The Project Gutenberg eBook of Storia degli Italiani, vol. 12 (di 15)

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Title: Storia degli Italiani, vol. 12 (di 15)

Author: Cesare Cantù

Release date: July 28, 2023 [eBook #71290]

Language: Italian

Original publication: Italy: Unione Tipograficp/o-Editrice

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

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C. CANTÙ
STORIA DEGLI ITALIANI TOMO XII.


STORIA
DEGLI ITALIANI

PER

CESARE CANTÙ

EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

TOMO XII.

TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1877


INDICE


[1]

CAPITOLO CLX. I Pontefici. Ferrara e Urbino. Guerra di Castro. Contese pel giansenismo e per la regalia.

La natura elettiva del sovrano a Roma portava per ciascuna vacanza una rivoluzione. Appena il papa avesse chiuso gli occhi, prorompevasi a sparlarne quando più non era pericolo, e a sbottonare i favoriti di esso; generalmente il nuovo eletto congedava il segretario di Stato del predecessore, e con gente nuova e inesperta cambiavasi e politica e amministrazione. L’Impero, Spagna, Francia, Savoja intrigavano nel conclave per mettere la tiara a un loro benevolo, usufruttando i voti di cui ciascuna disponeva. Per ispirazione, cioè ad unanimità, o per compromesso eleggeasi rarissime volte; le più per iscrutinio, dov’è necessario l’accordo di due terzi dei cardinali presenti. Fra i parteggianti orzeggiava un battaglione volante di cardinali, insufficienti a eleggere, bastevoli ad escludere: il che prolungava le vacanze, durante le quali l’amministrazione sfasciavasi, la giustizia si rilassava, ricomparivano le bande.

Gregorio XV nel breve regno tentò riparare agli abusi del conclave: ma come, se tanti ne faceano profitto? Matteo Barberini di Firenze, arricchitosi ad Ancona trafficando, gli successe col nome di Urbano VIII (1623). D’età fresca, avvezzo agli affari, di salute atletica, d’ingegno ameno, leggeva versi moderni e ne facea, prediligendo chi glieli lodasse; chiamò di Germania i dotti Luca Olstenio ed Abramo Echellense, di Levante Leone Allacci, oltre il fiore degl’Italiani; agli ecclesiastici interdisse [2] i negozj secolareschi; pubblicò migliorato il Breviario romano, correggendone egli medesimo gl’inni; da San Benedetto di Polirone nel Mantovano fece trasferire le ceneri della contessa Matilde in Vaticano, ponendole un mausoleo, di cui Lorenzo Bernini fece il disegno e la statua, il resto suo fratello Luigi, Stefano Speranza il bassorilievo che rappresenta Enrico IV ai piedi di Gregorio VII. Se mostravangli i monumenti di marmo de’ suoi predecessori, diceva, — Io ne erigerò di ferro»; e pose Forte Urbano alle frontiere di Bologna; fortificò Roma; istituì a Tivoli manifatture di armi; arsenale e soldati a Civitavecchia, dichiarata portofranco, in modo che i Barbareschi venivano a vendervi le prede fatte sui Cristiani.

Sentendo alto di sè, comportavasi con autorità assoluta, dicendo: — Io intendo gli affari meglio di tutti i cardinali uniti». Gli si faceva un’objezione tratta da antiche costituzioni papali? rispondeva: — La decisione d’un papa vivo val meglio di quella di cento papa morti». Voleasi fargli adottar un’idea? bisognava esibirgli la contraria. Per tutta Europa era invocato arbitro; ma non che degnamente sostenere la sublime parte, cogli ambasciadori chiaccherava, dissertava, anzi che stringere, e volgeasi al sì e al no per capriccio, non per ponderazione.

Disastravano allora le cose de’ Cattolici in Germania; e Gustavo Adolfo di Svezia, vinti più volte gl’imperiali, minacciava voler celebrare i suoi trionfi a Roma. Urbano avrebbe dovuto profondere per la causa cattolica; ma le cose italiane, e massime il sacco di Mantova aveangli reso odiosi gli Austriaci.

Di que’ tempi al dominio papale s’aggiunsero Ferrara e Urbino. Nella prima risedevano i signori d’Este, tenendo i ducati di Modena e Reggio e la contea di Rovigo dall’Impero, il ducato di Ferrara dal papa. Sotto [3] Ercole I, Ferrara contava fin ottantamila abitanti, ricchi edifizj, lieta compagnia; ma quando Montaigne qui viaggiò, trovava Ferrara spopolata, il Po di Primàro e di Volàno interrito (1559), giacchè Alfonso II occupava intorno ai proprj terreni e ad abbellire la Mesola i denari e i villani che i Comuni eran obbligati somministrare per mantener le dighe e regolare le acque; poi gravava i sudditi con balzelli sopra ogni oggetto, facea monopolio del sale, dell’olio, della farina, del pane; proibita la caccia, salvo pochi giorni ai nobili e con tre cani al più, e appiccato chi violasse le bandite.

La Corte però era salita in nome e ricchezza, destreggiando con una politica che la fece star in piedi nella caduta degli altri principi. Favorendo i letterati, associava le proprie lodi all’immortalità di quelli; ivi s’aprivano dispute accademiche; ne’ suoi teatri s’inventò o ripulì il dramma pastorale; splendide feste e rappresentazioni e tornei, fin di cento cavalieri, porgevano occasione di raccorre forestieri, e di ostentare la cortesia del principe e delle dame cantate dal Tasso. Giambattista Pigna e il Montecatini, professori dell’Università, divennero successivamente primi ministri, senza interrompere gli studj e le lezioni; Battista Guarini fu spedito ambasciadore a Venezia e in Polonia; Francesco Patrizi accarezzato. Ma la protezione che Alfonso, uomo d’angusti spiriti, concedeva alle lettere, era superba e intollerante; al Tasso, forse perchè mostrò dare ascolto ai Medici che l’invitavano a Firenze, tolse la grazia e la libertà; l’illustre predicatore Panigarola, tratto con gran fatica a Ferrara, ne fu violentemente sbandito appena parlò di trasferirsi altrove. Interminabili dispute agitò Alfonso col granduca di Toscana per la precedenza, combattè in Ungheria contro i Turchi, brigò per divenire re di Polonia. Non avendo prole da tre mogli, studiava che i suoi sudditi non cadessero sotto forestieri; [4] e malgrado lo statuto di Pio V che vietava d’infeudare Stati ricadenti alla santa Sede, ottenne dall’imperatore di trasmettere i suoi al cugino Cesare, nato da un figlio naturale di Alfonso I.

Di fatti gli fu posto il manto ducale con festa tanto maggiore, quanto più si era temuto perdere l’indipendenza: ma la Camera pontifizia ob lineam finitam seu ob alias causas pretese ricaduto quel ducato. Don Cesare pensò che i principi per gelosia non consentirebbero mai ai papi l’acquisto di Ferrara; ma Clemente VIII i diritti papali sostenne (1597) con quarantamila soldati, ed una delle bolle più furibonde lanciò contro Cesare e chiunque il favorisse. In conseguenza nessun principe osò chiarirsi per lui, e don Cesare debole, circondato da insidie e da terrori spirituali, e vedendo i Ferraresi propensi al dominio pontifizio, cercò patti, e furono ch’e’ non rinunziasse, ma consegnasse il ducato di Ferrara, Cento, la Pieve e gli altri luoghi di Romagna, serbandosi i beni allodiali del duca Alfonso. Casa d’Este restò dunque spossessata di Ferrara e anche di Comacchio e Argenta, che pur teneva dall’Impero; e Cesare ritiratosi a Modena, vi cominciò la linea ducale di Modena, Reggio e Carpi durata sin al 1803[1]. I natii, al solito, rimpiansero caduta quella signoria che fiorente aveano aborrita; Ferrara, ridotta città di provincia, perdette il lustro e la popolazione; e una fortezza eretta nel quartiere più frequentato la imbrigliò. Il papa conciliossi i nuovi sudditi rintegrando i privilegi [5] municipali, formando un consiglio di ventisette nobili alti, cinquantacinque di piccoli e cittadini notabili, e diciotto delle corporazioni.

Il ducato d’Urbino comprendea sette città e forse trecento borgate dell’antica Umbria, con fertile costa marittima e grate montagne; e potea fruttare centomila scudi quando il commercio de’ grani in Sinigaglia prosperava. I duchi, militando al soldo straniero, e godendo la carica, ormai nominale, di prefetti di Roma, lucravano al paese più che non costassero; e pomposi, letterati, rispettando gli statuti, faceansi benvolere (t. IX, p. 122). Guidubaldo, succeduto all’illustre Federico di Montefeltro, fu da Cesare Borgia spossessato (1502), restituito al cadere di questo, colmo di favori da Giulio II che l’indusse a chiamar erede il comune nipote Francesco Maria della Rovere. Questo, succedutogli, servì come capitano generale alla Chiesa; ma Leon X (1508) tolse a deprimerlo per sollevar casa sua, e presogli il ducato, ne investì Lorenzo de’ Medici. Venuto Adriano VI, Francesco tornò (1538), e consolidossi, e fu considerato tra le migliori spade d’Italia, e non meno Guidubaldo II.

Francesco Maria II costui figlio visse lungamente in Corte di Filippo II, e contro cuore (1574) sposò Lucrezia d’Este; egli di venticinque, ella di quarant’anni; onde dissapori e separazione. Morta lei, sposò Livia della Rovere, e il popolo si desolava non vedendone frutti; e facea preghiere e voti a sant’Ubaldo protettore di quella casa. Qual gioja allorchè s’annunziò gravida la duchessa! quale, allorchè al popolo, accalcato davanti al palazzo, Francesco annunziò (1605) che Dio gli avea dato un maschio! Il tripudio andò agli eccessi: ci volle truppa per frenarlo, si corse a saccheggiare il ghetto degli Ebrei, vittime designate nelle disgrazie come nelle gioje; dalla città si diffuse l’esultanza al contado, e durò tanto, che si dovette con decreto ordinare si cessassero le [6] dimostrazioni e gli spari di fucili. Questo Ubald’Antonio sposò Claudia de’ Medici; ma scapigliatosi a tutti i vizj, per ligezza all’Argentina commediante montava fin il palco, e una volta figurò da asino, portando in ispalla molti dei comici, e rovesciando di dosso una soma di stoviglie; una mattina fu trovato freddo nel proprio sangue vomitato (1623). Francesco Maria, che aveagli rinunziato il governo, fu costretto ripigliarlo, e veder disputata la sua eredità fra il papa cui ricadeva, l’imperatore che ne pretendeva la sovranità, i Medici che la ambivano per l’antica concessione di Leon X: e appena chiuse gli occhi, i suoi beni allodiali andarono alla città di Firenze, il resto fu incamerato da Urbano VIII (1631), che vi pose governatore il cardinale Barberini suo nipote. In quell’occasione riservò la libertà di San Marino, come faceano i duchi.

Malgrado di tali acquisti, tutt’altro che ricca era la Camera pontifizia, e occorrevano continui prestiti; sicchè i Monti, sotto Paolo V tanto cercati, scaddero di valore; i debiti del 1635 sommavano a trenta milioni di scudi, mentre l’entrata computavasi di tre milioni[2]. L’arte delle finanze consisteva tutta nel far debiti e istituire nuovi Monti, accettando anche depositi forestieri, talchè alla sola Genova spedivansi ogn’anno seicentomila scudi di frutti. Ne crescea nerbo alle case mercantili, che [7] teneano le casse, esigevano, sovvenivano e aprivansi l’adito a dignità civili ed ecclesiastiche. Del resto nullo il commercio; l’agricoltura scaduta, prima pel cumularsi delle piccole proprietà nelle grosse famiglie, poi per le selve distrutte, sia da Gregorio XIII onde estendere la cultura dei grani, sia da Sisto V per isnidare i masnadieri; di che l’aria peggiorò senza per questo crescesse la produzione; anzi addoppiaronsi i rigori contro l’asportazione, i poteri del prefetto all’annona, e la miseria comune.

Abbondavano le ricchezze naturali; traendosi allume dalla Tolfa, sale da Ostia, Cervia, Comacchio, con pesche di cefali e anguille; lini da Faenza e Lugo; canapa da Cento e Butrio, dalla Pieve e dal Perugino; guado dal Bolognese e Forlivese; rape grossissime da Norcia e Terni; manna da San Lorenzo e Terra di Campagna; pignuoli da Ravenna, vini buoni dappertutto e prelibati da Cesena, Faenza, Rimini, Orvieto, Todi, Montefiascone, Albano; uva passerina da Amelia e Narni; bovi principalmente dalla Campagna, caccie dal Lazio verso Sermoneta, Terracina, Nettuno, dove coglievansi grossissimi cinghiali; le razze de’ cavalli non iscapitavano da quelle del Regno; le selve erano inesauste di ghiande e legname da opera; eccellenti le piante da fabbrica. Così il Botero, il quale riflette come la Romagna, posta nel centro d’Italia, sia la meno esposta ai Barbari e la più atta a sommovere o tener in pace l’Italia; i suoi porti non darebbero asilo a un’armata assalitrice, e la malaria struggerebbe chi accampasse sulle coste. Eccellenti le fortezze; abbondanti guise di premiar o punire, di donare senza scapito, di conferire dignità fin pari alla regia. Pure la capitale non trovasi nel centro; moltissimi i ladri: le fortezze non bastano; le paludi appestano i contorni di Ravenna, Bagnocavallo, Lugo, Bologna; scarsa è la popolazione, che esce a servigio altrui.

[8]

V’erano poi entrate ignote altrove, e la nomina dei benefizj, sebbene in Francia e in Germania fosse riservata al re od ai capitoli, in Ispagna e in Italia restava ancora diritto papale lucroso, e molto denaro traevano a Roma gli altri uffizj, le dispense, il concorso dei devoti e degli ambiziosi; e in parte adopravasi al vantaggio generale del cattolicismo, in parte alle spese dello Stato, e in abbellire la residenza. Clemente VIII arredò gli appartamenti in Vaticano; Paolo V, oltre finire San Pietro, spianò ed allargò vie, fece la sfarzosa cappella in Santa Maria Maggiore, e da trentacinque miglia lontano condusse sul Gianicolo l’acqua Paola; Gregorio XV terminò la villa interna; Urbano VIII molte chiese e più fortificazioni; Innocenzo X piazza Navona e la villa Pamfili; Alessandro VII piazza Colonna, la Sapienza con giardino botanico e teatro anatomico, il colonnato di San Pietro, l’arsenale di Civitavecchia; tutti arricchirono la biblioteca Vaticana. I nuovi edifizj cresceano talvolta colla ruina degli antichi, le terme di Costantino vennero sfasciate sotto Paolo V per formare il palazzo e il giardino: col levare dal tempio della Pace la colonna che sta dinanzi a Santa Maria Maggiore, la volta che vi si appoggiava precipitò; sotto Urbano VIII, per fortificare Montecavallo non si rispettarono le anticaglie del giardino Colonna, si levò il bronzo dal Panteon, e si pensava adoprare le pietre del mausoleo di Cecilia Metella per la fontana di Trevi, se il popolo non s’opponeva a forza; e Pasquino esclamava: — Quel che non fecero i Barbari fanno i Barbarini».

Principi nuovi e vecchi gareggiavano di sfarzo tra loro e cogli ambasciadori stranieri, che tenean non solo grandissima famiglia, ma guardie a cavallo e a piedi; e Roma divenne il teatro dove le potenze, come raffinavano intrighi, così sfoggiavano magnificenza; ciascuna voleva si eleggessero cardinali suoi sudditi, e ne stipendiava [9] uno o più a proteggere i suoi interessi, e perciò menar brighe, e incalorirsi di tutt’altro che della Chiesa[3]. La porpora splendeva ne’ consigli dei re, a capo degli eserciti, a governo delle provincie, ornando i cadetti delle famiglie principesche, che talora la deponevano per regnare: Alessandro VII pensava a Dio dover essere più grato o più decoroso il trovarsi servito da persone bennate: ma nelle idee del secolo dovea dissolversi la disciplina, i cardinali mantenevano codazzo di bravi, e ai parenti offrivano il destro d’intrigare e imbaldanzire. Il cardinale Ferdinando de’ Medici, che divenne poi granduca, avea colle scostumatezze e le prepotenze disgustato Sisto V, il quale mandò chiamarlo, disponendo che nell’andarsene fosse arrestato. Venne egli, ma nell’inchinarsegli lasciò, di sotto alla porpora, apparire corazza e stocco, e al papa chiedente disse: — Questa è abito di cardinale, questo di principe italiano». Sisto potè ben minacciare di cavargli di testa il cappel rosso; ma inteso come avesse da’ suoi fatto occupare i dintorni del Vaticano, dovette lasciarlo andare.

[10]

Colle case antiche legavansi in matrimonio i parenti che ciascun prelato e cardinale traeva dal nulla; altri occupavano posti lucrosi: gente nuova che cercava eclissar l’antica, donde gare di preminenza; fermare la carrozza per lasciare il passo a quella d’un nobile maggiore; aprire due battenti o un solo nell’introdurli; cedere il passo nelle comparse; e Matteo Barberini dopo fatto prefetto di Roma pretese la preminenza su tutti gli ambasciadori, sicchè stette a un punto che tutti non se n’andassero.

Dacchè le costituzioni nuove e l’opinione impedivano di dar principati ai nipoti, i papi prodigavano ad essi ricchezze; per verità non involandole allo Stato, ma dalle eccedenze della dignità ecclesiastica. I parenti di Sisto V formarono una grossa famiglia, legata con altre di prima schiera: più potenti vennero gli Aldobrandini sotto Clemente VIII; nel 1620 i Borghesi aveano ricevuto da Paolo V scudi 689,727 in denaro, 24,600 in valori di Monti, e cariche la cui compra ne sarebbe costati 268,176, oltre terre, argenterie, mobili, gioje; sterminata opulenza, da cui quella famiglia sviò l’invidia colla splendidezza e le beneficenze.

Col denaro o con matrimonj questi nuovi nobili procacciavansi anche signorie, ovvero i re ne gl’investivano per ingrazianirsi il papa: Ludovisi ebbe il principato di Fano dagli Sforza, dai Farnesi quel di Zagarolo, e per matrimonio quei di Venosa e Piombino; Urbano VIII avendo chiesto ad una commissione fin a quanto il papa possa donare, ebbe in risposta, al papato andare necessariamente congiunto un principato temporale, e di questo poter lui donare liberamente alla sua famiglia, fondare un maggiorasco d’ottantamila scudi d’entrata netta, e dotar figlie per centottantamila. Si computò che i tre fratelli Barberini ricevessero per cencinque milioni; ed essi instavano, i consiglieri persuadevano, [11] i potenti tolleravano che il papa gl’infeudasse d’Urbino; ma egli seppe resistere, e lo unì, come dicemmo, al patrimonio della santa Sede; solo al nipote Taddeo diede la carica di prefetto di Roma, già ereditaria nei Della Rovere, e che, oltre l’onore, fruttava dodicimila ducati. L’ambizione di questi nipoti trasse Urbano in una deplorabile contesa.

Tra le case di nuova schiusa primeggiavano i Farnesi, duchi di Parma e signori di Castro e Ronciglione, feudo papale tra la Toscana e il Patrimonio di San Pietro, che giungeva sin alle porte di Roma, e rendeva da tre milioni. Alessandro Farnese, dopo combattuto eroicamente a Lépanto e in Fiandra, e fabbricata la cittadella di Parma, morì di soli quarantott’anni (1592) per ferite ricevute all’assedio di Rouen; e la sua statua equestre, opera di Gian Bologna, orna la piazza di Piacenza insieme con quella del figlio Ranuccio. Costui, che aspirò anche alla corona di Portogallo, e dal papa ebbe per sè e pei successori la dignità di gonfaloniere quando sposò una Aldobrandini, favorì le lettere e l’educazione; ma memore di Pier Luigi, temeva sempre congiure, e considerando i sudditi come nemici, tali li facea diventare.

Questo Tiberuccio (1612), come essi il qualificavano, pretese scoprire una trama, della quale erano capi i Sanvitali, e partecipi le famiglie Torelli, Masi, Scotti, Sala, Simonetta, Malaspina, Correggio, Canossa; e coi modi che si suole provò che, sull’effigie di Maria aveano giurato, in occasione del battesimo, trucidare lui e un suo neonato, e il cardinale Farnese, i ministri, i soldati, e saccheggiar le case. Invano la città e la nobiltà aveano mandato a chiedergli ragione di quegli arresti; non poterono che ottenere una forma di processo, dalla quale uscirono scolpati i men ricchi: ma i possessori de’ pingui feudi di Colorno, di Sala, di Montechiarugolo [12] furono decapitati o impiccati, compresa la bella Barbara Sanvitali, un tempo amata dal duca; un costei figlio fu schiacciato fra due pietre, l’altro evirato; trattine al fisco i beni, forse unica loro colpa. Poichè i parenti loro ne portavano doglianze al granduca, Ranuccio spedì a Cosmo una copia del processo per mezzo d’un ambasciadore; e Cosmo gli mandò di ricambio un processo, nel quale era provato in tutta forma che esso ambasciadore aveva ucciso un uomo a Livorno; egli che a Livorno non era stato mai. Dovunque sono secreti i processi, si rassegnino i principi a quest’orribile dubbio. L’infante don Ferdinando di Parma, quando il secolo passato mise di moda la filantropia, ordinò al generale Comaschi di riassumere quel processo; ed egli dichiarò che, quanto alle forme, la pena era stata legittima.

Per allora gli amici e i parenti de’ giustiziati si diedero a devastar il Parmigiano; i duchi di Mantova e di Modena domandavano soddisfazione dell’essere stati indicati come complici; e a pena il papa riuscì a sviare la guerra.

Odoardo costui figlio, in lega coi Francesi (1622), per far guerra agli Spagnuoli dovette contrarre debiti, ipotecandoli sul ducato di Castro. Questo facea gola ai Barberini, i quali speravano che il duca, ridotto in angustie, si rassegnerebbe a venderglielo; ma Odoardo, principe d’alti sentimenti, d’ostinata volontà e scaltra prudenza, mentre si guadagnava il vecchio pontefice col lodarne i versi e leggere seco e commentare il Petrarca, dispettava i nipoti, e negò dar una figlia al governatore don Taddeo: poi stanco delle vessazioni de’ Barberini, tutto armato con una trentina di seguaci presentossi allo sbigottito papa, e gli riferì quel che nessuno osava, l’odio che i nipoti attiravano sul suo governo, mostrando che aveano fin attentato alla vita di lui. Viepiù inviperiti, [13] i Barberini spinsero lo zio a molti provvedimenti che deteriorassero le rendite di Castro, massime a impedire d’estrarne i grani; di modo che i creditori, trovandosi diminuite le entrate, disdissero l’appalto e reclamarono un compenso. Odoardo allora munisce Castro di truppe e fortificazioni; il papa vi vede un atto di ribellione, e armati seimila fanti e cinquecento cavalli e artiglierie, scomunica Odoardo (1644), e move per togliergli anche Parma e Piacenza. Ma il duca impegna fin le gioje per allestirsi alla difesa; riesce a trar dalla sua Modena, Parma, Firenze, Venezia, ingelosite dell’incremento del papa, e invade lo Stato del papa, il cui esercito, quantunque numerosissimo, si volta in fuga. Roma sbigottisce all’avvicinarsi del nuovo Attila, diceano i preti, del nuovo Borbone; il papa rifugge in Vaticano, non meno sdegnato contro il Farnese che contro i nipoti ingannatori: la guerra di quattro principi italiani contro un papa italiano, menata fiaccamente, mandava intanto all’ultima rovina il paese, ai soliti mali aggiungendosi i masnadieri, i cui capi assumeano l’insegna d’alcuno de’ belligeranti. Alfine mediante Francia si rinnovò la pace (1644), rimettendo le cose nel primo assetto: ma il paese restò peggiorato di dodici milioni e molte vite, il papa umiliato.

I Barberini erano aborriti per l’attentato, vilipesi pel mal esito; diceasi che quaranta milioni d’oro fossero passati nelle loro mani dalla Camera apostolica, rimasta indebitata di otto milioni; e perchè le loro entrate fra ecclesiastiche e laicali sommassero a quattrocentomila scudi, essersi gravato il popolo di straordinarie gabelle, alienate poi col fondare nuovi Monti, e venderli a particolari; sicchè dei due milioni d’oro che rendea lo Stato, un milione e trecentomila andavano a pagare interessi, residuandone appena settecentomila pei bisogni. Tutti aspettavano la vacanza per moderare [14] la monarchia, in modo che il pontefice cessasse di poter quello che voleva; ma morto Urbano, i cardinali che aspiravano alla tiara non la voleano diminuita.

Giambattista Panfili, col nome di Innocenzo X (1644) portato pontefice dalla famiglia medicea, chiese severo conto ai Barberini; ma il cardinale Mazarino, malvolto al papa dacchè questo avea negato la porpora a un suo fratello, e preso segretario di Stato il cardinale Panciroli suo avversario, godè di guadagnare alla causa francese una famiglia così potente e denarosa, e che allora avea tre cardinali. Gli accolse dunque in Francia, mentre i palazzi e Monti loro erano sequestrati, e minaccie del parlamento e benigne lettere della regina interpose affinchè fossero rintegrati. Il papa ricusava che altri s’intrigasse della particolare giustizia di lui con sudditi suoi; e il Mazarino, col pretesto di staccarlo dal favorire a Spagna, mandò ad Orbitello un esercito, guidato da quell’inquieto Tommaso di Savoja. I Barberini, che in Francia aveano preso per divisa le api sotto ai gigli col motto gratior umbra, alfine vennero assolti come si suole coi ladri grossi; anzi aggregati alla nobiltà di Venezia, cui aveano ajutato di denaro contro i Turchi.

Il Panfili erasi sempre mostrato restìo nelle grazie, di sorta che alla dateria lo chiamavano Monsignor non si può: e il rigore dei primi tempi del suo pontificato, e la stretta economia promettevano un papa intemerato: ma donn’Olimpia Maldachini, ricchissima viterbese, la quale, sposando il fratello di lui, aveva dato lustro alla loro famiglia, ben presto divenne arbitra d’ogni cosa; a lei visite gli ambasciadori, a lei regali le Corti straniere e chi volesse impieghi; il suo ritratto nelle stanze dei prelati; i Ludovisi, i Giustiniani, gli Aldobrandini rinterzarono parentele, intrighi, amicizie, rivalità domestiche, le quali recarono in cattiva nominanza Innocenzo.

[15]

Il vero è che il papa, più che settagenario, conservò la lealtà operosa, obbligò i ricchi a soddisfare ai debiti verso i poveri, stabilì ordine e sicurezza in Roma, e pensava abolire i piccoli conventi, che diffusi in castelli e in campagne, annidavano ozio e superstizioni. Non dando ombra ai principi italiani, riuscì a quell’impresa di Castro dove l’impeto del suo predecessore era fallito. Il vedere le bandiere farnesiane sventolare sì presso a Roma spiaceva ai papi, tanto più che i Montisti, non soddisfatti de’ loro crediti, recavano continui lamenti contro il duca. Il teatino Cristoforo Giarda, dal papa nominato vescovo di Castro, mentre vi andava fu ucciso (1647), e si credette opera di Ranuccio nuovo duca, o del provenzale Gioffredi che il menava a sua voglia. Il papa ne vuole vendetta e assedia Castro: Ranuccio arma, ma non può impedire che sia preso e distrutto, e piantatavi una colonna che diceva, Qui fu Castro. Ranuccio, minacciato anche ne’ proprj Stati, manda al supplizio il Gioffredi, e cede Castro e Ronciglione, che crebbero i dominj ma insieme i debiti della santa Sede.

Cotesti sono ben altri interessi che quelli in cui vedemmo faticarsi i papi ne’ secoli di mezzo, quando chiamavano il mondo all’evangelica civiltà, e difendevano le franchigie dell’uomo contro i tiranni di qualunque maniera fossero, il regno della terra posponendo a quello de’ cieli, cioè alla verità, alla morale, alla giustizia.

Dopo trent’anni di guerra civile e religiosa, che devastò non solo la Germania ma tutta l’Europa, fu conchiusa a Westfalia una pace (1648), la quale, costituendo legalmente come protestante una metà dell’Europa, toglieva ai papi ogni speranza di ricuperare il mondo alla loro monarchia. Innocenzo protestò contro quell’atto, riprovando, annullando, destituendo d’ogni effetto gli articoli suoi come pregiudicevoli alla religione, al culto divino, [16] alla salute delle anime, alla sede apostolica, e rimettendo nel primiero stato quanto concerne la sede romana, le chiese, i luoghi pii, le persone ecclesiastiche. I fulmini avevano conservato il fragore, ma perduto il colpo.

Tre mesi durata la schermaglia del conclave, uscì papa Fabio Chigi (1655) col nome di Alessandro VII[4]. Avea declamato contro il nepotismo, e vietò che parenti suoi entrassero in Roma: ma oramai era necessità un cardinale nipote, col quale gli ambasciadori forestieri usassero le confidenze che soglionsi al ministro degli affari esteri negli altri paesi; e che di questo adempiendo gli uffizj, molti affari lasciava alla congregazione di Stato. Alessandro dunque si abbandonò anch’esso a un nipote, e ristrettosi alla letteratura e a fabbricare, meditava raccogliere a Roma un collegio de’ più gran dotti cristiani per valersene nelle controversie della fede e a confutare le opere ostili, a mantenerli applicando i beni de’ monasteri rilassati. Ma questo e altri vasti divisamenti la morte troncò.

Clemente IX (1667), che col nome di Giulio Rospigliosi avea fama di buon poeta drammatico, la gabella del grano ricomprò coi risparmj d’Alessandro VII, al cui nome ebbe la generosità di farne merito; e sempre attese ad alleggerire gli aggravj imposti dai predecessori. Procurò rinnovare il lanificio; sedeva egli stesso in confessionale; visitava spesso gli spedali, in persona serviva dodici pellegrini ogni giorno, e predicava ai pitocchi; non destituì gl’impiegati del regno precedente; ai nepoti [17] scarseggiò di favore; e istituì una società di persone bennate, che facessero gli onori della città accogliendo i viaggiatori, e mostrando le meraviglie di Roma. La presa di Candia, che tanto egli aveva fatto per prevenire, gli accelerò la morte.

Scorsi quattro mesi e quattro giorni nel solito parteggiare, fu proclamato (1670) Emilio Altieri ottagenario, che si chiamò Clemente X. Non avendo nipoti, se ne creò coll’adottare la famiglia Paluzzi; arricchendola ma del suo, risparmiando anzi a sgravio del popolo, e detestando le quattro case impinguatesi coll’erario papale. Però gli Altieri si valsero della sua vecchiaja per invadere i posti, e far denaro.

Il più evidente argomento che alla varietà protestante opponesse la Chiesa era l’inconcussa unità sua, e la maestosa tranquillità nel vero; ma anche questa fu turbata. Il concilio di Trento avea lasciato irresoluta la questione sulla natura della Grazia, mistero della ragione e della fede; e sul modo di combinare il libero arbitrio colla predestinazione. Alcuni teologi attribuivano tutto alla Grazia, come i Domenicani: i Gesuiti sostenevano potere l’umana volontà anche produrre da sè opere moralmente buone, elevarsi ad atti di fede, speranza, carità, contrizione; allora Iddio concede la Grazia pei meriti di Cristo, donde viene la santificazione; senza che sia tolta l’attività al libero arbitrio, resa efficace da essa Grazia. Che le questioni s’inveleniscano trattandole, è della natura umana, e sembra più speciale de’ teologi, i quali, anche su punti abbandonati alla discussione, si tacciano spesso l’un l’altro d’eresia. Clemente VIII destinò una congregazione apposita sopra la quistione della Grazia, e in persona assistette a sessantacinque adunanze, ma morì prima di risolvere. Paolo V la congedò, ordinando un silenzio che era più facile imporre che ottenere.

[18]

Giansenio, vescovo d’Ypres ne’ Paesi Bassi (-1638), pubblicò un commento alla dottrina di sant’Agostino, dimostrandola differente da quella che sosteneano i Gesuiti. Allora i teologi accampano gli uni sotto la bandiera di quel santo, gli altri sotto la bandiera di san Tommaso; Urbano VIII condanna il libro di Giansenio, alcune Università lo difendono; cinque proposizioni di quello sono da Innocenzo X riprovate; e i fautori di Giansenio, non avventurandosi a impugnare l’autorità del papa, sostengono che esse non si trovano nell’opera di lui. Così s’infervorò la setta dei Giansenisti, che alcuni qualificarono di calvinismo temperato, poichè ammetteva anime predestinate alla gloria o alla perdizione, esagerava nell’applicazione de’ sacramenti in modo da renderli impraticabili, da perdere insomma l’uomo per desiderio di troppa perfezione.

La Francia, che si era schermita dalla Riforma, e dove Luigi XIV avea voluto conservare l’unità di credenze fin col cessare la tolleranza che l’Editto di Nantes concedeva ai Protestanti, e col perseguitare accannito chi perseverasse nell’eresia, allora si trovò scissa per una disputa interna; uscirono infiniti libri tra serj e beffardi, tra scientifici e popolari; si moltiplicarono bolle pontifizie: e sebbene nessuna escludesse i Giansenisti dal grembo della Chiesa, venne a complicarvisi la quistione della supremazia del papa; giacchè, se i Giansenisti non impugnavano la sua autorità decisoria, voleano però si potesse interpretarne i decreti.

Savie persone, moralisti rigorosi sostennero il giansenismo; e l’austera scuola di Portoreale, che diede i Pascal, i Nicole, i Sacy, gli Arnauld, i Racine, apponeva ai Gesuiti di condiscendere ad una morale lassa, la strada del paradiso tappezzando di velluto, e attenersi al probabilismo. Consiste questo nell’insegnare che, fuori dei comandamenti di Dio e delle decisioni della [19] Chiesa, si possa attenersi all’opinione probabile; ma mentre probabile è l’opinione, ad affermare la quale si hanno più ragioni che a negarla, alcuni giudicavano tale quella che fu sostenuta da alcun teologo, sebbene da altri combattuta.

La morale evangelica è consigliera indefettibile del partito più umano, del più generoso; ma posta a cozzo coll’umana natura corrotta e cogl’interessi individuali, resta offuscata dai suggerimenti dell’opportunità. Chiamato a dirigere al confessionale le coscienze individuali, e risolvere i dubbj particolari, qual terribile responsabilità non pesa sul confessore, su cui potrebbe cadere la colpa d’un atto consigliato, o non impedito, o assolto! Peccato che l’uomo abbia, la Chiesa non vuole abbandonarlo alla disperazione, ma lo chiama a pentire e soddisfare; però al pentito la riparazione non è sempre possibile, nè in preciso grado può determinarsi. In molti paesi poi sussisteva l’Inquisizione con norme severissime; e il lasciare un anno senz’assoluzione il peccatore, lo esponeva a quel rigido tribunale. Convenne dunque studiar ripieghi e compensi, che salvando i diritti della coscienza, affidassero del perdono, senza allettare colla soverchia agevolezza.

Da ciò nacque la scienza casistica, forse calunniata oltre il dovere. Il confessore non giudica se non sopra ciò che il penitente gli espone, e quindi innanzi tutto deve por mente all’intenzione, giacchè chi si confessa di un fallo mostra che la coscienza gliene rimorda, mentre chi opera contro coscienza pecca, quand’anche l’azione fosse irreprovevole. Ciò che più monta, il confessore dee porgere consigli per l’avvenire; onde avendo in mano le coscienze e le volontà dell’infimo uomo come del re, deve, fra la rettitudine subjettiva e l’objettiva, procurare scrupolosamente quell’accordo, nel quale sta la perfezione dell’atto morale. Or quanti casi non possono [20] presentarsi! quante sottigliezze a spiegare! quanta varietà di circostanze a valutare! Ecco dunque, e non più per dispute di scuola, ma per immediata applicazione, rinascere tutti i dubbj della morale; e se attenersi alla stretta lettera della legge, o permettersene l’interpretazione.

Maggiori esitanze sorgevano nelle regole della veridicità, e nelle obbligazioni originate da promessa. Che questa, anche data per ignoranza, o carpita con frode o violenza, obblighi ad ogni patto, è conforme al sentimento dell’abnegazione volontaria che il vangelo impone. Però sentivasi necessario racconciarsi colle circostanze e colle passioni, se non altro per salvare l’imperio della coscienza. Già in troppi casi l’interesse avea trovato sofismi onde fallire a una promessa; il mondo era abituato a transazioni fra la legge della carne e quella dello spirito, e nell’esitanza appoggiarsi ad esempj, ad opinioni individuali: ma ai Gesuiti si diè colpa d’avere per sistema stabilito una morale condiscendente, che ne conservò proverbialmente il nome. Nati nel secolo di Machiavelli e di Montaigne, faticando più che macerandosi, vôlti all’utile del genere umano ch’essi consideravano identico col trionfo della santa Sede, quanti ostacoli avrebbero trovati insuperabili se non avessero accettato per iscusa la rettitudine del fine! Chiamati a dar parere ai grandi, poteano sempre conciliare colla stretta onestà le convenienze e le inesorabili necessità della politica? e col ripudiare quest’insigne ministero, doveano privarsi di un sì potente mezzo di servire alla Chiesa e all’umanità?

Che che ne sia, col probabilismo non hanno a fare coloro che stillano sofismi per iscagionare i delitti, o camuffano la bugia in restrizioni mentali ed espressioni ambigue: e certamente quel secolo fu assai meno machiavellico del precedente. Ma quistioni tanto vitali in [21] tempo che tutti andavano al confessore, non è meraviglia se porsero lungo esercizio ai teologi non solo, ma ed ai parlamenti ed al bel mondo: e qualche anima superbamente inane cercò fino ripascolarne l’età nostra, in ben altri interessi e in ben più profondi dubbj sommersa.

La disputa intanto esacerbò l’avversione contro i Gesuiti; e se nel secolo precedente erano denunziati di fanatici oppositori all’eresia, allora tacciaronsi di mondani, avversi agli austeri: il bel mondo prese parte pei rigoristi; i parlamenti e gli avvocati si compiacquero di abbattere su campo non loro quei campioni della santa Sede; e dopo che Pascal avventò contro loro le Lettere provinciali, immortali mentitrici, il litigio teologico si trovò presentato al tribunale affatto incompetente del senso comune, e dibattuto coi lazzi e coll’ironia: intanto che deturpavasi con indegni procedimenti; il re di Francia perseguitò i Giansenisti fin ne’ ricoveri dove cercavano pietà e dimenticanza, si negarono i sacramenti a chi non ne rinnegava le opinioni, e persone venerate per santità soffersero il castigo di empj.

Altra quistione. Il concilio Tridentino avea proferito che tutti hanno il peccato originale, ma in questa generalità non intendere compresa Maria: Pio V condannò Bajo che credè concepita lei pure colla macchia; e venutane disputa, Pio V adunò una consulta di cardinali e teologi, i quali difesero l’immacolata concezione: Urbano VIII, a istanza del duca di Modena, creò i cavalieri dell’immacolata concezione, e molte chiese si fondarono sotto questo vocabolo: Gregorio XV, a supplica de’ principi, vi aveva dedicato un giorno festivo, che Clemente XI rese comune a tutta la cristianità (1700); ma non per questo fu dogmaticamente pronunziato sopra quel mistero fino ai dì nostri.

Allora incalzavasi sempre più Roma a definire intorno [22] alla Grazia: ma essa inclinava a non restringere la libertà del pensare sopra materie tanto sottili; pure alfine colla bolla Unigenitus (1715) Clemente XI condannò l’opera di Quesnel ch’era come lo stillato del giansenismo, segnandovi cento e una proposizioni fallaci. Non per questo cessa la disputa; concilj provinciali e dichiarazioni parziali l’ammendano, le scuole ne rimangono scisse, dando ai Protestanti di che ridere sull’asserita unanimità nelle verità cattoliche, e più ai Filosofisti, che fra i rottami dei due combattenti spargevano lo scetticismo e la negazione.

Molti danni ne vennero ai pontefici, e più ad Innocenzo XI (1676), ch’era stato Benedetto Odescalchi di Como. Sant’uomo, fu acclamato dal popolo durante il conclave, per quanto egli repugnasse. Pensava emanare una bolla contro del nepotismo, cui tutti i cardinali dovessero soscrivere; ma non vi riuscì: pure non volle attorno nipoti, solo a don Livio Odescalchi rassegnando i beni patrimoniali; ai ventiquattro segretarj apostolici restituì il denaro con cui aveano compre le cariche, affinchè cessassero d’essere venali; riformò la tavola papale, ricevendovi soltanto persone specchiate; esortò i cardinali a correggere l’eccessivo lusso di famiglia e carrozze; sfrattò i giuochi zarosi e le persone scandalose; cercò reprimere l’uso d’indebitarsi; almeno coi decreti corresse i costumi; le donne andassero coperte fino al collo e al pugno, maschi non insegnassero musica alle fanciulle; interdisse le clamorose mascherate, fece ricoprire l’inverecondia del mausoleo di Paolo III, condannò sessantacinque proposizioni di morale lassa, tratte da casisti.

Il gran Luigi XIV re di Francia aveva allora introdotto e fatto ammirare il despotismo amministrativo; e all’onnipotenza del re, proclamata come un grand’acquisto della nazione francese, non rimaneva più che di [23] sottomettere la Chiesa, e collocare il trono più alto che l’altare. Sul modo di coesistere la Chiesa collo Stato erasi sospeso di contendere fra i Cattolici allorchè entrambi si trovarono a fronte un nemico comune; tolto questo, rinacquero in seno al cattolicismo due quistioni: il papa è superiore al concilio, cioè infallibile anche nelle decisioni che prende senza di questo? il papa ha supremazia sovra le corone, per proteggere e consacrare l’autorità di esse e impedirne l’abuso?

La Chiesa, ringiovanita nel concilio di Trento, riprodusse le antiche pretensioni per le immunità giurisdizionali: ma i principi erano meno che mai disposti a consentirvi; l’Impero e fin la Spagna cercavano restringere l’indipendenza de’ nunzj; Francia ne sottraeva le cause matrimoniali, gli escludeva dai processi per delitti, mandava preti al supplizio senza prima degradarli, pubblicava editti sull’eresia o la simonia, Venezia limitava le nomine riservate a Roma; insomma anche i principi cattolici sottraevansi alla dipendenza nelle cose ecclesiastiche; e il papato aveva a difendersi da sempre nuovi attentati, dove l’opinione era subordinata alla politica.

La Francia volea tenersi cattolica, ma purchè Roma non s’ingerisse nello Stato, e la Chiesa, fatta nazionale e ridotta un congegno dell’amministrazione, avesse per capo il re, per giudici le assemblee nazionali: e le libertà gallicane, che quando Roma era onnipotente eransi introdotte acciocchè essa non mettesse ostacoli al libero volere del re, e che assoggettavano gli ecclesiastici all’autorità civile, privandoli dell’appoggio che trovavano in un potere lontano e indipendente, furono allora ridestate. Fra una nuova scossa che il libero pensare dava al sentimento dell’autorità, base ai regolamenti del medioevo; e dopo avere nel secolo precedente fatto la gran protesta contro la Chiesa, ora in seno alla Chiesa [24] stessa scoteva l’obbedienza al pontefice per attribuirla al re, al quale poi nel secolo successivo la ricuserebbe.

Già Richelieu avea litigato con Urbano VIII su tali pretensioni, fin a proibire di mandar denaro a Roma per affari di cancelleria; ma il papa colla moderazione evitò una rottura. Luigi XIV trovò ben presto nuovi appigli, e cominciò a trarre a sè la regalia di tutto il regno, cioè d’amministrare i vescovadi vacanti, goderne i frutti intercalari e nominare ai benefizj dipendenti; e ciò anche nei paesi che di fresco avea conquistati, e pei quali non vegliavano nè accordi anteriori nè consuetudini. Innocenzo XI vi scôrse un intacco delle ragioni pontifizie; ma il parlamento, che sempre zelò il trionfo del diritto civile sopra il canonico, oppose editti alle bolle, e sbandì i fautori di Roma; l’assemblea poi del clero di Francia espresse una dichiarazione (1682), divenuta simbolo della Chiesa gallicana: i papi non avere podestà in materie civili, nè i principi essere sottomessi a veruna autorità ecclesiastica; il concilio essere superiore al pontefice; a questo competere la parte primaria nelle quistioni di fede, ma le sue decisioni non essere irreformabili se non quando consentite dall’universa Chiesa. Così restava tolto a Roma di far citazioni o ricevere appellazioni da verun suddito francese; nessuna giurisdizione più al nunzio; le bolle valeano nel regno sol dopo esaminate. A quella Dichiarazione Luigi diè forza di legge, proibendo d’insegnare il contrario; gli avvocati francesi piacevansi d’intaccare l’attuazione esterna della Chiesa; e a quella universale che fin allora avea regolato il mondo, tendevasi a sostituire chiese nazionali, a piacimento dei re. Innocenzo XI cassava gli atti concernenti la regalìa, ed esortando il clero a ritrattarsi, negò l’istituzione canonica ai nuovi vescovi eletti; e Luigi, non avvezzo ad opposizione, pensò vendicarsene.

[25]

Gli ambasciadori residenti a Roma vi godeano l’immunità, vale a dire che il palazzo di essi e le case attigue restavano esclusi dalla giustizia del paese; sicurezza opportuna in tempi violenti, ma poi stranamente abusata. E poichè l’esempio erasi dilatato a palazzi di cardinali e di principi, in tutta Roma il governo vedeasi tolta quasi ogni giurisdizione; all’ombra di questo o di quell’altro ambasciadore, si teneano giuochi proibiti, si esercitava il contrabbando, si ricoveravano d’ogni qualità malfattori, che da quegli asili sbucavano poi a misfare; per lo meno pretendevasi vendere senza dazj nello spazio privilegiato, e che ai confini e alle porte non fossero esaminate le carrozze e le persone attinenti a principi, o portanti le loro insegne; quand’anche non istrappavansi dalla giustizia i delinquenti a mano armata. Qual governo regolato poteva comportare tanto sconcio? Giulio II colla bolla Cum civitates avea abolite le franchigie; Pio IV e Gregorio XIII aveano usato altrettanto, ma con fiacchezza; Sisto V, appena pontefice, colla bolla Hoc nostri pontificatus initio tolse le immunità alle case d’ambasciadori, di cardinali, di principi, dichiarando reo di maestà e scomunicato chiunque desse asilo a banditi o malfattori, o impedisse i ministri di giustizia; e agli ambasciadori cantò che volea Roma per sè solo, nè altro asilo che quel delle chiese, quando e quanto il giudicasse a proposito. E tenne la parola, perchè dalle case stesse degli ambasciadori, non che de’ prelati, fece strappare i malfattori, e metterli in galera o alla forca.

Gli abusi non tardarono a rinascere peggiorando: sicchè Innocenzo XI pensò fare che ogni nuovo ambasciadore entrando rinunciasse alla franchigia. Le altre Potenze il trovarono giusto: Luigi no, rispondendo: — Io non mi regolo sull’esempio altrui». Il papa, inflessibile per coscienza e sicuro dell’integrità delle sue [26] intenzioni, stette saldo, e usando del diritto sovrano, dichiarò abolite le immunità: ma il re imperioso vi oppose la forza, e ordinò che il nuovo ambasciadore marchese di Lavardin facesse l’entrata (1687) con ottocento seguaci, armati fino ai capelli, che facevano la ronda dì e notte per tutto il quartiere circostante al palazzo di Francia. Il papa gli ricusa udienza; e perchè ostinavasi, l’interdice; e Lavardin fa cantar messa in propria presenza in San Luigi de’ Francesi; entra anche in San Pietro con seguito formidabile, ma gli ecclesiastici ne escono tutti immediatamente[5].

[27]

Tutta Europa curvavasi al prepotente Luigi, solo questo vecchierello osava resistergli, invocando il crocifisso a dargliene forza[6]; e non v’è opposizione che ai violenti spiaccia quanto la tacita e negativa. Luigi [28] dunque ricorre agli spedienti regj, occupa Avignone e il contado Venesino, terre di Francia appartenenti al papa, e minaccia mandare un esercito in Italia per risuscitare le pretensioni dei Farnesi sopra Castro. Non per questo Innocenzo piegò: intanto le chiese di Francia rimangono vedove; Luigi, che alle sue stragi in Linguadoca e tra i Valdesi avea pretessuto lo zelo di cattolicismo, allora si trovava al cozzo col capo di questo, e i timorati paventavano d’uno scisma; sicchè alfine il superbo monarca restituì Avignone, consentì d’abolire quelle immunità, e quanto alla Dichiarazione del clero aderì «di non far osservare il contenuto nel suo editto»; talchè, senza ritrattarlo, restò libero di discuterne.

Innocenzo, che anche prima aveva esortato più volte Luigi XIV non desse orecchio agli adulatori, nè attentasse alle libertà ecclesiastiche, diede ricetto ai vescovi da quello perseguitati, benchè fossero giansenisti, e sempre si mostrò schivo da vili dipendenze. Per piacenteria al gran re, i Francesi vilipesero la memoria di lui; ma il popolo l’ebbe per santo e ne conservò le reliquie, la posterità per uno de’ più integri e disinteressati pontefici. Nell’ultima malattia, a stento ammise il nipote don Livio; l’esortò ad imitare gli esempi aviti nel soccorrere i poveri, non si brigasse negli affari della Chiesa e molto meno nel conclave, convertisse centomila scudi in opere pie, e il rimandò colla sua benedizione.

Ma Pier Ottoboni veneziano, succeduto (1689) di settantanove anni col nome di Alessandro VIII, in ventisei mesi s’affrettò ad impinguare i nipoti. Quando morì stava per disapprovare gli atti dell’assemblea del clero di Francia del 1682; onde assai importando a questa d’avere un [29] papa connivente, scandaloso conflitto s’agitò per cinque mesi, finchè sortì Antonio Pignatelli di Napoli (1691) col nome d’Innocenzo XII.

L’entrata allora sommava a due milioni quattrocento mila scudi, compreso la dataria e i casuali, e la spesa eccedeva di censessantamila scudi; e Innocenzo XII abolì molti abusi ed esenzioni, restrinse l’interesse dei Monti, ma non evitò il fallimento che col proprio rigore. Nel naufragio della pubblica fortuna ognuno cercava ciuffare quanto potesse del patrimonio pubblico, e cacciavasi a impieghi e a cariche. Oltre il ricavo dei quattro mesi di vacanza, dicono non vi fosse auditore della Sacra Rota, il quale non imborsasse per cinquecento scudi di strenne a Natale. I favoriti, non solo ricevevano ingordi regali da chi aspirava a grazie, ma riservavansi assegni sopra le cariche che faceano ottenere, sopra la giustizia che faceano rendere o deviare. Talora ai benefizi conferiti accollavasi una pensione a favore di qualche membro della Corte: e fu volta che i ricchi vescovadi d’Urbino, d’Ancona, di Pesaro non trovavasi chi li volesse, tanto di contribuzioni e riserve erano caricati. Ne veniva che gl’impieghi fossero cerchi dai ricchi come vantaggio personale; le cause si eternavano, gli appelli rimanevano inascoltati.

L’amministrazione era attributo della prelatura. Per disposizione d’Alessandro VII, a divenire referendario di segnatura uno dovea avere ventun anno, mille cinquecento scudi d’entrata, laurea in legge e pratica di tre anni sotto d’un avvocato. Quel grado conduceva al governo d’una città e d’una provincia, a qualche nunziatura, ad un sedile nella Sacra Rota ovvero nelle Congregazioni, avviamenti al cappel rosso e al grado di legato. In questa sublime dignità, allo spirituale era annesso il poter temporale, modificato però nella Romagna da privilegi municipali. Ma dei magistrati delle [30] provincie il cardinale Sacchetti scriveva ad Alessandro VII: — Son flagelli peggiori che le piaghe d’Egitto. Popoli non conquisi colla spada, ma venuti sotto l’autorità della santa Sede per donazione di principi o sommissione volontaria, sono trattati più immanemente che gli schiavi in Siria e in Africa. Chi può dir queste cose e non piangere?»[7].

Innocenzo XII mise qualche ordine alla giustizia, sopprimendo giudicature che complicavano i processi; tolse la venalità d’alcuni uffizj di curia ed altre fonti d’impuri lucri; aperse ricoveri pei poveri in Laterano e a Ripetta onde sbrattar Roma dagli accattoni; migliorò Civitavecchia cercando prevalesse al crescente Livorno; e pensava ristabilire Porto d’Anzo, e sanare le paludi Pontine. Alla riforma del lusso trovò ostacoli in quei che ne vantaggiavano, e nei Francesi che ne traevano lucro; proibì di giocare al lotto; pensò riformare alcuni ordini degenerati, ma qui pure incontrò difficoltà gravi. Fece soscrivere ai cardinali una bolla che condannava il nepotismo, e fu detto che suoi nepoti erano i poveri; e a Celestino Sfondrati diede incarico di scrivere la storia de’ papi che eransi traviati dietro all’affetto pei nepoti.

Gianfrancesco Albano di Pesaro, che, dopo lungo ricusare, accettò la tiara (1700) col nome di Clemente XI, continuò un parchissimo trattamento e gli studj, già delizia del suo vivere privato; parenti non volle a Corte, nè che assumessero titoli o ricevessero regali, e così dovea fare chiunque bramasse piacergli. Spedì missionarj nella Persia e nell’Abissinia; impegnò Luigi XIV a ottenere dai Turchi migliori condizioni agli Armeni ed altri Cattolici di Levante; molti prelati della Chiesa greca vide riunirsi alla nostra, della quale vigilava gl’interessi [31] appo tutte le potenze; eresse spedali, una casa per gli ecclesiastici forestieri, una pei vescovi di Mesopotamia fuggiaschi; rapaci granaj, il porto d’Anzo, acquedotti a Roma e a Civitavecchia, fortezze per assicurare le coste dai Barbareschi; riparò strade, disseccò paludi, fece erigere dal Fontana la colonna Antonina e restaurare il Panteon, trofeo della Vittoria di Cristo sovra gli Dei. Visto come i giovani, sebbene tenuti distinti dagli adulti, uscissero sempre peggiorati dalle carceri, all’edifizio di San Michele a Ripa, per disegno d’esso Fontana, faceva unire una casa di correzione pei delinquenti di sotto dei vent’anni. Oltre le camere dei custodi e d’un ecclesiastico, v’ebbe sessanta cellule in tre piani attorno ad un’ampia sala, in fondo alla quale una cappelletta e l’altare; un priore per istruirli nella morale e nella religione; probi artigiani per ammaestrarli in qualche mestiere. I genitori poteano farvi chiuderei loro figliuoli, che cercavasi emendare collo staffile e colle prediche; e ottant’anni durò questo penitenziario, che prevenne i tentativi cui ora s’affaticano a gara i governi buoni. Nè vogliamo tacere che, due anni prima, il sacerdote Filippo Franci avea disposto a Firenze il carcere di San Filippo colla reclusione cellulare.

CAPITOLO CLXI. Venezia e i Turchi.

La libertà ha bisogno d’espandersi fuori per non rodersi entro; lo perchè le repubbliche lombarde perirono, durarono Venezia e Genova, ch’erano come la Liverpool e la Nuova York del medioevo. Ancora la piazza San Marco era come la sala ove si davano la [32] posta tutti i popoli del mondo; ivi pensatori liberi, libera stampa, non prepotenza di feudatarj, non ladrerie di cortigiani; l’Europa tutta ormai foggiata a monarchia, non la temeva come quando resistette sola alla lega di Cambrai; pure venerata per la sua prudenza, anche per armi facevasi rispettare in Levante. In terraferma possedea Padova, Vicenza, Brescia, Verona, Bergamo, Treviso, Belluno, Crema, il Friuli; oltremare il regno di Creta, l’isola di Corfù ed altri possessi in Grecia, in Slavonia, in Dalmazia.

Alquanto migliori de’ soliti statuti sono quelli di Venezia, meno sbricciolandosi nella specialità de’ casi per attenersi piuttosto a principj generali, e spesso brevi e semplici nel concetto legislativo; non ammetteano per supplemento il diritto romano; nel secolo XV erasi proibito di farvi chiose ed annotazioni: pure le aggiunte li complicarono inestricabilmente e a ravviarli ben poco contribuì la Soprantendenza alla formazione de’ sommarj delle leggi, istituita il 1662. Valeano unicamente per Venezia; alle terre dominate essa conservava i privilegi e gli statuti, e il violarli era punito dai Dieci. Talvolta anzi gli statuti provinciali erano avversi alla dominante, come quelli di Brescia che a qualunque forestiero, neppur eccettuati i Veneziani, proibiva d’acquistare possesso, o dominio o diritto onorario di beni stabili del territorio bresciano, nemmeno per dote o eredità, se pure non andasse a stabilirvisi colla famiglia, sottomettendosi alle leggi civili e criminali. All’incontro, i beni del territorio padovano erano quasi tutti posseduti da signori veneziani. Dei Bergamaschi diceasi in proverbio che passeri, Francescani e Bergamaschi n’era per tutto il mondo.

In ogni provincia Venezia spediva un podestà, sotto il quale raccoglievasi il consiglio de’ nobili, rappresentante di ciascuna città, e un capitano che presedeva ai [33] rappresentanti del territorio. E città e territorj tenevano nunzj e patrocinatori nella dominante, oltre scegliersi un patrono fra que’ nobili. Sotto un’amministrazione savia, economica, stabile, le provincie sarebbero prosperate; ma non trovavansi assicurate contro i nemici, che da ogni parte le stringeano: oltre che Venezia ignorò che una repubblica può farsi conquistatrice sol per aumentare di cittadini, non di sudditi; nè provvide d’associar il fiore delle provincie alla sua sovranità.

Il popolo vivea contento, poichè la Signoria gli manteneva l’abbondanza e ne favoriva le industrie; dai commerci lontani e protetti ritraeva compiacenze e lucro; non sentiva il peso delle guerre, perchè fatte con mercenarj e discosto dalla capitale; giustizia pronta colpiva egualmente il nobile, anzi con più rigore; le clientele affezionavano i poveri al ricco; le frequenti feste distraevano tutti. Nihil de principe, parum de Deo, non intrigarsi della politica, poco discutere di religione era l’universale precetto; del resto si facesse a volontà. La mendicità era esclusa: solo tolleravansi alcuni accattoni ai ponti della Pietà, di Rialto, de’ Pignoli, di Canonica, ed anche in San Marco, per concessione del doge, sicchè diveniva un privilegio lucroso, dato in dote, trasmesso per eredità.

I nobili della dominante erano ricchissimi in grazia della parsimonia, del commercio e degli emolumenti che traevano dalle cariche e dalle ambascerie; ma sostenevano anche i maggiori aggravj, procurandosi sempre alleviarne il popolo. Potentissimi fuori, in città erano tutti eguali, e allorchè più irrompeva la smania dei titoli, fu preso parte (1576 21 9bre) che non dovesse «alcuno arringando usare i titoli di umilissimo da una parte, preclarissimo, illustrissimo, eccellentissimo dall’altra, ma solo messere o ad summum magnifico messere». Un vicerè spagnuolo che in Grecia aveva conosciuto Sebastiano [34] Venier, terrore de’ Turchi e de’ sudditi, tra cui non compariva se non col corteggio di cento e più nobili, pendenti da un suo comando, nel passare poi da Venezia, stupì in vederlo passeggiare indistinto sotto le Procuratie nuove, e supplicare i voti come qualsifosse altro, e un greco passargli davanti senza pur fargli di berretto. La quale eguaglianza pareagli più meravigliosa che non la basilica e la piazza di San Marco, e tante architetture e pitture[8].

Fu gran tempo onnipotente il senator Molino, uomo di Stato che abbracciava nelle sue vedute l’intera Europa, e fece tenere in equilibrio la Spagna, e spendere meglio di dieci milioni di ducati in sussidj ora alla Savoja, or agli Svizzeri, or all’Olanda. Altero della sua nobiltà, mai non comunicava coi popolani; eppure n’era riverito ed anche amato, perchè all’occasione li proteggeva e soccorreva, e rendea persuasi di operare per pubblico bene, giacchè nulla cercava per sè. Intanto però era padrone del broglio; le cariche principali facea cadere su’ suoi amici; fu lui che ispirò frà Paolo, massime nella lotta contro Paolo V, e morendo non lasciò ricchezze.

Il doge era a vita, ma già nella promissione del 1229 era prefisso che, qualora sei del minor consiglio fossero d’accordo coi più del maggiore nel chiedergli la rinunzia, egli non potesse ricusare. Per nominarlo, il gran consiglio (come divisammo al tom. VI, pag. 181) cavava a sorte trenta de’ suoi membri, i quali colla sorte ancora riducevansi a nove; e questi a voti nominavano quaranta patrizj, che a sorte venivano ridotti a dodici; i dodici ne sceglievano venticinque, in cui se ne sortivano nove, che ne nominavano quarantacinque, colla sorte ridotti a undici; i quali sceglievano quarantuno, [35] che eleggevano il doge colla maggioranza di venticinque. Conosciuti i primi trenta, potevansi prevedere anche le elezioni successive; onde il broglio s’incaloriva sopra que’ pochi. Erasi bensì stabilito dai Dieci che i quarantuno dovessero essere ballottati uno per uno dal gran consiglio, ma ordinariamente non si faceva che confermarli.

Il clero stava sottomesso e pagava; solo ogni cinque o sette anni la Signoria dovendo domandare da Roma licenza di levare le decime sui beni di quello, non eccettuati i cardinali. Era escluso dal governo: i parroci della città erano eletti dai possidenti di case nella parrocchia senza distinzione di nobili, cittadini o popolani; benefizj e dignità non davansi che a natii; si vigilava su quei che ne sollecitassero da principi stranieri; si sgradiva che ottenessero cappelli cardinalizj, perchè od erano premj della ligezza usata verso la Corte romana, o nei consigli di questa portavano persone informate de’ secreti della Signoria: onde la repubblica fu immune come dalla tirannide militare, così dalle brighe pretesche.

Durava la potenza del consiglio dei Dieci, le cui procedure, che che se ne romanzi, erano meno violente che in altri paesi. L’11 settembre 1462 era stato decretato: — Ogniqualvolta parerà ai capi del consiglio dei Dieci di far ritenere alcuno per cose spettanti allo Stato e al Consiglio, debbano venire alla Signoria, e dire quello che hanno contro di quello e quelli. E ciò che li quattro consiglieri almeno e due capi delibereranno, sia eseguito; e li capi immediatamente avanti che passi il terzo giorno siano tenuti, in pena di ducati cento, a chiamare il Consiglio e proponer ciò che avranno in tal materia di quelli che saranno riterati»[9].

[36]

Era tra gli obblighi dei Dieci il visitar le prigioni, riferire dei processi pendenti, sollecitarne la spedizione. Le denunzie che si deponevano nelle famigerate bocche de’ leoni, quando fossero anonime non aveano corso se non concernessero casi di Stato, e voleansi cinque sesti dei voti per procedere su di esse; quando firmate, discuteasi se darvi seguito; al che voleansi quattro quinti dei voti.

Abbiamo veduto come quel tribunale divenisse parte del governo. Ma nella guerra di Cipro essendosi trovato in discapito l’erario, tanto che l’interesse del debito pubblico saliva ad un milione, erane incolpato il consiglio dei Dieci: onde si fece concerto per escluderlo dai poteri ch’erasi arrogato; e col non dare sufficienti voti, il maggior consiglio abolì le Giunte (1583), ch’e’ solevasi aggregare, e il denaro pubblico fu dato a maneggiare a magistrati dipendenti dal senato; sicchè privi delle attribuzioni camerali, delle legislative, delle politiche, i Dieci trovavansi ridotti a tribunale supremo pei delitti di Stato, e tribunale ordinario pei nobili.

Impedire i sovvertimenti dello Stato, proteggere la quiete interna era lo scopo di quell’arcana podestà; e tra i carnevali e le feste, quelle denunzie e procedure segrete non solo faceano tremare il delinquente, ma neppure lasciavano all’innocente quella sicurezza ch’è la più chiara proprietà. Era mestiere lucroso l’origliare alle case, ormare i passi, e farsi così stromenti alle passioni. Ai residenti in paese straniero proibivasi dare informazioni ad altri che alla Signoria, la quale giudicava se comunicarle. Girolamo Lippomani (1588), balio a Costantinopoli, al re di Spagna fece sapere che il Turco radunava armi; e i Dieci fecero arrestare e tradurre a Venezia esso balio (1622), il quale per viaggio buttossi in [37] mare. Le spie denunziarono Antonio Foscarini che arcanamente andasse dall’ambasciatore di Francia, colpa capitale in un nobile. Côlto dai Dieci, egli confessò essere andato notturno da quelle parti per trovare una dama; e poichè l’onore facevagli un dovere di non nominarla, fu impiccato come traditore. Poco poi la verità venne in chiaro, e sminuì il credito che i Dieci aveano ripreso col vigore mostrato nelle chiassose vertenze con Roma[10].

Renier Zeno appose al doge Giovanni Cornaro di violare la legge fondamentale del 1473 col lasciar vestire cardinale suo figlio Federico vescovo di Bergamo, e sortito capo dei Dieci, l’ammonì. Quegli risponde; s’impegnano; Giorgio Cornaro trafigge lo Zeno, ed è condannato in contumacia, ergendo una colonna infame sul luogo del delitto; e ne sorgono due fazioni dei Cornaristi [38] e degli Zenisti, i quali ultimi col denaro rappresentano i popolani, intenti a mozzare l’aristocrazia colla mannaja dei Dieci.

Cinque correttori furono eletti per rivedere le leggi della repubblica, mostrando come si lasciassero impuniti i delitti, a segno che accadeano più omicidj in un anno nel Veneto che in tutta Italia; poi nell’elezione del 1628 nessuno dei Dieci ottenne voti sufficienti; talchè quel consiglio restava abolito: ma il popolo ne gemette perchè lo teneva come sua salvaguardia contro l’esorbitare de’ nobili; i patrizj stessi bramavano recate a quello tutte le cause loro criminali, anzichè andare confusi ne’ tribunali ordinarj. Fu dunque ripristinato, ma con divieto d’ingerirsi nelle leggi del gran consiglio, nè d’amplificarle o restringerle; non avesse più ispezione sui magistrati, non desse salvocondotti o grazie a banditi.

Le forme di governo, sebbene invecchiate e inservibili, forse non era possibile riformarle secondo i tempi, e intanto davano una stabilità non priva di merito.

La cambiata via della navigazione[11], la differente costruzione di legni portata dai viaggi transatlantici, la [39] potenza crescente della confinante Austria, la vicinanza dei papi divenuti signori di Ferrara, toglieano a Venezia molti vantaggi derivanti dalla sua postura, dal commercio, [40] dalla stabile amministrazione. Il popolo vedea diminuirsi i mezzi di guadagno; l’aristocrazia si restringeva, in poche mani concentrandosi gli onori, mentre una ciurma di nobili pezzenti vivea del broglio, del sollecitare cause, del corrompere la giustizia. Perchè anche natura paresse congiurare cogli uomini, una sformata procella nel 1613 conquassò quante navi si trovavano nei porti del Mediterraneo.

Eppure Venezia pareva ancora regina dei mari, benchè realmente gliene avessero tolto lo scettro Olanda e Inghilterra: le due prime navi che Pietro czar pose sul mar Nero, uscivano dai cantieri di Venezia, dove egli spedì sessanta giovani uffiziali per istruirsi. La capitale, che nella peste del 1576 perdette da quarantamila abitanti, e sessantamila in quella del 1630, nel 50 ne contava da cencinquantamila, aumentati d’un quarto verso l’80. Oltre aver estinto i debiti della passata guerra, dava segno di prosperità con rialzare il palazzo ducale, compire la piazza San Marco, il ponte di Rialto, la chiesa votiva del Redentore.

Nel 1577 si fece misurare tutto il territorio, donde si accatastarono un milione ducentomila campi fertili e ducentomila sterili, sopra i quali fu istituito un magistrato. Nel 1556 erasi permesso d’introdur l’irrigazione al modo della Lombardia; e rivi artifiziali (seriole) ridussero a valore possessi da prima abbandonati. Gli anni successivi venne decretata la bonificazione delle valli di Battaglia, d’Este, di Cologna, Anguillara, Castelbaldo, poi di Lendrina, di Conselve, de’ territorj fra il Bacchiglione e il Po. Operazione importantissima, intrapresa al principio del 1600, fu il taglio di Portoviro. Il Po aveva colmato i seni e le paludi ove deponeva [41] prima le spoglie dei monti, e ristretto fra le arginature che dopo il secolo XIII tanto procedettero, allungavasi in mare, e colmò il canal Bianco in modo, che elevandosi sovra le bassure del Polesine, più non ne riceveva gli scoli. Fu dunque tagliato un canal nuovo[12] per sette chilometri, invece dei diciassette che ne misurava l’anteriore; ma poi anch’esso si prolungò mediante alluvioni, fino a ventisei chilometri. E tale prolungamento era così calcolato, che il pubblico vendeva le terre che si formerebbero (vendite di onde di mare).

Secondo l’informazione del Bedmar, entravano alla repubblica da quattro milioni di ducati, de’ quali quasi metà traevansi dalla sola metropoli; ottocentomila dagli Stati di mare: e spendea meno di tre milioni, fra cui 127,660 per l’arsenale, 120,245 per compra di legname, canape, chiodi, pece, 267,396 per l’esercito ordinario, 400,000 per donativi alla Porta, 40,000 per la cassa che prestava a chi avesse bisogno: circa 200,000 si erogavano in comprar frumento pel pubblico o in fabbricare biscotto per l’armata. L’avanzo riponeasi in un cassone, il quale si toccava soltanto nelle occorrenze straordinarie, che la malevolenza e l’ambizione altrui non le lasciava mancare. In maggiori necessità, come la guerra contro il Turco, ricorreasi ad imprestiti, vendite dei beni comunali, tasse sul clero e sull’aristocrazia; e creavansi nuove dignità da vendere a questa.

Nelle spettacolose controversie con Roma, Venezia sembrando rappresentare le opinioni protestanti, viepiù [42] rendevasi opposta alla cattolica Spagna, dalla quale per vendetta le vennero la congiura di Bedmar (tom. XI, pag. 148) e la guerra austriaca per gli Uscocchi. L’Austria, sempre desiderosa di mettere in comunicazione diretta i suoi possessi slavi cogli italiani, la ricingeva d’insidie, e l’odiava a morte perchè attenta a conservare l’equilibrio in Italia, ne impediva gl’incrementi. All’incontro Venezia teneasi ben edificata la Francia; vedemmo (tom. X, pag. 301) che pomposa accoglienza facesse a Enrico III, al quale ne’ suoi bisogni prestò centomila scudi senza interesse. Ne prestò ad Enrico IV benchè eretico, poi buttò sul fuoco le ricevute, il fuoco (ei diceva) più bello che mai avesse visto: ed egli regalò alla Signoria la spada con cui aveva vinto ad Ivry; chiese d’essere iscritto nel libro d’oro; esibiva interporsi affinchè il granturco le restituisse Cipro; e le destinava la Sicilia e l’Istria in quel famoso suo rimpasto d’Italia, ove al duca di Savoja assegnerebbe la Lombardia «condita d’una corona reale» (Sully).

La parte epica della storia di Venezia, come di tutta Italia, sono le guerre contro i Turchi. Questi non erano stati fiaccati dalla rotta di Lepanto (1575); e Maometto III, rigido osservatore della legge del Profeta, raggirato da Sofia Baffo veneziana, e sostenuto in mare dal Cicala rinnegato napoletano, invase anche l’Ungheria, sicchè i papi dovettero soccorrere di denaro gli Austriaci che colà combatteano; imprese dove si segnalò pure il duca Vincenzo Gonzaga di Mantova. I Turchi spingeansi fin alle rive dell’Adriatico; Venezia, per provvedersi contro di loro, fabbricò Palmanova (1596), Italiæ et christianæ fidei propugnaculum, la fortezza maggiore che allora si conoscesse.

Anche quando tacesse la guerra, continuava la pirateria. Don Pier Toledo nel 1595 stabilì vendicarsene, e côlto il destro che i Turchi v’erano accorsi alla fiera, [43] sbarcò a Patrasso, e pose a guasto le robe e gli averi di essi e di Greci e d’Ebrei, vantandosi aver ucciso quattromila persone e bottinato per quattrocentomila scudi. Latrocinj opposti a latrocinj. Nel 1601 si pensò osteggiare Algeri, che un capitano Rosso francese asseriva facile a sorprendere. Da Spagna ne venne l’ordine a Giannandrea Doria, comandante alla regia squadra di Genova, provveduta dal Fuentes di fanteria lombarda; a Napoli, in Sicilia, a Malta si allestirono legni; sicchè sopra settantuna galee s’imbarcarono diecimila soldati oltre molti nobili venturieri, e fra questi Ranuccio Farnese di Parma e Virginio Orsini duca di Bracciano. Mossi al fin d’agosto, ebbero traversìa di mare, e subito si sciolsero con beffa della cristianità e dopo avere inutilmente irritati gli Algerini. Nel 1607 Ferdinando I di Toscana tentò sorprendere Famagosta credendola mal guardata; ma ne fu respinto con grave danno, e provocando castighi sui Cristiani dell’isola, sospetti d’averlo favorito. Volle rifarsene l’anno seguente collo spedire Silvio Piccolomini, già illustratosi nelle guerre di Fiandra, ad attaccare Bona in Africa, che infatto fu saccheggiata ed arsa.

Incessante molestia intanto ai Turchi recavano le galee de’ cavalieri di Malta e di Santo Stefano; ma se li danneggiavano talora, se gl’irritavano sempre, non bastavano a impedirne i guasti: alcuna fiata facean essi medesimi da pirati, massime a danno di Venezia, colpevole di starsi in pace coi Turchi. Essa in fatto con Solimano il Grande aveva patteggiato libero commercio (1521), e di tenere a Costantinopoli un bailo triennale, tributando diecimila ducati l’anno per il possesso dell’isola di Cipro e cinquecento per Zante. Dopo la terribile guerra di Cipro, accortasi che dai Cristiani poteva aspettare esortazioni e poesie, ma non ajuti, rinnovò pace col Turco (1572), cedendo Cipro ed altri luoghi già perduti, [44] crescendo a mille cinquecento ducati il tributo per Zante; ma con isborsarne ottomila si redense da quello per Candia. Quest’isola, ampia ben sessanta leghe, e situata in modo di signoreggiare l’Arcipelago, con grosse città, bei porti, pingue territorio, centomila abitanti, era, si può dire, l’ultimo avanzo delle conquiste in Oriente; e Venezia dovette profonder oro e sangue per conservarla traverso a venti ribellioni de’ paesani, che la consideravano come tiranna straniera, e che ricordavansi d’esservi stati sovrani. Giacomo Foscarini, mandatovi con potere dittatorio, vi proclamò ordinamenti, che non era facile far osservare. Il tenerla costava grandemente allo Stato; ma i governatori traevano guadagni a danno de’ paesani, i quali speravano fin ne’ Turchi.

Nei trattati colla Porta, Venezia erasi sempre riservato il diritto di rincacciare i pirati dovunque gl’incontrasse. Alì Piccinino, rinnegato, che con una flotta d’Algeri e Tunisi infestava il Mediterraneo (1638), spintosi nell’Adriatico, prese un bastimento veneto, indi gettò l’àncora nella rada della Valona. Marin Capello, provveditore della flotta, ve lo bloccò, il prese, e condusse sedici galee in trionfo a Corfù. Amurat IV granturco l’ebbe per oltraggio, e domandò soddisfazione: occupato in infausta guerra colla Persia, dovette adagiarsi ad un accomodamento; ma presto, regnante Ibraim, nacque occasione di vendicarsi.

I cavalieri di Malta[13] imbatterono un galeone turco, che accompagnato da due minori e da sette saiche, portava una favorita del sultano al pellegrinaggio della Mecca con ricchissimo carico. L’assalirono, e perdendo [45] sette cavalieri, censedici soldati oltre ducensessanta feriti, misero a morte da seicento nemici, trecentottanta ne presero schiavi, e un bottino di tre milioni d’oro, e la donna che morì, con un figlio che battezzato finì domenicano. Levò vivo applauso la cristianità; ma Ibraim dichiarò guerra all’Ordine e ai Veneziani (1644) perchè i cavalieri aveano menato quel bottino in un porto di Candia; e trecenquarantotto navi con cinquantamila Turchi, fra cui settemila gianizzeri e quattordicimila spahì, veleggiarono sopra Candia, e approdati cinsero la Canea. La repubblica era accorsa alla difesa; e il patriarca pel primo, il clero, i gentiluomini fecero offerte e sagrifizj generosissimi; oltre vuotar il cassone, si chiesero prestiti all’uno per cento perpetuo o al quattordici per cento vitalizio; venduta a prezzo la dignità de’ procuratori di San Marco, cresciuti a sei poi fino a quarantuno, e il diritto d’entrare prima dell’età nel gran consiglio; ammessi tra i nobili quei cittadini o sudditi che pagassero per un anno lo stipendio di mille soldati, donde si trassero otto milioni di ducati aggiungendo settantasette famiglie al libro d’oro: si obbligarono le manimorte a dare tre quarti de’ loro argenti, poi si ridussero a cartelle i depositi de’ minorenni e delle cause pie; si assolsero delinquenti e banditi, s’invocarono i potentati cristiani. Spagna somministrò cinque galee, Toscana sei, altrettante l’ordine di Malta, cinque il papa, che autorizzò a levare centomila ducati sul clero; i Francesi (o forse di sua borsa il Mazarino, il quale chiese d’essere aggregato alla nobiltà veneta) mandarono centomila scudi, quattro brulotti e licenza d’arrolare uomini in Francia, tutto però sott’acqua, atteso l’amicizia che questa tenea colla Porta. Se non che gli alleati erano scarsi di provvigioni e perdevansi in discordie; e prima che potessero operare, la Canea, fracassata per cinquantasette giorni, avea dovuto capitolare; [46] i Turchi vi acquistarono trecensessanta cannoni e munizioni e spoglio, e un robusto punto d’appoggio. Allora Delì Ussein, già bascià di Buda, pose a Candia un assedio (1645), paragonato per lunghezza e accidenti a quello di Troja, e abbellito da splendide geste delle flotte venete.

Francesco Erizzo, doge ottagenario, fu posto capitan generale, e morto lui, la carica passò a Giovan Capello, poi a Battista Grimani, poi a Francesco Morosini, che vi s’illustrò, come tutta la sua famiglia. La capitana di Tommaso Morosini tenne testa (1647) contro cinquantadue galee nemiche, e con più di mille cinquecento vite di Turchi si pagò la vita di quel prode: Giacomo Riva con una squadriglia di venti navi (1649) sbaraglia la flotta di ottantatre, distruggendole a Focea quindici galee e settemila vite, col perdere solo quindici uomini. Eroi si mostrarono pure Leonardo Mocenigo capitan generale e Lazzaro Mocenigo, di petto a Mehemet Köproli, succeduto a Ussein dopo che Ibraim lo scannò per castigo della lentezza; e gloriosi fatti vantano i Contarini, i Tiepoli, i Badoero, i Soranzo, i Pisani, i Dolfino Valieri, i Bembo, i Foscarini, i Giustiniani.

Assediavasi fin lo stretto di Costantinopoli; i Morlacchi ed altre popolazioni sollevate offrivano a Venezia ausiliarj feroci e pericolosi, che assassinando, rubando, incendiando, rendevano più orribile la guerra, e provocavano riazioni de’ Turchi, che alzarono una piramide di cinquantamila teschi di Cristiani, e che faceano sostenere od impalare gli ambasciadori. Venezia, costretta a tener in piedi ventimila uomini, logorava da quattro in cinque milioni l’anno in denaro, il triplo in munizioni, cioè più che nei tre anni della guerra di Cipro, bisognando a Candia mandar ogni cosa, fin il biscotto e la legna; oltre che restavano interrotti i commerci di mare; e sebbene essa vincesse le più volte, i Turchi rinnovavano [47] sempre armamenti, talchè di allargar Candia non s’aveva speranza.

Il vulgo che è numerosissimo, e che sottopone il cielo ai poveri computi della nostra aritmetica, vide alcun che di misterioso nel numero 1666; e i Cristiani quell’anno aspettavano l’Anticristo, i Musulmani il Degial, gli Ebrei il Messia: orridi tremuoti alla Mecca e in Egitto, parvero giustificare lo sgomento. Atterrito ai progressi de’ Musulmani, il papa non rifiniva d’esortare a questa crociata; prodi volontarii vi venivano; il duca di Savoja, che da trent’anni stava in broncio con Venezia pel titolo di re di Cipro, pose da banda le pretensioni, e spedì due reggimenti e il generale Francesco Villa, il cui avo ferrarese aveva sostenuto bella parte alla battaglia di Lepanto, e il cui padre aveva servito di consiglio e di spada a Cristina di Savoja finchè morì (1667) all’assedio di Cremona. Il Villa difese opportunamente Candia; ma nel maggior frangente il duca lo richiamò, forse sperando che Venezia, per trattenerlo, consentirebbegli il disputato titolo regio.

Luigi XIV, benchè alleato colla Porta e desideroso di soppiantare i Veneziani nel commercio di Levante, lasciò che il visconte De la Feuillade arrolasse una banda, cui, allettati dall’indole propria e dal romanzesco dell’impresa, s’unirono giovani di primarie famiglie (1668), portati a Candia dall’ammiraglio di Beaufort; sicchè il gransignore potè dire con verità sin d’allora quel che spesso ripetè: — I Francesi sono amici nostri, ma li troviamo sempre coi nostri nemici».

La guerra di mare avea mutato guise, mercè il perfezionamento dell’artiglieria; e benchè questa servisse ancora assai lentamente, e due flotte in un’intera battaglia non tirassero quanto oggi due navi in due ore, si dismise quell’infinità di barche, per farne poche ma grosse, quali erano le sultane dei Turchi; e Venezia ne [48] allestiva sin da settantaquattro cannoni. Ma le giornate spesso si decidevano coll’arrembaggio, talchè ancora assai contava il valor personale, non rare volte i minori poterono prevalere ai più grossi; i cavalieri di Malta e quei di Santo Stefano tennero testa vantaggiosamente ai Turchi anche più numerosi; e solo nel secolo seguente fu l’arte ridotta a quel punto, che assicura la vittoria alla superiorità del numero e del fuoco.

Nel lungo assedio di Candia si sfoggiò l’arte più raffinata: i Turchi ebbero mortaj che lanciarono bombe fin di ottocento libbre; primi si valsero delle parallele che avean imparate da un ingegnere italiano; ed oltre abilissimi artiglieri, erano espertissimi nelle mine e nelle strade sotterranee; i nostri gl’imitavano, e il suolo era tutto solcato di mine, che tratto tratto scoppiavano dove men s’aspettasse, e sotto terra combattevasi quasi altrettanto che sopra. «Orribile era lo stato della città: le vie ingombre di palle o frantumi di bombe e di granate; non chiesa, non edifizio che non avesse le mura sconquassate dal cannone; le case ridotte a mozziconi; dappertuto puzza, e soldati morti, feriti, storpiati» (Despreaux).

Gli oscuri pericoli dell’agguato, l’aspettare colla pancia a terra il nemico per giornate intere, l’essere balzati in aria nel cuor della notte, non iscoraggiavano la briosa gioventù francese; però nel cavalleresco orgoglio essa recavasi a schifo d’obbedire ai Veneziani, e disapprovando il tenersi sulla difesa che faceva il provveditore Caterino Cornaro, appena cadde ucciso fecero una sortita collo scudiscio in mano e la baldanza in cuore: ma furono sbaragliati, e le teste dell’ammiraglio e di molti lor signori andarono in giro per le vie di Costantinopoli. Peserebbe questo come un assassinio su Luigi XIV se fosse vero che già erasi pattuito di render la piazza, e che egli avesse voluto soltanto protrarre [49] una concertata resistenza per meritare dal papa il cappel rosso a due suoi favoriti. Che che ne sia, i restanti Francesi ripatriarono, per quanto Veneziani e Ciprioti ne li dissuadessero fin buttati a terra e colle lacrime: novella prova del conto che può farsi sulle costoro braverie. Da cinque lustri durava la guerra, agitando anche l’impero Ottomano: Ibraim e sua madre erano stati strozzati, sei visiri finiti di morte violenta, non che altri capi, il serraglio versato da fazioni, le truppe spesso ammutinate; ormai i gianizzeri ricusavano di più montare all’assalto, anzi minacciavano rivoltarsi se non si finisse quel terzo assedio, che dicono in ventotto mesi costasse ai Veneti 30,905 uomini, ai Turchi 118,754, con 56 assalti, 45 combattimenti sotterra, 96 sortite, 1173 mine degli assediati e il triplo de’ Turchi.

Maometto IV rianimò i suoi scrivendo ad Acmet Köproli: — Io ti vedrò, mio granvisir Lala (zio); in quest’anno benedetto tu devi operare da prode. Te e i campioni che sono teco, ho dedicati a Dio supremo. So come da due anni guerreggiaste e vinceste. In questo mondo e nell’altro, oggi come al giudizio finale, possa risplendere il vostro volto. Poteste almeno in quest’anno benedetto con la bontà divina acquistar Candia! Esigo da voi in quest’anno sforzi maggiori».

La guarnigione, ridotta a tremila uomini da sì lunga guerra, mentre il paese era consunto dalla peste, respinse ancora l’ultimo assalto de’ Musulmani: alfine il Morosini solo e abbandonato dovette capitolare (1669). La stima per lui fece agevole il Köproli nelle condizioni; partirebbero i Veneti da Candia a bandiera spiegata quando il tempo fosse propizio; chi volesse potrebbe per dodici giorni uscirne con armi e robe e gli arredi sacri; la repubblica conservava nell’isola i tre porti di Spinalonga, Suda e le Grabuse, le conquiste fatte sulle rive [50] della Bosnia e Clissa; scambiati i prigionieri, ripristinate le relazioni di commercio e amicizia. I quattromila cittadini sopravvissuti mutaronsi tutti a Parenzo, e Köproli ridusse la cattedrale di Candia in moschea.

Vincitrice di dieci battaglie, sostenuta per venticinque anni la guerra contro tutte le forze ottomane, Venezia scapitava di possessi non di gloria, chè una lotta ineguale per difesa della libertà e dell’incivilimento onora anche chi vi soccombe. Ma il popolo sentì con dolore furibondo questa perdita, quasi ruina della repubblica; dappertutto urli e pianti, come se il nemico fosse a Lido. L’intrepido Morosini, che va fra i maggiori eroi d’Italia, e che da Köproli aveva ottenuto doni e quattro dei cenquaranta cannoni della fortezza, fu accusato al gran consiglio di vigliaccheria nella difesa e corruzione nell’arresa, e d’avere trasceso i suoi poteri stipulando col Turco senza facoltà del senato; il vulgo, che nelle gravi sventure vuol sempre chi bestemmiare od uccidere, lo grida traditore, e ne domanda la testa[14]. Messo prigione, Giovanni Sagredo coraggiosamente affrontò la pubblica opinione per salvarlo, sicchè potette presto ricomparire terror dei Musulmani.

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Perocchè la Porta trattava la pace alla maniera dei prepotenti, soprusando ai Veneziani or per accusa di contrabbando, ora perchè avessero trafugato qualche schiavo cristiano[15], ora perchè avessero rincacciato pirati barbareschi, ora perchè i Morlacchi della Dalmazia veneta fossero corsi sopra que’ della Turchia, e ne avessero repulsato i latrocinj. Poi il gransignore, appena ottenne pace coi Polacchi, coi Cosacchi e coi Tartari, mandò contro l’Austria Kara Mustafà primo visir, che cupido di emulare la gloria di Köproli, con un esercito poderoso quanto ricco, pose assedio (1683) fin a Vienna[16]. Sobieski re di Polonia potè sconfiggerlo e cacciarlo: talchè l’Austria fu debitrice di sua salvezza a due nazioni, ch’essa poi doveva ingojare, la veneta e la polacca. La cristianità erasi veduta in estremo frangente, onde estrema fu l’esultanza: Innocenzo XI distribuì molte migliaja di scudi fra i poveri, soddisfece del suo pei debitori carcerati, istituì la festa del nome di Maria, e regalò splendidamente il messo che a nome del re di [52] Polonia gli portò lo stendardo maggiore de’ Musulmani. Si raddoppiò il tripudio a Roma e dappertutto quando furono prese Buda e Belgrado.

I Turchi moveano continui lamenti che i Morlacchi, sudditi di Venezia, molestassero le loro terre; e Venezia cercò reprimerli: ma quando per le sconfitte di Vienna credette sfracellato l’impero turco, pensò opportuno unirsi all’imperatore e al re di Polonia contro la mezzaluna. Fatto armi, della flotta commise il comando a Francesco Morosini (1685), dimenticando le stolte accuse, com’egli dimenticava le offese; ed occupò Santa Maura e Prevesa, e sperò col favore dei Mainotti e Cimariotti ricuperare tutta la Morea. Erano settantasei vele che conduceano novemila cinquecento soldati; il papa, Napoli, Milano, Germania davano danaro e uomini; volontarj accorsero di Francia, e fin di Svezia il valente Königsmark, che potentemente giovò in quelle imprese. Modone e Napoli di Malvasia furono prese, e tutta la Morea sgombra di Turchi fin all’istmo di Corinto. Atene fu assalita, e una bomba mettendo fuoco alla polveriera, rovinò il più bel monumento trasmessoci dall’antichità, il Partenone; e alfine la città cadde in potere dei nostri (1687). A Francesco Morosini peloponnesiaco vivente fu posto un busto nel palazzo ducale; il papa gl’inviò lo stocco e il cappello; reduce, ottenne il corno dogale, e recò molte spoglie, fra cui il leone che stava all’entrata del Pireo, e che adesso orna l’arsenale.

Le disgrazie aveano sovvolto l’impero turco; i visiri Kara Mustafà, Ibraim, Solimano furono col laccio puniti della sconfitta; deposto Maometto IV: ma il suo successore Solimano III, rinfervorato il fanatismo turco, assalì di nuovo Belgrado (1695). Poi il succedutogli Mustafà II mandò il corsaro Ussein Mezzomorto a battere i Veneziani per mare, mentr’egli in persona con Mustafà, figliuolo del Köproli vincitor di Candia, passa il Danubio.

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Qui si presenta un altro eroe, che l’Italia può rivendicare. Paolo, della famiglia romana Mancini, che fondò in sua casa l’accademia degli Umoristi, frequentata assai dalla nobiltà romana, ebbe un fratello Michele Lorenzo che in Gironima Mazarino, sorella del famoso cardinale, generò famose figliuole (tom. XI, pag. 227), per cui quel sangue fu mescolato ai duchi di Modena, ai Colonna, ai Soissons, agli Stuard, ai Conti, ai Bouillon, ai Vendôme. Maria a Parigi tanto piacque per bellezza e ingegno, che Luigi XIV la volea sposare; ma il cardinale ne distolse, e la maritò poi nel principe Colonna con centomila lire di rendita; essa fuggì dallo sposo colla sorella Ortensia, e dopo romanzeschi accidenti finì in un monastero. Ortensia, ambita da Carlo II d’Inghilterra e dal duca di Savoja, fu maritata a un signore francese che accettò il nome di duca Mazarino; ma presto lasciatolo, essa ricoverò a Ciamberì, poi in Inghilterra, dove accoglieva in casa i migliori ingegni al giuoco o a trattenimenti ingegnosi, causa di duelli e di avventure, narrate nelle costei Memorie, forse scritte dal Saint-Réal. Olimpia fu implicata nel processo delle famigerate avvelenatrici francesi Voisin e Brinvilliers; poi in Ispagna fu sospetta d’avere attossicato la regina per commissione dell’Austria; infine morì miseramente a Bruxelles.

Dal conte Eugenio di Soissons, terzogenito dell’irrequieto principe Tommaso di Carignano, aveva essa generato Eugenio (1663), conosciuto col nome di abate di Soissons, perchè dapprima erasi vestito chierico: involto nella disgrazia materna, rejetto dalla Francia dove il celiavano per l’abatino, offrì i suoi servigi all’Austria, e divenne famoso col nome di principe Eugenio di Savoja. Egli si firmava Eugenio von Savoie, cioè con una voce italiana, una tedesca, una francese, per mostrare (diceva) d’aver cuore italiano contro i nemici, [54] di francese pel suo sovrano, di tedesco pe’ suoi amici; oppure, come egli stesso spiegò a Carlo VI, perchè doveva all’Italia l’origine, alla Francia la gloria, alla Germania la fortuna. Eletto generalissimo contro i Turchi, gitta alle spalle gl’inetti ordini del consiglio aulico, che gli aveva imposto di tenersi sulle difese, va a cercare il nemico sul Theiss, e riporta vittoria decisiva a Zenta (1697), dove perirono venticinquemila Turchi, diciassette bascià e il gran visir Elmas Maometto; furono presi novemila carri, seimila camelli, quindicimila bovi, settemila cavalli, ventiseimila palle, seicentocinquantatre bombe, tre milioni di fiorini, due donne del granvisir, il suggello del gransultano, il quale dall’altra riva del fiume avea visto la rotta senza poterla impedire.

Vincere contro gli ordini parve colpa a Vienna, e quando Eugenio, dopo conquistata la Bosnia, tornò all’imperatore e consegnogli il suggello ottomano, Leopoldo neppur d’una parola il degnò, poi spedì un uffiziale a chiedergli la spada. Ne fremette Vienna, e fece folla attorno al palazzo, sicchè Leopoldo depose l’impertinente rigore, e negò ai gelosi ministri di punir come traditore «colui che Dio avea scelto per castigare i nemici di suo Figlio». Eugenio ricusò accettare di nuovo il comando se non libero dagl’impacci del consiglio aulico; col che ebbe campo a segnalarsi nelle guerre successive.

Non maestro della migliore tattica, conosceva però i luoghi e le persone, stava continuo sull’avviso, i proprj falli riconosceva e riparava, di quelli de’ nemici profittava per superarli nel momento di lor debolezza; d’attività senza pari, di gran coraggio e presenza di spirito, pronto a cogliere il buon momento, prendea gran cura dei feriti e degli ammalati, volendo soffrir egli stesso piuttosto che far soffrire i soldati. Uomo, del resto, moderatissimo, di carattere irreprensibile, non tollerava [55] complimenti sopra le sue vittorie: per franchezza ledeva sin la civiltà, inimicandosi così la ciurmaglia cortigiana; colto e di gran memoria, appassionato delle scienze e delle arti belle, e quanto valoroso in campo tanto prudente nel governare, perpetuamente consigliava la pace.

Intanto anche Venezia aveva continuato la guerra sul mare felicemente sotto Giacomo Cornaro, sciaguratamente sotto Domenico Mocenigo; onde il Morosini Peloponnesiaco, grave di settantacinque anni e di molti acciacchi, fu pregato a riprendere l’invitta spada. Con ottantaquattro navi egli arrivò a Napoli di Romania, ma la morte il colse sul campo di sua gloria (1694 5 genn.). Antonio Zeno, succedutogli nella capitananza, mantenne l’ardore degli eserciti, prese Scio, ma non potè o non seppe difenderla dai Turchi; onde richiamato, morì prigione (8 7bre) mentre gli si formava il processo. Ai raddoppiati sforzi de’ Turchi per ricuperar la Morea si oppose felicemente Alessandro Molino; ma le momentanee prosperità non conducevano a durevoli risultamenti.

Già da più anni si praticava la pace colla Porta, e v’insisteva l’Austria che maggior bisogno n’avea: ma era difficile il venir ad un fine, perchè l’islam proibisce di cedere verun territorio, mentre Russia, Polonia, Venezia pretendeano conservare i fatti acquisti. La Porta recedette dalle sue barbare abitudini riconoscendo che le altre potenze s’intromettano pel comune interesse; e colla mediazione dell’Olanda e dell’Inghilterra si firmò a Carlowitz (1699 16 genn.) fra i Turchi, l’imperatore, la Polonia, la Russia e Venezia la pace più notevole fra quante la Porta conchiudesse con potenze cristiane, e che pose termine all’umiliante tributo che pagavasi dalla Transilvania e da Zante.

La Porta, respinta dall’Ungheria, dalla Transilvania, dall’Ucrania, dalla Dalmazia, dalla Morea, ebbe a confine [56] il Dnieper, la Sava e l’Unna; l’Austria assicurò Buda, Pest, Albareale, da gran tempo turche; la Russia acquistava Azoff, di cui si farebbe scala al mar Nero; Venezia conservò la Morea fin all’istmo, le isole di Egina, Santa Maura e Leucade, abbandonando la terraferma, Lepanto e le isole dell’Arcipelago, e distruggendo i castelli di Romelia e Prevesa, patti che regolarono le relazioni della Porta colla repubblica finchè sussistette; Ragusi mantenevasi in devozione del Turco[17]. Le [57] spade di Sobieski, del Morosini, d’Eugenio aveano segnato alla porta il Fin qui verrai; e questa comincia a decadere perchè si sbarbarisce e perchè intepidisce il fanatismo, non collocando più la religione in capo a’ suoi trattati, e assoggettandosi alle formalità degli ambasciadori.

Non sapea però darsi pace della perduta Morea: e Ali Kamurgi finse raccoglier truppe onde castigare i Montenegrini e assalir Malta; e mentre Venezia dormiva in sicurtà di pace, ecco da Costantinopoli intimarsele guerra (1714) come a violatrice degli ultimi patti. Anzichè i pretesti addotti, la ragion vera fu il sapere che Venezia avea fortificazioni sfasciate, e l’esercito occupato verso Italia nella guerra di Successione. Adunque si arresta il balio di Costantinopoli, si chiamano tutti i bascià e i barbareschi, s’irrompe d’ogni parte: Corinto è presa a macello, così Napoli di Romania, così Modone; favorendo ai Turchi la popolazione greca, che lo scisma rendeva avversa ai Cattolici. Venezia armò anch’essa a furia e cercò soccorsi, ma non ne ottenne che da Clemente XI, fin quando il principe Eugenio indusse Carlo VI, come garante della pace di Carlowitz, a chiarir guerra. Eugenio menò settantamila uomini dalla parte dell’Ungheria; ma da Ali Kamurgi con cennovantamila preso in mezzo nelle vicinanze di Peterwaradin, [58] era perduto se non avesse avuto la temerità di assalirli. E vinse, e trentamila ne uccise, fra cui il granvisir e l’agà de’ gianizzeri; bottinò cinquantamila tende, cenquattordici cannoni, duemila camelli, immense provvigioni. Coll’aura propizia gettasi sulla linea di operazione di Kamurgi, ed espugna Temeswar, ritogliendone mille ducento cannoni austriaci, e tutto il banato redime dai Turchi. Poi, varcato il Danubio, assale Belgrado difeso da trentamila uomini e lo cinge di circonvallazione: ma Ascì-Alì, nuovo granvisir, torna con cencinquantamila guerrieri, e assedia lui stesso, che non isbigottito, in una giornata nebbiosa co’ suoi quarantamila uomini lo assale nelle trincee e lo sconfigge, uccidendo diciottomila Ottomani, prendendo trentun cannoni e moltissime munizioni. Belgrado capitola; altre fortezze sul Danubio e sulla Sava sono espugnate.

Corfù, con cinquantamila abitanti, porti e fortezza che sempre aveano resistito agli Ottomani, allora fu assediata con terribili attacchi quotidiani: ma il prode Schulenburg sassone, che avea combattuto felicemente l’eroe d’allora Carlo XII di Svezia, vi operò prodigi. Soccombeano gli assediati a un assalto generale, e già i Turchi penetravano nella breccia, quando Schulenburg sorte alle loro spalle con ottocento soldati; ed essi credendolo un esercito, si sgomentano e fuggono. Se non che s’ode che i Turchi furon vinti a Salankemen; poi le procelle e la peste pugnano pei nostri guastando i viveri, la polvere, le opere degli assedianti, che dovettero imbarcarsi, abbandonando armi e cavalli e quindicimila morti e duemila prigionieri.

Quel colpo era la salvezza di Venezia, contro cui teneva la mira il serraschiere; e in belle campagne successive lo stendardo di San Marco prosperava, quando l’imperatore conchiuse la pace di Passarowitz (1718 21 luglio), che fu compimento di quella di Carlowitz, conservando Temeswar [59] e Belgrado; libero traffico ai sudditi dei due imperi; repressi i pirati di Barberia e Dolcigno. Venezia, disgustata della Francia, che durante la guerra di Candia aveale usurpato il commercio di Levante, e che ora obbligava l’imperatore a pacificarsi istantaneamente coi Turchi, mancatale l’alleanza dell’Austria, non potè più che accettar la pace, rinunziando non solo alla Morea, a Tine, alla Suda, ma fin a Scutari, a Dolcigno, ad Antivari, conservando soltanto lo scoglio di Cerigo, e in Albania Butrinto, Parga e Prevesa, che proteggessero a levante il canale di Corfù, oltre che fu ridotto al tre per cento il diritto di dogana che prima era al cinque. Ma Corfù, con tanto valore difesa, ebbe nuovi disastri dal fulmine, che incendiando la polveriera (28 8bre), fece saltar molte case, gran parte delle fortificazioni e della flotta, con deplorabilissimo guasto di vite.

Questi fatti, e l’improvvida neutralità durante la guerra di Successione, tolsero a Venezia la reputazione che s’era acquistata nella guerra di Candia.

CAPITOLO CLXII. Luigi XIV e sua ingerenza in Italia. Sollevazione di Messina. Genova bombardata. Guerra della successione spagnuola. Incremento del Piemonte.

Dava allora il tono ai re d’Europa Luigi XIV, intitolato il Grande dalla Francia, della quale per settantatre anni fu magnifico rappresentante, come nella storia rimane personificazione dell’unità francese, e di quel potere che, allora diceva Bossuet, si crede degradato quando gli si mostra che ha confini. Con fasto e magnificenza, conditi di cortesia e buon gusto, ponendosi [60] per unica meta quella che chiamava la mia gloria, volle circondarsi d’ogni sorta di vanti, e anche di quello di conquistatore; e attorniato da insigni generali, menò lunghe guerre, secondo le convenienze più che secondo la giustizia; portò la Francia fin al Reno coll’acquisto di Strasburgo; poi gettatosi all’avventura di interminabili nimistà, pericolò l’indipendenza de’ vicini e l’equilibrio europeo.

Mentre Louvois ministro della guerra spingealo a sempre nuovi attacchi, Colbert ministro delle finanze procura vagli modi a sostenerle, eppure recar la Francia a incredibile prosperità; e diede il nome suo al sistema economico (colbertismo), che consiste nel favorire specialmente l’industria. Pertanto faticò a prosperare le manifatture francesi coll’escluder le straniere; le italiane, gravate d’enormi dazj all’entrata, non poterono più sostenere la concorrenza del prezzo, mentre perdeano anche il primato per qualità; e la moda, che prima avea prediletto le italiane, allora inondò di stoffe francesi anche la nostra penisola.

Internamente Luigi non tollerò veruna disuguaglianza davanti alla sua onnipotenza; privilegi di classe, diritti baronali, esenzioni del clero, interessi delle corporazioni, pretensioni di Roma, riserve dei senati, sentimenti delle comunità doveano cedere alle esigenze dell’unità politica. E poichè vedeasi quanto possa un grande Stato di cui tutte le forze siano accentrate a scopo unico, divenner tipo comune un re assoluto, nobili cui unico privilegio erano gli onori di Corte e i primi pericoli nell’esercito, cittadini protetti e soddisfatti negl’interessi materiali, clero ristretto ad annunziare la parola di Dio e l’obbligo di obbedire; tutti i principi tolsero ad imitarlo, benchè lontani da quella magnificenza, colla quale Luigi ammantava il misfatto sociale di concentrar lo Stato in un uomo solo.

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Smanioso d’ogni specie di grandezza, non pago che il suo fosse il secol d’oro della letteratura francese, cercò trarre a sè i migliori artisti d’Italia, prodigò carezze e pensioni agli scrittori che vollero meritarsele. V’avea libri da dedicare? scoperte da applicare? rarità da offrire? tutto dirigevasi al gran Luigi. Nel 1662 incaricò Chapelain, cattivo poeta ma buon critico, di far una nota di 60 persone illustri, di cui 45 francesi e 15 forestiere, da ricompensare. Fra gli stranieri era Graziani «ben versato nelle belle lettere ed eccellente nella poesia»[18]. La lista crebbe di poi, e vi troviamo Cassini «celebre matematico di Bologna, invitato da S. M. a venir in Francia», Viviani «primo matematico del duca di Toscana», Carlo Dati «fiorentino, il più celebre accademico della Crusca», Ferrari «prof. d’eloquenza alla Università di Padova».

Lo scopo non era tanto di premiar il merito, come di eccitarli a lodare il gran re in prosa, in versi, in ogni guisa, e Chapelain e Colbert non lo dissimulano. Avendo il Dati sottomesso a Chapelain alcuni appunti per far un elogio di Luigi, questi scriveva a Colbert: — La cosa non è di piccola importanza, giacchè trattasi del re: onde spero che voi ve n’occuperete, e dopo preso tempo di scorrere questo scritto, mi farete sapere se posso spedirlo pel corriere, o se v’ha cosa da aggiungere o levare». E poco poi annunziando la cosa stessa di Ottavio Ferrari, scrive: — Credo che fra tutti gli scrittori favoriti da S. M., quelli che più son degni di riguardi siano gli storici, e fra questi coloro che trattano degli affari presenti o in relazione coi nostri. Credo che voi la pensiate così, e tal era l’opinione dei due famosi cardinali che fecero la felicità della Francia». Dal marchese Zampieri furono presentati a Luigi dodici [62] panegirici, recitati in dodici città d’Italia a onor di lui; egli invitò in Francia l’antiquario vicentino Giambattista Ferreti, che a lui dedicò le iscrizioni antiche in verso col titolo di Muse lapidarie; al Viviani diede case e pensione; cento scudi l’anno al Dati; cinquecento per un panegirico al milanese Ottavio Ferrario; cencinquanta doppie al Graziani; altre all’Achillini; altre a Vittorio Siri; a un gesuita una medaglia d’oro per un poema latino offertogli; al latinista Bonamici suggerì di narrare la presa di Porto Maone; da chiunque venisse di qua dell’Alpi mandava a salutare il Magliabechi.

Assegnò 2000 scudi a Bernino per la statua equestre, la quale poi fu trovata di sì poco merito. Oltre questo, chiamò in Francia Francesco Romanelli da Viterbo, che molte opere eseguì, e fu fatto cavaliere di san Michele; e Giacomo Torelli di Fano, come architetto regio e macchinista del teatro. Giannettino Semeria genovese che avea avuto dall’India una perla di cento grani di peso, somigliante un torso umano, vi fece aggiungere testa, braccia e piedi d’oro smaltato, e coprire di elmo, pennacchi, lancia, con molti fregi d’angeli, di simboli e trofei ed armi, lavoro finissimo e di mal gusto d’un tal Cassinelli, tutto posato sopra un bacile sostenuto da quattro sfingi; unitevi quattro pistole in filigrana, e un cartello con que’ versi del Guarini

Piccole offerte sì, ma però tali

Che, se con puro affetto il cor le dona,

Anche il ciel non le sdegna,

ne fece dono a Luigi XIV; e subito il giornale ufficiale congratulò il Semeria perchè il gran re l’avesse gradito e intitolatolo singolare, e Genova che possedesse un suddito degnato di tanta bontà dal re[19].

[63]

Gli ambasciatori di Francia doveano spiegar pompe e burbanza conforme a quella del monarca; e lo vedemmo nel Lavardino. Allorquando nel 1682 Amelot entrò ambasciadore a Venezia, mosse dal palazzo col suo seguito ed altri gentiluomini e mercanti francesi, entro cinque gondole ricche, e ricchissima la sua propria con cortinaggio ricamato a Parigi, e statue simboliche, schiavi, genj e pitture, da valer meglio di diecimila lire; e i ferri di poppa e di prua erano capolavori di cesello. Così passò all’isola di Santo Spirito, ove trovò un appartamento allestitogli dalla repubblica, e dove ricevette l’ambasciadore imperiale e il nunzio pontificio. Federico Cornaro, deputato dal senato a riceverlo, mosse da San Giorgio Maggiore a capo di sessanta senatori portanti i roboni rossi e la stola di velluto a gran fiori, con gondolieri in velluto azzurro riccamente gallonato. Fra i valletti e i paggi del signor Amelot giunto alla chiesa, ve lo ricevettero i gentiluomini di questo, che lo condussero a mezzo d’essa chiesa, ove l’ambasciadore gli venne incontro a lenti passi. Ricambiati i complimenti dall’uno in francese, dall’altro in veneziano, il cavaliere diede la dritta all’ambasciadore, e così ciascun senatore a quei del corteggio, conducendoli alle gondole e avviandosi alla città. Ed ecco muover incontro una peota carica d’Armeni, Arabi, Persiani, raccolti da un ricco mercante levantino che aveva ricevuto un favore dal gran Luigi. Arrivati al palazzo di Francia, finiti i complimenti, aprì le sue sale a tutti, essendosi tolto ai nobili il divieto d’entrare nel palazzo degli ambasciadori stranieri; e musiche e rinfreschi. Pomposissimamente fu al domani ricevuto nei Pregadi, ove, fatte nove riverenze, andò assidersi a fianco del doge e presentargli le credenziali. Il doge [64] gli regalò dodici vassoj di confetture, due bacini di ostriche dell’arsenale, e molte bottiglie, e banchettò tutto il corteggio, aprendo poi al pubblico i suoi appartamenti.

Cento comparse potrei raccorre: ma restringendomi alla politica, dirò come Luigi XIV mestasse nelle vicende degli Italiani, e non per loro vantaggio. Deplorammo la condizione della Sicilia, e come nelle sue irrequietudini guatasse ai Francesi, nemici naturali de’ suoi padroni. Persistendo le cause, le ribellioni ripullulavano; e subito dopo la sollevazione dell’Alessi, un Antonino Del Giudice, giureconsulto di Palermo, con altri avvocati propose di cercarsi un re, fosse il duca di Montalto o il conte Mazarino; denunziati da questo, vennero mandati al supplizio. La Corte non vedea migliore spediente che ad una parte de’ Siciliani conceder privilegi ch’erano un aggravio per l’altra, e fomentar i gelosi rancori tra Catania, Palermo e Messina.

Quest’ultima avea conservato le libertà municipali, concessele dai Normanni; e v’aggiunse nuovi privilegi, pei quali formava quasi una repubblica sotto la monarchia. Un senato paesano di quattro nobili e due cittadini eleggeva i magistrati, amministrava il patrimonio pubblico, mandava ambasciadori al re, ricevuti come di principi; studiava a magnificare la patria con edifizj, scuole, professori, e far opposizione al governatore spagnuolo; e nei casi più gravi convocava il granconsiglio coi capi delle venti arti. A denaro avea comprato esenzioni dalle gravezze, le quali così venivano a pesar viepiù sulle altre città, che a vicenda s’offendeano di tali prerogative; non s’accorgendo che la particolare prosperità dovea venire dalla generale, non dall’altrui decadimento.

Già nel 1410 in un parlamento a Taormina si era risolto che il re di Sicilia risedesse a Messina; e dopo [65] d’allora questa favoriva anche gli stranieri, purchè la preferissero. Vantava essa l’antico diritto di batter moneta; ma perchè tanta se ne falsificava, il vicerè Vegliena stabilì di rifonderla alla zecca di Palermo, ma Messina dal consiglio d’Italia a Madrid ottiene decisione favorevole (1581).

Spendendo aveva impetrato da Filippo III che il vicerè vi sedesse diciotto mesi del suo triennio; con nuovo denaro sperò ottenere si dividesse l’isola, con due capitali e separati vicerè. Corsero ambasciadori, rimostranze, corruzione; ma poichè l’Albuquerque, allora vicerè, prediligeva Palermo, e questa pagò cinquecento scudi, si decise l’integrità dell’isola, benchè Messina offrisse il doppio. E sempre rinascevano le pretensioni, ora per la residenza, ora per la moneta. Quando il vicerè Giovanni d’Austria volea restaurar la flotta, non trovandosi mezzi a ciò, nè bastando l’aver vendute le città di Girgenti e Licata, i Messinesi offersero novemila scudi al mese, purchè fosse fatta sede del governo; ma dalle lunghissime brighe non conseguì che la conferma delle antiche franchigie, le quali non impedivano le prepotenze dei vicerè.

Nel 1612 avendo il parlamento decretato nuove gravezze, i Messinesi vi opposero i loro privilegi, comprati a buoni denari: mandano ambasciadori a Madrid, ma l’Ossuna vicerè compare a Messina, agguanta i magistrati, e in catene li conduce a Palermo (1660). Il vicerè Ayala, uomo vano e pretensivo, tentando attenuare quelle prerogative, moltiplicò i mali umori e i richiami. Al contrario, il duca di Sermoneta, che per le male arti sue era chiamato Far moneta, si butta coi Messinesi, e in compenso della fedeltà serbata nei tumulti di Palermo, ridesta un’antica prammatica (1664), per cui dall’isola non si poteva asportare seta che per la via di Messina. Indarno il re la trovò «contraria alla ragione, al diritto naturale e alla libertà che deve esservi nel commercio, e [66] di gran pregiudizio ed incomodo a tutto il regno»; la città sostenne quel diritto, e a tumulto lo fece sottoscrivere dal patrimonio reale.

Palermo manda a richiamarsene; Messina manda a sostenerlo: l’ambasciatore di questa pretende esser ricevuto come quelli di principi sovrani; l’ambasciadore di Palermo vi si oppone; dissentono con calor siciliano, e la Corte ride, che delle gelosie di ciascuna si fa puntello a conculcarle entrambe; poi quando il Marianna, reggente a nome di Carlo II, pronunzia contro i Messinesi, il loro inviato si ritira senza congedo e protestando. Di qui irrequietudine e fazioni interne; i Merli favoreggiano al re, i Malvizzi aborriscono gli Spagnuoli; il matematico Alfonso Borelli pensò tagliare il nodo costituendo una repubblica alla foggia di Genova, ma fu gran che se campò dalla forca.

Aggiungansi le prepotenze dei baroni, che ciascuno nel proprio feudo soprusavano; e nei parlamenti non provvedeano a moderare la monarchia, ma al più gli abusi di qualche vicerè. Aggiungansi terribili eruzioni dell’Etna: aggiungansi i Turchi che, dopo presa Candia, minacciarono la Sicilia, onde vi fu messo a custodia il fiammingo principe di Ligny, buon soldato.

Lo straticò, uffiziale regio comune a tutte le città sicule sotto i Greci (strategos), dopo gli Svevi non era rimasto che a Messina governando con mero e misto imperio, inferiore soltanto ai due vicerè e al governatore di Lombardia. Luigi dell’Hojo, dissoluto e ipocrito, propose alla regina, se lo nominasse straticò, sbarbicare da Messina quelle forme repubblicane, e l’esenzione dei magistrati da gabelle, dal servizio militare e da altri pesi. Abilissimo a concitare la moltitudine mediante l’invidia, l’interesse, il fanatismo, nello sbarcare si buttò a terra baciando il suolo della città prediletta di Maria; distribuì in limosine i cinquantamila scudi di cui il re [67] avealo provveduto; sempre con popolani, sempre per chiese e spedali, sempre comunicarsi e gran limosine e conferenze spirituali, onde il vulgo lo reputava un santo e che avesse fatto un miracolo, e sacrilegio il contraddirgli. Del credito popolare si giova per seminar diffidenza contro i nobili e i ricchi; qualvolta assolve un ribaldo o supplizia un innocente, ne riversa la colpa sul senato; poi in una carestia cerca non arrivi più grano, e della fame accagiona gl’incettatori e la negligenza del senato; anzi dalla casa dei principali fin alla marina fa spargere striscie di frumento, per dar intendere che la notte e’ ne mandino fuori.

L’indignazione non tardò a prorompere, com’egli bramava, in bestemmie, violenze, incendj; esso si chiarisce contro i senatori, e pretende si scelgano in egual numero tra’ nobili e tra’ cittadini: ma avendo tentato sorprendere i forti, custoditi dalla milizia urbana, la sua nequizia venne palese, ed egli dichiarato pubblico nemico (1673). Non arretra però; e a capo della bordaglia e de’ prigionieri, sostenuto dai Merli, incendia i palazzi dei ricchi e dei Malvizzi, e chiama truppe. Accorse il principe di Ligny, e scoperto quel procedere da forca, condannò i colpevoli, lui destituì; poi vedendo che Spagna lo conserva accanto al nuovo straticò, marchese di Crispano, mandato con ordini severissimi, egli rinunzia al viceregno, e l’isola va tutta in subugli e violenze.

In occasione della solennità onde si festeggia la Lettera che Maria scrisse ai Messinesi, avendo il sartore Antonio Adamo esposto un emblema oltraggioso (1674 6 luglio) al nuovo straticò, questi lo fa arrestare; i borghesi esclamano ai privilegi violati, e unitisi ai nobili e ricchi, sanguinosamente abbattono i Merli, dichiarano traditore il Crispano, e fugano i soldati spagnuoli. Il Crispano d’intesa coi Merli convoca i senatori in palazzo, e tenta [68] farne un vespro, ma la loro imperturbabilità li salva; e i Malvizzi, che sin allora aveano protestato riverenza al re, abbattono la bandiera spagnuola, occupano i forti, e respingono la squadra di ventitre vascelli e diciannove galere, guidata dal vicerè marchese di Bajona. Oltre le fatiche soldatesche, trovavansi ridotti a tre oncie di pane il giorno; poi anche questo venne meno, e per dodici giorni non si nutrirono che d’animali domestici.

Disperando di resistere soli, e poichè i nemici di Spagna sapevano sempre dove cercare appoggi, si volsero a Luigi XIV. Costui non poteva tollerare che la repubblica d’Olanda grandeggiasse vicino al suo trono, e annidasse la libertà ch’egli avea spenta sotto le pompe: la invase, e così eccitò una lega dell’Europa, sgomentata dal non sapere fin dove egli spingerebbe le ambizioni. Luigi conobbe qual vantaggio gli darebbe sopra la Spagna il possedere Messina; onde, senza ancora alzar la visiera, mandò soccorsi ai ribelli col cavaliere di Valbelle e col marchese di Vallavoire (1675). All’apparire della flotta, gli Spagnuoli dovettero allargar la città, che fu approvvigionata, ma con tal parsimonia che la fame ricominciò più violenta; finchè Luigi, che la favoriva soltanto a misura del proprio interesse, mandò un’altra squadra col famoso ammiraglio Duquesne, e tolse in protezione i Messinesi, manifestando all’Europa di farlo unicamente per conservarle le leggi e i diritti, e porvi un re di quella casa di Francia, che due dinastie avea già date alla Sicilia. Intanto vi destinava vicerè il duca di Vivonne, non d’altro meritevole che d’esser fratello della Montespan ganza del re, e che di pompeggiare in solennità per la proclamazione e pel giuramento curava piuttosto che di vincer gli Spagnuoli, nè d’estendere la sollevazione, o frenare i proprj soldati, che esacerbavano i Messinesi. Anzi costui fu la vera rovina di quell’impresa, eppure ne fu compensato col titolo di maresciallo.

[69]

Per quante sollecitazioni però si spargessero nell’isola, quasi nessuno si sollevò, la forca punì chi fece movimento: Napoli intanto dava ducentomila ducati per sottomettere i ribelli; truppe reclutavansi in Lombardia; la Spagna processò i generali, ed altri ne surrogò, ben provvedendoli per terminare l’impresa. L’Olanda, collegata contro Luigi, mandò colla flotta il terribile ammiraglio Ruyte ne’ nostri mari: ma quivi mal servita dai Napoletani che disistimava, e dal ritardo di don Giovanni d’Austria destinato vicario generale del Regno, perdette un tempo prezioso, del quale Duquesne profittò per ingrossare l’armata; e presso Lipari attaccò combattimento (1676 8 genn.) sanguinoso ma non risolutivo: in uno più segnalato avanti a Palermo, Ruyter ebbe una ferita, di cui moriva a Siracusa, e i suoi abbandonarono il funesto Mediterraneo. Erano le prime sconfitte che gli Olandesi toccassero in mare: e i Francesi trovandosi col vantaggio, poteano insignorirsi dell’isola; ma il ministro Louvois per gelosia contro Colbert sperdette l’opportunità col negare soccorsi; onde Duquesne fu costretto tenersi indarno, poi informato delle intenzioni del re, chiese congedo.

Perocchè il re trovava allora necessario raccorre tutte le sue forze contro il nord d’Europa, onde spedì il marchese della Feuillade, servile ai grandi e petulante cogl’inferiori, acciocchè levasse da Messina la guarnigione. Ma come farlo senza che i Messinesi si opponessero? Convenne ingannarli, e proclamato vicerè (1678) con indicibili feste, colui guadagna gli animi col secondare gl’impeti generosi e riprovare le lentezze antecedenti; dice voler guerra grossa e pronta, prende l’offensiva, attacca Palermo. A tal uopo confida i forti ai Messinesi, mentre imbarca truppe, viveri e cannoni; imbarca anche i malati, atteso qualche sintomo di peste; uno stendardo colla Madonna della Lettera gli è regalato dai [70] Messinesi, esultanti della prossima ruina dell’emula antica. Ingannati! salpate le ancore e ridotto fuor del tiro del cannone, il vicerè chiama i giurati e dichiara: — Ho l’ordine d’abbandonar la città: se potete tener buono per due mesi, sperate; se no, provvedete ai casi vostri».

Colpiti da dichiarazione sì inaspettata e sentendo inutili le rimostranze, i giurati domandarono si ricevessero almeno sui vascelli quei che la devozione a Francia esponeva peggio. Il duca concedette non più di quattr’ore. Inesprimibile la costernazione degli abitanti; fanciulli, donne, uomini in folla accorreano sulla riva, portanti le più care cose; l’aria sonava de’ gemiti e delle imprecazioni di chi più temeva il castigo degli Spagnuoli; imploravano d’esser ricevuti nelle scialuppe che trasportavano alcune famiglie di senatori, partenti senz’altra provvigione; e respinti vi si ghermivano, non lasciandosi staccare che a sciabolate; molti si affogarono dalla disperazione. Il duca, imbarcate circa cento famiglie, sessantamila Messinesi abbandonò agli Spagnuoli; fermatosi alquanti giorni ad Agosta, fece volare la torre d’Avalos, inchiodare i cannoni di ferro, imbarcare quelli fusi, e portar via sin le campane; e perchè la tempesta durata otto giorni gli tolse di varcar lo stretto, da cui voleva allontanarsi ad ogni costo, dovè farsi rimorchiare dalle galee. I fuggenti approdati a Marsiglia, ebbero ad aspettare nuovi ordini: speravano aver ben tosto licenza di presentarsi alla Corte, e colla loro presenza risvegliare la magnanimità del re; ma furono sparpagliati in varj luoghi, e la più parte perirono di miseria[20].

[71]

La Francia avrà confortato la sua coscienza col riflettere che v’avea speso trenta milioni. Messina, la città della Madonna, per disperata mandò perfino ad invocare i Turchi; ma li prevennero gli Spagnuoli, che accorsi da Reggio, la occuparono. Don Vincenzo dei Gonzaga di Guastalla, nominato vicerè, per tre giorni permise ogni eccesso alle sue truppe; imprigionati e morti i più ragguardevoli, tutta Sicilia tornò all’obbedienza di Spagna. Da sessantamila, i cittadini trovaronsi ridotti a undicimila; portati via gli archivj e i greci manoscritti ch’essa avea comperati da Costantino Lascari; toltile la zecca e il senato, surrogandovi il magistrato degli eletti; demolito il palazzo, impostevi le gravezze comuni, tratti al fisco i beni de’ fuggiaschi. A questi Luigi continuò per diciotto mesi gli alimenti, poi ordinò se n’andassero, pena la testa. Molti da ricchissimi si ridussero a dover mendicare; altri gettaronsi al ladro; mille cinquecento rinnegarono Cristo per [72] Maometto; cinquecento con salvocondotto di Spagna rimpatriarono, e da quattro in fuori, il vicerè li mandò alle galere[21].

La lunga guerra di Messina avea recato grave detrimento al Napoletano. Quivi dal vicerè Pier Antonio d’Aragona (1670) eransi lasciati moltiplicare i disordini di banditi, risse, duelli, assassinj col comporre a denaro i delinquenti, impinguandosi a pregiudizio della giustizia, come a pregiudizio delle gallerie nostre arricchì la sua di Madrid. Però col compire la numerazione dei fuochi [73] rese più equo il comparto degli aggravj, e potè aumentar le rendite del tabacco e della manna: smaniato pel fabbricare, moltissime aggiunte fece alla reggia e all’arsenale, e la via che li congiunge, ricostruì l’ospizio di san Gennaro, fece il porto delle galee, il Presidio capace di seimila soldati; ristabilì i bagni di Pozzuoli e di Baja, riordinò l’archivio, sollecitò la spedizione delle cause.

Il marchese d’Astorga succedutogli (1672), ebbe molto a travagliarsi per riparar alla fame, ai tosatori e falsatori di monete e ai ladri, fra cui famoso un abate Cesare che finalmente fu ucciso. In nuovi impacci l’avvolse la guerra di Sicilia: e poichè bisognava alimentarla col denaro del regno, ricorreva ad ogni mezzo per farne, e il popolo ne mormorava, tanto che gli venne surrogato il marchese Los Veles (1675). Ma egli pure dovette sottigliarsi a smungere onde mantenere i soldati in campo e quei tanti Tedeschi che il clima buttava negli spedali; e venduti tutti gli uffizj e le gabelle, si vendettero e barattarono anche i fondi regj a gran vantaggio di chi avesse denaro da comprarli in quel precipizio; si ridusse a regalia l’acquavite, ricavandone tredicimila ducati l’anno. Per qualche riparo all’infinità di banditi, si promise perdono a tutti quelli che andassero a combattere in Sicilia; e molti il fecero, ma pensate come dovesse procedere la guerra fatta da cotali.

Tanto concorso di soldati, di marinaj, di gente comprata e che veniva a vendersi, empiva Napoli e il regno di disordini, e giustificava i rigori della giustizia, che non solo ne faceva pubblicamente impiccare a centinaja, ma fin strozzare in segreto. Intanto una giunta degli Inconfidenti scrutinava quei che avessero intelligenze colla Francia, e molti ne mandava alla forca, alla galera, all’esiglio. Raddoppiaronsi i rigori contro i monetarj falsi, peste dilatatasi a segno, che non solo [74] aveasi a bisticciare del peso, ma e pel titolo e pel conio, con infinito impaccio del Governo.

Don Giovanni d’Austria, che in quel momento fu dichiarato primo ministro della monarchia, molti pravi magistrati depose, e furono costruiti processi di corruttela: ma come principe voleva continue feste, e colla sua superiorità offendeva le pretensioni del vicerè.

La pace di Nimega (1678-79) lusingò di riposo: ma Luigi XIV, quantunque assai vi guadagnasse, non parve guardarla che come un comodo a nuovi attentati; e piantò due tribunali che si arrogarono il diritto affatto insolito di esaminar giuridicamente le ragioni della Francia sopra alcuni paesi, e dichiararli devoluti a questa, calpestando la libera sovranità: intanto allestendo nuove armi, ispirava sgomento a tutti; e l’apparire di navi francesi nei porti di Napoli o di Sicilia partoriva sospetto al Governo, speranza ai popoli, non mai disingannati.

Altrove ancora fece egli sentire la sua infausta ingerenza. Genova, sì bella, sì opportuna, qual meraviglia se la proseguivano di funesti amori la Francia, la Spagna, la Savoja? Essa propendeva a Spagna per tradizione e perchè meno temibile che non la Francia, la quale dava ricovero e protezione ai Fiesco e ad altri nemici di essa, nè dimenticava d’averla altre volte posseduta. Gli esempj di Luigi XIV inuzzolirono Carlo Emanuele II ad acquistarla, e da querele di vicinato cercò pretesti a disturbarla. Rafaele della Torre, giovane di ventidue anni, per vizj e prepotenze condannato alla forca, fuggì da Genova a Torino, e al duca offrì di tradirgli la sua patria. Accettata l’infame proposta, mandaronsi truppe procurando occupare Savona, mentre si solleverebbe Genova: ma un Vico, altro mal arnese cui il Torre s’era affidato, scoperse l’ordita. Il ribaldo potè campar ancora, sempre mulinando contro di Genova [75] e del Vico, finchè a Venezia fu ucciso in rissa mascherato fra donnaccie.

Il duca prese dispetto della fallita rapina, da cui sperava e comodità de’ sali e incremento di paese; e trovò pretesti d’intimar guerra ai Genovesi, i quali sorsero alla difesa, benchè a reclami contro tanta perfidia le potenze non badassero; lanciarono anche masnadieri sopra il Piemonte, che altri banditi spediva; vergogna e desolazione reciproca. In buona guerra i Genovesi restarono superiori; il duca (1673), uscitone con vergogna, punì i generali, e poichè d’ogni sconfitta vuolsi una vittima, fece condannar a morte il valoroso Catalano Alfieri, che poi da nuova revisione fu riconosciuto innocente. Intanto allestiva nuova guerra: ma re Luigi s’interpose, e pretese che Genova si rimettesse senza condizioni all’arbitrato suo; se no, dava ordine all’ammiraglio d’arrestare qualunque galea o barca appartenente alla repubblica. Avendo egli proferito con evidente parzialità verso il duca, e preteso che a questo si restituisse la toltagli Oneglia, Genova ricusò stare al lodo; ond’egli cominciò a lagnarsi ch’essa se l’intendeva col governatore di Milano, poi pretese restituisse i beni anticamente confiscati a Gian Luigi Fiesco, il quale dicea non aver cospirato se non per rendere la repubblica al legittimo dominio di Francia; le impose anche di disarmare quattro galee di libertà, di recente allestite; e il suo ambasciadore Saint-Olon avendo iscritto tra’ suoi famigli molte persone di perduta vita, perciò autorizzate a portar armi e soprusare, facea nascere mille di quelle cavillazioni, che al lupo dan pretesto di sbranare l’agnello. Essendosi trovato insudiciato lo stemma sulla sua porta, il Saint-Olon partì, che che scuse e spiegazioni porgesse la repubblica; si gettò voce che Genova vendesse munizioni agli Algerini, allora in guerra colla Francia; ma il vero si era che il [76] Seignelay, ministro della marina francese, voleva segnalarsi in qualche impresa, morto Colbert che costringeva a sparagnar uomini e denaro.

Mentre dunque alloppiava i Genovesi con trattative e condiscendenze, una squadra di quattordici vascelli, tre fregate e venti galere, oltre navi da bombe e da incendio (1684), capitanata dal Seignelay e dal terribile Duquesne, schieratasi avanti alla città che non sapeva se amica fosse o avversa, pose fuori un misto d’accuse, di pretensioni, di minaccie, domandando si consegnassero le galee e si spedisse a fare scuse al gran re; se no, le bombe. Dalle umiliazioni aborrì la repubblica; con buone ragioni snodò i cavilli regj, e s’armò quanto potè; ma ecco incominciano a fracassarla le bombe, in quel brutale abuso della forza non dando avviso tampoco ai negozianti francesi, i quali si trovarono esposti e alle palle de’ loro nazionali e al furor della plebe.

La città, stupenda di edifizj e di chiese, la cattedrale resa sacra anche dalle reliquie del Battista, i monasteri, gli ospedali, la dogana, il portofranco erano colpiti da que’ fulmini, fra le grida, le fughe, le morti, le bestemmie contro il re cristianissimo, che nè alla religione nè all’umanità avea riguardo, e fra i rubamenti de’ malandrini che profittavano del comune sgomento. Continuato il venerdì e il sabbato, neppur la domenica si sospese l’infernale attacco (1684 16 mag.); al lunedì il Seignelay mandava a dire: — Me ne sa male; ho gettato seimila bombe, ne tengo pronte diecimila se non date soddisfazione». Al senato parve codardia il piegare alla brutale prepotenza, e negò prendere veruna risoluzione sotto lo scoppio micidiale; onde Seignelay ricominciò alla peggio, aggiungendo le palle: ma dopo gittate tredicimila trecento bombe dal 18 al 28 maggio, la flotta regia si ritirò, vedendo non far frutto contro tanta costanza[22].

[77]

Genova nominò una giunta del doge e di quattro senatori, che con pieno potere provvedessero alla difesa; fece giurare ai cittadini di non proporre verun accomodamento; [78] spedì a sollecitare la flotta di Spagna: ma questa arrivando fece mostra di riguardar la città come sua dipendente, rispose con minori colpi ai cannoni [79] della città, pose guarnigione napoletana e milanese nei forti. Intanto Luigi, ostinato a riparar l’onore, preparava guerra regolare; onde la città sdruscita, arsa, [80] danneggiata in cento milioni ed affamata, non poté che sottomettersi, dopo salvato l’onore. Luigi volle la repubblica sconnettesse ogni legame con Spagna, disarmasse le sospette galee, rifacesse con centomila scudi i Fieschi; il doge, a cui lo statuto vietava d’uscir di città, si conducesse con quattro senatori ad invocare la [81] regia clemenza a Versailles. Francesco Imperiali Lercari (1685 maggio) v’andò in effetto, accolto con insultante magnificenza; e interrogato dal re qual gli paresse la cosa più straordinaria nella sua reggia, rispose: — Il trovarmivi io»[23].

Somiglianti prepotenze vedemmo rinnovare poco [82] dopo Luigi con Roma (tom. XII, pag. 24); sicchè mal arrivava all’Italia dai Francesi, cupidi di possederla, come dice il Ripamonti, inquieti e vogliosi d’inquietare altrui. Ragione era dunque che gl’Italiani li guardassero sinistramente; il duca di Savoja impazientivasi che tenesser Pinerolo e Casale, e a lor voglia regolassero i passaggi e gli alloggi, sfilando fin sotto le mura della capitale; Spagna non sapeva perdonare a Luigi d’averlo trovato co’ suoi nemici in Fiandra, in Catalogna, a Messina, a Napoli; i principi tedeschi erano da lui o istigati contro l’Impero o spogliati di qualche territorio o diritto; degli Olandesi colle restrizioni danneggiava il commercio; in Inghilterra sosteneva il pretendente contro il re chiamato dalla nazione; in Oriente sollecitava il Turco a non lasciar pace all’Austria: donde un gruppo di malcontenti, che la gloria del suo regno offuscò colle disgrazie degli ultimi anni. Nelle quali più fu involto il paese che, per la vicinanza, più risentiva delle ingerenze del gran Luigi.

Obbedivano allora al duca di Savoja il ducato originario, la contea di Nizza, il principato d’Oneglia, il Piemonte proprio, composto delle provincie di Susa, Torino, Asti, Biella, Ivrea, Cuneo, Mondovì, Vercelli; il ducato d’Aosta, settantaquattro terre del Monferrato, tra cui Alba e Trino: alla Francia restavano Pinerolo, val di Perosa, Fenestrelle pel trattato di Cherasco, e Casale per cessione di Carlo Gonzaga; dominio di un milione [83] ducentomila abitanti, di cui quarantamila in Torino; colla rendita di otto milioni. Emanuele Filiberto, dimenticando gli Stati generali e abolendo i diritti e privilegi, che le diverse città, sottomettendosi ai principi di Savoja, aveano stipulato, rese assoluta la potestà.

Il consiglio di Stato, composto a volontà del duca, l’assisteva nel governo: i tre senati di Torino, Nizza, Ciamberì poteano interinare gli atti sovrani, esaminarli cioè prima di procacciarne l’esecuzione. Giudici di provincia rendeano giustizia nelle città, non stipendiati dal governo, ma esigendo sportule dai litiganti, che doveano pure alla finanza un diritto proporzionale sugli oggetti in controversia. I baili delle terre venivano nominati dai signori feudali, che aveano Corte, carceri, patiboli, armi. Aggiungete giurisdizioni privilegiate pei militari, per le contenzioni d’oro e d’argento, per la salute pubblica, pei diritti d’acqua, per gli studenti, pei preti, per gli eretici.

In feudi era ripartito tutto il paese, contandosene quattromila quattrocensessantacinque, dove gli agricoltori erano servi, finchè Emanuele Filiberto gli emancipò, ma con poco effetto in Savoja; e al feudatario competeano pedaggi, diritti di pesca, di caccia, di derivar acque, banalità di forni e mulini, multe, confische. Alla sola nobiltà le cariche di Corte, i gradi nella milizia, nel governo, nell’alta amministrazione, nella diplomazia; gente altera dei titoli, fastosa più che ricca, disdegnosa verso i cittadini, prode in armi, scarsa di coltura. Numeroso il clero e provveduto bene, non esuberantemente. Grandissima l’autorità della Corte romana, tanto più in grazia dei ricchi feudi di Masserano, Crevacuore, Montafia, Cisterna, Lombardore ed altri che teneva nel Canavese, nel Vercellese, nell’Astigiano, e nei quali, immuni dalla giurisdizione ducale, ricoveravano i malandrini del contorno.

[84]

Il commercio restava impacciato dalla vicinanza del Milanese, del Mantovano, della Francia; non avevasi tampoco una fabbrica di panno, sebbene si lavorasse di fil d’oro e d’argento; la seta vendevasi greggia; e l’abbondanza di granaglie non procacciava denaro. Mancavano dunque modi d’ingrandire all’ordine cittadino; e quelli di esso che acquistassero denaro colla medicina o la giurisprudenza, subito cercavano la nobiltà: ma l’acquisto di terreni era difficoltato dai vincoli di manomorta e di fedecommesso. Fra’ campagnuoli principalmente si cernivano i soldati, che vedemmo resi stabili da Emanuele Filiberto, e indipendenti dai signori feudali; da cui soltanto erano formati lo squadrone di Savoja e il corpo della nobiltà piemontese. Giusta gli ordinamenti di Carlo Emanuele I, la milizia era divisa in generale e scelta. Nella prima iscriveasi ogni uomo dai diciotto ai sessant’anni, nè doveano uscir di provincia od essere adoperati che in caso d’invasione nemica; da questa ne cernì diciottomila privilegiati, istrutti, disciplinati, coi quali e colle truppe che soldava in Isvizzera, in Francia, in Lorena potè condurre quelle incessanti guerre. Fortificate erano non solo le primarie città di Torino, Cuneo, Vercelli, Verrua, Monmelliano, Nizza, ma moltissime borgate, che costringevano a innumerevoli assedj l’esercito nemico, quando non si riponeva l’importanza nelle giornate campali.

Carlo Emanuele II, accortosi che i popoli non si nutrono d’allori, aveva adoprato per restaurare il Piemonte da una guerra trentenne; le finanze, nelle quali si commetteano gli stessi errori come nel Lombardo e nel Napoletano[24], diede a sistemare a Giambattista Trucchi [85] di Savigliano, fatto poi conte di Levaldigi, spertissimo nella scienza economica d’allora, che consisteva in trovare denari per qualsifosse via; e che fece rivomitar quello ingojato dai favoriti della reggente, e procurò che tutti i cittadini concorressero a pagare i tributi. Carlo Emanuele non attese personalmente alla guerra, ma l’amministrazione militare riordinò: il palazzo regio e quel di Carignano, la Venaria, il collegio de’ Nobili, la cappella del santo Sudario ed altre chiese di Torino, le ville del Valentino, di Rivoli, di Mirafiori attestano la sua magnificenza, per cui spese più che non comportassero le triste condizioni del tempo. Colla grotta d’Echelles rese pervia se non comoda la strada per Lione. Carezzò anche l’opinione fondando una società letteraria e un’accademia di pittura; e fece scrivere la storia della sua Casa dal Guichenon, il quale, oltre sottomettersi alle ispirazioni del ministro marchese di Pianezza, uffiziava Mézeray e Duchesne storici francesi, acciocchè si mostrassero condiscendenti a’ suoi principi. Anche Gualdo Priorato mandava le sue storie a vedere a Carlo Emanuele, che corrette gliele restituiva con una pensione[25]. Morendo diceva: — Aprite le porte e lasciate entrare il popolo; morrò come il padre in mezzo ai figli».

Di Vittorio Amedeo II, succeduto a nove anni (1675), fu [86] reggente Maria Giovanna Battista di Savoja, di trentun anno, bella, ingegnosa, altera. Sua sorella, moglie di don Pedro re di Portogallo, non avea partorito che una fanciulla; onde fu proposto di darla sposa a Vittorio, con quel piccolo regno e gl’immensurabili possedimenti in Asia e in America. I Portoghesi, ad onta della legge costituzionale di Lamego, assentivano ch’e’ conserverebbe pure la Savoja finchè nascesse un erede; ma i Piemontesi, prevedendo che il loro duca diverrebbe straniero, ed essi perderebbero l’autonomia, congiurarono a impedirlo, e dal popolo facevano fare chiassose disapprovazioni. Luigi XIV, che avea proposto quel matrimonio, fomentava il malcontento, sperando ad un re piccolo e lontano preferirebbero lui vicino e poderoso. Ma Giovanna Battista cansò i pericoli rompendo quella pratica, all’acquisto sperato anteponendo la conservazione del goduto. Re Luigi si chiamava offeso da chi si era difeso, stile dei forti; sicchè la reggente dovette dargli soddisfazione coll’imprigionare coloro che aveano voluto salva la patria piemontese.

Le gravi tasse imposte dal Trucchi e gli arbitrj concessi agli appaltatori disgustavano i popoli. Fondamento principale dell’imposta era il sale, ed erasi prescritto che per ogni bocca se ne comprassero otto libbre, donde vessazioni e codardi scandagli. Più ne risentivano quelli confinanti col Genovesato, attesa la facilità di frodarlo; e Mondovì, ricordando anche i patti riservatisi quando si diede al Piemonte, ruppe a sollevazione. Eserciti e corti marziali non bastarono a reprimerla; finchè Vittorio (1684), prese le redini, tornò in quiete, almen per allora, que’ riottosi.

Vittorio regnò senza volere contraddizioni o limiti, e aspirando ad un ampliamento, di cui davangli lusinga la buona reputazione guerresca e politica lasciatagli dal padre e dalla madre. Perciò indispettivasi del vassallaggio [87] in cui lo teneano i Francesi, i quali assediandolo nella propria capitale per mezzo di Casale e Pinerolo, voleano far da padroni in Corte: per condiscendere al ministro Louvois si dovette far ritirare a Bologna il principe di Carignano; gli ambasciadori spiavano il duca, tenevansegli superbamente al fianco nelle udienze; i soldati per andar e venire da Pinerolo a Casale molestavano i quieti abitatori; i corrieri esercitavano sfacciatamente il contrabbando; i ministri voleano istituire a Torino un uffizio di posta proprio; si cessò di pagare la dogana di Pinerolo e di retribuire al Piemonte trecentomila annue lire convenute nel 1652; e se il duca ne sporgesse querele, Louvois rispondeva non averle volute por sott’occhio al re per non annojarlo. Allorchè Luigi, per ridur la Francia all’unità amministrativa, revocò l’editto di Nantes, col quale Enrico IV avea conceduto tolleranza ai Protestanti, molti di essi rifuggirono nelle valli dei Valdesi; e Luigi intimò fossero cacciati, non volendo quel fomite di ribellione sul confine del Delfinato, costrinse il duca (1686) a negare ai Protestanti quella libertà di riti che aveano patteggiata, e mandò i proprj marescialli a combattere que’ montanari, acquistando anche al duca il titolo di persecutore, ripetuto dappertutto e tramandato ai posteri (tom. IX, pag. 561).

Ma quando le smoderatezze del gran Luigi resero gelosa tutta Europa, Vittorio trattò segretamente coi nemici di esso, i quali erano il duca di Baviera, l’Olanda e l’Inghilterra, che, annerbate in mare, costringeano le minori potenze a secondarli, e l’imperatore che trovava necessario all’equilibrio europeo riconsolidarsi in Italia, dacchè la Francia era poderosa e minace. Il duca pertanto, fingendo darsi spasso a Venezia, tra i balli e le maschere (1690 3 giugno) concertò una lega coll’imperatore, la Spagna, l’Inghilterra e l’Olanda, chiedendo trattamento da re in grazia di Cipro, per un milione di lire riscattando le [88] ragioni sopra i feudi imperiali posti fra la Savoja e il Genovesato[26]; per propiziarsi gl’Inglesi ritirava i severi editti contro i Valdesi, permettendo ritornassero nelle valli natìe. Egli sperava che l’accordo rimanesse occultissimo; ma Luigi, avutone sentore, venne a stocco corto, e ordinò a Catinat che movesse truppe.

Catinat, il primo plebeo che diventasse maresciallo di Francia e senza brighe, colla difficile e oscura guerra di montagna occupò la Savoja, e intimò al duca unisse le sue truppe alle francesi, e gli consegnasse le fortezze di Verrua e Torino. Tanto valeva rinunziare alla sovranità: onde Vittorio ricusò; sicchè rotta la pace che da sessant’anni vegliava colla Francia, prima che i nuovi suoi alleati l’ajutassero, e intanto che i disgustati da re Luigi applaudivano[27], il Piemonte si trovò involto in guerra condotta da barbari. Così voleva il ministro Louvois; e se Catinat suggeriva — Bisognerebbe aver compassione a popoli infelicissimi», quegli rispondeva: — Bruciare, poi bruciare». E sì fece; dappertutto città prese e riprese[28], sistematiche devastazioni d’intere [89] provincie, estesissimi incendj, violazioni, rapine: i Piemontesi ripagavano con altrettanta ferocia e con secrete trame; e la rabbia francese, e la non meno nocevole amicizia spagnuola, e il valore di Catinat fecero miserabilissimo quel tempo, che altri glorierà per ben campeggiate imprese. L’imperatore non aveva ancora mandato truppe, bensì il principe Eugenio a sostenere il parente: gli Spagnuoli non pensavano che a riparare la Lombardia: Vittorio Amedeo moveva cerne inesperte, nè egli aveva mai visto battaglia, pure osò attaccare Catinat presso la badia di Staffarda. Mentre i due eserciti ben si osteggiavano di fronte, Catinat per un padule creduto impraticabile menò un corpo, che inatteso ferendo il fianco sinistro, ruppe i nostri, i quali perdettero cinquemila uomini, undici cannoni e trentasei bandiere. Catinat proseguì vincendo, e prese fin Monmelliano. Vittorio vedendo in fiamme la sua diletta villa di Rivoli, esclamò: — Andassero pure in cenere i miei palazzi tutti, ma il nemico risparmiasse le capanne de’ contadini». Sdruscito l’esercito, il popolo ansiato malediva il duca d’essersi esposto a così gravi rotte; intanto che la nobiltà gli volea male d’aver represso gli abusi feudali. Vuolsi che Giangiacomo Trucchi, referendario del duca, tramasse colla guarnigione di Pinerolo di sollevare il Mondovì, e scoperto, fu messo a orribile tortura, benchè di cinquantaquattro anni, e benchè scongiurasse non gli facessero perdere l’anima col denunziare qualche innocente; ed ebbe forza di perire senza denunziare altri.

[90]

Anche tra i disastri del paese, e dopo la nuova sconfitta (1693) di Orbassano e della Marsaglia, Vittorio sentiva quanto peso aggiungerebbe alla parte cui s’accostasse; laonde negoziava cogli uni e cogli altri; e intanto la guerra prolungavasi e in Piemonte e in Savoja e fin sul territorio francese, con devastazioni gravissime e senza venire a capo di nulla. Quando il marchese di Leganes cogli Spagnuoli, lord Galway cogl’Inglesi, Eugenio cogl’Imperiali posero assedio (1695) a Casale, Vittorio, che quell’importante fortezza non amava in man degli alleati più che dei Francesi, con questi ultimi prese accordo di demolirla; e dopo un gran cannoneggiare, credesi senza palle, gli assediati, secondo l’intesa, distrussero le opere interne, le esterne gli assedianti, e senza pure aprirvi una breccia scomparve la fortezza più rinomata d’Italia; e la città aperta fu restituita al duca di Mantova.

Ciò levava una spina anche alla Lombardia, onde festa non minore a Milano che a Torino: la Francia meno doleasi di perdere quella posizione, giacchè non la vedeva cadere a Spagna. Nè però l’Italia riposava; e se i nostri si lamentavano de’ Francesi, neppure dei Tedeschi aveano a lodarsi.

Leopoldo d’Austria era imperatore di Germania fin dal 1658, sempre contrariato dagl’intrighi della Francia, che si ergeva tutrice de’ principi dell’Impero. Uomo religioso e caritatevole, ma rozzo, intollerante nella religione, puntiglioso nel cerimoniale, fu dagli accidenti portato a rappresentare personaggio principale nelle vicende europee, e star rivale del gran Luigi. Sottopose gli Ungheresi, che appoggiati ai Turchi reluttavano dalla tirannide austriaca, e li privò del diritto d’eleggersi il re; e il maresciallo italiano Antonio Caraffa, mandato a governarli (1687), uom crudele e borioso, vi piantò terribili tribunali, e diceva: — Della costituzione ungherese [91] e de’ suoi giudizj fo conto quanto d’un uovo fradicio».

Leopoldo non dissimulava di voler restaurare in Italia l’Impero qual era allorchè esigeva dai principi foraggio, tavola, alloggio (foderum, parata, mansionaticum); e trovando esausto il Piemonte, domandò che i feudi imperiali si tenessero obbligati a mantenere le sue truppe, e deputò esso Caraffa ad esigerlo (1691). Costui impose enormi contribuzioni al duca di Savoja, alla Toscana, a Genova, a Lucca, a Mantova, a Modena ed ai minori vassalli, e fin al duca di Parma benchè rilevasse da santa Chiesa; sicchè i popoli ne gemettero, i principi strillarono, e imprecarono a quell’imperatore, cui dianzi aveano inneggiato per le vittorie contro i Turchi.

Gli emissarj di Luigi buttavano faville contro il tedesco oppressore d’Italia, ed esortavano ad armarsi contro di lui: — Francia non mancherà mai agl’Italiani qualora aspirino a libertà», diceva come tutti gli antecessori e successori suoi. Il duca di Savoja era esoso come causa d’una guerra, colla quale avea tratto in Italia i Tedeschi, che sì scarso servizio gli rendevano, mentre orrido guasto faceano del paese: ma egli trovava conto nella fluttuante politica insegnatagli da’ suoi maggiori; e dopo che vide sfasciato Casale e perciò meno pericolosa la Francia, a questa chinò; e come in maschera a Venezia erasi inteso cogli alleati, così in un finto pellegrinaggio a Loreto s’abboccò con un finto frate, per disertare a Luigi XIV. Costui era stanco di mantenere un esercito in Italia, ove dovea mandare ogni cosa come in paese nemico e traverso a difficili montagne, e non vedeva modo d’uscirne con gloria; sicchè, professandosi mosso dai gemiti de’ principi italiani smunti dall’imperatore, e dalle pacifiche insinuazioni di Venezia e d’Innocenzo XII, accordò a Vigevano [92] un trattato vantaggiosissimo con Vittorio (1696 30 maggio), che ricupererebbe tutti gli Stati toltigli, oltre Pinerolo smantellato; e dava la propria figlia al primogenito del Delfino. Tutto ciò segreto, e mentre si faceano le più brave dimostrazioni, e pareva che Catinat volesse mandare a fuoco e fiamme Torino; e il duca vi rispondeva fulminanti proclami, e promessa d’uno scudo per ogni Francese ucciso. «Li poveri paesani (racconta un cronista) che si trovavano disperati, raminghi, senza vittovaglia, quanti soldati francesi trovavano fuori del campo uccidevano, portando poi la testa a Torino al luogo designato per avere il premio; e taluno ne portava sin quattro al giorno per guadagnare di che sostentare le loro desolate famiglie»[29]. Pensate se i Francesi ripagavano a misura colma.

Vittorio, chiaritosi che migliori condizioni non poteva estorcere dagli alleati, palesò l’accordo, e checchè se ne gridasse, egli, testè generalissimo delle armi collegate italiane, come generalissimo delle francesi e colla sopravvesta tempestata di gigli assalì il Milanese[30] e [93] costrinse i principi italiani alla neutralità. Secondo la quale, Francesi e Tedeschi doveano sgombrar l’Italia; ma questi ricusavano col pretesto delle ritardate paghe, e fu duopo che i principi si tassassero per mettere insieme trecentomila doppie, da aggiungere al tanto che quelli aveano rubato. La pace di Ryswick (1697 20 7bre) chetò le ire, e confermò il trattato di Vigevano, del quale può dirsi conseguenza.

Nuovo disgusto contro l’imperatore nacque da ciò, che essendosi un uffiziale tedesco chiamato offeso dal doge di Genova, Vienna domandò riparazione, e tardando spedì armati, obbligando la repubblica a pagare trecentomila scudi per le spese, ed altre soddisfazioni. Anche il conte di Martinitz, ambasciadore austriaco al papa, puntiglioso e accattabrighe, rinnovò le arroganze di quel di Luigi XIV per ragioni ancor più frivole; voler precedere al governatore di Roma nelle comparse, non dar la pace al connestabile Colonna nella cappella papale; al Corpus Domini poi (1699) si collocò fra i cardinali, talchè quattr’ore dovette la processione arrestarsi in piazza, mentre si cercava persuadere quel caparbio. Il quale per vendetta incalorì l’imperatore a risuscitare le antiche preminenze feudali, obbligando i detentori di feudi a giustificarne il possesso fra tre mesi, pena la caducità. Era un soqquadrare tutta Italia, e peggio il Piemonte, il quale per ischermirsene si getterebbe colla Francia nelle prevedute contingenze di vicina guerra: Spagna disapprovava questo turbare nel possesso i suoi nobili di Milano, Sicilia, Sardegna: Innocenzo XII si pose campione dell’italica indipendenza, e con risolute [94] ammonizioni ridusse Cesare a rivocare l’editto. I Francesi, secondo il solito, vantarono d’aver difeso la libertà d’Italia coll’infondere coraggio al papa e promettere di sostenerlo.

Queste pretendenze dell’Impero ingelosivano papa Innocenzo; onde insinuava ai principi d’Italia di collegarsi allo scopo di rimuovere la guerra e le usurpazioni[31]. Clemente XI succedutogli maneggiò al medesimo intento: ma vedendo inconciliabile questa lega e non bastevole all’uopo, collocossi mediatore tra Austria e Francia, sicchè congiunte snidassero il Turco d’Europa. Futili consigli quando esse di tutto facevano arme per disputarsi la successione spagnuola; e Italia vi si trovò trascinata in una guerra che tutta la capovolse, abbattè e restituì a vicenda tutti i principi suoi, alfine le diede un nuovo assetto, e sempre per arbitrio dei forti.

Carlo II, re di Spagna a quattro anni sotto la tutela di Marianna d’Austria, tutta la vita restò malescio di corpo e di spirito; lasciò minorare i possessi esterni, sfasciarsi l’interna amministrazione; e da Luigia di Francia non avendo figli, terminava con lui (1700) la dinastia primogenita austriaca, che da Carlo V in poi dominava la Spagna. Allora e politici e ambiziosi ad anfanarsi per toccare almeno alcuna porzione del pingue retaggio, di cui erano appendici la Lombardia, le Due Sicilie, mezza America e tante Indie. L’imperatore Leopoldo, asserendosi erede universale della Casa d’Austria come rappresentante del ramo sopravvivente, chiedeva quella corona per Carlo suo secondogenito, natogli da una sorella del re di Spagna; Ferdinando Giuseppe di [95] Baviera facevasi avanti come figlio d’Anna d’Austria; Luigi XIV come sposo di Maria Teresa, sorella di Carlo II, presentava a quel trono Filippo, secondogenito del Delfino; il duca di Savoja dalla bisavola Caterina, figliuola di Filippo II, traeva ragioni lontane, ma alle quali, a differenza delle altre donne, essa non avea fatto rinunzia. E adducevano argomenti e cavilli come in una successione privata, ma sentivano tutti che la sentenza non potrebbero proferirla che le armi, prorompendo quell’odio tra i re di Francia e la Casa d’Austria, che fu il movente di tutta la politica dal 1490 al 1748. Durante le guerre di religione, gli Austriaci aveano aspirato fin al trono di Francia; ora ecco i re di Francia accinti a privarli fin del trono di Spagna, a nome dell’equilibrio.

Luigi XIV, in cinquant’anni di regno fortunato, avea diretto tutte le negoziazioni e gl’intrighi ad assicurarsi quella successione; e per quanto l’ambizione illimitata e il farnetico di gloria e di possessi avessero ingelosito tutti i potentati, strappò a Carlo un testamento in favore di suo nipote. Se alla volontà di Carlo non erasi badato finchè vivo, ancor meno dopo morto, e poichè accordi e proposte spartizioni non valsero, si ricorse all’ultima ragione dei re, le armi. — Non v’è più Pirenei», disse il gran Luigi; e gridato re di Spagna il nipote Filippo V (1701), ve lo fece convogliare da un esercito, e col lanciare la già esausta Francia in nuovi rischi, gravi amarezze preparò agli ultimi anni suoi, fino a vedersi ridotto miserabilissimo di finanze, maledetto dal popolo che l’avea divinizzato, depresso dai principi ch’egli aveva conculcati.

Italia, come sempre al rompere d’una guerra generale, calcolava le probabilità della propria indipendenza, e la sperava da questo o da quello dei potenti; nel loro conflitto certamente Milano e Napoli resterebbero sciolte [96] dalla servitù forestiera, formando due staterelli, in equilibrio cogli altri. Luigi e Leopoldo gareggiarono per ottenere da Clemente XI l’investitura del regno di Napoli: ma benchè gli offrissero due provincie dell’Abruzzo, egli, come padre comune della cristianità, risolse non parteggiare con nessuno; e solo trattò con gl’Italiani per rendere meno trista una guerra non più evitabile. Venezia, ch’egli invitava a opporsi all’invasione, benchè si vedesse circondata dagli Austriaci se questi occupavano Milano, protestò volere tenersi di mezzo, sperando che la neutralità le gioverebbe come avea fatto tra Francesco e Carlo V, quando ottenne la conferma de’ proprj acquisti; bramava vedere in Lombardia un principe debole, ed aspirava ad acquistare Lodi, Cremona, la Geradadda, e forse Trieste. Eppure essa era la sola potenza che, unendosi dichiaratamente a Francia, avrebbe potuto escludere i Tedeschi dalla penisola; mentre al contrario dovette soffrire che questi invadessero le sue provincie di Brescia, Bergamo, Crema, Verona, mentre i Francesi, in aspetto di vendicarla, depredavano il Padovano e il Polesine. I duchi di Modena e Guastalla, i principi di Bózolo e della Mirandola, ligi all’Impero, furono subita preda dei Francesi: quelli di Toscana e Parma, il papa, Genova, ed altri principotti vassalli dell’Impero inclinavano a Francia; ma contro di questa spargevansi astutamente grandi paure, e quelle parolone a cui si lascia accalappiare il vulgo, di equilibrio scomposto, d’impero universale: oltrecchè il gran numero di profughi dopo la revoca dell’editto di Nantes, sollecitavano contro Francia, ed esibivano merci di buon patto, declamazioni e progetti.

A Mantova regnava Ferdinando Gonzaga, tutto allegrie, passeggiate, comparse, viaggetti voluttuosi; mai non mancava ai carnevali di Venezia; da ogni paese del mondo cerniva donne pel suo palazzo, dove cantassero, [97] sonassero, facessero vita gaja, a spasso suo e loro. Intanto che professavasi pronto a versare il sangue per la causa italiana, praticava coi Francesi, e ricevendo centomila luigi, e ventimila i suoi ministri, si finse violentato, e lasciò che quindicimila Gallo-Ispani comandati da Tessé occupassero la sua città, donde essi poterono dettar leggi ai duchi di Modena e di Parma. I Francesi pagavano a puntino, sicchè i paesani, nonchè scapitare, arricchirono coi fornimenti: ma come salvar le mogli e le figliuole, dacchè ogni casa era piena di soldati?

Il dare il tratto alla bilancia spettava ancora al guardiano dell’Alpi; e Vittorio Amedeo, oculatissimo nei proprj interessi e instancabile a promoverli, prefisse di cacciare innanzi la sua nave bordeggiando nella tempesta. Non è ch’egli non vedesse come, impadronendosi di Milano i Francesi, e’ si sarebbe trovato chiuso da essi; ma l’inimicarseli esponeva i suoi Stati pei primi all’invasione di Luigi, che già stava terribilmente armato, mentre Leopoldo facea lenti e deboli preparativi. Pertanto col Francese patteggiò che la sua secondogenita si sposerebbe al nuovo re di Spagna, ed egli sarebbe generalissimo delle armi gallo-ispane in Italia, somministrando soldati e ricevendo grossi sussidj[32].

Ma le sorti nostre, al solito, pendevano dalle armi e dai trattati forestieri, e Inghilterra, Francia, Prussia, l’Impero, combinavano leghe e accordi, dove incidentemente si deliberava pure dell’Italia. L’Inghilterra, allora [98] sotto al regno di Anna e al ministero del generale Marlborough, prese interesse particolare per Vittorio Amedeo, al quale assegnò un annuo sussidio e promesse molte, ch’egli si fece consolidare dall’Impero, dalla Prussia, dall’Olanda.

Milano senza ostacoli prestò obbedienza a Filippo V. Il Napoletano vedemmo a che trista condizione si trovasse sotto i vicerè spagnuoli. Qualche ristoro vi avea recato l’amministrazione di don Gaspare de Haro (1683) marchese del Carpio, il quale pensò non a leggi nuove, ma a far eseguire le vecchie, togliendo l’abuso delle licenze e delle dispense; vietò il portare le armi, il tenere eccessivo numero di servi; riordinò i tribunali, sbrattò le città dalla folla di ozianti; fece osservare gli ordini intorno alla garanzia de’ metalli fini, e al non usarne in arredi domestici e in ricami; rifuse la moneta, a tal fine gravando il sale; opera compita dal suo successore conte di Santo Stefano, il quale però ben presto ricominciò ad alterarla, credendo con ciò vantaggiare i pubblici banchi.

Luigi della Cerda duca di Medinaceli (1696), regalmente fastoso, abbellì il teatro, ridusse la magnifica strada a Chiaja. Appena morto Carlo II, ricevette il testamento di questo e l’ordine di prestare obbedienza all’erede Filippo e alla giunta di governo. Egli vi si uniformò; ma ecco da Leopoldo imperatore una protesta, ed esortamenti ai Siciliani di tenersi fedeli alla Casa austriaca, assicurando i posti, gli onori, i privilegi; intanto con subdoli incentivi e colle brighe d’un barone di Chassinet residente a Roma, e col largheggiare titoli e promesse, Leopoldo guadagnossi alcuni signori, che fecero opera di rivoltare il popolo (1700 23 7bre): ma questo ricordandosi come nella sollevazione di Masaniello l’avessero abbandonato i grandi, abbandonò loro: sicchè parte furono fugati, parte presi e mandati al [99] carcere o al supplizio, fra cui don Carlo di Sangro; e il popolo a gridar viva, e decretare una statua a Filippo V. Il vecchio principe di Chiusano, udendo che Tiberio Caraffa suo figlio era uno de’ capi ribelli, fa erigere un trono davanti al suo castello presso Benevento, e collocarvi l’effigie di Filippo V fra torce ardenti; e avanzandosi con due altri figliuoli, getta in un rogo il ritratto di Tiberio, dichiarando non riconoscerlo più per figlio, ma per crudele nemico[33].

Leopoldo s’avvide qual tristo ajuto siano i cospiratori e gli arruffapopolo, nè potersi prometter bene che dalle armi; onde rinforzatosi d’alleati, mandò l’esercito col famoso principe Eugenio, glorioso delle vittorie [100] contro i Turchi, e che dall’Austria era messo da banda appena gliene cessasse il bisogno. Desideroso di vendicare gli antichi torti ricevuti dalla Francia, non dubitava di mettersi, egli principe di Savoja, contro un esercito capitanato da un altro principe di Savoja. Il duca di Mantova è dichiarato fellone all’impero e decaduto, e circondata d’assedio la sua città.

Il maresciallo Catinat, attraversato il Piemonte (1701), ove ben s’avvide della duplicità del duca, menò l’esercito francese in Lombardia, e si postò sull’Adige per abbarrare ai Tedeschi la calata dal Tirolo: ma ben presto le brighe prevalgono contro lui che le sprezzava, e gli è mandato in iscambio il presuntuoso Villeroi, notevole soltanto per intrighi ed orgoglio. Il principe Eugenio col mirabile passaggio del monte della Pergola, conducendo l’esercito suo di veterani a Schio e Malo sopra Vicenza, scende all’Adige, favorito copertamente da Venezia e dall’oscillante Vittorio; a Chiari batte Villeroi, anzi lo sorprende in Cremona e il manda prigioniero (1702 1 febb.); ma la notte stessa se ne trova respinto dai Francesi.

Quella guerra parve un ritorno verso la barbarie, e il diritto delle genti perdere quanto aveva fino allora guadagnato, calpestandosi l’indipendenza de’ principi e la religione delle neutralità; i territorj veneto, estense, papale erano violati prepotentemente, prendendovi anche e foraggi e quartieri d’inverno. Invano papa Clemente andava gettando consigli di pace e offrendosi arbitro; ciascuno riguardava come offese proprie le onoranze consuete ch’egli usava all’avversario: l’ambasciadore di Modena nell’anticamera dell’imperatrice fece un inchino all’arciduca Carlo pretendente di Spagna, e bastò perchè i Francesi confiscassero le rendite e i mobili del duca Rinaldo d’Este.

Più imperversava la guerra sul Reno e nei mari: Vienna stessa parve in pericolo: il Tirolo fu invaso dal [101] duca di Baviera alleato di Francia, ma gli abitanti insorti colle carabine il volsero in fuga.

Qui capitanava i Francesi il duca di Vendôme, uomo caparbio, superbo, infingardo, che durava a letto fino alle quattr’ore, e negligeva la disciplina dell’esercito; ma supplendo con fortunati ardimenti, prosperò le armi francesi e liberò Mantova. Vittorio Emanuele avea aderito a Francia unicamente per isfuggirne i primi colpi; ma attendendo di voltarsi all’imperatore non appena lo trovasse gagliardo abbastanza. Qualche riguardo mancatogli dai Francesi, e il non aver re Filippo voluto riceverlo come pari nella propria carrozza (15 agosto) quando in persona venne qui a combattere, e vinse nella gran giornata di Luzzara, gli diede pretesto d’allontanarsene. L’Italia, e il ben della nazione, e il divenire inevitabile la servitù se Francia sola vi dominasse, erano le ragioni ostentate; ma la verace era che l’imperatore, bene in forze e alleato coll’Olanda e l’Inghilterra, potrebbe dargli denari, appoggio, concessioni. In conseguenza, non badando se Filippo fosse marito di sua figlia, interpose presso l’imperatore il principe Eugenio, il quale diceva che i duchi di Savoja erano infedeli per colpa di geografia. E l’imperatore gli mandò un messo, che incognito rimanea sulla collina di Torino, ove il duca andava a parlargli travestito. Pure Luigi lo seppe, forse dalla contessa di Verrua amante del re, che per disgusti con questo e per avidità il tradiva: onde il duca di Vendôme tolse le armi ai soldati di Savoja accampati co’ suoi. Il duca grida all’affronto, se n’inferocisce, arresta quanti Francesi coglie ne’ suoi Stati, e le armi e munizioni dirette all’esercito, e si prepara a tener testa al nembo provocato. Allora conchiude il trattato di Torino (1703 8 8bre) coll’imperatore, il quale prometteva mantenere in Piemonte quattordicimila pedoni e seimila cavalli, dando al duca la capitananza suprema dell’esercito di Lombardia [102] con ottantamila scudi il mese, oltre cedergli il Monferrato tolto al duca di Mantova, e staccare dal Milanese Alessandria, Valenza, la Lomellina, la Valsesia, e una via per tenere in comunicazione queste provincie.

Doveano parere un gran che tali acquisti; pure Vittorio sentendosi necessario, seguitò a giocar d’industria, e gridare alto i gravi sagrifizj che gliene costavano e massime quello del suo onore, e domandare altro, e soprattutto il Vigevanasco, del quale pure gli fu data lusinga, com’anche del Delfinato e della Provenza se si conquistassero. L’esorbitanza delle promesse palesava e il bisogno che di lui s’aveva e la poca intenzione di attenerle. Ma l’imperatore, fortemente occupato sul Reno e in casa propria, lasciava scarseggiare i mezzi a’ generali suoi: Luigi invece li profondeva, e spediva truppe per terra e per mare. Assalito improvviso da queste, Vittorio perde la Savoja, il Nizzardo, porzione del Piemonte; Vendôme con trentaseimila combattenti varca il Po a Trino, in faccia agli alleati nemici prende Vercelli (1704), la cui guarnigione si dà fiaccamente prigioniera. Perdute con poca resistenza anche Ivrea, Aosta, il forte di Bard, Nizza stessa, demolite dai Francesi tutte le fortezze che ne impedivano la calata in Italia, al duca restarono preclusi i sussidj della Svizzera e della Germania; nè di tante piazze forti rimanevangli ormai che Cuneo e Torino. Pertanto, spiegato sommo valore nel difendere Verrua, antemurale di questo, e che ai Francesi era parso una bicocca eppure costò infiniti soldati, dodici milioni di lire e sei mesi di tempo, mandò la famiglia a Genova mentr’egli ricoverava a Cuneo (1705), poi tra que’ Valdesi che aveva perseguitati, e che gli si mostrarono devotissimi, e risoluti nel rincacciare i Francesi.

A riparo di tanto abbattimento il nuovo imperatore Giuseppe I spedì in Italia Eugenio, fidando che al suo [103] valore aggiungerebbero sproni le necessità del parente e della patria. Per la riviera di Salò calatosi in Lombardia, a Cassano sull’Adda diede battaglia sanguinosissima (15 agosto), ma infelice, come quella di Calcinate. Ne crebbero i vanti del Vendôme, il quale però, sebbene con forze molto superiori, non ispiegò verun grandioso disegno o combinazione ardita, nè quell’attività che raddoppia le forze e profitta de’ piccoli avvantaggi; e i maestri di guerra sentenziano che fu mero accidente se queste sue vittorie non riuscirono piene sconfitte. Dappoi egli fu chiamato oltr’Alpi per opporlo al terribile Marlborough, generale dell’Inghilterra, la quale aveva sposato gl’interessi dell’Austria e della Savoja; e vi riportò la segnalata vittoria di Hochstädt, dopo la quale fu eclissata la stella del gran Luigi.

In Italia gli sforzi si concentrarono contro Vittorio Amedeo, causa del prolungarsi di quella guerra, e La Feuillade cinse Torino d’un assedio (1706), memorabile per coraggio de’ cittadini e sfoggio di artiglierie. Vittorio, non abbattuto da tanti colpi, chiedeva dai popoli denaro e uomini; offerte e orazioni dal clero, che stava seco in mala disposizione per un lungo suo litigio con Roma; ripudiava ogni timido consiglio, nè risparmiava fatica o spesa. Il superbo Luigi, indignatissimo di vedersi deluso dal parente, metteva impegno personale a strappargli anche quest’ultimo ricovero; mandò cenquaranta cannoni, ognuno de’ quali bell’e montato valutavasi circa duemila scudi, cento diecimila palle, quattrocentoseimila cartuccie, ventunmila bombe, ventisettemila settecento granate, quindicimila sacchi di terra, trentamila stromenti da guastatori, un milione e ducentomila libbre di polvere; inoltre piombo, ferro, latta, corde e altri occorrenti pei minatori, solfo, nitro, ogni specie d’arnesi[34]. Dirigeva l’esercito il duca d’Orléans, e [104] le operazioni il marchese La Feuillade, troppo inetti capitani.

Valendosi delle anteriori scoperte degl’Italiani, il famoso Vauban aveva allora perfezionato i metodi delle fortificazioni coll’associarvi la strategia e l’amministrazione. Pertanto dappertutto eransi rinnovate le fortezze, alle torri surrogando i bastioni, e la difesa fiancheggiante alla diretta. Anche in Torino, alle antiche del Paciotto, l’ingegnere Bertóla aveva sostituito fortificazioni più acconcie, con opere esterne sì basse che le artiglierie e la moschetteria potessero spazzare la campagna rasa. Agli ottomila cinquecento Piemontesi e millecinquecento Austriaci si unirono otto battaglioni di borghesi, comandati in capo dal conte Daun austriaco; e uomini e donne, trovatelli e preti a gara provvedeano alla difesa, sopra terra e nelle spaventevoli mine che squarciavano tutto il suolo.

Molti sarebbero a dire esempj di costanza nel soffrire, molti di coraggio nell’attaccare; e soprattutto vantarono Pietro Micca biellese, che da una notturna sorpresa salvò Torino col dar fuoco a una mina (29 agosto), sotto cui se stesso e gli assalitori sepellì. La devozione era pari allo spavento; nè giorno nè notte cessavano invocazioni a Cristo in sacramento, ai santi patroni Solutore, Avventore e Ottavio; credeasi la Madonna della Consolata rimbalzasse contro gli assalitori le bombe; che san Secondo fosse veduto in aria minaccioso: fatti non istrani quando Catinat a capo dello statomaggiore andava a domandare al vescovo di Torino dispensa dalle astinenze quaresimali; e che realmente infervoravano la carità verso il prossimo e verso la patria, più che le canzoni e i proclami d’altri tempi.

[105]

Il duca di Savoja con settemila uomini batteva la Campagna, finchè a Carmagnola si congiunse col principe Eugenio, incaricato dall’imperatore di soccorrere Torino a qualsifosse costo[35]; e insieme marciarono sopra la città omai ridotta agli estremi, e presentarono battaglia agli assedianti. Il duca d’Orléans, suocero di Vittorio, era persuaso dagli esperti a tenersi ne’ suoi insuperabili trinceramenti affinchè facesse costar cara ad Eugenio l’imprudente sua marcia di fianco attorno a quelli; ma egli vuole uscirne, e subito Eugenio dato l’assalto a quelle trincee (1706 7 7bre), v’apre un varco per la cavalleria, alla quale il nemico in tanta furia non può opporsi. Che monta se il luogotenente di Eugenio è disfatto? la battaglia di Torino è vinta: cinquantamila assedianti vanno sconfitti da trentamila Tedeschi; tre mila Francesi, fra cui il maresciallo Marsin, e duemila alleati vi lasciano la vita; e oltre quel che essi incendiarono, al vincitore rimangono duecento bocche di fuoco, cinquantacinque mortaj, cinquemila bombe, quindicimila granate, quarantottomila palle, quattromila casse di cartocci, ottantamila barili di polvere, tutti gli equipaggi, ori e argenti a josa, duemila cavalli, altrettanti bovi, cinquemila muli, bandiere senza fine e sei mila prigionieri. Eugenio entrò in Torino il giorno stesso della battaglia. La devozione era stata ispiratrice di coraggio, la vittoria le prestò omaggio; e i Piemontesi festeggiano annualmente quel fatto alla Madonna di Superga, chiesa eretta allora per voto con regia suntuosità sul colle che domina la città, la quale non vorrà dimenticarsi della pietà salvatrice degli avi.

[106]

La battaglia di Torino non era decisiva: e se i Francesi si fossero raccolti verso Casale col corpo che osteggiava nel Bresciano, poteano riparare lo sdruscito, e forse rendere la pariglia al Savojardo; ma essi rifollarono verso Pinerolo e la Francia. Subito Vittorio, accolto a trionfo nella redenta capitale, ricupera le terre perdute, e piglia possesso del Monferrato e della parte cedutagli di Milanese, entra in Milano stessa, facendo dappertutto gridare Carlo III. Pizzighettone si rende; Tortona è presa e mandata pel fil delle spade, Modena cede, così Valenza e Casale; frutti d’una sola vittoria. Ad Alessandria, che premeva viepiù a Vittorio perchè predestinatagli, scoppia il magazzino delle polveri, con immensa jattura d’uomini e di case; il conte Colmenero che la comandava, capitola, e perchè fu nominato perpetuo governatore del castello di Milano, venne sospettato d’intelligenza.

A Francia allora più nulla rimase a sperare in Lombardia; e poichè più di settanta milioni di luigi d’oro, se dice vero il Muratori, essa qui avea versato, risolse di lasciare quanto ancor vi teneva, cioè il Castel di Milano, Cremona, Mantova, Sabbioneta, la Mirandola, Valenza, il Finale. Di tante cessioni non rifinivano di meravigliarsi gli spoliticanti, i quali non si avvedeano quanto alla Francia importasse di poter aggomitolare le truppe, disperse per quelle; anzi all’imperatore fu apposta grave taccia dell’avere, per assicurarsi la Lombardia, lasciato che ventiduemila nemici andassero a ingrossare l’esercito contro i suoi alleati. Ma ciascuno non badava che ai proprj interessi e momentanei. Rinnovando le slealtà del Cinquecento, i duchi di Modena e di Mirandola restarono abbandonati alla vendetta dell’imperatore: il duca di Mantova, quasi non avesse potuto operare indipendente siccome principe, fu messo al bando dell’Impero, e i suoi possessi confiscati a pro [107] dell’Austria; e la Francia, cui tanto avea giovato col consegnare quella fortezza, e che ad ogni modo la tenea soltanto in deposito, la aperse agli Imperiali senza tampoco consultarlo; poi lasciando ch’e’ protestasse contro la strana iniquità di tutte due le parti, gli assegnò quattrocentomila lire di pensione, colle quali trascinò i suoi vizj fra Padova e Verona. Con esso finì turpemente una linea della casa Gonzaga[36]; e la costui depravazione fece dimenticare la lautezza che si era goduta sotto quei principi, e perfino la dolcezza dell’indipendenza. Anche Ferdinando Gonzaga principe di Castiglione, e Francesco Maria Pico duca della Mirandola e marchese della Concordia, videro occupati dall’imperatore i loro paesi, e si ridussero a vivere da nobili in Venezia. Rinaldo di Modena, spodestato dai Francesi, fu ripristinato dall’imperatore, che gli vendette anche la Mirandola per ducentomila doppie.

Papa Clemente XI avea dovuto soffrire gl’insulti e i guasti recati al suo paese dai Tedeschi; quando invasero Parma e Piacenza li scomunicò, ma non valse a rattenerli dal rasentare Roma per recarsi a Napoli. Il generale Daun difensore di Torino, mentre Francia e Spagna stavano preoccupate dalla invasione della Provenza, con non più di cinquemila fanti e tremila cavalli si avanzò in paese (1707) dove non aveva a temere difese nè ad espugnare fortezze, e dissipate le gracili opposizioni del vicerè duca d’Ascalona, difilò sopra Napoli. La nobiltà, forse già intesa coll’Austria, subito capitolò (7 luglio) ad onorevolissimi patti: mantenuti i privilegi di Carlo V e Filippo II; il nuovo principe aprirebbe portofranco a Salerno, manterrebbe venti vascelli, oltre le galee del regno, per assicurare dai Barbareschi; nobili e popolani [108] potrebbero equipaggiare navi mercantili; nelle guarnigioni sarebbero metà napoletani, nelle fortezze un comandante napoletano e un forestiero; ai castelli di Napoli il re destinerebbe un comandante fra i nobili del paese, gli altri sarebbero eletti dal popolo, il quale pure sceglierebbe un interprete delle leggi del regno, non impiegato del principe, nè passibile della giurisdizione de’ popolani di Napoli[37].

Quella città che poc’anzi avea veduto impiccare i fautori dell’Austria, allora smaniò al nome dell’Austria, e mise a pezzi la testè elevata statua di Filippo V. L’esempio della capitale trae dietro le altre città; Gaeta è presa e saccheggiata, cogliendovi lo stesso vicerè, campato a stento dalla furia popolare; le città della maremma toscana furono pure sottoposte dagl’Imperiali, ma in Sicilia non poterono approdare, restando essa alla Spagna. Giuseppe I diede l’investitura del Milanese e del Napoletano al fratello Carlo, il quale a Napoli pose un vicerè tedesco.

Per punire il papa d’aver voluto tenersi neutro, e scomunicato gl’Imperiali, Giuseppe vietò di mandar a Roma le rendite de’ beni ecclesiastici del Napoletano, ridestò le pretensioni già accampate da suo padre sui feudi imperiali, e come tali occupò Comacchio, Parma e Piacenza (1708). Il papa pose mano al tesoro di Castel Sant’Angelo per mettere in piedi un esercito, a capo del quale pose Ferdinando Marsigli di Bologna. Ma Daun invase il Patrimonio, e vi accampò a discrezione, finchè Clemente, mal servito dal suo esercito, non calò ad accordi abbastanza favorevoli, promettendo disarmare, riconoscere l’arciduca Carlo, e discutere poi delle ragioni sul ducato parmense; in tutto il resto ricevendo soddisfazione.

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L’isola di Sardegna continuava a devozione di Filippo V, agitata però dalle fazioni, che pretessevano i nomi di Francia o d’Austria; e quest’ultima col favore di molti partigiani e della flotta inglese l’occupò. Tale cupidigia dell’Austria corruppe i disegni de’ suoi confederati, che nello sgomento della sconfitta in Piemonte avrebbero potuto a gran vantaggio assalire la Francia impreparata, e già aveano invaso la Provenza e assediato Tolone. Oltre che tal diversione ne sminuiva la possa, l’ingrandirsi dell’imperatore gl’ingelosiva, tanto più dacchè essendo morto Giuseppe, succedeva Carlo VI, quel desso che col nome di Carlo III già possedeva la Lombardia e il Napoletano e in titolo la Spagna, talchè radunava nuovamente in sè l’immensa monarchia di Carlo V. Queste ombrìe, cresciute dall’oro francese, e il nuovo indirizzo che alla politica impresse il sottentrato ministero tory inglese, indussero maneggiar una pace, la quale dopo lunghe trattative rogata in Utrecht (1713 11 aprile), diede all’Europa con prudenti combinazioni quell’equilibrio di forze che alcuni credeano basterebbe alla quiete di più secoli, e che non durò trent’anni.

Il duca di Savoja avea ritolta ai Francesi Susa; ma non proseguì caldamente la guerra perchè il consiglio aulico di Vienna reluttava dal concedergli anche il Vigevanasco; e fu forza consentirglielo se si volle secondasse ancora gli Austriaci, i quali fuori d’Italia erano ben lontani dal prosperare. Il conte Annibale Maffei, il marchese Del Borgo, il consigliere Mellerede[38], deputati dal duca al congresso di Utrecht, mostravano la necessità di dargli una forte barriera contro la Francia, [110] e compensi per tanti danni sofferti onde procacciare il trionfo della grande alleanza. L’Inghilterra comparve come arbitra dell’Europa, in quel trattato che assicurava i frutti della sua rivoluzione: e Anna regina prediligeva il duca di Savoja a segno, che avea sin proposto di farlo re di Spagna e delle Indie, affine d’impedirne la Francia: onde tra i primi patti della pace chiese gli fosse ceduta la Sicilia, col titolo di re di cui egli spasimava, riserbando all’Inghilterra le più ampie franchigie di commercio e navigazione. Fu fatto, e insieme restituitigli il contado di Nizza, la valle di Pragelato ed altre alpine, coi forti d’Exilles e Fenestrelle, sottraendogli quello di Barcellonetta, per modo che la cresta del Monginevra diveniva confine colla Francia; il duca serbava l’eventualità di succedere in Ispagna se mancasse la linea regnante. All’imperatore fu lasciato quanto possedeva in Italia, cioè il regno di Napoli, il ducato di Milano, la Sardegna, i porti e presidj sulle spiaggie di Toscana. Spagna, che per due secoli e mezzo aveva minacciato assorbire la nostra penisola, più non vi conservò un palmo di terra. Un’infinità di signori spagnuoli trovavansi in pericolo per aver parteggiato Carlo d’Austria, il quale pertanto, sentendo l’obbligo di non lasciarli esposti alla vendetta di Filippo V, li menò seco, e per far denari da mantenerli, vendette ai Genovesi per sei milioni il marchesato del Finale. Ne spiacque ai Finalesi, più ne spiacque a re Vittorio, che per mezzo di quello avrebbe congiunto i suoi dominj col mare.

Erano dunque sparite dalla carta d’Italia le signorie di Mantova e della Mirandola; al luogo della Spagna sottentrava l’Austria, assai meno potente dopo toltale la Sicilia; Vittorio, in premio della politica preveduta, allargava lo Stato fin al Ticino, e appagava il lungo desiderio intitolandosi re, e della più bell’isola del [111] Mediterraneo. Come poi la barattasse colla Sardegna, e le sue controversie col papa, saranno materia del libro seguente.

E così fra guerre terminiamo un secolo, consunto in una pace stupefacente. Nelle quali, benchè non si trattasse della patria ma dei padroni di essa, non poco ebbero a faticarsi gli Italiani, dimostrando che mancava l’atto non l’attitudine del valore. Dei prodi di questa età già molti enumerammo (tom. IX, pag. 523), e fra’ migliori Gabrio Serbelloni milanese cavaliere di Malta, che combattè i Turchi in Ungheria, sulle coste d’Italia e a Lepanto, ajutò il duca d’Alba e il marchese di Marignano a spegnere l’indipendenza italiana, e Filippo II a tenere in obbedienza il Napoletano che empì di fortilizj, e ad assoggettare i rivoltati Brabanzoni: fatto vicerè di Sicilia, difese Tunisi, respingendo quattordici assalti de’ Turchi, che al fine lo presero di forza, e lui tutto ferito menarono prigioniero a Costantinopoli, finchè fu cambiato con ventisei uffiziali turchi. Combattè allora a fianco di don Giovanni d’Austria, che lo chiamava suo maestro; poi di nuovo in Italia e in Ispagna, finchè morì. Alberto, conte di Caprara bolognese (1630-1686), servì all’Austria principalmente in Ungheria, e molto fu adoprato come diplomatico co’ Turchi: ma e nell’armi e nella diplomazia lo superò il fratello Enea Silvio (1631-1701), compagno del Montecuccoli, vinto dal Turenne, vincitore dei Turchi.

Nel 1650 Francesco Antonelli d’Ascoli espugnava Landsberg, onde Ferdinando III lo costituì ingegnere generale dell’Ungheria. Nel 1637 Giuseppe Spada migliorava la fortezza di Magonza. Francesco Tensini di Crema, formatosi nelle Fiandre sotto lo Spinola, fece diciotto assedj, sostenne quattro difese, combattè dappertutto, ed è posto fra i creatori dell’architettura militare per la Fortificazione, opera ammirata che pubblicò [112] a Venezia il 1624, quattordici anni prima d’essere assassinato in patria.

Nelle guerre di Fiandra acquistò pur nome il napoletano don Roberto Dattilo marchese di Santa Caterina, che capitanò anche i Genovesi contro Savoja. Nel Napoletano e contro i Turchi fece gran prove di valore Francesco Saverio de’ conti Marulli di Barletta, cavaliere gerosolomitano, che divenne maresciallo d’Austria: il suo reggimento tutto di Napoletani fu poi de’ più vantati dell’Austria, e Carlo di Spagna suo nemico gli diceva, — Se avessi nel mio esercito dodici uffiziali come voi, sarei padrone dell’Italia». Marco Foscarini[39] ricorda un reggimento napoletano segnalatosi alla difesa di Barcellona; il marchese di Montenero lodato da Enrico IV, che l’ebbe avversario alla difesa di Amiens; Carlo Spinelli, Andrea Entelmi, il marchese di Terracusa, il duca di Nocera, il principe d’Avellino, il marchese Della Bella, i duchi di Maddaloni e di Rosigliano, il marchese di Treviso, tre Brancacci, tre Tuttavilla, Carlo della Gatta, Marzio Origlia, i marchesi d’Avalos di Pescara e del Vasto, il conte di Santa Severina. A servizio poi di Carlo VI, oltre il maresciallo Caraffa tremendo agli Ungheresi e ai Transilvani, si segnalarono il duca di Laurino, i principi Strongoli e Trigiano; pochi perchè i Tedeschi dileggiavano o non curavano gli Italiani. Anche Luigi Zani bolognese militò cogl’Imperiali contro Svedesi e Turchi, e fu ucciso combattendo in Ungheria il 1674. Colà pure ottenne lode di valore il conte Federico Veterani urbinate maresciallo, morto sul campo nel 1695, e lasciò il racconto delle sue campagne. Il conte Giuseppe Solaro della Margarita era stato, con Daun e col marchese di Caraglio, incaricato [113] dal duca di Savoja di difendere Torino, nel che si condusse egregiamente, poi que’ fatti espose nel Journal historique, ove di sè non fa pur cenno.

Di tutti più illustre Raimondo Montecuccoli (1608-81) si formò nella guerra di Fiandra, palestra de’ migliori campioni di tutta Europa, dove i principi di Nassau aveano creato le fortificazioni di campagna, mentre gl’ingegneri italiani aveano insuperabilmente munite le città, principalmente Anversa. Dopo la guerra di Castro ove fu generale del duca di Modena, andò tenente maresciallo dell’imperatore in Germania, poi comandante supremo delle armi di esso in Franconia, in Slesia, in Ungheria contro i Turchi e contro i Francesi; infine fu elevato presidente al consiglio di guerra. Si trovò egli a fronte Turenne, che la Francia conta come il più insigne suo maresciallo; e l’arte da loro due spiegata sul Reno è il capolavoro dell’arte militare. Allorchè Turenne morì, Montecuccoli compì le sue vittorie finchè lo arrestò l’altro gran generale Condé; poi si dimise dal servizio dicendo che chi avea combattuto con Maometto Köproli, Condé e Turenne non doveva con altri mettere in avventura la propria gloria. Scrisse anche, con quell’ordine ch’e’ dichiarava qualità essenziale delle scritture come delle operazioni, e fu tenuto il maggior maestro d’arte militare, fino ai nostri contemporanei.

Nella guerra di Successione molti Italiani si faticarono, sebbene, eccetto i Piemontesi, non per causa propria, nè sotto proprj generali. A non riparlare del grande Eugenio, sotto lui capitanava il marchese Annibale Visconti, contro lui come maresciallo di Francia il conte Albergotti. Il conte Marsigli bolognese (1658-1730) servì utilmente l’imperatore contro i Turchi; finchè essendosi reso Brisacco dopo tredici giorni di trincea aperta, il consiglio aulico condannò a morte il conte Arco governatore, e alla degradazione il Marsigli, che serviva [114] sotto di esso. Non ascoltato dai tribunali e dall’imperatore, il Marsigli si giustificò in faccia al pubblico; poi si volse tutto a viaggi e studj: scrisse sul Bosforo Tracio, sull’incremento e decremento dell’impero Ottomano, e il Danubius pannonico-mysius in sei volumi, ridondante di buone osservazioni da naturalista, da archeologo, da statista, mirabili anche dopo svanite le congetture che v’appoggiava; a Parigi fu festeggiato come si sogliono le vittime d’un’ingiustizia; in patria fondò l’Istituto di scienze, e a quel senato donò il proprio palazzo e le sue raccolte letterarie e scientifiche.

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LIBRO DECIMOQUINTO

CAPITOLO CLXIII. L’Alberoni. Elisabetta Farnese. Le successioni di Parma, Toscana, Austria.

Quasi prosopopee di quella politica barcollante in intrighi, senz’idea elevata nè stabile morale, ci si presentano al limitare di quest’età due figure italiane, Elisabetta di Parma e Giulio Alberoni.

Quest’ultimo, nato a Piacenza (1664) da un ortolano, cresciuto cuciniere, buffone, negoziante, diè ricetto al romanziere francese Campistron, svaligiato mentre qui viaggiava; onde, allorchè il maresciallo Vendôme, destinato alla spedizione d’Italia, cercava d’un segretario che sapesse qualcosa di francese, Campistron gli propose l’Alberoni. Altri racconta che, dovendo il vescovo di San Donnino trattare a Parma con esso Vendôme, menò seco l’Alberoni perchè balbettava francese; e che questo, avendo trovato quel cinico alla bassa sedia, invece d’offendersi dell’indecenza, imitolla, col che andò a versi al maresciallo, che se lo tolse a servigio. Solite storielle con cui un’aristocrazia di bassa lega crede oltraggiar coloro che s’innalzano co’ proprj meriti.

Le vittorie del Vendôme assicurarono il trono di Spagna a Filippo V, il quale, bisognoso sempre di chi ne dirigesse i consigli e ne chetasse la coscienza, dopo [116] vedovo dell’amabile e intrepida Luigia di Savoja, s’era affidato alla vecchia e astuta principessa Orsini. Nelle costei grazie s’insinuò l’Alberoni, e per suo interposto nel favore di Filippo, che lo nominò conte e inviato alla Corte di Parma.

Quivi ducavano i Farnesi; e Ranuccio II (1646), che perdette Castro e Ronciglione, ebbe per favorito un Gaufrido, al quale poi fece mozzar la testa, indi un Giuseppino valente musico. Francesco succedutogli (1694) vide lo Stato sovverso dalla guerra di Successione, sposò la vedova di suo fratello Odoardo e non ebbe figli, talchè unica di loro stirpe rimaneva Elisabetta, nata da esso Odoardo. L’Alberoni divisò collocarla con Filippo V, onde la dipinse alla Orsini come «una dabbene lombarda, impastata di butirro e formaggio, la quale non avrebbe mosso un dito che a senno di lei, sarebbe venuta in Ispagna colle leggi che la principessa le prescrivesse»[40]; e la Orsini credendo nella riconoscenza, la propose a Filippo V. Conchiuse le nozze, l’Italiana varcò i Pirenei, e la Orsini le andò incontro; ma che? Elisabetta la fece prendere, e coi puri abiti che aveva indosso gettare in una carrozza, e nello stridor del dicembre portare fuori della Spagna, che più non vide; «colpo (diceva l’Alberoni) da Ximenes, da Richelieu, da Mazarino; e con questo solo rimedio si guariranno moltissimi mali creduti incurabili».

Elisabetta restò allora despota del marito e della Spagna. «Alterigia spartana, ostinazione inglese, finezza italiana, vivacità francese formavano il carattere di questa donna singolare, che arditamente camminava al compimento de’ suoi disegni, senza che nulla la facesse meravigliare od arrestarsi» (Federico II). Smaniosa di dominio, pur senza perdere l’allegria rassegnavasi [117] alla solitudine con un marito uggiato e cupo, devoto senz’esser religioso, timido e ostinato, lento di spirito, bisognoso di guida eppure desideroso di levar rumore e pesare sulla politica bilancia; tutto egli concedeva alla moglie, ch’ebbe l’arte d’isolarlo, e che, ambiziosa ma ignara di politica e d’affari, allevata angustamente ed allora sequestre dal mondo, odiando gli Spagnuoli e odiata da essi, non avendo, per riguardo al sentimento nazionale, potuto ritenere altro Italiano che l’Alberoni, tutta s’affidò a questo (1715), a cui doveva il trono. Per lei fatto cardinale, non ebbe il titolo ma la potenza di ministro come confidente del re e della regina, e si amicò la nazione col punir quelli che l’aveano aggravata e coll’accingersi a ripristinarne la grandezza. Tesoro esausto, popolo scoraggiato, non esercito, non marina, non potenti alleanze, non strade, non battelli su quei magnifici fiumi, non canali, non altra ricchezza che i ricolti aveva la Spagna, che esso Alberoni paragonava alla bocca, ove tutto passa, nulla rimane; ricevendo essa tanti tesori dalle colonie, e consumandoli senza nulla riprodurre.

L’Alberoni lavora diciott’ore al giorno; non rifuggendo dalle minuzie dell’economia, ristaura le finanze e l’industria; rende economica l’amministrazione, e limita gl’innumerevoli uffizj della casa del re; protegge il commercio delle colonie; induce il clero a contribuire alle pubbliche gravezze; chiede prestiti, tassa i ricchi, vende impieghi, recluta contrabbandieri e malandrini; e ben presto la Spagna ebbe sessantacinquemila armati, una marina e molti cannoni, e a Barcellona una delle migliori cittadelle.

Erano orditi a vastissime tessiture, che solo la riuscita potea salvare dalla taccia di temerarie. Perocchè la pace d’Utrecht aveva assestata l’Europa, ma solo diplomaticamente, arrotondando e bilanciando gli Stati [118] senza riguardo ad indole e a simpatie di popoli; lasciava all’Inghilterra indisputato il predominio, assicuratole dal sistema de’ prestiti e dalla crescente marina; la Francia riducea in seconda fila, tanto più dacchè al gran Luigi succedeva un fanciullo di cinque anni (1715), vegliato nell’inferma culla dal duca d’Orléans che ne bramava la morte; alla eterogenea monarchia austriaca metteva a fianco due eserciti, quali potevano considerarsi la Prussia, il Piemonte. Intanto l’imperatore Carlo VI, oltre aspirare ad annetter la Sicilia al suo regno di Napoli, non sapea rassegnarsi alla perdita della Spagna, possesso de’ suoi avi: nè Filippo V a vedere il suo regno sbranato, e reso ligio degli Inglesi col ceder loro Gibilterra; come doleasi d’aver rinunziato al trono di Francia. Per verità ogni pace lascia molti guasti non riparati, e i politicanti se ne fanno un titolo a dir imminenti nuove rotture o a prepararle. E le desiderava Elisabetta, la quale non potendo sperare a’ suoi figliuoli il regno di Spagna perchè Filippo ne avea tre del primo letto, volea trovargliene altri. Ciò non poteasi che col rimescolar le carte; e vi si adoprava l’Alberoni, divisando collocare il suo re sul trono di Francia, e don Carlo figlio della Farnese, nel ducato di Parma, Piacenza, e fors’anche nella Toscana; rendere indipendente l’Italia collo snidarne gli Austriaci; a tal uopo aizzare Vittorio Amedeo II di Savoja contro Carlo VI mentre si trovava impegnato coi Turchi; da Napoli li caccerebbe una flotta ispana, ricoverata da esso Amedeo in Sicilia, al quale in compenso si darebbe anche la Sardegna; Napoli e i porti toscani verrebbero alla Spagna; Comacchio restituito al papa; il ducato di Mantova spartito tra i Veneziani e il duca di Guastalla, i Paesi Bassi cattolici tra Francia e Olanda.

Non meno dell’armi l’Alberoni maneggiava gl’intrighi; [119] istigò Ungheresi e Turchi contro l’Austria; cercava conciliare Carlo XII di Svezia con Pietro czar di Russia; dava mano ai Giacobiti in Inghilterra; in Francia poi tramava (1717) per togliere la reggenza al duca d’Orléans e fare dagli stati generali nominar reggente il re di Spagna. A questa ordita teneano mano molti grandi, massime bretoni, e la dirigeva il principe di Cellamare napoletano, allevato alla corte di Carlo II, compagno di Filippo V alla battaglia di Luzzara, ministro di gabinetto a Madrid, e allora ambasciatore a Parigi. Di quivi all’Alberoni prometteva un’interna rivoluzione, favorita dallo scontento universale: ma l’abate Dubois, braccio destro del reggente Orléans, intercettò lettere che provavano, se non una vera cospirazione, però intelligenze ed offerte; onde furono arrestati il Cellamare ed altri.

Orléans perdonò, ma non vide scampo contro le trame dell’Alberoni che nel gettarsi coll’Inghilterra, per quanto la pubblica opinione disapprovasse questa lega mostruosa fra popoli che cristianamente si chiamano nemici naturali. L’Alberoni aveva favorito Giacomo Stuard, pretendente al trono d’Inghilterra, di cui era spossessato dalla casa d’Annover; sicchè Giorgio I s’alleò all’Austria «per difesa reciproca de’ possessi presenti e de’ nuovi acquisti», colla qual frase accennavasi alla Sicilia. Aderendo al trattato la Francia e l’Olanda, ne risultò la Quadruplice alleanza (1718), e il quinto articolo portava che i ducati di Parma e Piacenza e la Toscana si considererebbero feudi mascolini dell’Impero, e vacando si darebbero a un figlio d’Elisabetta: così disponendo delle eredità di persone ancor vive, e senza tampoco consultarle.

A Carlo VI dava grande occupazione il Turco, il quale combatteva a vantaggio nella Morea, tolta, omai ai Veneziani, mentre sul Danubio era tenuto in soggezione [120] dal principe Eugenio di Savoja. Il papa sconsigliava la guerra, massime a Filippo, che formalmente l’assicurò non volerla con nessun principe cristiano, ma preparare armi per ritogliere ai Barbareschi Orano. Intanto l’Alberoni sollecitava Vittorio Amedeo a invadere il Milanese e il Napoletano; ma vistolo alzare sempre più le pretensioni, argomentò fosse in trattati coll’Austria; onde gettata la maschera, con grossa flotta e truppe di sbarco quante non credeasi mai che la Spagna potesse allestirne, invade la Sardegna (1717 22 agosto); e strepitassero pure i gabinetti, egli non cercava giustificazione che dalla riuscita.

Cominciava il sistema, che fu caratteristico di questo secolo, di fiaccar il papa, e intanto volere da lui ogni cosa. Carlo VI, supponendolo d’accordo coi nemici, mandò via il nunzio e l’ambasciadore di Napoli, e sequestrò le rendite de’ prelati che abitavano in Roma. La Francia, disgustata dalla bolla Unigenitus, appellava al futuro concilio; gl’inglesi minacciavano bombardare Civitavecchia per essersi arrestato lord Peterborough, che aveva tentato rapire il pretendente ivi rifuggito; Filippo V incolleriva con Clemente XI perchè ricusò riconoscere arcivescovo di Siviglia l’Alberoni, onde richiamò tutti i suoi sudditi dallo Stato pontifizio, e proibì di cercarvi alcun benefizio o pensione.

Intanto esso Filippo scontentava la Sardegna con persecuzioni e con ammucchiarvi soldati, dei quali nessuno sapeva la destinazione, finchè con istupore di tutti egli piombò sopra la Sicilia. Dicemmo come questa fosse data a Vittorio Amedeo di Savoja; ma il possesso d’un’isola lontana costava al Piemonte troppo più del vantaggio, massime che le pretensioni di Carlo VI obbligavano a custodirla con buona guarnigione. Inoltre i Siciliani non erano nè per tradizione nè per affetto legati a quella dinastia, e alla loro vivacità mal confaceva [121] il riserbo piemontese; sicchè guardavano in sinistro Vittorio, e quando, fattosi coronare e convocato il parlamento (1713 25 8bre), se ne tornò in Piemonte, lo marchiarono di quella parola di straniero, ch’essi gettano a chiunque non v’è nato. Poi Vittorio venne a dissidj col papa pel famoso tribunale della monarchia, e a sostenere la controversia istituì una giunta, la quale tirannescamente spogliava, puniva fin di morte chi non volesse obbedir al re o disobbedire a Roma; talchè Italia fu inondata di esuli siciliani.

Or ecco Filippo proclamare all’Europa d’aver a re Vittorio ceduta l’isola, col patto espresso che ne conservasse i privilegi; avendoli violati, demeritava di possederla e ne decadeva, onde vi si fa gridar re. S’impennano le potenze, come avviene ad ogni violazione di trattati: Vittorio, côlto al laccio da uno più astuto, sbuffa, e ricorre alle potenze garanti della pace d’Utrecht: Carlo VI non vede mal volentieri tolta al Savojardo un’isola ch’egli agognava; ma avendo fatto arrestar a Milano un ambasciadore di Spagna, Filippo V gl’indice guerra; ond’esso manifesta la sua alleanza con Francia e Inghilterra. Gl’Inglesi cominciano le ostilità (1718 30 giugno), prima di dichiararle; i mari nostri e l’isola di Sicilia sono insanguinati da Imperiali, Inglesi, Spagnuoli: pure l’Alberoni tien testa a tutta Europa. Francia, Inghilterra, Olanda allora presero concerto, che Vittorio cedesse la mal tenuta Sicilia all’imperatore, e si contentasse della Sardegna, altrimenti sarebbe spogliato di quanto aveva ottenuto nel 1703, senza compensi. Il duca non sapeva acconciarsi a barattare la più bell’isola del Mediterraneo, con un milione ducentomila abitanti, contro un’incolta di quattrocencinquantamila persone: e colla Spagna maneggiava un’alleanza difensiva mentre dall’imperatore chiedeva la mano d’un’arciduchessa, e colla Corte di Madrid si accordava di lasciarle invadere [122] la Sicilia come opportuna ad attaccar l’imperatore nel Napoletano. Che che ne fosse, e Sardegna e Sicilia bisognava conquistare: e in fatto la Sicilia andò ad uno strazio senza pietà[41]. Nelle acque di Siracusa la flotta spagnuola, assalita dall’inglese (11 agosto), perdette ventitre vascelli con cinquemila trecento uomini e settecenventotto cannoni, eppure quella nazione occupò l’intera isola, eccetto Siracusa, Trapani e Melazzo; poi in ogni dove infuriò la guerra, a tutta Europa tenendo fronte la Spagna.

Chi dava vigore a un paese rifinito e ad un re fiacco? l’Alberoni: sicchè contro di lui si ritorsero tutti gli odj e le armi sue stesse. Il Reggente non rifuggì dalle vie più basse per rovinarlo; guadagnò il duca di Parma, il confessore di Filippo e la balia della regina, e tutti sclamavano contro l’Alberoni, massime dacchè l’infelice riuscita lo accusava d’imprudenza; e la conclusione fu che il cardinale, come unico ostacolo alla pace, venne improvvisamente destituito (1720 3 xbre), negatagli udienza fin da quella ch’egli avea fatto regina, frugate a minuto le carte e le robe sue, e rinviato. Salito al colmo «senza aver tempo di contar gli scalini», come diceva la Orsini, forse è vero che si lasciò prendere dalle vertigini; come gli uomini nuovi, volle ostentar potenza; sempre smaniato di moversi e di movere, guardava il fine e non gli ostacoli; obbligato a servire alle passioni altrui e non potendo fidarsi degli Spagnuoli che lo odiavano, parve un millantatore e null’altro, ma potè dire al cardinale di Polignac: — La Spagna era un cadavere, io la rianimai; al mio partire essa tornò a coricarsi nel suo cataletto».

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La sete del potere più non si estingue sulle labbra che ne gustarono le dolcezze o le amarezze; e l’Alberoni andandosene, persuaso che la sua carriera non fosse terminata, paragonavasi a que’ capitani di ventura che erano cerchi a gara quando congedati. Venuto a Sestri di Levante, Clemente XI, che l’aborriva come istigatore della guerra contro Carlo VI, o voleva dar soddisfazione ai potentati, gli mandò ordine di non farsi consacrar vescovo di Malaga sebbene già n’avesse le bolle, e di non recarsi a Roma; anzi istituì rigoroso processo per levargli la porpora. L’Alberoni, fuggito tra gli Svizzeri, se ne difendeva svelando i sozzi garbugli de’ gabinetti, tutti operanti senza virtù; e ai circoli e alle gazzette offrì lunga materia il nome di lui, insieme colla banca di Law e colla peste di Marsiglia.

Al conclave dopo la morte del virtuoso Clemente XI egli comparve; nè mancarongli voti per la tiara. Ma la ebbe Innocenzo XIII (1721), il quale sospese il processo contro l’Alberoni, che collocatosi a Roma, divisò un’alleanza cristiana per cacciare d’Europa i Turchi e spartirne il paese; messo legato a Ravenna, d’utili stabilimenti la dotò. Ma irrequieto e smanioso di maneggi, mancandogli campo più vasto, volle esercitarli contro la piccola repubblica di San Marino.

Mozze le relazioni politiche dacchè fu circondata di Stati papali, serbava questa la virtuosa oscurità; ma la calma aveva indotto tal negligenza delle cose pubbliche, che si poteva a stento raccorre il consiglio. Si venne dunque al partito di restringerne il numero da sessanta a quarantacinque; ma allora gli esclusi levarono lamenti, donde dissidj e brama di mutazione. L’Alberoni s’affiatò con questi malcontenti, e côlto il pretesto di violate immunità ecclesiastiche, fece arrestare gentiluomini sanmarinesi nella Romagna, mandò truppe ai confini, e dipingendo a Roma quella repubblica come un ricovero [124] di riottosi e una Ginevra di miscredenti, e mandando firme di Sanmarinesi chiedenti l’aggregazione, persuase il papa a lasciarlo fare. Ed egli, cominciato al solito da querele per rifuggiti, per violati confini, negò lasciarvi arrivare i viveri (1739), poi cogli sbirri occupa il piccolo territorio, e chiama a solenne giuramento di fedeltà. Ma i migliori ricusano: — Ho giurato al legittimo signor mio, alla repubblica; e quel giuramento confermo», disse il capitano Giangi; Transeat a me calix iste, soggiunse l’Onofri; così altri; minacciati, se ne richiamano al papa, il quale, meglio informato, ordina si ripristini la repubblica. Quell’attentato vi ravvivò l’amore per la libertà e per una patria che sulla sua piccolezza avea chiamato l’attenzione dell’Europa; si comprese come la giustizia e la concordia sian necessarie; molti forestieri ne sollecitarono il patriziato, e crebbero le famiglie interessate al pubblico bene. L’Alberoni non fu punito che col trasportarlo alla legazione di Bologna; e fra gli storici rimase vituperato o lodato secondo passione. L’Italia non dimentica com’egli dotò la patria Piacenza d’un insigne monumento, al posto d’un antico ospedale di lebbrosi elevando un collegio per sessanta studenti, che ben presto diede segnalati uomini alla Chiesa e alle scienze[42].

[125]

Tolto di mezzo l’Alberoni, Filippo V lasciossi indurre dalla moglie a rassegnarsi ai dispotici ordinamenti della Quadruplice alleanza, rinunziando alla Sicilia e alla Sardegna; e a Cambrai si trattò d’accordi (1721 marzo). L’imperatore, irremovibile dal credersi unico legittimo padrone della Spagna, e geloso che le altre due potenze volessero aumentare l’ingerenza borbonica in Italia, frammetteva difficoltà sin nelle formole della reciproca rinunzia di lui alla monarchia spagnuola, e della Spagna ai possessi in Italia e ne’ Paesi Bassi; e riservavasi il titolo di re di Spagna e di cattolico, e di granmaestro del Toson d’oro. Adesso poi, che possedeva la Sicilia, nicchiava a concedere a don Carlo figlio della Farnese la promessa investitura eventuale degli Stati di Parma, Piacenza e Toscana, tanto più che i signori di questi paesi vi si opponevano, e viepiù il papa che vedea considerati [126] feudi imperiali quelli su cui la santa Sede pretendeva l’alto dominio. Alfine le lettere d’infeudazione furon date (1724) sotto la garanzia della Francia e Inghilterra.

Vedemmo comparire di mezzo la Toscana, perocchè anche questa era per andar vacante. Cosmo III granduca, più non sperando che Gian Gastone suo figlio avesse prole, chiese che il senato fiorentino, coll’autorità medesima onde avea conferito il dominio ai Medici, potesse ammettere all’eredità le femmine, pensando a sua figlia Anna, maritata nell’elettore palatino (tom. XI, pag. 256): ma regina Elisabetta s’industriò tanto, che il congresso di Londra riconobbe che essa, come nata da Margherita figlia di Cosimo II, riuniva i diritti delle famiglie Medici e Farnese, talchè Francia e Inghilterra ai figli di lei garantirono Parma e Piacenza e la Toscana, mettendovi intanto guarnigioni svizzere. Ma la santa Sede allegava l’alta sua signoria su Parma e Piacenza; il granduca adduceva l’indipendenza del Fiorentino, e la stranezza di disporre del suo senza tampoco sentirlo; la Spagna recava in mezzo i suoi diritti sul Senese, oltrechè non si rassegnava ad accettare con vincolo feudale possessi, che un giorno le tocchebbero liberi. I potentati sostenevano che tale assetto fosse necessario alla tranquillità d’Italia; l’Austria, possedendo i due estremi della penisola, avrebbela avuta tutta in balìa, tanto più che n’era esclusa la Francia. Sgombrate dalla Spagna le due isole, la Sicilia fu resa a Carlo VI, che dovè coi rigori e i supplizj tenerla fedele.

Tutto ciò chiamavasi pace; e chiamavansi politica queste miserabili triche di doti e successioni; e nimicizie e leghe e trattati e spese e guerre dei padri dei popoli si dirigeano al grande scopo di mettere in trono i figli della Farnese e la figliuola dell’imperatore. Quest’ultimo, non avendo maschi, aveva pubblicato una prammatica sanzione (1713 18 aprile), portante che potessero succedere le [127] figlie sue; e l’ottenervi l’adesione degli altri potenti divenne l’unico proposito della sua politica. Ma la Spagna vi repugnava, e chiedeva ch’egli si limitasse in Italia agli antichi dominj; saltava in campo il re di Sardegna, prevalendosene per domandar grado eguale agli altri regnanti; alle potenze marittime spiaceva che l’imperatore avesse eretto a Ostenda una compagnia pel traffico colle Indie: gravi imbarazzi alla diplomazia.

Quando il re di Francia, che avea fidanzato una figlia di Filippo V, sposò invece una polacca, Filippo irritato si ravvicina all’imperatore, aderisce alla prammatica sanzione, rinunzia ad appoggiare la resistenza dei principi italiani; si parlò fino di sposare Maria Teresa figlia dell’imperatore con don Carlo di Spagna. Di tale alleanza che succedeva a venticinque anni di collera, presero ombra le potenze settentrionali, e l’Inghilterra gliene oppose un’altra; Carlo VI, purchè riconoscessero la sua prammatica, abbandonò la Spagna; la Spagna a vicenda fece pace coll’Inghilterra, abbandonando Carlo VI, e ottenendo di mettere guarnigione a Livorno, Porto Ferrajo, Parma, Piacenza, affine di assicurarle a Don Carlo.

Così continuavasi a disporre dei dominj d’Italia, non dico senza badare ai popoli, ma nè tampoco ai possessori attuali, nè al signor sovrano qual era l’imperatore. Il quale offeso arma a Napoli e a Milano, ed essendo morto l’ultimo Farnese, occupa Parma e Piacenza (1727). Ma poichè la politica andava tutta a convenienze o capricci, senza elevazione, e perciò mutevole ad ogni vento, ben presto l’Austria s’allea coll’Inghilterra e coll’Olanda (1731 16 marzo), che riconoscono la prammatica sanzione; e la Spagna non tarda aderire, purchè a don Carlo assicurino le successioni disputate. Infatto egli ottenne Parma e Piacenza; ma quanto alla Toscana il granduca Cosmo III non sapeva rassegnatisi. E per verità nessuna ragione [128] teneano quelle potenze sopra lo Stato altrui, poca egli stesso, giacchè, cessando la famiglia con cui il paese avea contratto un’obbligazione, questo ricuperava l’indipendenza e libertà di disporre di se stesso. Cosmo medesimo il proclamava, asserendo che la Toscana non era obbligata da verun nesso feudale coll’Impero, e che casa sua non la teneva dall’investitura di Carlo V, bensì dall’elezione dei Quaranta. La politica guarda a convenienze, non a diritti.

Cosmo nel lungo suo regno non avea fatto che svigorire gli animi sotto un’afa chiesastica, mentre lasciava languire l’industria e l’agricoltura, e profittare i monopolisti e gl’ipocriti; moltiplicava le cariche e le dava in dote a zitelle onde crescere le famiglie che dipendessero interamente dal governo fin pel pane. Quando morì (1723 31 8bre) non fu dunque compianto, se non pel peggio che temevasi dal suo successore Gian Gastone. L’educazione accurata non aveva salvo costui dalle laidezze, di cui fece pompa nelle taverne tedesche e ne’ postriboli francesi. Logoro da queste e da cinquantatre anni, desiderava continuare nel far nulla, e non darsi briga d’un paese di cui restavagli solo un breve usufrutto, non aspettando successione dalla disprezzata moglie; sicchè abbandonò gli affari ai ministri, sè a lautezze scandalosamente libertine procacciategli dal cameriere Giuliano Dami; tratteneva giovinastri a centinaja, anche di famiglie illustri; e il paese imitatore, che era stato santocchio sotto il padre, si fece scapestrato sotto il figliuolo.

Alla Corte dava vivacità Jolante Beatrice, vedova del primogenito di Cosmo, traendovi belle dame e letterati, fra cui l’improvvisatore Bernardino Perfetti, che fu coronato poeta a Roma. Si rialzò l’Università, levando l’obbligo d’attenersi a temi e corsi prestabiliti; e vi dettavano il Caraccioli, il De Soria, il Corsini, il Fromond, [129] il Rallo, il Capassi, il Fancelli; allo studio fiorentino, dove professavano il proposto Gori, il dottore Lami, il Salvini, il Targioni, il Cocchi, si aggiunsero una cattedra di gius pubblico, affidata a Pompeo Neri, e un osservatorio, diretto da Tommaso Perelli; si lasciò erigere in Santa Croce un monumento a Galileo, e tornar alla cattedra di filosofia Pascasio Giannetti; dal 1729 al 39 si compì la quarta edizione del vocabolario della Crusca; e il prete Antonio Bandini proclamava la libertà d’estrar granaglie dalla Maremma.

Il bene era guasto dagli sciagurati esempj del principe e dal turpe mercato che delle grazie e degl’impieghi faceva il Dami, sempre più despoto quanto più Gian Gastone anneghittiva e immalinconiva. Il quale, se talora alzava la testa dal vergognoso sopore, udiva i potentati mercanteggiare della successione di lui vivo; la Spagna volere che accettasse per successore don Carlo, e fin d’allora le guarnigioni; l’imperatore, ch’egli riconoscesse la supremazia imperiale. Anzi, com’ebbero stipulato del dominio, pensarono anche ai beni allodiali di Casa Medici. Mobili, gioje, capi d’arte, il fedecommesso di Clemente VII, gli acquisti fatti con risparmj, col traffico o colle confische; i miglioramenti recati a porti, palazzi, fortezze, artiglierie, principalmente i feudi da loro innestati nella ducea, e nominatamente Pontremoli e la Lunigiana, come possessi privati ricadevano di diritto alla elettrice palatina: ma la Spagna agognava anche a quelli, e intendendo susurrarsi d’indipendenza toscana, guarnì le fortezze.

Floscio in mezzo a tanti urti, Gian Gastone soscrisse al trattato di Vienna (1731 25 luglio), che senza lui avea disposto dei suoi Stati, e con una convenzione di famiglia accettò per successore don Carlo, a patto che rimanessero integri i privilegi della Toscana. Ma al tempo stesso faceva una formale protesta contro la lesione recata all’indipendenza [130] del popolo fiorentino, il quale non poteva rimanere pregiudicato da un atto estorto colla forza: protesta che dovea pubblicarsi alla sua morte.

Sempre erasi convenuto che guarnigioni forestiere non verrebbero in Toscana, ma solo il designato erede: però alla Farnese parve indecoroso che un suo figlio vi andasse quasi in altrui balìa; onde gli accompagnò seimila armati (1736). E quando, al san Giovanni, i vassalli vennero a cavallo a deporre l’omaggio, tra feste che accoppiarono la suntuosità spagnuola colla raffinatezza toscana, allettata pure dall’ilare e graziosa giovinezza di don Carlo, questo ricevette l’omaggio in qualità di principe ereditario[43].

Frattanto un’altra eredità più pingue metteasi in questione, quella di Carlo VI. Favorì le arti belle che coltivava egli stesso, e principalmente la musica, e dal [131] Metastasio fu celebrato come il Tito del secolo: ma non sapea farsi nè stimare come elevato, nè amare come popolare; spiava i domestici segreti, puntigliavasi nelle cerimonie; ligio ai ministri, eppur sempre sospettoso di quel che più di tutti valeva, il principe Eugenio di Savoja, la cui morte (1736) lasciò il massimo disordine in quel gabinetto. Avvezzato despotico, penava a rispettare le costituzioni de’ varj Stati; più che d’altro gloriandosi d’essere stato re di Spagna, questo titolo non volle rinunziar mai; Spagnuoli mettevasi intorno e negl’impieghi; e ostinavasi a volere i possessi italiani come quelli che gli davano e denari pel secreto borsiglio e cariche da distribuire a sua voglia, mentre ne’ paesi germanici le costituzioni escludeano i forestieri. Or que’ consiglieri (se crediamo alla Storia arcana del Foscarini, che è un’indagine del perchè l’Austria perdesse così rapidamente l’Italia nel 1735) lo traevano a strane e rovinose maniere di governare il nostro paese; tutto andava a chi più rubasse in aggravio de’ popoli: a Napoli ottantadue milioni di fiorini si estorsero nei ventisette anni di suo dominio; oltre diciotto capitarono direttamente all’imperatore o per fascie alle arciduchesse o per altre graziosità: a Milano s’incarì la diaria, mentre le somme destinate a mantenervi soldati e munire fortezze colavano nel borsiglio, lasciando il paese sprovvisto nelle occorrenze: or si moveva dubbio su antiche vendite fatte dal fisco alle città, e bisognava transigere in denari; or una città contendeva coll’altra, e sopivasi il litigio a denari, sempre con particolare guadagno dell’imperatore. Per due milioni e quattrocentomila fiorini vendette ai Genovesi il marchesato di Finale, importantissimo perchè metteva il Milanese in comunicazione col mare; vendette al re di Sardegna altri feudi sottratti al Milanese; vendette titoli, vendette soldati, e fomentò la guerra perchè velava tali dispersioni [132] di denaro. Negl’impieghi e nelle magistrature poneva persone indegne, purchè pagassero; lasciava che i ministri lucrassero sulle entrate dello Stato, come egli partecipava alle venalità; e tenea mano agli appalti, che si deliberavano a prezzi ingiusti, supplendovi con altre gravezze sui sudditi, e coll’inumanità dell’esazione.

Napoli avea gran foreste di roveri, proprietà regia; quelle dell’Istria e dell’Ungheria poteano somministrare una ricca flotta, dietro la quale Carlo smaniava: ma la pessima amministrazione facea costar più a lui i legnami suoi che se avesse dovuto comprarli, e l’uffizialità sarebbe bastata a triplice armata. Pensò favorire il commercio, ma con espedienti improvvidi; alzando i dazj delle lane, rovinò gli armenti dell’Abruzzo; colla Compagnia dell’India istituita ad Ostenda, s’inimicò le potenze marittime, mentre egli nessun frutto ritrasse; coll’aprire il porto franco di Trieste, oltre mettere in sospetto i Veneziani, spoverì la fiera di Bolzano ed altre interne, e non che vi affluissero mercanti come credeva, sole tre famiglie di Lombardia vi si posero, e bisognarono ordini rigorosi per trarvi mercanzie. L’accordo ch’ei fece colle potenze Barbaresche affidava queste a penetrare nell’Adriatico a danno de’ Veneti e de’ Pontifizj, sicure di trovar ricovero nei porti napoletani.

De’ vizj suoi e di sua Corte non mancava chi l’avvertisse, e i frati italiani che quaresimavano a Vienna, non prostituivano alle adulazioni la parola di Dio; pure soltanto le lezioni costose dell’esperienza lo fecero scorto degli errori suoi, non l’emendarono. Tutta sua vita fu in guerra, e più in maneggi per far adottare la prammatica sanzione, per cui gli Stati di Casa d’Austria passassero nella sua figlia Maria Teresa. La Farnese mosse mari e monti per maritare costei col suo Carlo, che avrebbe potuto un giorno congiungere in sè i possessi d’Austria, Spagna e Francia; e fallitole l’intrigo, [133] cercò almeno buscargli il Milanese e le Sicilie. Ma il Milanese faceva gola a Carlo Emanuele III di Sardegna, il quale paragonava l’Italia a un carciofo, che vuolsi mangiare foglia a foglia; e sentendo di qual peso l’alleanza sua sarebbe nei moti imminenti, volea farsela pagare con quel ghiotto boccone.

Di mezzo all’apparente cordialità trescavasi dunque e faceansi armi, quando un lontanissimo evento condusse in nuovo travaglio il paese. Ciò fu l’elezione del re di Polonia. Era caduta su Stanislao Lezczinski suocero del re di Francia; ma Russia ed Austria preferivano Augusto di Sassonia, e accostato un esercito ai confini, obbligarono ad eleggere questo (1719), sicchè Stanislao ne dovette partire. Di qui rottura tra Francia ed Austria, e briga di alleanze, ove subito prese parte la Spagna, ossia Elisabetta; la quale, sempre agognando tutta l’eredità austriaca, nè per difficoltà diminuendo l’ambizione materna, al suo Carlo diciassettenne che s’adagiava nel principato di Parma, manda dire: — Preparatevi a un molto più nobile trono; Spagna, Francia, Sardegna si sono collegate contro l’Impero, cioè per deprimere Casa d’Austria[44] ed escluderla da Italia: un esercito con Berwick l’assalirà sul Reno, un altro con Villars scenderà in Lombardia, una flotta nel Mediterraneo; a Genova e Antibo sbarcheranno genti e cavalli spagnuoli, [134] comandati dal conte di Montemar in effetto, in apparenza da voi stesso, che presto saluterò re delle Due Sicilie».

Carlo Emanuele fu ancora in testa agl’intrighi (1733 26 7bre). L’imperatore lo credeva suo, atteso l’avergli esso domandata l’investitura degli Stati in Italia; sicchè vedendolo ingrossare di armi, supponeva mirasse unicamente a difendersi dai Francesi; e quand’egli chiese grani alla Lombardia, il conte Daun si fece premura di mandargliene[45]. Ma un momento dopo si seppe che il re, a patto di divenire padrone del Milanese, erasi unito alla Francia, dove i consigli dell’ottagenario Villars e degli altri vecchi soldati essendo prevalsi ai pacifici del ministro cardinale Fleury, preparavansi grossi eserciti. I quali per cinque vie sboccati e uniti al piemontese, occupavano Vigevano, Tortona, Pavia, e sono alle porte di Milano (1733 3 9bre). Carlo VI erasi avversate le potenze marittime colla sua compagnia d’Ostenda; quel sistema di corruzione così esteso avea fatto trascurare gli armamenti e i magazzini; e Daun côlto alla sprovvista, anzichè esporsi ad una sconfitta, si ritira nelle fortezze. [135] Carlo Emanuele accolto con feste a Milano e dappertutto[46], vede aprirsegli il forte di Pizzighettone allora importante pel passo dell’Adda e con cento cannoni, e i minori di Lecco, Trezzo, Cremona, Fuentes, Novara, Arona; anche quel di Milano dopo lanciatevi quattordicimila cannonate e tre mila bombe: e tiene finalmente questo paese sì a lungo ambito, e se n’intitola duca.

Un potentato che tema un vicino, gliene oppone un altro. Carlo Emanuele dunque consentiva all’incremento d’un infante di Spagna, per quanto s’adombrasse dei Borboni; ma non volea snervar l’imperatore a segno che quelli restassero senza contrappeso in Italia: laonde sfavorì la marcia dell’esercito, restrinse le sussistenze, ricusò dare artiglieria per l’assedio di Mantova, nè secondare Villars che volea si procedesse prima che da Germania venissero rinforzi; onde il maresciallo Mercy ebbe agio di calar dal Tirolo a rinforzare la guarnigione di Mantova; Villars indispettito viene a prendere congedo dal re, il quale duramente gli dice: — Buon viaggio». Il maresciallo, passando per Torino, vi morì di ottantadue anni.

Intanto anche la Spagna, ossia Elisabetta collegatasi con Francia, manda una flotta in Toscana, che per sottrarre le Due Sicilie all’oppressione austriaca, all’austriaca avarizia, comincia a devastare spietatamente la [136] Mirandola, Piombino, il ducato di Massa e Carrara; poi l’infante don Carlo, dichiaratosi da sè maggiorenne a diciott’anni, e fatto generalissimo degli Spagnuoli[47], a capo di grosso esercito lentamente traversa lo Stato papale, guastando da barbaro.

[137]

Come il Milanese, così il Napoletano trovavasi a mala guardia, avendo l’imperatore e il gran cancelliere Zinzendorf intascato i denari degli armamenti, e per gelosia non lasciavasi che i natii si armassero: ingegner nessuni; uffiziali imberbi; soldati arrugginiti nelle guarnigioni; gli animi esasperati contro gli Austriaci venditori d’impieghi e sanguisughe, sicchè all’accostarsi di Carlo dappertutto si gridava il nome di Spagna, tanto [138] più che egli pagava appuntino, regalava, sovveniva, gettava manciate di denaro alla folla.

Il vicerè Giulio Visconti chiama all’armi (1734), ma non gli rispondono che banditi e condannati, sicchè fugge col denaro e cogli archivj, e dappertutto si surrogano i gigli alle aquile. Carlo entra in Napoli spargendo denaro, prostrandosi alle chiese, donando una magnifica collana a san Gennaro, schiudendo le prigioni ai malfattori, conservando i privilegi e i magistrati, e aggiungendo alla città il grandato di Spagna, e all’eletto e ai deputati del popolo il diritto di coprirsi in presenza del re. Maggiore fu il contento quando si seppe che il paese non sarebbe più una fattoria regolata dai vicerè, poichè Filippo V decretò che Carlo fosse re delle Due Sicilie, separate da Spagna; le nuove nomine di dignità soddisfecero i nobili; feste e grazie e illuminazione soddisfecero la plebe.

Il Visconti, ritirato in terra di Bari, fu sconfitto a Bitonto dal duca di Montemar, vero duce dell’esercito, il quale passò a sottomettere l’isola di Sicilia (maggio), invano difesa dal prode Lobkowitz; così l’intero regno riverì Carlo; mentre la fortuna austriaca abbassava anche in Germania, malgrado l’arte del vecchio principe Eugenio.

Il Milanese era stato preso troppo facilmente perchè si potesse dir vinto, e a Mantova si concentrarono sotto il maresciallo Mercy le truppe imperiali; ma costui, poco gradito per le violenze e per la prodigalità di sangue, non prosperò le armi, e morì (giugno) alla battaglia di Parma, la più sanguinosa che già un pezzo si combattesse, restandovi diecimila Austriaci. Meglio furono questi comandati a Quistello dal maresciallo conte di Königseck; ma vinti alla giornata di Guastalla (19 7bre), dovettero ritirarsi in Tirolo.

Allora Luigi XV (1735) rimise sul tappeto il vecchio disegno [139] di rendere indipendente l’Italia, per isbarbicare le continue occasioni di guerra; Lombardia sarebbe spartita fra Venezia, Genova, Piemonte; la Toscana resa ai cittadini; nessuno potesse principare in Italia che avesse possedimenti fuori. L’ambizioso Farnese impacciò i consigli, non soffrendo che suo figlio fosse privato della Toscana, benchè acquistasse le Due Sicilie; si tornò sulle armi; e gli Austriaci raccolsero grosso esercito negli Stati della Chiesa, i quali dovettero sostenerne le spese e le prepotenze; perchè i contadini in qualche luogo si opponevano allo sfrenato loro foraggiare, in altri impedivano i loro ingaggi o ricusavano le arbitrarie contribuzioni, le Corti di Madrid e di Vienna urlavano contro il papa, ne cacciavano i nunzj.

Ma la guerra omai non si faceva che lenta e per marcie: Carlo non tenea le Due Sicilie? e il re sardo il Milanese? che potevano altro bramare? Il cardinale Fleury smaniava di rimettere pace; l’imperatore non poteva che desiderarla: ma Luigi, che aveva protestato non volere un palmo di terra, e solo vendicarsi dell’affronto fatto in Polonia a Stanislao Lezczinski, non volle cessar l’armi se non fosse dato alla Francia il ducato di Lorena, che esso Lezczinski terrebbe a vita, in cambio della disturbatagli Polonia. Ma e il duca di Lorena? si compenserà col dargli la Toscana, la quale toglieasi a Spagna, come Parma, Piacenza, Mantova. Miserabili barattieri di popoli!

Adunque nella pace di Vienna (1738 8 9bre) fu assegnata la Toscana al duca di Lorena, che, morto allora Gian Gastone, ne prendeva possesso; in compenso don Carlo avesse le Due Sicilie e i porti del Senese con Porto Longone; Livorno restava portofranco; al re di Sardegna, i territorj di Novara e Tortona, divelti dal Milanese, e la supremazia feudale nelle Langhe; Parma tornava all’imperatore, ma i Farnesi portarono via le [140] ricchezze di loro famiglia e i capi d’arte di cui arricchirono Napoli.

Non si erano ancora deposte le armi, quando la morte di Carlo VI (1740 20 8bre) aprì la successione austriaca; e in onta alla prammatica sanzione, i potentati si avventarono per istrappare qualche brano d’eredità a sua figlia Maria Teresa, e Italia tornò sossopra.

La Francia pensava creare o ingrandire colle spoglie dell’Austria gli Stati secondarj, che si movessero a suo impulso. La Prussia voleva crescere in Germania sicchè l’Austria non vi facesse più da padrona. Il re di Spagna credeva che, mancata la linea austriaca, toccassero a lui il Milanese, Parma e Piacenza, sebbene col trattato di Londra del 1718 vi avesse rinunziato; sicchè armò, e impose a Carlo di Napoli che s’armasse. Per uno statuto del 1549 di Carlo V, qualora venisse meno la discendenza maschile di Filippo II, doveano succedere le sorelle; statuto confermato allorchè la costui figlia Caterina sposò Carlo Emanuele III di Sardegna. Il quale dunque sorgeva a dire che il ducato di Milano avrebbe dovuto toccargli fin dalla morte di Carlo II, ultimo maschio di Filippo II; e viepiù adesso che ogni seme di quella Casa era perito. Non credo che Carlo Emanuele III contasse gran fatto su questi titoli, abrogati del resto col riconoscere la prammatica sanzione: bensì sentiva che, come principe dell’impero dovea aver parte alle discussioni; e come posto fra i due maggiori contendenti, si darebbe a quello che meglio il compensasse. E dapprima prese accordo colla Francia per acquistare il Milanese, foss’anche col cedere la Savoja; poi riflettendo non tornargli utile il prevalere in Italia quella Francia che aveva dominato sì a lungo il Piemonte, e non vedendosi dalla Spagna offerti che ritagli del Milanese, agognato dalla Farnese, si volge a Maria Teresa.

[141]

Questa navigava in pessime acque, parendo tutta Europa congiurata a ritorle i lenti acquisti de’ suoi avi, restringendola all’Ungheria, la Bassa Austria, la Stiria, la Carintia, la Carniola, le provincie belgiche. Federico II di Prussia, eroe filosofo, le occupava la Slesia; il duca di Baviera la Boemia ed era proclamato imperatore; gli Spagnuoli sovrastavano all’Italia; dal Napoletano moveansi i Borboni a minacciare Toscana, Parma, Piacenza, Lombardia; il papa li lascierebbe passare, il duca di Modena si collegherebbe con loro.

Maria Teresa, profuga sin da Vienna, avea dovuto ritirare le truppe dall’Italia, e con patti onerosi procurarsi amici: onde convenne con Carlo Emanuele (1742 1 febb.) che essa impedirebbe Spagnuoli e Napoletani d’avanzare verso Modena e la Mirandola; egli, mettendo da banda le sue ragioni fino a guerra finita, difenderebbe la Lombardia. Trattato di due nemici, intenti solo a schermirsi da un terzo, come lo qualificava Voltaire; e detto provvisionale perchè esprimeva la riserva che il re potesse disdirlo mediante il preavviso di un mese, cioè se Francia e Spagna gli facessero condizioni più vantaggiose.

Venezia volle tenersi neutra, benchè Maria Teresa minacciasse di nuovo suscitarle addosso i ladroni di Segna. A Modena sedevano gli Estensi, principi quieti; e Alfonso III a sessantott’anni abdicò (1629) per rendersi cappuccino a Merano nel Tirolo, dove apostolò eretici, assistette appestati. Francesco suo figlio, modello di cortesia e di generosità, in istrada parlava con questo e con quello, dava udienza a tutti, donava con modesta liberalità; sapeva che qualche cavaliere fosse in bisogno? giocava con esso al tiro o al pallamaglio, ad arte perdendo; ad alcuno chiedeva la borsa, simulando averne bisogno, poi gliela rendeva impinguata; o nella giubba o nel cappello sguizzavagli destramente un rotolo di monete, o fingea lasciarsene cader di mano, e come le [142] aveano raccolte non volea ripigliarle; e li donava di vesti, come fossero da lui smesse, e vi trovavano denari. Al Poggio suo segretario rimproverò una lettera come mal fatta; ma il dì medesimo, quando fu a tavola con alquanti amici, gli mandò un viglietto contenente la donazione della casa e d’alquanti poderi. Amò anche le arti, e cominciò il palazzo di Modena, buon disegno dell’Avanzini. Un prossimo parente del maresciallo di Gassion avendo commesso profanazioni in una chiesa, lo fece fucilare, respingendo le istanze di grazia col dire: — Gli perdonerei se mi avesse fatto perdere una battaglia: ma non d’aver mancato di rispetto alla casa di Dio.

Alfonso IV fu generalissimo (1658) delle armi francesi in Italia, ed ebbe l’investitura di Correggio. La sua vedova Laura Martinozzi, nipote del cardinale Mazarino, regolò con accorta bontà la fanciullezza di Francesco II. Al quale morto senza figli, sottentrò lo zio Rinaldo, figlio di Francesco I, che vedemmo ravvolto nella guerra per la successione spagnuola. Nel 1707 ricuperò gli Stati; nel 1710 acquistò la Mirandola, che l’imperatore, per castigare Pico d’avere parteggiato coi Francesi, fece mettere quasi all’incanto e gli cedette per ducentomila pistole: ma di ottenere Comacchio, disputato sempre dal papa, disperò allorquando l’imperatore rinunziò a pretenderlo.

Nella guerra dei Gallo-Ispani (1734), Modena fu occupata dal maresciallo Maillebois e gravata di contribuzioni. Rinaldo, che erasi rifuggito a Parigi, fu poi restituito nella sua residenza, e l’anno appresso gli succedette Francesco III (1737) che allora combatteva i Turchi in Ungheria come generale dell’artiglieria imperiale. Egli erasi proposto di rimanere neutro nella guerra scoppiata: ma Traun governatore della Lombardia collo svillaneggiarlo e invaderne gli Stati lo spinse a chiarirsi [143] nemico della sua padrona. Subito Tedeschi e Sardi occuparono lo Stato, mentre il duca ricoverava sul Veneto, «portando seco il coraggio, costante compagno delle sue traversie» dice il Muratori. Questi allora trovavasi bibliotecario in Modena, e avendogli il re di Sardegna domandato — Come mi tratterà nella sua storia?» rispose: — Come vostra maestà tratterà la patria mia».

Il duca di Montemar, che dalla sinistra del Po avea veduto senza muoversi la presa di Modena e della Mirandola, sfila allora verso la bassa Italia, e non volendo aprirsi a forza il passaggio per la Toscana, sbarca a Orbetello, e uniti i suoi Spagnuoli a dodicimila Napoletani, traversa violentemente il territorio della Chiesa. In Roma i suoi, per ingaggiare soldati, trascorrono a seduzioni e violenze di tal guisa, che il popolo, irritato di vedersi rapire mariti, figli, padri, tumultuò, coi sassi plebei affrontò fucili e cannoni, e fu forza calar seco a patti, e congedare quanti eransi incorporati ne’ reggimenti spagnuoli. Questi esercitarono vendetta sulla campagna, ma la pagarono col sangue. Il cardinale Alberoni, che non potea dimenticare la politica, proponeva di opporre a questi stranieri una lega di tutti i principi italiani, capo il pontefice; ma questo si accontentò di bandire un giubileo.

Mentre prima il principe Eugenio colle rapide marcie solea moltiplicare un piccolo esercito, allora il Montemar, che pur tanto avea giovato alla prima conquista del Regno, lasciò languire un esercito poderoso; senza riguardo nè all’onore spagnuolo, nè al pericolo degli alleati, nè al conquasso dei popoli, perdendo settimane in marcie di poche ore; accostavasi ai nemici, poi rifocillavasi indietro; non difendeva i suoi posti, non attaccava i deboli, lasciando indisciplinare i soldati, estender le malattie e i vizj, e prevalere gli alleati. Fu mandato [144] a scambiarlo il conte di Gages fiammingo, che a Camposanto di Modena venne a battaglia (1743) cogli Austro-Sardi, poi ritiratosi a Rimini, cedette il comando al duca di Modena.

Maria Teresa, non iscoraggiata da tanti nemici, rinnega Carlo VII benchè regolarmente eletto imperatore dai principi di Germania, e avvolgendo questi in una guerra di mero suo profitto, chiama per la prima volta i Moscoviti a parte degli avvenimenti dell’Europa meridionale, e versa contro i suoi nemici e sopra la povera Italia bande ferine di Panduri, Tolpasci, Anacchi, Croati, Varadini, terribili d’aspetto e d’armi, anelanti alla ruba, indifferenti al sangue, e che rinnovarono gli orrori della guerra dei Trent’anni.

Unica l’Inghilterra serbò fede alla prammatica sanzione. Improvvisamente (19 agosto) una sua squadra si presenta davanti a Napoli con galeotte e bombe, e il comandante Matthews intima a quel re di richiamare le sue truppe dalla Lombardia, o bombarderà la capitale: tempo due ore a decidere. Non erasi mai pensato a munir Napoli, nè i castelli erano provvisti; onde fu forza rassegnarsi, e l’esercito napoletano richiamato, prese quartiere sul Perugino.

Carlo Emanuele seguitava intanto pratiche colla Spagna o colla Francia; e questa non potendolo trarre a sè, mandò nuove truppe al Varo e all’Alpi. Egli, facendo valere i suoi gravi sacrifizj e le proposizioni avute da Francia e Spagna, insisteva per nuovi compensi: l’Inghilterra spingeva Maria Teresa a consolidare quella lubrica alleanza con Savoja, facendo positive concessioni. L’imperatrice reluttava e diceva: — Se cedo ancora, mi resterà in Italia sì poco da non meritare d’essere difesa; non mi lascia che l’alternativa d’essere spogliata dalla Francia o dall’Inghilterra»; dovette piegarsi ad un trattato segreto (13 7bre) conchiuso in [145] Worms, pel quale Carlo Emanuele riconosceva la prammatica sanzione, rinunziando ad ogni pretensione sul Milanese, e obbligandosi a mettere in campo quarantacinquemila uomini. Essa «in ricompensa dello zelo e della generosità con cui erasi avventurato a vantaggio della Casa d’Austria», oltre un sussidio di quattro milioni all’anno, obbligavasi a cedergli il Vigevanasco, il contado d’Angera con tutta la riva occidentale del lago Maggiore e la meridionale del Ticino, e Piacenza col suo territorio di qua dal Po fino alla Nura; e terrebbe in Italia trentamila uomini sotto gli ordini del re. L’Inghilterra si obbligava a pagare al re di Sardegna ducentomila sterline l’anno[48], e secondarlo con poderosa squadra nel Mediterraneo, nè ascoltare veruna proposizione d’assestamento dell’Italia senza consenso di esso.

Allora si rincalorisce la guerra. Carlo Emanuele, inseguendo gli Spagnuoli capitanati dal duca di Modena, giunse fino a Bologna; il principe di Lobkowitz, chiaro per vittorie in Boemia, succeduto al Traun, entra nelle Legazioni, mandandole a sperpero con una di quelle guerre di movimenti che devastano senza risolvere, mostra ancora ai Romani un esercito di Barbari, e s’avvia su Napoli, spargendo larghissime promesse di Maria Teresa. Ma popolo e nobili, indignati che ne fosse tentata la fedeltà, si restrinsero al loro re, superbi della [146] confidenza mostrata da Carlo, fin a sprigionare quei che avea chiusi per inconfidenza, s’accinse a tutelare il nuovo regno.

Lobkowitz menava ventimila fanti, seimila cavalli, oltre le bande irregolari e molti scorridori ungheresi; li secondavano i navigli. Più numerosi erano i Borbonici, meno riputati; e nè gli uni nè gli altri facendosi scrupolo di ledere territorio amico, lo Stato pontifizio resero teatro di battaglie. A Velletri gli Austriaci diedero assalto sì improvviso (1744 10 agosto) al campo, che il re e il duca di Modena a fatica fuggirono in camicia; ma il duca di Castropignano seppe conservare la posizione in modo, che ben presto volse in fuga gli Austriaci. Stettero però ancora due mesi a fronte gli eserciti, ciascuno sperando che la fame e la peste distruggerebbe l’altro; e in fatto, dopo lasciate innumere vite a miserabile spettacolo, Lobkowitz dovette sonare a ritirata, e mostrare i laceri avanzi a quella Roma che dianzi avea insultata. Il conte Gages, unito a un esercito che Francia spediva per Genova, incalzò gli Austriaci, facendo orrida la via coi disertori che lasciava impiccati, mentre la peste desolava i due campi.

Anche sul mare infuriavano le regie ire, mentre empivano di strage la Germania. Morto il ministro Fleury, che sempre avea sollecitato la pace, Francia caldeggiò la parte spagnuola contro Maria Teresa, e mandò un esercito di qua dall’Alpi; grosse battaglie si combattono; altri Gallo-Ispani coll’infante don Filippo e col principe di Conti, secondati dalla flotta, prendono Nizza e la Savoja. I passi delle Alpi sono vigorosamente protetti dai Piemontesi, e tra le fazioni più famose del secolo contansi la presa di Demonte e l’assedio di Cuneo (7bre), ove le popolazioni secondavano l’esercito, a differenza di ciò che avveniva nella restante Italia; e sebbene il re fosse sconfitto, l’avversario dovette sgombrare il Piemonte.

[147]

Ma ben presto don Filippo ritorna, Carlo Emanuele è sconfitto a Bassignana (1745 27 9bre), lasciando pochi uccisi e moltissimi prigionieri: e l’infante don Filippo entra coi Gallo-Ispani in Milano trionfante, e la Farnese esulta del sapere la pingue città in pugno al suo secondogenito. Ma la regina d’Ungheria raddoppia di sforzi, e avendo dal terribile suo avversario Federico II comprata la pace col cedergli la Slesia (1746), manda Lichtenstein con nuove truppe nel cuor dell’inverno, sicchè ben presto i Gallo-Ispani devono lasciar Milano ai Tedeschi, che mandano a saccheggio Parma, mentre i Gallo-Ispani si rinforzano in Piacenza.

Appoggiato ai Tedeschi, Carlo Emanuele si rifà, vince Gages e Maillebois (16 giugno), mentre rinterza trattati colla Francia per conseguire maggiori vantaggi e l’ambito Milanese, semina zizzanie tra Spagnuoli e Francesi; questi batte a Piacenza e obbliga a ripassar le Alpi; e morto Filippo che ostinavasi alla guerra per suo capriccio e per stimolo della Farnese, Ferdinando suo successore (luglio) richiamò d’Italia le truppe spagnuole.

Maria Teresa, carattere virile, virtuosa in mezzo a tante Corti depravate, altera dei diritti di regina e di austriaca, intendeva all’ingrandimento della propria casa e dei proprj figli, senza intaccare i privilegi locali, che formavano la costituzione storica de’ differenti suoi popoli. Avea sposato Francesco, già duca di Lorena poi granduca di Toscana; e benchè di lui amorosissima, e il facesse dodici volte padre, non gli lasciò ombra d’autorità; sicchè egli dovette restringersi a cure parziali, e a guadagnare sugli appalti fin con somministrare forniture ai nemici di sua moglie.

Maria Teresa inviò un corpo nel Ferrarese, che, per castigare il duca di Modena, imponesse grossissime contribuzioni, e guastasse i beni allodiali di Casa d’Este, benchè assegnati alle sorelle, e fin quelli di Massa e [148] Carrara, la cui duchessa Maria Teresa Cibo era moglie del principe ereditario che fu poi duca. Vacando, per la morte dell’ultimo Gonzaga, il ducato di Mantova, Maria Teresa l’occupò come appendice del Milanese, protestandone fin suo marito, che qual imperatore di Germania, lo credeva a sè ricaduto. Dopo la vittoria di Piacenza, gli Austro-Sardi vogliono profittare del buon destro per ricuperare il Napoletano: ma l’Inghilterra, per castigare Francia d’aver favorito il pretendente, gli obbliga a volgersi contro la Provenza, lo perchè occupano la più parte del Genovesato.

Il marchesato del Finale tra il Monferrato e la riviera genovese, dalla famiglia Del Carretto, che lo teneva in feudo, era stato nel 1590 venduto agli Spagnuoli che l’unirono al ducato di Milano; quando i Francesi uscirono d’Italia nel 1707, gl’Imperiali se ne impadronirono, poi Carlo VI nel 1713 lo vendette a Genova per un milione ducentomila piastre, come feudo dipendente dall’Impero, e glielo confermò nel trattato della Quadruplice alleanza nel 18, e in quel di Vienna nel 25. Eppure Maria Teresa, come roba sua, nel 43 ne cedeva i diritti al re di Sardegna, per l’unico titolo che al Piemonte importava avere comunicazione immediata colle potenze marittime ad esso alleate.

Genova non era più la donna dei mari, ma quel popolo conservava vigorosi caratteri, operosità, amore del franco stato; l’aristocrazia dominante non escludeva il merito, e ricordavasi dell’origine sua popolana; i suoi capitalisti possedeano per quattordici milioni di rendita sui banchi di Francia. Protestò essa contro tale usurpazione, che poteva costituire sulla Riviera un porto emulo del suo, fece armi; e aderendo a Francia, Spagna e Napoli nel trattato d’Aranjuez, agevolò ai Borbonici il passo per la Lombardia. Gl’Inglesi reclamarono perchè Genova cessasse dall’armarsi, attesochè nemici [149] non aveva, e dal molestare il loro alleato di Savoja; e non ascoltati, predarono le navi (1746), e mandarono l’ammiraglio Rowley a bombardar Genova, il Finale, San Remo, sollecitati dal re di Sardegna, che istigava anche i Corsi. Ma dopo la vittoria di Piacenza e la ritirata degli Spagnuoli, benchè avesse e armi e viveri, Genova trovandosi incalzata per terra dagli Austriaci, per mare dagli Inglesi, scontentò il popolo pel lavoro mancato nella lunga guerra e pei difficoltati trasporti, sicchè temeva proclamasse Maria Teresa, e dovette patteggiare col comandante degli Austriaci marchese Antonio Botta Adorno, e cedergli una porta, raccomandandosi alla generosità dell’imperatrice.

Se i soldati tedeschi in tutta quella campagna si erano mostrati brutali e ingordi, massime a Parma e Piacenza, qui ancor peggio, quasi il Botta s’invelenisse dell’averla per patria. Impose dunque condizioni come a città vinta: consegnassero le porte, i forti, le munizioni da guerra e da bocca, libero agli eserciti austriaci di traversare le terre della repubblica; il doge e quattro senatori passassero fra un mese a chiedere perdono alla clementissima sovrana di ciò che è sacrosanto diritto, il difendersi da aggressori; detto fatto pagassero cinquantamila genovine (da cinque franchi) per rinfresco ai soldati; poi determinava la contribuzione di guerra a tre milioni di genovine entro quindici giorni, o il saccheggio; tanto e non meno bisognando all’esercito per la spedizione in Provenza e contro Napoli. Di tutto allora si cominciò a far denaro; gli argenti delle case, i tesori sotto la fede pubblica depositati nel banco di san Giorgio, andarono alla zecca, onde passar poi nelle tasche de’ soldati per stipendj e per ricompense; molto ne fu mandato a Milano.

Il re di Sardegna si lamentò che del bottino non gli si facesse parte: sostenuto dagli Inglesi ricuperava [150] Nizza, e prendeva Savona, il Finale, altri posti della Riviera, esclamando contro i Genovesi che osavano difenderli; una nave inglese all’imboccatura del porto taglieggiava e metteva a preda quanti vascelli capitassero a Genova. Per la paura più non si portavano tampoco i grani, e pativasi di fame; fuggivano i principali negozianti, i maggiori ricchi, i membri del piccolo consiglio.

Ad istanza di Benedetto XIV, Maria Teresa condonò il terzo milione; ma il Botta non solo lo volle, ma ne aggiunse un altro pei quartieri d’inverno. Tanto spoglio di città già esausta dalla lunga guerra di Corsica! Eppure la brutalità nemica non n’era sazia; si arrivò a volere che Genova somministrasse le proprie artiglierie per poter con queste toglierle le sue città. E se, come i Romani ad Alarico, chiedeva — Cosa ci lascerete?» il turpe Botta rispondeva: — Gli occhi per piangere». Vile! qualcos’altro resta sempre al popolo ridotto alla disperazione.

Per favorire la decretata spedizione di Provenza, di cui il re di Sardegna era destinato generalissimo, il Botta levò i cannoni anche di Genova; ma nello strascinare un mortajo da Portória (5 xbre), si sfondò la strada e gran fatica dura vasi a cavarnelo. I Tedeschi col bastone obbligarono qualche popolano ad ajutarli: ma un Balilla, ragazzo vulgare, comincia a resistere e rivoltarsi; i suoi lo secondano colle grida e le sassate; il rombazzo ingrossa, e impetuoso si diffonde per la città; rapisconsi le armi ove si trovano: da principio i popolani son più uccisi che uccisori, e gli Austriaci li deridono, e al grido di Viva Maria rispondono Viva Maria Teresa. Ma il furore cresce; si serragliano le vie; Croati, Panduri e quegli altri feroci soccombono alle armi plebee; fanciulli e donne strascinano i cannoni ove mai non sarebbesi creduto; improvvisati artiglieri, improvvisati fucilieri [151] mostrano che sanno vincere e frenar la vittoria: frati e preti ispirano misericordia, ma non fiacchezza. Invano i nobili suggeriscono prudenza, moderazione, e di non sonare a stormo; le campane a martello chiamano i valligiani del Bisagno e della Polcévera; quel Botta, che aveva sbraveggiato il popolo, sente che cosa il popolo vaglia, e fremente e confuso è costretto andarsene. Viva Maria, Genova è salva (10 xbre).

Un applauso universale salutò le cinque giornate; i Tedeschi dalla Riviera si ritrassero di qua dell’Appennino; e accertata la vittoria, anche i nobili parteggiarono colla plebe. Del tradimento fremette Maria Teresa, e tacciando di lesa maestà un popolo indipendente, decretò il sequestro di quanto possedevano i Genovesi ne’ suoi Stati, colpendo così e gl’innocenti che trovavansi lontani da Genova, e la pubblica garanzia delle casse pubbliche, e portando a inevitabili fallimenti[49]. Nè paga a tanto, spedì rinforzi a punir il popolo di quella fedeltà che negli Ungheresi ella aveva applaudita, e che qui chiamava ribellione. Lo Stato di Milano fu obbligato dare cinquecento carrette con quattro cavalli e un uomo ciascuna per condur le provvigioni, e migliaja di villani requisiti per ispianare le strade all’artiglieria. E s’affollarono sul territorio le truppe austriache, che rinomate per valore quanto per cattiva amministrazione, riuscivano gravosissime ovunque stanziassero, e in conseguenza indisciplinate.

Il generale Schulemburg, ripresa la Bocchetta (1747), mandò bande di Croati, le cui fierezze fecero inorridire l’Europa, e indussero i Genovesi a intimargli, se non cessava taglierebbero a pezzi gli uffiziali che tenevano prigionieri. Il popolo sistemò la difesa, e armò le compagnie secondo le varie arti, gridando Libertà o morte, e ascrivendo [152] alla beata Vergine ogni vantaggio che ottenesse sui nemici; si cessò dai vizj, si faceano penitenze e processioni.

Quell’eroismo inaspettato tra la fiacchezza del secolo, mosse Spagna e Francia a sostenerli, pentite e vergognate, d’aver in Italia lasciato cadere ogni loro fortuna. Il cavaliere Bellisle, fratello del maresciallo, avendo tentato passar il colle dell’Assietta, vi lasciò la vita (19 luglio) e la vittoria, nè più i Francesi s’avventurarono su terre piemontesi. Il re di Sardegna aveva potuto prendere Savona, sulla quale ostentava antichi diritti: ma la spedizione di Provenza gli fu interrotta dai mancati soccorsi; e gli Austro-Sardi, che vi aveano sofferto ogni specie di stento, furono cacciati a maledizione dal devastato paese, de’ cui ulivi si servirono a far fuoco, e dove lasciarono morto un terzo delle truppe e quasi tutta la bellissima cavalleria. Mentre stringevano Genova con fierezza per terra lo Schulemburg e per mare gl’Inglesi, il francese duca di Boufflers sosteneva colla sperienza il coraggio popolano; tantochè l’austriaco dovette levar il campo e ritirarsi verso la Lombardia. I Genovesi usciti in festa per la campagna, deploravano desolate le loro ville e dappertutto traccie dell’immanità dei Croati; ma esultavano dell’essersi riscossi col proprio braccio.

Morto fra i compianti il Boufflers, al duca di Richelieu succedutogli pochissimo rimase a fare, ma non ritirò le truppe sinchè non fu ripristinato il governo dei pochi. Il popolo aveva redenta la patria, il popolo vinti i nemici di essa; l’aristocrazia gli rimetteva il freno. Fu quella forse la prima guerra alla moderna, ove si continuassero le trattative insieme colle operazioni militari. E fra le proposte fatte alla Sardegna, merita menzione il progetto di Francia, pel quale, cedendo Nizza e la Savoja, Carlo Emanuele sarebbe ajutato a [153] conquistar il Milanese d’accordo con Spagna e Napoli: del ducato di Mantova s’investirebbero Venezia o il Piemonte: in Italia dove straniero più non rimaneva, si formerebbe una confederazione de’ principi per assicurarli da attacchi esterni e da interne perturbazioni, allestendo all’uopo un esercito di ottantamila uomini, comandato dal re di Sardegna, o in difetto suo da quel di Napoli. Taciamo tutte le minuzie di che il bel concetto nazionale era rinvolto dai lucri domestici e dalle ambizioni della Farnese: ma Carlo Emanuele voleva anzitutto la fusione degli Stati promessigli[50]; temeva che, coll’escludere l’Austria dall’Italia non restasse senza contrappeso il protettorato della Francia, e tenne fermo all’alleanza austriaca: onde Asti fu presa, sciolto l’assedio d’Alessandria, e chiusa per cinquant’anni l’Italia ai Francesi.

A questi danni fatti dai re, venivano di conseguenza epidemie e strani morbi, e un’epizoozia e dilagamenti de’ fiumi dell’alta Italia[51], e venti furiosi a Genova. Alfine i principi, spossati di far tanto male, conchiusero pace ad Aquisgrana (1748 15 8bre). Lo scopo di tanto sangue era ottenuto: cioè Maria Teresa, tuttochè femmina, ereditava gli Stati di suo padre, e alla grandezza della sua Casa dava il rinfianco dell’alleanza inglese. Però, per quanto ella cercasse disdire il trattato di Worms, allegando d’aver giurato conservare integra l’eredità paterna, e di non dover desolare i Milanesi che vedeansi tolti i paesi dove teneano le più pingui proprietà, dovette rassegnarsi cedendo al re di Sardegna l’alto Novarese, il Vigevanasco, porzione del Pavese, il contado d’Angera, [154] sicchè il Ticino diventava arcifinio dal lago Maggiore sino al Po. Il Finale fu tacitamente restituito a Genova coll’antico Stato, e tolto il sequestro sui beni de’ Genovesi, nulla badando a Maria Teresa che continuava a pretendere il milione imposto dal Botta. Elisabetta Farnese fu paga nella materna ambizione, vedendo al suo Filippo assicurati non solo il ducato di Parma e Piacenza, ma quelli di Guastalla, Sabbioneta e Bozzolo, dov’erasi estinta la famiglia dritta dei Gonzaga[52]. Don Carlo ebbe garantite le Due Sicilie, ed [155] assenti al patto di famiglia, per cui tutti i Borboni doveano avere gli stessi nemici e assicurarsi i possessi, determinando i sussidj in evenienza di guerra. Francesco III di Modena tornò nel dominio, e per le spese ebbe in compenso la signoria di Novellara, estinti i Gonzaga che vi dominavano.

Come nella guerra, così nella pace il popolo italiano non era intervenuto che per soffrire: pure la gelosia reciproca delle potenze fece che la dominazione straniera non restasse più di qua dall’Alpi, se non nel Milanese, scemato anch’esso di preziosi cantoni.

CAPITOLO CLXIV. Assetto dell’Italia. Carlo III.

Col trattato d’Aquisgrana cominciò per l’Italia il periodo più lungo di pace che la sua storia ricordi, per quarantott’anni più non rimbombando il cannone se non nelle feste pe’ suoi principi; e in quell’intervallo essa le abitudini riformò, e preparossi alle nuove sorti. Quando le altre potenze europee si erano già rese compatte o nell’unità come la Francia, la Spagna, la Prussia, o nelle confederazioni come la Svizzera e la Germania, essa rimaneva spartita fra dieci signorie, una dall’altra [156] indipendenti. La Lombardia sola soggiaceva a dominazione straniera, che dopo tanti tagli, e sebbene annessovi il ducato di Mantova, contava poco più d’un milione d’abitanti e tredici milioni di rendita[53]: paese spoglio di rappresentanza politica, ma da quello gli Austriaci vigilavano su tutta l’Italia.

Ed austriaco era il principe di Toscana, dichiarato però indipendente dall’Impero. Esso Impero conservava l’alto dominio sopra alcuni feudi nei monti liguri fra la Trebbia e la Scrivia, investiti a famiglie genovesi. Un Borbone dominava Parma e Piacenza, col marchesato di Busseto o Stato Pallavicino. Lo Stato Lando di cui era capo Borgotaro, e il ducato di Guastalla col principato di Sabbioneta, a cui erano stati annessi il ducato di Mirandola nel 1710, il principato di Novellara per investitura imperiale nel 1737, e Bozzolo nel Mantovano, con mezzo milione di sudditi. Meno di quattrocentomila n’aveva il ducato di Modena.

In mezzo all’Italia, dal Po fino a Terracina estendevasi lo Stato Pontifizio, vastissimo territorio con appena due milioni e mezzo d’abitanti, e due milioni e mezzo di scudi di rendita. Vero è che tenui erano pure le spese, giacche gl’impiegati o viveano del proprio, o di benefizj, o dei ricavi dell’impiego stesso. Era molto attenuata la rendita ecclesiastica, consistente in qualche piccolo tributo, nella collazione de’ benefizj, nelle dispense, nelle grazie.

Roma possedeva ancora Benevento e Pontecorvo, inchiusi nel Napoletano, Avignone e il contado Venesino [157] in Francia, inoltre l’alto dominio su Parma, Piacenza, le Due Sicilie; possessi e ragioni che impigliavano in frequenti litigi i papi, i quali più non poteano dirigere la politica, non che del mondo, nè tampoco dell’Italia. A repubblica, oltre San Marino, si reggevano ancora Lucca con cenventimila abitanti; Genova con quattrocentomila, e coi cencinquantamila dell’irrequieta Corsica; Venezia che, oltre le coste dell’Adriatico, stendeasi in terraferma sino al Po e all’Oglio con tre milioni di sudditi, nove milioni di ducati di rendita, dodici o quindici vascelli grossi, diciottomila soldati; scarso provvedimento quando il mondo veniva padroneggiato dalle armi. Restavano fra le Alpi la Valtellina sottoposta ai Grigioni, e i baliaggi svizzeri di qua del San Gotardo.

I paesi che più attiravano gli sguardi, erano i nuovi regni delle Due Sicilie e della Sardegna. Nella pace d’Utrecht erasi stipulato colla Francia, formerebbe confine alla Savoja la cresta del Monginevra; sicchè il Piemonte acquistava le fortezze d’Exilles e Fenestrelle, e le valli d’Oulx e Pragelato. Verso l’Italia aveva avuto prima il Monferrato savojardo (Alba e Trino), poi anche il mantovano (Casale e Acqui) nel 1708: nell’anno stesso sottrasse al Milanese la Valsesia, l’Alessandrino, la Lomellina; poi nel 35 il Novarese, e nel 48 il Vigevanasco, Domodossola, Voghera, Bobbio: i confini verso Lombardia furono determinati nei trattati di Mantova 10 giugno 56 e di Vaprio 17 agosto 54; quelli con Ginevra nel trattato di Torino 3 giugno 54: dall’imperatore aveva pure avuto le Langhe, cinquanta piccoli feudi a mezzodì d’Alba e d’Acqui; e nella riviera genovese il contado d’Oneglia: onde il re di Sardegna possedeva tre milioni e mezzo di sudditi, venticinque milioni di rendita e quarantamila soldati. In mezzo a’ suoi Stati il principato di Monaco era conservato dai Grimaldi, cui nel 1759 successero i Matignoni; e nel [158] Vercellese il principato di Masserano, di cui la santa Sede investiva i Ferrero.

Il regno di Napoli e Sicilia comprendeva gli Stati de’ Presidj, cioè Orbetello sulla costa toscana, e Portolongone nell’isola d’Elba con quarantamila abitanti, quasi stazioni avanzate verso l’Alta Italia e il mar Ligure; teneva pure l’alto dominio sull’isola di Malta, importante per la posizione e le insuperabili fortezze, e posseduta dai cavalieri gerosolimitani, che si cernivano dalla nobiltà di tutta Europa; e che incessantemente rincorrevano le navi e le coste barbaresche, non riuscendo però a impedir le correrie, anzi talvolta provocandole[54].

Al 25 ottobre 1713 in Palermo era stato coronato re di Sicilia Vittorio Amedeo di Savoja; poi tumultuosamente vi succedettero dominazione spagnuola e dominazione tedesca; e ai masnadieri di dentro e ai pirati di fuori aggiungendosi le scomuniche, mancava sin quel riposo che deriva dalla servitù assicurata. Gli abitanti eransi abbandonati all’inerzia, nè correano a trafficare nelle Indie, come avrebbero potuto sotto la Spagna. Carlo VI a quel commercio gl’incoraggiava, ma senza pro «per colpa (crede il Foscarini) della morbidezza e fecondità del clima, disadatto a mercare utilità con istento»; quasi il clima fosse mutato dai tempi di Pitagora e di Gerone. Quando Carlo VI stipulò coi Barbareschi fosse rispettata la sua bandiera, con grandissime feste si celebrò un accordo che assicurava le navi sicule e napoletane; ma non poteasi troppo contare sulla fede di quella gente, la quale del [159] resto pretendea vendicarsi delle molestie causatele dai cavalieri di Malta e di santo Stefano[55].

Esso Carlo, nel 1728, ristabilì il tribunale della monarchia, col diritto al re o al suo rappresentante di tenere cappella, cioè coprirsi il capo quando riceve l’incensatore durante la messa solenne, e giudicare e dispensare in materie ecclesiastiche. Ma i Siciliani trovavano il dominio tedesco spilorcio a fronte della splendidezza spagnuola, tirannico per la viva loro natura e pei privilegi che non rispettava; onde tremavano, sommoveansi, e con ciò si attiravano supplizj e perdeano vantaggi. Consolaronsi dunque allorchè la diplomazia li destinò a Carlo III Borbone, il quale al 3 di luglio 1735 fu solennissimamente coronato a Palermo. Non strade, non ponti, non manifatture trovava egli nel regno, moneta disordinata, il commercio de’ grani impacciato; i regj pascoli occupavano cinquanta miglia in lunghezza e da tre in quindici di larghezza, con divieto di piantarvi pur un albero; estesissimi i beni comunali; anche su privati poderi pesava la servitù del pascolo, talchè non si poteano chiudere; fedecommessi, privilegi di caccia, di forni, di molini legavano le proprietà e moltiplicavano le angherie, i litigi, i legulej; vi si contavano fin diecimila feudatarj, ai quali competea la nomina de’ giudici e de’ governatori, e l’imporre pedaggi, decime, servizj di corpo, primizie; trentunmila frati, ventitremila monache, cinquantamila preti, con lauti possessi immuni; non un solo tribunale di giustizia in quattordici provincie; mentre ogni anno molte migliaja d’assassinj commetteansi, e trentamila furti erano denunziati, e tanti gli avvelenamenti in città, che si dovette [160] istituirvi una giunta de’ veleni; intanto che le carceri rigurgitavano di contrabbandieri e violatori delle bandite. Viepiù stretta da vincoli feudali era la Sicilia, con sessantatremila fra preti e monaci, sopra appena un milione e ducentomila abitanti. La nobiltà, sprovvista d’armi e di potenza civile, era flagello al popolo, non freno al re; e nella Calabria esercitava il diritto di pesca, di caccia, di mulino e molte privative, e si vantaggiava del fondo di religione. Pei contratti a voce il proprietario fissava egli stesso il prezzo, al quale i contadini doveano da esso ricevere i grani. Le arti erano legate ancora in corporazioni; monopolio reale impacciava la cultura della seta. Le proprietà restringevansi in poche mani, e il non possidente era gravato da tasse molteplici ed arbitrarie; pesanti dazj d’entrata e uscita; taglie su tutto, fin sull’acqua piovana, oltre servizj personali da marra, da carreggio, da corriere. Il Galanti, mandato più tardi a visitare il Regno, di cui nella bella descrizione rivelò le piaghe, nel feudo di San Gennaro di Palma, quindici miglia da Napoli, trovò che i duemila popolani abitavano in grotte e sotto frascati, case avendo soltanto i ministri del barone; dappertutto diffuse l’inerzia, le ciarlatanerie, la bugia, le superstizioni.

Carlo non ebbe l’accorgimento di perdonare a chi l’avea sfavorito, e col tribunale d’inconfidenza, preseduto dal Tanucci, perseguitò i pochi fautori dell’Austria rimasti: nel resto si applicò a rimediar le piaghe; fortezze, finanze, procedura, monete, studj adagiò; e il lentare dell’oppressione bastava per togliere il deplorabile contrasto fra la politica infelicità e la naturale bellezza d’un paese, che ha suolo ubertoso, intelletti vivi, confini ben protetti, opportunità di mare. Elisabetta Farnese, non volendo che il suo Carlo sfigurasse, gli mandò un milione e mezzo di piastre, con cui ricuperare [161] molti feudi e dominj, venduti o ipotecati. I Seggi, dal re carezzati, nonchè confermar le taglie vecchie, per quanto esorbitanti, ne offrivano di nuove e donativi. Un magistrato d’economia, applicato a rifiorire il commercio e le entrate, di tre milioni vantaggiò l’erario col solo esaminare la legittimità delle esenzioni del clero. Vedendo quanto Livorno fosse giovato dall’attività degli Ebrei, Carlo li accolse e privilegiò ne’ proprj Stati, dond’erano esclusi fin dal tempo di Carlo V, non distinguendoli per abiti o per abitazioni; permise fino portassero bastone e spada, e acquistassero stabili e feudi. Ma il popolo n’aveva ribrezzo; il gesuita Pepe dal pulpito non cessava d’investirli; un cappuccino intimò al re non avrebbe mai successione maschile finchè tollerasse quella genìa; e gl’insulti e le minaccie crebbero al punto, che la più parte se ne partirono.

Con Tripoli e colla Porta Carlo stipulò i privilegi che godeano altre potenze, e fossero rispettate dai Barbareschi la sua bandiera e le coste; nominò consoli su tutti i punti ove dirigevansi suoi negozianti; pose lazzaretti e collegio nautico: ma, al modo d’allora, credeva vantaggiar il commercio col mettere gabelle sulle merci che entravano. Introdusse il lotto e giuochi pubblici.

Ad esempio del consiglio d’Italia usato dagli Spagnuoli, creò una giunta di Sicilia per cercare ed esporre i bisogni del paese, composta di due giurisperiti siciliani e due napoletani, preseduta da un barone parlamentario siciliano che intervenisse a tutte le consulte del re; a soli Siciliani volle si conferissero i vescovadi e i benefizj, a sè però riservando la nomina all’arcivescovado di Palermo; le rendite dell’isola s’adoprassero a crescerne le forze di terra e di mare per difenderla. Nella miserabile peste di Messina del 1743, ove in tre mesi il popolo fu ridotto da quarantacinquemila a undicimila teste, aggiuntasi al morbo la fame perchè non [162] s’era voluto credere al male, soccorse di viveri e di medici.

La Sicilia, conservando i suoi privilegi, rendeva al tesoro appena trecentomila onze, e tutto il regno non più di sessanta milioni di lire, un terzo delle quali andava negl’interessi del debito. Ciò l’impediva dall’acquistar l’importanza che gli competeva; e appena ventiseimila soldati manteneva. Gli sciabechi napoletani, comandati da Giuseppe Martinez, combatterono le saiche barbaresche con valor pari ai cavalieri di Malta; ogni provincia fu obbligata a formare un reggimento, con uffiziali delle primarie famiglie, che chiamati alla Corte, col fatto restarono privi del potere, e staccaronsi dai castelli per legarsi alla nuova dinastia; e nella campagna di Velletri mostrarono l’antico valore.

Le leggi del regno erano un bizzarro contesto di romano, di barbaro, d’arabo, di normanno, decreti angioini, costituzioni aragonesi, prammatiche dei vicerè, consuetudini paesane, farragine inestricabile; poi nei molti casi ove taceano, il giudice restava arbitro della vita e dell’onore; non regolamento di procedura, non pubblicità di giudizj; l’esito delle cause riusciva incerto ed arbitrario, e buon giuoco v’avea l’astuzia, onde numerosissima e potente la classe di paglietti, cioè degli avvocati, alla quale si ascrivevano principalmente i nobili cadetti. Le liti erano perpetuate da appelli, da ricorsi di nullità, da interventi del re; e pel giudizio del truglio, il fiscale e il difensor regio degli accusati poteano venire a patti, mutando il carcere in esiglio o galera, senza terminare il processo, e tanto per vuotare le prigioni; le quali erano affollate a proporzione dell’ignoranza del vulgo. Carlo tentò ripararvi, da Macciucca Vargas, Giuseppe di Gennaro e Pasquale Cirillo facendo compilare il Codice Carolino, che però mai non fu posto in atto. Il marchese Della Sambuca, ministro [163] di Carlo III, pensò rifare l’insegnamento pubblico, al che s’adoprarono i vicerè Stigliano, Caracciolo, Caramanico; l’Università di Palermo ebbe ventidue cattedre, e biblioteca, orto botanico, laboratorio chimico, teatro anatomico; fu migliorata quella di Catania; due collegi pe’ nobili a Palermo e Messina; uno a Palermo per la classe civile; tre dove la bassa gente imparasse arti e mestieri.

Allora di bei nomi fiorì l’isola di Sicilia. Il principe di Biscari ne raccolse e illustrò le antichità; il principe di Torremuzza le monete e le iscrizioni greche, latine, etrusche, arabiche; Gaetano Sarri il gius pubblico; Salvatore Ventimiglia restaurò gli studj a Catania, dond’era vescovo; Alfonso Airoldi, cappellano maggiore, seppe molto innanzi nella diplomatica e nella patria storia; Giuseppe Gioeni palermitano fondò un collegio nautico, e cattedre di scienze morali; un omonimo naturalista istituì l’accademia Gioenia in Catania; molti fondarono seminarj, librerie, accademie, prima che il Governo se ne brigasse. Accompagniamovi gli scienziati Bonanno, Gabriel Settimo, Serina, Ximenes, Giuseppe Ricupero, Vincenzo Miceli (1733-81) autore d’un sistema di metafisica sull’andare di Locke e Hume e inclinato al panteismo di Parmenide che voleva conciliare col cattolicismo, i giuristi Nicolò Spedalieri e Nicolò Fragianni, di cui molto si valse il re nelle controversie con Roma; Emanuele Cangiamila, autore dell’Embriologia sacra e d’istituzioni per gli affogati e i gettatelli; Francesco Testa che scrisse de ortu et progressu juris siculi, Giambattista Caruso, Giovan de Giovanni, Mongitore, Rosario Porpora, Giovanni di Blasi, Domenico Schiavo, Rosario Gregorio, illustratori della storia patria; il cavaliere Giulio Roberto Sanseverino, la cui storia ecclesiastica vollero comparare a Tacito; gli economisti Vincenzo Emanuele Sergio e Paolo Balsamo; [164] Sebastiano Ayala, proponeva una riforma del Dizionario della Crusca; Tommaso Campailla cantò il Mondo creato; Tommaso Natale verseggiò la filosofia leibniziana; Giovanni Meli, usando il patrio dialetto, si pose a fianco ai lirici migliori.

Ercolano, a sei miglia da Napoli sovra un’eminenza vicino al mare, bagnata da due fiumi e cinta da piccole mura, con porti e castello, fu abitata in prima dagli Oschi, poi da Tirreni e Pelasgi, tre generazioni prima della guerra trojana, infine dai Sanniti. Il 5 febbrajo del 63 dopo Cristo, un tremuoto la guastò. Era foriero delle eruzioni del Vesuvio, che silenzioso da tempo immemorabile, il 23 novembre del 79 gittò a furia, e coperse di lava o di lapilli le terre circostanti, ed Ercolano sepellì. Colonne, statue, marmi sappiamo che ne levò Alessandro Severo, poi non se ne parlò più fino al 1711, quando Emanuele di Lorena principe di Elbœuf, cercando marmi per abbellire una villa al Granatello presso Resína, fece un pozzo che per caso riusciva nel teatro d’Ercolano (tom. III, pag. 440), e ne trasse colonne e statue, che parte inviò al principe Eugenio di Savoja, parte a re Luigi di Francia, finchè il Governo riservò a sè gli scavi. Carlo III cominciò a regolarli con assennata curiosità, e riporre ogni trovato in un museo accanto al suo palazzo di Portici, oggetto d’ammirazione ai curiosi, di studio agli antiquarj. Se non che Ercolano è posta sotto al grosso borgo di Resína, che resterebbe diroccato dagli scavi: pure se ne trassero ricchezze incomparabili; alcune parti si posero al giorno; altre, dopo esplorate, tornaronsi a colmare.

Pompej, cittaduccia nove miglia distante, allo sbocco del Sarno, più discosta dal Vesuvio, fu anch’essa sepolta dai lapilli, onde intere vi si conservarono le case. Cessato lo spavento, gli abitanti aveano potuto asportarne le preziosità: nel 1689 uno scavo fortuito ne avea dato [165] conoscenza, ma solo nel 1755 vi si cominciarono ricerche regolari: e poichè lavorasi in aperta campagna, altro ritegno non s’ha se non quello che ingiunge l’attenzione di non guastare, e di passar allo staccio tutta la terra che se ne rimuove; e donde escono tesori nuovi tuttodì.

L’Accademia Ercolanense fu da Carlo III fondata per esaminare e dicifrare quelle antichità, che riproducono la vita antica, quanto alle arti, e più per la domesticità[56].

Il 19 agosto 1743 una flottiglia inglese presentossi davanti a Napoli, e intimò a Carlo III, fra due ore spedisse a richiamar le truppe sue combattenti in Lombardia, se no, bombarderebbe la città. Carlo dovette obbedire; ma di questa umiliazione tanto fremette, che propose di trasferire la residenza regia entro terra. Cominciò allora Caserta e spinse con incredibile celerità un edifizio, che non doveva restare secondo a qualunque altra reggia d’Europa; quando fu posta la prima pietra, fu lasciato il comando delle truppe al Vanvitelli, che le schierò secondo la pianta del futuro palazzo, da lui tracciata con grandiosa unità. Gli avanzi della vicina Capua e del non lontano Pozzuoli, e i marmi onde abbondano la Puglia e la Sicilia, offrirono preziosi materiali; [166] i giardini emularono quelli della superba Versailles in magnificenza, li superano in postura e gusto; e un vero fiume da dodici miglia lontano giungendo per ammirato acquedotto che cinque volte fora la montagna, e passa tre valli sopra ponti, fra cui è meraviglioso quel di Maddaloni a tre arcate sovrapposte, lungo cinquecenquaranta metri, alto sessanta, casca a precipizio, poi a scaglioni.

Carlo, appassionato della caccia fino al vizio[57], un’altra reggia dispose a Portici; e a chi gli avvertiva come questa rimanesse esposta al Vesuvio, rispose: — Ci provvederanno l’Immacolata e san Gennaro». In città volle il teatro più ampio del mondo, e che loda l’architetto Medrano e l’ingegnosissimo esecutore Carasale, retribuitone colla prigione. Maggior encomio merita l’Albergo de’ poveri, disegno del Fuga, dove la miseria non solo è ricoverata e pasciuta, ma educata in ogni mestiero, avviando così a levare i lazzaroni. Un altro ne fu posto in Palermo, dove il vicerè Corsini avea fabbricato e dotato uno spedale, e provvisto agli esposti e ai carcerati.

Portento insieme e gran testimonio della feracità d’Italia è il vedere Carlo profondere in magnificenze nell’atto che usciva da due guerre disastrose, e appena acquistato un paese, sfinito da lungo languore servile. I benefizj arrecati annoverò egli nel decreto ove istituiva l’Ordine di san Gennaro, mostrando riferirne il merito a questo patrono. Perocchè Carlo era anche devoto: vestito di sacco lavava i piedi ai pellegrini, cantava in coro in arredi da canonico, faceva la capannuccia a Natale, serviva messa per acquistar indulgenze; pure concordò col papa per restringere le immunità [167] clericali, il numero de’ preti, le cause ecclesiastiche e gli asili. Restavano ai vescovi i giudizj per la integrità della fede; ma avendo l’arcivescovo Spinelli processato d’eresia quattro cittadini, parve al popolo si tentasse introdurre l’Inquisizione spagnuola; alcuni cavalieri a Carlo esposero queste apprensioni del popolo; e dicendo egli d’aver promesso, entrando, di non permettere quel tribunale, essi soggiunsero: — Quella fu parola di re; or la desideriamo di cavaliere». Egli, accostatosi all’altare e toccandolo colla spada, rinnovò la promessa. Di fatto cassò gli atti del Sant’Uffizio, e impose che la corte ecclesiastica procedesse per le vie ordinarie, nè proferisse senza comunicare gli atti alla potestà laica. Il regno nel ringraziò col regalo di trecenmila ducati[58].

Frattanto in Ispagna Elisabetta Farnese avea cessato di far da padrona sotto il regno del filiastro Ferdinando VI, il quale dominato da ipocondria, si distraeva col canto di Carlo Broschi, musico italiano, famoso col nome di Farinelli. Ferdinando morì anch’egli senza prole, onde Elisabetta, scomparsi quei del primo letto, vedeva sorpassate fin le sue speranze coll’aprirsi la successione al suo Carlo.

In un trattato conchiuso coll’Austria e la Francia, si patteggiava che le Due Sicilie non sarebbero mai unite colla Spagna, e Carlo nel lasciarle rinunziava pure ad ogni titolo sui beni allodiali di casa Medici; a rimpatto l’Austria più non armava ragioni sul ducato di Parma, che veniva assicurato all’infante don Filippo, chetando con otto milioni e ducentomila lire tornesi i diritti del re di Sardegna alla riversibilità d’una parte del Piacentino.

Carlo passava al trono di Spagna, non portando via [168] il minimo oggetto da Napoli; fece descrivere a minuto le gioje, e depose persino un anello, tratto da Ercolano, ch’e’ teneva sempre in dito. E partiva da un regno che per oltre venticinque anni avea retto in modo, che beato a chi potea dirne meglio. Il musico Farinelli, che avea dominato sotto Ferdinando, tornò a vivere privatamente a Bologna: la Farnese, che da tredici anni era messa in disparte, ripigliò autorità e la tenne finchè visse.

CAPITOLO CLXV. Alito irreligioso. Abolizione de’ Gesuiti.

Dopo mezzo secolo di battaglie, combattute da braccia straniere, l’Italia erasi dunque adagiata in pace sotto nuove dinastie, le quali però aspirarono l’alito innovatore del secolo, che traeva le menti a meditare, cominciando al solito dalla critica, tanto più facile che non la creazione; e dalla Francia si diffuse la smania di censurare le istituzioni del tempo; censurarle nell’interesse dell’individuo, cioè nell’intento di restaurare la logica naturale, la personale indipendenza. Ne fu effetto uno spirito ostile alla Chiesa, insinuatosi non tanto nei popoli quanto nei Governi; e coloro che si corrucciarono al vederla nel medioevo sovrapporsi ai principi, si consolino ch’è venuta la rivincita, formando quasi carattere di questo secolo la cospirazione de’ forti e de’ pensatori a spogliarla e svilirla per affrancare il principato e i Governi.

Quando, sfasciata l’antica società, la Chiesa sopravvisse unica per raccogliere nel suo seno le immortali speranze dell’umanità, i re avevano messo all’ombra di lei il loro trono, sia per conciliargli l’opinione come istituito da Dio, sia per assicurarlo dalla violenza: il titolo di vassalli del papa ambivano, perchè li garantiva da [169] usurpatori; facendosi da lui coronare, promettevano espresso d’osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa, disposti a vedersi dichiarare decaduti se li violassero. La giustizia, ai tempi della conquista, soccombendo alle spade, erasi rifuggita nelle curie vescovili, sicchè tutti gli zelatori di libertà invocavano l’estendersi delle immunità, degli asili, del fôro ecclesiastico. I popoli aveano scelto i preti a rappresentanti e depositarj del loro diritto, acciocchè fosse rispettato dai prepotenti; i principi favorivano il clero come contrappeso alla potenza armata de’ feudatarj; nei monasteri aveano cercato ricovero le anime bisognose di pace, d’affetto, di sicurezza; alle lettere unico asilo i conventi e le canoniche, unico campo alle arti belle; le industriali e più le agricole eransi svolte per mano de’ monaci o nei tenimenti loro: dal che erano derivate grandi ricchezze a queste compagnie, non meno che dai larghissimi lasciti di persone che, col raccomandarli ai monaci, assicuravano un bene ai loro eredi, e li sottraevano alla rapace giurisdizione del feudatario.

La costituzione ecclesiastica essendo anteriore alla laicale, lo Stato erasi trovato teocratico. Ma i principi da due secoli si industriavano a trarre in sè soli l’autorità, abbattendo il feudalismo in prima, adesso la Chiesa. Della quale più non sentivasi bisogno dacchè era assodato l’ordine civile, e i Governi voleano far tutto, i re poter tutto, le leggi dispor di tutto; soldati e prigioni rendevano superflua l’azione paterna e mediatrice. In conseguenza aumentato il bisogno di denaro, rincresceva che i beni di manomorta si sottraessero alle imposizioni: con queste aumentavansi gli eserciti: appoggiati agli eserciti, i re più non voleano che altri s’intrammettesse fra loro e i sudditi, nè che gli ecclesiastici opponessero privilegi alla volontà sovrana. Come di tutto il resto, così dunque presero a disporre delle [170] coscienze, mal conoscendo che la religione bisogna averla nè schiava nè ostile, ma libera cooperatrice; e alla forza de’ sentimenti e delle abitudini preponendo i teorici ragionamenti, vollero separare la Chiesa dalla nazione, e indurre questa a calpestare l’autorità sacra onde lasciarsi calpestare dalla profana. Così venne ad estendersi l’autorità temporale anche sovra le materie ecclesiastiche, e alle decisioni dei papi sostituire quelle de’ diplomatici; nella pace d’Utrecht fu disposto di feudi della santa Sede, nè tampoco interrogandola; e all’Austria restò assicurata in Italia la preponderanza, fin allora appartenuta al papato.

La controversia sui limiti della podestà pontifizia e della civile, dibattuta in Italia fin dalla guerra delle investiture, si rincalorì dopo il concilio di Trento, allorchè la Chiesa, come avviene nelle riazioni, pensò ricuperare di un guizzo quanto lentamente avea perduto. Non v’è principe, non governatore, che allora non abbia avuto a contenderne; clamorosamente Venezia nel litigio con Paolo V; e con maggior complicazione il regno delle Due Sicilie, stretto di vincoli particolari col papato. Combatterono in questo campo Nicola Capasso professore dell’Università di Napoli, Gaetano Argento ed altri, per cui opera il diritto canonico fu ridotto a corpo regolare di dottrina, e formossi una scuola di giureconsulti, sistematicamente avversi alla curia romana per propugnare la regia emancipazione. Dissi alla curia, giacchè i nostri professavano sempre, non solo integra fede al dogma, ma venerazione al papa come depositario dell’inalterabile verità; e non che s’accostassero alla protesta de’ Tedeschi, neppure accettavano in pieno le cavillazioni degli avvocati francesi, dei quali pure si valeano a man salva. Così destreggiavano in un medio, che avea poco maggior effetto di un’effimera controversia.

Gran zelatore della prerogativa principesca mostrossi [171] Pietro Giannone d’Ischitella (1679-1758), che in mezzo alle cure forensi compilò la Storia civile del Regno (1724). È suo merito il non solo accorgersi, ma professare che la storia non consista soltanto nei fatti, e vedere la connessione fra questi e la giurisprudenza; onde accompagnò nella loro evoluzione il diritto imperiale, il canonico, il feudale, il municipale come elementi della nuova civiltà. Ma difettivo di cognizioni e più d’arte, fece opera pesante, incolta, con frequenti svarj cronologici ed omissioni importanti; monumenti inediti non compulsò, mentre si vale fin delle parole altrui, e per pagine intere[59]. A chi lo scolpa col dire che non ai fatti volgeva egli l’attenzione, ma alle illazioni da dedurne, noi diremo che primo dovere d’uno storico è accertare i fatti, e un solo di questi val più che cento ragionamenti: ma ponendo attenzione anche soltanto a questi, troviamo il Giannone servile alla lettera della legge quanto un patrocinatore, e docile alla legalità fin a considerare legittime le correrie de’ Turchi contro l’Italia meridionale perchè, conquistata Costantinopoli e l’impero d’Oriente, aveano ragione di «pretendere di riunire tutto ciò che se ne trovava da altri occupato e in mano di stranieri principi» (lib. XXVIII). Per lui i Longobardi non erano stranieri, perchè stanziati da lungo tempo in Italia e non possedevano regni fuori; argomento che varrebbe anche pel Turco in Grecia; e pel quale conchiude che i Saracini «erano fatti omai [172] Siciliani» (lib. X). Eppure, dopo essersi sdilinquito in panegirici ai Longobardi, encomia i Napoletani «perchè non vollero usar tanta viltà da sottoporsi a quelli, avuti da essi sempre per fieri ed implacabili nemici» (lib. V). Sprezzatore della vil ciurma quanto prosternato ai re, del codardo assassino Ferdinando I dice che «colla sua virtù avea condotto il regno alla maggior grandezza» (lib. XVIII), e non lascia passare alcun governatore senza salmeggiargli elogj. Dalla sminuzzata indagine sui singoli fatti non si eleva ad alcuna veduta filosofica della storia, seppur talvolta non vi mette il fatalismo[60]; s’impaura del progresso, tanto da temere la stampa non pregiudicasse «al genio coll’erudizione e all’educazione colla moltiplicità dei libri, alla diffusione delle idee potenti per la copia de’ cattivi libri»[61], e invoca la censura per impedire le dottrine contrarie agl’interessi dei principi. De’ quali intento ognora a sublimare [173] la podestà a danno dell’ecclesiastica, non solo pecca di viziosa parzialità, ma sbandasi in facezie indecenti contro la Chiesa e le sue discipline. Di questo il popolo del suo paese gli volle tanto male, «che più d’una volta lo insultò aspramente» (Soria); ond’egli ricoverò a Vienna, dove Carlo VI gli assegnava mille fiorini l’anno. Ma quando perdè il regno di Napoli glieli sospese; onde il Giannone errò qua e là, trovando e contraddittori alle falsità sue e nemici alla sua mordacità. A Ginevra compilò il Triregno, di senso ereticale; nè però aveva abbandonato la religione materna, anzi lasciossi trarre a un villaggio dipendente dal re di Sardegna per fare la pasqua. Chi ve lo indusse era uno spione, che lo fece arrestare; e sebbene si ritrattasse, e fosse dall’Inquisizione ribenedetto, e scrivesse opere in senso contrario e in esaltamento della verità cattolica e del papato, il re Carlo Emmanuele ve lo tenne fino alla morte. Questa [174] turpe persecuzione gli acquistò una reputazione di liberale, che a noi pare ben lungi dal meritare.

Risoluto lottatore contro i pontefici fu Vittorio Amedeo II di Savoja. Nel 1694, allorchè cessò di corteggiare la Francia e volle amicarsi l’Inghilterra, aveva ripristinato ne’ loro diritti i Valdesi, permettendo ritornassero al culto avito quelli che per paura o fini umani s’erano fatti cattolici. Ma l’Inquisizione romana cassò quelle disposizioni come enormi, empie, detestabili: il duca proibì di pubblicar il decreto, e chiese l’abolizione del Sant’Uffizio ne’ suoi Stati, e papa Innocenzo riconobbe che quello avea trasceso. Amedeo VIII ai duchi di Savoja avea ottenuto che i benefizj concistoriali in paese non fossero dati che a loro sudditi: ora tal diritto essi voleano estendere anche ai paesi di nuovo acquisto; e Vittorio Amedeo lo pretendeva da Roma, nel tempo stesso che impugnava le immunità ecclesiastiche, sottoponeva i beni del clero alle gravezze comuni, chiamava al fisco gli spogli e i frutti intercalari, voleva necessario il placet alla nomina dei benefizj e restringere l’autorità dei nunzj. Ne vennero monitorj e contromonitorj; i vescovi restavano scissi tra l’obbedire al pontefice e al principe; le ordinanze e le persecuzioni si alternavano con tentativi di conciliazione, poichè il papa dichiaravasi «disposto ad ogni mezzo prima d’adoprare i ferri». Al re davano appoggio il presidente Pensabene, l’avvocato fiscale d’Aguirre, il Degubernatis che stampò contro le pretensioni di Roma e i mali che verrebbero dal secondarle: insisteva perchè nessuna provvisione del papa, nè alcuna collazione di benefizj valesse senza il placet: fioccarono consulti, condanne, confische: il senato di Nizza obbligò i popolani di Roccasterone a riconoscere un parroco scomunicato e rimosso dal nunzio.

Pontificava allora Clemente XI, affabile con tutti, costante e destro nel trarsi dai più scabrosi passi; meglio [175] di ducentomila scudi usò a vantaggio de’ poveri; non favorì il fratello e i nipoti se non in quanto servivano allo Stato, e rimosse da Roma la cognata, che mostrava volervi usurpare ingerenza. Fu de’ primi fautori degli studj orientali, crebbe i manoscritti della Vaticana, istituì premj, introdusse l’arte dei musaici e degli arazzi ad uso Fiandra, eresse magnifiche fabbriche; rinnovò l’uso di Leon Magno di recitare omelie nella basilica Vaticana alle maggiori solennità; fulminò il giansenismo; tentò ridestare le crociate contro i Turchi che minacciavano Corfù, e posta una contribuzione su tutto il clero d’Italia, levato denaro dalla Camera apostolica e dai cardinali, lo spedì a Venezia, a cui favore sollecitava Spagna, Portogallo, Genova, il granduca, l’imperatore. Quando gli Spagnuoli invasero la Sardegna, venne in rotta con Filippo V; non potendo accomodar le differenze colla Savoja, profferì l’interdetto, talchè molte sedi e benefizj rimasero vacanti, tolto il nunzio. Il litigio si complicò allorquando, per richiami del vescovo di Lipari su certi frutti, il papa scomunicò cinque diocesi di Sicilia; e Vittorio Amedeo, allora divenutone re, gli oppose il privilegio della monarchia siciliana. Qui miserabile strazio della povera isola, privata delle sante consolazioni della religione, mentre Vittorio puniva atrocemente chi tenesse conto dell’interdetto; due fazioni stettero armate una contro l’altra; quasi tremila ecclesiastici rispettosi all’interdetto, dall’isola rifuggirono al papa, che spese da sessantamila scudi a mantenerli, e abolì il tribunale della monarchia siciliana. Ecco poi Vittorio intitolato re di Sardegna dai principi; ma Clemente, allegando l’antica sovranità pontifizia sulle isole, pretese ne ricevesse da lui l’investitura; e perchè Vittorio negavasi a tal dipendenza, egli non investiva più i vescovi, e le sedi rimanevano sprovvedute.

In quelle controversie a Vittorio Amedeo servì la [176] penna di Alberto Radicati conte di Passerano, che lo incorava ad imitare Venezia nel reprimere il clero, al che più facilmente riuscirebbe egli despoto; e a tal uopo stese un’opera, tutta brio ed acrimonia, dove non solo la temporale, ma anche la spirituale autorità del pontefice impugna, vagheggiando l’indipendenza d’Enrico VIII in Inghilterra e del czar in Moscovia. Processato dalla Inquisizione in contumacia, e confiscatigli i beni, rifuggì in Inghilterra, donde avventò contro la Chiesa un Parallelo fra Maometto e Sosem (Mosè); una Storia succinta della professione sacerdotale antica, dedicata all’illustre e celebratissima setta degli spiriti forti, da un libero pensatore cristiano nazareno; il Racconto fedele e comico della religione de’ cannibali moderni, in cui l’autore dichiara i motivi che ebbe di rinunziare a tal idolatria abominevole. Nella Dissertazione sulla morte avendo difeso il suicidio, negata l’immortalità, e sostenuta la fatalità degli atti, fu processato; onde dall’Inghilterra passò in Francia, poi in Olanda, continuando a impugnare la Bibbia. Vuolsi che, avanti morire, in mano di ministri protestanti si ricredesse degli errori contro il cristianesimo.

Innocenzo XIII, di famiglia che sette pontefici aveva dati, nel breve suo regno aveva concesso l’investitura del reame a Carlo VI, dispensandolo dal divieto di unirvi la corona imperiale. Il successore Benedetto XIII, sant’uomo, cercò dar recapito alle dissensioni con Napoli e la Savoja; istituì che nel Regno le cause ecclesiastiche, salvo le maggiori, fossero decise in prima istanza dagli ordinarj, in seconda dagli arcivescovi, in supremo da un giudice ecclesiastico, nominato dal re con autorizzazione del papa, col che veniva a ristabilire di fatto la monarchia siciliana. Carlo VI per parte sua cedette Comacchio, che aveva occupata violentemente, [177] senza però riconoscere alcun nuovo diritto alla sede pontifizia.

Il vescovado di Torino rimaneva vacante e quasi tutti gli altri del Piemonte, uno solo n’era coperto in Sardegna; e Benedetto per via di frati fece intendere il desiderio d’un accomodamento, pel quale fu mandato il marchese d’Ormea. Fra le complicatissime pretensioni, fu mestieri tutta la scienza legale del Melarede, dello Zoppi, del Pensabene, e l’abilità dell’Ormea per vincere quelle ch’essi dichiaravano tergiversazioni de’ prelati e cupidigie[62]. Alfine la trentenne lite fu ricomposta con questo che la nomina de’ vescovadi e benefizj concistoriali fosse riconosciuta nel re, il quale avrebbe facoltà di presentare i soggetti per le metropolitane e di apporre il visto alle bolle romane in via di tolleranza; i frutti de’ vacanti si conservassero a vantaggio delle chiese o del successore; negli spogli valessero le antiche consuetudini; delle somme giacenti nella cassa ecclesiastica una parte restava a disposizione del papa, al quale verrebbero annui scudi mille cinquecento in compenso dei diritti sulle nomine. Nè l’Inquisizione nè la nunziatura furono ripristinate, e la giurisdizione si normeggiò sopra un’istruzione segreta.

Queste concessioni parvero eccessive al succeduto papa Clemente XII, che disdisse i concordati come lesivi all’autorità papale e mancanti dell’assenso del concistoro. Ma Carlo Emanuele III mostrossi risoluto e punì i vescovi che operassero altrimenti: e il marchese d’Ormea tenne saldo finchè si venne a nuovo componimento.

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Queste dispute intrecciavansi alla questione del giansenismo, della quale vedemmo la nascita. Versava sopra la natura della Grazia, se essa sola sia efficiente nelle azioni dell’uomo, o possa la volontà di questa cooperarvi; disapprovando poi ciò che non fosse di disciplina antica, considerava come favola pelagiana il limbo dei bambini non battezzati, invenzione scolastica il tesoro delle indulgenze e l’applicazione sua ai defunti; pretendeva rigoroso il ministero dei sacramenti, un solo altare in ciascuna chiesa, vulgare la liturgia, esclusi come superstiziosi alcuni nuovi atti di pietà, quale la devozione pel sacro Cuore.

Più che della Grazia efficace o sufficiente, e se esistessero o no in Giansenio le cinque proposizioni, condannate dalla santa sede; più degli altri cavilli intorno a cui si sperdette l’ingegno e si guastò la docilità di tanti Francesi, i nostri vi cercavano i limiti dell’autorità del papa, se infallibile o no ex cathedra, se superiore ai vescovi, e quali i suoi poteri a fronte della secolare autorità. Mentre però in Francia il giansenismo era una opposizione all’onnipotenza regia affinchè non assorbisse anche l’attività ecclesiastica, qui lusingava i principi a scapito di Roma: colà i parlamenti voleano emancipare i vescovi e la nazione da una podestà che chiamavano forestiera; i nostri armavansi contro l’unica italiana che potesse frenare la straniera, e scomponendo l’unità dell’episcopato lo sottoponevano al giogo principesco.

I contrasti sogliono avvivare, ma qui troppo spesso riducevansi a cavillazioni, ove due partiti, entrambi attaccati alla Chiesa, abbaruffavansi con un’ira che appena è compatibile contro i miscredenti. Vi si annestavano le controversie sulla morale lassa; e il rigorista domenicano Cóncina assaliva con ragioni ed asprezze i Gesuiti perchè permettevano i teatri e la cioccolata in digiuno, e il prestare ad interesse; e se destarono risa e scandalo [179] le sue dispute col Benzi sul tactus mammillaris, la sua Storia del probabilismo svegliò molti oppositori, quali Lechi, Cordara, Lagomarsini, Zaccaria, Gravina, Noceti, Nogarola[63]. Il lucchese Giannantonio Bianchi (-1758) contro il Giannone e i Gallicani (Della podestà e del governo della Chiesa) asserì la prerogativa papale. «I cinquanta motivi per indur gli eretici a venire alla Chiesa» del milanese Francesco Manzoni furono pubblicamente bruciati a Londra. Taddeo Caloschi assunse l’esame del protestantismo, ed era milanese come Nicolò Gavardi, autore d’un corso teologico, che confutò la Concordia del sacerdozio e l’impero di Pietro della Marca. Il Mansi arcivescovo di Lucca, che ristampò corretti e suppliti gli Annali del Baronio e la Raccolta de’ concilj del Labbe, fu bersagliato come probabilista. Tommaso Mamachi da Scio (-1792) stette fra’ più animosi papisti, e colla Mamachiana per chi vuole divertirsi (Napoli 1770) fu attaccato da Salvatore Spiriti, gran propugnatore del principato, o forse da Carlo Pecchio continuatore del Giannone. Monsignor Giovanni Marchetti da Empoli con più audacia che polso appuntò la storia del Fleury. A questo e a Natale Alessandro il domenicano Giuseppe Orsi (-1794) oppose una Storia ecclesiastica d’intenzione pontifizia e di stile fluido e purgato, ma prolisso[64]; chiari e giusti estratti porgendo di autori che più nessuno legge; e benchè avverso ai Gesuiti, meritò la porpora da Clemente XIII veneratore di essi.

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Il cremasco Scarpazza diè una Teologia morale italiana. Pietro Ballerini, fratello di Girolamo, buono storico e critico, scrisse di teologia e canonica in senso romano. Il veronese Patuzzi discusse sul probabilismo e probabiliorismo. Giovan Lorenzo Berti di Serravezza (De theologicis disciplinis) sostenendo la dottrina di sant’Agostino sulla Grazia, incontrò violenti oppositori che il tacciarono d’eretico. Giovanni Trombelli di Nonantola (-1784), traduttore de’ favolisti antichi, pubblicò una grand’opera sul culto de’ santi; e agli assalti virulenti del Kiesling di Lipsia rispose con tal forza e moderazione, che l’emulo il chiese amico. Marcello Eusebio Scotti napoletano, buon antiquario e predicatore sospetto, e autore d’un catechismo pe’ marinaj, nella quistione della chinea pubblicò la Monarchia universale de’ papi (1789), libello ove affolla le usurpazioni dei pontefici come causa di tutti i mali della Chiesa, flagella i Gesuiti, e intrepidamente sostiene l’assolutezza dei re, dai quali poi fu fatto appiccare nel 1799.

Altre quistioni dibattevansi fra i teologi, come quella dell’immacolata concezione; ed alcuni ordini cavallereschi proferivano il voto di spargere anche il proprio sangue e l’altrui per sostenerla; e avendo il Muratori disapprovato quel voto sanguinario, gli si levò incontro un rumore accannito.

Giuseppe Guerrieri cremasco amministrava frequentissimamente la comunione ad alcune divote durante la messa, ciò che la allungava con disturbo degli altri preti. Vietatogli, s’ostina che ciò sia inviolabile diritto dei fedeli; al silenzio perpetuo impostogli dal vescovo obbedisce come si fa a simili divieti, e cerca voti e moltiplica [181] ricorsi; onde il papa lo pose canonico a Busseto, e pubblicò un’enciclica (Certiores), ove dichiarava non esser necessario all’integrità della messa il comunicare anche i fedeli, bensì lodevole che il facciano senza disturbo d’altri atti di pietà.

Del resto la vicinanza di Roma e l’attenzione de’ vescovi toglieva si radicassero erronee dottrine o s’impugnassero le cattoliche. Il popolo, attaccato per abitudine alla religione de’ suoi padri, venerava sempre i pontefici; i suoi curati, gente alla buona, disapprovavano questi prelati novatori: pure il vedere in un paese raccomandata la devozione a qualche santo particolare, a una tal madonna, ai morti; e nella vicina volersi un solo altare, non tavolette dell’indulgenza, non il sacro cuore, non madonne vestite, e al confessionale stringere d’insoliti rigori, insinuava quel sentimento d’incertezza che nasce dal pendere fra due riverenze. I meno buoni ne traevano soggetto di riso e di epigrammi; i titoli di papista e giansenista erano rimbalzati come ingiurie e perciò accettati senza esame, a scredito degli uni e degli altri. Ma l’incredulità veniva più da vizj che da riflessione; come l’indipendenza del pensare era un libertinaggio di costumi piuttosto che il risultamento d’argomentazioni.

La Chiesa però potette consolarsi di segnalate conversioni: quali Hamann prussiano, detto il Mago del Nord; il grand’antiquario Winckelmann; lo Zoega danese, che fu tocco dalle grandezze di Roma «ove si trova la città e la campagna, l’antico e il moderno, la semplicità e la magnificenza, l’infinita varietà delle forme, dallo spettacolo della natura nuda affatto, fin alla miserabile ricchezza dell’arte sopraccarica senza scopo».

Gli Ordini religiosi produssero nuovi santi, fra’ quali Leonardo da Porto Maurizio (-1754), missionario fervoroso e fortunato, per cui opera fu posta la Via crucis nel Coliseo; il padre Matteo Ripa, che stabilì a Napoli il Collegio [182] Cinese, mentre la Propaganda continuava senza strepito a mandare i suoi fervorosi eroi in tutto il mondo. Domenico Olivieri nel 1713 istituiva a Genova i Missionarj suburbani per erudire il popolo della campagna. Giambattista Derossi genovese fu l’apostolo della plebe di Roma per le vie, le prigioni, gli spedali. Paolo della Croce d’Ovada istituì i Passionisti, per predicare al vulgo; Girolamo Franzini nel 1751 la Congregazione degli operaj evangelici per promuovere gli studj ecclesiastici e la morale coltura del popolo; Domenico Fiesco un conservatorio di fanciulle convertite. Giovanni Borghi, conosciuto in Roma per Tata Giovanni, muratore illetterato, presi in compassione i monelli abbandonati giorno e notte per le vie, li raccolse, nutrì, corresse con rustico ma benevolo rigore; e sdegnando la protezione che impastoja e i consigli di chi spaccia massime e manca di pratica, più di cento garzoni manteneva, educava ai mestieri, divertiva, senza teorie, ma col senso pratico e con quello che compie la scienza e spesso la supplisce, cioè il cuore.

Alfonso Liguori da Napoli (1696-1787) era figlio d’un capitano di galera, che de’ suoi schiavi turchi applicò uno a speciale servigio del figlio, e questo lo convertì e lo liberò. Alfonso entrò nel corpo degli avvocati, fra’ cui doveri contavasi quello di visitare gl’infermi; al che egli attendeva assiduamente; poi presto lasciati i trionfi del fôro per darsi a Dio, malgrado i parenti si vestì cherico a ventisei anni, subendo gli scherni del vulgo e di quelli che l’avevano ammirato ne’ dibattimenti. Fatto prete a trent’anni, mettesi alle prediche, disapprovando la ciarlataneria di quei che le improvvisano prima d’avere acquistato uno stile chiaro e popolare. Questo (al dir suo) è dato dall’arte, e lo stile semplice ed apostolico si conosce tanto meno quanto più si conosce la retorica. I Padri greci e latini sapevano adattarsi a tutti gli spiriti e maneggiarli secondo le circostanze, perchè erano [183] maestri di quell’arte. Via i periodi lunghi, le frasi poetiche e astratte, la monotonia di voce. Così egli pensava e faceva; e vedendo assistervi spesso un letterato satirico, gli chiese: — Preparate forse qualche satira? — Impossibile (rispose quello), voi non avete pretensione; non se n’aspetta il bello stile, nè si potrebbe criticarvi, dacchè voi obliate voi stesso e respingete tutti gli ornamenti dell’uomo per non predicare che Dio».

Austero a sè, mansueto ai peccatori; diceva non averne mai rimandato uno senza assoluzione, nè messo divario fra le qualità delle persone. Raccoglieva una folla di suoi penitenti, finchè l’autorità non gliel vietò; poi istruì specialmente alcuni, che divennero centri d’oratorj; e un Barbariccia, un Nardone, già paventati ladroni, radunavano molti artigiani all’orazione ed al catechismo. Compassionando la tanta gente abbandonata nelle pasture appennine, delibera provvedere alla loro salute, e stabilisce a Scala la nuova congregazione dei Redentoristi (1732), che dovesse adoprarsi più che colle parole, coll’esempio di mortificazioni austerissime. Teneva esercizj al clero, dal quale pretendeva molta pietà; propagava la devozione a Maria; poi fatto vescovo di Sant’Agata de’ Goti, moltiplicò opere di pietà e di santificazione, diffondendo lo spirito di devozione tra i fedeli, la sapienza pratica tra i sacerdoti. Esaminate per quindici anni le opinioni altrui sui varj punti della teologia morale, sulle orme del Busenbaum ne stese un corso compiuto ove procura l’esatta osservanza de’ precetti di Dio e della Chiesa, senz’aggiungere altri obblighi; e quanto al probabilismo, pone che, di due opinioni entrambe approvate, ognuno può scegliersi la più austera, ma non obbligarvi gli altri.

Pier Francesco Orsini già da fanciullo mostrò spiegatissima vocazione per lo stato ecclesiastico, invano contrastatogli dai parenti; e gran devozione a san Tommaso e a san Vincenzo Ferreri: accettò il vescovado di [184] Siponto perchè povero, e fu consolato di vedere entrare nel chiostro madre, sorella e due nipoti. A Benevento rimase sotto le ruine d’un famoso tremuoto; e attribuendo a san Filippo Neri l’esserne campato, crebbe di devozione e austerità, stabilì la dottrina cristiana alla domenica dividendo gli scolari in decine, ciascuna istruita da uno di essi, mutuo insegnamento. Come domenicano avvezzo ad obbedire, rassegnossi ad accettare la tiara col nome di Benedetto XIII (1724), e non depose mai le abitudini del chiostro; non guardie o lancie spezzate, nè suntuosità; camera monastica con scranne di paglia, immagini di carta, crocifisso di legno; un semplice cappellano l’accompagnava a visitare spedali e chiese, per via recitando orazioni; spesso desinava co’ suoi frati alla Minerva senza distinzione di cibo, e baciava la mano del padre superiore; non soffrì che i preti se gl’inginocchiassero davanti; faceva da vescovo e da parroco, in coro, in confessionale, a conferire la cresima e gli ordini minori; a vantaggio de’ poveri adoprava i regali e le rendite, e avrebbe venduto i palagi e se stesso. Al prediletto suo Benevento volle condursi in modesta solennità, portando molti arredi da donare alle chiese, e denari pei poveri: il che saputo, due Barbareschi tentarono sorprenderlo, ma fallito il colpo, si sfogarono sui costieri. Ed egli consumò quel viaggio in ascoltare bisognosi, consacrare chiese, alloggiando ne’ conventi da semplice frate. Vietò fin colla galera il lotto, fonte di superstizioni e pericoloso all’onestà. Santificò Gregorio VII, ordinando se ne recitasse l’uffizio; al che la Corte di Vienna ed altre si opposero di forza. Agli Orsini suoi nipoti non concesse potere, ma sciaguratamente si abbandonò a famigliari suoi, menati da Benevento, e nominatamente al cardinale Coscia, che lo trasse in molti errori. E però quando morì, il popolo l’ebbe per santo, e credette ottener grazie dalla sua intercessione, ma [185] insieme infuriò contro i Beneventani e il Coscia, che dicevano impinguato dal disanguare il paese. Il seguente pontefice molti di essi punì di multe e carcere, e al cardinale tolse il voto e l’intervenire alle congregazioni; e perchè ricusò di rinunziare l’arcivescovado di Benevento, fece continuarne le procedure, condannandolo a dieci anni in Castello e a riversare ducentomila scudi. Ma buoni attestati provarono che era poverissimo.

Nel tempestosissimo conclave succeduto (1736), col partito imperiale e col franco-ispano apparve per la prima volta il savojardo, e si moltiplicarono le esclusioni, finchè Lorenzo Corsini fiorentino fu suffragato col nome di Clemente XII. Era giunto ai settantanove anni senza conoscere affari; quasi cieco, ma retto di mente e di volontà, fermò i suoi pensieri a farsi autore di concordia fra’ principi disputantisi i brani dell’Italia, e schermire i diritti della Sede pontifizia d’ogn’onde minacciati. Proseguì l’opera del suo omonimo facendo la facciata della basilica lateranese e la fontana di Trevi, abbellendo il Vaticano e arricchendone le collezioni; comprò per sessantasei mila scudi e pose in Campidoglio il museo del cardinale Alessandro Albani, prezioso di statue antiche; profuse a soccorrere i miseri, principalmente nel terribile incendio che scoppiò a Ripetta il 6 maggio del 1734.

Oltre il litigio rinnovato colla Savoja, un più chiassoso n’ebbe Clemente per Parma, che, malgrado le proteste di lui, era stata data dai re al fortunato don Carlo, il quale inoltre pretendeva Castro e Ronciglione. Sopra ciascuna controversia fioccavano scritture, e il puntiglio e la parzialità traevano ad esagerare, con detrimento di quella parte che si regge unicamente sulla riverenza.

Per dargli un successore sei mesi durò la lotta, i zelanti opponendosi all’eletto dalle Potenze, finchè proclamarono quello cui meno si pensava, Prospero Lambertini (1740), che assunse il nome di Benedetto XIV. Aveva [186] sessantacinque anni, raccomandato non tanto per austeri costumi, quanto per buone scritture, scienza canonica, sovrattutto umor piacevole e condiscendenza colle idee del tempo. Alieno dal fasto, le proprie entrate ed i regali profondeva ai poveri; e alla camera indebitata provvide con economie, principiando dal proprio trattamento. Aveva un solo nipote senatore bolognese, e gli proibì di venire a Roma. Dichiarò non promoverebbe se non chi lo meritasse per ingegno e costumi, e istituì una congregazione per esaminare i nuovi vescovi. Perchè il clero non restasse addietro negli avanzamenti del secolo, fondò a Roma quattro accademie, per le antichità romane, per le cristiane, per la storia della Chiesa e de’ concilj, pel diritto canonico e la liturgia; inoltre un museo cristiano; comprò per la Vaticana la biblioteca Ottobuoni, ricca di tremila trecento manoscritti; alla Sapienza pose cattedre di chimica e matematica, e in Campidoglio una di pittura e scultura; fece misurare due gradi del meridiano. Regolò i diritti delle chiese d’Oriente largheggiando di concessioni; represse le superstizioni, e tolse appiglio ai Protestanti emanando prudenti regole per la canonizzazione, e con quelle decretò gli altari ad Alessandro Sauli, Camillo De Lellis, Girolamo Miani, Giuseppe Calasanzio, Francesca da Chantal, Giuseppe da Copertino, Fedele da Sigmaringen, Giuseppe da Leonessa, Caterina De Ricci e alla buona regina Elisabetta; restrinse il numero de’ giorni festivi; rinnovò le antiche condanne contro il duello; sistemò la giustizia in Roma, e tra questa e le provincie svincolò il commercio[65]. Ingiungeva [187] di non mettere all’Indice un’opera d’autore cattolico e favorevole alla Chiesa se prima egli non si chiamasse ad esporre le sue ragioni e difese. Quanto ai diritti pontifizj, venuto su in mezzo alle controversie, e forse, come bolognese, avendoli in minore concetto, inchinava a sacrificarli al bene della pace. Si riconciliò colla Spagna, cedendole la collazione di piccoli benefizj, col che svantaggiò di trentaquattro mila scudi annui la dataria; alla quale però le dispense matrimoniali di colà fruttavano ancora un milione e mezzo. Diede savie norme per la censura dei libri (tom. X, pag. 501).

Tempi difficili correvano pel papato. Le potenze preponderanti, Russia, Prussia, Inghilterra, erano eretiche; in Polonia s’istituivano vescovi greci; in Germania, non meno che la parte protestante, osteggiavano alle pretendenze romane i seguaci del finto Febronio; gl’Inglesi impacciavano le missioni nelle colonie; ne’ paesi stessi cattolici estendevasi un’orgogliosa e servile incredulità, [188] e i principi volevano più sempre stringere il papa ai loro voleri. Il re di Portogallo pretende si faccia cardinale il Bichi nunzio apostolico a Lisbona prima di richiamarlo; fin il mitissimo Benedetto XIV trova strano questo inceppare un principe nel richiamo de’ proprj ambasciadori, e ricusa; ma quel re leva la propria suntuosa ambasciata da Roma (1728), impedisce a’ suoi sudditi di metter piede negli Stati della Chiesa, e manda via dai suoi ogni Italiano.

L’insaziabile Elisabetta Farnese, non avendo più nessuna corona da dare al terzo suo genito, dal marito il fa nominare all’arcivescovado di Toledo, che è il primo di Spagna, ed avea sette anni. Clemente XII negò le bolle, ma trovandosi incalzato d’ogni parte e tutti i suoi dispacci intercetti e turpemente aperti, si rassegnò, esprimendo che «quando l’infante toccasse l’età canonica, sarebbe confermato arcivescovo, se n’avesse la capacità richiesta dai canoni». Questa clausola parve offensiva, e il papa la cancellò, per colmo lo insignì della porpora; eppure la Corte di Madrid non ne fu satolla, e chiese che all’arcivescovado di Toledo, fruttante ducentomila scudi, s’unisse quel di Siviglia ricco di centomila; e il papa consentì. Poi il re di Spagna volle licenza d’imporre la decima su tutti i beni ecclesiastici; e Benedetto XIV concesse, raccomandando a voce «non se ne servisse per turbare la quiete de’ principi cattolici». Molti capitoli s’opposero; ma l’Inquisizione punì quei che ardivano intaccare una concessione della santa Sede, e le armi regie li ridussero all’obbedienza. Questo sistema di condiscendenza parve sciagurato a Carlo Rezzonico veneziano, divenuto papa Clemente XIII (1758), e volle sottrarsene; ma allora appunto i re si accordarono a chiedere l’abolizione della Compagnia di Gesù.

Questa nè nacque da Italiani, nè ebbe qui le più clamorose vicende; pure tiene gran luogo nella storia [189] nostra perchè il generale ne risedeva a Roma, e di bei nomi qui segnò ogni parte dello scibile. Accorti ne’ migliori spedienti, i Gesuiti si erano tratta in mano l’educazione, e nati nel fiore dell’urbanità, pensarono mostrarsi pari al secolo colla bella letteratura, coi modi gentili, con collegi provveduti d’ogni comodità, con edifizj splendidi, con osservatorj e teatri e villeggiature, sicchè la gioventù ne uscisse educata alle arti cavalleresche, e i padri stessi, quantunque regolati in un viver sobrio e fin austero, nulla trovassero di straordinario quando passavano nelle Corti. Le loro scuole sono di amplissime lodi retribuite fin da pensatori avversi, e più ancora dalla confidenza di tanti parenti, sebbene venissero tacciati di dare una coltura d’apparato più che di fondo, d’insinuare colle massime religiose un fare melanconicamente contegnoso, una docilità illimitata, che sgagliardiva le volontà.

Dediti alla vita operosa, non si proposero lunghe salmodie, rigide penitenze, debilitanti macerazioni; nè tampoco abito diverso, potendo adottare quello del paese ove andavano; ed avendo tante mansioni, trovavano come collocare opportunamente i varj ingegni, questo al confessionale, quello al pergamo, uno nelle missioni, un nella scuola, uno a fianco ai re, l’altro nella capanna del selvaggio; e quale astronomo, o poeta, o controversista, o storico. Quanti illustri Gesuiti non mentovammo noi! ma quanti più oscuramente e più santamente meritarono nella cura delle anime, negli ospedali, nella predicazione, nelle missioni, in beneficenze che non dovrebbero tacersi quando si rinfaccia loro il mestare negli affari mondani e trescar alle Corti e ne’ palazzi!

Quel distacco da ogni affezione mondana fino a posporre e parenti e patria all’interesse dell’Ordine, considerato come interesse della religione; quella secretezza [190] impenetrabile; quella cieca sommessione, che gerarchicamente legava l’infimo laico col generale supremo, in tutto il mondo e in qualunque grado della società, ispiravano un arcano terrore. Scopo della loro istituzione era stato di combattere l’eresia mediante i libri e l’apostolato, e toglierle pretesto mediante la riforma morale. Chi dunque vedea libertà nel protestantismo, li considerò come rappresentanti la resistenza e la repulsione. Stava in capo ai loro statuti il sostenere in ogni guisa l’autorità del pontificato, sicchè quelli che caldeggiavano le pretensioni dei principi li considerarono come antimonarchici, il che, ne’ concetti d’allora, pareva illiberalità. Un consorzievole ricambio di lodi; le controversie incalorite per punti non solo teologici ma scientifici o politici e letterarj, anche contro gli scrittori più cari al paese[66]; quel tacciare arditamente di maligni, di empj, di eretici fin persone d’intenzioni rettissime; la preferenza che ottenevano i loro collegi, cresceva ad essi gl’invidiosi, cioè i nemici, fin tra gli altri Ordini che eclissavano.

Vedendo il mondo farsi sempre più alieno dalle pratiche devote, essi parvero ricordare più la misericordia del Figlio che la giustizia del Padre, e nella irresolubile quistione della Grazia propendettero alla libertà, pensando che l’uomo fosse dalla Grazia ajutato anche per risorgere. Perchè mitigavano le astinenze, e tappezzavano, come si disse, di velluto la strada del paradiso, [191] condiscendendo in tutto ciò che non ledesse la legge, furono tacciati di lassa morale dai contemporanei di Figaro e del Casti, quasi trovassero scusa ai misfatti, insegnassero l’arte di mentire cogli equivoci e con restrizioni mentali.

E appunto come lassi gli osteggiavano i Giansenisti, che invece di seguire il progresso come quelli, richiamavano continuo alla primitiva semplicità della Chiesa.

Fra i Germani conservatisi cattolici avea levato rumore l’opera di Gian Nicola di Hontheim, comparsa il 1763 col falso nome di Febronio, sullo stato presente della Chiesa e la legittima podestà del pontefice: libro mal fatto, ma ch’ebbe la fortuna di arrivare a tempo, quando cioè i principi non trovavansi a fare di meglio che disturbare il papa. Stabiliva che l’infallibilità non sia attribuita a una persona, ma alla Chiesa intera, la quale la esercita per via de’ suoi ministri: primo fra questi essere il vescovo di Roma, ma la Chiesa potrebbe trasferire la supremazia in un altro: ad esso competono le prerogative senza di cui l’unità si scioglierebbe, non già le accidentali di nominare vescovi, trasferirli, o decidere in appello le loro sentenze. L’opera fu tradotta in italiano e applaudita; Roma la condannò: Pietro Ballerini veronese nel Primato e infallibilità del papa, il padre Zaccaria nell’Antifebronio, il Mamachi ed altri l’impugnarono; ma l’autore rispose con quella franchezza che simula l’erudizione, pur costantemente professandosi cattolico: e i nostri si trovarono divisi in due campi.

Tra questi fraterni eppur accanniti litigj dilatavasi quel che si chiamava spirito forte, o filosofia. Scienze e lettere, considerato come carcere il nido ove le avea fomentate la religione, si diedero aspetto di libertà coll’osteggiare i principj, su cui fin allora s’era regolato il mondo. La Francia, dedotto quest’andazzo dall’Inghilterra, [192] lo comunicò all’Europa tutta con quella sua speciale facoltà divulgatrice; e col lampo del bello spirito che abbaglia la folla, col despotismo dell’epigramma che opprime chi ha cuore e intelligenza più che causticità; e con raziocinj zoppicanti perchè non appoggiati all’autorità insegnò a negare, ad abbattere, a ridere di ciò che erasi venerato; non che compiangere l’ignoranza de’ padri, fece riguardare condizione d’ogni progresso il disgiungersi dal passato, espungere quanto trascende l’umana intelligenza e non si può brancicare e numerare; chiamar pregiudizio quanto non risponde all’arida ragione; uccidere l’entusiasmo col decomporre i più begli atti in interesse, secrezione, accidente: laonde fu ridotto l’uomo a materia, le sue facoltà alla sensazione e a trasformazioni di questa secondo un sensismo che getta una chiarezza superficiale sopra una grossolana apparenza scientifica. Con miscredenza fredda e coll’aria d’indipendenza che lusinga gli spiriti mediocri, i quali sono sempre i più, sillogizzava contro le verità che meglio consolano il cuore e tranquillano lo spirito, volendo guarir l’anime dal desiderio dell’immortalità e dalle aspirazioni sovrumane; e con alcuni scendeva fino a negar Dio, coi più negava la provvidenza, la rivelazione, il mediatore, le postume retribuzioni; rideva del culto, dei preti, degl’ignoranti che ancor vi credevano; e allo spirito individuale immolando l’autorità e la storia, pretendeva innovare il mondo secondo certi canoni prestabiliti, indipendenti da luogo e tempo. Personavasi quella guerra in Voltaire, che col riso, coll’ironia, coll’intrepida calunnia conculcava le benemerenze e le speranze umane e le cordiali ispirazioni, all’entusiasmo sostituiva il fischio, alla fede i dubbj, all’esame la leggerezza; e ad ottanta anni potè a ragione esclamare, — Io ho fatto più che Lutero e Calvino». Del suo spirito si animò l’Enciclopedia, [193] immensa opera dove i primarj ingegni tolsero a formar l’inventario dell’umano sapere, per gloriarlo delle conquiste fatte e additargli le da farsi; ma sempre nel proposito di eliminare l’anima dal corpo, il creatore dalla creazione.

Ripigliata con maggiore risolutezza l’opera de’ riformatori religiosi, come questi un tempo, così ora i filosofi si trovarono a fronte i Gesuiti, e compresero ch’era forza passare sul loro cadavere per abbattere poi gli altri Ordini, indi la gerarchia, alfine quella religione universale, ch’essi denominavano la Infame.

Giansenisti e filosofi erano opposti fra loro, quelli volendo l’austerità, questi l’epicureismo; quelli ricondurre la religione al fervore de’ primi secoli, questi bersagliarla d’epigrammi e di franca menzogna; quelli appoggiati sull’autorità, questi rinneganti il passato e ogni fede per attenersi alla pura ragione. In due cose però s’accordavano; nello sminuire la primazia del papa, e nel voler a terra i Gesuiti.

Di tali elementi si formò la procella contro di questi. Moltissimi libri uscirono a combatterli e deriderli, e uno de’ più violenti la Repubblica de’ Solipsi d’un loro disertore, Clemente Scotto piacentino, il quale fingendo darvi consiglj, li sferza con una virulenza, che non fu superata neppure dai nostri contemporanei. Le maldicenze aguzzano l’appetito; e sarebbe difetto di gusto l’esaminare se vere; accettate con leggerezza, sono adoperate con asseveranza.

I Gesuiti medesimi, come è solito nelle crisi, aggravarono la propria situazione. Sperando acquistare al cristianesimo i vastissimi imperi della Cina e del Malabar, accondiscesero a tollerare alcuni riti, e dare benevola interpretazione a certe superstizioni: i monaci d’altri Ordini ne gli accusarono, il pontefice li dichiarò errati, ed essi per obbedirlo dovettero rassegnarsi ad [194] abbandonare missioni per ducento anni con tanto zelo e tanto sangue coltivate. Nel Paraguai voleano introdurre una specie di repubblica patriarcale, che, se ne togli la religione, molto arieggiava ai falansteri de’ moderni Socialisti, ove lavoro regolato e con gioja, comuni i possessi, e tutti gli atti disposti ad arbitrio dei capi: ma si disse con ciò volessero iniziare una repubblica universale, sottraendo il mondo alla forza armata dei principi.

In un’età che parlava tanto di commercio, profittarono essi pure delle loro colonie per cavarne generi, di cui faceano traffico; ne’ collegi magazzinavano droghe; a Macerata tesseano panno; giravano cambiali da collegio a collegio; e l’età che boffonchiava la infingardaggine de’ Certosini e de’ Cistercensi o la sudiceria de’ Zoccolanti, trovò abominevole l’attività di questi e il loro vivere di mondo. Se ne indispettirono i Gesuiti, e nelle tante apologie, che principalmente stampavansi dallo Zatta a Venezia, mentre dal Bettinelli uscivano le diatribe, provaronsi d’affrontare il pericolo provocando e minacciando[67]. I re intanto, che, sull’esempio di Luigi XIV, voleano accentrare nelle proprie mani tutta l’autorità, dispersa in prima fra i corpi dello Stato, mal gradivano questa Società che l’estensione e l’accordo sottraevano all’arbitrio loro. Inoltre avendo dissestate le finanze, ustolavano alle immense ricchezze possedute da quest’Ordine, al quale dalla California arrivavano, dicevasi, barili d’oro, verghe d’oro, pani di cioccolata d’oro, sicchè cumulavano nelle loro cave un importo di dugencinquanta milioni.

Questi rancori bollivano viepiù fuori d’Italia, e massime [195] nel Portogallo e nella Spagna, dove i Gesuiti erano guardati come emuli de’ lucri coloniali; nella Francia, ove li perseguitavano da una parte i filosofi, dall’altra i parlamenti, che scaduti d’ingerenza e di credito, speravano recuperare col propugnare la regia prerogativa, blandire gl’istinti malevoli, e sfoggiare coraggio dove non era pericolo. La più grave imputazione che essi affiggevano ai Gesuiti, la meno aspettata dai nostri contemporanei, era il poco rispetto ai re; ne’ loro libri professare che un tiranno può disobbedirsi non solo, ma fino deporsi e uccidersi; canone che pareva antisociale ed inumano. Essendosi pertanto attentato alla vita di Giuseppe re di Portogallo, e per fame ammutinato il popolo di Madrid, dell’un fatto e dell’altro si versò la colpa sui Gesuiti. Un Malacrida di Mercallo nel Comasco, già missionario nel Brasile, a Lisbona si era abbandonato a mistici delirj, pretendendo sapere per rivelazione che vi sarebbero tre anticristi, padre, figlio, nipote, il qual ultimo nascerebbe a Milano il 1920 da un frate e una monaca, sposerebbe Proserpina furia infernale, e simili vaneggiamenti[68]; asseriva che sant’Anna, ancora in seno alla madre, piangeva, e per compassione faceva piangere i cherubini e serafini che le teneano compagnia; e ne deduceva una specie di quietismo, per cui il corpo non restava contaminato da qualsiasi impurità, purchè lo spirito assorto non vi [196] accondiscendesse. Il popolo l’aveva per santo; anche alla Corte era venerato: pure di settantatre anni fu posto a processo, e come eresiarca condannato al fuoco, a capo di cinquantadue, imputati di simili delitti. Stupendo tema ai filosofi per declamare contro l’intolleranza della Chiesa, quando appunto questa era la battuta!

Quel Carlo III che lodammo restauratore del regno di Napoli, passato a quello di Spagna divenne accannitissimo contro i Gesuiti; e per motivi che teneva chiusi nell’augusto suo cuore, ne stivò da seimila in fondo a bastimenti, e gettolli a Civitavecchia. Clemente XIII reclamò contro questo sbarco nè tampoco annunziatogli, e ricusò riceverli; ricusò Genova, ricusò Livorno, onde molti mesi essi errarono tra la fame e il caldo; finchè il papa s’indusse ad accettarli, dalla Spagna impetrando loro una tenue pensione.

Per una felice ispirazione di Carlo, le Corti borboniche aveano stretto fra loro un patto di famiglia per reciproca difesa e offesa, che riducendo a unità la politica di tutte, avrebbe ad esse assicurato la preponderanza contro l’Inghilterra, e rimossa l’occasione di guerre. Il bel concetto ebbe il solo meschino risultato di accordarle nel muovere guerra ai Gesuiti, e non solo estruderli, ma ottenerne l’abolizione. Izze donnesche, intrighi ufficiali, malignità filosofiche si congiurarono a tal fine, mettendo in pratica la dottrina di cui incolpavansi i Gesuiti, cioè che il fine giustifichi i mezzi: il parlamento parigino condannò come antipolitici molti loro libri, fra’ quali il Bellarmino e il Compendio di storia d’Orazio Torsellini; e dichiarò che i Gesuiti erano «notoriamente colpevoli di avere insegnato in tutti i tempi e perseverantemente, con approvazione de’ loro superiori e generali, la simonia, la bestemmia, il sacrilegio, il malefizio, l’astrologia, l’irreligione, l’idolatria, [197] la superstizione, l’impudicizia, lo spergiuro, il falso testimonio, la prevaricazione di giudici, il furto, il parricidio, l’omicidio, il suicidio, il regicidio...; d’aver favoreggiato l’arianismo, il socinismo, il sabellianismo, il nestorianismo..., i Luterani, i Calvinisti ed altri novatori del XVI secolo..., di riprodurre l’eresia di Wicleff, e gli errori di Fichonio, di Pelagio, de’ Semipelagiani, di Cassiano, di Fausto, de’ Marsigliesi; di cadere nell’empietà de’ Montanisti, e insegnare una dottrina ingiuriosa ai santi Padri, agli Apostoli, ad Abramo»[69].

Ribaldi di tal fatta qual legge civile non avrebbe condannati? La clemenza di quei re s’accontentò di espellerli dal territorio francese (1764), poi anche dalla Corsica quando la occuparono; ed affollatili ne’ vascelli, sotto uno stemperato calore li gittarono a Genova; e preti e frati risero al colpo toccato dai possenti emuli, non accorgendosi dove rimbalzasse.

Molti Gesuiti spagnuoli vennero allora ad onorare colla loro dottrina l’Italia; alcuni anche ne adottarono la lingua, e meritarono posto fra i nostri scrittori. Il padre De l’Isla autore del frà Gerundio (1781), il romanzo più ingegnoso dopo il don Chisciotte; Saverio Lampillas che difese la letteratura spagnuola contro il Tiraboschi; [198] Arteaga che diede la Rivoluzione del teatro musicale; Andres che scrisse l’Origine e progressi d’ogni letteratura; il Tentori che fece il Saggio della storia civile, politica ed ecclesiastica della repubblica di Venezia; Antonio Eximeno, autore dell’Origine e regole della musica; Vincenzo Requeno, del Ristabilimento dell’arte armonica; Clavigero, d’una preziosa Storia del Messico e della California; Hervas, del Catalogo delle lingue, felice tentativo di filologia comparata; e Serano, e Sherlock, e il portoghese Azevedo, che oltre collaborare a Benedetto XIV, scrisse Venetæ urbis descriptio in dodici canti, e fece una scelta di sonetti traducendoli in esametri latini.

Anche fra i Gesuiti italiani contavansi allora dei primi in ogni scienza; il Tiraboschi, il Bettinelli, il Quadrio, il Roberti, lo Zaccaria, il Cordara, il Granelli, de’ quali parliamo altrove; il Baruffaldi e Lorenzo Barotti storici di Ferrara; Giannantonio Volpi che, a tacer altro, fece il Vetus Latium profanum et sacrum; il mantovano Gaetano Braganza (-1812), che pubblicò il Modo di far le iscrizioni, l’Eloquenza ridotta alla pratica, la Poesia in ajuto alla prosa; Gioachino Gallardi da Carpi bibliotecario di Modena, che coadjuvò allo Zaccaria nella Storia letteraria, e fece molti opuscoli eruditi; Arcangelo Contucci da Montepulciano (-1768) che illustrò i bronzi del museo Kircheriano, e di sua dottrina facea stupire il Muratori, il Maffei, il Barthélemy, e dal Winckelmann era qualificato «uomo di gran sapere, e alieno dalla smania di essere autore, contentandosi di comunicare ciò che ha e che sa»: Mauro Boni genovese (-1817) archeologo, principale collaboratore al Dizionario biografico di Bassano, che pubblicò le opere del Cordara e del Metastasio, tradusse con larghi supplementi il Catalogo degli autori classici sacri e profani, greci e latini di Harwood (1793), la serie della moneta romana, e [199] diede un quadro critico tipografico di opere sulla storia letteraria e tipografica, lettere sui primi libri a stampa d’alcune città e terre dell’Italia superiore (1794), dove vorrebbe che le prime edizioni di Venezia non fossero di Giovanni da Spira, opinione confutatagli da Denis, Suffragium pro Johanne de Spira.

Fra i veneti citeremo Luigi Canonici, che aveva raccolto ben quattromila edizioni della Bibbia, medaglie e crocifissi; Giacomo Coleti e il friulano Farlati autori dell’Illyricum sacrum (1773); Cristoforo Ridulfi, che tradusse l’Iliade e Anacreonte (-1773); il Rubbi raccoglitore d’un Parnaso non senza gusto; Giovan Antonio Bassani oratore e poeta; il bresciano Orazio Burgundio poeta latino; Pietro Paletta oratore e storico delle eresie; Carlo Borgo vicentino, che fece l’analisi ed esame ragionato dell’arte delle fortificazioni e difesa delle piazze, ove nelle cifra parlante e segni indica il linguaggio telegrafico; Jacopo Belgrado friulano, che scrisse dell’uso delle due analisi ne’ problemi fisici e la teoria della vite d’Archimede. Il Giullari, forbito lodatore delle donne celebri della santa nazione, onorava Verona, come gli altri oratori Masotti, Martinelli, Avesani, e il Pellegrini oratore delle Corti, come delle campagne era il Trento. E fama grande ottennero sui pulpiti il Vio e lo Scardua veneziani; il Saracinelli, fruttuoso colle parole non meno che coll’esempio; il comasco Venini, oratore creduto inferiore soltanto al Segneri; il Lorenzi che cantò la Coltivazione dei monti. Aggiungiamo l’eruditissimo Troilo, il Zucconi lodatissimo spositore della sacra scrittura, il Giorgi abile scrittore non men che oratore, Alfonso Muzzarelli autore di poesie sacre, dell’anno di Maria, e di molte controversie sulla ricchezza del clero, dell’Emilio disingannato, e del Buon uso della logica in materia di religione, lavoro che meriterebbe di essere oggi divulgato.

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Quel Collegio Romano de’ Gesuiti, da cui uscirono quattro papi e novantasei cardinali, non era degenerato; e Stoppini, Gravina, Stefanucci onoravano le cattedre di teologia, di sacra scrittura, di diritto canonico; come quelle di belle lettere Lagomarsini, Asclepi, Lanzi, Morcelli principe degli epigrafisti. Aggiungiamo il controversista Noghera valtellinese, l’economista Gemelli piemontese, i gran matematici Riccati e Belgrado di Udine, Ximenes di Firenze, l’idraulico Lechi milanese, l’astronomo Boscovich raguseo, co’ famosi latinisti suoi compatrioti Cunich, Zamagna e Stay, divenuto segretario de’ brevi di papa Lambertini. L’astronomo siciliano Ayala dappoi si diede al diritto pubblico, e fra altro scrisse della libertà ed eguaglianza. Intanto un padre Fidoti era penetrato nel Giappone e mortovi nelle prigioni; un padre Simonelli, dotto matematico, fioriva alla reggia della Cocincina; un padre Castiglioni milanese e un padre Candia piemontese morivano missionando al Tong-king; e il padre Pavone nel Malabar, dove ancor più illustrossi il padre Lichetta con sei altri napoletani: il padre Eusebio da Cittadella morì medico della corte di Pe-king nel 1785.

Fra tanti libri che si stamparono su quell’evento, perchè nessuno si brigò d’una prova che sarebbe stata di qualche peso, il catalogo de’ personaggi che allora insignivano la Compagnia? nè io ho materiali per compierlo neppure riguardo all’Italia: ma il Bettinelli ne accenna di molti «a me cari maestri (dice colle sue solite sdolcinature), mecenati, amici, e ciò non per vanità, essendo tutto il mio merito nell’abito di gesuita che mi faceva onore, come pure alle corti e alle accademie mel fece; senza cui io era nulla (il giura la mia coscienza), o uom del vulgo, come dice il Petrarca»[70].

[201]

Tanto meno ragione sentivansi dunque gli Italiani d’odiare o sprezzare quella Compagnia: ma che giova la riverenza popolare quando i pregiudizj letterarj e le avversioni uffiziali vogliono ostentare indipendenza coll’obbedire? E per obbedire agli ordini di Spagna in forza del patto di famiglia, cominciò qui la persecuzione.

Carlo III, passando giovinetto da Pisa, vi avea conosciuto il professore Bernardo Tanucci (1698-1783), e fatto re di Napoli, lo chiamò a capo della giustizia e dei tribunali speciali contro gl’inconfidenti, poi presidente del ministero; da lui si fece consigliare tutti que’ provvedimenti parte buoni, parte cattivi, sempre a caso e privi di quell’andamento regolare che ad ogni rovina fa precedere una riedificazione. Costui tenne sempre del cavillo curialesco, e l’innestò al Governo napoletano anche per l’avvenire. Infarinato delle teoriche di moda, irremovibile dai divisamenti come chi non se li propose per raziocinio ma per altrui imitazione, despotico a segno da non tener conto della storia e dell’indole nazionale, amico del re non del paese a cui era straniero, anzichè rinvigorirla col moderarla esagerava la potenza regia secondo la pedantesca irreligiosità d’allora. Al fanciullo re Ferdinando fece sin dal confessore mettere scrupolo del disobbedire al padre, delle cui intenzioni egli era depositario; per tal modo resoselo ligio, portollo a interdire dal regno la costituzione Apostolicam colla pena di trecento ducati a chi la possedesse; violaronsi le case e le lettere per iscoprirne, e parve trionfo l’averne côlte ventisei copie in un giorno; a molti libraj in grazia di ciò fu levata la patente, chiusa la bottega, inflitta la prigione per sei mesi. Ad imitazione di Francia, egli fece esaminare se gli statuti de’ Gesuiti contenessero cosa repugnante al potere regio; ad imitazione di Spagna fece dal re pubblicare un editto (1767) ove «usando dell’autorità suprema indipendente che tiene immediatamente [202] da Dio, inseparabilmente unita per l’onnipotenza di lui alla sovranità», escluse i Gesuiti dalle Due Sicilie, e nottetempo ne fece invadere le celle ed espellerne i padri, che forse erano quattrocento, senz’altro che l’abito, e sotto scorta di soldati tradurre al confine pontifizio, e quivi deposti dalle carrozze, intimare guaj se più mettessero piede nello Stato; altri censettantacinque furono sbarcati in un canneto presso Terracina[71].

Quel che il Tanucci a Napoli, faceva a Parma il francese Dutillot, ministro e tutto del duca Ferdinando. Aveva egli tratto il suo padrone a cozzo colla Corte romana, cominciando a negarle il tributo per l’investitura (1764); si limitarono le liberalità de’ fedeli verso la Chiesa; la manomorta non potesse acquistare la piena proprietà de’ beni sodi; e se gliene venissero, doveano conferirsi ad un laico o vendersi entro l’anno, se pure non fossero per ospedali e case di esposti; chi professi voti monastici, s’intenda rinunziare a qualunque bene ed eredità occasionale, salva una rendita a vita; gli stabili acquistati dopo l’ultimo catasto dal 1588 contribuiscano all’imposta.

Ne fece un capo grosso Roma, e più per la prammatica del 16 gennajo 1768, ove ai sudditi del duca era disdetto recar liti a tribunale forestiero, e nominatamente al romano, nè sollecitare presso autorità straniere pensioni ecclesiastiche, commende, dignità, a cui fosse annessa giurisdizione o prerogativa; i benefizj con cura d’anime o senza, pensioni, badie, dignità nello Stato portanti giurisdizione, non possano conferirsi che a sudditi e col consenso del duca; verun ordine o nomina [203] o giudizio o scritto proveniente da Roma valga, se non coll’exequatur del duca.

Clemente XIII pronunziò nulli questi atti e temerarj, come emanati da autorità incompetente; scomunicava quelli che vi avessero parte, in modo da non poterne essere assolti che dal papa stesso o in articolo di morte; e negli atti da ciò nominava nostri i ducati di Parma e Piacenza (1769). Ferdinando proibì a’ suoi sudditi di credere che espressioni e principj siffatti emanassero da pontefice così santo e giudizioso; trasse dagli archivj le prove dell’indipendenza del suo dominio; fece arrestare i Gesuiti e tradurli ai confini dello Stato pontifizio, con divieto perfino di attraversare il suo; abolì l’Inquisizione e molti monasteri, gli altri raffazzonò. Il parlamento di Parigi dichiarò esso monitorio ingiusto e repugnante alla sovranità: le corti borboniche, collegate col Patto di famiglia, sposarono la causa del duca minacciando di occupare Avignone e il contado Venesino, e Benevento. Francesco III di Modena l’imitò, abolendo le immunità de’ beni ecclesiastici e molte fondazioni religiose: disponevasi anche a sostenere colle armi le sue ragioni sul ducato di Ferrara, se le potenze grosse non si fossero interposte. Gli altri Stati, non eccettuata Venezia, seguendo l’andazzo, presero occasione di fare provvedimenti contro Roma, tantochè il ricorrere a questa direttamente divenne colpa di Stato, e i principi ingloriavansi dei poveri trionfi sopra un papato, ridotto impotente a difendersi.

I principi avevano espulso i Gesuiti ciascuno dai proprj paesi; ma chi assicurava che un nuovo ministro, o una mutata amante non li facesse rivocare, esulcerati e trionfanti? Pertanto Francia, Spagna, Parma, Napoli, moventisi d’un medesimo passo, insistono perchè il papa li abolisca, e metta a disposizione delle potenze il loro generale Ricci di Macerata, e il cardinale Torrigiani loro protettore.

[204]

I Gesuiti consideravansi i principali sostegni di Roma, i più zelanti missionarj nel lontano mondo. Dicevasi con alcuni che l’istituzione loro fosse perversa? ma era stata approvata espressamente dal concilio di Trento. Dicevasi con altri che era ottima, ma avea tralignato? essi adducevano una continuità di testimonianze de’ pontefici. Se il cardinale Malvezzi a Bologna gli avversava, la nobiltà supplicava il papa a non privare di tanti sussidj la gioventù e i fedeli; e i vescovi d’ogni paese nostro ne mandavano ampie attestazioni[72]. Fondato sulle quali, il Ricci ricusava introdurvi novazioni, risolutamente dicendo, — O siano quali sono, o non siano».

— Se i Gesuiti non fan più bene nei paesi che li cacciarono, ne faranno altrove», diceva il papa Clemente XIII, il quale, dopo serio esame, colla bolla Apostolicam (1765) riconfermò la Società di Gesù, profondendo lodi, alle quali assentì la maggioranza de’ vescovi, benchè altri non vi rispondessero che col silenzio. Si scandolezzò il mondo che un papa osasse manifestar opinione contraria a quella dei principi; i principi d’ogni parte alzarono pretensioni a suo danno; il Portogallo vieta come alto tradimento il pubblicare o tenere quella bolla; ricorrendo ad armi che non sono della Chiesa, la Francia occupa Avignone, Napoli occupa Benevento e Pontecorvo; propongono perfino di bloccar Roma, acciocchè il popolo s’ammutini contro il papa «unico modo d’ottenere l’abolizione de’ Gesuiti»[73]. Il papa esclamava: — Avessimo anche forza da opporre, ci asterremmo, non volendo, padre comune, aver guerra con verun principe cristiano, e tanto meno con cattolici. Spero che i sovrani non faranno cadere il loro scontento su’ miei [205] sudditi, innocenti di quest’affare: se l’hanno con me, e se pensano snidarmi come altri miei predecessori, sceglierò l’esiglio, anzichè mancare alla causa della religione e della Chiesa».

Negli undici anni del pontificato di lui, dice il padre Theiner, «neppure un gran fatto consola e riposa; fu una catena non interrotta d’umiliazioni, disastri, contrarietà per la Chiesa e per l’autorità della santa Sede, la quale sotto nessun papa moderno avea sì indegnamente sofferto». Nel crudele intradue o di far ordini inascoltati, o di ricorrere a spedienti che l’opinione disapprovava, questo mercante veneziano che osava dir di no agli idoli de’ filosofi, gemeva dal cuore, e in grave scompiglio trovavasi la Chiesa quando morì. Uom tutto di Dio, avendogli l’astronomo Lalande esposto la possibilità di disseccar le paludi Pontine, soggiungendogli quanta gloria a lui ne verrebbe, egli alzò gli occhi e — Non è la gloria che mi muova, bensì il bene de’ nostri popoli».

L’astuta onnipotenza de’ Gesuiti avrebbe allora dovuto armeggiarsi in un conclave, da cui ne pendea la vita. L’elezione fu trascinata in lunghissimo dalle brighe dei ministri e dei cardinali delle Corti, opposti ai cardinali zelanti, da minaccie degli ambasciatori, dall’ostentazione di Giuseppe II, comparso improvviso a Roma per satireggiare e i papi e i Gesuiti e i re. Andato a far visita alla chiesa del Gesù, chiede al generale: — Quando deporrete cotesta tonaca?» e notando il gran costo della statua di sant’Ignazio, — Guadagni delle Indie» esclamò[74].

Centottantaquattro volte la folla aspettante vide la fumata che bruciava le schede de’ falliti scrutinj, prima che i voti si raccogliessero sopra frà Lorenzo Ganganelli [206] da Sant’Arcangelo presso Rimini, che prese il nome di Clemente XIV (1769). Uomo di dolci virtù è accomodante, candido eppure ambizioso, dotto eppure arguto, scrittore felice, benchè il lodar le lettere che vanno sotto il suo nome sia crassa insipienza ancor più che calunnia[75]; degli scrittori filosofici diceva, — Col combattere il cristianesimo, ne mostreranno la necessità»; di Voltaire, — Non bersaglia sì spesso la religione se non perchè essa lo importuna»; di Rousseau, — È un pittore difettoso nelle teste ed abile solo nel panneggiare»; dell’autore del Sistema, — È un insensato il quale crede che, cacciato il padrone dalla casa, potrà assettarla a modo suo».

Sentiva egli l’irreligione scalzare troni e altari; ed intanto i re parevano far causa comune con questa, oppugnando i diritti della santa Sede, e divisando pertutto patriarcati nazionali, indipendenti da Roma. Ben confidava egli nella promessa di Cristo, e ad un amico scriveva: — La santa Sede non perirà, perchè è la base e il centro dell’unità; ma ritoglierassi ai papi quanto loro fu dato». In conformità lasciava che i principi lentassero sempre più i legami che congiungevano le nazioni a Roma; ma che nel conclave egli avesse firmato l’obbligo di distruggere i Gesuiti, e fin dato speranza [207] di trasferire la sede ad Avignone[76], son baje da porsi con quelle che infamarono Clemente V (tom. VII, pag. 318).

Fatto sta che i Borboni insistevano acciocchè abolisse i Gesuiti, e intanto moltiplicavano affronti alla santa Sede. Il granduca Leopoldo non volle scrivere al nuovo papa la congratulazione, pretendendo che prima e’ gliene desse parte; il che non soleasi che coi re e con Venezia qual regina di Cipro. Il duca di Parma fa spogliare il palazzo Medici in Roma; insulto ad un popolo infervorato delle arti com’è l’italiano. L’Azara, tenuto a Roma da Carlo III come esploratore, e che ora sbravando or celiando, coll’abilità somma de’ racconti, colla leggerezza nel trattar le cose serie, con quella burbanza ch’è necessaria per farsi stimare in simili posti, aveva acquistato grande ingerenza, non davasi posa nell’aizzare contro i Gesuiti. Il Tanucci sfogava l’astio verso la Chiesa colle minute insolenze, proprie di chi scarseggia d’intelletto e d’educazione. Quando Carolina d’Austria veniva moglie al re di Napoli, il papa dispose un’ambasciata d’onore che la ricevesse e accompagnasse traverso a’ suoi Stati; ma il Tanucci vi pretese condizioni sì umilianti, che fu impossibile accettarle; ed essa fendette il paese senz’apparato, alloggiando alla villa Borghese fuor di Roma[77]. Esso Tanucci scriveva al papa con villana alterigia, intitolandolo [208] vescovo di Roma; i marmi, che occupavano da un secolo il palazzo Farnese, trasferisce a Napoli; quivi sfogasi nel fare ai frati quella guerra ove sogliono pompeggiare di coraggio coloro che ne difettano; sopprime conventi, abolisce decime, impedisce gli acquisti di manomorta, riduce i matrimonj a contratto civile, interdice ai vescovi di pubblicar bolle senza il regio visto, d’ingerirsi dell’istruzione pubblica o di processi; al clero di pagar a Roma le tasse solite di cancelleria; fa stampare con lusso le opere del Giannone e di frà Paolo, e alle querele del nunzio dà per tutta risposta che non lascerebbe entrar più veruna provenienza da Roma finchè il papa non abolisse i Gesuiti. Anzi fa marciare quattromila uomini fino ad Orbetello, per sorprendere al primo destro Castro e Ronciglione; e voleva aquartierarne mille nella villa Madama a Roma per sorvegliare i movimenti del papa. In tutto ciò pretestava ordini or di Francia or di Spagna: il che chiamerebbesi bassezza se fosse vero; come chiamarlo sapendo ch’era falso?[78] Anzi le Corti di Spagna e di Francia mostravansi di ciò indignate col papa; il quale, non osando resistere direttamente, incorava i vescovi ad opporsi. Quei di Capua e di Troja il fecero; altri pensarono a una rimostranza collettiva contro le crescenti usurpazioni; e il papa gemea di tanti mali, ma «si rimetteva alla loro prudenza, ed esortavali a far in modo che non paressero operar a preghiere e istigazione del papa»[79]. In quest’universale affrontata, solo il Re di Sardegna [209] tenevasi devoto; e quasi ad espiare le lunghe avversioni di suo padre, fece un concordato, nel quale, fra altre concessioni, ottenne l’abolizione del diritto d’asilo ne’ luoghi sacri, dispensa delle rendite di molte badie.

Il papa rifuggiva dall’abolire i Gesuiti, sia perchè vedea qual sostegno sottrarrebbe alla santa Sede, sia perchè una potenza annichila se stessa quando lasciasi violentare; e torcevasi in ogni guisa perchè i potentati s’accontentassero di riformarli. Credendo imbonirli colle condiscendenze sopra altri punti, cessò di prolungare la solita bolla In cœna Domini; tacque allorchè impedivano l’invio di denaro a Roma, o la giurisdizione del Sant’Uffizio o gli acquisti del clero; entrò in corrispondenze particolari onde rassettare i litigj politici; ribenedisse il duca di Parma e sospese il monitorio; lo perchè l’infante si proferse mediatore presso le Corti borboniche: ma queste non rispondeano se non — Abolite i Gesuiti».

Clemente «pontefice dolce e umano, ma che Dio non avea creato a così violente procelle»[80], trovavasi sbolzanato fra due estremità; filosofi che o lo beffarono come papa o speravano ch’egli sovvertirebbe la Chiesa, e zelanti che lo compiangevano come papa debole, gli faceano colpa d’ogni concessione, e s’egli non pubblicava la bolla In cœna Domini, faceanla ristampare e diffondere con commenti. I re giunsero perfino a persuaderlo fosse circondato di stili e di veleni gesuitici, come di veleno filosofico cianciavasi perito il suo antecessore: onde per tali paure e per sottrarsi alla molesta visita degli ambasciatori, davasi per malato, non mangiava che poveri cibi ammanitigli da un fraticello, vivendo senz’amici, senza consigli.

Ma anche in quella solitudine giungeagli d’ogni parte quel grido — Abolite i Gesuiti». Per guadagnar tempo, [210] promette non nominerà altro generale quando il Ricci muoja, non ammetterà più novizj; poi domanda che almeno tutti i re si mettano d’accordo su questo punto, sicch’egli non abbia ad offender gli uni per condiscendere agli altri; propone di radunar un concilio a tal uopo[81]; tratta di trasferire la sede ad Avignone: ma sempre gli sono addosso inesorabili i ministri, sebbene egli ne invochi un po’ di pietà, un momento di tregua, perfino mostrando ad essi le piaghe del macero corpo.

Intanto approva ciò che le tre Corti hanno operato; [211] spiega rigore verso i Gesuiti, privandoli d’alcuni privilegi, mandando visite, mettendo imposizioni, lasciando che i creditori ne vendano all’incanto i mobili, molestandoli con fiscalità repugnanti all’indole sua; e poichè i principi non cessavano da quella domanda, — Ebbene (diceva) indicatemi le ragioni dell’ira vostra, acciocchè io possa motivare la condanna. — Le ragioni? (rispondevano essi) sono espresse negli editti di ciascuno, e basta; noi re non dobbiam conto alcuno al pontefice di nostra condotta; non l’abbiamo preso a giudice: mozzi una volta gl’indugi, abolisca i Gesuiti, e noi gli restituiremo subito Benevento e Avignone». Clemente or replica generosamente, — Un papa dirige le anime, non ne traffica»; or si desola, e geme, e protesta che abdicherà.

Parvegli la mano di Dio allorchè le Corti di Londra, di Pietroburgo, di Berlino, cioè un papa greco, un papa anglicano e un filosofo ateo, gli scrissero in difesa d’un Ordine, trafitto da un cristianissimo, da un cattolico e da un fedelissimo. Anche Maria Teresa raccomandava i Gesuiti al papa, e al nunzio cardinal Borromeo dava sicurezza che, lei viva, nulla avrebbero a soffrire ne’ suoi Stati[82]: ma poi li lasciò nelle peste, rispondendo essere un affar di Stato, non di religione; vietava all’arcivescovo di Milano ed agli altri suoi di pubblicare la bolla In cœna Domini[83], e cercava profittare di quello sdruccio [212] per impadronirsi di Piacenza; alfine aderì all’abolizione sospinta da Giuseppe II che «agonava i loro beni con impaziente avidità» e che inchiuse il patto espresso di potersene valere con pieno arbitrio.

Il papa dunque stese il breve Dominus ac redemptor meus; e dopo che fu riveduto ed approvato da tutte le Corti, lo pubblicò (1773 21 luglio). Comprendeva l’elogio della Compagnia; sopra sante fondamenta averla eretta Ignazio; per benemerenze averla i pontefici privilegiata e onorata: però darsele taccia d’agognar troppo i beni della terra; essere rampollati nel suo grembo semi di dissensione cogli altri Ordini, colle Università, coi principi, i quali ne aveano sporto querele alla santa Sede: questa indarno s’era adoperata a sopirle; anzi i più devoti della Compagnia le si erano avversati, onde per amor della pace della Chiesa, e sull’esempio de’ predecessori che per prudenza aveano aboliti i Templarj e gli Umiliati, egli la sopprimeva. I membri di essa passassero nel clero secolare o nel regolare a voglia loro, ma senza ingerirsi della pubblica amministrazione.

Abbatteasi una Società trapotente, traricca, il cui generale comandava dispotico a venticinquemila membri, cari al popolo, famigliari ai re; pensate quante precauzioni per impedire la conflagrazione dell’universo mondo! Comandi secretissimi pervennero ai quattro estremi della terra; i birri, i soldati pontifizj si munirono di tutto il proverbiale loro eroismo per accompagnare i prelati che andavano a far l’intimazione alle case dei Gesuiti[84]. Ma che? non un’opposizione incontrarono: quella potente, quella vendicativa Società [213] cedette al primo comando, incrociò le mani sul petto e spirò, compiangendo la debolezza del pontefice e la intolleranza dei tempi. Tanti abominj se gli erano imputati, e non un reo si scoprì. Dai loro archivj doveano uscire le prove de’ misfatti, pe’ quali la posterità potesse aggiungere i suoi agli improperj de’ contemporanei; ma essa le aspetta ancora. I ministri prometteansi di spegnere i debiti pubblici con questo Perù, come Carlo III diceva: onde s’avventarono sulle spoglie, e Roma il fece con un’arroganza, qual neppure i Giacobini poc’anni dopo; quanto di buono e di bello aveano la chiesa ed il convento del Gesù passò nei palazzi cardinalizj e pontifizj; bellissime pianete ai prelati più ostili; le teche e le statue d’argento alla zecca, dopo buttate in una corba le reliquie levatene; la villa papale di Castelgandolfo si arricchì dei migliori arazzi, fra cui quel che rappresentava la conferma della Compagnia fatta da Paolo III, il che parve tal enormezza che il successivo conclave il fece rimettere dove prima. Le partite che le case teneano accese sui banchi pubblici furono cassate, dicendo che, mancato il creditore, rimaneva estinto il debito; il Ricci fu fatto giurare di dar conto esatto dei beni della Società; e perchè le dovizie aspettate non si trovarono, ed egli protestava che uniche ricchezze ne erano le date dalla devozione dei fedeli, fu chiuso in Castel Sant’Angelo. La necessità dei rigori è quasi la punizione delle ingiustizie; e tal fu il divieto dato ai Gesuiti di predicare e confessare; e tali i numerosi imprigionamenti. Il sullodato Dell’Isla, sospettato autore di un opuscolo contro la soppressione, fu incarcerato; così il napoletano Gautier, imputato d’aver ammonito un suo confratello di fuggire; così [214] uno Stefanucci che fu trovato a bruciar carte, ch’e’ disse confessioni e gli altri credettero macchinazioni. Lo Zaccaria, uno dei più intrepidi campioni della santa Sede, accusato di sparlare contro il Breve, fu citato, e costretto a confessare se avesse scritto o tenuto corrispondenza con antichi confratelli in Italia o fuori; se il confessasse, avrebbe perdono; se tacesse, pena proporzionata al delitto. Confessò che, prima del Breve, avea caldamente amato la sua Compagnia, scritto per raccomandarla a gran personaggi o per impedirne l’abolizione; ma venuta questa, non averne più mai nè parlato nè scritto.

Non tutti però usarono egual moderazione; vi fu chi dettò articoli virulenti, vi fu chi fece circolare lagnanze, satire, proteste; la poesia forse unica di Clemente Bondi ove respiri il risentimento, è l’ode da lui diretta al Gozzi su quella soppressione; a Valentano presso Viterbo due visionarie aveano rivelazioni ostilissime al papa e ai persecutori de’ Gesuiti, onde furono sostenute, in un lunghissimo processo involgendo molti Gesuiti che si supponeano con esse in corrispondenza.

Così periva questa Società, che non ebbe nè fanciullezza, nè vecchiaja; periva per cooperazione della Chiesa, che con ciò s’indeboliva senza riformarsi, e dei re, che non pensavano a tôrre ostacoli al progresso, ma a rinvigorirsi, e che al tempo stesso conservarono le altre fraterie. Essi restituirono tosto al papa Avignone, Benevento, Pontecorvo, e credettero poter omai dormire a chiusi occhi. Eppure un Breve così pertinacemente sollecitato non accettarono se non facendo riserve contro ogni apparenza che avesse di menomare l’autorità loro o de’ vescovi, o d’intrigarsi negli Stati particolari; e avendo il papa ingiunto che i beni della Compagnia andassero in opere pie, essi dichiararono esser arbitri di farne la loro volontà: perfino il re di Sardegna mormorò [215] del voler il papa disporre dei possessi gesuitici. Venezia, che ne’ suoi Stati avea non più che sei case di Gesuiti colla rendita di dodicimila ducati, protestò contro la comminata scomunica e sull’integrità dei diritti vescovili; autorizzò il patriarca ad eseguire il Breve, aggiungendogli però un senatore; da un senatore fece prender possesso de’ beni de’ Gesuiti, ai quali assegnò appena sessantasei ducati l’anno se professi, e un semplice regalo agli altri, ma raccomandò di trattarli con dolcezza e preferirli per gli esercizj spirituali e per le messe. Genova ne trasse al fisco i possessi e gli ornamenti. Così la debolezza dava ardire a nuovi insulti.

Al Breve di soppressione era soggiunto il divieto di parlare o scrivere dell’abolizione o degl’istituti della Compagnia di Gesù, nè d’insultarla: assurda clausola che metteva il mondo nella necessità di disobbedire, e cresceva ai nemici de’ Gesuiti la franchezza di attaccare quando non potean esser repulsati[85]. Di fatto irruppe un’ebbrezza di gioja, quasi l’umanità fosse redenta; Pasquino rideva; i poeti cantavano e applaudivano; a Lisbona il Te Deum e luminare, ed ordine che se un Gesuita capitasse, o se alcuno sparlasse del Breve, fosse processato.

— E che? nel secolo della filantropia, fra tante anime sensibili, nell’universale tolleranza, la Chiesa si mostrerà ancora persecutrice? vorrà mostrarsi inesorabile a sacerdoti di tanta bontà, di tanta sapienza? vorrà ridestare i tempi dell’Inquisizione e le processure del Basso Impero?» Tali rimbrotti faceano di rimpatto que’ filosofisti che dianzi spingeano ad abbattere i Gesuiti, e dopo gridato alla pertinacia del papa, or lo [216] insultavano o derideano come debole e ligio ai re[86].

Poco stante il Ganganelli, perduta la salute, e vollero dire anche il senno, assediato da fantasmi e implorando misericordia, morì, e si disse avvelenato dai Gesuiti. È vero che i medici non ne trovarono apparenza: è vero che il buon senso domandava perchè mai, se ne avevano i modi e la volontà, nol fecero prima che lanciasse [217] il colpo decisivo (1774), o non colpirono piuttosto i robusti forzanti che il debole connivente? ma in tempo di passione resta egli campo al buon senso?[87] La morte di lui fu ben poco compassionata, s’insultò anzi alla sua memoria[88]; ma stavasi in isgomento non succedesse un papa che ripristinasse la Compagnia di Gesù[89].

[218]

Pio VI succedutogli non osò scarcerare il Ricci per rispetto ai principi: laonde si continuò a tenerlo in Castello, senza che da atti suoi o da intercetto carteggio apparisse ch’e’ si credesse investito ancora della preminenza toltagli dal Breve pontifizio. Offertogli un vescovado se soscrivesse una carta, ricusò. Sul letto di morte protestò per iscritto: — Al punto di comparire a quel tribunale che solo è d’infallibile verità e giustizia, per la pura verità e come bene informato, siccome superiore che n’ero, dichiaro la Compagnia di Gesù non aver dato motivo veruno alla sua abolizione, nè io la più leggera causa ad incarcerarmi; perdono sinceramente; ringrazio Dio che mi richiama da queste miserie, e invoco che la mia morte addolcisca le pene di quei che soffrono per la causa stessa». Tale protesta ripetè col viatico sulla lingua, e supplicò a renderla pubblica. Pio VI gli ordinò esequie solennissime e sepoltura fra i predecessori; il vescovo di Comacchio suffragandolo il proclamava martire.

Le soddisfazioni date per debolezza alle grida tumultuarie, non che soddisfarle, ne provocano di peggiori; nè dal cadere de’ Gesuiti derivò la minima utilità a coloro che avevano creduto gettarli come Giona per calmare la tempesta. La guerra si chiarì più accannita alla Chiesa, dacchè se n’era tolto quell’antemurale; si pretese vedere ancora Gesuiti dappertutto; gesuita fu il papa, gesuiti gli scrittori che più gli avevano sbertati, gesuiti i Franchimuratori, gesuiti gl’Illuminati; la Russia minacciava l’Europa? Era incitata dai Gesuiti che essa tollerò; i Turchi faceano vista di moversi? istigazione certo dei Gesuiti; le finanze deperivano? la fame cresceva? [219] la rivoluzione rombava? erano maneggi sotterranei de’ Gesuiti.

I Governi non argomentarono che una Compagnia, scaduta dall’influenza politica e dalla pubblica opinione, cessava d’incutere spavento. I Governi non previdero che il cadere d’una Società, la quale dirigeva l’educazione e le coscienze, recherebbe sovvertimento morale; che rimarrebbero sprovveduti i collegi, innanzi che si pensasse a supplirli; che beni bastevoli ad una modesta convivenza, riuscivano insufficienti a stipendiare l’istruzione laica; onde le finanze sfasciaronsi invece di rifiorire. «Col pretesto d’investigare e scandagliare le segrete macchinazioni de’ Gesuiti (dice un grand’avversario di questi), Kaunitz istituì una polizia segreta, stipendiando individui d’ogni condizione e sesso, i quali si foracchiavano nelle famiglie, origliando ogni parola per rapportarla alle autorità, introducendo così innumerevoli accuse anche a danno d’innocenti. Nè il popolo solo, ma il Governo stesso si trovò zimbello di perversi, che delle concesse facoltà abusarono per private passioni.... la ipocrisia fu giustificata, diminuita la fiducia, vincolo salutare delle famiglie e del civile consorzio»[90].

I principi ebbero attestato che nessun freno più riconoscevano ai loro arbitrj; onde i popoli che allora cominciavano a domandare delle libertà, sentirono non poterle conseguire che per vie illegali e violente.

La paura di parere ingiusti rende ingiusti molti; ed essa ha dettato finora i suoi giudizj su questo atto: e i documenti sempre nuovi che si producono, attestano che il loro processo non fu istrutto con pienezza. I principi che avevano espulso i Gesuiti quando la pubblica opinione li reputava valenti e santi usarono ogni [220] artifizio per avversargliela, e come gli ebbero denigrati, la insultarono di nuovo ripristinandoli. Che serve dunque addurre l’opinione di papa Ganganelli, le frasi del suo Breve, le condanne dei parlamenti, i decreti dei re di Spagna o di Napoli? Poco andò, e il re di Napoli, il quale aveali fatti cacciare colle bajonette, nel 1804 li richiamò perchè «coll’esemplare contegno potessero apprestare ai sudditi un mezzo pronto, sicuro, spedito a ottenere quanto si riferisce alla pratica delle cristiane virtù»; il re di Spagna nel 1810 li riconoscea «sostegni dei troni, d’incalcolabile vantaggio alla buona educazione, antemurale della religione»; Pio VII nel 1814 li ripristinava come quelli che «per probità di costumi, in tutto conformi alle leggi evangeliche, diffondono il buon odore di Cristo ovunque si trovino, e coi costumi e colla scienza s’affaticano a procurare la salute delle anime, ampliare la religione, ripulire i costumi, ammaestrare la gioventù»; e poichè «n’era richiesto dai prelati e dalle persone illustri d’ogni ordine di quasi tutto l’orbe cristiano», si sarebbe creduto reo di gravissima colpa se ai voti comuni non avesse accondisceso accogliendo l’ajuto salutare che la singolare provvidenza di Dio gli porgeva[91].

Che una generazione deva sempre abbattere gl’idoli della precedente?

[221]

CAPITOLO CLXVI. Idee innovatrici. Economisti, filantropi, filosofi.

Chi dice che la gran rivoluzione susseguì alla caduta dei Gesuiti, dunque ne fu l’effetto, dà nel vulgare sofisma del post hoc ergo per hoc: ma il congratularsi che ne fecero i filosofi convince che, sotto quel nome, combatteasi l’autorità, la tradizione, vale a dire il cristianesimo, e che la soddisfazione data dai principi e dai papi, incorò a maggiori ardimenti lo spirito irreligioso. Noi lo dicemmo incarnato in Voltaire, cui teneva dietro uno stuolo di libellisti, romanzieri, epigrammatici, combattenti una faceta guerra, ridenti sulle miserie di questo «ch’è il migliore dei mondi possibili».

Quello scherno perpetuo non trovò grand’eco nell’Italia, più morale, più seria, più affettuosa: e maggiormente vi fu gradito il ginevrino Rousseau, il quale, disgustato da quella negazione d’ogni fede e d’ogni virtù, volea ridestare le simpatie, addurre ad una morale filosofica quei che avevano cessato di sentire ed operare cristianamente; predicava che il cuore non inganna mai, che la natura ha sempre ragione, sempre torto la società, la quale però è correggibile: onde, traviando gli spiriti mentre Voltaire gl’intorpidiva, censurava tutte le istituzioni sociali, fin anco la proprietà; e dava risalto ai contrasti fra le colpe dell’incivilimento e la bontà dello stato naturale, alla cui ripristinazione devono rivolgersi tutti gli sforzi, e all’acquisto d’una libertà illimitata per via della pura ragione e senza tenere calcolo dei fatti e dell’esperienza. Gli uomini, originariamente barbari, costituirono la società mediante [222] un contratto espresso; laonde essa derivando la volontà del popolo, questo è sovrano, e il suo volere è unica base storica e razionale degli istituti. La scolastica ammirazione pei Greci e Latini, e la recente per gli Americani che, scosso il giogo dell’Inghilterra, proclamavano allora i diritti primitivi dell’uomo e del cittadino, fecero prevalere quella dottrina e l’ideale universalità; sicchè immolando l’esperienza e l’autorità, voleasi innovare il mondo secondo canoni prestabiliti, non dipendenti da luogo nè da tempo.

La filosofia sociale pertanto non era più un robusto studio d’associare il progresso politico con quello della società; di conciliare lo Stato antico che assorbiva le individualità, coll’evoluzione spontanea personale della società moderna; ma riduceasi a dire, «Tutto il passato è un male, e deve considerarsi come non avvenuto. Si innovi il mondo sopra canoni filosofici prestabiliti, eguali dappertutto, senza riguardo a storia, a nazionalità, ad abitudini, a sentimenti; per ottenere ciò basta volere, perocchè sono i grand’uomini, i filosofi che mutano le nazioni, e i decreti ottengono quel che si vuole; e perchè i decreti vengano emanati ed eseguiti, occorre che i Governi sieno dispotici, non incagliati da nobiltà, da clero, da corporazioni, da usi antichi». Posti questi termini, la libertà non è più l’indipendenza dell’individuo, ma il potere assoluto, esercitato in nome di tutti; eguaglianza è l’obbedire tutti a quel potere. Non altro fu il liberalismo d’allora.

Tolta l’idea d’un fallo originale e della conseguente espiazione, e le speranze di un paradiso, bisognava all’uomo prepararlo in terra, o fare ch’egli vi si trovasse il meno male. Di qui l’altro aspetto del filosofismo d’allora, la filantropia, diversa dalla carità in quanto faceva il bene non per Dio ma per gli uomini, e perciò facilmente cianciera e millantatrice. Amare l’uomo e [223] aborrire il peccato era stato imposto dal vangelo: la filantropia amava l’uomo ma non aborriva il peccato; dubitava del dovere, dogma fondamentale, senza cui non sopravanza che azione fisica; e praticava quel che un filosofo nostro contemporaneo formolò dicendo, — Ama te stesso sopra ogni cosa, e il prossimo per amor di te». Quindi un parlare universale di moralità, di ragion naturale, di diritti degli uomini, di carceri e giudizj da correggere, di case di lavoro da istituire, di migliorare abitazioni e pratiche agricole, d’estendere l’educazione, di propagare i lumi sulle moltitudini, di cure pel povero popolo, pei poveri contadini, pei poveri malati, per la povera infanzia, pei poveri trovatelli.

Qualunque valore avessero in sè e nell’applicazione questi concetti separati dalla vera loro fonte, ne derivava un’ammirazione piena di speranze; cognizioni sempre nuove, rapidi progressi, espansivo incivilimento; i costumi si addolcivano, gli spiriti si dilatavano, la vita faceasi sempre più facile ed animata; tutti credeansi buoni e capaci, e non vedeano l’ora di mostrare e bontà e potenza.

Continuavano i Governi economici, fondati su usanze tradizionali; le leggi erano motu-proprj; viglietti del principe sospendeano le procedure, cassavano le sentenze, restituivano in integro le ragioni prescritte. Ma que’ despoti patriarcali s’accorsero che la loro missione consisteva nel dilatare la bontà e il benessere; onde si accinsero a migliorare la coltura intellettuale del popolo, rivedere le leggi, coordinare l’amministrazione, favorire il commercio, l’industria, l’agricoltura, svincolare il terreno e le arti, abolire i monopolj e le reliquie della feudalità, sminuire le disuguaglianze delle classi e i privilegi de’ singoli a favore del diritto di tutti. Gaja campagna contro il passato, tutta di frizzi, aneddoti, cene, pastorellerie, sensibilità, chi avrebbe [224] preveduto dovesse riuscire alla sovversione d’ogni ordine? che negato alla società il diritto di mandare un reo al supplizio, si lascerebbe che gl’invasori della società piantassero tante ghigliottine quante la Francia ha città e borgate, quasi a dimostrare indelebilmente come l’uomo, abbandonato che abbia Iddio, non è che abisso di contraddizioni, mostro d’immanità?

Poderoso stromento a diffondere lo spirito filosofico divennero le società segrete, e principalmente quella de’ Franchimuratori. La vanità pretese di darle radici o remote od illustri; nè v’è insigne nome, dall’arcangelo Michele fino a Socino e a Cromwell, cui non siasene attribuita l’istituzione: chi la derivò dal tempio di Salomone, chi dai misteri egizj, chi da Manete; avere la massoneria insegnato nei primordj la civiltà agli Europei sotto il nome di Pitagora, poi nel medioevo conservato le tradizioni scientifiche; colle crociate arrivò in Europa per via degli Spedalieri e Templari, alla cui distruzione sopravvisse arcana[92]. Nel fatto, le loggie muratorie erano una delle molteplici associazioni, per cui mezzo nel medioevo l’industria cercava tutela fra tanti nemici, sussidio in tanta scarsezza di mezzi; e i metodi architettonici v’erano tramandati col segreto e la gelosia allora comune. In Germania quell’associazione fu riconosciuta dai principi, e Massimiliano imperatore ne confermò gli statuti. In Inghilterra ne appajono traccie storiche fin dal 1327, donde si estese a Parigi, ove nel 1725 fu aperta la prima loggia sotto tre capi [225] forestieri: proibite nel 44, crebbero e si diffusero in provincia. Un Venerabile presedeva a ciascuna loggia; il Vigilante ne tenea le veci; il fratello terribile riceveva i neofiti, che poi erano istruiti dal maestro delle cerimonie; il grand’esperto faceva i sermoni: aggiungete il tesoriere, l’elemosiniere, il secretario. Nell’assemblea portavano sopravvesti particolari a modo di tonache, e con emblemi di spade e squadre; per la camera vedevansi sospesi quadri emblematici, motti, geroglifici, e attorno un letto a bruno colla croce e l’ulivo; il tamburo di pelle d’agnello; i grembiali di pelle, cazzuole, martelli, stili, fazzoletti chiazzati di sangue, ossa e teschi ed altri apparati da far colpo sulle immaginazioni.

In Inghilterra la compagnia conservò carattere serio: altrove si risolse in convegni di buon tempo, in un’eresia galante che giovava coi mutui soccorsi, ed offriva il tipo d’una società costituita sovra principj differenti da quelli della civile. Perocchè nelle sue loggie niuna prerogativa ereditaria conosceasi; sulle pareti del gabinetto delle riflessioni, tra i parati neri e gli emblemi mortuarj si leggeva: Se curi le distinzioni umane, esci; qui sono sconosciute.

L’aspetto di benevolenza ch’essa vestiva, le relazioni che agevolava in ogni paese dando protettori e amici e mezzo d’introdursi nella bella società, quell’universale eguagliamento, quel libero pensare lusingarono molti anche onestissimi; a tacere gli spiriti torbidi, che vi vedeano la speranza di fare fortuna e di sommuovere gli Stati.

In Italia la massoneria non fu mai molto estesa, e solo fra la gente colta e con grandi cautele. Ne’ cimelj di quella società troviamo una medaglia, fin dal 1733, coniata al granmaestro duca di Middlesex dalla loggia fiorentina: nel 39 fu introdotta in Savoja, nel Piemonte, in Sardegna, e pei tre paesi un granmaestro provinciale [226] fu nominato dalla gran loggia d’Inghilterra. A Roma, convegno de’ forestieri, molte loggie esistevano nel 42 quando esse decretarono una medaglia a Martino Folkes presidente della Società Reale di Londra; ma non presero pubblicità fino all’89. Principale v’era la loggia degli Amici Sinceri, che indipendente prima, si fece poi istituire regolarmente dal grand’Oriente di Francia nel dicembre 87, quando contava circa venti anni di vita, componeasi di Francesi e Tedeschi, e n’era Venerabile un tal Bello; e s’affigliò a molte loggie, quali la Perfetta Eguaglianza di Liegi, il Patriotismo di Lione, il Secreto e l’Armonia di Malta, il Consiglio degli Eletti di Carcassona, la Concordia di Milano, la Perfetta Unione di Napoli ed altre. Sui diplomi di essa era disegnato a mano un simbolo che figurava il triangolo dentro al cerchio, e nel centro la lupa che allattava i figliuoli.

Alquante loggie ebbe Napoli nella prima metà di quel secolo, e nel 1756 formarono una gran loggia nazionale, in corrispondenza colla Germania. Ma il mistero li rese sospetti ai Governi; onde Clemente XII scomunicò i Franchimuratori in Italia, poi di nuovo Benedetto XIV nel 51; Carlo III applicò ad essi le pene de’ perturbatori della tranquillità pubblica. Poi il Tanucci non gli amava perchè, accostandosi al re, potevano dirgli verità ch’esso non volea; ed essendo una neofita talmente scossa dalle cerimonie dell’iniziazione, che cadde malata e morì in breve, e il popolo ne mormorò, quel ministro ne profittò per escludere la massoneria dal regno; ma Carolina d’Austria la ristabilì, onde ne’ loro brindisi auguravasi salute ad essa. Giuseppe II, in una circolare ai governanti del 1º dicembre 1785, professò non conoscere la frammassoneria nè le sue buffonerie; però sapere che quella società fa del bene, sovviene de’ poveri, coltiva e incoraggia la scienza; [227] onde la prendeva sotto la sua protezione, a patto non v’avesse nelle città principali più di tre loggie, nessuna dove non risieda il Governo, facciano conoscere i loro membri e i luoghi e giorni di loro adunanze.

Ebbero poi rincalzo dagli Illuminati, istituiti in Germania da Weishaupt nell’intento d’annichilare ogni superiorità ecclesiastica e politica, restituire l’uomo alla originaria eguaglianza donde l’avevano sottratto la religione e i Governi. Il primo attentato alla libertà (insegnavano essi) furono i consorzj politici; i Governi e le proprietà non si appoggiano che sopra convenzioni religiose e civili, laonde queste bisogna disfare per giungere all’abolizione della proprietà[93]. In Roma si piantarono loggie d’Illuminati della Svezia, d’Avignone, di Lione, e formavano un tribunale. Uno de’ proseliti più attivi, Costanzo di Costanzo napoletano, ito a Berlino in servizio della setta, ispirò sospetti a Federico II, e questi ne avvisò la Baviera, che colse le costoro carte e le pubblicò.

Nominanza più estesa conseguì Giuseppe Balsamo di Palermo. Giovane entrò ne’ Fatebenefratelli (1743), ma li prendeva in celia, ed uscitone si buttò alla vita gaudente fra attrici, duelli, ciurmerie. Col greco Altotas, uno degli ultimi depositarj delle scienze occulte, percorse la Grecia, l’Egitto, Malta, in cerca del grande arcano, finchè quel suo maestro morì per esalazioni de’ suoi preparati. Il Balsamo continuò a girare cambiando nomi; e principalmente venne noto con quel di conte di Cagliostro, sebbene più spesso rispondesse Sum qui sum. Prese a Roma una moglie che ne secondava le ciurmerie, vide Spagna e Inghilterra, vestendo suntuoso, [228] imbandendo lautamente, vendendo polveri rinfrescanti, vino d’Egitto, pomata ringiovanente, de’ cui effetti dava in prova se stesso, nato fin dai tempi d’Abramo, vissuto con Cristo; mentre con altri spacciavasi discendente da Carlo Martello, generato dal granmaestro di Malta in una principessa di Trebizonda. Le sue grandi spese giustificava dal sapere, a forza di calcoli, indovinare i numeri del lotto; più volte processato in Inghilterra per iscrocchi, ne uscì assolto: fatto è che a nessun genere di frodi rimase estraneo; s’intese con monetieri falsi, con plasmatori di gioje; quando Mesmer introdusse il magnetismo animale, e’ se ne fece apostolo; e predizioni e guarigioni andò portando in Russia, in Polonia, in Germania; se non riuscissero, ne imputava la mancanza di fede o i peccati degl’infermi.

Istituì i Franchimuratori egiziani, proclamandosene gran cofto, e non ammettendo se non chi già era appartenuto alle altre loggie: ai quali, tra idee e formole mistiche, insegnava che qualunque religione è buona, purchè si riconosca Dio e l’immortalità dell’anima; abituavali alla vita contemplativa e alle quaresime, cioè a un regime dietetico che dava esaltamenti; e gli uomini prendeano i nomi de’ Profeti, le donne quei delle Sibille. Prometteva condurre i suoi adepti alla perfezione mediante il rigeneramento fisico e il morale: pel primo doveano trovare la pietra filosofale e l’acacia dell’immortalità; per l’altro procacciava ad essi un pentagono dove gli angeli aveano scolpite cifre, e che riconduceva all’originale innocenza.

Acclamato da tutta Europa, avuti segni di venerazione profonda e di sommessione servile, s’avventurò nella maggior palestra del bene e del male, Parigi. Preconizzato dai giornali, appena giunto alloggiò in grande appartamento, e nella magnifica sala affluì quanto aveva di più splendido e dotto la gran città, per lui [229] cadendo in dimenticanza Puységur, Mesmer, gli apostati di Mongolfier, le economie di Turgot; il suo busto collocavasi dappertutto, il suo ritratto sulle tabacchiere e sugli anelli; avendo sua moglie promesso un corso di magia naturale appena trovasse tre dozzine di adepte, prima di sera le ebbe, tutte gran dame, che dovevano giurare fede e secreto, e ciascuna contribuire cento luigi.

Curava malati, nulla ricevendo dai poveri; e la guarigione del duca di Soubise gli crebbe fama; poi avendo tenuto mano al famoso furto della collana della regina, fu viepiù applaudito da quella società credula e immorale per far izza alla Corte: quando re Luigi graziollo, somigliò a trionfo la sua uscita di prigione; e in trionfo comparve a Londra, ma quell’aristocrazia un istante sedotta, presto lo smascherò, sicchè dovette sottrarsi. Stette a Basilea, ma la semplicità svizzera poco gli si affaceva: a Torino il re gl’intimò lo sfratto: a Roveredo gli fu interdetto d’esercitar la medicina: il principe vescovo di Trento lo espulse. Capitato a Venezia col nome di marchese Pellegrini, giuntò un mercante della Giudecca col promettere di cambiar il mercurio in oro, la canapa in seta. Al fine screditato andò a Roma con raccomandazioni del vescovo di Trento, che lusingavasi d’averlo convertito; e visse cautamente alcun tempo; poi per mancanza di denari tornato alle sue ciurmerie, fu denunziato al Sant’Uffizio per eresia, arrestato (1789 27 xbre), dopo lungo processo condannato alla morte, commutatagli in carcere perpetuo, e bruciato dal boja il suo libro della Massoneria egizia. In carcere tentò strozzare il cappuccino a cui avea chiesto confessarsi, per fuggire sotto la tonaca di lui; e dopo d’allora custodito meglio, più non se ne intese parlare.

Alla filantropia, parola d’ordine di costui e de’ Franchimuratori come dei ben pensanti, si acconciavano la [230] scienza antica della legislazione e la nuova dell’economia. La banca istituita a Parigi dall’irlandese Law, supremo tentativo della potenza del credito, d’un guizzo fece correre fiumi d’oro, poi abusata nel principio e nei mezzi, sovvertì le fortune, e lasciò amarissimi disinganni, avea però rivelata l’importanza de’ fenomeni economici, sicchè gl’ingegni si volsero sul congegnamento della ricchezza sociale, sui modi d’abolir l’ozio, la povertà, l’oppressione, perfino la guerra. Due sistemi opposti ne nacquero: il medico Quesnay sostenne che unica fonte della ricchezza sia l’agricoltura, come la sola che può dare prodotti nuovi; e Gournay che fonte ne sia l’industria, senza la quale non han valore le produzioni naturali. Il primo ne induceva che tutte le gravezze dovessero cadere unicamente sul proprietario e sul prodotto netto, cioè quell’eccedenza di valore che resta disponibile al proprietario dopo rifattosi delle spese: l’altro mostrò il concatenarsi de’ diversi generi d’industria, domandando solo che il Governo «lasciasse fare, lasciasse passare». Ma se la ricchezza consiste nel denaro, ogni cura non deve essere rivolta a tenerlo in paese? Così faceasi, e al tempo stesso si vietava o restringeva l’asportazione di ciò che può procacciare denaro.

Adunque si osteggiavano gli Economisti coi Fisiocratici, i quali se errarono in quel loro dogma del prodotto netto, e non avvertirono la solidarietà delle varie specie di lavoro distinguendo il produttivo dall’improduttivo, piantarono però l’economia politica sulla base del diritto, le prefissero uno scopo più largo che non gl’interessi materiali, e dalla predilezione per l’agricoltura dedussero il canone della libera concorrenza.

I nostri camminarono sulle traccie degli stranieri, cercando le applicazioni più che i sistemi, proseguendo non tanto l’ideale astratto, quanto la lenta trasformazione del mondo effettivo. E per verità molti disordini [231] restavano a designare e correggere. Le arti erano legate in corporazioni che impacciavano colle pretensioni loro, e rimovevano ogni novità per ispirito di corpo; regolamenti amministrativi gettavansi attraverso a tutte le industrie, onde prescrivere o vietar metodi, talvolta, ignorantemente, sempre con iscapito del libero incremento: molte regalie vendute a particolari, esponeano i contribuenti a tiranniche vessazioni.

Che dirò delle leggi vincolanti e dei dazj? Una balla di lana del valore di circa lire 260, per passare da Livorno a Cortona dovea toccare dieci dogane, e per quarantaquattro titoli diversi pagare lire 31 soldi 6 e mezzo[94]. In Romagna, per mantenere il buon mercato obbligavansi le comunità a comprar grani, e rivenderli a disavvantaggio qualora passassero un certo prezzo: il che le costrinse a debiti e fallimenti. Così era proibito che il grano voltasse le spalle a Roma, cioè si vendesse a paesi più distanti; onde da Perugia non potea condursi a Civita di Castello, non da Terni a Spoleto: dalla Maremma senese non potevasi estrarne che a misura e con licenza; forse principal causa dello isquallidire di quel paese. Ne’ bisogni della guerra gravati a esorbitanza, i Comuni affogavano nei debiti: appaltate le finanze a fermieri tirannici, che voleano aver a loro disposizione la sbirraglia per adempiere gli obblighi verso l’erario, e che al contrabbando faceano severamente applicare quelle pene, da cui sapeva sottrarsi il delitto o astuto o prepotente.

Qui esercitavansi i nostri statisti, ma nei più non possiamo riconoscere che copie od utopie. Il più originale fu Gianmaria Ortes (1713-90), frate veneziano, il quale, indispettito con «un popolo di studiosi, che fatto uno zibaldone d’economia, di ricchezza, di politica, di letteratura, confondevano e corrompevano le une colle [232] altre, e in luogo d’insegnare e promuovere il possibile e il vero, insegnavano e promuovevano l’impossibile e il falso», volle esporre le sue dottrine, che reputava «migliori di tutte quelle degli altri»; ma comunicarle solo «a que’ pochi che credeva disposti a riceverle». In fatti de’ suoi libri poche copie distribuiva, e pochissimi vi prendeano interesse, massime che rinvolgeasi in formole matematiche e bujo gergo, senza gusto e discernimento nella molteplice erudizione: onde passò non solo inefficace ma ignorato, fin quando apparve nella raccolta degli Economisti italiani del 1804. Se egli non è «profondo e rivale de’ più illustri economisti stranieri», come in questa lo giudicò coll’abituale leggerezza il barone Custodi, cercò dare alla scienza un’unità, dell’occupazione facendo il principio, da cui muove a tutte le particolari analisi delle funzioni civili. Il capitale delle nazioni (a dir suo) è prefinito, talchè una non può arricchire se non ispoverendo un’altra; la quantità delle ricchezze sta a proporzione del numero degli abitanti: teoremi repugnanti all’idea del progresso, ed ai quali consuona il suo predire che l’Inghilterra stava sull’orlo del precipizio. Trattò anche della religione e del governo dei popoli, ponendo che la Chiesa rappresenta la ragion comune, il principato la forza comune, mediante la quale la ragione di tutti è difesa contro la forza di ciascuno; laonde i due ministeri di Chiesa e principato combinati costituiscono il governo. Diamogli lode di non aver incensate le opinioni correnti, e «Chi pubblica giornali deve adulare la letteratura ch’è in gran reputazione, deve adular i sovrani fin a chiamarli filosofi. La mia letteratura è diversa; coi letterati di maggior reputazione non mi trovo molto d’accordo; e finchè i sovrani governeranno i popoli colle armi, per me non saranno mai filosofi, non eccettuati il gran Federico e il gran Giuseppe: i filosofi non mantengono truppe».

[233]

Pompeo Neri fiorentino, che col Carli avea collaborato al censimento del Milanese, ne pubblicò una Relazione preziosa, e osservazioni sul prezzo legale delle monete, ove porge le regole direttrici in questa scabrosa materia; e vorrebbe le spese di monetazione cadessero sullo Stato; pratica che già il Montanari disapprovava in Bologna, e che tanto costa all’Inghilterra. Ne trattò pure Gian Francesco Pagnini volterrano, poi del giusto pregio delle cose, e proclamò la libertà di commercio: col che non s’intendeva già lo scambio fra tutte le nazioni, bensì che non vi fossero dogane tra un paese e l’altro dello stesso dominio, qual era per lui la Toscana.

Lodovico Ricci da Modena, scelto con altri da Ercole III per riformare gl’istituti pii della sua patria, discorse della povertà e del ripararvi; disapprova le elemosine, i donativi, le case di lavoro e le spezierie gratuite, gli asili per trovatelli e puerpere e i grandi spedali, le doti per le zitelle, attesochè la popolazione si mette sempre a livello dei mezzi di sussistenza, verità di cui si dà lode a Malthus; e conchiude, il Governo abbandoni ogni cura alla carità privata, s’occupino i mendichi a lavori di pubblico vantaggio, si animi il commercio, e basta.

Il conte Gian Rinaldo Carli istrioto (1720-95), esteso erudito, confutando i paradossi di Paw intorno agli Americani, mise fuori idee non ismentite dalle successive scoperte: delle monete cerca la storia da Carlo Magno in giù, con pazienti indagini sulla loro bontà, il valore, le alterazioni, le giuste proporzioni: sostenne della libertà del commercio non potersi fare una quistione isolata, ma connettersi con quella della forma di governo, e che è follia il voler solo agricoli o solo manifattori: del resto nelle materie economiche si mostra in ritardo. Maria Teresa gli affidò la presidenza al Consiglio supremo di commercio e d’economia pubblica istituito a Milano, [234] dove ajutò la confezione del censo, e ne persuase i vantaggi al popolo.

Zaccaria Belli veronese (1732-87), flagellato dal Baretti per un suo poema sul baco da seta, oltre molte dissertazioni storiche scrisse della coltivazione dell’amerino selvatico (cerasus sylvestris); delle leggi universali intorno all’agricoltura; della moltiplicazione de’ bovi nel Veronese; propose l’asciugamento di quelle valli che ancor l’aspettano; promosse strade per poter cavare abeti dalle selve lessine, la sistemazione dell’Adige, il miglioramento alle strade postali; fece altre scritture, spesso a nome dell’Accademia d’agricoltura, arti e commercio del suo paese, che nel 1770 erasi dal senato dichiarata pubblica.

L’abate Antonio Genovesi da Castiglione (1712-69) napoletano, voltosi dalle dispute teologiche alle scientifiche, alla gioventù preparò un corso di logica, scevro da ambiziosa dialettica e da sistemi d’ideologia e di metafisica, e con precetti di semplice pratica, comprensibili al popolo e di facile applicazione, sebben non veda più in là che il metodo, e si diriga più sull’arte dell’argomentare che su quella d’indurre, vacillando nell’eclettismo; esaminò le massime che regolavano il commercio nel Reame; e benchè s’appoggiasse unicamente ai Fisiocratici e alla mercantile protezione, abbracciasse tutti gli errori vulgari intorno alla potenza governativa, e arrivasse talvolta a proporre la comunanza dei beni[95], la pratica delle scienze morali lo rattenne da molti [235] errori di quelli, e gli mostrò quanto le abitudini intellettuali e morali sieno efficienti in fatto d’economia politica. Flagellava le cattive pratiche agricole, mentre con indipendenza criticava gli autori più venerati e lodava i proscritti, moltissima gioventù traeva, ed acquistò tanto credito, che sebbene un consesso di teologi l’appuntasse di proposizioni eterodosse, la Corte non volle recargli disturbo. La novità del dettare in italiano piacque, e l’economia pubblica entrò di moda, in mezzo all’opposizione venutagli principalmente dal clero, di cui impugnò le pretensioni e cercò incagliare gli acquisti, parendogli che «il più de’ contadini lavorasse per ingrassare le budella dei frati», e che, andando a precipizio i beni nelle mani di costoro, ben tosto anche i baroni sarebbero loro schiavi della gleba.

Di Celestino Galiani da Foggia, Eustachio Manfredi diceva che «le matematiche, nelle quali era sommo, erano la più tenue delle sue cognizioni». Chiesto da molti paesi a professore, nella Sapienza di Roma dettò storia ecclesiastica, fu arcivescovo di Taranto, primo cappellano del re, prefetto degli studj, consigliere intimo, e molto adoperato nelle contese colla santa Sede; ma non volle mai stampar nulla, nè ambì onori o fortune.

Educò egli il nipote Ferdinando (1681-1753), che messosi poi del tutto coi filosofi d’allora, secondo le idee di Locke dissertò sulle monete, sull’utilità del lusso, sul libero interesse del denaro.

L’affluenza di forestieri a Napoli e il denaro mandatovi di Spagna v’aveano prodotto abbondanza di numerario, e in conseguenza carezza delle derrate; del che il pubblico e il Governo spaventati, proponeano i soliti assurdi rimedj o di prefigger il prezzo, o d’alterare le monete, o d’introdurne una di conto. Questo Galiani, ancora di trentun anno, stette per la libertà; ma se desidera il momento che la popolazione sia cresciuta [236] a segno da non aver grano da portar fuori, vuole che intanto la si promuova coll’impedirlo. Su ciò scrisse in francese dialoghi, il cui brio adescò il bel mondo: Voltaire li trovava «dilettevoli quanto i migliori romanzi, istruttivi quanto i migliori libri serj»: i Parigini ne smaniarono, e «la sentimentale (scrive Grimm) dimentica l’amante, la devota il confessore, la civettuola chiude la porta agli adoratori, per trovarsi testa testa col grazioso abate; il patriarca di Ferney sospende gli apostolici suoi lavori per bearsi in questa lettura». Nella gran città dimorava il Galiani come segretario d’ambasciata, legatissimo cogli Enciclopedisti e colle loro amiche; egli abate e satollo di benefizj, sbertava la religione e il pudore[96]; e colle inesauribili originalità si buscò fama, carezze e dispiaceri. Indovinava che gli Economisti miravano a sovvertire gli ordini del regno; onde rispondendo al Morellet, da cui gli venne il più serio ripicchio, diceva: — Vi capisco benissimo: ma per ridurvi a silenzio basterà ch’io vi fissi lo sguardo tra ciglio e ciglio». Scettico e burlevole sempre, allorchè tratta del diritto de’ neutri si appoggia a due canoni morali ch’egli crede verità, lampanti niente meno degli assiomi geometrici; gli uomini hanno il [237] dovere di apprestare agli altri quel che serva agli agi ed ai bisogni della vita, qualora il possano senza danno o con profitto; e non solo di non far male agli altri, ma di rimuover le cause del nuocersi tra loro qualvolta il possano senza proprio danno. Ma sempre alle verità mescolava paradossi, e di paradosso dà spesso l’aria anche alla verità, atteso il voler continuamente sfavillare di spirito, e mirare all’effetto.

A Napoli fu consigliere della magistratura suprema del commercio, assessore delle finanze; fra altri impieghi, ebbe l’incarico di sovrintendere alla ricostruzione del porto di Baja, aprendo il mar Morto, e mettendo in comunicazione i laghi Averno e Lucrino, in modo che, oltre un magnifico porto, si risanassero l’aria e le paludi che deturpano le un tempo deliziose spiaggie di Miseno e di Cuma: opera rimasta soltanto desiderio. Commentò Orazio in modo bizzarro, e sulla sola autorità e i fatti di quello formò un trattato dei gusti naturali e delle abitudini dell’uomo; volle mostrare che il dialetto napoletano sia stato la lingua primitiva d’Italia; coltivò molto l’antiquaria e la storia naturale; ma il più del tempo consumava in un carteggio estesissimo con quanti avea begli ingegni l’Europa d’allora.

Del resto, non che partecipasse alle benevole illusioni de’ suoi compatrioti, dai cenacoli dei filosofi di Francia contraeva il disprezzo degli uomini e d’ogni entusiasmo, e l’affettare insensibilità; sostiene la tratta dei Negri; beffasi della gloria quando non frutti oro; sollecita pensioni, onori, agiatezze, banchetti, godimenti. Negli ultimi suoi giorni edificò, devotamente ricevendo i conforti d’una religione, che potè il suo sepolcro ornare colle insegne vescovili, da lui non valutate se non pei benefizj che godeva.

Filippo Briganti da Gallipoli, nell’Esame analitico del sistema legale e del sistema civile, s’accapiglia con [238] Mably, Rousseau e quest’altri predicatori della povertà; e sostiene che l’uomo al pari che la società tendono a perfezione, e che a ciò avviano l’attività, le sussistenze, l’istruzione. Giuseppe Palmieri di Lecce, il quale scrisse anche sull’arte della guerra[97], come magistrato fece togliere i pedaggi e alcuni monopolj e il dazio sull’asportazione del zafferano; e stando alla pratica senza divagare in utopie, suggerì di far il catasto delle terre, di redimere dai nobili le regalìe e il diritto di giudicare; combattè il pregiudizio che il commercio snobiliti; essere empie le tasse del testatico e del sale; guerra a morte contro i masnadieri, peste del regno.

Targioni Tozzetti, che mostrò poter le scienze naturali parlare un linguaggio corretto ed elegante, nel Ragionamento sull’agricoltura toscana ne indicò i difetti e i rimedj. Gabriele Pascoli perugino, nel Testamento politico, presentava concetti per un regolato commercio negli Stati della Chiesa e la navigazione del Po. Del senese Bandini (-1775) vollero alcuni far un precursore de’ Fisiocratici; ma realmente non istabilì nè seguitò teorie, bensì diede buoni divisamenti intorno al sanare quella maremma, i quali furono adottati dal Ximenes. Egli favoriva la libertà, s’intenda sempre l’interna, togliendo le gabelle molteplici, le restrizioni, i bandi; «i prezzi delle grasce sono stabiliti dai bisogni e dal consumo; i ricchi terrieri restano poveri, colle cantine e co’ granaj ricolmi; i terreni perdono di prezzo, e mancando il credito allo Stato, viene a scemarsi il tributo fondiario; una circolazione rapidissima e continuata moltiplica in proporzione i capitali, e fa prosperare tutte le classi d’una popolazione». Ferdinando Paoletti fiorentino, ne’ Pensieri sull’agricoltura, suggeriva savj spedienti di politica pratica; poi le lezioni [239] che ne dava a’ suoi parrocchiani pubblicò col titolo di Veri mezzi per rendere felice la società, libro letto e lodato anche fuori d’Italia.

Della carta circolante che stronizzava l’oro e l’argento, del credito pubblico che raddoppiava i capitali circolanti, e della potenza e delle illusioni di esso, della navigazione, delle colonie, non ebbero ad occuparsi i nostri, bensì degli emporj franchi, dell’estimo, de’ monti di pietà ed altri istituti di beneficenza, delle monete, delle zecche; amministratori in generale più che filosofi; e miravano anche a qualche artifizio d’esposizione, benchè nessuno facciasi leggere volentieri quanto i francesi. Nei più si riconosce una giovinezza inesperta e piena di fede, la quale avrebbe voluto abbracciar insieme e la realtà e l’ideale; chiedeano la libertà, ma solo nell’interno, coll’abolire privilegi, corporazioni, brevetti, ma osteggiando i forestieri, e gravandone di dazj le merci, impedendo l’asportazione delle materie prime, e al par degli storici mostrando d’essersi educati unicamente sui libri, non a fronte della realtà. E quei libri erano i francesi; e il non trovarsi mescolati nelle cose pubbliche e colla moltitudine, e da questa non intesi o non curati, li ratteneva dal sublimarsi fino a sentir la possanza del popolo; ma riguardandolo unicamente come oggetto della carità o delle superiori premure, volgeansi ai principi, aspettando da loro e a loro chiedendo i miglioramenti, riponendo il liberalismo nel ridurre in mano di essi l’autorità, sparpagliata fra i corpi e fra i magistrati municipali, volendo sempre governi operosi, intromettentisi, decretanti, come oculati tutori di nazione pupilla, anzichè limitarli all’uffizio di assicurar a ciascuno il libero esercizio della propria autorità.

Il conte Pietro Verri da Milano (1728-97), educato insulsamente dai maestri, frivolmente dalla società, ove la nobiltà, la [240] bellezza, lo spirito faceanlo sfavillare, militò breve tempo nel reggimento Clerici, poi stabilitosi in patria intese tutta la vita a dire e ad incoraggiare chi dicea verità di tal fatta. Con alquanti giovani pari suoi compilò il Caffè, serie d’articoli che diffondessero massime di buon senso, con poca connessione e coerenza, ma colla franchezza che convince più della verità. In questo e in certi almanacchi ghiribizzosi bersagliò l’infingardaggine arrogante d’alcuni nobili, la supina ignoranza di altri, e proponeasi di «domare la pedanteria de’ parolaj, la scurrilità degli spauracchi dell’infima letteratura, quel continuo ed inquieto pensiero delle minute cose, che tanto ha operato sul carattere, sulla letteratura, sulla politica italiana». La statistica, secretaria indispensabile di tutte le pubbliche amministrazioni, e precedente necessario d’ogni novità allorchè fatta con talento e sincerità, mentre è trastullo di prestidigitazione quando non cerchi che puntellar colle cifre un assunto prestabilito, applicò egli nelle Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano: e per quanto i suoi bilanci siansi trovati falsi nel principio, erronei nell’attuazione[98], egli raffaccia l’antico fiore al successivo scadimento del paese, ove «deserzione d’abitanti, oscurità d’ogni cosa, obliquità di costumi, incertezza di possessi, ignoranza, timidezza, superstizione furono le qualità impresse allo Stato dalla dominazione spagnuola»; ne indaga le cause e i rimedj; raddrizza le assurde tariffe; [241] combatte le distinte giurisdizioni a cui competeano i varj dazj; scassina l’appalto delle regalie e le leggi vincolanti il commercio dei grani. Nelle Meditazioni sulla economia politica, se troppo difetta in quistioni oggi fondamentali, allora a mala pena enunciate, se attinge a man salva dai Fisiocratici, e mette l’importanza nel diminuire le importazioni ed accrescere l’asportazione, pure cerca l’appoggio dell’esperienza: fu dei primi a dar chiara idea della moneta, qual merce universale, e com’essa non abbia valore se non in quanto rappresenta le cose che per suo mezzo possono ottenersi, e sia vanità e null’altro il voler monete coniate da zecca nazionale: cercò ridurre la pratica a crescere il numero dei venditori e diminuire i compratori, perciò disapprovando e le grandi amministrazioni e le manifatture prepollenti, e i privilegi d’inventori: vide l’utilità che ridonda dal trasporto, e dal ridurre il prodotto a portata del consumatore; vide che non è vero i dazj stimolino l’industria; che dovunque fiorisce il commercio, minimi sono i lucri sopra le singole merci, grandi invece ove torpe l’industria: idee sconnesse però, e da cui non traeva le illazioni. Quando per condiscendenza a Rousseau lodavansi il selvaggio e l’uomo isolato, egli osserva che un fil d’erba mietuto non val nulla, mentre ammucchiato con altri produce fermento e moto fin a divampare; un grappolo d’uva pigiato è materia feciosa, mentre molti uniti formano un liquore fragrante ed esilarante; e così «l’uomo isolato è timido e inetto; unito a pochi, poco può; ma molti ristretti in piccolo spazio s’animano e perfezionano, e spandono la vita e la riproduzione[99]».

Quanta importanza attribuisse ai possessi mostrò allorchè esortava a domandare una costituzione, stabilita [242] sulla sicurezza delle proprietà, da ciò deducendo ingegnosamente le pubbliche garanzie non secondo le idee di Locke e di Montesquieu d’arrestare il potere mediante il potere; nè tampoco cercava un organamento de’ varj poteri. Scrisse contro la tortura, la quale era stata difesa da suo padre Gabriello, uomo di tanta erudizione legale e storica, di quanta mostrossi deficiente il figlio in una Storia di Milano, digiuna di critica, incompiuta nei fatti, che, al modo d’allora, sono assunti per provare delle tesi, abbandonando le vitali particolarità per divagare in generalità, dimenticando che un fatto solo istruisce più di cento raziocinj; e dall’incidentale racconto traendo l’occasione a dottrine usuali e retorica declamazione, sempre in istile scipito ed esangue, benchè subordinasse ogn’altro intento a quel di farsi leggere. Però neglesse le favolose origini della città, volse l’esame sulle istituzioni e i costumi, mostrò la prepotenza dei pochi, e come fosse fiaccata dall’unione de’ molti; seguì le vicende del clero sebben coi rancori d’allora, e i progressi e lo scadimento della libertà; e ripete ogni tratto che i presenti sono assai migliori dei tempi passati. Un volume solo pubblicò; l’altro fu alla meglio raccozzato sui suoi manoscritti; ma l’autore un’unica copia n’ebbe venduta; ed egli lamentava di vedersi così poco apprezzato, e di non aver altra speranza che quella d’essere dimenticato dai ribaldi e dagl’intriganti. «Per la fatica di molti anni, per molte spese fatte per consegnare nelle mani dei Milanesi una storia leggibile della loro patria, e un libro che senza rossore potessero indicare ai forestieri curiosi d’informarsene, io non ho avuto dalla città di Milano nemmeno un segno che s’accorgesse ch’io abbia scritto. Ma già lo sapeva prima d’intraprendere un tal lavoro, e conosceva rerum dominos gentemque togatam. Nella Toscana, nella terraferma veneta, nella Romagna vi è sentimento di patria e amore della [243] gloria nazionale. Ivi almeno una medaglia, un’iscrizione pubblica, un diploma d’istoriografo, qualche segno di vita si darebbe, se non altro per animare all’imitazione: ma noi viviamo languendo in umbra mortis. Non si sapeva il nome di Cavalieri; la Agnesi è all’ospedale; Frisi e Beccaria non hanno trovato in Milano che ostacoli e amarezze. Il sommo bene di chi ardisce far onore alla patria è se ottiene la dimenticanza da lei. Nazioni che han sofferto assai, lasciansi cadere in quello scoraggiamento, nel quale si teme e il male e il bene; la tarda retribuzione è consueta in Italia, nè viene che traverso alle ire contemporanee»[100].

Molti provvedevano più direttamente al ben pubblico introducendo parziali miglioramenti, senza studio di teorie, senz’altra missione che la propria buona volontà; parlo de’ migliori, non de’ presuntuosi che il facevano per ostentazione, nè de’ fiacchi che per imitazione. Verun paese d’Italia restò diseredato de’ miglioramenti, e dicasi a lode dei nostri, realmente diretti all’utile dei più, anche quando errassero nei mezzi. Il marchese Carlo [244] Ginori fiorentino introduce fabbriche di porcellana, macchine idrauliche per lavorar le pietre dure, piante esotiche; e sotto la sua direzione una nave con bandiera ed equipaggio toscano salpa per la prima volta da Livorno per America. Luigi Ricciomanni di Sabina fa stabilire a Montecchio la prima società agricola degli Stati papali; e a tacer molte opere legali ed erudite, lasciò un diario economico, un giornale d’arti e commercio, altri scritti d’agricoltura. Per Pietro Arduino botanico veronese la prima cattedra d’economia rurale in Italia fu istituita dalla repubblica veneta nell’Università di Padova (1765), il cui giardino egli provvide di tutte le piante utili, insegnandone la coltivazione e le opportune a introdursi, e largheggiando di consigli alle società agrarie, allora crescenti in quel dominio. Anton Zanoni udinese, migliorò nel Friuli le viti e i gelsi, aperse commercio operoso coll’America spagnuola, istituì in patria una società georgica e una scuola per disegnare stoffe di seta, e dettò con buone idee pratiche. Nel paese stesso il conte Fabio Asquini ravvivò l’agricoltura, tornò in onore le viti del piccolit, introdusse la patata e la robbia vegetale, conobbe gli usi della torba, usò nelle febbri l’erba sentonica (artemisia cærulescens L.), propose ripari alla devastazione dei boschi, fin d’allora deplorata. Bottari di Chioggia nel Friuli stabilì un podere modello (1782) rimpetto a Latisana, che dura tuttora, e vi estese la coltura delle rose damascene, molto usate allora per la teriaca; degli ortaggi, delle frutte, migliorò i vini, ma soprattutto studiò attorno al gelso, talchè quella provincia diventò una delle più sericole: ajutandosi coll’istruire i contadini, cangiarne le abitudini, e restò un suo buon libro sull’accoppiamento delle viti ai gelsi. Il marchese Manfrini piantò tabacco a Nona in Dalmazia; il conte Carburi naturalizzò l’indaco, lo zuccaro, il caffè a Cefalonia, dove nel 1760 il governo veneto apriva una [245] accademia agraria-economica: di otto anni l’aveva preceduta la società de’ Georgofili in Firenze, ch’ebbe pure cattedra di agraria.

Jacopo Nani veneto, oltre il piano per la difesa delle lagune e altre scritture di guerra, diede impulso e istruzione per lo scavo dei combustibili fossili, e regole alle miniere; trattò tutte le parti dell’economia, e ne sollecitò le migliori applicazioni. Carlo Bettoni bresciano, operoso a migliorare la moralità de’ suoi paesani, e prevenire i frequenti omicidj, propose due volte cento zecchini agli autori delle migliori novelle morali, e altrettanti per chi suggerisse come risvegliare l’amore dei nostri simili nei giovanetti. Alvise Zenobio veneto coltissimo, esibì all’accademia di Padova l’ugual somma per chi «indicasse il mezzo più efficace a fiorire il veneto commercio». Vero è che la Signoria veneta vi si oppose, perchè non s’addice ad un corpo dipendente dal governo occuparsi d’oggetti di pubblica amministrazione, se non invitato da esso[101]. L’accademia di agricoltura, commercio ed arti di Verona nel 1792 domandava «se giovi o no tener le arti unite con discipline, privilegi e contribuzioni al corpo; e quali siano i vantaggi tanto generali come particolari rispettivamente al commercio, alla nazione, al pubblico erario»: la miglior risposta fu di Giambattista Vasco, stampata poi dal Veladini a Milano col titolo Delle università delle arti e mestieri, 1793, e risolve che non giova tener le arti unite in corpi, maggiori assai de’ vantaggi essendo gli sconci che ne derivano. L’accademia agraria di Conegliano nel 1789 poneva a concorso le cause, gli effetti, i rimedj della povertà quasi universale de’ contadini: e l’accademia di Udine raccomandava all’attenzione del senato veneto una Memoria del cappuccino Giambattista [246] da San Martino sulla più utile ripartizione fra le praterie e i seminati. I Georgofili nel 1702, chiedevano se i prezzi dipendevano dalla legge o dal mercato.

Il conte Filippo Re di Reggio introduceva piante inusitate, e stese Elementi d’Agricoltura adatti alla Lombardia, applicandovi le teoriche fisiche e chimiche, e volendo mostrare che noi Italiani non avevamo bisogno d’impararla da forestieri; insegnò l’educazione delle pecore e de’ fiori; analizzò le malattie delle piante, opera a cui poco o nulla s’aggiunse di poi. Il marchese Domenico Grimaldi di Seminara studiò assai l’agricoltura viaggiando, e introdusse nel Napoletano macchine sconosciute, pomi di terra, prati artifiziali, mulini da olio: ma con ciò sbilanciatosi dovè limitarsi a scrivere, ed incaricato dal Governo di sorvegliare in Calabria la seta, introdusse i torcitoi da organzino. Paolo Balsamo siciliano fece molti trattati d’agronomia e d’economia, fra cui il Villano filosofo. Giovanni Presa di Gallipoli combatteva le cattive pratiche agricole, e introduceva nuovi metodi per preparare i tabacchi e l’olio. Aggiungiamo i Saggi d’agricoltura del parroco Landeschi (Firenze 1782), quelli del curato De Capitani lombardo.

Raimondo de Sangro principe di Sansevero (1710-71) fece e perfezionò un’infinità d’invenzioni; un nuovo sistema di fortificazione e di tattica per la fanteria; un cannone che pesava appena trenta libbre, un fucile che poteva caricarsi e a polvere e a vento, carta per le cartuccie che si polverizzava istantaneamente; una lampada inestinguibile, un panno finissimo e impermeabile, del quale vestivasi Carlo III; tappezzerie belle ed economiche; nuovi metodi di pitturare e di conservare le pitture, di colorire i marmi, d’imitar le pietre fine o di colorirle, di stampare a più tinte; una carrozza galleggiante. Lalande, Björnsthal, Nollet e altri viaggiatori non rifinano di dirne meraviglie; fu creduto mago; fu tacciato d’immorale [247] per le figure di cui ornò la privata sua cappella, da lui stesso disegnata; fu creduto empio perchè aggregato a Franchimuratori.

Bartolomeo Intieri fiorentino (1680-1737), matematico ed abilissimo a invenzioni meccaniche, prosperò gli affari dei Corsini, dei Medici, de’ Rinuccini; a Napoli introdusse un nuovo modo di magazzini del grano e una stufa per conservarli, perfezionò il palorcio con cui gli abitanti d’Amalfi e di Vico calano le fascine e la neve dalle vette dei monti fino al mare; e il modo di stampare le polizze del lotto; cercò prosperarvi il commercio e le manifatture, e fissò trecento ducati annui per una cattedra di commercio e meccanica, a patto che l’insegnamento si facesse in italiano, il professore si eleggesse a concorso pubblico, e non mai religioso, e il primo fosse il Genovesi.

Pasquale De Pietro andò ad osservare le scuole di sordomuti in tutta Europa, e nel 1733 spedì a Parigi Tommaso Silvestri, il quale poi tolse a istruire que’ meschini a Roma, sostenuto dal cardinale De Pietro. Nel 1765 il gesuita Federico Sanvitali (1753-1829) dissertò sui metodi d’educarli. Battista Assarotti genovese oratoriano si segnalò per carità nella cura di questi infelici, e ne preparò gli odierni istitutori.

Anche la giurisprudenza s’avviava a sostituire una buona analisi all’opprimente erudizione, l’autorità logica alle arguzie scolastiche dei giuristi: ma de’ nostri la più parte si applicarono a casi o discussioni particolari, pochi alla scienza generale. Arcasio di Bisagno (1712-91), autore di stimati commenti di diritto civile, fu il primo professore dell’Università torinese, cui nel giubilarlo fosse concesso il titolo di senatore. Maurizio Richeri diede un riputatissimo corso di giurisprudenza. Giuseppe Aurelio Gennari avvocato napoletano, fra gl’impieghi fedele agli studj, nella Respublica jureconsultorum (1731) finge [248] che i giureconsulti dopo morte vadano in un’isola del Mediterraneo, ove posero una repubblica modellata sulla romana; senatori sono i prischi che fiorirono da Papirio sino a Modestino; cavalieri quelli che fino ai dì nostri posero ingegno e coltura in quella dottrina; al popolo appartengono Accursio, Bartolo e gli altri arguti e ridicoli. La descrizione e gli accidenti di una gita ch’ei vi fa, porgongli modo di qualificare i varj. Fu opera applauditissima intrammezzata da versi, fra cui un poema in mille ottocento versi latini sopra le XII Tavole. Lasciò pure un trattato Delle viziose maniere di difendere le cause nel fôro (1744), dove accoppia la regola e lo esempio, e dà la storia della professione d’avvocato.

Monsignor Giovanni Devoti (1744-1820) vescovo d’Anagni scrisse il dialogo De notissimis in jure legibus, poi le Istituzioni di diritto canonico, adottate in molte scuole anche fuori d’Italia; materia non abbastanza ordinata, nè fusa, donde un ingombro di note: poi lo Jus canonicum universum, nel cui primo volume posa l’origine e i progressi di tale scienza; seguono le Decretali con appendici preziose. Famoso legista fu il romano Barberi, che fece il processo di Cagliostro, e più tardi una difesa dell’assassinio di Bassville, onde fu perseguitato dai Giacobini.

Il marchese Cesare Beccaria milanese (1735-93) nell’operetta Dello stile si striga da que’ precetti che non formano nè un oratore nè un poeta; ma dalla pura impulsione del sentimento cui rimaneva abbandonato, si propone richiamare lo stile alle regole dell’analisi e del ragionamento, siccome parte della metafisica, perocchè le scienze del bello, dell’utile, del buono, cioè le belle arti, la politica, la morale, considerava come del pari fondate nella natura dell’uomo e sopra il concetto della felicità, sì che i principj ne sono identici, ma più o meno estesi. Bel lampo della grande unità, cui ora le scienze s’incamminano. Solo per via delle sensazioni il piacere delle cose [249] materiali si fa avvertire all’animo; onde la bellezza dello stile deriva immediatamente dallo esprimere le impressioni, e dal senso che eccitano nell’animo le parole che le rappresentano. Adunque lo stile maggior piacere produrrà quanto più interessanti sensazioni accessorie si addenseranno attorno alla principale, purchè l’animo sia addestrato a quel pronto e vivace risentimento, che in sè ecciti copia di variate impressioni. Tutti, a dir suo, nascono con pari capacità alle arti umane; datevi istruzione ed esercizj uguali, e si ridurranno a parlare e scrivere tutti al modo stesso. Paradosso ch’e’ deduceva da Elvezio, confondendo l’identità delle facoltà colla eguaglianza delle intelligenze; ma ch’egli accarezzava forse per togliere scusa a quelli, che dell’inettitudine propria imputano la natura matrigna.

Reputazione immortale gli venne dal libriccino Dei delitti e delle pene. La procedura criminale, di cui indicammo altrove gli svolgimenti, reggevasi sopra le ordinanze di Carlo V del 1532, e di Francesco I del 39, che statuivano il processo inquisitorio, le interrogazioni e i confronti a porte chiuse, le sentenze rendute sovra gli atti verbali. La prova doveva essere materialmente affissa al fatto, anzichè alla stima del giudice, al quale non rimaneva che a verificare le circostanze di fatto e il loro valore. S’avevano un titolo autentico, la confessione dell’accusato, due testimonianze, gravissimi indizj? bastava che il giudice li avverasse e proferisse la sentenza. Erano meno evidenti gl’indizj, un solo il testimonio, stragiudiziale la confessione? ne nasceva la prova semipiena, non bastevole a motivare la condanna, bensì a chiedere il compimento della prova mediante la tortura, o ad infliggere una pena minore. Di qui gli sforzi de’ giudici per ottenere la confessione degli accusati mediante la sottigliezza delle interrogazioni o il raffinamento de’ tormenti. Perocchè il [250] delitto non deve rimanere mai impunito; e affinchè ciò non avvenga, deve la legge interpretarsi nel senso più lato[102].

I commentatori delle leggi romane tendevano a diffondere la interpretazione logica piuttosto che la letterale nel determinare i casi e le condizioni d’applicare le pene; e Farinacio e Menochio, per dire solo de’ nostri, ammettevano che, qualora i termini degli editti fossero oscuri o insufficienti, i giudici potessero senza scrupolo supplirvi; ne’ casi non previsti, applicassero la pena che più fosse analoga al fatto incriminato. L’articolo 105 dell’ordinanza di Carlo V permetteva di pronunziare pene anche fuori de’ casi da essa preveduti; e Bodino spingeva tale concessione fino alla pena di morte.

La sapienza romana non aveva imposto castighi diversi agli umili e agli ottimati?[103] Tutti i giuristi ammisero tal distinzione: e la gogna, la galera, la forca, le pene infamanti non toccavano ai nobili[104] ed anche nell’altre dovevano averne il minimo. Oltre che franchigie di cortigiani, di nobili, di preti intralciavano la giustizia; le preture feudali costituivano giudice e parte lo stesso padrone, o quando meno, rendevano ragione sotto l’influenza di lui che le stipendiava.

Innocenti e rei, sospetti e convinti, cittadini e proscritti trovavansi messi a livello entro orribili prigioni. Venezia aveva decretato qualche miglioramento, ma rimasero infami i pozzi e i piombi suoi. A Roma erasi tentato introdurre il sistema penitenziario (Cap. CLX, in fine); [251] ma non ottenne applicazione nè durata. La Chiesa aveva rimediato con pie fraternite, cui uffizio era visitare i carcerati, sollecitarne i processi, impetrare grazie: or che volevasi togliere alla Chiesa l’arroganza d’essere l’unica benefattrice, bisognava provvedere che i Governi migliorassero le carceri. Quest’intento propose all’intiera sua vita l’inglese Howard, ogni paese girando per conoscerle, confrontarle, ottenerne qualche mitigazione. Limitandoci a dire dell’Italia, pessime le trovava a Torino, nè migliori a Milano, salvo che quivi erasi introdotta una casa di correzione[105], col proposito, se non coll’atto, di migliorare i detenuti, e non di soltanto castigarli. In Toscana se ne preparavano di migliori che non i soliti fondi di torre d’Orbetello e dell’Elba. Lucca, in mancanza di proprie, mandava i condannati nelle carceri di Venezia e di Genova, nelle quali ultime stavano opportunamente distinti i debitori e le donne. Quelle di Roma avevano almeno buona apparenza: quelle di Napoli rigurgitavano di detenuti, mancanti d’aria e di lavoro: quelle delle fortezze austriache, disse Howard a Giuseppe II, esser peggio della forca.

Fra le pene erano i lavori pubblici, fosse nelle fortezze, fosse a spazzar le città, trascinando le sonanti catene in mezzo al lusso e ai passeggi; il remare sulle galere, al qual uopo ogni anno la Lombardia consegnava molti [252] rei a Venezia; le battiture ad arbitrio, il marchio, la scopatura, la morte[106] esacerbata da squisiti tormenti. Nel diutile dei notari per l’anno 1775 sussiste ancora la tariffa delle competenze del carnefice per l’esecuzione di sentenze fuori di Milano, dove gli sono assegnate lire centoventisei per dare morte colla forca o ruota o decapitazione; ottantaquattro per fustigazione, berlina, taglio della mano; venticinque di più qualora il condannato deva esser tratto a coda di cavallo; altro per la ruota, la colonna, le scale, le gabbie in cui esporre una o più teste, l’assa su cui distendere il condannato per tirarlo, i sacchetti da cavallo in cui riporre la testa o teste.

I giuristi avevano scritto contro qualche modo di procedura, ottenutene anche modificazioni; Montesquieu non pone altra restrizione al potere penale della società, se non lo spirito di dolcezza e di equità, benchè mostri l’assurdità delle giuridiche forme, come già avevano fatto lo Spee ed altri oppugnatori de’ processi delle streghe; Servan, avvocato generale al parlamento di Grenoble, occupossi d’applicare alle leggi criminali i miglioramenti indicati da Montesquieu; ma nessuno aveva impugnato l’insana libertà lasciata ai giudici d’aggravare [253] le pene, non la sproporzione e i delitti, non l’abbandonare l’imputato senza difesa, senza modi di giustificazione, senza che la società sapesse perchè le era tolto; non riguardare l’accusato come reo e nemico della società, proponendosi unico scopo l’intimidire. Leggi romane, consuetudini, statuti, precedenti di giurisprudenza, tradizioni di pratica costituivano un corpo di diritto, di cui l’applicazione, non l’esame era l’oggetto degli studj; «un’opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinacio, sono le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbero reggere le vite e le fortune degli uomini»[107]. Così diceva il Beccaria, giovane di ventisette anni, discorrendone con altri giovani amici, e infervorato scriveva pagine, da cui risultò un libretto, che ad impulso di Pietro Verri, e «animato da amore di letteraria reputazione e di libertà, e da compassione per le miserie degli uomini, schiavi di tanti errori», lasciò stampare alla macchia; e che, mentre rimaneva ignoto in patria, diffondevasi fuori perchè breve, italiano, e giunto in momento opportuno.

L’opinione era preparata dai lavori de’ filantropi e degli Enciclopedisti; aggeniava tutto ciò che digradasse il passato ed avviasse all’avvenire; alcuni processi famosi, ove la innocenza era soccombuta alle forme, aveano provocato le declamazioni del bel mondo contro la giustizia criminale. E il Beccaria appunto veniva ad abbatterla dalle fondamenta, per sostituirvi il rispetto ai diritti dell’uomo; piacque il tono sentenzioso, risentito, assoluto, che enuncia in tono di legislatore senza brigarsi di provare, mette la conclusione sopprimendo le dimostrazioni: piacque la veemenza, col disordine ma coll’impeto dell’ispirazione; il non trovarvi o cumulo di [254] citazioni od ostentazione matematica o la beffa, maniere allora usuali, bensì aria di candida persuasione. L’abate Morellet trombettiere degli Enciclopedisti poco fedelmente lo tradusse in francese, dandovi ordine migliore e una distribuzione che ne agevolava l’intelligenza, e che l’autore adottò; Voltaire commentollo; a gara gli Enciclopedisti lo levarono a cielo, colla soddisfazione che si prova nell’applaudire in altrui le idee nostre stesse. Di rimpatto Venezia si tenne particolarmente designata in quel libro, e lo suppose opera della fazione che poco prima n’avea minacciato la quiete, e lo fece confutare dal padre Angelo Fachinei, il quale in un grosso volume lo denunziò fanatico, impostore, pericoloso ai Governi, satirico ai frati, calunnioso alla Chiesa, seduttore del pubblico: altri lo avversarono come arrogante che sprezzava leggi ammirate da secoli, e ch’egli voleva abbattere senza conoscerle[108]: coloro che l’intera vita aveano consumato nello studiar le pratiche avviluppatissime, o compassionavano o vituperavano questo giovincello che di punto in bianco mettevasi a [255] saperne più di loro: astiosi gli uni, entusiasti gli altri, nessuno ben ponderandolo, come avviene de’ libri di occasione e che sono l’espressione della coscienza pubblica.

Nel fatto egli non era novatore, ma stipava in poche pagine ciò che in moltissimi opuscoli e volumi si leggeva sparso; autoravasi colle idee filantropiche del tempo, e col tono declamatorio che Rousseau avea messo di moda. Ma invece d’avvilupparsi in quel labirinto di leggi, ove egli avrebbe scapitato a fronte di consumati giurisperiti; d’intaccare qualche uso particolare, dove cozzerebbe colle abilità de’ pratici, assalisce il sistema in generale per abbatterlo, e vedere qual legislazione razionale potrebbe surrogarsi, fondata non più sulla pubblica vendetta, ma sui sentimenti di giustizia e umanità. Non dunque discussioni che portano discussioni, non tesi di diritto, ma un’esposizione chiara davanti al senso comune, e come questo richiede, breve, interessante. Realmente conosce poco di leggi, meno di storia, giusta il vezzo del secolo che delle cognizioni positive non tenea conto e meno delle tradizioni, surrogandovi il raziocinio; non architettò il suo libro artisticamente; non ne chiedea lode letteraria, ma di scuotere col sentimento, colla declamazione, coll’apoftegma; «fortunato se potrò ispirare quel dolce fremito, con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi dell’umanità». Trovatosi uomo grande senza saperlo, volle attribuirne merito ai Francesi ed agli Enciclopedisti.

Perocchè avendogli il Morellet mandato la sua traduzione colle cortesie che si costumano in tali evenienze, egli rispose una lettera, di cui qualche frase ripeteremo, come prezioso testimonio de’ tempi e dell’uomo:

— La graziosa lettera che vi siete compiaciuto dirigermi, [256] ha destato in me i sentimenti della più profonda stima, della maggior gratitudine e della più tenera amicizia; nè saprei con parole esprimervi quanto mi tengo onorato di vedere l’opera mia tradotta nella lingua d’una nazione che è maestra e dispensatrice di lumi a tutta Europa. Io debbo tutto ai libri francesi; essi hanno risvegliato nell’animo mio i sentimenti d’umanità, ch’erano stati soffocati da otto anni d’educazione fanatica.... V’assicuro che nella sesta edizione seguirò intieramente o quasi intieramente l’ordine della vostra traduzione, che pone in miglior luce le verità che ho cercato esporre. Quanto alle oscurità che vi trovaste, io udii il fragore delle catene che la superstizione va squassando, e le grida del fanatismo che soffocano i gemiti della verità; e la vista di questo spettacolo spaventevole m’ha indotto a velare talvolta di nubi la luce. Ho voluto difendere la verità, senza farmi martire di essa....

«D’Alembert, Diderot, Elvezio, Buffon, Hume, nomi che nessuno ode senza sentirsi commuovere; le vostre immortali opere sono mia lettura continua ed oggetto delle mie occupazioni nel giorno, delle mie meditazioni nel silenzio della notte! Pieno delle verità che voi insegnate, come mai avrei potuto ardere incenso all’errore adorato, ed avvilirmi fino a mentire alla posterità? Trovomi ricompensato più che non speravo, nel ricevere segni di stima di cotesti celebri personaggi che sono miei maestri.

«Mia occupazione è coltivar in pace la filosofia, ed appagare così tre sentimenti in me fortissimi, l’amore cioè della riputazione letteraria, quello della libertà, e la compassione pei mali degli uomini, schiavi di tanti errori. Da soli cinque anni data la mia conversione alla filosofia, e ne vado debitore alla lettura delle Lettere persiane. La seconda opera che compì la rivoluzione della mia mente, è quella d’Elvezio. Questo mi [257] spinse con forza irresistibile nel cammino della verità, e risvegliò pel primo la mia attenzione sull’acciecamento e sui mali dell’umanità[109].

«Il mio paese è tuttora immerso nei pregiudizj che v’hanno lasciato i suoi antichi padroni. I Milanesi non la perdonano a coloro che vorrebbero farli vivere nel secolo XVIII. In una capitale che conta cenventimila abitanti, appena trovereste un venti persone che amino istruirsi, e che sacrifichino alla virtù ed alla verità.... I filosofi francesi hanno in quest’America una colonia, e noi siamo loro discepoli, perchè siamo discepoli della ragione.... »

Facciasi pur larga parte al complimento, al ricambio delle lodi, fa dolore il vederlo confondere tutti que’ filosofi in un’irragionevole ammirazione fin a questo mediocrissimo Morellet, fino allo sguajato barone d’Holbach; e professarsi interamente loro scolaro, quasi non sia diverso il ricevere l’impulso ed il copiare. Nè quel che copiò è la parte lodevole del suo lavoro.

Grande ne fu l’effetto: le mille voci di quel demonio chiamato legione ch’era l’Enciclopedia, ripetevano su mille toni gli assiomi di questo coraggioso che tanto osava nel paese (dicevan essi) del Sant’Uffizio, e la cui forza facea più colpo appunto perchè moderata. Poco [258] andò, e l’Austria abolì la tortura, benchè vi si opponesse il senato, come il Sacro Consiglio di Napoli erasi opposto allorchè Tanucci ordinò di pubblicare i motivi delle sentenze, quasi ciò fosse un diffidare della sua equità; Caterina II di Russia, imperatrice filosofessa, adottò i suggerimenti di quel libretto; la Società di Berna fece coniare al Beccaria una medaglia; lord Mansfield al parlamento inglese nol nominava che con atto di rispetto; Brissot de Warville non credette poter cominciare meglio la sua Biblioteca filosofica del legislatore, del politico, del giureconsulto che da quell’operetta «ardita e luminosa, che pare impossibile sia uscita da paese ove domina l’Inquisizione»; Servan, Pastoret, Bexon, Philpin de Piépape si posero sotto la bandiera di lui nel combattere il diritto criminale in Francia con tal forza, che la riforma di esso, mediante le regie ordinanze del 1780 e dell’88, è la sola che precedesse la rivoluzione; di là preser le mosse tutti i trattatisti posteriori, come le città dell’America si fondano sul terreno donde furono estirpate le intatte boscaglie.

Assicuratone il merito come opera critica, possiam dirne altrettanto quanto a teorie fondamentali? Quella dottrina dell’espiazione che mette il male nell’intenzione non nell’atto, che vuole il castigo sia una soddisfazione dovuta dal colpevole, il quale lo riguardi come un rigeneramento della sua coscienza, risale fino a Socrate[110], e fu ammessa da molti Greci. I Romani parvero nella pena avvisare unico scopo l’interesse dello Stato e l’esempio[111]; rispettando essi l’uomo unicamente perchè [259] cittadino, nè senza di ciò valutandone i patimenti o la vita. Ma dacchè il cristianesimo insegnò a venerare l’uomo come figlio di Dio, i Padri scôrsero nella pena una riparazione ed espiazione, un debito che la giustizia ha diritto d’esigere. I Barbari riscattavano il delitto a prezzo, secondo viste di cui la storia dà ragione: nel medioevo si conservarono pene atroci per delitti assurdi; pure i teologi e alcuni filosofi religiosi consideravano il castigo come un’espiazione morale. Al contrario, i giuristi e i filosofi puramente umani s’appigliarono al diritto di difesa, derivato dal patto sociale. Il Beccaria avea (lo vedemmo) in una quistione estetica stabilito l’ordine sociale sopra la natura dell’uomo[112]: eppure adesso nella quistione giuridica lo poneva, con Sydney e Hobbes e Locke, sopra un contratto, per cui gli uomini eslegi convennero di radunarsi in civile consorzio. Gl’individui cedettero porzione di loro indipendenza allo Stato, o al sovrano che lo rappresenta, affine di godersi con sicurezza l’altra: or quando nasca collisione fra gl’interessi collettivi ed uno individuale, può la società forzar questo a rispettarla, o punire chi la offese: ma niuno potè cedere il diritto di togliergli fin la vita. Perciò il diritto di morte, del quale non dubitavano nè Montesquieu nè Rousseau nè Voltaire, egli forse primo dichiara illegittimo, a fronte della coscienza universale.

[260]

Accettando il canone di Montesquieu, che d’origine, d’oggetto, di natura differiscano le divine dalle leggi umane, dovea negare che scopo della penalità sia ripristinar l’ordine sociale, scompigliato da un’immoralità, non avendo la giustizia umana avuto questa missione, esercitata com’è da esseri deboli e limitati, fallibili, incapaci di valutar le lotte della coscienza e la forza delle tentazioni; dove, separando la giustizia divina dall’umana, il Beccaria non intese negarla, ma voleva segnarne i confini e impedire gli eccessi ai quali traeva il pretesto di vendicare la divinità.

Insomma alla pena lasciava il repressivo, toglieva il carattere morale; e fin nel domandare che avesse conformità colla natura del delitto, la porta a una materialità inattingibile, mentre non v’induce l’elemento riparatore. Ma ristretta la giudicatura a valutar solo gl’indizj esterni e punire il male cagionato alla società, anzichè la spinta criminosa, egli non s’adagia affatto nel diritto di difesa o di vendetta, dal quale possono dedursi esagerazioni; e la necessità dell’utile comune che costituì la società, deve anche esser il limite delle pene: ond’ecco la capitale esser di nuovo illegittima, perchè non necessaria. È vero che quell’utile sociale egli nol vuole disgiunto dalla giustizia, la legge politica appoggia alla legge morale: ma queste sono frasi, non corollarj scientifici, e introdurrebbero nel delitto un elemento morale, e nel castigo un’idea d’espiazione, le quali non vi appajono scientificamente; incongruenza suggeritagli dalla sua bontà. Tant’è vero che i suoi seguaci Filangeri, Bentham, Feuerbach non videro questi limiti pur adottando il principio[113].

[261]

Meglio fortunato nelle applicazioni, il Beccaria prefigge limiti pel legislatore e pel giudice: quello non deve proferir sentenze, nè questo interpretare la legge: ma solo applicarla nel senso letterale[114]; quello fare che tutti sappiano e comprendano i suoi ordini mediante una lingua comune e una fraseologia evidente, questo esporre i motivi degli imprigionamenti e delle condanne; non accuse clandestine, non la schifosità delle spie[115], non arresti arbitrarj, non procedure secrete; al giudice si diano a sorte degli assessori, vale a dire i giurati, il buon senso tornando più opportuno a verificar il delitto che non l’abilità d’un giudice, ostinato a trovar la reità, e ridotto a valutare le mezze prove, le prove per fusione, il frutto insomma de’ suoi studj, piuttosto che quella convinzione morale, che «è più facile sentire che [262] esattamente definirla». Del difensore non fa parola. Il delitto di maestà restringasi ad azioni che veramente l’offendono; non si puniscano quelli che la pena non infama; non le colpe riservate al giudice supremo; puniscasi l’ozio politico: ma in niun caso la podestà sia in diritto di castigare finchè non abbia fatto tutto quello che può onde prevenire. I castighi sian eguali per tutti i rei del medesimo delitto; teoria oggi comune, allora repugnante ai dominanti privilegi e alla sapienza romana: siano moderati, ma inevitabili; dunque non asili, non rifugio su terra straniera, neppur il diritto di grazia al legislatore[116], affinchè sia tolta al delinquente ogni lusinga di sottrarsi al castigo, che come l’ombra al corpo deve associarsi all’idea del delitto. La confisca è un’ingiustizia a danno degli eredi. Le pene infamanti sono un’assurdità; e conchiude: — Perchè una pena non sia una violenza d’un solo o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi».

In questa esaltazione filantropica, allorchè imputa le legislazioni esistenti ha quasi sempre ragione; non così quando risale alle cause; e secondo le generalità d’allora, non valuta abbastanza la connessione tra le pene e la forma de’ governi. In quelli costituiti per vantaggio di tutti e dal volere di tutti, ogni violazione sarà pessima; in quegli, ove fa legge il capriccio dell’imperante, si può egli esigere assoluta osservanza? se le nostre disposizioni condannano al celibato metà della gioventù, come mostrarsi severi contro il libertinaggio? se restringete la ricchezza in mano di pochi, non dovrete [263] alterar la misura nella punizione dei furti e delle frodi? come condannerete i rei di Stato ove patria non s’ha?

Vuolsi poi nel Beccaria sceverare ciò che è speciale al diritto di punire, e ciò che vi pose quasi di episodico, desunto spesso dalle idee anticristiane de’ suoi contemporanei. Questi faceano guerra alla famiglia in nome della libertà individuale, e il Beccaria sostenne con Rousseau che le «sempre mediocri virtù di famiglia» si oppongono all’esercizio delle pubbliche (§ 59); dichiara che l’aver considerato lo Stato come un’aggregazione di famiglie anzichè d’uomini, autorizzò funeste ingiustizie, perocchè le famiglie sono monarchie, laonde la soggezione domestica abitua alla soggezione civile, e insinua nelle società lo spirito monarchico; laonde si avranno ventimila liberi, cioè i capicasa, ma ottantamila schiavi; e a misura che i sentimenti nazionali s’indeboliscono, rinforzano quelli di famiglia, comandando un continuo sacrifizio di sè all’idolo vano che si chiama bene domestico; mentre invece «quando la repubblica è d’uomini, la famiglia non è subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli si assoggettano al capocasa per parteciparne i vantaggi»[117].

Ecco dunque il legame più sacro ridotto a un’accomandíta[118]; ecco la dipendenza confusa colla schiavitù, [264] l’autorità colla tirannia; ecco smentito il genere umano che tra le garanzie d’ordine pubblico ha posto l’avere famiglia. Egli trova strano il beneficare i suoi prima degli altri, dicendo che «l’amor del bene in famiglia, idolo vano, insegna a restringere le beneficenze a piccol numero», quasi che idolo vano non possa dirsi anche l’amar il bene della società in cui si nasce, vale a dire la patria. Ma lo spirito nazionale per noi è lo spirito di famiglia ingrandito, e la costituzione politica deve farsene appoggio contro la mobilità dello spirito individuale. Distrutta la famiglia, la repubblica cadrà nel despotismo. Chi ne la salverà? «un dittatore dispotico, che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio per edificare quanto egli per distruggere». E così infatti dovrà intervenire. Ma il Beccaria procede più innanzi, e con Rousseau va sino a chiamare la proprietà «diritto terribile e forse non necessario» (§ 22), egli il quale pure avea difesa «la sacra proprietà dei beni» (§ 32) e detto che «scopo dell’unione degli uomini in società era godere la sicurezza della persona e de’ beni».

Tali sfuggite sono viepiù strane in lui, che molto s’occupò d’economia pubblica. In gravissimo disordine [265] era caduta la moneta nello Stato di Milano, collo sparire alcune specie, affluirne altre, colpa dell’autorità che avea voluto intrigarsene con tariffe, dove valutavansi le monete forestiere meno esattamente che non sapesse farlo l’interesse privato. La causa non saltava così agli occhi ai contemporanei; e invece di qualche provvedimento amministrativo, se ne fece un’indagine scientifica, appoggiandosi i più ai concetti di Locke, il cui libro Sulla moneta e sugli interessi era stato tradotto nel 1751. Il Beccaria, come il Neri, sostenne il valore intrinseco del denaro dover equivalere al legale, nè computarsi la lega e la monetazione; chiari gli errori di calcolo incorsi nella tariffa, propose un magistrato che vegliasse alle successive variazioni di corso, e proponesse i mutamenti che bisognassero.

La sua fama era volata lontano, e Caterina di Russia lo invitò a sè; ma il ministero austriaco trovò indecoroso il lasciarlo partire, e per lui istituì una cattedra di economia pubblica. Per quella il Beccaria compose lezioni sull’agricoltura e le manifatture, che poi furono raccolte dalle sue bozze non forbite; eppure sono opera più originale che non quella Dei delitti e delle pene. Oggetto dell’economia pubblica pone la ricchezza, la quale consiste nell’abbondare delle cose necessarie, delle comode, delle aggradevoli; sicchè riguarda l’agricoltura, le manifatture, il commercio, le finanze, la polizia, sotto tal nome abbracciando l’educazione, la sicurezza, il buon ordine. Omettendo le ciancie e le digressioni, prese a fondamento la massima quantità di lavoro utile, cioè che somministra la maggior quantità di prodotto contrattabile. Sopra questa teorica, che prevenne quella dei valori permutabili di Smith, proclamò la divisione del lavoro prima di questo, ma come fenomeno, non come causa principale dei progressi; determinò i criterj di regolare il prezzo dei lavori; analizzò [266] le vere funzioni dei capitali produttivi e le vicende della popolazione; volle moderata la libertà nella contrattazione de’ grani; e cogli Economisti proclamò la sterilità delle manifatture e la dottrina del prodotto netto.

Pochissimo confidava ne’ suoi concittadini, molti dei quali in fatti mormorarono contro di lui; ma il governatore, dico il governatore austriaco, lo tolse in protezione, lo pose nel magistrato politico camerale e a capo dell’istruzione, e ne chiese i consigli, fra’ quali furono quello d’una moneta conforme in tutta Italia e di misure divise per decimi, e desunte dal sistema mondiale. Colla buona indole poi acquistava credito alle dottrine che professava; scrisse contro il lotto, e sebbene chiamatovi dalla sua carica, non assistette mai alle estrazioni: eppure placido e fin timido, non credea doversi sagrificare la pace all’amore della verità; e appena il mondo l’ebbe conosciuto, egli si tacque.

Giovanni Lampredi fiorentino (-1793), oltre indagare debolmente la filosofia degli antichi Etruschi e confutare Rousseau e Samuele Coccejo, stampò Juris publici universalis, sive juris naturæ et gentium theoremata (1776), testo in molte Università, ove coordina le migliori opere anteriori, s’emancipa dai principj del diritto romano divenuti disopportuni, e sostiene che alle leggi positive precede sempre una immortale: vorrebbe le leggi diminuissero in proporzione dei progressi della civiltà, poichè il bene non si fa che spontaneo, e una legislazione complicata può divenire tirannica anche negli Stati liberi. Il diritto delle genti deduce da quel di natura, e annunzia non darsi verun legittimo impero se non sopra chi vi acconsente; e quando un principe cede qualche suo Stato, i cittadini di questo non essere tenuti a obbedire al nuovo padrone. Intorno alle relazioni fra i popoli neutri in tempo di guerra, stette per l’opinione più liberale confutando Galiani. [267] Fu tacciato di ligio perchè sostenitore della maggioranza de’ vescovi contro il Ricci.

Domenico Azuni pubblicò (1827) un Dizionario universale ragionato della giurisprudenza mercantile, ben diverso da quello del Savary, giacchè tira a mostrare i principj della ragion commerciale, e risolverne le controversie: invece di trarre i Principj del diritto marittimo dell’Europa dai puri fatti, rimonta alla ragione universale. Poi in francese trattò sull’origine della bussola, una storia della Sardegna ed altri lavori di legge o di erudizione. Seppe spogliarsi del gergo legulejo e non isfrantumare la materia, per modo che ciascun articolo riesce un trattato compiuto. Egli erasi valso a man salva d’una storia del diritto marittimo, che il napoletano Jorio avea premessa a un codice mercantile, di cui gli avea dato incarico il re delle Sicilie: l’Azuni la spogliò delle formole e citazioni e la rese leggibile; e divenne egli stesso la fonte a cui largamente attinse il Pardessus.

Mario Pagano della Lucania fece un esame della legislazione romana, e Saggi politici de’ principj, progressi e decadenza della società, sulle idee di Vico, ma svisate dalle leggerezze francesi e dall’innesto del sensismo corrente, e nell’andamento del civile consorzio non serenasi nel progresso, ma vede sempre la decadenza. Perì martire della Rivoluzione, e con lui Domenico Cirillo medico, che commentò e crebbe la botanica di Linneo, il quale gli si professa obbligato della conoscenza di molti insetti; trattò delle prigioni e degli ospedali, declamando contro gli abusi di que’ ricettacoli dell’umana miseria.

Vigilio Barbacovi trentino (1738-1825), come cancelliere sostenne contro il magistrato civile le pretensioni di quel principe vescovo, il quale, ad istanza di Giuseppe II, gli commise di fare in due mesi un codice giudiziario, che inchiudeva buone riforme, ma incontrò tante opposizioni [268] fra ragionevoli e pregiudicate, che non si potè attuare. Nè i popoli mostrarono gradire il Barbacovi, e infine il padrone lo congedò; e quando, scoppiata la Rivoluzione, il Trentino divenne provincia austriaca, il Barbacovi non ebbe più che a fare apologie sue e brigare lodi, le quali non gli manterranno quel primato che a lui pareva di meritare. Sarebbe però ingiustizia il negargli merito in alcune quistioni particolari, come sulla decisione delle cause dubbie, e sul giuramento nei giudizj civili.

Il suo compatrioto Carlantonio de’ Pilati di Tassulo (-1802), dettò leggi in patria, poi volle scorrere l’Europa studiando i Governi; dappertutto ben accolto, da Leopoldo chiesto più volte a Vienna; e scrisse i proprj viaggi nelle Lettere di un filosofo e l’Osservatore francese in Amsterdam. Nel libro Intorno alla legge naturale e civile enumerò con acume e verità i principali difetti delle istituzioni romane, domandando sieno abolite come nocevoli alla giustizia, peste della moderna società. Nell’altro Dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia, invelenito in successive edizioni, se prima contentavasi di domandare a Clemente XIII parziali rimedj e l’abolizione della mendicità, in fine si scagliò furibondo contro i papi, i preti, i frati, con idee ancor più protestanti che giansenistiche; e insomma vorrebbe che i principi traessero ogni azione a sè, istituissero collegi dai quali toglier poi le cariche dello Stato; «donde nascerà che col tempo la miglior parte della nobiltà e delle altre più agiate persone dello Stato verranno tutte ad avere delle cose quelle idee che al principe piacerà di far loro istillare per mezzo de’ professori; avrà il clero e la miglior parte del popolo secolare dalla parte sua; la maniera di pensare delle più riguardevoli classi de’ suoi sudditi sarà conforme alla sua, ed il resto del popolo si lascerà pian piano vincere anch’esso» (pag. 209).

[269]

Così in nome della libertà saldavasi la tirannia, e doveano scorrere sessant’anni di durissime prove prima che il più alto magistrato d’una gran nazione pronunziasse: — Il maggior pericolo de’ tempi moderni viene dalla falsa opinione che un Governo possa tutto, e sia essenza d’ogni sistema di soddisfare a tutte le esigenze, rimediare a tutti i mali»[119].

Invece di arrestarsi su qualche punto particolare come i precedenti, Gaetano Filangieri di Napoli (1732-87) disegnò una Scienza della legislazione abbracciante l’economia politica, il diritto criminale, l’educazione, le proprietà, la famiglia, la religione. Noi professiamo che il diritto è un lato dell’intera vita d’un popolo, il quale inseparabilmente si connette cogli altri lati e colle diverse manifestazioni dell’attività di quello; laonde non origina dalla riflessione e dalla scelta, bensì da un senso intimo e fisso, dalla coscienza (per usare la parola di Hegel e Schleiermacher) di un elemento necessario, manifestantesi nella pratica; e perciò nazionale e variabile, non universale e immanente. I legislatori non sono che l’organo di questa coscienza nazionale, e danno perfezionamento alle sue produzioni, forma precisa a’ suoi sviluppi. I prammatici invece fanno tutte le norme e istituzioni giuridiche nascere dalla riflessione e dal tendere a uno scopo: i promulgatori del diritto naturale lo fondano s’un principio astratto, non connesso cogli altri elementi della vita d’un popolo, e tale che, come razionalmente necessario, si applichi a tutti i tempi, cioè non sia capace di progresso.

Montesquieu nelle speciose sue superficialità non credette le leggi avessero una bontà assoluta, bensì relativa ai tempi e ai luoghi, essenziale condizione d’una buona legge ponendo il corrispondere ai bisogni del paese per [270] cui è fatta; e cercava la giustificazione, il motivo di quelle che più sembrano scostarsi dall’ideale: Filangieri, al preciso contrario, ammette leggi buone per tutti i tempi e i luoghi. Montesquieu osserva le ragioni di ciò che si fece: il nostro addita ciò che doveasi fare, supponendo sempre all’individuo un senso più retto del comune, e attribuendo a quello il regolare le leggi a norma della ragione. Sono i filosofi che fanno le leggi, ad essi spetta ora cancellare il passato, distruggere quelle lasciateci dagli Irochesi dell’Europa. «L’autorità può tutto quanto vuole; per mezzo di una tenue ricompensa accordata con qualche splendida dimostrazione, essa fa nascere i genj e crea i filosofi; essa forma le legioni intere dei Cesari, dei Scipioni, dei Regoli, col comprimere la sola molla dell’onore» (ii. 16). Eppure egli era concittadino di Vico: ma col costituire una legislazione universale mostrava di mal intendere il progredire e svolgersi dell’umanità, che altri ordini e leggi richiede nella sua maturità. Che se voleva prefiggere questi generali canoni di legislazione, avrebbe dovuto in prima analizzare le norme della perfettibilità umana, e forse allora sarebbegli apparso la vanità di precetti astratti, che vorrebbero rendere immobile un’arte, la quale non vale se non in quanto si piega alle modificantisi relazioni sociali.

Il governo inglese tutto storico, il quale conserva tanti abusi perchè proteggono tante libertà, pareagli dover essere riformato secondo le idee speculative correnti; e pur mostrando capirne anche le difficili particolarità e lodando l’istituzione de’ giurati, in generale lo crede peggiore del potere assoluto, disapprova l’autorità conservata alla corona, e la Camera alta, e la felice attitudine di modificare le leggi. Venerando i filosofi d’allora, di cui non solo riprodusse molti raziocinj, ma pagine intere tradusse, ne adottò la favola del patto [271] sociale: nel diritto penale non ha novità, ma va pedissequo al Beccaria senza i suoi ritegni; poichè, come Benthain e Feuerbach, disse i castighi essere legittimi perchè necessarj a custodire i diritti e l’interesse dei più, e secondo questi doversi misurare. Più si badò sulla procedura, con calore svelando gli abusi che del resto al suo tempo già erano crollati o scossi. Felicemente indicate le somiglianze fra l’istruzione giudiziaria inglese e la romana, invoca il processo pubblico e contraddittorio, vitupera il segreto e le orride prigioni, eppure impugna il sistema dell’accusa per mezzo del ministero pubblico, e la vorrebbe libera a qualunque cittadino.

Nelle leggi della ricchezza segue nel bene e nel male gli Economisti; ma poichè allora l’esperienza avea tolto credito al sistema mercantile, egli propende alla piena libertà, disapprova le dogane come infausta eredità de’ Romani; deplora le nazioni costrette a ricevere le pacifiche merci quali un nemico, o farne seme di corruzioni e frodi: quindi al modo de’ Fisiocratici graverebbe tutta l’imposta sopra le terre; eppure conchiude al colbertismo, alle bilancie, con que’ vacillamenti che troppo sono consueti ai nostri economisti. Se deperirono l’agricoltura, l’industria, la popolazione, ne incolpa l’intromettersi del Governo: eppure secondo l’andazzo, concentra tutte le funzioni sociali in mano del principe, volendone continua l’ingerenza; ad esso chiede la riforma del popolo, modellando le moltitudini sul tipo de’ filosofi, e affidando le sorti del genere umano all’individuo. Attribuendo suprema importanza all’educazione, ne delinea una pubblica, ove i giovani, sottratti alla domestica affezione, sono dall’autorità foggiati come le aggrada. Poco poi Robespierre proclamava la stessa dottrina fra mucchi di cadaveri[120], cioè l’immolazione [272] dell’indipendenza personale e della famiglia sull’altare di quel panteismo politico che Rousseau avea predicato volendo «trasportare il me nell’unità comune».

Il Filangieri, giovane, benevolo, persuaso che basti enunciare la verità per farla adottare, non calcola le difficoltà, e perciò non limita le speranze. Il prolisso sermoneggiare, la teatrale improvvisazione erano vizj del tempo; e come Hutchison, Smith, Buffon, Raynal, Rousseau, credette l’eloquenza convenisse alle scienze, viepiù qui per iscuotere la letargia dell’egoismo. Pure di sotto a quel fasto non trapela l’orgoglio personale, come dagli Enciclopedisti; e il Filangieri mostrasi verace amatore dell’umanità, di cui deplora i mali, cerca coscienziosamente i rimedj; e a quest’espansione di benevolenza è dovuta l’efficacia che esercita sui lettori, e ch’io vorrei provata da tutti i giovani di venti anni, a costo di sorbirne alcune idee incompiute od eccessive.

Ed egli allora aveva trent’anni, e a trentasei morì, prima d’aver conosciuto, nel ministero delle finanze a cui era chiamato, le difficoltà pratiche e l’impossibilità di rinnovellare di colpo un popolo; prima d’avere, nell’imminente rivoluzione, veduto dileguarsi le utopie dinanzi alle severe lezioni della sventura; prima d’aver potuto espandere le sue agitatrici verità ne’ parlamenti della sua patria, e d’esserne forse la vittima.

E appunto questi ardimenti, anzichè anticipassero le verità che i tempi maturarono, nasceano dal non avere que’ nostri partecipato agli affari, sicchè non valutavano gli ostacoli che alle massime speculative e astratte sono poste dai fatti e dalla necessità; e la mancanza di libertà legali spingeali in quel vago ed esagerato, [273] che non potrebbe essere corretto se non dalla sperienza; come le allucinazioni di chi visse al bujo, si guariscono non col ricacciarvelo, bensì col dargli piena luce.

Insomma i nostri che volevano lode di pensatori, seguivano più o meno servilmente le idee degli Enciclopedisti. Anzi l’Enciclopedia venne tradotta in italiano a Lucca, e perchè le anime timorate non se ne sgomentassero, si prese il compenso di mettervi delle note; e l’arcivescovo Manso aveva assunto di così correggere gli articoli di scienze sacre; come chi credesse potere impunemente dare a bere la stricnina unendovi dello zucchero; e ben presto egli desistette da un uffizio, ove reale era il pericolo, ipocrito il rimedio.

Deplorando i guasti di quell’opera, l’abate Zorzi veneziano ideò un’Enciclopedia italiana che vi facesse opposizione; piantando un albero del sapere, differente da quello di D’Alembert, e mandandolo fuori per programma con due articoli di capitale importanza sulla libertà e sul peccato originale: ma poco dopo moriva di trentadue anni e con lui il suo divisamento[121].

[274]

Per resistere alla piena richiedeasi coraggio, dovendo attendersi insulti ed epigrammi dai despoti dell’opinione, pronti invece ad inneggiare chi andava colla corrente. Non ne mancarono alcuni de’ nostri, ed oltre i teologi, e massime il Concina e il Finetti, avversarj risoluti del gius naturale acattolico, fra’ veneziani Antonio Gandini scrisse Le verità di teologia naturale e le verità cattoliche; il conte Giovan De Cattaneo nella Uranide confutava atei e machiavellisti, Voltaire e Montesquieu[122]; Troilo Malipiero dettò quattro Notti in versi contro Rousseau; encomiate e tradotte furono le opere di Antonio Valsecchi veronese dei Fondamenti [275] della religione e fonti dell’empietà, La religione vincitrice, La verità della Chiesa cattolica romana.

I filosofi teorici seguitavano l’empirismo inglese e il cinismo francese; e come continuazione di Locke, Condillac presto invase le cattedre, e tutta la filosofia si ridusse ad analisi delle idee, ad una miserabile esilità, che genera presunzione d’essere filosofo a chi nè tampoco dai limitari salutò questa scienza. Antonio Genovesi proclamò la libertà del raziocinare, quando ancora le scuole partivansi fra Aristotele e Cartesio; le più volte si limita al senso comune, e doversi filosofare sulle idee che possono aversi, non sottilizzare sull’indovinello; caratteri del vero essere la chiarezza e l’evidenza; dalle dimostrazioni stabilite non doversi dipartire per rispondere ad opposizioni difficili; e confessava di non sapere ciò che non sanno tutti. Egli divulgò Locke; poi il padre Soave volgarizzò il Saggio sull’intelletto (1775) di questo ch’e’ chiama «e il primo e il più grande fra’ metafisici»; e dietro ad esso parlò della formazione della società e del linguaggio, e stese un corso di filosofia dove la virtù è definita «l’abito di fare azioni buone non comandate, o superiori al dovere», onde non sarebbe virtù la giustizia, non l’essere buon re, non il salvare la patria. Paolo Doria cartesiano combattè Locke perchè non intese le idee innate, e suppose certi i principj come in geometria così nella metafisica; e dopo avere questa esclusa senza ragione, ammise poi la sostanza infinita, e per lei la cognizione di Dio. Scarella, negli Elementi di logica, ontologia, psicologia e teologia naturale pel seminario di Brescia (1792), propose una novità del sillogismo particolare, conciliando i principj della contraddizione e della ragion sufficiente, combattè lo scetticismo non meno che gli Scolastici, e ripose il principio della certezza in quel predicato che chiaramente vedesi esistere o no nel soggetto.

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Il padre Ermenegildo Pino milanese, geologo, architetto, idraulico, nella Protologia professa rivelata la parola, e batte le meschinità condillachiane; ma rimase inefficace perchè scrisse in latino, e confuso per ricerca d’eleganza. Cesare Baldinotti (De recta mentis institutione. De metaphysica generali), in latino elegante lucidamente espose i sistemi filosofici, con rapidi e sicuri giudizj su’ suoi predecessori[123]: che se, come i suoi contemporanei, mostra disprezzo per gli Scolastici e non vede che futilità nella quistione degli universali, ben valuta Cartesio ed anche Kant, del quale fa una buona confutazione, mostrando come tolga quella certezza, per cercare la quale inventò il suo sistema.

Jacopo Stellini somasco (-1770), figlio d’un sartore di Cividale, geometra, poeta, teologo, chimico, fisico, indaga il nesso di tutte le scienze; stabilisce la filosofia sui sensi e sulla ragione o sulla intera natura umana; il bene dipendere dall’equilibrio delle umane facoltà. Nel trattato sull’Origine e i progressi de’ costumi assegna tre epoche della natura umana: nella prima i sensi dominano sull’animo, quando gl’istinti han prevalenza, onde nessuna onestà o giustizia; nella seconda alla giustizia si mescono lussuria, vanità, ambizione; viene poi la terza [277] del mutuo commercio fra l’anima e il corpo, quando appajono la vera virtù, i precetti morali, le leggi. Svolgeva dunque le idee del Vico in senso contrario, giacchè questo cercava la morale delle nazioni mediante quella dell’individuo; Stellini fece la storia de’ costumi degl’individui mediante la morale delle nazioni; Vico additò le origini della civiltà negli asili aperti intorno agli altari; Stellini prese qual principio di nazione qualunque ricovero dove la madre tra i figliuoli sapesse a paterna carità commuovere i maschi vagabondi[124].

Appiano Buonafede (-1793) con varietà e cognizioni scrisse Delle conquiste celebri esaminate col diritto naturale delle genti, impugnando la ragion delle spade; la Storia critica e filosofica del suicidio e principalmente la Storia ed indole d’ogni filosofia, dove giudica autori e sistemi con lealtà e indipendenza, imitando ma troppo disugualmente lo stile irrisorio di Voltaire. Bersagliato dal Baretti, rispose con pari villania e maggior lepore. Nella Restaurazione della filosofia ne’ secoli XVI, XVII, XVIII esamina le differenti scuole, men negli autori stessi che ne’ loro critici, lavorando di seconda mano, ma con estesa lettura. A quel «giorno ampio e perpetuo, di cui dicono che noi ora creature privilegiate e luminose godiamo» non pare credere troppo: ma insinua la necessità d’esaminare il passato; chè, «quando ancora non incontrassimo sempre quella luce continua che gli amici dell’età nostra raccontano, avremo almeno, in luogo di un sogno allegro, questa vera luce di più, la quale potrà insegnarci a tentar nuovi scoprimenti e a non essere tanto superbi nella mediocrità». Crede che, se i Cinquecentisti «in luogo di tanti sonetti e canzoni e prosette [278] atticissime, e latinissime, e ricchissime di tutto fuorchè d’anima e di vita, si fossero rivolti alle regie strade della solida verità, avrebbero eguagliati e fors’anche vinti i progressi delle seguenti età». Combatte gagliardo le dottrine machiavelliche e irreligiose, e cotesti legislatori della natura, e moralisti della materia organizzata, che facevano ricalcitrare il mondo contro i missionarj del vero; e li paragona a nembi, vulcani, precipizj, mentre sta fermo l’eterno assioma che «senza l’ordine del cielo non ci fu e non ci sarà mai ordine in terra»; sicchè finiva rallegrandosi che «questo sia il fondamento della evangelica e cattolica repubblica nostra», e guardando con pietà «i vagabondi smarriti per le selve del caso e per li deserti del nulla».

Con ben altro vigore il savoiardo Sigismondo Gerdil (-1793), nell’Introduzione allo studio della religione, in italiano alquanto prolisso, assume che i più grand’uomini fiorirono senza la vantata libertà del pensare; francheggia la scuola italica di Pitagora contro gli empirici; contro Locke l’immortalità dell’anima e delle idee secondo Malebranche; contro Raynal la religione e la sana economia; le pratiche dell’educazione contro Rousseau, il quale lo diceva l’unico de’ suoi contraddittori che meritasse di essere letto intero: tratta del duello contro i pregiudizj comuni; contro i pregiudizj filosofici discorre della libertà e dell’eguaglianza; contro Hobbes confuta la materialità della sostanza pesante: mostra quanto ingiustamente Giuliano sia detto da Voltaire modello dei re, e da Montesquieu il più degno di governare uomini. Benedetto XIV, usatolo a molti lavori, lo compensò colla porpora chiamandolo notus orbi, vix notus urbi; e sarebbe potuto salire al trono pontifizio, se l’Austria non l’escludeva.

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CAPITOLO CLXVII. I principi novatori. Giuseppe II. Pietro Leopoldo. I Giansenisti. Pio VI.

I Governi, fidando nei trattati coi forti, trascuravano il dissenso dei deboli, congedavano i soldati, lasciavano sfasciarsi le fortezze, e secondavano l’andazzo dell’innovare, purchè avvenisse per opera loro. Nessuno ammetteva i filosofi più che in qualche magistratura consultiva; pure fecero proprie le costoro proposte, e ne permisero quella scarsa diffusione che allora ottenevano i libri, negozio aristocratico. Regolare le imposte in modo che gravassero il meno e rendessero il più; prosperare l’agricoltura; por termine alle lucrose angherie degli appaltatori; mozzare la giurisdizione del clero e dei feudatarj, e questi e quello sottomettere alle gravezze comuni; ridurre più pronta e più retta la giustizia, più sicuro l’innocente, più educato il vulgo, erano intenti dei Comuni; ma nessuno toccava alle basi del potere, e a togliere il popolo dalla nullità di rappresentanza e dalla incuria delle pubbliche cose.

Gli economisti e filosofi di Francia avevano messe in corso le simpatiche parole di filantropia, diritti del popolo, libertà, eguaglianza; re e principi le adottarono, professando volere applicarle, e per ciò abbisognare di poteri illimitati, e che il popolo si rimettesse tutto in loro: coi decreti si ottiene tutto, e i re non devono avere ostacoli a fare decreti: tale era la scienza governativa.

Che temere dai filosofi non vedevano i principi, primo perchè anche in Francia, donde veniva l’intonazione, non che essere ostili ai troni, tendevano a rinforzarli [280] per abbattere gli abusi feudali e le ingerenze ecclesiastiche; poi perchè non uscivano dal tono benevolo, e i miglioramenti suggerivano, non pretendevano, e dirigevansi a sostituire l’azione governativa alla privata, gli impiegati regj a’ liberi amministratori. Principi e popoli sembravano darsi la mano pel progresso: ma il progresso i principi non l’intendevano che come emancipazione della propria autorità e accentramento dei poteri; e data una seria lezione alla Chiesa coll’obbligarla a sopprimere i Gesuiti, non vedevano più barriere, davanti a cui arretrare. Giungono poi momenti ove i governanti, sentendo il nembo avvicinarsi e sperando non che moderarlo farsene ajuto al salire, ne secondano il soffio, e dansi aria di marciare trionfalmente là dove sono contro voglia trascinati; mentre i popoli che se ne accorgono, ne deducono maggiori pretendenze.

Il Piemonte fu per avventura il primo a ricredersi, e le quistioni dibattute con Roma accomodò, ottenendo il titolo di vicario perpetuo sui quattro feudi disputati, mediante l’offerire a Roma un calice d’oro ogni anno; e in un concordato si abolirono o almeno restrinsero gli asili, giacchè i delinquenti (per confessione del papa) negli atrj e sui sagrati delle chiese erigevano capanni, dove ricoverarsi con armi e male donne. Gli altri principi invece rinforzavano di emanciparsi da Roma. La Signoria veneta, sempre franca nelle cose ecclesiastiche, tenne il clero in soggezione del principe; l’Inquisizione frenò, ma ne faceva vece il magistrato pubblico de’ Savj sopra l’eresia; il quale, per un esempio, condannò alle galere Giuseppe Beccarelli di Brescia, specie di quietista. I papi che con ogni loro possa sostenevano Venezia nelle guerre col Turco, se ne disgustarono a cagione del patriarca d’Aquileja.

Avanzo d’una gran potenza decaduta, stendeva esso la giurisdizione sul Friuli veneziano e sull’austriaco; [281] sicchè erasi preso accordo che l’eleggerebbe una volta la serenissima e l’altra l’arciduca: ma la nomina si faceva sempre toccare a Venezia col procurare che ciascun patriarca eleggesse un coadjutore coll’aspettativa. Maria Teresa, tanto gelosa dei proprj diritti, volle rivendicare questo; e natane disputa (1751), fu rimessa in Benedetto XIV, il quale proferì si dividesse quella sede nell’arcivescovato di Gorizia e nel vescovato di Udine. Venezia chiamandosene lesa, invitò il nunzio a ritirarsi e minacciò Ancona; nè interposto di principi valse, fintanto che, succeduto il Rezzonico veneziano, la cosa fu messa in tacere. Restava però il rancore, onde la Repubblica gettossi anch’essa ai provvedimenti di moda, col sottomettere all’Ordinario tutti i frati, determinarne il massimo numero per ciascun convento, abolendo quelli che non bastassero a dodici, regolatane la disciplina, vietate le relazioni con capi forestieri. Da una indagine risultò che annualmente per rendita di benefizj ecclesiastici, andavano fuori Stato ducensessantamila franchi l’anno; per pensioni ecclesiastiche, settantadue in settantottomila: ventotto bolle d’istituzione canonica per sedi patriarcali e vescovili in dieci anni costarono cinque milioni, non contando le spese di viaggi a Roma; le bolle di badie e priorati, franchi cinquantamila in dieci anni; centodieci bolle per pensione accordate, franchi settantottomila ottocento; ducenventicinque bolle per chiese parrocchiali, franchi centrentamila; cenventisette per canonicati, franchi ottantamila; per quarantacinque collazioni di benefizj semplici, franchi dodicimila seicento: nel 1768 arrivarono da Roma mille centrenta rescritti, indulgenze, privilegi di altari, dispense per ordinazioni, diplomi di conti, ecc., dell’importare di franchi quarantaquattromila cinquecento: inoltre cinquecentottantanove dispense di matrimonj, valenti circa un milione.

La Signoria proibì di mandare denari a Roma; restrinse [282] le facoltà di lasciare alle manimorte; impose i beni ecclesiastici, senza licenza di Roma; escluse la bolla In cœna Domini; tolse al papa la collazione dei canonicati e benefizj in cura d’anime: nessuno si vestisse chierico prima di ventun anno, nè si professasse prima dei venticinque; niuna bolla valesse se non autorata dalla Signoria, nè veruna dispensa se non data dal patriarca. Clemente, credendone pregiudicate le ragioni della Chiesa, ammonì il senato colla mansuetudine che i tempi imponevano; ma esso rispose con alterigia, ed avocò a sè le cause ecclesiastiche.

Carlo III quando regnava a Napoli, volendo trarre a lustro e ricchezza del regno anche le esorbitanti rendite degli ecclesiastici, ordì con Roma un concordato. Ma poi, seguendo i consigli del ministro Tanucci, abolì le decime ecclesiastiche, vietò nuovi acquisti alle manimorte e il ricorrere a Roma, restrinse la giurisdizione ecclesiastica, e il numero dei preti a dieci, poi a cinque ogni mille anime; le bolle nuove o antiche non valessero senza il regio beneplacito; il matrimonio s’avesse quale contratto civile, e le dispense si dessero dai vescovi, che venivano rinforzati in faccia a Roma, indeboliti in faccia al re; assegnò una pensione «al figlio del più grande, più utile allo Stato, e più ingiustamente perseguitato uomo che il Regno abbia prodotto in questo secolo», cioè il Giannone; poi cominciò a cavillare le bolle e i brevi di Roma e impacciarne la pubblicazione; le tolse lo spoglio de’ vescovi e il frutto in sede vacante, varie retribuzioni alla cancelleria romana, e la nomina de’ cento vescovadi di Sicilia; dove fu abolita l’Inquisizione e costituito un vescovo pei Greci uniti, senza farne motto al papa; sminuiti da sedicimila a duemila ottocento i frati mendicanti; infine levato il tribunale della Nunziatura.

Guardandosi la Sicilia come antico feudo della santa [283] Sede, ogni vigilia di san Pietro da un connestabile venivano presentati al pontefice una chinea e seimila ducati. Antico o no che fosse questo rito, espressa convenzione n’era corsa fra Sisto IV e Ferdinando d’Aragona nel 1479: nel principio del secolo avevano gareggiato a fare quell’offerta sì Filippo di Borbone che Carlo d’Austria. Il quale poi, anche cessata la rivalità, nel 1722 invocò dal papa l’investitura del regno, e «per fini forse più alti e prudenti che a noi cotanto umili e bassi non lice indagare»[125], gli prestò giuramento ligio, gli offrì la chinea e pagò il solito censo. Carlo III ricevendo la investitura nel 1739, solennemente vi si obbligò: ma poi espresse che rendeva quell’omaggio ai santi Apostoli; indi nell’88 il suo successore non invia la chinea, soltanto offrendo settemila ducati alla tomba dei santi Apostoli. Allora il papa a lamentarsi del fallito canone feudale; centinaja di libercoli nell’un senso e nell’altro con passione, e malafede avvilupparono la quistione, osservandola come speciale fra il regnante di Napoli e quel di Roma, senza avvisare il punto supremo posto dietro a questa accidentale, e diciamolo pure, frivola apparenza[126].

Parma, Piacenza, Guastalla, coi principati di Sabbioneta e Bozzolo, nella pace d’Aquisgrana eransi assegnate a don Filippo infante di Spagna e a’ suoi discendenti; il quale ne pigliò possesso il 7 marzo 1749. Sua moglie Maria Luigia Elisabetta, avvezza alle suntuosità di Luigi XV di cui era figlia prediletta, ne ispirò il gusto al marito, sicchè non bastando le entrate del piccolo paese, si caricò di debiti: e Ferdinando re di Spagna, che per molte ragioni lo disapprovava, negò soccorrerlo, [284] finchè per interposto di Luigi XV gli diede di che spegnere i debiti e una pensione di ducenventicinquemila franchi; e gli pose a fianco un buon amministratore, qual era Guglielmo Dutillot di Bajona, che ebbe il titolo di ministro dell’azienda.

Da Filippo nacquero due figlie, una che sposò Carlo IV di Spagna, l’altra Giuseppe II d’Austria; e il maschio Ferdinando, al quale fu dato per ajo il filosofo francese abate Condillac, che per lui stese il Corso di studj in sedici volumi, come Millot di lui fratello il primo Corso di storia universale, e Mably i Discorsi sullo studio della storia: ma pare gli sopraccaricassero la memoria in luogo d’assodarne il giudizio; onde una dama predisse: — Ne faranno un uomo a dieci anni, un fanciullo a venti»; e quel ch’è più, secondo le astrattezze filosofiche, volevano formarne uno spirito forte, fin colla violenza imponendogli una devozione ch’egli spingeva alla santocchieria[127].

[285]

Ferdinando, succeduto di quattordici anni (1765), lasciò far ogni cosa al Dutillot, che allora ebbe il marchesato di Felino, fruttante da sette in ottomila lire di Parma. [286] Economo con magnificenza, fermo con dolcezza, disinteressato, sapeva entrare nelle infime minuzie, come d’un patrimonio privato; eppure non perdea di vista l’unità dell’amministrazione, e potè far bastare le scarse rendite, non che ai bisogni, allo splendore del ducato. Tolta l’istruzione ai Gesuiti, si riordinò l’Università, nella quale insegnarono il piemontese Paciaudi, il Valdrighi, l’ebraizzante De Rossi, Silvani, il padre Venini, i fisici Lesueur e Jacquier, il Contini veneziano, l’ex frate Amoretti d’Oneglia, il poeta Angelo Mazza, Pujol, il Capretta, il Botta, Uberto Giordani. Intanto Parma si abbelliva dei poeti Bondi, Mazza, Manara: Adeodato Turchi, lodato per eloquenza rimbombante, fu maestro de’ principini[128], posto invidiatogli perchè era di oscura [287] nascita, poi fu assunto vescovo di Parma. Quivi il Bodoni di Saluzzo, emulando gli sforzi dello spagnuolo Ibarra, degl’inglesi Baskerville e Bulmer, del francese Didot, fondeva bei caratteri, e compiva eleganti edizioni, troppo per verità sagrificando al lusso tipografico; il frate Fourcaud radunava un gabinetto di antichità e di storia naturale; Delaire scriveva nella gazzetta letteraria, dove avendo sparlato della nostra letteratura, levò contro di sè il vespajo. Dapprima il Frugoni, poi il conte Rezzonico di Como furono poeti di Corte e segretarj all’Accademia di belle arti: al quale ultimo il duca diede incombenza di scrivergli i viaggi che faceva per l’Europa, e venticinque anni sel tenne carissimo, poi ad un tratto lo privò della grazia e di tutte le dignità e le pensioni «per motivi riservati alla sovrana sua cognizione».

È naturale che quel duca fosse lodatissimo dai contemporanei, e ricevesse innumerevoli dediche di opere, sebbene presto cessasse da tal protezione. E per verità quella fu l’età dell’oro di Parma, abbondante di denaro, visitata da forestieri, colta di dottrine. Il conte Jacopo Antonio Sanvitale (1690-1780), amico dei migliori ingegni, apriva spesso teatro nella propria casa, l’onorarono i regnanti, e i poeti gli profusero lodi che la posterità non confermò. Gaspare Cerati oratoriano (1690-1769), che a Roma si fece conoscere per uno de’ migliori eruditi, da Gian Gastone fu chiamato provveditore dell’Università di Pisa; viaggiò tutta Europa, e fu aggregato a molte accademie, e non meno di seicento lettere all’anno riceveva, piene di lodi sue e di particolarità che le renderebbero preziose, s’egli non avesse creduto di distruggerne o restituirne gran parte; perocchè fra’ suoi corrispondenti figurano [288] i migliori personaggi da Voltaire, Montesquieu, Maupertuis, Federico II, fino al Cóncina e al Patuzzi, a non dir quelle direttegli dal Ganganelli, che sono della fucina del Caracciolo. Non sagrificò ai pregiudizj irreligiosi, e sincero e tollerante otteneva la stima sì dei Giansenisti che degli Enciclopedisti: ma di tanti viaggi, di tante cognizioni nulla lasciò scritto, amava tornar ai campi, e innestar alberi[129]; pur rispondendo ai tanti che chiedeangli pareri sopra materie variatissime.

Dutillot sapeva accontentare e Francia e Spagna, e pensava a fondere col Parmigiano lo Stato di Modena. Quivi si viveva alla cheta come nel resto d’Italia, senza nè oppressura de’ principi, nè aspirazioni de’ popoli. In tempo della fiera di Reggio l’appaltatore s’avvisa di dare uno spettacolo buffo invece dell’opera grande; i cittadini rumoreggiano, minacciano; il governatore trae fuori le truppe, ma queste si lasciano disarmare dai cittadini, i quali rimangono alcun tempo padroni della città, finchè il Governo si rassegna a dar soddisfazione.

Il duca Francesco III (1737-90), magnifico, legislatore, il più gran principe di Modena, fe bella la città; grandi edifizj dappertutto: raddrizzò le vie, coprì le cloache, condusse la strada a congiungersi con quella di Toscana, ampliò l’Università fabbricandone il palazzo e dandole buone regole, ridusse tutte le opere pie in una sola amministrazione, finchè si vide ch’era male, promulgò il Codice (1771) uniforme in tutto il ducato, ma spese troppo e ne venne il fallimento. Lo accusano che pensasse a tesoreggiare con traffici e monopolj, non per avarizia, ma perchè aveva osservato che i signorotti d’Italia, nei conflitti tra Francia ed Austria, erano sempre stati costretti a fuggire e vivere mendicando. [289] Di tale avidità non pativano i popoli, anzi moltissimi viveano delle cariche di Corte e dei numerosi servigi: essendo Reggio carica di debiti fin al cinque e mezzo per cento, esso le fece un prestito al quattro e mezzo, col quale si redense degli altri. Tenea per amica una Marini milanese, che provveduta di trecento zecchini all’anno, non intrigava e viveva abbastanza rispettata.

Il duca aveva un solo figlio Ercole Rinaldo, che sposò Maria Teresa erede di Alderano II Cibo, il quale possedeva il ducato di Massa e Carrara feudo imperiale[130]. Nell’unica figlia Beatrice colavano dunque le eredità dei Malaspini, dei Cibo, dei Pico della Mirandola, dei Pio da Carpi e Correggio, degli Estensi di Modena; sicchè ambitissima n’era la mano. Il Dutillot fece opera d’ottenerla al duca di Parma, col che avrebbe costituito un grosso Stato nella media Italia; ma tanto bastò per attirargli l’animadversione dell’Austria, la quale riuscì a sposarla all’arciduca Ferdinando, promettendo a Francesco III di costituirlo governatore di Milano, ch’egli ben preferiva alla piccola Modena. Trasferitosi in fatto alla capitale dell’Insubria, senza curarsi degli affari nè dell’opinione, viveva da signore a Varese, dove sposò privatamente una contessa Simonetta; intanto che nel Modenese la partenza della Corte lasciò in miseria i tanti servidori[131].

[290]

Maria Teresa d’Austria fece sposare al duca di Parma (1769) la figlia Maria Amalia. Bella, operosa, risoluta, costei al par delle sue sorelle regine di Napoli e di Francia padroneggiò lo sposo più giovane di lei, il quale, da devotissimo che era, si scapestrò e circondossi di compagnacci e di vulgari amiche, siccome permettevagli l’abolito cerimoniale; e perchè Dutillot avventurava qualche osservazione sul derivatone scompiglio delle finanze, gli prese addosso pessima volontà[132].

La duchessa, insofferente de’ convenevoli spagnuoli che impacciavano i suoi piaceri, aveva negato ai ministri di Spagna e Francia certe distinzioni consuete. Carlo III se ne lagnò severamente; Luigi XV biasimò il duca e la moglie d’una condotta che faceagli torto in faccia a tutta Europa, e gl’impose, in tono di avo, di ripristinare il cerimoniale, escludere que’ libertini, e per quattro anni affidarsi in tutto al Dutillot, cui lodava [291] senza riserva, e nelle cui mani si pagherebbero d’allora innanzi le pensioni di Francia e Spagna affinchè ne disponesse al pubblico vantaggio. Ferdinando, benchè fremente, soscrisse l’obbligo di stare ai consigli del Dutillot, nè far dispensa, giustizia, grazia, se non secondo la prudenza e lo zelo di questo; oltre che per sopravegliarlo si mandò il signore di Boisgelin da Francia, da Spagna il signor di Ravilla. Detto fatto, alle allegrie della Corte sottentrano malumori e intrighi; gl’infanti non poteano rassegnarsi a quell’umiliazione, e tanto tempestarono, che Spagna e Francia, dopo lungo resistere, furono costrette a dismettere il Dutillot (1771) pur colmandolo di lodi. Appena congedato, egli si vide assalito dalla plebe; ritirossi a Colorno, poi a Madrid presso Carlo III, infine morì a Parigi il 1774. A Parma gli fu surrogato il signor di Llano: ma Amalia si gettò malata per non vederlo, e invece dei grandi non riceveva più che subalterni e fin servidori, mentre il marito tornava a chiassosi piaceri. Il re di Spagna ricorse a Maria Teresa, perchè «ponesse fine alla condotta violenta e sconsiderata di sua figlia»; e Giuseppe II la minacciò perfino d’un monastero. Ella, non che cedere, trasse seco il marito a Colorno per iscostarlo dal Llano; onde Maria Teresa, uscitine vani altri compensi, interruppe ogni corrispondenza con costei «che vitupera la sua famiglia per amore d’un dominio dove non produce che confusione e ruina, e mentre vuol far sentire la sua grandezza, s’avvilisce con servidorame e scuderie»: altrettanto usarono i re di Spagna e di Francia quando al nuovo ministro fu tolto il portafoglio. Allora il duca dovette chiedere scusa a Carlo III, e richiamar Llano (1774), il quale però bersagliato continuamente dall’odio degli infanti, chiese lo scambio, e fu sostituito dal conte di Sacco, quello appunto al quale egli aveva raccomandato di non affidarsi.

[292]

Prima che venissero le sue infauste giornate, il Dutillot, conforme di idee a Pombal ed Aranda, e sostenuto dai teologi Contini e Turchi, avea tratto il suo duca a cozzo colla Corte romana, siccome abbiam veduto (pag. 202): più non poteva egli sostenersi dacchè con questa venivasi a riconciliazione: e alla disgrazia sua seguì quella de’ suoi amici; allontanati dalla Corte l’Amoretti, il Venini, il Soave, il Paciaudi, il Contini.

Maria Teresa imperatrice lasciò un nome popolarmente caro agli Austriaci, e non meno ai Lombardi: ma un alto concetto della sua famiglia facea riguardasse come delitto qualunque resistenza, come usurpamento qualunque attenuazione; Federico II chiamava sempre «quel tristo, quel mal arnese»; le sommosse punì con atrocità; eppure tutta affetto pel popolo, parlava il dialetto, e i Viennesi ricordano tuttora le volte ch’ella stessa, affacciandosi al palco del teatro, annunziava, — La moglie di Leopoldo ha fatto un maschio».

In quarant’anni di regno essa aveva adoperato a svecchiare la monarchia austriaca, cercando bensì accentrare l’autorità, ma non volendo abbattere i privilegi de’ varj dominj e i corpi municipali o paesani, che sono l’ultima salvaguardia de’ vinti; e assistita dal principe di Kaunitz, conobbe i miglioramenti che il secolo chiedeva, ma senza precipitarvisi. Al marito non lasciò alcun’autorità; pochissima al figlio Giuseppe, che fece coronar imperatore alla morte di quello.

Sull’Italia volea dominare per mezzo di matrimonj, avendo un figlio granduca di Toscana, un altro marito della erede di Modena, una figlia regina di Napoli, una duchessa di Parma, oltre la Lombardia su cui direttamente regnava. Benchè piissima e devota al pontefice, anch’essa scemò le corporazioni religiose, e volle sopravegliare alle manimorte. La censura dei libri, che era sempre stata larghissima, tantochè alquanti professori, [293] fuggiti dal Napoletano in Piemonte con Vittorio Amedeo, non trovandovi bastante libertà d’opinioni, vennero nel Milanese ad insegnare e a stampare i loro libri, fu tolta ai regolari per darla a laici; abolita l’Inquisizione e le carceri dei frati e gli asili; ad una giunta economale si commisero le materie miste ecclesiastiche, ad un’altra le riforme de’ luoghi pii e delle parrocchie; ordinato ai vescovi di Lombardia di sopprimere la bolla In cœna Domini.

La Lombardia aveva cessato dal decadere, appena passò dagli Austriaci spagnuoli ai tedeschi; se le invereconde guerre dinastiche al principio del secolo la gravarono d’imposte, sopraggiunsero poi quarantott’anni di pace che ristorarono i danni. Sempre più perdeasi lo spirito militare, nell’esercito non essendovi di nostri che un reggimento di dragoni acquartierato in Ungheria, poche truppe raccoglievansi coll’ingaggio, e si chiedeva che l’Austria ne tenesse qui buon numero di sue affinchè consumassero le nostre derrate, lamentandosi perchè invece di cinquantamila non ve n’avesse mai più di dodici o tredicimila, e se ne spedisse il vitto e il vestito da Germania, anzichè spender qui il denaro che qui si riscoteva, e che del resto era prefinito. La gran vicinanza de’ confini veneti, grigioni, svizzeri, modenesi, parmigiani, piemontesi, genovesi, agevolava il contrabbando e l’impunità delle masnade, che mai non cessarono d’infestar il paese. Rategno verso Modena era asilo e scuola di ladri; altrettanto Pozzuolo Formigaro nel Tortonese, Castellazzo e Castel Fe nell’Alessandrino; peggio le valli bergamasche sulla sinistra dell’Adda, e i famosi boschi della Merlata[133].

[294]

Pure migliorando il pingue terreno, diffondeasi l’agiatezza; e il cheto vivere e il ben mangiare formavano la delizia de’ grandi e de’ piccoli. I regnanti erano amati perchè mostravano il desiderio di prosperar il paese, non di smungerlo; rispettavano le convenzioni, i privilegi, i corpi, le abitudini; non offendevano il sentimento nazionale col mettere impiegati forestieri, e dell’andamento pubblico si brigavano quanto solo fosse necessario alla suprema direzione; aveano insomma l’arte di far poco, mostrarsi poco, e non togliere ai cittadini la compiacenza di faticare pel proprio paese; talchè non v’era nè abjezione nell’obbedire, nè caparbietà al resistere.

Maria Teresa, benchè mai non visitasse queste provincie, lasciò migliorarne l’amministrazione. L’onnipotenza de’ governatori, che tenevano forma di regime militare, fu temperata dacchè un ministero robusto volle da Vienna sorvegliarli (1758) mediante una congregazione speciale; meno poterono dacchè vi fu posto il duca di Modena, che per verità lasciava ogni cura al Cristiani, poi al Firmian. Infine vi venne l’arciduca Ferdinando (1771), buon tedesco fra buoni Lombardi, gaudente fra gaudenti, amico del lusso, mentre Beatrice d’Este sua moglie diffondea la letizia e la beneficenza.

Fin allora restavano privativa regia non solo il sale e il tabacco, ma i solfini, le scatole, il ghiaccio. Mentre le tasse colpivano cento volte la merce stessa, e mal ripartite erano le imposte secondo un catasto invecchiato nè più in proporzione coi presenti bisogni, a un nuovo censimento servì di base la misura dei terreni, decretata da Carlo VI, e ridotta a termine nel 1759. Per esso ciascun fondo fu tassato secondo il proprio valore e nel Comune dove realmente esiste; tolto ogni divario tra nobile e plebeo, tra pubblico e privato, cittadino e forese, laico e religioso; lo Stato [295] riscuote le imposte nel modo più piano, sicuro e men dispendioso, tenendo unico debitore il fondo stesso. Così si potè crescere di molto l’entrata, eppur alleggerire i sudditi coll’abolire tanti sopraccarichi, e col ripartirla equamente. L’estimo venne felicemente combinato col sistema comunale, avanzo delle istituzioni repubblicane, che al governo generale ne opponeva uno locale, abbastanza indipendente nel limite di sue attribuzioni, e con una deputazione eletta ne’ convocati comunali, nei quali ha voce chiunque possiede.

La paura della fame nella pingue Lombardia suggeriva strani impacci alla circolazione de’ cereali, e cagionava indagini a’ granaj, inutili angherie, rimedj estremi, e in conseguenza carezza e fame. Nel 1770 ordinavasi ancora che in Milano si portasse tutta la parte dominicale di grano delle pievi di Agliate, Appiano, Binasco, Bollate e delle altre più ubertose; in Lodi metà del frumento, un quarto della segale; in Como tutta la porzione dominicale del frumento e della segale; non eccettuando i fittajuoli che pagano in denaro. Di peggio causava il vendersi le regalìe ad appaltatori, con sgherri, ed arbitrio di frugar le case, sicchè la quiete domestica era turbata, delatori faceansi ministri di vendette, e non si osava lasciar aperta una finestra nè giorno nè notte, perchè qualche malevolo non vi gettasse un pacco di tabacco o di sale, e poi denunziandovi vi precipitasse in ultima rovina. Un ordine pubblicato sotto il governatore Firmian teneva solidali i padri pei figliuoli, i padroni pei servi nelle pene del contrabbando.

Contro di tali abusi levarono la voce i filantropi: e in fatto il commercio delle granaglie fu svincolato; le finanze nel 1766 furono ridotte ad un appalto misto con un rappresentante regio, poi nel 71 emancipate del tutto, il che vantaggiò l’erario di centomila zecchini l’anno; si fece una tariffa uniforme per le dogane; un [296] monte delle sete, che ai particolari togliesse la necessità di venderle a precipizio; si creò il monte di Santa Teresa per concentrare in un solo i debiti dello Stato, e una camera de’ Conti per esaminare e dar pubblicità alle entrate e spese. Della moneta fu commessa la riforma al Consiglio superiore d’economia, poi al magistrato camerale, in cui sedeano Carli, Verri, Secchi, Annibale e Cesare Beccaria; e nelle discussioni d’allora furono librate e sciolte le questioni sul corso abusivo, sulla deficienza della moneta legale assorbita dai dazj e dalle imposte, sul progressivo allontanarsene della abusiva: poi la monetazione del 1777 fu trovata un capolavoro: i talleri di Maria Teresa erano cercatissimi negli scali di Levante, e da Genova a Venezia venivano tratti con aggio generoso: in conseguenza la zecca milanese lavorava attivissima, il che è un vantaggio anche considerandola come manifattura, oltrechè ajuta il Governo nel sostenere la spesa delle macchine e degli operaj.

L’apertura del naviglio di Paderno compì l’impresa cominciata sei secoli prima, di congiungere Milano col Ticino e coll’Adda. Si propose una casa di ricovero pei poveri e di correzione pei delinquenti. Si videro a Milano numerate le case, illuminate le vie, un giardino pubblico, medici e farmacisti distribuiti a misura. All’Università di Pavia furono invitati i migliori professori, senz’abjetta esclusione dei forestieri; Scarpa, Borsieri, Rezia, Spallanzani, Tissot, Mangili, Nessi, Carminati, Frank, Brambilla faceano progredire la storia naturale e la scienza salutare; Mascheroni, buon poeta, e Gregorio Fontana onoravano le matematiche; Bertóla e Teodoro Villa davano esempj e precetti d’eloquenza e poesia; Nani e Cremani assodavano i principj di giurisprudenza criminale; Volta preparava scoperte che doveano mutar faccia alla fisica e alla chimica. A Brera [297] fu fondata la specola nel 1766 dal gesuita raguseo Boscovich, ampliata nel 73, e apertovi un ginnasio imperiale e una biblioteca: nelle Scuole Palatine fu eretta una cattedra d’economia pubblica e d’arte notarile; più tardi, una d’idrostatica e idraulica: si ordinarono poi scuole normali, sotto l’ispezione del luganese Francesco Soave somasco, il quale, non capace a far procedere la scienza, ma a ridurla all’intelligenza comune, fece libri elementari dall’abici sino alla filosofia, e coi cremonesi Bianchi e Fromond, coll’agostiniano Amoretti d’Oneglia, coll’Allegranza, pubblicava una Scelta di opuscoli interessanti, che si possono leggere ancora. Una Società patriotica attendeva a esplorare le ricchezze del paese, diffondere l’istruzione e l’industria anche fra il popolo. Lo Stato, che nel 1749 contava novecentomila abitanti, nel 70 ne offriva un milione centrentamila, ed i vecchi nostri ricordano con compiacenza quei tempi, fors’anche pel confronto dei succeduti.

Il Governo non prendeva ombra de’ novatori. Carli fu posto presidente al Consiglio supremo di commercio e d’economia pubblica. Mentre l’offeso egoismo portava accuse contro del Verri, l’imperatrice lo nominò nella giunta per gli affari di finanza, poi in esso Consiglio d’economia. Ella assegnò una pensione a Giorgio Giulini perchè continuasse le Memorie di Milano, e una all’Argellati per la Bibliotheca scriptorum mediolanensium. Del Vallisnieri, tacciato di aver malversato il museo di Pavia a vantaggio del proprio, Firmian proclama in lettera l’innocenza. Borsieri soccombeva alle persecuzioni degli scolari e dei colleghi, e Firmian gli scrive confortandolo, ed esser lui «necessario al decoro di quell’istituto letterario»; talchè i vili, premurosi a calpestare il merito perseguitato, s’affrettano a fargli giustizia quando il vedono appoggiato dai potenti, la gioventù il vuole rettore perpetuo, e quando, [298] chiamato medico di Corte, parte in modesta sedia, l’accompagna in lungo treno.

Così procedeano le cose in armonia in quello stadio delle riforme, che sorride agli uomini di buona volontà, e dove non si distrugge nulla, si migliora tutto; il clero veniva ridotto entro confini competenti, senza svilirlo; l’istruzione non toglievasi ai claustrali, ma vi si poneva accanto una laicale più consentanea ai tempi; le piccole società, che dopo il primo fiore pregiudicano alla grande, si limitavano o correggevano, non s’abolivano.

La riforma, quando non sia semplice rattoppo amministrativo, nè prurito di cambiare, richiede sicuro giudizio affine d’intenderne lo scopo ed avvisarne il momento; richiede ferma ragione per non isbigottire alle difficoltà, alle objezioni speciose dell’egoistico scontento, nè avventarsi a radicali mutazioni, per logica impazienza.

E alla smania di riformare si sbrigliò Giuseppe II. Nominato imperator de’ Romani (1765) alla morte di suo padre, col più sonoro titolo di cristianità era il più povero fra i principi, neppur un palmo di terra possedendo ove esercitar giurisdizione; e poichè sua madre voleva essa veder tutto, far tutto, per quindici anni egli si trovò costretto a frenare le sue voglie di guerra e d’innovazione. Intanto applaudiva i propositi degli economisti e le loro astrazioni, ascoltava ai ragionari dei filosofi e dei franchi pensatori; ne’ viaggi ostentavasi liberale, come tutti quelli che sono presso al trono; lodava, prometteva, divisava, ricevea suppliche, reclami, piani. Traverso agli aristocratici e ai cortigiani intravide il cattivo governo del suo paese, monarchia temperata piuttosto dalla debolezza centrale e dalla forza d’inerzia degli usi locali e de’ corpi, che non da spirito indipendente dei nobili o de’ borghesi; ignoranza nel popolo, ozio nei monaci, ingiusti privilegi nei nobili, avvilimento nella [299] moltitudine; e animato dalla filantropia alla moda e da un amor di giustizia assoluto, agognava a capovolgere ogni cosa, immaginando che i decreti potessero tutto, che bastasse voler il bene per effettuarlo. Nel 1769 viaggiò in Lombardia, ove da Carlo V in poi nessun imperatore era comparso; volea parlar di tutto, di medicina negli ospedali, di teologia coi preti, di legislazione cogli avvocati, d’economia coi finanzieri; affollava domande e non aspettando le risposte, lanciava apoftegmi, di cui nessuno doveva dubitare. Sono arti che spesso fecero effetto.

Cupido d’emulare Federico II di Prussia, che allora colla spada, coll’astuzia, col pensiero acquistava il primato nella Germania, e impedito dalla madre nei mutamenti grandi, metteva ostinazione nelle bagatelle e violenza: poi quando si trovò libero di sè a quarant’anni (1780), pensò attuare a precipizio ciò che avea lungamente ruminato. Dicendo che i re hanno un particolare istinto di governare, sicchè la loro opinione val più che non i consigli de’ ministri, attese a trarsi in mano la direzione assoluta di tutte le forze della monarchia. In un dominio composto di paesi e nazioni tanto divergenti di civiltà, di lingua, d’indole, aggregate in diversi tempi, con diversi privilegi, pensò introdurre unità e accentramento, secondo le astrazioni filosofiche e l’esempio di Francia, quasi una regolarità geometrica stesse meglio che non la varietà derivata dalla storia e dai costumi, e che al Croato potessero convenire gli ordini stessi che al Lombardo. Il concetto d’un’unione morale mai non gli si affacciò, qual sarebbe stata per esempio la letteratura; ma credendo indegno di sè il lasciarsi rattenere da diversità di razza, di coltura, di costituzione civile, si accinse a rimpastare privilegi, consuetudini, nazionalità; filosoficamente sprezzando gl’interessi lesi e i sentimenti urtati, scriveva: — Il bene dei [300] particolari è una chimera, ed io lo sagrifico al bene generale». E altrove: — Un fatto non può giudicarsi se non dallo scopo suo, nè gli effetti apprezzarsene che dalle conseguenze, le quali appajono in capo ad alcuni anni. Vedo che la logica di Roma non è quella del mio paese, e perciò sì poca armonia v’è tra l’Italia e l’impero germanico».

Abolite le giurisdizioni feudali, dettò un codice, ove tutti erano pareggiati in faccia alla legge, ma così precipitato che subito si vollero e interpretazioni e cambiamenti; con attività morbosa in tre anni buttò fuori trecensettantasei ordinanze, brigandosi delle minime particolarità del vestire e dei protocolli: ma precipitoso a decretare, irresoluto a far eseguire, per amor della giustizia voleva esercitarla personalmente e aggravar perfino le condanne; per filantropia credeva cambiar di tratto il genio dei popoli; facea dappertutto ruine, e sulle ruine piantava l’aquila; sicchè eccitò in ogni luogo lamenti, in qualche luogo seria opposizione e rivolte.

Dicemmo come si diffondessero le dottrine del falso Febronio (pag. 191), carezzate principalmente dalla Germania, sempre oculata a fare smacco all’Italia: e Giuseppe ne trasse una sospettosa ostilità contro le franchigie ecclesiastiche; onde proibì ogni relazione con Roma, nè di recarvi le cause riservate; breve o bolla non si pubblicasse senza il regio assenso; i vescovi dessero le dispense di parentela; levata dai calendarj l’uffiziatura di Gregorio VII, e da ogni luogo le bolle In cœna Domini e Unigenitus, con proibizione di disputare pro e contro le proposizioni di queste; tolleranza de’ culti acattolici; non s’impugni verun’opera stampata negli Stati austriaci, nè i predicatori entrino in controversie contro i dissidenti. Le processioni, i pellegrinaggi, le confraternite furono abolite; ma «ben [301] lontano l’augusto monarca dall’intendere d’allontanare lo spirito de’ suoi sudditi da detti oggetti, ha anzi inteso interessarli sempre più, invitando gli individui de’ soppressi corpi e gli altri suoi sudditi a riunirsi in un solo, ch’egli ha già stabilito negli altri suoi Stati, e che vuole che anche in questi si stabilisca col nome di Confraternita della cristiana carità, onde tolta la varietà degli spiriti o degl’impegni, tutti collimino ad un medesimo fine»; e ne dava le regole, e tra il resto vi erano promotori e padri dei poveri che doveano soccorrere a domicilio; ma l’istituzione non fu mai attuata. Bensì coi beni tratti al fisco costituì un fondo di religione, parte del quale convertì a salariare i parrochi, che aumentò di numero. I capitali delle chiese e de’ luoghi pii s’impiegarono tutti sul libro pubblico; e poichè il popolo balza sempre più in là del vero, corse voce intendesse incamerare tutte le temporalità de’ benefizj, e render il clero stipendiario dello Stato, far la liturgia in vulgare, levar dalle chiese gli ornamenti e certe immagini. Il diritto di nominare i vescovi, che già egli possedea per gli altri paesi, il pretese anche per la Lombardia; elesse l’arcivescovo di Milano senza informarne nè il corpo municipale nè il papa; e avendo questo mandato lamenti, Giuseppe rinviò il breve come in termini non convenienti: sottrasse le fraterie da’ capi forestieri o residenti fuor di paese, subordinandole a provinciali proprj, dipendenti dal vescovo, nè alcun monaco viaggiasse a Roma; Certosini, Carmelitani, Olivetani, Camaldolesi, Clarisse, Cappuccini escluse, traendone al fisco i beni; appresso anche i Benedettini, Premontresi, Cistercensi, Domenicani, Paolotti, Trinitarj, Serviti, Francescani; quelli che tollerò doveano fare scuola, dispensati dal cantare in coro e da altri oneri pregiudicevoli alla sanità. I seminarj alti in Lombardia sottrasse alla direzione degli ordinarj, sostituendo a Pavia un unico portico [302] teologico, dove pure trasferì il collegio Germanico di Roma. Che più? prefisse l’orario per tener aperte le chiese e sonar le campane; queste non si tocchino ne’ temporali[134]; non più esequie pompose, perchè la tomba uguaglia tutte le ineguaglianze; i cadaveri si sepelliscano nudi entro un sacco[135]; levinsi i doni votivi dalle chiese; non facciansi processioni se non pel Corpus Domini e le Rogazioni; non si portino statue e stendardi troppo grandi; cessino la devozione del sacro Cuore di Gesù e del cingolo di san Francesco.

Rideva Federico II di questo re sagristano, e soggiungeva che costui al desiderio d’imparare non univa la pazienza d’istruirsi, e che faceva sempre il primo passo dopo il secondo. Infatti operava coll’assolutezza di chi è convinto d’operar il bene; a un superiore di convento che gli palesava i suoi scrupoli, disse: — E voi andate dove questi ordini non ci sieno»; a un vescovo che, per conformarsi ai decreti di lui senza mancare ai proprj doveri: gli chiedeva istruzioni; rispose: — L’istruzione è che voglio esser obbedito».

Pari intenzioni e pari modi davano feconda agitazione alla Toscana. I Lorenesi, a cui i trattati la assegnarono, trovavanla foggiata a obbediente mitezza, ma esposta agli abusi d’un’amministrazione che, del resto non peggiore delle sue contemporanee, non erasi mai modificata a seconda del voto dei cittadini, nè reso conto degli atti proprj se non in secreto e al principe. Ora il secolo con nuove idee domandava nuove cose, e fu [303] fortuna della dinastia austriaca il giungere nel buon momento di effettuarle.

L’antica repubblica, formata colla successiva aggregazione di piccoli paesi, ciascuno con privilegi e fôro particolare, avea lasciata viziosissima la giustizia civile, e leggi varianti dalla città alla campagna, da una provincia all’altra. I Fiorentini godeano vantaggi sopra la campagna e le provincie, e il Senese era considerato tuttavia come paese di conquista: le università di arti conservavano statuti e giudici proprj; sicchè in Firenze contavansi trenta tribunali oltre il magistrato supremo, il qual magistrato, investito un tempo delle attribuzioni della Signoria, erasi ridotto a tribunal civile; così al senato de’ quarantotto notabili era stata tolta ogni giurisdizione; il consiglio dei duecento capi di famiglie plebee sussistea di puro nome, traendosi invece gli affari al fisco e alla consulta. Lo statuto fiorentino, riformato il 1415, suppliva alle imperfezioni di mille cinquecento statuti parziali non mai aboliti; e raccogliendo il meglio dell’antica esperienza, reprimeva la feudalità. Le leggi granducali, savie spesso, non di rado erano gonfie e oscure nella redazione, e non abrogandosi le anteriori, portavano un inestricabile viluppo, opportunissimo ai mozzorecchi. Spesso atroci e sproporzionate le pene; e gli editti sanguinosi di Cosimo I contro i ribelli duravano in vigore, sebbene non s’applicassero. Molti impieghi passavano in eredità; le cariche, un tempo distribuite dai consessi popolari, per evitar i brogli si conferivano a sorte: ma con ciò cadendo in persone inette, bisognava porre a lor fianco chi gli ajutasse, e lo Stato pagava gli uni e gli altri.

Malgrado l’intento di togliere il feudalismo e le giurisdizioni patrimoniali, Cosimo I volle procurarsi denari e appoggi e attirar forestieri col conferire feudi; onde, tra imperiali e granducali, a mezzo questo secolo ne [304] sussistevano quarantasette, dai quali i prepotenti signori insultavano la legge. Alla famiglia Bourbon era stato dagl’imperatori infeudato Monte Santa Maria, posto sul confine papale in alpestre situazione, e perciò opportuno a facinorosi e banditi, che i marchesi adopravano alle loro prepotenze. Il ramo che v’abitava era poverissimo; ricco assai l’altro, piantatosi in Cortona, e perciò invidiato dai primi. Dei quali Giambattista con nove fratelli di pari bizzarria, e massime Raimondo, frate apostato e libertino, si gittò alla strada, terribile a tutta la vicinanza, e provocò a guerra rotta il marchese Anton Maria di Cortona; ma i fratelli sonato a stormo, con più di cento satelliti vanno a liberarlo; nè si potè chetare lo sbigottimento delle vicine città se non mandando truppe. Allora i Bourbon ripararono sul territorio pontifizio; frà Raimondo e un fratello furono poi condannati alle galere per assassinj; gli altri, ricoveratisi in un convento francescano, ne sbucavano tratto tratto a predare. Avendo assalito il castello di Pian Castagnajo nel Senese (1754), furono respinti a forza, ma molte vite n’andarono. Pertanto la reggenza pubblicò editti e taglie spiranti ferocia; premiato chi ne assassinasse qualcuno; e si cominciò un processo, che intralciato dai privilegi, si trascinò per più anni, mancando l’effetto dell’esempio anche in quelli che furono puniti[136].

Quanto il legislativo, era complicato il sistema delle finanze; mal distinto il patrimonio pubblico dall’allodiale de’ Medici; e Cosimo III avea tentato nullameno che ridurre suo patrimonio tutti i beni stabili, urbani e rustici dello Stato, e gli acquisti fatti sia con bonificare [305] terre, sia per confische o pene pecuniarie, successioni, imposizioni, regalìe. Il debito pubblico, che al venire de’ Medici non passava i cinque milioni di ducati, al loro finire giungeva ai quattordici; aggravio enorme sur una popolazione di appena novecentomila abitanti, e privata degli antichi proventi. Il commercio era decaduto, sì per le ragioni generali, sì per avere i primi duchi continuato a trafficare, con evidente disagio dei sudditi; ai quali pure restavano chiusi i porti d’Africa e di Levante dacchè l’Ordine di santo Stefano si considerò in guerra perpetua co’ Musulmani. Le commende di quest’ordine e di quello di Malta, le manimorte, i fidecommessi, le molteplici servitù di pascolo, di macchiatico, di legnatico, impacciavano la proprietà; e fin l’opera del prosciugar le maremme fu resa impossibile dal diritto che agli armenti spettava di pascolare nei campi sementati; anzi in alcuni luoghi era obbligo di lasciare tre annate al pascolo, una alla sementa; in altri il comunista avea diritto di far una nuova seminagione dopo la prima raccolta del proprietario. Al contadino incombeva il dovere di tener spazzate le fosse in margine alle vie, e servire colla persona o coi carri a richiesta delle comunità.

La Toscana fu peggiorata dalle dispute per la successione: inondata di Spagnuoli quando era destinata a don Carlo, inondata di Tedeschi quando i barattieri di popoli la destinarono a Francesco (1737) già duca di Lorena e marito di Maria Teresa d’Austria, il quale, pretendendo che il suo ducato valesse troppo meglio che la Toscana, chiedeva gli si aggiungessero anche i beni allodiali di Casa Medici[137]. In fatto la Elettrice morendo [306] il chiamò suo legatario universale; ed egli si valse di quelle ingenti ricchezze a pro di Maria Teresa, per quanto a’ Fiorentini dolesse di vedere portar via tanti tesori e ornamenti della loro città.

Il Governo austriaco cominciò dall’esigere una colletta universale pel debito fatto nel mantenere le truppe spagnuole, esentandone però il clero; si proibirono i giuochi di rischio, eccettuato però il casino de’ nobili; il lotto si ridusse a regalia; date in appalto le finanze toscane per lire fiorentine 4,220,450, di queste 2,800,000 andavano al granduca per suo appanaggio, oltre che egli partecipava ai guadagni degli appaltatori. Tale somma continuò ad uscir di Stato anche dopo che il granduca, eletto imperatore, non dimorò che in Germania; allora la Toscana cessò anche d’avere diplomazia propria, confondendosi coll’austriaca.

Francesco avea cominciato a distruggere abusi e ceppi, svincolare le proprietà, trarre dai feudatarj a sè la potestà legislativa e giudiziale, la scelta delle milizie e l’altre regalie; accettò il calendario gregoriano nel 1750, abolendo l’êra pisana; riordinò l’amministrazione, coll’annuenza pontifizia fece concorrere gli ecclesiastici a spegnere il debito; tolse le linee doganali fra lo Stato vecchio e il nuovo; dappertutto introdusse economia. Assente il granduca, governava una reggenza di quasi tutti Toscani, preseduta dal Richecourt dispotico illuminato, ma tratto in discredito dalla emulazione di Carlo Ginori, ricco e destro governator di Livorno, e ravvivatore dell’industria e dell’agricoltura, il quale ottenne di succedergli. Ma l’uno ne morì di crepacuore, l’altro di gioja; e il granduca non esitò a mandargli successore quel Botta Adorno, che s’era infamato a Genova e a Brusselle. L’opinione pubblica si manifestò nelle imprecazioni lanciategli di mezzo agli applausi della sua entrata: ma quand’egli fu trasferito vicario imperiale [307] a Pavia, la Toscana dovè continuargli la pensione di ottantaquattromila lire.

Essa fu pure obbligata a somministrare truppe per la guerra dei Sette anni; e poichè furono sconfitte, l’imperatore domandò altri mille uomini da paese sì piccolo e disavvezzo; talchè moltissimi migrarono. Dei quattromila marciati, appena trecento tornarono; onde si prese l’accordo di contribuire invece sessantamila fiorini, con cui soldare Tedeschi. Poi si dovette un donativo pel matrimonio di Giuseppe II: e perchè alcuni vescovi con sommessissime parole cercarono esimerne il loro clero, ebbero da Vienna, non volere sua maestà imperiale udir più reclami e piati su tal materia; pagassero, e tutto fosse finito. Piccolómini vescovo di Pienza, che resistette, ebbe carcere ed esiglio.

Nel trattato di Hubertsburg fu convenuto non dovesse mai la Toscana esser unita all’impero, ma restasse una secondogenitura della Casa d’Austria Lorena; in conseguenza cessò dalla misera condizione di provincia, ed ebbe un signore proprio in Pietro Leopoldo (1765), col quale cominciò un’êra nuova.

Scarso ingegno, retta volontà, ebbe l’arte di scegliere i consiglieri, fra cui primeggiarono Angelo Tavanti buon finanziere, Francesco Gianni, Giulio Rucellaj, Pompeo Neri. Ispirato da questi e dalle idee allora correnti, s’accinse a riformare nel modo che allora praticavasi, coll’onnipotenza dei decreti. Uniformò le leggi togliendo gli statuti particolari, le giurisdizioni feudali, i magistrati inutili, il Consiglio dei ducento, i tribunali delle arti, surrogandovi la Camera di commercio; tutti i cittadini fossero sottoposti alla medesima giustizia, fin il principe ed il suo fisco; ristretti e scelti i giudici; pubblicato un nuovo regolamento di procedura; a Giuseppe Vernaccini, poi a Michele Gianni si affidò l’incarico d’un codice, proseguito poi dal Lampredi, ma [308] interrotto dalla Rivoluzione. Da quell’ostentazione di atrocità e violenza che credeasi propria di governi ordinati s’avvide il granduca che non restavano impediti i misfatti, bensì da punizioni moderate, ma pronte e sicure, e dall’esatta vigilanza. Pertanto abolì ogni immunità o privilegio personale o asilo, e insieme la tortura, la confisca, il giuramento de’ rei, le denunzie secrete, le accuse contro i parenti, i processi di camera ove l’accusato non era ammesso alla difesa, le deposizioni di testimonj uffiziali, la condanna in contumacia. A ciascuna colpa era prefissa la pena, togliendo la speranza di vederla diminuita nè per remissione dell’offeso nè per grazia sovrana. Alla pena capitale sostituì i lavori forzati: colle pecuniarie dovea formarsi un fondo di che compensare gl’ingiustamente carcerati. Escluse i delitti d’alto tradimento, sapendo qual terribile estensione soglia darsi a questo titolo.

Il senatore Gianni professava che «la libertà e non il regolamento sarà sempre il voto di chi brama il commercio felice». Ancor più coerente il Fabbroni diceva: — Acciocchè abbondi in un dato luogo un genere qualunque, non avvi altro arcano che di far sì che siavi sicurezza di venderlo con vantaggio; per venderlo con vantaggio è d’uopo che sianvi molti compratori; e per aver molti compratori non dobbiamo tenerci a soli nazionali»; e mostrava «i danni delle dogane che frastornano l’ordine generale della natura, impediscono il commercio, non impinguano l’erario, trasformano molti onesti in delinquenti».

Pertanto alle molteplici dogane fu sostituita una gabella unica per tutto il granducato, e libero l’entrare, uscire, circolare di qualunque merce, compresa la seta; libero il prezzo, libera la vendita dei beni d’ogni sorta; tariffa unica; non più vincolata l’industria da matricole d’arti e mestieri, da privative, esenzioni, fidecommessi; [309] esonerati i contadini dai servigj di corpo, i possessi dalla servitù di pascolo pubblico; si fan vendere i beni comunali; l’amministrazione dei Comuni è affidata a quei che hanno interesse alla loro prosperità, cioè ai possessori medesimi; più di sei milioni si spendono in istrade e ponti; si aprono lazzaretti, canali, case d’educazione, di cui ottantatre per le fanciulle, rifugj pei poveri, un’accademia per le belle arti, conservatorj per le utili; sono riordinate le Università di Pisa e Siena, e in generale gli studj e i musei, gli archivj e gli ospedali; si sepellisca nei campisanti; si consideri cittadino lo straniero che abbia possedimenti in Toscana.

Furono cassati gli appalti che angariavano il popolo eppure scarsamente fruttavano, e l’obbligo che ciascuna famiglia comprasse una fissa quantità di sale; si rinunziò a certe propine e privative gravose, lasciando libera la coltivazione del tabacco e lo spaccio dell’acquavite e le fucine di ferro. Con una percezione più economica non solo Leopoldo riparò a questi vuoti, ma crebbe l’entrata di 1,237,969 lire l’anno, e in trentasette anni da ottantasette e mezzo ridusse a ventiquattro milioni il debito pubblico, adoprandovi anche del proprio e la dote della moglie; trenta ne consumò in miglioramenti, e cinque ne lasciò nel tesoro al suo successore, dopo abbellita la città e le ville imperiali. Subito se ne vedono splendidi effetti: la legislazione uniforme conduce un più equo riparto di diritti e di sostanze; l’agricoltura si rifà; Ximenes, Fabbroni, Fantoni curano il prosciugamento delle maremme; e se in quella di Siena fallì, vantaggiarono le valli di Nievole e di Chiana e i contorni di Pietrasanta, dove s’invitò gente col dare sovvenzioni e terre a tenui livelli.

L’Università di Pisa, già prima abbellita dal Cerati, dal Tanucci, dal Grandi[138], dall’Averani, dal De Soria, [310] dal Politi, dal Marchetti, dal De Papa, ebbe gloria dal Vannucchi, dal Pellegrini, dal Guadagni; il Pignotti favolista, il Galluzzi storico, il Pagnini traduttore, la poetessa Fantastici, l’oraziano Fantoni, il petrarchesco Salomon Fiorentino, il robusto satirico d’Elci attestavano il fiore del piccolo paese; i Neri-Badía, i Bizzarrini, i Meoli, i Vernaccini, i Neri, i Bandini, i Tavanti, i Rucellaj ispiravano retti principj giuridici ed economici al principe novatore. Il quale, persuaso che «il miglior modo d’acquistare la confidenza del popolo al Governo è il far conoscere ai cittadini i motivi degli ordini che man mano divengono necessarj, e informarli senza velo dell’uso delle entrate pubbliche, giacchè il mistero ispira diffidenza, e svisa le intenzioni del principe e de’ suoi agenti», pubblicò lo stato delle finanze, e l’erogazione d’ogni piccola somma, e le principali disposizioni intorno alle varie sorgenti della pubblica prosperità[139]; poi rese ragione degli atti suoi in un libro intitolato Governo della Toscana sotto il regno di Leopoldo II.

Al tempo che dicevasi «Il re è tutto, la nazione è nulla», quest’austriaco proclamava dunque i diritti della nazione, e ispirava al popolo una sana libertà civile. Anzi o voleva od eragli suggerito di dar una costituzione (1781), «non potendo sussistere felicemente uno Stato o Governo senza una legge che determini fra il [311] pubblico e il sovrano l’autorità e i diritti delle parti, e senza che il corpo de’ sudditi, interessato nella prosperità comune, usi di tutto il suo diritto naturale, e possa proporre e chiedere ciò che gli possa giovare, e respingere ciò che gli nocesse». Così il Gianni in uno sbozzo che ne stese, secondo il quale volea restituire a tutti i sudditi la piena libertà naturale acciocchè intervenissero validamente a celebrare e accettare questa legge di convenzione, non ritenendo il sovrano che la podestà governativa. Il sovrano dunque avrebbe divieto di far guerra o alleanza, dare o ricevere soccorsi di truppe, mandar fuori soldati, nè fabbricar fortezze senza consenso de’ rappresentanti; manterrebbe i privilegi di Siena e di Livorno, l’indipendenza de’ giudici, la separazione del patrimonio dello Stato da quello del principe; non s’alienino i beni dello Stato, non si accrescano le imposte nè si diano in appalto o vendano; non si creino nuovi feudi; assicurata la libertà del commercio dei grani, la guardia civica, le leggi delle comunità e de’ luoghi pii; resi pubblicamente i conti; sono riservati al sovrano il comando delle armi, l’elezione agl’impieghi non comunitativi, la collazione de’ benefizj di patronato regio, il diritto di grazia, il potere discrezionale nei limiti della costituzione. In queste materie non si brighino i rappresentanti, i quali del resto propongono nuove leggi o la riforma e deroga delle vecchie, e votano su quelle proposte dal sovrano; esaminano il conto pubblico, moderano le pensioni; provocano i provvedimenti per gli abusi in fatto di giustizia o di commercio; illuminano il sovrano sulla condotta dei ministri, e su quanto concerne il bene pubblico.

In ciascuna comunità ognuno che abbia il diritto politico e che non sia impiegato, elegge un oratore; gli oratori all’adunanza provinciale scelgono il rappresentante da mandarsi all’assemblea. Libero a chiunque [312] il far proposte e petizioni, ma non se ne tenga conto se non sieno votate dal consiglio generale comunitativo. Pubbliche le adunanze provinciali; le petizioni presentate devano qui pure mettersi a voti prima di sporgerle all’assemblea generale. Comminate pene agli eletti che non accettassero l’elezione.

Le assemblee generali raccolte ogni san Giovanni, presedute da un regio luogotenente, con un cancelliere che non sia impiegato regio, discuterebbero le proposizioni fatte dalle assemblee provinciali, e doveano esser vinte con due terzi di voti. Da poi si mettono in delibera le petizioni de’ privati o rappresentanti, si sentono le proposizioni che il sovrano volesse trasmettere per mezzo del luogotenente, e se alcuna venisse ridotta a legge, dovrà promulgarsi come volontà del sovrano concorde col voto pubblico. In occasione di nuovo regno, l’assemblea è radunata dal gonfaloniere di Firenze: di straordinarie possono convocarne il granduca e domandarne le comunità.

Noi ci diffondemmo su tale costituzione, come lo stillato della sapienza governativa di quel tempo, ma sebbene Leopoldo regnasse altri nove anni, mai non le diede effetto[140]; onde non può tenersi in conto che d’un progetto, alla cui attuazione non ci pare si dirigessero le riforme di Leopoldo, tendenti piuttosto, al modo d’allora, a concentrare nel principe tutta l’autorità. Per ciò Leopoldo è levato a cielo da coloro che badano ai detti anzichè ai fatti, e della storia fanno una satira o un’allusione: ma realmente le riforme di lui [313] non erano che amministrative; egli faceva tutto, e il popolo nè intendeva nè si curava; i Comuni perdettero fin la parte d’autonomia che si erano riservata aggregandosi a Firenze, e trovaronsi ristretti alla semplice amministrazione patrimoniale, anche questa sotto il beneplacito del principe; onde sempre più negligevasi la cosa pubblica, dacchè era incombenza del granduca. Egli dunque potè senza ostacoli fare e disfare, urtare gl’interessi e le opinioni, essere despoto filosofo senza tampoco l’originalità, poichè imitava il fratello Giuseppe in campo più angusto e con viste più ristrette. Che se va lodata la sua riforma economica, fondata su canoni che la scienza non aveva ancora messi in sodo, e di cui già egli traeva francamente le conseguenze; se precorse alla vantata rivoluzione francese coll’eguaglianza di tutti in faccia alle leggi e colla semplicità vigorosa delle finanze, esagerò il concetto del potere principesco, e dell’ingerenza di questo negli atti privati e nella vita; per riformare costumi e idee, prefisse limiti fin al lusso dei ricchi, alle spese di monacazione; si lasciò invanire da quegli encomj sguajati da cui abbiam veduto altre volte ubbriacarsi un buono ma debole spirito, e travisarsi l’opinione.

Il precipizio stesso delle riforme valse a chiarire che non ogni bene è attuabile. Col far libere le selve denudò le spalle dell’Appennino; colla mitezza delle pene attirò nel suo paese la feccia del vicinato; le classi privilegiate rimasero scontente delle innovazioni, prima che le rialzate ne capissero i vantaggi; intanto quelle ordinanze quotidiane toglievano ogni fiducia nel domani, e lo stesso Pompeo Neri, che quantunque progressivo, parve lento alla precipitazione di Leopoldo, scriveva: — La buona fede è come la moneta, che se dal sovrano viene peggiorata, esso medesimo ne risente i più pericolosi, più estesi e più diuturni effetti. Il sovrano in [314] ogni dominio, per essenza della sovranità, è e dev’essere il più galantuomo del paese»[141].

Leopoldo invece scostumava il potere colla doppiezza; mentre decretava che di nessun’accusa si tenesse conto se non firmata, istruiva i tribunali di ricevere le delazioni cieche; mentre per legge proibiva i processi economici e camerali, gli autorizzava in secreto; imponeva che un compenso si desse agli accusati scoperti innocenti, ma non fu fatto mai[142]. Il presidente del buon governo era esecrato, eppure non temuto; al bargello e a’ suoi birri fu contrapposto un ispettorato di polizia, ma l’uno intralciava l’altro. Curiosissimo de’ fatti altrui, Leopoldo qualche anno spese fin settantatremila scudi in spie, avvezzando i Toscani alle soppiatterie, alle piccole frodi, alle perfidie dissimulate; e l’ispettore Chelotti, fomentando bassamente quel basso prurito di delazioni, potè sull’animo del granduca più che qualsifosse ministro, e ne abusava a segno che Firenze si ammutinò (1780) e i granatieri voleano trucidare i birri. Il granduca chetò non senza molto sangue, e punì massimamente i soldati, col che diroccò quel poco che restava d’ordinamenti militari, poi abolì la guarnigione, affidando la difesa e la tranquillità a compagnie civiche. Tagliava così i nervi del Governo: e noi veneriamo i riformatori quando operano persuasi e robusti, non quando adulano i vulgari istinti, per moda o per paura.

In politica egli si propose perfetta neutralità per mare e per terra con tutte le nazioni, anche barbaresche; non alleanze difensive od offensive, non ricevere protezione; in conseguenza non nuove fortezze; le vecchie non doveano contenere artiglieria; piccolo esercito, e tutto nazionale; nessune navi di guerra, abolendo per [315] ciò i cavalieri di santo Stefano. Regolamenti da Arcadia in una società come la moderna, dove è pur troppo necessaria la forza.

A nuovo scoglio lo fecero urtare le materie ecclesiastiche. La Toscana, contigua collo Stato Pontifizio, più frequenti occasioni aveva avuto di dispute colla curia, infrenata ma pur potente. Al nunzio competevano le cause che il concilio di Trento attribuì al fôro ecclesiastico, e le appellazioni interposte dalle decisioni dei vescovi; il concedere alcune indulgenze e dispense dei cibi proibiti e in materie beneficiali e per peccati occulti e casi riservati; commutar voti, legittimare spurj, e sanare altre irregolarità per essere ordinati; vendere e livellare beni ecclesiastici per evidente utilità, amministrare i benefizj vacanti, inibire i sequestri, e concedere la restituzione in integro; creare notari, dottori in ambo i diritti, in medicina, in arti; misto di giurisdizione civile ed ecclesiastica, incompatibile colle nuove idee del potere.

Un frà Cimiro napoletano, cancelliere dell’Inquisizione in Siena, fece cogliere e battere un marito che, diceano, gl’impacciava certa tresca: ma il capitano di giustizia lo pose in carcere, donde essendo fuggito, vennero condannati i suoi complici, e convenuto di non ammettere al Sant’Uffizio che nazionali. Questo fatto volse i discorsi e l’esame sull’Inquisizione[143]; e tanto più quando, essendosi sparsi colà i Franchimuratori, di cui [316] diceasi contarne trentamila la sola Firenze, il Sant’Uffizio ne colse alcuni, fra cui Tommaso Crudeli, che nei discorsi mettea più fuoco, e ne’ versi più idee che non si volessero. Imputato anche di convegni irreligiosi col barone Filippo di Stosch prussiano, egli subì un processo [317] secreto, allungato dal dover le carte andare e venire da Roma; finchè il Governo lo trasse dalle prigioni ecclesiastiche nelle sue; poi fu relegato per tutta la vita nella propria casa a Poppi, giurando sul Vangelo di dire i salmi penitenziali una volta al mese[144]: [318] atti che sapeano di strano ai contemporanei di Voltaire.

Il resistere a Roma non era cosa nuova in Toscana, e fin il debole Gian Gastone nel 1732 proibiva che l’arcivescovo Martelli pubblicasse il sinodo diocesano, e «gli si faccia intendere che non può ingerirsi che nel mero spirituale, e che non vogliamo proceda contro i laici con pene temporali per qualunque titolo che potesse allegare». Giulio Rucellaj capo della giurisdizione, contrariava sempre le pretensioni ecclesiastiche, nel che animò la reggenza, poi Francesco di Lorena, il quale limitò gli acquisti delle manimorte, tolse al Sant’Uffizio la censura dei libri, e le aggiunse due assessori nei processi, vietò le missioni in Firenze e alcune processioni. Benedetto XIV se ne risentì, alcuni vescovi si opposero, fra cui quel di Chiusi, e ne scrisse al Rucellaj: ma questi chiamandosi offeso, ne portò lamento alla Corte imperiale e al papa, il quale indusse il vescovo a una lettera di ritrattazione, la cui bassezza può mostrare a che volesse ridursi la Chiesa d’allora[145].

[319]

Viepiù procedette Pietro Leopoldo, onde imitare il fratello Giuseppe II; ma se le riforme di questo erano da filosofo (riflette il Botta), quelle di Leopoldo erano [320] da giansenista. Fu de’ più avversi ai Gesuiti, i quali in Toscana tenevano dieci collegi, colla rendita di lire 146,671; e nel comunicare il breve della loro soppressione all’arcivescovo di Firenze gli diceva: — Obbedisca subito a chi gli sta sopra; e n’avrà merito da Dio e dagli uomini; ad ogni modo noi sapremmo farci obbedire»[146]. Tolse l’immunità dei beni ecclesiastici, gli asili, il mendicare, gli eremiti, duemila cinquecento confraternite e molte fraterie, tra cui anche i Barnabiti, dediti all’educazione; impacciò le monacazioni; dell’osservanza delle regole stessero responsali i superiori; le parrocchie si conferissero per concorso; vietato il pubblicar le censure contro i violatori del precetto pasquale, le flagellazioni, i pellegrinaggi e tutte le devozioni non approvate dal Governo; le devote immagini stessero sempre senza mantelline; non si facessero esteriorità nei trasporti funerali; fin la Compagnia della misericordia non raccogliesse chi fosse colpito di morte [321] fuor di casa; si sepellisse solo in campisanti a sterro; le curie vescovili si restringessero alle cause ecclesiastiche, e queste pure si trattassero in vulgare; i vicarj generali doveano ogni tre anni essere approvati dal sovrano; nessun decreto valea senza l’exequatur governativo; i vescovi attribuissero ai parrochi le facoltà dei casi riservati; da ultimo abolito il tribunale della Nunziatura, e voleva i vescovi si rivolgessero a lui direttamente nei loro bisogni, disposto a soccorrerli ogniqualvolta chiedessero; ma guai se cercassero ingerirsi del Governo.

Lo animava Scipione Ricci, uomo pio e dotto: ma imbevuto nelle dottrine dei teologi francesi, confuse colla superstizione alcune pratiche per lo meno innocenti, e nel suo vescovado di Pistoja emendò la devozione della Via crucis[147], soppresse quella del Sacro Cuore, processò reliquie e immagini miracolose, levando le meno autentiche, abolì le cappelle private e le feste superflue: eppure al tempo stesso promoveva la devozione verso santa Caterina de’ Ricci, si lamentava del rilassamento nel digiuno quaresimale, e che la refezione non si restringesse a fichi secchi e zibibbo.

A Pistoja si era messa una stamperia «per isvelare le ingiuste pretese di questa Babilonia spirituale, che sovverse e snaturò tutta l’economia della gerarchia ecclesiastica, della comunione de’ santi, dell’indipendenza de’ principi»; e di là uscivano i mille opuscoli giansenistici allora di moda. Col diffondere i quali, e col parlare continuo contro «le pretensioni ildebrandesche, [322] il regno fratino e romanesco, la pertinacia dei preti e frati nel vendicarsi de’ torti non solo, ma d’ogni opposizione»: il Ricci seminò quistioni, fin allora o ignorate o non curate fra noi.

Egli corresse abusi gravissimi in monasteri[148], e nominatamente procedè contro due monache, accusate d’un nefando quietismo: ma Pio VI ne disapprovò i modi, raccomandandogli modestia e prudenza. Di ciò volle tenersi offeso il Governo, e il Piccolomini ministro degli affari esteri scriveva al pontefice: — Sua altezza reale si lusinga che il santo padre, facendo sopra di ciò migliori riflessioni, si determini a dare a quel prelato qualche contrassegno di maggior propensione ed affetto, ed a sua altezza reale qualche motivo di essere meno disgustata di simil passo, e dell’avvilimento in cui vede che la Corte romana pone i vescovi quando non sacrificano col proprio dovere i loro diritti, per lasciar tutta l’estensione a quelli che Roma pretende»[149]. Così scriveano al papa i ministri di Leopoldo austriaco. Il quale poi pubblicò due, vorrei chiamarle istruzioni pastorali (Punti leopoldini), dove ingiungeva ai vescovi di congregare un sinodo diocesano almeno ogni due anni per trattare di cinquantasette punti che s’indicavano; come formar libri migliori di preghiere, e breviarj e messali; se convenisse meglio la lingua italiana nell’amministrazione dei sacramenti; il clero sia educato uniformemente; tutti si conformino alla dottrina di sant’Agostino sulla Grazia[150]. Il quinto de’ suddetti [323] punti (perchè non fosse dubbia l’intenzione) esprimeva di voler rivendicare «all’autorità dei vescovi i diritti originarj loro, statigli usurpati dalla Corte romana abusivamente».

Seguendo tali ordini che forse egli aveva ispirati (1786), il Ricci intimò un sinodo a Pistoja invitandovi altri del partito che dicevasi regalista, cioè che aveano accolte in Italia le dottrine di Febronio. Fra questi nomineremo il bresciano Giambattista Guadagni; il genovese Dégola, che poi fu legato col famoso vescovo Grégoire e compilò gli Annali di religione; frà Vittorio Sopransi (1722-1806) milanese, che assalì accannitamente il Turchi; Gianmaria Pujati friulano professore a Brescia poi a Padova, somasco indi benedettino, che stese un’infinità d’opuscoli, e molte mortificazioni soffrì senza mutare; i fratelli Cestari, l’orientalista padre Giorgi, il Gautieri filippino torinese, il Vallua astigiano, Benedetto Solari vescovo di Noli, il veneto Giovanni Cadonici canonico di Cremona, che voleva il clero incondizionatamente sottomesso ai principi, e pregasse per loro quand’anche tiranni, secondo formole adottate nei primi tempi, soppresse nel medioevo, ma conservatesi ne’ messali ambrosiano e mozarabo. Alla costui opera mise una prefazione Giuseppe Zola bresciano, autore d’una storia ecclesiastica fin a Costantino, e che con Martin Natali professore di teologia, e con Pietro Tamburini, autore della Vera idea della santa Sede, promulgavano nell’Università di Pavia le dottrine antipapali.

A questi ed altri fu fatto invito, e massime a Toscani, fra’ quali primeggiavano Fabio De Vecchi senese e l’abate Tanzini di Firenze; il Ricci fu presidente, vicepresidente Giuseppe Paribeni professore; Tamburini [324] lesse l’orazione inaugurale e col Palmieri ebbe incarico di redigere i decreti; e ogni passo fu dato sull’orme degli Appellanti francesi. Nelle sette sessioni fu deciso, i vescovi esser vicarj di Cristo non del papa, e da Cristo immediatamente tenere le facoltà per governare la loro diocesi, nè quelle poter essere alterate o impedite; anche i semplici preti avere voce deliberativa nei sinodi diocesani, e al pari del vescovo decidere in materia di fede; nelle chiese s’avesse un altare solo; vulgare la liturgia, e ad alta voce; non quadri rappresentanti la santissima Trinità, non venerar un’immagine più che l’altre; favola il limbo de’ bambini; non poter la Chiesa introdurre dogmi nuovi, nè i decreti suoi essere infallibili se non in quanto conformi alla sacra scrittura e alla tradizione autentica; ogni fedele deva leggere la sacra scrittura; l’indulgenza assolve solo da penitenze ecclesiastiche, e il tesoro soprarogatorio de’ meriti di Gesù Cristo, e la sua applicazione ai defunti sono invenzioni di scolastici; abolita la riserva dei casi di coscienza e il giuramento de’ vescovi prima della consecrazione; la scomunica non avere che un’efficienza esterna; poter i principi stabilire impedimenti al matrimonio, il quale si pregava il granduca a dichiarare contratto civile.

Oltre ducento sacerdoti aderirono alla dottrina che dicevasi di sant’Agostino intorno alla Grazia, accettarono le quattro proposizioni della Chiesa gallicana e i dodici articoli del cardinale di Noailles, approvarono le riforme introdotte dal granduca e dal Ricci, e si prescrisse il catechismo allora pubblicato da Montazet arcivescovo di Lione.

— Calvino invade l’Italia», diceano gli uni spaventati. — Finalmente si vedrà repressa la tracotanza dei papi», diceano gli altri esultanti: e Leopoldo, che giorno per giorno teneasene informato, come vide alcuni vescovi isolatamente dissentire dalla sua enciclica, [325] pensò raccorre un concilio nazionale (1787). Per disporlo volle che tre arcivescovi e quindici vescovi del ducato tenessero una conferenza nel palazzo Pitti, potendo condurvi consiglieri e canonisti, purchè non frati[151]: ma intanto alcuni facevano opposizione al sinodo pistojese, appoggiati anche dal giurista Lampredi; pronunziavasi lo scontento generale del popolo e de’ religiosi che chiamavansi fanatici; talchè Leopoldo s’avvide che un concilio gli darebbe causa perduta.

Solo il Ricci non si rallentava; faceva recitare in vulgare i salmi, mutava qualche parola nell’Ave Maria, levava gli ornamenti preziosi dalle chiese, i brevi e i cartelli d’indulgenze. Quando si celebrò in italiano, al Sia ringraziato Dio, e all’Andate, la messa è finita, il popolo rise e null’altro: ma quando si volle a Prato togliere l’altare dov’è venerata la cintola della beata Vergine, i Pratesi tumultuarono; armati invasero la chiesa cantando e sonando al modo che il Ricci aveva proibito; arsero il trono e gli stemmi di lui e i libri di novità; trassero di sotterra le sepolte reliquie, sepellendo in loro vece le pastorali; e in onta di lui si diedero a fare processioni e litanie, e venerare le immagini. I teologi poi lo scopersero di errori grossolani; la resistenza si diffuse fin nei capitoli delle due cattedrali; sicchè le riforme vennero casse, ed egli fuggiasco abdicò.

[326]

Contro di tali spiriti aveano a lottare i pontefici. Alla morte di Clemente XIV lungo e tempestoso fu il conclave[152], principalmente per la paura che il nuovo pontefice ripristinasse i Gesuiti; e alfine sortì papa Pio VI (1775). Fin quando col nome di Giannangelo Braschi era tesoriere, avea mostrato integrità esemplare, quarantamila scudi d’indebite pensioni recuperando al tesoro; avea disapprovato la soppressione de’ Gesuiti; il popolo poi l’amava sì perchè bello e fastoso e di ricca famiglia, sì perchè incorruttibile ed operoso. Appena papa, profuse in largizioni, si circondò di persone d’ingegno e di virtù, e promise vegliar egli stesso a tutte le parti dell’amministrazione, pose conservatorj per fanciulli poveri, per educare i quali eresse un ospizio ai Fratelli della dottrina cristiana; restituì alle funzioni papali lo splendore, scemo nel pontificato precedente, e in mezzo a quelle intenerivasi fino al pianto.

Francesco Beccatini, in una laudativa e retorica Vita di lui, confessa che, ad eccezione della Turchia, lo Stato pontifizio era il peggio amministrato. Delle fertili spiaggie dell’Adriatico giaceva più d’un quinto infruttifero, talchè davasi autorità ai vicini di coltivarle per proprio conto. Vietata ogni asportazione di grani, impacciatane l’interna circolazione, l’annona aveva diritto di comprare quanti gliene occorressero, al prezzo che fissava; e col concedere le tratte, arricchiva chi voleva. Altrettanto vessatorio il tribunale delle grasce, tassava le bestie a voglia sua; comprava l’olio tutto, per poi [327] rivenderlo caro. Non manifatture; carissima l’introduzione delle forestiere, e perciò lauto il contrabbando; le rendite territoriali erano appaltate per quattrocentomila scudi, mentre avrebbero comodamente reso il doppio; negli undici anni che regnò Clemente XIII, si registrarono dodicimila omicidj, di cui quattromila nella sola capitale. I rimedj appostivi da Pio VI riuscirono inefficaci.

Dopo di ciò manca la lena di lodare una munificenza che prosperava le arti belle, e lasciava languire le utili[153]. Pio crebbe d’assai il museo Clementino, vi accoppiò il suo nome, e lo fece disporre ed illustrare dal sommo archeologo Ennio Quirino Visconti; aggiunse a San Pietro la ricca e non bella sacristia, estese il palazzo Quirinale, migliorò il porto d’Ancona e l’abadia di Subiaco; dall’Austria comprò la Mesola nel Ferrarese per novecentomila scudi; e dappertutto poneva vanitosamente il suo nome e iscrizioni, nessuna delle quali vale quanto quella degli allievi delle scuole cristiane, A Pio VI, padre dei poveri.

Tante spese non faceva egli del proprio o sopra avanzi dell’entrata, ma emettendo nuove azioni del debito pubblico, o carta monetata: e perchè questa scadde di valore, vi si surrogò un debito vitalizio; si decretò anche di accatastare tutti i beni, si tolsero le dogane interne.

Neppure Pio VI seppe guardarsi dalla smania di riformare, conculcando il vecchio. Aveva cominciato dal sanare gli stagni nelle legazioni di Ferrara e Romagna; e Ignazio Buoncompagni a ciò deputato, facendo e bene e male come incontra in simili tentativi, realmente mutò in campagne e praterie le macchie e gli stagni, ma si condusse verso i terzi con una prepotenza che il lasciò [328] in disonesta memoria, malgrado le postegli iscrizioni. Nominato cardinale e delegato di Bologna, pensò mutare lo stato di questa, che, pei patti del 1278 e del 1447, conservavasi repubblicana sotto la protezione del papa, con un governo misto di consiglio comunale e d’un senato di quaranta di nobiltà ereditaria; nè altri pesi aveva che i dazj, rendita incerta che non raggiungeva le spese, onde accumulò un debito ingente. Una riforma proposta venne rejetta dal clero e dai nobili, e da quei molti che si gloriano di poter dire di no: que’ sotterfugi che gli scaltri conoscono nè sempre riescono, e snobilitano se non si riesca. Pio dunque, consigliato dal Buoncompagni, e fidato nella fiacchezza della nobiltà, ivi data al lieto vivere come altrove, mandò due motuproprio (1780), con cui riformava i dazj, poneva una taglia sulle terre; e una guarnigione in Bologna farebbe obbedire. Nè tampoco si era consultato il senato, e il Buoncompagni affrontò l’ire, non lasciò dare udienza a una deputazione mandata al papa, si derisero le istituzioni decrepite, non si tenne verun conto del gonfaloniere, e Bologna seguitò a far reclami, e rimase città scontenta. Il Buoncompagni divenne poi primo ministro, molto utile in tempi difficili, sinchè Fabrizio Rufo riuscì a sbalzarlo, e morì nel 1790.

L’operazione di cui si menò maggior vanto fu l’asciugamento delle paludi Pontine, vasto terreno che occupa la parte meridionale degli Stati pontifizj, bagnato a ponente e a mezzodì dal mar Tirreno, cinto nel resto dalla catena degli Appennini, stendendosi parallelamente al mare quarantadue chilometri da Cisterna a Terracina, internandosi diciassette o diciotto. Il terreno convince che il mare doveva giungere fino alle falde dell’Appennino, elevandosi da esso il monte Circello a modo d’isola. Come le dune ebbero separato quel piano dal mare, e gli scoli delle montagne Lepine e le piante [329] cadutevi l’ebbero rialzato, l’opera dell’uomo secondò quella della natura per modo, che prestissimo v’affluì gente, onde Appio fabbricò la famosa strada per congiungere con Roma le città ivi fiorenti, ed era colà la più parte di quell’ager publicus che il popolo romano reclamava con secolare perseveranza. Ma le dune formatesi alla parte occidentale ed altre circostanze rallentavano le acque, che da varie parti sboccano nell’unico emissario detto Bodino. Un secolo dopo di Appio Claudio, Cornelio Cetego prese a disseccare que’ pantani, operazioni interrotte come quelle ideate da Giulio Cesare. Augusto fece scavare una gran fossa che porta ancora il suo nome; poi non n’è più parola fino a Teodorico, che le diede a sanare al patrizio Decio, accordandogliene la proprietà. Sotto Leone X e Sisto V vi si fecero l’emissario generale e il canale interno, detto fiume Sisto; altri lavori sotto Urbano VIII; ma di più grandiosi ne eseguì Pio VI dal 1777 al 96. Il terreno si trovò di quattrocentrentacinque miglia romane, di cui un quinto copre l’acqua tutto l’anno, due quinti solo nella stagione piovosa. Il papa spendendo nove milioni, e colla direzione dell’ingegnere Rapini di Bologna, ristorò la via Appia, i ponti antichi, il canale che la costeggia, gli stupendi magazzini di Terracina ed altri edifizj, dando a tutti carattere monumentale, perfino alle osterie. Sciaguratamente erano mal diretti, e quando tardi si vide il meglio, non vi fu tempo che d’abbozzarlo, e sopravvenne la tempesta.

Per tali spese Pio creò 14,303 nuovi luoghi di monti da cento scudi, dalla cui vendita si ritrassero 1,621,983 scudi, onde al tre per cento l’erario pagava 43,179 scudi annui: la manutenzione si stima dodicimila scudi; sicchè ogni anno costano quelle paludi meglio di 55,000 scudi, mentre dalle enfiteusi non se ne ritrae che 32,600. Duole che quest’opera da antico romano fosse destinata [330] a formare un principato ai nipoti del papa, i quali egli favorì come da gran tempo più non si usava.

Pio, sgomentavasi delle innovazioni di Giuseppe II, non vedendo ove riuscirebbe l’irrazionale incammino; ed uscite vane le rimostranze e i riverenti riflessi, propose andar egli stesso dall’imperatore. Come erano mutati i tempi da quando i papi citavano i Cesari a rendere ragione degli oltraggi recati alla fede e alla giustizia! Invano dissuaso dalle avventurose sconvenienze d’un tal viaggio, Pio, fidando nella causa propria e nell’efficacia della bellezza sua maestosa e della viva eloquenza, dopo vegliato una notte sulla tomba dei santi Apostoli, s’avviò.

Giuseppe gli avea scritto gradirebbe quella visita (1782) come una dimostrazione d’affetto, ma «non si potrebbe immaginar ragione o addurre esempio che valesse a rimoverlo dal già fatto»[154]. A Ferrara mandò a complimentarlo un ussero protestante, poi gli diede una guardia tutta di acattolici; da Vienna gli mosse incontro ad onoranza, ma sfuggì di venire alle strette, e non gli lasciò vedere se non le persone che esso permetteva. Kaunitz ricevette la visita del papa in abito di confidenza; avendogli il papa sporta la mano, e’ gliela strinse come fra pari; d’arti belle soltanto gli parlò; affettò di menarlo in tutti i bugigattoli e fargli prendere tutte sorta di positure per osservare le sue raccolte artistiche; onde Pio, educato da gran signore, ne partì tutto stupefatto.

Pio mostravasi disposto ad approvare certi provvedimenti, ma gli si fece comprendere che nol si credeva necessario; onde profondamente trafitto dall’inflessibilità di Giuseppe, e mortificato da un vano cerimoniale e da una mendace venerazione per la santa Sede mentre [331] si stava spogliandola delle sue più vantaggiose prerogative, lasciò Vienna dopo esservi soggiornato un mese a guisa di supplichevole a piè d’un trono, che i fulmini del Vaticano avevano spesso crollato.

Appena lui partito, Giuseppe II spacciò al governatore della Lombardia che dovessero restar ferme le sue deliberazioni circa ai monasteri e alla tolleranza religiosa; i libri fossero sottoposti alla censura regia, al regio exequatur le bolle romane; regia l’ispezione dei seminarj e la nomina dei vescovi, i quali doveano giurare fedeltà al sovrano; non potesse alcun suddito ricorrere direttamente a Roma per dispense.

Pure non fu senza grand’efficacia quel viaggio ch’era una specie di appello a quelle plebi, cui da gran tempo più non si dirigevano i pontefici; un riunirsi a quelle nazioni, da cui era venuta la loro grandezza temporale. I popoli sentivano la dignità del pontefice, e pressavansi a mostrargli venerazione: traverso a tutta Italia e alla Germania ebbe omaggi e feste, sebbene talvolta a lui paresse scorgervi più curiosità che ossequio: e quel ravvivarsi della democrazia religiosa[155] dovette convincere [332] Giuseppe ch’egli non era padrone se non della metà materiale dell’uomo, e che v’aveva una podestà superiore alla sua. Egli poi restituì la visita al papa in Roma, vivendovi da privato sull’albergo, e in San Pietro inginocchiandosi per terra; e sebbene la popolaglia, sempre chiassosa all’idolo del giorno, gli gridasse, — Viva l’imperatore! siete in casa vostra, il padrone siete voi», quel viaggio gli rivelò più al vero la posizione. Il cavaliere d’Azára, rappresentante di Spagna, cui palesò il divisamento di ridurre il papa a vescovo di Roma e i possessi riunirne all’Impero, lo convinse che gli altri principi non soffrirebbero che il capo della [333] religione stesse suddito di qualsiasi sovrano; e col cardinale Bernis, ambasciadore di Francia, lo indusse ad accettare l’indulto che il papa gli offriva per la nomina dell’arcivescovo e dei benefizj concistoriali di Lombardia. Fu dunque concordato che al duca di Milano e Mantova competerebbe il nominare agli alti benefizj ed alle dignità ecclesiastiche fin allora riservate a Roma, e il papa rilascerebbe la bolla. Dovette dunque cedere anche la nomina dei vescovi d’Italia a chi avea abolito il convento dov’era venuto a colloquio con esso.

Con pari assolutezza procedette Giuseppe nelle cose di Stato in Lombardia, e fatto tiranno per amore di libertà, lasciossi scappare il presente per fare violenza all’avvenire. Un editto 25 novembre 1784 incorporò il ducato di Mantova con quel di Milano, formandosi così un solo paese col nome di Lombardia Austriaca. Giuseppe in un consiglio di governo riunì il magistrato camerale, la commissione ecclesiastica, il tribunale araldico, e di sanità, la commissaria generale e la congregazione di Stato; pose guardie di polizia, di giorno col bastone, di notte col fucile, e adoperavano l’uno e l’altro; a molte cose cambiò i nomi antichi pel solo fine d’innovare. S’incarceravano i mendicanti; ma perchè il mantenerli costava, erano rilasciati col giuramento di non più accattare; e perchè tosto il violavano, erano rimessi in prigione. Così a pressa a pressa faceva e disfaceva: col togliere gli arbitrj ai corpi per accentrarli nel ministero, tolse pure al paese quelle forme tradizionali d’amministrazione, che un provvido legislatore rigenera ma non istrappa, e che i popoli sentono essere ultima barriera contro gli arbitrj[156].

[334]

Pure egli operava con rette intenzioni, e in una ordinanza interna del 1785 ai capidipartimento raccomandava di sbandire le formalità pel sostanziale; dare ascolto a tutti senza divario di condizione, di lingua, di culto; dovere il principe non guardare come sua la proprietà dello Stato, nè creati per sè milioni di sudditi, anzi credersi elevato dalla Provvidenza per servigio di questi; ministro buono non essere quello che aumenta le rendite; i sudditi dover contribuire sol quanto [335] sia d’assoluta necessità per mantenere l’autorità, la giustizia, il buon ordine e migliorare lo Stato; il monarca non aver diritto d’esigere al di là, e di ciò che leva deve rendere pubblico conto. Eppure credeva l’incremento d’uno Stato consistesse nell’ampliarne il territorio, sicchè contribuì caldamente allo sbrano della Polonia; tentò carpire la Baviera; confortato dall’imperatrice di Russia, voleva rimpastare l’Italia, unendo Trieste, Milano, il Tirolo, e togliendo a Venezia le terre interposte; al Modenese, che ricadeva a suo fratello Ferdinando, aggiungerebbe il Ferrarese tolto al papa; dalla Sardegna ricupererebbe il Tortonese e l’Alessandrino; e in onta de’ recenti trattati incorporerebbe la Toscana all’Impero, assegnando un arcivescovado di Germania in compenso al futuro granduca, che intanto volle educato a Vienna dal conte di Colloredo, con dispiacere della Corte toscana. Meditava anche l’unità dell’Impero, e prevenendo ciò che la Rivoluzione francese effettuò in paese molto più omogeneo, scomporre tutte le nazionalità per dividerle in tredici Governi, de’ quali l’undecimo era la Lombardia, e ciascun Governo in circoli, retti da un capitano.

In Lombardia così indifferente era la plebe, così ligi erano i pensatori, che non opposero a Giuseppe se non qualche susurro e qualche pasquinata: essendosi in quel tempo allontanato l’arciduca governatore, i Milanesi vollero vedervi un segno di disapprovazione, e quando tornò gli corsero incontro in folla festiva. Ben più seriamente andò negli altri Stati: Transilvania e Ungheria colle armi difesero gli aviti privilegi; nel Belgio i seminaristi non vollero sottoporsi agli insegnamenti ed ai libri prescritti, nè i popoli a quel profluvio di decreti, e con potente concordia vi cominciarono una sollevazione che finì col sottrarre all’Austria quelle belle provincie. Anche la Germania sgomentavasi del volere [336] lui conquistare la Baviera, e far mantenere dall’Impero i proprj soldati: e Bretagna e Olanda, disgustate dall’apertura della Schelda[157], si allearono colla Prussia per reprimerne le esorbitanze. L’imperatore, caduto da tutte le illusioni, sconfitto anche dai Turchi che aveva provocati, non poteva se non protestare delle buone sue intenzioni, e morendo giovane e amareggiato, volle per epitafio: Qui giace Giuseppe II, sfortunato in tutte le sue imprese.

CAPITOLO CLXVIII. I re di Sardegna e quelli di Napoli.

Nei regni alle due estremità d’Italia sentivasi pure il movimento, ma in senso diverso, giusta la diversa indole dei due popoli e quella dei regnanti.

Vittorio Amedeo II, uomo di polso, da molti amato, da tutti temuto, attentissimo agli incrementi di sua famiglia, a cui assicurò il titolo regio, nella guerra aveva mostrato valore personale più che abilità di capitano; nella pace, altamente persuaso della regia prerogativa, voleva conoscere tutto, fare tutto, quasi a buon esito non giungessero imprese e provvedimenti se non per suo mezzo. Ascoltava chiunque, e nessuno voleva superiore alla giustizia, nè tollerava che i nobili soperchiassero i plebei; e severamente condannò fin il conte di Sales suo fratello naturale, e il principe di Carignano suo genero. [337] Girellando la notte per città, vedeva sempre un lumicino entro una finestra della via degli Stampatori: curioso salì in quella casa col pretesto gli si fosse spento il lanternino, e seppe ch’era Carlo Luigi Caissotti nizzardo, che, eletto testè sostituto procurator generale, consacrava la notte a disimpegnare gli affari, cui non bastavagli il giorno. Il re gli affidò qualche affare, e presto lo assunse procurator generale, ove meritò gran lode. Saputo che l’avvocato De Maistre, pure nizzardo, difendeva vigorosamente davanti al senato i feudatarj spogliati, lo fece incarcerare, poi avutolo a sè, gli commetteva rotoli di cause da esaminare, e volta per volta lo compensava con piccole monete sì a miseria, che quegli il pregò di lasciarlo ripigliare le sue clientele; ma il re lo nominò avvocato de’ poveri, donde cominciò la fortuna di quella famiglia, illustrata poi dal gran filosofo. Trovandosi a Carmagnola, e udito un discorso di Carlo Vincenzo Ferrero vassallo di Roasio, l’incaricò di scrivere una lettera importante; della quale soddisfatto, il pose intendente a Susa, poi nelle finanze; preso dal talento, dal maestoso aspetto e dal facondo esporre, lo costituì generale delle finanze, poi suo tutto col titolo di marchese d’Ormea, che indica il più grand’uomo di Stato del Piemonte. Per somiglianti accidenti conosciuto Giambattista Bogino, figlio d’un notaio e buon avvocato, lo fece procurator generale a ventidue anni: poi chiamatolo gli disse: — Non t’ho dimenticato; e perchè poco mi rimane da regnare, t’ho eletto consigliere di Stato. Se servirai bene, Carlino (l’erede) farà di più per te, e sarai anche ministro; ma per divenirlo bisogna avere qualche cosa, e tu sei povero. Perciò ti affido la custodia de’ sigilli: ti frutteranno tanto; in capo a tanti anni avrai risparmiato tanto, e basta. È anche necessario che abbi casa: chiamerò a me tuo zio prete, perchè, senza aspettare la morte, ti lasci la sua. Ma tu studii [338] troppo: compra una vigna sulla collina e un cavallo, vacci a dormire la sera, e rivieni ogni mattina».

Questo re borghese a tal modo potè conoscere e promuovere molte persone, che poi con altrettanta facilità dimenticava e puniva. Ciò rendevalo spesso arbitrario, e arbitraria la sua Polizia, che spiava le case, le lettere, deteneva senza giudizio; le sentenze de’ tribunali sospendeva o cassava con biglietti regj o con ammonizioni. Singolarmente ricordevole è il caso del senato quando non volle infliggere al fiscale Revello la pena comminata ai portatori d’arme, considerandolo esente come uffiziale del Governo. Il re mandò dire che non aveva inteso escluderli; e insistette per la condanna; e poichè non vollero infliggerla, sospese i senatori, e relegò il presidente don Graneri, neppur concedendogli tampoco di ritardare finchè spirasse la moglie inferma. Il Graneri se n’andò senza lamenti; e a chi dappoi volevalo indurre ad un’umiliazione per mitigare il sempre sdegnato re, — Duolmi (rispose) perchè egli siasi risentito, ma viepiù per la certezza che il senato non poteva sentenziare diversamente senza ledere l’onore e la coscienza».

Vittorio Amedeo per opera di Corsignani e Bersini compilò le Regie Costituzioni, applicabili a tutta la monarchia. Nelle quali sono molti miglioramenti, ma è notevole la sollecitudine che vi si prende delle materie religiose: obbligo a tutti di comunicarsi a Pasqua; divieto agli osti di servire carni in quaresima; esente da citazioni civili e criminali chi ne’ quindici giorni venisse a venerare la santa Sindone a Torino; gli Ebrei distinti con un segno sull’abito, e obbligati abitare nel ghetto, e non uscirne dopo tramontato il sole, nè agli ultimi giorni della settimana santa. Voleva abolire come restrittivo alla piena sovranità il diritto al senato di sospendere la registrazione degli editti regj sospetti d’orrezione o [339] surrezione, o contrarj al servizio regio o al pubblico bene; poi ai reclami della magistratura lo confermò.

Invece dell’unica secreteria di Stato ne stabilì una per gli affari esteri, una per gl’interni, una per la guerra; riformò la camera de’ Conti e il sistema economico. Un consiglio di finanza esaminava e riferiva al re quel che concernesse l’economia; tre segretarj di Stato trasmettevano gli ordini del re, contrassegnandoli; eseguivanli quattro aziende, di finanza, di guerra, delle artiglierie e della regia casa. La contabilità fu sistemata dal conte Groppello di Borgnone: e mentre il bilancio attivo del 1680 sommava a 6,830,000 lire, nel 1721 giunse a tredici milioni; a quindici quando sottentrò Carlo Emanuele III, non per nuove tasse imposte, ma per migliore esazione delle vecchie, e col farvi contribuire gli ecclesiastici e i feudatarj, e dar impulso ai lavori; unica tassa nuova essendo la carta bollata d’un soldo al foglio. Si riscattarono molte cariche, da prima venali; gli appalti, esercitati da quasi soli Francesi, vennero meglio sistemati; esteso a tutto il paese il monopolio del tabacco, abolito il lotto, richiamati al demanio i beni feudali e le tasse alienate, turbando non poco la proprietà coll’obbligare a provare i titoli davanti a un magistrato speciale; e ai beni così ricuperati affisse titoli di nobiltà che poi vendette, e donde nacque una nobiltà del 1722, sprezzata dall’antica.

Sollecitando il catasto colla spesa di otto milioni, uguagliò le imposte alleviando i piccoli proprietarj col tassare anche i feudatarj e gli ecclesiastici. Cercò togliere i pitocchi, consigliato principalmente dal gesuita Andrea Guevara, che stampò la Mendicità sbandita, con idee molto avanzate. Ridestò le manifatture di panno e di seta, gli studj primarj, l’Università, cercando ridurre uniforme l’insegnamento sotto la direzione di quella e di un magistrato della Riforma: ristabilì il collegio dei [340] Nobili, e fondò quello detto delle Provincie, perchè ciascuna manteneva a proprie spese alcuni de’ migliori alunni, donde ben presto uscirono il matematico Lagrangia, il fisico Eandi, il chimico Berthollet, l’anatomico Malacarne, il poliglotta De Rossi, lo storico Denina, il tipografo Bodoni. Abbellì Torino, rese inespugnabile la Brunetta, e procacciò buone armi. Ma la cura di queste prevaleva, mentre gl’ingegni erano inceppati dalla censura a segno, che molti de’ profughi siciliani preferirono andare a pubblicare i loro scritti a Milano (Denina); facevasi mistero degli archivj chiudendoli perfino al Muratori, il quale scriveva: — Io non sarei stato un momento a Torino, chè l’uomo saggio non può trovarsi bene in un paese ove si sta continuamente in pericolo di cadere. Solamente il vedersi impedito il commercio letterario e intercette le lettere basta per dare l’addio a quel cielo, e per correre ad altri paesi di libertà»[158].

Riferimmo le sue ostilità colla Curia romana, durate trentatre anni. Inesorabile nell’esigere che altri adempisse i proprj doveri, strettamente economico[159], tenacissimo delle risoluzioni, dai mali che non si potevano evitare voleva almeno trarre alcun vantaggio, e giunse ad assodare la grandezza della sua Casa, i paesi in mezzo secolo crescendone d’un terzo, e raddoppiando l’entrata. Di gusti semplici, alieno dal lusso che l’esempio di Luigi XIV introduceva, passeggiava a piedi con una [341] canna di giunco dal pome di cocco, tabacchiera di tartaruga, elsa della spada d’acciajo, coperta di pelle perchè non guastasse il vestito. Perduta la moglie e il primogenito suo prediletto, tormentato di mal di pietra, e stracco, com’egli diceva, di tormentare se stesso e gli altri, a sessantaquattro anni abdicò solennemente (1730 3 7bre). L’ultimo suo comando ai sudditi fu che obbedissero a suo figlio Carlo Emanuele; a questo tre cose raccomandava, l’integrità della fede cattolica, retta e incorrotta giustizia, e cura de’ soldati, come tutori della quiete pubblica, della regia autorità e dell’indipendenza; e riservandosi cencinquantamila lire l’anno, ritirossi a Ciamberì con Carlotta Canale di Cumiana, sua moglie morganatica.

È egli vero che, nell’affaccendamento de’ potentati d’allora ad assicurarsi le imminenti eredità, Vittorio avesse ricevuto denaro e dall’imperatore e dalla Spagna per fini opposti, sicchè non seppe trarsi d’impaccio che coll’abdicare? o non volle nelle prevedute guerre compromettere la sua fama d’invitto guerriero? o la stanchezza o l’incontentabilità facevangli vagheggiare il riposo?

Ma quel riposo, nè tampoco ricreato da studj, gli pesò bentosto. Aveva circondato Carlo Emanuele di sue creature, e raccomandatogli specialmente l’Ormea, che subito fu fatto ministro; continuamente carteggiava col figliuolo sugli affari di Stato, e proponevasi d’infondergli quella fermezza e risoluzione di cui lo credeva mancante. La Canale, che s’era dato ad intendere di sposare un re, e trovavasi soltanto un marito stizzoso e uggiato, forse ne stuzzicava le ambizioni; irritavalo la libertà con cui si disapprovavano i fatti suoi o si correggevano; com’è di tutti gli uomini operosi, parevagli che Carlino non facesse nè abbastanza nè bene, e allorchè questo andò a trovarlo, gli fece, in presenza de’ ministri, rabbuffi violenti come soleva prima, dichiarando che lo conosceva [342] inetto a regnare, e vi porrebbe riparo. E ripassati i monti (1731), si pose a Moncalieri, e fidando sulla supposta debolezza di Carlo Emanuele, cercò ripigliare gli affari e il lustro, ora con seduzioni, or di sorpresa. Carlo Emanuele che fin a ginocchi l’aveva in prima dissuaso dall’abdicare, allora firmò l’ordine di arrestarlo (27 7bre), e Ormea lo eseguì. Abbattute dai zappatori le porte, a viva forza gli venne rapita dal letto fra i soldati sua moglie, reputata istigatrice, e che fu sin chiusa tra le male donne; egli il re, dopo inutili resistenze e smanie di collera impotente, fu custodito a vista nel palazzo di Rivoli; frugato ogn’istante; ordine alle guardie di non rispondere alle sue domande se non con profondi inchini. Sevizie invereconde, se anche era necessità di Stato l’arrestarlo. Reso poi al suo Moncalieri e alla moglie, quando si trovò in fin di morte invocò che il figlio lo visitasse; ma mentre si combinavano i modi egli spirò (1732 31 8bre).

Carlo Emanuele III[160], poco amato dal padre che procurava vincerne l’ignoranza con continui precetti e col farlo assistere ai consigli di Stato, ma non gli dava nè l’educazione nè l’esperienza migliore, il maneggio degli affari, riuscì migliore dell’aspettazione, e con lentezza prudente ajutò il prosperare del paese, giovato di ottimi consigli dal marchese d’Ormea, il Richelieu del Piemonte. Vedemmo come delle guerre profittasse tanto, che pel trattato di Worms si assicurò bella parte del Milanese; del Piacentino che pretendeva, fu chetato con un’entrata pari alla rendita d’esso paese, cioè trecenventottomila lire. Nel Codex carolinus riprodusse quel di Vittorio, con nuove leggi per assodarne gli effetti, e ne prescrisse la pubblicazione (1770) «acciocchè tutte le province, città e comunità ottenessero il benefizio d’una [343] legislazione conforme». Pure disponeva che, dov’esso non provvedeva, supplissero gli statuti locali; in mancanza di questi, la decisione del senato, e infine il diritto comune; ripristinata complicazione. I diritti di feudo sì reali che personali il Governo riscattava al cento per quattro, cavando i capitali da un’imposizione generale sui fondi redimibili, obbligando i feudatarj ad investire in fondi sodi le somme ricavate. Cercò buone armi, stabilendo l’esercito a trentamila uomini in pace e quarantacinquemila in guerra; a cui nel 1775 s’aggiunsero poi le truppe leggiere, destinate per cordone alle frontiere, e dove gli uffiziali potevano essere non nobili. Destinandovi un milione ducentomila lire l’anno, munì colle fortezze d’Exilles il Monginevro, di Demonte la valle della Stura, di Fenestrelle quella di Pragelato, che mediante le trincee dell’Assietta congiungevasi col forte della Brunetta in modo di rendere insuperabile il varco del Cenisio. Così credevasi!

L’Università di Torino aveva riordinata Vittorio Amedeo II sopra i consigli del Gravina, che solo da morte fu impedito di venirvi professore; v’invitò invano il medico Vallisnieri, il filologo Lazzarini; ma vi ebbe da Malta il teologo Bencini, da Padova il Pasini professore di sacra scrittura, da Napoli il Lama professore di eloquenza, da Roma il Regolotti pel greco, da Parigi il medico Rohault, da Piperno il Campiani canonista; e all’apertura nel 1720 v’erano sedici professori e novecento scolari. Luigi Caissotti aveva sistemato le scuole, escludendone ogni ingerenza di religiosi, e volendo non s’insegnasse altra teologia che di San Tommaso. Girolamo Tagliazucchi modenese venne poi a introdurvi una eloquenza compassata e una gravità pedantesca, che durò tradizionale. Nel 1749 vi furono chiamati il padre Beccaria di Mondovì e il padre Gerdil; oltre Vitaliano Donati di Padova, valente naturalista, che mandato a viaggiare [344] in Oriente, ne riportò molte preziosità di natura e d’arte; e Giovanni Cigna, emulo del Volta nella scoperta dell’elettroforo. Scipione Maffei indusse il re a raccogliere nell’atrio dell’Università lapidi e cimelj: il medico Caccia incominciò l’orto botanico, tanto poi arricchito da Allioni, autore della Flora pedemontana, da Dana, Cappello, Moris: l’abate Nollet aumentò il gabinetto fisico. Vi si aggiunse una collezione di quadri e antichità, massime tolte dagli scavi d’Industria.

Il conte Giambattista Bogino (1701-84), dalla diplomazia passato allora ministro di Stato, dirigeva in meglio l’amministrazione, sempre però considerando il regno come un patrimonio privato, e col proposito di non deteriorarlo. Attese a compiere il catasto, riformò la moneta secondo gli studj del Neri e del Carli, e particolare premura applicò alla Sardegna, isola d’un settimo più grande che la Lombardia, e sottoposta a vicende degnissime di storia.

Natura, in lontane epoche sconvolgendola, determinò vanissima la forma di quelle valli e di quei monti, che poco elevati, non nutrono coi ghiacciaj fiumi perenni, ma istantaneamente versano torrenti devastatori. Fra le dense selve e i pascoli irrigati dalle fredde acque stillanti dagli spacchi de’ graniti, si mantenne forse sempre quella stirpe primitiva, che fino ad oggi si veste e pettina al modo degli idoli che il loro suolo restituisce dopo migliaja d’anni alla curiosità degli archeologi. Là i Sardi resistettero alle immigrazioni che tratto tratto vi sopravennero; spesso avventaronsi sopra le genti che prendevano asilo nelle insalubri e ubertose maremme; e mantennero quel vivere pastorizio, che aborre dalle dimore fisse e dagli stabili possessi. Sotto la dominazione aragonese, la monarchia vi era temperata da un parlamento composto di tre stamenti o bracci, cioè ecclesiastici, nobili e deputati delle città: uniti formavano la [345] corte generale, che sarebbe dovuta convocarsi ogni dieci anni con lettere a ciascun membro, e preseduta dal vicerè consentiva i tributi annui, le donazioni, faceva domande e ordini, benchè il re potesse senz’essa promulgare leggi. L’isola era distribuita in trecensessantasei feudi, centottantotto de’ quali appartenevano a sei signori spagnuoli, i quali erano i marchesi di Chirra, di Villaforre, di Val di Calzana, di Villacidro, il duca di Mandas, il conte di Montalbo, che nello stamento erano rappresentati da un procuratore, da un reggitore nell’amministrare la giustizia. Trentadue feudi erano intestati al re, centottantotto a signori, per lo più spagnuoli, residenti nell’isola. Rivoltarsi al principe non avrebbero questi potuto, allorchè i poderosi dimoravano in Ispagna; i vassalli, obbligati all’armi, non conoscevano che questi baroni, e ignari del mondo, non pensavano più in là che a respingere qualche correria. Anche delle dignità ecclesiastiche le più riserbavansi a Spagnuoli; cogl’impieghi cattivavasi l’ordine cittadino; fra le città impedivansi gli accordi mediante la varietà dei privilegi: sicchè non faceva mestieri di milizie per tenere in fede il paese, dove i re utilmente intervenivano spesso a reprimere nei signori la tirannide contro i poveri, la violata giustizia, la protezione de’ facinorosi. Le nazioni vicine che vi trafficavano, sparvero davanti al compatto feudalismo; l’inquisizione vi fu introdotta nel 1492, ed espulsi gli Israeliti; ville fiorenti rimasero deserte, disfatte dieci sedi vescovili per mancanza di greggia, a Sassari non più di tremila abitanti; vendevansi gli uffizj, gabelle, privative, e un Genovese comprò dalla Corona il privilegio di pescare il tonno; a’ magistrati fallivano gli stipendj, sicchè bisognava si rifacessero colla venalità; le infinite esenzioni dai pubblici aggravj per clericato, per nobiltà, per privilegio, per aderenza cagionavano la ricchezza di pochi, la miseria dei più, e un [346] vivere da medioevo. Ad un convito rusticale s’accolsero duemila cinquecento persone, e vi furono imbanditi settecenquaranta montoni, ventidue giovenche, ventisei vitelli, trecento fra agnelli, capretti, porcellini, seicento galline, tremila pesci, e cinquanta libbre di pepe negl’intingoli. Dal porto di Cagliari asportavasi appena il valore di centomila scudi, nè di più da quel d’Alghero; non strade, non poste; le lettere d’uffizio spedivansi a Napoli, acciocchè di là fossero inviate in Ispagna. Le città si odiavano e rivaleggiavano; Alghero proibiva che verun Sassarese comparisse colla spada al fianco; se Cagliari fondava un’Università, un’altra ne metteva Sassari: ma gli studj restringevansi a teologia e scolastica; unica lingua colta la castigliana, in cui traducevansi gli antichi statuti italiani. Intanto però la schiavitù personale andò abolita, giacchè il servo rimase attaccato non al padrone ma al feudo, e in conseguenza acquistò stabilità di famiglia, e poc’a poco diritti comunali; la giurisdizione de’ baroni non impediva di appellarsi al re; e l’asilo concesso ne’ feudi regj ai fuggiaschi ratteneva i baroni dall’esorbitare nell’oppressione.

Tale stette la Sardegna fin quando le guerre del principio del secolo la sbalzarono di padrone in padrone, e alfine la diedero ai duchi di Savoja. Contava essa allora trecentonovemila abitanti, e rendeva appena quattrocentomila lire, che non bastavano a gran pezza a sbarbarirla; ma fatta proprietà inalienabile ed eretta in regno, cessava d’essere una di quelle provincie, di cui la diplomazia si serve per ragguagliare i pesi sulla sua bilancia; ed acquistava maggiore importanza unita al piccolo Piemonte che non alla vasta Spagna. Il nuovo re stipulò d’osservarne i privilegi, ma v’introdusse un governo più regolato: e per quanto sapesse di gretto a fronte della sontuosità spagnuola, e l’oculatezza italiana offendesse chi era avvezzo alla spagnuola trascuranza, [347] pure, sembrando ormai duraturo, ammansava gli animi, esacerbati da tante mutazioni. Solito postumo delle guerre restavano bande di fuorusciti, perocchè le famiglie feudali eransi osteggiate così accannitamente da combattere perfino le donne. Il marchese San Martino di Rivarolo mandatogli vicerè, a sbarbicarli adoprò relegazioni, bandi, forca, senza rispettare, non che le giurisdizioni baronali, neppure le forme della giustizia nè le garanzie dell’innocenza; egli stesso girava visitando le carceri, interrogando rei e testimonj, sbigottendo chi tenesse mano.

Il Bogino, conoscendo il valore di quell’isola, s’industriò a toglierne le disuguaglianze stabilitevi, e le rivalità che gli Aragonesi avevano alimentate fra i due Capi, mescolando le fazioni nelle magistrature; col pagare pronto e regolare faceva si tollerasse la disciplina; introduceva giustizia regolare, computisteria, assicurazioni, regole pel commercio e pe’ cambj, scuole di preti italiani che rinnovarono l’uso della nostra favella, alimentandoli con benefizj; clero e magistrati facevasi che disusassero il vestire spagnolesco; medici e chirurghi spedivansi sul continente a scuola; altri v’erano chiamati a cariche; formossi un reggimento sardo, e favorivansi matrimonj di quelle fanciulle con militari savoiardi; si infeudarono terre a chi vi menava colonie; una di Greci vessati in Corsica, fu accolta in Sardegna; i corallieri genovesi, che abitavano l’isoletta di Tabarca rimpetto a Tunisi, esposta perpetuamente a’ corsari, furono trasportati nell’isola di San Pietro, opportunamente munendola, e infeudandone il marchese della Guardia. Il Bogino fece descrivere da varj scienziati quel paese incognito; rifondò le Università di Cagliari e Sassari, donde uscirono valentuomini, sebbene sarebbero ite meglio allo scopo le scuole popolari. Si moltiplicarono progetti di miglioramenti, de’ quali svanivano i più anche per mancanza [348] di capitali. Sistemata l’amministrazione municipale, si riordinò l’antica istituzione de’ monti granatici, che davano a prestito ai poveri contadini le piccole somme occorrenti a lavorare i campi; e per dotarli si obbligarono i villani ad opere gratuite, per le quali alcuni nuovi terreni furono messi a frutto. Si diminuirono gli asili e le immunità, si fecero ponti, si asciugarono stagni; si apriva stamperia reale a Cagliari, e il re approvò coloro che manifestavano verità, le quali da alcuni erano denunziate come riottose.

Molti, e specialmente l’Angioi, il Cossu, il vicerè Thaon di Sant’Andrea, introducevano il cotone e l’indaco, moltiplicavano i gelsi e gli ulivi, come le razze di cavalli e le pecore. Francesco Gemelli d’Orta gesuita, nel Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento della sua agricoltura (1796), gli esempj accoppiando ai precetti, paragonava l’antica prosperità di quell’isola col deperimento a cui riducevanla la comunione o quasi comunione delle terre. Perocchè in paese di sì variata ubertà, può dirsi non esista proprietà stabile, dovendosi lasciar i campi aperti acciocchè vi pascolino le greggie; una porzione può prendersi a fitto dal Comune, e cingerla di siepe secca e seminarla, ma per un anno solo, rimettendola dopo il raccolto a pabarile, cioè a pascolo. Non dunque cascine, non stalle, non scorte, non concimi; il contadino non s’affeziona alla terra che cambia ogni anno: condizione antichissima e che, per quanto combattuta ai nostri giorni, non potrà esser divelta dalle radici finchè il commercio non abbia acquistato prevalenza tra un popolo che vi pare chiamato dalla posizione, e non somministri all’agricoltura i capitali che le sono indispensabili per trarre frutto adeguato a tanta feracità.

Anche in Savoja il re abolì le servitù appartenenti al dominio regio, e cercò indurvi pure i signori per un [349] determinato compenso; e poco profittando dalla spontanea redenzione, la rese obbligatoria (1771), dovendo lo svincolato pagare ventitrè volte la rendita; e si trovò che questi aggravj feudali sommavano a più di dieci milioni di lire.

In Piemonte Maurizio Solera, vedendo non strade, non ponti, non manifatture, scarso il numerario, scurante il Governo, pensò rimediarvi aumentando il denaro per mezzo d’una carta moneta emessa da un banco, che così porgerebbe e al Governo i mezzi di grandi imprese, e al privato agevolezza ai miglioramenti. Piacque al re, spiacque al ministro delle finanze, e fu messo in tacere. Giambattista Vasco di Mondovì proclamò (verità allora nuove) non convenisse incatenar le arti in corporazioni, nè alle manifatture interporre ordini amministrativi; non fissar il prezzo del pane o l’interesse del denaro; e per impedire l’accumularsi dei beni proponeva d’abolire il diritto di testare: Spirito Robilant (-1801), dopo combattuto nelle guerre della metà del secolo, fu mandato in Germania a conoscere lo scavo delle miniere e le saline, e ne fu fatto ispettore in Piemonte, dove aprì scuola di mineralogia e docimastica; regolò la zecca; successe come primo ingegnere al conte Pinto, che aveva fabbricato i forti di Tortona e della Brunetta.

Carlo Emanuele non se la diceva coi riformatori filosofi, pure lasciò stampare le Rivoluzioni d’Italia del Denina, benchè disapprovate dalla censura, e a chi tacciava questo di novità rispose: — Amo più gl’ingegni moderni che i vecchi pedanti»; come diceva che il metodo migliore di studj è scegliere buoni maestri e lasciare che insegnino a modo loro[161]; adottava quel che gli paresse il meglio, ma sempre rifuggiva dal [350] metter il martello nel vecchio edifizio; ceppi altrove infranti, qui ribadivansi; Lagrangia, Denina, Berthollet, Bodoni dovettero cercare altr’aria che la patria, «come se nel paese natio di qualche uggia malefica temessero» (Botta); Alfieri si nojava d’un «paese anfibio, con Governo e corte francese, costumi e credenze italiane», e dove non si ode parlare che del re.

Vittorio Amedeo III, arrivando al trono (1773) di quarantasette anni malissimo intalentato contro i ministri di suo padre, li congedò, e prima di tutti il Bogino e il cardinale delle Lanze, chinevole alle pretensioni romane[162]. Il popolo si empì della solita speranza di larghezza maggiore: nè il re aborriva dalle innovazioni, ma smaniato d’imitare Federico II di Prussia, in piena pace vagheggiava soldati e fortezze, onde esausti i dodici milioni lasciati dal padre, diroccò le finanze, e rinvigorì l’aristocrazia già superba e imperiosa coll’ammettere soli nobili ad uffiziali. Finì il porto di Nizza, la quale raddoppiossi d’estensione e d’abitanti; abolì i pedaggi in Savoja, ricostrusse il palazzo di Ciamberì, abbellì i bagni d’Aix; frenò l’Arve e il Rodano, e fabbricò Carouge a fianco a Ginevra; a Torino provvide molte [351] fabbriche, l’osservatorio, i cenotafj, l’illuminazione; all’accademia delle Scienze, fondazione privata di Lagrangia, Saluzzo e Cigna, diede stato, e in dote i beni di badie secolarizzate; approvò una Società agraria; migliorò le strade, di cui nel 1770 erasi pubblicato il piano; condusse canali irrigui; vietò di sepellire in chiesa e, per consiglio di Gerdil, l’andare all’Università di Pavia, focolajo di giansenismo, benchè nella torinese lasciasse insinuare insegnamenti di quel colore.

Colla caduta del Bogino precipitò la Sardegna; dei quattrocensedicimila abitanti a cui era cresciuta, trentatremila diminuirono; vi si rinnovarono con orribile frequenza i delitti: l’abolizione de’ Gesuiti tolse collaboratori attivissimi all’educazione dell’isola: se il re protestava non volere diversità nel trattamento dei suoi sudditi di qua e di là del mare, e soccorreva nelle carestie ai bisogni di chi gli chiedesse, però un’amministrazione che crede aver fatto assai se non peggiora, lasciava sottentrare il languore e corrompere la giustizia; vi si mandavano nelle cariche i giovani nobili che le demeritassero in Piemonte; i vicerè or negligevano, or precipitavano riforme senza gran fermezza nell’attuarle, e con quel fare soldatesco, che poco s’impaccia della regolarità nè sempre della giustizia.

Il re legò nuova parentela coi Borboni, sposando (1775) egli una figlia di Filippo V, e dando a suo figlio madama Clotilde sorella di Luigi XVI[163]; nella qual occasione [352] spese due milioni, oltre due altri datigli da quel re, a’ cui fratelli maritò due sue figliuole. Così venivasi consolidando questa monarchia, la sola che non abbia sofferto rivoluzioni e cambiamenti di dinastia.

Ora portiamo gli sguardi alla nuova, piantatasi all’estremità meridionale. Il primogenito di Carlo III essendo imbecille, restava designato (1759) successore al trono di Spagna il secondogenito, talchè delle Due Sicilie diveniva re il terzogenito Ferdinando, fanciullo di non nove anni mentre erasi stabilita ai sedici la maggiorità[164]. Il Tanucci (pag. 201) fu lasciato da Carlo per correggente al re fanciullo, e facilmente prevalse agli altri, vecchi e volenterosi di far nulla; e come informato delle intenzioni di Carlo, fingendo operare a suggerimento di lui, dominò ad arbitrio, e dispose le cose di maniera che Ferdinando non potesse più se non seguire la traccia segnatagli. Secondo il filosofismo corrente, Tanucci voleva fiaccare l’aristocrazia e il papato, ma sconobbe la crescente potenza del terzo stato. Migliorare l’esercito, incoraggire le arti, l’agricoltura, cercare la suddivisione de’ possessi, aprire porti, strade, canali, moderare la regia prerogativa non pensò; altro spediente [353] di finanza non seppe che il gravar le dogane, e spesso mescolavasi delle decisioni de’ tribunali. Essendo arrestati molti Franchimuratori, fece mettere in accusa don Gennaro Pallanti capo di rota, che li avea fatti prendere. Nella carestia del 1764 mandò severissimi bandi contro i monopolisti e gli usuraj nemici de’ poveri, col che esasperò la plebe fin a trarla a tumulti, che poi represse colle forche; sicchè tra di fame e di supplizj molti perirono, mentre bastò che i mercanti forestieri sapessero quel caso per accorrere e farvi rifluire il grano. Come un uomo sì mediocre acquistasse tanta rinomanza[165] non potrebbe spiegarselo chi non conoscesse che allora il coraggio riponeasi nel contraffare ai preti, e che con ciò appunto il Tanucci si accaparrò i dispensieri della fama.

Ferdinando veniva su robusto e ignorante, fra compagni forzosi, a giuochi atletici, alla caccia, per la quale si estesero le già ampie bandite e si comminò la tortura a chi le violasse; e i giornali riferivano dì per dì quante bestie avess’egli ucciso. Acquistò così que’ gusti che in sessantacinque anni di regno non l’abbandonarono; aborrimento dallo scrivere, fin ad escludere i calamaj dal consiglio di Stato, e far da altri apporre la sua firma; gelosia di chi sapeva; trivialità di gusti e di maniere repugnanti alla dignità del suo grado. Troppo sincero per nascondere i proprj difetti, giocava alla lotta e al pallone in pubblico, e una volta fece cogliere un onorevole abate che a quel giuoco assisteva, e sobbalzare sopra una coperta tenuta pei quattro capi; qualche volta al palchetto del teatro affacciavasi con un piatto di maccheroni; pescava presso Posilipo, poi vendeva egli stesso i pesci, e batteali sul [354] ceffo a chi esibisse troppo poco o non desse il denaro prima di riceverli; talvolta comparve da bettoliere servendo agli avveniticci; e i lazzaroni profittavano di quella libertà per dirgli e villanie e verità: ed applaudivano al re lazzarone.

È importante il guardar questo Giano dalle due faccie: una da grossolano dabbene, come parve ai nostri padri; una da mentitore sanguinario qual lo esecrò il nostro secolo, perchè anch’egli ebbe a fare in prima con un popolo sonnolento, poi con uno frenetico; e perchè anche allora i liberali, quantunque meno cianciassero di nazionalità, l’odio svolgeano da lui per concentrarlo sopra un’austriaca.

Imperocchè Maria Teresa, che considerava sempre il regno di Napoli come usurpato a casa sua, volle almeno tenervi una mano maritando a quel re sua figlia Carolina, col patto espresso che, appena madre, entrerebbe nel consiglio di Stato; e così innestava anche nel Napoletano la politica austriaca, che reggeva omai tutta Italia, tranne il Piemonte. Carolina insegnò a leggere e a scrivere a suo marito, il quale perciò la chiamava sempre maestra, e le avea rispetto più che amore; un rispetto però che non escludeva gli schiaffi. Essa tollerava, ma sapea scegliere i momenti d’indolenza per proporgli ciò che desiderasse; e Ferdinando stizziva, pestava i piedi, ma infine sottoscriveva, poi andava a consolarsi alla caccia. Alle sue guardie egli confidava tutto, fin i diverbj colla moglie; ma neppure con questa sapea tacer nulla, sicchè esponeva alle vendette chi gliene avesse sparlato. Eppur non era male che di lei non si dicesse, fin a supporre che bistrattasse i figliuoli, acciocchè morendo, come avvenne del principe reale, la corona ricadesse in causa d’Austria. Imperiosa per naturale, per le materne insinuazioni, per imitazione de’ fratelli, voleva disgiunger il re dalla Corte di Madrid [355] e dal patto di famiglia; laonde il circondò d’uomini nuovi, ligi all’Austria, e rimosse il Tanucci, il quale dopo avere, si può dire, regnato quarantatre anni, si ritirò in campagna coi soliti umori degli scaduti, e poco sopravvisse. È sua lode il non aver lasciato ricchezze.

La regina fece surrogargli il marchese della Sambuca (1776), propenso agl’interessi austriaci; mentre lo spirito del Tanucci e l’avversione di esso alla santa Sede furono ereditati da Carlo di Marco con maggior cautela. Carolina non volea mostrarsi dissenziente dai fratelli Giuseppe e Leopoldo nell’avversare i papi; Ferdinando la secondava, ed essendosi assegnati ventiquattro scudi d’un’abazia laicale per comprare l’abito ad uno che entrava domenicano, egli sul dispaccio scrisse di proprio pugno: — Non voglio si butti denaro per fare un frataccio»[166]. Si abolirono alcuni conventi, agli altri si proibì di dipendere da forestieri; i vescovi concedessero le dispense, non chiedessero le bolle da Roma, ma si facessero istituire da altri vescovi; non che badare alle conciliazioni proposte da Pio VI per mezzo del cardinale Buoncompagni, fu mandato via il nunzio per aver rimproverato ad un vescovo alcuni eccessi di giurisdizione.

Il Tanucci, intento ad osteggiare i preti, poco avea badato alle armi; pure il principe di San Severo propose un nuovo sistema di tattica, Giuseppe Palmieri scrisse l’Arte della guerra, e Alfonso de Luna lo Spirito della guerra e altri trattati, lodati da Federico II di Prussia. Questo re avea messo di moda gli eserciti, sicchè anche Napoli volle averne di terra e di mare. A tal uopo si chiamò da Toscana Giovanni Acton cavaliere inglese, il quale, glorioso di recenti vittorie sugli [356] Algerini, gagliardo, bello, condiscendente, carico di titoli, pensò ingrazianirsi la regina ch’era tutto, e per tal via divenne capo del gabinetto, maresciallo di campo, generale; e attento solo a far fortuna e andar a verso ai regnanti, poco pratico del governo, trascurante d’un paese non suo, eccitò dappoi tanto scontento, quante speranze sulle prime.

Voltosi a riordinare l’esercito, vi abolì i privilegi; la guardia del corpo affidò a granatieri al modo austriaco; licenziò gli Svizzeri capitolati; gli Spagnuoli, Irlandesi e Fiamminghi restrinse in due reggimenti; conservò il reggimento reale di Greci, con aggiungervi un battaglione di cacciatori albanesi; spedì fuori uffiziali per apprendere i migliori usi; stabilì due accademie pei corpi facoltativi; chiamò di Francia e Svizzera uffiziali istruttori pel genio, la marina, l’arsenale, il Salis grigione per l’esercito, il francese Pommereuil per l’artiglieria; e piantò a Capua un campo d’istruzione. Ma tutti quei forestieri voleano far riforme costose e non necessarie, menavan seco persone da collocare ne’ gradi, invano sperati cogli onorevoli servigi dai paesani.

Maggior attenzione volse Acton e ingenti spese ad allestire vascelli di linea, flotta che cagionò gravi imbarazzi facendo figurar il regno come potenza marittima, mentre sarebbonsi dovuti preferire legni sottili per le comunicazioni colla Sicilia, e per impedire che gli sciabechi barbareschi infestassero le coste: anzi alle navi mercantili non si consentì d’avere cannoni come le inglesi. Intanto faceano guerra alle strade i masnadieri[167], sicchè il Governo era ridotto a raccomandare [357] ai viandanti di andar in carovane: alla costa i Barbareschi, benchè i re, a titolo di guerreggiarli, si fossero fatta cedere dal papa la crociata, cioè l’indulto del mangiar grasso, che rendea cenventiduemila ducati. Avendo il Tanucci popolata Ustica, isola dove costoro ricoveravano, essi portarono via anche i coloni.

I ministri si proposero di emendar il paese, ma mescolarono provvedimenti buoni e sinistri. Si favorì il dissodamento dei terreni, abitaronsi isole deserte, s’istituì il regio archivio, e una custodia delle ipoteche. Per opera di Michele Jorio, dottissimo nelle leggi e nella storia, si preparò un codice di commercio e marittimo, ma rimase in progetto. La prammatica del 1774 pose qualche freno ai curiali, peste del paese; sbandita l’autorità degl’interpreti e commentatori, ordinossi ai giudici di non decidere che sovra un testo preciso della legge, e di pubblicar i motivi delle sentenze coi punti di fatto e di diritto; la discussione delle prove e l’esame de’ testimonj si facessero in presenza dell’accusato e dei difensori; però si conservarono la tortura e la ferocia contro i borsajuoli; a chi leggea Voltaire, tre anni di galera; sei mesi di carcere a chi la Gazzetta di Firenze. Fu riformata l’Accademia Borbonica, ma presidente doveva esserne il maggiordomo di Corte, e gli accademici ordinarj erano eletti «dal supremo arbitrio del re nella sublime nobiltà»[168].

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Gli abitanti di Torre del Greco, sempre minacciati dal Vesuvio, eransi buttati arditissimi alla pesca del corallo, facendo stupire coll’audacia e coi guadagni: ma quando il Governo volle brigarsene e regolarli col [359] Codice corallino, quell’industria intisichì. Il tribunale delle grasce, che arbitrariamente esaminava le merci al confine pontifizio, impedendo l’uscita d’ogni annona, del bestiame, della moneta, e punendo a capriccio i trasgressori; [360] le servitù del pascolo invernale (regj stucchi), che avvinceano l’Abruzzo marittimo a segno che nè si poteano assiepar le terre nè metter a biade o piantarle d’alberi, furono tolte pei richiami di Melchior Delfico, che propose anche lo svincolo de’ possessi feudali, uniformità di pesi, di misure, di giustizia: ma non si seppe render uniforme l’amministrazione comunale, nè sottrarla ai feudatarj; della generale mancava un centro; e quelle che oggi sono attribuzioni del ministro [361] degl’interni, andavano ripartite fra gli altri ministri[169].

Peggio stava la Sicilia, amministrata a foggia di provincia, eludendo le sue franchigie, lasciandovi dominare la feudalità, negligendovi la coltivazione, e caricandola d’imposte. Maggiore v’era il numero de’ feudi, attesochè, per privilegio di re Martino passavano a tutti i rami ed anche alle donne, non ricadendo al re nè estinguendosi. I beni poi erano impacciati dalla soggiogazione; e non potendosi venderli a causa dei vincoli fedecommessi, vi s’imponeano usure, doti per le figlie, assegni pei cadetti, che assorbivano fin metà e più della rendita. Il principe di Butera pagava per interessi quarantamila onze l’anno, trentaquattromila Paternò, ventiduemila [362] Terranova, undicimila Trabía, mentre aveano gl’impacci d’una complicatissima amministrazione.

Masnade di banditi infestavano la campagna, e di tre numerose era capo un Testalunga da Pietraporzia che impediva ogni traffico e guastava l’agricoltura, finchè fu preso. Oltre proibire l’asportazione del grano se ne faceano vasti magazzini con un capitale apposta (colonna frumentaria) per comprarne al bisogno: eppure frequenti rinnovavansi le carestie. Il marchese Fogliano, vicerè lodato dagli adulatori, avea concesso al genovese Gazzini d’estrarre grano; e il popolo, attribuendo a ciò il caro sopravvenuto, tumultuò finchè ottenne si eleggesse pretore Cesare Gaetani, principe di Cassaro. Ma questo cade gravemente malato, e il popolo ne imputa il vicerè; fa devozioni tumultuose, e quante ha reliquie venerate porta fin alla casa del malato (1773), preci alternando a minacce. Come poi egli morì, cercò dare il sacco al banco e al tesoro, e dietro a un Giuseppe Pizzo arse la casa del Gazzini, prese i cannoni delle navi in porto, liberò i criminali, e voltosi sul palazzo, avrebbe trucidato il vicerè se l’arcivescovo Filangieri non l’avesse ajutato a trafugarsi a Messina. L’ottagenario generale Caraffa col rigore, e più il Filangieri colla bontà sopirono il tumulto: il parlamento raccolto a Cefalù, espose le lagnanze e i bisogni del paese, norma alle future riforme. Il Fogliano venne destituito; sangue non fu sparso che ne’ supplizj; i bastioni di Palermo venduti o demoliti.

Nel 1781 v’andò vicerè Domenico Caracciolo (1715-89) marchese di Villamarina. Era egli stato ambasciadore in Inghilterra, ma presto si stancò d’un paese «ove non c’è di pulito che l’acciajo, ed ove si scommette di tutto». A Parigi legossi colla società brillante, e con Diderot, D’Alembert, Garat e simili; e se Luigi XV chiedeagli se facesse l’amore, rispondea: — No, sire; lo compro bell’e [363] fatto». Marmontel così lo ritraeva: — Al primo vederlo avea l’aria grossa e massiccia d’un ignorante; ma appena parlasse, i suoi occhi s’animavano, e ne scoppiettavano scintille; l’arguzia, la vivacità, l’originalità del suo pensare, la naturalezza dell’espressione, la grazia del ridere davano alla sua bruttezza un carattere amabile, ingegnoso, interessante. Poco esercitato nella nostra favella, ma eloquente nella sua, quando gli mancasse la parola francese prendeva dall’italiana i termini, i giri arditi e pittoreschi; e animavala sì bene col gesto napoletano, che può dirsi avesse lo spirito fin in cima alle dita. Avea studiato gli uomini, ma da politico anzichè da moralista satirico: con molta dottrina e un modo amabile e arguto di produrla, era un eccellent’uomo, e tutti ne ambivano l’amicizia».

In quella compagnia imbevutosi delle idee novatrici, s’ingegnò introdurle in Sicilia senza sobrietà, e con quella violenza che non soffre contraddizione. Consigliato e spesso moderato dal napoletano Saverio Simonetti, sopì le gare secolari tra paese e paese; tolse il Sant’Uffizio, le comandate de’ contadini, le immunità de’ baroni, aprendo il campo agli angariati di reclamare colla fiducia di vedersi sostenuti[170]; riordinò il parlamento [364] in modo che la deputazione del regno, la quale negl’intervalli delle chiamate vigilava all’esecuzione dei suoi decreti, non si componesse di soli baroni, ma vi si unissero quattro ecclesiastici e quattro deputati delle città regie; tolse il mero e misto imperio a quei baroni che non potessero mostrare i titoli scritti; non partecipassero alla nomina de’ magistrati municipali, nè all’amministrazione de’ fondi comunali; sicchè, diceva egli, non s’avesse a riconoscere altro che re e popolo. La scuola da cui usciva il facea vantare sè, sbeffare i depressi, vilipendere la pubblica opinione; non sofferse che gli artigiani portassero le spade, riservate ai gentiluomini; fece levare i busti, posti dalle città a benemeriti magistrati, quasi fosse municipalismo; derideva la devozione alla Lettera e a santa Rosalia, e il voto sanguinario dell’Immacolata, mentre bazzicava ballerine e cantatrici; e chiamata una compagnia francese invitò i vescovi a vederla. Favoriva anche le spie, turbando il sacrario domestico, e agevolando le calunnie.

A Parigi aveva detto: — Se divengo ministro di Napoli, saprò ben io emanciparla dal gran mufti di Roma»; eppure divenuto ministro, conchiuse un concordato col papa, stipulando che ogni nuovo re offrirebbe a San Pietro cinquecentomila ducati d’argento; al papa apparterrebbe il conferire i benefizj minori, ma non li darebbe che a nazionali; a lui lo scegliere i vescovi fra tre proposte dal re, e il dare le dispense matrimoniali; l’omaggio della chinea però cesserebbe, nè il regno si [365] qualificherebbe più vassallo della santa Sede. In conseguenza il Caracciolo fu denigrato come compro dai preti e dai fanatici: poi quando udì la presa della Bastiglia di Parigi, egli novatore, egli nemico della feudalità, accorossene tanto che morì.

Da sventure eternamente memorabili fu travagliato il regno. Nel 1716 Palermo fu sobbalzata dal tremuoto; nel 27, dopo lungo eruttare del Vesuvio, si versò su Napoli una tal pioggia che allagò le case, ingorgò gli acquedotti, svelse piante, dilavò i colli; poi i tremuoti si rinnovarono spesso, e specialmente nel 31 a Foggia che rimase tutta lacerata e sepolte da tremila persone, a Barletta, a Bari, a Napoli; nell’anno seguente, a Napoli ancora e in Terra di Lavoro. L’eruzione del Vesuvio nel 79 lasciò un fiero sgomento negli animi; e perchè lo crescevano le tante descrizioni e immagini che se ne pubblicavano tuttodì, il Galiani volle ripararvi con un opuscolo, intitolato Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento che ci spaventò tutti colla eruzione degli 8 agosto del corrente anno, ma (per grazia di Dio) durò poco; di Onofrio Galeota poeta e filosofo all’impronto. Si ridacchiò, e gli animi ne acquistarono tranquillità.

Già nel 43 la peste aveva tolto trentaquattromila abitanti a Messina, poi il tremuoto scassinate di recente le case: quando nel febbrajo dell’83, cominciò a sentirsi l’aria pesante, turbata da strani rumori, e gli animali agitarsi d’irrequietudine inesplicabile; più forte e irregolare la marea, e più vorticose Scilla e Cariddi. Poi il suolo a tremolare, finchè sul mezzogiorno del 5 si scosse spaventosamente, or ondulando, or sussultando, or abbassandosi, or urtando di traverso, or roteando come spinto a turbine. Alla romba incessante ben tosto si unirono il rovinío delle case, l’urlo degli abitanti, l’incendio appiccatosi alle diroccanti fabbriche, e alimentato [366] da una bufera, che spirando a turbo levava in aria i mobili e le scalcinate pietre. Il mare gonfiatosi si rovesciò nel porto, e di fango e d’alga empì la panchetta del teatro marittimo.

La scossa si rinnovò ai 7, ai 26, ai 28 di quel mese, poi ai 28 del seguente. Allora principalmente fu sovversa la Calabria, ove la terra apertasi ingojò uomini, castelli, paesi; il mare sollevato lavò gran tratto delle coste; villaggi interi rimasero sobbissati presso ad altri che neppure ne sentirono; tempj maestosi, robuste rôcche scomparvero: alcuni, scampati alla prima, sprofondavansi a una nuova scossa; le persone o le cose che jeri erano state inghiottite, domani venivano rigettate dalle voragini, che or fanghiglia eruttavano, or acqua schietta; talora si racchiudevano, poi con iato si aprivano, e fu volta che ingojarono i lavoratori, o interchiusero le gambe de’ passeggieri che rimanevano a mezzo sepolti: dal mare veniva assorto chi sfuggiva alla terra; torrenti e fiumi si perdettero o cambiarono corso; i pozzi disseccarono, miseria nuova: e riffoli di vento, mugghi di tuono prolungato accompagnavano quell’universale sovvertimento. Lungo tempo padri e sposi vedeansi faticare attorno alle travi e alle pietre sotto cui giacevano i loro cari, e supplicare invano d’ajuto i passeggieri, o sbalorditi, o ciascuno delle proprie perdite occupato: altrove già perduta la speranza, si scavava per trovare se non altro le care reliquie. Madri sepolte coi loro figliuoli, e fattesi per lunga pezza archi a sostenere le crollanti muraglie; bestie divenute salvezza dell’uomo nel cercare la propria; diuturne fami durate; cadaveri antichi sbalzati su per sovrapporsi agli ancor tepidi; miracoli, voti di pellegrinaggi, di lunghi digiuni, di perpetue astinenze, pietosissimi atti di carità, malvagissimi di cupidigia, di ferocia, di libidine, e bande assassine che accorrevano [367] a rapire ricchezze, a speculare sull’ajuto prestato o negato, a coprire nuovi delitti sotto la specie del pubblico flagello, resero memorabilissimo quel disastro, descritto poi con pietà e con scienza.

Nello sgomberare si capiva che i più non erano soccombuti al crollo, ma sopravvissuti a sorbire il dolore, l’aspettazione, la fame, e strazio più incomportabile, la sete. Bruciavansi cataste di cadaveri man mano ch’erano scoperti, acciocchè maggiormente non infettassero l’aria; ristoppavansi gli spalancati sepolcri; e quei che camparono più non risero, più non ebbero gioja. Si noverano precipitate ducento fra città e villaggi, sessantamila Calabresi periti: a Messina da ottocento rimasero vittime; gli altri fuggiti all’aperto, si trovarono senza tetto, senza vesti, senza cibo; beato chi potesse foggiarsi una capanna da selvaggio!

Perdute le scorte di grani, di vini, d’olj, guaste le fontane, rotte le strade, le campagne coperte di macerie, la fame e le malattie sviluppatesi fra gente esposta alle intemperie e alle necessità sopraggiunsero ad esacerbare il disastro. I vicini non portavano soccorsi per paura de’ morbi, l’avidità esercitava inumane speculazioni, un fiero egoismo dominava, e una compiacenza insultante nell’egualità de’ patimenti. I soldati delle compagnie provinciali furono adoprati a sbrattare i terreni, e renderli di nuovo coltivabili: pure nè la buona volontà del Governo, nè la pietà di ecclesiastici e di baroni riuscivano pari a tante miserie; malattie contagiose si ostinavano, un denso nebbione ingombrò quelle parti e le circonvicine; temeasi rinnovato il disastro, non vedendosi perchè venuto, perchè cessato. Quel lungo tremare sull’avvenire svogliava d’ogni lavoro presente; lasciato ogni riguardo, moltiplicaronsi i parti illegittimi; andarono repentinamente sovvertite le fortune per ricchezze perite o per eredità accumulate, per [368] terre isterilite o date, per documenti perduti, per servigi caramente prestati, per la cessazione de’ lavori intrapresi; ne seguirono l’interruzione delle speculazioni, il deviamento delle aspettative, un’infinità di accattoni che o veramente avevano sofferto o il fingevano; e l’aspetto e il dissotterramento e il racconto insistente di tante miserie le aumentavano.

Non sapea darsene pace il re; del che Carolina rimproverandolo, — Che faresti (gli diceva) se perdessi un figlio? — Perdere tutta la mia famiglia avrei preferito alla ruina di quelle provincie: tante migliaja d’uomini non sono anch’essi miei figliuoli?» egli rispose. Il popolo gli seppe grado di quella pietà, e del molto denaro che mandò, sebbene soggiungesse che il ministro Pignatelli se l’usurpò, lasciando morire sessantamila persone di fame. Così ogni calamità vuole una vittima su cui svelenirsi.

Il re e la regina fecero poi un viaggio di pompa e curiosità per la Toscana, a Genova, a Torino, spendendo un milione di ducati, che sarebbero stati opportuno ristoro alla Calabria. Ferdinando vi portava un desiderio d’imparare e un’ingenuità nel confessare la propria ignoranza, che lo rendevano interessante ai filosofi, i quali gli trovavano e carattere e buon senso, e ne facevano raffaccio alla vanità di Giuseppe II e del granduca Leopoldo, sentenziatori arguti e spacciatori di degnità filosofiche. Leopoldo un giorno fece una predica a Ferdinando sulle dottrine economiche, sul modo d’educare i suoi popoli al lavoro; e Ferdinando ascoltatolo, gli chiese in aria di lazzarone: — Dimmi, dottore, hai tu molti Napoletani a servire ne’ tuoi Stati? — Non uno. — Or bene, dottor mio, molte migliaja di Toscani stanno nel mio regno e nella mia casa: vi sarebbero se tu gli avessi istruiti a guadagnarsi il pane in casa?» E vedendo l’aria contegnosa e scontenta dei sudditi di [369] Leopoldo, soggiungeva: — Non ci capisco un’acca. Tu sai tante cose; tu leggi sempre, i tuoi sudditi fanno altrettanto; eppure guarda che musi lunghi! Io non so nulla, io non ragiono di nulla; e il mio popolo è sempre in festa. Ben so che anche Firenze era allegra al tempo de’ Medici. Credimi: governali un po’ meno; la tua dottrina li secca». E a Giuseppe II che ricantavagli sempre ben del popolo, amor del popolo, disse: — Già già; capisco la differenza che corre fra te e me: quand’io mi posi in viaggio, dovetti quasi rapirmi al mio popolo; i tuoi sudditi sono beati quando tu sei lontano. Eppure io mangio, bevo, dormo, e non mi do tante scede pel capo. Piglia anche tu un po’ di riposo, e lasciane pigliare agli altri».

Ferdinando, non trovando alcun paese più bello del suo, tornò più sprezzante degli altrui, e più restìo alle innovazioni. Solo in Lombardia avendo veduto le pingui cascine, volle farne sperimento nel suo paese, e sul colle di San Leucio presso Caserta fondò una colonia di trentuna famiglie, cui foggiò come Stato indipendente, con leggi e milizia propria e governo a comune. Nella bizzarra costituzione che vi diede, metteva perfetta eguaglianza; vietato il lusso; aboliti i testamenti e le doti; libera la scelta ne’ matrimonj, festeggiati pubblicamente e dal re provveduti; gratuite ed eguali le esequie e senza vesti di corrotto; tutti i fanciulli siano inoculati, tutti abbiano scuole elementari. L’adunanza dei capicasa nomini per palle secrete i seniori annui, che concordino o giudichino le contese, puniscano correzionalmente le mancanze, vigilino all’adempimento delle leggi.

Quei che si segnano d’orrore al nome di repubblica, non isdegnino d’uno sguardo questo costoso trastullo repubblicano di un re, che almeno potè fare contenti alcuni; oltre che in quella libertà, sebbene intesa a [370] rovescio, prosperò la coltura della seta, e s’introdussero telai di gros, che ancora non perdette di credito.

Ma non con idilj poteano spingersi e dirigersi i miglioramenti; e il nembo offuscandosi dissipava i regj sogni, come le filosofiche utopie.

CAPITOLO CLXIX. Le repubbliche. Lucca. Genova. La Corsica.

Fra l’assetto principesco dato all’Italia, appena rimaneva più posto alle repubbliche; nelle quali sole conservava legale importanza l’aristocrazia, percossa dal vento democratico per mano dei re.

Lucca, disturbata qualche volta dal passaggio delle truppe, si crogiolava nella sua piccolezza, e tra sempre più ristretto numero di famiglie di cittadinanza originaria concentrava l’autorità sovrana. Queste, da ducenventiquattro ch’erano alla chiusa del libro d’oro nel 1628, trovandosi nel 1787 ridotte a sole ottantotto, fu preso il partito che sommassero almeno a novanta, oltre dieci di nobili personali, che sottentravano alle antiche estinte. Nel 1711 erasi proibito ai cittadini originarj di sposare persone inferiori, «poichè la giustizia non consente che chi è destinato a governare altri possa avvilupparsi in modo, da meritare il disprezzo di chi deve stargli sottoposto»; e attesochè una tale «viltà, denigrando la riputazione delle famiglie particolari, ne rimane in qualche modo offuscato anche il decoro di tutto l’ordine», stabiliva che, chi la commettesse, fosse digradato, eccettuandone solo que’ matrimonj che «sebbene al primo aspetto appariscano vili e indecenti, non [371] siano poi in effetto tali o per ragioni di grosse doti, o speranza ben fondata di crediti considerevoli»[171].

Un gonfaloniere, eletto a vicenda fra i tre quartieri della città, governava con anziani, risedendo la sovranità nel gran consiglio di cenventiquattro membri annuali, ma che quasi sempre rieleggevansi gli stessi; e la scarsezza dei nobili facea che tutti a ventitre anni potessero entrarvi. Nelle numerose magistrature, che duravano solo due mesi, la gente acquistava attitudine agli affari; la giustizia era resa da forestieri, sottoposti alla pubblica vendetta quando scadevano, benchè in quasi due secoli non siasi trovato di doverne punire alcuno.

I nobili, così severi ad escludere ogn’altro, seppero mettere freni a se stessi; chi di loro trafficava, foss’anche il gonfaloniere, subiva i pesi e i dazj comuni; era punito quel che mancasse di riguardi ad un inferiore; il plebeo offeso citava il nobile al tribunale dell’osservanza, che lo puniva con almeno tre giorni di detenzione. I Buonvicini, i Lucchesini, i Santini, i Guinigi, i Controni, i Bernardi, gli Orsetti, i Garzoni, i Montecatini, gli Orsucci passavano pei più ricchi; ma v’aveva de’ non nobili altrettanto arricchiti col commercio, e a cui dovea pesare viepiù l’esclusione del governo.

Su tutti vegliava il discolato, che, simile alla censura romana od all’ostracismo ateniese, tutelava l’ombrosa libertà: perchè, se qualche cittadino nobile o popolano sormontasse per ricchezza o merito, i senatori ne vergavano s’una polizza il nome, e quando venticinque concordassero, egli teneasi discolato, e mandavasi a confine. Quest’inquisizione ripetuta ogni due mesi, che puniva non la colpa ma la possibilità della colpa, col sospetto scemava la franchezza del conversare, e induceva [372] gran riserbo ne’ costumi e a rimpiattarsi nella mediocrità, come ottenne da poi la stampa sfrenata.

Faceansi leggi suntuarie di minutissima severità[172], e ancora nel 1748, «per impedire l’estrazione del denaro dallo Stato», fu proibito all’ordine nobile «ogni abito che di color nero non fosse, sì a’ maschi che alle femmine, fossero pure in festa di nozze e sposi all’altare»; vietati tutti i drappi forestieri; calze, nastri, guernimenti o che che fosse lavorato fuori di paese; chi n’avesse, potea solo portarli alla campagna finchè durassero. La prammatica fu ripetuta nel 62, pena il discolato pei nobili, e cinquanta scudi di multa al sarto che avesse cucito stoffe forestiere.

Eppure l’industria era scaduta, o piuttosto gli stranieri l’aveano sorpassata; e salve le seterie e la carta, poc’altro s’offriva ad asportare. Ma i Lucchesi andavano a lavorare i campi de’ Romani, le marniere senesi, le selve e le maremme sarde, a vendere figurine, o a trafficare in grande per tornare arricchiti in patria. Quivi sino alla vetta dei monti aveano spinto la coltura, favorita dalla suddivisione; e de’ loro odj conservarono il vanto. Sobrj del resto, laboriosi, amanti la patria, questa piaceansi magnificare, ai pochi stranieri che vi capitassero mostrando que’ loro spalti, quell’arsenale, quelle antichità; prodigando cortesie ed esibizioni, assai più larghe dell’effetto: e uno spirito forte si burlava di vederli tutti, al mezzogiorno e alle ventiquattro, cavarsi il cappello e recitare l’Angelus.

E per verità, quegli aristocratici reggevano senza larghe vedute nè politica arguzia e a modo d’una casa; ma questo era male? A tal fine teneano magazzini ben provvisti di vino, olio, formaggio, orzo, segale, avena, lenti, castagne, ceci, in modo che i prezzi mai non [373] incarissero di troppo; e se una famiglia o un villaggio fosse colpito dal disastro, la soccorreano come faceano anche per le seminagioni, a titolo però di prestito biennale; e conoscendosi tutti, non era facile restar ingannati. A chi trafficasse di seta, prestavasi un capitale a tenuissimo interesse, purchè assicurato su beni fondi o da qualche mallevadore; e chi volesse denaro, bastava deponesse un ballotto di seta o di stoffa. E non v’era debito pubblico, e i signori dicevano — Bisogna fare star bene il vulgo perchè ci possa soccorrere»; e moderato chi comandava, docile chi obbediva, tiravasi innanzi in una quietudine da idilio. Il secolo nostro facilmente la deride: provi a raggiungerla.

Genova, povera di territorio e perciò obbligata all’attività, alla quale era proposto premio non solo l’acquisto delle ricchezze, ma il libro d’oro, sempre aperto ai doviziosi, aveva acquistato onore colla nobile difesa contro gli Austriaci (pag. 152); ma sentivasi insidiata dal Piemonte non solo, ma anche dall’Impero, che pretesseva antiche ragioni di sovranità su paesi della Riviera, i quali poteano e minacciare l’indipendenza di Genova, e offrire accesso per mare ai paesi mediterranei del Piemonte e della Lombardia. Tal era la piccola città di San Remo nella Riviera di ponente. Francia ne sostenne sempre l’indipendenza, e la garantì Luigi XV nel trattato d’Aquisgrana; ma nel 1753 i Genovesi, tenendosi insultati nel loro rappresentante, colle armi la obbligarono a sottomettersi. Giuseppe II s’invogliò d’averla, e la dichiarò feudo imperiale; ma Genova interpose reclamo, e il ministro francese la appoggiò, sicchè l’imperatore fu costretto recedere.

Morbo e vitupero di Genova era da un pezzo la Corsica. Quegli isolani verso il Mille avevano costituita municipalmente la Terra del Comune, divisa in valli e distretti, formanti una pieve, e ogni pieve in parrocchie, [374] aventi ciascuna un podestà annuale, assistito da padri del Comune, i quali nominavano un caporale che facea da tribuno del popolo; e i podestà eleggevano un consiglio di dodici cittadini con autorità legislativa.

Ma contro al popolo stavano i baroni, e la lotta incessante abituò alle armi e alla fierezza. Quello chiese protezione al marchese Malaspina di Toscana, ed egli sbarcato vi restituì qualche ordine, e collocò l’isola sotto la supremazia del papa, che v’istituì sei vescovi, suffraganei a Pisa, la quale allora appunto vi avea preso signoria. Ma questa le fu tosto disputata dai Genovesi, che poi l’ebbero intera, e la governarono alla peggio. Per reprimere i baroni che non cessavano la guerra fra loro e le prepotenze sui Comuni, armarono i popolani, dando il diritto a diciotto famiglie caporali di fare soldati per resistervi, stipendiati da Genova. Ebbero così organizzata la guerra civile, e se le case baronali perirono quasi tutte, i caporali sottentrarono alle loro arroganze; ricorrendo chi al papa, chi agli Aragonesi, chi ai Genovesi, che tutti vantavano pretensioni diverse alla sovranità dell’isola, la quale continuò ad essere insanguinata dalla rabbia civile. Per togliersi a un disordine senza pari, i popoli si sottomisero spontanei al banco di San Giorgio di Genova, sperandone migliori condizioni che dalla repubblica, e traendone intanto denari. Secondo i patti, ai baroni doveano conservarsi i titoli e i diritti, eccetto quello di sangue; stesse l’alto dominio della santa Sede, libero il traffico del sale, giustizia a tutti, protezione dagli esterni assalti.

Ma la pace non venne; e il banco, governandoli con avidità mercantesca, smungeva i Cismontani, e faticava per sottomettere l’Oltremonti che professava ancora fedeltà agli Aragonesi; finchè repressi i baroni, e per ultima la casa di Leca, ebbe anche quel paese dove fondò Ajaccio. Ma ecco la famiglia Della Rôcca erigersi [375] centro de’ malcontenti; e quando fu vinta, San Giorgio pretese non dover più osservare i patti, come a gente ribelle e soggiogata, e oppresse in pace quei che si erano straziati fin allora in guerra, e che mancavano d’ordinamenti civili da opporre agli aristocratici arbitrj di Genova.

Sampiero, nato oscuramente il 1501 a Bastelica tra le aspre montagne che dominano Ajaccio, militò nelle fazioni e nelle guerre italiche d’allora, meritò la stima di Bajardo e di Francesco I pel valore impetuoso, e ottenne in patria la mano della bella Vanina, ereditiera della casa d’Ornano. Un affronto fattogli dai Genovesi lo irrita contro questi tiranni della sua patria; e poichè Enrico II preparavasi a osteggiare nel Mediterraneo Carlo V, gli propone di assaltare la Corsica e toglierla ai Genovesi, alleati con questo. In fatto il maresciallo di Thermes comandante la flotta, e il turco Dragut vi sbarcano, e secondati dai paesani, uccidono e cacciano i Genovesi, adoprandovi la forza, il tradimento e la barbarie turca. Sola ormai Calvi resisteva, sorretta da Cosmo de’ Medici e da Andrea Doria, che di ottantasei anni vi menò la flotta (1559) coll’altro famoso capitano marchese Spinola. Sampiero, nel rallentamento de’ Francesi, sostenne la guerra finchè, per la pace di Castel-Cambresis, la Corsica fu abbandonata dai Francesi, e restituita al banco di San Giorgio. Questo colpì d’un’imposta l’isola, già ridotta in miseria; poi a tradimento incarcerò i più risentiti, producendo pessimi umori.

Il Sampiero non aveva accettato il perdono, e andò girando ovunque sperasse trovar un nemico di Genova, a Caterina Medici in Francia, al Barbarossa bey di Algeri, al gransignore Solimano che guardava i Genovesi come irreconciliabili nemici. Genova lo seguiva d’occhio attento, e non potendo colpir lui, trasse da Marsiglia la Vanina sua moglie dandole speranza di [376] recuperar il feudo d’Ornano pe’ suoi figli, allor vaganti pel mondo. Ma Sampiero li prevenne, e giunto ov’ella era, la strangolò. Non ajutato dai Francesi, pure confidando nell’universale scontentezza, con quarantacinque uomini sbarcò in Corsica (1564) e la sommosse, con coraggio e ferocia trionfò, e ne esibì la sovranità a Cosmo granduca, il quale non volle intrigarsene. Sampiero, robusto, intelligente, inaccessibile alle voluttà, non davasi requie a cercar soccorsi e amici; guerriero non secondo a nessuno, possedeva anche buone idee di governo; pensava rinvigorire le antiche istituzioni municipali, far della Corsica una potenza marittima come erano Malta e le barbaresche. Intanto Stefano Doria, venuto con quattromila mercenarj tedeschi e italiani, diffondeva l’incendio e la strage; il patriotismo lottava colle passioni personali, onde la guerra civile mescolava la ferocia con tradimenti infami. Perocchè il Doria avea giurato non importargli l’obbrobrio della posterità purchè ricuperasse l’isola a’ Genovesi, i quali, comprati quanti odiavano o invidiavano il Sampiero, assalitolo nella valle di Cavro, l’uccisero (1565) di sessantanove anni.

Ne esultò Genova, se ne desolarono i suoi, che però dissero, — Gli schiavi piangono, i liberi si vendicano»; e in fatto ne prese il luogo Alfonso, suo figlio diciottenne, che dalla madre chiamossi d’Ornano: ma dopo due anni sentendosi spossato, procacciò un accomodamento; e capitolato, andò con trecento compagni in Francia, dov’era stato allevato, e dove primeggiò combattendo gli Ugonotti; poi ebbe fin titolo di maresciallo da Enrico IV e il governo della Linguadoca[173].

[377]

Giorgio Doria, venuto governatore in Corsica, pubblicò perdonanza generale (1669); e l’isola, che tuttavia ripeteva, «Piuttosto i Turchi che i Genovesi», dovette rodere il freno: ma invece del banco di San Giorgio, fu sottomessa alla repubblica, che la trattò come vinta. Vi cambiava ogni due anni gli uffiziali; cioè un governatore generale e capitano con autorità di sangue, e assistito da un fiscale; e luogotenenti a Calvi, Algajola, San Fiorenzo, Ajaccio, Sartena, Bonifazio, Vico, Cervione, Corte, per rendere giustizia. All’uscire subivano tutti il sindacato sotto sei persone, genovesi o côrse indistintamente, di cui tre erano popolani, tre della nobiltà. Presso al governatore risedevano dodici Cismontani e sei Oltremontani eletti dalle città principali; i Comuni si amministravano liberamente, eleggendo il podestà e i sindaci e anziani comunali. Ma tutto era guasto dall’imperfettissima giustizia. I nobili genovesi, cui erano riservati gl’impieghi, vi venivano senza conoscerne le leggi, ma avidi di guadagnare meglio che gli esigui stipendj, e rifarsi così di quanto aveano speso pel broglio; e il governatore biennale di Bastía, di potenza illimitata nella civile e nella militare amministrazione, oltre un grosso stipendio, riceveva il mantenimento dal paese, il venticinque per cento delle ammende e confische; potea condannare a galera o a morte per sola convinzione propria, senza formar processo, e sospendere ad arbitrio un’inquisizione criminale; a gara abusavano pure l’avvocato fiscale, il mastro di cerimonie, il secretario generale; una catena di corruzioni riduceva la giustizia ad impegni e ad un traffico lucroso. Il diritto di grazia n’era un titolo principale, vendendosi non solo perdoni e salvocondotti pei commessi, ma fino impunità per delitti da commettersi. Vero è che [378] sedeva a Genova un oratore côrso, e diciotto nobili isolani consigliavano il governatore; ma è conseguenza fatale delle tirannie il divezzare dall’opposizione legale per avventurare nella irosa.

I Côrsi erano ricchi d’ingegno e di vivacità, come sogliono i mezzo inciviliti; operosi, massimamente allora che il bisogno li spingesse fuor di patria. Avvezzi da bambini alla sobrietà, all’agilità, alla pazienza, sopportano le fatiche senza stancarsi, il dolore senza lagnarsi: hanno per ricchezza poche castagne e qualche capra, l’acqua per nutrimento, per veste ruvido panno tessuto dalle loro donne colla nera lana de’ loro armenti. Barbosi, sucidi, selvaggi in vista, taciturni, superbi, sono implacabili alle vendette, covandole per anni e tramandandole per generazioni. Gli uomini, ricevuto un affronto, lasciano crescersi la barba finchè non l’abbiano riparato; le case mutansi in fortezze, s’abbarrano le porte, muransi le finestre, lasciando appena una feritoja; e mentre e donne e vecchi escono al lavoro e alle faccende, gli uomini stanno disposti a dare o a respingere la morte. Gli abiti insanguinati dell’ucciso si conservano per esporli ad opportuna occasione. Di rado si rompono le nimicizie senza dichiararle, e senza fissar il tempo in cui le ostilità cominceranno. Tutta la parentela e interi villaggi vi prendono parte; e le torri pei ricchi, le macchie pei vulgari sono covaccioli d’assassini, ai quali l’opinione applica il sigillo d’onore; nè cessano finchè il sangue non abbia lavato il sangue[174].

[379]

Quanto dell’armi, son passionati del canto. Alle esequie tutto va in caracolli e vóceri, come chiamano le nenie che fansi sul cadavere, sia per celebrarne il merito, sia per invocarne la vendetta: alle nozze accompagnano e spiegano ogni cerimonia col canto, il vestire e velar della sposa, il moversi di casa, il giunger in chiesa, il levarle il velo, poi le danze del domani e del terzo giorno, quando la sposa colle parenti e le amiche va alla fonte, e attinge in una brocca nuova, e nella fonte getta minuzzoli di pane e cose mangerecce: nelle serenate alternano canzoni e spari di fucile, siccome nelle canzoni mescolano il tenero e il feroce, la devozione e il misfatto. Anche gli altri divertimenti tengono del fiero, come sono, oltre la caccia, il fermare col [380] laccio corsojo cavalli e tori correnti, e la moresca, dove sin ducento uomini con armadura all’antica e spada e pugnale rappresentano qualche antico fatto, non sempre senza sangue[175].

Insieme sono ospitali, cupidi di libertà, bisognosi di lottare, se non altro per giuoco; lieti al pericolo, perseveranti alla prova, tutti buoni a combattere quando occorra: tanto avea torto Genova d’escluderli dalle armi. In patria infingardiscono senza lettere nè arti, fin a chiamare i Sardi a coltivar le loro vigne, gli ulivi, le ubertosissime arnie, mentr’essi accidiosi guardano que’ prezzolati, e costringere le donne a fatiche, mentre essi baldanzeggiano alla caccia e alla bettola. Eppure molti in Toscana e nello Stato romano andavano a tentare culture felici; alcuni procacciando in negozj nelle Indie, in America e altrove, salirono in ricchezza per vie diverse, tra i quali uno, al tempo dello storico Filippini, era divenuto il maggior ricco di tutta cristianità per mercadante privato. Di Corsica pure nacquero segretarj di Stato, legati a latere, cardinali, vicerè, comandanti, e nella capanna affumicata del povero tu ritrovi effigie di vescovi e di colonnelli della famiglia. Un Côrso difese Brescia dall’imperatore Massimiliano; un Côrso salvò ad Enrico IV Marsiglia; un Côrso co’ suoi consigli ridà la corona all’imperatore del Marocco; Lazzaro di Bastía rinnegato côrso fu bey d’Algeri; una Côrsa rapita dai pirati divenne prima moglie all’imperatore di Marocco.

Un tale misto di qualità, tanto avanzo di primitivo, tanto sentimento della personalità che altrove va perduta, tante virtù parche e austere degeneranti in implacabili rancori, rendevano viepiù difficile il governarli; e l’odio che li traeva a scannarsi fra loro concentravano [381] contro i Genovesi, alla cui servitù mai non si erano piegati; da fanciulli abituavansi ad esecrarli; i trastulli puerili erano riotte fra Genovesi e Côrsi; consideravasi merito l’uccidere qualche Genovese che fosse così imprudente da avventurarsi solo nel paese, e altrettanto i Genovesi dell’uccider un Côrso vantavansi come d’uccidere una fiera. Gl’isolani più volte insorsero, coll’armi protestando dei patti mal tenuti e della crescente oppressione: ma i Genovesi, o dirò meglio gli oligarchi guardavanli tra paura e disprezzo; a guisa di coloni pensavano a usufruttarli, non mai a educarli, con un governo abjettamente corrotto e duramente irritante.

A prevenire le quasi annuali rivolte, Genova pubblicava statuti fierissimi; morte a chi procacci l’offesa di qualsiasi agente della repubblica, o venga all’atto prossimo d’offenderlo; morte a chi mandi o riceva qualsivoglia oggetto da un ribelle, o gli parli, fosse anche il padre col figlio, o non riveli le macchinazioni, anche solo congetturate; fin i trapassati si perseguitavano e i loro figliuoli. Queste ire incancrenite e la manifesta parzialità verso i compatrioti, costrinsero ad escluder i Côrsi dalle magistrature; il che fu un esasperarli viepiù contro i Genovesi.

L’esazione delle tasse porgea rinascenti occasioni di scandali, come il divieto dell’armi, che fu fatto nel 1715 perchè ogn’anno commetteansi più di mille assassinj, e ventottomila nei trentadue anni della dominazione genovese. Quando l’odio è così profondo tra governati e governanti, ogni partito riesce alla peggio, ogni rimedio torna in veleno. Genova prestò denaro ai proprietarj affinchè potessero ridur a frutto le loro terre, e i Comuni ne stavano garanti; ma nè quelli se ne prevalsero, e questi citati al rimborso strillarono come di nuova esazione.

Così preparavasi un cumulo di ire, che sanguinosamente [382] proruppero (1729). Nell’occasione che gli esattori andavano attorno a riscuotere le tasse, s’appicca rissa per pochi quattrini, per qualche mobile oppignorato: un Cardone di Bastelica arrestato dai dazieri, comincia a gridare contro l’avidità genovese, passa a numerare i vecchi torti, i diuturni oltraggi; è ascoltato, echeggiato; le armi, più care perchè proibite, si traggono da’ nascondigli; i corni risuonano per le montagne; le campane di Cismonti rispondono a martello a quelle d’Oltremonti; Felice Pinelli allora governatore spiega quel vigore, che chiamasi disopportuno quando non raggiunge l’effetto. Sbigottita dall’estendersi dell’incendio, Genova manda patti amichevoli, ma gli animi stavano in quella gonfiezza, ove ogni proposizione si battezza di paura e aumenta il coraggio; non si vuole, non si domanda altro partito che l’indipendenza. I sollevati, toltisi a capo Andrea Ciaccaldi Colonna e Luigi Giafferi, intrepidi patrioti, respinsero i Genovesi ch’erano venuti per domar colla forza, e adunati a corte, si diedero governo nuovo: una consulta di teologi, interrogata se fosse peccato sottrarsi a Genova violatrice de’ loro privilegi, rispose di no, allegando Suarez e san Tommaso, e rinfiancandosi cogli esempj degli Ebrei contro Roboamo, de’ Romani contro Tarquinio, degl’Inglesi contro re Carlo, de’ Castigliani, de’ Portoghesi, de’ Fiamminghi, degli Svizzeri. Il papa, invocato dai Côrsi come antico sovrano di tutte le isole, procura ridurli ad accordi; ma Genova lo taccia di parteggiare pei ribelli. La colonia di Greci che, ricoverati a Paomia, vi fiorivano d’industria, e conservavano fede a Genova ospite loro, sono assaliti dagli insorgenti; li respingono con valor grande; ma sopraffatti dal numero, si ritirano ad Ajaccio, mentre i Côrsi ne svelgono le vigne, gli oliveti, gli alberi, le abitazioni, tornando a deserto un paese, la cui gratissima cultura facea raffaccio alla loro negligenza.

[383]

Che un pugno di gente povera ardisse domandar ragione alla sua sovrana naturale, facea dispetto a Genova; e vedendo che Inghilterra e Francia mandavano celatamente soccorsi agl’insorgenti, ricorse all’imperatore Carlo d’Austria. Questo, temendo non qualche potenza marittima si prevalesse dell’insurrezione per impadronirsi dell’isola importantissima in mezzo al Mediterraneo, v’inviò ottomila soldati sotto il generale Wachtendock (1731), e seimila quattrocento sotto il principe di Würtenberg; e uniti con Genovesi e con Côrsi fedeli, comandati da Camillo Doria, formavano un esercito formidabile, che sulle prime sconfisse gl’insorgenti[176], e ne emulò le devastazioni e le crudeltà.

I Côrsi, come deve ogni popolo sollevato, appigliaronsi alla guerra di bande, cui danno opportunità meravigliosa i loro monti, la sobrietà, l’abitudine della caccia; sicchè d’altro non aveano bisogno che di castagne e palle; mentre i Tedeschi, sotto insolito clima e in guerra irregolare e per causa estrania, venivano meno. Fioccavano intanto manifesti ed esortazioni ai popoli e ai re, che si contentavano di mostrar simpatie; ai Côrsi abitanti di fuori intonavano, lasciassero via le penne e le cetre, e venissero a pigliar il fucile; intanto procacciavano ogni mezzo di difesa, e fidando in Dio e nel popolo, affrontavano l’apparato avversario, sempre più formidabile. Nè mancarono di prosperi successi, e fin mille nemici uccisero in un sol fatto; onde Carlo assunse aria di conciliatore, e giacchè diffidavano dei [384] perdoni di Genova, fidassero alla nota lealtà austriaca. Appena però assicurati di larghe condizioni, deposero le armi (1732), l’Austria consegna il Giafferi, il Ciaccaldi, il pievano Aitelli e il segretario Rafaelli a Genova; infamia del Würtenberg e del Wachtendock, al quale Genova regalò una spada e una canna d’India coll’elsa e col pomo d’oro, e una fornitura di bottoni di diamanti che costava duecento e chi disse fin cinquecentomila scudi. Allora si pubblica nuova amnistia, e una forma di governo più larga ma non garantita ed illusoria. I quattro capi, ottenuta la liberazione col rassegnarsi alle scuse, portarono attorno la loro abilità e l’ira contro di Genova; altri dall’Inghilterra mal accolti, passarono in Irlanda, in Germania, in Egitto, alla Martinica, a Seilan: alla loro abilità aprendo così campo più largo la sventura, e rendendo nota la piccola isola al mondo.

Neppur mancati i capi sbollì lo sdegno ne’ Côrsi: smaniati di vendicarsi, omai risoluti all’indipendenza, eressero il capo, e per non ricadere sotto la genovese dominazione, si esibirono alla Spagna; ma questa era occupata ad acquistar Napoli, nè trovava decoroso il dar mano a ribelli. Ed essi, sperando far da sè, proclamarono una legge del regno e della repubblica di Corsica (1734), elessero protettrice l’Immacolata Concetta, primati del regno il reduce Giafferi, Ciaccaldi e Giacinto Paoli. Nel comune intento della liberazione, gli odj di paese risolsero in eroica emulazione. I Rossi e i Neri, due famiglie numerose e potenti della pieve di Casacconi, vivevano in nimicizia da più d’un secolo, e molti delle due parti erano caduti sotto la privata vendetta; nè il Giafferi, nè la interposizione di potenti, nè le preghiere di curati, nè la miseria che logorava i due partiti avea posto modo alle stragi. Ma quando i due capiparte furono chiamati a giurar fede alla repubblica, le loro destre sul libro sacro s’incontrano, si stringono; promettono [385] oblìo del passato, e non usar le armi che in difesa della patria; e sempre si videro uniti, prestarsi reciprocamente soccorso[177].

Ma contro dei tre primati si sollevava la gelosia dei piccoli ambiziosi, che spassionavansi collo spargere i sospetti, solito deleterio delle sollevazioni popolari. I Genovesi, che manteneansi tuttavia nelle terre murate, intercettavano gl’invii di sale e di provvisioni da bocca e da guerra, come l’uscita delle derrate, ricchezza dell’isola; presero a soldo Svizzeri e Grigioni; perdonarono a malfattori e banditi che si arrolassero contro la Corsica, e che vi compirono d’ogni sorta barbarie; pure non riuscirono a soffogar l’incendio, per quanto il commissario Rivarola instancabilmente adoperasse e i mezzi pacifici e i guerreschi.

Qui un bizzarro accidente. Teodoro, barone di Neuhoff, nobile westfaliano nato in Francia, infervorato dalla lettura di Plutarco a un’ambizione irrefrenabile, gettossi alle avventure. Giovinetto combattè col romanzesco Carlo XII; partecipò alla trama di Görtz per abbassare l’Inghilterra, poi ai divisamenti dell’Alberoni per rialzare la Spagna; era stato adoprato dagli Austriaci nel tentato sbarco in Inghilterra; da Law nella sua banca, donde vide i tesori accumularsi e dileguare con magica rapidità. Mandato a Firenze come residente per Carlo VI, vi trovò alcuni Côrsi che avea conosciuti mentre stava per debiti prigione in Genova, e che allora faceano il solito uffizio de’ fuorusciti, mestare alla liberazione della patria, e credere che a ciò potessero condurre i mezzi più avventati. Facilmente s’indussero a prenderlo come capo, ed egli vi s’accinse caldamente. Chiesti invano sussidj a varie Corti, ricorre a due uomini di somma intrepidezza; Ragoczy principe transilvano, che [386] era stato a un punto di sottrarre all’Austria il suo paese; e l’avventuriero conte di Banneval, che col nome di Acmet bascià era divenuto potente presso il sultano Mahmud: e combinano un gran disegno per sovvoltare tutta Europa. Falliscono; ma Teodoro, sostenuto in secreto dalla Porta e palesemente dal bey di Tunisi, ottiene da questo un vascello, dieci cannoni, quattromila fucili e diecimila zecchini. Così preceduto, con larghissime promesse arriva in Corsica. Quarant’anni, bella e maestosa presenza, facile parola, atteggiamenti nobili, vestire bizzarro tra spagnuolo e turco, con vestone scarlatto alla orientale, zazzera alla francese, spada alla spagnuola, canna d’India alla mano; dietrogli cappellano, segretario, staffieri, mori, tutti con piume, pistole, sciabole come gli eroi delle insurrezioni: e così alletta le facili fantasie de’ Côrsi. Già si arrogava i titoli di lord della Gran Bretagna, pari di Francia, principe dell’Impero, grande di Spagna, ma per trattare colle corone bisognavagli quello di re; onde è accolto fra le grida di Viva Teodoro re di Corsica e di Capraja; non essendovene d’oro, gli è messa in capo una corona di fronde; e portato in ispalla dai principali, e seguito da venticinquemila abitanti, scorre trionfalmente il paese, rimprovera, incoraggia, spiega quelle idee diplomatiche, politiche, finanziarie, che pajono profonde a chi non n’ha veruna. I primati che non speravano farsi obbedire dai compaesani, confidarono l’otterrebbe quest’incognito; onde il favorirono, e di fatto le fazioni sono represse, due capipopolo impiccati, stabilita la guardia nazionale. Ed egli intitolatosi «Teodoro I, per la grazia della santissima Trinità, e per l’elezione dei varj e gloriosissimi liberatori e padri della patria, re di Corsica» battè moneta[178], nominò un consiglio di [387] ventiquattro membri, e maresciallo il Giafferi, tesoriere Giacinto Paoli, guardasigilli l’avvocato Costa, con quanta serietà mai facesse qualsifosse altro avventuriero più furtunato; fece riviste, regalò scarpe al vulgo, zecchini ai soldati. Ito di là dai monti, ove abitavano i nobili, vi è festeggiato altrettanto; centinaja di gentiluomini, gli Ornano, i Rôcca, i Leca, gli Istria corrongli incontro; ed egli istituisce l’ordine della Liberazione, e in pochi giorni vi sono ascritti quattrocento cavalieri, ciascun de’ quali deponeva mille scudi d’oro, assicurato del dieci per cento.

Con questi mezzi preparavasi a far guerra ardita ai Genovesi. I monopolisti dell’opinione annunziarono al mondo che egli era adorato dagl’isolani; il popolo trionfava di vittorie che già credeva immancabili; quei che non credevansi vulgo fantasticavano su quest’ignoto, persuadendosi fosse un gran capitale, mandato chi dicea dall’Inghilterra, chi dalla Spagna, fors’anche dal papa, benchè venuto con Maomettani; del suo Ordine molti pagavano a buoni contanti il brevetto, anche forestieri, anche protestanti per quel titolo d’illustrissimo e di eccellenza; molti compravano da lui il grado di marchesi, conti, baroni, a non dire i marescialli, i colonnelli, i capitani, tanti che sarebbero bastati a un Napoleone. Guai a chi, in simili casi, vuol richiamare al buon senso! I Genovesi dapprima stettero peritanti, dubitandolo turcimanno di qualche gran potentato, dappoi lo presero in celia, beffavano la sua povertà, contraffacevano [388] que’ suoi proclami, mescolati di bonarietà tedesca e d’enfasi francese: ma egli prendeva sul serio il nome di re, e volea farlo rispettare quanto si può senza soldi nè soldati.

Ma per quanto e’ fosse sempre a cavallo, e si facesse arrivare grossi dispacci dal continente, e coi telescopj dalla spiaggia speculasse se le navi amiche giungessero, nulla s’avanzava pei deserti del mare; i Côrsi tornavano a uccidersi fra loro, oltre quelli ch’erano uccisi dai Genovesi; le campagne rimanevano incolte, sciopero il popolo; alcuni col nome d’Indifferenti pensavano ad assicurare la libertà della patria, anzichè aderire a sua maestà, la quale li dichiarò ribelli; nè le premure dell’instancabile Giafferi bastavano a tener la calma.

Dissipato il poco denaro e le prime illusioni, disonoratosi colla menzogna e colle crudeltà onde ricambiò le crudeltà de’ Genovesi contro i prigionieri, re Teodoro propose d’andare a chiedere soccorsi ai re suoi alleati. Sbarcato incognito a Livorno, e non ottenuto che il gran duca lo riconoscesse, errò da Napoli a Roma, poi ad Amsterdam, dove arrestato per debiti, con promessa di vantaggi di commercio in un’isola tanto ben situata indusse una compagnia di negozianti ebrei a redimerlo, e a dargli cinque milioni, con cui formò una flottiglia con ventisette cannoni, molti fucili e polvere e lance e bombe, e tornò e ridestò ne’ Côrsi la risoluzione di difendersi, manifestando alle nazioni come la «felicità della loro isola richiede d’essere governata da un sovrano, il quale non possedendo altri Stati, ponga a questo tutte le attenzioni, e aprendo i porti a tutte le nazioni estere con perfetta neutralità, vi conduca l’abbondanza».

I Genovesi, che avevano già contratto con San Giorgio il debito di tre milioni, vedendosi a un pelo di perdere l’isola, sapendo che un acquisto fatto con armi forestiere è disonorevole non men che pericoloso, trattarono [389] di sussidj con Francia, la quale temendo che Inghilterra o Spagna non vi ponessero addosso le mani, prese accordi con Vienna (1737), e a largo prezzo comprò truppe che andassero a rimettere l’ordine. I Côrsi anche allora non sapevano darsi pace che la Francia, non nemica, non offesa, ajutasse gli aggressori, anzichè gli oppressi; e sebbene i savj consigliassero a rassegnarsi, quelli, cui giovava il comandare, risolsero di repudiar le larghe condizioni che Genova offriva, e di resistere fino all’ultimo sangue; e subito ogni villaggio ebbe la sua compagnia, ogni pieve il suo battaglione, ogni provincia il suo campo, e tutti d’ogni età e sesso e paese accorsero a respingere gl’indegni ausiliarj. Ma re Teodoro, abbandonato da tutti e disperato della sua causa, errò per le montagne, poi fuggì a Londra. I Côrsi resistettero ancora, e alle proposizioni di Genova e di Francia rispondevano: — Anzichè vivere infelicissimi, torremo di morire con gloria, non lasciando ai posteri la servitù, e come i Macabei, esclamando, Meglio è perir in guerra che vedere gli strazj del popol nostro». Pure furono costretti a piegar la cervice; Giafferi e Paoli vanno profughi sul continente (1739); il generale francese Maillebois severo e giusto, oltre vincere, seppe pacificare e impedire le riazioni de’ Genovesi. Ma appena egli fu richiamato, terribili vendette seguirono, e fatti che l’amor di patria mascherava di gloriosi, e che come tali erano vantati dallo spirito liberale che andavasi svolgendo in Europa, e che dà sempre ragione ai rivoltosi e alle cause soccombute. Rinnovatasi la sollevazione, Teodoro accorse ad avviarla: ma tra via dubitò che il capitano della nave, per ingrazianirsi i Genovesi, volesse farlo saltare in aria; e nottetempo avendolo trovato che allestiva miccie, lo fece impiccare all’antenna. Ogni prestigio però era svanito, i Côrsi non badarono alle munizioni che recava e ai proclami che spandeva, ond’egli tornò in Inghilterra. [390] I Francesi risero di lui; l’Europa tutta ne’ versi del Casti e nella musica di Paisiello ne fece beffe; gl’Inglesi no; ed Orazio Walpole scrisse eloquenti pagine a suo favore; il celebre attore Garrick consacrò a vantaggio di esso una serata, sicchè potette vivere oscuro ma libero; e ancora il suo epitafio (1656 11 xbre) rammenta come Fortuna gli diede un regno e gli negò un tozzo. Del resto, per chi non creda al diritto divino delle dinastie, era egli più ridicolo di quel Carlo Eduardo pretendente, che nel 1745 sbarcò per conquistare l’Inghilterra con ducentomila lire, duemila fucili e seimila sciabole, e che pure rimase in cavalleresca venerazione?

Genova parve voler rimettere l’ordine, giacchè pubblicò l’amnistia, e propose vescovi d’Aleria e di Nebbio due Côrsi, il che da un secolo non erasi fatto. Ma quando i soldati francesi sono richiamati per combattere nella guerra della successione austriaca, Saverio Matra e il vecchio Giafferi, in cui pareva rivivere l’anima del Sampiero, tornano a mettere in fuoco l’isola; il re di Sardegna e Maria Teresa, allora ostili a Genova, vi soffiano, prendono in tutela i rivoltosi, mandano armi, e adoprano gl’intrighi d’un conte Domenico Rivarola côrso, nemico della patria a servizio del re di Piemonte, e che sostenuto dall’Inghilterra alleata di questo, snida i Genovesi (1745), e sarebbesi assodata l’indipendenza se avessero saputo reprimere gli odj e le gelosie fra i tre capi, che invece sfogavansi in guerra civile. Giafferi, rimasto solo al comando, valse a rassettare, e dava ordine al governo, civiltà al paese, quando cadde assassinato per opera d’un suo proprio fratello, e ogni cosa tornò a soqquadro, pur ostinandosi i Côrsi alla difesa.

Giacinto Paoli, caldo patrioto rifuggito a Napoli, vi educava il proprio figlio Pasquale con finezze letterarie e con esempi di virtù semplicemente generosa e accortamente ardita. Già addestrato nelle guerre della Calabria, [391] esso il mandò a fare il suo dovere, cioè a combattere per la patria: e Pasquale, approdato in Corsica (1735) non colle spavalderie di re Teodoro, ma con modesta fermezza e nobile semplicità, e meritato la confidenza ed il comando supremo, insinua coi detti e coll’esempio che «colla libertà tutto si può soffrire, e a tutto si può trovare riparo»; guida felicemente la guerra, mentre sa frenare col boja e coi missionarj una nazione, la cui storia è una sequela di rivolte.

Saverio Matra, offeso del vedersi posposto al giovine Paoli, egli vecchio e discendente da caporali, eccitò guerra civile sposando la parte di Genova, capitanandone le armi, e spargendo sospetti contro del Paoli; ma perì combattendo. Capi d’insorgenti vittoriosi non è difficile trovarne: rarissimi invece quei che sappiano sistemare l’obbedienza, e tale fu Paoli. Quando venne nominato generale, suo fratello Clemente fece mettere i vetri alla povera loro casa in Strella presso Marosaglia; ma Paoli li spezzò dicendo: — Non voglio vivere come un conte, ma come gli altri contadini». Scrivendo a suo padre, il chiamava sempre signor mio; e già da alcuni anni comandava all’isola quando per lettera gli chiese qualche posata d’argento; e Giacinto gli rispose che Solimano granturco le usava di legno, tagliate da lui stesso. Su un conto del calzolajo, Paoli notava di diffalcarne il valore del tomajo, perchè era suo. A ragione diceva di stimare più Guglielmo Penn fondatore della Pensilvania, che non Alessandro Magno conquistatore dell’Asia. Preferiva a ogni altra lettura il libro de’ Macabei, che dipinge la resistenza di que’ generosi alla tirannia; e stupiva e fremeva quando gente sensata chiamasse ribelli i suoi Côrsi. Destro a tenere vivo l’entusiasmo senza lasciarlo trascendere, devoto sì che mai non ometteva le preghiere e anche nella mischia col fucile portava il rosario, riuscì a introdurre la concordia là dove mai non era allignata, [392] e mostrare che quella nazione è capace non solo di vendetta ma e di generosità.

Nella costituzione che le diede, si tenne poteri grandissimi, necessarj credendoli in istato nuovo. Nè era essa un ricalco di forestiere, ma dedotta dalla comunale che descrivemmo, e stabilita su que’ suoi canoni che la podestà deriva dal popolo; che le leggi hanno unico fine il bene del maggior numero; e che il Governo deve operare al cospetto di tutti. Ogni parrocchiano era elettore sotto la presidenza del podestà; ogni mille anime mandavano un deputato all’assemblea generale, unica sovrana, e che votava le imposte, la guerra, le leggi: dall’assemblea generale traevasi il consiglio supremo, d’un membro per ciascuna delle nove provincie, e che aveva il potere esecutivo, la diplomazia, la sicurezza pubblica, e poteva opporre il veto ai decreti dell’assemblea generale: tutti i membri erano responsali, e il presidente faceva anche da generale, ma nulla poteva senza il parere d’essi consiglieri. Cinque sindaci scorrevano le provincie per raccogliere i reclami contro gl’impiegati e vegliare sugli esattori. Il generale poteva istituire nelle provincie un governo militare, ma i membri di esso dovevano subire il sindacato.

Paoli aborriva le truppe stanziali, arma del despotismo, non della libertà, soggiungendo che «il popolo non deve lodare il valore del tale o tal altro reggimento, ma bensì la ferma risoluzione di questo o quel Comune, il sacrifizio della tal famiglia, il coraggio del tal cittadino». Quindi ogni Côrso dai sedici ai sessant’anni doveva essere soldato; ciascun Comune levava una o più compagnie, ciascuna pieve aveva un campo sotto un generale; ogni quindici giorni cambiavasi il servizio, e nella stessa compagnia cercavasi raccogliere i parenti, pel qual modo quei d’una pieve e d’una famiglia impegnavansi viepiù a mantenerne l’onore e la salute, e le antiche [393] nimistà municipali mutavansi in gare di prodezza. Non ricevevano paga se non il tempo che passavano sotto le armi, e i villaggi li provvedevano di pane. Solo per necessità della guerra formò un piccolo corpo regolare che presidiasse le fortezze. Quando aveva prefisso una spedizione, Paoli scriveva ai ministri di ciascuna provincia, gli mandassero il tal numero d’uomini; e subito era obbedito. Diede estrema attenzione all’industria, all’agricoltura; fece piantare ulivi e castani, seminare granoturco; non neglesse la coltura intellettuale, trascurata dai Genovesi, e fece porre scuole, massime dal clero, e aprì l’Università a Corte.

Non lasciossi accecare dalla moda in guisa, da non sentire l’importanza della santa Sede, per quanto allora umiliata; e supplicò il papa togliesse l’isola in protezione, e riparasse ai disordini allignati in quella chiesa durante la guerra civile. Clemente XIII, chiesta invano l’adesione da Genova, mandò un visitatore apostolico: ma la repubblica genovese, esclamando ch’e’ ne violava i diritti e teneva mano con ribelli, spedì navi per impedirlo e una taglia di seimila scudi. Pure il visitatore approdò, all’isola credente recando le benedizioni che confermano le speranze, e molto bene vi operò d’accordo col Paoli; il clero ne attinse coraggio a grandi sacrifizj in pro della patria, nè però il Paoli risparmiava di punire i preti e frati contumaci; diede ricetto anche agli Ebrei, perfino ai Gesuiti, liberalismo allora stupendo.

Non è dunque meraviglia se il Paoli era amato come un padre. E l’isola ormai poteva reggersi senza soccorsi stranieri, lusingavasi di diventare potenza marittima come le antiche di Grecia, viepiù da che facilmente tolse ai Genovesi l’isola di Capraja, possesso un tempo dei Da Mare. Ne restarono ontosi e desolati i Genovesi, e convinti da quarant’anni d’inutili sforzi di non bastare contro la ben ordinata resistenza, chiesero soldati alla [394] Francia, che paurosa di vedere annicchiarvisi gl’Inglesi, ne mandò col conte di Marbœuf (1764). Egli portava anche patti d’accordo; occupò le fortezze, ma usò riguardi agli abitanti; e non era guardato di mal occhio, ma una domanda sola gli si faceva, — Lasciateci indipendenti». Il vessillo di San Giorgio sventolava sulle fortezze di Bastia, San Fiorenzo, Calvi, Algajola, Ajaccio: ma avendo i Genovesi avuto l’ardimento d’accogliere i Gesuiti espulsi di Francia, i Francesi se ne ritirarono, e subito i Côrsi ebbero occupato ogni cosa, eccetto le fortezze.

Ai Genovesi dunque non rimaneva altro partito che cedere i proprj diritti alla Francia. Questa, credendo che tale acquisto la compensasse del perduto Canadà, l’accettò nel trattato di Compiègne (1768 maggio), a titolo di pegno per somme che eranle dovute, ma in realtà dandone in prezzo quaranta milioni di tornesi, e assicurando il dominio della Capraja e de’ possessi in terraferma. All’udire tale baratto Giangiacomo Rosseau prorompeva: — Popolo servilissimo questi Francesi, nemici a chi è in isfortuna; se sapessero che un uomo libero vive all’altro capo del mondo, v’andrebbero pel piacere di sterminarlo».

I Bastiesi esultarono della nuova servitù; ma il vile mercato irritò gli altri Côrsi, che inanimati dal Paoli, s’accinsero a mostrare d’essere uomini, non bestiame vendereccio. Avevano i pochi cannoni portati da re Teodoro, alcuni ripescati dal mare, alcuni comprati col vendere i vezzi muliebri di corallo; ma gli insorgenti devono affidarsi nella carabina e nella bajonetta. Qualche Svizzero, qualche Grigione, e Baschi e Greci e Italiani, e un’intera compagnia prussiana, disertata da Genova, vennero a combattere con loro; e nelle rinnovate prove di stupendo eroismo, s’udirono i nomi dei Saliceti, dei Buttafuoco, dei Buonaparte, dei Murati, degli Abbatucci, d’altri destinati ben presto a sonare tant’alto. [395] Domenico Rivarola andò a combattere per la Corsica, benchè lasciasse due figli nelle mani de’ Genovesi. Gian Pietro Giafferi, assediando la città di Corte, vide sulle mura il proprio figliuolo di quattordici mesi rapitogli con la balia, ed esposto alle palle de’ suoi; eppure egli comandò il fuoco. Clemente, fratello maggiore del Paoli, un de’ migliori condottieri, erasi vestito da frate e dato alla vita contemplativa, pronto ad uscirne ogniqualvolta tornasse bisogno del suo braccio. Con pochi prodi assediato in Furiani, a settemila cannonate e mille bombe genovesi non si dà vinto, e per cinquantasei giorni si sostiene fra le ruine, finchè n’esce vittorioso; poi quando tutto fu finito, si ritirò nel convento toscano di Vallombrosa. Nel campo di Loro, ventun pastori assaltati da ottocento soldati d’Ajaccio, li respingono; ma da altri quattrocento sopravvenuti alle spalle serrati nei paludi, muojono combattendo tutti, tranne uno, che nascosto ne’ cadaveri e lordo di sangue sperava campare la vita. Quando vennero per recidergli il capo, chiese misericordia: ma il commissario, appesigli alla persona sei teschi de’ suoi, lo fece impiccare e squartare.

Lazzaro Costa in quattro anni toccò trentotto ferite, predò due milioni di franchi; in una settimana pigliò una nave carica di fucili e di trecentrentaquattro barili di polvere, e una di sessantaquattromila franchi e munizioni. Il capitano Casella, nella torre di Nonza, circondato dai Francesi, stabilisce di disperatamente combattere, e da ultimo di mandare all’aria le mura, e sepellirvisi; abbandonato, resiste tutto solo; appunta il cannone, dispone a diverse feritoje i fucili, spara gridando voci diverse. Il Francese, venuto a patti, acconsente esca la guarnigione con armi, bagagli, bandiera e un cannone, e con gli onori della guerra; ma qual rimase quando vide uscire solo il Casella tra le due fila, armato di spada, fucile e due pistole!

[396]

Un fratello, veduto cadersi a fianco il fratello, lo leva dalla mischia, lo porta alla chiesa, prega, l’abbraccia e ritorna a combattere. Quando il vecchio Angelo Matteo Lusi, che in casa avea resistito con dodici de’ suoi, cadde colpito da una palla, il figliuolo Orso Andrea, per non iscorare i compagni, chiude il cadavere in camera, fingendolo ferito, e col fucile insanguinato del padre resiste e caccia i Francesi: allora tornato, mostra ai parenti e alle donne il cadavere: e le donne e i parenti lo piangono, confortandosi che la morte sua fosse stata salvamento di tutto il villaggio. Un Francese, maravigliato di quel tanto soffrire, domandava: — Ma quando siete feriti, come fate voi senza medici, senza spedali? — Moriamo». Un ferito a morte scrive al Paoli: — Generale, vi saluto. Vi raccomando il mio vecchio padre. Fra due ore sarò con le anime di quelli che morirono per la patria».

Preti e frati incoraggiavano a difender la patria, unendo fede e coraggio, amor di patria e religione, sopra i gemiti della battaglia ergendo l’inno della speranza, e servendo da scrivani, da ambasciadori, da pagatori. Il generale dei Francesi ne fece impiccare diversi, e due zoccolanti con l’abito, e un pievano tra due contadini. Mentre i Côrsi venivano a rendere l’armi al Maillebois, un colonnello francese lanciò ingiurie alla nazione e ad un frate, il quale d’un’archibugiata lo stese morto. Condotto sull’atto a impiccare, intuona il Tedeum, e lo continua sin all’ultima stretta del carnefice.

I morti per la patria erano commemorati la domenica alla messa. I vecchi, le donne, incitavano al valore; una chiedendo d’esser introdotta al Paoli, diceva: — Lasciatemi passare; io ho perduto tre figli»; un’altra gli disse: — Mio figlio è morto in guerra; me ne resta un altro, e feci sessanta miglia per venire ad offrirvelo [397] per la patria». Paoli attonito la abbracciò, e diceva: — Non mi sentii mai tanto piccolo come davanti a questa magnanima». Fra le donne non va dimenticata la monaca Rivarola, che dell’amico Paoli divideva e alleviava le cure e gli stenti; e scrivendogli dimenticava il sesso per occuparsi solo di politica e d’affari.

E più volte furono vinti i generali francesi, che non aborrivano dal ricorrere al tradimento e all’assassinio, e che erano sempre costretti a giustificarsi presso il loro Governo d’essersi lasciati sconfiggere da gente che combattea contro le regole. In Inghilterra il popolo facea meeting e soscrizioni a vantaggio de’ Côrsi, i quali prometteansi appoggi da quel Governo costituzionale, e nemico di Francia: ma prevalse la paura della democrazia, e Pitt fece proibire ogni soccorso ai ribelli. Perocchè quei regnanti che compravano soldati tedeschi o svizzeri senz’affetto di patria nè religion di bandiera, per ammazzare chi essi designassero, intitolavano assassini e briganti questi Côrsi, che colla fida carabina e con polvere e palle nel panciotto, s’attestavano tra le foreste, esercitando la guerra di bande. Sino i filosofi, ridenti dell’entusiasmo, cambiavano il ringhio beffardo in applausi a quegli eroi; e Voltaire ebbe a dire che l’amor di patria, istinto naturale in tutti, in essi era fatto dover sacro e furore[179].

Molte migliaja di soldati, trenta milioni di lire costò alla Francia la campagna, ove l’eroismo e la disciplina [398] combattevano colla disperazione e colla perfetta conoscenza de’ posti. Il ministro Choiseul, ostinatosi a riuscire raddoppiò gli sforzi; e gl’isolani, dopo la rotta di Pontenovo (1789 maggio), e i tradimenti moltiplicatisi, e le corruzioni introdotte dal profuso oro francese, disperati delle promesse inglesi, disperarono, e Paoli co’ suoi uscì dall’isola.

Federico di Prussia chiamava Paoli il primo capitano d’Europa; e tal fu, se merito si riponga nel risparmiar le vite, nel far valere i pochi mezzi, nell’accomodar l’arte ai luoghi, nel superare enormi difficoltà, nel cogliere ogni vantaggio che porga il nemico: egli avea fatto di più, dando governo agli sfrenati, concordia agli odiantisi, ai liberi abnegazione, operosità agl’inerti, forza a un dominio nuovo, prudenza alle passioni proprie e alle altrui, importanza europea a un isolotto; tramutato le fazioni in nazione; saputo comandare con rispetto, amar la patria con severità, convertir l’onore della vendetta in marchio d’infamia.

Sottrattosi a fatica entro una cassa, in Inghilterra fu onorato e festeggiato; e di là scriveva a tutte le potenze le ragioni sue e della patria, e riceveane quelle assicurazioni, di cui sogliono largheggiare coi fuorusciti quei che sperano cavarne pro. Ricusava una pensione di cinquantamila lire dalla Francia monarchica; poi ben presto davanti alla Francia repubblicana fu obbligato a giustificarsi di particolarismo, cioè di volere l’indipendenza del piccol suo paese; e moriva povero e dimenticato quando satollavansi di dignità e d’oro i Napoleonidi, suoi compatrioti e avversarj.

[399]

I Còrsi, che non sapeano rassegnarsi al giogo, mutaronsi in masnadieri, fra cui l’intrepido prete Domenico Leca[180]: e per vent’anni tolsero ogni sicurezza a quel possesso, che non poteva esser tenuto sulle prime se non coi rigori marziali, squartando chiunque fosse trovato con armi, punendo chiunque ricordasse il passato. Con diecimila vite e con ottanta milioni la Francia ebbe acquistata un’isola di nessun prodotto, ma supremamente importante alla sicurezza delle coste di Provenza ed al commercio nel Mediterraneo. I nobili lasciavansi pigliare alle blandizie; i popolani scrissero:

Gallia vicisti profuso turpiter auro;

Armis pauca, dolo plurima, jure nihil.

Scoppiata poi la rivoluzione francese, l’Assemblea nazionale (1789 30 9bre), per proposizione del côrso Saliceti, decretò la Corsica formar parte della Francia; i Côrsi banditi per averla difesa potessero rientrare, colla pienezza dei diritti di cittadini francesi.

Narrati questi eventi, il Pommereuil conchiudeva con questa singolare profezia: — Se è vera l’osservazione che dal seno delle discordie civili nascono gli uomini grandi, dobbiamo aspettarci da quest’isola genj possenti, e grandi conduttori d’eserciti, giacchè le calamità devono avervi fecondato il germe della gloria»[181].

[400]

CAPITOLO CLXX. Venezia.

Colla pace di Passarowitz Venezia era stata spogliata della Morea, e ridotta qual rimase fino alla sua caduta. Possedeva il dogado, cioè le isole e i contorni delle lagune; le provincie di terraferma, cioè Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Crema, il Polesine di Rovigo, e la Marca Trevisana che comprendea Feltre, Belluno, il Cadore; al nord del suo golfo il Friuli; a levante l’Istria[182] e la Dalmazia colle isole dipendenti; nell’Albania il territorio di Cattaro, Butrinto, Parga, Prevesa, Vonizza; nel mare Jonio le isole di Corfù e Paxo, Santa Maura, Cefalonia, Teak, Zante, Assò, le Strofadi e Cerigo.

Nel 1722 le anagrafi davano allo Stato quattro milioni e mezzo di anime, la rendita pubblica di sei milioni [401] di ducati[183], e il debito di ventotto milioni. La sovranità spettava al granconsiglio, che componendosi di tutti i patrizj maggiori di venticinque anni, talora salì a mille ducento membri: ducento bastavano per le decisioni ordinarie, ottocento voleansi per le più rilevanti, onde togliere la possibilità di concerti e d’ámbito. Del doge sempre più restringeasi il potere: due pagine erano bastate alla promission ducale di Enrico Dandolo, alle quali aggiungendosi via via sempre maggiori restrizioni, fin pel caso che alcun bisogno l’obbligasse a levarsi dal consiglio[184], ne risultò un grosso volume, [402] com’era quella proposta all’ultimo doge. Tanti riguardi costringevano il principe all’isolamento.

Il governare apparteneva al senato, annualmente eletto dal granconsiglio, e portato a cenventi membri, oltre i magistrati patrizj finchè duravano in carica; l’esecuzione affidavasi alla Signoria, collegio formato dal doge, da sei consiglieri, tre capi della Quarantìa, sedici savj; la giustizia, a quattro tribunali elettivi, tre dei quali componeano la Quarantìa civile, ed uno la criminale, di cui i presidenti sedevano nella Signoria e i membri nel senato. Il ministero pubblico presso queste era sostenuto dagli avogadori. Il consiglio dei Dieci, annuale, esercitava l’alta polizia, e sceglieva dal proprio seno due inquisitori neri e dalla Signoria un rosso, che questo per otto mesi, quelli per un anno, costituivano l’Inquisizione di Stato. Gli esecutori contro le bestemmie vigilavano sulle superstizioni, le stregherie, le rappresentazioni sceniche, proibendo quelle di soggetto sacro. I procuratori di San Marco, prima dignità dopo il doge, gratuiti, e dispensati da ogni altro uffizio se non fosse d’ambascerie a teste coronate, tutelavano la basilica, i poveri, i pupilli, le pie istituzioni e le ultime volontà.

Questi erano a vita come il doge: tutte le altre magistrature erano a tempo, e tante, che il granconsiglio faceva sin nove elezioni per settimana, oltre quelle competenti al senato. I podestà di Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Belluno, il luogotenente d’Udine, il provveditor generale di Dalmazia, gli ambasciadori a Roma, Madrid, Vienna, Parigi, il nobile a Pietroburgo aveano tenuissime provviste e arbitrarie [403] gratificazioni, ma se ne faceano scala al baliato di Costantinopoli, che fruttava copiosamente per ricche eventualità, senz’aggravio della repubblica: anche tutte le magistrature portavano tenuissimi stipendj, ma i patrizj le sostenevano senza sparagno per decoro della patria e proprio.

Tra le famiglie nobili veruna distinzione, nè tampoco di primogenitura; non titoli, non abito diverso: pure alcune si assicurarono i posti migliori, e una clientela fra’ patrizj poveri, col che diedero scacco al maggior consiglio deliberante, e trassero al senato la nomina, o almeno la presentazione alle cariche principali; poi dal senato stesso revocarono ogni cosa al collegio, e infine agli inquisitori. Di tal passo un tribunale divenne il governo, mercè di quel suo potere senza limiti nè appello.

Per conservare l’oligarchia si teneva chiuso il libro d’oro, mentre nobili nuovi l’avrebbero arricchita d’altre capacità, di giovinezza operosa e d’idee più franche. Nel 1775 fu riaperto per vent’anni a famiglie anche di terraferma che godessero un’entrata di diecimila ducati e nobiltà di quattro generazioni: ma sei sole concorsero, nè col diploma si dà la tradizione dell’amor patrio e della grandigia. Gli esclusi della nobiltà costituirono un terzo stato di cittadini originarj: il popolo stesso si divise in cittadini e plebe, alla quale non erano permesse che certe professioni e il traffico interno. Ogni sestiere della città avea privilegi e amministrazione propria, e così ciascun’arte, con capi e con distinte giurisdizioni di maggior o minore ampiezza; viluppo che inaspa gli occhi al secol nostro, avvezzo come i pupilli a lasciar far tutto dal babbo.

Come in tutte le oligarchie, frequentavano gli abusi e le malversazioni sull’esercito e nelle finanze: vivissimo il broglio, dove i nobili ricchi accarezzavano i [404] nobili poveri per ottenerne i voti, e questi i ricchi per averne impieghi, protezione, pranzi. Le donne costituivansi mediatrici di questo traffico de’ voti, degl’impieghi, della giustizia; nella quale i cancellieri potevano implicar gl’innocenti e dimettere i rei; che talvolta anche furono sottratti dalle prigioni, come avvenne a Galeano Lechi, nel 1785 lasciato fuggire dai piombi col pagare ventimila ducati agl’inquisitori.

Ne’ possessi oltremare peggiore il disordine; gl’impiegati estorcevano denaro e vendevano la giustizia, intanto che malversavano gli assegni fatti dalla repubblica per mantenere le fortezze e i porti. Severissima legge interdiceva ai nobili e ai loro dipendenti ogni relazione coi residenti di potenze straniere nè colle loro famiglie, talchè se uno dava una festa donde volesse escludere i non invitati, metteva alla porta un servo colla livrea d’ambasciadore forestiero. A pochi si permetteva il viaggiare, onde i costumi serbavano l’originalità.

Adunque concentravasi lo Stato nella città, la città in poche famiglie, ed unica forza pareva la debolezza degli obbedienti. La politica esteriore più non badava a Venezia che come a una preda agognata; il Turco le lasciava pace, salvo a correre qualche volta sopra le sue navi; i Barbareschi non erano repressi che da un tributo. La prudenza vantata di que’ senatori si limitava a conservarsi neutri fra le potenze belligeranti in Italia, in modo di non interrompere il commercio con esse, di non veder ribellate le serve provincie, di non aggravare i sudditi, e di non palesare la propria fiacchezza: ma questo aborrimento dalla guerra facea rassegnati ad ingiustizie, violenze, soprusi. Avendo l’ambasciador veneto sottoscritto per ignoranza alcune cambiali false d’un mercante a carico d’un Olandese, ne derivò caloroso carteggio, poi minaccia di guerra dall’Olanda, che viepiù imbaldanziva perchè Venezia non poteva armare [405] più di otto vascelli: fortunatamente si finì con un accordo.

Alla briga della successione spagnuola non prese parte Venezia, eppure si trovò costretta a mantener in armi ventiquattromila soldati; grave jattura quando appena usciva dalla guerra turca, e senza di lei fu sbocconcellata l’Italia. Le potenze violarono il suo territorio qualvolta ne trovarono il conto: la fiera di Sinigaglia istituita dai papi e presto divenuta primaria, faceva dannosissima concorrenza alla veneziana: navi inglesi e austriache baldanzeggiavano nel golfo ch’esso chiamava suo, e l’imperatore aperse a Trieste un porto franco, con fortificazioni ed arsenale, in onta dell’antica regina dell’Adriatico. Logorato il cassone dove riservavasi un fondo pei gravi bisogni, il debito crebbe fin a ducento milioni, e si dovette ricorrere per prestiti anche a forestieri, malgrado il divieto della legge.

Il commercio serbava appena ombra dell’antica floridezza[185], ritraeva anzi una specie d’infamia dall’esser interdetto ai nobili; al che si volle riparare nel 1784, animando i signori alle speculazioni. Ma il credito, che n’è anima, deperiva: il bancogiro parve vicino a rompere, ed emettere cedole invece di contanti: nella guerra per la libertà d’America, allegando che i Veneziani fossero alleati coll’Inghilterra, gli Spagnuoli e i Francesi assalivano le navi di San Marco, per modo che l’assicurazione montò fin al cinquanta per cento, e le botteghe in città diminuivano.

Cessato di guadagnare, sprecavansi i guadagni fatti, [406] all’amor delle ricchezze surrogandosi la cupidigia di goderle, all’amor del lavoro la pretensione d’ozj fastosi, e quel vivere molle e pacato, che parve l’aspirazione del secolo scorso, onde rimase tradizione proverbiale della voluttuosa suntuosità de’ patrizj. Da Mestre fin a Treviso la bella via detta il Terraglio era sparsa di ville signorili; tra una continuità di queste serpeggiava il Brenta, dove primeggiavano quella de’ Foscarini alla Malcontenta, architettata da Palladio, dipinta da Paolo Veronese e dallo Zelotti, quella dei Pesaro alla Mira, ove il Tiepolo avea storiato il ricevimento ivi fatto a Enrico III di Francia; e l’altra a Stra, disegnata dal Frigimelica, dipinta da Fabio Canale, da Jacopo Guarana, dal Tiepolo, con magnifiche balaustrate di Giuseppe Cesa e Pietro Danieletti padovani, e stanze guarnite di rarità cinesi, turche, persiane, e quadri e statue, con camere distinte per la musica, pel giuoco, per lo studio, per la pittura; in quella d’Angelo Quirini ad Altichiero abbondava ogni sorta d’anticaglie e di preziosità raccolte ne’ suoi viaggi, illustrate dal Zoega, dal Morelli, dalla Rosenberg.

E tutti faceano gara nelle fabbriche, ne’ numerosi cavalli, nel lauto spendio, non limitato qui dalle leggi suntuarie della città; traevansi dietro una folla di parasiti, che venduta l’anima e lo spirito per lauti bocconi, ricambiavanli con celie continue e inesauribili aneddoti, a scapito dell’onestà e della carità. Intanto l’asse domestico abbandonavasi ad agenti scaltriti, che sapeano deviare alla borsa propria i denari del padrone; l’educazione dei figli ad abatuccoli, che gli allevavano a credere l’onnipotenza del denaro e il delitto della povertà.

Nella dominante la corruttela trovava fomento dalle seduzioni della gondola e della maschera. La maschera, cioè tabarro o bauta, cappello a due punte e mezzo [407] viso nero, permetteasi dal 5 ottobre al 16 dicembre, poi da santo Stefano fin a tutto il carnevale, oltre il giorno di san Marco, la quindena della fiera dell’Ascensione, alla creazione del doge e ai solenni suoi banchetti, e in altre feste straordinarie e venute di principi. Allora il patrizio potea deporre la toga e la parrucca, e colla maschera al viso o nel cappello girare pertutto, e sin favellare coi ministri esteri in piazza, ne’ casini, al teatro. I monasteri di donne ricche e nobili erano convegno di brogli, di spassi, d’amori[186]; ne’ parlatorj atteggiavano pantaloni e pagliacci, o ballavansi minuetti signorili e popolari furlane; e i forestieri, compratori del nostro disonore, voleano acuire l’appetito colla difficoltà, seducendo monache, in cui vece è vero che talora trovavansi offerte dai mezzani pubbliche baldracche. Dietro le procuratìe teneansi appartamentini messi con ogni squisito lusso, ove i patrizj, disertati dalle famiglie, ritiravansi giorni e settimane come nell’isola d’Armida, fra tutti i solletichi del lusso e i fascini meretricj: e delle avventure, non che celarle, faceasi pompa, e d’aver a braccio la mantenuta, e suscitare clamorose gelosie. Ne derivavano conseguenze funeste, e dal 1782 al 96 si sporsero al consiglio dei Dieci ducensessantaquattro petizioni per scioglimento di matrimonj, ed ebbero corso.

Coll’immoralità forse intendeasi sviare le menti dalle cose pubbliche[187]; proposito ancor più micidiale ove [408] da altri interessi non sieno elevati gli animi. Il cupo genio di quel tribunale dei Dieci, che incuteva spavento ai forestieri e che porse tanti foschi colori ai romanzanti de’ nostri giorni, riducevasi ad un abjetto spionaggio che impediva lo sviluppo dell’energia morale, a dare qualche specie di regola al mal costume. Una volta esso sbandì, ma tosto dovette richiamare le nostre benemerite meretrici, perocchè le costoro case o il parlatorio de’ chiostri erano i soli campi franchi dove non davasi ombra al Governo, perchè vi manteneva spie.

Palestra d’immoralità era il ridotto, ove a sessanta o settanta tavolieri il giuoco frenetico spostava le fortune: il presederli era privilegio de’ nobili, che stipendiati dalle compagnie, stavanvi in parrucca e toga da magistrato, mentre tutti gli altri portavano la maschera; e ambasciadori e ministri venivano a cercarvi le alternative d’opime illusioni e d’angoscie disperanti. Vi accorreano i bari di tutto il mondo per truffare: molti non viveano che di quella professione: sbanditi, cambiavano paese e nome, e proseguivano e tornavano, usufruttando le stolide speranze. Quando nel 1774 i correttori della promission ducale fecero chiudere il ridotto «come sorgente perniciosa di mali alla repubblica e allo Stato», i giocatori sparsero quella contaminazione in centinaja di privati casini, più rovinosi perchè non più sorvegliati.

Anche Verona ebbe un famoso casino, al quale essendo comparse nel 1773 alcune dame col guardinfante men voluminoso del consueto, se ne prese scandalo, tutta la città ne andò partita in pro e contro, e gli spiriti [409] s’infervorarono a tal punto, che per lasciar tempo di calmarli fu chiuso il casino. Non bastò, l’affare fu portato alla suprema magistratura della repubblica, e Giuseppe Torelli buon letterato ne scrisse gravi apologie.

L’eccesso spinse un tratto a provvedimenti eccessivi, si chiusero i caffè, si moltiplicarono ordini suntuarj, s’interdissero i libri empj: ma la moda ruppe quegli argini; riaprironsi le botteghe, alle feste si sfoggiò un lusso mai più veduto, i teatri superarono in magnificenza quelli di tutto il mondo.

Continuavano le solite feste e per le commemorazioni nazionali, e per le frequenti nomine di magistrati[188], e per venute di principi. E poichè si suole far segnalatissime feste agli idoli che stanno per andar a pezzi, memorerò le splendide accoglienze fatte in tutto lo Stato a Pio VI nel suo pellegrinaggio a Vienna; e molte iscrizioni ricordano anc’oggi i luoghi dove stette o celebrò e la benedizione che diede sull’allora ampliata piazza di San Giovanni e Paolo[189]. Vero è che il papa stesso ebbe a dire di scorgervi più curiosità che devozione; e gl’inquisitori di Stato disapprovarono le prostrazioni del doge Renier, e l’ammonirono che in altra simil evenienza tenesse modi convenienti alla dignità conferitagli dal granconsiglio. Quelle gelosie non saranno occorse nelle altre feste di cui furono onorati Federico IV di Danimarca, Gustavo di Svezia, Pietro czar, Giuseppe II.

Gran segno di depravato costume è l’esser potuto vivere a Venezia quel Casanova, che poi di sue avventure contaminò il resto d’Europa, e continua a farlo [410] nelle impudenti sue Memorie; e l’avervi trionfato il Baffo, che, nel patrio dialetto affrontando le frasi tecniche del bordello, col brago della lascivia deturpò la devozione, l’onore, la virtù, piantando i simboli osceni nel parlatorio e sugli altari, incoraggiando gl’intrighi amorosi e il giuoco, gridando viva il vizio, negando Dio per surrogare al culto suo «la santa semplicità dell’oro». Eppur visse fra la gente d’onore, ottenendo quel rispetto che sovente è ispirato dalla paura.

Il popolo restava abbandonato all’ignoranza, alla depravazione de’ forestieri, all’esempio de’ signori. Lettura consueta de’ buoni era il Perfetto leggendario, zuppo di baje: certe cartine portanti una preghiera all’Immacolata Concetta davansi da inghiottire a malati e perfino a bestie, e ne conseguivano guarigioni[190]: la religione faceasi consistere nelle grandi feste, nelle processioni sfarzose con lanternoni e baldacchini d’oro e mascherate d’angeli e santi. Sulla terraferma un umore bravo e manesco faceva frequenti le risse e gli omicidj; e gl’illustrissimi si vendicavano dell’inferiorità loro coll’esercitarvi una prepotenza di cui i plebei si rifaceano nella ristretta loro cerchia.

Vedemmo (Cap. CLXVII) come la Signoria secondasse l’andazzo col mozzare l’autorità ecclesiastica: allora parve non bastasse per la revisione dei libri il solo inquisitore, e gli fu accompagnato, per conto della Signoria, don Natale delle Laste, lodato erudito e censore condiscendente, al quale rifuggiva chiunque incontrasse altrove difficoltà. Poi fu vietato nel 1767 di vestire alcun nuovo frate o di tramutarlo da un convento all’altro senza assenso del magistrato; obbligo alle religiose comunità di denunziare con giuramento i beni, [411] le rendite, fin le limosine che riceveano; dipendessero dal vescovo per lo spirituale, dal Governo pel temporale, non più da Roma: soppressi molti conventi[191]; vietato ai secolari di disporre de’ beni a vantaggio di comunità religiose. La beneficenza prese dunque altre vie, e la sola confraternita dei poveri vergognosi di Sant’Antonino somministrava medicinali a tutti i bisognosi della città.

Chiudere i monasteri e riaprir le bische e i lupanari non parve la più liberale procedura ad alcuni[192], e il Labia torse la poesia vernacola dal fomentare, com’è consueta, le vulgari passioni e i malevoli istinti, e — Se un poeta che cantò solo per iscandolezzare coll’oscenità e l’irreligione, era lodato da tutti, e nessuno zittì contro di lui, perchè tutti gridano contro di me, mosso da patria, religione e Dio?» Poi quando vedeva i padri della patria gravemente occuparsi, come i re, di vessare monaci o emanar regolamenti sulle messe e sulle fraterie, — Eh via (diceva), prendete piuttosto cura di questa libertà, di questo lusso, delle truppe, dell’arsenale, della mercanzia, così abbandonate. Una volta si era ricchi, con palazzi e botteghe piene; ora ciò sparve, ma ci vantiamo d’essere guariti dai pregiudizj. Questi spiriti forti dichiarano corbellerie i miracoli e birberie di frati; e che basta creder in Dio, se pure, giacchè neppur lui abbiam visto: così la pensano, e poi vogliono sostener l’onore della moglie e della madre, incerti dei figli e del padre. Vero cittadino repubblicano son io, che solo la mia patria ho in vista; [412] e come tale vi provo che in politica non si dà di peggio che scemar la fede nel popolo. Provvedere alle pompe, chiudere i caffè, altre correzioni particolari sono follie, mentre si vorrebbe eleggere buoni magistrati che non dirazzassero dai primieri: impedire questa depravazione delle donne, impedire l’infezione dei libri». E compose un’arringa in versi al senato per mostrare che coteste abolizioni di frati repugnavano alla ragion di Stato, alle leggi costituzionali, alle arti e al commercio.

Pensate se le procuratìe e il ridotto fecero scene contro il retrivo, il bigotto![193]

[413]

Che se in lui, nel Goldoni, nel Gozzi, nei gustosi dipinti del Longhi, nel Pino, nel Bona, ci sembrano mascherate e sogni quel lusso mal temperato da leggi suntuarie, que’ mucchi d’oro messi al repentaglio d’una carta, se in costoro e in simili studiassimo i costumi d’allora, troppo facile ci riuscirebbe metter in beffa que’ popolani, che si divideano in fazioni non solo per Nicolotti e Castellani, ma pei varj candidati a beccamorto; che dovendo partire anche per un solo giorno, faceano addio di qua, addio di là; che all’udir una fucilata scappavano come i colombi. Chi vede anch’oggi esprimersi le stesse meschinità degl’istinti in iscene che non palesano tampoco bontà di cuore, sentesi inclinato a compatire, e a piuttosto rimpiangere quelle giornate di Venezia, ove il popolo intero e moltissimi forestieri in begli abiti e in bauta passeggiavano sotto le procuratìe o scivolavano in gondola, chiacchierando, celiando, pizzicando ciliegie, uva, fichi, gustando un’infinita varietà di zuccherini e canditi, e di sorbetti e gelati, o l’indispensabile vin di Cipro e il prelibato caffè di levante; mentre la poveraglia dilettavasi ai poponi, ai cocomeri, alle zucche barucche, ai frutti di mare; e i giovani solazieri cercavano rinomanza di eccellenti al vogare, al lanciar il pallone, ad abbattere tori; e i cortesan [414] pompeggiavano[194]; e tutto ciò fra un’incessante armonia di violini e ghitarre, e i lazzi d’un pantalone e d’un arlecchino, o l’improvvisare d’un poeta, o il cantare Rinaldo ed Erminia; spensierati sul domani, che sarebbe lieto non meno dell’oggi. E grandemente amavasi il cantare; «cantano i mercanti spacciando le loro mercatanzie; cantano gli operaj abbandonando il lavoro; cantano i barcajuoli aspettando i loro padroni: il fondo del carattere nella nazione è l’allegria; il fondo del linguaggio veneto è la lepidezza»[195].

Non v’era quel progresso ch’è laboriosa missione dell’uomo quaggiù: pure quasi sono fiori sbocciati fra i bronchi della vita; e non ci basta il cuore d’aborrirli quando li troviamo surrogati da un sistematico fremere, e indignarsi e deplorare i tempi, e riprovare il Governo qualunque sia, e piangere i figli rapiti dalla coscrizione, le sostanze decimate dalle imposte, la gioja compressa dalla Polizia.

Quello sfarzo de’ patrizj, circondati da stuoli di servi e cameriere, con ville pompose come reggie, gavazzanti di compagnia e di banchetti; e i teatri divenuti materia di diplomazia, e il frenetico giuoco, e il lusso de’ cavalli e de’ vestiti, e le donne sfavillanti di gemme e di spirito quanto scarse d’educazione e di condotta; e le caccie fragorose, e il ligio abate e le cameriere civette, e i gondolieri mezzani, e i cortigiani bravacci, e i servigevoli parrucchieri, disdicono a un gran popolo, ma non bastano a farlo perire. Perì forse l’Inghilterra, che pur era la maestra di quelle e peggiori depravazioni? [415] Nè gli altri paesi d’Italia valeano nulla di meglio; se non che Venezia spiccava di più per le gloriose tradizioni, ed ebbe scrittori che ne tramandarono ai posteri, come le glorie, così lo scadimento.

La nobiltà provinciale, improvvidamente esclusa da ogni partecipazione alla sovranità della dominante, aborriva quel Governo perchè l’invidiava; ma la plebe, in nullità così spregiata da soffrire che i nobili sputassero sulla platea dai privilegiati palchetti, mostrava sempre e riverenza e affetto ai patrizj, cui il costume cercava avvicinarli con varie gradazioni di patronato. Talvolta fin cencinquanta compari assisteano al battesimo de’ patrizj, e sempre doveano essere plebei; pena l’esiglio al sacerdote che ne tollerasse uno patrizio: fin coloro che portassero lo stesso nome (senso) riguardavansi in qualche modo imparentati. Rispettosa fin alla bassezza, la plebe sfuggiva d’urtare in questi, più fastosi che soperchiatori, alle cui spalle viveva allegra, senza gloria ma senza bisogni, piuttosto spensante che rassegnata. Quando Paolo di Russia e sua moglie godettero lo spettacolo della caccia del toro in piazza San Marco, stupirono al vedere tra gente affollatissima bastare a tener l’ordine quattro fanti degl’Inquisitori colla loro bacchetta nera.

Nel 1783 s’una popolazione di tre milioni e mezzo le entrate non eccedevano sei milioni e settecentomila ducati, e le spese sei milioni e seicentoventicinque mila, con un debito di quarantaquattro milioni. Questa tenuità dell’imposta obbligava nei bisogni a far prestiti o aggiungerne di straordinarie, le quali mal ideate o mal percette, rendeano scarsamente, e così esponeano la Repubblica a soccombere a paesi, dove nell’esigere non s’avea rispetto a necessità de’ sudditi e in tempi in cui non si trattava di far felici i paesi ma di farli forti.

Noi veneriamo la libertà dovunque un lampo ce [416] n’appaja, e comprendiamo donde traggano gli astj coloro che, talvolta in senso opposto, piaccionsi a calunniare Venezia o insultarla; ma inverte l’ordine della libertà chi la fa protettrice del monopolio, de’ privilegj di pochi sovra la moltitudine. È obbligo d’un Governo sviluppare gli elementi vivificanti della società, e reprimere i deleterici. Or Venezia aveva per assioma, — Di Dio si parli poco, della serenissima nè ben nè male».

Intelligenza unita al cuore forma l’eroismo, e per questo Venezia era ingrandita, della cui storia il tratto più caratteristico può dirsi l’amor di patria, che splende in ogni colpo di pennello e di scalpello, in ogni libro, in ogni festa, ne’ grandiosi sagrifizj per lo Stato, nel gratuito servirla. Or esso soccombeva al morbo del secolo, il razionalismo, che spegneva tutti gli entusiasmi, e sostituiva idee e costumanze forestiere col titolo di filantropia, d’universale cittadinanza. Ed ecco agli abiti caratteristici sottentrare quelli alla Montgolfier, alla Figaro, al globo di Roberto, e cappellini alla Basilio, alla vedova di Malabar, e i Caracos; gli uomini vestir all’inglese; leggersi gli Enciclopedisti, più pericolosi ove non porgeasi educazione bastante per confutarne il dubbio epigrammatico o la miscredenza; gli stessi preti talvolta dal pulpito o li lodavano o gl’imitavano.

Poi si vollero aver qui pure, altra imitazione forestiera, le loggie massoniche. Pare ve le impiantasse un Sessa napoletano; e v’erano affigliati conti, abati, negozianti, massime gioventù, che da quella consorteria trovavasi giovata nel viaggiare in paesi forestieri, e dalla conoscenza delle straniere attingeva lo sprezzo delle patrie istituzioni. Quegli oculatissimi Inquisitori non ne vennero a conoscenza che pel caso, dicesi, d’un Girolamo Zulian che dimenticò in gondola un rotolo di carte massoniche, il quale fu portato all’Inquisitore di Stato. [417] Subito invasa la loggia presso San Simon Grande, se ne asporta quel mistico e burlesco corredo di teschi, di pentagoni, di seste, di tamburi, di cazzuole, di grembiuli, e son bruciati al cospetto del popolo, che li crede stregherie: vengono proibite anche le loggie aperte a Vicenza e Padova, cui erano aggregati il Carburi, il Festari ed altri professori; ma non s’inflisse castigo agli aggregati, potenti troppo e numerosi; e ben presto nuove congreghe furono surrogate.

Le idee dell’universale egualità ivi professate doveano rendere esoso un Governo fondato sul privilegio d’una classe; e principalmente arridevano ai nobili poveri, classe pericolosissima in libero Stato, e che dalla chiesa di San Barnaba intorno a cui abitavano, erano intitolati Barnaboti, discendenti dai cadetti delle famiglie principali e da quelle aggregate in occasione della guerra di Chioggia. Brogliar voti per le magistrature, sollecitare ne’ processi, scroccare strisciando avanti ai ricchi, sbraveggiare sopra i poveri, biscazzare, erano le occupazioni di costoro, le cui donne fra’ loro privilegi contavano quello di poter mendicare in zendado. Carichi di debiti e di superbia, insultavano ai creditori come a villani, e li costringevano a lunghi processi, donde sguizzavano all’appoggio d’altri nobili.

Chi dicesse a cotesti che era un’ingiustizia il non equipararli agli altri nobili, che aveano diritto naturale a tutti gl’impieghi e gli onori, trovava facile ascolto e pronto fermento, siccome chi oggi vanta al povero il diritto di aver lavoro o di dividere le ricchezze col capitalista. Pertanto costoro ordirono di sovvertire la Repubblica, uccidere il doge Paolo Renier, la Signoria e gli affezionati al Governo, per surrogarvi Barnaboti. Si disse quel che si dice sempre, cioè che avessero intesa coll’imperatore, ch’egli darebbe diecimila soldati, ed essi gli cederebbero la Dalmazia. Gl’Inquisitori di Stato [418] scopersero dove Giorgio Pisani teneva il piano della congiura, e un pitocco potè carpirglielo senza ch’egli se ne avvedesse. Il Pisani si presenta candidato alla dignità di procuratore di San Marco; e riuscito per appoggio dei Barnaboti, fa la solenne entrata, ma al domani è arrestato e chiuso in fortezza, e così Carlo Contarini, Pier Alvise Diedo, Matteo Dandolo; e la plebe si rallegra di non essere caduta in man de’ nobili poveri, che ai vizj degli altri avrebbero unito l’avidità stimolata dal lungo digiuno.

Primeggiava tra’ Franchimuratori Angelo Quirini, che ne’ viaggi avea conosciuto i filosofisti svizzeri e francesi, riverito a Ferney Voltaire, a Colmar Corrado Pfeffel, loro patriarchi. Molto egli aveva studiato i libri del granconsiglio e la legislazione arcana, e divenuto avogador del Comune[196] (1761) a concorrenza con Giovanni Donà, usò ogni prova per mozzare la potenza dei Dieci. Ma gl’Inquisitori lo fanno arrestare e tradurre in terraferma. Si esclamò alla minacciata libertà, e siccome soleasi alla morte del doge e ne’ casi più urgenti, si adunarono cinque correttori delle leggi, magistrato temporario che proponeva riforme al maggior consiglio, il quale ne risolveva prima di nominare il principe.

Quello spaventoso tribunale dei Dieci poteva essere distrutto da un momento all’altro, bastando non dar a nessuno voti sufficienti per entrarvi; e così avvenne allora in ben quattro votazioni, sicchè pareva cassato. Alcuni però de’ correttori dissentivano; e Marco Foscarini, insigne per letteratura e ambascerie, e per la franchezza d’un discorso dove avea patrocinato la Dalmazia contro lo sciagurato governo che se ne faceva, disse [419] davanti al maggior consiglio un’arringa, ch’è delle più eloquenti fra le politiche, mostrando esagerato il concetto della fierezza di quel tribunale; giovar le denunzie secrete, altrimenti per paura non si farebbero; mentre l’oscurità de’ giudizj pareggia ogni esterna accidentale differenza della nobiltà veneta, e anche i patrizj più altamente locati sottopone all’egual giustizia. Ogni cambiamento nel governo tendere alla distruzione di questo; le soddisfazioni concesse all’imperita moltitudine aprir la via a nuove pretensioni; e ne sarebbe avvilita in faccia ai principi l’opinione del governo, e minacciata la città di corruttele, ch’erano sconosciute ai maggiori[197].

[420]

La proposizione per allora venne messa da banda, fra immensi applausi del maggior consiglio e della popolaglia che volea bruciar le case dello Zeno e del Malipiero oppositori, mentre faceva falò a quella del Foscarini: ma nel 1779 fu riprodotta ad istanza di Domenico Contarini, barnaboto che coll’avvocheria s’era acquistato denaro e nome. Egli tratteggiò al vivo la [421] corruzione de’ costumi, il caro de’ viveri, gli abusi degli uffiziali, che carchi di miseria e di fame, non servono e mangiano; e scarsamente provvisti, pure vivono da gran signori.

Molti anni si protrasse il dibattimento, e ne provennero scissure. Paolo Renier, essendo bailo a Costantinopoli, speculò sì opportunamente, da guadagnare novantamila zecchini, coi quali comprò i voti degli elettori e gli applausi del vulgo per ottenere il corno ducale. Forse le sono dicerie di partito; il fatto sta che, salito doge, si oppose di tutta forza ai novatori coi quali avea intrigato nel 1762, e diceva: — Le eccellenze vostre vogliono il ben apparente o il ben reale? Se il reale, non v’è bisogno di correzione: basta che lo vogliano e l’hanno. Il loro ben reale è di curar la Repubblica, è la concordia degli animi, è il sospirar tutti d’accordo al decoro, alla grandezza, alla gloria della nostra patria... Noi che abbiamo servito e dentro e fuori, sappiamo come pensano i monarchi, e avvertiamo le vostre eccellenze a pensare seriamente. I monarchi, per la loro organizzazione, per la differenza del lor governo, per la grandezza loro, per le speranze, per la soggezione dei loro sudditi, odiano mortalmente tutte le repubbliche, e quest’odio è radicato fin dai secoli più lontani in tutta l’Europa, e lo dice perfin Cicerone parlando del popolo romano; oggi poi tutti i monarchi, muniti di somme forze, hanno coperto di vilipendio le repubbliche, ormai ridotte pochissime in Europa. Le eccellenze vostre fortunatamente per la felice situazione del loro Stato sono sicure pel sito, ma non lo sono già pel dominio. Oggidì tutti i monarchi stanno oculati sulla Repubblica; tutta l’Europa aspetta di vedere lo sviluppo di nuove cose, per cui sono sempre pronti: poichè se l’ambizione e l’interesse sono passioni potenti in noi, sono potentissime ne’ monarchi, attenti sempre [422] a dilatarle, e a non perder occasione di dar loro nuova esca. Da queste nostre presenti combustioni, i sovrani stanno per formare il loro giudizio. Chiamo Dio Signore in testimonio; io mi trovai a Vienna nei tempi torbidi della Polonia, e là ho sentito più volte a ripetere: I signori Polacchi non vogliono aver giudizio, vogliono contender fra loro; l’aggiusteremo noi, ci divideremo la preda, perchè uno Stato che si governa male da sè, chiama gli stranieri a governarlo. Se c’è Stato che abbia bisogno di concordia siamo noi, che non abbiam forze terrestri nè marittime, non alleanze, viviamo a sorte, colla sola idea della prudenza del Governo della Repubblica veneziana. Questa è la nostra forza».

È lode l’aver preveduto i pericoli: ma è troppo vulgare il distoglier dalle riforme col mostrarne le eccedenze; l’impedire che si correggano istituti, colla speranza che si migliorino gli uomini. La proposizione del Contarini, sulle prime sostenuta a gran voci, fu poi abbandonata dai più; si continuò nel letargo vizioso, e la plebe applaudì agli oppositori della riforma, insultò ai promotori, il Contarini fu relegato a Cataro, altri altrove; e i conservatori applaudendo a se stessi, aspettavano dal turbine quelle mutazioni che fatte a tempo lo avrebbero prevenuto.

Pure questo poco che dicemmo basterebbe già a mostrare che Venezia non rimase stazionaria allorchè il progresso avventavasi ad una rapidità disordinata. Nel 1735 fu dichiarata portofranco la città, per imitare ciò che l’Austria avea fatto con Trieste, e il papa con Ancona. Il Goldoni, tornando da’ suoi viaggi, rallegravasi nel veder illuminata Venezia, mentre buje rimanevano le vie delle metropoli da lui visitate. Nel 76 l’architetto Macaruzzi inventò l’edifizio per la fiera, di legno sì ben congegnato che in cinque giorni si piantava, [423] in tre si riponeva. Nel 70 il senato fece raccogliere tutte le leggi di massime di governo, cioè di materia feudale dal 1328 innanzi: vera legge nuova fu il codice per la marina mercantile, che si pubblicò nell’86: il magistrato delle acque radunava pure tutte le ordinanze relative ai porti e alle lagune: le prime leggi organiche sullo scavo delle miniere sono dovute a Venezia (6 marzo 1679 e 18 settembre 1784), e prepararonsi gli statuti civili e criminali, che furono presentati al senato nell’89.

Venezia non era dunque così decrepita, e basti citare la gigantesca opera de’ Murazzi, diga marmorea opposta al mare, ausu romano, ære veneto, dal 1744 all’82[198]. Non che difettasse di lettere, pochi altri paesi la poteano pareggiare. Oltre quelli di fama europea, quali Marco Foscarini, Apostolo Zeno, i due Gozzi, il Goldoni, Benedetto Marcello, Angelo Maria Quirini, vi fiorivano i poeti Ermolao Barbaro, Daniele e Tommaso Farsetti, i Valaresso, la Cornelia Barbaro Gritti, amica di Metastasio, di Goldoni, di Frugoni; suo figlio Francesco che tradusse il Tempio di Gnido e la Pulcella, e fece apologhi in veneziano; il Vitturi e il Chiribiri, che fecero versi troppo lepidi per prete[199]. Angelo Dalmistro, ammiratore del Gozzi, parve emularne il brio e la correzione: Giuseppe Manzoni fu autor di favole che ancora si ristampano: Leonarducci dettò la cantica della Provvidenza in modi danteschi: l’abate [424] Antonio Conti, buon matematico, fece anche tragedie discrete: Zaccaria Valaresso nel Rutzwandscand parodiò l’Ulisse del Lazzarini. Tre fratelli Barbarigo furono tutti frati e buoni letterati. Zaccaria Sceriman fece il Viaggio di Enrico Wanton ai regni delle scimie, e Francesco Gritti La mia storia, opera narcotica del dottore Pifpuf (1767), romanzi ben superiori a quelli del Chiari, come delle migliori memorie del secolo erano quelle di Carlo Gozzi, del Gratarol, e pur troppo del Casanova, che abbandonandosi agl’istinti d’una natura frivola e sensuale, scrisse poi come operava, cioè senza pensarvi, e fortunatamente non può prendersi per tipo nè del veneziano nè dell’uomo.

Girolamo Giustiniani, lodato in magistrature, teneva in casa un’accademia di eloquenza estemporanea. Una per le scienze ecclesiastiche s’aprì in San Francesco delle Vigne, segretario Giacomo Agostino Gradenigo, poi vescovo di Chioggia e di Ceneda, e scrittore. Quasi un’accademia erano le case di Giustina Michiel e d’Isabella Albrizzi, alle quali i forestieri sollecitavano l’onore d’essere presentati. Flaminio Corner, illustratore delle chiese venete, una raccolta di lettere e documenti regalava a San Michele di Murano: Teodoro Correr con mediocri mezzi procacciò un tesoro d’arti e letteratura patria, che poi lasciò al Comune: Filippo Farsetti, oltre spendere un milione di ducati nella villa di Sala, fece modellare in gesso i capi della scultura antica e moderna, in sovero e pomice i ruderi di Roma, copiar le pitture di Rafaello nelle loggie Vaticane e del Caracci nella galleria Farnese, e con bronzi, modelli, schizzi gli espose nel suo palazzo a chiunque volesse profittarne, incoraggiandovi anche con annui premj: suo cugino Giuseppe Tommaso, cavaliere di Malta, invitò i poeti a illustrar ciascuno qualche capo di essa galleria: Natale delle Laste ne fece la descrizione latina, sicchè [425] la fama se ne diffuse a tutta Italia. Il qual Tommaso scrisse versi in italiano e meglio in latino, e raccolse una biblioteca che emulava la raccolta del cugino, e che con pari liberalità apriva agli studiosi.

Il senatore Zulian incoraggiava il Canova e Pierantonio Serassi; dal Volpato faceva incidere la pianta di Padova di Giovanni Valle; e com’era consueto ai nobilomini, menò seco a Costantinopoli il naturalista Fortis, il botanico Cirillo, lo Chevalier che illustrò la pianura di Troja, e raccolse insigni anticaglie, fra cui il Giove Egioco, uno de’ più vantati cammei antichi, che lasciò alla Marciana con altre preziosità. Antonio Cappello, procuratore di San Marco, di cui son famosi i dispacci che di Francia scrisse alla Serenissima, procurò molte belle edizioni, fece eseguire a bassorilievo i fatti della guerra di Troja dal Canova, al quale innalzò poi una statua nel prato della Valle, come il senatore Falier aveagli ottenute le prime assistenze e commissioni. Francesco Pesaro procurò l’edizione genuina della storia del Bembo e delle opere del Gozzi.

Francesco Foscari senatore attese alla pubblicazione di grandiose opere, quali il Tesoro delle antichità sacre in trentasei volumi, e la Biblioteca de’ padri antichi greco-latini. Sebastiano Crotta lasciò Memorie storico-civili sul governo della repubblica; la cui storia uffiziale, dopo l’aspro e incolto Garzoni fu scritta da Marco Foscarini, poi da suo figlio Francesco nel 1774, e la illustrarono pure Giannandrea e Gian Benedetto Giovanelli, e più rinomato Vittor Sandi, che dettò la Storia civile dalla fondazione di Venezia sino al 1767, con goffo stile ma cognizioni estesissime, profittevoli ai posteriori. Gian Domenico Tiepolo scrisse sugli uffizj municipali di Chioggia, poi confutò il Daru. Giambattista Galliciolli, raccoglitore instancabile e coscienzioso di profane e sacre memorie intorno agli usi [426] di Venezia, che le lingue orientali parlava come la natìa, fece la Fraseologia biblica, un Trattato dell’antica legislazione degli Ebrei, l’Origine dei punti, Pensieri sopra le settanta settimane di Daniele[200]. Orientalista valentissimo era Carlo Visconti prete di San Trovaso; e il Lalande dà per uno de’ maggiori ellenisti Giambattista Schioppalba.

Illustri medici vi fiorivano, il Lotti, il Paitoni, il Pellegrini, il Pezzi, il Cullodrovitz, ii Gallino, l’Aglietti: Gian Girolamo Zannichelli di Spilimberto avea inventate le pillole di Santa Fosca, mentre continuava in credito la misteriosa teriaca. Nel fôro, carriera che tanti allettava per la pubblicità e per guadagni, ebbero fama il Gallino, l’Alcaini, lo Stefani, lo Svario, il Santonini, Carlo Cordellina, che per la reputazione di probo, pratico eloquente, acquistò ingenti ricchezze, e ben ne usava, accogliendo il fiore de’ grandi, de’ dotti, de’ forestieri; superbi palazzi alzò, uno a Montecchio Maggiore, ove per cinquant’anni continuò splendida villeggiatura, l’altro a Vicenza architettato dal famoso Calderari, dove si ritirò a vivere gli ultimi anni, e di cui fece poi dono a quella città.

Gianmaria Ortes abbiamo già mentovato fra gli economisti. Matteo Dandolo alla traduzione dei Saggi di Hume sul commercio prepose una lettera sui modi di rifiorire quello di Venezia. Francesco Zanetti per la dissertazione sull’Egitto avanti i Tolomei ebbe un premio dall’Istituto di Francia, uno per l’altra sugli attributi di Saturno e di Rea; suo fratello Anton Maria, custode della Marciana, pubblicò il catalogo de’ manoscritti di questa e della pittura veneziana[201]. Mentre Zaccaria [427] infervoravasi in polemiche letterarie e teologiche di senso papale, il teatino Contini sosteneva le opinioni giansenistiche e leopoldine. Giacomo Coleti gesuita continuò l’Illyricum sacrum del Farlati e dissertò sugli antichi pedagoghi; Demetrio Coleti proseguì l’opera dell’Ughelli, e fece un dizionario storico-statistico dell’America meridionale(1772), dove a lungo dimorò; Nicolò Coleti assistette alla ristampa del Labbe arricchendola, e in loro famiglia si accolse la più ampia raccolta di storie generali e particolari d’Italia. Il librajo Modesto Fenzo diè fuori la lodata Biblia sacra cum selectissimis literalibus commentariis; il padre Giacomo Maria Paitoni una Biblioteca de’ volgarizzatori di greci e latini, ben più ricco dell’Argelati; il Canciani raccolse le Leggi de’ Barbari; altre cose il padre Angelo Calogerà; il Rubbi un Parnaso italiano e uno de’ traduttori, un epistolario, ed altre compilazioni non prive di gusto. Il Mittarelli, oltre far il catalogo della libreria di San Michele a Murano, ajutò il Costadoni nell’illustrare le cose ecclesiastiche e principalmente l’Ordine de’ Camaldolesi, nel quale allora viveva a Murano Mauro Capellari, divenuto poi Gregorio XVI.

Nelle scienze positive il padre Giovanni Crivelli diede elementi di geometria, fisica, aritmetica, e prese parte alla quistione di Leibniz sulle forze vive, come pure il Polleni. Giambattista Nicola trattò della soluzione analitica del caso irreducibile. Lo Zendrini primeggiò fra gl’idraulici. Ignazio Vio fu lodato naturalista. La musica vi gareggiava colla napoletana.

Andrea Tirali ben architettava secondo il gusto d’allora; Pierantonio Zaguri, discreto poeta, fu non felice artista; ben migliore il Temanza. Pietro Longhi ritrasse i costumi con comica verità, ingegno, allegria, e talvolta sconcezza. Era recente la memoria del Tiepolo, del Canaletto, del Piazzetta. Lo scultore Ferrari Torretti [428] sentiva il bello, pur dolendosi di non saperlo raggiungere; ma quanto procedesse al meglio appare dalla differenza che corre fra le statue della facciata de’ Gesuiti e quella dell’Emo all’Arsenale, e fu maestro al Canova, veneto anch’esso. Antonio Diedo architetto, poi segretario dell’accademia delle belle arti, lasciò fabbriche e libri. Silvestro Dandolo nella spedizione contro i Barbareschi acquistò l’esperienza di mare, che il fece segnalato fin al 1847.

L’Università di Padova conservava l’antica reputazione, e oltre i nostri, venivano a educarvisi i Greci, e ne uscirono Ugo Foscolo, Delviniotti, Coletti, famoso nelle successive vicende: e là nel 1765 s’istituiva la prima cattedra in Italia d’economia rurale, coperta dall’Arduino, che tanto favorì le società agrarie, formatesi in tutto il dominio.

Ricche biblioteche possedettero il Giovanelli, che la sua lasciò alla chiesa di San Marco; Giovan Giustiniani, che l’univa alla Marciana; Pietro Grimani, d’eloquenza impareggiabile, membro della regia Società di Londra, poi doge nel 1741. Quella di Matteo Pinelli, descritta in sei volumi dal Morelli, fu poi venduta a Londra come quella del medico Paitoni. Il quale Jacopo Morelli fece pure il catalogo de’ manoscritti posseduti dai Nani, e delle storie d’Italia dei Farsetti; un trattato Della letteratura veneziana nel secolo XVIII[202]; un Saggio sulle pompe nuziali de’ Veneziani(1793); e fu un Varrone per dottrina, giovandone chiunque il richiedeva; e introdusse di stampare qualche antica scrittura inedita, invece delle scipite raccolte per nozze e monacazioni.

Il gesuita Luigi Canonici adunava un medagliere [429] prezioso, una raccolta singolare di crocifissi e moltissimi libri, fra cui quattrocento edizioni della Bibbia in cinquantadue lingue. Anche il poeta Girolamo Ascanio Molin lasciò alla Marciana molti libri e numismi; e ricca collezione di dipinti e incisioni all’accademia di belle arti. Si hanno a stampa i cataloghi delle biblioteche Pinelli, Pisani, Svajer, e di molte corporazioni religiose; e così della biblioteca e del gabinetto del cavaliere Giacomo Nani, le cui monete cufiche vennero alla Marciana. Il senatore Andrea Memmo, mecenate del Lodoli, governando Padova vi fece il prato della Valle e l’ospedale. Lorenzo Memmo stampò il Codice feudale della repubblica. Nicolò Antonio Giustiniani, vescovo di Verona e Padova, pubblicò molte opere ecclesiastiche, e a Padova alzò un ospedale, e lasciò la sua biblioteca all’Università. E ospedale e biblioteca pose a Udine ov’era vescovo Gian Girolamo Gradenigo, autore delle Cure pastorali, della Brixia Christiana, e della Letteratura greca in Italia. Pierantonio Zorzi, vescovo di Ceneda, poi di Udine e cardinale, fu studioso della poesia e dell’eloquenza. Gian Andrea Avogadro, vescovo di Verona, era stato predicatore lodatissimo. Lodovico Flangini, traduttore dell’Argonautica poi cardinale, succedette nel patriarcato di Venezia al pio quanto dotto Giovanelli. Pietro Zaguri vescovo di Vicenza a quei poveri lasciò il poco che vivo non avea distribuito dell’aver suo, e confutava Rousseau nel Piano per dare regolato sistema al moderno spirito filosofico. Il seminario di Padova fu rifabbricato dal vescovo Carlo Rezzonico, che poi fu papa Clemente XIII. Crema si ricorda del vescovo Gandini, che combatteva i filosofanti, come il conte De Cattaneo e Troilo Malipiero, e il Zorzi che divisò un’Enciclopedia italiana.

A Venezia si stampavano i migliori giornali, siccome la raccolta d’opuscoli del Calogerà e del Mittarelli; il [430] Giornale letterario di Apostolo e Caterino Zeno, proseguito poi dal Lami; la Frusta letteraria del Baretti; l’Osservatore del Gozzi; la Minerva, il Corriere letterario, la Biblioteca moderna, che dava estratti de’ libri nuovi; l’Europa letteraria della Caminer Turra; il Giornale de’ confini d’Italia; oltre i giornali medici dell’Aglietti e dell’Orteschi, e quel di scienze naturali e commercio del dottore Griselini.

Senza recitare tutti i nomi onde Venezia allora si abbelliva, tanto basti a provare che non era nè più pervertita nè più ignorante d’altri paesi, come si piacquero dipingerla quelli che vollero scolparne l’assassinio. Bensì le mancavano le qualità che in altri popoli poteano elidere i difetti, e tra esse il valor militare, in un tempo in cui acquistava predominio la forza armata. Lusinga del secolo erano la pace e i progressi pacifici, e nessuno in Italia pensava a sciupare in armi i tesori ch’erano reclamati dai miglioramenti civili. Neppure Venezia lo fece, laonde si trovò incapace di resistere alla nuova arbitra del mondo.

La marina mercantile non contava meglio di quattro o cinquecento navi, e la militare una dozzina in acqua, e venti interminabili sui cantieri. Per aborrimento alle innovazioni, si conservò ai vascelli la foggia antica; segrete le pratiche di costruzione, come i processi della chimica.

Le galeazze erano state riformate nel secolo XVII; e la descrizione e il disegno dati dal Coronelli mostrano che i remi aveano cessato di disporsi a tre per banco come nelle antiche, ma equatamente lungo i due fianchi, in numero di quarantanove, lunghi quarantadue piedi, mossi ciascuno da sette uomini. Oltre questi trecenquarantatre remiganti, ogni galeazza portava ducento soldati cogli uffiziali, sessanta marinaj, un comíto, un pedota, uno scrivano, un chirurgo, un medico, quattro [431] capi bombardieri, otto bombardieri, due remaj, quattro calafati, quattro marangoni. Il governatore e il nobile teneano per proprio servigio un cappellano, un computista, e uffiziali e ministri: sicchè l’equipaggio constava di settecento uomini. I trentasei pezzi d’artiglieria di bronzo pesavano da ottantanovemila libbre venete: aggiungansi i moschettoni da forcine, appoggiati alle sponde, i brandistocchi, le spade ed altre armi. Una galeazza bellica costava cenventimila ducati, e l’annuale mantenimento dell’arme ducati ventiseimila quattrocento, non computando il biscotto, la polvere e le altre munizioni. La Repubblica ne avea sei[203].

La miglior canapa si trae dal Padovano; e la Signoria, invece di farne provviste pel sartiame, obbligava a deporre nell’arsenale tutta quella che giungesse a Venezia; col che i mercanti trovavansi accomodati di magazzino gratuito, e il Governo conosceva di quanta potesse disporre, avea priorità nella scelta, e non comprava più dell’occorrente. Le corde riuscivano sì bene, che si davano per ogni nave quattro soli cavi di rispetto, mentre Inglesi e Francesi ne davano sei. Però le navi di Venezia erano costrette avere poca carena in grazia de’ bassi fondi[204], e quindi poco minacciose: alcune da cento cannoni non uscirono che per pompa.

Al crescere della potenza turca erasi sentito il bisogno d’avere galee stabili, e nel 1545 s’istituì il magistrato alla milizia di mare. Le ciurme erano tutte d’abitanti del dogado, fra i sedici e i cinquant’anni, che s’iscriveano ogni due anni; doveano sommare a diecimila, ma poi furono or più or meno, e si potè anche redimersene a denaro: in caso di bisogno levavansi, ed erano divisi in [432] artigiani, pescatori, gondolieri, i quali ultimi venivano posti su galere di scuola, servendo al solo esercizio ordinario; e sebbene volontarj, teneansi alla catena fin all’imbarco. Per le navi grosse voleansi marinaj già sperimentati. I forzati aveano pessimo trattamento; non ospedale, e ammalandosi doveano pagare medicine e medico; si permetteva andassero a terra come facchini e servitori per guadagnarsi le prime necessità; gravavansi di debiti, e così finita la pena bisognava rimanessero per ispegnerli. Ai capitani stessi delle galee spettava la spesa delle provvisioni e degli uomini; nè la Repubblica li stipendiava se non dal punto che mettessero alla vela. Voleasi con ciò impegnare i ricchi agli armamenti, e distogliere i nobili poveri dai comandi, sicchè ne rimanesse il lucro ai denarosi. Gl’impieghi dell’arsenale erano poco più che titoli senza peso, i figli sottentrando ai padri se n’intendessero o no. Da seicento ragazzi, ignoranti malgrado i dieci maestri, vagabondavano scroccando, finchè giunti all’età, per impegni o per riguardo venivano accettati nell’arsenale, dove stavano scioperi, essendovi obbligati al lavoro appena un giorno alla settimana o al mese. I famosi boschi erano dilapidati, intanto che le navi non reggeano al mare; mancavasi d’ingegneri, di maestranze, di marinaj; tanto più dacchè la Russia, che allora compariva a competere la padronanza del mare, ingaggiava i Greci e i Dalmatini. Nel 1774 si mutò sistema, e lo Stato assoldò gli equipaggi, mentre il progresso degli stranieri indusse a migliorare anche qui le costruzioni navali.

Venezia non era mai stata potenza guerresca di primo ordine, e più che a minacciare Italia attendeva a difendersi in Levante; non volle adottare eserciti stabili e nazionali come la restante Europa; e nelle guerre comprometteva l’unità del comando col mettere a fianco [433] de’ generali un provveditore. Lo Schulenburg aveva nel 1729 esibito un sistema d’armamento, che importava diciottomila cinquecento fanti, e due mila fra cavalleria, artiglieria e genio: ma l’artiglieria principalmente rimase trascurata. Pochissime truppe avea Venezia in terraferma; di più in Dalmazia e nelle isole di Levante, formate di forestieri, oltre il reale macedone, reggimento di Albanesi: ma accettavansi senza cautele, non si esercitavano per risparmiar la polvere, teneansi sparsi in modo da perdere ogni uniforme disciplina e soggezione, ridicoli per divise cenciose, temuti per fame e sete insaziabile, mal riparate sotto frasche, intesi coi contrabbandieri e coi masnadieri, dei quali talvolta usurpavano il mestiere, o più innocentemente applicavansi all’agricoltura. I tre reggimenti di cavalleria, croati, corazzieri, dragoni, sparsi a drappelli per paesi donde non erano mai mutati, il più che facessero era portar i messaggi e le intimazioni curiali. Le cernide poi, che non assumevano l’armi se non per guerra guerreggiata, vi si ascriveano solo per aver licenza di portar armi e agevolezza di contrabbandare tabacco, sale, polvere. I soldi facevansi stentare, e i provveditori bisognava supplissero con prestiti sul proprio credito. Dopo la pace di Passarowitz le fortezze lasciaronsi conquassate e cadenti, con moltissimi cannoni ma smontati, moltissima polvere, ma spesso guasta e fradicia; sottilissime le guarnigioni: nelle fosse si seminava; sugli spalti eransi piantati ulivi e gelsi, e la vite intrecciava i pampani ai vilucchi e ai caprifichi delle feritoje: di rado i bombardieri faceano spettacolo di sè, del resto piazzeggiavano al sole della riva degli Schiavoni e all’ombra delle procuratie[205].

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Oh sì! appena jeri Venezia ha mostrato che l’incomparabile sua posizione può farla resistere alle forze d’un grand’impero; ma a tal uopo voglionsi ed esaltazione di sentimenti, ed esempio di vicini, e speranza in lontani, e concordia interna; e di questa appunto sentivasi il supremo difetto non colà solo ma in tutta Italia.

Pure sfavilla sugli ultimi giorni di Venezia l’astro di Angelo Emo. Conobbe egli i difetti della marineria, e cercò introdurre nelle costruzioni le teoriche di Bouguer; ed essendosi fatto un vascello da settantaquattro con gli alberi connessi, mentre prima anche i maestri erano d’un pezzo solo, quali ne porgevano le selve di Cansiglio e di Avronzo, egli fu spedito (1755) con questo e con due fregate a rincacciare i pirati del Mediterraneo, dove abituò le disusate ciurme a sfidare gli elementi e il fuoco nemico. Come almirante governator di nave (1765), cioè viceammiraglio, sforzò il dey d’Algeri alla pace, e fu eletto capitano delle navi, cioè ammiraglio (1769). Ne’ magistrati pacifici fece migliorare il modo delle esazioni, levare la pianta dell’estuario e impedirne le colmate: ottenne dalla gelosa Inghilterra laminatoj pel rame da rivestire le chiglie: pensava all’asciugamento d’un gran tratto del Veronese: coll’Austria, che pel lido degli Uscocchi spingendosi al mare, aveva incessantemente turbato i Veneti, fece un accordo per la navigazione del canale della Morlacca (1784). Spedito poi contro Tunisi, inventò le galleggianti, con cui affrontò e gli scogli di Fax e i bassifondi di quella Tunisi, che sebbene assai meno fortificata, avea respinto Carlo V: e quivi formò que’ marinaj, che da poi fecero bellissima prova, ma a servigio di stranieri. Costretto a ridursi nell’Adriatico per l’infausta guerra fra la Porta e la Russia, lasciò navi che tenessero in soggezione i Barbareschi, contro i quali accingeasi di nuovo allorchè a Malta morì (1792) non senza sospetto di veleno, prima di vedere i disastri [435] della sua patria[206]. La quale fu in tempo di fargli erigere un monumento da un altro immortale suo figlio, di cui i primi passi erano stati incoraggiati da patrizj veneti, le prime opere erano state applaudite alla fiera dell’Assunta, ove, al modo de’ giuochi Olimpici, faceasi mostra d’ogni bellezza d’arti ingenue e d’industri.

CAPITOLO CLXXI. Costumanze. Il teatro.

Se facesse bisogno d’altre prove che l’importanza sociale non consiste negli avvenimenti politici, il secolo passato ci attesterebbe come in mezzo alla quiete si operasse una radicale trasformazione. Nel valutare la quale, ciò che il secolo nostro più ricorda è la distinzione dei nobili, legalmente dominatori nelle repubbliche, dappertutto efficienti ne’ municipj. Il diritto del pugno era stato spento in ogni luogo; andava pure togliendosi la giurisdizione feudale; e se nelle Romagne[207] e in Sicilia [436] i baroni si tennero indipendenti dal sovrano e tiranni de’ popoli, nel Napoletano avevano sagrificato l’indipendenza della forza alle appariscenze della Corte; in Piemonte la nobiltà serbava aspetto militare, ma senza rappresentanza, benchè i titoli che traeva dai castelli le attribuissero privilegi nocevoli al popolo, fra cui lo sciagurato di dare essa sola uffiziali all’esercito; e tenendosi legata fra sè, poteva respingere le prepotenze de’ superiori ed esercitarne sugli inferiori. In Lombardia non serbavano che qualche distinzione di vestire, di comparse, d’essere decapitati anzichè impesi, e con patibolo ornato; del resto la mano monarchica gli aveva pareggiati nell’obbedienza.

Dappertutto però erano collegi di nobili giureconsulti, di nobili medici; essi soli componeano il consiglio municipale, essi coprivano le dignità ecclesiastiche, essi l’amministrazione gratuita delle pie fondazioni, essi le tante missioni a cui dava luogo la vita comunale, quando, invece d’una folla d’impiegati, vi si destinavano persone all’occorrenza. Tali uffizj produceano un dispendioso decoro, e la tradizionale clientela facevanli primeggiare ne’ municipj, di cui erano l’anima, l’ornamento, la tutela; e addestratisi nella giurisprudenza, o raccomodavano come arbitri le differenze, risparmiando processi e litigj, o sostenevano le ragioni del Comune o della corporazione, o dell’istituto benefico di cui erano o presidi o parte, o versavano in indagini economiche, ultima attività che si conservi dopo tolte le politiche; e bastevole occupazione vi trovavano quando i Governi non avevano ancora concentrati in sè tutti gli uffizj, le attribuzioni, l’attività.

I più erano spolverati de’ classici; leggevano e scrivevano [437] latino; e furono nobili la maggior parte degli studiosi di quel secolo: chè, oltre l’obbligo di educarsi per comparire, essi ne avevano comodità sì per la tradizione domestica degli affari, delle gentilezze, dei libri, sì per l’avere maestri e scuole, sì perchè non costretti occuparsi in guadagni. Quei cadetti, cui i diritti del primogenito toglievano di supremeggiare per grado e ricchezza, cercavano distinzione col sapere e colle armi. Ma erano assai più coloro che, deposto nella lunga pace l’umor bravo e il prepotente soverchiare, infingardivano nella negligenza dei pubblici interessi, dei proprj diritti, della vera dignità, de’ progressi a cui allora si affaticava tutta Europa, e a cui i nostri ben poco coadjuvarono, lasciandosi mettere avanti il piede da quelli, a’ quali erano stati maestri.

Nell’educazione cercavasi piuttosto la vernice; trattavasi dei doveri verso di sè, più che di quelli verso gli altri; obbedire ai superiori, mantenere il decoro, impratichirsi agli esercizj cavallereschi, non fallire ai convenevoli, e le virtù di parata; e quanto alle dottrine, coltivare l’immaginazione meglio che il raziocinio, studiare i classici e non i filosofi e gli scienziati; procurare l’eleganza delle forme, più che i pensieri sani e i sentimenti veri, più che raddrizzare i torti giudizj e ampliare lo spirito. Conseguenza era l’accettare la moda, cioè il pensare e l’operare comune, senza ardimento d’originalità; donde una bonarietà uniforme, che fa perchè gli altri fanno, rimanendo sempre eleganti fanciulli, guardando come necessario ciò ch’è indifferente, lo che porta a tenere per indifferente ciò ch’è necessario, e trovarsi irresoluti e pusillanimi ne’ grandi bisogni della vita. Le pratiche pie, l’indocilimento della volontà, il rispetto ai preti, il decoro, le abitudini patriarcali disponevano certo al vivere onesto, alle virtù tranquille, all’amorevolezza soccorrevole; ma non abbastanza [438] premunivano contro il cozzo delle passioni e degl’interessi, non rimediavano a quella fiacchezza di volontà da cui deriva metà delle nostre colpe, non a quella esitanza che ai mali della vita ci fa freddamente rassegnati, anche quando bisognerebbe vigorosamente repulsarli.

Essendo poi l’educazione una cosa distinta dalla società, bisognava rifarla quando in questa si entrasse. Che se volessero compirla con qualche viaggio, nel quale la loro condizione gl’introduceva presso le Corti dissolute di Francia e di Germania, o nei castelli inglesi, smarriti innanzi a una realtà di cui non avevano idea, tuffavansi facilmente in quella corruzione, accettavano gli esempj degli uni, i sofismi degli altri, vergognandosi delle massime in cui unicamente erano stati cresciuti.

Le ricchezze legate in fedecommessi e accumulate da tutta la parentela sopra un capo solo, e le fruttuosissime magistrature faceano alcuni somigliare a principi, non per potenza o autorità, ma per entrata e spendio, con centinaja di servi e di cavalli, e fragor di palazzi, di villeggiature, di caccie. Sopravvivono dappertutto chiese e cappelle patrizie suntuosissime, ville somiglianti a reggie, con giardini regolarmente disposti a viali, a carpinate, a siepi di bosso, in forma d’animali, di sedili, di torri, fin di scene storiche; l’arrivo del padrone dava vita al villaggio e ai contorni, e nei mesi ch’ei vi restava era un continuo andar e venire di carrozze, e un popolo di servitori, e un via va di visitanti, e balli splendidi, e rischiosi giuochi, e i sinistri esempj urbani.

Per tali servigi strappavansi molte braccia alla più utile delle arti, onde marcissero nell’abjezione e nella scostumatezza delle anticamere. Anche quello sfarzo era una sottrazione all’operosità commerciale, all’attiva [439] industria, poichè riguardavasi scaduto il nobile che a traffici attendesse; mancava quella solerzia ch’è indotta dal bisogno di migliorare le rendite e perciò raffinare l’agricoltura, vantaggio ben maggiore ai contadini che non l’indulgente remissione dei debiti od il soccorso gratuito.

A quell’unico signore guardavano con invidia i fratelli minori, obbligati a celare nel chiostro e nelle caserme la povertà cui erano ridotti in grazia di esso, e a mendicare il piatto alla mensa del fratello padrone, o a sollecitare la protezione di esso e de’ parenti a favore di chi domandasse e pagasse; altro modo d’usufruttare l’ozio e le aderenze, a scapito della giustizia.

Ma il primogenito stesso, separato da alcuni fratelli chiusi ne’ conventi, nojato dall’assiduità degli altri, con una moglie nè scelta nè stimata, con beni di cui non potea disporre liberamente, che moglie, fratelli, servi gareggiavano a dilapidare, che gravati di debiti non potevansi depurare col venderne una porzione, sicchè bisognava logorare il capitale destinato all’agricoltura; gonfio di sè, fra le irremittenti cure di nonnulla, fra i continui disgusti della superbia, gli urti della vanità, le soddisfazioni del puntiglio, certamente non potea chiamarsi beato.

Durante il dominio spagnuolo, le donne erano rimaste appartate dalla società maschile; ed avendo il duca d’Ossuna a Milano raccolto una volta a circolo la nobiltà d’ambo i sessi, ne fu tanto a dire, che ben si guardò di rinnovarlo. Ma il principe di Vaudemont, ultimo governatore della Lombardia a nome di Spagna, cresciuto nelle maniere francesi, radunava di frequente i nobili a corte e ad una sua villa suburbana, che acquistò galante rinomanza. Poi sopravvennero i Francesi, e si divulgarono le loro usanze; talchè i nostri, passati rapidamente alla costoro leggerezza dal sussiego [440] spagnuolo, perdevano la bonarietà antica per investirsi de’ nuovi usi, e con essi della frivola empietà, e di quella galanteria che è amore senza passione.

Allora si contrasse il morbo nuovo del cicisbeismo, legame insulso, che non aveva tampoco l’energia del vizio; logorava la gioventù in corteggiamenti, baciamani e fatue smancerie, con una dama scelta per convenienza non per cuore, coltivata con ostentazione e con faticose premure del vestire, del comparire, dello smaschiarsi. Quest’affetto di mera vanità produceva alla donna i difetti della lubricità senza che ne avesse le scuse; le dava un altro confidente che il padre de’ suoi figli, riconosciuto pubblicamente, talora stipulato nei contratti; svogliava dalle dolcezze domestiche, dall’attenzione ai figli, dalla riverenza al marito, che ridotto al secondo grado nella propria famiglia, ed occhieggiato nell’intimo delle proprie abitudini, non trovava in casa quell’onorevole e soave riposo che disacerba tante amarezze della vita.

L’abbigliatojo usurpava lunghe ore anche agli uomini. La testa architettata e sparsa di cipria, l’abito a recami e assestato, calzoncini, calzettine, scarpettine come da ballo, fibbie al ginocchio e al piede, costosi manichini, tutto pareva inventato per moltiplicare legami, e costringere a non muoversi che in passi di minuetto. La spada che portavano al fianco era una parodia delle imbelli abitudini; come i voti di castità e povertà che faceano i cadetti entrando cavalieri di Malta, per cui l’unico merito richiesto era la provata nobiltà. Le visite, il corteggio, i prolungati desinari, il corso empivano la giornata; alla sera teatro, più spesso i circoli e il giuoco, dove a un voltar di carte si mutavano ingenti fortune.

Era possibile non acquistare aborrimento per ciò che costasse sagrifizio, fatica, assiduità? Riponeasi il bene [441] supremo nel riposo; si camminava nel solco antico, o sugli esempj e il pregiudizio; si rideva di tutto colla leggerezza che su tutto svolazza, in nulla s’arresta; dalla vita domandavansi soltanto fiori, e per risparmiarsi la fatica del pensare e dell’operare, si pensava e agiva secondo la moda altrui, anticipandosi l’inoperosità della vecchiaja.

Pochi i viaggi, e i più non aveano mai perduto di vista il campanile della terra natìa; onde mancanza di confronti. Neppur s’aveva, come in Francia, una Corte unica, una gran capitale, dove tutti i nobili facessero il tirocinio, e acquistassero uniformità d’usi e di tratti, mutandoli dietro all’esempio, e trasmettendolo agli inferiori.

Già era lamentato il cambiar d’abiti a seconda della foggia; sebbene lontanissimo dalla versatilità odierna. Nelle persone mediocri l’abito di sposo serviva alla gala di tutta la vita; anche le eleganti avevano un vestito, la cui immagine si associava a quella della loro persona. Il gran costo e la ricca fattura delle stoffe si opponeva ai subiti mutamenti, nè ancora i telaj inglesi avevano potuto somministrare quelle indiane e quelle cotonerie, che tanta apparenza uniscono con sì tenue costo, e che nell’eleganza pareggiano alla gran dama la sua portinaja. Anzi la moda d’allora distingueva inalterabilmente le diverse classi, nè l’artiere avrebbe potuto usurpare l’abito del civile, o il nodaro quello del gentiluomo. Uno de’ nobili più spregiudicati, Pietro Verri, fa colpa a Giuseppe II dell’ammettere uffiziali nell’esercito anche persone ignobili, perocchè il sentimento d’onore è educato fra i patrizj, non fra gli altri. Perfino ne’ teatri il viglietto del nobile costava meno di quello del plebeo.

L’eguaglianza mancava dunque dappertutto; e i nobili traevano a sè ricchezze, impieghi, dignità. E mentre [442] essi stavano persuasi d’essere superiori per natura ai plebei, atteso la serie degli avi, di cui i poderi, i ritratti, gli uffizj si conservavano in famiglia, il povero s’era rassegnato a credersi di razza inferiore; la legge sanzionava le distinzioni, riservando gl’impieghi ai nobili, traendoli a fôro privilegiato, ove il plebeo non potea citarli, come non poteva chiamarli al feroce giudizio del duello, che essi costumavano fra loro, cento atti, cento esclusioni lo avvertivano che il suo vicino era superiore, non per merito ed autorità nè tampoco per denaro, ma per nascita; la moglie d’un ricchissimo mercante non poteva farsi reggere lo strascico come una dama pitocca e diffamata, nè un abilissimo meccanico portare la spada come il marchese che gli era debitore di lunghe liste, o come quelli che, venuti su dalla bottega o coll’appalto, per denaro facevansi strada nell’aristocrazia. — Io disprezzo quei che comprano la nobiltà», diceva Giuseppe II al Casanova; il quale rispondeva: — E quei che la vendono, sire?»

Non per questo il popolo odiava i ricchi. A quel sovrastare era avvezzo, come agli altri disordini della vita; e la dipendenza procacciava protezione, giacchè si ricorreva al padrone o al signor principale del villaggio, fosse per ottenere una dote o un posto o un letto all’ospedale, o per farsi rendere giustizia. I signori a vicenda consideravano come obbligo il proteggere i clienti; i servi nascevano in casa dai servi ereditati; il contadino stava da più generazioni sul fondo medesimo, e se poco si faceva per migliorarne la condizione, nol si lasciava nell’estrema miseria; gli artieri, gli operaj tradizionalmente mantenevano la pratica delle stesse famiglie.

Senza credere incivilimento il nausearsi del mestiero paterno, ciascuno era curiale, sartore, contadino, barbiere perchè tale era stato suo padre e suo nonno, dai [443] quali avea ricevuto gli stromenti, le tradizioni, le clientele. Chi volesse uscire dal vulgo bisognava si facesse frate o prete; e saria parso reo di lesa società il gastaldo o il pizzicagnolo che mettesse i suoi figli sullo studio. Molto insomma conservavasi del patriarcale, così ne’ Governi come ne’ privati; il grande volea poter fare tutto, ma col proposito di fare il bene; era un dogma la padronanza, ma temperavasi colla benevolenza; e quell’aria soldatesca, che appestò la società moderna, appena appena cominciava per imitazione dei Tedeschi.

Questo complesso di tradizioni rendeva docili all’autorità, tanto più che i Governi non avevano ancora dimenticata l’arte di farsi sentire il meno possibile, di lasciar ire molte cose di loro gambe, molte rimetterne agli uffizj municipali, non togliendo ai sudditi la dolce compiacenza d’adoprarsi a vantaggio della patria. Le capitali non usurpavano ogni importanza alle città di provincia; e il patrizio che nel suo paese godeva dignità tradizionali, posto nel consiglio o nel collegio dei dottori, antica clientela, palazzo avito annesso alla storia del paese, non pensava a staccarsene per andare a sfoggio più splendido ma meno distinto nella capitale.

Agli Ordini religiosi molta consistenza attribuivano ancora l’unità, lo spirito di corpo, le dovizie, il carattere, e il non essersi la coscienza risolta in opinione. Ma lo zelo della carità primitiva o della conversione intepidì, dacchè il mondo era sistemato; da un lato proibita la manifestazione dei dubbj religiosi, dall’altro vôlti in riso l’autorità e lo zelo; sicchè i predicatori pareano intenti a farsi perdonare il loro stato; e l’ingiuria che s’affiggesse agli zelanti, ai dotti, ai pii era chiamarli gesuiti. Ecclesiastici d’alto merito non mancavano, ma troppi abbandonavansi non tanto alla scostumatezza, quanto alla negligenza, indotta dalla mancanza [444] di contrasti e dalle agiatezze; ad intrighi e cure e corteggiamenti secolareschi, derivati dal non entrare nel clero per vocazione ma per domestiche convenienze; mentre i Cappuccini e gli altri Mendicanti spargevansi tra il vulgo consolandone i dolori, temperandone le miserie, celiati eppur riveriti e consultati, altri nelle città s’insinuavano in ogni casa, in ogni affare, consiglieri spesso, spesso intriganti, corteggiando la dama, connivendo al cavaliere, mascherando l’intrigo, sottraendo il reo alla giustizia, o questa indocilendo al raccomandato, sollecitando impieghi, doti, eredità.

Peste del clero erano gli abati, cadetti di case principali, o veramente plebei, che provvisti di buoni benefizj, dispensati dalle cure secolaresche e dispensandosi dalle ecclesiastiche, divenivano mobili necessarj d’ogni casa illustre, ove diceano la messa al comando, faceano la partita, raccontavano le novità. Con ricche zazzere, panni finissimi d’Inghilterra, sete di Lione, manichini di Fiandra, grande anello all’indice destro, tabacco di Siviglia in scatola d’oro cesellata, da tavola a tavola, da villa a villa portavano le celie e le novelle, tesoreggiando epigrammi da ripetere, scrivendo sonetti e madrigali d’occasione, facendo ridere degli altri e di loro stessi.

A dipingere quei tempi molti colori ci offrirebbero gli stranieri che viaggiarono nel nostro paese, cercando qui le arti e il gajo vivere, come in Inghilterra il pensare e il governare; portandovi compassione più che insulti. Fra essi meritano ricordo l’inglese Sharp[208] [445] per la confutazione che ne fece il Baretti, esagerando per ribattere esagerazioni[209]: e i francesi Lalande astronomo, che restò in un discredito proverbiale, non forse meritato[210], e il De Brosse che fu poi presidente. Raccomandato dal proprio nome e dalla compagnia di [446] Lacurne Saint-Palaye, autore del Saggio sulla cavalleria, osservò con discreta leggerezza, se pur non sono alterate le lettere che tardi se ne pubblicarono[211]; trascurate e scorrette, ma senza apparato pedantesco, giudicando alla ventura e senza dissertare, e offrendo immagine viva del paese; credeva barbari tutti gli artisti avanti Rafaello, ma del resto dava giudizj liberi in fatto d’arte, deridendo il barocco ed il grottesco che i nostri mescolavano al classico; e a lui rimonta quel che ai dì nostri parve un ardimento dello Stendhal, che non bisogna credere tutte le lodi date dal Vasari alla scuola fiorentina, fors’inferiore a tutte le altre (Lett. 24).

Se vogliamo con questi e con altri scorrere il nostro paese, eccoci in prima a Torino, talmente rinnovellata da quando la vedeva Montaigne, che De Brosse la dichiara la città più bella d’Italia per filo delle strade e regolarità degli edifizj. Lalande vi trovava meno lusso e depravazione che nelle grandi città; «il re sopravveglia come un padre in famiglia, e dà buoni esempj; non si ha l’abitudine di mantenere attrici; la nobiltà può comprarsi ma a gran prezzo, mentre sono poco ricchi i nobili, cui non è dato lucrare sopra le finanze, amministrate per conto del re, tanto bene che un ambasciadore di Francia ebbe a dire: A questo modo, ciascuna provincia francese varrebbe quanto un regno[212]. «I nobili non possono uscire di paese, nè vendere [447] i feudi senza permissione, e sono obbligati servir nelle armi, ma con poco guadagno; mentre neppure alle magistrature lascia gran rilievo il governo alla militare». Di Piemonte uscivano sete per diciotto in venti milioni, e molto riso; attorno a Torino coltivavasi il tabacco, la cui privativa fruttava al re cinquecentomila lire[213]. Ogni appalto poteva essere disdetto, qualora alcuno alla Camera offrisse un terzo di più.

A Genova, lo Stato più povero e coi cittadini più doviziosi, eranvi, secondo il De Brosse, ricchi di quattrocentomila lire che ne spendeano trentamila e fabbricavano palazzi per sè d’un milione e pel pubblico di tre milioni, e stupende chiese: il fasto degl’Italiani, ben più ricco, nobile, grazioso, utile, magnifico e grandioso di quel di Francia, il quale si riduce al dare pranzi. Le donne coprivansi del mézzaro, i nobili di nero, sempre senza spada; la gioventù morigerata perchè occupata. Alle veglie regnava molta amenità, e profusione di lumi e rinfreschi. Nelle carceri dell’Inquisizione stava solo un tal Riva, che aveva predicato l’ateismo, e per venticinque anni non volle ritrattarsi. Si lavorava assai di velluti, principalmente neri; d’una carta immune dalle tarme, di paste, d’ebanisteria, di sapone, di fiori artifiziali, di lampade a riverbero, quivi introdotte assai prima che a Parigi. Porgevano occasione di divertimento le devozioni; e nelle famose processioni delle Casaccie, il nobile che avesse saputo montare la scalea di San Lorenzo tenendo il pesante crocifisso in bilico, senza toccarlo colle mani, era vantato come oggi quel che abbia scritto un articolo per diffamare un galantuomo.

In Lombardia noi sappiamo d’altre parti che sopravviveano pregiudizj e istituzioni spagnolesche, e un tribunale [448] araldico non solo verificava la nobiltà e le sue gradazioni, ma regolava l’addobbo, l’acconciamento, il cerimoniale; a chi l’uso de’ predellini sotto i piedi, e delle borse pe’ libri in chiesa; o la tal forma del guardinfante, e il farsi sostenere lo strascico, e portar le torce davanti al cocchio e nel salir gli scaloni, o i fiocchi di seta ai cavalli, e le livree di color variato ai servi e co’ galloni d’argento e d’oro, e aver sulla carrozza lo stemma, e attorno a quella staffieri e lacchè, e mandar inviti a stampa per circoli, matrimonj, funerali.

Notati i cattivi alberghi, Lalande appuntava a Milano le vie non illuminate la notte, non segnate con nomi, inaffiate da galeotti. Il teatro, su cui comparivano fin quattrocento figure e quaranta cavalli, durava dalle nove ore sin all’una dopo mezzanotte, e molto strepito faceasi durante la rappresentazione: l’unito ridotto era riservato ai nobili, e i giuochi se ne appaltavano per quattromila luigi, che servivano di dotazione al teatro. Al Corso sfilavano fin ducento carrozze bellissime. Nello Stato v’avea da seimila soldati; trenta birri bastavano al buon ordine della città, ventiquattro alla campagna. L’ingerenza che conservavano nell’amministrazione del proprio paese, valeva a ritenere a Milano e nelle provincie i nobili, che nelle monarchie tendono ad affluire alla capitale[214].

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I Milanesi passano per diffidenti; l’eccessiva economia li rende operosi; scarsi d’ingegno, ma meritevoli del titolo proverbiale di bonacci, buoni buseconi. I mercanti hanno l’abitudine di chiedere il triplo del prezzo. Molto lavorasi di foglia e fil d’oro, e di velluti e vetri: carrozze vi si fanno comode e robuste, cercate per tutta Italia[215]. Il collegio di Brera conta ottanta gesuiti e mille ducento scolari. Le signore hanno aria disinvolta, senza il compassato degli altri paesi. Il cicisbeismo non v’è d’etichetta per le donne, nè di servitù così dura per gli uomini quanto a Genova, a Roma, a Napoli; una buona metà non è provvista di cavaliere servente; quelle che l’hanno, non son notate come cosa straordinaria, sicchè più facilmente possono cambiarlo, nè sono tenute a vedersi accompagnate perpetuamente da un uomo nojoso.

Venezia era sempre oggetto delle meraviglie e delle favole de’ viaggiatori, e il De Brosse vi ammirava l’illuminazione dei tre ordini delle procuratie, in cui la notte di Natale consumavasi più cera che in un anno in tutta Italia. Poco s’invitavano a pranzo i forestieri; e in generale per gl’Italiani il minore dispendio va nella tavola; di mattina, ai visitanti offresi la cioccolata, di [450] sera gelati. Le famiglie a Venezia tenevansi molto unite, vivendo senza spartire i beni. I giovani studiavano, poi a venticinque anni metteansi ne’ pubblici affari. L’accettar gl’impieghi era obbligo, ma poteasi sottrarsene col farsi abati. Le mode francesi vi penetravano a stento. I Veneziani erano sobrj, beveano poco vino, andavano a romper l’aria in terraferma, dove in magnifiche ville riceveano molte persone e bene, e dove radunavansi ogni giorno ai caffè. In questi, come ai casini, andavano anche le signore, alle quali il cavalier servente era necessario per dar la mano all’uscire e all’entrare in gondola.

Di convegni e intrighi erano campo i conventi, e l’allegria dominava in quelli riservati alla nobiltà. In San Sepolcro erano professe cinque fanciulle de’ Giovanelli; in una vestizione si spendea fin ventimila scudi. De Brosse particolareggia troppo sulle cortigiane; e Lalande stupisce come, senza truppe e con poche guardie, non vi succedessero assassinj, neppur duelli. Ogni casa ricca aveva libreria, e collezioni artistiche e naturali. Fin cinque giornali vi si pubblicavano, operosa la tipografia, e lavoravasi molto di fonder caratteri. Continuava l’arte de’ vetri, e facevansi lumiere (ciocche) fin di sei o sette piedi di diametro.

In Toscana la nobiltà era la più parte d’origine popolesca; e i titoli prodigati dai Medici, e le commende di Santo Stefano conferivano privilegi futili, e non toglievano di conoscervi scarse le ricchezze, le quali del resto erano molto livellate, e usavansi col buon senso. A Firenze le fanciulle non poteano parlare a chichefosse; sol dopo promesse aveano libertà di trattar collo sposo. A Siena era spasso prediletto il far alle pallottole di neve. Gorani[216] descrive un circolo in casa del Sinsinelli [451] governatore, in una sala dov’era il camino ma spento; sedeasi attorno a una tavola, sotto la quale stava un [452] braciere, e ciascuno tenea sui ginocchi un veggio per iscaldar le mani; sulla tavola ardeva una lampada d’argento a due lucignoli, bastante per chi non avea che a parlare.

A Bologna il cambiar del legato cambiava intera l’amministrazione della giustizia, poichè egli menava seco fin i birri. Molto vi si lavorava di veli crespi, sapone, rosolj, tabacco, carta; e principalmente di carte da giuoco. Quelle donne, collo zendado parevano in lutto; gli uomini, gran parlatori, mostravano estrema franchezza nello spacciare cognizioni che non avevano.

A Roma poca nobiltà derivava dalle antiche famiglie e molta dalle papaline; ma l’elemento democratico vi si mescolava mercè dei tanti monsignori e prelati, che fra i grandi aveano probabilità di sedere come cardinali. I signori non erano troppo ricchi; aveano ereditato magnifici palazzi, ma poco riceveano, salvo che alla campagna. Vi si pubblicò lungo tempo una gazzetta manoscritta, che a nessuna cosa o persona serbava rispetto; il che faceasi pure a Venezia, e con tal segretezza che mai non ne trapelò l’autore. L’antica reputazione di gelosia era perduta, e nessuna dama appariva in circoli se non accompagnata dal cicisbeo. Questo deve la mattina andar a farle visita, aspettando in sala finch’essa sia visibile; assiste alla pettiniera, la conduce a messa, fa seco la partita fin all’ora del desinare; dopo questo, rimane presente al nuovo addobbo, la mena alle quarant’ore, poi alla conversazione che comincia all’avemaria, e la riconduce all’ora di cena. Tali ibridi unioni durano fin venti anni; e non che cagionare scandalo, le dame vi danno tutta l’aria di decenza, disapprovando la civetteria delle Francesi, la quale provoca molti adoratori. Il cicisbeo è distinto affatto dall’amante, contro del quale anzi egli serve di salvaguardia. Ove Lalande [453] riflette ch’è meglio aver un cicisbeo che cinquanta vagheggini, e che dimostra la depravazione non esser ancora estesa a segno da introdurre col libertinaggio la leggerezza.

Le Romane non metteano troppa attenzione all’abbigliamento, e in generale le Italiane faceano maggior parsimonia di rossetto che le Francesi. Molte limosine si distribuivano, e zuppe alla porta di tutti i conventi. Assassinj anche nel cuor della città, non per rubare, ma per passione; rarissimi i supplizj. Secondo il Gorani, frequentavano gli avvelenamenti, massime fra parenti; e la terribile acqua tofana stillavasi non più a Napoli, ma a Perugia. Gli uomini vestono facilmente da preti. Della politica molto studio vi si fa; molto se ne discorre nei circoli, dove Lalande trova non consueto il giocare, mentre il Gorani dice che l’unico modo d’acquistarvi stima era il giocar di grosso.

Costui segue a dire che ciascuna professione aveva un caffè proprio dove raccogliersi i pittori, gli antiquarj, i cancellisti. Somma potenza esercitavano gli abati: i prelati difettavano di virtù e di scienza, mentre i claustrali erano colti e gentili: la classe operosa fregiavasi di belle virtù: la plebe gran parlatrice, superba del passato e del veder accorrersi da tutto il mondo ad ammirare le sue ruine; dal continuo aver sott’occhio i capi d’arte acquista buon gusto; non è avara, col che si scevera dall’insaziabile servidorame. Il Governo spende assai in istrade; ma gl’intraprenditori mangiano il denaro, e le lasciano pessime. I principi adoprano i servitori come bravi, e il cardinale Albani più volte gli armò per sottrarre delinquenti alla giustizia. Ma De Brosse avverte: «La libertà di pensare in fatto di religione, e fin di parlarne è tanta in Roma almeno quanta in qualunque città ch’io conosca: non si creda il Sant’Uffizio così nero come si dipinge: non ho inteso [454] parlare di verun caso di persone messe all’inquisizione, o trattate con rigore»[217].

Egli si fa beffa de’ giardini in forme bizzarre; eppure, senza approvarli, convien confessare che non mancano d’attrattive. Sono cortili ornati d’antichi cimelj; scale sviluppate che non menano a verun oggetto, labirinti inestricabili, parterri a disegni compassati, e arabeschi e stemmi; e fra divinità e fauni di travertino, fra grotte di tufi e conchiglie, fra castelli in ruina romoreggiano altissime cascate od organi idraulici. Alla Rufinella il bosso nano figura nomi d’illustri; alla villa Aldobrandini la roccia rappresenta un’enorme faccia di Polifemo, la cui bocca dà l’accesso ad ampia grotta.

A Napoli si sfoggia lusso, ma spesso fraudando gli artigiani; spendonsi dieci luigi il mese per la tavola, cento per la scuderia; conversazioni magnifiche, e nel 1778 una mascherata, che rappresentava l’entrar del sultano alla Mecca, componevasi di quattrocento figure. Usansi grandi cerimonie e numerosi servi, perchè costano poco, e ricercansi specialmente milanesi, come fedeli ed esatti; il cocchio d’ogni dama è preceduto da più volanti. Non molti i cicisbei; e le donne vanno alle conversazioni anche d’uomini celibi, come usa a Roma. Non v’abbondano come a Parigi e a Londra quelle miserabili, che fan l’onta del loro sesso coll’importunità. Diradavano anche le avventure galanti ne’ conventi, ma questi erano numerosissimi e per ogni condizione; molte le esteriorità devote, magnifiche le feste, e con [455] una specie di mascherata a Napoli era il trionfo della musica, e orrido genere di speculazione i soprani.

Non bisogna tacere quante donne si facessero ammirare per ingegno, ed oltre le letterate, aveasi una Caterina Padovani Bonetti e una Beatrice Cittadella a Padova; a Milano la duchessa Serbelloni, che tradusse le commedie francesi di Destouches; a Venezia teneano convegni brillanti e onesti la Albrizzi e la Benzon; Caterina Bonfini, stata cantatrice, e tratto buon profitto dagli amanti, raccoglieva a Modena la società migliore dopo partitone il duca; altrettanto faceva a Firenze la contessa d’Albany moglie dell’ultimo Stuard; e a Roma la contessa di Rosenberg inglese, la quale sposò il conte Bartolomeo Benincasa modenese, poi separandosene gli fissò ottantamila lire di pensione, ond’egli visse brillante a Parigi e a Milano, scrisse su giornali ed ebbe impieghi.

Ma perchè si vivea spensierati non si figurino idillj di felicità; non v’avea libertà nelle repubbliche, non indipendenza ne’ principi, non garanzie fra i popoli; nè fu storia di questi la da noi narrata, bensì de’ Borboni, Austriaci, Lorenesi, Savojardi che se li disputavano; guerre o trattati non portavano a sviluppo morale, non nasceano da eroismo e generosità. La nazione dunque si abbandonò a una lassitudine di viver molle e spensierato.

Il commercio intisichiva in piccolezze di ritaglio; ed eccetto le sete, verun’altra industria profittava al paese; le manifatture non che attirar denaro forestiero, neppur provvedeano ai nostri bisogni, giacchè i capitali che avrebbero dovuto alimentarle giacevano inoperosi o consumavansi in frivolo lusso. De’ campi molta parte aspettava cultura; molta era di proprietà comunale, cioè guasta da tutti, curata da nessuno; molta in manomorta, dove più non si cercava migliorare la rendita [456] dopo averla creata; molta ristretta in primogeniture e fidecommessi, dove l’ampiezza sviava dalle necessarie attenzioni, e talvolta il sopraccarico dei debiti facea vendere le scorte e sottraeva i capitali, necessarj alla buona gerenza, intanto impacciando le transazioni. Lo sminuzzamento delle provincie e i privilegi faceano che disuguali cadessero le imposte da paese a paese, da persona a persona. Poche strade e mal tenute, e queste pure impacciate da pedaggi.

Il trattato di Kainargi del 1774 aperse il mar Nero ai Russi, che vi coltivarono quegli ubertosissimi terreni, dapprima negletti dall’accidia musulmana; e con pochissima spesa, in grazia degli uomini mezzo schiavi, ottennero abbondantissimi grani che versarono in Europa, sicchè d’allora restò avvilito il prezzo de’ cereali, principalmente in Italia.

Masnade di ladri rendevano pericoloso il viaggiare, non nella Romagna soltanto e nel Napoletano[218] famosamente [457] funesti, ma fin nel cauto Veneziano e nella regolata Lombardia; e il Governo or doveva prendere in ispecial protezione i beni di qualche gran signore o qualche paese minacciato, ora con premj eccitare i cittadini ad armarsi, arrestare, uccidere i malviventi; or applicare ferocissime pene, con cui non si facea che rintuzzare la sensibilità e mettere a pericolo la giustizia col dispensarla dalle formalità della procedura. Armi non avevansi, se non qualche reggimento reclutato coll’ignobile ingaggio: pochi gentiluomini compravano un vano grado nelle milizie forestiere, o negli Ordini di Malta e di Santo Stefano, sviati dall’istituzione primitiva per divenire di pompa aristocratica e null’altro. Il clero, invece di combattere in quelle fondamentali quistioni che sviluppano i grandi talenti, perdevasi in frivoli eppure accanniti litigj d’un giansenismo, qui imbastardito dalla protezione de’ forti. Dappertutto mancava quella vigoria, che fa ripudiar l’errore sotto qualunque aspetto si presenti, e voler sempre e solo la verità per quanto costi.

La letteratura ritraeva dell’affievolimento generale, ridotta ad elegante loquacità, insulse galanterie, imbellettata goffaggine, ad uccellar belle immagini, ingegnose similitudini, locuzioni eleganti, da versare a piene mani per meritar larghissime lodi con ingegno mediocre. La [458] poesia arcadicamente bamboleggiante, era comandata d’umiliazioni sempre nuove, alle minime occasioni della vita pubblica e della privata. Libri popolari non si facevano, eccetto i catechismi, che per verità suppliscono a tutti. I giornali, frivola lettura e dannosa quando divengano monopolio de’ più inetti scribacchianti e dei più assurdi ragionacchianti, allora erano pochi o pochissimo letti, nè si curavano di sminuzzar il sapere, il quale rimaneva privilegio come ogn’altra cosa; e in ogni città o provincia v’aveva quei due o tre in fama di dotti, al cui parere si riportavano tutti, dispensandosi dalla fatica del riflettere, e disapprovando chiunque pensasse diversamente.

La scarsa lettura e le difficili comunicazioni manteneano funesti pregiudizj, privavano del vantaggio che deriva dal ricambio d’idee, dal veder altri costumi, dal conoscersi a vicenda. I nostri ignoravano quel che scriveasi fuori, a segno che i pochi che lo sapevano affidavansi a copiarne le teorie, e fin le parole, sicuri di non essere scoperti. Eppure di gran depressione nel carattere nazionale era sintomo l’eterna imitazione dei Francesi; quanto da Parigi venisse sembrava un oro, e beato chi primo vestisse quelle foggie; di Parigi doveano venire i cuochi, i maggiordomi, i sartori; dovevasi cinguettar francese prima di saper parlare italiano; a Venezia recitavasi commedia francese. Scipione Maffei nel Raguet pose in iscena quei che il paterno sermone lardellavano di smorfie francesi: il Cesarotti trova che «la biblioteca delle donne e degli uomini di mondo non è che francese»: il veronese Becelli, dimenticato autore di dottrine anticipate, querelavasi del gran leggere e tradurre che gl’Italiani fanno le cose straniere, e dell’affettato lodarle per deprimere i nostri[219]; il [459] Chiari si lagna che «pensa francese chi nacque a Milano», che «pare credano nulla si stampi in Francia di cattivo», che «le donne il parlar tosco ignorano per balbettar francese»; e assennatamente soggiunge: — Abbiamo preso dagli stranieri gli abiti, i linguaggi, i vizj, ma non però spogliati i pregiudizj nostri».

Seguitavano i nostri ad andar fuori a procacciare guadagno co’ mestieri e coll’industria, fra i quali il Galignani di Palazzuolo bresciano a Parigi fondò il giornale del Messenger, che dura fin adesso. Di rimpatto Tommaso Lambe fin nel 1719 veduti i nostri torcitoj, li trasportò in Inghilterra e li perfezionò, ottenendovi quattordicimila lire sterline di premio[220].

La plebe, sotto il qual nome va inteso tutto il terzo stato, conservava il sentimento di religione e di famiglia, la riverenza all’autorità, l’amore dell’ordine; ma anche [460] molti pregiudizj, non contando quelli che pajono tali ai pregiudicati dell’età nostra; al malocchio, alle apparizioni di diavoli e di morti si credea generalmente, e n’erano pieni i discorsi de’ nostri padri. La plebe dunque soffriva men patimenti che oggi, ma più umiliazioni; e queste snervano il carattere, mentre può esser rinvigorito dalle calamità. Cento paure la circondavano; paura de’ nobili che poteano vessarla impunemente; paura de’ ladri, e altrettanta degli sgherri e de’ giudici, mal frenati dalla fierezza punitiva; paura de’ dazieri, che per qualche contrabbando poteano mandar sossopra una famiglia; paura di potenze misteriosamente malefiche[221].

Floscia dunque, annighittita, anche dove non era facinorosa, piena d’ubbie, scarsa di coraggio, servilmente venerabonda, data a grossolane sensualità, tutta nelle esteriorità della religione, temendo il male e non riparandolo, nè conoscendo il bene nè cercandolo per avversione alle novità, viveva giorno per giorno, senza gli spasimi della speranza, ma senza le gioje virili che questa cagiona. Uscir dal suo stato potea difficilmente con sì scarse occasioni d’arricchire, con tanti impacci alle arti, al commercio, alla comunicazione de’ possessi; nella milizia non poteva aspirare ad alti gradi; non mandare a studiare il proprio figlio, se non fosse per metterlo prete; ma anche qui le migliori dignità erano preoccupate dai patrizj.

Affollati da tante meno cure, poco tormentati dall’enorme [461] fatica del pensare, e da quella patologia morale, per cui si gode pestar la testa contro il proprio gabinetto, figurandoselo una prigione; adagiandosi in un facile presente senz’affannarsi del domani, avendo tempo d’avanzo per le faccende e pei moderati bisogni, piacevansi di mangiari, di sollazzevoli brigate, e del farsi burle reciproche, e cercar occasioni di godere, di scialarsi, quasi il secolo ridesse di se medesimo. Magnifici erano i carnevali di Venezia, allegri dappertutto con maschere e cene e balli. Spesso rinnovavasi a Roma il combattimento dei tori al sepolcro d’Augusto; e al carnevale serbavansi i supplizj, e la corda da dare in pubblico ogni giorno, affine di prevenire i delitti, più facili in quel tempo. Neppur del tutto v’erano dimentichi i Misteri a modo del medioevo, e nel 1706 vi si rappresentarono la Presa di Gerusalemme e la Passione di Gesù Cristo, dove atteggiavano il Peccato, la Penitenza, la Grazia.

Molto piacevasi il mondo elegante al giuoco ed alle conversazioni. Tutti i viaggiatori convengono che la passione del giuoco fosse generale in Italia; e lord Marlborough nel 1760 perdette al faraone ottomila luigi negli otto mesi che passò a Torino. Pel popolo s’aveva il lotto di Genova, cominciato nel 1620, introdotto a Venezia il 1734, portato in Francia da Calsabigi nel 1765. Distinguevasi in lotto delle zitelle e de’ senatori: in quello imborsavansi cento nomi di fanciulle, a cui toccava una dote sortendo, e scommetteasi sul nome che uscirebbe; nell’altro giocavasi sui nomi che si trarrebbero dalla borsa, ov’erano tutti quelli capaci d’ottenere dignità. Dieci volte l’anno faceasi l’estrazione a Genova, nove a Roma, altrettante a Napoli, tredici a Milano, quindici a Torino; e v’ebbe chi profittò dell’intervallo per mandare telegraficamente a Napoli i nomi già estratti a Roma, e così ciuffar un guadagno. Dappoi si semplificò riducendo [462] l’estrazione a numeri colle loro combinazioni di ambo, terno, quaterno, cinquina. I teatri erano ancora accostati con una specie di ribrezzo: i rigoristi escludevanli come assolutamente immorali; altri casuisti dicevano potervisi andare, purchè fossero commedie savie e oneste: ma gli attori rimanevano repudiati dalla buona società.

La musica tenne maggior posto nelle società moderne, quanto più si raffinarono; e principalmente progredì nell’età che stiamo descrivendo. Nelle antecedenti la teatrale era scarsa peranco, prevalendo quella di camera o madrigalesca. Le cantate di camera a solo erano specie di pastorali, di gemiti amorosi in tono minore, dove s’intrecciavano mille fioriture e trilli e volate. Più che a farne vantaggiar l’espressione, i maestri pareano intenti a cercare difficoltà e fioriture, strascichi, tremoli, finte sincopi e altrettali bizzarrie, ed imitare col suono il rumor materiale degli oggetti indicati dalla parola. Così una musica senza espressione vestiva parole senza senso; e ne veniva di conseguenza che i cantanti si arrogassero il primo posto, e volessero che poeta e maestro servissero alle pretensioni loro.

I migliori compositori però si erano accorti che quel che tocca il cuore è la melodia. Il Palestrina, che aveva salvata la musica sacra rigenerandola (tom. X, p. 496), nelle composizioni profane seguì le leggi della fuga, allora consacrate dai maestri, le difficoltà superando con mirabile agevolezza, e con alcune dissonanze prodotte dal movimento delle parti raggiungeva la vera espressione dell’affetto; poichè non attinta la pienezza dell’arte, la melodia propriamente detta non conoscevasi ancora, bensì gli effetti del contrappunto. Fiamminghi erano i principali e più celebrati maestri della cappella di San Pietro a Roma e di San Marco a Venezia, ed introdussero le numerose voci divise in cori rispondentisi. [463] La musica madrigalesca veniva affinata da Luca Marenzio, Paolo Quagliati, Alessandro Strigio, altri compositori, e meglio dal Gesualdo principe di Venosa, a cui la melodia deve il suo sviluppo. Giovanni Gabrieli veneziano (-1612) mostrò ardita originalità ne’ grandi accordi di due, tre, fin quattro cori, che alternandosi formano contrasti imponenti, con ritmo già abbondante di combinazioni, e arrivò meglio d’ogni altro agli effetti drammatici, carattere della scuola veneta.

Gli stromenti, distinti in quattro classi, da corda, da vento, da tasti, da percussione, non aveano musica loro propria, ma confondeano gli effetti con quei della voce umana che seguivano all’unissono. Dappoi furono disposti in gruppi men numerosi; ma ancora, eccetto l’organo, limitavansi ad eseguire pezzi scritti per la voce umana. Il Gabrieli seppe tener calcolo della voce e dell’estensione de’ varj strumenti, e combinarli in guisa da rialzare l’effetto generale; scrisse pezzi per bassoni, tromboni, viole; alternò cori di voci umane con altri di strumenti, e nonchè negligesse la parola, s’affaticò di esprimere il senso generale e rialzare il particolare con figure di ritmo e capricci di vocalizzamento[222].

La rivoluzione da lui cominciata fu compita dal cremonese Claudio Monteverde, semplice violinista, poi direttore della musica del duca di Mantova, infine maestro di cappella a San Marco, ove passò trentasei anni. Contro le studiate combinazioni matematiche dei Fiamminghi, proclamò che la musica non è fatta per obbedire a regole astratte, ma per dilettare l’orecchio e dipingere i movimenti dell’anima; e perciò emancipandosi dalle tradizioni del cantofermo gregoriano, [464] nel terzo libro de’ suoi madrigali a cinque voci, pubblicato il 1598, arrischiava l’accordo della settima dominante senza preparazione e le dissonanze doppie e triple delle prolungazioni. Si gridò contro il novatore, ma il pubblico ne rimase allettato; e mentre egli ebbe lode soltanto d’ingegnoso, aveva iniziato una rivoluzione radicale, giacchè la dissonanza, non mostratasi fin allora che come anticipazione o prolungamento d’una consonanza, da lui fu resa fino a un certo punto indipendente, creando e la tonalità moderna e il vero accento passionato. E come nell’armonia la dissonanza fu il mezzo di esprimere le passioni, così nella melodia il ritmo, il quale inoltre dovea logicamente risultare dalla dissonanza, che di necessità creava delle cadenze periodiche. Per tal guisa la musica teatrale, fornita di tutti gli elementi della sua potenza, procedette e modificò anche la sacra da cui era nata, e venne a introdursi nella composizione l’unità dell’ottava qual è data dalla natura, sbarazzandola dalle varietà infinite degli accenti melodici, che equivaleano ai dialetti della lingua. Nel tempo stesso Luigi Viadana da Lodi pensava a scrivere pezzi di musica da chiesa, che potessero a volontà cantarsi a due, a tre, a quattro, come ad una sola parte, conservando pur sempre un’armonia piena; e gli venne trovato a tal uopo un basso stromentale continuo, che dovesse eseguirsi dalla sinistra mano dell’organista, mentre la destra sosteneva l’armonia delle altre parti, che accompagnano la nota fondamentale, talchè il ritmo acquistò una cadenza più sensibile, e la declamazione musicale assunse un genere di forme particolari.

Dalla sacra passava il perfezionamento alla musica profana, e trovata l’armonia della dominante quando appunto nasceva l’opera, la dotta melodia s’applicò a secondare la poesia sviluppandosi dalle complicazioni della musica madrigalesca; onde si aprì maggior campo [465] all’originalità, distinta la musica in scuole, e variata non soltanto nelle danze e nelle canzoni, ma anche in lavori pensati.

Di Giuseppe Zarlino (-1599) allievo del Villaert, fondatore della cappella di San Marco, le Istituzioni armoniche furono miniera de’ teorici successivi: mentre le sue Dimostrazioni armoniche, irte di calcoli, diedero origine a vane dispute intorno all’arte. Per oratorj e musica da chiesa lodarono Antonio Bononcini modenese, di stile elevato e artifizioso, e Bernardo Pasquini toscano, careggiato da Maria Cristina e da altri principi. Benedetto Marcello (1686-1739), veneto e magistrato, prima dei vent’anni compose un corso d’istituzione musicale; puntò i primi cinquanta salmi, tradotti da Girolamo Ascanio Giustiniani; pezzi variatissimi per una, due o tre voci, con un semplice basso, e talvolta accompagnamento di viola. Era l’ispirazione interpretata dalla musica, e spoglia de’ capricci ch’egli aveva rimproverati ai teatranti in un’arguta satira; e tradotti anche in tedesco e in inglese, girarono tutta Europa. Uom pio ed elevato, raccoglieva gli artisti, e proponeasi di evitare gli abusi, che la vanità dei cantanti e la condiscendenza de’ compositori avea introdotto, ridurre la musica al suo vero uffizio di secondare la poesia nell’espressione de’ sentimenti e nell’interesse delle situazioni, e ciò con bella semplicità.

Agostino Stefani da Castelfranco (1656-1728) trevisano, cantore al Santo di Padova, poi a Venezia, indi in Germania con moltissima lode, fu dal duca di Brunswick adoprato in diplomazia, poi entrato negli Ordini, fu vescovo senza abbandonare la musica, e scrisse per dimostrare che quest’arte ha principj certi. Jacopo Carissimi veneziano (-1646), maestro della cappella pontifizia, che avea trovato gli accompagnamenti d’orchestra nella musica di chiesa, modellò con maggior grazia e semplicità il recitativo, [466] pel primo scrisse cantate, diè forma regolare all’oratorio, e restarono famosi il suo Jefte e il Lamento dei dannati. Così il miglioramento passava dalla chiesa al teatro. Rossi e Corelli ebbero idee meglio decise dell’armonia, e gli arzigogoli posposero all’espressione: Corelli innovò la stromentazione introducendo le sinfonie numerose, onde si potè meglio disporre l’orchestra, la quale anzi si arrogò l’importanza principale, fino a comporsi le note prima delle parole e senza di esse.

Disusati il liuto e la tiorba, delizia precedente, venivano in favore il basso di viola e il clavicembalo, ma pareano indecorosi il violone e l’accompagnamento. Il piano-forte, che credesi invenzione tedesca di Schröter, fu trovato nel 1750 da Bartolomeo Cristofori di Padova, che lo disse cembalo a martelletti; e migliorato dal Lotti[223]. Nicola Amati e la sua discendenza ebbero fama nel fabbricare stromenti a Cremona, e il loro allievo Antonio Stradivario trovò le proporzioni più convenienti pei violini, la cui sonorità non si potè più raggiungere neppure dai Guarnieri suoi creati; e pagavansi da tre a cinquecento lire, e sin ventimila un violoncello[224].

L’aria, sciolta dalla forma di recitativo, appare nel Giasone del veneziano Francesco Cavalli, rappresentato il 1649; ma direbbesi piuttosto una specie di minuetto. A farne uno sfoggio dell’abilità del maestro cominciò il Cesti (1651-1725) nella Dori del 1663. Alessandro Scarlatti napoletano diminuì le fughe e controfughe, i canoni ed altre leziosaggini, al cuore avvisando più che agli orecchi; [467] introdusse di obbligar il recitativo, perfezionato poi dal Vinci, e colle dissonanze risvegliava l’attenzione degli uditori, sopita dalla successione degli accordi. Nella Laodicea o Berenice schiuse nuovo calle alla musica drammatica, dando maggior vivacità alla stromentazione, sostituendo alle forme sillabiche del canto una libertà fin allora sconosciuta di vocalizzare. Ricco d’immaginazione e novatore nella melodia, nel recitativo, nelle particolarità, nell’istromentazione, le seicentodiciotto opere e ducento messe che compose divennero modello. Dalla sua scuola uscirono, oltre suo figlio Alessandro, il gran riformatore tedesco Händel, il Gizzi lodato per dolcezza, e il Durante di Frattamaggiore, tutto patetico e più dotto d’ogni altro di quella scuola, di cui formulò le dottrine, che viemeglio svolsero il canto avvicinandolo all’espressione. Procedettero via via in meglio il Leo, il Sarro, il Porpora, il Fea, l’Abas, fino a Pergolesi e Jomelli che riepiloga tutti i progressi antecedenti.

Quando a Napoli gli Austriaci immolavano i fautori di Filippo V, un fanciullo fu obbligato assistere al supplizio del proprio padre, e n’ebbe quasi ad impazzire; e distrutta la famiglia e la sostanza sua, fu menato in Ispagna e messo nel convento d’Astorga, donde, invece del perduto, trasse il nome di Emanuele d’Astorga. Educatosi nella musica, passò maestro di cappella alla Corte di Parma, poi a quella di Vienna, dove ebbe onori, amori, denaro, e finì monaco. Le sue composizioni spirano soave melanconia, e lo Stabat e il Requiem passano per inimitabili.

Alla napoletana facea gara la scuola veneta co’ bei nomi di Giovanni Croce, Baldassarre Donati, Cavalli, Legrenzi, Lotti severo e grandioso: e Bonaventura Furlanetto che mai non volle scrivere pel teatro. La sostenevano i conservatorj detti gl’Incurabili, i Mendicanti, [468] l’Ospedaletto, la Pietà, dove le fanciulle erano educate al suono e al canto; e molto ambìto n’era il posto di maestri, i quali doveano comporre ogn’anno alcuni oratorj in latino, che dalle zitelle stesse eseguivansi le domeniche ai vespri, ed erano un altro degli spassi di Venezia.

L’Opera dall’Italia si estese ai forestieri; e la scarsità di commedie e tragedie buone le cresceva pregio, malgrado i difetti e le lascivie dell’arte. Dopo Rinuccini, il dramma affogò tra il meraviglioso e le sconvenienze. Nel Rapimento di Cefalo il Chiabrera affastella mitologia e allegoria, oceano, sole, notte, segni dello zodiaco che parlano, trabalzi dalla terra nel cielo, nell’aria, nei mari. Nel Dario di Francesco Beverini, in tre atti volano quattordici volte le scene, con campo, macchine, elefanti, cavalleria e fanteria. Nella Divisione del mondo, rappresentata a Venezia il 1675, comparivano le parti del mondo coi simboli proprj e con meraviglie di meccanica, poichè a quel gusto soddisfacevano ingegnosissimi macchinisti, principalmente alle Corti di Firenze e Torino. Talora avanti a Cesare in Utica compariva un globo, mosso non si vedeva da chi, e spaccavasi in tre parti; talaltra in aria apparivano a fuoco anagrammi, bisticci, divise; poi si rappresentavano amori senza velo, rinforzati dalla musica; oltre un buon corredo delle metafore di moda. Delle sconvenienze storiche e morali non parlo, giacchè nessuno faceva mente al senso, nè stomacava il vedere Persepoli mandata in aria da una mina.

Fra i poeti melodrammatici del Seicento ci corrono alla penna i nomi dei veneziani Matteo Noris e Aurelio, di Sebastiano Biancardi napoletano, Ippolito Bentivoglio d’Aragona e Grazio Braccioli ferraresi, Giovanni Bernini prelato romano, Silvestro Branchi e Giuseppe Maria Buini bolognesi. Filippo Acciajuoli fiorentino, [469] cavaliere di Malta, girò Europa, Asia, Africa, America, musicando composizioni proprie; singolarmente lodato per meccanismi e trasformazioni; inventò un teatrino di marionette con ventiquattro mutazioni di scene e cenventiquattro fantoccini, che bastava egli solo a dirigere. Leopoldo, figlio dell’imperatore Ferdinando II, nel 1626 vide a Mantova rappresentare dagli Invaghiti l’Europa di Monte Simoncelli, e tanto se ne piacque che introdusse l’opera a Vienna, dove si ebbero poi sempre poeti cesarei, cominciando da Nicolò Minato bergamasco e Francesco Sbarra lucchese.

I miglioramenti della musica contribuirono a migliorare le composizioni; si cominciò a far parlare gli eroi con meno lezj, si sostituirono soggetti storici ai fantastici, si separò il serio dal buffo, il sacro dal profano; da cinque furono gli atti ridotti a tre, tolti i prologhi, relegate in coda alla scena le arie, fatta parsimonia di decorazioni. In tal fatto ben meritarono Silvio Stampiglia romano, e più Apostolo Zeno (1668-1750), eruditissimo veneziano, che fu chiamato poeta cesareo da Carlo VI; e «Non credo (dic’egli) essere mai stato amato da alcun amico quanto dall’imperatore». Ne’ soggetti sacri e negli oratorj meglio riusciva; ma in generale pecca di lentezza negl’intrecci, di prolissità nelle scene, d’intrico negli incidenti; si vale a man salva de’ francesi, talvolta fondendo due o tre composizioni altrui, come fece di Euripide e Racine nell’Ifigenia; se va mondo dalle consuete gonfiezze, manca di spontaneità ed eleganza nello stile; e ben di rado raggiunge la fluida armonia che al canto si richiede.

Il Gravina, che, come di sommo legista, così affettava il titolo di gran tragico, udì un giorno Pietro Trapassi (1698-1782) garzoncello che vagava per Roma improvvisando, e presolo seco, ne grecizzò il nome in Metastasio, e morendo gli lasciò quindicimila scudi. Il giovane prestamente [470] vi diè fondo, e costretto vivere di guadagno, cominciò a comporre drammi; e Marianna Bulgarelli, attrice lodatissima col nome di Romanina, prese a dirigerne gli affetti e il genio. Colla ospite sua, tratto a Vienna poeta cesareo, colla provvigione di tremila fiorini, e con la grazia e l’affetto di Maria Teresa, i re lo onorarono e donarono a gara; tutti i mediocri sollecitavano da lui quelle parole di cortesia, che la vanità interpreta per giudizj[225]. Così spontaneo ci sembra, eppure componea con tal ritrosia, che per vincerla erasi prefisse ore allo studio, quasi non dissi all’ispirazione. Le donne, sue protettrici in vita, gli diedero [471] fama anche presso i posteri; e al voto di mezzo il genere umano chi negherà valore? La dolcezza, suo carattere, gli fa perdonare sin le frequenti sgrammaticature; ma degenera in bambolaggini, tanto più quando sceglie temi elevati, a cui mal s’acconciano la perpetua armonia e il fare madrigalesco del melodramma; e costretto dalla celerità del componimento ad esagerare, l’eroismo trasforma in valenteria, l’amore in leziosaggine. Gli stessi caratteri, le situazioni stesse riproduconsi; dappertutto amanti che parlano di morire, scellerati di professione, donne di vendette atrocissime, sentenze accumulate quanto in un predicatore. Gl’intrecci geminò e fin triplicò; abituali le inverosimiglianze; frequentissimi i riconoscimenti pei mezzi posticci d’una lettera, d’un segno; e gli a parte e i monologhi obbligati per isviluppare le passioni; passioni del resto brancicate non ritratte al vivo, con lineamenti generalissimi, senza discernere paese o età. Della verità locale o storica non si dà briga; una principessa di Camboja invoca le Furie d’Averno; un re di Persia parla delle sponde del pallido Lete e della nera face in Flegetonte accesa; i Babilonesi di Semiramide inneggiano Imeneo; Astiage padre di Ciro sagrifica nel tempio della dea triforme; Abele invita le genti a lodar seco il Signore; e tre fanciulle cinesi, propostesi d’improvvisare un trattenimento, l’una sceglie la tragedia d’Andromaca, l’altra un’egloga sotto il nome di Licori, la terza racconta un viaggio ove si parla della toilette e della charmante beauté. Che importa? l’archetto abolì le leggi della verosimiglianza, e l’intelligenza addormentasi nell’armonia: e il poeta fa tutto in superlativo: le feste magnifiche, le foreste cupe, le procelle furiose, i templi giganteschi, più che non siensi mai veduti: siccome i re son sempre tipi di giustizia; l’amore sempre il più casto; l’eroismo è il più esaltato, generosità impossibili, virtù incomparabili, [472] e sempre trionfanti: eroi che van a morte cantando, mentre il tiranno stesso li supplica a dire quella sola parola che salvi e loro e tutti; romani che sagrificano parenti, gloria, vita al dio patria; imperatori che si ostinano a perdonare anche ai maggiori ribaldi; popolo che a coro impone sempre il partito più magnanimo o impedisce il delitto. Eppure va lodato di aver voluto arricchire il dramma con tutti gli spedienti artistici, non stringerlo nelle fasce precettorie: alle unità di scena e di tempo mostra che i Greci mai non s’erano attenuti; cerca le situazioni, e con arte le conduce; e conoscendo a meraviglia la teatrale decorazione, ritrova luoghi convenientissimi a colpi di scena dignitosi; non si piace atteggiare fatti atroci: e benchè scrivesse sempre d’amore, mai non errò d’oscenità. Quell’elocuzione svelta e viva, quel dialogo rapido e intercalato possono insegnare qualche cosa ancora al secolo che lo vilipende quanto il suo lo divinizzò. Per verità sarebbe rigore il volerlo esaminare come un tragico; ma non si può dissimulare che egli portò e distrazioni e sdolcinamenti, di cui l’Italia aveva tutt’altro che bisogno.

Quelle similitudini con cui rallenta l’azione, introdussero nella musica mille varietà e capresterie e imitazioni di suoni: ma allora si finiva coll’aria, ora coi pezzi concertati; allora l’azione conduceasi per mezzo del recitativo, il quale oramai ne fu sbandito; onde i drammi del Metastasio cessarono dal teatro[226].

Su composizioni migliori, migliore fu la musica. [473] Giambattista Pergolesi da Jesi (-1736) studiò la natura, e riuscì inimitabile per semplicità accoppiata a grandezza; elevò l’armonia alla massima eccellenza; possedè tutti i modi della sublimità profetica alla cobbola scherzevole, dallo Stabat Mater all’opera buffa; ma primeggiò nelle meste armonie, che sembrano l’impronta dei maestri di breve vita, come Weber e Bellini. Perocchè moriva a ventisei anni; e mentre vivo non ottenne che fischi, fu gridato il Rafaello della musica, e l’estremo dell’arte consideravasi la sua Serva padrona, a pari col monologo nella Didone di Metastasio, musicata dal Vinci. Nicola Jomelli d’Aversa (-1774) s’immortalò sul Miserere e su molti drammi di Metastasio, e divenne la delizia d’Europa. Domenico Cimarosa napoletano (-1801), da tutte le Corti d’Europa accolto e rimunerato, musicò più di cenventi opere, lodate per felici effetti scenici, unità nei partiti, ricchezza d’accompagnamento; e il Matrimonio segreto si applaudisce ancora. Giovanni Paisiello da Táranto (-1816), allievo del Durante, estese l’uso degli strumenti da fiato e le sinfonie, non però sì che coprissero la voce umana; introdusse i finali nelle opere serie e i cori nelle arie; l’unità del pensiero lumeggiava con mille variamenti, e nel Tedeum e nella Nina pazza offerse modelli di genere opposto. Esso e Guglielmini diedero forma nuova alle cantilene e all’istromentazione; e sapendo d’essere i maestri più cercati, s’accordarono di non comporre alcun’opera per meno di seicento ducati.

Il Cafariello (-1787), scolaro del Leo, poi successore nel dirigere il conservatorio della Pietà a Napoli, indi la cappella reale, nella musica da chiesa e da teatro sapeva adattare i motivi del sentimento, senza sbalzi ma con progressione armonica e soavità. Antonmaria Sacchini, anch’esso napoletano e allievo del Durante e molto dimorato in Inghilterra, piace per amabile e facile fare, dolcezza, melodia; e coll’Edipo a Colono parve ai [474] Francesi toccasse il punto supremo. Prima di comporre leggeva qualche sonetto del Petrarca; e D’Alembert disse che le sue sonate sono un sentimento e un linguaggio, piuttosto che un suono e un’armonia. Giuseppe Sarti di Faenza (-1802) gli succedette come maestro al conservatorio dell’Ospedaletto a Venezia, poi a Sartori nella cappella del duomo a Milano, infine diresse la musica alla Corte russa, e nel Tedeum per la presa di Okzakow introdusse anche i cannoni; eppure aveva grazia ed espressione, e fu maestro di Cherubini. Il Pachierotti (-1825) fu filosofo della musica. Il Salieri di Legnago, maestro di cappella a Vienna, attese ad opere buffe, poi anche a serie sulle orme di Gluck, con condotta drammatica. Boccherini, re dei quintetti, precedette Hayden nel perfezionare la musica istromentale.

Giuseppe Tartini (1692-1770) istrioto di Pirano, resistendo al padre che voleva mandarlo minorita, si pose alla legge in Padova, ma più divertivasi della scherma e dell’amore; e sposata una parente del vescovo, fuggì con essa, vagando finchè ricoverossi nel convento d’Assisi. Quivi applicatosi alla musica, riuscì stupendo violinista; allora perdonato, fu lungo tempo ad Ancona, poi per cinquant’anni maestro alla cappella del Santo di Padova, ove cominciò una scuola famosa. Erede degli scritti del Corelli, princeps musicorum, anzichè musicæ, che aveva fondato su regole l’arte del violinista e vincendolo in felicità di motivi, il Tartini estese le ricerche sulla produzione de’ suoni, chiedendo la spiegazione dell’armonia mediante sperienze acustiche ingegnose, che sfuggono alla comune dei compositori, e ridurrebbero a mero calcolo un’arte che trae efficienza dal sentimento, e dove le teorie dell’acustica mai non rendono ragione del ritmo. Così scoperse il terzo suono che esce dal toccare due corde all’unissono, del violino ingrossò le corde e allungò l’archetto, e dettò Lezioni pratiche. L’accusano d’avere sagrificato [475] il sentimento alle difficoltà, ai trilli, ad altre fioriture; pure ne’ suoi adagio il violino parve acquistare veramente un’espressione drammatica. Nel 1725 da Carlo VI invitato a Praga, diede buon indirizzo a Stamitz, illustratosi poi a capo della scuola di Manheim. Morì di scorbuto fra le braccia del Nardini, uno de’ suoi migliori allievi; fra’ quali furono segnalati i Pollani, Pugnani e Giambattista Viotti (-1821) di Fontaneto piemontese che nella musica volea grandezza non capricci, e riuscito originale per grazia e sublimità, fu festeggiato in tutta Europa, e lasciò a stampa molte composizioni. Insigne violinista e compositore di drammi fu pure Antonio Bruni di Cuneo, vissuto fin al 1823.

Tradizionalmente continuavasi a guardare come disonorevole la professione del teatro: nel Carolino a Palermo non si comportavano nè donne nè amori; ed è a vedere nella Storia letteraria del 1753 lo strano rimpasto che vi si fece della Clemenza di Tito per poterla rappresentare. Sui teatri di Roma, solo ai tempi di Pio VI, per istanza della Principessa Braschi si permisero donne. Vi supplivano i castrati, e la fortuna diede all’Italia molti egregi soprani, massime a Bologna e Napoli; superbi infelici, che elaboravano la laringe a segno da gareggiare cogli strumenti musicali, facendo quelle che Metastasio chiamava sonatine di gola. Baldassarre Ferri perugino, lodato da Rousseau per la voce più estesa, flessibile, dolce, armonica che mai si fosse udita, in un fiato discendeva e saliva due intere ottave con un trillo continuo senza accompagnamento, riscoteva applausi straordinarj; a Firenze gli uscirono tre miglia incontro personaggi principali; ritratti e medaglie e sonetti gli si profusero; la sua carrozza era tirata da uomini; a Londra una maschera gli offrì un bello smeraldo. Francesco Bernardi dalla patria detto il Senesino, era molto onorato da Händel.

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Il Caffarelli da Bari (1705-82), capace d’emulare gl’istrumenti più difficili e melodiosi, e che mostrò quanti abbellimenti può dare alla musica la voce, a Venezia toccò fin seicento zecchini per un carnevale. Il re di Francia gli mandò regalare una tabacchiera d’oro, ma egli al portatore mostrandone una raccolta di più belle e costose, — Almeno (soggiungeva) vi fosse il ritratto del re. — Ma questo non si dona che agli ambasciatori» replicò il segretario; e il cantante: — Tutti gli ambasciatori del mondo non farebbero un Caffarelli». Il re gl’inviò un diamante e l’ordine di andarsene subito. Sopra un palazzo ch’egli si fece fabbricare scrisse: Amphion Thebas, ego domum. Tanto guadagnò che comprossi la ducea di San Donato, cui unì la rendita di quattordicimila ducati.

Carlo Broschi detto Farinelli, napoletano e scolaro del Porpora, con una voce estesa di tre ottave eseguiva le arie più difficili di Händel, di Hasse, di Vinci, e trilli in gara cogli stromenti di fiato; e i contemporanei non hanno parole bastanti a lodare le corde sue robuste e flessibili. A Londra accolto in trionfo, guadagnò fino cinquemila sterline in un anno; un Inglese gridò in pieno teatro, — Non v’è che un Dio solo e un solo Farinelli»; e facendo egli da schiavo, e il Senesino da tiranno, questo nell’udirlo cantare dimenticossi del personaggio e l’abbracciò, e gli spettatori a freneticamente applaudirli. Gareggiava col Caffarelli: due usignuoli, dicevasi; l’uno che alla classe colta strappava ammirazione e lacrime; l’altro delizia del popolo per le vinte difficoltà. Il Farinelli a Madrid toccava quaranta mila lire l’anno; e ogni sera cantando innanzi a Filippo V[227], a vincere l’umor negro del quale l’aveva [477] chiamato Elisabetta, seppe divenirne confidente, consigliero ed arbitro: pure non abusò di quella grandezza; e scadutone, si ritirò a Bologna esercitando splendida ospitalità.

Su questi esempj si formarono il Rubinelli, il Pachierotti, ultimo de’ gran soprani, e il milanese Marchesi il quale, al tempo della repubblica, invitato dal Miollis a dare un’accademia, ricusò con una generosità ben insolita allora rispondendo, — Il generale straniero può farmi piangere, non farmi cantare». Secondarj rimanevano i tenori; però fu vantato il Burzolini cantante del duca di Mantova, poi Ettori dell’elettore palatino, Rauzzini che anche compose, Crivelli sublime nella Nina Pazza, Batino, Davide, Ansani ed altri: ma solo Rossini diede importanza a queste voci, nelle quali poi primeggiarono Garcia, David figlio, Nozzari, Mombelli, Bonoldi, Donzelli, Rubini, Moriani e gli altri nostri contemporanei.

Così careggiati, pensate se i cantanti trascendessero [478] in pretensioni e ostinatezze; le virtuose battevano il tempo collo scettro o col ventaglio, sorridevano ai palchetti, prendeano tabacco, lanciavano villanie al rammentatore, sfibbiavansi per gorgheggiare a miglior agio, e alla fine uscivano mezzo svestite. Guadagni, facendo da Ezio, al finale mutavasi in Teseo perchè gli piaceva combattere col Minotauro: una bella non volle mai cantare il larga mercede di Metastasio, ma ampia[228]. Lodatissime troviamo pure Vittoria Tesi fiorentina e Faustina Bordoni veneziana; e famosa non meno pel canto che per le bizzarrie la romana Gabrielli Caterina, scolara del Porpora e del Guadagni pel canto e del Metastasio per la declamazione. Dai grandi facevasi pagare profumatamente, per poi prodigare coi teatranti. L’ambasciatore di Francia per gelosia le diè una stoccata; ma schermitane dal busto, essa volle la spada del pentito, e destinava conservarla per trofeo con un’iscrizione, se Metastasio non l’avesse rabbonita. Un signore fiorentino mostratosi accorato per un manichino suo ch’erasi stracciato ad uno spillo della Gabrielli, essa il domani gli mandò sei bottiglie di vin di Spagna, ove faceano da turaccioli altrettanti superbi merletti di Fiandra. Da Caterina di Russia chiese per stipendio diecimila rubli. — Non pago tanto neppure i miei marescialli», disse la czarina; e l’attrice: — Ebbene, fate cantare i vostri marescialli». A Palermo avendo eccitato un inesprimibile entusiasmo, quel vicerè la invita a un pranzo di cerimonia; vien l’ora, ed essa non compare; mandasi per lei, e la trovano placidamente a letto, nè per esortazioni volle muoversi. La sera cantò sottovoce, dicendosi indisposta; e il vicerè mandò a minacciarla; ma [479] essa: — Mi farà gridare, ma cantar no». Finito lo spettacolo, è messa in cortesissimo arresto per dodici giorni, ne’ quali essa diede pranzi scialosi, soddisfece per debitori carcerati, la sera tenea circolo cantando ai prigionieri con quella maggior maestria che sapesse; e quando fu sciolta, una folla di poveri l’accompagnò dal carcere a casa in trionfo. Quando nel 1780 cantò a Milano col Marchesi, si formarono due partiti, che contrariavansi in teatro e sui caffè, sin co’ pugni e colle spade.

Queste frenesie diventavano uno scandalo quando si portavano alla chiesa. Ivi la musica si facea con fragore e schiamazzo; una volta si infilarono quattromila amen; e perchè gl’istromenti da fiato in qualche luogo erano proibiti, sonavansi di fuori; e gli astanti applaudivano spurgandosi[229]. Ma i maggiori maestri scrissero anche per la chiesa; e celebri furono lo Stabat Mater e la Salve regina del Pergolesi, la messa di requiem di Mozart; di Paisiello la cappella reale di Parigi conserva ventisei messe, il mottetto Judicabit in nationibus, il Miserere, l’oratorio della Passione.

Altri intanto raffinavano la teoria della musica, come Rameau di Dijon, che superando Lulli, diffuse il Sistema del basso fondamentale; come il nostro Tartini; come il padre Giambattista Martini bolognese (-1784), allievo dell’insigne Giacomo Antonio Perti. Scrisse egli sulle correlazioni della musica colla matematica, fece la più estesa raccolta di trattati di quell’arte, e una storia, i cui tre volumi si limitano alla musica ebrea e greca. Alla teorica associò eccellente pratica, sebbene più d’arte che di genio; ed ebbe da tutti i sovrani d’allora testimonianze, quali non ottenevano i pensatori; insisteva si conservasse alla musica ecclesiastica il far grande e maestoso, [480] e la primitiva semplicità si surrogasse a strepiti da piazza e sdulcinature da teatro.

Il padre Giovenale Sacchi (-1789) barnabita milanese, tentò ricomporre il sistema musicale degli antichi, e volgere quest’arte più ad elevare il sentimento che a blandire i sensi, e alla cognizione delle teoriche univa l’eleganza dell’esposizione[230]. Eccellente compositore e precettista fu pure il padre Sabbatini di Padova.

Nicola Piccini di Bari, scolaro del Durante, colla Cecchina scritta dal Goldoni avea destato universale meraviglia, e dato il primo esempio dei finali concertati, tanto poi estesi da Cimarosa e Mozart; colla Zenobia di Metastasio sorpassò i contemporanei, e osò musicare di nuovo l’Olimpiade, già puntata da Pergolesi e Jomelli. Molte novità introdusse egli; i semitoni nel patetico, gli artifiziosi pezzi concertati, gli stromenti di rame nelle orchestre; nel genere buffo l’espressione graziosa e l’armonia in luogo della musica di note e parole. L’invidia gli pose a fianco Anfossi, che attento all’espressione, puntò la Nitteti, la Betulia liberata, la Clemenza di Tito del Metastasio; del che Piccini insofferente, lasciò l’Italia dove già avea messo in scena cento opere. In Francia preso maestro da Maria Antonietta, e venuto di moda, a fronte alla dominante di Gluck che asseriva poesia e musica doversi dare mano, nè la verità dell’espressione poter mancare al bello drammatico, elevò la scuola de’ Piccinisti, che nella melodia riponeva ogni merito, nè la musica dover sovvertirsi per seguire le inezie de’ poeti. Musici ignari di lettere, letterati ignari di musica, e la folla scioperata, [481] e i filosofi ringhiosi ne vennero a litigi non meno fervorosi di quei che allora agitavansi per la libertà americana, e di mezzo ai quali faticava a trovare via la colonia fondata dal Sacchini pei migliori intelligenti.

Scatenatasi la rivoluzione, Piccini, perduti i protettori e gli stipendj, tornò a Napoli povero; dal re che sulle prime l’avea ben accolto, fu abbandonato come propenso ai novatori; carcerato, poi sciolto, non ebbe favore neppure dai repubblicanti, e tornato in Francia, vi morì, lasciando più di cencinquanta opere. Singolare vanto del conservatorio di Napoli è l’avere prodotto Majo, Trajetto, Paisiello, Piccini, Guglielmi, Cimarosa, Sacchini, e quel Francesco Araja, che introdusse fin dal 1735 l’opera italiana a Pietroburgo, facendovi eseguire il Cefalo e Procri, primo dramma serio in quella favella.

Poco graditi fra noi erano i sublimi forestieri Hayden e Mozart, per opera de’ quali, di Beethoven, degli altri artifiziosi stromentatori, la musica arrivò ad emanciparsi del tutto dalla parola; fin la musica sacra ne restò ingombra e andò via via dibassando; in Mayer il canto dovè servire agli accompagnamenti; il recitativo fu sbandito, come dai disegni barocchi la linea retta. Il qual Mayer però fu maestro di David, di Donzelli, di Bordogni, di Donizetti.

Anche il ballo venne a competere a vantaggio coll’Opera. Che i pantomimici fossero conosciuti da antico in Italia, ce lo provarono molte delle feste da noi descritte; accompagnarono per intermezzo le prime composizioni teatrali come la Calandra; e avemmo eccellenti inventori, quali il Ballasarini che preparò le feste alle Corti di Caterina de’ Medici e d’Enrico III; il Durandi in Inghilterra; e Torino principalmente acquistò rinomanza per intermezzi ballabili.

Dappoi vi s’insinuò la parte drammatica, raffinandola [482] a segno, che fin sedici sorta di caratteri conoscevano i maestri, e se all’Opera bastavano due o tre scene nuove, sei ed otto ne pretendevano i balli, ed ottenevano silenzio ne’ palchetti, ove durante il canto si schiamazzava, giocava, mangiava. I Tedeschi li ridussero storici, e tali furono recati in Italia col Telemaco di Pitraol. Il Milanese Gaspare Angiolini, rinomato direttore del teatro di Vienna, introdusse anche la pantomima comica. Giannandrea Gallini ballerino, impresario di teatri a Londra, ornato dal papa collo Speron d’oro, scrisse un trattato della danza.

Il pittore Servandoni fece spettacoli di sola prospettiva, ed alle Tuilerie rappresentò con null’altro che scenarj la storia di Pandóra: sono ricordati molti di quelli, onde per diciott’anni egli incantò i Parigini, sovrattutto una calata di Enea all’inferno, con sette cambiamenti. Insomma pretendeano una vita loro propria le diversi arti, il cui complesso aveva formato la magia dei vecchi teatri.

Qui ridottane l’importanza, non è meraviglia se pochissimo campo rimaneva ai più intellettuali esercizj della tragedia e della commedia, nelle quali viepiù si risentiva il divorzio fra letterati e popolo. I letterati faceano componimenti d’arte fredda, convenzionale, che nessuno leggeva, e recitati addormentavano; il popolo pascolavano persone di mestiere, dando traccie di commedie a soggetto, di cui gli attori medesimi improvvisavano il dialogo, giovandosi delle maschere, caratteri generici, adattabili a qualunque intreccio. L’uditorio era vulgare, e prendeasi spasso, per esempio, dell’abilità degli smoccolatori, applaudendoli o fischiandoli. Gl’impresarj voleano attirar folla col solleticare i bassi gusti. Attori erano sarti, calzolaj, tesserandoli, che la sera tramutavansi in Nini e Arbaci, o in Fiorindi e Lelj. Il Cerlone, setajuolo napoletano, segnalato nelle maschere [483] di Pulcinella e del Dottor Fastidio, fece un’infinità di selve di commedie a braccio, tutte facezie, brio, satira, frequenti scurrilità e lubriche allusioni; sostenute in atti interminabili, con trasformazioni a vista e scannamenti da macello: riscosse lungamente l’ammirazione de’ Napoletani, che vi vedeano ritratta la propria vita, e rideano e applaudivano, con grave scapito di lui che avrebbe potuto riuscire qualcosa se avesse compreso la propria vocazione, e non si fosse, quando volea far meglio, storpiato nell’imitare. Famosi divennero i Sacchi nel personaggio d’Arlecchino.

Da tre in quattrocento lire pagavano gl’impresarj una commedia al Goldoni o al Chiari; tre zecchini quelle a soggetto, quaranta il dramma. Si contò come uno straordinario che, al Convitato di pietra, commedia a soggetto, la porta fruttò seicensettantasette lire. In Bologna un teatro appigionavasi due mesi per sessanta zecchini. A Venezia ce n’era quattro da commedia, e ai più cari il biglietto valeva una lira, due (lire 1.20) per l’opera seria, una e mezzo per la buffa, oltre una lira per la sedia. San Benedetto s’apriva al tocco dopo mezzodì, San Moisè e San Samuele alle nove, altri all’Avemaria. Le migliori parti nobili toccavano sessanta o settanta luigi l’anno, quando in Inghilterra settecento.

Luigi Riccoboni modenese (1674-1753), acquistata fama come attore col nome di Lelio, pensò rinettar il teatro dalle farse scurrili e mostruose, e fece rappresentare le migliori nostre; ne tradusse e imitò del Molière, ma vedendo fischiata la Scolastica dell’Ariosto, disperò e andossene in Francia, dove ottenne vivi applausi come attore. Diede anche una Storia del teatro italiano, analizzando le principali composizioni; lavoro nè esatto nè sagace. Nelle Osservazioni sul Molière critica gli spettacoli che crede pericolosi alla morale, e nella [484] Riforma del teatro vorrebbe escluso il ballo e tutti i drammi fondati sull’amore: e fin al voto di sopprimere il teatro lo portava la pietà, per la quale poi si ritirò affatto dal mondo[231].

L’abate Chiari bresciano scombicherò un profluvio di commedie e di romanzi, la Cinese in Europa, la Vedova di quattro mariti, l’Isola della fortuna, i Privilegi dell’ignoranza..... ove la slombata affettazione e la pomposa goffaggine e la mistura d’enfatico e di fiacco tolgono ogni pregio alla ricca fantasia. Ma egli «spiando il genio poetico e prosastico de’ leggitori», seppe attirare la folla, massime nelle commedie a soggetto, con decorazioni, fuochi, trasformazioni, e provò l’ebrezza degli applausi, quanto s’incallì agli strapazzi[232]. Colla vita cessarono questi, ma anche la sua memoria.

Pochi uomini furono dalla natura dotati così riccamente come l’avvocato veneziano Carlo Goldoni (1707-93): ma [485] non si coltivò, e fu nociuto dalla patria e dal tempo; perchè, invece di ribellarsi, come Shakspeare, alle esigenze del gusto, vi si adagiò accidiosamente. Poco badò ai libri ma alla società, e mai non si mostra nè melanconico nè metafisico. Divagarsi nella politica non era permesso a Venezia, dove un nobile che si fosse creduto offeso, bastava a farlo il mal capitato, sicchè quella sua ricca varietà e finissima arte d’improntare i caratteri non rivolse che a dipinger quella società, la quale spiana le fattezze risentite e i colori ricisi, e si ridusse a fatuità d’uomini, civetteria di donne, cozzo di frivole vanità, costumi triviali, passioni superficiali, vigliacchi vantatori d’onorevolezza, donne indilicate, fisonomie scorbiate, anzichè quelle vere che sono d’ogni tempo. Ma chi meglio maneggia la scena e il dialogo? chi ne’ caratteri, per quanto prosaici, adombra meglio quella mistura che s’incontra nella realtà senza le idealità romanzesche? dove trovare tanta abbondanza di stile famigliare? La lingua letteraria che mal conosceva, non porgeagli il brio arguto, i frizzi efficaci, l’evidenza che solo dal dialetto possono esser dati, e che fanno di gran lunga superiori le commedie che dettò in veneziano. Fosse nato francese il suo Bourru bienfaisant palesa qual sarebbe potuto riuscire: fosse nato fra que’ Senesi e Fiorentini ch’egli chiamava testi vivi, quanta espansione non avrebbe dato alla lingua parlata, se tanto vi giovò il Fagiuoli, il quale altro pregio non ha che la dizione?

Le persecuzioni e le onte de’ compatrioti il Goldoni sopportò senza fiele: poi ne cercò consolazioni in Francia: ma narrando gli applausi che ivi lo ristoravano, non sa trovar espressione più efficace che dire, — Mi parea di trovarmi nella mia patria». E colà morì, come Metastasio era morto a Vienna. Degli avversarj suoi il solo degno di menzione è Carlo Gozzi (1720-1801), [486] il quale, irato al ventoso stile del Chiari ed al forense del Goldoni, li bersagliò con satire, principalmente la Tartana degli influssi; e poichè gli si opponeva il gran concorrere del popolo, alle rappresentazioni del Goldoni, egli si propose di tirarne altrettanto a scempiaggini da veglia. E scrisse le Tre melarancie, fiaba di pura fantasia; e gli applausi che ottenne ancor maggiori dell’aspettazione l’animarono ad altre, il Re Cervo, Re Turandote, i Pitocchi fortunati, la Donna serpente, il Mostro turchino, l’Augel belverde, molto valendosi delle commedie spagnuole, benchè le chiamasse strane e mostruose. Per vero, s’accorse egli dell’efficacia popolare, onde proclamò non doversi abbandonar la commedia dell’arte, produzion nazionale, bensì migliorarla; non abbiosciarsi ne’ precetti, ma ringalluzzire nell’immaginativa. È in fatto la via di giungere alla novità, ma purchè si sappia reggerla colla ragione. Il Gozzi invece la sbrigliò; traeva sulla scena gli accidenti del giorno, le baruffe letterarie; talvolta l’attore volgevasi alla platea, talaltra additava uno spettatore; e si rideva, e applaudivasi l’arguzia, per quanto inurbana e scorretta. Amoreggiava egli una Teodora Ricci commediante, quando a costei pose assedio Pier Antonio Gratarol, uom maturo e segretario del senato: se n’adontò il poeta, più se n’adontò la Caterina Vitalba procuratoressa fin allora corteggiata dal Gratarol, e si accordarono per la vendetta. Il Gozzi adattò alle scene Le droghe d’amore, dramma spagnuolo di Tirso di Molina, e sparsone il segreto, indicibile folla accorse al teatro di San Luca: la Caterina aveva combinato che un attore, somigliante di figura e più di addobbo e di portamenti al Gratarol, rappresentasse il don Adone, e andava dicendo: — Venite a veder mio marito sulle scene». Il Gozzi, sbigottito dall’eccesso dello scandalo, cercò invano impedirlo: già il pubblico se n’era insignorito: [487] gli applausi non furono pari che alle risa, tanto più che il Gratarol istesso volle intervenirvi: il quale però ne’ giorni seguenti trovandosi bersaglio alle celie plebee, non ebbe pace finchè non andò a finire i suoi giorni nel Madagascar[233].

Sorretta con tali artifizj, la fama del Gozzi dovette presto traboccare: ma se fu assurdità da giornalista quella del Barotti che chiamollo l’uomo più straordinario che siasi veduto dopo Shakspeare, è vero che di fuori trovò ammiratori coloro che l’immaginoso o il paradosso ricevono per segno d’originalità; Schiller tradusse alcuna fiaba di lui; altre furon lette in cattedra a Halla.

Camillo Federici 1751-1802 di Garessio piemontese, pensò più ch’altro a servire agli attori e all’effetto scenico, e imitando Kotzebue, infelice sentimentalista, moltiplicò commedie non fondate sulla vivacità scenica, la pittura dei caratteri, la scorrevolezza del dialogo, ma d’intrecci complicati, di personaggi gemebondi, di stile declamatorio; lavorando di fretta, ricadde ne’ mezzi stessi, nelle stesse scene, nello stesso scoprirsi di qualche principe nascosto. L’insieme in generale è ben concepito e distribuito, il dialogo sostenuto, e il Rimedio peggior del [488] male, La bugia vive poco e alcun’altra furono ancora tradotte e restano ne’ repertori; ma n’è sempre vulgare lo stile, e la moralità non risulta dall’azione ma da precetti introdottivi a pigione. Carlo Greppi bolognese colle tre Terese ottenne applausi; e la Gertrude d’Aragona, recitata primamente a Milano nel 1785, parve delle migliori tragedie.

Il duca di Parma nel 1770 propose un concorso annuo di produzioni teatrali da cui fu eccitato l’Albergati Capacelli, cattiv’uomo, ingegno pieghevole e spiritoso, che dell’arte teatrale avea buone idee, e fu tra i fondatori d’un teatro patriotico a Bologna per servir di modello agli attori mercenarj. Le sue composizioni presentano condotta e moralità, ma nè naturali fisionomie nè rapido dialogo. Uno di que’ premj toccò a Napoli Signorelli napoletano, che stese anche una storia critica dei teatri, scarsa di gusto, e ricca di quella boria di paese che s’intitola patriotismo. L’Avelloni rubacchiò lo spirito di Beaumarchais e d’altri, e da staffieri o gente infima fa scagliar frizzi contro la classe media, con brio di dialogo, e anche verità in quei caratteri che potè ritrarre dal vero.

E taciam d’altri, ciò bastando a provare che non a torto dicea Voltaire: — I bei teatri sono in Italia, i bei drammi in Francia».

CAPITOLO CLXXII. Lettere e arti belle.

Così ci facciamo via a discorrere della letteratura, nella quale riscontreremo arte, studio, conoscenza dei classici, non l’intelligenza del sublime suo scopo.

Il latino era sempre fondamento all’istruzione letteraria, e molti l’usavano con facilità, alcuni con eleganza. [489] Jacopo Faciolati padovano (1682-1766) professava, che i libri brevi sono i migliori, e ad Angelo Fabroni fiorentino, autore di venti volumi di Vite d’Italiani illustri, continuamente citate da coloro che non vogliono la fatica di giudicare da sè, scriveva: — Se volete sieno lette, fatele corte»; dettò i Fasti dell’Università di Padova, purissimi ma scarni; e cominciò il Lessico della latinità, compiuto da Egidio Forcellini di Fenér sulla Piave, poi supplito dal Furlaneto padovano. E padovano fu Ferdinando Porretti, la cui Grammatica latina (1729) si adottò in tutte le scuole, sebbene irragionata e materiale; come il vocabolario del Pasini. Latinisti lodati ebbero i Gesuiti; e Girolamo Lagomarsini genovese (1698-1773) formò eccellenti scolari, coadjuvò altri scrittori, stampò le Epistole di Giulio Poggiano con ampie note, e lavorò tutta la vita attorno alle opere di Cicerone, ma non trovò chi anticipasse la spesa della stampa; onde quello sterminato lavoro rimase inedito, come i trenta volumi di sue note in difesa de’ Gesuiti. Poetarono con fiacca delicatezza Natale dalle Laste vicentino; con eleganza l’abate Giovanni Costa d’Asiago; con fierezza Giulio Cesare Cordara, che sotto il nome di Lucio Settano avventò sermoni contro i falsi eruditi (1785), poi egloghe militari ed altro, e proseguì la storia dei Gesuiti del Jouvency dal 1616 al 1725[234]. Castruccio Buonamici lucchese espose la guerra italica fra gli Austriaci e Carlo III in elegante latino, avversando l’Austria colla penna, come già colla spada.

Gli studj orientali, coltivandosi per intento religioso, si restringeano all’ebraico e all’arabo, di cui i papi cercarono che nelle Università non mancassero maestri; il collegio di Propaganda colla sua biblioteca e colla stamperia prosperata da Gregorio XV, favorì a tali studj, [490] e sotto Pio VI fece stampare il Catechismo romano in arabo, grammatica e vocabolario curdo, l’alfabeto del Tibet e di Ava. Dei materiali ivi deposti si valse il padre Giorgi riminese per dare un Alphabetum thibetanum (1781) e informazioni sull’Asia centrale, ma cumulando testi con poco discernimento, nè forse buona fede; pare anzi ignorasse quella lingua: eppure altro libro non n’ebbe l’Europa sino alla grammatica dello Schröter nel 1826, e alla migliore di Cosma di Körös nel 34.

Clemente XI comprò manoscritti siriaci di Abramo Echellense, altri arabi, copti, etiopi di Pier della Valle. Giuseppe Simone Assemani, maronita nato a Roma, nell’Oriente dond’erano i padri suoi, andò a raccogliere scritti preziosi, stampò sugli Assassini e sugli Arabi avanti Maometto, intraprese il catalogo de’ manoscritti siriaci ed arabi della Vaticana. L’Œdipus ægyptiacus del tedesco gesuita Kircher, pubblicato dalla Propaganda, fermò primo l’attenzione sui geroglifici, ch’e’ diceva una criptografia sacerdotale per tenere arcane le dottrine, e che pretese spiegare. Che un elemento fonetico vi esistesse dubitò Giorgio Zoega danese, il quale mutatosi a Roma e al cattolicismo, stampò le medaglie egizie per commissione di Pio VI, e illustrò gli obelischi di Roma, dalle successive scoperte smentito.

Stefano Renaudot, nel 1713 dedicando la Storia dei patriarchi d’Alessandria a Cosimo III, diceva che, nel secolo precedente gli Orientalisti di tutta Europa aveano avuto per unico fondamento le opere pubblicate a Firenze. Ora però gli stranieri ci erano precorsi; e quanto poco si sapesse fin dell’arabo, n’è prova il maltese Giuseppe Velia, che diede tradotti documenti scoperti da lui in San Martino di Palermo, illustranti la dominazione araba e normanna nell’isola (Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi, 1789), e lettere [491] di Roberto Guiscardo e dei Ruggeri, che riservavano molte regalie, e sminuivano i diritti baronali; falsificò monete e lapidi, asseriva d’avere la traduzione araba di diciassette de’ libri di Livio perduti, e per quattordici anni fu tenuto ed onorato; eppure non conosceva tampoco i caratteri arabici; e scoperto impostore, fu condannato a lunga prigionia e a rintegrar l’erario, a cui spese avea stampato.

Per confutarlo, il canonico Rosario Degregorio palermitano pubblicò (1805) gli scrittori e le iscrizioni cufiche relative alla Sicilia: ma anch’egli dell’arabo sapea poco più che leggere e scarsamente ne conoscea il Morso, nulla lo Scrófani e il Martorana, che pur tesserono lavori sopra l’araba dominazione. Gian Bernardo De Rossi piemontese, professore a Parma, adunò ricchissima biblioteca di testi orientali[235] e principalmente di Bibbie, colle quali fece copiosissime aggiunte alle varianti pubblicate dal Kennicot (1782 e 98): pubblicò un Dizionario degli autori arabi, molto reputato.

L’erudito per eccellenza di quel secolo fu Lodovico Muratori da Vignola (1672-1750). Dalle sue lettere appare quanto a principio fosse sprovveduto di sussidj e ignorasse quel che oggi sanno gli scolaretti; interrogando e cercando arrivò a sapere quanto pochissimi. Collocato dai Borromei a Milano nella biblioteca Ambrosiana, vi contrasse l’amor dell’erudizione; esplorò le ricchezze ivi sepolte, [492] e si legò in amicizia con quei dotti, massime col Sassi, mentre discuteva, e impetrava consigli, e otteneva larghezza di osservazioni erudite dal Magliabechi, di filologiche dal Salvini, del quale disse poi — Era maggiore di quel che pareva; più facilmente serviva a far gloria agli altri che a se medesimo»[236]. Collocato a Modena prevosto della Pomposa e bibliotecario, mai non intermise gli studj; ed essendosi formata a Milano da alquanti signori una Società Palatina per pubblicare opere importanti e costose, coll’assistenza di questa e di dotti Milanesi egli compilò la Raccolta delle iscrizioni antiche, le Antichità del medioevo in sei volumi, in ventotto di Scrittori delle cose italiane, i cronisti anteriori al 1500.

Delle benemerenze sue divisammo a lungo (tom. VII, pag. 352), e vogliamo qui aggiungere come fosse dei primi a proclamare ch’è follia il gloriarci di scendere da Trojani, Greci e Latini; che per conoscere le sorgenti della nostra storia bisogna studiare le lingue nordiche, sebbene egli non abbastanza vi ricorresse. Si pena a credere che in un anno abbia steso gli Annali d’Italia, ch’e’ pubblicò dal 1744 al 49; opera bassa e sazievole di stile, ma di bastante esattezza e colla continua serenità d’uno spirito probo.

Per la sua gran raccolta non potè nulla ottenere dal Piemonte nè dalle Repubbliche. Avendo nella prefazione chiamato i Côrsi ferocium atque agrestium hominum genus, un Côrso minacciò ammazzarlo se non ritrattava quelle parole. Ebbe assalti da molte parti, e spesso dovette assumere finti nomi per sostenere la propria causa; onde esclamava: — Che i poveri Italiani facciano qualche passo a pro delle lettere, mi par ben difficile. Noi arrabbiati l’un contro l’altro, noi attorniati da guardie e co’ piedi nei ceppi... Che sperare se gl’Italiani, [493] invece d’animarsi l’un l’altro a promuovere le lettere, pieni d’invidia ad altro non pensano che a far guerra uno all’altro, e par che volessero tutti ignoranti, o almen non tanto arditi da produrre i suoi parti colle pubbliche stampe?»[237]

Principalmente il padre Zaccaria osteggiava il Muratori, ed oltre le imputazioni teologiche, tenta insinuare che sia «zelante austriaco, salvo solamente negli ultimi affari di Genova, riguardo a’ quali egli è spacciato genovese, o, come i geniali sogliono dire, buon Italiano»[238]. Nell’opera latina Della moderazione degli ingegni in fatto di religione Muratori disapprovava il voto sanguinario usato in Ispagna da una Società palermitana, di versar anche il sangue per sostenere l’Immacolata concezione. Tutta Sicilia ne divampò, i Gesuiti fecero rinnovare quel voto, e ne restò turbata la pace del pio prevosto: al quale però l’ingiustizia nol tolse di esaltare i Gesuiti pel loro governo nel Paraguai.

Un pseudonimo Ferepono avea ristampato nel Belgio opere di santi Padri con annotazioni erronee, specialmente ferendo sant’Agostino, e apponeva alla Chiesa cattolica l’avversione alla verità. Altri molti la imputavano di non soffrire la buona critica, e singolarmente Alfonso Turretino, famoso rettore dell’accademia di Ginevra, avea detto che, se tante genti d’Europa sotto bel cielo e con buoni ingegni nulla di insigne operano nella letteratura, ne sono causa il Sant’Uffizio, o leggi simili a quelle dell’Inquisizione, che frangono ogni vigore d’intelletto; perocchè nessuno vuol promovere le lettere e cercare la verità o pubblicare i trovati quando invece di lodi ottenga ingiurie, disonore invece di commendazione, pene e supplizj invece di ricompense. Il [494] Muratori tolse a confutare queste esagerazioni nell’opera latina predetta, dimostrando come fra’ Cattolici sia libero il disputare di ciò che non intacchi la fede e la moralità, quale sarebbe il sistema copernicano; e delle opinioni in fatto di scienze, arti, lettere; ed ampio il diritto di pubblicare la verità. Nel sostener la quale, raccomanda si adoperi giustizia, prudenza, carità, non calunniar mai, temprare la mordacità, tenersi moderati in ciò che non sia di fede, non imputar errori se non siano ben accertati. Savj avvisi porge anco ai censori, che devono esaminar le opere a stampare; quelle stesse virtù esser loro necessarie, e di non irritare l’amor proprio degli autori, col che non fanno che esacerbarli; non mettervi il puntiglio d’opinioni personali, non l’ostinatezza di trovar errori, non interpretare le intenzioni.

Nelle controversie nate fra i suoi duchi e la Corte romana a proposito del dominio di Ferrara e Comacchio, il Muratori adoprò l’erudizione e talvolta anche il cavillo a sostenerli; lo perchè dagli zelanti venivali taccia di men cattolico. Egli ne scrisse sommessamente a Benedetto XIV, che gli rispose: — Per far comprendere all’inquisitore di Spagna che le opere degli uomini grandi non si proibiscono (come esso avea fatto di quelle del cardinale Noris), ancorchè vi si trovino cose che il meriterebbero se scritte da altri, portammo l’esempio delle opere de’ Bollandisti, di Tillemont, di Bossuet, e le sue (del Muratori)». Segue a dire che la lettera fu pubblicata nobis insciis; che i suoi scritti, concernenti la giurisdizione temporale dei papi, erano spiaciuti, ma non si pensò a proibirli «avendo mai sempre creduto che non conveniva disgustarla per discrepanza di sentimenti in materie non dogmatiche nè di disciplina, ancorchè ogni Governo possa proibire quei che contengono cose che gli dispiaciano»[239].

[495]

Mirabilmente assiduo al lavoro, quando usciva dalla biblioteca, passeggiava come uno scimunito, fermavasi a vedere in piazza i Pulcinelli, e schivava le conversazioni che lo obbligassero a nuova attenzione. Di grandissima pietà, dava esercizj, spiegava il catechismo ai ragazzi: eppure i forestieri scriveano (ingannati dal nome) che egli era capo de’ Franchimuratori, e molti teologanti lo investivano accannitamente.

Fra tante opere sue religiose, ascetiche, erudite, letterarie, vogliam ricordare quella della Perfetta poesia, ove dà come ristauratori del buon gusto il Maggi e il Leméne. Il primo dicemmo come componesse sonetti d’alto sentimento patriotico, ma sprovvisti di forme poetiche: il Leméne, oratore di Lodi al senato di Milano, fecondissimo eppur lambiccato, dopo molte poesie di giuoco e d’amore, si ricoverò in argomenti sacri, ma senza lasciare il floscio e il madrigalesco, e avviò una scuola tutta concettini, frasuccie, fantasie smorfiose, punta epigrammatica, riscalducciamento di parole, di rime, di circonlocuzioni, eleganza parasita, nulla di virile e sentito.

Alle gonfiezze del Seicento sottentravano allora le meschinità dell’Arcadia, per la riforma non ricorrendosi alla natura ed all’inesausta fonte de’ sentimenti, bensì ai Classici, ai Cinquecentisti e al Petrarca, del quale però cercavasi meno l’arte immortale che la fredda purezza. Non la vita nostra, i nostri sentimenti, non il nostro cielo, i nostri monti, i laghi nostri si ritraevano, ma doveansi figurare l’Arcadia e l’Emo; in quello di Tamarisco, Armonide, Filandro, Comante, Meronte... cangiar il nome di Manara, Mazza, Cerrati, Frugoni, Cesarotti; bisognava sempre essere innamorati e infelici, e baloccarsi attorno a dorate trecce e sen d’avorio ed occhi cerulei e ritondetti fianchi di Glícere e d’Amarillidi senza sangue nè fisionomia; e per ogni [496] misera evenienza incomodar Venere, Giove, Cupído, e veder la natura sorridere o scorrucciarsi per un funerale o per un battesimo. Gli strali nomi-sempiternanti dirigevansi a qualche eroe de’ tempi? foggiavasi colla lorica e colla toga. Quindi un diluvio di sonetti amorosi, di egloghe, di capitoli buffi, di raccolte per nozze, per monache, per prime messe, per feste di santi, per lauree, per cantatrici: chè ogni occasione torna opportuna quando si fanno versi per far versi. Muore la gatta del Balestrieri o quella d’un pittore di Mondovì? muore un cane? si compilano volumi di poesie, e intere accademie ne piangono ridendo. Muore in Brescia il pedante Barbetta (1759)? una fioritissima brigata che accoglievasi presso il Mazzuchelli, infilza poesie, che poi fecero gemere i torchi e il buon senso. Molti begl’ingegni si accordarono per tradurre in ottave un canto ciascuno delle avventure di Bertoldo e Bertoldino[240]. I Traformati di Milano pigliano in beffa un dottor Plodes, facendogli credere fosse un grande scrittore, e una sua sciocchissima composizione accompagnano con altre de’ più spiritosi d’allora. Begli ingegni veneziani, e collo scopo d’opporsi al mal gusto dominante, radunansi negli orti della Giudecca, ma ai loro convegni dan nome d’Accademia de’ Granelleschi; fanno componimenti consoni al titolo goffo e all’emblema; e ad un prete ridicolo, intitolato arcigranellone, piccolissimo e seduto sur un seggiolone immenso, che diceangli essere stato del Bembo, nell’estate servivano the bollente mentre gli altri rinfrescavansi con sorbetti, nell’inverno bibite ghiacciate mentre gli altri il caffè. Negli Apatisti di Firenze, un fanciullo messo in cattedra a quesiti e dubbj [497] dovea rispondere una parola qualunque; e due accademici assumevano di mostrare che questa era la risposta giusta; e Toscana si empì d’applausi al giovane Pignotti, quando ad un tema scientifico la Sibilla avendo risposto scuffia, egli sfoggiò erudizione e fantasia per dimostrare la congruenza di tale risposta al quesito.

Quale strano concetto avevasi della poesia, se al Lorenzi per improvvisare davansi tesi di fisica, se il Frugoni scialacquava sessanta sonetti contro l’avaro Ciacco, e ducensedici in versi tronchi il Casti per uno cui dovea tre giulj, e quattrocento don Lazzarelli parroco della Mirandola nella Cicceide contro un Ciccio Arrighini? Il veronese Becelli, che del resto volgeva in beffa la letteratura pedantesca, celebrò in dodici canti il buffone Gonella. Eppure in gregge ancor più basso, cioè fra gl’improvvisatori, andavasi cercare quelli da coronare in Campidoglio, come fu la Corilla Olimpica, come il Perfetti[241], al quale per esperimento furono dati [498] dodici temi sopra le scienze. Conforme a tale idea, il conte Girolamo della Corte Murari mantovano, che continuò a studiare dopo reso cieco, diè fuori cento sonetti sulla storia romana, e cento sui sistemi antediluviani de’ filosofi sino al Genovesi; l’Ortes scriveva un Saggio della filosofia degli antichi, esposto in versi per musica nel 1757.

Qualche bel nome galleggia su quel diluvio. Con buona intenzione il Cotta fece una serie di sonetti su Dio, cumulando difficoltà teologiche e fisiche; il Salandri uno su ciascun titolo delle litanie; lo Jerocades un quaresimale, dove sottigliezze scolastiche rinvolge in frasi classiche. Saverio Mattei (1742-95) soppresse le moltissime sue poesie per non pubblicare se non la traduzione dei Salmi, sprovvista di stile poetico e lancio lirico; e dice che, «avendo veduto che il mondo tutto è sedotto e incantato dal Metastasio, ha creduto di vestirsi di quelle vesti già approvate, e non introdurre una nuova moda», e che «per opporsi alla seduzione dei teatri fece poesia sacra nello stile di quelli».

[499]

Francesco Maria Zanetti bolognese (1692-1778), prosatore e filosofo sodo, e segretario del patrio istituto, ne’ suoi sonetti pose almeno qualche fondo di dottrina, dottissimo essendo; e così Eustachio Manfredi, insigne scienziato, poetò severo insieme e dolce. Prospero Manara, ajo del principe di Parma e per alcun tempo ministro, molto attese agli antichi, onde si salvò dalle ondose gonfiezze; tradusse Teocrito e Virgilio in modo da pareggiarli, come dissero i contemporanei, dai quali furono lodati i suoi sonetti alla campana e alla tomba di Alessandro. Paolo Rolli romano, maestro d’italiano alla Corte di Londra, tradusse Milton[242], e fece poesie elegantemente inani.

Alla troppo facile imitazione petrarchesca voleano togliersi alcuni? si mettevano a imitar il Costanzo; onde il Cassiani e Onofrio Minzoni fecero poesie che son veri quadretti, ma con figure di stucco; e letti, tu dubiti di qual secolo sieno, e se contemporanei di Tibullo il Savioli che belò gli Amori in metro monotono come i pensieri, e l’ebreo elegista Salomone Fiorentino.

Suole personificarsi la poesia di quel tempo in Innocenzo Frugoni genovese (1692-1768), somasco contro voglia, a Parma poeta della Corte e segretario dell’accademia di belle arti. Provvisto d’ingegno e d’estro se alcuno mai, invece di raffinarli col lavoro, vi si abbandonò cantando di tutto, e senza mai uno studio al pensiero, una limatura alla forma, un’attenzione alla delicatezza: poeta della buona compagnia, enfatico per dei nulla, tutto a facili fantasie, limitato di pensieri quanto profuso di parole, caldo coloritore ma senza disegno, per quanto talora volesse sostenersi con una scienza da collegio, scambia le ampolle per fuoco, il manierato per adorno. Le sue liriche pindariche rimpinza con gingilli di scuola; cigni [500] dircei, robusto plettro, canore muse, saette archilochee, luoghi comuni e macchina mitologica, onde poeteggia per nozze, per preti, per dottori, per campane, per facoltosi che il convitano. Nel verso sciolto non vide se non l’agevolezza, che lo dispensava dal meditar le idee, forbir l’espressione, precisare l’immagine: profuse aggettivi, e parole e frasi sinonimo e riempitive: dallo stil grande piegossi poi a vagheggiare l’espressione leggiadra e la vivacità; ma cuore e sentimento non palesa mai; descrive sempre, senza nè scelta nè misura; diluviando versi più che qualunque altro dell’età sua tanto verseggiatrice, ora s’infuoca contro lo «spezialin che sempre pesta», or fa una canzone pel medico che gli proibisce la cioccolata, or una pel solito salasso autunnale; ed abituatosi a soggetti comandati dalla Corte o chiesti dalla buona compagnia, mai non mostrò ispirazione vera, neppur nell’amore, anzi neppur nell’ira cui spesso servì.

Ogni quisquiglia cascatagli dalla penna per ozio, per condiscendenza, per allegria convivale, per gozzoviglia carnevalesca, fu raccolta dopo la sua morte in nove tomi, ai quali «per la materia e per lo stile potranno i nomi convenire delle nove Muse, onde la Grecia intitolò le storie di Erodoto»[243]. Son parole dell’editore conte Gastone Rezzonico comasco (1742-96), poeta cortigiano, legato co’ migliori dell’età sua in patria e fuori, aggregato alle insigni accademie, e che brevetti d’accademie impetrava al terzo e al quarto. I suoi versi sono [501] imitazione d’imitazioni: la prosa lonza e scorretta, e insieme fraseggevole e arrogante, era l’accademica del suo tempo, che considerava come vezzo il troncar le parole e trasportarle, tessellarne di pellegrine, scontorcerne il senso, intarsiarvi emistichj, talchè ad un’eleganzuccia si accantasse un errore od una improprietà.

Egli definiva «la poesia non essere che la filosofia posta in immagine armonica»; supponeva di scrivere troppo austero, appunto per contrapporsi ai troppo facili, ed ogni tratto se ne scagiona. Nel 1795 da Napoli scriveva: — In mezzo a studj sì severi non ho dimenticato le Muse, ed ho portato fino a sei libri un poema. A Roma ne ho recitati alcuni squarci in Arcadia con sommo applauso; ma non posso a Napoli recitare i miei versi che a due o tre privilegiati uomini, che non l’intendono da ciechi adoratori del facilismo. Lo stile qui chiamato di Lombardia si rigetta come troppo studiato e difficile; non si conosce la lingua, non l’artifizio e il meccanismo. Del verso, non s’ammira l’atteggiamento greco o latino; nè si lodano che i versi da colascione, le frasi plebee, le immagini più triviali; e la fluidità e la snervatezza più nauseosa si toglie a cielo come dono inapprezzabile delle Muse. A Roma si gusta l’intonazione lombarda, e siamo riguardati a buon titolo come i soli veri poeti che adornino l’Italia: ma Napoli non pensa così».

Il curioso è che Frugoni, il Frugoni! incolpava Rezzonico di troppa facilità, e gli scriveva: — Imparate a correggere, ed imparatelo da me, che pur sono invecchiato nei versi. Mi fan ridere certi gufi di Parnaso, che quando hanno gracchiata una filastrocca di versacci al deretano dovuti, non san più mutarne una sillaba, e se li guardano, e se li godono come se usciti fossero dal cigno d’Arno o da quello del ferrarese Eridano. Inganna tutti l’amor proprio, e belle a tutti e irreprensibili [502] fa parer le cose proprie. Non inganni così voi, valoroso Dorillo. Non siate troppo facile a contentarvi di tutto ciò che vi esce dalla penna».

Così pronunziavasi quel gran sintomo di decadenza, la ricerca di bellezze disadatte. In taluno ritrovi purezza di parole, attestata da un certificato della Crusca, giro melodioso, anche magnificenza di prosa e armonia di verso; ma non mai passione, non mai quell’eloquenza che viene dal cuore e al cuore va, nulla che ti avverta essersi meditato il soggetto e proposto di mettervi qualcosa di nuovo, di attuale.

Contenti di sè, contentando i pari loro, conforme alle riverenze e a’ baciamani che si costumavano nella buona società, distribuivansi i seggi immortali sull’Elicona, paragonando a Rafaello il pittore Mengs, a Correggio il Battoni, a Teocrito il conte Pompei e il marchese Manara, a Plutarco il Giulini, ad Aristotele lo Zanotti, a Cicerone il Venini, ad Anacreonte il Rolli e il Vittorelli, a Tibullo il Fiorentino, a Dante il Varano, a Virgilio una folla di didascalici; il Paciaudi l’Apoteosi d’Iblindo dell’Affò trova pari alle stanze del Poliziano; il Cesarotti loda le terzine del Mazza sopra santa Cecilia come «uno dei pezzi più sublimi che avesse mai letti, il fenomeno più sorprendente di fecondità, di maestria poetica».

Come dubitarne quando l’aveano pronunziato le accademie? Delle quali non v’era, sto per dire, borgata che mancasse; tredici ne contava la sola Bologna: e gente seria vi si raccoglieva per udir recitare composizioni, fatte unicamente per esser recitate, e dove ciascuno fingeasi un nome e una patria e una greggia e una pastorella. Non poteva altro sbocciarne che acciabattori di sonetti, e poemetti insufflati dalla voluttà, dall’amore, dall’adulazione; adulazione non solo a principi, ma a chi possedeva una villa o dava pranzi; il tono [503] ambizioso associando con una prolissità negletta e una tronfia sonorità, simili alle figure delle vetrine, rivestite di panni sfarzosi, ma dentro sono stoppa.

Chi poi volesse poesia nutricata di cose, proponeasi difficoltà volontarie; per esempio di far descrizione d’oggetti restii, o esporre dottrine scientifiche; ma nè qui pure sapeano ridurre i concetti in immagini com’è carattere della poesia, ed assumevano un gergo geometrico, che inaridiva le materie senza darvi precisione. Il Parini derise costoro; e il Galiani pensò un tratto applicare ai problemi morali di quantità e di collisione l’uso della curva; questa, risultante dalla forza centripeta e da quella di projezione, indicherebbe la condotta da tenersi nel conflitto dei doveri verso di sè e verso gli altri; i doveri verso Dio che non patiscono eccesso nè possono raggiungere la perfezione, sarebbero rappresentati dall’iperbole e dall’assintoto; altri dalle ascisse, altri dalle ordinate; il punto ove la tangente bacia la curva, esprimerebbe la perfezione della virtù umana, che se oltre si sospinga, declina e si scosta più sempre.

Tra i problemi didascalici, che pareano rispondere alla pretensione scientifica, distinguere la Coltivazione dei monti del Lorenzi, facile spositura d’improvvisatore; la Riseide dello Spolverini, che venti anni elaborò quella materia infelice; il Canapajo e la Tabaccheide del Baruffaldi, la Fisica e le Origini dei fonti del Barotti; il Medico poeta di Camillo Brunori da Méldola, precetti igienici con una satira contro quelli che biasimano la poesia nel medico.

Francesco Algarotti veneziano (1712-64) mena vita di trionfi; a Parigi è festeggiato dalle belle e dai dotti; Augusto III di Sassonia il manda a raccorre in Italia quadri per la sua galleria; careggiato da Benedetto XIV, è applaudito dai filosofi; Federico di Prussia lo titola conte, e se l’accompagna ai viaggi e alle orgie; Voltaire lo trova [504] non meno amabile nella società che negli scritti[244]; morendo ancor fresco a Pisa, ha un monumento ove è intitolato emulo d’Ovidio, discepolo di Neúton. Fisico, poeta, incisore, mecenate, scrive egli sempre come viveva, in spada e manichini e passi da minuetto, ostentando belletto e nêi, anzichè i veri e puri colori naturali; fra una diligenziuccia stitica di cadenze sonore, di frasuccie, di simmetria, mai non mostra il cuore, mai vigoria sentita e attuosa, nè efficace brevità. Il suo Neutonianismo per le dame, tradotto in tutte le lingue, e dove confuta il trivigiano Rizzetti, è compassionevole ai dotti, inutile agl’indotti. Nei Discorsi militari, inesperto affatto delle armi, difende il Machiavelli contro il Folard, celebre commentatore di Polibio. Nei Saggi (titolo che dispensa dal compire gli argomenti) in luogo della profonda naturalezza inglese svanisce in lambiccature fumose, e incespica fra continue citazioni. Fin i [505] Viaggi, così allettanti per le impressioni personali, egli gela con riflessioni insulse e sfarzo di citazioni e fogliame di frasi, nè informa la propria nazione degl’interessi, delle idee, de’ costumi, del progresso dei popoli, al cui confronto potesse o compiacersi o migliorarsi.

Il nome di lui ricorda i Versi sciolti di tre eccellenti autori (1757), che erano il Frugoni, l’Algarotti, e Saverio Bettinelli gesuita mantovano (1717-1808), franco pensatore, e in corrispondenza col Voltaire[245], che in un poemetto derise il farnetico delle raccolte; che nel Serse ardì far comparire sulla scena l’ombra di Amestri; che nel Risorgimento d’Italia diede una storia mediocre, ma delle migliori di quel tempo; che comprendeva il merito della poesia scritturale, e «quell’evidenza, proprietà, verità d’oggetti, che noi prigionieri nella città e copiatori di lontananza prendiamo dagli antichi, e crediamo d’esser poeti co’ giardini e fiori delle Esperidi, coll’urna de’ fonti e de’ fiumi, col fiato dei zefiri, colle lagrime dell’aurora; così stringendo i gran quadri della natura nelle languide miniature degli artefatti giardini cittadineschi: studiam pure sui libri l’astronomia, le meteore, la naturale istoria, ma essi vedeanle; parliamo di coltivazione, ma essi l’esercitavano; facciamone insieme accademie e colonie, ma ne facean essi la giornaliera lor vita»[246].

Sotto la maschera dell’editore egli sostiene che la [506] rima col facile suo vezzo lusinga i giovani ad una forma senza fondo, la quale rese servile la poesia; mentre lo sciolto non traendo bellezza che dai concetti, chi vi si applica deve cercare pregi sodi; così aver fatto questi tre eccellenti, dei quali ricanta le lodi. Ma se tu leggi quella prosa numerata, non trovi che un continuo scambiettare di fantasie sfaticate e smorfiose, come immagini di lanterna magica; coniano vocaboli inutili, o sformano gli antichi; scambiano le ampolle per fuoco, il gonfio e lezioso per nobile ed ornato; sempre mancando d’affetto, presumono coi tropi nobilitare soggetti ritrosi, e con circostanze puerili avviliscono i più grandi. Dal mattinale contemplare della soffitta è condotto il Frugoni a meditar le ragioni del bello, dalle quali poi lo distoglie il valletto che entra colla cioccolata: il Bettinelli nell’eruzione del Vesuvio descrive i topi snidati. E si offrivano a modello nelle scuole, invece de’ Classici e in compagnia unicamente del Petrarca[247].

In fronte vi stavano certe lettere di Virgilio dall’Eliso, ove Dante era strascinato a giudizio cavilloso. In esse il Bettinelli loda Petrarca con riserbo, e ne vitupera gli zelanti imitatori; fa una scelta rigorosa dei poeti; per migliorarli suggerisce di scemarne il numero; non imitino troppo e s’abbandonino alla natura; chiudasi l’Arcadia per cinquant’anni; le accademie non ricevano se non chi giuri voler essere mediocre tutta la vita; pongasi un grosso dazio sulle raccolte e sui giornali. Io non so scandolezzarmi di chi esercita il prezioso [507] diritto di giudicare in luogo di credere; molti de’ suoi appunti sopra Dante sono veri, sono anche acuti; ma ha torto di sofisticare sulle particolarità dove è necessario guardar l’insieme, far da Virgilio criticare l’autore che men s’accosta alla forma virgiliana, misurare il genio col regolo de’ pedanti.

Nè più largo campo presero i molti lodatori di Dante. Dicesi fosse negletto affatto; eppure il De Brosse nel 1740 scriveva da Roma: — Non è all’Ariosto che i begl’ingegni italiani assegnano il primo seggio, bensì a Dante. È lui, dicono, che portò la lingua alla perfezione, che tutti sorpassò in forza e maestà. Ma più io leggo, più stupisco di vederlo preferito all’Ariosto da fini conoscitori: gli è come chi mettesse il Roman de la rose sopra La Fontaine». Al qual giudizio si paragoni quello del Voltaire, che al Bettinelli scriveva: — Molto caso fo del coraggio vostro a dir che Dante era un matto e l’opera sua un mostro. Eppure in questo mostro amo meglio una cinquantina di versi superiori al suo secolo, che tutti i vermiciattoli chiamati sonetti che a migliaja nascono e muojono oggi da Milano a Otranto. Ha un bel dire quel povero abate Marino (che a Parigi allora ammirava Dante); ma Dante potrà entrare nella biblioteca dei curiosi, ma letto non sarà mai. Mi rubano sempre un tomo dell’Ariosto, non m’hanno mai rubato un Dante».

Sopra di questo si era volta l’attenzione, come sulle anticaglie nelle belle arti: ma se di lui ammiravansi alcune belle descrizioni, qualche pensiero sublime, fors’anche l’aver introdotto nella lingua alcune parole e motti, che quasi sacramentali improntano i più solenni momenti della vita e fissano la nota inimitabile della passione e si ripeteranno finchè uomini vi avrà, in generale vi si adoprava uno studio da retore, nè conosciuta ne fu l’importanza se non quando si pose [508] attenzione al medioevo. Intanto, oltre le difese del Bianchini, del Rosa Morando veronese, del Gozzi, oltre Gian Giacomo Dionisi canonico di Verona, che, cerchi quanti codici potè, fece nel 1795 un’edizione della Divina Commedia, non approvata dai savj; più d’uno il tolse a modello, fra i quali il Leonarducci nella cantica sulla Provvidenza, il Manfredi nel Paradiso, Cosimo Betti nella Consumazione de’ secoli; Lodovico Salvi lo sapeva tutto a memoria, e ne scrisse gli argomenti in versi; Bernardo Laviosa somasco gli diceva, «Mio buon maestro e mio poeta, se io t’ami il sai», e presentì le melanconie poetiche, tranquillamente predominato dal pensiero della morte.

Alfonso Varano (1705-88), altero di discendere dagli antichi signori di Camerino, e d’essere ciambellano dell’impero di Germania, onore che i gentiluomini dello Stato pontifizio sollecitavano per sottrarsi alla giurisdizione dei prelati; versatissimo nel cerimoniale e nel punto d’onore, sicchè a lui se ne rimetteano le quistioni, la slombatezza de’ contemporanei volle trarre alla robustezza dantesca, e tragediò Sant’Agnese, Demetrio, Giovanni da Giscala, con concepimenti abbastanza arditi e stile ricco. — Da quando in qua la poesia è obbligata ad essere per sua naturale proprietà menzognera? non si potrà dunque parlare leggiadramente o nobilmente in poesia secondo la diversità de’ suoi stili, senza attingere le idee alle false ed impure sorgenti delle gentilesche deità?» diceva egli in testa alle sue Visioni, per le quali dal facile secolo ebbe il titolo di Dante redivivo: ma oltre la monotonia del concetto, quella dignità caricata e le prolisse dipinture lo scostano a gran pezza da quel suo modello che accenna e passa.

Mentre alcuni ricalcavano i Classici nostri, altri ormeggiavano i francesi, e spesso una cosa annestavasi mostruosamente coll’altra; dal Metastasio che concetti [509] e orditure intere toglieva da Quinault, da Corneille, da Racine, fino al Paradisi che ne’ suoi elogi rifaceva Thomas, fino a Beccaria e Filangeri e agli altri filantropi che ripescavano dottrine e frasi nell’Enciclopedia, fino ai Giansenisti che dagli avvocati e teologi di colà copiavano gli argomenti a favore dei re contro i papi, e ai filantropici che dilapidavano gli Economisti e gli Enciclopedisti. E quel tipo francese era formato sopra la Corte, onde ne’ sentimenti come nell’espressione si voleva la regolarità, l’uniformità convenzionale; non dire le cose comuni che colla perifrasi, e appannarle tra le frasi secondo la scuola gesuitica, come intitolavasi quella leziosa, che mal imitando il poco imitabile Bartoli, al numero sagrificava e proprietà e concisione e forza, e con epiteti iterati e con parole tronche e periodo spappolato e molliccio, e con emistichj e frasi classiche puntellava una dignità non appoggiata sulle cose, e dove la levigatezza riusciva a scapito dell’efficacia. Chi può oggi durare le inani eleganze e l’armoniosa cascaggine del padre Giambattista Roberti bassanese (1712-86), gran distributore di lodi alle mediocrità, come di confetti agli scolari e ai pentitenti? Eppure questo gesuita di benevolenza pacata, assunse argomenti ora nobili ora delicati; disapprovava le fasce de’ bambini, misurava in che consista il patriotismo, e fece un trattato delle piccole virtù, quali sono indulgenza pei difetti altrui senza ripromettercela pei nostri, il volontario non far mente a difetti anche visibili, l’appropriarsi le disgrazie altrui per alleviarle, compiacenza delle altrui fortune, e una certa pieghevolezza di spirito che adotta quel che v’ha di giudizioso nelle idee d’un compagno.

I pochi scrittori di morale procedono slombati e generici, appena alcuna volta ispirati dai Saggi degli Inglesi, cui s’ingegnano tenere nell’ortodossia. Tale il conte di San Rafaele.

[510]

De’ romanzi basti dire che i migliori erano reputati gli sguajatissimi dell’abate Chiari, che già incontrammo. Alessandro Verri milanese (1741-1816) conobbe il vero intento del romanzo moderno, cioè svolgere le fila d’una passione, come fece nella Saffo e nell’Erostrato: meglio poi nelle Notti Romane ravvivò il tema rifritto de’ dialoghi di morti per chiamare a severo giudizio le virtù romane, disapprovando le conquiste, preferendo le glorie della Roma cristiana, e facendo giudice Pomponio Attico, la cui placidezza e l’astinenza dagli affari e dai partiti ritraeva l’indole dell’autore. Usò spesso l’antitesi volteriana entro uno stile di monotone armonie, con intemperanza di similitudini e di latinismi.

I nostri, non camminando col popolo, non aveano ai loro sistemi la riprova migliore, l’applicazione pratica; agitavano quistioni o destavano sentimenti che il popolo non intende, anzi non ha; sicchè o teneansi servili ai forestieri, o deliravano. Fin l’eloquenza del pulpito, sconnessa dall’affetto popolare, riduceasi a laboriosa amplificazione di concetti triviali, ad esercitazione accademica e blandizie d’orecchio, il cuore lasciando freddo, la mente impersuasa, la volontà indifferente; frasi, fioretti, descrizioni, declamazioni sostituendo a quella mestizia evangelica che è il fondo di tale eloquenza, a quello stile nodrito dalle sante Scritture che al popolo sminuzza la parola divina con placida e famigliare dignità: diresti che invece d’ingagliardire nell’evangelica austerità, i predicatori cerchino solo farsi perdonare il loro stato e le massime che devono promulgare.

Qui pure preponderavano i Gesuiti, e Ignazio Venini (-1778) comasco aspira alla forza, ma non sa cercarla che per via dell’eleganza; e trastullandosi in descrizioni, sottigliando al nuovo, faticando le locuzioni, non riesce a velare l’inanità. D’immagini e figure retoriche frondeggiava [511] il Pellegrini veronese; e in fare quadri divagavasi fino il Trento, incolto ma efficacissimo per la sua santità. Il novarese Girolamo Tornielli (-1752) scrive pulito, armonioso, con eleganza inaffettata, ma tutto immagini e descrizioni, tanto che lo dissero il Metastasio del pulpito. Sapendo essere cantate da’ marinaj le lascivie del Marini e dell’Ariosto, tentò a quell’arie adattare parole morali e affetti a Maria, sicchè «rendessero egualmente innocente l’amor del canto e il canto dei loro amori»: del che essendogli dato rimprovero, fu difeso dal gesuita napoletano Sanchez de Luna. Più severo e candido, evidente d’immagini ma scarso di pensieri e di movimenti fu Giovanni Granelli genovese (-1770), autore di tragedie sacre non infelici. Lodavansi pure il padre Pacifico cappuccino veneziano, frà Geminiano, frà Pier Maria da Pederoba (1735-85), di solida dottrina, e ragionamento scevro da pretensione retorica; il padre Emanuele Lucchesi palermitano, che investiva Montesquieu, Puffendorf, Barbeyrac; Gaetano Travasa bassanese, autore d’una storia di Ario. D’altra scuola uscirono Evasio Leone piemontese e Adeodato Turchi. Nel primo parvero suprema eloquenza il pomposo anfanamento e le protratte descrizioni appuntellate di luoghi retorici. Il Turchi, sulle prime fautore delle idee indipendenti nel quaresimale, in cui lodarono specialmente la predica del secreto politico, recitata a Lucca il 1764; dopo fatto vescovo di Parma declamava con luoghi comuni e con pensieri e parole neglette contro i filosofanti, gente che non va a predica e che non si converte dal pulpito; mentre smetteva la franchezza evangelica in faccia ai regnanti[248]. Il gesuita Noghera valtellinese trattò della moderna eloquenza sacra con buone avvertenze, [512] ma con uno stile fra il Platone e il Pulcinella. Al portico teologico di Pavia l’oblato Antonio Mussi dettava Lezioni d’eloquenza, non senza gusto e dignità, uscendo dai limiti pedanteschi, e sentendo la grandezza dei Padri. Anche Teodoro Villa porgeva in quell’Università buone regole d’eloquenza: ma nè essi nè il Parini medesimo conobbero che questa non è un mero lusso di spirito, nè indicarono le vere vie per cui la parola può dall’orecchio passare al cuore, muovere i sentimenti, determinare le risoluzioni.

Peggio procedeva colle dissertazioni accademiche e colle prolusioni segretariesche, dove qualche pizzico di scienza stemperavasi in un mar di parole, imbarazzando la scientifica esattezza col linguaggio pomposo, e dimenticando che l’uditore ha il diritto d’essere istruito colla massima precisione e nel minor tempo.

E ancora le belle arti presentano perfetto riscontro colla letteratura; stessi errori, stessi conati per uscirne, stessi miglioramenti a mezzo. Come le metafore del Seicento cessero il luogo alle arcadicherie, così al barocco sottentrava il voluttuoso e manierato, che denominarono del rococò; disegno tormentato e serpeggiante, immaginazioni vagabonde, donne polpute, eroi ballerini, Olimpo e Tempe inevitabili, appunto come nelle poesie; per moine pastorali abbandonavano ogni studio della storia e dell’erudizione; se copiavano la natura, sceglievano infelici modelli ed eccezionali; disponevano le composizioni son per dire collo stampo, secondo indeclinabili pratiche; il rilievo cercavano con bizzarri contrasti, con splendori schiamazzanti senza gradazioni; unico merito la facilità di pratica e la prestezza d’esecuzione.

L’assorellamento delle tre arti per cui esse grandeggiarono nelle chiese, si scompose dacchè quadri e statue non furono destinati che alle gallerie; e sebbene la [513] pittura delle chiese e de’ palazzi sempre portasse a maggior larghezza in Italia che fuori, il carattere ne scapitò, e prevalse qui pure lo sciatto e l’epigrammatico. Alla pittura storica mancò largo campo; il dogma del patronato celeste illanguidendo, offriva poche occasioni di devote immagini; le madonne erano femmine delle consuete, i santi drappeggiavansi all’antica o alla francese: le gallerie s’arricchivano piuttosto con incisioni; il lusso si sfogava in ninnoli effimeri e provenienze di Francia.

Ultimi lumi della scuola baroccesca, il Pasinelli parve tutto fuoco nelle farraginose composizioni; il Cignani diede rotondità agli oggetti, e vent’anni durò intorno alla cupola dell’Assunta di Forlì; e si fecero capi di due scuole di mediocri, ove per altro grandeggiò la prospettiva per opera degli Aldrovandini, e meglio dei Galli da Bibiena. Questi furono cercatissimi per quadrature e scene, e per dirigere feste; Ferdinando nei teatri di Parma, Milano, Vienna introdusse magnificenza alla moderna e facilità delle mutazioni; poi le Corti a gara chiesero i suoi figli e il fratello Francesco o i loro allievi, fra cui Mauro Tesi consigliato dall’Algarotti. Potremmo appajarli coi poeti coloristi. Fra i Veneti il Piazzetta seppe ombreggiare robustamente e disegnare corretto, invece però delle grandi composizioni attenendosi a teste e mezze figure; e in bel modo coloriva e componeva il Tiepolo, che morì a Madrid il 1769, e che allargandosi in vasti dipinti allorchè i più sfrivolivansi in bagatelle, e ritornando a Paolo invece di capriolare dietro ai Barocci, studiò i modelli all’aperto, non sotto la luce artificiosamente indotta nelle camere. Come il Longo le scene di costumi, così Antonio Canaletto copiando le rovine romane contrasse mirabile abilità prospettica, ed insegnò a usare destramente la camera ottica per verificare i piani e armonizzare le [514] tinte, e diffuse le vedute di Venezia. Quel Governo pensionò artefici per conservare i quadri e restaurarli, principio d’un’arte nuova. Nel pastello fu tutta grazia e maestà la Rosalba, che finì cieca e mentecatta[249].

Non occorre ripetere che gli artisti forestieri più rinomati educavansi in Italia; e molti de’ nostri erano chiamati fuori. Pietro czar fece educare quattro giovani russi dal fiorentino Giuseppe Recchi, e lo chiese professore a Pietroburgo, dove finì pure Pietro Rotari veronese: il veneziano Francesco Casanova, ammirato in Francia per le battaglie, ebbe da Caterina II l’incarico d’ornarle i palazzi colle sue vittorie sui Turchi: il Quarenghi fabbricò a Pietroburgo il bel palazzo della Banca: Luigi Rusca luganese abbellì Mosca, Pietroburgo, Astracan, e se n’hanno a stampa le Fabbriche e Disegni.

Molti forestieri qui si naturarono. Pietro Subleiras di Uzes visse a Roma in miseria, imitando i migliori senza stile proprio, e incidendo all’acquaforte. Angelica Kaufmann, nata a Coira, cresciuta in Valtellina e a Como, vagò per l’Italia e l’Inghilterra, dove il celebre Reynolds le trovò molte commissioni, che subito erano incise, onore che fin seicento opere sue ottennero: in Germania era riposta fra i migliori. Ingannata prima da un avventuriero, sposò poi Antonio Zucchi veneziano (1728-79) pittore di rovine, e stabilitasi a Roma vi comparve sempre abbondante di grazia quanto scarsa di sicuro tocco e di nervosa espressione, piena poi di dolci virtù e carità.

Come il Frugoni nella poesia, così nella pittura l’artista più rinomato a Roma era Rafaele Mengs boemo. [515] Studiò sui sommi; ma quanta distanza da lui ad essi! quanto il suo brillante differisce dal vero! quanto convenzionale nel disegno e nelle tinte! Sta con lui in bilancia Pompeo Battoni lucchese, che, a somiglianza del Baroccio, tentò arrestare la decadenza universale coll’eclettica, e dietro al Sanzio e ai migliori acquistò colorito trasparente e variato, ma non stile proprio, e dal teatro portò al cavalletto una vaga e confusa idea dell’antico, mista a una sterile ricerca di novità.

Giuseppe II disse aver veduto in Verona due meraviglie, l’anfiteatro e il primo pittore d’Europa. Questo era il Cignaroli, manierato nel tingere e d’invenzioni piuttosto epigrammatiche che dignitose. Il Lanzi descrive con compiacenza una Sacra Famiglia di lui, ove san Giuseppe dà mano alla Vergine ed al Bambino per passare un ponticello, e per mostrarne la sollecitudine, fa che non s’accorga che il manto gli casca dalle spalle, e un lembo va a bagnarsi nel fiume: — concetto degno del Leméne.

Il padre Andrea Pozzo di Trento gesuita, di invenzioni capricciose, ma di molto merito nella prospettiva, studiò in Milano la pittura, piuttosto su dipinti che da maestri, e predilesse Rubens. Pochi quadri fece, e il principale è in Sant’Ignazio a Genova. Meglio che fra’ pittori (che che ne dica il Lanzi) va fra gli ornatisti, sopraccaricando di festoni, vasi e puttini.

Cristoforo Unterberger coadjuvò Mengs nella stanza dei papiri, poi da solo fece le imprese d’Ercole nella villa Borghese.

Nè magnifici protettori mancarono sia alle arti che all’erudizione. Il cardinale Albani adunò alla sua villa presso Roma tanti lavori, che, dopo fornito più d’un museo, la rendono ancora meravigliosa; e Mengs vi eseguì il dipinto suo migliore, il Parnaso. Il cardinale Valenti fe dallo spagnuolo La Vega disegnare in ottanta [516] fogli undici logge di Rafaele, nella sua villa presso Porta Pia raccolse rarità di tutti i paesi, e persuase Benedetto XIV ad unire al museo Capitolino una galleria di quadri. Questo pontefice comprò le preziose anticaglie di Francesco Vettori; Clemente XIV, oltre cominciare il museo, fece la raccolta dei papiri illustrati dal Marini, e prese cura che le antichità uscenti in luce non andassero disperse nè vendute; e quest’amorevolezza per le arti tramandò a Pio VI. Il principe Marco Borghese adunò il famoso museo: Azara ambasciatore di Spagna, gl’inglesi Gavino Hamilton, Jenkins, lord Harvey conte di Bristol, coll’esempio e la magnificenza incoravano gli artisti: D’Ancarville, inviato straordinario d’Inghilterra a Napoli; primo pose attenzione ai vasi figulini: Pietro Biren duca di Curlandia spossessato, prese stanza a Bologna ove fondò premj per giovani artisti, e donò medaglie d’illustri nordici: Luigi Mirri, semplice mercante di quadri, fece scoprire i dipinti delle terme di Tito, e ne pubblicò la descrizione: il conte Giacomo Carrara, fratello del cardinale Francesco, istituì a Bergamo un’accademia che a’ dì nostri diede buoni pittori. Già dicemmo della Galleria Farsetti (pag. 424); e aggiungeremo il cavaliere maltese Nicola Lazzara di Padova, che radunò moltissime incisioni, e protesse tutti i valenti. Venne per eredità alla galleria di Torino quella del principe Eugenio, ricca di lavori fiamminghi, de’ quali potè far pro quell’accademia ridesta il 1736 da Claudio Beaumont, poi ordinata nel 78, ma che non diede nomi durevoli, tranne il lepidissimo Olivieri e il prospettico Galliari. Molte spoglie d’Italia passarono i monti: Augusto I di Sassonia arricchì Dresda con antichi della collezione Chigi; Augusto II n’aggiunse altri, fra cui le tre prime statue dissepolte ad Ercolano; per quattro milioni ottocentomila lire comprò la galleria dei duchi di Modena, e per diciassettemila ducati la [517] Madonna di San Sisto di Rafaello; sicchè quella collezione emulò la Parigina in capi d’arte nostra.

Opere rivelate dal caso, più osservate perchè nuove, rinverdivano l’amore dell’antichità. I rottami delle terme di Tito, le pitture del Laterano, i musaici di Palestrina furono illustrati dall’abate Amaduzzi, dal Gazzola piacentino, dall’inglese Meyer, dal francese de La Gardette, dal Paoli; i monumenti romani dal Contucci e dal Galeotti. Oltre Ercolano e Pompej, nel 1752 si trovarono in una forestale basiliche di Pesto; nel 61 le rovine di Velleja nel Piacentino, sobbissata il IV secolo; principi e papi sgombravano la villa Adriana e altri ruderi; D’Ancarville, Wheler, Choiseul-Gouffier, Spon, Revet, Stuard... rivelavano le arti della Grecia; Tischbein s’occupava dei vasi etruschi, ricchezza nuova; nel 1726 fu fondata l’accademia di Cortona per istudiare la civiltà etrusca; nel 36 la Colombaria a Firenze, vôlta alle antichità come la Ercolanese[250]. Agli atti di questa dettò il prodromo il parmigiano Bajardi, amplificazione di cinque volumi sulla vita d’Ercole fino ai ventiquattro anni, prima che fondasse Ercolano. Costui era venuto su mediante adulazioni alla Elisabetta Farnese e al re di Napoli, cui dirige la parola in tutta quella descrizione, talchè Biörnsthal ebbe a dire che tutta l’opera è una mostruosa dedicatoria; ora lo felicita perchè il suo dominio «stendesi nelle viscere della terra»; or lo fa più grande del re di Francia, [518] perchè amplia le conquiste sotto terra, e neppure ad Alessandro, nel famoso rimpianto, sarebbe caduto in capo che la terra avesse ad aprire il seno per aprirgli nuovi imperj. Alle quali sguajataggini accosta insulse buffonerie, che pur non gli tolsero d’acquistare dignità e quasi gloria. L’abate Barthélemy (-1795), che allora viaggiava raccogliendo medaglie pel gabinetto di Parigi, e molto parla de’ nostri, mette in canzone costui, e i poemi che meditava, e una storia universale che tesseva; pur confessando che dell’antichità molto sapeva, e nel discorrere valea meglio che in iscritto.

Il marchese Rodolfo Venuti, uno dei fondatori della Cortonese, pubblicò una descrizione topografica e storica di Roma. Le pesaresi antichità illustrò l’Olivieri: le ravennati il Fantuzzi gonfaloniere, pubblicando ben ottocento sessantacinque documenti, sessantadue de’ quali ne compendiano altri quattrocento trentasette; e Antonio Zinardini, che commentò pure le Novelle di Teodosio il Giovane, da lui scoperte in quella biblioteca. Il dottore Bianconi, medico e consigliere della Corte di Sassonia, dettò lettere sopra il Circo Massimo e la vita di Mengs e i proprj viaggi in Germania, e volle provare con bizzarria più che verità il medico Celso essere contemporaneo d’Augusto[251].

Il cardinale Angelo Maria Quirini 1680-1766 fu vescovo di Corfù di cui descrisse i primordj; poi potè conoscere i sapienti dei due secoli, conversando con Jurieu, Fénélon, Neuton, come col Voltaire[252] e con Federico II, dal [519] quale impetrò di erigere una chiesa cattolica a Berlino. Alle menzogne del Brunet oppose cinque volumi di lettere del cardinale Polo; a Brescia, dove fu vescovo, oltre ajutare riccamente la fabbrica del duomo, regalò una biblioteca e rendite per un’altra; fatto da Clemente XIII conservatore della Vaticana, vi passava ogni anno sei settimane, e le donò i proprj libri e il medagliere. Molte cognizioni egli trasse dal Salvini, dal Magliabechi, dal Montfaucon che allora girava l’Italia. Messosi ad illustrare un suo dittico, talmente trascinò per le lunghe e fece e rifece il lavoro e per via cambiò d’opinioni, che divenne proverbiale il dittico Quiriniano.

Giovanni Poleni (1683-1761), lodatissimo matematico veneziano, diede eccellenti consigli sul restaurare la cupola di San Pietro in Vaticano, ed ajutò l’intelligenza di Vitruvio colle Esercitazioni. Sono pure lodati il romano Francesco Vettori; Giorgio Viani numismatico, che diè le memorie della famiglia Cibo; Angelo Maria Bandini, che scrisse sull’obelisco d’Augusto e su molti punti di storia, principalmente della fiorentina. Francesco Daniele di San Clemente illustrò I regali sepolcri del duomo di Palermo allora dischiusi; Gaetano Migliore napoletano I marmi ferraresi e la condizione degli antichi Giudei in Italia; il padre Edoardo Corsini modenese, filosofo e matematico, i fasti attici, gli agoni, le note dei Greci, la serie dei prefetti di Roma, le Olimpiadi, in modo che non fu ancora superato da altro cronologo. Domenico Diodati, oltre i numismi, raccolse le iscrizioni antiche del Napoletano, e tolse a provare che alcuni vangeli fossero originariamente scritti in greco, lingua allora adottata in Palestina.

Marianna Dionigi romana, studiosa delle lingue e delle arti belle, al vedere scoperte le tombe degli Scipioni s’appassionò per l’archeologia; e inesplorati monumenti cercò, quali sono le mura ciclopee, ragionandone [520] nelle Cinque città del Lazio che diconsi fondate da Saturno. Pier Luigi Galletti romano pubblicò le iscrizioni del medioevo, e lavori particolari su Gubbio, Ascoli, Rieti, sul vestarario della santa romana Chiesa, e una vita del cardinale Passionei con lettere importanti. Antonio Rivautella gesuita fece la collezione dei marmi torinesi, e col Pasini l’indice dei manoscritti di quella biblioteca[253]. Monsignor Guarnacci, che a Volterra raccolse un museo d’antichità patrie, nelle Origini italiche arrogò alla penisola nostra la cuna della civiltà. Il torinese Carlo Paciaudi (1710-85) radunò le antichità di Velleja allora dissepolta, illustrò i monumenti peloponnesiaci del museo di Nani e i bagni sacri, il culto di san Giambattista ed altri punti d’archeologia religiosa, alla quale rivolsero l’attenzione e crebbero lumi il Boldetti, il Bottari, il Mamachi, il Bonarroti, il Marangoni, il Sassi, il Campini, l’Ansaldi, il Galliciolli.

Francesco Cancellieri romano, di molta dottrina sebbene sparpagliata, illustrò i segretarj della Vaticana. Stefano Borgia (1731-1804) a Velletri raccolse il museo più ricco che alcun privato avesse; come segretario della Propaganda era in relazione coi missionarj, che da tutte le parti del mondo a gara glie l’accresceano di manoscritti e rarità; e vi spendeva ogni avere suo, fin a dare le argenterie da tavola e le fibbie delle scarpe; vendette un bacile d’oro per sostenere le spese della stampa del Systema brahmanicum di Giovanni Werdin, noto col nome di padre Paolino; ajutò le ricerche dello Zoega, dell’Adler, del Giorgi intorno agli Egizj, agli Indi, agli Americani. Valse anche nell’amministrazione, e da Benedetto XIV posto governatore di Benevento, vi prevenne [521] una carestia; da Pio VI creato cardinale e ispettore degli esposti, fece regolamenti utilissimi, riformò molti abusi, istituì case di lavoro; poi governatore di Roma quando la rivoluzione si avvicinava, la tenne quieta senza delitti. Comparsi i Francesi, arrestato, sbandito, ritirossi nel Veneto, e subito vi formò un’accademia di dotti e una nuova Propaganda, che spedì missionarj in Africa e Asia. Ripristinato il papa, il Borgia presedette al consiglio economico, poi ordinato d’accompagnare Pio VII a Parigi, morì a Lione di settantatre anni.

Giambattista Passeri (1694-1780) applicò utilmente alle antichità degli Etruschi, ne’ quali pretese riscontrare i dogmi rivelati; e alle Tavole Eugubine e ad altri documenti cercava spiegazioni recondite, invece delle ovvie. Monsignor Marini discorrendo sugli atti de’ Fratelli Arvali e sui papiri, avviò a sciogliere molti problemi d’antichità. Alessio Simmaco Mazocchi (1684-1771) capuano illustrava il mirabile anfiteatro della sua patria, e altri monumenti, e sovrattutto le due Tavole Eracleensi: e sponendo la Bibbia nell’Università di Napoli, stese il prezioso Spicilegium biblicum[254]. Erasi egli associato l’abate Nicola Ignara, che gli succedette nella cattedra d’ermeneutica, e che verso i settant’anni perdette la memoria, dopo avere eruditissimamente scritto sulle fratrie [522] antiche napoletane, mostrandole non confraternite religiose, ma associazioni politiche. Degli Etruschi si occupò il gesuita Luigi Lanzi, tutto derivando dai Greci. Il Demstero aveva cominciato un Museo Etrusco, pel quale le nuove scoperte offersero al senatore Filippo Bonarroti numerose aggiunte. Iniziato da questo, il grecista Gori se n’appassionò in modo, che tutte vedea negli Etruschi le verità e le invenzioni. Ne’ suoi studj d’antiquaria e d’epigrafia fu giovato da Giovanni Lami (1697-1770) di Valdarno, estesissimo erudito, amator della bellezza, del buon tempo e dei motti che gli attirarono di molte brighe. I Gesuiti bezzicò con satire latine e italiane di nessun valore; ma peggiori litigi mietè colle Novelle letterarie, foglio ebdomadale, spinto a tal procacità che fu soppresso. Nelle Delizie degli eruditi toscani pubblicò molti tesori della biblioteca Riccardiana; difese dal Le Clerc e dai Sociniani il concilio Niceno riguardo al logos; dimostrò (De eruditione Apostolorum) che gli apostoli erano troppo ignoranti perchè potessero trarre da Platone l’idea della Trinità.

Francesco Zanetti (pag. 426) volle sostenere che i caratteri etruschi siano i runnici, e scrisse della moneta veneta. Rambaldo Avogadro da Treviso, nell’illustrare quella del suo paese, fu forse il primo che porgesse qualche filo nel labirinto monetario del medioevo, al che s’industriarono pure il Muratori e il Carli e Giulio Zanetti. Il principe di Torremuzza, dal senato di Palermo incaricato di rischiarare centoquindici iscrizioni d’ogni lingua che eransi improvvidamente disgiunte dai monumenti per raccorle, in quel lavoro sentì il bisogno di rifar il catalogo di Giorgio Gualterio, e vi destinò un’accademia di sessanta Siciliani, come colonia della Colombaria. Altrettanto imperfetta conobbe la Numismatica sicula dell’Agostini, del Meyer, dell’Auercamp, del Burmano, e la rifece. Il re di Napoli pagò la stampa, [523] e lui sovrappose ai monumenti siculi, con Ignazio Paternò Castelli principe di Biscari, altrettanto appassionato; e a loro è dovuta la conservazione di tante preziosità. Questo Biscari dissepellì e illustrò antichità siciliane, e principalmente di Catania; al che pure travagliò Gabriele Lancellotti Castelli palermitano, massime in fatto di monete.

E già la numismatica era stata condotta al vero uffizio suo di coadjuvare alla storia per opera di Spanheim, Le Vaillant, Pellerin, Barthélemy, e del gesuita austriaco Eckhel, che ideò un complesso di tutta quella dottrina. Alla quale non meno che alla storia naturale giovò Domenico Sestini di Firenze ne’ viaggi ripetuti a Costantinopoli e spinti fin nell’India. Incaricato da Ainslie ministro britannico presso la Porta, di far una collezione di medaglie greche e romane, s’innamorò di questi studj, e diede le Classes generales geographiæ numismaticæ populorum et regum, poi molte descrizioni di musei e medaglieri; e nel Sistema geografo-numismatico in quattordici volumi in-folio rimasto manoscritto, descrive tutte le medaglie conosciute, più completo di Eckhel, sebbene inferiore di erudizione e sagacia.

Gli antiquarj fin là davano piuttosto commenti su usi degli antichi, che non buone dottrine sull’antichità; s’atteneano principalmente al romano e all’età imperiale come più conosciuta, scarsa la critica nello studio de’ monumenti, senza applicar la logica ai fatti osservati, senza il sentimento ragionato dello spirito di un’epoca e d’un popolo, senza l’abitudine de’ ravvicinamenti; dissertavasi su tutto quanto capitasse alla penna e pigliandola dalla lontana: nel che, a tacer altri, acquistarono sciagurata rinomanza Paolo Pedrussi di Mantova nel Museo Farnese, e il Martorelli valentissimo grecista, ma di strane divagazioni e conghietture temerarie.

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Ormai cessando d’essere mera curiosità o palestra di nojosa erudizione e d’ipotetiche arguzie, l’archeologia imparava a smettere le riflessioni accessorie che non rampollano dall’ispezione del monumento, nè lo chiariscono, e a dispensarsi dal facile fasto di accumulate citazioni; e Giovanni Winckelmann (1717-68), figlio d’un calzolajo brandeburghese, venuto a Roma, e trovatovi protezione dai cardinali Archinto e Albano, vi stette finchè, nel voler rivedere la patria, un assassino gli troncò la vita a Trieste. Egli dirizzò l’antiquaria sulle arti del disegno, delle quali pubblicò una Storia, prendendo tal nome nel senso greco di sistema, e guardando all’essenza dell’arte non alle vicende degli artisti, divinando quel che all’età nostra fu provato, che la teoria dell’arte si riduce alla teoria delle epoche. Conoscea quanto gli antichi aveano detto sul sentimento del bello, e come alla fonte divina faccia rifluire i nostri pensieri; se non che alle loro astrazioni surroga le realità storiche, le quali ne sono la traduzione. Ma egli avea visto l’antichità soltanto a Roma, cioè la terza e quarta epoca dell’arte, quando la grazia era valutata meglio che la forza e la maestà; e sebbene conceda stima anche alle più antiche, imperfettamente indicategli, e chiami grande e sublime la scuola di Fidia e Scopa, non desunse gli esempj se non dalle opere che conosceva, e che erano quasi tutte di Prassitele o imitazione romana. Pertanto i suoi discepoli credettero che queste fossero le sole imitabili, nè poter l’espressione trascendere l’Apollo del Belvedere; fin quando ai dì nostri la Venere di Milo e i marmi d’Egina e del Partenone allargarono la veduta e la comprensione, portarono occhio su l’arte egizia, che il Winckelmann aveva accennata, senza saper nicchiarla entro la sua cornice, senz’accorgersi che v’è un’arte anche fuor dei paesi dove l’uomo, stupito di se stesso, ogni cosa [525] vede traverso alle forme finite del suo intelletto e del suo corpo.

Abbracciare l’arte intera, onde rivelare il soggetto, il tempo, il merito di ciascun lavoro, seguire le vicende del gusto, leggere ne’ monumenti la storia dell’uomo, delle religioni, della politica, della civiltà fu opera di Ennio Quirino Visconti romano (1751-1818). Meraviglioso di memoria, ben presto ebbesi assimilati i Classici per modo da percorrere l’antichità con sicurezza. Quando gli scavi d’Ercolano e Pompej invogliavano a questi studj, Clemente XIV pensò comprare le ricchezze archeologiche sparse e cercarne di nuove; e del museo che ebbe nome da lui e da Pio VI la cui munificenza lo finì, collocò alla direzione il Visconti. Questo lo dispose nel quartiere del Vaticano, contiguo al cortile delle statue che allora fu cinto di portico; e nel descriverlo rifuggì da quell’aria d’arcano, da quelle ambiziose digressioni che troppo costumavano, ed espose con chiarezza, limitandosi a quel che di ciascun’opera è particolare. Inventò di disporre nei monumenti in prima le divinità del cielo, dei mari, della terra, degl’inferni; poi gli eroi, la storia antica e romana, i savj, i filosofi, i dotti; infine ciò che riguarda la storia naturale, i costumi, le arti; e ciascuna classe secondo l’età o il merito. I sepolcri degli Scipioni, sterrati il 1780; le ruine di Gubbio, dissepolte per cura del principe Borghese; quanto di nuovo uscisse o di vecchio restasse ancora mal interpretato, aveva da lui illustrazione. Allorchè la Francia rapì all’Italia le ricchezze artistiche, il Visconti fu chiesto conservatore al museo a Parigi, ch’egli dispose giusta il suo metodo. Della sua Iconografia greca e romana, raccolta de’ ritratti autentici, Napoleone fece fare una edizione magnifica, e la regalò alle persone dall’autore indicate: genere nuovo e delicato di generosità.

Lo studio dell’antichità operò sulle arti belle; allora [526] nelle case si vollero imitate le loggie Vaticane, le pareti d’Ercolano, i peristilj di Pesto con quel dorico ignoto ai Romani e al rinascimento; suppellettili, decorazioni, pietre intagliate, candelabri, riprodussero l’antico; e si prese schifo de’ dominanti smarrimenti.

L’incisione diffondeva i capolavori. Francesco Maria Francia bolognese eseguì più di mille cinquecento intagli, scorretti ma con intelligenza dell’ombreggiare. Francesco Bartolozzi fiorentino (n. 1730), in Inghilterra coll’incidere a granito e a stampa colorita le opere della Kauffmann acquistò a questa una reputazione superiore al merito, e ne ritenne sempre un po’ della sdolcinatura. Da quei generi facili tornava di tempo in tempo al buon taglio, come nella Clizia; ma vi metteva il far proprio, più che non conservasse quello dell’originale. Era ottagenario quando intagliò la Strage degli Innocenti di Guido. Il Rosaspina suo scolaro conservò meglio le forme, e sono divulgatissimi l’Amor saettante e la Danza degli Amori. Molti introdussero la maniera nera, spedita e brillante. Giambattista Piranesi (1707-78) architetto, fece briosamente le vedute di Roma in sedici volumi atlantici, e le corredò di buone descrizioni, fattegli da altri, ma che egli spacciava per sue sin cogli autori stessi. Non è che uno dei moltissimi tratti di sua bizzarria, per cui era alla lingua e ai pugni con chiunque avesse a far seco. Suo figlio Francesco (-1810), caldeggiante nella repubblica romana, poi profugo a Parigi, aveva imitato il padre, e piantò colà lo stabilimento calcografico, possedendo mille settecentotrentatre tavole grandissime, sebbene senz’analogia fra loro. Pose anche una vendita di vasi, candelabri, tripodi; ma ne scapitò.

Il conte Antonmaria Zanetti veneziano, incisore e antiquario, volle rinnovare la maniera di Ugo da Carpi d’ottenere il chiaroscuro negl’intagli in legno; al qual modo pubblicò molte cose del Parmigianino, e le statue [527] dell’antisala della libreria di San Marco, e immagini del museo Arundel.

Allora gl’incisori tornarono a voler riprodurre i pregi degli originali, come fecero all’acquaforte il veronese Domenico Cunego, il pittore pistojese Giambattista Cipriani molto pregiato a Londra, il Porporati torinese di taglio netto, tinte trasparenti, chiaroscuro armonico, bellissimo nelle carnagioni, non tanto nei capelli. Giovanni Volpato (1733-1802), povero bassanese, che cominciò col far trapunti a’ fazzoletti con sua madre fu dal Remondini preso a lavorare per la sua tipografia, poi dal Bartolozzi a Venezia, finchè gli si offerse d’intagliare per una società a Roma le loggie Vaticane, e quest’occasione il fece grande; anche dappoi ebbe la fortuna e l’arte di scegliere belle composizioni, e restò lodatissimo benchè ruvido nel tratteggio e opaco nelle mezzetinte. Ebbe ajuto, poi genero Rafaele Morghen napoletano, di bulino diligente, che a Roma intagliò il miracolo di Bolsena, l’Aurora, il Cavallo, poi ancor meglio la Cena di Leonardo qual è conservata da Marco d’Oggiono. Chiamato a Firenze vi fondò una scuola illustre, benchè mal conservasse il carattere. Le costoro opere furono cerche e pagate lautamente, e la tradizione se ne conservò poi con Longhi, Anderloni, Garavaglia, Jesi, Toschi.

Giovanni Gori da Siena, collo sposare una Gandellini sottentrò a questa ricca casa che aveva principalmente negozj ad Augusta; colà fra i traffici si perfezionò nell’incisione, e raccolse le notizie storiche degl’incisori, che sebbene pubblicate nel 1771 due anni dopo la sua morte, prevennero il Dizionario di Stratt e l’Idea generale di Heineken. Suo figlio Francesco fu l’amico d’Alfieri. Francesco Ghinghi senese lavorò stupendamente le pietre dure: quelle di Carlo Costanzi napoletano, di Sirletti, Watter, Pazzaglia, Amastini, Marchant, [528] Cades, Caparoni, Rega, Cerbara, e massime di Giovanni e Luigi Pichler reggono al confronto degli antichi. I musaicisti si esercitavano in grande traducendo quadri pel Vaticano.

Così la riforma delle arti belle cominciava in Italia. Al principio del secolo dominava nell’architettura Filippo Juvara di Messina (1685-1735), ricco d’invenzioni ed aborrente dalla semplicità. Dal duca di Savoja menato a Torino, che dovea rifarsi da tante guerre e divenir italiana cioè bella, vi si adoprò in molti edifizj e meglio nel tempio di Superga, fatto con abilità somma ed accortissime invenzioni, sebbene la prodigalità di ornamenti storni quella maestà che nasce da un pensiero grande e semplice. In Italia non faceasi opera senz’averne il suo parere; poi a Lisbona disegnò la reggia e il patriarcheo, e v’era chiamato a far il palazzo reale, quando morì.

Di Nicola Salvi romano, oltre moltissimi restauri, lodano la macchinosa fontana di Trevi. Il fiorentino Servandoni diresse molte feste nelle capitali d’Europa, e all’allettamento della musica e della rappresentazione teatrale unì quello delle decorazioni, la bellezza magica non iscompagnando dalla verità. Al San Sulpizio a Parigi stava per apporsi una fastosa facciata borrominesca, quando il Servandoni presentò un modello con linee dritte, regolare distribuzione di colonne e d’ordini, e una correzione da gran tempo disusata: sebbene poi, più decoratore che architetto, cercasse l’effetto teatrale sull’altare ove la Beata Vergine riceve luce da una finestra nascosta.

Gaspare Van Vitel di Utrecht a diciannove anni fissatosi a Roma, s’italianizzava di nome e di costumi, e come pittore d’architettura e paesaggi era onorato dappertutto, e chiamato a Napoli dal vicerè de la Cerda. Suo figlio Luigi Vanvitelli studiata l’architettura sotto lo Juvara, a ventisei anni era già architetto di San [529] Pietro. Alzò a Napoli l’Annunziata, ricchissima di colonne ed altre fabbriche, con gusto quasi sempre corretto. Occasione rara gli presentò Carlo III quando volle erigere a Caserta una residenza che non fosse inferiore a quella di verun altro re d’Europa (pag. 165). Vincenzo Paternò Castello principe di Biscari siciliano, s’immortalò col ponte acquedotto sul Simeto a trentun archi. Le fabbriche di Modena ebbero avviamento di miglior gusto da Giuseppe Maria Soli da Vignola, le ravignane da Camillo Morigia, le veronesi da Gerolamo del Pozzo e dal conte Pompej, che studiando sul Sanmicheli combattè la moda, e molti lavori eseguì in patria, massime la dogana e il portico ove Maffei dispose le lapide antiche.

Il conte Carlo Pellegrini veronese, da poi maresciallo austriaco, molte fortificazioni fece a Vienna e in Ungheria. A Vicenza il gusto teneva del palladiano, e d’altro secolo si direbbe Ottone Calderari, eccellente artista se gli si fossero offerte occasioni. Il Cerati vicentino in Padova eresse la specola e l’ospedale, ed abbellì il Prato della Valle. Bartolomeo Ferracina, figlio d’un falegname di Solagna nel Bassanese, nojato di tirare la sega e girar la ruota per affilare i ferri paterni, inventò ordigni che mossi dal vento faceano questi servigi. Animato dal piovano, si diede a lavorar di ferro, accomodò e fece oriuoli con ingegnose bizzarrie, sicchè i gentiluomini veneti l’applicarono a opere più importanti. Tali furono il restaurare il ponte di Bassano, difender Trento dalla Férsina, e altri lavori idraulici: inventò la sega circolare sott’acqua, macchine da trasportare immensi macigni, e altri congegni, tutti per pratica, non potendo egli dar ragione di nulla, nè tampoco divisar l’opera prima di mettervi mano, dicendo che tutto imparava nel libro della natura[255].

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Anche Nicolò Zabaglio romano, da legnajuolo divenne per abilità meccanica architetto di San Pietro, conservando la semplicità e il disinteresse del primitivo stato a segno che avendogli chiesto Benedetto XIV di qualcosa potesse gratificarlo, rispose — D’alcune bottiglie di quel buono». Suoi sono la macchina con cui si pulisce e ripara l’interno della cupola di San Pietro, e scale e ponti sospesi e veicoli che furono descritti da Giovan Bottari. Anche Andrea Tirali da muratore divenuto architetto, ben intendeva la meccanica, e fece a Venezia fabbriche pesanti ma meno scorrette delle solite, quali sono il palazzo Priuli a Canareggio, la loggia dei Teatini, la scala di ca Sagredo a Santa Sofia.

Ferdinando Fuga fiorentino lavorò molto a Roma; a Napoli fece il reclusorio per ottomila poveri, fatica di trent’anni. Il Paoletti, che cercò ricondurre al greco e al romano, diè molto a parlare trasportando a Poggio Imperiale una volta, dipinta dal Rosselli. Anche il Camporese romano dal mal gusto correggevasi cogli antichi; pure diceva con verità: — Se togli agli edifizj barocchi, gli zigzag, i cartocci, le ondulazioni, le modanature ammanierate ed altrettali libidini dell’arte, qual de’ moderni fece meglio?» Disegnò il duomo di Genzano, lavorò al museo Vaticano, ove principalmente sono lodevoli l’atrio e la sala della biga; poi durante l’occupazione francese fu adoperato a scoprire e rimettere grandiose anticaglie, a disegnar la piazza Popolo e l’attiguo giardino e dirigere le feste imperiali.

Allievo del Vanvitelli, Giuseppe Piermarini da Foligno (1734-1808) venne a Milano a dirigere grandiose fabbriche, quali il palazzo reale e i due teatri, e la villa reale di Monza colla novità d’un giardino inglese. Abile a superare gli ostacoli e acconciarsi alle necessità, ravvisando [531] i difetti precedenti, eccedeva in senso contrario corretto senza grandezza, con forme senza rilievo. Più vigoroso Simon Cantoni da Lugano (1736-1818) chiese e palazzi fece nel Milanese, e a Genova la sala del granconsiglio dopo bruciata nel 1777, alla soffitta di legno surrogando un’ardita volta senza chiavi. La ornò Giocondo Albertolli (1742-1838) suo compaesano, che risuscitò le grazie dei Quattrocentisti, decorando di stucchi chiese e reggie di Firenze, di Napoli, di Lombardia; nella nuova Accademia milanese introdusse un correttissimo gusto d’ornamenti architettonici, e pubblicò una serie d’esempj, incisa da Giacomo Mércoli. Agostino Gerli a Milano indispettivasi de’ cartocci e delle ondulature, e con Giuseppe Levati si oppose ai pregiudizj.

La scuola pittorica lombarda era perita; ma un monumento singolare ne sono i ritratti dei benefattori all’ospedale di Milano, che come contemporanei, ritraggono e le foggie vere del tempo e le vicende dell’arte, potendo supporsi che buoni pennelli fossero sempre prescelti[256]. Molti compresero il dovere del ritrattista, di trasmettere nell’effigie non se stesso, ma il personaggio. Da settanta se ne conservano del Seicento in cui tal uso cominciò, opere del Panfilo, del Cairo, del Sant’Agostino; in generale con colori sobrj negli abiti, pochi accessorj fuor della persona, studiata principalmente la testa. Colle mode di Luigi XIV acquistano predominio il teatrale, sin a perdersi la figura umana sotto un cumulo di fronzoli e guardinfanti e parrucche. Nei ritratti del secolo XVIII poco è a lodare, eccetto [532] quelli di frà Vittore Ghislandi da Galgario, pittore ignoto fin alla Lombardia, e d’un Biondi, contemporaneo di Appiani, il quale eseguì alcuni de’ migliori, appena pareggiati dagli odierni.

Giacomo Traballesi, pittore fiorentino, sugli antichi acquistò spontanea eleganza, dipendente da armonica e dolce disposizione di linee e da nobile espressione, più che da ricercati atteggiamenti, o sfarzo d’accessorj e di tinte; a Firenze parve resuscitare Guido e i Caracci; poi chiamato professore a Milano, lasciò lavori lodevoli nell’insieme, quand’anche pecchino ne’ particolari. Da Milano pure uscì l’amabile Andrea Appiani (1754-1817), che i vizj de’ contemporanei rinnegò francamente negli affreschi di San Celso, accoppiando alla leggiadria la forza, all’armonia la vivacità, all’ardimento la correzione. Lodano i chiaroscuri con cui effigiò le battaglie di Napoleone; e voltosi al costui culto, alla corte e alla villa di Milano rappresentandone l’apoteosi si ampliò nello stile mitologico e accademico sottentrato di moda, negligendo il segno e abboracciando la composizione.

Molti indagavano le teoriche delle arti, ma senza profondità. Gianpietro Zanotti, lodevole pennello bolognese, dettò Avvertimenti per incamminare un giovane alla pittura, e la Storia dell’accademia Clementina, ch’era stata approvata nel 1708 da Clemente XI, e sistemata dal Marsigli. Come avviene a chiunque parla di viventi, disgustò gl’infimi per le scarse lodi, i migliori per l’accomunarli con quelli. Don Luigi Crespi, figlio del pittore baroccesco Giuseppe Maria detto lo Spagnuolo, nella Felsina pittrice ed in altre opere scarificò le piaghe del suo tempo con una franchezza che non poteva essergli perdonata. Il canonico Lazzarini da Pesaro, creato della scuola bolognese, trattò passabilmente della pittura, e nelle composizioni osservò il costume. Anton Maria Zanetti scrisse la storia della pittura [533] veneziana, con molto franco sentenziare. Tommaso Temanza buon idraulico, e la cui Santa Maddalena a Venezia è delle migliori architetture del secolo, oltre le Vite de’ celebri architetti e scultori veneziani del secolo XVI, illustrò Vitruvio e le antichità di Rimini e di Venezia. Molto lo flagellò il frate Carlo Lodoli, bizzarrissimo di vita e d’ingegno, cinico e provocatore, il quale ripudiava ogni autorità per appellarsi alla pura ragione, e pareagli i gran maestri d’architettura avesser offese le basi d’un’arte, cui merito è la comoda e ornata solidità. Criticando al Massari il disegno della chiesa della Pietà, e mostrandogli ch’era contrario alla logica — Chi mai (s’udì rispondere) pensò a far entrare la logica nell’architettura?» Il Lodoli non sarebbe conosciuto se il patrizio Andrea Memmo suo scolaro non avesse pubblicato alcuni Apologhi che n’aveva uditi, e gli Elementi dell’architettura lodoliana.

La Storia della pittura del Lanzi piace per una certa limpidezza; ma sfrantuma la materia, e manca di quella pratica che rende franchi e istruttivi i giudizj del Vasari quand’anche fallaci[257], e di quell’acume che spiega il talento d’un autore descrivendone il carattere. L’Algarotti nel Saggio sopra la pittura è superficiale come nel resto; e più di lui il Rezzonico ed altri precettisti e segretarj, deliranti dietro al bello ideale ed echeggianti alcune frasi di convenzione, e i migliori restringendosi a raccomandare l’eclettica imitazione de’ modelli, anzichè ricorrere alla natura. Il signore D’Agincourt, venuto a Roma per passarvi qualche giorno, vi durò cinquant’anni, togliendo dal vilipendio le arti del medioevo, di cui tessè la storia: ma il disopportuno rimpicciolimento [534] dei disegni sentesi pure nelle idee; in quelli non sempre rispetta la nativa rusticità: nel testo ricorre su concetti di scuola, nè sa penetrare sotto alla scorza per iscoprirvi l’ispirazione e il sentimento. Il che del resto sarebbe troppo a pretendere da un secolo, che tutto riducendo alla propria piccolezza, non sapea penetrare nello spirito de’ tempi, de’ luoghi, dei popoli differenti, e perciò comprenderne i sentimenti; onde nel medioevo non riscontrava che ignoranze, ridicolaggini o colpe.

Audacissimo il napoletano Francesco Milizia[258] (1725-98) trincia sentenze d’un gusto che pare indipendente e originale a chi ignori ch’è copia degli Enciclopedisti, de’ quali adotta le grette massime senza tampoco darsi briga di levarne le contraddizioni. Ad Americana deride chi crede alle grandiose fabbriche del Perù, come non possibili a gente sprovveduta di macchine: eppure dimentica quest’eccezione a proposito degli Egiziani; poi a Fabbricare dice: — Al Messico e al Perù gli edifizj erano di gran massi di pietre ben tagliate, trasportate ben da lungi e ben congiunte senza cemento». A tacerne le deficienze sopra opere ed artisti forestieri, molti anche dei nostri dimenticò; per esempio Rainaldo, che elevò la facciata del duomo di Pisa; il Calendario, architetto forse o almeno scultore del palazzo dogale di Venezia; il Formentone vicentino, autore della Loggia di Brescia; il Longhena, grandioso architetto di Santa Maria della Salute e del palazzo Pesaro in Venezia; il conte Alfieri piemontese, e i milanesi Omodei, Richini, Meda, Mangone, Bassi, Seregni[259]; gli architetti militari piemontesi Bertóla, Devincenti, [535] Pinto, anzi fino il Marchi e il Pacciotto d’Urbino. Passionato, violento, inverecondo, adora Mengs e vilipende Michelangelo: ma quella tanto rinfacciatagli bestemmia che la testa del Mosè pare un caprone, e’ la tolse dall’inglese Reynolds, come da altri molte che credonsi sue capresterie; ond’io amerei sapere donde attinse la bella definizione della pittura, «Arte di farsi migliore per la grata rappresentazione d’oggetti visibili con linee e colori»[260].

Gli troviamo riscontro in Giuseppe Baretti torinese (1716-89). Educato imperfettamente, scrisse poesie bernesche nulla migliori delle consuete, e prosa non rivista, non corretta, non composta, ma che si legge volentieri perchè casalinga, senza i contrafforti, le giunture, gli emistichj allora consueti, e perchè animata da sentimento, anzichè artifiziata per convenzione. Mal trovando pascolo e occupazione alla sua irrequietudine in Torino, in Lombardia, a Venezia, pensò poter meglio vivere e pensare in Inghilterra, dove apprese sì bene la lingua da compilarne il dizionario, e dettò in quella una difesa degli Italiani (pag. 445 not.). Descrisse un viaggio traverso al Portogallo e alla Spagna con particolarità abbastanza triviali, e mutilo comparve in italiano sotto forma di lettere, compiuto in inglese e ben accolto da quel pubblico pel metter in iscena le persone e per la conoscenza della lingua. Vedendosi attorno una folla di moderni goffi e sciagurati «che andavano tuttodì scarabocchiando commedie impure, tragedie balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole, e prose e poesie d’ogni generazione, che non hanno in sè la minima sostanza, la minima qualità da renderle dilettose e ragionevoli ai lettori e alla patria», cominciò a menar addosso a loro la Frusta letteraria sotto il nome d’Aristarco Scannabue.

[536]

Quanto avrebb’egli potuto sbronconare, se avesse posto mente a qualcosa più che alla forma; se compreso l’importanza della franchezza e della sincerità nell’arte, se alla sensata intuizione accoppiato avesse alti sentimenti, dottrina soda, veder largo, le corroboranti ispirazioni del patriotismo! Ma pochissimo sapendo e arrestandosi alla forma, sprezza tutto quanto sorpassa la sua intelligenza; non crede a nulla che trascenda l’esperienza sua propria, tutto riferendo a se stesso senza discernere studj o tempi, e volendo far passare tutti gli autori sotto le forche caudine del personale suo sentimento. Nella filosofia francese non riconosce o gli erronei principj o le benevole intenzioni, ma roba da anticamere e da cameriere. Di Dante dice grossolanità non minori di quelle del Bettinelli; il Filicaja pe’ suoi sonetti all’Italia giudica «degno d’una buona staffilata sul deretano per ogni verso»; perchè il dottor Bartoli ragionò sul dittico Quiriniano con assurda lungagna, esso discredita l’erudizione anche moderata e sapiente, «e le pignatte dell’Umbria, e i chiodi d’Ercolano»; s’ostina a vituperare il verso sciolto, e intanto scrive in martelliani; nel libro Dei delitti e delle pene non vede che «una cosaccia scritta molto bastardamente»; nel Verri un saccentello «ch’ebbe dalla natura un buon pajo di calcagna da ballerino, non una testa da politico o da filosofo»; abusa della celia contro gente da tanto più di lui, quali Appiano Buonafede, ch’e’ tratta da frate pazzo, birbologo, scimunito arcade, sozzo majale; tutt’ira ed invidia e contumelie e malignità contro alcuni buoni, esalta mediocrissimi; trascina alle gemonie Carlo Goldoni, mentre di Carlo Gozzi fa un genio appena inferiore a Shakspeare. Fin nelle lettere famigliari e nella conversazione mostrasi garroso, accatta avversarj da combattere, graffia anche mentre carezza, adoprando per errori di gusto una bile che appena sarebbe compatibile [537] per peccati di morale. Non gli meniam buona la scusa sua d’aver voluto disonnare la pubblica svogliatezza per mezzo delle simpatie e antipatie: e qualche verità opportuna, sebben soverchio ripetuta, come quella delle costruzioni dirette; qualche imperterrito assalto a pregiudizj radicati, non bastano a qualificare buon critico chi tanto di falso mescola al vero: e sotto l’impressione dolorosa che lascia quel libro, amiamo ripetere che colle scurrili invettive del Baretti[261] e colle avventataggini del Milizia potea bensì aprirsi la via al turpe giornalismo odierno, ma l’arte non potè essere purgata se non da chi studiava da senno gli esempj migliori e la natura dell’uomo.

Povera cosa erano i giornali d’allora, di critica angusta e neppur passionata, e nonchè adempire il nobile uffizio di condur la scienza delle altezze inaccessibili a fecondare il campo della pratica, non teneano tampoco informati delle migliori produzioni nazionali e forestere. Citasi come modello il Caffè; ma quanta meschinità di concetto e di vedere! quanta inesattezza di verità in mezzo a molti lampi di buon senso!

Il padre Zaccaria veneziano, bibliotecario di Modena, fra le centocinque opere che stampò, in cui un volume di Aneddoti del medioevo (1755), seguitò alcun tempo una Storia letteraria, esaminando le opere uscite ciascun anno, riunite sotto titoli generali con giudizj piuttosto benevoli ma ispirati da consorteria, da personalità, da consenso religioso. Egli facea speciale istanza perchè gli venissero mandati i libri da Roma, dal Regno, da [538] Sicilia, ed — È cosa da dolere che, siccome fossimo divisi toto orbe, di tanti utilissimi e stimabilissimi libri che escono in quelle parti, appena a noi venga notizia, o al più venga tardissima». Lamento che regge anche dopo un secolo; siccome quell’altro che «i nostri vescovi non sogliono applicarsi alle stampe, il che accresce la falsa voce non esser eglino così dotti come i vescovi di Francia»[262].

Delle storie letterarie va in capo quella di Girolamo Tiraboschi (1731-91) gesuita bergamasco, succeduto al Muratori come bibliotecario; d’erudizione laboriosissima, di cuore eccellente, d’ottime intenzioni. Delle tre parti che tal lavoro richiede, notizia degli scrittori, forma e materia delle loro opere, giudizio del merito, le prime due abbastanza egli avanzò, chiarì punti ottenebrati, assicurò date, rivendicò autori, lesse con coscienza quelli di cui parla, ma non se ne ispirò; non informa delle loro opinioni, e del merito relativo ai tempi e agli altri autori, di rado avventura un giudizio proprio, citando molto e decidendo poco, nè seppe tener il mezzo fra le omissioni inevitabili nei lavori complessivi e le prolissità delle ricerche speciali; sfrantuma scolasticamente le scienze e gli autori; confonde il genio colla mediocrità, tutti trovando grand’uomini, perchè tali gli asserì un panegirista, un editore, un epitafio; insomma riuscì al preciso opposto di quel che avea professato, di «volere scrivere della letteratura, non dei letterati d’Italia». Molti sorsero ad impugnarlo coll’acrimonia men meritata; ed egli candidamente si dolse del modo, e nol ricambiò; spesso confessossi in torto, ma come chi tra due opinioni o vacilla o reputa migliore l’ultima che sente. «E mi spiace (scrive una volta) di non poter corrispondere alla lor gentilezza col dar ragione ad [539] amendue». L’opera sua sarà sempre un tesoro di materiali, ma aspetta chi v’infonda la scintilla della vita, e la guardi da quel punto elevato, donde si coglie l’unità armonica e il reale significato delle opere d’uno scrittore.

Fra suoi contradditori furono alcuni de’ Gesuiti cacciati di Spagna, e che venuti in Italia v’acquistarono la cittadinanza letteraria scrivendo di noi e in lingua nostra. Giovanni Andres di Valenza[263] nell’Origine e progresso d’ogni letteratura arrischiò giudizj che non erano i vulgati; fece conoscere gli Arabi che idolatrava: ma alla fine di quei faticosi volumi il lettore pochissimo ha profittato, perchè privo d’esempj che lo capacitino a giudicar da se stesso. Anteriormente Giacinto Gimma di Bari avea divisato un’enciclopedia di tutte le scienze, e cominciatala il giorno di san Tommaso, la compì in tre anni, ma non trovò chi la stampasse; e prima del Tiraboschi diede un’idea della Storia letteraria d’Italia (1723) fino a’ suoi tempi, prolisso e a digressioni, rivendicando molte scoperte a’ nostri nazionali.

Giammaria Mazzuchelli bresciano (1717-65) intraprese un dizionario de’ letterati antichi e moderni d’Italia. Finì soltanto l’A e il B, e ciascun articolo può dirsi compito: ma colpa dell’ordine alfabetico, lascia l’uomo isolato dai contemporanei, ne’ giudizj poco s’allarga, badando a minuzie biografiche, anzichè a dar un concetto delle opere. Il Poggiali nella Serie de’ testi di lingua porge accuratissime notizie, ma non lo spirito del libro e dell’autore. Saverio Quadrio (1695-1756) fece la Storia e ragione di ogni poesia, la quale definisce «scienza delle umane e divine cose, esposta al popolo in immagine, fatta con [540] parole a misura legate», e prende per canoni l’autorità, l’uso, la ragione[264]. L’argomento era già sfiorato dal Muratori nella Perfetta poesia; ma dove questi alla causa efficiente, il Quadrio mira al soggetto della poesia; quegli prevale nella teorica, questo nelle argute osservazioni sulla forma e nell’erudizione, sebbene spesso viziosa.

Il padre Ireneo Affò da Busseto (1741-97), a tacere molte poesie e le Memorie di Guastalla con buona critica e negletto stile, scrisse quelle de’ Letterati parmensi, riccamente supplite poi e seguitate dal Pezzana; e fu uomo stizzoso, traviato spesso dalla passione ne’ giudizj. Nella vita di Ambrogio Camaldolese, l’abate Lorenzo Mehus chiarì l’età del risorgimento. Monsignor Giusto Fontanini friulano (1666-1736), campione dei diritti papali sino a meritare la disapprovazione di Roma, diede la Storia dell’eloquenza italiana, più apparente d’erudizione che fondata di giudizj, e fu contraddetto dal Muratori in difesa dei letterati modenesi, de’ veronesi dal Maffei, de’ ferraresi dal Barotti illustratore dell’Ariosto e del Tassoni. Apostolo Zeno veneziano (1668-1750) lungo tempo stese il Giornale dei letterati, coadjuvato da suo fratello, dal Maffei, dal Vallisnieri, da altri; emendò e supplì l’opera del Vossio De historicis latinis; la raccolta de’ cronisti italiani, dismise quando udì occuparsene il Muratori. Non vedendosi resa giustizia dal Fontanini, cui aveva somministrato materiali, prese a rimordere quel mordace, con un’infinità d’annotazioni e di supplementi convincendolo di presuntuosa vanità.

[541]

Marco Foscarini 1632-92, dopo onorevoli missioni fu preside dell’Università di Padova, custode della biblioteca, poi procuratore di San Marco, infine doge, nella qual dignità visse solo un anno. L’opera della Letteratura veneziana che non compì, ha ricchezza di nuovi documenti, e critica e stile migliore del corrente. Avendone il Tartarotti preparata una recensione, non solo il Foscarini ne fece proibire la stampa dalla Riforma veneta, ma ottenne che Maria Teresa ingiungesse all’alta Camera del Tirolo di sospenderla. Nelle sue ambascerie presso varie Corti informò della politica, e ne diede assennati ragguagli, fra cui singolarmente curiosa la Storia arcana di Carlo VI, «diretta (dic’egli) a mostrare i disordini nati in quella Corte per essersi introdotto un governo di Spagnuoli, de’ quali Cesare condusse seco un popolo infinito a Vienna, e formò di essi il consiglio d’Italia, soccorrendo i restanti con pensioni ed altre larghezze; quindi le animosità nella Corte fra le due fazioni tedesca e spagnuola, le corruttele, le profusioni, i disordini nell’amministrazione delle finanze ed altri vizj, i quali corruppero in guisa il Governo e debilitarono le forze di casa d’Austria, che all’aprirsi della guerra del 1733 per la morte del re Augusto, la potenza austriaca non sostenne di gran lunga quell’opinione di predominio che ne avevano concepito tutte le Corti, alle quali non erano bastantemente palesi le infezioni che l’aveano logorata all’interno»[265].

Scipione Maffei (1675-1755), uno de’ migliori letterati del secolo, nella Verona illustrata si eleva dalle municipali angustie a considerazioni generali, e dice cose rarissime al suo tempo intorno ai problemi capitali del medioevo. A commissione di Vittorio Amedeo II raccolse lapidi e monumenti pei portici dell’Università di Torino, e [542] colla Storia diplomatica preparò un’introduzione all’arte critica. Alla sua contesa col canonico bresciano Paolo Gagliardi sui confini del Bergamasco presero parte il Giorgi, il Lazzarini, il Piazzoni, il Bartelli, e più il Sambuca con grossi volumi. La storia della dottrina della Divina grazia gl’inimicò i Giansenisti: il padre Concina voleva stamparlo eretico pel trattato de’ Teatri antichi e moderni, ma Benedetto XIV rescrisse «non doversi abolire i teatri, bensì cercare che le rappresentazioni sieno al più possibile oneste e probe». Gli errori vulgari della magìa e gli aristocratici della cavalleria oppugnò, l’erudizione facendo servire alla passione del bene: ma che? il Tartarotti che avea scritto contro i notturni convegni delle streghe, prese scandalo del sentirgli negar la magìa, e imputollo d’incredulo; il mondo letterario e il teologico pigliarono parte nella disputa, ben quattordici difendendo la magìa, soli quattro oppugnandola, fra cui il Frisi ne fece soggetto di tesi pel collegio dei Barnabiti a Milano, il Carli dimostrò l’origine e falsità delle dottrine magiche e delle fatucchierie, il Grimaldi discusse della magìa naturale e artifiziale e diabolica. Il Maffei insomma scrisse di tutto, e assai seppe, e più presumeva; ed avendo chiesto a una dama, — Che darebb’ella per sapere quant’io so?» udì rispondersi: — Molto più darei per sapere quel che ella non sa»[266].

In generale le storie di quel secolo sono fredde, esanimi, senza penetrazione e senz’arte, passano da un’età [543] all’altra senza variar colorito, e molte volte una riputazione d’esattezza usurpano col tono di gravità. Il Gregorio nella Storia civile della Sicilia, nell’Introduzione allo studio del diritto pubblico di quel paese, e nelle Osservazioni menò di pari l’erudizione e la critica. Le Vicende della cultura delle Due Sicilie del Napoli-Signorelli sentono di parzialità e grettezza. Placido Troyli, abate del Sagittario, convento cistercese in Calabria, avendo pubblicato un libro contrario alle immunità di quel cenobio, ne fu espulso, e dovette ricoverare in un altro, dandosi alla pietà e allo studio, e compilò una voluminosa Istoria generale del reame di Napoli, confusa e abborracciata. Francesco Gatrille napoletano finse documenti e cronache per emulare il Muratori. Il canonico Pontilli nel 1754 pubblicò nella Historia principum langobardorum molte cronache false, che infettarono la storia, come già quelle di Annio da Viterbo.

Dei molti che attesero a storie particolari, i più limitavansi a raccorre con pazienza documenti, iscrizioni, atti pubblici[267]. Angelo Fumagalli dagli archivj del suo monastero di Sant’Ambrogio a Milano ne cavò di preziosi, e diede le Dissertazioni longobardiche [544] milanesi e una Diplomatica, certo imperfetta, ma che finora non ha chi la sorpassi. Il Canciani pubblicò le Leggi de’ Barbari, senza assicurarsi dell’autenticità; don Sebastiano Paoli lucchese, il Codice diplomatico dell’ordine di Malta; il Mittarelli e il Costadoni gli Atti de’ Camaldolesi; quei degli Umiliati il Tiraboschi, quei di San Michele di Montescaglioso il Tansi. Il prete Paolo Pizzetti di Siena (Antichità toscane e in particolare della città e contea di Chiusi nei secoli di mezzo, 1778-1781, 2 vol.) è quel che meglio intese allora l’indole della conquista longobarda e la condizione dei vinti.

La storia ecclesiastica de’ paesi veneti fu illustrata da Flaminio Correr, patrizio di severa virtù, il quale essendo dei Dieci e dei Tre, rigorosamente facea bruciar le merci proibite, benchè spettassero ad amici suoi, a cui poi mandava regali per mostrare che il dovere di magistrato non gli diminuiva la benevolenza; le pene pecuniarie destinava a poveri e a chiese, cui spesso anche le merci confiscate; zelò il culto, e procurò la riedificazione di molte chiese, e nominatamente delle facciate di San Rocco e della Carità. Sulle prime, le chiese e le confraternite esitarono a comunicargli i documenti, temendo non se ne valesse a diminuire i privilegi; dappoi glieli largheggiarono, ed esso ne formò una congerie ricchissima, molti errori correggendo, molti dubbj rischiarando con documenti autentici, preziosi e ben trascritti. La chiesa di Padova fu illustrata dal numismatico Brunacci.

Giuseppe Vernazza di Alba, filologo ed epigrafista, versatissimo nelle genealogie, approfondì molte ricerche speciali, massime sulla tipografia. Filippo Argellati, oltre assistere all’edizione della raccolta muratoriana, compilò la Bibliotheca scriptorum mediolanensium, opera di mera pazienza e imperfetta. Dissero lui plagiario [545] di Giovanni Andrea Irico da Trino, suo collega all’Ambrosiana; al modo stesso che furono detti plagiarj Beccaria del Verri, Foscarini del Gozzi, Denina dell’abate Costa d’Arignano, e che la Traduzione di Stazio fosse stata venduta al cardinale Bentivoglio dal Frugoni, e il Savioli fosse soltanto editore degli Amori, composti da Angelo Rota, il che fu poi ripetuto del Monti per la Bassvilliana; ultimi rifugi dell’invidia quando non può negare il merito.

Altri vollero dalle notizie dedurre principj e racconto ordinato, come il Verci per gli Ezelini e la Marca Trevisana; per Milano Pietro Verri, che il racconto sagrificò alla dimostrazione incidentale di teoriche prestabilite; Giuseppe Rovelli per Como, ne’ discorsi preliminari allargando la veduta sopra la condizione di tutta Italia; il canonico Lupo nel prodromo al Codice diplomatico bergamasco annunziando verità dappoi adottate. Oltre gli storici uffiziali di Venezia, abbiamo una debole storia del suo commercio per Carlantonio Marini bresciano. Jacopo Filiasi, nei Veneti primi e secondi, confermò il suo assunto con osservazioni geografiche e naturali, e vi accompagnò osservazioni sul commercio e le arti[268]. Giambattista Fanucci avvocato fiorentino stese la storia dei Tre popoli marittimi, poco pensata e male scritta.

La storia contemporanea non stimolò gl’ingegni. Il conte marchese Francesco Ottieri fiorentino, paggio di Cosimo III, alla cui Corte potè conoscere il Redi, il Viviani, il Magliabechi ed altri illustri, viaggiò Europa, e fissatosi a Roma, «dove si parla con libertà assai più che altrove d’ogni persona, senza neppur escludere chi [546] assista in qualche parte al governo, ed anche del governo stesso, il che in altro luogo punito sarebbe come gravissimo delitto», narrò le guerre condottesi in Europa e particolarmente in Italia per la successione spagnuola. Le leggeva ai prelati Fontanini, Passionei, Bottoni, e ne riceveva consigli: pure il primo tomo appena comparso fu messo all’Indice: Benedetto XIII nel tolse, ed egli proseguì, ma lasciò l’opera postuma. Oltre quel refrattario tepore, l’ignoranza dell’arte bellica lo fa scomparire viepiù fra i tanti strategi francesi che descrissero quei fatti[269].

Si pensò anche adoprare la storia come arma ed allusione. Francesco Settimani a Colonia fece stampare quelle del Varchi e del Nardi, e denigrò sistematicamente i Medici, massime in una scandalosa cronaca delle virtù e dei vizj loro, rimasta inedita; bandito dalla Toscana, dopo trent’anni chiese di tornarvi nel 1744. Il granduca Leopoldo al volterrano Riguccio Galluzzi, suo consigliero di Stato e archivista, diè commissione di narrare l’età medicea, massime allo scopo di trovare ragioni al principato contro la Corte romana. Il bel tema trattò riccamente, ma con lingua trasandata, con vacillante esattezza, e con evidenti personalità, pretendendo d’essere creduto senz’addurre le prove, piacendosi alle divagazioni declamatorie che allora usavano[270].

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Nulla aggiunge alle cognizioni, poco al sentimento la gracile Storia della Toscana di Lorenzo Pignotti (1739-1812) valdarnese, professore di fisica all’Università di Pisa, eppure tutto francesismi e inglesismi nel suo stile scolorato. Comincia poveramente dagli Etruschi, poi traverso alla libertà, nella quale desta sempre la canaglia, arriva ai Medici che esalta d’avere rimesso l’ordine, e dappertutto mescola idee costituzionali che avea attinte dal molto conversare con Inglesi, e secondo le quali diede suggerimenti al Tavanti e al Neri, e pel primo celebrò Paoli in modo non indegno del Filicaja.

Della seconda metà del secolo nessuno ci lasciò il racconto; nessuno descrisse il dominio dei Lorenesi e lo svecchiarsi della Lombardia; potendosi appena citare le vite di Giuseppe II e di Pio VI del Beccatini. Quelli che aspirarono ad alcuna novità, la tolsero dagli Enciclopedisti. Melchior Delfico da Téramo, ricercando il Vero carattere della giurisprudenza romana, alla scolastica ammirazione pel gran popolo sostituì la denigrazione, considerandolo oppressore delle nazionali libertà, e autore di leggi che ai moderni trasmisero il despotismo e l’intolleranza: a proposito delle antichità di Adria Picena, sostenne indigena l’italica civiltà e d’antichissimo fiore, e un popolo solo Tirreni e Pelasgi. Nella Storia di San Marino (1805) comincia dal professare di non essere «nell’opinione di coloro i quali riguardano la storia come maestra della vita e dispensiera della civile sapienza, e che anzi gli sembra dessa [548] contraria ai felici progressi della morale, facendoci vedere sempre gli annali della virtù in confronto dei voluminosi giornali del vizio e dell’errore». La qual tesi svolse poi ne’ Pensieri sull’incertezza e l’inutilità della storia, colle objezioni fatte alla nostra scienza dagli Enciclopedisti. Anche il Saggio sopra l’arte storica del Galeani Napione echeggia i Francesi, massime Rapin, D’Alembert, Henault.

Aurelio Bertóla da Rimini (1753-98) legò in Germania amicizia con Gessner, di cui tradusse gl’idillj; diede un saggio sulla letteratura tedesca, allora ignoratissima fra noi, una descrizione delle rive del Reno, buone favolette, e liriche dove trovò modo d’essere elegante e osceno. Col presuntuoso titolo di Filosofia della storia disgrada Inglesi e Francesi per asserire che i metodi più sicuri sieno quelli degli Italiani, i quali per verità nè definisce nè adopera. Nel primo libro tratta delle cause, nel secondo dei mezzi, nel terzo degli effetti: e cause chiama i climi, le istituzioni, le religioni, i governi, i costumi, la politica; amplificazioni sui temi conosciuti di Machiavelli, Bodino, Montesquieu. I mezzi sono altre cause secondarie, come le guerre, il commercio, le colonie, le arti e le scienze, i caratteri, posti alla rinfusa come titoli a capitoletti composti di riflessioni vaghe. L’analisi degli effetti egli fa in cinque capitoli, le età fiorenti, le conquiste, la decadenza, le rivoluzioni, le rovine; e conchiude sulla presente perfezione de’ sistemi politici, la quale ormai assicura i popoli da ogni sovvertimento; poche riforme sol restano, e queste tranquille; ma una rivoluzione «l’Europa già più non la teme». Era l’anno 1787!

Fra’ migliori storici del secolo rimangono il già detto Bettinelli e Carlo Denina (1731-1813) da Revello in Piemonte. Avendo egli in una commedia criticato l’insegnamento gesuitico, fu sbalzato di cattedra, e con ciò messo in reputazione. [549] Perdoniamogli le Rivoluzioni di Germania e le Vicende della letteratura; ma nelle Rivoluzioni d’Italia diede la prima storia compiuta del nostro paese, mal raccontata e tutta a digressioni, pure esatta nei fatti, bastantemente arguta nel vedere le cause e le conseguenze, e meno filosofista che non portasse la moda.

Allegammo di questi scrittori abbastanza per chiarire come poco accurassero la lingua, e i Toscani stessi non conoscevano il pregio della parlata. La Crusca dormiva; l’edizione nuova, assistita dal Bottari, non migliorò dalle antecedenti se non per aggiunte. Alcuni seguitavano a spigolare ne’ classici, frivola e facile maniera d’arricchire d’inerte opulenza; dove notevoli sono le Voci italiane non registrate dalla Crusca del Bergamini veneziano, modello e miniera dei moderni, altri de’ quali riprodussero il paradosso del Bastero, che la lingua nostra derivi dalla provenzale. Meglio il nizzardo Alberti da Villanova eseguì un dizionario, dove trovassero luogo anche le parole di scienza e quelle di arti, raccolte dalle bocche; e riuscì meno male, perchè da solo. Il Rabbi compilò i Sinonimi e aggiunti italiani. Il Manni occupò tutta la vita in trascrivere e annotare classici.

Nojati dalle incertezze cagionate dal valersi d’una lingua nella quale non si pensa, molte anche persone d’ingegno e di cultura scriveano in dialetto; e forse in tutti quelli d’Italia fu scritto; il siciliano un vero poeta possedette in Giovanni Meli.

Prevalsa la francese, forestieri che adoprassero la nostra lingua non rammento; pur era coltivata ancora di fuori: Paolo Rolli stampava autori nostri in Inghilterra, dove il Baretti si lagna che troppe sconvenienze gli Italiani riproducevano; Annibale Antonini salernitano fece a Parigi un dizionario, una grammatica e molte edizioni di classici; Lodovico Bianconi, filosofo e medico [550] bolognese, nel 1718 cominciò ad Augusta un giornale francese Novità letterarie d’Italia; e in francese scriveano molti nostri, principalmente piemontesi.

Del resto da una parte si pretendeva la purezza consistere tutta ne’ vocaboli abburattati; da un’altra negavasi al dialetto più bello il privilegio di lingua nazionale. Alcuni dunque erano pedanti; come il Corticelli, l’Amenta, il Biscioni, il Gagliardi, il Buongiuoco, il Branda, il tirolese Vannetti. Il sanese padre Alessandro Bandiera, unici tipi del bello scrivere proponendo il Boccaccio e se stesso, presunse raffazzonar il Segneri e mostrare come avrebbe dovuto, a quella nobile facilità, surrogare frasi svenevoli e periodare contorto. Altri buttavansi al libertino, come la più parte dei Lombardi e i traduttori e gli scrittori di scienze, riconoscendo unica regola l’uso, ma quest’uso deducendo dal proprio paese ciascuno, dal parlar ibrido della società educata sui Francesi; e ripeteano cose, cose, quasi le cose potessero dirsi senza le parole. L’erudito conte Gian Francesco Napione (1748-1830), nell’Uso e pregi della lingua italiana, sconfortò i suoi Piemontesi dallo scrivere latino e francese, e dettò regole che al Cesari parvero lasse, rigide a Melchiorre Cesarotti 1730-1808. Questo professore padovano, la propria infelice pratica volle ridurre a teoriche nel Saggio sulla filosofia delle lingue, ove le dottrine di Dumarsais e De Brosses applica all’italiano, elevandosi sopra la ciurma de’ grammatici per considerare la favella in relazione coll’universo sapere; combatte quei che credono morta la nostra, e vuole la si ringiovanisca accogliendo vocaboli e forme di stranieri; perchè l’innovazione non trascenda, sia regolata da un consesso di dotti. Disastrosi suggerimenti, e rimedio meschino.

Il Cesarotti va contato fra i rinnovatori perchè osò venire alle braccia coi sommi, e credersene trionfante. [551] Educato in molteplici studj e diverse favelle, ai circoli veneti, lasciantisi rimorchiare dalla facile coltura dei Parigini, egli infuse il gusto francese, rendendosi caposcuola coll’imitare. Dettò relazioni accademiche non nojose, con gusto giudicò i contemporanei: insensibile però alle bellezze ingenue e virili di una letteratura primitiva, tradusse Demostene con veste moderna e fronzoli pedanteschi, egli che pure aborriva le affettazioni. Non bastandogli avere di fastosa poesia rimpinzata l’atletica nudità di Omero traducendolo, volle in una Morte d’Ettore ridurre il poeta meonio qual lo vorrebbe la colta società[271]; e guardandolo dal lato men filosofico, cioè civiltà riconoscendo solo nel raffinamento, gli attacca frivole critiche, ne ammorza le vivezze, ne mutila le sublimi audacie; torna dignitosi gli Dei, ragionevoli gli uomini; surroga la politezza all’eloquenza, il cerimoniale all’immaginazione: laonde a Roma esposero la caricatura d’un Omero vestito alla francese, con abito listato, scarpe a punta, gran parrucca, due lunghi ciondoli d’oriuolo, e in mano l’Iliade italiana. Chi vuol giudicare i sommi deve trasvolare a certe forme caduche, ed apprezzare il vero lato umano, la rivelazione della natura nostra: chè un peccato contro le convenienze storiche o etnografiche è veniale, mentre è mortale se ripugna all’indole e al cuore umano.

Meglio riuscì con Ossian, poeta caledonio contemporaneo di Caracalla, di cui Macpherson pretendea avere raccolto dalle bocche de’ montanari le rapsodie, le quali il secolo che impugnava la credibilità del Vangelo, accettò e giudicò pari a quelle d’Omero e d’Isaia, se non anche superiori. Il Cesarotti nel tradurlo poteva [552] impunemente sbrigliarsi, e ornare a suo modo le mediocrità dello Scozzese; e i forestieri stessi confessano ch’e’ val meglio nella versione del nostro, il quale nei confronti tra il bardo caledonio e Omero, decreta quasi sempre la palma al primo. Italia n’andò pazza, e le nostre muse gettato a spalla l’Olimpo e Imene e le Grazie, più non ripeterono che nebbie ed ombre e abeti e arpe scosse dal vento e fantastiche melanconie.

Il qual fatto rammenta le burle che agli ammiratori de’ Classici preparava Giuseppe Cades, improvvisando disegni in qualunque stile gli si chiedesse, e che poi agl’intelligenti pareano Rafaelli e Michelangeli. Anche Casanova scolaro di Mengs fece capitare a Winckelmann due suoi quadri, come scoperti ne’ contorni di Roma; ed esso li comprò per tesori antichi, e ne diè pomposa descrizione nella sua storia. Carlo III fece arrestare per ladro uno che vendeva pitture di Ercolano, le quali riscotevano la meraviglia degli antiquarj e il denaro degl’Inglesi; ma il supposto ladro provò che erano sua fattura, e di simili ne eseguì stando in prigione. Oh adoratori dell’antico!

Gaspare Gozzi 1713-86 conte veneziano, figlio della poetessa Angela Tiepolo, fratello di Carlo poeta, con sorelle poetesse, viveva in un «ospedale di poeti», circondato da angustie domestiche, viepiù cresciute quand’egli «apprese da Petrarca a innamorarsi,.... e s’ammogliò per una geniale astrazione poetica»[272] con una Bargagli, la quale recogli per unica dote campi d’Arcadia e il nome d’Irminda Partenide, e insegnava a fare versi a tre figliuole, ed ajutava il marito a comporre e tradurre, ma lasciava a capopiedi l’economia. Pertanto Gaspare fu costretto abborracciare traduzioni moltissime e disuguali; fin ponendo il proprio nome a lavori [553] d’inesperti, e così svaporare una potenza poetica, non inferiore a verun altro, come mostrò nei Sermoni. Con volto lungo, pallido, malconcio, ma aria ingenua, occhi lenti eppure significanti ingegno, guardava, rideva, e a questo modo formò l’Osservatore, serie d’articoli vivaci, che titillano l’orecchio, ma lasciano l’animo vuoto, nè tampoco ritraggono gli ultimi tempi di quella repubblica, dissipandosi in novelluccie e mariolerie generiche e scolorate. Egual indole appare ne’ moltissimi altri suoi lavori, in lingua però meglio corretta e stile sobrio e a modo: perocchè declamava contro i poeti, che insofferenti d’ogni regola, avean ridotta l’arte a una canna di bronzo applicata ad un mantice, sicchè facesse gran rumore; e richiamava alla semplicità.

L’accademia de’ Granelleschi (pag. 496) proponeasi medicare il gusto con scede villane, e col far guerra accannita al Chiari, al Goldoni, ai versi martelliani, alle affettazioni misteriose; e tanto quanto ravvivava l’amore del toscano, della vivacità, della naturalezza. Di questa han bisogno supremo e nella testura e nell’esposizione le favole, e talvolta ne hanno quelle del Pignotti, e spesso colore e grazia: ma quantunque toscano, manca d’atticismo, dà nel nuovo e nel francese, in luogo della bonarietà mette l’epigramma, oltre un’impazientante lungaggine, la sovrabbondanza d’epiteti, la monotonia dei metri. Più semplici, meno eleganti sono quelle del Bertola.

Gli Animali parlanti di Giambattista Casti (1721-1802) da Montefiascone, sono imitazione d’imitazione, sazievole come dev’essere una favola di ventisette canti, con politica da caffè e stile da improvvisatore. Così la penso io; ma è di moda l’ammirarlo. Meretricio pretaccio, portava in giro novelle da postribolo, vivaci drammi giocosi, poverissime liriche, e un Poema Tartaro, appetito per allusioni agli amorazzi e agl’intrighi di Caterina di [554] Russia[273]. Eppure Giuseppe II l’amò, ed or l’incitava a mettere in canzone il povero re di Svezia sotto la figura di re Teodoro; ora di comporre un dramma dopo che n’avea fatto far la musica (Prima la musica poi le parole): ora rideva seco a spalle della czarina; e se qualche momento lo scherno paressegli soverchio, gli dava trecento ungheri perchè andasse a fare un viaggio, poi presto il lasciava tornare, e volealo successore al correttissimo Metastasio come poeta di Corte[274]; e il ministro Kaunitz lo metteva a fianco di suo figlio in un viaggio per Europa. Careggiato da quelli per cui la letteratura è un passatempo e il letterato un buffone, egli varcando di sala in sala, di Corte in Corte, in ciascuna cuculiava le altre, talchè infine tutti i principi se ne trovarono canzonati[275]. Quand’essi cessarono di poter pagare, ricoverò all’ombra della Repubblica francese e finì altre sudicerie, cinicamente terminando insieme di vivere e di burlare.

[555]

A contrapposto gli metteremo Gian Carlo Passeroni (1713-1802) nizzardo, eccellente prete e grossolano, che rimò capitoli a profluvio e favole, ma principalmente una Vita di Cicerone in centun canto, ove (al modo che Sterne imparò da lui) coglie ogni appiglio per digredire sui costumi, con lingua sempre facile e corretta, e una bonomia che lo fa caro, per quanto la schiettezza discingasi in inurbanità e la scorrevolezza in una spensata verbosità, che toglie punta alla satira, sapore ai sali.

Ed altri s’arrabbattavano per isfangarsi col mettersi sopra orme altrui. Giovanni Fantoni di Fivizzano (1755-1807), arcadicamente Labindo, si fece oraziano fin ne’ metri e nelle frasi, bizzarramente mescolandovi concetti e modi ossianeschi; perchè Flacco imprecò ai primi naviganti, ed egli a quei che tentavano «l’inviolabile regno dei fulmini»; applause a Rodney, a Vernon, ad Elliot ammiragli inglesi, a Washington che «copre dai materni sdegni l’americana libertà nascente»; sentì che i guaj d’Italia venivano dalla scostumata sonnolenza; promette, se «il turbo errante delle guerre transalpine dal sabaudico confine minacciando scenderà», volere nuovo Alceo «difender dai tiranni la tremante libertà»; le ultime odi dedicò «a coloro il cui nome e le cui mani non si contaminarono nell’ultimo decennio del secolo XVIII».

Degl’Inglesi al contrario si rifece Angelo Mazza parmigiano (1741-1817), che, come lui, tocca i fatti moderni, sfugge la negligenza frugoniana e l’ostentato barbarismo, sfoggiando dottrine per cantare Dio, l’anima, l’armonia, e creandosi difficoltà pel gusto di superarle, come nelle stanze sdrucciole ove gli rimase il primato; e drappeggiandosi nelle circonlocuzioni, si sostiene in un’elevatezza che dà nell’oscuro e somiglia a nobiltà. Gli fusero una medaglia col titolo di Homero viventi, e da se medesimo assicuravasi l’immortalità. A scuola migliore [556] si nutrì Lorenzo Mascheroni (1750-1800), matematico, che invitando a visitare il museo di Pavia la poetessa Suardi, fra gli arcadi Lesbia Cidonia, formò il migliore de’ tanti poemi descrittivi e didattici d’allora.

In un secolo fiacco, le migliori poesie sono le satiriche, la più potente ispirazione venne da sdegno. Già indicammo i sermoni fieri di Settano e i placidi del Gozzi. Ne fece alcuni sentiti ed espressi robustamente Giuseppe Zanoja d’Omegna, secretario all’Accademia di belle arti milanese. Angelo d’Elci nato a Firenze «ove penuria ha splendide apparenze», visse in molte città, poi al rompere delle rivoluzioni ricoverò a Vienna e v’ebbe ricche nozze e tomba, e a Firenze regalò una preziosa raccolta d’edizioni. Satireggiò con robusto andamento, ma epigrammatico e sconnesso; vuol terminare l’ottava con arguzie; per istudio di brevità riesce oscuro: poco si legge perchè sopravvisse ai costumi che avea beffati, e ci par migliore nelle satire latine.

Più alta lode v’acquistò Giuseppe Parini (1729-99), abate milanese, che fastidendo la smorfiosa eleganza, la scipita scorrevolezza, l’inacquata facilità de’ contemporanei, si fece superbo, dignitoso, stringato; ove passando misura, dal leggiadro va nel contorto, dal nobile nell’insolito, e di latinismi e di perifrasi ed artifizj annuvola sentimenti destinati alla moltitudine. Ma fu forse il primo da Dante in poi, che di proposito assumesse di togliere la poesia dalle corruttrici futilità, per renderla coadjutrice all’incivilimento, espressione della società, banditrice degli oracoli del tempo. Ad ogni sua ode prefigge uno scopo sociale; più ancora al Giorno, ove ironicamente descrive la vita effeminata dei giovani signori lombardi, raffacciandovi l’eguaglianza naturale degli uomini, il rispetto dovuto ai servi e alle arti utili. Non era di que’ mediocri che lasciano l’arte al punto dove la trovano; e quando il Baretti lesse que’ versi, confessò gli faceano vincere [557] la sua antipatia per gli sciolti; e il Frugoni esclamò: — Perdio! mi davo a intendere d’esser maestro, e mi accorgo che non sono tampoco scolaro». Infatto il Frugoni trattava di vena qualunque argomento gli si affacciasse; e finito lo strimpello della sua lira, metteva nel dimenticatojo e il soggetto e il modo con cui l’avea trattato. Al Parini era mestieri di lunga meditazione, stento paziente, anni di riposo; e mentre i primi suoi getti sono meschinità, che solo un improvvido editore potè voler recare in luce, col ritoccare e soprattutto levare giungeva a quella perfezione che tanto lo avvicina a Virgilio.

E collo stento pure e collo sdegno arrivò a grandezza Vittorio Alfieri (1749-1803) conte astigiano. Il bisogno di vedere gli atti e le relazioni della vita umana atteggiati ai nostri occhi da personaggi, diede origine alla drammatica; ma il rappresentare un conflitto d’accidenti e passioni e caratteri, che produca azione e riazione, viluppo poi catastrofe, costituisce il sommo dell’arte in un’adulta civiltà. Se fa parodia del presente, è commedia: se offre l’uomo d’altri tempi alle prese colla sventura, è tragedia; degna soltanto allorchè s’addentra nella natura umana e nel governo provvidenziale del mondo.

Primi i Greci intesero la distinzione del tragico dal comico, e come l’essenza ne sia costituita dal diritto morale della coscienza, e dalle facoltà che determinano il volere umano e l’azione individuale. Nella loro tragedia i personaggi, fusi d’un pezzo come bronzo, operano in virtù della propria indole, non in vista di merito o di vizio; e il coro esprime la coscienza morale nel carattere più elevato, che rifugge ogni falso conflitto, e cerca un esito alla lotta.

I nostri Cinquecentisti poco conobbero di quei sommi, e s’attennero piuttosto a Seneca, misero espositore di massime esagerate in versi affettatamente concisi o in [558] azioni assurdamente atroci. Nessun genio qui nuova via aperse, ma collo studio e coll’imitazione si arrivò fino alla Merope, ove Scipione Maffei mostra intelligenza dell’antichità, orditura semplice, esposizione pura. La varietà degli studj impedì l’autore da quella perfezione di forme, che perpetua le opere; Voltaire lo felicitava come il Varrone e il Sofocle d’Italia; e intanto per gelosia sotto finto nome ne pubblicava una virulenta censura. Le altre tragedie del secolo, non escluse quelle del Conti, appena meritano ricordo, e sol come tentativo non va dimenticato il Galeazzo Sforza di Alessandro Verri, che osò spastojarsi dalle regole classiche per accostarsi a maggiore imitazione della natura, qual sogliono Spagnuoli e Inglesi.

Vanno classificati a parte i teatri de’ Gesuiti, che in ciascun collegio aveano un repertorio con tragedia, commedia, opera, ballo, dialoghi, rappresentati dagli alunni stessi. N’erano esclusi l’amore e gli altri sentimenti pericolosi, e fin le donne; per lo più sacri i soggetti; il che poteva avviare quella riforma, cui dovrà pur giungere il teatro, di non stimolare le passioni, ma chetarle e dirigerle. Le tragedie latine di Bernardino Stefanio della Sabina gesuita, levarono gran rumore come fossero un rinnovamento di questo genere, e se n’ha a stampa il Cristo, la Flavia, la Sinforosa[276]. Oltre le italiane del padre Granelli, e l’Eustachio del bresciano padre Palazzi, e la Sara in Egitto del padre Ringhieri, sette di Giuseppe Carpani romano furono ristampate più volte. Il Paciaudi, reggendo l’Università di Parma, vi avea ridesto l’uso di recitare in latino, e si rappresentarono il Trinummus di Plauto, le Nubi di Aristofane, imitate dal Martirano, e il Cristo dello stesso Martirano, che si trovò molto [559] sconveniente. Ivi pure si era cercato restaurare il teatro coll’istituire un premio; ma non l’ottennero che mediocri, poi s’interruppe fino al 1787, quando fu data la medaglia al Monti per l’Aristodemo, con un viglietto di mano del duca.

Alfieri, educato nell’indipendenza d’un ricco, con istudj saltellanti, consuma la gioventù negli errori d’uomo non ordinario che ancora non ha trovato ove fissarsi; e poichè all’attività sua nè la patria nè i tempi offrivano sfogo, s’appassiona per la libertà, ma non di un culto serio che accetta grandi abnegazioni, bensì declamatrice, convulsa negli atti, nel fondo astratta quale allora si predicava, e unita a tutte le passioni e le debolezze aristocratiche. Ai servi, al secretario non parlava mai che per cenni; facile a strapazzate e calci, che poi riparava con denaro. Sol tardi, fra le dame e i cavalli volle anche la distrazione dello scrivere, e piegò di preferenza alla tragedia. Non ne sapeva se non quanto avea visto sui teatri, non conosceva nè gli Spagnuoli, nè i due grandi tedeschi suoi contemporanei, e appena Shakspeare dalla cattiva traduzione francese, cui ammirò e dimenticò per restare originale. A sentirlo, non conosceva nemmeno i capolavori francesi; eppure è affatto francese nella forma, nel cercare la purezza fin a rischio della monotonia, nel rattenere l’immaginazione da ogni volo romantico, nel fare retoriche le passioni: se non che, invece della monarchia, egli idolatra la repubblica.

Già innanzi negli anni s’applicò al greco per vedere i classici nell’originale[277], dai quali però quanto scostossi! Lo stile dei Greci è ingenuo, il suo tutt’arte ed [560] enfasi; per essi l’intreccio è il mezzo onde manifestare i caratteri e i costumi, per lui è il fine; mancano anch’essi di complicazioni, ma vi suppliscono colla varietà degli accessorj e colla ricchezza delle particolarità. La conoscenza dell’uomo vero, la filosofia, il gusto, la misura, che primeggiano ne’ Greci, maestri di vera semplicità e vera grandezza, mancano all’Alfieri: il dialogo di lui non ha mai l’agevole movimento, nè l’abbandono somigliante alla natura, quale nei Greci: questi vanno scuciti nell’orditura, egli sempre artatamente concatenato: in quelli tutto vive e si muove, in lui il meccanismo talmente si complica da arrestare l’azione per non lasciar luogo che alle parole. Mentre gli eroi dei Greci non sono mai indecisi, operando pel proprio carattere o per la fatalità, l’Alfieri s’accostò ai Francesi facendoli abbondare di parole, invece di quel che costituisce il dramma, cioè la vita operosa: quel patetico che deve svolgersi nella rappresentazione dei caratteri, invano gli si cercherebbe; vagheggia l’ideale al punto di cadere nell’astratto, e lo riduce alla soppressione del vero; e in luogo di personaggi reali, misti di vizj e di virtù, colle passioni dell’uomo in generale, e de’ tempi e di loro in particolare, non trovi sempre che l’autore, eroi senza antitesi, senza esitanze, senza gradazione, tutti d’un pezzo: un tipo di tiranno, di donna, di sacerdote, di marito, comune a tutte le età e le nazioni. Come la sua scena è indeterminata a segno da crederla ora piazza comune, ora gabinetto recondito, così generiche sono le tinte, nè Cosimo personeggia altrimenti che Creonte, nè la Pazzi che Antigone o Micol, senza la varietà delle gradazioni che fa difficile il dipingere le donne: la concisione stessa, la vulgare forza [561] delle interjezioni è un’infedeltà, esprimendosi con essa tanto il taciturno Filippo II, quanto il garrulo Seneca.

Porlo a ragguaglio di Shakspeare varrebbe paragonare una formola algebrica colla persona viva: ma anche i suoi contemporanei Schiller e Göthe per dotta intelligenza penetrano nell’anima e ne’ tempi; egli, troppo scarso erudito per conoscerli, troppo rigido per potere conformarsi all’indole dei secoli e degli uomini, dalla storia non toglie a prestanza che nomi, poi personaggi e avvenimenti cola entro un modello uniforme, non mai pensando fare della tragedia nè il ritratto di un tempo, nè lo svolgimento d’una passione.

Eppure que’ Francesi, dai quali avea dedotto e i pensamenti e l’arte, esso li sprezza ed esecra[278]; sprezza Rousseau, benchè lo copii; sprezza i predecessori; sprezza l’Italia; sprezza i filosofi e gl’increduli, non meno che i devoti e gl’ignoranti; sprezza la nobiltà donde usciva e la plebe da cui aborriva; sprezza i re e il pubblico, mentre degli uni e degli altri sollecita il favore. Ogni passione in lui si converte in rabbia, rabbia di studio, rabbia di libertà, rabbia d’amore; e dal disprezzo e dalla bile attinge un’energia, così opposta alla fiacchezza laudativa del suo tempo, che parve originalità.

E l’originalità sua fu tutta critica; vedere i vizj del suo tempo, e volervi dare di cozzo. Perchè si sdilinquiva alla soavità di Metastasio e ai lezj de’ Frugoniani, egli si fece aspro, epigrammatico, rotto, inelegante, di ferro (come diceva) dove gli altri erano di polenta. Perchè nei Francesi tutto era eleganza d’espressione, [562] arguzia di concetti, lusso di poesia, raffinata galanteria, insipida abbondanza, futile ricerca del naturale, esso vi oppose una nudità gladiatoria, un assoluto rigore di volontà; e alle loro cortigianerie di parole e di sentimenti un odio de’ tiranni che si rivela fin nello stile, con tanta retorica e sì poca precisione. Perchè gl’Inglesi mettono il triviale accanto al sublime, egli non devierà mai una linea dalla dignità. — Volli, volli sempre, fortissimamente volli» dic’egli[279]: ma che un genio tutto collera e dispetti e disordinata vita s’imponesse lavori freddi, simmetrici, spogli d’azione, sarebbe inesplicabile ove non si conoscesse che è una passione anche l’andare a ritroso. Si direbbe che considera le barriere come appoggi, onde si piace a moltiplicarle; ripone merito nell’assoggettarsi a tutte le regole; non ha il bisogno d’esplorare soggetti nuovi, ma piglia i già trattati, col proposito di correggerne i difetti; le riforme riduce a negazioni, vantando che non introduce personaggi in ascolto, non ombre visibili, non tuoni o lampi o agnizioni per mezzo di viglietti, di croci, di spade, non gli altri mezzucci soliti; ma gli accade come a molti, di prendere per difetto le qualità che non possiede.

In fatto la tragedia ridusse a scheletro; non mai dipingere, non mai per amore di bellezza divagare dalla rigida unità, per la quale egli non intendeva il convergere de’ fatti e de’ sentimenti molteplici; bensì ad un proposto fine spingersi come s’una strada ferrata, senz’arrestarsi a un bel prospetto o a cogliere un fiore. — La mia maniera in quest’arte (dic’egli), e spesso malgrado mio la mia natura imperiosamente lo vuole, è sempre di camminare quanto so a gran passi verso il fine; onde tutto quello che non è necessarissimo, [563] ancorchè potesse riuscire di sommo effetto, non ve lo posso assolutamente inserire». L’innovamento suo si ridusse dunque ad escludere gli accessorj della tragedia francese, nulla surrogandovi però. I confidenti e gli attori secondarj, operanti per devozione verso i loro principali, anzichè per sentimento proprio, e scoloriti perchè riflesso altrui, e’ gli sbandì[280]; ma i personaggi suoi fanno le loro confidenze al pubblico ne’ soliloquj. Ridotti a pochissimi[281], eliminato ogni episodio, sono costretti alla verbosità, ad analizzare se stessi, e rivelare i proprj sentimenti quand’anche si tratti di profondi dissimulatori, come Filippo II, Nerone che «parea creato per nascondere l’odio sotto il velo delle carezze» (Tacito); a dire quello che faranno, invece di farlo attualmente alla guisa de’ tragici tedeschi e spagnuoli.

E sull’arte si arrestano i giudizj che delle sue tragedie danno sì egli, sì qualche critico: fra’ quali possono ancora leggersi e il Capacelli abile nella scena, e il Calsabigi che conosceva il teatro greco, inglese e francese, senza perciò elevarsi a riflessi generali, e de’ costui consigli si giovò l’Alfieri, il quale tre volte variò maniera, segno che non aveva ben divisata la sua via; ciascun’opera sua fece e rifece, perchè non lancio di genio, ma fatica di critica; il Filippo schizzò in francese «per la quasi totale dimenticanza dell’italiano, mal saputo dapprima»; poi tradusse in prosa italiana, poi verseggiò rifacendolo ben quattro volte, infine stampollo, [564] poi lo ricorresse di nuovo, fin tre e quattro volte modificando un verso.

Pari fatica adoprò attorno alla forma di ciascuna: ma «chi ha osservato l’ossatura d’una delle mie tragedie (dic’egli) le ha quasi tutte osservate. Il primo atto brevissimo; il protagonista per lo più non messo sul palco che al secondo; nessun incidente, molto dialogo; pochi quart’atti; dei vuoti qua e là nell’azione, i quali l’autore crede d’avere riempiti o nascosti con sua certa passione di dialogo; i quinti atti strabrevi, rapidissimi, e per lo più tutti azione e spettacolo; i morenti brevissimo favellanti; ecco in iscorcio l’andamento similissimo di tutte queste tragedie».

Come è poi orribile il mondo ch’egli dipinge! catastrofi sempre spaventose, tiranni che l’inferno non vomitò i peggiori, ribaldi che tali si professano. Solo la fatalità, cioè la punizione irreparabile d’un Dio, può far tollerare sulla scena greca alcuni fatti, ripugnanti dalla moderna, come una fanciulla invaghita del proprio padre, o il padre che sacrifica la figlia, o la madre che i figliuoli trucida. Quanto alla tragedia romana, sebbene nella Virginia e nei due Bruti abbia osato introdurre il popolo, dovette ricorrere a passioni personali ed esagerate per destare quell’interesse che un’enfasi vulgare e una nobiltà fittizia non poteano trarre dalle pubbliche. E anche nelle private non deriva che dal contrasto: ora come concederlo a una Rosmunda, nelle sue brutali passioni non arrestata da delitto o turpitudine nessuna? e come reggere a quei cinque atti di continuo furore?[282]. Nello scopo allora vulgare di [565] vilipendere i papi, le declamazioni della Congiura dei Pazzi dicono meno che non la nuda storia di quel fatto. Il suo confessarsi inetto a soggetti moderni ritorna alla necessità che in questi v’è di particolareggiare, e togliersi dalla generalità che negli antichi è permessa dalla lontananza. E appunto il Saul sorvola agli altri suoi drammi, perchè il poeta non isdegnò scendere alle specialità del popolo ebreo, e avventurarsi a quel fare lirico, da cui altrove inorridisce.

Ben disse egli dunque d’avere piuttosto disinventato che inventato; diede all’Italia un teatro nuovo, ma non nazionale: eppur sempre piace, perchè vi regna quel che manca a’ suoi contemporanei, l’emozione; piace viepiù recitato, perchè l’attore può introdurvi il sentimento della verità istorica e umana che manca all’autore, e colle pause e coll’espressione del viso infondervi torrenti di poesia, di cui sono poco più che accenno le parole di lui. Poi la tragedia d’Alfieri non è puramente letteraria; v’è il fermo proposito di gittare razzi fra la letteratura, sopita in grembo a molle eleganza; v’è la politica, ingrediente insolito fin allora; e a lui vorrà tenersi conto dell’avere incessantemente parlato d’Italia, d’aver voluto fare la scena ispiratrice di magnanimi sentimenti; sicchè, come scriveva il Calsabigi, «gli uomini debbano imparare in teatro ad essere liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d’ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei proprj diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti, magnanimi».

Se non che sprezzando il suo secolo, egli ricorse al passato; egli, contemporaneo di Washington, vide solo Bruto e Timoleone, non istudiando i progressi nè i bisogni della società moderna; fomenta gli astj che non producono se non ruine; fa esecrare la servitù, piuttosto che amare la libertà; rintuzza ogni sensibilità, tranne [566] l’abbominio pe’ tiranni, sui quali, non già sul popolo, concentra l’attenzione.

Fa sempre effetto una riazione decisa. Fra la pompa sfolgorante dei teatri dell’Opera, ove gli eroi di Metastasio comparivano cinti da gran corteo per cantare arie lunghe, facili, molli, tutte idol mio e inique stelle e abisso di pene, ove si vedea sempre la languida virtù trionfare sul vizio incredibile, ecco l’Alfieri mostrare una scena nuda, unica, pochissimi attori, tutti accigliati e convulsi, che parlando a monosillabi svilupperanno un’azione, terminata impreteribilmente fra ventiquattro ore, e dove non la virtù, non il vizio trionfano, ma una inconscia malvagità della razza umana e della civile società. In contraddizione poi alle commedie, egli mostrava un’altra vita che quella de’ cicisbei o del caffè, altro eroismo che il battersi in duello o il perdere intrepidamente un patrimonio al faraone; i pregiudizj restavano scandolezzati, scosse le credenze, le corone offuscate dall’alito della sua collera; e tutto ciò contribuiva a farlo scopo dell’attenzione. Applausi furibondi alzavansi in udire da Antigone,

Non nella pena,

Nel delitto è l’infamia. Ognor Creonte

Sarà infelice; del suo nome ogn’uomo

Sentirà orror, pietà del nostro;

oppure da Creonte:

E il cittadin che può far altro omai

Che obbedirmi e tacersi?

ed Emone rispondergli:

Acchiusa spesso

Nel silenzio è vendetta;

o quegli altri:

Ecco il don de’ tiranni, il non tor nulla...

Seggio di sangue e d’empietade è il trono.

[567]

Mentre il Parini seguiva la politica de’ filosofi d’allora, che il bene preconizzando, aspettavanlo dai principi e ne gli applaudivano, l’Alfieri professava odio ai re, e i suoi scritti contribuirono assai all’odierno disprezzo d’ogni autorità[283], del quale diede la formola in quel verso «Servi al poter, qualunque ei sia, frementi». Ma non era ancor venuto il tempo che s’espiasse in carcere ogni franchezza, nè l’Alfieri ci dice d’avere mai avuto il minimo disturbo. Del resto i re d’allora perchè aveano a sgomentarsene? forse essi impedivano di sepellire i morti come Creonte, o uccidevano i figli come Cosimo e Filippo, o perseguitavano i generi, o costringeano le mogli a bere nel teschio de’ padri? Poteano anzi sorridere di que’ tiranni che lasciansi dire in faccia tante ingiurie, quante nell’Antigone, nell’Oreste, nei Pazzi.

Sceneggiare direttamente la politica volle l’Alfieri nelle commedie che intitolò l’Uno, i Pochi, i Troppi, l’Antidoto, ove è novità il mostrare gli eroi dal lato prosastico. Nella Tirannide, esagerazione delle esagerazioni di Rousseau, proclama la libertà antica, e osteggia le arti e l’industria; i popoli cristiani essere più schiavi che non gli orientali; per abbattere i tiranni suggerisce di mettersi tutti d’accordo nel non obbedire; quasichè, dato l’accordo comune, sia possibile la tirannia. [568] Nel Principe e le lettere, non che il regio favore produca uomini d’ingegno, sostiene che li pregiudica[284]; e indovina che «i lumi moltiplicati e sparpagliati fra molti uomini, li fanno assai più parlare, molto meno sentire, e niente operare» (cap. VIII). Nell’Etruria vendicata esalta Lorenzino de’ Medici tirannicida. Nelle Satire sfoga un orgoglio misantropo. Nella Vita racconta con naturalezza sforzata i proprj casi, non sempre velando i riprovevoli[285], quasi il dir tutto faccia perdonare tutto, quasi il genio consista nel disordine; e al par degli altri autobiografi, raffazzona il proprio carattere qual vorrebbe fosse stato; si colloca sotto di un lume scelto arbitrariamente; e come nelle tragedie vuol mostrare continuamente lo sforzo anzichè la spontaneità, e dispensarsi dalle virtù ordinarie per raggiungere le straordinarie.

Così viveva dell’alito protestante del suo tempo, fra detrattori che gli davano noja, e ammiratori che gli faceano vergogna. Quando arrivò la Rivoluzione, di cui era parso un precursore, egli non la comprese o forse [569] la comprese troppo; egli conte, stomacava quel dominio degli avvocati; bestemmiò bassamente i Francesi nel Misogallo, e confidando passeggero quel nembo, dedicava agli avvenire alcuna delle sue tragedie, e al principio di quell’immenso movimento faceva un’edizione delle sue opere con data posticipata: tanto non credeva potesse uscirgliene veruna lezione!

Allora rammaricavasi delle sue prose, temendo scapitarne nell’opinione de’ buoni: e l’abate Caluso ne lo consolava, mostrandogli esserne stata colpa lo educarsi su Montaigne, Elvezio, Machiavelli ed altri reputati grandi; che la gente assennata gli tenea conto del suo ravvedimento; ma non occorreva farne pubblica ritrattazione nè apologia, solo restringendosi «a dire che giovane, animato dall’odio della tirannide e da speranza di più felice stato per l’umana società, scrisse cose le quali poi la rivoluzione di Francia gli ha fatto scorgere inopportune, onde gli rincresce che, contro l’intenzione sua, siensi da altri pubblicate»[286]. Ma l’Italia lo porrà indelebilmente fra que’ suoi maggiori, ai quali è obbligo dire la verità perchè giovi ai posteri, per quanto devano strillarne i mediocri e i pedanti[287].

La rigidezza del sommo Astigiano rammenta le pose statuarie, e ci ritorna all’assunto parallelo, per veder anche nelle belle arti il rinnovamento. Nella scultura, ripudiate le bizzarrie berninesche, duravano tuttavia le smorfie, l’istantaneo, gli sfoggi di meccanica, come nel [570] Pio VI d’Agostino Penna per la sacristia vaticana, e ne’ costui angeli in San Carlo al Corso. Meglio Giuseppe Franchi di Carrara atteggiò le Sirene di piazza Fontana a Milano, e il De Maria alcuni monumenti nel cimitero di Bologna.

Antonio Canova (1747-1822), nato da un tagliapietre di Possagno, a Venezia educato nell’arte dal Ferrari Torretti, alla fiera dell’Ascensione espose l’Orfeo, mentre un’opera dello stesso titolo, musica del Bertoni, era cantata dal famoso Guadagni; e la meraviglia pubblica restò divisa fra il provetto musico e il novizio scultore. Ottenuta dal senato la provvisione di trecento scudi, a Roma il Canova dubitò di se stesso nel trovarvi un gusto sì discorde da quel ch’egli aveva in concetto; ma strappò ammirazione coll’Icaro e Dedalo, ove pose tanta verità e naturalezza quanta in nessun lavoro posteriore[288], e si asseriva fosse ricalcato sul vero, talmente si era avvezzi a veder lavorare sol di memoria. Ma già lo Zulian suo mecenate aveagli dato un marmo da cui cavò il Teseo: poi Hamilton e Volpato gli ottennero la commissione del Deposito che il cavaliere Carlo Giorgi ergeva a papa Ganganelli col prezzo di dodicimila scudi. Nel grandioso lavoro egli conobbe di poter improntare orme proprie; effigiò grandiosamente il protagonista; e mentre nelle pieghe e nell’arricciatura del camice sfoggiò abilità meccanica non inferiore a quelli che più se ne vantavano, uscì dai consueti simboli delle virtù, ed ebbe compita a venticinque anni l’opera sua forse migliore. Come il Baretti sospendeva la frusta per ammirare i versi sciolti del Parini, così il mordace Milizia assumeva il tono dell’entusiasmo[289].

[571]

Dappoi nel monumento di papa Rezzonico, il Canova conobbe come, nella grandiosità di San Pietro, il corretto paja gretto: ma se i barocchi vi ovviavano con vesti farraginose e tronfi atteggiamenti, egli compose largo eppur regolato. Lasciamo lodare i leoni e criticare la poca maestosa Religione e il torso del Genio imitato; ma a quel pontefice orante in semplicità sublime applaudono la ragione e il sentimento, e vi si riposa l’occhio, stancato delle distraenti fantasticaggini, che sformano il maggior tempio della cristianità.

La Repubblica veneta fece fare dal Canova un monumento all’ammiraglio Emo, pel quale gli assegnò cento ducati vitalizj, oltre una medaglia d’oro di cento zecchini; doni viepiù pregevoli perchè allora egli non possedeva ancora quella gloria, della quale vogliono un brano i potenti col mostrare di favorirla; inoltre gli commise il monumento di Tiziano, ed esso ne preparò [572] il disegno, ma poi assassinata la Repubblica, adattò quel pensiero al mausoleo di Maria Cristina a Vienna; vero poema con nove figure al naturale, ben più lodevoli che non le simboliche de’ due sepolcri papali. Le ricche occasioni svilupparongli il talento; ma egli studiava senza interruzione, eseguiva da sè ogni cosa; il che, se gli toglieva di moltiplicar lavori, facea li avvicinasse alla perfezione. E veramente egli radunava i meriti sparsi tra molti, saviezza di comporre, espressive fisionomie, disegno castigato, forza di scalpello, maestria paziente nel finire le estremità e i capelli, e dare carnosità a segno che gli apposero di verniciare le sue statue.

Agli appunti dell’invidia rispondeva con nuovi prodigi, e fu gridato principe, e svegliò l’attività. In riconoscenza, allo Zulian suo patrono offrì una Psiche, che poi Napoleone volle per sè e donolla al re di Baviera. La Maddalena non effigiò nella solita peccatrice, voluttuosa più che penitente, ma e colla sobrietà di rilievo e coll’aggruppamento della persona rimosse dalla compunzione ogni profanità. Tacciato di freddezza, lavorò l’Ercole e Lica, il Teseo col Centauro, l’Amore e Psiche, intrecci di caldissima azione. Anche i bassorilievi modella insignemente, nè confonde le ragioni loro con quelle della pittura.

Eppure egli non apriva una strada nuova, ma aspirava ad essere il migliore dell’antica, siccome Vincenzo Monti; e la grazia molle, l’attenuamento dell’espressione, un’eleganza sottile, e la materiale abilità vagheggiava meglio che il sentimento profondo; siccome allora faceano l’Appiani, il Volpato, il Morghen. I marmi antichi attraevano l’ammirazione piuttosto degli scienziati ed archeologi che degli artisti, i quali non pensavano a riprodurre con regole dedotte da essi. Canova il fece, e divulgava le copie greche e romane ingentilite, donde le lodi attribuitegli d’aver rinnovato l’antichità; e come [573] un antico egli fu imitato, cioè secondo un metodo arbitrario e forme convenzionali; gli scolari suoi abjuravano alla propria personalità, non per cercare da esso modelli nuovi, ma per imitare in esso gli antichi, siccome i poeti faceano nel Monti; un’idealità convenzionale, anzichè la natura viva e vera.

Allo scultore men che ad altro artista è data libera scelta di soggetto; e il Canova dovette adulando rappresentare Napoleone da semidio, Ferdinando di Napoli da Minerva, e da muse e divinità le principesse. Bel campo per quelli che vogliono svilire questo maestro, certamente troppo esaltato dai contemporanei: ma a chi in Belvedere mostra quanto alle antiche statue rimangano inferiori la Venere e il Perseo, ch’egli fece per supplire a quelle rapite dal francese conquistatore, non lasceremo inferirne che l’arte nostra sottostia di necessità alla classica, ma che non si può pretenderne pieno il volo quando la si releghi ad imitare.

CAPITOLO CLXXIII. Scienze matematiche e naturali.

La matematica creata da Neuton e Leibniz, penetrò anche in Italia, quantunque sembrasse leso patriotismo l’abbandonare il metodo, col quale i nostri vecchi erano venuti famosi. Il padre Guido Grandi cremonese, buon idraulico, matematico del granduca, ammirato da quei due sommi, dimostrò geometricamente i teoremi ugeniani sulla logistica e la logaritmica, e immaginò certe curve correlative per isciogliere difficili problemi senza il calcolo differenziale. Il conte Giulio Fagnani, [574] canonico di Sinigaglia, tolse pel primo a considerare le differenziali non riducibili alla quadratura delle sezioni coniche, e sta ancora fra i migliori, se non fra i più conosciuti analitici.

A lui Luigi Lagrangia (1736-1813), nato e educato in Torino, esponeva in lettera una serie da esso inventata per le differenziali e integrali di qualunque ordine. Aveva diciott’anni, ed è la sola opera che scrivesse in italiano. A diciannove rispose all’invito di Eulero, che invano cercava un metodo di calcolo, indipendente da qualunque considerazione geometrica; e al teorema di esso intorno ad una nuova proprietà del movimento dei corpi isolati seppe dare una generalità, applicabile a tutti i problemi di meccanica. Eulero proclamò la scoperta del giovane, ponendole il nome di Metodo delle variazioni. Ammirato allora da tutta Europa, Lagrangia continua ad avventurarsi nelle sublimità matematiche; decide controversie fra Leibniz, Bernoulli, Eulero, D’Alembert, Neuton, del quale repudia la teoria delle onde sonore. Direttore all’accademia di Berlino per ventun anno[290], sa cansarsi dalle chiassose dispute e dalla brigosa servilità; e franco e semplice, «filosofo senza strepito» come Federico II il chiamava, costringe l’invidia a rispettarlo, se non vuole onorarlo[291]. Morto quel re, alle Corti di Torino, Firenze, Napoli che il chiedeano, [575] preferì Parigi, ove pubblicò la Meccanica analitica, che egli vivrà accanto ai Principj di Neuton e alle opere d’Eulero. Traversò immune la rivoluzione, poi riordinò la scuola normale e la politecnica. Restituitosi alla geometria di cui era parso disamorarsi, stese la Teorica delle funzioni analitiche, ove, sempre intento a generalizzare i principj, arrivò alla metafisica delle funzioni primitive e derivate, tutto riducendo ad un’investigazione algebrica elementare, rimovendo dall’analisi ogni idea d’infinitesimi, di flussioni, di limiti, e dall’apparato delle soluzioni le complicate costruzioni che nocevano all’eleganza e all’uniformità. E appunto per l’eleganza di forme che associava alla generalità di metodo e all’unità di concetti, fu detto il Racine de’ matematici; e il suo stile rimase classico nell’analisi.

Colle verità dinamiche dato fondamento all’analisi delle forze, le applicò al sistema del mondo; e stabilì i canoni da cui inferire la invariabilità delle distanze medie dei pianeti. Assicurati i metodi d’approssimazione, potè dare una teoria matematica delle ineguaglianze dei satelliti di giove, fin allora conosciute solo empiricamente; variò i modi di calcolare le perturbazioni delle comete, e i movimenti dei nodi e delle inclinazioni delle orbite planetarie. Riconosciuto che il variare dell’eccentricità di giove dee alterare il movimento de’ satelliti, l’applicò alla librazione della luna, complesso di fenomeni singolari scoperti da Cassini, e che egli ricondusse al peso universale, mostrando qual modificazione produssero nella luna le attrazioni della terra nell’atto di solidificarsi, e perchè essa volga si può dire sempre la medesima faccia a noi; determinò la vera teorica dell’equazione secolare di quel satellite, prodotta dal cambiarsi dell’eccentricità dell’orbita della terra in grazia de’ pianeti maggiori. Trovò poi tal equazione secolare non darsi nè in giove, nè in saturno; e [576] infine introdusse nella meccanica celeste la funzione detta perturbatrice, per cui l’analisi relativa a un numero qualunque dei corpi resta semplice, come ne fosse considerato un solo.

Giammai l’analisi matematica non avea raggiunto verità così profondamente avviluppate nelle azioni complesse d’una moltitudine di forze; giammai coll’applicazione di regole inflessibili non si era comprovata la legge di gravitazione che mantiene l’ordine nella varietà; nè così assicurata l’inalterabilità del sistema solare, dove le orbite oscillano attorno ad una posizione media, con corsi e ricorsi, di cui fino ai secoli più remoti le osservazioni dovranno verificare la stabilità.

Con lealtà e limpidezza espone le scoperte precedenti alle sue. Semplice di carattere, poco sensibile di cuore, dalla conversazione e dalla musica facilmente distraevasi per andar alla ricerca di qualche problema. Una sera arrivò al teatro che non anco erano accesi i lumi; e la moglie in broncio dimandando — Or che faremo?» egli rispose: — Che! non si può pensare qui come altrove?» Amò il conversare colle donne e meglio colle più giovani; le baruffe letterarie evitava; spesso usava formole dubitative, ma qualora fosse certo, asseverava, e — Quando lo dico io, è segno che sta così».

Creato l’Istituto di Francia, il primo nome iscrittovi fu questo italiano. Quando i Francesi repubblicani occuparono Torino, al commissario D’Eymar ordinava Talleyrand si presentasse al nonagenario padre di Lagrangia «per felicitarlo d’un figlio che il Piemonte è glorioso d’aver prodotto e la Francia d’aver adottato». Il padre pianse, rammentò che da trentadue anni non lo vedeva, e soggiunse: — Sì, mio figlio è grande al cospetto degli uomini; possa essere altrettanto in faccia a Dio».

Lorenzo Mascheroni, riducendo al solo compasso [577] tutte le questioni della geometria elementare, presentò un complesso di proposizioni interamente nuovo, dove sono specialmente notevoli quelle che si riferiscono alla divisione del circolo[292]: lodano pure le sue ricerche sull’equilibrio delle volte, e più le poche adnotationes ad Eulero, ove gittò alcune verità, che più tardi si conobbero originali e feconde. La Trigonometria piana e sferica del veronese Antonio Cagnoli fu adottata nelle scuole; le sue Notizie astronomiche ridussero a comune intelligenza la cognizione del cielo. Della pregevole Storia delle matematiche del Montucla, le mancanze, gli svarj sul conto dell’Italia furon ripartiti da Pietro Cossali veronese nella Storia dell’origine e progressi dell’algebra, faticosa per rozzo stile e divagamenti.

Possiamo contare fra i nostri il raguseo Boscowich (1711-87), adoprato a misurar archi del meridiano in Lombardia e Romagna; discordò dal Leibniz sulle forze vive, sostenendo possano ridursi alle leggi ordinarie del moto: volea spiegare l’aberrazione bradlejana col supporre particelle della luce i moti diurno ed annuo: in modo diverso dal Gregory sciolse il problema dell’equatore d’un pianeta, determinato per mezzo di tre osservazioni d’una macchia: e fece altre applicazioni che gli sarebbero più valutate se meno avesse presunto, e non si fosse perduto in sogni, come quello sulla natura dei corpi, cui pretese applicare anche alle operazioni dell’anima. È notevole che ancora ripudia la teorica di Copernico, siccome disapprovata dall’Inquisizione, e non necessaria a dar ragione de’ fenomeni celesti.

[578]

Più che d’insigni matematici, l’Italia può gloriarsi di buone applicazioni. Coll’opera della Natura dei fiumi il bolognese Domenico Guglielmini migliorò la pratica dell’idrometria, e fu cerco per regolar fiumi e decidere controversie. Leonardo Ximenes (1716-86), gesuita siciliano, propose buoni spedienti ad ovviare le dispute pel traripamento dei fiumi, a prosciugare le paludi Pontine e il lago di Biéntina, a regolar i fiumi del Bolognese e il Brenta e gli acquedotti genovesi. In Toscana soprattutto lavorò a sanare la valle di Chiusi e la maremma senese; gittò sovra precipizj il ponte di Sestajona, mirabile quanto qualsiasi opera romana; e fece una Nuova raccolta degli autori che trattano del moto delle acque. Intanto attendeva pure ad osservazioni astronomiche e meteoriche; de’ suoi stipendj alzò a Firenze l’osservatorio di San Giovannino con biblioteca e molti stromenti, dove sono famosi il quadrante murale e il gnomone di Paolo Toscanelli; e in testamento fondò due cattedre d’astronomia e idraulica, destinate a’ padri delle Scuole Pie finchè non fossero ripristinati i Gesuiti.

Anche il conte Jacopo Riccati veneto applicò le molte cognizioni matematiche ai fiumi del suo paese e alla laguna, e in gara di studj con Bernoulli, Leibniz, Vallisnieri, diè un Saggio intorno al sistema dell’universo. Tra’ suoi figli, tutti studiosi, distingueremo Giordano, valente in architettura, in matematica, in musica. Il Lorgna fece importanti lavori intorno all’Adige; nelle piene del 1774[293] offrì spontaneo i suoi servigi alla Serenissima, e studiò in complesso il sistema idraulico del Veneto; donde cominciarono lunghe discussioni [579] sul sistemare il Brenta e il Bachiglione, lavorandovi Frisi, Ximenes, Stratico.

Uno de’ primi a vantar il vantaggio e l’esattezza del calcolo infinitesimale fu il bresciano Bernardino Zendrini (1679-1717), e contro il padre Ceva mostrò come s’agevolassero coll’analisi alcuni problemi proposti; esaminò l’inflettersi d’un raggio, traverso ad un mezzo di densità variabile; contro Parent difese il moto degli animali di Borelli; scrisse la Scienza delle acque correnti, e s’affaticò intorno al difficile problema di trovar nei fiumi la linea di corrosione, e l’applicò al Reno, la cui sistemazione diè per tutto il secolo a discutere fra Bologna e Ferrara. I Bolognesi voleano farlo sboccare nel Po grande, a settentrione di Ferrara, sostenuti da Castelli, Guglielmini, Manfredi; i Ferraresi condurlo verso l’estremità meridionale del lago di Comacchio, e versarlo nel Po di Primáro; e Zendrini parteggiava con questi, e fu eletta una giunta per esaminare quel fiume con Ceva, Grandi, Marinoni, Eustachio e Gabriele Manfredi e Francesco Zanotti. Dalla Repubblica veneta fatto matematico, cioè soprantendente alle acque e ai porti, Zendrini trovò prima necessità il conoscere i luoghi e ne risultarono le Memorie sullo stato antico e moderno delle lagune venete, producendo documenti per quattro secoli; e suggerì a Venezia i famosi murazzi. Scrisse sul miglioramento dell’aria di Viareggio, a richiesta de’ Lucchesi; progettò i modi onde divergere il Ronco e il Montone che inondavano Ravenna.

Nella predetta quistione molto faticò Eustachio Manfredi, poeta, astronomo, soprantendente alle acque del Bolognese: i calcoli de’ suoi quattro volumi di Effemeridi son dovuti alle sue sorelle Maddalena e Teresa. Antonio Lechi milanese scrisse sui canali navigabili, e l’Idrostatica esaminata ne’ suoi principj, l’opera più compiuta di tal materia, dove schiva i calcoli per attenersi [580] alla pratica. Anche Paolo Frisi suo conterraneo, che trattò varj punti di matematica e astronomia e principalmente De gravitate universali corporum, molto applicò all’idrostatica, e diede il progetto del canale da Milano a Pavia, oltre lavorare a quello di Paderno. In un saggio sull’arte gotica (1766) vuol dimostrare che questa ripugna alla solidità non meno che al gusto. D’idraulica scrisse pure Teodoro Bonati ferrarese, molto adoprato attorno al Po e alle paludi Pontine, che confutò la teoria di Genneté, e propose un esperimento per iscoprire se la terra si mova. Giovanni Poleni veneziano, illustratore di Frontino e di Vitruvio, fu de’ primi a trovare sperimentalmente le leggi dell’efflusso dell’acqua, la contrazione della vena, e la relazione fra i tubi, i fori e l’altezza del liquido.

Alla cognizione del nostro pianeta non contribuirono gli Italiani; e qualche viaggi descritti da Gastone Rezzonico, dall’Algarotti, dal Bareni, ben poco accrescono quel che si sapeva sulla Germania, sull’Italia, sul Portogallo e la Spagna. Carlantonio Stendardi senese descrisse Algeri, dove stette come residente di Toscana. Il bolognese Brunelli fu incaricato dal Governo portoghese di determinare i confini del Brasile; e il padovano Antonio Gera professore a Coimbra e Lisbona, a segnar quelli tra la Spagna e il Portogallo in America. Utilmente lavorò l’udinese Marinoni all’operazione del censo in Lombardia, i confini della quale col Veneto furono tracciati nel 1756 dal Cristiani e da Francesco Morosini. Salvadore Livelli di Agnona sulla Sesia presso il monte Rosa, s’appassionò per la geografia e l’astronomia, sicchè ebbe la direzione dell’osservatorio eretto a Torino dall’architetto Faroggio, e lo dispose a modo e provvide d’istrumenti, e pubblicò molte carte e principalmente quelle de’ Regj Stati nel 1791.

Le migliori mappe d’Italia ci vennero dalla Francia [581] per opera di Danville, il quale all’ampiezza datale nelle precedenti sottrasse duemila quattrocento leghe quadrate. Antonio Rizzi Zanoni padovano fu spedito da Luigi XIV nel Canadà per determinare i confini di quelle colonie; fatto geografo della marina a Napoli, eseguì la carta del regno in tre fogli, poi diresse il gabinetto geografico, dove delineò la mappa in trentadue fogli, ed una nautica in venticinque. Paolo Santini veneziano fu de’ migliori nell’intagliar carte geografiche.

Ai nomi di Linneo, Buffon, Adanson, Bonnet, Daubenton, Smith, Saussure, Réaumur non possiamo opporre che parziali cultori della natura. Pier Antonio Micheli fiorentino, applicandosi alle specie infime, distinse esattamente le varietà, onde di quattromila specie crebbe l’elenco botanico, oltre meglio distribuire le note secondo Tournefort, ch’egli primo fece conoscere in Italia (Nova genera plantarum, 1729). Giorgio Santi, chimico e botanico di Pienza, stette lunga pezza a Parigi, poi professò a Pisa, ed oltre un trattato sul lauro nobile, diede un viaggio a Montamiata e nel Sienese, ricco di descrizioni naturali. Vitaliano Donati, medico padovano, pubblicò un saggio sulle conchiglie dell’Adriatico, accolto con entusiasmo e tradotto in molte lingue, con saviissime e acute osservazioni; le fruttificazioni dei varj fuchi distinse in generi e suddivisioni; nel corallo mostrò il graduato passaggio della natura dai vegetali agli animali, e che le piante terrestri non variano dalle marine se non in quanto il polline è liquido in queste, polveroso in quelle. Invece di compire quest’opera, andò a nuovi viaggi nell’India e in Egitto a spese del re di Sardegna, ove dopo gravissime fortune naufragò. Giuseppe Olivi di Chioggia studiò le conferve e altre produzioni, e fece la Zoologia adriatica molto lodata; terribile nel ribattere gli errori altrui, ingenuo nel confessare i proprj, morì giovanissimo. [582] Giovanni Gerolamo Zannichelli modenese, medico-fisico di tutto lo Stato veneto, e che ebbe il privilegio delle pillole di santa Fosca, raccolse quantità di fossili, e fece la storia delle piante che nascono nei dintorni di Venezia. Antonio Vallisnieri modenese, allievo del Malpighi, studiò la generazione, con insolita franchezza svelando gli errori degli antichi, e l’autorità annichilando a petto all’esperienza.

Il suo concittadino Lazzaro Spallanzani (1729-79), educato dalla cugina Laura Bassi che a Bologna professava fisica sperimentale, riuscì gran naturalista, non dietro a teoriche, ma con pratica seguìta. Oltre dimostrare che da germi provengono anche gli animali infusorj, che Buffon avea creduti privi d’organizzazione determinata, e mossi e conformati da una potenza occulta, e Needham da una vegetatrice, studiò la respirazione, e singolarmente il riprodursi di qualche membro negli animali a sangue freddo; credè persino che la lumaca ricacciasse la testa. Proseguì le ricerche di Haller sulla circolazione, valendosi dell’apparecchio microscopico di Lyonnet per vedere il circolo del sangue con luce riflessa anzichè rifratta, e non soltanto nel mesenterio, ma nel tubo intestinale e negli altri visceri. I sughi gastrici asserì operano la digestione non fermentando ma dissolvendo gli alimenti. In tutto ciò molte inesattezze riconobbe la scienza progredendo; esagerati gli effetti de’ sughi gastrici; falso il nuovo senso attribuito ai pipistrelli; parvero nojose le sue prolisse confutazioni; talora forviò per ismania del nuovo e del meraviglioso; ma rimarrà sempre come tipo del bene sperimentare, non soltanto agli occhi di Sennebier che da lui desume gli esempj della sua Arte dell’osservare e far esperienze, ma anche de’ successivi naturalisti. Fan meraviglia insieme e ribrezzo le prove cui sottopose lo stomaco proprio e di molti animali, e la fierezza nel [583] tormentar questi per istrappare gli arcani della natura.

I viaggi fatti per tutta Europa, e principalmente nelle Sicilie e nelle isole vulcaniche, onde crescere cognizioni a sè e spoglie al museo di Pavia, descrisse con molteplice erudizione; e cercò spiegare i fuochi fatui, la fosforescenza, le fontane. Queste il Vallisnieri credea derivassero dal mare; e parlando «de’ corpi marini che si trovano sui monti, e dello stato del mondo avanti il diluvio, nel diluvio e dopo il diluvio», dichiara inette le ipotesi correnti dell’essersi sui monti abbandonate dalle acque le spoglie fossili; e sebbene non sappia proporne una soddisfacente, dubita siano dovuti ad altri diluvj che non il noetico, tanto più se è vero che non vi si riscontrino ossa umane; e crede abbondino maggiormente nei monti presso al mare, e non altissimi. Lo Spallanzani corresse alcune opinioni del Vallisnieri, e destro nelle gigantesche osservazioni della natura quanto nelle microscopiche, se non avventurò ipotesi, diede migliori descrizioni e storie de’ fenomeni vulcanici.

Sono forse i passi più inoltrati della allor nascente geologia. Giovanni Targioni Tozzetti, stando presso uno zio a Certaldo dove il Boccaccio aveva già riscontrato tante conchiglie marine[294], cominciò a raccorre testacei petrificati, e preso amore a questa scienza, le offrì bel tributo nel suo Viaggio in Toscana, scritto con pulizia e proprietà. Gian Giacomo Spada studiò le spoglie fossili veronesi, e insistette, sebbene già corresse il 1737, a provare che non fossero scherzi di natura, e non diluviane ma antediluviane. Su quelle dei monti Euganei disputarono Carlantonio Dondi padovano e il padre abate Terzi, che n’avea la miglior collezione. Ambrogio Soldani toscano esaminò i testacei microscopici di Siena e Volterra, senza nè classificazione nè teorie, [584] accumulando fatti intorno a questi e ai terreni ardenti; e contro Santi, Fabroni, Targioni, Spallanzani sostenne gli areoliti formarsi nell’atmosfera.

Francesco Serno, medico napoletano, per ordine del re descrisse il Vesuvio quando eruttò nel 1737; negò velenoso il morso della tarantola. Il padre Giovanni Maria della Torre romano adoprò bene il microscopio, benchè ne deducesse teoremi oggi ripudiati; ma soprattutto diè la prima opera scientifica sul Vesuvio (1755), con supplementi successivi fino al 79, e col catalogo di quanti ne aveano scritto. Anche Guglielmo Hamilton, ambasciatore d’Inghilterra a Napoli, s’appassionò pei fenomeni naturali di cui è ricco il nostro mezzodì (Campi Phlegrœi, 1776). Con lui lavorò Giuseppe Gioeni di Catania, che fece la Litologìa vesuviana con teoriche e ipotesi applaudite; e destò l’amore di queste ricerche nel suo paese che tante occasioni ne offre, e che dal nome di lui intitolò un’accademia ancora in onore.

Domenico Vandelli medico padovano dettò sopra gl’insetti e gli zoofiti marini (1758); molto lavorò in Lombardia: poi reduce dal Brasile, soprantese all’orto botanico di Lisbona; contro Haller sostenne essere sensibili i tendini e la membrana fibrosa, e fu in corrispondenza con Linneo che da lui denominò le scrofulariacee vandelline. Giuseppe Tomaselli veronese la non molta sua scienza adoperava all’utile pubblico, facendo libri elementari di botanica, di mineralogia, di zoologia, e sulle nitriere e l’agricoltura.

Giovanni Arduino (1714-95), suo compatrioto, nelle miniere di Clausen studiò metallurgia e mineralogia: e prima opera geologica furono le sue Osservazioni sulla fisica costituzione delle Alpi venete, ove pose la bisezione delle roccie ignee e sedimentarie, e distinse le calcinabili e di sedimento, e le vitriscenti; nel confine tra le due [585] trovarsi più comunemente i depositi di metallo, ch’esso riguardava come sublimazioni, accompagnanti lo sbucare de’ porfidi e delle altre produzioni ignee; e indicò la trasformazione della roccia calcarea in magnesiaca. Pertanto distinse le roccie primigenie di micaschisto e simili, anteriori alle granitoidi, impropriamente dette primitive; i monti di sedimento, secondarj o terziarj; infine le pianure anch’esse di trasporto. Ben più esatto di Werner, vide che ne’ terreni di second’ordine doveasi tener conto, non della sovrapposizione, ma «degli innumerabili sollevamenti, abissamenti, squarciature, avvallamenti e rovine operate dalle ejezioni vulcaniche in ogni qualunque luogo della terra»[295]. E un’altra verità anticipò, cioè il riconoscere l’età delle formazioni dai paleonteri, e che «tante sono le età corse durante l’innalzamento di dette alpi, quanto diverse sono le schiatte dei corpi organici fossili che dentro gli strati vi annidano»[296]. Anche l’origine vulcanica fu da lui proclamata prima che Werner facesse per breve tempo trionfare la nettunica. A confutazione della quale, il conte Marzari adduceva la sovrapposizione dei graniti al calcare secondario.

Fra gl’inventori va posto Anton Lazzaro Moro di San Vito, prete e maestro di cappella a Portogruaro, la cui opera Dei crostacei e degli altri corpi marini che si trovano sui monti (1740) fu subito tradotta in tutte le lingue, acclamata dalle accademie di Parigi e di Londra, mentre in paese ignoravasi o canzonavasi. In essa abbattendo i sistemi nettunici di Burnet e Woodward, poneva la teorica de’ sollevamenti e rovesciamenti di terreni con una pazienza e precisione, che parve confermata ai giorni nostri[297].

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Il conte Marco Carburi di Cefalonia (1731-1803), quando venne professore di chimica a Padova, non trovò tampoco un’oncia d’alcali puro o di verun acido concentrato, sicchè tutto dovette creare. Ad invito della Serenissima viaggiò nel Settentrione per conoscere i metodi metallurgici; inventò il modo migliore di fondere il ferro, e se ne valse pei cannoni con cui Emo bombardò Tunisi; insegnò una carta incombustibile per l’artiglieria; a Linneo diè pareri sul sistema mineralogico, discordandone rispetto all’origine delle forme cristalline dei metalli; dopo la scoperta casuale di Lemery che più non seppe ripeterla, trovò il modo di solidificare l’acido vitriolico; ma, a malgrado di Lavoisier, s’ostinò alla dottrina del flogistico.

Claudio Berthollet di Annecy (1748-1822), fino osservatore e sperimentatore diligente, dalla teoria di Stahl si staccò nella Memoria sull’acido marino deflogistico; ma conobbe inesatta l’opinione di Lavoisier che l’ossigeno sia il generatore universale degli acidi, essendovi anche il cloro e l’acido prussico. Dall’esame de’ prodotti organici conchiuse troppo in fretta che le sostanze animali si distinguono [587] dalle vegetali per l’azoto; studiò i clorati, sali terribili a maneggiarsi; dalla combinazione dell’ammoniaca coll’ossido d’argento ottenne l’argento fulminante; applicò la proprietà scolorante del cloro a imbiancar le tele.

Luigi Brugnatelli da Pavia (1761-1818) credette necessario un supplemento alla teorica di Lavoisier, come quella che non rendeva ragione del calorico e della luce, sviluppantisi in certe circostanze, e ne fece una propria, denominata termossigeno.

Toaldo Giuseppe (1719-98), oriundo di Spagna e nato a Pianezzo nel Vicentino, scrisse principalmente di meteorologia, applicandola all’agricoltura; credette grandemente all’influenza della luna fin sul taglio delle unghie e dei capelli, non che sulle variazioni atmosferiche; col che per altro giovò suggerendo le osservazioni astrometeorologiche, e cominciandone una serie in Padova, imitate poi in Francia, in Germania, in Olanda. Fra molte sue operette ricorderemo quella del Merito dei Veneziani verso l’astronomia, dove, contro il Bailly che asseriva lo studio del cielo, perchè richiede grosse spese, non aver mai fatto grandi progressi nelle repubbliche, sostiene esserne assai benemerite le repubbliche d’Olanda, di Svizzera, d’America, e fra noi quelle di di Bologna e Venezia. E fra i Veneziani nota Giambattista Donato, autore d’un’opera sulla Letteratura dei Turchi, e che determinò le latitudini di Costantinopoli, ove fu balio, di Belgrado, Adrianopoli, Selimbria. Altrove espone un’antica regola del navigare de’ Veneziani, donde si raccoglie che fino dal 1462 applicavano a ciò la trigonometria, e con pochi numeri di facile ricordo potevasi senza carte nè conteggi conoscere il viaggio fatto e la direzione. Si diede gran cura d’applicare i parafulmini, e volea che fin gl’individui se ne munissero, e massime le signore, atteso l’artifizio di ferro con cui [588] sosteneano l’architettura del crine; pensando ripararlo mediante catenelle.

Perocchè come la chimica, così allora venuta era di moda l’elettricità[298]; e il bel mondo se ne divertiva; tutti volevano aver provato la scossa, che ad alcuno costò la vita; Vittorio Amedeo III col Gerdil ripeteva le sperienze di Nollet; i materialisti se ne facevano arma per ispiegare quell’arcano che si chiama anima; e dopo che Franklin inventò i parafulmini si credette aver disarmato il cielo[299]. Il padre Beccaria di Mondovì, [589] professore a Torino, metteva in chiaro le teoriche di Franklin comparando l’elettricità artifiziale e l’atmosferica, e dietro a Symmer e Cigna trattava delle atmosfere elettriche e di quella che chiamò elettricità vindice; dov’è notevole come egli accennò che il magnetismo potesse essere l’elettricità diffusa su tutta la superficie del globo.

Però l’elettricità pareva uno de’ molti soggetti isolati, e che possono studiarsi unicamente nelle loro relazioni interne, fin quando mostrò altrimenti Alessandro Volta comasco (1745-1826), che per esperimenti procedendo man mano e senza grandi teoriche, doveva riuscire a scoperta suprema. E prima inventò l’elettroforo perpetuo, poi il condensatore, accoppiando il quale agli elettrometri di Cavallo e di Saussure, n’ottenne uno più squisito. Armato di questi, indaga l’elettricità atmosferica, la grandine, le aurore boreali ed altri fenomeni: ma all’esattezza di sperimentatore non congiungeva elevazione filosofica tale da stabilir dottrine precise e pretendere rigore matematico; non riferì mai alla vera loro teorica l’elettroforo e il condensatore; non vide la causa vera dello svilupparsi o no dell’elettricità nell’evaporamento, nè le sue ipotesi vennero confermate dai fatti.

Fra ciò Luigi Galvani (1737-95) a Bologna avvertì che un moto musculare succedea nelle rane morte, quando si trovassero sotto l’azione d’un conduttore elettrico nell’atto di scaricarsi; e anatomico non fisico, si persuase esistere un’elettricità animale differente dalla comune. Il mondo credette: i materialisti sperarono trovato l’agente fisico onde i corpi esterni operano sul cervello, e svelati gli arcani del sentire: i filosofi improvvisarono sistemi per ispiegare il fatto. Ma il Volta ripetendo gli sperimenti, dubita le parti animali non sieno che passive, su cui i metalli operassero come stimolo esteriore. Varia i modi, rimuove muscoli e nervi surrogando de’ feltri, [590] frapposti a coppie di dischi di rame e di zinco, e n’ha i fenomeni elettrici; moltiplica queste coppie metalliche, ed ecco la pila (1794), lo stromento più poderoso dell’analisi chimica. Il Volta sopravvisse trent’anni alla sua scoperta senza nè aggiungervi nè applicarla; intanto che Ritter, Carlisle, Davy la usavano a decompor l’acqua; incoando la chimica nuova.

L’elettricità molti applicarono alla fisiologia, attribuendole funzioni che solevansi agli spiriti vitali. Assai ne sperò la medicina, e il padovano Pivati credette perfino ottener effetto dai farmachi senza introdurli nel corpo, e col solo metterli in bottiglie vitree elettrizzate. Con miglior senno altri la usarono nelle paralisi, malgrado di Haller; e il Follini, e il Vassalli-Eandi, ed altri Piemontesi se ne valsero grandemente.

Le nuove forme sotto cui rinacque a’ dì nostri il magnetismo animale, consigliano a meditare, anzichè vilipendere questo mistero. Certo allora serviva ad illusioni e ciurmerie, che resero segnalato il nome di Mesmer. Quando questo otteneva a Parigi maggior grido, l’abate Giuseppe Simone Canini veneziano provò per istampa d’averlo prevenuto nella scoperta del magnetismo artifiziale, e aver insegnato al medico ebreo Laudadio Cases di Mantova a far mirabili guarigioni cogli effluvj magnetici. Non era uomo vulgare, e il Senato veneto gli assegnò dieci ducati il mese per aver offerto una calamita artifiziale e un ago inclinatorio.

Nei medici durava la smania di dedurre da principio unico i fenomeni organici; e dopo la medicina meccanica del Borelli, nella quale ricorderemo Ascanio Bazzicalva di Lucca[300], e la chimica di Van Elmond, venne il solidismo del raguseo Baglivi, al quale conformasi il [591] toscano Vaccà-Berlinghieri, pur confutando Cullen, e sostenendo che gli umori circolanti non possono soggiacere a corruzione se non fuori dei vasi; che gli alteramenti salubri o nocivi vengono da riazione dei solidi sopra i fluidi, suscitata da necessità fisica; avviamento al puro dinanismo e all’imbecillità dei moderni.

In Italia non v’ebbe originalità di scuole, ma spesso studio e buon senso. Il veneziano Macoppe diede credito al mercurio e alle terme di Abano, e soprattutto raccomandava d’astenersi dai rimedj. Michele Rosa da San Leo, nel Saggio osservazioni chimiche e più in quello Sui contagi, dalle ipotesi di moda richiama all’esperienza, benchè non sappia abbandonar la ricerca delle cagioni prime dei fenomeni morbosi. Prevenne molti moderni negli sperimenti sui fremiti e le pulsazioni delle vene, e riconoscendo negli umori una forza elastica. Il Beccari, che continuò la gloria degli illustri medici di Bologna, scrisse sui fosfori, e dissipò il prestigio miracoloso affisso ad alcuni casi di diuturna astinenza (De longis jejuniis). S’illustrò a Roma l’anatomico e litotomo Flajani. Il Nannoni fiorentino semplificò le cure chirurgiche, le quali cessavano d’essere arte ciarlatanesca.

Fra i medici o fra i ciarlatani ebbe fama Buonafede Vitali bussetano (1686-1745), detto l’Anonimo; servì nelle guerre, poi volle andar prete, infine si applicò alla medicina e chimica; viaggiò assai, Carlo XII lo spedì nelle miniere di Lapponia, a Lisbona soprantese alle regie fonderie; tornato in Italia, a Genova si propose di rispondere improvviso a qualunque quistione: era cercato dappertutto a guarir ferite e mali difficili e arcani, guadagnando molto e tutto spendendo. A Parma, a Milano, [592] a Bologna, a Firenze era acclamato maestro, e aggregato ai collegi medici: a Palermo recitò una famosa dissertazione «che nel sangue non vi sia acido», e fu professore e direttore del laboratorio: neppur là sapendo fermarsi, a Parma soprantese alle miniere, poi l’eguale incombenza ebbe nel Vicentino, ove trovò uomini, pesci, cavalli impietriti: lungamente stette a Milano, ove lo ammirò il Goldoni come uomo cui niuna scienza era straniera, passionalissimo d’acquistar cognizioni, grande spacciatore di specifici molto accreditati, e soggiunge che montava sul palco dove, oltre i consulti, spiegava problemi di matematica, di storia, di letteratura; che comparso a Verona in occasione d’epidemia, vi fu accolto come Esculapio in Grecia, e guariva con mele apie e vin di Cipro: a Milano il suo palco era affollato di persone a piedi e in vettura, mentr’egli vendeva i suoi specifici circondato dalle quattro maschere della commedia; anzi interteneva una truppa di teatranti, che dopo averlo ajutato a raccorre i denari davano rappresentazioni coll’inusato lusso di torcie di cera. Una sua opera sulle malattie contagiose fu applaudita assai, e il re di Prussia gliene fece congratulazioni e offerte. Stampò anche sotto titoli speciosi, come Operibus credite; Facoltà, uso e dose dei dodici arcani, che si rinchiudono nella cassetta medica dispensata dall’Anonimo[301].

Antonio Cocchi (1695-1758) da Mugello antiquario, in un viaggio a Londra s’invaghì delle opinioni forestiere, e con grandi contrasti le proclamò in patria. Buon osservatore, [593] espositore prolisso, talvolta si piace all’erudizione, come nelle dottrine di Pitagora sul vitto; ne’ bagni di Pisa trovava rimedj a tutti i mali, anche opposti; e tal conto facea di sè, che in più di cento volumi conservò ogni frivolezza della propria vita. Meglio per la sua fama se non avessergli stampati i discorsi sui mali del matrimonio ed altre leggerezze.

Il bergamasco Pasta chiese la filosofia compagna alle cure ne’ libri Del coraggio nelle malattie e nel Galateo medico, ove tende a ridurre i suoi confratelli a quell’austerità di modi e saviezza di sentimenti che sono indispensabili a chi s’accosta ai dolori dell’umanità. Dove non è da tacere il Mondo ingannato dai falsi medici del veronese Giuseppe Gazzola, spesso ristampato e tradotto.

L’Università di Modena abbellivasi di Scarpa, Spallanzani, Venturi, Spezzani; quella di Bologna degli scolari del Malpighi, quali l’Albertini, il Sandri, il Valsalva; la padovana diede eccellenti maestri dietro a Mazzini e Michelotti, propensi alle dottrine matematiche; e la pratica di condurre lo scolaro al letto del malato, introdottavi da Giambattista Montano veronese sin dal 1543, fu seguita da Bottoni e Oddo ma come privato consiglio, finchè nel 1764 la Signoria veneta eresse in quell’università una cattedra di medicina sperimentale.

Attenzione si pose a particolari malattie, quali la rachitide, il cretinismo, la debolezza cronica, lo spasimo facciale, la pellagra nel Milanese e, non molto dissimile, il mal della rosa nelle valli d’Orvieto. Il vajuolo mieteva ogni anno moltissime vite non solo di bambini ma di adulti, e più nei ricchi perchè più curati con que’ pessimi metodi che erano il salasso e l’impedir l’aria fin a fasciare i miseri. Luigi Carena, medico a Vienna, vi portò l’innesto dall’Inghilterra, e ne dimostrò i vantaggi con un opuscolo che ristampossi a Pavia dal Brera, e [594] che persuase a valersi qui pure della vaccinazione, malgrado i pregiudizj[302]. Quando nel 1764 Tronchin venne appositamente a Parma per innestare il vajuolo al principe Ferdinando, fu divisata una gran solennità, si stamparono versi, si nominò ajo apposta al principino il poeta conte Manara, mentre doveano starne separati il Keralio e il Condillac, ancora immuni da quel male. Buniva in Piemonte, Sachero in Sardegna, Sacco in Lombardia... diffusero l’innesto.

Dell’anatomia patologica si comprese l’importanza, e a cercarla con circospezione e imparzialità. Giambattista Morgagni di Forlì (1682-1771) presto meritò il titolo di principe degli anatomisti. Quando n’ebbe la cattedra all’Università di Padova, preludendo non ampliavasi sui proprj meriti e sulla scienza stessa, ma con semplicità prometteva rendere omaggio al Creatore della macchina umana col non cercare novità o bellezza ma il solo vero, e ripudiate le futilità e le blandizie di parole sconvenienti a chi narra la divina opera, non che spendere il tempo in lunghe e superflue controversie, non baderebbe all’ostentazione ma al pubblico bene, con piana e fedele dimostrazione.

Questa prolusione destò meraviglia per la semplicità; e l’insegnamento suo procedeva tanto chiaro e piacevole, che v’accorreano anche persone estranee alla scienza. Benchè mostrasse non dare che illustramento e seguito alla misera compilazione di Bonnet, che pur fin allora era la più diffusa ed erudita, egli vi pose moltissime osservazioni proprie e del Valsalva; i predecessori rispettò senza idolatria; investigò la sede e l’origine dei mali reconditi (1761); e quantunque censurino la prolissità delle storie e l’arbitrario disporle secondo i sintomi predominanti, nessuno mai aveva sì [595] ben collegata l’anatomia colla patologia. Europa sonò di applausi; in tutte le lingue si volle tradurla; principi e accademie onoravansi di onorarlo; la sua patria e la nazione germanica a Padova gli eressero statue; il senato veneto crebbegli lo stipendio a duemila duecento zecchini: e fra le virtù e le onorificenze egli protrasse l’esistenza fino a novant’anni.

Gli succedette Leopoldo Caldani bolognese (1725-1813), lodato per le sue Icones anatomicæ[303], e de morbis mulierum, puerorum et artificum, e fu il primo che qui insegnasse l’irritabilità di Haller. Ai vasi linfatici, negletti dopo la scoperta fattane da Rudbeck e Bartolino, volse le ricerche Pietro Mascagni (1752-1815), vedendoli in tutto il corpo, e destinati ad assorbire i liquidi animali, eccetto il sangue, non tutti mettendo al canale toracico. Si stampò postuma la sua Anatomia per uso degli studiosi di scultura e di pittura, e il Prodromo della grande anatomia, dove tutte le parti del corpo sono rappresentate con esattezza e grandi al vero.

Giannantonio Galli bolognese (1702-82), per agevolare l’ostetricia, fece eseguir in creta e in cera molti modelli da Giovanni Manzolini scultore e dalla costui moglie Anna Morandi; vi unì tutti gli strumenti antichi e moderni da ciò: la quale raccolta Benedetto XIV comprò per diecimila scudi, e la regalò all’Istituto di Bologna. Di Felice Fontana roveretano, che scrisse sul veleno della vipera, si ammirano le preparazioni di cera a Firenze e a Vienna.

Domenico Cotugno medico napoletano scoprì gli acquidotti detti da lui, il nervo parabolico incisivo, e [596] prima del Galvani si accorse della elettricità animale in occasione che, avendo sparato un sorcio, questo gli diè sulla mano colla coda in modo da intormentirgliela. Bianchi di Torino, avverso ad Haller, studiò il fegato, e n’ebbe controversie con Morgagni; Malacarne da Saluzzo, il cervelletto umano, e fu de’ primi ad avvertire l’importanza dell’anatomia comparata. A questa s’applicò Giacomo Rezia, professore a Pavia; nella quale Università fu eretta la scuola pratica di chirurgia per Antonio Scarpa trevisano (1747-1832). Avea questo studiato a Padova, dove al Morgagni ottagenario e cieco assisteva, e leggevagli i consulti e gli autori classici, dei quali poi fu sempre innamorato, come anche delle arti del disegno. A Parigi legossi con Vicq d’Azir, col famoso litotomo frà Cosimo, coll’oculista Wensel, a Londra con Pott principe de’ chirurghi e coi due Hunter. Osservate le costoro injezioni de’ linfatici, volle anch’egli avere un simile gabinetto, e vi faticò dacchè fu messo professore a Pavia, dove le ventinove preparazioni lasciate dal Rezia ben presto ebbe cresciute a trecensessantasei. In un viaggio col Volta a spese di Giuseppe II, conobbe i grandi scienziati d’Europa, e al ritorno trovò il dono più desiderato, una compiuta raccolta d’istromenti chirurgici antichi e nuovi.

Era il tempo che la medicina deponeva i vecchi errori, ed a passi giganteschi accingevasi, appoggiata alla fisiologia, all’igiene e all’anatomia, divenuta scienza esatta. Lo Scarpa, sebbene avesse soltanto una clinica di trenta malati, fece progredire immensamente la scienza, coll’attenta osservazione pratica, unita a immensa erudizione, molte cose osservando egli primo, molte meglio de’ precedenti. I ganglj nervosi, le ernie, gli organi dell’udito e della vista, furono il principale suo esercizio: sulla cateratta scrisse mirabilmente, difendendo l’abbassarla, invece dell’estrarla come allor [597] si faceva: e il suo trattato delle malattie degli occhi può dirsi il primo che in Inghilterra insegnasse queste cure. L’opera sui nervi del cuore e quella sull’aneurisma sono corredate di bellissime tavole incise da Anderloni; vi pose in campo quistioni, che poi furono illustrate da Bichat, Andral, Gavarret; e descrisse le anastomosi delle arterie in modo che si ardì legare la crurale, le carotidi, le iliache, fin l’aorta abdominale. Cuvier e Dupuytren lo ammiravano, a tacere i minori, e somma influenza ebbe nella scienza sua. Consultato da tutta Europa, parlava tutte le lingue, ricco, onorato, dotto d’onnigena scienza; diseredato solo di generosità e d’affezioni, non avendone mostrato che per lo Jacobi, professore di fisiologia, che morì giovane.

CAPITOLO CLXXIV. La fine dei vecchi tempi.

Il Denina termina le sue Rivoluzioni d’Italia con un quadro della nostra penisola, dove, senza sconoscere la superiorità de’ forestieri, accenna i progressi qui avvenuti. Secondo le teoriche d’allora, li ripone sovrattutto nell’aumento di popolazione, per tal conto anteponendola a ogni altra parte d’Europa. Secondo lui, il Regno, che nel 1670 contava tre milioni e mezzo d’abitanti, nel 1790 n’avea cinque milioni, e due altri la Sicilia; Napoli da ducensettantamila abitanti era in cent’anni cresciuta a quattrocentomila; l’entrata del Regno a sessanta milioni di franchi, ma un terzo andavano a pagare l’interesse del debito: onde non potevasi mantenere meglio di ventottomila soldati e quaranta bastimenti da guerra.

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La Romagna al nord degli Appennini non pareagli meno abitata che ne’ tempi più floridi; che se Perugia, Ravenna, Ferrara erano scadute, fiorivano Ancona, Macerata, Sinigaglia, Rimini, Cesena, Forlì, Faenza, Imola; Bologna da quarantamila era aumentata a settantamila teste: l’intero Stato pontifizio faceva la metà popolazione che il napoletano, benchè il Patrimonio di San Pietro fosse il paese più deserto d’Italia: Roma, che, al fine del secolo precedente, avea da ottanta in novantamila anime, allora censessantamila. In Toscana la Maremma, e Pisa e Siena erano decadute; ed anche Firenze, benchè s’avvisasse a qualche aumento: Livorno contava da quarantacinquemila anime; e tutto il granducato un milione appena, sopra un territorio doppio della Lombardia austriaca; e la rendita notificata da Pietro Leopoldo sommava a nove milioni e ducentomila lire fiorentine.

In Lucca viveano da cenventimila abitanti; da cinquecentomila fra Modena e Parma. Venezia, scemata d’un quarto, sopra cencinquantamila aveane un terzo di levantini e greci, ma ne’ dominj rimastile c’era aumento d’un quarto, numerando da tre milioni di sudditi, colla rendita di tre milioni di zecchini, e appena seimila soldati di terra. Il paese più popolato d’Europa era il Milanese, malgrado la diminuzione di territorio e il continuo uscirne d’artieri e merciajuoli; del quale prosperamento esso Denina attribuiva il merito, dopo la pinguedine del terreno, ai migliori costumi introdottivi dopo san Carlo.

Il Piemonte numerava due milioni e mezzo di teste, e Torino da trentacinquemila era salito a ottantamila; a scapito, è vero, di Casale, Asti, Chieri, donde molte famiglie s’erano trasferite alla capitale; aggiungansi novecentomila di Savoja e Sardegna: le rendite totali dello Stato ammontavano a venticinque milioni, sebbene [599] dalla Sardegna ne venisse neppure mezzo milione. Invece i quattrocentomila abitanti di Genova e sua Riviera davano all’erario nove milioni.

Italia dunque da’ suoi diciannove milioni d’abitanti avrebbe potuto trarre censessantamila soldati, anche nelle umane proporzioni d’allora, e appena aveane la metà; giacchè ad assalire non pensava, nè assalti altrui parea dover temere. Natura la regalò di minerali d’ogni sorta, e vegetali bastevoli ad ogni bisogno; le sete del Piemonte, i cotoni della Puglia, le lane dell’Abruzzo, della Toscana, della Romagna, la canape del Bolognese, del Ferrarese, della Romagna, non che fornirla di vestimenti, le davano un eccedente con cui comprare e manufatti esteri e delicature.

Così l’uomo, che meglio avea meditato, e spesso compreso la storia della patria, lusingavasi sul presente e sull’avvenire di essa; nè un dubbio concepiva di vicino sobbalzo; come nol concepivano i filosofi: anzi il primo che osò scrivere una filosofia della storia, assicurava che la presente perfezione de’ sistemi politici assicurava omai i popoli da ogni sovvertimento; poche riforme sol restano e queste tranquille; ma una rivoluzione l’Europa già più non la teme[304].

Per verità le rivoluzioni sembrerebbero meno a temere quando si è sulla via delle riforme, se l’esperienza non mostrasse tuttodì che queste invogliano di quelle. Qui i principi erano d’accordo nel volere il bene dei popoli, i quali li lasciavano fare: e a mezzo il secolo noi trovammo un vivere agevole, molle, spensante, un silenzioso fluire della vita. Le plebi, ingombre di morale timidità ma soddisfatte, allegre, burlone, senza chiara cognizione dei diritti nè risolutezza a tutelarli perchè non li sentivano minacciati, e perciò non impennandosi [600] agli arbitrj del potere e all’alterigia de’ signori, non che prepararsi a nuove sorti, non ne capivano il bisogno, non lottavano, non partecipavano alle discussioni o alle speranze degli statisti. I nobili rimasero una condizione piuttosto che uno stato dacchè furono sciolti i vincoli servili e tolti i privilegi feudali; tranquilli nella loro superiorità indisputata e quasi naturale, voleano essere padri di questi loro inferiori, purchè il riconoscessero come un benefizio, non come un dovere; colla bonomìa ragguagliavano i difetti della posizione e della classe; alcuni aspiravano al privilegio della gentilezza e degli studj, altri per gli agi e gli ozj cadevano nel vizio, ma i principj dell’educazione cristiana e austera rigalleggiavano al chetarsi delle passioni. Il clero rilassato men ne’ costumi che nella dottrina, serbava grand’impero sopra le classi povere e le agricole, vera base della società. Le classi medie arrischiavansi alle speculazioni per quanto lo assentivano la scarsa circolazione de’ capitali e la mancanza d’associazione; cominciavano a conoscere la loro importanza sociale, ma non ancora febbricitavano dell’avidità di miglioramento.

A chi addolora delle convulsioni odierne; di questo irriposato arrancarsi ad un meglio che non si sa qual sia, ma che sta fuori della realità e del possibile; di un’ambizione che si esalta a tutti i fantasmi; d’un appetito insaziabile di movimento, di pericoli, di forti emozioni; d’un’istruzione farraginosa e svaporata; d’una stampa meschina, beffarda, distraente, molestatrice, dove ogni scolaretto si erige maestro, ogni aguzzino si intitola giudice; del compiacersi nell’invelenire le proprie piaghe per fare ciarlataneria di empirici medicamenti; noi parremo troppo severi nel giudicare un secolo dove la bonarietà era il fondo delle classi basse non men che delle nobili, ogniqualvolta non la corrompessero le ambizioni e la passione; ove una tradizionale [601] fedeltà legava il patrizio alla sua città o al suo castello, il padrone a’ suoi servi o coloni, il mestierante al paterno telonio, il cittadino al suo Governo; ove il popolo teneasi limitato ne’ desiderj e rassegnato alla subordinazione; ove le menti riposavano d’accordo su certi principj generali, nè il culto all’autorità era soccombuto all’idolatria di se stessi, non credeasi che tutti devano comandare, nessuno obbedire; bensì che questa terra non è il paradiso dell’uomo ma la sua espiazione; laonde non si vantava a ciascuno il diritto ai godimenti, ma si disponeva alle abnegazioni, alla pazienza; e la carità, se riputavasi un dovere dai ricchi, non esigevasi come un diritto dai poveri. L’uomo non era ancora scomparso davanti all’onnipotenza del Governo e del gendarme; ancora l’istruzione, la carità, il buon governo si fondavano nella fecondità dei voleri individuali e dei sacrifizj volontarj; alle cariche sostenute spontaneamente, gratuitamente e in vita, non erasi surrogato quel mecanismo d’agenti salariati, eletti, trasferiti, deposti ad arbitrio del Governo, venali e servili eppure faziosi ed anarchici, sollecitatori irremissibili, capaci di qualunque bassezza quando abbiano da soddisfare l’appetito, di qualunque ricalcitramento quando siano satolli, disposti a tollerare qualunque ignominia per salire, che accumulano sul potere ogni responsabilità, e l’opprimono sotto cupidigie impazienti, rancori epigrammatici, inefficace devozione; erpete il più funesto che la democrazia inoculasse al secolo nostro. Semplice era la scienza dei Governi, durando la buona intelligenza fra essi e i governati, fondata sull’osservanza del dovere personale e del diritto, da una parte sul rispetto all’autorità, più vivo quanto meno essa faceasi sentire; sul riguardo dall’altra alle locali consuetudini e all’attività individuale: gli uni contentandosi di quel che per loro si facea, non pretendeano si facesse tutto, nè [602] metteano a repentaglio il bene per ismania del meglio; gli altri concedeano molto, senza garanzie nè patti è vero, ma neppure appoggiandosi all’unica ragione dei grossi eserciti, all’unico espediente de’ numerosi impiegati. Così la costituzione de’ popoli era dispotica, ma libere le consuetudini; i re poteano permettersi ogni arbitrio, ma nol faceano; e con istromenti poco regolari trovavano più facile il governare popolazioni docili, che non dappoi il governare con istromenti geometrici le popolazioni riottose; il rimprovero che principi e statisti fanno a que’ sudditi, era il non curare la cosa pubblica.

Non cadiamo però con quelli, che prendono per promessa di felicità lo snervamento delle anime e l’abbassamento de’ caratteri; nè coi retrivi che, storditi dal vortice odierno, figurano come beatitudine quel procedere rassegnato di tutti nella carreggiata paterna. Un’educazione non profonda e di certe classi soltanto; una poesia da ventagli; una letteratura separata dall’azione, che riponea la riforma nel cangiare di modelli, e adagiavasi nell’imitazione anzichè bisognare della originalità che nasce da verità sentite al vivo ed espresse nella lingua di tutti, faceano dominare quella pulitezza che mette dappertutto il cerimonioso, l’artefatto. Duravano i difetti dello sfrazionamento; idee locali senza alcuna generale, gelosie anguste, piccoli divisamenti; la cura degli interessi patrj, che suscita e incoraggia lo spirito, restringeasi ne’ limiti del municipio; invece degli Enciclopedisti avevamo i Giansenisti; per un Gesuita che censurasse Dante, menavasi maggior rumore che non per uno scettico che impugnasse Dio; disputavasi per mantenere al papa la chinea, mentre correa pericolo il vangelo. La situazione politica non offriva veruno di que’ grandi oggetti, nell’attuare i quali si svolgono ed esercitano le nobili facoltà, e lasciavasene [603] il pensiero ai governanti, sicchè dagli affari pubblici non erano richiamati gli uomini alle severità della vita, non tenute in equilibrio le combinazioni astratte dell’ideale coll’inflessibile misura del possibile.

Obbligo dell’uomo è l’avanzare faticando; e certo l’Italia in mezzo secolo di pace progredì meno che non altri popoli in condizioni non così favorevoli. Un sentimento di fiacchezza n’è carattere generale, viepiù notato dalla nostra età, tutta agitazioni e inesorabile movimento. Nasceasi, viveasi, morivasi nel villaggio, nella condizione, nelle idee, in cui era nato, vissuto, morto il babbo e il nonno, evitando i bronchi della vita per seguitarne giù giù il declivio; crogiolavansi in quell’egoismo, che pone se stesso per centro e periferia, che considera come ingenite in una classe o in una persona la superiorità, la ricchezza, l’ingegno, e gli altri condannati dal nascere all’inferiorità, alle sofferenze, a ricevere i favori conditi coll’insolenza.

La lunga pace, la diffusa agiatezza, le altre condizioni di benessere suscitavano un’agitazione vaga ma inoperosa: la pochissima stampa era intisichita non tanto dalla censura, quanto dalla pubblica noncuranza: che se alcuni pochi leggevano i libri degli Enciclopedisti, se altri s’ascrivevano alle loggie massoniche, e criticavano ed esaminavano, e vedeano la possibilità d’un meglio, i più amavano dondolarsi quieti e gaudiosi; desideravano i miglioramenti, ma o gli esageravano per inesperienza, o ne rifuggivano per pusillanimità: e alle innovazioni di Giuseppe II e di Leopoldo si torse il labbro anche dove poteano essere ragione; così false situazioni, contraddizioni perpetue, inevitabili ad un popolo scostato dalle sue tradizioni. Quella monarchia assoluta, senza scossa, in mezzo a tranquille prosperità e ad inclinazioni filantropiche, non toglieva di sentire i mali; e come que’ Governi, paterni insieme ed arbitrarj, [604] usassero rigori e indulgenze del pari senza regola; dando ai diritti l’aria di favori, di vendetta ai castighi, lasciassero formarsi abusi ed accumularsi, e sovrapporvisi i particolari interessi, che poi ricalcitravano quando fossero toccati; mentre invece, per regolare gli uomini, vuolsi meno condiscendenza nel fondo e più legalità nelle forme.

Governi così foggiati poteano reggersi finchè sostenuti dal clero e dalla nobiltà, unici elementi vitali della nazione, uno de’ quali prestava il braccio negli uffizj civili e nel militare, l’altro dava il potere sulle coscienze, mentre queste prevalevano ancora all’opinione. Ma l’una e l’altro vedemmo scassinati, qui non rimanendo tampoco, per circostanze speciali, quel valore guerresco, che in Francia potè supplire a tant’altre mancanze. I nobili, non avendo più poteri che li facessero rispettare, ma ancora privilegi che li facevano odiare, cospiravano contro la vecchia società, nè tampoco sospettando che con essa sepellirebbero i loro secolari vantaggi. La Chiesa non era tanto infiacchita dalla lepida guerra esterna, come dalla protezione dello Stato, che dal dovere di proteggerla presumeva il diritto di regolarla anche in ciò ch’è di sua esclusiva competenza.

L’indipendenza della volontà umana, perciò varia e irregolare; quell’impulso personale, vigoroso, persistente, che è prima condizione del merito e delle virtù; quel concorrere libero di tutti all’opera sociale, parvero confusione e disordine a un filosofismo che surrogava l’ordine artifiziale al naturale, i sistemi umani alla volontà divina. Allora i Governi ingelosiscono dell’azione giornaliera, collettiva o individuale de’ cittadini; ad ogni sforzo spontaneo vogliono surrogare la propria iniziativa, l’autorizzazione, la sorveglianza, l’interesse proprio; tutto sapendo e tutto potendo, certi che quel che vogliono è il bene, si prefiggono d’attuarlo senza [605] verun contrasto, neppure delle consuetudini, dell’indole de’ popoli, di quella libertà che s’impenna contro chi la violenta[305]. Se la personale dignità ne deperisse nol cercavano essi, e tanto meno se i costumi si corrompessero. La bontà di questi è necessaria dove il popolo interviene a governare; non già dove il Governo fa tutto, ed ha forza di far rispettare l’ordine. La coscienza pubblica si riduce dunque alla Polizia; con questa lo Stato può impedire il disordine, e basta; l’individuo abbia per tutta morale il non violare le leggi politiche, cioè non incorrere ne’ castighi; fuor di là tutto gli è lecito; sia bene o no che importa, purchè non sia proibito. Del resto quand’anche l’immoralità divenisse universale, l’ordine è stabilito, e la forza pubblica impedisce che la licenza privata produca la pubblica anarchia.

Realmente col trarre a sè l’autorità, che dapprima sparpagliavasi fra governatori, municipj, pretori, feudatarj, i Governi provvedevano meglio alla giustizia e alla sicurezza del popolo; coll’abolire i privilegi patriziali, rendere mobile la proprietà, pareggiate le eredità, agevoli le comunicazioni, crescere le scuole, svincolare l’industria, faceano senz’accorgersi gl’interessi della democrazia, nè forse accorgevansene quei che ve li spingeano o ne li lodavano. Ma la democrazia non si limitava a chiedere l’eguaglianza di tutti in faccia alla legge; eguaglianza riconosciuta da tutti i nostri legislatori, prima che l’Assemblea di Francia la proclamasse spettacolosamente. Sviata da coloro che d’ogni teorema [606] fanno una speculazione, domandava impieghi, li volea pagati, temporarj, in arbitrio del Governo, invece di quelli che un tempo appoggiavansi a certe famiglie, a certe persone, indipendenti, responsali per se stesse.

La rivoluzione amministrativa operata dai principi sconnettè l’antica locomotiva, quando appunto stava per dare la spinta; surrogato il Governo regio ai Governi locali, tutto cambiò di centro e direzione; i nobili più non seppero fin dove potrebbero conservare, gli ignobili fin dove potrebbero aspirare; rinnegavasi il vigore che le istituzioni traggono dall’essere antiche; quando si vide che i re cambiavano tutto, venne l’idea che potessero cambiare anche il bene, e che bisognasse munirsi d’istituzioni tutorie; ma il clero aveva interessi diversi, diversi il mercante, diversi il paesano, talchè non poteano concertarsi a veruna limitazione ragionevole contro gli arbitrj del potere, nè ad un graduale miglioramento delle proprie condizioni: il gentiluomo ricingeasi del suo orgoglio, il magistrato della sua indipendenza, il prete delle immunità, il borghese dei privilegi, nessuno d’una libertà ragionata e garantita: e mentre le classi rimanevano distinte, ogni giorno men diverse riducevansi per costumanze, fortune, coltura. Introdotte idee nuove, nuovi bisogni, svaniva lo spirito di famiglia, aborrivansi le associazioni, dacchè impedivano il libero lancio degli individui; alle presidenze, alle amministrazioni, alle rappresentanze, gratuitamente assunte per tradizionale clientela e per amore di patria, preferivasi il vantaggio domestico di lucri e titoli.

L’eroismo nasce da spirito, unito a sentimento. Come dunque aspettarlo quando la filosofia, ristretta a freddo raziocinio e resa splendido trionfo del sofisma e della negazione, inaridiva il cuore col fare analisi e beffa di tutto, tutto fischiare, non abbandonarsi all’ammirazione ma affinare l’epigramma e il sarcasmo; essere cattivi [607] per vanità, non avere più passioni ma disegni? Allora il libertinaggio prendeva il luogo dell’amore; le consuetudini giudicavansi riprovevoli sol perchè antiche; la religione pareva un’ubbia di secoli ignoranti; la passione della simmetria scomponeva il vecchio; tutto insomma era critica e negazione: eppure non v’è che l’amore che possa fecondare il caos.

Pertanto quello era secolo di preparazione; lasciava campo alla potenza individuale, non ancora interamente assorta nella governativa; bandì la crudeltà dalle istituzioni penali, l’arbitrio ministeriale dalle amministrative; rivendicò l’eguaglianza civile: ma non conobbe se stesso, non si stimò abbastanza; gl’Italiani, che in tante vie erano precorsi ai Francesi, e già aveano riformato il sistema amministrativo e il penale e le relazioni fra la Chiesa e lo Stato, s’infervorarono alle declamazioni e alle domande de’ Francesi; al progresso storico preferendo lo speculativo, vollero sbarbicare gli alberi antichi per fare una piantagione tutta nuova, distruggere le strade maestre pel gusto d’inerpicarsi in alture impervie, essere insensati con un paradosso anzichè ragionevoli con un luogo comune.

Tra le falsità gentilesche sopravviveano gl’istinti generosi e caritatevoli del cristianesimo; e poichè questo avea non solo predicato, ma abituato ad amarsi, in quel ribollimento delle idee svolgeasi pure la carità, non già quella che viene dall’universale sommessione davanti a un Dio creatore e redentore di tutti, e che dall’esempio di questo ritrae l’obbligo dell’abnegazione fin alla croce, e la pazienza degli umiliamenti e delle privazioni portate dallo stato di ciascuno e dalla natura umana; sibbene una virtù semiuffiziale, sistematicamente eretta sopra la potenza illuminata dello spirito umano, che suppone la nostra razza destinata non ad espiare e meritare, sibbene a crescere più sempre i godimenti verso [608] un secolo d’oro, che redima de’ patimenti antichi: e se una volta preti e frati aveano insegnato l’austerità, la rinnegazione, la pazienza, ora i filosofi sopreccitavano gli istinti nobili e simpatici, proclamavano le gioje di questo banchetto della vita, a cui tutti sono egualmente invitati, talchè si guardasse come vittima chi non vi riceve porzione eguale agli altri.

Laonde alla povertà volontaria de’ frati, sottentrava la infelice e dispettosa di quelli, a’ cui desiderj non riuscivano pari i mezzi e i guadagni, e che sfoggiavano franchezza col bestemmiare chi più e da più lungo tempo possedeva. Gli scrittori, all’autorità della coscienza sostituivano gli effimeri oracoli dell’opinione. In conseguenza smetteasi quel fare patriarcale che spesso impaccia la libertà e deprime la dignità dell’uomo, ma a cui pure si sospira dopo che la famiglia, la patria, la clientela non sono più che un’astrazione, un ricordo. Nelle classi privilegiate appariva quanto l’incertezza della coscienza e della ragione nuoccia a chi non veda se non gusti da seguire, passioni da soddisfare: nelle moltitudini sentivasi l’irrequietudine di chi ha perduto il prisco equilibrio, non acquistato un nuovo.

Il pericolo non era riconosciuto dai più; la libertà filosofica garbava dacchè era stata tolta la libertà storica; quelle idee di diritti, di dignità, di fratellanza arridevano tanto meglio, quando non erano ancora state contaminate da verun eccesso, e nello zefiro delle riforme nessuno presentiva l’uragano della rivoluzione: onde sognavasi un progresso tranquillo, ove dello scalzato edifizio curiale di Roma non rimarrebbe più che l’autorità ecclesiastica; i principi raccoltasi in mano l’autorità pubblica, si renderebbero despoti, ma per ridurre ad effetto i miglioramenti proclamati da’ filosofi; la filantropia consigliatrice s’accorderebbe coll’autorità effettuante, in modo che ne verrebbe il perfezionamento [609] dell’esistenza umana, il dominio della ragione assoluta; e parallelamente sviluppandosi i poteri fondamentali delle ricchezze, della forza, dell’opinione, si estenderebbero la sicurezza e la prosperità de’ cittadini, che più ricchi, più illuminati, più morali, contenti d’avere chi provveda alla loro spensierata beatitudine, amerebbero, difenderebbero, servirebbero meglio il principe e lo Stato.

Ma coloro che nel passato riconoscevano le garanzie e la scuola dell’avvenire; che le illazioni umane conosceano delirare quando non discendano da principj inconcussi, cioè divini; che vedeano divenire sinonimi empietà e progresso, spirito forte e scredente; togliersi alla morale l’addrizzo e la sanzione della fede; i Governi, reluttando al dominatore de’ dominanti, negare il peccato e ritenere il delitto, togliere a Dio la punizione, alla convivenza la solidarietà per arrogarla a sè, negare la legge superna e così negare se stessi; entro quella nube dorata indovinavano il turbine, il quale verrebbe a ripristinare il buon senso, ma chi sa dopo quali ruine!

E ben presto il terreno traballò. Lo Stato, perdendosi in infinite minuzie e soprattutto nel sorvegliare i preti, non accorgeasi che lo spirito pubblico trascendeva da ogni parte: la classe leggente diveniva inquieta, meno pei bisogni suoi che per quelli manifestati da Francia, e pei germi dissolventi comunicatile da questa: la vaghezza d’idee, d’abiti, di costumi forestieri faceano rinnegare le cose patrie, accettare dai forestieri il riso sardonico anche nelle gravi quistioni, la sistematica rivolta e le superbe proteste dell’individuo contro l’ordine esistente. Le profonde contraddizioni, che sono il sintomo più accertato delle sofferenze d’un paese, apparivano; scomposto l’equilibrio fra l’azione e il pensiero, smarrita la tradizione, una pusillanime diffidenza ratteneva negli abusi, o l’avventatezza gettava alle utopie; [610] rivelandosi le esitanze d’una società che non sa come camminare; i desiderj confusi e gl’inquieti presentimenti di rimpasto e di novità, i puntigliosi garriti tra i vecchi interessi e i nuovi bisogni.

Que’ signori d’Italia e que’ ministri mediocri che si erano stirati per parere grandi, e aveano cerco gl’incensi de’ novatori col fare e disfare a precipizio, e rafforzare la monarchia col deprimere la sacerdotale arroganza, non tardarono ad accorgersi quanto si fossero mal avvisati nell’insultare le popolari credenze, nello scassinare idee vetuste e patrie, e avvezzare i sudditi a spingersi nell’avvenire col vilipendere il passato, coll’obbligarli a ricevere novità senza nè esaminarle nè esservi maturi, e convincerli che a mutar un paese basti la volontà d’un capo. Dai loro concetti filosofici arrestaronsi, appena si volle dedurne conseguenze radicali: e ben presto si trovarono in disaccordo coi pensatori, i quali con maggiore alacrità si spingevano quando appunto essi davano indietro. Davano indietro, ma dopo avere scemo il rispetto alle consuetudini, la fede all’autorità; procuratasi la facile gloria di dare qualche schiaffo ai papi, i Giansenisti, cattolici senza sommessione e protestanti senza coraggio, v’aveano dato urto in nome dell’antichità; in nome della novità i filosofisti; entrambi pretendendo vanto di franco pensare col farsi sostegno ai re delle spade contro quel dominio inerme che aspirava ai cuori e all’intelligenza. Il grosso del popolo, conservandosi fedele alle tradizioni, alla religione de’ suoi padri, al pontefice, al curato, avea dovuto scandalizzarsi di que’ prelati indevoti, di que’ principi che faceano da papi; nell’appello fatto alle sue opinioni avea cominciato a credere «Son anch’io qualche cosa»: e come tutti i poteri crescenti, trovò adulatori che gli dissero, «Tu sei tutto».

Allora i principi a lamentarsi dell’insubordinazione, [611] delle idee antipolitiche e antireligiose. Ma di chi la colpa? chi avea scosso l’autorità, chi indebolito la fede, chi intaccato la proprietà? Come imputare il popolo se tirava legittime conseguenze? come pretendere rispetto essi che l’aveano negato alle cose più venerande? Nel 1790 il ministro di Francia scriveva da Venezia: — Il senato comincia a sentire l’importanza della religione nella politica; si pente di ciò che ha fatto intorno ai monasteri; adotta una bolla di Benedetto XIV circa il divorzio, dove tali cause son giudicate con minore leggerezza».

I Toscani s’erano divertiti in prima, poi stomacati a quella pioggia d’innovamenti; ne’ tremuoti che afflissero la Romagna etrusca, nelle persistenti nebbie, nelle malattie epidemiche, vollero leggere la disapprovazione celeste; e di Leopoldo sparlavano rimpiangendo quei tempi medicei ch’egli avea fatti denigrare[306]. Leopoldo, fosse insospettito dalla rivoluzione francese allora scoppiata, o corretto dall’esperienza, indietreggiò fin alla tirannia; fece condannare centotto persone, tra cui nove donne, senza difesa nè pubblicità; anzi esacerbò le condanne col mandarne molti nelle galere di Messina; e per compenso diè ricovero a novantaquattro loro orfani e vecchi parenti; insieme abbandonò alla popolare indignazione il Ricci e il Gianni, tanto suoi; eppure vietava si stampasse qualunque scritto su materie religiose senza l’approvazione del Governo.

Intanto moriva Giuseppe II (1790) senza figliuoli, e Leopoldo era chiamato ad assidersi sul trono imperiale, ove doveva comparire tanto da meno. Partendo di Toscana vi lasciava una reggenza, a cui raccomandava di «non [612] usare mai condiscendenze verso la Corte di Roma in fatto di giurisdizione o d’autorità, in ispecie nelle materie ecclesiastiche ed affari d’impegno»; si fece rilasciare una ricognizione d’un milione centotredicimila cinquecentosessantadue scudi, come credito particolare, senz’addurne il titolo, e dimenticando i troppi compensi che lo Stato avrebbe potuto esigere da lui[307].

Subito vivi richiami si alzarono; Pistoja vuole abolite le novità ricciane; a Livorno i facchini insorgono ad insulti, massime contro gli Ebrei, il cui ghetto avrebbero saccheggiato se l’arcivescovo non avesse protestato v’entrerebbero solo traverso al corpo di lui; altre città gl’imitarono, persino Firenze che da due secoli e mezzo avea disimparato queste chiassose manifestazioni del voler popolare; e allora si vide quel che sia un Governo senza forza, e se a reprimere lo scontento bastino birri e guardaportoni.

Leopoldo si lamentò colla reggenza che in brev’ora si fosse sfasciata l’opera sua di tanti anni; ordinò severi processi, e «i carcerati più o meno rei indistintamente, nessuno eccettuato, uomini e donne di qualunque condizione, dovranno essere consegnati a bordo dei bastimenti napoletani, i quali avranno gli ordini necessarj dalla loro Corte. Io riformai le leggi criminali di Toscana come pareami convenire all’indole dolce e quieta della nazione; ora vedendo di essermi ingannato... ristabilisco la pena di morte per chiunque tenti sollevare il popolo. E siccome il popolo ha detto di voler mettere in libertà i carcerati, il Consiglio li farà trasferire nella fortezza di Belvedere, alle porte mettendo cannoni con artiglieri fatti venire da Livorno. I seimila armati... dissiperanno il popolo che si ammutinasse o si attruppasse, facendovi anche fuoco sopra... [613] Nè il Consiglio nè verun giudice dovrà mescolarsi a fare grazia o commutare pena... neppur io, non volendo questa volta far grazia a veruno»[308].

Il figlio Ferdinando III sottentrato, per ingrazianirsi il popolo s’affrettò a ripristinare molti degli abusi tolti; modificò il codice leopoldino; limitò l’arbitrio dei giudici e della Polizia, che poteano economicamente condannare fin alle stafilate, all’esiglio, alla relegazione. Tenne consulta sull’abolire le ordinanze ecclesiastiche; ma se il clero domandava non si chiedessero informazioni ai birri intorno agli ordinandi e ai parroci, egli trovava anzi che i rapporti di quelli, ricercati e adoperati sagacemente, servono con profitto; insisteva perchè i vescovi dovessero considerarsi magistrati dello Stato, e dal sovrano unicamente riconoscessero le facoltà ad essi in parte restituite, di dare la tonsura, permettere missioni, visitare le diocesi. Del resto Ferdinando calcò le orme fraterne con meno spie; venuta carestia, vietò l’asportazione de’ grani; e fattosi toscano, separò gl’interessi del paese da quelli di Casa d’Austria.

Leopoldo anche in Germania e nel Belgio disfece l’opera del fratello, rintegrò le imposte e le istituzioni antiche, tolse i seminarj generali e l’assolutezza della Polizia e dell’amministrazione, pur conservando l’editto [614] di tolleranza con cui Giuseppe II aveva confermato tutte le innovazioni ecclesiastiche.

I Lombardi levarono anch’essi lamenti con tutta la vigoria che lasciava la lunga abitudine dell’obbedire: onde Leopoldo invitò ogni città a spedire due deputati. I filosofi s’erano ravveduti dal predicare l’onnipotenza de’ principi, e Pietro Verri esclamava: — Da due secoli non erano tollerate le rimostranze pubbliche; intrigante importuno pareva chi le promovesse. Ora s’invitano, s’animano i figli a presentarsi al padre; se non esporremo tutto, la colpa sarà nostra, e nostra se con dimande indiscrete e inopportune screditeremo la causa pubblica, cercheremo un sistema precario e la riviviscenza di pregiudizj antichi, anzichè il regno stabile della ragione. Un foglio di carta, nemmeno firmato dal monarca, ha in un momento annichilato la congregazione dello Stato, tutti i ceti municipali, tutte le amministrazioni che la pietà de’ nostri maggiori aveva istituite per soccorso dell’indigenza. Dunque tutto il sistema antico era precario, non aveva per base una costituzione, nè potevasi allegare ostacolo di legge contro la volontà del ministro. Il peggio che possa accadere dunque è di tornare a tale precaria condizione. Il Milanese fu soggetto al despotismo dal momento in cui cessarono i suoi naturali principi. Questo despotismo si esercitava da alcuni corpi potenti sotto del Governo spagnuolo; poi ne furono gradatamente spogliati, e venne tutto collocato nell’arbitrio d’un uomo solo. Sarebbe un problema accademico il disputare quale dei due sia più funesto: quello che importa è d’uscire dall’abjezione sotto cui si geme, e da schiavi malcontenti diventare sudditi ragionevoli e fedeli: una costituzione insomma conviene cercare, cioè una legge non violabile neppure in avvenire, la quale assicuri ai successori la fedeltà nostra da buoni e leali sudditi, ed ai cittadini un’inviolabile proprietà, [615] essendo questo il fine unico d’ogni Governo; una costituzione garantita e difesa da un corpo permanente, interessato a custodirla, e le cui voci possano liberamente e in ogni tempo avvisare il monarca degli attentati del ministro».

L’enfasi di queste parole mostri come gran benefizio considerassero i Lombardi questo essere chiamati a consulta dal sovrano, questa prima speranza d’una sancita costituzione, della quale però fino i migliori formavansi un sì inadeguato concetto. I deputati andarono in fatto a Vienna, ed insistettero sull’abolire le novità, e ripristinare la congregazione generale dello Stato. Aderì Leopoldo, dandole ispezione sulle spese e diritto di tenere un deputato a Vienna; il bel sistema comunale che Giuseppe II aveva scompaginato, fu rimesso, restituendo ai municipj l’ispezione sul censo, sulle vettovaglie, sulle strade, sulla sanità, sulla polizia urbana.

Delle novità viepiù dovevano sgomentarsi i pontefici: ma sviliti dal dovere, in materie puramente ecclesiastiche, adagiarsi alla volontà de’ principi ed accettarne le restrizioni, non trovavansi circondati di zelo e dottrina bastante per affrontare le idee irruenti. Pio VI colla bolla Auctorem fidei condannò come ereticali cinque proposizioni del sinodo di Pistoja, e settanta come scismatiche, erronee, scandalose, calunniatrici e maliziose. Il Ricci, con cui il papa avea trattato otto anni per ridurlo a disdirsi, denunziò al Governo questa condanna per ingiusta: ma già egli avea perduto l’aura popolare, e veniva in uggia alla Corte come fautore dei Francesi. Dai quali poi, quando vennero, ebbe scarsi favori, e al loro partire persecuzioni; dopo le quali professava: — Fermamente unito di cuore e di spirito alla cattedra di San Pietro, quello ch’ella tiene ed approva, io pure tengo ed approvo; quello che disapprova e rigetta, io pure rigetto e disapprovo...; tutto quello che [616] contro il mio intimo sentimento, o nel sinodo di Pistoja o in alcuno de’ miei scritti può essersi insinuato di contrario a quella dottrina, protesto, dichiaro e intendo d’averlo per condannato e anatemizzato»[309].

Confidiamo nella sincerità e libertà di questa ritrattazione. Roma pensò anche riparare alle dottrine proclamate da’ filosofi, ma della gracilità d’allora è gran prova l’essersi scelto a tale uffizio Nicolò Spedalieri (1741-95), i cui Diritti dell’uomo sono un’esanime transazione con idee di moda. Benchè capisca che gli uomini, prima di conoscere lo stato socievole, «sarebbero stati incapaci d’idearlo», egli accetta un contratto come fondamento della società civile, pretende dimostrarlo partendo dalla libertà naturale, e divisando un non so qual patto non fatto, a prova del quale trascina i passi biblici. È diritto naturale il giudicare e fare tutto ciò che concerne perfezione; laonde l’uomo in tal fatto è indipendente, atteso che conosce meglio i proprj bisogni, e ha diritto di regolarli col proprio gusto, colle vedute proprie. La nazione può dichiarare scaduto il sovrano che violi il patto sociale. Insomma egli accetta il diritto pubblico protestante, sebbene ne impugni le conseguenze, e distrugge l’idea d’autorità nel mentre vuole consolidarla. Vero è che sosteneva la religione essere fautrice della libertà, nemica della tirannia, e unica capace a prevenire gli abusi, che poi armano i popoli contro i re: ma questo poco di attribuito alla Chiesa bastò perchè i principi proibissero la diffusione di quel libro.

E poichè il Gerdil era pei pochi, nessun altro io conosco che risolutamente affrontasse i concetti rivoluzionarj, [617] se non forse alcune traduzioni, come le lettere del conte di Walmont; nessuno che sentisse come un progresso riposto nell’esclusione della sovranità divina non possa che recare il trionfo dell’immoralità; e che invece bisognava ripristinare l’autorità della morale, riconoscendone l’origine divina, e in questa ritrovare le leggi spontanee della nostra libertà. Intanto i pii rifuggivano in un mesto sbigottimento, e cercando lumi e consolazioni nel libro santo, vi leggeano: — Fremettero le genti, e i popoli meditarono delle vanità. I re della terra sorsero, e i principi si allearono contro il Signore, contro l’unto di esso, e dissero, Spezziamo i vincoli, rigettiamo da noi questo loro giogo... Colui che abita i cieli si riderà di loro, il Signore li befferà; allora parlerà ad essi nell’ira sua, nel furor suo li sovvertirà; li governerà in verga di ferro, e come vasi di creta li spezzerà. Or fate senno, o re; imparate, voi che giudicate la terra».

FINE DEL LIBRO DECIMOQUINTO E DEL TOMO DUODECIMO


[619]

INDICE

Capitolo  
CLX. I Pontefici. Ferrara e Urbino. Guerradi Castro. Contese pel giansenismo e per la regalìa Pag. 1
CLXI. Venezia e i Turchi 31
CLXII. Luigi XIV e sua ingerenza in Italia. Sollevazione di Messina. Genova bombardata. Guerra della successione spagnuola. Incremento del Piemonte 59
 
LIBRO DECIMOQUINTO
 
CLXIII. L’Alberoni. Elisabetta Farnese. Le successioni di Parma, Toscana, Austria 115
CLXIV. Assetto dell’Italia. Carlo III 155
CLXV. Alito irreligioso. Abolizione de’ Gesuiti 168
CLXVI. Idee innovatrici. Economisti, filantropi, filosofi 221
CLXVII. I principi novatori. Giuseppe II. Pietro Leopoldo. I Giansenisti. Pio VI 279
CLXVIII. I re di Sardegna e quelli di Napoli 336
CLXIX. Le repubbliche. Lucca. Genova. La Corsica 370
CLXX. Venezia 400
CLXXI. Costumanze. Il teatro 435
CLXXII. Lettere e arti belle 488
CLXXIII. Scienze matematiche e naturali 573
CLXXIV. La fine dei vecchi tempi 597

NOTE:

1.  Un altro ramo d’Este possedeva il marchesato di San Martino e Borgomanero, e trasmise i titoli, nel 1757, per matrimonio ai Belgiojoso, casa d’origine longobarda, che un tempo possedette molte terre in Romagna, e talvolta anche le città di Imola, Faenza, Ravenna ed altre.

Il Frizzi, nelle Memorie di Ferrara, dice che i principi d’Este furono «i più moderati e generosi che prima e poi vantar potesse alcuna città d’Italia!»

2.  Leti, Italia regnante, vol. II. Una relazione delle entrate, spese, forze e modo di governo di tutti i principi d’Italia esistente nell’archivio Mediceo fra le carte Strozziane, filza 320, e che pare della prima metà del Seicento, dice che Sisto V pose in castello tre milioni d’oro, e che la rendita papale era di due milioni d’oro, i quali oggi risponderebbero a ventotto milioni di franchi; e che sarebbe stata doppia qualora ne’ pontifizj vi fossero state gabelle come negli altri Stati. Nella qual somma non comprendeasi l’entrata libera e particolare del papa, gonfiata dalle rendite della dataria e degli uffizj vacabili. Bisogna che il tesoro di Sisto fosse dissipato se Urbano VIII, poi Innocenzo X contrassero tanti debiti.

3.  Nel 1596 Carlo Emanuele di Savoja lagnasi col papa che, in una numerosa promozione di cardinali, non abbia nominato alcuno de’ suoi raccomandati. Il papa risponde al 31 agosto: — Essendo i cardinali consiglieri del papa, è strano che i principi vogliano farvi nominare loro creature. Che direbbero del papa s’egli volesse avere ne’ consigli dei principi persone di sua confidenza?» Cibrario, Memorie cronologiche.

Sulla promozione di cardinali del 1596 dà preziose particolarità il cardinale d’Ossat, Lettera 67, offrendo la più bella e viva pittura della Corte romana d’allora. Altre ne ha su quella del 99. In quel tempo v’avea sei cardinali milanesi: Federico Borromeo, Agostino Cusani che diceva non dipender da altri che dalla propria coscienza, Flaminio Piatti, Tolomeo Gallio, Nicolò Sfondrati e il cardinal Alessandrino. Monsignor Taverna pur di Milano era governatore di Roma, poi ebbe la porpora. Napoletani erano i cardinali Gesualdo figlio del principe di Venosa, Aragona figlio del marchese del Guasto, Acquaviva figlio del duca d’Atri, Santa Severina, cioè Antonio Santorio; Siciliano don Simone d’Aragona figlio del duca di Terranuova.

4.  Gualdo Priorato racconta che il principe Panfili, incaricato dal re di Spagna di presentare la solita chinea, «compariva in un abito al più sublime segno arricchito, e l’arnese del cavallo tutto d’oro massiccio, con più di 200 mila scudi di diamanti attorno. Era servito da venti paggi e sessanta palafrenieri, con ricca e bizzarra livrea, otto carrozze a sei della sua stalla».

5.  «Arrivò il Lavardino in Roma domenica 16 novembre 1687, ed affettò d’entrare in giorno di festa, per render più superba la sua comparsa agli occhi del papa. Il suo corteggio consisteva in duecento officiali di guerra, trecento soldati di guardia, cento gentiluomini e cento cortigiani di servizio. E i cardinali d’Estrée e Maldachino uscirono ad incontrarlo, ciascuno con tre carrozze a sei, un miglio fuori della città, ed in questo modo entrò dalla parte della porta del Popolo, che è quella per dove suol farsi la cavalcata ordinaria degli ambasciatori, con una carrozza superbissima, e con lui sedevano ne’ due luoghi maggiori i due cardinali d’Estrée e Maldachino. Nell’entrar di detta porta si presentarono i gabellieri o siano officiali della dogana, chiedendo la visita delle robe, divise in più di quaranta muli con le coperture a fiori di giglio. Risposero le genti dell’ambasciatore, che tenevano ordini di tagliar il naso (o Sisto, Sisto, e dove sei!) e le orecchie a chi si sia che ardisse di guardar le robe di sua eccellenza. Di modo che i gabellieri nell’intendere così fatto complimento, con sberrettata sino a terra, si ritirarono tutti modesti nelle loro casuccie. Il mastro di casa camminava innanzi gettando monete d’argento, con l’armi ed impronto del re Luigi, ed il vulgo nel raccorle non mancava di gridare spesso Viva la Francia.

«In questa maniera dunque, con regio trionfo, entrò Lavardino in Roma, traversando a lungo più della metà della città, passato ad alloggiare nel superbo palazzo Farnese, ch’è il più superbo di Roma, nella di cui piazza s’ordinarono tutti gli officiali e soldati, chi con la spada sfoderata in mano, chi con il pistoletto, facendo una nobilissima spalliera tutto all’intorno, aspettando l’arrivo di tutti i cortigiani e muli di carico, e così armati restarono sino che furono scaricate tutte le robe: ed il tutto seguì senza che v’arrivasse minimo disturbo, non ostante il numero infinito del popolo che si trovava dappertutto concorso, non già per la solita curiosità, ma mosso dallo stupore di veder entrare in Roma un ambasciatore mano armata, a dispetto del papa, con tanta vergogna d’una città così regia, così santa e così popolata; e i più zelanti andavano esclamando ad alta voce: Eh! che se fosse stato Sisto al Vaticano, il Lavardino sarebbe stato in Parigi, o che si sarebbe molto pentito d’essersi avvicinato a Roma.

«Lo spavento che portò alla città questo marchese fu così grande, che il governatore di Roma con i suoi ministri di giustizia, e con questi quella gran ciurmaglia di sbirri non ardivano uscir di casa, per essersi sparsa la voce che dall’ambasciadore si era dato ordine a quella sua gente armata di correr notte e giorno all’intorno del suo quartiere del palazzo Farnese, col tagliar il naso e le orecchie a quanti sbirri si potessero scontrare. Di più, l’ambasciatore s’era dichiarato in presenza di molte persone, acciocchè si spargesse la voce per la città tanto più presto, che nell’andar egli per Roma, ovvero l’ambasciatrice sua moglie, se scontrava cardinali od altri che non gli rendessero tutti gli onori dovuti ad un ambasciatore del re Cristianissimo, che lo farebbe pentire nel punto stesso; di modo che nessuno ardiva uscir di casa, se non quei soli che volevano rendere gli onori dovuti a sua eccellenza, che affettava d’andar per Roma ogni giorno, come andava l’ambasciatrice, con ducento guardie ciascuno a cavallo all’intorno delle carrozze. Il papa, più timoroso degli altri, si chiuse nel Vaticano, insieme col cardinal Cibo, decano del collegio e suo principal ministro, e da una finestra con un occhialone guardavano questo bello spettacolo di veder andare per Roma così armato il Lavardino: e questo durò per lo spazio di nove mesi.

«Questa è una guanciata delle più sensibili e delle più vergognose, che abbia ricevuto mai principe alcuno nel mondo, nè mai città ebbe un affronto di tal natura. Ma che principe poi! Un papa con uno Stato così grande, con tante guardie a piedi ed a cavallo, con una numerosa guarnigione nel castello, con una città forte, qual è Roma, con più di quindicimila persone capaci a portar l’armi, senza un numero di più d’ottomila ecclesiastici, che a colpi soli di sassate avrebbono potuto tener lontano dalle mura di Roma il Lavardino, tanto più per esser forte in se stessa. E quando se gli fossero chiuse le porte in faccia?...» Leti, Vita di Sisto V, part. III. l. 3.

6.  Ove il Leti esclama: — Sisto, in luogo di andar a fare il sanctificetur innanzi al crocifisso, avrebbe fatto preparare un laccio, e dati gli ordini necessarj per far strangolare l’ambasciadore; ed al sicuro o che l’ambasciadore non sarebbe venuto, o che sarebbe stato strangolato».

7.  Ap. Arckenholz, Vita della regina Cristina, t. IV. app. 32.

8.  Lo racconta Marco Foscarini nell’arringa sopra i provveditori di Dalmazia.

9.  Capitolare del consiglio dei Dieci, nº 78. Ma al 12 gennajo 1621 si fa querela perchè lasciavano «mesi ed anni i rei, senza farsi progresso ne’ processi».

10.  Pag. IV. 50. Sulla regolarità di quel processo s’è già scritto da molti; e qual v’è tribunale che non sia infallibile? Ben ne fece ammenda il consiglio dei Dieci con decreto 16 gennajo 1622, che fu letto nel maggior consiglio; poi in Sant’Eustachio gli fu posta quest’iscrizione:

ANTONIO FOSCARENO EQVITI BINIS LEGATIONIBVS AD ANGLIÆ GALLIÆQVE REGES FVNCTO, FALSOQVE MAIESTATIS DAMNATO, CALVMNIA IVDICII DETECTA, HONOR SEPVLCRL ET FAMÆ INNOCENTIA X VIRVM DECRETO RESTITVTA MDCXXII.

Marco Foscarini riformatore, in un’arringa tenuta nella correzione del 1761-62 diceva: — Tegno per domestica tradition la grata e tenera memoria de quel zorno 16 gennaro 1662, quando xe stada dichiarada nel mazor consegio con solene parte, e po resa nota a tutte le Corti, la tragica vicenda caduta sora un cittadin che avea sostenude le prime dignità della patria. Xe stà allora che la povera mia casa ha accolto un prodigioso numero de nobili concorsi a manifestar sentimenti misti de lagrime e de consolation ecc.»

Il processo contro il Fornaretto vorrebbe mettersi al 1505; ma pare favoloso. Costui, andando la mattina a portar il pane per le case, trovò il fodero d’un pugnale e se lo pose in tasca; la ronda, che avea tratto dal canale un ucciso, arrestò il Fornaretto, e gli trovò addosso quel fodero, corrispondente al pugnale che portava in cuore l’assassinato. Ben bastava per accusarlo; la tortura avrà fatto il resto.

11.  Marino Cavalli, nella Relazione del 1543 al senato veneto, parlando del commercio di Germania dice: — Le merci che vi si portano sono spezie, ori filati, panni di seta e di lana, saponi, vetri, cristalli, sete tinte e crude, e simili altre cose. Da Venezia si servono di qualche panno di seta, ma pochi, perchè hanno dalli Fiorentini e d’ogni parte d’Italia damaschi e rasi per un terzo minor prezzo di quelli di Venezia; e se ben sono di più trista sorte, non avendo essi giudizio, o non curandosene molto, avendoli a miglior mercato, li pigliano volentieri, sì come si usa anche in Germania. Però non saria forse fuor di ragione che quest’eccellentissima repubblica, non potendosi tirar li cervelli di quei paesi ad usar drappi perfettissimi, accomodasse li drappi al volere e cervel loro, e concedesse che si lavorasse in Venezia per qualche parte panni di seta di minor prezzo e di più basso carato, per avere quell’utile che Fiorentini e Milanesi, che sono più lontani e che pagano più condotta, hanno. E certo a me pare che questa cosa non si doverìa lasciar per derelitta, ma abbracciarla come di molta importanza; la qual potria in tre o quattro anni avviarsi e augumentar con simile maniera il doppio di quel che al presente è; e se pure per qualche rispetto non si volesse permettere questo in Venezia, si potria almeno concederlo alle altre città, come Padova, Verona, Vicenza e Treviso, che hanno copia grande di sete, e per non le poter lavorare esse, le vendono a Bologna, Firenze, Lucca, Genova, Modena e Milano; e si nutriscono a questo modo del nostro latte popoli alieni, e li nostri s’impoveriscono e sminuiscono, com’è accaduto in Vicenza, che di ventiquattromila anime che soleva fare, per la rovina di altri mestieri e per la proibizione di rilevar questo di nuovo è ridotta che non ne fa quattordicimila; e il medesimo potrà avvenire delle altre. Ho sentito io molti a ridere dell’ignoranza de’ Mori, che avendo loro il fior delle sete, le vendono a noi altri, e poi da noi stessi comprano li panni di seta lavorati: ma l’istesso forse si potria dire di noi, che facendo ogn’anno più di trecentomila scudi di sete nelle quattro città nominate, non le volendo lasciar lavorare, li nostri le vendono alli vicini, dalli quali comprano poi li panni di seta, li quali per contrabbando si portano in questa o nelle altre città; e così, oltre il traffico e l’arricchirsi che fanno li forestieri in Germania, che lo ponessimo far noi, li lasciamo anco arricchire nel paese nostro. Mi son maravigliato molte volte come questo Stato abbia per leggi statuito che tutti quelli che vogliono passar con merci a Lione per luoghi suoi, debbano venir prima a Venezia, e di là poi trarle per dove lor piace, per far questa città capo di ogni contrattazione; il che, sebbene per qualche tempo è parso cosa utile, si è poi veduto ch’è riuscita dannosa e impossibile, perchè gli Alemanni, che di natura son poco obbedienti, e non vogliono esser forzati a cosa alcuna, quello che per comodità prima facevano, ora violentati non vogliono fare, e hanno prese le strade di Trieste e di Milano, lasciando le terre di Vostra Serenità, e conducono le merci per dove lor piace, con la grandezza ed esaltazione d’altri e danno nostro. Ma concedendo che il condur queste merci forestiere riesca e sia utile, non so intender per qual ragione quelle che nascono nel paese di Vostra Serenità, sopra le quali si può mettere quanti dazj e disponer come ne pare, lo si lascino trar fuori senza condurle a Venezia e senza farle lavorare nelli paesi nostri; e questo lo dico sì per le sete che per le ferramenta e acciaj del Bresciano, li quali solevano per costituzione tutti essere condotti in questa città, dove Siciliani, Toscani, Napoletani, Francesi, Spagnuoli e Portoghesi venivano a levarli, mentre ora potendo esser cavati di Bresciana per ogni luogo, Genova è fatta capo di questo commercio. Io parlo per utile pubblico e senza interesse alcuno». Relazioni venete, vol. III. pag. 102.

12.  L’opera era stata suggerita da Luigi Grotto, detto il Cieco d’Adria, che quantunque perdesse gli occhi sin da fanciullo, studiò attento e fu valente idraulico; e nell’orazione da lui recitata a tal uopo in senato, adoprava il principio enunziato un secolo dopo dal famoso padre Castelli, che un corso d’acqua di determinata misura può passare per una sezione più o meno ristretta secondo la maggiore o minor sua velocità. Vedasi una memoria del ministro Paleocapa, pubblicata nel 1856 sopra il protendimento delle spiaggie dell’Adriatico.

13.  Fra questi va distinto Federico landgravio d’Assia, che abjurata l’eresia nel 1637, entrò nell’Ordine, prese Tunisi nel 1640, poi nominato cardinale, si segnalò nella peste andando a visitare e soccorrere gl’infetti.

14.  «Persona assennata, che allora si trovò in Venezia, mi assicurò che le parve di vedere il dì del finale giudizio; tanti erano i gemiti, le lagrime e gli urli dell’uno e dell’altro sesso. Andava il popolo fanatico per le contrade deplorando la grande sciagura, vomitando spropositi contro la Provvidenza, maledizioni contro de’ Turchi, e villanie senza fine contro del generale Morosini, chiamandolo ad alte voci traditore». Muratori, ad annum.

Giovanni Sagredo era ambasciadore ordinario in Francia al tempo della Fronda, caro al Mazarino, dal quale impetrò sussidj per la guerra di Candia; passò poi ambasciadore in Inghilterra, e già citammo i ragguagli che di là scriveva (Cap. CLVII, not. 19). Stese pure Memorie storiche de’ monarchi ottomani, l’Arcadia in Brenta ed altre opere rimaste inedite e peccanti di strano secentismo. In patria ebbe le prime dignità e fu anche eletto alla suprema nel 1676, ma il maggior consiglio non l’approvò.

15.  Sul trattamento degli schiavi è curioso un dispaccio di Carlo Emanuele II, che mandava a cercare l’alleanza dell’Inghilterra, e fra gli altri vantaggi faceva riflettere che, essendo egli in permanente ostilità con la Porta in grazia del regno di Cipro, gli armatori sotto la sua bandiera potrebbero catturare sudditi greci di quella, e venderli agl’inglesi per ciurma a venti piastre per testa, mentre uno schiavo turco ne varrebbe cento. Sclopis, Relazioni fra Savoja e Inghilterra.

Gli armatori sotto bandiera di Malta e d’altri principi erano obbligati a mettere in libertà i prigionieri che facessero, sudditi della Porta ma di nazione greca. A Venezia gli schiavi, per mali trattamenti, poteano contro i padroni ricorrere al magistrato de’ Censori.

16.  Il presidio di Vienna era comandato da Ferdinando degli Obizi padovano. La costui madre bellissima fu amata perdutamente da un gentiluomo, che penetratole in camera, nè con lusinghe o con minaccie potendo averla alle sue voglie, la pugnalò. In processo egli stette saldo al niego, e andò assolto. Ferdinando, che di cinque anni era stato testimonio della violenza, appena cresciuto uccise l’oltraggiatore, e fuggì in Austria, dove salì ai primi gradi militari.

17.  Ragusi, situata su piccola penisola all’estremità orientale della Dalmazia, ha tanti attacchi coll’Italia, che non sarà fuor di luogo il divisarne. Fu fabbricata dai fuggiaschi dell’antica Epidauro nel 659, dominata dai Romani, poi dai Greci del Bass’Impero; molestata dalle correrie degli Slavi, se ne redense con un tributo. A quei residui d’un’onorevole civiltà s’unirono presto e Dalmati e Illirici, che la crebbero d’edifizj, e con una rôcca protessero il golfo. Datisi all’industria, cresceano valore alle materie prime che traevano dalla Bosnia. Nell’867 assalita dagli Arabi, sostenne un anno d’assedio, indi li respinse e gl’inseguì fino a Benevento.

Restò governata a Comune dai discendenti de’ primi fondatori e da alcuni nobili bosniaci, con un rettore che durava otto anni. Damiano, uno di questi, non volle deporre il comando, e vi si fece tiranno; ma i Ragusei si volsero a Venezia, la quale li liberò; ma per soggettarli a se stessa, e li tenne finchè Lodovico re d’Ungheria non li tornò indipendenti. Genovesi e Veneziani però ed altri navigatori dell’Arcipelago molestavano la repubblica in modo, che cercò sicurezza col mettersi alla protezione degli Ottomani, e comprarla con un tributo.

Il gran consiglio, ove entravano tutti i nobili sovra i diciotto anni, faceva leggi, nominava i magistrati, e aveva diritto di grazia: un senato di quarantacinque pregadi disponeva le cose da proporre al gran consiglio, e trattava gli affari esterni: il potere esecutivo era commesso a un piccol consiglio di sette senatori. Il rettore non durava più che quattro settimane, e dovea venir a parte d’ogni atto del governo; usciva di palazzo soltanto nelle grandi solennità coi mantello di damasco rosso, rossi i calzari e le calze, e gran parrucca in testa. I nobili non poteano esser tratti a prigione che da un nobile, e ad essi spettavano tutte le cariche. Ogni cosa poi v’era prefissa appuntino; a segno che Tuberone Cerva essendo entrato in senato con una veste più lunga della misura stabilita, gli fu raccorcia in piena assemblea; di che vergognoso, egli si fece frate. Dai matrimonj di nobili con plebei nacque una classe media, ammessa ad impieghi di seconda mano. La plebe stava sotto la clientela dei nobili.

Ragusi fu per quattro secoli il centro non solo de’ negozj, ma del sapere de’ popoli slavi e valacchi, situati sulla parte orientale dell’infima valle del Danubio, e vi furono coltivate contemporaneamente la letteratura italiana, la latina e la greca. Vi nacquero Baglivi medico, Marino Ghetaldi e il Boscovich matematici, l’erudito Banduri, l’epico Francesco Gondola, i poeti latini Stay, Resti, Zamagna e Cunich, e Faustino Gaglioffi nostro contemporaneo.

Molte memorie d’essa repubblica, come molte ricchezze e capidarte, perirono nel tremuoto del 1667, cantato dallo Stay.

18.  Olivet, Histoire de l’Académie française, t. II, p. 134.

19.  Vedi il Mercure galant, settembre 1686. La lista de’ rappresentanti di Francia in Italia e viceversa può trovarsi nella Storia degli Stati moderni di Schoel, vol. XXXIX.

20.  Relazione, esistente negli archivj della marina a Parigi, e pubblicata da Eugenio Sue, Histoire de la Marine, vol. III, con altri curiosissimi documenti, ignoti ai nostri storici.

La notizia dell’atto codardo si sparse, ma non era voluta credere. Il duca d’Estrée, ambasciatore a Roma, così scriveva al signor di Pomponne: — Oltre la diversità del racconto, si rifletteva quanto fosse inverisimile. Se il re avesse voluto abbandonar Messina per considerazione degl’Inglesi, già l’avea sugli occhi prima che La Feuillade movesse di Francia; onde sua maestà non avrebbe spedito un nuovo maresciallo di Francia per far quest’abbandono, ma l’avrebbe ordinato al signor di Vivonne. Che se tale deliberazione si fosse presa dopo la partenza di La Feuillade, lo stesso corriere che portasse quest’ordine, n’avria portato uno a Toulon perchè il convoglio non partisse... Un fatto solo straordinario e mal a proposito può talvolta sventare i ragionamenti fondati sopra il buon senso e la verosimiglianza; pure questa notizia è sì grossolanamente immaginata, sì contraria alle precedenze e ad ogni probabilità, che la sola sfrontatezza di quei che la spacciano e il numero dei loro partigiani poterono farla credere per alcune ore...».

Pochi giorni di poi, il duca stesso trovava affatto naturale che si fosse lasciato una città sì discosta, sì popolosa, che non poteva ricever viveri se non da lontano, la cui gente cospira ogni momento contro i protettori, e al modo degl’insulari, ha la leggerezza e l’infedeltà per dote, e non può esser ritenuta nè colla clemenza nè colla severità.

21.  Luigi XIV scriveva al duca d’Estrée: — Ho avviso da Messina che questi popoli, i quali con sensibile afflizione sono tornati al giogo di Spagna quando lo stato de’ miei affari non mi permise d’alleviarneli più a lungo, cercano tutti i mezzi per disfarsene: e so, a non dubitarne, che spacciarono in secreto a Costantinopoli, non solo per domandar assistenza, ma per darsi ai Turchi. Il dispiacere ch’io avrei di vedere una città sì cristiana cadere agl’Infedeli, il pericolo di cui si vede minacciato il resto di Sicilia, e il timore di un sì potente nemico pel resto d’Italia, mi portarono a studiarvi qualche riparo. Nè altro mi parve più opportuno che il darne avviso al papa, lo zelo e la carità del quale sapranno farne l’uso più utile a stornar tanto danno; e fosse crederà che le violente vie onde la Spagna è consueta servirsi per punire le colpe de’ Messinesi, son più capaci d’inasprire che di guarir tal sorta di mali.

«I ministri di Spagna, onde eludere i savj consigli di sua santità, particolarmente se penetrano che quest’avviso sia venuto da me, potranno attribuirlo al desiderio di procurar qualche alleggiamento ai Messinesi rimasti, e facilitare il rimpatriamento a quei che si ritirarono in Francia: ma quanto a questi ultimi io non ho bisogno d’altro che della pace che sta per stringersi, e della quale ho fatto condizione espressa che siano restituiti. Assicurate dunque il papa, che in tale avviso non ho altra vista che di porlo in istato di prevenire un pericolo, tanto formidabile per l’Italia e per tutta cristianità; e il solo interesse della cristianità mi fa operare. Voglio credere che sua santità mi saprà grado particolare dell’attenzione, colla quale io veglio in un affare che so quanto a lei stia a cuore.

«PS. Aggiungo, che la proposizione fatta a Costantinopoli per l’impresa di Sicilia, assegna che lo sbarco deve farsi ad Agosta, dove alcune fortificazioni furono demolite; e perciò sarebbe a questa piazza che ai Turchi importerebbe di ripararsi ecc.».

22.  M. le marquis de Seignelay étant arrivé devant Gênes avec quatorze vaisseaux, dix galiottes, deux brûlots, deux frégates, huit flûtes, vingt-une tartanes, trente chaloupes, trente-huit bâteaux, dix felouques et vingt galères, après les saluts et les cérémonies accoutumés du sénat, qui députa à M. de Seignelay, le dixhuit sur les neuf heures du matin, après leur avoir fait connaître les intentions du roi et les sujets de plaintes qu’ils ont donné à sa majesté, leur demanda de sa part les quatre corps de galère qu’ils firent construire l’année dernière et armer pour les Espagnols, l’une desquelles serait armée et en état de naviguer; l’entrepôt du sel à Savone; et que quatre sénateurs iraient demander pardon au roi de leur conduite à son égard, et le prier d’oublier le passé.

Les députés du sénat demandèrent avec beaucoup de soumission du temps pour assembler le conseil et en délibérer; M. de Seignelay leur accorda jusqu’à cinq heures du soir, et leur dit que s’ils passaient cette heure, ce ne serait plus les mêmes conditions; et qu’ils devaient s’attendre à la désolation de leur ville s’ils n’accordaient pas ce qu’il leur demandait de la part de sa majesté. Cependant l’armée se mit en état, et les galiottes se portèrent sous le canon de la ville, et si près que le commandant des galères de Gênes envoya prier M. de Seignelay de faire retirer ces bâtimens qui étaient sous son canon; à quoi l’on ne fit aucune réponse.

Sur les quatre heures et demie, les Génois, au lieu de venir rendre compte de leur délibération, tirèrent sur nos galiottes, lesquelles commencèrent à jeter ses bombes dans la ville, et ont continué jusqu’au 22, que M. Seignelay fit cesser le feu et envoya le major des vaisseaux leur dire qu’il était informé du désordre que les bombes avaient fait dans leur ville, qu’ils étaient encore à temps de répondre aux propositions qu’il leur avait faites; ils demandèrent jusqu’au lendemain, ne pouvant pas répondre sur l’heure sans s’assembler.

Le lendemain matin, M. de Seignelay ne recevant point de réponse, fit recommencer de jeter des bombes. Quelque temps après, ils envoyèrent un homme sans caractère dire qu’ils ne pouvaient pas s’assembler sous le feu et à la chaleur des bombes; que leur consolation était qu’ils n’avaient point mérité le traitement qu’ils recevaient, et que toute la chrétienneté se plaindrait. On recommença à tirer de part et d’autre, et à résoudre la descente qui avait été projetée.

Le 24, deux heures avant jour, M. le marquis d’Amfreville, chef d’escadre, fit une fausse attaque du côté de l’est, proche les infirmeries, avec six-cent hommes, et M. le duc de Mortemart fit une descente à la pointe du jour à Saint-Pierre d’Arène, avec deux mille cinqcents hommes...

L’on débarqua proche un pont du côté de l’ouest, vis-à-vis une enceinte de murailles, où on trouva une forte résistence, d’où les ennemis firent un très-grand feu: s’y étant retranchés, ils en furent vigoureusement chassés...

M. le chevalier de Lery se fit porter proche un marais rempli de roseaux et un petit bois couvert, où une partie des ennemis s’était retirée, et d’où ils continuèrent de faire un très-grand feu, pour leur ôter la communication d’un pont qui leur était fort avantageux; quelques-uns se cachèrent dans les palais, et nous tuèrent assez de monde, sans pouvoir découvrir d’où venait le feu. Une autre partie des ennemis gagna du côté de l’est, vers la fanal; MM. les chevaliers de Jourville et de Berthomas, avec d’autres officiers des vaissaux et des galères, les suivirent, et coupèrent le chemin à ceux qui pouvaient venir du côté de la ville.

M. le duc de Mortemart ayant fait poster le reste de ses troupes en divers endroits du faubourg du côté de la ville, et ayant donné les ordres nécessaires pour s’en rendre le maître, ordonna qu’on fît débarquer les artifices, et qu’on commençat de mettre le feu au faubourg du côté de la ville, toujours en se retirant jusqu’au lieu où l’on avait fait le débarquement, et d’où il fit sa retraite après que le feu eût été mis par tout le faubourg.

M. le chevalier de Noailles, lieutenant-général des galères, et M. le commandant de la Bretesche, chef d’escadre, furent commandés, avec dix galères, pour cannoner les batteries du fanal, et pour favoriser la descente et la retraite de nos troupes; six galères par M. le chevalier de Breteuil, chef d’escadre, pour soutenir les galiottes, et les quatre autres par M. le comte de Beuil, capitaine de galère, pour la fausse attaque de M. le marquis d’Amfreville.

Cette action ne se fit pas sans une perte considérable de part et d’autre. Dalla biblioteca Imperiale di Parigi, Mélanges de Clairembot, vol. 257, p. 319.

Un altro ragguaglio sta nell’archivio degli Affari stranieri, Genova 1683-84, pag. 203: Sur les premières nouvelles qu’on reçut à Gênes que l’armée navale du roi venait de ce côté-là, les marchands français y furent menacés par le peuple, et ne purent depuis sortir quoi que ce soit de leurs maisons, parce que leurs voisins les en empêchèrent; lorsque la flotte parut, les menaces devinrent plus violentes, et les Français ne voyant pas de sûreté pour leur vie, prirent le parti d’abandonner leurs biens et leurs familles pour se retirer les uns dans la ville, les autres dehors dans des couvents de religieux. D’abord qu’ont eut tiré les premières bombes, on pilla les principaux, sans même épargner le sieur Aubert, consul de la nation, on enfonça les portes de leurs boutiques, on prit leur argent, leurs marchandises; et leurs papiers, aussi bien que leurs livres de compte furent brûlés ou déchirés.

Le lendemain il se forma dans la ville un corps d’environ quatrecents hommes du peuple, lesquels, agissant de leur chef et de concert, se divisèrent en quatre troupes, et achevèrent d’enlever tout ce qu’ils découvrirent appartenant aux Français. Ils en usèrent de même à l’égard de plusieurs Piémontais; et, sous prétexte de chercher ceux de l’une ou de l’autre nation qui se cachaient, ils entrèrent dans les maisons de quelques Gênois et les pillèrent: mais le sénat, pour prévenir la suite de ces désordres, commit le sieur Charles Japis, maître du camp général, avec une pleine autorité de se servir des voies qu’il jugerait à propos pour cela, lequel fit publier une défense genérale, sous peine de la vie, de porter des armes, et commanda quelques détachemens des troupes d’Espagne, qui arrêtèrent en deux jours trente ou quarante de ces voleurs, qu’il fit arquebuser, et par là il dissipa entièrement les autres; ce qui donne lieu aux Espagnols de se vanter qu’ils ont sauvé Gênes, autant de ses propres habitans que des armes des Français. Le sénat fit ensuite publier que tous ceux qui avaient pillé les effets des Génois et des étrangers, eussent à les rapporter au palais neuf, à peine de la vie; mais il y en eut si peu qui obéirent, qu’on peut dire que cet ordre demeura sans exécution. Cependant la perte des Français a été fort grande, et les Gênois même tombent d’accord qu’elle va à plus de cinqcent mille écus.

Il serait long et inutile de faire ici les détails des insultes qui ont été faites presque à tous les Français qui ont paru en ce temps-là dans les rues; il suffira de dire qu’il y en a deux qui ont été tués, l’un avec une barbarie sans exemple, l’autre avec une perfidie qui fait horreur. Le premier fut avec une troupe de Génois, qui en le menant lui donnaient à l’envi des coups de bayonette, et qui l’ayant conduit sur le môle, lui coupèrent la tête, mirent son corps en quartiers, et en jetèrent les pièces dans les canons qu’on tirait sur la flotte du roi. L’autre s’étant refugié avec tous ses effets chez un Génois qui se disait son ami, et qui lui avait offert sa maison, fut tué par cet homme d’un coup de pistolet par derrière.

On n’a point su encore précisément les noms des Génois qui ont été maltraités pour avoir été soupçonnés d’être d’inclination française, si ce n’est le sieur Christophe Centurion, qui fut pris, attaché et battu par une troupe de canailles, des mains desquels Hippolite Centurion, son parent, qui commandait au môle, ne le put tirer qu’en les assurant que c’était pour le faire mourir plus ignominieusement; mais il ne le garda qu’un jour ou deux, après quoi il le laissa aller pour lui donner le moyen de se remettre en sûreté à la campagne. On pourrait encore comprendre dans ce nombre le capitaine Pallavicini de la Valtelline, lequel, accusé d’intelligence avec les Français pour avoir supposé, à ce qu’on dit, un ordre qui ne lui avait point été donné de changer de poste, fut mis en prison, et y est encore.

On n’a point appris que les nobles aient aucune part aux mauvais traitemens qui ont été faits aux sujets de sa majesté; ils ont, au contraire, aidé à les sauver; ils les ont fait recevoir dans leurs maisons de campagne, et leur ont fait donner des escortes pour sortir de l’Etat, après en avoir retenu une partie dans les palais pour les mettre à couvert de la fureur du peuple. Les deux courriers ordinaires de Rome, qui dans les commencemens s’étaient malheureusement engagés dans la ville, ont assuré aussi que le doge et les officiers de la république leur avaient accordé tout ce qu’ils avaient demandé pour se garantir d’insulte. On a su même que Dominique Spinola ayant été accusé d’avoir donné asile à quelques Français en son château de Campi, comme il était vrai, le sénat ne l’a point désapprouvé.

A l’égard de l’effet des bombes, il a été terrible de toute marnière. Les premières qui tombèrent dans la ville, y mirent partout d’abord une confusion incroyable, et elle augmenta considérablement lorsque la nuit fit voir plus distinctement les feux dont le palais public et ceux des particuliers étaient embrasés. Ce fut alors que la plupart des gens, même ceux de la noblesse, abandonnèrent leurs maisons pour mettre leurs personnes en sûreté, et se sauvèrent sur la montagne: le doge s’y retira avec sa femme, et fut logé avec le conseil à l’Albergo; ce qui a fait dire que le roi a mis le sénat à hôpital. Mais le lendemain chacun ayant pensé à enlever de chez soi ce qu’il y avait de meilleur, ce fut une autre manière de confusion; les hommes et les femmes de toute sorte de conditions allaient criant et courant confusément dans les rues, chargés de tout ce qu’ils pouvaient porter, sans savoir même où ils le devaient mettre; et ce fut en ce temps-là que, sous l’escorte d’un détachement d’Espagnols, on fit transférer à l’Albergo le trésor de Saint-Georges, et que les juifs qui se réfugièrent hors de la ville, se mirent sur une colline, où il s étaient campés sous des tentes en fort grand nombre; il semblait que ce fût une nouvelle ville.

Enfin la perte est si considérable, que, parmi ceux qui la connaissent davantage, les uns disent quelle est de soixante millions d’écus, monnaie de France; les autres, qu’on ne saurait presque l’estimer si l’on fait réflexion aux bâtimens, aux marbres, aux peintures, aux meubles et aux marchandises qui y ont péri; un marchand joaillier a même dit qu’il s’y était fondu une quantité considérable de perles, dont on fait un grand commerce dans cette ville-là.

Mais, quelques désordres qu’il y ait dans la ville, il n’y en a pas moins dans le gouvernement. Le doge, quatre sénateurs et quatre nobles, tous attachés à l’Espagne par leurs intérêts particuliers et qui ont été nommés dans cette conjoncture par la république, pour la direction générale des affaires, avec une autorité entière et indépendante des conseils, en forment un qu’ils appellent la Junte, et sont les maîtres absolus de toutes les délibérations; en sorte qu’il ne faut pas s’étonner s’ils ont fait, depuis le départ de l’armée navale du roi, une nouvelle ligue offensive et défensive avec l’Espagne, et s’ils ont donné un décret portant défense à tous les Génois de proposer de s’accommoder avec la France, que du consentement de l’Espagne. Ils ont envoyé leurs dix galères, commandées par Jean Marie Doria, à la rencontre de celles d’Espagne, lesquelles étant arrivées le 16 de ce mois devant Gênes, au nombre de ving-sept; et ayant été saluées, selon la coutume, n’ont répondu que par trois coups de canon, et ont commencé par là à traiter les Génois comme leurs sujets. Ces galères n’ont pas été plutôt dans le port, que les officiers qui les commandent y ont choisis les lieux où ils ont voulu se placer, et ont mis en chacune de celles de la république une compagnie de Napolitains pour en être les maîtres comme des leurs; dans le même temps on a remis aux troupes du Milanais, qui étaient dans la ville, les postes etc.

23.  Andò allora attorno un’iscrizione, proprio conforme al gusto corrente. Manet et apud Genuenses indeclinabile genu, nec enim hunc non cogitatum casum declinare possunt. En tamen Genua ad genua, id est dux senatoresque Genuensium ad genua procumbunt regis non Galileæ sed Galliæ, non Christi sed Christianissimi, cujus stellam non quidem polarem sed pyrobolarem, jam ante annum ipsi orientem viderunt. Veniunt hic adorabundi regem, ne noceat amplius, aurum thusque libertatis, olim invictæ nunc devictæ, afferunt et offerunt. Myrrham tamen splendidæ servitutis et crucis dono domum referunt. O pater papa! miserere eorum et per somnium eos mane remeantes domum, ne meent Mediolanum: illic enim ipsos expectat Herodes hispanus, ad geniculationem hancce novam fremens et tremens.

24.  Il Cibrario (Istituzioni della monarchia di Savoja, p. 293) enumera le tasse certamente non minori nè men variate delle spagnuole, imposte dai duchi di Savoja; e nel proemio all’editto 12 dicembre 1633, Carlo Emanuele I attestava che «nelle passate guerre si sono tanto caricati i registri, che i proprietarj, non potendo con l’intero abbandono de’ frutti liberarsi dalle gravezze, hanno abbandonato i loro beni». Erano regalia perfin le candele, che tutte doveano esser bollate. Il primo appalto del tabacco si fece nel 1649 per lire duemila cinquecento, vendendosi il tabacco sodo trenta soldi la libbra, quarantacinque il pesto, e ad arbitrio quello con ingredienti. Allora pure s’introdussero le poste. Quanto all’amministrazione della giustizia già ne parlammo.

25.  Cibrario, Instituzioni della monarchia di Savoja, p. 185. E per quel che segue, Carutti, Regno di Vittorio Amedeo II. Torino 1856.

26.  Erano Serravalle, Menusiglio, Gorzegno, Bussolasco, Gisole, San Benetto, la Niella di Belbo, Fissoglio, Cravanzano, Serretto, Prunei, Loasio, La Scaletta, Carretto, Cairo, Montenotte, Rocchetta del Cairo, Miolia, il marchesato di Spigno, Bardinetto, Brovia, Rocca d’Arazzo, Rocchetta di Tanaro, Belvedere, Frinco, Vincio, Castelnuovo, Bruggiato, Montebercello, Rifrancore, Desana, Millesimo, colle frazioni di Cosseria, Plodio e Biestro, Arquetto, Ballestrino, Masino, Camerano.

27.  De Gubernatis scrivea da Roma il 16 maggio 1690: — Giunse a questa Corte la notizia dell’eroica risoluzione presa da V. A. R. di arrischiare la sua reale persona e tutti i suoi Stati piuttosto di condiscendere alle dure ed inique condizioni, colle quali volea la Francia rendere come precaria quella sovranità. Tutta questa corte ha applaudito l’azione veramente forte ed invitta di V. A. R, e il popolo ne ha celebrato pubblici applausi con i Viva viva il duca di Savoja: e vengo assicurato che, dopo la liberazione di Vienna, non s’è mai udito a Roma un’allegrezza più universale».

28.  Catinat, parlando della presa di Cavour, dice: On passa au fil de l’épée tout ce qui se présenta dans la ville; rien n’échappa à la fureur de nos soldats, qui, d’eux-mêmes et sans d’autres ordres que la présence de leurs officiers qui les conduisaient, attaquèrent la montagne et firent un grand carnage d’hommes, de femmes et d’enfants, qui s’y trouvaient: on fit pourtant ce que l’on put pour les retenir. La ville fut pillée et brûlée. Il y a eu plus de sixcent personnes tuées tant dans la ville, que dans la montagne. Mémoires, vol. I. p. 89.

29.  Anche nel 1705, dopo che il duca ebbe chiarito guerra alla Francia, il maggiore della piazza di Torino pubblicò il premio di mezzo luigi per ogni Francese ammazzato. Il duca di Vendôme mandò dire che, per ogni testa di Francese, farebbe impiccare dieci Piemontesi. Abbiamo un editto del 5 gennajo 1702, dov’è ordinato a tutti i villaggi, cui s’accostino truppe cesaree, di toccar a martello, unirsi e ucciderle, sotto gravi pene. Annibale Visconti, comandante ai Cesarei, vi contrappose altra intimazione di far lo stesso verso gli Ispano-Francesi, colle comminatorie medesime.

30.  Il Muratori, al 1696, scrive: — Mi trovava allora in Milano, e mi convenne udire la terribile sinfonia di quel popolo contro il nome, casa e persona di quel sovrano, trattando lui da traditore, e come reo di nera ingratitudine, che si fosse servito di tanto sangue e tesori degli alleati per accomodare i soli suoi interessi, con altre villanie che io tralascio. Ma d’altro parere si trovavano le persone assennate, considerando ch’egli, dopo aver liberato lo Stato di Milano dalla dura spina di Casale, ora, stante la cession di Pinerolo e la ricupera de’ suoi Stati, serrava in buona parte la porta dell’Italia ai Franzesi; con che si scioglievano i ceppi non meno suoi che del medesimo Stato di Milano. Se in quel bollore di passioni non riconobbe la gente questo benefizio, poco stette d’avvedersene; e tanto più perchè era incerto se, proseguendo la guerra, si fosse potuto ottenere tanto vantaggio».

31.  De Gubernatis, ai 16 luglio 1697, scrive a Vittorio Amedeo di Savoja: — Sua Santità si inoltrò a dirmi che sarebbe necessaria la formazione di una lega di tutti i principi d’Italia contro chiunque tentasse di turbar la quiete direttamente o indirettamente. Interrogato il papa se entrerebbe nella lega, rispose liberamente e risolutamente di sì».

32.  L’Olanda dal 1703 al 1711 pagò alla Savoja per sussidj due milioni seicenquarantamila corone: l’Inghilterra seicenquarantamila corone all’anno; e altre cinquantamila nel 1706, e centomila negli anni 9-10-11. Riccardo Hill fu inviato straordinario della regina Anna a Vittorio Amedeo; e la sua corrispondenza, pubblicata da W. Blackeley, offre curiose particolarità sulla storia di quel tempo. Egli scriveva: — L’esser rifuggito è ormai divenuto un mestiero. Gran differenza corre tra il profugo sui caffè di Londra e sulle frontiere nemiche».

33.  Su questi tempi si ha uno sterminio di scritture, principalmente francesi. De’ nostri abbiamo la storia del marchese Ottieri, in sul principio abbastanza buona ma sempre gelata; e le Memorie di Agostino Umicalia, cioè del gesuita San Vitale. Vedi Charles Gay, Négociations relatives à l’établissement de la maison de Bourbon sur le trône des Deux-Siciles; Parigi 1853; e per i fatti guerreschi Pelet, Mémoires militaires pour servir à la guerre de la succession d’Espagne.

Le lettere dell’ambasciador veneto, pubblicate dal Mutinelli nel vol. IV della Storia arcana e aneddotica (Venezia 1859), informano a minuto di quei moti, tutti in favore dell’Austria, sopra i quali il Colletta passò di volo. Entrato poi don Filippo (1702), questo cattivavasi il popolo con indicibili magnificenze, col visitar le chiese, comunicarsi ripetutamente, e assistere colle lacrime al miracolo del sangue di san Gennaro. I nobili però protestavano solennemente contro ogni atto di sovranità che facesse quel che denominavano duca d’Angiò, e che il giuramento che dovessero prestargli sarebbe estorto a forza, nè li dispenserebbe dal favorire l’imperatore.

Nel seguente 1710, il miracolo del sangue non avvenne, donde grandissima desolazione e preghiere e «vivi sfoghi di penitenza. Tra le innumerabili pubbliche conversioni, nelle quali fu universalmente adorata la divina misericordia, si distinsero quelle dei tanti che si presentarono volontarj al tribunale del Sant’Officio a scoprirsi e ad accusarsi, alcuni per operatori di sortilegi, altri per seguaci di dottrine ereticali, e molti ancora per atei.... Un sì luttuoso disordine viene principalmente attribuito alle troppo scarse misure, alle quali resta ristretta l’autorità dell’accennato tribunale». Vol. IV, p. 486.

34.  — Le spese di tutti questi preparativi di distruzione, rifletteva Voltaire, sarebbero bastate a fondare e far fiorire una colonia numerosa. Per l’assedio d’una grande città profondesi, mentre si fila il soldo quando occorra di riparare un villaggio rovinato».

35.  In un dispaccio del febbrajo 1736 del marchese Villars a don Carlos, leggo: L’empereur ordonna au prince Eugène de secourir Turin. Le prince m’a raconté lui-même à Rastadt, qu’il representa à l’empereur l’impossibilité de secourir Turin. L’empereur lui ordonna de faire périr jusqu’au dernier homme de son armée, plutôt que de ne pas tenter le secours.

36.  L’altra, regnante a Guastalla, avrebbe dovuto succedere: ma non ebbe che i principati di Sabbioneta e Bozzolo, e si estinse ella pure al 1746. Vedi la nota 2 del Cap. CLIII.

37.  Journal historique sur les matières du temps, t. VII. p. 223

38.  Egli scriveva: La cour impériale considère l’Italie comme le bijou de la maison d’Autriche, comme les Etats les plus féconds, et d’un produit plus liquide et plus abondant; comme un moyen de parvenir à ses vues sur tout le reste de l’Italie, et d’assurer la cour de Rome dans ses intérêts.

39.  Storia arcana. Vedi pure frà Raffaele Filamondo, Il genio bellicoso di Napoli; Memorie storiche d’alcuni capitani celebri napoletani. Napoli, 1694.

40.  Annotazioni dell’Alberoni alla propria vita. Negli Illustri Italiani ho dato una vita dell’Alberoni, dedotta da fonti originali.

41.  I fatti di quella guerra furono divisati a lungo dal Burigny, che il Botta non fece che tradurre per tutta la storia siciliana senza correggerne le molte inesattezze, indicate già dal Blasi (Filottete), poi dal Lanza.

42.  Un Loschi vescovo di Piacenza e un altro di Parma, il metafisico Dodici, il matematico Gervasi, Melchior Gioja, Gian Domenico Romagnosi.

Dubois e Saint-Simon fanno la caricatura dell’Alberoni; un panegirico il Poggiali (Memorie storiche di Piacenza), l’Ortis (Storia di Spagna), il Coxe (L’Espagne sous les Bourbons), il Bignami, il Romagnosi ed altri; ben lo apprezza John Russell nell’History of principal States of Europe from the peace of Utrecht. Voltaire, nella Vita di Carlo XII, ne parlò favorevolmente, e ringraziatone gli rispondeva, il marzo 1735: La lettre, dont votre éminence m’a honoré, est un prix aussi flatteur de mes ouvrages, que l’estime de l’Europe a dû l’être de vos actions. Vous ne me devez aucun remerciement, monseigneur: je n’ai été que l’organe du public en parlant de vous. La liberté et la vérité, qui ont toujours conduit ma plume, m’ont valu votre suffrage. Ces deux caractères doivent plaire à un génie tel que le votre: quiconque ne les aime pas, pourra bien être un homme puissant, mais il ne sera jamais un grand homme. Je voudrais être à portée d’admirer de plus près celui à qui j’ai rendu justice de si loin. Mais si Rome entend assez ses intérêts pour vouloir au moins rétablir les arts, le commerce, et remettre quelque splendeur dans un pays qui a été autrefois le maître de la plus belle partie du monde, j’espère alors que je vous écrirai sous un autre titre que sous celui de votre éminence, etc. Melchior Delfico tratta sempre l’Alberoni con frasi di questo tenore: — Nel tempo che il villan porporato diluvia la sua nera bile negli abusi della giurisdizione e del potere... Per colmo del suo nero carattere, aveva la singolare abilità di far alternare nel suo spirito i vizj i più contraddittorj... L’orgoglio e la viltà, la frode e la violenza, l’immorale furore e l’abjetta ipocrisia erano sempre pronte a servir quell’anima degna di tale corteggio ecc.». Memorie della repubblica di San Marino. Ai giorni nostri Donoso Cortes chiamava Ximenes e Alberoni «i due più grandi ministri della monarchia spagnuola, Alberoni è sommo per vastità di disegni, squisitezza e sagacia di genio straordinario. Venuto in miseri tempi, in cui la maestà di quella monarchia volgeva al tramonto, fu in grado di renderle dignità e potenza, dandole molto peso sulla bilancia politica d’Europa». Il cattolicismo, il liberalismo, il socialismo.

43.  Il cerimoniale dell’entrata dell’infante e in Toscana e a Parma è distesamente riferito dal Gay, sopra la relazione d’un corriere di gabinetto toscano.

* La ricchissima cappella di pietre dure, annessa alla basilica Laurenziana, non fu mai terminata. Le casse contenenti i principi stettero lungamente l’una su l’altra, nelle volte sotterranee, dove infracidate, dettero agio a qualche sciagurato di insinuarvisi. Leopoldo II, volendo riparare alla vergognosa profanazione, dette carico, nel 1857, all’avv. regio Mantellini, al cavaliere Passerini e al prof. Bonaini di verificarne lo stato, per ricomporli entro nuove casse di noce affinchè potessero essere interrati.

Cinquanta casse furono ritrovate ed aperte, ventidue delle quali dischiuse e spogliate. La maggior parte non contenevano che ossa e polvere; alcune un cartellino di piombo col nome del sepolto.

In alcune si rinvennero gioje, ed in quelle dei granduchi medaglioni d’oro con la effigie loro e con rovescio allegorico. Nella cassa ove era il corpo del cardinal Carlo de’ Medici, vestito di abiti cardinalizj, con mitra in testa e cappello sui piedi, fu trovata una magnifica croce d’oro smaltata, che fu giudicata opera del Cellini, e un bellissimo anello vescovile con pietra smeraldina.

Terminata la verificazione, tutto fu riposto a suo luogo: le vecchie casse furon calate nelle nuove, ove fu posto un cartello in ottone, indicante qual fosse il corpo ivi giacente.

44.  Il trattato di Torino, 26 settembre 1733, tra Francia e Sardegna è motivato così: Il est connu à l’univers que la maison d’Autriche abuse depuis longtemps du degré exorbitant de puissance auquel elle est montée; et qu’elle ne cherche qu’à s’agrandir encore aux dépens des autres. Non contente d’agir secrètement, elle n’a plus gardé de ménagements à se déclarer, voulant même disposer à son gré des royaumes sur lesquels elle ne peut s’arroger aucun droit: et c’est ainsi que l’empereur est venu à bout d’une partie de ses desseins, qui, ne tendant qu’à ôter toutes bornes à la puissance de sa maison, vont à renverser, toujours de plus en plus, cet équilibre tant désiré et si nécessaire.

Gay prova che la Spagna non accedette mai al trattato di Torino, in grazia delle pretensioni sulla Sardegna.

45.  Il Muratori, che ha l’autorità d’un contemporaneo, racconta che il generale Filippi, ambasciatore cesareo a Torino, andò chieder conto al ministro Ormea della lega del Piemonte colla Francia e la Spagna, della quale si aveva notizia a Vienna. Ormea lo pregò a mettere tal domanda in iscritto; e sotto alla domanda scrisse: Questa lega non è vera. Il viglietto fu mandato a Vienna, e valse non poco a mantenere la persuasione pacifica: vista poi la bugia e chiesto come avesse ardito mentire sì francamente, l’Ormea spiegò che la lega era fatta colla Francia, ma non colla Spagna.

Nel dispaccio 12 febbrajo 1734 da Milano del marchese Villars al re di Francia leggesi: Le prince de Trivulce, arrivé de Vienne depuis peu de jours, m’a confirmé ce que j’avais déjà entendu de la haine terrible de l’empereur contre le roi de Sardaigne, et qu’il donnerait la moitié de l’Autriche pour pouvoir se venger de sa perfidie, répétant souvent que, pour le mieux tromper, il avait pris des investitures pour la Savoie, qu’on ne lui demandait pas.

46.  Il Foscarini attesta che il Milanese «nodriva avversione grandissima alla Casa di Savoja, sotto di cui non avrebbe voluto capitare a verun patto», pag. 106; «presso ogni ordine di persone era in sommo detestata la dominazione savojarda», pag. 26. Il presidente De Brosses, che allora viaggiava in Italia, dice: Ce n’est pas que, si le roi de Sardaigne vient jamais à bout d’avoir Milan, il ne trouve de terribles difficultés à s’y maintenir, les Milanais ayant les Piémontais en exécration, et dans tout le reste de l’Italie ils ne sont guère moins odieux. Lettre XIV. Anche l’ambasciadore francese a Torino mostrava molta inquietudine delle preferenze de’ Milanesi: Tout cela prouve que les Milanais préféreraient la domination des Espagnols à celle du roi de Sardaigne. Archivj del deposito di guerra, 2810. 88.

47.  Quando don Carlos accingeasi alla spedizione di Napoli, l’ottagenario Villars gli dava consigli, fra cui i seguenti: Je supplie V. A. R. de faire une réflexion bien importante, que, quelque zélés que soient les Napolitains, quelque désir ardent qu’ils aient de rentrer sous la domination de l’Espagne, la raison ne veut pas qu’ils hazardent leurs têtes et leurs fortunes, s’ils ne sont comme assurés qu’ils se donnent pour toujours, et ils ne peuvent l’espérer que lorsqu’ils peuvent compter que l’entrée de l’Italie est fermée aux armées de l’empereur. Les mêmes Napolitains, quelque bien intentionnés qu’ils soient, ne se rappelleront que trop l’année 1706; tous le Milanais, le Mantouan étaient aux deux couronnes, leurs armées tenaient l’Adige e le pied des Alpes. L’empereur ordonna au prince Eugène de secourir Turin. Le prince Eugène m’a raconté lui-même à Rastadt, qu’il représenta à l’empereur l’impossibilité de secourir Turin. L’empereur lui ordonna de faire périr jusqu’au dernier homme de son armée, plutôt de ne pas tenter le secours.

Je ne rappelle pas les fautes des généraux qui pouvaient l’empêcher. J’espère que Dieu n’abandonnera pas celui dont le roi veut bien se servir, au point d’en faire de pareilles.

Mais enfin, ce général n’a pas Mantoue; il faut garder le Pô. L’armée d’Espagne ou une partie y est nécessaire, et j’ai déjà pris la liberté d’écrire à leurs Majestés Catholiques, qu’elles doivent envoyer en Italie tout ce qu’elles auraient de troupes inutiles en Espagne. Si je ne puis tenir le Pô et le Mincio, je dois chercher une bataille, puisque tout général sage ne doit s’attacher à défendre de certaines situations, que lorsqu’il a lieu de croire que l’ennemi qui vient les attaquer périra dans de vaines attaques. Excepté cette raison, il faut marcher à l’ennemi, surtout avec les armées des Français, et je dirai aussi des Espagnols, auxquels je crois la même valeur.

Je répète donc à V. A. R. qu’elle ne peut prendre aucune confiance aux nouveaux sujets qu’elle veut se donner, qu’en les tranquilisant sur la crainte de changer de maîtres.

Après les premières idées générales sur la guerre que V. A. R. va entreprendre, elle permettra à mon zèle pour sa personne, à la confiance et aux bontés dont leurs Majestés Catholiques veulent bien m’honorer, et à l’ordre qu’elle me donne elle même, de lui dire ce que je pense sur sa conduite dans la guerre.

J’oserai lui donner pour premier conseil, de n’en pas croire son ardeur sur les périls de la guerre: il y a ceux que les rois et les princes doivent mépriser, et ceux auxquels il ne faut jamais qu’ils se commettent.

Ils doivent faire attaquer les places médiocres par leurs généraux, et ne pas honorer ces sièges de leur présence. S’il est question d’une bataille, il faut que votre armée vous voie marcher à la tête de la première ligne, et que vous vous montriez avant que l’on marche à la charge.

Quand votre première ligne est prête à charger, vous devez vous mettre entre la première et la seconde, pour donner vos ordres, pour faire soutenir les troupes, qui pourraient être ébranlées, mais que vous ne chargiez jamais à la tête de vos troupes, à moins que votre présence ne soit nécessaire pour empêcher l’ébranlement de l’armée.

Pour les lignes, n’allez jamais à la tranchée, que le troisième jour qu’elle est ouverte, connaître par vous-même si vos ingénieurs suivent bien vos projets. Ne vous pas exposer: ce ne sont pas des périls dignes de princes: mais leur présence, leur visite est nécessaire, non seulement pour presser les attaques, mais même pour se montrer aux troupes.

Les premiers soins, après ceux des actions, regardent la discipline et la subsistance. Pour pouvoir exercer une sévère discipline, il faut que la subsistance soit bien réglée.

N’ordonner que les punitions nécessaires, mais nulles grâces dans les premières fautes. Le général qui pardonne les premières, doit imputer à sa fausse clémence les secondes.

Il est bon que vos généraux parlent eux-mêmes aux troupes, pour leur faire connaître la nécessité d’être sages. Les bien traiter dans les grandes fatigues et leur faire donner de la viande outre leur paye ordinaire. C’est ainsi que l’on en a usé dans la conquête du Milanais. L’armée du roi est en bon état, et peut soutenir toutes les fatigues.

Je sais que V. A. R. a résolu de manger avec les gens de guerre. Rien n’est si nécessaire que de leur montrer souvent leur prince, leur général; qu’il veuille bien parler quelquefois à ceux qu’il connaît le moins, surtout à ses nouveaux sujets.

48.  Winnington, pagator generale, riservava per sè un mezzo per cento sopra tali sussidj. Succedutogli il famoso Pitt, questo ricusò l’indegno avvantaggio, benchè potesse egli goderselo tanto meglio, in quanto lo trovava già stabilito. Dispaccio 11 marzo 1746 del cavaliere Ossorio.

I diplomatici che meglio figurarono in quelle difficili trattative, furono il marchese d’Ormea, il conte d’Agliè, il conte Maffei piemontesi, il cavaliere Ossorio siciliano. Lord Chesterfield, nella lettera a suo figlio del 18 novembre 1748, dice: — In qualunque corte o congresso, i ministri del re di Sardegna mostransi sempre i più abili, più cortesi, più disinvolti».

49.  Da poi si limitò ai soli interessi e frutti.

50.  Vedi Sclopis, Relazioni politiche ecc. Torino 1853.

51.  Nel novembre 1704 fu la maggior piena che si rammenti del lago Maggiore, come anche del Po, superata solo da quella del 1839. Il Tevere nel 1750 fece il maggior allagamento che si ricordasse; ma esso fu superato da sessanta centimetri al 31 gennajo 1805.

52.  Nei preliminari del trattato d’Aquisgrana è detto all’articolo 7, che, in considerazione delle restituzioni fatte dalla Francia, i ducati di Parma, Piacenza, Guastalla sono ceduti all’infante don Filippo e suoi discendenti legittimi e maschi, sotto le condizioni espresse negli atti di cessione dell’imperatrice e del re di Sardegna. Ora gli atti di cessione portano che Maria Teresa riserva i suoi diritti sui tre ducati qualora don Filippo non abbia discendenza maschile, o che egli salga al trono di Sicilia; e il re di Sardegna pure, quando don Filippo non abbia discendenti maschi, o il re di Sicilia passi al trono di Spagna. Quest’ultimo caso prevedeasi, e si supponeva che don Filippo dovesse succeder re di Napoli al fratello; dimenticando che, nel terzo trattato di Vienna davasi il trono delle Due Sicilie a don Carlos e a’ suoi discendenti maschi e femmine; sicchè egli poteva trasferire tal regno ad uno de’ suoi figli se non potesse unirlo alla monarchia di Spagna. Udendo la nuova stipulazione, Carlo III protestò, e nel trattato definitivo si pensò a correggere. L’imperatrice vi s’acconciò, stabilendo la riversibilità pei casi che non vi fosse discendenza maschile da don Filippo, o che questo fosse chiamato ai troni di Sicilia o di Spagna: ma il re di Sardegna non volle sviare dai preliminari; sicchè nel 1759, quando Carlo III passò redi Spagna, egli pretese la parte del Piacentino, cedutagli nel trattato di Worms. Furono dunque costrette Francia e Spagna a venire a patti con esso, e nella convenzione di Versailles 10 giugno 1763 Carlo Emanuele consentì che la riversione del Piacentino si limitasse alla Stura, e pei due casi che la linea maschile di don Filippo cessasse, o che questo principe passasse ad altro trono; intanto però Francia e Spagna obbligavansi dare al re di Sardegna il valor capitale di quel paese, col patto che lo restituerebbe in caso di riversibilità.

Nel trattato d’Aranjuez del 14 giugno 1752, fra l’imperatrice e i re di Spagna e Sardegna per mantenere la pace d’Italia, si convenne sui patti di maggior unione e reciproca difesa degli Stati, e sulle truppe da armarsi a vicenda. Da poi a Napoli nel 1759 si fece un nuovo trattato, che però non ebbe mai ratifica, ove si stipulava che le corone di Spagna e delle Due Sicilie non sarebbero mai riunite; l’imperatrice rinunziava alla riversibilità di Parma, Piacenza, Guastalla a favore di don Filippo, senza derogare al diritto del re di Sardegna sulla città e parte del territorio di Piacenza: solo all’estinzione della linea maschile e femminile di don Filippo ciascuno rientrerebbe ne’ diritti a cui rinunciò.

53.  Giusta un conto reso al 10 dicembre 1732, la rendita dello Stato di Milano era:

pel magistrato ordinario L. 12,929,182
pel magistrato straordinario dell’annona » 79,784
In tutto L. 13,008,966

54.  Anche di qui nacquero dissidj. Carlo III, pel suo carattere di legato pontifizio, volle mandar un visitatore alla chiesa di Malta. I cavalieri lo respinsero, e Carlo sequestrò i beni di essi nel regno, e minacciava armi, finchè il papa e la Francia sopirono la quistione.

55.  Nel trattato essendosi detto che un procuratore turco risederebbe nella capitale di Messina, tutta l’isola andò in fuoco pel ridestarsi delle pretensioni di Palermo: che se queste furono soddisfatte, sopravvissero i rancori.

56.  Hamilton, ambasciadore inglese, raccolse settecentrenta vasi dipinti, censettantacinque terre cotte, trecencinquanta pezzi di vetri, seicenventisette bronzi, varj utensili, bassorilievi, maschere di creta, tessere, avorj, gemme, vezzi, fibule, seimila monete, e ogni cosa vendette al Museo Britannico per L. 8400.

Sulla storia letteraria del napoletano vedasi Pietro Ulloa.

A Napoli gli studj della giurisprudenza erano in gran fiore, e vi si fece da Domenico Albanese la bella edizione del Cujaccio (1758-85), più pregiata d’ogni altra. Filologi ed antiquarj che illustravano le scoperte d’Ercolano non la cedevano a inglesi e tedeschi: Sant’Alfonso di Liguori lagnavasi che si vendessero pubblicamente «libri che in Francia si bruciano per man del boja»: quarantott’anni aveva dettato all’Università G. B. Vico: il Genovesi previde la emancipazione delle colonie inglesi e la rivoluzione di Francia, dettò dalla prima cattedra d’economia politica, e tutti i sapienti gloriavansi d’essere stati suoi discepoli.

57.  Per non turbare i fagiani, proibì i gatti nell’isola di Prócida sotto gravissime pene. Uno che volle conservar il suo, fu frustato dal boja per tutta l’isola, poi mandato alle galere. Gorani, Memorie secrete.

58.  Quando gli nacque un maschio, Carlo regalò alla regina centomila ducati, e crebbe di dodicimila ducati annui il suo assegno; Napoli e il regno le donarono un milione per le fasce; la Spagna assegnò al principino quattrocentomila piastre annue.

59.  A tacer quello che altri già notarono, cominciando dal Denina (Vicende della letteratura, tom. II, p. 27), egli copia intera la vita del Toledo dal Miccio, senza tampoco citarlo. A Carlo VI scriveva nella dedica: «Il maggior pregio onde dobbiamo gir alteri nel suo felicissimo regno, è l’aver ella col decoro dell’imperial maestà sostenuto e fatto valere tra noi ed a nostro pro i suoi legali diritti e le sue alte e supreme regalìe». Muore un bambino appena nato di Carlo II? e il Giannone scrive che «morte troppo acerba, crudele ed inesorabile a noi presto cel tolse, lasciandoci in amari lutti e pianti» Lib. XL, c. 4.

60.  «L’istituzione del ducato di Benevento... fu caso, non ad arte... siccome sogliono essere tutte le altre cose di questo mondo, che, se si riguarda la loro origine, sorte a caso da tenuissimi principj, s’innalzano al sommo, ove poi giunte, uopo è che retrocedano, ed allo stato di prima ritornino, come portano le leggi delle mondane cose; leggi indispensabili, alle quali l’umana sapienza non vale ad opporsi nè a darvi riparo». Lib. III. c. 2.

61.  Lib. VIII. 272. Della censura dice ch’è usurpazione l’attribuirsela la Chiesa, mentre «ai principi importa che lo Stato non si corrompa, e che i suoi sudditi non s’imbevino d’opinioni che ripugnino col buon governo: nel che ora più che mai è bisogno che veglino per le tante nuove dottrine introdotte contrarie all’antiche ed a’ loro interessi e supreme regalìe; poichè da quelle ne nascono le opinioni, le quali cagionano le parzialità che terminano poi in fazioni, e finalmente in asprissime guerre». lib. XXVII. c. 4.

Ivi egli discorre a lungo delle proibizioni poste nel regno ai vescovi di stampare senza licenza dei ministri regj, neppur i concilj e i calendarj, «ciò che poi si è inviolabilmente osservato sempre che i ministri del re han voluto adempire alla loro obbligazione ed aver zelo del servigio del loro signore».

Fin dall’introduzione alla nostra Storia universale noi ci mostrammo severissimi al Giannone, e ne soffrimmo amari rimbrotti. Lo scrittore italiano oggi più conosciuto (Manzoni) venne poi ad appoggiare que’ nostri giudizj, e mentre alcuni sentimentalisti perseverano a confondere il merito dello scrittore colla compassione al soffrente, autori serj appoggiarono il nostro parere; e vogliam solo accennare Alfredo Reumont, che lo adottò affatto, e dice che nichts als einen Auszug aus Parrino geliefert, dem er dann seine juristischen Excurse anhängt. Nur letztere haben Werth und sind voll Gelehrsamkeit und Scharfsinn: sonst ist dies Buch unendlich überschätzt worden. Historischer Geist ist in dem erzählenden Theile nicht: ist eine trockne, schleppende, reizlose Darstellung, ohne Anmuth des Styls, noch Lebendigkeit des Vortrags; eine langweilige monotone Pragmatik ohne tieferes eingehn in die sittlichen Zustände, ohne Geltendmachen der welthistorischen Beziehungen. Wie weit steht dieser Autor des achtzehnten Jahrhunderts, der in seinem Buche nur ein Advocat ist etc. Die Carafa von Maddaloni; Berl. 1851, t. II. p. 362.

Delle opere inedite del Giannone già parlammo alla nota 34 del cap. XXXI. La sua vita demmo negli Italiani Illustri.

L’Archivio storico per le provincie napoletane, fasc. 1, p. 120 del 1872 riferisce la discussione tenutasi l’aprile 1723 dal vicerè e dal Consiglio collaterale sulla stampa della storia del Giannone, che aveva eccitato molto scandalo: e vi si racconta di un quadro, ove il Giannone era dipinto frustato sopra un asino; e che il popolo minuto l’avea preso in tal odio, che guaj se compariva.

62.  Contro l’avvocato generale di Savoja scrisse, fra molti altri, monsignor Fontanini un’opera che rimase inedita: L’indipendenza de’ feudi ecclesiastici di Piemonte da qualunque podestà secolare giustificata coi principj fondamentali del diritto pubblico dai tempi di Carlomagno in poi. La miglior opera è forse quella del Bianchi: Ragioni della Sede apostolica nelle presenti controversie colla Corte di Torino. Roma 1732.

63.  Per saggio di moderate contese, ecco il titolo d’uno dei libri contro di lui: Ritrattazione solenne di tutte le ingiurie, bugie, falsificazioni, calunnie, contumelie, imposture, ribalderie, stampate in più libri da frà Daniello Concina contro la veneranda Compagnia di Gesù, da aggiungersi per modo di appendice alle due infami lettere teologico morali contro il reverendo padre Benzi della medesima Compagnia. Venezia, 1744, in-4º.

64.  I ventun volumi in-4º(1732) non giungono che al 600. Filippo Angelo Becchetti domenicano fiorentino lo continuò con diciassette altri volumi fino al 1378; poi variò e restrinse il disegno, formandone un’altra continuazione in dodici volumi fino al 1587. È lode dell’Orsi il vederlo testè, non che seguìto, copiato dall’abate Rohrbacher nell’Histoire universelle de l’Eglise catholique.

65.  Giacchè tutti citano un fatto di nessuna significazione, ricorderò anch’io come il figlio del famoso ministro Walpole gli pose un monumento in Inghilterra coll’epigrafe: Amato dai Cattolici, stimato dai Protestanti, papa senza nepotismo, monarca senza favoriti, e non ostante l’ingegno e il sapere, dottore senza orgoglio, censore senza severità. E il papa, referendolo a un suo amico, soggiungeva: — Io sono come le statue della facciata di San Pietro: alla lontana non c’è male; ma guaj a guardarle dappresso!» Più volentieri mentoverò l’elogio di Benedetto XIV fatto dal Galiani, una delle poche opere di questo scevera dagli epigrammi ch’erano a temersi dalla natura del lodatore e del lodato. E’ dice che «il segreto della saviezza di Benedetto XIV celavasi nel non fare». Delle sue azioni molto merito spetta al cardinale Valenti Gonzaga di Mantova segretario di Stato.

Le opere del Lambertini furono pubblicate dal portoghese gesuita Emanuele de Azevedo in 12 vol., Roma 1747 e seg. I quattro primi contengono l’opera più importante De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione. Stimasi pur molto quella De synodo diœcesana.

* È assai bizzarro il vedere di che s’occupassero nella loro corrispondenza un papa e Voltaire. Questo, dedicando il Maometto a Benedetto XIV, gli scriveva un distico che cominciava:

Lambertinus hic est.

Il papa gli risponde che lo han criticato perchè egli fece breve l’hic: ma ch’egli lo avea difeso coll’esempio di Virgilio

Hic est quem promittere sæpius audis.

Voltaire lo ringrazia di ciò, e che poteva aggiungersi un altro esempio, ch’egli reca.

66.  Il Muratori scrive al Magliabechi il 31 agosto 1704: — Già que’ padri han cominciato a farsi gloria di mordere qualunque persona capita loro sotto le mani, forse per far più cari i lor libricciuoli a chi ama il brusco della satira». Settant’anni più tardi, Pietro Verri, nell’elogio del Frisi, imputa i Gesuiti d’aver «portato all’eccesso un principio buono, qual è la stima e l’affetto pel ceto loro, onde osteggiarono chiunque a quello non apparteneva, e così ne venne una generale cospirazione, che gli attaccò nella pubblica opinione, unico appoggio col quale sosteneano quel meraviglioso edifizio».

67.  «Si attaccherà un fuoco, il quale non terminerà nè così presto nè così bene... Questa faccenda non vuol andar a terminare molto placidamente... Non si può stare in questo bivio... È lunga pezza che si va tentando il vespajo... Converrà che un giorno nasca qualche stravagante disordine, e che si venga a rimedj violenti». Tom. VIII delle Apologie, e passim.

68.  Trattato della vita e dell’impero dell’Anticristo. Il celebre Cordara vergò una difesa di questo suo confratello. Giuseppe Baretti nel Viaggio da Londra a Genova per l’Inghilterra, il Portogallo, la Spagna e la Francia, pubblicato in inglese nel 1770, divisa a lungo la persecuzione del Portogallo contro i Gesuiti e il supplizio del Malacrida; tutt’altro che favorevole all’Ordine, ma coll’indignazione d’ogni galantuomo contro l’ingiustizia. Pure bastò perchè gli fosse proibito di continuare l’opera stessa, che col titolo di Lettere famigliari avea cominciata a stampar in italiano a Milano e proseguita a Venezia, e il Baretti corse per le bocche coll’orribile taccia di gesuitante.

Vedansi i miei Italiani illustri.

69.  Quattro sole pagine, 108-112, d’un libretto, stampato dal Bianchi Giovini a Capolago il 1847 col titolo Scelte lettere inedite di frà Paolo Sarpi, contengono contro i Gesuiti ben più infamie e stolidezze che non tutti i cinque volumi di Vincenzo Gioberti; giacchè, come se parlasse a Cinesi o ad Ottentoti, asserisce esser dottrina «insegnata concordemente dai Gesuiti, approvata dai loro teologi e generali, che è lecito l’assassinar l’accusatore e il giudice, lecito il furto, il giuramento falso, la simonia... che l’onania, il procurato aborto, la bestemmia, la ribellione contro il principe, il contrabbando, l’omicidio, il suicidio, il parricidio, il regicidio, e mille altre abominazioni sono o giustificate, o dichiarate lecite, od anche in certi casi obbligatorie; i precetti di Dio e della Chiesa non obbligano alcuno; la rivelazione, i profeti, i vangeli si possono credere e non credere, anzi sono cose credibili sì, ma non evidentemente vere...!»

70.  Lettera a Jacopo Filiasi in Moschini, Letteratura veneziana, IV. 137.

71.  Il Lanza, nelle Considerazioni al Botta, pag. 504, a minuto narra la cacciata de’ Gesuiti da Sicilia, sempre con soldati e con grande apparato di scorni e umiliazioni.

Il Tanucci è dipinto in bene da Pietro Ulloa.

72.  Le reca Ravaignan nel Clément XIII et Clément XIV; documents historiques et critiques.

73.  Dispaccio 30 novembre 1768 del marchese d’Aubeterre al ministro Choiseul, ap. Saint-Priest, pag. 82.

74.  Theiner, vol. I. p. 208.

75.  Autore delle Lettere di Clemente XIV fu Luigi Antonio de’ Caraccioli di Parigi, prete dell’Oratorio, rinomato per saper contraffare con atti e gesti le persone. Costui fu in corrispondenza con altezze e con papi e cardinali, viaggiò assai, e pubblicò un sobisso di opere, lette molto, massime in provincia e dai preti, che se ne valevano anche per fare i loro sermoni. Tutte però sono inferiori alle lettere suddette; donde taluno argomentò egli non facesse che pubblicarne i pretesi originali, che evidentemente sono una traduzione del testo francese; certamente di nessuna si trovò l’originale fra le carte di quelli cui fingonsi dirette. Cessatagli una pensione che avea dalla Polonia e una dall’Austria, morì poverissimo nel 1803.

76.  Vedi i documenti in Saint-Priest. Il costui libro De la destruction des Jésuites, dettato da Enciclopedista, può leggersi con frutto pei documenti che reca. Crétineau Joly trattò il soggetto stesso in esagerazione opposta, presentando Clemente XIV in miserabile apparenza, ed appoggiandosi unicamente sopra documenti autentici. Con documenti autentici lo confuta il padre Theiner, che a Clemente XIV non solo trova le scuse della necessità, ma prodiga lodi di coraggio, prudenza, grandezza, tutte le virtù de’ migliori pontefici. Sempre esagerazione.

77.  Maria Teresa, informatane, ne mandò scuse al papa. Theiner, vol. I. p. 129.

78.  Choiseul ministro di Francia, al 4 ottobre, scriveva al suo ambasciadore: Je vous avoue mon étonnement de l’attention trop sérieuse que vous donnez aux supercheries de M. Tanucci et de M. le cardinal Orsini, et aux impostures mal adroites dont ils font usage auprès de vous. Des ministres de cette espèce ne sont assurément pas faits pour traiter des grandes affaires; et il faut se borner à mépriser les petits moyens de leur basse et artificieuse politique. Ap. Theiner, vol. I. p. 139.

79.  Theiner, vol. II. p. 89.

80.  Saint-Priest, p. 137.

81.  In una lettera del ministro Choiseul al cardinale Bernis ambasciadore, del 26 giugno 1769, principal motore dell’abolizione compare Carlo III, e che il pontefice per ogni via allungasse la cosa. — Io credo col re di Napoli che il papa operi debole o falso: debole, se tituba nel fare quello che il suo spirito, il suo cuore, le sue promesse gl’impongono; falso, se cerca tener a bada le corone con speranze illusorie. In ambidue i casi, i riguardi sono inutili con lei, perocchè noi avremmo bel fare a risparmiarlo: s’egli è debole, lo diventerà più quando si accorga che nulla deve temere da noi; s’è falso, sarebbe ridicolo lasciarli concepire la speranza che noi soggiacessimo alle sue astuzie. E così faremmo, se aspettassimo che il santo padre avesse il consentimento di tutti i principi cattolici per l’abolizione de’ Gesuiti: ella ben vede che lungaggini, che difficoltà ne verrebbero. La corte di Vienna non darà il consenso che con restrizioni e con vantaggiosi patti: la Germania darallo con fatica: la Polonia, eccitata dalla Russia, per farci un mal tiro lo rifiuterà: la Prussia e la Sardegna (ben le conosco) faranno lo stesso. Quindi il papa non giungerà mai a riunire questo consenso di principi, e quando ci propone una tale clausola, ci tratta come ragazzi che non hanno cognizione degli uomini, degli affari e delle Corti. Ma quando il santo padre aggiunge che al consentimento de’ principi quello pur si deve congiungere del clero, egli vuol proprio la burla di voi. Il consenso del clero non potrà darsi nelle forme legali se non adunando un concilio; e questo non può esser convocato in paese cattolico, senza la volontà de’ principi e del pontefice. Ai principi soli della Casa tocca dunque di sollecitare il papa ad estinguere una società a loro infesta; e pei principi soli della casa di Borbone il santo padre deve determinarsi a questa accondiscendenza... S’io fossi ambasciadore a Roma, mi vergognerei di vedere il padre Ricci antagonista del mio padrone».

82.  Corrispondenza fra Aubeterre e Choiseul, presso Ravaignan, pag. 362.

83.  Nell’editto asserendosi che san Carlo l’aveva introdotta per vie oblique e senza il regio exequatur, l’arcivescovo Pozzobonelli rispose che tale formalità non era in quei tempi necessaria, nè poteva credere che il santo suo predecessore avesse ricorso a sotterfugi. Altrettanto protestò il Durini vescovo di Pavia. Già in Piemonte, coll’istruzione del 20 giugno 1755 (rinnovata poi da Carlalberto nel 1831) si proibiva la lezione propria di Gregorio VII «con altri infiniti libri maligni e sediziosi non meno di quelli che tentano di rendere al papa soggetta la podestà temporale de’ principi, insegnando che ai medesimi, quando sono scomunicati, non si possa obbedire di coscienza, o che al papa spetti il deporli e sciogliere i popoli dal giuramento di fedeltà».

84.  «Non certamente (dice Theiner) per far violenza ai Gesuiti, ma unicamente per mantener l’ordine tra la folla». Eppure poche linee appresso assicura che «la popolazione guardò quest’avvenimento con calma e indifferenza profonda». Vol. II. pp. 338, 339.

85.  Nell’Indice del 1744 si legge: Prohibentur libri omnes, opuscula, theses, aliaque omnia tam edita huc usque, quam imprimenda, tam contra quam pro Cornelio Jansenio et PP. Jesuitis.

86.  Certo ne rideva Federico di Prussia, il re filosofo; e D’Alembert gli scriveva: — Dicesi che il conventuale Ganganelli non prometta carezze alla Compagnia di Gesù, e che san Francesco potrebbe esser l’uccisore di sant’Ignazio. Parmi che il santo padre farà una gran pazzia a cassare il suo reggimento delle guardie per compiacenza verso i principi cattolici. Questo trattato somiglia a quel dei lupi colle pecore, cui prima condizione fu che le pecore licenziassero i cani (16 giugno 1769). — Ecco cacciati i Gesuiti da Napoli; e presto (dicesi) saranno da Parma, e gli altri Stati borbonici tutti sbratteranno la casa... Con ciò la Corte di Roma perde le migliori sue truppe, le sue sentinelle morte. Parmi ch’essa raccolga insensibilmente le sue tende, e finirà coll’andarsene con i Gesuiti (14 dicembre 1767). — Il papa conventuale si fa tirar per le maniche innanzi sopprimere i Gesuiti. Qual meraviglia? Proporre al papa di cassar questa brava milizia, gli è come si proponesse al re di Prussia di congedare il suo reggimento delle guardie» (7 agosto 1769). E Duclos, altro scrittore filosofico, nel suo Voyage en Italie, pag. 40, meravigliandosi dell’invidia che gli altri Ordini professavano contro i Gesuiti, e della gioja jusqu’au scandale che manifestarono alla loro soppressione, conchiude: Le premier coup de tonnerre est tombé sur la Société, arbre dont la tige perçait la nue; mais que les moines doivent penser que, si l’on coupe les chênes avec la coignée, on fauche l’erbe. Leo (protestante) dice: — Il papa avea diritto d’abbattere l’Ordine, e negl’interessi della Chiesa potea veder ragioni sufficienti a ciò: ma che un sommo pontefice abbia potuto dimenticare a tal punto il principio, per cui Roma erasi elevata di sopra del mondo; che abbia ceduto alle istanze delle potenze temporali, prodotte sotto forma insultante, fu un porre a nudo che la santa Sede era scesa a uno stato di debolezza, di cui la ragione non sta tutta nelle circostanze generali, ma colpa n’è in parte l’uomo che l’occupava senz’aver la natura eroica richiesta dall’elevata sua posizione». Storia d’Italia, lib. XII. 4. Carlo Botta, arrabbiato ai Gesuiti, racconta che i Giansenisti si mostrarono duri con loro; e «molto maggiore umanità mostrarono i filosofi, ajutando e di consiglio e di denaro e di favore quei derelitti discepoli d’Ignazio. La compassione pubblica ora gli accompagnava; imperciocchè molti mentre all’esiglio s’incamminavano, ai più miserabili estremi erano o per infermità o per età o per povertà ridotti»; lib. XLVIII. Egli stesso enumera le loro colpe, cioè d’aver voluto maggioreggiare, e perciò studiare più degli altri; scegliere a gran cura i novizj; prolungarne le prove, tanto che non fossero aggregati se non dopo sicuri di quel che facevano; avere scuole migliori che le Università; acquistarsi la fiducia dei parenti e l’amor degli allievi; stare fra loro uniti per modo, che quegli stessi, i quali disgustati uscivano dall’Ordine, non ne sparlavano. Vedi il principio d’esso lib. XLVIII.

87.  Perfino il marchese Gorani che andava a cercar espresso lo scandalo in ogni atto dei principi e dei preti, e che non s’esaurisce in bestemmiar i Gesuiti, nega affatto l’avvelenamento di papa Ganganelli, mentre ne descrive a minuto i delirj.

88.  «La maggior parte dei cardinali che non erano stati consultati, e della nobiltà romana affezionata ai Gesuiti, attestarono una gioja poco decente, e un odio ingiusto o troppo violento. Le satire, che in tali circostanze inondano il pubblico, son più crudeli e atroci qui che altrove, perchè il fanatismo di Roma è in questo momento al sommo grado», così scriveva il cardinale Bernis, ap. Theiner, vol. II. p. 516. Il quale Theiner parla d’insulti fatti alla memoria di quel papa: «Il cardinale De Bernis fu obbligato a tenere a proprie spese una guardia secreta, che giorno e notte vegliasse attorno al catafalco per prevenire gli scandali...; noi abbiam avuto la pazienza di leggere quelle satire, che sono molte centinaja, e dobbiam convenire che passano in impudenza e grossolanità quelle che mai fossero fatte contro Gesuiti»; p. 521. Fu scritto anche in difesa di lui, e qualcuno, noveratine i meriti, conchiudeva:

E pur morii di morte aspra e spietata,

E Roma applaude al doloroso evento;

O mercede inumana! o Roma ingrata!

Il difensore non ferisce meno dell’offensore.

89.  «Giona, benchè buttato in mare, si salvò nei ventre della balena. Bisogna aspettarsi che molti cardinali, nel futuro conclave, faranno i più grandi sforzi per eleggere un papa abbastanza ardito da ristabilir la Società, senza temere i torbidi e le dissensioni che si rinnoverebbero, e senza fermarsi all’idea d’un nuovo sovvertimento generale». Dispaccio del Bernis, ap. Theiner, vol. II. p. 511.

Sul Ricci vedansi i miei Italiani illustri.

90.  Duller, Storia del popolo tedesco.

91.  Bolla 7 agosto 1814, Sollicitudo omnium ecclesiarum.

92.  Chi non vuol impelagarsi entro scritture mistiche, oscure, bizzarre, può informarsi di quel soggetto nel Mistero dell’amor platonico del medioevo, derivato da’ misteri antichi, opera in 5 volumi di Gabriele Rossetti, Londra 1840. Tutto si appoggia sopra l’esistenza di società secrete, in cui si conservarono per tradizione i misteri antichi; e gran parte vi è fatta alla massoneria, ricevendone sul serio fin le puerilità e il gergo. Principalmente se ne parla nel vol. III. cap. 2.

93.  Nel Code de la nature, ou véritable esprit des lois de tous temps négligé ou méconnu; Partout, chez le Vrai Sage, non solo viene impugnata la religione, ma anche la proprietà, sostenendo che da questa derivano tutte le colpe. I nostri economisti bevvero queste esagerazioni.

94.  Carli, Saggio d’economia politica sulla Toscana.

95.  «Noi diciamo male de’ Barbari nello stordimento in cui siamo pel nostro immenso lusso; nondimeno v’ha de’ selvaggi, che ci potrebbero dar lezioni di giustizia, di costume, di felicità. Tra gli Apalaschiti non vi ha metalli, non si conosce proprietà di fondi, vi si coltiva con i legni e colle pietre in comune, si raccoglie in comune, si deposita il ricolto in pubblici magazzini, si distribuisce alle famiglie a proporzione de’ bisogni... Vi si vive al di là di cento anni, e sempre tra cuori lieti, festevoli, aperti, candidi». Valore delle cose e fatiche, cap. 1, nota.

96.  Il marchese Gorani adduce una quantità d’aneddoti sull’abate Galiani, e conchiude: — Era l’uomo più ingegnoso delle Due Sicilie, ma il più scostumato. Tutto pareagli permesso, purchè la riuscita il giustificasse. Divenuto spensierato, non esisteva più che per soddisfare le sue inclinazioni. Era persuaso che gli uomini non meritavano la fatica d’occuparsi della loro felicità. I suoi emolumenti ascendeano a ventisettemila franchi, senza le eventualità; eppure trovavasi spesso alle strette, per le grandi spese della sua casa, della biblioteca e della fantasia. Ne’ consigli era sempre pel despotismo, e nessuno amò quanto lui il governo arbitrario. Era geloso e invido; non avrebbe sofferto si dicesse che un solo regnicolo s’avvicinasse al suo merito. Mai non fu amico d’un napoletano in cui potesse temer un rivale; era il nemico nato di qualunque suo compatrioto cercasse distinguersi». Mémoires secrets sur les Cours de l’Italie.

97.  Molte opere d’architettura militare di frà Vincenzo Chiapetti perugino trovansi manoscritte a Parma.

98.  Mostrava che dallo Stato uscissero nove milioni più che non se n’importasse. In un secolo si sarebbero dunque perduti novecento milioni! Il marchese Carpani gli oppose un altro bilancio, dove assicurava al commercio milanese l’attività di undici milioni. Tanto sono poco attendibili siffatti lavori. A Kaunitz spiacque il libro del Verri, volea lo avesse mandato privatamente al Governo, ben meritando di questo, anzichè farsi compatire dal pubblico. Deputato poi dalla Giunta a fare un bilancio meno aereo, il Verri pretese ancora trovare la passività di un milione e mezzo.

99.  Meditazioni, § XXII.

100.  Come il Verri de’ Milanesi, così l’Affò lagnavasi dei Parmigiani, e a frà Luca da Carpi scriveva il 18 giugno 1782: — Tutti sanno dire, niuno sa fare. Bisogna scoraggiarsi per forza, e troncar sovente per disperazione il corso de’ proprj studj... Lo credereste? Sono tre anni che vo cercando le notizie degli scrittori nostri; e, fuor di uno o due, non ho trovato un cane che mi abbia somministrato notizie qui in Parma, quand’io, povero diavolo, ho fatto il viaggio a Roma a tal fine ecc.». E al Bettinelli il 9 marzo 1790: — Ella ha dunque veduto il primo tomo de’ miei letterati, e me lo collauda per sua gentilezza, come pur si fa da molte parti. Qui non si trovano quattro Cristiani che l’abbiano guardato, e da nove mesi forse che è fuori, mi sento ancora domandare da molti se è poi vero che lavori io dietro le cose di Parma. Può credere con qual gusto io possa proseguire. È vero che mi trovo compensato dal giudizio degli estranei; ma è una gran pena il vedere tanta stupidità ne’ domestici... dovendo io metter in torchio la mia storia di Parma, che neppur essa si leggerà». Ap. Pezzana, Vita dell’Affò, pag. 181.

101.  Il fatto è riferito da un gran lodatore delle cose venete, il Cicogna, Iscrizioni veneziane, tom. III. p. 275, S. Apollinare.

102.  Cum agitur de delicto puniendo, lata interpretatio sumi debet, dice Menochio, Quæst. 69, nº 24. Vedi pure Quæst. 86, nº 8; e Farinacio, Consilia, 25, nº 14; e Bodino, Respublica, lib. III. c. 3.

103.  Humiliores in metallum damnantur, honestiores in exilium mittuntur. Paolo, Dig. 38 De pœnis.

104.  Giulio Claro, Quæst. 60, nº 24: Farinacio, Quæst. 98, nº 98, 102, 105.

105.  Già nel 1671 il magistrato di Vienna propose e l’imperatore Leopoldo decretò una casa di correzione, ove collocare ben separate le donne pervertite, i figli disobbedienti, gli accattoni irrequieti, e l’altre persone disutili, per trattenerle in continuo lavoro. L’anno prima, essendo preside al senato l’Arese, a Milano erasi proposta una casa di lavoro pei poveri e correzione pei discoli; ma non fu attuata che nel 1758, aperta nel 1766. V’erano cenquaranta celle separate, di cui venticinque per le donne, venti pei ragazzi; e conoscendo qual supplizio fosse la solitudine, furono riservate a quei che prima mandavansi alle galee di Venezia, stabilendo che un giorno scontasse due di condanna.

106.  Il padre Labat dice che in Italia, oltre la forca, usavano la mazzuola e la mannaja. Colla prima, messo il condannato sul patibolo con mani, piedi e ginocchia legate e gli occhi bendati, il boja gli dava d’un maglio sul capo, e così stordito lo sgozzava. La mannaja era un telajo, coi lati scanalati, entro cui scivolava un ceppo pesante, con un fendente, che lasciato cascare sul collo del paziente, gli facea saltar la testa (Voyage en Italie, 1730, tom. VII. p. 21). Questo ordigno non era nuovo, giacchè Jean d’Autun, biografo di Luigi XII, al 1507 racconta che Demetrio Giustiniani genovese, condannato a morte per ribelle, montò sul palco, si pose a ginocchio e stese il collo: il boja prese una corda cui era attaccato un grosso ceppo finito con un fendente, che scivolava fra due travi, e tirò la corda in modo che il ceppo tagliente cascò fra la testa e le spalle del Genovese, e la testa andò da una parte, il corpo dall’altra. Non era dunque novità la ghigliottina, anzi tale supplizio è disegnato nelle Symbolicæ quæstiones de universo genere di Achille Bocchi, 1555.

107.  Beccaria, Proemio.

108.  Je regarde (dice Brissot) ce traité comme la base des travaux faits sur cette partie. C’est, sans contredit, le premier livre philosophique qui ait paru dans ce genre. E nelle Nouvelles de la république des lettres (Berna 6 luglio 1781): Le traité Dei delitti e delle pene a le premier ouvert les yeux sur les abus des lois pénales. Di rimpatto Muyart de Vouglans, nella Confutazione del 1766, diceva: Que penser d’un auteur qui prétend élever son système sur les débris de toutes les notions qui ont été reçues jusqu’ici; qui, pour l’accréditer, fait le procès de toutes les nations policées, qui n’épargne ni les législateurs, ni les magistrats, ni les jurisconsultes?... E Jousse, nel Traité de justice criminelle del 1770: Le traité Des délits et des peines, au lieu de répandre quelque jour sur la matière des crimes, et sur la manière dont il doivent être punis, tend, au contraire, à établir un systême des plus dangereux et des idées nouvelles qui, si elles étaient adoptées, n’iraient à rien moins qu’à renverser les lois reçues jusqu’ici par les nations les plus policées.

109.  Rousseau e l’Esprit d’Elvezio sono i libri su cui più si formarono i nostri. Di Rousseau tace il Beccaria, perchè questo era in urta cogli Enciclopedisti. Quanto ad Elvezio, il Morellet ne muove rimprovero ai nostri, scrivendo nel cap. III delle sue Memorie: Les Italiens, parmi lesquels je vivais, ne s’en occupaient pas encore, quoique ce fût le pays de l’Europe où cet ouvrage devait avoir le plus de succès, et a fini par l’obtenir; car de tous les Européens, ceux qui estiment moins l’humanité sont, sans contredit, les Italiens, qui, en général, ne croient pas assez à la vertu, et qui disent presque tous dès vingt ans le mot de Brutus, qu’il ne faut dire comme lui qu’en mourant: O vertu, tu n’es qu’un vain nom. Chi sa cosa significasse virtù fra gli Enciclopedisti, coglierà la portata di questo rimprovero a gente che curava gli uomini, non l’umanità.

110.  Platone nel Gorgia.

111.  Giustiniano, Nov. XVII. cap. 5: Cum vehementia corrige, ut paucorum supplicium alios omnes faciat salvos; Nov. XXX. cap. 11: Acerbe punito, ut paucorum hominum supplicio omnes reliquos continuo castiges; e lib. XXXI. Dig. Depos.: Ut exemplo aliis ad deterrenda maleficia sit. Pure Paolo dice che Pœna constituitur in emendationem hominum; leg. 20. Dig. De pœnis. Ma sant’Agostino posava: Pœna proprie dicitur læsio quæ punit et vindicat quod quisque commisit; Can. 4. quæst. 3. dist. 3. cas. 33.

112.  «La morale, la politica, le belle arti, che sono le scienze del buono, dell’utile, del bello, derivano tutte da una scienza sola e primitiva, cioè la scienza dell’uomo; nè è sperabile che gli uomini giammai facciano in quella profondi e rapidi progressi, se non s’internano a rintracciare i primitivi principj di questa; oltre di che, non è possibile che ricercando le verità politiche ed economiche nella natura dell’uomo, la quale ne è la vera fonte». Ricerche sullo stile.

113.  Gli argomenti di lui contro la pena di morte sono gli identici di Rousseau, e vennero confutati da Kant, il quale, movendo da tutt’altro principio che i teologi, pure anch’esso desume il diritto di punire da leggi morali e dalla responsabilità umana; e si propone per iscopo non il prevenire altri delitti, ma la soddisfazione della giustizia, e la riparazione ed espiazione della colpa. Nella traduzione del Beccaria per Collin de Plancy, 1823, sono recati tutti i commenti di Voltaire, Diderot, ecc.

Questi ultimi anni, furono assai controversi i meriti del Beccaria, e i lavori antecedenti possono vedersi riepilogati nel discorso di Faustino Hélie, anteposto all’edizione di Parigi 1856, il quale sostiene che Beccaria non solo sbrattò dalle false teorie, ma preparò i materiali a una nuova, che combinasse le due scuole opposte.

(Il Cantù ne trattò a pieno nel libro Beccaria e il Diritto penale). (Gli Editori)

114.  Ecco un altro canone, esagerato per impedir l’abuso che se ne faceva, e inapplicabile coll’inesattezza del linguaggio. Puramente dichiarativa diremo l’interpretazione in quanto nè toglie nè aggiunge ai testi, ma le compete di dichiarare il senso virtualmente compresovi, a seconda dello spirito del codice tutto, delle disposizioni analoghe, del valore delle parole adoperate.

115.  «Chiunque può sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Gli uomini allora si avvezzano a mascherare i proprj sentimenti, e coll’uso di nasconderli altrui, arrivano a nasconderli a se medesimi... E di questi uomini faremo noi gl’intrepidi soldati, difensori della patria e del trono?... Chi può difendersi dalla calunnia quando ella è armata dal più forte scudo della tirannia, il segreto? Qual sorte di governo è mai quello, ove chi regge sospetta in ogni suo suddito un nemico, ed è costretto, pel pubblico riposo, di toglierlo a ciascuno?» § IX.

116.  E se la natura de’ processi condannasse uno ad evidenza innocente? o si scoprisse tale dopo proferita la sentenza? o egli mostrasse pentimento e certezza d’emenda? o riuscisse a far un’azione di sommo vantaggio sociale o merito morale?

117.  Di tale noncuranza della famiglia, oltre le dottrine d’Elvezio, han colpa in parte i casi di lui. Invaghitosi di Teresa De Blasco, men ricca di lui, suo padre volle distornelo col farlo tenere quaranta giorni in arresto. Uscitone, egli la sposò, ma non potè condurla in casa finchè non fu madre. Morta lei, Cesare dopo quaranta giorni si rammogliò con Anna Barbò. Anche nel Verri ricorrono spesso questi lamenti della tirannide paterna, che teneva i figli nella povertà e nell’ignoranza per non esserne soverchiati.

Non posso accettar le discolpe che vuol farne Camillo Ugoni (Della letteratura italiana, vol. II. p. 205; 1856): quell’articolo è de’ suoi più deboli.

118.  Tutt’all’opposto, il Genovesi scriveva: — Un tratto della Provvidenza divina è l’aver voluto che gli uomini dipendano gli uni dagli altri, e che vi sia prima tra famiglia e famiglia, poi tra villaggio e villaggio, tra città e città, tra nazione e nazione uno scambievole legame di perpetuo interesse». Ma è notevole che il Beccaria stesso ammette questa solidarietà del genere umano, dicendo al cap. IV, part. II dell’Economia: — Fino ad un certo segno una nazione può prosperare a spese d’un’altra; ma al di là, la vera prosperità nostra produce la prosperità altrui, non essendo data agli uomini un’esclusiva felicità o miseria; chiaro indizio d’una secreta comunione di cose e d’una non intesa fratellanza, voluta dalla natura fra il genere umano, dalla quale la più profonda filosofia travede che i varj nostri interessi hanno una totale ed ultima dipendenza dalla virtù: onde sì belle contemplazioni possono elevar l’animo nostro dalle piccole e servili viste del privato interesse, nelle serene e tranquille regioni della giustizia e della benficenza». E l’uno e l’altro poi si contraddicono nell’applicazione, dai canoni di libertà e fratellanza deducendo vincoli ed esclusioni.

119.  Luigi Bonaparte, presidente della repubblica francese, l’11 novembre 1849.

120.  «Sola la patria ha diritto d’allevare i suoi figli. Essa non può confidare questo deposito all’orgoglio delle famiglie nè ai pregiudizj de’ particolari, eterno alimento dell’aristocrazia e d’un federalismo domestico che restringe le anime isolandole, e coll’eguaglianza distrugge tutt’i fondamenti della società». Robespierre, il 7 marzo 1794.

121.  Il nome degli scrittori, italiani tutti, che aveano promesso coadjuvarlo, è un buon prospetto della letteratura nel 1779. Eccoli:

Classe matematica

Classe fisica

Classe medica

Classe legale

Classe metafisica

Classe storica

Classe di belle arti

Classe di mestieri

Gregorio Fontana avea già dato l’art. Anatocismo; Sebastiano Canterzani bolognese i Discorsi preliminari alla fisica e matematica; inoltre prometteano lavori Onofrio Minzoni, il Borsieri, i fratelli Riccati, Giuseppe Saluzzo, ecc.

122.  La source, la force et le véritable esprit des lois.

123.  A noi fanno i giudizj che reca sul Corsini, sul De Soria, sul Genovesi, sul Del Felice, sul Fromond, ecc. Genuensis, Lokii doctrinam primus in Italiæ scholis promulgavit; eam in multis emendavit. Omne errorum genus diligenter est persecutus, semperque illud agit ut mentem instituat. Scholastica vitat: obscura et vaga refugit. Sed in idearum atque verborum scientia minime acutus, nec semper accuratus, non uberrimus in analysi, in methodo, in inventione: cetera cognitionum instrumenta non ita illustrat, ut fæcundior eorum usus evadat. In arte critica moralis certitudinis fundamenta haud solide constituit: quæ probabilitatis et certitudinis ex auctoritate ortæ propria sunt, aliquando confundit, aliquando ex una ad aliam transfert (lib. IV. nº 515, not. 3). Denique extranea multa inducit, propria quædam adimit, et amplificatione minus apta peccat. Historiæ philosophiæ adumbratio.

124.  Galanti, nell’elogio del Genovesi, scrive: «Il Vico ci ha lasciato un sospetto di essere stato un uomo di genio, per mezzo di un’opera tenebrosa ed enimmatica, che è quanto dire inutile».

125.  Giannone, lib. XL. c. i.

126.  Uno dei più caldi nella disputa contro Roma fu Giovanni Serrao vescovo di Potenza, che poi nel 1799 fu scannato dal popolaccio nel proprio letto, e la sua testa portata in cima a una picca.

127.  Il duca Ferdinando, al diciannovesimo anno d’età e quinto di regno, cominciò una storia della propria vita, che trasse dal 1751 al 65 quando divenne principe. La pietà che ne traspira mostri come poco s’avvedeano que’ suoi maestri nel volerne fare un filosofante:

— Imparavo a leggere, ed avevo pena ad imparare. Portatami un giorno dal padre Fumeron (gesuita francese) un’immagine di san Luigi Gonzaga, principiai a baciarla ed a raccomandarmi talmente a quest’angelico giovane, che lo stesso giorno incominciai a leggere correntemente. Me lo ha confermato lo stesso padre Fumeron. Di poi, avanzato di più in età, mi successe che mangiando delle caramelle, ne inghiottii una intiera, la quale fermatamisi nella gola mi causò un dolore orribile: tosto chiesi alla contessa Marazzani una qualche reliquia, ed appena l’ebbi in mano, che accostandomela alla gola, cessò immediatamente il dolore... Il mio carattere in questi giovanili anni era portatissimo alla collera ed all’impazienza, di che, coll’ajuto di Dio, mi sforzai di correggermi... Principiai sino d’allora (1756) ad amare i buoni e santi religiosi; come il padre Michele Riva cappuccino, il padre maestro Torri domenicano, quale nel 1756, venendo priore in questo convento di San Pietro Martire, portommi a regalare una reliquia del taumaturgo apostolo delle Spagne, san Vincenzo Ferreri. Era egli amicissimo di mia madre, e se lo meritava veramente; mia madre, devotissima della sua religione, fece fabbricare in San Pier Martire l’altare del glorioso re san Lodovico, e vi fece anche mettere la statua della beata Vergine del Pilar di Saragozza...

«In questo mentre nudrivasi il mio affetto per la religione domenicana nell’ascoltare con gaudio le campane di San Pier Martire, per la qual cosa fui gridato e gastigato bene spesso. Nella solennità del santissimo Rosario di quest’anno principiò la beata Vergine ad infondere in me il di lei amore, e mi prese sotto allo specialissimo di lei patrocinio. Non mai però mi conducevano in chiesa, se non a messa tutti i giorni, in una cappellina contigua al mio appartamento, opera della pietosissima fu duchessa Dorotea (vedova del principe Odoardo Farnese e del duca Francesco). Mi sentiva eziandio nel petto una vivissima brama di farmi frate; ma però sapendo io esser nato in uno stato che a ciò metteva quasi invincibili ostacoli, pregavo Iddio clementissimo a suggerirmi alcun efficace mezzo di conseguire il mio intento...

«1764... Accrebbesi in quest’anno la mia tenerezza per don Nicolò Ponticelli: quando egli davami lezione, discorrevasi santamente. Insegnommi egli quali erano i quindici misteri del santissimo Rosario, onde principiai a disegnarli nel muro del mio gabinetto, ma alti e piccoli, onde nessuno fuori che io potesse accorgerli. Con lui discorsi della mia divozione verso san Vincenzo Ferreri, ed egli narrommene varj miracoli, i quali a tal segno mi penetrarono, che io gli raccontai a varj della mia gente. Seppesi questo; co’ miei superiori fingevo, per pessima politica, di ridermi del Ponticelli, immaginando eziandio alcuni goffi racconti. I miei superiori incominciarono a guardarlo di mal occhio, e lo licenziarono; di che restai colla coscienza carica... così pure per simili ragioni devo rimproverarmi la disgrazia del povero padre Fumeron...

«Principiai... a distribuire il mio gabinetto a foggia di chiesa. Le tavole e i sedili figuravano gli altari, ed in cima aveva dipinti varj santi. Negli intervalli eranvi i misteri del santissimo Rosario. Due de’ vasi di metallo vuoti del calamaro, che io suonavo con penne e lapis, servianmi di campane, e questo faceami perdere del tempo dello studio... Ne’ libri che aveva mio padre ne trovai uno di orazioni, che fummi lasciato, ed essendovi l’uffizio della Madonna, principiai a recitarlo quotidianamente... Mi dimenticavo di dire, che appena mio padre fece distruggere affatto i cervi e i daini; certo fece bene, perchè questi animali recavano un immenso danno alle campagne... Siccome non voleano ch’io portassi rosario nè corona, mi feci un rosario di cera; ma questo disfacendosi quando si stava vicino al fuoco, ne feci nell’anno seguente uno di melica; i pater erano rossi, e le avemaria gialle... Avevo nel mio gabinetto un grande armadio, ma mi fu tolto, temendo che vi nascondessi de’ santi, e di fatto ne avevo alcuni. Trovai anche un picciol messale romano; di questo faceva la mia delizia».

Il Pezzana, nelle Memorie dei letterati parmensi, appunta di molti errori il Botta in proposito di quell’età (vol. I. pag. 153). Pugeol va corretto in Pujol; nè l’accademia nè l’Università furono fondate per consiglio del Paciaudi; solo nel 68 e 69 furono chiamati a insegnare Venini, Derossi, Millot, Contini (che del resto non va contato fra gl’illustri), cioè non dal primo Borbone. Dutillot non fu mandato dalla Francia per consigliere, ma venne nel 1749 col duca, e stette intendente della casa fin nel 59 quando passò ministro. Nel 68 non vi fu censura o scomunica, ma solo un monitorio.

128.  Il Turchi scriveva al Paciaudi nel 1777: — I miei reali allievi, nell’atto che occupano la mia giornata, mi sono oggetto della più viva compiacenza. Un’indole aurea, talenti più che mediocri, il cuor buono ed una facile pieghevolezza me li rendono amabilissimi. È vero che in così tenera età non si può ancora decidere nulla; ma si può travedere assai bene dove almeno saranno un giorno portati dalla loro fisica costituzione. Credetemi che le passioni, non avendo altra base che il temperamento, si manifestano di buon’ora, e tutta l’arte consiste non già nel combatterle od annientarle, ma nel dirigerle bene verso virtuosi e lodevoli oggetti. Questo è il mio principalissimo impegno. Caro amico, la prima educazione non mi spaventa; la seconda sì bene quando i principi diventano padroni di sè. Allora bisogna raccomandarli a Dio, che solo può reggerli in mezzo a tanti pericoli dell’apparente luminosa loro situazione».

129.  Ginguené credette che il suo libro Dell’utilità dell’innesto si riferisse a l’utilité de l’inoculation. Vedi Biografia universale, al nome.

130.  Questo dominio nel 1441 era passato ad Antonio Alberico marchese di Malaspina. Riciarda, ultima della sua discendenza, sposò Lorenzo Cibo genovese, nipote d’Innocenzo VII.

131.  

Del ducato di Modena, col Frignano la popolazione ascendeva a 163,000 anime
Del ducato di Reggio e principato di Correggio 133,000 »
Del ducato della Mirandola 20,000 »
Del principato di Carpi 18,000 »
Della Garfagnana 25,000 »
Del ducato di Massa e Carrara 21,000 »

Modena aveva 24,000 abitanti, Reggio 18,000, Massa 6000, Carpi 5000. Le finanze produceano 252,000 zecchini, e con gran diversità fra le provincie. La esazione ne consumava 50,000; altri 52,000 le gabelle imposte a vantaggio di Comuni e di pubblici stabilimenti; sicchè all’erario propriamente restavano men di 150,000 zecchini. Il censo pei terreni, che purgato ascendeva a 33,000 zecchini, serviva per ispegner il debito pubblico, e per lavori dello Stato.

132.  Dallo scandaglio allora fatto dell’amministrazione del Dutillot raccogliamo alcune notizie statistiche:

L’entrata dei ventidue ultimi anni era salita a lire tornesi 78,853,788
La spesa » 78,729,896
Le entrate dell’infante, che al momento che Dutillot ne prese l’amministrazione, erano di » 1,526,072
Eransi cresciute a » 3,044,317
Per nuove imposte o aumento delle vecchie aveansi » 757,735
Economizzate sulla riscossione » 730,510
Onde l’infante, compreso le pensioni dei re di Francia e Spagna, e le commende che godeva in Spagna, aveva l’entrata di » 3,794,061
La spesa era fissata a » 3,269,673
Onde v’era un avanzo di » 524,388

133.  Una grida del 6 gennajo 1763 indica a nome mille ducencinquantasei banditi fuggiaschi o contumaci; ai quali nel 65 se n’aggiunsero da trecentottanta altri, che, essendo côlti, doveano ricevere il marchio infocato: e via una serie di pene a chi li ricetta, ai vagabondi, ecc.

134.  Arago scrive che la scienza non può accertare che il suono o il moto dell’aria per le campane attiri il fulmine, benchè sia vero che gli edifizj elevati come i campanili possono essere più facilmente colpiti, e la corda, massime se bagnata, condurre il fluido a uccidere il campanaro. Egli stesso, citando esempj di tali sinistri, ricorre agli anni 1768, 1775, 1783: il non addurne di più recenti mi fa credere che non ne avesse di comprovati.

135.  Ordinanza 23 agosto 1784, revocata nell’anno seguente.

136.  Zobi, Storia civile della Toscana, lib. II. c. 4; Galluzzi, Storia del Granducato; Pignotti, Storia della Toscana; Poggi, Saggio sul sistema livellare. Pel regno di Pietro Leopoldo sono interessanti le note aggiunte alla Vie de Ricci par De Potter, 2ª edizione. Bruxelles 1826. La vita è piuttosto una diatriba, di poco criterio e meno prudenza.

137.  Carlo di Napoli pretendeva sempre sui beni allodiali di Casa Medici. Ultima di questi Maria Anna Luigia, figlia di Cosimo III e vedova dell’Elettore palatino, morì il 1743, e lasciò erede Francesco.

138.  Guido Grandi prevenne di lunga pezza il Savigny, negando che il manoscritto delle Pandette provenisse da Amalfi, e sostenendo che il diritto romano mai non cessò d’esser conosciuto in Occidente. Il Tanucci combattè quest’opinione collo scalpore e la briga, concitando i Pisani contro il Grandi come reo di lesa nazione.

139.  

Dal rendiconto appare, che nel 1765 le entrate ascendevano a lire 8,958,685
Le spese e gli aggravj » 8,448,892
Onde s’avea l’avanzo netto di » 509,793
Mentre nel 1789 le entrate erano di » 9,199,121
L’uscita » 8,405.056
E quindi l’avanzo di » 794,065

140.  De Potter pubblicò una memoria che il senatore Francesco Gianni, rifuggito a Genova nel 1799, scrisse nel 1805, continuo panegirico di Leopoldo, fatto con senno civile, ove divisa i successivi regolamenti del granduca, come preparatorj ad una costituzione. Perfino il Botta, uomo sì scarso di critica, dubitò fosse un’invenzione del De Potter; e lo schizzo che noi ne demmo nel testo è più fedele alle intenzioni del Gianni.

141.  Decisioni di Giovanni Bonaventura Neri Badia, tom. II. p. 466.

142.  Zobi, Storia civile della Toscana, tom. II. p. 437.

143.  Le attribuzioni che il Sant’Uffizio si arrogava appajono distinte da questo Editto generale per l’Uffizio della santa Inquisizione di Modena:

— Noi Giuseppe Maria Fogliani patrizio reggiano e modenese, per la grazia di Dio e della Santa Sede Apostolica vescovo di Modena.

«Frà Raimondo Maria Migliavacca dell’Ordine de’ Predicatori, maestro di sacra teologia: nelle città di Modena, Carpi, Abazia di Nonantola, e loro diocesi, e nella provincia di Garfagnana contro l’eretica pravità, inquisitore generale dalla Santa Sede Apostolica specialmente delegato e consigliere teologo di S. A. Serenissima.

«Essendo delle piissime sovrane intenzioni di Sua Altezza Serenissima che, come porta il carico di questo Santo Uffizio a noi imposto, la Sacrosanta Fede Cattolica, senza la quale è impossibile di piacere a Dio, in questa giurisdizione da ogni ereticale contagio immacolata e pura si conservi: con autorità apostolica a noi concessa, e sotto pena di scomunica comandiamo a ciascheduna persona in questa giurisdizione, di qualunque condizione o grado esser si voglia, così ecclesiastica che mondana, che debba al Sant’Uffizio di questa città, ovvero all’ordinario, rivelare e notificare nello spazio di giorni trenta giuridicamente tutti e ognuno di quelli de’ quali sappiano, o abbiano avuta, o avranno in appresso notizia.

«Che avendo professata la santa fede cattolica, sieno divenuti eretici, o, come ne’ sagri Canoni e Costituzioni Pontificie in materia di fede, sospetti di eresia.

«Che siano bestemmiatori, o dileggiatori, o percussori di sagre immagini, o sortilegi ereticali.

«Che abbiano senza autorità della Santa Sede Apostolica tenuti, letti, stampati, o tengano, leggano, stampino o facciano stampare libri d’eretici, i quali trattino di religione o di sortilegi.

«Che contro il voto solenne della profession religiosa, o dopo aver preso l’ordine sagro, abbiano contratto o contraggano matrimonio.

«Che contro i Decreti e Costituzioni Apostoliche abbiano abusato o abusino della sagramental confessione o confessionario, sollecitando ad turpia i penitenti.

«Che abbiano impedito o impediscano l’uffizio dell’Inquisizione, ovvero offendano alcun denunziatore, testimonio o ministro, per opere spettanti al medesimo.

«Che senza legittimo permesso, e con suspizione d’incredulità facciano uso de’ cibi vietati in certi tempi dalla Chiesa.

«Che abbiano tenuto o tengano occulte radunanze, in pregiudizio e dispregio della religione.

«Che non essendo sacerdoti, si siano usurpati o si usurpino di celebrare la Santa Messa, e abbiano presunto di amministrare il sagramento della Penitenza, quantunque nè abbiano proferite le parole della Congregazione, nè siano venuti all’atto dell’assoluzione.

«Avvertendo, che a questi nostri precetti non soddisferanno, nè s’intendono di soddisfare quelli che con bollettini o lettere, delle quali, massime se non firmate, niun conto si tiene nel Sant’Uffizio, pretendessero rivelare i delinquenti.

«E che dalla detta scomunica nella quale i disubbidienti incorreranno, non possa alcuno essere assoluto, se non dal Sant’Uffizio; nè sarà assoluto, che dopo aver giuridicamente rivelati i detti eretici e sospetti d’eresia.

«Ricordiamo a tutti i RR. confessori di dover significare ai penitenti l’obbligo di denunziare legalmente al Sant’Uffizio, come sopra, e che non volendo ubbidire saranno incapaci dell’assoluzione.

«Comandiamo per ultimo, in virtù di S. ubbidienza, a tutti i superiori ecclesiastici così secolari che regolari e ai confessori di monache, che debbano notificare e tener affisso nelle loro chiese, sagristie e monasteri in luogo pubblico il presente editto. E a tutti quelli poi che hanno cure parrocchiali, che lo debbano pubblicare ogni anno nell’Avvento e nella Quaresima in giorno festivo e di concorso; mandandone l’autentico documento alli rispettivi Vicarj del Sant’Uffizio.

«Quanto agli Ebrei, si dichiara che cadranno sotto l’Inquisizione del Sant’Uffizio in que’ casi compresi nella Bolla di Gregorio XIII Antiqua Judeorum ecc., e sempre che dicano o facciano cose direttamente offensive della Cattolica Religione.

«In fede di che abbiamo sottoscritto il presente di nostra propria mano.

«Giuseppe Maria, vescovo.

«Fr. Raimondo Maria Migliavacca, inquisitore.

«Dato nel tribunale del Sant’Uffizio di Modena li 24 dicembre 1776.

«D. Vincenzo Tedeschi, cancelliere del Sant’Uffizio».

A Milano era una compagnia di quaranta Crucesignati, cavalieri con una croce in petto, e di cui era capo il padre inquisitore. La festa di san Pietro Martire radunavansi nel loro oratorio, e al vangelo sguainavano le spade in segno di zelo e costanza a tener pura e propagare la fede e obbedir ciecamente al Sant’Uffizio. Durarono fin al 1770.

144.  Vedi Anton Francesco Pagani, Storia dell’Inquisizione di Toscana. Firenze 1783. In quei tempi dovea far colpo l’apologo del Crudeli, d’un uomo che, avendo il suo giardino guasto da una lepre, invocò contro di essa il re; e il re vi entrò con un esercito intero, che sobbissò il giardino e la casa, e abbattè anche la siepe,

E in men d’un’ora fêr sì gravi danni,

Che le lepri d’un regno insieme unite

Non avrebbero al certo

Così gran guasto mai fatto in cent’anni.

Popoli, se tra voi sorge una lite,

Non chiamate in ajuto un re possente;

State all’erta, avvertite

Ch’ei non s’impegni nelle vostre guerre,

E ch’ei non entri nelle vostre terre.

145.  — S. C. M., con estremo rammarico e cordoglio dell’animo mio appresi da S. S. le aspre doglianze avanzate dalla M. V. contro la mia povera persona, come che abbia avuto il temerario ardimento di offendere la di lei imperiale persona, mio augustissimo sovrano, con alcune espressioni di una lettera responsiva ad un’altra del senatore Rucellaj. Mi riconosco pertanto in debito di presentarmi ossequioso al trono della C. M. V. medesima, chiamando in testimonio l’onnipotente Iddio sul sacrosanto carattere che indegnamente porto, nell’esporre alla di lei imperiale persona le mie più umili giustificazioni sopra di ciò. Supplico dunque con ogni più riverente ossequio la M. V. I. volersi sul predetto mio sacrosanto giuramento assicurare, che neppur per sogno mi è caduto in pensiero simile frenesia ed indegnissimo ardimento di offendere in minima cosa la persona sacrosanta del mio augustissimo sovrano, e per conseguenza niuno dei supremi e principali ministri di qualunque sorta essi siano; anzi mi sono sempre gloriato e sempre mi glorierò dimostrare in fatti ed in parole alla C. M. V., ed in proporzione al di lei imperiale ministero quel sommo ossequio e venerazione che le devo, anche a costo della propria vita, quando fosse duopo. Nonostante, qualunque sia la causa di sì grande mia disgrazia e deplorabile mia disavventura di vedere contro di me irritato il mio augustissimo e clementissimo sovrano, eccomi umiliato ai piedi della C. M. V. per implorare un generoso e benigno perdono, che dall’innata clemenza e pietà di sì pio imperatore mi giova sperare, non meno che la gloria di potermi protestare, quale prostrato in atto di baciargli ossequiosamente la imperiale porpora sono e sarò eternamente, della C. M. V. ecc.».

Non meno notevole in tal proposito è la lettera di monsignor Incontri arcivescovo di Firenze al Richecourt capo della reggenza il 1752: — Molti invero sono i pregiudizj che dalla libertà di pensare, di parlare, di leggere ho riconosciuto esser derivati alla nostra santa religione da qualche tempo in questa città, e che hanno aperto più libero il campo al libertinaggio, dappoichè le potestà ecclesiastiche non hanno potuto usare dell’autorità loro; ed essendone da più parti giunta la notizia alla santa Sede, ho ricevuto dei forti eccitamenti dal sommo pontefice per riparare agli abusi, onde l’ho supplicato a confortarmi col suo ajuto nell’adempimento del mio ministero. All’occasione, nelle maniere più proprie, ho pensato alle volte, affine di non mancare verso il popolo alle mie cure spirituali confidato, d’istruirlo con degli avvertimenti pastorali, e mi è stato impedito, come è noto; me ne sono rispettosamente rammaricato: ho fatto sovra a varj punti appartenenti alla religione ed al costume, siccome sopra altre materie concernenti l’ecclesiastica disciplina, delle umili rappresentanze, e per mio demerito non sono stato esaudito; e V. E. sa quante volte mi sono dato l’onore d’essere ad ossequiarla per parteciparle le mie più riverenti e fervorose istanze; sicchè confesso che nelle divisate contingenze mi trovo alquanto disanimato. Qualora poi venga assistito nell’esercizio del mio vescovile impiego dalla suprema autorità che vivamente imploro, m’incoraggerei molto, nè avrei più che desiderare. Con tal fiducia pregando V. E. a riprotestare all’imperial consiglio la mia più distinta venerazione, mi pregio di rassegnarmi di V. E. ecc.».

146.  Zobi, Storia, lib. IV. c. 3. In Toscana nel 1784 v’avea 7957 preti secolari, 2581 cherici inferiori, 2433 preti regolari, 1627 monaci laici, divisi in 213 conventi, 7670 monache in 136 chiostri. Firenze contava 78,635 anime, di cui 2134 monache, 917 frati, 1377 preti, 1627 militari, 1335 funzionarj civili, 1018 lanajuoli.

Moltissime memorie uscirono sulla giurisdizione ecclesiastica e regia; le più belle sono del Rucellaj. Una secreta, spedita a Vienna il 1745, contiene fra le altre cose la seguente: — La storia delle dispute di giurisdizione fra la Corte romana e il poter civile può ridursi a questo punto; che essa non cessò mai di pretendere suoi i diritti degli altri, per poter poi accordarli per grazia a quelli che devono possederli per giustizia, e che, nojati di questo eterno conflitto, si contentarono di goderne a qual prezzo si fosse, senza riflettere che questo cambiamento di titolo permetteva al sacerdozio, come non lasciava mai di fare, di rivendicare finalmente per conto proprio quello su cui pareva aver acquistato un diritto col cederlo».

147.  Nella Via Crucis, devozione raccomandata dai Francescani, come dai Gesuiti il Sacro Cuore, si pretese fossersi fatte aggiunte alla narrazione evangelica, e proponeasi, non di abolirla, ma di sostituire cinque nuove a cinque delle vecchie stazioni. Di ciò s’infierì una disputa, a cui preser parte molti giornali; e il Pujatti, l’Affò, il Bettinelli ed altri vennero a lunghi litigi nel 1783.

148.  Troppe scritture di quel tempo attestano la rilassatezza e peggio del clero, e principalmente del regolare.

149.  Prima memoria, 21 luglio 1781. La lettera 3 agosto al teologo ducale comincia: — Stanca S. A. R. del mal umore, animosità e contegno molto strano, col quale il santo padre tratta gli affari della Toscana, ecc.

150.  Lettera del 10 luglio 1782 al segretario Seratti. Il Ricci teneva corrispondenza coi Giansenisti d’oltremonte, e si hanno venti lettere sue al famoso vescovo Grégoire, ostilissime a Roma. La Chiesa scismatica di Utrecht diresse un’esortatoria al vescovo di Colle, quando supponeva ch’egli avesse adunato un sinodo diocesano; recata da Zobi nel vol. III. doc. 125.

151.  Vedi Istoria dell’assemblea degli arcivescovi e vescovi della Toscana, tenuta in Firenze l’anno 1787; Punti ecclesiastici, compilati e trasmessi da S. A. R. a tutti gli arcivescovi e vescovi della Toscana, e loro rispettive risposte, Firenze 1788. Sul frontispizio v’è una stampa con figure simboliche, e al di sotto un genietto che tiene aperto un libro, sul quale è scritto Encyclopédie. Ricci vi propugna costantemente i principi giansenistici, e come modello presenta il sinodo giansenistico di Utrecht del 1763, esortando i vescovi toscani a imitarlo, ricevendovi i curati come giudici, e premunendoli contro gl’intrighi della Corte di Roma, che adoprerà i monaci e il nunzio per mandarli a vuoto; disapprova l’Indice de’ libri proibiti, e molti ne raccomanda in questo inseriti.

152.  Allora uscì un libello famoso, il Conclave dell’anno 1774, dramma per musica, con parodie ed emistichj del Metastasio. Era stato fatto dai nemici del cardinale Zelada, perchè non riuscisse papa: l’autore scoperto fu condannato a morte; ma il Zelada fu fortunato d’ottenergli la grazia: pure gli epigrammi lanciatigli valsero a questo una trista celebrità. Eppure egli aveva ricchissima biblioteca e medaglie e macchine, fece costruire una specola al Vaticano, e raccoglieva e favoriva i dotti. 1717-81.

153.  Quel che pel Gaetanino dicevasi di Gregorio XVI, si diceva pure di Pio VI per uno Stefano Brandi suo factotum.

154.  Lettera 11 gennajo 1782.

155.  Il filosofista Bourgoing, nei Mémoires historiques et philosophiques sur Pie VI dice: — Era una frenesia di trovarsi sul passaggio del papa; il corso del Danubio ostruivano le barche dei curiosi; a venti a trentamila affollavansi nelle vie che riescono alla Corte, chiedendo a gran voci la benedizione del papa, e più volte il giorno Pio VI doveva comparire al balcone per concedere alla folla quel facile favore. Si temette di mancare di sussistenze, tanta gente accorreva a Vienna dai paesi più remoti. Fu notata l’ostinazione d’un paesano che veniva da sessanta leghe lontano per veder il papa. Arrivato, andò a mettersi in una sala dell’appartamento ov’era sua santità. — Cosa volete qua? gli chiese la guardia. — Veder il papa.Non è questo il luogo: andatevene.Oh no: aspetterò finchè venga; io non ho fretta, io. Badate pure anche voi alle cose vostre. E siede, e mangia il suo pane in santa pace. Da alquante ore aspettava, quando l’imperatore saputolo, l’introdusse egli stesso dal papa, che l’accolse bene, gli diede la mano a baciare, e la sua benedizione e alcune medaglie che aveva portate da Roma. To’ to’ (esclamava il villano) e questi Viennesi non m’avevano detto che il papa desse denari a quei che vanno a trovarlo».

Egli stesso reca le parole d’un protestante: — La presenza del papa a Vienna produsse effetti stupendi, e non mi meraviglio che altre volte operasse strane rivoluzioni. Molte fiate ho visto il papa nell’atto che dava la benedizione al popolo di questa capitale: io non sono cattolico, non facile alla commozione, ma v’assicuro che questo spettacolo mi ha intenerito alle lagrime. Quant’è interessante veder forse cinquantamila uomini uniti nel luogo stesso, dello stesso sentimento, portando negli sguardi e negli atti l’impronta della devozione e dell’entusiasmo, con cui aspettano una benedizione, da cui dipende la loro prosperità in questa e la felicità nell’altra vita! Assorti in quest’oggetto, non s’avvedono di stare incomodi; accalcati gli uni contro gli altri, respirando a fatica, vedono apparir il capo della Chiesa cattolica in tutta la sua pompa, colla tiara in capo, cogli abiti pontificali, sacri per essi, magnifici per tutti, cinto da cardinali che vi si trovavano, e dall’alto clero. Egli si curva verso terra, alza il braccio verso il cielo come persuaso profondamente che vi porta i voti di tutto un popolo, e che negli occhi esprime la brama che siano esauditi. Figuratevi tali funzioni compite da un vecchio di maestosa statura, della più nobile e graziosa fisionomia, e non sentitevi commosso, se potete, al vedere questa folla immensa precipitarsi a ginocchi al momento che si dà la benedizione, ricevendola con entusiasmo pari a quello di chi la dà. Certo, io serberò tutta la vita l’impressione di questa scena. Quanto non dev’essere viva e profonda in quelli che sono disposti a lasciarsi affascinare dagli atti esterni!»

Pasquino ebbe a dire che il papa andò a Vienna a cantar una messa senza gloria per lui, senza credo per l’imperatore.

156.  Fra quelli che meglio osservarono l’Italia fu Carlo di Bonstetten, nato a Berna il 1745, morto a Ginevra il 1832, autore di molte opere d’economia, di morale, di viaggi, notevoli per delicatezza e giusto amore dell’umanità. — Il mio viaggio in Italia (scrive egli) cominciò da Milano. Gorani m’aveva dato lettere pel conte Verri, che mi presentò a Firmian, ministro e in realtà vicerè della Lombardia. È d’alta statura, e la pinguetudine non nuoce all’aria sua di dignità intelligente, nel cui fondo si fa sentire la bontà. Mi prese a voler bene, ero invitato tre o quattro volte per settimana a desinare da lui. Alla tavola non faceasi conversazione generale, e si stava a un bel presso come dinanzi a un sovrano. Quando parlava lui, tutti taceano. Essendo seduto presso di esso, mi servii del suo vino di Tokai; e il cameriere mi avvertì ch’era riservato pel conte. Chi farebbe adesso siffatta distinzione? Il conte aveva udienze numerosissime; ciascuno comparivagli dinanzi alla sua volta; bisognava essere spicci, ma si era ascoltati e compresi; erano quasi processioni, e non si faceva che passare. Firmian era rispettato ed amato a Milano; pure nel Governo tedesco v’ha qualche cosa che non si affà agl’Italiani. Malgrado le virtù di Firmian, si ribramava la dominazione spagnuola, che pure era tanto inferiore all’austriaca. Pel carattere ancor più che per la giustizia si governano i popoli: l’armonia de’ caratteri è il legame naturale fra le nazioni. L’amore dell’ordine, proprio de’ Tedeschi, è una linea troppo dritta e dura per le anime passionate del Mezzodì, più elastiche assai che i Tedeschi. Ai dì nostri non abbiam veduto i Francesi, mentre smungeano agli Italiani oro e sangue, esserne mille volte più amati che non gli Austriaci, i quali, col loro sistema da marito geloso, fanno odiare fin le virtù de’ padroni? I Francesi aveano in Italia per alleata l’immaginazione nazionale, che il Governo tedesco mette incessantemente alla tortura: i Francesi regnavano per la speranza, gli Austriaci pel terrore. Fra i due Governi corre questo divario, che in quel della speranza voi avete per alleate tutte le illusioni e le realtà, in quel del terrore nulla si spera da colui che si odia».

A Roma egli conversò molto con Carlo Edoardo Stuart, il pretendente d’Inghilterra, marito di quella Stolberg contessa d’Albany, che fu l’amata del poeta Alfieri, e l’amante del pittore Fabre.

157.  In molte trattative per l’apertura della Schelda Giuseppe II adoprò come plenipotenziario il conte Luigi di Belgiojoso, che il 4 maggio 1784 presentò agli Stati d’Olanda il Quadro sommario delle pretensioni dell’imperatore.

158.  Lettera del 1728 al conte d’Aguirre avvocato fiscale, il quale era in corrispondenza co’ migliori del tempo, e molte lettere a lui figurano nel Catalogue raisonné del Crevenna.

159.  Marco Foscarini, ambasciator veneto, riferisce che il re erasi assegnato pel proprio spillatico lire trentaseimila di Piemonte; ottomila al duca di Savoja: l’Ormea, ministro di Stato, gran cancelliere, gran cordone dell’Annunziata, avea il soldo di lire mille e cencinquanta. Tenuissimi erano gli stipendj de’ professori all’Università: lire mille quei di medicina, seicento di chirurgia, mille settecento di greco, mille ducento d’eloquenza, tremila di diritto civile.

160.  Per la sua nascita il Manfredi scrisse il bel sonetto:

Vidi Italia col crin sparso e negletto

Colà dove la Dora in Po declina...

161.  Roberti, Lettera ad un professore nel Friuli, del 1777.

162.  Il re, prevedendo la spensierataggine del suo successore, radunò ben 18 milioni di lire che ripose dentro un muro, e non ne sapeva il segreto se non il Bogino. Questi in fatto, quando il bisogno venne, le passò al re.

Il Bogino spodestato si volse al ritratto del vecchio re esclamando: «Non sono ancor fredde le vostre membra, e vi si fa l’oltraggio di congedar quello che vi fu il più devoto servidore».

Il Lalande racconta che la spada deposta sul feretro di Carlo Emanuele III doveva appartenere al gran scudiere; ma Vittorio Amedeo ne sostituì una adorna di diamanti, dicendo: — Voglio conservar la spada che servì a Guastalla».

Il re (scrisse il viaggiatore francese) levasi alle sette; a otto e mezzo lavora coi ministri, un dopo l’altro, non tenendo consiglio; alle undici passa dalla regina, e va a messa; dopo pranzo dà udienza a chi vuole; poi al passeggio, poi cena in famiglia. Due volte la settimana v’è circolo dalla regina, dove vanno sole donne, e gli ambasciatori o gli stranieri presentati».

163.  Per le nozze di Carlo Emanuele con Clotilde di Francia, la quale poi morì nel 1802 in odore di santità, il Bodoni pubblicò un miracolo di tipografia, cioè un volume in gran foglio col titolo Epithalamia exoticis linguis reddita, dove le trentaquattro città del Piemonte fanno voti in trentaquattro lingue diverse; con belle stampe d’Evangelista Ferrari, esprimenti le effigie dei duchi di Savoja e i fasti delle città: l’orientalista Bernardo De Rossi adoprò quelle varie lingue, del che non eravi esempio, giacchè il Monumentum romanum ad onore del Peiresc fu compilato da molti dotti insieme: il padre Paciaudi illustrò in latino le incisioni: Gaston Rezzonico descrisse il tutto in un lunghissimo poemetto, stampato dallo stesso Bodoni.

164.  «Qualche momento prima di partire dai regj appartamenti, fece (Carlo III) la pubblica cessione di questi regni all’infante don Ferdinando suo terzogenito, che seguì, venendo letta dal marchese Tanucci segretario di Stato, stando la maestà sua cattolica sotto al baldacchino, con alla sinistra il suddetto Ferdinando, in presenza del suo consiglio di Stato, del consiglio di Santa Chiara, del luogotenente della Camera, della giunta di Sicilia, e dei deputati di Palermo. Dovendo poi il re di Spagna cinger la spada al nuovo re di Napoli e dargli il tosone, S. M. C. gli disse che con la medesima lui aveva acquistati questi regni, che dovea servirgli a difesa della cattolica religione, di se medesimo e de’ suoi vassalli. Non potè tutta eseguir quest’azione, perchè, impedito dalle lacrime, fuggì a sfogarle, ossia a confonderle con quelle della regina, che era in altra stanza ritirata». Lettera del residente veneto, 11 ottobre 1759.

165.  On ne comprend pas comment Tanucci a pu se faire une si grande réputation de sagesse, dice il Gorani, e cita le insane sue tariffe che empirono il paese di contrabbandieri.

166.  Il Botta asserisce aver lui veduto il dispaccio. Del resto il motto non disdice all’uomo che di sua moglie diceva: — Dorme come una marmotta, e suda come una troja».

167.  Angiolino del Duca, povero villano servivasi d’una mula, ed essendogli morta, e il padrone volendone il prezzo, egli fu costretto vendere i pochi arredi, onde buttossi alla campagna e divenne brigante famoso. Spogliava baroni e signori, risparmiava i forestieri, anzi li scortava; passava di villaggio in villaggio, piantando tribunale e trovando facilmente in colpa i ricchi; ad altri scriveva lettere garbate, determinando le somme che doveano; talvolta agli assaliti toglieva sol la metà del denaro. Divideva lealmente il bottino co’ suoi, non assassinò mai. Avea proposto al re di mantener la quiete in tutto il regno se gli fissasse un soldo e un grado; e anche dopo il supplizio il popolo lo rimpiangeva come amico del popolo.

168.  Pietro C. Ulloa (Pensées et souvenirs sur la littérature contemporaine du royame de Naples, Ginevra 1859) fece una pittura molta lusinghiera del reame alla fine del secolo passato.

La nobiltà, attirata presso al monarca, era ancora una classe privilegiata, ma dei due diritti che un tempo aveva di opprimere e di proteggere non avea conservato che il secondo. Non formava una Casta, non aveva essiccata la fonte delle sue entrate, non dispettava le riforme, non ricusava contribuire ai pubblici aggravj, onde non era impopolare. Il terzo stato era padrone quasi di tutto ciò che costituisce la ricchezza nazionale, il lavoro agricolo, l’industria, i capitali; esso attivava tutte le forze produttive: in esso gli avvocati, i medici, i precettori, gli artisti, i letterati, i filosofi. La nobiltà se ne valeva, onorava nelle classi inferiori un’esistenza utile, acquistata col lavoro e colle dottrine. Per mezzo della nobiltà la grazia e l’eleganza della Corte passavano nelle relazioni delle classi medie, e fin negli scritti. Nel popolo s’aveva ancora della miseria, ma non più le gravose fatiche, le cocenti cure, le esistenze diseredate, che le grandi città alimentano col soldo giornaliero. Il popolo, men capace di dissimulazione che di riflessione, e che non vedeva se non benefizj, sottometteasi volentieri alle leggi, alla preminenza delle classi elevate e massime delle famiglie storiche. ..... Il popolo di Masaniello aveva dimenticato le vecchie agitazioni, e non sentiva più il pungiglione della miseria, onde non sognava che feste o godimenti. ..... Coi Borboni il potere monarchico divenne il guardiano del diritto comune, e secondo il progresso della civiltà per mezzo dell’ordine, e dell’eguaglianza per mezzo dell’uniformità, il potere sviluppavasi sempre nel senso dell’interesse generale: nè mai il carattere de’ principi, il movimento degli spiriti, l’affluenza di valent’uomini aveva tanto illustrato il nostro paese».

Il Tanucci da Portici, il 15 ottobre 1763, scriveva al Caracciolo inviato a Torino:

«Per la preferenza del popolo e coltivazione del Piemonte sopra quella di questo regno, che io leggo nella rivista confidenziale dei 5, pare che V. E. non abbia veduto il tratto del regno ch’è tra Barletta ed Otranto, tratto pieno di città e terre abitatissime e tutto coltivatissimo; inoltre più vasto del Piemonte e più ricco di generi di estrazione. La sola seta è l’estrazione del Piemonte, ed in quel tratto, oltre la seta, sono grani, vini, olio, mandorle, passi e manna. Le città poi vi sono lodevoli quanto coteste. Non è Lecce meno di Vercelli, Barletta meno di Nizza, Bari meno di Casale, Bisceglie meno di Alba, Bitonto meno di Ivrea, Trani meno di Aosta, Monopoli meno di Fossano, Altamura meno di Mondovì, Gallipoli meno di Saluzzo, Taranto meno di Carmagnola, Acqui meno di Brindisi, ecc. L’Abruzzo è certamente più grande, più popolato, più fertile della Savoja. Certamente, dell’Italia da me veduta, il tratto tra Nocera dei Pagani e Francolise, cioè non meno di cinquanta miglia tra levante e ponente estivo, e di venti tra mezzogiorno e settentrione, è il più fertile e il più popolato. Li casali tra due e cinque mila anime son così frequenti che pajon contigui, e non vi sta meno d’un mezzo milione d’anime; e il grano vi è poco quando fa solamente il 12 per uno, ed i territorj si affittano regolarmente a dieci e dodici ducati il moggio. La provincia di Lucera, ch’è la più spopolata, alimenta due milioni di pecore, od altre bestie utili, e produce quel tanto grano che ognuno sa, e la manna infinita e celebre del Gargáno. Niuno controverte al regno tre milioni e mezzo d’anime, niuno la fertilità del triplo dei generi della Lombardia. L’ineguaglianza è poi vera, ma io non voglio parlare della ragione, sì perchè è inevitabile ove son più di mille baroni, con l’enorme giurisdizione che ella sa, sì perchè, ministro essendo dei Borboni, non devo entrare nel governo di due secoli d’un’altra famiglia, sì finalmente perchè essendo forestiero, non devo criticare il Ministero del paese. Ma appunto l’essere toscano mi somministra una idea terribile di cotesto catasto, per cui una famiglia paga cinque zecchini e un quarto e mezzo l’anno. Regolarmente li possessori dei terreni son la decima parte di un popolo ben diviso, laonde ad una famiglia possessora toccano cinquantacinque zecchini, almeno nell’alta Toscana, che equivale al Piemonte nel popolo, nell’estensione, nella cultura, nella fertilità, essendo da levante a ponente cento e venti miglia, e cinquanta da tramontana a mezzogiorno e più, ed è ugualmente divisa e distribuita una famiglia per l’altra delle posseditrici dei beni, paga soli trenta zecchini di catasto, eppure, oltre li stessi generi del Piemonte produce per li suoi tre quarti olio, che nel Piemonte è solamente nelle campagne di Nizza. Mi ricordo di aver veduto le campagne bianche e sterili di Vercelli, quali niuna è nell’alta Toscana, che uguagli in sterilità. Le città dell’alta Toscana, oltre Firenze che per tutte le cagioni è il doppio di Torino; Pisa, Livorno, Volterra, Pistoja, Pescia, Prato, Colle, San Miniato, Arezzo, S. Sepolcro, Cortona, Montepulciano, oltre un numero grandissimo di casali e terre riguardevoli, che equivagliono alle città. La bassa Toscana, vastissimo e spopolato paese, benchè fertile di grani e bestiami, lo paragono alla Savoja, ove però non sarà una città come Siena, capo della bassa Toscana, e forse nessuno come Grosseto, Montalcino e Chiusi, eccettuato Chambéry. In Toscana il catasto è del popolo, non del principe, e di esso si pagano li magistrati colli loro sbirri e subalterni, che son tutti salariati, le strade, li ponti, le muraglie, li castelli, li medici ecc., e un regalo al principe di cento mila zecchini annui. Del principe sono duecento mila zecchini delle farine, o sia testatico, altrettanti delle dogane, e circa altrettanti tra tabacco, posta, vigesima, tratte; altrettanti sarebbero quelli del sale, ma questa rendita è tutta venduta ai privati. — Questo metodo mostra che il catasto non è che la quinta parte di quello che paga la Toscana allo Stato e al sovrano, e su questo metodo calcolando, dovrebbe cotesto Stato e cotesto sovrano aver cinque milioni di zecchini, avendone un milione del solo catasto: Credat Judæus apella. Passan li Piemontesi per cavalieri d’industria e fanfaroni. Si sa che prima di questo secolo era cotesto Stato qualche cosa meno della Toscana; si crede che le conquiste lo abbiano raddoppiato in questo secolo, ma si crede ancora comunemente che di rendite, che limpide vadano in man del sovrano da spenderle per la truppa e per la Corte, sia sospetta questa quantità, che si dice sopra un milione di zecchini, e sia notoria fanfaronata quel che si dice sopra un milione e ducento mila di zecchini, perchè è notorio che cotesta Corte non spende più di duecento mila zecchini, ed è anche notorio che un milione di zecchini basta a mantenere lautamente quaranta mila uomini.

«Serbi, signor marchese, cotesto panegirico del Piemonte a quando sarà stato due anni nel Veneziano, due in Toscana, ed avrà veduto con agio la Puglia, la Calabria, l’Abruzzo, la Lucania, la Campagna felice e la Sicilia, delle quali vedo ch’è poco informata».

Poc’anzi fu trovato il carteggio del Tanucci in 31 volumi dal 1763 al 1774.

Una volta la settimana scriveva a Carlo III.

169.  

La spesa portava: per l’esercito ducati 3,500,000
Per l’armata » 1,000,000
Onorarj di magistrati » 150,000
Emolumenti di ministri e loro impiegati » 150.000
Mantenimento delle fortezze e altri edifizj » 200,000
Pensioni » 200,000
L’entrata dava 7 milioni di ducati, sicchè avanzavano ogn’anno » 1,800,000

L’esercito componeasi di trentacinquemila uomini, di cui seimila stavano in Sicilia, quattromila erano Svizzeri. Sono importanti i Mémoires sur le royaume de Naples del sig. Orloff, sebbene passionati: credonsi opera del napoletano De Angelo. Vedi pure Coco, Sulla rivoluzione di Napoli; Galanti, Descrizione geografica e politica delle Sicilie; Arrighi, Saggio storico per servire di studio alle rivoluzioni di Napoli.

* Nel 1774 fu fatta legge a Napoli che i magistrati dovessero motivar le sentenze sopra testi di legge. Ma quali erano i testi di legge da citare? Fu allora che Carlo Pecchia, mastro d’atti ossia cancelliere alla vicaria, tolse ad esporre tutte le leggi da cui doveasi dedurre il diritto allora vigente, cominciando dalle longobardiche, e via via a quelle della monarchia. Peccato che la morte interrompesse un lavoro, fatto con precisione, dottrina e critica, e certo molto più utile di quel del Filangieri, anche dopo che parve scienza il disprezzare tutta quella de’ nostri padri.

170.  Benchè egli frenasse le esorbitanze de’ baroni, prestazioni e aggravj sussistettero, tantochè nella costituzione del 1812 leggiamo: — Le angarie e perangarie introdotte soltanto dalla prerogativa signorile restano abolite senza indennizzazione. E quindi cesseranno le corrispondenze di gallina, di testatico, di fumo, di vetture, le obbligazioni a trasportare in preferenza i generi del barone, di vendere con prelazione i prodotti allo stesso, e tutte le opere personali e prestazioni servili provenienti dalla condizione di vassallo a signore. Sono egualmente aboliti senza indennizzazione i diritti privativi e proibitivi per non molire i cittadini in altri tappeti e molini fuori che in quello dello stesso, di non condursi altrove che nei di lui alberghi, fondachi ed osterie; i diritti di zagato per non vendere commestibili e potabili in altro luogo che nella taverna baronale e simili, qualora fossero stabiliti dalla semplice prerogativa signorile e forza baronale».

Anche nel Napoletano, Davide Winspeare noverava mille trecennovantacinque diritti su cose o persone, sussistenti ancora quando arrivarono i Napoleonidi.

171.  De Tommasi, Documenti di storia lucchese nell’Archivio storico, vol. X.

172.  Alcune son pubblicate dal Minutoli nel vol. X dell’Archivio storico di Firenze.

173.  Anton Francesco, altro figlio del Sampiero, ebbe stato alla Corte di Francia, e accompagnò a Roma l’ambasciadore d’Enrico III. Quivi avendo offeso a parole un signore della Roggia, questo s’accontò cogli altri gentiluomini dell’ambasciata, e col pretesto di visitar le ruine del Colosseo, ivi lo trucidò nel 1580. Il traditore non era il Corso.

174.  Questo stato non cessò per anco: prova contro chi ne incolpa il Governo genovese. Pasquale Paoli dichiarò infame chi violasse una pace giurata; e in faccia alla sua casa alzavasi un palo, segno di postera infamia.

Nel 1835 la città di Sartena, e i comuni di Gavignano, Fossano, Santa Lucia di Tallano ed altri erano sossopra per tale guerra intestina, e le condanne o assoluzioni divenivano nuovo fomite ed occasione di rancore; e passavano perfino anni intieri senza che un matrimonio fosse iscritto sui libri. Il generale Lallemand, già compagno di Napoleone e allora pari di Francia, unito all’avvocato Figarelli, pensò tor via questi scandali, e colle buone di qua, di là, riuscirono a far soscrivere le paci, ed ebbe la bella gloria di mantenerla per molti anni ne’ cinquantacinque Comuni dell’isola.

A Santa Lucia di Tallano, il prete Giovanni Santa Lucia, capo d’un partito composto della sua famiglia e de’ Giacomini, e avverso a quel de’ Poli e dei Chiliscini, risvegliò le ire nel 1839, facendo o lasciando eseguire un assassinio: Giudice Giacomini vi preparò gli spiriti col metter fuori i calzoni di suo figlio, ammazzato già tempo dagli avversarj, e minacciar la moglie dell’uccisore: alfine furon morti di fucilata un Chiliscini e un Poli in una festa di nozze.

Poc’anni fa morì il Franceschino, famoso bandito, che traevasi dietro una banda di due o trecento uomini, e che, oltre saccheggiare ed esercitare la vendetta pretendea far miracoli, e molti ne operò. Una volta propose di risuscitar un morto, e tra la folla accorsa al nuovo spettacolo venne pure il prefetto d’Ajaccio, con buona scorta, che indusse i paesani a questo patto: se il miracolo succedesse, onorerebbe grandemente egli pure il Franceschino; se no, essi gliel consegnerebbero. Il bandito stimò opportuno sottrarsi alla prova, e fuggì a Roma, ove morì cappuccino.

Nel gennajo del 1855 il bandito Castelli nella pieve di Fimorbo, ricca d’eccellenti uffiziali come di audacissimi facinorosi, compì imprese romanzesche e scelleratissime.

Basta guardar la Gazzetta de’ tribunali di Parigi per trovarvi continui esempj di siffatte vendette.

175.  Vedi Tommaseo, Canti côrsi, e Vita di Pasquale Paoli.

176.  Tra i prigionieri rimase il vecchio Bernardino di Casaccione cappuccino, uno de’ molti frati che quell’insurrezione sospinsero e alimentarono. Egli professò altamente creder giusta la rivolta de’ Côrsi, e non rifiutar pena per sostener quest’asserto. Mandato a Genova, per intercessione di Roma fu confinato in un convento. Così richiedeano i privilegi d’allora, tolti i quali, in tempi più boriosi di civiltà come gli odierni, per casi simili non si ebbero che polvere e piombo e capestro.

177.  Arina, Delle cose di Corsica dal 1750 al 68.

178.  Era una curiosità l’aver monete di re Teodoro, e i piccoli da cinque soldi pagaronsi fin quattro zecchini, e portavano: Theodorus rex — Rego pro bono publico. Un’altra d’argento portava la Madonna col motto: Monstra te esse matrem, e al rovescio le armi del regno.

Una biografia di re Teodoro, espressiva come la realtà, fantastica e patetica come un romanzo, fu stesa poc’anzi da Carlo Augusto Varnhagen d’Ense, il quale conchiude: — Nel 1736 un Westfaliano fu re in Corsica; settantatre anni dopo, un Côrso era re in Westfalia».

179.  A proposito della conquista della Corsica, Voltaire scriveva nel 1769 al signor Bargemont: Je crois comme vous qu’on casse des cruches de terre avec des louis d’or; et qu’après s’être emparé d’un pays très-misérable, il en coûtera plus peut-être pour le conserver que pour l’avoir conquis. Je ne sais s’il n’eût pas mieux valu simplement s’en déclarer protecteur avec un tribut; mais ceux qui gouvernent ont des lumières, que les particuliers ne peuvent avoir. Il se peut que la Corse devienne nécessaire dans les dissensions qui surviendront en Italie. Cette guerre exerce le soldat et l’accoutume à manœuvrer dans un pays de montagnes. D’ailleurs cette entreprise étant une fois commencée, on ne pourrait guère y renoncer sans honte. Lettere inedite di Voltaire, del signor Cayrol, 1856.

Cioè anche Voltaire intonava la canzone, ripetuta anche testè, che, quando l’onore della Francia è impegnato, bisogna andar innanzi, giustizia o no.

180.  Vir nemoris è il titolo d’un poemetto latino, in costui lode composto da Ottaviano Savelli amico dell’Alfieri.

181.  Vol. I. p. 100.

182.  La contea di Gorizia (di cui una storia in italiano da Carlo Morelli di Schönfeld fu stampata a Gorizia il 1855) fu invasa dalla lingua italiana e dal dialetto friulano. Le cause trattavansi in latino, e avendo la reggenza di Vienna nel 1556 ricusato d’accettare atti in questa lingua, si prese a farli in italiano, che divenne comune nel fôro sinchè gli stati goriziani ordinarono che il patrocinio si sostenesse da avvocati tedeschi e le scritture e arringhe si facessero in latino. Ma fu inutile, e prevalse l’italiano; italiani erano i predicatori, i primi cancellieri; e il giuramento prestato nel 1564 all’arciduca Carlo fu nelle lingue tedesca, slava e italiana. La moneta corrente era la veneziana. L’imperatore Leopoldo I, stando nel 1660 a ricever l’omaggio della contea di Gorizia, scriveva al maggiordomo dell’arciduca Carlo suo fratello: — Il paese, il clima, il non sentir favellare altra lingua che l’italiano, mi fanno scrivere anche nella medesima». Solo a metà del Settecento si diffusero il parlare e i costumi tedeschi, ma l’italiano vi ebbe sempre corso.

183.  Il ducato equivale a lire 4.19. Il bilancio del 1783 portava:

Entrata per gli appalti ducati 1,399,613
Dazj della dominante » 1,469,523
Nella terraferma » 1,016,677
Nella Dalmazia » 29,335
In Levante » 94,564
Gravezze della dominante » 562,444
Della Terraferma » 510,634
Della Dalmazia » 66,722
Del Levante » 84,503
La spesa ammontava » 6,624,668
di cui le milizie di terra e di mare, e le fortificazioni assorbivano » 2,097,618
L’istruzione pubblica » 51,812
Le pubbliche costruzioni » 119,255

Una minuta descrizione dello Stato veneto nel secolo passato fu fatta dal gesuita Tentori.

184.  28 maggio 1762. «L’anderà parte che, qualora il serenissimo principe, assistendo al senato, giudicasse conferente alla sua salute il levarsi, debba in questo caso esser accompagnato, come in figura privata, da due soli dei consiglieri e da un capo de’ XL, quali discendendo per la scala degli elezionarj, e trovando fuori del Pregadi il solito corteggio del suo cavaliere e de’ suoi scudieri, lo accompagneranno fino alle sue stanze. In tal modo rimanendo nel senato li quattro consiglieri e li due capi de’ XL, che si rendono necessarj per le pubbliche leggi, continuerà senza turbamento e interruzione alcuna la trattazione de’ pubblici incamminati affari, e libero il serenissimo principe dell’apprensione e pericolo di sua salute, potrà esser frequente ad assistervi, e col suo esempio dar eccitamento a tutti li cittadini destinati a formar il senato, ad esser sempre assidui al miglior bene di questa nostra adoratissima patria.

«E la presente sia stampata ed aggiunta alla promission ducale».

185.  Dopo i trattati del 1603 e 1706 vennero a stabilirsi a Venezia tanti Grigioni, e tante botteghe v’aprirono, che la Repubblica temette pregiudicassero ai proprj sudditi, sicchè dichiarò sciolta l’alleanza nel 1766, i Grigioni sottoposti alle leggi della Repubblica, e vietato d’esercitarvi arti. Anche quando Clemente VII concesse portofranco ad Ancona e fiera a Sinigaglia, i Veneziani proibirono ai loro sudditi di recarvisi.

186.  Nel viaggio del granduca Cosimo III nel 1664, pubblicato dal Moreni, si dice delle Benedettine di San Lorenzo: «È questo il più ricco monastero di Venezia, e vi sono sopra cento madri, tutte gentildonne. Vestono leggiadrissimamente con abito bianco come alla franzese, il busto di bisso a piegoline, e le professe trina nera larga tre dita sulle costure di esso: velo piccolo cinge loro la fronte, sotto il quale escono i capelli arricciati e lindamente accomodati, seno mezzo scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache».

187.  Era proverbio «la mattina una messetta, l’apodisnar una bassetta, e la sera una donnetta». Vedi Mutinelli, Gli ultimi cinquant’anni della Repubblica. Fu confutato come troppo rigoroso, ma «Non è, s’io scorgo il vero, Di chi l’offende il difensor men fiero».

188.  Il Mutinelli adduce le spese fatte il 2 maggio 1796 per l’ingresso di Almorò Pisani come procuratore di San Marco; le quali ammontano a lire 93,635, oltre il pane e vino. Il ritratto del procuratore, inciso a Londra dal Bartolozzi, costò cento ghinee.

189.  Sono descritte anche dal Cicogna nelle Iscrizioni venete.

190.  Fu difesa tal pratica nell’opuscolo Delle celebri carte che invocano e protestano immacolata la concezione di Maria, e loro uso se sia da permettersi. Padova 1752.

191.  Don Antonio Montagnano d’Udine stampava contro i beni posseduti da manimorte.

192.  Allora fu fatto questo epigramma:

Destructis templis, lusoria tecta resurgunt;

Fortunæ et Veneris sunt hæc communia templa.

Ma è una baja che nel 1756 il Calbo fosse esigliato perchè favorevole al papa.

193.  

Le se prova elle de dar un’ochiada

In prima attorno questa dominante

Da sto progeto meza sfigurada.

Le zira per un poco tute quante

Le contrade, e le cerca ogni sestier,

I canali, le cale, e tante e tante

Strade dove sia chiesa o monastier,

E le diga se alcune ghe ne resta

Imune, salva, illesa da veder...

Le prego accompagnarne sin al Lido

Dove me par che su la spiagia un grido

Tuto a l’intorno assurdi e cielo e mar

De zente priva de socorso e nido.

Questa, le se la pol imaginar,

Questa xe quela tal popolazion

Che ogni dì soleva alimentar

Da una nobile insigne religion,

Che a setecento e più de quel distreto,

Mossa da religiosa compassion

La ghe somministrava, oltre el paneto,

La carne, el riso, el sal, el vin, la legna,

L’ogio, i medicinali, el soldo, el leto,

E a compimento d’opera sì degna,

A tanti e tanti l’abito, el mantelo...

San Nicolò de Lido, monastier

Cussì famoso un tempo e cussì antigo,

Convertido le ’l vede in un quartier...

Eh via, tiolè per man con più rason

Sta libertà, sto lusso, ste angarie,

Ste trupe, sto arsenal, ste mercanzie

Che pur tropo le xe in desolation...

Con manco scienza ma con più cervelo

Alora oh se pareva assai più bon!

Tutti mercanti gera in marzarìa

De lane, d’ori, arzenti, merli e sede,

La città tutta rica e ben fornìa.

Ancuo ste cosse più non le se vede.

È vero, ma la testa xe guarìa

De tutti i pregiudizj de la fede...

Ma sto metter la man in sacrestia

E ’l resto lassar correr sin che ’l va,

No so da dove el vegna e cosa el sia.

194.  Cortesiani «erano bottegaj, artisti e qualche prete, uomini destri, onorati, conoscitori di tutto il mondo veneto, bravi, rispettati dalla plebe per il loro coraggio, per le loro inframmesse nelle baruffe, e per il titolo che s’erano acquistato di cortigiani, e sapevano come si fa a poco spendere e a molto godere». Carlo Gozzi, Memorie, pag. 133.

195.  Goldoni, Memorie, tom. I, pag. 254.

196.  Questi magistrati incoavano i processi criminali, faceano pubblica lettura delle leggi antiche, e custodivano il libro d’oro, quello cioè dove erano registrate le nascite de’ figli legittimi di nobili e i loro matrimonj.

197.  «Molte disuguaglianze, el savemo tutti, passa fra i nobili. I somi uffizj e le dignità, le magiori aderenze o minori, le fortune domestiche, e l’istesso favor dei animi gode più o meno introduzione de notabili diferenze fra i omeni de republica, ma nessuna de queste fa ingiuria a la sostanzial parte che core tra loro, parità coetanea a la nascita, e che forma la base d’ogni governo aristocratico, la quale xe posta ne l’uniforme de la libertà, ne l’indistinta sogezion a le leggi, e sì ancora ne l’aver comuni i pericoli, e comuni pur anche i riti e la contingenza dei giudizj. Se un patrizio, apena venudo in mazor Consegio se fosse avicinà a mi stamatina, e m’avesse dito, — Sior procurator, ella che sa tanto ben le cosse de la patria, la prego a sincerarme se, come citadin de republica, la mia condizion xe pari o no a la soa», son certo che avria risposto, stupirme assae de la so mala educazion, e che l’ignorasse le virtù più necessarie a saverse da omo libero: dopo de che, — Nessuna diferenza (prenderia a dir) core fra la soa e la mia persona, mentre ela pol eceder per virtù dal grado mio, e mi a rincontro posso decaderne per colpa». Ma quando mai sto medesimo citadin, acolta che sia la parte dei do coretori, me rinovasse la ricerca, doverave alora, seben pianzendo, ritratarme, e po amonirlo fraternamente per el sol megio a sfugir de qua in avanti ogn’incontro coi citadini esenti. Le vede che no parlo per mi. Sostento la parità de la censura, val a dir l’uguaglianza de la vita civil messa in pericolo dopiamente, e per l’animo vario ne i delatori, secondo la varia condizion dei omeni sogeti a l’acusa, e per l’imunità del giudizio somario, espressamente concessa a le dignità più sublimi; e però me sento inorridir nel figurarme che sti momenti estremi del mio parlar possa esser i ultimi ancor de la comun libertà: mentre, guastada la civil uguaglianza nei Stati liberi, poco avanza per discioglier le restanti compagini de la republica. Ricorderemo i tempi lutuosi del 1690, frenai a stento e ricomposti da quell’unica podestà che ancuo pende incerta dai voti nostri. In logo de un sol tribunal antico, anuo, temperato, le se aspeti de sofrirne molti ad un tempo, e privati e licenziosi e perpetui. Non sa ussirme de la memoria quelo che ho leto fin da la zoventù in un scritor del secolo prossimo trascorso. Vien a Venezia un signor spagnolo de alta sfera, che andava, se no m’ingano, vicerè a Napoli; el gera intervenudo molti anni avanti ne la bataglia de le Curzolari, servendo su la flotta ausiliaria de Spagna, e però l’avea conossudo assae da vicin quel grand’omo de Sebastian Venier, che gera el teror de la Grecia, e che soleva ussir in publico col cortegio de cento e più nobili dipendenti dal so comando. Richiesto el vicerè al so arivo in Napoli cossa l’avesse osservà ne la cità nostra, che a lu paresse più degna d’amirazion, se la chiesa o la piazza del Santo Marco, o pur le scale, o la copia de le piture ezzelenti, o la fina industria de l’arte vetraria, o altra somigliante rarità, — Gnente de questo (sogiunse el Spagnolo) m’a ferio la fantasia; l’unica meravegia per mi xe stada quela de osservar Sebastian Venier sotto le Procuratìe nove in atto de suplicante; e come un vil Grego, che al tempo de la guera avea servio ne l’armada, ghe sia passà davanti senza nè pur cavarse el capelo»; e l’ha terminà sclamando: — Oh beata cità! oh divine leggi, valevoli a conseguir, che l’abito d’una quasi sovrana autorità gustada nei governi oltremarini, e le signorili rappresentanze sostenude in mezo el fasto de le corti, no guasti per gnente al ritorno la moderazion de la vita civil!» Ai stupori de sto Spagnolo formo pronta risposta. Regna qua drento l’uguaglianza del privato costume, perchè avemo trovà maniere de tener viva l’uguaglianza de la censura; ma introdotti che sia novi sistemi ne la cità, no sentiremo più Spagnolo nè altro straniero a far maravegie de le costituzion veneziane».

Le arringhe tenutesi nel 1779 e 80 per la riforma della Repubblica furono poi pubblicate nel 97, e possono dar saggio dell’eloquenza politica veneziana, invero troppo spesso speciale e di cose e di frasi.

198.  VT SACRA ÆSTVARIA VRBIS ET LIBERTATIS SEDES IN PERPETVVM CONSERVENTVR, COLOSSEAS MOLES EX SOLIDO MARMORE CONTRA MARE POSVERE CVRATORES AQVARVM AN. SAL. MDCCLI AB VRBE CON. MCCCXXX. Nel 1709 si vide gelata la laguna, siccome era avvenuto nell’860, e merci e viveri menavansi a Venezia in carriuola.

199.  Vogliam anche notare Antonio Bianchi gondoliere, morto dopo il 1770, autore di molte opere e commedie, e di due poemi, Davide e Il Tempio di Salomone.

200.  Di molti sbagli lo appuntò il gesuita Tentori, che anche esso chiarì non poco la storia veneta.

201.  È di altra casa Bernardino Zanetti trevisano, che scrisse la Storia de’ Goti e Memorie sul regno de’ Longobardi.

202.  Venezia 1806. Vedasi pure la Galleria de’ letterati e artisti illustri delle provincie venete del secolo XVIII; Venezia 1814: che sono ritratti e sobrie notizie.

203.  Dei navigli poliremi usati nella marina dagli antichi Veneziani, memoria dell’ingegnere G. Casoni; fra quelle dell’Ateneo di Venezia, 1838.

204.  Napoleone introdusse le macchine olandesi per trasportare i navigli dall’arsenale al mare traverso i bassi canali.

205.  Machiavelli avea già detto ne’ Decennali:

San Marco alle sue spese, e forse invano,

Tardi conosce come gli bisogna

Tener la spada e non il libro in mano.

206.  Al suo «elogio, stampato da un cittadino nel 1792», è l’epigrafe di Virgilio:

Otia qui rumpet patriæ, residesque movebit

... in arma viros, et jam desueta triumphis

Agmina.

207.  Al 1796 la famiglia Colonna del ramo del gran connestabile possedeva in feudi

il principato di Paliano abitanti 3511
il principato di Sonnino » 2068
nel ripartimento di Genazzano » 20911
nel ripartimento di Pofi » 33195
nel regno di Napoli, nel ripartimento di Tagliacozzo » 26000

oltre paesi molti in Sicilia.

Il ramo de’ Colonna-Sciarra aveva nello Stato pontifizio i principati di Palestrina, di Nerola, di Roviano, di Carbognano, i ducati di Bassanello, di Montelibretti, ecc. con abitanti 16,000; e nel regno di Napoli altri con 6000 abitanti.

208.  An account of the manners of Italy, 1766. Citeremo pure Richard, Description historique et critique de l’Italie, 1766; Busching, Italia geografico-storico-politica, molto accresciuta nella traduzione di Venezia del 1780; Archenholz, Quadro dell’Italia. Le osservazioni del 1764 fatte dal Grosley sotto il nome di due gentiluomini svedesi, sono forse il lavoro più dotto e sagace. Di questi e degli altri può trarsi informazione dalla prefazione del Lalande. Cesare Orlandi aveva cominciato a Perugia nel 1769 una Breve storia e descrizione di tutte le città d’Italia, che poi non proseguì.

209.  Vuol egli scolpare i cicisbei col mostrarli innocenti, e intanto li dipinge peggiori, cioè infemminiti. — Il bel mondo (dic’egli) va in chiesa tra le dieci e le undici del mattino; le gentildonne vi sono accompagnate dai servi e dai cicisbei. Un cicisbeo che conduce la sua dama, deve, sull’entrare nel tempio, precorrerla d’alcuni passi, e sollevar la portiera, intingere il dito nell’acquasanta e porgerla alla signora, che la prende, lo ringrazia con un piccolo inchino, e si segna. Gli scaccini presentano la seggiola alla dama e al suo cicisbeo. Finita la messa, ella porge l’uffizietto al servo o al damo, toglie il ventaglio, s’alza, si segna, fa una riverenza all’altar maggiore, e si avvia preceduta dal cicisbeo, che le offre ancora l’acquasanta, le solleva ancora la cortina, e le dà il braccio per tornar a casa». The Italians, cap. 30.

210.  Fra altri, il Monti si scaglia contro «la mostruosa farragine di sciocchezze della sua ridicola ambulazione in Italia, compilata nelle sagrestie». Ora di ciascuna città il Lalande porge le notizie statistiche, atmosferiche, astronomiche, le persone illustri, le industrie, il commercio, i pesi e le misure e monete, confrontati con quelli di Francia; ebbe cognizione di tutti i viaggiatori antecedenti; chiese i consigli degli uomini speciali, per esempio per Milano dal Volta, dal Tiraboschi, dal Giulini, dal padre La Grange gesuita matematico, che vi dimorava; per Vicenza dall’Arduini; per Padova dal Toaldo e dal Gennari; per Mantova dal Salandri, dal Betti. Poi fece rivedere tutta l’opera dal famoso astronomo La Condamine, e dal toscano Bencirechi maestro a Parigi.

Dopo ciò se prese granchi, se credette che una palma di rame della biblioteca Ambrosiana fosse vera, usiamogli indulgenza col confrontare gli errori che scappano nelle guide scritte da noi. Al Baretti par lodevole per «franchezza, fedeltà, disinteresse, imparzialità, e tale da non aver paragone». La Descrizione storica e critica dell’Italia, pubblicata in otto volumi a Firenze nel 1782, era poco più che una traduzione del Lalande. Il suo viaggio è del 1765-66; poi con molte aggiunte e correzioni ricomparve a Ginevra nel 1790 in sette volumi: Voyage en Italie, contenant l’histoire et les anecdotes les plus singuliers de l’Italie et sa description, les usages, les gouvernements, le commerce, la littérature, les arts, l’histoire naturelle, et les antiquités. Di questo noi ci valiamo.

211.  Viaggiò nel 1740; e solo l’anno VII della repubblica si pubblicarono a Parigi le Lettres historiques et critiques sur l’Italie, 6 volumi. S’ha pure il Viaggio del Coyer; e le Lettere scelte d’un viaggiatore filosofo, che sono del Pilati di Tassulo nel Trentino.

212.  Relazione del Foscarini.

213.  Rolland, Lettres écrites de Suisse e d’Italie.

214.  Anche Addison viaggiava l’Italia, e paragonava il Milanese a un giardino: trovava che i signori faceano la scimia dei Francesi, ma con poco garbo: e spesso i giovani, per sembrar assennati, passeggiavano lentamente, e cogli occhiali sul naso. Avverte che il governator del castello era indipendente dal governator della città, come già fra i Persiani antichi. A Verona loda il giardino famoso della Ferrazza, e dice che i Francesi appreser da noi l’arte del far giardini, ma ci superarono. Ride dei miracoli del Santo a Padova, e loda la semplicità disadorna di Santa Giustina: vi trova molti disordini ne’ studenti e pochissima sicurezza per le vie. Con Venezia vacilla tra l’ammirazione mal compressa e la critica beffarda: trova scaduto il commercio, i nobili dediti al farniente; le manifatture stazionarie; pochissimo vi si beve, nè s’incontran ubriachi, che pericolerebbero sui tanti ponti; i nobili tengonsi in grandissimo concetto, perciò non amando viaggiare per non uscir dal proprio regno; son ricchi di sostanze accumulate nel primogenito: le figlie mettonsi ne’ monasteri, dove tengono allegra e mondana società: e una Cornaro non volle mai veder niuno che non fosse almen principe. Ne’ teatri trova cattiva poesia, bella musica: ride degli anacronismi e dei soggetti greci e romani, gorgheggiati da eunuchi. Invidia i poeti italiani, che avendo una lingua diversa dalla prosa, non cadono nel triviale, o non son costretti, per evitarlo, a ricorrer all’arcaismo e alle trasposizioni come Milton.

215.  Vogliamo aggiungere i mobili intarsiati da Giuseppe Maggiolini di Parabiago, vissuto fin al 1814, i quali erano cercatissimi qui e fuori.

216.  Il marchese Giuseppe Gorani, nato a Milano il 15 febbrajo 1740, fu legato co’ pensatori di qua; ma più violento di essi, dovette spatriare, e venne cancellato dal ruolo de’ nobili. Nel 1770 scrisse un furioso trattato sul Despotismo. Affigliatosi ai filosofisti e alle società secrete, visitò l’Europa e specialmente l’Italia nel 1779: avvenuta poi la rivoluzione, Bailly lo fece ricever cittadino francese, e caldeggiando i Giacobini, divenne propagatore della rivoluzione: Gorani était mûr pour la révolution française. Dès qu’il connut notre déclaration des droits, il accourut pour nous aider à en faire la conquête: la patrie, reconnaissante des sacrifices qu’il nous a faits, et des services qu’il nous a rendus, l’a reçu citoyen français, avec les hommes les plus célèbres de l’Europe... Il n’as pas cessé de nous rendre, au risque de sa vie, ou du moins de sa liberté, d’importants services, que nous publierons aussitôt que la prudence nous le permettra (Prefazione alle Prédications de Joseph Gorani sur la révolution française 1793). Infatti egli propose di rivelar le colpe de’ governanti, e fatto un nuovo viaggio nel 1790, pubblicò i Mémoires secrets et critiques des cours, des gouvernemens et des mœurs des principaux Etats de l’Italie, opera che levò rumore, e il cui spirito è rivelato dall’epigrafe:

Des tyrans trop longtemps nous fûmes les victimes,

Trop longtemps on a mis un voile sur leurs crimes:

Je vais le déchirer.

Trascura dunque ciò che riguarda antichità e belle arti, lagnandosi anzi che da questa ammirazione non sia risultato alla fine che disprezzo per la nazion nostra; ma vuole denunziare all’opinion pubblica il despotismo sacerdotale, imperiale, reale, aristocratico, ministeriale. Passionato nel vedere, lancia giudizj arrisicati, propone cambiamenti or insani or improvvidi, ammonendo i tiranni a prevenire la giustizia più terribile, che è quella de’ popoli. Intrigò nelle rivoluzioni di Polonia, di Svizzera, di Napoli, di Venezia; ma caduto Robespierre, si ritirò a Ginevra, neppur uscendone quando i Francesi conquistarono la sua patria; e povero e obliato visse colà fin al 12 dicembre 1840.

* È inesatta la biografia datane de Michaud e copiata dai posteriori. David Moriaud avvocato di Ginevra trovò quattro volumi manoscritti delle memorie di esso, da cui Marc Monnier fece un articolo sulla Revue des Deux Mondes dell’ottobre 1874, esponendo le vicende di questo avventuriero, che volle dare a sè un’importanza esagerata, come fanno tutti i pari suoi, e che, dopo aver servito di agente secreto alle Corti e ai nemici delle Corti, essersi insinuato come frammassone nelle società filosofiche e rivoluzionarie, passò la vecchiaja nell’oscurità e nell’oblio, nè lasciò che libri detestabili.

217.  Tom. II p. 147. Al tempo stesso Voltaire scriveva: — La miglior risposta ai detrattori della santa Sede è la potenza mitigata che i vescovi di Roma esercitano oggi con saviezza, nella lunga possessione, nel sistema d’equilibrio generale che oggi è quel di tutte le Corti. Roma non è più sì potente che basti a far guerra, e dalla sua debolezza viene la sua felicità. È il solo Stato che abbia sempre goduto le dolcezze della pace dal sacco di Carlo V in poi». Dictionnaire philosophique ad Saint Pierre e Cour de Rome.

218.  «Nel mio ritorno a Salerno ho trovato il principe... che degnossi di prendermi in sua compagnia per far il viaggio della Calabria, dov’egli possiede delle gran terre. La Calabria è impestata di banditi, che sono molto da temersi sì pel loro numero, sì pel loro ardire. S’essi lasciano tranquillamente passare i Calabresi, perchè non portano molto denaro, i forestieri, che sono sospetti d’aver sempre la borsa ben fornita, potrebbero dar loro delle tentazioni più seducenti, se avessero tanta imprudenza da far questo viaggio senz’essere accompagnati da gente armata. Ella è cosa ridicola il volersi, come pretendono alcuni viaggiatori, burlare dei banditi del regno di Napoli; mentre il Governo stesso fa vedere che debbonsi temere. Imperocchè il procaccio, che vien di Roma a Napoli, è per la maggior parte della strada da soldati accompagnato. Il principe aveva a Salerno molti uomini armati, cui egli aveva fatti dalle sue terre spedire, perchè gli venissero incontro. Egli è parte per grandezza, e parte per la sicurezza loro propria, che i gran signori viaggiano in questa maniera nella Calabria. Un tempo essi facevansi da numerose truppe seguire; ma la Corte proibì loro queste compagnie rispettabili, e per lo riposo dello Stato e delle terre donde elleno passavano, troppo pericolose. Il duca di Monteleone, ch’è il più ricco signore del regno, andò, poco prima di noi, nelle sue terre in Calabria con una truppa di gente armata in guisa, che se l’avrebbe presa per un battaglione di soldati; ma mi fu detto che gli fu per far questo necessaria una licenza della Corte. Figuratevi de’ begli uomini grandi e ben fatti, tutti in vesti corte, e ben serrate al corpo, che hanno tutti quattro pistole attaccate alla cintura, ed un bello schioppo in ispalla, i quali vengono a domandarvi gli ordini per la partenza del principe fissata pel giorno dopo. Altri furono mandati avanti per andar a riconoscere il paese, e dare dappertutto gli ordini per ricevere il principe: gli altri, cioè i più belli ed i più bravi, furono scelti per accompagnarci». Lettere scelte d’un viaggiatore filosofo, 1777.

219.  Prefazione al Teatro del Maffei.

220.  Oltre la specialità dei lavori d’avorio, a Reggio fiorivano le manifatture della seta. Già nel 1622 Ercole Rondinelli, in una informazione manoscritta, notava come un tempo quantità di drappi di seta e massime velluti si portassero in Germania, in Olanda e altrove, finchè gli abusi introdotti aveano fatto decadere quest’arte, ma quando Cosimo III di Toscana viaggiava per l’alta Italia, fu condotto a casa del signor Orazio Guicciardini per vedere i torcitoj (valichi) di seta mossi a acqua (Pizzicchi, Relazione del viaggio di Cosimo III per l’alta Italia. Firenze 1828), il che ci fa indurre fossero rari: 200 persone vi lavoravano. Avanti la guerra vi si contavano 35 torcitoj, cui s’impiegavano 1260 operaj; e 44 telaj di seta: dopo la guerra non erano che 16 torcitoj e molto meno i telaj: e invano Francesco III ed Ercole III tentarono rimetter l’antico fiore.

L’applicazione delle scienze all’arte già era ben avviata, e nel 1791 cinquantacinque cittadini di Chiavari, atteso «li considerevoli vantaggi che veggonsi ridondare dalle società, sotto diversi nomi stabilite in quasi tutte le città d’Europa, indirizzate a migliorare l’agricoltura, le arti, il commercio, e da quella massimamente da pochi anni erettasi nella capitale di questa Serenissima Repubblica (Genova)» ne istituirono una nella loro città, la quale faceva un’esposizione annuale de’ prodotti dell’industria, cominciando il 2 luglio 1793. Ma Genova ne aveva già fatto una nel 23 giugno 1789. A Parigi la prima si fece il 22 settembre 1798 (1 vendemmiale, anno VII).

221.  Sulle stregherie e le nate quistioni dicemmo nel tom. X, pag. 357. — Circa il 1745 una fanciulla cremonese emetteva sassi, aghi, vetri, ecc. Il signor Paolo Valcarenghi cercò spiegar questi fatti, e tenner dietro moltissimi scritti, e migliore quel del canonico Cadonici asserendo che filosofavano sopra una baja. Vedi Zaccaria. Si ha a stampa la Difesa di Cecilia Fargò inquisita di fatucchieria a Napoli il 1770, fatta dall’avvocato Giuseppe Raffaele.

222.  C. G. A. Von Winterfeld, Giovanni Gabrieli e il suo tempo; storia dell’età più florida del canto sacro nel XVI secolo, e del primo svolgersi dell’odierna musica, soprattutto nella scuola veneziana (ted.). Berlino 1834.

223.  G. R. Carli, Opere, vol. XIV.

224.  Gasparo di Salò pare insegnasse l’arte de’ violini a Gianmarco da Busseto che fu capo della scuola cremonese, attorno al 1580, e da cui deriva Andrea Amati. Dopo questo cominciò a lavorare Gianpaolo Magini bresciano, che diede al violino la forma qual conservò poi sempre.

225.  «I preti italiani sanno molto bene che Vienna è un buon paese per loro. Una volta ci venivano a folla. Dicevano la messa, e facevano i r...., cosa che recava loro più entrata che una parrocchia in Italia. Il cardinal Migazzi poco avanti la mia partenza diede a tutti costoro la caccia. Questo mi ha procacciato il mezzo di conoscere con più comodo il famoso abate Metastasio, col quale io non aveva potuto fin allora far conoscenza, perchè l’avevo sempre trovato assediato da una truppa di preti calabresi, napoletani e fiorentini, che facevano in casa sua un tafferuglio del diavolo. Questo gran poeta è la miglior pasta ch’io mi conosca. Non credo che ci sia persona al mondo che possa lamentarsi di lui. Egli è ancora bellissimo, benchè molto avanzato in età. Mi è stato detto che a’ suoi tempi egli era innamoratissimo; ed io lo credo benissimo, perchè non ci fu mai uomo al mondo che abbia così ben conosciuti i differenti caratteri delle passioni com’egli, ed abbiali così bene e naturalmente espressi. Tutti gli altri poeti di tutte le nazioni e di tutti i secoli sono rispetto a lui, in questo punto, un nonnulla. Egli è altresì il poeta il più armonioso e il più naturale di tutti quelli che io ho letto. I poeti francesi non la pensano così. Ma il Metastasio è di continuo cantato da tutte le donne, da tutti gli amanti, e da tutti quelli finalmente che cantano per le strade e ne’ teatri. E cogli altri poeti non si fa così. Ma questo gran poeta è troppo dabbene; e la sua dabbenaggine ha guastato molti Italiani. Tutti i cattivi poeti dell’Italia si sono messi a mandargli le loro composizioni; ed egli per disgrazia si è messo a rispondere a tutti, che le loro poesie erano tutto quello che il genio sapeva produrre di più bello. Sì fatti elogi incoraggiarono un gran numero di matti; e l’Italia insensibilmente venne ad esser ripiena di quanto la pazzia sa produrre di più detestabile». Lettere scelte d’un viaggiatore filosofo.

226.  Lungo sarebbe nominare tutti gli autori di drammi musicali, come Vincenzo Rota padovano, il Calsabigi, i napoletani Gaetano Andreozzi e Angelo Tarchi vissuto fin al 1814. Nicola Isouard nato a Malta, cresciuto a Firenze, ove fece il Bottajo, Rinaldo d’Este, l’Avviso ai maritati, in Francia scrisse il Medico turco, Bacio e Quitanza, sempre peggiorando di stile perchè ascoltava i consigli dei pretesi maestri e aspirava all’assenso dei giornalisti: fece anche libretti francesi, di cui il più applaudito e forse il peggiore è Cendrillon.

227.  Il padre Giovenale Sacchi ci lasciò una Vita del Farinelli (Venezia 1784), dove assicura che questo andava dal re a mezzanotte, e vi stava fin verso le quattro, e cantava ogni notte tre o quattro arie, ma quasi sempre le stesse: è infallibilmente una similitudine presa dall’usignuolo. Aggiunge che per opera sua fu sanato il letto del Tago presso la villa d’Aranjuez, introdotta l’Opera italiana a Madrid, e molte macchine al teatro sotto la direzione del bolognese Giacomo Bonavera; grande attenzione poneva al vestire e alla condotta degli attori; e procacciava molti divertimenti e sorprese al re. Un grande gli esibì quattrocentomila piastre se gli facesse ottenere il viceregno del Perù; ed egli rispose che la sola cosa che potesse fargli ottenere, si era un palco nel teatro regio. Un altro gli mandò una cassetta di monete, ed esso la rimandò dicendo non aver bisogno di denaro; quando n’avesse bisogno, sarebbesi confidato nella bontà del re. Invece raccomandando caldamente un signore per un’alta dignità, il re gli disse: — Ma non sai ch’egli è tuo nemico e sparla sempre di te? — Lo so, maestà; ed è questa appunto la vendetta che desidero farne». Il Montemar avea menato d’Italia una caterva di virtuosi, e quando egli cadde di grazia restarono senza pane: ma il Farinelli provvide a tutti, sicchè fu chiamato padre degli Italiani: singolarmente protesse la milanese Teresa Castellini. Il tremuoto di Lisbona gli diede occasione di larghissime beneficenze.

228.  Vedi le opere del Chiari, massime il Teatro moderno di Calicut. Chi voglia cercar le Memorie di Lorenzo Da Ponte cenedese, poeta da teatro, vedrà come Vienna s’agitasse per quistioni teatrali, per le emulazioni fra lui, il Granera, il Casti poeti, e fra i maestri Salieri, Paisiello, Mozart.

229.  Calogerà, Opere, L. 407-410; — Chiari, Lettere scelte, II. 147.

230.  Oltre la citata Vita del Farinelli, vedasi Della natura e perfezione dell’antica musica dei Greci, e dell’utilità che ci potremmo promettere dalla nostra, applicandola all’educazione dei giovani, 1778. Sostiene che il contrappunto fosse ignoto agli antichi, non facendo essi mai uso che d’una voce alla volta.

231.  Sua moglie Luigia recitò con grande applauso, e fece qualche componimento. Anton Francesco loro figlio seguì la stessa carriera, ma si rovinò con speculazioni prima d’alchimia, poi d’allevar bachi da seta. Col Romagnosi e col Domenico, attori lodati, compose commedie e farse, e diè buoni Pensieri sulla declamazione. Sua moglie Marianna, mal riuscendo sul teatro, fece romanzi de’ più lodati, tradotti in molte lingue, ed or dimentichi come di tutti i romanzi succede. Gli attori italiani a Parigi formavano quasi una famiglia, essendo anche spesso parenti, e viveano ritirati e uniti; i processi verbali sui loro registri han sempre in testa la croce, e cominciano col nome di Dio, della Beata Vergine, di san Francesco di Paola, e delle anime del purgatorio; e nelle spese non manca mai una messa per la buona riuscita delle nuove produzioni.

232.  Perchè le cose or vanno d’altro piede, sentasi quel ch’ei dice del tempo suo: — Tostochè d’uno si parla, tutti si fanno lecito di esaminarne la vita, di notarne le azioni meno osservabili, d’interpretare le azioni sue. Le cose che lui riguardano, non si considerano quali sono in sè, ma quali ognun le vorrebbe. Se un uomo di lettere vive sequestrato dal comune degli uomini, egli è un selvaggio, un ingrato: se frequenta le numerose adunanze, è un ozioso che il suo credito fonda sui pregiudizj del mondo». Poeta, II. 2.

233.  Vedi Memorie inutili della vita di C. Gozzi, scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà; Venezia 1797. La causa del Gratarol levò tal rumore, che neppur la rivoluzione fece dimenticarla. Da tutte quelle piazzesche baruffe tra Baretti, Chiari, Goldoni, Gozzi, si può trarre notizie sulla condizione economica de’ letterati d’allora. Due lire o due e mezzo venete compravasi un volume di ducento e più faccie; cinque soldi la gazzetta di Gaspare Gozzi. Un nulla doveansi dunque pagare i manoscritti; le traduzioni, tre o quattro lire al foglio; per sei furono tradotti l’Enciclopedia dello Chambers e il Middleton; Metastasio non ricavò un soldo dalla stampa dei suoi drammi, le cui dieci edizioni fruttarono diecimila luigi all’editore: cencinquanta zecchini fu pagato il Giorno a Parini, non cento luigi le opere di Morgagni. Per un sonetto a Venezia la tassa consueta era mezzo filippo. Carlo Gozzi calcola che, a dodici lire il foglio in-12º, un verso era pagato meno d’un punto da ciabattino.

234.  Può vedersi Brigantini, Scelta di poemi latini appartenenti a scienze ed arti, di autori della Compagnia di Gesù. 1750.

235.  Ricusatone altre ricchissime offerte, la cedette poi all’arciduchessa Maria Luigia nel 1816 per centomila lire.

La stamperia ebraica fu stabilita nel XV secolo in quattordici città, di cui dieci sono italiane; vi si fecero ottantotto edizioni, di cui trentacinque senza data. Il Rossi le descrisse tutte negli Annales hebræo-topographici sæculi XV (1795), cominciando da quella fatta a Reggio di Calabria il 1475. Dal 1501 al 40 egli conta ducennovantaquattro edizioni con data, quarantanove senza data, centottantacinque false o incerte. Trattò poi specialmente della tipografia ebraica cremonese, descrivendone quaranta edizioni.

236.  Lettera del 22 settembre 1729.

237.  Lettere del 4 luglio 1743 al Gori, e del 13 novembre 1738 al Lami.

238.  Storia letteraria del 1751, pag. 190.

239.  Roma 25 settembre 1748.

240.  Pure anche nel 1806 l’Accademia veneta di belle lettere si unì per comporre al modo stesso un poema sopra Esopo, che fu poi stampato nel 1828 per cura di Emanuele Cicogna, con incisioni.

241.  Il Goldoni in Siena assistette ad un’Accademia del Perfetti, il quale «cantò per un quarto d’ora delle strofe alla maniera di Pindaro. Nulla di più bello, nulla di più sorprendente. Era un Petrarca, un Milton, un Rousseau; insomma mi compariva Pindaro stesso». Memorie, cap. 48. Ma Carlo Gozzi, nelle Memorie inutili, dice: — Se un pittore volesse rappresentare in un quadro la Temerità o l’Impostura mascherata da poesie, non saprei meglio consigliarlo che a dipingere un improvvisatore di versi con gli occhi spalancati, le braccia all’aria, ed una calca di persone rivolte a quello co’ visi maravigliati e stupidi», p. 23. Eppure conchiude con lodar l’improvvisatore Sibiliato.

Fra gli altri improvvisatori levarono fama Teresa Bandettini (Amarilli Etrusca), Luigia Accarigi, Fortunata Fantastici, il mordace Matteo Berardi, il napoletano Gaspare Molli che improvvisava in latino come il Gagliuffi, Marcantonio Zucchi veronese che tenevasi pari al Perfetti, Luigi Serio napolitano, competitore della Corilla Olimpica, il quale morì combattendo il 1799; Gioachino Salvioni di Massa improvvisava in latino e in italiano, e lasciava dubbio se fosse un genio o un matto. Fra le poetesse ricorderemo Diamanta Faini-Medaglia bresciana, che scrisse pure in francese e latino, e seppe di matematiche: Maria Luigia Cicci studiosa di Dante, pisana; la Bargagli moglie di Gaspare Gozzi; Marianna Santini-Fabri bolognese, tutta morale; Faustina Azzi de’ Forti d’Arezzo; Prudenza Capizucchi-Gabrielli romana; Petronilla Paolini Massimi, de’ Tagliacozzo; la Bergalli, che tradusse le tragedie di Racine e il poema della Du Bocage; Elisabetta Caminer-Turra, che tradusse molti drammi e gli Idillj di Gessner, e faceva un giornale; Matilde Bentivoglio-Calcagnini ferrarese; la contessa Petronilla Sio napoletana; la contessa Pellegra Bongiovanni-Bossetti palermitana, che fece le risposte di madonna Laura al Petrarca. Sono lodate anche nella nostra età Paolina Grismondi-Suardi, detta Lesbia Cidonia, e la contessa Diodata Saluzzo. Silvia Curtoni-Verza di Verona, fra gli arcadi Flaminia Caritea, stese i ritratti d’alcuni suoi amici; Cornelia Gritti veneziana, detta Aurisbe Tarsense, fu amica del Cesarotti. Furono pure lodate Maria Angela Ardinghelli, fisica napoletana; Laura Bassi e la Manzolini che all’Università di Bologna professarono fisica e anatomia, dove poi insegnò greco la Clotilde Tambroni che in quella lingua improvvisava. Un prospetto delle donne illustri d’allora fu stampato dalla marchesa Canonici Facchini.

242.  Questo poeta fu allora tradotto dal Papi, da Girolamo Martinengo, da Luca Andrea Corner.

243.  Appena uscita l’edizione frugoniana (che non trovò compratori) e il discorso proemiale del Rezzonico sulla poesia italiana, comparve una Lettera di M. Lodovico Ariosto al pubblicatore delle opere di C. I. Frugoni, data dagli Elisi il 1º aprile 1780, ove si dice che all’anima del Frugoni, riconosciuta scismatica in poesia, era stata assegnata stanza fra i novatori da Radamanto e Minosse; e si svelano grosse pecche dell’editore. Or si sa ch’era opera del padre Ireneo Affò.

244.  Di Gentil Bernard, poeta non molto conosciuto eppur lodato da Voltaire, ed ancora ristampato, si han molte poesie inedite, fra cui una a madama Du Bocage, poetessa che menò i suoi trionfi anche traverso all’Italia. Egli così canta dell’Algarotti:

J’ai connu ce juge éclairé

Dont tu me retrace l’image.

Ici, sur ce même rivage

Je l’ai vu brillant, adoré

Captiver un sexe volage,

Et, de nos sages admiré,

Enseigner notre aréopage.

C’est lui qui, variant le ton

De sa muse docte ou légère,

Passe du compas de Newton

Au chalumeau d’une bergère;

Lui qui, dans Cythère écouté,

Dicte les lois de l’amour même,

Et décide en juge suprême

Au tribunal de la beautè.

Sa lyre, aux beaux arts consacrée,

Longtemps par ses divins accords

Se fit entendre sur les bords

Et de la Seine et de la Sprée, etc.

245.  Nelle lettere sull’epigramma descrive piacevolmente una sua visita a Voltaire. Questi, invitato poscia dal Bettinelli a visitarlo a Verona, rispondeva: — Ben vedete che non mi dee garbare il venir in paese, ove alle porte della città sequestrano i libri che un povero viaggiatore ha nella sacca; non posso aver voglia di chiedere a un Domenicano licenza di parlare, di pensare, di leggere; e vi dirò schietto che cotesta vigliacca schiavitù dell’Italia mi fa orrore. Credo la basilica di San Pietro assai bella, ma amo più un buon libro inglese scritto liberamente, che centomila colonne di marmo».

246.  Sulla poesia scritturale.

247.  Anche un altro Gesuita fece strillare le nostre mediocrità, lo spagnuolo Arteaga, arguto e pungente autore delle Rivoluzioni del teatro musicale, il quale appose alla lingua nostra d’esser pusillanime, e che nella prosa ci manchi «uno scrittore che riunisca i suffragi della nazione». Egli ripetea che la letteratura non dev’essere «ministra di divertimento e di piacere», ma «strumento di morale e legislazione» (tom. I. pag. 183; tom. III. pag. 95; e altrove).

248.  Alle sue omelie fece critica sanguinosa il padre Paolo Sopransi carmelitano milanese, la quale attirogli taccia di giansenista, e persecuzioni e confutazioni altrettanto esagerate.

249.  L’aprile 1856 a Parigi fu messa all’asta una collezione di cinquantotto lavori della Rosalba; e il catalogo è preceduto da una buona notizia.

250.  Primi membri dell’Ercolanese furono Mazzocchi, Zarillo, Carcani, Galiani, Ronca, Ignara, Paderni, Pianura, Castelli, Aula, Monti, Bajardi, Giordano, Valletta, Pratillo, Cercati, Della Torre, Tanzi; e a spese del re fecero l’edizione di quelle antichità, che davasi in dono. Poi monsignor Marcello Venuti, l’abate Ridolfino suo fratello, il cardinale Quirini, Maffei, Gessner, Anton Francesco Gori, Matteo Egizio, l’abate Martorelli, Giambattista Passeri, il padre De Rossi, il padre Paoli, Cochin disegnatore, Bellicard architetto, W. Hamilton, l’abate Saint-Non e altri illustrarono quelle ed altre antichità.

251.  La miglior edizione di Celso fu procurata dal veronese Leonardo Targa a Padova nel 1760.

252.  Voltaire lo lodò più volte, fra le altre con questa strofa più stolida che profana:

C’est à vous d’instruire et de plaire;

Et la grâce de Jésus-Christ

Chez vous brille en plus d’un écrit

Avec les trois grâces d’Homère.

253.  Gli si attribuisce la lepida opera Della seccatura, discorsi cinque di L. Antisiccio Frisco, dedicati a Nettuno. Venezia 1753. Vi distingue le seccature di epibaterie per ritorno da viaggi, di complimento, di soteria per guarigione, e le epitalamiche e le epicedie, poi le seccature di negozio.

254.  Famoso fu il Catalogue raisonné della libreria Crevenna, sei volumi in-4º, con lettere inedite e altre leccornie bibliografiche. Era di un negoziante milanese stabilito ad Amsterdam, che avendo poi perduti molti milioni, dovè mettere in vendita quella preziosa raccolta, facendone fare un altro catalogo da Tommaso Ocheda tortonese (-1831), il quale n’era bibliotecario. Oltre gli accennati cataloghi del Mittarelli e del Morelli (pag. 427), vuolsi ricordare Nicolò Francesco Haym romano, che a Londra istituì un teatro d’opera italiana, compose sonate, intagliò nel Tesoro britannico le più belle medaglie e statue esistenti in Inghilterra, poi fece la Notizia de’ libri rari in lingua italiana, 1726, ristampata a Milano il 1771 con moltissime correzioni e aggiunte di Ferdinando Giandonati, poi altre volte con inserirvi opere tutt’altro che rare.

255.  Alquanto dopo, Pietro Carlo Anastasi romano, divenuto cieco a trentadue anni, studiò la meccanica, fece modelli di fortificazioni, e presentò macchine all’accademia di Parigi.

256.  Arrivano oggimai a ducenquaranta, e i più sono di persone di cui non si conosce che il nome e l’anno del trapasso, scritti a piede della figura, intera se il lascito passò le centomila lire, mezza se stette fra le cento e le cinquanta; e ogni due anni si espongono in giro al meraviglioso cortile porticato di quello stabilimento, il più grandioso che siasi aperto all’inferma umanità.

257.  Lanzi si professa ogni tratto obbligato a Marcello Oretti, bolognese, che girò lungamente l’Italia per raccogliere notizie di pittori, e consultar gallerie, sepolcri, iscrizioni, archivj, tradizioni; onde empì cinquantatre volumi, che in parte furono pubblicati, e i più restarono inediti.

258.  Dizionario delle belle arti. Memorie degli architetti.

259.  Dice il duomo di Milano cominciato nel 1387; poi che alcuni ne attribuiscono il disegno al Caporali, il quale è dato da lui stesso come maestro dell’Alessi, cioè cinquecentista. In Pellegrino Pellegrini.

260.  Della maniera di vedere nelle arti del disegno.

261.  Nel Tolondron (parola che in spagnuolo significa baggeo) dice: — Il bisogno mi fu sempre alle spalle, e scombiccherai sempre a casaccio. È miracolo com’io potessi guadagnarmi pane e formaggio, e di tempo in tempo qualche pezzo di carne cogli indigesti miei lavori. Conscio delle mende, anzi degli strafalcioni majuscoli che buttai giù, vorrei, e pur troppo invano, che ogni pagina mia fosse in fondo al mare».

262.  Storia letteraria, 1751, pag. 104.

263.  Visse poi a Parma; da Francesco II ebbe incarico nel 1799 di riordinare l’Università di Pavia; poi, al ristabilirsi dei Gesuiti a Napoli, passato colà (1804) fu fatto conservatore della biblioteca regia.

264.  Vanno seco Barnaba Vaerini che fece gli Scrittori di Bergamo; Agostini, gli Scrittori veneziani; Fantuzzi, gli Scrittori bolognesi; l’abate Paolo Ginanni, gli Scrittori ravennati, oltre La famiglia Alidosi; Tassi, gli Artisti bergamaschi; Soria, le Memorie degli storici napoletani; Giustiniani, le Memorie degli scrittori legali del regno; Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini.

265.  Archivio storico, vol. V. p. 17.

266.  Egli scriveva nelle Osservazioni letterarie, tom. IV, art. 2º: — Chi vien di nuovo a comparire sulla scena, par che non creda d’essersi segnalato e distinto abbastanza, quando con qualche tratto diretto o indiretto non ha fatto prova d’attaccarmi e di farmi dispiacere... Ecco ciò che guadagna in Italia chi sacrifica la sua vita e le sue facoltà a coltivar le lettere ed a promoverle, benchè senz’altro immaginabile fine che del diletto proprio e del bene altrui».

267.  Tali il Giulini per Milano, il Frisi per Monza, il Rossi per la Chiesa aquilejese, Dal Borgo per Pisa, il Tiraboschi per Modena, pei principi estensi e pei frati Umiliati; il Paciaudi per gli Stati parmensi, il Bandini per Firenze, per Verona Giambattista Biancolini sonatore e mercante; per Trento il padre Bonelli; il Baruffaldi per Ferrara, il Pellegrini pei principi longobardi, il padre Agostino dal Pozzo pei sette Comuni; per Asti Serafino Grassi, autore dei Baci, poesie lubriche al modo del Casti, che pareggiava in bruttezza; Lucio Doglioni per Belluno sua patria. A Bassano si compilò un dizionario biografico, fondato su quello di Chaudon, con buone aggiunte.

Giuseppe Antonini per la Lucania, Saverio Roselli per Grumento, Natale Cimaglia per Venosa com’anche Domenico Tata Grimaldi, Annali del regno di Napoli; Antinori, Memorie storiche delle tre provincie degli Abruzzi.

268.  Fu il Filiasi che indicò al Tiraboschi il viaggio d’Abissinia del padre Lobo, da cui appariva che prima del 1728 i Gesuiti aveano scoperto le sorgenti del Nilo, e che Bruce non avea fatto che copiarlo. Così il Tiraboschi potè sbugiardare il milanese Luigi Bossi che aveva tacciato d’impostura i Gesuiti.

269.  Esposte le ragioni per cui sarebbe e imparziale e informato, dice al lettore: — Intanto abbiatemi almeno questa gratitudine, che, non ostante gli spinosi negozj famigliari e le obbligazioni d’assistere all’anticamera pontifizia e all’impiego della mia carica (di cavallerizzo), mi sono privato spesse volte del riposo della notte, e altre della ricreazione del giorno per poter scrivere stentatamente e a pezzi, secondo che mi è stato permesso, la presente istoria».

270.  Ecco il principio: — L’opera che viene alla luce ha per oggetto di comprendere le notizie del granducato non meno che quelle della casa Medici, e perciò il metodo intrapreso è sembrato il più conveniente per riunire in un sol punto di vista ciò che, essendo collocato sparsamente, avrebbe forse interrotto la serie dei fatti... E siccome il pubblico cui non è dato l’accesso dell’archivio (Mediceo) non avrebbe potuto in ogni caso fare il riscontro dei documenti, così l’autore ha creduto superfluo il ricoprire il margine di questo libro con delle inutili indicazioni d’armadj, filze e registri, ma si riserva di pubblicarli autenticamente nel caso che nasca il dubbio della verità dei medesimi».

271.  Paolo Brazzolo padovano, adoratore d’Omero, ch’egli tradusse undici volte senza mai contentarsi dell’armonia de’ suoi versi a paragone di quei del Meonio, consigliò dapprima il Cesarotti, poi gli si inimicò quando ne vide il sacrilegio della Morte d’Ettore, alfine si scannò con un Omero a lato.

272.  Carlo Gozzi, Memorie inutili.

273.  Se fra quel brago è lecito cercar qualche pensiero cadutovi per caso, citeremo questa strofa:

Dall’Istro, dalla Senna, dall’Ibero

Rivali armati in sanguinosa giostra

Scendon d’Italia a contrastar l’impero,

Ond’ella sempre al vincitor si prostra,

Dannata a sofferir giogo straniero.

E se osassero dir, L’Italia è nostra,

I natii naturali abitatori

Riguardati sarien quai traditori.

274.  Il primo poeta cesareo a Vienna fu Silvio Stampiglia, poi Apostolo Zeno con quattromila fiorini: Metastasio n’ebbe tremila: lui morto, si disputarono quei titolo il cenedese Da Ponte e il Garnera: il Casti l’ebbe da Giuseppe II, con duemila fiorini: gli succedette Clemente Bondi gesuita parmigiano, ito coll’arciduca di Milano a Vienna, e vissutovi sino al 1821; e con lui cessò tale carica.

275.  

Sì, questo mostro, questo

È la delizia de’ terrestri numi:

O che razza di tempi e di costumi!

Parini.

276.  Vedi pure Selectæ patrum Societatis Jesu tragœdiæ. Anversa 1634.

277.  — Meglio tardi che mai. Trovandomi in età d’anni quarantotto ben sonati, ed avere ben o male da vent’anni esercitata l’arte di poeta lirico e tragico, e non aver pure mai letto nè tragici greci nè Omero nè Pindaro, un nulla insomma, una certa vergogna mi assalì, e nello stesso tempo anche una lodevole curiosità di veder un po’ cosa avevano detto quei padri dell’arte». Vita.

278.  Oltre il Misogallo, deplora gli Spagnuoli che dai Francesi abbiano imparato a levar le immondezze delle strade, perdendo così l’originalità:

Fatte hai, Madrid, tue vie tersi cristalli

Ma sottentrando a’ sterchi gallici usi,

Vedrai quanto perdesti in barattalli.

279.  Quod volo, valde volo, diceva il Latino.

280.  Nel Filippo vi sono due confidenti, e figurano a meraviglia.

281.  La più spiritosa parodia d’Alfieri è il Socrate tragedia una del napoletano improvvisatore duca Mollo insieme con Gaspare Sauli e Giorgio Viani, dove è un solo personaggio, e il parlare durissimo e stranamente laconico. Raccontano che ad una tragedia dove pochissimi spettatori intervennero, un Fiorentino s’accostò all’Alfieri, e pronunziò: — Oh quanto poca nel teatro gente!».

282.  Nei Drammi giocosi, unica opera del Casti, che possa esaminarsi letterariamente, v’è una Rosmunda, dove al fatto atroce sono innestate le lepidezze di Bertoldo, Marculfo e Bertoldino; tentativo infelice di connettere l’eroico e il buffo.

283.  Il Botta finisce la sua Continuazione con una diatriba contro chi mal dice dell’Alfieri, e fra l’altre cose, attribuisce a lui se l’Italia ebbe più «animi forti nella seconda metà del secolo XVIII che nella prima». Le tragedie non si lessero che al fin del secolo, e il Botta non metteva certo fra i forti i repubblicanti, i quali erano tutti della scuola alfieriana. Anzi subito dopo egli vitupera quegli Italiani perchè pensarono a repubblica al modo americano, e sostiene che l’affidar «la tutela della pubblica libertà ad assemblee numerose e pubbliche, sarebbe fonte di estremi e forse eterni mali all’Italia». E segue una tiritera contro questa teriaca delle assemblee, delle annuali chiacchere in bigoncia; e giura «voler morire piuttosto che contribuire a darle al suo paese, e chi ciò procura, è nemico della sua patria».

284.  V’è notevole, tanto più per quei tempi, il passo seguente: — Una moderna noncuranza d’ogni qualunque religione... fa sì che i nostri santi non vengono considerati e venerati come uomini sommi e sublimi, mentre pure erano tali...; da questa semifilosofia proviene che non si fondano le cose e non si studia nè si conosce appieno l’uomo; da essa proviene che nei bollenti e sublimi Franceschi, Stefani, Ignazj e simili non si ravvisano le anime stesse di quei Fabrizj, Scevoli e Regoli, modificate soltanto da tempi diversi». Lib. III. c. 5.

285.  La contessa d’Albany, ultima amica di lui, era moglie dell’ultimo degli Stuard pretendente al trono d’Inghilterra; il quale, non che esser codardo come figura nell’Alfieri, seppe esporre coraggiosamente la propria vita in uno sbarco nell’isola. Il pittore francese Fabre (1776-1837), che ereditò la donna e la roba d’Alfieri, fu in Italia côlto dalla rivoluzione; fissatosi a Firenze, divenne professore di quell’accademia, ebbe titoli e onori, e lavorò sempre nello stile di David, per nulla modificato dalla natura e dagli esempj nostrali. La ricca sua collezione di quadri e le carte dell’Alfieri lasciò a Montpellier sua patria.

286.  Lettere del gennajo 1802. E a vedere come Alfieri si pentisse dell’Etruria vendicata.

287.  A quelli che volessero ancora avventarcisi come sprezzatori dell’Alfieri raccomanderemo 1º di dirci ingiurie che non sieno quelle già detteci e ridetteci; 2º di mettersi nel punto d’aspetto nostro, non in quello che altri scelga a suo arbitrio, e per quel momento; 3º se anche vogliono star al modo poltrone di opporre autorità ad autorità, valutino i giudizj che ne diedero scrittori nostri rispettabilissimi senza parlare degli stranieri, e sui quali vedasi la nostra Letteratura.

288.  Questo bel gruppo, non copiato mai, sta nel palazzo Pisan-Vettore di San Paolo a Venezia.

289.  — Fenomeno singolare! ne’ Santi Apostoli lo scultore Canova ha eretto un mausoleo a papa Ganganelli. Basamento liscio diviso in due scalini; sul primo siede una bella donna, chiamata la Mansuetudine, mansueta quanto l’agnellino che le giace accanto in ritirata. Sul secondo scalino è l’urna, sopra cui dalla parte opposta si appoggia un’altra bella giovine, la Temperanza. Si alza indi sopra un plinto un sedione all’antica, dove sta a sedere, con tutto il suo agio, il papa vestito papalissimamente, e stende orizzontale il braccio destro e la mano in atto d’imporre, di pacificare, di proteggere... L’accordo è grato; la composizione è di quella semplicità, che pare la facilità stessa, ed è la stessa difficoltà. Che riposo! che eleganza! che disposizione! La scultura e l’architettura sì nel tutto che nelle parti è all’antica. Il Canova è un antico; non so se di Atene o di Corinto... In ventisei anni ch’io sono in questa urbe dell’orbe, non ho veduto mai il popolo di Quirino applaudire niun’opera come questa. Gli artisti più intelligenti e galantuomini la giudicano fra tutte le sculture moderne la più vicina all’antica. Fin gli stessi ex-Gesuiti lodano e benedicono papa Ganganelli di marmo. E certamente quel papa sarà più glorioso per questo monumento, che per la coloro soppressione. È opera perfetta, e tale vien dimostrata dalle censure che ne fanno i Michelangioleschi, i Berninisti, i Borroministi, i quali hanno per difetto le più belle bellezze, giungendo fino a dire che i panneggiamenti, le forme, l’espressione sono all’antica. Dio abbia pietà di loro». Lettera 21 aprile 1797.

290.  Il re di Piemonte non volea concedergli di partire; ma avendogli Lagrangia mostrato la lettera d’invito, ove si dicea «Conviene che il più gran geometra stia presso il più gran re», se n’indispettì e gli disse: — Vada, vada pure presso il più gran re». L’aneddoto è vulgato, pure la lettera di D’Alembert dice solo: Je serais charmé d’avoir fait faire à un grand roi l’acquisition d’un grand homme.

291.  Il suo collega Bitaubè vi trattò la quistione «perchè la lingua italiana tutte le altre vantaggi, e specialmente la francese nella prerogativa d’esser giunta quasi alla perfezione fin dal nascere?» e dice essergli stata suggerita da Lagrangia, che «possiede l’universalità dell’intelligenza senza mai affettarla».

292.  Buonaparte, che, avido di tutte le glorie, s’era fatto iscrivere all’Istituto e lo frequentava, aveva in Italia avuto conoscenza della Geometria del compasso, ancora ignorata in Francia; e una volta si prese spasso d’imbarazzare Lagrangia coi curiosi problemi, di cui quel libro dà sagaci e nuove soluzioni.

293.  Nel 1704 era avvenuta la maggior piena che si ricordasse del lago Maggiore, conseguente a quella del Po, che per altro fu superata da quella del 1839. Nel 1750 il Tevere aveva fatto a Roma la maggior inondazione; ma di sessanta centimetri la sorpassò quella del 31 gennajo 1805.

294.  Filocopo, VII.

295.  Saggio di litogonia, pag. 112-25-41-83.

296.  Giornale d’Italia, 1782.

297.  Ai lettori che non vogliono la lunga briga di paragonare il sistema del Moro con quel che, novant’anni dopo, pubblicava Elia di Beaumont, basti vederlo esposto in un sonetto del suo contemporaneo e paesano, conte Federico Altan:

Era tutt’acqua sia da borea ad ostro

Che dall’orto all’occaso, allor che il foco,

Il suo sdegnando sotterraneo loco,

Scoppiò terribilmente all’aer nostro;

A scogli scogli, e di più scogli un mostro

Qua e là innalzando con orribil gioco,

Indi ergendo altri monti, ond’è che a poco

A poco nacque il bel terreno chiostro.

E dell’acque in uscir quell’ampie moli

Turba in sè, che ivi ancor si chiude e implica,

Portâr di pesci e d’altro ond’è il mar pieno.

Di là s’avvien che alcun di lor s’involi,

Par che, veloce al pian scendendo, ei dica:

Cerco tornare al mio gran padre in seno.

298.  Il Galiani beffa la smania allora entrata di tutto spiegare coll’elettricità. Se uno aprendo la tabacchiera starnuta, gli è il fluido elettrico starnutatorio che salta da quella al naso. Se uno paga un debito, è la materia elettrica metallica che dalla sacca del debitore corre in quella del creditore. Se un innamorato bacia la mano alla bella e questa ne gode, gli è il fluido elettrico che dalle midolle di lui passò in quelle di lei, ecc. Spaventosissima descrizione ecc.

299.  Mezzi singolari adopravano gli antichi per preservarsi dal fulmine. Erodoto (iv. 9) narra che i Traci scoccavano freccie contro il cielo in tempo che lampeggiava; egli dice per minacciarlo, ma alcuno volle sbizzarrire trovandovi un’idea de’ cervi volanti elettrici. Plinio riferisce che gli Etruschi sapevano trar dal cielo il fulmine, che lo dirigevano a lor grado, e lo fecero cadere sopra un mostro chiamato Volta, che devastava i contorni di Volsinio: ma poichè egli non rammemora altri mezzi che sagrifizj e preghiere, non possiamo cavarne istruzione alcuna. Narrò altri d’aver visto una medaglia romana a Giove Elicio (il Dio che trae le folgori), dove esso era rappresentato sopra una nube, mentre un Etrusco lanciava in aria un cervo volante. Duchoul fece incidere una medaglia d’Augusto, ove si vede un tempio di Giunone, col colmo armato d’aste puntute, simili ai nostri parafulmini: ma sono autentiche tali medaglie? e attestano una scienza fulgurale altro che superstiziosa? (V. Laboissière, Acad. du Gard). Plinio stesso dice che gli antichi credevano il fulmine non penetrasse mai sotterra più di cinque piedi; perciò Augusto rintanavasi quando folgorasse: ora il fatto si riconosce falso. Secondo Kämpfer, gl’imperadori del Giappone si riparano dai fulmini in una caverna, sopra la quale tiensi un serbatojo d’acqua che dee spegnere il fuoco della saetta: ma si sa che la saetta uccide anche sott’acqua. Tiberio mettevasi all’uopo una corona d’alloro, perchè il fulmine rispetta questa pianta: asserzione poetica, smentita dal fatto.

300.  Nel Systema medico-mecanichum et nova tumorum methodus (Parma 1791) spiega tutto a figure matematiche; e per esempio, l’infiammazione dipendere dal trovarsi i globuli del sangue ritenuti nelle estremità sottili del cono che rappresenta il tubo arteriale, onde lasciano sfuggire la materia ignea combinata con essi.

301.  Palermo, 1726. Poichè non abbiamo taciute altre delle bizzarrie scientifiche onde si trastullarono od occuparono i padri nostri, diremo come nel collegio de’ Cinesi a Napoli stette il medico Hivi-Kiù, famosissimo conoscitore di polsi, che da questi indovinava le malattie passate e future. Il valente medico Cirillo, che fu poi vittima delle riazioni politiche nel 1799, dicono il visitasse sovente, meravigliato delle diagnosi di esso.

302.  Raccolta d’opuscoli scientifici e letterarj. Ferrara 1779, tom. III.

303.  Petronio Caldani suo fratello (-1808) da D’Alembert è chiamato il primo geometra ed algebrista d’Italia. Floriano Caldani nipote, e successore di Leopoldo nella cattedra d’anatomia, lasciò Istituzioni anatomiche, e varie operette; e fu buon filologo. Morì sessagenario a Padova nel 1837.

304.  Aurelio Bertola, Filosofia della storia. Vedi pag. 548.

305.  Il Gianni, gran liberale, senza riprovazione scriveva: — Potrebbe dirsi che le amministrazioni pubbliche in Toscana son nulle, ma che una sola meglio intesa sotto questo nome si può indicare, cioè l’amministrazione del Governo, che, secondo la nostra costituzione, tutto abbraccia, di tutto può disporre, e così tutto chiedere, tutto prendere, e poi tutto a suo talento distribuire». Discorso sul lavoro dei popoli.

306.  Lo attesta il suo recente caldissimo panegirista Zobi, Storia di Toscana, vol. II. p. 357; e conchiude (pag. 510) che i Toscani, «tranne pochissimi, lo videro partire con indifferenza, ed alcuni con interno giubilo».

307.  Zobi, vol. II. p. 561.

308.  Dispacci 17, 21, 24 giugno 1790, riferiti dallo Zobi. Egli stesso, al vol. III. p. 25, dice che Leopoldo «concertò col suo figlio granduca il sacrifizio del suo illustre amico (il Ricci) omai fuor d’opera», e che «corse voce che l’imperatore, mediante stratagemma, levasse al Ricci delle carte, quali rimaste in sue mani avrebbero potuto servirgli di rinfaccio. Se ciò è vero, come abbiam motivo di credere che sia, dobbiamo malgrado nostro convenire, avere anche troppo imparata la triste scienza sbirresca dall’infame favorito Chelotti». Eppure egli si lagna ch’io sia stato rigoroso col suo Solone. Il dissenso è carattere di libertà; ma la parola piaggiare è codarda, e troppo agevole il rimbalzarla ai panegiristi di principi.

309.  Lettera del 1º agosto 1799. Lo Zobi la intitola Lettera estorta (app. al vol. III. p. 188). Ma qual ragione di supporre una viltà nel Ricci? Libero di sè, più ampia ritrattazione fece il 1804 in occasione che Pio VII passò per Firenze, il quale disse in concistoro questa essere stata la maggior consolazione del suo viaggio in Francia. Il Ricci visse fino al 27 gennajo 1810.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

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