The Project Gutenberg eBook of Fra le corde d'un contrabasso This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Fra le corde d'un contrabasso racconto Author: Salvatore Farina Release date: May 6, 2024 [eBook #73553] Language: Italian Original publication: Milano: Alfredo Brigola, 1882 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK FRA LE CORDE D'UN CONTRABASSO *** _SALVATORE FARINA_ FRA LE CORDE D’UN CONTRABASSO RACCONTO MILANO A. BRIGOLA E C., EDITORI Via Manzoni, 5 _Proprietà letteraria._ Milano, 1882. — Tip. Pagnoni. _Queste pagine, le ultime che il tuo sorriso ha confortato, le dedico a te, Cristina mia._ _Maggio 1882._ I. In quelle vallate non ci si ammala quasi; gli uomini lavorano nelle cascine, le donne nei prati, i fanciulli si arrampicano su per i monti, accompagnando le vacche; fanno tutti una vita tranquilla, sono contenti del loro stato e lo migliorano un po’ alla volta, senza affannarsi; bevono il latte caldo delle loro bestie e l’acqua fresca, che si annunzia da lontano col rumore delle cascatelle e dei rigagnoli, poco vino, e punto liquori. Così vengono su forti, campano lungamente, non danno molto da fare al medico-condotto. Perciò io mi trovava bene in Pasturo, e non posso ricordare quel tempo senza che mi si apra agli occhi il quieto orizzonte della Valsassina, e mi ripigli la tentazione di andarvi a finire i miei giorni. Per resistere, penso che a quel tempo ero giovane e che ora non sarei più capace di voltare le spalle alla mia casetta, unicamente per andarla a vedere da sette od ottocento metri di altezza. Penso ancora che, al ritorno, la mia Mariuccia non mi potrebbe venire incontro sulla strada maestra, tenendo per mano le nostre bimbe, perchè le nostre bimbe sono oramai donne ed hanno dei figliuoli, e la loro povera madre dorme nel piccolo camposanto di Pasturo. Non vi troverei nemmanco più il mio giovane amico Orazio coi suoi grilli filosofico-musicali, colle sue fantasticherie strambe e col suo contrabasso, perchè egli ha approfittato benissimo della ricetta che gli diedi un giorno, ne ha approfittato così bene, che ora... Ma se io dico che oggi l’amico Orazio è... chi vorrà sapere che cosa era a quel tempo? Era un gran grullo, l’amico Orazio, ecco che cosa era, e non lo dico già io, lo dice lui stesso colle lagrime agli occhi, ma ridendo, bene inteso; lo dice lui stesso quando viene sull’argomento di Pasturo, del contrabasso, della musica delle sfere e dell’armonia universale. Dunque, a quel tempo, l’amico Orazio era un giovinotto sui venticinque anni; alto, ben fatto, biondo, con due baffetti tirati giù come due virgole, con una foresta di capelli naturalmente inanellati, ma sempre in disordine — era bello, ma, come dice lui, era grullo. Nato e cresciuto fra le montagne, era stato mandato a Lecco e Como per farvi gli studi del ginnasio e del liceo; di là aveva fatto ritorno alla sua vallata, con molti capelli spettinati, con molte cognizioni spettinate e con un contrabasso. Questo strumento formò nei primi giorni lo stupore di Casa Brighi, di Pasturo, e di molto territorio montuoso circostante. Stupore ragionevole, se ce ne fu mai, perchè gli anziani si ricordavano benissimo che il loro comune aveva posseduto già un sonatore di clarinetto e uno di violino, ma assicuravano che il contrabasso di Orazio era il primo strumento di queste dimensioni che penetrasse in paese, a memoria d’uomo. In casa Brighi poi, dove la tradizione raccomandava di padre in figlio l’allevamento delle bestie bovine e la produzione degli stracchini, la musica e la letteratura si affacciavano per la prima volta nella persona d’Orazio e del suo contrabasso, si poteva farne giuramento. Giovanni Brighi, il grosso Giovanni Brighi che fu poi chiamato il «padre del _contrabasso_,» assicurava, e gli si poteva credere solo a guardare le sue mani enormi, che non aveva mai impugnato uno strumento, e che da gran tempo non toccava una penna; sapeva però che suo nonno, buon anima, quello stesso che aveva incominciato l’odierna prosperità degli stracchini di Valsassina, aveva sgonnellato colle muse, suonando l’armonica e scrivendo anche dei sonetti, uno dei quali era stato perfino stampato in occasione della visita dell’arciprete. Altri mali esempi in famiglia non ce ne erano; ma si sa bene, nulla si perde di ciò che penetra nel sangue d’una razza. L’armonica, dopo tre generazioni, aveva figliato il contrabasso; e il sonetto per la fausta venuta dell’arciprete era la causa remota di tutte le idee stravaganti del pronipote Orazio. In fatti, come e da chi Orazio aveva imparato a suonare il contrabasso? Dal destino, bisogna dire così. In un cantuccio della casa dove egli era andato a dozzina in Como, sonnecchiava un contrabasso scordato; nella testa arruffata dello studente dormiva una manìa antica. Un topo, volendo rosicchiare nel cuore della notte le vecchie corde dello strumento, svegliò ogni cosa; Orazio, il giorno dopo si accinse alla sua straordinaria impresa, che doveva empire di meraviglia i popoli di Pasturo. Non occorre soggiungere che Orazio suonava il suo strumento come un demonio, perchè le cose fatte per caso o per dispetto riescono sempre a meraviglia. Dunque l’archetto stava bene in mano del giovinotto, il quale mancava forse di metodo, ma aveva un’eccellente cavata. L’organista di Castello, avendolo udito, dopo un desinare in casa Brighi, si era lasciato sfuggire un giudizio enfatico che aveva insegnata l’ammirazione ai più restii. Secondo lui, Orazio faceva _parlare_ il contrabasso. Non gli mancava che questo perchè la sua riputazione fosse fatta. Un altro si sarebbe contentato — Orazio no. Ai capelli spettinati, al contrabasso, alle idee stravaganti che gettava in faccia alla gente ingenua, al nessun rispetto per gli stracchini del suo paese natale, già riveriti e mangiati anche in Londra, egli in breve aggiunse altre cose similmente bizzarre, ed anche più. Cominciò, per esempio, a vagare attraverso le montagne con un rotolo di carta in una mano e con un bastone nell’altra. Col bastone ammazzava le vipere, ma che cosa ammazzava col rotolo di carta? Tutte le giornate erano buone per codeste escursioni misteriose, ma quelle in cui soffiava la tramontana dovevano essere ottime. Gli alpigiani, incontrandolo su pei sentieri delle capre, col vento in poppa, colle falde del giubbetto staccate dalla persona ed agitate come due ali, col berretto incassato sulla fronte e la faccia spiritata, appena scesi a Pasturo si affrettavano a dichiarare che il signor Brighi juniore aveva girato la scatola o s’era lasciato entrare in corpo il demonio. Una mattina mi vennero a chiamare in fretta, perchè al _contrabasso_ si era rotto qualche cosa, due costole, salvo errore, o un braccio, od una gamba. Camminando così, col naso per aria, senza guardare dove metteva i piedi, era precipitato in un burrone; i boscaioli lo avevano tirato su colle corde e se l’erano trascinato dietro fino a Pasturo, legandolo ad una di quelle loro enormi fascine, che fanno la discesa delle montagne alla maniera delle slitte. I boscaiuoli avevano fatto passare la fascina per le praterie, tanto da risparmiare al povero ferito i trabalzi, ed erano stati così attenti che Orazio non aveva detto ohi! Quando il giovinotto mi vide al suo capezzale, mi sorrise e si lasciò tastare; non aveva nulla di rotto, e subito qualcuno lasciò la camera, per far sapere al paese che il _contrabasso_ era intatto. Il male si riduceva a parecchie contusioni dolorose, ma non gravi, e alla slogatura d’un piede. — Signor Orazio — gli dissi allegramente — questa volta non è riescito a rompersi nulla; fra due settimane potrà ritentare. La Grigna è là che l’aspetta. Egli sorrise, mentre, aiutato da suo padre, io assestava il piede; però qualcuno che non potevo vedere perchè, oltre che mi stava alle spalle, aveva anche la faccia rivolta al muro, pianse tutto il tempo che durò l’operazione. Quando ebbi finito, mi voltai; essa pure si voltò, ed io vidi una bella lagrimosa, Concettina, la nipote di babbo Brighi, venuta da Milano in Valsassina per fare la cura del siero e innamorarsi del cugino. Concettina era una bella ragazza di diciott’anni, piccola, ma fatta a pennello, non magra, ma pallida; amore e siero erano i suoi rimedii naturali; il siero doveva essere bevuto a digiuno, l’amore doveva essere corrisposto. La Provvidenza, come tutti sanno, non fa nulla a caso; mi pareva dunque che la slogatura di Orazio non fosse senza un secondo fine. — Concettina sarà un’ottima infermiera — pensai; e fu tale veramente. Venuta per respirare l’aria frizzante dei monti, essa passava una gran parte del giorno nella camera dell’ammalato, dando avido ascolto a tutte le corbellerie che egli le veniva dicendo, e pensandovi lungamente poi, come se ogni parola stramba di quel giovinotto pallido e biondo nascondesse un significato arcano che a lei toccasse decifrare. Più d’una volta, durante la cura, mi trattenni a far compagnia all’ammalato, non tanto per il gusto di udire qualche stravaganza nuova, quanto per godermi il turbamento misterioso che Concettina mostrava ad ogni frase di cui non vedeva il fondo. Se non si suppone che essa, ingannata da un desiderio o da un istinto, traducesse a modo suo il linguaggio di Orazio, come spiegare la grande attrattiva dei discorsi sconclusionati del giovine? Un giorno Orazio le disse alla mia presenza: — Concettina, fra due settimane sarò guarito, non è vero dottore? fra due settimane potrò cominciare la mia sinfonia delle Alpi. L’ho tutta qua! — soggiungeva toccandosi la fronte e il cuore. E Concettina si fece rossa, come se il cugino le avesse fatto una dichiarazione d’amore. Un altro giorno, essendo venuto fino all’uscio della stanza in punta di piedi, perchè mi avevano detto che il mio ammalato dormiva, io mi era arrestato sulla soglia ad ascoltare. Orazio era sveglio, sebbene la camera fosse buia; parlava a Concettina, e diceva: — Il vento e l’acqua sono i due grandi strumenti della natura, ed è incredibile quanto è ricca la scala dei loro suoni, e come, secondo la qualità degli alberi e il pendìo dei letti delle acque, varia pure all’infinito lo strumentale della sinfonia. Hai tu badato mai al suono che manda il vento quando passa fra i rami d’un abete? Concettina rispose timidamente che le pareva di averci badato, ma che non era sicura. — Ebbene, a che somiglia quel suono? Concettina arrischiò un paragone; disse che somigliava ad un mormorìo; ma pare che Orazio negasse risolutamente, perchè essa si pentì del mormorìo e propose un ronzìo. — Invece no — disse Orazio, trionfando con indulgenza — quando il vento passa fra i rami dell’abete, fischia, se è soffio d’uragano; manda un sibilo che pare venga da un altro mondo, se è l’alito d’un venticello di poco conto; l’abete non mormora, come il faggio e l’olmo; non si lamenta, come il cipresso; non infuria, come il platano, che va in collera ad ogni brezza. Fra qualche giorno — proseguì il giovine — io sarò guarito, e se vorrai venire sulla montagna, non molto distante, vi andremo insieme; prima di accingermi a scrivere la mia sinfonia, ho bisogno di domandarti una cosa. — Siano lodati i cieli — pensai — anche Orazio ci casca: andrò a dare la buona notizia a suo padre, che sarà contento. Ma prima, pensando come doveva essersi fatta rossa la fanciulla a quelle parole, e quanto doveva essere carina nel suo turbamento, volli godermi lo spettacolo entrando nella camera, ed andando difilato a spalancare le imposte della finestra. Voltandomi, cercai Concettina cogli occhi — era fuggita. — La colomba ha preso il volo — dissi al mio giovane amico. Egli mi sorrise stupidamente, come se non arrivasse a comprendermi, ed io non volli insistere per avere una confidenza che forse sarebbe venuta più tardi. Cercai invece di condurlo con arte al suo discorso favorito, e non feci molta fatica. Mi bastò domandargli se si annoiava e se per isvagarsi non gli fosse mai venuto in mente di farsi portare in letto il contrabasso. Mi guardò in faccia per paura che lo corbellassi, poi mi spiegò gravemente come e perchè, stando in letto, non gli era possibile suonare il contrabasso. Ma appena ebbe detto che era impossibile, subito volle provare. — Dottore, mi vuol fare il piacere d’andarlo a prendere? è nella stanza vicina, appoggiato alla guardaroba... bisogna aprire la custodia e cavarnelo... me lo vuol fare questo piacere? — Ma se non si può suonare... — Le farò sentire una nota, una nota sola. Andai nella camera attigua, dove Concettina, che si aggirava come una farfalla sviata, rimosse un paio di seggiole per farmi credere che era intenta a qualche cosa. — È come un ragazzo — dissi per spiegare la mia presenza — vuole il suo contrabasso. Glielo possiamo dare. Parlando in numero plurale, io invitava Concettina a rientrare con me nella camera dell’ammalato, come era suo desiderio. Presi lo strumento o lo portai sul letto di Orazio; Concettina mi venne dietro. Notai sulla faccia del mio giovine amico un leggiero incarnato come per salutare il contrabasso, e nulla, neppure un sorriso, neppure uno sguardo a Concettina. Per accontentare il capriccio del convalescente, tentai molte positure ardite, senza trovarne una nella quale il contrabasso acconsentisse a lasciarsi suonare; la migliore fu suggerita da Concettina. — Proviamo a far così — disse; ed avvicinò al letto essa stessa una seggiola su cui il contrabasso fu appoggiato. Bastò che Orazio si mettesse a sedere e si curvasse un tantino sulla sponda del letto per poter afferrare lo strumento con una mano e maneggiare liberamente l’archetto coll’altra. — Stia a sentire, stia a sentire. E incominciò a muovere lentamente l’archetto, chinandosi più che poteva fuori del letto per appoggiare il dito sopra l’ultima corda, in prossimità del ponticello. Stando così, col capo in giù, egli s’ingegnava di guardarci, voltando la faccia verso di noi, e ci fissava con un occhio attraverso i capelli che gli facevano velo. Per un poco non si udì nulla; l’archetto si veniva avvicinando lentamente al letto, Orazio s’illanguidiva nell’estasi e socchiudeva anche l’unico occhio con cui poteva vedere — ma non si udiva niente. Alla fine il mio orecchio riuscì ad afferrare un ronzìo non più forte di quello che può fare una zanzara, ma più piacevole, forse perchè non mi annunziava nulla di male. Quell’unica nota andò crescendo a poco a poco d’intensità, finchè divenne doppia; la zanzara non era più sola: con lei e intorno a lei ronzava più sordamente un grosso moscone; poi il moscone tacque, poi tacque anche la zanzara, ma il sonatore continuò ad andare in estasi. Guardai attentamente l’archetto che arrivato alla sponda del letto, ora se ne scostava colla medesima lentezza; aguzzai l’orecchio, non udivo più nulla. Per me la musica era finita da un pezzo quando il mio giovane amico, che per poco non era uscito dal letto nel suonare, si decise a rientrarvi e ad abbandonarsi sui guanciali, sempre tenendo l’archetto in pugno. — Bellissimo! — dissi. — Ma che cosa significa? — mi domandò Orazio. Stavo per dirgli della zanzara e del moscone, quando egli mi prevenne facendomi sapere che aveva inteso quella musica pochi giorni prima della sua disgrazia, in un campo di biade mature, una mattina che tirava vento. — Ma io non faccio che la parodia — disse scoraggiato — per riprodurre alla meglio il singolare bisbiglio che fa il vento passando per le spighe mature, per dare un’idea di quel crescendo sonoro, ma gentile; per far indovinare, solamente indovinare, quello _smorzando_ che non è quasi più un suono, tanto è tenue, ci vorrebbero un centinaio di questi strumenti. — E un centinaio di suonatori come lei — dissi crollando il capo — la cosa è difficile. — Ma pensi — mi disse — pensa — disse a Concettina — pensate che effetto produrrebbero cento contrabassi in una gran sala di concerto. Gli feci osservare che ci vorrebbe anche un pubblico molto disciplinato, molto attento per non perdere quella nota. — Perchè? — mi chiese — il suono è netto, anche quando arriva vicinissimo al silenzio. Era inutile contraddire; preferii cominciare a credere che il mio organo auditivo non avesse tutta quella finezza di cui è capace, ma che ad un medico condotto è superflua, tanto più che Concettina fu pronta a dichiarare a suo cugino che il suono le era sembrato netto dal principio alla fine. — Sentirai — le disse Orazio con riconoscenza — sentirai sul Resegone; vi andremo un giorno, non è vero? A te piace arrampicarti sui monti; io sarò prudente. Là vi sono sorgenti ad ogni passo, non è come sulla Grigna; in ogni rupe cava, abita un filo d’acqua; ogni goccia, cadendo, manda un suono diverso... I suoni minori abbondano in natura, ma non manca esempio dei maggiori. Poco lontano da Introbbio, vi è una cascatella in cui potresti udire distintamente un accordo di terza in _la maggiore_; sulla riva del mare, ad Arenzano, due anni fa, notai che l’onda correva alla spiaggia con un muggito sordo, in cui si distinguevano tre note dell’accordo di _do maggiore_; poi si ritirava cambiando tono, e ad un certo punto, cominciava una musica tutta diversa, quella dei sassolini rotolanti sul greto, che era un accordo perfetto in _mi minore_ sull’ottava più acuta. Concettina apriva gli occhi estatici, e li fissava, non impunemente, per quello che mi pareva, sul volto ispirato del giovine; io mi domandava se, dato che tutta questa scienza musicale non fosse una stravaganza o un delirio, potesse almeno servire a far scrivere una bella sinfonia. — I monti — proseguì Orazio accalorandosi — hanno molte cose da insegnare ai professori del Conservatorio; bisogna essere stati lassù sotto l’acquazzone, per sentire che musica. Quanti maestri d’armonia e di contrappunto crede lei che si siano dati la briga di far questo? — Di pigliarsi l’acquazzone sulla vetta della Grigna? Pochi. — Pochissimi; e quanti crede che si siano voluti spingere colla matita in mano, almeno almeno fuori di una delle porte della città, per ascoltare le voci della campagna? Sa lei perchè la musica è rimasta la più povera delle arti? — È rimasta la più povera? — domandai. Egli mi assicurò di si. — Sa lei perchè la musica è stata impotente fino ad oggi a descrivere la natura? — Oggi non è più impotente? — domandai. Egli mi annunziò che, grazie agli sforzi di pochi eletti, oggi la musica comincia a poter essere descrittiva. — Ma perchè mai — insistè — non fu mai descrittiva fino ad ieri? — Forse, arrischiai timidamente, perchè prima d’ieri non si riconobbe la necessità che la musica fosse descrittiva. Le descrizioni musicali, nei grandi modelli italiani, sono sobrio, sembrano accennare il paesaggio perchè la mente dell’ascoltatore lo compia — se dico qualche corbelleria, mi scusi. L’amico Orazio fu indulgente; non solo non andò in collera quando vide che, sebbene ignorante di musica, io aveva delle opinioni diverse dalle sue, ma me le lasciò esprimere. — Ho sempre creduto — dissi pigliando coraggio — e credo che la musica sia un linguaggio misterioso dell’anima umana, e che essa cominci dove le altre arti hanno quasi finito. Io veggo una scala nelle arti: la scultura dice meno della pittura, e la pittura dice meno della letteratura, e la letteratura meno della musica; ma stando nella loro cerchia, ogni arte è più potente delle sue sorelle. La scultura dice meno; ma quello che dice, lo dice meglio della pittura; e la pittura meglio della prosa e della poesia; e la poesia e la prosa, meglio della musica. — Perchè confondere le attribuzioni? I nostri antichi facevano servire la musica all’esposizione dei sentimenti vaghi, delle aspirazioni, degli entusiasmi, di tutto ciò che, prorompendo dall’anima umana, non trova un pennello o una penna che lo arresti, senza impoverirlo. Hanno forse fatto male? — Hanno fatto quello che hanno potuto — disse Orazio con accento di misericordia. — Rossini... — balbettai. Egli m’interruppe: — Rossini è rimasto indietro; dopo di lui, la musica ha fatto un bel pezzo di strada; lo strumentale si è arricchito; si sono trovati degli effetti... — Effetti — diss’io — cioè a dire figure rettoriche della musica, ma la melodia, cioè le idee? — La melodia! — esclamò Orazio. Non disse altro, ma pronunziò questa parola con un disprezzo così sincero, che per un poco io stesso ne sentii tutto il vuoto, e rimasi mortificato. Ma io sono testardo, e non rinunzio facilmente alle mie opinioni. Subito mi rinfrancai e dissi; — Non è male che la musica si arricchisca, purchè non faccia come l’avaro, e sappia poi spendere le sue monete; quanto alla melodìa, caro signor Orazio, io la credo eterna come l’amore e come il dolore. S’innamori, e sentirà la melodìa; e se la sua innamorata lo pianterà per un altro, la sentirà anche meglio, cioè, no, anche peggio. Concettina, che era sempre stata zitta, si fece rossa e andò a guardare nella camera attigua, perchè le parve d’aver inteso rumore. — Sei tu? — disse — vieni avanti. Entrò Toniotto. II. Toniotto era il fratello minore di Orazio. Aveva diciasette anni, e, per quel che mi pareva, un gran desiderio di averne almeno venti; perciò corrugava il sopracciglio e non si permetteva di ridere alla presenza del prossimo: perciò aveva rinunziato spontaneamente a tutti i privilegi dell’età sua; perciò non mangiava palesemente, se non in comune all’ora dei pasti, non giocava mai, e si pigliava una pena veramente straordinaria per camminare ritto e grave come un fantasma. Aveva ottenuto da suo padre, dopo gli esami, un cavallino sauro e un paio di stivali cogli speroni, e da quel giorno, e in qualsiasi ora della giornata, mi era stato impossibile pigliarlo alla sprovveduta, cioè a dire senza gli stivali. Così egli sosteneva in faccia alla popolazione di Pasturo, la sua dignità d’uomo incipiente. Ma ahi! gli stivali e gli speroni non sono tutto nella vita dell’uomo, e Toniotto non era felice. Che mancava a Toniotto? Gli mancavano quattro peli di barba, almeno quattro, tanto più che egli possedeva un magnifico rasoio inglese, capace di far la barba ad un cappuccino; gli mancava il sigaro, gli mancava l’innamorata. Per riuscire a fumare impunemente, Toniotto aveva fatto prodigi di eroismo; si era provvisto d’una scatola di tabacco turco, ed aveva imparato a fare le sigarette con due dita: ma egli preparava le sigarette con gravità, e gli altri le fumavano allegramente, e se il disgraziato ne metteva una fra i denti, subito si faceva bianco come un cencio, e si sentiva mancare la terra sotto i piedi. Il destino, che si pigliava il gusto di strappargli di bocca il sigaro incominciato, il destino che non gli lasciava spuntare i baffi, mentre a parecchi suoi compagni di scuola aveva già largito anche la mosca, l’avverso destino non gli aveva ancora fatto trovare la donna dei suoi pensieri. Una volta, a Toniotto era sembrato di riconoscerla, a Lecco, in una bella bruna sulla trentina, alta come una matrona: ma non aveva tardato a sapere che quella era la moglie del suo professore di matematica. Pensando che il meno che possa fare un professore, a cui uno scolaro rapisca il cuore di sua moglie, è di _bocciarlo_ agli esami, Toniotto rinunziò vilmente alla matrona. Venendo a Pasturo in vacanza, egli dovette sentire peggio che mai il gran vuoto del suo cuore e la nessuna speranza di colmarlo prima del nuovo anno scolastico. Io queste cose un po’ le indovinai, un po’ le seppi da lui stesso, perchè, piacendo a me la compagnia dei giovinetti, e non frequentando Toniotto altro che la gente matura, non mi era mai difficile, concedendogli una millanteria, strappargli una confidenza. Quando Toniotto, che era giunto fino alla camera attigua in punta di piedi, si vide tradito dagli speroni, pigliò bravamente il suo partito, cioè ripiombò sui tacchi, e fece il suo ingresso solenne. Era accigliato anche più del solito: stringeva fra le labbra una sigaretta spenta, e ci salutò virilmente con un cenno del capo. — Come la va? — disse con maschio accento a suo fratello. — Buon giorno, dottore — soggiunse senza aspettare la risposta del convalescente, e mi strinse la mano con una forza che raramente s’incontra anche in chi ha raggiunto la massima virilità. Solamente dopo tutte queste prove d’uno sviluppo precoce, si degnò di alzare gli occhi verso Concettina, la quale guardava nascostamente Orazio. Mi parve che Toniotto sospirasse, ma non lo potrei assicurare; a volte, quando un sigaro non tira od è spento, i fumatori fanno delle inspirazioni inutili che paiono sospiri. — Le posso offrire una sigaretta? si affrettò a dirmi il mio giovinetto, vedendo che io lo guardava. Accettai, ed egli, nel cavare di tasca la scatola del tabacco, ne fece cadere inavvertitamente una mezza pagnotta, che lo gettò in una gran confusione. Nondimeno, fece la mia sigaretta con due dita, ostinandosi a voler dar fiato alla sua, che era spenta, poi mi offrì un fiammifero, ed io accettai ogni cosa colla massima serietà. — Concettina, tu permetti, non è vero? domandò Toniotto. Concettina permetteva: Orazio, a cui il fumo del sigaro non poteva far male, permetteva anch’egli — ma il severo destino no. Toniotto aveva riacceso appena la sua sigaretta alla mia, aveva mandato all’aria forse due boccate di fumo, forse tre, non aveva fatto uscire il fumo dal naso che una volta sola, quando impallidì e si appoggiò al letto di suo fratello per non cadere. — È il sigaro, disse Concettina; anche l’altra sera ti ha fatto male. Ah! donna crudele, perchè dirlo? Perchè, così pronta a vedere i danni che fa una sigaretta semispenta, e tanto insensibile alla luce ed al calore del grande incendio scoppiato nel cuore d’un _uomo_? Un’occhiata di Toniotto alla cugina disse chiaramente tutto questo. Quel giorno stesso, avendo incontrato babbo Brighi che ritornava dalla cascina coll’enorme cappellaccio calato sugli occhi, dopo essere uscito illeso da una stretta di mano, gli dissi: — Babbo Brighi, se non sono il più asino dei dottori, la cosa si avvia bene. — Cioè?... chiese, piantandosi sulla strada come un monumento e dando una manata al cappello per mettere allo scoperto l’ampia fronte, contornata da due ciocche ancora nere. Gli manifestai la mia speranza che Orazio non tarderebbe ad innamorarsi di Concettina: egli mi ascoltò incredulo e mi chiese, mordendo l’estremità del suo bastone, da quali indizii lo argomentassi. Erano indizii che non reggevano ad una critica attenta, indizii tenui, che non avrebbero convinto neppure me se non gli avessi avvalorati col desiderio. Babbo Brighi, il quale di certe sfumature del sentimento non capiva gran che, crollò il capo e ai tirò un’altra volta il cappellaccio sugli occhi. — Non posso dire nè si nè no, perchè non me n’intendo: quello che posso dire è che conosco mio figlio, e che non lo credo capace di fare nulla di buono ancora per un pezzo. È come se lo vedessi; appena guarito gratterà il suo strumento indemoniato peggio di prima, se n’andrà di monte in monte col naso in aria, e si slogherà qualche altra cosa. È tutto mio nonno, buon’anima. Pareva afflitto, dicendo questo, ed io, per consolarlo, provai a dirgli che il tempo... — Le ragazze da marito, mi disse, sono come gli stracchini: non bisogna che maturino troppo! E poi, Concettina è un uccelletto di passaggio; alla prima rinfrescata se ne va, e buona notte. Se non ci riesce di metterla in gabbia prima di settembre, possiamo forbirci la bocca. Crede lei, dottore, che prima di settembre quei due si possano innamorare? — Quanto a Concettina — risposi — ne sono sicuro. — Non dica questo: mi fa male sentirlo parlare così! Vuole che quella ragazza faccia la corte a mio figlio? — Io non voglio nulla, babbo Brighi, ma il destino può volere quello che non vogliamo noi. Egli stette un poco a pensare, poi mi disse con vigoria: — Peggio per lui! Concettina ha portato un po’ di luce nella mia vedovanza, non potrei più vivere senza di lei. Una donnina giovine e bella in casa mia è necessaria; non ne ho mai sentito tanto il bisogno come ora che ho rifatto l’esperimento — per l’invernata poi, sarà una benedizione. Mio figlio ci pensi ed abbia giudizio, se no ne avrà suo padre. È il mio dovere d’averne per tutti; dico bene? Aggiunse a queste parole una risatina che non mi parve innocente. — Che significa? — dissi. — Significa che se non la sposa lui, la sposo io. Era preparato a vedermi ridere molto, ma io sorrisi appena, e in un certo modo scettico che non gli piacque, domandando: — Non ha mai detto nulla ad Orazio? — Sì — mi rispose gravemente, dopo aver tossito due volte per ricomporsi — una volta ho provato a condurlo sul discorso del matrimonio in genere; mi ha risposto che prima deve pensare all’arte, che l’arte è gelosa e non ammette rivali, che chi non si fa un nome prima di prender moglie, non se lo fa più. Un _nome_, capisce, dottore? Egli vuol farsi un nome, come se non ne avesse tre che empiono la bocca: Orazio, Stanislao, Giovanni! E che cosa ne vuol fare d’un nome? Vede bene che c’è poco da sperare. Vedendo che io non ero pronto a rispondere, babbo Brighi mi presentò la mano aperta, una vera mostra da guantaio. Mentre arrischiavo in quella morsa una delle mie estremità, piegandola in modo che potesse avere maggiore resistenza, pensai alla bizzarra minaccia del colosso e alla povera Concettina. Ah! povera Concettina, piccina, piccina! III. Spieghi chi può il mio istinto; io mi accontento di confessarlo, soggiungendo che l’ho ritrovato in molti padri di famiglia di mia conoscenza. Il mio istinto — istinto di quasi tutta la gente ammogliata — è di aiutare le belle ragazze a pigliarsi un bel marito. Essendomi entrata in capo l’idea di collaborare al matrimonio di Concettina, e vedendo che Orazio tardava a dichiararsi, io era propriamente in angustie ogni volta che andavo in casa Brighi. Oramai Orazio stava benone, e suo padre non si era ingannato quando prevedeva che il primo uso che egli avrebbe fatto della salute, sarebbe stato di grattare il contrabasso e d’andarsene a girellare pei monti. Concettina, peggiorando sempre, lo accompagnava cogli occhi dopo il mezzodì, e stava lungamente sul ballatoio della casa a fissare il castagneto che le rapiva l’innamorato. Mettendomi alla finestra di casa mia o attraversando la campagna per portare una medicina in qualche casolare, io vedeva la povera ragazza apparire ogni tanto sul ballatoio e rientrare nel fondo buio della stanza, quando Toniotto le si metteva al fianco. Poco prima che Orazio ritornasse a casa, cioè verso l’ora del desinare, Concettina scendeva con un libro in mano in giardino, si cacciava sotto un pergolato, e andava su e giù; ma è certo che essa leggeva più nell’anima propria che nel libro, il quale era d’un autore contemporaneo a cui non voglio far dispiacere. Orazio, nell’arrivare a casa, portava sempre una specie di entusiasmo ingenuo, e mandava in estasi la cuginetta dicendole delle mille voci con cui la natura parla a chi la sa ascoltare. Poi confessava di avere un appetito, un appetito!... E Concettina rideva, come se quel suo cugino portentoso avesse detto un’arguzia saporita. Egli si avviava, ed essa gli veniva dietro, dimenticando perfino il libro aperto sopra un sedile di legno. Per lo più, a questo punto, si affacciava attraverso i pampini la testa scarmigliata d’un giovane, no, d’un uomo, il quale pigliava il libro in mano, vi buttava un’occhiata da Amleto, e raggiungeva Concettina con passo misurato, come comportava la severità del proprio destino, per dirle... Per dirle che era una donna ingrata, una donna cieca e crudele, ma la più adorata delle donne. La tentazione era questa; se non che, giunto alla presenza della cugina e del fratello, di quel grullo di suo fratello, che, occupato del proprio appetito, visitava i fornelli, senza badare a Concettina, il povero Toniotto mormorava: — Prendi, anche oggi hai dimenticato il tuo libro nel pergolato. Null’altro. Concettina si faceva rossa dicendo _grazie_, ed era ancora più bella, e Toniotto si sentiva venire una gran voglia di baciarla e di morderla, mentre Orazio scoperchiava ad una ad una le casseruole e le tegghie, spandendo per la cucina il profumo dello stufato e del soffritto. Poco dopo, arrivava babbo Brighi, il quale, forte dei suoi diritti di zio, si pigliava la nipotina per le due mani, se la tirava dinanzi, la guardava ben bene in faccia minacciandole qualche cosa di molto misterioso fino a farla ridere, poi allungava la grossa mano e le nascondeva tutta la faccia con una carezza; in ultimo sbuffava come un mantice, dandosi ad intendere di sospirare. Tutto ciò seguiva regolarmente da due settimane, dopo la guarigione d’Orazio, per quanto mi fu dato sapere, e un giorno che babbo Brighi mi aveva invitato a desinare, seguì anche alla mia presenza. — Babbo Brighi — chiesi in segreto al mio anfitrione prima d’andare a tavola — babbo Brighi, le facciamo queste nozze? — Quali nozze? — mi rispose illuminandosi in volto e posandomi le mani sugli omeri con una dimestichezza insolita, come per assicurarsi un complice. — Quelle di Orazio e di Concettina. Spense subito tutta l’illuminazione, e mi lasciò andare per dirmi che non isperava più nulla. Gli risposi che, al contrario, io sperava più che mai, che Orazio era solamente molto distratto e molto fantastico, e che, a parer mio, doveva essere innamorato senza saperlo. Conclusi che bisognava costringerlo a guardare nel proprio cuore. — Cioè? — mi chiese babbo Brighi. — Cioè, pigliarlo in disparte e parlargli chiaro: e questo tocca a lei. Egli stette un po’ in pensiero, poi scrollando le larghe spalle, mi disse che preferiva sposarla lui. Quasi mi mancò il respiro. Tentai ad ogni modo il mio sogghigno scettico, ma vidi che vi si era preparato. Concettina passò in quel mentre accanto alla mole enorme di suo zio, ed alzò gli occhi sereni a guardarlo senza paura nè sospetto; povera Concettina! forse perchè un segreto istinto le consigliava di placarlo. Ma non lo placò, tutt’altro, ed io vidi con una specie di terrore le grosse mani di babbo Brighi afferrare la testina bionda, e udii la sua voce rauca prometterle che un giorno o l’altro le avrebbe detto una cosa. — Dimmela subito — insistè la fanciulla imprudente, ma babbo Brighi non era ancora ben preparato alla gran corbelleria, e si schermì con una risata. Orazio entrò allora annunziando per la terza volta un appetito, un appetito!... Toniotto dichiarò invece che si sentiva svogliato. A tavola però fece la sua parte benone; deponeva, è vero, la forchetta ogni tanto, come se gli venisse meno il coraggio di andare avanti, ma poi si faceva animo, e ripigliava a trafiggere i bocconi di lesso e di arrosto con una indolenza sdegnosa. Disgraziato Toniotto! nessuno gli badava, io solo mi rivolgeva a lui ogni tanto per raccomandargli di mangiare e dargli il gusto di rispondermi che non aveva appetito. E intanto Orazio trionfava; gli occhi di Concettina non lo lasciavano mai quando egli descriveva la sinfonia udita poco prima nel castagneto, o ci annunziava, infervorandosi, il prossimo trionfo della musica descrittiva. Suo padre lo guardava come la quercia guarda un meschino rampollo che le è nato al piede, crollando il grosso testone e brontolando qualche invettiva. A me, che gli stava al fianco, parve d’intendere due volte _grullo_, e una volta _pezzo d’asino_, ma non ne sono sicuro. — Dottore, non vada in collera — mi raccomandò Orazio — so bene che lei la pensa diversamente, ma sentirà! — Come la pensa? — mi chiese babbo Brighi entrando per la prima volta nell’argomento. Io confessai alla buona la mia debolezza. — Non mi piace, — dissi — che la musica si metta in capo di fare le parti della letteratura. — E perchè? — Perchè non mi piacciono le statue dipinte del buon tempo antico, e la prosa da inventario della letteratura moderna. — Le piacerebbe — mi chiese Orazio senza amarezza — che tornasse in onore la letteratura vuota d’una volta, quando, col pretesto di classicismo o d’idealismo, non si faceva che musica, cioè cattiva, musica? — Cioè, si voleva fare — corressi — ma non ci si riusciva. Mi pare — soggiunsi — che sia indizio di decadenza il non saper chiedere ad ogni arte tutto quanto essa può dare, e nulla più. — Bravissimo! — gemette Toniotto; ma siccome nessuno badò a lui, egli soggiunse, deponendo la forchetta sdegnosamente, che non aveva appetito, ma che era della mia opinione. Concettina però dava ragione ad Orazio collo sguardo e col sorriso. Io, lasciando stare la musica e la letteratura, pensavo, ed avrei pagato qualche cosa per poterlo dire allora, che il caso aveva riunito in una sola famiglia e messe lì dinanzi a me, le tre forme dell’umana miseria al cospetto dell’amore. Dicevo: «ci è una gran cosa a fare intorno ai venticinque anni, ed è innamorarsi d’una bella ragazza sui diciotto e sposarsela. Che fa Orazio? Se ne va sulla montagna a contare i rumori delle acque e delle fronde, si sloga i polsi, si ammacca le costole e gli stinchi per arrivare non sa nemmeno lui dove. Non si accorge che la meta occulta d’ogni suo viaggio è il cuore della cuginetta, non sa che la manìa musicale da cui è posseduto ha un altro nome, e così rischia di perdere, prima l’innamorata, e poi la gioventù. E perchè? Unicamente perchè ha la gioventù addosso e l’innamorata al fianco.» «Vedi ora babbo Brighi. Da vent’anni almeno si è dimenticato dell’amore per occuparsi solo degli stracchini: oggi, allacciandosi alla vita passata, vede che ci è dell’altro e di meglio, vede la gioventù, la bellezza, la grazia e l’amore in lontananza; se qualcuno non lo tiene, egli si butta nelle braccia della prima fanciulla che passa e me l’accoppa. Povera Concettina, piccina, piccina!» «Vedi ora quell’altro; è quasi impubere, la natura gli ha svelato stamattina il gran segreto, perchè si prepari; perchè si faccia forte e coraggioso, gli ha lasciato indovinare che accanto all’amore vi è il dolore... E che fa egli? A mezzodì è innamorato, all’ora del desinare è infelice.» Ma in quel punto fu portato in tavola il tacchino, e bisognò fargli l’anatomia, per contentare babbo Brighi. — Attenti — annunziai brandendo il trinciante e il forchettone — con un taglio netto sopra lo sterno, io metto allo scoperto le attaccature delle ali. Subito si incominciò a ridere, e si rise molto, finchè durò l’operazione. Toniotto approfittò del primo momento di requie per rammentarci che egli non aveva appetito. IV. Una mattina babbo Brighi mi mandò a chiamare in fretta, pregandomi di andare alla cascina; si era messo a una finestra per vedermi arrivare, e appena mi vide, mi salutò colla mano, poi scese e mi venne incontro. Non ci era nessuno ammalato, ed egli, per farsi perdonare di avermi disturbato, mi disse: — Mi tocchi il polso, è come se avessi la febbre, ma non ho nulla, e in casa stanno bene tutti; mi scusi, dottore, ho tante faccende, non ho potuto venire io da lei, e non vi era tempo da perdere. — Che cosa è stato? — Legga. Mi porse una lettera, che veniva da Milano. — È di mio fratello — mi disse babbo Brighi mentre io cercava la sottoscrizione... — Legga. — Del babbo di Concettina? — Proprio di lui... legga... — Indovino — dissi — vorrà a casa la ragazza... — Peggio, peggio... legga, legga forte. Lessi. «Carissimo fratello. Ho bisogno di consiglio, perciò ricorro al tuo affetto ed al tuo senno.» Io m’interruppi un momentino, non potendo lasciar passare quest’ultima parola grossa senza guardare alla sfuggita il testone di babbo Brighi; ma egli insistè: «Vada avanti... legga...» «... al tuo senno, ripetei, per un consiglio. Dopo la morte di nostro padre buon’anima, tu sei stato per me più che un fratello maggiore, sei stato un padre ed un amico.» Questa volta avrei voluto vedere che smorfia faceva babbo Brighi, ma mi feci forza e non alzai gli occhi dal foglio. «Si tratta di mia figlia. Concettina è in età da prendere marito, e bisogna pensarvi seriamente, perchè noi ci facciamo vecchi, Giovanni mio, e non potremo esserle sempre al fianco per proteggerla...» Pigliai fiato e guardai in faccia babbo Brighi. Era propriamente sconfortato, e trovò appena la forza di ripetere: «Legga...» «Non so se tu abbia mai visto nel mio studio un certo Ambrogio Nespoli, mediatore di seta, col quale ho delle relazioni commerciali; non è più di primo pelo, ma è giovane ancora: ha 34 anni. Non so come lo giudicheranno le ragazze di diciotto: a me non dispiace; alla mia Rita neppure. Egli mi ha fatto intendere che vorrebbe ammogliarsi; non ha mai visto la nostra Concettina, ma ne ha inteso dire un gran bene, ed è disposto a pigliarsela ad occhi chiusi, se essa lo vuole. «Tu comprenderai che questo modo di maritare la mia ragazza non mi conviene: ho detto al Nespoli: vada a Pasturo, si presenti a mio fratello con qualche pretesto, cominci a vedere mia figlia, mi parlerà del resto in seguito. «Egli ha accettato il consiglio e si propone di partire quanto prima. Ora tocca a te, fratello mio. Si tratta di leggere nel cuore di Concettina, di vedere se questo matrimonio non le repugna, e alla occorrenza di prepararvela. Ambrogio Nespoli è un buon partito, ma io non ho nessuna fretta di sbarazzarmi di mia figlia; una ragazza come Concettina può aspettare al sicuro, se l’amor proprio di padre non m’inganna. Ambrogio Nespoli non mi ha detto quando verrà da te; solo mi ha raccomandato di non isvelarti i suoi disegni, perchè egli è un uomo accorto e non si fida degli _altri mediatori_; ti dico quello che mi ha detto lui. Rita ed io però abbiamo creduto conveniente che tu sappia ogni cosa; lascio te giudice se convenga avvertire Concettina; io sono d’opinione che non le si dica nulla...» — Anch’io! — esclamai con sicurezza. — Anch’io — ripetè babbo Brighi: ma la sua voce velata non era che l’eco indebolita del suo grosso organo catarroso. Babbo Brighi stette un poco in silenzio, cogli occhi fissi a guardare in terra lo stranissimo balocco che egli aveva avuto l’impudenza di architettare per proprio uso. Guardai anch’io al suolo, e parve a me pure di vederlo quello strano balocco. — Ahi! com’era ridotto! Che poteva ora farne il senno di babbo Brighi? Nient’altro che calpestarlo, ridendo, e disperderne i frantumi al vento. Così fece. — Ecco qua — esclamò a un tratto allegramente — ecco che cosa vuol dire aver otto anni di più o di meno! perchè lei deve sapere, dottore, che io non ho che otto anni di più di Stanislao, mio fratello; sicuro, egli ne ha quaranta, è dell’anno.... aspetti... non importa, dicevo... che cosa dicevo? Ah! che Stanislao mi considera come suo padre, ed io quasi, quasi... Rise forte. — Quasi quasi, mi sposavo la sua ragazza... Rise ancora più forte, poi gli scappò detto senza pensarci: «Povera Concettina!» al che io feci eco ingenuamente: Povera Concettina! — Siamo pure i gran minchioni, noi altri uomini — proseguì infervorandosi — e si parla e si scrive del senno dell’età matura! una ragazza di sedici anni, quando vuole, ci fa commettere più di sedici corbellerie... Continuò così un pezzo a calpestare il suo balocco infranto, poi si rifece serio per dirmi che egli aveva voluto celiare, che, come io sapeva benissimo, ad una certa età certe corbellerie si dicono e non si fanno; ma ogni tanto, venendogli fra i piedi un frammento del suo trastullo, gli avventava un calcio per levarselo dagli occhi, e rideva. — Ha inteso? — mi domandò alla fine, ridiventando per davvero il re degli stracchini di Valsassina. Avevo inteso benissimo: Ambrogio Nespoli poteva venire da un momento all’altro e pigliarsi Concettina. E che cosa diverrebbe la casa di babbo Brighi senza il suo raggio di sole? Bisognava far la guerra a quel mediatore, mandargli a male il negozio, impedirgli di giungere fino a Concettina. Quest’ultima era un’idea di babbo Brighi. — Quando il signor Nespoli viene — diceva lui — me ne impadronisco, e non lo lascio più: gli faccio visitare la cascina, i prati, i pascoli, le vacche; lo affido a mio figlio, perchè lo trascini sulla Grigna.... — Tutto è vano — dissi — lei non potrà già impedirgli di vedere la ragazza, non vorrà dire a Concettina di starsene in camera o di fingersi ammalata, perchè il signor Ambrogio non la veda e non se ne innamori. — È vero — disse babbo Brighi scoraggiato. — E allora? — Allora non ci è altro rimedio che costringere Orazio... — Ordinare a mio figlio di sposare Concettina? — esclamò babbo Brighi — anche ordinarglielo? — Non è questo — dissi — bisogna costringerlo ad innamorarsene, e non mi sembra difficile. Scommetto che, appena sa delle intenzioni del sor Ambrogio Nespoli, pianta il contrabasso per correre a Concettina, che non dirà di no. — Non se lo merita — brontolò babbo Brighi — ma è proprio così. Lei, dottore, mi deve dare una mano in questa faccenda. — Gliene do due — e gliele presentai ridendo. Egli le prese, e non mi punì della mia imprudenza, non me le strinse quasi. V. Lasciato babbo Brighi, me ne andai alla casetta bianca, proponendomi di pigliare in disparte Orazio e di indurlo in tentazione; ancora non sapevo come sarei entrato in argomento, che linguaggio, e che tono, e che mimica avrei adoperato, e pure camminava frettoloso, come se avessi in tasca il mio specifico caldo caldo e mi si potesse raffreddare per via. Feci la strada dalla cascina all’abitazione in dodici minuti, ma giunsi troppo tardi. Orazio da un quarto d’ora se n’era andato col suo bastone e col suo rotolo di carta sulla montagna; non rimanevano in casa che Concettina e l’ombra sua, Toniotto. Saputo che Orazio aveva preso un sentiero, il quale menava dritto alla prima _baita_ della Grigna, stetti un po’ perplesso, poi guardai Concettina, che mi leggeva in viso qualche cosa di straordinario: vidi uscire dal fondo minaccioso il signor Ambrogio Nespoli, e presi una deliberazione eroica, di cui mi sarà tenuto conto in una vita migliore. — Signorina, dissi, mi vuol fare il piacere di mandare qualcuno a casa mia per avvertire Mariuccia e le bimbe che non mi aspettino a colazione, ma che sarò di ritorno a pranzo? — Dove va? mi chiese. — Mi proverò a raggiungere Orazio, ho bisogno di parlargli. Dissi queste parole innocenti senza ombra di malizia, eppure Concettina si fece rossa. Toniotto, per punirla, dichiarò che aveva voglia di venire anche lui con me. — Una passeggiata mi farà bene — asserì con sussiego — ma Concettina lo incoraggiò ad andare, ed egli rimase. Mi avviai dunque solo, facendo i passi lunghi e cadenzati dei montanari, e accompagnandomi con una fanfara mentale per ingannare la fatica; dopo un quarto d’ora mi toccò arrestarmi perchè ansimavo come un mantice. — Mi farà bene — pensavo per incoraggiarmi — da molto tempio nessuno si è ammalato alle baite, ed io impigrisco, e i miei polmoni si atrofizzano; a tavola farò stupire la mia Mariuccia coll’appetito che porterò dalla montagna. Dicevo tanto per dire, ma se non fosse stata la speranza di vedere Orazio ad ogni svolta del sentiero, credo che non avrei fatto molto cammino. Più volte mi proposi di arrestarmi dopo dieci minuti, dopo un quarto d’ora, dopo mezz’ora, se Orazio non si vedeva, e di tornarmene poi tranquillamente a casa; ma i dieci minuti, il quarto d’ora, la mezz’ora passavano, ed io non sapeva rinunziare all’impresa. Coraggio, e avanti! — Trovavo ogni tanto dei pastorelli che andavano su e giù rincorrendo i vitelli; essi avevano visto Orazio un momento prima, non poteva essere distante più di _quattro passi_, a sentir loro, ed io, tra credere e non credere, tiravo innanzi. Un boscaiuolo mi assicurò che avrei trovato Orazio alla prima _baita_. — Quanto è distante ancora la prima _baita_? — Oh! quattro passi! Coraggio, e avanti! Anche la prima _baita_ fece come Orazio, continuando a precedermi di quattro passi, finchè ebbi perduta la speranza di raggiungerlo. Quando meno me l’aspettavo, vidi la capannuccia. Allora mi arrestai ad asciugarmi il sudore, e mi volsi a guardare il panorama circostante. Era bello, ma me lo meritavo. Trovandomi già abbastanza alto da lusingare quella specie di amor proprio misterioso che spinge l’uomo della pianura a farsi alpinista, incoraggiato ancora dall’ottica ingannatrice, si veniva formando nella mia testa un disprezzo sovrano di tutte le alture sottostanti; già non perdonavo ai colli perchè si danno le arie di montagne coi valligiani; ero invece indulgente colla pianura, perchè, se non altro, è pianura. Passata l’onda di questa compiacenza, incominciò l’ammirazione. Dal punto in cui mi trovavo, vedevo ai miei piedi un gran tratto della Valsassina, col verde dei suoi pascoli solcato qua e là da file di pioppi e di platani, poche case bianche sparse sui colli, poi Pasturo, colla sua chiesetta e il suo piccolo cimitero, e più giù la cascina di babbo Brighi che pareva un balocco. Risalendo dalla parte opposta, non fermavo l’occhio sulle molte vette di poco conto che nella vallata hanno un nome; solo mi arrestavo a guardare da pari a pari le punte aspre del Resegone, incassate obliquamente nel mio orizzonte. Da un altro lato s’innalzava, superbo ancora nella sua bellezza selvaggia, il Monte Campione, che io chiamava volentieri la Grignetta, per distinguerlo dalla mia Grigna vera e propria. Stavo là immobile da cinque minuti forse, ripetendo, sebbene nessuno mi potesse sentire, che lo spettacolo era bello, bello, bello, e ricercando come uno smemorato qualche cosa in fondo alla vallata, quando una voce prolungata e robusta mi chiamò dall’alto così: — Dottore... e... e... e...! — Orazio! — gridai voltandomi. Egli era là, cento passi più su, ritto e superbo, (così mi pareva), in cima ad un macigno, ed io sentii subito tutta l’umiliazione di trovarmi più basso. — Vengo! — gli annunziai, e mi diedi a correre come uno scolaro, per arrivare più presto. — Come mai? — mi domandò appena gli fui al fianco. L’ansia, mozzandomi il fiato, mi diede tempo a riflettere; non gli svelai subito la causa che mi aveva spinto sulla montagna; preferii circondarmi d’una specie di mistero che egli non fu punto avido di penetrare. Aveva altre cose per il capo: la sua musica, la sua natura armonica, il che so io; e me ne fece la minaccia subito: «Sentirà» mi disse; nient’altro, ma bastava e ce n’era d’avanzo. — Aspetti — ribattei fiaccamente — mi lasci almeno respirare, mi lasci cercare una cosa... — Che cosa? — Laggiù... in Pasturo; non so trovare la mia casetta, vorrei vederla... — Bisogna salire ancora — mi disse — si è nascosta dietro quel gruppo d’alberi; per farla venir fuori, bisogna salire... venga dottore, venga a sentire! Egli andò innanzi colla testa alta, senza guardarsi mai intorno; ogni tanto si arrestava per tendere l’orecchio, poi tirava diritto, accennandomi colla mano di seguirlo sempre. Io, non gli badando, mi fermavo ad esaminare un curioso esemplare della flora alpina, o la bella macchietta d’una giovenca bianca che stava immobile a guardarci, e faceva suonare la campanella quando eravamo passati; davo anche qualche occhiata fuggitiva alle mie spalle e sotto di me, fino a Pasturo; e una volta mi arrestai risolutamente perchè avevo visto quello che cercavo. — Si vede! gridai, e Orazio fu costretto a fermarsi. Egli sperava che mi bastasse di guardare la mia casetta cogli occhi; ma da lontano le cose che ci sono care, si guardano meglio col cuore, e Orazio comprese che se non si mostrava arrendevole un paio di minuti, non avrebbe poi il diritto di seccarmi colla sua musica, e mi venne al fianco. — Ecco là — disse facendomi il cicerone — ecco là la sua casa... Guardi, dietro alla chiesa, un po’ a mancina... si vedono anche le tre finestre; quella di mezzo pare aperta... se la signora Mariuccia fosse là si vedrebbe benissimo. Ecco il cimitero, ed ecco laggiù la nostra cascina; quei punti bianchi che si muovono sono le vacche che se ne vanno ai pascoli... la nostra casetta non si vede, è nascosta, ma nella discesa, all’uscire dal castagneto, la domineremo in modo da poter contare le galline nel cortile. Credeva di togliermi più presto dalla mia contemplazione enumerando ad una ad una tutte le cose che potevamo scorgere da quell’altura, e rendendomene facile la ricerca; ma quand’egli ebbe taciuto, io guardai ancora. — Non vi è altro da vedere — mi disse allora coll’ingenuità d’un cretino — che cosa cerca, dottore? Non cercavo nulla; avevo trovato la mia casa, avevo trovato il mio cuore. Mi provai a dirgli tutto questo, senza speranza di farmi intendere. — È là, dissi, è là tutto il mio avvenire; se cancello da questo splendido verde la macchia bianca che vi fa la mia casetta, ho cancellato ogni cosa; o almeno la valle, i monti, l’universo, mi diventano indifferenti. — È vero — disse Orazio — io lo guardai in faccia... Bugiardo! non capiva un’acca. — Pensare in che piccolo spazio si contiene una grande felicità! veda, è un punto che biancheggia... ma vi sono tre cuori che mi vogliono bene, tre pensieri che m’accompagnano, tre vite, legate alla mia vita! Orazio aspettava rassegnato, crollando il capo ad ogni mia parola: io, sebbene sapessi di buttare il fiato, proseguivo: — È strano! guardandola da questa distanza, la mia felicità mi sembra una cosa nuova, la comprendo meglio... Orazio m’interruppe. — Veda, veda dottore.... è un nibbio che fa la ruota; forse ha visto il cadavere di qualche capretto in un burrone. Io continuai: — Se quel nibbio che fa la ruota mi potesse imprestare le sue ali per un minuto o due, ed io me ne sapessi servire, che cosa crede che ne vorrei fare? Orazio non sapeva. — Volerei laggiù, direttamente, come una freccia scoccata, ed andrei a picchiare ai vetri della prima finestra a mancina, dove stanno le mie creature, e direi loro: Bambine mie, andate a dire alla mamma che il babbo è felice. — Invece — disse Orazio — se io potessi volare, andrei su, su, in alto, fino a non udire i rumori della terra; forse allora mi riuscirebbe di afferrare una nota, almeno una, dell’armonia dell’universo. Quel suo desiderio sublime mi fece l’effetto d’una cosa volgare buttata in mezzo alla sorgente più pura della poesia. Era inutile aprire il mio cuore a quell’indegno, e pure non mi seppi trattenere ancora; solo abbassai la voce, come parlando a me medesimo, per umiliarlo: — Qui, la mia felicità mi sembra più compiuta, più ridente; ha qualche cosa di nuovo, di festivo, di meno familiare, che mi solletica; appare così intera al mio cervello, che ho quasi paura che si stacchi dal mio cuore; parla a me come se fosse la felicità d’un altro. Tacqui. — Dottore — mi disse Orazio — quattro passi ancora e sentirà... — Che cosa ho da sentire? — risposi voltandomi bruscamente. — Venga, venga... Egli si avviò, ed io dietro. Camminavamo da un quarto d’ora, io spiando le bellezze della natura e fermandomi ogni tanto a far lunghe inspirazioni di quell’aria frizzante della montagna, Orazio colla testa alta, insensibile a tutto, salvo che ai rumori. A un certo punto sassoso della strada, si voltò per dirmi che il tacco d’un mio stivale dava un suono alquanto diverso da quello dell’altro tacco. — È il tacco destro — mi assicurò — che cala d’un quarto di tono. — Mi dispiace — dissi. Egli sentì la corbellatura, e venne serio serio a schermirsene facendomi la rivelazione d’una sua scoperta recente sugli zoccoli delle donne e delle ragazze di Pasturo. Ogni donna o ragazza della vallata, a sentir lui, mandava un suono diverso cogli zoccoli, e mi confessò che gli era venuta l’idea di comporre una musica stranissima, e di farla eseguire a pedate e a calci dalla popolazione femminina di Pasturo. Lo guardai in faccia; fortunatamente rideva ancora. — Quando dirà queste cose senza ridere — pensai, — bisognerà curarlo colla doccia fredda. — Ci siamo — mi annunziò. Eravamo giunti all’ingresso d’una rupe cava, in un luogo sassoso, in cui crescevano appena alcune ginestre nane. Colla mano medesima con cui teneva il rotolo di carta, Orazio mi prese un dito, e m’introdusse nella caverna. Egli non disse nulla, ed io girai gli occhi a guardare la parete di macigno che si incurvava come una nicchia enorme. Era così liscia, che pareva scavata dalla mano dell’uomo, e si adattava a ricevere nomi d’alpinisti di primo pelo, e date memorande consegnate al sasso colla matita. Vi erano iscrizioni di dieci anni prima rimaste così intatte sulla volta da parere fatte ieri. Provai a leggerne una forte: «Giovanni Anselmi e Virginia......» ma Orazio mi raccomandò solennemente di star zitto. — L’ora non fa nulla, mi disse. Temevo che potesse variare secondo le ore del giorno, ma è sempre la stessa cosa. — Che cosa? — Il silenzio; cioè, quello che noi chiamiamo silenzio, ed è invece un suono. Quando tutte le voci della natura tacciono, proseguì, un orecchio avvezzo ne sente ancora una che mormora nell’infinito; è la voce sublime del silenzio. L’ho condotto quassù perchè da questo luogo il silenzio si sente meglio che altrove; sul Resegone, per esempio, vi sono troppe acque di sorgente; sarebbe bisognato salire fino alla vetta... Io stetti un po’ zitto, poi dichiarai tranquillamente che non udivo niente. Ma egli non si scompose. — In due è più difficile, disse; provi ancora, ma respiri meno che può, ed a bocca aperta; se respira col naso, non sente più nulla. — Sì, perchè l’aria, passando per le fosse nasali.... — Zitto! non si muova, perchè il suo farsetto, ad ogni minimo movimento, fa rumore. Stia bene attento e sentirà. Non mi era facile tenere la bocca aperta, come consigliava Orazio, senza ridere; mi provai due volte, e risi in modo da far risonare la rupe cava; alla terza mi riuscì. Stavo a bocca aperta, immobile, trattenendo quasi il respiro. Vere voci giungevano ancora al mio orecchio. Una montanara chiamò da lontano: «oooh! Adelina... a... a... a!» e Adelina rispose in falsetto da maggior distanza: «Mammaaaaa!»; mi parve anche di afferrare la voce di una campana, ma così sbiadita che non pareva più un suono, sibbene qualche cosa di disegnato appena nell’aria; poi, per un poco, non udii nulla.... cioè, no, qualche cosa mi parve di udire, e vedendo la faccia raggiante di Orazio, compresi che egli udiva la stessa cosa. — Ebbene? — mi chiese poco dopo — ha udito una specie di ronzio sordo? — L’ho udito. — Avvezzando l’orecchio, mi assicurò, si riesce a penetrarne anche l’intima essenza. Perchè vede, dottore, mentre i suoni della natura hanno tutti un ritmo sicuro e un’intonazione mal determinata, a cui manca quasi sempre un certo numero di vibrazioni per essere suoni perfetti, in questa gran voce del silenzio invece, il ritmo non c’è o non si riesce ad afferrarlo, ma l’intonazione è perfetta. Non pare anche a lei? — Non me ne intendo, dichiarai umilmente; ma che cosa crede che sia il suono che abbiamo udito? — Entriamo nel gran campo delle ipotesi, cominciò Orazio solennemente, e bisogna procedere per via di esclusioni. Mi era venuto in mente che potesse essere il risultato dei diversi rumori e suoni della natura; ma rifiutai quest’idea, riconoscendo che il silenzio non varia d’intensità durante la notte, e non cresce o scema col variare delle distanze dai centri rumorosi. Sulla cima della Grigna, per esempio, questo suono, invece d’indebolirsi, si fa più distinto. Mi faceva compassione e dispetto; dicevo a me stesso che sarebbe stata una bella e buona cosa pigliarlo per un orecchio e condurlo così fino a Pasturo, al cospetto di Concettina. Egli, vedendosi guardato in faccia, pigliava animo a snocciolarmi tutte le corbellerie che gli erano passate per la testa. Erano molte, e fra le altre vi era questa: — quel suono poteva essere un bisbiglio dei germi del mondo spirituale, piccole animuccie vaganti nell’aria. E ci era quest’altra: — quel suono poteva essere un’eco dell’armonia delle sfere. Ma il concerto planetario e il coro dei nascituri non lo avevano contentato; Orazio aveva meditato sul grandioso segreto, e credeva d’averci messo il dito sopra. — Sentiamo! — Questo suono, mi disse abbassando la voce, questo suono che è indubitabile, ne conviene anche lei, dottore, questo suono che si sente in ogni ora e da per tutto, questa voce misteriosa del silenzio, non può essere altro che la vibrazione dell’atmosfera nei due movimenti di rotazione e di traslazione dello sferoide terrestre. Io ebbi la forza di star serio, e ciò mi permise di apprendere il resto, cioè che il nostro sferoide vibra press’a poco in la. Orazio era ancora nel primo stadio della sua scoperta, aveva bisogno d’incoraggiamento, anche dai profani, e mi chiese il mio parere. Ed io glielo diedi il mio parere — senza preamboli, senza titubanze, netto, schietto, brutale. — Provi a turarsi gli orecchi con due dita — gli dissi. Mi guardò sbigottito. — Provi, insistei — ed egli provò. — Che cosa sente ora? continuai a dirgli, come se potesse udire le mie parole. Orazio impallidì, staccò le dita dalle orecchie, le ricacciò dentro. — È la circolazione, soggiunsi spietatamente quando mi potè intendere; è il sangue arterioso che, sotto la spinta del ventricolo sinistro del cuore, passa dalla carotide, e fa invasione nei vasi della testa; se lei chiude l’ingresso all’aria esterna, la sonorità è quasi opprimente. — La circolazione! balbettò Orazio ricacciando le dita nelle orecchie. — Già... la circolazione. Le sfere e i nascituri non ci entrano; me ne dispiace tanto, ma non è lo sferoide terrestre che vibra press’a poco in _la_: è il suo sangue... caro signore, cacci le dita in fondo, prema forte... così... bravo! è il sangue d’un imbecille. Egli si sturò le orecchie in quel mentre, ed io tacqui, ma non forse in tempo da non lasciargli udire l’ultima parola, perchè subito uscì dalla caverna senza dirmi nulla, e stette a guardare la vallata come se volesse scolpirsela in mente, ma in realtà per aver agio a decidere se dovesse farmi il broncio. — Bei luoghi! — esclamai per placarlo. Mi strinse la mano e mi disse senza rancore: — Andiamo a casa? Gran buon ragazzo, in fondo! VI. Fino alle _baite_ non mi parlò più, e giuntovi, invece di seguire il sentiero, si cacciò di corsa giù per una china erbosa, ma rapidissima, ed io rimasi a protestare dall’alto. Si voltò. — Mi scusi, gridò, ero distratto; non scenda di qui, faccia la strada buona, io starò ad aspettarla. Nel dir questo, si pose a sedere sopra un sasso, ed io lo lasciai alle sue meditazioni, che non potevano fargli male, dopo essermi assicurato che lì presso non scorreva alcuna acqua ciarliera, e che non tirava vento. Precauzioni inutili. Fatto il giro tortuoso di quel sentiero di montagna, io venni alle spalle del mio giovine amico e lo trovai colle dita così conficcate negli orecchi, tanto immobile ed attento al suono della circolazione del sangue, che non mi udì se non quando gli fui addosso gridando: «Orazio!» Egli si voltò e mi sorrise senza turbamento, con quella bontà arrendevole che accompagna le grandi cadute; press’a poco a quel modo mi aveva sorriso quando si era slogato il piede. — A momenti — mi disse poi — entreremo nel castagneto. Si accontentò di questo, senza annunziarmi col suo linguaggio enfatico nissuna delle voci che nel castagneto mi dovevano parlare. Entrando nel bosco, dove il sole penetrava a stento, egli andò difilato al piede di un grande albero, mi diede la fiaschetta che portava a tracolla, tolse la doppia fasciatura ad una fetta d’ottimo stracchino, e mi offrì una pagnotta. Non mi feci pregare; lo stracchino era squisito, ed io lo dissi ad Orazio, il quale si degnò di darmi pienamente ragione, protestando che non toccava a lui il dirlo, ma che la verità doveva andare innanzi a tutto. — Bravo signor Orazio! Così mi piace! Lo stracchino trionfò e sparve, e la sua scomparsa fu salutata da un paio di salamini casalinghi piuttosto magri, ma robusti e degni di molta considerazione. — Segue così anche a noi altri, osservai a bocca piena; a questo mondo ci è un buon quarto d’ora per ciascuno, poi viene il quarto d’ora d’un altro, e chi ha avuto ha avuto. Orazio mi guardò e non comprese nulla. Veramente il mio discorso non era chiaro: alludevo a Concettina. Dopo quel breve pasto, ci avviammo un’altra volta; attraverso l’alberatura fitta giungevano limpidamente dei suoni; si alzava sopra tutte la voce sorda e misurata dell’accetta d’un boscaiolo, poi l’altra più secca e stridente della roncola d’un potatore — ma Orazio non mi disse in che tono erano, ed io non lo chiesi; anche un piccolo rigagnolo ci passò fra le gambe balbettando inutilmente non so che cosa. Eccoci all’estremità del castagneto. Come mi aveva annunziato Orazio, eravamo già vicinissimi a casa, e affacciandoci fra due piante, ci si mostrò all’improvviso tutto il paesello di Pasturo, la chiesa, il camposanto, l’osteria...... la mia casa!..... — E la mia! — esclamò Orazio. — Sì, è vero, eccola! Vi guardavamo dentro come in un libro aperto, potevamo spingere l’occhio fin nella cucina e nella dispensa. — Attenti! — dissi. — Se passa qualcuno dinanzi alla finestra, lo vedremo. Ma Concettina non passò, ed io mi vedeva già arrivato a casa senza aver trovato il verso di spiattellare ad Orazio tutto quello che mi ero proposto. Egli stava lì, al mio fianco, più docile assai che io non mi aspettassi; si era appoggiato ad un pioppo e non istaccava gli occhi dalle finestre di casa sua. Perchè non perdesse la pazienza, gli proponevo dei quesiti difficili: contare quanti pulcini andavano dietro alla chioccia bianca nel cortile rustico; numerare i pomidoro spartiti e salati che Concettina aveva fatto mettere al sole sulla tettoia del pollaio... Orazio, arrendevole e dotato di vista più acuta della mia, scioglieva il problema prontamente, ed io veniva dietro a lui con molte cautele per pigliarlo in fallo. — I pulcini sono nove; i pomidoro sono sessanta, diceva lui... — Vediamo... quattro... sette... nove... — E i pomidoro sessanta — insisteva. — Sì, i pulcini sono nove... e i pomidoro... sette e sette, quattordici... e sette... — Dottore! — mi disse Orazio all’improvviso — guardi... — Dove? — Nel viale del giardino... quei due... — Concettina... — E un altro... Chi è quell’altro? — Aspetti che lo veda bene... Lo vedevo benone; era _lui_, non poteva esser altri. — Ho capito, dissi con molta lentezza, staccando ad una ad una le parole, è Ambrogio Nespoli; infatti, babbo Brighi era stato avvertito che doveva venire da un giorno all’altro...... dev’essere un uomo d’idee spicciative, un uomo che non perde tempo... — Chi è quest’Ambrogio Nespoli? mi chiese Orazio con una curiosità insolita. — È un sensale; fa il mediatore di sete tutto l’anno, non so altro; visto di qua pare un uomo un po’ piccolo, un po’ tozzo, ma lo scorcio inganna... — È piccolo, è tozzo — asserì Orazio. — E che cosa viene a fare in casa nostra? — Viene, risposi coll’aria di fargli una gran confidenza, viene a vedere Concettina ed a sposarsela, se gli piace. È un buon partito, e il babbo di Concettina sarà contento di accasare la sua ragazza. La faccia d’Orazio si era scolorita, ma non mi bastava. Chi non ha provato dai venti ai venticinque anni un po’ di gelosia inutile quando una bella ragazza cessava d’appartenere alla comunità dei giovinotti, legandosi con una promessa di matrimonio ad un giovinetto solo, o magari ad un vecchio? — E Concettina? mi chiese l’amico mio. — Concettina è in età da marito, e non può rimanere zitella; un giorno o l’altro bisogna pure che si risolva. Non era questo che egli voleva sapere, ma solamente se Concettina..... — Concettina non sa nulla, non ha mai visto il signor Ambrogio Nespoli, ma lo sposerà prima, e l’amerà poi. Istintivamente, egli accostò le mani alla bocca, e con quanto fiato aveva in corpo, cominciò a gridare: «Concettinaaa! Concettinaaa!» Concettina, arrivata all’estremità del viale, voltava in quel mentre. — Concettina... a!... La ragazza non udì nulla; ma il signore che le stava accanto alzò il capo, cercando di qua e di là. — Concettina... a! gridò un’ultima volta Orazio, e si chinò reggendosi con una mano al pioppo per sventolare la pezzuola. Un’altra pezzuola sventolò dal basso, ed ahi! era la pezzuola di Ambrogio Nespoli! Cattivo segno! Scendemmo — Orazio avanti, io dietro, senza dir parola. A un mezzo chilometro da Pasturo, trovammo Toniotto che ci aspettava. — Che fai qui? — gli domandò Orazio. — Avevo bisogno di parlare al dottore, rispose quell’uomo infelice. — Si sente male? — domandai. — Sto benissimo. Era pallido, e le sue labbra tremanti stentavano a reggere la sigaretta. — Il sigaro ti ha fatto male, gli disse Orazio frettolosamente e passò innanzi. L’occhiata con cui Toniotto lo accompagnò mettendomisi al fianco, disse chiaro: «fratello ingrato!» Il resto lo disse con voce rotta, ma senza singhiozzi nè lagrime; era un piccolo dramma, antico come il mondo: Toniotto amava, amava come un fanciullo (lo diceva lui stesso, e gli si poteva credere), amava sua cugina; ma sua cugina era innamorata d’Orazio, e Orazio non badava alla cugina, e Ambrogio Nespoli era venuto da Milano per sposare la cugina, e Toniotto voleva che Concettina fosse felice, che Orazio fosse felice, che tutti fossero felici, fuorchè lui solo... — Ebbene? — Dottore, conchiuse, bisogna dire ad Orazio che faccia presto, che se la sposi lui, che non la lasci portar via da quell’altro! Caro fanciullo! pensai — ma non lo dissi; gli diedi invece una stretta di mano che poteva significare, volendo: uomo generoso! VII. Babbo Brighi andava su e giù nel cortile di casa sua come un’anima in pena. — È tardi — mi disse appena mi vide; temo che sia tardi! Dove sono i miei ragazzi? dov’è quel pezzo d’asino? Parlava di Orazio. — Sono arrivati con me or ora; hanno fatto il giro della casa per andare in giardino addirittura. — È tardi — brontolò egli — è arrivato... lo sa? — L’ho visto dalla montagna, l’ha visto anche Orazio, credo che sia stato uno spettacolo salutare. — È tardi! ripetè picchiandosi la fronte; è là da venti minuti (e guardava l’orologio), da ventidue minuti, nel viale del giardino, lui e lei, tutti e due soli; e mi ha un certo modo d’andar diritto alle cose, è così sicuro di sè, così risoluto! — Ma come mai lei ha permesso...? — Ah! giusto! lo vuol sapere? Ecco come ha fatto. È piombato qui alle dieci del mattino; lei era partito appena; si è presentato con una lettera di mio fratello, col pretesto di visitare i luoghi per l’impianto d’un filatoio. — Ci è molt’acqua, qui? Ci sono strade buone? Quanto si paga l’operaio? — E mentre io gli rispondeva a tono, egli si mangiava cogli occhi Concettina. È bisognato invitarlo a far colazione. Lo avesse veduto a tavola! Quel pezzo d’asino era sulla montagna intanto che egli assaliva la nostra ragazza. L’abbiamo difesa alla meglio, io e Toniotto. Si è fatto quello che si è potuto. Toniotto è un ragazzo intelligente, vuol bene a Concettina... si è sempre parlato di lui, di quel pezzo d’asino... Ma sì, da quell’orecchio il signor Nespoli non ci sentiva. Dopo colazione, mi ha preso in disparte e mi ha detto: — Le dico la verità, io sono qui per sua nipote, è cosa intesa col babbo e colla mamma; se mi vuole, la sposo. — Così m’ha detto, e mi sono cascate le braccia. — Bisognava dirgli... — osservai. — Ho detto, dottore, ho detto. «Credo, ho detto, che abbia un’inclinazione segreta...» Ma non mi ha lasciato finire. — Tutte le ragazze, mi ha risposto, a diciott’anni hanno un’inclinazione più o meno segreta per qualcuno che poi non le sposa; l’importante è di arrivare in tempo; se quell’altro, chiunque egli sia, (diceva _chiunque egli sia_, perchè non voleva ammettere Orazio), se quell’altro non ha parlato che d’amore, la ragazza è mia, perchè io le parlerò di matrimonio. Tutte le ragazze inclinano a pigliar marito. — Così mi ha detto. — Crede lei, dottore, che Orazio abbia già parlato di matrimonio a Concettina? — E poi? chiesi per non affliggerlo colla mia risposta. — Poi, più nulla... cioè, poi mi ha detto: «La ragazza è là che legge; le domando cinque minuti soli, con permesso» — tale e quale — nemmeno una sillaba di più. E da ventidue minuti (guardando l’orologio), da venticinque minuti è di là che patrocina la propria causa. Io me ne sono venuto qui per non vedere... mi fa male... — Andiamo a vedere — dissi. E me lo tirai dietro alla meglio. La scena in giardino era tutta diversa da quella che m’immaginavo; il signor Nespoli, ometto piccino, un po’ panciuto, ma vegeto e vivace, guardava il cielo accanto a Toniotto, il quale accendeva coraggiosamente una sigaretta propiziatoria, senza cessare di parlargli a denti stretti. Concettina era seduta sopra una panca, ed aveva la faccetta rossa come una fragola; Orazio stava in piedi, davanti a lei, curvo a guardarla ed a parlarle... Dissi forte a babbo Brighi: «Il tempo si mette al bello!» Il signor Nespoli udì, e dichiarò invece che non tarderebbe a piovere; già gli sembrava d’aver ricevuto una goccia sul naso. Allora babbo Brighi ci presentò. — Questo qui, disse pigliandomi crudelmente per un braccio (gli erano tornate lo forze), questo qui è il dottore, ma è anche un amico, un vero amico, non ci fa del male. E questo qui — soggiunse — è il signor Ambrogio Nespoli, mediatore di sete, amico di mio fratello... venuto da Milano per... — Per studiare i luoghi, interruppe il signor Nespoli; un mio conoscente vorrebbe piantare un filatoio in Valsassina; ma ho già visto che non se ne fa nulla; proverò stasera ad Introbbio... — Stasera va ad Introbbio? — Ci vado subito; do ordine al cocchiere di attaccare, e parto... non sono sicuro che non piova prima di notte. Ripetè la storiella della goccia che gli era caduta sul naso, e noi fingemmo di crederla. Partì un’ora dopo, accompagnato dai nostri augurii, cioè dai miei, da quelli di babbo Brighi e di Toniotto soltanto, perchè Concettina era rimasta in disparte, e Orazio non l’aveva voluta lasciar sola. Splendeva un magnifico sole. VIII. Ci aspettava in giardino il più vago spettacolo che possa offrire l’umanità agli occhi d’un osservatore maturo: il rossore sparso sopra una faccetta gentile, e fra due baffi neri, il sorriso della tentazione contenta. Nessun bisogno di spiegazioni per intenderci. — Babbo Brighi, diss’io tentando con lui l’impossibile, cioè un amplesso, babbo Brighi, i nostri voti si compiono... Non dissi altro, perchè vidi in faccia a me Toniotto, pallido come un cencio, e mi parve che avesse una gran voglia di piangere. Allora me gli accostai, ma appena gli fui accanto, mi volle far credere che gli fosse entrato il fumo negli occhi e buttò via la sigaretta. Bisognava rispettare quel pudore, e gli consigliai gravemente l’acqua fresca. — Non ci è di meglio, dissi; tenga aperti gli occhi nell’acqua, e li risciacqui senza timore. Il poveraccio accettò il mio consiglio, ed andò a piangere liberamente nella catinella. Un quarto d’ora dopo passeggiavamo nel viale, Concettina appesa al braccio poderoso del suo futuro suocero, io accanto ad Orazio, che mi apriva ingenuamente il suo cuore. — Le ho sempre voluto bene — diceva (a Concettina, s’intende) — appena l’ho vista, l’ho amata; essa era bambina, e mi veniva innanzi a recitarmi le poesie, girando di qua e di là gli occhi furbi, sollevando un braccio dopo l’altro, e facendo l’inchino strisciato all’ultimo, ed io sentiva già che quella creaturina mi apparteneva e che doveva crescere per farmi felice. Queste cose mi disse, ed altre che, dette a me, avevano poco sugo. Per quel bisogno di espansione che segna la forma acuta dell’umana felicità, si dichiarò grato ad Ambrogio Nespoli, il quale minacciando di rubargli Concettina, lo aveva indotto ad uscire dalla sua stupidità amorosa. Mentre così parlava, giunse fino a noi un suono di contrabasso maligno; era Toniotto, che rinunziava solennemente all’amore, al matrimonio ed alla figliolanza. Quella sera, dopo cena, radunati nella gran sala di casa Brighi, Orazio afferrò bravamente il suo contrabasso, e suonò come non aveva suonato mai. Curvava la testa e accostava quasi la bocca alle corde, come per suggerire quello che esso dovevano dire a Concettina. E il contrabasso parlò lungamente colla sua voce più gentile, sfidando il paragone dei violoncelli e dei violini; parlò d’un tempo non lontano in cui Orazio e Concettina stringerebbero il patto di attraversare la vita insieme; disse la trepidanza e la festa segreta dei loro cuori, disse l’addio di Concettina a babbo e mamma, disse anche d’un viaggio all’estero, ma breve e sbadato, e in ultimo parlò della prole nascitura, e contò fino a nove senza sgomentare la fragile Concettina. Così disse il contrabasso, ma la maggior parte di quello che disse allora, non si capì interamente che più tardi. FINE. _OPERE DELLO STESSO AUTORE:_ _Oro nascosto_ — 3ª edizione con ritratto L. 4 — _Capelli biondi_ — 3ª ediz., legato alla bodoniana » 4 — _Amore bendato_ — 3ª ed. diamante legata in tela » 3 — _Il Tesoro di Donnina_ — 3ª edizione » 4 — _Racconti e Scene_ — 2ª edizione » 2 — _Dalla Spuma del mare_ — 2ª edizione » 3 — _Frutti proibiti_ — 3ª edizione » 2 — _Un Tiranno ai bagni di mare_ — 3ª edizione » 1 20 _Il Romanzo di un vedovo_ — 3ª edizione » 2 — _Prima che nascesse_ — 3ª edizione » 1 50 _Le Tre Nutrici_ — 2ª edizione » 1 50 _Coraggio e avanti!_ — 2ª edizione » 1 50 _Mio figlio studia_ — 2ª edizione » 1 — _L’intermezzo e la pagina nera_ — 2ª edizione » 1 50 _Mio figlio s’innamora_ — 2ª edizione » 1 50 _Il marito di Laurina_ — 2ª edizione » 2 — _Nonno_ — 2ª edizione » 1 50 _Mio figlio!_ — edizione di bibliofili » 12 — _Il signor Io_ — 3ª edizione » 2 50 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK FRA LE CORDE D'UN CONTRABASSO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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