The Project Gutenberg eBook of Virtù e delitto This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Virtù e delitto O la famiglia del masnadiero: novella storica del secolo XVI Author: Gaetano Barbieri Release date: May 30, 2024 [eBook #73733] Language: Italian Original publication: Milano: Bonfanti, 1837 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK VIRTÙ E DELITTO *** VIRTÙ E DELITTO [Illustrazione: _ — Ah! non temete alcun male da me. Del male a voi!_ — _Virtù e delitto, ecc. pag. 31_.] Virtù e Delitto O LA FAMIGLIA DEL MASNADIERO _NOVELLA STORICA DEL SECOLO XVI_ DI GAETANO BARBIERI MILANO PRESSO LA DITTA ANGELO BONFANTI _Contr. della Passarella, n. 488._ I. LA MAGRA FIERA. Chi nel secolo decimosesto avesse attraversata agli otto di settembre quella catena di Apennini sgombra di nevi dal principio di aprile sino alla metà di novembre, piaggia incantevole per ogni sorta di produzioni della natura che ne ammantano i molti gioghi e le poche pianure, oggidì Calabria Citeriore, giunto al piè delle montagne del Sila, là donde sgorgando il Crati va a fecondare un’amena valletta, avrebbe veduto quivi apparata in tutta solennità una chiesa intitolata alla Natività della Vergine e dinanzi a questa una piazza, o piuttosto anfiteatro animato da immensa folla di terrazzani e stranieri, circondato di tende sotto cui stavano esposti in vendita non solo aranci e melegrane, non solo tutte le merci di cui abbonda quel fertilissimo suolo, ma quante ricchezze esotiche in oltre dal vicinissimo Mediterraneo venivano colà trasportate. Nondimeno il desiderio di godere della totalità di una cotanto bella prospettiva gli sarebbe andato a vuoto nel 1510. Avrebbe udito sì lo squillo delle campane festive, veduti i padiglioni della chiesa addobbata da festa ed anche qualche baracca di venditori di vino; avrebbe veduti alcuni contadini e benestanti delle più vicine campagne oziare in sagrato e infilzar ragionamenti alla propria maniera, intantochè le loro donne stavano entro la chiesa intonando con le bellissime loro voci meridionali cantici alla Vergine sul metro che inspirò due secoli appresso que’ leggiadrissimi di messer Trionello[1] Tu dunque nasci, celeste angioletta? Deh quanto tempo è che il mondo ti aspetta! Se’ tu colei che su l’arpa dorata Lo re profeta n’avea cantata? ecc. ecc. ma non sarebbesi incontrato in estranei, tratti ivi dalla curiosità o dalla brama di comprare o di vendere. Tutt’al più gli sarebbe apparso uno o due di quei palchetti posti quasi a livello della testa di un uomo su cui nelle fiere stanno seduti gravemente con la loro tromba divinatoria sempre apparecchiata l’astrologo o l’astrologa che danno per danaro a chi la cerca la buona o anche talvolta la trista ventura; perchè, per una di quelle anomalie non insolite ad incontrarsi nelle teste umane, mentre la popolazione del regno di Napoli è forse l’unica fra le nazioni cattoliche presso cui nè sovrani nativi nè stranieri nè pontefici arrivarono mai ad introdurre il tribunale dell’inquisizione, questa popolazione ha forse superate per lungo tempo tutte l’altre nelle superstiziose credenze. Ed avrebbe ancora vedute schierate in bella mostra, benchè non in divisa a quei tempi, le milizie comunali della città e della campagna che, avendo nella maggior parte delle loro attribuzioni ceduto il luogo alle assoldate bande straniere, erano scadute assai dal primitivo lustro, nè serbavano altre incumbenze fuor quelle di far gli spari nelle sagre all’ora della benedizione, di assicurare il buon ordine nelle fiere e in generale di mantenere il paese all’intorno possibilmente difeso dagli aggressori. Qual era il motivo di una sì spiacevole novità? Si potrà raccapezzarlo dai propositi che si faceano da una brigata d’individui convenuti quivi nell’ora del vespro, i quali, simili ai contadini della nostra Lombardia, e per dir vero di tutta la cristianità, nell’aver paura che lor caschi addosso la soffitta del tempio se ci rimangono qualche minuto oltre ai lor conti, stavano aspettando quel tocco di campanella che li facea gettarsi tutti in una volta entro la chiesa ove, inginocchiati e seduti ad un tempo su le proprie calcagne, coi capi che toccavano terra e con una divozione non mentita, chè bisogna render loro questa giustizia, riceveano la benedizione dell’augustissimo Sacramento. — Da che mondo è mondo non c’è mai stata una festa della Madonna così malinconica — diceva un giovinotto che però potea men degli altri della brigata sapere per esperienza da quanto tempo il mondo fosse mondo. — Che cosa vuol dire, Gennariello mio, non esserci più il nostro buon re Federico! — soggiunse un vecchio massaio di comune che si dava una grand’aria d’importanza. Contemporaneo a tale osservazione fu il mesto sorriso d’altro vecchio in poveri panni che, senza far parte di quella brigata, le stava ronzando attorno. Nessuno allora ci badò, eccetto il giovine Gennariello. Intanto saltò su un uomo di mezzana età volgendosi al massaio di comune: — Per altro, compare, non vedo come c’entri il re Federico con la banda d’assassini della Bocca del Lupo che guasta tutti i nostri divertimenti e in grazia della quale soltanto abbiamo questa magrissima fiera. Quand’anche adesso vivesse sarebbe in Francia ove si ritirò per mangiar bene e bever meglio e non ci pensare ad altro. Oh sì ve’, lui che non fu buono di mantenersi nostro re e che ci donò via senza preveder nemmeno a chi ci donava, lui sì voleva esserci d’un grande aiuto! — Qui il vecchio che avea sorriso prima mise un sospiro di cui altri s’accorsero; poi come sbadatamente si allontanò. — Perchè ha sospirato quel baggeo che avea l’aria di starci ascoltando? — disse l’uomo di mezzana età. — E un momento prima l’ho veduto sorridere — rispose Gennariello. — Sapete, compare Gervasio, che colui è una figura curiosa! Mi ci ero trovato vicino un’altra volta quest’oggi quando stavo guardando l’arrivo delle nostre milizie che si disponeano su la piazza, e quel galantuomo, guardando il giovine comandante che dava i suoi ordini, facea la stessa funzione; or sospirava, or ridea. Ci avete indovinato a chiamarlo un baggeo; senza dubbio un idiota abitante de’ più alti greppi dell’Apennino, un di coloro che vanno all’impazzata ove li portano le gambe e che ridono e sospirano agli angeli. Guardatelo là; è tornato adesso a bearsi nella contemplazione delle nostre guardie comunali. Del resto, Gervasio, parlaste benissimo quando, al proposito del defunto re Federico, diceste: _Lui sì voleva esserci d’un grande aiuto!_ Non ci riesce il vicerè attuale, il magnifico don Gonzalvo di Cordova, che non è, per Dio! uno stupido, a liberarne da questo flagello! — E certo — replicò Gervasio — fa di tutto a tal fine. La dite una bagattella l’ultima grida che mette sì grossa taglia su la testa dell’uomo, nominato da chi il _Leone_, da chi il _Gran capitano degli Apennini_, vero e primario capo degli assassini? Lo dite poco l’articolo V di tale grida: _Chiunque sarà convinto d’aver prestato soccorso al malfattore o di essersi trovato o d’aver solamente potuto sospettare di essere stato in compagnia di esso senza portarne denunzia ai tribunali, fosse anche suo stretto congiunto, verrà assoggettato alle pene decretate contro ai suoi complici?_ Poi c’è gente appostata per tutta la Calabria a fine di sorprenderlo. — Contatemi di agguati tesi e di taglie! — tornava a dire il massaio. — Il Leone mette le sue taglie anche lui, mette anche lui i suoi agguati e fa ogni giorno reclute, perchè i suoi soldati non hanno mica bisogno di certificati di moralità affinchè costui gli ammetta; va a trarseli fuori sin dalle galere di Taranto. Contro alla forza aperta ci vuol forza aperta. — Zitti, zitti! — esclamò il giovinotto. — C’è qualche cosa or di meglio che chiama la nostra attenzione. Entra in chiesa adesso la fidanzata del comandante delle nostre milizie, la ricca figlia ed erede del cornetta Solis tanto beneficato sino che visse dal nostro attuale vicerè. Che bellissima creatura! Come ha fatto presto a girar gli occhi su l’amante e come subito si sono intesi! Per dir vero il sorriso del secondo è stato d’una gravità a lui insolita.... posso dirlo io che, come suo coetaneo, conosco il fare del signor Luigi Grifone.... ma comanda a gente più vecchia di lui e ha bisogno di tenersi in sussiego. — Di fatto dinanzi alla porta maggiore della chiesa scendeva allora dal suo leggiadro e ben mansuefatto palafreno su cui era stata in groppa insieme con la nudrice e consegnava la sua cavalcatura ai propri famigli la bellissima Maria Solis, giovinetta di circa diciotto anni, di media statura, ma di leggiadrissime forme e dotata della più soave fisonomia, la cui carnagione bruna meridionale ricevea risalto dalle sue chiome nere vagamente inanellate, da due bei nerissimi occhi e dai più freschi e vividi colori della gioventù. Appena il giovine comandante ebbe contraccambiato lo sguardo espressivo che quella gli volse fu veduto dare alcune istruzioni ai suoi aiutanti, poscia entrare in chiesa egli pure. Ancorchè, come si è detto, i soldati comunali non avessero allora il distintivo di una divisa, i lor comandanti ben discerneansi a certe armadure più leggiere delle antiche e divenute piuttosto di lusso dopo introdotto l’uso dell’armi da fuoco. Quella del capitano Luigi Grifone era elegantissima e adatta quanto mai alle sue belle forme che il faceano apparire cotanto degno della promessa sua sposa. — Come corre quel nostro Luigi! — notò il giovinotto. — Ha forse paura ch’ella gli scappi dalla porta di sagristia? — Già la calamita ha sempre tirato il ferro — disse il massaio d’importanza assaporandosi, come se avesse il pregio della più rara novità, questo suo fiore di comparazione rettorica. — Volete ridere? — soggiunse Gennariello — entra in chiesa anche il galantuomo dai sorrisi e dai sospiri. Ah! adesso si capisce tutto — aggiunse con vivace gaiezza. — È un rivale del capitano Luigi, e per questo lo ha squadrato sì a lungo. Aspettatevi una disfida! — Certamente chi avesse veduto l’inconcludente affaccendarsi di quel vecchio che era or qua, or là, che appena tornato fuor di chiesa il capitano Luigi per mettersi a capo della sua soldatesca tornò fuori anch’egli; chi avesse veduto il suo frequente ridere e sospirare che pareva a credenza, avrebbe potuto giudicarlo come lo giudicò il nostro giovinotto. Però non sarebbe corso tanto nel sentenziarlo se avesse fatto mente all’espressione malinconica del volto smunto e sparuto del medesimo, alla sua fronte meditabonda e aggrottata, alla sua guardatura torva, non però truce, che potea sembrar forse piuttosto d’un uomo soggetto ad accessi di mania che d’uno scimunito. Ma Gennariello la pensava così, ed il vecchio massaio gli disse: — Voi vi perdete in frascherie e vi scordate delle mie giuste riflessioni di poco fa. — Guardate se me le scordo; ve le ripeto: _Contro alla, forza aperta ci vuol forza aperta_. Non potrete però dirmi che questa milizia comunale stia con le mani alla cintola. Quante volte si è battuta valorosamente contro agli assassini! e quanti ne ha fatti freddi! soprattutto il bravo giovine che la comanda! — Ma una notte mentre veniva dalla casa della sua fidanzata rischiò di essere fatto freddo anche lui, se qualche suo dipendente capitato a tal ora, può dirsi miracolosamente, per quelle foreste non lo salvava da chi lo assalì all’improvviso. — Non verrò a dirvi — soggiunse il massaio di comune — che questa nostra milizia non si presti assai bene al suo dovere, ma i fatti son fatti; ammazzamenti se ne odono ogni giorno; nessun possidente è omai sicuro nelle sue case di campagna o andando pe’ fatti suoi; tutta la nostra Calabria, vi dico io, è posta nei triboli da questo saccheggiatore. — Qualcuno allora notò come generalmente nelle più atroci fra le aggressioni che avvenivano il Leone non si lasciasse vedere. — Venga poi egli in persona — ripetè il massaio, nè sembra che dicesse male — o mandi le sue bande a scannarmi, dico che per me tanto fa. — Un famiglio del curato di San Giovanni in Fiore che non avea parlato sin allora aperse la bocca per dir anch’egli la sua sentenza. — Bisogna confessarlo per altro, questo Leone ha di gran belle maniere per farsi degli amici. — Caro voi — sclamò l’assennato massaio — insegnatemene una di tali belle maniere. — Sol questa. Fu a pranzo giorni fa dal mio padrone. Dopo aver desinato si ritirarono insieme in una stanza; di lì a poco il Leone si congedò, e a me, solamente per averlo servito a tavola, mi regalò un bel ducato. — E nella camera ove si ritirarono sai tu che cosa facessero? — chiese Gervasio. — Io non cerco i fatti de’ miei padroni. — Io scommetto che il tuo onestissimo Leone avrà pregato con la pistola alla gola il povero prete a dargli qualche centinaio di ducati. Il tuo padrone non te lo avrà forse detto per non pubblicare la cosa prima di fare le sue denunzie. — Io poi non cerco tanto in là, e le centinaia di ducati e la pistola alla gola, se non gli ho veduti io, non gli avete veduti per dinci nemmeno voi. — E quest’è una verità sacrosanta! — sclamò Gennariello. — So che mi donò un ducato; questo lo so. — Digli — saltò su un garzone di muratore — che anch’io sono stato beneficato dal Leone e questi certamente non ce ne aveva interesse. M’incontrò su la via di Paola che piangevo perchè alcuni della sua banda mi avevano portati via i pochi soldi della mia settimana. Mi costrinse ad andare con lui, chè li raggiunse presto i suoi, volle verificare la cosa perchè è un uomo giusto, ma quando fu sicuro di non avermi trovato in bugia non solo mi fece restituire i miei danari ma, indovinate mo! ci aggiunse tre volte tanto del proprio. — Altri fecero coro al famiglio del curato e al garzone di muratore raccontando altri simili tratti di magnanimità attribuiti al Leone. — A che tempi viviamo! — esclamò il massaio. — Sul sagrato della chiesa della beatissima Vergine, nel giorno d’una delle sue primarie feste, si ha ad udir gente che fa gli elogi d’un assassino come se facessero il panegirico d’un santo! — Non v’inquietate, buon papà — disse Gervasio; — non può negarsi che il Leone nella vita d’assassino che fa ha presi i modi cavallereschi di certi condottieri de’ tempi andati che i nostri vecchi ci vanno tuttavia ricordando e che, a dare il giusto loro nome alle cose, erano ancor essi belli e buoni assassini. Non meno di quelli il Leone fa la guerra ai ricchi e protegge i poverelli. Insegnate mo a questa gente a parlarne male, ancorchè io convenga per il primo che ha torto chi ne parla bene! — Io dico che non c’è più religione — gridava il compare massaio. — Anche questa, cred’io, è una lamentanza vecchia — notò Gennariello. Intanto la campana della benedizione chiamò tutti in chiesa, onde non rimasero nel sagrato e nella piazza se non le milizie che fecero i loro spari quando ne fu il tempo, qualche garzone vinaio restato a guardar la sua bettola, finalmente un’astrologa che, posta per allora da un lato la sua tromba magica, contava da star sul proprio palchetto ed intascava i danari raccolti nel suo piattello, o parlava a quando a quando con alcun suo alleato segreto che, venendole a confidare quel passato di cui fu testimonio, le ingrossava il capitale de’ suoi pronostici dell’avvenire. II. LA MALA PREDIZIONE. Data la benedizione, la maschile brigata descritta dianzi nell’uscire di chiesa si fermò sul sagrato a far ala per vedere venir fuori le donne, come i nostri giovani eleganti si fermano sotto gli atrii del grande teatro per passare in rassegna le belle della giornata. Nè fra quelle che il luogo ed il tempo attuale potevano offrire alla vista andò certamente inosservata la vezzosissima Maria Solis che, dopo dati ai suoi famigli alcuni ordini in forza de’ quali la cavalcatura allestita per lei andò ad aspettarla altrove, disse come rispondendo ad una rimostranza fattale dalla nudrice: — Intanto ch’egli congeda le sue milizie per accompagnarsi indi con noi bisogna bene ch’io mi faccia passare il tempo. — Ma in tutt’altro modo io direi, cara mia. Se vi prendete su uno spavento!... — Sapete bene, Concezione — tale era il nome della nudrice — ch’io non sono la figlia della paura. Se non volete farvi astrologar voi siete padrona. — E così dicendo si trasse per mano la nudrice verso il luogo ove l’astrologa s’era tornata a mettere più fervidamente che prima nell’esercizio della mistica sua professione. Sia in grazia della bizzarra loro acconciatura, oppure conseguenza della vita stentata che fanno, le fisonomie delle zingare o astrologhe non appariscono per solito molto simpatiche, e fra cento consorelle della Meg Merrilies del _Guido Mannering_ si troverà per prodigio, se pure è vero, una Esmeralda. L’astrologa di cui parliamo qui apparteneva alla classe delle cento; vi lascio pensare se non era una brutta serva di Dio! Accortasi costei della buona clientela che stava per capitarle, si sbrigò tosto degli avventori che avea per volgersi alla vezzosa Maria Solis di questo tenore: — Indovino subito che quella bella signorina vuol ch’io le dica la sua ventura. — Comare, se tutto il vostro indovinare sta qui, è ben poca cosa. Mi vedete venirvi direttamente in verso. Per qual altro fine vorreste ch’io lo facessi? — Se lo dico io che si consuma il tempo! — soggiugneva la povera Concezione che stava su le spine, ma che d’altra parte non sapea mai contraddir nulla alla sua diletta figlia di latte. L’astrologa intanto, postasi in fazione, non mancò di esaminare una palma e l’altra della mano che la giovinetta non ricusò di sporgerle e di fare i suoi calcoli e borbottamenti segreti; indi, cinta secondo il solito d’un fazzoletto, che diceasi bianco, l’imboccatura della tromba onde la sua voce fatidica giugnesse a chi soltanto doveva ascoltarla, intimò alla sua neofita di avvicinar l’orecchio alla estremità più ampia della tuba misteriosa mentre ella avrebbe consegnate le sue parole all’estremità superiore di essa. Convien credere che l’astrologa su le prime non raccontasse altro alla sua consulente se non il nome del casato di essa, quello del suo giovine amante, dell’amore che entrambi si portavano scambievolmente, perchè la Maria esclamò con vivacità: — Comare benedetta, se non mi dite altre cose fuor delle presenti ch’io sapea prima di venire da voi, era inutile ch’io vi consultassi. — Ma volete proprio saper le cose avvenire? — esclamò senza valersi della tromba la maligna donna presa da un momento di stizza nel vedersi alquanto dileggiata da una giovinetta. — E di che altro volete ch’io sia curiosa? — Bene, bene, vi servirò come a voi piace. — E qui le confidò all’orecchio altre cose col ministerio della terribile tromba. — Oh! oh! oh! — sclamò la Maria senza rispettar punto il segreto del fidatole arcano. — Io per dir vero ci ho badato appena che un vecchio smunto e mal vestito, quale me lo descrivete voi, sia entrato in chiesa e abbia guardato fiso ora il capitano di questa milizia or me.... — Ci ho ben badato tanto io! — soggiunse la Concezione. — Ma ci siamo, cara comare, mi raccontate sempre delle cose presenti. — Or bene, giacchè mi ci costringete — disse l’irritata maga — vi dirò alla presenza di tutti che l’uomo al quale dite di non aver badato ha la mala guardatura e vi ha portata la vostra fatale disdetta. — Madonna! Madonna! ve lo diceva tanto io di non venir a destare questo vespaio! — gridò alla Maria la povera Concezione. Ma la buona Maria che, come ne occorrerà l’occasione di farlo vedere in appresso, aveva nel suo retto discernimento e nella purezza del proprio cuore i migliori talismani contro a qualunque fascino del mal occhio[2], si diede a ridere di tutto cuore. Ed il suo riso ed il suo attuale trastullo sarebbero durati più lungamente se non vedeva venire a sè un aiutante a lei ben noto del suo fidanzato; chè allora, premurosa di sapere qual messaggio le recasse a nome dell’amante, gettò in fretta una moneta d’argento sul piattello dell’astrologa che in quel punto forse sentì qualche rimorso di essersi tanto lasciata vincere da uno stizzoso zelo del decoro di sua professione. Intanto i nostri curiosi si erano avvicinati al palchetto della sibilla per veder meglio che cosa facesse e non facesse la Maria, e continuavano a parlare alla rinfusa di lei, del suo amante, ed anche del Leone. — Dite, Gennariello, chè voi lo saprete, è propriamente nativo di Napoli quel capitano Luigi? — Sì e di nobil casato. Le passate vicende politiche, dicesi, fecero morire di crepacuore il consigliere Grifone suo padre che nondimeno gli ha lasciata una buona sostanza. I suoi danari gli vengono sempre pagati da un banchiere di Napoli. — E quanti ne ha! e come se li fa godere dagli amici! — Gervasio dicea. — Fa anche di grand’atti di beneficenza — soggiunse il giovinotto. — E non è solo un buon soldato, ma istrutto di tutte le cose; la dà ad intendere fino ai nostri preti; basta dire che sa perfettamente il latino ed il greco! — A proposito di greco e latino — soggiunse Gervasio — sapete chi parla anche queste lingue come un libro aperto? — Chi? — Il Leone. — Ecco almeno una citazione venuta a tempo — sclamò sogghignando Gennariello. — C’è mo dubbio — soggiunse il massaio — che quel Leone, giacchè mi dite che sa il latino ed il greco, si sia dato in potere del demonio? — e nel domandar questo si fece il segno della croce. — Chi sa? — disse il giovinotto ridendo. — Eh! la mia creatura — saltò su Gervasio — non c’è tanto da ridere. Porta sempre un certo anello con sè ch’egli chiama il suo estremo rifugio. Può benissimo essere un anello magico. — Padre Venanzio, lo credete voi? — Tale interrogazione fu vôlta da Gennariello ad un vecchio frate dell’ordine dei minimi che passava di lì uscendo allor della chiesa, ove avea fatto il panegirico della Madonna, per tornarsene al suo convento di Paola. Questo religioso, spettabile per costumi e saggezza come per affabili modi che gli si leggevano in viso, avea ricevuti tre anni prima gli ultimi aneliti del fondatore del suo ordine, morto a Plessis in Francia. — Che cosa ho da credere? — richiese il buon frate volgendosi addietro. — Che l’assassino detto il Leone sia posseduto dal demonio. — Figliuolo, son cose queste che la mia povera testa non arriva a conoscere; ne so una solamente, ed è che, se è vero che l’uom nominato da voi sia un assassino, non è posseduto dallo spirito del Signore. Ah! le nostre passioni sono peggiori di tutti i demoni; preghiamo il cielo che nessuna di esse ne dia il tracollo, perchè siamo vestiti tutti di questa carne e tutti fallibili se Dio non ci tiene la sua santa mano sopra. Buona sera, figliuolo! — Sta a vedere — disse il vecchio massaio — che anche un religioso del glorioso Francesco di Paola[3] diventa l’avvocato degli assassini! — Il padre Venanzio, che avea già continuato per la sua strada, trovò la Maria che stava per montare a cavallo insieme con la nudrice. La notizia che le avea portata l’aiutante del capitano Luigi si era che per affari della sua milizia egli non poteva accompagnarla, come erano rimasti d’intelligenza, nel ritorno di lei a casa, ma che non avrebbe mancato di visitarla nella sera medesima. Alla vista del buon padre Venanzio la Maria si rattenne dal mettere il piè nella staffa e s’affrettò con volto ilare a dirgli: — Padre, la vostra benedizione! — Volentieri, figliuola. — Ce ne è ben di bisogno — sclamò la Concezione — dopo il pronostico!... — Che pronostico? — domandò il padre Venanzio. — Niente, niente, buon padre — soggiunse la Maria. — La mia buona Concezione ha paura della sua ombra, ed io qualche volta... io qualche volta ho poco giudizio. Vi racconterò tutto se verrete a trovarmi. Son cose da ridere solamente. Ma venite un po’ più spesso a vedermi. Volevate tanto bene al mio povero padre! — E ne voglio anche a voi, la mia creatura. Ma a noi poveri frati tocca più spesso il dovere di andare nelle case ove ci sono delle disgrazie. La vostra finora, Dio voglia che si possa sempre dirlo, è la casa della felicità. — Ah parlate pur bene! — gridò la Concezione. — _Dio voglia che si possa sempre dirlo!_ — Nonostante — continuò il padre Venanzio — la prima volta che torno da queste parti verrò a vedervi. — E perchè non questa sera? — replicò la Maria. — Perchè gli affari del mio convento mi vogliono domani a Paola. Addio, buona Maria. Salutate a mio nome il vostro fidanzato. — In questa guisa si separarono e a poco a poco la piazza fu sgombra. III. L’APPARIZIONE. Sopra una delle più alte punte del Sila sorgeva una casa, nè umile tanto che si potesse chiamarla rustica, nè sfarzosa sì da qualificarla per signorile, ma più deliziosa di una villa reale veniva fatta dalla felicità di sua situazione. Fiori ed erbe d’ogni soave odore ne imbalsamavano l’aere all’intorno, mentre tempravano l’estiva arsura, spesso sensibile in quei climi anche nel principio di settembre, alte foreste di castagni, di abeti e di frassini che verso il declivo del monte cedevano il luogo agli ulivi e alle viti. Il maggior balcone di tale casa signoreggiava sì il Mediterraneo che da esso vedevate e il capo della Scalea e il golfo di Taranto e la foce del Crati. Era questa la casa della giovinetta Maria Solis che abbiamo imparata a conoscere ieri sera. Di buon mattino ella stava lavorando all’ago presso l’indicata finestra, ma nè le foreste nè il Mediterraneo nè il golfo di Taranto nè la foce del Crati avevano i pensieri di quella donzella. Una considerazione grave per lei le avea fatta passare inquieta la notte e la tenea tuttavia assorta in serii pensieri. Il suo Luigi le avea bensì serbata parola col visitarla la sera innanzi appena sdebitatosi de’ protratti obblighi militari che allegò siccome impedimento dell’accompagnarla a casa, ma oltre all’avere tenuta assai corta quella sua visita sembrò alla Maria che si sforzasse nascondere una certa tetraggine divenutagli abituale da qualche tempo e che s’accrebbe quand’ella gli fece il racconto della scena avuta con la zingara e delle predizioni fattele da colei su l’uomo dalla mala guardatura. In oltre la Maria non sapea spiegare a sè stessa i motivi di una premura mostrata da Luigi a fine di sapere se il padre Venanzio era stato o verrebbe a visitarla, come solea quando si trasferiva alla valle del Sila, e della fretta onde congedossi da lei appena inteso che il buon minimo avea già ripresa la strada di Paola. Ancorchè a prima vista la nostra giovinetta ne sia apparsa d’una vivacità capricciosa, talvolta persin leggiera e poco meno che inconsiderata, ella diventava la persona più meditativa del mondo ove le occorressero all’animo argomenti che si riferissero al suo amore per Luigi, o che ancora in qualsiasi modo fossero atti ad esercitare l’alto di lei carattere; nel che una cosa aiutava a spiegare l’altra. Ella amava in Luigi Grifone non solamente il bel giovine e il giovine coraggioso, prerogative già onnipotenti di per sè stesse sul cuor di una donna, ma in oltre ravvisava in esso, può dirsi, il suo unico educatore, colui che, dotato d’un ingegno superiore quasi agli anni suoi, sviluppava in lei i germi d’un discernimento naturalmente rettissimo; onde non è a stupire se vedemmo la Maria religiosa sì per indole e per educazione ma scevra in uno de’ volgari pregiudizi di que’ tempi, come non è meraviglia ch’ella sortisse un amante di mente non ordinaria nei giorni contemporanei al gran segretario fiorentino e forieri della fortunata epoca di Leone X. Di questo umor non bellissimo della sua figlia di latte si accorse la Concezione che stava allora rinnovellando le ampolle di fiori freschi su la mensola della Madonna; ma vedete un po’ come bene la buona vecchia ne indovinasse il motivo! — Affè che mi parete pensierosa questa mattina. Direi quasi _vostro danno!_ Ci voleste andar di legge a sentir quella mala astrologa! — Ah! avete ben ragione — disse con dolce e mesta ironia la giovinetta. — Non ci sono altre cose che possano dar da pensar su la terra fuor delle predizioni di una zingara pazza. — Che altro mai può darvi fastidio? — Che altro mai! Non vi avvedeste ieri sera come avesse la fronte annuvolata Luigi? — Ci badai poco; doveva essere stanco delle sue fazioni della giornata. — Si è trovato in simil caso altre volte, e il suo buon umore non lo abbandonava per ciò. Oh! questo buon umore è ben alterato da quindici giorni fa! — Eh! son quindici giorni appunto da che corse quel brutto pericolo di essere scannato da un assassino. Mi par bene un buon motivo di non essere più allegro. — Oh! Luigi non è l’uomo da pensare al pericolo quando è passato. Poi un’idea adesso me ne richiama un’altra. Non vi siete accorta che da quindici giorni non mi parla più della speranza di veder presto effettuate le nostre nozze? E sì per l’addietro era il suo discorso favorito d’ogni minuto! — Questo, se volete, lo ho notato, e ho notato ancora che non vi dà più conto dei lavori che fa fare nella casa da lui comprata di fresco per alloggiarci la sua sposa. In oltre ha venduti que’ suoi due più bei cavalli da sella che gli erano tanto cari. C’è mai dubbio che i suoi affari domestici non andassero più bene come una volta? Egli è, come voi, orfano di padre e di madre. Le sue sostanze le amministra un tutore, quel banchiere che gli va rimettendo danari da Napoli. Tutti i tutori non son fedeli, la mia Maria, come questa povera vecchia spagnuola che vi tien luogo di madre! — In questa parte certo devo ringraziar Dio, cara la mia Concezione. Ma me fortunata se il mio Luigi non avesse altre afflizioni oltre quelle che potessero derivargli da uno sbilancio economico! — Bella fortuna da vero! — Me fortunata! l’ho detto e lo ripeto. In tal caso gli direi subito: _Luigi, se qualche circostanza non preveduta ti ponesse in una posizione più difficile.... se, per mettere il caso più disperato, ti privasse perfino d’ogni modo di sussistenza, pensa che la tua Maria ha una sostanza sufficiente per vivere lei e per far vivere te._ — Ma, signorina — disse la Concezione facendosi ritta ritta — non vi ricordate più che la buon’anima di vostro padre Francesco Solis vi ha lasciata sotto la tutela della Concezione Rustegos vostra seconda madre e che per conseguenza non potete disporre nè delle vostre sostanze nè della vostra mano senza il consenso di questa vostra tutrice? — Il consenso di questa mia tutrice! vi mostro io subito come fo ad ottenerlo. — E nel dir ciò la cara giovinetta, alzatasi dalla sua scranna, corse ad abbracciare la Concezione e le impresse fervidamente un bacio per guancia e un su la bocca. — Ah, briccona! mi conosci troppo — esclamò la vecchia che, strettasi al seno la sua prediletta, contraccambiò le tre e le quattro volte i ricevutine baci. — Aveva io torto, mamma, quando ponevo ogni mia fiducia nell’amor che mi porti e che è tanto contraccambiato dalla tua figlia? — Venne indi un succedersi di scambievoli e cordialissime carezze cui impose fine la nudrice con una sensatissima riflessione, perchè, se prescindiamo da certe superstizioncelle che la buona vecchia spagnuola aveva nell’osso, la nostra Concezione, quando era fuor di tutte le suggezioni e a quattr’occhi con la sua allieva, parlava proprio da donna di proposito. — Orsù, figlia mia, quello che si ha a fare si faccia subito. Così nella mia Spagna nativa come in questa parte d’Italia il tempo di maritarsi per le ragazze arriva presto e vola anche più presto. Quando viene oggi il tuo Luigi hai da spiegargli alla libera questa intenzione che dicesti a me. L’eccesso del tuo amore non raffredderà il suo, perchè quel buon giovine t’ama da vero; me ne sono avveduta io in più d’una circostanza, e noi vecchi ce ne intendiamo di queste cose! — Ma e se ci fossimo ingannate voi ed io sul motivo del suo turbamento? — E se ci fossimo ingannate non gli dài mica una sassata con lo spiegargli quello che saresti pronta a fare per lui? Ne trarrà una maggior confidenza a sceglierti in tutti i casi d’angustia per sua amica, per sua consigliera. A te poi non mancano le belle maniere di far nascere un discorso. — M’ingegnerò, mamma. Già non dovrebbe tardar molto a capitare. — Non aveva ancor terminato di profferire queste parole la giovinetta quando d’improvviso si spalanca l’uscio della stanza e si presenta alle due donne tale visione che avrebbe atterrite persone anche più intrepide. Poco men che ignudo, ma armato, grondante sangue, ansante, con una fisonomia stralunata, atta per altro ad indicare più forse un infelice che un delinquente, entra un uomo di circa sessant’anni. Trasalisce la Maria, la Concezione grida tosto: — Vergine Santissima! Vergine Santissima! l’uomo dalla mala guardatura! — nè ha forza di profferire un accento di più. L’uom sopraggiunto dice con voce patetica alle due donne tratte troppo fuor de’ lor sensi per udirne le parole: — Ah! non temete alcun male da me. Del male a voi! cerco soltanto mettere in salvo la mia vita che si vuol togliermi. — Come si è notato, era impossibile che il suono di questi accenti arrivasse all’orecchio delle due povere spaventate creature. Pure l’imminenza di un pericolo, o temuto o reale, ne guida più presto, e come per forza d’istinto, a quella freddezza di mente necessaria onde misurar meglio lo stesso pericolo e meditare i modi di trarci il men male d’impaccio; e ciò sarà accaduto tanto alla giovine Maria quanto alla sua buona nudrice, le quali udirono l’inchiesta dello straordinario personaggio quando questi la ripetè, non però senza aver prima posto in disparte il suo moschetto e ciò a fine di rassicurarle meglio su le proprie intenzioni. — E qual disgrazia vi è occorsa e che cosa possiamo fare per voi, noi povere donne? — disse la Maria. — Qual disgrazia, buona signorina? col dirvi che mi vogliono morto vi ho detto tutto. Che cosa potete fare? darmi il tempo di ristagnare il sangue che mandano le mie ferite e, se aveste alcuni panni vecchi entro cui potessi avvolgermi... vedete in che stato mi hanno ridotto... datemeli in carità, poi abbandono subito la vostra casa. Per vostra quiete nessuno mi ha veduto ad entrarci. — Già l’abbattimento della paura, grazie a queste sole parole, avea fatto luogo nel cuore della sensibile Maria a tutte le emozioni della pietà. Essa lacera tosto una gran falda della tela su cui stava lavorando. — Servitevi di questo per le fasciature di che abbisognate. Concezione, guardate fra i rimasti abiti del povero padre mio se ve ne sia qualcuno che s’adatti a questo povero nostro ospite. — Gli occhi inumiditi del personaggio misterioso provarono che per lo meno non gli era ignota la gratitudine. — Ma la mia cara Maria, sappiamo noi bene a che ci esponiamo? spero che questo uomo non ci vorrà compromettere.... ma pensate a ieri sera!... — — La mia intenzione non è al certo di compromettervi — soggiunse tosto lo sconosciuto — però se avete delle paure su ciò.... questa buona giovinetta, sotto il cui tetto mi ha portato un caso ch’io non prevedeva giammai, m’intenerisce troppo.... torno a gettarmi fra le mani de’ miei persecutori. — No, no, buon uomo! — esclamò la Maria — non fate un simile torto alla nostra ospitalità. Questa benedetta Concezione mi ama tanto che alle volte..... — Vi amo certo e questo amor mio mi scolpisce meglio nella memoria e la figura di quest’uomo e le parole profferite dalla zingara. — Concezione, non bado ad un’astrologa di piazza io. La mia consigliera vedila là! — e accennava col dito l’immagine della Vergine — quella là innanzi alla quale rinovavi i fiori poc’anzi. Oh! mi son volta a lei prima di risolvermi; l’ho guardata; mi è sembrato fin vederle mover gli occhi, mi è sembrato udire dalle sue labbra divine queste parole: _Quando vedi un infelice non cercare perchè lo sia ma soccorrilo!_ La chiamano madre degli sfortunati per questo. — La Concezione, in cui taceva ogni riguardo di umana cautela quando vedea la figlia sua volere una cosa, e in parte ancora persuasa da quei detti profferiti dal labbro d’un angelo, andò in cerca delle cose che la Maria le accennò. Nell’intervallo in cui ella rimase sola con l’uom misterioso, questi, guardandola con volto sempre più commosso, le disse: — Oh! voi arrivereste a riconciliarmi con gli uomini. — Vi compiango se avete bisogno di chi vi riconcilii co’ vostri simili — gli rispose la virtuosa Maria più assai contristata del certo che lusingata da un tal complimento. — Ma lo stato in cui vi vedo è in parte la vostra scusa. Amico mio, pensate or solo a voi stesso e a tutto ciò che la mia casa vi può somministrare. Vado a sollecitare la Concezione. — Poc’altri discorsi passarono in appresso tra le soccorritrici e l’uom soccorso che, ben accortosi e del far guardingo della Concezione e compreso d’affettuoso rispetto per la Maria cui s’avvide parimente d’aver dato disgusto col mostrarsi nemico degli uomini, affrettò la sua fasciatura ed il suo travestimento. Non ci volle più d’una mezz’ora perchè fosse terminato. Colmando di benedizioni la Maria il misterioso personaggio se ne andò per una porta segreta affatto lontana da quella donde entrò, accompagnato dalla Concezione che suggerì ella stessa questa cautela. IV. NUOVI MOTIVI DI AGITAZIONE E STUPORE. Rimaste sole le due donne si trovarono per dir vero sollevate di un gran peso e di conserto ringraziarono il cielo nella fiducia che un tal fatto non avrebbe conseguenze peggiori. Ma non ebbero il tempo di abbandonarsi fra loro a que’ parlari cui siamo soliti dopo essere stati spettatori ed attori d’uno strano avvenimento perchè non tardò ad arrivare Luigi. Mise un’esclamazione di gioia la Maria, tanto più che le sembrò scorgere in esso una cera più allegra di quella con cui l’aveva lasciata. — Perchè non siete arrivato un po’ prima? — gli disse la Concezione. — Ci avreste trovate.... — Un affare di grande premura — rispose Luigi interrompendo il discorso alla nudrice — mi ha trattenuto, al certo contra ogni mia voglia. Mi stava troppo a cuore che la mia cara Maria non mi credesse dimentico delle mie promesse. Sì, mia diletta, le ricordo sempre e spero finalmente non lontano il momento in cui io non abbia a distrarre un solo istante i miei pensieri da voi. — Se ciò è — rispose la Maria — non v’è sagrifizio passeggiero ch’io non veda compensato da una sì bella speranza. — Bisogna bene — soggiunse la Concezione — che i vostri pensieri sieno gravi assai se non vi hanno dato il tempo nemmen di ascoltare quelli che hanno agitate noi povere donne. — Oh Dio! che cosa è stato? — chiese ansiosamente Luigi. — Nient’altro se non che abbiamo avuto qui l’uomo dalla mala guardatura! — fu presta a rispondere la Concezione. — Come? — domandò Luigi con uno stupore che sentiva d’atterrimento. — Cioè — soggiunse sorridendo la Maria — l’uomo cui attribuiva questa leggiadra prerogativa l’astrologa. Vi ricordate bene il racconto che vi ho fatto ier sera? — Proseguite! proseguite! — disse Luigi con una voce che potea credersi fatta tremante dalla sola idea di disturbi, qualunque ne fosse la natura, sofferti dall’arbitra del suo cuore. — Ma il mal occhio — continuava tuttavia sorridente la Maria — quel poveretto non lo ha fatto a noi che abbiamo saldato il tutto con un po’ di timore. Glielo hanno piuttosto fatto i suoi persecutori dai quali si è campato a stento rifuggendosi in casa mia mal concio dalle ferite ed in uno stato che bisognava non aver cuore per non sentirne pietà. — Non comprendo — diceva Luigi pallido in volto e con una confusione che continuava ad apparire bastantemente giustificata dalla spiacevole stranezza del caso in cui la Maria si era trovata — non comprendo...... perchè nessuno mi ha detto che gli aggressori si fossero vôlti da questa banda... — Ma non vi parlo d’aggressori; l’uomo rifuggitosi qui lo avrei detto piuttosto assalito che assalitore — la Maria soggiugneva. — Per dir la verità poteva essere più la seconda cosa che la prima; era carico d’armi! — Se non gli ho veduto altr’arma che un moschetto! ma cara Concezione!.... — Per altra parte io non ho dato ordini.... forse uno de’ miei aiutanti.... — susurrava a fior di labbro Luigi. Tra le interruzioni che non potea starsi dall’intromettere Luigi, il quale si mostrava affannato forse più che le narratrici nol fossero, e tra quelle che per forza del suo carattere andava introducendo la Concezione, fu terminato dalla Maria più placida in aspetto degli altri il racconto dell’avvenimento di cui siamo stati or or testimoni. Luigi allora rimase sì tacito, sì sopra pensieri che giustificò questa inchiesta della Maria: — Ma dove sei or con la mente, Luigi? Io di questo fatto omai non me ne ricordo più. Tu dovresti esser contento poichè vedi che non me ne è venuto alcun danno. Perchè non ripigli quella giocondità che mostravi appena giunto? — Mia cara, puoi immaginarti s’io non goda al vedere che non ti è occorso nulla di sinistro, s’io non ammiri la tua intrepidezza; ma il sapere che questa è stata posta a tal prova... poi.... tu lo vedi, il grado che occupo nelle milizie non mi permette di starmi dal far ricerche su ciò che sento ora accaduto. Più presto ch’io lo potrò sarò nuovamente da te. Maria! — e qui mise un sospiro e la voce di lui prese un accento soavemente patetico mentre baciandole con tenerezza la mano continuava: — Ah Maria! tu sei un angelo del paradiso! — e fu in un subito fuor della stanza. — Sono _un angelo del paradiso_, e mi fugge via più che se fossi un demonio dell’inferno! Che ne pensi, Concezione? — Ma, cara mia, egli ti ha pur data una ragione della sua istantanea partenza. — Sì, ma non arrivo a spiegare a me stessa la confusione che dominava ne’ suoi discorsi e che appannava, per così esprimermi, gli accenti della sua tenerezza. Il solo momento in cui mi è sembrato leggergli negli occhi e nella fisonomia la forza del solo amore è stato quando mi ha lasciata. Ah sono ben infelice! — La Concezione le avrebbe pur ripetuto volentieri che tutto le derivava dall’aver voluto farsi astrologar dalla zingara; ma vedea troppo reale il dolore della Maria per non temere di tribolarla di più, oltrechè era nata in lei stessa un’altra paura. — È vero — ella pensava; — si scorgeva più la confusione che l’amore in que’ suoi discorsi. Parea che non vedesse l’ora d’andarsene. C’è mai pericolo ch’io mi sia ingannata nel credere Luigi innamorato da vero di lei e ch’io l’abbia innocentemente tratta a perdizione mantenendola in questo errore? Ah, Signore! non lo permettete! — Povero Luigi! che torto gli si facea! V. LA CORTE DI GIUSTIZIA. Era scorsa una buona settimana dopo il pauroso caso avvenuto nell’abitazione della Maria quando, in una certa mattina, tutta Cosenza, città capoluogo della Calabria Citeriore, era in moto. Non credo si sarebbe trovato un solo abitante nella propria casa. Tutta la strada grande ringorgava di cittadini e di campagnuoli accorsi da ciascuna porta della città. Il maggior concorso per altro di chi andava e veniva era a quella che guida al mare. — È lui! — Non è lui! — È proprio lui il Leone. — L’armatetta dei guardacoste lo ha sorpreso solo entro un palischermo che correa con tutto il vento in sua via verso il faro di Messina. — Lo conducono adesso al tribunale ove stanno già uniti i giudici per isbrigarlo. — Erano questi i varii discorsi che l’uno teneva all’altro e che davano la ragione di tanto subuglio. Il tribunale di fatto è adunato nella grande sala della giustizia. Ne è presidente certo capitano di giustizia Bargilone, uom perfettamente concorde co’ suoi compagni nella massima di riguardare i delitti umani come campo di ricca messe a chi li giudica, con che davano l’aspetto d’inique alle cause anche le più giuste, e questa certamente ne era una, poichè trattavasi in fin del conto di giudicare un capo d’aggressori ravvisato ai più convincenti indizi per tale. Ma qual santa causa non si trasforma in orribile se vengono a sostenerla i tormentatori patentati, le strappate di corda, le gabbie, le tanaglie, la ruota, i roghi, le caldaie per bollirci gli uomini dentro e tutte le enormi suppellettili di quel Tristano d’esecrata memoria che dai dominii di Luigi XI si dilatarono con tanto fatale rapidità in tutto il rimanente dell’Europa! Il vicerè del regno di Napoli, il gran contestabile don Gonzalvo di Cordova, uom grande nella guerra come negli affari di stato, non avea certamente risparmiate cure per render gradita ai popoli da lui governati la dominazione di Ferdinando il Cattolico; e per vero dire la cosa pubblica veniva in allora amministrata senza lamenti, sia rispetto agli affari civili, sia rispetto agl’interni regolamenti ed al riparto dei pubblici pesi. Ma non poteva dirsi altrettanto in ciò che spettava ai tribunali criminali, pupilla dell’occhio d’un monarca che portò bensì alla più inaudita grandezza i suoi dominii, ma che fu ad un tempo il fondatore della inquisizione, e che, desideroso (nella qual cosa nè egli nè i suoi successori, come si è detto, riuscirono mai) d’introdurla nel regno di Napoli, non sol tollerava ma favoriva tutti i barbari odiosi privilegi dei tribunali di que’ giorni affinchè divenissero come l’impalcamento del più orrido tribunale ch’egli, Ferdinando, e l’atroce Torquemada, allora ottuagenario, voleano fosse la corte suprema di giustizia del Nuovo Mondo e del Vecchio. Ad impedire pertanto e a correggere gli abusi giudiciali in quel tempo esistenti ben poco poteva il gran Gonzalvo, costretto talvolta a premersi entro sè stesso i cordogli che non dalla giustizia ma dalla giustizia inumanamente esercitata gli derivavano. Dinanzi a questo tribunale pertanto composto com’era e come sol potea sfortunatamente esserlo allora, in mezzo a sedici alabardieri, strettamente incatenato, arrivò finalmente lo sciagurato che era stato sorpreso nel palischermo. Tutta Cosenza allora fu in quella sala; non avreste più veduto un uomo girar per le strade e tutti coloro che non capivano nella sala erano aggruppati negli anditi, ne’ corritoi, lungo le scale del palazzo della giustizia. Cosa strana! ognuno s’aspettava di vedere nel prigioniero tutto quel di peggio che la faccia d’un capo d’assassini può presentare. Vedevano in vece sopra un volto, solcato dai patimenti, l’espressione soltanto della mansuetudine e della rassegnazione. Parea quasi incredibile (se il volgo fosse molto avvezzo ad istituire tal genere di confronti) che con quella fisonomia si fossero conciliati gli enormi delitti onde il Leone veniva accusato. Sotto un pastrano nuovo portava un giubbettino verde che, come se fosse qualche cosa spettante a divisa, avea rivolture di panno rosso, ma che le fenditure del pastrano stesso lasciavano a stento vedere. Il capitano Bargilone, la cui nequizia era placida e l’accento del quale sinistramente blando andava accompagnato da un sogghigno che non lo abbandonava mai nemmen quando le sue misere vittime mandavano grida tra le fiamme o sotto lo strazio de’ più spaventosi tormenti, si fece tosto ad interrogarlo: Come vi chiamate? — Non mi chiamo più nulla; mi chiamarono il Leone, e talvolta il gran capitano degli Apennini. — Oh! oh! — sclamò ghignando il capitano di giustizia. — Badate a non cozzarvi per questo titolo col vicerè di Napoli.[4] — E questo sarcasmo ed altri successivi ancor più amari del Bargilone andarono molto a sangue di quella platea composta d’individui che non erano al certo altrettanti Filangeri o altrettanti Beccaria per comprendere come il reo caduto in mano della giustizia, e durante l’esame e nell’atto della sentenza e fin sul palco di morte, debba divenire un sacro oggetto di dignitoso riguardo pel giudice. Chi fra i presenti avrebbe potuto aggradir meno simili scherzi sarebbero stati uomini del far di coloro che nel sagrato della Madonna del Sila udimmo lodarsi di alcune beneficenze del Leone; ma, oltrechè la plebaglia ama ridere di tutto e su tutto, la sua interessata gratitudine non dura più del potere di essere benefico in chi se la conciliò. Lo sgraziato Leone, stretto di catene e su l’orlo del suo patibolo, non era più che un vile assassino agli occhi d’ognuno. — Per coraggio almeno e per fermezza d’animo non cedo a Gonzalvo di Cordova — così il Leone rispose al sarcasmo del Bargilone. — Bravo! va bene! — ripigliò a dire costui — potreste averne bisogno di queste virtù. Per altro son persuaso non garberebbe gran che al signor Gonzalvo questo parallelo che fate tra lui.... scusate se chiamo le cose come le chiamano gli altri... ed un assassino. — Qui la rassegnazione serbata finora dal reo diede luogo alcun poco ad un impeto d’irritazione. — Davanti a Dio fui un peccatore; ma non è vero che gli uomini avessero diritto di chiamarmi assassino. — Ah! contatemi mo con che bel nome volevate che vi chiamassero? — Ora non cerco più che mi chiamino con nessun nome. In buona giustizia dovrei esser chiamato un uomo che fece guerra alla società dopo che tutta la società avea mossa la guerra a lui. — Ma sapete voi che cosa faccia de’ prigionieri del vostro ordine la società? — Li fa morire, come io in altri tempi.... se non ho potuto altrimenti.... le ho fatto morire i suoi. Quanto a me, non cerco migliore intento. Ma vi prego che ciò sia presto. — Su l’una delle due cose mi arbitro a dirvi che ci potete contare. Circa poi al più presto o al men presto, finora, da galantuomo, non vi posso assicurar nulla. Ma ditemi, signor prigioniero di guerra... giacchè vi piace essere considerato così.... finchè eravate in tempo di scegliere, non avreste mo potuto seguire una bandiera un tantino più accreditata? — A questa domanda il reo sospirò; si fece anche più pallido nell’aspetto e il suo volto, disdegnoso poc’anzi, si compose ad un’espressione affatto patetica quando rispose: — Io stava per seguire la più nobile di tutte quando i vostri guardacoste me ne hanno impedito.... ma che dico io i vostri guardacoste? Io era indegno di Lui ed Egli non mi ha voluto. — Di chi parlate adesso? — Signore, io vaneggiava in questo momento; un certo amore della dignità di me stesso.... Oh sì, sì, vaneggiavo da vero. Chi è nel caso mio non può più parlare della dignità di sè stesso. — Pare veramente. Si è detto, galantuomo mio, che possediate certo anello magico.... — Magico! — sogghignando ripetè il prigioniero. — Coll’aiuto del quale vi sapete rendere invisibile. — Se possedessi un anello di tanta virtù potete credere che non mi vedreste e non mi avreste or nelle mani. Portai lungo tempo, è vero, entro un anello tale specifico che ad ogni voler mio m’avrebbe sottratto per sempre al potere di tutti gli uomini; ma lo specifico e l’anello che lo conteneva andarono in fondo al mare quando credei d’aggregarmi ad un altro vessillo. — È ben fatto che non vi siate reso nè invisibile nè impalpabile perchè potrete or darci alcuni schiarimenti di cui il tribunale abbisogna. Fa d’uopo che ora ne diciate i nomi di tutti i vostri compagni. — Fui preso che ero solo nel mio palischermo. — Galantuomo, vi consiglio risparmiare le vostre sottigliezze che qui non vi giovano a nulla. Intendo dire i nomi dei compagni dai quali vi allontanavate quando siete stato preso. — Non ne saprete uno solo dalla mia bocca. — Diavolo! si sono già fatti conoscer tanto! — Allora è inutile che ve li dica io. — Ma avrei sentiti volentieri i loro nomi anche da voi; anzi su ciò devo consigliarvi a non fare lo scompiacente. — Vi ho risposto. — Perchè poi, amico mio, abbiamo qui poco lontani — e nel dir ciò accennava la stanza della tortura — abbiamo qui poco lontani certi esortatori che hanno fatto parlare bocche più tacite della vostra. — Non so se la forza di questi esortatori vincerà la mia nel sopportare il dolore. — Lo credete? Anche una volta; volete risparmiarmi la necessità di valermi dell’opera loro? — La mia risposta ve l’ho data; fate quello che credete. — Allora ad un cenno del presidente il reo fu condotto nella fatale stanza dei tormenti ove tutti i giudici si trasferirono. VI. FAZIONI DI BARBARIE INTERROTTE. Nè amo di trasferirmi io nè d’invitare a trasportarsi in quell’orrida stanza i miei leggitori che da troppe storie e da troppi romanzi storici hanno imparato quali atrocità sieno state commesse a nome della giustizia in que’ giorni malaugurosi. Mi limiterò a dire che tutto quanto di crudele poteva immaginarsi fu praticato a strazio dello sciagurato fin da quest’ora fattosi per noi oggetto soltanto di compassione; che la costanza di lui non fu smossa; che forse sarebbe morto tacendo sotto i tormenti, se un nuovo avvenimento non avesse intimata una tregua all’inumana demenza de’ suoi carnefici. La folla rimaneva al di fuori immobile ed ansiosa di conoscere quali scoperte avrebbe portate questa barbara quanto sciocca ed inutile prova, allorchè venne annunciata ai giudici, tutti accaniti contro ad una vittima sola, un’altra nidiata di vittime sorprese dalle guardie della giustizia. Nella notte successiva alla festa già per noi descritta della Natività della Vergine, il capo de’ masnadieri si era recato, forse senza triste intenzioni in quel punto, nel suo covo della Bocca del Lupo ove trovavasi il rimanente della sua banda. Tenuto di vista da un drappello di milizia comunale, venne seguíto, e, investita dalla soldatesca la sua caverna, s’impegnò tal combattimento che costrinse i masnadieri ad una sortita funesta per gli assaliti, poichè molti di loro furono tagliati a pezzi e gli altri rimasero affatto scorati nell’accorgersi che il lor condottiero era rimasto seriamente ferito. I sopravvissuti allora si sbandarono e dopo aver vagato per diversi giorni fra i più inaccessibili e sconosciuti burroni si ridussero ad un luogo detto la _Caverna di Totila_ poco distante da Rossano. Quivi, per quell’istinto forse che hanno in comune gli scorridori di saper discernere in un batter d’occhio il ricovero alla diversità delle contingenze più accomodato, convenne pure il loro capo vestito in foggia diversa dalla precedente e riavutosi alquanto dopo le riportate ferite. Accadde che stando in quest’antro egli ricevesse una lettera di cui fe’ mistero ai propri compagni e, letta la quale, uscì della caverna soletto a chiaro di luna. La cosa venne notata da due fra costoro soliti a vivergli maggiormente in confidenza. Seguitolo alla lontana, lo videro in lungo convegno con uno straniero che si separò poscia da lui lasciandogli il pastrano onde l’abbiamo veduto coperto. Di ritorno ai compagni, il Leone non fe’ ai medesimi alcun cenno del colloquio avuto, ma si limitò a congedarsi da essi per tutto il giorno successivo, promettendo di additar loro in appresso una più utile spedizione. Nella sera i due compagni che gli aveano tenuto dietro la notte innanzi, e che nol vedeano ritornare, uscirono soli per consigliarsi fra l’ombre e nel silenzio delle foreste. Quivi, oltre al sospetto in cui lo presero per quel modo suo misterioso, adescati anche dalla ghiotta taglia promessa a chi consegnerebbe nelle mani della giustizia il capo de’ masnadieri, adottarono entrambi il partito di andare a denunziare il nascondiglio di lui e de’ suoi compagni alla giudicatura di Rossano; il qual tradimento non appena ebbero concepito, si posero in cammino per mandarlo ad effetto. Era già l’alba quando, scontratisi in una squadra del tribunale stesso cui s’avviavano preceduta da due bargelli, si presentarono coraggiosamente a questi i due mascalzoni con la grida alla mano che li facea certi della promessa mercede. — Seguiteci tosto, miei signori — lor dissero — e vi consegniamo prima di giorno il Leone ed i suoi compagni. — Dove? — chiesero a costoro i bargelli. — Alla Caverna di Totila. — Infatti ne è stato detto che i compagni del Leone possano esser colà, e le vostre vite ce la pagheranno se non ci sono — fu risposto alle due spie che nell’atto stesso vennero leggiadramente legate; — ma quanto al Leone, son corse di belle ore, figliuoli cari, da che è stato sorpreso sul Mediterraneo e condotto alla corte di giustizia di Cosenza ove fra poco farete la vostra bella comparsa anche voi. — Come rimanessero scornati e atterriti que’ due ribaldi è inutile il dirlo perchè il fatto parla da sè; era soltanto necessario l’indicare il caso occorso a costoro per far noto come tutta quanta la carovana de’ masnadieri si trovasse ora al tribunale di Cosenza, ove i due più vigliacchi della ciurma dovettero accorgersi di avere ordito il più nero ed inutile dei tradimenti all’infelice che, per non palesare i lor nomi, avea sopportati con coraggio i più orrendi tormenti. Apparecchiatosi dunque a sollazzi di nuovo genere, il Bargilone eccitò i giudici a trasferirsi nuovamente alle lor sedi; poi si fece venire innanzi tutti i prigionieri condotti poc’anzi al tribunale ed il misero Leone ridotto dopo i sofferti strazi allo stato di moribondo. Non lasciata ignorare alla miseranda sua vittima l’atrocia de’ due traditori compagni, con trionfante ironia soggiunse: — Vedete che non vi mancano buoni amici! — Non avevo fatto conto su l’amicizia loro nè su quella omai di nessuno sopra la terra — rispose con voce fioca il paziente. — E voi — si volse il capitano di giustizia a tutti gli altri colpevoli — vi farete pregare come lui per dire quello che sapete e meritarvi così qualche maggior commiserazione dalla giustizia? — Quanto a me — saltò su il più traditore di quegli scellerati — son pronto a dire tutto quello che so. — Se si tratta di me — disse lo sfortunato reo principale — ero già pronto a dir tutto io medesimo. — Non tutto, camerata — soggiunse il gaglioffo che aveva parlato dianzi. — Voi non v’immaginate forse quello che possa dir io. Nella vostra fretta di abbandonarci per sempre vi lasciaste cadere, senza accorgervene, la lettera di quel tal vostro amico misterioso.... — L’infelice cui questi detti furono vôlti divenne pallido come la morte. Il capitano di giustizia spalancò due occhi avidi sul malvagio denunziatore. — Fatevi coraggio; dite, dite, figliuolo! A me subito la lettera di cui parlate! — La lettera fu consegnata a chi la chiedea. Rimasto com’uom percosso dalla folgore, lo sciagurato Leone cadde privo affatto dei sensi. Se tale deliquio fosse prodotto dal presentimento delle cose che tale lettera avrebbe svelate o dalle vitali facoltà del Leone esauste sotto i tormenti o dall’una e dall’altra di queste cagioni, gli è quanto sapremo dappoi. Per allora l’adunanza fu sciolta; il semivivo venne portato in un letto dello spedale delle prigioni. Racchiuso in un carcere a parte colui che consegnò la lettera misteriosa, gli altri furono condotti nelle carceri comuni dei malfattori. VII. L’ESPETTAZIONE E L’ARRIVO. Intanto la giovinetta Solis ha passato di ben tristi giorni da che Luigi si partì da essa in un modo che dava così da pensare. L’amante le avea promesso di tornare il più presto, ma, in vece di comparir egli in persona, le scrisse alla domane questo biglietto che da più giorni è tema di variate angosciose meditazioni per la solitaria Maria. «Mia cara Maria. «Un affare premuroso altrettanto quanto l’amore che ti ho eternamente giurato mi obbliga a partire immantinente per Paola. Senza questa istantanea necessità sarei venuto io stesso a congedarmi da te. Non posso prevedere io medesimo per quanti giorni dovrò privarmi dell’unica felicità ch’io m’abbia al mondo, quella di essere dove sei, di respirare l’aria che tu respiri, di contemplare in te la più bell’opera della natura e del cielo. Ciò ti dice abbastanza come solo la più aspra fatalità, non mai il voler mio, possano farmi acconsentire ancor per istanti alla più amara, all’unica vera privazione che il tuo Luigi possa soffrire. Il bisogno d’affrettare il mio viaggio non mi permette scriverti di più. Non dubitare mai della sincerità del mio affetto. Se mi sentissi capace di far torto alla purezza di questo sentimento crederei di poter volontariamente oltraggiare la divinità di cui sei la più somigliante immagine sopra la terra.» A malgrado della tenera passione che traspirava da ogni frase di questa lettera, a malgrado della persuasione di essere sinceramente amata, durevole nella Maria e mantenuta in essa dalla nudrice, ancorchè, come vedemmo, fosse nato in cuore della Concezione un lontano timore di essersi ingannata, a malgrado di tutto ciò quella lettera fu un colpo mortale alla tranquillità della misera donzella cui venne recata. Dopo essere rimasta poco meno che instupidita, la Maria faceva ora un’inchiesta or l’altra a sè stessa: — Un affare premuroso altrettanto quanto il suo amore! Dunque ha degli altri affari premurosi egualmente? Anzi questo lo è di più; senza ciò non me ne farebbe un mistero. — E via e via venivano altre perplessità della stessa natura che per dir vero ella ripetè, or in un modo, ora nell’altro, a sè e alla Concezione, finchè la lontananza di Luigi continuò, e che per conseguenza non ripeteremo noi ai leggitori. L’amore trovava sempre soluzioni plausibili a questi quesiti, poi in un subito l’amore stesso le distruggeva, onde la povera amante avea già perduto l’appetito ed il sonno; frequenti lagrime le appannavano gli occhi stanchi omai di guardare per traverso ai boschi e alle montagne se mai qualche cavalcatura riconducesse il sospirato Luigi a quella volta; i colori vividi della sua carnagione erano spariti; non soffriva meno di lei l’amorosa nudrice; le ore forse più fortunate per la giovinetta erano quelle in cui, gettandosi a’ piedi della Vergine e facendo quasi un tutto del proprio amore e della propria fede religiosa, credeva esauditi i suoi voti e in una pia estasi vedea già ritornato il suo amante che, sempre fedele, sempre degno di lei, le porgesse la mano di sposo. Rinveniva un giorno da una di queste estasi deliziose quando vide dinanzi a sè il padre Venanzio che giungeva allora allora da Paola. Ciò che in altri tempi le avrebbe recato diletto, perchè certamente dovea piacerle il trovarsi col buon minimo che cercato, com’ella avea motivo di credere, da Luigi poteva essere meglio al caso di darne a lei le sospirate notizie, or le rincrebbe. Il sol uomo che Maria avrebbe voluto vedere in quel punto era Luigi e la presenza di un tutt’altr’uomo la spaventò. — Ah, padre Venanzio! sicuramente è occorsa qualche disgrazia al mio Luigi. — No, figliuola — disse il buon religioso. — Luigi Grifone è vivo, sano e poco lontano di qui. — E perchè non viene subito? — Ma bisogna che prima abbiate la compiacenza di fare un poco di conversazione con questo povero vecchio. — La Maria s’arrese al desiderio del padre Venanzio portandogli ella stessa una sedia, con quale curiosità, con quale palpitazione, con quale trepidazione di cuore, i leggitori sel penseranno da sè. Seduti entrambi nella stanza dal famoso balcone, il religioso di Paola già s’accingeva a parlare, ma nemmen questa volta la Maria gli lasciò aprir bocca, chè gridò tosto: — Ah ho capito! Luigi non mi ama più; non mi vuol più. — Adagio, la mia Maria! queste cose non ve le ho anche dette. — Ma ci son dunque andata vicina! — Figliuola, se non mi lasciate parlare non ci anderete nè vicino nè lontano e perderò io stesso il filo di quello che devo dirvi per adempiere le parti di un cristiano e di un religioso. Buona cristiana lo siete pure anche voi? — Oh sì, padre! parlate, parlate, non v’interrompo più. — Quando Luigi vi promise di sposarvi credeva d’essere un giovine ricco e di poter formare d’indi in poi la vostra felicità.... — La Maria non permise al monaco di procedere nel discorso perchè si diede a chiamar forte: — Concezione, Concezione! — Che cosa c’entra adesso la Concezione? — Oh! come c’entri lo vedrete. Eccola qui. Già so a che tende il vostro discorso. Gli affari economici di Luigi vanno male. — Tutto il male che possono andare, la mia creatura! — disse sospirando il padre Venanzio. — La Concezione vi dirà che dal più al meno era quello ch’io m’era immaginata. N’è vero, Concezione, che io al vedere da alcuni giorni il mio Luigi sì pensieroso, ne diedi subito colpa ad un disordinamento di sue sostanze e che ti dissi: _Ne ho più del bisogno per lui e per me. Metto fra le sue mani quanto posseggo?_ Tu, come unica mia tutrice, me ne desti in oltre la permissione; a che prezzo lo sai. — Qui sorrise la giovinetta ed anche la nudrice che, voltasi al padre Venanzio, esclamò: — Padre, ditelo voi se si può negar nulla a questa cara ragazza. Quanto ella vi ha raccontato è la pura verità. — Il frate minimo, intenerito dalla bontà ingenua di queste angeliche creature, soggiunse: — Gli è bene il saper ciò; è un passo innanzi per il povero Luigi che veramente è un ottimo giovine. Ma resta a sapersi se il sentimento della propria dignità, grandissimo in lui, gli lascerebbe consentire di vivere a spese di una moglie. — Se non ce lo mettete in testa voi! — disse nella vivacità della sua passione la Maria. Il padre Venanzio qui assunse un tuono di severità. — Signorina, se il vostro amore è fondato su la stima che avete per Luigi dovete giudicarlo abbastanza compreso della propria dignità perchè non abbia bisogno che frate Venanzio gliene inspiri il sentimento. Credevo più nobile il vostro amore. — Ah perdonatemi buon padre! perdonatemi! Noi donne non sappiamo alle volte che cosa ci diciamo, massime nell’impeto della passione. Per altro.... ma prima di tutto mi avete perdonato? — Oh di tutto cuore, figliuola mia! _Per altro_.... che cosa volevate dire? — Non sarebbe mai vero che, dando io la mano di sposa a Luigi, mi sposassi con un uomo sprovveduto di tutto. Non possedè egli tale ingegno che può fruttargli in mille maniere? Oh! non la consumerebbe no egli la dote di sua moglie. — Qui parlate più ragionevolmente, perchè ho un gran concetto anch’io di Luigi. — Che siate benedetto! ma fatelo venir subito e che quest’affare si combini presto; ho penato abbastanza. — Prima ch’egli risponda... chè, vi ripeto, non mi fo guarante della sua risposta.... è necessario che sappiate come da tanta sua ricchezza egli sia caduto a non posseder nulla sopra la terra. — Che mi fa questo? — Fa molto, figliuola mia, e bisogna che sappiate tutto dalla mia bocca. — Ah! dite presto quello che volete dire! — È presto detto, figliuola mia. I danari che gli vedevamo spendere e che gli venivano rimessi puntualmente da un banchiere di Napoli il povero Luigi li credea frutti della eredità di sua madre. Un caso singolare gli ha fatto scoprire come in vece questi danari gli fossero spediti per segreto ordine di un suo parente che illegittimamente li possedea. Giovine di coscienza qual è, non solo non ha voluto ricevere più altre rimesse, ma ha pensato per prima cosa al modo di riparare i danni che cagionò innocentemente a chi avea diritto su quelle somme. Sapete che ha fiducia in me, onde è venuto a cercarmi al mio convento di Paola e per consultarmi su ciò e perchè lo aiutassi ancora, in quanto dipendeva da me, a ritornare su la miglior via questo parente, il quale.... Luigi non me lo ha nominato, e non me lo dovea nominare.... il quale dunque gli pare su la strada del ravvedimento. Dio voglia che sia così! Voi conoscete adesso lo stato presente di Luigi ed il motivo per cui ci si trova ridotto. Ma venire egli in persona a farvi una tale confessione!... capite bene... In somma è questa la ragione per cui mi vedete ora qui. — Avea forse paura di mostrarsi insieme con voi? Diffidava egli a tal segno de’ miei sentimenti? — No, Maria, non ne ho mai diffidato un istante — fu udita allora la voce di un nuovo personaggio la cui presenza fe’ trasalire la giovinetta ed anche in altro senso il padre Venanzio che non si aspettava sicuramente questa sorpresa. E qui perdoneremo alla passione fervida di Luigi e alla stranezza delle circostanze sotto le quali vivea se, avendo seguíto da presso il virtuoso monaco ed introdottosi poco dopo di lui in casa della sua amante, stette da un uscio ad ascoltare tutto il dialogo che abbiamo narrato. Convien credere che i motivi stessi gli meritassero indulgenza dal suo egregio proteggitore che si limitò a rimproverarnelo con questa esclamazione non disgiunta da una specie di paterno sorriso: — Ah gioventù! gioventù! — Ah Luigi! — esclamò tutta giubilante la giovinetta — tu qui! Dovevi lasciarti vedere un po’ prima e m’avresti risparmiato il torto di sospettare che tu diffidassi di me. — Giovinetta adorabile, sarebbe stato in realtà un farmi il maggiore dei torti il non credermi persuaso della sublimità de’ tuoi sentimenti. In quelli che hai svelati al buon padre Venanzio nulla vi è stato che fosse nuovo per me. Ma non è men vera la luttuosa storia che hai udita da lui e che ha posta a nuova prova la tua fedeltà, la tua costanza. Sarei nondimeno il più vile degli uomini se, non potendo più far nulla per te, io permettessi un tanto sagrifizio di te medesima. — Chi ti dice che non puoi far più nulla per me? — Maria, ti ho già ascoltata ancorchè tu non sapessi di essere udita. Permetti ora che parli io. Tutte le ragioni inventate dall’ingegnoso amor tuo non mi salverebbero mai dalla taccia d’uom senza onore s’io, rimasto privo di tutto, facessi compagna della miserabile mia fortuna una ricca erede, dotata d’ogni bellezza d’animo e di forme e desiderata ed ambita dai più facoltosi giovani di questi paesi. — Ecco dunque — disse con amarezza la Maria — a che si riducono le proteste d’eterno amore che il signor Luigi mi rinovava anche pochi giorni fa in questa lettera! Il signor Luigi conoscerà la propria scrittura! — Maria, so quello che vi ho scritto e giurato, e ve lo manterrò. Posso amarvi eternamente, anzi non potrei fare altrimenti; fin qui non danneggio nessuno. Se mai potrà esservi assicurato che il povero Luigi volga un giorno i suoi pensieri ad un’altra donna, allora vi do il diritto di versare su lui tutti gli obbrobri dovuti ai traditori, agl’infami. Io son libero di collocare ove credo il mio amore e, dopo averlo collocato in voi, mi digraderei se potessi collocarlo altrove. Ma voi, voi dovete dar conto delle opere vostre ad altre persone. — A chi mai? Ma prima di tutto, Luigi, questo giuramento d’amarmi eternamente lo avete voi profferito col cuore? — Il sommo Dio mi punisca se non l’ho espresso con tutta la pienezza dell’anima! — In tal caso ascoltatemi. Gli esseri ai quali devo dar conto delle mie azioni si riducono sopra la terra a questa mia buona nudrice. Il cielo glie lo perdoni! ma quello che voglio io lo vuol lei. Più alto ci stanno Dio e quella santa mia consigliera. Or bene, que’ giuramenti che voi avete fatti per me io gli avea già fatti per voi a questi due enti immortali. Bel servigio che mi fareste col rendermi la mia fede e serbarmi intatta la vostra!.... se pur, come spero, ho da credere alle vostre parole. Per far dunque a modo vostro dovrei forzare me stessa a non amarvi più, sapere che mi amate, promettere ad un altro il mio amore, promessa che già non potrei mai mantenere, e vivere una vita da disperata. Padre Venanzio, il vostro protetto mi darebbe di gran belli suggerimenti! — Lievemente sorrise il monaco, ma tacque e guardò il cielo. Il punto era troppo dilicato perchè egli ardisse interporre un suo consiglio, e l’argomento della Maria era tanto calzante che ogni saggezza umana nel volerlo combattere ci naufragava. La povera Concezione non faceva altro che abbracciare e baciare la sua allieva. Ci volea ben meno perchè il coraggio eroico dell’innamorato Luigi rimanesse indebolito; pure questi tentò ancora una resistenza. — Maria, il padre Venanzio vi ha già detto come io abbia la sfortuna d’avere un parente che mi fa torto..... è vero che mentre parliamo non potrà farmene più.... ma ad ogni modo perchè dovrei io regalarvi tal parentela? — I nostri parenti possiamo forse sceglierceli noi? — rispose la Maria. — Delle nostre azioni dobbiamo dar conto, non di quelle degli altri. Quel grande san Luigi di Francia è meno un santo del paradiso perchè suo fratello Carlo d’Angiò fu il carnefice di un nostro legittimo re, di quel misero Corradino? Vedete, Luigi, come io mi ricordi le storie che m’avete insegnate? — Le obbiezioni di Luigi divenivano a mano a mano più deboli e in proporzione più forti gli argomenti della Maria, fra i quali il vittorioso fu allor quando, guardandosi di sfuggita nello specchio, ella disse quasi piangendo alla Concezione: — Ah da vero non mi credevo far paura al segno di dover supplicar un uomo ad accettar la mia mano! — Luigi e la Maria si fecero a guardare in aria patetica il padre Venanzio intantochè la Concezione si alzò da sedere come per dar sesto ad alcune faccende di casa. Le occhiate di Luigi diceano: _Padre, non mi rimproverate di troppa debolezza se mi arrendo alle proposte della Maria_. Le occhiate in vece della Maria diceano: _Padre, inducete Luigi ad arrendersi_. Il buon religioso tacea tuttavia. Finalmente ruppe il silenzio. — Figliuoli, son cose queste nelle quali la prudenza dell’uomo perde la tramontana. Fate a mio modo, raccomandatevi al Signore e alla sua madre santissima perchè v’inspirino. Intanto io termino di dire compieta e nelle mie preghiere non mancherò di raccomandarvi fervorosamente alla divina misericordia. — VIII. LE NOZZE. Se i nostri due giovinetti impiegassero questo intervallo a cercare le loro inspirazioni da Dio e dai santi, o si consigliassero in vece fra loro, gli è quanto non m’arrogo accertarvi; posso ben dirvi che il minimo avea terminata la sua compieta quando Luigi, tenendosi per mano la Maria, gli tornò in verso. — In somma, padre Venanzio, dopo averci ben pensato e dopo essermi anche raccomandato al Signore per non mi sbagliare nelle mie risoluzioni, ho deciso che la Maria sia la compagna indivisibile della mia vita, semprechè ella persista nelle intenzioni manifestatemi e semprechè vostra paternità si degni approvare queste nozze. — Padre, io confermo quanto ho detto prima — soggiunse la Maria. — Allora non c’è più il caso, figliuoli miei, ch’io approvi o disapprovi. Anzi vi dico di più che, liberato come mi vedo dalla molesta necessità di dare un parere, benedirò con tutto il cuore la vostra unione perchè vi conosco due buone creature. — Ricompariva in quel momento accompagnata da due famigli la Concezione che disse tosto: — Abbiamo qui i testimoni; vi pregherò solo, buon padre, che quanto si ha a fare sia concluso presto. — Il monaco non si fece pregare; furono portati doppieri accesi ed un crocifisso su la mensola del quadro della Madonna; le nozze vennero celebrate secondo tutti i riti della cattolica chiesa, nè è a dirsi il giubilo degli sposi, della Concezione e della gente di servigio la cui felicità consisteva in quella dell’ottima loro padrona. Come si usa in simili circostanze furono portati all’intorno e zuccheri canditi e giulebbi, provvisioni di cui la casa della facoltosa erede Solis certamente non difettava. Trascorso un certo tempo, il padre Venanzio s’apparecchiava a prendere il suo cappello ed il suo bordone per congedarsi dagli sposi novelli quando la Maria graziosamente gli disse: — Spero bene, buon padre, che vorrete partecipare con noi del povero pasto delle nostre nozze. Capisco che cosa vorreste rispondermi; che le regole del vostro ordine cioè vi costringono a mangiar di magro in ciascun giorno della settimana; ma oggi è sabbato e mangiano di magro tutti i fedeli. Dunque, padre mio, non avete difese. — E vi daremo anche buoni piatti di magro — soggiunse la Concezione — perchè ecco là — e in questa guardava fuor del balcone — ecco là il nostro castaldo che viene dal mercato di Cosenza, e suole sempre portarne e buon pesce spada e buone triglie ed eccellenti frutti di mare. — Il padre Venanzio avrebbe creduto offendere la cordialità di così onesti convitanti non accettando; laonde era tornato a mettersi a sedere quando entrò nella stanza il castaldo con le braccia cariche di canestri e di ceste. — Vedo, Giacomo — si volse a lui tutta giuliva la Maria — che avete fatta buona presa. — Non mai tanto buona, mia cara padroncina, quanto l’ha fatta la giustizia di Cosenza. — Avreste letto in un subito un certo tal quale smarrimento ne’ lineamenti di Luigi, smarrimento però che non venne notato da alcuno in quel punto. — Che presa ha dunque fatta la giustizia di Cosenza? — chiese affatto buonamente il padre Venanzio. — Nient’altro che quella del capo degli assassini, del Leone sorpreso mentre fuggiva entro un palischermo alla volta del faro di Messina; l’ho veduto nella distanza in cui vedo voi adesso; e ne volete sapere una singolare, padroncina? colui aveva sotto il pastrano un giubbettino simile affatto ad una delle divise da casa che portava il padre vostro, il mio defunto padrone. — Un grido straziante atterrì tutta l’assemblea. Veniva il grido dallo sfortunato Luigi che prosternatosi ai piedi del padre Venanzio esclamò: — Per carità! per le viscere di Cristo! buon religioso, restituite come glieli restituisco io, alla innocente ed infelice Maria i suoi giuramenti, le sue promesse; fate che si annulli il nostro infausto matrimonio. Quel misero.... l’uomo di cui si è parlato ora.... è mio padre! — Per allora non profferì altre parole, che cadde con la faccia prostesa sul suolo. Il volto della Maria divenne bianco come panno venuto allor dal bucato; la Concezione fu presa da orride convulsioni; il pallore del padre Venanzio divenne pressochè itterico; pareva il pallore dell’ira; forse la persona più presente a sè stessa in quella brigata fu quella che rimase più percossa da sì terribile annunzio, la stessa Maria che si adoperava a far rinvenire, accostandogli essenze alle nari, il giovine prosteso, il quale, fosse colpevole od innocente, ridotto in tale deplorabile stato avea diritto soltanto alla compassione. Poichè tutti si furono riavuti alcun poco dal primo stordimento, e poichè Luigi, coll’opera dei servi cui fu d’esempio la pietà della loro padrona, si trovò adagiato più morto che vivo sopra una sedia a più cuscini, il padre Venanzio, in cui la giallezza dell’ira era già temperata da quello spirito di carità che era il più bel distintivo dell’ordine di Francesco di Paola, fu primo a volgere il discorso al giovine semivivo. — Figliuolo, se siete compreso della gravità del vostro fallo è anche meglio il conoscerlo tardi che mai, e abbiam che fare con un padrone che accoglie a tutte l’ore chi si ravvede. Ma come avete avuto cuore di tradire questa buona giovine che dicevate di amare, d’ingannar me con tutto quell’aspetto d’ingenuità e d’indurmi indirettamente ad essere il cooperatore della vostra menzogna? — Parve che gli spiriti semispenti di Luigi si rianimassero tutt’ad un tratto all’udire questo rimprovero che non cessava dall’essere amaro ancorchè temprato da tutta la mansuetudine di una indulgenza evangelica. — Padre Venanzio, vi ho sempre rispettato, vi rispetto ancora, ma, perdonatemi, in questo momento non lo meritate. — Come! ardireste intaccar me? — esclamò il padre Venanzio in cui l’uomo cominciava a farsi sentire di nuovo. — Non ardisco intaccar voi, perchè sarei un ingiusto, ma ardisco ben di pretendere che indebitamente non intacchiate nemmeno me. Come potete tacciarmi di menzogna perchè non vi svelai il parente che per sua e mia estrema sciagura aveva smarrita la sua strada dinanzi a Dio? Ov’è una legge divina od umana che obblighi un figlio....? — Ma non vi eravate dato per figlio del defunto....? — Chi chiamai mio padre lo è quanto è vero che Dio è Dio. Sol da pochi giorni mi fu noto che non morì. — Ad ogni modo, figliuol mio — soggiunse il padre Venanzio — fu una grande cecità la vostra il non vedere come un simile padre potea correre tal fine che avrebbe formata la sventura eterna della buona giovinetta di cui accettavate la mano. — Ma per salvarlo da questo fine fatale non ho io interposta la vostra mediazione medesima? Per chi vi chiesi se non a favore di mio padre.... non ve lo nominai; certo non doveva mai essere nominato dalla bocca di un figlio.... per chi se non a favore di mio padre vi supplicai di una lettera al priore di Santa Rosalia affinchè lo ricevesse a far penitenza delle sue colpe in quell’eremo? Io ardii supplicarvi di questo passaporto pel cielo sol quando fui certo del pentimento di quell’infelice, sol quando se ne fece mallevadore un vecchio amico del padre mio cui questi andò a discoprirsi, il curato di San Giovanni in Fiore. — Lo conosco quel degno sacerdote — disse il padre Venanzio. — Vedete dunque che non vi feci una sorpresa. Tornai a voi più tranquillo sol dopo aver veduto in pieno mare lo sventurato di cui parliamo. Fu sorpreso su la via del faro di Messina, lo avete udito. La sola persuasione che fosse salvo mi ha fatto accettare.... ma qui, lo vedo, son corso di troppo; la mia passione mi ha fatto cieco su le eventualità; le care seduzioni della virtù che mi parlava in persona sono state in me più forti della ragione. Qui merito i vostri rimproveri, ma vi ho additati io stesso i ripari.... — Figlio mio, vi chiedo scusa alla presenza di tutti se mi sono lasciato trasportare dall’ira su mere apparenze, le quali, ne converrete però, erano piuttosto gravi, come non negherete che qualche inconsideratezza giovenile ebbe parte in quanto è avvenuto. Per altro dite bene; i ripari noti sono impossibili, e spero che la santità di Giulio II, mercè una mia informazione riservata, si degnerà sciogliere un legame.... — Ma non la santità di chi è da più di Giulio II e di tutte le potenze del cielo e della terra! non la santità di quel Dio che per mano vostra ha ricevuti i miei giuramenti, padre Venanzio! — surse a dire con ineffabile energia la giovine sposa quasi dimentica dell’intensissimo dolore che la opprimea. — M’avete detto ore fa che mi credete una donna cristiana; voglio provarvi che sono una moglie cristiana. Luigi, marito mio, ti ho lasciato dire tutte le tue discolpe a questo buon religioso, non perchè io dubitassi di te, non perchè io t’avessi creduto capace di volermi tradire, ma perchè mi piaceva che tutti fossero convinti della tua innocenza come lo son io di essermi scelta uno sposo degno di me. Vieni al mio seno; la tua Maria non ti ha mai amato tanto, non ha mai ravvisati in così serio, in così caro aspetto i sacri doveri di moglie siccome in questo momento così amaro per te. — Qui la Maria si strinse fra le braccia il suo diletto Luigi cui soffocavano gli accenti le lagrime della gratitudine e in un del cordoglio in pensando a tutti i pericoli che per cagione di lui sovrastavano ad una donna tanto virtuosa. Poteva egli il buon padre Venanzio disapprovare questa sublimità d’amor coniugale, o anzi non ammirare un eccesso di virtù tanto straordinario? Le sole lagrime che gli sgorgavano per le gote provavano la natura del sentimento onde si sentiva compreso. La Concezione già riavutasi ed avvezza, come sappiamo, a dar sempre ragione alla sua pupilla, non si dipartiva qui dalla sua massima abituale; pure non potea difendersi da un certo presentimento che or non era superstizioso del certo e che troppo le dicea come il nembo andasse addensandosi. — Maria — disse Luigi quando finalmente ebbe la forza di parlare — non puoi immaginarti quanto questo tuo generoso atto ti renda sempre più preziosa ai miei occhi; ma diverrei detestabile persino a me stesso se ne profittassi. Hai tu ben pensato all’infamia degli uomini che sovrasta al mio capo? hai tu pensato ad altre conseguenze che forse ancora non prevediamo? — e abbrividiva nel far questa inchiesta di cui sentiva l’importanza più di quanto ardisse d’esprimerlo. — Ho pensato a tutto — rispose la Maria — forse più che non credi. Ma hai tu pensato all’ira del cielo che chiami sul capo tuo se, persistendo io ne’ miei giuramenti, tu mi fai la più sgraziata, la più disperata delle donne col tradire i tuoi in compenso della mia fedeltà? — Maria, angelo di virtù, a quest’orrida prospettiva cede la mia fermezza. Sia come vuoi! — Maria era per corrergli di nuovo fra le braccia quando Luigi mise un grido più compassionevole ancora del precedente. — Allontanati, Maria! sei anche in tempo! — IX. LA SORPRESA. Il venir messo quel grido da Luigi, l’essere da lui profferite queste poche parole, il vedersi tutta la stanza circondata d’alabardieri, in fronte de’ quali era il luogotenente criminale di Cosenza furono un solo istante. La concentrata attenzione prestata da ognuno ai propositi della Maria e di Luigi aveano fatto che gli astanti si trovassero investiti dalla forza armata tutt’all’improvviso. La Maria, richiamando tutte le forze dell’animo suo sì che non l’avreste creduta smarrita menomamente all’aspetto di una sì terribile sorpresa, si volge con cert’aria di gentile disinvoltura al luogotenente. — Qual mia buona sorte vi guida in casa mia e di mio marito, signori miei? — Voi avete marito? — chiese il luogotenente facendo la fisonomia di chi non crede una cosa. — Sì, mio signore, non mi farete il torto di dubitarne; se fosse possibile che ne dubitaste c’è qui il degno ministro che ha assistito alle mie nozze, il quale certo non vorrebbe essere spergiuro per confermarvi ne’ vostri dubbi. — Solamente allora il luogotenente s’accorse che ivi trovavasi il padre Venanzio, laonde non mancò di fargli un profondo inchino piegando alcun poco il ginocchio, tanta era la venerazione in cui venivano tenuti a que’ giorni i seguaci del glorioso Francesco di Paola e singolarmente, per le sue esemplari virtù, il padre Venanzio. Ciascuno degli astanti stava per parte sua, e secondo che la cosa più o meno lo riguardava, perplesso, agitato; nè v’era al certo un solo fra essi che avesse potuto o voluto o ardito contraddire il tenore della risposta data da quella tenera moglie, i cui fini evidentemente erano di costringere il marito a riconoscerla pubblicamente per tale, ancorchè sapesse di farla con ciò partecipe delle proprie sciagure. Quel luogotenente, di nome Quinzio, era un uomo corto, ben tarchiato, pingue, di un volto acceso che non presentava sicuramente l’attestato della sua temperanza, e, quanto poi al fare ed al sentire, degnissimo de’ rispettabili suoi commettenti. — È meglio per voi se la cosa è in tal modo — soggiunse costui con un ghigno che era la copia di secondo getto dei sogghigni del Bargilone. — Guardate le cattive lingue! Si dicea che aveste solamente un amante.... un semplice capo di milizie campagnuole.... un amante che per dir vero non avrebbe fatto molto onore alla giovine erede del bravo Solis.... — L’impetuoso Luigi fremeva; avrebbe voluto parlare, nè difetto in lui di nobile orgoglio o della connaturale sua intrepidezza al certo lo ratteneva da ciò; ma temea troppo di compromettere la sua Maria sempre di più. — Di quella giovinetta erede — proseguiva il luogotenente — che fu presentata al sacro fonte dal Gran Capitano vicerè di Napoli. — Oh quanto vi ringrazio — disse la Maria — che mi facciate ricordare di questa particolarità! Mi stimo fortunata di essere figlia d’anima del Gran Gonzalvo, ma non avevo mai pensato ad implorare questa eccelsa protezione. Forse ora.... — Fu rapido più d’un lampo l’occhio del padre Venanzio nel fare un cenno alla buona Maria, cenno rapido che volle dire: _Non è cosa sana con tali giudici il toccare questo cantino prima del tempo._ — Forse ora nemmeno ci penserei — così fu presta a voltar la sua frase Maria che intese in aria l’occhiata del padre Venanzio. — Or dunque — continuò il nostro Quinzio — vedete un po’ che cosa si diceva del vostro amante! ch’egli era il figlio di quel Leone, capo d’assassini, or caduto nelle mani della giustizia; e si era persino arrivato a sostenere che tal vostro amante avea tenuto mano all’assassino per agevolargli una fuga giovandosi del vostro amore.... vi dico solo le ciarle che si son fatte.... per travestirlo con una casacca del defunto padre vostro che si è trovala indosso al malfattore. Son ben certo, amabile signorina — proseguì Quinzio — che in questo travestimento voi non ci aveste la menoma colpa. — Anzi tutta io, signor luogotenente — soggiunse la Maria animata in volto e piena di quel nobile coraggio che viene inspirato dalla innocenza. — L’infelice di cui parlate ricevè il suo travestimento dalle mie mani soltanto senza che l’individuo ora accusato di tal cooperazione ne fosse consapevole. — Qui la Concezione avrebbe voluto dir qualche cosa anch’ella, ma certe occhiate misteriose e autorevoli del padre Venanzio la obbligarono, ben suo malgrado, a sì rigido silenzio ch’ella non apparve quasi affatto un personaggio di questa scena. — Ah taci, Maria! — esclamò Luigi che non potea e non credea più gli convenisse frenarsi — angelo d’innocenza, non incolpare te medesima ingiustamente. Tutte le colpe son mie. — Chi è quel giovine che parla adesso? — chiese ghignando al suo solito il luogotenente. — Quel giovine, signore, è mio marito. Consolati, sposo mio; sono io sola la rea della colpa che ti viene imputata; me ne vanto e saprò difendermi. — Per altro riflettete, signora — soggiunse Quinzio cui non parea vero l’accaparrarsi un maggior numero d’individui da processare — riflettete che della fuga agevolata al colpevole non venivate accusata voi, laonde vi siete danneggiata senza giovare all’individuo la cui lettera, che chiama padre il capo degli assassini, è adesso nelle mani della giustizia. Ma sareste voi forse — e qui si volse a Luigi — il figlio del Leone? — Il figlio dell’uomo caduto nelle vostre mani — rispose con orgogliosa fermezza Luigi. — Me ne rallegro con voi. — Perchè non fate queste vostre ironiche congratulazioni anche con me che sono sua moglie? — esclamò in atto disdegnoso la Maria. — Consolati, or te lo ripeto con maggior coraggio, marito mio. Siamo entrambi accusati; siamo entrambi innocenti al cospetto di Dio; lo compariremo ancora agli occhi degli uomini. Vedi se è una fortuna nel momento più importante di nostra vita il trovarci marito e moglie! Non prenderesti, spero, questo istante di una tribolazione che ho comune con te per rinnegarmi tua compagna. — Oh! moglie troppo cara e ch’io era sì lontano dal meritarmi, lo giuro a Dio, questo istante di rinnegarti non verrà mai! — Gentilissimi sposi, non turberò io certo tal vostra fortuna — soggiunse il ghignatore luogotenente — perchè il dovere della mia carica mi prescrive di condurvi entrambi meco a Cosenza. — Eccoci! — esclamò con sereno sorriso la Maria che corse a prendersi sotto al braccio il marito. — Il presente atto vostro è terminato, signor luogotenente Quinzio? — chiese il padre Venanzio che, non senza forti motivi, avea taciuto fin qui e che avviò un dialogo al quale tutti, ma principalmente i due sposi e la nudrice, prestarono la più ansiosa attenzione. — Scusate, degno servo di Dio — rispose tosto il luogotenente — se gli obblighi del mio ufizio mi hanno impedito finora di usarvi i dovuti atti di rispetto. — Eh! ciò non fa nulla — ripigliò il buon monaco — vi domando solo se questa parte del vostro atto è compiuta. — Sì; perchè? — Perchè questi giovani hanno un complice di più che non avete contato. — Chi? chi? — Me — soggiunse placidamente il padre Venanzio — e bisognerà che conduciate me pure a Cosenza. — Ah! vostra paternità vuole scherzare. — Veramente questo non mi pare tempo di scherzi, e quando vi protesto che sono stato complice de’ vostri imputati non vi dico niente di più della pura verità. — Ma, padre, se questo fosse.... chè già non so crederlo.... la nostra giurisdizione non si estende su gli ecclesiastici. — Si estende se non altro a dare sul conto mio quelle informazioni ch’io possa essermi meritate ai miei superiori immediati. Poi non potete ricusar d’ascoltarmi se dichiaro d’aver cose a svelarvi intorno agli accusati. — In favore o contro? — Non so come la potrete intendere voi, ma cose che al certo daranno dei grandi schiarimenti alla giustizia. — Perchè voi, miei buoni padri... vi rispettiamo, vi veneriamo... ma siete tanto fedeli all’impresa del vostro fondatore che è la Carità.... — Con la quale non ve la intendete troppo bene, n’è vero? — aggiunse il padre Venanzio ridendo. — Eppure se qualche volta ve ne scostaste un pocolino meno non fareste mica un peccato mortale, sapete! Ma tutto ciò sia per non detto. La sostanza è, signor luogotenente, che dichiarando io d’aver cose importanti da svelare al tribunale non potete negarmi di far parte della vostra carovana. — Se lo volete potete presentarvi al tribunale anche da voi — disse finalmente il luogotenente persuasissimo in suo cuore che il religioso di Paola non fosse nè complice degli accusati nè avesse cose importanti da svelare ai giudici, ma che per istituto del suo ordine e per naturale istinto di buon cuore volesse farsi patrocinatore de’ rei. — Con noi per altro avreste un viaggio assai incomodo. Siam venuti tutti a cavallo e ne sento ancora peste le ossa. — E vorreste le avesse peste anche quella povera dilicata giovinetta che a piè della montagna ha buoni cavalli e un agiatissimo calesse ove staremmo comodamente voi ed io e i due prigionieri, scortati poi da quanti alabardieri vorreste? — Qui il nostro Quinzio sorrise e non ghignò, perchè, se bene rigidissimo coi poveretti che gli capitavano sotto le unghie, era indulgentissimo verso di sè medesimo, particolarità fortunatamente non ignota al buon minimo che, come ve ne sarete accorti, nell’adempiere il suo ministero tutto celeste aveva avute mille occasioni di addimesticarsi con le cose terrestri e di far molta pratica su i diversi caratteri umani. — Sapete che non dite male, padre Venanzio? — soggiunse Quinzio. — Dico benissimo, e dico anche meglio se aggiungo che intantochè s’apparecchia il calesse.... scusate, buona Maria, se la fo da padrone in casa vostra.... fareste una cosa ottima per voi col prendere in questo intervallo qualche ristoro; trovereste dell’ottimo pesce di mare e la cantina Solis è provveduta di eccellenti fiaschetti di lacrima. — Oh quali seduzioni che mettevano in aspra lotta fra loro l’austerità d’un giudice e la golosità d’un Gargantua! Quinzio ciò non ostante rispose di malincuore e a fior di labbro: — Ah padre! il dovere.... — Che cosa c’entra il dovere? vi obbliga forse a morir di fame dietro la strada? I vostri prigionieri non saranno forse guardati ugualmente o restiate qui mangiando o restiate qui senza far nulla? Il tempo per allestire i cavalli ci vuole. Non dite che il vostro atto è terminato col condurli al tribunale? Esso, e non voi, ha da decidere di questi poveretti; e quand’anche la loro sorte dipendesse affatto da voi, credete vi farebbero il torto di pensare che un poco di pesce e un bicchier di vino potessero rendere men ferma la vostra giustizia? — Signor luogotenente, non vogliate farci questo affronto — disse la Maria che avea presa benissimo l’intonazione della musica dal padre Venanzio. — Sappiamo bene che voi non avete colpa nelle molestie tra cui ci vediamo ora involti. — Certo, figliuola, ogni qual volta io possa rendermi utile, senza pregiudizio della giustizia, al mio prossimo, lo fo volentieri — disse il luogotenente allora e per allora ammansato del tutto. — Dunque a tavola! — La Concezione era già corsa a dar gli ordini in cucina; la mensa fu tosto imbandita, vi si assisero il luogotenente, il padre Venanzio, i due sposi, con che cuore questi due ultimi ve lo lascio indovinare! pur la Maria si sforzò tanto che apparve disinvolta e quasi gioconda. Luigi s’ingegnò finalmente di seguirne l’esempio. X. L’ENIGMA SPIEGATO. La descrizione di un pasto per lo più è noiosa, nè certo potrebbe riuscire amena quella dell’attuale, il cui momento di maggior interesse spuntò alla conclusione del banchetto. Fu dessa tal quale poteano presagirla il buon appetito con cui si mise a tavola il luogotenente, la sceltezza dei vini, esca onnipossente per un uomo che da vero non avea mai fatta professione di sobrietà, gli stimoli che sempre più a mettere in bando questa sobrietà gli venivano dalla Maria, poi da Luigi e qualche volta forse (Dio glielo perdoni se non altro in grazia del fine!) da quell’eccellente creatura del padre Venanzio. La conclusione si fu che il luogotenente Quinzio venne preso da un capogiro sì tremendo che lo stramazzò e per cui convenne portarlo di peso sul letto di una stanza vicina. Gli alabardieri che guardavano tutta la casa e quindi anche la sala della mensa affermarono non essere questo un caso insolito ad avvenire al signor luogotenente, ma che fra due ore al più sarebbesi riavuto; ore di tregua utilissime ai due sposi e al padre Venanzio per concertare un poco le cose fra loro, intantochè la Concezione ed i famigli si adoperavano energicamente per far mangiare e bere gli alabardieri (assai ben rinfrancati dall’esempio del lor condottiero) e per distogliere quanto poteasi l’attenzione di costoro dai parlari dei tre personaggi principali. — Ah Maria! in che cimento avete voluto mettervi! — dicea sospirando Luigi. — Perchè mai...? — Qui non è tempo nè di perchè mai nè di sospiri — disse il padre Venanzio. — Adesso ci siamo e dobbiamo solamente pensare a cavarcela alla meglio. — E potrete voi...? — l’interrompeva Luigi. — Potrò quello che potrò. Non c’è altri che Dio il quale può ciò che vuole. Ma perchè io possa almen qualche cosa è necessario che mi spieghiate tutto ciò che è tuttavia mistero per me e soprattutto la stranezza per cui voi, nato di nobil famiglia, mi saltate fuori tutt’all’improvviso figlio d’un assassino. — Ah! non era tale mio padre, e forse non lo è stato giammai. — Presto! chi era? che cosa era? Figliuolo, non abbiamo tempo da perdere. — Cercherò di spiegarmi alla meglio e con la concisione necessaria al momento. — Ah sì, ce n’è di bisogno. — Intantochè Luigi facea la sua narrazione, la Maria gli stava attenta con gli occhi, con gli orecchi, con tutti i sensi del corpo e dell’anima sua. — Mio padre è effettivamente, come stavate per dirlo allorchè v’interruppi, quell’Antonio Grifone, già consigliere.... — Del nostro re Federico morto in Francia sei anni fa. Lo conobbi altra volta. — Se lo avete conosciuto, vi sarà anche noto ch’egli fu valente in campo come ne’ consigli, che in pregi d’ingegno e di cuore non cedeva al suo sovrano, ch’egli lo amò quanto mai fedel suddito possa amare il proprio signore. Questa fedeltà serbata costantemente al più sventurato dei principi fu l’origine d’ogni sciagura del povero padre mio. La è pure una trista condizione esser fatto consigliere d’un re alla cui perdita tutte le potenze e piccole e grandi congiurano! Minacciava il trono de’ nostri monarchi Luigi XII di Francia che, non contento di riacquistare il ducato di Milano, retaggio di quella tanto rinomata sua avola Valentina Visconti, volea di più impadronirsi, come fece, del regno di Napoli, benchè in fin dei conti non abbia saputo conservarsi nè una cosa nè l’altra. Altre sorde minacce venivano da Ferdinando il Cattolico che, vagheggiando queste belle contrade, poco si curava di esterminare un principe aragonese suo congiunto. Chi gli si fingeva amico non aveva migliori intenzioni per lui. Papa Alessandro VI.... voi sapete chi era papa Alessandro VI! — Qui il buon minimo sospirò, poi soggiunse: — Tirate innanzi, figliuolo, e limitatevi ai fatti senza metterci riflessioni del vostro. — Ebbene! papa Alessandro VI, che aveva incoronato Federico nella chiesa cattedrale di Capua e che lo consigliava a tener fermo contro al re di Francia, questo papa Alessandro gli chiedeva nel tempo stesso la mano della sua primogenita per il duca Valentino ch’egli divisava far re di Napoli mentre l’erede legittimo della corona era tuttavia vivo e sano.... ci sarebbe rimasto poco, lo so... Sul duca Valentino almeno si potrà dir qualche cosa? — Si potrebbe forse, ma capite che non abbiamo tempo da perdere? — Anche quel volpone di Lodovico il Moro, duca di Milano, consigliava queste nozze perchè nelle sue cose che piegavano male vedeva una sponda più sicura nei Borgia che nel povero re Federico. Ah! mio padre, affezionato alla famiglia de’ suoi naturali sovrani quasi tanto quanto se ne fosse stato un parente, cui parea quasi che il loro sangue fosse il suo sangue stesso, se lo sentiva gelar nelle vene alla sola idea che andasse a confondersi con quello della prostituta Vanozza! — Qui pure il timorato monaco volse certe occhiate espressive all’insù. Che cosa esprimessero lo lascio pensare a voi. — _Piuttosto perdere mille volte la corona_, era mio padre che diceva così al suo padrone, _che soffrire una tal macchia sul vostro stemma reale. Piuttosto, maestà, giacchè vedo che non potete nemmeno fidarvi del vostro parente, più prossimo, il re di Spagna, chiamate in vostro aiuto il Turco!_ — Che smorfia fu fatta allora dal povero padre Venanzio! e per dirla schietta anche senza essere un minimo di san Francesco di Paola e con tutta la civiltà e la gentilezza che oggidì ha introdotta, dicono, ne’ suoi dominii il sultano Mahmoud II, chi ne proponesse il bell’espediente di condurre i Turchi in casa nostra farebbe fare una smorfia anche a noi. Avvedutosi Luigi del mal umore suscitato nell’animo del padre Venanzio, fu presto a citare l’esempio d’altri re di Napoli e del più eroico di tutti, Manfredi, che avevano adottato in più d’un caso lo stesso temperamento. Più dì questa scusa la gran necessità di non perdere il tempo tornò serena la fronte del minimo che ascoltò il rimanente della narrazione di Luigi senza interromperla. La sostanza di essa si riduceva a ciò: che le insinuazioni date dal padre di Luigi al suo re, saputesi dai grandi personaggi contro ai quali erano dirette, li voltarono tutti, o tristi o buoni che fossero, contro del consigliere, perchè la taccia d’avere proposto il partito di un’alleanza co’ Turchi, oltre all’essere un ottimo pretesto per perderlo a quegli stessi che ad un caso avrebbero fatto lega ancor col demonio, era tale da non essere al certo perdonata dal cattolico re di Spagna nè dal cristianissimo re di Francia. O il re Federico all’atto di rassegnar la corona dimenticasse il suo fedel servo, o gliel facessero dimenticare, Antonio Grifone non ebbe più in nessun paese della cristianità un palmo di terreno ove potesse sicuramente nominarsi col proprio nome. Quasi non bastassero alla rovina di quello sfortunato le possenti inimicizie che si era concitate contro, si unirono ad accusarlo, ad ordir calunnie, ad inventar colpe da lui non immaginate giammai coloro stessi ch’egli avea beneficati, circostanza che spiega com’egli fosse divenuto un odiator de’ suoi simili. Fattosi pertanto credere morto fin da suo figlio, che non avendo in allora maggiore età di quattordici anni all’incirca veniva educato in un collegio, vagò qua e là nascondendo il suo vero nome ad ognuno, fuorchè a quel noto banchiere cui andava consegnando danari per il suo Luigi che li credè per sì lungo tempo di buon acquisto. Nel nuovo corso di vita intrapreso il padre di Luigi non credè nè ebbe l’intenzione di mettersi a capo di una banda d’aggressori. Nei momenti delle tempeste politiche vi sono sempre stati e vi saranno sempre ed uomini fanatici ed uomini che, cercando di pescare nel torbido, fanno lega coi primi. Fu pretesto di una di queste leghe segrete la chimerica impresa di liberare il duca di Calabria, figlio primogenito del re Federico, divenuto ostaggio, e ostaggio ben guardato a Madrid, di Ferdinando il Cattolico già padrone di tutto il reame delle due Sicilie. In questa congiura entrò gente di tutte le razze e, come accade sempre, gl’ingannati di buona fede furono in minor numero. Fu nella classe degli ultimi Antonio Grifone quando entrò capo di sì sconsigliata lega, che in fine si ridusse ad essere soltanto una lega di masnadieri, perchè in generale chi non era se non traviato dall’entusiasmo, vergognato di vedersi associato con uomini scellerati, battè alla meglio la sua ritirata. Il solo Antonio vi si mantenne, spinto in parte dal desiderio di esercitar vendette contro ai propri nemici che erano tanti, in parte dall’ambizione, perchè non furono rari in que’ giorni gli esempi di capi di scorridori divenuti condottieri d’eserciti ed onorati dai più alti monarchi; vel rattennero soprattutto l’odio concetto per gli uomini, l’amore sviscerato del figlio e la colpevole speranza di arricchirlo con quanto egli chiamava le confische delle sostanze de’ propri nemici; calcolo tanto più reo ed insensato che, se bene egli facesse con una certa premura questa distinzione nelle depredazioni che commetteva, gl’infami suoi seguaci certamente non la facevano. Era questa la banda di masnadieri che infestava pochi dì prima la Calabria e contro alla quale valorosamente combatteano e Luigi e le milizie comandate da lui. — Io avrei continuato a credermi orfano — così questi proseguiva il suo racconto — io avrei continuato ad inseguire la banda dei masnadieri senza immaginarmi mai di portar l’armi contro a mio padre, se una sera, nel tornarmene dalla casa di Maria, non fossi stato assalito improvvisamente da un di coloro e se non mi salvava la vita un vecchio che fu pronto a stender morto a’ miei piedi il mio aggressore. Quel vecchio, non fu già un mio servo, come ho lasciato credere, quel vecchio.... ah padre Venanzio! — Indovino, era vostro padre. — Egli non potè ristarsi dall’abbracciarmi, dal chiamarmi con que’ cari nomi ond’era solito vezzeggiarmi nell’infanzia, nè io potei non riconoscerlo ad onta degli anni trascorsi da che non lo avea riveduto. Ma, oh Dio! perchè non potei in quel punto sbandire da me l’altro orrido convincimento che mi si affacciò? La figura di lui, le sue vesti, portavano tutti i tremendi segnali additati nella grida che fu pubblicata contro al Leone, grida che non si dipartiva da me. Non credo che lo sdegno celeste possa percuotere più tremendamente uno sciagurato che col fargli riconoscere in sì orribil momento l’autor de’ suoi giorni. — Ma perchè — sclamò tosto il padre Venanzio compreso dal fremito che una tal considerazione eccitava — perchè non cercar subito di persuaderlo a quella risoluzione che, da quanto mi apparisce, egli voleva abbracciare di poi? — Ah padre! tutti que’ mezzi di persuasione che l’amor di figlio e l’onore e la disperazione possono suggerire li posi in opera in quell’istante fatale, e già ero sul punto.... quali trionfi non riporta un amoroso figlio su la tenerezza paterna?... ero sul punto di trionfare del cuor di mio padre, quand’egli, accortosi che sopravvenivano alcuni de’ suoi compagni, mi disse: _Va! fuggi! continuerò a vegliare per la tua sicurezza. Ti giuro innanzi a Dio che ci torneremo a vedere._ Il giorno in cui lo rividi fu quello stesso in cui recitaste il panegirico della Vergine nella valle del Sila. Voi partiste per Paola. Venni a cercarvi il dì appresso. Il rimanente vi è noto. — Basta così, figliuol mio. Voi non cessate intanto di raccomandarvi al cielo. Quanto a ciò che può dipendere da un uomo.... — Sperate, padre? — si faceva a domandar la Maria. — Dio è grande, Dio è giusto; dunque si può sperar tutto da lui. Pregatelo anche voi, buona figliuola; ma per adesso lasciatemi pensare, lasciatemi fare; quello che mi bisognava sapere lo ho saputo. — Il padre Venanzio, men guardato a vista degli altri, si ritirò a scrivere alcune cose, fu veduto dirne altre di sfuggita all’orecchio della Concezione, tornò a trovarsi co’ due sposi nel momento appunto in cui tutto era allestito pel viaggio che dovea farsi alla volta di Cosenza e mentre il luogotenente Quinzio, già in piede, attribuiva lo svenimento onde fu preso all’essersi partito fin la mattina con la febbre in dosso, come se nessuno si fosse avveduto de’ suoi stravizzi. Si posero in uno stesso calesse ben fiancheggiato d’alabardieri i due sposi, il padre Venanzio ed il luogotenente. Parte perchè la Maria aveva incolpato soltanto sè medesima d’aver cooperato al travestimento del Leone, parte perchè l’affaruccio occorso a Quinzio avea sconvolto alcun poco l’ordine di quell’atto giudiziario, nessuno pensò nè alla Concezione i cui congedi dalla sua figlia di latte furono teneri sì ma abbreviati possibilmente dal padre Venanzio, il quale avrà saputo sicuramente quel che facea, nè a nessun altro individuo di quella casa rimasta affatto libera dalla presenza molestissima d’ogni e qualunque individuo spettante al tribunale. XI. IL GRAN CAPITANO. Intantochè i due sposi ed il minimo son costretti ad assaporarsi tutte le noie d’un viaggio così poco desiderato e fatto nella trista compagnia di un quarto individuo desiderato anche meno, il leggitore potrà fare una gita assai più piacevole trasportandosi insieme con noi nella ridente metropoli del regno delle due Sicilie. Egli non si aspetti però che lo conduciamo su la maestosa strada di Toledo e a quella magnifica piazza ove, rimpetto ad un sontuoso tempio intitolato a san Francesco di Paola, sta la porta maggiore del _Regio Palazzo_ abbellito nel suo frontispizio da colonnati di granito che ne sostengono i balconi, da tre ordini di pilastri dorici, ionici e corinzii posti gli uni su gli altri, da una grande loggia vagamente ornata di vasi e piramidi che corona l’ultimo di tali ordini e donde l’occhio estatico può contemplare or quel vasto piano di scintillanti onde placide sempre e le più care e soavi fra quante ne offra verun mare dell’universo, or quella formidabile montagna ond’è accarezzato e minacciato a vicenda il più bel giardino della natura, il più ridente suolo del mondo. Questa deliziosissima reggia era ancora nella mente di Dio all’epoca della nostra storia, e il grande personaggio di cui andiamo ora in traccia avea per sua residenza quello stesso palazzo di cui si contentarono e il re Federico qui più volte commemorato e gli Aragonesi suoi predecessori; vale a dire la così detta _Vicaría_, edifizio vasto del certo e famoso per l’ampiezza e ricchezza delle sue sale, ma atto ad inspirare malinconia solo a chi pensi che i sotterranei di esso servivano alle prigioni di stato; laonde le regali mense s’imbandivano, le cortigianesche brigate s’interteneano lietamente, le danze dei sovrani s’intrecciavano su le teste di miseri destinati per la maggior parte all’estremo supplizio. In una di queste sale stava al termine del suo convito in compagnia di scelti amici il Gran Capitano, don Gonzalvo di Cordova, vicerè di Napoli da lui governata a nome di Ferdinando il Cattolico. Della popolarità, del valore, della saggezza e rettitudine di questo celebre personaggio abbiamo già fatta menzione; d’altronde i pregi di lui son troppo autenticati dalla storia perchè accada molto il ripeterli. Il tramonto della giornata che or descriviamo fu altrettanto lieto per lui quanto ne era stato tempestoso il mattino; poichè si svegliava appena quando gli era annunziata una sommossa di tutta la numerosa guarnigione spagnuola posta sotto i suoi ordini in Napoli. Gli vien riferito che questa s’innoltra a bandiere spiegate ostilmente alla volta della _Vicaría_; che vuole investirla, prenderla d’assalto. Solo, imperterrito, senza chiedere o accettar suggerimento da alcuno, con quella intrepida prontezza di mente che è la sola consigliera dei forti nel momento dell’estremo pericolo e che è posseduta unicamente da chi per altissime imprese giunse a stordire ed a signoreggiare gli animi della moltitudine, esce di casa, sol cinto della sua spada; s’affaccia alla massa degli ammutinati. Il più ardito di costoro osa farsegli incontro con la punta della sua picca voltatagli al petto. Il Gran Capitano gli ferma il braccio col proprio in atto amichevole e, come se costui si fosse intertenuto giocherellando sbadatamente, gli dice: — Amico, non v’addimesticate troppo con quest’arma, chè potreste, non volendolo, farmi del male. — Vinti da tanta fiducia, nessun di costoro sa più che cosa dire o che cosa fare. — In somma, che avete di bello a contarmi, i miei camerati? — si fa placidamente ad interrogarli Gonzalvo. — Gran Capitano, è un mese da che siamo senza paga! — È un mese da che siamo senza paga! — molt’altre voci in un subito ed in una volta gridarono. — Ah! adesso vi siete spiegati — soggiunse con aspetto di tutta piacevolezza il Gran Capitano. — Io veramente non ci ho colpa e non ce ne ha nemmeno il vostro e mio buon re che tanto vi ama ed apprezza; ma capite bene ch’egli non può far tutto da sè, egli che non vede mai tramontare il sole nella vastità dei dominii a lui conquistati da’ suoi guerrieri de’ quali voi siete il fiore. Una passeggiera dimenticanza di qualche suo subalterno avrà ritardato l’arrivo in Napoli di que’ capitali che doveano servire.... Ma non è giusto che voi ne portiate più a lungo la pena. Posso meglio soffrirla io. Là in quel palazzo, ove già vi vedo avviati, possedo suppellettili più di quante bastano per la vostra paga d’un mese. Continuate dunque il vostro cammino; vi prometto che non vi sarà opposta la menoma resistenza; pagatevi da voi medesimi, e con questa facoltà che vi concedo sì di buon grado, perchè si tratta solo d’un mio sagrificio, vi libero dal pericolo di macchiare i vostri allori con un atto della più nera, della più obbrobriosa ribellione. — Le quali ultime parole furono profferite con un aggrottar di fronte e con tutta la severa energia che sarebbesi addetta a chi avesse contrapposto a quella masnada un esercito tre volte maggiore di essa. Nessuno ardì più movere un passo; tutti rimasero svergognati, tutti abbassarono l’armi. — Ah lo vedo! — soggiunse allora Gonzalvo con una piacevolezza e, aggiungiamo, con una tenerezza che non erano punto artefatte — ah lo vedo! Voi siete sempre gli uomini di Granata e di Taranto, voi siete sempre i miei eletti, e il punto d’onore è più forte in voi di qualsiasi patimento. Non soffrirò ciò non ostante che questo patimento vada più oltre, nè scoccherà il mezzogiorno che la mia cassa privata non abbia saldato il conto de’ vostri stipendi. — Fra mille grida di _Viva il Gran Capitano!_ ne furono sino udite altre di _Ciò non sia mai!_ Ma ciò fu, e i soldati, come potete credere, non si ribellarono una seconda volta per non voler lasciarsi pagare. Così ogni tumulto fu dissipato. Con tali arti Gonzalvo manteneva e soldati e popoli affezionati al suo signore che, per dire la schietta verità, non se ne mostrò a lui molto grato in appresso. Già non è meraviglia se il conquistator di Granata non si vide trattato meglio di quanto il fu quel Cristoforo Colombo che aveva aggiunto un nuovo mondo alla corona del re cattolico. Ma tiriamo innanzi, chè ciò nella nostra storia non entra. Intanto questa giornata terminava giocondissimamente per Gonzalvo che stava a desco parlando degli eventi di essa co’ suoi amici quando gli venne annunziata una vecchia spagnuola vestita piuttosto bene, ancorchè bizzarramente, che facea le più fervide istanze per essere ammessa ad udienza dal Gran Capitano. Se aggiugnete alla consueta popolarità di Gonzalvo il buon umore che lo dominava in quel punto, non penerete a persuadervi ch’egli diede ordine perchè fosse immediatamente introdotta. Questa vecchia non mancava di un certo discernimento naturale, ma era ben poco avvezza a parlare coi grandi, nè si era trovata a petto del Gran Capitano se non una volta, diciott’anni addietro, in occasione di una festa battesimale. Pertanto, senza il bisogno urgentissimo che la stimolava, non avrebbe mai osato chiedere di presentarsi al vicerè di Napoli, e se bene una pronta ammissione fosse tutto quello ch’ella poteva e doveva desiderare in quel punto, l’ottenerla più subitanea di quanto mai si aspettava la scompigliò, perchè ciò non le diede tempo bastante ad ordinare in sua testa le cose che aveva a dire. Fra i sorrisi adunque della servitù e dei commensali venne avanti facendo riverenze per tutti i versi la nostra vecchia che, al suo abito antico di drappo di seta ornato di merletti non meno antichi, avreste presa per la statua di una santa in giorno di processione. — Qual è fra questi signori — ella chiese — sua eccellenza.... o sua altezza che gli dicano... in somma il vicerè? — Il vicerè, signora, si dice che sia io. In che cosa posso giovarvi? — Gli è perchè — rispose la vecchia facendo, nel suo imbarazzo, prime le cose che avrebbero dovuto esser l’ultime — gli è perchè.... già vostra altezza saprà che hanno messo dentro il gran capitano.... cioè, oh perdono, eccellenza! — Sarebbesi detto che la povera donna avesse udito e inteso sul serio quel certo sarcasmo del Bargilone. E qui tutti a ridere! — Eh! già, la mia creatura — soggiunse sorridendo Gonzalvo — io non mi credea d’esser grande e sapea di non essere stato, come dite voi, messo dentro. — Ma io parlo di quel capo d’assassini. — Oh! nemmen capo d’assassini poi mi credevo. — Che però non può dirsi nemmen del tutto assassino. — Ma di costui, che non capisco ora chi sia, sareste per vostra disgrazia una parente? — Oh signor no! Lo è ben diventata quella povera ragazza. — Che ragazza? — domandò il gran contestabile che, credendo omai d’essersi fatta venire innanzi una pazza fuggita dallo spedale, cominciava a perdere la pazienza. — La Maria Solis che vostra eccellenza deve conoscere. — Aspettate! La figlia forse del mio buon defunto cornetta? — Quella proprio! — Ch’io ho tenuta al sacro fonte? — Ma sicuro! — E voi.... direi che la vostra fisonomia non mi arriva nuova. — Non sono la Concezione io, la nudrice della Maria? — E come se la passa questa mia figlioccia? Ha ad esser venuta ben grande... — Grande, bella, buona, brava, spiritosa, e se la passerebbe bene, ma!... come dicevo poco fa a vostra altezza, la disgrazia di questo parentado.... Per ciò solo vostra eccellenza mi vede qui. — Vi vedo, la mia donna, ma finora v’intendo sì poco! — Santo Dio! Per altro questa lettera del padre Venanzio almeno vostra altezza l’intenderà. — Del padre Venanzio! Parlereste mai di quel buon frate che fu indivisibile compagno ed amico del glorioso Francesco di Paola? — Di chi altri mai? — Perchè non darmi questa lettera alla prima? — È vero; ma nella confusione me n’ero scordata. Bisogna poi compatire, altezza, una povera vecchia che non ha l’uso di parlare con gran signori, e di più tribolata dalla più amara delle afflizioni. Ah chi sa se sono arrivata in tempo! — Qui la vecchia si diede a piangere a cald’occhi, e il dolore di lei apparve sì vero e una lettera del padre Venanzio dava tanto peso al suo messaggio che, dopo aver fatto ridere l’intera brigata, ella divenne oggetto d’interesse per tutti e principalmente pel Gran Capitano, il quale, fattala tosto sedere e ordinato che le fossero recati tutti i ristori di cui potesse abbisognare, si diede a leggere con profonda attenzione la lettera che il virtuoso minimo gli scrivea. Dopo aver letto e ponderato quel foglio si alzò in piedi e si mise a passeggiare su e giù per la sala con due o tre suoi consiglieri statigli commensali in tal giorno e ne’ quali ponea maggior confidenza. In questo mezzo la vecchia non fiatava e guardava con tanto d’occhi ogni gesto, ogni alzare o chiudersi di palpebra, ogni moto delle labbra del Gran Capitano di cui non potea sentire (e quanto gliene rincrescea!) le parole. Poichè Gonzalvo ebbe terminato di deliberare e discutere, tornò alla vecchia. — Eccomi a voi, la mia donna. — Adesso vostra altezza ha ben inteso? — domandò la Concezione che, confortata da una così cortese accoglienza, avea già ripreso tutto quel coraggio di cui si sentiva capace. — Un po’ meglio che dalla vostra esposizione, mia cara creatura. — E così? — E così.... questa notte alloggerete qui in casa mia.... — Oh! — la Concezione esclamò. — Poi domani mattina per tempo vi lascerete vedere da me, e tutto dipenderà in gran parte dalla prontezza con cui porterete a Cosenza le lettere che vi consegnerò. — Madonna santissima! se dipende solo da questo.... — D’altra parte vi fornirò io i mezzi del viaggio perchè possiate farlo più prestamente. — Ah quanta carità! ma vostra altezza ha detto una parola che non finisce di piacermi; ha detto, se non mi sbaglio, _in gran parte_. Per quei due poveri ragazzi almeno posso stare col mio cuore in pace? — Per quei due poveri ragazzi spererei potervi fare sicura, semprechè però arriviate in tempo.... — Ah Signore Iddio, Signore Iddio! perchè non mi fate esser là in questo momento? Io son pronta a partire anche subito. — Bisognerà almeno che mi diate il tempo di scrivere. — E per il vecchio? è ben vero che ha la cattiva guardatura, come diceva l’astrologa; ma è divenuto il suocero della mia Maria. Per il vecchio dunque? — Senza curarsi certo di chiedere schiarimenti nè su la _cattiva guardatura_ nè su l’_astrologa_, il vicerè le rispose: — Voi vorreste saper troppo, buona donna. Quando sarete là non rimarrete più all’oscuro d’alcuna cosa. Intanto vi basti esser certa che farò di tutto affinchè questo affare imbrogliato si sciolga il men male che sarà possibile, perchè in fine il re non son io. Intanto dunque potete ritirarvi; vedete bene che finchè state qui parlando io non fo nulla. — Dice pur bene vostra altezza! — e qui, dopo molte genuflessioni, dirette un po’ più a segno delle prime, la Concezione venne accompagnata, con tutti i riguardi che le intenzioni manifestate da sì grande personaggio imponevano, alla stanza assegnatale per alloggio. Lasceremo che qui ella preghi Dio e che il Gran Capitano disponga le lettere da consegnarle, e ci trasferiremo a Cosenza ove in questo intervallo accadono scene d’altra natura. XII. CONCLUSIONE. Giunta al suo destino la nota carovana che vedemmo partirsi dalla valle del Sila, diverse circostanze erano emerse che, se non migliorarono, mitigarono alquanto la condizione così del vero reo come de’ due poveri innocenti che si vedevano implicati sì tremendamente nel suo processo. E una di tali circostanze derivava appunto dall’orrida tortura e materiale e morale sofferta dal primo di questi, tortura che, avendolo ridotto a non potere più moversi dal letto, lo rendeva inabile ad offrire, senza morirci sotto, nuovi sollazzi all’inumano Bargilone, cui per altra parte importava il non privarsi del massimo fra questi sollazzi, quello di vedere infrangere viva la sua povera vittima. Un’altra circostanza di non lieve momento si fu l’essersi accompagnato ai due novelli prigionieri il padre Venanzio che non cessò più mai dall’essere il loro patrocinatore. Benchè certamente egli non valesse ad infondere lo spirito di carità del suo ordine in que’ barbari giudici, nondimeno il concetto generale di quasi santo in cui era tenuto dall’intera popolazione, e fors’anche più il sapersi in quanto credito egli fosse e presso la corte di Spagna e presso il vicerè e presso altri potentati italiani e stranieri, faceano sì che non si osasse resister molto alle sue insinuazioni, tanto più perchè egli era troppo saggio per intrometterne mai di quelle che direttamente si opponessero alle leggi ed alla giustizia. Immediato effetto di tali insinuazioni fu il permettersi che una volta il figlio vedesse l’infermo genitore, e ben potete immaginarvi che la povera Maria chiese ed ottenne di essere compagna al marito in una visita cotanto lugubre. Non regge il cuore a dipingere le disperazioni del padre nel rivedere quel figlio, per amor del quale in gran parte avea sconsigliatamente commessi tanti delitti e per lui ridotto in vece alla più lagrimevole posizione, o le angosce di questo figlio che incolpava sè medesimo di non aver prese cautele bastanti per salvar la vita e l’onore dell’autore de’ suoi giorni e di averne anzi per propria inconsideratezza accelerata la rovina, o finalmente l’eroismo coniugale della eccellente Maria che, quasi dimentica del grave rischio in cui era avvolta ella stessa, non pensava ad altro che a studiar conforti opportuni ad alleviare l’affanno dello sposo e del suocero. Oh! al vedere la cordialità, i riguardi da lei mostrati a quest’ultimo caduto in sì abbietto stato, chi non avrebbe detto che quell’angelica donna fosse divenuta la nuora d’un eroe giunto all’apogeo di sua gloria? Ma in vece ella accresceva il cordoglio in entrambi perchè il secondo rimproverava a sè stesso il caso innocente che il trasse a cercar ricovero in casa di lei; il primo, la cecità della passione che gli fece accettar la mano offertagli dall’amorosa Maria. La mestizia di un quadro sì luttuoso potè soltanto essere temperata dalla presenza dell’ottimo minimo, il quale, cercando una fonte di consolazioni dall’essere noi tutti passeggieri su questa terra, esortava i suoi tre amici (chè tale era divenuto anche il vecchio) a pensar meno agli affanni presenti ed a fare scopo principale delle loro cure il meritarsi un porto felice ed eterno implorando la celeste misericordia, i due giovani per mantenersi fra le tribolazioni incontaminati sul sentiero della virtù, il vecchio affidandosi della remissione dei propri errori in quel Dio che _volentier perdona_, tutti abbandonandosi intanto, sinchè loro era dato, alle dolcezze d’un parentevole amore. Molto poteva al certo il virtuoso monaco per indirigere verso il cielo i suoi confortati; ma per salvarli sopra la terra dagli effetti di un giudizio ordinario poteva pur poco! Solamente una grazia del re, che sarebbe stato poco men che pazzia lo sperare, avrebbe avuta la virtù di sottrarre all’estremo supplizio Antonio Grifone; e quel fatale articolo di grida parlava troppo chiaro perchè fosse valida discolpa al figlio l’aver cercato di salvare il proprio padre, alla sfortunata Maria il non aver denunziato alla giustizia l’uom per lo meno sospetto di essere un masnadiero che si rifuggì sotto al suo tetto. La stessa lealtà onde nelle diverse comparse giudiziali i due sposi infelici esponevano la verità dei fatti (nè certo il padre Venanzio gli avrebbe consigliati a condursi altrimenti) stava contro di loro e avvalorava i tremendi estremi che li conduceva entrambi non meno del padre loro alla morte. Ben cercava il patrocinatore Venanzio di tirare in lungo (e sapete se ne avea di bisogno!) il processo lambiccandosi la mente per trovar fuori nuovi punti di difesa. Talvolta metteva in campo quell’adagio: _Summum jus, summa injuria_, altrettanto antico quanto vero, ma che un legislatore può valutare assai meglio d’un giudice. Tal altra traeva a mano i luoghi oratorii della compassione; ma, oltrechè non erano sicuramente i più adatti con quella razza di magistrati, rare volte anche il tribunale più mite può ascoltarne la seduzione ove la legge parli con evidenza. Anche a pro del vero reo, ne andava citando gli atti di umanità, i motivi non ignobili in origine che lo traviarono, la natura dei tempi; ma quand’anche, avendo che fare con altri giudici, gli fosse stato possibile lavarlo dalla più obbrobriosa macchia di un comune assassino, qual tribunale gli avrebbe risparmiata la pena cui soggiacquero tant’altri capi di faziosi che turbarono la pubblica tranquillità? Tutto ciò era piuttosto per guadagnar tempo. I giorni intanto scorreano e la costernazione crescea sempre più nel caritatevole frate, forse omai più desolato de’ suoi miseri prigionieri ch’egli avea così bene assuefatti ad una intera rassegnazione nel cielo. Oh qual rimase in quel giorno ch’egli non potè allontanare di più, in quel fatal giorno in cui venne profferita la sentenza del tribunale, in cui venne annunziata a coloro che ne erano percossi! Questa condannava ad essere arrotato il vecchio, cui per clemenza speciale (dove s’era andata ad annicchiare la parola _clemenza_!) si concedea che il primo colpo ne decidesse la morte, i due innocenti sposi ad aver recisa la testa. Tutti e tre i rei erano già stati condotti nella conforteria. Il monaco di Paola avea troppo bene apparecchiati alla morte que’ miseri per aver più un estremo bisogno di confortarli, altrimenti ci sarebbe voluto un confortatore per lui medesimo. Consolatevi, leggitori; nessuno dei tre prigionieri morirà per man del carnefice, laonde vi risparmio la lugubre descrizione dei loro estremi congedi; vi dirò solamente che il padre Venanzio, ridotto ad uno stato di vera agonia, contava ogn’ora, ogni quarto d’ora, ogni minuto, quando finalmente comparve la Concezione con una lettera per lui del Gran Capitano, lettera entro la quale era accluso un dispaccio alla corte di giustizia. Figuratevi se il padre Venanzio non s’affrettò a recarlo, e vedrete dal contenuto di esso che nè il Bargilone nè quegli amabili giudici dovettero riceverlo volentieri, ancorchè, senza scrupolo di calunniarli, si possa credere che avranno cercato di rifarsi delle tre vittime tolte ai loro artigli su gli altri sgraziati rei de’ quali non parlava il dispaccio. Questo dispaccio considerava separatamente le persone dei due sposi e quella di Antonio Grifone. Quanto ai primi, il gran contestabile, fattosi interprete della sua grida medesima, dichiarò che non avea mai potuto prevedere la condizione orribile in cui due innocenti venivano ad essere posti dal testo della sua legge, e, valendosi delle facoltà che in casi di natura tanto straordinaria aveagli concessi sua maestà il re Cattolico, gli assolveva da ogni pena e si offriva anzi egli stesso a pagare le spese di un processo derivato, egli avea la virtù di confessar ciò, da una sua inavvertenza soltanto. Circa ad Antonio Grifone, lo stesso Gran Capitano, con l’autorità parimente delegatagli dal re, ordinava che fosse bensì tenuto sotto buona custodia, ma che ne venisse sospeso il processo o l’esecuzione della sentenza, in caso che fosse emanata, finchè gli pervenissero istruzioni dal monarca al quale avea fatti presenti gli antichi servigi prestati dall’infelice reo allo stato e la sua antica eroica devozione ad un sovrano nelle cui vene, finalmente, il sangue dei re d’Aragona scorrea, siccome un argomento valevole se non altro a mitigarne la pena. Ciò non bastava alla compiuta felicità dei due sposi che continuavano a vedere in pericolo i giorni del capo di loro famiglia; ma è inesplicabile il contento che ne trovò questi al veder minorata di tanto la propria infamia, al veder sottratti ad ogni infamia i suoi figli. L’alterazione prodotta da tale contento nel suo corpo affranto per cotanti patimenti fu sì forte che ne morì di lì a pochi giorni, nè potè sapere che cosa avrebbe decretato di lui il sovrano. Il suo ravvedimento era stato sì pieno che morì nella pace dei giusti non mai abbandonato dall’assistenza dell’ottimo minimo, nè da quella della sua così cara e virtuosa famiglia, dono di cui tanto più ringraziava Dio quanto maggiormente era convinto di non averlo mai meritato. Il Gran Capitano colmò in appresso questa famiglia di munificenze e di onori, ai quali per lo sposo di Maria si aperse ogni adito perchè il rescritto apposto dal re di Spagna alla consulta del suo contestabile era tale che, risparmiando ogni pena infamante ad Antonio Grifone, lo sottoponeva soltanto, se fosse stato tra i vivi, ad una relegazione perpetua. Il padre Venanzio e la Concezione vissero ancora abbastanza per vedere i figli di Maria Solis e di Luigi Grifone. FINE INDICE I. La magra fiera Pag. 3 II. La mala predizione 15 III. L’apparizione 24 IV. Nuovi motivi di agitazione e stupore 35 V. La corte di giustizia 40 VI. Fazioni di barbarie interrotte 48 VII. L’espettazione e l’arrivo 54 VIII. Le nozze 67 IX. La sorpresa 76 X. L’enigma spiegato 86 XI. Il gran capitano 97 XII. Conclusione 109 NOTE: [1] Così il buon Novarese Gerolamo Tornielli intitolavasi da sè medesimo nelle sue vaghissime canzoni marinaresche alla Vergine. [2] È noto come tale credenza superstiziosa del fascino del mal occhio, chiamata oggidì in dialetto napoletano _jettatura_, abbia dominato ne’ paesi che sono scena di questa storia fin da quando fecero parte della Magna Grecia. Può leggersi a tale proposito una lunga nota del signor Bulwer al capitolo I del libro III de’ suoi _Ultimi giorni di Pompei_. [3] Ne’ giorni contemporanei alla nostra storia questo grande personaggio della cristianità non era per anche canonizzato. Lo fu in appresso sotto il pontificato di Leone X. [4] Tutti sanno che Gonzalvo di Cordova veniva generalmente conosciuto col nome distintivo di Gran Capitano. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. La numerazione dei capitoli, errata nell’originale a partire dal capitolo VII, è stata corretta. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice al termine del libro. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK VIRTÙ E DELITTO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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