The Project Gutenberg eBook of Un viaggio in Lapponia coll'amico Stephen Sommier

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Title: Un viaggio in Lapponia coll'amico Stephen Sommier

Author: Paolo Mantegazza

Stephen Sommier

Release date: May 19, 2024 [eBook #73650]

Language: Italian

Original publication: Milano: Brigola, 1881

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UN VIAGGIO IN LAPPONIA COLL'AMICO STEPHEN SOMMIER ***

UN VIAGGIO IN LAPPONIA


UN
VIAGGIO IN LAPPONIA

COLL’AMICO
STEPHEN SOMMIER

DI

PAOLO MANTEGAZZA

MILANO
GAETANO BRIGOLA
EDITORE

1881


PROPRIETÀ LETTERARIA

868. — Firenze Tip. dell’Arte della Stampa, Via Pandolfini 14.



INDICE


[5]

A
FRANCESCO DE SANCTIS
E
MICHELE COPPINO

Le vicende capricciose della politica possono aver disgiunti i vostri nomi, ma il mio cuore li riunisce insieme con un vincolo di viva riconoscenza e di affetto sincero.

Come amici e come ministri voi mi avete reso possibile un viaggio, a cui le mie sole forze non sarebbero bastate; l’uno fornendomi i mezzi di pubblicare in una mia monografia i ritratti de’ lapponi raccolti nel mio viaggio, l’altro procurandomi i mezzi di portare nelle [6] estreme regioni del polo europeo macchine fotografiche eccellenti.

Possano il mio libro e l’altro che pubblicherò coll’amico Sommier non essere del tutto indegni del vostro aiuto e del vostro nome.

Firenze, 2 giugno 1880.

Mantegazza

[7]

CAPITOLO PRIMO

NOTE SCANDINAVE — IL LAGO DELLE BIONDE CHIOME — COPENAGHEN — I CANALI E I LAGHI DELLA SVEZIA — DA GÖTABORG A STOCOLMA — STOCOLMA E GLI SVEDESI — UN PRANZO IN CASA DI RETZIUS — CRISTIANIA — IL SOLE DI MEZZANOTTE E LE COSTE DELLA NORVEGIA.

I

I viaggi fatti in furia hanno il loro vantaggio, e non conviene calunniarli come si suole. E poi nella vita febbrile del nostro tempo che cosa è che non si faccia in fretta? Leggiamo forse mai un libro per intiero? Studiamo forse per dieci anni almeno una riforma politica prima di farla? Ci ricordiamo per caso di ciò che abbiamo fatto ieri? S’è dormito per tanti e tanti anni colla ninna-nanna dei dogmi immutabili, che una volta svegliati ci siamo messi a correre per chi sa fin quando. E poi e poi, quando si sa leggere bene, si può anche leggere [8] presto; meno i rarissimi casi, nei quali il libro sia un gioiello d’arte, che si mira, che si contempla, che si accarezza, e che, come la donna amata, ogni giorno ci rivela un nuovo tesoro e una bellezza nuova.

Così è dei viaggi; si possono anch’essi far presto e bene, e anche dallo sportello d’un vagone e dalla finestra d’una locanda si possono sorprendere colla stenografia del pensiero tante e preziose medaglie estetiche e psicologiche. Attraversi, per esempio, i monti pittoreschi e le valli ridenti del Tirolo; senti alle stazioni della ferrovia lo squillo poetico delle trombe montane, vedi al crocicchio delle strade campestri i grandi crocifissi, che proteggono il maturare delle biade e ricordi i sentimenti profondamente religiosi dei buoni tirolesi. Attraversi le foreste della Selva Nera, i campi della Germania centrale, e vedi sospesi dovunque i nidi artificiali, che invitano gli uccelletti del Signore a vivere presso la casa dell’uomo, ed eccoti rivelata una pagina del sentimento germanico, che protegge con tanto amore le piccole creature. E così di seguito.

Anche a quelli che hanno poco tempo da spendere consiglio un mese di Scandinavia, e non abbiano rimorso di viaggiare in fretta. Sarà una doccia psichica, che rinfrescherà loro il sangue febbricitante. [9] Che bella cosa riposare l’occhio, che nell’estate italiana trova tanti prati riarsi e brulli, riposarlo sopra pianure interminabili, verdi e fresche di prati, o farlo vagare tranquillo sulle dense foreste dei pini e delle betule! Che bella cosa è riposare l’orecchio nel silenzio di una società, che si muove, si diverte e lavora senza far chiasso! Qui anche nelle grandi città le campane non suonano, i cani non abbaiano, i venditori di giornali non gridano, i monelli non bestemmiano: tutto tace e riposa in una serena contemplazione della natura, e l’attività è anch’essa tranquilla e senza rumore. Silenzio per l’occhio, silenzio per l’orecchio, e silenzio anche per quell’altro senso, quintessenza di tutti e che ci innamora delle figlie di Eva. In Italia abbiamo troppe chiome nere, che schizzano scintille, come pelle elettrizzata d’un felino; abbiamo troppe pupille nere, nei cui abissi profondi si perde la pace serena della vita tranquilla.

Qui da Copenaghen in poi nuotate nel calmo lago delle chiome bionde (permettetemi l’innocente secentismo). Oh quanto biondo, oh quanti bellissimi biondi! Biondo di stoppa di lino e biondo di barbe di mais, biondo di chifel e biondo di rame biondo, che al sole risplende come oro fuso e oro castagno, dalle mille ondulazioni di tinte intermedie; [10] e poi sotto quelle cornici bionde tanto latte e tanti petali di rose del Bengala da sentirsi rinfrescati per tutta la vita e guariti dagli incendi delle chiome corvine e delle pupille profonde delle nostre donne.

Vi è qualcosa d’altro che rinfresca e riposa nel mondo femmineo della Scandinavia: la mancanza delle linee curve e del movimento serpentino. (I geografi me lo perdonino, ma etnologicamente e psicologicamente io chiamo scandinava anche la Danimarca). In Germania s’incomincia già a vedere, che gli uomini si muovono con un altro sistema di giunture e le donne, per non farli sfigurare, fanno lo stesso; ma in Scandinavia poi la linea curva del moto è assolutamente proibita in tutti i casi e in tutte le direzioni. Si cammina per angoli, si ride per angoli, ci si siede e ci si leva e si parla per angoli; e sono angoli acuti. Troverete la bellezza, la forza, la maestà, mille elementi estetici della figura umana; ma la grazia è assente e d’ignota dimora. Chi mi dà uno solo di quei movimenti flessuosi, che sono un poema di eleganza e di voluttà; chi mi dà la grazia delle razze greco-latine? Ma gli angoli hanno la loro virtù rinfrescante e calmante e se andate in Scandinavia, vi faranno un gran bene.

Prego però le nostre belle signore a non insuperbirsi troppo. Lassù vi è una coltura nelle loro [11] sorelle, che sorprende davvero, ed è coltura seria, profonda, non vernice di copale e di similoro. A Stocolma ho potuto parlare italiano (immaginatevi con qual piacere) colla contessa Hamilton e colla signora Retzius, moglie di uno fra i più illustri antropologi; e quelle due signore parlavano benissimo anche il francese, il tedesco, l’inglese. Qui i professori più illustri hanno nelle loro compagne veri colleghi nel lavoro. Una di esse fa le fotografie, mentre il marito studia un paese o una razza; un’altra osserva al microscopio o dissecca gli insetti, perchè l’uomo l’ha fatta compagna dei suoi lavori come delle sue gioie; e anche in Italia conosco donne dalle chiome corvine e dalle pupille profonde, che potrebbero e saprebbero far ciò che ogni giorno fanno le loro sorelle scandinave.

A Copenaghen mi ha consolato un’altra cosa: il non vedere straccioni per le vie, e d’allora in poi non ne ho più veduti. Il monello sudicio e lacero non esiste, l’operaio mal lavato e con molte parti del suo vestito assenti, non si trova; ogni uomo e ogni donna hanno l’aspetto decente, pulito; si direbbe che il proletario non esiste o si nasconde. E poi l’uomo si rispetta molto e vuol esser rispettato; nelle botteghe si deve cavare il cappello; non si può fumare in moltissimi luoghi; vi è un [12] grand’ordine dappertutto. Si sente insomma di vivere in una società più sana di dentro e di fuori, che è attonata e vigorosa; non convulsa e stracca, che ora s’agita e ora s’accascia.

Nel parco di Frederikstoy ho veduto a Pentecoste passeggiare migliaia e migliaia di persone; un’onda di gente tranquilla e serena, che sorrideva, parlava poco e mostrava di divertirsi assai. Nel Tivoli poi son rimasto più di otto ore e ho studiato l’ingenuità beata di un popolo, che è felice, perchè si sente bene, e che non ha bisogno di innebbriarsi per godere della vita. L’ingenuità è virtù sparita da un pezzo nelle razze latine: nel Tivoli di Copenaghen ve n’era tanta da allagare tutta l’Italia. Quella brava gente si divertiva sulla slitta russa, si divertiva a tirar le boccie, si divertiva a romper le pipe con palle di legno, e un avviso a stampa invitava il pubblico ad ammirare la straordinaria bellezza della fioritura dei tulipani.... Oh chi darà anche a noi un pochino di questa cara, di questa sancta simplicitas?[1]

[13]

Ed ecco che io sto per chiudere la mia descrizione e non vi ho detto nulla di Copenaghen; ma il mio carattere ufficiale di antropologo mi fa studiare con più vivo amore gli uomini; e d’altronde aprite una guida e vi troverete la descrizione dei monumenti, dei musei, delle chiese.

La Danimarca ha eretto al suo Torwaldsen un vero tempio, dove si trovan riuniti in originale o in copia tutti quanti i suoi lavori. È un palazzo e una chiesa nello stesso tempo, dove potete ammirare tutti i frutti di uno dei più operosi artisti moderni.

L’Italia non ha saputo fare altrettanto per il suo Canova, per il suo Raffaello, per il suo Michelangelo; ma è anche vero, che i danesi non erano tanto ricchi di glorie dell’arte, e ogni nostra città è un museo e un tempio in una volta sola.

Il museo preistorico e il museo etnologico di Copenaghen sono i primi del mondo senza contrasto, ed io non ve ne potrei parlare leggermente, come non si può parlare che in segreto e a bassa voce della donna amata. Vi ho passate tante e tante ore da abbacinarmi gli occhi e da rendermi paralitiche le gambe. Steinhauer e Worsoe me ne fecero gli onori con quella grazia e con quella cortesia, che sono una virtù carissima di tutti gli scandinavi.

[14]

Da poco tempo nel bellissimo castello di Rosenborg si è fondato un terzo museo, che raccoglie i prodotti artistici e industriali dell’età moderna, e così voi senza uscire da Copenaghen, potete seguire l’evoluzione storica del lavoro umano dalle ciclopiche ascie di selce dei padri degli scani fino alle ultime chincaglierie del nostro secolo chincagliere.

Copenaghen è una città bella e severa. Qualche palazzo con architettura puramente greca, e tutte le case senza balconi; vie larghe e diritte; alberi dovunque. Ciclopismo e mancanza di gusto dappertutto. Tramvays che sembrano torri, omnibus che paiono balene, e gente che cammina vestita in modo da farci credere, che i sarti non esistano in Danimarca e che i vestiti furon mandati a Copenaghen da un lontano paese per gente non mai veduta.

II

Da Götaborg a Stocolma ho attraversato la Svezia, seguendo la via dei laghi e trovando ad ogni momento insufficienti le parole ammirative del nostro dizionario e anche tutte le altre più mirobolanti del vocabolario tedesco, ad ammirare tutte le bellezze, che passavano dinanzi ai miei occhi innamorati: [15] wunderschön, wundergross, wunderhübsch... In Scandinavia bisogna sapere il tedesco, e sulle coste della Norvegia conviene conoscere l’inglese per non vivere isolati in mezzo a un mondo che non intendiamo e che non ci intende. Pur troppo però anche il tedesco e l’inglese non servono che per parlare colle persone colte; nelle botteghe, col popolo minuto, cogli impiegati delle ferrovie ci vuole la lingua universale della mimica e quella ancor più eloquente del denaro e delle minaccie; i due poli entro i quali si muovono e si fanno muovere tante cose di questo mondo sublunare.

La mia ammirazione durò tre giorni e tre notti, e all’ultimo era talmente esaurita da potersi dir morta. I poveri nervi umani hanno anch’essi dei confini e la coppa della gioia ha pur troppo un fondo che si trova presto.

Consiglio i touristes di non prendere il battello a vapore a Götaborg, ma di raggiungerlo colla ferrovia a Traulhettan, per poter visitar meglio e con maggior calma le incantevoli cascate del Gotaelo. Così ho fatto; e a piedi, assaporando voluttuosamente il morbido e fresco contatto dei muschi e delle borraccine, son passato d’una in altra cascata, sulla guida del vispo e biondo monello, che portava scritto sul suo berretto: Cicerone N. 12; una [16] parola italiana giunta fino nell’interno della Svezia e portata in capo del più caro e ingenuo ragazzetto, ch’io m’abbia visto. Altri undici ciceroni gli eran compagni alla stazione, ma appena videro di non essere stati scelti a nostra guida, ci salutarono cortesemente, senza neppur lanciare al cielo una bestemmia o dare un pugno al fortunato rivale. Quanta differenza fra quei ciceroni numerizzati di Traulhettan e i nostri, che non portan numero sul berretto, ma che sono così spesso insolenti, brutali e insopportabili!

Chi ha veduto le cascate classiche della Svizzera troverà che queste della Svezia sono meno grandiose, ma in nessun luogo ne vedete in maggior numero e che si succedono con maggiore varietà. Qui il fiume si precipita d’un colpo da una grande altezza, circondando una rupe con una chiesuola e un po’ più in là raccoglie un getto di spuma per lanciarlo in un abisso nero, stretto e profondo; mentre a un mezzo chilometro di distanza le acque spumeggiando fanno fra le rupi tre o quattro salti, che si alternano con ondosi riposi, a guisa di un cavallo, che fremendo caracoleggi. Fanno cornice alle cascate colline gentili coperte di pini e fabbriche di carta di legno o casette romantiche, che fanno spuntare attraverso gli alberi un profilo civettuolo.

[17]

Passate la notte all’albergo di Traulhettan, tutto di legno e fragrante del simpatico profumo del pino e dei mazzi di fiori e dei ramoscelli di ginepro o di pino, che voi trovate sparsi nell’atrio delle case o raccolti in piattini messi per terra in ogni camera; uso svedese e norvegiano che è pieno di selvaggia poesia.

Al mattino seguente lasciate la terra e vi imbarcate nel Baltzan von Platen, vapore che rassomiglia in tutto a un grosso cetaceo, ma che porta un nome illustre, quello dell’uomo, che, con ferrea pertinacia, ha dato alla Svezia una delle vie acquatiche più lunghe e più meravigliose che si conoscano. Non povertà del paese, non avarizia di ministri, non capricci di parlamento poterono farlo recedere dal suo proposito; e oggi coi sistemi di conche, che si succedono le une alle altre, quasi gradini di una scala gigantesca, centinaia di canali serpentini allacciano tutto un sistema di laghi naturali; per cui ferro, legname e passeggeri si muovono da Götaborg a Stocolma, riunendo due mari e due coste in fraterno amplesso. Il povero Platen moriva pochi anni prima che la sua gigantesca impresa fosse ultimata, ma moriva felice di saperla ormai assicurata per sempre. Non volle grandiosi monumenti: egli dorme l’ultimo sonno sulle rive [18] del suo canale presso Motala, all’ombra di betule gigantesche, ed io gli ho cavato il cappello, trovando che aveva scelto a se stesso la più grande e la più poetica delle tombe. L’uomo che dorme al piede della sua opera, deve dormire il più dolce e il più glorioso dei sonni.

Attraverso le conche stupende della Scozia ho ricordato il nostro grande Leonardo e le lontane glorie del mio paese. Come appassionato amante delle bellezze naturali son rimasto estatico cento volte, vedendo da lungi le navi gigantesche, che innalzavano i loro alberi al disopra dei pini, vedendo coi miei occhi avverato il sogno di un battello incantato, che si muove fra le foreste e in cima dei monti. È poi davvero incredibile la somma abilità con cui quei marinari infilano i loro piroscafi e le loro grosse navi in quelle conche, scendendo e montando senz’urti, senza scosse e senza il menomo accidente. Anche il timoniere deve essere abilissimo, perchè ad ogni momento il canale si piega, e si ripiega, come un serpente, seguendo i capricci del bosco e del piano, accarezzando le rive per baciarne i fiori, non già per fare avarie alla nave.

A Venersborg il canale si apre a un tratto nel lago di Vener, il più grande della Svezia, il terzo [19] di tutta l’Europa. Basterà dirvi che ha una superficie di 5,215 chilometri quadrati, una lunghezza di 150 e una larghezza di 75 chilometri. È insomma un vero mare, che ha infatti le sue procelle e i suoi naufragi, ma che io ho trovato tranquillo e carezzevole, coperto da un magnifico cielo azzurro, intorno a cui faceva bella corona un’aureola di nubi bianche con forme quasi meridionali. Dopo aver serpeggiato fra i pini e aver navigato sui monti, quel gran lago silenzioso e calmo produceva in me una sensazione nuova, profonda, che mi rammentava le vicende della vita, che si alternano con quadri così variati.

Finito il lago, rientrate nel canale, e fra l’una e l’altra conca potete scendere e passeggiare lungo le sue sponde, pestando un tappeto morbidissimo di fiori, quasi foste in un parco principesco. Ed è un parco, che è lungo quasi tre giorni di viaggio, e che vi innamora colle sue fresche ombre, coi suoi licheni scintillanti di rugiada, col velluto dei suoi muschi. Ad ogni stazione del vapore bionde ragazzine dal musino sempre pulito, vengono ad offrirvi mazzolini di mughetti, di narcisi, di lilla, e ve li presentano senza parlare, senza insistere, accontentandosi di un soldo, magari di nulla. Come erano belle e carine nel loro silenzio! Mi pareva che fosse la natura stessa, che ci offrisse quei fiori [20] per mezzo di piccole ninfe, che non erano di questo mondo.

Dopo un lungo giro di canali, attraversate un altro lago, quello di Vetter, azzurro come lo zaffiro, e poi altri fiumi e canali senza fine.

Il sole tramonta dopo le nove, in un cielo che fiammeggia fra la porpora e le perle. Nel morbido contorno delle colline lontane un mulino a vento gigantesco, fermo anch’esso in tanto silenzio, riposa l’occhio, e sembra una croce che pianga la morte del sole. I villaggi dalle case porporine di legno dormono anch’essi, e le betule tremolanti muovono appena le loro eleganti foglioline e senza far rumore.

Durante la notte, colla luna che fa all’amore con una luce di sole, che qui e in questa stagione non muore mai, vi sono punti nei quali il nostro battello si fa strada fra i rami delle betule e dei pini, e noi possiamo dal cassero accarezzare le piante.

Alla mattina, passate per Motala, città delle grandi officine, e per una gradinata di conche, scendete nel lago Boven, grazioso, gentile; un vero amore, uno specchio trasparente, nel quale il cielo si guarda civettuolo, e vi si riproduce colle sue nubi bianche. Le coste sono tutte flessuose, tondeggianti, [21] fin voluttuose, con ondulazioni molli di corpo di donna; pubescenti di abeti e di betule.

In una delle più belle colline si nasconde pudica fra gli alberi una villa forata a giorno, e il fortunato mortale che la possiede, nell’atrio della sua casa può vedere in una volta sola due laghi, perchè il Boven, girando intorno ad una penisola, si raddoppia, moltiplicando all’infinito le sue bellezze. La temperatura dell’aria è tiepida e fresca nello stesso tempo, e mi sembra la carezza d’un uomo burbero, che riesce tanto più simpatica quanto più è rara.

Poi passate Husbyfiöl e il lago di Jocksen, posto fra collinette ondulate, lillipuziane, con villaggi sparsi e ville bianche e nere, basse, adagiate in prati molli e fra cornici di pini, e che ti sembrano fatte per nascondervi le delizie segrete di un lungo amore.

Passato Norskolm, il canale corre parallelo a un fiume che si vede dall’alto, e che nella moltiforme varietà delle sue rive si svolge dinanzi ai vostri occhi come un nastro magico. E la corsa fantastica continua, e voi dai laghi, dai canali, dai fiumi entrate di notte nel Baltico, senza accorgervene, e di nuovo per un canale ripassate in un lago, quello di Melarn, che vi condurrà fino a Stocolma. [22] E voi la vedete seria, là nel fondo dei pini, colle sue alte cupole e il suo campanile sforato di ferro nero nero, e acuto come una spada.

O amanti fortunati, che volete un nido fresco e tranquillo per godervi il vostro primo amore, andate nella verde Svezia, e baciatevi sulle rive di quei laghi che mi hanno innamorato.

III

Stocolma è una bella città, severa e grande, e le fanno cornice alcune foreste così profonde, così verdi, così alte da far diventar druido chiunque passeggi sotto le vôlte di quelle betule gigantesche e di quelle quercie, che contano i secoli come noi contiamo gli anni. Chi ha confrontato Stocolma a Venezia non ha visto Stocolma o non è mai andato a Venezia, o, meglio, non ha veduto alcuna di queste città. La capitale della Svezia è posta sull’acqua e circondata dall’acqua; ma non ha il silenzio misterioso dei canali veneziani, non ha i marciapiedi di mezza città cambiati in acqua, non ha la gondola; infine non è un luogo che ti fa dire: Qui non si può che cospirare o fare all’amore. Stocolma è posta sulle rive del lago Målar e sopra [23] un’isola che si adagia sulla sua imboccatura nel mare e l’acqua s’intreccia colla terra in amplesso amoroso; per cui in nessun altro luogo si sente più vivo il bisogno di avere un yacht elegante per muoversi in quel labirinto di acque salse e di acque dolci, di foreste e di ville.

La città è dominata dall’imponente palazzo reale, che innalza le sue mura colossali con pareti di 130 e 137 metri. Di faccia vedete un altro palazzo, che non è fatto per i re, ma per comfort dei viaggiatori; è il Grand-Hôtel, uno dei più belli che abbia veduto in tutta Europa e che domina colla sua posizione il più bel panorama di Stocolma. Tanto qui come in Danimarca vedete alternarsi la pura architettura greca colla scandinava. Parrebbe in teoria che, messe l’una accanto all’altra, dovessero dare una nota stridente di disarmonia, ma le affratella una certa maestà severa, che viene dalla semplicità delle linee. Tutto può passare in architettura, purchè rappresenti un’idea; nulla più mi ripugna del pasticcio, dell’invasione delle chincaglierie e fin delle confetterie nei sacri dominii di quell’arte suprema, a cui dovrebbero attingere ispirazione e guida tutte le altre.

Il palazzo delle Belle Arti, o Museo nazionale, è uno splendido edifizio di architettura veneziana [24] del rinascimento, e noi vorremmo vedere così splendidamente alloggiati i nostri capolavori. Sgraziatamente a Stocolma il contenuto è meno importante del contenente. Nell’atrio vi accorgete subito di essere in Scandinavia, ammirando le tre statue colossali fatte dal Fogelberg, di Odino, Thor e Balder. Al primo piano troverete molti disegni del Dürn, e alcune statue di Sergel, di Byström, di Göthe, di Fogelberg e Quarnström, che non si vergognano troppo di vedersi accanto all’Endimione dormiente, quello stesso che fu trovato nel 1783 nelle rovine della Villa d’Adriano. Come cosa curiosa, non lasciate di guardare una Venere Callipigia, che il re Gustavo III fece fare da Sergel, mettendovi la testa della contessa di Höpken, per vendetta dell’opposizione, che questa dama dell’alta aristocrazia moveva alla Corte.

Stocolma ha anche un museo preistorico dedicato solo alla Svezia, un museo etnologico ricco specialmente in oggetti delle razze iperboree, e un museo antropologico, che è storicamente il padre di tutti i musei antropologici del mondo, essendo stato fondato dal grande Retzius, creatore della craniologia moderna e padre di uno dei più illustri scienziati che abbia oggi la Svezia. Il figlio è professore d’istologia nell’Università e con Kei ha fatto scoperte [25] importantissime sulla fine struttura del sistema nervoso. In questi giorni ha pubblicato un’opera gigantesca sull’etnologia e la craniologia dei finni e che non sarà messa in commercio essendo stata tirata a soli 200 esemplari; ma di questi una dozzina almeno è destinata all’Italia, che Retzius e la sua signora adorano tanto, da aver convertito la loro casa ospitale in un piccolo tempio dell’arte italiana. Mobili, sculture, acquerelli, incisioni, vasi, tutto è italiano, e belle piante del tropico, facendo corona a quei gioielli artistici, ti fanno del tutto dimenticare che tu sei su terra scandinava. Ora Retzius si sta occupando dell’istologia comparata dell’orecchio nei batraci, nelle salamandre e nei pesci, e le sue prime scoperte sono già molto importanti, portando nuovi e preziosi materiali alla scienza darwiniana.

Per non parlare che dei miei studii, quanti grandi scienziati non ha oggi la Svezia; e il Loven, l’Illebrand padre a figlio, l’Axel Kei, il Montelius, il Van Düben, lo Stolpe e tanti altri, stanno a dimostrarci che le terra che ci ha dato Linneo e Berzelius, continua ad esser feconda di grandi uomini, che aprono orizzonti nuovi nel campo della natura.

La fisonomia degli svedesi è caratteristica. Nel basso popolo tu vedi non rare le facce a tipo finnico, [26] direi quasi lapponico; sono quadrate, larghissime con naso piccolo, bocca grande. Nella classe alta vedi invece la fisonomia germanica o meglio scanica. In generale è gente grassa, bionda, robusta e rubizza, che esprime la forza e la bonomia; occhi grigi o azzurri, non grandi. Allegri, senza grazia rotonda nei loro movimenti. Tutto è in essi angoloso; salutano inchinandosi, a guisa di compasso che si chiuda, o abbassano e innalzano il cappello più volte come macchine. Cortesi, ospitali, ti offrono mazzolini di fiori ad ogni momento.

Fu detto che gli svedesi sono i francesi del nord, ma ciò fu detto anche dei russi e queste frasi ad effetto sono quasi sempre dei lieux communs, che ci risparmiano le osservazioni fine e profonde. Un carattere umano è cosa che non si definisce con una frase.

Fu anche detto, che i costumi sono piuttosto facili nella Svezia, e qualche statistica proverebbe che Stocolma è, dopo Monaco, la città che dà in Europa il maggior numero di figli illegittimi. Io vorrei ancora mantenere aperta la questione, perchè ho veduto molto contegnoso il riserbo nelle figlie d’Eva d’ogni classe, e non ho trovato le etarie, che in tante altre città portano in giro le loro provocazioni impertinenti.

[27]

Nella Svezia ho trovato assai accentuata una tendenza democratica nelle classi medie e più ancora fra gli uomini di lettere e di scienza. Mentre in Danimarca un nastro all’occhiello fa felici tanti mortali, nella Svezia nessuno porta il nastro e conosco molti professori dell’Università che lo hanno rifiutato. Il Nordenskjöld, il grande esploratore del polo, che si aspetta da un giorno all’altro col bottino glorioso delle sue intraprese, ebbe una volta una lezione dal re. Questi gli aveva conferito non so qual ordine e il Nordenskjöld l’aveva rifiutato. Il grande scienziato alla sua volta offerse al re una magnifica pelliccia portata dal suo viaggio, e Oscar l’accettò, dicendogli: «Tu sei più superbo di me; io ho accettato il tuo dono, tu hai rifiutato il mio.»

Il partito pietista è nella Svezia molto remuant, ed è combattuto con molta vivacità dalle classi medie e dagli scienziati. L’istruzione popolare è coltivata con immenso amore, e le signore più distinte di Stocolma vi dedicano il meglio del loro tempo e del loro danaro.

Ho avuto il piacere di essere invitato ad un pranzo, in cui il Retzius, con squisita cortesia, volle circondarmi degli antropologi e fisiologi più illustri della capitale. Più schietta, più larga, più splendida ospitalità io non aveva mai veduto. Un pranzo [28] in Svezia è qualche cosa di originale, di grande, che rammenta il medio evo nelle sue più belle forme. Innanzi tutto vi vedete schierati in tavola almeno dodici o venti piattini, nei quali la terra e il mare vi offrono i loro tesori più pizzicanti e appetitosi; lingua di bue e uova di merluzzo, aringhe della Norvegia e anguille marinate, salame crudo e prosciutto. Si pizzica qua e là e poi si beve un bicchierino d’acquavite, che potete scegliere profumata in tre o quattro maniere. Poi viene la zuppa, che può essere di tartarughe o di gamberi di acqua dolce o anche d’ortiche. Tengon dietro i grandi pesci di mare o di fiume, il cervo o il bove e i fagiani della foresta; gelati, crema balsamica; i vini di tutti i popoli della terra che hanno una vigna. Il Retzius con delicata premura aveva messo in tavola anche il fiasco del Chianti e il moscato di Gerace. Ed ogni volta che il padrone di casa beveva, m’invitava a bevere con lui, facendomi sempre un nuovo augurio. Ed io beveva e ringraziava; mentre tutti i commensali dirigevano verso di me i loro bicchieri con grazia affettuosa. Sempre che si beve, si invita qualcuno all’amichevole augurio e questo si chiama skole. Circolò anche a metà del pranzo la maestosa Olbolle, immensa tazza di legno dipinto, piena di birra, e tutti bevettero [29] nello stesso nappo fraternamente. Dopo il pranzo ognuno va a stringere la mano al padrone e alla padrona, ringraziandoli. Sono usi patriarcali, pieni di un profumo di antica cavalleria, che ci riportano a un tempo, in cui non si arrossiva di esprimere quel che si sente, per poi imparare con sottilissima ipocrisia ad esprimere quello che non si sente. Benedetti i paesi, nei quali progresso non vuol dire cancellare tutte le memorie del passato e vergognarsi di aver avuto degli antenati.

IV

Cristiania è una delle città più originali di Europa, e solo qua e là ti ricorda qualche lineamento della Scozia e dell’Olanda. Essa è in ordine di tempo la terza capitale della Norvegia. Toccò all’antica Nidaros (oggi Trondhjem) l’onore di essere la prima fino al 1397, quando Margherita, regina dì Danimarca, che fu chiamata la Semiramide del Nord, univa sul suo capo e tramandava ai suoi successori le tre corone di Danimarca, di Svezia e di Norvegia. Dopo il 1397 divenne capitale la città di Opslo, fondata verso l’anno 1100, ma nel secolo XVII fu totalmente distrutta da un incendio. [30] Fu allora che Cristiano IV, re di Danimarca, edificò nel 1624 una nuova città, che dal suo nome fu detta Cristiania.

Nel centro della città avete alcune vie molto larghe e dirette, dove le case si appoggiano le une alle altre come in tutte le città del mondo, ma fuori di lì, senza strozzatura di mura nè tirannia di regolamenti urbani, Cristiania si muove a suo capriccio nel piano, sui colli e lungo il fiord, seminando di ville un largo giro di terreno. Son case isolate, tutte o quasi tutte di legno, ora candide come il marmo, ora bianche e nere, ora gialliccie, coperte di piante arrampicanti, che fanno lieta ghirlanda alle scale esteriori, al balcone e alla varanda e che si nascondono pudicamente fra boschetti di lilla, violetti e bianchi, che in questa stagione mostrano una profusione incredibile di fiori di un raro splendore. Dalla maggior parte di queste ville si gode una vista bellissima sul mare lontano, sui colli e sulla città.

Fra gli edifizi più rimarchevoli di Cristiania ho notato il palazzo reale, imponente e bello che domina l’intiera città, circondato da un gran parco, dove passeggiano i pacifici norvegiani, trovando sotto la frescura degli alberi anche botteghine democratiche, dove bevete dell’acqua di Seltz per [31] cinque centesimi e vi è servita quasi sempre da una bionda e giovane figlia di Thor.

Sotto il castello (che così si chiama il palazzo reale) trovate l’Università, fondata solo nel 1811 e che è divisa in varii edifizi. Uno di essi è la Domus Academica, destinato alle lezioni di teologia, di diritto, di lettere e di filosofia, e dove hanno sede il gabinetto numismatico e il gabinetto delle antichità norvegiane. Nell’edifizio centrale hanno loro stanza la facoltà di medicina coi suoi laboratorii e i musei di storia naturale; mentre un terzo edifizio, parallelo al secondo, non contiene che la biblioteca, ricca di circa 200,000 volumi.

Il professore Roeg mi fece da cicerone nel museo preistorico e archeologico, dove non si trovano che cose norvegiane, che sono del resto molto rassomiglianti alle svedesi. Anche qui manca affatto l’epoca paleolitica che la Norvegia non ebbe mai. Il giovane Nielsen mi fu guida cortese nella corsa che feci nel museo etnografico moderno, che è giovane di età, ma già molto ricco, specialmente in oggetti della Lapponia e della Groenlandia. Vi sono anche molte e buone cose della Polinesia, della Nuova Zelanda e moltissime della China e del Giappone. Il Nielsen è l’autore della miglior guida per la Svezia e la Norvegia, guida che ha il merito [32] raro di essere scritta in lingua tedesca e non in danese[2].

Lo Storthingshaus, o edifizio del parlamento, è più originale che bello, ma ha una fisonomia severa, del tutto medioevale.

Tutta la città coi suoi palazzi, colle sue chiese è però un nulla in confronto dei suoi dintorni, che formano un parco gigantesco, in cui potrebbe muoversi ed anche nascondersi tutta la popolazione di Parigi o di Londra. Vale la pena di venire in Norvegia anche soltanto per ammirare lo splendido panorama, che si gode dall’alto della torre di Oscar’s Hall, villa dei re di Svezia, posta sulla riva opposta a quella su cui è edificata la città di Cristiania. Quel castello, tutto bianco come la neve, innalza le sue torri merlate sopra un oceano di smeraldi, dove vi sembra di nuotare in mezzo a tutte le gradazioni infinite del verde. In fondo il fiord, che è lago, mare e fiume in una volta, colle sue grandi isole; di faccia, la città colla massa imponente del palazzo reale e la gran cupola della chiesa della Trinità.

Tutto all’intorno colline, piani ondulati, monti, [33] prati e ville e villaggi e gruppi di betule, che riposano sopra tappeti molli, smaltati di fiori, o un ondeggiare di ombre e di luci argentine in mezzo ad un silenzio di uomini e di cose, che nei nostri paesi del mezzodì ci è affatto sconosciuto. Mai come al castello di Oscar’s Hall io ho provato l’ebbrezza del verde, del verde fresco, infinito, che riposa e calma i nervi irritati dal nostro cielo caldo e azzurro.

Ho veduto molte terre e molti mari, ma io credo di poter mettere accanto ai divini panorami di Rio Janeiro e di Napoli quello di Cristiania veduta da Oscar’s Hall. Il golfo di Rio è la ricchezza feconda, inesausta, del cielo tropicale; Napoli è uno dei più bei quadri della natura mediterranea; Oscar’s Hall è il quadro più fresco delle verdi bellezze del nord. Nè questo è il solo paesaggio divino, che si può ammirare nei dintorni di Cristiania. Sono salito anche sul colle, dove è posto il grande serbatoio d’acqua dolce per spegnere gli incendi, e ho veduto anche lì profili nuovi e nuove bellezze nel contorno dei monti e dei colli e nell’argentino bagliore del fiord norvegiano, che mi stava ai piedi. Quel serbatoio, quell’acqua e l’apparato dei pompieri mi sembrarono però una grande ironia, perchè proprio in quel momento stesso, in cui mi godeva quello stupendo panorama, bruciavano cinquanta [34] case di legno in Cristiania, senza che si potessero salvare che i camini, che erano di calce e di mattoni.

Nessuno però si inquietava molto per quella sventura, dacchè non si aveva alcuna vittima. I norvegiani sono calmi, sereni, pazienti, come gente che campa molto e che non si affretta mai. Straks vuol dire sul dizionario subito; ma quando un norvegiano vi dice straks, sia pur egli un cameriere o un negoziante, un cocchiere o un medico, traducete pure: mezz’ora.

Un altro carattere del norvegiano è l’indipendenza e l’autonomia dell’individuo. Voi arrivate ad una stazione, dove si deve far colazione o pranzare e voi vi sedete alla table d’hôte, aspettando di esser servito. Potreste aspettare fino al giorno del giudizio universale: voi dovete alzarvi, prendervi cucchiaio o forchetta e servirvi da voi, scegliendo fra i molti piatti, che vedete schierati sopra un tavolo centrale. Così avviene quando in una cariole giungete ad una casa di posta. Prendete pure la vostra valigia, slegatela e portatela al nuovo veicolo o all’albergo. Essa è piccina e il viaggiatore deve avere la forza di portarla da sè. Io non ho mai guidato un cavallo in vita mia, ma qui mi son visto mettere in mano le redini e da me solo ho dovuto [35] guidare la mia cariole lungo gli abissi, per vie impossibili, su ponti rotti, e vi assicuro che lo struggle for life mi ha fatto diventare in due giorni un famoso baroccinaio.

Fuori dell’unica ferrovia che va da Cristiania a Trondhjem, la Norvegia non ha altro mezzo di locomozione oltre le gambe di ogni bipede implume che la cariole; e vi posso dire, che, all’infuori dei suoi pericoli, ha molta seduzione. Figuratevi un guscio di noce, nel quale un olandese non potrebbe far capire la parte molle e posteriore del suo corpo, ma dove ogni altro abitante d’Europa deve adagiare la suddetta, mentre poi non sapete sulle prime dove collocare tutto il resto del vostro corpo. Ben presto però imparate che testa, collo, tronco, braccia e gambe devono restare in aria e che vi si concedono due staffe di ferro per appoggiarvi i vostri piedi. Seduto così in aria e tenuto al disopra della terra da due grandi ruote, avete in mano due redini, colle quali dovete trasmettere i vostri desiderii al cavallo, che rapidamente e quasi sempre senza bisogno di frusta vi trasporta per strade senza pilastrini e dove la menoma distrazione degli occhi o delle mani vi precipiterebbe in uno dei bellissimi torrenti della Norvegia o per lo meno in una torbiera o in un prato. Vi assicuro però, che quando [36] avete scontate le prime paure della vostra inesperienza, voi provate una vera ebbrezza di movimento in quella locomozione semiaerea e originalissima.

V

Frederika Bremer, scrittrice molto popolare della Svezia, ha fatto conoscere nei suoi romanzi, a tutta Europa, le feste che si fanno in Scandinavia per festeggiare nel giorno di San Giovanni la levata del sole a mezzanotte. I touristes volgari leggono nelle loro guide che questo fenomeno è curioso, è interessante; e partono da Londra, da Dublino, da Vienna, per portarsi a Bodö. E là sulle prime frontiere del circolo artico otto volte su dieci accade che il cielo è coperto dalle nuvole e il sole non si può vedere nè di mezzanotte, nè di mezzogiorno. Nel caso fortunato, in cui l’astro maggiore voglia essere cortese, i touristes anzidetti cavano dal baule la loro lente biconvessa comperata ad hoc e concentrando i raggi del sole di mezzanotte sopra un punto qualunque del loro cappello o del loro soprabito, serbano eterna memoria di una puerilità umana e di una delle più grandi scene della natura.

E l’ho veduta anch’io quella scena e me ne sono sentito profondamente commosso; tanto che cavai [37] fuori penna e calamaio e scrissi nel mio giornale la data memorabile, dirigendo il pensiero ai miei cari, che avrei voluto chiamare testimoni del grandioso fenomeno. Humboldt, uno degli uomini che più di ogni altro ha adorato la natura con intelletto d’amore, lasciò scritto, che quando il viaggiatore giunge nell’emisfero australe e si accorge che fin le stelle che brillano sul suo capo sono diverse da quelle che ha ammirato dalla sua infanzia, sente più profonda che mai la distanza dalla patria lontana. Questo stesso fatto si verifica, e con maggiore intensità, quando, giungendo nel circolo artico, si trova abolita la notte e scomparse per giorni e settimane le tenebre.

Io era in mare, quando con un cielo serenissimo salutai per la prima volta l’alba della mezzanotte. Aveva passato di poco l’isola pittoresca di Torghatten e navigava in quel labirinto insuperabile di monti nevosi, di colli, di isole, di canali e di coste frastagliate, che formano una delle scene più originali di questo nostro mondo sublunare. Il cono di Torghatten si disegnava grande e isolato in un campo di opale dell’Ungheria, richiamandomi alla mente il Pan de Azucar, che sta all’entrata della baia di Rio de Janeiro. Era quasi la mezzanotte e del sole non rimaneva sull’orizzonte che un piccol [38] lembo falcato, una pepita d’oro senza raggi, perchè la refrazione dell’atmosfera marina ci dava l’immagine di un sole che era già scomparso per pochi istanti. Da quel punto irradiava una luce d’argento dorato, che illuminava ogni cosa, come si fosse veduta attraverso un topazzo del Brasile. Tutti si domandavano, se quell’arco d’oro fosse di sole morente o di sole nascente. Era l’uno e l’altro insieme, o piuttosto nè l’uno nè l’altro: era un fantasma del nostro padre massimo, del pontefice supremo della vita planetaria, che si faceva rappresentare da una larva, mentre era andato a riposare per pochi istanti. Qualche nubecola crepuscolare riposava l’occhio in tanta allegrezza di luce, quando ad un tratto i monti nevosi a mezzodì si fecero color di rosa; poi quel sorriso innamorato scese giù giù, accarezzando le betule tremolanti, i licheni policromi, finchè tutto il mare fu preso da un fremito di vita al primo bacio del sole nascente e dorò le sue onde di zaffiro con uno splendore di armatura brunita.

Dopo una breve pausa, il sole riuniva in una bellezza sola due crepuscoli, quasi due sospiri di un amore stanco di voluttà e d’un altro amore che ricomincia con desiderio nuovo. Un silenzio infinito avvolgeva uomini e cose, quasi tutto volesse salutare [39] rispettosamente quella grande scena della natura, immagine di una vita ideale, in cui il riposo non è che un mutar di lavoro e la luce regna sempiterna e feconda.

Ahimè! tutto ciò che è grande e sublime dura poco; e quando ogni giorno da un pezzo voi vedete il sole per ventiquattr’ore di seguito, incominciate a desiderare le tenebre amiche, che ci riposano gli occhi e i nervi e il cuore, e colle loro ombre pietose coprono tante miserie e tante brutture. Noi, uomini di zona temperata, fin dall’infanzia siamo cresciuti in questa alterna vicenda di luce e di tenebre, e così come il sole ci invita al lavoro e alla gioia col primo raggio dell’alba, così ci riposa e ci addormenta col primo velo di tenebre, con cui ricopre i cieli. L’ombra è il riposo della luce, così come il sonno è l’ombra della vita, e la luce non ha valore senza le tenebre, come senza il riposo ogni forza si consuma. Qui invece, dove mi trovo, la luce ti perseguita sempre, e le case piene di finestre, senza persiane, senza imposte, ti imbevono di sole ogni ora, ogni minuto del giorno e della notte; ed io mi guardo più di una volta per vedere, se mai non fossi diventato trasparente, come un cristallo di rocca. Il sonno scompare e col sonno la pace dei nervi. E chi andrebbe a letto quando [40] il sole fiammeggia nell’orizzonte? E quando ti svegli di notte e ti vedi circondato di luce, ti siedi a soprassalto, credendoti in ritardo e svegliato di pieno mezzogiorno. La luce sempiterna può essere un tormento del troppo, come le tenebre sono una tortura del nulla, e l’estrema Lapponia è nell’estate pessimo clima anche per la sovraeccitazione continua dell’attività nervosa.

Tutta questa trasposizione di luce ha però quadri secondari di singolare bellezza. Ad esempio, tu passeggi per le vie solitarie di un villaggio o di una piccola città: le botteghe attraverso i vetri senza imposte lascian vedere le loro merci, le case mostrano i loro vasi di fiori; tutta la vita intima dell’umana famiglia (di una famiglia senza ladri e senza assassini) si lascia vedere in una nudità pura come l’innocenza.

Eppure per quelle vie non si vede anima viva, e la luce silenziosa e trasparente passeggia sola in un mondo abbandonato dagli uomini. Rumore e luce sono per noi compagni fedeli; qui nelle notti della Norvegia trovi il silenzio e la luce, che sembrano abbandonarsi ai misteri di un amore nuovo, di un amore che si direbbe incestuoso.

Io dovrei descrivervi ora le mille e una bellezze delle coste occidentali della Norvegia, ma chi mi [41] può prestare la magica tavolozza del mio grande De Amicis? Dovrei dirvi di avere ammirato per la prima volta una Svizzera in mezzo al mare, e di aver veduta una nuova e singolare armonia di cose, che sogliono essere disgiunte, quali i ghiacciai che vanno a toccare l’onda azzurra, e le navi che toccano coi loro fianchi i monti coperti di prati alpini. E sono catene di monti che ti accompagnano per giorni e giorni, che si accavallano, che si intrecciano, quasi ti volessero sbarrar la via, e poi ti aprono una porticina, e il tuo sguardo di nuovo penetra in altri fiumi di mare, in altri labirinti di isole, in altri dirupi di roccie scoscese, lacerate dai ghiacci secolari, dalle bufere, dalle valanghe, dai venti, da tutti gli agitatori massimi della natura.

Una fanciulletta, che va colle forbici capricciose ritagliando in un foglio di carta seni e merletti, non potrebbe superare ciò che ha fatto la natura, frastagliando i fiords della Norvegia e facendo penetrare il mare in seni di pochi metri o in labirinti di centinaia di chilometri, che sembrano portare la circolazione capillare della vita fin nei più interni recessi del continente.

Mancano a quasi tutti i monti della costa e delle isole della Norvegia occidentale le foreste delle nostre Alpi, ma non mancano però i piccoli quadri pittoreschi [42] della vita umana e della vita animale. Dopo un lungo deserto di scheletri di monti, in un piccolo seno della costa vedi un prato verdeggiante e un boschetto di betule, e lì annidato un villaggio di legno con cinque o sei case, e all’intorno piccole torricelle di merluzzo che seccano al sole, e vedi biondi e rosei fanciulletti e giovani splendenti di salute folleggiare per i prati. Così su qualche scoglio nero come il carbone trovi casette artificiali di pietra apprestate dall’uomo all’eyder che vi annida, preparando ai suoi figliuoli un letto di mollissime piume, che appresterà più tardi voluttà orientali ai molli fianchi delle nostre ricche signore. Quelle anitre norvegiane si sentono così protette dall’uomo, che non si lasciano sgomentare dalla sua presenza, e perfino si lasciano accarezzare dalle nostre mani. Dove una regione è dichiarata vogel-vere, significa che quel luogo è sacro, che lì annidano gli eyder, una delle ricchezze norvegiane, e che per qualche miglio all’intorno è proibito tirare un colpo di fucile, per non spaventare quelle anitre polari. E qui le leggi si ubbidiscono assai più che tra noi, senza bisogno di policemen o di questurini.

[43]

CAPITOLO SECONDO

LA GITA A ÖJUNGEN — I PRIMI LAPPONI.

Ritornando un passo addietro, io voglio raccontarvi una gita fatta sull’altipiano centrale della Norvegia per visitare alcuni lapponi, che abitano da tempo immemorabile le montagne che circondano Röros. Il professor Fries, prima autorità in fatto di cose lapponiche, ci aveva detto a Cristiania, che quei lapponi rappresentavano il tipo più puro della loro razza e per animarci a visitarli, ci aveva dato una lettera di raccomandazione per suo fratello, distinto ingegnere che dirige le fonderie di rame di Röros.

Partii dunque il mattino del 15 giugno da Cristiania coll’amico Sommier, con quell’entusiasmo pieno di curiosità e d’impazienza, che ci porta a veder le cose nuove. Il tempo era di malumore e [44] ci ricordava le giornate bizzose del nostro mese di marzo, quando con bisbetica alternativa piove, tira vento e brilla il sole a pochi minuti di distanza. Il malumore del cielo però non poteva passare in noi; perchè un clima interno di calda contentezza ci corazzava contro tutte le intemperie della Scandinavia. Fra due o tre giorni, fors’anche all’indomani, noi avremmo veduti i primi lapponi; come avremmo potuto essere scontenti?

Alle otto del mattino coll’ultimo fischio d’una piccola locomotiva si lasciava la città di Cristiania e si dirigeva la prora dei nostri ardenti desii (come direbbe un secentista) verso Röros. La pioggia rendeva uggioso il paesaggio e si preferiva cercare nell’interno del vagone un’occupazione al nostro pensiero. La guida tedesca del Nielsen, lo studio di alcune parole norvegiane ci rubarono le prime ore del viaggio; poi si passò all’esame del piccolo ambiente in cui eravamo chiusi. Vagoni piccini, ma puliti: fra l’uno e l’altro scompartimento un’urna di cristallo piena di ghiaccio ci offriva acqua fresca per mezzo di un rubinetto argentino; ma non se ne sentiva davvero il bisogno, involti come eravamo ancora nei caldi soprabiti d’inverno. Un immenso cartone appeso al vagone ci offriva una carta geografica del paese che si percorreva, colle stazioni, [45] coi minuti di fermata e con tutte le notizie necessarie al viaggiatore. Un altro cartello dava i prezzi degli alberghi, che avremmo trovati lungo il cammino e dove si sarebbe potuto passar la notte. Eccovi un saggio di queste preziose indicazioni:

Hotel di Koppang (Centrale)
16 camere e 38 letti
 
Una colazione con carne calda o fredda, da Kr. 1 a 0,80[3]
Un pranzo con due piatti caldi di carne » 1,25  
Un pranzo con un piatto di carne fredda » 0,80  
Una cena con carne calda o fredda, da » 1,50 a 1
Un pane burrato » 0,10 öre
Un caffè o thè » 0,20  
Una bottiglia di birra » 0,40  
Un bicchiere di latte » 0,10  
Alloggio. Una camera » 2,00  
Due letti in una camera, ciascuno » 1,50  
Tre o più letti in una camera, ciascuno » 1,25  

Seguono poi i prezzi di due altri alberghi di secondo ordine.

Un vagone norvegiano è una guida e una scuola. Un terzo cartello in lingua norvegiana e in inglese vi avverte di non gettar dalle finestre i fiammiferi [46] o i sigari accasi, perchè potrebbero incendiarsi le foreste, che attraversate.

Passengers are requested not to throw lighted cigars, matches etc. out of the carriage windows. The doing so has occasionally caused turf, heath and thereby forests to be ignited.

Intanto vengono le 10,46’ e si deve scendere dalla ferrovia alla stazione di Eidsvold per attraversare in un battello a vapore il lago di Mjösen, il più bello di tutta la Norvegia, che ha la forma ad ipsilon come il nostro lago di Como e che per le sue rive, povere di villaggi, ma ricche di pini e di rupi scoscese, rammenta i laghi scozzesi. Pranziamo a bordo serviti da bionde e robuste amazzoni scandinave, che sono assai più lusinghiere dei piatti, che ci sono serviti: montone allesso, l’eterno salmone, l’eterna birra e un’insalata condita con zucchero e latte. Una crema eccellente servita col multeber (frutti del rubus chamaemorus) mi riconcilia però colla cucina norvegiana e mi fa benedire la vita. Benchè lombardo, devo per amor del vero confessare, che la panna della Norvegia è molto superiore alla nostra, che pure è tanto squisita: essa è soave e grassa come la lombarda, ma è più profumata e meno densa; è un vero balsamo per i ventricoli schizzinosi e di difficile contentatura.

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Alle 2,15 il lago di Mjösen è tutto percorso e si ritorna in ferrovia, dove con grande compiacenza trovo che il mio biglietto di seconda classe mi dà il diritto di passare in prima ed io entro col fido amico in un vagone tutto specchi e velluto porporino. In quel grazioso salotto si attraversano bellissimi boschi molto fitti di abeti, che s’innalzano sopra molli tappeti della cenomyce rangiferina. Qua e là vediamo casette di legno tutte coperte di terra che alberga arboscelli e erbe, un vero giardinetto aereo posto sul capo dell’abitazione dell’uomo. Sulla riva destra del Glommen incontro sei o sette villaggi, sempre di legno e variopinti. Le stazioni son tutte piccine, ma linde, ma pulite. Non mancano mai i vasi di fiori dietro le finestre e campeggia sempre un enorme termometro, che annunzia a tutti uno dei fatti più importanti per la salute dell’uomo in quei paesi iperborei. Alcune stazioni sono ornate di corna di alce o di rangifero.

A destra ci accompagna sempre il fiume Glommen e qua e là grossi ammassi di ciottoli morenici ci dicono ad alta voce, che noi percorriamo il letto di antichi ghiacciai.

Alle stazioni osservo con attenzione di antropologo la faccia degli abitanti. Fra le faccie lunghi e bionde e le grosse teste degli scandinavi spiccano [48] nel basso popolo altre faccie mongoloidi molto larghe e con naso molto piccolo. Saranno finni o lapponoidi? Non rispondo alla domanda, perchè troppo facile è arrischiare congetture e fabbricare teorie, ma la scienza severa giudica le une e le altre come altrettante pagine di romanzi storici.

La stazione di Koppang ci ferma alcuni minuti e si lascia ammirare. La circondano belle case di legno a grosso bugnato; ma io preferisco sempre ai lavori dell’uomo le opere della natura e sulla guida del mio Stephen, che erborizza anche nelle stazioni, colgo in quei pressi per la prima volta la betula nana, il più microscopico albero dell’Europa, molte viole silvestri del pensiero e una bellissima ericacea, l’andromeda polifolia.

Si giunge a Toenset alle 11,55’ della sera e si cena con salmone salato, uova sode e birra. È in questa stazione che dobbiamo passare la notte: perchè in Norvegia non si viaggia che di giorno e il treno, come una buona e brava diligenza dei tempi passati, sta fermo dinanzi a noi, aspettandoci al risveglio dell’indomani; mentre molti viaggiatori lasciano nei vagoni le loro cose, sicuri di trovarvele intatte all’indomani. Il nostro albergo, tutto di legno, ha sulla porta grandi corna di renne e la nostra cameruccia è piccina piccina, il letto piccino [49] piccino e la luce pacata d’una notte che è giorno c’inonda soavemente, cullandoci in una sonnolenza, che non può esser sonno.

La luce velata si fa poco a poco luce viva, sfacciata; i due crepuscoli della sera e del mattino, come due ardenti innamorati, che non possono separarsi che per pochi istanti, si son dati un nuovo bacio e si sono confusi in un amplesso di una sola aurora. La tromba del treno ci avverte, che convien partire; ma se qualche viaggiatore si è attardato, o se vuole con maggior agio sorbire il suo caffè, il conduttore non ne farà per questo una questione di gabinetto e ritarderà di qualche minuto la partenza. Qui gli uomini non son fatti per i treni, ma i treni per gli uomini e le ferrovie sono piene di bonomia, di pazienza e di condiscendenza.

Siamo rientrati nel nostro elegante salottino di velluto rosso, ma lo possiamo godere per poco più che due ore; perchè la stazione di Röros ci arresta. È qui che dobbiamo raccogliere le notizie sui lapponi di Ojung, è qui che il bravo ingegnere Fries deve servirci di guida e di maestro per la nostra avventurosa spedizione. Egli è così gentile, che mentre ci dirigiamo alla sua casa, egli ci è venuto incontro e ci indovina, senza bisogno di fotografia o di passaporto colle note personali. In casa sua si [50] studia la carta geografica del luogo e si decide di inviare un telegramma all’ingegnere Hauan, che ad Eidet dirige un’altra fonderia di rame. Ci risponde dopo qualche ora, che vi sono lapponi a Ojungstrakten e ch’egli all’indomani ci aspetterà alla stazione di Eidet con tutto il necessario per la nostra spedizione.

Röros è luogo triste e che ti agghiaccia il cuore; è posto nel centro della Norvegia sopra un altipiano a più di 2000 piedi sul livello del mare; nessun albero: una landa quasi deserta, sparsa di rovine di ghiacciai, monti all’intorno mal disegnati, brulli, quasi mai abbandonati dalle nevi. Nell’inverno gela sempre il mercurio e l’ingegnere Fries nell’ultimo inverno ha fatto un bel chiodo argentino di mercurio, battendolo a colpi di martello sopra un’incudine. Le case piccine, grigie; vie selciate di scorie metallurgiche; fumo, vapori di solfo dappertutto; un torrente, che ha lacerato le viscere di quella terra infeconda e mugge fra i massi di carbone e i cumuli del minerale di rame, che dà a quel paese un pane, che deve sapere di solfo ed essere freddo anch’esso.

Anche a Röros raccolgo però due sorrisi di bellezza e di vita. Nelle aride sabbie, che circondano quel paese infernale, fioriscono spontanei cespugli [51] così fitti di viole del pensiero, da farne un mazzo con una sola pianta. Nell’albergo della stazione, fragrante di resina di pino, sorridono altri fiori: sono le bionde e rosee figlie del capostazione, che è anche oste, e che dai loro occhi azzurri lasciano piovere raggi di fresca giovinezza e d’innocente simpatia. Ti portano il caffè di buon mattino, quando tu sei ancora a letto, fidando giustamente nella loro virtù e nel rispetto dell’uomo per la purezza virginea della giovinezza.

Da Röros la ferrovia discende fino ad Eidet e mano mano si va lasciando l’arido altipiano, gli alberi s’innalzano e la foresta si fa più folta. Ad Eidet è pronto l’ingegnere n.º 2, il signor Hauan, che colla sua faccia seria si direbbe molto ammusonito per dover accompagnarci in cima ai monti in cerca di lapponi; ma che invece è tutto cuore, ci ha già preparato un cavallo, un carretto, e gli uomini necessarii per portare alla sua fonderia, che è giù nel fondo della valle, i nostri pesanti bagagli fotografici.

L’ingegnere Hauan, discepolo della scuola di Freiberg, è uomo di poche parole, ma di molti fatti. Egli vede scendere le nostre casse dal vagone dei bagagli e le guarda con straziante silenzio. Alle nostre insistenze, perchè voglia tradurci in lingua [52] tedesca, e magari anche in lingua danese, quel suo silenzio, risponde con degli hum hum, molto lunghi e di pessimo augurio. Siam dunque costretti, io ed il mio compagno, a fare da noi stessi la traduzione di quel tenebroso silenzio ed eccola qui in poche parole: Questi due italiani son due veri matti, se pensano di poter portare sulle alture di Ojung le loro casse fotografiche e sarebbe più semplice far scendere i lapponi e fors’anche le montagne nel fondo della valle.

Nulla di più crudele quanto il dover parlare in una lingua straniera con poche e stentate parole con un uomo che tace in tutte le lingue. Si sentono venire al labbro fiumi di parole e di ragioni e di persuasioni, torrenti d’interrogazioni, di seduzioni e di argomentazioni e si vorrebbero tutte quante schierare in legioni, in reggimenti, in squadriglie, in batterie, per persuadere, per chiedere scusa, per farsi perdonare; e invece da una parte un monolito umano, che vi guarda e tace; e dall’altra le vostre poche parole, che escono ad una, ad una, stentate, storte e sempre male a proposito. Se Dante ritornasse in vita, assegnerebbe un nuovo girone al suo inferno, condannando tutti gli uomini espansivi e ciarlieri alla tremenda pena, che io ho sofferto alla stazione di Eidet nell’altipiano centrale della Norvegia.

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Se non si può parlare, vediamo dunque di schierar fatti contro fatti, e là nella stanza delle merci di Eidet, io e Sommier ci mettiamo a semplificare il nostro bagaglio fotografico, riducendolo ai minimi termini possibili. La camera lucida col grande obiettivo Dalmayer, la tenda per lo sviluppo, poche lastre e pochissimi reattivi. E intanto per colmo della nostra felicità, piove.

Il minimum possibile intanto è installato in un baroccino a due ruote tirato da un pachiderma, che ha in una volta sola dell’asino, del mulo e del cavallo e accompagnato da noi, che camminiamo a piedi, scende giù per la china alla fonderia diretta dal signor Hauan. Ospitalità schietta e sincera, signore bionde e rosee, bambini di latte e di miele ci riconciliano colla vita e coi lapponi di Ojung. Finita la colazione, l’uomo dalle poche parole e dai molti fatti ci invita a passare nel cortile, dove è pronta la carovana, che ci deve portare alla meta del nostro viaggio. Un cavallo per il signor Hauan, una cariole per me, una seconda cariole per Sommier, un carretto a due ruote per il bagaglio trascinato dal pachidermo di specie incerta. Ognuno si mette al posto assegnatogli, ed io colle mie redini in mano, per la prima volta in mia vita guido un cavallo, senz’essere a cavallo. E su, e su per [54] erte pendici popolate di pini fino a Törmo, dove anche le cariole non possono più avanzare e conviene trasformare gli animali da tiro in cavalli da sella. La sola carretta e il solo cavallo incertae sedis tireranno avanti così come stanno. Mentre la carovana subisce questa radicale trasformazione, si entra in una casa di Törmo, dove ci offrono latte freschissimo, sedie di legno bianche quasi quanto il latte e volti sorridenti della più cara, della più simpatica ospitalità. Le donne sono occupate nel forno a fabbricare il loro fladbröd o pane piatto. È una scena dei nostri padri dell’epoca della pietra. Una donna dalle robuste braccia nude, con singolare agilità e prestezza foggia un sottilissimo disco di pasta, in cui entrano molti cereali diversi, segale, orzo, fors’anche avena; e appena è fatto lo getta sopra un gran disco di pietra, che è stato riscaldato rapidamente da un buon fuoco di fuscelli. L’alta temperatura di quella pietra e la sottigliezza della pasta rendono la cottura quasi istantanea, e il cialdone scottato sulle due faccie è raccolto secco e semitostato e già pronto ad entrare in bocca di chi abbia appetito. Questo pane nazionale della Norvegia dura mesi ed anni, è saporito, di facile digestione e può sembrare un manicaretto in confronto del pane dei lapponi, più preistorico che mai.

[55]

Ma noi siamo già a cavallo, abbiamo già salutato le nostre donne del forno e su e su per l’erta del monte, che diventa sempre più ripido. Intanto una pioggia minuta, gelata, uggiosa ci penetra fino alle ossa e ci rende tutti quanti più muti dei pesci. Io guardo Sommier dall’alto della mia sella. Sommier guarda me dall’alto della sua; non possiamo dire davvero di divertirci, ma si subisce il martirio, aspettando i lapponi. Non dallo spegnersi della luce, che in quelle latitudini e in quella stagione non si spegne mai, ma dalla nostra stanchezza si capisce che l’ora d’andare a letto dovrebbe esser già venuta; ma il direttore della carovana tira sempre via e le guide lo seguono ammusonite e di pessimo umore. L’orologio ci dice, che le undici della sera sono vicine e ci viene imposto di fermarci, mentre ingegnere e guide, chi a cavallo e chi a piedi, si sbandano per diversi sentieri, in cerca di qualcuno o di qualche cosa. Cercano forse i lapponi e l’idea di passare la notte in una capanna lappone ci rialza gli spiriti affranti e ci promette molta poesia. Cercavano invece un saeter. E il saeter fu trovato: una casuccia ridotta alle minime proporzioni, di legno e di paglia, dove i pastori passano due mesi dell’estate per far pascolare le loro vacche. La chiave è nascosta nel tetto, a cui si giunge [56] all’altezza del braccio. Si entra chinando il capo e si accende subito la stufa di ferro, che è la parte più importante e più cara di tutta la casa. In un momento i rami di betula schioccano, ardono e riscaldano il piccolissimo nido in cui siamo raccolti, mentre i cavalli lasciati in libertà sotto la pioggia minuta o gelida cercano fra le zolle appena abbandonate dalla neve qualche filo d’erba stenta e gialliccia. Del pane, del burro, della cioccolata e dell’acquavite ci tengon vivi fino all’indomani e distesi sul legno ci prepariamo alle future fatiche. Tre ore di sonno son presto passate e l’alba di un giorno che non è mai morto ci invita a rimontare a cavallo.

Sono le tre del mattino e siamo già tutti raccolti davanti alla porticina del saeter, circondati da un anfiteatro di monti coperti di neve. Ai nostri piedi, nel fondo della valle, dorme il pittoresco lago di Ojung, colle sue isolette multiformi, piene anch’esse di neve e di alberetti brulli, dove col nostro canocchiale possiamo vedere le prime gemme verdeggianti (è il 18 di giugno!). Se gli alberi lassù dormono ancora gli ultimi sonni del lunghissimo inverno, i prati sottili di quelli altipiani sono una vera bellezza, ed anche l’uomo meno innamorato della natura li rassomiglierebbe subito ad un tappeto della Persia, tanto sono variopinti e nel [57] loro disordine policromo seducentissimi. Il mio Stephen, che mi accompagna nel mio viaggio, che mi conforta nella durezza del cammino coll’intelligente affetto e la giovinezza gagliarda, battezza per via tutte quelle gentili creaturine della flora norvegiana, ed io, conoscendole per nome, sento di amarle meglio.

È difficile trovare una vegetazione più originale, più caratteristica di quella che ho ammirato sugli altipiani di Ojung. Lassù alberi, muschi ed erbette, domati dal comune nemico, il freddo, si fan tutti piccini, si livellano alla stessa altezza e formano una superficie a cento colori, quasi una cesoia intelligente li avesse tosati. Fra i cespugli microscopici della Betula nana tu vedi i fiori folti della Azalea procumbens di color di rosa, i cuscinetti bianchi della Diapensia lapponica, i ricami rossi anch’essi della Silene acaulis, le chiazze gialle della Pedicularis oederi, le macchie bianche dell’Arctostaphylos alpina, le testoline dorate della Viola biflora; mentre fra un giardinetto e l’altro si distendono i microscopici boschetti dell’Empetrum nigrum e i larghi ciuffi dei licheni dai cento colori. Fra essi erge il suo capo molle e vaporoso la Cenomyce rangiferina, che ti fa sapere come il renne non debba esser lontano.

[58]

Ma pur troppo l’amor della vita non mi lascia ammirar lungamente quel tappeto persiano disteso sugli altipiani della Norvegia. Le difficoltà del cammino crescono ad ogni passo. Ora è una palude torbosa che ci minaccia, ora è un cumulo di neve che intercetta la via e dove i cavalli sprofondano: una volta il mio cadde sulle ginocchia e fu un miracolo se si potè uscirne, io e lui, colle membra sane.

Pioveva, faceva freddo e il silenzio intorno a noi era più freddo della neve; ma al di là del lago vi erano i lapponi e si tirava avanti con molta rassegnazione. Ma ahimè, un fiume spietato, il Galoe, cresciuto colle ultime pioggie, ci arrestava il nostro bagaglio fotografico, e soli col nostro cavallo, a guado e con molto pericolo si passava l’acqua scellerata, che ci impediva di fotografare i lapponi di Ojung.

A un certo punto una guida gridò: Ecco un renne! Era il primo ch’io avessi veduto e il suo bianco profilo e le sue corna gigantesche e il suo passo calmo e compassato mi rimasero scolpiti profondamente, là dove durano fino alla morte le memorie più spiccate dei nostri viaggi. Era un renne sbandato o un renne selvaggio? La nostra fantasia ci portava più volentieri alla seconda ipotesi, benchè [59] si sappia da chi ha viaggiato nelle regioni polari, che dove abitano i rangiferi domestici, i selvatici si allontanano, quasi ripugnassero dall’ambiente della schiavitù che li circonda. Questo fatto però deve avere alcune eccezioni, dacchè il renne selvaggio si avvicina talvolta alle mandre delle renne civili e amoreggia con esse e le feconda, come vediamo accadere fra il cignale e il porco, tra il muflone e la pecora.

L’effetto esilarante di quel renne passò ben presto, perchè il cammino diveniva ad ogni passo più impraticabile e conveniva lasciare i cavalli in libertà e continuare a piedi la ricerca dei nostri lapponi. E i piedi ora si ghiacciavano nella neve ed ora si sprofondavano nella torba traditrice, or scivolavano lungo le pietre domate dalle lunghe carezze del ghiacciaio; ed io, sudato di dentro, inzuppato dalla pioggia di fuori, mi fermai più di una volta, guardando verso il sud e pensando a Firenze, alla mia bella Firenze, che in quella stessa ora doveva brillare nei raggi d’oro della sua aria profumata dai fiori.

L’ingegnere Hauan e le guide correvano dinanzi a noi coi loro garretti norvegiani, ma parevano tutti di pessimo umore, perchè non trovavano i lapponi. Alle nostre domande non rispondevano [60] e dalla loro mimica generale era facile comprendere come dovessero bestemmiare, magari tra i denti, magari nel profondo silenzio della loro coscienza; ma con bestemmie cupe, crudeli, proprio di quelle che si riservano alle grandi occasioni, alle battaglie campali, che si devono combattere cogli uomini e colle cose. A noi incerti se dovessimo andare o stare, bastava vedere di quando in quando il profilo di una guida o il cappello di Hauan; ma a un tratto sparvero le guide, sparve il cappello dell’ingegnere e per più d’un’ora sentimmo intorno a noi il freddo del silenzio, che insieme alla pioggia minuta e ghiacciata, ci demoralizzava profondissimamente. Io, che colla mia fantasia e coi miei nervi corro dalla gioia al dolore con una velocità superiore a quella della luce, mi diedi per morto addirittura e mi sentii tutto quanto sommerso nella più nera nebbia della disperazione. Il bagaglio fotografico al di là del fiume in campagna rasa; i cavalli abbandonati al di qua, ma forse spersi; noi soli nel deserto abbandonati dalle guide e senza provviste. Mi gettai abbandonato sopra un tappeto di neve bianchissima, non contaminata da piede d’uomo o da zampe di animali, desiderando che esso mi avvolgesse come un lenzuolo funebre. E incominciai le lamentazioni di Geremia, accusandomi [61] d’imprudenza e di leggerezza, bestemmiando anch’io come l’ingegnere e le guide contro i lapponi e più ancora contro il mio appetito, che è sempre maggiore del mio stomaco. Senza i conforti del mio amico, sempre sereno, sempre calmo, sempre sicuro di se stesso io mi sarei dato per morto; ma egli mi consolava, mi faceva vedere i lapponi a pochi passi di distanza, mi avviava sui colli fioriti della speranza....

Ma ecco ad un tratto un lontano latrar di cani, che si va facendo sempre più vicino.... Sono i cani dei lapponi. Sorgo dal mio lenzuolo funebre di neve, mi sento palpitare il cuore e rinasco a nuova vita. I piccoli cani neri son già fra noi e ci fanno festa; li seguiamo e in breve siamo dinanzi a due capanne lappone poste nel fondo di due piccole colline. Da una di esse esce una colonna sottile di fumo azzurro, che sembra farci festa e invitarci al desco ospitale di quella buona gente. Poco più che formicai di termiti, quelle due case sono un impasto di torba e di zolle tenute su da pochi pali. Un’apertura di sopra per lasciar escire il fumo, un’apertura triangolare davanti per lasciare entrare gli uomini, chiusa da una tela tenuta distesa da alcune assicelle. Essa è così stretta da dovervi passare a stento e con una duplice operazione di curvatura. [62] Conviene chinare il capo e doppiare il dorso e poi mettersi di traverso. Non è comoda davvero quella porta, ma io vi sarei entrato a carponi, pur di poter vedermi in una capanna di lapponi. Qui convien davvero insegnare al corpo a piegarsi ad ogni momento e nelle più strane maniere; perchè appena entrato, devo gettarmi sul letto dei rami di betula, che formano il pavimento della casa, onde non esser soffocato dal fumo.

L’interno di quella capanna era uno dei quadri più originali che avessi veduto. Quanta miseria di agi e quanta ricchezza di vita, quanta povertà di spazio e quanto addensarsi di creature, quali contrasti di tinte per un pittore fiammingo, quante scene psicologiche per un filosofo, quante tenerezze per un amico degli uomini! Un imbuto nero capovolto, ecco la forma della casa; nere le pareti dal lungo bacio del fumo, nere le faccie umane, perchè anch’esse affumicate; neri Fick, Nump e Kiarf, che colle loro orecchie aguzze e i loro occhi più neri e più lucenti di un carbonchio si intanavano nelle pelliccie di renne distese sopra un elastico letto di betule; in mezzo, il fuoco contenuto fra tanta materia combustibile da grosse pietre e sopra il fuoco una catena che sosteneva una pentola. All’ingiro un monte di mestole, di coltelli, [63] di carni affumicate, di redini per le renne, un arruffio di fanciulli, di donne, di ragazze, che sembravano rimescolarsi e fermentare insieme. In un angolo un quadretto di genere, che spiccava lieto e pittoresco nel quadro più grande. Era un bambino impellicciato, che alzava la sua bionda testolina impaurita dal suo letticciuolo e coi suoi grandi occhi ancora lucenti e istupiditi dal sonno beato di quella età ci guardava, senza sapere se dovesse piangere o ridere. Hauan e le guide erano anch’essi accovacciati in quell’antro, che sembrava risolvere il grande problema, che secondo la tradizione sacra dovrà esser risolto nel dì del giudizio universale dalla piccola Valle di Giosafatte. In quella capanna il contenuto pareva molto maggiore del contenente.

Nessuno di noi darebbe una simile abitazione al proprio cane o alla propria capra; eppure quei buoni lapponi, ricchi di più che tremila renne e che portavano anelli d’argento e che erano altrettanti Rotschild della Lapponia, non solo erano contenti di quella casa, ma erano gai, sereni, felicissimi. Quanto son mai diversi i gradi della contentabilità umana! Poco a poco feci conoscenza dei miei ospiti, che ci avevano accolti con una cordialissima stretta di mano. Gli uomini tutti assenti, perchè [64] seguivano le renne, che pascolavano sopra un colle vicino. Margherita, la madre di famiglia, sui quarant’anni, dai capelli biondi castagni, colla sua faccia mongolica, col suo nasino piccino, colle sue mani e la sua pelle annerita dal fumo. Eva sua figliuola, di 18 anni, coi capelli d’oro chiaro, che rideva sempre, mostrando i suoi dentini bianchi, serrati gli uni contro gli altri. Era ingenua, era agile, era fragrante di una selvaggia bellezza. Coi suoi occhi azzurri, coi suoi capelli biondi, col suo piccolo nasino impertinente, coi suoi zigomi sporgenti, colla fresca pelle abbronzata dai lunghi geli, coi suoi piccoli piedi nudi e le sue piccole mani, aveva tutte le pericolose seduzioni di un frutto agreste, di cui s’ignora il sapore. Una sorellina di poco minore d’Eva, e due o tre fanciulli completavano la famiglia.

Quella buona gente parlava discretamente il norvegiano e il bravo ingegnere Hauan ci traduceva in tedesco ciò ch’essi dicevano, mettendoci in continua relazione di simpatie e di idee. La madre si mise subito a macinare dell’ottimo caffè, preparando in un batter d’occhi colle sue mani la bevanda prediletta dei lapponi, e si bevette raddolcita da candidissimo zucchero in pane. Dopo il caffè venne la colazione: carne di renne affumicata con sego di renne [65] pietrificato dal freddo, il tutto cotto rapidamente al fuoco vivissimo di betula. Era un cibo duro ma saporito, fragrante di un aroma ircino, direi quasi selvaggio. Si mangiò tutto, si digerì tutto; ma si dovette lottare contro un vero mal di mare, vedendo la strana pulizia della buona Margherita. Essa aveva un suo grande mestolone di metallo, con cui ci serviva ora il caffè, ora il brodo denso e grasso di renne, ed ora l’acqua da bere. Quell’istrumento universale era sempre lavato colla lingua, che a guisa di strofinaccio mobilissimo ripuliva ogni grassume e rendeva il cucchiaio più terso dell’argento.

La lingua era per quella brava donna il sapone dei saponi, la scopa delle scope; tanto è vero, che quando ci congedammo, Margherita, prima di porgere la mano, se la leccò rapidamente e con straordinaria agilità. Di tanto in tanto la cortese ospite nostra, colle sue dita faceva anche la pulizia del naso, senza ricorrere in questo caso alla lingua.

Margherita era il movimento perpetuo in azione: ora rattizzava il fuoco; ora dava uno scapaccione ad un cane, che allungava il muso con troppa impertinenza verso la carne o il sego; ora puliva il naso colle mani ad una bambina, ora dava un pezzo di carne cruda ad un fanciullo, che aveva troppa [66] fame per aspettare che il bollito fosse fatto; e tutto questo colla pipa in bocca, che si svuotava e si riempiva a brevissimi intervalli.

Saziata la fame e la sete, asciugati gli abiti, innalzati a più spirabil aere dall’ottimo caffè di quei lapponi, venne l’ora delle cortesie squisite, dei doni e del commercio. Uomini più diversi era difficile riunire in più piccolo spazio: latini e goti e scandinavi e figli degli antichi mongoli dell’Altai; gente cresciuta sotto i pampini della vite e i rami dell’ulivo o indurita dai geli sempiterni del polo, figli di Odino e figli di Orazio; ma tutti erano stretti in quel momento intorno ad uno stesso focolare e un unico ambiente li ravvicinava e li riscaldava alla stessa fiamma di simpatia.

Offersi un’eccellente sigaretta a marca dorata ad Eva. La prese con diffidenza, guardando cogli occhi timidi la mamma.

— Le fanciulle non fumano fra noi.

Ed Eva voleva restituirmi la spagnoletta.

Non la volli accettare.

— Signora Margherita, oggi, oggi soltanto per amor nostro, lasci che Eva fumi una spagnoletta.

Chinando il capo, assentì.

Ed Eva, arrossendo di gioia e ringraziandomi soavemente con un sorriso degli occhi, accese la [67] sigaretta e tirò su due o tre boccate di fumo, poi la passò alla mamma che finì di fumarla.

L’ingegnere Hauan versò del cognac ai nostri ospiti e Margherita, Eva e tutti quanti vuotarono i bicchierini d’un fiato, dopo aver tuffato in essi la punta dell’indice e aver segnata una croce sulla fronte.... Perchè non faccia male, dicevano essi.

Offersi della cioccolata. Non l’avevano mai veduta. Margherita domandò se era sapone. Le dissi di assaggiarne e le diedi l’esempio. La trovò eccellente; la fece gustare ad Eva e poi la nascose sotto le coscie, dicendo di serbarla al marito. In quel luogo nascondeva ogni cosa, denaro, sigarette, coltelli. Era il santuario della casa. Era là vicino che aveva un suo banchetto di legno, chiuso a chiave, dove teneva i gioielli d’argento, la bibbia norvegiana, un evangelo in lingua lappone.

Comperai due corna stupende di renne per due corone (tre lire). Mi innamorai di una chatelaine di cuoio, che Margherita teneva al suo fianco e che da una bella stella di ottone lasciava cadere un sonaglio di piccoli strumenti domestici. La voleva ad ogni costo per il mio museo di Firenze.

— Quanto volete, Margherita, per questa chatelaine?

[68]

— Non la posso vendere; mi accompagna dal mio matrimonio.

— Vi darò tanti quattrini che bastino per farvene fare una nuova e più bella.

— Non posso, me ne duole.

Offersi un magnifico coltello norvegiano con astuccio scolpito di legno.

Margherita lo trovò bellissimo, lo mostrò ad Eva; fanciulli e bambini se lo fecero passare, ammirandolo uno ad uno; ma il coltello non fu accettato.

Offersi quattro corone, poi sei, poi sette, otto e per otto corone la chatelaine diventò mia.

Il buon ingegnere Hauan dovette però prenderne il disegno e promettere di farne fare un’altra eguale da un orefice di Eidet.

Margherita sapeva vendere, ma non era esosa. Le volli comperare una salciccia fatta di latte e sangue di renne, ma essa me la diede ridendo e dicendo in cattivo norvegiano: Ikke betale, questa non si paga.

Più curioso di tutti fu il cambio di una ciocca di capelli per una bella forbicina inglese, che aveva in tasca e che era piaciuta immensamente ad Eva.

— Dammi una ciocca di capelli ed io ti do la forbice.

— Impossibile, impossibile — e rideva come una pazza.

[69]

Io rimetteva in tasca la forbice, ma poco dopo mi era domandata di nuovo. E di nuovo la forbicina esciva dalla tasca e la bionda Eva la apriva, la chiudeva, ammirando il congegno con cui si piegava sopra se stessa, nascondendo le proprie punte. Ed io sperava di nuovo di avere i capelli e di metterli nel mio museo fiorentino.

Ad un tratto Eva si mette a ridere coll’aria di chi ha trovato qualche diavoleria, onde conciliare due opposte cose, e mi propone il cambio della forbicina inglese coi capelli di sua sorella.

Accetto, ed essa colla stessa mia forbice recide una ciocca di capelli alla sorellina, che avevan lo stesso colore dei suoi. Aveva vinto la partita! aveva la forbice e non aveva sagrificato un filo dei suoi bellissimi capelli.

Non volli darmi vinto del tutto alle furberie di una Eva lappone e le dissi, che per di più voleva un bacio da lei.

E la innocente fanciulla mi baciò sulla bocca, senza scrupoli come senza malizia. Ella era però troppo felice, perchè potesse contenere la sua gioia nell’angusto recinto di quella capanna e si offerse a chiamare le renne, perchè le potessimo vedere più da vicino. Imbottì le sue scarpe di renne con un fieno così verde, così profumato, così ben pettinato, [70] ch’io le invidiai quella calzatura. E allora uscita fuori, si mise a correre sulle rupi molli di licheni, balzando di sasso in sasso, come camoscio petulante, coi capelli spettinati dal vento, e aguzzando lo sguardo sul lontano orizzonte per scoprire dove fossero le renne e per additarcele, ridendo e folleggiando. Quanto era bella quella sua innocenza selvaggia, quanto era cara quella giovinezza senza peccati; quella gioia senza rimpianti, quel sorriso di una vita felice, che rispondeva a un pallido raggio di sole, che, fra le nubi rotte dal vento, brillava in mezzo ad una pioggia fina fina di piccolissime perle d’argento.

Eva sapeva leggere, sapeva parlar norvegiano, sapeva munger le renne e guidarle, sapeva cucire e cucinare e vestire i fratellini. Era buona, intelligente e, al modo lappone, sapiente, e quel che è meglio, felice. Quante delle nostre signore non potrebbero invidiarla lassù nella sua capanna di Ojungstrakten!

[71]

CAPITOLO TERZO

LETTERE LAPPONICHE DELL’AMICO SOMMIER — UN BAGNO FINLANDESE PRESO A ELVEBAKEN — I LAPPONI A KAUTOKEINO — BOZZETTI LAPPONICI.

I

Facendo dolce violenza al mio caro amico e compagno di viaggio in Lapponia, mi dichiaro segretario, o dirò meglio, scrivano del signor Stephen Sommier, e sotto la sua dettatura vi narro che cosa avvenisse a un povero fiorentino, il quale agli ultimi dello scorso luglio si trovava a Elvebaken nel Fiord di Alten, colle sue macchine fotografiche, per vedere se i lapponi di Kautokeino e di Karaschok fossero diversi dai lapponi svedesi veduti e studiati insieme a me nell’isola di Tromsoe.

················

[72]

Ieri sono venuto qui in barca da Bossekop coi pesanti attrezzi fotografici per vedere di ritrarre i dolci sembianti di cinque lapponi, che si trovano sparsi sulla spiaggia del mare. Tre di questi sono un curioso esempio del passaggio dal Lappone nomade al lappone pescatore, un bellissimo specimen di evoluzionismo darviniano preso in flagrante. Sono stabiliti qui da cinque anni e lavorano per i pescatori; si chiamano ancora fieldfinne (lapponi nomadi), ma per verità sono già fisckfinne (lapponi pescatori) e i loro figli soltanto avranno diritto di appartenere alla nuova specie del genere lappone. Anche qui le tradizioni hanno la loro forza irresistibile, anche qui come in Italia l’inerzia è la forza più forte fra tutte. Qui mi assicurano che mai o quasi mai i lapponi s’incrociano coi Quæne (Finni).

Ieri sera, dunque, son andato sopra un naes (promontorio) dove i miei lapponi si erano stabiliti da varii mesi, occupati a seccare il clipfisk (baccalà) per i pescatori norvegiani. Ho veduto la loro tenda alta poco più di un metro, larga meno di due, sotto la quale abitano il padre, la madre e una figlia; che è un vero gioiello etnologico; la faccia più mongolica che abbia veduto fin qui tra i lapponi. Là, in un boschetto di betule, ci siamo seduti sull’erba [73] a confabulare. Espressi il desiderio che quei signori venissero il giorno dopo a Elvebaken per farsi fotografare. La vecchia non ne voleva sapere, e la pige (fanciulla) non si lasciò piegare al mio onesto desiderio se non dopo un’ora di discussione persuadendo il papà; che anche in Lapponia, a quanto pare, fa sempre la volontà della figliuola. È strano come questa gente, avara e avidissima di denaro, si ricusi talvolta, pur di non muoversi, a guadagnare senza alcuna fatica due o tre lire, mentre altre volte ti stanno a seccare ore ed ore per avere dieci centesimi più di quanto si è convenuto di dare.

Oggi, dunque, nuovi disinganni fotografici! Credo davvero che la fotografia, coi suoi capricci, colle sue incognite, per le quali non bastano neppure le tre cifre cabalistiche x, y, z, debba far diventare fatalisti, turchi, anche i cervelli più sodi di questo mondo. Il tempo è bello, sereno, caldo, asciutto, i miei obiettivi tersi come il diamante; i chassis si muovono, come se avessero le rotelle, i reattivi freschi, eccellenti; eppure tutte queste belle cose mi dànno questi splendidi risultamenti: Prima negativa tutta macchie. Seconda negativa tutta nera, Terza negativa tutta rigata. Le meno peggio non sono che densamente velate! Peccato per quella ragazzina [74] splendidamente mongolica, che avreste adorata nel Museo di Firenze! Tutti questi disastri non impediranno che domani, posdomani, fra tre o quattro giorni, io non faccia altre fotografie belle, perfette, e che mi faranno credere di essere il migliore fotografo, che fin qui abbia calcato il suolo lapponico.

In ogni modo oggi le cose andavano molto male, ed io avevo bisogno di far qualche altra cosa, per non dire sospirando alla sera: diem perdidi! Mi risolvo dunque a prendere un bagno finlandese. Il mio buon amico Wikstroem, quäene di nascita e che mi accompagnava come alleato in questa battaglia fotografica, mi andava dicendo già da un pezzo: — Prenderemo un bagno finno, ed ella sentirà che cosa stupenda, proverà come ci si sente rinnovellati di novelle frondi!

Per allestire un bagno finno occorre preparare i preliminari qualche ora prima di sottoporsi alle delizie nordiche di questa abluzione; occorre cioè qualche ora per riscaldare le pietre, che devono jouer le premier rôle nel grande cataclisma. Quando le pietre furono quasi roventi, andai col Wikstroem a visitare il luogo del patibolo. Era una casetta alta due metri, tutta di legno e con un solo finestrino di due decimetri quadri: vi era anche una [75] porta degna in tutto di quell’architettura lillipuziana. Nel centro un fornello, e su questo un gran mucchio di sassi caldissimi; all’ingiro diverse panche molto larghe; fornello, sassi e panche di una sola tinta nera, quella del fumo. Sentii una vampa di forno ardente e scappai prima di entrare. Il compagno non si scoraggì per questa mia ritirata e mi condusse in un’altra casa distante un cento passi da quel forno balneario, dove ci si spogliò e col meno possibile addosso, tanto da non crederci nudi si ritornò al forno; e là, lasciato sull’erba quel meno possibile, penetrai nudo come Adamo, seguendo i passi del mio quäene. Il fuoco era spento, il fumo svanito affatto e il calore più secco e più alto dominava sovrano in quell’antro vulcanico. Wikstroem prese subito da una tinozza acqua fredda e la gettò sulle pietre roventi. Un gran sibilo, e una vampa di vapore caldissimo riempì il piccolissimo ambiente, cambiando ad un tratto il caldo asciutto in caldo umido. Io era attonito e impietrito, quando mi sentii gettare molta acqua fresca sul capo; battesimo di cui aveva un grandissimo bisogno; ma pare che quel refrigerio non mi facesse gran cosa, poichè dopo mezzo minuto, che mi parve mezzo secolo, mi entrò nel petto un’aria così rovente da sentirmi ardere naso, faringe, laringe, bronchi, polmoni e ogni cosa. [76] Mi pareva di vedere disegnato in colore di fuoco, come in un atlante anatomico, tutto il mio albero respiratorio; mi sentii quasi trasformato in una fiamma vivente; e se non avessi veduto dinanzi a me un altro uomo vivo, e che rideva e guizzava come un pesce in quell’aria rovente, avrei creduto che fosse giunta la mia ultima ora e sarei fuggito forzando la porta, o demolendo il tetto. Il quale altro uomo era tanto vispo, che mi gridava allegramente: Acqua fredda, acqua fredda, e niente paura! Vidi infatti, che accanto al fornello vi erano due tinozze, una piena d’acqua fredda e l’altra piena d’acqua calda; e mi misi a tuffare nella prima la mia testa, che pareva essersi trasformata in un forno ardente. Nella tinozza d’acqua calda erano immerse due grosse scope fatte con rami freschi di sorbus aucuparia, e il Wikstroem ne prese una e cominciò a frustarmi di santa ragione dal capo ai piedi. Ormai ero uscito dal mio io, aveva perduto ogni coscienza ben distinta della mia individualità, del mio passato e del mio avvenire e mi lasciava fare perinde ac cadaver. E il cadaver che vi parla fu ben insaponato, poi di nuovo frustato e di nuovo spruzzato d’acqua caldissima. Devo aver espresso qualcosa d’orribile, devo aver dato qualche segno di pazzia, perchè anche il mio carnefice [77] si mosse a compassione, mi aperse la porta e mi disse: Fuori!

Il mio io, senza aver coscienza di quell’altro me, che mi accompagna da tanti anni, uscì fuori e si trovò a ciel sereno in costume di Adamo prima del peccato, e senza punto accorgersi che il clima si fosse mutato intorno a me. Mi sentiva trasformato tutto quanto in una scottatura; la testa, non più mia, un tizzone di fuoco; le narici, i bronchi, il petto tutto un fiume di lava glutinosa, che m’incendiava, mi consumava, m’inceneriva. Passavano uomini e donne, che neppur mi guardavano; ed io là, inchiodato nel mio dolore e aspettando da un momento all’altro di essere cambiato nella statua di sale della Sacra Scrittura. Intanto il Wikstroem nel forno eseguiva sopra se stesso ciò che prima aveva inflitto al suo povero amico. Il bagno però non era ancor finito; il calice rovente non era ancora épuisé; fui invitato a rientrare e anche questa volta lasciai fare. Mi coricarono sopra una delle larghe panche di legno e là, a brevi intervalli, botte da orbi e secchie d’acqua calda e d’acqua fredda che si alternavano. Sudavo e tacevo, tacevo e sudavo, e nei primi crepuscoli della coscienza, che rientrava in casa, sembravami che forse tutto quel pandemonio potesse esser piacevole. Una doccia [78] abbondante d’acqua fredda mise fine al cataclisma balneario e si uscì insieme al fido carnefice all’aria aperta, dove rimasi al sole e al vento per più d’un quarto d’ora, senza accorgermi del sole e del vento; senza sentire nè caldo nè freddo. Poco a poco mi parve di sentirmi molto bene e per la prima volta in mia vita, credetti giusta la teoria dello Schopenhauer, che il piacere non sia altro che la cessazione del dolore. Mi vestii e ritornai a casa, senza mal di capo, senza raffreddore, senza bruciore agli occhi; con un senso di piacevole stanchezza, che durò fino all’ora del pranzo.

Questo bagno si fa qui anche di pieno inverno dagli indigeni quaene, che ritornano a casa in naturalibus, pestando la neve coi piedi nudi. La pasta umana deve essere di una singolare composizione per resistere a un tal uragano!

Avrei meritato un ottimo pranzo; ma il mio desinare invece si ridusse a salmone crudo e affumicato, a burro salato, a formaggio putridissimo (gammel-ost), a pane nero e ad acciughe crude in salamoia. Per bevanda acquavite di patate e un brodetto giallo fatto di latte coagulato e stemperato nell’acqua della torbiera; il tutto accompagnato da un coro di zanzare più feroci di Caligola, più [79] numerose delle arene del mare. Io però era felice, non dovendo più dire: diem perdidi!

Quella mia giornata campale di Elvebaken era stata davvero un giorno ben impiegato.

II

Hammerfest, 26 agosto 1879.

Eccomi dunque ritornato da una gita in Lapponia! Se tu mi domandi se io sia contento di esserci stato, rispondo: certo, ma ancora più di esser ritornato. Fin qui non facevo che decantare le bellezze della Norvegia, ma ora che ho visto la Lapponia, faccio per questa parte di terra norvegese le mie brave eccezioni. Non ho mai provato una malinconia, un’uggia profonda come percorrendo quelle lande deserte. Ti aveva giurato di portarti almeno un cranio lappone e mi facevo uno scrupolo di mantenere la mia promessa. Mi risolsi dunque di andare a Kautokeino o, come dicono i lapponi, Guovdagaeino, la città più importante della Lapponia norvegese. Per andarvi da Bossekop vi sono [80] due vie: la via d’inverno e la via d’estate. Questa è un po’ più lunga e si percorre in parte in barca sull’Altenelv. Quella è più diritta e lunga circa 16 miglia norvegiane (180 chilometri). Io per non sbagliare, presi un po’ dell’una e un po’ dell’altra.

Partito da Bossekop con un cavallo per il trasporto del baule e delle provvigioni e con una guida, percorsi a piedi e tutto d’un fiato i primi 28 chilometri, risalendo prima l’Altenelv, poi la graziosa valle di Garkia. Il sentiero passa in mezzo a boschi di pini e di betule. Pioveva dirottamente ed io seguiva a testa bassa il mio cavallo e la mia guida, uno più taciturno dell’altra, meditando sui piaceri d’un viaggio in Lapponia. La mia guida era un uomo di cinquantaquattr’anni, ma che ha le gambe di ferro, ed io che poteva essere suo figliuolo, non voleva mostrarmi meno di lui. Si arrivò quindi in meno di sei ore alla stue di Garkia.

La stue, per chi non lo sapesse, è una specie di chalet in legno con due camere; una per il padrone di casa e l’altra per i viaggiatori. Intorno alle stue un grande steccato racchiude altri chalets minori, che servono di magazzino e di stalle; è insomma una vera seriba. Fra tutte queste «dipendenze» vi è una specie di capanna lapponica, fatta [81] di tronchi di betule e zolle di terra, e serve di albergo per i viaggiatori, che non sono in grado di pagarsi l’alloggio sontuoso della stue. Sulla strada d’inverno tra Bossekop e Kautokeino tu trovi tre di queste stue; furono costruite dal governo norvegiano, il quale paga inoltre 160 corone all’anno al contadino che deve abitare una di esse. I viaggiatori pagano 40 öre al giorno, se occupano la camera aristocratica, e 7 öre se si contentano della capanna lapponica, e con questi pochi centesimi hanno anche diritto all’acqua e al fuoco. Io alloggiai aristocraticamente nella stanza dei forestieri, ed ebbi una bella fiammata, latte di renne e due belle pelli idem, sulle quali dormii saporitamente.

Il giorno dopo fummo raggiunti dalla posta, insieme alla quale si doveva fare viaggio. La posta, che da Bossekop porta le lettere nella Svezia, passando per Kautokeino, si compone di un postino lappone, di un sacco e di un compagno che aiuta il postino quando si deve andare in barca. Questa volta bensì la carovana era più numerosa, e ne facevano parte un bel lappone tipico, dell’altezza di metri 1,40, ed una ragazza norvegese, che andava a prendere servizio dal Lansmand di Kautokeino, uno dei due norvegiani che vi risiedono. Come appendice, aggiungi un cavallo per la roba [82] delle some e un condottiero per il cavallo della serva: una carovana completa di sette bambini e due quadrupedi.

Ci si mise in cammino e dopo una salita di un’ora, vidi sparire anche i poveri alberi di betule, e si giunse sul vasto altipiano di Bescadasfield, dove si doveva camminare per ben quarantacinque chilometri. Figurati una landa deserta, uniforme, una ondulazione continua di terre, che ti restringe l’orizzonte e che non ti lascia mai camminare in piano. Dovunque tappeti di licheni bianchi e gialli, tra i quali crescono rari ciuffi di betula nana, i vaccinium, il sempiterno empetrum, dei carex, delle luzule, delle festuche, dei piccoli salici e poche altre piante. Tutti però camminavano così lesti, che quando io mi soffermavo un solo minuto per raccogliere una pianta, mi trovavo alla coda della carovana.

Tutti i field della Lapponia si rassomigliano, e a conforto della noia continua, non trovi che qualche valle con qualche boschetto di betule e qualche palude torbosa che ti offre qualche fiore. È vero che tu trovi qua e là anche qualche lago, ma colle loro rive basse, colla loro acqua plumbea, che non riflette nè un ramo d’albero nè un profilo di monte ti stringono il cuore invece di dare un po’ di varietà al paesaggio monotono e desolante.

[83]

Dopo quattro ore di marcia ci si fermò in una capannetta di rifugio, dove si fece fuoco con legna raccolta nella traversata dell’ultimo bosco. Si prese il solito caffè lapponico, che tu conosci già, e poi altre cinque ore di marcia, e altra fermata con ripetizione dello stesso caffè. La seconda fermata fu più lunga e durò fino alle due dopo la mezzanotte. Un nuovo caffè ci risveglia dal torpore notturno e si entra in una barca, con cui si risale il fiume, ora remando ed ora puntando, secondo la diversa profondità delle acque. Così si giunse a Masi, unico luogo abitato che si trova dopo Garkia.

Masi è la residenza del postino; è un’altra stue, ma il campo chiuso dallo steccato ci rallegra colla vista di pochi montoni e di cinque o sei vacche. È quello il piccolo mondo che basta all’esistenza fisica e psichica di quel povero uomo, che non conosce altro e non desidera altro. Se vuol parlare con anima viva, deve percorrere almeno venti chilometri; vive del prodotto dei suoi montoni, delle sue vacche, della pesca e di quel po’ di farina che compra sulla costa e si porta a casa nell’inverno, quando la neve rende più facili le comunicazioni. Va a segare l’erba, spesso a qualche ora di distanza, e nell’inverno va a raccoglierla colla slitta, o va sui monti a strappare dalle rocce i licheni.

[84]

A Masi la carovana si divise: la posta continuò la sua strada, ed io rimasi col postino per la ricerca dei cranii lapponi, che dovevano trovarsi in un antichissimo cimitero, dimenticato da tutti, dove già erano cresciuti arbusti e alberetti, e dove, senza alcuna profanazione di affetti, io potevo sciogliere il mio voto e farti felice.

.... E i cranii si trovarono: appena comparve il primo, posata per un momento la vanga, innalzai al cielo.... il fumo d’una spagnoletta, l’ultima che possedevo e che conservavo da un pezzo. Avevo fatto voto solenne di non fumarla prima di aver avuto un cranio lappone. Non ho bisogno di spiegare a te, paladino degli alimenti nervosi, il dolore che provai, vedendo ridursi in cenere quell’ultima spagnoletta. Rimanere in Lapponia senza quel conforto, senza quell’ultima riserva per i momenti di noia, di malinconia e di fame!

.... Il giorno dopo io era zoppo, e il mio cavallo era destinato al trasporto delle casse dei cranii e dell’altro bagaglio.... Convenne però adattarsi e senza sella mi accomodai fra i cranii e i pacchi di carta sugante. Non era certo il modo migliore di viaggiare: ora paludi nelle quali il cavallo affondava, ora pietre nascoste dai cespugli nelle quali il cavallo inciampava, or boschi folti che mi schiaffeggiavano [85] coi loro rami. Io mi lasciava portare sonnolento, muto e distratto, non senza pericolo. Infatti una volta il mio povero ronzinante fece un buon capitombolo; fortunatamente in un terreno coperto di morbidissimo sfagno. Peccato però che io mi trovai sotto le casse dei cranii!

Non parlo delle zanzare, che sono la prima peste di un viaggio lapponico. Ve ne sono di due specie, una mi sembra essere eguale alla nostra; è soltanto un po’ più grulla, perchè si lascia ammazzare molto facilmente. L’altra è più piccina, ma molto velenosa e ti vola in branchi innumerevoli nel naso, nella bocca e negli occhi, in modo da toglierti il respiro e da accecarti. Per fortuna non ti tormentano nè a tutte l’ore, nè in tutti i tempi; quando tira vento e fa freddo, scompaiono. Io avevo adoperato il barbaro metodo di difesa dei lapponi, dipingendomi il volto con catrame sciolto nell’olio di pesce, ma benchè mi fossi ridotto un mostro, non trovai che il rimedio fosse troppo efficace.

.... Ti risparmio il monotono racconto della monotona continuazione del mio viaggio e giungo a Kautokeino alle undici di notte. Vi ho veduto le prime stelle, dopo due mesi passati nella luce sempiterna ed ebbi per la prima volta dopo due mesi una candela. Quanta allegrezza! Era però un’allegrezza [86] molto fredda, perchè il termometro segnava cinque gradi solamente sopra lo zero!

Kautokeino è pure una gran bella città! Una ventina di case tutte di legno, 200 abitanti circa in 40 famiglie, e nell’inverno un 600 lapponi nomadi, accampati intorno alla loro metropoli in un raggio di più che 100 chilometri. Vi risiedono un lansmand, un handelsmand e qualche volta anche un prete. Ora, per esempio, non ve n’è e bisogna farne senza. Un paio di volte all’anno viene qui un sacerdote, fin da Tromsoe o da Alten, e battezza, conferma, marita, comunica e dà tutti quanti i sacramenti.

Neanche in questa grande capitale lapponica potei mangiare un po’ di carne fresca di montone. Dicono che le pecore in questa regione sono ridotte dalle zanzare a pelle ed ossa. Dovei quindi contentarmi di carne di renna salata e di pane nerissimo, senza parlare delle altre delicatezze gastronomiche di questi paesi e che tu conosci già.

Uno dei personaggi più interessanti di Kautokeino è la levatrice, che è indigena, ma ha studiato un anno a Cristiania, che è svelta, intelligente, e parla molto bene il norvegiano. Mi dice però che i lapponi nomadi ricorrono raramente a lei, perchè il marito fa da ostetrico alla moglie [87] e poi fa anche da sacerdote battezzando il neonato.

Nel ritorno da Kautokeino fui premiato delle mie fatiche. Figurati che ho trovato la pinguicula villosa e la vahlodea atrapurpurea! Tu, che hai viscere di naturalista, m’intenderai. Ho attraversato il Beskadasfield colla pioggia, con un vento indiavolato e con un freddo.... veramente lapponico. Nella sosta la guida mi fece una specie di muraglia colle casse dei cranii, e raccogliendo lì per lì alcune bracciate di sarmenti di betula nana riuscì ad asciugarmi e a riscaldarmi. Quella povera betula nana era pietosissima; bruciava benchè verde, bruciava benchè bagnata. Scendendo dall’altipiano, salutai il riapparire dei pini colla stessa gioia con cui un arabo, condannato a vivere lungamente nella Norvegia, darebbe il benvenuto alla prima palma, che gli apparisse all’orizzonte. E più tardi salutai con uguale amore il profilo dei monti nevosi e il mare azzurro, che riflettevano un cielo azzurro, anche esso! Una vera orgia meridionale e che nel Circolo polare mi riscaldarono cuore e paracuore agghiacciati da tanta Lapponia! Non ricordò di aver salutato con più caldo amore il divino golfo della Spezia, quando andando a San Terenzio, lo saluto dai colli di Lerici.

[88]

Ora eccoti alcune notizie sui lapponi di Kautokeino: i fissi vi sono in numero di circa 200, i nomadi in numero di 600.

I lapponi fissi che ho visti a Kautokeino sono in media più alti e più membruti di quelli nomadi visti a Tromsoe. Alcuni (donne specialmente) sono anche addirittura grassi, cosa mai vista a Tromsoe. La maggioranza è di pelo biondo o castagno non scuro. Ho visto delle famiglie numerose di cinque, di sei, e perfino di nove figliuoli. Vi ho visto della gente vecchia assai e ben conservata, senza infermità (da 80 fino a 90 anni). Il padre della levatrice, morto a 90 anni, andava ancora alla pesca e lavorava come un giovane (dice sua figlia). Non pare che si maritino presto; 16 anni, con maternità a 17 è stato il caso più precoce citatomi. Sono tutti o quasi tutti più o meno imparentati coi quäne: ma su questo punto è difficile avere informazioni esatte; quando si tratta di cose che risalgono oltre due generazioni, non ne sanno, in generale, più nulla. Sono quasi tutti vestiti alla lappona (costume di Kautokeino, che è diverso da quello di Karasuando); per lo più parlano anche quäne e niente norvegese. L’insegnamento nella scuola si fa in lappone, ma pretendono d’insegnare anche il norvegiano (con infelice successo, a quanto pare). L’insegnamento è obbligatorio. [89] Anche i nomadi devono mandare i loro bambini a scuola sei o sette settimane all’anno, se non possono da sè dar loro l’insegnamento della lettura e della religione. Però oltre ai due maestri (lapponi ambedue, che ho conosciuti) che insegnano a Kautokeino, ve ne è un terzo, che gira di accampamento in accampamento per insegnare a domicilio (gratis). Non sono confermati altro che quando conoscono la religione, sanno leggere e fare le lettere: e non possono sposarsi se non sono confermati. (Talvolta però, e non di rado, si dispensano dal matrimonio come lo provano due ragazze (pige), che ho conosciute e che avevano un bambino per una). Nell’inverno hanno molti rapporti con la Finlandia, donde traggono specialmente il legname da costruzione. In quella stagione vengono pure in gran numero alla costa occidentale, ai mercati di Bossekop, ove vendono carne, corna e pelli di renne, burro, e comprano acquavite, farina, caffè, zucchero e stoffe di lana. Molti dei lapponi fissi posseggono renne da tiro e le affidano ai nomadi per il viaggio d’estate alla costa. I nomadi lasciano nei piccoli caseggiati inchiusi nelle seribe dei fastboende (fissi), le loro slitte ed altre cose che non portano seco alla costa. Lasciano inoltre i vecchi, che non possono più fare il viaggio e che vivono in parte a spese pubbliche. [90] I fissi hanno per lo più vacche e montoni la cui lana lavorano da sè; pescano e conservano in parte il pesce salato per l’inverno. Quando vi fui io, erano tutti occupati a segare il fieno e nessuno pescava, per cui non potei assaggiare i natanti abitatori della Kautokeinoelv. La coltura della terra si riduce quasi a nulla; pochissimi e piccolissimi campi di rape, ed un solo di pochi metri quadrati di patate, per le quali il proprietario aveva buone speranze quest’anno; cosa rara! Vedendo il bel sole e sentendo il caldo che ci faceva quando c’ero, pareva impossibile che nei mesi d’estate la terra non potesse produrre altro. Ma bastava per convincersene guardare un pozzo ancora coperto da un grosso lastrone di ghiaccio forato nel mezzo per potere attingere l’acqua, e sentirsi dire che a quattro piedi di profondità la terra è gelata tutto l’anno, che la neve copre ancora il terreno nel principio di giugno e comincia a cadere in settembre, e che ogni inverno vi gela il mercurio ed il vino (anche quello di Porto!)

Ho conosciuto avvocati, che difendono i lapponi quando sono chiamati al tribunale per rispondere di furti (solamente di furti e quasi sempre di renne), e dicono che essi sono di un’abilità ed astuzia grandissima nel difendersi, e che hanno metodi molto [91] ingegnosi per rubar renne, senza che poi si possa provare il loro delitto.

Ho avuto in Kautokeino molti particolari sul famoso furore religioso che ha invaso i lapponi e li ha indotti a massacrare il lansmand, l’handelsmand, ed a bastonare il prete, e che ha procurato al museo di Cristiania lo scheletro di uno dei due lapponi giustiziati in conseguenza di quell’assassinio. Fu opera dei lapponi nomadi, i quali pare fossero persuasi di fare opera grata a Dio. Si deve all’intervento dei lapponi fissi se non fu ucciso anche il prete (oggi vescovo).

Il lappone più intelligente fra quanti ne ho visti è un ex-maestro di scuola, ora pensionato, che vive in Elvebaken presso alla missione cattolica, di cui sua moglie è proselita (egli però non si è voluto convertire). Capisce un po’ di tedesco e un po’ d’inglese, s’interessa a molte questioni d’ordine generale, ha letto molto, e da lui ho saputo che vi è una buona descrizione, con considerazioni geologiche, di Elvebaken, fatta dal De Buch. Mi ha assicurato di essere di origine lappone pura, e stando al tipo, potrebbe anche essere, quantunque abbia barba alle gote. Egli è stato qualche tempo a Throndhjem in un ospedale di alienati, e dicesi, dà ancora di quando in quando segni di pazzia. Questo mi faceva [92] pensare che quando si vuol ficcare in un recipiente, che non è fatto per ciò, troppa roba, qualche volta il recipiente si spacca!

Dei lapponi pescatori (sœlappen) ho visti moltissimi; ed in essi come in quelli di Kautokeino si vede l’effetto del miscuglio con altra razza, specialmente nella statura e nella forza; di quando in quando, trovi tra essi, anche in uomini alti, un tipo prettamente mongolico; t’imbatti in alcune ragazze che, quantunque nella loro faccia si scorga ancora il tipo lapponoide, hanno forme rotonde, e vestite all’europea e pulite si possono chiamare belline. Qualche volta parlano bene norvegese, sono abbastanza intelligenti ed istruite, al punto di conoscere che cosa sia l’Italia, e di sapere che vi crescono gli aranci ed il fico, del cui frutto gl’italiani sono molto ghiotti.

In quanto al tipo dei quäni non ci ho capito nulla. Se ne domandi alla gente del paese, ti dicono che riconoscono subito un quäne dalla sua faccia; e ti descrivono una faccia lapponoide. E difatti di quelle facce ne trovi fra quelli che si dicono quäne, ma che io sospetto di esser tutti più o meno imparentati coi lapponi, sia ora con quelli della costa, sia anticamente nella loro prima patria, ove da secoli sono in contatto coi lapponi, poichè ho visto molti [93] quäne, venuti di recente dalla Finlandia, che non avevano nient’affatto quel tipo.

Ieri un norvegese, vedendo una carriola con me, mi disse: Questo è quello che un vostro compatriotta chiama un guscio di noce sopra due ruote! Le tue lettere al Fanfulla sono state tradotte per intero dal Morgenbladet e riprodotte in molti altri giornali norvegesi, per cui tutti qua le hanno lette.

III

Tromsœ, 25 luglio 1879

Ho fatto una visita all’accampamento di Tromsoedalen, composto di tre gamme (capanne), fatte a un dipresso come quelle di Ojung ed abitato da più di trenta lapponi. Era di domenica e in una sola capanna era riunita la maggior parte della colonia. Vi entrai: erano una ventina tra adulti, uomini e donne, bambini d’ogni età; uno poppava, un altro era cullato nella sua cuna dalla madre. Tutti stavano accovacciati sopra pietre o rami recisi di betula e stavano silenziosi, ascoltando il vecchio pater-familias, che, tenendo un libro in mano, salmeggiava preghiere lapponiche, accompagnato da due altre [94] voci, una di uomo e l’altra di donna, che leggevano insieme in un secondo libro. Non si lasciarono per nulla disturbare dalla nostra presenza. I soli cani parvero protestare, volgendosi verso di noi con un sordo grugnito, ma neppur essi si mossero. Si rimase lì finchè il vecchio ebbe finito di leggere. Appena egli ebbe deposto il libro, un altro prese un nuovo libro e si mise alla sua volta a leggere ad alta voce e abbastanza correntemente. Seppi poi ch’egli era un predicatore lappone, che girava di accampamento in accampamento per far udire la parola del Signore. Tre austriaci, che erano con me, mi dissero, che udendo leggere in lappone, pareva loro di sentir parlare ungherese.

IV

Bossekop, 2 agosto 1879

Ieri dalla mattina alle nove di sera, caccia ai lapponi (sölappen). Traversato il golfo a remi, remiganti due donne molto lapponoidi, risalito la Refsbuttenelv, visitate diverse capanne di torba della forma di quelle di cui hai visto un modello nel museo di Tromsœ. Tornato poi lungo la spiaggia, passando a guado due fiumi larghi, ove sono [95] sparse simili capanne e casette di legno, vicino ad ognuna pesci attaccati al sole e spine dorsali di pesci infilzate ad asciugare, ed un puzzo corrispondente. Sono entrato in quante capanne ho potuto, ma non sono riuscito a veder un vero sœlappe!

Gli uomini erano tutti alla pesca o dormivano nelle capanne chiuse. Tutti quelli e quelle che ho visto erano quänen o inquänati. Già credo che nessuno confessa di essere vero lappone, quando ha abbandonato la vita nomade. Ho visto un gran miscuglio di tipi da non ci capir nulla. In due capanne ho visto due vecchie donne, vere lappone ed ancora in costume con figlie maritate a norvegesi o quäni (uno del paese mi diceva ieri che non vi erano matrimoni misti!!) I quänen stessi hanno alcuni tipi lapponoidi, ed altri sono belli, grandi con naso lungo, barba abbondante, ora scuri, molto più spesso biondi. I loro bambini sono vere bellezze. I quäni vengono in parte dalla Finlandia russa, ma in maggior parte dalla Finlandia svedese. Mi è sembrato che erano più frequenti i tipi lapponoidi in quelli svedesi, anzi in tutti quelli russi che ho visto stabiliti qua da una sola generazione non ho riscontrato un solo di quel tipo. Ho visto donne della Finlandia russa, alte, belle, a profilo greco, somiglianti a certe russe che ho viste altrove. Nella [96] Finlandia svedese da tanto tempo vivono a contatto lapponi e finlandesi, che vi deve essere del miscuglio. Mi dicono che grado a grado le gammen di torba sulla spiaggia vanno cedendo il posto a capanne di legno. Ed invero non si comprende perchè vi siano ancora di quelle abitazioni preistoriche con porte meno alte di un metro, ed una sola stanza abitabile, ove non si può star ritti, ed ove non si capisce che possa abitare un’intera famiglia, quando hanno bei boschi di pino, cioè materiale per capanne di legno. Con una giornata stupenda, un sole da spaccare il cervello, il salire e scendere per quei campi lungo il mare, coperti di pini, dai quali i raggi del sole distillavano deliziosi aromi, faceva credere di essere in Liguria e non a 70° lat. nord. Ho preso il pasto meridiano in una di quelle gamme, pasto composto del pane di qua (un’altra specie che non conosci e di cui ti auguro di non far la conoscenza) latte accagliato, formaggio ed acqua: pittoresco se vuoi, ma non adatto a sostenere le forze. Al ritorno ero in uno stato molto vicino a quello nel quale eri ad Ojungen, vicino a quella famosa chiazza di neve! In compenso ebbi a cena del salmone salato per ristorar le forze! Aggiungi il sangue sottratto dalle zanzare e ti potrai immaginare come si sta bene in compagnia dei lapponi!

[97]

V

A bordo di Olaf Trygvason-Badö
6 settembre 1879

Come vedi dalla data di questa lettera, anch’io sono finalmente sul punto di ripassare il Circolo Artico, e mi ravvicino a tutto vapore alla famiglia, agli amici. Pure, nonostante il piacere che ne provo, dicendo addio a Tromsœ mi parve di dire addio ad un vecchio amico. Quando ci arrivammo insieme appena sbocciavano le foglie della betula: ora digià cadono, ingiallite dall’autunno.

Ho dunque vissuto un’estate intera della vita di Finmarkia e vi ho quasi acquistato i diritti di cittadino! Se vi ho avuto delle ore di scoraggiamento e di stanchezza, ne riporto anche tanti buoni e piacevoli ricordi da far dimenticare quelle. E poi già, colla lontananza le ombre spariscono da sè: quando avrò messo fra me e la Finmarkia questi cinque giorni di mare (che col vento e la pioggia di questi giorni sono un’ombra molto scura) sono sicuro che tutti i ricordi di quest’estate mi appariranno illuminati dalla medesima lieta luce.

Nel mio ultimo breve soggiorno a Tromsœ ho voluto vedere più da vicino i lapponi nei loro rapporti [98] colle renne, e per questo sono andato nell’isola di Qualö, a poche ore di distanza, a chiedere l’ospitalità ad una famiglia di lapponi che vi ha la sua gamme. Quando vi arrivai la sera, avevano nello steccato circa un 500 renne tutte femmine, coi piccini di quest’anno che sono di già divezzati; le donne erano occupate a mungerle, mentre gli uomini le acchiappavano col lasso e le legavano ad un tronco di betula. È straordinario l’occhio che quella gente ha per riconoscere le renne. In quel luogo vi erano otto famiglie di lapponi, e le renne appartenevano un po’ ad ognuna di queste famiglie. Non solo gli uomini non gettavano mai il lasso ad un animale che era già stato munto, ma neppure scambiavano mai una renna di un altro con una propria.

A cena mi diedero della carne di renna fresca eccellente, del formaggio fresco fatto in mia presenza, della ricotta e del latte fresco, tutte cose ottime. Dopo che ebbero fumate parecchie pipe e chiacchierato fra di loro, si sdraiarono sulle loro pelli di renna stese per terra intorno al fuoco, ed io feci come loro. Per il lappone lo spogliarsi per la notte consiste nel levarsi la cintura; alcuni si levano anche gli stivali. In mezzo alla notte volli godere dello spettacolo, che presentava la gamme e mi alzai cheto cheto per non disturbare nè uomini, [99] nè cani. Una vecchia si era già alzata per fare il caffè per gli uomini, che dovevano partire nelle prime ore del mattino per andare coi loro cani a cercare un’altra mandra di renne e condurla nello steccato.

La vecchia aveva gettato sul focolare nuove legna, che con la loro fiamma rossa illuminarono una scena molto caratteristica. Dapprima non vidi altro, guardando per terra, che un pêle-mêle di pelli di renna buttate là alla rinfusa; ma poco a poco potei distinguere qualche testa d’uomo, di donna o di bambino che sbucava fuori, qualche stivale, qualche piede nudo, qualche muso di cane. Pareva che fossero stati tutti buttati lì a caso, senza ordine, senza direzione; impossibile il contarli; fu solamente dopo, che seppi che eravamo stati quindici cristiani (compreso io) a dormire in quella gamme, con un numero corrispondente di cani (delle altre bestie minori che non dormivano, ma furono molto attive tutta la notte, sarebbe difficile il valutare il numero, anche approssimativamente). Sul fuoco brontolava il bugliolo del caffè ed appesi ai rami di betula inclinati, che formano la parete della gamme, stavano appesi gli stomaci di renna pieni di sangue o di latte, e le graticole di legno sulle quali stavano asciugando i formaggi freschi. Fuori della gamme splendeva la luna piena in un cielo limpido, nel [100] quale a tramontana la luce di un sole di pochi gradi sotto l’orizzonte, si confondeva con quella di una debole aurora boreale. Queste tre luci fuse insieme in un dolce ed armonioso chiarore illuminavano profili arditi di monti nevosi, bracci di fjord, che s’insinuano non si sa come fino in mezzo alle terre e la collinetta, sulla quale le quattro gamme che formano l’accampamento lappone, mandavano ognuna una colonnetta di fumo nell’aria tranquilla della notte.

La mattina ricevei dalle mani della padrona di casa una tazza di caffè preparata ad uso lappone e la bevvi in parte per non offendere chi me l’offriva, in parte per conoscere il lappone anche nella sua arte culinare; però mi ci volle un grande sforzo per trangugiarla, e lo capirai facilmente quando ti avrò detto che oltre al caffè ed al latte di renna collo zucchero, conteneva un bel pezzo di burro di renna strutto e diverse fette di cacio salato e stagionato che mandavano un odore, che secondo le nostre idee armonizzava molto poco con quello del caffè. Tutta la mattina i lapponi rimasero nella gamme, occupati alle loro diverse faccende.

Un uomo faceva il burro; una donna faceva bollire della scorza di salice per conciar le pelli; una altra stropicciava una pelle di renne con un rabot per renderla pieghevole; un’altra cuciva le skalle [101] (scarpe); un’altra faceva il filo coi tendini, alcuni battevano il fieno che serve loro di calze e se lo rimettevano nelle scarpe, operazione delicata e che richiede molta abitudine. Mentre erano così occupati fumavano le loro pipe e chiacchieravano, dicendo probabilmente anche delle barzellette, poichè di quando in quando tutta la compagnia dava in scoppii di riso.

Verso mezzogiorno arrivarono le renne e dagli uomini e dai cani furono cacciate nello steccato. Questa volta erano quasi tutti maschi, e non meno numerosi di quelli della vigilia. Vidi come fanno i segni mediante i quali li riconoscono, tagliando via dei pezzi dell’orecchio e facendovi diverse incisioni col coltello, e come li castrano coi denti. Vidi anche il modo barbaro col quale li ammazzano, ficcando un coltello nel torace in modo che l’agonia dura un quarto d’ora.

Fra pochi giorni anche questi lapponi ritornano nell’interno, facendo attraversare il Sund a nuoto alle loro renne. L’estate prossima troveranno le loro gamme come le lasciano, e le loro botti di latte mescolato ad acetosa (miscuglio che ho assaggiato e trovato pessimo!) che seppelliscono nei paduli ad una profondità sufficiente perchè non gelino.

[103]

CAPITOLO QUARTO

L’AMBIENTE SCANDINAVO — IL MARE, IL FREDDO E IL SILENZIO — IL CARATTERE DEGLI SCANDINAVI.

Ogni paese ha il proprio ambiente, e finchè noi non l’abbiamo respirato e assorbito, sicchè penetri nelle ultime venuzze del nostro organismo, non possiamo dire di conoscere la nuova terra, che vogliamo studiare o descrivere.

È una certa quantità e movenza d’aria e di luce, è un certo tepore di fiati umani, è un particolare profumo, che emana la terra; son certi colori dominanti nel cielo o nelle case; son certi suoni che danno le cose morte e le cose vive, incontrandosi tra di loro; son certi profili di donna e caratteri di uomo che si incontrano o si scontrano coi nostri gusti estetici; son correnti ascose di simpatie o di antipatie; infine è tutta quanta un’atmosfera fisica e morale che ci circonda e per i cinque sensi del [104] cervello e per le mille associazioni del nostro passato ci lega coll’odio o coll’amore al paese, che percorriamo per la prima volta.

L’ambiente scandinavo è dei più caratteristici, ch’io m’abbia conosciuto nei miei molti e lunghi viaggi; e se le cose del nostro mondo interiore potessero fotografarsi, come si fa di quelle che si mettono dinanzi all’obiettivo della camera oscura, io sento che ritrarrei fedele e viva l’immagine di quel mondo polare, perchè me lo sento nel cuore e nel cervello come cosa mia.

Quel mondo è freddo e dovrebbe accapponare i larghi pori beanti della nostra pelle italiana: quel paese è deserto e dovrebbe contristare i nostri occhi, abituati a trovare un villaggio sopra ogni pendice e una borgata in ogni vetta; quelli uomini son muti e il nostro orecchio educato alla gaia gazzarra degli interminabili cicalecci dovrebbe aver sete colà di parole e di canti; quelle terre sono sepolte per otto mesi sotto un funebre lenzuolo di ghiacci, e noi cresciuti all’ombra di lauri sempiterni e fra le dorate spighe dovremmo avere in orrore quel suolo di desolazione e di geli. Eppure nulla di tutto questo: la Scandinavia ha per noi un fascino misterioso, che ci attrae, che ci innamora, che ci lascia un lungo ricordo più caro ancora del godimento stesso. [105] L’amor del contrasto, la concentrazione intima, profonda, misteriosa della vita in piccoli punti separati da immensi deserti; la festa ciclopica di un’estate, che non si stanca di un sole di tre mesi; i frastagli infiniti di una terra, che in mille amplessi s’intreccia con un mare turbolento; e una grandezza triste nella natura e un’ingenuità piena di forza e di verginità negli uomini, son cose tutte nuove per noi e che sodisfano ad un tratto gusti sani e vergini, che non avevamo forse sospettato di avere, o appena presentito nelle giovani ore della vita, quando il desiderio è una luce indistinta, che indora tutto ciò che tocca.

L’uomo nella Scandinavia sembra sbarcato sulla terra e pronto a ripigliare il mare, donde è venuto. Là il mare è tutto, la terra nulla: qui la vita avara, stenta, breve; là la vita feconda, inesauribile, sempiterna. Le isole son tante, che appena le puoi numerare, ma la terra ferma è isola anch’essa e le coste, non le vie, segnano la strada al viaggiatore. Suprema voluttà dei signori di Stocolma e di Cristiania è quella di bordeggiare in un elegante yacht nei loro fiords e nei loro fiumi; e nel Mar Glaciale ti incontri ad ogni momento in barche guidate da braccia di donna. E la pesca è più che mezza la vita di quella gente, e segue nelle sue vicende [106] capricciose l’alto e il basso della ricchezza nazionale. Le aringhe, che ora è un secolo, affollavano le acque di Gotaborg, sparvero a un tratto al principio di questo; poi a poco a poco ritornarono, finchè nell’inverno 1878-79 si lasciarono vedere a stormi, a coorti, a legioni. A questi salti corrispondono cifre diverse di mortalità, di ricchezza; corrispondono la prosperità e la miseria di tutto un popolo. Quando le aringhe si mostrano numerose verso la fine dell’estate, nei fiordi della Lapponia, la tristezza è universale, perchè i pescatori sanno per lunga esperienza, che le aringhe e i merluzzi non frequentano mai successivamente le stesse acque nello stesso anno. Quando invece vi son poche aringhe, si costruiscono nuove barche, si apprestano lenze e reti e si pregusta la gioia della ricchezza vicina.

Il mare, trasformato nella via maestra di tutti, rende uomini e donne coraggiosi e robusti; e certe svenevolezze isteriche delle nostre signore e certe scrofole dell’animo, comuni a tanti nostri giovani ingialliti alla ribalta dei teatri o nell’afa dei caffè, sono impossibili in quel paese, tutto imbevuto del salso aroma dell’onda. Per una fanciulla norvegiana, andare da Tromsoe a Bergen, per visitare un’amica o una parente, è una gita di piacere, e basti gettare [107] uno sguardo sulla carta geografica per misurare la lunghezza di quella corsa.

Quando poi tu sei sbarcato su quel lembo strettissimo di terra, chiuso per ogni parte dall’Oceano, ti par sempre di doverti incontrare in belve preistoriche, che hai sognate in qualche notte insonne della tua fanciullezza. Temi o speri ad ogni momento di imbatterti in un rangifero dalle lunghe corna, in un alce ciclopico, in un orso bianco, o in una frotta di lupi[4]. Dove non vi son uomini, la terra dovrebbe essere in balìa delle fiere.

E invece quella terra è in balìa del silenzio, che forma la nota più caratteristica e, per noi italiani, più sorprendente di quella bella e cara Scandinavia. Io non mi sapevo dar pace per quella mutolezza continua di tutta la natura. Non fragore di tuoni nel cielo, non frangersi d’onde nel mare, non canti [108] di fanciulle nel campo; non cicale sugli alberi, non grilli nei prati: muta la terra, muti gli uccelli e i quadrupedi, muti gli uomini e i fanciulli, muti i cani e gl’insetti. Tutta quanta la natura sommersa in un silenzio infinito, in una serena e tranquilla contemplazione di se stessa. Non dimenticherò mai la strana impressione di una mia passeggiata in un bosco di pini, che sta intorno alla stazione di Kopang, nell’altipiano della Norvegia. La casa d’alloggio era tutta di legno, a grosso bugnato; sulla porta due grandi teste cornute di renne e al primo e unico piano, un terrazzino poetico con sedie di rami intrecciati di nocciuolo. Nelle spianata, che stava davanti alla casa, un microscopico palazzino albergava i colombi, che sul far della sera, silenziosi accorrevano al loro asilo notturno. Neppur quei colombi tubavano, ma mordendosi silenziosi coi becchi si davano l’ultimo bacio, accavallandosi amorosamente gli uni sugli altri e corruscando con un muto tremito le loro penne. Più in là abbandonato il treno sulla ferrovia, senza strider di ferri, nè grido di uomini. Nella casa di posta tutto taceva. Escii a passeggio nella foresta di pini, dove non un uccello cantava, o faceva stormir le foglie; non un insetto sussurrava. Il silenzio mi affascinava e mi assorbiva nei misteri della sua impenetrabilità; a [109] un tratto rimarcai, quasi con terrore, che non udiva neppure il rumore dei miei passi; i cespugli di mirtilli erano adagiati sul molle cuscino del lichene rangiferino e anche i miei passi si smorzavano in quel tappeto molle e soave, che sembrava messo lì per togliere ogni rumore e non disturbare i sonni eterni della natura. Ebbi quasi paura di non esser più vivo, pensai che forse la mia coscienza di sentirmi vivo, non era che un ricordo di una vita già spenta e che si andava anch’essa disciogliendo nell’infinito di quel silenzio; e preso da uno strano capriccio picchiai col bastone sul tronco d’un albero. Quel rumore rimase solo e si spense senza un’eco, senza una risposta di spavento o di sorpresa d’uomini o d’animali; quel rumore mi sembrò una profanazione e non lo ripetei più, immergendomi tutto quanto in quel mistero affascinatore.

E se tu pensi, che a quel silenzio si associa per otto o nove mesi dell’anno anche un altro compagno più muto che mai, il freddo; potrai indovinare qual concentrazione di sè in sè debba venire agli uomini di quelle terre. Fra noi la casa è un rifugio contro il sole, è un nido per deporvi il nostro riposo o il nostro amore; ma la vera nostra casa è l’aperto campo, che ha per soffitta il cielo azzurro e per pareti le lontane cortine dei monti [110] e dei colli. Per lo scandinavo la casa è il guscio dell’ostrica, è l’elitra del coleottero, è una seconda pelle, quasi viva come l’altra, che ci ha tessuto la mamma, e forse più calda di quella. Togliere la casa all’uomo del nord è strappare il guscio all’ostrica, l’elitra all’insetto; è straziare e metterne a nudo le viscere. E in quelle case, dove si passano notti che durano mesi, ogni tavola di legno, ogni libro, ogni porta, ogni gradino di scala e ogni quadro si imbeve di emanazioni umane, di desiderii e di ricordi; e la casa vive, palpita, pensa, s’accende e si agghiaccia insieme all’uomo, che vi dimora. Di qui un’intimità profonda della famiglia; di qui le lunghe meditazioni solitarie, che rafforzano la dignità della coscienza e le interminabili letture, fatte in comune, che raddoppiano le più care famigliarità del pensiero e affinano le più celate delicatezze del cuore.

In quelle case di Svezia e di Norvegia anche il giardino entra in casa e ne fa parte, e gli architetti hanno dovuto raddoppiare le finestre, non tanto a far più aperte e larghe le vie della luce, quanto per render possibile la vita ai fiori, che quelle donne coltivano con arte infinita. Io ho veduto nelle sale dei signori di Tromsoe, a quasi 70° di lat. nord, le più belle rose, le più belle margherite del mondo; perfino cactus fiammanti del tropico.

[111]

Marmier vide una signora di Tromsoe piangere di commozione per un ramo fiorito di lillac, che suo marito le aveva portato da Cristiania. — Oh Dio mio! gridava essa, sono sette anni, che non ho veduto nulla di simile. — Era il ricordo dell’infanzia, il ricordo di un paese che per lei era più ricco di sole, più ricco di fiori.

Il freddo ha molte altre virtù; il freddo rallenta ogni atto della vita e rallentando conserva. Uno di noi vede, e non ha visto ancora che ama ed odia, adora o disprezza e nel vortice di un incendio subitaneo s’accende, divampa e si spegne. L’uomo del nord vede e pensa e poi ripensa ancora, per poter precisare se sente davvero e come sente. Domani e posdomani ancora il lento pensiero lo condurrà ad un lungo travaglio per deliberare e fare. Intanto le sorprese dei sensi e le intemperanze della passione riescono impossibili e l’uomo si conserva più immacolato e più sereno.

La lentezza a rispondere, a decidersi, a capire ci impazienta sulle prime, ma poi ci persuade, che essa è una quasi virtù. Una volta Marmier s’impazientì in una casa di posta, per aver aspettato tre ore il cambio dei cavalli per il suo kärra. Allora il maestro di posta gli si avvicinò con un’aria solenne, dicendogli: — Come, signor mio, voi vi lamentate [112] per aver atteso i vostri cavalli tre ore? Si aspettano qualche volta anche quattro ore.

A questa lentezza va però congiunta una grande tenacità di sentimento. Dopo parecchi anni di assenza voi potete esser sicuri di ritrovar sulle istesse labbra lo stesso sorriso di un’amicizia, che non ha dimenticato. Aggiungete a tutto questo una semplicità ingenua, un’onestà profonda, una naturalezza seducentissima, tutte quelle virtù simpatiche, che poggiano sul fondo d’una sincerità spontanea. Io non ho veduto mai una barba tinta, una capigliatura posticcia, io mi son sentito nell’ambiente scandinavo come trasportato in un mondo antico, come in un paradiso terrestre, prima del peccato di Eva; mi son sentito come lavato e purificato delle cento e una ipocrisie, colle quali ci si tinge, ci si maschera, ci si traveste ogni giorno, ogni ora della vita. Io ho trovato in quella terra ghiacciata una società umana fondata sulla reciproca stima; mentre fra noi vedo una società, che appoggia le sue leggi, i suoi costumi sopra una mutua diffidenza, tantochè una metà dei cittadini è incaricata di vigilar l’altra[5].

[113]

Nè crediate che io, idealizzando, esageri; no, anche là vi sono vizii e delitti, anche là si beve a iosa e si amano le femmine libertine, ma il vizio è un episodio o una malattia; non è penetrato in tutte le vene, in tutte le fibre, in tutte le midolle delle ossa. Là, non ho veduto in ogni via un birro, e in ogni stazione un carabiniere; là io mi son sentito libero da quell’inquisizione quotidiana, lenta, tirannica dell’esattore, del prete o del giudice. Là ho veduto le ombrelle lasciate sulle vie per non bagnare le scale. Là ho veduto tutte le notti le botteghe del gioielliere non chiuse da imposte di legno, ma solo difese da un fragile vetro, e là ho saputo che tutta la grande città di Trondhiem non aveva che otto poliziotti; e anche quelli non escivano mai dalla caserma, per mancanza di occupazione!

Ma sarà dunque vero, che l’uomo non si moralizza, che quando è tenuto nel ghiaccio, a guisa della carne, che non si conserva che sotto la neve? Ma sarà dunque vero, che quello stesso sole, che accende il nostro sangue agli impeti della passione, ci infiammi alla bassa lussuria; che quella stessa luce, che ci abbrucia le carni e ci esalta i nervi, ci conduca all’ombra dell’ipocrisia, ai tradimenti e al delitto? Ma sarà dunque inesorabile questa sentenza, che vuole concessa all’uomo una sola virtù, [114] o quella dell’impeto o quella della tenacità? Non potremo dunque mai, noi altri figli del cielo azzurro, aspirare alla luce serena e sempiterna degli astri, per divampare soltanto nelle eruzioni dei vulcani o per ardere nelle afe della canicola?

L’ardua sentenza ai posteri; noi per ora accontentiamoci di salutare con amore quella terra vergine del nord, dove gli uomini son così sinceri, le donne così serene e la libertà non è scritta soltanto sulle superbe tavole di bronzo delle nostre leggi; ma è fusa nel sangue e nelle carni di ogni cittadino dal re al lappone, e forma la prima luce di quel cielo inclemente, la prima nobiltà di quella gente operosa e valente.

[115]

CAPITOLO QUINTO

STORIA NATURALE DEI LAPPONI — LORO NUMERO E LORO NOME — RITRATTO DEI LAPPONI FATTO DA UN POETA E DA UN PRETE — ABITUDINI E COSTUMI — LE SLITTE, LE CAPANNE E LA VITA NOMADE — LORO PSICOLOGIA — LE NOZZE E I FUNERALI — ORGANISMO SOCIALE ED ECONOMIA POLITICA — LORO INDUSTRIA — ORIGINE DEI LAPPONI.

Che cosa sono dunque questi lapponi? Qual posto dobbiamo assegnare nella gerarchia dell’intelligenza e del sentimento a questi nostri fratelli geografici, che sono così poco europei e sono così diversi da noi? Incominciamo dalla parte più facile, contiamoli: l’aritmetica sarà sempre l’alfabeto della scienza e la base più sicura per appoggiarvi l’edifizio delle nostre cognizioni.

Frijs e Rèclus sono i due autori più attendibili per ciò che si riferisce al censimento dei lapponi. Il dottissimo professore di Cristiania ci dice che son poco meno di 30,000, sparsi sopra una superficie [116] di 10,000 miglia quadrate norvegiane[6]. La Norvegia ne conta 17,178 di sangue puro e 1,900 incrociati; la Svezia 7,248; la Finlandia 1,200; la Russia 2,000.

La statistica del Rèclus è più recente. Egli ne calcola il numero a 30,000 così distribuiti:

Lapponi norvegiani e meticci 21,179 1875
Lapponi svedesi 6,600
Lapponi russi e finlandesi 2,822 1859

A questo censimento è necessario contrapporre quello delle renne, animale così intimamente collegato al lappone e senza di cui questa varietà del genere Homo sparirebbe senza dubbio.

CENSIMENTO DELLE RENNE
 
Svezia nel 1870 220,800 cioè 165 per famiglia
Norvegia nel 1865 101,768 » 130 »
Finlandia nel 1865 40,200 » 325 »
Russia nel 1859 232?      

Secondo Rèclus i lapponi, invece di scomparire, crescerebbero di numero, specialmente in Norvegia. Secondo le liste di imposizione fatte nel 1567, [117] nel 1799 e nel 1815, i nomadi sarebbero triplicati in tre secoli, e nella sola Norvegia settuplicati.

Von Buch dà per il 1799 queste cifre:

Svezia e Finlandia 5,118
Norvegia 3,000
Russia 1,000
  9,118

Ma ognuno sarà del mio parere, che quando si rimonta a statistiche così antiche, le cifre non sono che pie intenzioni di un’esattezza impossibile, specialmente quando si tratta di un popolo nomade.

Ed ora che son contati, battezziamoli: anche nella storia naturale è questo il primo sacramento che si deve imporre ad ogni creatura viva. I lapponi chiamano se stessi col nome di salme o same (plurale samek). Il nome con cui noi li chiamiamo fu dato loro dai finlandesi, che li dicevano lappalainen (plurale lappalaiset). Questa parola deriva probabilmente dal finlandese lappaa, che vuol dire avanti e indietro (dalle loro abitudini vagabonde). I norvegiani, e più specialmente quelli del nord, li chiamano col nome di finner, battesimo falso, nato dalla confusione di due razze diverse, benchè strette fra loro con vincoli di remota parentela.

I lapponi si distinguono in fieldlappen o lapponi di campo e fisklappen o lapponi pescatori. Questi, [118] che in lingua lappone si dicono jaure-kadde-sameh, costituiscono tutto quanto il gruppo che si trova in Russia, mentre nella Svezia non son che pochi e per lo più costituiti da nomadi impoveriti, che, avendo perduto le loro renne, hanno cercato nel mare il pane, che negava loro la terra. Alcuni autori distinguono anche i lapponi in nomadi e fissi, ma è una classificazione arbitraria e molto artificiale, dacchè nomadi sempre per natura e per antiche tradizioni, possono per eccezione fissarsi per alcuni anni in un porto, per ritornare poi alla vita vagabonda, appena il terreno non dia sufficiente pascolo alle loro renne.

Anche le divisioni geografiche, benchè traggano seco differenze di dialetto, non mutano però essenzialmente la pronuncia e il carattere dei lapponi, che possono essere studiati tutti insieme, come uno dei gruppi più naturali e più omogenei della grande famiglia umana. E diciamo omogenei, perchè l’incrociamento dei lapponi coi finni è un fatto raro; rarissimo quello cogli scandinavi.

Ed ora che li abbiamo contati e battezzati, guardiamoli in faccia per vedere quanta parte di essi sia in noi e quanta parte di noi si ravvisi in essi.

Heine ce n’ha dato un ritratto umoristico in alcuni versi famosi, dove però l’umorismo si associa [119] al tratto sicuro dell’uomo di genio. Spesso la caricatura è più rassomigliante che il ritratto.

In Lappland sind schmutzige Leute,

Plattköpfig, breitmaulig und klein,

Sie kauern um’s Feuer und backen

Sich Fische und quäcken und schrei’n.

Un altro ritratto a stile linneano ci fu dato dal Knud Leem, ma non vale quello dell’Heine: Vultum habent fusci et luridi coloris, capillos curtos, latum os, genas cavas, menta longa, oculos lippos. Qui si vede, che il prete studiava assai meglio l’anima che il corpo e non sapeva vedere che le guance erano sporgenti, che il mento era piccino e che la pelle era sudicia e non fosca. Il poeta ha saputo vedere molto meglio che il prete, ma è naturalissimo. Se il poeta non avesse lo spirito acuto e profondo dell’osservatore, mancherebbe la corda più potente alla sua lira.

L’impressione prima, che ci fa un lappone, è quella di una creatura umana povera, modesta, che chiede scusa ai forti di trovarsi in questo mondo, di cui domanda d’occupare il menomo posto possibile. È tanto piccino il poveretto, è così poco agile nel suo inviluppo di pelliccia, ha così poche pretensioni a tutti gli excelsior della nostra vita europea, che noi proviamo per lui quella simpatia [120] piena di compassione e di benevolenza, che ci ispira ogni uomo che non desta in noi nè invidia nè ira. Infatti tutti i viaggiatori hanno sempre parlato con molta simpatia dei poveri lapponi e alcuni si spinsero fino al lirismo del sentimento, che falsa la verità; e lo vedremo più innanzi, parlando del carattere morale di questi nostri terzi cugini della grande famiglia europea. Rèclus, che è forse l’ultimo scrittore che ci abbia parlato dei lapponi, ne fa davvero un ritratto troppo lusinghiero, seguendo il Van Düben. Dice, che la loro fronte è nobile e più grande di quella degli scandinavi e aggiunge: La bouche est souriante, l’éclair du regard vif et bienveillant, le front élevé est d’une veritable noblesse.

Questa è una vera adulazione, ma si avvicina assai più al vero che lo sprezzo e la ripugnanza, che hanno quasi tutti i norvegiani per i loro poveri vicini di stirpe mongolica. Sono espressioni comuni: ne faccio caso come di un lappone. — Un lappone non vale più di un cane. È il Von Buch, che ha raccolto questi insulti, che oggi si ripetono forse meno spesso, forse perchè i lapponi si ubriacano meno di una volta. In ogni modo è sempre assai diverso il punto di prospettiva, da cui un popolo inferiore è veduto da un viaggiatore e dai vicini di casa. Il viaggiatore è quasi sempre di buon umore [121] e disposto all’ottimismo e colora quindi con tinte rosee tutti gli oggetti che vede e che riproduce nei suoi libri; quando invece una razza superiore ha nelle sue costole uomini molto inferiori, che non può nè educare, nè uccidere, si sente poco disposta ad essere indulgente. Se voi andate in Norvegia e parlate con i prefetti delle provincie, occupate anche da lapponi, non vi siete ancora seduti, che avete subito a udire le lamentazioni dello scandinavo contro il same: — Son sudici, son furbi, colle loro renne ci invadono i campi; non se ne può far nulla, essi sono il flagello della mia provincia. Hanno in parte ragione, ma dimenticano ancora che il nord della penisola non saprebbe dar nè pane nè salute alle razze scandinave e che queste dovrebbero nell’inverno far senza dei ghiotti bocconi della carne di renne, se quei poveri same sparissero dall’oggi al domani dalla faccia della terra.

I lapponi sono fra gli uomini più bassi della terra. Dalk trovò la statura media dei lapponi pastori di metri 1,60; secondo Van Düben e Humboldt sarebbe invece di 1,50. Ecker trovava queste misure:

Nilla ♂ d’anni 20 metri 1,53
Puches ♂ » 17 » 1,37
Kaisa ♀ » 24 » 1,42
Ippa ♀ » 20 » 1,44

[122]

Le misure prese da Sommier e da me darebbero i seguenti risultati:

Statura med. di 59 uom. Met. 1,52 Mass. 1,70 Min. 1,32
Stature med. di 22 donne » 1,45 Mass. 1,60 Min. 1,27

In questi calcoli furono escluse tutte le persone aventi meno di venti anni.

Il lappone non ha di certo l’aspetto d’uomo atletico, ed è più spesso asciutto che grasso; posso anzi dire di non averne mai veduto uno solo, che meritasse questo aggettivo. I bambini, come avviene in pressochè tutte le razze umane, sono paffutelli ed anche grassocci, ma coll’età diventano magri.

Il Knud Leem li dice magni roboris, benchè piccoli, e cita come una prova della loro robustezza il fatto di una donna, che cinque giorni dopo aver partorito, faceva nell’inverno un lungo viaggio a piedi attraverso monti nevosi per essere purificata nella chiesa. Questa è invece una prova di resistenza al freddo e null’altro. Tutti i lapponi veduti da me e da Sommier furono sottoposti all’esperimento del dinamometro e diedero cifre generalmente più basse assai della nostra media.

Quando sono vestiti delle loro pelliccie e sembrano fagotti ambulanti, nessuno li crederebbe agili, ma invece lo sono per gli esercizi ai quali li costringe [123] la loro vita polare. Sui loro pattini sembrano volare e il Knud li descrive con parole poetiche: Et tanta feruntur pernicitate, ut venti circa aurea strideant, crinesgue surrigant. Per il buon parroco norvegiano è prova di grande agilità il potersi sedere piegati in due coi talloni sotto le natiche, e di questa virtù è anche da farsi parte meritoria all’olio di pesce con cui si ungono continuamente(!). È questo stesso olio, di cui sono imbevuti anche i loro abiti, che li rende fetidi anzi che no: Eundem foetorem non aliunde quam ex vestibus hujus gentis perpetuo in tuguriis fumo et oleo ex pinguedine piscium expresso, imbutis et perunctis, provenire.

I lapponi sono tra gli uomini meno pelosi. Gli uomini hanno poca barba e spesso ne mancano affatto alle gote, non avendone che al labbro superiore e al mento. Ne abbiamo veduti senza peli alle ascelle ed un uomo robusto fotografato da noi nudo non aveva peli al pube. Alcune donne, nelle quali con grande stento si potè esplorare le ascelle, le avevano pelose; ma fu assolutamente impossibile esplorare regioni più basse. Questo esame ci permise di riscontrare mammelle floscie e pendenti in donne giovani e che dicevano di non aver mai partorito, fatto singolare in gente, che vive in clima così rigido.

[124]

Hanno molti capelli e le donne sempre più lunghi che gli uomini; non mai ricciuti, ma neppure rigidi e grossi come li presentano molte razze mongoliche e americane. I colori più rari sono il biondo chiaro e il nero intenso. Fra i lapponi svedesi fotografati da noi a Tromsoe, uno solo aveva i capelli veramente neri e il biondo chiaro non fu veduto che a Ojung e qualche altra rara volta. La tinta più generale è il castagno, che oscilla dal chiaro all’oscuro, presentando talvolta anche una bella tinta fulva. Non abbiamo mai veduto capelli albini o rossi. Incanutiscono più tardi di noi e anche la calvizie è assai rara e per lo più parziale. I capelli lapponi conoscono ben di raro il pettine e la loro acconciatura si potrebbe chiamare scapigliata o arruffata. Anche le donne si accontentano spesso di raccogliere i loro capelli in un fascio, legandoli sul vertice del capo; le più civili fanno treccie molto semplici, che spesso dimenticano per giorni e settimane.

I lapponi hanno la pelle bianco-bruna e molti fra di essi, quando fossero ben lavati, sarebbero più bianchi di un italiano.

La fronte del lappone è bella, ampia, alta e tale da fare singolare contrasto con altri lineamenti proprii di razze inferiori.

[125]

Gli occhi per lo più grigi o d’un azzurro chiaro, non di raro però anche castagni. Sono piccoli, con poche ciglia e spesso lagrimosi ed anche cisposi, ciò che si deve al viver sempre tra il fumo e il baglior delle nevi. Il Leem racconta, che nell’inverno al ritorno dalla caccia rimangono ciechi per varii giorni. Eppure non sogliono portar occhiali per difendersi dalla bianchezza delle nevi, come fanno altri popoli circumpolari. Alcuni di essi mi dissero di averli gettati via, perchè indebolivan loro gli occhi, che devono invece fortificarsi contro il riflesso bianchissimo dello nevi e del ghiaccio[7].

Il naso è in quasi tutti i lapponi di una stessa forma e può dirsi uno dei caratteri più salienti della loro razza; è corto, appiattito, larghissimo alla base e con una punta piccina, talvolta rivolta anche all’insù. La bocca è grande, con labbra sottili e denti stupendi; sia per la loro regolarità, quanto per la loro bianchezza e resistenza. Anche i ciukci avrebbero queste preziose prerogative e lo stesso si afferma anche di altre genti iperboree, per cui si potrebbe [126] sospettare, che la bellezza dei denti fosse in essi conservata dall’atmosfera fumosa delle loro capanne e dall’azione del freddo.

La faccia è sempre larghissima, ma questa larghezza diminuisce rapidamente verso il mento, che termina quasi a punta, essendo il mascellare inferiore piccolo e delicato. È questo che dà alla faccia d’un lappone il carattere tipico del mongolo, che talvolta trovasi evidente come nelle razze più turaniche del nord dell’Asia orientale, mentre per gradazioni infinite può svanire tanto da dare alla fisonomia il carattere ariano. È difficile dire se ciò si debba alla mischianza di altro sangue o alle variazioni individuali, delle quali è suscettibile ogni uomo nato sotto il sole.

Le mani e i piedi sono piccoli, come la piccolezza del corpo lo esige e il dito indice della mano è sempre più corto dell’anulare, talvolta in modo veramente rimarchevole. Quest’osservazione, che fu fatta per la prima volta da noi darebbe ragione all’Ecker[8] che in questo fatto trovava un carattere proprio delle [127] razze inferiori, e che le ravvicina alle scimmie antropomorfe.

I lapponi son gente longeva e sana. Il mio compagno di viaggio ne vide parecchi ottuagenarii e anche nonagenarii. Non hanno malattie speciali e il Leem dice di non averli mai veduti nello spazio di dieci anni malati di dissenteria, di lebbra o di febbri maligne (febbri tifoidee?). Pare che soffrano rarissime volte di tisi, spesso di cefalea, ma è assai difficile raccogliere notizie positive sulla loro patologia, perchè si curano da sè e ben di raro ricorrono ai nostri ospedali. Dicesi che sieno loro rimedii popolari i rivellenti e l’assa fetida. Curano molti mali interni, bevendo sangue caldo di foca o di renna. Curano il leucoma, mettendo nell’occhio un pidocchio, e il mal di denti, fregandoli con un legno tolto da un albero colpito dal fulmine. Adoperano il filo tolto dai tendini del renne per legare le membra rotte o lussate, ma le donne devono prenderlo da un animale femmina e i maschi da un maschio. Il grasso d’orso era rimedio sovrano contro i reumi, ma anche in questo caso uomo e donna dovevano servirsi dell’adipe tolto dall’animale dello stesso sesso.

Qualche rara volta entrò in essi il vaiuolo e ne fece strage.

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I lapponi non son brutti, e le fanciulle nel sorriso della loro primavera possono talvolta dirsi anche belle.

Il concetto, che ho potuto formarmi della loro fisiologia generale, non può dare appoggio alla opinione del Virchow, che vorrebbe fare dei lapponi una razza patologica. È una razza piccola, meschina, ma adatta all’ambiente che li circonda. Tanto varrebbe dire che la betula nana è una specie patologica. Del resto non insisto nel combattere il mio illustre amico di Berlino, non avendo mai creduto che le frontiere fra la fisiologia e la patologia esistano davvero nella natura; sono confini segnati dalla nostra matita nei nostri libri e nulla più.

L’alimentazione del lappone è quasi esclusivamente animale: carne, latte e cacio presso i nomadi; pesce presso i pescatori.

Nell’inverno mangiano sempre carne fresca di renna, cotta nell’acqua o bollita prima e poi tuffata nel grasso strutto. Il Leem dice: Crudis carnibus lappones vesci a non nemine quidem relatum est, sed invita veritate. Io però ho veduto dare ai bambini carne cruda, ma salata. Non mangiano mai il polmone delle renne, ma lo danno ai cani. Mangiano poi intestini, visceri ed ogni cosa, mostrandosi ghiottissimi del midollo delle ossa. Il Leem [129] descrive a questo proposito una scena che ha un colorito preistorico: Dum hoc agit, humi sedet et super corium rangiferinum, quod in gremio expansum habet, ossa malleo confringit, confractaque elixanda curat, donec, quidquid pinguedinis in illis residuum fuerit, extractum sit. Non possono mangiare la carne di porco, ma mangiano bensì l’orso, le pernici ed altra selvaggina.

Io ho veduto salciccie e pasticci fatti di latte e sangue di renne, ma erano cibi talmente ripugnanti, che, ad onta del mio largo eclettismo gastronomico, non osai assaggiarne. Sommier li vide mangiare un budino fatto di cervello, sangue e farina. I pescatori usano spesso un loro manicaretto di acqua, sego e farina. Ne mangiano un altro, detto vuorra-maelle, fatto di acqua, sangue, sego contuso e farina.

Il renne non dà latte nell’inverno, perchè partorisce nel maggio; e non si può mungere le renne che dalla fine di giugno alla fine d’ottobre; ma il lappone ha sempre del latte in casa, perchè lo conserva gelato per molti mesi. Quando i nomadi devono lasciare sul finir dell’estate la costa norvegiana per portarsi all’interno, seppelliscono in vasi di terra il latte di renne ad una grande profondità e lo ritrovano l’anno dopo, come si trattasse di vino conservato in una cantina. Il latte gelato si fonde [130] al fuoco e mentre si fonde, si leva col cucchiaio la parte liquida che galleggia. Quando il lappone è satollo, si riporta al freddo il prezioso liquore, che si rapprende di nuovo e si conserva per un altro pasto. Il latte congelato si considera come ghiottissimo e si conserva in vasi di betula. È la prima cosa che si offre al curato o all’ospite, che si vuol onorare. Quest’uso ci fa ricordare i ciukci, i quali nelle loro capanne tengono appeso il latte gelato e lo succhiano uno dopo l’altro, quasi bambini che poppassero.

Il latte si fa coagulare col Rumex acetosa o coll’Empetrum nigrum. Colle bacche di questo arboscello si fa anche un pasticcio di latte e empetro, che si conserva gelato in uno stomaco ben ripulito di renna. Quando si vuol mangiare, si fa fondere al fuoco o si tagliano insieme le bacche del frutto, il latte e le pareti del ventricolo.

Il formaggio di renne è per i nostri palati esigenti un pessimo cibo. È così grasso, che brucia come una candela. I lapponi lo mangiano com’è, o cotto nell’acqua, o arrostito sul fuoco. I lapponi pescatori fanno anche un ottimo burro colla crema delle vacche, delle pecore o delle capre.

Il pane è usato ben di raro dai lapponi, ed anzi il Knud Leem dice di non averlo veduto mangiare [131] neppure coi cibi più grassi. Oggi però per eccezione essi mangiano un pane ributtante fatto d’orzo e segale con moltissima crusca. Tutti i viaggiatori parlano di pane di scorza d’albero, mangiato non solo dai lapponi, ma anche dai norvegiani, ma si fabbrica invece ben di raro. Si sospende in questo caso alla capanna la parte più interna della scorza del pino, poi si fa seccare al forno, si polverizza e si mescola con paglia sminuzzata, con avanzi di spighe e con alcuni licheni e se ne impastano dei pani della grossezza di un dito.

È un alimento amaro, astringente e ripugnante. Quando i norvegiani se ne alimentano per una gran parte dell’inverno, si sentono poi in primavera deboli, affranti e soffrono di dolori al petto. Anche la sola scorza interna del pino si conserva nelle capanne come arma di riserva per i giorni di più crudele carestia. Allora la raschiano e la mangian cotta nell’acqua, a guisa di pappa.

In quei paesi sterili e poverissimi anche gli animali devono essere sottoposti talvolta a diete singolari. Così Von Buch dice di aver veduto dare a Roeros alle vacche, ai cavalli e ad altri animali domestici gli escrementi del cavallo, che talvolta si facevano anche bollire e si mischiavano con un po’ di farina.

[132]

Anche i poveri frutti della flora polare sono mangiati dai lapponi, che li usan freschi o li conservano gelosamente per l’inverno: frutti del Rubus chamemorus e del R. arcticus, frutti di Empetrum e di varie specie di Vaccinium; tutto mangiano, dalle bacche più astringenti alle più amare e alle meno nutritive. Aveva ben ragione quella fanciulla lappone, che era levatrice e sapiente, di dire con immensa invidia all’amico Sommier: Ah voi siete dunque del fortunato paese, dove crescono l’arancio e il fico!

Non sarà inopportuno confrontare l’alimentazione dei lapponi con quella degli esquimesi. Questi si nutrono specialmente di cibi animali e più particolarmente di foche, di balene, di mammiferi terrestri e di grasso di morsa. Questo si mangia crudo e si dà come una fina ghiottoneria ai bambini. Quello delle morse non è dispiacevole e rassomiglia molto al formaggio, quello delle balene ha invece un sapore di rancido. È indifferente per gli esquimesi se la carne sia fresca o semiputrida, cotta o cruda. Le carni degli animali selvaggi, anche se cotte, sono sempre condite con una salsa d’olio di pesce. Questo si prende anche coi frutti di cui si cibano. Il pesce si mangia quasi sempre crudo o seccato al sole o conservato nel suolo ghiacciato. I cibi vegetali [133] sono molto scarsi e si riducono alle foglie crude e acidule del Rumex domesticus e alle radici del ma-shu (Polygonum bistorta), che arrostite sulla cenere rammentan la patata. Per l’inverno si fa grande provvista dei frutti gelati dell’Empetrum nigrum, del Rubus acaulis, del R. chamaemorus, del Vaccinium uliginosum, del V. vitis-idaea, del V. oxycoccus, del Cornus suecica e dell’Arbutus alpinus[9].

Anche l’acqua per i poveri Lapponi è ghiacciata o torbosa e scarsa. Nel primo caso fanno cuocere il ghiaccio per renderlo potabile, nel secondo la sorbiscono dalle pozze sottili con un osso forato o una cannuccia.

Sono delizie della povera cucina polare il caffè e il tabacco. Avete già veduto come preparano il primo; usano del secondo, fumandolo nella pipa o ciccandolo. La pipa è sempre nella bocca d’ogni lappone di ambo i sessi e d’ogni età e ciò impedisce loro di essere più spesso ciccatori. Quando il tabacco è scarso, si mettono in giro seduti per terra e da una sola pipa passata in giro fumano tutti. Quando manca del tutto la divina nicoziana masticano perfino i vasi di legno o le boccie che [134] lo hanno contenuto. Si assicura anche che ciccando sputano nella palma della mano e tiran su per le narici quel succo prezioso, onde nulla vada perduto del loro divino narcotico. Aveva dunque ragione il mio Sommier di dirmi, che i lapponi hanno tre Dei: il fuoco, il caffè e il tabacco. Per me è fuor di dubbio che l’abuso del caffè e del tabacco contribuisca assai a dare ai lapponi un nervosismo singolare, che tanto spesso li porta alla allucinazione e a tutti i più strani isterismi della fantasia; ma quei poveri uomini come potrebbero tollerare la loro vita polare senza quei due alimenti nervosi?

I lapponi hanno tutti i caratteri più salienti dei popoli bassi. Spensierati, inerti, o per eccezione, affaccendati; capricciosi e in tutto simili ai nostri fanciulli. Sono i figli di una terra fra le più sterili della terra, coperta dai ghiacci per tanti mesi dell’anno, e nulla hanno fatto per tentar di corregger la terra e renderla più feconda. L’ambiente li domina, non essi l’ambiente. Senza il renne cesserebbero di esistere o si trasformerebbero (se pur fosse possibile) con costumi o indole affatto diversi. D’inverno è notte eterna ed essi dormono lunghissimamente: nell’estate il sole brilla sempiterno sull’orizzonte ed essi dormono poco o nulla. Quando Forbes si meravigliava di veder lavorare a Bosekop anche [135] di notte e di veder la gente dormir pochissimo e irregolarmente, gli si rispondeva: abbiamo tempo abbastanza per dormire nell’inverno. Io però li ho veduti anche nell’estate dormicchiare di giorno e di notte. Quando non hanno altro a fare di meglio, si sdraiano lì per lì sopra il suolo, nel canto di una via, sopra un mucchio di pietre o di tavole, e lì ammonticchiati gli uni accanto agli altri sembrano fagotti di pellicce e di panni sudici.

Il vestito, la casa e la slitta del lappone dicono gran parte della sua vita.

Se volete fare uno studio accurato del vestiario dei lapponi, leggete il capitolo IV dell’opera del Knud Leem, già tante volte citata, e che è uno dei migliori. Dopo più di un secolo quella brava gente si veste ancora nello stesso modo, senza sacrificare alla capricciosa Dea della moda. Hanno sempre i loro calzoni di pelle di renna, la loro grande casacca di pelliccia di renna, le loro scarpe di pelliccia di renna, e i loro svariati berretti. Pare soltanto che nel secolo scorso portassero più spesso il kersey o berretto in forma di pan di zucchero. Le donne si distinguono dagli uomini quasi unicamente per la copertura del capo, che ora è una cuffia, ora un elmo di legno coperto di stoffe dai vivi colori. La camicia, le calze, tutto ciò che è bisogno urgente [136] di pulizia per tutti noi, brilla per la sua assenza e non so davvero capire come l’abitudine possa render loro sopportabili quelle ruvide pelliccie, che d’estate portano col pelo infuori e nell’inverno col pelo in dentro. In questa stagione al di sopra della prima casacca pelosa ne portano una seconda col pelo all’esterno e aggiungono spesso un terzo vestimento di panno. Per i più ricchi o i lyons questo vestito si sostituisce nella stagione calda alle pelliccie. Non portano mai quel soprabito di pelle d’intestino di foca o di balena, che in altre razze iperboree impedisce che la neve si appiccichi al pelo e formi una irta crosta di ghiacciuoli.

La calzatura è la parte più originale e civettuola del vestito lappone. Sono scarpe di pelle di renna col pelo all’infuori, che si fermano con lunghi lacciuoli di lana intrecciati sopra il calzone di pelle e sono imbottite di morbido fieno, che chiamano sueinek e i norvegiani dicono sene, senne, sennegraes o lap-renne o komagraes. I lapponi svedesi lo chiamano invece col nome di kappnocksuini, e gli svedesi lapsko-graes. È il Carex vesicaria di Linneo. I lapponi portano spesso sopra di sè anche un’altra specie di odorosissimo fieno (l’Anthoxantum odoratum) che nascondono nel petto e sotto le ascelle [137] per profumarsi. È questa davvero una leccornia epicurea, che non si crederebbe trovare in un popolo di gusti così semplici e selvaggi.

La casa si distingue in quella d’inverno e in quella d’estate. Avete già veduto nella gita a Ojung come sia fatta la prima, ma vi descriverò meglio la povera porta di quella capanna collo stile pittoresco del Leem:

Janua tentorio ex tegillo laneo, in formam pyramidis secti conficitur, cujus pars interior tendiculis, qualibus fumatus salmo distendi solet, dispanditur. Hujusmodi tendiculis, quos zangak appellant lappones, si careret tegillum, vicem januae praestare nequiret. Ad utrumque ostii latus tenuis pertica birshiamas lapponice dicta, postium suppletura defectum erigitur. Vento increbrescente, janua, quae superne tantum, et quidem e solo loco, suspensa est, alberi perticarum alligatur, ita ut ad illud latus, cui ventus instat, prorsus occlusa sit, quod ni factum fuerit, perflante vento turbaretur in foco ignes, sufflaminatusque fumus totum tentorium compleret[10].

Quando un lappone in un viaggio marittimo deve sbarcare sovra una costa deserta, con tre remi e un pezzo di stoffa si improvvisa una capanna. E [138] poco diverso da questa è la tenda d’estate fatta di tela e rami d’albero.

La capanna dei lapponi pescatori non ha forse di diverso che un umbraculum sul tetto, che si cambia di posizione per difendere l’interno dalle correnti del vento. Questi lapponi di mare, prima di coricarsi, spengono ogni traccia di fuoco, gli altri non lo fanno, lasciando invece spengere il fuoco da sè e accontentandosi della luce morente del focolare. I pescatori vogliono invece la luce continua di una lampada, che si improvvisa con una conchiglia, dello stoppino di alghe, e dell’olio di pesce.

Ogni capanna fissa di lapponi ha un’appendice, che dicesi loaavve, e che è un graticcio di tronchi e rami d’albero, ai quali appendono le corna delle renne, e i loro utensili più rozzi e le loro slitte. È in tutto e per tutto la ramada degli argentini.

La gedge-borra è una cantina o buca sotterranea, dove nell’eterno gelo del suolo profondo conservano le carni e il latte delle loro renne.

Nelle capanne del lappone il mobilio è proprio ridotto al minimo possibile: non sedie, non tavole (nullae sellae, mensae nullae, dice il Leem), ma pelliccie distese sopra rami di betula. Quello è il loro letto e la loro copertura, dove entrano vestiti. [139] Anche i ciukci hanno il loro letto fatto di uno spesso strato di Andromeda tetragona e di pelli di foca o nei più ricchi di renna o di orso. Una sola pertica di legno separa presso i lapponi un letto dall’altro e l’ingenuo nostro prevosto mostra le conseguenze immediate di questa intimità: Alter tamen alteri adeo vicinus est, ut parentes liberos, hi servos et viceversa cubantes, manibus si velit, contingere et contractare possint[11]. Ed oggi io non ho più veduto neppure quella povera e pudica pertica isolatrice.

Anche in quelle poverissime capanne e con tanta promiscuità di sessi e di membra esiste una gerarchia.

Dirimpetto alla porta il fuoco e il fumo impediscono che il freddo esterno penetri direttamente, ed è quindi quello il posto d’onore del padrone di casa e della sua consorte. I figli stanno ai lati dei genitori e i servi stanno naturalmente dove si sta peggio, cioè accanto alla porta. Quando entra un ospite, gli si cede il posto migliore e il padrone va a collocarsi alla porta.

Il Leem distingue presso i lapponi quattro specie di slitte:

[140]

La giet-kierres, o slitta a mano; è tutta aperta ed è così leggera che facilmente può portarsi sulle spalle d’un uomo.

La raido-kierres, o carro per i bagagli, aperta come la prima, ma che si copre con pelli di renne, ed è più grande e più alta della giet-kierres.

La pulke, somigliante alla prima, ma incatramata esternamente e aperta soltanto nella parte posteriore; chiusa al davanti da una pelle di foca, che ricopre le gambe. È la più usata per il trasporto degli uomini.

La Lok-kierres coperta pure di pece, e serve a portare i commestibili; è più grande della pulke e della giet-kierres[12].

Il lappone passa gran parte della sua vita in queste sue slitte. Il pescatore non muta soggiorno che in primavera ed in autunno, ma il fieldlappe è sempre in viaggio: Haud secus ac veteres Scythae, de quibus in historia fecerunt, hodieque faciunt Arabes ac Tartari, semper mobiles sunt, semper vagi, non eadem sede et loco diu contenti.

Sono i viaggi per portar le renne alla costa nell’estate o quelli di ritorno sul finire dell’autunno; [141] sono le corse per cercar nuovi pascoli o sono anche lunghi pellegrinaggi per far visite a parenti od amici. Il van Duben, che parla di questi viaggi di cortesia, aggiunge maliziosamente, che in essi i rapporti fra i due sessi sono molto liberi e che se ne vedono spesso anche gli effetti, benchè anche i più recenti viaggiatori parlino con entusiasmo dei buoni costumi dei lapponi.

Nelle carovane il paterfamilias va davanti a tutti e dietro a lui tutte le altre slitte. Dove è il bambino è sempre la madre, che spesso getta le briglie sul collo della renna e anche nel più rigido inverno apre il seno e lo porge al bambino. Il renne corre serpeggiando e il lappone butta le briglie sul collo dell’animale ora a dritta ed ora a manca, secondo la direzione che vuol prendere. Quando un renne focoso corre troppo, si lega alla slitta che gli sta davanti. Spesso si legano molte slitte insieme e un solo lappone nella prima le guida tutte. È incredibile vedere come quella gente sappia orientarsi senza bussola in quelle pianure tutte bianche. Anche quando la neve cade così fitta, da impedire al condottiero di vedere l’animale che lo tira, essi non smarriscono mai la strada. Una pietra, un’ondulazione di terreno bastano per contrassegno e nella notte servon loro di guida le stelle, delle quali conoscono [142] parecchie. Le Pleiadi ebbero dai lapponi un nome molto poetico: quello di nieid-gierreg o famiglia di vergini. I ricchi si fanno sempre trascinare da rangiferi maschi castrati, i poveri dalle femmine; ciò che mi ricorda il gaucho argentino, che non monterebbe una cavalla per tutto l’oro del mondo.

La renna è il compagno inseparabile del lappone e anche nei libri più popolari trovate inni di poesia indirizzati a questo animale, che porge all’uomo iperboreo la sua forza, le sue carni, il suo latte, la sua pelle e i suoi tendini per farne il filo da cucire.

La renna è un animale semidomestico, che si lascia difficilmente domare ed educare al tiro. Anche per mungerlo conviene legarlo e il suo latte è meno copioso di quello d’una capra. Vien castrato coi denti, colla schiacciatura del cordone spermatico (admoto ore, dentibus contundit, Leem). Il renne si è adattato alla vita nomade del lappone e riesce a farsi carnivoro in casi di grande carestia, mangiando i sorci e una pasta fatta di teste e lische di pesci miste a paglia, ad alghe (Fucus serratus) e ad olio di pesce. Avidissimo dell’orina umana, la ricerca avidamente, rompendo la neve colle sue zampe. Ciò spiegherebbe anche la loro avidità per l’acqua di mare.

[143]

E qui, se mi permettete, lascio la parola al mio illustre amico, il prof. Friis, il quale nel suo libro sulla Lapponia, descrive con molta evidenza i costumi vagabondi di quella gente, ch’egli ha studiato con tanto amore:

MIGRAZIONI DEL FJELDLAPPE

«Seguiamo un lappone nelle sue migrazioni dal Fjeld alla costa del paese (trakten) intorno a Kautokeino alla costa vicino a Seglvigen dove dimora d’estate, cioè durante circa due mesi. La distanza che deve percorrere due volte all’anno è di circa 30 miglia (340 kilom.).

«Durante l’inverno il Fjeldlappe è stato attendato nei medesimi luoghi ove lo sono stati i suoi padri per secoli, ora sui monti, ora nelle valli, ora nel piano. Tutto l’inverno ha dovuto tenersi in guardia contro il lupo, il suo peggior nemico, che ora solitario s’aggira con invidia intorno alla mandra, ora arriva in branchi ed insegue ed attacca le renne. Per questo la notte fanno la guardia, e per turno i vecchi ed i giovani devono star fuori colle renne ed esser tanto più attenti quanto maggiore è il freddo, più forte la bufera e più buia la notte. Ogni quarto d’ora chi sta a guardia deve fare il giro della mandra, impedire coll’aiuto di [144] cani di sbandarsi, urlare, sparare il fucile e fare quanto rumore può perchè il lupo, lontano o vicino, si accorga che la gente veglia. Se il lupo è veramente affamato nulla lo spaventa, neppure i colpi di fucile; se non è tanto affamato, rimane in distanza ed aspetta il suo momento; perchè egli conosce il pericolo che corre e sa che quando la neve è alta è facilmente raggiunto dal lappone sui ski. Ma può darsi che per l’appunto quando dopo una ronda intorno al gregge si è appiattato in un buco in qualche mucchio di neve per ripararsi dal vento gelato e vuol prendere un momento di riposo, la sua quiete sia disturbata ad un tratto. I cani che si erano coricati sulle gambe del guardiano, servendogli da coperta, saltan su e s’allontanano abbaiando. Le renne che si sono accorte anch’esse d’un pericolo, dapprima si stringono fra loro in una massa compatta, ma dopo corron pazzamente qua e là finchè sentono il lupo: allora fuggono a tutta velocità, in generale contro il vento, inseguite dai lupi che cercano di sbandarle per sopraffare a due a due gli animali isolati. Si tratta ora pei guardiani, spesso ragazzi di 15 anni, di essere svelti; l’uno coi cani va dietro al gregge, l’altro corre sui ski, presto quanto può, alla tenda per fare escire ed accorrere sui ski la [145] famiglia o le famiglie col grido di «Gumpe lae botsuin!» Il lupo! il lupo ha aggredito il gregge! Frattanto l’altro guardiano coi cani ha cercato di difendere il gregge come ha potuto. I cani Muste, Ranne, Girjes e Tschalmo (cioè il nero, il bigio, il macchiettato e quello colle macchie sugli occhi, particolarità che ha dato origine alla parola Tschalmo — dai quattro occhi — ) hanno cercato di tenere il gregge riunito e di aggredire il lupo. I cani dei lapponi sono piccoli, ma alcuni di essi sono abbastanza coraggiosi per aggredire il lupo e l’orso.

«Guarda là Muste come si azzuffa col lupo. Muste non ha coda. È il lupo che glie l’ha portata via? no; Muste non l’ha mai avuta. È nato senza coda[13] ed è per l’appunto per questo che è più difficile al lupo di agguantarlo. Più in là sul monte due renne si fanno strada con fatica sulla neve profonda: hanno la lingua pendente per la fatica e [146] certamente la loro ultima ora sarebbe già suonata, se Muste non avesse saputo coi suoi attacchi fermare il lupo. Tutte le volte che questi riprende la corsa per perseguitare le renne, Muste lo segue, sicchè il lupo deve voltarsi per provare di sbarazzarsi dell’incomodo nemico. Ma non gli serve. Muste gli corre intorno come un turbine, e il lupo, che al dir dei lapponi ha la schiena poco pieghevole, ed è lungi da potersi voltare colla rapidità del cane, fa dei salti per acchiappare Muste inutilmente, come li potrebbe fare un cane da lepri dietro ad un coniglio. Per questo un cane come Muste non ha prezzo per un lappone e non lo venderebbe per 10-15 speciesdaler. Per un’ora Muste ha tenuto il lupo in scacco ed ha salvato le due renne. Finalmente il suo latrato disperato si è sentito ed ha chiamato la gente al suo soccorso. Finalmente due skilöbere (gente montata sui patini) appariscono sul ciglio del colle e calano giù colla rapidità della freccia fra il lupo e le due renne. Muste rinnova il suo attacco con furore raddoppiato, tanto che senza dubbio si farebbe sbranare dal lupo, se questo non fuggisse spaventato nel vedere gli skilbere. Se riesce a fuggir da Muste non può fuggire dai skilbere. Questi rapidi come il vento, passano oltre a Muste ed ora comincia una corsa sfrenata [147] col lupo. Se il terreno è favorevole e la neve profonda, il lupo è spesso raggiunto. Il skilbere, che prima gli arriva a lato, gli dà col skistok (bastone che adoprano quando sono sui patini) un colpo sul kroùtgrüken, il punto il più vulnerabile del lupo, che lo paralizza in modo che rimane là sulla neve, senza poter più fare un passo colla gola aperta e minacciosa contro i suoi nemici, mandando fuori dalla bocca rossa ed avida di sangue un nuvolo bianco di fiato caldo. Arriva tosto anche Muste senza fiato ed ansante e comincia a saltare intorno al lupo, non essendo ancora sicuro che il lupo si possa rialzare e rincorrerlo. Può darsi che i lapponi non si diano il tempo di uccider subito il lupo e che vadano dietro ad un altro, ben certi che quello colla schiena rotta non potrà muoversi di lì fino a che tornino a dargli il colpo di grazia. Ma sia ora, sia dopo, non lo uccidono senza prima aver sfogato il loro odio contro il loro peggior nemico con un discorsino. Solo dopo avergli rammentati i suoi misfatti e quelli dei suoi padri, e dopo aver vuotato il loro sacco di ingiurie contro di lui gli danno la morte, piantandogli un coltello nel fianco o tirandogli una palla di fucile sulla testa. Il picchiarlo sulla testa col bastone non serve, poichè sa perfettamente parare i colpi ricevendoli sui denti.

[148]

«Ma non tutti i cani sono svelti come Muste. Per questo, non ostante gli sforzi dei guardiani, succede quasi sempre che quando il gregge è assalito da un branco di lupi perdono pochi o molti animali. Può darsi che il lappone se la cavi con un paio di renne, forse le sue due migliori bestie da tiro, ma può anche darsi che egli in una notte ne perda 10, 20, 30; può darsi che la sera fosse un uomo ricco che possedeva molte centinaia di renne e che alla mattina sia un miserabile. I suoi animali saranno sbranati, cacciati nei precipizii, stroppiati e nel caso migliore cacciati a molte miglia di distanza e dispersi in modo che deve andare in giro per raccoglierli nelle altre mandre ove si sono rifugiati, seppure dei ladri non hanno gareggiato coi lupi. Però per alcuni anni può darsi che il lupo si mostri appena; allora vi è «pace.»

«Quello che il Fjeldlappe ha più da temere dopo il lupo è l’abitante non nomade (Fastboend) di Kautokeino e Karasjok. Questi ha l’abitudine come l’abitante della costa di segare del fieno qua e là per i monti, spesso a diverse miglia (di 11 kilometri) dalla sua abitazione. Col fieno o per meglio dire misera erba di padule che riesce a mettere insieme, fa dei mucchi che ricuopre con più o meno cura. Questi sono dichiarati Privat Eigenthum ed i [149] Fastboende esigono che siano rispettati come tali dai Fjeldlappe, quantunque spesso non abbiano nessun diritto di proprietà sul terreno sul quale hanno segato quel fieno. Le renne che hanno buon naso, quando per lo stato della neve possono difficilmente arrivare ai licheni, hanno sentore di uno di questi fienili, vi accorrono ed in un momento lo buttano all’aria, spargendo il fieno ai quattro venti, e quando il lappone affannato arriva dietro al suo gregge, il male è fatto ed irrimediabile. Quando il Fastboende, avendo terminato la sua provvista, viene a cercare i suoi depositi, non li trova più, se può sapere di qual Fjeldlappe erano le renne colpevoli, lo denunzia, e questi deve pagare il danno.

«Nel mese di maggio il lappone nomade comincia ad avviarsi a corte giornate verso la costa. Per antica abitudine (?!) o per istinto le renne d’estate bramano andare verso la costa come le vacche verso le alture (saeters). Come non vi è necessità assoluta per le migrazioni delle vacche, così non vi deve essere neppure per le renne. Queste possono vivere tutto l’anno nell’interno quando hanno estensione sufficiente di terreno, ed alcune condizioni necessarie. Alcuni Fjeldlappe rimangono tutto l’anno all’interno senza mai venire al mare. Così fanno alcuni lapponi norvegesi di Karasjok, che rimangono [150] sulle alture fra Karasjok e Parsongerfjord. Così fa il ricco lappone svedese di Karasuando Lare Jansen Sikko[14] che possiede una mandra di 3000 renne; rimane presso il lago d’Alte nell’Am di Tromsoe vicino alla frontiera, da dove i suoi animali non scendono al di là di Bardo distante diverse miglia (norvegesi) dal mare. Quel Fjeldlap non solo è il più ricco dei regni uniti, ma ha fama di tenere i suoi animali in modo che non danneggino i Fastboende. Nessuna delle renne che dimorano nella provincia di Throndjem, nè quelle selvatiche del Dovre ecc. vengono mai alla costa. Non è dunque punto necessario che le renne vadano alla costa a bere il mare. Nella Lapponia russa una parte delle renne viene tenuta nell’interno, ma non prosperano come quelle libere dei lapponi nomadi che vanno alla costa, dove non solo trovano ricche praterie (d’estate i licheni sono secchi, e allora le renne non li mangiano) ma ancora il vento di mare le libera dai millioni di zanzare, che nei caldi estivi sono un tormento terribile nell’interno per uomini e bestie. In Svezia si conservano alcune renne durante l’estate; ma vengono talmente tormentate dagli [151] sciami di zanzare, che si deve accendere del fuoco perchè possano trovare un rifugio da esse nel fumo. Sui monti dove trovano neve possono passare meglio l’estate. Se tutte le renne potessero rimanere un’estate nei pascoli di licheni dell’interno sciuperebbero cogli zoccoli tutto il lichene che cresce tanto adagio (dieci e più anni), mentre d’inverno è protetto dalla neve, e mettono allo scoperto solo quello che vogliono mangiare.

«Durante il viaggio verso la costa viene l’epoca della nascita delle piccole renne; per il solito verso la metà di maggio; per questo il maggio è detto dai lapponi miessemanno, mese di vitelli. I lapponi assicurano che se durante quel tempo le loro mandre sono esposte negli altipiani nudi dell’interno a diversi giorni di bufera, di neve continuata, una gran parte, qualche volta la maggior parte dei vitelli, muore. Per questo le famiglie più povere, che posseggono solo 100 o 200 renne, partono per la costa tanto presto da arrivare vicino alla costa o alle isole avanti che le renne si sgravino, perchè sulla costa il clima è più dolce e trovano più facilmente riparo.

«Il lappone procede lentamente nel suo viaggio. La neve cuopre la terra; per lo più i laghi sono tutti gelati in modo da permettere di passarci sopra [152] sicchè le tende ed i loro pochi utensili possono viaggiare in slitta. Per andar avanti in quel paese senza strade occorre una conoscenza di ogni particolarità del terreno che non ha mai nessun norvegese, ma che il lappone possiede a un grado superlativo. Ve ne sono molti che conoscono dei tratti di fin venti miglia (230 (?) kilom.) e più, sui quali si possono trovare 200 laghi e fiumi, con tale esattezza che può anche indicare a un altro lappone un punto qualunque di quel tratto, avendo nomi per ogni lago, fiume, monte, per le pietre più grandi ed altre particolarità.

«Se il nostro lappone deve passare nell’isola di Stjern in primavera, è obbligato di legare le quattro gambe ad ogni renna e trasportarle in barca; d’autunno quando sono più grosse e le piccine sono cresciute, passano a nuoto quella distanza di mezzo miglio (quasi 6 kilom.).

«Quando s’avvicina alla costa viene quasi inevitabilmente in lite col Fastboende, al quale sciupa qualche campo di patate.

«Se il nostro lappone è diretto invece verso... dopo passato Alteidet deve passare per il Joekelfjord, ove è un gran ghiacciaio che scende verso il fondo del Fjord. Da quel ghiacciaio durante tutto l’estate si staccano dei pezzi di ghiaccio che cadono nell’acqua [153] e galleggiano nel fjord. Non è possibile passare nè sopra il ghiacciaio colle renne nè al piede di esso, e bisogna far passare le renne a nuoto nel fjord a rischio di vederle schiacciate da qualche blocco di ghiaccio come qualche volta è successo. Un paio di lapponi conducono un gran maschio verso la spiaggia, entrano in barca, tirando dietro a sè a nuoto quella renna, che deve servire da guida alle altre. Il gregge non è sempre disposto a seguire. In masse serrate, corre qua e là, spinto verso il mare dagli altri lapponi e dai cani, finchè finalmente si precipitano giù per il pendìo della costa come una valanga nel mare, facendolo schiumeggiare sopra grande estensione.

«Il giorno dopo il lappone passa ancora un ismo, fra due fjord e finalmente arriva al suo soggiorno d’estate. La fine di giugno è vicina; e si tratterrà qua circa un mese e mezzo. Se qui non vi è alcun fastboende (come certo lo desidera il nomade) le renne potrebbero essere lasciate ora in intera libertà. Altrimenti è obbligato di vigilarle affinchè non facciano danni.

«La guardia non si fa d’estate come d’inverno. Il lappone non sta assieme al suo gregge, non lo accompagna come d’inverno da pascolo in pascolo. Se d’estate fosse sorvegliato, tenuto riunito e confinato [154] a spazi ristretti, non solo deperirebbe, ma le malattie alle quali quegli animali sono esposti, quando sono sottoposti ad una vigilanza severa d’estate, ne farebbero sterminio. D’estate il gregge deve avere tanta libertà da potersi estendere, cercare a piacere qua e là il suo nutrimento, nei giorni caldi deve andare in alto sui monti per fuggire le zanzare; nei giorni freddi, umidi o nebbiosi tenersi in basso nei paduli, nelle valli e nelle boscaglie. Il renne è un animale a metà selvaggio e non si può guardare e condurre come una mandra di vacche. Non farebbe allora altro che correre irrequieto qua e là pestando il suo pascolo, senza prendersi il tempo di pascolare. Le renne pascolano tanto meglio quanto maggiore è la loro libertà. Perciò il lappone lascia il suo gregge, e si stabilisce vicino ai campi del fastboende per poterli proteggere; poichè le renne vi vengono spesso nei giorni umidi e nebbiosi.

«Di quando in quando il padrone del gregge (che può per alcuni giorni essere andato alla pesca che fornisce un supplemento di vitto specialmente ai più poveri, che non potrebbero vivere di un piccolo gregge) deve fare una visita alle sue renne per vedere come vanno quegli animali e gli uomini che ha messo a guardia vicino ai campi coltivati.

[155]

«Forse sentirà che dei cani di fastboende hanno dato la caccia alle sue renne e ne hanno uccise alcune. Forse sentirà che i fastboende si lagnano che sono stati sciupati i loro campi.

················

«Una volta avvenne (secondo quanto mi ha narrato un lappone) che le renne sparivano senza che egli potesse trovare traccia nè di ladri nè di cani. Egli si era messo in agguato luogo la spiaggia per guardare se i ladri impiegassero battelli, ma non aveva scoperto nulla. Egli era anche andato in giro nelle stue o gamme dei fastboende, ed aveva parlato in tutta amicizia di tutt’altro che di furto di renne; aveva «fumato tabacco e bevuto caffè» ma non per «passare il tempo» oziosamente, ma per spiare se non scorgesse qualche brandello di pelle di renna o qualche pelo. Ma invano. Finalmente un bel giorno nel fare un giro nell’interno vede lungi dalla costa e dalle abitazioni una colonnetta di fumo. Seguita con precauzione la sua strada e vede con sua meraviglia una gamme di torba in un luogo ove mai prima aveva abitato alcuno. I ladri di renne che cercava sulla costa, per stare più comodi si sono fabbricati una gamme nei monti vicino alle renne, ed in luogo dove era difficile trovare le loro tracce. Il lappone si avanza cautamente contro il [156] vento per non essere scoperto nel caso che vi fossero cani nella gamme, si arrampica pian piano sul tetto e guarda giù attraverso il foro per il fumo. I ladri non ci sono, saranno forse alla caccia. Nella gamme evvi solo un ragazzo, che dorme sopra una pelle di renna. Il lappone entra, ed al vedere il «fin» il ragazzo salta su spaventato dal suo giaciglio. «Mostra pelle, vedere pelle» grida il lappone che sa un po’ di norvegiano. Egli vuol vedere dalle marche degli orecchi se è uno dei suoi animali. Ma i ladri hanno prudentemente tagliato gli orecchi. Intanto però ha riconosciuto dal colore ed altri segni che è la pelle di una renna da tiro di suo padre. Il nostro lappone prende la pelle e la tira a sè, ma il ragazzo non la lascia andare. «Lascia pelle, pelle di padre,» dice il lappone arrabbiato, e dà un colpo sulle mani al ragazzo col bastone. Questi fugge urlando e corre fuori per raggiungere i suoi compagni. Il lappone dal canto suo prende la pelle di suo padre e corre a cercare aiuto. Se fosse raggiunto dai ladri potrebbe lasciarci anche la sua delle pelli. Ma per l’appunto s’imbatte nei ladri.

«Questi vedon lui, lui vede loro armati di fucile. Il lappone getta via la pelle e fugge da un’altra parte; ma il terreno è piano ed è difficile il [157] nascondersi ed egli teme di essere raggiunto. Però dopo aver passato una piccola eminenza, essendo per un momento nascosto da questa, si butta sul ventre sopra un blocco di pietra, si rannicchia nella sua vecchia pelle di renna grigio-bruna come una tartaruga nel suo guscio, ed in quella posizione si confonde tanto bene col masso muscoso, somigliandogli tanto in forma quanto in colore, che ci vorrebbe a distinguerlo un occhio tanto esercitato quanto a distinguere una Rype (Lagopus) macchiata che si accasci a terra davanti a un cane da caccia. I ladri giungono all’eminenza e cercano invano il fin, che è lì davanti a loro. Quando sono andati via, il lappone cala giù dal sasso e scappa in un’altra direzione. L’indomani, quando ritorna, la gamme non c’è più, i ladri e i residui del furto sono spariti.»


Eppure i lapponi amano questa vita piena di travagli e di pericoli, e non la lascerebbero per nulla al mondo. Molti di essi potrebbero vendere le loro renne e raccogliere i loro tesori sepolti in qualche torbiera o sotto un macigno e ridursi in una città a fare la vita del norvegiano agiato; e non lo fanno.

[158]

Il divo Cristiano VI, in un suo viaggio in Lapponia nel 1733, espresse a Leem il desiderio di avere un giovane lappone alla propria corte; eppure fu difficilissimo trovarne uno, che volesse accogliere le splendide offerte di Re Cristiano. Il Leem aveva potuto a furia di preghiere e di promesse trovare un giovinetto, che sembrava disposto di recarsi a Cristiania, ma la madre corse a lui e gli si gettò ai piedi piangendo: «Io sono incinta, mio buon pastore, e se mi togliete il mio fanciullo, mi accadrà qualche sventura e Dio vi punirà.» Convenne lasciarlo a casa e trovarne un altro. Se ne trovò un altro, che andò alla corte; ma dopo poco tempo moriva, non so se di nostalgia o di noia.

I lapponi sono di carattere dolce e benevolo e l’ospitalità è una delle loro virtù più salienti. Il Leem dice che non bestemmiano mai, in ciò (aggiunge egli) molto superiori ai norvegiani.

Fjellner racconta, che una volta erano ospitali nel senso più ampio della parola[15], per cui l’ospite [159] dormiva accanto alla moglie e alle figlie del padrone di casa. Oggi invece, cresciuta la civiltà, sono ospitali ancora, ma con certo rationabile obsequio. Von Back racconta di avere picchiato una volta indarno alla capanna di un lappone. Il padrone rispose alla sua richiesta con queste parole: [160] Sono giunti oggi due lapponi stranieri ed hanno occupato gli unici posti disponibili. La guida, che accompagnava l’illustre viaggiatore, rimase mortificata, e dopo un breve battibecco concluse con questa biblica sentenza: Quando vi ha un posto nel cuore si trova facilmente posto anche nella tenda. Anche il Van Düben dice, che oggi i lapponi non si vergognano talvolta di mangiare colla famiglia, senza offrire cosa alcuna all’ospite che li guarda. Quando però scoppia un temporale si vedono entrare nella capanna fin 15 o 20 lapponi. Se sono conosciuti, si dà loro caffè o carne; se invece sono sconosciuti, si riduce l’ospitalità all’acqua e al fuoco.

Anche i più affettuosi fra i lapponi sono al primo incontro freddi e riservati; poi rotto il ghiaccio colla conversazione o meglio ancora con piccoli doni, diventano espansivi e cortesi. Nella Lapponia svedese si salutano con un buorist (bene) arrivando, e partendo con un batze dervan. Si baciano col naso, o si abbracciano, stringendo il braccio destro intorno alla vita e toccandosi naso con naso. Una volta vi era tutta una gerarchia di saluti: il bacio sulle labbra fra parenti molto vicini, il bacio sulle guancie fra parenti meno stretti; il bacio dei nasi per gli altri. Oggi pochi si stringono ancora col braccio destro, gli altri si danno la mano come noi.

[161]

Della loro bontà fanno fede anche i rarissimi omicidii e solo per fanatismo religioso. Non è quindi del tutto falsa l’asserzione di molti viaggiatori, che essi non spargono mai sangue. Sono però ladri di renne e nel commercio spesso fraudolenti. Anche il buon Leem, che tanto li ama, dice: Lappones, ut reliqui mortalium suis quoque vitiis laborant, sed paucis sane et raris...; e questi vizii sono l’ubriachezza (oggi quasi dimenticata) e la frode. Sanno fra le altre cose vendere pelli guaste per buone, nascondendo con molta arte i rattoppi e i buchi. Il furto domestico però è quasi affatto sconosciuto e il Leem racconta che in tanti anni vissuti in Lapponia nulla gli fu rubato, benchè tenesse aperte tutte le cose sue.

Ammogliati prestissimo, amano le loro mogli e i loro figli con trasporto. Dell’affetto delle madri fanno fede le culle fabbricate con tanta arte e ornate con studioso amore. Sono di legno, ricoperte di pelli, e per l’inverno con un astuccio di morbida pelliccia, con un soffietto per difendere dalla luce gli occhi del piccino. Allattano i loro bambini per due anni e anche più.

Le nozze sono semplicissime. Lo sposo si reca a casa della sposa con alcuni suoi parenti, uno dei quali si fa suo avvocato ed oratore, ed entrando [162] nella capanna offre al suocero futuro del vino. Se questo è accettato, il matrimonio è combinato e tutti i parenti bevono della stessa bevanda. Per ultimo entra anche il pretendente, che offre alla fanciulla un piccolo dono, che per lo più è un oggetto d’argento. Le nozze si compiono più tardi con un piccolo pranzo, senza pompa nè apparato, senza balli nè canti. Compiuta la cerimonia, lo sposo rimane quasi sempre colla sposa in casa del suocero per lo spazio di un anno, trascorso il quale, va a stabilirsi da sè, ricevendo dal suocero tutto il necessario per piantare una casa. I matrimonii tra parenti sono proibiti.

I funebri semplici come le nozze. Il cadavere vien portato con piccolo seguito sopra una barella in luogo appartato, dove è sepolto a piccola profondità in una cassa di betula o anche senza cassa. Una volta si piantava la slitta del defunto sulla fossa e si rizzava un grossolano monumento di pietre e corteccie di betule.

I più ricchi fanno talvolta una cena funebre.

Sul pudore dei lapponi corrono diverse e opposte opinioni. Se dovessi giudicarne dalla mia esperienza direi che le loro donne sono più pudiche di molte altre, dacchè non ho riuscito a fotografarle nude, per quanto offrissi una somma fin di lire 150 per [163] questa accondiscendenza. Un dotto entomologo tedesco invece, che visse lungamente fra essi, mi disse di averli veduti sagrificare all’amore nelle loro capanne dinanzi a’ suoi occhi, e a Trondhiem due lapponi furono arrestati, perchè contro il muro di una casa riproducevano la specie. È vero però che erano ubriachi. Alle nostre carezze le fanciulle non dicono sempre di no e s’abbandonano all’amplesso per simpatia dei sensi, non per avidità di denaro. Il Knud Leem li difende nella sua opera da un anonimo scrittore, che li aveva detti scostumati:

At ego sancte asserere ausim, nullum me unquam ab illis obscoenum audiisse verbum, nec per totum illud quadriennium, quo inter duarum Parochiarum Kilvigensis et Kiöllefiordensis, Lappones Missionarii munus obibam, ullum in utroque coetu, extra legitimum conjugium, partum fuisse editum, et per integrum sexennium, quo coetui Altensi curio præeram, unicum duntaxat.

In ogni modo i figli del peccato non sono nè abbandonati, nè sprezzati; perchè sopra ogni cosa amano veder crescere la popolazione.

Allegri e ciarloni amano chiacchierare lunghe ore; e a noi figli del secolo XIX sembra strano come possan trovare nel loro piccolo mondo materia a tante ciarle. Cantano senza alcuna armonia [164] e declamano volentieri le loro poesie, improvvisando anche i loro vuoleh, specialmente quando sono rallegrati da un po’ di acquavite. Spesso due cantori si abbracciano e tenendosi allacciati lungamente, si rispondono a vicenda col canto, piangendo per la commozione.

A Hvalsund, un lappone russo, per nome Ole Olssen, udendo dinanzi a Marmier cantare una melodia tenera e querula, si commosse, abbassò la testa e le sue guancie si bagnarono di lagrime. — Oh, diss’egli a un tratto, noi non cantiamo qui, ma noi canteremo nel cielo.

De Latour, leggendo questa scena commovente nelle lettere direttegli da Marmier, rispose con questo sonetto:

Pendant que tu disais ta ballade de France,

Sous le toit de ton hôte un vieux lapon entra,

Qui s’assit à tes pieds, dans un pieux silence,

Longtemps te regarda chanter et soupira.

Puis ses yeux s’animant d’un rayon d’espérance:

«Nous ne chantons pas, nous, mais une heure viendra,

Où Dieu, prenant pitié de sa longue souffrance,

Dans un monde meilleur le lapon chantera.»

Et tu crois, o vieillard, que sur d’autres rivages,

Parce qu’elle est plus haut, la nue a moins d’orages,

Et que l’homme au bonheur chante un hymne éternel?

Ah! qu’il en est aussi dont les âmes blessées

Traînent avec ennui le poids de leurs pensées,

Et disent comme toi: Nous chanterons au ciel.

[165]

I lapponi non hanno orologio e contano alla grossa il loro tempo col sole. Il tempo per loro è l’ultimo pensiero. Se una cosa non si fa oggi, si farà domani, e se non potrà farsi domani, si farà un’altra volta: questa è la loro filosofia. Non si decidono che lentamente, vogliono e disvogliono, ma una volta decisa una cosa, la eseguiscono puntualmente.

Sono umoristici come gli svedesi e allo scherzo rispondono con altri scherzi, che spesso sono anche mordaci. Amano molto dare agli amici soprannomi, che si pigliano per lo più da difetti corporali. Una volta un parroco diede ad un lappone (certo per equivoco) del caffè con sale. Lo bevette senza dir motto, ma restituita la visita dal prete, questi ebbe delle more salate. Il lappone redarguito rispose sorridendo, aver creduto che il parroco amasse il sale.

Fétis, in un suo saggio sul sistema di classificare le razze umane dalla loro musica, disse sull’autorità di Acerbi, che i lapponi erano affatto distinti dai finni, perchè erano il solo popolo, che non conoscesse il canto.

Questa però è una esagerazione, perchè anche i lapponi cantano, ma rarissimamente e molto male. È certo che non hanno alcun istrumento musicale (et ne instrumentum quidem musicum inter eos reperire [166] licet, Leem). Sommier vide una volta un flauto di arcangelica, ma era certamente di origine norvegiana. Il Leem tentò più volte di insegnar loro il canto corale, ma sempre inutilmente. Modulatio lapponum incondito cuidam clamori vel etiam ululatui quam vero cantui simili est.

I lapponi tirano al bersaglio per divertirsi, giuocano alla palla e al giuoco dell’oca. È una volpe che deve difendersi da tredici oche. Hanno anche il sakku, giuoco antichissimo, forse di origine asiatica, che rassomiglia assai agli scacchi. Sogliono anche lottare con bastoni.

I loro nomi di battesimo si danno quasi sempre sulla guida dei sogni e sono nomi norvegiani storpiati dalla desinenza lapponica:

Andrea diventa Anda o Adda
Giuseppe » Iuks
Lorenzo » Lalla
Niccolò » Nikke
Olav » Wulla o Volale
Pietro » Piettar
Paolo » Pave
Giovanni » Anthe.

Usando però lavare ogni giorno i loro bambini nell’acqua calda, danno loro spesso dopo il lavacro [167] un altro nome, quando piange troppo od è malato e quando, come essi dicono, si mostra scontento del primo nome. Questo battesimo si amministra colle parole:

De mon bausam duu dam Nabmi N. N., ja dam Nabmi buurist kalkak sellet.

Io ti lavo nel nome di N. N., col qual nome tu starai bene.

È questa la ragione per cui i lapponi portano spesso due o tre nomi, e quello del lavacro riesce spesso più poetico, perchè inspirato dall’affetto delle mamme. Ricordo fra gli altri questo: utze beivatzh, piccolo sole.

I lapponi sono timidi e si lasciano spaventare come fanciulli, giudicando subito per miracolo ciò che non hanno la facoltà d’intendere.

La ricchezza dei lapponi è misurata dal numero delle renne che posseggono. Ai tempi di Von Buch una famiglia, che non avesse che cento rangiferi, era molto povera e non esente dal pericolo di morir di fame. Incominciava ad essere agiata, quando il numero delle renne giungeva a 400. Anche oggi con piccola differenza, queste frontiere della povertà e dell’agiatezza durano ancora. In caso di epidemia del bestiame, il lappone rimasto privo d’ogni ben di Dio, non ha altra risorsa che di servire presso [168] una famiglia ricca o di avvicinarsi al mare, trasformandosi in pescatore. Il mendicante non esiste in Lapponia. Noi abbiamo conosciuti lapponi, che possedevano 3000 renne e 70 od 80 mila lire in tanti talleri e gioielli d’argento, che mettevano alla banca, o più spesso nascondevano sotto terra e nelle torbe. Van Düben racconta il caso di un ricco divenuto cieco, che non potè più ritrovare il proprio tesoro, nè dare indizii sufficienti ai suoi, perchè lo trovassero. Si può calcolare all’ingrosso che duemila renne rappresentano 20,000 reichsthaler, ma una buona renna da tiro può valere anche 45 lire.

I lapponi in generale sono economi, e nei loro contratti preferiscono l’argento, che chiamano blanca, alla carta, che non ha però corso forzoso. Una volta il commercio si faceva per cambii, ora si fa invece col denaro. Fanno spesso dei regali ai loro avventori e clienti, ma colla sicurezza di riceverne il contraccambio. Ho veduti i lapponi vendere e comprare e li ho trovati in tutto simili ai miei indiani dell’America meridionale. Son brontoloni, insistenti, meticolosi; nascondono la furberia sotto un denso strato di bonomia e di apparente stupidità, ma alla fin dei conti, trattando con noi, gente di razza alta e di morale evangelica, riescono più spesso canzonati che canzonatori.

[169]

Ogni mercante scandinavo, che è in rapporto di commercio coi lapponi, ha i proprii clienti. Quando si vuol fare un contratto, egli deve prima d’ogni altra cosa far portare dell’acquavite e offrire piccoli doni. Il lappone dal canto suo offre carne di renne e selvaggiume, che riceve poi cotta dal suo mercante. In generale, saldati i conti, e chiuso il bilancio, il povero lappone rimane sempre indebitato, ciò che lo tien stretto al suo cliente, senza poter offrire le cose sue ad alcun altro mercante. I debiti si segnano in modo molto semplice con tacche fatte sopra un pezzo di legno, che si taglia in due pezzi eguali, uno dei quali rimane al creditore, l’altro al debitore. Ogni tacca indica in generale una mezza corona (lire 0,75).

Quando si pensa, che immensi deserti di paludi e di ghiacci separano debitori e creditori per lunghi mesi, si deve dare una corona civica di onestà ai quei poveri nani iperborei, che menano i loro affari commerciali con tanta ingenuità di forme e fedeltà di promesse.

I lapponi godono di tutti i diritti dei cittadini di Svezia e di Norvegia, ma non si accorgono davvero di averli.

Pagano le loro imposte fedelmente; imparano a leggere e scrivere, perchè è anche questo un loro [170] dovere e perchè si rifiuterebbe loro il sacramento della confermazione, al quale tengono moltissimo; ma la loro coltura letteraria si riduce per lo più a leggere malamente il Vangelo o a fare a un dipresso la loro firma. Alcuni di essi però sono suscettibili di studio e di coltura. Io conobbi un lappone, maestro di scuola stipendiato dal Governo di Norvegia e che insegnava il norvegiano e l’aritmetica ai suoi piccoli scolari della Lapponia. Del resto meglio assai saranno ritratti i lineamenti psichici di questa gente nei due capitoli, che dedicheremo più innanzi al loro mondo ideale e alla loro religione.

Qui basterà a completare il loro ritratto il poco che potrò dire delle loro industrie e delle loro arti.

Di sensi acuti, sono molto abili al tiro, e così, come nel secolo scorso erano ancora abilissimi tiratori d’armi, oggi lo sono col fucile o la carabina.

Del resto, trovandosi in continui rapporti colla civiltà scandinava, comperano belle e fatte molte cose, che potrebbero e saprebbero fare da sè, se dovessero ricorrere alle sole proprie attitudini. Oggi essi si accontentano di preparare il loro filo, le loro pelliccie, i loro cucchiai d’osso ed altri piccoli utensili.

[171]

Il filo si prepara dalle donne coi tendini delle renne. Si tostano al fuoco, si battono finchè divengono molli, o si masticano e poi si fregano sulle guancie o sul ginocchio finchè siano ridotti in fili sottilissimi (et palma ad maxillam affricando, in tenuissima fila contorquent, Leem). Con telai molto primitivi fatti di osso intrecciano le loro fascie di lana a varii colori. Filano lo stagno con molta arte e ne ricamano le loro fascie. Sanno anche tingere il panno in giallo o in rosso, adoperando il Lycopodium complanatum, la radice del Rumex acetosa, i fiori del Galium verum.

Le donne preparano le pelliccie, scarnando bene le pelli e ungendole poi a più riprese con olio di fegato di pesce. Gli uomini invece fabbricano i loro cucchiai colle corna delle renne, incidendovi fiori e disegni di renne. Fanno anche vasi di legno coi tronchi e le radici delle betule. Bordier disse, che i disegni incisi dai lapponi sui loro cucchiai e sulle loro scatole o agorai rammentano quelli dei vasi scandinavi dell’epoca del bronzo. Egli aggiunge, che filtrano il latte di renne attraverso un ingegnoso filtro di crino, onde levarne i peli. Quanto a me, non ho trovato presso i lapponi altro strumento più ingegnoso di un grande cucchiaio per cogliere rapidamente e bene una grande quantità [172] di frutti di bagiole, ed io consiglierei i nostri montanari a farne di simili, invece di cogliere una per una le bacche dei loro mirtilli. È un cucchiaio di legno simile in tutto a quello, di cui si servono i barcaiuoli del Lago Maggiore e del Lago di Como per cavar l’acqua dai loro burchielli e sul labbro anteriore vi è un pettine a larghi denti, che scorrendo tra le pianticine del mirtillo, ne distacca i frutti, facendoli cadere nel cucchiaio[16].

Ma questi nostri lapponi, donde sono venuti? Chi son dessi? Per quale anello si congiungono alla grande famiglia dei popoli dell’Asia o dell’Europa? Oggi, noi giustamente non crediamo di conoscere bene una creatura qualunque di questa nostra pallottola sublunare, se non le abbiamo assegnata la genealogia e il posto gerarchico nella grande storia del divenire.

[173]

Per chi si accontenta della mitologia, potrebbe bastare l’iscrizione seguente, che nel secolo scorso si leggeva ancora sopra un’antichissima statua dell’isola di Gidschœe:

Findus fratrem interfecit

Quia inter eos de via non conveniebat;

quapropter in Borealem regni partem concessit,

ubi ejus progenies in immensum aucta est,

Ab illo descendunt omnes illi Normanni,

Qui sese Finnos appellant.

Ammessa per vera la leggenda, noi dovremmo sempre dimostrare che fra i finnos vanno contati anche i lapponi.

Knud Leem crede di riscontrare molti rapporti fra i lapponi e gli antichi sciti; quali il vestirsi di pelli, la vita nomade e la pastorizia. Gli par quindi, se non vero almeno verosimile, che i lapponi siano una propagine degli antichi sciti e in una nota aggiunge, che anche Leibnitz e Bajerus sono di questa opinione.

Il buon pastore norvegiano però non è troppo forte in etnologia, dacchè, alcune pagine più innanzi, trova una quandam etiam convenientiam fra i lapponi e gli antichi ebrei; cioè capelli oscuri, vestimenti simili, il canto sacro, usi relativi alla mestruazione [174] ecc. E quasi non bastasse questo vagabondaggio di opinioni, egli trova forse una parentela fra lapponi e finni della Svezia. Davvero che questi nostri amici del nord sarebbero parenti universali!

Appartiene forse alle fantasie etniche anche l’idea che i fenici abbiano visitato il nord della Norvegia e che i cartaginesi andassero a pescare alle Lofoden, riportando il pesce nella loro terra affricana.

Leopoldo Von Buch dice, che Thule deve essere la Norvegia settentrionale e non l’Islanda e sostiene la sua opinione con validi argomenti. Egli ammette che lapponi e finni discendano da uno stipite comune, ma che si siano separati fra di loro prima di venire lì dove si trovano oggi. Egli crede probabile, che i lapponi abbiano lasciato la costa del Mar Bianco per venire ad abitare la Norvegia e la Svezia e che i finni sian venuti dall’Estonia, attraversando la Finlandia.

Virchow considera i lapponi come un ramo dei finni; Schaffhauser invece vede in essi i discendenti di mongoli respinti al nord lungo la costa dell’Oceano glaciale. Ecker crede, che siano un ultimo avanzo di un popolo, che occupava un tempo [175] tutta la Scandinavia e fors’anche gran parte della Germania; ma quest’ultima opinione, che pure parrebbe a priori tanto verosimile, è contraddetta da tutte le ricerche preistoriche fatte dai dotti paletnologici della Danimarca, della Svezia e della Norvegia ed oggi in tutta la Scandinavia non vi ha anima viva, che osi difenderla[17].

A me sembra che il Van Düben abbia il merito di aver studiato più profondamente le origini dei lapponi, raccogliendo una cronologia di dodici secoli, accompagnando i lapponi da Erodoto fino ai nostri giorni. Poveretti! Essi ignorano la loro storia e non sentono il bisogno di rifarla; tocca a noi, irrequieti indagatori di origini, fare ciò ch’essi non sanno.

Erodoto è molto buio; ma Tacito nella sua Germania (Caput 45 e 46) lì dove parla dei sujones e dei finni, ci dà la prima notizia dei padri antichissimi [176] dei nostri lapponi. Ma dopo Tacito, essi sono scordati per quasi 500 anni, se pur si vuol dimenticare il poco che ne dice Pomponio Mela.

Procopio Cesarico verso il 560 dell’èra nostra descrive la storia delle guerre gotiche e parlando degli eruli, che ritornano a Thule, loro patria, dice che quella terra era in gran parte disabitata, ma che la piccola regione coltivata contava tredici popoli diversi con altrettanti re. Aggiunge che in quel paese ad ogni anno si ripete il miracolo, che nel solstizio di estate il sole non tramonta e nel solstizio d’inverno il sole per quaranta giorni sparisce dall’orizzonte. Fra i barbari che abitano Thule, un solo popolo mena vita selvaggia e sono gli scrithiphinni. Son gente, che non beve vino, nè raccoglie frutta dalla terra, nè la coltivano; neppure le donne lavorano in casa, ma escono cogli uomini a cacciare. I loro monti e i loro boschi danno a loro le carni delle loro belve e dei loro uccelli. Non hanno lino, ma si veston di pelli, cucite coi tendini.

I loro bambini non poppano, ma succhiano il midollo dei grossi animali. Appena nasce un bambino, viene sospeso ad un albero e si copre di pelliccie, dandogli in bocca un pezzo di midollo, [177] che succhia, mentre i genitori partono per la caccia.

Un altro goto, Jornandez, del tempo di Procopio (pag. 350), descrive Thule, sotto il nome di Isola Scanzia, che è circondata dal mare e da moltissime altre isole. Nel nord abita un popolo, che nell’estate ha 40 giorni di sole e nell’inverno 40 giorni di tenebre. Fra tutti i popoli della Scanzia i più dolci di costumi sono i fenni.

Il longobardo Paolo Varnefried, duecento anni dopo, cioè verso il 780, parla dello stesso popolo. Sono gli scrito-finni, che confinano coll’isola di Scandinavia. Anche nell’estate hanno la neve e vivono di carne cruda. Il loro nome deriva dal modo di camminare sopra pezzi di legno in forma di barca. Hanno un animale simile al cervo, della cui pelle fanno vesti simili ad una tonaca, che scende loro fino al ginocchio. A ponente, nel mare, vi è un vortice (il Malstroem).

Sulla fine dell’800 il geografo di Ravenna, l’anonimo ravennate, parla di un popolo scandinavo, che abita il paese più freddo del mondo. E via via, per secoli trovate molti autori che si copiano l’un l’altro, lasciandoci la parola di finni, con cui anche oggi danesi, islandesi e norvegiani battezzano i [178] nostri lapponi. Per il Van Düben i finni di Tacito sono gli scrito-finni degli scrittori del medio evo.

Un’antica tradizione dice che son venuti dall’oriente; e Castren, raccogliendo la tradizione, credette di poterla precisar meglio, dicendo che essi son partiti dall’Altai coi finlandesi; cosa però che è assai più facile a dire che a precisare. Il Van Düben, più scettico del Castren, trova i lapponi troppo diversi dai finni per poterli fare escire da un unico ceppo. È vero, che le loro lingue sono affini, che appartengono entrambi al gruppo ugro-altaico; ma altra cosa è l’affinità filologica ed altra la etnica. I lapponi emigrarono forse per i primi da un grande centro altaico, emigrando verso il nord-ovest, lungo il fiume Irtisch o l’Obi e passando gli Urali. Dire a qual’epoca giungessero in Europa è cosa impossibile.

I lapponi hanno nella loro lingua 18 parole per esprimere la forma dei monti, 20 per il ghiaccio, 11 per il freddo, 41 per la neve e le sue varietà, mentre d’altra parte sono poverissimi di vocaboli che esprimono cose di paesi temperati. Anche questo fatto è un potente indizio per dimostrare, che questa povera gente nacque tra i ghiacci e tra i [179] ghiacci emigrò, mutando solo il freddo d’Asia in quello d’Europa.

Ecco il poco di sicuro, che la critica etnologica può affermare sull’origine dei lapponi; inoltrarsi in vie ristrette per cercare particolari più minuti sarebbe lo stesso che smarrire la via e perdersi nel laberinto del romanzo storico.

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CAPITOLO SESTO

IL MONDO IDEALE DEI LAPPONI — LA LORO POESIA — I LORO PROVERBII E INDOVINELLI — NOVELLINE.

La poesia lappone è una rivelazione tutta moderna e se alcuni dotti non avessero raccolto con cura paziente quegli inni polari, essi sarebbero andati perduti per la storia dell’arte e del pensiero umano. La civiltà, che tutto lisciando e tutto livellando, distrugge tanti lineamenti della nostra psicologia, avrebbe consunti anche quei canti epici e lirici della Lapponia, che hanno un sapore così agreste, una forma così fantastica e note così tenere d’affetto. A furia di passare di bocca in bocca, senz’essere stati mai consegnati alla penna, si sarebbero evaporati insieme al fumo azzurro, che esce dalle povere capanne dei lapponi.

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Friis fu il primo, che nel 1856 pubblicò[18] una raccolta di favole e leggende lappone, col modesto proposito di dare un saggio di quella lingua, che egli aveva studiata con tanto amore. Prima di lui si sapeva appena, che questo popolo iperboreo e in apparenza così povero di pensiero avesse un mondo ideale, benchè Scheffer fin dal 1673 nella sua Lapponia[19] avesse pubblicato due liriche lapponiche nell’originale e nella traduzione[20]. Anche il pastore Linder di Umea, che viveva ancora nel 76 più che nonagenario, aveva pubblicato nel 1849 nel giornale svedese Läsning för folket notizie interessanti sulla Lapponia svedese e sui suoi [183] abitanti, dando un sunto del canto I figli del sole; ma erano poche gemme raccolte da un tesoro ancora quasi inesplorato. Il Van Düben nella sua classica opera sulla Lapponia ci diede tradotto per intero I figli del sole ed altre poesie epiche, raccolte specialmente dalla bocca del venerando pastore lappone Fjellner. Il Donner, finlandese di nascita, venuto dopo tutti, ci ha dato una vera antologia lapponica, pubblicata prima in un giornale in lingua finnica e poi in un volume a parte pubblicato ad Helsingfors[21].

Il venerando Fjellner, che forse vive ancora, merita una calda parola di riconoscenza per avere conservato lo scrigno prezioso della poesia lapponica. Nell’estate del 74 il Donner, passando per Umea e Lycksele, viaggiando a piedi e in barca, si portò a Sonde, dove il vecchio Fjellner di ottant’anni e cieco viveva colla sua famiglia e le sue poche renne, predicando ai suoi paesani la parola del Signore. Cortesissimo col dotto filologo finlandese gli dettò la maggior parte delle poesie che faremo conoscere agli italiani.

Anders Fjellner nacque a ciel sereno in una fredda notte di autunno, il 18 settembre 1795, sui [184] nevosi altipiani di Ruta, fra Votta e Sal nell’Herjedal. I suoi genitori erano lapponi nomadi e ancor prima di ricevere il battesimo del cristiano, ebbe il battesimo lappone, dacchè appena nato lo lavarono in una sorgente ghiacciata. Mortogli il padre nel 1804, fu mandato da lontani parenti alla scuola di Ostersund nel Jämtland, poi al ginnasio di Hernösand e nel 1818 all’Università di Upsala. Fin dai primi anni della sua educazione egli stesso aveva preso il nome di Fjellner, perchè nato sopra un fjäll (altipiano, monte).

Lo studio del latino, del greco e della teologia si alternavano colla vita nomade del pastore, che egli riprendeva con passione nelle vacanze della scuola. Nel 1820, lasciata l’Università, passò molti anni fra i lapponi svedesi, facendo il missionario, finchè, presa seco la moglie, due figliuoli e undici renne, portò la sua carovana a Sorsele, dove rimase sempre come curato (pastor). Nessuno più di lui poteva raccogliere con religioso amore la poesia di un popolo, di cui aveva il sangue nelle vene, benchè l’educazione lo avesse posto tanto in alto; e Van Düben e il Donner, conversando col vecchio pastore di Sorsele, trascrissero ciò che il povero cieco non poteva più tramandare ai posteri colla parola scritta.

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Il Fjellner crede di ravvisare nelle poesie epiche della Lapponia un’origine asiatica; ma il Van Düben e il Donner non sono di quest’avviso. Benchè questi canti abbiano un’origine antichissima, e può dirsi preistorica, sembrano ad essi lapponi, null’altro che lapponi. In alcuni di essi sono evidenti alcune ricuciture e rammendi fatti in epoche posteriori, per cui sulla maschia e mitica orditura antica si vedono i ricami medioevali e le storpiature moderne di nomi e di paesi. La stoffa primitiva però è così robusta e così ben tornita, che rammendi, ricuciture e ricami non bastano a guastarla, e noi ci troviamo innanzi agli occhi una delle più franche e più originali espressioni del mondo ideale di un popolo iperboreo.

Lasciamo, che eruditi e filologi dissertino sopra l’origine di questi canti. È probabile, che essi rimontino ad un’epoca, in cui le diverse stirpi finniche si trovavano raccolte in un più stretto territorio. Separate le une dalle altre per successive emigrazioni, portarono seco il palladio prezioso della poesia dei loro padri, e se la tramandarono con culto religioso da padre in figlio.

Leggendo le poesie lapponiche, che daremo letteralmente tradotte dallo svedese o dal tedesco, voi troverete i caratteri più salienti d’ogni poesia arcaica [186] di popoli primitivi insieme ai lineamenti più speciali della natura e dei costumi lapponici. Il nervosismo sommo di quella gente, che li espone ad allucinazioni frequenti, a veri miraggi della fantasia, dà anche alla loro poesia il carattere fantastico; e lo stesso Fjellner, cristiano, sacerdote e dottorato ad Upsala, raccontava in piena buona fede di aver veduto un giorno la figlia del sole. Egli viaggiava sui monti dell’Herjedal e si trovava ravvolto nella nebbia. Egli ode a un tratto un grande scampanio di armenti e vede sedere sopra una pietra la splendida figlia del sole. Egli pian piano se l’avvicina per di dietro, onde stringerla fra le sue braccia; ma egli non stringe che una pietra, contro cui batte il capo. Essa era sparita! La figlia del sole, paive neita, è detta anche dai lapponi saivo neida o figlia del mondo sotterraneo, o ruona neida, cioè la figlia della primavera o la verdeggiante. Chi riesce ad abbracciarla senza che ella se n’accorga, conserva i suoi armenti di renne e le sue ricchezze.

Friis, il quale si è occupato specialmente della favola e della leggenda, le divide in tre categorie: la prima è mitica e ci offre sotto la forma di leggende i ricordi dell’antica religione dei lapponi; la seconda attinge le sue ispirazioni da avvenimenti [187] storici e ci parla specialmente delle lotte fra tribù o popoli diversi; la terza ci dà le descrizioni e i costumi degli animali. Nelle pagine seguenti il lettore troverà molti saggi di queste tre diverse forme di poesia, e senza bisogno di commenti saprà assegnare ad ognuna di esse il battesimo scolastico. A noi però importa assai più il segnare i caratteri salienti di questa poesia, che è forse neolitica e che certamente accompagna i primi crepuscoli ideali del pensiero umano.

Voi trovate nelle pagine seguenti i ricordi atavici dell’antropofagia e dei sacrifizii umani[22], il culto degli astri e le lotte e le rapine fra tribù e tribù. L’ardore dei sensi è nudo e innocente come la natura, senza foglie di fico, nè veli di ipocrito pudore. L’astuzia primitiva e quasi infantile, va compagna della violenza selvaggia, ma il sentimento della famiglia domina il campo degli affetti, e il tradimento, la viltà, la menzogna sono assenti; per cui il carattere di questo popolo si dimostra fino dalla più remota antichità onesto, buono, sincero. Se a questo aggiungi un amore caldo, tenerissimo per gli animali domestici, per il renne, amico e [188] compagno inseparabile dell’uomo iperboreo e il terrore sacro per gli animali selvaggi, tu avrai segnati i lineamenti caratteristici di questa poesia lapponica, che a volta a volta dalle puerili fantasie si innalza fino alle forme più auguste dell’epopea omerica, o si intenerisce fino alle note più soavi della nostra poesia moderna. Uno studio critico di questi canti segnerebbe di certo le leggi più fondamentali dell’estetica dell’arte, mostrando ciò che è umanamente bello per tutti e ciò che commuove le viscere e il pensiero di ogni creatura intelligente nata sotto il sole.

Il viaggiatore russo Dantschenko fece un viaggio nella Lapponia russa durante il 1873 e raccolse parecchie canzoni dalla bocca degli stessi abitanti del paese. Eccone una ch’egli udì cantare da una fanciulla, che lo conduceva sul lago Imandra, facendogli da barcaiolo:

Venne da me un vecchio pescatore

Un ricco pescatore del lago Murd,

Mi portò reti dorate

Reti d’oro e reti d’argento.

Ascoltami, o fanciulla, disse egli,

Io ti voglio prender nella rete,

In quella d’argento, in quella d’oro.

Io risi così forte al pescatore,

[189]

Che mi si udì al dì là dei monti:

Vecchio pescatore tu sei venuto troppo tardi,

Ricco pescatore, colla rete

Colla rete d’argento, colla rete d’oro.

La tua buona pesca è andata a male

E tu hai lasciato scappare il pesce:

Da lungo tempo è già caduto

In un’altra rete, che lo stringe

Non nella tua d’argento, nè nella tua d’oro,

Ma in una rete tessuta di canapa.

Ma non sei tu che l’hai preso, ricco pescatore,

Ma un povero giovinotto.

Un’altra canzone lappone raccolta dallo Dantschenko è la seguente:

Sugli alti monti io me n’andai

Alla caccia del rangifero,

Uno ne cadde colla freccia di ferro

E il ferro penetrò

Nel caldo cuore dell’animale.

Ad un tratto cadde il renne

Sulla neve e giacque senza moto.

Presi l’animale sulle mie spalle

E lo portai giù al villaggio.

Gli tagliai ambo le corna

Le staccai e gettai sdegnoso

Nel lago le superbe corna.

Tagliai pure tutte le zampe

Le tagliai e le gettai nell’onda.

[190]

Solo il corpo io presi con me

E lo portai nella capanna ai miei genitori

E diedi ad essi la carne.

Solo il caldo, l’ardente cuoricino

Diedi io festoso alla mia fanciulla.

Nel prezioso libro del Donner troviamo questi altri saggi di poesia lapponica:

Il Salice

Piccolo salice, piccolo salice, perchè rimani tu così confuso?

Ti culla bene il vento del nord, o piccolo salice?

Ti culla il vento del nord o ti flagella colla pioggia battente?

O accarezza le tue radici colle fredde onde?

Le donne del Maggiore camminarono, camminarono,

Si fabbricarono due remi

Due remi e il canotto fu il terzo.

Presero così la bella fanciulla

E la posero in mezzo al canotto.

Fanciulla, fanciulla, perchè sei tu così turbata?

Piangi tu, o fanciulla, per il padre o per la madre?

Piangi tu per il padre, la madre, la sorella, il fratello?

Piangi tu per la sorella, il fratello o i congiunti?

Questo canto non finisce qui, ma il Popov che lo pubblicò per il primo, non potè averne la continuazione.

[191]

L’amore profondo e tenero per la patria e la famiglia si trova nelle poesie lapponiche come nelle sirianiche e nelle finniche. Nei preziosi manoscritti lasciati dal dottissimo Castren, e che si trovano oggi nella Biblioteca dell’Università di Helsingfors, avete sette canzoni sirianiche, tutte dedicate al matrimonio, ed eccone una come saggio:

Il canto della Sposa

Mi si è tolta la libera volontà,

Mi si è preso teneramente il mio cuore,

Mi si incatenò la mia giovine testolina,

Mi si tennero fermi i miei ricci d’oro,

Mi si trascinò per la punta delle dita?

O mio padre, mio educatore,

O mia madre, che ebbe cura di me,

O fratello, coraggioso come il falco,

O mia propria, o cara sorella,

Fratello di mio padre, o buona cugina,

Così voi avete già deciso

Io devo abbandonare casa e cortile!

Così io andai alle nozze

Presi il calice ripieno

E a tutti gli ospiti offersi il vino,

Guardai a tutti i convenuti

Attraverso le mie ciglia d’oro;

[192]

Non lo prese però il buon fratello,

Lungi egli è, il lieto falco

Egli siede nella nera tundra[23]

Nel seno dell’oscuro mare

Sotto le alte rupi degli Urali.

Accorri qui, o mio nobile fratello,

Non odi: io son scacciata

Dalle dorate regioni del mio paese

Vieni, o vieni, mio caro fratello,

Che giacesti sullo stesso seno della madre,

Vieni e vedi come io parta!

Scegli le renne dall’armento,

Scegline sei, delle maggiori,

Attaccale ad una slitta,

Aggiogale ad una slitta,

Legale solidamente con nere cinghie

E corri rapido a casa!

Spumeggin pure cento e venti fiumi,

Irrompano selvaggi i torrenti di primavera,

Frapponendosi sulla tua via,

E tu innalzati leggero come il cigno

O veloce come un’anitra.

Venerato padre, cara madre,

Io fui pur fedele, povera fanciulla,

Sempre come un figlio prediletto,

Perchè volete voi scacciare

[193]

La fedele serva dalla vostra casa,

Per darmi in cambio stranieri genitori,

Sconosciuti fratelli e sorelle?

Dovrò io diventar cento volte più saggia,

O poveretta, dovrò io sempre

Piegar la mia testolina

Per trovar gioie presso di loro?

Se il piacere non dimora presso di loro,

Io penserò alla patria,

E godrò la gioia passata

Presso il padre e la madre.

Celebre è la poesia lapponica seguente, raccolta da Fjellner:

I figli del Sole

Un tempo gli uomini erano pochi

E le fanciulle mancavano agli uomini.

Un uomo aveva abbracciata la sua donna,

Aveva mischiato il suo sangue con quello di lei,

E la madre allatta il bimbo,

Bagna e alimenta il fanciullo.

Si dimena il fanciullo nella culla,

Perchè egli aveva ricevuto dal suo genitore

Tendini forti e solidi,

E l’antenato diede l’ingegno

Alla progenie del figlio di Kalla.

[194]

Corre voce, così suona la leggenda:

Dietro la stella legata (forse fissa)

Ad occidente lontano dalla luna e dal sole

Son le pietre oro e argento,

Pietre del focolare, pietre delle reti.

Scintilla l’argento, fiammeggia l’oro,

Le rupi si specchiano nel mare.

Anche i soli, le lune, le stelle,

Luccicano, sorridono, specchiandosi risplendono.

Il figlio del Sole stacca la sua barchetta,

Prende con sè il meglio della sua gente.

Il vento soffiando gonfia le vele,

Lo spirito delle acque spinge la barchetta,

L’onda trascina all’innanzi gli uomini.

Il timone si drizza al disco

E il vento d’oriente culla la barchetta.

Onde non tocchi la luna,

La luna e il sole diventarono

Più piccoli della stella del nord.

Sorge ora una luce d’un’altra specie

E diventa più grande che il sole,

Risplende in rosso e illumina gaiamente.

Passano lunghi anni in mare.

Finalmente, ecco alla fine del viaggio

Si apre la spiaggia del gigante,

Si fa orribile e s’innalza.

E la giovane figlia del gigante,

[195]

Essa, la cucitrice del vecchio cieco,

Lava alla luce di una fiaccola gli abiti,

Stropiccia e batte i vestiti con diligenza,

Poi li risciacqua e li spreme,

Li fa seccare e li ripulisce.

Dando grazia al suo seno[24]

Rivolge rapida i suoi sguardi,

Guarda forte il giovane negli occhi;

Parla, donde vieni? chi cerchi tu?

Vieni tu al tavolo della morte

Per nutrire il mio padre,

Per dare a me un boccone da succhiare,

Per ristorare il mio fratello stanco,

Per dar parte al mio suocero?

Il figlio del Sole:

Sarakka[25] mi diede dal padre

Tendini robusti, potenti forze

Mischiando le forze dei due genitori.

[196]

Uksa Aka col suo latte

Mi versò nel capo l’ingegno.

Io cerco colei che mi dia calma nella procella,

Che freni l’ira,

Che felicemente mi segua nella morte e nella vita,

Una che mi freni nella fortuna,

Che mi protegga nella sventura,

Che mi conforti nei tormenti del cuore,

Che nella fatica e nell’angoscia mi riposi,

Che mi porti fortuna nella pesca,

Che nella commozione mi dia pace,

Che doni degli eredi alla mia razza.

La figlia del gigante:

Ogni goccia del mio sangue ribolle,

Più alto si gonfia il seno della vergine,

Tutti i miei sensi si sconvolgono.

Mescoliamo il nostro sangue,

Intrecciamo i nostri corpi,

Mescoliamo gioie e dolori,

Tu figlio di madre straniera.

Al mio padre, al mio caro

Voglio dire il mio desio, la mia aspirazione,

Le mie amare lagrime chiamano

La mia madre che giace lì nel profondo dell’arena e della scorza di betula.

[197]

Il gigante, che ha l’intenzione di mangiarlo, dice con sprezzo:

Vieni presto, o figlio del Sole!

Mettiamo alla prova colla mano

La piegatura delle nostre dita,

Vediamo chi abbia le dita più pieghevoli,

Chi abbia le dita più solide.

(La figlia porge al giovane un’àncora di ferro e il giovane la presenta al vecchio).

Davvero, sono abbastanza forti

I tendini delle dita dell’eroe solare;

Forte è la piegature delle dita del giovane.

Il figlio del Sole dà poi per consiglio della figlia al vecchio come doni:

Un barile d’olio di pesce come cibo di nozze,

Un barile di catrame come bevanda di nozze,

Un cavallo per pietanza.

Il gigante parla:

Dolce, dolce è la bevanda

Del paese del sole: essa si beve volentieri.

Forte è anche la bevanda

Del figlio del Sole e fa smarrire i sensi.

Eccellente pure è la pietanza.

[198]

Ma ahimè, ecco ch’egli si ubriaca,

E la sua dura testa si confonde,

Il grasso del pesce e del legno

Scendono al suo core e lo rammolliscono.

Egli afferra l’àncora di ferro,

Suda e si riscalda sempre più.

E il vecchio cieco

Li pone e dà posto ad ambedue

Sulla pelle del dominatore delle acque (balena).

Incide loro il mignolo

E mischia il sangue di amendue,

Congiunge le mani, unisce petto a petto,

Allaccia anche i nodi dei baci,

Mette da parte gli impedimenti,

Scioglie le mani, scioglie i nodi,

Si portano le pentole nuziali, poi si beve.

Alla sua tessitrice, alla valente,

Alla sua unica filatrice di tendini,

Alla sua cucitrice, alla unica

Sceglie egli i doni nuziali:

Pezzi d’oro degli scogli della riva

Fa egli rompere, fa egli portare,

Portare sulle navi barre d’argento,

E lo aiuta l’amante della vergine,

[199]

Il giovane dai bei ricci,

Nella barca dalle ali di canape,

Colle vele floscie.

Il gigante domanda:

Vi è posto ancora nella tua barca,

Può essa portare un peso maggiore?

— Sì, vi è posto. — E si portano altri doni.

(La sposa)

Sì lascia cadere le scarpe virginali,

Segue il servizio del fratello straniero,

Alla guardia della suocera

E riceve la chiave magica.

Poi essa porta via dalla capanna

Tre casse fatte di pino;

Azzurra la prima, rossa la seconda,

Bianca la terza; oltracciò tre nodi.

(Le casse contengono):

Guerra e pace, sangue e fuoco,

Malattia, morte e pestilenze

E i tre nodi del panno di bagno

Di Sar, Uks e Madderakka.

(Portano):

Dolci zeffiri, vento e procelle.

Si fanno i nodi della castità e si danno[26]

In guardia di Madderakka.

[200]

Allora ritornarono dalla pesca i figli,

Dalla pesca della morsa, delle foche, delle balene

E cercarono della sorella. — Dove è dessa?

Dov’è la bellezza della capanna?

Nulla rimane di essa fuorchè le orme,

Il sudore di chi fu ad essa così simpatico,

L’odore di chi ce l’ha sedotta?

A chi ha essa dato la mano,

Chi ebbe forza per conquistarla,

Chi ha giuocato da uomo o da donna,

Chi giuoca scherzando colla fanciulla?

Chi ha forse picchiato alla porta di Uksakka?

Il gigante risponde:

Il figlio del Sole allargando le vele l’ha involata. —

Vola in mare la barchetta dei fratelli

Per inseguire e dare la caccia

E restituire il poledro alla casa.

Già si sente il batter dei remi,

Più vicino si fa il rumor del timone

E il muggire e l’infuriar delle onde.

(La sposa)

Scioglie per difendersi un nodo virginale,

Un vento allora gonfia le vele,

E la barchetta rompe le onde,

Le getta da ambo le parti

E i giganti rimangono addietro.

[201]

Più forte abbrancano essi i remi,

Il sudore goccia dai loro occhi,

Si odono l’ira, il grido e le minaccie,

Cuoce la bile e divampa il furore.

E la sposa è pensierosa per lo sposo,

Le brilla l’occhio e le batte il cuore,

Pensa alle gioie delle nozze,

E le si gonfian le vene

E il sangue la inonda fortemente.

Domanda allo sposo, facendogli riverenza:

La tua barchetta può sopportare maggior vento?

Solidi e forti sono l’alberatura e le sarte?

Scioglie allora il secondo nodo sanguigno

E il vento incomincia da occidente

A sollevare i figli del mare (le onde),

Gonfia e tende le vele

E i fratelli rimangono molto addietro.

Bolle il sangue, la vendetta ha sete,

Ricorrono agli ultimi sforzi,

Si asciugano il sudore sanguigno dal volto,

Le mani si affrettano, i dorsi si piegano,

I pugni si irrigidiscono sul remo.

Poi diventan caldi e via corre la navicella

Rompendo i flutti dell’aperto mare.

Così vennero più vicini alla barchetta.

[202]

La sposa:

Sopporta la tua barchetta vento più gagliardo,

Sopporta dessa più forte bufera?

Scioglie allora il terzo nodo.

Anche Ilma Razza montò in collera

E il servo del dominatore del cielo.

Il vento del nord dal mezzo del cielo

Mandò la procella e piegò le antenne.

Qua e là ondeggia la vela,

Balza la barchetta e si piega sui fianchi.

Anche la sposa si corica e si rintana

Nel più profondo della navicella

E nasconde le scintille dei suoi occhi

Alla luce dell’aurora.

Sullo scoglio andarono i fratelli

Ambedue per cercar la sorella.

Il Sole li disciolse

E poi li indurì in due rupi.

Si vedono anche oggi a Vake.

Anche la loro cuprea navicella si mutò in rupe.

Sulle pelli d’orso e di renne

La sposa festeggiò le sue nozze,

Diventò piccola come gli altri uomini.

Con un’ascia tolta dalla sua cassa

Si fa la porta, si fa più larga

[203]

E s’ingrandiscono le camere.

Essa partorì i figli del Sole,

Essa partorì i figli di Kalla.

Quando l’ultimo finì in Svezia

L’ucciso, il celibe (Carlo XII),

Un altro ramo andò a Karjel,

Un altro ancora più al sud

Dietro la Danimarca e l’Iutland[27].

Il figlio di Pissa Passa

Pissa, capo dei villaggi del paese del sole,

Passa, la figlia del capo del paesi della notte,

Nelle loro nozze avevano giurato

Sulla pelle d’orso

Non splenderà una scintilla del secondo mondo

A colui, che rompe il giuramento;

Ma ecco che uno stalu toglie la vita all’uomo

E gli rapisce il suo tesoro come pure gli armenti.

La moglie prende con sè una parte del gregge

E via se ne fugge incinta.

Là partorisce un figlio.

Il figlio domanda: — Dove è mio padre?

[204]

— Mio figlio, tu non hai padre.

Il figlio ripete:

— Il francolino ha il suo maschio, il gallo di montagna la sua gallina,

La pernice delle nevi il suo compagno, la renna il suo renne,

L’orsa ha il suo orso e l’alce il suo maschio.

Anch’io non posso esser nato dalle pietre o dagli alberi!

Il fanciullo cresce d’anno in anno,

Diventa un uomo, va a caccia nel bosco,

Importuna sua madre: — Chi è mio padre?

Finalmente essa risponde:

— Tuo padre porta l’alce vivo dietro la porta,

Egli lo porta giù dal pascolo delle renne,

Lo porta giù colle scarpe di neve.

— Madre, madre, dimmi il nome di mio padre.

— Il padre porta il pellegrino del bosco (l’orso)

Che muggisce e brontola dietro la capanna. —

Il fanciullo indossa il proprio vestito e si reca alla casa dove si riunisce il popolo.

Se ne va di là e prende col laccio la madre dei boschi (l’orsa),

La muggente, la brontolona, che si agita e sbalza di qua e di là.

Egli la lascia muggire e brontolare e la trascina alla porta della capanna.

Egli vi entra:

— Mammina, mammina, fammi un pane.

La madre fa un pane e lo cuoce sui roventi carboni.

— Mammina, dammi il pane colla tua mano,

[205]

Cara madre, dammi la tua mano.

La madre gli porge la mano, il figlio

La stringe col caldo pane:

— Mammina, mammina, chi è mio padre?

— Pissa Passa, mio figlio.

— Dove andò egli?

— Il vecchio della nera montagna lo ha ucciso segretamente.

Ci prese gli armenti, ci prese il nascosto tesoro.

Già da lungo tempo io ti ho ammonito

Di non andare sugli alti monti splendenti,

Non sui pendii e sulle rive di Baikkala.

Il figlio dice:

Gli uomini hanno tenuto la riunione della giustizia,

Gli assistenti, i becchini

E l’araldo sono riuniti.

Mammuccia,

Dammi il bastone di guerra di mio padre,

Coprimi colla veste di guerra del padre e col suo elmo[28],

Colle sue scarpe e coi suoi guanti.

La madre:

Allora io rimango abbandonata nei miei vecchi giorni,

Nessuno si cura della mia vita, nessuno

Mi seppellisce, quando morta, nella corteccia di betula e nell’arena.

[206]

Il figlio benedice la madre, l’abbraccia e se ne va,

Entra nell’ultima capanna della nera montagna

E entrando dice:

— Andate e dite ai vostri capi del villaggio,

Che ora il capo dell’altro villaggio

È divenuto capo di questo.

Hures il servo tuona,

Hureskutje lancia lampi,

Ilmaratje, il più valente servo del dominatore del mondo,

Lancia i suoi colpi, e versa giù torrenti di acqua.

Un servo se ne va e racconta al vecchio:

— È venuto ora il capo dell’altro villaggio.

Il vecchio:

Invitate il capo dell’altro villaggio

Ad ospite di questo capo.

Quale figura ha egli?

— Egli è più alto di una testa che tutti gli altri,

Lo copre l’elmo e i suoi denti e i suoi occhi risplendono,

Ha il bastone di guerra in mano,

I guanti e la veste di guerra lo difendono,

Egli è largo di spalle, con forti gambe.

Il tamburo magico rumoreggia, l’araldo grida,

I tuoi e i suoi assistenti

[207]

Errano d’ambo i lati dei colli,

I seppellitori dei caduti stanno pronti.

Il vecchio:

Preparate il pranzo con un intiero vitello di renne,

Portatemi la mia camicia di ferro (o di cuoio),

Archi, freccie, aste e lancie. —

Il giovane viene e vede un cranio appuntato

Con serpenti velenosi avvinghiati,

Dal quale i fanciulli prendono il veleno per le freccie.

L’araldo grida il suo messaggio e dice:

— Io lo sfido, io lo sfido (alla lotta) sulla superficie delle acque.

(Non si risponde).

Io lo sfido, lo sfido a tuffarsi!

(Non si parla).

Io lo sfido, lo sfido al pugilato,

Io lo sfido, lo sfido alla lotta!

(Siccome nessuno risponde, dice il giovane):

Vecchio, vecchio, di chi è quel cranio?

— È il cranio di Pissa Passa.

L’araldo:

Io lo sfido, lo sfido al tiro dell’arco! —

Il vecchio tira una freccia fuori della finestra.

Essa non trapassò.

[208]

Il giovane la strappò e la gettò contro una pietra:

— Vecchio, vecchio,

Dove si spuntò la tua freccia?

— Contro i denti di Pissa Passa.

Il giovane:

Veramente, i suoi denti avevano scalfiture.

L’araldo:

Io lo sfido, lo sfido alla balestra. —

Il vecchio tira una balestra rovente col suo arco.

Il giovane l’abbatte colla sua lancia,

La prende, la batte contro una betula, poi la piega:

— Dove si piegò la tua balestra?

— Contro i denti di Pissa Passa.

L’araldo:

Lo sfido, lo sfido alla lotta colla lancia. —

Coll’arco da piede lancia il vecchio fuori della finestra

Una lancia avvelenata.

Il giovane abbatte la lancia volante col suo bastone di guerra,

La prende e la batte tra le pietre,

La piega, la rompe e dice:

— Padre, vecchietto, dove si ruppe la tua lancia?

— Contro i denti di Pissa Passa.

Il giovane:

Aha! l’orso è chiuso nella sua tana!

[209]

Il vecchio:

Dove escirò io, nipotino,

Dalla porta davanti o per quella di dietro?

— O babbuccio, vieni giù per la porta di dietro. —

Il vecchio sen viene armato,

Il giovane lo riceve col bastone di guerra,

Lo trascina a sè, prendendolo per le gote,

Preme le penne della camicia di guerra

Nel suo petto e le contorce.

Il vecchio:

Venite, venite in mio soccorso,

Ora lottano i capi dei due villaggi fra di loro.

Il servo più valente del dominatore del cielo

Lancia i suoi lampi contro la capanna e li getta sulle pietanze che vanno cuocendo

E ardono.

Il giovane:

Ora sarai tu cotto e lavato

Nel brodo delle renne di Pissa Passa! —

I servi vengono, l’uno colle legna,

L’altro coll’ascia, il terzo coll’ago,

Altri con altre cose.

Il figlio di Pissa Passa abbatte il vecchio,

[210]

Lo accarezza, poi lo spinge contro il suolo,

Lo batte e gli dice:

— Che cosa scegli tu, te ne vai da questo paese o diventi mio schiavo?

Dov’è il tesoro nascosto di Pissa Passa,

Dove sono i suoi armenti?

L’araldo:

Il lampo di Dio o annerisce il cuore

O rischiara le anime.

Che cosa sei tu, quando cessi di vivere,

Quando tu getti via il cucchiaio, quando tu muori?

Il vecchio:

Gli occhi infuocati dell’ombra di Pissa Passa

Scintillano come fuoco, mi bruciano, affascinano.

Egli mi si affaccia irato, egli m’impedisce la via per l’altro mondo.

Indarno io vorrei farlo sorgere colla vita, colle ossa,

Col sangue, coi tendini.

Il giovane:

Che cosa scegli tu, te ne vai da questo paese o diventi mio schiavo?

Il vecchio:

Dove è un dono d’espiazione, che soddisfi Pissa Passa,

Che mi conceda il suo perdono?

Un’azione compiuta è come una freccia tirata,

Chi può ammansare i morti?

[211]

L’araldo:

Dio solo può rimediare,

Quando egli ha lanciato il suo fulmine,

Quando ha dato i colori, quando ha rischiarato i falli,

Quando ha tutto arso, tutto riscaldato.

Egli solo lava, cancella, perdona, riunisce.

Egli solo è egli stesso, egli non è come io e tu,

Non è come tu ed io!

Egli solo rischiara e perdona

E volge tutto al meglio.

Ma si deve riceverlo con gioia,

Esso diviene il più prezioso tesoro,

Il desio più ardente del cuore.

Se tu non te ne curi, il fulmine ti annerirà,

Ti guasterà, t’incanterà, ti trascinerà dalla cattiva parte.

Le anime dell’altro mondo non hanno

Ossa o carne, eppure esistono davvero.

Esse non occupano spazio, le rupi non le arrestano,

L’acqua non le rattiene, non le affoga.

Esse sono come i pensieri e trapassano

La terra, il sole, la luna e le stelle.

Esse non hanno tempo, il tempo è passato dietro ad esse.

In sogno

Esse si mostrano a coloro

Che sono pazzi o allucinati.

Sono le anime sotterranee, che Ilmaracca ha risanato;

Sono le ombre infelici, che son divenute nere

(Che sono sudicie e impure),

Si vedono ora, buone e cattive,

[212]

Esse non prendono più alcun tempo, nè alcun spazio.

Alcune hanno indossato il vestito del cielo,

Quelle, che al contrario hanno messo il vestito al rovescio, son divenute brutte,

Esse sono sempre in lotta, incessantemente,

Esse non sono mai riscattate e congiunte.

Incessantemente son sempre le une contro le altre.

Il padre del cielo solo è egli stesso,

Egli non è come noi e voi, voi e noi,

Egli stesso governa il cielo,

Egli solo signoreggia sull’altro mondo.

Il vecchio:

Io vedo, egli può lavare i peccati

Può perdonarli e farli sparire,

Calmare il cuore e dare il riposo all’infelice.

Egli può temperare, può condurre alla concordia.

Io dunque me n’andrò,

Mi separerò dai tesori e dal loro possessore,

Il possessore può prendere da sè i suoi armenti.

Io mi alimenterò con un manipolo di essi

Al lato orientale delle alte rupi,

Nel paese dei monti e delle pietre,

Nei Monti Reppe, il ramo più alto dell’Ammart.

Io non domando altro

Che gli argini da salmone alle rive del Läna,

Ai luoghi di pesca dei monti del fagiano cedrone. —

Il figlio di Pissa Passa

Per mezzo del suo cane separò la metà degli armenti,

E qui morì il vecchio gigante.

[213]

Nella palude fra l’acqua e il fango fu egli sepolto,

I becchini conservarono le sue ossa.

Una parte della sua fortuna diede egli agli assistenti.

Il giovane:

La gente di casa del vecchio gli tenne dietro.

Il sangue non fu versato. —

Col cuore tranquillo rivolse egli la faccia ad occidente

A sua madre.

Egli aveva vinto la procella,

Riconciliato l’un coll’altro i morti.

Abbracciò sua madre, egli l’uomo eccellente

Del mezzodì, del nord, della casa di riunione del popolo.

E così egli rinnovò e innalzò

Le pareti e la casa del proprio padre.

La vergine del Sole

In un giorno splendido di sole un uomo pigro

Vide sotto un ammasso di rupi, che pendeva minaccioso,

Sedere la vergine del Sole.

Egli si avvicina a carpone adagio adagio e l’abbraccia.

La vergine del Sole dice:

— Sì, sì, io fui sorpresa.

Guarda però, tu o omiciattolo, guarda,

Lasciami stare.

Bada bene, va dietro di me e spingi gli armenti

[214]

Qualunque cosa tu ascolti, non guardare indietro. —

Innanzi va la vergine del Sole,

Dietro di lei cammina il gregge come guidato colle redini.

Egli allora ascolta dietro di sè terribili minaccie,

Lo si prende e lo si minaccia terribilmente,

Lo si schiaccierà e lo si pugnalerà,

Si tirerà dietro a lui; così egli ascolta

E si guarda addietro.

Nello stesso momento, in cui egli guardava all’indietro,

Sparisce la parte del gregge che stava più addietro.

La vergine del Sole dice:

— Spingi, spingi sempre gli armenti, gridando. —

Quando egli ode dietro a sè

Gonfia e le renne di fianco corrono;

— Va, va, spingile. —

Quand’ecco che dietro a lui scoppiò una procella.

Egli guardò di nuovo dietro a sè.

E allora si smarrì anche il centro dell’armento

E si cambiò in renne selvaggie,

Altrimenti sarebbero divenute proprietà di quell’uomo pigro e malvagio.

La vergine del Sole disse (con voce fioca):

— Ora, ora l’uomo ha peccato di nuovo. —

Mentre essi fabbricano la capanna o coprono il suolo di rami, essa così lo ammaestra:

— Copri perbene tutti i buchi,

In modo che non ne rimanga uno solo —

Ora egli pensa e dice fra sè:

Si deve chiuderli tutti esattamente e con molta cura.

Allora preparò la vergine del Sole

[215]

Un soffice e comodo letto.

Quando essi si svegliarono molto per tempo

Apparve il Sole attraverso un piccolo buco.

E la vergine del Sole disse:

— Ah! Io vedo gli occhi di nostro padre, di nostra madre; —

Ed essa fuggì via rapidamente,

Sparisce e dietro ad essa l’armento,

Le renne si mutano in dure pietre

E si sente raccapriccio nel guardarle.

L’uomo dalla grossa pelliccia o L’uomo stupido

Solevano i fanciulli, maschi e femmine,

Giuocare e cantare,

Saltellando correre e schiamazzare qua e là,

E lasciare le traccie dei loro piedi al margine delle sorgenti.

Lo Stalu preparò le sue trappole di ferro,

Le apprestò nell’acqua, le nascose nel fango.

Il vecchio lappone si accorse

Delle nascoste trappole del mangiatore degli uomini,

Si nascose nella sua stretta pelliccia,

Si pose nella trappola dell’orso.

Stalu visita le sue trappole:

— Aha, haha!

Il vecchio amico ha preso abbaglio,

Egli è morto qui. —

Lo stalu lo porta a casa e lo appicca

[216]

Al tetto sopra il fumo.

Il più giovane stalu dice:

— Vedi, vedi

Come egli piagnucola, com’egli grugnisce! —

L’altro (il maggiore) figlio:

— Tu stesso piagnucoli e grugnisci,

Non già questo dono di Dio. —

Il vecchio lappone pensa:

— Di Dio sa anch’egli qualche cosa. —

Stalu:

— Sì, sì, egli incomincia già a dimoiare. —

Dietro il colle egli spacca la legna per il truogolo,

La recide, taglia i rami, spacca e taglia,

La porta ad un truogolo presso la porta posteriore.

Al più vecchio figlio:

— Caro fanciullo, portami la scure (fuori dalla capanna). —

Il vecchio lappone porta via la scure.

Il più giovane stalu:

— Padre, ora egli guarda in alto, ora egli si muove,

Ora egli afferra anche la scure! —

Stalu

Si rallegra, canta e suona,

Egli non ode cosa alcuna, non osserva cosa alcuna, non sa cosa alcuna.

Il vecchio

Percuote (il fanciullo maggiore) sul capo e lo uccide.

Stalu

Trova che egli tentenna, canta ed aspetta.

Egli dice al figlio minore:

[217]

— Portami la scure, affrettati, affrettati! —

Il vecchio lappone

Spaccò anche a questo il cranio,

Ne prese fuori il cervello e

Recise il canale dell’aria.

Stalu (ascolta):

— Essi girano per tutti gli angoli

Dimenano teste ed occhi,

Io stesso voglio prendere la scure. —

Il vecchio

Aspetta con cura coll’ascia dietro la porta e il possu,

Aspetta e si muove qua e là.

Egli calò un fendente sul capo dello spaventoso,

Spaccò il largo cranio,

Strappò gli occhi e il naso,

Versò il sangue del divoratore degli uomini

E il sangue schifoso colorì il suolo.

(Il vecchio lappone porta fuori il caduto, lo fa in pezzi e li getta l’uno dopo l’altro a Ludac[29], che in quel frattempo è venuta a casa).

Ludac batte sul suolo qua e là.

Fiuta, annusa e si rallegra

Di ciò che entra nel possu.

Essa riprende la presa,

La batte colle mani e grida in collera:

— Gettami delle zampe di renne

[218]

E non dei piedi coperti di calze!

(Essa continua, mentre va mangiando la suppa preparata dal marito e dai figli):

Come è buona: però

Ha proprio il suo sapore!

(Il lappone prende gli occhi della donna, che giacciono sotto la porta, li arrostisce in una padella ed essa se n’accorge e domanda):

Che cosa scoppietta, crepita, sibila,

Che cosa fischia sui carboni,

Scoppia, scroscia, crocchia?

Guardate, o occhi miei,

Diventate chiari sotto la porta,

Diventate chiari, o miei occhi, o mie scintille!

Il lappone:

Ha tuffato la carne di tuo marito, i tuoi occhi nel grasso e se li ha mangiati.

Ludac:

Nello stomaco sono i miei occhi, o mio marito,

La mia piccola civetta, caro ragazzo, mio piccolo![30]

(L’uomo dalla grossa pelliccia, il lappone, se ne parte scherzando).

[219]

La bellezza della sposa

O sole, risplendi potente sul Lago di Orri!

Io vorrei salire sulle cime dei pini,

Sol ch’io sapessi di vedere il Lago di Orri,

E dove esso si nasconde sotto le eriche.

Io tagliai i rami,

Che qui crescono di nuovo,

Ed io taglierei tutti i ramoscelli,

Che portano buone gemme verdiccie.

Io seguirei il corso delle nubi,

Che si dirigono al lago di Orri

Se io vi potessi volare colle ali del corvo

Ma mi mancano le ali, le ali dell’anitra, per volar colà

Ed anche i piedi, i piedi dell’oca, i piedi della bella anatra,

Coi quali io mi dirigerei sempre a te.

Abbastanza a lungo hai tu aspettato,

Con lunghi giorni, i tuoi più bei giorni,

Il tuo occhio è simpatico, il tuo cuore soave.

Se anche tu volessi volarmi via

Ben presto ti raggiungerei.

Che cosa può esser più forte

Dei tendini e delle catene di ferro,

Che stringon forte?

Così ci allaccia il nostro capo (l’amore)

E congiunge tutti i nostri pensieri.

La volontà del fanciullo è volontà dello zefiro,

I pensieri del giovane sono lunghi pensieri.

[220]

Se io li volessi tutti ascoltare,

Smarrirei la mia strada.

Io ho preso una determinazione e la voglio seguire,

Ben lo so, così io trovo dinanzi a me la strada migliore.

Al Renne

O Kulnasaz, piccolo renne, caro piccolo renne, siamo veloci,

Corriamo, vogliamo essere qua e là,

Le paludi sono ancora lontane

E abbiamo quasi finite le nostre canzoni.

Vedi là, io ti amo, o Lago di Kaiga,

Ti saluto, o buon Lago di Kalloa,

Mi palpita già il cuore

Pensando al mio caro Lago Kaiga.

Su, su, o caro piccolo renne,

Vola, vola la tua corsa!

Che presto saremo al nostro porto

E ci rallegreremo del nostro lavoro.

Tosto io vedrò i miei cari.

Su, piccolo renne, vedi, vedi!

Piccolo Kulnasaz, non li vedi già

Là che si bagnano!

[221]

Il canto del Renne

La femmina del renne, il piccolo renne, il renne da tiro

Va errando per due, per tre strade,

Bela in varii luoghi e nel giovane bosco.

Dopochè egli è salito, si corica sulla cresta del monte.

Canto per i piccoli fanciulli

Cara formica, cara formica,

Vieni, vieni, tira, tira

Il fanciullo nel lago

Con redini di capelli,

Tira, tira.

In lappone suona così:

Joijuhtahta uhtje maanai piljeln

Korko graddnam, korko graddnam!

Potheh, potheh — keseh, keseh

Manav jaurai

Vuobtalabtjijn!

Vanah, vanah.

[222]

Il canto dell’Orso

Vecchio del monte, vecchio del monte,

Sorgi, sorgi!

Già sono le foglie grandi

Come orecchie di sorci.

Sui monti

Quale è il vento

Che ti è più aggradevole?

È forse il vento del sud, torbido e rugiadoso,

O è il fresco vento che scende dai monti del nord?

Il canto della Zanzara

La cavalletta domanda alla zanzara:

— Che cosa fai tu durante l’estate?

— Io canto; ma che cosa fai tu stessa

— Io ballo.

[223]

Il canto dello Scoiattolo

Possano vivere tutte le fanciulle,

E morire tutti i giovani! (perchè uccidono gli scoiattoli).

Il Lupo

Il lupo, il lupo

Attraverso nove boschi, colla coda tra le gambe

Corre egli — ha, ha!

Il canto del lamento

Con lamento io piango le mie renne sui monti,

Invano io vo spiandole di qui nella fredda casa.

Non mi è più concesso

Di correre sopra un colle e di scenderne alla corsa

Nè di vedere le renne macchiate di bianco.

Come posso io prosperare

Quando io non mungo più le mie renne,

E devo vivere del latte della vacca dalla lunga coda?

Ebbene, se questa è la mia sorte, io mi devo pur rassegnare

E non correr più sui monti dietro le renne.

[224]

La vita del lappone

Io affaticato lappone ed uomo errante

Sul faticoso calle di questa terra,

Devo pellegrinare per tutto il mondo

E così passare il mio tempo.

Il canto del rifiuto

Triste è il mio cuore, sì, pesante è il mio cuore,

Perchè mi hanno portato via la mia cara neve.

Io sospiro al cielo, dove entrambi c’incontreremo

Sebbene il mondo mi trovi triste e miserabile.

Io ho scelto una fanciulla, e me la tengo cara,

Essa possiede il mio cuoricino, finchè avrò vita.

Finchè rimanga caldo il mio sangue e mi duri la vita

Il mio cuore arde nella triste era fino all’ultimo istante.

L’uccellino canta gioioso alla sua compagna,

Ma quando la palla le rapisce il suo amico,

Allora vede il suo cuore nella tristezza e nel cordoglio.

Io ti ho dato una coppa piena d’amore,

Ma il tempo e il mondo me l’hanno vuotata.

[225]

Ora essa va circolando per tutta la terra,

Ma alla fine giungerà nelle tue mani.

Vi sono alcuni falsi amici

Che hanno lacerata la nostra amicizia.

Essi ci avevano vinto

E così avevano ucciso il nostro amore.

Un altro canto dell’Orso

Con tutta l’attenzione io sono andato cercando (in cerca dell’orso).

Sia lodato il mio Dio,

Che ci hai dato

L’orso senza difetti (o generoso).

Dopochè lo hanno preso, si canta:

Quando abbiamo tagliate le membra dell’orso,

Grida il capo, grida il capo.

Lo possiamo noi vincere,

Cacciare o sbranarlo?

Lo sparviero (l’uccisore dell’orso) dà

Alla fine due o tre colpi;

Non muori tu, o mio caro piccolo vecchio?

[226]

Andate in fretta, o uomini,

A quel colle col bosco.

Le vostre cinghie, le vostre corregge,

Fermiamo colle catene la fanciulla (l’orsa)

In modo ch’io possa di nuovo andare ai monti e alle foreste.

Il canto della richiesta

L’amante, che offre i doni:

Sei tu pronta, o fanciulla, a prender questo

Come un principio del nostro amore?

I nostri genitori ci sono favorevoli.

La fanciulla:

Benvenuto! se il destino vuole

Che io debba seguir la tua strada

E aver cura dei tuoi armenti di renne.

L’amante:

Prendi dunque i miei doni

Come pegno della nostra futura unione

Se così è deciso

Che noi dobbiamo esser congiunti.

[227]

La fanciulla:

E se noi non ci riuniremo

Riprendi colla stessa mano

Questi doni.

L’amante:

Vediamo ora, quanto tempo

Durerà il nostro amore.

Pensa bene, o fanciullina,

Se tu mi potrai aiutare

Ad aver cura delle mie renne.

La fanciulla (ai circostanti):

Abbiate le mie grazie, o congiunti

Del giovane, anche questa volta!

Quando io mi sarò decisa

Sarà di nuovo e per l’ultima volta

(festeggeremo il matrimonio).

Povero sciocco!

Un lappone pastore va da un lappone pescatore, di cui non aveva mai veduto gli ordigni. Egli dice:

Ha, ha, di quest’uomo

Il legno-spauracchio è troppo lungo

E quando è mosso, passa attraverso il camino della capanna,

[228]

Mai ho veduto niente di simile.

Povero sciocco,

Esso è il legno che spaventa i pesci,

Fa rumore e picchia attraverso la porta della rete.

Due volte

Quante volte suona la campana della domenica

Nei vostri paesi? —

Tre volte.

Quante volte ciancia

Il povero predicatore nei vostri paesi? —

Due volte.

Dai manoscritti di Castren

Gente cattiva fa schiamazzo

E va gridando con voce odiosa.

Tacete qui nel nostro paese,

Non dovete far molti passi

Su queste travi.

I vermi della terra

Presto vi scaveranno i vostri luoghi (occhi?)

E gli animali della foresta vi porteranno via

[229]

Se voi incominciate

Ad aprire la porta della nostra capanna.

Lascia chiusa,

O straniero, la porta.

Noi siamo gli abitanti di questo paese,

Voi siete abitanti di.....?

Erranti verso......?

Noi vi odiamo:

Voi distruggete e scompigliate

I nostri luoghi di caccia

E noi abbiamo poco bottino

Per cagion vostra.

Voi altri avete molti bambini rapiti,

Noi abbiamo molte abitazioni.

Ora voglio io andare errante,

Andate anche voi

In un altro luogo. Se voi venite

In vicinanza di una comoda pietra,

Mettetevi a dormire.

Allora io vedrò

Se voi dormite,

Come le pietre scivolano davanti a me,

Come le renne corrono verso di me.

Non movetevi prima

Che queste pietre

Vi tocchino

E allora movetevi per vedere.

Io ho già portato molte renne

E ho legate loro solidamente le zampe.

Esse non posson più

[230]

Correr via dinanzi a voi.

Prendete una grossa pietra

E una bianca pietra.

Vi si portano degli orsi,

Uccidete questi.

Noi abbiamo veduto un gran mucchio (di uomini)

Ed ora ci si prendono ai nostri Dei

I prodotti della natura, il denaro,

L’oro e l’argento.

Egli dà agli altri di queste cose,

Noi lo abbiamo onorato (il Dio)

E ciò non gli ha procurato alcun vantaggio.

Noi raduniamo

Corna di renne e ossa di orsi,

Ed egli?

Ora noi possiamo

Andare in collera col nostro Dio,

Dacchè egli ci disprezza:

Noi portiamo via le corna.

Noi lo abbiamo unto

Col grasso d’orso,

Col grasso di renna.

Andiamo lontano

E cerchiamo un Dio buono,

Finchè noi abbiamo trovato un Dio che ci dia caccia,

[231]

Che noi possiamo servire,

Che noi possiamo onorare.

Là noi andremo ad abitare e ricercheremo

Una pietra (per il nostro Dio),

Là restiamo noi un istante

E dormiamo per vedere

Come sia fatto quel luogo,

Se là noi possiamo

Innalzare un Dio.

Lasciateci dormire un istante;

E se essi di nuovo si avvicinassero a noi

Noi prenderemo pietre nelle mani,

Noi tireremo coll’arco buono,

Noi tireremo colle freccie di osso,

Ciascun di noi con quanta fretta può,

E così noi ci guadagneremo un luogo di caccia.

I tre canti seguenti furono raccolti da Fellmann durante il suo soggiorno a Utsjoki dal 1819 al 1833.

Del Rombo

Il rombo nuota

Lungo il fondo del mare;

È un pesce prezioso

Grande e potente.

[232]

Quando esso prende l’amo

Appena può

Un uomo robusto

Tirarlo nella barca.

Del Salmone

Il salmone nuota

Lungo il fondo dell’acqua,

Il potente pesce,

Il prezioso pesce,

Che si porta innanzi

Anche se il fiume

Penetrasse attraverso la terra.

Così egli si porta sempre

Alla punta (sorgente) del fiume;

Egli diventa così nero

E si cambia per modo

Che mai più.

Egli mangia

Non una sola volta colla più grande fame.

Egli ritorna

In giù per la corrente

Donde egli è partito,

Nell’ampio mare

Dove sono molti salmoni,

E di nuovo diviene

[233]

Così bianco

Come era stato innanzi.

Quando egli allora esce dal mare,

Quando egli incomincia a mangiar le aringhe,

Diventa grasso di nuovo,

E appunto così

Come era stato prima.

Canto del Lupo

Quando il lupo è satollo, egli canta: voi voi, la la,

Lu lu, fam fam, huo huo.

Quando egli si pasce di carne di renna, grida egli:

Huo huo, vuva vuva.

Digiuno di nuovo, incomincia a cantare:

Vuoa vuoa.

E quando ha finito, incomincia a correre

Lungo i boschi.

La volpe segue le orme del lupo

E mangia ciò che trova.

E incomincia a cantare:

Uva uva.

Questa è la sua melodia,

Quando ha mangiato abbastanza;

Questo è il suo ringraziamento,

Quando ha riempito lo stomaco

Coll’aiuto del suo sacro fratello.

[234]

Anche la volpe polare segue

In simile maniera le orme del lupo,

Essa è molto sciocca.

La volpe polare ha piccoli occhi

E larga bocca, mangia anch’essa come l’altra.

Poi corre via

E si pone a dormire.

La punta della sua coda è nera

E puzza orribilmente.

Anche il falco è un nemico,

Che sparge le penne del francolino,

Lo afferra e lo uccide,

Mangia e incomincia poi a volare

Gridando: Pir pir.

Il gufo è un nemico

Dei piccoli animali;

Fra le fessure delle rupi grida:

Tsir, tsir, tsir.

Sono i lemming

Quelli che il gufo afferra sulla terra.

Li appende ai rami della betula

E grida dalla cima

Il gufo dagli occhi rotondi.

Anche l’aquila è un nemico,

Che porta via le giovani renne, gli agnelli e le lepri

[235]

Ed anche i piccini degli uccelli acquatici,

E vola anch’essa gridando:

Harm harm harm.

Anche il ghiottone è un animale

Che segue le traccie del lupo,

Manda un cattivo odore ed è nero.

Quando ha trovato una carogna

Se ne riempie lo stomaco e va a spasso

Come un gelato norvegiano.

Poi dà del vento e incomincia a gridare:

Irru irru.

Il mio cuore ardente

Avanti tu vai pellegrinando,

Ma i tuoi pensieri si volgono addietro:

Dove è rimasta,

Dove è rimasta

La mia sposa?

Lontana se n’è andato

Il mio cuore ardente!

Il canto del gemente Kaskias

Torajas, il grande mago,

Torajas, il celebre mago,

[236]

Che rapì dal nostro paese il bottino

E ci lasciò la fame,

Per cui noi non mangiamo più

E non abbiamo più alcuna preda (di caccia e di pesca)

Egli ci prese tutto il nostro bottino

E se lo portò al paese di Kitteli[31].

Ora noi non prendiam più pesci nell’acqua,

Non più renne nei boschi,

Nessuna preda mai più:

Poichè vuote sono le alture del monte,

Vuoti i boschi

E vuote anche le acque.

L’uomo cattivo portò

La fame nella nostra bocca,

E fu così perverso,

Che tutte le nostre prede

Portò via dal nostro paese.

Non è ancor nato l’uomo,

Nato nella nostra terra,

Che le prede di nuovo

Porti al nostro paese? —

Ma ecco che già le porta,

Il Dio ci riporta la preda

Nelle acque e nei boschi.

Grazie sien date al protettore della terra,

[237]

Grazie al fondatore della terra,

Grazie allo spirito protettore

Molte migliaia di volte,

Perchè Dio ci ha fatto grazia di nuovo,

E ci ha riportato la preda.

Onore e grazie insigni

A te, o sovrano Iddio,

Tu, che nell’acqua e sulla terra

Riportasti la preda,

Benchè l’uomo malvagio

Portasse via la preda

Il Dio sovrano la riportò

Di nuovo a noi.

Al buon Dio sieno grazie

Molte migliaia di volte,

A colui che portò la preda.

Il cattivo uomo fu colui

Che dalle acque, che dalla terra

Ci rapì la preda.

Torajas, il cattivo, il disutile uomo,

Che il bottino portò via dal nostro paese

E ci portò la fame.

Torajas, l’uomo famoso

Ci portò la fame.

Egli mi picchiò mortalmente

E sperò ch’io fossi morto.

Ma io non morii

E sono ancora in vita,

Io non morii,

Ma vivo ancora,

[238]

In Dio io vivo ancora.

In Dio è la mia vita,

In Dio io dimoro

Benchè l’uomo malvagio sperasse

Che io fossi morto.

Egli mi lanciò nell’acqua,

Egli mi gettò nel fiume.

Il luccio mi trovò,

Ma io mi posi sotto il suo fegato.

Il luccio mi prese in sua custodia,

Egli mi pose sotto il suo fegato,

Dove ci rimasi per un anno.

Dopo però pose

L’uomo malvagio le sue reti nell’acqua,

Egli mi prese

Ed io potei abitare una casa

E in quella casa vissi tre anni.

Dopo di ciò io andai a.....?

Io venni a.....?

Quando io giunsi a casa

L’uomo malvagio mi uccise.

Egli fece una cassa

E mi pose dentro

Ed io rimasi

Tre anni nella cassa.

S’incominciò allora

A condurmi al cimitero.

E tutti vennero,

Anche il prete era presente,

Io però parlai: — Non portatemi là,

[239]

Io non sono morto ancora

Benchè mi abbiano desiderato la morte. —

E tutta la gente disse,

Così come il prete:

— Perchè un uomo vivo

È stato messo nella bara? —

Io risposi: — Non sono morto,

Benchè mi abbian augurata la morte.

L’uomo malvagio si rallegrò

Che io fossi morto,

Ma benchè egli sperasse

Ch’io fossi morto,

Io non lo sono

Ed io vivo ancora,

Ancora, ancora.

Ah, se mio figlio venisse qui,

Io non posso qui rimanere! —

E il figlio venne subito,

Venne volando come un gallo di montagna.

Altri sarebbero venuti

E avrebbero cotto mio figlio come un gallo di montagna,

Ma egli disse:

— Se io come un.....? fossi cotto

Io non sarei morto. —

E il padre si adirò assai,

Ma il figlio si trasformò in un altro uomo.

[240]

Il padre (propriamente il vecchio) disse:

Mio figlio, perchè vieni tu

In questa figura a me? —

Il figlio replicò:

— Se tu sei in collera,

Quando io ti ho irritato,

Io me ne ritorno

Volando per la mia strada. —

Egli incominciò a volar via,

Ma il padre volò subito

Dietro a lui in forma di un’anitra.

Riportò il suo figlio indietro,

E allora sedettero entrambi sulla terra.

Il padre:

Non venirmi innanzi in figura d’uccello.

Il figlio:

Io non sapeva, mio padre,

Che tu mi avresti fatto cuocere. —

E mentre essi così se la discorrevano fra di loro,

Si diedero a leticare

E ne nacque una discordia.

Mentre essi così disputavano

Il figlio si pose sopra un ramo d’albero

E di là parlò così:

— Tu ti sei dunque adirato con me, o padre?

Dacchè tu sei tanto in collera con me,

[241]

Io non ritorno più a te,

Davvero, io non ritorno più a te.

Il padre:

Chi occuperà il tuo posto,

Mio figlio, se te ne vai?

Il figlio:

Si occupi o no il mio posto,

Io non ritorno più,

Giammai,

Giammai in questo mondo

Ritornerò io a te.

E così volò via il famoso figlio del mago

E se n’andò,

E il padre rimase solo.

Perciò egli si adirò contro l’altro uomo,

E l’uomo malvagio

Portò via tutte le prede,

Per cui noi non abbiamo più pesci nell’acqua,

Non più renne nei boschi,

Nessuna preda di sorta alcuna.

[242]

Il Donner nel darci il canto seguente, dice di aver omesso 160 versi, che avevano poco interesse. È una contesa fra alcuni coloni, che vogliono occupare un paese e l’antico possessore che è un mago. Le idee pagane vi dominano come nel canto precedente. Per essere un vero mago, bisogna innanzi tutto aver la forza di potersi trasformare in un animale.

Il ladro:

Il mio Dio ora se ne è andato pellegrinando,

Io ho preso i frutti della terra,

Io ho raccolto l’erba e i frutti,

Io mi son preso legno e pietre;

Io non ho preso cosa alcuna che ad altri appartenga,

Io ho preso solo sempre dei frutti della terra.

Eppure un uomo venne a me

E disse che io sono un ladro.

Il mago:

Tu non conosci i costumi del paese,

Tu non sai che io son qui.

Guarda le erbe e fa attenzione,

Guarda i segni sugli alberi,

Guarda anche l’erba in un’altra maniera.

[243]

Il ladro:

Qual uomo singolare sei tu,

Non sei tu come gli altri uomini?

O sei tu un Dio,

Hai tu creato l’erba,

Hai tu fatto gli alberi?

Non sei tu polvere della terra?

Tu strisci qual verme com’io faccio.

L’erba non è tua,

Le piante, le pietre non son nostre.

Sii padrone delle cose tue.

Buono è ciò che è buono,

Ed io so ciò che tu sei

Sulla terra, o nero mago.

Rimani dunque sulla tua proprietà,

Tienti l’erba, che tu hai piantato.

Qui il mago manifesta il desiderio di rimanere tranquillo sulla sua terra e fa delle minaccie, dicendo di essere un mago, a cui ubbidiscono anche le malattie. Il ladro allora gli tiene un lungo discorso, nel quale gli dice fra le altre cose: O povero mago, rendi i deboli debolissimi, ma non me. In figura di uno scoiattolo, io posso correre su e giù per gli alberi e tu non mi puoi ammazzare. Io faccio cadere un albero sopra di te e tu rimani preso, o mago; mentre io, che sono il ladro, divento padrone dell’erba e delle piante. Povero uomo, non farti un Dio sulla terra; nei nostri canti tu [244] non figuri che come un falso Dio. Tu mi tieni per un ladro; ebbene il ladro ti cambierà in fumo(?). Allora il canto continua:

Il ladro e il mago lottano,

Essi sen vanno

Per fiumi e per laghi,

Essi si arrampicano sugli alberi o sulle roccie.

I vecchi hanno cantato

I fatti singolari del mago.

Il tempo viene, il tempo passa,

I maghi sono seduttori,

Essi allacciano insieme ricchi battezzati?

Colle loro cattive azioni molestano,

Nel tempo opportuno tacciono;

Nel tempo di discorrere l’uno dice:

Vieni anche tu vicino.

L’altro se ne va, ritorna,

Ma non può far nulla,

Vien deriso come un prigioniero,

Le sue dita sono diritte, immobili.

Il ladro allora gli dice motteggiando, che ora può egli prendersi l’erba, gli alberi e le pietre, dacchè egli se n’è dichiarato proprietario. Il mago replica:

Rimani, rimani tu stesso proprietario,

O ladro, dacchè sei divenuto padrone

Di questi alberi, di queste pietre, di questa vita;

Ma tu però allontanati,

[245]

Vanne, donde sei venuto.

. . . . . . . . . . . . . . . .

Io sono, io sono sempre al disopra di te,

Io vado, io prendo, io depongo,

Io getto, io ti opprimo.

Il ladro:

Tu ti affatichi indarno, o povero mago.

Il tamburo magico

Questo (tamburo) gli eroi di un tempo

Gli estinti padri

Hanno forse battuto,

Quando essi spaurivano le renne.

Da lontani paesi portarono essi

Le renne a questo colle,

E vennero renne bianche

Ed anche di nere come la pece.

Qui forse hanno grugnito le renne,

Qui hanno sbuffato.

Gli uomini si sono curvati (per mungerle),

Qui han risuonato i tiri del fucile.

Qui si sono ammazzate

Grandi e grasse renne femmine,

Qui si è fatto cuocere il grasso

E se ne son fatte anche salciccie.

[246]

A chiarire ancor meglio la psicologia dei nostri lapponi, aggiungerò alcuni dei loro proverbii e dei loro indovinelli.

Proverbii lapponi (Sadnevajasak)

Adde bädnagi ja gula baha sanid. — Dà al cane e udrai cattive parole.

Buöreb lä cagar giedast, go buojde mäcest. — Meglio è una pellicola (il magro) in mano, che il grasso nel bosco.

Buöreb lä bitta njalmest, go havve oajvest. — Meglio è una screpolatura in bocca, che una ferita al capo.

Buöreb lä jode, go oro. — Meglio è andare che stare.

Dam olbmast läk ämbo juonak go suonak. — Quest’uomo ha più intrighi che tendini.

Dat, gäst gukkek läk dolgek, allagassi girda. — Chi ha lunghe penne, vola alto.

Galle gaddest visaj, go avest vahag sadda. — È facile avere sapienza sulla riva, quando in mare succede una disgrazia.

Garranasa bäsest matta gavdnujuvout majda njufcamoune. — Nel nido del corvo si possono avere anche uova di cigno.

Go ciegnalis lä caue, de lä rukkas, bodne. — Quando l’acqua è profonda, il fondo è limaccioso.

[247]

Havske guojbme vaned matke. — Un aggradevole compagno accorcia la via.

I goarpa goarpa ealmi cuokko. — Una cornacchia non becca gli occhi di un’altra.

I läk jakke jage viellja. — Un anno non è fratello dell’altro.

I sat häppad niära gaske. — La vergogna non morde più la propria guancia?

I sat oarre-gazza galloi baste. — L’unghia di uno scoiattolo non ferisce più la sua fronte. (Egli è fuori di sè per la gioia o l’affanno).

I bäjve nu gukke, atte igja i boade. — Per quanto lungo sia il giorno, viene però la notte.

Ik galga calmetes gaope dakkat. — Tu non devi comperare ad occhi chiusi.

Loge visasa äi nakas sanigujm ovta jalla sabmelazain. — Dieci sapienti non possono competerla a parole con uno stupido lappone.

Oapes bahha lä buöreb, go amas buörre. — Un cattivo amico è meglio che un buono sconosciuto.

Ovce visasa äi buvte buoddot ovta jalla. — Nove saggi non possono chiudere la bocca ad uno stolto.

Ai läk buok vielljak ovta ädne cizid njammam. — Non tutti i fratelli hanno succhiato il petto della stessa madre.

[248]

Indovinelli (Arvadusar)

Che cosa è più alto di tutti i monti e più basso dell’erica? Un viottolo.

Va sempre errando con un piccolo carico sulle spalle e non è mai stanco? La rôcca.

Prima che il padre sia mezzo pronto, il figlio è già nel bosco? Il fumo.

Di giorno in prigione, di notte in libertà? Le dita dei piedi.

Batte notte o giorno, ma non riceve spellature? Una campana, la campana del renne.

Volto all’insù, vuoto, volto all’ingiù, pieno? Il berretto.

Chi è il più saggio di questo mondo? La stadera.

Sta sulla cima colla radice insù, o colla cima ingiù e la radice insù? La coda della vacca.

Piede di pietra, fianchi di refe e testa di legno? La rete.

Il morto, che tira fuori i vivi dal bosco? Il pettine.

Una vergine, che siede sull’orlo della fontana col cappello sul capo? L’angelica (non ancora sbocciata).

[249]

Senza copertura e senza suolo, ma pure pieno di carne fresca? Il ditale.

Va di giorno, va di notte, ma non trova mai la porta? Un orologio.

Che cosa è, che entra in un buco, ma ad un tratto si mostra a tre buchi? Un uomo, che indossa un vestito lappone.

Che cosa può stare in una tana di sorcio e non può voltarsi in una stalla di bue? Un bastone.

Che cosa è che va al fiume per lavarsi e porta le viscere a casa? Un secchio.

Qual’è la creatura che sta più vicina all’uomo? Il pidocchio.

Erra nel bosco e nel bosco perde la coda? Un ago.

Mangia colla bocca e manda fuori colla nuca? La pialla.

Quattro sorelle guardano in un buco? Le punte delle stanghe della tenda.

Tu lo vedi, ma non lo puoi prendere? Il fumo.

Uno che guarda all’ingiù, mentre l’acqua va insù del colle? Un cavallo, che beve.

Un uomo batte, cadono le pellicole e nulla si ode? La neve.

Il davanti come una botticella, il mezzo come una tinozza, il didietro come una granata? Il cavallo.

Un uncino all’insù, un uncino all’ingiù e una piegatura nel mezzo? Gli uncini di ferro coi quali si appendono le pentole.

Un corvo marino che vola sul mare e dalle cui ali sgocciola il sangue? Una barca in cui si rema.

[250]

Un cavallo nero trotta giorno e notte, ma i suoi zoccoli non si muovono mai? Un fiume.

Un uomo di cent’anni e colla testa di una notte? Un tronco d’albero, sul quale è deposta neve fresca.

Piccolo come un uovo ma è impossibile vedervi il fondo? Il cuore dell’uomo.

Appena più grosso che il filo di una rete di salmoni, ma la luce del giorno non lo vede mai? Il midollo degli alberi.

Chiuderemo quest’antologia lapponica, dando alcune novelline tolte dal Frijs[32].

[252]

Il Gigante che aveva nascosta la sua vita nell’uovo di una Gallina (Da Utszok)

Una donna aveva un marito, che durante sette anni era stato in guerra con un gigante. Quella donna piaceva al gigante, il quale avrebbe volentieri levato di mezzo il marito per prendere la moglie per sè. Dopo sette anni riuscì finalmente al gigante di uccidere l’uomo. Ma questi aveva un figlio. Quando il figlio fu cresciuto, egli pensò al modo di vendicarsi del gigante, che aveva ucciso il suo padre e sposato la sua madre. Ma il giovane non poteva uccidere il gigante, qualunque cosa tentasse e facesse riesciva vana. Pareva proprio che non vi fosse vita nel gigante.

— Cara mamma — disse il ragazzo un giorno — sai tu forse dove il gigante nasconde la sua vita?

La madre non ne sapeva nulla, ma promise di domandarlo al gigante; ed un giorno che questi era di buon umore, gli domandò dove fosse la sua vita.

— Perchè mi chiedi ciò? — rispose il gigante.

— Perchè — disse la donna — se tu o io siamo in qualche pericolo, sarà una consolazione di sapere che la tua vita è ben difesa!

Il gigante, che non aveva nessun sospetto, fece il seguente racconto alla moglie:

[253]

— In mezzo ad un mare di fuoco vi è un’isola, sull’isola vi è un barile, nel barile vi è una pecora, nella pecora vi è una gallina, nella gallina vi è un uovo e nell’uovo sta la mia vita!

Il giorno seguente il ragazzo tornò dalla madre e domandò:

— Cara mamma, hai potuto sapere dove il gigante abbia nascosto la sua vita?

— Sì, mio caro figlio — rispose la madre — egli mi ha raccontato, che la sua vita si trova nascosta lungi di qua. In mezzo ad un mare di fuoco vi è un’isola, nell’isola vi è un barile, nel barile vi è una pecora, nella pecora vi è una gallina, nella gallina vi è un uovo e nell’uovo della gallina sta nascosta la vita del gigante.

— Allora — disse il figlio — io debbo cercarmi dei servitori, coi quali possa traversare il mare di fuoco!

Egli noleggiò un orso, un lupo, un falco ed un ymmer (un grande uccello di mare) e con questi partì. Egli stesso andò in mezzo al fuoco seduto sotto una tenda di ferro; prese con sè sotto la tenda il falco e l’ymmer, perchè non si bruciassero; ma fece remare l’orso ed il lupo.

Di lì viene che l’orso ha i peli bruno scuro, e che il lupo ha sul manto delle macchie brune; perchè entrambi hanno fatto un viaggio in mezzo ad un mare infuocato, le cui onde bruciavano come la fiamma.

Così arrivarono all’isola dove doveva essere la vita del gigante. Quando furono giunti all’isola ed ebbero [254] trovato il barile, l’orso gli diede una zampata e lo sfondò. Dal barile saltò fuori una pecora. Ma il lupo inseguì la pecora, l’afferrò e la sbranò. Dalla pecora volò fuori una gallina. Il falco l’inseguì, l’afferrò cogli artigli e la fece a pezzi. Nella gallina vi era un uovo e l’uovo cadde nel mare ed affondò. L’ymmer volò e tuffò in cerca dell’uovo. La prima volta che tuffò, rimase molto tempo sotto, ma non potendo stare tanto tempo senza respirare ritornò alla superfice. Dopo aver ripreso fiato, si tuffò di nuovo, e rimase sotto più della prima volta, ma pure non trovò l’uovo. Tuffò per la terza volta e rimase sott’acqua più delle due volte precedenti e questa volta trovò l’uovo nel fondo del mare. Quando il giovane vide che l’ymmer aveva l’uovo nel suo becco fu pieno di gioia. L’ymmer portò l’uovo al giovane, questi raccolse delle legna e fece un gran fuoco sull’isola. Mise l’uovo in mezzo al fuoco per bruciarlo. Quando il fuoco fu ben acceso, egli tornò indietro. Egli aveva ottenuto quello per cui aveva intrapreso il viaggio. Tostochè fu giunto alla spiaggia dalla quale era partito, corse in casa, ed allora vide che il gigante stava bruciando come l’uovo sull’isola. La madre sua fu essa pure contenta, vedendo tornare il suo figlio dalla pericolosa spedizione.

— Grazie, caro figlio, perchè hai trionfato della vita del gigante!

Vi era ancora un poco di vita nel gigante, mentre la madre ed il figlio discorrevano insieme.

[255]

— Che follia fu la mia — esclamò il gigante — di lasciarmi indurre a raccontare il segreto della mia vita a quella malvagia donna!

Allora il gigante afferrò il suo tubo di ferro (col quale soleva succhiare il sangue della gente), ma la donna ne aveva messo una estremità sul fuoco. Egli allora aspirò fuoco e cenere e quindi bruciò di dentro come di fuori e tutte le parti del suo corpo, che poterono bruciare, vennero distrutte dal fuoco. Finalmente il fuoco si spense, e col fuoco si spense la vita del gigante.

[256]

La donna del mare (Avfruva) (Da Naessebegy)

Una bella notte di luna due fratelli andavano verso la spiaggia ad aspettare una volpe, che soleva andar lungo la spiaggia a mangiar pesci. Mentre stavano là seduti venne fuori dal mare una Havfrue (Sirena?) e sedette sopra uno scoglio poco distante dalla spiaggia. Il più giovane dei fratelli si preparò a tirarle, ma il maggiore lo impedì dicendo:

— Non tirare, potrebbe succederci disgrazia, se tu lo facessi.

Frattanto l’Havfrue sedeva sulla pietra, scioglieva i suoi lunghi capelli e li pettinava.

Il fratello più giovane volle di nuovo tirare, ma il maggiore lo sconsigliò, dicendo:

— A cosa pensi, non puoi lasciarla in pace: essa non ci fa nessun male, perchè vorresti tirarle?

Ma il giovane non si curò di quello che gli diceva il maggiore, egli alzò il cane e prese di mira la Havfrue.

Il maggiore vedendo ciò gridò:

— Guarda te, Havfrue, tu sei in pericolo!

Nel medesimo momento l’Havfrue saltò in mare, ma tornò fuori un po’ più distante e gridò al fratello maggiore, che l’aveva salvata:

[257]

— Vieni qui domani a quest’ora, che tu non te ne pentirai.

I due fratelli tornarono a casa, ma la sera seguente il maggiore escì solo e sedè là dove era seduto la sera avanti. Non era molto che stava là, quando giunse una volpe nera ed egli la uccise. Tosto dopo venne anche l’Havfrue dal mare, si sedette sul medesimo scoglio e gridò al giovane di venire anche esso.

— Non hai da temer nulla — aggiunse — non ti farò alcun male!

Il giovane fece come gli veniva comandato.

— Sediti ora sulle mie spalle — disse l’Havfrue — e nascondi il naso e la bocca sotto i miei capelli, affinchè tu non venga soffocato, mentre ti condurrò attraverso alla profondità del mare alla dimora di mio padre.

Il giovane fece così. Allora l’Havfrue tuffò nel mare col giovane, e quando furono giunti al fondo del mare, essa prese un’àncora e la diede al giovane e disse:

— Quando saremo arrivati nella casa di mio padre, questi vorrà provare la tua forza, ma egli è cieco e per questo non gli devi dare la mano, ma gli devi stendere l’àncora.

Essi arrivarono al luogo ove abitava l’Havfrue e lì non vi era nè l’acqua, nè buio; la luce vi era chiara come sulla terra e l’acqua stava al disopra di loro come una vôlta. Quando il giovane stese l’àncora e disse buon giorno, il padre dell’Havfrue la strinse con tanta forza che le branche si piegarono. Il padre e la figlia [258] dettero al giovane un monte di argento e l’Havfrue vi aggiunse ancora una gran coppa d’oro, che una volta era stata sopra la tavola di un re. Essi quindi tornarono nel modo stesso che erano venuti fino al punto da dove erano partiti.

Il giovane diventò un uomo considerato ed ebbe sempre fortuna sul mare; il fratello minore che aveva voluto tirare all’Havfrue, appassì come un albero bacato. Tutto quello che intraprendeva e faceva gli riescì male e non ebbe più alcuna fortuna sulla terra.

[259]

Il ragazzo povero, il diavolo e la città d’oro (Da Karasjok)

Vi erano una volta un uomo povero ed un uomo ricco, che erano vicini; l’uomo povero era molto indebitato col ricco vicino. Un giorno andavano fuori entrambi in barca per pescare. Il ricco fu fortunato; in poco tempo riempì la sua barca di pesci e ritornò alla spiaggia. L’uomo povero rimase sul lago, ma non potè prendere un solo pesce; finalmente dovette tornare indietro esso pure, ma mentre remava, la barca incagliò e nello stesso momento sentì una voce sotto la barca che diceva: «Se tu mi prometti quello che la tua moglie porta sotto il cuore, diverrai ricco come il tuo vicino.» L’uomo lo promise. «Getta la lenza» disse di nuovo la voce. Così fece e tosto sentì mordere il pesce. Era molto pesante, ed a stento potè tirar su il pesce; ma quando l’ebbe avuto nella barca, escirono fuori dalla sua bocca una quantità di monete d’oro. L’uomo gettò di nuovo la lenza e prese subito un altro pesce. Da questo non escirono monete d’oro, ma in poche ore ebbe la barca piena di pesci, ed allora se ne tornò a casa. Quando entrò, vide la sua casa piena di oggetti di valore. Egli domandò alla moglie donde tuttociò era venuto, ma essa non ne sapeva nulla. Essa aveva dormito e quando si era svegliata aveva visto tutte quelle cose. L’uomo andò subito dal suo vicino e gli pagò in una volta [260] tutto il suo debito. L’uomo ricco ebbe paura e pensò che quei denari dovevano essergli stati rubati. Egli cercò in tutti i suoi nascondigli, ma trovò che nulla gli mancava. Quando l’uomo tornò dalla sua moglie, questa gli disse che era incinta. L’uomo non lo sapeva, ma la cosa era così, e quando venne il tempo, venne al mondo il suo primogenito. Quando il ragazzo ebbe otto anni, fu mandato a scuola dal prete; il ragazzo era grande per la sua età, ed imparava con facilità. Il giorno che compì i suoi quindici anni, il diavolo arrivò in una barca, che somigliava ad una fiamma verde, per portar via il ragazzo. Quando videro arrivare la barca, il prete cominciò a scrivere una lettera che il ragazzo doveva portare con sè. Allora il ragazzo andò giù verso la spiaggia incontro al diavolo, e quando questi gli disse: — Vieni con me, ragazzo mio, vieni nella mia barca — il ragazzo stese la lettera al diavolo. Il diavolo non ardì toccarla; fintanto che teneva la lettera in mano, si grattava la testa ed era imbarazzato.

— La magagna sia del prete — disse il diavolo — che è causa che io non possa prendere il ragazzo! Prendi quella barca e vieni con me sul lago! Il prete stava a guardare.

— Prendi pure la barca e va con lui sul lago! — disse il prete.

Quando furono sul lago, venne un gran temporale, cosicchè il ragazzo dovette lasciar portare la barca dal vento. Il diavolo allora volle, che il ragazzo passasse nella sua barca, ma ogni volta che si avvicinava a lui, il ragazzo [261] gli presentava la lettera. Finalmente il diavolo si arrabbiò tanto, che se ne ritornò di nuovo sotto forma di una fiamma verde da dove era venuto. Il ragazzo seguitò ad essere spinto dal vento e dalle onde. Finalmente arrivò ad un paese totalmente ignoto, ma sulla spiaggia era un palazzo reale che splendeva come l’oro. Il ragazzo entrò per una porta, sulla quale era una iscrizione in lettere d’oro, ed entrò in cucina. La ragazza di cucina gli disse di non parlar forte, perchè la padrona di casa era lì vicina e dormiva. Ma il ragazzo andò avanti e nella camera seguente trovò la cameriera. Questa gli proibì pure di parlar forte, perchè la sua padrona era nella camera attigua e dormiva. Il ragazzo però andò avanti fin nella camera della padrona stessa, e vide che questa era ancora più bella della cuoca e della serva. Essi parlarono insieme per un pezzo e s’intesero per sposarsi. Ma il ragazzo disse, che avanti di maritarsi doveva andare a visitare il suo padre e il suo padrino, il prete: — Se sapessi solamente — soggiunse — dove devo andare per trovarli.

— La cosa è facile — disse la sposa. — Qui al mio dito ho un anello col quale si può avere quello che si desidera e andare dove si vuole!

Il ragazzo prese l’anello della sua amorosa, se lo mise al dito ed espresse il desiderio di tornare da suo padre e dal prete. Nello stesso momento vi giunse. Egli raccontò tutto quello che gli era successo dal momento che li aveva lasciati, ma nessuno gli voleva credere. Egli [262] mostrò l’anello che aveva al dito, ma pure non gli volevano credere. Finalmente la sera, quando ebbero cenato dal prete, il giovane non potè più tenersi, quantunque la sua amorosa glielo avesse severamente proibito, dicendogli: «Tu non mi devi desiderare la dove sei tu con i tuoi!» e disse: «Potesse essere qui la cuoca per sparecchiare la tavola!» Nel momento la cuoca comparve e portò via il piatto che stava davanti al ragazzo e sparì. Quando fu l’ora di andare a letto, il ragazzo disse di nuovo: «Potesse venire ora la cameriera a prepararmi il letto!» Essa arrivò tosto e gli rifece il letto. Il giovane andò a letto e formò il desiderio: «Potesse ora venir la mia fidanzata a riposare al mio fianco!» La sposa comparve all’istante, abbracciò il giovane e lo baciò. Ma al momento stesso gli prese dal dito l’anello, escì e non si vide più. Il giovane cominciò ben presto ad avere tal desiderio della sua amante, che abbandonò suo padre e suo padrino e si mise in viaggio in cerca della città d’oro. Egli arrivò da prima dal re dei pesci:

— Buon giorno, nonno — disse il ragazzo, — mi puoi forse dare qualche notizia sulla città d’oro?

— No! non ne so niente — disse il re dei pesci — ma radunerò i miei pesci, forse qualcuno di essi ne saprà qualche cosa!

Egli fischiò per radunare i pesci, ma nessun di questi seppe dar notizia della città d’oro. Lo Stenbiten (Anarrichas lupus) non era ancora venuto, ma finalmente arrivò anch’esso.

[263]

— Perchè arrivi tanto tardi? — domandò il re.

— La lontra mi aveva acchiappato — rispose lo Stenbiten, — fu a stento che mi potei liberare!

Ma lo Stenbiten non seppe dir niente neppur lui della città d’oro. Il giovane andò avanti ed arrivò al re degli uccelli.

— Buon giorno, vecchio nonno — disse il ragazzo, — mi puoi dare nessuna notizia della città d’oro?

— Non ne so nulla! — disse il re degli uccelli — ma chiamerò i miei sudditi!

Egli allora fischiando riunì tutti gli uccelli, ma nessuno potè dir nulla della città d’oro. Per ultimo venne il cigno.

Questi aveva deposte le uova e gli uomini avevano teso un laccio presso il suo nido, nel quale era rimasto preso. Ne era escito a stento, ma quando finalmente fu giunto non seppe dir nulla neanche lui della città d’oro. Il giovane seguitò la sua peregrinazione senza sapere dove andasse. Mentre camminava vide due figli di gigante che si battevano. Il ragazzo si avvicinò a loro e domandò:

— Perchè vi battete? Si direbbe che siete due fratelli, ma se è così, perchè vi battete?

— Sì, siamo due fratelli — risposero entrambi — e ci battiamo per un berretto ed un paio di scarpe, che abbiamo avuto in eredità da nostro padre.

Il ragazzo, che era accorto ed istruito, domandò cosa avessero di particolare il berretto e le scarpe. Gli fu risposto, che quando si avevano le scarpe, si poteva in un [264] salto essere là dove si voleva e che quando si aveva in testa il berretto, si diventava invisibili.

— Prestatemeli un momento — chiese il ragazzo — che vi possa provare se è vero quanto mi dite!

I figli del gigante non vollero dapprima prestare la loro eredità al giovane che essi non conoscevano, ma infine si lasciarono persuadere, quando il giovane ebbe promesso di fare solamente due salti come prova. Ma appena il giovane ebbe messo le scarpe e il berretto, andò d’un salto alla città d’oro, e vide un gran bastimento dorato sul mare. Gli dissero che quel bastimento apparteneva ad un figlio di re, il quale era venuto a cercar moglie. Il giovane entrò senza essere veduto nella reggia e vide e sentì il figlio del re, che chiedeva la mano della sua amante. Egli rimase nascosto finchè venne l’ora di andare a letto. Quando la sua amante andò a letto, vi andò pure il figlio del re e si coricò al suo fianco. Nel momento che il figlio del re volle baciare la sua sposa, il giovane gli dette un calcio sulla bocca. Il figlio del re non potè capire cosa volesse significare un tal trattamento. Egli si offrì di nuovo, ma ricevette un secondo colpo del duro stivale di gigante che il giovane aveva nel piede.

— Perchè mi batti così? — domandò il figlio del re, meravigliato dei modi poco amabili della sua bella.

— Io non ti batto niente affatto — disse la figlia del re; ma il giovane che stava dietro alla sposa rideva per sè. Nello stesso momento diede un nuovo calcio al figlio del re, cosicchè questi arrabbiato, saltò su e ritornò al [265] suo battello dorato. Aveva avuto abbastanza di quella ragazza, pensò, e ritornò al suo paese. Il giovane si alzò pure, escì e si levò gli abiti del gigante. Quindi tornò e cominciò così a parlare colla figlia del re:

— Chi era quel forestiero che venne qua mentre io ero via?

— Era un figlio di re, che veniva a sposarmi — rispose la sposa.

— E perchè non l’hai sposato?

— Oh l’avrei preso volentieri — disse la figlia del re — ma egli ebbe paura di me!

— E perchè ebbe paura di te?

— Non so donde viene, ma mentre eravamo accanto l’uno all’altro assicurò che io gli davo dei calci sulla bocca invece di baciarlo, si mise in collera e se ne andò. Io non lo seguii; sapevo di non avergli fatto il minimo torto.

Il giovane allora ricominciò la sua antica corte, furono fatte le nozze ed il ragazzo diventò padrone della reggia della città d’oro.

[267]

CAPITOLO SETTIMO

IL MONDO SOPRANNATURALE DEI LAPPONI — PROFILO DELLA LORO RELIGIOSITÀ — CONVERSIONE DEI LAPPONI AL CRISTIANESIMO E FERVORE APOSTOLICO DEI MISSIONARII NORVEGIANI — STREGHE, MAGHI E PREGIUDIZII — LA MITOLOGIA LAPPONE SECONDO GLI ULTIMI STUDII DI FRIIS.

Il buon parroco norvegiano Knud Leem trova, che la prima virtù dei lapponi è quella di essere religiosi: Inter virtutes lapponum primas merito tenet veri Numinis cognitio. È naturale che quel bravo prete così timorato di Dio si entusiasmi per la calda religiosità dei suoi amici polari, benchè ne dia il merito principale al divo Federigo IV, che si occupò con molto amore della loro conversione. Prima di questo re immortale, dice egli, l’ignoranza religiosa dei lapponi era infinita e aggiunge come prova di questo, che uno di essi interrogato come [268] Cristo fosse asceso al cielo, rispondeva: con due tavole di pietra! (confondendo l’ascensione del Cristo con Mosè e le sue tavole). Ecco le parole testuali di Knud: Exemplum dabo crassissimae ignorantiae, qua tunc temporis miserrima gens laboravit.

Noi, meno credenti di Knud, e più psicologi che teologi, troviamo strano come i lapponi abbandonassero senza alcuna lotta e quasi direi senza alcun rimpianto la loro poetica mitologia, che era stata per tanti secoli la religione dei loro padri e si facessero cristiani senza spargere una goccia di sangue nè una goccia di lagrime. Mutarono religione come avrebbero mutato il vestito e abbandonarono quasi senza rimpianto i loro dèi, i loro tamburi magici, le loro mosche magiche, tutto l’olimpo fantastico del loro cielo ideale per abbracciare una religione monoteista ed altissima, nata sotto il cielo azzurro della Palestina. Credo, dopo averli studiati, che domani si farebbero turchi coll’eguale facilità, e sarebbero i più fervidi musulmani del mondo. Egli è perchè sono docili, timidi e pieni di un nervosismo, che li trae facilmente ad aver paura della forza o delle cose invisibili. Le loro donne furono le ultime a conservare un culto per i loro idoli, ma oggi non rimane più dell’antica [269] mitologia, che qualche pregiudizio e qualche rito appena disegnato nelle nebbie di una superstizione vaporosa e indistinta[33].

La prima missione cristiana fu fondata in Lapponia nel 1714 e il Knud, divenuto missionario egli stesso pochi anni dopo, trovava già profondamente cristiani i suoi neofiti. Alcuni sapevano a memoria 36 salmi. Un vecchio più che settuagenario, di nome Nikka Kokko-gedda, analfabeta, aveva imparato a memoria in brevissimo tempo le tre prime parti del catechismo. Chiamavano i loro parroci col nome di buorre atzkie, buon padre. Quando appariva loro dinanzi un prete, si levavano immediatamente con molto rispetto, offrendogli ciò che avevano di meglio, ut lac rangiferinum congelatum, caseum, linguam et medullas ejusdem animalis; ringraziavano [270] con parole calde il sacerdote che aveva fatto la predica, dicendogli più e più volte: Kiitos ednak Ibmel sanest, molte grazie per il Verbo di Dio. Non bestemmiavano mai, in ciò superiori ai norvegiani (aggiunge il Knud) e moltissimi fra loro non prendevano cibo senza prima averlo benedetto colle parole Jesusatzh sioned (benedici, o Gesù).

Molta parte di merito nella conversione dei lapponi è da attribuirsi ai missionarii, i quali, animati da un santissimo fervore, si sacrificarono per la loro nobile intrapresa, che fu anche opera di moralità, dacchè è per essi che i lapponi lasciarono quasi affatto il vizio dell’ubriachezza, che fino allora era stata la prima loro gioia.

Knud descrive con vera esaltazione il piacere di convertire i lapponi al cristianesimo, mostrando nello stesso tempo, quali fossero i forti travagli della vita di un missionario in quelle regioni polari. Allo svegliarsi veder la brina del proprio fiato ghiacciato sulla pelliccia del letto, trovar ghiacciato l’inchiostro anche presso il fuoco, sentirsi ardere i piedi e gelar le spalle e veder disegnata colla brina la forma del proprio corpo sulle pareti delle capanne, perchè il corpo faceva da paravento per il calore del focolare: «Praeter omnem opinionem [271] deprehendi eam parietis partem, quae propter umbram corporis mei vim calefantis ignis admittere non poterat, pruinam induisse, meique quasi imaginem et simulacrum albo colore depictum, in pariete retulisse.

«Nec molle et plumosum cubile in hujusmodi hospitiis Missionario expectandum est, cui loco culcitae est hispidum corium rangiferinum, super nudam humum, vel saltem super corrasa lignorum sarmenta expansum, vestibus, quas cubitum iturus exuerat, loco pulvini suppositis. Ad requiem qualemcunque ita compositus, ipsam nivem capita fere attingit, exiguo unius duntaxat palum spatio ab ea remotus, cubat enim in pavimento, pedibus focum versus exporrectis, capite autem parieti proximo qui, quemadmodum supra observatum est, ima sui parte perpetuis nivibus, tanquam vallo cinctus est et circundatur.» (Pag. 535).

E dopo aver descritto il piacere di viaggiare nell’inverno in mezzo a turbini di neve che oscurano il cielo:

«Accidit praeterea, ut, saeviente frigore et multa nive cadente, genis proficiscentium glacies incumbat, quae laminae instar, postea avellitur et stiriae [272] palpebris adhaerescant, digitis similiter avellendae, quod incommodum admodum molestum est, iis praesertim, qui a teneris perferre non didicerunt. Incommodis hisce et periculis tandem superatis, pervenitur in tentorium, teterrimo fumo oppletum, quod sane haud leviorem viatori molestiam creat; et, ut reliqua incommoda taceam, hoc unum, memorasse sufficiat, efficere hunc fumum, ut facies hospitis, si per complures dies hic commoratus fuerit, variis tuberibus intumescat.

«Et, ut paucis multa complectar, tot Missionarium lapponicum circumveniunt et exercent incommoda, tot labores exantlandi, sive frigus spectes, quod suo tempore paene intolerabile est, sive hospitium in parvo et rimoso tentorio, sive denique alimenta consideres, qualia sunt lac rangiferinum congelatum, fontana, eaque interdum frigidissima et nive permixta etc. aliaque innumera, quibus recensendis vix sufficio, incommoda respicias, ut speciali Dei providentiae, eique soli tribuendum sit etc.»

Dice però che egli non vuole con queste tristi pitture sgomentare i missionarii, perchè l’idea di far del bene e di far entrare in cielo le anime dei lapponi basta a tutto.

[273]

«Enim vero qui gloriam Dei in tot animarum a tenebris ad lucem, a potestate Satanae ad Deum, conversione promovendam unica respicit, haec et alia, quae se circumvenire possunt incommoda, parum curat, sed puro et sinceri Christi oviumque pretiosissimo ipsius sanguine redempturum amore incensus quaevis molestias laetus adit, laetus sustinet et superat. Quae initio dura sunt, uti assueveris, sensim mollescunt, et profecto (absit omnis jactantia et vana coram Deo et hominibus gloriatio) confidenter ausim asserere, me omni illo tempore, qua pars aliqua missionis regiae in hisce oris eram, mea sorte adeo contentum fuisse ut numquam magis. Si causam quaeris, praeter multas alias et hanc accipe; esse lapponibus ingenia adeo docilia, mitia et tractabilia, ut, quod in commercio cum aliis hominibus, sua et aliorum opinione his multo politioribus, animum liberalem aequique amantem et justi, haud raro offendant, et ad iram ac indignationem irritant, inter lappones versanti non sint metuenda.»

Le streghe e i maghi furono gli ultimi a sparire dal mondo mitologico, e non oserei dire che neppure oggi sia del tutto scomparsa la magia in Lapponia; [274] nè possiamo stupircene, quando ricordiamo la magia bianca dello spiritismo, che si esercita anche oggi sotto i nostri occhi da uomini serii e di buona fede.

Knud racconta molte confessioni di streghe, dalle quali apparisce come queste donne credessero esse stesse agli straordinarii poteri, dei quali eran dotate, sia per fare il bene che per fare il male. Alcune ad esempio credevano di essere state nell’inferno e di aver avuti continui rapporti col diavolo, altre confessavano di avere coi loro maleficii fatto naufragar navi o perir vacche e bambini. Il buon Knud è disposto a credere, che queste confessioni fossero il risultato di sogni o di accese fantasie, fors’anche estorte dalla paura o dalla tortura; ma non nega che anche l’arte magica possa essere della partita: «Artem tamen magicam olim fuisse exercitam, minime nego, cum diabolus in infidelibus efficax sit, et quis id, quod sacrae paginae luculentis dictis exemplisque testificantur negare sustineret?»

Prima di segnare a grandi tratti l’antica mitologia lapponica, raccogliamo le superstizioni e i riti, che regnavano ancora poco prima del Knud e che possono valere a disegnarci la particolare forma di religiosità che è propria dei lapponi.

[275]

Usavano una specie di sagrifizio in cui ardevano in una cymbula pezzetti di carne, di cacio, di burro e di viscere di renne.

Si credeva, che taluni uomini avessero il potere di lanciare da lungi piccole freccie avvelenate di piombo per vendicarsi dei proprii nemici. Queste freccie producevano malattie gravi o contagiose.

Si tenevano lontani i lupi, gridando o piuttosto urlando il canto juvigen:

«Kumpi! don ednak vahag lekdakkam, ik shjat kalka dam paikest orrot, mutto dast erit daakkan maibme kietzhjai mannat, ja don kalkak dai patzhjatallat daiheke jetzhja lakai hawanet»

«Lupo, autore di molti mali, non rimaner più qui, vattene lungi di qui agli ultimi confini del mondo. Altrimenti o sarai trafitto dalle freccie o in qualunque altro modo perirai.»

I maghi, per scoprire il ladro, mettevano dell’alcool in una obba, e dicevano di sapervi vedere il ritratto del colpevole. Che s’egli non avesse reso le cose rubate, perderebbe un occhio o un membro. A rendere più solenne questo esorcismo, il mago urlava durante la sua inchiesta; e il ladro lappone, assai più ingenuo dei nostri, si rivelava spesso e restituiva ciò che aveva involato.

[276]

Agli antichi lapponi era giorno sacro il giovedì; con minor frequenza anche il sabato e il venerdì. Nei giorni creduti sacri era proibito cacciare e pescare.

Rispetto alla menstruazione avevano usi molto simili a quelli degli antichi ebrei. Quando una donna aveva il flusso mensile, il marito non poteva dormire con lei e neppur toccarle gli abiti. Essa non poteva scavalcare colle gambe un fucile giacente sul suolo, nè montare sul tetto della capanna, nè munger le vacche, nè passare presso la spiaggia, dove si mettevano a seccare i pesci.

Non mangiavano mai carne di porco, credendo che quest’animale fosse il cavallo dei maghi.

Non andavano a cacciare o a pescare dove erano chiese.

Non nominavano mai o quasi mai l’orso col proprio nome di guouzhja, temendo di offenderlo e di irritarlo a maggiori stragi. Lo chiamavano invece vecchio dalla pelliccia, moedda-aigja. L’orso ucciso era condotto quasi in trionfo a casa, ma si costruiva una speciale capanna per riceverlo, dove doveva esser cotto e dove nessuno entrava prima di aver mutato gli abiti. Era mangiato quasi unicamente dagli uomini, e solo qualche pezzetto era portato [277] alle donne, badando che non fosse però degli arti posteriori. Questo scarso tributo non poteva esser portato loro attraverso la porta della capanna, ma sollevando in un angolo riposto un lembo della tenda. Le ossa dell’orso si seppellivano e per tre giorni uomini e donne vivevano isolati.

Quando si fondevano le palle per il fucile, si pronunziavano parole oscene.

Chi prendeva uno Sturnus cinclus, lo conservava vivo o morto, come un talismano, che portava fortuna.

Era grande fortuna potersi mettere sotto un albero, dove cantava un cuculo e rimanervi prima che fosse volato via. Era pure di ottimo augurio il trovarne le uova.

Trovar pietre singolari per grandezza o per forma significava che qualcosa di strano doveva accadere.

Il tuono spaventava i maghi e li uccideva; donde il proverbio: Se non vi fosse il tuono, i maghi distruggerebbero il mondo. Si credeva che i maghi inorriditi dal tuono, corressero qua e là, finchè avessero trovato un albero in cui nascondersi e appena rifugiati colà, il fulmine incendiava la pianta maledetta.

[278]

Gli alberi fulminati avevano particolari virtù, ad esempio questa, che una scheggia del loro legno curava il mal di denti.

Appena una donna si sentiva incinta, cercava nel cielo una stella, che fosse vicina alla luna, e dalla maggiore o minore distanza dei due astri traeva augurio sulla fortuna della gravidanza e del parto.

Securi manubrium infigere in domo, ubi puerpera erat, nefas habebant.

Nel travaglio del parto bisognava badar bene che non vi fossero nodi nelle vesti della partoriente, perchè ognuno di essi rendeva più laborioso il parto. Gli abiti portati nel momento del travaglio non si potevano portar più per tutto il corso della vita.

Le donne non potevano mangiare la carne della testa del renne e gli ammalati non dovevano assaggiare la parte dello stesso animale, che corrispondeva a quella che in essi pativa.

Durante la malattia si facevano spesso doni votivi alla chiesa vicina. Morto il malato, si uccideva il renne, che serviva come animale da tiro al defunto, e mangiatene le carni, si seppellivano le ossa. Si abbatteva la parte della capanna, in cui si era [279] deposto il cadavere e spesso si abbandonava anche il luogo visitato dalla morte.

Per difendere il gregge dalle disgrazie si credeva utile sospendere al fienile una testa di pecora involta di fieno e di lana. Si credeva pure molto utile segnare una croce sui loro armenti[34].

Dopo aver segnato questi tratti sulla religiosità dei lapponi, daremo alcuni cenni della loro antica mitologia, desumendola dagli studii profondi di Friis.

[280]

MITOLOGIA LAPPONE

Dei noaide dei lapponi ossia dei loro sacerdoti e medici

I noaide avevano una parte importante nel culto pagano dei lapponi; erano uomini intendenti di magia, di arti soprannaturali e facevano la parte di sacerdoti, di indovini, di consiglieri, non che di medici. Erano gli intermediarii fra gli Dei o il mondo degli spiriti e gli uomini: potevano fare il bene ed il male. Essi erano numerosi, ma pochi avevano grande fama; alcuni furono tanto celebri, che anche al giorno d’oggi i loro nomi e le loro gesta sono consacrati nelle leggende lappone.

I noaide cadevano in una specie di sonno magnetico, durante il quale la loro anima veniva condotta da un sairro-gnolle o un sairro-jodde (un pesce o un uccello del regno dei morti) là dove ricevevano i responsi desiderati. Il Friis, quantunque [281] ammetta che spesso quel sonno potesse essere simulato, dice che i lapponi in generale sono soggetti ad una grande nervosità osservata non solo dagli antichi, ma anche dai recenti viaggiatori, per la quale sono facilmente presi da accessi di furore improvviso, estasi, svenimento ecc., determinati da cause piccolissime, come un rumore improvviso. Questo stato è così frequente tra loro, che hanno una parola speciale per designarlo. Alcuni lapponi dicono, che quella disposizione è loro venuta dall’essere stati spaventati da giovani. Quella nervosità non è speciale dei lapponi, ma si trova in altri popoli polari nomadi e che vivono in circostanze simili. Friis racconta poi il modo col quale venivano iniziati i nuovi sacerdoti coll’aiuto dei noaide-gazze, spiriti che erano al servizio dei noaidi. I noaidi conoscevano forse alcuni rimedii per le malattie, ma ricorrevano per lo più a parole cabalistiche, oppure facevano un viaggio nel regno dei morti per dissuadere questi dal far del male al malato, essendo loro credenza, che i parenti morti mandassero ai vivi le malattie o per punizione o per desiderio di avere la loro compagnia. Alcuni noaidi potevano distinguersi per qualità speciali, e per questo aver nomi speciali. Così visse nel XVII secolo [282] un noaide chiamato Guttavuorok (che può prendere sei forme). Questa proprietà di prender forme di animali si ritrova negli angakut dei groenlandesi, nei tadibe dei samojedi e nei schamani dei finlandesi.

Degli angakut dei groenlandesi

Gli angakut dei groenlandesi corrispondono ai noaidi dei lapponi, ed hanno con questi una grande rassomiglianza. L’autore descrive i loro ufficii, il modo col quale vengono iniziati, i loro viaggi nel mondo di sotto, attraversando prima la terra o il mare, quindi il regno dei morti, trovando poi nel suo palazzo (a guardia del quale stanno delle foche e un grosso cane) la regina dell’inferno colla quale devono lottare nel cielo (il regno delle anime) ove apprendono lo stato e la sorte dei malati, e dove possono anche prendere per questi una nuova anima, o guarirli col cucire alla loro anima l’anima di un animale (poichè i groenlandesi s’immaginano l’anima come una cosa dalla quale si possono levare e ricucire dei pezzi). Potevano anche aprire un ammalato, levarne gli intestini, lavarli e rimetterli [283] al posto. Facevano questo in pieno giorno davanti a molta gente, e tutti, compreso l’ammalato, erano persuasi che lo facessero davvero, prova che erano abili giocolieri. Avevano come i noaidi una lingua convenzionale conosciuta da loro soli.

Dei gobdas o kobdas dei lapponi (runebom in norvegiano)

Pare che tutti i schamani dei popoli turanici abbiano adoprato nell’esercizio delle loro arti uno strumento più o meno somigliante a un tamburo. Questi tamburi avevano però forme diverse. Quelli lapponi erano composti di una cassa di legno scavato, ovale o rotondo, con incisioni per ornamento, con una pelle di renna tesa sopra. Su questa erano disegnate tutte le divinità lappone, ognuna nella parte dell’universo ove si credeva che avesse il suo regno.

Vi erano disegnati pure il sole, la luna, le stelle, gli animali selvaggi, i pesci, gli stessi lapponi e le loro abitazioni, come pure i norvegiani o cristiani e le cose che parevano loro più strane, tutto insomma quello che poteva interessare il lappone, [284] per cui il runebom era la sua bibbia, il suo oracolo, la carta geografica del mondo che conosceva o s’immaginava. Esistono ancora pochi runebom; 70 sono stati distrutti da un incendio a Copenaga. Portavano appesi degli anelli ed altri oggetti, specie di ex-voto regalati al runebom per i responsi ricevuti.

Il runebom dei lapponi mi richiama alla mente la pipa sacra dei Payaguas, che ho illustrato nei miei viaggi e che ha lo stesso valore psichico sotto una forma molto diversa. Anche in quella pipa il povero selvaggio americano ha chiuso in piccolo spazio la natura e la fantasia, il mondo dei sensi e quello della poesia, le cose umane e le divine, quasi volesse concentrare tutte le forze naturali e soprannaturali in quello strumento con cui voleva scongiurare la malattia, quasi si studiasse di conoscere tutti gli elementi del creato per combattere le battaglie contro la morte; fantastico accozzo di puerili immagini e di sublimi aspirazioni, abbozzo grottesco d’arte, di scienza e di fantasia[35].

Il mio ottimo amico prof. Pigorini ha scoperto ultimamente un tamburo magico lappone, e lo ha [285] acquistato per il Museo etnologico di Roma e grazie alla sua squisita cortesia, ne posso dare qui il disegno. Anche in questo vi è distinta la parte celeste dalla terrestre, e tu vedi disegnati gli Dei, il sole, la casa dei cristiani, il renne e l’orso. Nella tavola è disegnata anche la bacchetta magica, che però non è di corno di renna, ma di legno.

 
Un Tamburo Magico Lappone — Scala 10⁄100

Del coarve-vaecer e del vuorbe o vaeiko

Il primo era la bacchetta di corno di renne scolpito in forma di T, talvolta rivestita di pelle, colla quale battevano il tamburo. Il vuorbe era un anello di ottone con altri anelli minori in giro o un triangolo di osso: esso rappresentava il sole, e quando si voleva consultare il runebom si poneva quell’anello o triangolo sull’immagine del sole, che era disegnata sul mezzo del tamburo magico.

Dell’uso del runebom

Ogni volta che un lappone doveva intraprendere una cosa della menoma importanza, un viaggio, una caccia, una pesca o chiedere consiglio in caso [286] di malattia, consultava il runebom. Pare che vi fosse uno di questi tamburi magici in ogni famiglia, come v’è una bibbia da ogni protestante. Solo nei casi più gravi si aveva ricorso all’intermediario del noaide per consultare il tamburo; altrimenti era il padre di famiglia che lo faceva. Dopo molti preparativi e gesticolazioni si poneva il vuorbe (l’anello) sul tamburo e si cominciava a battere sulla pelle colla bacchetta, finchè l’anello dopo varii salti e movimenti si fermava sopra un segno del runebom e non voleva più andar via di là. Dal luogo in cui si era fermato l’anello si deduceva la volontà degli Dei: se si trattava di viaggio e che l’anello si fermasse sul segno del mattino o della sera, ciò indicava l’ora nella quale bisognava intraprenderlo. Se si consultava per una pesca, il fermarsi dell’anello in mezzo allo scompartimento ove era segnato un lago con pesci, prediceva successo; se si fermava al margine di quello scompartimento, il dio dei pesci voleva avere una offerta per essere propizio; se non voleva andare in nessun modo da quella parte la pesca non poteva riescire. Il runebom aveva il suo posto in una divisione speciale e sacra della tenda; nessuna donna lo doveva toccare, e neppure passare per la strada sulla quale [287] era stato portato, se non voleva esporsi a morte o a qualche grande disgrazia.

Eccovi un racconto che si trova nel manoscritto di Naerö e che vi do tradotto letteralmente:

«Il lappone Andrea Livortsen aveva un figlio unico Giovanni di anni 20, tanto malato che nessuno credeva che la potesse scampare. Il padre che era disperato adoprò tutte le runerie o arti magiche che conosceva, ma invano. Finalmente si decise di ricorrere al runebom. Egli stesso era un gran noaide, ma trattandosi di cosa che lo riguardava tanto da vicino, non gli era permesso secondo i suoi articoli di fede di consultare da sè il runebom. Perciò mandò a chiamare il fratello della sua moglie morta, che era abile quanto lui nelle arti dei noaidi. Dopo le cerimonie preliminari, il cognato pose l’anello sul runebom al suo posto, e cominciò a battere col martello. Ma vedi! L’anello va tosto sul jabmicuci-balges, la via dei morti, proprio vicino al regno dei morti. Il padre rimase costernato, tanto più quando vide che non ostante i più forti colpi della bacchetta, accompagnati da ogni sorta di scongiurazioni, non si voleva muovere da quel posto; finchè, secondo il consiglio del cognato, promise di offrire ai morti un renne femmina. [288] Allora finalmente, tornato a battere sul runebom, l’anello si mosse, ma non andò più in là del ristbalges, la via dei cristiani, per cui il cognato battè di nuovo. Ma l’anello tornò di bel nuovo sulla via dei morti. Questa volta il padre promise un renne maschio a Mubben-aibmo (Satana), perchè suo figlio potesse rimanere in vita. L’anello si mosse, ma ritornò alla via dei cristiani, nè vi fu verso di farlo andare su quella parte del runebom ove sono le capanne dei lapponi (che sarebbe stato segno sicuro di guarigione). Il cognato battè per la terza volta con molti esorcismi, ma l’anello tornò al suo posto di prima, cioè alla via dei morti e vi rimase fisso, finchè il padre oltre alle due renni fece voto di sacrificare un cavallo al noaide del regno dei morti, affinchè egli runasse in modo tale da determinare i morti a fare andare l’anello alla capanna dei lapponi, e così il padre avesse l’assicurazione che il figlio vivrebbe. Ma questa volta venne esaudito ancora meno delle altre: l’anello rimase fisso nella via dei morti non ostante tutti i colpi, sicchè veniva predetta con certezza la morte del giovine. Il cognato rimase sbalordito, nè poteva capire come mai l’anello desse un prognostico peggiore, e gli Dei rimanessero più inesorabili, dopo [289] aver ricevuto tante offerte. Finalmente si appigliò a questo consiglio: calò alla spiaggia e prese un sasso allungato. Dopo aver consacrato quel sasso con molti esorcismi e canti, lo appese davanti alla capanna; quindi si gettò davanti ad esso colla faccia contro terra, e gli diresse una preghiera, chiedendo poi a Mubben-aibmo (Satana) da cosa derivasse, che l’anello non voleva abbandonare la via dei morti, quantunque si fossero promessi doni tanto splendidi a lui, ai morti ed ai noaidi del regno dei morti. Egli allora udì la pietra dargli questa risposta: che le cose promesse dovevano essere offerte a lui e agli altri Dei nello stesso momento, se no il ragazzo doveva morire, a meno che vi fosse un’altra vita umana da offrire in vece della sua. Queste erano dure condizioni; perchè era impossibile al padre di essere così sollecito nel suo pagamento come lo chiedeva Satana, non avendo sotto mano nè le renne nè il cavallo promessi; e dove avrebbe trovato un uomo disposto a offrirgli la sua vita per salvare il suo figlio? Se dunque il padre voleva conservare il figlio in vita, non aveva altro mezzo che di morire egli stesso; e si risolvette volentieri a ciò. E tosto che ebbe preso questa risoluzione, colla quale dimostrava un amore [290] più grande pel figlio che per la propria anima, il cognato battè di nuovo sul runebom dove l’anello stava ancora al suo primo posto; ma ora si rimosse e andò sulla capanna lappone, il che profetizzava vita e salute per l’ammalato. Il più strano di tutto è che il giovane cominciò tosto a star meglio, mentre il padre nel tempo stesso divenne mortalmente ammalato e che il dopo pranzo dell’indomani il figlio era completamente guarito, nello stesso momento in cui il padre con una misera morte rendeva la sua misera anima al diavolo.

«Il figlio mostrò la sua riconoscenza al padre, secondo il desiderio espresso da questi nei suoi ultimi momenti, offrendo alla sua anima un renne maschio; affinchè nel regno dei morti potesse più comodamente andare in giro là dove voleva.

«Il lappone Giovanni, al quale questo è successo cinque anni fa, e che ora serve nella mia parrocchia in Helgeland, ha raccontato questa storia, insieme ad altri lapponi e le loro mogli in mia presenza nella mia casa nel gennaio del presente anno 1723[36]

[291]

I runebom non sono tutti compagni fra loro, sebbene abbiano molta analogia. Ve ne sono di quelli ove le figure sono quasi tutte prese dalle credenze cristiane ed appartenevano probabilmente a lapponi ufficialmente cristiani, ma che di nascosto seguitavano le loro pratiche pagane. Ora è completamente sparito tra i lapponi la conoscenza del gobda (runebom) del quale non conoscono neppur più il nome. I lapponi erano rinomati presso ai loro vicini i finlandesi per le loro arti magiche.

Il gobda e il sampo

Friis dimostra come il sampo, l’arnese miracoloso celebrato in diversi canti del kalevala finlandese, che venne costruito dal finlandese Ilmarino per potere ottenere in matrimonio la figlia di Locchis, la più bella ragazza di Pohjola (Lapponia), del quale sono state date molte spiegazioni, ma nessuna sodisfacente, non era che un gobda o runebom.

[292]

DEGLI DEI LAPPONI IN GENERE E DELLA LORO DIVISIONE IN CLASSI

È completamente falsa l’opinione, che la religione dei popoli turanici fosse uno schamanismo, che cioè non credessero a potenze superiori a quelle dei loro schamani (sacerdoti). Si può assicurare invece, che non si trova nessun popolo nè nei deserti dell’Asia nè nella Tundra della Siberia, nè nelle regioni polari d’America, che non creda alla esistenza di esseri o forze superiori agli uomini. I lapponi specialmente adoravano moltissime divinità: tutto l’universo era per loro pieno di Dei e Dee e oltre agli Dei elementari, ogni bosco, monte, lago, sorgente ecc., aveva il suo halde o spirito protettore. Secondo Jessen si può ammettere, che i noaidi lapponi dividevano le loro divinità in quattro classi, che corrispondono alla distribuzione dei disegni sui runebom, cioè in

[293]

DEGLI DEI SOPRACELESTI

Pare che i lapponi non abbiano avuto alcuna idea della creazione. Gli Dei sopracelesti avrebbero abitato nella regione delle stelle e sarebbero stati un padre, che avrebbe avuto un potere superiore a tutte le altre divinità, un figlio, potere esecutivo del padre, una moglie del padre e una figlia; ma è probabile che questo concetto di divinità superiori derivasse dalle credenze cristiane.

DEI DEL CIELO E DELL’ARIA

Ibmel, che significava cielo, era anche Dio del cielo, e venne poi a significare divinità in generale. È lo stesso nome che danno adesso al Dio, che i cristiani hanno insegnato loro a conoscere.

Diermes o Tiermes o Horagales (che ha poi molti altri nomi nei diversi dialetti lapponi) era uno degli Dei più antichi e più venerati, e per questo si trova sopra tutti i runebom. Era il Dio del tuono [294] e del baleno, e comandava ai venti, alla pioggia, alla neve, al mare, ai laghi: poteva fare il bene o il male degli uomini; farli vivere o morire. Era armato di un martello e di un arcobaleno col quale lanciava freccie. Egli proteggeva il Noaide, mentre questi era svenuto e la sua anima andava nel regno dei morti, e quando il diavolo o gli spiriti cattivi volevano impedire l’anima dal tornare nel corpo, li scacciava col suo martello. Non gli si doveva sacrificare nessun’animale femmina, nè alcuna donna doveva assaggiare la carne degli animali che gli venivano sacrificati.

Varalde olmai (uomo della terra). Lo pregavano per tutto quel che era abbondanza di pesca, di licheni per le renne, di nascite nelle mandre, di burro e di formaggio ecc., e lo pregavano anche perchè mandasse un buon raccolto di grano ai cristiani, affinchè da questi potessero far buona compra di farina, di birra, di acquavite e di tutto quello che deriva dal grano.

Bieggagales (Dio del vento). Lo pregano di calmare il vento quando questo a primavera fa morire i vitellini delle renne al momento della nascita, o quando sono in pericolo sul mare. Col mezzo del loro runebom lo legano con tre nodi: [295] sciogliendo il primo ottengono vento discreto; sciogliendo il secondo, vento assai forte; ma se si scioglie il terzo, è inevitabile il naufragio.

Questi tre Dei, Horagales, Varalde olmai e Bieggagales erano i tre grandi Dei dei lapponi.

La nozione dei tre uomini santi, che quasi servivano d’intermediario fra i lapponi e i tre grandi Dei, pare derivata dall’adorazione cattolica dei santi.

Erano l’uomo della domenica, l’uomo del sabato e l’uomo del venerdì. Ma parrebbe che avanti di venire in contatto coi cristiani i lapponi dividessero il tempo in settimane e mesi (i nomi dei giorni sono difatti tutti derivati dal norvegese), dunque questa credenza in tre uomini santi devesi ritenere come di origine mista.

Baeivve, Manno e Nastek (Il sole, la luna e le stelle)

Pare che i lapponi siano stati grandi adoratori del sole. Era la sola divinità alla quale offrissero olocausti sopra alcune pietre sacre speciali. Friis crede, che la forma rotonda che i lapponi danno [296] ad ogni cosa derivi pure dall’adorazione del sole. Le tende, le capanne, gli steccati per le renne, i cucchiai, i recipienti pel latte sono rotondi; perfino le scarpe anticamente erano rotonde, e non è improbabile che le madri, per l’adorazione che avevano di questa forma rotonda, che a loro pareva la più bella, cercassero di rendere rotonda per mezzo di fasciature anche la testa dei loro bambini. Un resto dell’adorazione del sole si trova ancora nell’uso di spalmare di burro le pareti della capanna, affinchè il sole lo possa struggere quando torna a farsi vedere dopo la lunga notte d’inverno. Pare che adorassero anche la luna.

La luna e le stelle. Al sole, come alla maggior parte degli Dei, davano famiglia, moglie e figli, i quali però non venivano adorati in modo speciale.

Mader-acce è un Dio che si trova solo in un runebom e del quale si hanno poche notizie; abitava in cielo, ed aveva per moglie Mader-akka e tre figlie, le quali però abitano in terra (il che va d’accordo colla idea che i lapponi hanno, che le donne sono molto inferiori agli uomini).

[297]

DEGLI DEI DELLA TERRA Le tre figlie di Mader-akka

Ecco come i noaidi spiegavano il modo nel quale nascevano gli uomini. Il figlio del Dio supremo (sopraceleste) riceveva dal padre il potere di creare l’anima e gli spiriti. Quando aveva creato un’anima, la mandava a Mader-acce. Questi prendeva l’anima nel suo stomaco (che per questo stava sempre aperto) e con essa faceva il giro del sole, attraversando tutti i suoi raggi e scendendo per l’ultimo raggio sulla terra, ove consegnava l’anima a Mader-akka sua moglie. Questa la riceveva in sè e formava intorno all’anima il primo embrione. Se doveva diventare un maschio lo mandava alla sua figlia Juksakka, dea dei maschi, se doveva esser femmina la mandava all’altra figlia Sarakka. Quella di queste due figlie che l’aveva ricevuto, lo prendeva nel suo corpo, ne determinava il sesso, e lo portava quindi alla donna che doveva metterlo al mondo. Lo stesso era degli animali. Tutto ciò si faceva tanto bene, [298] che l’anima non poteva venire intercettata da nessuno degli spiriti maligni. Questa idea doveva venire al lappone dal suo modo di vivere, dovendo egli, popolo debole e circondato da altri più guerrieri, ricorrere sempre all’astuzia per difendersi, cercar di nascondersi, e nelle sue migrazioni far lunghi circuiti e tentare di far perder la sua traccia al nemico[37]. Gli spiriti maligni insidiavano all’anima nel suo viaggio per arrivare alla terra [299] come gli tschudi, i kareli o altri popoli perseguitavano i lapponi sulla terra, e per questo Mader-acce la doveva nascondere nel suo stomaco, fare dei rigiri fra tutti i raggi del sole, prima di azzardarsi a scendere sulla terra e farla arrivare attraverso ad altre tre divinità alla sua madre terrestre. Sarakka era una dea molto venerata da tutti, ma specialmente dalle donne incinte. Nei primi tempi dell’introduzione del cristianesimo i lapponi introdussero il battesimo e la comunione nelle loro cerimonie pagane, trasformandoli a modo loro. Dopo che un loro bambino era stato battezzato in chiesa ed aveva ricevuto un nome cristiano, essi lo ribattezzavano nella loro casa in onore di Sarakka, dandogli un nome lappone, col quale dopo lo chiamavano sempre tra loro. Così prima di andare alla comunione in chiesa, mangiavano e bevevano in onore di quella e di altre divinità.

L’altra figlia di Mader-akka, Juks-akka, aveva essa pure influenza sui bambini, e sacrificando ad essa si poteva ottenere, che il feto destinato da Sarakka ad essere femmina potesse cambiar sesso. La terza figlia di Mader-akka, Uksakka, soggiornava presso la porta della tenda o della capanna, e sotto la sua protezione stavano i bambini dopo la nascita.

[300]

A queste tre dee era rivolta una grandissima parte nell’adorazione dei lapponi, e sono le sole delle quali rimanga ancora qualche ricordo.

Il Dio della caccia dei lapponi era Laeibolmai. Sotto la sua protezione stavano tutti gli animali selvaggi e specialmente l’orso, che fra loro come fra la maggior parte dei popoli affini, è un animale sacro.

Pare che vi fosse una Dea, forse sua moglie Barbmo-akka, che comandava a tutti gli uccelli di passo.

I lapponi credevano che nel mare, nei laghi, nei fiumi esistessero esseri soprannaturali, che proteggevano i pesci, e sacrificavano loro (per esempio gettando un po’ del loro cibo nell’acqua avanti i porti) perchè permettessero che si pescasse nel loro dominio.

Oltre agli Dei della terra soprannominati vi erano degli spiriti protettori degli oggetti, che i lapponi chiamavano Haldek, che essi dovevano pure cercare di propiziarsi. Ogni bosco, pezzo di terreno, rupe, cascata, fonte, ruscello, lago, insenatura del mare aveva il suo Haldde. Quando un lappone, per es., voleva costruire la sua capanna, doveva con una offerta rendersi propizio l’Haldde del luogo. Quando [301] il lappone abitava solo in mezzo al deserto, era pure circondato da una schiera di spiriti, coi quali i suoi pensieri e la sua fantasia erano continuamente occupati. Questa credenza negli spiriti protettori esiste ancora tra essi, e gli Haldek prendono ancora una grandissima parte nei loro racconti.

È generale la credenza tra i lapponi, che i bambini che, nelle nascite clandestine vengono uccisi dalla madre, errano per i boschi e le terre per molto tempo in cerca della loro madre, piangendo e lamentandosi. Se alcuno li sente deve dare loro un nome, se no quelle anime non battezzate non possono trovar pace. Questa superstizione forse ha spesso impedito l’infanticidio in mezzo a quelle lande deserte dove sarebbe tanto facile celarlo. Laestadius racconta, che si è trovato qualche bambino ucciso colla lingua tagliata, affinchè non seguitasse a perseguitar la madre coi suoi lamenti dopo morto.

DEI DEGLI INFERNI

La sola divinità dell’inferno che pare realmente lappone era Jabmi-akko, la vecchia dei morti, che regnava sui morti. La nozione del Rota, che abitava [302] giù basso nella terra, ma veniva su per fare il male degli uomini e degli animali, pare venuta dopo che ebbero conoscenza del diavolo dei cristiani. I noaidi avevano il potere di legarlo o scioglierlo. Ad esso si sacrificava un cavallo, che si seppelliva intero in terra, affinchè Rota potesse, quando faceva del male sulla terra, ritornare su di esso a Rota-aibmo, la sua dimora sotterranea.

I lapponi credevano anche a diversi altri spiriti cattivi, segnatamente Fudno, che giù abitavano nella terra.

Il nome, che in oggi adoprano per designare il diavolo, è Bergalak di origine incerta.

Un altro essere molto cattivo, che i noaidi adopravano per far male agli uomini e agli animali, era un insetto chiamato dagli autori norvegesi Ganflue (mosca magica), che si trova disegnata sopra quasi ogni runebom. Solamente i noaidi più potenti avevano a loro disposizione di queste ganflue, che essi facevano escir fuori dal becco di un uccello magico. Erano tanto velenose, che gli stessi noaidi non le potevano toccare altrochè con dei guanti; le conservavano in scatole, dalle quali le lasciavano volar via una alla volta, quando volevano far danno a qualcuno; compiuta la sua missione, la mosca [303] tornava al suo padrone. Queste ganflue si ereditavano e si prestavano da un noaide ad un altro. Specialmente le eruzioni cutanee, i gonfi e tumori, lo sputare sangue, erano prodotti da queste mosche[38].

Alcuni noaidi avevano anche una bacchetta magica (gandstar), colla quale potevano fare il male; altri sapevano costruire dei tyre, palla leggera che lanciata sopra un uomo o un animale, che si voleva offendere, produceva lo stesso effetto della mosca ganica. Il finskud (tiro finno) era un altro modo, col quale il noaide sapeva nuocere al prossimo. Esso faceva un’immagine della persona colla quale era in collera, e quindi tirava una freccia contro questa immagine nella parte del corpo che voleva render malata. L’arco col quale tirava era piccolo e di corno di renna; le freccie di due specie, appuntate o no secondo il genere di male che voleva infliggere[39].

[304]

Pare certo che i lapponi, anche prima di avere avuto sentore delle credenze cristiane, credessero all’immortalità dell’anima e al rinnovamento del corpo per gli uomini, non solo, ma anche alla continuazione dell’esistenza degli animali. Essi credevano pure ad una ricompensa ed una punizione dopo morte, ma forse questo è dovuto a infiltrazione d’idee cristiane. Saivvo era la dimora delle anime beate. Era sotto la terra a piccola profondità, i lapponi vi vivevano come sulla terra, ma più ricchi, più felici, insieme a tutti gli animali che vi sono sulla terra.

Vi erano molti Saivvo, in ognuno dei quali abitavano pochi lapponi, e andavano dall’uno all’altro come sulla terra con renne e cavalli.

Gli abitanti del Saivvo potevano mostrarsi agli uomini sulla terra, come i noaidi potevano fare una visita al Saivvo. I parenti morti, che erano nel Saivvo, erano in qualche modo gli spiriti tutelari di quelli vivi. Ogni lappone aveva diversi di questi spiriti del Saivvo a sua disposizione e più ne aveva, più era rispettato. Questi Saivvo si ereditavano, non solo, ma anche si vendevano e compravano. Un padre morendo, lasciava i migliori e più potenti Saivvo al figlio prediletto. Un matrimonio [305] si considerava come felice, quando gli sposi tra loro portavano in corredo molti Saivvo o potevano sperarne molti in eredità. I Saivvo non prestavano i loro servigi gratuitamente, ma dovevano ricevere in ricompensa dei doni.

Fra gli animali del Saivvo tre specialmente erano al servizio degli uomini e dei noaidi ed erano i Saivvo-loddek (uccello), Saivvo-gnolle (pesce o verme), Saivvo-sarvvak (renne maschio).

Saivvo-lodde

Questi uccelli potevano essere di specie, grandezze e colori diversi. Invocati con canti magici mostravano al lappone la via nelle marcie, gli portavano notizie de’ luoghi lontani, lo aiutavano a stare a guardia delle sue mandre ed altre proprietà, a ritrovare oggetti perduti ecc.

Il sentire cantare certi uccelli, mentre erano ancora a digiuno, era segno di disgrazia per i lapponi: per questo si dice che alcuni usino la precauzione di tenersi sotto la testa sul loro giacile un pezzetto di pane per mangiarlo appena svegliati e non essere colti in fallo dall’uccello di cattivo augurio.

[306]

Saivvo-gnolle

I Saivvo-gnolle erano diversi per grandezza, nome e colore, e si trovano disegnati con forme diverse sui runebom. Solamente i noaidi ne avevano al loro servizio e li avevano tanto più lunghi, quanto più erano esperti nelle arti magiche. Se ne servivano per nuocere ai loro nemici, o per scendere sul loro dorso nel Jabmi-aibmo (regno dei morti).

Si trovano ancora delle superstizioni, che sembrano resti della credenza nel Saivvo-gnolle. Alcune parti dei serpenti sono ancora adoprate come medicina dai lapponi. Un pezzetto infuso nell’acquavite agisce come elisir d’amore.

Quando andavano alla pesca in certi laghi dalle acque chiare (dei quali dicevano che avevano un doppio fondo) osservavano una quantità di prescrizioni superstiziose, come di escire dalla porta di dietro della capanna, di non aver con sè alcuna donna ecc.

Saivvo-sarvvak

Le renne maschie del Saivvo erano al servizio di pochi noaidi; essi le facevano combattere fra [307] loro e il proprietario della renna che rimaneva ferita ammalava o moriva.

Jabmi-aibmo

Era la dimora dell’oscurità, della peste, del pianto. Qui andavano i cattivi, i ladri, i bestemmiatori, i violenti; questi erano i soli difetti che per essi costituivano un peccato. Nel Jabmi-aibmo regnavano Rota, la sua moglie Jabmi-akko (la madre dei morti che porta le malattie con sè) e Fudno. Ogni malattia veniva dalla dimora di Rota (Rota-aibmo) e proveniva da parenti morti, che vi abitavano; per guarire bisognava sacrificar loro, o mandare un noaide a cercar di placarli. Per guarire un bambino lo si ribattezzava, sicchè dal numero dei nomi di un lappone si poteva dire quante volte era stato ammalato da bambino. Il viaggio dei noaidi al Jabmi-aibmo non era sempre e unicamente per guarire un ammalato; qualche volta lo intraprendevano per ottenere, che qualche antenato o parente morto tornasse sulla terra per stare a guardia delle renne.

Quando un noaide doveva intraprendere un viaggio nel Jabmi-aibmo, radunava il maggior numero [308] di uomini e di donne che poteva. Fra questi, due donne dovevano essere in abiti di festa con cuffie di tela sulla testa, ma senza cintura intorno alla vita. Queste donne, durante questo ufficio, si chiamavano Sarak. Uno degli uomini presenti doveva pure sciogliere la cintura e levarsi il berretto, ed a questo si dava il nome di Maerro-oaivve. Quando tutto era pronto, il noaide impugnava il runebom e cominciava a batter sopra e a cantare dei canti magici a squarciagola. Tutti i presenti si univano ad esso con un forte e continuo jouigen (canto magico). Quindi il noaide cominciava ad evocare i suoi Saivvo-gazzek, le anime del Saivvo che lo dovevano aiutare. Prima evocava il Saivvo-lodde (l’uccello) gridando: Haette dal gocco du matkai! (Ora ti devi mettere in via!). Quando questi era arrivato, visibile naturalmente per lui solo, gli ordinava di condurgli altri Saivvo-gazzek e primo di tutti Saivvo-gnolle, il pesce o il serpente. Quando erano arrivati tutti, il noaide levava il suo berretto, scioglieva la sua cintura e i legacci delle scarpe, si metteva le mani davanti al viso, cadeva in ginocchio e dondolandosi col corpo avanti e indietro, col runebom in mano, cominciava e correre in giro sui ginocchi con straordinaria rapidità e [309] gesticolazioni strane. Di quando in quando gridava: Valmasteket haerge, saccaleket vodnos! Si attacchi la renna, si metta il battello nell’acqua! Prendeva colle mani e gettava in aria dei tizzoni di fuoco, mostrando che il fuoco non lo bruciava, beveva acquavite, si picchiava sul ginocchio con un’ascia, minacciando colla stessa dietro di sè, e portandola tre volte in giro alle Sarak. Finalmente tutto quell’eccitamento combinato col digiuno che aveva osservato per tutto il giorno avanti, agiva in tal modo sul suo corpo che cadeva come morto, in modo tale che «non si poteva udire nè vita nè anima in lui.» In quello stato rimaneva un’ora. In quel tempo nessuno lo doveva toccare; non dovevasi neanche lasciarsi accostare una mosca. Durante questo svenimento, la sua anima viaggiava sul Saivvo-gnolle verso il Saivvo e il Jaibmi-aibmo sotto la protezione di Noragales e del suo cane. Mentre la sua anima era assente, le Sarak discorrevano tra loro a voce bassa, cercando d’indovinare verso qual Saivvo potesse essere andata. Quando nel nominare i diversi Saivvo (dei quali, come abbiamo visto, ve n’eran molti con un nome speciale per ognuno) arrivavano a nominare quello nel quale era andato lo spirito del noaide, questi cominciava [310] a muovere un poco la mano o il piede. Allora le Sarak seguitavano a discorrer tra loro, giuocando ad indovinare cosa faceva e come gli andava, ed il noaide cominciava a ripetere quello che sentiva dire dai morti e quello che contrattava con essi nel mondo invisibile, o a rendere oracoli, che si riferivano al da farsi nel caso presente.

Qualche volta il noaide doveva sostenere dura lotta nel regno dei morti col Jabmek, che non voleva lasciar partire il morto che voleva avere per guardiano delle mandre, o che voleva assolutamente che il parente ammalato lo venisse tosto a raggiungere; in quei casi il Saivvo-gnolle aiutava fedelmente il noaide nella lotta.

Basek dei lapponi, luoghi sacri, luoghi di adorazione e di sacrifizi

La fantasia dei lapponi colpita da qualche pietra o rupe di forma strana lo attribuiva all’azione dei suoi Dei e i luoghi dove si trovavano questi monumenti naturali, che chiamavano Basse, erano i loro luoghi sacri, dove adoravano e sacrificavano, in piena aria, quello che è la chiesa o il tempio per altri popoli più civili, che hanno accomodato le cose più comodamente per sè e per i loro Dei. [311] Consideravano pure come Basse alcuni luoghi ove cascata o un ghiacciaio rendeva loro difficile il transitare colle renne, o luoghi ove era successa qualche disgrazia o dove avevano avuta grande sfortuna alla pesca o alla caccia. Colà sacrificavano a quel Dio, che pareva loro esserne stato causa. Potevano esser luoghi sacri anche quelli ove il lappone era stato fortunato; si chiamavano allora Basse-varre e lì si sacrificava parte della preda; ancora oggi molti luoghi hanno conservato il nome di Basse. Questi Basek potevano essere più o meno conosciuti: potevano essere il luogo sacro di una sola famiglia o di un distretto intero. (Ancora 20 anni fa si sa di un lappone che aveva il suo idolo e vi faceva sacrifizi). Il rispetto dei lapponi per i loro Basek era molto grande; non costruivano le loro capanne troppo vicine per non disturbare il Dio col pianto dei bambini, non vi passavano davanti senza fermarsi e si avvicinavano sempre con tutti i segni della riverenza, genuflessioni ecc.

I Sieide, idoli

In questi Basek stavano gli idoli dei lapponi, che potevano essere di pietra o di legno. Questi [312] idoli rappresentavano la divinità; forse anche qualche lappone credeva che vi risiedesse dentro, ma tutto fa credere che non fossero veri idolatri. Questi Sieide o idoli non erano fatti ad arte: erano o le roccie di forma speciale che si trovavano nei Basek o pietre di forma strana trovate sopra una spiaggia e portate nel luogo sacro ove simboleggiavano le loro divinità. Ve ne erano per il solito diverse in uno stesso luogo. Intorno ad ognuna si costruiva un muro di pietre e sopra uno steccato di legno per proteggere gli oggetti sacrificati. In vicinanza dell’idolo costruivano una specie di trespolo per deporvi le offerte. Si trovano ancora resti di questi muri di cinta in molti punti in Finmarkia, ma gli idoli sono spariti, distrutti o gettati via dai missionarii e dai lapponi stessi. Solamente alcuni dei più grandi di questi idoli foggiati dalla natura e troppo grandi per essere rovesciati o portati via esistono ancora. Gli idoli di pietra fatti dagli stessi Dei erano tenuti in molto maggior conto di quelli di legno fatti dall’uomo.

Tutte le corna delle renne ammazzate venivano portate in dono agli Dei. Si disponevano in cerchio come uno steccato intorno all’idolo; ancora pochi anni fa si trovavano ancora di questi ammassi [313] di corna (spariti in oggi che le corna sono diventate articolo di commercio).

Gli idoli di legno erano fatti colla base del tronco o più spesso colla radice della betula; la radice formava la testa, e colla base del tronco foggiavano il corpo e le membra; erano alti circa un braccio e mezzo o due, larghi uno; avevano la forma che alla stessa divinità davano sul runebom. Questi idoli si tenevano per il solito nei boschi ove erano costruiti dei grandi trespoli. L’idolo si metteva sopra questo o accanto ad esso, le offerte sempre sopra. La massa di legno in questi altari era qualche volta ingente.

Il missionario Kildal bruciò in Ofoten in 14 giorni 40 di questi altari con tutti gli idoli e le ossa degli animali sacrificati. Questi sopra qualche altare si trovavano in così gran quantità, che non si sarebbero potuti portar via (non compreso l’altare) con cinque o sei cavalli.

[314]

Dei sacrifizi

Quantunque i lapponi sacrificassero in qualunque epoca, vi erano certe stagioni in cui facevano dei grandi sacrifizi. Questo era verso l’autunno, alla fine di settembre, quando essi sogliono macellare il maggior numero di animali per mangiarli subito e per conservare la carne seccata per la primavera quando non è buona la carne. Probabilmente nel dicembre vi era un gran sacrifizio, perchè quel mese si chiama in lappone Bassemanno, mese dell’arrosto. Per sacrificare, il lappone chiamava un noaide, che conosceva tutte le cerimonie che si dovevano fare. Questi si purificava con digiuno e abluzioni dell’intiero corpo. Nei casi gravi, come di malattia mortale, poteva darsi che si dovesse sacrificare tutto l’animale intiero e intatto; allora non vi era banchetto. Ma in ogni altro caso si invitavano tanti ospiti quanti ce ne voleva per mangiare tutta la carne dell’animale sacrificato. Con abiti speciali in dosso e una corona di foglie e fiori in testa, il noaide si apprestava al sacrifizio, [315] chiedendo per mezzo del runebom a quale Dio doveva sacrificare. Se era un renne l’animale destinato si sceglieva senza difetti: messogli un filo di colore diverso, secondo la divinità cui si dedicava, in un orecchio, una corona in capo, tutta la compagnia andava al Basse, dove erano le immagini degli Dei, avendo cura, prima di lasciar la capanna, che fossero legati tutti i cani. A nessuna donna era concesso di aver che fare coi sacrifizi fatti dagli uomini. Le donne non dovevano neppure avvicinarsi al luogo sacro, nè attraversare il sentiero seguìto dagli uomini e neppur guardare in quella direzione. (Le donne però potevano fare sacrifizi minori in casa alle Dee).

Giunti al Basse, il noaide immergeva il coltello nel cuore della vittima, che cadeva morta dopo pochi minuti. Tutti insieme levavano la pelle. Levati gli intestini, veniva raccolto un po’ di sangue in un recipiente particolare ed il noaide divideva l’animale alle giunture senza rompere nessun osso: quindi levava il naso, gli occhi, gli orecchi, il cuore, il polmone ed un po’ della carne di ogni membro e quel che più di tutto importava, gli organi genitali, se era un maschio e metteva tuttociò da parte come olocausto. Il resto si metteva in una pentola. Pregato [316] in ginocchio il Dio di accettare il sacrifizio e di esser propizio, tutti mangiavano la carne, dopo di che pregavano di nuovo. Radunate le ossa e rimesse in posizione si gettava sopra il sangue, ed il noaide a capo scoperto, strisciando sui ginocchi, andava ad offrirle all’immagine del Dio. L’idolo stesso si spalmava col sangue e gli occhi col grasso della vittima.

Varianti nel modo di sacrificare ai diversi Dei e sulla scelta e sesso degli animali

Le donne sacrificavano quotidianamente alle Dee segnatamente a Sarakka, che riceveva un pochino di tutti i pasti. Quando abbandonavano un luogo, versavano un po’ della zuppa di latte in terra per ringraziare di esser stati bene in quel luogo.

I lapponi facevano offerte anche ai morti. Spesso immolavano la renna, colla quale il cadavere era stato portato alla tomba, e ne seppellivano le ossa. Quando passavano dinanzi alla tomba d’un parente [317] od amico suolevano gettarvi sopra un pezzetto di tabacco o di qualche altra cosa che potesse piacere al morto: nella bara mettevano diversi oggetti, come arco, freccie, ascie, gli oggetti per accendere il fuoco, un po’ di cibo; forbici, aghi ecc. se era donna. Nella Lapponia russa, Friis ha visto mettere sulla tomba, anche al giorno d’oggi, diversi arnesi come ascia, coltello ecc.

Al Dio Rota offrivasi qualche volta anche un cavallo.

Quando era stato promesso a un Dio un animale, bisognava che tutte le ossa fossero conservate con cura e portate all’idolo o seppellite: se un cane rubava uno di questi ossi, lo si uccideva e si sostituiva uno dei suoi ossi a quello involato.

Cerimonie per la caccia dell’orso

L’orso era per i lapponi un animale sacro, che stava sotto la protezione di Laeibolmai (Dio della caccia).

[318]

Quando si accingevano a questa caccia, i lapponi non parlavano mai dell’orso col suo nome (guofca) ma gli davano diversi epiteti come: animale santo, nonno del monte, rospo del monte ecc. Le diverse parti del suo corpo e tutto quello che si riferiva a tale caccia si esprimeva con un linguaggio mistico speciale, inintelligibile per altri.

Le cerimonie, che cominciavano prima della partenza, seguitavano poi per tutto il tempo della caccia, nella quale si portava anche un runebom. Le donne non dovevano guardare l’orso ucciso che attraverso un anello di ottone. Nelle tre notti, che tenevano dietro alla caccia fortunata, gli uomini non dovevano dormire colle mogli. Mangiavano la carne cotta in modo speciale, senza sale; alle donne si dava solo la parte inferiore e dovevano mangiare il primo boccone attraverso un anello d’ottone. Tutti i cacciatori dovevano poi purificarsi. Le ossa si serbavano tutte e si mettevano in ordine in una fossa nel luogo ove era stato cotto, insieme agli organi genitali. La pelle era distesa sopra alcuni rami e le donne erano condotte davanti cogli occhi bendati; allora si dava loro in mano un arco o un bastone e dovevano cercare di colpire la pelle; e solo quando una di esse era riescita [319] a colpire (sarà il suo marito che ucciderà il prossimo orso) nel segno, erano tutte sbendate e potevano per la prima volta guardare la pelle. Così si compievano le cerimonie della caccia dell’orso.

[321]

BIBLIOGRAFIA

1

Oskar Schmidt. Reise von Bosecop nach Torneo in Meyer’s Volksbibliothek für Länder, Volker und Naturkunde, B. 48.

L’autore è un naturalista e si occupava di infusorii. È forse per questo che trova ridicoli gli svedesi che da Stocolma vanno ogni anno a Matarengi per vedere nel dì di San Giovanni sorgere il sole a mezzanotte.

«Quando si pensa, egli dice, alla lunghezza del viaggio, alla spesa forte, quando si ricorda che la notte del 24 giugno può esser nuvolosa quanto ogni altra e che il sole di mezzanotte di Matarengi ha lo stesso aspetto del sole al tramonto, bisogna proprio avere una grande tendenza al romanticismo per spendere tanta fatica, tanto tempo e tanto denaro per un piacere, che consiste quasi tutto nella pura immaginazione.»!!

[322]

L’autore descrive bene alcune scene della vita finlandese; sono veri bozzetti fiamminghi.

Interessante assai è quanto riguarda la flora generale dei paesi percorsi.

2

Boucher de Perthes. Voyage en Danemarck, en Suède, en Norvège etc., fait en 1854. Paris, 1858.

È un libro pettegolo, è un giornale da viaggio che può interessare l’autore, i suoi amici e pochi altri. È un lavoro leggero, superficiale e che non si aspetterebbe da un uomo, che ha un posto eminente nella storia della paletnologia.

Filippo Parlatore. Viaggio per le parti settentrionali di Europa fatto nell’anno 1851. Firenze, 1854.

È minuto, è esatto, spesso prolisso; più fotografia che quadro; la lingua sempre eletta, lo stile classico.

L’enumerazione delle piante occupa la parte migliore.

Le notizie sugli uomini scarse; importanti quelle che riguardano le università, gli stabilimenti, l’industria, il commercio.

[323]

Knud Leems, det Lappiske Sprog Beskrivelse over Finmarkens Lapper etc.; og Jessen’s Afhandling om de Norske Finners og Lapper Hedenske Religion. Copenaghen, 1767. Grosso volume in-4, di pag. 544, con 100 tavole incise.

È lo studio diligente dei lapponi fatto da un missionario, che passò gran parte della sua vita fra di loro. Libro prezioso per l’accuratezza delle osservazioni, la minutezza dei particolari e l’attendibilità delle notizie.

Sono importanti soprattutto le notizie, che riguardano gli animali della Lapponia e la religione antica dei lapponi.

Di fianco al testo danese vi è sempre la traduzione latina.

Le tavole sono di un’infantile ingenuità e rozzamente disegnate.

È un libro molto raro, che devo alla cortesia del dottore L. M. Borthen di Tromsoë[40].

[324]

Gustaf von Duben. Om Lappland och Lapparne företrädesvis de svenske. Ethnografiska studier. Stockholm, 1873, con tavole.

È la monografia più recente e più completa dei lapponi ed è il frutto di lunghi e profondi studii. Le parti più importanti del libro sono quelle che riguardano i costumi e le origini dei lapponi.

[325]

INDICE

Capitolo I
Note scandinave — Il lago delle bionde chiome — Copenaghen — I canali e i laghi della Svezia — Da Götaborg a Stocolma — Stocolma e gli svedesi — Un pranzo in casa di Retzius — Cristiania — Il sole di mezzanotte e le coste della Norvegia Pag. 7
 
Capitolo II
La gita a Öjungen — I primi lapponi 43
 
Capitolo III
Lettere lapponiche dell’amico Sommier — Un bagno finlandese preso a Elvebaken — I lapponi a Kautokeino — Bozzetti lapponici 71
 
Capitolo IV
L’ambiente scandinavo — Il mare, il freddo e il silenzio — Il carattere degli scandinavi 103
[326]
 
Capitolo V
Storia naturale dei lapponi — Loro numero e loro nome — Ritratto dei lapponi fatto da un poeta e da un prete — Abitudini e costumi — Le slitte, le capanne e la vita nomade — Loro psicologia — Le nozze e i funerali — Organismo sociale ed economia politica — Loro industria — Origine dei lapponi 115
 
Capitolo VI
Il mondo ideale dei lapponi — La loro poesia — I loro proverbi e indovinelli — Novelline 181
 
Capitolo VII
Il mondo soprannaturale dei lapponi — Profilo della loro religiosità — Conversione dei lapponi al cristianesimo e fervore apostolico dei missionarii norvegiani — Streghe, maghi e pregiudizi — La mitologia lappone secondo gli ultimi studii di Friis 267
 
Bibliografia 321

868. — Firenze, Tip. dell’Arte della Stampa.

NOTE:

1.  Il cartellone del 3 giugno 1879, che annunziava gli spettacoli e i divertimenti, che si potrebbero godere nel Tivoli, aveva una nota stampata in grossi caratteri che diceva appunto così: Pubblicums opmœrksomhed henledes paa Tulipanfloret.

2.  Nielsen, Schweden und Norwegen nebst Führer durch Kopenaghen. Terza edizione, Jena, Gustavo Fircher, 1880.

3.  La corona (Kr.) equivale a circa L. 1,50 e l’öre ad un centesimo e mezzo della nostra moneta.

4.  Anche in Scandinavia le belve vanno facendosi ogni giorno più rare. Secondo Elis Sidenbladh furono uccisi nella Svezia:

  ORSI LUPI LINCI GHIOTTONI
 
Dal 1865 al 1870 618 865 673 611
Dal 1871 al 1875 259 229 526 504

Il renne selvaggio non si trova oggi che nelle parti più solitarie della Lapponia ed anche l’alce è divenuto animale molto raro. Se si trova ancora al sud di Cristiania, è perchè è difeso da una legge, che proibisce di distruggerlo. E in quel paese le leggi sono ubbidite.

5.  In Scandinavia non ci sono accattoni. Vedi a questo proposito un lavoro molto interessante Sulla beneficenza ed assistenza pubblica in Norvegia, negli Annali di Statistica, serie 2ª, vol. 11, pag. 157.

6.  Un miglio quadrato corrisponde a circa 130 chilometri quadrati.

7.  Il nostro Bove trovò che i ciukci non usano occhiali, benchè molti di essi abbiano gli occhi in tali condizioni da far pietà. Invece gli indigeni delle coste americane polari e gli esquimesi usano occhiali di legno con una strettissima fessura longitudinale, che non lascia passare che pochi raggi luminosi.

8.  Ecker, Einige Bemerkungen über einen schwankenden Charakter in der Hand der Menschen. (Archiv., für Anthropologie), Mantegazza, Della lunghezza relativa dell’indice e dell’anulare. (Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia, vol. 7, Firenze 1877, pag. 19).

9.  B. Seemann, On the Anthropology of Western Eskimo Land etc. (Journ. of the anthrop. society 1864, pag. CCCIII).

10.  Knud Leem, op. cit., pag. 101.

11.  Knud Leem, op. cit., pag. 109.

12.  Leem racconta di aver percorso in una slitta lappone 88 chilometri nello spazio di sei ore.

13.  In Kautokeino ed Enare diverse famiglie di lapponi hanno una razza di cani che nascono senza coda. Naturalmente non è una razza propria, ma quella particolarità proviene in origine da ciò che per dei secoli, generazione dopo generazione, si è tagliato loro la coda finchè alcuni individui finalmente nascessero senza. Questo è talmente inerente alla razza adesso, che cani di quella razza, anche accoppiati con cani colla coda producono dei piccoli che ne sono privi.

14.  L’abbiamo fotografato. Ebeltoft ci diceva che aveva duemila renne e 4000 sp. daler alla banca.

15.  È bello raffrontare il carattere dei ciukci con quello dei lapponi. Anche quei fratelli orientali dei nostri buoni amici di Scandinavia sono benevoli, teneri in famiglia; nè ladri, nè omicidi. Se date ad un bambino un dolce o una leccornia qualunque, invita fratellini ed amici a dividere il dono con essi. Nulla assaggiano i figliuoli senza prima offrire ai genitori e ottenere licenza di mangiare. Quei poveri fanciulli a sette od otto anni incominciano a seguire le carovane, che vanno alla pesca della foca, a 9 o 10 anni guidano già un equipaggio di sette od otto cani; a 13 o 14 hanno già un arpone, una lancia ed un arco, armi che non poseranno più fino all’ultimo respiro. Son gente allegra e felice. I ciukci sono molto ospitali e un tempo offrivano le loro donne al loro ospite. Ciò non avviene più, benchè si debba dir che le donne ciukce non conoscono affitto il pudore.

Anche i ciukci amano poco la musica e non hanno altri strumenti musicali che un tamburo fatto colla vescica di foca ed una viola ad una corda. Conoscono poche canzoni con ritornelli monotoni e dolci. Le sole ragazze ballano e la loro danza consiste in piccoli salti, ora a destra ed ora a sinistra, storcendo orribilmente gli occhi e gemendo e soffiando come le loro belve e i loro cetacei.

Molte analogie esteriori si trovano fra i nostri lapponi e i ciukci. Anche questi portano nell’inverno due vesti di pelliccia, una col pelo all’infuori, l’altra col pelo all’indentro. Anch’essi, quando riposano, sogliono con un rapido movimento ritirare un braccio o ambedue le braccia dalle maniche, onde riscaldarle meglio. Anch’essi non abbandonano mai il coltello, la pipa e la borsa di tabacco. Il nostro Bove vide più d’una volta ciccare le donne dei ciukci e i bambini lasciare il capezzolo materno per prendere in bocca la pipa.

16.  Lo schizzo psicologico che abbiam dato dei lapponi sarà giudicato da taluno un po’ prolisso; ma noi speriamo che il ritratto sia rassomigliante. In questi casi la concisione è sempre a scapito della verità e basterebbe a provarlo il quadro dato dall’illustre Castren: «Son gente lenta, malinconica e burbera. Sono accusati di invidia, di implacabilità, di scaltrezza e di altri vizii inerenti a questo carattere. Si lodano invece per il loro animo mite, per il loro buon volere, per essere servizievoli ed ospitali, per il loro timor di Dio e la loro continenza.» È questo un ritratto che può servire per molti altri popoli!

17.  Fra gli altri Valdemar Schmidt combatte la credenza che i lapponi abbiano abitato la Danimarca all’epoca della pietra.

Nel nord della penisola scandinava non si trovano dolmen e i cranii dei dolmen danesi sono molto diversi da quelli dei lapponi. Le Danémark à l’Exposition universelle. Paris, 1868, in-8.

18.  J. A. Friis, Lappiske sprogpröver. En samling of lappiske eventyr, ordsprog og gaader, med orbog. Christiania, 1856.

19.  Scheffer, Lapponia. Francofurti, 1673, pag. 282.

20.  Eppure un passo del Kalevala, l’antico poema epico dei finni, avrebbe dovuto farci cercare i canti lapponi. Là dove Lemmin-Käine narra il suo arrivo alla casa di Pohjola in Lapponia, si legge (Canto XII):

La stanza era piena di maghi

I cantori erano seduti sulle panche

Gli uomini sapienti presso la porta

Gli indovini sulla prima panca

Gli scongiuratori presso la stufa;

Tutti cantavano canti lapponi.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Come è noto il Kalevala non fu raccolto dalla bocca del popolo che sul principio di questo secolo.

21.  O. Donner, Lieder der Lappen. Helsingfors, 1876.

22.  Lästadius riferì a Marmier una vecchia leggenda lappone, nella quale una madre mangia il bambino della propria figlia.

23.  Deserti della Siberia.

24.  Questi versi suonano anche in lappone dolcissimi:

Nabbudalla cabbudalla

Nammositis nalkutalla

Vuoinumitis vilutalla.

25.  Sarakka era la Dea, che presiedeva all’allevamento dei figli.

26.  Sul valore dei tre nodi delle castità Van Düben dice: «Sanguis in coitu primo effusus lavando colligitur in linteolo et adservatur; nodi tres in tali linteolo facti nodi virginitatis appellantur et de his in poemata loquitur.»

27.  Questi ultimi versi furono aggiunti modernamente al poema antico.

28.  Non si deve intendere però che si parli di elmo di ferro, ma solo di cappello da guerra. Donner crede che questo canto sia tanto antico da giungere al di là dell’epoca del ferro.

29.  La moglie di Stalu è chiamata Ludac (cimice), perchè essa succhia con una canna di ferro il sangue dal corpo degli uomini.

30.  Si chiamano con parola vezzeggiativa di civetta i piccoli bambini perchè aprono grandi i loro occhi per guardare.

31.  Una regione della Finlandia settentrionale.

32.  Il Frijs, fa precedere le sue novelline da una pittoresca descrizione della vita intima dei lapponi nomadi:

«È specialmente fra i nomadi che ancora si raccontano di queste favole. Se le raccontano da generazione in generazione nelle lunghe, chiare notti d’estate accanto all’accampamento nel bosco, o nelle oscure serate d’inverno intorno al focolare, quando la tenda è impiantata sulle deserte pianure di neve dell’altipiano.

«Diamo uno sguardo all’interno di una di queste tende in una serata d’inverno. Là dietro al Boasshjo, l’ultima divisione della tenda, proprio dietro il focolare, sta seduta una vecchia nonna col viso grinzoso e bruno come una indiana, fissando il fuoco coi suoi occhi rossi e lacrimosi. In bocca tiene una pipa, il cui corto tubo sparisce interamente tra le sue labbra sottili. Essa con voce seria racconta le storie dei tempi passati. Intorno ad essa stanno seduti rannicchiati colle gambe in croce alcuni bambini, che ascoltano il racconto con avida attenzione, mentre il figlio e la nuora stan seduti nel Loaiddo, cioè nella divisione al lato del fuoco e lavorano lui ad un cucchiaio di corno di renna, lei ad un komagband (nastro col quale al malleolo si lega la scarpa e il pantalone), che si tesse con uno strumento molto primitivo che s’impiegava nei tempi passati anche in Norvegia.

«A un tratto può essere disturbata la quiete dai cani, che fin lì erano rimasti rincantucciati in qualche angolo della tenda, ma che ora ad un tratto si precipitano abbaiando fuori della porta della tenda. Vi deve essere qualcosa di nuovo. Può essere uno dei servi che la notte doveva stare a guardia delle renne, che arriva col grido il più terribile per il lappone: Gumpe lae botsuin! (Il lupo è tra le renne!). Tutti quelli che possono mettersi i ski (pattini) allora saltan su e corrono per salvare quel che si può ancora salvare. — Può essere un viaggiatore. Per esso l’abbaiar dei cani è sempre un grato suono, perchè è sicura prova che non è lontana una capanna di lapponi. Per quanto ristretta sia, essa gli darà un riparo al freddo e al vento, che soffia sul deserto di neve dell’altipiano. Gli vien dato subito il posto migliore presso al focolare ospitale del Fjeldlappe, e senza esserne richiesta viene spesso una delle donne a levargli i komager (le scarpe) e a dargli nuovo fieno morbido e asciutto. Forse anche avrà del buon brodo e della carne di renna. — Può anche essere stato un falso allarme. Il marito che è andato fuori dietro ai cani non può scorger nulla: sarà stato l’odore di qualche animale minore che avrà dato l’allarme ai cani. Tutto è tranquillo e non vi è nessun pericolo. Il marito rientra nella capanna e con lui i cani: questi cercano di prendersi con mille furberie il posto l’uno all’altro, e finalmente si rimettono alla cuccia brontolando. Ognuno riprende le proprie occupazioni, e la vecchia nonna ritrova il filo della sua narrazione, che spesso è lunga quanto le lunghe e buie serate dell’inverno.»

33.  Lo stesso Knud racconta come alcune vecchie da lui conosciute continuassero, benchè cristiane, a prestar culto ad idoli antichi. Vi fu quindi, benchè fugacissima, anche tra essi un’epoca di transizione, nella quale si poteva dire che servissero due dèi: «Praeter faedam illam et abominandam, cui olim dediti erant lappones, idolatriam, verum et trinum Deum, in cujus nomen baptizati erant, cujus verbum audiebant, cujus sacramentis utebantur, colere etiam videri volebant; priscis Samaritanis non dissimiles, qui verum Israelis Deum et vicinarum gentium ficta numina junctim et promiscue adorabant.»

34.  I lapponi non hanno capito che la parte più grossa e più superficiale della religione cristiana. Von Buch racconta al principio di questo secolo, che essi si accostavano alla Comunione con molta frequenza, ma soltanto perchè la riguardavano come una specie di sortilegio, che li preservava dall’influenza degli spiriti maligni. Non è ancora molto tempo, dice egli, ch’essi portavano alla Chiesa un panno bianco, e vi inviluppavano con grandissima cura il pane santo, che dividevano poi alle loro case in una quantità di piccoli pezzi, che davano poi ai loro rangiferi per difenderli da ogni pericolo.

35.  Mantegazza, Quadri della natura umana. Milano, 1871, vol. II, pag. 317.

36.  Manoscritto di Naerö, pag. 11-13.

37.  Quando a Mace cercavo l’antico cimitero trovai sopra un’area estesa delle depressioni regolari nel suolo, delle quali non capivo l’origine. La mia guida non sapeva neppure cosa fossero, ma suggerì che potessero essere i luoghi dove i lapponi costruivano le loro capanne; egli supponeva che avessero scavato la terra, perchè non elevandosi i tetti al disopra degli alberi non si potessero vedere da lontano poichè, mi diceva, anticamente il paese era sempre soggetto alle scorrerie dei russi, ed i lapponi cercavano più che potevano di nascondersi, spegnendo i loro fuochi, perchè non se ne vedesse il fumo quando sapevano che il russo era vicino. Non so se questa spiegazione valga, ma prova per lo meno che esiste ancora tra i lapponi la memoria delle incursioni dei loro vicini e delle astuzie a cui dovevano ricorrere per nascondersi. In quanto al nome di russi, è probabile che abbia sostituito quello di qualche popolo, come: tchudi, kareli o altri, essendo oggi i russi i soli vicini temibili che abbiano.

La voce cutte dal significare Tschudi è passata nella lingua lappone a significar nemici.

38.  Questa credenza delle mosche ganiche è nata sicuramente da qualche infezione prodotta dalle punture di una mosca, che aveva assorbito il virus di un animale domestico o selvaggio malato di pustola maligna.

39.  Questa superstizione si trova sotto forme poco diverse presso popoli delle più lontane parti del mondo ed è giunta fino a noi e tra noi coll’impiccamento in effigie.

40.  Di questo libro esiste un’edizione latina, che porta la stessa data dell’edizione bilingue: Leemius (Canutos). De Lapponibus Finmarchiae, eorumque lingua, vita et religione pristina, cum notis J. E. Gunneri. Abbiamo pure una traduzione tedesca stampata a Lipsia nel 1771, in-8.

Lo stesso Leem ha pubblicato una grammatica e un dizionario della lingua lappone.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.