociale nuovo, e principj assoluti, e formole materiali, e rigide conseguenze, non armonizzanti colla società nuova nè coi costumi moderni e col cristianesimo. Per vero, l’adottare è molto più facile che lo scegliere; e la parzialità ghibellina aveva interesse a considerare i Federichi come successori di Teodosio: onde n’uscì una legislazione implicata, incoerente, ancora oscura dopo infiniti commenti, e forse in grazia di questi.
Ma nelle città libere i giuristi costituivano un corpo, con impieghi d’onore ed alte cariche e singolare considerazione: e persone elevate portavano nella giurisprudenza [381] gran senso pratico e reale dignità. Il diritto poi fu un grande miglioramento sì alla legislazione, sì e più alla condizione dei vulghi. Rispetto all’ordine delle successioni, ai matrimonj, ad altri punti legali, i preti che ragione aveano di far leggi inique? Ne’ concilj, composti di prelati d’ogni paese, specie di areopago superiore alle convenienze feudali, e scevro di parzialità, di rado i canoni si circoscriveano ad un paese; e togliendo per base la morale anzichè la politica, servivasi alla rettitudine universale. Le giurisdizioni signorili riuscirono men vessatorie in mano di abati e vescovi che di conti e baroni, perchè il prete era obbligato ad alcune virtù, da cui il laico si tenea dispensato. La carità e il perdono delle ingiurie, essenza della morale cristiana, v’erano specialmente comandati in tempi di guerra di tutti contro tutti. Più miti le pene; abolita la croce e il bollare in faccia, per non deturpare l’immagine di Dio; niuno sentenziato a morte, e spesso si mandava il reo a far penitenza e migliorarsi ne’ chiostri. La tortura, approvata dal divino Augusto[320] e conservata lungo tempo fin dagl’Inglesi tanto adulti nella libertà, era esclusa dal diritto canonico: e doveano passar de’ secoli prima che la filosofia si facesse bella di tali documenti.
[382]
Il clero, alieno dalle armi, repudiava le prove del duello o dell’ordalia[321], e vi surrogava i testimonj, e come prova sussidiaria il giuramento; più regolare rendeva l’amministrazione della giustizia, e le vendite, i prestiti, le ipoteche, giacchè richiamavasi al fôro ecclesiastico ogni obbligo contratto con giuramento. Innocenzo III e il IV concilio Lateranese istituirono il processo scritto, prescrivendo che nel giudizio ordinario e nello straordinario il giudice si faccia assistere da un pubblico notajo, se è possibile; e due persone sufficienti scrivano gli atti, cioè le citazioni, proroghe, petizioni, eccezioni, testimonianze, e così via, il tutto coll’indicazione de’ luoghi, de’ tempi, delle persone; e ne dia copia alle parti, serbando l’originale per ogni caso di dubbio[322]. Il diritto stesso ebbe determinato il metodo delle citazioni e la sostanza della processura, agevolate le riconvenzionali, tentate le vie di conciliazione, negli appelli distinto l’effetto devolutivo dal sospensivo, ai rimedj possessorj dato ampiezza e rigore.
Mentre il diritto civile non lasciava star le donne in giudizio senza consenso del marito, lo che impediva di reclamare contro di questo, non così era de’ tribunali [383] ecclesiastici, davanti ai quali veniva contratta l’unione, stipulata la dote, discusso della infedeltà, delle separazioni, del divorzio. Le leggi che proteggeano i beni del clero insegnavano esistere un’altra proprietà non derivata dalla spada, con altre garanzie che la violenza; garanzie che poi doveano diventare comuni. Altre inviolabilità delle persone si conosceano dove l’ecclesiastico era valutato a prezzo maggiore, non si potea sfidarne i parenti, e l’offensore trovavasi a fare con una intera società poderosa. L’asilo sottraeva il colpevole alla vendetta subitanea, non già alla giustizia, a cui lo restituiva se riconosciuto reo: l’escludere il duello obbligava ad accettare la composizione de’ tribunali. Laonde, mentre pareva intendere al solo interesse proprio, la Chiesa operava per le nazioni, che un giorno si assicurerebbero come diritti quei ch’essa introduceva come privilegi[323].
Così miglioravasi il potere legislativo, passato dai forti ne’ savj; più ne migliorava l’opinione: sicchè al cristianesimo, dice Montesquieu, andiam debitori di un certo diritto delle genti nella guerra, di cui la natura umana non potrà mai essergli abbastanza riconoscente; [384] il qual diritto fa tra noi che la vittoria lasci ai vinti la vita, la libertà, le proprietà, le leggi, la religione. Dopo di che, io mi confesso propenso a compatire ai compilatori delle Decretali se non ebbero bastante critica per discernere le false, e se credettero veramente che il papa fosse superiore a tutti i vescovi, e potesse imporre ai re d’esser giusti e di non opprimere d’imposte i popoli.
Intanto colla giurisprudenza la dottrina usciva dal santuario, e lo scienziato non era soltanto cherico ma anche dottore. Tutte quelle discussioni poi, miste di teorica e di pratica, attestano un inaspettato movimento intellettuale, che innovava la società non meno che lo facesse lo sviluppo politico. Perocchè, quando una nazione si sveglia, estende la sua attività sopra tutte le parti, siano le politiche come le intellettuali e morali.
Università chiamavasi già prima qualunque libera unione; e quel nome presero anche gli scienziati in associazioni libere che prevenivano l’azione de’ governi, e che ciascuna amministrava i proprj affari. Qualche scienziato di grido prendeva a leggere in una città; accorrevano uditori, altri dotti ne profittavano per venirvi a spacciare la propria dottrina, e così formavasi una università. In tanta scarsezza di libri e d’istruzione particolare non poteasi imparare che dalla viva voce, onde non vi concorrevano ragazzi, ma uomini fatti e già ragguardevoli; ed assumendo l’aria della società civile, costituivansi a modo di Comuni, con onori e [385] franchigie per gli studenti e i professori; e avvivate dall’interesse che ispira la verbale comunicazione fra questi e quelli, cogli studj indipendenti crescevano di forza e dignità; e al modo de’ Comuni, cercavano privilegi ai re e ai papi, il principale dei quali era di poter conferire il dottorato.
I professori, ai quali grande incitamento dava il trovarsi esposti al guardo di tutta l’Europa letteraria, erano rimunerati dagli scolari, nè l’università mantenevasi che per la reputazione di quelli. Le città, vantaggiate dal concorso degli studiosi, adoperavano a mantenere quelle unioni; poi fecero gara di offrire grossi stipendj.
E maestri e università erano dunque tutt’altra cosa di queste moderne, fomite inutile di corruzione in una gioventù che, mentre potrebbe dappertutto ritrovare e libri e insegnanti, è raccolta a dissipare fra lo stravizzo e il mal esempio il fiore dell’età, la freschezza de’ sentimenti, i precetti morali bevuti al focolare paterno, e far le prime prove del vizio, seguendo un corso uffiziale sotto professori di cui non ha stima e fiducia, ma che sono decretati da un governo che forse disama.
L’importanza delle università fece favoleggiarne le origini. Quella di Bologna si pretendea fondata da Teodosio II nel 443; ma il primo privilegio, copiato da quel di Giustiniano per Berito, le fu rilasciato in Roncaglia da Federico Barbarossa, onde proteggere quei che di fuori venissero a quello studio, esimerli da processo per delitti o per debiti, e potessero scegliere la particolare giurisdizione dei professori, per esercitare la quale l’università eleggeva il rettore. Da principio vi si studiò soltanto diritto, poi si aggiunsero arti liberali e medicina; al fine Innocenzo VI v’unì scuola teologica sul modello della parigina, sorta contemporaneamente, e che avea vanto nella teologia scolastica e nella filosofia, come Bologna nella giurisprudenza. Furono le [386] due università più nominate nel medioevo: ma la bolognese era composta degli scolari i quali sceglievano dei capi, a’ quali dovevano rispondere anche i professori; alla parigina non appartenevano che i professori, subordinati restando i discepoli: sistemi derivanti dal diverso Governo delle due città e dalla natura dell’insegnamento; quella, repubblica e volta alle leggi; questa, monarchia e teologica.
A Bologna dunque i varj portici formavano distinte università; e quella del diritto era divisa in due, degli ultramontani con diciotto nazioni, dei citramontani con diciassette[324]. Gli stranieri studenti di diritto (advenæ [387] forenses) godeano piene prerogative civili; e convocati dal rettore, cui annualmente giuravano obbedienza, costituivano università propria, con voce nelle assemblee. Ciascuna nazione faceasi rappresentare da uno o due consiglieri, i quali, col rettore, costituivano il senato per la disamina degli affari. Un sindaco annuo rappresentava in giustizia le due università: un notaro ne rogava gli atti, annuale anch’esso, come il massajo e i due bidelli. Ogni anno pure eleggevasi un tassatore dalla città ed uno dagli studenti, che fissassero il prezzo degli alloggi: lo scolaro avea facoltà di rimanere tre anni nella casa prescelta; e il padrone che esigesse di [388] più, o a torto si querelasse del pigionale, o lo trattasse men convenientemente, non potea più dare albergo ad altri.
I professori, all’atto della promozione, poi una volta all’anno doveano giurare obbedienza al rettore e agli statuti: potevano essere sospesi e multati, non portar voto nelle adunanze, nè sostenere le cariche dell’università: altrettanto era degli scolari natii di Bologna, che non rimanevano sottratti dall’autorità municipale. Il rettore, che doveva essere letterato, celibe, d’almeno venticinque anni, di sufficienti sostanze, avere a proprie spese studiato il diritto almeno cinque anni, e non appartenere ad ordini religiosi, rinnovavasi annualmente a voce del predecessore, de’ consiglieri e di alcuni elettori scelti dalle università; e nelle funzioni aveva il passo sopra vescovi ed arcivescovi, eccetto quel di Bologna, ed anche sopra i cardinali secolari. Il titolo di magnifico nacque nel XV secolo.
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Pertanto nella città di Bologna quattro distinte giurisdizioni vegliavano: i magistrati ordinarj, la curia vescovile, i professori, il rettore. Le frequenti collisioni tra questi, l’irrequietudine degli studenti e le riotte agitarono spesso la repubblica; qualche fiata gli scolari tutti ritiraronsi in un’altra città, finchè non si consentisse alle esorbitanti loro domande; qualche altra, dai papi scomunicata o messa al bando dell’Impero, Bologna vedeva migrare la dotta folla, a cui dovea vita e ricchezze. Con grandi privilegi la città allettava gli studiosi; esimeva i professori dal servigio militare, poi da ogni tassa; rifaceva de’ furti sofferti, se il rubatore non potesse.
I dottorati doveano giurare non insegnerebbero altrove che a Bologna; e morte e confisca era minacciata ai cittadini che sviassero uno scolaro da quell’università, e così a professori bolognesi maggiori di cinquant’anni, o agli stranieri stipendiati che passassero ad altra scuola prima che la condotta scadesse. L’università toglieva in protezione gli artisti che a servizio di essa lavoravano, come amanuensi, miniatori, legatori, i fanti degli studenti, e alcuni banchieri privilegiati per dare a prestanza agli scolari. Una bizzarra regola imponeva agli Ebrei di pagare centoquattro libbre e mezzo ai legali, e settanta agli studiosi delle arti per fare un festino in carnevale. Alla prima neve che fioccasse, gli studenti andavano alla busca, e di quel raccogliessero faceano statue o ritratti ai più celebri professori.
Dell’arcidiacono di Bologna era privilegio il laureare, nè altro benefizio egli godeva che una parte delle propine. Il dottorato conferivasi come grado dal collegio de’ legali, e dava diritto d’insegnare e d’essere promosso: sebbene ai posti supremi non s’elevassero che natii bolognesi. Sei anni di studio si richiedevano per passar dottore in diritto canonico, otto pel civile; giurato [390] d’aver compito questo tempo, lo scolaro sosteneva l’esame privato e il pubblico; e sopra due testi assegnati disputava innanzi all’arcidiacono e al dottore che lo presentava, libero essendo agli altri dottori d’objettare; e tosto era ricevuto fra’ licenziati. L’esame pubblico teneasi nella cattedrale in solenne pompa, ove il licenziato recitava la disposta diceria, ed esponeva una tesi di diritto, contro cui gli studenti potevano argomentare; indi l’arcidiacono o un dottore pronunziava l’encomio acclamandolo dottore, e gli si davano il libro, l’anello, il berretto. Giuramento d’adempier bene gli obblighi del dottorato non si prestava, sibbene alcuni giuramenti particolari.
Laureato che uno fosse, avea diritto d’insegnare non solo a Bologna, ma in qualunque università costituita per bolla papale. Ogni scolaro, dopo cinque anni di studio, poteva insegnare, ma sopra un titolo solo; e dopo sei, sopra un trattato intero, annuente il rettore: questi chiamavansi baccellieri. Il corso durava dal 19 o 28 novembre al 7 settembre; e ogni giovedì era vacanza, qualora nella settimana non cadesse altra feria. Le lezioni si facevano parte all’avemaria del mattino, parte dopo le diciannove ore, tutte occupate nell’insegnamento orale. I corsi distinguevansi in ordinarj e straordinarj, secondo i libri. Testi ordinarj, pel diritto romano il Digesto vecchio e il Codice, pel canonico il Decreto e le Decretali: ogni altro libro era straordinario, e i professori autorizzati a leggere su questi non poteano insegnare sugli ordinarj.
Nel 1260 vi si contarono fin diecimila scolari, con gran lucro dei professori. Ai quali poi si assegnarono pubblici stipendj; e nel 1384 ne troviamo a Bologna diciannove pel diritto, aventi dai cinquanta ai trecento fiorini di trentatre soldi. Quando furono tutti stipendiati, il professorato si riguardò come pubblica funzione.
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Lo studio della giurisprudenza tardò ad introdursi nelle università forestiere, di modo che il trionfo di quella scienza fu sempre in Italia, e non per decreto o favore de’ sovrani, ma per necessità dei tempi. Alle città lombarde, libere, trafficanti, ricche, popolose, non bastavano più le anguste transazioni dei codici germanici e la scarsa cognizione del romano: dileguandosi il diritto personale introdotto da Carlo Magno, s’abituavano a considerare gran parte dei popoli d’Europa come intimamente uniti sotto l’Impero, e fra le varietà nazionali riconoscere alcun che di comune, l’Impero, la Chiesa, la lingua latina. Ora, appena formatasi la scuola bolognese, e diffuse le cognizioni coi consulti, cogli scritti, con nuove scuole, anche il diritto romano si considerò comune a tutta cristianità, il che lo ingrandiva nel concetto de’ popoli.
In Bologna primamente fu aggiunta agli altri studj la grammatica, e Buoncompagno fiorentino, il quale fu coronato d’alloro, vi lesse la sua Forma literarum scholasticarum, metodo per iscrivere a principi e magistrati. Era costume che, chi bramava professare grammatica, mandasse innanzi un’epistola, stillante eleganza ed erudizione, picturato verborum fastu et auctoritate philosophorum; onde Buoncompagno, motteggiatore superbo, ne finse una di siffatte, quasi venisse da un professor nuovo, che chiamava a sfida lui stesso. Ne tripudiarono gli emuli, levando a cielo la forbitezza della lettera finta; poi al dì prefisso si raccolsero affollati nella metropolitana: ma Buoncompagno sopragiunto manifestò la burla e mandò scornati i rivali, mentre gli amici portarono lui a casa in trionfo.
Sturbati dai tumulti civili di Bologna, alcuni scolari trapiantarono a Padova la scuola di diritto (1222), divenuta poi nucleo di quell’università, con statuti modellati sui bolognesi: se non che nella comunanza [392] entravano studenti, professori ed impiegati; e i maestri erano eletti dagli scolari. Nessun suddito veneto saliva ad alte magistrature, che non avesse studiato in quella università, la sovraintendenza della quale era affidata a tre senatori. Un’altra volta quegli scolari aveano trasferita l’università a Vicenza (1264), ove durò sette anni. Un’altra (1316) si mutarono a Siena, che offrì seimila fiorini per riscattare i libri da essi lasciati in pegno: ma quella scuola fu presto chiusa, indi ripristinata da Carlo IV nel 1357; la facoltà teologica vi fu aggiunta nel 1408 da Gregorio XII. L’università di Perugia nacque il 1276: della parmense (1221) è memoria in Donnizone[325]. Il Comune di Vercelli nel 1228 ne aperse una per teologia, diritto civile e canonico, scienze mediche, dialettica, grammatica, divisa in quattro nazioni, una di Francia, Normandia, Inghilterra, una d’Italiani, la terza di Teutonici, l’ultima di Provenzali, Spagnuoli, Catalani; i rettori si obbligavano a condurre molti scolari, e principalmente trarvene da Padova, non allearsi alle fazioni del paese; e il Comune prometteva allestire cinquecento camere agli scolari, buon mercato di vettovaglie, pubblica tranquillità, non lasciarli inquietare per debiti o per rappresaglia, stipendiare a detta di due scolari e due cittadini i maestri che sarebbero eletti dal rettore.
Fin dal XII secolo Pisa avea professori di diritto, ma lo studio generale soltanto nel 1444 vi fu trasferito da Firenze, quasi a ristoro della rapitale libertà, assegnandole annui seimila fiorini d’oro sul tesoro, e cinquemila ottenendone dal papa per dispensa di benefizj, [393] onde lautamente provvedere ai professori[326]. È anteriore a Federico II la scuola di Ferrara, da Bonifazio IX nel 1391 privilegiata come studio generale. La romana, posta da Innocenzo IV, fu colla santa Sede trasferita in Avignone, e Giovanni XXII la autorizzò a conferire i gradi. Federico II istituì le scuole di Napoli nel 1224; sebbene non permettesse di formare l’università di scolari e professori, largheggiò di privilegi cogli studenti; ma non potè mai levarle a quel fiore che ottenevano le scuole fondate dal libero concorso e dalla fiducia degli studiosi.
Altre n’ebbe Italia in que’ secoli e ne’ seguenti, massime di diritto, a Piacenza (1243), a Modena (1189), a Reggio (1188). Da Carlo IV nel 1360 fu privilegiata quella di Pavia, e Galeazzo Visconti proibì a’ suoi sudditi di studiare altrove, e largamente rimunerò i professori[327]. Quella di Torino fu riconosciuta dal papa solo nel 1405, e sei anni dappoi dall’imperatore: cancelliere n’era il vescovo. All’università di Parigi, famosa per teologia, Alessandro III spedì molti giovani ecclesiastici; molti Venezia di quelli che doveano poi salire ai primi onori.
Resta che diciamo dell’altro studio universitario, la medicina. V’aveano rinomanza gli Arabi, che tradussero e commentarono gli autori greci, e tramandarono a noi varj medicamenti ed elixir. Anche gli Ebrei erano medici e chirurghi reputati, e ne’ libri talmudici si trovano [394] idee molto avanzate intorno all’anatomia. Fra’ Cristiani, questo, come ogni altro sapere, venne a ridursi in mano di ecclesiastici e principalmente di monaci, sebbene a questi dai canoni fossero vietate le operazioni con fuoco e ferri taglienti; e san Benedetto a’ suoi di Montecassino e Salerno impose la cura de’ malati. Costantino Africano filosofo, visitate per quarant’anni le scuole arabe a Bagdad, in Egitto, nell’India, di ritorno corse rischio d’essere ucciso per mago (1070 ?); onde rifuggì a Salerno, e divenne secretario di Roberto Guiscardo; poi nauseato dal fragor cortigiano, si ritirò a Montecassino, traducendo i medici orientali. Ne crebbe rinomanza alla scuola salernitana, e v’affluivano malati, alla cui guarigione contribuivano la salubre posizione e le reliquie di san Matteo, santa Tecla e santa Susanna. Venuto Enrico II a farsi estrarre la pietra, san Benedetto durante il sonno compieva l’operazione, ponevagli la pietra in mano, e cicatrizzava la ferita[328]. Nel secolo seguente, sotto la direzione di Giovan da Milano vi si scrissero certi canoni d’igiene in versi leonini, divulgati proverbialmente[329] e tradotti in tutte le lingue. Poco dopo il Mille, Garisponto medico di Salerno pubblicò il Passionarius Galeni, rimedj contro [395] ogni sorta malattie, tratti principalmente da Teodoro Prisciano: nè meglio vale Cofone, che pubblicò una terapeutica generale (Ars medendi) secondo Ippocrate, Galeno e gli Arabi, dove è a scorgere la prima indicazione del sistema linfatico. Romualdo vescovo di Salerno fu consultato dai due Guglielmi di Sicilia e dal papa. L’Erbario della scuola salernitana, compilato certamente prima del secolo XII, si diffuse per tutta Europa.
Questa scuola fu la prima in Occidente ad introdurre i diversi gradi accademici, imitandoli dagli Arabi. Dappoi Federico II ordinò, nessuno esercitasse medicina se non licenziato da essa, e provato di nascere legittimo, aver compito ventun anno, studiato logica tre anni, poi cinque l’arte, e la chirurgia che ne forma piccola parte, e spiegato l’Arte di Galeno, il primo libro d’Avicenna, o un passo degli Aforismi d’Ippocrate, ed aver fatto pratica sotto un esperto. Il candidato giurava attenersi alle cure consuete, denunziare il farmacista che adulterasse i medicamenti, e trattare i poveri senza mercede. Dai chirurghi chiedeasi un anno di studio a Salerno e Napoli, poi un esame. Da poi si prescrissero cento minuzie; il medico visiti due volte al giorno i malati che dimorano entro la città, e che possono anche chiamarlo una volta la notte: il compenso era di mezzo tarì per giorno, e fino a tre se il malato abitasse fuori. Così per le farmacie era assegnata la tariffa, e dove piantarle, e gelose precauzioni.
Allettavansi i medici con privilegi, esentarli da taglie, provvederli d’uno o due cavalli; e Ugo di Lucca s’obbligò servire gratuitamente a quei del contado bolognese nelle malattie ordinarie; ma per ferita grave, osso rotto o slogato, possa da gente mezzana esigere un carro di legna, dai ricchi soldi venti e un carro di fieno, nulla dai poveri; accompagni l’esercito in campo, [396] ed in compenso tocchi lire seicento bolognesi. Fu dei primi a curar le ferite con solo vino[330], e seguì i suoi concittadini in Terrasanta nel 1218.
Quell’abitare a troppi insieme, il vestire di lana, i pellegrinaggi, le nessune cautele sanitarie, agevolavano la propagazione de’ mali, e la peste può dirsi non cessasse mai; ne’ tempi più infetti vedeansi a folla trarre i pellegrini a perdonanze e giubilei; e tardi si pensò a contumacie ed altri provvedimenti contro il contagio; nel che il Comune di Milano diede forse il primo esempio. Dal Levante vennero pure malattie nuove, di cui la più durevole e funesta fu il vajuolo, che sembra arrivasse cogli Arabi al primo loro sbucare dalla penisola natìa. Coi Crociati credesi qui venuto il fuoco sacro, a curare il quale si dedicarono i frati di Sant’Antonio. Anche il ballo di san Vito comparve dopo il Mille, come nella Puglia la tarantella. Più spesso la lebbra serpeggiò sotto forme orride e schifose: prurito alle mani, atroci spasimi interni; poi la pelle facevasi squamosa, e chiazzata di macchie livide, rosse e fin nere, infine scabra quasi scorza d’alberi; allora si copriva d’ulceri rossastre e tumori cancerosi; dita, mani, piedi tumefacevansi sformatamente; le carni cadeano a brani, restandone miserabilmente segnata la via dove molti fossero passati: il viso prendeva un ringhio ributtante, i peli cadeano, rauca la voce; il male invadeva il tessuto mucoso, membrane, glandule, muscoli, cartilagini, ossa: fiera melanconia occupava l’infermo, che vedeva a passi lentissimi avvicinarsi l’inevitabile risolvimento del morbo.
Sotto i Longobardi i lebbrosi cacciavansi di città, e non poteano vendere od alienare i proprj averi, affiggendovi l’idea d’un particolare castigo di Dio, secondo [397] qualche passo della Bibbia, della quale vi si applicarono le precauzioni. Gli statuti d’ogni Comune provvedono sullo scoprirli ed isolarli: la Chiesa stessa, che parea maledirli, veniva a disacerbare le miserie, e a volgerle in espiazione colle cerimonie miste di tristezza e di speranza, onde li staccava dalla società. Celebrato in presenza dell’infermo l’uffizio da morto, esortava ad essere buon cristiano e confidare nella carità dei fratelli, da cui corporalmente era sequestrato; gli si vietava d’accostarsi all’abitazione dei viventi, di lavarsi in rivo o in fontana, d’andare per istrade anguste, di toccar bambini o la fune dei pozzi, nè bevere che dalla sua scodella; poi benedetti gli utensili che doveano servirgli nella solitudine, fattagli limosina da ciascun assistente, il clero accompagnato dai fedeli lo conduceva alla capanna destinatagli, davanti a cui piantata una croce di legno, vi sospendeva un bossolo per ricevere la limosina de’ passeggeri. Un abito particolare distingueva quell’infelice, e guanti e certi battagliuoli ch’e’ dovea sonare invece di parlare. A Pasqua poteva uscire dall’anticipato sepolcro, e per alcuni giorni entrar nella città o nei villaggi, partecipe all’universale esultanza della cristianità. Le mogli poteano seguirli, e procacciare le consolazioni della famiglia. Quelle poi della carità erano pari al male: il concilio Lateranese III, disapprovando il rigore con cui alcuno li trattava, dichiarò la Chiesa esser madre comune dei Fedeli; i lebbrosi poter essere più meritevoli che i sani; perciò si facesser loro e chiesa e cimitero distinti, e un prete a cura delle loro anime, e dispensati dal dare la decima degli orti e del bestiame. A loro pro moltiplicavansi i lazzaretti, così denominati (ed essi lazzari) dal povero del vangelo. L’arcivescovo di Milano alla domenica delle palme, andando in processione a San Lorenzo, al Carrobbio lavava e vestiva di nuovo un lebbroso; [398] per ispeciale loro sollievo fu istituito l’ordine di san Lazzaro, il cui granmaestro doveva essere lebbroso, acciocchè meglio sapesse consolare mali che avea provati: stupendo sforzo della cavalleria cristiana il nobilitare in certo modo la più stomachevole delle malattie.
Caterina da Siena curando e sepellendo una lebbrosa, ne contrasse l’infermità; ma di subito le mani sue divennero bianche e liscie come d’un bambino. Francesco d’Assisi, trovatone uno in val di Spoleto, l’abbracciò e baciò nella bocca cancerosa, e così l’ebbe guarito: vedendone un altro nel piano d’Assisi, s’accostò a fargli limosina; e ad un tratto più nol vide, sicchè restò persuaso fosse nostro Signore, che spesso assumeva quella schifosa sembianza per mettere a prova la carità. E però Francesco raccomandava a’ suoi frati i lebbrosi, e congedava i novizj che non sapessero sostenerne la cura. Uno che per l’impazienza e per le bestemmie era insoffribile a’ frati, tolse Francesco a curarlo egli stesso, e l’imbonì, e lavò, e «dove toccava il santo colle sue mani, si partiva la lebbra dall’infermo, e rimaneva la sua carne perfettamente sana; sì che mentre il corpo si mondava di fuori dalla lebbra, l’anima si mondava dal peccato dentro per la contrizione». Dopo rigorose penitenze il lebbroso morì, e comparve a Francesco e gli disse: — Mi riconosci tu? io son quel lebbroso che fu sanato da Cristo per li tuoi meriti, e oggi me ne vado alla gloria eterna; di che rendo grazie a Dio e a te, perocchè per te molte anime si salveranno quaggiù»[331].
Nelle spedizioni in Asia i nostri poterono profittare della sperienza degli Arabi, e di fatto allora si conobbero la cassia e la senna: la teriaca, polifarmaco fondamentale del medioevo, fu da Antiochia portata a Venezia, che lungamente ne custodì il secreto. Ruggero [399] di Parma raccomandò la spugna marina per le scrofole, ed eccellenti pratiche chirurgiche. Rolando di Parma stese un trattato di chirurgia, commentato poi da quattro Salernitani. Guglielmo da Saliceto piacentino, uno de’ migliori di quell’età e abbastanza indipendente, stese con qualche esattezza un’anatomia compendiosa, precedette Willis nel distinguere i nervi addetti alla volontà o no, e descrive fin d’allora la sifilide.
Lanfranco di Milano, spatriato quando più non potè opporsi a Matteo Visconti, rizzò cattedra a Parigi (1295), e trasse tanti ascoltatori, che celeberrima divenne la scuola dei chirurghi secolari. Sebbene il chirurgo si tenesse molto inferiore ai medici, che perciò non si sarebbero prestati alle operazioni, preferendo usare farmachi, Lanfranco operò spesso, ed è lodevole quel suo dare l’anatomia dell’organo di cui descrive le lesioni.
Teodorico vescovo di Bitonto osservò da sè, e sostituì le fasciature di tela ai grandi apparecchi di legno nella frattura di ossa. Taddeo d’Alderotto fiorentino, filosoficamente illustrando Ippocrate e Galeno, acquistò tanta reputazione nella sua scienza quanto Accursio nella legale: eppure delira qualvolta pretende rivelare i segreti delle arti, nascosti sotto il gergo degli autori. Chiamato ad assistere il nobile Gherardo Rangone (1285), volle che, per istromento rogato, i tre procuratori di quello il garantissero d’ogni danno in viaggio, e che lo ricondurrebbero in Bologna indenne della persona e della borsa, non molestato da ladri o da nemici, non fermato contro voglia a Modena; in caso contrario, gli si pagherebbero lire mille imperiali per ciascuno degli articoli violati; essi poi gli restituiranno tremila lire bolognesi, che confessano aver ricevuto in deposito: finzione che vela una remunerazione esorbitante[332]. [400] Al papa domandò cento ducati d’oro il giorno, perchè più ricco degli altri, i quali gliene davano cinquanta; onde, finita la cura, ne toccò diecimila. Bartolomeo da Varignana dal marchese d’Este ebbe per una cura ducensessanta fiorini d’oro.
Simon di Cordo genovese, medico di Nicolò IV, nella Clavis sanationis, dizionario de’ medicamenti semplici, cercò sbrogliare la varietà di nomenclatura. Viaggiò trent’anni per scientifico intento la Grecia e l’Oriente, ma invece di determinare i corpi secondo la natura loro, si stava a qualità medicinali, e non desunte da sperienza ma da supposte doti elementari. E appunto i progressi delle scienze naturali erano impacciati dall’empirismo superstizioso, dalla cieca venerazione per l’autorità, e dal farnetico di sostituire la dialettica allo sperimento, aggomitolando interminabili argomentazioni sopra oziosissime ricerche. Per esempio, chiedevasi se la tal bevanda possa guarire la febbre, e rispondeasi di no, perchè quella è una sostanza e questa un [401] accidente, nè quindi l’uno può sull’altro. Poco si studiava l’anatomia: le operazioni non si eseguivano senza consultare le stelle, supponendo intimo nesso fra il corpo umano e l’universo, e principalmente i pianeti: e le scienze sperimentali cedevano il primo posto alle occulte.
Oggetto di queste era conoscere l’avvenire, scoprir tesori, trasmutare i metalli, fare amuleti e incantagioni, e comporre il rimedio universale e l’elisir dell’immortalità: a scopi così elevati qual fatica aveva a parere soverchia? Sull’avvenire cavavansi presagi da segni fortuiti, dalle linee della mano, dalle stelle, dai sogni, della cui divinazione come dubitare dopo quel che Ippocrate n’aveva scritto? e indovinavasi in fatti alcuna volta, perchè è difficile non riuscirvi quando si dice un po’ di tutto e vagamente.
L’astrologia, pazza figlia di savia madre, si trova all’infanzia come alla decrepitezza della società, fra i dotti Romani come fra semplici Oceanici. L’uomo è centro e scopo della creazione, onde a lui si riferisce ogni cosa; e se (com’è certo) il sole e le altre stelle influiscono sulle stagioni, sulla vegetazione, sugli animali, quanto più non devono sull’uomo, prediletta fra le creature? Le storie (dicono gli astrologi) e il consenso de’ filosofi antichi s’accordano nel riconoscere un’analogia fra gli anni della vita e i gradi percorsi da ciascun segno sull’eclittica. Per iscoprirla, vuolsi accertare l’effetto degli astri sopra le varie cose naturali, e i computi de’ moti, e certe formole arcane, mediante le quali o crescere le forze della natura, o determinare l’influsso dei pianeti, massime all’istante natalizio, od evocare gli spiriti e i morti. Il sapiente che conosca le occulte proprietà delle cose, non solo indovinerà l’avvenire, ma opererà su di esso, eccitando odio od amore, scoprendo i secreti divisamenti, i tesori occulti, i rimedj [402] ai mali, e fin il supremo della scienza, l’arte di far oro.
I fenomeni della natura sono invigoriti dai numeri, attesochè secondo questi è disposto l’universo, e possedono arcana efficacia. Di qui la cabala, che da combinazione di numeri credea divinar le cose arcane, ed acquistare autorità sopra gli spiriti: e ogni astrologo ed alchimista si millantava di qualche demone famigliare obbediente a’ suoi cenni. Così intralciavansi fra sè gli errori, dalla pagana superstizione tramandatici attraverso alle scuole neoplatoniche e al gnosticismo.
Fu l’astrologia onorata di cattedre, e l’università di Bologna ne decretava un professore tamquam necessarissimum, e principi e repubbliche ne teneano uno da consultare ne’ più gravi casi. Ezelino, Buoso da Dovara, Uberto Pelavicino, tiranni formidabili, tremavano davanti alle potenze incognite, e i calcoli della prudenza e dell’ambizione sottoponevano alla decisione degli astri e dei loro interpreti; e nella Vaticana si conservano le risposte che ai loro consulti dava Gherardo da Sabbionetta cremonese. Federico II voleasi attorno il fior degli astrologi, a senno loro mutando divisamenti[333]; e quando nel 1239 udì la ribellione di Treviso, fece dalla torre di Padova osservare l’ascendente [403] da maestro Teodoro; ma non avvertì (riflette Rolandino) che allora nella terza casa stava lo scorpione, il quale avendo il veleno nella coda, indicava che l’esercito sarebbe offeso verso il fine. Stando in Vicenza, volle che un astrologo gl’indovinasse per qual porta uscirebbe il domani; e quegli la scrisse in un polizzino, che suggellato consegnò a Federico perchè non l’aprisse se non uscito. L’imperatore fece una breccia nella mura, e per quella se n’andò; allora, aperto il foglietto, trovò scritto: Per porta nuova.
Il suddetto Gherardo andò a Toledo per leggere l’Almagesto di Tolomeo, e lo voltò in latino, come il trattato de’ crepuscoli di Al-Gazen e altre opere; inventò lo specillo, e la sua Theoria planetarum leggevasi nelle università[334]. Andalon Di Negro genovese, [404] arricchitosi di cognizioni nei viaggi, ci lasciò un trattato latino della composizione dell’astrolabio.
Guido Bonatto da Forlì diede la quintessenza di [405] quanto gli Arabi n’aveano scritto[335], e coll’ajuto di Dio e di san Valeriano, patrono della sua patria, discorre l’utilità dell’astrologia, la natura de’ pianeti e [406] loro congiunzioni ed influenze, i giudizj che se ne deducono, e varie questioni che si possono risolvere con questa scienza. Mirabile nella pratica di quest’impostura, a Federico II scoperse una congiura ordita a Grosseto; fabbricò una statua che rispondeva oracoli; dirigeva ogni operazione di Guido da Montefeltro; e allorchè questi uscisse a campo, il Bonatto saliva sul campanile di San Mercuriale, e con un tocco della squilla accennava il momento di vestir l’armadura, con un altro quel di montare a cavallo, col terzo la marciata. Pretendeva che Gesù Cristo medesimo si valesse dell’astrologia, e imbizzarrisse contro i tunicati che si opponevano alle sue predizioni.
Pietro d’Abano, educato a Costantinopoli (1316), fu sì fortunato da cogliere la postura degli astri, designata da Abul-Nasar come quella in cui Dio non può rifiutare domanda che gli sia fatta: e ne profittò per chiedere la sapienza, e subito restò illuminato a conoscere l’avvenire. Moltissime fole si accumularono sul conto di lui; delle sette arti liberali acquistò cognizione per mezzo di sette spiriti; avea facoltà di far tornare i denari dopo spesi; non avendo pozzo in casa, fe portarsi quel del vicino che gliene negava l’uso, o, come altri disse, fe portare in istrada il proprio onde non essere disturbato dagli accorrenti. In realtà nel suo Conciliator differentiarum, un de’ migliori libri medici d’allora, insegna il salasso non esser mai sì opportuno come nel primo quarto della luna; che per guarire i dolori nefritici bisogna, al momento che il sole passa pel meridiano, disegnare con cuore di leone sopra una lastra d’oro una figura di quest’animale, e appenderla al collo del malato; che per cauterizzare valgono meglio stromenti d’oro che di ferro, attesa la grande influenza di Marte sulla chirurgia.
Fu professore a Padova ed a Parigi, ove lo accusarono [407] di magia per cure mediche ben riuscitegli; poi d’eresia a Roma, ma per autorità pontifizia andò assolto. Riferì al corso degli astri i periodi delle febbri; il pubblico palazzo di Padova fece dipingere a costellazioni; e dell’astrologia era persuaso a tal punto, che procurò indurre i Padovani a spianar la loro città per rifabbricarla sotto una combinazione di pianeti allora comparsa, tanto fortunata che niuna più. Forse queste son ciancie di Pier da Reggio, che, vinto da lui in dottrina, tentò perderlo nell’opinione; onde con accuse contraddittorie Pietro d’Abano fu imputato da una parte di non credere al diavolo, dall’altra di tenerne sette in un’ampolla ad ogni suo cenno; per le quali accuse e per altre più serie l’Inquisizione lo processò. Venuto a morte, disse agli amici: — A tre nobili scienze io ho dato opera, delle quali una m’ha fatto sottile, una ricco, la terza menzognero; filosofia, medicina, astrologia». Nel testamento si protesta buon cattolico, e aveva implorato d’essere sepolto ne’ Domenicani; ma l’Inquisizione gli continuò il processo, e ne turbò le ossa. L’illustre medico Gentile da Foligno, entrando nella scuola di lui, s’inginocchiò, e levate le mani sclamò: — Ave, santo tempio»; poi, visti alcuni suoi manoscritti, se li pose sul seno e li baciava con riverenza[336].
Sebbene la Chiesa vi si opponesse, vescovi e prelati non rimasero incontaminati da queste follie, che durarono ben oltre i tempi che descriviamo. Conseguente a tali falsità fu il ripigliare le classiche credenze in folletti, spettri, fantasmi, vampiri; credenze fatte energiche come i tempi, e che acquistarono maggior fede allorchè si videro perseguitate con regolari processi: l’immaginativa fingeva avvenimenti ch’essa medesima credea poi veri; e uomini di bollente fantasia si isolavano, dispettando [408] il mondo reale per uno fantastico, e mescolando l’impostura, l’allucinamento e il fanatismo. La legislazione dovette intervenire a reprimere gente che destava le procelle, mutava le forme de’ corpi e degli uomini, produceva malattie; e gli assurdi processi traviarono gran tempo la giustizia, siccome avremo a deplorare nel secolo che chiamano d’oro.
Non alle vite, ma alle sostanze recò danni la ricerca del come improvvisamente arricchire. A ciò due strade offerivano le scienze occulte; trovare tesori, e tramutare i metalli. Intorno ai tesori, stupendi fatti raccontano le cronache, e gli assegnano perfino ad Alberto Magno e a papa Silvestro II[337]. In Apulia era una statua di marmo con una corona d’oro iscritta: A calen di maggio, sole nascente, ho il capo d’oro. Nessuno intese il motto, sinchè Roberto Guiscardo ne strappò il secreto ad un prigioniero saracino; e fissato ove cadeva l’ombra della testa al primo maggio, trovò tesoro.
La chimica degli antichi teneva che i corpi risultino dalla combinazione de’ quattro elementi, e che l’armonia di questi produca la perfezione nei corpi. Chi dunque scopra le migliori combinazioni, potrà non solo ridonar la sanità e prolungare indefinitamente la vita, ma anche trasformare corpi e metalli. Sentimento [409] sublime, comunque erroneo, della potenza dell’uomo e della perfettibilità di tutto il creato. E poichè l’uomo vede nell’oro il rappresentante universale dei godimenti, la scienza s’industriò in ispecial modo a tramutare in esso lo stagno e il mercurio, mediante la pietra filosofale e la polvere di projezione; e non riuscendovi coi mezzi semplici, ricorse allo spirito universale, all’anima generale del mondo, all’influsso delle stelle per raggiungere l’opera grande. Di qui la scienza arcana e tenebrosa dell’alchimia, che tanti spiriti occupò.
Le sue ricette erano positive: se non che spiegavasi l’arcano con termini non meno arcani. Volete, intonavano, fare l’elisir de’ sapienti? prendete il mercurio dei filosofi, trasformatelo successivamente colla calcinazione in leon verde e leon rosso, fatelo digerire in bagno di sabbia con spirto acre di vite, e distillate il prodotto; ma il lambicco sia coperto dalle ombre cimerie, e al fondo si troverà un drago nero che mangia la propria coda... Inoltre la scienza ermetica ajutavasi della verga di Mosè, del sasso di Sisifo, del vello di Giasone, del vaso di Pandora, del femore aureo di Pitagora; se nulla profittassero, ricorrevasi al diavolo barbuto, specialmente incaricato di tali ministeri.
A questo delirio di classica origine[338], continuato [410] ancora secoli e secoli, alcuni si prestavano di buona fede; e la testimonianza altrui o le apparenze illusorie li persuasero potersi trovare questa polvere di projezione: onde vi si affaticarono con passione, faceano lunghi viaggi massime al Sinai, all’Oreb, all’Atos. Più spesso era un lacciuolo ai creduli, per trarne l’oro necessario a far oro; ma a Giovanni Augurello, che gli presentò un poema sull’arte di far l’oro (Crisopeia), papa Leone X diè per unico regalo una borsa vuota, nella quale potesse riporlo.
Facile è il deridere le ignoranze o stranezze de’ nostri maggiori, massime a chi perda di vista quelle che in noi derideranno i nostri nipoti. La scienza seria anche in questi traviamenti indaga i progressi dell’intelletto e della società, e riconosce nell’errore un aspetto [411] fallace della verità, ma nuovo e progressivo. Il disputare nelle università al cospetto di tutto il mondo erudito d’allora, e fra una gioventù che vivamente parteggiava, conduceva a ricorrere a sottigliezze, quando la pessima sventura per un dottore sarebbe stata il rimanere accalappiato in un’argomentazione da cui non sapesse strigarsi: onde i dibattimenti diventavano non uno sforzo verso la verità, ma un’arena di capiglie; e la filosofia, come già la teologia, ebbe martiri ostinati d’indicifrabili enigmi. Pure se sbriciolavasi il pensiero, veniva anche analizzato; acuivasi il raziocinio, che dell’errore e della verità è veicolo, non mai causa; in quella ginnastica gl’intelletti si foggiavano allo stretto ragionamento, all’ordine ed all’economia delle idee, alla costanza del metodo, e si poterono svolgere i concetti morali e metafisici di cui la Scolastica avea posto i germi, conservandone il fondo, cangiando la forma. Della Scolastica è merito l’andamento analitico delle moderne favelle, che per la stretta relazione delle parole colle cose svelano il logico procedere della ragione odierna, dovuto a quella comunque malaccorta educazione. L’astrologia e l’alchimia portarono a meditare sopra il sistema del mondo e la composizione dei corpi.
Nè le matematiche, la parte più rilevante dello scibile dopo la lingua, erano perite, e basterebbero ad attestarlo i progressi della meccanica e dell’architettura. Resta nella cattedrale di Firenze un calendario scritto nell’813, con bellissime traccie d’osservazioni celesti, per le quali l’autore si era accorto dello spostamento de’ punti equinoziali dopo il concilio Niceno I, stando al computo giuliano. D’un geografo di Ravenna abbiamo una rozza descrizione del mondo, cui può servire di schiarimento una mappa del 787 che sta nella biblioteca di Torino in un commento manoscritto dell’Apocalisse. La geografia dovea vantaggiarsi dai tanti viaggi [412] di devozione, per guida dei quali stendevansi itinerarj; ma come scienza ben poco progredì.
San Tommaso intendeva addentro nelle matematiche, e scrisse degli acquedotti e delle macchine idrauliche. Campano novarese commentò Euclide, studiò alla quadratura del circolo e alla teorica de’ pianeti, e indicò la genesi de’ poligoni stellati: Urbano IV lo teneva frequente alla sua tavola con altri, da cui godeva sentire spiegate le quistioni che proponesse. Paolo Dagomeri da Prato, detto l’Abbaco per la sua perizia nell’aritmetica e nella geometria, rappresentava in macchine tutti i moti degli astri: fu il primo a pubblicare un almanacco. Biagio Pelacani da Parma spiegò le apparenze prodigiose dell’atmosfera mediante la riflessione delle nubi.
Di que’ tempi, e merito degli Italiani fu una comodissima novità. Mentre gli antichi, siano i classici, siano gli Ebrei e gli Arabi, notavano i numeri con lettere, gl’Indiani possedevano una numerazione più ragionata, ove le cifre, oltre il proprio, hanno un valore di posizione, sicchè trasportate al penultimo posto esprimono le decine, al terz’ultimo le centinaja, e così via: da essi l’appresero gli Arabi, e alcun Europeo se ne valse in opere scientifiche. Leonardo Fibonacci di Pisa, stando impiegato nelle dogane a Bugia di Barberia, cercò quanto d’aritmetica sapeasi in Egitto, in Grecia, in Siria, in Sicilia, e in un trattato d’aritmetica e d’algebra del 1202 si valse di queste ch’egli chiama cifre indiane. Gloria sua più certa è l’avere primo fra i Cristiani trattato dell’algebra, e in modo tale che tre secoli di concordi fatiche non aggiunsero un punto a quel ch’egli insegnò. L’applica esso a problemi mercantili, senza un cenno delle operazioni magiche, dietro cui deliravano anche i più valenti. Così un negoziante fiorentino recò all’Europa e il calcolo de’ valori e quello delle funzioni.
[413]
Altra invenzione importantissima di quel tempo sarebbero le note musicali, che si attribuiscono a Guido d’Arezzo monaco benedettino (n. 955); ma in che consista il merito di lui, non è ben certo. Imperocchè i righi e i punti già erano conosciuti; non fu lui che introducesse la gamma per imparare il solfeggio; non lui che estese la scala aggiungendo cinque corde alle quindici degli antichi. La tradizione dice soltanto ch’egli trovò note, onde in brevissim’ora imparavasi la musica, che dapprima richiedeva molti anni; e che Benedetto VIII, invitatolo a Roma per farne prova, se ne chiamò soddisfatto. La sua scala è la stessa de’ Greci, solo estesa alquanto aggiungendovi un tetracordo nell’accordo e una corda nel grave[339]; e alcun vuole che allora alle lettere gregoriane si sostituissero punti quadrati o rotondi sopra righi paralleli e negli intervalli, sicchè le relazioni armoniche de’ toni divennero quasi sensibili [414] alla vista, e la facilità del notarle con punti sopra punti (contrappunto) ne rese agevole l’esecuzione.
Sant’Ambrogio e Gregorio Magno aveano redenta la musica dalle pagane profanità e dall’elemento mondano, secondo il quale proponeasi unicamente d’esprimere la durata delle sensazioni, e imitare i movimenti delle impressioni prodotte dalla passione e dal sentimento; abolito il ritmo, sicchè il canto non fosse più capace di esprimere i sentimenti e le passioni, ma restasse affatto spirituale; atteso che, essendo le note tutte di durata eguale, meglio esprimevano, nel vestire le parole sante, l’inalterabile calma dell’onnipotenza. Però si conservarono i modi antichi, che erano toni esprimenti la differenza dal grave all’acuto fra i varj punti di partenza dei sistemi di successione. Ambrogio aveva unito i due tetracordi per formare la scala; e scelto fra i modi greci i quattro che più acconci gli parvero alla maestà del canto e all’estensione della voce, sbandì gli ornamenti introdotti nella melopea, e gran numero di ritmi: insigne semplificazione e barriera alle novità corruttrici, perchè anche la musica colla purezza semplice e maestosa ritraesse la severa austerità del culto. Gregorio, sull’orme d’Ambrogio, e schivandone gl’inconvenienti, aggiunse quattro nuovi modi, ond’evitare la monotonia.
Restava che la musica cristiana conquistasse l’armonia, ignota ai Greci; e mentre in questi le regole non miravano che a stabilire successioni, ora doveasi introdurre la simultaneità dei suoni. Malgrado gli ostacoli dell’abitudine e della venerazione verso gli antichi, si poterono fare intendere due voci a un tratto: ma quando si cominciasse non si sa. Guido d’Arezzo non diede nuove regole all’arte, ma mostra evidente che già allora conoscevasi la difonia, quantunque ignoriamo a quali regole formata.
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Nel concilio Lateranense IV, aperto l’11 novembre 1215, l’autorità pontifizia apparve nella maggior sua magnificenza. I due imperatori d’Oriente e d’Occidente, i re di Cipro, di Gerusalemme, di Sicilia, di Francia, d’Inghilterra, d’Aragona, d’Ungheria mandaronvi ambasciadori; i patriarchi d’Antiochia e di Gerusalemme v’assistettero in persona, e per rappresentanti quei di Costantinopoli e d’Alessandria; settantuno arcivescovi, quattrocendodici vescovi, e più di ottocento abati e priori; e tale affluenza di popolo, che alcuni prelati non poterono penetrare nella basilica, e il vescovo d’Amalfi restò soffocato. In mezzo a un circolo di cardinali ornati in maestosa semplicità, compariva il pontefice, che aveva veduto Costantinopoli rimessa alla sua obbedienza; era uscito trionfante dalla guerra degli Albigesi e dalla lotta con Ottone imperatore e col re d’Inghilterra, che gli fe omaggio della sua corona; all’ombra di lui, quest’isola aveva ottenuto la Magna Charta salvaguardia di sua libertà, le città toscane formato una confederazione, e le lombarde rinnovato l’antica; gli Spagnuoli nel piano di Tolosa riportata insigne vittoria che li francheggiava omai dall’araba servitù; da lui il re d’Aragona domandò la corona; quel di Bulgaria gli sottomise la sua; sulla Sicilia avea sodato la supremazia della santa Sede, dopo averla rinfrancata in Roma; in due Ordini, baliosi di gioventù, erasi creata una milizia stabile, disposta ad ogni suo comando. Ed ora al mondo intero, pendente dalle sue infallibili decisioni, dettava i canoni della credenza e le regole della disciplina ecclesiastica [416] e civile: vietato l’affidare funzioni pubbliche a Musulmani o Ebrei, o il vendere armi agli Infedeli; frenata l’usura, proscritti i Patarini, e per distinguersi da questi dovessero i Cattolici almeno una volta l’anno comunicarsi alla propria parrocchia; confermata la dottrina di Pier Lombardo intorno alla Trinità, riprovando quel che n’avea scritto «il calabrese abate Gioacchino», scrittore mistico, rinomato per predizioni; ordinata pace generale per quattro anni.
Vicario della divinità in terra pel governo temporale e per lo spirituale, il pontefice avea dunque portate ad effetto le massime che le Decretali avevano sancite, proclamando la potenza ecclesiastica essere il sole, da cui, a guisa di luna, la imperiale traeva il suo splendore[340]. Spiegando le relazioni del potere temporale collo spirituale, Innocenzo III scriveva[341]: — Il Signore [417] non solo per costituire l’ordine spirituale, ma anche perchè una certa uniformità fra la creazione e il corso degli avvenimenti l’annunzii autore di tutte le cose, stabilì armonia fra cielo e terra, in modo che la meravigliosa consonanza del piccolo col grande, del basso coll’alto, ce lo riveli per unico e supremo creatore. Come stampò due grandi luminari sulla volta celeste, così affisse al firmamento della Chiesa due supreme dignità, una che splenda il giorno, cioè illumini gl’intelletti sopra le cose spirituali, e franchi dalle catene le anime tenute nell’errore; l’altra che schiari le notti, cioè gli eretici indurati e i nemici della fede, e impugni la spada per castigo de’ reprobi e gloria dei fedeli. E come, offuscando la luna, buja notte involge le cose; così, quando mancasi d’imperatore, prorompe la rabbia degli eretici e dei pagani».
Pretendenze non meno assolute sillogizzavano i giuristi, attribuendo agli imperatori un potere senza limiti, quale avea formato la possa e l’obbrobrio di Roma antica; e con argomento di pari calibro nelle nuove università insegnando il sacro impero elevarsi sopra ogni mondana cosa, l’imperatore portare in mano il globo a significare la padronanza sull’universo mondo.
Arroganze sì opposte doveano rinnovare il conflitto tra il pastorale e lo scettro. Cominciato da Gregorio VII, erasi sopito con un accordo, ove l’imperatore crebbe di vantaggi, il papa d’opinione. Dopo ottant’anni si ridestò più palese e meglio determinato, non trattandosi più d’una formalità feudale, ma se la Chiesa dovesse star sottoposta all’Impero. Anche i lottanti erano [418] ben differenti: l’inflessibile Gregorio più non viveva, e al posto d’un Enrico IV, principe scapestrato e inviso, stavano i principi di Svevia, nobili, generosi, cortesi, fautori delle lettere, cinti da signori tedeschi, che fedeli al re e alla donna di lui, lo seguivano del pari al torneo od alle spedizioni oltre l’alpi e il mare.
Federico II, rampollo ghibellino allevato dal papa e da lui sostenuto contro il guelfo Ottone, sicchè per ischerno veniva detto il re dei preti, mostrò deferenza e rispetto a Innocenzo III finchè n’ebbe bisogno: esortò il senato romano ad obbedirgli; nella dieta di Egra solennemente professò, pei tanti favori avuti dalla romana Chiesa, le sarebbe sempre rispettoso e sommesso; le confermava le concessioni fatte da Ottone; l’aiuterebbe a conservare i dominj, e nominatamente la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e a recuperare i disputati, come l’eredità della contessa Matilde; — Appena consacrati a Roma (soggiungeva) emanciperemo nostro figlio Enrico, cedendogli il regno nostro ereditario di Sicilia, sicchè il tenga come il teniam noi dalla santa Sede; e noi rinunzieremo al titolo regio e al governo di quel paese, di modo che mai non possa essere unito all’Impero»[342].
Oggi chiameremmo ciò politica; allora parve ipocrisia: giacchè al tempo stesso ricusava far giustizia alle domande della Chiesa; pretese che Innocenzo gli avesse peggiorato il patrimonio, e perciò a Ricardo fratello di lui ritolse il contado di Sora, e spogliò altri che dal papa erano stati investiti; fece anche morire qualche vescovo per ribelle, e non rifiniva di lamentarsi che Roma raccogliesse chi a lui era sfavorevole; [419] e soltanto la morte sottrasse Innocenzo dal vedere il suo pupillo morsicare il seno che l’aveva nodrito.
Federico, gioviale, colto, amabile, atto a conciliarsi gli animi, quanto alienavali la rozzezza d’Ottone, rimase indisputato re di Germania allorchè questo morì pentito e ricreduto della guerra portata alla Chiesa, e facendosi flagellare dai servi per penitenza (1218). Propenso alle armi a somiglianza degli Svevi paterni, e a somiglianza dei materni Normanni destro nella politica e dissimulato, segnò con buoni provvedimenti i cinque anni che dimorò in Germania; poi si volse all’Italia, alla quale lo traevano la bellezza del cielo, le rimembranze di sua gioventù, la coltura degli abitanti, e il proposito di tornar vigoroso l’Impero. Raccontavasi che, ancor fanciullo, tra il sogno gridò: — Non posso, non posso»; e interrogato rispose parevagli di mangiare tutte le campane del mondo: ma ne abboccò una così grossa, che in verun modo non potea trangugiare. Vedemmo più volte il medio evo tradurre i fatti in cotali storielle.
In Lombardia le città principali venivano allargando il dominio, non più soltanto sovra le terre circostanti, ma su città minori, inviandovi podestà ed esigendone tributi, per modo che l’infinito sminuzzamento riconosciuto dalla Lega Lombarda restringevasi attorno ad alcuni centri. Uno de’ principali era Milano, che moltiplicava guerre a Pavesi, Cremonesi, Parmigiani, Modenesi, e che caporione della parte guelfa, trovavasi però, come fautore di Ottone IV, scomunicata dal papa, divenuto patrono del discendente degli Svevi.
Federico vide non riuscirebbe ad alcun pro fra tanto rimestìo; e differendo a miglior tempo il cingere la corona di ferro, scese verso il mezzodì. Il nuovo papa Onorio III dei Savelli era stato ricevuto dai Romani con tripudj (1216), quali niuno ricordava d’aver veduti; pochi [420] mesi dopo dai Romani fu espulso, e costretto a ritirarsi a Rieti e a Viterbo. Mite pontefice in mezzo a due robusti, ai re insinuava continuo la mansuetudine sua stessa: istruito dal nunzio che lo scisma greco non potrebbe ricomporsi che col rigore, vietò d’usarne, non dovendosi tutelare la fede che coll’istruzione, la preghiera, il buon esempio e la pazienza. Da Federico, a cui nome era stato governatore di Palermo, aveva egli a ripetere tre promesse fatte al suo predecessore: di crociarsi, di restituire il retaggio della contessa Matilde, di rinunziare alla corona di Sicilia, sicchè non fosse unita all’Impero. Rinnovate queste promesse, Federico ottenne d’essere unto imperatore (1220 — 20 7bre); nel quale incontro derogò qualsifosse legge restrittiva delle libertà della Chiesa, ed ordinò severamente l’estirpazione delle eresie.
Il retaggio della contessa Matilde nella realtà non era venuto nè all’impero nè al pontefice, avvegnachè i signori posti a governarlo s’erano poc’a poco scossi dalla dipendenza, intanto che molti Comuni colla forza, col denaro, colla persistenza redimeansi in libertà, fra’ quali primeggiava Firenze.
Quanto sia alla crociata, dopo la presa di Costantinopoli e la fondazione dell’impero latino, Innocenzo III non avea cessato di spingere alla liberazione del santo sepolcro, tanto più che allora andava attorno, essere giunto a sera il dominio di Maometto, simboleggiato nella bestia dell’Apocalisse, la quale non oltrepasserebbe i seicento anni. Genova vide in quel tempo capitare un nuvolo di fanciulli, che, assunta la croce, volevano passare alla liberazione di Gerusalemme: infelici! e per via perirono tutti, quali di fame e stenti, quali affogati ne’ fiumi, alcuni côlti da avidi speculatori per venderli schiavi. Innocenzo li compassionò, ma non rifiniva di farne raffaccio agli adulti, i quali vigorosi non sapeano compiere quel che aveano tentato fanciulli.
[421]
Al suo intento veniva opportuno un campione che onorate prove avea dato di valore e fedeltà alla Chiesa, Giovanni di Brienne, francese lodatissimo in fatti di guerra, fratello di quel che vedemmo poc’anzi pretendere l’eredità di re Tancredi nella Puglia: ito in Palestina, avea preso per moglie Maria figlia di Corrado di Monferrato (1219), e per dote diritti al trono di Gerusalemme. Innocenzo lo riconobbe re di questa, e raccolti molti Crociati, proponevasi guidarli egli in persona, quando morì. Onorio III promise seguitare l’impresa, e ottenne che Ungheresi e Tedeschi passassero in Terrasanta su navi di Venezia e di Zara. All’assedio di Damiata il legato pontifizio a capo degli Italiani (1218) scalò primo le mura in buja notte, e la croce d’orifiamma, stendardo che conservasi a Brescia, vuolsi vi fosse allora piantata dal vescovo Alberto a capo di millecinquecento Bresciani, impresa per la quale ottenne il patriarcato di Antiochia. Poco poi Enrico di Settala, arcivescovo di Milano, condusse un rinforzo di suoi cittadini[343].
Moadham sultano di Damasco, disperando tenere Gerusalemme, ne avea diroccato le mura, e pensava anche abbattere il santo sepolcro, quando la fortuna cangiò, e la crociata uscì alla peggio. Ne sbigottì tutta cristianità, e il papa imputava Federico, che, promesso ripetutamente di prendervi parte, sempre avesse mancato. Vennero poi in Italia i granmaestri de’ Templari, degli Spedalieri, dei Teutonici, il patriarca, e re Giovanni di Brienne, e si presentarono supplichevoli all’imperatore [422] in Verona; il quale non solo mostrò ascoltarli, ma sposò Jolanda figlia ereditiera di re Giovanni, col che pareva assumere come cosa propria la difesa e il ricupero di Terrasanta. Allestì navi in Sicilia, impose taglie e accatti, mandava retoriche esortazioni agli altri principi; ma alla nuova stagione destinata alla partita egli trovò sotterfugi, domandò il titolo di re di Gerusalemme a scapito del suocero, mentre palesava nè voglia di assumere nè lealtà di seguire l’impresa.
Più stavagli a cuore di sottomettere e regolare la sua Sicilia. Colà fumava ancora il sangue in cui Enrico VI avea tuffato i privilegi de’ baroni, e ne fermentava quel miscuglio di vecchio e di nuovo, di ribrame e di speranze, che turba ogni recente dominazione. Nei passati scompigli la giustizia era stata sovversa; la gerarchia d’impieghi stabilita da re Ruggero non serviva che a camuffare di legalità esazioni esuberanti; i feudi erano stati occupati a volontà, e ciascuno nel proprio arrogavasi la sovranità fino al diritto di sangue, e in tumultuosa indipendenza tutto era furto, assassinj, guerre.
Volendo farsi perdonare la rivolta o venirgli in grazia, i baroni andarono fin a Roma incontro a Federico, offrendogli doni e duemila cavalli di Puglia; poi al suo arrivo gli prodigarono omaggi, e gli consegnarono i maggiori avversarj. Federico li carezza, ma di mezzo alle feste si fa cedere i diritti regali dall’abate di San Germano; a forza sottopone i conti di Celano e di Molise; imprigiona quelli d’Aquila, di Caserta, di Sanseverino, di Tricarico perchè non gli avevano dato tutte le truppe che doveano; fa radere le fortezze erette dopo un certo tempo; a Capua pianta un tribunale che riconosca i diritti de’ feudatarj, e incameri i feudi di cui mancasse il titolo. Per tal modo snervò la feudalità; e smantellate le rôcche baronali alla campagna, ne fabbricò [423] di proprie nelle città più grosse, e castel Capuano in Napoli.
Valendosi delle istituzioni normanne e dandovi maggior ordine, ebbe fitto l’animo costantemente a render robusta la regia autorità a spese dei privilegi e delle entrate de’ feudatarj; impedire si costituissero grandi Comuni, quali in Lombardia; fare che tra il popolo e il re non si frapponesse che la legge e i magistrati. Mentre non solo Italia ma tutta Europa era sbocconcellata in municipj e feudi, egli prevenne i tempi col volere stabilire lo Stato qual noi lo concepiamo, e quell’unità amministrativa che forma il vanto e forse il disastro de’ tempi nostri, in sè e ne’ suoi uffiziali accentrando il pubblico potere, tolto ai signori, ai vescovi, alle città. Seguendo la missione provvidenziale dei re nel feudalismo, elevò le condizioni infime, ai sudditi demaniali attribuendo maggiori privilegi che non ne avessero i feudali; gli uomini si stimassero affissi al terreno che teneano dai signori, e di più franche condizioni fossero giovati; le proprietà libere si crescessero; alleggerite o tolte le prestazioni di corpo stipulate per contratti: intenzioni superiori all’età.
Per togliere il disaccordo venuto dagli avvicendati dominj, Federico dettò un codice, che abbracciava la legislazione feudale, l’ecclesiastica, la civile, oltre la politica ed amministrativa, e dov’erano pareggiati Normanni, Franchi, Greci e Latini. Lodando i Romani che colla legge regia trasferivano nel principe la facoltà legislativa, affinchè nel medesimo imperante si trovassero e l’origine della giustizia e il diritto di tutelarla, anch’egli avocò tutta la giurisdizione; e toltala ai baroni e prelati, proclamò (cosa insueta fra gli ordini feudali) i magistrati suoi proferirebbero su tutti i sudditi[344], [424] neppure esclusi i feudatarj; e pel giudizio di fatto bastava la testimonianza di due pari, ovvero di quattro dell’ordine inferiore, cioè per un conte vi voleano due conti, o quattro baroni, od otto cavalieri, o sedici cittadini. La giurisdizione criminale rimarrebbe divisa dalla civile. Fa meraviglia di trovar già nelle sue Costituzioni Augustali una gerarchia giudiziaria attaccata a un centro comune, fissate nettamente le competenze, sostituito il giudizio dei pari alla giustizia emanante dal monarca, conservato con dispiacere il duello giudiziario e ridotto a stretti confini; provveduti d’uffizio di campioni o d’avvocati gli orfani, i minori, le vedove, i poveri. I bajuli, scelti per titolo d’onoratezza più che di conoscenza di leggi, riscotevano le imposte, tassavano i viveri; e con un assessore giurisperito e nominato dal re, decideano dei delitti campestri e delle cause civili, poteano arrestare malfattori e sospetti per tradurli ai tribunali. Soprastavano come secondo grado i camerarj per gli affari civili e fiscali. Poi i giustizieri per le cause di polizia e criminali, con un notaro e un assessore stipendiati dal re, rendevano gratuita giustizia: duravano un anno, e doveano scegliersi stranieri alla provincia. Nessuna causa potea prolungarsi oltre due mesi; solo i giudici inferiori erano retribuiti dalle parti; gli avvocati non poteano pretendere più della sessantesima del valore contestato. Gli appelli da tutti i sudditi e le cause feudali recavansi ad una suprema Corte, composta di quattro giudici e del gran giustiziere, il quale una volta l’anno percorreva le provincie tenendo assise. Questa Corte vegliava anche sull’amministrazione della rendita, difendeva pupilli e vedove. In maggio e novembre si raccoglievano provinciali sindacature davanti ai prelati, conti, baroni, magistrati della provincia, ricevendo le querele portate contro gli impiegati.
[425]
A una camera fiscale, detta Segrezia, spettava l’alta giurisdizione in cause di finanza, l’amministrare i beni vacanti o staggiti, l’intendenza sui palazzi e le ville regie, le fortezze, i fondi destinati alla flotta: sugli uffiziali di finanza e sull’amministrazione vigilavano procuratori, rivendicando i beni confiscati, affittando quelli della corona; e rendevano ragione delle entrate e spese a un’alta Camera de’ conti in Palermo. Una commissione esaminava i concorrenti alle cariche od a professioni universitarie.
Il duello giudiziario mantenevasi soltanto pel caso di morte data da mano sconosciuta, e di lesa maestà; proibite le guerre private sotto pena della vita, le rappresaglie sotto pena dell’esiglio; fino il portare armi se non in guerra o in viaggio, multavasi con cinque once d’oro per un conte, quattro per un barone, tre per un cavaliero, due per un cittadino, una per un villano. Le figlie poteano succedere nei feudi: punito il barone che esigesse oltre il dovuto; agli ecclesiastici vietato il ricever doni e lasciti, e le funzioni di balio o giustiziere[345].
Se tali provvedimenti palesano spiriti elevati, durezza traspira dalle pene: la galera, il taglio della mano prodigati; la forca a chi frauda le imposte, sia per astuzia o per miseria; città intere distrusse, inventò supplizj atroci, e nelle tradizioni e nei versi di Dante restarono famose le cappe di piombo che infocate metteva addosso [426] ai ribelli: poi, per ingrazianirsi i baroni, con deplorabile debolezza li riabilitò ad usare la forza contro i vassalli.
Ai parlamenti, istituzione antica, insieme co’ vescovi e coi baroni chiamò due buoni uomini di ciascuna città e borgata[346], neppure eccettuando le terre sottomesse a’ feudatarj. Essi buoni uomini (da cui poi vennero i sindaci, quando il bisogno di sempre nuove imposte lo costrinse a mascherarle coll’assenso popolare) portavano richiami per le leggi che fossero violate dagli uffiziali, ed esponevano i bisogni dei loro mittenti: primo esempio al mondo d’una vera rappresentanza nazionale.
In ogni luogo due giurati paesani doveano vigilare sopra gli artieri, i ritaglienti, le osterie, le monete, i giuochi zarosi. Napoli, Messina, Salerno e qualc’altra conservarono vestigia degli antichi istituti, ma sotto tutela. Del resto, adombrato dall’emancipazione dell’alta Italia, severamente proibì dappertutto di istituire Comuni indipendenti; e il nominar consoli, podestà o simili magistrati municipali costava la forca agli eletti, e il saccheggio al paese[347]. Fu sottilissimo trovatore di girandole finanziarie e di tasse per cavar denaro, massime sul commercio coi diritti di fondaco, di porto, d’imbarco, d’estrazione ed altri, e ridusse a monopolio [427] il sale, il ferro, la pece, le pelli dorate; levò fin sei collette all’anno, cioè sussidj straordinarj non consentiti ma imposti, e fu volta che gli ecclesiastici pagarono fin la metà dei proventi. Volle anche limitare le usure col proibire ogni interesse maggiore del dieci per cento; ordine improvvido, che fu corretto al solito dalle frodi[348].
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Pier delle Vigne, nato poveramente a Capua, e invaghito degli studj, andò mendicando a Bologna, e quivi ammesso nell’università, primeggiò tanto che Federico sel tolse a segretario, poi lo alzò giudice, consigliero, pronotaro, governatore della Puglia, infine cancelliere e tutto. Bellissimo favellatore, arguto giureconsulto, le cure nol distolsero dalle lettere, e come il primo codice dell’Italia moderna, così dettò il primo sonetto: a’ consigli di lui va attribuita la protezione che alle dottrine concesse Federico, il quale anche l’insegnamento accentrò alla moderna, volendo unica scuola nel Regno l’università di Napoli; e i governatori doveano colà mandare tutti gli studenti, dove trovavansi allettati da [429] privilegi, giudicati dai proprj maestri, buon trattamento e sicurezza ne’ viaggi, le migliori case e a tenue fitto; non mancherebbero mai di grano, vino, carni, pesci, e di chi prestasse denaro[349].
Federico fece eseguire la prima versione di Aristotele dal testo greco; formò un serraglio d’animali forestieri; chiunque avesse merito, accoglieva alla sua Corte, ove si dirozzò il linguaggio italiano, e qualche poeta, imitando gli esempj de’ Tedeschi e Provenzali, avvezzò la musa sicula a nuovi concenti. Egli stesso «savio di scrittura e di senno naturale, universale in tutte le cose, seppe di lingua latina e vulgare, tedesca, francese, greca, saracena» (Villani); scrisse un libro sulla caccia a falcone; uno sopra la natura del cavallo dettò a Giordano Rufo suo scudiere. Del denaro cavato dai beni suoi e dal traffico che non isdegnava, facea larghezza agli amici e in fabbriche; e a lui sono dovuti i ponti sul Volturno[350], le torri di Montecassino, i castelli di Gaeta, di Capua, di Sant’Erasmo, la città di Monteleone ed altri forti e villaggi; di là dal Faro ristaurò Antea, Flegella, Eraclea, fondò le rôcche di Lilibeo, di Nicosia, di Girgenti: Napoli, abbellita e accresciuta di popolo e ricchezza come sede del sommo tribunale e dell’università, avviò a divenir capitale del regno. Ecco perchè egli v’è ancora nominato con popolare benevolenza.
Tante belle qualità non seppe acconciare coi tempi, ai quali non fu conforme nei vizj nè nelle virtù. A modo dei re moderni, voleva sottoporre anche la religione [430] all’amministrazione, e tenea fitto il pensiero ad affievolire i papi, come quelli che repugnavano a’ suoi divisamenti. Essi avevano costituita la dignità dell’imperatore perchè fosse tutela alla Chiesa, affidandola sempre a un capo elettivo, cioè degno; volendo l’indipendenza d’Italia, come necessaria all’indipendenza pontifizia, impedivano che alla corona imperiale s’annestasse quella della Sicilia, paese sempre della prima importanza in faccia agli stranieri. Federico invece aspirava a rendere ereditario in sua casa l’impero, e unirvi la Sicilia; solo dabbenaggine de’ popoli e astuzia de’ papi avere supremato la santa Sede, tutrice incomoda e umiliante. Nè solo la Lombardia voleva egli soggetta, ma tutta l’Italia, quasi retaggio proprio. Ad un principe italiano scriveva, ogni suo sforzo essere in sottomettere la penisola rinserrata fra dominj suoi, e renderla parte integrante dell’impero, come il regno di Gerusalemme eredità di sua moglie, come la Sicilia eredità della madre[351]; e nel congresso di Piacenza non dissimulò di voler soggiogare la media Italia, impresa difficile, alla quale soccombette.
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Non tardò ad accorgersi come, malgrado il momentaneo svolgimento, alleati suoi naturali fossero i Ghibellini; onde a questi s’annodò, sperando, fra il tempestare delle fazioni in Lombardia, riuscire a quello dov’era fallito l’avo suo Barbarossa, e fra i divisi piantare l’ordine; parola che, allora e poi, fu spesso intesa per servitù. A suo desiderio il servirebbero le forze del Reame e quelle della Germania, e i mercenarj che d’ogni parte comprava colle spoglie delle città italiane, e col concedere franchezza a qualunque bandito o malfattore prendesse servizio nelle truppe[352].
Nè pago delle masnade tedesche comandate da Rinaldo, figlio del famoso Markwaldo, cercò rinforzo da nemici del nome cristiano. Dalle montagne centrali dove s’erano ridotti dopo perduto il dominio, gli Arabi sbucavano a devastare la Sicilia, e «v’aveano uccise più persone ch’essa non conti abitanti». Alla conquista sveva non fecero opposizione, e perciò sfuggirono alle vendette esercitate contro i Normanni. Nella minorità di Federico, per odio al papa persistettero a favorire Markwaldo: vinto lui, si forticarono ne’ castelli di val di Màzara, blandirono Ottone IV, e gli spedirono regali. Federico li domò, e fino a sessantamila ne trasferì nella Capitanata, assettandoli a Nocera (1222), che oggi ancora chiamasi de’ Pagani, e a Lucera, posta s’una ultima pendice dell’Appennino, donde si dominano i piani della Puglia, chiusi a levante e settentrione dalla catena del Gargano e dal mare Adriatico. Quivi tentarono ripetutamente fuggire o sollevarsi, poi rassegnatisi divennero fedelissimi a Federico, che da questa colonia traea ventimila combattenti, devoti ad ogni suo cenno e, ch’era più, inaccessibili alle aspirazioni nazionali degl’italiani e agli anatemi dei papi. E quando i papi [432] gli apponevano di avere introdotto i Musulmani in mezzo a Cristiani, Federico se ne imbelliva anzi, come avesse con ciò liberato la Sicilia dal flagello delle loro correrie, e col porli fra’ Cristiani agevolato le conversioni. Il fatto sta che ebbe per tal modo anche un esercito stabile, a guisa dei re moderni.
A suo figlio Enrico, che faceva i nove anni quando egli ventisei[353], avea dai principi di Germania ottenuta la corona. Ora col pretesto della crociata lo invitò a scendere in Lombardia coll’esercito, e trovarsi a Cremona, ove per pasqua intimava la dieta (1226). — Una adunanza raccolta sotto le spade può ella essere libera?» dissero le città lombarde; e non ben fidando nel papa, che condiscendeva a Federico onde indurlo a quel ch’era suo primo desiderio, la crociata, provvedono al caso dubbio e pericoloso rinnovando la Lega Lombarda, secondo n’erano autorizzati dal trattato di Costanza. A Mosio sul Mantovano convennero dunque i rettori, podestà, ambasciatori di Bologna, Piacenza, Verona, Milano, Brescia, Faenza, Mantova, Vercelli, Lodi, Bergamo, Torino, Alessandria, Vicenza, Padova, Treviso, e giuraronsi alleati per venticinque anni. — I malfattori escluderemo da tutti i luoghi e dalle città collegate, nè di bando potranno essere tratti senza mandato dei rettori o della Lega: a chi contraffacesse, faremo guerra a senno dei rettori: nessuna città, luogo o particolare persona de’ collegati verrà ad accordo [433] con alcuna città o luogo fuor della Lega, o in danno di quella, altrimenti sarà avuta per ribelle, e i beni dei suoi abitatori pubblicati e devastati. Se alcuna città, luogo o persona particolare della Lega sia osteggiata dai nemici, le collegate le daranno ajuto, e reciprocamente rifaremo i danni ad arbitrio de’ rettori».
Tale era il giuramento; e quello dei rettori della Lega: — Giuro pei santi evangelj che con buona fede eserciterò l’uffizio a me commesso e le ragioni della giurisdizione a me sottoposte; concorderò cogli altri rettori in quanto concerna lo stato e utilità di tutta la Lega, e di ciascun Comune che v’entri; senza frode darò opera di mantenere e far osservare questa Lega; nulla manifesterò di quello che sarà trattato; niente piglierò per me nè per sommessa persona in detrimento della società; e se cosa alcuna mi sarà offerta, al più presto la farò manifesta a tutti i rettori. Le querele deferite a me od a’ miei colleghi, ad arbitrio degli altri rettori, fra quaranta giorni definirò, secondo la ragione e la buona consuetudine: quindici giorni avanti che scada il mio uffizio darò opera si faccia un altro rettore, il quale giuri siccome ho giurato io. Attenderò al meglio della università e non della specialità; e darò ogni opera a conservare la libertà di ciascun Comune, e difendere i beni contra tutte e singole le persone contrarie a tal società» (Corio).
Tosto la Lega si pone in piede ostile, far armi, troncare ogni comunicazione colle città ghibelline, proibire ai cittadini di trattar coll’Impero, nè ricevere ordini o donativi. Federico buttò giù la buffa anch’egli, ed avendo dalla sua Reggio, Modena, Parma, Cremona, Asti, Lucca e Pisa, mosse armato. Ma Faenza e Bologna, capo della lega Cispadana, gli chiusero le porte in faccia, sicchè dovette attendare alla campagna, poi affrontato da buoni eserciti, forza gli fu dare indietro. [434] Spedì proposizioni alle federate; e ricusato, le pose al bando dell’Impero; e non so se di buon senno o per contraffare le scomuniche papali, fece scomunicarle dal vescovo d’Ildesheim, e proibì d’andare a studio a Bologna: grave colpo per una città che viveva sopra dodici mila scolari. Le confederate non fecero come sbigottite; ma Onorio III papa, avendo in cima a tutti i suoi pensieri la crociata, e perciò la concordia fra i Cristiani, s’interpose, e rattaccò una pace (1227 — 5 genn.), dove Federico obbligavasi a cancellare que’ bandi, e i Lombardi a null’altro che rappattumarsi coi Ghibellini, e somministrare quattrocento uomini pel passaggio in Terrasanta: ma Onorio non potè vedere la spedizione desiderata.
Il successore suo Gregorio IX, dei conti di Anagni, aveva ottantacinque anni; ma parve ringiovanire nel ricevere in deposito le chiavi eterne: con pompa maggiore delle consuete si fece coronare, sette giorni continuando le feste; e l’ultimo cantata messa in San Pietro, menò una lunga processione ricchissimamente in addobbo, con due corone al capo, sopra un cavallo superbamente bardato, tenuto alla briglia dal prefetto di Roma e dal senatore; precedeano i cardinali, seguivano giudici e uffiziali in broccato d’oro, e una dirotta di popolo, fra le cui acclamazioni e ulivi e palme entrò al palazzo, quasi celebrasse il trionfo dell’autorità papale, che di fatto mai non era tanto salita.
Federico aveva preso tutti quei provvedimenti in Sicilia senza informarne il papa, che pur riconosceva per signore sovrano; imponeva tasse sugli ecclesiastici col pretesto della crociata, alla quale non risolvevasi mai; ed ai lamenti di Roma rispondeva col protestarsele docilissimo, e obbligato ad essa come a madre che Io aveva nutrito. Alla longanimità di Onorio verso un principe mentitore e subdolo come Federico, mal rassegnavasi [435] l’operosa fermezza di Gregorio, il quale intimò alle città longobarde di tenersi in pace (1228), e all’imperatore di partire per oltre mare, egli ch’era stato «posto da Dio in questo mondo siccome un cherubino armato di spada per mostrare agli smarriti la via dell’albero della vita». Più non avea ragioni o pretesti costui da indugiare, e con poche truppe s’imbarcò a Brindisi. Già dappertutto preludevasi a vittoria, già s’immaginava la santa città restituita agli inni dei devoti, quando si sparge che l’imperatore era tornato a terra dopo tre giorni, allegando le malattie dell’esercito e la sua. Al pontefice più non parve di pazientare, e lanciò la scomunica, denunziando Federico come spergiuro e infedele; suo delitto se la moglie Jolanda morì sovra parto; colpa sua se di fame e di caldo perirono i Crociati nella Puglia. Non meno iracondo Federico inveiva contro il papa che, in luogo di soccorrerlo, istigasse contro di lui il suocero suo stesso; il quale di fatto, appoggiandosi alla scomunica, in armi veniva a ridomandare il titolo regio che Federico gli aveva usurpato. Pure, avuto intesa delle discordie scoppiate fra i principi Ajubiti, l’imperatore si risolse al passaggio; data la posta a’ guerrieri nella pianura di Barletta, vi troneggiò in tutta la maestà imperiale e colla croce di pellegrino, lesse il proprio testamento, facendo giurare i baroni d’adempirlo se nell’impresa perisse, e precipitò gl’indugi.
Gregorio IX dichiarò scandalo che uno scomunicato capitanasse l’impresa santa; dichiarò imprudenza l’assumerla con sole venti galee e seicento cavalieri, armata da corsaro, non da imperatore; e interruppe la canonizzazione del pacifico san Francesco per ripetere gli anatemi contro Federico, il quale non vi diede ascolto.
In Levante i figli di Malek Adel, spartitosi il dominio, [436] si faceano guerra dall’uno all’altro; e Melik el-Kamel, signore dell’Egitto e di Gerusalemme, cercò prevalere a’ fratelli coll’allearsi all’imperatore d’Occidente, al qual uopo gli spedì un emir, mentre l’arcivescovo di Palermo arrivava al Cairo con gran regali per lui (1229), e si ricambiarono proteste d’amicizia. Melik el-Kamel invase di fatto la Palestina; sicchè l’imperatore, sapendo di non dovervi trovar nemici, non credette aspettare i rinforzi di Germania. Approdato, vi era dai nostri accolto come un Messia, quando due Francescani annunziarono la scomunica. Detto fatto, gli si toglie fiducia e rispetto, a segno che gli ordini non dava più in proprio nome, ma di Dio e del popolo cristiano. Melik el-Kamel non meno che Federico desiderava la pace; sicchè tutta la campagna si ridusse a trattative, quanto una guerra moderna, sempre avvolte però nel mistero. L’imperatore mandò al soldano pelliccie, eccellenti destrieri, bellissime armi di Germania, il cavallo di battaglia, la spada, parte dell’armadura di cui egli servivasi in campo, protestando non chiedere che le già promessegli città, titolare patrimonio di suo figlio; vedesse in quanto scredito cadrebbe se tornasse in Occidente senza nulla ottenere. L’emir lo ricambiava con stoffe di seta, un elefante, dromedarj e scimie, altre rarità dell’India, dell’Arabia, dell’Egitto, e una banda di ballerine e cantatrici, soggetto ai Musulmani di rimproveri, di scandalo ai nostri, cui davano gelosia e dispetto quelle benevole relazioni[354]. I due signori convennero d’una tregua decenne; Gerusalemme, Betlem, Nazaret, Toron e i prigionieri sarebbero consegnati a Federico con quanto siede fra Gerusalemme, [437] Acri, Tiro e Sidone; conservate ai Musulmani le moschee, e libero esercizio del loro culto; Federico distoglierebbe i Franchi da nuovi atti ostili contro di essi.
Il patto seppe dell’empio ad entrambe le religioni; imami e cadì appellavansi al califfo contro la cessione della città del Profeta, i vescovi al papa contro l’indegnità di mescolare i due culti: il sultano di Damasco ricusò l’accordo; il patriarca di Gerusalemme pose all’interdetto i luoghi recuperati. In conseguenza Federico entrò in Gerusalemme senz’altro accompagnamento che de’ suoi baroni tedeschi e de’ cavalieri Teutonici; e nella chiesa del Santo Sepolcro, tesa a bruno, abbandonata dai preti, mentre, lui connivente, dai minareti continuavasi a gridare: — Non v’è altro dio che Dio e Maometto è suo profeta», Federico colle proprie mani dovette porsi in capo il diadema. Nè potè ottenere obbedienza neppure sevendo contro i cittadini, battendo frati, impacciando i pellegrini che venivano per la settimana santa, e i Templari che voleano rialzar le mura: la sua partenza da Gerusalemme fu festeggiata quanto l’arrivo; e gli assennati gli faceano rimprovero di non avere provveduto tampoco nè a conservare gli acquisti nè ad assicurarvi i fedeli: sì poco gli caleva del regno di Cristo quando il suo pericolava.
Perocchè in Sicilia il papa gli suscitava nemici mandando nunzj, compiangendo che quei popoli, sotto un nuovo Nerone, perdessero fino il desiderio della libertà: — Vi ha forse Dio collocati sotto cielo sì ridente per trascinare catene vergognose?» Sollecitava anche soccorsi da’ collegati lombardi, e messo insieme un esercito, lo affidò a Giovanni di Brienne, che sotto lo stendardo delle chiavi entrò devastando il reame di suo genero.
Federico, sbuffante vendetta, muove le schiere tedesche ricondotte di Palestina, e i fedeli suoi Saracini, [438] segnati della croce, combatteano fieramente contro i papalini, segnati delle chiavi; e messi questi in isbaratto, recupera le piazze del Regno, invade le terre del papa, ne stramena i fautori, e gli suscita nemici in Roma stessa. Giovanni di Brienne era stato chiamato a Costantinopoli a regnare invece del fanciullo Baldovino II suo genero, e benchè ottagenario si mostrò eroe nel combattere i Bulgari. I Romani, espulso il pontefice, aveano gravato di esazioni le chiese, i conventi, i vassalli della santa Sede, e aizzato Federico alla totale rovina del papa; ma una straordinaria inondazione del Tevere, considerata come castigo del cielo, indusse e popolo e senato a richiamarlo in segno di penitenza. I prelati però mal sopportavano di dover contribuire alle spese a titolo della crociata; alle città lombarde pesava l’essere trascinate in una guerra offensiva, esse collegatesi solo per la difesa: laonde fu praticato un accordo (1230), e dopo lunghi dibattimenti si annunziò qualmente l’imperatore concedeva perdonanza universale, revocava il bando messo sopra le città lombarde, e prometteva che i benefiziati sarebbero eletti secondo le leggi ecclesiastiche, nè gravati d’imposte o collette. A tali condizioni fu prosciolto dalla scomunica, e le campane sonarono a letizia, il re baciò il piede del papa, n’ebbe la benedizione, e sedettero alla stessa mensa. I popoli credettero fosse pace, ma non era che un respiro ch’egli si procacciava per allestirsi all’ultima prova.
Quando i capi erano disuniti, tutte le membra se ne risentivano, e l’Italia peggio che mai trambustava, facendo guerra Venezia a Ferrara, Padova e Brescia a Verona, Mantova e Milano a Cremona, Bologna a Imola e Modena, Parma a Pavia, Firenze a Siena, Genova a Savona ed Albenga, Prato a Pistoja; signorotti feudali saliti a gran potenza mescolavano battaglie fra sè o [439] colle città; e ai rancori ed alle ambizioni private pretessevasi il nome del papa o dell’imperatore.
Questi convocò la dieta in Ravenna (1231), ma al tempo stesso da Germania invitava coll’esercito il figlio Enrico: di che adombrate le città, e mal fidandosi alle assicurazioni nè del papa, nè dell’imperatore, abbarrarono i passi, tanto che Enrico rimase di là, e Federico rinnovò il bando contra la Lega Lombarda, cassando qualunque diritto mai avessero ottenuto le città di quella. Mancando però d’esercito, le minaccie non fecero che rinserrare quella Lega. Milano mette in ordine sette capitani con mille uomini a cavallo ciascuno, giurati a sostenere la libertà, e morire in campo piuttosto che fuggire; disponeva delle forze di Parma, Piacenza, Novara, Vercelli, Alessandria, benchè indipendenti; ed essendosi Tommaso conte di Savoja tenuto sempre fedele all’imperatore, dal quale anzi fu costituito vicario, i Milanesi si spinsero fin nelle Alpi, e per sorreggere alcune terre a lui ribellate fondarono il Pizzo di Cuneo, che poi dovea divenire una delle primarie fortezze di quella casa e dell’Italia.
A Federico poi si ribellavano i proprj paesi, da lui fraudati delle consuetudini municipali, e specialmente Messina, avvezza a reggersi con stratigoti proprj: ond’egli moltissimi appiccò ed arse vivi; il castello di Centoripa distrusse dalle fondamenta; Gaeta, benchè amnistiata, fe spoglia dell’antico diritto di eleggere i consoli, e circondò di trenta fortini: insomma questo eroe, magnificato da coloro che venerano in lui l’antagonista de’ papi, trovò continuamente rivoltose la Puglia e la Sicilia, nè seppe frenarle che collo spediente dei tiranni, le fortezze.
Appoggio gli erano, dopo i Saracini, i signorotti ch’eransi eretti tiranni di alcune città e provincie, e che dai diplomi di lui (1215) credeano trarre legittimità e fermezza. [440] Principale tra questi fu Ezelino da Romano, che succeduto ad Ezelino il Monaco suo padre, all’avito dominio aveva aggiunto Bassano e Treviso, poi anche Verona e Padova, secondato dal fratello Alberico e dai Ghibellini della Marca Trevisana; e con una fermezza che non si arrestava alla necessità del sangue e del delitto, era divenuto il più spaventoso tiranno che la patria storia ricordi. Vi faceva contrasto Azzo d’Este, con larghissimi possessi e col favore di tutti i Guelfi: ma Ezelino prevalse alla venuta di Federico, del quale sposò Selvaggia figlia naturale. In queste emulazioni la Marca non meno che la Lombardia andava a strazio di deplorabili guerre, alle quali metter fine non potea la politica, ma solo qualche armistizio la religione, adoprantesi incessantemente a questo scopo.
Già vedemmo come essa dettasse la tregua di Dio; e i due nuovi Ordini di Domenicani e di Francescani furono tutti in attutire gli sdegni, frammettersi alle baruffe quotidiane, persuadendo e portando la pace da signore a signore, da una all’altra città; e cuori feroci, cui vigor di legge o possanza di magistrati non ratteneva, aprivansi alla pietà, gli stocchi tornavano alla vagina, e nel nome di Cristo fondendosi in lagrime, il nemico correva ad abbracciare il nemico.
Grandi paci conchiuse il santo d’Assisi; grandi il seguace suo Antonio da Padova. Nel 1176 i cardinali di Santa Cecilia e di Santa Maria in via Lata per delegazione pontifizia componeano molte quistioni, agitate fra le repubbliche di Pisa e Genova rispetto ai loro diritti sopra la Sardegna[355]. Sui cui esempio frà Guala da Bergamo, che fu poi vescovo di Brescia, riamicò i Bolognesi coi Modenesi, i Trevisani coi Bellunesi. In Cremona il popolo della città nuova viveva in [441] cagnesco con quel della vecchia, e il vescovo Sicardo li riconciliò; e così coi Vicentini il beato Giordano da Forzatè, coi Milanesi frà Leon da Perego. Sta manoscritto nella biblioteca Ambrosiana un prolisso discorso d’un ecclesiastico che esortava alla concordia, e diceva: — Popolo milanese, tu cerchi soppiantare il cremonese, sovvertire il pavese, distruggere il novarese; le tue mani contro tutti, e le mani di tutti contro te... Oh quando fia quel giorno che il Pavese dica al Milanese, Il popolo tuo è popol mio; e il Cremasco al Cremonese, La città tua è mia città!»
I Genovesi aveano contaminato le loro vie di molto sangue civile, massime per l’odio tra li Avogadri e i marchesi della Volta; quando si pensò porvi fine. Innanzi giorno ecco toccar la campana a parlamento: e i cittadini accorrendo attoniti, videro il vecchio arcivescovo Ugo in pontificale tra il clero con candele accese, e tra cittadini notevoli con croci alla mano, attorno alle venerate reliquie del Battista; scongiurava a deporre gli odj e gli sdegni, e giurare sui vangeli la concordia, che sola poteva salvare la patria. Rolando, capo degli Avogadri, non poteva indursi a perdonare il sangue di tanti parenti suoi, de’ quali aveva promesso vendetta; ma tanto insistettero i preti e i savj, che l’ebbero indotto: poi corsero alla casa dei Volta, che non erano voluti presentarsi, e li trassero a dare il bacio ai nemici; e campane a festa e Tedeum celebrarono l’evento[356].
Ambrogio de’ Sansedoni di Siena, che fu poi canonizzato, venne spedito a predicar la pace in Germania, [442] quindi tornò in patria per riconciliarla col papa che l’aveva interdetta come fautrice di Federico, e volle si cominciasse l’emenda dal perdono reciproco. Un magnate, sazio de’ suoi consigli, lo cacciava come impostore e vanaglorioso; ed egli: — Dio si chiama re della pace, ma non la dà se non a chi di buon cuore la conceda altrui. Quel che fo, lo fo per volontà di Colui che può sopra di me. Se v’irritai, ve ne chiedo scusa, e se merito supplizio, lo sosterrò di buon cuore per isconto delle mie colpe». Il forte a tanta umiltà venne a resipiscenza. Ambrogio predicava continuo che la vendetta è peccato d’idolatria, perchè usurpa la parte di Dio che a sè la riservò. Non riuscì mai a calmare un di Siena, sicchè gli disse: — Pregherò per voi», e insegnò una preghiera siffatta: — Signor Gesù, interponete la podestà vostra a queste vendette, e riserbatele a voi, acciocchè tutti conoscano che a voi solo spetta il punire gli offensori»; ed esortava a dirla avanti quelli che si ostinassero nelle ire. Anche quel pertinace, mentre ordiva co’ suoi consorti di non fare mai pace, la udì, ne fu compunto, e passati due giorni nella riflessione e nel digiuno, va e prega il santo a perdonargli e a rimetterlo in pace[357].
Continuò anche in appresso questa pia intromissione, e nel luglio 1273 Gregorio X conciliò una solenne pace in Firenze tra Guelfi e Ghibellini, e cencinquanta sindaci per parte si baciarono in bocca in sul greto d’Arno, dove esso papa volle si edificasse una chiesa che i Mozzi, suoi ospiti e grandi mercanti, dedicarono a san Gregorio[358]. Ma essendo il giorno stesso tornati [443] a sospetti e a risse, un’altra concordia fu solennissimamente celebrata il 1280 per mezzo del cardinale Latino nunzio, rogandone atto, e volendo trecensessantasei mallevadori de’ Ghibellini, trecentottantaquattro dei Guelfi, e alquanti castelli[359]. L’anno precedente, esso Latino in Bologna riamicava i Lambertazzi co’ Geremei, in Faenza gli Acarisi coi Manfredi, in Ravenna i Polenta coi Traversari; e frà Bartolomeo di Vicenza instituì l’Ordine militare di Santa Maria Gloriosa, per mantenere in calma le città italiane. Nel 1266 il sartore Giacomo Barisello a Parma inalbera il segno della redenzione, e forma la compagnia della Croce di cinquecento seguaci, co’ quali va di casa in casa riconciliando Guelfi e Ghibellini, e facendoli giurar fede al pontefice. La compagnia ebbe tale successo, che ottenne uffiziali proprj, con autorità di giudicare, e d’intervenire negli affari del Comune, esercitandovi importanza principale per mezzo secolo[360].
Di nuovo il cardinale Nicolò da Prato rappacificò Firenze; e «a dì 26 aprile 1304, raunato il popolo sulla piazza di Santa Maria Novella, nella presenzia dei [444] signori, fatte molte paci, si baciarono in bocca per pace fatta, e contratti se ne fece, e puosono pene a chi contrafacesse, e con rami d’ulivo in mano pacificarono i Gherardini con gli Almieri; e tanto parea che la pace piacesse a ognuno, che vegnendo quel dì una gran piova, niuno si partì, e non parea la sentissono. I fuochi furono grandi, le chiese sonavano, rallegrandosi ciascuno» (Compagni).
In Milano, contrastandosi nobili e popolani, si fece compromesso in quattro frati, e si stette al loro lodo; poi nimicatisi di nuovo, si accolsero in Parabiago, ove due frati dettarono condizioni d’accordo. Nel secolo seguente andò a predicarvi pace il beato Amedeo cavaliere portoghese, che di limosine fabbricò Santa Maria della Pace. Molte resie private e pubbliche in Valtellina e pel Comasco racconciò frà Venturino da Bergamo, che indusse diecimila Lombardi a pellegrinare penitenti a Roma, gridando pace e misericordia, e mantenendosi di carità. Molto profittarono pure in Lombardia san Bernardino e fra Silvestro da Siena.
Certamente anche allora potea dirsi, — Perchè frati e preti s’hanno a mescolare d’interessi mondani?
Ai tempi del nostro racconto, Gregorio IX, struggendosi di acconciare in buona pace gl’Italiani, sì per dovere di papa, sì per agevolare la crociata, mandava Nicolò vescovo di Reggio a ricomporre i Modenesi co’ Bolognesi; il cardinale Giovanni della Colonna a calmare i Perugini inveleniti fra loro, e ripatriarvi gli sbanditi; il cardinale Tommaso a Viterbo; il cardinale Giacomo da Preneste a Verona a concordare i Capuleti e i Montecchi, fazioni note per le compiante avventure di Giulietta e Romeo; frà Gherardo di Modena nella sua patria e a Parma, dove fu anche costituito podestà per riformare gli statuti; a Piacenza frà Orlando da Cremona.
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Principale in queste missioni fu Giovanni da Schio domenicano, ch’e’ destinò in varj luoghi e nominatamente a Bologna, avvezza gli anni passati ad ascoltare Francesco, Domenico, Antonio già santi, poi venuta in urto col papa per le giurisdizioni vescovili, e perciò fin privata dell’università. Alla voce del frate da Schio si compromisero i litigi, si scarcerarono i debitori, si rintegrarono gli esuli; ed esso riformò a suo senno gli statuti, frenò le usure, indusse le donne a vestire più composto, e tutti a salutarsi col Sia lodato Gesù Cristo; e più nol voleano lasciar partire, tanto che il papa dovette fin minacciarli d’interdetto. Allora lo inviò a Siena; ma poichè a questa non potè rappacificare i Fiorentini, il papa li proferì interdetti; ed essi per capriccio d’incomposta libertà sprezzarono quel castigo.
Frà Giovanni fu destinato principalmente a disacerbare i furori della Marca Trevisana; e a Feltre, a Belluno, a Treviso, a Conegliano, a Vicenza, a Padova, per tutto operò prodigi di riconciliazioni; incontrato come santo fra le bandiere sciorinate, richiamava gli sbanditi, liberava i prigioni; e quando in Prato della valle a Padova predicava di stando sul carroccio e contornato dai carrocci delle altre città accorse, prorompeva dai cuori l’evangelico Son pur belli i piedi di chi evangelizza la pace. Tutto predisposto, frà Giovanni ordinò un generale ritrovo a Paquara, vasta pianura sull’Adige, tre miglia sotto Verona. Al cenno d’un frate, tutte le città e le ville accorsero coi carrocci cantando laudi al Signore; e quindici vescovi, tutti i baroni delle vicinanze, i conti di Sanbonifazio, i signori Camino, i Camposampiero, il tremendo Salinguerra di Ferrara, e più tremendi ancora Ezelino ed Alberico da Romano, vennero per udire predicarsi carità. Giovanni, salito in pergolo, e preso per testo La pace mia vi do, la pace mia vi lascio, parlò con una eloquenza, la cui [446] efficacia veniva tutta dallo spettacolo e dalla persuasione della santità. A parole che ben pochi poteano intendere, ma che tutti sentivano, e a cui ciascuno sottoponeva quel che il cuore e la fantasia gli dettavano, avresti veduto quegli iracondi per penitenza picchiarsi i petti, poi gettarsi un al collo dell’altro, e chiedersi perdono, e promettersi amicizia. Il frate si valse dell’autorità concedutagli dal papa per assolvere da interdetti e scomuniche; e alzato il crocifisso, esclamava: — Benedetto chi conserverà questa pace», e centomila voci echeggiavano Benedetto; — Maledetto chi tornerà sulle risse», e centomila voci, Maledetto.
Se non che queste paci, indotte per impeto di sentimento, combinate in nome della universale carità, non isvelleano veruna delle cause delle nimicizie, talchè fra breve si era di ricapo alle armi. Pochi giorni dopo la spettacolosa concordia di Paquara, gli sdegni erano riarsi, le spade tinte di nuovo sangue, tutto tornato a peggio che mai per l’addietro si fosse; e i popolani che aveano inneggiato il frate santo, lo bestemmiavano uom di parte, venduto ai Guelfi, zimbello del papa. Egli stesso provocò quegli sdegni colla severità adoprata verso gli eretici, di cui ben sessanta bruciò nella piazza di Verona; poi a Vicenza, appoggiato dal popolo minuto, si dichiarò signore e conte, distribuì a suo senno le magistrature, riformò gli statuti; e colla solita volubilità popolesca fu cacciato prigione e respinto da un paese che lasciava in peggiori discordie di prima[361].
Il pontefice, offertosi arbitro tra Federico e la Lega Lombarda, proferì che l’imperatore dimenticasse ogni offesa, revocasse la proscrizione, compensasse chi n’avea sofferto pregiudizio; per ricambio i Lombardi rifacessero i danni all’imperatore ed a’ suoi, e per due anni [447] mantenessero cinquecento cavalli in Terrasanta. Federico trovò parziale quel lodo, e lesivo della maestà regia: ma pel papa quelle repubbliche erano corpi politici legittimi e riconosciuti, nè aveano peggiorato verun diritto imperiale col rannodare la Lega, a cui erano stati autorizzati dal patto di Costanza.
Esso papa era tergiversato dai Romani, che gli negavano il diritto di sbandire un cittadino, esigevano una retribuzione che da immemorabile la Chiesa dava alla città, infine gli contestavano la sovranità temporale. Quello a cui s’incurvava tutto il mondo, si trovò costretto rifuggire in Perugia (1234); Roma tornò repubblica e Luca Savelli senatore ideò di fondare la Toscana e la media Italia in una confederazione, che togliesse di mezzo il dominio pontifizio, come dell’imperiale avevano fatto i Lombardi. Le fazioni scrupoleggiano mai sui mezzi? Questi repubblicani solleticarono le antipatie di Federico, chiedendo li sostenesse; ma egli, temendo ancor più la libertà che il pontefice, esibì soccorsi a questo per tornare al dovere Roma. In riconoscenza, e perchè la guerra che prevedeva inevitabile non avesse a frastornare i soccorsi a Terrasanta, Gregorio IX dichiarava gl’interessi di Federico essere interessi suoi, atteso i grandi servigi che rese alla Chiesa[362]: s’industriava di tirare i Longobardi a più larghe condizioni; ma essi indugiarono oltre il termine prefisso, e la mediazione fu mandata a vuoto dagli avvenimenti di Germania.
Colà sentivasi il ricolpo de’ fatti italiani: ed Enrico lasciato a governarla, non che difettare della necessaria robustezza, si abbandonò alle proterve inclinazioni, oltraggiando la moglie, invidiando il fratello, tradendo il padre, fino a rompere ad aperta ribellione; e mal sostenuto dai Tedeschi, si drizzò alle città lombarde. [448] Milano, Brescia, Bologna, Novara, Lodi, il marchese di Monferrato gli esibirono quella corona (1235) che sempre avevano negata a Federico[363]; e n’ottennero conferma a tutti i loro privilegi, e che accettasse per amici e nemici quei della Lega. Pertanto guerra civile e domestica. Federico soleva menare nel suo esercito come trofeo camelli ed elefanti che avea condotti dalla sua spedizione in Asia; e i Milanesi saputo che ne inviava alcuno a’ Cremonesi in segno di benevolenza, assalgono quel popolo, e a Zenevolta lo sconfiggono: ma Parmigiani, Reggiani, Pavesi, Modenesi vengono a sostegno di quello, talchè il combattimento si fa generale, e città e principati si sbranano in fazioni. Dalla Sicilia, dove sanguinosamente avea chetato i tentativi dei Comuni di recuperare le fraudate franchigie, Federico traversa inerme la Lombardia, che non volle profittare della sua umiliazione; e fatto da settanta prelati e principi dichiarar fellone Enrico, che altamente era disapprovato anche dal papa[364], lo fa arrestare e tradurre nel forte di San Felice in Puglia, e ve lo lascia stentare fin alla morte.
[449]
Nella dieta da Federico radunata a Magonza, numerosa di ottanta principi e prelati e di milleducento signori, furono pubblicati molti savj provvedimenti e una pace pubblica; terminata la lunga lite tra la famiglia guelfa e la ghibellina, col dare a Ottone il Fanciullo, unico guelfo superstite, le terre di cui si formò il ducato di Brunswick, e sulle quali Federico rinunziava ad ogni pretensione. Costui vi sfoggiò una grandezza, alla quale non mancava se non il sapere moderarla; e con istraordinaria maestà solennizzò un nuovo matrimonio con Isabella, figlia del re inglese Giovanni Senzaterra. Una nobiltà di cavalieri e baroni incontrò la sposa alle frontiere; dappertutto il clero usciva a suon di campane; a Colonia diecimila borghesi a cavallo, splendidi d’armi e di vesti, la corteggiarono; minnesingeri in tedesco, trovadori in provenzale, forse anche siculi in italiano osannavano; mentre da carri, festonati di tappeti e porpora, mirabile armonia diffondeano gli organi nascosi; e la notte cori di fanciulle non interruppero mai le serenate sotto ai balconi della sposa. Quattro re, undici duchi, trenta conti e marchesi assistevano, e pari alla dignità furono i regali di Federico; una corona d’oro, collane, giojelli, scrigni, un intero servizio d’oro e d’argento a ceselli, fin gli utensili da cucina e le pentole erano d’argento; fra i quali Federico presentò al regio suocero tre leopardi menati d’Oriente, allusivi allo stemma d’Inghilterra. Isabella fu sposata per procura da Pier delle Vigne, poi dal re quando gli astrologi trovarono opportuno l’istante; portava in dote trentamila sterline, che oggi rappresenterebbero 1,140,000 lire; ebbe in dominio tutto il val di Màzara, e nel palazzo era servita da eunuchi mori e siciliani[365].
[450]
L’imperatore fece eleggere re de’ Romani suo figlio Corrado; ma più che il trionfare in Germania lo lusingava il lottare in Italia. La Germania vedea come gloria nazionale le spedizioni contro la penisola; ma gli Svevi le ripeterono e prolungarono in modo, che sì gravi sagrifizj e infruttuosi rincrebbero, non si volle più decretare i sussidj, e Federico si trovò ridotto ai mezzi che gli offrivano il proprio regno e i Ghibellini, ed ai mercenarj. Ai pesanti e ferrati cavalieri tedeschi associò gli scorridori saracini, le rapide evoluzioni moderandone colle lente mosse di un elefante, che portava una torre sulla quale spiegavasi lo stendardo, tenendo vece del carroccio e della croce. Ad esercito così bene assortito e diretto i Lombardi non aveano ad opporre che milizie d’artieri e contadini raccolti al momento del bisogno, nè addestrati alla fredda costanza di regolari battaglie. Schivavano dunque gli scontri in campagna rasa, preferendo aspettarlo in chiuse mura; e poichè dall’Alpi al Po seguitava una tela di fortezze, lungo e penoso riusciva il prenderle una dopo una, quanto pericoloso il lasciarle alle spalle: onde Federico doveva logorare dei mesi sotto a povere bicocche, come Carcano, Roncarello o Crevalcuore.
Rinserrata l’alleanza (1237), e costituita una cassa comune, noi attendemmo il Tedesco, il quale confidava principalmente nei castellani. Schiusagli Verona da Ezelino, uniti a diecimila Arabi i Ghibellini di Cremona, Parma, Reggio, Modena, sconfisse gli Estensi, prese Vicenza, costrinse a patti Mantova, orribilmente stramenò il Bresciano. I Milanesi, accorsi coi Guelfi di Brescia, Bologna, Vercelli, Novara, Alessandria, Vicenza, lo pettoreggiarono valorosamente, ma poi lasciatisi sorprendere a Cortenova nel Cremasco (27 9bre), n’andavano colla peggio. La compagnia de’ Gagliardi avea però tenuto saldo attorno al carroccio: ma vedendo che al domani [451] non potrebbero reggere a nuovo assalto, provvidero a ritirarsi, ed essendo difficile trarre quel pesante carro in terreno molliccio per natura e per le pioggie, ivi lo abbandonarono sguarnito. Allora sì che Federico menò vampo! scrisse a tutti i potentati avere ucciso diecimila Lombardi; fe trascinare quel trofeo dietro al suo elefante per le città, poi riporre sovra cinque colonne in Campidoglio a Roma, ove si legge ancora la pomposa iscrizione con cui volle eternare questa sua vittoria, mentre eternava la sua paura e la nostra prodezza[366]. Avendo côlto fra’ prigionieri Pietro Tiepolo podestà di Milano e figlio del doge di Venezia, lo fece strozzare.
Se molti Lombardi tentennarono dalla paura, non Milano; non Brescia, che sembra predestinata a feroci oppugnazioni e a magnanime resistenze, e che per sessanta giorni resse l’assedio postole dall’imperatore, ajutata dalle macchine dell’ingegnere Clamendrino, sicchè Federico bruciò le proprie, e voltò a Cremona. Allora i Guelfi ripigliano cuore, Genova li sostiene; Venezia, indignata dal supplizio del Tiepolo, si scopre nemica all’imperatore; Gregorio IX, scontento della fierezza ond’egli trattava le città lombarde, della predilezione mostrata ai Saracini, degli arbitrj usati in Sicilia, dell’avversione perpetua alla Chiesa, e dell’essere mancato al compromesso, s’allea co’ Veneziani, cedendo loro quanta parte di Sicilia occuperebbero.
Realmente Federico non lasciava sfuggirsi occasione di oltraggiare la Chiesa. Un nipote del re di Tunisi, [452] convertito dai Domenicani, va a Roma per farsi battezzare; e Federico lo arresta, dicendo non potersi trarlo al cristianesimo senza permissione dello zio. Vescovi, côlti, è vero, colle armi, lasciò straziare e impiccare da’ suoi Saracini; e smurar chiese per costruirne moschee: a Nocera de’ Pagani erge un palazzo s’una chiesa distrutta, e dov’era l’altare vi mette la fogna[367]: dalle sedi dell’Italia meridionale sbandisce i migliori prelati e gli uccide, e non lascia destinarvi i successori.
Federico corteggiava sempre il Vecchio della montagna, il dey di Tripoli, che gli pagava tributo, il sultano d’Egitto, che gli mandò fra altri doni una magnifica tenda con un orologio, stimato ventimila marchi d’argento, che segnava le ore e il corso degli astri; i loro ambasciadori teneva a tavola coi vescovi, di che pensate come si scandolezzassero i Cristiani. La sua Corte somigliava a un harem; eunuchi negri e nostrali custodivano sua moglie; «teneva mamelucchi e donne molte, a sfogo di lussuria ed onta della religione; menava vita epicurea, non facendo conto che mai altra vita fosse»[368]; nè tampoco s’asteneva dall’oltraggiare la natura. Nè solo papi e frati e guelfi, ma l’arabo Abulfeda dice che propendeva all’islam perchè educato in Sicilia; ed alcuni suoi frizzi mostrano come sentisse di scemo nella fede. — Se Dio avesse visto la mia bella Sicilia, non avrebbe scelto per suo regno la squallida Palestina», esclamò mentre [453] era crociato; e portandosi il viatico: — Quando si finiranno coteste ciurmerie?» e trattava da pazzo chi credesse al parto della Vergine, o ad altre cose repugnanti, secondo lui, alla ragione e alla natura[369]. Si bucinò anche d’un libro De tribus impostoribus, attribuito a lui o a Pier delle Vigne, ma nessuno lo vide; nè par credibile n’avessero taciuto i papi ed i fautori loro, che dissotterrarono ogni minimo reato della famiglia di Svevia: ma che Federico avesse detto, il mondo essere stato giuntato da Mosè, Cristo e Maometto, era voce tanto diffusa, che Pier delle Vigne credette doverla smentire in una lettera ove l’imperatore fa professione di fede: e convenendo che tale diceria correva, ma deboli essere gli argomenti tratti dal pubblico cicaleccio[370].
L’eresia sua capitale però consisteva nell’impugnare incessantemente la maestà pontifizia, e svigorire le censure [454] ecclesiastiche[371]; esclamava: — Pur beati i principi asiatici, che non hanno a temere sollevazione di sudditi, nè opposizioni di papi!» ed avrebbe voluto ridur Roma a sua capitale, il papa a suo cappellano. Col quale, nuovo motivo sopravenne di disgusto.
I signori Pisani che avevano occupato la Sardegna, presero il titolo dalle giudicature di quella, restando vassalli della patria. I papi pretendeano la sovranità della Sardegna come di tutte le isole, e Innocenzo III indusse i Pisani a rinunziargliela: ma Ubaldo e Lamberto dei Visconti di Pisa fecero guerra per proprio conto ai signorotti che tenevansi a bandiera della Chiesa; onde furono scomunicati (1237), poi ribenedetti quando riconobbero la supremazia papale, abjurando quella di Pisa. I Pisani se ne indignano, i conti della Gherardesca si armano, e Conti e Visconti divengono le denominazioni de’ Ghibellini e de’ Guelfi che straziano Pisa. Federico s’industria a calmarli, e fa ad Adelaide, vedova di Ubaldo Visconti, signora di Gallura e della Torre, sposare Enzo suo figlio naturale (1238), conferendogli il titolo di re di Sardegna, e pretendendo che questa fosse stata distratta dall’Impero in tempi fortunosi, e dover egli perciò sottrarla alla supremazia pontifizia.
Al papa che restava se non impugnare le proprie armi? e mentre Federico in Padova festeggiava con Ezelino la depressione della parte repubblicana, gli lanciò la grande scomunica (1239), intimazione d’una seconda guerra fra l’Impero e la Chiesa. Federico, conoscendo a prova qual colpo facessero tali sentenze sopra i popoli, fece da Pier delle Vigne recitare, nella gran sala [455] della Ragione, una lunga discolpa: ma il popolo l’ascoltò in significante silenzio; i signori stessi vacillavano; tanto ch’egli volle averne ostaggi, che spedì in Puglia; mandò circolari pei regni e i popoli tutti, irose al papa fino ad accusare di dissolutezze questo vecchio nonagenario: — Tu vivi unicamente per mangiare; sui vasi e le coppe d’oro hai scritto Io bevo, tu bevi; e così spesso ripeti il passato di questo verbo, che, quasi rapito al terzo cielo, parli ebraico, greco, latino: piena l’epa, ricolmo il sacco, allora ti credi seduto sull’ali dei venti, e che l’Impero ti sia sottomesso, e che i re della terra ti portino doni, e che ti servano tutte le genti»: aggiungeva che, per ligezza ai collegati lombardi, connivesse ai Catari, il cui nido era Milano; egli fariseo, assiso nella cattedra del dogma perverso; egli unto coll’olio di malizia più di tutti i malvagi; il gran dragone che seduce, il Balaamo, l’anticristo.
Il popolo credea meglio al papa, ai parroci, ai frati, i quali ripetevano come Federico fosse mal cristiano; ma quel ricambio d’improperj svergognava ambe le cause: e mentre la Chiesa e l’Impero contrariavansi, i Mongoli, suscitati dal tremendo Gengis-kan, devastavano non solo l’Asia, ma il settentrione dell’Europa, e minacciavano dappresso la Germania. Il denaro raccolto nelle chiese di tutta cristianità per respingere questi Infedeli, viene adoprato a strazio de’ Cristiani; Gregorio IX impegna tutta Europa a sbalzar Federico; Federico caccia e spoglia i vescovi siciliani; la parte guelfa, che in quella scomunica vedeva un diversivo al colpo finale minacciato alla libertà, rialza dappertutto la testa; gli Estensi ricuperano le terre perdute, Treviso si rivolta, Padova è a pena frenata dai torrenti di sangue che versa Ezelino. Federico, difilando sopra Milano, devasta la pieve di Locate, assistito dai nobili e dai Comaschi: ma i Milanesi, esortati dal legato pontifizio [456] che fece prendere le armi anche a preti e monaci, lo affrontano a Camporgnano, gli voltano addosso le acque, e lo costringono a ripiegare.
Di peggiori ferite egli colpì le terre pontifizie; v’assediò Faenza, e l’ebbe a patti; così Cesena e Benevento; e difilò sopra Roma (1240). Chi l’avrebbe difesa da questo eroe? tanto più che vi abbondavano i Ghibellini, e Federico teneva intelligenze coi Frangipani, che, occupato il Coliseo, poteano dargli una fortezza nel cuore della città. Ma frati predicano la croce, preti chiedono licenza d’armarsi, e il papa «trasse di Sancta Sanctorum del Laterano le teste de’ beati apostoli Pietro e Paolo, e con esse in mano, coi cardinali, con tutti i vescovi, arcivescovi e altri prelati, e con tutto il chiericato, con solenni digiuni e orazioni andò per tutte le principali chiese di Roma; per la quale devozione e per miracolo di detti apostoli, il popolo di Roma fu tutto rivocato alla difesa di santa Chiesa e del papa, e quasi tutti si crociarono contro a Federico, dando il papa indulgenza di colpa e pena» (Villani).
L’imperatore, costretto a levare il campo, torna a Napoli per far uomini e denaro, coi quali rientra in Lombardia; ma vede soccombere coloro sui quali più s’appoggiava. Bolognesi, Lombardi, Estensi assalsero Ferrara, difesa da Salinguerra Torelli, intrepido ottagenario, che aveva ottocento uomini d’arme tedeschi e molti assoldati; ma il suo luogotenente lo tradì, e il marchese, invitatolo a un banchetto, lo fece prendere e mandare a Venezia, ove sopravisse quattro anni in carcere.
Bisogna pur risolvere il ripigliato litigio; bisogna interrogare la cristianità se approvi e sostenga l’operato del papa. A tal fine Gregorio convoca un concilio generale a Roma (1241): e Federico, che sempre aveva a questo appellato, ora non vi vede che una dimostrazione ostile, [457] e scrive ai principi non lascino venirvi i cardinali, e dispone guardie, alle quali concede le spoglie de’ prelati che vogliano andarvi. Perciò un grosso di cardinali francesi, inglesi, lombardi, risoluti di obbedire al papa, scelgono la via di mare affidandosi ai Genovesi, avversi a Federico dacchè egli, dopo lusingatili di ampli privilegi in Sicilia, invece li sottopose alle comuni gravezze, e li privò sin d’un palazzo che v’aveano avuto in dono. Federico colla flotta pisana manda Enzo suo figliuolo, che tra il Giglio e lo scoglio della Meloria scontrato quel convoglio (1241 — 3 maggio), parte manda a picco, moltissimi cattura. Federico in trionfo ne informava il re d’Inghilterra, vantando che da duemila v’affogarono, e circa quattromila Genovesi restarono suoi prigioni: il vulgo aggiunse che l’oro fu diviso collo stajo fra Pisani e Napoletani. I Genovesi, di tal rotta dato ragguaglio al papa, soggiungevano: — La perdita di nostre genti e navi non ci nuoce quanto l’ignominia di nostro signore e il male de’ santi prelati, che in virtù d’obbedienza accorrevano al concilio per soccorrere la santità vostra di giusti e salutari avvisi. A vendicare sì atroce nequizia, a difendere la Chiesa di Dio col popolo a lei devoto, deliberammo dal primo all’ultimo porre le vite e le cose nostre, non perdonando a fatica, riposo, vigilie, finchè conculcata non abbiamo la ribellione, e preso vendetta delle morti, ferite e contumelie che gl’innocenti patirono ad onore e gloria del nome di Gesù Cristo, della santissima vostra persona, de’ venerabili fratelli vostri, della Chiesa universale, e di tutti i fedeli. Ogni Genovese, grande o piccolo che sia, posto da banda qualunque rissa, cura e negozio, attende assiduo, a fabbricare e munire navi e galee, affinchè abbiamo vittoria de’ nostri nemici, e la Chiesa di Dio possa la sua grandezza e potenza manifestare contro il figliuolo di perdizione, scelleratissimo apostato Federico, sedicente imperatore, [458] e i complici suoi e fautori. Nè pare ch’egli per altro sia salito in tanta fortuna, se non per precipitare da luogo più eminente nel baratro di estrema vergogna. Quindi genuflessi supplichiamo alla santità vostra, pel sangue di Cristo, le cui veci sostenete in terra, a non desistere dal proponimento pel sofferto sinistro, anzi sorreggere la navicella di Pietro, battuta dalle tempeste e quasi assorta, e condurla al porto di gaudio e salute».
I prelati furono tenuti in cattura a Pisa o ne’ varj castelli del Napoletano; e intanto Federico spediva la flotta a danno di Genova, contro cui istigava pure i suoi alleati Pavesi, Alessandrini, Vercellini, Tortonesi, e i marchesi di Monferrato, del Bosco, Pelavicino; chiedeva a prestanza gli argenti delle chiese di Puglia; occupava altre città romane fin a Tivoli e Montalbano; e nel sacro collegio istesso trovò chi tradisse il papa, come il cardinale Giovanni Colonna, che afforzando i castelli di Lagosta ed altri, circondava Roma. Chiuso in questa, il papa muore: e, detto fatto, Federico sospende le ostilità, quasi a lasciar intendere fossero dirette personalmente contro il pontefice; ma non per questo proscioglie i cardinali carcerati, anzi intercetta il denaro che da tutto il mondo spedivasi a Roma, mette Saracini a devastare il patrimonio, e ai pochissimi cardinali raccolti nel conclave, che ad arte egli traeva in lungo, scriveva: — A voi, figliuoli di Belial; a voi, figliuoli di Efrem; a voi, greggie di dispersione; a voi, colpevoli dello scompiglio del mondo».
Celestino IV, dopo appena diciassette giorni di papato, morì di veleno; e tenendo l’imperatore ancora in prigione o a confino i cardinali, più d’un anno passò prima che si potessero unire quanti bastavano per eleggergli un successore, che fu Sinibaldo Fieschi genovese col nome d’Innocenzo IV (1243). Era egli di famiglia e di persona favorevole all’imperatore, onde speravasi [459] un componimento; ma Federico disse: — Ho perduto un amico per acquistare un nemico». Però il vescovo di Porto con Taddeo da Suessa e Pier delle Vigne parve riuscissero a trar Federico a condizioni ragionevoli; e gli ambasciatori di questo il giovedì santo del 1244 in piazza del Laterano giurarono la pace, presenti esso papa, i cardinali, Baldovino II imperatore di Costantinopoli, il senato, il popolo.
Già l’Italia e la Chiesa credeansi rabbonacciate, quand’ecco frammettersi puntigli: Innocenzo pretendeva Federico cominciasse dal rilasciar le terre e gli uomini presi; Federico voleva ch’egli prima lo ricomunicasse, e discernesse la causa sua da quella delle città lombarde, usurpatrici delle regalie, mentre il papa contendeva non fossero obbligate rispondere ai tribunali dell’Impero. Federico, palpato invano il pontefice col cercargli una nipote per isposa a suo figlio Corrado, s’avventa da capo all’armi, e ne occupa tutte le città; il papa, nè tampoco fidandosi (così il conosceva) di rimanere in Roma, fugge a Genova e di là in Francia. Federico, stizzendo che la vittima gli fosse sfuggita, scrisse, mandò, e tanto era potente e riverito, che il papa non trovò asilo da nessuno, neppure da san Luigi. Fortunatamente Lione era città libera, sicchè colà ricoverato, e ricevendo grand’onoranza da gente che affluiva da tutta cristianità, e anche dall’Italia per quanto l’imperatore vigilasse i passi, aprì il XIV concilio generale (1245 — 25 giugno).
Cenquaranta prelati v’intervennero, e fu allora che Innocenzo ornò del cappello rosso i cardinali, per indicarli pronti a versare il sangue per la Chiesa, e v’aggiunse la valigia e la mazza d’argento, ornato regio, quasi a protestare contro di Federico, il quale pretendeva ridurli all’apostolica semplicità. Ai congregati espose le cinque piaghe della Chiesa: lo scisma dei Greci, le eresie crescenti, Terrasanta devastata dai Carismiti, [460] la minaccia dei Mongoli, e le enormità dell’imperatore, eretico, musulmano, bestemmiatore, spergiuro, spogliator delle chiese, persecutore del clero. L’avrebbe però ricevuto a pace, purchè rilasciasse i prigionieri, rendesse le terre alla Chiesa, e compromettesse in lui le sue differenze coi Lombardi; ma Federico stette al niego: finse poi voler condursi in persona al concilio, ma vi andò solo Taddeo da Suessa.
Grand’eloquenza, gran dialettica adoprò costui per menomare le accuse di eretico, d’epicureo, di ateo; ma indarno ripetute le proroghe acciocchè Federico comparisse in persona, fu in contumacia proferita la scomunica contro di esso: — Io vicario di Cristo; e quel che legherò sulla terra fia legato in cielo. Pertanto, deliberato coi cardinali fratelli nostri e col concilio, dichiaro Federico accusato e convinto di sacrilegio e d’eresia, scomunicato e scaduto dall’impero; assolvo per sempre dal giuramento quelli che gli promisero fedeltà; proibisco obbedirgli sotto pena della scomunica ipso facto; comando agli Elettori che scelgano un altro imperatore, riservando a me il disporre del regno di Sicilia». I cardinali gettarono per terra le candele accese, colla rituale esecrazione; Taddeo si picchiava il petto, esclamando: — Giorno di collera, giorno di calamità, di miseria»; ed Innocenzo intonò il Tedeum.
Federico trovavasi in Torino quando lo seppe; e chiesta la corona, se la calcò in capo, dicendo come un altro ai nostri giorni: — Guaj a chi me la tocca! guaj al pontefice che spezzò i legami che a lui mi avvincevano, nè mi lascia più altri consigli che dello sdegno!» E scrisse ai principi, lagnandosi d’essere stato condannato prima che convinto, negando al papa il diritto di deporre i re[372]: — Come mai voi soffrite [461] d’obbedire ai figli dei vostri sudditi? Vedete come si impinguano di limosine, e tronfj d’ambizione sperano che tutto il Giordano coli nella loro bocca. Quanto denaro risparmiereste sbarazzandovi da questi scribi e farisei! quando voi tendete loro la mano, essi pigliano tutto il braccio. Presi nelle loro ragne, somigliate all’uccello che, cercando fuggire, viepiù s’accalappia. Nostra intenzione fu sempre di voler colla forza tornare la Chiesa alla primitiva purità, e togliere a costoro i tesori di cui sono satolli». Così chiarivasi eretico nella lettera stessa ove di questa imputazione voleva scagionarsi.
Ma la voce del concilio era ascoltata e diffusa, e il papa scriveva a’ Siciliani: — A molti fa meraviglia che voi, oppressi da vergognosa servitù, gravati nella persona e nei beni, abbiate trascurato di procacciarvi le dolcezze della libertà, come fecero le altre nazioni. Il terrore che occupò il cuor vostro sotto al giogo d’un nuovo Nerone, vi è scusa presso la santa Sede, la quale per voi sentendo pietà e paterno affetto, pensa come alleviare le vostre sofferenze, e fors’anche portarvi ad intera libertà. Su, spezzate le catene della schiavitù, e prosperi nel vostro Comune la libertà e la pace. Vada voce tra le nazioni che il vostro regno, tanto famoso per nobiltà e per abbondanza di prodotti, ajutante la divina Provvidenza, potè a tanti altri vantaggi unire quello d’una stabile libertà»[373].
I Siciliani porsero ascolto a questi incitamenti, e, [462] mal per loro, tesserono congiure contro la vita di Federico, che ne tolse ragione di versare sangue illustre. Anche in Germania la corona fu data ad Enrico Raspon (1246-47), landgravio di Turingia, che, favorito dalle dissensioni, e dal denaro e dai brevi del papa, vinse il re Corrado di Svevia: ma poi rivinto, morì di crepacuore.
Non per questo migliorò la causa di Federico, il quale troppi titoli aveva onde bramarsi a riva. San Luigi di Francia, cui era sembrato un eccesso il condannare inascoltato il maggiore principe della cristianità, e che d’altra parte struggeasi di vedere i Fedeli in pace per ripigliare la crociata, s’interpose più volte, rammentando al pontefice la mansuetudine che conviensi al vicario di Cristo, e quante migliaja di pellegrini in Oriente implorassero l’armonia fra’ principi cristiani ond’essere redenti dal giogo: ma Innocenzo stava saldo, imponeva decime al clero, estorceva denaro in ogni modo, sollecitava i principi lontani, spediva ciascun giorno frati a predicare contro l’imperatore. Questi erasi accorto quanta potenza avessero le riforme portate dalla istituzione dei nuovi frati, riforme che toccarono alle viscere della società, cui ai tiranni giova lasciar corrotte, e perciò gli odiava. Pier delle Vigne scagliavasi contro costoro, che «nel principio parendo calpestare la gloria del mondo, assunsero poi il fasto che disprezzavano; non avendo nulla, possiedono tutto, e son più ricchi dei ricchi stessi. Frati Minori e frati Predicatori (soggiungeva) si elevarono contro di noi in ira, pubblicamente riprovarono la vita e la conversazione nostra, spezzarono i nostri diritti, e ci ridussero al nulla... E per affievolirci ancora più e toglierci la devozione dei popoli, crearono due nuove fraternite, che abbracciano gli uomini e le donne tutte; appena uno od una si trova, che a questa o quella non sia aggregato»[374].
[463]
In fatto essi resistettero intrepidi alla tirannia di Federico, e nell’andare a mettere pace faceano giurare obbedienza al papa. I Pagani da Nocera irrompendo nella valle di Spoleto, giunsero un dì fin sotto Assisi: al pericolo, le monache di San Damiano si stringono attorno alla malata lor madre santa Chiara; ed ella si alza, prende l’ostensorio, lo colloca sulla porta, e inginocchiata al cospetto dei Musulmani, supplica Dio a proteggere la città: e Dio per sensibile voce la rassicura, gl’Infedeli voltansi in fuga, e da quel punto la santa è dipinta coll’ostensorio alla mano. Un’altra volta Vitale di Aversa, capitano dell’imperatore, menava sue masnade contro Assisi, sperperando i contorni: Chiara ne restò compunta, e radunate le suore, — Noi riceviamo sostentamento quotidiano da questa città; è ben giusto che la soccorriamo a poter nostro»; e si spargono di cenere, e supplicano, finchè Dio le esaudisce e sbratta il paese dagli Imperiali.
Il beato Giordano, generale de’ Predicatori, andò all’imperatore, e statogli avanti alcun tempo silenzioso, proruppe: — Sire, varie contrade io giro, secondo è l’uffizio mio; or come non mi chiedete qual fama corra di voi? — Io tengo gente a tutte le corti e provincie, e so quanto accade in tutto il mondo», rispose Federico. E il frate: — Gesù Cristo sapeva tutto, e pur domandava a’ discepoli che cosa si dicesse di lui. Voi siete uomo, ed ignorate assai cose che vi gioverebbe sapere. Si dice che opprimete le chiese, sprezzate le [464] censure, date fede agli augurj, favorite Giudei e Saracini, non onorate il papa vicario di Gesù Cristo. Ciò è indegno di voi»[375].
Federico rispondeva colle crudeltà (1247); prese e distrusse Benevento città papale; e facendo criminali le parole e il pensiero, infieriva contro i sudditi; scriveva al re d’Inghilterra che i frati Minori combattevano contro di lui a lancia e spada, e assolvevano d’ogni peccato chi lo combattesse; accusava il papa di raccogliere i nemici suoi e rimunerarli; a quanti frati cogliesse, faceva in capo una croce col ferro rovente; appiccava qualunque portasse lettere d’interesse papale; rubò e disertò il convento di Montecassino: poi a tratto raumiliando, si faceva esaminare intorno alla fede da cinque prelati italiani.
Nè le città lombarde ristavano: e Federico assalì di nuovo i Milanesi, sempre fidi al papa, e distrutto il monastero di Morimondo, accampò presso Abbiategrasso; ma l’esercito milanese stettegli a fronte sulla sinistra riva del Ticino, impedendogli di varcarlo. Bensì suo figlio Enzo, che coi Cremonesi e con altri Ghibellini assediava i castelli bresciani, tragittò l’Adda a Cassano: ma a Gorgonzola fu sconfitto e preso dal prode Simon da Locarno, il quale lo rese in libertà purchè giurasse non entrare più sul territorio lombardo.
La perseveranza di una città lombarda diede il tracollo a Federico. I Guelfi, capitanati dai Rossi e dai Correggio, sinistrarono in Parma e ne furono espulsi dai Ghibellini, talchè l’imperatore come in città propria vi destinò podestà Arrigo Testa di Arezzo. Ma i fuorusciti pervennero a recuperarla, uccidendo in battaglia quel podestà, e scacciando il presidio imperiale. Questa rivolta noceva grandemente a Federico, perchè Parma [465] serviva d’anello fra le città ghibelline ch’erano schierate dall’Alpi alla Puglia, cioè Torino, Alessandria, Pavia, Cremona, Reggio, Modena, la Toscana; e ciò che più rileva, con Verona e coi dominj di Ezelino e la Germania. Pertanto egli si propose di recuperarla ad ogni costo: Enzo si postò sul Taro per impedire i soccorsi de’ Lombardi: l’imperatore da Torino vi accorse con diecimila cavalli e molti balestrieri saracini e colle truppe d’Ezelino e degli altri Ghibellini; sostenne quanti studenti o soldati o gentiluomini parmigiani trovò, facendone morire quattro il giorno al cospetto della patria, finchè i Pavesi gli dichiararono: — Noi siamo venuti a combattere i Parmigiani, non a farne il boja». Incontro a Parma alzò egli una gran bastita a guisa di città, col nome di Vittoria: ma mentre egli baloccavasi alla caccia, i Parmigiani che erano soccorsi dai Lombardi, sortiti distrussero le mura e il campo, fecero macello de’ Saracini e de’ Pugliesi (1248), fra i morti lasciando il marchese Lancia e il famoso Taddeo da Suessa, e tolsero a Federico il tesoro, le gioje della corona e la speranza del vincere. La città di Vittoria andò in fiamme, il carroccio de’ Cremonesi ornò il trionfo dei Parmigiani[376].
L’imperatore pensò rivalersi sulla Lega Toscana dei mali fattigli dalla Lombarda, e mandò suo figlio Federico [466] re d’Antiochia con milleseicento cavalli tedeschi a Firenze, che eccitò la consorteria degli Uberti a prender l’armi; e cavalcata la città, e prese una dopo l’altra le barricate de’ Guelfi, la ridussero a segno ghibellino; abbatterono trentasei palazzi colle torri, fra cui alcune ornate artisticamente, come quella de’ Tosinghi in Mercato vecchio, alta quarantacinque metri; rincacciarono poi i Guelfi ne’ loro castelli forensi; a Capraja l’imperatore stesso venne a porre l’assedio, e presala, molti [467] uccise, molti accecò, gli altri sepellì nelle prigioni di Puglia.
Ma intanto Corrado suo figlio restava superato da Guglielmo d’Olanda, nuovo anticesare in Germania. Più al vivo l’avea tocco la sventura dell’altro figlio Enzo, bello e colto giovane di venticinque anni e già d’onorato nome in cose di guerra, che essendo venuto contro i Bolognesi, a Fossalto cadde in costoro mano. Essi lo tennero in cortese prigionia, ma per qualunque dire o [468] fare più nol rilasciarono quanto visse. Raccontasi fosse fabbricato per lui il palazzo rimpetto al duomo, e che da Lucia Vendagoli avesse un figliuolo ch’e’ nominò Bentivoglio (1269), donde derivò la famiglia di questo nome[377].
Al dispetto della superbia ammaccata s’aggiunse in Federico il più crudele e consueto flagello che Dio scagli sui tiranni, il sospetto. Le volte del palazzo di Palermo echeggiarono ai gemiti de’ baroni ch’egli vi chiudeva a morire, mentre le donne loro consumavansi di doglia. Che più? Pier delle Vigne, l’uomo cui avea fidate le chiavi del suo cuore, l’uomo che per anni ed anni avea scritto le lettere di lui, senza farsi scrupolo di urtare le idee allora più sacre, e di meritar taccia di servile presso la posterità, anch’esso gli cadde in sospetto. Privato degli occhi, Pietro non seppe tollerare di vedersi calpesto da quello ch’egli aveva tanto esaltato, onde si diede morte da se stesso; e dalle incolpazioni lo assolse il giudizio dei contemporanei espresso da Dante[378].
[469]
La parte ghibellina, sostenuta da Pisa e Siena, prevaleva in Toscana; in Lombardia tenevasi in bílico coll’avversa, mercè la fierezza d’Ezelino; trionfi della forza: i Romani stessi minacciavano insorgere se il papa non tornasse. Potea dunque Federico lusingarsi d’un buon accordo, quando morì di sessantasei anni (1250 — 15 xbre). Rosa da Viterbo avea preveduta in visione la morte di lui, e intimatogli tornasse al cuore. Gli astrologi aveangli preveduta fatale una terra che traeva nome dal fiore; lo perchè non era mai voluto entrare in Firenze: ma l’ultima malattia lo colse a Fiorentino, villa della Capitanata. Prima di spirare fu ricomunicato: ma la fama divulgò che suo figlio Manfredi lo soffocasse: uno de’ molti misfatti, di cui quella famiglia fu aggravata dall’odio dei popoli e dei sacerdoti.
Tanto eroe ch’egli era, in cinquantatre anni che stette re di Sicilia, e trentadue che imperò, Federico nulla compì di grande, perchè, com’ebbe a dire san Luigi, fe guerra a Dio coi doni di Dio. Qual divario in fatti [470] dal limitare della sua vita, quand’era non solo amico, ma in tutela della Chiesa, e gli ultimi vent’anni in cui durò ritroso e contumace all’autorità spirituale! Acuto a scorgere i difetti e pregiudizj, stizzoso per beffarli, non amorevole per compatirli e correggerli, in un mondo che ancora operava per fede, volle trapiantare la politica materiale, facendo dichiarare da Pier delle Vigne che l’Impero è arbitro delle cose umane e divine; visitò il sepolcro di Cristo come alleato de’ Musulmani; si circondò di zanzeri, di odalische e di Saracini, a lor modo costumando la vita, e parve vagheggiare la coltura orientale a preferenza della cristiana.
Questa rivolta contro la forza vitale del cristianesimo poteva essa tollerarsi da un secolo credente? Con volontà baldanzosa cozzando contro l’opinione, Federico non potette appoggiarsi che sui peggiori uomini che producesse l’Italia, e ricorrere ai mezzi repugnanti alla sua natura; incrudelire contro il proprio figliuolo, tenendolo a vita prigione; trovare o sospettar ribelli i suoi più intimi, vendicarsi ogni giorno con mannaje e capestri, distruggere città, crocifigger preti e frati. Nell’alta Italia non riusci a comprimere nè le città nè i baroni, anzi li fe chiari di quel che loro mancava per sostenersi. Divorò colla speranza il patrimonio di san Pietro, e i papi sopravissero a spargere d’acquasanta la fossa dell’ultimo rampollo di sua prosapia. Nel suo regno di Sicilia attentò le franchigie, quantunque il facesse colla solita canzone de’ tiranni, «Lasciate ogni potere a noi, e noi vi faremo felici»; e così cumulò tesori di memori ire. A maggior diritto lo tacciano i Tedeschi d’avere, per soggiogar l’Italia, trascurato il loro paese quasi una provincia; e mentre avrebbe potuto unire all’Impero tutto il settentrione e l’oriente dell’Europa, diffondendo la civiltà fra la razza slava, cui dappertutto preponderava allora la germanica, per [471] capriccio di soperchiare i papi e per costituire un regno alla propria famiglia permise si eclissasse l’Impero, che più mai non ricuperò il suo splendore.
Testando lasciava il regno a suo figlio Corrado; mancando questo senza prole, gli surrogava il suo figlio naturale Manfredi, che intanto destinava balio in Italia: si rendano in libertà tutti i prigioni, eccetto quelli presi per la congiura contro di lui; anzi a nessuno dei felloni del regno sia permesso tornarvi, e gli eredi suoi siano obbligati a trarne vendetta: alla Chiesa si restituiscano i diritti, se essa restituisca quelli dell’Impero: ai baroni o feudatarj ripristinava i privilegi e le franchigie che godeano al tempo di Guglielmo II, col che annichilava la fatica di tutto il suo regno, cioè il restringimento delle giurisdizioni feudali, quasi credesse che tutta la riazione fosse venuta da loro, e volesse evitarla a’ suoi figliuoli. La storia non dovrebbe ammirare che la grandezza morale; e Federico nulla fondò; operava per passioni personali e intenti domestici, e nè tampoco la propria famiglia potè assodare. Il popolo, guardando tra meraviglia e compassione il suo sepolcro, conchiudeva come il cronista Salimbeni, che sarebbe stato senza pari sulla terra se avesse amato l’anima sua.
Dopo sei secoli di progresso un altro imperatore doveva elevarsi colla medesima assolutezza, la medesima nimicizia alla libertà, il medesimo conto della religione come stromento di politica e ordigno di Stato, la medesima ostilità ai papi; e come lui trionfare colla violenza, e come lui soccombere alla voce di Dio e del popolo.
[472]
«Esultino i cieli, giubili la terra, poichè in freschi zefiri e in fecondatrici rugiade si risolsero il fulmine e la burrasca, da Dio sospesi sul vostro capo»[379], esclamava Innocenzo IV all’udire la morte di Federico II; ma non parevagli perfetta l’impresa finchè restasse razza o seme degli Hohenstaufen. Scrisse ai baroni delle Due Sicilie, non riconoscessero altro re dal papa in fuori; e alle città e ai principi di Germania cessassero ogni devozione verso Corrado IV, scaduto, non che dal trono, fin dal ducato di Svevia; e favorissero invece Guglielmo d’Olanda, eletto imperatore; non fosse accettato alla comunione o a dar testimonianza se non chi si segregasse dagli Hohenstaufen. Poi, ad invito de’ Guelfi, da Lione suo ricovero venne alla patria Genova, traversò la Lombardia benedicendo e scomunicando, spegnendo e attizzando guerre. Le città, che la benedizione sua avea tanto francheggiate nel tener testa al Tedesco, tripudiavano ora nel nome di lui: tutti i Milanesi gli uscirono incontro, formandogli doppia siepe per dieci miglia di strada, e inventarono un cielone di seta portato da cittadini di rispetto, il quale poi fu detto baldacchino; e per due mesi che vi dimorò, gli accumularono dimostrazioni e n’ottennero grazie spirituali. Essi Milanesi sconfiggevano i Lodigiani, vi collocavano un podestà di loro scelta, e vinceano i Tortonesi in modo da farli quasi tutti prigionieri: Firenze rimetteva in città i Guelfi, i quali ben [473] tosto furono in grado di cacciarne i Ghibellini: molte città del Regno insorsero, e fin Capua, Napoli, Messina, e i conti d’Acerra, d’Aquino, di Caserta.
Solo in Roma prevalevano i Ghibellini; e non che accogliere il papa con feste o calma, si volle scegliere un senatore non più paesano, ma forestiero come soleansi i podestà. E fu Brancaleone d’Andalo bolognese, conte di Casalecchia (1253), legato con Ezelino, col Pelavicino e cogli altri di quella risma; il quale accettò solo a patto di durare tre anni, e di mandare nella sua patria come ostaggi trenta giovani di famiglie primarie; con giustizia inflessibile e governo di sangue tenne tranquilla la città, distrusse cenquaranta torri de’ nobili, molti ne mandò al supplizio o in esiglio; ad Innocenzo, ch’erasi collocato in Assisi, intimò di restituirsi alla sua sede se voleva essere riconosciuto, minacciando diroccare la città che il ricoverava, come già avea fatto colle riottose Ostia, Porto, Alba, Tivoli, Sabina, Tusculano. Tanta severità irritò il popolo, che cacciollo; ma presto lo rivolle, e quando morì ne collocò la testa in un vaso d’alabastro sopra una colonna.
Ai Ghibellini s’appoggiò pure Corrado quando con iscarsissimi mezzi venne in Italia (1251), e a Goito sul Mantovano convocò i Cremonesi, Pavesi, Piacentini, Padovani, e il caporione della parte imperiale, Ezelino, il quale era a un punto di costituire una potenza indipendente, se troppo lubrico fondamento non fosse il sangue. Invano dal papa tentato con promesse e minaccie, costui seguitò la strada della violenza, e con questa sostenea l’imperatore: sicchè le città guelfe rinnovavano la lega, che aveano imparato esser modo di salvamento; e il papa vi promise trecento lancie mantenute.
Corrado si tragittò per mare nel Regno, ove tutto andava a subuglio, perchè pretendeano governarlo gli [474] uni a nome del pontefice, gli altri de’ figli di Federico. Uno n’avea questi lasciato d’Isabella d’Inghilterra, per nome Enrico; ma finendo solo i tredici anni, non bastava a tali procelle: dell’altro Enrico, che era stato re, avanzavano due bambini. Ma la figlia di Bonifazio Guttuario signore d’Anglano presso Asti e d’una Napoletana di casa Maletta, vedova del marchese Lancia, a Federico avea generato Manfredi, che fu intitolato principe di Taranto. Nel vigore dei diciott’anni, tutto spiriti cavallereschi ed ambizione, alla morte del padre naturale egli si recò in mano le cose, e sanguinosamente reprimeva la Sicilia e le città che, confortate anche dal papa a quella libertà che godeano quelli direttamente soggetti alla Chiesa[380], aspiravano a saldare il governo municipale, forse non mai perito colà, ed eleggevano un consiglio invece de’ bajuli regj. Manfredi coi Saracini di Nocera e di Sicilia ajutò Corrado a sottometterle; il quale, avuta Napoli stessa dopo lunga resistenza, la mandò a sacco, costrinse i cittadini a smantellarla, e fece gran giustizia, cioè esterminio de’ capi ribelli. Queste ed altre severità e le rincarite imposizioni faceano che i popoli dicessero di lui «Gli è un tedesco», mentre di Manfredi ripeteano «È un italiano».
Per quanto Manfredi si fosse buon’ora addestrato nell’arte di fingere e inchinarsi, l’attività e la benevolenza il posero in sospetto a Corrado, il quale, dopo che gli nacque un figlio nominato Corradino (1252), cessò d’avergli riguardi; per fargli smacco abolì le donazioni fatte dopo morto Federico, depose il gran giustiziere di Taranto ed altre creature di esso, ne cacciò i parenti materni, lui stesso privò del ricco appanaggio di cui l’avea provveduto. Al tempo di loro amicizia aveali la pubblica [475] voce accusati d’avere avvelenato il giovane lor fratello Enrico e il nipote Federico: dopo la loro scissura si imputò a Manfredi il morire di Corrado (1254). Costui, finendo sul fiore de’ ventisei anni, temea il veleno in ogni posizione, e rimordeasi d’aver disgustato la Chiesa, prevedendo ch’essa trionferebbe d’una Casa ridotta a una cuna. Allora Guglielmo d’Olanda non ebbe più emuli nel regno di Germania: ma, benchè giovane ardimentoso, non potè mai ispirare nè amore nè rispetto; e prima di cingersi la corona in Italia, morì osteggiando i Frisoni.
Sì abjette erano le condizioni dell’Impero (1256), che nessun principe nazionale vi aspirò, ma gli uni facevano guerra agli altri in universale anarchia. Alfonso X re di Castiglia comprò con grosse somme (1257) il voto d’alcuni elettori; d’altri con somme maggiori Ricardo di Cornovaglia, non conosciuto per altro merito che per isfondolate ricchezze: sicchè l’impero di Carlo Magno tornava, come ai tempi di Didio Giuliano, a vendersi al migliore offerente. Ricardo, appena coronato, dovette tornare in Inghilterra, ove morì; Alfonso dai domestici affari e dagli studj astronomici fu trattenuto in Ispagna, nè cinse mai la corona di re de’ Romani: sicchè quel tempo chiamossi il grande interregno, non perchè mancassero imperatori, ma perchè di nessuno fu riconosciuta ed efficace l’autorità. Tempo deplorabile per la Germania, dove rivisse peggio che mai il diritto del pugno, cioè delle guerre private; e dove alle antiche, nuove occasioni di battaglia aggiungevano le investiture date dagli emuli imperatori; nè ai popoli restava cui ricorrere contro le angherie dei signori, i quali faceansi unica legge il proprio talento.
Pensate se ai Tedeschi rimaneva agio di badare all’Italia, dove la lite fra l’Impero e il Sacerdozio invelenivasi per nazionali rancori. Cotesta razza sveva innestata [476] sul tronco normanno, che appoggiavasi unicamente sopra guerrieri saracini o tedeschi, che fra gli Arabi avea scelto quasi tutti i giustizieri del Regno e i principali provvisionati, spiaceva agli Italiani, gelosi dell’indipendenza patria; spiaceva alle Repubbliche, come ereditaria nemica delle loro franchigie; spiaceva ai papi, che l’aveano perpetua contradditrice. Corrado lasciò, unico fiato di quella stirpe, un bambolo di tre anni, Corradino, partoritogli da Isabella di Baviera; e diffidando di Manfredi, gli avea destinato tutore Bertoldo di Hohenburg, signore bavarese di molta ambizione e scarsa capacità. Conformandosi all’intenzione del defunto, questo lo raccomandò al papa, il quale rispose gli lascerebbe il ducato di Svevia e il titolo di re di Gerusalemme; quando fosse cresciuto, farebbe esaminare i diritti di esso sulla Sicilia, che era ricaduta alla Chiesa. E la esibì al suddetto Ricardo di Cornovaglia, che ricusò, paragonandolo a chi gli esibisse la luna: Enrico III d’Inghilterra l’accettò per suo figlio Edmondo, tanto perchè anche questo gobbo avesse un appanaggio, e spedì qualche denaro per alimentare la guerra, ma null’altro ne fece.
In tali incertezze ognuno ghermiva qualche brano di potere, chi a nome del papa, chi del re, chi del Comune, chi di nessuno; gli ordinamenti municipali allargavansi in repubblica; e Bertoldo, vedendo gl’italiani mal intalentati verso lui straniero, rimise la reggenza in man di Manfredi.
Federico lo aveva in testamento sostituito a succedergli, caso che Corrado morisse senza prole; e chi conosce le ambizioni umane, non si recherà difficile a credere ch’egli aspirasse ad acquistare quel regno come suo, pur mostrando faticare pel nipote. Di forme ben assortite, nobile portamento, discreto trattare, si era coltivato colle lettere; e robustezza, valore, grazia [477] attrattiva, senno, scaltrimenti avea quanto bisognava al riuscire. Sulle prime, quando mancava di denaro, e i baroni vedeva nojati della dominazione tedesca, s’umiliò al papa, gli consegnò le rôcche, e lo riconobbe non solo come caposignore, ma come vero sovrano del Regno: al qual patto Innocenzo gli consentì il principato di Taranto e l’altre terre qual feudo della Chiesa, col peso di dare ad ogni richiesta cinquanta cavalieri per quaranta giorni; e il deputò suo vicario di qua dal Faro, coll’assegno d’ottomila once d’oro, mentre la Sicilia restava a governo di Pietro Rufo, speditovi da Corrado IV. Innocenzo entrò nel Regno, accompagnato dagli esuli cui restituiva la patria, e accolto ad onoranza dal popolo e dai signori.
Conciliazione apparente, ove gareggiavano qual dei due meglio simulasse. Manfredi secondava or le pretensioni del pontefice, or le esigenze de’ Tedeschi e de’ Saracini che si vedevano sbancati per la dominazione papale[381]; tradimenti e battaglie aperte ricorrevano fra le due fazioni. In una di queste perì Borello d’Anglone, creatura pontifizia; e Manfredi, citato a scagionarsi della costui morte, invece pensò resistere, e adottò la politica paterna di confidare sulla forza e sui mercenarj forestieri. Attraversando dunque il paese, tutto malvolto a lui scomunicato (1254 — 9bre), giunse nella Capitanata fra gravi pericoli. Giovanni il Moro, nato da una schiava nel palazzo reale, brutto, sconcio, ma astutissimo, era stato allevato con gran finezza per cura di Federico, che lo pose fra’ suoi secretarj, il fece persino gran cameriere del regno, e insieme capitano de’ Saracini di Lucera. Manfredi gli lasciò le dignità; eppure colui patteggiò col pontefice, che lo ricevette come feudatario e sotto la protezione speciale della chiesa di [478] San Pietro[382]. Fortunatamente egli era andato a ricevere l’investitura quando Manfredi arrivò a Lucera, dove i Saracini lo accolsero festosi, e posero a discrezione di lui i tesori depostivi da suo padre e da Corrado, coi quali soldò mercenarj di qual fossero nazione o colore; e avendo i baroni protestato di non tenersi obbligati a militare fuori del Regno, Manfredi ne li dispensò, e in quella vece condusse duemila Tedeschi per sei mesi a paga doppia: e ai capitani di cotesti forestieri, o ai conti rurali, gente anch’essa forestiera, e agli Arabi affidava la guardia e il governo delle città guelfe che sottomettesse, o delle ghibelline che gli si unissero.
Innocenzo IV, inesorabile alla casa sveva, era morto (7 xbre) a Napoli, e fra l’agonia udendo i parenti suoi piangere e singhiozzare, esclamò: — Miserabili! non v’ho io abbastanza arricchiti?»[383]. Gli succedette Alessandro IV, dei Conti di Segni, donde in sessant’anni erano venuti alla tiara Innocenzo III e Gregorio IX; tutto pietà, ma raggirato dai cortigiani. Manfredi, inebbriato sul prosperare delle sue armi, gli ricusò omaggio, sicchè la guerra divampò, e il legato Ottaviano degli Ubaldini raccolse quanti erano avversarj a Manfredi, e nominatamente il marchese Bertoldo, disgustato dal vedere che costui operava per sè, non più per Corradino, il quale anche con diploma reale avealo nominato reggente «come quello che per prudenza, fedeltà, alto senno ben meritava la sua confidenza, oltre che aveva diritto»[384]: ma poi Manfredi trionfava in ogni parte, [479] coll’operosità mostravasi degno di regnare; adunato il parlamento, distribuì i feudi a’ suoi fidati, spogliò gli avversi, e avuto in mano Bertoldo e i fratelli suoi, li mandò a morire in prigione. Divulgò o lasciò divulgare che Corradino fosse morto; in conseguenza si fece coronare a Palermo. Il papa lo scomunica co’ suoi aderenti (1258 — 11 agosto); ed egli si costituisce centro de’ Ghibellini di tutta Italia; occupa Napoli, e se la concilia col perdono e l’oblio; trovandosi come padrone nelle marche d’Ancona e di Spoleto, piglia in mezzo gli Stati papali; essendogli morta Beatrice di Savoja, sposa Elena Comneno figlia del despoto dell’Epiro, e la festeggia con magnificenza; ama le caccie, ama le canzoni di poeti tedeschi, i serventesi di provenzali, gli strambotti d’italiani[385]; circondasi di dotti, giocolieri, concubine, e corte all’orientale; intanto spedisce truppe sia in Grecia a sostenere lo suocero, sia nella Marca e in Toscana a fiancheggiare i Ghibellini, i quali lo favorivano perchè non tanto forte da metterli al freno, e perchè altro Tedesco non venisse in Italia[386]. In quattro anni era egli riuscito a ritogliere dalla mano dei papi quello scettro che suo padre avea con tanto vigore impugnato; carezzava baroni, prometteva rintegrare le franchigie municipali, distribuiva onori e contee, dava risalto al valor suo personale a fronte delle codarde fughe dei preti, e non mancava di punire atrocemente le città contumaci.
[480]
Il nuovo papa Urbano IV (1261), uom di robusto petto[387], sulle vetriate di Troyes sua patria fe ritrarre suo padre intento allo spago di ciabattino; si cinse di buoni cardinali; e degl’interdetti allora prodigati mitigò il rigore, permettendo la messa e i sacramenti purchè a porte chiuse. Ordinò che il corpo di Saracini stanziatosi sugli Stati papali sgombrasse, o bandirebbe la crociata; e fu obbedito da Manfredi, fors’anche per paura d’un nuovo entusiasmo che erasi diffuso. Una dirotta di battuti, uomini, donne, fanciulli, a lunghe file in disordine seguendo un crocifisso, flagellandosi a sangue, e cantando lo Stabat Mater, tragittavansi di città a città, intimando penitenza e concordando paci. Allorchè si accostavano ad una, podestà e clero uscivano ad incontrarli colle croci e il gonfalone, i campagnuoli interrompevano i lavori, ognuno voleva sorpassare i precedenti in austerità di penitenze e asprezza di flagellazione, e le donne si radunavano la notte per applicarsi la disciplina, e tutti gli abitanti si metteano dietro alle croci. A questa clamorosa devozione, non promulgata da predicatori, non istituita dal pontefice, diffusa rapidamente da un capo all’altro d’Europa senza che si sapesse da chi e perchè, entrava negli animi la persuasione d’alcuna grave sventura, con cui Dio fosse per risciacquare la terra peccatrice; tacquero le danze e le canzoni d’amore, per far luogo a pellegrinaggi e a devote cantilene; usurieri e ladri restituivano il mal tolto, peccatori inveterati si confessavano e ravvedevano, le violente ire ammorzavansi come un incendio sotto un mucchio di terra.
Il marchese Oberto Pelavicino piantò delle forche al confine del suo Stato, minacciando appendervi quanti Flagellanti lo passassero. Manfredi egualmente gli [481] escluse dal Regno; ma comprese che guaj a lui se il papa avesse cavato pro da quell’entusiasmo per dirigerlo contr’esso.
Anche in Sicilia un paltoniero finse d’essere Federico, che per espiazione fosse rimasto dieci anni in miseria; e trovò seguaci e denari, e fu forza mandar l’esercito per dissiparli e appiccare i capi. Manfredi, ito in persona a chetar l’isola, raccolse il parlamento generale a Palermo, dove i nobili vennero offrendo doni, fra cui un cavaliere di val di Mazzara cento muli condotti da altrettanti schiavi negri[388]. Gratificarsi il popolo con largheggiare libertà e istituir Comuni non osava, egli erede de’ rancori degli Svevi; anzi era costretto gravare sempre peggio le imposte, oltre esigere trentamila once d’oro pel matrimonio di sua figlia Costanza con Pietro infante d’Aragona, sul che dicevasi profittasse per la propria borsa[389]. Altre spese cagionavano le feste, a cui tanto si piaceva Manfredi: e di segnalate ne diede in occasione che sbarcò a Bari Baldovino spossessato imperatore di Costantinopoli, quando tra banchetti e balli v’ebbe un torneo ove ruppero le lancie venti cavalieri cristiani e due musulmani di Lucera, e premio era una collana d’oro coll’effigie di Manfredi. «Ogni jorno se fecero balli, dove erano donne bellissime, d’onne sorte; e lo re presentava egualmente a tutte, e non sapea qual chiù li piaceva» (Spinelli).
Questi cercò anche d’accordarsi col papa, fin mettendo di mezzo il famoso giurista Raimondo di Pegnafort, ma senza niun degno pro; anzi Manfredi ricusò rilasciare il vescovo di Verona, che diceva arrestato a capo d’insorgenti; e inveendo contro il pontefice, — Cessi [482] (esclamava) una volta di metter la falce nella messe altrui; obbedisca al divino precetto di rendere a Cesare quel ch’è di Cesare, a Dio quel che di Dio»; e scrisse ai Romani che non al papa ma al senato e alla città loro spettava il diritto di dare e togliere la corona imperiale, e mandò mercenarj tedeschi a ripigliare le ostilità[390].
Di questa lotta erano stanchi i principi d’Europa, giacchè per sostenerla i pontefici imponevano continue decime e annate sui beni ecclesiastici; e vedendo che quelli ostinavansi a volere sbalzata la casa Sveva, s’acconciarono essi pure a questo partito, e si diede nerbo alla guerra coll’opporre a Manfredi un altro campione.
Raimondo Berengario, conte della Provenza che molta parte avea avuto nelle vicende di Nizza, di Genova e delle alpi Marittime, sposò Beatrice figlia di Tommaso conte di Savoja, bellissima, letterata, e protettrice del sapere, che tenea spesso corti bandite e corti d’amore, favoriva trovadori, circondavasi di donne nominate fra le poetesse, quali Beatrice sua cugina, Agnesina di Saluzzo, Massa dei Malaspina, la contessa Del Carretto, la principessa Barbossa. Di lei Raimondo generò quattro figliuole, di cui maritò una al re di Francia, una a quel d’Inghilterra, una al duca di Cornovaglia eletto re de’ Romani, e morendo lasciava nubile Beatrice in tutela della madre. La quale, per sottrarla agli Aragonesi che aspiravano a quel dominio, la menò alla corte di Luigi IX di Francia suo genero, e quivi la fidanzò a Carlo d’Angiò, il minore fratello di lui. Voleva poi continuare in uffizio di contessa della Provenza, ma Carlo tergiversolla; del che abbiamo una lettera consolatoria che le scriveva l’altro genero Enrico d’Inghilterra[391]: e infine essa dovette [483] abbandonare il paese e restituirsi in Savoja, dove fondò alle Scale uno spedale, e vi fu sepolta in un mausoleo di ventidue statue, distrutto poi nelle guerre del Seicento.
Dispiacere e sgomento risentì la Provenza, che subito si vide allagata d’uffiziali francesi; e mozze le libertà di quel gran Comune, ordinato alla foggia dei nostri, si moltiplicarono imposte, confische, prigionie, supplizj arbitrarj. Carlo, allora sui quarantasei anni, oltre questo possesso della moglie, teneva, come figlio di Francia, la contea d’Angiò; sicchè era il più ricco e potente de’ principi non coronati; educato austeramente dalla regina Bianca, di valore avea fatto splendide prove alla crociata e ne’ tornei, de’ quali vivamente si piaceva; credea perduto il tempo dato al dormire, amava le suntuosità e le cortesie non meno che le avventure e le prodezze, cupo di naturale, non scrupoloso sui mezzi, implacabile coi nemici, pertinace nelle risoluzioni e paziente ad aspettarne la riuscita, fedifrago quando occorresse. Colla spada assodò e ingrandì il dominio, sottomettendo, fra altre, le importanti città di Arles e Marsiglia, strettamente collegate per commercio con Pisa e Genova; e allungandosi verso l’Italia, ebbe Ventimiglia e Nizza.
Qual meraviglia ch’egli ambisse di non essere da meno del regio fratello? Sua moglie poi struggevasi di portare onore di corona e di reame come le tre sorelle, colle quali trovatasi ad una corte bandita, fu obbligata prendere un posto inferiore. Quando dunque il papa gli offrì il regno delle Sicilie, volontieri l’accettò Carlo; ma Bianca, allora reggente di Francia, non gli consentì l’impresa. Egli però non distaccava gli occhi dall’Italia, e di qua dai monti acquistò Alba, Cuneo, Mondovì Piano, Cherasco; poi venuto alla tiara Urbano IV, rinnovò la pratica, e tolti gli scrupoli che [484] nasceano a san Luigi sopra i diritti di Corradino, s’accinse ad acquistare il Reame. Prima di moversi acconciò i suoi affari in Provenza, compromise le discordie che avea con Tommaso marchese di Saluzzo pel possesso di Busca e della val di Stura, e fece costruir navi nell’arsenale di Nizza, traendovi legname dai monti vicini per opera degli uomini di Peglia[392].
Ma la Provenza non dava guerrieri che per quaranta giorni e per brevi distanze; sicchè fu forza ricorrere a venturieri, stipendiandoli in parte colle decime imposte alle chiese di Francia, in parte colle gioje della contessa poste in pegno: vi si unirono i migliori campioni di Francia e di Provenza, volendo, per amore cavalleresco verso Beatrice, farla reina; altri per ingordigia di bottino; altri per acquistare le indulgenze che il papa prometteva, quasi fosse una crociata per chiudere il varco che agli Arabi aveano riaperto gli Svevi annidandoli in Italia. Così furono messi in acconcio quindicimila fanti, cinquemila lancie, diecimila balestrieri; sostenuto dai quali e dagli indulti, Carlo s’avviò all’Italia.
Ad altri forti erano ricorsi i pontefici fin dal tempo de’ Pepini; vi ricorsero dappoi fino a’ dì nostri, per sostenere buone cause e sciagurate: e i frutti furono sì differenti, che non si osa misurar la lode o il biasimo sopra gli effetti. Solo possiam francamente desiderare che la podestà sovreminente si trovi costretta il men possibile a implicarsi in interessi mondani, dai quali trasse sovente contaminazione, sempre il disgusto di qualche parte di coloro che tutti le sono figli in Cristo.
Urbano, incalzato più sempre dai Ghibellini e da Manfredi fin nella sua Roma, morì (1263); e Clemente IV suo successore si professò avverso al nepotismo, e ad [485] un suo nipote scrisse: — Non t’inorgogliare d’un’elevazione che noi umilia a’ nostri occhi, e che svanirà come la rugiada del mattino. Non uscire dal tuo stato; nè tu o tuo fratello e altri nostri parenti vengano alla corte senz’esservi chiamati, se non vogliano partirne colmi di confusione. Non cercare alle tue sorelle mariti di condizione superiore, chè ci troveresti repugnanti: ma se si mariteranno a semplici cavalieri, daremo loro trecento lire tornesi, purchè ciò sia noto solo a te e tua madre. Le figlie nostre (egli era stato ammogliato) non prendano altri mariti che se noi fossimo rimasti semplici preti. Niuno ardisca venirci a sollecitare, nè accettar regali; le vostre istanze sarebbero anzi nocevoli che vantaggiose»[393].
Come provenzale egli pendea verso Carlo, e più quando, nella guerra politica e insieme religiosa di tutta Italia, vide Manfredi assicurare prevalenza agli avversarj de’ papi. Carlo, a malgrado delle flotte combinate di Sicilia e di Pisa, con mille cavalieri scelti sbarcò a Roma, i cui cittadini lo chiesero senatore, e lo ricevettero con feste quali a nessun principe mai. Egli pattuì col pontefice sotto fede giurata di conseguire le Due Sicilie per sè e pe’ maschi suoi discendenti, o nati da figlie secondo l’ordine delle geniture; non dividerebbe o estenderebbe que’ dominj, nè s’intrometterebbe agli affari di Lombardia e Toscana; pagherebbe una somma allor allora, poi ottomila once d’oro l’anno, sotto pena di decadenza; darebbe al papa ad ogni richiesta trecento lancie da almeno tre cavalli ciascuna per tre mesi; ogn’anno gli presenterebbe un palafreno bianco, bello e di buona razza, in segno di omaggio[394]; non accetterebbe mai la dignità imperiale; [486] quella di senatore di Roma deporrebbe appena stabilito in trono; del resto rispetterebbe la costituzione che il papa fosse per dare alla Sicilia, restituirebbe alla Chiesa ogni bene o titolo usurpatole, e lascerebbe la piena libertà delle elezioni e provvisioni prelatizie, sicchè nè prima nè dopo fosse necessario il regio assenso; i chierici e le cause ecclesiastiche si tratterebbero al tribunale de’ vescovi.
Fra ciò, pei colli dell’Argentiera e di Tenda veniva di Francia l’esercito di Carlo. Pietro conte di Savoja e Guglielmo marchese di Monferrato, disertati dalla parte ghibellina, favorivano i nuovi vincitori; Acqui e Novi ne provarono le vendette; Torino, Vercelli, Novara gli accolsero lietamente; donde voltarono al Milanese, ai Guelfi dando il sopravvento, e cacciando i Ghibellini. Questi, e principalmente i Del Carretto e il marchese Pelavicino, ch’erasi formato uno Stato poderoso fra Cremona e Brescia, si opposero; ma, fors’anche per tradimento di Buoso da Dovara, i crocesignati poterono fendere il Bresciano, poi spingersi a Ferrara e al Bolognese, evitando la Toscana ancor fedele a Manfredi, indi raggiungere Carlo a Roma. Quivi arrivavano stanchi, poveri, nudi, affamati delle ricchezze romane; ma Carlo le aveva esauste, prestiti non si trovavano [487] più perchè non si restituivano, e il paese era manomesso come una conquista.
Clemente non voleva andare a Roma per non mettersi in balìa di Carlo, che allora egli conosceva ambizioso insieme ed egoisto, gran pezzo inferiore all’aspettazione e alle pompose promesse, e che incessantemente chiedeva denaro, «quasi (scrive il papa) noi avessimo montagne d’oro e fiumi di ricchezze»: tanto per ismorbare la città s’affrettò a fargli dare la corona di Sicilia e il gonfalone della Chiesa (1266), dopo nuovi giuramenti di ligezza; e lo sollecitò a rompere gl’indugi, benchè di fitto verno. Il papa levava decime e centesime per tutta la cristianità, dava in ipoteca i beni proprj e de’ cardinali per ottenere prestiti da Senesi e Fiorentini, moltiplicava indulgenze, assolveva incendiarj e sacrileghi purchè pigliassero la croce bianca e rossa; e col re mandò il suo legato Pignatelli vescovo di Cosenza, portatore d’assoluzioni e di scomuniche.
Manfredi facea côlta di gente, di moneta, di coraggio, chiese il contingente de’ feudatarj, chiamò nuovi Saracini d’Africa; una flotta di legni siculi, genovesi, pisani postò fra la Sardegna e l’Italia, ed assalì il patrimonio pontifizio, sperando sterminare i Francesi prima che sopravenisse l’esercito grosso; ma tutto gli facea sentire che la nazione non era con lui: i Napoletani, stanchi dell’interdetto, lo supplicavano a far pace col papa, ed egli protestava non averne colpa; prometteva mandare trecento Saracini, che obbligherebbero i preti a riaprire le chiese e cantar messe; colle congiure ribellò Roma ai papi, ma altre congiure lo costrinsero a ritirarsi dal territorio della Chiesa. Munì gagliardamente quelle gole, che sarebbero accessibili soltanto per tradimento o per vigliaccheria dei difensori: ma con tutto ciò la paura stringeva i cuori[395]; poi dicono [488] che il conte di Caserta, messo a guardia del fiume Garigliano, per vendicarsi dell’oltraggio fattogli da Manfredi nella moglie, lasciasse il varco ai Francesi. Manfredi, sentendosi preso fra le spire del tradimento, colle parlate e coi manifesti non ottenendo che promesse o quella compassione che nobilita ma non prospera le bandiere, propose un accordo; ma Carlo rispose: — Dite al soldano di Nocera che seco nè pace nè tregua; oggi io manderò lui all’inferno, od egli me in paradiso».
Altre volte vedemmo la disperanza del vincere infondere una smania di azzuffarsi e finirla; e mentre col ricoverare nelle fortezze poteva prolungare la resistenza, Manfredi volle tutto avventurare in una giornata campale a Grandella presso Benevento (1266 — 26 febbr.). Quivi da una parte gl’indovini arabi prendeano dagli astri il punto favorevole a ingaggiare la mischia[396]; dall’altra il vescovo d’Auxerre tutto in arme compartiva l’assoluzione ai Francesi, e — Per penitenza vi do di ferire molto forte e a colpi raddoppiati». Si mescola la battaglia; i Guelfi, massime toscani, fanno meraviglie di valore; di maggiori e con più arte ne fanno Manfredi, i suoi Arabi e i cavalieri tedeschi, che alti e vigorosi, le lunghe spade rotando a due mani, prevaleano ai Francesi, le cui spade corte e dritte si rintuzzavano battendo il taglio sulle armadure temprate a tutta botta. Carlo allora getta da banda le delicatezze cavalleresche, e ordina Di stocco, di stocco, e di dare colla punta sotto le ascelle de’ Tedeschi come alzano le braccia, e di ferire ai destrieri[397]; sicchè i Tedeschi scavalcati [489] non possono rialzarsi di sotto la poderosa armadura. Manfredi vuole allora avanzare i Pugliesi tenuti in riserva, ma li trova renitenti: suo zio conte di Maletta gran cameriere dà il segno della defezione: lo seguono il conte d’Acerra cognato di Manfredi, e altri cavalieri, già d’intesa col nemico. Fremente all’abbandono del fior dei prodi, e risoluto a morire da re piuttosto che campare esule e compassionevole[398], Manfredi getta [490] le insegne vistose e prende un elmo senza corona; ma l’aquila che ne formava il cimiero casca. Hoc est signum Dei, esclama egli, e avventatosi disperatamente nella mischia, cade trafitto. Il cadavere suo, trovato fra un mucchio di uccisi, fu riconosciuto al pianto dei suoi fedeli; i baroni francesi gli voleano rendere gli onori militari, ma Carlo riflettè che, come scomunicato, doveva essere escluso dalla sepoltura sacra: onde deposto in una fossa, i soldati vi gettarono ciascuno una pietra, elevando così un tumulo come ai prischi eroi. Nè quella tomba tampoco gli assentì il legato pontifizio, e lo fe gettare sulla dritta del fiume Verde, che fra Ceprano e Sora contermina il Reame e la Romagna.
Noi non graveremo la memoria di Manfredi quanto fece l’ira de’ Guelfi; anzi ci alletta quel far suo cavalleresco, generoso, ameno, e la costanza con cui affrontò la sventura: pure, incominciata la carriera della usurpazione, dovette procedere per vie oblique e finzioni; come i suoi padri, badò a sè anzi che ai popoli e ai loro bisogni e desiderj, e non ne cercò l’amore; combattè col braccio di stranieri, gravi anche quando non fossero rapaci; e i tradimenti de’ suoi più vicini ci fanno orrore, ma suppongono forti motivi.
[491]
Elena moglie di lui cercò fuggire a suo padre in Epiro, ma a Trani restò côlta a tradimento, e mandata prigione a Nocera; tra lei e i figli assegnatile sei carlini, di stento e di cruccio morì cinque anni dappoi: sua figlia Beatrice sol dopo diciotto anni fu rimessa in libertà; i tre maschi vissero tapini di prigione in prigione. I fautori di Manfredi furono mandati in Provenza o nelle fortezze del regno o profughi: i traditori ottennero scarsi premj e disprezzo. I Saracini, assediati nei loro ricoveri, dopo orrida fame dovettero rendersi a discrezione, e abbandonare ai supplizj i Ghibellini che aveano ricoverati; alcuni abjurarono, altri furono dispersi nel Regno; pochi durarono a Lucera, fatta nido de’ malcontenti, sicchè Carlo li rivinse, poi li tollerò, e se ne valse in guerra; infine Carlo II dissipò quella colonia, e ne mutò il nome in Santa Maria (1303), e Benedetto XI lo felicitava d’avere annichilata in Italia la fede eterodossa.
Coll’annunzio della vittoria di Benevento Carlo di Angiò spedì al papa due preziosissimi candelabri d’oro, molti giojelli e un trono gemmato; pure non impedì che Benevento, città pontifizia, fosse mandata al peggiore saccheggio. Napoli andò in gongolo vedendo entrar la regina Beatrice con carrozze dorate e quantità di damigelle e un lusso inusato[399], e coi leoni, gli elefanti e i dromedarj ch’erano stati dell’imperatore Federico I. I tesori che Manfredi avea deposti nel castello di Porta Capuana sarebbero dovuti spartirsi fra i compagni dell’impresa, al qual uopo Carlo domandò le bilancie. — Che bilancie?» proruppe Ugo del Balzo cavaliere provenzale; e coi piedi fattone tre mucchi, — Questo vada a monsignore il re, questo alla regina, questo ai vostri cavalieri». Carlo rimunerollo colla [492] contea d’Avellino; poi dappertutto stabilì baroni, magistrati, giustizieri di sua gente, volendo a cose nuove persone nuove, e portando tutti i guaj d’un’altra conquista e d’una vantata liberazione. Il sistema fiscale introdotto da Federico II fu mantenuto non solo, ma applicato con rigore insolito; e perchè Roma voleva immuni i beni ecclesiastici, succhiavansi il sangue e le midolle degli altri[400]. I nascosti amici della casa Sveva gemeano; quei troppi che sogliono ripromettersi ogni bene dai liberatori, delusi levavano lamento, ed — O buon re Manfredi, mal ti conoscemmo da vivo, morto ti deploriamo. Ci sembravi un lupo rapace fra noi pecore; ma dacchè la volubilità nostra ci mutò al presente dominio, comprendiamo ch’eri un agnello. Già c’incresceva che parte delle nostre sostanze venisse alle tue mani; ed ecco i beni tutti e fin le persone sono in balìa d’una gente straniera».
Antica canzone, che i popoli ripetono ad ogni cangiare di dominio, ma che non profitta nè per risparmiarsi i disinganni prima, nè per fare tolleranti delle conseguenze. Anche il pontefice, tratto alla necessità di appoggiarsi sugli stranieri, di lanciare scomuniche a città anticamente fedeli alla sua bandiera, di concitare le passioni popolari, tanto difficili a calmare dopo che proruppe l’egoistica esasperazione de’ partiti; caricatosi di debiti, avea sperato pagarli tostochè Carlo sedesse in trono, e poter così rientrare a Roma: ma dov’erasi creduto avere in costui un devoto, trovava un despoto; aveva cercato le franchigie de’ Siciliani, e vedea di avervi piantato un tiranno. Non cessava dunque di fargli rimproveri, e — Se tuoi ministri (scrivevagli) spogliano il regno, a te si ascrive la colpa, che gli uffizj empisti di ladri e assassini, i quali si permettono [493] azioni, di cui non può Iddio sopportare la vista... ratti, adulterj, estorsioni, ladronecci... M’alleghi a scusa la povertà! non ti basta dunque un regno, colle cui entrate un grand’uomo qual fu Federico sosteneva ben maggiori spese, saziava l’avidità della Lombardia, della Toscana, delle Marche, della Germania, eppure accumulò immense ricchezze?»[401].
Il papa, vedendo rannodarsi brighe in senso ghibellino, mandò come paciere in Toscana Carlo (1267), con giuramento che non terrebbe l’autorità più di tre anni, e la cederebbe tosto che un imperatore fosse riconosciuto. Firenze gli si assoggetta per dieci anni, ed il paciere vi eccita guerra di sterminio: anche molte città lombarde chiedono da lui i podestà; ond’egli osa perfino domandare lo eleggano lor signore; ma le più risposero: — Amico sì, ma non padrone». Dichiarato dal papa vicario dell’Impero vacante, estende la giurisdizione sovra il Piemonte, che gl’importava come vicino alla Provenza sua; e con titolo di rabbonacciare, assoda pertutto la dominazione propria e de’ Guelfi.
Allora rinacque compassione e desiderio di quella stirpe che pur dianzi erasi maledetta; e gli occhi volgevansi di là dall’Alpi, ove ne sopravivea l’unico rampollo. Corradino, spoglio de’ beni e delle dignità avite, proscritto prima di nascere colla discendenza tutta di Federico II, cresceva a Landshut presso il duca Lodovico di Baviera sotto gli occhi della madre Elisabetta: a sedici anni, bellissimo di persona, liberale comunque povero, dato alla caccia e all’armeggiare, colto nel latino, nel tedesco componeva poesie che ebbero lode fra le prime di quella lingua. Balocco di tutti i partiti, mira di tutti i malcontenti, erasi fin pensato crearlo imperatore di Germania: la taccia d’infingardaggine [494] inflittagli dai Tedeschi[402], le sollecitazioni degl’Italiani, le esagerazioni de’ vicini alimentavangli i sogni di risorgimento, abituali ai discendenti di razze scoronate, cui la nebbia degl’incensi toglie di vedere la situazione e di calcolare i mezzi e le probabilità. I Lancia, parenti per madre di Manfredi e fedelissimi a questo nella gloria e nelle sventure, riusciti a fuggire dalle carceri di re Carlo, furono principali in sollecitar Corradino a rivendicare la corona, portandogli centomila fiorini, i voti di Pisa e Siena, e offerte pompose; potrebbe soldare mercenarj; cavalieri di ventura sarebbero accorsi a sì nobile impresa; si mostrasse appena, e gl’Italiani, stanchi de’ Guelfi, de’ papi, degli Angioini, volerebbero tutti al suo stendardo.
Coll’ardore d’un giovane e la cecità d’un pretendente, mosse egli dunque verso l’Italia, per quanto sua madre lo disortasse: i duchi di Baviera suoi zii lo accompagnarono fino a Verona con diecimila combattenti; ma poichè a lui venne meno il denaro da soldarli, questi diedero volta, e soli tremila potè ritenerne impegnando il proprio patrimonio. Che importa? gli amici di suo avo, i Ghibellini di tutta Italia, i malcontenti di Sicilia gli largheggiavano promesse, merce di poco costo; uomini e denari affluirebbero; il solo Maletta, quel che dicemmo aver tradito Manfredi a Benevento, e che era divenuto gran tesoriere di Carlo, lo aveva assicurato di sedicimila once d’oro e mille cavalieri stipendiati. Vero è che nè uomini nè denaro comparivano: ma intanto Corradino componeva manifesti, arma di chi è debole nelle altre; incorava gl’italiani a venire incontro a lui, che rialzerebbe l’onore dell’Italia [495] e la dignità del nome tedesco[403]; ai principi d’Europa si lagnava dei papi: — Innocente ha nociuto a me innocente, Urbano mi si è mostro inurbano, Clemente mi usò inclemenza, e Roma mi odia a segno, da non volermi pur vivo, me rampollo di magnifica stirpe, che sì lungamente imperò, e dalla quale non voglio dirazzar io, eletto e creato alla sublimità dell’impero sulle orme de’ miei progenitori».
Fra ciò gli Astigiani, che, per seguire l’andazzo, si erano sottomessi a pagar tributo a Carlo, vedendo che neppure con ciò poteano schermirsi dalle prepotenze dei marescialli che per lui tenevano Torino, Alba, Alessandria, Savigliano, soldarono millecinquecento uomini, e collegatisi coi Pavesi e col marchese di Monferrato (genero di Alfonso di Castiglia imperatore eletto e vicario di questo in Italia), ribellarono a Carlo le città soggette: del che incoraggiati anche i Genovesi batterono le flotte di lui; come i Pisani con ventiquattro galee, comandate da Federico Lancia, sconfissero a Melazzo la flotta provenzale. Ne prendeva lieto augurio Corradino, e prevenendo la resistenza delle repubbliche guelfe raccoltesi nuovamente in lega, e sostenuto dalle ghibelline, da Pavia con ardita marcia varcò i gioghi liguri (1268); ad un piccolo porto presso Savona trovò galee che lo trasportarono a Pisa; e non contrastato nè sulle Alpi nè ai grossi fiumi, poteva ormai portare le armi nel paese stesso dei nemici, agitato dalle memorie e dalle trame.
Clemente IV, tuttochè scontento di re Carlo, più si adombrava di questo fanciullo, che pretendeva ancora congiungere l’Impero e la Sicilia; onde lo dichiarò [496] scomunicato co’ suoi aderenti, e decaduto non solo da qualsifosse diritto sopra il regno di Sicilia, ma anche sopra il ducato di Svevia e il nominale reame di Gerusalemme; e insultava a questo «reatino, uscito dalla razza velenosa del tortuoso serpente, che aspirando all’esterminio della romana madre Chiesa, col suo fiato appesta le contrade toscane, e manda traditori nelle diverse città dell’Impero vacante e del nostro regno di Sicilia»[404].
Tali parole già indicano come non mancassero al pretendente que’ partigiani che facilmente trova chiunque venga a sommovere regno nuovo. I baroni, che in Lombardia e in Toscana teneano feudi dell’Impero, e all’ombra di questo aveano esercitato la tirannia, bramavano un nuovo imperatore, massime se giovane e fiacco, sotto il cui nome velassero le superbe loro voglie. Corrado Capece, penetrato in Sicilia con un corpo d’Africani, vi avea ridestato l’immortale rancore contro Napoli, e sostenendo i Fetenti contro i Ferracani, come eransi colà intitolati i Ghibellini e i Guelfi, sollevò tutti i paesi, eccetto Siracusa e Messina. A Roma, sempre ricalcitrante al dominio papale, parteggiava apertamente per lui Enrico di Castiglia, che segnalatosi per vittorie sui Mori, e lungamente dimorato fra i Barbareschi di Tunisi, di cui aveva contratto i vizj, fatto senatore di Roma, vi esercitò indegna tirannide, perseguitando molti primati. Favorevole da principio a Carlo suo parente, se gli avversò dacchè questo l’impedì di ottenere l’ambito regno di Sardegna, e non gli restituiva i denari prestatigli; e non meno ritroso al papa, promise a Corradino la propria spada e un corpo di combattenti.
Con tali lusinghe Corradino mosse da Pisa, traversò [497] Siena, e spiegò le sue bandiere sotto le mura di Viterbo, nelle quali stava ricoverato il pontefice profugo da Roma, e che ai cardinali disse: — Non v’incuta paura questo giovane, trascinato dai malvagi come una pecora al macello», e tranquillamente celebrò la solennità della Pentecoste.
I Romani festeggiarono Corradino come popolo che ha bisogno dello spettacolo; il terreno coperto d’abiti e di stoffe, le vie parate a ricchi tappeti, a pelliccie, a drappi di seta e d’oro, e tese di corde alle quali ciascuno avea sospeso quel che più vistoso possedesse di vesti, d’armi, di galanterie; e dappertutto suon di tamburi, di viole, di pifferi, e cori allegramente cantanti[405]. Corradino, gridato liberatore del popolo, spada d’Italia, e quegli altri titoli che d’età in età sono echeggiati dal vulgo di piazza e di gabinetto, ascese al Campidoglio, e tenne un discorso, ove il popolo romano avrà trovato tutte le bellezze di sentimento e di forma, perchè v’era adulato. Urli di gioja ridestarono l’eco dei sette colli, e in poesia e in prosa si inneggiò al legittimo [498] successore di tanti Cesari. Quei che lo contrariarono ebbero prigione, saccheggio, confisca; il senatore, per far denari, spogliò le chiese e le sacristie, dove allora solevano anche i privati deporre le ricchezze; e stipendiato soldati, mosse a un conquisto, di cui forse sperava il miglior frutto.
Ebbro di speranze, il giovane Svevo mosse per Tivoli e Vicovaro onde penetrare negli Abruzzi, monti così opportuni ad accamparsi, e dove verrebbero a raggiungiungerlo tutti i fazionieri suoi del Regno, e principalmente i Pagani di Lucera. Ma non dormiva Carlo, e a Tagliacozzo (23 agosto), presso gli antichi Campi Palentini, trasformati in piano di San Valentino, pettoreggiò il rivale. Alle armi del re benediva il legato pontifizio, imprecava a quelle di Corradino: ma questi menava buon numero di Tedeschi, d’Italiani Galvano Lancia, di Spagnuoli Enrico di Castiglia. Ai Ghibellini parve assicurata la superiorità, sicchè Carlo disperavasi nel vedere i suoi sparpagliati e uccisi. Ma a consiglio di Erardo sire di Valery, canuto cavaliere francese reduce allora di Terrasanta, avea tenuto in riserva un corpo, col quale assalendo i Ghibellini già inebbriati sulla vittoria, li mise in pieno sbaratto con tale strage, che quella di Benevento parve un nulla[406].
A Roma i Ghibellini aveano annunziato la vittoria di Corradino, occasione di nuove feste: ma ben tosto coi fuggiaschi giunse la verità; che Enrico senatore era in man del nemico; che Carlo ai prigionieri romani fece troncare i piedi, poi chiuderli in un recinto e quivi bruciare. I Guelfi, rialzatisi alla vendetta, con nuovi tripudj accolsero Carlo, che alla sua volta salì in Campidoglio fra apparati ed inni, ripigliò la dignità di [499] senatore, e sedette giudicando: ma non perdette tempo ne’ trionfi.
Corradino, così subitamente caduto dal vertice delle speranze nell’abisso della realtà, era corso a Roma, quasi a ripetere le promesse fattegli nella prosperità, ma non trovò che scherni e insidie, pane dei vinti; talchè vestito da villano fuggì con Galvano Lancia, il costui figlio e poc’altri, fedeli alla sventura, e specialmente Federico di Baden suo cugino, che spossessato del ducato d’Austria, era venuto a ricuperare il retaggio dell’amico, perchè poi l’ajutasse a ricuperare il suo. Presero la via del mare, cercando qualche legno che li tragittasse in Sicilia, ove il Capece teneva elevata la loro bandiera, e giunsero al fiumicello che la Campagna di Roma separa dalle Paludi Pontine, presso la rôcca d’Astura, ond’era castellano Giovanni Frangipane romano, che facendo guerra alle strade e al mar vicino, cercava d’ogni parte o preda o riscatti. Come gli altri baroni, aveva costui sposata la parte di Corradino; ed ora già imbarcato lo raggiunse e rimenò nel suo castello, in tentenno se cavar oro dal salvarlo o dal venderlo. Invano il papa mandò a chieder costoro, arrestati su terre sue: il Frangipane li consegnò agli Angioini: Carlo, venuto in persona a Gensano con un corpo di cavalleria per riceverli, senz’altro fece decapitare il Lancia, suo figlio ed altri di Puglia, vassalli ribelli.
Clemente IV domandò Corradino, che, come scomunicato, doveva giudicarsi dalla Chiesa[407]; e avendo [500] preso malavoglia dell’ambizione e della violenza di re Carlo, in quel giovane vedeva forse un pegno e uno spauracchio prezioso. Per ciò stesso doveva rifuggire Carlo dal consegnarglielo; e pare trovasse modo di sgomentare Corradino sul trattamento che gli destinerebbero questi preti, inesorabili alla sua casa, e di persuaderlo ad affidarsi alla sua reale clemenza. Di fatto il giovinetto confessò d’aver peccato contro la santa madre Chiesa; Ambrogio Sansedoni di Siena, predicatore nominato e santo, andò al pontefice, e sebbene avesse preparato un eloquente discorso, s’avvide dell’efficacia della semplicità, e non fece che prostrarsi, ricordargli la parabola del Figliuol prodigo, poi: — Santità, Corradino manda a dirvi, Padre, ho peccato avanti ai cieli e a te, e chiede umilmente la remissione del suo fallo per la misericordia ch’è in te». Il pontefice, tocco nel cuore dalle parole del frate e dall’alito di Dio, rispose subito: — Ambrogio, io ti dico in verità, la misericordia vogl’io, non il sagrifizio». E rivoltosi agli astanti: — Non è lui che parlò, ma lo spirito di Dio onnipotente». Clemente e tutti gli astanti stupirono della dolcezza che Dio avea fatta passare dalla bocca di Ambrogio ne’ loro cuori; e così Corradino fu assolto da ogni censura e dallo sdegno del pontefice[408].
La Chiesa ribenediva, il re esultava di vedersi assicurata la sua preda[409], perocchè, cessato coll’assoluzione [501] ogni conflitto di giurisdizione, potè disporre il processo a suo senno. Convocò a Napoli due sindaci di ciascuna delle città del Principato e della Terra di Lavoro a lui devote, e innanzi a loro e a magistrati, tutti francesi, propose l’accusa di Corradino. Eppure i più lo tennero come un re che tenta ricuperare il toltogli dominio; vinto, dovere considerarsi come prigione di guerra: e perchè Carlo insisteva sull’essere quello colpevole di sacrilegio per gli arsi monasteri, Guido di Suzara valente giurista seppe rammentargli come un capo non possa farsi responsale dei trascorsi de’ suoi seguaci, e come l’esercito stesso di Carlo se ne fosse contaminato nella prima conquista. Mandato ai voti, tutti furono per l’assoluzione: unico Roberto di Bari provenzale, protonotaro del regno, opinò per la morte, e bastò perchè Carlo la decretasse.
Giocava Corradino agli scacchi col cugino Federico (8bre) quando ebbero avviso della sentenza: e impetrati tre giorni per prepararsi alla morte e far testamento[410], [502] dal castello di San Salvadore furono con dieci compagni condotti alla piazza del Mercato, ov’era disposto il patibolo. Carlo volle darsi il fiero gusto d’osservare dal castello lo spettacolo. Roberto di Bari lesse la sentenza motivata, e Corradino, uditala, levossi il mantello, si pose a ginocchi, esclamò: — O madre, madre mia, qual notizia avete a sentire!» e posata la testa sul ceppo, giunte le mani verso il cielo, aspettò il colpo. Federico invece, urlando, bestemmiando, imprecando, senza chiedere mercè a Dio lasciossi strappar la vita. Gli altri lo seguirono.
Il popolo affollato guardava stupidamente e stupidamente piangeva; e alcuni Francesi, tardi indignati di essere stromenti alle vendette d’un conquistatore, esalavano la collera con que’ paroloni, di cui fa scialacquo [503] quella nazione dopo i fatti consumati. Non in terra sacra, ma sul luogo stesso del supplizio furono sepolti i cadaveri sotto un cumulo di pietre. Nessun re fece reclamo a questo primo regio sangue versato dal carnefice: i più, scorgendo il dito di Dio che punisce fino alla quarta generazione, pure disapprovarono l’abuso della vittoria, e Giovan Villani scriveva: «Si vede per esperienza che chiunque si leva contro santa Chiesa ed è scomunicato, conviene che la fine sua sia rea per l’anima e per lo corpo: ma della sentenza lo re Carlo ne fu molto ripreso dal papa e dai suoi cardinali e da chiunque fu savio».
La morte di due giovani principi era un bel soggetto per canti, e in tedesco e in provenzale se ne fecero: Saba Malaspina diede loro l’omaggio che uno storico [504] può, la patetica narrazione della loro fine, e un compianto su quel cadavere che «giaceva come un fiore purpureo da improvvida falce succiso»: il vulgo narrò che un’aquila scesa dalle nubi intrise l’ala destra in quel sangue, e tosto risali al cielo. Era sangue di re, che un re avea fatto scorrere, giustificato dal diritto della vittoria, e dimenticando che la vittoria non è sempre pei re. Più grossolane baje inventarono i letterati, e la storia le raccolse con irragionevole compiacenza.
Se a chiamare Carlo furono determinati i papi dal voler impedire che la Sicilia venisse congiunta all’Impero, e che unendo il settentrione col mezzodì dell’Italia si togliesse a questa l’indipendenza, lo scopo era raggiunto. Se della libertà i Guelfi aveano idee non più larghe de’ liberali moderni, e la poneano nello sbrattarsi da’ Tedeschi, eccoli soddisfatti, giacchè cogli Svevi terminano gl’imperatori che diretta efficacia esercitassero sopra l’ancor libera Italia, e per cinquant’anni nessun esercito di quella gente calpestò la sacra nostra terra.
Lo sterminio degli Svevi lasciava trionfante il papato: ma Clemente IV non vide ricomposta la pace coll’Impero, atteso che, mentre accingevasi a pronunziare fra i competenti al trono di Germania, morì a Viterbo. Quivi stesso accoltisi i cardinali alla nuova elezione, per tre anni non seppero mettersi d’accordo, finchè compromessala in sei di essi, restò proclamato Tibaldo Visconti di Piacenza (1271), allora legato in Palestina, che volle nominarsi Gregorio X. Onde prevenire il tristo spettacolo delle ultime elezioni e le lunghe vacanze, regolò la forma del conclave, i cardinali si chiudessero con un solo conclavista, ridotti a molte privazioni e a non comunicare con altri di fuori sinchè non eleggessero il pontefice.
[505]
Radunato il XV concilio ecumenico a Lione (1274 — 7 maggio) affine di sollecitare una nuova crociata, e ricomporre lo scisma de’ Greci, vi si presentò Ottone, vicecancelliere di Rodolfo di Habsburg, povero conte dell’Argovia, che era stato poco prima eletto imperatore di Germania, e che nuovo s’un trono inaspettato, senza beni nè interessi in Italia, della quale non conosceva tampoco la geografia, e amando assodarsi in Germania più che guerreggiare per un regno lontano e quasi nominale, volle finire il litigio d’omai settant’anni, giurando adempirebbe le promesse d’Ottone IV e di Federico II; rinunzierebbe affatto alle terre disputate fra l’Impero e la Chiesa; non accetterebbe alcuna tenuta ecclesiastica quand’anche offertagli, nè cariche nello Stato romano senza assenso del papa; non turberebbe il re di Sicilia od altri vassalli della Chiesa, nè procurerebbe vendetta di Corradino. Poi, con atti che fece sottoscrivere anche dagli elettori, confermava al pontefice le antiche donazioni di quanti paesi sono da Radicofani a Ceprano, oltre l’Emilia, la marca d’Ancona, la Pentapoli e i possessi della contessa Matilde, Spoleto, il contado di Bertinoro, Massa, e quanto mai con diplomi fosse stato concesso a’ successori di san Pietro[411]; inoltre il dominio sulla Sicilia, la Corsica e la Sardegna. Così restava emancipata la Chiesa, e ottenuto il lungo intento dei Guelfi.
Mentre, dalla prima guerra coll’Impero, la Chiesa, vinta in apparenza, era nel fatto uscita potentissima, da questa pace, coll’aspetto di vincitrice, cominciò la sua decadenza. Non che un palmo di terra acquistassero, i papi si trovavano sempre contrariati nella loro propria città; e dei nove che pontificarono in trentasei anni dopo la morte di Gregorio IX, sei non v’entrarono, [506] gli altri solo per brevissimo. L’importanza che traevano dall’opporsi alla dominazione straniera, scadde dacchè per abbattere i Tedeschi si buttarono in braccio ai Francesi; onde i Guelfi, così devoti all’indipendenza, si convertirono in fautori de’ forestieri, ai quali facevano opposizione i Ghibellini.
Sempre più copiose dovizie avea potuto accumulare la Chiesa, vuoi in fondi per signorie e contadi interi avuti in dono o compri dai baroni che passavano oltremare, vuoi in denaro per le decime, estese fin sul commercio, sul bottino da guerra, che più? sul meschino guadagno de’ mendicanti e sul turpe delle meretrici. Ma se i beni ecclesiastici godevano immunità dai tributi al par degli altri feudali, i Comuni chiamarono anche il clero a parte dei pesi, com’era dei vantaggi di quel governo. Sulle prime non vi si trovò sconvenienza; poi, o fosse iniquo il riparto, o divenisse soverchio l’aggravio, spesse lamentanze ne mossero gli ecclesiastici; secondando ai quali, i concilj III e IV Lateranesi vietarono alle autorità di aggravezzare il clero, il quale dovea contribuirvi sol quando l’avesse trovato spediente al pubblico bene: ma i papi facilmente concedeano ai principi di tassarlo.
Anche l’immunità del foro venne ristretta, procurando i governi intervenire alle decisioni delle curie, che quasi mai non punendo nel corpo, debolmente reprimevano il delitto. Gli stessi tribunali dell’Inquisizione posero la Chiesa in qualche dipendenza dai laici, di cui avevano ad invocare il braccio per eseguire le loro sentenze.
Le armi spirituali, usate e abusate in interessi mondani, rimasero rintuzzate: quelle scomuniche motivate su odj che pareano personali, quelle indulgenze profuse a chi combattesse i nemici temporali della santa Sede, quelle decime imposte a titolo di redimere Terrasanta [507] e adoprate invece a guerreggiar Federico o Corradino, quei prelati che accampavano e benedicevano la strage, sminuivano l’efficacia de’ pontefici anche quando a favore del popolo frenassero i regj arbitrj, reprimessero le esazioni di Carlo, proclamassero la pace. Nella contesa poi aveano dovuto chiamare il popolo a bilanciare le mutue ragioni; e questo revocò ad esame atti, cui fin allora si era sottomesso venerabondo: e un potere inerme, quand’è discusso, è caduto.
Nel mezzo di questi accadimenti anche le cose di Terrasanta erano tornate a peggio che mai per l’addietro si fossero. In quelle colonie, che avrebbero potuto esser tanto profittevoli alla civiltà, la discordia imbaldanziva non meno che in Europa, di modo che non si domandava se vincessero i Cristiani o i Saracini, ma se i Templari o gli Spedalieri, se i Genovesi o i Veneziani; i quali disputandosi l’imperio del mare e i frutti del commercio col Levante, impinguavano di sangue italico i mari e le terre straniere, e fin nelle chiese portavano il sacrilegio di uccisioni fraterne. Presa che fu Costantinopoli, vedemmo l’impero greco uscire di letargo, e rotta quella stupefacente sua unità, suddividersi in un centinajo di principati, ciascuno dei quali focolajo di nuova vita (pag. 265). Oltre gli Occidentali, anche signori greci aveano costituito particolari dominj, come Alessio Comneno a Trebisonda, Michele Comneno a Durazzo, Teodoro Láscari a Nicea [508] di Bitinia. Michele Paleologo, tutore d’un fanciullo di quest’ultimo, ne usurpò la corona, e mentre la fortuna gli dava buono, assalse Costantinopoli (1260). Quivi imperava Baldovino II, sostentato colle limosine della cristianità, e in tali strettezze che, non bastando impegnare gli ori del palazzo e delle chiese, vendette fino il piombo e il rame de’ tetti. Michele di sorpresa gli tolse la città e il trono, e ristabilì l’impero greco (1261) con una nuova dinastia. I Genovesi che, per umiliare i Veneziani, gli aveano dato ajuto, ottennero larghe concessioni e il sobborgo di Pera: nè però Venezia e Pisa furono spogliate degli antichi privilegi e d’avere giudizj proprj: e il console de’ Pisani, il podestà de’ Genovesi, il balio de’ Veneziani tennero posto fra i grandi uffiziali di quella corona. Michele poi non aveva ripigliato che le coste a scirocco del Peloponneso, restando in essere i principati stabiliti al centro e al mezzodì della Grecia dai Crociati.
L’Occidente dava scarsa attenzione a questi mutamenti: se non che un nuovo flagello venne a minacciare non solo Terrasanta, ma tutta la cristianità, l’irruzione dei Mongoli o Tartari. Gengis-kan, una di quelle terribili incarnazioni della forza che sembrerebbero finzioni mitiche se troppo accertata non ne fosse e compianta l’esistenza, raccolse e dal cuor dell’Asia mosse questi Barbari, che con una rapidità appena credibile occuparono da una parte l’immenso impero della Cina, dall’altra minacciarono soggettare la Persia, conquistarono la Russia, e ridotta a deserto l’Ungheria, giunsero fin nella Dalmazia, cioè in vista dell’Italia.
Tetro sgomento si diffuse per l’universa Europa all’accostarsi di questa gente tartarea, che non conoscea legge nè fede. Gregorio IX moltiplicava promesse, indulgenze, minaccie, assoluzioni per riunire tutta cristianità a resistervi, e perchè Federico II si facesse capo dell’impresa; [509] ma questi se ne fingeva in ispasimo, e largheggiava in promesse retoriche[412]; poi operava tanto a rilento, che i suoi malevoli sparsero fosse d’accordo coi Tartari, e per onta al papa e alla religione gli avesse egli medesimo chiamati. Certo essi mandarono a lui, come soleano, l’intimata, perchè facesse omaggio dei suoi dominj al gran kan, in ricompensa offrendogli di scegliere qual carica gli garbasse alla corte di questo; al che Federico celiando, — Sceglierei l’uffizio di falconiere; si bene m’intendo d’uccelli di rapina».
Ma quando i Mongoli ruppero guerra ai Turchi Selgiucidi, che allora signoreggiavano la Palestina, i Franchi vennero in isperanza che i nuovi Barbari li libererebbero dai loro oppressori, mossi da quella illusione tanto consueta, che fa guardare per amici nostri i nemici de’ nostri nemici. Si cercò dunque la loro alleanza, e a papa Innocenzo IV sorrise lusinga di trarli al cristianesimo. L’acquistare alla fede un popolo che erasi dilagato dal Mar Giallo al Danubio, sarebbe stato un avvenimento decisivo nella civiltà del mondo; ma per isperarlo nessun argomento umano s’aveva se non l’essere quelli avversi ai Musulmani. Però i pontefici quali prodigi non erano avvezzi a vedere dalle missioni? le crociate non erano una serie di miracoli? D’altra parte sapeasi così in confuso che quei popoli, tuffati in grossolane superstizioni, senza entusiasmo nè sacerdozio, eransi adagiati alla religione de’ popoli tra cui arrivavano; e se si fecero buddisti nella Cina, musulmani nella Persia, perchè non diverrebbero cristiani in Europa? Era indifferenza, nata da ignoranza, ma interpretavasi per propensione alla verità.
Adunque Innocenzo divisò spedire missionarj ai Tartari, [510] e i nuovi frati Domenicani e Francescani si offersero a gara. Furono prescelti i frati Minori Lorenzo di Portogallo, Benedetto Polacco discepolo di san Francesco, e Giovanni di Piano Carpino, il quale è il primo europeo che intorno a quel popolo desse ragguagli, quantunque grossieri e parabolani. Non muniti che della croce, questi intrepidi, attraverso all’Europa, non corsa allora che da pellegrini e da combattenti, in riva al Volga raggiunsero Batù generale de’ Mongoli (1245), mentre a Basciù Nuyan, altro generale in Persia, arrivavano i Domenicani Simone da San Quintino francese, e gl’italiani Alessandro e Alberto Ascellino, Guiscardo da Cremona, Andrea da Longiumello. A que’ barbari, non conoscenti altro diritto che la forza, riuscì ridicola questa spedizione di frati, che in una lingua ignota e per sì lunga strada venivano rimproverarli perchè distruggessero le altre nazioni, ed invitarli a sottoporsi ad una religione, fuor della quale non vi sarebbe per essi che dannazione eterna. I nostri non fecero alla prima come scoraggiati, perchè non si ripromettevano premj o lodi umane; e procedettero fino alla corte del gran kan mongolo, e insieme coi messi di tutto il mondo gli fecero omaggio: ma non ne riportarono che spregio.
Nè per questo i papi cessarono d’inviare missionarj ai Mongoli, e tra essi i frati Girardo da Prato, Antonio da Parma, Giovanni da Sant’Agata, Andrea da Firenze, Matteo d’Arezzo, eroi di nuovo genere, che la storia trascura perchè non uccisero nè devastarono. Più tardi vi fu destinato Giovanni da Montecorvino, che, corsa la Persia e l’India, predicò nella capitale dell’impero mongolo, vi fondò due chiese, e battezzò in pochi anni da seimila persone. Anzi l’avere il gran kan tollerato alla sua corte i riti nostri come quelli della Cina e della Persia, lasciò correr voce ch’e’ fosse cristiano. Più durò [511] la credenza che un principe di quei paesi si fosse battezzato, e col nome di Prete Janni restò famoso ne’ racconti de’ nostri e nelle imposture di chi tratto tratto fingeasi da lui spedito.
Il fatto è che allora primamente Europei penetrarono nell’estremo Oriente: un Francescano di Napoli sedette arcivescovo a Peking capitale della Cina; il beato Oderico da Pordenone minore osservante (1318-30), traversata l’Asia da Costantinopoli a Trebisonda, ad Erzerum, alla commerciante Tebriz, per l’Indo arrivò alla costa del Malabar, donde i nostri tiravano il pepe, al Carnatico, a Giava feconda de’ garofani, delle noci moscade, dell’altre spezie ed aromi che Genovesi e Veneziani diffondeano per tutta Europa: volse poi alla Cina e al Tibet, e dimorò tre anni a Peking, dove trovava un convento di Francescani, e due a Zaitun. Reduce a Padova, a Guglielmo da Solana dettò una relazione del suo viaggio, senz’ordine nè discernimento, ma come gliel’affacciava la memoria; e fra tante ignoranze e corrività piace il vedere come tutto riferisca a cose italiane: in Tartaria non mangiano che datteri, de’ quali quarantadue libbre compransi a meno d’un grosso veneziano; il regno di Mangy ha duemila città, grandi ciascuna come Treviso insieme e Vicenza: Soustalay è come tre Venezie, Zaitun come due Bologne, e vi ha un idolo alto come un san Cristoforo: Chamsana è presso un fiume come Ferrara al Po.
Non meno che la devozione, il commercio portava Italiani dappertutto, e non ne mancarono alla corte dei Mongoli. Biscarello di Gisulfo genovese fu ambasciadore del mongolo Argum signore della Persia: e la lettera di questo, ch’egli portò al re di Francia per esibirgli ajuti a ricuperare Terrasanta, è il più vetusto documento di lingua mongola, e v’è apposto un sigillo con caratteri cinesi, i primi che vedesse Europa. Più celebrati [512] andarono i viaggi di Marco Polo, dei quali altrove ragioneremo (Cap. CXXIV). Oltre diffondere la fede e la civiltà nostra, portavano di là cognizioni od arti, e la vista de’ costumi stranieri allargava il campo al limitato spirito europeo; nè andrebbe fuori di buona congettura chi pensasse che da que’ viaggi derivasse all’Europa la cognizione del carbon fossile, della carta, della polvere tonante e della stampa.
Ma le imprese de’ Mongoli, non che spargere qualche rugiada sulla Palestina, aveanle dato l’ultimo tuffo. Gli abitanti di Carism, snidati da quelli, piombarono sovr’essa a istigazione del sultano del Cairo (1244), con una ferocia non più udita; e dopo un combattimento a Gaza, donde non si salvarono che ottantatre Templari, ventisei Spedalieri, tre Teutonici, presero Gerusalemme, distruggendo il sepolcro di Cristo e quello dei re, sterminando gli abitanti, e tutto occuparono il paese, eccetto Giaffa, che rimase in signoria degli Egizj. Nell’universale amaritudine più dolorò il santo re di Francia Luigi; e risoluto a ogni costo rialzarvi la croce, ricorse per navicellaj e piloti alla Spagna e all’Italia, e due Genovesi sosteneano persona d’ammiragli (1248) della flotta francese ch’egli voltò sopra l’Egitto: ma il purissimo suo zelo e i ben meditati preparativi non furono sorrisi dal cielo, ed il re medesimo restò prigioniero dei Mamelucchi. Joinville, l’ingenuo biografo di quel re, appunta d’egoismo mercantile Genovesi e Pisani, che, per non partecipare alle sofferenze de’ Crociati, voleano abbandonarli appena li videro infelici; nè la regina li potè rattenere a Damiata se non promettendo mantenerli a spese della corona.
Quando poi si udì la prigionia di Luigi, l’Italia, non che gemerne come tutta cristianità, ne esultò, per stimolo de’ Ghibellini che allora aveano il sopravvento, e che godeano de’ disastri del fratello di Carlo [513] d’Angiò[413]; e corsari di Genova, Venezia e Pisa profittarono di quelle sventure per ispogliare i Cristiani che tornavano in Europa.
Reso alla patria, e istruito non disanimato dal cattivo successo, Luigi volle ritentare l’impresa (1267), e domandò ajuto alle repubbliche italiane. Genova ne prestò a buoni patti[414]; ma Venezia rifiutò, timorosa di pregiudicare ai banchi e agli scali suoi in Levante, e più gelosa di Genova che zelante della causa di Cristo. Carlo d’Angiò fratello avea promesso passare anch’egli con quindici vascelli, ma non fece che spedire ambascerie a Bibars sultano del Cairo per raccomandargli le colonie di Siria; e il papa si lagnava perchè «lo zelo di Carlo si sfogasse in vane promesse, e lasciasse temere di non venire a nulla»[415].
Neppure il Paleologo aveva attenuta la promessa di riconciliare la Chiesa greca colla latina, onde il papa gli cercava nemici, e carezzò le ambizioni di Carlo, inducendo il deposto Baldovino a cedergli i diritti imperiali sull’Acaja, sulla Morea e sulle terre ch’erano state assegnate in dote a Elena moglie di re Manfredi, oltre l’aspettativa al trono di Costantinopoli. Carlo dunque cercò voltare la crociata sopra l’impero bisantino, onde dar fondamento a queste pretensioni; poi indusse ad assalire non più l’Egitto, bensì Tunisi, col pretesto che i pirati di questa faceano pericoloso il tragitto in Palestina, ma realmente perchè egli preferiva vedere conquistata l’Africa, posta rimpetto alla sua Sicilia, e [514] che perciò gli sarebbe d’appoggio alla dominazione e di comodo al commercio.
I Crociati si lasciarono persuadere, e lo precedettero: ma la caldura e le privazioni svilupparono ben presto lo scorbuto nell’esercito; e sui luoghi ove quindici secoli prima era perita Cartagine, Luigi morì rassegnato (1270), fra calde preghiere e savj consigli. Carlo arrivò a tempo di vederlo cadavere, e assunto il comando, menò l’esercito a vittoria, tanto che il bey di Tunisi propose una pace, dove Carlo stipulò fossero date ducentomila once d’oro all’esercito per le spese, e a lui quarantamila scudi d’oro l’anno. Allora egli propose ai Crociati la conquista della Grecia e dell’impero d’Oriente; e perchè ricusarono seguirlo, apprese le navi e le robe che una fiera procella spinse sulle coste di Sicilia, ed impinguò il fisco colle spoglie dei proprj commilitoni.
Le viscere di Luigi furono deposte nella badia di Monreale presso Palermo; il suo corpo traversò l’Italia, fra universale venerazione; le madri cercavano le monete coll’effigie di lui per appenderle al collo de’ figli; e pochi anni dopo Bonifazio VIII lo santificava esclamando: — Esulta, Casa di Francia, d’aver dato al mondo un principe sì grande; esulta, popolo di Francia, d’avere avuto un re sì buono».
Gregorio X, ch’era nunzio in Palestina quando fu eletto pontefice[416], adoprò il breve suo regno a ricomporre in pace i Cristiani perchè recuperassero Terrasanta; a tutti i sovrani consentì di levare le decime ecclesiastiche per sei anni onde armare; Filippo di [515] Francia, Edoardo d’Inghilterra, Giacomo d’Aragona, Carlo di Sicilia aveano promesso crociarsi, e Rodolfo imperatore guidarli; Gregorio radunò all’uopo anche il concilio generale di Lione che dicemmo, ma tutta la macchina cadde colla sua morte (1276).
E qui finiscono le crociate. Le ampie conquiste in Oriente trovavansi compendiate nella città di Acri, nella quale accoglievansi i rappresentanti de’ re di Gerusalemme, di Cipro, di Sicilia, di Francia, d’Inghilterra, d’Armenia, i principi d’Antiochia e di Galilea, i conti di Giaffa e di Tripoli, il duca d’Atene, il patriarca gerosolimitano, i cavalieri del santo Sepolcro, del Tempio, di san Lazzaro, il nunzio del papa, e Genovesi, Veneti, Pisani. Ognuno aveva palazzi e quartiere, dove vivea indipendente e colle proprie leggi ritornate personali, sicchè ben cinquantotto tribunali esercitavano diritto di sangue; pel qual tenore ciascuno comandava, nessuno obbediva. Opposti anche d’interessi, agitavano incessanti discordie: spesso un litigio nato a Pisa o in Ancona, combattevasi da una all’altra delle case d’Acri, ridotte in fortezze.
Un Veneziano batte un ragazzo genovese, i Genovesi l’han per pubblico oltraggio, e assalito il quartiere dei Veneziani, quali feriscono, quali fugano. Questi preparavansi alla rappresaglia, ma qualche prudente sopì quel fuoco. Però, come se ne intese in Genova: «dissero tutti: Ora ne sia preso tale vendicamento, che mai non sia obliato; le donne dissero ai loro mariti: Noi non vogliamo più niente di nostre doti, nè per morte nè per vita; spendetelo per la vendetta; e le [516] pulcelle dissero ai loro padri, ai loro fratelli ed agli altri parenti loro: Noi non vogliamo mariti: tutto ciò che ci dovreste donare per dote, spendetelo per vendicarci de’ Veneziani, e voi sdebitatevene portandoci le loro teste»[417]. Fu dunque armata una spedizione: una nave veneta, che un Genovese avea compra dai pirati, è presa e ripresa, e tutto va a chi peggio: tredici navi arrivate da Venezia bruciano le genovesi sprovvedute nel porto, e ajutate da’ Pisani e Marsigliesi respingono altre galee venute in soccorso de’ nemici, ne guastano le canove, i palazzi e una mirabile loro torre, di cui molte pietre spedirono in patria. Il papa s’intromise di pace; ma le ire coperte non estinte divamparono allorquando i Genovesi ebbero ottenuto nella ripigliata Costantinopoli i quartieri e i privilegi che prima erano goduti dai Veneziani. I quali tanto fecero, che stornarono dai Genovesi l’animo di Michele Paleologo, e rinnovarono con esso amicizia.
Lottanti fra sè, tutti si trovavano deboli a fronte de’ Musulmani; mentre Europa, disingannata da tanti tentativi falliti, assorta in interessi più positivi, cioè egoistici, pensava a tutt’altro che soccorrerli. Frattanto i Musulmani procedevano, e l’emir Kalif Ashraf pose assedio ad Acri, ultimo asilo della croce. Papa Nicola IV raddoppiò di zelo in provocare a soccorrerla; Parma vi spedì seicento persone, alquante le altre città, e per trasportarle Venezia dispose venti galee, sette ne prometteva Giacomo re di Sicilia; soccorsi parziali e perciò inadequati; e dopo lunga resistenza anche Acri fu espugnata (1291). Vuolsi che trentamila Cristiani vi fossero sgozzati; la badessa di Santa Chiara, veneziana, persuase le sue monache di troncarsi le narici per sottrarsi alla libidine e ai harem de’ Musulmani; le navi genovesi [517] poterono salvare alquanti, fra cui il re di Cipro; altri rifuggirono a Venezia, che gli accoglieva nella nobiltà; e ne’ paesi consacrati dalle memorie di Cristo più non risonò se non — Non v’è altro dio che Dio, e Maometto è suo profeta».
All’annunzio di quella disgrazia, che pur doveasi aspettare e poteasi prevenire, gli Europei e massime gl’italiani ulularono di tardo dolore e sgomento, e Bonifazio VIII ritentò una crociata. Ma più non erano i tempi quando la pietà e la speranza del paradiso eccitavano l’entusiasmo; quando i papi parlavano ai monarchi in nome del Cielo sdegnato, rinfacciandone le colpe, e imponendo prendessero la croce per espiarle; anzi i re, tutt’assorti nel grande impegno di mozzare l’autorità pontifizia, rifuggivano dal secondare imprese che l’avrebbero accresciuta o almeno attestata. Solo i Genovesi, per redimersi dall’interdetto, gli diedero ascolto, e le donne, quasi a raffaccio degli uomini, assunsero la croce e l’armi. L’impresa svampò, ma Genova conservava fin testè nel suo arsenale le armadure di quelle eroine, e nell’archivio le congratulazioni del papa.
Dopo d’allora, alla crociata, come impresa comune dell’Europa, più non si pensò da senno. Bensì i Genovesi verso il 1300 ne prepararono una contro i corsari barbareschi, ma fu uno stuzzicarli; e moltissimi navigli uscirono d’Africa alla vendetta, e intercettarono lungamente il commercio. Qualche parziale tentativo si rinnovò, e nel 1345 specialmente si eccitarono i Cristiani contro i Saracini, e molti miracoli vennero raccontati. Dicevasi che presso la città d’Aquila fosse apparsa Nostra Donna col Bambino in grembo avente in mano una croce, e ciascuno potè vederlo più fulgido del sole, e tutti i fanciulli che in quel giorno vi nacquero erano segnati d’una crocetta sulla spalla diritta. Ciò mosse molti a voler combattere gl’Infedeli, e frà Ubertino [518] de Filippi vi rinfocava la gioventù fiorentina, e molti lo seguirono in Siria, tra cui frà Francesco da Carmignano ingegnere e dieci altri Domenicani. Ivi oppugnarono non sappiam bene quale città, e sostennero fra altre una battaglia presso Tiberiade contro più d’un milione di Musulmani: s’aggiunge che un’apparizione di san Giovanni Battista confortò i Cristiani al vincere: e i cadaveri de’ nostri si riconosceano dall’apparire sul capo di ciascuno un fuscelletto portante un fiore bianco a modo d’ostia, attorno al quale si leggea cristiano; e sopra di loro si udirono cantar versi dolcissimi e Venite, benedicti patris mei[418].
Di buon’ora i frati Francescani eransi piantati in Terrasanta, e vi si mantennero a custodia del santo sepolcro anche dopo ricaduto in man dei Turchi: nel 1212 Ahmed-scià sultano dava loro il diritto di rimanervi, e l’anno appresso Omer permetteva ristaurassero la chiesa di Betlem. Roberto re di Napoli volle che questa loro dimora divenisse legittima, e a denari nel 1342 comprò dal sultano il diritto che i Francescani dimorassero in perpetuo nella chiesa del santo sepolcro, e vi celebrassero gli uffizj divini: del che si fece carta, ove ad esso re e a Sancia moglie sua son pure conceduti il cenacolo e la cappella dove Cristo si mostrò a san Tommaso; la qual Sancia sul monte Sion fe costruire una casa, in cui mantenere a sue spese dodici Francescani[419].
Nel 1386 il re di Cipro, d’accordo col granmaestro di Rodi, volendo metter fine alle piraterie degli emiri di Siria e del sultano, stanziò d’assalire Alessandria; e i Veneziani lo secondarono, sì per le istanze del papa, [519] che per la speranza di assicurarsi quel commercio senza le umiliazioni cui erano ridotti. Di fatto Alessandria fu presa, arsa la flotta egizia; ma il sultano ricomparve ben tosto, sicchè i Cristiani furono costretti ritirarsi, poche ricchezze trasportando seco, e lasciandovi acerbissimo odio, che si sfogò sui nostri colà dimoranti e sulle merci di Venezia, la quale così ebbe guasti i proprj traffichi.
Soli i pontefici mai non gettarono ogni speranza di liberare Terrasanta, e questo fu il tema di declamazioni poetiche e qualche volta di ragionate scritture. Fra gli altri, Marin Sanuto, cronista veneto, vide il vero quando annunziò che ruina degli stabilimenti cristiani in Palestina erano i sultani d’Egitto, e che potenza di questi era il commercio nell’India, lo perchè consigliava ad esaurirne la fonte. A tal uopo viaggiò cinque volte nell’India, e se altro non potè, trasse notizie sui paesi del Mezzodì e del Levante. Il suo libro Secreta fidelium Crucis (1321), cui aggiunse un planisfero, divise in tre parti ad onore della Trinità, e perchè tre sono le maniere efficaci di rimettersi in salute, il siroppo preparatorio, la medicina opportuna, il regime. Alla crociata vuole egli persuadere, non più per entusiasmi devoti, ma da mercante ed economista; onde ai testi soggiunge la lista delle spezie che traggonsi per via di Terrasanta, quanto costino, quanto il trasporto: la migliore opportunità gli sembra uno sbarco in Egitto, che con dieci galee crede potersi bloccare; e chiuso quello, l’islam è ferito nel cuore. Divisa appienissimo uomini, viveri, denaro, sempre intento a ringrandire Venezia, di cui dev’essere tutta la flotta, e i cui marinaj crede soli capaci a guidar le navi tra i bassi canali del Nilo: designa la forma e struttura delle galee imbattagliate e delle navi da trasporto, alcune incamattate, o come oggi diciamo, mantellate: descrive minutamente [520] i mangani colle dimensioni e proporzioni, e le balestre lontanarie; l’esercito di sbarco sommi a quindicimila fanti, trecento cavalieri. I precetti circa gli accampamenti desume da Vegezio e da Cesare: dimostra pratica nell’arte delle fortezze, secondo l’età sua, e ne dà saggio in una graziosa parabola. La spesa sarebbe tornata a quattordici milioni[420]; e tale disegno offrì alla sua patria e a tutte le corti, e n’ebbe lode e trascuranza.
[521]
Guido da Vigevano, medico di Enrico VII imperatore, nel 1335 stese precetti igienici e militari per difendersi dai Saracini e assalirli[421]. Frà Filippo Bruserio da Savona, professore di teologia a Parigi, da Benedetto XII spedito nel 1340 ambasciadore a Usbek kan del Capciac, con Pietro dall’Orto e con Alberto della colonia di Caffa, per impetrare la libera predicazione del cristianesimo attorno al mar Nero, scrisse il Sepolcro di Terrasanta, esponendo i mezzi di ricuperarlo. È notevole che i primi trattatisti d’arte militare ne davano per titolo il ricupero della Palestina, quasi il solo che potesse scusare quel feroce sviluppo della forza e dell’ingegno: Antonio da Archiburgo trentino nel 1391 stese su ciò un trattato, or manoscritto nella biblioteca nazionale di Parigi; Lampo Birago milanese, protetto da Francesco Sforza, propose una crociata tutta d’italiani, con milleducento cavalli, quindicimila fanti e cinquemila cavalleggieri forestieri, che sbarcata in Morea suscitasse i popoli, e in due o tre anni compirebbe l’impresa[422].
Dante querelava i suoi contemporanei che il sepolcro di Cristo lasciassero in man de’ cani, e che esso «poco toccasse ai papi la memoria»[423]; e colloca in paradiso Goffredo, Cacciaguida ed altri Crociati. Petrarca esortò alla crociata nella canzone — O aspettata in ciel, [522] beata e bella». Annio da Viterbo nel 1480 predicò a Genova con immenso applauso le future vittorie de’ Cristiani sui Turchi, dedotte da passi dell’Apocalisse. L’Ariosto fra le inesauribili sue celie trovava un accento elevato per mostrare quanto meglio varrebbe il combattere i Turchi che non il nocersi a vicenda i Cristiani. Il Tasso dirigeva a ciò tutto il nobile suo poema, sperando pure che il buon popolo di Cristo, tornato una volta in pace, tenterebbe ritogliere l’ingiusta preda al Musulmano. Altri pure innalzavano esortazioni generose e inascoltate.
Chi realmente continuò la guerra contro i Musulmani furono da una parte i Veneziani, fattisi antimurale dell’Europa, che negligeva di sostenerne allora gli sforzi, salvo poi a codardamente vilipenderli; dall’altra i cavalieri del santo Sepolcro, che si ricovrarono prima a Cipro, poi a Rodi, infine a Malta, sempre col voto di non cessar guerra agl’Infedeli. Dappoi la generosità si ridusse negativa e beffarda, fu moda il declamare contro quelle spedizioni che fecero perire tanti uomini inutilmente. Lasciam via che non perirono quanti per le epiche guerre di Roma o per le ambiziose di Napoleone; ma colà morivano volenti e persuasi, non divelti alle case per ordine d’un re, ma lieti di dar la vita in servigio di Dio ed espiazione delle colpe, e affrontare una morte che apriva il paradiso.
I Musulmani erano nemici d’ogni civiltà; conveniva respingerli: sterminavano ferocemente i Cristiani; conveniva punirli: minacciavano di nuova barbarie l’Europa; conveniva prevenirli, assalendoli ne’ loro paesi: e se l’intento fosse riuscito, chi non vede quanto diverse sarebbero procedute le sorti della civiltà?
Già era stato vantaggio il mandare in Asia a sfogare l’umor battagliero que’ tanti che turbavano la patria; predicatori e papi volendo concordare i Cristiani alla [523] santa impresa, condussero qualche pace fra tante battaglie, e la tregua di Dio copriva chiunque avesse preso la croce. Mentre il castellano era ito in Palestina, il villano rimasto a casa respirava dalle oppressioni; ricorreva all’autorità del Comune o del re, invece di quella del feudatario; benchè incatenato alla gleba, il signore non potea vietargli di crociarsi; anzi tanti servi passavano oltremare, che fu imposta la decima saladina a quei che il facessero senza beneplacito del padrone. Anche quelli che v’andavano per obbedire a questo, svincolati dalla schiavitù locale, disabituavansi dalla ereditaria servilità; aveano diviso i pericoli, gli stenti, la gloria del padrone, forse aveanlo salvato dal pugnale d’un Assassino tra le convalli del Libano, o dalla scimitarra di un Turco, o diviso con esso una ciotola d’acqua che gli valse la vita; erano dormiti al suo fianco nell’accampamento, pericolati nella lotta; l’avoltojo del castello erasi fatto vicino al lepre della valle non per isbranarlo ma per congiungere le forze.
Nell’assenza dei baroni, i Comuni s’invigorivano, e strappavano a quelli la prepotenza di qualche antico abuso; o il barone stesso dava in pegno o vendeva il feudo o qualche privilegio per far denari, o morendo li lasciava vacanti. La giustizia era resa con maggior regolarità dal clero, la campagna avea pace, e l’abbassarsi dei nobili spianava la strada ai cittadini: sicchè quelle imprese, spinte dal clero, eseguite dalla nobiltà, realmente fruttarono pel popolo. Esse poi indicavano un miglioramento nella società, poichè non si trattava di conquistare e far servi, ma di procacciarsi la vita eterna e di salvare dall’inferno tanti Infedeli. Di mezzo alle parziali agitazioni della feudalità nasceva un pensiero di gloria, d’avvenire, di santità; lampeggiavano il bello e l’ideale fra i popoli e gli eserciti, i quali correvano a morte per dar trionfo alla verità: preludio dei [524] tempi quando la guerra non si farà che per la pace.
Ambizione, avarizia, altri vizj accompagnarono e rovinarono quelle imprese, ma pure nessun esercito fu più generalmente preoccupato dall’idea morale; il popolo era spinto da sentimento religioso, bene o male interpretato, ma superiore a calcoli personali; nei cavalieri videsi un’umiltà, un’abnegazione, mirabili fra la superbia e l’avidità d’imprese di quel tempo, non gloriandone sè ma Dio; tutti i combattenti riconosceano per fratelli, dacchè tutti la croce segnava. Quando il villano e il signore, il re e il vassallo, il Milanese, il Bretone, il Veneto si associavano nel nome di Cristiani, costumavansi a idee d’uguaglianza. Accanto ai baroni radicati al terreno sorgeva la nobiltà mobile de’ cavalieri chiamati per professione a quanto v’ha di generoso e disinteressato: come in imprese sante, molte paci si facevano in occasione di esse, molte colpe si riparavano: v’andavano anime straziate dai rimorsi a rigenerarsi, o spossate dai disinganni a ripigliar coraggio.
Amedeo VI, nell’atto di salpare da Venezia per Terrasanta, esaminò la propria vita, e si risovvenne d’un Ansermeto Barberi che lungo tempo avea tenuto prigione per furto e che poi fu scoperto innocente, e gli fece dare ducento fiorini d’oro[424]. Veleggiò poi in una galea vagamente dipinta, colla poppa a foglie d’oro e argento; sull’azzurra bandiera di Savoja sventolava l’effigie della Madonna, e su altre la croce d’argento in campo rosso, coi nodi d’amore, emblema d’esso principe, e il teschio del leone, e il cimiero.
[525]
Lucia, monaca in Santa Caterina di Bologna, s’avvide che un giovane veniva ogni giorno a mirarla alla tribuna ove sentiva messa, onde non si presentò più che dietro la gelosia. L’innamorato giurò consacrarsi a Dio come la sua cara, e passato in Palestina, s’avventò nelle battaglie. Fatto prigione, e messo ai tormenti perchè rinnegasse la fede, esclamò: — Santa vergine, casta Lucia, se vivi ancora, sorreggi colle tue preghiere chi tanto ti amò; se in cielo ti bei, propiziami il Signore». Appena detto, fu preso da sonno profondo, e allo svegliarsi trovossi catenato, ma in patria e vicino al monastero della sua donna, la quale gli stava allato sfolgorante di bellezza. — Sei tu viva ancora, Lucia?» domandò egli; e quella — Viva sì, ma della vita vera; va e deponi i tuoi ferri sul mio sepolcro, ringraziando Iddio». La casta era morta il giorno ch’egli abbandonò l’Europa[425].
Federico Barbarossa, giovinetto ancora, innamorò di Gela figlia d’un suo vassallo; ed ella rispose di verecondo amore, e non si tenendo degna d’averlo sposo, l’indusse a crociarsi. Sull’addio egli esclamò: — L’amor nostro è eterno. — Eterno», rispose ella, lasciando cascar la testa su quella dell’amante. Egli va, vince e ritorna, e per la morte del padre trovatosi duca, vola alla casa di Gela; ma non vi trova che un viglietto, iscritto: — Tu sei duca, e devi scegliere una sposa da par tuo. Della memoria di essere stata tua un anno, mi godrà l’animo tutta la vita. L’amor nostro è eterno». Erasi resa monaca; e Federico, nel boschetto ove si era congedato da lei, pose la prima pietra della città di Gelnhausen.
A Torre San Donato in val d’Arno fu predicata la croce, e consegnato lo stendardo del popolo a Pazzino [526] de’ Pazzi, il quale raccontano montasse primo sulle mura di Gerusalemme, e da Goffredo avesse in dono tre scaglie del santo sepolcro, colle quali in patria accese il fuoco benedetto, e si conservarono poi ne’ Santi Apostoli, e ne derivò a Firenze la festa dello scoppio del carro (vol. V, pag. 554). Anche nel 1220, «quando fu presa Damiata, l’insegna del Comune di Firenze, il campo rosso e il giglio bianco, fu la prima che si vide in sulle mura per virtù de’ pellegrini toscani, che furono de’ primi combattendo a vincere la terra; e ancora per ricordanza il detto gonfalone si mostra in Firenze per le feste nella chiesa di San Giovanni al Duomo» (Villani). A Verona si vuole che i reduci Crociati applicassero i nomi alla montuosa vicinanza verso nordovest, che diconsi Calvaria (Monte San Rocco) e Valdomia (Val Domini); e dentro Nazaret, Betlem, Monte Oliveto[426]. Alberto vescovo di Brescia portava da Terrasanta un grosso pezzo della santa croce, che chiuso in teca ornata di lamine argentee istoriate, conservasi nel duomo di quella città, dove anche la croce del campo, che credesi fosse portata in cima a un vessillo dai crociati in quella spedizione. A San Geminiano in Toscana pretendono che i Baccinelli andassero con altri alla prima crociata, e ritornando, colle spoglie de’ nemici, ergessero una magione di Templari sotto l’invocazione di San Jacobo.
Della credulità si abusò per moltiplicare reliquie, e [527] non fu paese che non volesse averne di Terrasanta; e ciascuna fu autenticata da miracoli, certo non meno credibili delle mille baje che la critica moderna raccoglie ogni dì dalle gazzette, e dalle storie che sulle gazzette si compilano.
Alcuni monaci portarono da Gerusalemme a Montecassino un pezzo del tovagliuolo con cui Cristo asciugò i piedi agli apostoli; e vedendosi poco creduti, il posero in un turibolo, e all’istante divenne color di fuoco, e ne fu tolto intatto, e riposto fra oro, argento e gemme. Altri pellegrini navigando con uno de’ santi chiodi, giunti davanti a Torno sul lago di Como, non poterono più progredire, e dovettero lasciarlo colà, dove si venera ancora. Allorchè Saladino spediva in dono all’imperatore di Costantinopoli la vera croce, un Pisano trovò modo d’involarla, e traversando i mari a piede asciutto, la recò alla sua patria: ma un Dondadio Bo Fornaro genovese diceasi aver trovato in una nave di Veneziani essa croce, e toltala per arricchirne la sua città; e questi doppj sono vulgare soggetto d’epigrammi. L’anno che Acri fu presa, parve che la santa casa dove Cristo era cresciuto sdegnasse rimanere in una terra contaminata da Infedeli, e da Nazaret fu dagli Angeli trasportata a Tersacto di Dalmazia: statavi tre anni, eccola trasferita di qua dall’Adriatico, e deposta in una macchia sui poderi di una Lauretta di Recanati: i pastori la mattina trovarono quest’edifizio dove mai non n’aveano veduto, e tosto cominciò affluenza di forestieri e di doni, tanto che là presso si fondò una città detta Loreto.
Roma fu piena di devoti cimelj, ed oggi ancora i sacristani vi riportano continuamente coi loro racconti ai tempi delle crociate e ai portenti compilati nel libro de’ Sette Viaggi. Padova tiene le spoglie di tre degli Innocenti, di Levante portate dal beato Giuliano in [528] Santa Giustina. L’altare di santo Stefano a Cremona fu consacrato il 1141 col porvi alcun che de’ vestiti di Maria Vergine, della porpora onde fu beffeggiato Cristo, del legno della croce, del santo sepolcro. A Bologna fra Vitale Avanzi depose una delle idrie in cui Cristo mutò in vino l’acqua, e ogn’anno esponevasi nella chiesa de’ Servi la prima domenica dopo l’Epifania: un altro di quei vasi era nella certosa di Firenze. Genova nella crociata dalla Licia portò il corpo del Battista, e da Cesarea il sacro catino in cui fu operata la consacrazione nell’ultima cena; dal prode Montaldo, che l’avea ottenuta dall’imperatore Giovanni Paleologo, ebbe in dono l’effigie di Cristo, fatta fare da Abgaro re di Edessa, veneratissima in San Bartolomeo, benchè anche Roma si vanti tenerla. A un Lucchese ito a Gerusalemme vien rivelato in estasi che il volto santo ed altre reliquie del Salvatore giaciono ignorate nella cattedrale di Lucca, dove rinvenute, furono poste in devota venerazione. Non taciamo il santo latte a Montevarchi, donato a Guido Guerra da Carlo d’Angiò; sul quale diceva un valente scrittore che «la fede è buona, e salva ciascuno che l’ha; e chi archimia sì fatte cose, ne porta pena in questo e nell’altro mondo».
I Pisani vollero dormire dopo morti entro terra della Palestina, e ne trasportarono di che empire il loro cimitero. I Veneziani recarono da Scio il corpo di sant’Isidoro, collocandolo in San Marco, dove anche la pietra dell’altare della cappella del battistero; da Cefalonia san Donato, ch’è in Santa Maria di Murano; da Costantinopoli santo Stefano, san Pantalèone, san Giacomo, e l’altre reliquie onde sono ricchissimi San Giorgio e San Marco. Il cardinale Ugolino, che poi fu papa Gregorio IX, persuase il doge a fabbricare nelle lagune Santa Maria Nuova di Gerusalemme, a memoria d’altra del titolo stesso, allora occupata dai Musulmani.
[529]
D’altro genere reliquie piacquero agl’italiani, i capi d’arte della Grecia e dell’Asia. Già era costume a Veneziani, Pisani e Genovesi trasportarne; e le loro cattedrali, cominciando fin dalla vetustissima di Torcello, furono, si può dire, fabbricate con avanzi antichi. Si estese quest’usanza nelle crociate, e massime da Costantinopoli i Veneziani trassero insigni lavori, fra i tanti che andarono perduti in quel fatto; e i cavalli della facciata di San Marco, e i leoni dell’arsenale, le colonne di San Marco e Teodoro sono trofei di buon gusto e di violenza.
Alle crociate si riferiscono pure molte fondazioni di spedali per lebbrosi e pellegrini; e buon numero ne alloggiava in Genova la commenda di San Giovanni in Pre, del pari che l’ospedale di San Lazzaro, cui arrivavasi per l’unica via che allora sboccasse in Polcevera, e un altro in Savona.
Le genealogie vollero tutte innestarsi sopra le crociate, e fu vanto l’ostentare nel proprio blasone la croce. Anzi il blasone ci venne dalle crociate e dalla cavalleria, con tutta la raffinatezza degli stemmi e delle divise. Finchè il cavaliero combatteva attorno al suo castello, qual mestieri avea di distintivo? uscendo lontano, ciascuno assumeva una divisa, cioè esprimeva l’affetto o l’intento particolare, mediante il colore della sopraveste e del cimiero, o qualche disegno fatto sul pezzo più insigne dell’armadura, qual era lo scudo. Quegli scudi poi si sospendeano nelle sale avite, testimonianza ai fasti e vanto ai figli che si piacquero di adottare l’insegna paterna, e così gli stemmi diventarono ereditarj, e distintivo non più dell’individuo ma delle famiglie. Nella presente uguaglianza più non è di verun conto l’araldica: ma lungamente fu arte di arguto studio il disporre gli stemmi, combinarne gli elementi, cioè i colori e le figure, e leggerli, e assicurarli come titoli [530] domestici. Se ne moltiplicarono poi gli elementi e la disposizione, ma sempre i più vantati furono quelli che mostravano la croce, come indizio che un avo era stato a combattere in Palestina. I Michieli di Venezia portavano sopra una fascia d’argento i bisanti d’oro, perchè il doge Domenico Michiel alla crociata, venutogli meno il denaro, pagò con pezzi di cuojo, che poi al ritorno cambiò in sonanti. I Visconti di Milano vantavano che Ottone di loro famiglia avesse, alla prima crociata, ucciso un gigante che portava per cimiero un serpe con un fanciullo in gola; figura ch’essi adottarono. Il cardinale Giovanni, legato in Terrasanta, ne riportò la colonna della flagellazione, che la famiglia Colonna assunse per stemma, d’argento in campo azzurro; aggiungendovi la corona quando Stefano ebbe coronato l’imperatore Lodovico il Bavaro, e le quattordici bandiere turche che Marcantonio acquistò alla battaglia di Lépanto.
Ed altre famiglie dallo stemma dedussero il nome; mentre d’alcune dietro al nome fu inventato lo stemma, con quelle che si dissero armi parlanti, come un orso per gli Orsini di Roma e gli Orseoli di Venezia, un gelso pe’ Moroni, un majale pe’ Porcelletti, un gambaro pei Gambara, un bove pei Vitelleschi, i Bossi, i Boselli, i Cavalcabò, le coste pei Costanzo, la carretta pei Del Carretto, pei Canossi un cane coll’osso in bocca, per gli Scaligeri la scala portante un’aquila. Il vulgo pure volle avere i suoi stemmi, e il tesserandolo e il merciajo adottava un’insegna che di padre in figlio trasmetteasi con sollecita cura di conservarla incontaminata.
I nostri videro il lusso orientale, e si proposero imitarlo; la seta si propagò, e i tessuti serici di Damasco e quelli di pelo di camello ne eccitarono l’emulazione; a Venezia s’imitarono i Vetri di Tiro, e ben presto si fabbricarono specchi di cristallo e conterie; si conobbero [531] i lavori a cesello e all’agiamina, l’applicazione dello smalto; e l’oreficeria ebbe grande esercizio nello incastonare le tante gemme e ornare le tante reliquie tolte all’Oriente.
Esteso il viaggiare non a soli negozianti ma a moltitudini innumere, vennero sotto gli occhi altri costumi, la qual cosa chi non sa quanto serva a digrossare i proprj? I Settentrionali in Italia trovavano civiltà ben più raffinata; a Bologna udivano leggere le Pandette, in Salerno e a Montecassino scuole mediche, in Sicilia e a Venezia regolati governi, e i cittadini congregati dar l’assenso alle deliberazioni del doge; e Giacomo di Vitry, storico di quelle imprese, ammirava questi Italiani, segreti ne’ consigli, diligenti, studiosi nel procurare le pubbliche cose, provvidi del futuro, repugnanti da ogni giogo, di loro libertà acerrimi difensori. Anche i nostri avevano di che imparare sia dalla civiltà greca ancora in piedi, sia dall’araba allora fiorente, sia anche dal regolare governo istituito dalle Assise di Gerusalemme.
I metodi allora introdotti dalla Chiesa per raccorre la decima e le limosine servirono di scuola per esigere le tasse meno arbitrariamente. E poichè a queste aveano dovuto sottoporsi anche gli ecclesiastici, s’imparò a farli coadjuvare alle pubbliche gravezze.
Romanzi e novelle a josa passarono dall’Asia in Europa, eccitando e pascendo le giovani immaginazioni. La filosofia si valse di quanto le aveano aggiunto le scuole arabe; la medicina, se non metodi, adottò farmachi orientali, droghe nuove, nuovi composti; razze di cavalli arabi, cani da caccia vennero portati; e se Federico II ebbe elefanti a sola pompa, i Pisani si valsero dei camelli per coltivare la fattoria di San Rossore, dove ancora non sono dismessi. La cannamele avea ristorato la sete de’ Crociati, che la trapiantarono in Sicilia, donde passò in Ispagna, e di quivi a Madera [532] e all’America, per procacciarci uno de’ condimenti oggi più usitati, lo zuccaro. Certe cipolle di Ascalona, certe prugne di Damasco allora arricchirono i nostri giardini; e se a torto si crede venuto di là il granoturco[427], v’imparammo l’uso dell’allume, dello zafferano, dell’indaco. Vorrebbe credersi che la vista degli aerei edifizj orientali e degli emisferici greci producesse l’ordine gotico, certo esteso in quel tempo; e i furti fatti da Pisa, Genova, Sicilia, Venezia ridestarono l’amore delle arti belle, che, compostesi a quegli esemplari, s’accostarono ai segni dell’eleganza.
Tanto movimento di popolo aumentò la marineria, del che principale vantaggio trassero gl’italiani, i quali lautamente guadagnarono dal trasportare i Crociati, poi stabilirono banchi su tutte le coste della Siria, del mar Jonio e del Nero, e convennero di vantaggiosi privilegi nelle terre sottomesse. Le navi si migliorarono[428], e a’ lenti tragitti per terra si surrogarono i viaggi per acqua. A vantaggio de’ pellegrini si stesero [533] itinerarj, che, se erano dettati dall’entusiasmo, valsero però tanto quanto a migliorare la geografia[429].
[534]
Continue relazioni mantenne l’Italia coll’Oriente, e ne sono piene le cronache piemontesi di Benvenuto da San Giorgio; le famiglie più insigni legarono parentadi coi principi levantini, e sei ne avvennero tra i marchesi di Monferrato e gli imperiali di Costantinopoli; il titolo di re di Gerusalemme e di Cipro ornava i duchi di Savoja prima che altro regio acquistassero. Gli stabilimenti italiani colà durarono più che quelli d’altra qualsiasi gente, e in modo si diffusero, che l’italiano era lingua comune de’ traffici sulle coste.
Lasciam dunque ad altri deridere ciò che eccitò l’entusiasmo di due secoli; e non crediamo inutili queste imprese, che diedero tanto stimolo al sentimento, alla curiosità, all’immaginazione.
FINE DEL TOMO SESTO E DEL LIBRO OTTAVO
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LIBRO OTTAVO | ||
Capitolo | ||
LXXXI. | Origine dei Comuni | pag. 1 |
LXXXII. | Effetti dei Comuni. Nomi e titoli. Emancipazione dei servi | 60 |
LXXXIII. | I Comuni lombardi. Lotario II e Corrado III imperatori. Ruggero re di Sicilia. Arnaldo da Brescia | 88 |
LXXXIV. | Federico Barbarossa | 112 |
LXXXV. | Ordinamento e governo delle Repubbliche | 153 |
LXXXVI. | Ultimi Normanni in Sicilia. Enrico VI | 218 |
LXXXVII. | Innocenzo III. Quarta crociata. L’impero latino in Oriente | 242 |
LXXXVIII. | Ottone IV. Sviluppo delle Repubbliche, e secondo loro stadio. Nobili e plebei in lotta. Guelfi e Ghibellini | 268 |
LXXXIX. | Frati. Eresie. Patarini. Inquisizione | 313 |
XC. | La Scolastica. Efficacia civile del Diritto romano e del canonico. Le Università. Le Scienze occulte | 356 |
XCI. | Federico II. Seconda guerra dell’investitura | 415 |
XCII. | Fine degli Svevi e della seconda guerra dell’investitura | 472 |
XCIII. | I Mongoli. — Fine delle crociate e loro effetti. Gli stemmi | 507 |
1. Savigny, Storia del Diritto romano; — Pagnoncelli, Dell’antica origine e continuazione dei governi municipali in Italia, 1823 — Raynouard, Histoire du droit municipal en France, 1838.
2. È l’opinione del Leo, Entwickelung der Verfassung der lombardischen Städte bis zu Friedrich I, 1824; del Raumer, Ueber die staatsrehtlichen Verhältnisse der italienischen Städte; dell’Eichhorn, di Ekstein, di Behlmann-Holweg, Ursprung der lombardischen Städte Freiheit, 1846, in confutazione del Savigny, dell’Hegel ecc. Fra i nostri la sostennero Cesare Balbo e Carlo Troya. Secondo questo, i Romani spossessati da Autari mai più non entrarono nel Comune; bensì i Romani giustinianei e teodosiani, cioè quelli sopravissuti in paesi ove si mantennero in vigore il diritto giustinianeo e il teodosiano; ma neppur questi mai non si pareggiarono ai dominatori, fin al tempo di Ottone I, quando tolsero la superiorità ai Franchi; talchè non ricuperarono i diritti antichi, ma acquistarono quelli dei vincitori.
3. Dissi quasi, acciocchè non ci si opponga qualche menzione di comunità. Nel 764, un Crispino fonda e dota la chiesa di San Martino d’Ussiano, lasciandone il patronato ai vescovi di Lucca; e nel descrivere i confini dei beni dice: Alia petiola de terra mea, qui est similiter tenente capite uno in via publica et in ipso rivo Caprio, et vocitatur ad Campora communalia. Ma era il Comune de’ vinti, o quel de’ vincitori? Più conchiuderebbe il diploma dell’imperatore Lamberto (Antiq. M. Æ., VI. 341) che a Gamenulfo vescovo di Modena nell’898 concede e conferma tutti i beni, e la giurisdizione sui medesimi anche nella città, soggiungendo: Sancimus etiam pretaxate ecclesie, juxta antecessorum nostrorum decreta, loca in quibus predicta civitas constructa est, stabilia maneant cum cancellariis, quos prisca consuetudo prefate ecclesie de clericis sui ordinis ad scribendos sue potestatis libellos et feothecarios habeat; vias quoque, portas, pontes, et quicquid antiquo jure eidem civitati ac curatoribus reipublice solvebantur, nostra vice liberam capiendi debitum ex eis censum habeat potestatem... Qui respublica parmi abbia il senso che sotto gl’imperatori romani, ed equivalga al fisco. Anche Lodovico II nell’852, confermando alla chiesa di San Lorenzo di Giovenalta nel Cremonese il mercato, l’acquedotto e altri diritti, comanda che nulla quelibet persona aut quislibet reipublice minister ullam contrarietatem facere presumat (Antiq. M. Æ., II. 868). Merita pure riflesso la costituzione di Carlo Magno del 787, dove conferma il dazio da pagarsi ai porti, già istituito da re Liutprando, stabilendo quel che dovranno pagare il vescovo di Comacchio, et ceteri homines fideles nostri Comaclo civitate commanentes, sottraendoli dalle eccessive esigenze dei Mantovani: ivi i Comacchiesi sono sempre trattati in corpo, non come individui, nè come spettanti a un signore.
4. Vedilo nel Canciani; e giudicato dal Savigny, V. 132. Hennel ne scoperse una nuova copia nella biblioteca di Sangallo, che è desiderabile venga pubblicata. Il signor Bunturini promise una nuova lezione assai migliorata del testo udinese, che noi potemmo esaminare. C. Hegel (Gesch. der italienischen Städtefreiheit, Lipsia 1847) attribuisce quel documento alla Curia Retiense cioè al paese de’ Grigioni.
5. Uno de’ più antichi esempj raccolgo dal Codice diplomatico bresciano, ove nel 781 Carlo Magno a Radoara badessa di San Salvadore in Brescia conferma i possessi sub immunitatis nomine; quatenus nullus judex publicus ibidem ad causas audiendas, vel freda exigenda, seu mansiones vel paratas faciendum, nec fidejussores tollendum, nec nullas redibitiones publicas requirendum, judiciaria potestas quoquo tempore ingredere nec exactare non presumat.
Poi nell’822 Lodovico imperatore alle monache stesse, conforme alla carta d’immunità concessa da suo padre, ordina che nullus judex publicus, vel quislibet ex judiciaria potestate in ecclesias aut agros et loca et reliquas possessiones, ad causas audiendas, vel freda exigenda... ingredi audeat; sed liceat conjugi nostrae (Giuditta) atque successores ejus cum omnes fredos concessos, et cum rebus VEL HOMINIBUS LIBERIS seu comendatis ad idem monasterium pertinentes, sub immunitatis nostrae defensione quieto ordine possidere.
6. Vedi qui sopra la nota 3.
7. Espone che il vescovo mandò a lui dicendo, eandem urbem hostili quadam impugnatione devictam, unde nunc maxime sævorum Ungarorum incursione et ingenti comitum, suorumque ministrorum oppressione tenebatur, postulantes ut turres et muri ipsius civitatis rehedificentur studio et labore præfati episcopi, suorumque concivium, et ibi confugentium sub defensione ecclesiæ beati Alexandri in pristinum rehedificentur, et deducantur in statum. Alle quali suppliche annuendo, egli stabilisce che sia ricostrutta civitas ipsa pergamensis, ubicumque prædictus episcopus et concives necessarium duxerint... Turres quoque et muri, seu portæ urbis... sub potestate et defensione supradictæ ecclesiæ et prænominati episcopi suorumque successorum perpetuis consistant temporibus; domos quoque in turribus, et supra muros ubi necesse fuerit, potestatem habeat aedificandi, ut vigiliæ et propugnacula non minuantur, et sint sub potestate ejusdem ecclesiæ beati Alexandri. Districta vero omnia ipsius civitatis, quæ ad regis pertinent potestatem, sub ejusdem ecclesiæ tuitione, defensione et potestate predestinamus permanere etc. Ap. Lupo, lib. II. Merita troppo poca fede l’Odorici perchè si accolga il documento del 13 maggio 909 da lui pubblicato, ove re Berengario riferisce che Troilo Volungo e Pamfilo de Lanternis(?) legati COMUNITATIS NOSTRÆ de Lonato comitatus Brixiæ gli esposero i danni recati dagli Ungheri, e a nome dell’arciprete Lupo, del clero, di tutta la plebe di quel luogo, imploravano che, sovrastando ancora la rabbia de’ Barbari, possano costruire fortezze e mura a difesa de’ fedeli e delle cose sante; il che egli concede.
8. Vedi Moriondi, Monum. Aquensia, I. 7. 9. 14. 21. 26; — Giulini, II. 340. 353; — Leo, Vicende delle costituzioni delle città lombarde, part. III. § 2.
9. Ottone I al vescovo Anpaldo di Novara nel 969 concedeva la giurisdizione della città e d’un circuito di 24 stadj, vietando ne aliquis ejusdem civitatis quandocumque habitator, murum ipsius civitatis ad portas vel pusterulas faciendas sine episcopi jussu frangere præsumat.
Nel 1013 già Novara era in grado di resistere ad Arduino marchese d’Ivrea, e nel 1110 ad Enrico V, e Ottone di Frisinga al tempo di Barbarossa la qualificava non magna, sed muro novo et vallo non modico munita.
10. Monumenta Historiæ patriæ, Chartarum II. 49.
11. Antiq. M. Æ., VI. 47; Affò, II. 13.
Del 1037 Corrado conferma al vescovo d’Ascoli la donazione di Ottone: Omnem terram sui episcopii, tam ad matricam ecclesiam pertinentem infra et extra civitatem suam, quam ad ceteras capellas sive monasteria... Monetam etiam in civitate construere... et quidquid ad regiam censuram et potestatem nostram pertinet, transfundimus in ejus et successorum illius jus et dominium. Lo conferma nel 1045 Enrico re ad altri. Archivio capitolare d’Ascoli. Vedi Giornale Arcadico, vol. XLIII.
12. Tiraboschi, Storia della badia di Nonantola, II. 188: Confirmamus tam mutinensi ecclesiæ quam ejus civibus universos bonos usus quos antiquitus habuerunt.
13. Prædictum districtum et aquam ac ripam Padicam omni theloneo seu curatura atque ripatico a Dulpariolo usque ad caput Adduæ, cunctasque piscationes cum molendinorum molitura et navium debito censu, et omnes rectitudines et redibitiones et forum seu ceteras consuetudines, et vias publicas, et cætera quæ in præceptis et notitiis antecessorum nostrorum continentur. Ap. Campi, Hist. eccl., I.
14. Antiq. M. Æ., I. 708. E nel 1084 concedeva al monastero di San Zenone a Verona liberos homines, quos vulgo arimannos vocant... cum omni debito, districtu, actione atque placito.
Al 2 luglio 1070 Enrico IV re dona alla chiesa di Vercelli il Casale coll’arimannia, e con tutto il servizio del contado Odalingo con tutti gli arimanni, e del contado Albalingo con tutti gli arimanni, Ocesingo con tutti gli arimanni, e così Momelerio, Selvolina, Redingo cum omnibus arimannis. Monum. hist. patr., Chartarum I. p. 622.
15. Nullam deinceps vel eorum filii aut descendentes publicam functionem vel angariam, seu ullum servitium aut ullam districtionem cuique hominum faciant, vel usque in perpetuum persolvant; sed sub potestate pretaxati monasterii perenniter permaneant, præter nostrum regale fodrum quando in regnum istum devenerimus, et sculdassiam quam comitibus suis singulis annis debent. Ap. Lupo, lib. II.
16. D’Arco, Nuovi studj intorno all’economia politica del municipio di Mantova, 1846.
17. Paragonisi la nota 12.
18. Di fatto Lotario II nel 1133 attribuiva a questa città arimanniam cum rebus communibus ad mantuanam civitatem pertinentibus. Del 1056 si ha l’investitura Elisei episcopi Mantuæ facta communi et universitati et hominibus Mutuæ de tota aqua Padi: al qual uopo due sindaci et procuratores communis pagarono ad esso vescovo quaranta lire imperiali per essere investiti di quel diritto. Altrove i nobili erano detti Lombardi; per es. negli statuti di Pisa, lib. I. rubr. 109: Non patiemur aliquem vel filium militis vel nobilem vel lambardum etc.; nel registro dei censi della chiesa romana: Quidam milites, qui dicuntur Lambardi; e ap. Targioni Tozzetti, Viaggi, I. 89, ove Cattani et Lambardi de la Quercinola, Lambardi de Aquaviva etc.
19. Legge XXXI delle aggiunte alla Longobarda, e la IV delle Leggi longobarde.
20. Campi, Hist. eccl., I. 480.
21. Antiq. M. Æ., I. 1020 e 493.
22. Monum. Hist. patriæ, Chart. II. 191.
23. Ut omnes homines possint cum fiducia cambiare et vendere et emere, juraverunt omnes cambiarii et speciarii, qui ad cambium vel species stare voluerint, quod ab illa hora in antea non furtum faciant nec treccamentum aut falsitatem, infra curtem Sancti Martini, nec in domibus illis in quibus homines hospitantur... Sunt etiam insuper qui curtem istam custodiunt, et quicquid male factum fuerit, emendare faciunt.
24. Lupo, Cod. dipl. Berg., tom. II. 621 e 773.
25. Targioni Tozzetti, Viaggi, I. 143.
26. Breve recordacionis de concordia hominum Clavennatum et Pluriensium. Jurare debent quatuor homines de Clavenna et de Pìuri de guidare comune de Clavenna et de Pluri et eorum bona et personas bona fide, sine fraude in pace et in guerra; et de illis rebus quæ venient eis inter manus per istam consulariam non facient furtum, nec consentient facienti; et illud quod remanebit in fine suæ consulariæ de quæstu quod ipsi fecerint, partientur inter Clavennates et Plurienses, ita scilicet ut Clavennates habeant tres partes, et Plurienses quartam sine fraude: et si dispendium fuerit factum pro comuni de Clavenna, sine fraude illi de Pluri solvere debeant quartam partem et Clavennates tres partes etc.
È citato nella decisione che Anselmo Dell’Orto, console di Milano nel 1155, diede sopra una quistione fra i consoli di quei due luoghi; riportata dal padre Allegranza, Dell’antico fonte battesimale di Chiavenna. Venezia 1765.
27. Il più antico statuto che si conosca fatto da una corporazione in Lombardia sarebbe dell’835, con cui alla corte imperiale di Castelvetere, donata a Santa Maria di Cremona, i canonici di questa dettano statuti; che nessun uomo di quella venda o tenga albergo o taverna senza licenza loro, pena trenta soldi: non tener giuoco o bisca o meretrice; non rubare; non accoglier pubblico bandito o ladro; e si stabilisce la pena per chi ferisca in rissa, tiri pei capelli, faccia adulterio, guasti una fanciulla. I quali statuti furon letti in presenza di molti uomini di Castelvetere, e ricevuti e giurati da essi. — È pubblicato dall’Odorici nell’Archivio storico, nuova serie, tom. II., pag. 39, ma potrebbe esser falso come altri di quella provenienza.
Un de’ primi atti di Comune sarebbe quello che cita esso Odorici al 969, in cui re Ottone al Comune ed università di Maderno, nel Bresciano presso al Benáco, che aveangli mandato deputati per chieder la conferma della loro immunità, rimette tutti gli ossequj, usi, dazj che ai predecessori suoi soleano retribuire, assolvendo i Madernesi da ogni nodo di servitù, dando facoltà di pesca e caccia per tutto il lago e di farvi quel che credono, e considerandoli liberi con tutte le loro adjacenze, vigne, oliveti, campi colti e incolti, mobili ed immobili, telonei, ripatici, ostiatici; volendo che tutte queste cose vengano in diritto e proprietà d’esso Comune e università di Maderno in perpetuo. Peccato che l’Odorici non garantisca abbastanza i documenti che produce: affinchè, s’egli non è uomo da ingannare, assicurasse pure che non venne ingannato.
28. Sotto l’896, Landolfo seniore indica che ad ognuna delle sei porte di Milano i Romani avessero formato di quelle opere di difesa, che essi chiamavano procestre o clavicule, e noi rivellini; e li dice altissimi e di pianta triangolare. Senza credere appartengano ai Romani, se ne induce, primo, l’antichità di tali fortificazioni, che alcuni vorrebbero inventate solo nel XV secolo; secondo, che la città non doveva essere stata rasa affatto da Uraja, come ci vogliono dare a credere, se trecent’anni dipoi v’aveva mura sì antiche da non ricordarsene la costruzione.
29. Dandoli, Chron., lib. VIII. c. 16.
30. Antiq. M. Æ., diss. II.
31. Monum. Hist. patriæ, Chart. II.
32. Monum. Hist, patriæ, 998.
33. Arch. diplom. sienese, Pergamene, n. 14 e 21.
34. Constitutiones quas habent de mari sic iis observabimus, sicut illorum est consuetudo. Nec marchionem aliquem in Tuscia mittemus sine laudatione hominum duodecim, electorum in colloquio facto sonantibus campants. Antiq. M. Æ., diss. XLV.
Incipit prologus constitutionum Pisanæ civitatis. Nobis Pisanorum consulibus, constituta facientibus æquitashortando suasit, omnibus ea scire atque intelligere volentibus, originem ipsorum et causam atque nomen exponere, ne, ut ita dixerimus, quasi illotis manibus, nulla præfatione facta, ex improvisu ad ipsa perveniant.
Pisana itaque civitas, a multis retro temporibus vivendo lege romana, retentis quibusdam de lege longobarda, sub judicio legis, propter conversationem diversarum gentium per diversas mundi partes suas consuetudines non scriptas habere meruit, super quas annuatim judices possint quos provisores appellavit; ut ex equitate, pro salute justitiæ et honore et salvamento civitatis, tam civibus quam advenis et peregrinis et omnibus universaliter in consuetudinibus providerent. Qui ex diversitate scientiæ atque intellectus, per diversa tempora eadem negotia atque similia, aliter alteri, et omnino e contra quam illi judicaverint; unde Pisani, qui fere præ omnibus aliis civibus justitiam et æquitatem semper observare cupierunt, consuetudines suas, quas propter conversationem quam cum diversis gentibus habuerunt, et hucusque in memoria retinuerunt, in scriptis statuerunt redigendas, pro cognitione eorum ea scire volentium. Qua de causa et nos, et ante nos quamplurimos alios sapientes civitatis elegerunt, qui hoc sub sacramento faceremus, et corrigenda corrigeremus, atque causas et quæstiones consuetudinum a causis et quæstionibus legum discernendo redigeremus in scriptis. Quorum statuta in scriptis redacta, sunt appellata constituta, quasi a pluribus statuta, et etiam a civitate recepta et confirmata. Ex quibus hoc volumen compositum a nobis et confirmatum consulibus justitiæ, scilicet, Rainerio de Parlascio et Lanfranco, pro se et suis sociis, scilicet Lamberto Grasso de Sancto Cassiano, Boccio Cocco, Henrico Friderici Bulso, olim Petri Albithonis, et Sysmundo quondam Henriqui Nithonis, per publicationem obtulimus et dedimus. Anno incarnationis Domini MCLXI, indictione IX, pridie kalendas januarii, regnante domino Friderico felicissimo atque invictissimo imperatore nostro et semper augusto.
Extra quod volumen si quod aliud constitutum de usibus scriptum inveniatur, auctoritatem non habere constituimus, nisi super factis secundum sua tempora; servata et in eis constitutione hac Sicut lege et constitutiones, etc.; non tamen occasione hujus constitutionis in factis futuris ab hinc in antea vel ex quo illud constitutum emendatum vel sublatum fuerit protrahatur.
Su quegli statuti hanno fatto studj i Dal Borgo, il Valsecchi, il Targioni-Tozzetti, il Savigny, ecc., e più profittevoli il Bonaini.
* Lo statuto dei Consoli del 1162 da lui pubblicato, non è il più antico. V’era un podestà nel 1190, e lo statuto di questo è più ampio perchè comprende gli statuti particolari.
Daiberto tra il 1088 e il 1092 episcopus Pisanorum, aggiuntisi per socj i valorosi e sapienti Pietro Visconti, Rolando e Stefano Guinizone, Mariniano, Alberto; considerando l’antica peste della città pisana la superbia, per la quale faceansi quotidiani omicidj innumerevoli, spergiuri, incesti, principalmente in occasione di distrugger case e altri mali assai, col consenso e il lodo de’ sopradetti uomini, e di tutti gli abitanti di Pisa, di Borgo e Chinzica, ordina qual deva esser l’altezza delle torri, sia su terreno proprio, sia su feudale o ecclesiastico. E chi lo viola si abbia per scomunicato, e guardinsi da lui come da eretico e dannato, nè abbiasi comunione con lui in chiesa o in nave.
Del 1154 si ha il catalogo dei consoli, con autorità a cuncto Pisarum populo in publica contione concessa, clamante FIAT FIAT.
Nel Pisano aveano statuti proprj Calci, Vico, Buti, Marti, Palaja, Peccioli, Piombino, Campiglia, Scarlino, Castiglione della Pescaja, l’isoletta di Pianosa.
35. Ap. Muratori, Ant. Estensi, part. I. c. 17.
Dell’immunità riportiamo solo le parti principali: In nomine sancte et individue Trinitatis. Otto gratia Dei imperator augustus etc. Agnoscat universitas nostrorum fidelium... qualiter nos, pro Dei omnipotentis amore, nostrarumque animarum remedio inclinati precibus Huberti episcopi, dilecto fidelique nostro, per hoc nostrum preceptum donamus, concedimus atque largimur omnibus sacerdotibus, levitis, universis sacris ordinibus, Luce civitati commorantibus, seu etiam suburbanis, ut deinceps in antea a nullis magnis parvisque personis ad secularia judicia pro qualicumque controversia examinentur vel distringantur nisi ab eorum presule, et ut illis in domibus eorum aliqua invasione audeat inferre, vel tributum, seu etiam superimpositum iisdem sacerdotibus etc... a quaqua persona minime imponatur vel requiratur; et ne aliquis audeat se intromittere sine legali judicio in universis suppellectilibus eorum, sive in servis etc. Insuper concedimus ob nostram imper ialem dictionem omnibus sacer dotibus... ut eorum advocatus non aliter, nisi solus juret, sine ulla contradictione, sicut in sancta romana ecclesia agitatur... Et ita sane precipientes jubemus, ut nullus dux, sive marchio... audeat se ultro ingerere in omnibus casis et rebus jam superius prenotatis, vel etiam eis servitia, aut injurias inferre... Segue la pena auri optimi libras centum contro i violatori, da pagarsi per metà camere nostre, et medietatem predictis sacerdotibus... Quod ut verius credatur, diligentiusque ab omnibus observetur, manibus propriis roborantes annuli nostri impressione insigniri jussimus. — Signum domini Ottonis serenissimi imperatoris.
Ecco pure il diploma di Ottone II: Ob amorem Dei, tranquillitatemque fratrum in Lucensi ecclesia famulantium, atque sub ipsius diæcesos degentium libenter concedere placuit, et hoc nostre auctoritatis preceptum immunitatis, atque tuitionis gratiam erga eandem ecclesiam fieri decrevimus, nominative de custodibus, castellis, monasteriis, plebibus, cellulis, aldionibus et aldiabus, servis et ancillis, piscationibus, aquis, aquarumque ductibus, pratis, vineis, campis etc... Precipientes quapropter jubemus, ut nullus dux, marchio, comes, vicecomes, judex publicus, aut gastaldus, vel quilibet ex judiciaria potestate, in cellulas, aut ecclesias, vel domos clericorum, curtes, seu villas, aut loca, vel agros, castella, seu reliquas possessiones memorate ecclesie.... ad causas audiendas, vel freda exigenda, aut mansiones vel paratas faciendas, aut fidejussores tollendos, aut homines ipsius ecclesie tam ingenuos quam servos distringendos, aut ullas redibitiones... illicitasve occasiones requirendas, nostris vel futuris temporibus ingredi audeat, vel ea que supra memorata sunt, penitus exigere presumat; sed liceat memorato presuli, suisque successoribus, sibi subjectis, vel omnibus ad se aspicientibus, sub tuitionis atque immunitatis nostre defensione, remota totius judiciarie potestatis inquiet udine possedere. Tonsos vero, quos sua parochia... et omnes homines in sua terra residentes, aut ad ejusdem terre castella confugientes, ad jam dicti episcopi suorumque successorum veniant judicium, et nulla imperii nostri magna parvaque persona habeat potestatem ad distringendum, sed liceat ei ad vicem regie potestatis eos distringere etc. Memorie lucchesi.
36. Bullam plumbeam pro sigillo comunitatis. Ptol. Lucensis, Ann. eccl., lib. XIX.
37. Lucanis civibus pro bene conservata fidelitate eorum in nos, et pro studioso servitio eorum, nostre regie potestatis auctoritate concedimus, et concedendo statuimus, ut nulla potestas, nullusque hominum murum lucensis civitatis antiquum seu novum in circuitu dirumpere aut destruere presumat; et domos quæ intra murum hunc edificate sunt vel adhuc edificabuntur, aut circa in suburbio, nulli mortalium aliquo ingenio aut sine legali judicio infringere liceat. Preterea concedimus predictis civibus ut nostrum regale palatium intra civitatem vel in burgo eorum non edificent, aut inibi vi vel potestate hospitia capiantur. Perdonamus etiam illis ut nemo deinceps ab illis exigat aliquod fodrum et curaturam a Papia usque Romam, ac ripaticum in civitate Pisa vel in ejus civitate. Statuimus etiam ut si qui homines veniant in flumine Serculo vel in Motrone cum navi causa negotiandi cum Lucensibus, nullus hominum eos vel Lucenses in mari vel in suprascriptis fluminibus eundo vel redeundo vel stando molestare, aut aliquam injuriam eis inferre, vel depredationem facere, aut aliquo modo hoc eis interdicere presumat. Precipimus etiam ut si qui negotiatores veniant per stratam a Luna usque Lucam, nullus homo eos venire interdicat, vel alio conducat, sive ad sinistram eos retorqueat, sed secure usque Lucam veniant, omnium contradictione remota. Volumus autem ut a predicta urbe infra sex milliaria castella non edificentur, et si quis aliquis munire presumserit, nostro imperio et auxilio destruantur. Et homines ejusdem civitatis vel suburbii sine legiptima judicatione non judicentur. Et si aliquis civium predictorum predium vel aliquam tricennalem possessionem tenuerit, si auctorem vel datorem habuerit, per pugnam vel per duellum non fatigetur... Longobardus judex judicium in jam dicta civitate vel in burgo aut placitum non exerceat nisi nostra aut filii nostri presente persona, vel etiam cancellarii nostri. In hac vero concessione sive largitione nostra sancimus ut nullus episcopus, dux, marchio, comes, nullaque nostri regni persona predictos cives in his concessis inquietare, molestare, disvestire presumat. Pubblicato dal Minutoli nell’Archivio storico, vol. X. doc. 1.
38. Questo giudicato si vedrà nel cap. LXXXV.
39. Documenti per servire alla storia lucchese, vol. I. p. 174: — In nomine sanctæ et individuæ Trinitatis. Velfo dux Spoleti, marchio Tusciæ, princeps Sardiniæ, dominus domus comitissæ Mathildis.
Quia justum et rationi consentaneum videtur imperatorem, sive magnos principes imperii, fidelium petitionibus condescendere suorum; idcirco et ego, petitionibus fidelium et dilectissimorum suorum Lucensium condescendere volens, Lucanæ civitati totoque ejus populo do, concedo atque confirmo omnem ejus actionem, jurisdictionem, et omnes res quæ quoquomodo mihi pertinent, vel ad jus marchiæ pertinere videntur, vel ad jus quondam comitissæ Mathildis, vel quondam comitis Ugolini pertinuerunt, tam infra Bechariam civitatem ejusque burgos, quam extra infra quinque proxima milliaria prædictæ civitati, ab omni parte ejusdem civitatis, exceptis fodris meorum vassallorum ex parte marchiæ, vel prædicti comitis Ugolini. Præterea infra præfata quinque milliaria proxima Lucanæ civitati ab omni parte non ædificabo aliquod castellum, nec ædificare faciam. Pro qua mea datione et concessione consules vel rectores qui pro tempore in dicta civitate fuerint, vel aliqua persona pro subscripta civitate dare debeant mihi, vel meis successoribus aut misso nostro, infra prædictam civitatem omni anno in quadragesima infra proximos octo dies postquam a nobis vel a nostro nuntio literas sigillatas ostendendo prædictis consulibus, vel rectoribus aut populo denunciatum fuerit, solidos mille lucensium denariorum expendibilium, et sic debeant facere et observare prædicti consules, vel rectores aut aliqua persona pro civitate dehinc ad nonaginta annos. Et licet ego sciam quod hæc mea concessio annuatim majorem redditum quam sit dictum, et etiam ultra duplum promittat, tamen illam plenissima auctoritate corroboratam per me et meos successores firmiter et incorrupte, sicut dictum est, permanere constituo. Siqua vero persona contra hujus nostræ concessionis et dationis paginam venire præsumpscrit, statuimus ut libras centum auri componat, medietatem cameræ nostræ, et medietatem prædictæ civitati. Ut autem hæc scriptura immutabili veritate et stabilitate permaneat, sigilli nostri impressione insigniri jussimus, et propria manu confirmantes subscripsimus.
Acta sunt hæc in civitate Lucensi, anno incarnationis Domini MCLX, VIII idus aprilis, præsentibus vero testibus his, etc.
40. Il diploma è del 5 maggio 1129: l’originale dovette perire come il resto dopo la memorabile sollevazione del 1678, ma tutti gli storici ne parlano, e mostrano tenerlo per vero, eccetto in pochi casi di controversia. (Oggi alcuni l’impugnano).
41. Antiq. M. Æ., v. 753.
42. «In nome della santa ed indivisibile Trinità, Ottone per voler di Dio imperatore augusto. Se assentiamo alle domande degli altri nostri fedeli, molto più giustamente inclinar dobbiamo le orecchie alle preci della diletta consorte nostra. Sappiano dunque tutti i fedeli nostri e della santa Chiesa di Dio presenti e futuri, che Adelaide imperatrice augusta moglie nostra invocò la nostra clemenza, affinchè per amor suo gli abitanti dell’Isola Comacina e del luogo che dicesi Menaggio ricevessimo sotto la nostra difesa, e confermassimo coll’autorità nostra i privilegi che ebbero dagli antecessori nostri e da noi stessi avanti l’unzione imperiale, cioè di non far oste, non aver l’albergario, non dare la curatura, il terratico, il ripatico o la decima nel nostro regno, nè andare al placito, se non tre volte l’anno al placito generale in Milano. Tanto concediamo, ecc. Dato all’VIII avanti le calende di settembre, anno dell’Incarnazione 962, I dell’impero del piissimo Ottone, indizione V, in Como». Ap. Rovelli, Storia di Como, tom. II. (Oggi vuolsi dubitarne).
43. Ughelli, Italia sacra, tom. IV. col. 596.
44. Ea quæ sue locutionis proprietate comunia vocant. Antiq. M. Æ., IV. 24.
45. Breve recordationis de Ardicio de Aimonibus. Sul qual documento io ho troppo dubbj.
46. Antichità Estensi, part. I. c. 29. — In nomine sancte et individue Trinitatis. Velfo Dei gracia dux et marchio, Mathilda Dei gracia si quid est. Justis petitionibus adquiescere, et nostros fideles honoribus et commodis ampliare per omnia nostram condecet potestatem. Quapropter omnium sancte Dei ecclesie, nostrorumque fidelium tam futurorum quam presentium noverit industria, qualiter nostri fideles mantuani cives nostram adierunt clementiam, quorundam suorum concivium oppressiones relevari petentes, et erimannos omnes, et communes res sue civitatis a nostris predecessoribus illis ablatas, sibi restitui postulantes. Et nos, ob memorabilem eorum fidelitatem et servicium, justis eorum precibus annuentes, omnes exactiones et violentias non legales funditus deinceps abolendas, et radicitus extirpandas modis omnibus decernimus et firmamus. Statuentes etiam, ut neque nos, neque nostri heredes, neque ulla magna, parvaque nostre potestatis persona, predictos cives in mantuana civitate, vel in suburbio habitantes, vel deinceps habitaturos, de suis personis, sive de illorum servis, vel ancillis, seu de liberis hominibus in eorum residentibus terra, vel de ermanna, et communibus rebus ad predictam civitatem pertinentibus ex utraque parte fluminis Mincii sitis, sive de beneficiis, libellariis, precariis, investituris, seu etiam de omnibus eorum rebus mobilibus et immobilibus adquisitis, vel adquirendis, inquietare, molestare, disvestire sine legali judicio, vel ad aliquam publicam exactionem vel functionem cogere presumat. Sed et neque in predicta civitate in domo alicujus, vel in suburbio, in domo militis vel in caneva alicujus, illis invitis, hospitari audeat. Insuper et illis restituimus omnes res communes, parentibus illorum concessas per preceptum imperatorum, scilicet nominative Saccam, Sepringenti et Carpenetam, et quidquid de Armanorio nobis hucusque retinebamus, sive per cetera loca in comitatu mantuano rejacentia, piscationes per flumina et paludes, scilicet utrasque ripas fluminis Tartari, deinde sursum usque ad flumen Olei. De alia parte usque in Fossam altam. De tertia parte usque in ecclesiam sancti Faustini in caput Variana, et deinde seorsum usque in Agricia majore. Ut liceat illis pabulare, capulare, secare, venari, et quicquid juris ipsorum parentes antiquitus in illis habuerant. Decernimus etiam, ut liceat omnibus predictis civibus et suburbanis per omnen nostram potestatem secure ire et redire, sive per aquam et per terram quocumque voluerint, ita ut nec theloneum, nec ripaticum dent. Et insuper illam bonam et justam consuetudinem eos habere firmamus, quam quelibet optima civitas Longobardie obtinet.
47. Antiq. M. Æ., I. 730; e la nuova conferma fattane dal Barbarossa, 732.
48. Pater ejus de ordine illorum, qui jura et leges civitatis asservabant, fuit. Bolland., ad 28 maj. In una carta del 721 dell’archivio di Sant’Ambrogio è nominato Vitale suddiacono, exceptor civitatis Placentinæ, cioè notaro. A un diploma del 1100 di Anselmo arcivescovo di Milano, il clero vercellese soscrive:
Hoc Vercellarum clerus decus ecclesiarum
Laudat cum populo laudibus egregio.
Puricelli, Monumenta ambrosiana, 289.
Così Aosta ebbe statuti nel 1118, pubblicati dal Cibrario; Capua nel 1109, dati dal Bonaini; Verona, decreti di consoli nel 1140.
49. Consulum epistolarum dictator. Hist. Med., cap. 15.
50. Consulibus, capitaneis, omni militiæ universoque mediolanensi populo. Civitas Dei inclyta conserva libertatem, ut pariter retineas nominis tui dignitatem, qui, quamdiu potestatibus Ecclesiæ inimicis resistere niteris, vere libertatis auctore Christo domino adjutore perfrueris. Martene, Collect. vet. scriptorum et monumentorum, tom. I. p. 640. Si avverta come non vi si faccia motto dell’arcivescovo, nè del clero. La prima menzione di consoli in Milano è nel 1100. Una carta del 1109 dell’archivio di San Fedele di Como fu stesa multis adstantibus cumanis consulibus.
51. Landulphi Sancti Pauli, cap. 31.
52. Nell’897 il vescovo Adalberto costituisce il vivere comune de’ canonici dotandoli di molti beni, distratti dalla mensa vescovile; del che delibera in concilio coi sacerdoti e tutto il clero d’essa chiesa, et reliquis nobilibus hominibus, qui eidem synodo intererant, tractans cum eis de statu et soliditate ipsius ecclesiæ. Nel 1000 il vescovo Reginfredo fa molti doni ad essi canonici, ancora presenti presbyteris et diaconibus cum certa parte nobilium laicorum. Lupo, Cod. dipl. Berg., tom. I. 1059. 1064. Sorte poi controversie fra i canonici di Sant’Alessandro e quei di San Vincenzo, nel 1081 il vescovo Arnulfo li rappacificava secundum consilium multorum clericorum, civium, extraque urbe manentium sapientum et nobilium.
53. De civibus autem præfatæ civitatis, Alberto Tozoni, Arimbaldo Cozo, Petro de Curte regia, Adam de Castello, Lanfranco Nozo de Polterniano, Lanfranco Ottoni, et insuper compluribus. Cod. dipl., 759.
54. Laude duodecim habitatorum qui electi fuerunt ad hoc, vel laude comunitatis... laude duodecim consulum. Nel 1167 essi conti, sgomenti dai progressi della Lega Lombarda, confermarono ed ampliarono tali privilegi ai vassalli e agli abitanti, obbligandoli al servizio militare e al fodro e alla fedeltà a Federico. I Novaresi, appena partito Federico, assediano il castello di Biandrate (1168) e si obbligano a tenerlo distrutto, e non ricevere i conti nec pro habitantibus nec pro vicinis. Monum. Hist. patriæ, I. 708. Sarebbe la prima menzione contemporanea di consoli.
55. Del giuramento fatto prestare ai singoli membri d’un Comune trovansi i processi qua e là; ed alla stampa, fra altri, indicheremo quello con cui gli uomini del paese di Triora giurarono fedeltà al Comune di Genova nel marzo 1261; i sottoscritti sono circa trecentottanta. Nel Liber jurium, vol. I, pag. 1334.
56. Astensis ecclesiæ episcopus nostram efflagitans adiit celsitudinem, quatenus sibi suaque ecclesiæ... secundum avi et patris nostri præcepta... totum episcopatum astensem, cum integro districtu civitatis, cum quatuor miliariis in circuitu, nostræ confirmationis et donationis præcepto corroborare et largiri dignaremur... videlicet quidquid ad publicum jus pertinet in thelonei et mercati redibitione, seu aquatici atque ripatici... cum placitis et omnibus vectigalibus... Volentes etiam jubemus, nullus habitator in castellis aut villis sui episcopatus ad placitum alicujus comitis vel hominis, nisi ad episcopi placitum aut sui nuncii vadant aut legem faciant. Monum. Hist. patriæ, vol. I., 289.
57. Sotto l’invasione, una parte de’ vincitori collocossi in campagna, formandovi Comuni villerecci (pagus, gaue), governati con leggi tedesche; mentre altra parte della campagna spettava ai vinti e regolavasi giusta il colonato romano, cioè rimanendo le persone libere da servigi personali, e le terre in libero commercio, vendendosi e affittandosi senza tampoco l’obbligo all’affittuario d’abitarle e coltivarle. In que’ dei vincitori invece era stabilita la servitù della gleba. Tal condizione diversa appare da molti documenti, e specialmente da quelli che concernono la chiesa di Firenze e di Siena (Ap. Rumhor, pag. 7-24), e da altri presso lo stesso che riguardano la repubblica sanese (pag. 25-41).
Firenze, costituitasi a Comune, cercò fiaccare i feudatarj. Essi pertanto s’indussero a sminuire la propria potenza, esimendo i coloni dai servigi personali, del che molti documenti adduce esso Rumhor dalla metà del XII secolo a quella del XIII (pag. 42-82). O si precisavano i servigi imposti, o vi si surrogavano prestazioni in generi, o i padroni ripigliavansi parte delle terre lavorate dai coloni, a cui essi altra parte ne lasciavano in compenso del diritto che il gius romano dava a questi di non essere staccati dalla propria terra. Quindi nacquero in Toscana molti piccoli possidenti campagnuoli. Le repubbliche favorirono la redenzione dei coloni, e gli statuti ne sono pieni: Firenze nel 1289 ordinò l’intero loro affrancamento: ricomprò, l’anno seguente, i coloni del Mugello dalla mensa arcivescovile e dal capitolo di Firenze.
Riscattati i coloni, le terre divennero di libera circolazione, e quindi oggetto alle speculazioni de’ denarosi, che compraronle dai coloni cui erano rimaste, e che le aveano suddivise per eredità: così entrando ne’ mercanti la voglia di possedere, adoprandovi anche la frode e la violenza. I comunelli di contadini, ch’eransi ordinati sui monti accanto alle rocche feudali, ne scesero per vivere in mezzo al podere. I signori che aveano riscattato i fondi, li diedero a coltivare agli antichi coloni con diversi patti, fra’ quali è costante la cura di mantener le piante di cui il fondo era vestito; cura che anche oggi è capitale. Così vennero la colonia parziaria, la mezzerìa.
Questa nelle carte toscane appare stabilita verso il 1250. Ma pure non mancano esempi di affitto semplice a prestazione certa e in generi o in denaro.
Vedansi Cenni storici delle leggi sull’agricoltura, dai tempi romani fino ai nostri, dell’avv. Enrico Poggi, Firenze 1845.
58. Lami, Memor. Eccl. florentinæ, tom. IV.
59. Monum. hist. patriæ, Scriptorum, III. 1569. 1614.
60. Storia di Imola, inserita in quella di Lugo, lib. III. c. 15.
61. Atti dell’Acc. di Lucca, tom. X. E nel 1195 vacando la chiesa parrochiale a Montopoli, i consoli e il gastaldo supplicarono il vescovo di Lucca, loro signore, ad eleggerlo, come fece, quia sum pro episcopatu patronus ejusdem ecclesiæ, et dominus illius terræ. Mem. lucchesi, IV. 2.
62. Antiq. M. Æ., IV. 40.
63. Ghilini, Annali. Milano 1666.
64. Così il Villani e il Malaspina; ma gli eruditi arruffano.
65. Flaminio Dal Borgo, nella Raccolta di diplomi pisani, 1765, pag. 186, reca una formola della conferita cittadinanza, che tradotta suona così:
«Parendo giusto e salutevole che, quando uomini di buona fama desiderano associarsi al consorzio della città di Pisa, e farsi cittadini pisani, siano ricevuti con equa benignità dopo prestato il giuramento di cittadinanza, e godano degli onori e privilegi dei Pisani, in ogni luogo, io Opizzino, figlio di Sano di Bientina, giuro sui santi vangelj di Dio che non sarò in consiglio od atto perchè la città pisana perda l’arcivescovado, nè i suoi vescovi, nè il primato, nè la legazione di Sardegna, nè l’onore e gli onori che ora ha o è per avere. E se abiterò nella città o no, qualunque cosa mi sarà ingiunta dal potestà, dai rettori, dal pretore, dai consoli, o da qualche delegato o capitano per l’onore della città, o per le persone o per le cose, sia direttamente o per nunzj o per lettere, senza frode lo farò e osserverò. Quando sappia che alcuno voglia sminuir l’onore della città, se lo potrò senza grave spesa, l’impedirò; se non potrò, lo significherò ad alcuni dei predetti al più presto. Le persone e cose de’ Pisani in terra, in acqua e dovunque possa difenderò. Le credenze che da alcuno de’ suddetti per giuramento mi siano imposte, non manifesterò. Queste cose per coscienza, senza frode osserverò, secondo la consuetudine degli altri cittadini di Pisa; e n’ho rogato Stefano giudice e notaro e cancelliere di Pisa.
«Fatto a Pisa fuor porta ecc. l’anno 1198 dell’incarnazione, indiz. XV, al V dagli idi d’aprile».
E incontinente, alla presenza de’ medesimi testimonj rogati, il signor conte Tedicio podestà del Comune e della città di Pisa, investì detto Opizzino di tutti gli onori e privilegi, di cui godono i cittadini pisani nella città e fuori, ne’ fondaci, nelle botteghe, nelle navi e in qualunque luogo di terra e d’acqua, talchè ne goda come gli altri cittadini pisani; e lo costituì e confermò cittadino pisano; e lui e gli eredi e i beni suoi liberò da tutti i pesi rusticani, sicchè più non sia tenuto fare servizj rusticani, nè dare la data, ecc.
Altri di tali giuramenti sono nel Muratori, Antiq. M. Æ., diss. XLVII; e per esempio Guicellone da Camino e Gabriele suo figlio il 1183 facendosi cittadini di Treviso giuravano:
«Abiteremo in essa città d’ogni anno due mesi in tempo di pace, e tre in tempo di guerra; qualora non ne siamo dispensati: ma in modo che, standovi l’uno, non sia obbligato l’altro; faremo giustizia e ragione sotto ai consoli o al podestà; apriremo tutte le borgate in pace e in guerra ai Trevisani per far guerra ai loro nemici; con buona fede e senza frode, custodiremo e salveremo i Trevisani e le cose loro in tutt’i borghi e le ville nostre, in piano e in monte; faremo oste e cavalcata, coi nostri uomini che sono dalla Livenza sin qua, liberi e servi; se si farà colletta o boateria (tassa sui bovi) fuor di città sopra i campagnuoli, vogliamo che vi obbediscano anche i nostri; daremo opera e consiglio affinchè quelli di Conegliano vengano a pace col Comune di Treviso, e prestino giuramento che noi prestiamo; faremo giurare dieci uomini di ciascuna nostra parrochia (curia), ad elezione dei consoli o del podestà, di seguirli e render ragione, e guardare e salvare gli uomini di Treviso e le cose loro.
Il podestà e i consoli e il Comune di Treviso di rincontro giuravano, salvare e mantenere essi da Camino, come qualunque cittadino di Treviso, e i loro paesi e gli abitanti liberi o servi; se il comune di Treviso distruggerà alcun loro castello, lo riedificheranno; non osteranno a che ottengano ragione in qualunque lite o querela; non impediranno le guerre private già in corso, quand’anche le parti volessero fare il duello innanzi ad essi consoli o ai loro successori; non s’intrometteranno delle liti di libertà, mosse dagli uomini del loro contado; dan piena rimessione de’ danni e delle ingiurie passate, e delle pene e multe e dei bandi; e non si brigheranno degli uomini loro, abitanti di là della Livenza e in Cadubria; che se mancassero in alcuna di queste promesse, pagheranno lire quattromila venete, obbligando in sicurtà i beni comunali, di modo che possano occuparli e prenderne i frutti; e tutto ciò sarà giurato ogni dieci anni da cento militi e ducento pedoni.
Nel 1199 Alberto e Magninardo de’ conti Guidi cedevano ai Fiorentini il castello di Semifonte, giurando sui vangeli di salvare, custodire, difendere ogni persona della città di Firenze e dei borghi e sobborghi, far carta di vendita del poggio di Semifonte, quale è contenuto coi muri e le fossa, e lasciar copiare dal podestà e dai consiglieri le carte che vi sono; faran guerra quando ne siano domandati con lettere portanti il sigillo del Comune, nè faran pace o tregua o accordo co’ nemici senza consenso del podestà o de’ consoli; abiterà ogn’anno un di loro un mese in Firenze; faranno dazio al Comune di Firenze, sicchè possa mettere accatto su tutti i beni e le persone loro; del quale accatto metà andrà alla città di Firenze, metà al conte Alberto e sua discendenza; di qualunque strada passi sulla loro terra e giurisdizione non toglieranno pedaggio ad alcun cittadino o mercante di Firenze; non faranno alcun castello, nè incastelleranno alcuna terra nel poggio fra Virginio e l’Elsa, se non con permissione del magistrato di Firenze. Lami, Memor. Eccl. florent., pag. 389.
Di simili patti n’ha molti nel II volume delle Carte nei Monum. Hist. patriæ. Così nel 1181 Ansaldo di Valenza giura la cittadinanza di Vercelli, promettendo comprarvi una casa di cinquanta lire pavesi ed abitarvi, difendere i Vercellesi, far guerra e pace con essi, dare ai consoli il fodro di quattrocento lire susine. Nel 1183 Obizzo marchese Malaspina e suo figlio Obizzino ai consoli di Piacenza consegnano il castello, il dongione, la torre e tutta la fortezza di Oramala. Nel 1185 Giacomo Zabolo e Pietro Bello di Cavaglià giuravano la cittadinanza di Vercelli, e comprerebbero una casa, la quale obbligavano ai consoli; l’anno seguente Guglielmo di Quarenga e Ansaldo; poi altri, sempre obbligandosi a comprare una casa e sottostare ai pesi comuni. Nel 1198, 22 aprile, si rogano i patti che gli Astigiani impongono ai signori di Manzano, Sarmatorio, Montefalcone, obbligandoli specialmente a far guerra ai marchesi di Monferrato e ai conti di Biandrate. Altri giuramenti al comune d’Asti vi sono alle pagine 1320, 1321, 1354, 1357, 1358, 1360. Ai 13 febbrajo 1190 Alba riceve per cittadini gli uomini di Magliano, Monticelli, Mango.
* Il Comune di Vercelli fu de’ primi e più operosi a fondare borghi franchi, che furono sin 22 nel piccolo territorio. Sul che vedi Mandelli, Il Comune di Vercelli nel medioevo, 1858.
66. Ex quo fit ut tota illa terra (Lombardia) intra civitates ferme divisa, singulæ ad commanendos secum diœcesanos compulerint; vixque aliquis nobilis vel vir magnus tam magno ambitu inveniri queat, qui civitatis suæ non sequatur imperium. Otto Frisingensis, lib. II. cap. 3.
67. Omnium civitatum homines, maxime principalium, omnia civiliter et honeste agere oportet et decet. Est enim civitas conversatio populi assidua ad jure vivendum collecti. Esordio d’un documento lucchese del 1124.
68. Un documento del Dragoni, illustrato dall’Odorici nell’Arch. Storico, II. 21, parla di moneta cremonese nell’807; un altro dell’835 di soldi d’oro cremonesi, che farebbero presumere una zecca cremonese fin da Carlo Magno, e quel ch’è rarissimo allora, moneta d’oro e d’argento. È certo una soperchieria, come altre di quel codice.
69. Monum. Hist. patriæ, Chart., II. 204.
70. Bartoli, St. di Perugia, tom. I. p. 216.
71. Cumque tres ordines, idest capitaneorum, valvassorum et plebis esse noscantur, ad reprimendam superbiam, non de uno, sed de singulis consules eliguntur. Otto Frising., ii. 13. Il poeta bergamasco Mosè dice:
Tradita cura viris sanctis est hæc duodenis,
Qui populum justis urbis moderatur habenis;
Hi sanctas leges scrutantes nocte dieque
Dispensant æquo cunctis moderamine quæque.
Annuus hic honor est, quia mens humana tumore
Tollitur assiduo cum sublimatur honore.
Il Muratori, nella prefazione ad esso poema, crede che solo del 1184 cominciassero i consoli a Bergamo: ma già nel 1109 si trova nominato Ripaldo dei Capitani di Scalve console; poi altri in una carta del 1117. Una lite nel 1114 fu decisa da quindici consoli di Como: ma qui si tratta di consoli de’ placiti, come sono forse i diciotto nominati in un documento del Giulini al 1117. Più importante è un altro presso il Lupo, II, 945, dove sono annoverati tutti i consoli: Nomina quorum consulum sunt, Arialdus Vesconte, Arialdus Grasso, Lanfrancus Ferrarius, Lanfrancus de Corte, Arnaldus de Rode, Arnaldus de Sexto, Azofonte, Mainfredus de Setara, Albericus de la Turre, Anselmus Avocatus; capitanei istius civitatis. Joannes Mainerii, Ardericus de Palazzo, Guazzo Arrestaguida, Malastrena, Otto de Fenebiago, Ugo Crivello, Guibertus Cotta, valvassores jam dictæ civitatis. Ugo Zavetarius, Alexius Lavezarius, Paganus, Ingovartus, Azo, Martinoni, Maxaso; cives ipsius civitatis. Sono dunque sette cittadini, sette valvassori, e nove capitanei, forse perchè a questi vanno uniti il visconte, rappresentante dell’arcivescovo, e l’avvocato. Per Firenze vedi G. Villani, v. 32.
72. Pergamena nell’archivio diplomatico di Firenze.
73. Nei contratti, anche di chiese, trovasi tuttora menzione di aldj, di mundio, d’altre forme di legge longobarda. Nei Monum. Hist patriæ, Chart. II, p. 1170, trovo al 1195 la vendita d’un fondo fatta al capitolo di Santo Stefano di Biella dalla marchesa Guala, viro et mundualdo suo consentiente. Nell’istromento di nozze del beffato pittore Domenico Calandrini, al 24 febbrajo 1320 in Firenze, si stipulò consensu Benedicti mundualidi della sposa, quem eidem ad hoc in mundualdum constitui. Manni, Veglie piacevoli, II. Lo statuto di Benevento del 1207, approvato da Innocenzo III, vuole che secundum consuetudines approbatas et legem longobardam, et eis deficientibus, secundum legem romanam judicetur. Borgia, Mem. di Benev., II. 182. 413. Nel Liber consuetudinum Mediolani del 1216 è una rubrica Quando de crimine agitur criminaliter. Punitur in rebus et persona secundum legem municipalem nostræ civitatis, vel legem Langobardorum, vel legem Romanorum... Si is cui maleficium factum invenitur, jure Langobardorum vivebat, sicuti nonnulli nostræ jurisdictionis vivunt. Idemque erit si extraneus lege romana vivit. Nello statuto di Como del 1281: Lombarda non servetur nisi in pugnis et in illis casibus de quibus fit mentio in statutis. Lo statuto di Pisa del 1186 ha una rubrica De legibus seu titulis ex lege longobarda in nostro jure retentis et approbatis; e nel prologo di quello rifatto il 1281 si ha: Pisana civitas a multis retro temporibus vivendo lege romana, retentis quibusdam de lege longobarda, sub judicio legis etc. L’antichissimo statuto pistojese, alle rubriche 8 e 9, determina le varie multe per ferite fatte con ferro e legno, al modo longobardo.
La contessa Matilde ora professa vivere a legge salica, ora a longobarda; del che non seppero render ragione nè il Lupo, nè il Muratori, nè il Savigny. Noi pensiamo che tali professioni riguardassero non la persona, ma la natura de’ possessi pei quali si stipulava, o del feudo di cui si trattava. Potrebbe darsi anche oggi che un medesimo possedesse un feudo di ragione longobarda, cioè divisibile fra tutti i figli, e uno di salica, cioè trasmesso per primogenitura, e un benefizio ecclesiastico da conferirsi per voti.
Essa Matilde, nel documento del settembre 1079, professa ex natione mea legem vivere Langobardorum; pro parte suprascripti Gottifredi qui fuit viro meo, legem vivere videor salicam; poi in un documento del 9 dicembre 1080 dice: quæ professa sum ex natione mea lege vivere salica. Ap. Fiorentino, Documenti, pag. 128, e in un altro del Muratori, Ant. It., tom. II, pag. 277.
Anche nelle Antichità Estensi trovansi Bugiardo, Scotto e Buggeri che professano ex natione nostra lege vivere Langobardorum; eppure Ottone loro padre professava ex natione mea lege vivere romana.
A conferma di quanto altri asserì, che non è vero i preti vivessero a legge romana, qui mi vien in taglio di notare che nella splendida donazione che il vescovo Rozio di Padova faceva nell’871 all’ospedale di Santa Giustina da lui fabbricato, professa vivere secundum legem salicam; e nel suddetto II volume di Carte dei Monum. Hist. patriæ, pag. 161, al 1069 Alessandro prete di Biella fa testamento professando ex nacione mea legem vivere Langobardorum.
E nel vol. I Chartarum, col. 299, è nominato Adalbertus presbiter filius quondam Gorzano, qui professus sum ex nacione mea legem vivere Langobardorum.
74. Nel 1151: Nos Sirus archiepiscopus et consules Januæ præcipimus tibi, Philippo Lamberti, ut ab hac die in ante non sis consul Januæ, nec guida osti Januæ, nec conciliator Januæ, nec legatus Januæ, et præcipimus tibi ut, per sacramenta quæ homines Rassæ adversus te fecerunt, non reddas eis vel alicui eorum illum malum meritum.
L’arcivescovo di Pisa ebbe il pedaggio della dogana del sale e del ferro dell’isola d’Elba; un altro pedaggio a Castel del Bosco; e nel 1286 aveva già da gran tempo lite cogli Anziani per la giurisdizione temporale sopra i castelli di Meli, Riparbella, Beliora, Pomaja, Santa Luce, Lorenzana, Collalberti, Nugola, Filettole, Avane, Bientina, Usigliano, Collemontanino.
I vescovi di Fiesole mandavano il loro visdomino alla Rufina; ma gli uomini di questa doveano aver licenza dalla Signoria di Firenze prima di giurargli fedeltà.
Il vescovo di Torino, come quel di Luni, avea diritto a una parte di tutti i pesci che si pescassero. Nel 1170 Pipino vescovo di Luni consentiva ai Sarzanesi, i quali già si reggevano per consoli, di trasferire il loro borgo in riva alla Macra, ove dicesi Asiano, dando egli il terreno e i casamenti, e ricevendo tributo e giuramento e le antiche consuetudini quanto ai giudizj, ai bandi, ai macelli, ai cambisti, ai mercati, alle curatele, alle fosse, ai mulini, ai forni. Nel 1183 esso vescovo emancipò affatto i Sarzanesi. Monum. Hist. patriæ, Chart., II. 1021.
Il vescovo di Modena pretendeva dal Comune la giurisdizione e giudicatura nella città e per tre miglia in giro, tanto del civile come del criminale, e nelle emancipazioni, tutele, curatele, duelli, e nelle cause mercantili; inoltre l’acquedotto della Secchia e della Scultenna; la giurisdizione nel civile e nel criminale, e nell’elezione de’ consoli o del podestà, nelle emancipazioni e tutele e duelli in castel Razzano, Savignano, Vignola, Porcile, ecc., oltre alcuni possessi. I Modenesi rispondevano, tali diritti e giurisdizioni e possessi spettare a loro per concessione imperiale e per la pace fatta a Roncaglia (sic) tra l’imperatore e i Lombardi; inoltre posseduti da tempo immemorabile. Per molti anni se ne litigò, finchè, stanchi delle noje e delle spese, nel 1227 le parti vennero a transazione, concedendo al vescovo alquanti possessi e canali ed altri comodi, e duemila libbre imperiali, mediante le quali recedeva dalle restanti prestazioni. Solo restavagli di pronunziar le sentenze contro gli eretici, le quali poi il Comune obbligavasi di far eseguire. Antiq. M. Æ., VI. 254.
Del 1162 papa Alessandro III confermava i beni e le giurisdizioni dell’arcivescovo di Milano, tante che ne mostrano la potenza. Dipendevano da lui primieramente assai chiese, monasteri, pievi in commenda: cioè nel vescovado di Torino la badia di San Costanzo colle sue cappelle; in quello d’Asti la chiesa di San Pietro di Mazano; in Albenga la chiesa di Santa Maria; nel vescovado d’Alba la pieve di San Michele di Verduno; in Burgulio il monastero di San Pietro, le chiese di San Giovanni e di Santo Stefano; nel Vercellese la pieve di Sant’Ambrogio di Frassineto, sempre colle loro cappelle; nel Tortonese la badia di San Pietro di Mola; quella di San Salvadore nel Piacentino; nel Milanese il monastero di San Calocero di Civate; la Santissima Trinità di Buguzate (Codelago); il monastero dei Santi Felino e Gratiniano in Arona; il monastero di Cremella, quel di Bernaga, quel di San Salvadore in Monza. Nel vescovado d’Acqui il monastero di San Quintino di Spigno, e quel di Santa Cristina presso l’Olona nel Pavese. Seguono terre con giurisdizione e giuspatronato; Sesto Calende con molte cappelle; il marchesato di Genova, e un palazzo e cappelle in questa città; Pontecurone nel Tortonese, Coirana nel Pavese, Casale non so quale, Burgulio dove fu fabbricata Alessandria; Lecco e suo contado, Monza e suo distretto, le rive dell’Adda da Brivio a Cavanago, quelle del Ticino da Sesto a Fara, Palanzo sul lago di Como; cui potrebbero aggiugnersi, benchè non nominati, il castello d’Angera, quel di Brebia e sua Pieve, e Cassano d’Adda; inoltre la zecca (Vedi Giulini). Sotto il 1210, Galvano Fiamma stima l’entrata degli arcivescovi di Milano ottantamila fiorini d’oro, che il Giulini ragguaglia a dieci milioni.
75. Cibrario, Economia pol. del medio evo, pag. 135.
76. L’autore de’ Saturnali chiamavasi Teodosio Ambrosio Macrobio Sicetino; il consigliere di Teodorico, Flavio Anicio Manlio Torquato Severino Boezio.
77. Nel catalogo d’una confraternita troviamo sei Pietro, altrettante Marie, tre Andrea, due Cristine, due Ingelberghe, quattro Martini, dieci Giovanni, e così altri, senza verun criterio per discernere gli uni dagli altri. Antiq. M. Æ., diss. XLI.
78. Atela, Adela, Adeligia, Adeligida, Adalasia, Atelasia, Aidia, son varie forme del nome di Adelaide imperatrice: Adelchi, Aldechisio, Adelgiso, Algiso è il nome del figlio di re Desiderio: Obizo, Oberto, Adalberto, Alberto; Cuniza e Cunegonda; Adam e Amizone, ecc. sono identici.
79. In una carta dell’archivio casauriense: Ideo constat me Artaberto, qui supranomen fratello vocatur; in una presso l’Ughelli, tom. VIII. p. 43: Joannes qui supranomine Walterii vocatur; in un’altra del 954, lib. V. 1359; Petro viro magnifico, qui et supranomen vocatur Pazii, seu Gregorii. Così nelle Ant. ital., III. p. 747, a un atto dell’882 sottoscrivonsi Joannes qui vocatur Clario, Leo qui vocatur Pipino, Joannes qui vocatur Peloso, Joannes Russo, Urzulo qui Mazuco vocatur, Lupus qui dicitur Bonellus, Bonellus qui dicitur Magnano: e altrove Giovan Rosso, Giovan Peloso, maestro Guglielmo, Martin Diacono, Lupo da Via, Ugo da Porta Ravennate, ecc.
80. Bardellone, Taino, Bottesella, Butirone, Petracco, Passerino, Scarpetta, Carnevario, Cane e Mastino: poi Garzapane, Pandimiglio, Tornaquinci, Belbello, Menabò, Megliodeglialtri, Bracacurta, Soffiainpugno, Rubacastello, Animanigra, Buccadecane, Bellebono, Bragadelana, Nosaverta, Tantidanari, Basciacomari, Tettalasini, Bencivenne, Mezzovillano, Assainavemo, Seccamerenda, Segalorzo, Benintese, Ranacotta, Scannabecco, Mangiatroja, Brusamonega, Cavazocco, Codeporco, Coalunga, Ristoradanno, Datusdiabolo, Capodasino, Cagatossico, Cagainos, Mattosavio, Malfilioccio, Moscaincervello, Passamontagne, Castracani, Tosabue, Calzavegia, Cavalcasela, Guido Ajutamicristo, ecc. Anche case principali conservarono i nomi di Malaspina, Pelavicini, Maltraversi, Malatesta, Cavalcabò, Gambacurta...
81. Anichino di Bongardo dissero i nostri il capitano di Baumgarten; di Awcwood fecero Giovanni Acuto, e di Hohenstein Ovestagno. Reciprocamente i nostri Arrighetti fiorentini furono in Francia trasformati in Riquetti; i Giacomotti in Jaquemot, ecc.
82. Muratori, Ant. Ital., diss. XVI.
83. Subrogatum (come prefetto d’Amalfi) Ursum Marini comitis de Pantaleone comite filium Canucci Marci post sex menses quoque ejecerunt Successit Ursus Cabastensis, Joannes Salvus, Romani Vitalis filius. Pansa, St. della Repubblica d’Amalfi, I, 33.
84. Orderico Vitale, cap. 3, dice che Rodolphus, quintus frater, clericus cognominatus est, quia peritia litterarum, aliarumque rerum apprime imbutus est. Clericus pure chiamavasi it segretario, onde l’epitafio di Guglielmo Ambiense (ap. Moreri) Clericus angelici fuit hic regis Ludovici: dal che il clerc rimasto ai Francesi per indicare lo scrivano. Una cronaca milanese, nei Rer. ital. Script., III. 60, dice che Stefano da Vimercato fuit in sæculo valde honorabilis clericus. E Giovan Villani, IV. 3: E’ fu molto chierico in scrittura. Per avverso, Matteo Villani, III. 60, scrive: Il Comune fu ingannato da’ suoi medesimi ambasciatori, de’ quali niuno si potè incolpare, che erano secolari e uomini che non sapeano quello che i titoli de’ giudici portassero.
85. La contessa Matilde aveva moltissimi servi, e ne donò a varie chiese; nominatamente al canonico di Mantova regalò quelli che possedeva alla Volta; e l’atto del 1079 (ap. Fiorentini, Documenti concernenti Matilde, pag. 122) porta i nomi di parecchi, dove notiamo jugales cum filiis et cum peculiis eorum, e concede ad essi canonici quod faciant de jam dictis servis et ancillis, seu de peculiis quicquid voluerint. In testamento poi ordinò fosser liberati innumerevoli servi, come attesta Donnizone:
Innumerosque suos famulos jubet hæc hera cunctos
Ingenuos, vitæ post ipsius fore finem.
86. Cronaca Bolognese, 1283. Comune Bononiæ fecit fumantes comitatus, et emit omnes servos et ancillas ab omnibus civitatis Bononiæ, pro pretio unius stari frumenti pro quolibet qui habeat boves, et unius quartarolæ pro quolibet de zappa. — C. F. Rumhor, Ursprung Besitzlosigkeit der Colonen des innerern Toskana. Amburgo 1830.
87. Cum libertas, qua cujusque voluntas non ex alieno sed ex proprio dependit arbitrio, jure naturali multipliciter decoretur, qua etiam civitates et popoli ab oppressionibus defenduntur, et ipsorum jura tuentur et augentur in melius, volentes ipsam et ejus species non solum manutenere sed etiam augmentare, per dominos priores artium civitatis Florentiæ etc. et alios sapientes et bonos viros ad hoc habito... provisum ordinatum exstitit salubriter, et firmatum, quod nullus, undecumque sit et cujusque conditionis dignitatis vel status existat, possit, audeat vel præsumat per se vel per alium tacite vel expresse emere, vel aliquo alio titulo, jure, modo vel causa adquirere in perpetuum vel ad tempus aliquos fideles, colonnos perpetuos vel conditionales, adscriptitios vel censitos, vel aliquos alios cujuscumque conditionis existant, vel aliqua alia jura, scilicet angharia vel proangharia, vel quævis alia contra libertatem personæ et conditionem personæ alicujus in civitate, vel comitatu, vel districtu Florentiæ etc. Osservatore fiorentino, tom. IV.
88. Daru, St. di Venezia, lib. XIX. § 7.
89. «In nome de Dio amen: in mille e triscento e LXV adi VXII de feurer, in la strouilea in caxa mia de mi Symon da Imola e de Marco Bon de Viniexia e de Zorzi Fustagner da Coron, e de mi Symon noder infrascripto, lo sauio et discreto homo ser Andriolo Bragadin, fyolo de mis. Jacomo Bragadin de Viniexia de la contrada de sento Zemignan, se eno qui convegnudi insembre cum mis. Tantardido de Mezo da Viniexia in honorando consylier de Coron, et ali uendudo uno so sclauo lo quale elo aueua comprado in la Tana da uno Sarayni per cento e cinquanta aspri de arzento cum lazo (agio), segondo la confession del dito sclauo, et a dato infrascripto mis. Tantardido a lo sourascripto ser Andriolo in pagamento per lo dito sclauo ducati de oro uinti et uno in moneda cum lazo, lo quale sclauo a nome Piero Rosso et in presencia de li sourascripti testimoni e de lo dito sclauo fo fatto lo pagamento, e siando pagado e contento lo dito ser Andriolo dal dito mis. Tantardido, lo dito ser Andriolo pygla per la man lo dito Piero Rosso so sclauo e si lo de in man de lo sourascripto mis. Tantardido e de tutto questo fe contento lo dito sclauo Piero Rosso et inclinato per so signor lo dito mis. Tantardido. Oblegandose lo dito sclauo de auerlo per so signor cusi como elo aueua lo dito ser Andriolo, lo dito ser Andriolo se oblega de defenderlilo in tute le parti del mondo e in ogni zudixio, et lo dito mis. Tantardido per lo sclauo de ogno dano et interesse che interuegnisse a mis. Tantardido infrascripto per lo pagamento de lo dicto sclauo quando elo podesse prouar che elo non fosse so sclauo, lo dito ser Andriolo se oblega de refarli lo dito pagamento a ducati de oro XXI de bon pexo.
«Et io Symon figliolo mis. Jacomo de li Bruni da Imola per la imperiale autoritate not. publico e zudexe ordenario fui presente a tutto. Una cum li sourascripti testimonj mmss».
Il notajo non segna il luogo dove rogò l’istromento; ma puossi arguire si facesse appunto in Corone o nelle sue vicinanze. Serie degli scritti in dialetto veneziano, di Bartol. Gamba, pag. 35.
90. Fontanini, Diss. de masnadis.
91. Quod sclavi super navigiis non leventur; quod aliqua persona januensis non possit deferre mamaluchos mares et fœminas in Alexandriam ultra mare vel ad aliquem locum subditum soldano Babiloniæ (cioè del Cairo).
92. Lib. II. 20. 55. 93. Nel succitato volume II dei Monum. Hist. patriæ occorrono moltissimi ricordi di vendite e d’emancipazione di schiavi a Genova, fra cui ne scegliamo alcuni:
Nel 1156 Guglielmo Zulenio vende per otto lire la sua serva Agnese non fugitivam, neque furem, sed boni moris. — L’anno stesso, Simone di Mongiardino emancipa Girardo figlio di Ubaldo suo servo, pel prezzo di lire otto pavesi, senza ritener nulla del peculio che abbia o possa avere.
1158, 16 agosto. Mosso e sua moglie Marsibilia per lire cinquanta danno a Frederzone loro servo omnimodam facultatem vivendi, standi, agendi et faciendi quod velit utpote liber homo.
1159, 12 maggio. Malovriere tum amore Dei, tum pro solidis vigintiquinque libera Alvarda sua serva; pena dieci libbre d’oro se egli o i suoi eredi vi attentino.
1160, 25 novembre. Guglielmo da Castenollo vende un servo Saracino per cinquantanove soldi.
1161, 23 febbrajo. Amico di Mirto dona a Lanfranco la porzione di proprietà che ha sopra Angelica sua serva e la figlia di lei. — 10 giugno seg. Guglielmo Moraga di Narbona vende per cinquantacinque soldi a prezzo finito un suo Saracino. — 28 luglio. Filippo Aradello libera il suo servo Giovanni per amore dell’anima sua: e gli dice: Proficiscere liber in Deo; e Giovanni in ricambio promette stare al suo servigio per quattro anni. — 17 settembre. Ribaldo de Curia libera il servo Pasquale col suo peculio per venticinque lire e per salute dell’anima.
1162, 9 ottobre. Senebaldo regala a suo figlio Alberto metà de’ proprj beni feudali e allodiali, excepta tantum Boneta ancilla mea et filiam ejus. — 19 novembre seg. Ogerio Vento nel testamento dichiara liberi tutti i servi e le ancelle sue se il Signore lo chiami a sè in quella malattia. Non morì, e un altro testamento fece l’11 maggio seg., colla stessa clausola, eccettuando però il peculio d’essi servi.
1163, 4 agosto. Giulia Bulferico per mercede dell’anima sua e del marito manomette l’ancella Adelusia e il suo peculio.
1164, 1º maggio. Pier Cappellano e Stanfilla jugali manomettono Guglielmo servo con venti libbre di suo peculio. — Nell’inventario dell’eredità abbandonata da Guglielmo Scarsuria, del 17 giugno seg., è noverata Saracenam unam cum libertatis condicione testamento defuncti insercta.
1165, 21 giugno. Lanfranco Arzema per quattro lire e mezzo libera e manomette Aidelina sua ancella. Luca, figlia emancipata di lui, rinunzia pure ogni diritto che v’avesse. Giovanni Tossico, a un cui servo la Aidelina erasi unita (adhesisset), dichiara liberi i due primi figli che ne nascessero.
1192. Pietro re d’Arborea promette ai Genovesi che, se si ottenga di porre una chiesa in Oristano, darà al vescovo di Genova una curia con tanti possessi e servi quanti ne ha in Arborea il vescovo di Pisa.
Luigi Cibrario produsse carte genovesi di più tarde vendite di schiavi. Nel 1378 Benvegnuda vende quandam servam suam sclavam de progenie Tartarorum per ventidue lire di Barcellona, sanam ab omnibus magagnis occultis. Una pure de progenie Tartarorum è venduta il 1389 da Antonio di San Pier d’Arena; un’altra il 1391; un’altra di venticinque anni nel 1484, per sessanta lire di genovini, che sarebbero oggi fr. 1033.
Nel 1851 Giovanni Zucchetti pubblicava a Mantova una carta dell’archivio Arconati di Milano, secondo la quale, nel 1434, il nobile Giacomo de’ Bigli di Milano vendeva al nobile Giovanni da Castelletto, pur di Milano, una Tartara di anni diciannove per cinquantotto ducati d’oro; l’atto fu rogato a Recanati.
Nel testamento del famoso Filippo Strozzi, 14 maggio 1491, si legge: «Item a Giovanni Grande nero, mio schiavo, lascio e lego la liberatione, e che lui sia libero e franco da ogni servitù dopo la vita mia, et per detto effetto et per a quel tempo da hora lo libero et absolvo da la mia potestà et da ogni servitù a che lui mi fosse tenuto; et bisognandoli, per effecto di dicta sua liberatione o per cautela alcuna sua intorno a ciò, voglio che gli heredi mie gliene faccino quella cautela che lui vorrà, per potere dicta sua liberatione sempre mostrare et farne fede». Nella Cronaca fiorentina del Cambi trovo che nel 1529, quando Genova fu presa, i Franzesi ebber l’arte di togliere tutti gli schiavi, i quali rivelarono dove stessero riposte le ricchezze dei padroni.
Melchior Gioja (Nuovo prospetto delle scienze economiche, par. III) asserisce che «non è la religione che abbia fatto sparire la schiavitù dalla maggior parte dell’Europa, ma il lento progresso delle arti e del lusso». Guglielmo Libri (Histoire des sciences mathém. en Italie) s’arrabatta a provare che la Chiesa non fece nulla per la liberazione dei servi, anzi il contrario. L’argomento suo contro la Chiesa equivale precisamente a quest’altro: «Non è vero che il codice Albertino proibisca il furto, giacchè ladri vi ha dov’esso è in vigore». Fra i libri che costui dovette compulsare per la sua storia, sono quelli di Girolamo Cardano, del quale noi parliamo più avanti. Nel vol. X dell’edizione di Lione sta il trattato De arcanis æternitatis, che a pag. 31 vuol sostenere la legittimità degli schiavi naturali, confutando la Chiesa che dichiara gli uomini eguali. «Questo genere di servi, acciocchè nessuno potesse riguardarlo come propagato dalla natura, e perciò legittimo, fu tolto affatto da la religione nostra, ossia da quelli che pubblicarono costituzioni, interpretando quel detto che appo Dio non v’è nè servo nè libero. Sarebbe come se alcuno, interpretando quel di Cristo In quel giorno nè sposeranno, nè saranno sposati, dicesse inutile il matrimonio. Che una servitù moderata e giusta sia utile allo Stato, è così certo, che anche la ingiusta e smodata è più utile che il non esserne alcuna; giacchè i paesi dei Gentili furono più felici, ed ora quei de’ Maomettani, che non i Cristiani». Questo passo è decisivo a mostrare le due influenze sempre in contrasto, del paganesimo con Aristotele, e della religione col Vangelo.
93. Anno Domini MXCVIII cepit guerra de Cremona, magnum frixorium Cremonensium. Sicardus.
94. Quæque meis oculis vidi, potius reserabo. Anon. Cumanus, nei Rer. it. Script., V.
95.
Mittunt ad cunctas legatos agmina partes
Ducere; Cremonæ Papiæque mittere curant;
Cum quibus et veniunt cum Brixia Pergama; totas
Ducere jussa suas simul et Liguria gentes;
Nec non adveniunt Vercellæ, cum quibus Astum,
Et comitissa suum gestando brachia natum;
Sponte sua tota cum gente Novaria venit;
Aspera cum multis venit et Verona vocata;
Docta suas secum duxit Bononia leges;
Attulit inde suas Ferraria nempe sagittas;
Mantua cum rigidis nimium studiosa sagittis;
Venit et ipsa simul quæ Guardastalla vocatur;
Parma suos equites conduxit Garfanienses.
Anon. Cumanus.
96. Gli sono confermati in un diploma di Federico I, 29 settembre 1164.
97. Ap. Baluzio, Miscel., lib. V. p. 64.
98. Ildeberto, vescovo di Reims nell’XI secolo, cantava:
Par tibi, Roma, nihil, cum sis prope tota ruina;
Quam magni fueris integra, fracta doces.
Urbs cecidit, de qua si quicquam dicere dignum
Moliar, hoc potero dicere, Roma fuit.
Non tamen annorum series, non flamma, nec ensis
Ad plenum potuit hoc abolere decus.
Tantum restat adhuc, tantum ruit, ut neque pars stans
Æquari possit, diruta nec refici.....
99. Che nei secoli dell’ignoranza e del fanatismo si facesse colpa a costui di discendere da Ebrei, e san Bernardo stesso il chiamasse judaica soboles, poca meraviglia. Ma Voltaire, accoppiando al solito la leggerezza e l’intolleranza, non rifina di ridere di un papa ebreo. La storia, se avesse voluto consultarla, gli avrebbe detto ch’e’ non era ebreo e non fu papa.
100. Questo fatto si rappresentò in un quadro del palazzo di Laterano, ove Lotario riceve la corona di man del papa, colla leggenda:
Rex venit ante fores, jurans prius urbis honores,
Post homo fit papæ, recipit quo dante coronam.
101. Con queste insegne sono effigiati re Ruggero nel tempio di Monreale e Guglielmo nella Martorana a Palermo: il cadavere di Federico II si trovò rivestito di abiti pontificali. Sin a Filippo II le suppliche per affari ecclesiastici dirigeansi al re col titolo di beatissimo padre.
102. Concedimus, donamus et auctorizamus tibi, filio tuo Rogerio, et aliis filiis tuis secundum tuam ordinationem in regno substituendis, et hæredibus suis, coronam regni Siciliæ et Calabriæ et Apuliæ etc. Tu autem et hæredes tui censum, videlicet sexcentos schifatos, annis singulis Romanæ Ecclesiæ persolvere debes etc.
103. Ep. 31. lib. V.
104.
...... Arnoldus, quem Brixia protulit ortu
Pestifero, tenui nutrivit Gallia sumtu....
..... assumpta sapientis fronte, diserto
Fallebat sermone rudes, clerumque procaci
Insectans odio, monachorum acerrimus hostis,
Plebis adulator, gaudens popularibus auris,
Pontifices, ipsum que gravi corrodere lingua
Audebat papam.....
Articulos etiam fidei, certumque tenorem
Non satis exacta stolidus pietate fovebat,
Impia mellifluis admiscens toxica verbis.
Guntheri Ligur. Carmina, lib. III.
Vedi la nota 7 del capo seguente.
105. San Bernardo diresse a Eugenio III i suoi libri De consideratione, nel IV de’ quali gli dice: — Qual cosa è più nota ai secoli, che la protervia e il fasto de’ Romani? gente disavvezza dalla pace, avvezza al tumulto; gente immite e intrattabile finora, che non sa star sottomessa se non quando non vale a resistere. Quest’è la piaga, e a te spetta il curarla. Ridi forse di me, credendola incurabile? non diffidare».
106. Otto Frising., De gestis Frid., lib. I. cc. 27. 28. — Le proposizioni de’ Romani a Corrado furono compendiate in questi versi:
Rex valeat: quidquid cupit obtineat; super hostes
Imperium teneat; Romæ sedeat; regat orbem
Princeps terrarum, ceu fecit Justinianus;
Cæsaris accipiat Cæsar, quæ sunt sua præsul,
Ut Christus jussit Petro solvente tributum.
107. Amand, De primis actibus Friderici. — Otto Frising., De gestis Friderici. Ottone morì nel 1158, e lo continuò Radevico canonico di Frisinga, molto inferiore pel dettato e più pei concetti. Le loro storie furono ridotte in versi dal Guntero, tedesco contemporaneo, in un poema intitolato Ligurinus.
108.
Ductus ab antiquo priscorum tempore regum
Mos habet, ut, quoties regnator teutonus Alpem
Transit, et italicas invisere destinat oras,
Qui repetant fisco fiscalia jura fideles
Per quoscumque suos præmittere debeat urbes:
At quæcumque ream se perfida fecerit ausu
Sacrilego, regique suo sua jura negarit,
Strata luat meritas fraudato principe pœnas:
Inde fit ut fractis deformiter horrida muris
Nunc quoque per totam videas loca plurima terram.
Hoc quoque per cunctas regnator teutonus urbes,
Non modo teutonicas, sed et hic et ubique jacentes,
Jus habet, ut præsens quasi maximus omnia judex
Claudere jura manu, cunctasque recidere lites
Debeat, atque omnis judex, omnisque potestas
Atque magistratus, ipso præsente, quiescant.
Hunc etiam regi priscarum sanctio legum
Longævique vigor moris profitetur honorem,
Ut cunctos fœtus, quos educat itala tellus
(His modo, quæ poscit terræ cultura, retentis)
Principis ad nutum fisco præstare colonus
Debeat, in regni sumptus et militis usum.
Gunteri Ligurinus, lib. II.
109. De gestis Frid., lib. II. c. 3. Guntero chiama i Lombardi
Gens astuta, sagax, prudens, industria solers,
Provida consilio, legum jurisque perita.
110. Guilhelmus marchio de Monteferrato, vir nobilis et magnus, qui, pene solus ex Italiæ baronibus, civitatum effugere potuit imperium. Otto Frising., lib. II. c. 13.
111. Ne, si Mediolanensium partem amplexus esset, altera parte Longobardiæ subjugatæ, Mediolanenses, quia fortiores erant, rebelles existerent. Sire Raul.
112. La strada più consueta e più breve dalla Lombardia a Roma era la così detta via Romea o Francesca, che dal territorio di Parma e Piacenza varcava l’Appennino del monte Bardone per scendere a Pontremoli, indi a Villafranca, Sarzana, Luni, il Frigido, il Salto della Cervia, Lucca, Altopascio, il Galleno; passato l’Arno sotto Fucecchio, mettevasi sulla via traversa di Castel Fiorentino, donde a Certaldo, Poggibonsi, Staggia, Siena, Buonconvento, Sanquirico, Spedaletto di Bricole, Radicofani, Acquapendente, Bolsena, Montefiascone, Viterbo, Sutri, Portacastello di Roma. È divisata nell’itinerario di Filippo Augusto re di Francia, quando nel 1191 tornava dalla crociata.
113. «Fu impiccato e bruciato, e le sue ceneri sparse nel Tevere, acciocchè la stolida plebe non venerasse il corpo di questo infame», dice il buon Muratori.
* Arnaldo è divenuto un mito, e in conseguenza la storia di lui fu peggio che mai alterata. I Giansenisti nel secolo passato magnificavano Arnaldo, poi nel nostro i demolitori dell’autorità temporale dei papi. La tragedia del Niccolini è mera declamazione, ove Arnaldo è fatto eretico, mentre nella prefazione si vuole purgarlo di questa taccia. Cesare Balbo lo imputa di avere sollevato il popolo romano contro il papa, quando il papa e il popolo sarebbero dovuti unirsi ai Lombardi per difendere l’indipendenza: e così ritardò la lega di Pontida e cagionò la distruzione di Milano.
Il mettere un Lutero o un Ciciruacchio nel secolo XII è un anacronismo, quanto il mettere ai giorni nostri un Pietro Martire o un Francesco d’Assisi. Ci fu sempre, fino ai giorni nostri, chi sperò sbalzare il papa mediante l’ajuto degli stranieri, e così meditava Arnaldo. Ma il prefetto di Roma, che, in occasione delle prediche di Arnaldo, era stato insultato e peggio, lo fece prendere e impiccare, valendosi della piena podestà che gli conferiva la presenza dell’imperatore. Onde Goffredo da Viterbo canta:
Arnoldus capitur, quem Brixia sensit alumnum,
Dogmata cujus erant quasi pervertentia mundum:
Strangulat hunc laqueus, ignis et unda vehunt.
Pantheon, 464.
Anche il Guntero lo dice fatto reo d’ambe le maestà:
Sic læsus stultus utraque
Majestate reum geminæ se fecerat aulæ.
Gerhochus di Reichersperg contemporaneo ne porta questo giudizio: Quem ego vellem, pro tali doctrina sua, quamvis prava, vel exilio, vel carcere aut alia pœna præter mortem punitum esse, vel saltem taliter occisum ut romana Ecclesia, sive curia ejus necis quæstione caveret! Nam, ut ajunt, absque ipsorum scientia et consensu a præfecto urbis Romæ, de eorum custodia in qua tenebatur ereptus, ac pro speciali causa occisus ab ejus servis est. Maximam siquidem cladem ex occasione ejusdem doctrinæ idem præfectus a romanis civibus perpessus fuerat: quare non saltem ab occisi crematione et submersione ejus occisores metuerunt quatenus a domo sacerdotali quæstio sanguinis remota esset. Sed de his ipsi viderint. Sane de doctrina et nece Arnaldi idcirco inserere præsenti loco volui, ne vel doctrinæ ejus pravæ, quæ, etsi zelo forte bono, sed minori scientia prolata est, vel ejus necis perperam actæ videar assensum præbere. Nel libro I De investigat. antichrist., apud Gretser, Prolegomena ad scriptores adversus Waldenses, cap. 4.
114. Hospes eras, civem feci: advena fuisti ex transalpinis partibus, principem constitui. Otto Frising., 721. E gli fa rispondere: Legitimus possessor sum.... Principem populo, non populum principi leges præscribere oportet. E narrate le stragi, con atroce ironia soggiunge: Hæc est pecunia, quam tibi princeps tuus pro tua offert corona.
115.
Roma ferax febrium, necis et uberrima frugum:
Romanæ febres stabili sunt jure fideles.
Pier Damiani.
116. Il Sismondi ed altri snaturano questo fatto, in modo che paja con Federico stare la ragione, e Adriano aver fatto umili scuse. Il torto del primo era in tanto maggiore, in quanto la lettera diceva in plurale majora beneficia, nè feudo superiore all’Impero avrebbe potuto immaginarsi. Il papa poi si ritrattò, ma dichiarando che quella espressione utique nedum tanti viri, sed ne cujuslibet minoris animum merito commovisset. È bizzarro a vedere come il Sismondi dipinga Federico per un mostro di crudeltà, e micidiale d’ogni franchigia quando lotta colle repubbliche; poi ne faccia un portento di ragionevolezza quando contrasta coi papi.
117. Radevicus Frising., lib. I. c. 26.
118. Da Lodi vecchio i Lodigiani trasferirono allora al nuovo il corpo del loro patrono san Bassiano, uno de’ primi vescovi, e speciale protettore contro la lebbra.
119. È nominato Lodovico nella scomunica del papa.
120. Otto Frising., lib. I. cc. 27. 28.
121. Sire Raul. Radevico dice centomila armati.
122. Sire Raul. Delira il Giulini ragguagliandoli a venti milioni.
123. Il Guntero, lib. VIII, dice che
Tum demum victus Federicus ab urbe recessit,
Modoicumgue petens, prisco dignatus honore
Illustrare locum, sacro diademate crines
Induit, et dextra gestavit sceptra potenti.
Hanc fortuna diu, Ligurumque potentia dives
Eximiam regni proavorum tempore sedem
Presserat, et longa victam ditione tenebat:
Sed placidus princeps primævo cuncta decori
Restituenda putans, injustis legibus illam
Exemit, priscumque loco reparavit honorem.
Non vuol dire che si facesse coronare a Monza, ma che vi comparve solennemente colla corona. Federico stette a Monza cinque giorni, nei quali si consumarono mille carri di legna per la sua cucina, e cento lire imperiali. Giulini.
Bonincontro riferisce questi versi in lode di Monza:
Monzia terra bona, civili digna corona.
Monzia cunctorum dives et plena bonorum.
Monzia dat drappos cunctis mercantibus aptos.
Monzia stat damnis precibus defensa Johannis.
124. Scias omne jus populi in condendis legibus tibi concessum: tua voluntas jus est, sicuti dicitur. Quod principi placuit, legis habet vigorem, cum populus ei et in eo omne suum imperium et potestatem concesserit. Radevic., lib. II. c. 4.
La cronaca soggiunge che, cavalcando il Barbarossa fra Bulgaro e Martino, domandò loro chi fosse padrone del mondo. Martino asserì l’imperatore; ma Bulgaro sostenne non essere lui padrone quanto alla proprietà. L’imperatore regalò a Martino il proprio cavallo; onde Bulgaro disse: Amisi equum, quia dixi æquum quod non fuit æquum. Otto Morena.
125. Radevico trova orrenda iniquità, non quella del Tedesco che esponeva gli ostaggi, ma quella de’ nostri che li colpivano: Seditiosi, quod etiam Barbaris incognitum et dictu quidem horrendum, auditu vero incredibile, non minus crebris ictibus turres impellebant, neque eos sanguinis et naturalis vinculi communio, neque ætatis movebat miseratio. Sicque aliquot ex pueris, lapidibus icti, miserabiliter interierunt; alii, miserabilius adhuc vivi superstites, crudelissimam necem, et diræ calamitatis horrorem penduli expectabant: oh facinus!
126. Propter destructionem Mediolani, omnes dederunt imperatori præsto copiosam et immensam pecuniam. Sire Raul, pag. 1187.
127. Tra i fautori del Barbarossa era Algiso abate del monastero di Clivate, fondato da Desiderio re. Nel 1162 Papie post destructionem Mediolani, Federico gli dava un ampio privilegio, che comincia: Cum ad promovendum imperii honorem et ad debellandos hostes Imperii, præcipue Mediolanenses, Italiam cum exercitu intraverimus, inter multos quidem fideles, qui nobis in laboribus nostris fideliter adstiterunt, invenimus venerabilem Algisum, Clivatensis ecclesiæ abbatem, quem devotissimum nobis ac fidelissimum certis argumentis experti sumus. Multis enim retrorsum abeuntibus, prædictus abbas fuit vir fidelis, et constans nobis firmiter adhesit, et immobilis nobiscum perseveravit etc. Credo che ivi sia per la prima volta nominata la Brianza.
Le vittorie di Federico furono celebrate da un poeta popolare innominato, da cui scegliamo poche strofe:
Salve mundi domine, Cæsar noster ave,
Cujus bonis omnibus jugum est suave;
Quisquis contra calcitrat, putans illud grave,
Obstinati cordis est, cervicis prave.
Princeps terre principum, Cesar Friderice,
Cujus tuba titubant arces inimice,
Tibi colla subdimus tigres et formice,
Et cum cedris Libani vepres et mirice....
Scimus per desidiam regum Romanorum
Ortas in imperio, spinas impiorum,
Et sumpsisse cornua multos populorum,
De quibus commemoro gentem Lombardorum;
Que dum turres erigit more giganteo,
Volens altis turribus obviare Deo,
Contumax et fulmine digna ciclopeo,
Instituta principum sprevit ausu reo.
De tributo Cesaris nemo cogitabat,
Omnes erant Cesares, nemo censum dabat;
Civitas Ambrosii velut Troja stabat;
Deos parum, homines minus formidabat....
Prima sua domino paruit Papia,
Urbs bona, flos urbium, clara, potens, pia,
Digna foret laudibus et topographia,
Nisi quod nunc utimur brevitatis via.
Post Papiam ponitur urbs Novariensis,
Cujus in principio dimicavit ensis;
Frangens et reverberans viribus immensis
Impetum superbi Mediolanensis.
Carmine, Novaria, sepe meo vives.
Cujus sunt per omnia commendandi cives:
Inter urbes alias eris laude dives,
Donec desint Alpibus frigora vel nives...
Mediolanensium dolor est immensus,
Pro dolore nimium conturbatur sensus;
Civibus Ambrosii furor est accensus,
Dum ab eis petitur, ut a servis, census.
Interim precipio tibi, Constantine,
Jam depone dexteram, tue cessent mine;
Mediolanensium tante sunt ruine,
Quot in urbe media modo regnant spine,
Tantus erat populus atque locus ille,
Si venisset Grecia tota cum Achille,
In qua tot sunt menia, tot potentes ville,
Non eam subjicere possent armis mille.
Jussu tamen Cesaris obsidetur locus,
Donec ita venditur esca sicut crocus:
In tanta penuria non est ibi jocus,
Ludum tandem Cesaris terminavit rocus...
Erant in Italia greges vispillonum,
Semitas obsederat rabies predonum,
Quorum cor ad scelera semper erat pronum,
Quibus malum facere videbatur bonum.
Cesaris est gloria, Cesaris est donum
Quod jam patent omnibus vie regionum,
Dum ventis exposita corpora latronum
Surda flautis, Boree captant aure sonum...
Jam tiranno siculo Siculi detrectant,
Siculi Te sitiunt, Cesar, et expectant,
Jam libenter Apuli tibi genuflectant,
Mirantur quid detinet, oculos humectant...
Imperator nobilis, age sicut agis,
Sicut exaltatus es, exaltare magis!
Fove tuos subditos, hostes cede plagis,
Super eos irruens ultione stragis.
Apud Grimm, Geschichte des Mittelalters aus König Friedrich der Staufen und aus seiner wie der nächstfolgenden Zeit. Berlino 1845.
128. Sicque factum est, quod Lombardi, qui inter alias nationes libertatis singularitate gaudebant, pro Mediolani invidia, cum Mediolano pariter corruerent, et se Teutonicorum servituti misere subdiderunt. Cron. Salern.
129. Episcopi, marchiones, comites, capitanei, aliique etiam proceres, ac quamplures alii etiam Longobardiæ homines, tam magni quam parvi, alii cum crucibus, alii sine crucibus, ante imperatorem venientes, de imperatoris procuratoribus nimis valde conquerebantur..... Ipse, quærimonias Longobardorum quasi vilipendens, et pro nihilo habens, nihil inde fecit. Otto Morena.
130. Il giuramento fu rinnovato nel 1170 in questi termini: In nomine Domini, amen. Ego juro ad sancta Dei evangelia quod non faciam neque treguam, neque guerram recredutam, nec aliquam concordiam cum Frederico imperatore, neque cum filiis ejus, nec cum uxore ejus, neque cum alia quacumque persona ejus nomine, nec per me, nec per aliam quamcumque personam, et ab alio homine facta, non habebo ratam. Et bona fide pro meo posse operam dabo viribus quibuscumque potero, ne aliquis exercitus modicus vel magnus de Alemannia, vel de alia terra imperatoris quæ sit ultra montes, intret Italiam. Et si prædictus exercitus intraverit, ego vivam guerram faciam imperatori et omnibus illis personis quæ modo sunt ex parte imperatoris, vel pro tempore fuerint, per quas prædictus exercitus debeat exire de Italia, donec prædictus exercitus de Italia exeat. Ego bona fide, per me et per omnes personas, totius meæ virtutis salvabo et guardabo personas et res omnium hominum societatis Lombardiæ, Marchiæ et Romaniæ, et nominatim dominum marchionem Malaspinam, et omnes personas quæ modo sunt in societate vel extra. Et ego nullam concordiam feci vel faciam cum imperatore constantinopolitano.... sine consilio credentiæ cujusque civitatis... Et filios meos qui sunt in ætate quatuordecim annorum, infra duos menses..... faciam jurare omnia prædicta et attendere.
Disputano di qual Enrico si tratti: e poco importa; ma tanto basta per ismentire l’asserzione del Sigonio, e tanto più l’estensione datavi dal Sismondi, che Ottone avesse, con una costituzione generale, liberati i municipj. A quella si sarebbero appellati, non a consuetudini incerte.
131. Giovanni di Sarisbery, ep. 210, ap. Labbe, Concil., tom. X. 1450.
132. Montes aureos et cum honore et gloria imperii gratiam sempiternam. Tommaso de Cantuaria.
133. Buoncompagno maestro fiorentino narrò quell’assedio (Rer. it. Scrip., VI). Egli sclama: Non credam Italiam posse fieri tributariam alicui, nisi Italicorum malitia procederet ac livore; in legibus enim habetur: Non est provincia, sed domina provinciarum.
134. Il terreno su cui venne costruita Alessandria apparteneva ai marchesi del Bosco, i quali lo cedettero nel 1180 in feudo ai cittadini di quella, colle ville Marenzana e Ponzano, assolvendo da ogni fedeltà i villani, arimanni, mercanti, artieri di esse terre, Monumenta Aquensia.
Al vescovado d’Alessandria il papa avea voluto aggregare quello di Acqui; ma gli Acquensi resistettero accannitamente, e ne venne guerra, finchè Innocenzo III disgiunse novamente le due diocesi. Vedi Chenna, Del vescovato di Alessandria, 1790.
135. Il primo aveva egli menato nel 1154; il secondo nell’estate 1158; il terzo gli fu condotto l’anno dopo dalla imperatrice; il quarto fu de’ principi germanici che distrussero Milano; col quinto Federico osteggiò Roma, e lo perdette di febbri; il sesto fece mala impresa ad Alessandria; il settimo fu sconfitto a Legnano.
136. Card. Arrag., Rer. It. Scrip., III. 468.
137. Secondo gli atti prodotti dal Muratori, Antiq. ital. medii ævi, diss. XLVIII, i luoghi e le persone del partito imperiale erano Cremona, Pavia, Genova, Tortona, Asti, Alba, Acqui, Torino, Ivrea, Ventimiglia, Savona, Albenga, Casale di Sant’Evasio, Montevelio, Castel Bolognese, Imola, Faenza, Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini, Castrocaro, il marchese di Monferrato, i conti di Biandrate, i marchesi del Guasto e del Bosco, e i conti di Lomello. All’incontro nella Lega di Lombardia erano Venezia, Treviso, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Ferrara, Mantova, Bergamo, Lodi, Milano, Como (benchè da noi poco fa veduto aderente a Federico), Novara, Vercelli, Alessandria, Carsino e Belmonte, Piacenza, Bobbio, Obizo Malaspina marchese, Parma, Reggio, Modena, Bologna, Doccia, San Cassano, ed altri luoghi e persone dell’Esarcato e della Lombardia.
138. Romoaldo Salern., Rer. It. Scrip., VII. 220.
139. Gaufridi Vosiensis Chron. Il fatto del piede posto sul collo di Federico fu sostenuto in prima dal benedettino Fortunato Olmo nel 1629, Historia della venuta a Venetia occultamente nel 1177 di papa Alessandro III, e della vittoria ottenuta da Sebastiano Ziani doge; e ultimamente da Carlo Lodovico Ring, nel Saggio storico per illustrare un fatto finora messo in dubbio della vita di due contemporanei, aspiranti entrambi alla signoria del mondo (ted.); Stuttgard 1835. Nel Cicogna, Iscriz. venete, vol. IV. p. 574-93, è una dissertazione di Angelo Zon sulla venuta di Alessandro III a Venezia. A Venezia si trovavano già rifuggiti moltissimi vescovi di Lombardia, cacciati da altri scismatici; v’accorse poi grandissima folla di prelati e signori; ed è curioso documento una cronaca che riferisce uno per uno questi personaggi col loro seguito. Per dire solo d’alcuni Italiani, Girardo arcivescovo di Ravenna giunse con settanta uomini; Lodovico vescovo di Brescia con un abbate e trenta uomini; e così Salomone di Trento; Tebaldo di Piacenza con due preposti e venti uomini; Guala di Bergamo con dodici; Alberico di Lodi coll’abate di San Pietro, e il prevosto di San Geminiano e quattro consoli, con diciannove uomini; Offredo di Cremona con quaranta; Anselmo di Como col suo arcidiacono e quaranta uomini; Algiso arcivescovo di Milano con Milone vescovo di Torino, coll’arcidiacono e arciprete suo e l’abate di San Dionigi e uomini sessanta; e così gli altri vescovi. Seguono Corrado marchese di Monferrato con venti uomini, il marchese Moruello Malaspina con cenquindici, il podestà di Verona con sessanta uomini, e due avvocati de’ Veronesi con undici; il podestà di Bergamo con venti, di Vercelli con sedici; dieci consoli di Cremona con novantacinque uomini, quattro di Piacenza con trentacinque, quattro di Novara con sedici, quattro d’Alessandria con trentacinque; il podestà di Bologna con quindici uomini; quattro consoli di Milano con trenta; il conte di Biandrate con ventisette; Ezelino da Treviso con trenta; nove cattanei di Treviso con quarantacinque; i marchesi d’Este con centottanta; il conte Guido Guerra con cento; e lasciamo indietro altri; i Tedeschi aveano più numerosi accompagnamenti. Il cronista soggiunge: «De zascheduna zittade de Lombardia e de la Marca e de Toscana e de Romagna e de la Marca d’Ancona ve fò catanii e possenti homeni, lo nome e lo numero deli quali no savemo. Suma lo numero de le persone numerade e i so prinzipali nominadi per nome, in tutto homeni 6390». Olmo, op. cit.
140. Vedi Carlini, De pace Constantiæ disquisitio. Verona 1763; Giac. Durando, Saggio sulla Lega Lombarda e sulla pace di Costanza, nel vol. XL delle Memorie dell’Accademia di Torino.
Frà Jacopo d’Acqui aggiunge che i Veneziani voleano che il loro doge al banchetto sedesse a fianco del Barbarossa: ma questi pigliò il sedile preparatogli e lo pose sopra il suo, e si sedè così in alto, mentre quel villano, com’esso il chiamava, dovè sedere sulla panca.
141.
Centum mille noto pro Christi tempore toto
Octaginta datis super his et quinque peractis,
Sub mense maji Federico cæsare stante
Septima lux mensis præerat factis gerendis,
Cum relevata fuit Crema, statumque resumsit.
Per Placentinos grates meruere divinas,
Unde Cremonenses doleant et sine modo flentes
Et fletu quorum lætetur quisque virorum.
Iscriz. presso Alamanno Fino, lib. II.
142. Tutini, Disc. de’ sette uffizj, pag. 34. Nell’archivio di Napoli è copia autentica di questo catalogo. Registro di Carlo II al 1322, da pag. 14 alla 63.
143. Quella del Barbarossa è l’età eroica delle repubbliche italiane, che perciò v’attaccarono ciascuna tradizioni particolari, singolarmente sulla tirannia de’ suoi podestà, e sul modo con cui se ne redensero. A Bergamo ricordasi un’Antonia, nobile verginella, rimasta viva nella strage del 1168, e che insidiata dal Barbarossa, nè potendo altrimenti salvare l’onestà, si uccise. Vedi Calvi. I Comaschi nominano ancora con orrore il podestà Pagano; e i Cremonesi vantano Zanino dalla Balla, o Baldesio, che però altri portano ai tempi di Enrico III. Un altro Pagano tiranneggiava Padova, che rapì Speronella moglie di Jacopino da Carrara: ma i Padovani se ne vendicarono cacciandolo; donde cominciò l’annua festa del san Giovanni, ecc.
Hans Prutz, Kaiser Friedrich I (Danzica 1871-74, 3 volumi), è una continua giustificazione di quell’imperatore, rimasto leggendario fra i Tedeschi: aver mosso guerra ai Comuni Lombardi sol come ostacolo che erano al suo concetto di sottoporre tutta l’Italia e per essa il Mediterraneo, e in conseguenza tutto il mondo civile, istituendo la vera grandezza dell’impero germanico. «La distruzione di Milano era un avvenimento destinato ad aprire una nuova splendida epoca del regno di Federico».
144. Giulini, part. VII. l. 48. — Dilectorum fidelium nostrorum civium Mediolanensium strenuitatem, fidem ac devotionem, quo, ferventiori ceteris affectu, nostræ in dies dignationi gratiores se exhibent. Ap. Puricelli, Monum. Eccl. Ambrosianæ.
145. Antiq. M. Æ., tom. I. pag. 622.
146. Federico, nell’investire Aicardo dei feudi di Robbio, Confienza, Palestro, Rivautella nel Vercellese, stabilisce Quod si ipse vel heredes sui justitiam de hominibus suis facere obmiserint, legatus noster justitiam de eis faciat; et si aliquis adversus eum vel heredes suos querimoniam coram nobis deposuerit, vel ad curiam nostram appellaverit, coram legatis nostris indubitanter veniant justitiam facturi et accepturi. Monum. Hist. patriæ, Chart. I. 894.
Fra tanti altri esempj dell’importuna intervenzione regia negli interessi anche privati citerò solo un privilegio dato il 1162 dal Barbarossa stesso ad Enrico vescovo di Como, per cui, visti i gravi debiti della chiesa comasca, le rimette non solo gl’interessi, ma anche i capitali, salvo quelli che si trovassero prestati a servizio regio o per utilità della Chiesa.
147. Nel 1189 Enrico concede al vescovo Lanfranco di Bergamo di risolvere gli appelli ad esso re riservati, dandone notizia fidelibus suis comitibus, nobilibus, consulibus, et universo populo in civitate et per totum pergamensem episcopatum constituto. Ap. Lupo, II. 1599.
148. È nelle Lettere di Pier dalle Vigne, lib. V. c. 1: Te de latere nostro sumptum generalem vicarium a Papia inferius in Lombardia, ad eos velut conscientiæ nostræ conscium pro conservatione pacis et justitiæ specialiter destinamus, ut vices nostras universaliter geras ibidem. Nec tamen te sola vicarii potestate volumus esse contentum, licet solo vicarii nomine censearis; sed tibi usque ad aliud mandatum nostrum adjicimus officium præsidiatus, concedentes tibi merum et purum imperium et gladii potestatem, et ut facinorosos animadvertere valeas vice nostra purgando provinciam, malefactores inquiras, et punias inquisitos et specialiter eos qui stratas et itinera publica ausu temerario violare præsumunt. Criminales etiam quæstiones audias et civiles, quarum cognitio si præsentes essemus ad nostrum auditum pertinet. Liberaliter quoque audias et determines quæstiones; et imponendi banna et multas ubi expedierit, auctoritatem tibi plenariam impertimur. Decreta utique interponas, quæ super transactione alimentorum, alienatione ecclesiasticarum rerum et tuitione minorum, secundum justitiam interponi petuntur. Tutores etiam et curatores dandi quibuslibet tibi concedimus potestatem. Et ut majoribus et minoribus, quibus universa jura succurrunt, causa cognita, restitutionis in integrum beneficium valeas impertiri, ad audientiam quoque tuam, tam in criminalibus quam in civilibus causis, appellationes adferri volumus, quas a sententiis ordinariorum judicum et eorum omnium, qui jurisdictionem ab imperio sunt nacti, in provincia ipsa, videlicet a Papia inferius in Lombardia (prout superius dictum est) contigerit interponi. Ita tamen quod inde a sententia tua ad audientiam nostri culminis possit libere provocari, nisi vel causæ qualitas vel appellationum numerus appellationis auxilium adimat appellanti. Quapropter fidelitati tuæ firmiter et districte præcipiendo mandamus, quatenus ad statum pacificum regionis ipsius et recuperationem nostrorum et imperii virium, in eamdem fidem tuam et sollicitudinem, sicut gratiam nostram charam diligis, sic efficaciter et diligenter impendas... È pubblicata anche con qualche diversità nei Monum. hist. patriæ, Chart., I. 1400.
149. Bonincontro Morigia, Chron. Modoetiæ, lib. II. c. 116: Ptolomei Lucensis, Hist. eccl., lib. XXIV. c. 21. — L’ultimo atto che io conosca di volontaria giurisdizione esercitata da un messo regio, è del 1223, e sta nell’archivio della semicattedrale di Lugano.
150. Rossus, Guadardus et Guillelmus, majores Lucanæ civitatis consules, quisque pro se ad sancta Dei evangelia juravit ita:
Ego ab hac hora in antea fidelis ero domini Frederici Romanorum imperatoris, sicut de jure debeo domino imperatori meo; et non ero in facto vel in consilio sive auxilio quod perdat vitam vel membra sua, vel coronam, vel imperium seu honorem suum, vel quod in captione aliqua contra voluntatem suam teneatur; et bona fide juvabo eum retinere coronam et honorem suum, et nominatim civitatem Lucanam et ejus comitatum, et quæcumque regalia, quæ de jure in ea debet habere intus vel foris. Hæc omnia contra omnes adjuvabo eum retinere bona fide, et si perdiderit recuperare; et credentias suas, quas per se vel per suum certum missum, vel per suas literas certas mihi significaverit, bona fide celabo; et præcepta ejus quæ mihi fecerit de pace servanda, vel guerra in Tuscia facenda, sive de regalibus suis adimplebo, nisi per parabolam domini imperatoris, vel domini archicancellarii, vel ejus certi missi remanserit; et fodrum ei per episcopatum et comitatum Lucanum bona fide recolligi juvabo, cum ab ejus certo misso ad hoc destinatus requisitus fuero. Et homines civitatis Lucanæ idem sacramentum fidelitatis domini imperatoris pro posse meo jurare faciam bona fide. Et stratam non offendam, et ne ab aliquo offendatur bona fide pro posse meo defendam et vindicabo. Et dabo domino imperatori Frederico, in expeditione versus Romam, Apuliam et Calabriam, milites viginti, et ad illos terminos, quos dominus imperator per se vel per certum suum missum ad hoc destinatum imposuerit mihi. Et conventionem factam de pecunia quadringentarum librarum annuatim solvenda observabo; et nullum recipiam in consulatu, qui hoc sacramentum de pecunia solvenda non juret....
Concordia vero inter nos et Lucanos consules quomodo sit et esse debeat, per Rainaldum Coloniensem electum, et archicancellarium Italiæ atque imperatoriæ majestatis legatum facta, talis est; videlicet quod ipsi consules, a proximis kalendis augusti usque ad sex annos, debeant omnia regalia quæ habent, tam in civitate quam extra, salvo fodro domini imperatoris, extra civitatem libere tenere dando in Purificatione beatæ Mariæ in unoquoque anno domino Frederico imperatori, vel suo certo misso nominatim ad hoc delegato, quadringentas libras lucanæ monetæ publice probatæ; et ipsis sex annis transactis, ipsa prælibata regalia prælibato domino imperatoris resignabunt, et per parabolam prædicti Frederici imperatoris vel ejusdem Rainaldi Coloniensis electi, et Italiæ archicancellarii, vel sui certi missi ad hoc destinati.
Præterea dominus imperator concedit civitati Lucanæ, ut eligant omni anno ex se consules quos voluerint, qui debeant jurare, ita videlicet, quod guidabunt et regent populum et civitatem Lucanam ad honorem Dei, et ad servitium domini imperatoris Frederici, et ad ipsius civitatis salvamentum. Et ex ipsis consulibus qui electi fuerint, ibunt omni anno in præsentia ipsius domini imperatoris Frederici si in Italia fuerit, aut unus si in Alemania fuerit, recepturi investituram a domino imperatore vice omnium. Et si domino imperatori placuerit quod Lucæ solvant duci solidos mille quos convenerunt, tanto minus domino imperatori de prædicta pecunia usque ad prædictum terminum solvere debent; alias secundum prædictum ordinem totum solvere debent. Item consules qui fuerunt electi omni anno, si non habuerint juratam domino imperatori fidelitatem, eam jurare debent.
Et hanc totam conventionem nostram per nostrum mandatum et auctoritatem ab eodem Coloniensi electo et Italiæ archicancellario factam præsentis paginæ scripto corroboramus, ac sigillo majestatis nostræ confirmamus.
151. Ad legem et justitiam facendam, gubernandum per te et tuum nuntium, ita sicut nos et noster nuntius agere debuissemus.
152. Tommaso, Sommario, lib. I. c. 5. — Atti d’autorità sovrana, esercitati da Enrico VI ancor vivo il padre, già ne vedemmo al Cap. LXXXI. Un altro esempio ce n’offrono i Monumenta Historiæ patriæ, Chart., I. 945, dove esso re nel 1187 conferma una sentenza dei consoli d’Asti.
153. Egli conferma il privilegio che riportammo alla nota 34 del Cap. LXXXI. Le spiegazioni che se ne danno nel vol. I delle Memorie e docum. per servire alla storia lucchese non reggono coi nuovi lumi storici.
154. ...... Civitatis Lucæ fideles nostri majestati nostræ humiliter supplicarunt, ut castrum Motronis, Montifegatensi, et castrum Luliani, quæ sunt de Carfagnana, cum omnibus eorum et cujusque eorum rationibus, pertinentiis, jurisdictionibus et districtu, eis concedere in perpetuum, et dare licentiam eidem communi recipiendi et retinendi homines et personas quaslibet Carfagnanæ fideles nostros in concives eorum, qui vel quæ effici voluerint habitatores et incolæ, vel alias concives civitatis ejusdem et eisdem hominibus et personis veniendi ad eamdem civitatem ad habitandum, si voluerint, vel alias se concives faciendi, et quod liceat communibus et aliis singularibus personis de Carfagnana recipere potestates et rectores civitatis praedictæ de gratia nostri culminis dignaremur. Nos vero ejusdem communis nostrorum fidelium supplicationibus benignius inclinati, attendentes etiam grata et accepta servitia quæ idem commune majestati nostræ exhibuit, hactenus exhibet in præsenti, et quæ exhibere poterit in futurum, eidem communi castra de Carfagnana superius denotata cum omnibus eorum et cujusque eorum rationibus, pertinentiis, jurisdictionibus et districtu concedimus, nec non ipsis licentiam recipiendi et retinendi homines et quaslibet personas Carfagnanæ fideles nostros in concives eorum, qui vel quæ effici voluerint habitatores et incolæ, vel alias concives civitatis ejusdem, et eisdem hominibus et personis veniendi ad ipsam civitatem ad habitandum si voluerit, vel alias se concives faciendi, et hominibus et aliis singularibus personis de Carfagnana recipiendi potestates et rectores civitatis prædictæ de gratia majestatis nostræ et plenitudine potestatis, salva in omnibus imperiali justitia.
155. ... Licet nos olim provinciam Carfagnanæ cum juribus et pertinentiis suis Henrico juniori illustri regi Sardiniæ, sacri imperii in Italia generali legato, dilecto filio nostro, de mera donatione nostra duximus conferendam; attendentes tamen fidei puræ zelum quem communi Lucæ fideles erga majestatis nostræ personam habere noscuntur... provinciam ipsam cum castris, villis, hominibus, jurisdictionibus, possessionibus, terris cultis et incultis, aquis et aquarum decursibus, justitiis, rationibus omnibus et pertinentiis suis, videlicet quæ de dimanio in dimanium, et quæ de servitio in servitium eidem communi fidelibus nostris in fide et devotione nostra persistentibus, in rectum feudum duximus concedendum. Ita tamen quod provincia ipsa a nobis et successoribus nostris in perpetuum nomine recti feudi de cætero teneant, sicut tenent alias terras eorum districtus, et a nobis et imperio recognoscunt, eis olim a divis augustis progenitoribus nostris concessas, et a nobis postmodum confirmatas, debita quoque et consueta servitia proinde nobis et imperio facere teneantur.
Le concessioni imperiali non di rado s’intralciano e si contraddicono. Nel 1163 Federico Barbarossa da Lodi dava un diploma, ricevendo sotto la sua protezione, cioè affrancando il borgo e gli uomini di Sarzana, concedendo un mercato ogni sabbato, la libera scelta de’ proprj consoli ecc.: diploma confermato da Federico II il 1226. Ora nel 1185 lo stesso Barbarossa assegnava al vescovo di Luni la giurisdizione, il bando, il mercato, la pesca, il distretto, insomma la signoria sui popoli di Santo Stefano e Sarzana. Nel 1355 Carlo IV, scialacquatore di privilegi, confermava al vescovo lunese il diploma di Federico: eppure al tempo stesso dava in feudo ai marchesi Malaspina e alla città di Pisa molte terre comprese in quella concessione.
156. Breve recordacionis de Ardicio de Aimonibus.
157. Monum. Hist. patriæ, Chart., I. 813.
158. Da credere in senso d’affidare, usato dai Latini e dai nostri. In un placito di Limonta dell’888: Cum ibi essent nobiles et credentes homines, liberi arimanni, habitantes Belasio loco. Antiq. M. Æ., diss. XLI. — Quisquis in hujuscemodi tribunalis consilium admittebatur, jurabat in credentiam consulum, hoc est se tacite retenturum quæcumque eo in consilio dicta vel acta fuissent, nec enunciaturum uspiam in profanum vulgus. Rer. It. Scrip., VI. 962. E nell’Ariosto: «Nelle cui man s’era creduta». — Homines credentes valea quanto uomini di credito, fededegni: «Vincenzo di Naldo, fiorentino, uomo molto creduto in quel contado». Bembo, Storia, lib. VII.
159. Il Serra, Storia della Liguria, I, 277, lo adduce come del 950: ma pare da mettere fra il 1121 e il 1130. Vedi Vincent, Hist. de la rép. de Gênes. Parigi 1842.
160. Alcuno immaginò che maggiori fossero quelli tolti dalla nobiltà, minori quelli da plebei. Vedi Benvoglienti, Osservazioni intorno agli statuti pistojesi. Il contrario pensa Muratori, Antiq. M. Æ., diss. XLVI.
161. Statuta Mantuæ, lib. II. rub. 15.
162. Mariotti, Saggio di mem. storiche civili ed ecclesiastiche di Perugia, 1806, pag. 248.
163. Varchi, Ercolano. Il Muratori (Antiq. M. Æ., tom. IV) pubblicò l’Oculus pastoralis pascens officia et continens radium dulcibus pomis suis, che è un’istruzione ad un futuro podestà intorno a tutte le parti del suo uffizio: ma è forse opera di qualche monaco, più attento alla parte morale che alla giuridica; come fa pure ser Brunetto Latini, nel lib. IX del suo Tesoro, dove largamente divisa i doveri del podestà. Fra le altre cose dice: — Sopra tutte cose debbe il podestà fare che la città che ha suo governamento, sia in buono stato, senza briga e senza forfatto. E questo non può fare, s’egli non fa che li malfattori, ladroni e falsatori sieno fuori del paese: chè la legge comanda bene che ’l signore possa purgare il paese della mala gente. Però ha egli la signoria sopra i forestieri e sopra’ cittadini che fanno li peccati nella sua jurisdizione, e non pertanto egli non giudicherà a pena quello ch’è senza colpa: ch’egli è più santa cosa a solvere un peccatore che dannare un giusto, e laida cosa è che tu perda il nome d’innocenza per odio d’un nocente....... Sopra li maleficj debbe il signore e i suoi uffiziali seguire il modo del paese e l’ordine di ragione, in questa maniera. Prima debbe quello che accusa giurare sopra il libro di dire il vero in accusando e in difendendo, e che non vi mena nullo testimonio a suo sciente; allora dee dare l’accusa in iscritto, ed il notajo la scriva tutta a parola a parola, sì come egli la divisa: si dee inchiedere da lui medesimo diligentemente ciò ch’egli o li giudici od i signori crederanno apertamente che sia del fatto, o della cosa: e poi si mandi a richiedere quelli che è accusato del maleficio; e s’egli viene, sì lo faccia giurare e sicurare la corte dei malfattori, e metta in iscritto sua confessione e sua negazione, sì come egli dice: e se non dai malfattori, o che ’l maleficio sia troppo grande, allora debbe il signore od il giudice porre il dì da provare, e da ricevere li testimonj che vegnono, e costringere quelli che non vegnono, ed esaminar ogni cosa bene e saviamente, e mettere li detti in iscritto: e quando i testimonj sono ben ricevuti, il giudice ed il notajo debbon far richiedere le parti dinanzi da loro; e s’elli vegnono, si debbon aprire li detti de’ testimonj, e darli a ciascuno perchè si possano consigliare e mostrar loro ragione. Ora addiviene alcuna volta ne’ grandi maleficj, che non possono essere provati interamente, ma l’uomo trova ben contra quelli ch’è accusato alcuno segno e forti argomenti di sospezione: a quel punto il può l’uomo mettere alla colla per farli confessare la colpa, altrimenti no; e si dico io, ch’alla colla il giudice non deve dimandare se Giovanni fece maleficio, ma generalmente dee dimandare chi ’l fece».
164. Serra, Storia della Liguria, lib. III. c. 8: Giulini, Continuaz., part. I. p. 64; Chron. parmense, Rer. It. Scrip., IX. 819; Corio, lib. II. — I patti del podestà di Genova sono divisati nei Monumenta Hist. patriæ, Chart., II. 1334.
165. Ma se io non potrò avere lo delinquente, puniroe lo figliuol suo, u vero li figliuoli del delinquente, se lui u se loro potrò avere. Ma se lo figliuolo u vero li figliuoli del delinquente aver non potrò, puniroe lo padre del delinquente, se io lo potrò avere, così in avere come in persona ad mio arbitrio..... Et non dimeno li loro beni, poichè in del bando saranno incorsi, siano pubblicati al comune di Pisa, et siano guasti et distructi così in de la città come in del contado in tutto, sicchè poi non si rifacciano, nè rifare li permetterò nè abitare u lavorare u vendere u alienare. Et ciascheduno che li abitasse, lavorasse, vendesse, alienasse, comprasse et per qualunque altro titolo ricevesse, puniroe...
«Et intorno alle suprascripte tutte cose investigare et trovare io capitano abbia pieno, libero et generale arbitrio così in ponere ad questioni et tormenti et punire in avere et persona come eziandio ad tutte altre cose..... Et ad catuna persona che cotale malefactore prendesse et preso a me capitano l’apprezentasse u vero uccidesse, darò u farò dare dei beni del comune di Pisa 1. M. di danari...» Statuto di Pisa, ms. § 12.
166. Nella Cronaca di Padova trovo Galvano Lanza podestà nel 1243 e 44; Guzelo de Prata nel 1247, 48, 49; Ansedisio de’ Guidotti da Treviso dal 1250 al 55. Vero è che erano i tempi della tirannia di Federico II e di Ezelino.
Parma aveva un podestà nel 1175 (Affò, II. 259): Cremona nel 1180 (R. I. S., VII. 635); Faenza nel 1184 (Rerum Favent. Script., c. 82): Genova nel 1191 (R. I. S., VI. 364); Firenze nel 1193 con Gerardo Caponsacchi, ecc.
167. Nel Cod. Just., tit. XLIX. l. 1 e nella Nov. VIII. c. 9 è comandato che gli uffiziali di provincia rimangano cinquanta giorni in luogo, dopo scaduti di carica, per soddisfare a tutte le doglianze. E cinquanta giorni sono prefissi nello statuto antico di Pistoja (Antiq. M. Æ., diss. 70, al § 76); poi variò secondo i paesi. Lo statuto di Torino De sacramento DD. vicarii et judicis porta: Juramus quod stabimus decem diebus in Taurino post nostrum regimen, ad faciendam rationem cuilibet..... conquerenti de nobis. Quello di Roma: Senator, finito suo officio, cum omnibus judicibus et familiaribus et officialibus suis teneatur stare et sistere personaliter decem diebus coram judice, sindico deputando ad ratiocinia ejus; et coram ipso, ipse et officiales prædicti teneantur de gestis et administratis et factis durante officio reddere rationem, et unicuique conquerenti respondere de jure, et omnibus satisfacere quibus de jure tenetur. De quibus omnibus dictus judex summarie cognoscat, et intra decem dictos dies causam decidat de plano, sine strepito et figura judicii, non obstantibus feriis et non obstantibus solemnitatibus juris, dummodo veritas discutiatur, et ad illam saltem respectus et consideratio per judicem habeatur.
168. Rer. It. Scrip., XV. 684.
169. Franco Sacchetti, Nov. 196.
170. Capitaneus populi, ad defensionem libertatis et popularis status, et ad observandam unionem civium principaliter est institutus etc. Statuti lucchesi.
171. Una savia e piena informazione del governo di Firenze dal 1280 al 92 è riportata nelle Delizie degli eruditi toscani, IX. 256.
172. Tale complicazione era espressa con questi versi popolari:
Trenta elegge il consegio;
De quai, nove hanno il megio:
Questi elegon quaranta,
Ma chi più in lor se vanta
Son dodese che fano
Venticinque: ma stano
De questi soli nove,
Che fan con le lor prove
Quarantacinque a ponto;
De quali ondese in conto
Elegon quarantuno,
Che chiusi tuti in uno
Con venticinque almeno
Voti fano el sereno
Principe che coregge
Statuti, ordine e legge.
173. Et non possit ire ad brevia vel esse consiliarius (nè elettore nè eletto) qui non sit habitator Lucanæ civitatis, vel qui sit extimatus minus XXV libris, ad ultimas et proximiores extimationes factas in camera Lucani communis. Statuto lucchese del 1308.
174. La varietà delle condizioni personali ci appare in questo passo: — Il 1233, essendo podestà di Firenze Torello da Strada, fece intendere a tutti gli abitatori del contado fiorentino che venissero a comparire nella città, con esporre ai notaj de’ sestieri a ciò deputati di che condizione si fossero; o fosse cavaliere nobile (per nascita), o fattizio, o aloderio (che aveva allodj), o masnadiere, o uomo d’altri, o fittajuolo, o lavoratore, o d’altra condizione». Scipione Ammirato, Storie fiorentine, lib. I.
175. Alcuni vollero argomentare la quantità de’ Longobardi o de’ Romani o de’ Salici nei varj paesi e nei diversi tempi dai nomi loro. Giudizio affatto inconcludente, e ne deduco poche prove dai soli Monumenta Hist. patriæ:
Ego Benedictus filius quondam Constanci, qui professus sum ex nacione mea legem vivere Langobardorum. Chart. I. 458. Due altri suoi fratelli si chiamavano Garino e Giovanni.
E viceversa al 1039: Ego Amicus clericus, filius quondam Aldeprandi, qui professus sum ex nacione mea lege vivere romana.
E al 1069: Ego Aldeprandus presbiter, filius quondam Constancii, qui professus sum ex nacione mea legem vivere Langobardorum.
Al 1071: Ego Drodo filius quondam Manfredi, qui professus sum ex nacione mea lege vivere romana.
Al 1074: Ego Adam presbiter, filius quondam Petri, qui professus sum ex nacione mea lege vivere Langobardorum.
Al 1088: Oddo presbiter, qui profitebat se ex nacione sua lege vivere romana; e Villelmus subdiaconus, filius Verada femina, qui profitetur se ex nacione sua lege vivere romana.
Al 1089: Constat nos Laurencius et Johannes germani, filii quondam Gisulfo, qui professus sum ex nacione nostra legem vivere romanam; e son firmati testimonj Alberto et Ricardo ambi lege viventes romana.
Al 1092 è un curioso documento di tutti gli abitanti di Saorgio, con nomi d’ogni colore, qui professi sumus omnes ex natione nostra lege vivere romana.
V’ha di più. Anselmo, abate di San Gennaro di Lucedio al 1092, professando vivere a legge romana, promette non inquietare il marchese Tebaldo; et ad hunc confirmandum promissionis breve, ego qui supra Anselmus abbas a te Tebaldus, exinde launechild capa una, ut hec mea promissio firma permaneat. Coma c’entra il launechildo colla legge romana?
Egualmente al 1098 Raiverto e Martino figli di Aldebrando, e Bolesinda moglie di Raiverto professi omnes ex nacione nostra lege vivere romana, fanno una vendita, dove Raiverto stipula come mundualdo di Bolesinda, jugale et mundualdo meo consentiente.
176. Zanfredolo da Besozzo nel 1321 diede statuti per le terre d’Invorio, Garazuolo, Montegiasca presso il lago Maggiore, da lui dipendenti. Il borgo di San Colombano li fece compilare da dodici giurisperiti. Pompeo Neri conta cinquecento statuti diversi nella sola Toscana, vissuti sino agli ultimi tempi, e anche in piccole terre, come Montorsojo, Montopoli, Firenzuola, Parlascio, Palaja, la badia di Vallombrosa, ecc. Abbiamo gli statuti di Cremella in Brianza, della Val Taleggio nel 1368, della Valsassina nel 1388, di Bovegno in val Trompia nel 1341, e d’altre terre minime.
Lo statuto più antico che si conoscesse era quello di Treviso del 1207, ma Vittorio Mandelli, negli Studj sul Comune di Vercelli nel medioevo (1857), trova indizio di statuti a Vercelli sin dal 1187: e nel 1202 è mentovato il volume di essi, super quo jurabant potestas vel consules comunis et consules justiciæ. Questo Comune avrebbe fatto un bando per l’abolizione generale della servitù della gleba sin dal 1243, mentre quel di Bologna è solo del 1251.
177. L’illustre giureconsulto Azo (Summa in VIII libros Codicis) definiva che «la consuetudine è formatrice, abrogatrice ed interprete della legge». I Veneziani, ne’ casi che la legge taceva, rimettevansi all’intimo convincimento dei giudici; per le ordinanze marittime, ne’ dubbj risolveva la signoria. I più antichi statuti di Milano sono intitolati Consuetudines in un manoscritto della biblioteca Ambrosiana del 1216; nel proemio alla riforma di essi, pubblicata il 1396, vien detto essere costume antico che negli atti pubblici fossero registrati da un notajo determinato tutti gli editti e statuti che di tempo in tempo venivano pubblicati; quest’archivista chiamavasi governatore degli statuti. Quelli di Como sono del 1219, riformati il 1296. Fra’ più antichi si noverano quei di Mantova del 1116, e di Pistoja del 1117. Amedeo III di Savoja dava gli Statuti a Susa, confermati poi da Tommaso suo nipote nel 1197. Aosta nel 1188 gli aveva da Tommaso conte di Morienna. Davanti all’edizione della Posta, cioè dello statuto di Verona, cominciato verso il 1150, compito nel 1228, l’arciprete Carmagnola pubblicò una sentenza del 1140, data dai consoli d’essa città «secondo la lunghissima ed antichissima consuetudine dei re, duchi, marchesi ed altri laici principi e cherici, secondo la legge longobarda». Vedi Federico Sclopis, St. della legislazione in Italia.
178. Corio, f. 131; Caffaro, lib. IV. col. 384. — Peggio era nello statuto veneto. Secondo il Corio, nessuno doveva asportar grano dalla città nè altra grascia, o perderebbe il carro, i bovi, i cavalli: se non potesse pagar la multa, gli si taglierebbe il piede destro.
179. Vedi fra gli altri la rubrica 15 dell’antico statuto di Pistoja.
180. Vedi il Libro del Potere di Brescia. Un altro esempio adducemmo a pag. 20.
181. Lib. X. rub. 18. 28.
182. Feudum, precaria aut libellum; nullus audeat nec debeat jurare fidelitatem alicui, nec fieri vassallus alicujus aliqua occasione vel ingenio quod excogitari possit.
183. Nel 1178 i rappresentanti della Lega Lombarda cassarono una sentenza che i consoli comaschi aveano portata a favore del comune di Bellagio contro gli abitanti di Civenna e Limonta, a proposito di certe strade e pasture usurpate dai Bellagini. Ap. Puricelli, Monum. eccl. Ambr. Nº 573 e seg.
184. Antiq. M. Æ., diss. LXX. A gran torto Meyer, nelle Origini e progressi delle istituzioni giudiziarie, tralascia le italiane come poco importanti, mentre, massimamente avuto riguardo all’età, potevano sole offrire la spiegazione di varj istituti, ora comuni in Europa. Vi supplì in parte Sclopis, Dell’autorità giudiziaria.
185. G. Villani, xi, 93; Dino Compagni, Cronaca, lib. II; Delizie degli eruditi toscani, IX, 256. — In Pisa erano dieci tribunali, curia foretaneorum, curia appellationum, curia arbitrorum, curia nova pupillorum, curia confitentium, curia assessoris, curia judicum et advocatorum, curia grassæ, curia notariorum, curia mercatorum. Dal Borgo, Diss. sopra i codici pisani delle Pandette.
186. Antiq. M. Æ., diss. XII. Vedi pag. 309. Nel 1150 abbiamo la curia cremonese; Rer. it. Scrip., VII. 643. Nel 1163, 27 agosto, Ottone, giudice cioè avvocato di Milano, s’impegna con Corvetto e con altri a patrocinarli a Genova in tutte le cause che possano avere; e una volta all’anno se occorra andrà fin a Levanto e a Passano, e vi resterà dieci o dodici dì, però a loro spesa. Monum. Hist. patriæ, Chart., II. 874.
187. Giulini, part. VII. l. 50.
188. Rer. It. Scrip., XV. 250 e 233.
189. Delizie degli eruditi toscani, XV.
190. Di tali suddivisioni di possessi recammo esempj. Nei Monum. Hist. patriæ, Chart. II. 1318, abbiamo Bonifazio de Briada, il quale da Giacomo vescovo d’Asti teneva in feudo la sesta parte della metà del castello vecchio di Sanfrè, che cambiò con altrettanta del nuovo nel 1224.
191. Toselli, nel Dizionario gallo-italico, pubblicò estratti di varie sentenze di Bologna. Nel 1288 Uzzolo, accusato di aver fatto violenza a Bonora Nascimbene, è condannato al taglio d’un piede: ma poi ella è riconosciuta calunniatrice, e condannata al taglio della lingua. Nel 1295 Enrichetto, condannato alle forche, confessa avere indotto falsi testimonj contro Superchia, la quale fu dannata alle fiamme. Nel 1291 un Ferrarese accusava certa Imelda da Bologna d’avere affaturato Bittino figliuolo di lui, e resolo incapace al matrimonio. Nel 1328 una Mina e una Francesca sono processate come famose fatucchiere e maghe contro la vita d’innocenti, turbatrici degli elementi, e che aveano fatto una malìa per innamorare uno: confesse, furono bruciate.
192. Nos de Impoli et ejus curte, qui sumus de comitatu florentino, et episcopatu seu de pleberio de Impoli, juramus ad Evangelia sacramento corporaliter præstito, salvare et custodire et defendere et adjuvare omnes personas civitatis Florentiæ, ejusque burgorum et subburgorum, et generaliter et specialiter, et eorum bona in tota nostra fortia, et ubicumque potuerimus sine fraude et contra omnem personam.
Item si quo in tempore aliqua persona, quæ habitet infra prædictos nostros confines, deprædaverit aliquem praedictum Florentinorum, seu aliquem dapnum ei fecerit, faciemus ei integrum emendare et restituere infra dies quindecim proximos, postquam consul vel rector Florentiæ nos inquisiverit vel inquirere fecerit, sive nuntio vel literis, aut ille qui dapnum substinuerit, si rector tunc non extaret in civitate Florentiæ.
Item quocumque tempore et quotiescumque consul vel rector qui pro tempore extiterit in civitate Florentiæ inquiret nos vel faciet inquirere, seu per nuntium, vel quod mittat nobis literas ut faciamus ei ostem vel cavalcatam, faciemus eis intra dies octo proximos post inquisitionem, quomodocumque eis placuerit, et ubicumque, excepto contra comitem Guidonem, nisi in quantum nobis terminum prolongarent, quod ita teneamur ad terminum, si quod bona voluntate eis placuerit prolongare, ut dictum est.
Item guerram seu guerras et pacem faciemus ubi et quibus vel quomodo consulibus vel rectori, qui pro tempore fuerit Florentiæ, placuerit: exceptamus in hoc capitulo comitem Guidonem.
Item infra octo dies proximos post inquisitionem, ex quo consul Florentiæ vel rector non inquisierit vel inquirere fecerit, habebimus factum jurare ad hoc Breve omnes homines habitantes infra prædictos nostros confines, qui convenientes erunt ad jurandum, nisi in quantum per ipsum consulem vel rectorem steterit; et si terminum vel terminos nobis.... mutaverit seu prolungaverit, ita teneamur sicut constituerit et dixerit.
Item omni anno in festo sancti Johannis mensis junii, vel antea, dabimus in civitate Florentiæ consulibus, vel rectoribus, seu rectori, secundum qui pro tempore erit in eadem civitate, libras quinquaginta bonorum denariorum de tali moneta qualiter pro tempore comuniter expendetur per civitatem Florentiæ; et si consules, vel rectores non essent in civitate, dabimus consulibus mercatorum Florentiæ ut eam recipiant pro communi Florentiæ, sed tamen in hoc anno dabimus consulibus Florentiæ qui modo sunt intra kal. mart. proxime vel antea lib. centum et solid. sex bonorum denariorum. Item omni anno portabimus Florentiam in festo sancti Johannis unum meliorem cereum, quam illud quod Ponturmenses ibi offerunt et soliti sunt offerre.
Hæc omnia, ut in hoc Breve scripta sunt, juramus tenere et observare et facere in perpetuum, et si consulibus, vel rectori, qui pro tempore extiterit in civitate Florentiæ placuerit, teneamur de VII in VII annis renovare hæc juramenta in totum. Item cum consules vel rectores Florentiæ steterint pro recipiendis prædictis juramentis, vel renovandis, dabimus eis, et personis quibus secum duxerint, expensas omnes, donec steterint pro ea complenda.
Et omnia præscripta juramus et promittimus observare, sub pœna centum marcorum de puro argento, et post pœnam solutam communi Florentiæ omnia prædicta stent firma.
Hæc omnia supradicta juramus observare et adimplere et firma tenere perpetuo, ad sanum et planum intellectum consulum Florentiæ remota omni fraude, et sub hoc intellectu, quod imperator nec papa nec aliquis clericus vel laicus vel nulla alia persona possit nos absolvere in aliquo vel de aliquo ab hoc juramento, nec pro aliqua de causa possimus occasionare hoc juramentum.
Scripta sunt hæc anno MCLXXXI, tertio nonas februar., ind. XV.
Il più antico documento di sommessione d’una città ad un’altra è quello di Fano, che, assalita da Ravenna, Pesaro, Sinigaglia nel 1140, accettò la signoria di Venezia, stipulando che, qualunque volta i Veneziani farebber oste da Ragusi fin a Ravenna, i Fanesi gli aiuterebbero con una galea armata a proprie spese: nelle guerre da Ancona fin a Ravenna, militerebbero con loro: inoltre manderebbero i loro savj al parlamento comune in Venezia, ogniqualvolta fossero chiamati, siccome usano tutti gli altri fedeli: e di ciò fanno ampio giuramento salvo sempre il servigio all’imperatore di Germania. Amiani, Memorie storiche di Fano, tom. II, parte 7ª.
Pergine, grossa borgata sulla via fra Trento e Bassano, godeva di antichissime libertà sotto la primazia del vescovo Tridentino, ma molte gliene usurpò il castellano imperiale, che la rese feudo ereditario di sua famiglia, colle prepotenze consuete. Stanchi delle quali, e profittando delle guerre del Barbarossa, i Perginesi nel 1166 s’accolsero nel monastero benedettino di Santa Maria in Valdo, e stesero un atto con cui i rettori e seniori di tutte le gastaldie di quel Comune si sottoponeano al Comune di Vicenza, obbligandosi con giuramento ad essergli fedeli servidori e amici, ajutarlo in guerra con ducento armati, pagar la solita colletta sui fuochi; ne riceveranno un podestà, che però li lasci viver secondo le consuetudini che tengono da cento, ducento e quattrocento anni, tanto a legge salica che a longobarda: essi li libereranno e preserveranno dalla tirannia di Gundibaldo castellano di quel distretto, aboliranno tutte le angherie e pesi da esso imposti, e il godimento delle prime notti, e i servigi di corpo a cui esso li forzava, retribuendogli invece qualvolta devano prestar opera al podestà in castello. Possano, come in antico, eleggersi il giudice, soggetto però al podestà; non siano mai per veruna ragione ceduti a Gundibaldo o alla sua famiglia; nè costretti guerreggiar contro l’impero o le chiese di Trento e di Feltre. Il documento è stampato nelle Notizie storiche intorno al b. m. Adelperto vescovo di Trento di frà Benedetto Bonelli, tom. II. Trento 1761.
Nel Liber jurium al 1199 leggonsi i patti con cui il Comune di Vinguelia, quello di Albenga, quello di Diano si sottoposero al Comune di Genova; e quelli di Oneglia, San Remo, Porto Maurizio si allearono con esso: nel 1202 quel di Savona si sottomise.
In tal anno gli uomini delle valli d’Arocia, d’Andoria, d’Oneglia, di Petralata, di Rezio, di Nasco fecero alleanza coi Genovesi; e i primi, per mezzo de’ loro consoli, promettevano salvare e custodire gli uomini di Genova e del distretto per mare e per terra; «non proibiremo si porti a Genova grano o altra vivanda o merce; se quel Comune faccia oste o cavalcata, daremo all’esercito mercato di grano e vettovaglie; richiesti faremo esercito a nostre spese, e campeggeremo per tutto il contado di Ventimiglia, la marca d’Albenga, il vescovado di Savona, a comando de’ consoli o podestà; se il Comune di Genova guerreggi da Gavi o da Palodo fin a Portovenere, terremo nell’esercito cento arcieri; se alcuna città, vescovo o persona della riviera e del contado citerà in giudizio alcuna di esse valli, gli faremo giustizia nella curia di Genova; per custodia di Porto Bonifacio daremo ogni anno due uomini a spese nostre, come ordineranno il podestà e i consoli di Genova; se il podestà o i consoli ci richiedano di consiglio, gli daremo il migliore, e gli terremo credenza de’ secreti affidatici; ogni anno a san Giambattista, in segno di devozione e fedeltà, manderemo alla chiesa di San Lorenzo un cero di venticinque libbre; non faremo patto o giuro con verun luogo o terra o persona senza salvare ed eccettuare questa convenzione, la quale farem giurare da tutti gli uomini di esse valli e luoghi dai quindici ai settant’anni, e rinnovare ogni cinque anni». Di rimpatto il podestà di Genova prometteva protezione e salvezza agli uomini di que’ Comuni; «darò un mercato ad Andoria il primo d’agosto, e l’altro ad Oneglia l’Ognissanti, dove se nasca alcuna controversia, sarà definita da quelli che Genova deputerà all’uopo; vi correranno i pesi e le misure della città, come negli altri mercati del contado e della riviera; se alcuno di Ventimiglia, d’Albenga, di Savona voglia forzarvi contro giustizia, appellerete alla curia di Genova, e noi li citeremo, e se non compajono, vi difenderemo e manterremo nel diritto vostro; vi concediamo che possiate comprare ed estrarre da Genova qualunque merce vi occorra, salvi i diritti della città e dei cittadini». Il cintraco, vogliam dire il gastaldo, a nome e sull’anima del popolo giurò queste convenzioni in un parlamento, ove ad essi fu data l’insegna del Comune di Genova, perchè appaja che meritarono la piena grazia della città. — Liber jurium, tom. I. pag. 473.
Segue una stipulazione molto più particolareggiata coi consoli di Naulo.
193. Monum. Hist. patriæ, Chart., I. 861. Il 1183 i consoli di Casale rimettono ogni pretensione per danni recati al loro Comune da Vercellesi, confermandolo tutti i cittadini maggiori e minori, radunati nella solita piazza al campanile di Sant’Evasio.
194. Ivi, 20 aprile 1212.
195. Monum. Hist. patriæ, Chart. I. 1040, 1231.
196. Daniel, Chron. ms. ap. Antichità longobardiche milanesi, diss. XXI; Archivio storico, tom. XV. D’altre più recenti si trova esempio in Romagna fin nel secolo XVI, come i Pacifici estesi per tatto il paese, e la Santa Unione a Fano. V. Amiani, Mem. di Fano, II. 146.
197. Cibrario, St. della monarchia di Savoja, tom. I. doc. 2º.
198. Cibrario, Economia politica del medioevo, 392.
199. I documenti sono pubblicati dal Minutoli nel vol. X dell’Archivio storico.
200. Pubblicati nei Monum. Hist. patriæ. Vedi pure Cibrario, Storia di Chieri. — Si quis, qui non sit de societate Sancti Georgii, percusserit aliquem dicte societatis, vel manum posuerit in persona alicujus dicte societatis, podestas vel rector dicte societatis, vel consules teneantur et debeant precise et sine tenore facere sonari stremitam, et se armare et currere ad arma omnes illos predicte societatis, et ad se venire armatos facere, et facere cum ipsis ultionem de maleficio commisso secundum qualitatem maleficii et personæ; et si incontinenti ultionem non fecerit, potestas vel rector vel consules habeant plenam licentiam et bayliam ad suam voluntatem faciendi ultionem in illo qui malificium commiserit, vel coadjutoribus suis, ita quod ultio fiat, et non possit remanere ullo modo q.... Item statutum est quod si contingeret (quod absit) quod rumor sive rixa moveretur in aliquo loco inter aliquas personas, quod quilibet supradicte societatis qui hoc audiverit vel viderit illuc, currat omni obmisso negocio: et si viderit quod dicta rixa esset inter aliquos qui essent de dicta societate, quod ille et illi qui ibi erunt de dicta societate debeant fortiter et robuste prestare illi vel illis qui essent de dicta societate qui rixam haberent, auxilium, consilium et favorem totis viribus atque posse cum armis vel sine armis etc. Statuta Cherii, pag. 774. 776.
201. Cronaca di Neri di Donato. Rer. It. Scrip., XV. 224-294.
202. Vedi, per Genova, Cuneo, Mem. sopra l’antico debito pubblico ecc., pag. 258; per Firenze G. Villani, lib. XI; per Napoli Andrea d’Isernia, Commento alle Costituz., I. — In Bologna ogni forestiere che entrasse dovea farsi porre un suggello di cera rossa sull’ugna del pollice. Michelangelo non conoscendo quest’uso, fu multato in cinquanta lire di bolognini, come narra A. Condivi nella Vita di esso.
203. In Milano la prima menzione di tale gabella è del 1271; poi Filippo Maria Visconti sostituì il sale forzato alla tassa dei focolari. In Genova la gabella del sale è accennata nel 1214 (Caffaro, iv. 406); in Reggio nel 1261 (Mem. potest. reg. Rer. It. Scrip., VIII. 1172); in Parma il 1292 (Chron. parm., ib. IX. 823).
204. Stima il Giulini che l’imposta diretta sui fondi siasi primamente stabilita sotto il duca Filippo Maria, circa il 1423; e che nell’immunità accordata al convento di Pontida (ann. 1129 ap. Tristano Calco, quibus pergravari interdum prædia solent) quell’interdum mostri appunto che non era costante. Il fatto da noi riferito secondo il Fiamma e il Corio al 1240, lo contraddice. Vedi Corio e Giulini, passim.; G. Villani, x. 17; Caffaro, iv. 17; Pagnini, Della decima fiorentina, I. 25.
205. Giulini, lib. liv — Innocentii IV, Ep. 24 settembre 1250 — Caffaro, viii. 541 — Ant. M. Æ., diss. XL.
206. Fra i Turchi d’oggi i pesi pubblici decretati sono più leggeri che in qualunque dipendenza europea: ma noi, pagata l’imposta, siam garantiti del resto, e possiamo goderlo o accumularlo a volontà; colà invece può venire il bascià o un suo satellite a spogliarvi. Manca dunque la sicurezza: perciò si fabbrica il men possibile; non si restaura; se un muro minaccia cadere, si puntella; se cade, è una camera di meno; se cade tutta la casa, si ritirano il più presso che possono per valersi dei materiali ed erigerne un’altra.
207. Nullus audiatur de jure suo, qui dare aliquid teneatur communi. Stat. Fior., lib. IV. Tract. de extimis, rubr. 33. Altrettanto portavano gli statuti di Chieri, di Casale, ecc.
208. Vedine gli statuti nei Monum. hist. patriæ. — Anno etc. presentia etc. Rainerius de Monbello obligavit consulibus Vercellarum nomine communis casam quam emit a Manifredo Caroso, ita quod sit aperta communi si ullo tempore habitaculum Vercellarum relinquerent. Chart. I. 995. E prima e dopo vi ha moltissimi patti di cittadinanza assunta in Vercelli, sempre con questa convenzione della casa. I Vercellesi, volendo avere il cittadinatico in Milano, vi comprarono una casa nel 1221 al prezzo di 210 lire di terzoli. Nei tante volte citati Monum. Hist. patriæ, Chart. I al 1199 e seguenti, stanno le divisioni degli uomini di Biandrate, fatte tra i Comuni di Vercelli e Novara; poi nel 1201 divisero i territorj di Biandrate, Vicolungo, Casalbertrando; e gli uomini ammessi al Comune danno tutti la garanzia d’una casa.
209. Il diritto di zecca era talmente ritenuto regio, che Venezia nel 1285, cioè quando era indipendente da otto secoli, chiese al papa ed all’imperatore il diritto di battere gli zecchini (Sanuto, Vite dei dogi; Zanetti, Delle monete e zecche d’Italia; Carli e Argelati, Delle monete d’Italia). Vecchie sono le monete di Napoli col solo tipo di san Gennaro. I Normanni ne coniarono, s’ignora dove. Venezia neppur si sa quando n’ebbe il diritto; la più vecchia sua moneta è del 972. Nè si sa quando cominciasse Ancona col tipo di san Ciriaco. Dopo l’XI secolo Aquila, Aquileja, Rimini, Arezzo, Ascoli, Asti, Bergamo, Messina 1139, Piacenza 1140, Bologna 1191, Brescia 1162, forse Cortona, certo Cremona 1115, Tortona da Federico I, Ferrara 1164, Fermo dai papi all’entrare del secolo XIII, Firenze, Genova e Piacenza da Corrado II. Monete si citano di Mantova avanti l’XI secolo, di Modena, Parma, Padova, Perugia e Reggio nel XIII, di Pisa fin dal 1175: dubbie sono quelle dei conti di Savoja salenti fin al 1048: Siena vantane il privilegio del 1086; forse Spoleto sotto i Longobardi, e Torino a mezzo il secolo XIII, Verona nell’XI, Volterra al 1231. Più recenti sono quelle di Urbino, Vigevano, Vicenza, Sinigaglia, Saluzzo, Recanati, Pesaro, Macerata, Forlì. Dopo il 1500 ebbero zecca Lecco e Musso, durante il dominio di Gian Giacomo Medici. Il Carli, leggendo genenses per ticinenses credette la zecca di Genova esistesse nel 769. Giovan Gandolfi (Della moneta antica di Genova) prova che Genova battea monete prima del 1139, in cui n’ebbe diploma da Corrado II; e certo fin dal 1102, però col tipo di Pavia; inoltre, che un anno prima di Firenze coniò la moneta d’oro, la quale, secondo lui, potè servir d’esempio al fiorino.
210. Allora 72 grani d’oro equivalevano a 770 d’argento. Sarebbe stato opportunissimo tener per legale un solo metallo, e non alterare la proporzione fra i due col variare le parti aliquote dell’argento come si fece. La moneta d’argento chiamata lira non fu battuta che da Cosimo I nel 1531, della bontà di 90 3⁄4, e del taglio di 72 la libbra. Tre sorta di ducati avevano i Veneziani: quello d’oro di circa lire 17; d’argento, valuta effettiva da lire 4 a 4,50; di conto da lire 3,25 a lire 4. Nell’amministrazione contavasi per ducati effettivi; in commercio, per ducati di conto: l’effettivo valeva 8 lire venete, l’altro lire 6 e denari 4. Vedi Carli, diss. VII.
In un istromento del 1265 nell’Archivio diplomatico di Firenze, rogato in Passignano, un debitore di lire quattro cede a un suo fratello creditore un pezzo di terra al Poggio a vento, perchè si rimborsi coi frutti di questo, valutati ai prezzi seguenti:
Lo stajo del grano | soldi | 2 | ||
Lo stajo dell’orzo e delle fave | » | 2 | denari | 4 |
Il congio del vino | » | 8 | ||
L’orcio dell’olio | » | 10 | ||
La mannella del lino a saggio | » | — | » | 10 |
211. Il barbaro budget è di origine italiana, derivando dalla bolgetta o tasca, in cui il massajo o ministro delle finanze portava i conti al parlamento.
212. Leggi del 10 dicembre 1268, e 21 luglio 1296.
213. È stampato nella storia di Giugurta Tommaso.
214. Quosdam montes et nemora quæ sunt circa Panormum, muro fecit lapideo circumcludi, et parcum deliciosum satis et amœnum diversis arboribus insitum et plantatum construi jussit, et in eo damas, capreolos, porcos sylvestres jussit includi: fecit et in hoc parco palatium, ad quod aquam de fonte lucidissimo per condiictus subterraneos jussit adduci. Chron. Salern. in Rer. It. Scrip., vol. VII. pag. 194.
Ancora la campagna di Palermo è sparsa di guglie (ivi dicono all’arabica giarre), che sono sfiatatoj degli acquedotti sotterranei fabbricativi al tempo degli emiri, e che ricreano di fontane la città, ed elevano l’acqua anche ai piani superiori delle case.
215. Un quartiere di Palermo serba tuttora il nome di Papireto. Non è della natura dell’egizio, bensì di quello di Siria, e differisce da quello che germoglia a Siracusa.
216. Nec vero illas palatio adhærentes silentio præterire convenit officinas, ubi in fila, variis distincta coloribus, serum vella tenuantur, et sibi invicem multiplici texendi genere coaptantur. Hinc enim videas amita, damitaque et trimita minori peritia perfici (cioè di uno, due, tre licci): hinc examita (sciamito) uberioris materia condensari: heic diarhodon igneo fulgore visum reverberat; heic diapisti color subviridis intuentium oculos grato blanditur aspectu; hinc exantosmata (a fiori) circulorum varietatibus insignita, majorem quidem artificum industriam et materia ubertatem desiderant, majori nihilominus pretio distrahenda. Multa quidem et alia videas ibi varii coloris ac diversi generis ornamenta, in quibus ex sericis aurum intexitur, et multiformis picturæ varietas, gemmis interlucentibus illustratur. Margaritæ quoque aut integræ cistulis aureis includuntur, aut perforatæ filo tenui connectuntur, et eleganti quadam dispositionis industria, picturati jubentur formam operis exhibere. Ugo Falcando, in Rer. It. Scrip., vol. VII.
217. Rosario de Gregorio, Discorso intorno alla Sicilia, Palermo 1826.
218. Romualdi Salernitani Chron. ad 1153.
219. Frammento pubblicato da M. Amari. Parigi 1846.
220. Pellegrini, Ad Falcandum Benevent. ad an. 1140.
221. Quoscumque viros aut consiliis utiles, aut bello claros compererat, cumulatis eos ad virtutem beneficiis invitabat, transalpinos maxime. Ugo Falcando.
222. Giannone, lib. XI, c. 4.
223. Dicevasi che costei fosse monaca, e allora se ne sciogliessero i voti:
Sorella fu, e così le fu tolta
Di capo l’ombra delle sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
Contro suo grado e contro buona usanza,
Non fu dal vel del cor giammai disciolta.
Dante, Parad., III.
Un cronista la fa zoppa e guercia, mentre Goffredo di Viterbo canta:
Sponsa fuit speciosa nimis, Constantia dicta.
224. Chr. Placent. Rer. It. Scrip., XVI.
225. Omnes cœperunt inter se de majoritate contendere, et ad regni solium aspirare. Ricardi S. Germani, Rer. It. Scrip., VI.
226. Hist. Sicula, pag. 252 e seg.
227. Ruggero Hoveden cronista inglese racconta che il papa pose in testa all’imperatore e all’imperatrice la corona coi piedi, e subito pur coi piedi ne la sbalzò, per significare la sua autorità di dare e togliere i regni. Ha poco del probabile.
Il giuramento era: Ego N. futurus imperator, juro me servaturum Romanis bonas consuetudines, et firmo chartas totius generis et libelli sine fraude et malo ingenio. Sic me Deus adjuvet et hæc sancta Evangelia. Le cerimonie della coronazione sono descritte dal cardinale Cencio, che poi fu papa Onorio III, e ch’era stato presente alla coronazione di Enrico; e furono pubblicate da Pertz, Monum. germ. hist., tom. IV. p. 187.
228. Imperium in hoc non mediocriter dehonestavit. Otto de S. Blasio, pag. 889.
229. Imperator ipse regnum intrat, papa prohibente et contradicente. Ricardi S. Germani, pag. 972.
230. Il marco di Colonia pesa gramme 233.87. Il franco contiene gramme 4 1⁄2 di fino; sicchè il marco di Colonia vale fr. 51.97. Dunque centomila marchi fanno franchi 5,197,100. In Sicilia correvano gli schifati, moneta greca, detta così perchè formati a barca. Una col nome di Guglielmo II in arabo, pesa 16 grani d’oro fino, sicchè oggi varrebbe franchi 2.88. Altra moneta siciliana erano i tarì, dei quali, sul fine del XII secolo, si tagliavano 24 da un’oncia d’oro, cioè pesavano gramme 0.8792, valenti oggi franchi 2.63. Poco dopo se ne tagliavano 29 1⁄2, e spesso il peso variò; giacchè l’impronta garantiva il titolo, ma del resto si contrattavano a peso.
231. Omne aurum et argentum, quod de regno ad manus habere potuit, congregavit, et in Alemanniam misit. Chron. Fossæ Novæ, pag. 880. Vedi Otto de S. Blasio, pag. 897.
232. Le cronache raccontano le precauzioni con cui essa ne dimostrò ai popoli la realità: il papa stesso dovette intervenirvi, e le fece dar giuramento che quel figlio era procreato da Enrico.
233. Fazelli, Storia di Sicilia, lib. VIII. c. 1.
234. Nella rotta data in Sicilia a Markwaldo si trovò il testamento di Enrico VI, ove imponeva a Federico suo figlio di riconoscere dal papa il regno di Sicilia, il quale tornasse alla Chiesa qualora mancassero eredi; se il papa confermasse al figlio l’Impero, ne fosse ricompensato col restituirgli tutta l’eredità della contessa Matilde; Markwaldo riconosca dal papa e dalla Chiesa il ducato di Ravenna, la terra di Bertinoro, la marca d’Ancona, Medicina e Argelata sul Bolognese, i quali ricadano alla Chiesa s’egli muore senza eredi. Il testamento è stampato dal Muratori.
Giovanni da Ceccano esclama: — È pur morto quel leone feroce, quel lupo sterminatore delle agnelle, quell’orrido serpente che tanti immolò. Apuli, Calabri, Toscani, Liguri, tutti i popoli partecipano alla gioja del sommo pontefice, ed esultano di vedersi finalmente liberati dal tiranno che la mano di Dio colpì». E Ottone di San Biagio: — I Tedeschi devono eternamente deplorare il lamentabile fine dell’imperatore Enrico, perchè egli arricchì la Germania e la rese terror delle nazioni. Col coraggio e l’abilità avrebbe rimesso l’impero romano nel primitivo splendore se morte nol preveniva».
235. Ricardi S. Germani, pag. 978.
236. A Verona v’ha questo epitafio lambiccato:
Luca dedit lucem tibi Luci, pontificatum
Ostia, papatum Roma, Verona mori;
Immo Verona dedit lucis tibi gaudia, Roma
Exilium, curas Ostia, Luca mori.
237. In qua plus timebatur ipse quam papa. Gesta Innocentii III, § 8.
238. Scossa dal tremuoto del 1319, fu poi demolita sotto Urbano III.
239. Vedi il 2º e l’8º can. del IV concilio Lateranese de probatione.
240. Antonio Vitale scrisse la Storia de’ senatori di Roma: ma è opera che meriterebbe essere rifatta. La storia di Roma fu sempre confusa con quella dei papi.
241. Il testo della lega Toscana fu pubblicato da Scipione Ammirato juniore nella Storia dei conti Guidi.
242. Suppositus partus, quod testibus adstruere promittebat. Gesta Innocentii III, § 23.
243. Ce lo racconta il francese Villehardouin, che v’assisteva in persona. A Paolo Ramusio il giovane, figlio del cosmografo Giovan Battista, il senato veneto diede incarico di tradurre in latino la storia della conquista di Costantinopoli di esso Villehardouin. Esso svolse altre memorie intorno a que’ fatti, e in sedici anni formò l’opera De bello Constantinopolitano, finita il 1573, ma stampata solo nel 1609.
244. Fu allora che i Veneziani acquistarono i cavalli di Lisippo, che ornano ora il pronao di San Marco. Narra il Sanuto che nel trasportarli a Venezia si spezzò la gamba di un cavallo: Domenico Morosini, che comandava il vascello di trasporto, impetrò di conservarla come un ricordo; e il consiglio assentì, e ne fece mettere una nuova, ed io ho veduto il detto piede. Questo fatto sfuggì ai descrittori di quel trofeo di tante vittorie.
245. Allora Cremona spedì mille persone per arricchirsi delle spoglie di Costantinopoli, come mandò una gran nave sotto Acri.
246. Sandi, Storia civile, pag. 620.
247. I patti per la imposta di Costantinopoli, stipulati nel marzo 1204 fra la Signoria veneta da una parte, e dall’altra il marchese Bonifazio di Monferrato e i conti di Fiandra, di Blois, di San Paolo, sono stampati nei Monum. Hist. patriæ, Chart. I. 1109, dove pure la cessione che esso Bonifazio fa ai Veneziani dell’isola di Creta e d’altre terre in Levante.
248. Decretum venetum ap. Canciani, v. 124.
249. La lettera d’Innocenzo III è importantissima per conoscere le pretensioni e il modo di vedere della santa Sede. Regesta Imperii, nota 20 e seg.
250. Nel 1160 Uguccione, vescovo di Vercelli, con un legno che teneva in mano, investe gli uomini di Biella del monte Piazzo come feudo, a patto che quei di loro che vogliano abitarvi devano ciascuno far fedeltà a maniera di vassallo; poi maschi e femmine possiedano essa terra finchè vivono, indi abbiano podestà di venderla tra sè, ma non a chi non sia abitante di esso luogo. Il vescovo permette che godano in esso monte i buoni usi che godevano da antico in Biella (omnibus bonis usis, quos erant usi habere in loco Bugelle in veteri tempore); onde rimette i bandi che egli soleva avere in essa Biella, salvo i seguenti: spergiuro, adulterio, furto, omicidio o ferita, pesche e caccie. Essi uomini devano salire quel monte, edificarvi, non impedire che il vescovo vi salga con suo seguito; ma egli non vi porrà castellano se non con loro consenso. Mullatera, St. di Biella, pag. 36.
Bongiovanni, nunzio del vescovo di Vercelli, imponeva che i possessori di un tal manso portassero ogni anno i rami di olivo per la domenica delle Palme, e metà del crisma, ed empissero metà delle fonti; e quei dell’altro, portassero l’altra metà del crisma, ed empissero il resto delle fonti, e facessero il fuoco a Natale e a Santo Stefano, e scuotesserlo alla Candelara e al sabbato santo. Monum. Hist. patriæ, Chart. II. 1294.
Gualterio vescovo di Luni nel 1200 questi patti faceva agli uomini di sua giurisdizione. Se molti siano consorti in un villaggio, ed uno o più facciano tradimento, sieno privati d’esso villaggio, ed aprasi ai loro eredi; o se non n’abbiano, vi sottentrino i consorti. Se alcuno tardi due anni il fitto o livello, paghi il doppio, oppure sia privato dell’ente per cui paga. Nessuno acquisti casa o campo o vigna senza istromento. Se alcuno depone querela contro un altro, anticipi quattro lire imperiali al giudice o ai consoli; e questi non ricevano più di sedici denari per lira, da pagarsi da chi perde la causa. Così determina il prezzo degli atti notarili. Se alcuno mena moglie, non dia come antefatto più d’un terzo della dote. Nessuna vedova si mariti durante il lutto, ecc. Ivi, 1203.
251. Lupo, Cod. diplom., tom. II, passim; Ronchetti, Mem. stor. della città e chiesa di Bergamo, cap. IV. p. 27.
252. Et sic civitas Mediolani, quæ territorio trium milliariorum extra civitatem contenta fuerat, longe lateque alas suas expandit. Nam ducatus Burgariæ, marchionatus Marthexanæ, comitatus Seprii, comitatus Parabiagi, et comitatus Leuci, qui omnes quasi domestici inimici terram istam semper invaserant...., facti sunt subjecti et servi perpetui civitatis Mediolani. Galv. Fiamma, Manip. florum.
253. Breve istoria dell’origine e fondazione della città del Borgo di Sansepolcro, per Alessandro Goracci, 1636. Gli storici del secolo XVI e XVII non intendono nulla degli ordinamenti municipali; pure aveano sottocchio carte che poi si smarrirono, e tradizioni non ancora spente. In tutti vedi una città che si redime dai conti, compra privilegi dagli imperatori, abbatte i castellani vicini, i quali poi venuti in città, vi portano resìe.
254.
Et nunc iste comes, consors et conscius ante,
Ille potens princeps, sub quo romana securis
Italice punire reos, de more vetusto,
Debuit injustitiæ, victrici cogitur urbi
Et modicus servire cliens, nulloque relicto
Jure sibi, dominicæ metuit mandata superbæ.
Guntero, lib. III.
255. Nei Monum. Hist. patriæ, Chart. I. 708. 807. 865. 910.
256. Bertoldus princeps Aquilejæ est amicatus cum Paduanis, et factus est paduanus civis; et in cittadinantiæ firmitatem et signum fecit de sua camera quædam in Padua ædificari palatia, et se poni fecit cum aliis civibus Paduæ in coltam sive datiam. Tunc quoque incepit mittere, et adhuc mittit hodie omni anno de suis melioribus militibus duodecim, qui jurant, in principio potestariæ cujuslibet, præcepta et sequentia potestatis pro domino patriarca et suis. Quod videns feltrensis et belunensis episcopus, fecit et ipse similiter, non tamen in quantitate eadem. Rolandino.
257. Savioli, Ann. bologn., I. dipl. CLVI.
258. Dalle storie bolognesi ricaviamo che nel 1123 i consoli col vescovo ricevono in protezione i castelli di Rudiliano, Sanguineta, Cavriglia; nel 1131 quei di Nonantola come cittadini d’una delle quattro porte, ed essi giurano fare due spedizioni all’anno fin ai confini, una con cavalli, l’altra pedoni; nel 1144 quei di Savignano e Cetola si fanno cittadini, cedendo la rôcca e la curia; nel 1157 quei di Monteveglio, Moreto, Caneto giurano, obbligandosi militare pei Bolognesi anche contro l’Impero; nel 1164 i castelli di Bedolo, Battidizio, Gesso, Trifane giurano obbedienza al popolo maggiore e minore di Bologna, e pagargli il fitto e il feudo ecc.
259. «Et che nullo nobile.... undunque sia, possa u debbia in alcuna cauza criminale in alcuna Corte contro alcuno di popolo rendere testimonia, e se la rendrà la testimonia non vaglia, ne tegna ipso jure, et nondimeno sia condannato dal capitano del populo da lire X. in lire C ad suo arbitrio, Statuti di Pisa, ms. § 162. — Et che nullo nobile della cita di Pisa u daltronde, ad tempo d’alcuno romore, durante lo romore ardisca u presuma d’escire con arme u sensa arme della casa in de la quale elli abita sotto pena del avere et della persona ad arbitrio del capitano. Ivi, § 165».
Con bel decreto, dato da Parma il luglio 1226, Federico II manda suo podestà alla ghibellina Pavia Villano Aldighieri di Ferrara, perchè severamente mantenga la concordia fra’ cittadini: a tal uopo ordina si sciolga qualunque società di popolani o di militi; nè gli uni nè gli altri abbiano podestà o consoli speciali, ma vengano tutti governati dal rettore del Comune, dal quale solo dipendano gli armati; statuarj, consiglieri, uffiziali sieno eletti come faceasi da dieci anni in poi; annullata la libertà dai militi data ad alcuni borghi od abitanti del distretto; non si ponga ostacolo al portar vittovaglie in città; non si faccia adunanza di nobili o di popolo a suon di campana; bando e infamia a chi contraffà.
260. Statut., lib. III. c. 168. 169. Lo statuto 170, de cerna potentium, fa il catalogo delle famiglie nobili, ne sub velamine popularium defendantur.
261. Croniche, IV. 78. — Ai Guelfi rende giustizia persino Voltaire, dicendo che l’imperatore voulait régner sur l’Italie sans borne et sans partage (Essai, cap. 66); e chiama i Guelfi partisans de la papauté, et encore plus de la liberté (cap. 52). Guelfi e Ghibellini erano come i Tories e Whigs dell’odierna Inghilterra; bisogna essere di quel partito, e conservarlo quand’anche cambia; i Tories del 1843 fecero tutto quello che voleano i Whigs nel 1830. Così i Guelfi di Firenze divengono fautori dell’Impero e nemici del papa; non cambiano nome, ma diconsi bianchi e neri; Dante era guelfo, come testè fu tory Roberto Peel.
Vedi il trattato di Bártolo sui Guelfi e Ghibellini. Una storia de’ Guelfi e Ghibellini nostri sarebbe la più bella spiegazione delle vicende italiane.
262. Nelle Memorie e documenti per servire alla storia di Lucca, vol. III. p. 47, leggesi: Orlandinus notarius, filius domini Lanfranchi, et Chele filius Lamberti, sindici et procuratores hominum partis guelfæ, eorum terræ.... volentes se et alios eorum partis ab erroris tramite revocare, et Lucanam civitatem recognoscere tamquam eorum matrem, et ad hoc ut tota provincia vallis Neubulæ (val di Nievole) bonum statum sortiatur, promiserunt et concenerunt... quod ipsi et alii eorum partis guelfæ de dictis communitatibus perpetuo erunt in devotione Lucani communis etc.
In Milano il colore de’ Guelfi era il bianco, de’ Ghibellini il rosso. In Valtellina i Guelfi portavano piume bianche alla tempia destra e un fiore all’orecchio destro; i Ghibellini piume rosse o un fiore alla sinistra. Tutti i palazzi di Firenze hanno merli quadrati, eccetto uno. Brescia nel 1212 avea tre podestà, eletti da tre fazioni.
263. Vedasi in capo ai vol. I e II dei Monumenta historica ad provincias Parmensem et Placentinam pertinentia (Parma 1857) un discorso del cav. Ronchini, che dà la storia civile del paese. L’ultimo degli statuti di Parma, stampati nel 1858, è tale: Nullus de civitate vel episcopatu Parmæ de cetero contrahat aliquam parentelam vel matrimonium cum aliquo vel cum aliqua, qui vel quæ non sit de parte Ecclesiæ: nec aliquis sit mediator nec proxeneta nec relator verborum aliquorum dictæ parentelæ faciendæ, nec testis, nec instrumentum celebret seu scribat, nec promissionem, nec securitatem, nec tractatum faciat, vel recipiat ullo modo alicujus parentelæ faciendæ, in aliquo tempore. Et si aliqua promissio vel securitas facta est de aliqua parentela facienda, sit nullius momenti. Et si qui vel si qua de cetero contra prædicta vel aliquod prædictorum fecerit vel facere præsumserit, in tantum puniatur. Mediator vero, sive proxeneta puniatur in trecentis libris parm.; et testis in trecentis libris parm., et tabellio puniatur in tantumdem, et perpetuo ab officio notariatus sit remotus: fratres nihilominus mulierum, si patrem mulier non habet, in mille libris parm. quilibet puniantur.
264.
Non s’attien fede nè a comun nè a parte,
Chè Guelfo e Ghibellino
Veggio andar pellegrino,
E dal principe suo esser deserto.
Misera Italia! tu l’hai bene esperto
Che in te non è latino
Che non strugga il vicino
Quando per forza e quando per mal arte.
Graziolo, cancelliere bolognese nel 1220.
Ed ora in te non stanno senza guerra
Li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.
Cerca, misera, intorno dalle prode
Le tue marine, e poi ti guarda in seno
Se alcuna parte in te di pace gode.
Dante, Purg., VI.
Benchè non fossero costanti nel parteggiare, offriamo alquanti dei nomi che assumeano le fazioni in varie città:
Guelfi | Ghibellini | |
Milano | Torriani | Visconti |
Firenze | Neri | Bianchi |
Arezzo | Verdi | Secchi |
Genova | Rampini | Mascherati |
Grimaldi e Fieschi | Doria e Spinola | |
Como | Vitani | Rusca |
Pistoja | Cancellieri | Panciatichi |
Modena | Aigoni | Grasolfi |
Bologna | Scacchesi (Geremei) | Maltraversi (Lambertazzi) |
Verona | San Bonifazio | Tegio |
Piacenza | Cattanei | Landi |
Pisa | Pergolini (Visconti) | Raspanti (Conti) |
Roma | Orsini | Savelli |
Siena | Tolomei | Salimbeni |
Orvieto | Malcorini | Beffati |
Asti | Solari | Rotari |
A Roma i due fratelli Stefano e Sciarra Colonna erano capi, uno dei Guelfi, l’altro de’ Ghibellini. Inoltre erano emuli nelle varie città, senza star saldi a una parte sola, Beccaria e Langosco in Pavia; Tornielli e Cavalazzi o Brusati in Novara; in Ferrara Salinguerra e Adelardi; in Vercelli Avvocati e Tizzoni; in Lodi, Vignati e Vistarini; in Genova, Doria e Adorni; in Asti, Isnardi e Gottuari; in Perugia, Oddi e Baglioni; in Bergamo, Suardi e Colleoni, Bongi e Rivoli; in Brescia, Casalalta e Bruzella; in Perugia, Bettona, Assisi la parte di sopra e quella di sotto; in Padova, Carrara e Macaruffo; in Sicilia, Palizzi, Alagona, Ventimiglia, Chiaramonti; in Ravenna, Polenta e Bagnacavallo; in Imola, Mendoli e Brizi; in Faenza, Manfredi e Acarisi; in Rimini, Gambacari e Amadei; in Forlì, Ordelaffi e Galboli; in Cesena, Righizzi e Popolo; in Sangeminiano, Ardinghelli e Salvucci; in Sansepolcro, Graziani e Goracci contro Pichi e Righi; in Acqui, i Blesi e i Bellingeri.... A Savigliano erano ghibellini i Cambiano, i Soleri, i Galateri; in Alba, capi dei Guelfi i Graffagnini; e così via.
265. G. Villani, v. 9. — In diebus meis vidi plusquam quinquies expulsos stare milites de Papia, quia populus fortior illis erat. Ventura, Chron. Astense, cap. VIII. Rer. It. Scrip., XI.
266. Chron. Astense, cap. XVII. — Savioli, Ann. bologn. ad ann. — G. Villani, ix. 213.
267. Dicevansi i Senesi il popolo più orgoglioso della Toscana e vendicativo; di malafede i Romagnuoli; volubili e impazienti i Genovesi: i Milanesi pacchioni ecc. San Bernardo nel 1152 scriveva: Quid tam notum sæculis quam protervia et fastus Romanorum? gens insueta paci, tumultui assueta, gens immitis et intractabilis usque adhuc, subdi nescia nisi quum non valet resistere. De consideratione, IV. 2. Basta legger Dante per raccorvi ingiurie contro ciascuno de’ nostri popoli.
268. Avverti la distinzione tra i Ferraresi e il Comune di Ferrara. Ant. Estensi, part. I. c. 39.
269. Il carroccio di Cremona chiamavasi Gajardo; quel di Padova, Berta; quel di Parma, Crepacuore o Regoglio ecc.
270. Vedi spesso il Machiavelli, che dice come le guerre prima de’ suoi dì «si cominciavano senza paura, trattavansi senza pericolo, finivansi senza danno»; lib. V. Anche il Guicciardini dice la battaglia del Taro «memorabile, perchè fu la prima che da lunghissimo tempo in qua si combattesse con occisione e col sangue in Italia». E più umanamente il buon Muratori narra d’una battaglia del 1469, importante «ma con uccisione di pochi perchè in questi tempi gli Italiani faceano guerra non da barbari ma da cristiani, e davano quartiere a chiunque non potendo resistere si arrendeva».
271. Chron. Ferrariæ, Rer. It. Scrip., VIII.
272. Chi ricorda le colonie civilizzanti e lavoratrici che proponevano i Sansimoniani nel 1833, e i Falansteri di Fourier predicati dopo il 1840, ne troverà già il modello nei Cistercensi. Dove era il grosso dei loro possessi doveva porsi una colonia di frati conversi, diretti da un professo, il quale era come il fattore di tutta la grancia o cascina. Egli dava il segno quando dovessero uscire al lavoro, egli distribuiva ad essi i ferri del mestiere, egli ne fissava le funzioni di armentiero, carrettiere, zappatore, boaro, e così via. Non doveva accettarsi frate se non chi potesse guadagnarsi il vivere colle proprie mani. I conversi non doveano tenere alcun libro, nè imparar altre preci che il pater, il credo e il miserere. Chi avesse dei fondi male andati chiamava una colonia di Cistercensi a rimetterli in essere: così Rainaldo arcivescovo di Colonia, ch’era venuto a portarci guerra col Barbarossa, avendo trovato la sua prebenda in disordine, chiamò di tali frati, qui et curtibus præessent, et annuos redditus reformarent.
Il monastero di Chiaravalle fu fondato nel 1135 con tenuissime rendite, ma i monaci lavorando, comprando principalmente i zerbi cioè incolti, e prendendo a livello, ebber in breve quattro buone possessioni: indi acquistarono il fondo di Cerreto nel Lodigiano, e Morimondo nel Pavese, e altri. A Chiaravalle, sopra uno spazio di tre pertiche appena, si incrocicchiano ben sette acquedotti artifiziali. Fin del 1138 ci resta un contratto, ove quei monaci compravano alquanti zerbi da un Giovan Villano col diritto di trarre acqua dalla Vetabia, e di potere all’uopo fare fossati traverso ai poderi d’esso Villano e una chiusa: ut monasterium possit ex Vectabia trahere lectum, ubi ipsum monasterium voluerit: et si fuerit opus, liceat facere eidem monasterio fossata super terram ipsius Johannis ab una parte vie et ab alia, et possit firmare et habere clusam in prato ipsius Johannis, etc. Di simil tenore molte carte sono addotte nelle Memorie Longobardiche Milanesi, e massime per l’acquisto delle acque d’un fosso che i Milanesi aveano fatto attorno alla città, obbligandosi di tenerlo spurgato. Fin d’allora vi riscontriamo tutti gli artifizj presenti di paratoje, stravacatori, salti di gatto, bocchelli, incastri; insegnarono essi l’economica distribuzione per ore, vendendo e affittandone il diritto. Coltivavano anche la vigna, e tutti gli storici nostri menzionano una botte di 500 brente di vino, ch’essi distribuivano in elemosina. Prati marcidi son mentovati in carte del 1233 e 35 e 54.
È un dovere il rammentare al secolo gaudente le opere di quei poltroni di frati (nota tratta dalla Storia di Milano del Cantù).
273. Affò, Storia di Parma, tom. II. p. 249. Anche più tardi Amedeo VIII di Savoja faceva doni a un eremita che s’occupava di mantenere le strade presso Ginevra, ed altri a un canonico che fondò la strada da Meillery a Bret. V. Cibrario, Economia polit., 363. Una supplica sporta il 5 aprile 1317 alla Signoria di Firenze comincia: Cum fratres Sancti Salvatoris de Septimo et fratres Humiliatorum omnium Sanctorum de Florentia, olim et hodie multipliciter servierint et quotidie serviant communi et populo florentino in omnibus quæ ipsi communi expediunt etc.
274. «E tutte le creature appellava fratelli e sirocchie, dicendo che tutti aveano uno cominciamento da un medesimo creatore e padre». Vite de’ Santi Padri. — Fratres mei aves, multum debetis laudare Creatorem.... Sorores meæ hirundines... Segetes, vineas, lapides et silvas, et omnia speciosa camporum, terramque et ignem, aerem et ventum, ad divinum movebat amorem.... Omnes creaturas fratris nomine nuncupabat, frater cinis, soror musca. Tom. Celano suo discepolo. Acta SS. octobris. Vedi i Fioretti di san Francesco, uno de’ più ingenui libri del nostro Trecento.
275. È particolarità notevole nei frati questa venerazione per le opere di Dio, e la custodia delle piante storiche. Abbiamo già accennato l’albero di san Benedetto a Napoli: a Roma si sta volentieri al rezzo di quello ove san Filippo Neri col bello educava alla virtù i giovani del suo Oratorio: ivi pure a Santa Sabina additano un arancio piantato da san Domenico: uno da san Tommaso d’Aquino a Fondi. Se Aristotele o Teofrasto scrivessero ora la storia naturale, non dimenticherebbero queste particolarità.
276.
Nullo donca oramai più mi riprenda,
Se tal amore mi fa pazzo gire.
Già non è core che più si difenda...
Pensi ciascun come cor non si fenda,
Fornace tal come possa patire....
Data m’è la sentenza
Che d’amore io sia morto;
Già non voglio conforto
Se non morir d’amore....
Amore, amore, grida tutto il mondo;
Amore, amore, ogni cosa clama...
Amore, amor, tanto pensar mi fai;
Amore, amore, nol posso patire;
Amore, amore, tanto mi ti dai;
Amore, amore, ben credo morire;
Amore, amore, tanto preso m’hai;
Amore, amore, fammi in te transire;
Amor, dolce languire;
Amor mio desioso,
Amor mio dilettoso,
Annegami d’amore.
Amor, amor, Jesù son zonto a porto;
Amor, amor, Jesù dammi conforto;
Amor, amor, Jesù sì m’ha infiammato;
Amor, amor, Jesù io sono morto...
Amor, amor, per te sono rapita;
Amor, amor, viva, non me dispregia;
Amor, amor, l’anima teco unita;
Amor, tu sei sua vita,
Jam non se po’ partire,
Perchè la fai languire,
Tanto struggendo amore.
277. Ap. Joh. Lucium, De regno Dalmatiæ, pag. 338; e Ghirardacci, Storia di Bologna, lib. V.
278. Impugnationis arma secum fratres non deferant nisi pro defensione romanæ ecclesiæ, christianæ fidei, vel etiam terræ ipsorum. Cap. VII.
279. Guitton d’Arezzo scriveva di san Francesco:
Cieco era il mondo, tu failo visare;
Lebbroso, hailo mondato;
Morto, l’hai suscitato;
Sceso ad inferno, failo al ciel montare.
Dante ne pone un magnifico elogio in bocca a san Tommaso e san Bonaventura nel X e XI del Paradiso.
280. Landulfi Senioris Historia Mediolani, II. 27.
281. Multa petebant instantia prædicationis auctoritatem sibi confirmari. Stefano di Borbon ap. Giesler, pag. 510.
Che il nome di Valdesi derivi da Pietro Valdo, lo smentirebbe il trovarlo in un manoscritto della Noble leçon di Cambridge che si suppone del 1100, cioè prima di esso Valdo, ove leggesi in provenzale:
Que non vollìa maudire, ni jurar, ni mentire,
Ni ahountar, ni ancire, ni prenre de l’autrui,
Ni venjar se de li sio ennemie,
Illi disent quel és Vaudés, e degne de murir.
Forse viene dal tedesco wald foresta. — Cataro in greco vuol dire puro, e forse presero tal nome per la pretesa innocente vita. Sant’Agostino già chiama cataristi i Manichei, De hær. Manich. I Tedeschi chiamano ancora ketzer gli eretici. — Patarini furon detti da pati, perchè ostentavano penitenza; o dal pater, che era la loro preghiera. In una costituzione di Federico II leggesi: In exemplum martyrum, qui pro fide catholica marthyria subierunt, Patarenos se nominant, veluti expositos passioni. Ed anche le Assise di Carlo I portano nel francese d’allora: Li vice de ceaus son coneu par leur anciens nons, et ne veulent mie qu’il soient apelé par leur propres nons, mais s’apellent Patalins par aucune excellence, et entendent que Patalins vaut autant comme chose abandonnée à soufrir passion en l’essemble des martyrs, qui souffrirent torment pour la sainte foy.
Con infiniti nomi se ne indicavano le varie sêtte, de’ Gazari, Arnaldisti, Giuseppini, Leonisti, Bulgari (da cui il bougre dei Francesi, e il bolgiron de’ Lombardi), Circoncisi, Publicani, Insabbatati, Comisti (che alcuno volle chiamati così da Como), Credenti di Milano, di Bagnolo, di Concorezzo, Vanni, Fursci, Romulari, Carantani....
282. Così il Vignerio, reputato dai Protestanti restauratore della storia ecclesiastica. Bibliotheca historica, addiz. alla P. II. p. 313. Anche frà Ranerio Saccone dà per origine delle chiese di Francia e d’Italia quelle di Bulgaria e Drungaria.
«Quando i Valdesi si separarono da noi, ben pochi dogmi avevano contrarj ai nostri, o forse nessuno». Bossuet, Hist. des variations, lib. XI. — E fra Ranerio Saccone: Cum omnes aliæ sectæ immanitate blasphemiarum in Deum audientibus horrorem inducant, hæc magnam habet speciem pietatis, eo quod coram hominibus juste vivant, et bene omnia de Deo credant, et omnes articulos qui in symbolo continentur observent; solummodo romanam ecclesiam blasphemant et clerum. Corrado Uspergense dice che papa Lucio li condannò per alcuni dogmi ed osservazioni superstiziose. Claudio di Seyssel arcivescovo di Torino dichiarò irriprovevole la loro vita: locchè a Bossuet pare una nuova seduzione del demonio.
Moltissimi autori ne scrissero: e dopo tornati i suoi re al Piemonte nel 1814, qualche inquietudine fu data ai Valdesi rifuggiti nelle valli subalpine; onde i re di Prussia ed Inghilterra porsero ad essi soccorso. Allora varj Inglesi andarono a visitarli, e ne uscirono diversi scritti, quali sono Authentic details of the Valdenses in Piedmont and other countries, with abridged translations of L’histoire des Vaudois par Bresse, and La rentrée glorieuse d’Henri Armand; with the ancient Valdesian catechism; to which is subjoined original letters, written during a residence among the Vaudois of Piedmont and Würtemberg in 1825. Londra.
Gilly, Narrative of an excursion to the mountains of Piedmont in the year 1823, and researches among the Vaudois or Waldenses protestants inhabitants of the Cottien alpes. With maps. Londra 1820.
Jones, The history of the Christian Church, including the very interesting account of the Waldenses and Albigenses, 2 vol.
Lowthec’s Brief observations on the present state of the Waldenses. 1825.
Acland, A brief sketch of the history and present situation of the Vaudois. 1826.
Allix, Some remarks upon the ecclesiastical history of the ancient churches of Piedmont.
Recherches historiques sur la véritable origine des Vaudois. Parigi 1836. È cattolico.
Peyrun, Notice sur l’état actuel des églises vaudoises. Ivi, 1822. Li sostiene coevi del cristianesimo.
A. Muston, Hist. des Vaudois des vallées du Piémont. 1834.
L’Israel des Alpes, ou les Martyrs vaudois li fa oriundi da Leone, che nel IV secolo si separò da papa Silvestro, quando questi accettò beni temporali da Costantino.
283. Abbiamo consultato in proposito moltissime opere e diversi manoscritti e processi. Il cremonese Moneta, uom dissoluto, sentendo predicare in Bologna Reginaldo d’Orléans, si convertì, e fatto inquisitor della fede a Milano il 1220, tamquam leo rugiens si scagliò contro le eresie, e scrisse una Summa theologica, grosso volume in-foglio, edito a Roma il 1743 dal padre Tommaso Agostino Richino col titolo Venerabilis patris Monetæ Cremonensis, ordinis Prædicatorum, sancto patri Dominico æqualis, adversus Catharos et Valdenses libri quinque. Il Saccone, dopo stato cataro diciassett’anni, si convertì, e li perseguitò come vedremo; e la sua Summa de Catharis et Leonistis, sive Pauperibus de Lugduno fu inserita nel Thesaurus novus anecdotorum dei PP. Martène e Durand, Parigi 1717, tom. V. In questa Summa trovo menzionato un volume di dieci quaderni, in cui Giovanni di Lugio avea deposti i suoi errori. Buonaccorso, già vescovo dei Catari in Milano, li confutò nella Manifestatio hæreseos Catharorum: è nello Spicilegio del padre d’Achery, tom. I. p. 208 del 1723. Nel suddetto Thesaurus vedasi pure una dissertatio inter Catholicum et Patarinum; e l’opera di frà Stefano di Bellavilla inquisitore.
Questo punto si attacca a opinioni ridestatesi ai giorni nostri sul comunismo, onde molto se ne parlò di recente, e noi di proposito ne abbiamo trattato negli Eretici d’Italia.
284. Il domenicano Sandrini, che potè a sua posta indagare gli archivj del Sant’Uffizio in Toscana, scrive: — Per quanto io abbia cercato ne’ processi eretti da’ nostri frati, non ho trovato che gli eretici Consolati in Toscana passassero ad atti enormi, e che si commettesse mai da loro, massime tra uomini e donne, eccesso di senso; onde, se i frati non si tacquero per modestia, il che non mi par credibile in uomini che abbadavano a tutto, i loro errori erano, più che di sensualità, d’intelletto». Ap. Lanzi, Lezioni di antichità toscane, XVII.
285. Monetæ Summa.
286. Due ne pubblicò Costantino contro gli eretici, uno Valentiniano I, due Graziano, quindici Teodosio I, tre Valentiniano II, dodici Arcadio, diciotto Onorio, dieci Teodosio II, e tre Valentiniano III, tutti inseriti nel codice Giustinianeo.
287. Late patet Dei clementia, qui, pulso infidelitatis errore, veritatem fidei suis fidelibus patefecit: justus enim ex fide vivit, qui vero non credit, jam judicatus est. Nos igitur, qui gratiam fidei in vanum non recipimus, omnes non recte credentes, qui lumen fidei catholicæ hæretica pravitate in imperio nostro conantur extinguere, imperiali volumus severitate puniri, et a consortio fidelium per totum imperium separari; præsentium tibi auctoritate mandantes, quatenus hæreticos Valdenses et omnes qui in Taurinensi diœcesi zizaniam seminant falsitatis, et fidem catholicam alicujus erroris seu pravitatis doctrina impugnant, a toto Taurinensi episcopatu imperiali auctoritate expellas; licentiam enim, auctoritatem omnimodam, et plenam tibi conferimus potestatem, ut, per tuæ studium sollicitudinis, Taurinensis episcopatus area ventiletur, et omnis pravitas, quæ fidei catholicæ contradicit, penitus expurgetur. Ap. Gioffredo, Storia delle Alpi Marittime al 1209.
288. Höffler pubblicò (Kaiser Friedrich II, ein Beytrag etc. Monaco 1844) nuove lettere di Federico II, fra cui la seguente a papa Gregorio IX, relativa all’inquisizione ereticale:
Celestis altitudo consilii, que mirabiliter in sua sapientia cuncta disposuit, non immerito sacerdotii dignitatem et regni fastigium ad mundi regimen sublimavit, uni spiritualis et alteri materialis conferens gladii potestatem, ut hominum ac dierum excrescente malitia, et humanis mentibus diversarum superstitionum erroribus inquinatis, uterque justitie gladius ad correctionem errorum in medio surgeret, et dignam pro meritis in auctores scelerum exerceret ultionem.... Quia igitur ex apostolice provisionis instantia, qua tenemini ad extirpandam hereticam pravitatem, potentiam nostram ad ejusdem heresis exterminium precibus et monitionibus excitatis; ecce ad vocem virtutis vestre, zelo fidei quo tenemur ad fovendam ecclesiasticam unitatem gratanter assurgimus, beneplacitis vestris devotis affectibus concurrentes, illam diligentiam et sollicitudinem impensuri ad evellendum et dissipandum de predictis civitatibus pestem heretice pravitatis, ut auctore Deo, cui gratum inde obsequium prestare confidimus ac vestris coadjuvantibus meritis, nullum in eis vestigium supersit erroris, ac finitimas et remotas quascumque fama partes attigerit, inflicta pena perterreat, et omnibus innotescat nos ardenti voto zelare pacem Ecclesie, et adversus hostes fidei ad gloriam et honorem matris Ecclesie ultore gladio potenter accingi. Dat. Tarenti XXVIII febr. indict. IV.
In un’altra lettera esso Federico insiste con nuovo fervore per la repressione degli eretici: Ut regi regum, de cujus nutu feliciter imperamus, quanto per eum hominibus majora recipimus, tanto magnificentius et devotius obsequamur, et obedientis filii mater Ecclesia videat devotionem ex opere pro statu fidei christiane, cujus sumus tamquam catholicus imperator precipui defensores, novum opus assumpsimus ad extirpandam de regno nostro hereticam pravitatem, que latenter irrepit et tacite contra fidem. Cum enim ad nostram audientiam pervenisset, quod, sicut multorum tenet manifesta suspicio, partes aliquas regni nostri contagium heretice pestis invaserit, et in locis quibusdam occulte latitant erroris hujusmodi semina rediviva, quorum credidimus per penas debitas extirpasse radices, incendio traditis, quos evidens criminis participium arguebat; providimus ut per singulas regiones justitiarias cum aliquo venerabili prelato de talium statu diligenter inquirant, et presertim in locis, in quibus suspicio sit hereticos latitare, omni sollicitudine discutiant veritatem. Quidquid autem invenerint, fideliter redactum in scriptis, sub amborum testimonio serenitati nostre significent, ut per eos instructi, ne processu temporis illic hereticorum germina pullulent, ubi fundare studemus fidei firmamentum, contra hereticos, et fautores eorum, si qui fuerint, animadversione debita insurgamus. Quia vero supradicta vellemus per Italiam et Imperium exequi ut sub felicibus temporibus nostris exaltetur status fidei christiane, et ut principes alii super his Cesar em imitentur; rogamus beatitudinem vestram quatenus ad vos, quem spectat relevare christiane religionis incommodum, ad tam pium opus et officii vestri debitum exequendum diligentem operam assumatis, nostrum si placet efficaciter coadjuvandum propositum, ut de utriusque sententia gladii, quorum de celesti provisione vobis ac nobis est collata potentia, subsidium non dedignatur alternum, hereticorum insania feriatur, qui in contemtum divine potentie extra matrem Ecclesiam de perverso dogmate sibi gloriam arroganter assumunt. Messine XV jul. indict. VI.
289. Constitutio Inconsutilem; Const. De receptoribus, lib. I, — Una lettera d’Onorio III papa alle città lombarde 1226 (Raynaldi, ad an. Nº 26) dice che «l’imperatore gli recò lamento perchè esse città l’avessero impedito di procedere come si era proposto contro l’eresia».
290. Raynaldi, ad 1231. — Corio, part. II. f. 72.
291. Per ussit: è in piazza de’ Mercanti. Ma Galvano Fiamma, frate, cronista di retto senso, dice: In marmore super equum residens sculptus fuit, quod magnum vituperium fuit. Il Frisi, nelle Mem. di Monza, II. 101, reca gli statuti dell’arcivescovo Leon da Perego e dell’arciprete di Monza contro gli eretici.
292. Cap. XXXI De simonia; cap. XXIV De accusationibus.
293. Cap. fin. De hæreticis.
294. Bergier, Dictionnaire théol., voc. Inquisition. Gli enciclopedisti rimproverano all’Inquisizione spagnuola d’avere abusato «nell’esercizio d’una giurisdizione, in cui gl’italiani suoi inventori usarono tanta dolcezza».
295. Per dire un caso fra cento, nel 1220 i Trevisani diedero il guasto alle diocesi di Ceneda e di Feltre e Belluno; e dell’ultima uccisero anche il vescovo.
296. Bolland., tom. X, Vita s. Petri Parens.
297. Regesta, num. 123. 124, e pag. 130. lib. X.
298. Giachi, App. alle Ricerche storiche di Volterra.
299. Archivio dipl. fiorentino.
300. Ricardi S. Germani, Chron. ad ann. 1232.
301. Ap. Mattia Paris ad 1243.
302. Firenze serba molte memorie di que’ fatti. Sulla facciata dell’uffizio del Bigallo, rimpetto a San Giovanni, due affreschi di Taddeo Gaddi figurano san Pietro martire quando a dodici nobili fiorentini dà lo stendardo bianco colla croce rossa per tutela della fede. San Pietro fu deposto in altro magnifico arco in Sant’Eustorgio a Milano coll’epitafio scritto da san Tommaso:
Præco, lucerna, pugil Christi, populi fideique.
Hic silet, hic tegitur, jacet hic mactatus inique
Vox ovibus dulcis, gratissima lux animorum,
Et verbi gladius, gladio cecidit Catharorum etc.
303. Chron. parmense nei Rer. It. Scrip., IX.
304. Fr. Christ. Schlosser, Abelardo e Dolcino; vita ed opinioni d’un entusiasta e d’un filosofo. Gota 1807. — C. Baggiolini, Dolcino e i Patareni. Novara 1838. — Julius Krone, Frà Dolcino und die Patarener, historische Episode aus den piemontesischen Religionskriegen. Leipzig 1844.
305. Martène e Durand, Collect. ampl., III. 304.
306. Furono espresse con questo barbaro distico:
Gram. loquitur: dia. vera docet: rhet. verba colorat:
Mus. canit: ar. numerat: geo. ponderat: ast. colit astra.
Meno rozzamente le compendiò l’Ostiense, Summ. lit. de magistris:
Grammatica. | Quidquid agunt artes, ego semper prædico partes. |
Dialectica. | Me sine, doctores frustra coluere sorores. |
Rhetorica. | Est mihi dicendi ratio cum flore loquendi. |
Musica. | Invenere locum per me modulamina vocum. |
Geometria. | Rerum mensuras, et rerum signo figuras. |
Arithmetica. | Explico per numerum quid sit proportio rerum. |
Astronomia. | Astra viasque poli vindico mihi soli. |
307. Ab annis puerilibus eruditus est in scholis liberalium artium et legum secularium, ad suæ morem patriæ. Milone Crispino, Vita Lanfr., cap. V.
308. Præfatio ad Monologium.
309. Veritas intellectus est adæquatio intellectus et rei, secundum quod intellectus dicit esse quod est, vel non esse quod non est. Adv. gent., I. 49. I.
310. «Errano molti credendosi nobili perchè di nobile casato; il qual errore in molti modi può ribattersi. E primieramente, se si consideri la causa creatrice, Iddio col farsi autore di nostra schiatta, la nobilita tutta; se la causa seconda è creata, i primi padri da cui discendiamo sono gli stessi per tutti, tutti ne ricevettero egual nobiltà e natura. La medesima spica dà il fior di farina e la crusca; questa gettasi ai porci, quella sale alla mensa dei re; così dal medesimo tronco potran nascere due uomini, uno vile, nobile l’altro. Se ciò che viene da un nobile ne ereditasse la nobiltà, gl’insetti del suo capo e le naturali superfluità in lui generate diverrebbero nobili del pari. Bello è il non deviare dagli esempj de’ nobili avi, ma più bello l’avere illustrato un umile nascimento con grandi azioni. Ripeto dunque con san Girolamo, che in questa nobiltà pretesa ereditaria nulla merita invidia, se non l’essere i nobili obbligati alla virtù per vergogna di dirazzare. Nobiltà vera è quella sola dell’anima».
311. Infidelium quidam sunt qui nunquam susceperunt fidem, sicut Gentiles et Judæi; et tales nullo modo sunt ad fidem compellendi ut ipsi credant, quia credere voluntatis est; sunt tamen compellendi a fidelibus, si adsit facultas, ut fidem non impediant vel blasphemiis, vel malis persuasionibus, vel etiam apertis persecutionibus. Et propter hoc fideles Christi frequenter contra infideles bellum movent etc. Summa, 2a 2æ, quæst. X, art. 8.
312. Ogni dono perfetto, secondo lui, viene dal padre dei lumi, e per quattro vie: l’esteriore che rischiara le arti meccaniche, l’inferiore che produce le nozioni sensitive, l’interna o cognizione filosofica, e quella della santa scrittura. La prima si propone di soddisfare i bisogni corporei, divisa nelle sette arti del tessere, fabbricare armi, caccia, agricoltura, navigazione, drammatica, medicina. La seconda illumina le forme esteriori; e lo spirito, luminoso per sua natura, risiede nei nervi, la cui essenza si moltiplica ne’ cinque sensi. La cognizione filosofica cerca le cause segrete per via dei principj di verità, insiti nella natura dell’uomo, le quali si riferiscono o alle parole o alle cose o ai costumi, onde la filosofia è o razionale o naturale o morale: la razionale è grammatica, o logica, o retorica; la naturale comprende fisica, matematica e metafisica; la morale è personale, economica o politica, secondo che concerne l’uomo, la famiglia o lo Stato. Le cose eccedenti la ragione sono manifestate all’uomo dalla luce superna della Grazia e della rivelazione; e come le cognizioni tutte derivano dalla luce stessa, così sono ordinate alla scienza delle verità sante, e da esse perfezionate.
313. Fu un vezzo della scuola l’attribuire un aggettivo caratteristico ai varj dottori. Così san Tommaso fu detto l’angelo della scuola; san Bonaventura il serafico; Duncano Scoto il sottile; Ockam il singolare; Enrico di Gand il solenne; Egidio di Roma il fondatissimo; Alano dell’Isola l’universale; Ruggero Bacone l’ammirabile; Guglielmo Durand il risolutissimo; Middleton il solido, o l’autentico; Pier Lombardo il maestro delle sentenze, ecc.
314. Questa scuola può dirsi scoperta da Merkel nella Geschichte des Langobardenrechts. Berlino 1850.
315. Del 752 si ha una causa del vescovo d’Arezzo contro quello di Siena; dove spesso è citato il Digesto: Si hoc vendicare neglexerint, infamia laborare, ut in Codicis libro IX, tit. de sepulcro violato, Si quis sepulcrum lesurus etc.... Item in VIII libro Codicis legitur Si quis in tanta furoris etc.... Quod autem hæc quæstio procedere debeat, IX Codicis liber testatur, titulo ad legem Juliam de vi publica et privata, Si quis ad se etc.
Il Muratori, Antiq. M. Æ., XLIV, pubblica una carta del 767 affatto guasta, in cui al monastero di Santa Maria in Cosmedin a Ravenna si donano molti beni, promettendo l’evizione, rinunziando per sè e suoi legum beneficia, juris et facti ignorantia, foris locisque, prescriptione alia, senatoconsulto (probabilmente il SC. Vellejano, l. XVI, § 1) quod de mulieribus prestitit.
316. Alcuno assegna a lui anche le Autentiche, cioè gli estratti delle Novelle, deroganti le costituzioni imperiali, che trovansi ne’ manoscritti del Codice, e che furono citate e seguite come leggi; e pare in effetto che le più siano da attribuire a lui, e fossero poi cresciute da’ suoi successori, fino ad Accursio che ne chiuse la serie.
317. Si narra che alcuni muratori stando a lavorare, gridavano ai passeggieri di guardarsi. Uno non badò all’avviso, e rimase colpito da una pietra; di che portò querela. Pillio consigliò i querelati di non rispondere; talchè i giudici li rimandavano per muti, quando l’accusatore uscì ad esclamare: — Come muti, se mi hanno gridato di guardarmi?» Tanto bastò a mandarli assolti. Storiella da scolari, come se ne suole inventare tante anche al nostro tempo.
318. Secondo Cujacio (De feud., lib. I), la consuetudine variava fra le città: a Milano, Cremona, Pavia il vassallo poteva alienare il feudo senza consenso del signore, mentre era indispensabile a Mantova e Verona; in Piacenza chi investiva altri d’un feudo trasmissibile al successore, non poteva toglierlo finchè viveva; a Milano e Cremona sì. Le consuetudini della Puglia e Sicilia in tal materia si conservavano in libri chiamati Defetarj, che perirono sotto Guglielmo I, ma a memoria li supplì Matteo Notaro. Giannone, XIII. 3.
319. Dopo i varj tentativi, anche per ordine ed opera dei pontefici, il torinese Sebastiano Berardi stampò a Venezia nel 1777 Gratiani canones genuini ab apocryphis discreti; corrupti ad emendatiorum codicum fidem exacti; difficiliores commoda interpretatione illustrati.
320. Lib. I, pr. D. de quæst.: Cum capitalia et atrociora maleficia non aliter explorari possunt quam per servorum quæstiones, efficacissimas eas esse ad requirendam veritatem existimo, et habendas censeo. Papa Nicola I, in una lettera ai Bulgari di recente convertiti, la riprova, come avrebbe potuto fare il Beccaria nove secoli appresso: — So che, preso un ladro, con tormenti lo cruciate finchè palesi: ma nessuna umana o divina legge il concede, dovendo la confessione venire spontanea, non istrapparsi a forza, ma proferirsi volontariamente. Se, inflitte quelle pene, nulla non iscoprite di ciò ond’è imputato, non arrossite? non v’appare l’iniquo vostro giudizio? E se alcuno, non reggendo ai tormenti, si confessi colpevole senz’essere, di chi è l’empietà se non di colui che lo forza a confessare mendacemente? Lasciate dunque, ed esecrate tali usi».
321. Nello statuto che Giordano, abbate del monastero di sant’Elena, dava al castello di Montecalvo nel 1190, erano proibiti i giudizj di Dio, e assicurata la libertà personale, non dovendo uno essere catturato se non in forza di giudizio, e potendo esimersene col dare una garanzia: Nemo Montiscalvi judicium ferri fervidi et aquæ calidæ, vel pugnam facere debet. Nemo habitator Montiscalvi capi debet antequam judicetur: ac si judicatus fuerit, capi non debet si fidejussorem dare potuerit, præter in gravioribus culpis, de quibus corporaliter judicatur. Insuper nihil in eodem castro sine judicio capi debet. È precisamente la legge inglese dell’Habeas corpus. V. Tria, Mem. storiche della città e diocesi di Larino.
322. Capit. II De probat. nelle Decretali di Gregorio IX. E per quel che segue vedi i titoli De indiciis et de libellis oblat.; De off. et pot. jud. deleg.; De foro comp. Vedi pure Rocco, Jus canonicum ad civilem jurisprudentiam perficiendam quid attulerit. Palermo 1839.
323. Se v’è alcuno che nel secolo nostro abbia conservato tutti i rancori e le prevenzioni del secolo passato contro l’ordinamento ecclesiastico, è Guglielmo Libri. Pure scrive: A la chûte de l’empire romain l’Eglise devint dépositaire de la civilisation de l’Europe, et préchant l’évangile aux envahisseurs, elle adoucit les mœurs des plus farouches, et leur enseigna la charité. Par l’influence de la religion, ils apprirent les éléments des lettres latines, et s’habituèrent à vénérer en Rome, même après l’avoir asservie, la capitale de la chrétienté. Les pieux missionnaires qui parcouraient alors l’Occident, représentaient un ordre social bien moins imparfait que tout ce qui existait chez les barbares; et leur parole désarmée descendant sur des hommes qui semblaient destinés à faire de l’Europe un immense tombeau, les arrêta, les subjugua, leur inspira l’amour du prochain, qui était pour eux la plus nécessaire des vertus. Ce fut le plus beau temps du christianisme.... qui fut plus vénérable, plus sublime aux jours de lutte et d’adversité, que dans ses temps de puissance et de splendeur (Hist. des sciences mathématiques en Italie; vol. IV. p. 2). Di qui passa a sostenere la nimicizia della Chiesa per qualunque scienza, eccetto il catechismo; e che ai Musulmani è dovuto il risorgimento del sapere: Les Arabes ont semé partout les germes de la civilisation.... partout la civilisation arabe communique aux esprits une nouvelle activité... ils ont été les maîtres en tout des chrétiens; essi fecero in pochi anni quel che la Chiesa non aveva saputo in molti secoli.
324. Gli ultramontani erano Gallia, Portogallo, Provenza, Inghilterra, Borgogna, Savoja, Guascogna, e Alvernia, Bituria, Turena, Castiglia, Aragona, Catalogna, Navarra, Alemagna, Ungheria, Polonia, Boemia, Fiandra. I citramontani Romagna, Abruzzo e Terra di Lavoro, Puglia e Calabria, la Marca Anconitana inferiore, la superiore, Sicilia, Firenze, Pisa e Lucca, Siena, Spoleto, Ravenna, Venezia, Genova, Milano, Lombardi, Tessalonici (?), Celestini (?). Nel 1848, quando credeasi inventata allor allora l’idea di nazionalità, gli scolari delle università di Germania si organizzarono secondo le nazioni; novità anche questa di seicento anni in data.
Le lezioni versavano sopra le cinque parti del Corpus juris, e ancora ci restano quelle d’Odofredo sulle tre parti del Digesto e sui nove primi libri del Codice. Uno potea fare molti corsi e perciò bastare a moltissimi scolari, ogni corso durando un anno, e ogni adunanza un’ora: poi nel secolo XIV ne fu variata la distribuzione; le tre parti del Digesto e il Codice s’insegnarono simultaneamente da due dottori, da un altro il Volumen, che conteneva gl’Instituti, le Autentiche, il diritto feudale, le leggi imperiali, e i tre ultimi libri del Codice. Più tardi s’introdussero corsi speciali sopra una materia sola; e principalmente a Bologna ne tenevano i notaj per la loro professione, col diritto anche di dottorare.
Ecco il metodo ordinario de’ corsi. Cominciato da un prospetto generale (summa), leggevano il testo sopra cui esercitare la critica; poi chiarivano le difficoltà, le contraddizioni, i casi speciali (casus); riepilogavano le regole generali (brocarda); discutevano i punti dubbj (quæstiones); il qual ordine non toglieva che ciascun professore restasse libero nel metodo e nell’insegnamento; gli scolari poi scrivevano sotto dettatura, liberi d’interrompere e far domande, massime nelle lezioni straordinarie che si davano dopo il pranzo. Dipoi s’introdussero i Quinternetti o glossæ, che da principio eran note, fatte da ciascuno in margine del proprio testo, e perfezionate via via col tempo, e che dopo la morte del maestro venivano cerche con avidità, poichè contenevano il sostanziale della scienza dell’autore; più tardi s’ingrandirono, e da schiarimenti d’una parola divennero un commento. Vi tennero dietro le Quistioni, libri intorno all’ordine giudiziale, trattati sulle azioni, distinzioni, raccolte di controversie, che a gara si ricopiavano. Nelle scuole era determinato su quali libri esercitarsi; e generalmente non si spiegavano in ciascun anno che alcuni testi, con iscapito della profondità e dell’indipendenza.
L’esame privato costava sessanta lire, ottanta il pubblico; ventiquattro al dottore che presentava, e due od una a ciascun dottore assistente, secondo era pubblico o privato; dodici e mezzo all’arcidiacono per ciascun esame, e tre per ciascun discorso. Più spendeasi negli apparati, talchè nel 1311 il papa ordinò che in tal lusso nessuno consumasse di là dalle cinquecento lire.
Ho preso appunto dello stipendio di qualche professore. Guido da Suzzara obbligossi d’interpretare il Digesto a Bologna per lire trecento bolognesi promessegli dagli scolari. Dino da Mugello insegnò a Pistoja per lire ducento pisane annue; poi a Bologna per dieci bolognesi, forse aggiunte alla retribuzione degli scolari: Napoli gli esibì cento oncie d’oro. I frati del Sacco nel 1270 condussero Lapo fiorentino a leggere fisica e logica nel loro convento, per lire trenta bolognesi oltre il vitto; nel 1261 i Vicentini Arnoldo a leggere diritto canonico, per cinquecento lire di stipendio, patto che avesse almeno venti scolari; Aldovrando degli Ulciporzi bergamasco, a leggere l’inforzato per lire cenventi, e per cencinquanta Raulo la medicina. Il Pillio venne ad insegnare diritto civile a Modena per cento marchi d’argento. Tommaso d’Aquino riceveva da Carlo I un’oncia d’oro al mese; nel 1399 in Piacenza Baldo toccava lire censessantaquattro mensili per leggere il Codice, e nel 1397 milleducento annue: Marsilio di Santa Sofia, lire censettanta, compresa la pigione della casa: gli altri, da quattro fin a sessantasei lire al mese. Talvolta gli scolari servivano quasi di paggi ai maestri, tagliando innanzi, versando alla coppa, ecc. Odofredo, oltre le lezioni all’università, ne dava di straordinarie a chi pagasse; ma poco cavandone, finì la spiegazione del Digesto così: — E vi dico che l’anno vegnente intendo insegnare ordinariamente bene e legalmente, come mai non feci; ma straordinariamente non credo leggere, perchè gli scolari non sono buoni pagatori, vogliono intendere e non ispendere, giusta quel dettato Imparar vuole ognun, nessun pagare. Altro non ho a dirvi; ite colla benedizione del Signore». Garzia spagnuolo fu il primo, cui nel 1280 si assegnasse non uno stipendio annuo, ma il capitale di lire cencinquanta: poi nel 1289 al professore di diritto civile si fissarono annue lire cento, e cencinquanta a quel di canonico.
325. E’ la chiama Crisopoli
quia grammatica manet alta
Artes et septem studiose sunt ibi lectæ.
Rer. It. Scrip., V. p. 454.
326. Nell’Archivio diplomatico di Firenze si trovano gli istromenti fatti con Francesco Dataro di Piacenza medico per fiorini cinquecento; con Giorgio d’Arrighetto Nati d’Asti canonista per fiorini quattrocento; con Girolamo della Torre di Verona medico, con Pier Leoni di Spoleto, ecc.
327. A Baldo nel 1397 milleducento fiorini; a Giason del Maino nel 1492 duemila ducencinquanta; all’Alciato dal 1536 al 40 scudi mille, poi dal 1544 al 50 lire settemilacinquecento; a Menochio nel 1589 lire seimila....
328. Vita sancti Meinwerci. Gli stupefacenti e il sonno magnetico che oggi s’adoprano a tali operazioni, obbligano a riflettere su quei racconti, anzichè riderne.
329.
Ova recentia, vina rubentia, pinguia jura,
Cum simila pura naturæ sunt valitura.
Cœna brevis, vel cœna levis fit raro molesta,
Magna nocet, medicina docet, res est manifesta.
Si fore vis sanus ablue sæpe manus:
Lotio post mensam tibi conferet munera bina,
Mundificat palmas, et lumina reddit acuta.
Prima dies maji non carnibus auseris uti.
Ruta viris minuit venerem, mulieribus addit
... Cruda comesta
Ruta facit castum, dat lumen et ingerit astum:
Cocta et ruta facit de pulcibus loca tuta.
330. Sarti, Dei prof. bologn., tom. I. p. 144. — Renzi, St. della Medicina, tom. II.
331. Fioretti, cap. XXIII.
332. Sarti, tom. II. p. 153. — Nelle Assise di Gerusalemme, adottate nei possessi degl’Italiani in Levante, e che del resto rappresentano le consuetudini de’ paesi europei, è stabilito che se uno schiavo s’ammali, e un medico pattuisca col padrone di esso di guarirlo, e gli dia cose calde e mollificanti mentre dovea darne di fredde e restringenti, sicchè muoja, il medico sia obbligato dare un servo simile, o il prezzo che costò fin al giorno della morte: così se gli cavi sangue non a proposito o troppo; o se, essendo idropico, gli tagli il ventre (praticavasi dunque la paracentesi), poi non sappia trargli l’umore, e s’indebolisca e muoja; o se, soffrendo di febbre quotidiana, lo purghi, e gli dia troppa scamonea, e svuoti il ventre sin a morire. Se uno schiavo abbia la lebbra o rogna o altra malattia, e il medico s’accordi di guarirlo a patto che metà del valor di esso sia del medico, metà del padrone, e faccia quanto sa ma nol guarisca, non è obbligato a pagarlo, avendo perduto le proprie fatiche. Se così avvenga a un libero o a una libera, il medico sarà impiccato, dopo mandatolo per la terra frustandolo con un urinal in man per spaurir li altri de simel caso, e i suoi beni confiscati dal signore del luogo. Nessun medico venuto di fuori possa esercitare l’arte sua se non riconosciuto abile dagli altri medici e dal vescovo; altrimenti sia frustato per la terra.
333. Saba Malaspina, Hist., cap. II.
Federico II, fra gli altri spauracchi alla Corte romana, credette opporvi pure l’astrologia, e fe circolare tali versi:
Fata monent, stellæque docent, aviumque volatus
Quod Federicus ego malleus orbis ero.
Roma diu titubans, variis erroribus acta,
Concidet et mundi desinet esse caput.
Colla calma della ragione gli fu risposto:
Fata silent, stellæeque tacent, nil predicat ales;
Solius est proprium scire futura Dei.
Niteris incassum navem submergere Petri;
Fluctuat et nunquam mergitur ista ratis.
Quid divina manus possit, sensit Julianus;
Tu succedis ei: te tenet ira Dei.
Jordani, Chron., cap. 221.
334. Negli Atti dell’Accademia de’ nuovi Lincei, 1851, trovo notizie intorno a Gherardo Cremonese, per B. Boncompagni, raccolta paziente di quanto di lui si ha o si disse, ma nè esame nè giudizio. Importante è un brano inedito di traduzione d’un trattato d’algebra che, se non il più antico, è de’ primi ove fosse insegnata agli Europei questa scienza del raziocinio generale per via della lingua simbolica. Ivi si trova anche il segno negativo, mentre gli Arabi, e così il Fibonacci, non conosceano che quantità positive; eppure si tardò trecento anni a dedurne l’utilissima applicazione, cioè fino a Michele Stifel. La soluzione delle equazioni di secondo grado vi è espressa con questi versi:
Cum rebus censum si quis dragmis dabis equum
Res quadra medias quadratum adjice dragmas,
Radici quorum medias res excipe demum,
Residuum quæsti census radicem ostendet.
Non v’è chi non sappia che dagli algebristi per cosa s’intendeva l’incognita, per censo il quadrato, per numero il noto; onde coi simboli moderni si costruirebbe:
x2 + px = q
Donde x = -1⁄2 p + √(1⁄4 p2 + q).
Seguono gli altri casi: e ognuno vede che con ciò trovasi prevenuto frà Luca Paciolo.
Ai dilettanti di tale scienza non isgarberà veder qui un problema e la sua soluzione.
Quæritur quænam sint illæ partes denarii, quarum differentia, juncta tetragonis earundem, collige 54.
Sit una partium res, altera 10 minus re (cioè x, e 10 - x). Differentia 10 minus duabus rebus, ex qua 2 partium tetragonis conjunctis colligantur 100, et 2 census minus 20 rebus, quæ data sunt æqualia 54 (cioè x2 + (10 - x2) + 10 - 2 x = 54). Per restaurationem itaque rerum, 2 census cum 100 equivalent 54 et 22 rebus (cioè 3 x2 + 110 = 54 + 22 x). Per ejectionem vero abundantis numeri 56 et 2 census, 22 rebus adæquantur (cioè 2 x2 + 56 = 22 x). Et per conversionem unus census cum 28 æquentur 11 rebus (cioè x2 + 28 = 11 x). Resolve per quintum modum, et re erit 4.
Cioè x = 1⁄2 11 ± √9⁄4
= 5⁄2 ± 3⁄2
onde i due valori
x = 2
x = 4.
L’autore indica solo quest’ultimo.
Se non isbaglio, ivi è un tentativo di rappresentare le quantità per lettere, come noi usiamo. Perocchè, dove cerca qualiter figurentur census radices et dragmæ, insegna: Numero censum litera c, numero radicum litera r; deorsum virgulas habentes, subterius apponantur. Dragmæ vero sine literis virgulas habeant, quotiens hæc sine diminutione proponuntur. Verbi gratia, duo census, tres radices, quatuor dragmæ sic figurentur
2 | 3 | 4 |
c | r | d |
Qui | 2 | equivale | al nostro | 2 x2 |
c | ||||
» | 3 | » | a | 3 x |
r | ||||
» | 4 | » | al numero | 4 |
d |
Chasles aveva asserito che l’algebra numerica fu introdotta in Europa dai traduttori del XII secolo. Guglielmo Libri lo impugnò acerbamente. Ecco chi avesse ragione. (Questa nota è tolta dall’Ezelino da Romano, storia d’un ghibellino esumata da Cesare Cantù, Milano 1854).
335. Guido Bonatus de Forlivio, decem continens tractatus astronomiæ. Venezia 1506.
Questi anni si litigò sulla patria sua; titolo d’onore, direbbero i pedanti, senza ricordare che, vivi noi, si è disputato con tutto il calore ammoniacale delle gazzette, se una cantatrice, viva e nata nel paese ove se ne disputava, appartenesse a una provincia o alla sua vicina. Filippo Villani, nella vita del Bonatto, che sta inedita nella biblioteca Barberini di Roma, dice: Guido Bonatti iratus, cum esset florentinus origine, de Foro Livii se maluit appellari... Fuit sane, quidquid ipse iratus loquatur, de oppido Casciæ oriundus. Cascia è terra del Valdarno superiore.
Non è d’onor poco argomento l’essersi, ai cominciamenti della tipografia, fatte tre edizioni del Liber introductorius ad indicia stellarum del Bonatto: la prima ad Augusta il 1491; l’altra a Basilea il 1550; l’altra a Venezia il 1506, che io ho sott’occhio, col titolo Guido Bonattus de Forlivio decem continens tractatus Astronomiæ. È in carattere quadro in foglio di 191 carte, con incisionette. In fronte v’è Urania e l’astronomia coi dodici segni dello zodiaco, e in mezzo seduto Guido, avvolto in un vestone coll’ermellino arrovesciato sulle spalle, barbuto, in testa il berretto aguzzo, in mano un globo ed un quadrante. Il Mazzuchelli dice una copia manoscritta trovarsene nella biblioteca Ambrosiana, ma in fatto non è che la copia di 169 considerazioni de’ Giudizj dell’astronomia. Francesco Sirigatti (che nel 1500 fu astrologo della Signoria di Firenze) tradusse in italiano quest’opera, per conforti di quel valentuomo che fu Gino Capponi, e sta manoscritta nella Laurenziana. Il 1572 fu stampato in tedesco a Basilea col titolo di Auslegung des menschlichen Geburt-Stunden. Fu pur messo in francese, e certo anche in altre lingue, chi avesse voglia di cercarlo. Giacchè ho nominato il Sirigatti, aggiungerò che nel copia-lettere di monsignor Gore Gheri, conservato nella biblioteca Capponi, n’è una del 1º marzo 1516 al duca Lorenzo de’ Medici, siffatta: «El Sirigatto mi è venuto a trovare, et decto ch’io ricordi alla Ex. V. che non faccia fatto d’arme da V a XII di questo mese. Ma quando venisse uno bel tracto che con ragione si vedesse da vincere e’ nemici, io attenderei a quello che io vedessi in terra et non in cielo». (Questa nota è tolta anch’essa dall’Ezelino da Romano).
336. Savonarola, De laud. Patavii, pag. 1155.
337. Vide una statua coll’indice teso, e scrittovi al capo Qui percuoti. I cercatori avevano percosso delle volte assai quel capo; ma l’accorto monaco fissò dove l’ombra dell’indice cadeva al mezzodì, e nottetempo, con solo un compagno, sterrò e rinvenne un’ampia reggia tutta d’oro: i soldati facevano ai dadi, re e regina sedevano a mensa, da costa un damigello teneva teso l’arco; e tutto ciò d’oro, e illuminato da un tizzone ardente nel mezzo; e se si voleva toccare l’arciero, moveansi belle fanciulle in danza. Gerberto, non ben fidandosi del compagno, tolse soltanto dal desco un coltello di mirabile lavoro; ed ecco sorgere frementi le danzatrici, l’arciere saettar il lume, tornando bujo, ed obbligando così a lasciare ogni cosa intatta, senz’altro raccogliere se non vaticinj che poi furono avverati. Jordani, Chron., cap. 220 e 222.
338. Molte odierne ubbie, che si sogliono attribuire a ignoranza del medioevo, ci vennero dagli antichi; verbigrazia, che il tintinnire degli orecchi sia indizio che altri parli di noi; che bevuto l’uovo, debba schiacciarsi il guscio (Ovidio, Fasti). Sant’Agostino (Expositio epistolæ ad Galatas, c. IV) dice: Vulgatissimus est error Gentilium iste, ut vel in agendis rebus, vel in expectandis eventibus vitæ ac negotiorum suorum, ab astrologis notatos dies et menses et annos et tempora observent. Così il mangiar ceci alla Commemorazione dei morti faceasi dai Romani nelle feste Lemurali in maggio, nel qual tempo si astenevano dalle nozze (Fasti, V); l’augurare al Capodanno; il dir Dio t’ajuti quand’uno starnuta (Plinio, lib. II. c. 2. § 11); l’affiggere sulle porte gufi e barbagianni (Quid quod istas nocturnas aves, cum penetraverint larem quempiam; sollicite prehensas, foribus videmus affigi? Apulejo, Metam., lib. III). Nei Cesti di Giulio Africano, vissuto sotto Alessandro Severo, tra tant’altre follie si dà il modo di disfarsi dei nemici: — Preparate dei pani a questo modo. Prendete sul fin del giorno una rana di campo o rospo e una vipera, quali vedete designati nel pentagono perfetto al sito della figura dove si trovano i segni della proslambanomene del tropo lidio, cioè, un ζητα senza coda o un ταυ sdraiato(è la nota musicale fa di sis): chiudete questi animali insieme in un vaso di terra, turandolo ermeticamente con argilla, affinchè non ricevano nè aria nè luce. Ciò fatto, dopo un tempo convenevole spezzate il vaso, e i resti che vi troverete stemprate in acqua, nella quale impasterete il pane: di più, ungete le tegghie in cui cocerete esso pane con tale composizione, pericolosa fino a chi l’adopera. Preparata così questa pastura, datela ai vostri nemici come potrete».
Si sa che Caligola spese somme pel segreto di far l’oro; e sotto Diocleziano v’ebbe una specie di persecuzione contro gli alchimisti. Forse qualcuno avendo, così fra il tentare, ricotto del borace e del cremor di tartaro con mercurio sublimato, e fattolo svaporare sopra la superficie d’un vaso d’argento, trovò questo indorato. Ebbe dunque a credere d’avere scoperto la pietra filosofale, e andò ritentando quelle combinazioni, in cui, sotto gli strani nomi d’allora, vediam sempre ritornare il borace, il tartaro, il mercurio, il sal marino; i quali si sa che danno all’argento una tinta gialla, ma che se ne va con una semplice lavatura d’acido nitrico diluito.
339. Gl’Indiani adopravano, da quattromila anni fa, pei sette suoni della loro scala, le lettere s, r, g, m, p, d, n; i Tibetani, le cifre numeriche; i Greci, le lettere del loro alfabeto dall’Α alla Ω, variando secondo i modi. Anche gl’Italiani ebbero una notazione alfabetica, composta delle prime quindici lettere, che Gregorio Magno ridusse alle sette prime per la scala diatonica, distinguendo le ottave colle lettere majuscole per l’inferiore, e colle minuscole per la superiore. Da poi si surrogarono i punti, collocandoli sui righi: ma consisteva qui l’invenzione di Guido? Egli trasse i nomi delle note dalle sillabe iniziali dell’inno del Battista:
UT queant laxis REsonare fibris
MIra gestorum FAmuli tuorum
SOLve polluti LAbii reatum,
Sancte Joannes.
Il si fu aggiunto nel secolo XVI da Van der Putten (Erycius Puteanus). Kircher asserisce di aver veduto nella biblioteca dei Gesuiti a Messina un ms. greco antico, con varj inni notati al modo che si dice inventato da Guido. La corda grave ch’egli aggiunse, fu segnata col gamma greco; e poichè questa lettera si trovava così collocata in capo alla scala al modo usato allora, la scala ne prese il nome di gamma. Le prime stampe di note musicali si fecero a Milano, e ognun sa che le diverse espressioni del linguaggio musicale sono italiane.
340. I canonisti soggiungevano che, come la terra è sette volte maggiore della luna, e il sole otto volte maggiore della terra, il papato era cinquantasei volte più grande dell’imperatore. Laurentius il fa millesettecentoquattro volte più alto che l’imperatore e i re. Non conosco gli elementi di questi calcoli.
341. Regesta, 32. Egli definiva il papa vicarius Jesus Christi, successor Petri, Christus Domini, Deus Pharaonis, citra Deum, ultra hominem, minor Deo, major homine: Serm. de consecr. pont.
I diritti degl’imperatori sono distintamente formolati nello Specchio di Svevia. Tacendo molte altre cose, ivi è prefisso che il re eletto perde il diritto di sua nazione, e deve vivere secondo la legge dei Franchi: nessuno può scomunicare l’imperatore, fuorchè il papa, e questo per tre cause: se dubita della fede ortodossa, se ripudia la moglie, se turba le chiese e le case di Dio. Cristo principe della pace lasciò in terra due spade per difesa della cristianità, entrambe affidate a san Pietro, una pel giudizio secolare, una pel giudizio ecclesiastico: la prima è dal papa prestata all’imperatore (Des weltlichen Gerichtes schwert darlihet der Papst dem Kaiser); l’altra rimane al papa, per giudicare montato su bianco palafreno, e l’imperatore dee tenergli la staffa acciocchè la sella non si scomponga: ciò significa che, se alcuno resiste ostinatamente al papa, l’imperatore e gli altri principi devono costringerlo colla proscrizione. Se si trovano eretici, bisogna procedere contro di essi ai tribunali ecclesiastico e secolare; la pena è il fuoco. Ogni principe che non punisce gli eretici, sarà scomunicato; e se fra un anno non venga a resipiscenza, il papa lo priverà dell’uffizio principesco e di tutte le sue dignità. Si giudicheranno alla pari i poveri ed i signori. Schilter, Antiq. Teuton., tom. II.
342. Ita quod ex tunc nec habebimus nec nominabimus nos regem Siciliæ... ne forte aliquid unionis regnum ad imperium quovis tempore putaretur habere. Lunig, Cod. dipl. ital., tom. II. p. 866.
343. Guglielmo marchese di Monferrato, dolente che Teodoro Làscari avesse tolto a Demetrio suo fratello il regno di Tessalonica, allestì una spedizione, e non avendo denari, ne chiese a Federico II, dandogli in pegno la più parte delle terre e de’ vassalli suoi in Monferrato. Passato il mare, ricuperò Tessalonica, ma poi morì avvelenato; l’esercito andò scomposto, e non si sa come i beni del Monferrato fossero poi redenti. L’istromento è addotto da Benvenuto di San Giorgio, Cr. del Monferrato sotto il 24 marzo 1224.
344. Lib. I. tit. 30, rubr. Quod nullus prælatus, comes, baro officium justitiæ gerat.
345. Gregorio, Consider. sopra la storia della Sicilia, vol. III. — Huillard Bréholles pubblica i registri di Federico II; ma finora non uscirono che quelli concernenti la prima metà della sua vita, cioè la meno rilevante. Fra i documenti inediti v’ha molte lettere di Gregorio IX alla Lega Lombarda; altre relative alla crociata, cui pure appella un itinerario di Federico, e una relazione tolta dalla biblioteca imperiale di Parigi; inoltre una cronaca sicula da Roberto Guiscardo al 1250, tratta dall’archivio vaticano.
346. Le città del dominio reale, convocate direttamente dalla corona, erano: in Sicilia, Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Augusta, Lentini, Calata Gironi, Platia, Castrogiovanni, Trapani, Nicosia; in terraferma, Gaeta, Napoli, Aversa, Montefuscolo, Avellino, Eboli, Ariano, Policastro, Amalfi, Sorrento, Salerno, Termoli, Troja, Civitella, Siponto, Monte Sant’Angelo, Potenza, Melfi, Molfetta, Vigiliano, Giovenazzo, Bitonto, Monopoli, Bari, Trani, Barletta, Gravina, Matera, Taranto, Brindisi, Otranto, Cosenza, Cotrone, Nicastro, Reggio. La prima intervenzione di buoni uomini fu nel 1241. Solo nel 1265 trovansi chiamati i borghesi al parlamento d’Inghilterra.
347. Qua pœna universitates teneantur, quæ creant potestates et alios officiales. Tit. 47.
348. Bianchini, St. delle finanze nel regno di Napoli. Il Regestum Friderici II, ann. 1239 e 40, edito dal Carcani nel 1786, contiene mille e otto lettere di Federico, desunte dall’archivio di Napoli, e che concernono principalmente le finanze, dove l’imperatore mostra molta intelligenza, sebbene costretto dalle continue guerre a smungere il paese ch’e’ volea rifiorire.
Non è superfluo l’esaminare con quali fornimenti Federico e i suoi nemici nutricavano la guerra in tempo che scarsissimo era il contante:
Federico guastò il bel sistema d’imposte della Sicilia con espedienti rovinosi, che appajono dalle sue lettere: ordinò una colletta generale; pose ingenti contribuzioni sui beni degli ecclesiastici, e fece amministrare da economi regj i vacanti; chiedeva ogni tratto tutto il denaro che fosse entrato nelle casse regie, lasciando così a scoperto le spese cui era destinato, e persino il vestire e nutrire Rinaldo d’Este e re Enrico suoi prigionieri od ostaggi. Una volta il giustiziere di Terra di Bari avendogli recate sole once d’oro cinquecento (lire 31,500), Federico volea farlo precipitare dalle mura, poi s’accontentò di destituirlo, surrogandogli il saracino Raasch; e ai sopportanti ordinò fra quindici giorni soddisfacessero, pena la galera (Matteo Spinelli di Giovenazzo, Diurnali, § 44). Limitò gl’interessi al dieci per cento, eppure tolse a prestanza fin al tre cadun mese; poi alla scadenza, mancandogli fondi, pagava il quattro e il cinque d’aggiunta. Avendo preso per tre mesi da diversi mercanti settemila ottocensessantatre once al tre e fin al cinque per cento il mese, alla scadenza capitalizzò l’interesse, crescendo così a undicimila seicentotre once. Queste somme erano contate in moneta di Venezia, sulle quali i mercanti guadagnavano ancora pel giro del cambio. All’assedio di Faenza non solo fuse tutto il suo vasellame e impegnò le gioje, ma battè una moneta di cuojo, avente da una parte un chiodetto d’argento, dall’altra l’effigie dell’imperatore, e dovea valere un agostaro d’oro, colla promessa di cambiarla in moneta buona, come fece. Le truppe, per regola, non avevano soldo, onde variavasi a norma delle circostanze: Federico dava ai pedoni da tre a cinque tarì e il vivere; a un cavaliere tre once d’oro al mese, coll’obbligo di provvedersi uno scudiere, un valletto, cavalli ed armi. L’oncia d’oro, pesante gramme 21.10, divideasi in trenta tarì: e quella valea lire 63.30, questi lire 2.11: onde il medio di un pedone era lire 8.44, d’un cavaliere 190; e il valore sta al quintuplo dell’odierno.
Le rendite del papa consistevano nelle regalie, e in un tanto per fuoco che pagavasi dai Comuni di dominio diretto, ch’era di nove denari ogni fumante, eccettuati ecclesiastici, militi, giudici, avvocati, notaj, e chi non avesse alcuna proprietà aggravezzata. I comuni però solean ridurla a un tanto fisso, che era per Fano, Pesaro, Camerino di cinquanta libbre d’argento ciascuna, cioè lire cinquemila; di quaranta per Jesi. L’imperatore poi occupava la maggior parte del territorio, sicchè ben poco da questo poteasi ricavare. Suppliva la decima del cinque, del dieci, fin dei venti per cento sulle rendite ecclesiastiche di tutto l’orbe cattolico, oltre le collette che si esigevano a titolo di crociata. Quando Gregorio IX noleggiò le navi di Genova per trasportare i cardinali al concilio di Roma, tolse a prestito mille marchi, ipotecati sui beni del clero, e pagò ducento libbre genovesi per un mese d’interesse. Il totale armamento costò cinquemila marchi, cioè lire ducencinquantamila, che alcuni mercanti si obbligarono di far pagare a Genova, a trenta giorni, mediante lo sconto di cinquantasette marchi (Regesta, lib. XIV, nº 3, 4). Esso Gregorio lasciò un debito di quarantamila marchi, pel quale i mercanti molestarono assai il suo successore.
I Milanesi emisero una carta monetata, con cui poteasi pagare le pene pecuniarie; nessun creditore era obbligato riceverla in pagamento, ma il debitore non andava soggetto a sequestro se avesse in cedole di banco tanto di che soddisfarlo. Per ritirarla poi di corso, si formò il catasto delle rendite, sulle quali si stabilì una tassa che in otto anni rimborsò quel debito.
349. Ep. Petri de Vineis, lib. III. Preside all’università era il celebre giureconsulto Pietro d’Isernia con dodici oncie d’oro all’anno.
350. In testa al ponte v’avea un castello con due torri; era ornato di marmi, bassorilievi, statue, fra cui quelle dell’imperatore, di Pier delle Vigne, di Taddeo di Suessa. Il monumento costò ventimila once d’oro.
351. Sigonio, De regno ital., I. pag. 80: Nec enim ob aliud credimus quod providentia Salvatoris sic magnifice, imo mirifice dirigit gressus nostros, dum ab orientali zona regnum hierosolimitanum, Conradi clarissimi nati nostri materna successio, ac deinde regnum Siciliæ, præclara materna nostræ successionis hereditas, et præpotens Germaniæ principatus sic nutu cælestis arbitrii, pacatis undique populis, sub devotione nostri nominis perseverat, nisi ut illud Italiæ medium, quod nostris undique viribus circumdatur, ad nostræ serenitatis obsequia redeat et imperii unitatem.
Il volere che la Sicilia non appartenesse a un principe il quale dominasse altrove, è imputato ai papi come un sentimento antitaliano, figlio della barbarie del medioevo e della stupida ambizione pretina. Ma nell’anno del riscatto dell’italianità, nel 1848, i Siciliani, insorti come tutto il resto della penisola, davansi una costituzione, il cui § 2 diceva: — Il re de’ Siciliani non potrà regnare o governare su verun altro paese. Ciò avvenendo, sarà decaduto ipso facto».
352. Ricardo da San Germano, pag. 1039. — Godi, Chron., pag. 82.
353. È curioso una specie di atto verbale, per cui nel 1216, dovendo passar d’Italia in Germania re Enrico figlio di Federico II, il podestà di Modena con gran comitiva gli andò incontro per riceverlo, e con sicurezza e libertà condurlo traverso al dominio modenese; cioè all’ospedale di San Pellegrino gli fu consegnato dall’arcivescovo di Palermo, che promise condurlo e custodirlo per le Alpi e sin al ponte di Guiligua in mezzo all’alveo del fiume, dove lo consegnò agli ambasciatori di Parma e Reggio. Antiq. M. Æ., IV. 224.
354. Quelle trattative sono esposte dagli autori arabi, raccolti nel IV. vol. della Bibliothèque des Croisades di Michaud, pag. 427; e a pag. 249 le corrispondenze loro e i sentimenti degli scrittori musulmani in proposito.
355. Monum. Hist. patriæ, Chart. I. 881.
356. Caffaro, Ann. Gen., lib. IV. Al 1217 dice che ob multas discordias quæ vertebantur inter civitates Lombardiæ, quum multæ religiosæ personæ se intromitterent de pace et concordia componenda, tandem, auxilio Dei, inter Papiam, Mediolanum, Placentiam, Tordonam et Alexandriam pax firma fuit et firmata mense junii.
357. Acta SS., 20 martii.
358. È bellissimo il discorso di papa Gregorio X ai Fiorentini perchè accogliessero gli scacciati Ghibellini: Gibellinus est, at christianus, at civis, at proximus. Ergo hæc tot et tam valida conjunctionis nomina Gibellino succumbent? et id unum atque inane nomen, quod quid significet nemo intelligit, plus valebit ad odium, quam ista omnia tam clara et tam solide expressa ad charitatem? Sed quoniam hæc vestra partium studia pro romanis pontificibus contra eorum inimicos suscepisse asseveratis, ego romanus pontifex hos vestros cives, etsi hactenus offenderint, redeuntes tamen ad gremium recepi, ac remissis injuriis pro filiis habeo.
La lapide posta a quella chiesa diceva:
Gregorio X papa sancti sub honore
Gregorii primi pro Christi fundor amore.
Hic ghibelline cum guelfis pace patrata
Cessavere mine sub qua sum luce creata....
Gregorio bella decima fuit ista cappella
Pacis fundata Mozzis edificata.
359. Gli atti trovansi nelle Delizie degli eruditi toscani, vol. IV. pag. 96.
360. Affò, St. di Parma, vol. III. pag. 274-293.
361. Vero è che questi ultimi fatti ci sono raccontati solo da Ghibellini. Vedi il nostro Ezelino.
362. Lettera del 28 luglio 1233, ap. Raynaldi, nº 41. 42.
363. Promiserunt ei dare coronam ferream, quam patri suo dare numquam voluerunt. Galvano Fiamma, cap. 264.
364. Divinæ legis immemor et affectionis humanæ contemptor. Regesta Gregorii IX, lib. VIII, nº 461-62 ... Lo fece anche scomunicare dal vescovo di Salisburgo, lib. IX, nº 172. Vedasi se n’era istigatore!
Tra le favolette, che a scorno una dell’altra inventavano le popolazioni, fu questa: che i Cremonesi levarono a battesimo Corrado figlio di Federico II, e profusero regali, e fecero fare una quantità di mannaje per uccidere tutti i nemici di esso, talchè ben trentamila se ne videro in una sola rassegna. In compenso domandarono una grazia grande, che concedesse alla loro città di crescere in infinito e più che Roma, che si facesse due volte l’anno il ricolto, e due fruttificassero gli alberi, e ogni cosa vi fosse doppia, e grossi i denari così, che cascando per terra facessero tun tun. E l’imperatore ne fe decreto, e che anche avessero l’anno di dodici mesi, ecc. Monum. Hist. patriæ, Scrip., III. 1577.
365. Imperator imperatricem quamplurimis mauris spadonibus et vetulis larvis consimilibus custodiendam mancipavit. Mattia Paris, Hist. Angl., pag. 402.
366.
Urbs decus orbis, ave. Victus tibi destinor, ave.
Currus ab Augusto Friderico Cæsare justo.
Fle Mediolanum, jam sentis spernere vanum
Imperii vires proprias tibi tollere vires.
Ergo triumphorum potes urbs memor esse priorum
Quos tibi mittebant reges qui bella gerebant.
È dato da Ricobaldo, e m’ha odore di quel tempo più che l’epigramma che oggi può leggere ciascuno in Campidoglio.
367. Vita Gregorii IX, tom. III. pag. 583.
368. Villani. — Nuntios soldani ad convivium vocat, et eis, multis episcopis assidentibus, festivas epulas parat. Godefridi monaci Annales, p. 398. — In pluribus terris Apuliæ suarum meretricularum loca construxit.... et non contentus juvenculis, mulieribus et puellis, tamquam scelestus infami vitio laborabat; nam ipsum peccatum quasi Sodoma aperte prædicabat, nec penitus occultabat. Nic. de Curbio, Vita Innocentii IV, § 29.
369. Heu me! quandiu durabit truffa ista? Alberici Chron. Fatui sunt qui credunt nasci ex virgine Deum. Ep. Gregorii, ap. Mattia Paris, pag. 494.
370. Iste rex pestilentiæ a tribus baratatoribus, ut ejus verbis utamur, Christo Jesu, et Moise, et Mahometo, totum mundum dixit fuisse deceptum. M. Paris, ad ann. 1238. L’epistola accennata di Pier delle Vigne è nel lib. I. cap. 31. — Generale è, negli scritti d’allora e di poco poi, l’opinione della sua miscredenza, e correva pure fra’ Musulmani. Jafei dice: «L’emir Fakr-eddin entrò ben innanzi nella confidenza dell’imperatore, spesso disputavano di filosofia, e pareano in molti punti d’accordo....». Ai Cristiani veniva scandalo di tale amicizia. Esso diceva all’emir: «Io non avrei tanto insistito sulla consegna di Gerusalemme, se non avessi temuto perdere ogni credito in Occidente; mi premeva di conservare Gerusalemme o altra cosa siffatta, ma la stima dei Franchi.... L’imperatore era rosso e calvo, di vista debole; se fosse stato uno schiavo, non se ne sarebbero pagate ducento dramme. Dai suoi parlari appariva che non credeva alla religione cristiana; non ne parlava che per voltarla in baja. Un muezin recitò innanzi a lui un versetto del Corano che nega la divinità di Cristo, e il sultano volea punirlo; ma Federico si oppose». Bibl. des Croisades, vol. IV. p. 417. Vedi Reynaud, Extrait des historiens arabes relatifs aux Croisades, pag. 431.
371. Ecclesiasticæ censuræ vigorem debilitat et conculcat. Regesta Urbani III, nº 95. Nella biblioteca di Vienna è una lettera di Federico a Vatace imperatore d’Oriente suo genero, ove scrive: O felix Asia, o felices Orientalium potestates, quæ subditorum arma non metuunt, et adinventiones pontificum non verentur. Cod. philol., nº 305, p. 128.
372. Il fatto anzi vale a mostrare come questo diritto fosse riconosciuto universalmente. Quando il papa nel 1239 offerse al conte Roberto di Francia la corona dello scomunicato Federico, i baroni francesi protestarono contro quest’atto, finchè non si fosse ben certi che l’imperatore avea peccato contro la fede: Missuros ad imperatorem, qui quomodo de fide catholica sentiat diligenter inquirant: tum ipsum, si male de Deo senserit, usque ad internecionem persecuturos. M. Paris. Al concilio poi di Lione assistevano gli ambasciadori di tutte le potenze, e nessuno contestò la competenza di quel tribunale, solo limitandosi a mitigare il papa ed a scolpar l’imperatore.
373. Da Lione, aprile 1246. Ap. Rainaldi.
374. Ep. 37. lib. I. Pare che Federico cercasse guadagnare l’opinione col far tradurre in italiano le lettere che dirigeva ai papi e ai re, simili agli odierni manifesti; nè altra origine saprei dare a quelle volgarizzate che si pubblicarono dal Lami nelle Delizie degli eruditi toscani, e ultimamente dal Corazzini, Firenze 1853. Ivi n’è pure una di Gregorio papa, che riepiloga gli aggravj contro Federico; e basta leggerla per vedere quanto sovrasti per vigore e concisione alle sempre retoriche di Pier delle Vigne.
375. Ap. Bolland, Vitæ Patrum prædic., p. 54: Giulini, Memorie di Milano, VII. 534.
376. La poesia popolare insultò alla sconfitta di Federico:
Fridericus dentibus fremdit et tabescit,
In vindictam sublimans minas non compescit,
Antiquum proverbium sapientis nescit:
In vindictam sepius dedecus accrescit.....
Ipsum hostem Brixia, que prior fugasti,
Gaude quia gaudium tuum duplicasti,
Dum in Parme gloria gaudens exultasti,
Cui talis per spacium patet orbis vasti.
Mediolanensi sit applausus multus,
Ejus ope quoniam Parmensis suffultus,
In hostem Ecclesie hac in suum ultus,
Potius a se repulit hostiles insultus.
Gratuletur Janua, quia, res est certa,
Quia hostis fracta sunt cornua et serta,
Fiat Janua per me Parme laus aperta,
Nam in Parma manus est Domini reperta.
Gratuletur civitas placens Placentina
In Parme victoria et hostis ruina,
Parma manu quoniam adjuta divina,
Hostem fugans hostium fecit morticina.
Bonorum Bononia bona nacione
Letetur letantium leta concione,
Nam quod secum Dominus in dilectione
Parma victrix premium meretur corone.
Honorem Ecclesie que manu tuetur,
Gloria civitas Mantua letetur,
Nam Parma, que Mantuam amat et veretur,
Triumphat ne amplius hostis coronetur.
Exultet Venetia, civitas electa,
Quia Parma spoliis hostis est refecta,
Inimice copia gentis interfecta,
Reliqua carceribus aut fuge subjecta.
Psallet cordis organo et in oris sono
Anchona, quam merito laudans post pono,
Restituta Marchia nobis ejus dono
Anchona proposito quia fuit bono.....
Ve ve Christi Babilon! civitas Papie,
Ad ruinam quoniam tibi patent vie,
Ab illa, qua victus est Fridericus, die,
Per Parmam auxilio Virginis Marie.
O Pisani perfidi, socj Pilati,
Vos fecistis iterum crucifixum pati;
Sed surrexit Dominus nostre libertati,
Jam sue apparuit Parme civitati.
Dum opem et operam hosti prebuistis,
Ut prelatos caperet, vos eos cepistis,
Quibus nec discipulis suis peperistis;
Quia fui minimus de captivi istis...
Vedi Regesta Innocentii IV, herausgegeben von D. C. Höfler. Stuttgard 1847. È singolare che la fama di Federico sia ora commendata tanto da letterati, mentre in un tempo di letteratura sì scarsa come il suo, egli si trova maledetto in tanti versi. Ursone notaro di Genova, autore di un Liber fabularum moralium, scrisse un poemetto Della vittoria che i Genovesi riportarono contro le genti mandate dall’imperatore per sottomettere Genova. Fu stampato nel vol. II delle Carte nei Monum. Hist. patriæ; e sebbene corrottissimo il testo, vi si scorge verso non infelice, e conoscenza di Omero, di Claudiano, specialmente di Virgilio. Minutissimamente descrive que’ fatti, e così inveisce contro i Pisani:
Gens pisana tamen, majori turbine nutans,
Partim tecta petit, tenuit pars altera pontum.
Impia gens, scelerata cohors, conjunctio nequam,
Perfidiæ populus, duri cœtus Pharaonis,
Grex bonitate carens, infidus, perfida massa,
Præsumens violare crucis fideique vigorem,
Contemptor Domini, sacrorum nescius, exsul
Justitiæ, veri calcator, schismatis auctor,
A facie Domini nullo feriente fugatur,
Et crucis athletas bello tollerare nequivit.
Hanc immensa Dei virtutem dextera fecit,
Quodque terens tumidum, confringens quodque superbum.
Discat quisque malus, cognoscat criminis actor
Quod malefacta nocent, quod dant peccata pudorem,
Quod peccando miser dominum peccator acerbat,
Quod perclementem sibi durum vertit in hostem,
Quod sceleris primo se damnat conscius ipse.
377. Epitafio di re Enzo in San Domenico a Bologna:
Tempora currebant Christi nativa potentis
Tunc duo cum decie septem cum mille ducentis,
Dum pia Cæsarei proles cineratur in arca
Ista Federici, maluit quem sternere Parca.
Rex erat, et comptos pressit diademate crines
Hentius, inque poli meruit mens tendere fines.
Sembra posteriore quest’altro:
Felsina Sardiniæ regem sibi vincla minantem
Victrix captivum, consule ovante, trahit.
Nec patris imperio cedit, nec capitur auro;
Sic cane non magno sæpe tenetur aper.
Una biografia di Enzo fu stesa da Ernesto Munch con molti documenti. Luisburg 1828.
378.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
Del cuor di Federico, e che le volsi
Serrando e disserrando sì soavi,
Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi;
Fede portai al glorioso uffizio,
Tanto ch’i’ ne perdei le vene e i polsi.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Vi giuro che giammai non ruppi fede
Al mio signor, che fu d’onor sì degno.
Inf., XIII.
Le cronache raccontano che Pier delle Vigne avea bella donna, ed era geloso dell’imperatore, che però mai non v’ebbe a fare. Ma una mattina, andato a casa di Pietro, questi era già uscito, e la sua donna dormiva colle braccia scoperte. L’imperatore la coprì, e andò via; ma o a posta o in fallo vi lasciò un guanto. Pietro tornato e vistolo, se ne coceva ma dissimulava; finchè una volta, trovandosi solo coll’imperatore e colla moglie, volle rinfacciare il fallo con questi versi:
Una vigna ho piantà; per travers è intrà
Chi la vigna m’ha guastà; han fet gran peccà.
La donna rispose sulla stessa intonazione:
Vigna son, vigna sarai;
La mia vigna non fallì mai.
Onde Pietro consolato ripigliò:
Se così è come è narrà,
Più amo la vigna che fi mai.
Vedi Jacopo d’Acqui, Imago mundi, pag. 1577.
379. Innocentii IV Ep., lib. VIII. 1.
380. Habituri perpetuam tranquillitatem et pacem, ac illam tutissimam et delectabilem libertatem, qua cæteri speciales Ecclesiæ filii feliciter et firmiter sunt muniti.
381. «Dava uno colpo allo cerchio, e n’autro allo tompagno». Matteo Spinelli di Giovenazzo, Diurnali, § 3.
382. Regesta Innocentii IV, lib. 12, N. 284, 337. Vedi pure Nicola de Jamsilla, pag. 500, 536; Saba Malaspina, Hist., lib. II. cap. 22 nei Rer. It. Scrip., VIII.
383. Mattia Paris, pag. 868.
384. Dato da Wasserburg il 20 aprile 1255. Trovasi nell’archivio de’ Frari, allegato da Manfredi in un trattato coi Veneziani.
385. «Spesso la notte usciva per Barletta cantando strambotti e canzoni, ed ivi pigliando il fresco, e con esso ivano due musici siciliani che erano grandi romanzatori». Spinelli.
Contemporanei sono pure l’Anonimo di Taranto, Ricordano Malaspini, Inveges, e di poco posteriori Dante e Giovan Villani, che raccontano o accennano questi fatti.
386. «Lo papa e la gente de lo Reame non averieno comportato di fare chiù signoriare la natione tudisca». Spinelli.
387. «Subito fece conoscere ch’era d’autro stomaco che papa Alessandro». Spinelli.
388. Malaspina, lib. II. cap. 6.
389. «Si dice che a chisto maritaggio lo re ne avanza chiù della mitate». Spinelli.
390. Pipini Chron., lib. III. cap. 7.
391. Ap. Rymer, Acta publica, 1816, tom. I. pag. 352.
392. Gioffredo, St. delle Alpi marittime.
393. Regesta Clementis IV, lib. I, nº 548.
394. In recognitionem veri dominii eorumdem regni et terræ. Il giuramento che diede diceva: Papæ, ejus successoribus, ac romanæ ecclesiæ ligium homagium facimus pro regno Siciliæ, ac tota terra quæ est citra Pharum, usque ad confinia terrarum, excepta civitate Beneventana cum toto territorio et omnibus districtibus et pertinentiis suis, nobis et heredibus nostris a prædicta Ecclesia romana concessis etc. Le ottomila once erano ad generale pondus, il che indicava che se ne riteneva il dieci per cento, cioè riducevansi a settemiladucento: valutandole lire 63.30, il censo sarebbe stato di lire 453,760, che oggi s’avvicinerebbero a due milioni. Nel 1276 Carlo trovandosi a Roma, e sollecitato a pagare questa somma, nè avendola, scrisse a’ suoi tesorieri impegnassero la sua corona grande e le gioje per ottenerla in prestito. Giannone, lib. XIX. cap. 2.
395. «Con tutto questo stettemo con gran paura». Spinelli.
396. Misit in Siciliam et Lombardiam ut inde arcesseret duos astrologos: is enim incredibile est quantam fidem haberet astrorum posituris. Malaspina.
397. Reddite vos attentos, ut potius equos quam homines offendatis. Lo stesso.
398. Potius hodie volo mori rex, quam vivere exul et miser. Ricobaldo Ferrarese. — Ch’ei fosse portato attorno da un ribaldo s’un asino, è smentito dalla lettera di Carlo che dice: Contigit quod die dominica corpus inventum est nudum penitus inter cadavera peremptorum... Ego, naturali pietate inductus, corpus ipsum cum quadam honorificentia sepulturæ, non tamen ecclesiasticæ, tradi feci. Ap. Tutini. Manfredi erasi già preparata la sepoltura nel famoso santuario di Monte Vergine, ove tuttora, nella cappella a destra dell’altare maggiore, è il sarcofago antico destinatogli e un gran crocifisso da lui regalato.
Un ossesso in Puglia, interrogato se Manfredi fosse in luogo di salvazione, rispose: — Cinque parole lo salvarono, le quali ti dirà il conte Enrico». Ed erano Deus propitius esto mihi peccatori, che proferì morendo. Chronicum imaginis mundi, 1595.
Dante incontra Manfredi nel Purgatorio, supponendo siasi pentito in morte, ma deve restare in aspettazione tanto tempo quanto stette in contumacia della santa Chiesa:
Biondo era e bello e di gentile aspetto,
Ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
.... Io son Manfredi
Nipote di Costanza imperatrice....
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
Da due punte mortali, io mi rendei
Pentito a quei che volentier perdona.
Orribil furon li peccati miei,
Ma la bontà divina ha sì gran braccia,
Che prende ciò che si rivolve a lei...
Per lor maledizion sì non si perde
Che non possa tornar l’eterno amore
Mentre che la speranza ha fior di verde....
... L’ossa del corpo mio
Or le bagna la pioggia e move ’l vento
Di fuor del Regno quasi lungo ’l Verde
Onde le trasmutò a lume spento.
Vedasi Davanzati, Della seconda moglie di Manfredi. Tra i più fedeli a costui era stato Matteo da Termini, leggista reputato, e da quello fatto consigliere e giudice della grancorte. Rotto il signor suo, nel cui esercito combattè, fuggì in Sicilia, e caduto in grave infermità, fece voto, se guariva, consacrarsi a Dio. Di fatto entrò agostiniano, col nome di Agostino Novello celando la primitiva grandezza fra studj e penitenze. Si ricoverò agli eremi di Siena, ma quivi il generale dell’Ordine lo volle compagno, poi in Roma fu ordinato sacerdote, e da Nicola IV scelto confessore e sacrista. Assunto generale dell’Ordine, dopo due anni riuscì a liberarsene e tornare alla devota solitudine. Bonifazio VIII il voleva alla sua corte, ma egli ritirato nell’eremo di San Leonardo presso Siena, venne in grand’odore di santità, e quando morì nel 1309, fu ascritto fra i beati. Vedi Capecelatro.
399. «A vita mia non vidi la chiù bella vista». Spinelli.
400. Cruorem eliciunt et medullas. Malaspina.
401. Ap. Martène, Thes. Anecd., tom. II. pag. 524.
402. Quietem quæsivit, et ob hoc a vulgo ignominiam multam suscepit; nam de eo carmina prava decantaverunt. Joh. Vittodur. ap. Eccard, Corpus Hist., I. 5.
403. Così un suo manifesto nella biblioteca dell’Accademia di Torino, D. N. 38 f. 70. Pel resto vedi Lunig, Codex it. dipl., II. 41. Protestatio Conradini; e altri documenti dell’11 gennajo 1267, e 7 luglio 1268.
404. Cont. del Baronio, al 1268.
405. Ne fu testimonio il Malaspina, che particolareggia appienissimo questi fatti, tutto compassione per i soccombenti: egli pretende che i signori napoletani congiurassero con Enrico per farlo re di Sicilia dopo vinto Carlo col nome di Corradino, il quale co’ suoi fedeli sarebbe stato tolto di mezzo. Anche lo Spinelli scrisse in dialetto pugliese il suo diario fino alla giornata di Tagliacozzo, ove forse morì. Voglionsi aggiungere il Chronicon Cavense, pubblicato dal Pertz; la Cronaca inedita del Salimbene; e varj documenti nuovi, prodotti da Saint-Priest nella Histoire de Charles d’Anjou, da Raumer, Gesch. der Hohenstaufen, da Huillard Bréholles, Recherches sur les monuments de la maison de Souabe e Nouvelles Recherches sur la mort de Conradin, da Jager, Conradins Geschichte, da Di Cesare, La colonna di Corradino, ecc.
* Il sig. Minieri Riccio (Alcuni fatti riguardanti Carlo I d’Angiò dal 6 agosto 1252 al 30 dicembre 1270, tratti dall’Archivio angioino di Napoli, 1874) chiarì quei tempi, e come per Corradino parteggiassero nel regno i Ghibellini e i Saraceni, e massime Reggio, che fu sottomessa a forza.
406. Illa strage quæ in campo Beneventano facta fuit, hujus respectu valde modica fuit, scriveva Carlo al papa, ap. Martène, N. 690.
407. Sunt qui dicunt per pontificem et cardinales, ut Conradus et cæteri in eorum potestatem et carcerem venirent, fuisse decretum. Quod ne accideret, Carolus sategit. Ricobaldo Ferr. e Pipino nei Rer. It. Scrip., VIII. 137. IX. 684.
Dicono che il papa, interrogato dal re che dovesse farne del prigioniero, rispondesse: — La vita di Corradino è morte di Carlo; la vita di Carlo è morte di Corradino». Se il Giannone, nella sua servilità ai re, che poi doveano ripagarlo di tal moneta, bevette questa brutalità colla sua solita irriflessione, la trovò improbabile perfino il Sismondi, così corrivo in tutto ciò che denigri i pontefici. Anche il sardo cronista di Pisa e ghibellino scrive che Carlo mandò al papa chiedendo «ciò che di loro dovesse fare», e che il papa rispose che «non era consiglio di prete che altri andasse alla justizia». Secondo il Chron. imaginis mundi, la risposta di Clemente fu: De Conradino filio iniquitatis vindictam non querimus, nec justitiam denegamus; nei Monum. Hist. patriæ.
408. Presso i Bollandisti, Acta SS. martii, tom. III. p. 190.
409. Ut faciat rex de vitulo superstite victimam, Conradinum recognoscentem sæpius contra matrem Ecclesiam deliquisse, nec minus contra regem ipsum vehementer errasse, procuravit per quosdam Ecclesiæ cardinales illuc propterea per sedem apostolicam destinatos absolvi. Malaspina.
410. Nell’archivio di Stuttgard esiste il testamento di Corradino, o piuttosto codicillo di testamento anteriore non pervenutoci, dettato il 29 ottobre, presenti Giovanni Bricaudi sire di Nangey, e quell’Erardo di Valery che avea dato a Carlo il suggerimento per cui vinse la battaglia di Tagliacozzo. Provvede al pagamento d’alcuni debiti; fa molti legati a monasteri germanici; ai duchi di Baviera suoi zii lascia «tutti i beni patrimoniali e feudali con tutte le persone d’ambo i sessi a lui appartenenti ne’ paesi germanici o ne’ latini», e raccomanda loro Corrado e Federico d’Antiochia suoi cugini. Della madre non fa cenno, non della sua fidanzata, che si suppone fosse Brigida dei marchesi di Misnia: che non parlasse d’un erede a’ suoi diritti sul trono di Sicilia è facile comprenderlo, dettando egli sotto gli occhi di amici del nemico suo.
È tradizione destituita di fondamento che Elisabetta di Baviera (la quale erasi rimaritata in Mainardo conte del Tirolo della casa di Gorizia) venisse in persona, sovra una galea tutta nera, a raccogliere il corpo del figlio, per farlo sepellire nella chiesa del Carmine da lei fondata; e che in memoria di ciò que’ frati ponessero una statua colla borsa in mano, statua che or mutila è abbandonata in un magazzino del museo degli Studj. L’iscrizione che or accenna quel fatto, fu posta il secolo passato per cura di Michele Vecchione.
Sotto Giovanni I, un cuojajo napoletano, di nome Domenico di Persio, si ricordò di quell’infelice che i parenti principeschi aveano dimenticato, e dalla regina si fe cedere il terreno dove era stato ucciso, e vi fece erigere una cappella ed una colonna sormontata da una croce colla Madonna e la Maddalena e il simbolo affettuoso del pellicano. La confraternita de’ cuojaj la prese in cura, e vi facea celebrare nelle solennità, finchè la cappella non bruciò nel 1785. La colonna vedesi ancora al vestibolo della sacristia nella moderna chiesa delle Anime del Purgatorio, e la croce staccatane è nella sacristia stessa sovra un altare.
Ricordano Malaspini e dietro lui altri annalisti raccontano come al supplizio assistesse Roberto conte di Fiandra, genero di Carlo, e che, udita la sentenza, s’avventò al protonotaro esclamando: — Malnato! tocca a te condannar un signore sì nobile e gentile?» e lo trafisse. Colpo da francese: ma, per disgrazia de’ romanzieri, in un Memoriale del podestà di Reggio, inserito nel tom. VIII. del Rer. Ital. Scrip., si trova che il 18 ottobre Margherita di Borgogna, nuova sposa di Carlo d’Angiò, pervenne a Reggio e vi si fermò, ed ivi giunse a incontrarla Roberto alla fin del mese, quando appunto accadeva il supplizio di Corradino; poi nel lib. iii. p. 215 del Summonte, Istoria di Napoli, è riferito un diploma reale del 15 dicembre seguente, dato per mano di maestro Goffredo di Belmonte cancelliere e Roberto di Bari protonotaro del regno.
Ogni scolaretto ha inteso raccontare che Corradino dal palco gettò un guanto, come segno che invitava alla vendetta il suo erede, che era Pietro d’Aragona, al quale fu portato da Giovanni di Procida o da Enrico di Waldburg. Questo fatto non appare in alcuno storico napoletano avanti il Collenuccio; ma prima ne avea parlato Giovanni abate di Victring in Carintia, che fece una cronaca sin al 1344; autorità lontana di tempo e di luogo. Del resto, come c’entrava Pietro d’Aragona? Costui avea sposato Costanza figlia di Manfredi, da Corradino ritenuto per usurpatore e spergiuro; possibile ora volesse designarlo come erede? Per giustificare l’assalto della Sicilia, Pietro non cercò altri titoli che la chiamata del popolo, non allegò questo guanto nè la successione di Corradino, bensì quella di Manfredi. Da Federico II era nata legittimamente Margherita di Svevia maritata in Alberto langravio di Turingia, alla quale avrebbe potuto competere l’eredità degli Hohenstaufen, se altrimenti non n’avesse già disposto la spada, e lei in fatti aveva il re Corrado indicata erede ove si estinguesse la linea mascolina; e suo figlio Federico non dimenticò i suoi diritti al regno di Sicilia, e ne prese il titolo, sotto il quale diede concessioni e ricevette ambasciate dalle città lombarde e dalle sicule.
411. Ep. Rodulphi, ap. Raynaldi.
412. Jactatis inanibus verborum lenociniis, oratorem, quam, rapto contra Tartaros exercitu, Christianum imperatorem agere malebat. Ep. di Gregorio IX, ap. M. Paris.
413. Villani, lib. VI. 36.
414. Giaciono negli archivj massimamente di Genova i contratti dei signori francesi che davano in pegno le loro terre; e per cura di re Luigi Filippo ne fu tratta la serie de’ signori che parteciparono a quelle imprese, e i cui nomi e gli stemmi ornarono poi la sala delle crociate nel palazzo di Versailles.
415. Lettera del 27 maggio 1267, ap. Martene, nº 471.
416. Carlo d’Angiò e suo nipote Filippo re di Francia erano andati a Viterbo per sollecitare i cardinali a nominare il nuovo papa. Ivi stava pure Enrico figliuolo di Ricardo di Cornovaglia imperatore eletto; e vi capitò anche Guido di Monforte, vicario di Carlo in Toscana. Per vendicare il conte Simone suo padre, ucciso in Inghilterra come ribelle, costui entrò in chiesa, mentre dicevasi messa, scannò Enrico ed uscì. Ma alcuno gli disse: — Non ti ricordi che tuo padre fu anche strascinato per le vie?» Ed egli rientrato prese pe’ capelli il cadavere, e lo trasse fuori; e i due re stettero a vedere, senza impedire nè risentirsi. Più tardi l’omicida fu côlto, e terminò la vita nelle carceri di Sicilia.
417. Da Canale, Cronaca veneta, in francese, CLIX.
418. Istorie pistolesi ad ann.; Biliotti, Cron., cap. XXXV.
419. Quaresmius, Elucidatio Terræsanctæ. — Gli atti di re Roberto sono riferiti nella bolla Gratias agimus data da Clemente VI il 2 dicembre 1342 da Avignone.
420. — Se la santità vostra (dic’egli al papa) volesse informarsi quanto costerà ogni bisogno, e quali pratiche da imprendersi coi Tartari, rispondo che in tre anni quella spesa ascenderebbe a ventuna volte centomila fiorini, contando il fiorino a due soldi di grossi di Venezia; cioè settecentomila fiorini di rimbuono ogni anno per stipendj, munizioni, e mantener buono accordo coi Tartari; e per vascelli, armamento, castrametazione, rimonte, trecentomila fiorini in tre anni; in tutto settecentomila fiorini all’anno». Secreta, lib. II. p. i. c. 4.
Questo cenno ajuta a conoscere i valori d’allora. Poniamo che l’uomo a cavallo costi tre volte il pedone: se un esercito di quindicimila fanti e trecento cavalieri costa 600,000 fiorini annui, uno di diecimila fanti con millequattrocento cavalli deve costarne 535,849: aggiungi 300,000 fiorini per le prime spese della spedizione, saranno 835,849 fiorini. Il Sanuto ragguaglia il fiorino a due soldi di grossi di Venezia; onde questa spedizione dovea costare 1,671,789 soldi di grossi. Il soldo era la ventesima parte della lira, e la lira valeva dieci ducati, i quali allora doveano conguagliare a diciassette franchi d’oggi. Tale esercito dovea dunque costare 14,210,282, cioè ogni uomo annui mille franchi.
Si può avere la riprova di questa stima comparandola ai valori fissi delle grasce. Il Sanuto ce ne porge il mezzo, dicendo: — La libbra di biscotto costa quattro denari e un terzo. La razione giornaliera di un uomo essendo una libbra e mezzo, costerà denari sei e mezzo; quarantacinque libbre consumate da un uomo in trenta giorni costeranno sedici soldi e tre denari, moneta piccola: e in dodici mesi, cinquecentoquaranta libbre di biscotto saranno costate sei soldi di grossi, un grosso e quattro denaretti». Quest’ultima somma dunque rappresentava a que’ tempi 540 libbre di pane; 1,671,790 soldi dovevano rappresentarne 149,218,334. Tale quantità equivaleva a 17,177,145 libbre metriche. Ponendo quel pane a 20 centesimi, darebbero 14,235,409. I due computi servono dunque di riprova un all’altro.
Potrebbe tentarsi lo stesso calcolo sul vino, le carni salate, i legumi, e così via; ma la variabilità di valore di tali comestibili e l’incertezza sulle misure antiche renderebbero troppo ipotetica la stima. Al sommar dei conti però avremo che per nutrire un uomo a pane, vino, carne salata, fave, cacio voleansi l’anno dodici soldi di grossi, cioè lire 102.
421. Thesaurus regis Franciæ acquisitionis Terræsanctæ de ultra mare, nec non sanitatis corporis ejus, et vitae ipsius prolungationis, ac etiam cum custodia propter venenum.
422. Ad Nicolaum V pontificem strategicon adversus Turcas.
423. Par., IX. 126; e nel XV,
Dietro gli andai incontro alla nequizia
Di quella legge, il cui popolo usurpa,
Per colpa de’ pastor, vostra giustizia.
424. Sta negli archivj di corte a Torino il conto del viaggio di esso duca in Oriente.
Amedeo III di Savoja nel 1147 volendo crociarsi, prese a prestito dal monastero di San Maurizio d’Agaceno una tavola doro del peso di sessantacinque marchi, guarnita di pietre preziose.
425. Ghirardacci, St. di Bologna, lib. IV.
426. Maffei, Notizie generali sopra Verona.
È nota la storiella dell’asino che condusse Maria in Egitto, e infine capitò a Verona, o chi dice a Genova.
Lo statuto di Verona del 1228 porta che il podestà giura: Eum peregrinorum post crucem, qui ivit vel ibit ultra mare, defendam in suis possessionibus rerum mobilium et immobilium vel sese moventium, quas detinuit vel detinebit sine litis inquietudine usque ad crucem susceptam; si tamen reliquerit procuratorem, qui possit agere et conveniri de quasi re mobili... De rebus vero immobilibus eis absentibus jus non dicatur.
427. Nella Storia d’Incisa e del celebre suo marchesato (Asti 1810) è riferita una carta del 1204 fatta colà, ove dicesi che Bonifazio marchese di Monferrato regalò al Comune un pezzo della santa croce e l’ottava parte d’uno stajo d’un grano color d’oro e parte bianco, non prima usato e portato dalla Natolia, e detto melica. Il documento dev’essere spurio, nè del grano turco appare memoria prima della scoperta dell’America. Però nell’archivio vescovile di Bergamo trovo un atto rogato da Montenario de’ Papi die IV exeunte octobri del 1249, ove Alberto di Terza vescovo investe a titolo di perpetua enfiteusi i sindaci del comune di Sorisole di tutta la decima appartenente al vescovado ne’ territorj di Sorisole e Poscante, un sestario di vino, una corbam de loa panici quæ extimatur duo sextaria, etc. Anche oggi chiamasi loa lo spigone del turco, il quale pure è detto panico in molti luoghi. Questo documento, da niuno osservato, ch’io sappia, merita dunque qualche attenzione.
428. Delle navi spedite da Venezia in ajuto di san Luigi una era lunga centotto piedi, larga settanta; una centodieci per settanta; nessuna meno di ottanta. Marin Sanuto.
429. L’Iter siriacum del Petrarca è una descrizione del viaggio a Gerusalemme, diretta a Giovanni da Milano, che probabilmente era un Mandelli.
Lionardo di Nicolò Frescobaldi fiorentino (il cui viaggio fu edito dal Manzi il 1817) nel 1384 passava in Palestina, per tutto venerando e cercando reliquie, e noverando quelle che vide a Venezia, in Egitto, poi in Palestina; finchè «in capo d’undici mesi e mezzo rientrammo in casa nostra, dando consolazione alle nostre famiglie. Trovammo a Vinegia molti pellegrini franceschi e alquanti viniziani, fra’ quali fu messer Remigi Soranzi di Vinegia, il quale convitò una sera a cena tutti quelli che doveano andare al Sepolcro, e fecesi grande onore, e la sua casa parea una casa d’oro, ed avvi più camere che poco vi si vede altro che oro e azzurro fino; e costògli da duemila ducati, e bene tremila ve ne spese poi lui». Andò con lui Simone Sigoli, del quale pure fu nel 1822 trovato il viaggio, di schiettissima dettatura, e col lungo catalogo di tutti i perdoni che si aveano in Terrasanta. Del 1431 vi tornò la terza volta fra Mariano da Siena, del quale parimenti teniamo la descrizione: — In sulla terza, col nome dello sviscerato ed innamorato Gesù entrammo nella santa città, e nella prima entrata, chi vi va in atto di peregrinazione confesso e pentito, si ha plenaria indulgenza e remissione di tutti i peccati; e chi vuole piaceri e consolazioni spirituali, faccia questo cammino. Io per me lo dico, che mai non seppi che consolazione spirituale si fosse se non qui, e passa tutti i cammini, sia qual si vuole». Egli assicura che «il mezzo del mondo ad literam viene in mezzo fra ’l luogo dove Cristo fu crocifisso e dove resuscitò... Rimpetto alla natività, scendendo tre scaglioni, si è quello santo presepio, nel quale la dolcissima Madre riposò il suo dolcissimo Figliuolo Gesù piccolino; e qui il bue e l’asino l’adorarono, e feciongli buona compagnia. Questo è il più devoto luogo che io mai vedessi; ogni cosa è un sasso; la mangiatoja è tutta foderata di bellissimi marmi; allato si ha un altare. Dissivi messa... ed ebbine la maggior consolazione del mondo. Tuttavia mi parea avere quell’amoroso Bambino dinanzi gli occhi nella mangiatoja; e così tutti gli altri peregrini si comunicano. Tutta la notte non possono stare i peregrini in chiesa nè nessun cristiano, perchè vi stanno que’ Saracini che ci accompagnano, ed hanno grandissima devozione al luogo della natività di Cristo».
Francesco Baldelli nel 1551 tradusse in italiano la Prima Crociata di Roberto Monaco; ed è commovente l’entusiasmo de’ pellegrini al primo vedere la città santa: — O quante lagrime, pietosissimo Dio e giustissimo Signore, sparsero gli occhi dell’esercito tuo fedelissimo, allorachè per loro si videro le mura della terrena Gerusalemme! Quindi tosto chinandosi verso la terra, con la bocca e col capo salutarono divotamente il santissimo sepolcro del corpo suo sacratissimo, ed appresso adoraron te, che morto in esso giacesti, come quello che siedi alla destra del Padre, come quel giudice che venir dèi a giudicar le cose tutte. Ora sì che si può veramente dire che per te fosse addolcito il cuore di ciascuno, e che dove prima era di pietra, da te levato, fu dato loro di carne; e nel mezzo di loro mandasti lo Spirito Santo».
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare il testo in greco è stato trascritto tal quale, senza alcuna correzione; si è proceduto in modo analogo per l'equazione nella nota 334 pag. 403.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.