The Project Gutenberg eBook of Lotte civili This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Lotte civili Author: Edmondo De Amicis Release date: January 17, 2025 [eBook #75129] Language: Italian Original publication: Milano: Treves, 1910 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LOTTE CIVILI *** EDMONDO DE AMICIS LOTTE CIVILI MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1910 PROPRIETÀ LETTERARIA. _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._ Milano. — Tip. Treves. PREFAZIONE. Il figlio Ugo e l’editore Emilio Treves non vogliono che alla serie delle opere di Edmondo De Amicis manchi il libro che rappresenta l’azione da lui esercitata nella vita politica italiana con gli scritti d’argomento sociale, sparsi finora in giornali e in opuscoli di partito o raccolti alla rinfusa in edizioni di propaganda; pensando che essi pure hanno un singolare valore letterario e meritano di appartenere al retaggio universalmente noto dello scrittore. Si sa che il De Amicis, la cui anima affettuosa era sempre stata riboccante di simpatia per gli umili e di pietà per i sofferenti, si volse risolutamente al socialismo nel 1890, quando aveva quarantaquattro anni.[1] Disse egli medesimo che il suo caloroso aderire alle nuove dottrine era stato da prima l’espressione dei sentimenti di carità e di giustizia, a cui tutta la sua persona morale era preparata, anzi nata; ma poi era anche divenuto l’effetto di un esame ragionato della questione sociale, quanto gli era stato possibile di farlo, mettendosi coscienziosamente, sebben tardi, agli studî necessarî a quell’esame. Persuasosi che “la sola idealità dei tempi nuovi, la sola che abbia ancora virtù di muovere le masse e che meriti nuovi sacrifizî di energie generose, è la redenzione delle plebi„, sentì di non poter più avere pace nè dignità di coscienza se non nel porre l’opera sua di scrittore in servigio di quella idealità, immolando qualunque suo personale interesse al compimento di tale dovere. Nato di sentimento, maturato nella riflessione e nello studio, nudrito di amplissime letture, il socialismo del De Amicis doveva avere pronta e piena manifestazione in un romanzo, _Primo maggio_, ch’egli compose fra il 1890 e il 1893, e di cui si conserva il testo manoscritto. Ma quel libro, ideato nel fervido “entusiasmo apostolico dei primi giorni„, atteso con appassionata curiosità in Italia e fuori, allorchè fu compiuto non piacque più, come opera di pensiero e di arte, al suo autore; il quale, con mirabile esempio di probità letteraria, non volle dare alle stampe ciò che, prima dei lettori, la sua coscienza non poteva sicuramente approvare; non volle tentare la pubblicazione come un gioco di fortuna; e condannò il romanzo, famoso prima che noto, a rimanere inedito. Solo ne aveva messo fuori il primo capitolo, nella _Nuova Antologia_ del 1.º maggio 1892; altri brani e frammenti ne diede liberalmente qua e là, a giornali socialisti che sollecitavano la sua collaborazione; e sarà facile al lettore riconoscerli, anche come confessioni palesemente personali, fra i racconti e dialoghi compresi in questo volume. In quegli stessi giornali, principalmente nell’_Avanti!_ di Roma e nel _Grido del Popolo_ di Torino, allora e negli anni seguenti, mentre proseguiva la sua azione militante nel partito, che fra asprissime battaglie andava allora organizzandosi per la conquista dei pubblici poteri, il De Amicis pubblicò un gran numero di articoli d’occasione e scritterelli di propaganda, che ora non sarebbe possibile nè conveniente raccogliere tutti quanti. E così si dica delle molte sue pagine sparse contro il militarismo e per la pace fra i popoli. Egli era stato soldato valoroso, ufficiale devoto alla patria e alla bandiera. Ma per la guerra aveva sempre avuto anzi orrore che amore; e, terminate le sante guerre dell’indipendenza nazionale, aveva deposto la spada, rinunziando alla carriera delle armi, per la quale non era fatto. E naturalmente, con quel medesimo spirito con cui aveva cercato nell’esercito e nella vita militare gli elementi dell’umana fraternità e l’ideale di una civiltà superiore, franca dalla violenza e dal sangue, seguitò, confortato dalla nuova fede politica, e senza però mai vituperare le istituzioni che aveva onoratamente servito, a combattere contro la guerra, a vagheggiare la società dei popoli pacificata dal progresso morale e dalla necessità stessa della comune esistenza economica. Col titolo di _Lotte civili_, già consacrato nell’uso dalle varie stampe del Nerbini di Firenze (toltine i due discorsi _Per il 1.º maggio_ e _Per la questione sociale_, che già si leggono, integri e corretti, nel libro delle _Speranze e glorie_, e il capitolo _La canaglia_, che appartiene al libro di _Capo d’anno, pagine parlate_), sono ordinati nel presente volume i più notevoli scritti minori del De Amicis per il socialismo e per la pace; nè soltanto quelli che altri prima raccolse, ma parecchi di più, tratti da giornali e da opuscoli dispersi, come _Una tempesta in famiglia_, _Un borghese originale_, _Un episodio della battaglia di Custoza_: cose particolarmente interessanti, alle quali la destinazione politica ha fatto torto, lasciandole ignorare agli infiniti lettori che, fuor della politica, ammirano l’arte e l’animo dello scrittore. È giusto, è doveroso far sì che tutti possano leggere e serbare accanto agli altri libri del De Amicis anche questo, non messo insieme da lui, ma pieno del suo ingegno generoso, il quale vi appare incitato a insoliti ardimenti, a nuove prove di pensiero e di stile, dal proposito di guadagnare il consenso altrui alla sua concezione della giustizia e dell’armonia sociale. Ottenga o no tale consenso, il De Amicis è pur sempre quel maestro di rettitudine e di bontà che tutti possono amare, qualunque siano le loro opinioni; è lo scrittore profondamente sincero, a cui tutti debbono reverenza; ed è in ogni caso tale autore, che niuna parte del suo lavoro ha da rimanere abbandonata. Torino, ottobre 1910. DINO MANTOVANI. PARTE PRIMA. RACCONTI E DIALOGHI. Il primo passo. (FRAMMENTO DI UN ROMANZO INEDITO.) Alberto Bianchini aveva scelto la carriera dell’insegnamento letterario, non solo per la tendenza naturale del proprio ingegno, ma anche per un sentimento capriccioso di vanità mondana: perchè gli pareva che in lui, giovane agiato, elegante, addestrato a tutti gli esercizi cavallereschi, e destinato a brillare nella società signorile, avrebbe acquistato una grazia insolita, sarebbe parso una qualità singolare ed amabile quel titolo di professore di lettere, che suol dare l’immagine d’uno studioso un po’ pedante e un po’ sciatto, rifuggente dal bel mondo per necessità o per natura. Ma questa vanità egli aveva perduta in parte nel corso dei suoi forti studi universitari, e non gliene restava più traccia quando, terminati gli studi, entrava a un tempo stesso nell’insegnamento e nell’arte. Nell’arte era entrato di sbalzo con un’opera d’immaginazione e d’analisi: le confessioni d’un uomo che, rifatto fisicamente fanciullo, ricomincia la vita scolastica, e giudica dai banchi della scuola, con l’intelligenza e l’esperienza dell’età virile, gli studi, i compagni, gl’insegnanti, i piccoli avvenimenti d’ogni giorno; lavoro, per le sue forze, prematuro, e in molti punti manchevole; ma vivo e ardito, lampeggiante d’idee originali, e condotto, da un capo all’altro, a ondate d’eloquenza colorita e sonora, che avevano avuto una fortuna. Ma dopo questo, cui eran seguiti altri libri, il suo ingegno s’era urtato a un intoppo misterioso e insuperabile. Aveva ottenuto ancora qualche favore la «Storia d’una casa di montagna», nuova nel concetto, ma errata nel disegno, nella quale eran descritti e narrati, giorno per giorno, il lavoro di costruzione, le fatiche, le dispute, gli amori, le piccole vicende degli operai e delle operaie, dalla scavazione per le fondamenta fino alla festa tradizionale per il compimento del tetto, con una sovrabbondanza pesante di particolari tecnici, fornitigli dal muratore Peroni, abitante nella casa: poi egli non aveva fatto più altro che ricercar sè stesso senza ritrovarsi. E uscito deluso anche dalla prova degli studi d’erudizione e di critica, a cui si ribellava la sua indole impaziente e la sua calda fantasia, era vissuto lungo tempo in uno stato doloroso d’impotenza artistica, durante il quale aveva assistito alla morte lenta della sua prima gloria, cercando invano una grande idea onde far scaturire una grande passione, sentendo spegnersi, l’un dopo l’altro, tutti i suoi entusiasmi, e le sue migliori facoltà arrugginirsi nell’inerzia, e intristire nell’ombra anche la bontà del suo cuore. A ventitre anni era quasi celebre, a trentacinque era come morto. Un piccolo avvenimento fortuito lo mise quasi a un tratto in un nuovo corso di idee. Era entrato quell’anno, a lezioni incominciate, nel primo corso del liceo Brofferio, dov’egli insegnava lettere italiane, un giovanetto di sedici anni, pallido, serio, che il Preside gli aveva annunziato un giorno avanti con cert’aria d’inquietudine, dicendogli che era fratello di un avvocato Rateri, non conosciuto da tutti e due che di nome, direttore d’un giornale socialista, la «Questione sociale», fondato di fresco. Non essendosi occupato mai di tale argomento, che gli appariva come un problema di meccanica celeste, egli non aveva mai letto il giornale, che a Torino leggevano pochissimi, e che gli altri giornali cittadini non rammentavano mai. La presenza di quel giovinetto nella scuola gli destò una vaga curiosità, che lo indusse a cercare il foglio, con la certezza di non trovarvi che dei saggi, non nuovi, di quella vacua rettorica rivoluzionaria, di cui finanche l’eco lontana l’aveva sempre seccato. Ma, leggendone un primo numero, e altri dopo, stupì. Il giornale era scritto quasi per intero dal direttore, che si celava sotto vari pseudonimi. Il supposto rétore arruffapopoli era una mente ordinata e ragionatrice, dotata d’una forza d’argomentazione mirabile, che allacciava e serrava il lettore per modo, da dargli quasi un senso d’oppressione doloroso all’orgoglio, e aveva una potenza d’espressione tutta propria, attinta, in parte, a forti studi letterari, la quale s’aiutava in mille forme ardite e felici col latino, col francese, col tedesco, col vernacoli, e col linguaggio di tutte le scienze, condensando le idee, con uno sforzo quasi violento in uno stile pieno di asprezze e di scosse subitanee, e come rumoreggiante giù nel profondo, dove pareva di sentir martellare delle incudini, soffiare dei mantici, fremere delle folle. Egli che ignorava ancora l’arte facile con la quale si fa il vuoto e il silenzio intorno ai propagatori delle idee odiate, si maravigliò che un pensatore e uno scrittore di quella fibra non avesse più autorità e più rinomanza. Digiuno affatto com’era delle dottrine che quegli propugnava con tanto vigore, non poteva seguitare il filo scientifico dei suoi ragionamenti, che richiedevano nel lettore studi e consuetudini intellettuali molto diverse dalle sue; onde si arrestava ad ogni tratto nella lettura come chi ha smarrito la strada in un paese straniero; ma la gagliardia delle critiche, simile a percosse di fruste metalliche, con cui flagellava i vizi e le idee della sua classe; la profonda limpidità dello sguardo col quale, attraversando i tempi, vedeva gli indizi, gli aspetti, le vicende della grande quistione a tutti gli orizzonti della storia; la fede irremovibile nella propria ragione; la superba certezza della vittoria futura, che appariva in ogni suo scritto, piantata sopra un fondamento saldissimo di meditazioni continue e pacate, gli scossero l’animo, gli suscitarono un vivo desiderio di avvicinarsi, studiando la questione, a quel singolarissimo ingegno. Un giorno quegli venne alla scuola a domandare informazioni del fratello e scambiò qualche parola con lui. Il suo aspetto gli rese anche più vivo quel desiderio. Era un uomo sui trentotto anni, alto e diritto, con un viso lungo e regolarissimo, d’una bianchezza e d’una fermezza marmorea, al quale i capelli irti e corti e la barba piena facevano una cornice nera, quasi funerea, e aveva due occhi azzurri velati, che parevan sempre fissi sopra un orizzonte lontano: una testa d’ostinato, una fronte d’uomo imperturbabile, un abito da prete spretato, una cortesia fredda, una voce aspra, e nessun gesto, come se avesse le braccia d’un morto. Di qui ebbe l’impulso primo che lo volse agli studi sociali.... * Un caso lo spinse innanzi prima del tempo. Desideroso di conoscere le prime manifestazioni dell’ingegno del Rateri, e un poco anche di vedere in che specie di fucina egli martellava la sua strana prosa di battaglia, andò un giorno a cercar la raccolta del primo semestre all’ufficio del giornale, che era in una strada fuor di mano di Borgo San Secondo, in due stanze a terreno, in fondo a un cortile silenzioso. Visto l’uscio aperto, entrò senza picchiare, credendo di trovar nella prima stanza un segretario o commesso che ricevesse i visitatori; e invece si trovò subito nell’ufficio di redazione, in uno stanzone lungo e nudo come un parlatorio di convento, dove, a capo d’una grande tavola senza tappeto, coperta di giornali, stava seduto il direttore, e ritto accanto a lui una signora e un operaio, che spiccavano sul vano luminoso d’un finestrone. N’ebbe un senso di rispetto, come se il desiderio della raccolta, che l’aveva condotto là, potesse parere al Rateri un pretesto puerile per fargli indovinare l’animo proprio, e quasi per offrirsi alla Causa. Vedendolo entrare, il Rateri pronunziò il suo nome in accento interrogativo, senza poter reprimere un piccolo moto di stupore, e gli altri due lo guardarono con una curiosità evidente di saper con che scopo fosse venuto. Gli passò sul viso un leggerissimo rossore, che quelli notarono, e, rapidamente, guardando un busto di Carlo Marx che era nel mezzo d’una parete, cercò un altro pretesto alla visita. Ma non ce n’era altri che non dovesse parere anche più finto di quello. Espresse il suo desiderio. Allora quei tre lo fissarono con uno sguardo anche più intenso, col quale egli incrociò il suo, curiosamente, indovinando il pensiero di tutti e tre. Uno sguardo gli bastò per capire chi fossero l’uomo e la donna che vedeva per la prima volta. La donna era certo quella Maria Zara, della quale si parlava da un anno a Torino, dilaniandola, a causa della propaganda che faceva tra le operaie, per raccoglierle in associazioni, con articoli e conferenze, che si mettevano in ridicolo: una specie di Luisa Michel, come la definivano. Il suo aspetto non corrispondeva punto all’immagine che il Bianchini se n’era fatta, udendone dire gli orrori che ne dicevano. Dimostrava un trentasei o trentasett’anni: era alta di statura e pallida, e aveva gli occhi scuri e profondi, con due grandi sopracciglia nere, da cui le risaliva fino a mezza fronte una ruga sottile e diretta, che le dava un’aria di energia virile, e sviava l’attenzione della grazia originale, benchè un po’ appassita e quasi stanca, del suo viso pensieroso. Era vestita di nero, col collo nudo, semplice, e pettinata semplicemente: pareva una monaca che avesse buttato il velo, e il contrasto del suo viso spirituale e triste con le belle forme del suo corpo robusto e fermo nell’atteggiamento risoluto d’una donna abituata a parlare in pubblico, aveva non so che di strano e seducente, da cui il Bianchini fu scosso. L’operaio, meno alto di lei, un tipo di giovane russo, di viso fino ed aperto, contornato d’una barba rossiccia, e vestito di panni logori, ma pulitissimi, che lo guardava con gli occhi socchiusi d’un miope, gli parve che dovess’essere — e non s’ingannava — un tal Mario Barra, del quale la «Questione sociale» pubblicava certi articoli intorno all’«organizzazione della classe operaia», veri torrenti di parole e di pensieri monchi e disordinati, in cui si sentiva il balbettìo impaziente d’una intelligenza affollata d’idee, che per la difficoltà d’uscire s’ingorgavano come il liquido nel collo troppo stretto d’una bottiglia capovolta. Il Bianchini notò una diversa espressione nei tre sguardi che lo fissarono: in quello del Rateri una fredda curiosità, come davanti al semplice enunciato d’un problema aritmetico; in quello dell’operaio una idea di simpatia, che s’avvicinava al sorriso; in quello della donna il senso d’una interrogazione severa e quasi diffidente, ma in cui gli parve pure di scorgere qualche cos’altro, come l’ombra d’una rimembranza. E capì che tutti e tre gli avevano letto nell’anima. Il direttore gli rispose lentamente, come distratto, che non essendo pronta una raccolta intera, avrebbe cercato di farla mettere insieme, e che, se anche fossero mancati dei numeri, siccome era stabilito che i mancanti si ristampassero, egli sarebbe stato soddisfatto presto o tardi: frattanto, gli avrebbe mandato a casa i fogli che c’erano. Parlando, s’era alzato egli pure, e stava in mezzo agli altri due, immobile, formando con essi come un gruppo statuario in fondo alla stanza nuda; davanti al quale il Bianchini ebbe un pensiero che gli scosse l’animo, e gli rimase impresso dentro indelebilmente insieme con l’immagine di quelle tre persone raggruppate. Erano le tre grandi forze del socialismo: un borghese; una donna, la grande ausiliatrice invocata ed attesa, senza la quale nulla si sarebbe compiuto, quella che doveva infonder la costanza ai valorosi, e suscitare gli inerti, e svergognare i codardi, e sollevare, soffiando nell’oceano umano, l’onda che avrebbe sepolto il vecchio mondo. Erano il simbolo vivente della rivoluzione futura. E con questo pensiero gli s’affacciò alla mente, quasi visibile come una realtà, l’abusata immagine dell’«alba d’un’età nuova» e gli parve un momento che quelle tre figure immobili e ardite si disegnassero sulla bianchezza di quell’orizzonte ideale. Fu tentato di dire una parola; ma lo trattenne un senso di dignità, di cui avrebbe saputo dar piena ragione. Si ristrinse a ringraziare, ed uscì, facendo un saluto senza sorriso, a cui non risposero che i due uomini, con un cenno del capo. Uscì socialista.... Come si diventa socialisti. ........ Spronato da quel desiderio, egli si gettò alle nuove letture con la curiosità vivace di un viaggiatore che si affaccia a una terra sconosciuta, sorvolando a tutto il socialismo sentimentale e filosofico del primo periodo, per afferrarsi ai fondatori scientifici della dottrina. Era, per sua natura, singolarmente preparato a ricevere da quelle prime letture una impressione straordinaria, poichè il più vivo e il più profondo dei suoi sentimenti era quello che chiamò «fondamento d’ogni moralità» lo Scopenhauer: la pietà; raffinato in lui da una calda immaginazione. In ogni periodo della sua vita, anche quando egli aveva l’animo più offuscato dall’orgoglio, dalla sensualità, dai rancori, quel sentimento aveva trovato aperta sempre e subito la via del cuore, dal quale scacciava sull’atto, per più o meno tempo, tutti gli altri. Egli non poteva veder soffrire senza soffrire egli stesso con intensità quasi uguale a quella di chi l’impietosiva. La vista di un vecchio povero, d’un fanciullo consumato dagli stenti, d’una donna lacera e piangente, gli dava all’anima una stretta violenta, una angoscia, un impulso di pietà appassionata, che gli faceva vuotar la borsa, che gli avrebbe fatto dare anche i panni che portava addosso, se non gli fosse rimasto altro da dare. Anche la sola idea astratta d’una creatura umana, che, in mezzo a una grande città, con o senza sua colpa, non ha un tozzo o un pugno del più vile alimento da cacciarsi in corpo per non morire, che manca di quello che non manca al cane, alla belva, all’insetto più schifoso e malefico, gli era insopportabile come un dolore fisico acuto; e per poter vivere e lavorare doveva cacciar di continuo dalla mente, con uno sforzo faticoso, il pensiero che siffatte miserie esistevano intorno a lui, che gli passavano accanto non viste per la via, che si nascondevan forse nella sua medesima casa, sopra il suo capo. Fino allora, per altro, egli non aveva sentito che la pietà della indulgenza e dei dolori individuali. Ma quando, nelle nuove letture, vide per la prima volta la miseria delle classi inferiori, studiata in tutti i paesi, esposta in tutti i suoi svariatissimi aspetti, esaminata in tutte le sue conseguenze funeste, provata con cifre spaventevoli: quando conobbe tutte insieme le forme più miserande e inumane della fatica, gli orrori delle cave, delle risaie, degli opifici avvelenati, delle terre miasmatiche, le moltitudini condannate all’ozio e alla fame, le generazioni infantili falciate dalla morte, che sta in agguato dietro al lavoro, i milioni di tane immonde dove milioni di uomini si ammontano, si ammorbano e s’imbestiano, e ritto davanti a sè, come una montagna di sozzure, il cumulo immenso di alimenti ripugnanti e mortiferi di cui si pasce quotidianamente una moltitudine innumerevole di gente che lavora per un consorzio civile da cui par segregata e reietta; allora tutta l’anima sua ne fu sconvolta, come dalla rivelazione d’un nuovo mondo. Per la prima volta egli vide scorrere davanti a sè l’enorme fiume nero della miseria, e onde di sangue, di sudore e di pianto, ciascuna delle quali travolge una vittima e manda una maledizione e un singhiozzo, e come il «Faust» del Goethe sentì tutte le angoscie dell’umanità pesare sulla sua fronte e schiacciare il suo cuore. E nel tempo stesso egli udiva dire per la prima volta che questi mali non erano effetto di una legge misteriosa di natura, ma avevano le loro cause nelle istituzioni umane, e queste cause vedeva per la prima volta esposte e dimostrate. E si diede a studiarle avidamente. Era la parte critica della dottrina, la più forte e la più persuasiva, quella in cui regnava un quasi compiuto accordo fra le scuole più discordi, e alla quale erano opposte meno valide ragioni dagli avversari. Qui, nondimeno, errò per qualche tempo in una nebbia d’idee, cercando di afferrarne una, che gl’illuminasse tutte le altre. E ne afferrò una, che era già nella sua mente da un pezzo, ma confusa e fuggevole: cagione prima d’ogni male, il possedimento concesso a un piccolo numero d’uomini di quello che è l’origine di tutti i prodotti e di tutte le ricchezze, e il grande serbatoio di quanto è necessario alla vita comune: la proprietà privata della terra, su cui tutti nascono e muoiono, e l’uso della quale è supremo interesse di tutti; la proprietà che toglie all’uomo il diritto di partecipare al dominio della natura, e fa che milioni d’uomini, trovando già tutto posseduto al loro apparire nel mondo, nascono servi e mendichi. L’ingiustizia e il danno di una tal legge apparvero con la stessa evidenza luminosa che avrebbe avuto per lui l’assurdità di un monopolio dell’aria che respiriamo. E per lo squarcio fatto da questa nella cerchia delle sue vecchie idee, un’altra gli entrò nella mente subito dopo, legata stretta alla prima: la lucida comprensione d’un’altra causa di mali infiniti: il disordine immenso nella produzione di tutto ciò che alla società è necessario, l’anarchia della industria ridotta un giuoco d’azzardo, di cui scontano le perdite le moltitudini che non hanno parte dei profitti, una libera concorrenza che mette in perpetuo contrasto l’interesse personale con l’interesse collettivo, che fa della vita civile una guerra combattuta con le armi dell’astuzia e della frode, che mette il lavoro, funzione sociale senza protezione e senza diritti, in balìa della cupidigia e dell’egoismo, che sperpera un tesoro enorme di tempo, di forze e di ricchezza, trascurando ogni cosa utile ad altri che non frutti a chi la produce, arricchendo gli uni colle spoglie degli altri, mantenendo la società in uno stato perpetuo di affanno e di violenza, in cui si logorano le più nobili facoltà e si scatenano le più tristi passioni umane. E infine egli comprese, per la prima volta, nelle sue origini e nei suoi effetti, il grande fatto, che non aveva mai meditato della ricchezza: intuì l’ingiustizia che presiede alla sua formazione nell’apparente, non reale libertà di contratto tra chi compra il lavoro e chi lo vende, la figliazione mostruosa del denaro che mantiene delle dinastie di parassiti, vittoriosi fin dalla nascita nella lotta per l’esistenza e conquistatori senza lotta fino alla morte; l’esenzione iniqua della ricchezza individuale dal debito che ella avrebbe verso la società per la grande parte in cui questa concorre a produrla; e riconobbe nei suoi istituti e nell’opera sua la grande feudalità finanziaria, che non contenuta da alcun freno nè di legge nè di morale, posta quasi al disopra del diritto e dello Stato, fornita di tutti i privilegi delle antiche classi spodestate, allaccia nella sua rete il commercio, l’industria, l’agricoltura, incetta e gioca le ricchezze nazionali, accaparra a suo profitto tutte le invenzioni a tutti i progressi, impone ad ogni cosa un balzello enorme che fa duplicare a tutti il lavoro, perturba coi suoi monopoli giganteschi le condizioni dell’esistenza dei popoli, e raccogliendo a poco a poco nelle proprie mani tutti i mezzi di produzione, con cui costringe una sempre maggior moltitudine d’uomini a chiederle pane e a subire le sue leggi, tende a dividere la società in una piccola schiera di dominatori che avranno tutto e in una folla immensa che non avrà nulla, separate l’una dall’altra da una disuguaglianza più odiosa, da un’avversione più feroce, da una contrarietà d’interessi più inconciliabile e più funesta di quella che separava la servitù e la signoria dell’età media. Quetato il primo tumulto di queste idee, che lo misero in uno stato di rivolta segreta contro la società, si presentò a lui pure quell’eterna domanda: — che fare? — e allora prese ad esame i grandi rimedi, la trasformazione fondamentale di ogni ordinamento, che il socialismo proponeva. Era la parte più debole della dottrina, quella in cui è a tutti più arduo e più lungo acquistare una salda persuasione favorevole. Egli fu lietamente meravigliato, sulle prime, trovando la teoria della ricostruzione condotta già molto più innanzi di quello che si fosse vagamente immaginato, una enorme quantità di materiali del nuovo edifizio già lavorati e quasi ordinati dal pensiero scientifico di mille intelletti poderosi e pazienti, la nuova vita sociale descritta e dimostrata possibile e quasi perfetta fin nelle sue minime funzioni e in ogni più difficile prova. Poi, voltandosi ad ascoltare le ragioni degli avversari, s’arrestò, sgomentato. Al primo urto della loro critica che affermava assurda la nuova teoria del valore, soffocata dal collettivismo la libertà individuale, distrutto dall’abolizione della proprietà privata lo stimolo al lavoro, impossibile proporzionare legalmente il compenso alla varia natura dell’opera, inconcepibile l’azione d’uno Stato proprietario d’ogni cosa e incaricato di tutte le direzioni e di tutte le iniziative, gli parve che l’edificio crollasse, ed egli indietreggiò, soverchiato per un istante dall’amarezza d’una gran delusione. Ma se non riusciva a persuadersi della possibilità dei rimedi, a che giovava l’indignazione contro le ingiustizie, a che la pietà delle miserie e dei dolori? E questi sentimenti erano già in lui così forti, che non poteva più rassegnarsi a crederli vani. Una forza prepotente lo cacciava innanzi. Egli aveva bisogno di una fede, oramai, e la voleva ad ogni costo. E allora si mise a cercarla con la passione che vuol trovare quello che cerca e abbatte tutti gli ostacoli sulla sua via. Si lanciò a capo basso contro alla critica nemica del suo sogno, raccolse nuove ragioni contro i suoi argomenti, si dissimulò fra questi i più forti, ingrandendo nella propria immaginazione l’importanza di quelli che riusciva ad abbattere, si afferrò all’idea che la trasformazione si sarebbe compiuta per effetto di eventi imprevedibili e di forze non ancor conosciute, che i vizi dell’ordinamento proposto sarebbero stati corretti con le modificazioni suggerite ed imposte dall’esperienza, che la società nuova avrebbe creato essa medesima, come la natura negli organismi animali, gli organi necessari alle sue nuove funzioni, che dalla concordia dei milioni d’oppressi già vicini alla mèta sarebbe derivato nella società un tal mutamento morale da rendere agevole quasi miracolosamente l’attuazione d’ogni più vasta ed ardita idea; che in fine, quello che innanzi a ogni cosa premeva e s’aveva a fare era di consacrarsi alla santa causa, di proclamare e diffondere il sentimento di giustizia e della intollerabilità dello stato sociale presente, di ordinare per ora le moltitudini intorno a questa sola bandiera, poichè esse non si raccolgono che sotto alla bandiera della negazione, e di suscitare nella gioventù colta e generosa, con l’esempio e con la parola, la fiamma della fede che compie i prodigi e solleva il mondo. Così un po’ per virtù d’entusiasmo, un poco per effetto di persuasione, egli s’era formato una illusione di certezza, che la gioia d’aver dato alla sua vita un nuovo ideale gli fece creder così piena e ferma ed illuminata, da non aver più bisogno di porla alla prova ritornando a pesar le ragioni dei negatori. Datosi alla nuova idea con l’impeto della sua natura, non comunicando più che con le menti che gliela avevano infusa, trovava ogni giorno una nuova ragione in suo sostegno, esultava della sua rapida diffusione, che su di lui aveva forza di argomento, e l’accarezzava in segreto come un tesoro e n’era altero come di una conquista aspettando d’essere abbastanza forte di meditazione di studi per poter professarla arditamente e difenderla da valoroso. Tutti i suoi ideali passati, intanto, tutte le sue ambizioni di insegnante e d’artista impallidivano davanti a quella nuova ospite dell’anima sua, come al sorgere dell’alba la fiammella del lume con cui aveva vegliato a meditarla.... Fra padre e figlio. (FRAMMENTO.) La mattina alle dieci, quando fu tornato dalla passeggiata solita, mentre sua moglie e la ragazza erano a messa, gli capitarono in casa Alberto e la nuora. Egli si slanciò incontro al figliuolo come se non l’avesse visto da un mese. Entrarono tutti e due nella stanza di studio, inondata di luce, tutti e due così freschi, belli, vestiti bene, splendidi di gioventù e di allegrezza, che il Bianchini non potè trattenere un’esclamazione di piacere e rimase un momento immobile ad ammirarli. Ah! quell’Alberto, quel caro figliuolo! Ogni volta che lo vedeva era tentato di cacciargli le mani in quei folti capelli biondi arricciolati, come gliele metteva quand’ora bambino, che ci si perdevano come dentro un mucchio di matassine di seta. Non era molto alto della persona, ma di membra ben proporzionate e solide, e aveva il viso di suo padre, ma raffinato di forme e nobilitato dalla luce dell’ingegno, e quella medesima aria di bontà, ma ingentilita e mista a una franca espressione d’alterezza virile. Egli risentiva sempre davanti al figliuolo la gioia d’un artista mediocre che ha imbroccato per caso un capolavoro. E godeva a metter giù davanti a lui ogni apparenza d’autorità paterna, e a dimostrargli che sentiva la sua superiorità, per fargli meglio comprendere il proprio affetto e la propria gratitudine. Sedettero un momento tutti e tre intorno a un tavolino rotondo, di contro la finestra, donde entrava un raggio di sole, che dorava il capo del giovane, e metteva in vista la freschezza bianchissima di sua moglie, e il Bianchini parlò subito degli avvenimenti del 1.º maggio, scherzando, preparato a una scrollata di spalle del figliuolo, che viveva tutto nei suoi studi letterari, incurante d’ogni altra cosa. — Hai visto — gli disse — hai sentito, ieri sera, quei mascalzoni?... Il figliuolo rispose con indifferenza. Sì, aveva visto. Era rimasto un’ora sotto i portici della piazza, in fondo, davanti al caffè Rossi. E s’arrestò a quelle parole, come se gli rincrescesse di soggiungere quello che aveva in mente. Ma, domandandogli suo padre che cosa ne pensasse, espresse il pensiero. — Che cosa vuoi — disse. — Per me.... mi fa pena vedere una società che, quando la gente che la fa vivere domanda un po’ più di benessere e un po’ meno di lavoro, per tutta risposta le mostra le baionette. Il padre lo guardò con due grandi occhi. — Capisco — rispose poi — ma lo domandino in un altro modo. — È un pezzo che lo domandano in un altro modo — osservò il figliuolo sorridendo. — Che cosa hanno ottenuto finora? Il padre tornò a guardarlo stupito. — Ma, — disse dopo — bisogna vedere se le loro domande sono ragionevoli. Infine.... la condizione degli operai è migliorata molto, da una volta. — È un’asserzione discutibile — rispose il giovane. — È migliorata per alcuni, è peggiorata per altri, è diventata più precaria per tutti. Ma, ammesso pure che stessero peggio una volta.... ti parrebbe giusto negare un diritto ad un negro affrancato, per la ragione che suo padre schiavo, non ne aveva nessuno? Il Bianchini non afferrò l’argomento. — Sta bene — obbiettò — ma.... lasciamo andare; il migliorare la propria condizione dipende anche in gran parte da loro; se facessero un po’ più d’economia, se non avessero dei vizi, se s’istruissero.... — Ma, caro papà — gli rispose con sorriso amorevole il figliuolo — quando i salari bastano appena alla vita, come vuoi che bastino a far delle economie? I vizi! Dio mio, noi lo sappiamo bene che grandi vizi si possono avere senza danaro. E che tempo è lasciato loro per istruirsi? — Che tempo è lasciato loro per istruirsi! — ripetè il Bianchini un po’ imbarazzato. — Dunque, tu sei per le otto ore di lavoro? — Certo. — E credi che le otterranno? — No. — Vedi dunque che lo stato attuale delle cose è inevitabile. — No, padre mio. Tu vuoi dire che lo stato attuale delle cose era inevitabile che si producesse, come fase d’ogni svolgimento di fatti; e questa è la verità. Ma è un’altra cosa. Come lo stato attuale è derivato da un altro, così un altro col tempo succederà a questo, necessariamente, per forze indipendenti dalla volontà dei privati e dei governi. Il padre lo guardò un’altra volta con stupore; poi crollò il capo, non persuaso. E domandò recisamente: — In che maniera? — Ah! in quanto a questo — rispose il giovane sorridendo.... — io non posso saperlo. Si può prevedere a che arriverà la società: ma non seguire la via o le vie per cui passerà per arrivarvi. — Vorresti dire una rivoluzione? — domandò il padre fissandolo. — Può anche darsi. O se non una rivoluzione, una serie di scosse violente, di convulsioni sociali, che a poco a poco muteranno radicalmente lo stato attuale. — E credi che comincerà presto questa serie di.... rivoluzioni? — domandò il Bianchini col sorriso di chi dubita se il discorso sia serio o faceto. — Credo che sia già cominciata — rispose il figliuolo. A queste parole il Bianchini e la signora s’alzarono tutti e due insieme ridendo, come per fargli capire che non dubitavano più d’uno scherzo. — E da quando in qua hai queste idee? — gli domandò la moglie celiando. E il padre ripetè la domanda, mettendogli scherzosamente una mano sulla spalla: — Giusto; da quando in qua hai queste idee? Alberto s’alzò piccato e rispose: — Ho parlato sul serio. Come potete supporre che io scherzi sopra un argomento di questo genere? Il padre cessò di ridere. — Perchè allora non ci hai mai espresso le tue idee? — Perchè prevedevo che non ci saremmo intesi. Vedete bene che avevo ragione. — Ma insomma — disse il Bianchini battendosi sulla fronte le dita riunite della mano destra — dimmi proprio chiaro e preciso quello che pensi. Il giovane rispose con dolce pacatezza: — Ecco quello che penso. Penso che la parte che è data ai lavoratori nel prodotto generale della ricchezza non è proporzionata alla parte che essi rappresentano nell’opera generale della produzione. Penso che non è giusto che quella parte della società che fa il lavoro più necessario e più faticoso per nutrirla, vestirla e ricoverarla e dare all’altra parte il tempo e i mezzi d’istruirsi, non guadagni abbastanza da nutrirsi, vestirsi e ricoverarsi umanamente, e sia esclusa dalla possibilità di istruirsi. Penso insomma, che il lavoro non raccoglie tutti i benefizi, a cui avrebbe diritto, del progresso della civiltà, perchè questi benefizi gli sono intercettati da un difettoso e ingiusto ordinamento sociale. Ecco il mio pensiero. La signora, con la voce placida, si intromise nella discussione. — Ma, Alberto, come vuoi che tutti si possan trovare nelle stesse condizioni di fortuna? Il Bianchini approvò con un cenno del capo. — Non dico questo — rispose Alberto. — Ma perchè si debbono trovare, regolarmente, nelle condizioni peggiori quelli che faticano di più e che sono più necessari? Perchè ci deve essere tanta gente che lavora troppo e non mangia abbastanza, tanta altra gente che lavorando pochissimo, vive nell’agiatezza, e tant’altra che non lavorando punto, nuota nell’abbondanza? — Ma perchè il mondo è fatto così, figliuol mio! — esclamò il padre, allargando le braccia, maravigliato dall’ingenuità del figliuolo. — Perchè così è sempre stato e sarà sempre! — No, papà. Così come ora non è sempre stato. C’erano la schiavitù e il servaggio, e non ci son più; c’era il feudalismo, c’era il dispotismo, e sono scomparsi; c’era l’ineguaglianza civile e politica delle classi, ed è stata, almeno legalmente, soppressa. Vedi che il mondo si è mutato; e se può mutarsi non è ragionevole il dire: — è fatto così — per provare che non c’è rimedio alle sue ingiustizie e ai suoi mali. Il padre esitò un momento. — Ma come dovrebbe ancora mutare — domandò poi — se dici tu stesso che abbiamo la libertà e l’eguaglianza, che è quanto dire che tutte le strade sono aperte a tutti per migliorare la propria sorte? Il figliuolo fece un leggiero atto d’impazienza. Poco tollerante della contraddizione per vivacità di natura, lo impazientiva anche di più la contraddizione di suo padre che pure amava tanto, appunto perchè in tutte le altre questioni egli l’aveva sempre trovato cedevole, persuaso o no, alle sue idee. Gli salì alle guancie un leggiero rossore. — Ecco l’errore — esclamò. — La libertà e l’eguaglianza furono una conquista di fatto per una parte della società; ma rimasero due parole vuote per l’altra. L’eguaglianza vera non può sussistere fin che l’esistenza del maggior numero dipende dalla volontà o dalla fortuna di pochissimi. La libertà non è che per chi ha mezzi e coltura. Chi non ha nè gli uni nè l’altra è schiavo della miseria, della sua ignoranza e del caso. La via a migliorar la propria sorte non è aperta a tutti, perchè tutti quelli che nascono in condizioni privilegiate di fortuna, si trovano già a mezza strada e l’ingombrano, e non c’è uno su mille degli altri che possa raggiungerli e aprirsi il passo fra loro. Pensaci un poco, papà. È una ingiustizia che rivolta. Se non ce ne accorgiamo è perchè i nostri interessi ci hanno fasciata la coscienza. Il padre lo guardò un’altra volta, più profondamente stupito di prima. Poi si ribellò, ripetendo una frase udita. — Oh, infine — disse con energia insolita — il mondo è di quelli che se lo presero, che sono stati i più forti. — Saranno stati i più forti una volta — rispose Alberto. — Ora non sono altro, in massima parte, che i più fortunati e i più furbi. — Ma ammettiamo i più forti. Vuol dire che quando, mettendosi d’accordo, saranno i più forti i lavoratori, avranno ragione di cacciarci il tallone sul collo, come noi facciamo adesso con loro. Il Bianchini ebbe una scossa. — Ma, Alberto! — esclamò la moglie scandalizzata, guardandolo in faccia, come se gli vedesse una faccia nuova — Ma, figliuol mio! — disse il padre con un accento di severità triste che non aveva mai usato con lui — chi t’ha ispirato queste idee.... così poco degne di te? Un’ondata di sangue salì al viso di Alberto — Poco degne di me?... — rispose, frenando la voce. — Ma scusami, a me pare che fossero indegne di me quelle che avevo prima. E non ho detto la metà di quello che penso. Penso che, così com’è ora, la società è tutta ordinata e diretta a benefizio d’una piccola minoranza, la quale sfrutta tutte le forze dei lavoratori sotto la protezione delle leggi, leggi che ha fatto essa sola e per sè sola; che tutto l’edifizio sociale si regge sull’ignoranza e sull’abbrutimento delle moltitudini; che è la sola violenza che lo tiene insieme, e che questo stato di cose ci corrompe tutti, che è come un’infezione nell’atmosfera morale, la causa prima di tutte le più tristi passioni e delle azioni più nefande e della menzogna d’ogni nostra istituzione e d’ogni nostra parola; e che questo stato di cose non può durare e non durerà e che è sacro dovere di tutti il far tutto il possibile perchè non duri, se anche si dovesse sconvolgere il mondo.... La signora, turbata, con un rapido moto della mano gli chiuse le labbra. Il padre lo fissò lungamente con gli occhi spalancati, e poi, prendendogli le due mani e mettendosele sul petto, gli disse a voce bassa, con accento di affetto profondo e di sincero dolore: — Alberto, figlio mio, sei proprio tu che dici queste cose? — Son io senza dubbio — rispose il giovane con un sorriso contratto, sciogliendo lentamente le mani. — Mi rincresce di spiacerti. Ma con chi dovrei esser sincero, se non con mio padre? Io vedo ora il mondo sotto altro aspetto che per il passato, ed è il suo aspetto vero. Credevo che il mondo fosse la scienza, l’arte, la politica e tutta la gente fortunata che si occupa di queste cose; e non vedevo altro. Ora vedo che il mondo è la moltitudine, quasi relegata fuor del progresso, che alla società dà tutto e non ne riceve presso che nulla, che suda sopra e dentro la terra e si consuma nelle officine e copre delle sue ossa i campi di battaglia senza cavarne altro frutto che di non morir di fame; che dalla miseria è costretta a vendere la carne, l’anima e l’onestà della donna e il sangue dell’infanzia, e per miseria minaccia, ruba, ammazza, si dispera, impazzisce, s’uccide, fa del mondo un inferno.... Il padre fece l’atto d’interromperlo. — .... Mentre un piccolo numero — continuò il figlio risoluto — raccolto in disparte, canta degli inni alla patria e alla civiltà e trova che è bella la vita. Ora io mi son persuaso che a tutto questo c’è rimedio, come milioni d’uomini lo sperarono per il passato, come altri milioni lo credono al presente con molto più ragione dei primi. Questa persuasione m’è entrata nell’anima come un raggio di sole. Sarà un errore; il rimedio non sarà quello che si crede e si propone, sarà un altro, saranno altri, complessi, lenti, difficili. Non importa. La prima cosa da farsi per guarire un male è quella di riconoscerlo, il primo dovere di chi vuol togliere un’ingiustizia è quello di confessarla e di proclamare il buon diritto di chi la patisce. Io non posso far altro, faccio questo; faccio eco alla voce degli oppressi e dei miserevoli; rifiuto la complicità del mio silenzio all’oppressione, e protesto. Non posso più aver pace e dignità di coscienza che nell’adempimento di questo dovere. E lo adempirò a qualunque rischio e, a qualunque costo! Il padre diventò pallido. Egli domandò con voce alterata: — E tu dirai queste cose a tutti? — Le dirò, naturalmente. — E lo scriverai? — domandò il Bianchini abbassando la voce. — Le scriverò. — Ma tu non sei in te, Alberto! — esclamò la moglie afferrandogli la mano. — Scriverai quello che hai detto a me, — riprese il padre con maggior commozione — che tutto è ingiustizia, menzogna e violenza, che bisogna.... equiparar le fortune, che è necessario mutar le cose anche se si debba sconvolgere il mondo?... E pubblicherai queste idee col tuo nome.... a costo di metter la discordia in famiglia, di inimicarti tutti, di rovinar la tua carriera? — Senza il menomo dubbio, perchè ho detto che lo credo un dovere. Il padre stette un momento a guardarlo, con un viso che Alberto non gli aveva mai visto. Poi gridò, tremante di collera: — Ebbene, tu sei un altro da quello che credevo. Tu non hai affetto nè per tuo padre, nè per tua moglie, nè per il tuo bambino. Non hai più nè ragione nè cuore. E sei un ingrato. Non ti riconosco più per mio figlio. E si slanciò nell’altra stanza. La signora, sconvolta da quelle parole, gli corse dietro, chiamandolo; ma egli chiuse l’uscio con violenza. — Alberto, — disse allora, severamente a suo marito, stentando a raccoglier la voce — io avevo diritto di conoscere prima d’ogni altro queste tue idee. Perchè non me le hai mai confidate? Scosso profondamente da quella scena, la più grave, la sola grave che il padre gli avesse mai fatto in vita sua, il giovane si ricompose a fatica, e rispose con voce commossa, ma risoluta: — Perchè m’avresti fatto come papà; hai veduto. — No — disse la moglie; — avrei cercato di moderarti, di farti riflettere.... T’avrei impedito di dare a tuo padre questo dolore. — Sì — rispose il giovane, passandosi una mano sulla fronte — ho ecceduto.... Ma egli pure. — Tu sai che t’adora — disse la signora. — Io son certa che soffre immensamente. — E soggiunse sottovoce: — vagli a chiedere perdono. Alberto fece uno sforzo sopra di sè, poi rispose risolutamente, ma con rammarico: — Non posso. Fra madre e figlio. LA MADRE (afflitta). — Intanto tu sei socialista e non credi in Dio (toccando un piccolo crocifisso che tiene appeso al collo) e non hai più fede in questo, che baciavi da bambino. IL FIGLIUOLO. — Quando mai l’ho detto? No, cara mamma. Io non affermo; ma non nego. Io spero. Ecco il mio stato di coscienza, che è anche lo stato vero, credilo, della maggior parte di quelli che si dicono credenti. Se non ho la fede ferma non è già perchè io sia socialista, ma perchè sono un uomo del tempo mio. Il dubbio mi è venuto da un’educazione intellettuale che non mi fu data dai socialisti. Guardati intorno; vedi fra i nostri amici e conoscenti quante persone d’ogni età, rispettate anche da te, avversissime al socialismo le quali non hanno fede e lo dicono, o dicono di averla e vivono come se non l’avessero. Il socialismo non comanda punto di non credere: dice: — La coscienza è libera. — E non ti pare abbia ragione? Non è forse vero che soltanto in una coscienza libera può nascere la fede vera? M. — Ebbene.... se in qualche momento tu credi in Dio, come mai non pensi, povero figliuolo, tu che vuoi mutare il mondo, che se la società è fatta come è, è perchè Dio lo consente? F. — No, cara mamma, non lo posso pensare. Il mondo di ora è tutt’altro da quello che era secoli fa. Questo lo ammetti? Ebbene, se si è mutato è perchè Dio lo ha consentito. Se ha consentito che si mutasse per il passato, perchè non dovrebbe consentire che si muti nell’avvenire? Quale credente oserebbe di affermare che la forma attuale della società sia l’ultima ch’egli consente, quella che egli ha designato a non più mutare? Che tutti i disordini e i mali che le sono inerenti egli li voglia mantenuti per sempre? Se c’è una cosa manifesta, è che Dio ci _lascia fare_, perchè se ciò non fosse non avremmo la libertà; senza la quale non ci sarebbero nè meriti nè colpe. Siamo dunque liberi di fare tutto quello che ci par bene, di distruggere tutto quello che ci par male, di mutare la società nel modo che ci par meglio per essa, e potendolo fare, abbiamo, davanti a Dio, il dovere di farlo. M. — Sarà così.... non lo nego.... Ma il vostro errore è questo, che la vostra idea, come dicon tutti, è un’utopia, fondata sopra una idea falsa della natura degli uomini.... F. — Ma allora, cara mamma, e l’idea di Cristo, che tutti gli uomini si amino come fratelli, che i ricchi diano tutto ai poveri riducendosi poveri anch’essi, che si perdonino tutte le offese, che non si curi alcun interesse della terra, non ti pare forse un’utopia, fondata sopra un concetto falso della natura degli uomini? Vedi che in mille e novecento anni non è diventata realtà; credi che lo sarà mai? M. — Oh, la cosa è ben diversa! Tutto quello che prescrive il Vangelo, ognuno che lo voglia, lo può fare; supponi che tutti lo facciano, e il mondo sarà mutato in meglio, e sarà trasformata la società, come tu desideri. Vedi che basta la religione a far questo. F. — No, cara mamma. Se bastasse la religione a mantenere e a mandare innanzi gli uomini sulla buona via, perchè sarebbero necessarie, anche tra i popoli più religiosi, tante leggi e tanta forza per proteggere vita e proprietà, per frenare e punire, per conservar l’ordine e la pace? Vuol dire che la religione non basta. Se non basta a mantenere quel po’ di bene che esiste, non basta a conseguire il meglio a cui aspiriamo. M. — Io non so.... Ma tutti lo dicono; voi volete un cambiamento impossibile, una società che avete immaginata voi, che non è mai stata e non sarà mai. F. — Ma neanche la società quale è ora non è mai stata. È quella che ora non sta, ma cammina. Vedi un po’ intorno a noi, cara mamma, quante istituzioni, leggi, idee, costumi, tendenze, di cui, quando eri giovine, non c’era indizio, o se ne parlava, se te ne ricordi, come di idee stravaganti di pochi, che non si sarebbero attuate mai. Considera un po’ tutte queste cose: organizzazioni operaie, società cooperative, leghe di resistenza, leggi protettrici del lavoro, giurì popolari, idee di solidarietà e d’eguaglianza, rivendicazioni di diritti e di riforme, lotte formidabili fra lavoratori e padroni; precorri col pensiero lo svolgimento di tutte queste cose nuove nell’avvenire, come faresti con l’occhio di tante linee convergenti, poichè tutte quelle forze tendono a un fine solo, che è uno stato migliore delle moltitudini, e interroga la tua ragione, e vedi se non ti dice che nel punto in cui s’incontreranno ci sarà il socialismo, o qualche cosa di molto simile, donde si verrà a quello naturalmente. Tu vedi che il mondo muta. Tu sei certa che fra cento anni sarà molto diverso da quello che è adesso. Ebbene, credi tu che allora sarà molto più vicino, o molto più lontano che adesso, dall’ordinamento sociale che noi invochiamo? M. (turbata). — Di queste cose io non sono in grado di discutere, caro figliuolo.... Ma per quanto tu dica, io sento per le vostre idee una ripugnanza.... un terrore, che vuol dir qualche cosa. F. — Ma codesta ripugnanza, codesto terrore, pensaci bene, non sono proprio le nostre idee che lo destano: te l’hanno destato le persone che le travisano e ci calunniano. Pensa che milioni di uomini, per lunghissimo tempo, hanno creduto in buona fede che i primi cristiani, che pure vivevano in mezzo a loro, fossero gente malvagia e corrotta, capace di ogni sozzura e di ogni delitto.... M. — Ah! non far di questi confronti, figliuol mio! Può darsi che il mondo s’abbia a mutare, come tu dici; ma non muterà in meglio se non sarà con Dio. Da lui solo vengono i buoni sentimenti e le buone idee. E il cuore mi dice, che voi non siete con lui. Che cosa sarà mai il progresso, la civiltà, tutto quello che tu vuoi, senza la religione? F. — E che cos’è mai la religione senza le opere, cara mamma? Esamina un poco, uno per uno, i nostri propositi. Il socialismo vuole una società in cui non si possa arricchire sul lavoro altrui nè vivere senza lavorare, in cui chi lavora abbia diritto a vivere, in cui, lavorando tutti, il lavoro non sia per alcuno eccessivo, e quindi non abbrutisca e non torturi alcuno, e dia al lavoratore il tempo e il modo di ristorar le forze, di curar la famiglia e di coltivar lo spirito; vuole che cessi questa necessità fatale che, per alimentare la officina, strappa le madri ai figliuoli o i figliuoli alla casa e alla scuola, estenuando e corrompendo donne e fanciulli, perpetuando l’ignoranza nella moltitudine e seminando la morte fra i deboli: vuole che cessi questa concorrenza sfrenata che è causa di tante basse passioni, angoscie e rovine, questa furia d’acquistare, questo terrore di perdere, questa mischia feroce degli uomini che si disputano a morsi il palmo di terra e il boccoli di pane; vuole che cessi tutto questo per dar luogo ad una società non più divisa da orgogli e da odii di classe, non più irritata da uno spettacolo d’ineguaglianze, d’ingiustizie e di miserie immeritate, che contrista e scoraggia ogni coscienza onesta; vuole, insomma, che gli uomini si accordino e si compongano, per quanto è possibile, in una grande famiglia operosa, in cui, se non sono soppressi l’egoismo, i dolori, le ineguaglianze della natura, l’egoismo è contenuto, i dolori sono consolati, le ineguaglianze sono attenuate dall’affetto reciproco e dal sentimento dell’interesse comune e non sieno possibili la fame e la disperazione accanto all’abbondanza e alla festa. Ebbene, di tutti questi desideri e propositi, cara mamma, c’è uno solo che contrasti la religione? Uno solo che il tuo cuor buono e generoso possa rifiutare? E dimmi ancora: si può credere in Dio buono e giusto, senza credere ch’egli desideri che quell’ideale s’avveri? E si può creder questo e non sentire il dovere imperioso di lavorare con tutte le forze al conseguimento di quell’ideale? Tu dici che i buoni sentimenti vengon da Dio. E allora, madre mia, donde mi vien mai questo sentimento che provo per la moltitudine che fatica e che soffre, questa pietà che mi fa pianger l’anima, questo desiderio del bene, quest’odio del male e dell’ingiustizia che ha distrutto la pace della mia vita e che pure mi dà le più nobili gioie che si godano sulla terra? M. (commossa). — Certo.... se ti sento parlare.... Ebbene, se sei sincero (con risoluzione improvvisa, prendendo il piccolo crocifisso che tiene al collo e sporgendolo, con un dolce sorriso verso il figliuolo) bacia un po’ questo.... F. (semplicemente). — Ha amato i poveri, ha consolato gl’infelici, ha predicata la giustizia, è morto per i suoi fratelli. Con tutta l’anima mia. (Bacia il crocifisso tre volte). M. (con vivo slancio di commozione). — Figliuolo mio! (ma si rattiene subito, ripresa da un turbamento, e passandosi una mano sulla fronte, dice con accento di tristezza): Eppure.... non so.... non capisco.... F. (tra sè, con un sospiro). — Ecco la gran disgrazia.... Non capisco. (Poi con profonda tenerezza e con vigore): O madre mia, io non posso amarti di più; ma se invece di dubitare, di farmi dei rimproveri e di frenarmi, tu mi dicessi un giorno: — Ebbene, figliuolo, sì hai ragione, sono con te, va, combatti per il tuo santo ideale, la benedizione di tua madre ti segue.... — io cadrei in ginocchio davanti a te e alla tua croce, e sarei buono come un angelo e forte come un eroe! M. (mettendosi il fazzoletto agli occhi). — Non dir più altro, figliuolo.... va.... lasciami pensare. Fidanzata e fidanzato. (DA UN RACCONTO INEDITO.) Si fidanzarono. E tutto andò bene fra i due cugini, stretti dal nuovo vincolo, fin che egli non le palesò la sua nuova fede. Ma dopo che le ebbe fatta una aperta confessione, accolta da lei, per dire il vero, senza meraviglia e senza rammarico, cominciò tra il giovane e la sua nuova fidanzata una lotta tranquilla, ma continua; una di quelle infinite piccole lotte famigliari di cui si compone la grande guerra delle idee fra un’età che muore e un’età che sorge; guerra nella quale il cozzo meno visibile, ma più forte e più doloroso, è quello dell’uomo audace, che corre all’avvenire, con la donna misoneica che s’avvinghia al passato. Egli avrebbe dovuto scansare quei discorsi; ma legandosi la grande questione quasi a ogni idea e a ogni fatto della vita d’ogni giorno, non gli sarebbe riuscito di scansarla se non rinunziando affatto a parlare. D’altra parte, egli sperava di conquistar l’animo di lei lentamente, senza mostrare di volerlo, insinuandole un’idea dopo l’altra, e ciascuna idea a poco a poco, per via della ragione e dell’affetto ad un tempo, e quasi rifacendo la sua educazione intellettuale e morale, come avrebbe fatto con un ragazzo. Ma riconobbe subito una grande difficoltà: essa non ragionava. Tutte le nuove idee ch’egli esprimeva andavano a urtare contro cinque o sei idee confitte e immobili nell’animo di lei, che opponevano alle sue la resistenza molle, ma tenace, d’un’imbottitura in cui nessun argomento penetrava. Egli comprese per la prima volta che per accogliere certi sentimenti generosi non basta esser buoni e delicati d’animo, come gli pareva la sua fidanzata; ma si richiede una sensività particolare che vien soltanto da un certo ordine di cognizioni e di riflessioni, a cui raramente la donna si eleva. Non gli era possibile di farle deviare la visuale ordinaria del pensiero quanto e come occorreva perchè ella vedesse quelle anomalie sociali che a lui parevano mostruose. Anzi, quanto più queste erano grandi tanto meno essa le vedeva, e tanto più si meravigliava ch’ei le vedesse, e faceva il viso di una persona ragionevole a cui un allucinato indicasse con la voce e col gesto uno spettro. Quando, cadendo il discorso sulle condizioni della donna, egli diceva che è ingiusto che le sian chiuse tante vie di guadagnarsi il pane, poichè milioni di donne non trovan marito e rimangono senza mezzi di sussistenza; che è immorale che esse sian poste nella necessità di dar una caccia sfrontata al marito come l’uomo dà una caccia impudente alla dote; che è iniquo che, a lavoro eguale, esse siano meno ricompensate degli uomini, perchè, se han meno bisogni, ci rimetton più di forza e di salute; che è illogico che non possan votar le leggi, di cui come figliuole, come madri, come contribuenti lavoratrici subiscon gli effetti; che non è ragionevole che sian private dei diritti civili e politici, come gli interdetti per imbecillità o per delinquenza, mentre incorrono nelle stesse pene che l’altro sesso quando falliscono, e sono sottoposte alle stesse prove intellettuali per essere ammesse agli stessi uffici: che è assurdo il parlar d’uguaglianza fra gli uomini se è esclusa da questa una metà del genere umano; a tutte queste ragioni essa ne opponeva una sola. — Ma, caro Enrico — rispondeva placidamente — la missione della donna è la famiglia! Quando, discorrendo della educazione pubblica dei fanciulli, su cui pure non aveva ancora un’idea ferma, egli opponeva alle sue esclamazioni d’orrore che l’errore di lei e degli altri era di posare il quesito sopra la supposizione d’una famiglia ideale, e le domandava quante famiglie rimanessero, a suo giudizio, capaci di educare, se si toglievano quelle in cui i coniugi si odiano, leticano e si tradiscono a vicenda, quelle a cui il padre è tutto il giorno al lavoro, la madre in visita o in chiesa e la prole in balìa dei servitori, e quell’altre in cui i figliuoli hanno l’esempio continuo della vanità, della dissipazione e dell’ipocrisia, e le altre moltissime in cui i genitori tristi o leggieri lascian crescere i figli senza alcun freno, o li intristiscono con una durezza tirannica, o li corrompono con scandali manifesti, o li inimican fra loro con preferenze inique, o istillano in essi i propri odi, il proprio scetticismo, i propri vizi, e tutte le false idee che hanno ereditate essi stessi; a tutte queste domande essa rispondeva invariabilmente: — Ma, Enrico! Strappare i fanciulli al santuario della famiglia! Ma come lo puoi dire seriamente? Quando, cadendo sul tappeto la questione del lusso, egli diceva che il lusso è pernicioso alla società e agli individui, perchè divora i capitali che, accumulati, produrrebbero un rialzo dei salari, perchè storna dalle industrie veramente utili un gran numero di lavoratori, perchè assoggetta il lavoro alla mutabilità continua dei suoi capricci, perchè provoca ambizioni e gare rovinose, eccita la sensualità, corrompe i gusti e le tendenze di tutti a danno della intellettualità e della cultura e trascina alla colpa chi ha mezzi modesti e irrita il sentimento della miseria in chi manca del necessario, a queste osservazioni essa mostrava grande meraviglia, e rispondeva sorridendo: — Ma, Enrico, se non ci fosse il lusso, come vivrebbe tutta la povera gente che il lusso fa lavorare? — E non lo diceva, ma lasciava capir chiaramente che, a suo giudizio, se si fossero soppressi i ricchi, il popolo sarebbe morto di fame. Se, venendo a parlare della giustizia, egli le diceva che, nella società presente, il principio che «la legge è uguale per tutti» è un’aperta menzogna, perchè il povero non può litigare col ricco, perchè le pene pecuniarie, che schiacciano l’uno, sono derisorie per l’altro, perchè, irresistibilmente, quanti esercitano la giustizia la violentano a difesa degli interessi della propria classe o cedono al potere da cui dipendono, o alle simpatie e agli influssi del ceto sociale in cui son nati e in cui vivono; e le adduceva in prova l’abbominevole sproporzione delle pene fra il grande latrocinio finanziario e il piccolo furto volgare, le scandalose assoluzioni dei ladri e delle ladre in guanti gialli, i processi impediti, le fughe protette, le prigioni addolcite, le mille complicità e indulgenze infami con cui la classe dominante nasconde od attenua i delitti che si commettono nel suo seno, mentre è punito senza pietà persino il grido solitario ed il canto che s’innalza contro i suoi privilegi: a tutto questo rispondeva ingenuamente: — Ma, Enrico, a me par naturale che la giustizia sia più severa con la classe che commette più reati e che, essendo la più pericolosa, ha bisogno di maggior freno, per la sicurezza di tutti! È una necessità, caro Enrico! Quando infine, negando che il socialismo voglia sradicare dal cuore dell’uomo l’amor di patria, egli le diceva che questa parola si fraintende e si abusa ipocritamente, perchè essa non ha senso alcuno se non significa amore delle creature umane, e questo amore non sente, e quindi non ama la patria, chi non soffre e non s’indigna di vederla formata da due popoli e quasi da due razze diverse, di cui l’una che lavora per essa, vive nella povertà e nell’ignoranza, amareggiata dallo spettacolo della ricchezza e dell’ingiustizia e offesa nell’animo dal disprezzo che si sente pesare sul capo; quando egli le diceva questo, e soggiungeva che come la patria stava al di sopra della famiglia, la umanità sta al di sopra della patria, e che il patriottismo chiuso e orgoglioso non è che l’egoismo larvato d’una classe, essa rispondeva, quasi scandalizzata: — Ma, Enrico! Anche la patria! Ma non è il più sacro dei nostri affetti, dopo Dio? E se, accalorandosi un poco, egli insisteva, essa metteva fuori quel benedetto: — Non t’alterare! — che gli urtava i nervi: o faceva di peggio: gli dava, tutt’a un tratto ragione, accarezzandolo affettuosamente e sorridendo, come si fa per rabbonire un fanciullo caparbio. Ma quello che più lo feriva, quando egli esprimeva le sue idee intorno alla donna, alla famiglia o alla patria, era il sentirsi dire a bassa voce: — Bada che ci ascoltano! — come s’ei tenesse dei discorsi immorali, e il veder gli atti premurosi e i pretesti con cui essa cercava di allontanare i suoi parenti, perchè non sentissero. Un giorno, finalmente, essa fece un’uscita che decise del loro destino. — Ma già — gli disse con un sorriso — è impossibile che tu rimanga un pezzo in queste idee.... Cambierai, ne son certa. — E se non cambiassi? — domandò il giovane mutandosi in viso. — Se non cambiassi — rispose essa con vivacità insolita — io ne sarei infelice per tutta la vita. Egli la guardò lungamente, pensieroso, senza dir parola, e poi si asciugò con la mano una lagrima che essa non vide. . . . . . . . Tre mesi dopo, nello stesso giorno in cui Enrico, con la ferita ancora aperta nel cuore, parlava per la prima volta in un Comizio socialista, la bella cugina sposava placidamente un banchiere. Fratello e sorella. (FRAMMENTO.) Dopo quella sera che sua sorella gli s’era buttata al collo, durante la sua disputa col suocero, Alberto aveva notato in lei uno stato d’animo insolito, il quale ad ogni nuova discussione, cui ella fosse presente, intorno a questo argomento, si tradiva in lampi degli occhi, in rossori improvvisi, in movimenti nervosi della persona, che pareva ella si sforzasse di reprimere, quasi con un senso di vergogna; ma non ci aveva badato gran fatto, credendo quello effetto di una sensitività malata di ragazza romantica, tocca dai suoi discorsi più nella fantasia che nel cuore. S’era invece operato in lei un mutamento profondo, che non conoscendola intimamente, egli non poteva aspettare. Perchè non era e non pareva bella, essa non era mai stata amata da sua madre la quale disperava che potesse fare un bel matrimonio degno della casa, e si vergognava un poco di lei, come un artista d’un’opera d’arte mal riuscita. Sin da bambina ella si era accorta di questa malevolenza della madre dagli sguardi scontenti, e qualche volta astiosi, con cui si vedeva spesso osservata da lei, da capo ai piedi, come una persona sconosciuta e importuna. La signora Bianchini l’aveva sempre fatta sgobbare ai lavori di casa per risparmiar fatica alle cameriere, le aveva sempre dato sulla voce in conversazione, come se non dicesse che sciocchezze o fanciullaggini, l’aveva sempre tenuta nell’ombra, quando poteva, come se, mostrandosi o parlando, avesse fatto sfigurare la famiglia. E sotto questa oppressione, ella era venuta su penosamente, diffidente e quasi vergognosa di sè, con un sentimento esagerato della sua imperfezione fisica, che la rendeva timida e impacciata, e le toglieva quasi ogni grazia. E menava una vita triste, poichè anche la consolazione di essere amata dal padre le era diminuita dai continui contrasti che, per cagion sua, nascevano tra sua madre e quel buon uomo; il quale non poteva tollerare ch’ella fosse aspreggiata ed umiliata. Anche suo padre, d’altra parte, si mostrava più affettuoso col figliuolo e quest’aperta parzialità dei suoi parenti era stata cagione ch’ella non avesse mai amato il fratello, che assorto nei suoi studi prima, e poi felice dei suoi trionfi, gli era parso sempre un poco egoista e troppo ambizioso. Alberto, dal canto suo, invanito alquanto fin dall’infanzia, e soddisfatto dei privilegi di cui godeva nella famiglia, non solo non s’era mai curato gran fatto della sorella; ma vedendola triste e fredda con lui, e credendola per questo invidiosa, s’era fatto un falso concetto di lei, come d’un animo gretto e acrimonioso, col quale, anche negli anni della sua più affettuosa espansione non aveva mai potuto entrare in dimestichezza fraterna. Per qualche tempo, dopo terminate le scuole, essa aveva preso passione per le letture letterarie, e in ispecie per la poesia; ma non potendone ragionar mai, nè con suo fratello che le metteva soggezione, nè con suo padre che non ci aveva il capo, nè con sua madre che le tagliava in bocca quei discorsi, come un’ostentazione ambiziosa disdicevole alla sua persona, aveva rinunziato anche a questo conforto. In seguito, s’era messa in capo di studiare da maestra; ma sua madre vi s’era opposta a spada tratta, come a un proposito che offendesse il decoro del casato. Da ultimo, aveva posto affetto alla cognata e al nipote; ma non potendo star con loro che raramente, e di scappata, per il molto lavoro che le era imposto in casa da sua madre, nemmeno da quell’affetto poteva trar la consolazione che le abbisognava. E s’era tornata a chiudere nella sua malinconia solitaria, qualche volta piangente, spasso inasprita, il più del tempo rassegnata, ma con un gran vuoto nell’anima, e come oppressa dalla sua vita arida e senza scopo. Eppure v’era in lei una intelligenza aperta e viva, un cuor gentile e forte, qualche cosa di dolce e di profondo, che non si manifestava, in parte, nemmeno a lei stessa, per mancanza d’un oggetto su cui si potesse espandere. Ora, tutto questo si scosse e si rischiarò nell’anima sua al primo raggio della nuova Idea che udì annunziare dal suo fratello. V’era dunque fuori della religione e della famiglia, fuori dell’amore dell’arte, un mondo a lei sconosciuto, un grande ordine di sentimenti e di idee, al quale anch’essa poteva sollevare il suo spirito, e in cui, fra tanti altri propositi vasti e generosi, primeggiava il concetto di dare alla donna la libertà, la dignità, l’indipendenza della vita, di far sì che il suo avvenire non dipendesse più soltanto dal suo viso e dalla sua borsa! Ella che era un’oppressa della sua classe, che era umiliata e infelice, s’afferrò subito a quest’idea, sentì prontamente una simpatia profonda per la moltitudine sconosciuta degli oppressi e degli infelici, su cui non aveva mai fissato il pensiero. Prestò attenzione a ogni parola di suo fratello, entrò a poco a poco nell’animo suo, riconobbe di averlo mal giudicato: nei suoi lunghi silenzi di ragazza trascurata, prese a volgere e a rivolgere nel suo cervello tenace di piemontese le nuove idee; salì più sovente da sua cognata, per sfogliare furtivamente i nuovi libri di Alberto; se ne portò in casa parecchi, l’un dopo l’altro, e li lesse avidamente la notte. Uno di questi, un discorso appassionato e bello d’una signora socialista, diretto alle fanciulle borghesi, che dimostrava loro il bene immenso che potevan fare dedicandosi alla grande causa, e finiva con le parole: — Vieni dunque, o desiderata, nelle nostre file!... — la commosse fino al pianto. Un ribollimento nuovo di immagini, di affetti, di speranze le prese il cuore e la mente, e divenne più violento per lo sforzo ch’ella faceva di comprimerlo, per non provocare lo sdegno o il disprezzo di sua madre. Ma sentiva che a tutti avrebbe potuto celarlo fuorchè a suo fratello, che già la guardava con occhio scrutatore, in cui ella vedeva un principio di simpatia, che le faceva battere il cuore. Sennonchè in lei la timidezza antica, in lui il sospetto di ingannarsi e la dissuetudine d’ogni famigliarità cordiale con essa, li rimovevano entrambi da un’aperta spiegazione. Finalmente, questa avvenne. Salita un giorno in casa di lui, per non lasciar solo il ragazzo con le donne di servizio, essa entrò nello studio e si mise a leggere delle pagine sparse del libro del «Lavoro dei fanciulli», che trovò sul tavolino. Mentre essa, leggeva, Alberto, di ritorno dalla scuola, entrato un momento da sua madre, era attirato da lei nella quistione solita con un’asprezza e un’imperiosità di linguaggio, che per poco non gli facevan perder la testa. Per non trascendere, la lasciò bruscamente, e salito in casa con un nodo alla gola, stanco alla fine, e sconsolato della dura guerra che sosteneva solo da vari giorni, entra a rapidi passi nello studio, dove sorprese sua sorella. Questa, che stava leggendo del martirio dei ragazzi nelle zolfatare in Sicilia, una di quelle pagine potenti che escon dall’anima e vanno all’anima con un grido d’angoscia, balzò in piedi con un tremito e, voltandosi, presentò al fratello il viso pieno di lacrime, in cui splendeva la santa commozione della pietà, e a cui si aggiunse in quel punto un raggio d’ammirazione e d’amore per chi l’aveva commossa. Alberto la guardò un momento stupito, si chinò a guardare i fogli, capì, — e aperse le braccia, ed essa vi si gettò con un grido: — O fratello mio! — O mia Ernesta! — gli rispose Alberto, e con un ardore che chiedeva perdono d’averla per venti anni disconosciuta, le coperse il capo di carezze e di baci. Nel santo amore dell’umanità si sentirono fratelli per la prima volta. Un “malfattore„. Alberto — un ragazzo di dieci anni — giuocava nella stanza di suo padre, il quale stava leggendo la «Superstizione socialista» del Garofalo, quando la donna di servizio entrò dire: — C’è il tal dei tali: ho da farlo entrare? — Cospetto! — esclamò il padrone, scattando in piedi. — Dopo cinque mesi di carcere! Entri sul momento. A queste parole «cinque mesi di carcere» il ragazzo lasciò cadere il suo balocco e si ritirò in un angolo guardando all’uscio con gli occhi inquieti; perchè l’idea del carcere, naturalmente, non si poteva disgiungere in lui da quella d’un delitto. E rimase immobile dallo stupore vedendo suo padre correre verso l’uscio e abbracciare affettuosamente il visitatore; il quale era un uomo sui trentacinque anni, di viso pallido e risoluto, vestito poveramente, ma pulito e di modi semplici e franchi. Visitato e visitatore si fecero al vano d’una finestra e attaccarono una conversazione vivace, che era da una parte un incalzare di domande e dall’altra un succedersi di risposte, senza un momento di sosta. Quando, fra le altre cose, il ragazzo udì che l’amico di suo padre era stato condotto a traverso un villaggio, in mezzo a quattro carabinieri, con le manette ai polsi, come un famoso assassino ch’egli aveva visto uscire un giorno dalla Corte d’Assise, il suo stupore si cangiò in così aperto sgomento che il nuovo entrato, dandogli una occhiata per caso, se ne accorse. Ma prima di lui se n’era accorto suo padre. Questi a un certo punto andò a prendere un pacco di giornali da un cassetto e, portandoli all’amico, gli disse: — Tutto quanto le vorrei dire è stampato in questi fogli, che ho raccolti e serbati per lei. Ci dia una scorsa, vedrà che è stato sempre ricordato durante la sua assenza. Qui è espresso il sentimento mio e quello di tutti gli altri «malfattori». Il visitatore prese i giornali, sedette con le spalle alla finestra, e cominciò a leggere. Il suo ospite lo lasciò solo e tornò dal ragazzo, aspettando una domanda che già gli leggeva negli occhi. Il ragazzo, infatti, gli domandò a voce bassa: — Che cos’ha fatto.... quel signore? — Ha fatto — rispose il padre sorridendo — cinque mesi di prigione. Il ragazzo rimase un momento perplesso. Poi domandò timidamente: — Chi è? — Alla buon’ora — rispose il padre, sedendo e attirando il figliuolo a sè; — a questa domanda mi è più facile rispondere. Ma temo che tu non capisca. Ascolta bene. Tu devi sapere che v’è in ogni paese una quantità di gente, fra cui molti uomini di grande scienza e di grande ingegno, e anche molti ricchi, i quali credono che a una gran parte delle infinite miserie e ingiustizie che affliggono il mondo ci sia rimedio. E pensano che il rimedio sia questo: che la società presente, in cui la vita di ciascuno è una lotta contro tutti, si trasformi in una grande associazione, nella quale tutti lavorino non più per il vantaggio e nella dipendenza e legati alla fortuna d’un piccolo numero, ma direttamente per la società che li retribuisca tutti equamente; in una grande associazione, in cui non ci sia più, come c’è ora, un gran numero d’uomini che faticano da ammazzarsi e son poveri, un altro gran numero che non trovan lavoro e sono affamati, e delle migliaia e migliaia che non lavorano e vivon nell’agiatezza. Mi hai capito? Ebbene, tutti costoro che desiderano e sperano che venga un giorno in cui tutti gli uomini lavorino concordemente per il bene proprio e per il bene comune, senza strapparsi il pane di bocca l’un l’altro, senza odiarsi e temersi a vicenda, e partecipando tutti ai benefizi della vita civile, come figliuoli di una famiglia nella quale tutti sono amati e protetti ad un modo, si chiamano socialisti. E che cosa fanno essi? Fanno questo. Si adoperano con tutte le loro forze a dimostrare agli altri che un tale stato della società è possibile, non solo, ma che si attuerà a poco a poco, necessariamente, per forza delle cose; ma che per conseguirlo più presto e senza violenze bisogna che tutti lo desiderino e lo preparino infondendo nelle moltitudini un concetto lucido di che cosa esso sia e un sentimento profondo della concordia fraterna necessaria ad attuarlo, educandole all’adempimento dei loro doveri e all’esercizio dei loro diritti, persuadendole che l’unico modo di raggiungere la mèta è che esse affidino la rappresentanza dei loro interessi e delle loro volontà ad uomini che siano interessati a raggiungerla, ossia che appartengono anch’essi alla immensa famiglia su cui pesa la povertà e l’ingiustizia. Mi sono spiegato? Ora questo signore che vedi, è un socialista. È un lavoratore che lavora per vivere, ma in tutto il tempo che gli resta libero va attorno fra la gente, e ragiona, spiega loro la cosa, cerca di trasfondere negli altri la propria fede, senza istigare all’odio contro alcuno, non solo, ma adoperandosi a spegner gli odii dove li trova, esortando i violenti a temprarsi, gli incolti a studiare, i discordi a conciliarsi, tutti i poveri e malcontenti a confidare in un avvenire migliore, a cui si verrà pacificamente e legalmente, per la sola forza della verità e della giustizia, quando la verità sarà compresa da tutti e la giustizia sarà da tutti voluta. E bada che egli non si affatica e non si affanna se non per produrre un bene, del quale egli è certo che non arriverà in tempo a godere. Egli vive come un povero perchè è povero; ma dà agli altri anche quel pochissimo che a lui par superfluo e a noi parrebbe necessario. Se fosse ricco, darebbe per la fede tutto il suo avere. Se gli chiedessero la vita, darebbe anche la vita, perchè non vive che per quell’Idea. E ha un passato senza macchia, ed è buono e semplice come un ragazzo. Puoi pensare quanti uomini ho conosciuto in vita mia; ebbene, egli è uno di quegli uomini più onesti, più disinteressati, più rispettabili che io abbia conosciuti. Io gli voglio bene e lo ammiro. Il ragazzo rimase un po’ sopra pensiero, guardando ora suo padre, ora «il libero dal carcere». Poi domandò: — E allora.... perchè l’hanno messo in prigione? — Perchè pensa e dice tutto quello che t’ho detto, — rispose il padre. — Ma dunque.... potrebbero mettere in prigione anche te, che dici le stesse cose? — Certo. — E perchè ci hanno messo lui soltanto? — Perchè dice tutte quelle cose più forte e più apertamente, che è quanto dire che è più disinteressato e più sincero, che desidera più ardentemente il bene, che è più coraggioso e più generoso di me. Il ragazzo non ribattè più parola e stette guardando con gli occhi spalancati il suo ospite, che continuava a leggere. — Animo, — gli disse il padre all’orecchio; — quando è entrato egli s’è accorto che tu hai avuto paura di lui come di un brigante; tu gli devi una riparazione; vagli a domandare se sta bene. Il ragazzo si mosse lentamente e s’andò a mettere fra le ginocchia del «pregiudicato» senza osar di parlare, ma come offrendo la testa bionda alle sue carezze. Quegli smise il giornale e dato uno sguardo a lui e al padre, capì e sorrise. Ma il suo saldo cuore che in mezzo alle persecuzioni e sotto l’affronto delle manette non aveva mai avuto un momento di debolezza, fu scosso dall’atto del fanciullo, il quale rappresentava ai suoi occhi una nuova generazione gettata da un impulso generoso dell’anima nella causa che gli era sacra. Lo fissò un momento con gli occhi scintillanti, poi prese con le mani quella testa bionda e vi stampò un bacio.... che gli fu reso con effusione. Riavvicinandosi a suo padre il ragazzo gli accennò con un gesto di meraviglia, che la sua fronte era inumidita. — Non t’asciugare, — rispose il padre — è acqua di battesimo. Discussioni. Trovò in casa del Cambiari una dozzina di convitati i quali avevan finito allora di sparecchiare uno dei succolenti pranzi che il padrone imbandiva ogni quindici giorni a un numero sempre incerto di amici, poichè egli faceva gli inviti e se ne scordava, e fissava spesso a parecchi delle ore diverse. Il piccolo salotto, in cui la disarmonia dei mobili e dei colori e l’arruffio delle chincaglie scheggiate e sbreccate dai ragazzi raffiguravano il tenor di vita della famiglia, era affollato. Ma ad Alberto, tutto acceso della sua idea, non spiacque quell’affollamento inaspettato che in altra occasione gli sarebbe riescito molesto. Appena entrato, però, s’accorse da più d’un viso e da un leggero mormorio che, durante il pranzo, dovevano aver parlato dei fatti suoi, e di quali fatti s’immaginava. C’eran due ingegneri, un impresario costruttore, degli impiegati in riposo, ch’egli aveva trovato là qualche volta; degli sconosciuti, quasi tutti panzuti e brizzolati, e tre giovani signore; oltre alla numerosa progenitura del padron di casa di cui spuntava un musino roseo dietro ogni spalliera di seggiolone. Vedendo a vari convitati gli occhi lustri e le guancie scarlatte che tradivano il prurito della discussione, Alberto si tenne preparato a un assalto. E questo gli fa dato quasi subito, prima in forma di scherzo, poi a poco a poco, seriamente; ma con una così manifesta ignoranza degli elementi della quistione, con un così ingenuo sfoggio dei più vieti luoghi comuni, che egli seguitò a parar le botte a colpi d’arguzia, senza perdere un momento il suo buon umore. Quando gli assalitori cominciavano ad eccitarsi, capitò la visita dei coniugi Luzzi, e, la comparsa della piccola signora sfavillante di vita, chiusa in un fresco vestito avana che dava al suo visetto bruno, segnato d’un neo, una grazia adorabile, troncò di netto la discussione. Alberto espose allora al Cambiari, a quattr’occhi, l’idea del suo lavoro, e gli disse il suo desiderio di parlare col Baldieri. — Con l’anarchico Baldieri? — esclamò il Cambiari, dando un passo indietro; e soggiunse in tuono d’avvertimento amichevole: — Alberto, bada!... — La cosa, d’altra parte, non era così facile: il Baldieri parlava a cuor libero con lui perchè (e glielo diceva) era un borghese logico e sincero, ossia un aperto nemico; ma un borghese socialista, con un rivoluzionario tartufo, come egli li chiamava, razza anche più odiosa a lui dei reazionari arrabbiati, doveva essere un altro paio di maniche; c’era il rischio di pigliarsi un «no» tanto fatto. Nondimeno, insistendo Alberto, egli promise che gli avrebbe parlato. E gli diede qualche informazione: era un operaio colto, aveva fatto il ginnasio inferiore, pareva un ufficiale in borghese; ma, si tenesse per avvisato! Non doveva aspettarsi dei complimenti da lui. Poi gli disse piano, accennando alla compagnia: — Se la riattaccano tira in avanti a celiare, te ne prego. La riattaccò subito, infatti, un vecchietto arcigno, invalido, decorato di non so qual ministero, di conosciuta avarizia; il quale domandò bruscamente ad Alberto, agitando una mano per aria: — Ma insomma, a quale delle scuole del socialismo appartiene lei, si può sapere? Alberto rispose: — A che serve dire di che scuola sono a chi non ne accetta nessuna? E a che pro parlar di rimedi sociali con chi crede i mali irreparabili e nega che ci siano? — Noi non neghiamo i mali — rispose l’altro, — ma vogliamo ripararvi con la carità. Alberto si ricordò in quel punto che in una sottoscrizione pubblica dello scorso inverno, quel signore aveva mandato ad un giornale due lire per sè e cinquanta centesimi per ciascun membro della sua famiglia, tutti firmati in colonna, in modo che era riuscito a far stampare sette volte il suo nome con uno scudo: la tariffa, presso a poco, delle inserzioni. — Con la carità? — gli disse allora, — faccia...; ma non si rovini. La stoccata era forte: le signore non poterono rattenere un sorriso; la Luzzi si coperse il viso col ventaglio. Uno sconosciuto, balbuziente, coperse la ritirata del vecchietto ripetendo la sua domanda: — Dica dunque: è collettivista? è comunista? — È per l’uguaglianza assoluta, per un ordine sociale che metterebbe alla pari Dante Alighieri e un cretino? — E perchè mai, — ribattè Alberto, facendo un viso ingenuo — respingerebbe «lei» un tale ordinamento? Si udirono scricchiolare alcune seggiole; ma il colpito non sentì il colpo alla prima. Vedendo però sorridere la signora Luzzi, sospettò qualcosa e disse piccato: — Lei fa il socialista con un secondo fine. Alberto lo guardò con stupore, e domandò sorridendo: — Per aver stipendi e decorazioni? Quegli rimase un po’ incerto; poi rispose: — Per farsi elegger deputato! Alberto diede in una risata. — Ma caro signore, trovi un modo più sensato di darmi dell’asino. Sarebbe come andarmi a imbarcare a Genova per arrivare più presto a Venezia. Lo sconosciuto volle rispondere; ma il vecchio impiegato gli coprì la voce, dicendo aspramente: — Non credo che si possano professare sul serio quelle idee. Un borghese socialista non è che un negro incipriato! — Questa immagine non è sua! — esclamò Alberto. — Oh! Signor cavaliere, — rincalzò la Luzzi — lei, dunque, riconosce d’appartenere a una razza inferiore! Il motto fece ridere. Alberto si voltò a guardarla, e disse: — Ah! Ecco la mia alleata! Ma varie voci lo assalirono tutte insieme, domandandogli perchè, se era un socialista, non cominciasse a spartire l’aver suo fra chi non n’aveva. — Oh bella, — rispose Alberto, — per due ragioni semplicissime: prima, perchè se mi conducessi povero, perderei la mia indipendenza, e dovendo chieder lavoro e danaro alla borghesia, non sarei più libero di manifestare le mie idee; e poi, perchè, com’è costituita la società, non potendo mio figlio guadagnarsi da vivere prima dei trent’anni, o morirebbe di fame, o dovrebbe lasciar gli studi e mettersi a fare un mestiere. — Benone! — uscì a dire l’impresario, con un’aria trionfale, — ma se è socialista, perchè non mettere suo figlio a fare un mestiere? — Perchè non ho diritto di forzare la sua volontà, di toglierlo violentemente dalla classe in cui l’ho posto; perchè se anche lo facessi col suo consenso, egli per l’effetto delle idee che oggi regnano, sarebbe disprezzato e creduto un pazzo tonto dalla classe da cui uscirebbe, quanto da quella in cui vorrebbe entrare. — Magre ragioni! — rispose un vecchio maggiore pensionato, amico del Luzzi. — Chi è persuaso d’un’idea, deve tutto sacrificarle! Lei dovrebbe essere il primo a dar l’esempio. A costui rispose la signora Luzzi: — Se è così, signor maggiore, lei vuole liberare Trieste dall’Austria, perchè non prende il fucile e parte per il primo per la frontiera? Il maggiore si rivoltò, dicendo che il paragone non calzava; ma la signora Luzzi ribattè: — E poi, mi scusi, c’è contraddizione. Se un socialista è ricco, gli dite: — Dovete dar tutto agli altri. Se è povero gli dite: — Siete socialista perchè non avete nulla da perdere. Che logica è questa? Rimasero tutti un po’ sconcertati; ma se la cavarono fingendo di prendere quell’argomento in ischerzo, e voltarono il discorso per domandare ad Alberto che idee avesse sulla proprietà, e se il socialismo volesse obbligar tutti a lavorare. — Non si riuscirà mai a questo! — esclamò il maggiore. — La proprietà è un istinto! Persin lo scoiattolo, persino il topo campagnolo sono proprietari, perchè ammassano per l’inverno delle provvigioni sovrabbondanti, di cui resta loro una parte nella primavera. Vede dunque che perfino tra le bestie ci sono i ricchi, che hanno del superfluo perchè sono stati previdenti. — Ma le bestie — rispose Alberto — fanno le loro provviste da sè, non le fanno fare agli altri, e non son provviste che fruttino altre provviste senza fatica come il danaro, e i topi non le lasciano ai figliuoli perchè marciscan nell’ozio. — Queste son celie! — gli rispose uno dei due ingegneri. — Non c’è bisogno di ricorrer alle bestie. Lei che è letterato, dovrebbe sapere la definizione che ha dato dell’uomo un grande scrittore: «L’uomo è un animale proprietario». Che cosa gli avrebbe da rispondere, signor professore? — Gli risponderei che non discuto quell’epiteto, con chi si appropria quel sostantivo. La Luzzi rise: l’ingegnere fece una spallata. — Non sono questioni, mi scusi, da trattarsi con giuochi di spirito! — Ma come vuol che me la cavi altrimenti, — rispose Alberto ridendo — se m’assaltano tutti insieme e non mi lascian rifiatare. — La proprietà è frutto del lavoro! — Non tutta, nè sempre. — Eh, andiamo — osservò il Cambiari all’ingegnere battendogli una mano sulla spalla, — che lavoro ti sono costate le ottantamila lire che guadagnasti rivendendo il tuo terreno fabbricabile di San Salvario a dieci volte il prezzo che ti era costato? — Sei socialista tu pure? — gli domandò l’ingegnere indispettito. — Quando son disoccupato, — rispose il Cambiari. — Ma quello è un caso eccezionale, — ribattè al Cambiari il maggiore. — Prendiamo il nostro impresario qui presente. Egli non lavora più con le braccia, ma è più benemerito che se lavorasse, perchè con la proprietà acquistata dà del lavoro ogni anno a duecento operai. — Dà del lavoro! — interruppe Alberto. — Perdoni, signor maggiore: io domando se non sono duecento operai che danno il loro lavoro a lui.... — Ma come? — Ma certo! Se il lavoro di quei duecento operai non fruttasse a lui molte migliaia di lire, lo darebbe loro? — Ma questa è una capriola. — Una capriola da avvocato — aggiunse l’impresario. — Già, è l’avvocato del lavoro, adesso, il cavaliere degli sfruttati.... l’_amico degli operai_: il titolo d’un almanacco a dieci centesimi! È anche amico degli operai che _fanno_ il lunedì? — domandò un signore grasso, amico del Bianchini padre, che teneva le mani incrociate sul ventre. — E perchè no? — gli disse la signora Luzzi con un sorriso vezzoso — non è amico di lei, che «fa» tutta la settimana? Risero tutti, anche il signore grasso. E questa volta Alberto si voltò verso la signora con un moto di viva simpatia che essa vide. — Eh, caro signore, — riprese l’avvocato — lei fa l’avvocato dogli operai senza conoscerli; ma cambierebbe idee se ci avesse che fare. Restii al lavoro, briaconi, ignoranti e presuntuosi insieme, maldicenti, feroci dei padroni: un bravo operaio è una mosca bianca, lo creda pure.... — Io non capisco.... — rispose Alberto — ma se gli operai sono fannulloni, chi è che fa tutto l’enorme lavoro manuale di cui la società ha bisogno ogni giorno? Vanno a ubriacarsi all’osteria! Si vanno a ubriacare anche molti signori in luoghi più puliti, è vero; ma senza la scusa di aver per case delle buche, in cui ripugni di passar la sera, o col vantaggio di poter nascondere l’ubriacatura in una _cittadina_. Sono ignoranti! Questo è certo, e non hanno scusa: quando li vedo tornare a casa la sera, rotti da dieci ore di lavoro, io domando: O perchè non vanno al Circolo filologico? Dicono anche male dei padroni. Ma mi pare che lei, dal canto suo, non faccia di loro dei panegirici. — Ben risposto, davvero! Ma le ripeto una cosa sola: vorrei che ci avesse da fare per una settimana e mi darebbe poi il suo bravo parere sopra le _otto ore di lavoro_! — Il lavoro è un freno! — sentenziò il vecchio impiegato. — Un freno che ammazza — rispose Alberto — non è più un freno; è un capestro. — E lo vogliono allentar bene il capestro i profeti socialisti che profetizzano il lavoro di tre ore al giorno! — È un assurdo — disse dolcemente uno dei signori che non aveva parlato — anche per rispetto alla religione. Il lavoro è un gastigo che Dio ha inflitto agli uomini. Non sarebbe più un gastigo se fosse ridotto a tre ore. — Allora, — gli rispose Alberto, — lei che vive di rendita non discende da Adamo, perchè Dio non l’ha condannato al lavoro? — Ma per me ha lavorato mio padre. — E perchè, — domandò la signora Luzzi — Dio ha condannato suo padre e non lei? Il signore rimase così impacciato che per salvarlo, l’ingegnere suo vicino apostrofò improvvisamente la padrona di casa: — Ci dice lei il suo parere, signora Cambiari? La signora voltò verso l’interrogante il suo viso ingenuo di bella paciona e rispose con amabile semplicità: — Il mio parere è quello di tutti, mi pare. Perchè si lavora? Per vivere. Dunque, quando si ha da vivere, perchè si dovrebbe lavorare? Applaudirono tutti, ridendo, eccettuato Alberto, che cercava con gli occhi quelli della signora Luzzi, i quali sfuggivano. Ma la discussione si ravvivò intorno al solito argomento, se gli operai avessero ragione o torto a lagnarsi, e tutti diedero addosso al Bianchini. Il maggiore disse che era il benessere che li guastava. Il signore grasso, che teneva ancora le mani sul ventre, approvò, soggiungendo che appunto per quella ragione non era neppure da desiderarsi un miglioramento notevole del loro stato. — È provato.... — disse. — È provato — ripetè, alzando la voce per coprir quella dei ragazzi che facevano passeraio in un angolo — che col diminuire del prezzo dei generi alimentari, e specialmente della carne, aumenta il numero dei delitti contro la proprietà e.... — soggiunse più basso — contro il pudore. — Ah, se fosse vero, — rincalzò la signora Luzzi — lei che è un così fino gastronomico, sarebbe già stato arrestato. Molti risero, altri fecero dei cenni di disapprovazione. — Ma lei ha torto — riprese la signora, senza turbarsi, — perchè è la cattiva nutrizione, che intristisce gli uomini. Sa il proverbio tedesco: «Der Mensch ist was er isst». L’uomo è ciò che egli mangia! — Ma signor Luzzi! — esclamò il Cambiari, voltandosi verso il marito — la sua signora è socialista! È forse lei che la catechizza? Il Luzzi, che non aveva ancora aperto bocca, crollò il capo in atto di compatimento verso sua moglie, come per dirle che era una pazza, poi espose la propria idea, mettendo nei suoi occhietti di topo un’espressione di finissima astuzia. Eran tutti malati d’immaginazione. Il socialismo era un fantasma creato dalla borghesia, la quale rassomigliava a certi malati che a furia di parlare di una malattia che non hanno, finiscono con soffrirne davvero. Egli aveva affermato il proposito di non aprir bocca in quelle controversie, perchè gli facevan compassione. Tutti scrollarono le spalle; quel Luzzi che non aveva senso comune. Il socialismo esisteva, anche troppo; ma erano «i socialisti borghesi, borghesi dilettanti» quelli che gli fortificavano la vita. — Sono loro — disse il vecchio impiegato ad Alberto, ripetendo delle parole lette di fresco — loro che giuocano col mostro ancor piccolo, ancora innocente, con un nastro al collo come un agnello, e lo tiran su a bocconcini, senza pensare che un giorno mostrerà i denti e divorerà loro stessi e tutti quanti. — Ma è appunto quello che io penso! — rispose Alberto. — E anche quello che desidera? — Io non desidero che il bene di tutti. — A spese di alcuni, non è vero? — Sarebbe sempre più giusto che il bene di alcuni a spese di tutti. Tutti protestarono in coro, l’impiegato fece un atto di sdegno e la discussione stava per volger alle brutte quando il Cambiari la interruppe con uno scherzo, e la troncò poi affatto la comparsa di un cameriere con un gran vassoio pieno di bicchieri. Allora tutti si levarono in piedi e formarono vari gruppi conversanti a voce bassa e concitata, nei quali Alberto argomentò dai gesti e dagli sguardi che gli si levava la pelle. E si accorse che le signore non gli erano meno ostili degli uomini. Già, durante la conversazione, nonostante le risatine, provocate da certe sue risposte epigrammatiche, egli aveva colto a volo da tutte, fuorchè dalla padrona di casa, delle occhiate malevoli, quasi sprezzanti. E quell’abbandono, a cui non era preparato, del sesso gentile, che l’aveva sempre accarezzato cogli occhi e con la parola, lo rattristò. Si trovava solo in un angolo: cercò con lo sguardo la signora Luzzi. Era accanto a lui, come se avesse indovinato il suo pensiero. Egli le disse piano, con calore: — Grazie. E vide che i suoi occhi, belli come non gli erano mai apparsi, si velavano. . . . . . . . Amicizia nuova. ..... a quell’uscita tutti e tre protestarono, ridendo, e uno più forte degli altri, picchiando un pugno che fece sobbalzare i bicchierini del cognac, con cui stavano coronando la colazione: — Sì, — ripetè con garbo, ma con fermezza il professore, — ve lo ripeto. E volete che ve lo dimostri che non conoscete il mondo? Siete qui un conferenziere sociologo, che insegna a rimpastare la società, e due romanzieri che scrutate dentro e fate parlare persone di tutte le classi sociali, e non c’è uno di voi che conosca un operaio. Uno dei romanzieri fece una spallata. — Ne conosco cento — rispose. — Non è mai venuto un operaio a fare una riparazione in casa mia che io non mi sia intrattenuto con lui per un’ora. — A interrogarli come i generali interrogano le sentinelle: di che classe? quanti mesi di servizio? avete a lagnarvi di nulla? E credi d’averne conosciuto uno solo in codesta maniera? Credi che si possa studiare un uomo delle classi inferiori, a cui non ci lega nessun vincolo, da cui ci separano cento idee false, nello stesso modo che ci facciamo un concetto d’un romanzo nuovo scartabellandolo distrattamente in un momento d’ozio? — Andiamo, — osservò il conferenziere agli altri due — l’amico non ha torto. Quanto a operai, voi vi rigirate fra le mani il burattino della letteratura romantica di cinquant’anni addietro, un po’ ritoccato dal pennello zoliano. — E in che maniera l’avremo da studiare? — domandò uno dei romanzieri. — Abbiamo da andare travestiti a lavorar nelle fabbriche come il pastore Goerhe, o da aprire uno spaccio di liquori in un sobborgo come Enrico Leyret. — No, — rispose il professore, — v’è un mezzo solo. — Quale? — domandarono tutti e tre a una voce. — L’amicizia. Tutti e tre risero. E uno gli disse: — Sei tu che caschi nel romanzo falso. È un’amicizia impossibile. C’è troppa differenza di cultura, di maniere e d’abitudini. — Ecco il gran pregiudizio! Strano davvero. Ciascuno di noi ha nella propria classe qualche amico che è nei modi, nel linguaggio, in tutte le sue abitudini un ribelle brutale alle forme convenzionali della vita signorile e che, salvo un po’ di grammatica, non ha maggiore istruzione d’un operaio infarinato di qualche lettura; e questo non c’impedisce l’amicizia. — Ammettiamo; ma intendiamoci. Quest’amico operaio l’hai veramente, o non è che un tuo ideale? Se non è che un ideale, è un discorso finito. — È una realtà. — E come te lo sei fatto? Sentiamo. Con che arte? Insegnaci l’arte. — Senz’arte. Ho capito subito che v’era un sol modo di guadagnarmi la sua confidenza, senza la quale non c’era amicizia possibile: quella di provargli che la meritavo dimostrandogli immediatamente la mia: anticipazione che nessuno della nostra classe fa mai a una persona di classe inferiore. Appena capii che era un galantuomo e un buon uomo, lo trattai come un amico, senza restrizioni nè di parola nè di pensiero: gli parlai delle cose mie, gli confidai dei dispiaceri gravi che avevo in quel tempo. Ne fu meravigliato, e me ne fu grato. Se avessi incominciato con chiedergli quanto non gli avevo dato ancora, con interrogarlo, cioè, riguardo alla sua vita, alle sue opinioni e ai suoi sentimenti, come tutti fanno, mostrandomi curioso di lui come d’un animale esotico, non avrei ottenuto nulla nè subito nè poi. Con tutto questo, non riuscii così alla lesta a quello che era mio intento, ebbi ancora delle diffidenze da superare, delle ritrosie da vincere. La cosa era nuova per lui. Per un pezzo, nonostante la simpatia che gl’ispiravo, rimasi per lui un oggetto di stupore. Mi scrutava con gli occhi, s’arrestava spesso tutt’ad un tratto, parlando; gli rinasceva a quando a quando un senso di suggezione, ch’io credevo già strappato dalle radici, e vi ripeto, senza arte, quasi senza volerlo, con la famigliarità spontanea dei modi, con l’intonazione del discorso più che con le parole, piantandogli sempre in viso gli occhi aperti e sinceri, per cui mi poteva leggere in fondo all’animo senza scoprirvi nessun secondo fine, senza trovarvi altro sentimento che quello di una schietta stima e di una viva benevolenza. — Un momento! — interruppe il conferenziere — il tuo operaio è socialista? — Sì. — Tu dici che non hai usato arte con lui; ma ti sei professato socialista. — No, perchè non lo sono. E non sono neppure antisocialista. Il socialismo è un problema. Non lo so risolvere. Sto a vedere come procedano passo passo verso la soluzione, sulla gran lavagna della pratica, quelli che lo credono solubile, desidero che ci riescano, ecco tutto. Ma con l’amico non m’infinsi: sarebbe stato indegno, e anche peggio che inutile, perchè avrebbe finito con scoprire l’inganno. — Ti ha almeno illuminato l’_amico_, riguardo alla soluzione? — M’ha fornito dei dati che ignoravo. — Riflettici la luce, dunque. — Ne avete bisogno, infatti. Fra l’altro, ho capito per la prima volta dai suoi discorsi la vera natura e misurato tutta la forza del sentimento collettivo che anima ora la classe a cui appartiene: sentimento non prima intuito da me che in confuso: assai più profondo, più vivo, più facile a essere urtato e ferito di quanto noi tutti pensiamo. Ho capito che la natura di quel sentimento, in tutti i casi di conflitto, richiede da parte della autorità, dei padroni, della stampa, di ogni gente delle altre classi, forme di trattamento e di linguaggio, dalle quali si discostano molto ancora le forme generalmente usate; che una quantità di conflitti s’inaspriscono e si prolungano non per altro che per la trascuratezza di quelle forme, le quali non sarebbe soltanto prudenza, ma giustizia l’osservare; e che quando questo nuovo Galateo da classe a classe, che ora manca, sarà formato ed osservato, molti dissidi saranno facilmente composti, e molti, ora frequentissimi, non sorgeranno più. Io ne son persuaso come d’una verità psicologica elementare. — Avanti, — disse uno dei commensali — a un’altra scoperta. — Mi sono persuaso che v’è nella maggior parte, come in quell’uno, un sentimento, il quale li spinge al socialismo con altrettanta forza, se non maggiore, del desiderio e della speranza d’un miglioramento della vita materiale, ed è la coscienza ribelle, come a un’ingiustizia, allo stato d’inferiorità sociale e morale in cui li tiene l’opinione della borghesia, la coscienza del loro diritto a una maggior dignità di vita, anche fuori d’ogni considerazione di agiatezza, un’aspirazione alla coltura, all’educazione, a tutte quelle cose, la cui mancanza li separa, più che la disuguaglianza economica, dalle classi superiori. Mi sono persuaso che non deriva da pigrizia o da sollecitudine della salute il desiderio d’una riduzione della giornata di lavoro; ma da un vero imperioso bisogno di vivere un po’ di vita del pensiero, di avere il tempo di mescolarsi, se non altro come spettatori, alla vita del mondo, di rompere con qualche sosta più lunga quella fuga quotidiana, affannosa come la corsa di gente inseguita, dalla casa all’officina, dall’officina alla pentola, dalla pentola al letto, che travolge come un vento affetti e pensieri e opprime il respiro dello spirito e confonde quasi come in un sogno faticoso il sentimento dell’esistenza — La seconda scoperta — osservò uno dei romanzieri — non val quella dell’America; ma val più della prima. — Taci: è tutto un nuovo mondo per te, che non sei mai uscito dal vecchio continente della letteratura. Ho scoperto che noi siamo tutti in un grande errore supponendo che per effetto della distanza da cui son separate le classi, la nostra si sottragga in gran parte all’osservazione e all’indagine censoria delle classi lavoratrici; mi sono accertato, studiandone uno solo, che anche fra gli operai più incolti v’è ora l’intuizione acuta d’una quantità d’abusi dei signori, di ingiustizie e di lacune delle leggi, d’immoralità mascherate della vita politica e del commercio finanziario, delle quali li crediamo ignoranti affatto come di cose dell’alta scienza; che v’è fra di loro un gran numero di «dilettanti critici» di processi e di cronache mondane scandalose, di «specialisti» che conoscono le sorgenti impure della fortuna di molti loro concittadini, che segnano a dito i figliuoli ricchi e rispettati di padri usurai o falliti con frode, che indicano le palazzine guadagnate in un’ora con un colpo fortunato alla Borsa, che conoscono vizi ed imbrogli di faccendieri illustri e potenti, come giornalisti di professione, che portano in tasca e cavan fuori a proposito, per leggerli nei crocchi, dei giornali vecchi, nei quali sono accennati i milionari pensionati del Governo a ottomila lire l’anno e i professori d’Università che riscuotono lo stipendio di un decennio senz’aver fatto una lezione, e che citano esatte le somme enormi profuse da municipi dissestati in festeggiamenti adulatorii e le gratificazioni favolose largite da certe grandi amministrazioni ai loro pezzi grossi, mentre fanno aspettare per anni dei miseri sussidi a vedove e a orfani di lavoratori manuali che, faticando diciotto ore al giorno per sessanta lire al mese, si sono accorciata la vita a benefizio degli azionisti. Mi sono persuaso che sono tutte queste cognizioni accumulate nei cervelli, tutti questi sentimenti, ribollenti negli animi, che fanno trasmodare molte volte le moltitudini mosse da prima da un intento pacifico, e che la più parte di coloro che le condannano, accorderebbero loro molte «circostanze attenuanti» se sapessero.... quante cose esse sanno. — Ci hai dell’altro? — domandò il conferenziere. — E del meglio? — domandarono gli altri due. — Dell’altro e del meglio. Ho capito quanto sia erroneo il concetto che noi ci facciamo, generalmente, del lavoro manuale, e quindi ingiusto nel più dei casi il rimprovero che si fa agli operai di non «amare il lavoro» nel senso e nel modo che noi amiamo il nostro. Ho capito quanto si debba essere indulgenti, per questo riguardo, col grandissimo numero che compiono un lavoro monotono, il quale è duro e opprimente per modo che molti l’abbandonano per darsi a fatiche anche più gravi e men retribuite, non per altro che per liberarsi dall’eterna intollerabile uniformità dei movimenti muscolari a cui li costringe l’attuale divisione del lavoro nella grande industria, e per cui, alla lunga, nasce in loro un abborrimento invincibile. Molte cose avevo lette nei libri al proposito; ma il mio amico per il primo, con certe frasi e immagini vive del suo vernacolo, molte volte ripetute, mi fece comprendere e sentire quasi come per esperienza la tortura della fatica avvelenata dalla noia, la tristezza delle lunghe giornate passate nelle officine oscure, tra il fumo e il polverio, in uno strepito assordante, l’aspettazione interminabile del suono liberatore della campanella, il continuo affannoso desiderio che spinge tutti i pensieri verso la domenica come a una terra promessa lontana, dove si potrà respirare e pensare, essere un uomo per un giorno. Mi son quindi persuaso anche di questo: come in moltissimi non si ha che sonnolenza, atrofia morale, prodotta da estenuazione di forze e da un enorme tedio accumulato, quello che a noi pare rassegnazione ragionevole al proprio stato; mi son persuaso che quello che noi giudichiamo in molti indifferenza o avversione al socialismo che li cerca, non è altro che inettitudine o ripugnanza allo sforzo necessario per comprendere e appropriarsi le proprie idee, impotenza della mente paralizzata da un lavoro macchinale di molti anni, il quale non è più in loro, come dicono i fisiologi, di pertinenza del cervello, ma del midollo spinale, e li ha ridotti a vivere come le rane, a cui sono stati tolti i lobi cerebrali. A voi, romanzieri: ecco un argomento degno dei vostri studi più dei cuoricini delle contesse. — Sta bene; — gli rispose uno degli apostrofati — ma.... _passez au déluge_. — Eh, il diluvio verrà, se non metterete giudizio. Tutte queste cose il mio amico non me le disse come io le ho dette a voi, si sottintende; ma io le compresi dai frammenti dei suoi discorsi o glie le lessi dentro per gli spiragli che mi lasciava aperti tra parola e parola. Incoraggiato, ho continuato a scavare nell’animo suo, aprendogli sempre il mio tutto quanto, e v’ho scoperto delicatezze di affetto che non immaginavo, sentimenti e pensieri che non venivano fuori se non perchè non trovavano la via d’uscita, o ne uscivano travisati dall’espressione monca ed impropria; ho afferrato a volo idee e intuizioni nette di una mente vergine, non viziata, come la nostra, dalla consuetudine di guardar le cose a traverso le reminiscenze dei libri e di giudicarle in relazione coi giudizi altrui; ho inteso da lui giudizi sulla società e sulla vita originali e sensati, domande elementari e profonde di bambino, che mi mettevano in impiccio, e ragioni semplici e lucide, alle quali, con mio stupore, non trovavo nel mio magazzino intellettuale nessuna ragione da opporre, che non fosse un giuoco di parole. Per tutte queste cose mi son legato a lui, e ho provato nella sua compagnia come un ringiovanimento del senso dell’amicizia, certe compiacenze vive e delicate delle prime intimità fraterne dell’adolescenza, delle quali non avevo quasi più memoria. L’amicizia dura da vari anni. S’è stabilito un commercio intellettuale fra di noi. Io gl’impresto dei libri; egli, dopo lettili, mi domanda delle spiegazioni le quali non di rado non valgono i suoi commenti impreveduti, che mi fanno pensare anche quando battono in falso. Ho veduto la sua intelligenza allargarsi e rischiararsi rapidamente, come quella d’un ragazzo che, invece d’imparare, riacquistasse la memoria di cose dimenticate. E ciò non ostante, non so proprio chi di noi due abbia giovato all’altro di più. Per me egli è stato la chiave che m’aperse la porta d’un mondo ignorato. E gli sarei grato per il solo fatto di avermi indotto questa persuasione: che il miglior modo di istruire e di educare il popolo, di riuscirgli utili e di essere giusti con lui, è quello di legarglisi con dei vincoli individuali d’amicizia, e che se ogni borghese colto avesse un vero amico nelle classi operaie, il mondo procederebbe certo egualmente verso la mèta a cui la legge della vita lo sospinge, ma forse per altra via e con altro passo, con maggior vantaggio di tutti. — Applausi dal settore di destra — disse uno dei romanzieri. — M’hai persuaso benchè tu abbia parlato come un professore. Cedimi dunque il tuo amico. — Ah no! — rispose il professore. — Fate voi altrettanto per conto vostro. Un’amicizia di tal genere non serve a nulla, anzi non si può avere se non si conquista. Vi trovereste a dover rifare il lavoro medesimo, a vincere le stesse difficoltà e le stesse diffidenze ch’io ho dovuto vincere. Non è uno di quegli amici che s’imprestano come un soprabito. — E allora come trovarne? — Ci dovrebbero essere delle agenzie speciali. — Dobbiamo ricorrere alla «Camera del Lavoro». — Ridete pure, — rispose il professore mentre tutti si alzavano per uscire. — Avete ingegno: son ben certo che quello che vi ho detto, vi rimarrà stampato nel cervello, e che ci penserete molte volte.... senza ridere. Fra anarchico e socialista. (FRAMMENTO.) La visita che Alberto aspettava con maggiore impazienza era quella del Baldieri. Il concetto un po’ fantastico che s’era fatto di lui, il pensiero di trovarsi per la prima volta davanti a un operaio d’idee profondamente discordi dalle sue, a un agitatore audace, provato da processi e da prigionie, che forse gli veniva in casa di mala voglia, e col proposito di dirgliene delle dure, lo tennero per vari giorni in uno stato di curiosità viva; la quale diventò vivissima quando, all’ora indicatagli dal Cambiasi con un biglietto, egli sentì una vigorosa scampanellata. Dal viso con cui la cameriera gliel’annunciò e dall’incertezza con la quale disse _un uomo_ invece di _un signore_, capì che doveva aver visto una faccia straordinaria. E quando l’«uomo» gli fu davanti, egli dovette fare uno sforzo per dissimulare l’impressione che gli produsse il suo aspetto. Non vide sul primo momento che due occhi azzurri potentissimi in una testa bionda più alta della sua; la quale pronunziando il suo nome, s’alzò invece d’inchinarsi. Lo fece sedere, e l’osservò a varie riprese, di sfuggita, cominciando subito le sue interrogazioni, come se non s’occupasse punto della sua persona. Il Cambiasi aveva ragione. Egli non avrebbe saputo immaginare un viso che esprimesse più audacemente l’idea dell’anarchia rivoluzionaria. Era un viso lungo e sanguigno, con un gran naso arcato e sottile, che dava l’idea d’un’arma offensiva, e una bocca ferma, guernita di baffi petulanti, e un poco torta verso la guancia sinistra, dove s’apriva una cicatrice piccola e profonda, come il buco d’una palla di pistola. Ma più fieramente parlanti erano gli occhi, coi quali, fissando Alberto mentre rispondeva breve e netto alle sue domande, pareva che dicesse: — Chi è costui? Cosa cova? Che fine può avere la sua impostura? — Mai due occhi umani non gli avevano frugato dentro all’anima come quei due. Tutto ciò che v’è ancora di dubbioso nella sua nuova fede, tutti i pensieri e sentimenti che lo legavano ancora alla sua classe, gli parve che si agitassero, si scontorcessero sotto quello sguardo come un gruppo di bisce sferzate. Tanto che il suo cuore ardito se n’adontò e si ribellò, mandandogli un’ondata di sangue fino al collo, e invece di restringere la conversazione come aveva fissato, al lavoro dei fanciulli, egli decise d’assalirlo nel campo stesso delle sue idee, quando il primo argomento fosse esaurito. E cominciò a fissarlo, alla sua volta, negli occhi. E di volo riconobbe in lui quello che altri già riconobbero negli anarchici idealisti e sinceri: i caratteri fisici anticriminali: fronte larga, cranio ampio, una folta barba castagna, le pupille chiarissime. Era un bell’uomo; ma di quella bellezza che lascia l’animo incerto fra la simpatia e l’avversione; una di quelle figure vistose ed insolite, che, quando s’incontrano per la strada, vi fanno dire: — chi sarà costui? — A un certo punto sorrise, e Alberto fu stupito della espressione singolare di quel sorriso; pensò al sorriso, come lo chiama l’Antonino, _fantastico_, di Cola di Rienzo. Anche nella calma con cui parlava, il suo viso, il suo gesto, la voce, la parola, tutto aveva qualche cosa di tagliente e di aggressivo. Quando capì che l’interrogatorio era finito, s’alzò a un tratto, con impeto, come se le sue gambe fossero due molle d’acciaio che avessero dato uno scatto a suo malgrado. Ma una curiosità imperiosa costrinse Alberto a trattenerlo. — Come, — gli domandò sorridendo — se ne va senza cercar di convertirmi? Il Baldieri lo guardò, senza comprendere: — Convertirla a che?... — Ma nell’atto stesso che fece quella domanda, comprese. — Ah! — disse — intendo.... No: non credo che sia il caso. Mi scusi, sa. Ha qualche cos’altro da domandarmi? Alberto fu urtato da quella durezza: — Poichè rifiutate la discussione, non mi resta nulla da dire. — Rifiuto la discussione! — ribattè l’anarchico. — Non la rifiuto mai quando credo che possa servire a qualche cosa. Ma a che cosa può servire.... tra me e lei? Alberto volle rispondere; ma quegli lo prevenne. — Allora — disse — sarò franco; me lo permetterà. Noi non ci possiamo intendere. Un borghese non può esser con noi. Si può illudere, può essere qualche volta in buona fede....; ma alla prima occasione ci volterà le spalle, per forza, perchè non si può cambiare il midollo delle ossa. Tutt’al più, loro possono essere socialisti. Ma socialista e borghese è tutt’una per noi..... come per loro anarchico o pazzo. A che pro discutere coi pazzi? Dica la verità: per lei l’anarchismo è una pazzia. Alberto gli fece cenno di sedere: quegli sedette sull’orlo della seggiola, come per fargli intendere che non si voleva trattenere. — Non la credo una pazzia, — disse Alberto in tuono cortese — non mi pare irragionevole lo sperare che gli uomini potranno un giorno far di meno delle leggi, quando avranno raggiunto quel grado di moralità in cui la legge è superflua, perchè le basta la coscienza. Ma credo la moralità attuale ancora tanto lontana da quel termine, da rendere impossibile l’attuazione del vostro ideale, il quale è tutto fondato sulla esistenza d’uomini quasi perfetti. Crede lei in una trasformazione miracolosa della natura umana? — Ma che miracolosa! — rispose il Baldieri con atto di impazienza. — Ecco la loro fissazione! Naturale, logica, non miracolosa; logica e certa, per effetto delle condizioni d’esistenza, affatto nuove, che dovranno mutar gli uomini per necessità, come il cambiamento del recipiente muta la forma del metallo fuso. — E fece un gesto come per dire: — È così chiara! — È impossibile — disse Alberto. — Voi credete gli uomini pronti alla trasformazione, perchè, già sin d’ora, li giudicate migliori di quelli che sono, perchè non pensate che gran parte del male che non fanno, non lo fanno se non perchè non lo possono, perchè sono disarmati, compressi dall’ordinamento civile in cui vivono; ma togliete domani tutti i freni, come volete fare, e gli uomini ricadranno nelle barbarie d’un salto. Il Baldieri scrollò le spalle in atto di pietà. — Lo dicevo che non ci possiamo intendere! — E ribattè con vivacità febbrile, picchiando il pugno sulla fronte e facendo scattar le parole: — Ma in che maniera un uomo intelligente non capiva che ogni crimine, ogni trista passione di adesso era l’effetto necessario d’una violenza, d’una restrizione imposta alla libertà, d’un vizio o d’una ingiustizia inerente all’organizzazione sociale? — Ma questo non si discute, — gridò — questo è patente come una verità elementare d’aritmetica! Ma non lo vede, non lo riconosce dieci volte al giorno, anche in sè stesso? — E dicendo questo, piantò in viso ad Alberto due occhi ch’ei non li aveva ancor visti, e che lo stupivano, quegli occhi fissi di smalto delle figure dei mosaici, che il Renan dice esser propri dei fanatici. Ed egli intuì rapidamente quella verità: che la fede assoluta in qualche cosa è per noi, uomini del presente, un fatto assolutamente sconosciuto, e che però ci è impossibile il metterci coll’immaginazione in quello stato dello spirito umano. Comprese che c’era un abisso fra quell’uomo e lui. Stette guardando un momento quegli occhi, poi disse: — Ebbene, supposto pure un miglioramento morale immediato negli uomini, come si può concepire una società senza organizzazione? — Ma non si tratta di sopprimere ogni organizzazione! — rispose l’anarchico, impazientendosi da capo. — Questo è un altro dei loro chiodi. Si tratta di sostituire all’organizzazione autoritaria una volontaria, una federazione d’associazioni di lavoratori, che abbracci la società intera! — Ma non sono possibili associazioni senza patti contrattuali, io credo; e questi patti saran sempre delle leggi! — Non saranno leggi, perchè saranno spontanei e liberi, e si potranno mutare e distruggere quando si vorrà! — Ma io non capisco neppur questo. In che maniera codeste associazioni, e nella loro federazione, si potrà mantenere l’accordo e ottenere l’operosità di tutti? Come potranno funzionare regolarmente l’una e le altre senza controllo, ossia senza autorità, senza leggi, senza la coazione dello Stato? — Oh, curiosa! E come funzionava la società, prima che ci fosse tutto questo? — Appunto: voi volete ritornare allo stato di natura; ebbene ci siamo stati, e siam venuti al segno in cui ci troviamo adesso. — Ma noi ci torniamo con l’esperienza e con la scienza. — Sta bene: dunque in condizioni affatto diverse, che ci permetteranno di rimanervi. Io comprenderei l’anarchia se si potesse tornare in tutto e per tutto allo stato primitivo. Ma non ci possiamo tornare con la complessità attuale della società, con l’attuale sistema di produzione, col macchinismo, con la divisione del lavoro, che richiedono la cooperazione metodica, armonica, puntuale d’una collettività di lavoratori, i quali debbono sacrificare la loro libera volontà. Come la sacrificheranno, se non ci saranno costretti? Il Baldieri sorrise. — Ma non ci sarà bisogno di costringerli perchè non avranno da fare un sacrificio! Esca un momento col cervello dallo stato presente. Lavoreranno spontaneamente, senza sforzo, non solo perchè avranno da lavorar meno, e vivranno meglio, ma perchè nello stato sociale in cui si troveranno sarà evidente, chiarissima a ognuno l’idea del dovere di ciascuno e di tutti, e questa sarà il più grande stimolo al lavoro e la regola migliore della condotta! Alberto non rispose. La discussione ritornava sempre allo stesso punto, andava a battere contro la fede in un mutamento miracoloso degli uomini. Era inutile proseguire. Tutte le sue obbiezioni si sarebbero spezzate contro quell’idea. Ma non voleva parer vinto. — No, — disse — è impossibile. Non posso concepire che due forme d’anarchia. Una, possibile, dopo una rivoluzione, anche domani: quella del vostro Stirner, uno dei padri dell’anarchismo; uno stato di libertà assoluta, in cui ciascuno combatta contro tutti, e dove si formerebbero dei gruppi di forti, per libero e mutuo consenso, senz’altro pensiero che l’interesse personale; lo sfruttamento di tutti, insomma, fatto da ciascuno; l’altra che sarebbe l’attuazione del vostro ideale, ma soltanto possibile dopo che la società sarà passata per un periodo di preparazione collettivista, in cui l’individuo svolgendosi e perfezionandosi, ridurrà a poco a poco superflua e poi nulla l’azione delle leggi e dello Stato: ma ciò in un tempo incalcolabile lontano. Fuor di queste due, non c’è altra anarchia che non sia un sogno. L’operaio balzò in piedi col viso in fiamma. — E allora è peggio che un sogno — gridò — è un’assurdità, è una stupidità il loro socialismo, con le sue leggi e col suo Stato! Come non capiscono che lo Stato è la peste, perchè non è e non può esser mai altro che l’organizzazione della forza per proteggere la proprietà, lo sfruttamento, l’usurpazione? che se si lascia in piedi una sola delle istituzioni presenti, si riformerà intorno a quella, per necessità, tutto ciò che era prima? Che pazzia! Si rada tutto una buona volta dalle fondamenta, come vogliamo noi, e quando non ci saranno più classi nemiche perchè non ci sarà più proprietà individuale, non sarà più soltanto inutile lo Stato, ma impossibile, ma ridicolo, come l’insegna d’una bottega bruciata! Finchè non vi sarà entrata nel cranio questa, voi altri signori socialisti non sarete mai altro che puntelli, senza saperlo, di tutte le istituzioni odiose che volete buttar giù, e noi vi combatteremo, noi vi odieremo peggio dei borghesi! Se non comanda altro, la riverisco. Alberto notò il tremito violento della mano con cui egli riprese il suo cappello, e capì che gli bolliva dentro un’ira anche più forte di quella che avevano espresso le sue parole; l’ira che accende in ogni uomo di fede la discussione, come un atto offensivo e pericoloso insieme, per la sua fede. Per non irritarlo di più, cambiò sveltamente di tattica. — E sia pure — disse. — Rimanga ciascuno nella sua idea. Non le faccio più che una domanda: lei non crede in altri mezzi che nella rivoluzione? — In nessun altro — rispose il Baldieri, avviandosi per uscire. — Senza di questo, tutto è impostura e buffoneria, e l’inferno attuale durerà in eterno. — E crede nell’azione rivoluzionaria senza organizzazione? — Fermissimamente, perchè l’organizzazione della rivoluzione sarebbe la tirannia preparata, com’è stata sempre finora. E senza capi. E se verran fuori dei capi, saranno per loro le prime fucilate. — E senza organizzazione e senza capi, chi manterrà l’ordine e la giustizia nella presa di possesso del capitale sociale? Con questo, credette d’averlo messo al muro. Ma l’anarchico gli diede una risposta meravigliosa: — Nessuno avrà interesse a prendere più di quello che gli occorre per lavorare. A questa risposta inaspettata, a vedere la sincerità assoluta che brillava nei suoi occhi chiarissimi e fissi, Alberto si sentì disarmato, e l’obbiezione che stava per fargli ancora riguardo al principio: «ciascuno secondo i suoi bisogni», non attuabile se non nel caso d’una produzione sovrabbondante per i bisogni di tutti, gli morì sulle labbra. Egli sentì una specie d’ammirazione attonita per quella fede cieca, per quell’uomo così saldamente, così invincibilmente persuaso della sua idea. — E crede anche — si restrinse a dirgli — i tempi già maturi per una rivoluzione? — Magari per vincerla, no. Ma per cominciarla, per avviarla con delle rivolte, che scuotono l’opinione pubblica, poichè non c’è altro che la violenza che mandi avanti una causa, e non si fanno proseliti che con degli esempi d’audacia. La miglior propaganda è di sgomentare il nemico, di fargli tremare la terra sotto i piedi, di rendergli la vita così tribolata e miserabile, di far desiderare anche a lui la fine di tutto. I primi si sa, pagheranno i vasi rotti, come accade sempre; ma ne verrà dopo degli altri, che s’andranno moltiplicando; e poi verrà il momento favorevole, in cui agiranno tutti insieme, e allora sarà un uragano, che non lascierà più un sasso sull’altro di questa infame galera. E sarà presto, com’è vero che io e lei siamo qui, e che ci guardiamo in faccia. E questo disse con un tale accento, con un tale sguardo che Alberto, con sua intima vergogna, sentì scorrere un freddo istantaneo dentro il suo sangue borghese, e si passò una mano sulla bocca per nascondere lo sforzo di mandar giù la saliva. Dopo una breve pausa gli domandò: — È anche per l’azione individuale? Quegli lo guardò fisso, e poi scrollando le spalle come si fa a una domanda fanciullesca, rispose sprezzantemente, ma vigorosamente: — No! — E in un’azione collettiva — gli domandò Alberto — sarebbe pronto a sacrificarsi fra i primi? — Io?... — quegli disse guardandolo. E soggiunse con un accento tranquillissimo: — E non me lo legge sulla faccia? Alberto lo fissò senza parlare. E non sapendo dir altro: — Grazie — disse — delle informazioni. — Era mio dovere, — rispose l’operaio. — Se occorrerà altro, potrà avvertir l’ingegnere. Al piacere di rivederla. E senza dargli il tempo di porger la mano, se n’andò a passi risoluti, facendo risonare i tacchi sul palchetto come tanti colpi di martello. Alberto rimase pensieroso in mezzo alla stanza, e gli prese un dubbio improvviso intorno a quell’idea, la quale neppur nei libri dei suoi propugnatori più eloquenti, egli aveva mai potuto, non che accettare, comprendere. E fece ancora uno sforzo per concepire la società come un tutto così fuso ed uno che non fosse possibile determinarvi la parte che spetta a ciascuno delle ricchezze che essa produce; e in cui tutti avessero uguale diritto sul prodotto dell’opera comune; e si compiesse la partecipazione senza abusi, senza disordini, come una immensa famiglia concorde.... Ah, no, era un’illusione, un sogno, una follia! Ma lo distolse da questo un altro pensiero: — Da che poteva nascere quella fede in una grande bontà ed equità futura degli uomini, se non da un così appassionato desiderio del bene altrui che gli facesse velo al giudizio? Che altri impulsi poteva egli avere, se non generosi, poichè in un nemico d’ogni superiorità e d’ogni autorità sociale l’ambizione non poteva essere, e la probabilità di migliorar la sua sorte era tanto minore di quella di perder la vita o la libertà per riuscirvi? * Poi domandò a sè stesso: — Ma quanti avranno la fede e la fibra di costui? Forse un altro nella sua città — pensò — forse non dieci nel suo paese, forse non mille nel mondo. — Ah, no, — concluse. — Non si fa un esercito di eccezioni umane. L’esercito siamo noi, e travolgeremo nel nostro corso enorme anche loro. Essi non sono che la schiuma delle nostre onde, che andrà perduta nel mare.... Agitazioni e scioperi. Il buon cavaliere, data appena una scorsa alla rubrica quotidiana «Agitazioni e scioperi» dove gli cadde sott’occhio la notizia d’un vasto sciopero agrario imminente in una provincia dell’Emilia, buttò via il suo fido giornale ed esclamò con accento di grande scoraggiamento: — Insomma, non si campa più! Questa non è più vita, è una convulsione perpetua, è il ballo di San Vito della Nazione, è una esistenza d’affanno a cui il mio temperamento non può reggere. Se ha da seguitare così, piuttosto di continuare a vivere in queste ansie dell’inferno, com’è vero il sole, io vado a finire i miei giorni in un’isola disabitata dell’Oceania. E ciò detto, piantò il gomito sulla tavola, appoggiò una guancia sulla palma della mano, e stette così, scotendo il capo, come per riaffermare il suo proposito di emigrazione dal mondo civile. L’amico che conosceva a fondo la sua natura di don Abbondio borghese, gli si fece accanto e gli disse con molta pacatezza: — Senti, caro mio. Il solo modo di vivere in pace, quanto si può, è di persuadersi che la pace al mondo non è possibile, perchè il mondo in pace sarebbe un mondo morto. Noi italiani siamo male avvezzi. Dal 1866 in qua, da quasi quarant’anni, non abbiamo più avuto scosse nazionali profonde. La spedizione di Roma del 1870 è stata una festa. La guerra d’Africa, oltrechè non mise in pericolo la nazione, non ci diede che delle commozioni molto attenuate dalla lontananza dei fatti. Questi quarant’anni di bonaccia hanno fatto nascere e crescere in tutti l’illusione che la civiltà d’un popolo possa progredire come va avanti un piroscafo sulla faccia d’un lago dormente. Quindi il movimento attuale del proletariato, che ci riscuote dal lungo dormiveglia, ci pare il finimondo. Ma voltiamoci un poco indietro col pensiero. Non parlo del periodo della rivoluzione francese e del primo impero, che fu anche per l’Italia una convulsione d’un quarto di secolo. Parlo della rivoluzione nostra. Dimmi che cosa sono le agitazioni presenti appetto a quelle per cui passò la borghesia in quel periodo. Prima le cospirazioni e i conati falliti, con le conseguenze tragiche delle persecuzioni, delle confische, degli esigli, delle prigionie, delle morti; poi una sequela di guerre, ciascuna delle quali poteva finire con l’invasione straniera e con una reazione terribile, e in cui tutto era messo a rischio: la vita, gli averi, la libertà, l’esistenza stessa della nazione; per una lunga serie d’anni si visse come un esercito accampato, non davanti ad un nemico, ma in mezzo ad un cerchio di nemici, minacciati, insidiati di fuori e di dentro da mille pericoli, senz’alcun benefizio della pace negli intervalli di tregua, in procinto perpetuo di un fallimento disastroso, in una vicenda continua di speranza e di disperazione. Non ti pare che i pericoli e gli affanni d’oggi siano ben poca cosa in confronto di quelli passati? Il cavaliere scrollò il capo, e rispose tre volte no. — No; l’agitazione e i pericoli d’allora li volevamo noi, e sapevamo quello che volevamo. Era un movimento storico, necessario, chiaro, circoscritto. Ma questo chi sa dove andrà a finire? — E anche questo è determinato da una necessità storica, è un fenomeno naturale della vita sociale. Credi che le forze della vita e della storia agiscano in una classe sola della società? Quello era un movimento circoscritto! Da che confini? Forse che la borghesia s’è contentata dell’unità e della libertà? Conseguite queste, non abbiamo noi cercato di ricavarne tutti i possibili vantaggi individuali e di classe, morali e economici? Ora le moltitudini voglion fare lo stesso: migliorare il proprio stato, come abbiamo fatto noi, servendosi delle stesse conquiste che a noi giovarono. E questo non facciamo noi ancora, tutti quanti? Chi non s’agita, in un modo o in un altro, per migliorare lo stato proprio? Chi è pago delle proprie condizioni di vita anche fra i più fortunati? Non diciamo noi che il malcontento è padre d’ogni progresso? Rifletti un poco. Noi giudichiamo naturale, giustificabile, anche lodevole che si dia moto e s’affanni per accrescer la sua fortuna il milionario, perchè riesce a vantaggio comune l’attività ch’egli spiega a quel fine, e non vorremmo che le classi sociali più povere s’agitassero per innalzarsi a una condizione di vita più umana! Ti par che sia logico? Ti par che sia umano? — Non c’intendiamo. Non son contrario al fine: mi spaventano i mezzi, m’inquieta il fatto che queste classi si organizzino, si leghino e si muovano di concerto: in questo è il pericolo, e questo condanno. — Ma questo condanni in loro soltanto: ecco l’ingiustizia. Non sono collegati per l’interesse comune cittadini di altri molti ordini e ceti sociali? C’è forse un ceto, una classe qualunque della società che, se sperasse di conseguire un vantaggio con l’associazione degl’intenti e degli atti, anche con lo sciopero, anche con l’arma spuntata e prudente delle minaccie, non lo tenterebbe? Non fecero, non fanno anche dei ceti borghesi dimostrazioni per le strade, leghe contro il fisco, intimazioni e minaccie al Governo? Non si sono accordati degli industriali a chiudere le loro fabbriche, mettendo sul lastrico una folla d’operai, per forzare lo Stato ad allentare il laccio dell’imposta? Che c’è di più naturale e di più giusto che i lavoratori ricorrano anch’essi al mezzo riconosciuto più efficace, al solo mezzo che possa recare effetti immediati, e di cui hanno avuto tanti esempi al di sopra di loro? Che se, avendo essi il numero, dalla loro azione concorde ci viene un’inquietudine che l’azione degli altri non ci desta, che colpa hanno essi d’essere in molti? È giusto il giudicare un diritto non per sè stesso, ma dal grado d’apprensione che può destare in noi chi lo esercita? — Lasciamo andare il diritto. Quello che mi dà più pensiero è la molteplicità, la simultaneità, la violenza dei moti, e l’esorbitanza delle pretensioni, che rivelano un intento lontano, più grave assai dei desideri presenti. — Vediamo un po’. Le pretensioni saranno inopportune e eccessive in certi luoghi e in certi momenti; ma non son tali da pertutto nè sempre: non si può onestamente affermare il contrario. È la tendenza generale nelle sue cause e nei suoi effetti generali che bisogna considerare. Quando, fra cent’anni, si giudicherà con mente di storici il movimento attuale, chi darà importanza al fatto che esso non sia stato opportuno e ragionevole in tutte le sue manifestazioni parziali, che in alcuni, e anche in molti casi e punti le richieste abbiano superato la possibilità delle concessioni? E a chi non parrà naturale il fenomeno, che ora si chiama _febbre_ o _contagio_, voglio dire quest’altro fatto: che l’agitazione si sia propagata con troppa rapidità, che i moti siano stati simultanei in una gran parte del paese, assumendo una apparenza, e qualche volta anche un carattere inquietante? Ossia, che ogni concessione giustamente ottenuta abbia destato intorno cento speranze inappagabili, che in ogni parte si sia manifestata una gran furia d’afferrare il momento che pareva più propizio, quello in cui era lasciata per la prima volta alle moltitudini una libertà relativa nell’esercizio dei diritti comuni, la quale esse temevano ragionevolmente che fosse passeggiera come il Governo che s’arrischiava a concederla? Il cavaliere tacque un momento; poi rispose, corrugando la fronte: — non temo le classi lavoratrici; temo chi le consiglia e le muove. C’è un branco di mentecatti tristi che le hanno nel pugno. — Ma no, amico; questo è il vostro errore capitale, cagione di tanti altri errori: quello di credere, di voler credere a ogni costo che pochi bastino a sommuovere delle moltitudini, a stornarle dal lavoro per settimane intere, a spingerle incontro a pericoli e a danni, a farle volontariamente digiunare e patire mille disagi. E perchè lo farebbero? Dite: per acquistar popolarità. Ma è un gioco rischioso, in cui la popolarità si può acquistare e si può perdere. Nella più parte dei casi si perde, e si mette a cimento anche dell’altro. Ma se anche fosse vero, se bastano veramente pochi a mover le migliaia, questa è una prova indubitabile che la disposizione nelle moltitudini c’è, che l’idea, il sentimento, l’impulso interno preesistono, e che quindi prima o poi, in un modo o in un altro, anche senza quei pochi, il movimento avverrebbe. In che illusione vivete! Anche i passati governi dicevano dell’agitazione nazionale che gli agitatori, i colpevoli di tutto eran pochi, e si cullavano nell’illusione che, sopprimendo quei pochi, tutto si sarebbe quetato. E credi, amico, credi che non ultima causa dell’irritazione delle classi lavoratrici è il sentirsi ripetere eternamente quell’antifona, la quale, insomma, equivale a dir loro: — Noi sappiamo bene che se un pugno di mestatori non v’istigassero di continuo per fare il vantaggio proprio alle vostre spalle, voi sareste incapaci di qualunque accordo fra di voi, di qualunque risoluzione e azione collettiva diretta all’utile vostro: voi non siete che un enorme pecorame umano, senza idee e senza volontà, che qualche ciarlatano spinge di qua e di là a suo talento, ubriacandovi di parole e d’illusioni. — Come volete che, al sentirsi dir questo, quando pure sarebbero disposte a seguire i consigli di moderazione che anche dagli agitatori molte volte ricevono, le moltitudini non siano tentate a respingerli e a passar oltre, per provarvi che non sono mandre incoscienti, ma folle d’uomini che pensano col loro cervello e vogliono con la volontà propria? Il cavaliere rimase silenzioso, stropicciandosi con le dita un orecchio. — Vedi — riprese l’amico: — quello che ci fa guardare con animo inquieto e ostile al movimento presente è il pensiero che in esso sia un pericolo prossimo per il nostro superfluo, che noi ci siamo assuefatti a considerare come necessario. Parlo del superfluo, non del resto, perchè sarebbe insensatezza l’affannarci di quello che potrà seguire nel mondo quando di noi non ci sarà più che cenere. Ora è certo che il movimento non potrà aver buoni effetti per le classi lavoratrici senza sacrifizi gravi della borghesia. Ebbene, persuaditi che questo è giusto, e rassegnati fin d’ora a quei sacrifizi, rinunzia fin d’ora, dentro di te, con volontà ferma, al tuo superfluo. Tu vedrai come ti sentirai sollevato, come si chiarirà il tuo giudizio, con che occhio diverso guarderai a quello che accade. Il movimento è giusto: ecco la verità che ci dobbiamo fermare saldamente nella ragione e nel cuore. La nostra classe, con la rivoluzione italiana, è stata portata su da un’ondata che a noi parve d’un fiume fecondatore. Ora ci pare onda di fiumana devastatrice quella che porta su le classi inferiori. E non è: è un’altr’onda delle stesse acque benefiche. Cerca di metterti con l’immaginazione in un atteggiamento benevolo verso quelle moltitudini di cui l’ascensione si turba, e dico: con l’immaginazione del vero. Fatti sempre presente al pensiero che manca a loro tutto quello che rende a noi più cara l’esistenza: la soddisfazione del presente, la sicurezza del domani, il godimento dell’intelletto, il senso della libertà e della leggerezza della vita. Considera pure che in un tempo lontano, quando, tenendo conto delle loro condizioni materiali e del loro stato di cultura presenti, si farà un raffronto fra la vastità del movimento attuale e il piccolissimo numero di casi di violenza che l’hanno accompagnato, questo sarà argomento di grande maraviglia. In fine, se tu non mi trattassi di predicatore, ti suggerirci ancora una considerazione molto semplice: che sono nostro sangue, che ci son fra loro i figliuoli delle migliaia che insanguinarono i nostri campi di battaglia, che sono le ossa e la carne della nazione, anzi la nazione medesima, in somma, poichè non solo essa non sarebbe senza di loro, ma non ne potremmo neppur concepire l’esistenza. Il cavaliere fece uno di quei gesti indeterminati, — coi quali si scansa di dare una risposta. — Andiamo, dunque —, rincalzò l’amico sorridendo, e mettendogli una mano sulla spalla —, tu che sei manzoniano! Ricordati di quello che dice il Cardinale a don Abbondio, rimproverandolo che la carne l’abbia fatto tremar per sè, mentre la carità doveva invece farlo tremare per gli altri: che di quel timore egli si sarebbe dovuto umiliare, che avrebbe dovuto invocar la forza per vincerlo e che l’amore l’avrebbe reso intrepido. — Ah! — gli dice — se v’avessero umiliato, offeso, tormentato, vi direi d’amarli, appunto per questo: amateli perchè hanno patito, perchè patiscono, perchè son deboli, perchè son vostri. Il cavaliere continuò a star zitto per qualche momento; ma si sarebbe potuto dir di lui quello che dice il romanziere del curato: che il suo silenzio non era più quello di poc’anzi, che s’egli non sentiva tutta la commozione che la predica voleva produrre, sentiva un certo dispiacere di sè, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Non si diede per vinto però, e disse tutt’a un tratto, un po’ bruscamente: — Tu abbellisci ogni cosa. — Non abbellisco — rispose l’amico — no. Abbellisce la verità chi ne nasconde i lati spiacevoli. Questo io non faccio nè con gli altri nè con me stesso. Io non mi dissimulo i guai, i dolori che porteranno a tutti gli avvenimenti di cui vediamo il principio; prevedo dei giorni tristi, dei conflitti lamentevoli. Ma guardo pure al di là di questi, vedo i resultati lontani, uno stato di cose migliore del presente. In questo pensiero mi conforto. Nel fatto, vedi, io sono ancora un borghese come te, immobile in un atteggiamento di difesa. Eppure v’è un recesso in fondo alla mia coscienza, nel quale, come filosofo antiveggente e previdente nell’avvenire, già svincolato d’ogni interesse personale del presente, festeggio di nascosto il mio primo maggio. — Ah, questo poi — esclamò scattando il cavaliere — io non lo farò mai! — Non lo puoi giurare, mio caro. Nell’animo d’ogni uomo di cuore e di buon senso c’è oramai un seme segreto di socialismo, che si può negare, che si può comprimere; ma che resta e germoglia a nostro marcio dispetto. Germoglierà anche nel tuo cuore. — Ne dubito. — Vedrai. — Starò a vedere. Il cavaliere stette un po’ sopra pensiero, e poi, rasserenandosi all’improvviso, disse all’amico, tendendogli la mano: — Sia come si sia, non ti nascondo che con le tue parole m’hai un po’ risollevato l’animo. Che cosa vuoi? Vivo in un cerchio di buona gente che vede ogni cosa a traverso agli occhiali d’una così maledetta paura! — Ecco la mia prima vittoria! — esclamò l’amico, stringendogli la mano. — Ti ho strappato gli occhiali. Passano le tessitrici. Nel momento che s’alzavano da tavola udirono il rumore confuso d’una folla, che s’avvicinava. Tutti corsero alle finestre e ai terrazzi; la padrona di casa s’affacciò alla finestra più vicina, con una delle sue figliole. Venivano innanzi, per una via diritta, le operaie tessitrici, scioperanti da due giorni; varie centinaia di ragazze e di donne, fra le quali si vedevano delle teste grigie; tutte in capelli, molte scarmigliate e coi panni in disordine; gruppi serrati, come grosse pattuglie, che gridavano parole incomprensibili; schiere di dieci o dodici, che si tenevano a braccetto e cantavano a voce altissima; molte scompagnate, che correvano avanti e indietro e rompevano qua e là la colonna, gesticolando, come se diffondessero una parola d’ordine, e i canti, le grida, i discorsi, le risa stridule facevano tutt’insieme un frastuono tra di battaglia e di baccanale, che si smorzava a quando a quando come nel mormorio sordo d’un fiume, e poi riscoppiava più forte. Quando le prime furon tanto vicine da poterne vedere i visi accesi e le bocche squarciate, la signora fece un passo indietro dalla finestra, esclamando: — Che orrore! In quel punto si vide accanto uno dei molti invitati, del quale le era noto il nome da quella mattina soltanto: un amico di suo fratello, un giovine alto e pallido, che durante il pranzo era stato quasi sempre silenzioso, e che per questo, o per l’espressione severa e dolce del viso, le aveva destato curiosità e simpatia. Il giovine aveva udito la sua esclamazione. — Infatti — disse pacatamente, con un sorriso —, non è quello l’aspetto più gentile in cui si possa presentare il suo sesso, signora. Ne convengo. La signora rispose con vivacità: — Il mio sesso! Mi perdoni, signore: lei coglie un brutto momento per farmi osservare che quelle son donne al pari di me. — È vero. Ma ci sono delle verità che è bene ricordare appunto nei momenti in cui riescono più sgradevoli. Io le ho ricordato questa con un’intenzione cortese: per attenuare in lei una impressione penosa. Quelle donne sono infiammate da una passione. Una passione violenta è come una lesione passeggiera del cervello, la quale produce effetti consimili in tutti gli esseri umani, a qualunque classe sociale appartengano. Vada a vedere, signora, in una Casa di salute a che cosa una lesione del cervello riduce la dignità, il pudore, l’educazione, la gentilezza delle più nobili dame. — Ma quelle son pazze, signore! — E perciò fanno mille volte peggio di queste. Ma neanche queste sono nel loro stato normale, voglio dire in uno stato in cui si possa giustamente giudicare la loro indole, il loro grado d’educazione, il loro modo abituale di sentire e di vivere. Pensi un po’, in questa folla che ci passa davanti, quante donne ci saranno, capaci di fare i sacrifici più generosi per la loro famiglia, che si strappano il pane di bocca per i loro figliuoli, che li allattano fra mille cure, fatiche, privazioni, e quante altre, di quelle che non son madri, faranno lo stesso. — Questo lo so; ma non giustifica.... — Non dico per giustificare, signora; dico per rendere lei più indulgente. Quelle che a lei più ripugna di vedere in codesto stato di eccitamento scomposto, che paion briache, sono le ragazze. E a me pure. Ebbene, quando le vedo così, io penso, guardandole, a quante di esse hanno visto fin da bambine, forzatamente, i più brutti aspetti della natura umana e del mondo, a quante prima dei vent’anni hanno già avuto dalla vita delle delusioni tristissime, non confortate neppure dalle distrazioni dello spirito e dagli agi materiali, che soccorrono le ragazze infelici della nostra classe sociale; in quante è un vero miracolo che si sia salvato dai contatti inevitabili della volgarità e della brutalità umana la bontà dell’animo, l’affetto per la famiglia, la sincerità dell’amore. E anche penso quanto saranno brevi in loro la gioventù e la bellezza, e quante di esse, dopo aver perduto l’una e l’altra, logorate innanzi tempo dal lavoro avranno una maturità più travagliata dell’età bella, dei figliuoli poveri come loro, e una vecchiaia abbandonata, che finirà all’ospedale. E allora, se è scappata anche a me l’esclamazione che è uscita dalla sua bocca, signora, me ne pento... e me ne vergogno, mi perdoni. La signora non badò alle sue ultime parole: era tutta intenta alle operaie, che s’erano arrestate sulla piazza, formando un vasto assembramento, intorno al quale accorrevano curiosi da ogni parte. Pareva che tenessero consulta sul dove dirigersi, o che aspettassero un rinforzo d’altre scioperanti; alcune, nel mezzo, agitavano le braccia come se arringassero le compagne, scoppiavano applausi, la folla si rimescolava, il gridìo cresceva. La signora fu presa da una viva inquietudine. — Chi sa che cosa stanno macchinando, ora! — esclamò. — Ah, fortuna che ci sono ancora dei soldati. — È giusto — osservò il giovane con un sorriso leggermente ironico, che essa non vide. — Pensi a quanti soldati daranno all’esercito tutte quelle tessitrici. La signora riattaccò il discorso interrotto. — Ma intanto —, disse — lei che parla di tante virtù, perchè non sono al lavoro le sue protette, invece di star qui a far baccano e a spaventar la gente? — Andiamo, cara signora: supposto pure che siano qui per puro spasso, bisogna convenire che si danno di questi spassi assai di rado, perchè li pagan troppo cari. Vogliamo contare cinque giorni dell’anno? Ebbene, pensi che in tutti gli altri trecento e sessanta, escluse le domeniche, quando lei si sveglia, esse sono già al lavoro da due ore; che quando la sera lei ritorna a casa a desinare stanca del suo giro di visite, esse staranno ancora al lavoro altre due ore, e che son lì, tutti i giorni, anche nei mesi che lei passa sul mare, o in collina, o in montagna, e che la maggior parte, con dieci ore almeno di fatica quotidiana, non guadagnano quanto occorre giornalmente a lei per l’acqua da profumarsi. A lei, che è buona e ragionevole, non pare scusabile che facciano del chiasso qualche volta per migliorare un po’ la loro condizione? — Migliorare! — rispose la signora. — Ma quasi sempre.... Ma nel caso presente, per esempio, hanno delle pretensioni esorbitanti; tutti lo dicono; i padroni non possono; si dovrebbero ridurre sul lastrico, per contentarle.... — Un momento, signora. Supponiamo pure che siano in errore, che abbiano delle pretensioni inappagabili: il fatto è che esse non lo credono. Ecco il punto. Credono fermamente che i padroni possano: facendo dei sacrifici, si capisce. Come può pensare che, se non credessero questo, farebbero quello che fanno, che, se stimassero impossibili ai loro padroni le concessioni che loro domandano, vorrebbero, smettendo il lavoro, costringerli a chiuder le fabbriche, e ridursi a perdere per conseguenza anche quel pezzo di pane che ora si guadagnano? Dunque sono in buona fede, dunque sono scusabili. E lo sono anche per un’altra ragione. Esse vedono intorno a sè, in tutte le forme più appariscenti, il lusso, la prodigalità, lo sperpero: capiscono vagamente che tutto questo esce in grandissima parte dal lavoro delle classi a cui appartengono: domandano che una parte maggiore del frutto del loro lavoro rimanga a loro invece di convertirsi in superfluo per gli altri: a chi hanno da rivolgere questa domanda se non a chi le fa lavorare? Sbaglieranno; quei tali appunto a cui si rivolgono, nel caso attuale, non potranno contentarle; ma sono pure i soli nei quali esse possano fondare la loro speranza; se fanno male i conti, sono compatibili, e anche se non credono al _non possumus_ che loro si oppone, perchè sanno che è una risposta che si dà quasi sempre, e spesso anche dal ricco al povero che gli chiede un soldo. Si lasci intenerire un poco, signora. Basta un po’ d’immaginazione per questo. Pensi come debbono aver mangiato stamani quelle donne, e a che tavola sederanno questa sera, e domani; si raffiguri le loro povere case, la loro vita di tutti i giorni, il centesimo lesinato, l’ansietà continua del giorno che verrà, le sere eterne che passano ad aspettare con trepidazione il marito o il padre che non torna, e i mille «no» dolorosi con cui debbono rispondere ai mille desideri dei loro bambini, tentati nella grande città da tante cose desiderabili, che essi credono fatte per loro come per gli altri. — Io saprei sopportare tutti questi sacrifici, se la necessità me li imponesse —, rispose con accento d’alterezza la signora. — Molte donne della nostra classe li hanno affrontati coraggiosamente nel periodo della rivoluzione nazionale. — Lo credo di lei, e delle altre lo so. Ma convenga che chi non si trova in tale necessità deve usare qualche indulgenza verso quelli che vi si trovano, perchè tra il sentirsi capaci di patire e il patire c’è qualche divario. E poichè lei mi ricorda i sacrifici fatti dalle «signore» alla rivoluzione, mi permetta di dirle ancora una cosa. È vero: molte, in quel tempo, hanno sopportato nobilmente povertà, esilio, separazioni dolorose. Ma crede lei che esse e i loro mariti e i figliuoli avrebbero fatto quanto fecero se avessero potuto prevedere che, liberata e unificata la patria, il popolo sarebbe rimasto perpetuamente nelle stesse condizioni materiali e morali in cui si trovava allora? Non crede invece che li eccitasse sopra tutto all’opera la speranza, anzi la certezza che con la libertà e l’unità nazionale sarebbe cominciato un grande movimento d’ascensione delle classi popolari verso uno stato migliore di vita, economicamente migliore per prima cosa, poichè la miseria è il primo degli impedimenti a ogni progresso civile? E crede che questo movimento d’ascensione, sperato allora, considerato come l’ultimo e più santo scopo d’ogni lotta, e desiderato adesso da quanti hanno cuore e ragione, perchè è giusto, perchè è necessario, perchè è l’adempimento d’una legge del mondo, crede lei che si produrrebbe se il popolo lavoratore, se queste donne come tutti gli altri non chiedessero, non si accordassero per strappare delle concessioni, non si agitassero a quando a quando per sferzare l’inerzia delle classi superiori, per ricordarci le promesse dei nostri padri, e anche per impaurire l’egoismo dei soddisfatti? La signora non rispose. — E non pensa pure, signora, che l’inquietudine che essi ci danno con questi perturbamenti dell’ordine sia per la maggior parte di noi una piccola espiazione dovuta del non aver fatto per loro quanto potevamo, del non pensare a loro che quando vi ci costringono? La folla delle scioperanti s’era riformata in colonna, e s’allontanava. Un’operaia, che era rimasta indietro, passò sotto le finestre correndo, per raggiungere le compagne. Era incinta. — Anche quella! — esclamò la signora, accompagnando la sua corsa faticosa e scomposta con uno sguardo nel quale, però, appariva un sentimento più di pietà che d’avversione. Il giovane le disse: — Sentiamo un po’, signora: sarebbe in collera anche con lo scioperante che quella porta con sè? — Con quello no —, rispose la signora con un sorriso che non potè reprimere. — Ebbene, non lo dev’essere nemmen con la madre perchè, sicuramente, va a gridare con le altre non tanto per sè quanto per lui. Sia certa che la spinge alla corsa l’illusione di sentir la sua voce che le dica: — Va, mamma, va; fatti sentire: avrai forse un pezzo di pane di più, o otterrai almeno di riportarmi a casa dalla fabbrica un’oretta prima. La signora ebbe uno di quei movimenti involontari della bocca che tradiscono una scossa del cuore; ma cercò di dissimularlo, e disse vivamente, un po’ piccata: — Ma sa lei che ha parlato come un socialista? — No, signora —, rispose con dolcezza il giovane —, semplicemente come un cristiano. Una tempesta in famiglia. La sera del sei maggio, la casa del cavalier Bianchini sfolgorava per la solita festa dell’anniversario del suo matrimonio. Ma, come accade spesso nelle famiglie, il ricevimento fu preceduto da una burrasca. La signora aveva fatto un colpo di testa. Informata dal marito delle nuove idee del figliuolo Alberto, dopo avergli promesso di serbare il segreto, aveva creduto atto di alta saggezza l’andar di nascosto ad avvertire il suocero «commendatore», affinchè venisse preparato al ricevimento e, giovandosi dell’uditorio che avrebbe fatto eco alla sua voce e rincalzato la sua autorità, ricondusse il giovane alla ragione; e quella sera stessa, a desinare, aveva annunziato al cavalier Bianchini il proprio tradimento con una così baldanzosa sicurezza d’aver fatto bene, ch’egli ne era andato fuor dei gangheri. Quando il buon Moretti, arrivato il primo, entrò nel salotto, col suo viso rosato e ilare di vecchio ottimista, vide ancora il suo amico con una faccia fremente, su cui si confondevano le vampe del Barolo e quelle della collera, e la signora con l’aria altera e ostinata di chi ha difeso tenacemente un’idea Ma il Bianchini sperava ancora di scongiurare la battaglia a forza di diplomazia. E si mise subito all’opera. Tirato da una parte il Moretti, gli raccomandò, con viso grave, che non facesse, nella serata, cadere il discorso sul _primo maggio_ e sulla questione sociale, perchè, su quell’argomento, sarebbe potuto seguire un urto tra il suocero e il suo figliuolo, che la pensavano diversamente. — E perchè mai? — domandò il Moretti con meraviglia. — La discussione fa la luce: finirebbero con intendersi. — Ah! è impossibile! — rispose il Bianchini, e insistè, fin che quegli promise. Entrarono quasi ad un tempo Alberto e sua moglie, col piccolo Giulio, e il vecchio dottor Geri — padron di casa — insieme col figliuolo e col nipote: un ragazzo di sedici anni, che era scolaro d’Alberto. Questi formavano una triade curiosa: somigliantissimi l’uno all’altro nonostante le grandi differenze d’età: si vedeva che il ragazzo sarebbe stato fra vent’anni il ritratto miniato del padre, e dopo altri venti quello del nonno: erano una dinastia secca e fegatosa; tutti e tre lunghi e un po’ curvi, tutti e tre sorridenti ad un modo, con la contrazione facciale di chi si spazzola i denti. Il vecchio aveva un viso scialbo e sbarbato, che pareva livido per effetto della parrucca nera e degli occhiali affumicati; di sotto ai quali sporgeva un gran naso, incurvato a becco sopra una bocca torta e inquieta, che rivelava i sentimenti non manifestati dagli occhi sempre bassi e vaganti, come se cercassero qualche cosa per terra. Tutti e tre risposero con lo stesso sorriso acre alla cortesia festosa con cui furono accolti; cortesia che il vecchio Geri, come padron di casa, scroccava, essendo tirato a tal segno, che da anni il cavaliere Bianchini ordinava e pagava di proprio ogni minima riparazione, per non spender con lui parole inutili. La sua avarizia era proverbiale anche fuori di casa sua. Non affrancava mai una lettera, non dava mai una mancia, e d’estate, per le strade di Torino, quando arrabbiava dalla sete, prendeva una limonata da mezzo soldo dagli acquaiuoli delle cantonate. E non solo non faceva mai una elemosina, ma la vista d’un mendicante lo esasperava al punto che, se avesse osato, l’avrebbe battuto. Aveva esercitato in altri tempi la medicina, e poi smesso, perchè gli era sfuggita tutta la clientela, a causa della sua indiscrezione. Da anni tutte le gioie della sua vita si riducevano a quella di esser padrone di casa. Per lui un padrone di casa era un cittadino insigne e benemerito, una colonna dello Stato, che aveva diritto al più ossequioso rispetto delle autorità e ai più delicati riguardi della cittadinanza. Scriveva ogni settimana una letterina a qualche gazzetta, firmata con le iniziali, per lagnarsi dei canti notturni, dello strepito dei carri, delle trombe dei soldati, dello schiamazzo degli scolari, di ogni cosa che potesse turbare la quiete del suo «stabile». E ripeteva come un intercalare, interpretandola a modo suo, la sentenza del Goethe, che non è un uomo degno davvero di questo nome chi non ha fatto un figliuolo o piantato un albero o fabbricato una casa. L’umanità, per lui, si divideva in padroni di casa e pigionali, e questi erano d’una razza inferiore. Appena i tre Geri furono seduti, il cavalier Bianchini fece loro a bassa voce la stessa raccomandazione che al Moretti. — Capiranno.... c’è dissenso di idee.... se si potesse evitare.... Il vecchio fece le meraviglie, il figliuolo sorrise, cercando con gli occhi la signora Giulia, soddisfatto di scoprire un lato odioso e ridicolo nel giovine professore che, per opposizione di natura, gli era sempre stato antipatico. E stava per fare una domanda, quando entrarono il Cambiari e sua moglie. Entrò con loro come un soffio di salute e di buonumore. Quella bella bruna rotonda, semplice e allegra, e quel pezzo d’uomo dal viso aperto, sul quale s’univan la bontà, l’intelligenza e l’astuzia, tutti e due pieni di vita e di parlantina, erano l’immagine della loro casa: una casa di onesti chiassoni, affollata di figliuoli e figliuole d’ogni statura, dove si recitava, si ballava, si correva in bicicletta per le camere, si andava a letto al tocco di notte e si mangiava a tutte le ore, senza che alcuna contrarietà o piccola disgrazia scolastica o domestica interrompesse mai il corso delle visite, dei pranzi, delle scampagnate, in cui si profondeva ogni anno quanto c’entrava. E in mezzo a quella babilonia il Cambiari lavorava di forza e con fortuna, smarrendo e ritrovando conti e disegni fra i balocchi e i giornali di mode, sonando il piano nei ritagli di tempo, schiassando con la prole, leggendo un po’ di tutto da letto e corteggiando per spasso le amiche di sua moglie, la cui ridente spensieratezza e ingenua ignoranza di bella e buona baliona gli rallegravano la vita. Scambiati i saluti, il cavalier Bianchini condusse in un canto il Cambiari e gli fece la raccomandazione. Quegli sorrise da prima: poi si mise sul serio, per cortesia. Certo, il genero e il suocero erano due teste da non dover lasciar che cozzassero in una quistione di quella natura. Egli domandò se Alberto fosse sempre fermo nelle sue idee. Il Bianchini gli rispose di sì, risolutamente, e soggiunse piano: — E ha ragione! Io son con lui! Sono anch’io per la verità e per la giustizia! Il Cambiari lo fissò, sospettando che fosse brillo. Ma il Bianchini gli voltò le spalle per andare incontro al signor Luzzi e alla sua signora, che entrò con uno slancio di ballerina. Il Luzzi e sua moglie erano la coppia più bizzarra della compagnia. Lui era vicedirettore d’una Società d’assicurazioni, una figura mingherlina di scolaretto infrollito, mezzo calvo, con due occhietti di topo, e due minuscoli baffetti neri, che parevan segnati sulla pelle con sughero bruciato; un viso su cui mostrava un’astuzia che non aveva, dandosi l’aria di pensare, di sapere, di capire molto di più che in realtà non facesse. Non si poteva indovinare quanti anni avesse di là dai quaranta. Passava per un’autorità nella sua professione, perchè dedicava tutto il suo tempo a escogitare progetti di riforme amministrative della Società, studiando gli ordinamenti di tutte le società assicuratrici dell’universo; progetti che eran presi sempre in grande considerazione, e non attuati mai. Si diceva che avesse una fortuna; ma egli lo negava risolutamente, con un sorriso sfuggevole. E parlava pochissimo; ma, fingendosi raccolto nei suoi pensieri, non perdeva una parola di nessuno. Nessuno capiva come si fossero appaiati lui e sua moglie, che era una brunetta ardita di trent’anni, con due occhi che bruciavano, con un neo graziosissimo sulla guancia sinistra, con un corpicino di ragazzetta precoce, somigliante a quelle elastiche donnine giapponesi, che s’appallottolano e s’acchiocciolano così bene sulle stuoie delle sale e sulle ginocchia del marito, e vestita sempre con un’eleganza e un gusto perfettamente conformi alla sua bellezza minuta e irrequieta, tutta guizzi e scatti e capricci che mettevan voglia d’afferrarla. E con questo mostrava una serietà così intelligente, quando voleva, che un uomo di Stato le avrebbe parlato di politica come a un provetto giornalista. Da due soli mesi suo marito era stato trasferito da Venezia a Torino, dove la signora Giulia aveva riconosciuta in lei un’antica compagna di collegio, perduta di vista da più di vent’anni; ma ricordata sempre fra altre cento come lo spirito più turbolento e più ribelle della scolaresca. Colto un momento opportuno, il cavaliere Bianchini fece la raccomandazione al signor Luzzi, nell’orecchio. Costui, senza guardarlo, strizzò un occhio. Poi gli domandò in tono di compatimento: — E anche lei, cavaliere, è uno di quelli che credono che esista una questione sociale? Il Bianchini rispose gravemente: — Esiste. E l’altro: — È un’allucinazione della borghesia. — Nondimeno promise di tacere. Dopo questo, andato a raccomandar un’ultima volta la prudenza al suo Alberto che lo rassicurò, il cavalier Bianchini si soffermò in mezzo al salotto e girò uno sguardo soddisfatto sulla bella compagnia; fra la quale durava ancora il baratto dei saluti e dei complimenti con quella strascicata e verbosa cortesia borghese, che è la contraffazione della gentilezza aristocratica. Si vedeva però, e si sentiva che mancava qualcuno, l’invitato più cospicuo, un personaggio tenuto da tutti, in coscienza o per compiacenza, in gran conto, e da tutti designato con lo stesso titolo: il Commendatore. — Verrà il commendatore? — Non c’è ancora il commendatore? — Quando avremo il commendatore? La cameriera annunziò ad alta voce: — Il signor commendatore! Entrò prima la signora Paola, una nanetta vestita di scuro, con la sua aria timida e dolce di buona divota, e la sua inseparabile croce d’oro appesa al collo, e poi la faccia larga del commendatore, coi baffi alla Bismarck e i capelli grigi ravviati ad arco sulle tempie: un gran vecchio solido e pulito, che poteva riuscir simpatico a chi non notasse l’espressione di durezza che aveva sulla bocca un po’ ricascante dai lati, e una luce indefinibile che gli brillava a fior d’occhi, non derivata di dentro, simile al riflesso delle palle di vetro. Si vedeva che era venuto di mala voglia, per puro dovere di parente. Alberto, che non lo vedeva da più giorni, andò tra i primi a porgergli la mano, che egli strinse col suo fare solito, come un direttore generale a un giovine impiegato. Quando tutti l’ebbero riverito, rimase in un canto coi due Geri, gli altri sedettero un po’ da tutte le parti, e incominciò un vivo cicalìo, il solito scambio di domande che non chieggon risposta, di risposte non udito da chi le ha chieste, di racconti incominciati e non finiti, attraversati e rotti da altri discorsi smozzati, da risatine di signore, da esclamazioni di finto stupore e di finto piacere, da quel palleggio di riempitivi, di ripetizioni, di tritumi di frasi e di pensieri, che si fa in tutte le riunioni, prima che siano avviate le conversazioni particolari. E questo cicalìo continuò fin che i padroni di casa invitarono gli ospiti a passare nella sala da pranzo, dove ogni anno, quella sera, era preparata loro un’improvvisata che s’aspettavano. Era, sotto una illuminazione da altar maggiore, una mostra appetitosa, in cui fra i mazzi di fiori e le torricelle di confetti s’alzavan le punte variopinte dei gelati, i colli scintillanti delle bottiglie, le piramidi odorose dei mandarini, sparso ogni cosa con arte su varie tavole, in mezzo a uno sfoggio di maioliche, d’argenteria e di cristalli, che, al primo entrar nella sala, faceva passare un lampo d’alterezza negli occhi ai due coniugi, concordi in quell’unico sentimento. Qui la società, si divise in gruppi, secondo le affinità elettive: sul sofà più grande, addossato a una parete, le signore giovani e la ragazza; sur un sofà d’angolo, la padrona di casa e la signora Paola, col Moretti, fido cavaliere delle vecchie signore; dalla parte opposta il commendatore coi suoi due Geri; gli altri uomini, ritti accanto alla gran tavola del mezzo; i due ragazzi sul terrazzino. Era una bella serata; dagli alberi della piazza veniva una buona fragranza di fogliame fresco, e le facciate delle case attorno, imbiancate dalla luce elettrica, facevano alle finestre aperte un lontano sfondo teatrale, che accresceva la gaiezza della sala. I vassoi erano già a mezzo sparecchiati e le conversazioni parziali già avviate da un pezzo, e nessun discorso s’era inteso che accennasse a quello pericoloso: il cavaliere Bianchini si cominciava a rassicurare. E ne aveva una viva soddisfazione d’amor proprio, perchè, infine, era lui, lui Antonio Bianchini, che con la sua saggia politica, con la eloquenza delle sue raccomandazioni, gravi di profondi significati, aveva ottenuto il grande scopo. Gli restava un vago timore: che il commendatore assalisse, anche non provocato; ma dal viso non gli pareva, e udendo che ragionava della gran quistione della fognatura di Torino, che era una delle sue intestature, scacciò anche quel timore, e se n’andò, tutto sereno, a dir barzellette alla signora Cambiari. Alberto, dal canto suo, risoluto di mantenere la promessa fatta alla moglie, di non attaccare il lucignolo il primo, non era neanche scontento d’essere lasciato in pace. E discorrendo d’affari di scuola, in mezzo alla sala, col Cambiari e col Luzzi, osservava tratto tratto la moglie di questo, che gli destava ancora la curiosità d’una persona nuova, non avendo, nei due mesi da che la conosceva, scambiato con lei che qualche parola. Ma, a un certo punto, continuando il suo discorso, egli colse a volo una frase del suocero che discorreva coi Geri: — Chiunque fa sperare un miglioramento alle classi povere per altra via che quella della moralità e dell’educazione, le inganna. Alberto s’interruppe, e disse piano al Cambiari e al Luzzi: — È il solito giro vizioso. L’educazione non è possibile senza un certo grado di prosperità materiale, perchè non c’è moralità che resista alla prova prolungata del bisogno. È come voler curare un malato con una medicina che non può inghiottire. — Certo — disse il vecchio Geri, rispondendo al commendatore — la moralità è nel lavoro. Alberto scrollò una spalla e mormorò: — Nel lavoro umano, non nel lavoro che abbrutisce. Il suocero rispose al Geri: — È provato, d’altra parte, che c’è dieci volte più poveri per vizio o per indolenza che per sfortuna. Le statistiche son là. E quel tanto di povertà che deriva dalla sfortuna non è in potere degli uomini di toglierlo appunto perchè non è causato da loro. È una verità antica come il mondo. — E così il problema è risolto — disse Alberto un po’ più forte. A quelle parole, il cavalier Bianchini s’avvicinò, col viso del contadino che vede una minaccia di gragnuola all’orizzonte. Il commendatore, che aveva sentito, si rivolse direttamente al giovane, e gli disse con accento autorevole: — Non è risolto perchè non è risolvibile, caro il mio professore. Nessuna riforma potrà mai fare che la maggioranza degli uomini non sia condannata a un lavoro duro e poco pagato. La povertà del maggior numero è un male costituzionale, cronico, della società; è l’effetto d’una legge sociale a cui è assurdo di ribellarsi. A quelle parole, dette con la sicurezza di non aver ribattuta, tutti tacquero, fiutando una battaglia. — Non è effetto d’una legge — rispose Alberto; — ma di _leggi_. — E sia pure, di leggi! Ma di leggi naturali del mondo economico, altrettanto fisse e immutabili quanto quelle del mondo fisico. — Fisse? — domandò Alberto, correggendo con l’accento rispettoso l’irriverenza della forma interrogativa — immutabili?... Perchè? Senza dubbio, sono fondate su fatti; ma questi fatti sono forse necessità da potersene dedurre dei principii assoluti? I fatti mutano: possono dunque mutar le leggi che vi si fondano. Il commendatore sorrise. — Sogni! — disse poi. — Non muta, non muterà mai il fatto principale, che la vita dell’uomo è una guerra permanente contro tutto e contro tutti, che la fortuna è dei vincitori, e che tutti non possono vincere. La sola cosa a farsi è di mantener libera, com’è ora, la concorrenza, che è l’anima d’ogni progresso. Non negherai questo, voglio sperare. — Mi scusi — rispose Alberto — lo nego. Il commendatore dilatò gli occhi. — Non c’è libertà di concorrenza — proseguì il giovane — dove le forze sociali non sono a disposizione che d’un piccolo numero; e non ci può essere fin che non siano parificate fra tutti i membri della società le condizioni iniziali della lotta. — Le fa forse pari la natura? — No; ma non si tratta di sopprimere gli effetti delle disuguaglianze che fa la natura, si tratta di sopprimere le disuguaglianze esistenti fin dalla nascita fra quegli uomini che la natura ha fatto eguali. — Queste son legate a quelle, e se anche si potessero sopprimere, rinascerebbero necessariamente. — No, quando non fosse possibile altra proprietà che quella che è frutto del lavoro personale. — Alla buon’ora! — esclamò il suocero, con una risata, alzandosi da sedere. — La soppressione dell’eredità! A questo sei già arrivato! Accetta le mie sincere congratulazioni. Prima che il figliuolo avesse tempo di rispondere, il cavalier Bianchini si mise in mezzo, e con un sorriso che tradiva l’affanno, palpando il petto ad Alberto e rivolgendosi al commendatore: — Nessuna discussione — disse — nessuna discussione. I giorni di festa non si discute. Questa sera comando io. Se sento ancora una parola, spengo i lumi e sciolgo l’assemblea. I disputanti si chetarono, voltandosi ciascuno a dire le proprie ragioni al suo crocchio, mentre ripigliava il cicaleccio generale. Ma tutti e due avevano il viso mutato, e sorridevano con uno sforzo, un po’ ansanti. Si capiva che, tra poco, avrebbero incrociato i ferri da capo. Il dottor Geri, intanto, la riprese subito per conto suo col commendatore e col proprio figliuolo. Per lui non c’era altro rimedio ai mali sociali che nel mettere un limite alla moltiplicazione della specie, con tutti i mezzi possibili, che egli conosceva e accettava tutti, anche i più duri e ributtanti. Tutte le altre proposte gli facevano pietà. Era un’idea fissa, che gli era stata trasmessa, come un «tic» ereditario, da suo padre medico, il quale aveva conosciuto nel 1830 il Malthus, quand’era professore d’economia politica a Haileybury, e s’era entusiasmato della sua persona e della sua teoria. Per lui il Malthus era uno dei più grandi benefattori dell’umanità. E lo nominò dieci volte in trenta parole. La signora Cambiari, alla quale quasi tutti i nomi celebri riuscivan nuovi, stupita e contenta di conoscer quello, si voltò verso il vecchio Geri e gli disse ad alta voce: — Ah! Malthus! Quello che non vuol più bambini? Tutti risero, perfino il Geri. Ma subito si rifece serio e ripigliò il suo discorso: — L’avvenire è per la sua dottrina. Quando il basso popolo ne sarà persuaso e la metterà in atto, il mondo sarà mutato. — Ah, signor dottore! — disse la signora Luzzi — non parli di quel tristo prete, un misantropo, nemico dell’amore, un uomo brutale e ripugnante. Ma il vecchio Geri non discuteva con le signore. E continuò: — Frenare la produzione degli affamati, non c’è altro. Tutti i nostri mali derivano dall’essere in troppi a voler star bene. Il Moretti saltò su dall’angolo opposto della sala, gridando con la sua voce di galletto: — No, signor dottore! Non c’è un uomo solo di troppo sulla terra! Ogni uomo è produttore! Tre quarti della terra sono incolti per mancanza d’uomini! Il Cambiari disse: — In nessun paese s’è mai verificata la teoria delle due progressioni. Il Moretti rincalzò: — E poi, col moltiplicarsi degli uomini, si moltiplicano, e più presto, le piante e gli animali che li alimentano. E Alberto soggiunse: — Migliorate le condizioni economiche delle classi inferiori e saranno meno prolifiche per la stessa ragione che lo son meno le altre classi. Il dottor Geri fece un segno di compatimento a tutti e tre, e domandò in aria di dubbio ad Alberto: — Conosce lei la teoria del Malthus? Alberto si piccò. — La conosco — rispose — e mi pare una teoria molto comoda per dimostrare che la miseria è inevitabile e salvare il nostro egoismo da ogni rimprovero della coscienza. — Queste sono ragioni di sentimento — ribattè il dottore. — Il fatto innegabile è che per far aumentare i salari dei lavoratori non c’è che diminuire l’offerta delle braccia. Questa è matematica. Che altro mezzo propone lei? Il commendatore lo toccò col gomito, e gli disse con ironia: — Ma non l’ha già detto, che il mezzo è l’abolizione della proprietà? Alberto si voltò, punto sul vivo, e rispose: — Loro dicono abolizione della proprietà come direbbero abolizione della luce, o qualche altra cosa soprannaturale e impossibile. Ma questa divina proprietà non è esistita sempre nè da per tutto. Come la società l’ha istituita, la può togliere, o piuttosto, trasformare; chè infatti non si tratta di altro. La forma della proprietà non è forse in stato di variazione continua? Tutte le forme di essa, che ora ci paiono più strane, esistettero, e ne esistono ancora degli esempi. La proprietà ha seguito le trasformazioni della produzione. Ora la produzione è diventata collettiva e la proprietà dei mezzi di produzione è rimasta individuale. Di qui tutti i mali e tutti i disordini. E questi non cesseranno che quando cesserà l’antagonismo che li produce. — Parole sonore e vuote come i tamburi, — replicò il suocero. — E tu credi che nello stato attuale della civiltà sia possibile lo svolgimento della personalità umana, l’ordine della società e il buon assetto della famiglia, senza la proprietà? — È indispensabile la proprietà a questo fine, secondo lei? — E chi può dubitarne? — E allora, come non trova giusto che i sette decimi della popolazione, che lavorano e non hanno proprietà nessuna, ne vogliano la loro parte? Ciò che è im-pos-si-bi-le a ottenere senza far la proprietà collettiva? Il suocero fece un atto di commiserazione, alzando gli occhi alla vôlta: — La proprietà collettiva! Dei del cielo! C’è ancora qualcuno che ne parla sul serio? Io credevo il collettivismo sotterrato e decomposto da un pezzo! Alberto fece per rispondere; ma il Geri figlio, col suo sorriso sprezzante, prendendo la parola la prima volta, lo prevenne con l’argomento solito: — Un momento.... Tolta la proprietà individuale, che è quanto dire la speranza di arricchire, mi dica lei: dove sarà lo stimolo al lavoro? — Scusi, — rispose Alberto, con freddezza — la grandissima maggioranza dei lavoratori d’adesso è la speranza d’arricchire che li stimola al lavoro? E i centomila impiegati, che mandano avanti tutte le amministrazioni piccole e grandi, lavorano per arricchirsi? Il Geri scrollò il capo. — Ma al lavoro libero, a quello dei più intelligenti della nostra classe, che lavorano il doppio del dovere d’ogni onest’uomo, e unicamente per far fortuna, che stimolo rimarrebbe? — Ma se hanno coscienza di fare un lavoro utile alla società.... No, questo è un tasto che non suona. Le dirò invece: Crede lei che l’eccesso d’attività che quelli spiegano ora per far fortuna vada tutto a vantaggio della società? Non conta per nulla tutte le birbonate che per far fortuna si commettono? e il danno che si fa agli altri? e la vita arrabbiata che si conduce? e la corruzione che si semina? Il Geri scambiò uno sguardo e un sorriso col commendatore; ma prima che rispondesse entrò di mezzo il Moretti, dicendo: — Un’obiezione capitale, caro amico, capitale. Lasciamo da parte il lavoro meccanico. Io domando che stimolo avrebbe il più difficile, il più prezioso, il più benefico dei lavori, quello degli inventori! — Ma signor Moretti! — esclamò la signora Luzzi dal suo sofà. — Non si dice anche adesso che tutti gli inventori muoiono all’ospedale? Molti risero. Alberto guardò con curiosità la signora; poi disse: — A lei, signor Moretti, risponda. — Ma mentre questi cercava la risposta, il commendatore, irritato che al giovane rimanesse anche solo un’apparenza di vittoria, gli andò a piantar davanti la sua mole maestosa, con l’aria di volerla far finita, e fra l’attenzione di tutti, che aspettavano il colpo di grazia, gli domandò: — Dunque tu sei per lo Stato collettivista? — Sì — rispose Alberto. — Sei per lo Stato che sopprime l’industria e il commercio privato, che resta solo e unico proprietario di tutto ciò che regola i prodotti, che tiene in bilancia tutti gl’interessi, che governa la vita e il progresso d’un popolo come il cammino d’una mandra di pecore? Dimmi questo soltanto. Dimmi se hai mai pensato, almeno per un quarto d’ora, all’assurdità di questo Stato prepotente e strapotente, che avrebbe bisogno, per funzionare, d’un sistema burocratico appetto al quale il nostro è un congegno da bambini, e che riprodurrebbe centuplicati tutti i difetti e gli errori di lentezza, di imprevidenza, di confusione, di spreco che già si rimproverano allo Stato attuale? Dimmi se hai pensato a questo, perchè io sappia se debbo continuare o no a ragionare. Dando uno sguardo intorno prima di rispondere, Alberto vide sua moglie col capo basso, come già vergognata della cattiva figura che egli stava per fare: n’ebbe dispiacere e ne prese animo. — Stia tranquillo — rispose — potrà continuare a ragionare. Lo Stato che lei ha definito non è quello del socialismo. Loro giudicano questo da quello, come se l’uno non fosse che l’altro ingrossato, e qui è l’errore. Lasciamo pur stare che neanche ora lo Stato fa tutto male, come non fa tutto bene l’iniziativa privata; che se non fa sempre bene, non è almeno interessato a far male, come i privati son troppo spesso, e che se bene non può fare in molte cose è perchè, fuor della classe privilegiata di cui è in mano e che lo sfrutta, non trova, per questa ragione appunto, che diffidenza e ribellione. Lasciamo anche stare che, con tutta la vostra tenerezza per la libera concorrenza, voi invocate l’intervento dello Stato per sopprimerla ogni volta che avete un interesse di classe da salvare, e che è assurdo il parlare di libera concorrenza quando ogni industria non si sviluppa che accentrandosi, ossia creando un monopolio. Ma è una fiaba che il socialismo voglia uno Stato onnipotente, un autoritarismo senza limiti. Il socialismo vuole uno Stato che serva la nazione, non che governi nel senso d’ora, che sia subordinato alla società, non che la domini. E non ha da essere un organismo prefisso e immobile, ma una forza d’organizzazione che si perfezionerà semplificandosi, ripartendo la propria azione in organi secondari, in corpi di governi locali, in un gran numero di meccanismi inferiori, i quali si formeranno per necessità, a poco a poco, sotto l’impulso del nuovo principio a cui sarà informata tutta la vita sociale. — «Fata viam invenient» — disse il Cambiari. Il commendatore voltò verso l’ingegnere il sorriso compassionevole che aveva preparato per il genero, e gli disse: — Signor Cambiari, avrebbe anche lei perduto il bene dell’intelletto? — Ma no — rispose questi tra il faceto e il serio, con l’aria di chi gode a soffiar nelle dispute. — Trovo giusta l’idea d’Alberto, che per l’organizzazione della Società, come i socialisti la vogliono, si debba anche tener conto della cooperazione dei fatti. Mi permette d’esprimer tutto il mio pensiero? L’edifizio futuro si costruirà come si è costrutto il presente, che fu tirato su ed accomodato a poco a poco dalle generazioni, secondo i loro bisogni, che mutavano, e secondo le norme successive dell’esperienza. Non si può quindi giudicare fin d’ora quello che sarà per l’appunto lo Stato socialista, nè pretendere che qualcuno lo dica. Si vedrà. — E soggiunse, accarezzandosi il mento: — Sapeva la borghesia francese dell’89 che governo avrebbe costituito? Voleva il potere politico per fare i suoi affari a comodo suo; ma non prevedeva nemmeno la repubblica, non prevedeva nemmeno che cosa sarebbe stato la sua costituzione economica. — E non essendo guardato dal commendatore, mise fuori due dita di lingua. Quegli lo fissò, quand’ebbe finito, e disse, dondolando il capo: — Lasciatevi dire una cosa: mi fate pietà tutt’e due. — E voltò le spalle; mentre il Cambiari si stropicciava le mani, come chi ha fatto uno scherzo ben riuscito, e il cavalier Bianchini rivolgeva un atto supplichevole al figliuolo, perchè tacesse. Questi acconsentì mordendosi le labbra. Ma il vecchio Geri tornò all’assalto. — O mi dica un po’, signor professore? — disse con voce dottorale. — Tutte le istituzioni sociali, proprietà, famiglia, stato, religione, son legate fra di loro intimamente; non si può toccare l’una senza toccare l’altra: che cosa farà della famiglia? — Sì, sentiamo — dissero altre voci — che cosa farà lei della religione e della famiglia? E il Geri giovane, dando un’occhiata alla signora Giulia, soggiunse: — Avrebbe in proposito le idee di Maria Zara? Quasi tutti risero. — Che orrore! — esclamò la signora Giulia. La vecchia Bianchini fece un atto di ribrezzo. Non avevan mai letto nulla di lei; ma sapevano chi era, una specie di petroliera, un’apostolessa e praticante dell’amor libero, la ganza di tutto il partito, una donna da non nominarsi fra gente per bene. La sua reputazione era così orribile che Alberto, benchè la sapesse una donna onestissima e immensamente buona, non s’attentò neppure a difenderla. — Che cosa farà lei della famiglia? — domandò di nuovo il dottor Geri. Alberto non aveva ancora idee ferme su quell’argomento, che era il più pericoloso di tutti; ma capì che non poteva ceder su quello, senza lasciar il sopravvento agli avversari anche negli altri. — Non creda di sgomentarmi con questa domanda — rispose, ostentando sicurezza d’animo. — Neanche la famiglia non è una istituzione immutabile: si modifica e progredisce col progredire della società; col mutarsi della condizione sociale della donna. Questa è molto mutata dal passato, anche lei lo deve riconoscere. Ora, come la famiglia d’oggi non è più quella del medio evo, così essa assumerà necessariamente un’altra forma quando la donna sarà affrancata dalla servitù economica e avrà tutti i diritti dell’uomo. S’alzò un grido di protesta. — Le idee di Maria Zara! — esclamò il Geri figlio. — E di Luisa Michel! — gridò il suocero. — Ora farai l’apologia degli orrori della Comune! — Eh, lasciamo stare gli _orrori_! — rispose Alberto, cominciando a irritarsi. — In servigio di tutte le cause si commisero degli orrori: la religione ebbe i roghi e la tortura, e la difesa della proprietà male acquistata fu sempre più feroce che gli assalti della fame. — Ma se lo dicevo — gridò il commendatore — che avresti anche difeso i fucilatori dei prigionieri! — Non è vero! Io non difendo nè chi ammazza i prigionieri in nome della rivoluzione, nè chi li macella in nome dell’ordine. — E non fai differenza fra gli uni e gli altri! — ribattè il suocero, scoppiando. Qui s’intromise da capo il Bianchini padre, supplichevole, e con lui la signora Giulia e la sorella d’Alberto, accarezzando l’uno e l’altro e sospingendoli dolcemente da due parti opposte, fin che il cerchio si spezzò in vari gruppi, e la battaglia si ruppe in una serie di scaramucce. Vicino alla finestra, nacque una discussione intorno alle condizioni degli operai fra il dottor Geri, il Cambiari e il Moretti, ai quali s’aggiunse la signora Luzzi. Il dottor Geri affermava che i salari erano aumentati in proporzione dei prezzi delle derrate. — Questo vorrebbe dire — osservò il Cambiari sorridendo — che siccome erano scarsi prima, sono insufficienti anche adesso. — Il pane è ribassato. — Ma è rincarata la carne. — È scemato il prezzo del riso. — Ma son rincarati il vino, l’olio, lo zucchero, il caffè.... lo spirito.... — E le pigioni, signor dottore? — domandò la Luzzi. — Ma che pigioni! — rispose il dottore. — Badiamo ai fatti generali. Il fatto è che gli operai vestivano di grossa tela, ora veston di panni; che andavano a piedi nudi, e ora portan le scarpe, e sono alloggiati meglio d’una volta. Oltredichè godono dei vantaggi comuni della civiltà progredita: strade ferrate, gas, luce elettrica, acqua potabile, giardini pubblici, musei aperti a tutti. Conta per nulla lei tutto questo? — Ma questi vantaggi li pagano con le tasse. — O che tasse paga chi non ha quattrini? — Ma come! Non sa che ogni operaio che guadagni tanto da vivere paga il venti per cento del suo salario in tasse indirette? — Ma che venti per cento! Si sa come si fanno questi calcoli.... E poi consideri le case operaie, gli istituti ospitalieri, i bagni popolari, la maggior igiene, che diminuisce le malattie infettive. Una volta eran decimati dal vaiolo.... — Già — disse scherzosamente la Luzzi. — Come osano di lamentarsi? Son vaccinati! Fu una risata. Alberto, sopraggiunto in quel momento, le disse: — Brava, signora Luzzi! Val più una delle sue bottate che tutti i nostri ragionamenti. La discussione continuò; ma da qualche minuto il Cambiari s’era staccato dal gruppo e discorreva con la signora Paola, seduta accanto alla madre d’Alberto; questa sdegnata, quella stupefatta e quasi tremante per la disputa che aveva ascoltato. L’ingegnere finiva di confonderle la testa dicendole che il socialismo non era che la risurrezione del cristianesimo, e citandole cardinali e vescovi tedeschi, inglesi e americani che avevano espresso idee socialiste. — Ah! non è possibile — rispose la signora. — Non scherzi su questo soggetto, signor ingegnere! — Come, non è possibile? Ma, cara signora, sono fatti sacrosanti. E i padri della chiesa? Lei rispetterà i padri della chiesa. Ebbene, San Clemente ha detto che «tutto dovrebbe appartenere a tutti», San Basilio ha detto che «il ricco è un ladro», San Giovanni Crisostomo che «tutti i beni dovrebbero essere in comune». La signora lo guardò; poi scosse la testa. — Ma non avran detto proprio così. Lei m’ha l’aria d’inventare. Se il mondo è com’è, è perchè il Signore vuole che sia così. Se Sua Santità benedice anche i ricchi, vuol dire che la ricchezza non è una colpa. — Sua Santità? Ma Sua Santità è un socialista dichiarato. Non sa che in una sua pastorale, quand’era vescovo di Perugia, ha detto che gli operai sono «sfruttati da una cupidità senza viscere»? — L’avrà voluto dire in un altro senso. Lei si vuol burlare di me. Che gusto ci ha a tormentarmi? — Ma no, lei vedrà.... finirà con diventare anarchica. — E le parlò del suo famoso anarchico, il Baldieri, che aveva un libro terribile di propaganda tutto fatto con frasi delle Sacre Scritture, e che a sentirlo parlare, alle volte, pareva un sacerdote sul pergamo. — Ah! che profanazione! E lei sta a sentire di questi orrori? E si voltò a chiedere soccorso alla signora Bianchini. Ma questa s’era avvicinata a un crocchietto dove il Geri figlio, ridendo, ma schizzando bile dagli occhi, metteva in burletta lo Stato collettivista: — .... E così avremo lo Stato muratore, fabro ferraio, calzolaio, contadino, filatore, stampatore, impresario d’omnibus e di tranvai. Il debito pubblico sarà trasformato in «titoli di consumazione» e invece della moneta si avranno i «buoni di lavoro». Non fo celia, signori miei. Sono profezie stampate. E siccome i valori delle cose non saranno più determinati che dal tempo necessario a farle, così, vedete, non si comprerà più, per esempio, un soprabito da cento lire, ma un soprabito da cento ore; si comprerà tre quarti d’ora di sapone, un quarto d’ora di spago, cinque minuti di zolfanelli. E le fatiche più penose essendo le meglio retribuite, un’ora di lavoro alle fogne frutterà quanto due ore di lezione d’un professore di letteratura. E non più proprietà privata. Ciascun italiano sarà proprietario d’un trenta milionesimo della proprietà nazionale. Non ci sarà più nè mercato, nè borsa, nè pigioni di casa, nè lusso, nè servitori, nè serve: la cucina sarà un’istituzione sociale.... Gli uditori ridevano. Ma egli tacque vedendo avvicinarsi Alberto, che l’aveva inteso, e si guardarono l’un l’altro nel bianco degli occhi, con un sorriso sarcastico. La signora Bianchini prevenne l’urto, facendo in là il suo figliuolo, e gli disse a voce bassa, risentita: — Ma dove hai la testa? Per che via ti metti? Il commendatore è indignato. Non ricominciare. Che cosa diventa la nostra casa! Alberto non rispose. Aveva ancora un peso sul cuore, un bisogno prepotente di lotta e di sfogo, stimolato anche dallo stato d’eccitazione in cui si trovava tutta la compagnia. Uno dei più eccitati era il Moretti, che incantucciava ora l’uno ora l’altro, per esporgli i suoi progetti, coi quali risolveva la gran quistione. Sgusciatogli di mano il cavalier Bianchini, che aveva altro pel capo, egli afferrò il signor Luzzi, per comunicargli una sua nuova idea, che era di fondere insieme tutte le società cooperative di consumo, per formarne una sola immensa, che abbracciasse tutti i generi, e in cui entrassero a poco a poco tutti i cittadini dello Stato. — Stia bene a sentire. La cifra degli affari di questa società sarebbe uguale alla cifra totale della consumazione d’Italia, e pari a un dipresso a quella della produzione. Ebbene, quando questa gigantesca cooperativa sarà in grado di comperare tutta la somma della produzione annuale della nazione, è evidente che sarà assolutamente padrona, non solo del commercio (si sottintende), ma di tutte le industrie produttive; e allora le potrà comprare, e le comprerà. Ed ecco sciolta pacificamente la gran quistione che affanna il mondo! Che cosa ne dice? Ma il Luzzi, che non credeva alla _gran quistione_, sogghignò, come se non prendesse sul serio nè il progetto di lui, nè tutte le altre chiacchiere che sentiva da un’ora. Allora il Moretti, con l’immaginazione sempre più accesa, agguantò il Cambiari, e mise fuori un’altra pensata. — Chi sa, la quistione sociale avrebbe avuto forse una soluzione affatto diversa da quella che il socialismo proponeva; una soluzione fatta balenare dall’ultimo congresso dei naturalisti a Berlino, nel quale s’era espresso il concetto che, per mezzo dell’elettricità, fosse possibile trasformare la materia prima in alimento. Non aveva detto il chimico Meyer che si potrebbero convertire in cibo le fibre legnose, e un altro, che si sarebbe fatto una specie di pane con la pietra? — Ma certo! — rispose il Cambiari. — E sarebbe una cuccagna, per noi, che abbiamo gli Appennini e le Alpi. — Ma lasciò ad un tratto il Moretti, udendo Geri il giovane e Alberto, che discutevano acremente in mezzo alle signore. — E crede lei — domandava il Geri — che una massa d’operai ignoranti potrebbe da sè sola mandare avanti le industrie? — E chi le dice che le manderebbero avanti gli operai ignoranti? — ribattè Alberto. — E adesso, sono forse i capitalisti, in generale, gli azionisti, i padroni, insomma, che mandano avanti le industrie più grandi? Non sono dei salariati come gli operai, dal primo ingegnere all’ultimo computista? Che cosa sarebbe mutato, mi dica, con la soppressione del capitalista, rimanendo nella società il capitale! E crede che tutta l’intelligenza e la scienza che ora fanno andare il mondo non accetterebbero, per necessità, la nuova condizione di cose, continuando a fare la parte loro? — No, mai! — rispose il Geri. — Piuttosto che annientarsi, si farebbero annientare. Non si piegherebbero al vostro dispotismo. La signora Luzzi lo rimbeccò. — No, signor Geri — disse. — Gl’intelligenti, i dotti si convertirebbero a mille per volta, come s’è sempre visto. E tutti proverebbero con dei documenti d’essere stati socialisti fin dall’infanzia. Il Geri le lanciò uno sguardo come una frustata e Alberto la guardò con viva simpatia. Ma la discussione ripigliò, inasprendosi, e cadde d’un salto sulla quistione del diritto al lavoro. — Non c’è senso comune! — disse il Geri. — Come ci sarà del lavoro per tutti, se ora già ne manca, e se, soppressi i ricchi, avverrà un’enorme diminuzione nei consumi? — Non ci ha altro argomento?... Ma questa diminuzione sarà ampiamente compensata dal maggior consumo della grande maggioranza, messa in condizioni migliori; maggioranza che ora, per la scarsità dei salari e per la disoccupazione, consuma appena lo stretto necessario, e anche meno! Il Geri levò gli occhi in alto, come per dire: — Che spropositi! — Ma come si farà allora — disse forte — a mantenere la produzione a paro coi nuovi bisogni, che cresceranno enormemente, e in corrispondenza all’aumento della popolazione, che sarà effetto della vita migliorata? — E c’è bisogno che io glielo spieghi? Ma è chiarissimo! Si raddoppierà il prodotto della terra in virtù della grande cultura razionale, impossibile ora per il frazionamento della proprietà.... Un momento, mi lasci finire.... Si svolgerà largamente il macchinismo circoscritto ora dalla sovrapproduzione, dal basso prezzo del lavoro umano, dalla insufficienza del capitale privato, e ci sarà un maggior numero di lavoratori per la soppressione dei parassiti, degli intermediari, dei produttori di cose inutili. — E vedendo il Geri ridere, soggiunse bruscamente: — Ma come non lo capisce? — Ma come non capisce lei che gira in un povero circolo vizioso? — Ma lei lo chiama vizioso perchè non è capace d’uscirne! In quel punto, per fortuna, il dottor Geri prese per un braccio il figliuolo, e gli osservò che non era conveniente il prolungar quella discussione col professore in presenza del suo scolaro, il quale stava lì a sentire, con gli occhi scintillanti di compiacenza maligna. E nello stesso tempo Alberto si sentì tirare il vestito da sua moglie, che lo scongiurava di quetarsi. Seguì una breve tregua agitata, mentre la cameriera riportava attorno i vassoi, e il cavalier Bianchini notò con vivo rammarico che il Geri, il commendatore ed Alberto, nell’atto di recare il bicchiere alla bocca, avevan le mani tremanti: pessimo segno. Intanto tutte le signore, meno la moglie dell’ingegnere, eran passate nel salotto, dove commentavano a bassa voce la discussione. La signora Paola, la madre e la moglie di Alberto erano turbate, avevano tutte un presentimento che sarebbe finita male, che qualche cosa di molto triste per la famiglia dovesse accadere quella sera. Soltanto la signorina Ernesta taceva, ma col viso pensieroso, con due fiammelle guizzanti nei piccoli occhi neri e dolci, che annunziavano un fermento insolito di idee. Nella sala da pranzo si tornavano a sentire delle voci concitate. Sopraggiunse la signora Cambiari, ridendo, e disse: — Hanno ricominciato. Oh questi uomini! Tiran fuori delle parole così stravaganti! — E provò, ma non riuscì a dire: _socializzazione della terra._ — No, non ci riesco: mi fa starnutare. Provi un po’ lei, signora Luzzi. Ma, vedendo che la signora Giulia era inquieta, la esilarò un momento, dicendole con la più grande ingenuità: — Ma io credo che il signor Alberto faccia per celia, per stuzzicare un poco quei signori. Lo confesserà all’ultimo, vedrai, e tutto finirà in una risata. Poi fecero tutte dei complimenti alla signora Luzzi per lo spirito che aveva mostrato nella conversazione, e il Cambiari, entrando, ci aggiunse il suo. Mentre le altre non sentivano, le disse piano, con gravità comica, guardandola negli occhi: — Lei è socialista? — Non so — rispose la signora — ma ho le mie idee. Non foss’altro che perchè il socialismo vuol fondare il matrimonio sull’amore, sulla dignità umana, mentre ora non è che un contratto mercantile. — Lei vuole la libertà della donna? — Certo. — È forse schiava, ora? Non è forse la donna che impera? — Sì, le donne belle. Ma le altre? — Perchè s’interessa lei delle altre? La Luzzi rispose seria: — Un complimento non è una ragione. Il Cambiari la fissò ancora, e gli balenò il sospetto che quel socialismo non fosse schietta farina, che nascondesse un suo disegno sopra il bel socialista, a danno del brutto vicedirettore. Ma udendo la voce del commendatore che parlava con acrimonia straordinaria, rientrarono tutti in fretta nella sala da pranzo. L’oratore, in piedi, parlava ai due Geri, fingendo di non badare ad Alberto, della lotta fra capitale e lavoro. No, per quanto armeggiassero con società di resistenza, coalizioni internazionali e l’inferno, il capitale non sarebbe stato mai soggiogato; anche a costo di far da per tutto come a Melbourne, in occasione dello sciopero famoso dei cavatori di carbone, degli accenditori del gas e dei facchini, quando s’erano uniti in lega ingegneri, avvocati, ecclesiastici, impiegati, studenti, e avevan lavorato alle officine, improvvisata l’illuminazione elettrica, caricato e scaricato le navi con le proprie braccia. No, piuttosto di subire la prepotenza del numero, sia d’operai, sia di contadini, si sarebbero inventate macchine su macchine, si sarebbe ridotta a pascolo mezza l’Europa, si sarebbero fatti venire lavoratori industriali e agricoli dalla China e i negri dall’Africa. — E le scimmie! — aggiunse Alberto, non potendosi più contenere. — Perisca il mondo, purchè si salvi il capitale e duri lo sfruttamento. Il suocero si voltò, come sferzato da quella ultima parola, che egli odiava, e urlò quasi: — Eh! finiamola una volta con questa parola bugiarda, di cui ci empite gli orecchi! Di che sfruttamento andate cianciando? In che maniera il capitalista sfrutta l’operaio, se questi può accettare o respingere le condizioni che egli propone? Come può il capitalista esser tiranno se l’operaio è libero? — Libero?... — ribattè Alberto. — E io dico dal canto mio: finiamola con questa parola bugiarda di libertà. Chi non ha nulla non è libero, perchè non può aspettare e non si può muovere. Il capitale può aspettare e può muoversi. Non c’è libertà reale di contratto fra chi ha bisogno del pane e chi può rifiutarlo. — E allora non è libero neppure il capitalista, perchè è costretto dalla concorrenza a dare il meno possibile: la intendi? — Poichè la intende lei! Ma il male è appunto nella concorrenza, che il socialismo vuol sopprimere. — Ah! È dunque una forza maggiore che il capitalista subisce. Che ci venite a blaterar d’ingiustizia, allora? — Ma l’ingiustizia c’è ugualmente, e patentissima È che il capitale pretende e si appropria una parte che non gli spetta. — E quale parte? — domandò il suocero, sogghignandogli in viso. — Quale parte? — domandarono insieme i due Geri. — Ma è chiaro. Quando il capitalista ha cavato dal guadagno gl’interessi del capitale che impiegò nella produzione, e tutte le spese, e la quota annua d’ammortizzamento, e anche un largo compenso per il suo lavoro personale (se lo presta), con qual giustizia si appropria il resto, invece di ripartirlo fra tutti i lavoratori che hanno concorso alla produzione? Il commendatore e i due Geri si guardarono un momento in aria di stupore, come credendo d’aver franteso; poi diedero in una risata. — Questa è enorme! — esclamò il suocero, fingendosi esilarato. — Ma se l’appropria come premio per il rischio che ha corso il suo capitale! Negherai, professore, che c’è un gran numero d’industriali che vanno in rovina? Alberto fremè a quell’interrogazione burlevole; ma il suocero non gli lasciò il tempo di rispondere. — Venga lei — disse — signor Cambiari, che pure poco fa gli dava ragione: venga lei a spiegare questa elementarissima verità al suo amico. Il Cambiari, col suo sorriso astuto, s’avvicinò al gruppo, lisciandosi il mento, e disse con molta placidità: — In questo, mi scusi.... sarei piuttosto d’accordo col mio amico. Il rischio esiste per questo o per quel capitalista, per Tizio o per Caio, ma non per la classe intera, nella quale rimangono ad ogni modo i profitti. Mi spiego? Poichè, non essendo i capitalisti collegati, ma in lotta fra di loro, quello che l’uno perde l’altro guadagna. Non è forse vero? Per la qual cosa, se taluni si rovinano, se il lavoro dei loro salariati non ha dato un prodotto rimuneratore, non se ne può dedurre.... dico il mio parere.... che debba il lavoro fortunato degli altri operai esser defraudato d’una parte del compenso che gli spetta, e questa parte accumularsi tutta a vantaggio del capitale. — Ecco l’argomento — disse Alberto. I tre avversari guardarono prima il Cambiari e poi si guardarono tra loro, come per dirsi: — Costui vuol fare il buffone alle nostre spalle. — Ma questi sono miserabili cavilli da avvocato — rispose il commendatore. — Ma appunto perchè non sono collegati tra di loro è logico e giusto che ciascun capitalista pensi a sè solo!... — Poi scrollò le spalle. — Ma io son ben ingenuo a risponderle. Lei non parla sul serio. Io non discuto più nè con chi manca di sincerità, nè con chi manca di senso morale. Alberto si scosse. — Mi spieghi — disse con accento quasi di comando — perchè manco di senso morale. — E hai bisogno che te lo spieghi! Ma è perchè non comprendi, non senti che non si potrebbero attuare le tue idee senza commettere un’odiosa spogliazione, senza violare il più sacro diritto. — Quale «più» sacro diritto? C’è qualche diritto superiore a quello che ha la società di modificare i propri ordinamenti? Lo stato moderno non è forse fondato sul diritto delle maggioranze? Chi si potrà opporre alla maggioranza quando essa vorrà valersi di questo suo diritto per la revisione del diritto di proprietà? — Non alteri il senso delle parole, signor professore di letteratura; non si tratterebbe di revisione; ma d’una vera e propria spogliazione delle classi abbienti. — Adagio un po’.... — entrò a dire il Cambiari, con viso d’innocente — non si tratterebbe che di riscattare, io credo. Ai capitalisti espropriati si farebbe un pagamento rateale in forma di mezzi di godimenti.... per un tempo da convenirsi.... — Buffonate! — rispose il suocero, perdendo la pazienza. — Chiamate almeno il latrocinio col suo nome! — Latrocinio? — domandò Alberto, con quanta calma gli fu possibile. — C’è latrocinio, c’è spogliazione quando si toglie a un cittadino ciò che possiede, in onta alla legge che glielo guarentisce. Ma quando la legge si muta, quando lo si espropria in virtù della legge stessa, in nome d’un interesse pubblico superiore al privato, dov’è il latrocinio? — Dov’è il latrocinio? Ma con che faccia...? Ma sarebbe un latrocinio tanto più sfacciato, tanto più odiosa perchè fatto colle leggi e coi carabinieri, senza possibile difesa! Ma il tuo _senso morale_ non te lo dice? Ma con chi parlo, alla fine? — E io mi rivolgo al «suo» senso morale, alla sua coscienza di cittadino e di patriotta. Ma la storia degli ultimi secoli, lei lo deve sapere, non è che una storia di continue spogliazioni, fatte in nome del bene pubblico. La monarchia ha spogliato i grandi feudatari, la borghesia ha spogliato l’aristocrazia e il clero, l’Italia ha confiscato il patrimonio ecclesiastico, l’America ha espropriato i possessori di schiavi. Ma noi saremmo ancora al Medio Evo, se non si fosse fatto tutto questo! — Non barattar le carte. Qui non si tratta d’una espropriazione, tu lo sai; si tratta di una spogliazione, d’una ruberia universale, perpetrata per fondare uno stato di cose che nulla assicura debba esser migliore del presente, che tutto fa presagire peggio mille volte. Qui si tratta di rubar tutto ed a tutti! — No, non _rubare_, ma riprendere; non a tutti, ma ad un’infima minoranza, a una piccola casta, che senza il popolo non può sussistere, e di cui il popolo non ha più bisogno. — Non dire castronerie: non è una casta, poichè tutti vi possono entrare. — V’entra uno su mille; e intanto essa sfrutta ed opprime tutti quelli che ne restan fuori. Il suocero fece uno sforzo manifesto per frenarsi, passandosi una mano sulla fronte, e cercando a un tempo un’idea, una frase che troncasse la discussione in un modo onorevole per lui, senza essere una troppo grave provocazione. E in quel mentre, tra il mormorio vivace di tutti, il cavalier Bianchini, tutto sossopra, diceva piano ai vicini: — Alberto passa il segno.... passa il segno.... Ma anche il commendatore è un po’ duro.... Parla con un tuono.... Che cosa crede alla fine?... Ma Alberto passa il segno.... — E sballottato fra gli argomenti contrari, desiderava insieme che il figliuolo avesse il disopra, per onor del suo nome, e che il commendatore la finisse con una ragione vittoriosa, per esser rassicurato sull’avvenire della società. Tremò, vedendo che quegli si moveva per uscire, senza dir nulla. Ma arrivato a un passo dall’uscio il commendatore si arrestò, e voltandosi verso Alberto, gli disse con una ostentazione di pacatezza che il tremito della bocca smentiva: — Senta, signor professore. Il modo di rifare la società non l’hanno ancor trovato nemmeno i socialisti. Se l’avessero trovato, sarebbero già padroni del mondo, perchè gli interessati a crederci e a seguirli sono la maggioranza. Se non riescono a tirar questa con sè, è perchè non possono persuaderla delle loro idee. E non solo la maggioranza non n’è persuasa, ma non ci arriva neppure col pensiero. Il popolo non si moverà mai, ne sia certo, per una dottrina che non capisce. — Non la capisce per ora — rispose Alberto — non perchè non sia chiara e logica, ma perchè egli è ignorante. Ma l’ignoranza va scemando. La capirà tra poco, e capire ed essere persuaso, esser persuaso ed agire, agire e vincere, saranno per lui una cosa sola. Il suocero s’imbrunì. — È quello che si vedrà — disse avviandosi di nuovo per uscire. — Provatevi! La società è più solida delle vostre teste, e voi ve le spezzerete come contro un muro di granito. — Così si diceva anche prima della rivoluzione francese. Il commendatore tornò indietro vivamente: — Il confronto è insensato. L’ordinamento attuale è ben altrimenti forte che il governo francese dell’89, e l’impresa del socialismo è tutt’altra, perchè vuol rovesciare l’edifizio dalle fondamenta. La proprietà assalita sarà ancora la più grande forza del mondo. Avrete una Vandea che vi sterminerà come uno sciame d’insetti. — Ci ho i miei dubbi! La borghesia è divisa, scettica e sfibrata. E poi, badate, l’esercito dei vostri futuri eroi s’assottiglia di giorno in giorno, poichè in tutti i campi della proprietà i grossi vanno mangiando i piccoli, e questi passano dalla parte opposta. Già tutto lo strato inferiore della borghesia non ha più nulla da perdere ad abbandonarla. — Oh! basteranno a difendersi quelli che rimarranno, con un fucile da una mano e uno scudo dall’altra! — Sarà troppo tardi per offrir lo scudo. — E allora v’ammazzeranno senza offrirlo. — Ah! Non oserete nemmeno di barricarvi in casa! A quelle parole, seguì un improvviso mutamento sulla faccia del vecchio: egli guardò il giovane con un’espressione di viva curiosità, poi gli s’avvicinò, e gli domandò con un accento di comica commiserazione: — Ma chi t’ha messo su? Con chi pratichi? Chi ti ha attaccato questa peste? — Il socialismo non è una peste — rispose Alberto, sdegnoso, — è la guarigione d’una peste, della peste dell’egoismo, che ci accieca e c’infradicia tutti. Nessuno m’ha messo su. Non ho avuto bisogno d’istigatori per diventare un galantuomo. L’ultima frase fu come un pugno nel petto al commendatore, che diede un passo indietro, livido, e poi scoppiò, balbettando dalla rabbia: — .... Ah! sei diventato un galantuomo.... Questo vorrebbe dire.... Il socialismo è la guarigione.... Te lo dirò io che cos’è il socialismo! È la malattia dei cervelli dissestati e incompresi, è la maschera delle ambizioni malsane.... in voi altri; e negli altri sai che cos’è? È l’orrore del lavoro, è la frenesia dell’invidia, l’odio di ogni superiorità, il furore di godere a ufo, lo scatenamento di tutte le più basse passioni e di tutti i più tristi istinti, che tendono a sopprimere la responsabilità personale, a cancellare ogni dovere, a onorare il vizio e a giustificare il delitto. Ecco che cos’è il socialismo. E ora ho finito. Mentre egli parlava, tutti gli s’affollarono intorno per quetarlo cercando di prenderlo per le mani o pei panni, di modo che, all’atto di rispondergli, Alberto si trovò solo in mezzo alla sala, come se combattesse contro tutti; e così ritto e risoluto in quella solitudine, col capo biondo che pareva d’oro, con la fronte alta e accesa, era bello di tutta la generosità della sua passione e di tutta la grandezza del suo ideale. Ma mentre tutti s’aspettavano una risposta fulminea, rimasero stupefatti al vedergli gli occhi inumiditi, all’udir la sua voce raddolcita a un tratto, e quasi supplichevole. — Ma come è possibile? — disse con profonda commozione, battendosi una mano sulla fronte. — Io non capisco! Ma perchè v’infuriate tutti a codesto modo quando s’esprime la fede in un miglioramento del mondo? Come non sentite che, se anche l’idea è erronea, la passione è nobile e santa? Come mai il cuore non vi dice nulla? Che cos’è quest’astio, quest’ira implacabile contro chi cerca il bene e difende i deboli e vuol scemare la miseria, il dolore, l’odio, il delitto? Mai, mai che v’esca un grido generoso dall’anima! O perchè fate battezzare i vostri figliuoli nel nome di Cristo? A quel punto sua sorella si spiccò dal gruppo degli uditori e gli si slanciò al collo d’un salto. — Ah! brava! — esclamò la Luzzi. Ma la madre la tirò indietro con uno strappo, e le disse piano in viso: — Ridicola! Irritato anche più da quell’atto, il commendatore, asciugandosi la fronte col fazzoletto come dopo un assalto di scherma, rispose ad Alberto: — Se tu credi di mutare il mondo con delle tirate di sentimento!... — E finì di versare tutta la sua compassione in una parola: — .... Poeta! — Piglio atto della parola ingiuriosa, — ribattè Alberto con un sorriso amaro. — Ma se non salveremo il mondo noi col sentimento, lo condurrete alla rovina voi con la vostra ostinazione, con la vostra negazione eterna, col vostro inesorabile egoismo di classe.... — Siete voi, che lo trascinate alla rovina — gridò il suocero, rifacendo il viso torvo — voi col lavorìo infernale che fate tra le classi povere per renderle tanto più malcontente quanto più la società si sforza di migliorarne lo stato, voi che pervertite il popolo adulandolo, ubriacandolo di illusioni e stillandogli il veleno nel sangue! Voi, le serpi che noi ci scaldiamo nel seno! — Ebbene, credetelo pure, è forse meglio così. Così voi date ragione ai violenti, secondo i quali non si può ottener nulla che con la forza, e convertite in violenti anche i miti. Provocate la forza, la subirete. — Anche delle minacce! — Non occorreva più altro! Ma per fortuna, signor genero, c’è ancora della polvere e del piombo! — Non li avrete sempre. — Questo è un pensiero scellerato! — E il suo è sanguinario e inumano. Tutti s’interposero; ma il commendatore era fuori di sè, si sciolse da tutti, si slanciò verso Alberto e mettendogli il viso contro il viso, pallido e convulso, gli gridò in faccia con un riso stridente di disprezzo: — Ah! Povero mentecatto! — No, no, papà! — gridò la signora Giulia quasi piangendo e mettendogli una mano sulla bocca. Alberto rimase muto, immobile, bianco. Il suocero se n’andò a passi impetuosi in mezzo a un gran disordine, a un mormorio di esclamazioni, di preghiere e di commenti; e un momento dopo, approfittando della confusione che durava ancora, se ne andò anche Alberto, seguito dal ragazzo spaventato e dalla moglie tremante, senza badare a suo padre che lo chiamava, trinciando l’aria con dei gesti di naufrago, fra le condoglianze degl’invitati. Un giovane perduto. (Dialogo fra due signori ultra cinquantenni, un cavaliere, e un.... pedone, che si rivedono dopo molti anni, in casa del primo: seduti di qua e di là da un tavolino, sul quale fra due bicchieri a calice, c’è una bottiglia di vin di Madera.) PEDONE (bevendo un sorso). — Mi rallegro, mi rallegro davvero di ritrovarti sano come una lasca. E il tuo figliuolo, che vidi ragazzo? Sarà un uomo. Che cosa fa? L’avrai ancora in casa, m’immagino. CAVALIERE (rannuvolandosi). — Non me ne parlare. P. (ansioso). — Che cosa vuoi dire? C. — Cosa voglio dire?... Una cosa che non vorrei dire, caro mio. Tu sai l’adorazione che avevo per quel figliuolo unico; sai quanto ho fatto per dargli una buona educazione, per istillargli dei buoni principî, per metterlo sulla buona via.... Ebbene (emettendo un profondo sospiro), è diventato un socialista! P. (dà un balzo sulla seggiola; poi, dissimulando un sorriso sotto l’aspetto grave). — O che mi dici?... Era un così buon figliuolo! Vorrai dire: un filantropo, come si diceva una volta; un socialista cristiano, come si dice ora; in somma, un socialista platonico.... andiamo. Ebbene, e con questo? Chi non l’è a vent’anni, ai tempi che corrono? C. — Ah no, pur troppo, amico mio! È un socialista socialista, un militante, come dicono, un iscritto al partito, un propagandista, un’ira di Dio. Ah, non me ne parlare, te ne prego. Tu tocchi una piaga che sanguina. Un giovane perduto! P. (pensieroso ma con un sorriso sulle labbra). — Diavolo!... diavolo!... Ed era così buono e affettuoso! Chi gli ha pervertito il cuore? C. (guardandolo). — Non dico che abbia il cuore pervertito. No. È sempre quello.... in fondo. Non ho da lagnarmi di lui.... da questo lato. P. — Non ti manca di rispetto? Non s’è mutato con te? C. — Ma no, nonostante.... perchè puoi immaginare le battaglie che abbiamo avuto e che abbiamo di continuo, a ogni proposito.... No, proprio, a dir la verità, egli ha sempre mantenuto nella contraddizione una buona maniera, una temperanza, dirò anche.... uno spirito di conciliazione.... Perchè di natura è buono. Sto per dire che quanto a bontà.... Tira a convertirmi con la dolcezza, capisci? Ci vuole una bella ingenuità.... e una bella faccia, ti pare? P. — Ma, in somma, s’è rovinata la carriera: questo è quel che vuoi dirmi. C. — La carriera per esser giusti, no. Ti debbo dire una cosa, che forse immagini. Tu sai che, se non altro, egli ha il pane assicurato per l’avvenire. Ho voluto che studiasse da avvocato, per avere un titolo. Mi contentò. Ma, ti dico il vero, m’ha sempre spaventato l’idea di vederlo buttarsi alla caccia della clientela in mezzo a una banda di concorrenti affamati. Gli dissi: — non esercitare l’avvocatura; lascerai il posto a un bisognoso; purchè tu studi, purchè ti appassioni per qualche scienza e ti proponga uno scopo alla vita; a me basta. — Ebbene, è questo appunto che mi danna! Che si dia al socialismo uno di quei figliuoli di famiglia spiantati che ci hanno qualcosa da guadagnare e nulla da perdere, lo capisco; ma lui, che non aveva nulla da desiderare, che non può sperare di migliorare la propria sorte.... o come s’è potuto buttare per quella maledetta via? Come s’è potuto dare alla macchia? P. — Ho capito. Tu volevi almeno che studiasse. E mena una vita scioperata. Il socialismo, per lui, è un pretesto della fannullaggine. C. — Non dico questo. Eh, se non fosse che lo studiare. Non ha mai studiato tanto. È sempre lì al chiodo, col capo tra i libri e gli opuscoli, che gli fanno un monte sul tavolino, e ne raccatta di nuovi ogni giorno. Si scervella sopra una quantità di quistioni impossibili a risolvere. Questioni utili, non nego, importanti, se si vuole; ma superiori alla sua età, e pericolose, che gli montan la testa. Oh, per questo.... ha delle cognizioni; tanto che mi trovo spesso impacciato a discutere, non perchè mi manchino le buone ragioni, s’intende; ma perchè non so citare le autorità, mi capisci?... E lui cita come un quaresimalista. P. — E allora?... Ah, ho inteso. Ti spilla molti quattrini! C. — Molti, no; ma.... troppi. P. — Ah! ah! I quattrini per la santa causa! Già si capisce. E li spillerà sotto altri pretesti. C. — Ma che! Tu vedessi che disinvoltura. Non cerca pretesti. Credi tu che ha il coraggio di dirmi: — Ho bisogno di tanto per le elezioni — per gli scioperanti — per il giornale — per il diavolo che li porti. Ma con una mutria, ti dico, e una voce, che non c’è modo di rifiutarglieli, come se chiedesse la sua parte di pane. F. — Intendo, è irritante. C. — Irritante? Che io debba dar dei quattrini per rifornir la cassa a un partito che vuol mandar per aria me, l’aver mio e tutta la baracca? Tu sei indulgente. È mostruoso e intollerabile! P. — Già; tu preferiresti quasi quasi ch’egli spendesse i tuoi denari al gioco, o in vino di Champagne, con le ragazze allegre: di’ la verità? C. — Quasi.... P. — Ebbene, non dubitare! Chi sa quanti di quei denari vanno in quella maniera! C. — Eh, no.... Per questo, ci metterei una mano sul fuoco. Lo capisco da tante cose. Ho l’occhio esperto. Questo no, vedi; ne sono certo come della luce del giorno. P. — O dunque?... Ah, ho capito, finalmente. Tu temi per l’avvenire, quando avrà il patrimonio fra le mani, che lo spoglino, che profonda tutto, e che si trovi poi ridotto nelle strettezze, in una condizione che gli riuscirà doppiamente dura dopo esser vissuto tanto tempo nella bambagia. Ti sgomenta, per lui, lo spettro d’una povertà, che lo potrebbe mettere sulla mala via.... C. (dopo aver pensato un po’). — Ecco.... senti. Da questo lato, per esser sincero.... È una cosa curiosa. Per un tempo ebbi timore. Fra i quindici e i diciott’anni aveva preso l’andare d’un figliuol di ricco; una tendenza alla vanità, la gola lunga, non mai contento di nulla in casa, di cattivi modi con le persone di servizio che se ne lagnavano. (Ridendo) Non sai che poi, per qualche mese, ha spinto la pazzia fino a non voler che la serva gli lustrasse le scarpe! Pazzie, vere ridicolaggini, come quella che suo padre, ancor adesso, debba leticar con lui per fargli fare un cappotto nuovo. E lo stesso è a tavola, dove si contenta di tutto, come un frate questuante. Strano davvero! Oh, quanto a questo, te l’assicuro, io che temevo una volta che, ridotto al bisogno, non sarebbe stato capace di rassegnarsi e di fare dei sacrifici, io, vedi, adesso, sono fermamente persuaso che, se mutasse la sua fortuna, egli s’adatterebbe a qualunque condizione di vita, allegramente senza un rimprovero al mondo, come se ci fosse sempre vissuto. P. — Ma dunque? C. — Ma dunque! Ma lavora a scalzare la società, ma si compromette, ma fa professione d’una dottrina falsa e fatale. Non sai che parla perfino nei comizi? P. — Poh! _Verba volant_. C. — Ma disgraziato! scusa la parola. Ma scrive anche per le stampe! Pazienza se parlasse soltanto. Scrive articoli.... su quei giornali!... P. — Sciocchezze, m’immagino. C. (dopo un po’ di esitazione). — Senza dubbio; ma..... Eppure, vedi, a parte le ragionacce.... Anzi, è quello che più m’addolora. C’è qualche cosa in quei deplorevoli articoli ch’io non leggo.... quasi mai. C’è dell’ingegno.... male speso. Ti dirò che, ai primi che lessi, rimasi stupito. Non mi parevano roba sua. Alle scuole non s’era mai distinto. Tu capisci: sono scritti.... notevoli, che rimangono, che gli potranno essere rinfacciati.... P. — Eh, via, non te ne dar pensiero. Sai quello che io penso del tuo figliuolo? Che non è persuaso, come non lo sono tanti altri. Il socialismo ora, per i giovani, è quello che era la lirica in altri tempi. Bisogna che tutti ci passino. È una malattia passeggiera. C’entra in gran parte la vanità, la smania di far l’originale, di ribellarsi a chi li tiene in briglia, e di levar rumore. Io mi son fatto l’idea che il tuo figliuolo è un carattere leggiero e volubile, che rivolterà la giubba tutt’a un tratto, quando meno tu te l’aspetti. C. (quasi risentito). — Leggiero, volubile! Tu non lo conosci. Ma è la tenacia, è l’ostinazione in carne e ossa, un tutt’altro capo da quello che era. Ma tu non sai che hanno tentato tutti i modi di ricondurlo alla ragione, e parenti, e amici, e persone autorevoli, e.... belle signore, ed è stato come dar del capo in un macigno. Ah, lasciamo questo discorso. Tu non sai i dolori che m’ha dato, e io solo presento quelli che mi darà: È un giovane perduto! P. — Già, comincio a capire.... anche perchè, m’immagino, vivrà in una classe sociale inferiore, avrà delle cattive pratiche.... Bazzica dei soggettacci, di’ un po’? C. — Non dico.... Non posso dire, almeno, perchè ne vedrei gli effetti, non è vero? nei suoi sentimenti, nei suoi modi...... anche nel suo linguaggio. Ma, tu capisci: naturalmente, logicamente, per sentimento del proprio decoro, ognuno dovrebbe restringere le proprie amicizie nella classe sociale in cui la sorte l’ha posto. Ma lui! Ma figurati che quando usciamo insieme mi capita qualche volta d’incontrare un gassista con l’accendilume in mano, un muratore con la giacchetta sulle spalle, o anche un ciabattino col grembiule di cuoio, che passandoci accanto, gli dicono: — Buon giorno, buona sera — sorridendo, senza toccarsi il cappello, come a un amicone. Tu intendi: gente che ha conosciuto nelle congreghe. P. — Intendo benissimo: questo t’offende. C. — Dio mio! Non dico che m’offenda. Son liberale, rispetto i lavoratori, non faccio differenza fra le classi. Ma ci sono dei sentimenti, delle consuetudini sociali.... E mi tocca di vederne d’ogni sorta. Figurati; viene tempo fa un operaio ad accomodare una stufa. Gli dico: — Fate così — vuol fare a modo suo. Ribatto, s’inasprisce; insisto, alza la voce. Capita il mio figliuolo: quello fa un atto di sorpresa: lo conosceva, ma non sapeva d’esser venuto in casa sua. — Buon giorno, compagno! — Compagno!! E si stringon la mano! Sotto i miei occhi! Cose d’un altro mondo. Ma che! Non ci può esser altro mondo che questo in cui segua a un padre di far di queste figure! P. — E, naturalmente, quello ne profittò subito per rialzare la voce con te.... C. — No, anzi.... mutò tono e fece a mio modo, chiedendomi scusa. Ma, tu capisci, io non potei disfare lì per lì la faccia d’imbecille che m’avevan fatto fare. A questo ci ritroviamo! _Compagno_! Ah, questa è enorme! P. — Ah! ora ci sono. Ecco. A te rincresce che egli viva tra quella gente perchè ti pare che dalla piccola popolarità che ha fra di loro ricaschi su di te, sul tuo nome, davanti ai tuoi amici e conoscenti.... un cattivo riflesso; poichè, già, m’immagino che avrai avuto dei dispiaceri.... che ti tireranno delle satire, delle impertinenze, fors’anche. Dev’essere doloroso, in fatti, sentirsi dire sulla faccia: — O come mai un galantuomo sensato come lei può esser padre di un tipo di quella fatta? C. (scattando). — Oh questo, perdio, nessuno me l’ha detto mai, nè me lo lascierei dire. Che gli diano dell’illuso, del.... fuorviato, lo posso tollerare; ma che ne parlino con disprezzo, mai al mondo! Il mio figliuolo è un giovane onesto, buono, generoso. Alto là, amico mio! L’avvertimento è anche per te. P. — Ma allora, scusami tanto. Stringiamo i conti. A questo ragazzo non s’è guastato il cuore, non è scemato l’affetto e il rispetto per te. Si occupa con passione di studi, come tu li riconosci, importanti. Non ha vizi. Si è ridotto a una semplicità di gusti e di vita che ti rassicura riguardo al suo avvenire, comunque gli si possa voltar la fortuna. Manifesta una forza di volontà, una fermezza di carattere che prima non aveva. Si fa benvolere dalla gente che lavora e che tu rispetti. O perchè dunque lo chiami un giovane perduto. Mi par piuttosto un figliuolo _ritrovato_! C. (balzando in piedi, mette una mano sulla spalla all’amico e lo guarda negli occhi). — O dimmi un po’: m’avresti forse preso giuoco fino adesso?... E mi nasce un sospetto: — avrebbe dato di volta il cervello a te pure in questi anni che non ci siamo più visti? Eh? Saresti diventato socialista? Rispondi! P. (dando una risata e alzandosi). — Io socialista! Ma tu sei matto nel mezzo del cervello. Poichè t’è entrato il rosso in famiglia, vedi rosso da tutte le parti. Andiamo! beviamone un altro bicchiere e cacciamo le malinconie. (Mesce.) C. (racquetato). — Alla buon’ora! P. (toccando il bicchiere). — Bevo alla tua salute, vecchio amico, e ti auguro quello che tu desideri: che il tuo figliuolo, fra poco o molto, cadendogli la benda rossa dagli occhi, si ravveda e ritorni sulla buona via, dopo aver fatto una apostasia pubblica e solenne, che a te renda la pace per sempre e metta lui per l’avvenire nell’impossibilità assoluta di riconvertirsi. Non è vero che è quello che desideri? Che s’egli facesse questo domani, ne saresti felice? C. (tace, facendo ballar nella mano la catenella dell’orologio). P. (dopo averlo guardato di sott’occhio con uno sguardo acuto e sorridente). — Aspetto la risposta. C. (impacciato). — Sì, naturalmente.... Però.... non ci sarebbe bisogno d’un’apostasia «pubblica e solenne». Non occorre di far tanto chiasso per rimetter la testa a partito. Ma già, (rinfrancato) quello che tu dici è impossibile! P. — Oh diavolo! Hai detto la seconda parte della risposta con accento più soddisfatto che la prima. C. (impazientito). — Oh come sei diventato sottile, pedante, sofistico! Già è sempre stato il tuo difetto. Sarebbe stato meglio che non t’avessi detto nulla.... E sarà anche meglio che cambiamo discorso. (Una scampanellata. Si rasserena ad un tratto.) Zitto! È lui. Non accennare ai nostri discorsi. Non lo vedo da stamattina presto. Che cosa vuoi? da un pezzo in qua, siccome son sempre un po’ inquieto quando è fuori, provo una certa commozione ogni volta che rientra. Povero ragazzo! Aspetta un po’; non mi posso tenere dall’andargli incontro. (Si slancia fuori.) P. (seguitandolo con gli occhi a sorridendo). — Lo chiama _andare_! Mi par che sia un _correre_. (Dandosi una fregatina alle mani) Ed è perfettamente illuso il buon uomo. Non ha proprio coscienza di stimarlo di più e volergli più bene di prima perchè.... è un _giovine perduto_! Un borghese originale. Se ne può parlare pubblicamente perchè è morto. Era un bell’originale. Per esempio, accettava in massima la parte critica della dottrina socialista, e la sosteneva, con grave scandalo dei suoi amici borghesi e conservatori, quasi tutti avanzati negli anni come lui. Qualcuno gli domandava: — Perchè, con codeste idee, non vi dichiarate addirittura socialista? — Perchè — rispondeva — non sono persuaso della possibilità del collettivismo. — E allora — ribattevano — perchè non lo combattete? — Perchè — rispondeva — non sono persuaso che sia impossibile. Allora saltavan su, accusandolo di contraddizione. — No, — rispondeva tranquillamente — non son persuaso della possibilità del collettivismo, ma vedo che tutto vi tende, e perciò dubito. — E faceva suo proprio il ragionamento d’un illustre accademico francese, Anatole France, una testa quadra. — Noi possiamo argomentare presso a poco l’avvenire della società da quello che conosciamo del suo passato; argomentare dalle condizioni in cui certi fenomeni sociali si produssero le condizioni in cui si produrranno ancora. Considerando certi ordini di fatti che vediamo incominciare al presente e paragonandoli a certi ordini di fatti analoghi già compiuti, ne possiamo indurre che i primi avranno un compimento simile a quelli che ebbero i secondi. Non si tratta che di «prolungar col pensiero nell’avvenire le curve che si disegnano al presente sotto i nostri occhi». Dove pensate che conduca la curva già percorsa dalle forme del lavoro, dalla schiavitù al servaggio e da questo al salariato? E quella dalla piccola proprietà artigiana ed agraria al capitale industriale? E quella dal riscatto delle servitù feudali al riscatto dei mezzi di produzione? E quella dagli antichi servizi privati agli attuali grandi servizi dello Stato? Tutte queste curve tendono innegabilmente al collettivismo. — Ma non v’arriveranno mai — gli obbiettavano. — Non lo so —, rispondeva —; ma d’una cosa son certo: che se non v’arriveranno mai, vi tenderanno sempre. Ora basta riconoscere, e non si può far di meno, che il cammino della società è e sarà sempre diretto verso il socialismo, sia pure per non mai raggiungerlo nella piena attuazione dei suoi principii; basta il riconoscer questo per non potere logicamente esser conservatori quali voi siete. Del socialismo siete avversari assoluti perchè «non prolungate col pensiero le curve dei fatti sociali di cui siete spettatori». Prolungatele, e sarete se non altro giudici più sereni ed equi del movimento presente. Questo era il fondamento del suo sistema d’idee. E a chi gli diceva che se nella sua classe avessero avuto predominio quelle idee si sarebbe mutato in precipizio il cammino della società immatura, dava la risposta d’un celebre uomo di Stato contemporaneo: — Non lo credete. L’umanità non si lascia far violenza. Essa resiste del pari alla stupidità cieca che le vorrebbe chiudere la strada e all’ardimento incauto che tenta di trascinarla d’un passo troppo rapido sulle vie rischiose dell’avvenire. Essa va lentamente, obbedendo a leggi mal conosciute, ma inflessibili. Essa dispone dei secoli, e noi non abbiamo che un giorno: di qui gli urti fra l’uomo e l’umanità. Tutto quello che per noi è sobbalzo, scossa terribile, perturbazione distruttiva si perde, nell’insieme, in un andamento facile e piano. Quando sentiva inveire contro gli agitatori, e citare le loro intemperanze e i loro spropositi come argomenti contro le idee ch’essi propugnano, scrollava le spalle. Era insensato, secondo lui, il pigliarsela con gli agitatori delle moltitudini. E pensava anche in questo come un uomo di Stato insigne. Essi operano per impulso di forze che son fuori della loro volontà, nè più nè meno che i governanti, la cui azione è piuttosto l’arte di seguire che quella di dirigere. Per indole possono essere più o meno temperati, più o meno ragionevoli; ma sono perchè bisogna che siano, perchè sono un portato del loro tempo. L’inesorabile legge del mondo vuole che noi non possiamo riuscire a nulla di bene senza far per la via molto di male. Egli credeva che se di queste verità tutti fossero stati persuasi, tutti i conflitti sociali presenti sarebbero stati grandemente attenuati, poichè quella persuasione avrebbe indotto le classi superiori a innumerevoli piccoli atti di condiscendenza, di benignità e di cortesia: di poca importanza ciascuno per sè, ma, nella somma loro, d’un effetto benefico immenso. Dalla mancanza di quella persuasione nasceva, secondo lui, una mala disposizione d’animo, che inaspriva tutte le difficoltà; e di questa mala disposizione egli diceva d’avere una prova nel sentimento che destava in tutti i suoi amici la vista d’ogni moltitudine popolare che passasse per la via, anche col solo intento d’una dimostrazione pacifica. Il loro primo sentimento era sempre di repulsione e d’inquietudine come se in quella folla non vedessero che i suoi peggiori elementi (elementi che in ogni agglomerazione di gente d’ogni classe, in forme diverse, si trovano) e le immagini di quanto di peggio può fare una folla sfrenata. Perchè non ci vedevano di preferenza la somma enorme di lavoro quotidiano, faticoso, tedioso, pericoloso pure, e utile e necessario, che ogni moltitudine di popolo rappresenta, e l’incertezza continua dell’avvenire, e le privazioni abituali, e le mille virtù, che pur ci sono, di rassegnazione, di coraggio, di costanza, di carità famigliare e di sacrificio fraterno? Perchè non pensavano che, sotto l’apparenza del prepotere del numero, quella moltitudine è ancora, nei conflitti sociali, la parte più debole, e quella che più soffre, delle due parti contendenti? Manifestava pure idee singolari riguardo agli scioperi. A ognun di questi si maravigliava che la prima parola dei suoi amici fosse sempre di disapprovazione. Si maravigliava dell’accusa di «incontentabilità» che essi facevano alle classi lavoratrici in una società dove la più parte degli arricchiti s’affanna e si stronca e si danna l’anima per arricchire ancora. E qual classe sociale, in qualunque tempo, fu mai contenta del proprio stato? E non è il malcontento, congenito all’anima umana, che ha fatto progredire il mondo? Non saremmo ancora allo stato selvaggio se il malcontento universale non fosse? E chi può ragionevolmente, onestamente pretendere o desiderare che la società rimanga immobile nello stato presente? E quanto alla consuetudine, che notava intorno a sè, in occasione d’ogni sciopero, di dar torto ai lavoratori, domandava: — Che ne sapete, nella più parte dei casi? Conoscete la quistione nei suoi dati numerici? In ogni modo, non potete negare che siano in buona fede, perchè non potete supporre che si deciderebbero mai a quel passo se non credessero fermamente di chiedere un vantaggio che si può loro concedere. E a chi gli diceva: — Ma ci son dei giornali del partito che approvano tutti gli scioperi — rispondeva che ce ne son altri, d’altri partiti, che non ne approvano nessuno. E ne citava parecchi in cui, nei vent’anni da che li leggeva, non si ricordava d’aver mai trovato una parola di consenso o di simpatia neppure per gli scioperi ai quali era stata più apertamente favorevole l’opinione pubblica. E a questo proposito diceva uno sproposito inaudito: che, secondo ragione, anche i giornali dell’ordine, quando credevano uno sciopero giustificato, avrebbero dovuto aprire una sottoscrizione per sostenere il buon diritto dei lavoratori. Immaginate, domandava, quanto maggior autorità avrebbe la stampa quando condanna gli scioperi se li aiutasse quando li approva? Non vedeva però torti ed errori da una parte sola. Biasimava la fungaia dei piccoli giornali, che per insufficienza di cultura dei redattori facevano dell’Idea socialista una propaganda non degna, e quindi perniciosa all’Idea medesima, non foss’altro che per la soverchia presa che offrivano al dileggio degli avversarii. Poi: che i socialisti combattessero il fanatismo e la superstizione riconosceva logico e necessario; ma che mirassero a sradicare ogni sentimento religioso, egli, benchè non credente, giudicava un errore esiziale alla loro causa. Oltrechè il sentimento religioso era radicato nell’animo umano a una profondità a cui la loro forza non poteva arrivare, essi, predicando la miscredenza, alienavano da sè gli animi inclini alla fede, sgomentavano la donna, davano un’arma potente di reazione in mano agli avversarii, mettevano un impedimento di più, e formidabile, sul proprio cammino. Le loro vittorie, in questo campo, non potevano essere che effimere. Ben più avvisati erano stati quelli che, da principio, della dottrina cristiana facevano leva all’idea socialista: la loro propaganda era stata ben altrimenti efficace, in special modo fra il popolo men culto. E così disapprovava nella stampa socialista l’abitudine del linguaggio violento, la quale toglieva forza alla sua parola in tutti quei casi in cui l’indignazione dell’animo e la violenza del linguaggio sono giustificate, e non lasciava distinguere alla moltitudine le menti culte e forti, che pensano e ragionano, dagli spiriti leggeri, in cui la passione nasconde il vuoto delle idee e l’assenza della logica; non solo, ma dava modo a questi di prevalere. Quella violenza abituale, a suo giudizio, eccitando gli animi oscurava le intelligenze, radunava intorno all’Idea ire fugaci, ma non coscienze ferme. Chi si fa più ascoltare non è chi grida; lasciando che a gridare non si regge un pezzo. La vera forza è nel ragionamento tranquillo e lucido. Egli avrebbe voluto che la stampa socialista desse l’esempio della dignità e della correttezza: parlando più dall’alto si sarebbe fatta sentir più di lontano. E lo diceva ai pochi amici che aveva da quella parte. Disse una volta a uno: — Dici delle cose giuste; ma urli come uno che sappia d’aver torto. — E a un altro, che in occasione d’uno sciopero raccomandava la calma: — Come vuoi che sia calma oggi della gente che tu ecciti tutto l’anno? Parlava spesso dell’educazione del popolo. Una volta, in un crocchio, fece una tirata curiosa contro un tale, che aveva lanciato nella discussione, come argomento decisivo: — Il popolo non è educato. — Conosco — disse — una sola arguzia del generale Boulanger, che mi pare felicissima. Egli scrisse: — Sento sovente padri e madri trattare i loro figliuoli di maleducati, e in questo hanno pienamente ragione. — Male educati, sì; ma da chi? Così si può dir del popolo. Che avete fatto, che fate per educarlo? Gli danno esempio di moralità le classi superiori corrotte, affamate del superfluo quanto i poveri del necessario? Gl’insegna la dignità e la moderazione il Parlamento? E la fede nella giustizia la Magistratura? E il culto degli Ideali la Borsa? E come gli potete rimproverare la mancanza di quell’istruzione, di cui tanti di voi hanno paura? E vi par proprio che egli non sia all’altezza dell’insegnamento primario che gli date? Che cosa fate per distruggere in lui la superstizione che sterilizza ogni buona sementa? Che cosa fanno per lui gli scrittori? E i grandi giornali, diventati oramai la letteratura della Corte d’Assise, non più divulgatori soltanto, ma illustratori amorosi dello scandalo e del delitto? Che fate voi individualmente, nei vostri contatti fortuiti o abituali col popolo, con cui non v’intrattenete che per necessità, e il minor tempo possibile, come se parlaste due lingue diverse? E questo per qual ragione se non perchè vi trovate a disagio con lui, sentendo di non aver autorità d’insegnargli nè di promettergli nulla di buono e di credibile? Più spesso esprimeva il suo pensiero in forma epigrammatica. A un amico ricco, che gli voleva dimostrare inattuabile l’Idea socialista perchè fondata sull’ipotesi di virtù collettive impossibili, disse: — Sta bene; ma è proprio questa la ragione per cui combatti quell’Idea con tanto calore? Io ti faccio la famosa ipotesi del Rousseau. Se tu potessi, alzando un dito, creare istantaneamente nel tuo paese lo Stato socialista, con tutte le virtù civili che esso richiede, con tutti i beni che ne deriverebbero al maggior numero e col danno che ne seguirebbe ai tuoi interessi privati, alzeresti il dito? Sii sincero. — L’amico rimase un momento sconcertato; poi rispose: — Sì! — E lui: — Ah, che brutto viso hai fatto, se ti vedessi nello specchio! Ebbene, io son più sincero di te: io non so se avrei la virtù di far quell’atto. — E quella sincerità tolse all’amico il coraggio di ripetere la sua affermazione. Anche scherzando soleva affermare la sua fede nell’avvenire. — Socialisti, conservatori, retrogradi — diceva — siamo tutti come gente affollata sur una di quelle strade mobili di Nuova York, che scorrono fra le case come fiumi. I socialisti possono dividersi e azzuffarsi fra loro, gli altri star a sedere, o dormire supini, o camminare a ritroso della direzione della strada; ma tutti insieme vanno avanti per forza. Per questo io non me la piglio neanche col più arrabbiato nemico d’ogni idea nuova. Dico tra me: — Poveretto! Non se n’accorge, perchè cammina col viso voltato indietro, come quei dannati di Dante che si piangono sulle natiche; ma va innanzi anche lui, come tutti vanno. A un socialista che diceva: — Il socialismo trionferà perchè è la Giustizia! — rispose: — Che idea stramba! Trionferà l’interesse del maggior numero, e sarà bene; ma trionferà non perchè sia giusto, ma perchè avrà con sè la forza, che ora gli manca: l’istruzione, l’educazione, la disciplina. Non c’è ragione al mondo per credere al trionfo della Giustizia, perchè gli uomini non saranno mai più giusti di quello che son ora. Stareste freschi, compagni! Scherzò in questo modo fino ai suoi ultimi giorni. Quando era malato grave, e lo tenevano in vita con l’ossigeno, una sera chiamò improvvisamente i parenti e gli amici, che stavano rosolando il socialismo nella stanza vicina, a bassa voce, ma non tanto ch’egli non sentisse; e disse loro, respirando a fatica: — Prolungate.... prolungate.... Quelli diedero subito mano all’imbuto dell’ossigeno, credendo ch’egli volesse dire: — Prolungatemi la vita; — ma il malato, respingendo l’imbuto, soggiunse con un leggero sorriso —: No.... prolungate le curve.... Fu l’ultimo consiglio politico che diede alla sua classe. Curiosi furono i giudizi che diedero di lui i parenti e gli amici dopo la sua morte. — Un galantuomo, in fondo; ma aveva delle idee così strane! — Un po’ squilibrato, ma buono. — Un uomo d’ingegno e di cuore; ma di quelli che, se fossero in molti, sovvertirebbero il mondo. — Giudizi che provano quanto sia difficile il far con la mente nell’ordine dei fatti sociali quello che è così facile il far con la mano sopra un foglio di carta: prolungare delle linee curve. PARTE SECONDA. PER IL SOCIALISMO. Primo maggio 1904. Oggi tace ogni dissenso e ogni rancore: è giorno di festa e di pace. Oggi noi storniamo il pensiero dal presente e cerchiamo conforto nel passato: passato recentissimo, ma che par già molto lontano, come pare ogni ricordo dell’età più bella anche a chi non n’è uscito che da pochi anni. Il partito socialista, fra di noi, era nel bel periodo dell’adolescenza; nel quale, ad ogni manifestazione pubblica in cui misurasse le proprie forze, appariva cresciuto oltre ogni speranza dei più impazienti. Non c’erano ancora scissure nella sua compagine, nè disordine nelle sue file, nè incertezze nel suo cammino. Non si designavano ancora con un aggiunto ironicamente onorevole quelli che portavano all’opera sua il concorso della cultura intellettuale, per distinguerli, e quasi per separarli da quelli che vi portavano soltanto la forza del numero e della fede: la loro voce era ascoltata da tutti; ma il loro capo non s’alzava al di sopra della moltitudine, e non c’era fronte che ne fosse adombrata. La concordia, la disciplina, l’ardore che spiegava il socialismo nelle lotte elettorali destavano l’ammirazione anche di chi ne temeva gli effetti come una sventura della patria. Molti, anche fra i suoi più fieri avversari, eran vinti da un sentimento di simpatia per quel partito appena sorto, che col suo poderoso giovanile soffio scoteva la sonnolenza della vita pubblica e costringeva ogni altro partito a stringere le file e a difendersi; molti che l’avrebbero voluto disperdere con la violenza, non potevano dissimulare un senso di rispetto per quella «grande illusione» che suscitava tanti entusiasmi in un tempo, in cui ogni altro entusiasmo era morto o moriva, che con vincoli così intimi e saldi legava fra di loro cittadini di classi diverse, divisi fino allora da passioni, interessi, pregiudizi, costumi; e mentre sorridevano palesemente di quei nuovi «compagni» affratellati nel culto dell’utopia, riconoscevano con rammarico, nel segreto dell’animo, che mancava ad ogni altro partito il sentimento e il legame che quella parola esprimeva, sentivano che era espressa in quella parola una idea grande e bella, benchè destinata a rimanere per sempre un’idea; della quale penetrava un vago riflesso anche nella loro coscienza. E il partito dell’illusione cresceva, come un torrente, senza disperdersi, coprendo col suo scroscio sonoro le mille voci paurose e nemiche che s’alzavano lungo il suo corso. E ricordiamo i grandi comizi di quel tempo, dove, più che a discutere e a conciliare opinioni discordi, s’andava a ritemprare nel consenso universale la propria fede. Dopo il periodo dei fervori patriottici non s’erano più veduti esempi d’una così ardente e solenne comunione di pensiero e d’affetto fra cittadini di tutti i ceti. Che importava la valentìa degli oratori? Al deputato succedeva l’operaio, allo scrittore il commesso, al vecchio il giovinetto, al discorso italiano il ragionamento in vernacolo; erano stranamente diverse le forme del linguaggio; ma la voce di ciascuno pareva l’eco della voce di tutti; ad ogni più informe e ingenua manifestazione del pensiero e del sentimento collettivo applaudivano insieme, con lo stesso calore, i colti e gl’incolti; pareva alle volte che le migliaia d’ascoltatori avessero un solo respiro; la moltitudine dava l’immagine d’una società nuova, in cui l’antica divisione delle classi non fosse più che un’apparenza, ultimo resto del passato, sotto la quale già palpitasse la santa fraternità dell’avvenire sognato. E da quelle assemblee uscivano i nuovi convertiti della borghesia, sciolti anche dagli ultimi dubbi, in uno stato di coscienza nuovo, di una serenità sconosciuta prima d’allora; i giovani, occupati da pensieri insoliti alla loro età spensierata; i maturi, ringiovaniti nel cuore e nello spirito; tutti compresi d’un senso di compiacenza profonda, come se nell’adunanza donde uscivano non si fosse soltanto parlato, ma fatto del bene, lavorato a benefizio del mondo, gettato all’avvenire una semenza benedetta di verità, di benevolenza e di giustizia. Poi venne la bufera della persecuzione; ma non fece vacillare, nè divise gli animi: li rafforzò, li strinse, li rinfiammò d’uno zelo più operoso e d’un amor fraterno più intrepido. Tutto l’ardore, che era prima spiegato nella propaganda della fede, si voltò in soccorso e conforto delle sue vittime. Si videro fra queste, e fra le più ingiustamente colpite, esempi di coraggio e di fermezza non meno ammirabili di quelli che la storia del risorgimento nazionale ha tramandati all’ammirazione dei posteri; si videro fra i benefattori più poveri dei compagni prigionieri o esuli, e delle loro famiglie derelitte, esempi di generosità e di sacrificio da ridestare anche negli animi più scettici la stima della natura umana. I perseguitati uscirono dalle prove rinvigoriti di fibra, più ardentemente devoti all’idea per la quale avevano sofferto, più affettuosamente legati ai compagni che anche di lontano eran rimasti congiunti a loro col pensiero e con l’opera. L’aver sofferto per la causa comune era nel concetto di tutti un onore che metteva a paro i più umili coi più alti, e la comunanza dei patimenti risuggellava fra gli uni e gli altri il patto solidale col suggello di un’amicizia fraterna. Era in tutti come un secondo soffio di gioventù, un rinnovellamento della prima fede, purificata. Il partito, piegato per poco da una dittatura brutale, le scattava sotto come una molla potente, lacerando la mano che l’aveva compresso. L’esercito rifatto, ingrossato, fortificato dall’esperienza dell’avversità e del dolore, riforbiva le armi, rialzava la bandiera e riprendeva il cammino. Giorni venturosi, ricordati con rimpianto non da noi solamente; ma anche da molti di coloro che, pur professando altra fede, riconoscono nel movimento socialista una grande virtù vivificatrice del mondo; scaduta la quale, rialzerebbe la fronte il passato. Ma quei giorni ritorneranno. È nella ragion delle cose che quando un partito esce dal campo della semplice propaganda e dell’azione necessaria a costituirsi, a rassodarsi e a difendersi, ed entra in quello più vasto e difficile dell’esercizio politico delle sue forze per conseguir riforme determinate e immediate, nascano nel suo seno dissensi d’opinioni e contrasti di tendenze, che ne sconcertano l’organismo. Nascono i dissensi in quelli che lo ispirano e lo guidano da differenze d’indole, che prima non apparivano, nè potevano apparire nell’azione comune diretta ad un fine unico, a cui non si poteva giungere che per una sola via; derivano i contrasti da diversità di facoltà morali e intellettuali, per cui ciascuno dà la preferenza a quelle forme d’azione, nelle quali ha coscienza di operare con maggior vantaggio altrui ed onore proprio; provengono dal diverso grado d’esperienza politica, onde sono diversamente misurate la grandezza degli ostacoli e la potenza delle forze occorrenti a superarli; e nascon pure da passioni individuali, che, quando svigorisce la passione comune onde erano prima travolte, prendon più forza; perchè non c’è grande causa che affranchi i suoi propugnatori da ogni miseria della natura umana. Ma gli stessi dissensi, e ben più gravi, gli stessi contrasti, assai più violenti, si produssero fra grandi partiti e grandi uomini nell’opera dell’unificazione nazionale, e parvero più volte ai contemporanei indizi d’imminente rovina; e pare oggi a noi, giudici lontani e spassionati dei fatti, che dall’una e dall’altra parte si giovasse egualmente, in opposti modi, alla causa di tutti. E così parrà ai futuri, qual’è in realtà, la crisi presente del partito socialista: elaborazione feconda di idee; lotta di forze intellettuali e morali in cui gl’ingegni e i caratteri si scoprono e si provano; non infermità senile, ma febbre di giovinezza; preparazione, non decadenza. Le divisioni momentanee non rallentano che in apparenza il cammino dell’idea; gli uni vanno per una via, gli altri divergono; ma tutti procedono. Noi abbiamo ferma fede che al sorgere d’un pericolo comune non rimarrebbe in campo che una bandiera, quella intorno a cui si raccolsero le prime schiere; che se anche l’unità si scindesse profondamente per ora, si ricomporrebbe più salda dopo un primo rovescio cagionato dalla scissura. Sono ugualmente legge della vita d’un grande partito, sorto da una idea che non può morire, la tendenza a dividersi e la necessità di ramificarsi. Così un grande fiume, nel suo lungo corso, qualche volta si biforca, e s’allontanano l’un dall’altro i due rami, che lunghe isole boscose separano; ma si ricongiungono più oltre le acque per andar confuse in una corrente all’oceano. Ma perchè ciò avvenga è necessario che nella lotta entrino tutti senza diffidenze e senza mal animo; che ciascuno soffochi nel suo cuore ogni germe di odio, come un principio di tradimento; che nelle controversie non sia mai disconosciuta ad alcuno la libertà della coscienza e la onestà dell’intento; che alla mente di tutti siano presenti sempre l’immagine cara della concordia antica e lo spettro minaccioso del nemico comune, e sopra ogni cosa questo pensiero terribile: che dal perpetuarsi della discordia sarebbe miseramente disperso il frutto d’un lavoro enorme e d’infiniti dolori, e scoraggiato l’animo e contristato il cuore a una moltitudine immensa, che aspetta e che spera. Fermiamo tutti questo proposito in questo giorno di tregua e di festa; sia il 1.º Maggio anche quest’anno la festa della fraternità e della speranza; suoni sulle labbra e nel cuore di tutti con la cordialità antica, si ricambi fra tutti, con la voce e col pensiero, da vicino e da lontano, fra conoscenti e fra sconosciuti, a traverso ogni distanza, con l’affetto dei giorni migliori, la parola a cui diede il socialismo un significato nuovo, che rimarrà nella storia e nel cuore delle generazioni: — Compagno! — Compagno, discuteremo domani; oggi è il 1.º Maggio; oggi ci rallegriamo insieme contemplando l’orizzonte sereno del passato, e quello luminoso dell’avvenire; oggi abbiamo una sola idea e un’anima sola. Ai fanciulli. Un saluto a voi in questo giorno di festa e di speranza, a cui voi non pensate ancora. Non mai così pietosamente come in questo giorno il nostro pensiero vi cerca e vi abbraccia trascorrendo per tutti i paesi «civili» dove la cupidità e la fame concordi curvano la fanciullezza a una fatica che le contrista l’anima e le divora le forze. Dentro a un’atmosfera tetra, velata dal fumo delle officine, dai nuvoli di zolfo, dalla polvere di carbone, dai vapori delle risaie, passa la processione infinita di piccoli lavoratori, da quelli sepolti nelle miniere del settentrione, che si trascinano nudi e carponi nel fango e nelle tenebre, col sacco attaccato al collo, fino a quelli che sudano nelle cave della Sicilia dai ventri enfiati e dalle ossa scontorte, nutriti d’un pane orribile, intinto nell’olio nauseabondo delle loro lampade; passa l’esercito miserando dei fanciulli oppressi, con le faccie smunte ed esangui, con le mani e coi piedi piagati, gli uni cadenti dal sonno, gli altri piangenti in silenzio; file di ragazzi avvizziti ed anemici, curvi come vecchi, che feriscon l’aria di tossi secche e di aneliti dolorosi; passano gli avvelenati dal fosforo, gli acciecati dalle fornaci, i mutilati dalle macchine, gli arsi dal grisù, i seppelliti dalle frane — e mille occhi, passando, si fissano nei nostri — occhi spenti, duri, sdegnosi, supplichevoli, che ci dicono: — Noi avemmo una infanzia senza cure, noi abbiamo una fanciullezza senza gioie, noi avremo una gioventù senza salute, e una vecchiaia senza conforti; e molti di noi aspetta l’ospedale o la carcere, o, prima del tempo, la terra, dove altri figliuoli di lavoratori ci aspettano innumerevoli, o nati morti, o uccisi in culla dai narcotici, o finiti dai maltrattamenti o dall’inazione; è questo il nostro destino; e perchè? — E altre cose ci dicono quegli occhi. Ci dicono la legge protettrice dei fanciulli con mille inganni violata, la complicità dei parenti famelici, la cecità degli ispettori, l’indifferenza delle autorità, e la ipocrisia di una società civile che crede di pagare ogni suo debito porgendo la mano a uno su cento dei miseri che essa medesima atterra, e l’aberrazione di una carità che va a cercar miserie e dolori a migliaia di miglia lontano da quelli che le gemono inutilmente d’intorno, e la ingiustizia d’un mondo che vitupera l’inerzia in coloro in cui fu spento dalle fatiche precoci l’amor del lavoro, e dice causa unica della sua miseria i vizi che semina egli stesso e di cui dà pel primo l’esempio e punisce senza pietà i delitti a cui è indotta tanta gente da una ignoranza e da una corruzione della quale non ha colpa. E passano ancora e passano senza fine i piccoli schiavi, gli uni rassegnati, gli altri frementi, malaticci, istupiditi, paurosi, stravolti, diretti alle capanne o alle grotte o alle stalle o alle stamberghe infette delle città grandi, dove la promiscuità selvaggia dei sensi finisce di corrompere l’anima e il corpo. E mentre ci stringe il core quel coro di gemiti, di rampogne e di imprecazioni, più amaramente ci addolora una voce grassa e pacata che risuona al di sopra di quel coro, e vi dice: — _Non c’è rimedio._ Ah, non lo credete, ragazzi! Per quanto v’è di più sacro al mondo, non è vero. Se fosse vero, noi dovremmo sputare sulla parola _civiltà_ ogni volta che la troviamo stampata in un libro. Empia è la voce che dice al misero: — Dispera. — Vana è quella che dice di tutto aspettare dal cielo, di nulla pretendere dagli uomini. Una forza immensa si leva nel mondo in prò dei vostri padri e di voi, e questo è il giorno in cui essa palpita in milioni di cuori e parla da milioni di labbra, da per tutto dove piange un fanciullo spossato, dove si stende invano a cercar lavoro un braccio virile, dove sospira un vecchio senza pane dopo aver lavorato finchè gli bastaron le forze. E non soltanto fra i vostri compagni di fatiche e di stenti quella forza si leva. Ma nelle belle case che invidiate, in mezzo agli agi ed ai piaceri che voi non godrete mai, una generazione vien su, che voi credete ignara e sprezzante dei vostri dolori, una moltitudine di fanciulli e di giovinetti dalle mani bianche e dal viso florido nella cui mente entra ogni giorno una idea che offusca la serenità, che tormenta la loro coscienza, che affanna e dilata e innalza il loro cuore, e li sospinge verso di voi, e li prepara ai sacrifici generosi, e li arma e li ammaestra a combattere con amoroso coraggio per la causa vostra e dei vostri figli. No, i vostri figli non avranno più, pensando alla fanciullezza dei lavoratori, la visione sciagurata che riempie noi di tristezza e di vergogna. La fanciullezza sarà risparmiata perchè tutti gli uomini lavoreranno e la produzione avrà per fine la soddisfazione dei bisogni comuni, non il lucro di pochi, e la macchina sarà serva, non tiranna dell’uomo; i vostri fanciulli andranno alla scuola essi pure, perchè tutti avranno il diritto a coltivare lo spirito fino al segno richiesto dal riconoscimento delle attitudini e della dignità dell’uomo civile; essi cresceranno lieti e benevoli, perchè non cresceranno più nella miseria tetra e nella fatica bestiale che confonde la coscienza e perverte il cuore; essi ameranno il lavoro e la vita, perchè il lavoro sarà umanamente misurato e compensato, e la vita non sarà più una guerra fratricida per cui gli uni nascono armati e gli altri inermi, e in cui per un forte o un astuto che trionfa, mille deboli mordon la terra; ma la lotta ordinata e onesta di tutti per ciascuno e di ciascuno per tutti, della quale apparirà la necessità e la giustizia con la stessa luminosa evidenza con cui ci appaiono quelle verità elementari che sono i fondamenti stessi della ragione e della coscienza umana. Sì, questo è l’avvenire, com’è vero che ci regge la terra e ci rischiara il sole. E voi, fanciulli, fissate nell’animo la data del 1.º Maggio, che nulla forse vi dice ancora. Un giorno essa vorrà dire anche per voi: concordia, speranza, vittoria, pacificazione. Cristo sarà ritornato dopo venti secoli per dire un’altra volta: — «Lasciate i fanciulli venire a me» — ossia: Lasciate che siano fanciulli, che crescano col sorriso sul volto e con la fronte rivolta al cielo, perchè Dio non vuole che si faccia la ricchezza col sangue delle loro vene e col midollo delle loro ossa, e a prezzo dell’innocenza e della bontà dell’anima loro. E Cristo ritornerà, fanciulli. Oggi che si festeggia il suo futuro ritorno, invocatelo e fidate in lui; sentirete anche voi che Egli si avvicina. A una signora. Giorni or sono, udendo un socialista parlare in pubblico intorno a un argomento estraneo alla propria fede, e approvando, commossa, le parole di lui, che rispondevano in tutto ai sentimenti affettuosi e gentili dell’animo suo, ella esclamò con meraviglia: — Chi direbbe mai che è un socialista! Ella non ha pensato che con quella esclamazione, accusava le sue amiche e i suoi amici, e quasi tutta la classe a cui appartiene, d’una nera calunnia. Ecco, dunque, come le siamo dipinti; come gente cui sia a meravigliarsi che possa esprimere qualche volta di quei pensieri e di quei sentimenti, nei quali tutte le anime oneste concordano. Ma veda che abisso ci separa! Io mi meraviglio ogni giorno di più della cosa opposta: che si possano avere quei sentimenti e non essere socialisti. Ella scatta, ed io ripeto e mantengo. Rifletta un momento, signora. Soffrire delle miserie e dei dolori sociali come d’un male proprio, in modo da non averne più quiete, e non sapersi rassegnare allo spettacolo delle disuguaglianze ingiuste che offendono e avviliscono gli uomini; credere che non vi sarà mai pace, nè prosperità, nè moralità, nè civiltà vera, fin che un piccolo numero d’uomini avrà nelle mani i mezzi con cui, direttamente o no, tutto si corrompe, tutto si fa piegare, tutto servire al fine di accrescere continuamente la potenza di comprare, di corrompere e di dominare; aver fede che la pace e la prosperità vera si otterranno affrancando il lavoro dalla schiavitù economica che lo opprime, e non lo assicura, e riducendolo più umano con una distribuzione più equa, e più fecondo con l’associazione di tutte le forze; e con questa fede adoperarsi a educare, a istruire, a ordinare le moltitudini affinchè, diventate maggioranza cosciente e concorde, possano costituire legalmente uno stato sociale (già maturato, quando esse prevarranno, dall’evoluzione) nel quale tutti si trovino nelle stesse condizioni iniziali per la lotta della vita, e il diritto alla vita sia assicurato a quanti voglion lavorare e non possono e non si possa lasciar in eredità l’ozio e la dominazione, e l’uomo non veda più nei suoi simili dei concorrenti nemici, ma dei cooperatori fraterni; tutti questi sentimenti e concetti, che sono, insomma, la sostanza del socialismo, può ella dimostrare, mi può ella dire soltanto, che non siano tali da doversi maravigliare che non li accolga ogni anima nobile? Una cosa sola mi può rispondere: che non sono accolti perchè si fondano sopra un’utopia. — Ma con questa risposta non mi contradice, perchè in qual modo mi può negare che per essere utopisti così fatti conviene avere una fede nella bontà della nostra natura, un desiderio del bene e un amore per l’umanità, non possibili che in animi onesti e in cuori generosi? E come di questo ella si accerterebbe facilmente, e riconoscerebbe d’essere stata finora ingannata, e dai giornali che legge e dagli amici a cui crede e da tutte le vecchie idee non discusse in cui vive imprigionata, se potesse conoscer da vicino quella gente disseminata e malefica piena di passioni e di propositi iniqui e della quale sente parlar con orrore! Ella, per esempio, ha inteso parlare di studenti socialisti, e avrà lamentato, con parole amare, che si sia attaccata anche alla gioventù studiosa quella lebbra. Ebbene, io ne conosco, e anche se prescindo dalle idee che a loro mi legano, mi paion di tanto superiori agli altri! Mai che apparisca nei loro discorsi sull’avvenire quel duro proposito di farsi strada nel mondo a qualunque prezzo, quella smaniosa avidità di ricchezza e di piaceri, che è già confitta nel cuore di tanti giovani della loro condizione. L’avere uno scopo alla vita posto fuori di sè stessi, così alto e bello, dà loro una sicurezza e una serenità di coscienza, e una tendenza a meditare sui fatti e sugli uomini, e a cercare in tutte le opere la manifestazione dell’animo e del pensiero, sotto le apparenze ingannevoli quello che c’è di vero, di umano e di benefico, che non si trova negli altri se non come rara eccezione. Ed hanno un modo di famigliarità così giusto e così amabile con la gente delle classi inferiori a cui si mescolano, spiegano con essa un sentimento di fraternità tanto più schietto e profondo, perchè dedotto da più intime e salde ragioni, di quello che io ricordo dell’ultimo periodo degli entusiasmi patriottici, sopportan con una così degna rassegnazione le diffidenze, le ingratitudini, qualche volta le aspre parole, che in quell’affratellamento cercato s’attirano, e annunziano e difendono la propria idea fra gli amici ostili e nella famiglia sdegnata, tra le rampogne e gli scherni, con un così coraggioso ardore, con una così tenace ed ingenua fede nella vittoria del bene, che lei, se li udisse e li vedesse all’opera, lei che è buona e gentile, sarebbe costretta ad ammirarli e ad amarli, e desidererebbe che il suo figliuolo li rassomigliasse, e potesse — senza compromettersi, s’intende, e serbandosi immune dalla lebbra delle loro dottrine — godere della loro sana e vivificante amicizia. Ella udrà parlar sovente di operai socialisti, e che concetto n’abbia me lo immagino: li crede la feccia della loro classe. Eppure, signora, se è una cosa bella in un operaio rinunziare al giuoco e alla taverna per udire discorsi e ragionare egli stesso, come può, su questioni economiche e morali, che lo costringono a uno sforzo di mente e gli destano il bisogno di una vita intellettuale e il rispetto della scienza e dell’ingegno; se è prova di animo ingentilito il riconoscere e il predicare che la donna non è una bestia da soma per picchiarsi per sfogo, quando s’è arrabbiati o briachi, ma un essere che ha diritto a una migliore condizione economica e civile e a una nuova e più alta forma di rispetto pubblico, se è degno di dignità il non imitare, lo sdegnare i compagni di lavoro delatori, i pronti a curvarsi davanti a tutti i venditori di voti, i bruti che hanno la coscienza nel ventre e postergano ogni interesse collettivo della loro classe ad ogni immediato ed anche passeggero vantaggio proprio, se è bontà e carità l’esser sempre disposti a levarsi il pane di bocca e a dare il soldo del sigaro e del bicchiere per soccorrere i compagni ridotti indegnamente sul lastrico, se anche sono sconosciuti o stranieri; se, infine, l’avere una viva coscienza della fraternità degli uomini e dei popoli, e fede in una grande missione economica e politica del proprio stato, se il convertire l’odio cieco contro i privilegiati della fortuna in un’avversione ragionata contro l’ordinamento sociale, se il comprendere e far comprendere altrui che non dalla violenza disordinata e selvaggia egli ha da sperare un grande mutamento della sua sorte, ma dalla pacifica conquista dei poteri pubblici, non possibile se non per una successiva trasformazione delle idee e una lenta vittoria sulle coscienze; se tutti questi son segni di superiorità d’animo e d’intelligenza — e i segni sono palesi, ad ogni uomo di buona fede, lo creda — come può ella negare che gli operai socialisti non solo siano, ma debbano essere di necessità moralmente migliori degli altri e degni del suo rispetto e della sua simpatia? Più sovente ella udrà parlare di pubblicisti di dottrina e d’ingegno, che fanno ardente propaganda di socialismo e gliene parleranno in modo, suppongo, che ella convocherebbe un consiglio di famiglia prima di riceverne uno in casa sua. Ebbene, ci pensi un poco. Questo è certo, frattanto: che tutti, dal primo fino all’ultimo, sono necessariamente disinteressati, perchè nessuno dei giornali di cui si valgono può rimunerar l’opera loro, che anzi ricevon da loro prosa ed obolo insieme. Pensi che se sono letterati ed artisti pure sono obbligati, non foss’altro che per sostenere le proprie idee, a studi ingrati e difficili, alieni dalla loro natura, e a rifar quasi, con grande fatica, la propria educazione intellettuale, e che tutti condannano sè stessi ad aver nella parte del pubblico, a cui si rivolgono, tanto meno lettori e ammiratori quanto più il loro pensiero è profondo e l’arte loro squisita. E se sono scienziati e uomini politici non possono aver di mira nè onorificenze, nè cariche, da cui è escluso il partito che li accoglie; nè sperare un vantaggio proprio da un mutamento radicale di cose, perchè son ben certi che non vivranno tanto da vederlo, e che se pure avvenisse quale essi lo invocano, sarebbe tale di sua natura, da non consentire ad alcuno nè ricchezze, nè potenza, nè onori. Non resta dunque che una sola ambizione, da cui ella può pensare che sian mossi: quella d’esser mandati alla Camera. Ma ci rifletta un minuto, veda se — concessa pure quell’ambizione — essi sceglierebbero per soddisfarla una via così rischiosa e se si può chiamar davvero ambizione quella d’andare in Parlamento, in mezzo a un gruppo minuscolo, a farsi soffocar la voce da tutti partiti concordi e dare addosso come a un pugno di banditi. Pensi pure, cerchi, si faccia anche cercare dai suoi amici una sola ragione, la quale le dia diritto di credere che quei signori non sono gente di buona fede, generosa se non altro, di sentimenti e di intenti, e piena di cuore e di coraggio. Le pare ancora che sia ragionevole il meravigliarsi che tutti costoro — studenti, operai, pubblicisti, — siano capaci di sentimenti nobili? O non le pare invece che ci sarebbe da meravigliar del contrario? Le dirò di più, francamente: ch’io non vedo più bontà, generosità vera che in chi professa quella fede. Conosco, sì, molti uomini dotati di quelle virtù fra coloro che avversano anche fieramente l’idea socialista, e ho sempre fra di essi dei cari amici. Ma dopo che giudico l’anima loro da quell’idea, sono un po’ scaduti nel mio concetto, debbo dirlo, anche i migliori. Io non li trovo più logici neppur nell’esplicazione dei loro sentimenti più degni. Vedo i loro pensieri di fraternità e di carità sociale intoppare ogni sentimento in un ostacolo, arrestarsi quasi impauriti, a dei confini, davanti ai quali l’animo dei socialisti piglia maggior forza per lanciarsi oltre. M’accorgo che l’idea d’un lontano danno della loro classe getta un’ombra sul loro già sacro amore di libertà e di eguaglianza, e li rende avversi, in segreto, a quella diffusione dell’istruzione popolare, che fu già il più caldo dei loro voti. Sono condotti a ogni tratto, per combattere le nostre idee, a negare o a palliare miserie evidenti e colpe imperdonabili; a fare, per non essere tirati a certe concessioni, una scelta guardinga, non generosa nè schietta, fra le ingiustizie sociali contro cui debbono levare la voce. E trovo che nel cercare e proporre dei rimedi, s’ingegnano in ogni modo di lasciar da parte, di finger di non vedere quelle cause, alle quali non posson toccare senza riconoscere le ingiustizie che a loro convien tacere. E nei credenti più sinceri scopro un sentimento religioso pieno di pregiudizi mondani e di accortezze, che si sforza di conciliare le cose più inconciliabili e si rassegna troppo facilmente al concetto della necessità di troppi mali; e nei non credenti, in onta alle loro idee liberali, sorprendo una troppo frequente tentazione di rifugiarsi, per terrore di un avvenire infausto ai loro interessi, tra quelle del passato, che essi combatterono per tutta la vita, e di cercare in una religione in cui non credono, un’alleanza, della quale non potrebbero, e lo sanno, mantenere i patti lealmente. E gli uni e gli altri, finalmente, li vedo sforzarsi di continuo a far tacere il cuore e la ragione, che, confusamente, ma senza tregua, susurrano loro la verità, e a nascondere a noi questo stato d’animo, ciò che stende su tutti un leggiero velo d’ipocrisia, sotto al quale m’appare alquanto alterata la loro antica faccia di galantuomini. Di queste cose ella non s’avvede, naturalmente, perchè non può raffrontare le persone che la circondano con la gente che ella giudica dal giudizio loro. Ma se ne avvedrebbe, non ne dubito, se quel raffronto potesse fare. E quante idee sue si muterebbero se ella leggesse quei libri e quei giornali di ogni paese, che vede qualche volta ammontati sul mio tavolino e guarda con un senso di ripugnanza! Scoprirebbe una legione di pensatori potenti e sereni, di cui stupirebbe d’aver ignorato il nome finora, e che ognuno l’ignori intorno a lei, nei quali s’accoppia alla forza d’una fede fiammeggiante l’autorità d’una vasta e nuova coltura; nature intellettuali, tempre d’animo nuove, gagliarde ed ingenue, appassionate ad un tempo e pazienti; donne d’ingegno virile e di cuore angelico; poeti incolti nelle cui strofe informi balenano immagini immense; autodidattici solitari venuti su dalla gleba, dei quali s’indovinano gli studi faticosi, contrastati, violenti come una lotta fisica, proseguiti per venti anni in soffitte senza fuoco, a prezzo di sacrifici eroici; una falange di scrittori strani, aspri, tormentati, oscuri, di cui si vede attraverso a ogni pagina sudar la fronte nera di polvere e sanguinar gli occhi bruciati dal riverbero delle fornaci, ma dotati d’una eloquenza misteriosa, che la farebbe pensare per giorni e per notti. E udrebbe da rozze bocche di lavoratori verità e ragioni che nessun libro le ha mai dette, narrazioni di miserie e grida dell’anima che la farebbero fremere come il suono del pianto d’un mondo, parole di pietà e di tenerezza, che sarebbe forzata a ripetere ai suoi figliuoli, e che non le uscirebbero mai più dalla mente. E finirebbe ad amare tutti quegli uomini di ogni classe e d’ogni paese, portanti tutti sulla fronte, come una stella vermiglia, la stessa Idea, che si scambiano attraverso a mari e a frontiere parole di fraternità e di speranza, e a poco a poco, abbracciando col pensiero l’orizzonte vastissimo, vedendo l’Idea sfolgorare su mille campi di battaglia, e le legioni stellate avanzarsi e salire da ogni parte, ingrossando lungo il cammino come torrente in piena e sommergendo a ogni onda una rovina del passato, sarebbe forse scossa ella pure da un fremito d’entusiasmo ed esclamerebbe: — È giusto, è benefico, è necessario che questo sia. Ma no; nulla seguirebbe in lei di quanto io dico, e non gliene faccio rimprovero, poichè troppo saldo è ancora nella sua mente quel ferreo cerchio di idee ereditate, senza spezzare il quale le nuove non entrano. E quando pure incominciasse in lei un mutamento, se passasse allora sotto le sue finestre una dimostrazione d’operai socialisti, chiedenti, lei consapevole, la più giusta delle concessioni, lei, al veder quelle facce e all’udir quelle voci, spaventata e sdegnata, scorderebbe in un punto tutte le sue letture e disdirebbe tutti i suoi consensi, per maravigliarsi da capo che si possa esser socialisti e aver dei sentimenti onesti e gentili. D’altra parte, io ho scelto a proposito, per parlare a lei, questo quarto d’ora della vita nazionale. E anche qui, veda, ci separa un abisso, perchè tutto ciò che in questi giorni fa respingere più sdegnosamente da lei e dai suoi amici le nuove idee, produce in noi l’effetto opposto. Noi vediamo una moltitudine, che par la maggioranza del paese, urlare e imprecare col pugno teso contro una frotta di gente cacciata a furia nelle carceri, non colpevoli, in massima parte, che d’un’illusione, d’un grido o d’un impeto d’ira provocata, e volere e approvare che ai credenti nel nuovo verbo sieno violate le case, manomesse le robe, e impedito di adunarsi, di parlare, di lagnarsi e di vivere, e accusarli d’ogni follìa e d’ogni infamia. Ebbene, tutto questo non fa vacillare un istante, ma rinsalda profondamente la nostra fede; la nostra compassione non è per quelli contro cui s’impreca, ma per quelli che imprecano; tutto ciò che accade non ci pare che un accidente sfuggevole del grande cammino vittorioso della nostra causa; e con più serena e imperturbabile sicurezza crediamo che la ragione, la verità, la giustizia, l’avvenire sono dalla parte dei maledetti e che il fascio enorme d’interessi e di forze che s’aggrava sul loro capo non è che un mostruoso avanzo del passato, di cui gli anni sono numerati. Ella non lo crede; ma lo crederanno i suoi figliuoli, e i suoi nipoti lo vedranno, e ai figli di questi non parrà possibile che gli avi loro non l’abbiano creduto. Ed ora, la saluto con affettuoso rispetto. Ella risalga fra la gente per bene; io ridiscendo.... fra gli altri. Discordie in famiglia. Ecco una famiglia quale ve n’ha mille oramai e ve ne avrà migliaia fra pochi anni. I legami dell’affetto non si sono allentati; ma la bella armonia delle conversazioni intime e liete non v’è più. Vi entrò la nuova Idea e v’accese la discordia tra il padre e il figliuolo, tra la figliuola e la madre, e turbò i sonni di tutti. Le conversazioni si son mutate in discussioni, in cui risuonano parole insolite e proposizioni temerarie, che le persone di servizio ascoltano dilatando gli occhi e commentano vivamente tra di loro, parteggiando pei ribelli. Ogni giorno, sotto mille forme, la questione eterna risorge. Lo studente adduce argomenti economici e cifre; la fanciulla ragiona, in nome d’una pietà vasta e nuova, che abbraccia milioni d’uomini sconosciuti, e che la vecchia madre non comprende. In parte, la comprende il padre, o qualche cosa approva e concede, ma alle ultime conclusioni resiste con fermezza ostinata, e, incalzato, si sdegna e disdice ciò che ha concesso, e tronca la disputa con minaccie e rimproveri amari; mentre la sua compagna fissa in silenzio i figliuoli, dondolando il capo con tristezza, turbata al presentimento d’un avvenire sinistro. Nelle controversie sempre rinascenti cozzano l’egoismo paterno e la generosità umana, la verità di ieri che si va cangiando in menzogna, l’utopia d’oggi che sarà verità domani, le forze tenaci dell’interesse, le forze impetuose dell’amore, le paure della vecchiezza per cui l’avvenire non è che minaccia, le virili baldanze della gioventù per cui l’avvenire è tutta speranza. Chi ci ha mutato i figliuoli? — dicono i vecchi fra due sospiri, — e passano in rassegna sospettosa gli amici e i conoscenti, non pensando che l’idea non entra nelle case per la porta, ma per le finestre, con le ondate d’aria e i raggi del sole. Qua e là, pei tavolini e sugli scaffali, appaiono libri nuovi, dai titoli strani, in cui ricorre sempre la parola malaugurata, e la madre li guarda senza toccarli, e il padre n’apre uno ogni tanto, ma lo richiude, corrugando la fronte. Ahimè! i libri: un altro argomento di discordia che salta su, tra la minestra e le frutta, ogni giorno. Scrittori che erano come i santi domestici, ai quali si rendeva un culto concorde, son tirati giù l’un dopo l’altro dall’altare; i figliuoli li accusano di indifferenze e di silenzi colpevoli, di idee monche e di sentimenti angusti. Essi vanno scoprendo che la vecchia biblioteca è piena di menzogne, di pregiudizi barbarici, di sentenze ingiuste e stolide, accettate senza esame e ripetute macchinalmente come ritornelli di canzoni imparate dai bimbi. Ma neppur sull’amore di patria il vecchio patriota e i figliuoli non s’intendono più; quel grande amore, in questi, non ha più per oggetto simbolico l’antica bella donna superba, con la corona in capo e la spada in pugno, fiorente di una salute alla più parte dei suoi figli negata: ma si espande sopra una moltitudine immensa di creature umane, povere e stanche, che pregano, si lamentano e fremono; dalle quali il pensiero del vecchio, infiacchito dagli anni, rifugge diffidente e sgomento. E cent’altre parole usuali, in casa sua, par che abbiano acquistato un secondo senso, che non significhino più per i figli la medesima idea che per lui. S’è alterata la loro ragione? S’è pervertito il loro animo? Padre e madre, su questo punto, vivono in una incertezza dolorosa. Sì, dell’una e dell’altra cosa son certi, se badano al fondo dei loro discorsi: le idee sono insensate e funeste; chi ne può dubitare?... Ma ciò che li fa dubitare è il fremito vivo e sincero delle loro indignazioni, è l’accento amoroso e profondo della loro pietà, è la forza virile della loro persuasione, è la pertinacia infaticabile con cui ripetono senza fine le stesse ragioni, rincalzate ogni giorno da nuovi consensi inaspettati d’autorità rispettabili, è la bella luce intellettuale che lampeggia sulla loro fronte, è un non so che di sicuro, di indomato, di grande, che si sente confusamente nella concitazione disordinata, della loro eloquenza provocatrice. Così è. In quei momenti il giovinetto sembra un uomo e la signorina è più bella, e i loro visi accesi son come coloriti dal riflesso di un’aurora, che vedono essi soli. Con quelle idee, però, l’uno non farà carriera, l’altra resterà ragazza. E questo è il pensiero che affligge più forte le due canizie. — A questa vecchiaia eravamo riserbati! — si dicono, e non vi si sanno rassegnare.... Eh! buoni vecchi, non sapevate che eterna è la lotta fra la vecchiaia e la giovinezza, che la casa è il piccolo campo su cui principiano in scaramucce tutte le grandi battaglie sociali, che altri padri, altre madri hanno sofferto, tremato, lottato prima di voi, che ogni nuova Idea costò alla famiglia affanni e terrori, perchè la famiglia pure è un organismo che non concepisce senza turbamenti e non partorisce senza spasimo? Fatti coraggio, buon vecchio: per la tua figliuola e per quelle che la somigliano sorge una nuova generazione di giovani magnanimi, che disprezzano le donne da cui non sono compresi, e adorano quelle che a te paion fuorviate: la tua figliuola sarà adorata da un uomo degno dell’anima sua, e dal pieno e possente amor loro nasceranno dei figli superbi. E tu, povera donna, che vegli fino a mezzanotte, col cuore trepidante, aspettando il figliuolo che andò alla Sede dei Lavoratori, datti pace; non gli far rimproveri quando apparirà sull’uscio; accoglilo dolcemente: egli ritorna a te più buono, più onesto, più nobile di quand’è partito; egli porta nella mente un’idea che gli illumina la vita e nel cuore una speranza che gli fa amare il mondo. Datti pace: egli non sarà fortunato, forse: ma non sarà egoista, non adorerà il danaro, non opprimerà i deboli, non rimpiangerà un passato nefando per paura d’un avvenire che il mondo invoca. E non raccomandarti, come fai ogni sera, a quella piccola immagine di Cristo crocifisso che pende a capo del tuo letto, perchè ti converta il ribelle. Se quel crocifisso si staccasse dalla croce e scendesse un momento, grande e vivo, in mezzo a voi due, non sarebbe la tua fronte quella che sentirebbe per la prima la dolce carezza della sua mano trafitta. Il partito socialista. _A un piccolo borghese liberale._ Tu detesti il partito socialista: ma tu vuoi l’istruzione, vuoi l’incivilimento della moltitudine perchè comprendi che la civiltà ora è composta d’un piccolo numero d’uomini civili e d’un armento infinito di pecore. Ebbene, rifletti un po’. Questo partito che si rivolge alla moltitudine incolta e inerte, intorpidita da secoli di schiavitù, ignorante a un tempo dei suoi diritti e dei suoi doveri, e le dissuggella gli occhi, la scrolla, le soffia nella mente e nel cuore, le grida continuamente: — Svegliati, pensa, impara, dirozzati, migliorati, organizzati, fa il tuo bene da te stessa, affrancati da una tutela che ti terrà perpetuamente nell’oscurità e nell’impotenza, — questo Partito, pure condannandolo per altri rispetti, tu lo dovresti ringraziare, se non altro, in nome della civiltà e della dignità umana. Tu hai in orrore la dottrina socialista; ma tu vuoi la moralità in alto come in basso, la giustizia per tutti, una classe dirigente illuminata, generosa, fautrice del progresso e della prosperità pubblica. Ebbene, questo Partito, che con l’occhio vigile sulla politica, sull’amministrazione, su tutte le forme del lavoro, su tutte le funzioni dell’organismo sociale, continuamente e infaticabilmente, senza riguardi e senza paure, rivela miserie, denuncia ingiustizie, mette a nudo corruzioni, smaschera imposture, combatte false idee ereditarie e pregiudizi barbari e privilegi iniqui, e incalzando e tormentando con mille stimoli l’egoismo e l’inerzia della classe privilegiata la costringe a discutere, a difendersi, a concedere, a promettere, a fissare lo sguardo, se non altro, sulle miserie e sui dolori umani, onde i migliori n’abbiano almeno pietà e i peggiori almeno paura; questo Partito, credilo, esercita un’azione benefica, della quale — se cessasse domani — avvertiresti la mancanza tu stesso con un senso di rammarico e di sgomento. Tu hai il socialismo in orrore; ma tu vorresti che la gioventù, che il popolo avesse nell’animo un alto ideale, che i collegi elettorali non fossero mercati in cui spadroneggia chi ha più danaro e meno coscienza, che i rappresentanti della nazione cessassero d’essere servitori e sensali degli elettori che hanno comprati e che disprezzano. Ebbene, questo Partito, a cui accorrono giovani d’ogni classe, senz’altro vantaggio personale prossimo nè remoto, anzi con la certezza di persecuzioni e di danni immediati o futuri; questo Partito che, solo, dà in qualche luogo l’esempio confortante d’un povero lavoratore senza un soldo, più pauroso che desideroso d’essere eletto, il quale vince nella lotta un ambizioso potente che ha dalla parte sua tutte le forze dell’autorità, della clientela e dell’oro; questo Partito che respingendo blandizie, promesse e favori di chi ha tutto e può tutto, manda al Parlamento dei deputati che non hanno nulla, che non gli promettono nulla, che nulla possono fare nemmeno per il più umile dei loro elettori, che non faranno mai altro per tutti che lanciare in loro nome delle proteste soffocate dagli urli della maggioranza e dai presagi d’un avvenire migliore, accolti con risate di scherno da tutti i soddisfatti del presente; questo Partito, credilo, è l’unico che rappresenti ancora la giovinezza, la poesia, l’entusiasmo della nazione; e se queste cose tu ami, come lo affermi, dovresti dire di lui quello che il Voltaire disse di Dio: — che bisognerebbe inventarlo se non esistesse. Infine, tu vedi nel socialismo una calamità pubblica: ma tu desideri la pace, tu vivi nel timore continuo d’una guerra che darebbe il crollo all’economia nazionale e che porterebbe forse tuo figlio a morire in una guerra lontana per una causa ripugnante alla tua ragione e al tuo cuore. Ebbene, questo Partito che, mentre principi e governi si gridano a vicenda, con simulata mansuetudine, parole d’amore e di pace, ma senza smettere mai d’apparecchiare le armi, senza spogliarsi d’un solo dei pregiudizi, senza rinunciare a una sola delle ambizioni, da cui può erompere da un momento all’altro la guerra, questo Partito che diffonde ed afforza nei popoli il sentimento d’una fratellanza nuova; fondato sui veri ed eterni interessi di ciascuno e di tutti, così che a ogni ombra di pericolo che sorga fra due nazioni milioni di cuori gridano dalle due parti: — No, giù le armi, la causa per cui si vuol combattere non è la nostra; mente chi afferma che ci odiamo, ci tradisce chi ci vuol condurre al macello, noi siamo fratelli nel lavoro e nella fede, e la bianca bandiera dell’avvenire è per tutti una sola; — questo Partito, al quale si deve forse che non sia scoppiata ancora in un quarto di secolo e che non scoppi mai più una guerra fatale che coprirebbe di sangue e di rovine l’Europa, questo Partito, credilo, non è una calamità, ma una benedizione, e invece di mostrare il pugno, dovresti mandare un bacio alla sua bandiera. E un giorno, forse, tu lo farai. Intanto, continua pure a mostrarci il pugno: noi continueremo a stenderti la mano. Continua a rallegrarti di tutte le violazioni della libertà che in danno al Partito socialista si compiono: noi continueremo a difendere anche la tua libertà. Continua ad accusarci di non sognar che disordine, violenza e rapina: e il grande movimento evolutivo dell’Idea socialista seguirà il suo corso di fiume enorme che da ogni parte accoglie affluenti e allaga la terra «per deporvi il limo fecondo per la coltura dell’avvenire»; continua a eccitare i tuoi figliuoli a odiarci e a fuggirci: tu potrai strappare dal cuor loro, ma non dal nostro, il sentimento divino della fraternità e la santa speranza d’una società più giusta e d’una età più felice per tutti. Compagno. Non sorrida di questa parola, professore egregio; è passato il tempo in cui si poteva ridere dei fatti nostri. Se ella, dotto cultore degli studi storici, vivrà altri cinquant’anni, si potrà fare molto onore, un giorno, studiando come sia sorto e come si sia diffuso tra noi l’uso di quella parola. Ma è il semplice vocabolo, forse, non l’idea, che fa sorridere, ed ella ci vorrebbe domandare, come gli altri già fecero, perchè abbiamo adottato quello e non altro. _Amici_, vorrebbe dire? Amici si può essere anche dissentendo intorno alle più grandi quistioni che agitano il mondo, e, d’altra parte, noi siamo tanto numerosi, anche in una città sola, da non poterci più chiamare propriamente con quel nome. _Fratelli?_ Con questa parola non ci possiamo distinguere e riconoscere, perchè per noi tutti gli uomini sono fratelli. _Camerati?_ È in uso tra la «forza armata», e nostro supremo desiderio e nostra ferma fede è di non aver mai ad usare altra forza che quella della parola. _Compagno_, dunque, è il nostro vero appellativo, che significa chi è avviato con noi, per la medesima strada, alla medesima mèta, acceso della stessa speranza, esposto agli stessi pericoli, pronto a soccorrerci, sicuro d’esser soccorso, commosso dalla stessa gioia che commuove noi ad ogni nuova conquista compiuta, nel lungo cammino, dal grande esercito inerme e invincibile a cui apparteniamo, e con cui combattiamo senz’ambizioni, senza rivalità, senza vantaggi, coll’unico compenso che vien dalla coscienza di servir la verità e la giustizia, di preparare al mondo un’età migliore. Ma già a che serve spiegare, professore egregio? Come il nome d’una persona amata ha per chi l’ama un significato occulto e quasi un suono intimo che altri non può comprendere nè sentire, così la parola «compagno» per noi; e sarebbe inutile ogni sforzo che noi facessimo per spiegarne a lei il valore, come è inutile spiegar la bellezza d’un verso a chi ignori la lingua nella quale è scritto. Solo l’operaio che s’ode chiamar «compagno» dallo studente, il «signore» che si sente dar quel nome dal povero, il dotto a cui lo dice l’uomo incolto, il giovinetto a cui lo dice il vecchio; solo il propagandista appassionato che se lo sente dire per la prima volta dall’amico per un lungo tempo restio, il quale adotta la parola come segno e prova della sua conversione desiderata; solo il prigioniero che in fondo a un pezzetto di carta, fattogli pervenire con mille stenti, trova scritto: i compagni, sotto la consolante promessa che a sua moglie e ai suoi figli non mancherà il pane: solo l’oratore che lancia quella parola compagni a una folla di cinquemila uditori di ogni classe, che l’accolgono tutti con lo stesso fremito di compiacenza altera; solo colui che giunto in una città sconosciuta, si ode chiamar «compagno» da cento giovani non mai veduti, ai quali, per l’effetto di quell’apostrofe, si sente legato a un tratto da mille vincoli di affetto e di pensiero come ad amici d’infanzia ritrovati; questi soltanto, noi soli, possiamo sentire e comprendere la poesia e la forza, il suono delle voci innumerevoli, il soffio possente di gioventù e di vittoria che questa parola racchiude. Come nei giorni della fanciullezza, alla scuola, in luogo della parola «amico» che non s’usa ancora, s’usa quella di «compagno» e si rivolge a tutti, signori e poveri, col sentimento stesso non turbato ancora da alcun concetto di diversità di classe sociale; così a noi, con l’uso di quel nome si ridesta nell’anima il senso istintivo di fraternità e d’uguaglianza di quell’età più bella, che era rimasto sepolto per molti anni sotto un cumulo, sovrappostosi a poco a poco, di false idee, d’orgogli miseri e d’interesse di classe diventati egoismo pauroso e incosciente; e in questo ringiovanimento di cuore e di linguaggio sentiamo come un presagio e un avviamento a quel ritorno degli uomini — illuminati dalla scienza e dalla esperienza — a certe condizioni e forme di vita della fanciullezza dell’umanità, che è la definizione poetica e incompiuta del socialismo. Sì, questa parola «compagno» che ha acquistato un senso nuovo in tutte le lingue europee, che si scambia famigliarmente da Parigi a Berlino, da Milano a Madrid, da Nuova York a Londra, da Bruxelles a Sidney, fra uomini che non si vedranno mai; questa parola al cui suono grave ed amorevole, quando lo diciamo al più umile lavoratore della nostra famiglia, tace in noi, come per virtù d’una parola magica, ogni sentimento d’orgoglio vano, o se un momento persiste, è soffocato dopo quel momento da un senso di vergogna, e di rimorso violento come una rivolta del sangue; questa parola che a vederla scritta in capo a una lettera diretta a noi, ci par tanto più bella e solenne quanto più rozza ed inetta si rivela la mano che l’ha tracciata a fatica; questa parola è per noi un alto e prossimo argomento di conforto e di gioia. Del non poter più dire, del non sentirsi più dire da molti il caro nome di amico, ci conforta il poter chiamare, il sentirci chiamar da molti col nome di compagno. Ad ogni amico perduto cento compagni sottentrano, uniti a noi, anche se conosciuti appena, da un nodo meno intimo, ma più saldo e più fortemente umano di quello che s’è spezzato. Nella folla che passa e nelle moltitudini immobili, cercando dei visi amici, il nostro sguardo si arresta di preferenza sul viso di coloro che chiamiamo compagni; visi mal noti, quasi sempre, veduti forse una volta sola fra altri mille; ma che ci ricordano riunioni fraterne, ore d’entusiasmo, moltitudini eccitate, sempre serene, cui su tutte le fronti brillava la stessa fiamma. E più ci rallegra quella parola, non detta a noi dalla bocca, ma dall’atteggiamento del viso, in mille incontri fortuiti, espressa con un sorriso indefinibile, significata in un saluto familiare cordiale. Che importa sapere il nome del passante? Il suo sguardo, il suo saluto ci dice: — Sono un tuo compagno. — E in quelle tre sillabe non udite, ma viste quasi, come i tre colori sfuggevoli d’una bandiera, si sono incrociate due correnti luminose di idee, di simpatie e di speranze. Intanto la parola si diffonde. Ogni anno nuove miriadi di uomini la comprendono e l’accettano. Essa corre di bocca in bocca in borgate dove ieri era ignorata, è imparata da donne e da fanciulli, penetra nelle scuole, risuona nelle assemblee, entra nelle letterature, s’impone nella storia. E quanto più s’estende sulla faccia della terra e tanto più echeggia profonda nel nostro spirito, tanto più si fa grande al nostro pensiero e diventa dolce al nostro cuore. E per questo, con sempre maggior ardore, noi raccomandiamo ai giovani di rispettarla e d’onorarla, di non profonderla improvvidamente, di meditar bene su tutto ciò che essa significa e impone, di pronunciarla sempre col cuore e con la coscienza, di far comprendere alle loro sorelle, alle loro fidanzate, ai loro vecchi che nulla dice quella parola ch’essi non possono gridare a fronte alta davanti alle immagini della patria che amano e del Dio che pregano; non solo, ma che debbono accettarla essi pure, diffonderla intorno a sè, e benedir la gioventù che l’ha fatta sua e la grida al mondo, perchè essa esprime la comunione di milioni d’anime in un ideale che abbraccia le più grandi aspirazioni e le più sante leggi di Cristo. Questo diciamo ai giovani. È superfluo dirlo a coloro che hanno accolto la fede socialista in quell’età, nella quale, quando essa nasce, nasce a un punto dal cuore, dalla ragione e dalla esperienza della vita. Chi, per un tempo, ha pronunciato la parola «compagno» con accento paterno e la intese dire a sè con accento filiale, continuerà ad amarla e propagarla, anche se la fede nella dottrina gli verrà meno; perchè non potrà più rinunciare alla profonda e austera dolcezza che quella parola gli fe’ conoscere, e rimarrà afferrato, illuso volontario al suo sogno, come a un’illusione necessaria alla sua vita. E non sperino i fidi e vecchi amici che ci combattono, e neppur i più amati parenti, che quella parola possa mai morire sulle nostre labbra e nel nostro cuore. Quando pure la vecchiaia e l’infermità e l’oscurarsi dell’intelligenza o un rovescio di fortuna ci condannasse nei nostri ultimi anni ad essere soldati disarmati e inoperosi dell’idea che ci splende alla mente, quella parola ci rimarrebbe sempre nell’anima come l’espressione del più alto stato a cui la nostra coscienza e la nostra vita d’uomini e di cittadini si siano sollevate. E all’ultima nostra ora, dopo che avremo detto addio alle creature strette a noi più caramente dal legame del sangue, il nostro sguardo cercherà un amico, uno almeno, al quale possiamo dire ancora una volta «compagno» come nei nostri bei giorni di lavoro o di battaglia. E la più ambita, la sola gloria postuma, desiderata da quelli fra noi che avranno degnamente operato per la grande causa, sarà d’essere accompagnato là dove siamo tutti attesi da un drappello di coloro a cui demmo quel nome e che sia il più povero di loro quello che dandoci l’ultimo addio, ci saluti una volta ancora con quella parola che ci fu così dolce e onorevole, e ci dica: compagno, riposa; noi proseguiamo il cammino. Nel campo nemico. Compagno ingenuo, che ti perdi d’animo, qualche volta, considerando il grande numero degli avversari che si combattono e degli indifferenti che non ci badano, tu ti lasci scoraggiare da un’illusione. Chi esamina gli uni e gli altri, classe per classe, con occhio attento, non solo non si perde d’animo, ma sente rinvigorita la propria fede, e trova un vero diletto nello spettacolo che gli offre il campo nemico. * Per esempio, tu vedi una legione di giornalisti che tuonano e lanciano scherni e calunnie contro il socialismo. Non ti sgomentare. Non tutti credono e sentono quello che scrivono. Molti di essi, quando ragionano a quattr’occhi con socialisti loro amici, non sono così feroci e inflessibili come paiono nei loro giornali. Molti, nel giudicare la società presente, non sono molto discordi da noi; non pochi riconoscono nel Partito socialista la grandezza del fine, la logica e la lealtà del procedere, il disinteresse, la generosità, la dottrina dei principali propagatori; altri consentono anche in una parte del programma nostro e giungon fino ad ammettere che il socialismo è un freno salutare alla prepotenza di un individualismo senza pietà che ci condurrebbe alla rivoluzione; alcuni vanno più oltre, e presagiscono che il socialismo trionferà per cadere in breve tempo, è vero; ma dopo aver sgombrato e preparato il terreno a una riforma meno ardita, ma pure grande e durevole. E se di queste idee non lasciano trasparire nemmeno un barlume nei loro articoli, se il più delle volte dicono violentemente il contrario, è perchè non possono fare diversamente, perchè il contrario vuole che dicano la gran maggioranza dei lettori che tengono in vita il giornale di cui essi vivono, e se scrivessero la sola metà di quello che pensano, si vedrebbero grandinar nell’ufficio le disdette d’abbonamento. Ma se domani si fondasse un giornale socialista con un milione di capitale, che offrisse diecimila lire l’anno ai collaboratori, tieni per certo che molti di essi accetterebbero con gratitudine un posto nella redazione e vi adempirebbero «coscienziosamente» il loro dovere. La forza vera e tenace non è che nella profondità delle convinzioni. Quelli non son dunque dei nemici forti e incrollabili, che il socialismo abbia a temere. * Così, tu vedi combattuto furiosamente il socialismo da tutti i così detti «ben pensanti», i quali temono che il mondo mutando in meglio per molti, muti in peggio per i pochi. Costoro chiamano i socialisti «spostati, sobillatori, ribelli, invidiosi della ricchezza, nemici del consorzio civile». Non te ne inquietare. Se tu li sentissi, la maggior parte, quando parlano in privato dei borghesi più benestanti di loro, di quell’aristocrazia milionaria, che li offusca col suo lusso, li domina con la sua influenza e li offende con la sua alterigia; tu sentiresti sulla loro bocca tutte le formule della critica socialista più ardita, una identità di argomenti e di parole da farti credere che studino a mente i nostri giornali; ma condite di ben altra acrimonia. Bisogna vedere come analizzano le sorgenti torbide delle grandi fortune, come flagellano l’ozio fastoso e superbo, come si rivoltano contro la potenza corruttrice delle grandi ricchezze «accumulate in poche mani». Essi gridano la croce ai socialisti della soffitta; ma sono dei socialisti del terzo piano, furibondi contro gli sfruttatori e i parassiti del piano nobile. Se non mirasse più in alto di questo piano la nuova dottrina, si inscriverebbero forse nel Partito. In ogni modo, sono socialisti dalla cifra del loro patrimonio all’insù, «istigatori all’odio» tra cerchio e cerchio della loro classe, alleati nostri indiretti, fautori parziali, avvocati segreti e inconsapevoli della nostra Idea. * V’è un’altra classe di avversari nostri che forse ti danno a pensare; sociologi in carica, economisti insegnanti, accademici e conferenzieri, i quali dimostrano scientificamente che il socialismo è una dottrina assurda e funesta. Non bisogna dar loro un’importanza eccessiva. Molti di essi si trovan nella condizione di quei sacerdoti che non han più fede: bisogna pur che fingano di averla. Certo non esiste ancora un programma governativo per le scienze economiche e sociali, come lo chiedeva al ministero non è molto tempo, un senatore israelita; ma, dentro a certi limiti, si può dire che è sottinteso. Lo stipendio segna la strada; non si può professar socialismo dalla cattedra scientifica. Può un cittadino qualunque, anche colto, giustificar la sua conversione alle nuove idee, dicendo: — Mi son messo a studiare e mi son persuaso; — ma come può dire un economista: Dopo trent’anni di studio riconosco che ho battuto una strada falsa? — Non si può pretender l’eroismo da alcuno. E quanti di essi, che combattono il socialismo con baldanzosa sicurezza, sono assaliti da mille dubbi, che li fanno tentennare e transigere nelle dispute private, e quanti dissensi dividon la loro famiglia anche in faccia all’avversario comune, anche sui punti capitali delle loro dottrine! Ma già l’edifizio della scienza ufficiale, screpolato e rotto da ogni parte, somiglia a una di quelle vecchie case di via Pietro Micca, di cui non restan più che i muri esteriori, in mezzo ai quali si va innalzando, non veduta, la casa nuova. Vista di lontano, la facciata ha ancora aspetto di solidità e alcun che di maestoso, ma non è più che un simulacro d’edifizio, condannato anch’esso a cader fra poco. * V’è un’altra famiglia di nostri concittadini, che ti è cagione di sconforto e di amarezza. Sono poveri impiegati, istitutori, borghesi d’apparenza soltanto, formanti la così detta coda della borghesia, non più legati a questa che di nome; i quali, per mille ragioni d’interesse e di sentimento dovrebbero far causa comune con noi e schierarsi primi nel nostro campo. Non pochi, è vero, vi son già schierati. Ma i più rimangono ancora dall’altra parte, resistono all’azione della propaganda, non si fanno veder mai con uno dei nostri giornali tra le mani, sfuggono perfino visibilmente la nostra compagnia. E, tu li credi nemici del socialismo e li chiami ciechi e li hai in ira. Quanto t’inganni, per la maggior parte di loro. Non son ciechi, non timidi; vedono e capiscono quanto noi; con noi sono la loro coscienza e il loro cuore; ma il pane loro e della loro famiglia è nelle mani altrui; se entrano nel socialismo, lo perdono; sono vigilati e minacciati; non hanno libertà nè sicurezza. Ma non dubitare: i nostri giornali e i nostri libri li leggono di nascosto, in seno alla propria famiglia esprimono le nostre idee e le nostre speranze, sulla scheda elettorale scrivono i nomi che noi scriviamo, e dell’incremento maraviglioso del moto socialista che seguono con tutta l’anima, gioiscono e insuperbiscono in segreto. Attendi che il partito diventi così alto e vasto da poterli proteggere, e ve li vedrai accorrere a migliaia, alla luce del sole, e riconoscerai che, in ispirito, v’appartengono per sempre. * Tu consideri ancora come nemica quella gran moltitudine di gente di tutte le classi che al nome del socialismo scrolla le spalle e risponde che non vuol nemmeno udirne discorrere e volta la schiena ai propagandisti. Ma t’inganni. Tutti costoro ripugnano dal socialismo, non perchè è quello che è ma per l’unica ragione che è una idea nuova, e ripugnano egualmente da tutte le altre idee consimili per quella inerzia dell’intelligenza e dell’animo chiamata ora misoneismo, per cui l’accettazione d’ogni idea è una fatica, anzi un vero dolore, che offende e sconcerta l’organismo come una violenza fatta alla sua natura. Essi non hanno nè convinzioni nè passioni: stanno dalla parte dove si può stare senza muoversi e senza pensare. Sono monarchici sotto la monarchia, repubblicani con la repubblica, clericali dove il clericalismo predomina, democratici dove impera la democrazia. La loro divisa è: — Non vogliamo esser seccati. Non si curano di sapere se i socialisti abbiano torto o ragione, se possano condurre la società al meglio o al peggio: per loro sono dei disturbatori: e per questo solo li hanno a noia e chiudon le orecchie alla loro voce. Non li udrai mai neppure esprimere un giudizio sulla dottrina socialista; o se lo esprimono sarà un giudizio d’altri, ripetuto macchinalmente, che non ha alcuna radice nell’animo loro in cui nessuna idea può mettere radice. La moltitudine è numerosa, certamente; ma non è forza ostile e temibile. Non c’è bisogno di conquistarla, poichè su di essa non le idee, ma i fatti soltanto hanno potere. Essa cederà ai fatti. Essa non sostiene alcuna forma politica o sociale se non fino al momento in cui è più comodo sostenerla che lasciarla cascare. Essa non ha altra forza che quella del suo peso, e appena sentirà inclinato il terreno verso il socialismo, scivolerà in questo tutt’a un tratto e tutta insieme come una massa di neve giù per la china a un leggero soffio di vento. * V’è poi nelle classi colte una categoria a parte di avversari nostri, specialmente di personaggi in vista, fini d’ingegno ed elastici di coscienza, i quali combattono il socialismo; ma spiando l’orizzonte e fiutando il vento. Sono professionisti, scienziati, scrittori, uomini politici, persuasi, in fondo, della inevitabilità di un grande mutamento di cose; ma persuasi a un tempo che, per ora, è loro più utile combatterlo che secondarlo. Lo combattono però con gli opportuni riguardi per non precludersi la via al gran passaggio che si propongon di fare al momento propizio. Accarezzano con una mano il proletariato, ma lisciando con l’altra la borghesia! Parlano dell’affratellamento delle classi, ma senza dire qual sia la prima che deve tender le braccia; inneggiano all’avvenire migliore, ma senza determinare in che cosa esso debba diversificar dal passato; approvano le leggi eccezionali, ma a condizione che siano «applicate» con delicatezza. Così potranno dire un giorno d’esser fautori antichi delle nuove idee e d’aver cooperato al loro trionfo. V’è nella pelle di ciascuno di questi borghesi un socialista rimpiattato, pronto a saltar fuori; il quale, quando vanno in piazza, fa capolino, e quando entrano in un salotto si aggomitola. Ma salterà tutto fuori fra non lungo tempo, non dubitare, e senza aspettare scioccamente l’ultima ora. Chi sa quanti di costoro volgono già in mente degli eloquenti opuscoli di propaganda diretti a convincere o a vituperare gli ultimi renitenti ostinati! E sarà un bello spettacolo in quel tempo una furia di conversazioni inaspettate, una baldoria di coscienze rifatte, un carnevale di trasvestimenti e di trasformazioni e di giravolte da superare in grandiosità e in lepidezza quanto si è veduto al mondo finora. * Così è. I nemici del socialismo, gli ostacoli che gli attraversano il cammino, giudicati dai più così formidabili, son tali in apparenza più che in realtà. È un sistema di vecchie fortezze disposto in maniera che, caduta l’una, le altre non reggono; un esercito scrivente e parlante, composto in gran parte di penne mercenarie che non hanno forza alcuna sui cuori e sulle coscienze; una confederazione d’interessati, ai quali non rimane più un solo grande principio, dietro a cui nascondere la difesa dei propri interessi; e serrata intorno a loro, una moltitudine d’infingardi e di abbrutiti incapaci di difenderli, e, mescolati a questa moltitudine, gran numero di astuti che covano già in cuore il tradimento. La prova che, sentendosi deboli, sono sgomenti, è che non han nemmeno l’elementare prudenza di difendersi con delle concessioni ragionevoli e di fare il loro festino con un po’ di modestia: negano più avaramente che per il passato e fanno un carnevale provocatore. A loro conviene veramente quella similitudine di Louis Blanc che paragona la società del suo tempo a Luigi XI nei suoi ultimi giorni, quando si sforzava di sorridere, di dissimulare il suo pallore, di non vacillare camminando, e diceva al suo medico: — Ma guardate! io non sono mai stato così bene. — Così la società d’oggi, dice egli, si sento morire e nega la sua decadenza. Circondandosi di tutte le menzogne della sua ricchezza, di tutte le pompe vane d’una potenza che svanisce, essa afferma puerilmente la sua forza e, nell’eccesso medesimo del suo turbamento, si vanta. I privilegiati della civiltà moderna somigliano a quel fanciullo spartano che sorrideva, tenendo nascosta sotto la veste la serpe che gli rodeva le viscere. Essi pure mostrano un viso ridente, e si sforzano d’esser felici; ma l’inquietudine sta nel cuore e li rode. — Ma già neppure più sorridono: gridano il socialismo barbarie, chiamano i socialisti malfattori, bestemmiano la libertà, si raccomandano a quel Dio in cui non credono. La malattia volge al suo termine quando incomincia il delirio. Ecco la verità consolante. Ed ora ti saluto, giovine compagno, e ti esorto a procedere serenamente e nobilmente sulla via.... del domicilio coatto. Obiezioni al socialismo. Molti avversari dichiarati del socialismo sono fautori di una tassa fortemente progressiva, qual’è nel «programma socialista minimo», e presagiscono che questa tassa, fra cinquant’anni, sarà in vigore in tutti gli Stati civili; oppure propugnano la necessità d’un’imposta proporzionale sulle successioni, diretta a vantaggio esclusivo delle classi lavoratrici, la quale costituisca una specie di diritto successorio per tutti coloro che non hanno alcuna successione da attendere, rendendo obbligatorio per tutti i ricchi quello che ora non è che spontaneo atto di carità di qualcuno. Altri dicono, come il Richet: — Non crediamo nel socialismo; ma prevediamo che, per effetto della progressiva inevitabile diminuzione del valore del capitale (prodotta da un complesso di cause che dimostriamo), sarà un giorno quasi soppresso il capitalista; poichè per avere una rendita corrispondente al guadagno accresciuto del lavoratore, occorrerà un capitale così ingente, che saranno un’eccezione minima quelli che potranno vivere senza lavorare. Dicono altri come il Secrétan: — Noi non siamo socialisti; ma pensiamo che le associazioni operaie si svolgeranno fino a un punto in cui coordinandosi tutte in una vasta associazione nazionale, si troveranno in grado di riscattare dai capitalisti tutti quanti i mezzi di produzione e di attuare un sistema che ripartirà più largamente e più equamente fra tutti i suoi lavoratori la somma delle ricchezze sociali. Dicono molti altri come il Nitti: — Noi non abbiam fede nell’Idea socialista; ma siamo persuasi che, allargandosi e perfezionandosi l’organizzazione e l’educazione delle classi operaie, diventando anche più meccanica l’industria, partecipando direttamente al potere come è giusto e necessario il popolo lavoratore, la funzione della borghesia sarà ridotta col tempo presso che a nulla. Altri molti, del socialismo nemici inconciliabili, come lo Spencer, ammettono come cosa possibile che il tipo sociale industriale «forse con lo svilupparsi delle cooperative, le quali cancellano, teoricamente, la distinzione fra lavoratore e padrone» abbia a produrre in avvenire un ordinamento politico ed economico, in cui non esistano più interessi opposti di classe. Molti altri, come il Sonnino nel suo libro sulla Sicilia, dicono: — Noi neghiamo la lotta di classe (e si sottintende); ma riconosciamo che le nostre istituzioni libere sono ordinate in modo da perpetuare e peggiorare uno stato di cose disumano ed iniquo, che esse non son che armi messe nelle mani d’una classe perchè possa seguitare a vivere e a godere a spese delle altre, e che bisogna fare in modo che questo cessi, ossia «che l’aumento della ricchezza vada a benefizio delle condizioni generali del lavoratore, invece di andar tutto quanto, sotto forma di rendita fondiaria, nelle tasche dei proprietari». Noi non siamo socialisti, dicono altri, come Pietro Ellero; ma vogliamo che il lavoro abbia una legislazione propria che lo sciolga dai ceppi servili, in cui lo lasciò il diritto romano e che i lavoratori abbiano un’assoluta libertà «d’associazione, di concerti e di lotta»; vogliamo delle istituzioni che facilitino loro in tutti i modi «il fido e il procacciamento degli strumenti e della materia e l’avviamento alla consecuzione del capitale». Dicono altri, come il cardinale Manning: — Noi non accettiamo il socialismo; ma vogliamo l’intervento diuturno dello Stato nelle relazioni fra capitale e lavoro, vogliamo del lavoro l’ordinamento internazionale e la fissazione delle ore e d’un salario minimo; non vogliamo che continui l’accumulamento delle ricchezze a profitto unico di certe classi e di certi individui «perchè è cosa ingiusta e immorale, che conduce allo sfacelo del consorzio civile». Dicono altri, come i conservatori dello stampo del Meyer di Germania: — Crediamo noi pure un’utopia il socialismo; ma vogliamo tassati fortemente tutti i profitti dell’industria e della banca, limitato l’interesse a ogni capitale non messo in valore dal suo proprietario, obbligati dallo Stato gli industriali a costrurre case per gli operai, e migliorare le condizioni di questi in tutte le forme, e per forza di legge. Altri, difensori del principio di proprietà sotto ogni altra forma, propugnano come molti in Inghilterra, la nazionalizzazione del suolo, e dicono come James Mill: — Noi non siamo pel socialismo; ma vogliamo vôlto a profitto dello Stato, per mezzo dell’imposta, quel plus-valore della terra o almeno una gran parte di esso, che è conseguenza naturale dell’accrescimento della popolazione e della ricchezza senza il concorso di alcuno sforzo o d’alcuna spesa del possessore. Altri ripudiano il socialismo; ma proclamano l’utilità di convertire in servizi pubblici il maggior numero possibile dei servizi che sono affidati ora alla speculazione privata e ritengono col Chamberlain che il governo municipale sia il migliore strumento di riforme sociali che debba essere suo ufficio l’accumulare le ricchezze della comunità e adoperarle a sopperire ai bisogni dei cittadini men fortunati, ed esercitare come la direzione d’una grande società cooperativa, della quale ogni cittadino sia un azionista. Dicono altri, come disse il Molinari, direttore del «Journal des Economistes»: — Noi crediamo assurdo il socialismo; ma siamo costretti a riconoscere che, per quanto debba esser grande il mutamento che da ciò deve nascere, «i giorni dell’agricoltura individuale sono contati»; e quale sia quel «grande mutamento» che il Molinari non determina, lo accennano altri, come lo Zangtar, che, dopo aver studiato le proprietà collettive dell’Ungheria e d’altri paesi, dicono: — Noi non siamo socialisti; ma chi sa che il comunismo incosciente dei popoli fanciulli non sia appunto quella forma naturale della produzione che, messa in pratica scientemente, sarà chiamata a riportarci, nella maturità del progresso, i giorni felici della fanciullezza, senza le tempeste che a questa s’accompagnarono? Altri, combattendo il socialismo, dicono, come il Barazzuoli, che bisogna estendere la proprietà al maggior numero possibile di contadini, «perchè il contadino che non possiede non sarà mai altro che un servo della gleba»; e come si possa accordare questo frazionamento della proprietà terriera con la fine della agricoltura individuale pronosticata dal Molinari, che è ben altro economista che il Barazzuoli, lo dica chi ha mente più acuta della nostra. Altri nemici del socialismo come Vittorio Bersezio, mettono però innanzi la massima: La terra a chi lavora. — Altri, come la nostra Rassegna «L’Economista», respingono il programma socialista, ma caldeggiano l’idea della _nazione armata_. — Altri, come la più parte dei soci della «Lega della pace», dicono: — Non siamo socialisti: ma crediamo nella federazione dei popoli e nella pace universale. — Altri, come il Clemenceau: — Non siamo socialisti; ma vogliamo assicurata a tutti i lavoratori la vecchiaia. — Ed altri ancora: — Non siamo socialisti, ma vogliamo parificati i diritti della donna a quelli dell’uomo. — Non siamo socialisti; ma vogliamo la giustizia gratuita. — Non siamo socialisti, ma vogliamo con l’istruzione obbligatoria il mantenimento dei fanciulli poveri: senza di che l’istruzione obbligatoria è una tirannia e una menzogna. — E si potrebbe continuar senza fine in citazioni consimili; le quali ci dimostrano la verità di quella sentenza che ricordò poco fa Carlo Wagner agli studenti universitari francesi: — L’avversario è un collaboratore. Mettete insieme, infatti, tutte le affermazioni, le proposte, le tendenze, le speranze dei valentuomini sopracitati, per ciascuno dei quali il socialismo è un’utopia, e vedete, se, supponendo le une attuate e le altre avviate ad attuarsi, non conducono necessariamente, fra tutte, all’attuazione integrale della idea socialista; vedete se nel centro a cui tutte queste linee ideali convergono si possa essere altra cosa che il socialismo. Tutti questi nostri avversari ci fanno l’effetto di tante persone che portino inconsciamente una pietra per la costruzione d’un edifizio il quale dicono impossibile a costruirsi. Essi non possono concepire una riforma, un’idea di progresso e di miglioramento sociale, la quale non sia un argomento che indirettamente ci confermi nelle nostre convinzioni, un involontario impulso al movimento delle nostre idee, una prova di più che non è possibile progredire se non per la via sulla quale noi li precediamo, e che per non essere trascinati al socialismo non ci son che due mezzi logici: rimanere immobili o retrocedere. Ma il rimanere immobili è per forza d’una legge sociale, inviolabile quanto una legge di natura, impossibile, e il retrocedere pare a quelli stessi che lo vorrebbero una cosa anche più temeraria e funesta che l’andare avanti. Spontanei o forzati, consapevoli o no, sono dunque tutti in varia misura nostri collaboratori. Progressisti arditi o cauti, conservatori tenaci, retrogradi di cuore, se non di fatto, tutti i nostri avversari si ritrovano, rispetto al socialismo, nella condizione di quei cittadini di Nuova York, che vanno sulle «strade giranti»; possono gli uni correre innanzi, altri star fermi, altri camminare in direzione opposta al moto del ponte che li sostiene; ma tutti son portati irresistibilmente da quella parte verso cui la strada procede. E questa verità è compresa oramai anche dalla parte più incolta e più apatica del popolo lavoratore. Non è un socialista italiano che lo dice: è un francese legittimista e conservatore: «Intorno al letto di porpora e di letame su cui muore questa società in decomposizione, il popolo aspetta. Ben persuaso che tutto sarà per lui un giorno o l’altro, egli è più burlone che violento, e meno impaziente che non si creda: egli mostra invece una certa rassegnazione sorniona — una pazienza di erede....» Età agitata. I moti delle classi lavoratrici che interrompono a quando a quando il corso regolare della vita pubblica non paion ai contenti del mondo che perturbamenti funesti dell’ordine, somiglianti ai terremoti, alle inondazioni e a quell’altre commozioni della natura, le quali non producono che rovine. Ma, considerati insieme e in un vasto spazio di tempo, tutti questi sforzi vasti o circoscritti, quieti o violenti, fortunati o sfortunati, con cui le moltitudini tendono a migliorare il proprio stato, tutte queste agitazioni e convulsioni che mettono innanzi alla società nuovi problemi da risolvere, che le ripresentano sotto nuovi aspetti problemi antichi, che la fanno temere, pensare, discutere, cercar rimedi, esperimentar mutamenti, che la costringono, per preservare e risanare il suo organismo, a estirpare da sè abusi e privilegi del passato, a tentar continuamente nuovi modi e forme di funzione e di conciliazione dei propri elementi, sono correnti di vita intellettuale e morale che la ringiovaniscono e la fecondano. Se un miglioramento grande si avrà nell’avvenire, sarà effetto delle perturbazioni e degli affanni che rendono quasi intollerabile la vita presente a tutti coloro a cui pare che l’essere soddisfatti dia il diritto di vivere in pace. Quello che a noi pare irrequietezza morbosa e disordine fatale, a chi giudicherà in tempi lontani il tempo nostro parrà preparazione, lavoro, lotta necessaria, generatrice di bene. A noi sembra di essere in balìa d’un turbine che ci rigiri di continuo nello stesso spazio; ma il turbine, rigirandosi procede, e ci porta innanzi fra le sue spire; e il polverio che ci avvolge e ci fa difficile il cammino è un nuvolo di semi che ricadono sulla terra e germogliano. La società non partorisce senza dolore: soffriamo tutti; ma è legge benefica della vita. Anche nell’animo del borghese impaurito che impreca agli agitatori, e rivorrebbe la quiete antica a prezzo della libertà, si vien formando sotto la paura e la collera un concetto nuovo della giustizia sociale, doloroso, come un dente che spunta, ma ch’egli non può reprimere; ogni giorno, nel secreto della sua coscienza, e a malgrado proprio, egli fa una concessione alle tendenze che avversa; e il germe, che in lui non ha ancora forza di rompere l’involucro dell’egoismo di classe, fiorirà nel suo figliuolo in un’idea umana. In questo cozzo tempestoso di forze e di passioni, che travaglia tutti gli spiriti, l’anima umana ingrandisce, e s’apre lentamente alla luce d’una bontà nuova, che sorge come un astro all’orizzonte del mondo. Simboleggiò forse questo pensiero il grande scrittore del «Germinal» nella scena culminante del suo libro terribile. Dopo i lunghi giorni d’affanno mortali passati dal minatore nelle tenebre delle gallerie franate e dall’ingegnere nel lavoro disperato del salvamento, Stefano, operaio ardente e ribelle, e Negriel, il capo autoritario e scettico, che fino allora s’eran odiati, quando s’incontrano si gettano nelle braccia l’un dell’altro e «singhiozzano a grandi singhiozzi nella commozione profonda di tutta l’umanità che è nell’anima loro». Così nel poema. Passerà la tempesta, e s’incontreranno così nella storia. Mentre passano gli scioperanti. V’è un certo numero di borghesi, i quali, in fondo, per bontà di cuore e per lume di ragione, sono favorevoli, benchè indeterminatamente, al movimento attuale del proletariato; ma che dallo spettacolo di qualunque agitazione di popolo, sia pure nel loro concetto giustificabile, e anche da una semplice passeggiata rumorosa di scioperanti per le strade cittadine, hanno una scossa violenta all’animo, da cui son messe in fuga, come un branco di passeri spaventati, tutte le loro idee democratiche. In ogni torbido popolare vedono la minaccia e il principio d’uno scatenamento fatale dei peggiori istinti della moltitudine, il quale li fa disperare che essa possa mai progredire civilmente per la via della libertà e dell’ordine, nè incivilirsi mai per alcun’altra via. Io ne vidi parecchi, in un’occasione recente, impallidire al passaggio d’una folla agitata, ma non minacciosa, d’operai, e lessi nel loro viso l’amarezza profonda, ch’essi provavano in quel punto, di sentir vacillare e cadere in sè opinioni e sentimenti, dei quali abitualmente si vantavano. È un senso di sgomento improvviso e irragionevole, somigliante a quello che si ridesta a ogni più leggiero tremito reale o illusorio dei muri della casa in chi ha esperimentato una volta il terrore d’un terremoto. E non di meno son gente che, a mente calma, capisce quanta parte di responsabilità, nelle agitazioni del popolo, sia tolta a ciascuno dalla forza che esercita sull’individuo l’eccitazione collettiva, e quanto trascenda la passione e la volontà di ciascuno il fluido inebbriante che si sprigiona dal contatto delle persone e dalla confusione delle voci. Essi non rammentano, in quei momenti, le urlate e le baruffe selvagge dei parlamenti, le irruenze devastatrici delle studentesche, i tumulti furiosi di molte adunanze, non composte che di cittadini delle classi superiori, ma divisi da passioni di partito e da opposizioni d’interessi economici. Essi non pensano in che larga misura concorra a far trasmodare la folla popolare una naturale reazione che, in quella breve ebbrezza di libertà, s’opera in essa contro la monotonia pesante della vita ordinaria, del lungo lavoro sempre eguale, del pensiero ristretto, dell’immaginazione compressa dalle consuetudini meccaniche, della necessaria rinunzia quotidiana a mille piccoli desideri, continuamente rieccitati dallo spettacolo di chi li appaga e ne cerca senza posa di nuovi, non per altro che per aver l’occupazione d’appagarli. Essi non considerano, quando eccessi veri si hanno a lamentare, che in quelle folle s’intromettono, non voluti e irriconoscibili, elementi sfrenati e malefici, delle cui violenze è ingiusto il far ricadere la colpa sulla moltitudine intera: elementi che s’insinuano anche nelle dimostrazioni pubbliche, quando queste si prolungano, della gioventù studiosa, che s’intromettevano anche nelle più nobili agitazioni patriottiche del passato, che da per tutto si fanno armi offensive d’ogni idea e d’ogni passione più santa, quando questa invade in forma di torrente umano le vie e involontariamente ricopre e protegge con le sue onde gli sfoghi individuali della malvagità e della vendetta. Per questo il «buon popolo lavoratore» ogni volta che appena si muova, si trasmuta ai loro occhi nella «Gran Bestia» e assistendo alle manifestazioni del suo malcontento essi passano davvero di assai brutti quarti d’ora di ansietà e di amarezza. È il ricordo e il timore di quei quarti d’ora che, al primo annunzio di ogni sciopero, e prima d’ogni considerazione delle sue cagioni e del suo scopo, desta in loro un senso di molestia e d’avversione, una tendenza a condannarlo senz’altro come un turbamento colpevole della pace pubblica, a giudicarlo non mosso da altre cause che dall’istigazione di pochi mestatori e da un bisogno turbolento di ribellione e di fannullaggine. E sogliono dire: — In che maniera non pensano questi male ispirati alle privazioni e alle angoscie a cui vanno incontro, e a cui trascinano le loro povere famiglie? — Come se fosse possibile che non ci pensassero di continuo, poichè esse cominciano, si può dire, fin dal primo giorno, e come se avessero altro a cui pensare! Il vero è che, mentre lo sciopero dura, sono essi, gl’impauriti, quelli che a tali privazioni ed angoscie non pensano, avendo tutto l’animo occupato dall’affanno proprio; chè se le avessero presenti al pensiero, come dovrebbero, sarebbero disposti ad una grande indulgenza per coloro che le patiscono, anche giudicando che questi ci siano andati incontro senza ragione. E se serbassero maggiore tranquillità d’animo in quei giorni, invece di approvare i privati che, giudicando uno sciopero ingiusto e dannoso a un interesse generale della cittadinanza, largiscono pubblicamente dei premi in danaro agli operai rimasti al lavoro, riconoscerebbero che un tale atto sarebbe soltanto ragionevole e umano quando quegli stessi donatori aiutassero con oblazioni i lavoratori a sostenere la lotta, nei casi non rari di sciopero, in cui la ragione è palesemente dalla parte loro, e nessun interesse generale è danneggiato: del qual fatto sarebbero molto imbarazzati a citare un esempio. Così è. Fa più nemici a ogni buona causa la paura che la persuasione e l’interesse: anche l’interesse, sebbene la paura nasca da questo, perchè in molti, a cuor pacato, il sentimento dell’interesse individuale o di classe non è tanto forte da toglier loro la percezione e il rispetto dell’interesse altrui: è la paura che lo ingigantisce e lo accieca. Disse Garibaldi che «la paura non serve a niente». Così fosse soltanto! Ma è ben di peggio. Essa confonde la visione del vero, offusca il concetto della giustizia, comprime il sentimento della pietà, e paralizza ogni forza benefica d’azione civile. Il malinteso borghese. L’«ignoranza plebea» è quella della moltitudine, la quale non sa perchè non ha studiato e non ha studiato perchè non ha potuto; nè si può disconoscere che questa ignoranza sia senza colpa. Eppure come d’una colpa ne parlano con iroso disprezzo coloro che attribuiscono ad essa la facilità con cui il popolo accoglie «le illusioni del socialismo». Se poi osservate loro che in tutti i paesi queste «illusioni» sono più facilmente accolte dalla parte più incolta, essi rispondono che sono egualmente facili ad illudersi «l’ignoranza e la mezza cultura». Ebbene, arrestiamoci qui, perchè l’argomento si può rivoltare. La mezza cultura è facile del pari ad accettare idee false e a respingere e a dileggiare delle giuste, soltanto perchè nuove e grandi. Non sarebbe per l’appunto la mezza cultura della nostra borghesia quella che la fa così arditamente sentenziar false, insensate, chimeriche le idee socialistiche? Ogni socialista si persuade di questa verità dopo aver riconosciuto per esperienza che, quanto più gli avversari con cui gli occorre discutere quelle idee sono largamente e profondamente colti, tanto più si mostrano inclini ad accettarne alcune, cauti nel respingere le altre, disposti a ponderarle tutte, e gravemente pensierosi del corso e degli effetti che esse possano avere nell’avvenire. Via via che si discende sulla scala della cultura, si trova una più feroce ostilità. Toccato sul socialismo il professore universitario riflette e ragiona; il capomastro arricchito strepita e sputa. E questa diversità ha un grande e consolante significato. Si obbietterà: — In che maniera potete parlare di mezza cultura in Italia, dove gli studi economici, per consenso anche di illustri stranieri, sono spinti innanzi e diffusi più che in ogni altro paese? A questa domanda risponde un valente sociologo italiano (che non è socialista) in uno scritto «sul movimento economico e sociale in Italia» pubblicato da un’importante rivista belga. Risponde che i cultori di questi studi, fra noi, formano quasi una classe a parte, che influisce pochissimo sulla borghesia, la quale sta fuori quasi affatto dalla cultura superiore, in modo che il grande progresso degli studi economici e sociali non è in relazione diretta con quello della cultura pubblica. E in prova di ciò allega il fatto che la grande maggioranza delle nostre persone colte, ignorando che le dottrine del socialismo hanno ormai un largo e saldo fondamento scientifico, ne parlano ancora candidamente come di compassionevoli utopie. E cita un grande e autorevole giornale italiano, che pochi mesi sono pronunciava ancora questa sentenza: «Il socialismo è il danaro degli altri». Ebbene è così. Ma uomini dotti in scienze e in lettere, persone che reggono alte cariche dello Stato, giovani e signore brillanti dell’aristocrazia intellettuale, e bravi insegnanti e ottimi impiegati e funzionari e proprietari anche di alto bordo, la grandissima maggioranza, insomma, della nostra media ed alta borghesia, è ancora a questo segno. Interrogateli, tastateli intorno alla più grande questione del tempo nostro, voi riconoscerete subito, in quasi tutti, l’ignoranza perfino del significato proprio delle parole più indispensabili a discutere; v’udite dare di quelle risposte che vi rivelano istantaneamente l’assoluta inutilità di ogni discussione, e vi fanno rimanere stupefatti, presi da un senso di tristezza e di pietà che vi mozza la parola. Sì, a questo punto siamo ancora in Italia. Questa profonda agitazione di popoli, che ha la sua causa in tutte le miserie e in tutti i dolori umani e trae la sua forza da tutti i progressi materiali e morali dei tempi nuovi; questa aspirazione di milioni e milioni d’uomini a salire ad un ordine di vita più degno, a godere della parte che loro spetta dei beni che essi producono, ad affrancare il proprio lavoro dalla servitù che lo strozza e l’anima loro dalla ignoranza che li incatena e li avvilisce, questo irresistibile movimento del proletariato «spinto da tutte le forze della storia e da tutte le necessità economiche del secolo» ad un miglioramento di Stato che andrà a vantaggio di tutto quanto il corpo sociale e attuerà una forma di civiltà superiore, impossibile a immaginarsi raggiunta per altra via; tutto questo non è che.... «il denaro degli altri». Questo sentimento invincibile, d’un nuovo diritto che in questi paesi urta e scuote dalle fondamenta l’edificio delle vecchie legislazioni e vuole conversa in pro dei milioni di deboli la protezione della legge non sfruttata finora se non da pochi che la dettarono; questa ribellione della coscienza universale contro il disordine della produzione, contro la furia pazza della concorrenza seminatrice di rovine; contro le disuguaglianze mostruose e la mostruosa tirannia delle ricchezze usurpate e confederate a pubblico danno; questo vasto e possente soffio di pietà e di fraternità che tende ad associare tutte le forze a benefizio comune, sopprimendo le cagioni degli odii e delle violenze sociali e conciliando tutta la libertà con tutta l’uguaglianza possibile in una forma di Stato che non sia altro che «la volontà organizzata di tutti»; tutto questo non è che.... «il danaro degli altri». Tutti i grandi intelligenti che da mezzo secolo hanno forzato l’economia politica a riconoscere di non esser soltanto «la coscienza dell’egoismo umano» e hanno gettato lo sgomento e il disordine fra le file dei vecchi campioni del brigantaggio legale: l’uomo di genio che con uno dei più poderosi sforzi che abbia mai compiuto il pensiero umano ha dimostrato la trasformazione sociale come la meta inevitabile di tutta l’evoluzione storica, suscitando dietro di sè una legione di dotti e intrepidi apostoli che hanno conquistato la Germania; i potenti pensatori americani ed inglesi che con maraviglioso apparecchio di dottrina agitano da anni la formidabile questione della «nazionalizzazione della terra»; i sapienti ed infaticabili organizzatori belgi che con un lavoro miracolosamente paziente hanno fatto già «emergere dal mare borghese un arcipelago di isole socialiste» pronte a riunirsi alla prima scossa tellurica in un continente; tutti i privilegiati e i ricchi d’ogni nazione, che, spinti dalla ragione e dal cuore verso la nuova Idea, hanno per essa rinunziato agli onori, alle ricchezze e alla pace; e tutti quegli altri innumerevoli di ogni classe che, senza alcuna speranza di vantaggio personale neanche remoto, hanno affrontato ed affrontano per quella Idea calunnie, persecuzioni, esilii, miseria, alteri dei loro sacrifizi, incrollabili nella loro fede, ricompensati di ogni danno e felici per quella speranza d’un mondo migliore che portan nell’anima; tutti costoro non sono che gente.... che vuole «il denaro degli altri». Questo a molti della classe proletaria parrà incredibile. — Non credono quello che dicono — penseranno essi — così diranno per ira o per ostentazione di noncuranza a chi con lo spauracchio del socialismo li turba: ma, in realtà, intuiranno la grandezza dell’Idea e dei fatti, e celatamente se ne occuperanno con curiosità e con coscienza. — Ma no, punto. Ci sarà qualche rara eccezione. Ma la grandissima maggioranza, giudicando come giudica, è in piena buona fede, e per naturale indolenza o per dispettoso proposito tiene rigorosamente chiuso l’intelletto a tutto quest’ordine di idee, e con puerile ostinatezza ripete all’infinito contro le nuove dottrine degli stessi logori, decrepiti argomenti ereditati dalle passate generazioni, strepitando contro chi, anche con le più miti forme, insiste a farle osservare che non servono più. Bene ha detto non so che storico: che Dio acceca le classi sociali che vuol perdere. Ed è fiato perso dir loro come il cardinale Manning — che è insensatezza il chiudere gli occhi per non vedere l’abisso verso cui si corre. Si consolino dunque quei rozzi lavoratori, che qualche volta si dolgono e si vergognano di mancar della coltura necessaria per comprendere pienamente la grande questione che li interessa. Quel monco e vago concetto che essi possono avere dei vizi del nostro ordinamento sociale e delle vaste riforme disegnate è quasi una cognizione luminosa in confronto della «_voluta oscurità del sepolcro_» in cui rimane a tal riguardo la mente della maggior parte della gente colta, oscurità in cui socialisti e ladri di strada, collettivismo e anarchia, Carlo Marx e Davide Lazzaretti, e organizzazione del lavoro e divisione dei beni e naufragio della civiltà, formando tutto una arruffata inestricabile fantasmagoria, attraverso alla quale passa una volta all’anno un lampo livido di paura, non tanto per illuminarla, quanto per accrescerne la miseranda confusione. Si consolino dunque. Coll’andar del tempo, istruiti dalla propaganda, esercitati dalla riflessione, essi comprenderanno sempre meglio gli elementi della dottrina e la ragione degli avvenimenti; mentre il maggior numero dei loro avversari, avendo sempre più annebbiata la mente dall’orgoglio offeso e dalla crescente inquietudine, _capiranno sempre meno_ dell’una e dell’altra cosa. Il socialismo, rovesciate le ultime barriere internazionali, invaderà il loro paese come un oceano, ed essi cercheranno ancora all’orizzonte i «pochi abitatori», cagione unica della inondazione, per denunziarli alle Autorità costituite. La marea montante inghiottirà l’una dopo l’altra istituzioni fracide, privilegi iniqui, idoli falsi e ricchezze scellerate, ed essi crederanno quello il trionfo passeggiero di un’idea pazza, portata in su da un’ondata improvvisa della canaglia; «e avranno l’acqua alla gola che non capiranno ancora»; _e moriranno affogati, senz’aver capito ancora_. E se risuscitando di qui a cent’anni, potessero vedere estirpata dal mondo la miseria, rigenerate le plebi, trionfante la giustizia e mutata in libertà vera questa larva miserabile che ne porta il nome, credo che davanti a quello spettacolo crollerebbero il capo in atto di sdegno, dicendo: — Tutto questo non è che.... «il danaro degli altri». L’eguaglianza nel socialismo. Tempo fa, un giovane drammatico, del quale ammiriamo l’ingegno vigoroso, rispondeva alla circolare d’un giornale, che domandavagli la sua opinione intorno al socialismo: « — Vi sono avverso perchè _socialismo_ significa _eguaglianza_, e questa sola parola mi irrita». Questa risposta, che esprime il pensiero di molti, ci suggerisce alcune considerazioni. Prima di tutto, non ci pare una risposta chiara. A quale eguaglianza, domandiamo all’egregio autore, volete alludere? Non vi domandiamo se è «l’eguaglianza davanti a Dio» perchè, se siete credente, la domanda sarebbe per voi un’offesa, e se non lo siete, non avrebbe per voi alcun senso. Non vi domandiamo se avete accennato all’«eguaglianza davanti alla legge», perchè per voi, cittadino italiano liberale, sarebbe anche questa domanda un’ingiuria. Non vi domandiamo neppure se avete inteso di dire «l’eguaglianza di tutti gli uomini nell’estimazione pubblica», perchè non possiamo supporre che voi attribuiate al socialismo l’ideale assurdo di una società in cui l’uomo ottuso, fiacco, inutile, vile o malvagio e l’uomo d’ingegno, di cuore e di carattere, operoso e utile ai suoi concittadini, siano considerati tutt’uno. Voi capite benissimo che, qualunque eguaglianza debba regnare nella società da noi presagita, fra il semplice lavoratore meccanico e l’inventore d’una macchina che allevierà il lavoro a migliaia di braccia, fra il portinaio del teatro e l’autor drammatico che rallegrerà e commoverà migliaia di cuori, vi sarà sempre nel concetto pubblico, la distanza che separa la stima dall’ammirazione, la benevolenza dall’entusiasmo, l’oscurità dalla gloria. Dicono il contrario i nemici del socialismo ignoranti ed ipocriti; non lo dite dunque voi, si capisce. Non pensiamo nemmeno che abbiate fatto allusione all’«eguaglianza economica», poichè la favola dello Stato socialista in cui tutti mangiano la stessa razione e vestono gli stessi panni non è più sfruttata neppure dai burloni di mala fede e di poco spirito; perchè voi non ignorate, senza dubbio, che la formola: «a ciascuno secondo i suoi bisogni» non esprime che un ideale remoto, non reputato attuabile, anche dai socialisti, se non in un tempo in cui la produzione sia cresciuta sotto ogni sua forma, a tal segno, da sopprimere il problema stesso della ripartizione; perchè voi sapete certamente (e lo sa il più incolto degli operai socialisti) che la formula del socialismo è: «a ciascuno secondo le sue opere»; ciò che sottintende una diversità di guadagni, corrispondente alla varia qualità e quantità del lavoro, e quindi una diversità di agiatezza e di modi di vita, non contradetta punto dal principio dell’abolizione «della proprietà privata dei mezzi di produzione»; la quale consente ogni altra maniera di proprietà, di oggetti utili e superflui, di comodità, di diletto e d’ornamento, acquistabili col frutto diretto del proprio lavoro. Quale può esser dunque il Vostro pensiero? È forse questo: che nello stato d’eguaglianza voluto dal socialismo non sarà più possibile a chi è dotato di grandi facoltà d’intelletto e di elette qualità d’animo l’ottenere il premio, secondo voi meritato, della ricchezza? Se tale è il vostro pensiero: — Guardate intorno a voi, vi rispondiamo — e vedrete se, nella società presente, son le facoltà più alte della mente e le qualità più elette dell’animo quelle che, nella maggioranza grandissima dei casi, conducono alla ricchezza. È evidente anche all’intelligenza d’un fanciullo che esse non vi conducono se non per rarissime e quasi miracolose eccezioni, e per via assai più lunga e difficile di quella per cui vi giungono delle facoltà intellettuali di second’ordine, aiutate dall’audacia, dalla fortuna, dall’astuzia, dalla mancanza di scrupoli, dal disprezzo dell’opinione pubblica, da un vigore selvaggio di volontà, da una violenza brutale di egoismo che toglie all’uomo ogni carattere di creatura cristiana e civile. Guardatevi intorno e vedrete, in tutti i campi dell’attività intellettuale, e specialmente in quello delle scienze, delle lettere e delle arti, che è il campo vostro, quanti sono gli uomini d’ingegno, anche elettissimo, e di rara operosità, i quali, non per loro particolare sfortuna, ma per forza regolare delle cose, rimangono per tutta la vita in uno stato di mediocrità economica vicino all’angustia, costretti a un lavoro logorante e a una lotta affannosa, piena d’umiliazioni e dà amarezze. Su cento uomini d’ingegno — ed onesti, si sottintende — perverrà uno solo — per la sola virtù del proprio ingegno, — all’agiatezza; e all’opulenza, uno su mille. Il numero dei fortunati è dunque così scarso che non sarebbe ragionevole nè umano, solo per lasciare a quei pochissimi la strada aperta alla ricchezza, il respingere una riforma sociale che condurrebbe a uno stato migliore dei milioni. L’eguaglianza che voi non volete sarebbe forse quell’«eguaglianza nelle condizioni iniziali della lotta per la vita» voluta dal socialismo, la quale renderebbe possibile a tutti gli uomini d’ingegno di qualunque stato sociale l’educazione delle loro migliori facoltà e quindi il concorso ai più alti uffici intellettuali, che sono ora in massima parte circoscritti, e quasi ereditari in una classe sola? Non lo crediamo perchè vi sarebbe contraddizione stridente fra la vostra avversione a siffatta eguaglianza e la vostra coscienza d’uomo d’ingegno a cui pare che l’esercizio utile di una intelligenza superiore dia diritto a una condizione di vita privilegiata. Non lo crediamo, perchè è impossibile che voi non sentiate nel cuore le mille voci che vi gridano dai campi e dalle officine: — O signori, poichè dite che l’ingegno è un dono di Dio, e lo volete onorato e protetto, affermato che ha lui il governo del mondo, perchè non lo cercate, come l’oro nella terra, da per tutto dove si cela? Nascono anche fra noi intelletti potenti che poggerebbero nelle scienze e nelle arti ad altezze mirabili, giovando al mondo: perchè li lasciate all’aratro e all’incudine? Perchè alla gara degl’ingegni, fra cui la società deve scegliere a servirla i più forti, non chiamate anche i nostri, voi che dite che la libertà politica ha aperto a tutti le vie? — No, voi non potete non sentire che questo grido è giusto, nè potete non comprendere che l’eguaglianza «nelle condizioni iniziali della lotta per la vita» fra tutti i cittadini, consentendo la scelta degli ingegni sopra una concorrenza centuplicata, produrrebbe a vantaggio della società una selezione intellettuale cento volte più rigorosa e feconda di quella che oggi si compie. Non è dunque neppur questa, senza dubbio, l’eguaglianza da cui voi ripugnate. Quale può essere allora il vostro pensiero e quello degli altri moltissimi che avrebbero dato la vostra stessa risposta? Qual’è la ragione per cui, anche astraendo da ogni idea d’eguaglianza economica, suona così ingrata e spaurevole questa parola alle persone della vostra classe, siano coltissime o inverniciate appena di lettere, siano ricche o agiate e anche vicine alla povertà? Sono, a parer nostro, molte ragioni e sentimenti diversi e confusi, ragioni d’interesse e d’orgoglio, legate ad abitudini e a pregiudizi antichi; la maggior parte delle quali nessuno osa dire apertamente, e moltissimi non saprebbero neppur spiegare a sè stessi. Prima di tutto, essendo fermo nella più parte il concetto che la gran moltitudine dei lavoratori poveri non possa innalzarsi mai, quasi per legge di natura e per una specie d’inferiorità congenita, a dignità di vita intellettuale e a gentilezza di sensi e di modi, pare alla più parte che il voler l’eguaglianza non possa significar altro che voler rendere tutti ignoranti e rozzi a un modo. Oltre di ciò, nelle condizioni attuali della società, noi della classe borghese (diciamo «noi» soltanto per esprimerci più chiaramente per il fatto d’appartenere a una classe che ha in mano la somma delle forze sociali e trae dalla comunanza degli interessi uno spirito di solidarietà suo esclusivo) godiamo di mille soddisfazioni morali e protezioni e favori, che temiamo, confondendosi le classi, di perdere. La prima protezione, innegabile ed evidentissima, è quella della giustizia, esercitata da cittadini della classe nostra, compresi dei nostri sentimenti; dei nostri interessi e delle nostre idee. La prima soddisfazione è quella di sentirci, anche se mediocri d’intelligenza e scarsi di cultura, infinitamente superiori ai nove decimi della popolazione, mantenuti necessariamente in uno stato di ignoranza quasi barbarica: facile superiorità, che, coll’assurgere della moltitudine a un più alto grado d’educazione intellettuale, ci sarebbe tolta o scemata. Di più, noi abbiamo assegnato, per interesse di classe, ad ogni anche facilissimo ed umile lavoro intellettuale un grado di nobiltà, così ingiustamente superiore a quello d’ogni lavoro meccanico anche più utile e difficile e pericoloso, che un mutamento dello spirito pubblico, il quale innalzasse l’opera manuale all’estimazione che le è dovuta, ridurrebbe l’opera della maggior parte di noi al livello di questa; onde temiamo quel mutamento.... S’aggiunga che noi temiamo di perdere il diritto, che, per un’esagerazione egoistica, di amor paterno, ci siamo creati, ma della cui giustizia non siamo veramente persuasi, di tramandare ai nostri figli l’agiatezza che abbiamo acquistata, col nostro lavoro: ossia la facoltà di vivere senza lavorare, di godere dei beni da noi non guadagnati, senza quella ingiustificazione che li fa nostri nella nostra coscienza. E non basta: noi ci siamo fatto un mondo a parte, in cui si può goder la stima o l’apparenza del rispetto di tutti anche non facendo nulla, o smettendo di lavorare, per vivere a spese pubbliche, venti anni prima di non esser più abili al lavoro, o esercitando l’ingegno in frivolezze o sciupando insensatamente il proprio avere: un mondo in cui si può acquistar simpatia e considerazione sfoggiando un’istruzione superficiale e in gran parte inutile, usando certi modi convenzionali, parlando un certo linguaggio di cerimonia e vivendo secondo certe regole di decoro da noi stabilite: tutti vantaggi e privilegi che svanirebbero affatto in una società in cui il valore degli uomini si misurasse alla sola stregua della loro opera di lavoratori. Noi temiamo, infine, la perdita del lusso, che dà in parte le compiacenze della gloria, e che è una specie di gioia comprata; la facilità di acquistar nome di benefici e di esser lodati e benedetti dando alla povertà la centesima parte del nostro superfluo, la soddisfazione di andar distinti dalla moltitudine per mezzo di titoli e di segni onorifici di agevole acquisto, che sono per la nostra classe ciò che i gioielli e i fiori di cui s’orna la donna davanti allo specchio, ed altri infiniti godimenti e diletti raffinati, non possibili che a chi ha denaro e tempo da gettar via; nei quali diciamo che consiste l’essenza della civiltà, mentre non son che i segni della sua vanità e della sua corruzione. Queste sono le ragioni vere, per le quali aborriamo tutti, quasi istintivamente, da quella qualsiasi eguaglianza che il socialismo annunzia, e perchè queste ragioni ci vergogniamo di dirle, ne alleghiamo dell’altre, a cui neppure noi diamo fede, come quelle della «società convertita in caserma» e della «terra distribuita a pezzi fra tutti» e delle «anime ridotte tutte a uno stampo», per dirla con l’autore delle «Vergini delle rocce»; la quale ultima è il più sciocco, il più vieto e il più compassionevole sproposito che si possa lanciare contro il socialismo. A tutte le accennate ragioni d’avversione alle nostre idee se ne aggiunge negli scrittori una particolare, ed è un segreto risentimento che essi nutrono contro le moltitudini incolte, le quali non comprendono l’opera loro ed anche ignorano in gran parte la loro fama. Ma chi ha mente e cuor vero d’artista non dovrebbe esser capace di questo risentimento ingiusto, che ha radice in un orgoglio meschino; dovrebbe anzi in quel fatto che può addolorarlo, ma non offenderlo, riconoscere un argomento in favore dell’idea socialista, la quale portando con sè un più alto grado d’istruzione popolare, innalzando la folla a uno stato di vita più intellettuale, promette agli scrittori e agli artisti un ben altro campo di gloria da quello che oggi è loro concesso. Come non pensano essi che cosa sarebbe la loro potenza quando il raggio del loro pensiero, non più intercettato dal baluardo d’ignoranza che divide ora la società in una piccola minoranza civile e in una grandissima maggioranza semi-barbara, penetrasse a traverso a tutti gli strati sociali, recando la sua luce e il calore dalle capanne della montagna ai sotterranei della mina, dappertutto dove c’è un cuore che palpita e una fronte che suda? Come l’anima loro non s’infiamma di speranza e di entusiasmo a questa idea? E come non presentono che questo dev’essere e che sarà certamente, se la ragione umana non si spegne? Sì, questo sarà. La parola dello scrittore di genio che ora corre come un rigagnolo, serpeggiante in un vasto letto arido dove pochi passanti ne raccolgono il mormorio e ne godono il refrigerio, sarà nella società avvenire un fiume dalla voce enorme, chiamerà a dissetarsi sulle sue vaste sponde e ad attingere acque fecondatrici un popolo intero. E il piccolo plauso teatrale che dà agli scrittori d’oggi il coro angusto dei privilegiati della cultura, parrà ai grandi scrittori d’allora una ben misera cosa appetto alla suprema dolcezza di sentir mormorare il proprio nome in suono di gratitudine dall’onda immensa del popolo che lavora. E molti di essi diranno in quel tempo: — Non ci ricordate la «disuguaglianza» della società passata, che inceppava l’ingegno e strozzava la gloria: «quella sola parola c’irrita». Filippo Turati al Tribunale di Guerra. Giungeva il carrozzone del cellulare, un gran cassone chiuso e tetro come un feretro. Mi parve di vedere, attraverso le pareti, gli imputati — Turati, De Andreis, Morgari — coi ferri ai polsi e mi gonfiò il cuore. — Oh, no! — pensai — lì dentro non c’è un delitto, ma una idea! E mi consolai al pensiero che l’idea nazionale aveva patito per cinquant’anni la stessa sorte. Un minuto dopo giunse a piedi un gruppo di ufficiali di varie armi, in alta tenuta, con la fuciacca azzurra a bandoliera, muti e gravi, visibilmente compresi della terribile responsabilità che stavano per assumere. Entrai fra loro.... Giunse poco dopo, sola, la madre di Turati, che da tre mesi conduceva una vita di mortale angoscia. Ha il volto pallido, interroga tutte le faccie con attento sguardo e inquieto, e parla con voce tremante. La maggior inquietudine sua è per la salute del figlio, che teme non possa reggere al regime della prigione.... Un ricordo assai lontano mi tornò alla memoria nell’udir parlare la povera signora. Trentasei anni or sono suo marito era prefetto di Cuneo, dove mio padre era impiegato; veniva qualche volta da noi un bimbo di quattro anni, la cui giacchetta corta, di color nocciuola, mi è rimasta impressa nella memoria. Quel bimbo era Filippo, il futuro direttore della «Critica sociale» e deputato per Milano predestinato al Tribunale di guerra.... ..... Venne il mio turno. L’ufficiale difensore pregò il Presidente d’interrogarmi se credevo possibile che Turati fosse stato preparatore o istigatore o complice in alcun modo ai tumulti! La risposta era facile. Io conoscevo tutti gli scritti e i discorsi suoi dai quali emerge lucidissimo questo convincimento, che è assurdo condurre a fine una rivoluzione economica con la violenza; che può prepararsi solo con l’educazione intellettuale, morale e civile delle moltitudini, con una trasformazione profonda della coscienza pubblica, con una lenta e progressiva organizzazione delle classi lavoratrici; che i predicatori della rivolta, specialmente nel nostro paese, meno maturato d’ogni altro a qualsiasi improvvisa e radicale trasformazione sociale, sono i più pericolosi nemici del socialismo. Turati non s’era mai sviato da queste idee. Era violento nella forma, ma per temperamento di scrittore, non con propositi di propagandista. Comunque non era mai stato un propagandista da esercitare immediata influenza su le masse, per la sua forma troppo letteraria, pel ragionamento troppo fine.... .... Il presidente mi rilasciò in libertà. Gli domandai il permesso di salutare gli accusati. Me lo concesse. Mi avvicinai al banco e strinsi le tre mani che cercavano la mia, dicendo: A rivederci! Ma la mia mano tremò nello stringere quella di Turati: un triste presentimento mi passò pel cuore: quello di non rivederlo più! * La mia deposizione nel processo a Filippo Turati. Ho letto tutti gli scritti di Filippo Turati. L’opera del sul ingegno acutissimo, sostenuto da una salda coltura scientifica ed armato d’una dialettica potente, concorse in gran parte a farmi accettare la dottrina ed abbracciare la causa del socialismo. Non parlai con lui che poche volte. — Fra le prime parole di lui, che mi rimasero più impresse, ricordo le seguenti, ch’erano in un articolo ch’egli diresse alla classe lavoratrice per distoglierla da ogni tentativo di ribellione violenta. — «E se anche vinceste, sareste capace di cogliere i frutti della vittoria? Vi trovereste ora in grado di mandare avanti le industrie e le amministrazioni, di sostituire la borghesia nella funzione sociale che essa compie attualmente?» In tutti i suoi scritti letti dappoi lo trovai sempre coerente a quel concetto. Non conosco altro scrittore socialista in cui mi sia sempre parsa così profonda, così lucida come in lui la convinzione dell’assoluta inefficacia d’un’azione improvvisa e violenta a compiere una rivoluzione economica; nessuno più profondamente persuaso della impossibilità di trasformare l’organismo sociale senza una previa, graduale, lenta trasformazione delle idee e delle istituzioni presenti; nessuno che abbia più spesso e più evidentemente dimostrato la lunghezza e la difficoltà del cammino che resta a percorrere al proletariato italiano sulla via dell’educazione morale e civile dell’organizzazione delle proprie forze e dell’esercizio dei propri diritti politici per giungere all’attuazione dell’idea socialista. Nei suoi scritti lo trovai violento spesso, anzi quasi sempre, contro avversari, contro idee, contro sistemi; non violento per ciò che riguarda i mezzi e i modi di lotta che il partito socialista dovesse seguire per raggiungere i suoi fini. Se qualche volta egli fosse uscito dalla retta via, io mi sarei valso dell’autorità che mi dava su lui l’età maggiore per richiamarlo su quella via. Se avessi una volta sospettato che fosse intento occulto del partito socialista, del quale riconoscevo in lui il più autorevole interprete, l’azione violenta — persuaso com’ero, e come sono, dell’insensatezza di un tale intento — non avrei esitato un’ora a ritirarmi dal partito pubblicamente, e sarebbe stato Turati il primo a cui ne avrei dato l’annuncio. Se, d’altra parte, avesse avuto un tale intento il Turati, logicamente gli sarebbero dovuti parere discordanti dal suo modo di sentire e di pensare, troppo pacifici, troppo miti gli scritti e i discorsi miei; egli non mi diede mai su questi, invece, che le più benevole, le più esplicite approvazioni. E un’altra prova per me evidentissima ch’egli non intese mai ad eccitare le passioni della moltitudine, a muovere il popolo alla rivolta, è questa: che adoperò sempre nei suoi scritti un linguaggio letterario e scientifico condensato e sottile, pieno di citazioni, di finezze e di sottintesi artistici, assolutamente superiore alla intelligenza media dei lettori della classe operaia. Ero tanto persuaso, tanto certo ch’egli non avesse provocato in nessun modo i tumulti di Milano, che quando ne intesi la prima notizia domandai subito a me stesso: — Come mai Turati non è riuscito a impedirli? — E senza saper altro non dubitai un momento che per impedirli egli non avesse fatto ogni sforzo possibile, come seppi in seguito che veramente fece. E subito e poi, a chiunque mi domandò se credevo ch’egli avesse in qualsiasi maniera, o apertamente o di nascosto, preparato o contribuito a preparare o non cercato di scongiurare o anche soltanto approvato o desiderato quello che avvenne, una sola risposta diedi sempre, immediata, sicura, risoluta come un grido del cuore e della coscienza: — Lui! Turati!... Ah! è impossibile, è assurdo! Ne son certo come della mia esistenza. Un Comitato elettorale. Quattro anni fa, una sera d’autunno, andai per la prima volta a portare il mio obolo al Comitato Elettorale Socialista, che era in una delle più povere case d’una delle più vecchie strade di Torino. Attraversai due cortili oscuri, salii quasi a tentoni per una scaletta da campanile, ed entrai in una stanza bassa e nuda, mal rischiarata da un piccolo lume a petrolio, posto sopra a un tavolino senza vernice, intorno al quale stavano seduti tre operai che scrivevano. Non credo che alcun Comitato elettorale democratico abbia mai avuto un ricetto più conforme all’austerità dei suoi principii. V’era in un angolo, sopra una cassetta, un poligrafo di prezzo minimo; in mezzo a una parete un foglio di carta, appeso ad un chiodo, con su il motto di Garibaldi: IL SOCIALISMO È IL SOLE DELL’AVVENIRE, scritto a mano; pacchi di circolari ammucchiati sull’ammattonato; nessun mobile, fuorchè il tavolino e due panche; le pareti chiazzate d’umido, le finestre coi vetri rotti, uno squallore di carcere. — Povero Comitato Socialista — dissi fra me — e che potrai fare qui dentro? E pensando agli altri Comitati che si davano moto in quei giorni, ai grandi uffici di giornali, ai salotti politicanti, alle belle sale d’Alberghi e di Circoli dove si preparano le altre candidature, e alle centinaia di servitori e alle migliaia di lire e agli innumerevoli mezzi di coazione e di corruzione di cui gli altri partiti potevano servirsi e si servivano, per comperar coscienze ed estorcere voti, e paragonando quella potenza lontana alla miseria presente, confesso che fui preso da un sentimento di pietà e di tristezza misto a quell’accoramento amaro che ci dà l’umiliazione di una persona amata. E una sfiducia improvvisa — faccio anche questa confessione poco onorevole — mi vinse. Mi appoggiai a una parete e stetti pensando. Intanto altri entravano. Entrando buttavano sul pavimento i fiammiferi che avevano accesi per rischiarare la scala. Erano operai che venivano dalle officine coi capelli arruffati e le mani nere, studenti, impiegati, maestri; uomini maturi e giovinetti; qualcuno coi capelli bianchi. Entravano a coppie, a gruppi, a uno a uno, in silenzio. Alcuni parevano stanchi, altri sopra pensiero. Ma appena entrati, e stretta la mano agli amici, mutavano viso. Poi s’avvicinavano al tavolino, e ciascuno dava il suo obolo, in logori biglietti d’una lira o cinquanta centesimi, o in soldi, che contavano sulla mano. Davano gli uni la bottiglia di vino di cui avevano bisogno, gli altri la provvista di tabacco d’una settimana, chi la serata al teatro che desiderava, chi la scampagnata domenicale che vagheggiava da un mese. — E perchè? pensavo, guardandoli. Ne conoscevo una buona parte e avevo ragionato con loro. Nessuno sperava una vittoria, e neppur una dimostrazione elettorale notevole. Nessuno anche confidando in avvenimenti straordinariamente favorevoli e in una diffusione meravigliosamente rapida dell’Idea socialista, sperava in un miglioramento qualsiasi del proprio stato; molti, da un mutamento prossimo dello stato sociale avevan piuttosto a temere danni che a sperare vantaggi; ed io sapevo che lo sapevano. E nondimeno davano il loro danaro con la compiacenza manifesta di chi compie un dovere di cui è profondamente persuaso. Sul viso di tutta quella gente traspariva la coscienza ferma e tranquilla di servire una causa, di esser sulla via della verità, di volere il bene di tutti e di aver per sè l’avvenire. Si poteva esser certi che non vi era fra di loro un’ambizione nascosta, una coscienza comprata, una volontà costretta, un sentimento malfido. Vedevo giovani studenti che chiamavano per nome operai cinquantenni, mani bianche che stringevano mani nere, crocchi di persone d’ogni classe fra cui appariva un accordo di sentimenti e una maniera di familiarità, che non avevo visto mai in alcun tempo e in alcun paese. Mi pareva di veder gli elementi della nostra società disciolta che si cercassero e si unissero in una forma di società nuova, animata da un nuovo concetto della vita e del mondo, retta da nuove ragioni di stima e d’affetto reciproco e da leggi nuove di rispetto e di gentilezza, più sapientemente civili, più sinceramente cristiane di quelle che vedevo seguite in ogni altro convegno o commercio di cittadini di diverso stato. Quell’adunanza era per me ad un tempo una realtà e una visione che appagavano un confuso, istintivo, ardentissimo desiderio di tutta la mia vita. E a questi pensieri, improvvisamente, come una fiamma sotto un soffio, la mia fiducia si ravvivò. — Ah! se anche credessi che siete tutti illusi — pensai — io v’amerei e v’ammirerei egualmente, o bravi giovani, o rudi lavoratori, o poveri vecchi che non avete altro impulso all’opera e al sacrificio che la speranza d’un bene di cui non godrete, e che sopportando le durezze della vita e soffocando le ire provocate e sfidando le persecuzioni pubbliche e sagrificando la pace domestica, fondate la vostra speranza sul diritto del voto, conquistato col sangue dei vostri padri, ossia sulla libertà, sulla ragione, sul presentimento del trionfo necessario della verità e della giustizia. Ma no, voi non siete illusi, poichè la verità non può essere dalla parte dell’ambizione, del mercimonio e dell’egoismo; la verità è nella vostra coscienza libera e serena, è nella santità del vostro ideale, è in quest’affratellamento generoso che condanna e corregge le ingiustizie della fortuna, è in questa fede invitta che dà ai giovani una maturità precoce, e ringiovanisce i maturi, e consola i vecchi, e nobilita tutti. E ogni propaganda d’ogni grande idea, predestinata a mutare il mondo, è cominciata, come questa, in luoghi oscuri, fra pareti nude, in mezzo a gente sprovveduta di tutto, e odiata, e calunniata, e derisa, mentre i difensori del passato, armati e ricchi d’ogni cosa, si festeggiano a vicenda — in sale splendide e risonanti del plauso dei parassiti — sicuri del presente e dell’avvenire. E tutt’a un tratto — con mio stupore — non perchè mancasse un legame tra il pensiero e l’immagine, ma per la subitaneità dell’apparizione — mi rividi dinanzi la statua di Ledru-Rollin, veduta anni addietro a Parigi, eretta in atteggiamento profetico, con la mano stesa sull’urna, come dicendo: Qui è la salute. E allora, precorrendo il tempo con l’immaginazione, vidi quella povera stanza dilatarsi, e aprirsi altre sale lontane l’una dopo l’altra, in tutti i quartieri cittadini, tutte rigurgitanti d’una folla simile a quella che avevo dinanzi; e tutte quelle folle, agitate e ardenti, salutare con evviva frenetici gli annunzi delle grandi vittorie elettorali, giungenti l’un sull’altro dai vari quartieri, e da tutte le piccole e grandi città d’Italia; e, tra gli evviva, le mani bianche cercar le mani nere, e abbracciarsi i giovani e i vecchi, e scambiarsi il bacio dei fratelli i figli di coloro che oggi si minacciano e si odiano.... Troncai il soliloquio, ed entrai nella folla dei miei compagni con uno slancio d’allegrezza e d’affetto, che non m’aveva mai data nessuna amicizia del passato. Lavoratori, alle urne! I nostri compagni del Comitato elettorale, che m’invitarono a parlarvi, determinarono il soggetto del discorso con queste parole: — Eccitare i ferrovieri, e specialmente gli operai, a prender parte attiva alla lotta per le elezioni amministrative; dimostrar loro che essi hanno interesse a mandare nel Consiglio comunale dei rappresentanti della classe lavoratrice a cui appartengono. La cosa mi parve superflua. — Ma come — pensai — vi sono ancora dei lavoratori non persuasi di questa verità, della quale sono compresi, in fondo all’animo, anche molti di coloro che stimerebbero un’imprudenza di proclamarla? E subito mi si affacciò alla mente che il primo, il più efficace mezzo di persuadere gli ostili e di scuotere gl’indifferenti, sarebbe stato di riferir loro quello che io mi intendo dire ogni giorno da chi combatte le nostre idee utopistiche di progresso, di redenzione, di missione politica ed economica delle classi lavoratrici. Queste idee — mi dicono — sono in voi, borghesi traviati e allucinati, non nei vostri adulati lavoratori; e non sono che in una infima minoranza di essi, a cui avete attaccato la vostra infermità cerebrale. Come potete parlare sul serio delle loro aspirazioni e dei loro propositi, quando non ve n’ha cinque su dieci che concordino in un’idea, quando la parte maggiore non si dà pensiero alcuno delle lotte a cui la chiamate con tanta insistenza, quando non hanno dato ancora, qui specialmente, nessuna seria manifestazione di solidarietà, di armonia, d’unità d’intenti, quando hanno anzi provato in mille modi che la classe lavoratrice, come ente collettivo, non esiste ancora? Voi dite che le classi dirigenti, che la borghesia è debole perchè è lacerata dai partiti, scossa da mille contrasti di interessi, divisa in dieci fedi diverse, e che per questo non opporrà una lunga resistenza al movimento progressivo delle classi inferiori. Ma queste son più divise e più deboli di noi! Noi davanti a un pericolo, nel nostro interesse comune, ci uniremo in un sol fascio, e voi lo capite, e lo preannunziate. Essi, nel loro interesse comune, non si uniscono. Che c’importa che siano il numero, se, non essendo nè concordi nè attivi, non sono la forza, senza di cui non vale il diritto? Che c’importa che la scheda elettorale possa essere, come voi dite, lo strumento della loro emancipazione, se essi o non se ne servono, o l’adoperano contro sè stessi, o la mettono al servizio d’ogni richiedente? Non uniti nell’esercizio dei mezzi e legali e pacifici, non lo saranno mai neppure, non lo potranno mai essere nell’uso dei mezzi violenti. Noi possiamo dunque riposare tranquilli e ripetere cento volte a chi ci parla d’un esercito di lavoratori, che l’esercito non esiste, che non ci sono che caporali e pattuglie disperse, e la gran moltitudine si ride della vostra conquista dei poteri, e che voi sognate a occhi aperti. * A voi tocca di smentire col fatto quelle asserzioni. Io mi ingegnerò di persuadervi a smentire. E notate, non avrei bisogno di parlarvi come socialista. L’interesse che hanno i lavoratori a organizzarsi, a concertarsi per mandare alle amministrazioni comunali e nei parlamenti dei loro compagni esiste, secondo me, anche fuori della ragione del socialismo. Non c’è bisogno di creder possibile o necessario nell’avvenire un determinato ordinamento sociale per comprendere quell’interesse. Basta desiderare dei miglioramenti nella vostra condizione, come tutti desiderate; basta capire che, siccome nessun miglioramento importante nello stato delle classi inferiori può avvenire senza sacrifici gravi nelle classi sovrastanti, e poichè sui sacrifici spontanei, essendo qual’è la natura umana, è illogico il fare assegnamento, così quei miglioramenti bisogna conquistarli; e che nessuna conquista si fa da una classe sociale senza lotta, e nessuna lotta si vince senza forza, e la forza non si consegue senza l’accordo della classe. Ora quest’accordo è possibile, è ragionevole, si deve compiere anche tra i lavoratori che non siano d’una sola idea e d’un sol sentimento riguardo al socialismo. Non si deve forse, prima di giungere a questo, passare per una serie di riforme e di conquiste minori che tutti vogliono ugualmente? Ma io dico questo a voi! Ma se son molti i borghesi stessi persuasi di questa verità. Ve n’ha molti, ostili al socialismo, che credono inattuabile, ma che pure, essendo onesti, vedon con occhio favorevole e affrettano col desiderio il movimento d’organizzazione delle classi lavoratrici, anche sotto la bandiera socialista, come il solo mezzo che rimanga di pervenire a riforme radicali a vantaggio loro, senza le quali credono anch’essi inevitabili degli sconvolgimenti funesti alla società. E fanno questo ragionamento che non manca di logica: — O hanno ragione i socialisti, i quali affermano, non già di voler rifare il mondo sopra un disegno della loro fantasia, ma di sollecitare soltanto una trasformazione a cui la società è condotta irresistibilmente dalla forza stessa delle leggi vitali che la reggono, — e se questo è vero, se la trasformazione è inevitabile, non solo è inutile d’intralciare, ma è logico assecondare il movimento. — O se è vero l’opposto, ossia che questa trasformazione non è necessaria, e la società non avverrà pel solo fatto che i socialisti la vogliono, una forza invincibile vi si opporrà, contro cui tutti i loro conati si spezzeranno come contro una legge di natura; e in questo caso non c’è nulla a temere, e si ha da assecondare egualmente un movimento il quale, senza arrivare alla mèta che si propone e da cui noi rifuggiamo, produrrà pure dei vantaggi grandissimi, non conseguibili per altra via. Vorrete voi essere meno arditi di questi prudenti conservatori? * Veniamo ora al vivo dell’argomento. Non vi pare un’anomalia singolarissima che nei Consigli comunali di città dalle centinaia di migliaia d’abitanti, in Consigli dove si trattano interessi di tutte le classi sociali, tutte le classi siano personalmente rappresentate, tutte, fuorchè la più numerosa, che è anche quella che ha maggior bisogno d’esser tutelata? Io credo che la cosa parrà un giorno tanto strana che se n’andranno a cercar le cause con la stessa curiosità con cui si ricercano quelle dei più singolari fenomeni sociali del tempo andato. Io m’immagino uno straniero semi-barbaro, ma di molto acume, piovuto qui da un paese in cui non sia idea di regime rappresentativo, lo metto col pensiero in uno di quei Consigli, e mi par di sentirlo dire: — Ma come mai! Ecco un’assemblea in cui si parla ogni momento d’interessi del lavoro e di lavoratori, in cui l’uno accusa l’altro a ogni tratto di non essere vero interprete dei loro sentimenti, delle loro aspirazioni, e d’operai non c’è un solo, non uno che possa dire: i _nostri_ sentimenti, le _nostre_ aspirazioni, i _nostri_ bisogni son questi! — Dopo essersi fatto spiegare a un di presso in qual maniera si formino queste assemblee, il mio semi-barbaro direbbe al suo cicerone: — Ho capito! Qui non c’è operai perchè gli operai non sono elettori. — Ma no, lo sono — gli sarebbe risposto — e dispongono di migliaia di voti. — Allora direbbe: — Sono elettori, ma non sono eleggibili: ma essi non eleggono alcuno dei loro perchè non ce n’è alcuno che sappia parlare nè scrivere. — Ma no, vi ingannate: ce n’è molti che parlano mirabilmente dei propri interessi nelle loro riunioni professionali o di partito e ce n’è anche molti che sanno trattare la penna a dovere, tanto che se si fondasse un giornale come quel tal «Buon senso», fondato a Parigi nel ’48, aperto a tutti i lavoratori, si farebbero anche qui delle scoperte particolari curiose. — Ho capito questa volta — direbbe finalmente lo straniero. — Essi non eleggono nessuno della propria classe perchè vedono gl’interessi loro ben patrocinati dai rappresentanti della classe borghese, che stimano inutile aver dei rappresentanti propri, e si tengono per ampiamente soddisfatti. — Ma no, veda, non sono soddisfatti, si lagnano, dicono d’aver delle ragioni da far valere, gridano che ci sono delle ingiustizie da correggere, delle riforme da proporre, mille cose da fare. — E allora.... il mio semi-barbaro non capirebbe proprio nulla. * Mi soffermo un momento all’ultima supposizione di questo straniero immaginario, perchè esprime forse il pensiero di alcuno di voi; mi ci soffermo per dire che nessun rappresentante borghese, per quanto sia sincero ed efficace propugnatore della causa de’ lavoratori, potrà mai avere in un’assemblea quell’efficacia particolare che vi ha uno della vostra classe, il quale la rappresenta con la sua stessa persona e ne spira l’alito dalle labbra, che può parlare di bisogni che sente egli stesso e di sacrifizi ch’egli stesso compie e ha compiuti, che protegge gli interessi del lavoro ch’egli fa e di cui vive, che è in relazione intima, fraterna e continua coi suoi rappresentanti, che non è legato ai rappresentanti degli interessi diversi od opposti da mille sottilissimi vincoli, non lacerabili, di amicizie antiche, d’identità d’abitudini, di idee comuni in altri campi, che non è impacciato dal fatto d’aver professato in altri tempi opinioni discordi da quelle suo d’oggigiorno, o di essere stato per queste indifferente; e che non può essere sospetto in alcun modo di mancanza di sincerità.... perchè siamo a questo ancora — che par tanto illogico e strano che uno si appassioni e combatta per interessi sian pure sacrosanti, ma non strettamente collegati o contrari a quelli della propria classe, che il pensiero ch’ei sia un uomo generoso è l’ultimo che s’affacci alla mente degli avversari: il primo è che sia un impostore. * Certo, io mi rendo conto dei dubbi che hanno molti di voi a questo proposito, dubbi che non si danno, generalmente, negli operai di Comuni rurali. Là il Lavoratore vede partecipare all’amministrazione pubblica persone della sua medesima classe, di coltura non maggiore alla sua, e che trattano dei piccoli interessi comuni con la semplicità, e col linguaggio che egli stesso adopera: gli par quindi naturale, e non può parergli inutile di mandar fra gli amministratori del Comune uno dei suoi. La cosa è diversa, si capisce, nelle grandi città. Abituato per tradizione a veder sedere nei Consigli cittadini di una sola classe, a vedervi rappresentati largamente la scienza, l’ingegno, l’esperienza degli affari, la ricchezza, e la discussione sollevata spesso al di sopra della sua cerchia di cognizioni e di idee, l’operaio ha finito per considerare quella rappresentanza quasi come un privilegio signorile, e stenta a capacitarsi del come un suo compagno vi potrebbe prender parte utilmente, non riesce a raffigurarselo là che come uno spostato e un inetto. Ma egli è in errore. Egli non considera che il suo compagno andrebbe là a rappresentare un ordine di idee sue proprie, di interessi di cui ha conoscenza pratica, di questioni in cui ha un criterio preciso: non pensa che in ogni discussione ha un grande valore anche una sola idea netta, espressa a proposito, sia pure con la più rozza parola; che ciò che in molte discussioni gli par superiore alla sua intelligenza e alla sua coltura non è che zavorra accademica e curialesca gittata sulla vacuità degli argomenti; che il buon senso è in ogni luogo e in ogni cosa la prima forza, e che una gran parte delle lungaggini deplorevoli a cui si abbandonano spesso le più colte assemblee, derivano appunto dal non esservi un sufficiente numero di quegli ingenui parlatori, a cui manca l’arte d’ingrandire, di assottigliare, d’intricare, di confondere tutte quante le questioni, invece di attenersi al fondo delle cose, come suol fare l’uomo incolto, che è persuaso di un’idea. * E d’altra parte convien che si persuadano i lavoratori che la loro classe non s’innalzerà mai fin che un gran numero di loro non saranno passati per quella impareggiabile scuola pratica che sono le amministrazioni pubbliche e le amministrazioni private: intendo per private quelle delle loro Società e delle loro Corporazioni. A questa scuola si formarono la maggior parte dei quarantaquattro deputati del Parlamento germanico — meccanici, calzolai, falegnami, doratori, operai d’ogni arte e d’ogni mestiere — in molti dei quali riconoscono gli stessi avversari, spesso con parole d’ammirazione, cultura varia, abilità parlamentare, e, nelle discussioni che toccano le idee e gli interessi del loro partito, un’efficace eloquenza. A questa scuola si formò quel valoroso, quel benemerito Anseele, fiammingo, fondatore di quell’ammirabile complesso di Cooperative di Consumo e di produzione che è il «Vooruit», il più fortunato esempio di organizzazione socialista che sia stato attuato finora. Si educò a questa scuola quel Luigi Bertrand, operaio marmista, in cui sembra incarnato il genio organizzatore della sua razza che da un capo all’altro del suo paese fondò Società cooperative, Case del popolo, Circoli di studi sociali, e che è, col Volder, l’anima del Partito operaio belga, rispettato, ammirato anche dai più appassionati oppugnatori e scalzatori dell’opera sua. E alla scuola medesima crebbero tutti quegli operai della sua nazione, i quali, all’ultimo Congresso internazionale di Bruxelles, diedero prova di tal senso pratico, di tanta chiarezza d’idee, di una così larga cognizione di molte questioni sociali ed economiche, che se li avessero uditi certi uomini d’ordine d’una grande città italiana, radunatisi l’inverno scorso in Assemblea por provvedere agli affari propri, avrebbero deplorato anche più amaramente di quanto fecero i funesti effetti dell’istruzione popolare. * Comprendo un’altra difficoltà che si oppone, in molti lavoratori, alla concordia nella lotta elettorale. E ve lo accenno senza un’ombra di intenzione di farvi un rimprovero. La difficoltà risiede in un vostro difetto. — Vostro? — No. È un difetto di tutti gli uomini, e che si fa sentire in tutte le classi. Ma è naturale, è scusabile che si faccia sentire nella vostra forse più fortemente che nelle altre. Nella classe che ha più fondate ragioni di lagnarsi delle ingiuste disuguaglianze sociali, si comprende che sia più viva la renitenza a conferire ai propri uguali una forma qualsiasi di superiorità, come si diffidi più facilmente del compagno che aspira ad innalzarsi, e anche di quello che è portato in alto suo malgrado, come sorga il più forte sospetto che chi esce dalla sua schiera possa abusare dell’autorità e della fortuna. Ma è pure una tendenza a cui convien resistere a qualunque costo. Già lo disse un bravo lavoratore francese ai suoi camerati, con parole scolpite che io vi voglio ripetere, non solo perchè possano riferirsi a voi le sue censure, ma anche per mostrare che il male è in ogni paese. Certo — egli disse — l’opera è lunga, penosa, irta di difficoltà. Ma se noi non perveniamo a unirci in uno spirito di larga e forte solidarietà; se passiamo il tempo a lacerarci l’un l’altro, parodiando i borghesi nelle loro dispute vane; se ci divertiamo a giuocare alle chiesuole e alle consorterie; se non uccidiamo in noi stessi quel deplorevole senso di gelosia, per cui non possiamo sopportare tra le nostre file alcuna superiorità intellettuale; se non ci eleggiamo dei capi che per obbligarli ad obbedire alle nostre cangianti volontà, e non per seguire la loro direzione e ascoltare i loro consigli; se, in una parola, non riesciamo a governare noi stessi, a nulla mai potremo riuscire. E, senza dubbio, è la virtù opposta a questo difetto quella che costituisce la principal forza di quel grande partito operaio di Germania, nel quale — come osservò uno scrittore che lo studiò addentro — l’osservanza verso i capi è più profonda che in ogni altro partito dell’impero, e va non di rado fino all’eccesso, fino a una cieca sottomissione. Ma è perchè là si comprende quello che da per tutto si dovrebbe comprendere: che se è possibile immaginare una società in cui tutte le disuguaglianze economiche e sociali siano soppresse anche in forma assoluta, non è possibile immaginarne una in cui siano anche soppresse le influenze della superiorità dell’intelletto e del carattere e si faccia una colpa dell’ambizione, presa nel suo senso migliore; perchè il voler togliere alle facoltà e alle opere eccezionali degli uomini oltre ad ogni eccezionale compenso economico, anche le soddisfazioni d’una ambizione legittima, è voler isterilire, paralizzare la natura umana. E se sapessero i gelosi che povera cosa sono le soddisfazioni dell’ambiente, con quante segrete mortificazioni di amor proprio si scontano, da quante amarezze sono turbate, specialmente in chi è spinto in su a combattere fra una classe che non è la sua, invece d’invidiare e di osteggiare i compagni che salgono, non darebbero, ne son certo, che incoraggiamenti e conforti di fratelli. * Vediamo l’esempio che ci danno altri paesi, la Francia per la prima, dove si accusava il partito dei lavoratori di essere «una fungaia di gruppi dissidenti» incapace da dieci anni di muovere innanzi d’un passo. Prima delle ultime elezioni, non vi erano che due Comuni socialisti; mi spiace di non aver tempo d’accennarvi le molte riforme ardite e benefiche attuate da uno di essi, di cui fu costretto a encomiare la saggia amministrazione persino il prefetto della Senna. Ebbene, nelle elezioni del 1892, il partito operaio socialista, concorde nel programma del Congresso nazionale di Lione, pose le proprie candidature in più di 80 Comuni. Ottenne al primo scrutinio più di 100,000 suffragi, con circa 450 dei suoi candidati eletti nei Consigli. A Marsiglia, trionfarono tutti i candidati del partito con oltre 6000 voti di eccedenza sugli avversari. In altri 16 Comuni il partito occupò l’intero Consiglio o v’ebbe una maggioranza notevole. Al ballottaggio riescirono eletti altri 200 candidati operai, col concorso alle urne di 50.000 votanti in più della prima volta. Insomma, furano 26 i Comuni conquistati, e moltissimi quelli in cui il Partito operaio, pure lottando per la prima volta, ebbe tali minoranze da far ritenere sicura una prossima vittoria. Nè ciò avvenne nelle sole città industriali. Persin nel cuore della vecchia Bretagna, la regione più conservatrice della Francia, vi fu un comune che elesse con 700 voti di maggioranza una municipalità socialista. E s’intende che s’usarono contro il nuovo partito arti e minaccie d’ogni maniera, e che contro di esso, dove non riuscì a primo scrutinio, si collegarono, alle elezioni di ballottaggio, tutti gli altri partiti, anche i più ripugnanti fra loro, donde è lecito argomentare che le elezioni del 1896 daranno in mano del Partito operaio una gran parte delle amministrazioni comunali francesi. E già ne appariscono i sintomi anche nelle popolazioni delle campagne; gravi sintomi, di cui tutti gli accorti conservatori s’inquietano: gridando alla rivoluzione e al finimondo. E con finimondo, si capisce, voglion dire modestamente la fine del loro dominio. * In Germania l’organizzazione generale del Partito è rafforzata, in un gran numero di circoscrizioni, dalle cosidette «Società Elettorali», che sono come i focolari del socialismo comunale, e che convocano a intervalli determinati delle assemblee popolari, sempre numerosissime, in cui tutte le questioni locali, legate agli interessi dei lavoratori, sono largamente discusse. Questi prendono parte attivissima alle elezioni del Consigli municipali. Se non ottennero grandi effetti sin ora, ne è cagione unica il suffragio troppo ristretto. Ma dove i socialisti entrarono nei Consigli, fu notevolissima l’azione loro. Non c’è Comune importante in cui, l’inverno scorso, essi non abbian fatte proposte per provvedere con sussidi dei Comuni e dello Stato alle più stringenti miserie e propugnato validamente un programma pratico di riforme che va dai provvedimenti per la disoccupazione al riordinamento delle scuole, dalla soppressione delle imposte indirette in forma di dazi all’avocazione ai Comuni di tutti i servizi pubblici esercitati da privati. Fate che ottengano l’allargamento del suffragio e le loro vittorie non si conteranno. E non può parer troppo ardito presagio a chi conosca con che ardore prendan parte alle elezioni, in quel paese, non i lavoratori soltanto, ma le loro intere famiglie; con che infaticabile attività le donne medesime, anzi quasi esclusivamente le donne, compiano il lavoro di distribuzione delle schede e dei manifesti, e si costituiscano in Comitati elettorali per eccitar le compagne a concorrere all’opera loro, e girino pei sobborghi i giorni di elezione, a scuoter gli inerti, e spingano persino alle urne gli elettori recalcitranti. Perchè esse comprendono non meno degli uomini che cosa significhi e che cosa valga la loro scheda: un povero pezzo di carta, ma che turba il sonno ai dominatori come recasse la loro sentenza; e non si può sopprimere, perchè sarebbe troppo rischioso, e non è incriminabile, perchè non c’è scritto che dei nomi, e non si può comprare, perchè chi lo porta venderà la camicia, ma non la fede. * Lasciate ancora ch’io ricordi, a incoraggiamento di tutte quelle ammirabili «Unioni dei mestieri» d’Inghilterra, forti di milioni di lavoratori, passate per tante lotte e tante avversità che le fecero potenti, precedute dall’avanguardia socialista delle «nuove unioni», socialiste oramai — in sostanza — esse medesime, come si chiamarono nell’ultimo Congresso di Belfast e nelle recenti elezioni municipali, e continuamente rinvigorite e, spinte innanzi dalle generazioni nuove, fresche di forze e, di speranze. — Trent’anni fa — come disse pochi dì sono un deputato autorevole alla Camera dei Comuni — il loro nome suonava biasimo e quasi ingiuria; sorgeva di rado in Parlamento un uomo che avesse il coraggio di assumerne le difese; erano assalite con violenza dalla tribuna, dal pulpito, dalla stampa; nel 1867 se n’era decretata la soppressione. Ora, non solo esse hanno riportate meravigliose vittorie nella legislazione del lavoro, non solo si sono liberate a poco a poco di quasi tutte le vecchie leggi che le inceppavano; ma esercitano un’influenza grande nei Consigli edilizi e d’istruzione, e in tutte le Corporazioni locali. Ora sono lodate dagli uomini di Stato e dalla stampa d’ogni colore, i governi cedono alle loro domande e seguono i loro consigli, le Corporazioni d’ogni specie accettano le loro deliberazioni intorno ai contratti di lavoro o ai salari, i loro principii s’insinuano in ogni classe sociale, la loro azione conquista il mondo industriale e si dilata nel Parlamento. — E han serbato inalterato, notatelo, il loro carattere operaio, son costituite da operai, fatte per loro, da loro dirette. Nè le gelosie e le discordie individuali, che son là come altrove, nè i tribuni che mirano a soppiantarsi a vicenda, nè gli ambiziosi che tendono a formarsi un partito, sfibrano menomamente l’enorme forza delle loro file serrate e concordi; quell’enorme forza di organizzazione e di fede, che fece dire a Luigi Kossuth negli ultimi giorni della sua vita, a un pubblicista qui presente: — Il socialismo, credete a me, rovescierà tutto. * Ed ora, c’è bisogno che io vi dimostri con altri argomenti ciò che mi proposi di dimostrarvi? Certamente, la conquista del potere politico deve star sopra a quella dei municipi: ve lo dice per bocca mia uno dei nostri più bravi pubblicisti, del quale vi ripeto le parole. Importa che vadano al Parlamento dei rappresentanti dei lavoratori, non foss’altro che per indicar la forza e la coesione del Partito, per esercitare un sindacato continuo, almeno d’efficacia astratta, per alzar la voce risoluta in favore di tutte le libertà a cui ha diritto, di cui ha bisogno l’Idea per espandersi. Ma fin che quei rappresentanti non saranno che un’esigua minoranza, ossia per molto tempo, pur troppo non c’è gran che da aspettare da loro; nemmeno che ottengano importanti modificazioni a quelle piccole riforme sociali che spuntano di tanto in tanto anche alla Camera nostra. Ora la lotta nei Comuni, oltre ad altri vantaggi immediati, presenta anche quelli di dare al Partito dei lavoratori movimento e vigore, di disciplinarlo, di addestrarlo a un’azione ordinata e proficua nelle elezioni politiche. In Francia, prima della rivoluzione, furono le assemblee provinciali, furono i Consigli di circondari e parrocchie quelli in cui la borghesia s’ordinò e preparò meglio all’azione che la condusse al trionfo. La stessa rivoluzione italiana che ci condusse all’unità, si è grandemente giovata, s’è innestata su di esse e di esse s’è alimentata. — Ed è evidente che dovrà seguire il medesimo per l’Idea che unisce ora i lavoratori. Già nei Comuni minori si riportarono segnalate vittorie, di cui non cito che l’ultima, quella di Gualtieri, conseguita dopo più d’un anno di commissario regio. Tocca ora alle città grandi di seguir l’esempio. Tocca a voi in ispecial modo, di far sì che Torino non abbia questa poco onorevole singolarità, di esser l’ultima delle grandi città italiane a mandar nel Consiglio comunale un operaio. * Ma — mi sento opporre — quanto tempo si dovranno aspettare i vantaggi che ci son promessi, se questi non verranno prima che il nostro Partito sia maggioranza! Anche questo è un errore. Molti e grandi vantaggi precederanno di gran lunga la vittoria finale. Fate che i lavoratori dian prova di concordia, di unità d’intenti e di risoluzione, e che comincino a riportare delle vittorie elettorali notevoli, e vedrete quante cose cambieranno sull’atto. Dove sono divisi, ciascuno di essi non ha che l’importanza minima che può avere un operaio per sè stesso; ma dove formano un’associazione vasta ed unanime, che dia certezza di continuo e vigoroso incremento, la considerazione che ispira il complesso delle forze si riflette su ciascun di loro. Prima assai di ottener dei vantaggi materiali s’accorgerebbe ciascun di voi, perfin nelle sue relazioni individuali con persone di altri ceti, di trovarsi in una condizione mutata; la coscienza stessa della forza collettiva della propria classe, darebbe a ognuno una dignità nuova e una sicurezza di sè, che non ha mai avuta. Ma neanche i vantaggi materiali si farebbero attendere, poichè a chi mostra che avrà la forza di ottenere delle concessioni fra poco, molte di queste si anticipano, e per mostrar di farle di buon grado e per sfuggire al disdoro di vedersele strappare. Accade il medesimo che nelle battaglie, dove il solo avanzarsi d’una truppa ordinata e risoluta fa assai sovente indietreggiare il nemico, mentre lo stesso numero degli assalitori non fa che eccitarne il coraggio, se s’avanzano ondeggianti e scomposti. E come scemerebbe a un tratto questo sfacciato abuso delle persecuzioni e delle minaccie, che son tanto facili e hanno tanto effetto sugli individui isolati? Si sorride ora delle vostre bandiere, perchè? Perchè son mille. Provate a serrarvi tutti intorno a una sola, e si scopriranno al suo passaggio anche le fronti più superbe. * È un altro errore — fortunatamente — quello in cui cadono molti di voi, misurando il tempo che impiegheranno le nuove idee a compiere il loro cammino vittorioso, da quello che impiegarono finora a percorrere il primo tratto di strada, e traendo da questo computo una ragione di sconforto. No, il computo è errato. Tutte le idee sociali che hanno in sè una ragione potente di vita, vanno col moto accelerato dei gravi cadenti; stentano a prender forma, muovono i primi passi lentissimi, par che ogni tratto s’arrestino; poi prendono un regolare andamento, e dopo s’affrettano, e quindi corrono, e infine volano, calano con una rapidità che fa rabbrividire anche i più arditi. Basta confrontare, per accertarsene, il cammino fatto dall’idea socialista; anche nel nostro paese, negli ultimi cinque anni, con quello che fece nei primi, appena vi sorse. I proseliti venivano allora a uno a uno, o a manipoli, e si potevano contare; per lunghi intervalli di tempo nessuno aveva indizio dell’esistenza della nuova _setta_: la stampa non ne parlava che di rado, e vagamente, come di cosa di un mondo lontano, e per la dottrina non c’era che derisione, disprezzo e stupore. Ora i nuovi credenti si affollano intorno a centinaia, ogni giorno che passa ne leva su un’ondata; non aprite più un giornale in cui non troviate scritto dieci volte, quasi per forza il loro barbaro nome di guerra; si posson combattere quelle idee tutti i giorni, ma non si può più tacerne per ventiquattr’ore; esse hanno un’eco continua nel Parlamento, nelle chiese e nelle scuole; nel Parlamento stesso, voci autorevoli e sdegnose d’altri partiti, alle quali è costretto a consentire perfino il ministro di quella che si chiama ancora Giustizia, si alzano con fiere parole contro i magistrati che giudicano i ribelli senza conoscenza di causa, ignari perfin degli elementi della loro dottrina; non c’è più autorità che non si trovi costretta a studiar la questione, per poter distinguere, disputare, governarsi; non si fa più pubblicazione che abbia la più lontana attinenza all’interesse pubblico, in cui quelle idee non siano discusse o accennate; non c’è più esposizione d’arte in cui esse non trovino la loro espressione; non c’è più frivola conversazione di spensierati in cui per un istante almeno, sia pure come un’ombra fuggevole, non passi quell’argomento malaugurato. Si confondono ancora con quella, in buona e in mala fede, dottrine diverse ed opposte, si calunniano gli uomini che le professano, si tacciono o si sminuiscono le vittorie che essa riporta, e si preannunzia che essa morrà di tisi o di piombo; ma non se ne ride più, o se ne ride con quel riso che mostra i denti e corruga la pelle, ma non ha negli occhi l’ilarità che vien dal cuore. E questo gran mutamento, fra noi, è avvenuto in cinque anni, dal 1890, dopo il primo maggio. Argomentate quale sarà il moto fra gli altri cinque anni, quando la massa dei lavoratori avrà dato segno di concordia e di vita. Perchè siatene certi, una delle più forti ragioni per cui non si mette apertamente al servizio delle nuove idee tanta gente che v’è favorevole in cuore — benchè vi ripugnino i suoi interessi di classe — è lo spettacolo dell’apatia di quella classe medesima per la quale sarebbero disposti a combattere. A che pro — essi dicono — turbarsi la vita e affrettare il danno proprio per una moltitudine che non ha coscienza dei tempi nè fede in sè stessa, e che par rassegnata ai mali di cui si lagna, e determinata a nulla chiedere e a nulla fare, nemmeno coi mezzi che la legge pone in sua mano? Chiudiamoci in un tranquillo egoismo e vada il mondo per la sua china. * E questi sono assai più di quanti credete. Come più di quanti credete sono coloro, a cui ho accennato da principio, i quali, pure non essendo socialisti, sono profondamente persuasi che l’organizzazione delle classi lavoratrici e la loro partecipazione al potere siano una condizione indispensabile del progresso civile. Di uno di questi, d’un valente economista, riferisco il ragionamento per quelli tra voi che possono dire: — Io non voto per operai perchè non sono socialista. — La nostra condanna — egli dice presso a poco — è che la classe borghese è tutta scettica e pessimista. — Ora il pessimismo, per lui, è un fenomeno di classe. E ne adduce giustamente per prova che al principio del secolo in Francia, tutta la borghesia liberale, che sentiva giunto il suo regno, non diede che scrittori ottimisti; la nota pessimista usciva dagli scrittori aristocratici, i quali sentivano che la loro classe moriva, o meglio era assorbita. Ora — soggiunge — noi non diamo che scrittori scettici e pessimisti nelle cui pagine non è un solo principio di riforma morale, non una parola che esprima fede nell’avvenire. Le classi lavoratrici, invece, sono ottimiste al presente quali non furono mai: la riforma economica, come la riforma morale, ci verranno dunque da coloro che sono in basso, da quella moltitudine oscura, in cui alita un sentimento umano, che manca in noi, uomini aridi e freddi. Quando essa s’unirà per muovere alla conquista del potere pubblico, e l’associazione l’avrà migliorata e la lotta resa più forte, essa produrrà un cambiamento anche nelle nostre idee morali. Fate che il potere politico non sia più un monopolio, ossia che non appartenga più a una classe sola che ha gli stessi istinti e gli stessi bisogni e vedrete che «la funzione di controllo lo moralizzerà». Quelle riforme che ora non si vogliono per cieco spirito di classe, si faranno allora per necessità, tutta la nostra vita sociale ne risentirà l’influenza e una ben altra concezione della vita finirà per prevalere. La feudalità è finita non per la rivoluzione, non perchè gli uomini fossero diventati migliori, ma perchè, aumentata la produzione, cresciuti gli scambi, rinsaldatesi le relazioni sociali, addensatasi la popolazione, di utile come era quando nacque, s’era fatta dannosa e insopportabile. E ciò che fu dell’aristocrazia sarà senza dubbio della classe che la vinse, che è la borghesia. Quando la tecnica industriale sarà progredita anche di più, quando la concorrenza sarà soppressa, o dalla vittoria duratura del più forte o dall’associazione, quando la produzione sarà diventata interamente meccanica, la borghesia sussisterà nuova perchè ha in sè delle qualità di iniziativa, di ordine e di economia, che mancheranno ancora per lungo tempo alle altre classi; ma la sua funzione s’indebolirà, e l’organo, indebolendosi la funzione, finirà anch’esso coll’indebolirsi. Questo grande movimento operaio è dunque logico, necessario, benefico. E notate che a chi esprime questo pensiero l’attuazione compiuta del socialismo non par altro che un sogno. * Ma la sua previsione va molto vicino a quel sogno. E ha proprio da essere un sogno quello di uno stato sociale fondato sull’accordo invece che sulla lotta per la vita; quello d’un organismo sociale, in cui la produzione e la ripartizione delle ricchezze si compiono come si compiono le funzioni d’assimilazione e di circolazione in ogni organismo vivente, quello d’una società non più divisa in un piccolo numero di vincitori, a cui sembrano riserbati tutti i beni della civiltà, tutti i godimenti che danno la bellezza, l’arte, la scienza, l’indipendenza, tutto ciò che fa amare la vita, e una immensa massa inorganica e oscura di vinti, senza sicurezza, senz’agi, senza cultura, quasi relegata fuori della luce e della speranza, come una razza inferiore? Che abbia ad essere un sogno, una società in cui a ogni uomo sia assicurato il lavoro, a ogni lavoratore un’esistenza umana, a nessuno l’agiatezza oziosa, a tutti la coltura dello spirito, e in cui il lavoro sia onorato di fatto, non a false parole, e la giustizia sia una realtà, non una larva, e la libertà sia un bene di tutti, non un vantaggio d’alcuni, e l’uguaglianza — quanto lo consente la cecità della fortuna — sia una verità, e non una irrisione? Che sia davvero un sogno una società nella quale, davanti a ogni moltitudine di persone d’ogni condizione si possa dire: — In questa folla non c’è uno che viva del frutto delle fatiche altrui, non c’è un ordine di cittadini che disprezzi l’altro o lo minacci o lo tema o ne viva separato come da un abisso; questa è un’accolta di persone tutte civili, strette da un patto comune, che ne fa una sola grande famiglia, non un branco di belve in veste d’uomini, che tirano a divorarsi fra loro; non un’accozzaglia di selvaggi inverniciati di civiltà, in cui infuriano tante cupidigie, tanti odî, tante invidie, tante scellerate passioni da disgradarne un inferno? Che debba essere un sogno una società in cui ogni onesto lavoratore possa dire, guardandosi intorno: — Questi sono i miei alleati e i miei fratelli; io non tolgo nulla a nessuno, nessuno usurpa nulla a me, questa terra dove son nato è retaggio comune; tutta questa civiltà, tutta questa ricchezza non è privilegio d’alcuno, ma è nostra, appartiene a loro, a me, ai loro figli, ai miei figli, a quanti la crearono e la fecondarono col pensiero, con le braccia e col sangue? Che una cosa così semplice, così giusta, così bella, debba essere un sogno? È un sogno punibile con la reclusione tra i dodici anni e i diciotto! E questo in un paese libero, dopo cinquant’anni di lotta contro la tirannìa! E mentre la più sfrenata manomissione del danaro pubblico, spremuto dalle vene e dalle ossa di chi lavora, o è colpita di pene irrisorie, o va impunita e trionfante! E quando pure fosse un sogno, meglio mille volte creder nel sogno dei generosi che rassegnarsi all’abbominevole realtà contro cui combattono e da cui sono soffocati. * Ma non credo che sia un sogno. Per crederlo dovrei rinunziare alla fede nel progresso umano. O si tornerà indietro o si procederà per quella via. E per quella via si procede. Un’altra volta ho accennato qui come questa tendenza appare evidente in tutti i paesi civili, nell’avviamento di tutte le legislazioni, anche nelle più piccole trasformazioni di tutte le istituzioni antiche, nel sorgere e nello svolgersi di innumerevoli istituzioni nuove, in mille tentativi, proposte, esperienze, quasi da per tutto respinte e mandate a male per ora, ma che da per tutto si presentano con la vitalità prepotente del germe in primavera, che tenta e rompe l’involucro che lo imprigiona. Ma oltre che per ragioni dicibili, si è persuasi di una Idea per virtù di una infinità di impressioni, di sentimenti, di riflessi di idee, che sfuggono alla parola; per una successione di visioni istantanee della mente, che fanno gridare alla coscienza: — Ecco la verità — e lasciano in fondo all’anima un’incancellabile traccia. E quando è così l’idea è una fede contro cui tutti gli argomenti si spezzano, che tutti gli avvenimenti confermano, che le stesse contraddizioni rinsaldano; una fede che ha in sè una forza impulsiva proporzionata alle resistenze che incontrerà nel mondo la verità che essa racchiude; una fede per cui possiamo dire schiettamente che le derisioni non giungono all’altezza del nostro disprezzo. Sì, io credo che la società porti nel suo seno delle soluzioni inaspettate per tutte le difficoltà che ora fanno credere impossibile l’attuazione dell’idea socialista. Credo che il grande miracolo, senza il quale essa non può attuarsi, la compenetrazione del sentimento individuale col sentimento della collettività nell’animo e nella vita dell’uomo, si compirà davanti alla irresistibile evidenza dell’immenso bene che ne dovrà conseguire! Fede! idealismo! ci si dirà commiserando. E noi rispondiamo con le parole d’un buon dotto tedesco (non socialista, notate), il quale ha scritto poco fa: — Ebbene sì: la storia ci insegna che la fede e l’idealismo sono le due grandi forze, e che hanno sempre trionfato nel mondo. — Ed in fondo, ne son forse persuasi anche gli avversari. Soltanto, più saggi di noi, essi combatteranno per l’Idea in un tempo più favorevole ossia quando avrà vinto. * Ma per giungere a questo.... No, non parliamo di questo, poichè lo scopo della nostra adunanza e delle mie parole è determinato e ristretto. Per ottenere, dico invece, un principio di miglioramento nelle vostre condizioni, dovete fare dei sacrifizi! Dei sacrifizi! Ma è questa una parola di cui l’uso e l’abuso snaturano affatto il significato. È forse un sacrifizio lo scrivere dei nomi di vostri compagni sopra una scheda, senza perdersi in vane discussioni e soffocando i sentimenti personali che la coscienza riprova, a rinunziare a un’ora di ricreazione per andare a compiere un dovere? Fate dunque questo, e fate anche di più, esortate i vostri compagni a imitarvi: dica ciascuno di voi a uno di loro: — Vieni con me. L’atto di deporre questo foglio nell’urna, che ti par così inutile, ha un così grande valore che per avere il diritto di compierlo si sparsero torrenti di sangue. Compiamolo, se non per noi, per i nostri figli, perchè se noi non lo faremo essi non lo faranno e troveranno la società quale noi l’abbiamo trovata. Votiamo pei nostri compagni, se non altro per far vedere che non è vero che noi andiamo a votare come un branco di servitori, che abbiamo coscienza dei nostri interessi, senso d’alterezza, volontà, fiducia nell’avvenire. — Credete che facendovi questa esortazione, non vi parlo soltanto come socialista, nell’interesse di un partito, ma come cittadino, che vuole la dignità, la prosperità, la forza del paese, dov’egli è nato e ch’egli ama: dignità, prosperità, forza, che sono vuote parole dove le classi lavoratrici non lottano per salire. Credete a uno che vi vuol bene, e che ve ne volle sempre, anche quando non ve lo diceva, e che ve lo dice ora senza secondi fini, poichè non solo non vi chiederà mai il voto per andare al Parlamento, ma non ve lo chiederà nemmeno mai più per tornare al Consiglio; credete ad uno, di cui tutte le ambizioni si riducono ormai ad un solo desiderio: quello di poter dire, prima che si compia la sua giornata, l’ultima volta che parlerà ai fanciulli delle scuole pubbliche: — Rallegratevi! Voi vedrete certamente una società più giusta e più felice di quella in cui vi lascio: — quello di vedere il proletariato italiano, ossia il popolo vero, fondamento e scopo di ogni cosa, corpo ed anima della patria, procedere trionfalmente sulla via benedetta della sua redenzione. Amor di patria. — È vero che il socialismo combatte l’amor di patria? — L’amor di patria bugiardo, sì. Ma se per amor di patria s’intende amare il popolo fra cui siam nati, con cui abbiamo comuni la lingua, l’indole, la storia e l’avvenire e amar la terra dove abbiamo passato l’infanzia, dove son nati i nostri figli e son sepolti i nostri morti; l’accusare il socialismo di combattere un tale affetto è cosa stolida e assurda, come sarebbe l’accusare chicchessia di combattere l’amor filiale o materno; il che non è possibile a chi ha viscere umane. Può ella credere che se questo fosse vero si sarebbero volti al socialismo tanti uomini generosi, tanti cittadini che per la patria hanno sofferto e combattuto, e sentono profondamente tutti gli affetti? Può ella pensare che un socialista, perchè tale, possa abbandonar la patria senza sentirsi uno schianto nel cuore, e non ricordarla da lontano con tristezza e con desiderio, e non rivederla dopo molti anni con gioia profonda? Con qual fondamento si possono accusare i socialisti, in cui si suol deridere il predominio del sentimento sulla ragione, di aver l’animo chiuso e di voler chiudere l’animo altrui a uno dei più forti e dei più naturali sentimenti umani? — Eppure, è una credenza universale. — Vuol dire una calunnia universale, che è tutt’altra cosa. Amare la propria patria significa amare il proprio popolo. Quando si dice il popolo d’un paese s’intende principalmente quella grande moltitudine che coltiva la sua terra, che manda innanzi le sue industrie, che forma il nerbo del suo esercito, che dà il maggior contributo al suo erario, e la cui prosperità, moralità, forza è una cosa sola con la forza, la moralità e la prosperità della nazione, poichè senza di essa non vi è nazione nè vita. Ora il desiderare che questa grande moltitudine, i nove decimi della nazione, s’innalzi a una condizione di vita materialmente e moralmente migliore, il preparare, sollecitare un ordinamento sociale (e sia pure un’utopia, che la natura del sentimento non muta) in cui le sia dato un lavoro più umano e un compenso più equo e resa possibile una vita intellettuale e più degna e tolto dall’animo il terrore continuo della miseria e il sentimento amaro di una inferiorità civile non giustificata nemmeno nella coscienza di chi la vuol mantenere, in maniera che non più la forza, ma l’armonia degli animi e degli interessi tenga unita la compagine dello Stato, il portar nel cuore questa speranza di un migliore avvenire del proprio popolo come la più santa delle proprie aspirazioni, e con lo scopo di tradurla in realtà, studiare, combattere, rinunziare alla pace, rischiar la libertà, patire danni e persecuzioni, dica lei, non è questo amare la patria? E se questo non è amor di patria, con qual altro termine, di grazia, le pare di poterlo definire? — Eppure la parola «patria» voi non la usate mai, o ben raramente, nella manifestazione delle vostre idee. — Perchè di questa parola s’è falsato il senso, e, usandola, non ci possiamo più intendere con la maggior parte di coloro che ne han piena la bocca. È accaduto di questo come di altri grandi nomi, che non c’è più nella parola l’idea netta della cosa. La parola «patria» significa ora per i più qualche cosa d’astratto e di mal definibile, posto quasi al di fuori di ciò che realmente la costituisce. Per alcuni la patria è un’istituzione politica o una pura tradizione storica o un dato ordinamento economico da conservare e difendere a qualunque prezzo. Per chi gridava in Parlamento che si doveva nascondere la cancrena bancaria _per carità di patria_, la patria era la Banca. Nella mente di quell’imperatore il quale dice che per conservare due provincie conquistate si dovrebbero far uccidere «dal primo all’ultimo» tutti i sudditi dell’impero, pare che la patria non sia altro che un determinato spazio di terreno segnato sulla carta geografica con una linea di un dato colore. Per un gran numero di patriotti in buona fede l’amor di patria è l’aspirazione a un ideale vago di grandezza, a cui par debito e giusto di sacrificare ogni bene, o anche il solo culto immobile dell’ideale unitario raggiunto, ossia una commemorazione eterna del passato, in cui si scorda il presente e non si pensa all’avvenire, e una febbre permanente dell’immaginazione, che vede o cerca ogni giorno e da ogni parte un pericolo nazionale e vorrebbe che la vita della nazione fosse uno sventolìo continuo di bandiere e un arrotìo perpetuo di durlindane. Gridando «patria» si pretende che tutti i lamenti tacciano, che tutte le ingiustizie sieno tollerate, che tutti i mali si dissimulino, che tutte le grandi questioni rimangano insolute, come se la patria e i suoi figli fossero due cose diverse e separabili, come se il bene dei viventi non fosse che lo sperare un avvenire migliore senza migliorare il presente e fosse possibile fare una patria prospera, felice e gloriosa, con milioni d’uomini poveri, dolenti e avviliti. Per queste ragioni non nominiamo la patria, e anche perchè il suo nome è adulterato e profanato da troppi astuti che si pagano da sè dei servizi che le resero o dicono di averle resi, da troppi impostori che si fanno della parola una maschera, da troppi farabutti che fanno della cosa un mercato. La parola che costoro disonorano noi non vogliamo usarla per esprimere l’idea augusta e santa che è il suo vero significato. — E sia pure; ma nell’idea della fratellanza, che il socialismo propugna, e della federazione dei popoli, l’amor di patria non va naturalmente perduto? — E perchè mai? Al padre che dice ai suoi figli: — Amate i vostri concittadini come fratelli — oserebbe ella dire: — Badi che nell’amor patrio va perduto l’amor figliale? — Se quando l’Italia era lacerata dalle guerre civili, e ciascuna città reputava fortuna propria la rovina della città vicina e si gloriava delle bandiere che le aveva strappate e dei figli che le aveva uccisi, se un italiano di Pisa, di Venezia, di Firenze, di Genova avesse detto allora ai suoi concittadini: Questi odî sono insensati; queste guerre debbono aver fine, e l’avranno; la prosperità di tutti gli italiani sarà nell’accordo di tutte le città loro, perchè ci lega un ordine d’interessi più alti di quelli che ora ci fanno combattere — si sarebbe potuto dire a quell’italiano ch’egli non amava la patria? E l’idea internazionale che annunzia il socialismo ai popoli non è figlia legittima di quella che avrebbe annunziato quell’italiano ai concittadini? Non è irragionevole giudicar disamore della patria il desiderare e sperare che il bene di essa derivi da una stabile e illuminata fraternità di tutte le nazioni civili, non più dalla vittoria violenta e passeggera degli interessi dell’una su quelli dell’altra? E in che cosa contrasta questo ideale con quello che ciascun popolo serbi la sua unità e il suo carattere, l’amore della sua terra e della sua storia, concorrendo alla grande opera della civiltà generale con la somma di quelle facoltà distinte, che gli danno un essere proprio e una gloria a parte? E perchè pensare che quella forza unificatrice e benefica che oltrepassò le frontiere dei piccoli comuni, delle grandi città e dei forti Stati minori, si arresterà eternamente alle frontiere delle nazioni, già legate da vincoli innumerevoli d’interesse, di lavoro e di pensiero, che s’accrescono e si rafforzano continuamente? È possibile affermare che questo non avverrà? Non è logico sperarlo, non è giusto desiderarlo, non è debito volerlo? E con che fronte si può dire che il voler questo sia non amare la patria? Anche questo potrei ammettere; ma ciò che noi chiamiamo «ambizione patriottica» e «orgoglio nazionale» voi non sentite. È come se ella dicesse a un padre: — Riconosco che voi amate i vostri figli; ma che desideriate ch’essi siano rispettati ed onorati non credo. — Veda la differenza delle opinioni! Noi crediamo che quei sentimenti siano veramente sani e forti in noi soli. Soltanto le ambizioni patriottiche hanno un’altra meta e la nostra alterezza nazionale non può derivare dalla stessa sorgente. Noi immaginiamo qualche volta di trovarci in un paese straniero e di udir suonare intorno a noi le seguenti parole: — Ecco degl’Italiani. Salutiamoli con rispetto. Essi danno alle nazioni un esempio splendido. La grande lotta sociale si combatte nel loro paese sotto la protezione di un’ampia libertà, non violata mai dal patto nazionale. La borghesia si difende là pure, per necessità e per istinto; ma lealmente e con sapienti concessioni, non con cieche violenze, combattendo l’idea senza soffocare la parola, senza raccattare per combatterla le armi odiose della tirannìa che essa stessa ha infrante e calpestate. In poco più di trent’anni il loro paese ha innalzato l’edifizio della legislazione sociale ammirabile. Tutte le stolte ambizioni vi son morte. Tutto l’antico entusiasmo patriottico vi si è mutato, in tutte le classi, in forza feconda di studi e di sacrifici diretti al supremo scopo di estirpar la miseria, di diffondere la cultura, di assicurare la concordia, di stabilir la giustizia. Quello è il solo paese d’Europa, nel quale per generosità e per saggezza di tutti, la grande trasformazione sociale che è necessaria, e che nulla può arrestare, si compirà con un processo pacifico e solenne, che desterà l’ammirazione del mondo. — Ebbene, il solo immaginare questo giudizio dato sull’Italia ci fa battere il cuore e alzare la fronte e pronunciare il nome della patria con un sentimento di gioia e di alterezza che non può essere più puro, più dolce e più profondo nell’animo d’alcun patriotta. Ma ambiziosi di ciò che ci pare vanità o stoltezza, e orgogliosi di ciò che reputiamo sciagura e vergogna, non possiamo essere, nè saremo mai. — Insomma, voi amate la patria a modo vostro. — Certo, e non è colpa. La colpa è di non amarla nel miglior modo. Qui sta la gran questione. Ci sono anche diversi modi di amar la propria famiglia. Credette un tempo di amarla più d’ogni altro il patrizio che sacrificava tutti i figli al primogenito, destinato egli solo a tener alto il nome e lo splendore della casa, a spese dei suoi fratelli; e questo amore parve saggio anche al mondo, che ora lo giudica iniquo, e crede prima legge dell’amor paterno l’equità. Così v’è un amor di patria che vuole la gloria anche a prezzo della miseria, e soffia negli odî tra popolo e popolo e li pasce di orgoglio vuoto e di idee morte; e questa è una passione barbarica, che la nostra ragione condanna e il nostro cuore rifiuta. E v’è amor di patria fatto di carità e di pietà, che vuol la prosperità anzi che il fasto, la moralità prima della gloria, la pace nei cuori, la luce e il calore della civiltà equamente diffusi, la patria non sfruttata da alcuno e benedetta da tutti, e cancellato dalla sua faccia, prima d’ogni cosa e a qualunque costo, il marchio vergognoso dell’ignoranza e della fame. — E il simbolo della patria, per voi?... — È una madre, come fu sempre per tutti quelli che l’amarono sinceramente. Ma, dopo che professiamo queste idee, la sua immagine ci appare più bella e più luminosa, perchè le splende sulla fronte un avvenire più grande di quello che hanno sognato i nostri padri, ed è più ardente che per il passato l’offerta che noi le facciamo ancora, come nei giorni delle battaglie, del sangue e dell’anima nostra. — Questo non si crede. — Si crede; ma si nega, perchè giova. Verso l’avvenire. Hanno torto coloro che si scoraggiano pensando che la fede socialista non si diffonderà mai tanto nella borghesia quanto sarebbe necessario a mettervi il disordine e a sfibrarne la resistenza, perchè una gran parte della classe dominante si getterà a capo basso, spontaneamente, sulla nuova via, assai prima d’esser persuasa che questa conduca davvero alla «terra promessa» del socialismo. «Il movimento attuale somiglia allo sfacelo del secolo passato, quando una società intera si precipitò nell’ignoto per stanchezza o per errore di vivere sotto le rovine di un mondo morto». — E non è il giudizio di un Marxista fanatico: è del visconte ed accademico De Vogué, una delle menti più profonde e più serene della Francia. Così è, così avverrà. E se da molti se ne dubita ancora, è perchè si scambia con una malattia passeggiera del corpo sociale ciò che è invece il principio della sua decomposizione. Puerile è il pensare che questa fiacca reazione sorta da ultimo contro l’alta batteria politica e il grande brigantaggio finanziario possa produrre nella società l’effetto d’una vigorosa cura rigeneratrice. Essa produrrà l’effetto opposto, d’incoraggiare alla truffa scellerata altri innumerevoli, dimostrando su quante complicità, su quante difese, su quante vie di scampo possono fare assegnamento, nello stato attuale delle cose, i grandi mercanti della coscienza e frodatori delle nazioni, e quanto impudenti, sfrenati, mostruosi debbano essere il mercimonio e la rapina per iscuotere quello che resta di senso morale nelle alte classi e render necessaria almeno una simulazione di giustizia. Questa corruzione si andrà estendendo, fatalmente, e si dilateranno man mano con essa, per necessità, tutte le altre piaghe del nostro ordinamento economico, generate tutte dal principio immorale della formazione della ricchezza, come da un unico germe mortifero, che la società borghese non si può strappar dalle viscere se non colla vita. È fatale che per effetto del nuovo avviamento, della complessità sempre maggiore degli affari finanziari, e della sempre più larga separazione della proprietà dal lavoro, si vadano confondendo per modo, a poco a poco, l’affare lecito e l’illecito, l’onestà e la bindoleria, che questa libera quasi da ogni freno esteriore e fin anche dai rimproveri e dai dubbi della coscienza, finisca a regnare nel mondo, sovrana assoluta e intangibile sulle rovine d’ogni moralità e d’ogni giustizia. È fatale che, crescendo ancora la febbre delle speculazioni temerarie, dilagando il contagio dei fallimenti, ingigantendo coi debiti il pericolo delle bancherotte nazionali, non debba più un giorno rimanere ai risparmi di chi lavora e al capitale di chi ozia luogo o modo alcuno di collocamento, che non condanni i possessori a una vita d’ansietà e di terrore quasi altrettanto dura a sopportarsi quanto le angustie medesime della povertà. È fatale che il difendere, il salvare la piccola e la media proprietà terriera dall’imposta, dall’usura, dal furto, dalla forza assimilatrice della proprietà grande e delle pretensioni sempre più ardite e più potenti del lavoro, diventi col tempo un’impresa anche più difficile di quella di preservare gli averi e la vita in mezzo ad un popolo ancora composto a stato civile. È fatale che in un avvenire non lontano la piena della gioventù colta, fluttuante fra le vie già affollate degli impieghi e delle professioni libere e la «degradazione» abborrita del lavoro manuale, malata d’ozio rabbioso e famelico, giunga a tale altezza che la società n’abbia come la soffocazione e i tormenti mortali dell’idropisia. È fatale, infine, che la nuova feudalità finanziaria, che fa col danaro ciò che faceva l’antica colla spada, allarghi e rafforzi sempre più la sua vastissima rete, e allacci e assoggetti a una sempre più infesta tirannia moltitudini, governanti e istituzioni, sfruttando e corrompendo tutti e ogni cosa. Quando tutto questo sarà, e quando, oltre a questo, pigliando sempre più campo per le raddoppiate difficoltà della vita e il cresciuto furor del lusso e degli agi, il matrimonio mercantile, prodotto necessario del presente stato sociale, si moltiplicheranno a tal segno gli scandali e le sventure da far tremare per l’avvenire della famiglia anche i più scettici sfruttatori dei suoi ordini e delle sue debolezze; quando sferzata sempre più forte dalla concorrenza e fatta più audace dall’impunità comprata e dal perfezionamento scientifico dei metodi, la produzione privata sarà giunta con la ciarlataneria, col veneficio, coll’adulterazione spudorata d’ogni cosa a tal punto da non esser più che una vasta, continua e spietata insidia alla borsa e alla vita di tutti; quando un’aristocrazia del danaro disonesta e villana, quanto scemata di numero altrettanto cresciuta di potenza, avrà spinto il fasto e l’insolenza fino ad offendere l’orgoglio della media borghesia, intisichita da lei, assai più fieramente di quel che l’agiatezza di questa non offenda ora la «plebe»; quando nessun onesto padre di famiglia non potrà più, nemmen per pura consuetudine pedagogica, consigliare la generosità, la delicatezza, l’amor dei propri simili, la nobile ambizione della stima pubblica ai propri figliuoli, senza che questi gli rispondano con beffarda risata, mostrandogli da ogni parte il trionfo incontrastato e durevole di tutti coloro che quelle virtù calpestano col più freddo cinismo; quando finalmente, con l’ingrandire e l’incalzare delle crisi commerciali e col progressivo organamento delle classi lavoratrici, crescendo di gravità e di frequenza le miserie e i pericoli della disoccupazione, gli scioperi, le lotte, i digiuni e le ire delle moltitudini cittadine e rurali, sarà sempre più spesso necessario, per mantenere almeno l’apparenza dell’ordine, rispondere ai lamenti e alle maledizioni con quelle sciagurate falciature di vite umane, che lascian nella terra insanguinata tanti germi d’odî e di vendette feroci; quando le cose saranno a questi termini — e non ci vorrà un lunghissimo tempo — alla propaganda socialista non rimarrà più molto da fare. Farà per essa, nelle classi superiori, una stanchezza e una nausea infinita, la cura paurosa di scongiurare una rivoluzione di sangue e di fuoco, un bisogno immenso di ringiovanimento e di ideale, l’orrore — infine — di «vivere sotto le rovine d’un mondo morto». E allora forse alla borghesia non parranno altro che atti di rassegnazione logica e facile quelle «virtù sovrumane» sulle quali essa giudica ora il socialismo ponga il fondamento del suo futuro; troverà forse naturale in sè e in tutti quella prevalenza benefica del sentimento della collettività all’insipiente egoismo della nostra natura, e s’avvedrà che l’impedimento più forte che ella aveva ad accettare l’idea socialista non era nella sua ragione, ma nella sua borsa. Ma comunque sia, anche spinta dalla «ferrata necessità», essa si getterà nell’ignoto. Ora, se non avessimo fede che in quell’«ignoto», per forza delle cose, la società troverà a poco a poco un ordinamento in cui sarà soppressa la più mostruosa e la più funesta delle ingiustizie presenti — la divisione degli uomini e in un piccolo numero di possessori di ogni bene e in una enorme maggioranza di servi spogliati, abbrutiti, angariati e sprezzati sotto le apparenze d’una eguaglianza bugiarda e d’una libertà anche più bugiarda dell’uguaglianza — noi non avremmo più alcuna speranza nel progresso umano: non ci rimarrebbe che incrociare le braccia e dire: — Abbia libero corso la cancrena che ci divora, e la putrefazione universale si compia. — Ma quella fede noi l’abbiamo, e così profonda, che nel bel giorno di primavera designato a celebrarla, ci prende un senso di pietà e quasi di stupore, vedendo per le vie tristi della città, in mezzo a pochi cittadini sospettosi, passar la minaccia armata dello Stato. Noi ci domandiamo a momenti perchè non scendan tutti dalle case, uomini e donne d’ogni classe, coi bambini per mano e con le rose di maggio sul petto. Oh certo, in un tempo remoto, questo si vedrà! Le case saranno vermiglie di bandiere, per le strade scorrerà una fiumana vivente, le fronti, le grida s’alzeranno libere al cielo, e nel fremito sano ed immenso di popolo, penetrando nelle case silenziose degli ultimi malinconici negatori della nuova fede, vincerà finalmente anche il cuor loro, e li trarrà di forza alla finestra, con le lacrime agli occhi e l’amore nell’anima a benedire la festa del mondo. PARTE TERZA. PER LA PACE. Il socialismo e la guerra. Disse il Jaurès all’assemblea francese, in un discorso che scosse tutta la Francia, a coloro che accusano il socialismo di — indebolire il coraggio — predicando la pace — e di fiaccare le energie nazionali: — «Io dico, al contrario, che quello che può snervare il coraggio è l’eccitazione continua in vista d’un pericolo che è continuamente aggiornato, il sistema d’abituare la nazione all’illusione del coraggio e ad un eroismo verbale. Le energie morali sono come le energie fisiche: non si distruggono, ma si convertono le une nell’altre. È inutile perciò il fermare l’energia d’una nazione nell’una o nell’altra forma sotto il pretesto che essa dovrà servire un giorno al tale o al tal altro scopo. Date a una nazione delle energie vive e sane: l’energia del lavoro, l’energia del pensiero, l’energia della libertà, l’energia del diritto, e se queste forze saranno minacciate un giorno da un’aggressione straniera, esse si convertiranno spontaneamente in una magnifica espansione di coraggio». Le parole del grande oratore socialista della Francia dovrebbero essere meditate dai reazionari bellicosi d’ogni paese, per i quali pare che non esista questo quesito: se il sentimento dell’amor di patria, principal forza d’un esercito in una guerra di difesa nazionale, non debba essere più o men forte nelle moltitudini combattenti secondo la maggiore o minor quantità di beni materiali e morali che l’idea di patria rappresenta per esse; se da moltitudini che, difendendo il paese proprio, sono consapevoli di difendere uno Stato dove hanno libertà, giustizia, vita umana, non sia da attendersi maggior valore e costanza che dai figli d’un popolo, nel quale quei beni non siano ancora che aspirazioni temute e compresse; se, essendo in guerra una grande forza la coscienza della propria superiorità morale sul nemico, non abbia, di due eserciti, a battersi più fieramente quello che sa di rappresentare un più alto grado di perfezione sociale, di combattere per conservare una maggior somma di conquiste civili o economiche; se, in fine, non debbano prevalere per virtù d’ardimento e di sacrificio quei soldati che difendono l’integrità d’una patria, alla quale, oltre che dall’affetto istintivo, si sentono legati dalla gratitudine di figliuoli beneficati e protetti. È fuor di dubbio che dei miracoli di valore compiuti dagli eserciti della rivoluzione francese fu prima cagione l’idea, fiammeggiante fin nell’ultimo dei loro soldati, di difendere una nazione che innalzava in faccia al mondo la bandiera d’una nuova storia, di portare sulle punte delle loro baionette il verbo della libertà contro un dispotismo inteso ad eternare il passato per terrore dell’avvenire; ond’era universale in quegli eserciti la coscienza di sovrastare moralmente, quasi come una razza superiore, alle masse asservite e inconscienti che avevan di fronte. È dunque strano e quasi inesplicabile come gli avversari ostinati del presente moto del proletariato, che accusano chi lo guida e lo seconda di voler distruggere il sentimento e le forze militari della patria, e da quel moto mirano a distrarre gli animi con lo spauracchio perpetuo d’una guerra nazionale, non pensino che il mantenere le classi lavoratrici, come essi vorrebbero, nel presente stato di miseria intellettuale o economica, avrebbe per effetto certissimo d’indebolire alle radici il vigore difensivo della nazione, principalmente costituito dalla fede del maggior numero nella virtù benefica delle istituzioni che la reggono e dalla speranza comune di uno stato migliore; il quale dal sopravvento straniero sarebbe allontanato o precluso. Essi vogliono nel pugno della nazione una spada enorme; ma non considerando se sarebbe gagliardo o fiacco il braccio che l’ha da reggere, se ardente d’entusiasmo o restìa l’anima che deve movere il braccio, se sarebbero sane e concordi, o inferme e slegate, tutte le facoltà di quell’anima; se, insomma, si possa avere in guerra un grande esercito quando non s’ha in pace un grande popolo, e se tale possa essere un popolo povero, malcontento ed incolto. Il corollario di queste osservazioni è un paradosso apparente, che noi stimiamo una grande verità; cioè, che di due nazioni in guerra, di cui l’una attentasse all’integrità dell’altra, non essendo troppo diseguali le forze del numero e delle armi, la più valorosa, la più tenace, la più sicura della vittoria sarebbe quella in cui l’evoluzione socialista avesse portato le moltitudini a un più alto grado di prosperità e di coscienza civile: l’evoluzione socialista, poichè non v’è oramai altra via di progresso sociale, anche se l’ultimo ideale del socialismo fosse un’illusione. Dopo Algesiras. Quando pareva che dalla conferenza d’Algesiras fosse per nascere una conflagrazione europea, dalla voce dei profeti del peggio fummo maravigliati a tutta prima come dal pronostico di una cosa insensata e incredibile. — Come, nello stato presente di civiltà —, domandammo a noi stessi — perchè due potenze europee non riescono a conciliare certi loro interessi commerciali in un angolo dell’Affrica, è ancora possibile lo scoppio d’una guerra che metterebbe a fuoco e a sangue forse l’Europa intera, e farebbe tale sperpero di vite, d’oro e di lavoro, e accumulerebbe tanti orrori, e avrebbe effetti funesti per così grande spazio di tempo, da non potervi fermare l’immaginazione senza un brivido di sgomento mortale? È possibile ancora che il presente e l’avvenire di milioni d’uomini di dieci paesi dipendano dalle discussioni di venti persone, delegate dai Governi, non dalle Assemblee dei loro Stati, a trattare una quistione che la grandissima maggioranza di quei milioni d’uomini non conosce, o non comprende, o non cura, e che, comunque si consideri, non è una quistione vitale per nessun popolo, ma un contrasto d’interessi ristretti, a cui non ha dato importanza improvvisa che un risentimento d’orgoglio nazionale? È dunque così barbaricamente costituito ancora, dopo tanto corso di civiltà, l’organismo politico e sociale delle nazioni, che resti in balìa di pochissimi lo scatenare i popoli a un macello immenso, e che da questi se ne attenda il cenno come una sentenza del destino; che d’un fatto così formidabile, del quale i popoli stessi hanno pur da essere attori e vittime, si dica rassegnatamente: — Avverrà? non avverrà? — come d’un fenomeno della natura, indipendente da ogni azione umana? È possibile che si esprimano ancora, parlando di individui, soggetti, per quanto posti in alto, a tutti gli errori umani, concetti spaventevoli come: — Se questi o quegli «vorrà» o «non vorrà» la guerra? — Che si possa dire ancora (e non paia orrendo): — Meglio il disastro passeggiero d’una guerra che quello perpetuo della pace armata —, come se fra le due vie: di far la guerra per poter disarmare e di disarmare per non farla, non si potesse sensatamente neppur discutere la preferenza da darsi alla prima? Che, in fine, si consideri ancora la guerra con la mentalità selvaggia di quel condottiero spagnuolo, per cui essa era «el verdadero estado del hombre»? È possibile? — Che tutto questo fosse possibile sapevamo bene prima che la Conferenza d’Algesiras si radunasse; ma le voci, che questa fece sorgere, d’una guerra probabile e prossima, ci destarono, come fa sempre l’avvicinarsi d’un pericolo che prima era lontano, quasi un concetto nuovo del pericolo medesimo, e un nuovo sentimento, che fu di maraviglia dolorosa e sdegnosa, e d’umiliazione e di rivolta insieme della nostra coscienza d’uomini civili. * Più vivo ci fu reso questo sentimento dalla considerazione d’un fatto. È fuor di dubbio che a una guerra per la quistione affricana era risolutamente avversa l’opinione dei più in ogni nazione; che, non parlando delle classi lavoratrici, in tutte le altre classi sociali d’ogni paese d’Europa, a consultare cittadino per cittadino, non si sarebbe trovato uno su mille, che non giudicasse tal guerra una mostruosa follia. Or bene, come mai fra quelle classi, che pure tante volte concordarono da paese a paese in potenti iniziative di carità pubblica e in affermazioni di grandi principii e intenti d’umanità, non s’è manifestato un accordo internazionale, nè vasto nè circoscritto, per iscongiurare una tal follia, non s’è levato almeno un grido di molti, che esprimesse il giudizio di tutti, e ammonisse tanto solennemente i Governi e i rappresentanti loro da assicurare il mondo che d’un tale ammonimento non avrebbero potuto non curarsi? Come lasciarono che soltanto dalle file del socialismo s’alzasse la voce che diceva il pensiero e l’animo delle nazioni? È dunque vero che esse non hanno più ideali, nè forza, nè fede in sè medesime e nella necessità della loro funzione sociale, e che si lasciano andare con inerte acquiescenza agli eventi, poichè non sono più in grado di governarli? O sentono che la consuetudine di deridere gli apostoli della pace universale, perchè troppi di questi sono anche apostoli d’un’altra fede, toglie loro il diritto e l’autorità di bandir crociate contro una guerra, qualunque sia? E che è questo sentimento religioso, in alcuni paesi pur così ardito e pugnace, e che pare si ridesti in tutti con nuovo colore sociale e nuovi intendimenti umanitari, se nella recente occasione non inspirò, non solo alcuna solenne voce collettiva, ma neppure qualche grande voce solitaria a deprecare l’eccidio minacciato, gridando in nome della fede il «no» della coscienza universale? E non si dica che ciò non si fece per essere ancor remoto e vago il pericolo, poichè una dimostrazione efficace non si sarebbe potuta fare se non appunto in quel periodo in cui le menti e gli animi erano ancor tranquilli, e sarebbe stata troppo tarda quando la rottura dei negoziati avesse turbato gli spiriti e fatto incominciare dai Governi in lotta quell’opera di sovreccitamento delle passioni nazionali, per cui hanno in mano tanti mezzi pronti e sicuri. Che segno hanno dato in quest’occasione le classi superiori di spirito umanitario progredito, di civiltà affinata, di sentimento religioso sincero? * Un altro fatto singolare notammo. Quella parte della stampa, che si dice «dell’ordine» non solo delle due nazioni che sarebbero state immediatamente alle prese, ma anche dell’altre, che più probabilmente sarebbero state travolte poi nella lotta; quella parte, in special modo, che si mostrò più incline a giudicar probabile il grande disastro, ne parlò come avrebbe parlato d’un pericolo simile cinquant’anni sono, ossia, come d’una guerra che, dove fosse stata decisa, sarebbe avvenuta senz’altro, e si sarebbe svolta nei modi, nelle condizioni e con gli effetti stessi degli altri tempi. In nessuna delle sue considerazioni vedemmo considerato l’avvenimento probabile in relazione col mutato spirito delle moltitudini, con le nuove forze politiche sorte, col nuovo stato d’opposizione profonda e permanente in cui si trovano in ogni paese, con effetti quotidianamente visibili, e spesso gravissimi, le classi sociali che hanno la ricchezza e il potere e quelle che hanno il numero e l’avvenire; non espresso mai alcun dubbio sulla persistenza dell’antica solidità e docilità di questi smisurati organismi di guerra, che non sono più veri eserciti, ma popoli armati, portanti in sè un nuovo mondo d’idee, manifesto a più segni anche in quello che è il loro nucleo stabile in tempo di pace, e che è pur composto degli elementi loro più quieti e più semplici; nessun presentimento od accenno a qualche cosa di più grande e di più terribile della guerra stessa, che avrebbe potuto prevenirla o renderla impossibile, o scoppiar con essa e troncarla, precipitando gli Stati in una convulsione, dalla quale, per l’immaturità dei tempi, non sarebbe potuto uscir altro che desolazione e miseria per tutti, seguìte da una riscossa di tutte le idee del passato. Quello che seguì in Europa da trent’anni nell’ordine delle idee, dei partiti, delle relazioni fra le classi, del movimento delle forze sociali, parve non avvenuto, a considerare il criterio e il linguaggio con cui quella stampa ragionò della guerra. * Ma questo fatto non ci maravigliò, poichè sarebbe assurdo l’attribuirlo a ignoranza o a trascuranza della verità; nel qual caso soltanto potrebbe maravigliare. Esso non fu effetto che d’uno spontaneo e tacito accordo, non fu che una finzione logica e necessaria, che si ripeterà in ogni caso simile. Considerare i pericoli d’una guerra europea sotto l’aspetto che s’è accennato, sarebbe un riconoscere nelle nuove idee, nell’organizzazione internazionale del proletariato, negli effetti ottenuti dall’azione del socialismo una potenza, che convien disconoscere invece, per non ingrandirla nel concetto di chi ci ha fede e di chi la teme; sarebbe un ammettere che il socialismo domina già virtualmente la storia. Ora, si tacciono con tanto maggior cura le verità invise quanto più sono palesi. E questa è così palese per la prova dei fatti che non c’è più alcuno che, pur negandola, non ne sia intimamente persuaso. Troppo è manifesto che è la forza crescente del socialismo la principal cagione per cui non iscoppiò in Europa dopo il 1870 la tanto temuta guerra, benchè tante volte ci siano state propizie le occasioni politiche e se ne sia predicata l’imminenza. Monarchi, governi, oligarchie interessate trattenne la coscienza che il terreno è mal fido per il gran duello e che la lama è mal ferma nell’impugnatura. In tutti è la persuasione profonda, benchè dissimulata, che v’è una sola, grande e urgente quistione nel mondo civile, e che, se anche la guerra potesse compiersi, non sarebbe da quella che una diversione passeggiera; dopo la quale la quistione suprema risorgerebbe con tutta l’urgenza di prima nel paese o nei paesi vittoriosi, accresciuta forse dall’eccitamento febbrile che lascia nei popoli la vittoria, e divamperebbe come un incendio nei paesi vinti. E forse la prima causa della lamentata indifferenza delle classi superiori in faccia al recente pericolo fu quella persuasione; per la quale non credevano, in fondo, che si sarebbe fatta la pazzia di tentar l’avventura. Così, mentre si deride l’utopia socialista della pace perpetua, l’utopia va diventando realtà, in Europa, principalmente per opera degli stessi utopisti. Di tanto in tanto, quando certi loro interessi si trovano a cozzo, uno Stato innalza di faccia all’altro, per minaccia, una gigantesca armatura; ma l’armatura resta là come uno spauracchio, e dopo qualche tempo è rimessa nell’armeria. È perchè il gigante antico, a cui i Governi la dovrebbero vestire, ha una nuova coscienza, e la volontà sua non è più in loro potere. Egli vuol lavorare, non uccidere, e le conquiste a cui aspira non le può più compiere sotto la loro bandiera. Otto frammenti. I. — A un banchetto. È un pezzo che io domando a me stesso — e sarà forse una domanda ingenua — perchè tutti gli uomini onesti e sensati d’ogni paese non siano con noi, per quale ostinazione o per qual malinteso tutti, anche coloro che non credono possibile il conseguimento del nostro ideale, non si associno cordialmente all’opera nostra; tanto mi paion certi e evidenti gli effetti benefici ch’essa produce con la semplice diffusione delle idee e dei sentimenti a cui s’ispira. Noi portiamo dentro una eredità sciagurata di falsi concetti e di tristi passioni, oscuri e quasi ignorati avanzi di barbarie, che forman fra tutti come una quantità enorme di materia infiammabile diffusa per ogni popolo; la quale, o spontaneamente o per arte di pochi, anche per una causa futile, o iniqua, o insensata, può di giorno in giorno infiammarsi e scoppiare nella calamità terribile della guerra. Ebbene, questi pericolosi avanzi di barbarie, quasi tutti celati sotto aspetti ingannevoli, noi vogliamo afferrarli, analizzarli, farli vedere nella loro essenza vera, disonorarli e distruggerli, affinchè nella decisione delle contese fra popolo e popolo abbia una parte sempre maggiore la Ragione, una parte sempre minore la Morte. Chi, onestamente, ci può rifiutare il suo consenso e il suo aiuto? Noi diciamo ai padri e alle madri: — Educate fortemente i vostri figliuoli; ma non sia uno strumento omicida il primo trastullo che ponete nelle loro mani, non sia la finzione della strage il primo diletto della loro fantasia, perchè è un troppo vecchio e funesto errore quello di secondar nel fanciullo l’istinto della ferocia credendo di educarlo al valor pensato e generoso dell’uomo civile. Diciamo ai giovani d’ogni paese: — Amate la patria; ma sia il vostro quell’amor di patria, illuminato da un più largo e sapiente amore, che di ogni popolo ci fa onorar le virtù e benedir le fortune, come d’un necessario alleato nostro e di tutti nella eterna lotta per la vita e per la civiltà che combattiamo con la Natura; non già quell’altro gonfio d’orgoglio e roso di gelosia, che s’inalbera ad ogni ombra e s’abbassa a ogni piato e ha bisogno d’eccitarsi con l’odio — col più ingiusto, col più dissennato degli odi — quello che abbraccia milioni di creature umane sconosciute e innocenti. Diciamo a coloro a cui è affidata la difesa nazionale: — Bello è il tener l’animo pronto al supremo sacrifizio per la patria, nobile è l’ambizione di meritare la sua gratitudine; ma nessuna ambizione vi mova a desiderar la guerra per la guerra, perchè di tutti gli eccessi dell’egoismo questo è il più orrendo, e chi l’accoglie nel cuore non è più un difensore del proprio paese, è un suo sanguinario nemico, e doppiamente colpevole perchè si nasconde sotto le insegne dei più diletti suoi figli. Diciamo agli insegnanti, agli educatori: — Ispirate ai giovani l’ammirazione delle grandezze antiche; ma non confondete in una ammirazione medesima le anime grandi e i briganti fortunati, perchè è un pervertire nella gioventù il senso della giustizia; non li avvezzate a considerar gli eccidi dei popoli come quelli dei formicai che si calpestan passando, perchè è inaridire le sorgenti della pietà; non inculcate loro il concetto della necessità fatale della guerra, perchè è uccidere in essi la fede nella civiltà e indurli al disprezzo della razza umana; e non dite loro che le forze morali dei popoli non si ritemprano che col ferro e col fuoco, perchè son là il lavoro, la scienza, la carità, la miseria, il dolore che vi gridano: — Bastiamo noi a far degli eroi e dei martiri sopra la terra! — e ve ne mostrano ogni giorno una legione. Diciamo infine ai credenti: — Che cos’è la religione, che non predica la pace, non solo, ma che domanda a Dio che si spargano dei torrenti di sangue, e lo ringrazia mentre fumano ancora? Venite con noi, se è vero che portate nell’anima l’amore e il perdono, levate la voce per la nostra causa, se non mentite a Gesù Cristo quando invocate il suo regno sopra la terra. Questo noi diciamo, e per il conseguimento dell’alto fine abbiamo una fede profonda nella potenza della parola ragionata e appassionata, infaticabilmente ripetuta e diffusa dalle scuole alle officine, alle chiese, agli atenei, alle reggie, gridata in tutte le lingue e su tutte le frontiere, prima da migliaia, poi da milioni di voci, fin che diventi così formidabile da far cadere dai pugni del mostro la spada spietata e la fiaccola infame. — È un sogno! — ci gridano. — Ebbene — sì — è un sogno; — ma come quello che tra l’infuriare degli odi e delle guerre cittadine, quando l’Italia, era tutta in brani sanguinanti, doveva allietare qualche volta i nostri antichi padri, mostrando loro nell’avvenire, come un prodigio incredibile, tutte quelle frontiere cancellate, tutte quelle ire spente, tutti quegli implacabili fratricidi disarmati e riconciliati per sempre intorno a una sola bandiera. E si compirà il sogno di oggi come si compì quello d’allora. Sì, soffiate pure nelle vanità patriottiche, riattizzate antichi e recenti rancori, alzate barriere doganali, coprite di fortezze i confini: contro ai grandi fiumi che corrono a mescolarsi nell’oceano non giova impedimento di dighe: i popoli inciviliti vanno l’uno verso l’altro spinti da una forza a cui nulla resiste, riconoscono a poco a poco immaginarie più che reali le tanto predicate avversioni di razza e falsa apparenza l’antagonismo dogli interessi, e confondono idee, usanze, lavoro, arte, sangue, e vanno con rapidità così maravigliosa moltiplicando e serrando fra di loro, sotto l’impulso dei bisogni crescenti, i vincoli della vita, che l’idea di reciderli con la spada, per qualunque sia causa, parrà tra non molto altrettanto assurda e abbominevole che quella di risolvere le quistioni interne d’una nazione scagliando l’una contro l’altra le sue provincie, riaccese dei furori selvaggi del medio evo. Questa è la fede di tutti noi, forza e conforto divino dell’anima nostra; fede che neppure da una gigantesca guerra europea, che scoppiasse domani, non sarebbe minimamente scemata. Quanto a me, n’ho un’altra anche più ardita, che ai più di voi parrà illusione. Io credo che l’idea della pace abbia già percorso, per effetto di forze estranee alla vostra propaganda, un cammino assai maggiore di quello che non appaia a noi stessi, assai maggiore di quello che l’orgoglio ferito d’un grande popolo possa consentire che si affermi. Credo che le quistioni internazionali che sono oggi un pericolo avranno una soluzione lontana, ma pacifica, compresa nel giro d’una più vasta mutazione di cose. Credo che alle moltitudini innumerevoli che domandano nutrimento umano, vita intellettuale e giustizia, non si risponderà mandandole come armenti al macello, dopo del quale, per preparare nuove rivincite e nuove difese, si ricomincerebbe ad affamarle più spietatamente di prima; — credo che questo esecrando sterminio di popoli da cui rifugge l’imaginazione inorridita e che da vent’anni ci pende sul capo come una maledizione di Dio, non seguirà —; che l’aurora del ventesimo secolo non si leverà su questa vergogna del mondo. Io lo credo — voi, forse, lo sperate. Alziamo dunque insieme i bicchieri, e salutiamo con un cuor solo, con un solo evviva questa santa speranza! II. — La guerra educatrice. Disse il maresciallo Moltke che la guerra svolge nel cuore umano dei sentimenti nobili. Si può dir lo stesso di tutte le grandi calamità pubbliche, compresa la peste. A proposito della peste di Milano, appunto, osserva Alessandro Manzoni che «nei pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù». Ma soggiunge: — «e, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità». Il giudizio del Moltke, dunque, non esprime che una mezza verità; anzi meno che mezza. Che molti concordino in quel giudizio deriva dall’essere generalmente considerata come giusta la definizione: «La guerra è un duello tra due popoli»; la quale è invece falsissima, perchè nella maggior parte degli atti e dei procedimenti riconosciuti legittimi in guerra non v’è ombra di quel qualsiasi sentimento o concetto cavalleresco a cui è informato il codice del duello fra gentiluomini. La guerra, certo, offre ai coraggiosi e ai generosi molte occasioni di dar prova onorata e utile della loro virtù, e molti begli atti individuali lo dimostrano, in tutte le guerre, compiuti anche da quella parte, la quale combatte per una causa iniqua. Ma questi atti, che compiono soltanto gli uomini forti e nobili, non sono che piccoli e rari episodi; non sono la guerra. Quando si combatte il nemico, come s’intende a far sempre, con duplice, triplice forza numerica e con tutti quei vantaggi d’armi, di tempo e di terreno che danno la certezza assoluta della vittoria, come ad un uomo che lotti con un fanciullo; quando da un’altura conquistata si fulmina a fuochi di fila una mandra di fuggenti, di cui non si vedon più che le spalle; quando, guidati dallo spionaggio e dal tradimento, si assiale nelle tenebre e nel sonno un accampamento mal guardato e vi si semina la morte prima che vi si possa tentare un principio di resistenza; quando si casca inaspettati, mille contro cento, sopra un convoglio di viveri, e si macella la scorta e si preda il convoglio, affamando migliaia d’uomini che si batterono forse eroicamente il giorno innanzi; quando da lontano molte miglia, e senza pericolo, si rovesciano sopra una città dei nembi di ferro e di fuoco, che vanno a mutilare monumenti d’arte secolari, a incendiar biblioteche, a rovinare edifizi d’utilità pubblica, a sterminare nei loro letti donne, vecchi, fanciulli, malati, feriti; quando ai cittadini d’una città disarmata si estorcono con le armi alla mano gli ultimi scudi, che, dopo essersi impoveriti per la patria, essi serbavano agli ultimi sacrifizi; quando, sia pure per necessità e senza ferocia, s’invadono e si manomettono le case dei privati, si trascinano prigioniere «in ostaggio» delle famiglie atterrite e tremanti, e si strappano le derrate e gli animali e si devastano i campi ai coloni affamati e supplichevoli; quando, stando in agguato dietro ai muri o alle siepi, si uccidono alle spalle gli esploratori solitari, o si fucilano dei cittadini per il solo fatto d’aver difeso la patria senza vestire una divisa, o si spara nel dorso ai prigionieri inermi ed affranti che tentano di mettersi in salvo; quando si fa tutto questo — e si fa di continuo in ogni guerra — quali «sentimenti nobili» si possono «svolgere» nel cuore umano? Il vero è che per far tutto questo, come vuol esser fatto, vigorosamente, bisogna soffocare nel proprio cuore quei sentimenti. Basterebbero a provarlo, fra mille altri fatti, il seguente: che uno scrittore noto in Europa, e non sospetto di malo animo verso la Germania, abbia osservato negli operai affluiti a Berlino, in quel breve periodo di prosperità fastosa e fittizia che succedette alla guerra con la Francia, un grande cambiamento; davanti al quale egli domandò a sè stesso «se essi avessero serbato in fondo al loro nervo visivo l’immagine dogli uomini uccisi e dei villaggi incendiati, poichè s’erano fatti violenti e rissosi, indifferenti ai ferimenti e agli omicidi, e facili a servirsi del coltello». Ma che più? Ne dà una prova lo stesso maresciallo Moltke, nell’appendice alla sua Storia della guerra franco-germanica, con una frase, che forse egli non avrebbe scritta, se quando gli venne sulla punta della penna gli fosse tornato in mente ad un tempo il giudizio suo sopra citato. È la pagina dove parla del suo incontro col principe di Bismarck sul campo di Sadowa coperto di cadaveri sfracellati e di feriti rantolanti nel sangue, nel momento che arrivava il corpo d’esercito del principe ereditario. Egli dice: — «Noi galoppavamo allegramente a traverso al vasto campo, senza badare agli orrori che esso ci offriva». — Tale effetto aveva prodotto nel suo cuore, pur naturalmente buono, la guerra. III. — È un errore.... È un errore il credere che si educhino i giovani al coraggio e ai sacrifici patriottici destando in essi il furore della gloria soldatesca e quella febbre d’orgoglio nazionale, che non è amor di patria sapiente, ma orgoglio individuale, dilatato e larvato. Si destano in loro, insieme con questi sensi, un desiderio spensierato della guerra, un disprezzo facile e crudele della vita altrui e altre passioni e tendenze che li sviano dal culto degli alti ideali. Ma quanto al farne dei cittadini forti e dei soldati intrepidi, la cosa è diversa. Nel fatto, sui campi di battaglia e nei cimenti della vita civile, si vedon far mala prova molti di quelli che eran più smaniosi della lotta, molti patriotti furibondi e squassapennacchi terribili, ed anche uomini a cui l’educazione letteraria o militare diede tutti i caratteri apparenti del cittadino valoroso o del bravo soldato, e mostrare invece una intrepidità e una fermezza inaspettata giovani e uomini maturi, d’indole grave e modesta e d’idee miti e ragionevoli, i quali non avevan dato innanzi alcun indizio della loro forza. La fermezza e il coraggio, in costoro, derivano da un sentimento profondo di dignità personale, dalla coscienza di combattere per una causa giusta, da un concetto particolare che hanno della vita, e da altre forze mal definibili che sono in fondo all’animo loro. Su queste forze non hanno potere alcuno quelli che credono di formar dei prodi cittadini e di suscitar degli eroi gridando perpetuamente alla gioventù: — Patria, armi, sangue, guerra, gloria! Questi non fanno che seminar del vento e ritardare il cammino della civiltà col mantener vivo il pregiudizio funesto che si fortifichi un popolo inebbriandolo d’ambizione e facendogli adorare la spada. IV. — La guerra e la menzogna. Potrebbe scrivere un libro utile chi dimostrasse quante bugie dicano e mettano in giro, durante una guerra, quante leggende assurde creino ed accettino l’ambizione degli individui, l’orgoglio nazionale credulo, la condiscendenza della stampa interessata a adularlo, e l’ignoranza infantile della moltitudine. Neppur da questo lato, certamente, giova la guerra a «innalzare i caratteri» poichè intorno a un piccolo numero d’eroi veri e a un numero maggiore di combattenti valorosi, ma non eroici, suscita un numero grandissimo di sballoni e di millantatori e di complici loro conscienti od ingenui, che offrono tutti insieme a chi serbi sereno lo spirito uno degli spettacoli più compassionevoli che possa dar di sè la natura umana. E non parliamo dei moltissimi che, non avendo preso parte ad alcun fatto d’armi, affermano dopo un certo numero d’anni, quando si son confusi i ricordi degli avvenimenti, d’aver _visto il fuoco_ di ogni battaglia; nè degli altri molti che, non essendo stati a una battaglia che come spettatori fuor di pericolo, si vantano, in capo a un certo tempo, d’avervi preso parte vivissima, e scroccano nella loro famiglia, fra gli amici e nel pubblico una considerazione che non meritano. Ma di quelli stessi che combatterono e rischiarono la vita davvero quanti mentiscono i sentimenti che hanno provati, e ingrandiscono le gesta proprie e le altrui, e danno per verità delle fantasie! Se n’ha la prova nelle diversità grandissime e nelle contraddizioni enormi che si riscontrano fra i racconti di quelli stessi che assistettero allo stesso fatto, non già molti anni, ma pochi giorni dopo ch’esso è avvenuto. Certo, vi sono uomini di tempra quasi superiore alla umana, che danno esempio, fra i pericoli supremi, d’una tranquillità d’animo maravigliosa, che compiono atti e pronunciano parole, anche morendo, degni dell’ammirazione d’un popolo. Ma sono, in realtà, rare eccezioni, e non diventan molti se non perchè l’immaginazione ambiziosa li moltiplica. Nove volte su dieci, quelle tanto frequenti descrizioni di gente che «non batte ciglio» sotto il grandinar delle palle, che scherza sulle proprie membra lacerate e spira gridando evviva, sono purissime favole; le quali sono anche spinte il più delle volte a un’esagerazione di particolari così impudente e puerile da mover le risa o lo sdegno in chiunque sia stato una volta sul campo di battaglia. Così, di recente, abbiamo letto d’un combattimento in cui, mentre la morte li decimava, una schiera di combattenti faceva una tale allegria che era _un vero carnevale_ e d’un ufficiale che, mezzo affogato in un pantano, ammazzò non so quanti e mise in fuga il resto d’un drappello di nemici, e di _tre soldati_ che arrestarono da un’altura cento assalitori, e altri tanti e tali prodigi, che indussero un ufficiale valoroso a levar la voce perchè si mettesse un termine, per sentimento di dignità nazionale, alla fabbricazione delle leggende. E in tutti i paesi, in tutte le guerre, segue il medesimo, e più forse nelle guerre sfortunate che nelle vittoriose, per una ragione facile a comprendersi; il qual fatto può anche far dubitare della verità della sentenza: che le sconfitte ritemprano i popoli insuperbiti e corrotti dalla fortuna riconducendoli a un giusto giudizio del proprio valore. Nè questa è l’ultima cagione della persistenza d’un avventato e provocante spirito bellicoso in un così gran numero d’uomini, che non videro mai la guerra fuor che nei quadri; vale a dire: un concetto falsissimo, creato in loro dalla menzogna convenzionale e tradizionale, della guerra stessa, della facilità dell’eroismo e della moltiplicità degli eroi; concetto falsissimo che si comunica e si tramanda in tutti gli scritti storici, apologetici e poetici, relativi alla guerra, ai quali s’informa l’educazione della gioventù, e fa sì che la letteratura guerresca sia la più adulatrice e la più bugiarda di tutte le letterature. V. — Ai maestri. Sarebbe opera utile al trionfo della Pace il cercar di correggere nelle scuole, e in particolar modo nell’insegnamento storico, la troppo facile e cieca ammirazione dei grandi macelli e dei famosi macellatori; il combattere la leggierezza, il linguaggio inconsciamente barbarico con cui s’avvezzano i giovanetti a raccontare e a descrivere le stragi più orrende, con l’idea falsissima che siano una cosa sola l’indifferenza per lo spargimento del sangue e il coraggio; l’educarli a congiunger sempre all’ammirazione del valore guerriero un sentimento di pietà profonda per le vittime e di alto rispetto per la vita umana; il far sì che al sentimento della necessità ed anche della santità di certe lotte cruente uniscano sempre quello d’un orrore doloroso per questa necessità medesima e la speranza che un giorno essa non sia più per l’umanità che un ricordo funesto e non abbiano più a sorgere statue d’eroi sopra piedestalli di carne umana lacerata. Se questo si facesse, non avverrebbe così di frequente d’udir persone civili e gentili, non per altro che per spirito d’avventura o per ambizione di gloria patriottica o per scopo d’educazione nazionale, esprimere placidamente il desiderio di una guerra, senza che dieci voci indignate s’alzino loro d’intorno a dire che hanno proferito la parola più stolida e più scellerata che possa uscir dal labbro d’un uomo. VI. — Per i pazzi. Sapere, per l’esempio della Francia nel ’71 e della Russia nell’anno in corso (1906) che cosa segue nelle nazioni vinte in una grande guerra; riconoscere, come ognuno riconosce, che gli eserciti attuali, formati di milioni d’uomini, non sono più veri eserciti, ma popoli armati, il cui spirito è un’incognita, e di cui la vittoria soltanto può mantener la coesione; non ignorare le quistioni vitali che agitano la società presente e che tengono le moltitudini in uno stato quasi continuo di febbre e di convulsione; sentir cantare l’«inno dei lavoratori» dai coscritti, chiedere il congedo in assembramenti dai richiamati e protestare nei comizi i reduci dalle grandi manovre; sapere, sentire, veder tali cose, e parlar d’una guerra, e desiderarla, come un modo di soffocare per un periodo di tempo le grandi quistioni urgenti che non si sanno risolvere, ossia, proporre d’uscire dalle difficoltà presenti tentando la fortuna nazionale in un gioco d’azzardo che, se fallisse, avrebbe per conseguenza la miseria pubblica triplicata, l’inasprimento di tutte le ire, la difficoltà ingigantita di tutti i problemi, e quasi senza dubbio uno sfacelo spaventevole della compagine dello Stato: questo dovrebbe parere assurdo ad ogni uomo che abbia lume di ragione. Eppure a molti non pare, e lo dicono. A chi lo dice non c’è altro che metter le mani sulle spalle, fissarlo negli occhi e gridargli sul viso: — Al manicomio! VII. — Per ritemprare la fibra.... Scrisse tempo fa un mite filosofo: — Se fosse assicurata la pace perpetua l’umanità imputridirebbe. — E chiarì il suo concetto, aggiungendo: La guerra è necessaria per ritemprar la fibra alle nazioni. La fibra di quale parte, di quali elementi delle nazioni? Hanno bisogno d’aver ritemprata la fibra tutti quei milioni d’uomini, i quali nei campi, nelle officine, nelle miniere, sulle montagne e sul mare sudano sangue per campar la vita, condannati a un lavoro senza tregua, che, quando non prostra o non uccide, fa le anime e i corpi di ferro? Hanno bisogno di aver ritemprata la fibra tutte quelle miriadi di uomini d’ogni classe, pei quali tutta la vita è un’aspra lotta con la sfortuna, un perpetuo sforzo ostinato e impotente per uscir dalla oscurità e dalle strettezze, una quasi continua e non meritata sequela di privazioni, d’umiliazioni e di disinganni, che li trascinano a cento a cento al suicidio? Hanno bisogno d’aver ritemprata la fibra tutti quegli innumerevoli infelici, a cui le malattie, le disgrazie e i delitti strappano ferocemente dalle braccia le persone più care, aprendo nel cuor loro delle ferite che sanguinano senza fine, gettando nell’anima loro una tristezza, che dura fino alla morte? Hanno bisogno di aver ritemprata la fibra tutte quelle migliaia di creature, naturalmente coraggiose e magnanime, che in ogni occasione di sventura privata o pubblica sono le prime a offrire e a dar l’opera propria e il proprio sangue, e compiono ogni giorno, senz’ambizione e senza compenso, quei mille atti di virtù oscuri o dimenticati, che onorano più altamente la natura umana? Hanno bisogno d’aver ritemprata la fibra quelle migliaia di giovani e d’uomini maturi, che ai doveri della loro professione, a una ambizione nobile e utile a tutti, all’arte, alla scienza, all’amore appassionato del lavoro sacrificano gli agi, i piaceri, la libertà, la pace, segregandosi dal mondo e accorciandosi la vita? Tutti costoro, per certo, non hanno bisogno di rinvigorirsi la fibra nella guerra. Ma se si tolgono tutti costoro, che cosa rimane di una nazione altro che un branco di parassiti gaudenti, di oziosi tarlati dalla noja, d’avventurieri scioperati, di quattrinai mestatori, d’anime nulle o triste o bislacche, che neppure amano la patria e la gloria, perchè non hanno in sè nulla di gentile e di grande! È forse per rinvigorir la fibra a costoro che si dice necessario e desiderabile che ogni tanti anni corrano sulla terra dei torrenti di sangue generoso e di pianto disperato? Non è credibile. La sentenza, dunque, vuol essere corretta così: La guerra è necessaria per ritemprare la fibra agli eserciti. Questo forse pensava il buon filosofo; ma, per pudor filosofico, non osò di dirlo. Deploriamo la sentenza e rallegriamoci del pudore. VIII. — Un episodio della battaglia di Custoza. Di quanti episodi di guerra io lessi od intesi, quello che mi fa più spesso e più lungamente pensare è il seguente, che mi narrò un ufficiale valoroso, il quale ne fu parte. Nella battaglia di Custoza del 1866, non ricordo se sulle alture di Montecroce o d’un altro colle, in una di quelle vicende d’assalti e di contrassalti, in cui le colonne dell’una e dell’altra parte si rompono in truppe disordinate e in drappelli, alcuni dei quali errano per qualche tempo tra il fumo, o s’arrestano qua e là come smarriti, arrivarono di corsa sul culmine, da due parti opposte, due manipoli fuorviati d’italiani e d’austriaci, tutti così oppressi dalla fatica, trafelati, sfiniti, che nell’atto stesso del vedersi, s’arrestarono gli uni in faccia agli altri, come a un comando dei loro capi, ridotti nell’impotenza assoluta di muovere un passo di più e di far pure un atto di offesa. Ristettero gli uni e gli altri sotto il raggio ardente del sole, grondanti di sudore, con le bocche spalancate e gli occhi fuor dell’orbita, ansando orribilmente e guardandosi, come istupiditi. Ripreso appena fiato, prima uno degli austriaci, poi due, poi quasi tutti cacciarono l’indice nella canna del fucile e, trattolo fuori, lo mostrarono ai nostri, senza far parola. Nessuno aveva il dito nero di polvere. Quell’atto voleva dire: — Non abbiamo sparato, non abbiamo ucciso: non uccideteci. « — Furon pochi momenti — mi disse l’ufficiale — ma in quel brevissimo tempo, come si dice che accada ai naufraghi avanti di perder la coscienza, m’attraversò la mente un pensiero lucidissimo, quasi portato sopra un’onda d’altri pensieri affollati e fuggenti, ch’io non espressi che più tardi a me medesimo. Quanta pietà dei propri simili può entrar nel cuore di un uomo, che abbia egli stesso la morte alla gola, entrò nel mio cuore in quel punto. Pensai che quei soldati non ci odiavano; che neppure gli altri loro compagni d’armi odiavano gli altri compagni nostri, e che nemmeno gli altri giovani del loro paese e le famiglie loro, ossia la maggior parte del loro popolo, non odiava il nostro popolo; che, certo, non era quella grandissima maggioranza che aveva voluto una tal guerra; che tutti dovevano comprendere l’ingiustizia della causa per cui combattevano, e che avrebbero, potendo, fatto ragione ai nostri diritti, patenti al mondo; che era dunque, in quel caso come in altri mille, una forza estranea al maggior numero, al paese vero, una lega dell’orgoglio, degl’interessi e dei pregiudizi di pochi, che aveva spinto tante migliaia d’uomini a una guerra ingiusta ed inutile; e come un lampo mi balenò alla mente, che un giorno, col salire della civiltà, in quello come negli altri paesi, quella forza sarebbe stata vinta e quella lega distrutta; che le questioni tra i popoli le avrebbe risolte la libera coscienza di quelle grandi moltitudini in cui non nascono spontaneamente nè false ambizioni nè odi iniqui, e che un incontro terribile e miserando, come quello che io vedevo, non sarebbe stato più possibile fra creature umane incivilite. «Tutto questo fu come una visione istantanea del mio pensiero. Due squilli di tromba di qua e di là fecero sparire dalle due parti i drappelli, che si ricongiunsero ai loro corpi, — il combattimento riprese, — e forse parecchi di quei soldati che, vedendosi, s’eran risparmiati la vita, di lontano, senza vedersi, s’uccisero. — » Questo fatto mi ritorna alla mente ogni volta che penso alla guerra, e sempre una voce mi ripete ostinatamente, solennemente, con un accento di pietà profonda e quasi di sovrumana certezza: — Sì, un tempo verrà in cui ciò che dissero quei poveri soldati austriaci ai soldati italiani, l’un popolo lo dirà all’altro: — Io non uccido: non uccidere! — FINE. INDICE. PARTE PRIMA. RACCONTI E DIALOGHI. Il primo passo _Pag._ 3 Come si diventa socialisti 11 Fra padre e figlio 18 Fra madre e figlio 28 Fidanzata e fidanzato 35 Fratello e sorella 41 Un “malfattore„ 46 Discussioni 51 Amicizia nuova 62 Fra anarchico e socialista 72 Agitazioni e scioperi 83 Passano le tessitrici.... 92 Una tempesta in famiglia 100 Un giovine perduto 140 Un borghese originale 149 PARTE SECONDA. PER IL SOCIALISMO. Primo maggio 1904 161 Ai fanciulli 167 A una signora 171 Discordie in famiglia 181 Il partito socialista 185 Compagno 189 Nel campo nemico 195 Obiezioni al socialismo 203 Età agitata 210 Mentre passano gli scioperanti 212 Il malinteso borghese 215 L’eguaglianza nel socialismo 222 Filippo Turati al Tribunale di Guerra 230 Un comitato elettorale 235 Lavoratori, alle urne! 239 Amor di patria 266 Verso l’avvenire 273 PARTE TERZA. PER LA PACE. Il socialismo e la guerra 281 Dopo Algesiras 284 _Otto frammenti_: I. — A un banchetto 290 II. — La guerra educatrice 295 III. — È un errore.... 298 IV. — La guerra e la menzogna 299 V. — Ai maestri 301 VI. — Per i pazzi 302 VII. — Per ritemprare la fibra.... 303 VIII. — Un episodio della battaglia di Custoza 305 NOTE: [1] V. specialmente A. GRAF, _Come fu socialista E. De Amicis?_, nella _Nuova Antologia_ del 1.º aprile 1908; DOTT. ROBERTO MICHELE, _Ed. De Amicis_, nei _Sozialistische Monatshefte_ di Berlino, 1909, VI; D. MANTOVANI, _Il “Primo maggio„ di E. De Amicis_, nel _Corriere della Sera_ del 1.º maggio 1909. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LOTTE CIVILI *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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