The Project Gutenberg eBook of Note di un viaggio in Persia nel 1862 This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Note di un viaggio in Persia nel 1862 Author: Filippo de Filippi Release date: May 22, 2025 [eBook #76141] Language: Italian Original publication: Milano: Daelli & C, 1865 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nacional de España.) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NOTE DI UN VIAGGIO IN PERSIA NEL 1862 *** NOTE DI UN VIAGGIO IN PERSIA NEL 1862 DI F. DE FILIPPI PROFESSORE DI ZOOLOGIA E DIRETTORE DEL MUSEO ZOOLOGICO; MEMBRO DELLA R. ACADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO; UNO DE’ XL DELLA SOCIETÀ ITALIANA DELLE SCIENZE. ECC., ECC. VOLUME UNICO MILANO G. DAELLI & C. EDITORI 1865. PROPRIETÀ LETTERARIA DELLI EDITORI TIP. E STEREOTIP. PIETRO AGNELLI _Via del Morone_, N.º 5. Nello scorso anno 1862 convenienze diplomatiche e vivi interessi commerciali aveano indotto il ministero Rattazzi a non più ritardare l’invio di una ambasciata straordinaria all’imperatore della Persia, per la quale fin dall’anno precedente eransi date tutte le disposizioni, ed assunto il più formale impegno. Per quella pompa esterna che determina presso gli Orientali il grado di rispetto, per meglio esprimere il grande mutamento politico che aveva d’un tratto fatto sparire il piccolo reame di Sardegna, e creato il grande regno italiano, il ministero aveva deciso di rendere la missione più numerosa di quanto erasi prima stabilito. E poichè la scelta delle persone poteva farsi con qualche larghezza, volle il governo profittare della circostanza per limitare la parte diplomatica della missione stessa, ed ingrossarla con persone che rappresentassero la milizia, le scienze, le arti. Il brevissimo tempo che doveva trascorrere fra la definitiva composizione dell’ambasciata e la partenza, come pure la necessità di non protrarre questa, onde evitare le grandi difficoltà della stagione all’epoca del ritorno, non lasciavano agio a concertare programmi, a radunare mezzi materiali conformi al carattere ed alla responsabilità dì una vera missione scientifica; ma d’altra parte non poteva essere indifferente l’acquistare di quel singolare paese che si dovea percorrere uno o più ordini di cognizioni. Il personale dell’ambasciata riuscì infine composto nel modo che segue: _Sezione diplomatica:_ commend. M. Cerruti, inviato straordinario di S. M. presso lo Schah della Persia; cav. Gianotti, consig. di legazione; cav. Curtopassi, seg. di legaz.; march. di S. Germano, applicato di legaz.; O. Bosio, console di S. M. _Sezione militare:_ conte S. Grimaldi, capitano di cavalleria, ufficiale d’ordinanza onorario di S. M.; Clemencich, capitano di stato maggiore. _Per le scienze e pel commercio:_ Orio di Milano, bacologo ed economista; Lignana, prof. di filologia comparata nella R. Università di Napoli; Ferrati, prof. di geodesia nella R. Università di Torino; Lessona, prof. di storia naturale nella R. Università di Genova; march. G. Doria. Infine la mia persona. Come preparatore mi fu accordato il sig. Ballerini, preparatore del R. Museo di Pavia. Fotografo addetto all’ambasciata fu dal ministero delegato il sig. Montabone di Torino, al quale venne pure accordato come ajutante il sig. Pietrobon. La tutela medica dell’ambasciata venne dal governo affidata al prof. Lessona. Il commend. Cerruti prese inoltre con sè altro medico, il cav. Carretto, in Costantinopoli, prevedendo il caso, realmente avveratosi, della scomposizione dell’ambasciata dopo la udienza solenne dello Schah. Giunti a Costantinopoli, per metterci sotto gli ordini del commend. Cerruti, vi incontrammo il march. Centurioni di Genova, diretto esso pure verso la Persia, ed il quale, per l’occasione propizia, ci fu compagno nel viaggio. Fra me e i due miei compagni, ai quali, oltre il vincolo dell’amicizia, mi univa consonanza di studj, venne così stabilito: che, ognuno registrando quelle osservazioni che per via occorresse di fare, il march. Doria ed il prof. Lessona attendessero particolarmente agli animali articolati ed ai molluschi, ed a me fosse riserbata come parte principale quella che riguarda i vertebrati. Io presi anche l’incarico delle annotazioni geologiche. Le note che io ora presento, coll’ordine quasi di un giornale di viaggio, sono un miscuglio di mie impressioni, di notizie raccolte, di osservazioni scientifiche. Il mio intento nella forma di queste note, nell’accozzarvi elementi così diversi, fu di renderle alquanto leggibili da un publico egualmente alieno dal pretendere i vivi colori, l’ordinata varietà, le emozioni di un racconto, come lo stretto tecnicismo, il metodo rigoroso di una relazione scientifica: un publico ipotetico infine, il che vorrà forse dire nessun publico. Io devo qui render grazie al prof. Lessona ed al conte Grimaldi per la bontà colla quale mi animarono all’opera, mettendo anche a mia disposizione i loro propri giornali di viaggio. Sovra alcuni animali nuovi o poco noti che verranno mentovati in queste pagine, io ho già publicata una breve memoria nell’_Archivio per la zoologia, l’anatomia_, ecc., la cui publicazione è continuata in Modena dal sig. prof. Canestrini. Altre mie osservazioni sovra diversi argomenti furono communicate alla R. Academia delle scienze di Torino in varie sedute dello scorso anno academico. L’ambasciata italiana si sciolse alla fine di agosto dello stesso anno 1862. Rimase in Teheran la sola sezione diplomatica, per compiere il trattato di commercio col governo persiano; e la rimanente maggior parte si diresse in Europa per la via del Ghilan, mentre il march. Doria coraggiosamente si volgeva, in ulteriori esplorazioni scientifiche, alle provincie meridionali della Persia. Mi gode l’animo d’annunciare il recente fortunatissimo arrivo del giovane e ardente e colto naturalista, il quale ha portato seco una raccolta assai importante pel numero, per la varietà, per la bellezza degli esemplari, di pesci e di rettili nell’alcool, e questa in soprapiù della veramente preziosa collezione entomologica, materia a’ suoi prediletti studj. _Torino, novembre_ 1863. INDICE PREFAZIONE Pag. V I. — Addio a Genova. — Stromboli. — Messina. — Le lucciole ed i mostri del mare. — Passo d’uccelli. — Milo. — Stormi di puffini. — Silivria. — Costantinopoli ed il Bosforo. — Addio all’Europa » 1 II. — Il _Tamise_. — Tributo al mar Nero. — Trebisonda. — La _Cerere_. — Pranzo russo. — Hatum. — I delfini. — Una scena di distruzione a Balaklava. — Bella serata a bordo. — La foce del Rioni » 14 III. — Poti. — Il lago Paleaston. — Foreste vergini. — Il _Phasis_. — Il vello d’oro. — Marani. — La nostra guida d’onore. — Modi di viaggiare nel Caucaso. — L’ospitalità russa. — Kutais. — Accoglienza dal governatore. — Paesaggio delizioso. — Il passo di Suram. — Una giostra d’animali. — Mizchetha » 25 IV. — Valore d’un nome geografico. — Gli ultimi giorni della Georgia. — Tiflis. — Le colonie tedesche: strana origine loro. — Le colonie militari. — Le alte autorità nel Caucaso. — Consoli esteri. — Pranzi d’etichetta. — La musica europea e la musica asiatica » 45 V. — Il governo russo nel Caucaso. — La scienza in Tiflis. — La produttività agricola della Georgia. — Il vino di Cachezia. — La produzione serica. — La pastorizia. — Il monte Sofalaki. — Escursioni geologiche e zoologiche presso Tiflis » 67 VI. — Partenza da Tiflis. — Kody. — I Tartari del Caucaso. — Il ponte rosso. — Salahogly. — Scompiglio della nostra carovana. — La valle dell’Akstafa. — Delidjan. — I Malacani. — Passo dell’Eschek Maidan. — Il lago Goktscha. — La vista dell’Ararat » 83 VII. — Abbas Mirza, Jermoloff e Paskevitsch. — Erivan e la sua cittadella. — L’Ararat e le sue dipendenze. — Alcuni tratti della fauna del paese. — Abbozzo orografico degli altipiani dell’Armenia russa. — Nachidjevan. — Djulfa » 100 VIII. — Il nostro ingresso nell’impero dello Schah. — Scacciamento del dragomanno. — Modi di viaggiare in Persia. — Le stazioni postali ed i caravanserai. — Veicoli. — Il nostro accampamento. — Ordine delle marcie. — Forme dell’accoglienza persiana. — Dare per avere. — Sicurezze delle strade » 120 IX. — Tratti orografici della Persia occidentale. — Aridità del paese. — Modi di irrigazione. — Carattere della vegetazione. — Agricultura persiana. — Mulini e villaggi. — Combustibili e viveri. — Clima. — La vita nelle steppe » 132 X. — Partenza da Diulfa. — Ghelim Kiayà. — Marend. — Il monte del castello. — I _Tepe_ della Persia. — Passo del Maschuk. — Soflan. — Solenne ingresso in Tauris. — Nostri alloggiamenti. — Ozj forzati. — Bozzetti zoologici. — Lo storno roseo » 146 XI. — Uno sguardo a Tauris. — I _bazar_. — Un _dervisch_. — Visite e controvisite. — Vuote gare statistiche. — I medici europei in Persia. — Visita al Principe ereditario. — Festa in onore della ambasciata italiana. — Successione di giorni perduti. — La carovana si ricompone. — Partenza. — Lebbrosi. — Da Tauris a Mianeh » 165 XII. — Mianeh e le sue cimici. — Passo del Kaplankuh. — Il ponte del pastore. — Un cattivo quarto d’ora. — Cane ingannatore e fidi ranocchi. — Sartschem. — Nickbey. — Il bastone è moneta. — Le alcate. — Zendian. — I Babi » 180 XIII. — Sultanieh. — Cenni zoologici. — _Tepe_ del castello reale. — Falso allarme. — Sainkalé. — Bella sezione naturale dell’altopiano. — Massi granitici. — Doloroso avvenimento. — Importanza geologica della linea dell’Abbar » 194 XIV. — Kazvin. — Caccia nel giardino imperiale. — Monticoli di lava presso Hissar. — Kyschlak. — Kurdan. — Kerretsch. — Vista del Demavend. — Khend. — Accoglienza alle porte di Teheran. — Tedgrisch. — La nostra abitazione. — Colonia europea. — Servizio postale in Persia » 210 XV. — Teheran. — La cultura publica in Persia. — La giustizia. — L’Emir. — Il Sadrazam. — Confronti. — Massacro della legazione russa nel 1829. — Guerra coll’Inghilterra nel 1856. — Herat. — L’armata. — I Turcomanni. — Le febbri a Tedgrisch. — Lo Schah. — L’udienza imperiale. — Il ministro degli affari esteri. — Dopo l’udienza » 224 XVI. — Partenza pel Demavend. — Ingresso nell’Elburz. — Ilafdscheh. — Valle del Lar. — Ask. — Grande formazione di travertino e di conglomerato vulcanico. — Reinah. — Abigerm. — Stazione Thomson. — Roccie del Demavend. — Salita al gran cono. — Ritorno alla stazione. — Precedenti ascensioni e misure del Demavend. — Resto di attività di questo vulcano. — Sua probabile epoca. — Leggenda del re Zohaq. — Cenni zoologici. — Città di Demavend. — Ritorno a Tedgrisch » 251 XVII. — Separazione della nostra ambasciata. — Chi rimane in Persia e chi ritorna in Europa. — Carovana della quale faccio parte. — Da Tedgrisch a Kazvin. — Da Kazvin al passo di Kharzan. — Prima impressione del Ghilan. — Rustemabad. — Avventure di viaggio. — Bellezza del paese. — Rescht. — Industria serica nel Ghilan. — Il Murdab. — Enzeli. — Addio alla Persia » 280 XVIII. — Il mar Caspio. — Sua salsedine. — Carattere lacustre della sua fauna. — Antico suo perimetro. — Una communicazione diretta fra il mar Caspio ed il mar Nero non ha mai esistito. — La guerra agli istmi. — Provedimenti del governo russo » 305 XIX. — Lenkoran. — Baku ed i suoi fuochi eterni. — Derbend. — Petrowsk. — Burrasca. — Le bocche del Volga. — Astrakan » 326 XX. — Prime linee d’una fauna della Persia occidentale » 341 XXI. — Carattere della fauna della Persia occidentale, in probabile accordo colla formazione recente di quelli altipiani, e coi dati geografici dell’Avesta. — Materie a ricerche future » 364 XXII. — La navigazione sul Volga. — Sarepta. — Le due sponde sul fiume. — Kasan. — Nishnyi Nowgorod. — Mosca. — Pietroburgo. — La Russia » 376 VIAGGIO IN PERSIA I. Addio a Genova. — Stromboli. — Messina. — Le lucciole ed i mostri del mare. — Passo d’uccelli. — Milo. — Stormi di puffini. — Silivria. — Costantinopoli ed il Bosforo. — Addio all’Europa. Il regio piroscafo _Ichnusa_ che doveva portar a Trebisonda la missione italiana in Persia, levò l’àncora dal porto di Genova la sera del 21 aprile. Per quanto fossimo agguerriti contro aspettate emozioni, i concitati preparativi della partenza fra l’oscurità della tarda sera, gli urtoni, le grida dei battellieri alla scaletta d’approdo, e dei marinai a bordo, la confusione momentanea delle cose e delle persone, cospiravano ad esacerbare il natural tumulto dei nostri affetti; come la prima scaramuccia nell’animo pur deliberato del coscritto. Poichè furono disposte alla meglio le nostre celle, risaliti sul ponte, mandammo ancora un saluto a Genova, e la seguimmo collo sguardo teso, finchè ogni luce di quel superbo anfiteatro scintillante andò perduta, come in una nebbia fosforica, nel lontano orizzonte. Questa scena taciturna, questa lutta di desii e di pentimenti doveva per altro avere un fine per la legge stessa del cuore umano. La gaja fidente spensieratezza, prima a ridestarsi negli animi più giovanili, si trasfuse a poco a poco nei più maturi, e già tutti affratellati eravamo in balìa di nuovi sentimenti, quando venne sollecita la prima cena a compiere l’opera salutare. La nuova alba ci trovò rifatti. Il mare sereno e calmo, la squisita gentilezza degli ufficiali di bordo, il rivedere qualche capo di terra italiana, e l’isola dell’Elba, di Pianosa, di Montecristo, soggetti di variopinti discorsi, dalla grandezza del primo Napoleone ai fochi fatui de’ moderni romanzi francesi, ci fecero liete e rapide le ore della navigazione. Passammo assai vicino a Stromboli, l’antica reggia di Eolo; e quella verdeggiante lingua sparsa di modeste casette, che si protende dalla base del monte verso levante, sorrise ad alcuni come il possibile avveramento di un sogno di un’età sfiduciata, di un lungo desiderio di solitudine perfetta, tranquilla e studiosa. Sullo squarcio del monte, verso settentrione, vedemmo il celebre vulcanetto, irrequieto, ostinato e impotente come un genio incompreso. Una massa incerta di fumo stava sopra il cratere, scossa a brevi intervalli dalle eruzioni incessantemente ripetute. Alla cadenza quasi regolare di ogni diecina di minuti, scoppia di là un getto di vapori ed una vigorosa grandinata di lapilli e bombe, col fragor sordo di una mina che bene non giuochi per aver sfiatato. Di notte Stromboli è un bellissimo faro naturale, perchè i fumi, illuminati dalle brage del cratere, simulano un’aurora boreale che ad ogni eruzione si illumina vivacemente[1]. Le materie eruttate rotolano a frana pel rapido pendio del cono, e non s’arrestano ad allargarne la base, ma ricadono nei profondi abissi del mare, la qual cosa mantiene fra gl’isolani la tradizione che per secreti canali siano restituite nel focolajo del vulcano. Fin da Stromboli vedemmo svolgersi dai vapori matutini la bella costiera di Sicilia e l’eccelso cono dell’Etna, e quindi, passato il faro, venne a spiegarsi al nostro sguardo l’ampio golfo di Messina. Verso le 3 pomeridiane del 24 aprile l’_Ichnusa_ gettò l’àncora sotto le mura beanti della cittadella; antico nido di brutale tirannide, spazzato dal cannone di Cialdini. Mentre il capitano disponeva pel carico di carbone, la nostra brigata si sciolse per varie direzioni nella città. Quella popolazione sicura, animata, chiassosa, quell’aria profumata dai mille giardini biancheggianti allora dei fiori dell’arancio, lasciarono nell’animo nostro la più gradita reminiscenza. D’ogni parte, e fin entro le contrade, s’udivano spari frequenti e disordinati di moschetti, come a festa rusticana. Era la stagione del passo delle quaglie, della strage ingloriosa di questi poveri uccelli che sfiniti dal lungo viaggio, cadono sul lido come corpi morti. Dopo il conguaglio delle imposte, l’osso il più duro da digerire pe’ nostri fratelli del mezzogiorno sarà la riforma della legge sulla caccia, dietro i principj dell’uguaglianza civile, e di una saggia economia dei doni della natura. Approfittammo avidamente di questa buona sorte per fare una perlustrazione zoologica di quel porto che vari naturalisti oltremontani ci aveano decantato per la ricchezza della sua fauna. Messina è la Mecca dei privati docenti di Germania, che vi accorrono per lo studio così interessante degli animali inferiori marini, come ad una surgente inesausta di belle e singolari scoperte. Nè gli Italiani accennano peranco ad animarsi almeno di salutare gelosia; chè anzi nella illustrazione delle cose proprie lasciano ora più che mai tranquillamente il monopolio agli stranieri. Il porto di Messina, ben riparato da’ venti, con fondo piano, poco profondo, è un immenso aquario, ove al lusso di una folta vegetazione corrisponde una varietà grandissima di forme di animali marini; e più ancora sarebbe ove i pescatori di palemoni non lo rimovessero tanto. Un gran numero di grosse pelagie riposavano tranquille fra le alghe, insieme ad altre forme di idromeduse, come _Physophora hydrostatica_, _Hippopodius luteus_. I ctenofori erano del pari doviziosamente rappresentati dalla _Beroe Forskalii,_ dalla _Cydippe pileus_, dalla _Callianira exagona_, dal _Cestum veneris_. Un maschio di _Argonauta_; alcuni belli esemplari di _Alciope candida_, di _Phyllosoma_, di _Atlanta Keraudreni_; e moltissimi di _Firola_, di _Carinaria_, compirono il bottino di una matinata. Fra i pesci ci interessarono particolarmente il _Syngnatus phlegon_, ed alcuni giovanissimi individui di _Belone_ colle forme di _Hemiramphus_. Sul vicino mercato, insieme alle solite più communi specie del Mediterraneo, abondavano, strana coincidenza di nomi, il pesce spada (_Xiphias gladius_), ed il pesce sciabola (_Lepidopus argyreus_). Fin dalla prima nostra partenza da Genova era stato per noi tutti un grazioso spettacolo notturno la fosforescenza del mare, che sembra nel Mediterraneo varia nel grado, ma del resto costante, ed affatto indipendente dalla stagione. La parte principale in questo fenomeno è dovuto ad una medusa, alla _Pelagia noctiluca_. In miriadi incalcolabili questi animali lasciano sul far della notte i profondi recessi del mare per salire verso la superficie, e ad ogni colpo di ruota, nel solco spumeggiante che il battello lascia dietro di sè, diventano per pochi istanti luminosi, onde il succedersi continuo e frequente di bellissimi dischi splendenti di viva luce bianca. Era un diletto anche pei miei compagni l’adoprarsi con destrezza a coglierne al rapido loro passaggio; e poscia tutti in circolo, colla testa chinata verso un bacino, il contemplarne le singolari forme. Mi sarebbe impossibile il ripetere le celie graziose che scoccavano da’ cervelli resi dalla circostanza un po’ balzani, e le rimbeccate dei naturalisti, e le risate pacificatrici. Se non che venne presto a mancare il soggetto. Le belle pelagie che vedemmo adagiate in sonno diurno nel letto algoso del porto di Messina, vi stavano come ad un posto di confine. Oltre lo stretto che prende da quella città il nome, e per tutto il mare Jonio, vennero a mancare affatto, e più non vedevansi nei solchi dell’_Ichnusa_ che piccole e rade scintille, dovuto al corpicino fatto luminoso di piccoli crostacei (_Cyclops_), che più avanti alla loro volta sparirono. L’aqua del triste ed inospitale _Ponto Eusino_ era affatto buia. Di giorno qualche schiera di palamite che i soli occhi esperti dei marinai potevano discernere nell’onda glauca; qualche delfino, capitombolante presso la nave, come un monello da strada: qualche sonnacchiosa tartaruga; e null’altro per l’ampia faccia del mare. A quale umile natura sono ridotti i mostri marini, poichè la scienza ha purgato anche il poetico regno de’ venti! Però una bella preda ci è mancata, ed anche un bel tema, che, ornato d’un po’ di frangia, avrebbe potuto essere il primo successo de’ naturalisti dell’_Ichnusa_. Il matino del 24 il nostro capitano ed alcuni marinai scorsero di passaggio un polpo colossale, ma troppo tardi per poter arrestar la nave, pescarlo, ed offrirlo in tributo alle nostre considerazioni. All’interesse intrinseco del soggetto sarebbesi aggiunta l’opportunità, poichè l’argomento dei grandi cefalopodi pelagici, che era già invecchiato nell’academia di Copenaghen, era stato poco dianzi rimesso a nuovo nella grande aula del palazzo Mazarini. Senza dubio questo così detto polpo doveva appartenere alla famiglia delle loligine o dei calamaj, che comprende i cefalopodi più forti nuotatori, ed in pari tempo i giganti della loro classe[2]. Il susseguente giorno 26 noi correvamo il pieno mare, ove il Jonio si allarga per la confluenza dell’Adriatico. Una moltitudine di uccelli fuggenti le già aduste spiaggie africane per la novella verzura d’Europa, esausti di forze, cercavano rifugio sulla nostra nave. Fu uno spettacolo nuovo, per quanto già fossimo abituati nei giorni precedenti a ricevere di siffatti ospiti. Dal primo mattino alla tarda sera fu un succedersi incessante di specie diverse, delle quali risparmio al lettore il lungo catalogo. Ad ogni istante era segnalata qualche tortora, qualche falco, qualche calcabotta, che cercava rifugio sulle antenne e sul cordame, o quaglia o beccaccino o piovanello che svolazzava attorno ai nostri crocchi, e perfino ardiva posarvisi in mezzo. L’occasione fa il ladro, dice il proverbio: io dirò piuttosto che ci fece crudeli, risvegliando in noi un cieco furore distruttivo, del quale io faccio qui per tutti sincera confessione, ed atto di pentimento. Ognuno dato di piglio al fucile studiava dar prova di destrezza nel rispondere colla botta più affrettata e più ardita all’ospitalità che venivano a domandarci quelle innocenti creature. La vana compiacenza di colpi fortunati non dava tempo ai rimorsi. Non è qui il luogo di dissertare sull’argomento importantissimo e tutt’ora pieno di oscurità dell’emigrazione degli uccelli; ma è quasi naturale il chiedersi come possano sostenersi senza posa, ed alcuni perfino con ali assai deboli, attraverso lunghi tratti di mare. Fu osservato che nel viaggio d’autunno, che si fa nella direzione dal nord al sud, gli uccelli, forse perchè molto pingui in quella stagione, seguono di preferenza le coste maritime, viaggiano per così dire, a piccole giornate, e scelgono il passaggio dei piccoli stretti; ma in primavera prendono il largo e la via più diritta sebbene più faticosa: la quale circostanza spiega il perchè, nel nostro paese, alcune specie si facciano vedere, ed anche in grandi stormi, ne’ mesi di marzo ed in aprile, e non mai, o solo raramente, in autunno[3]. Lo stato di magrezza degli uccelli prima della nidificazione li rende più agili e forti al volo, ma lungi ancora dal rapporto cogli spazj che devono percorrere. Quelli che giungono alle prime stazioni d’Europa sono tanto stremi di forze da far supporre che molti soccombano per via. Se non che le risorse della natura vanno anche al di là del nostro corto intendimento; e dobbiamo creder piuttosto che gli uccelli stessi più terrestri e silvani possano per qualche tempo esser portati dalle onde, e non sommersi. Audubon ed altri ornitologi hanno positivamente osservato questo fatto; ed io pure ho veduto una volta in questo viaggio pel Mediterraneo la tortorella commune rialzarsi a volo dal mare sul quale erasi posata per qualche tempo. Questo straordinario passo d’uccelli, tale veramente pel numero e per la varietà delle specie, non durò più di un giorno. Il successivo 27 entrammo nell’Arcipelago, passando a breve distanza del capo Matapan e di Cerigo, stazioni di riposo per gli uccelli più sicure di una nave sulla quale stavano de’ naturalisti oziosi. Al tocco della mezzanotte si fece sosta a Milo per la ricerca di un pilota. Surti di buon matino, chiedemmo indarno un canotto per fare un’escursione a terra. Le circostanze politiche nelle quali versava allora la Grecia, foriere della crisi che doveva scoppiare alcuni mesi più tardi, aveano imposto al nostro governo misure di prudenza anche esuberanti, ed una fra queste era l’ordine ai capitani della regia marina di evitare ogni sorta di contatto che non fosse di estrema necessità colle popolazioni dell’Arcipelago, e di tener lontano dai loro occhi la provocante nostra bandiera, lasciando perfino in disparte Sira che pur trovasi sul più diretto nostro cammino, ed ove avremmo potuto prendere il pilota, e far ad un tempo provista di carbone. Cessammo senz’altro dall’inchiesta, e dovemmo appagarci di girar da bordo il cannocchiale tutt’all’ingiro. Il porto di Milo è chiuso in un ampio circo naturale affatto deserto, ove tutto è arido e nudo, tranne un gruppo di case alla così detta _marina_, e qualche campo di segala in un piccol tratto di pianura verso occidente: del resto, fin dove l’occhio poteva giungere, non un albero, non un arbusto. Tale è la generale fisonomia degli isolotti disseminati per l’Arcipelago, ai quali nulla è rimasto delle delizie paradisiache onde li vollero vestiti i poeti, quando ne fecero la culla e la sede degli dei. Alcuni de’ miei compagni, inconsapevoli degli ordini governativi, erano scivolati nel canotto che portava un messo a terra per le trattative col pilota e per qualche provigione. Quando rivennero a bordo ci raccontarono come gli abitanti di Milo, non punto scoraggiati dalla recente caduta di Nauplia, ripetessero di stare, come tutti i Greci, in aspettazione di grandi eventi per la imminente venuta fra loro di Garibaldi. Lasciato Milo nel matino stesso del 28, seguimmo la direzione di Termia, d’Ipsara, di Mitilene. In tutto questo tratto un gran numero di grosse salpe (_Salpa maxima_) si lasciavano mollemente cullare dal mare placidissimo, quali ancora riunite in piccoli gruppi di tre o quattro individui, quali sciolte. Molte ne pescammo per oggetto di studio assai dilettevole; ed in molte fra esse trovammo alloggiato un piccolo crostaceo, un _Hyperia_ affine alla _Latreilli_, come un Diogene in miniatura, più esigente e più furbo del grande filosofo antico. Salutata infine la ridente isola di Tenedos, si giunse la sera del 29 ai Dardanelli, ove l’_Ichnusa_ doveva compiere alcune formalità di _alta polizia_, e rifornirsi di carbone. Per via avevamo incontrato un grosso vapore turco stracarico di soldati diretti al Montenegro, a quel paese che è uno dei punti cariosi dell’impero musulmano. Come di là molti saranno per ritornare, ce lo disse il nostro console ai Dardanelli, venuto a bordo dell’_Ichnusa_; e verificammo noi stessi qualche giorno dopo, nelle contrade di Costantinopoli. I Montenegrini non serbano prigionieri; rimandano i soldati del Sultano, che le sorti della guerra mettono a loro discrezione, ma per poter fare in fin della giornata il calcolo delle prese, ne tengono i nasi, e qualche volta anche le orecchie. Pochi dì prima un bastimento carico di infelici così mutilati aveva infatti ripassato lo stretto. Già verso Tenedos incominciano a farsi vedere stormi di puffini _(Puffinus anglorum)_, come al limite occidentale del loro piccolo regno che è il mar di Marmara ed il Bosforo. I Turchi portano a questi uccelli una singolare pietà, per la tradizionale credenza che trasmigrino in essi le anime perdute. Ecco ciò che ho visto dei loro costumi. Volano, come dissi, a stormi, grandi stormi compatti, e con volo celere e sostenuto vanno e vengono radendo la superficie delle aque, e tutti gli individui, con ordine perfetto, come ubidissero ad un comando, fanno vedere alternativamente e di concerto, ora il bianco della parte inferiore del corpo e delle acute ali, ora il dorso. Rari sono gli individui staccati, e questi per lo più, incontrato uno stormo, vi si congiungono. Si tuffano tutti assieme nell’aqua, lasciando appena sporgere il capo, e tutti assieme ripigliano il volo. Quando poi il mare è procelloso, gli stormi si scompongono, ed ogni individuo svolazza a capriccio, per proprio conto, in cerca dei piccoli animaletti, che le onde agitate portano a galla. Non appena l’_Ichnusa_ fu entrata nello stretto de’ Dardanelli, il mare perdette la sua longanime flemma. Un vento freddo di levante surse propizio a molti bastimenti che lo stavano aspettando a vele tese per ritornarsene in Europa, assai molesto a noi che, movendo in direzione opposta, dovevamo vincerlo di fronte. Il capitano stimò prudente piegar alquanto sulla nostra sinistra, e riparare sotto la protezione della costiera di Silivria, ove si gettò l’àncora nel pomeriggio del 30 aprile. Silivria era la prima città turca offrentesi in questo viaggio alla nostra curiosità: ci affrettammo adunque di scendervi, con tanto maggior sollecitudine in quanto l’Oriente fosse per molti di noi affatto nuovo. La città è in parte distesa lungo la spiaggia, in parte su di un piccol colle che si protende verso levante, formando dalla parte del mare una scarpa scoscesa, quella che ci riparava dal vento. Tutta la costiera qui è costituita da un’arenaria debole assai recente, o, come dicono i geologi, _quaternaria_. Le contrade di Silivria sono tortuose; le case in massima parte di legno, come dapertutto in Turchia; però quelle in generale meno sucide, queste meno miserabili di quanto si vegga altrove; la popolazione vi è oltre la metà greca: la campagna è tutt’attorno ben cultivata. Ci fece impressione il numero stragrande delle botteghe: tutti in Silivria vendono qualche cosa, senza che si possa trovare una ragione nel concorso visibile dei compratori. Molte cicogne eransi già stabilite nei loro vecchi nidi per entro la città, rispettate, come dovunque in Oriente, con una specie di superstizione; e stormi di taccole, svolazzanti attorno ai minaretti, facevano sentire il loro gracchiare sommesso e quasi dolce. È singolare come queste due così differenti specie seguano la medesima distribuzione geografica, e vivano, direbbesi quasi, in tacita intelligenza, nei medesimi distretti, nel nord d’Europa, nell’Europa centrale, e nel mezzogiorno, e più verso Oriente fino in Persia. Dove l’una specie è esclusa, l’altra lo è pure; siccome, per esempio, accade nell’Italia settentrionale, ove appena si fa vedere di passaggio qualche cicogna in primavera. Ma poichè sono entrato in ornitologia, aggiungerò qui altre due osservazioni. I gabbiani, che vagavano in gran numero attorno a Silivria, appartenevano alle tre specie communissime _Larus argentatus, L. fuscus, L. ridibundus:_ le sole, del resto, che vedemmo in tutto il viaggio fin nel mar Caspio. In un’escursione fatta per la campagna attorno la città nel matino del 1 maggio, ho notato un passaggio continuo di un incalcolabile numero di prispoloni (_Anthus arboreus_). Il sibilo ronzante di questi uccelli risuonava dapertutto nell’aria, incessantemente, per molte ore consecutive. Il mare agitato, il cielo nuvoloso, le piovigginate ricorrenti, avversavano la pesca di animaletti marini di quel litorale; pure io ed il mio inseparabile amico Lessona vi potemmo raccogliere buon numero di oggetti interessanti. Fra i crostacei vi predominavano i communissimi generi delle idotee e degli sferomi; tra i molluschi la _Cyclonassa neritea_ e la _Nassa reticulata_. La maggior parte degli esemplari di quest’ultima specie portavano insidenti sul peristoma un gran numero di individui dell’interessantissima _Coryne vulgaris_. La mia attenzione fu però attratta in particolar modo da alcuni ammassi di uova, inviluppati in una sostanza gelatinosa molto resistente, che li teneva aderenti alle alghe ed alle pietre. Io le riconobbi subito, al microscopio, come uova di un anellide con diversi gradi di sviluppo della larva inclusa, e la forma di questa ben diversa da quella delle larve fino allora conosciute. Le particolarità osservate in queste uova formarono soggetto di una mia apposita annotazione[4]. Il vento fattosi alquanto più calmo nella notte, ci permise di rimetterci in cammino. All’albeggiare eravamo già tutti sul ponte per godere della aggradevole vista di quella costiera, popolata di eleganti ville e di ombrosi giardini, sempre più spesseggianti col nostro avanzarsi. Frattanto verso il nostro punto obiettivo si disegnava sempre meglio nella nebbia lontana una selva di minaretti, e la sponda asiatica appariva sempre più vicina e distinta sulla nostra destra. Finalmente Costantinopoli da un lato, Scutari dall’altro, si spiegarono in tutta la loro magnificenza, e fu una generale esclamazione di entusiasmo, quando l’_Ichnusa_ passò rasente le maestose mura e i giardini ed i _kioschi_ voluttuosi del vecchio serraglio. Alle 9 del mattino sbarcammo infine all’arsenale maritimo presso la stupenda moschea di Topanhé, ove il personale della legazione italiana stava aspettandoci. Rinuncio volontieri a un diritto del quale i _touristes_ sogliono usare ed abusare, e non scriverò la mia pagina su Costantinopoli, e non dirò nulla delle impressioni provate, de’ pensieri suscitatimi da questa città, che un passato fatale, un presente scioperato, premono sull’abisso di un avvenire tenebroso; di questa vera Babele di lingue e di costumi, ove tutti i vizj e tutte le virtù dell’Oriente e dell’Occidente si trovano a contatto, senza mai confondersi, nei mille anfratti e rigiri di una società artefatta. Vi rimanemmo cinque giorni di vita affaticata fra la visita delle principali curiosità e dei monumenti, fra gli ultimi preparativi del viaggio, e l’etichetta della udienza di congedo che il commendatore Cerruti, fino allora ministro d’Italia a Costantinopoli, aveva dovuto necessariamente chiedere al Sultano. In questa circostanza abbiamo avuto noi pure l’alto onore di essere ammessi all’imperiale presenza di Abdul-Aziz; il quale non si è tampoco degnato di rivolgerci un solo sguardo, per quanto ci fossimo fatti per lui belli e lucicanti di ricami e di gingilli[5]. Il nostro capo aveva già tutto disposto con quella operosità, quella perspicacia che spiccano nel suo carattere, onde alla carovana che gli era affidata, resa in pochi giorni affrettatamente numerosa, sotto l’impulso di buone inspirazioni che bisognava seguir subito, nulla mancasse di quanto poteva rendere meno disagiato un lungo viaggio in paese deserto e segregato dal consorzio europeo. Quantunque la missione fosse ben fornita di poliglotti nel suo proprio seno, era necessario un dragomanno per la lingua persiana; ed il commendatore Cerruti scelse a tale uffizio un armeno di nome Mehrab, assai versato in quella lingua per un lungo soggiorno precedentemente fatto in Persia, e che trovavasi appunto disponibile in Costantinopoli. Dirò poi a suo luogo che cosa sia stato di lui. Noi avevamo sperato continuare il viaggio coll’_Ichnusa_, ma un provedimento del nostro Capo dispose altrimenti, e non senza giusti motivi. La nave era troppo angusta pel nuovo personale, per l’immenso bagaglio che stava aspettando in Costantinopoli, e per un carico di carbone sufficiente ad affrontare un lungo tragitto e gli accidenti della navigazione nel tempestoso mar Nero. Fu dunque dolorosa necessità separarci dagli ufficiali dell’_Ichnusa_, che per la squisita loro cortesia avevano guadagnati gli animi nostri. Tutto era pronto il giorno 6 di maggio e il segnale della partenza fu dato. Verso le 2 pomeridiane eravamo tutti a bordo del _Tamise:_ alle 4 si levarono le àncore. Da qui veramente incominciava il viaggio della missione italiana. Passando fra una selva di navigli rivedemmo in tutta la sua eleganza, maestosa e leggera ad un tempo, il nuovo serraglio che tanto onora il talento di un nostro italiano, l’architetto Fossati: entrammo in quel Bosforo, del quale ognuno di noi erasi fatta una imagine fantastica dalle letture di gioventù, ora quasi vinta dalla realtà. Il Bosforo è un vero paradiso per coloro stessi che hanno l’occhio raffinato alle sponde del Lario, alla riviera di Genova e di Sorrento; è una scena sempre bella, sempre varia; un succedersi non interrotto a destra ed a manca di ville, di giardini, di _kioschi_, di pinete, ove gli avidi e sfiniti bascià, le sultane, le favorite, i più ricchi negozianti europei, hanno realizzato un po’ di quel lusso dell’Oriente, che è sognato dalla letteratura all’_hascisch_. Due ore in questo canale dalle sponde incantate scorsero per noi come due minuti. Alle 6 eravamo nel mar Nero allontanandoci dalla terra, mano mano l’oscurità stessa andava togliendocela di vista. II. Il _Tamise_. — Tributo al mar Nero. — Trebisonda. — La _Cerere_. — Pranzo russo. — Batum. — I delfini. — Una scena di distruzione a Balaklava. — Bella serata a bordo. — La foce del Rioni. Il _Tamise_, che ci aveva presi a bordo, uno de’ più grossi bastimenti delle _Messagéries Impériales_, era già da ventiquattr’ore in perfetto ordine di partenza, stracarico di passaggeri e di merci. Non avresti saputo ove posare il piede sul ponte, letteralmente ingombro di ben seicento passeggeri, turchi la maggior parte, e pel resto circassi, persiani ed armeni, sdrajati tra involti e fardelli d’ogni natura, ed ammassi di cenci, che erano stati un tempo cuscini, _burke_, cafetani o tappeti. Abbiamo dovuto ammirare in questa circostanza due belle qualità del carattere orientale: la pazienza e la sobrietà. Nessuno aveva messo un lamento della partenza cotanto ritardata per colpa nostra, dell’aver subìto un intiero giorno di prigionia nel porto di Costantinopoli; nè mostrava dolersi dello stivamento fra tanta confusione. Ognuno poi aveva strettamente calcolate le sue provigioni di bocca per la durata del viaggio, e s’era così reso affatto indipendente dal vivandiere di bordo. Molti non avevano per tutto pasto che pane e cipolle. A noi italiani doveva fare particolar impressione la quiete, la taciturnità di tanta gente agglomerata. Chi pregava, chi stava meditabondo o fumando la sua pipa; il conversare nei crocchi era sommesso: qualcuno appena ripeteva la sua monotona canzone soffocandola fra la gola e le cavità nasali. Il tempo aveva continuato propizio anche il dì seguente. Il _Tamise_, che nella notte erasi inoltrato in alto mare, fin dal matino andava approssimandosi a terra, e per varj tratti vi scorreva tanto dappresso da lasciarci godere l’aggradevole vista della sponda asiatica bella ma disabitata, verdeggiante e boscosa fin sul dosso delle colline, e, più nel fondo della scena, anche su tutta la catena di monti che scorre quasi parallela e poco discosta dalla sponda. Alle quattro e mezzo pomeridiane sostammo ad Ineboli, piccola città ben situata fra ridenti praterie e grandi macchie e campi ben cultivati; e vi si fece una prima riversata di turchi e di cenci. Sul fare della notte il mare volle toglierci dall’illusione nella quale andavamo così placidamente ingolfandoci, che si dimenticasse di noi. Or dimmi, o lettore, quale preferisci dei due, il rullìo od il beccheggio? L’uno imprime di fianco un movimento misto di rotolare e di cullare che rovescia le budella: l’altro ti solleva di malagrazia, ti lascia sospeso un instante fra l’asma e le vertigini, e ricadere come ubriaco. Quella notte l’emozione fu della prima specie. La conversazione erasi fatta gaja ed animata fra ripetute libazioni di tè, ma poi incominciò a languire: anche i più loquaci trovarono più commodo il riflettere del parlare; e infine l’un dopo l’altro brancolando lasciò la sala. Durò breve il silenzio, che di qua, e di là dal fondo delle celle partivano gemiti e ululati, e voci sepolcrali chiedenti la carità d’un bicchier d’acqua. Non ho ancora detto che il _Tamise_ era ad elice. In questa specie di bastimenti il continuo risuonante tremito della grande spira, riesce, anche in tempo di calma, tale molestia, da rendere molto preferibili i bastimenti a ruota: quando poi il mare è burrascoso, l’elice ad ogni ondata messa a nudo, gira nell’aria con subitanea rapidità, ed imprime al bastimento sussulti intollerabili. Verso le due del mattino nuova fermata a Sinope, e nuovo sbarco di passeggeri, ed anche un momento di sollievo per noi che potevamo prender fiato, e come ridestarci da un sonno che non avevamo goduto, solo per riconoscer meglio il nostro stato, e prepararci a soffrir ancora. Alle undici il _Tamise_ gettò l’àncora davanti a Samsoun, ad un miglio di distanza dalla città, resistendo con gran forza di funi al mare tutt’ora agitato, perchè ivi non è porto, nè tampoco rada, ma un larghissimo seno compreso fra due liste di terra piane, quasi invisibili per la distanza, protendentisi per alcune miglia in mare, coperte di paludi e di boschi, ricche di selvaggina e fomiti di malaria. Molti barconi accorrevano a gara dal lontano lido, per aggiungersi ai primi già aggrappati al bastimento, contro il quale e tutti fra loro dalle onde sommosse venivano urtati come gusci di noce. Da ogni parte spintoni e grida, ed un gesticolare di energumeni che si disputavano quali la gamba destra quali la sinistra dei poveri passeggeri. Se nessuno ne andò colla testa rotta fu vero miracolo. Samsoun è rinomata pel suo tabacco, il miglior per verità delle varie sorta di Turchia, tutte più gustate in Europa che non sul luogo di loro produzione, per quel condimento particolare che in Europa soltanto acquistano come un effetto combinato della provenienza esotica e di un tantino di frodo. A sera il mare imbonì, e si fece nella notte placidissimo. Verso le due nuova sosta per le stesse ragioni delle precedenti a Kerassoun; poi si riprese il largo verso Trebisonda, ove arrivammo alle nove del mattino. Trebisonda, l’antica _Trapezus_, così detta dal piccol piano elevato a guisa di tavola sul quale venne fondata, è oggi ancora una delle più importanti città dell’impero ottomano; è l’emporio principale del commercio fra l’Europa e la Persia. Qui appunto era stabilito dovesse finire per noi il viaggio maritimo, ed aver principio quello di terra per la via di Erzerum, prima che le offerte e la spontanea mediazione del principe Labanoff, ministro di Russia a Costantinopoli, non ci avesser spalancata la più commoda via del Caucaso. Anche Trebisonda, malgrado la sua importanza, non ha porto, e solo una rada mal sicura aperta ai furiosi venti del nord, riparata solo alquanto verso occidente da un promontorio, all’estremo del quale surge un piccol forte. Al nostro arrivo trovammo già ancorato un altro battello a vapore russo mercantile, _Cerere_, sul quale dovevamo passare, per recarci quindi a Poti. Una lunga fila di case allineate parallelamente alla spiaggia forma un sobborgo, che, risalendo sul promontorio, mette per vie ripide ed anguste alla città propriamente detta, la quale perciò non è visibile dalla rada. Io non mi sento il gusto di altri viaggiatori ai quali Trebisonda è sembrata bella. Molto le dona la popolazione varia ed il grande movimento commerciale, e sono interessantissimi nelle sue adiacenze alcuni monumenti de’ primi secoli del cristianesimo e dell’antica potenza genovese. Il paese all’ingiro è a dossi e valloncini, ultime scomposizioni de’ contraforti della grande catena del Kolat. I campi sono bene cultivati, e nella natura stessa del terreno sta la ragione della sua fertilità. Esso consta infatti di una trachite facilmente decomponibile, e contenente numerosi cristallini di pirosseno, ricoperta da potenti strati di un conglomerato vulcanico, nel quale prevalgono ciottoli di trappo amigdaloide. Frammenti di questa medesima roccia e di cristallini pirossenici formano in massima parte la minuta ghiaja del litorale. La fauna e la flora marina di Trebisonda sono sommamente povere, una vera desolazione; del che subito abbiamo dovuto avvederci al solo percorrer la spiaggia terribilmente battuta dalle burrasche, e lungo la quale vedesi appena qualche frastaglio di _Ulva lactuca_ lasciatovi dalle maggiori ondate. Come una vera singolarità trovammo, cercando e ricercando, una valva di ostrica mezzo consumata dall’attrito. Le nostre reti adoperate fra le scarse macchie algose pullulanti al riparo o negli anfratti di qualche masso, appena ci produssero qualche pesciolino, _Clinus, Gobius_, pochi crostacei isopodi, qualche patella, qualche attinia: ghiaja, nuda ghiaja dapertutto. Al nostro ingresso nella rada, dal bordo del _Tamise_, avevamo però veduto nuotanti placidamente molte belle meduse: la _Cyanea aurita_. Per tutti i seminati abbondavano strabocchevolmente le quaglie a grande gioja de’ _Nembrod_ della nostra carovana. Communissimi pure, sulla spianata del lido, erano l’_Alauda brachydactyla_, e l’_Anthus pratensis_, questo adorno già della sua livrea estiva[6]. Da Trebisonda in poi alla volgarissima _Lacerta muralis_ d’Europa è sostituita la _L. laurica_. Nelle pozzanghere e ne’ canaletti all’oriente della città abonda, col rospo verde, la _Rana cachinnans_ di Pallas, il cui gracidar è così diverso da quello della rana commune d’Europa, da farmi sospettare una reale diversità specifica, la quale, per altro, non è rivelata all’esterno da alcun carattere sicuro e costante. Lungo i fossatelli della spiaggia è copiosa eccessivamente l’_Helix erycetorum_. Al pomeriggio del giorno 10 ci rechiamo a bordo della _Cerere_. Il comandante è un uomo piuttosto al di là che al di qua de’ sessant’anni, tipo _brachicefalico_ puro sangue, decorato di una gran croce bianca (croce di San Giorgio), premio di 32 anni di servizio nella marina imperiale. Nel salotto stava allestita la tavola pel pranzo, con grande apparato di cristallerie, porcellane e fiori finti. Alle cinque siamo invitati a sedere: risultato al di sotto del mediocre: si aspetta il formaggio per saziar la fame, ed il formaggio non compare. Abbiamo poi imparato nel seguito esser sempre buona cautela, a’ pranzi russi, far attenzione alle prime due portate e _tapper là dessus_. In vero ce ne sarebbe anche oltre il bisogno, e verrebbe quasi la tentazione di decantare una sobrietà così ben misurata, e coperta da tanto decoro esterno, se poi le libazioni del _post pastum_ non oltrepassassero così di frequente l’estremo limite della temperanza. Il dì seguente, di buonissimo matino, il comandante, sempre col suo ordine di San Giorgio (formato massimo), è sul ponte, armato del suo canocchiale, guardando qua e là in cerca di Batum, ove si doveva far stazione, come ad uno de’ principali depositi di carbone della Compagnia russa del mar Nero. Il tempo è bellissimo, la sponda si distingue chiaramente, ed egli non conosce il suo terreno, e finalmente si accorge che abbiamo oltrepassato il nostro punto obiettivo, che siamo anzi non lontani da Poti; quindi ordine di retrocedere. Il danno però non fu grave, chè arrivammo a Batum ancora in tempo da poter dedicar una gran parte del giorno ad un’escursione a terra. Cercammo fra la gente accorsa al nostro approdo qualcuno che volesse servirci di guida in questa escursione, ma non trovammo alcuno, dominando nel paese uno strano timore de’ Lasi, che dicono arditi a spinger le loro scorrerie fino nelle più prossime adiacenze della città. Sono fiero di poter dire che nessuno di noi si lasciò imporre da queste voci; ma valeva ben la pena di chiedere quanto fossero fondate. Il console russo, persona assai gentile, e che parla speditamente il francese, dopo averci assicurati non correr noi pericolo alcuno, volle tuttavia che un suo _Cavasso_, due gendarmi ed un facchino ci fossero di scorta. La pianura di Batum non è che un’alluvione di un piccolo fiume, i cui rami, per quanto il terreno lo comporta, sono governati dagli abitanti, che ne derivano una intricata rete di canali per la coltivazione del riso. Il terreno basso fa sì che l’aqua si diffonda e ristagni dapertutto, ed i sentieri, le stradicciuole siano quasi impraticabili. Sì grande perciò è l’esalazione dei miasmi da render il paese uno dei più malsani di tutta la costa asiatica del mar Nero. Le risaje sono necessariamente di quelle che in Lombardia si dicono _da zappa_; e la seminagione del riso facevasi appunto allora. Esse non formano veramente grandi regolari spianate, come appunto in Lombardia, ma pezzi di terra disseminati fra macchie e siepi scompigliate, e labirinti di boschi paludosi. La vegetazione è dovunque, e sotto tutte le forme naturali al luogo, lussureggiante al maggior grado. I boschi sono impenetrabili pei virgulti e le erbaccie che s’intrecciano al piede di quegli immensi ontani, e pei roveti che dopo esser risaliti pei tronchi fin alle più alte fronde, ridiscendono a compiere l’inestricabile viluppo nei vani che ancor rimangono. Ma da una vegetazione così rigogliosa par che rifugga la vita animale: tutt’all’intorno è un silenzio triste, una quiete pesante, sepolcrale. Appena qua e là si fa sentire sommesso e come perduto in quella solitudine il canto ripetuto e monotono di qualche cingallegra. L’usignuolo, che fra gli ontaneti in Italia riempie l’aria de’ suoi gorgheggi, qui manca affatto; sono luoghi da sterpazuole, da scoperagnole, da forapaglie, da caneparole, da cutrettole, e non se ne vede e non se n’ode alcuna. Nelle risaje trovammo ancora qualche beccaccino, singolar cosa per la stagione, ed alcune sgarze. Trovammo pure per la prima volta, sugli arbusti, sugli alberi isolati, all’aperto, qualche gazza marina, rara e solo di passo straordinario in Italia, communissima invece in Oriente. Ne’ boschi verso il lido abbondavano le tortore, della medesima specie d’Europa, e particolarmente abbondavano sulla spiaggia che dalla città si protende verso il Nord, ove hanno un asilo sicuro nel fitto intreccio di rose, roveti, salici, crespini (_Berberis orientalis_), onde tutta la spiaggia è ricoperta. Passando presso un rigagnolo ov’erano alcuni pesci, ci adoperammo con industria improvisata a farne la pesca, e fu quello il solo bottino zoologico della giornata. Vi trovai le specie seguenti: un _Phoxinus_, che io credo una buona specie, forse distinta dallo stesso _Ph. Marsilii_; una piccola lasca, nuova certamente (_Telestes leucoides._ De Fil.); un ghiozzo che poi riconobbi essere il _G. batrachocephalus_ giovane, rimontato dal mare; ed una lampreda nella sua forma di larva, del tutto simile a quella del commune _Petromyzon Planeri_ d’Europa. Il prof. Lessona, il quale, col fido nostro aiutante Clemente, avea atteso nel frattempo alla pesca lungo il litorale, non fu più fortunato che a Trebisonda. Il lido è invero, come a Trebisonda, affatto nudo, tutta ghiaia minuta, ed i ciottolini predominanti sono pure di diorite e di trappo amigdaloide. Solo al lembo esterno, ove si perde l’impeto de’ marosi, fina sabbia augitica frammista a minuzzoli di una piccola bivalve (_Venus?_). Non un’alga, non una conchiglia intiera, non traccia di alcun essere vivente gettato dal mare. Fra i particolari datici dal console russo di Batum intorno al commercio ed alle produzioni del paese, uno mi ha particolarmente interessato, ed è la grande abondanza di delfini nel mar Nero, e l’importanza del profitto che se ne ricava. La stessa Batum è il principale centro di estrazione e di commercio dell’olio di delfino, che viene poi spacciato, come quello di balena, col nome improprio di olio di pesce. I delfini, così ci ha assicurato, vengono cacciati col fucile, nel che bisogna aver acquistato una particolare destrezza, per cogliere l’istante in cui l’animale compia un capitombolo fuori dell’aqua. Il nostro amico Bosio, tiratore di primo ordine, trova la cosa del tutto semplice, naturale; io cacciatore modesto e più modesto naturalista, la trovo appena credibile, come pratica industriale. Nella traversata di questo mare ci era occorso per verità di incontrar frequenti volte truppe di delfini, ma senza imaginare che ivi fossero tanto più frequenti, e tenuti in maggior conto che nel Mediterraneo. Un fenomeno, o, se volete, un fatto naturale de’ più singolari e maravigliosi, nel quale i delfini del mar Nero hanno avuta la loro parte, mi fu raccontato in Pietroburgo dall’illustre Brandt[7], e merita assolutamente di essere qui riferito. Nel dicembre del 1859 entrò nel seno di Balaklava uno stuolo così smisurato di acciughe, riunite in una massa così compatta, da renderlo peggio che pieno, letteralmente infarcito. Questa così incredibile quantità di miriadi di acciughe era inseguita da una truppa di delfini, ed entrando in quel seno vi si addensava prigioniera, sia per non saper riprendere la ristretta bocca d’onde altre sopravenivano senza posa, sia per esser al di fuori bloccata. La cosa andò a tal punto che si dovette dai forti posti all’imboccatura del seno tirare a mitraglia sull’esercito assediante de’ delfini. I pescatori di Balaklava, ed altri accorsi da Sebastopoli, presero a discrezione in tanta abondanza, finchè ebbero sale e barili; poi, d’ordine delle autorità, migliaja di carrette furono messe in moto ad esportare quanto era possibile di quello strano ingombro. Tutto inutilmente! La massima parte di quelle miriadi di pesci rimasta in porto passò in putrefazione, e l’aria ne fu talmente appestata, che la maggior parte degli abitanti di Balaklava dovette emigrare, e le cornici delle imagini sante e gli utensili d’argento nelle case annerirono. Sei mesi dopo questo avvenimento lo stesso professore Brandt, recatosi a bella posta sul luogo, sentì ancora nell’aria il ributtante odore di pesce fracido, e trovò l’aqua ancora torbida e fetente. Altra conseguenza fu la completa distruzione, io quel seno di mare, di ogni traccia di essere vivente. Brandt ha osservato altresì che alcune parti del corpo di un grandissimo numero di acciughe eransi conservate per un processo analogo a quello che si dice di saponificazione de’ cadaveri, e per tal modo si era accumulato sul fondo un sedimento di avanzi di pesci, che l’aqua stessa rimovendo portava in parte a galla e rigettava sulla riva. Questo fatto accaduto in un’epoca tanto recente, a così viva ed irrefragabile testimonianza di uomini, rappresenta alla fantasia una delle tante scene della creazione, onde potè aver origine, in alcune località circoscritte, la violenta distruzione di esseri viventi, e l’accumulazione stipata delle loro spoglie. Ritornati a bordo pel pranzo, trovammo che durante la nostra assenza vi si era stabilita una famiglia russa, la quale, diretta da Poti ad Odessa, aveva percorso questo piccolo tratto in direzione inversa, per accapparrarsi il miglior alloggio sul bastimento. Era il conte Schamarakoff colla contessa sua consorte, i figliuoli, una istitutrice ed un istitutore, entrambi della Svizzera francese. I modi gentili, la cultura di questi novelli ospiti della _Cerere_, ci fecero passare una serata delle più aggradevoli, condita anche da un trattenimento che nessun di noi certamente sarebbesi atteso in Batum. V’era a bordo un discreto pianoforte, e l’istitutore svizzero, eccellente pianista, ci fece gustare alcune delle più belle melodie di Bellini, di Chopin, di Thalberg e di Beethowen. Rimanemmo tutta quella notte in porto. Alle sei del matino (12 maggio) la _Cerere_, voltata la prua verso Poti, rifece di proposito il cammino che aveva fatto per isbaglio il dì precedente, e dopo tre sole ore di navigazione ci trovammo alla foce del Rioni, dell’antico _Phasis_. Là, a quattro _verste_ da terra, la Cerere, troppo grosso bastimento per cimentarsi in quei bassi fondi, dovette arrestarsi per _trasbordare_, come si dice in termine marinaresco, su di un altro bastimento più piccolo e leggero, il carico delle nostre persone, di pochi altri passaggieri francesi diretti a Nouka, e dell’enorme codazzo di oltre duecento casse che la missione italiana traeva con sè. Il Rioni spinge le sue torbide aque in mare appunto per tutto quel tratto che ci separava dal lido, e vi lascia continui sedimenti, i quali rendono sempre più difficile questa via di communicazione fra il mezzogiorno d’Europa e le provincie russe transcaucasiche. Su quel piccolo vapore venne pure a bordo della _Cerere_, per complimentare il ministro Cerruti, il governatore di Poti, vecchio militare che aveva la bontà stampata sulla fisonomia, e parlava discretamente l’italiano. Ci disse come fosse stato prevenuto del nostro arrivo, e come tutte le autorità delle provincie che dovevamo attraversare, avrebbero fatto a gara a facilitarci il viaggio. Pe’ rapporti in cui trovavasi allora il nuovo governo italiano colla Russia credevamo di essere semplicemente tollerati, e ci siamo invece accorti che ci era preparata un’accoglienza delle più cordiali, ed alla quale di ufficiale mancava soltanto il titolo espresso. III. Poti. — Il lago Paleaston. — Foreste vergini. — Il _Phasis_. — Il vello d’oro. — Marani. — La nostra guida d’onore. — Modi di viaggiare nel Caucaso. — L’ospitalità russa. — Kutais. — Accoglienza dal governatore. — Paesaggio delizioso. — Il passo di Suram. — Una giostra d’animali. — Mtzchetha. Il piccolo vapore _Ackermann_, risalendo per brevissimo tratto il Rioni, ci sbarcò finalmente a Poti, miserabile posto militare contrastato fra i Russi ed i Turchi, e finalmente rimasto ai Russi nel 1829; da troppo poco tempo quindi per aver potuto già svolgersi a città. Pure ne ha il titolo ed il rango, ed è sede di un governatore, ed è capitale di una provincia, la Guria. La sua popolazione stabile non va oltre i 500 abitanti. Tutti gli edifizi, e la chiesa stessa, sono di legno, tranne il recinto quadrato della vecchia fortezza turca, il cui muro è abbandonato, come di nessuno conto, all’opera edace del tempo. V’è una contrada ed una piazza principale; e, fuori questa, varie case da un sol piano ed isolate sono fra loro disposte con tal ordine, come avessero a costituire il tracciato di lunghe contrade rettilinee di una futura città. Vi è un albergo, l’_Hôtel de la Colchide_, composto di tre distinte casuccie; una principale che dà sulla piazza, e due capanne, che l’oste avea il coraggio di chiamare _pavillons_. Oltre la piccola guarnigione v’era allora di passaggio uno dei battaglioni di una nuova spedizione russa contro il Caucaso occidentale. Un gruppo di soldati volle onorare la missione italiana con una rappresentazione di musica e danza nazionale. Due clarinetti, un triangolo ed un tamburrone formavano l’orchestra, ed accompagnavano un coro di voci, di carattere selvaggio, originale, non privo di armonia, nel mentre un soldato, con due staffili ad ogni mano, saltava e si contorceva grottescamente in cadenza nel mezzo del circolo. Tre bottiglie di aquavite e tre rubli misero a quella povera gente tanta lena in corpo, che si dovette, anche per compassione, pregarla di desistere. Il terreno all’intorno è fertilissimo, umido ed in gran parte paludoso. Il così detto lago Paleaston, presso la città, assai probabilmente era un tempo lo sbocco del Rioni; ora non è che un grande stagno, suddiviso in bracci e canali da isole e lingue di folti canneti, e communicante col Rioni per un piccolo canale, e col mare per mezzo di un piccolo fiume. L’aqua era leggermente salmastra, ma fui assicurato non essere sempre così: variando le condizioni di quello stagno secondo che lo spirare dei venti e la marea vi fanno refluire l’aqua del vicino mare; oppure, agendo in opposta direzione, tanto la respingono dal lido, che le aque proprie dello stagno abbiano facile declivio. Non trovammo alcuno degli abitanti che volesse far con noi una partita di pesca, e fu necessità accontentarci d’adoperare le nostre piccole reti lungo la sponda. Con mezzi così limitati non potemmo raccogliere che due specie di pesci: un ghiozzo (_Gobius macropus_, De. Fil.) ed un pesce-ago (_Syngnatus abaster_ Risso, di cui _S. buccatus_ Rathke è perfetto sinonimo); un piccolo crostaceo (_Palæmon_ sp.), alcuni giovani e perciò indeterminabili individui di _Anodonte_, una _Neritina_, la _Paludina achatina_ ed in assai maggior abondanza la _Melanopsis prærosa._ Questa specie è infarcita di Cercarie appartenenti a quattro diverse specie, tutte nuove, e per molti aspetti assai interessanti. Incomincia a Poti una immensa distesa di foreste vergini; e lo stesso lago Paleaston ne è presso che circondato. Ciò che avevamo visto a Batum non era che un preludio di questa imponente scena. Aceri, ontani, olmi, tigli, pioppi, platani, eccelsi, stipali, co’ rami confusi della loro corona, fanno una vôlta di denso fogliame che intercetta i raggi del sole; ed il rovo, la vite selvatica, l’edera, il luppolo, la vitalba, arrampicandosi per que’ tronchi in fantastiche spire, vi intrecciano i loro sarmenti, e ricadono decomposti in lunghi cordoni a ravvinghiarsi ancora cogli sterpi ed i virgulti del terreno: qua e là tronchi e rami fracidi impigliati fra questo ordito del caos, e radici serpeggianti allo scoperto rivestite d’una generazione novella di epatiche, di muschi, di licheni, di funghi; dapertutto un profumo indefinibile, un silenzio austero, solenne, e solo di quando in quando uno stormir di foglia per qualche essere invisibile che si ritrae davanti ai nostri passi. Appena potevamo inoltrarci nella foresta per un sentiero battuto, o deviare di poco per qualche tracciato che era stato un sentiero l’anno precedente, ma nel quale i rovi e gli sterpi stavano riprendendo il loro dominio. Ogni nuovo passo deve essere aperto dall’accetta. Per un solco tortuoso di questa bella regione di vergini foreste, il placido corso del Rioni segna il confine tra le due provincie della Mingrelia e della Guria che formano l’antica Colchide. Lo stesso piccolo vapore _Akermann_ che ci aveva sbarcati a Poli, risalendo il fiume, ci condusse in dodici ore a Marani nell’Imerezia, prima stazione del nostro viaggio di terra. Presso Marani le grandi foreste si fanno più spezzate, gli alberi più diradati, e negli intervalli si veggono praterie naturali, campi cultivati, ma non un villaggio lungo la sponda, soltanto qualche casolare isolato e raramente qualche brigata di contadini. Incontrammo, in marcia per una stradicciuola lungo il fiume, un altro battaglione diretto a Poli, il quale, non appena ci scorse, volle salutarci colla stessa musica che ci aveva assordati il giorno prima. Durante questo tragitto non mi si offerse materia ad osservazioni zoologiche meritevoli di qualche speciale nota. Presso Poti ho trovato la _Muscicapa parva_, e sul fiume le solite specie dell’Europa meridionale: _Actitis hypoleuca, Charadrius minor, Sterna hirundo, Sterna nigra,_ qualche piccolo stormo di anitre, un piccolo branco di _Otis tetrax_ su di un isolotto, moltissime Meropi (_M. apiaster_) nidificanti lungo le sponde, ed in gran numero coppie di tortore. Abonda anche qui, come nelle basse valli di tutta la grande regione caucasica, il fagiano commune, ma non ebbimo campo di vederne. Non si può parlare del Fasi e della Colchide senza rammentare la leggenda del vello d’oro, e la testimonianza di Strabone che alcuni fiumi del Caucaso travolgessero pagliuzze d’oro, le quali rimaneano impigliate nelle pelli vellose di montone che vi si distendevano sul fondo. Vige ancora una simile credenza nella Mingrelia, e si indicano diversi fiumicelli come particolarmente auriferi. Alcuni ufficiali del corpo delle miniere del governo russo hanno perlustrato il paese per ricercare se mai qualche cosa di fondato avesse questa tradizione, ma ebbero risultati affatto negativi. Nella Guria è un monte chiamato _Kysyl_, che vuol dire monte dell’oro: ma tutto si riduce ad uno schisto argilloso contenente innumerevoli cristallini di pirite che rimangono qualche volta sciolti, ed accumulati dalla pioggia ne’ crepacci del terreno. Or spero trovar inchinevoli al perdono quegli eruditi che vedono sempre un’arcana sapienza anche nelle più vuote favole dell’antichità, se, io profano, oso tentare una spiegazione del mito del vello d’oro, senza storpiare testi greci, o squarci d’ignorati codici. Il vello d’oro esiste realmente, ed è ancora al suo posto, aspettante un novello Giasone e novelli Argonauti: ma non è una cosa da rapire, è una cosa da occupare, è la Colchide stessa, anzi tutto il bacino del Rioni. È un paese vasto quanto la Lombardia, inculto, spopolato, ma predisposto dalla natura a trasformarsi in uno de’ più ricchi e popolosi del mondo. La Lombardia non è qui tirata in scena come una misura agraria o geografica: il confronto è spontaneo e conveniente per ogni lato: le condizioni naturali sono le medesime ne’ due paesi; con un sopracarico di favori per la bella provincia dell’Asia: una immensa pianura di antiche alluvioni, solcata da un gran fiume e da numerosi tributarj, tutt’attorno sollevantesi per gradi a colline, a monticoli, e via via salendo ad una cresta continua, frastagliata e nevosa, che forma il limite vero del bacino; abondanti aque da nevi perpetue, e più abondanti quanto più la terra ne sente il bisogno: mitissimo clima: terreno risultante dallo sfacelo di roccie cristalline ricche de’ principj minerali più essenziali per la vegetazione. Ma l’immenso sviluppo de’ depositi de’ ghiacciaj, a piè delle Alpi di Lombardia, ha prodotto grandi distese di ghiaja sulle antiche alluvioni per tutta la pianura; e lunghe liste e grandi isole di sterili argille ferrigne vi formano i primi rialzi verso i colli. Con queste dure condizioni del suolo hanno dovuto luttare i primi abitatori della Lombardia. La fertilità presente di quella bella contrada è il lavoro pertinace accumulato di una lunga serie di generazioni, è una vera creazione dell’uomo. Nella grande catena del Caucaso non v’è traccia di un periodo glaciale; e ne derivano, come immediata conseguenza, condizioni affatto diverse ne’ bacini che i grandi rami di quella catena comprendono. — Lo stato primitivo della gran valle del Rioni è lo stato presente espresso da una magnifica vegetazione spontanea. Il fondo della valle è tutto limo sabbioso finissimo senza un ciottolo; le colline sono di arenarie, di conglomerati, di marne, tutte verdeggianti e boscose. Le immense foreste del piano sono un capitale incalcolabile da mettere subito a frutto, e da moltiplicarsi coi frutti erogati in cultivazioni immediatamente produttive. Tutte le condizioni locali sono favorevolissime allo sviluppo di un completo sistema di canali irrigatori; e lo stesso Rioni in prima linea dovrebbe fornirvi le sue aque, troppo scarse ed incerte per l’uso di una regolare navigazione. I piccoli battelli a vapore che lo percorrono stentatamente, e sotto la vigilanza dello scandaglio anche nella sua piena ordinaria, sono per intieri mesi condannati ad una perfetta inazione. I tempi attuali, i bisogni della civiltà e dell’industria, richieggono ben altri mezzi di communicazione. Ciò che veramente manca ora alla Colchide è un porto sicuro e sufficiente; ma il suo litorale è abbastanza esteso perchè l’arte si possa in qualche sito appoggiare a qualche vantaggio naturale. Nessun _ukase_ di nessun autocrata riescirà mai a fare di Poti un importante scalo maritimo. I continui interrimenti ne allontanano sempre più il mare, ed accrescono le difficoltà contro le quali deve ora luttare la navigazione. Il governo russo si è molto preoccupato del modo di rimuoverle o vincerle, ma non ha fatto che convincersi dell’impotenza d’ogni mezzo imaginato. Non v’è che una sola cosa da fare pel vantaggio di Poti: servirsi del Rioni stesso per colmare le paludi, e prima il lago Paleaston: governare i canali che mettono nel mare, scemare così la malaria, piaga attuale della regione formata dal delta di quel fiume, e farne assai meglio di una colonia militare, e di uno scalo maritimo contro natura, farne una colonia agricola. È un problema sociale e politico ad un tempo: come ad un paese così prediletto dalla natura non affluiscano braccia e capitali che pur vi troverebbero un così pronto e lauto profitto; come mai la non scemata emigrazione europea si diriga ancora tutta verso occidente alle lontane Americhe, ove non di raro trova al posto dell’abondanza una spaventosa miseria. Qui mi pare di sentire l’eterno ritornello della forza repulsiva del despotismo russo; ma la risposta è tanto ovvia quanto difficile ad essere accolta in cervelli prevenuti. Le colonie europee non cercano una particolare forma di governo per quel che possa avere di intrinseco, ma terre da cultivare, sicurezza delle persone e delle cose, facilità di smercio dei produtti; e non è proprio detto che tutti questi beni siano la figliazione diretta ed esclusiva di una data forma di governo. Ove non è una società fatta da organizzare, ma una società da creare, la forma transitoria del governo patriarcale è la sola possibile, ed è quella che rende prospere le colonie tedesche della Russia meridionale. La sicurezza delle persone e delle proprietà era preparata in questa parte del Caucaso occidentale dalla virtù del cristianesimo, che mette sempre, anche nella più rozza barbarie, germi inestinguibili di civiltà: ed è già a quest’ora tutelata da una lunga soggezione alla Russia, meglio che dalla lancia cosacca: e se un poco anche da questa, non è poi tanto male, per l’azione del presente sull’avvenire. Il valore delle terre, e di terre di loro natura fertilissime, è minimo. Un vasto possedimento di 76,000 ettari presso Marani è stato venduto al prezzo di 100,000 rubli: il che vale quanto cinque franchi l’ettaro. Gli Italiani che mandano già i loro navigli a caricar grano alle bocche del Danubio, a Odessa, e fino a Taganrog, dovrebbero essere i primi interessati al successo di nuove colonie nella Colchide. Non ardisco far voti che vadano essi medesimi a stabilire queste colonie, quando considero il moltissimo che abbiamo da colonizzare in casa nostra; ma poi l’ardire mi viene quando mi rammento d’avere, or fa sei anni, in una cruda giornata d’inverno, valicato il San Gottardo con una compagnia di robusti montanari genovesi mal vestiti e sproveduti di tutto, i quali non sfuggirono il pericolo di restare assiderati sotto un furioso uragano di nevi, che per andare a consegnarsi come reclute ad una compagnia di speculatori in Brema, e di là essere spediti, schiavi bianchi, nell’America del Nord. La stazione postale e militare di Marani od Orpiri, ove arrivammo dopo 12 ore di navigazione, è un gruppo di poche case disseminate fra una bella verzura, ed in gran parte nascoste sotto il fogliame di grandi alberi. Chi vi giunge, come noi, per la via d’Europa, rimane colpito dalla vista di uomini indossanti la lunga veste del soldato russo, dalle faccie scialbe, imberbi, e come edematose, dalle braccia penzolanti, dall’incesso svogliato, dalla voce stuonata. Sono questi gli scapsi, setta di fanatici religiosi che sottraggonsi vilmente coll’evirarsi alle insidie della carne. Dalle sparse provincie del vasto impero il governo russo qui li deporta e ne forma un reggimento di pena. Sono questi scapsi che fanno il servizio de’ trasporti per conto del governo, e che doveano condurci a Kutais. Noi eravamo ospiti attesi. Ce lo fecero sapere due ufficiali che vennero al nostro sbarco, cioè il colonnello comandante del luogo ed un capitano, sul quale devo dare qualche particolare. Si chiamava Romanoff, ed era stato colonnello, ma tolto di quella dignità per qualche scappata, aveva dovuto riconquistare i suoi gradi, e aveva di nuovo raggiunto il grado di capitano, ed il principe Orbeliani l’aveva nominato suo ajutante di campo. Per speciale delegazione del principe, veniva da Tiflis a mettersi a disposizione del ministro Cerruti per tutta la durata del nostro viaggio sino al confine persiano; uomo attivo, intelligente, astuto, loquace, buon compagnone sempre e particolarmente a mensa, parlante il francese come un parigino. Sua moglie, una assai bella e colta e spiritosa signora, che ebbimo la fortuna di conoscere personalmente, vive ritirata a Kutais. Qualche maligno sorrisetto sotto i baffi in alcuno dei miei compagni che voleva passare tra i più fini ed avveduti, non tolse che l’opera assidua ed energica del capitano Romanoff fosse da tutti riconosciuta come di vera utilità in molte circostanze, ed ove le istituzioni della civiltà incontrano tanti ostacoli ne’ luoghi e negli uomini. Il governatore dell’Imerezia aveva disposti, ad agevolare il nostro viaggio, mezzi non concessi a semplici privati. Affinchè il lettore possa comprendere il grande servigio che ci hanno renduto, dirò in poche parole quale sia il modo di viaggiare in Russia, e più particolarmente nelle provincie del Caucaso. Chi ha vetture sue proprie è padrone di servirsene: nel caso contrario, vale a dire nel caso della commune dei viaggiatori, alle stazioni postali si trova solo la _telega_, veicolo affatto rozzo e primitivo, di legno greggio, senza molle, intieramente scoperto, ristretto, basso, appena capace di due persone oltre il conducente, colla sponda quasi a livello della panchina. Lascio pensare la voluttà di un _touriste_ dell’Europa occidentale, seduto in un simile carruccio, tratto di gran carriera per una strada sassosa. Nella _telega_ dell’Imerezia, la distanza delle due ruote anteriori dalle posteriori è tale che la verticale del sedere cada alquanto al davanti di queste ultime, e così gli urti vengano in parte elisi dalla elasticità delle stanghe sottoposte; ma in quella delle altre provincie la panchina sta direttamente sull’asse delle ruote posteriori, ed allora non v’è tregua; sbalzi e sussulti violenti ad ogni istante da sentirsi strappar le budella, da esser lanciati fuori del traino, al quale bisogna tenersi saldamente colle due mani. Dopo la _telega_ il veicolo più commune è il _forgone_, simile a quello che si usa in Europa nel treno militare, ma senza molle. Se ne possono avere non troppo difficilmente, o da privati, od anche da alcune stazioni postali. Quindi viene il _tarantass_, vettura coperta, per lo più senza sedili interni, e colla cassa riposante su due lunghe stanghe, le quali fanno l’ufficio di molle, tese fra le due ruote anteriori e le due posteriori. Infine vengono le carrozze propriamente dette, costrutte nello stile europeo; le quali si possono avere assai difficilmente, e per lo più alla sola condizione di comperarle, per quindi rivenderle con grossa perdita alla fine del viaggio. Nelle provincie caucasiche non vi sono alberghi (e quali alberghi!) se non a Poti, a Kutais, a Tiflis. Il passaggero non trova ricovero che alle stazioni di posta: un camerotto perfettamente nudo, ove è padrone di farsi un letto colle sue proprie robe, e più o meno vicino un fiume, un rigagnolo, un fosso, un abbeveratojo pei cavalli, ove lavarsi il viso. Appena nelle nuove stazioni prossime alle maggiori città si trova qualche tavolazzo, come ne’ corpi di guardia. Altra cura è quella del vitto. Dal mastro di posta o da qualche suo dipendente si può aver sempre un _samovar_[8], e non sempre qualche pentola, qualche bicchiere. Quanto alle proviste il viaggiatore prudente se le assicura portandole con sè; chè altrimenti potrebbe correr pericolo di lunghi digiuni forzati. Soltanto lungo lo stradale fra Poti e Tiflis, presso le stazioni postali, si trova qualche bottega ove provedere vino, tè, zucchero, aquavite, pane, caviar, pesce salato, lardo, uova. Al di là di Tiflis, fra le popolazioni tartare, sulle due strade che conducono l’una a Baku, l’altra ad Erivan, non si trova più nulla. V’è un altro modo di viaggiare senza dipendere dai mastri di posta; in veicoli privati, grandi forgoni tirati da quattro cavalli. Il proprietario aspetta d’aver il suo numero di passaggieri, d’aver completata la sua piccola carovana, poi si mette in cammino a picciole giornate, facendo le sue tappe, quando gli viene il capriccio, all’aperta campagna, ove lascia liberamente pascolare i suoi cavalli. I passaggieri devono allora essere provvisti di tutto per vivere. Come ognun vede questo modo di viaggiare costa assai poco in danaro, enormemente in tempo ed in noja. Sotto questi auspicj incominciava a Marani il nostro viaggio per le terre asiatiche. Spiegati i nostri materassi, pernottammo nelle vuote camere di un fabricato piuttosto bello alla sponda del Rioni; ed alla prima frescura del matino eravamo tutti a lavarci militarmente al fiume. Il capitano Romanoff aveva condotto seco una vettura abbastanza bella e commoda. Una grande berlina da viaggio del governatore di Kutais, un’altra carrozza, un _tarantass_ e due forgoni stavano a nostra disposizione. Dopo aver stipulato, e non senza un lungo tergiversare, coll’unica compagnia di spedizione residente in Marani, il trasporto dell’immenso bagaglio sino a Tiflis, dopo le lunghe formalità della consegna, la nostra carovana si pose solennemente in cammino, che un’ora mancava a mezzogiorno. Fatta una ventina di verste, per una strada abbastanza buona, il terreno, approssimandosi ai colli, cambia natura, diventa ghiajoso, ma non sterile. I grandi alberi cedono a fitti boschi cedui di castagni, di quercie, di nocciuoli. Alle due pomeridiane eravamo in Kutais, accolti da varj ufficiali che ci dissero con grande cortesia i benvenuti, e ci accompagnarono ai nostri alloggiamenti. L’unico albergo della città era troppo piccolo per ricoverarci e per provedere ai nostri bisogni. Qui fa duopo ch’io abbozzi, ancora una volta per sempre, un quadro dell’ospitalità russa nelle provincie caucasiche, sempre la stessa dapertutto, e la migliore che può dare l’ordine attuale del paese. Le autorità locali ci prevengono, facendo sgomberare alcune camere, che, ripulite, imbiancate e nella più assoluta nudità, sono messe a nostra disposizione. L’accoglienza, lo ripeto, veste tutte le forme della cordialità e dell’etichetta; visite, rallegramenti, inchini, strette di mano, sentinelle d’onore alla porta, ma non un letto, non una tavola, non un sedile, non un bacino per lavarci, non un chiodo nel muro. Si calcolava che noi, muniti di tutto per un viaggio in Persia, dovevamo esser ancor meglio preparati per un viaggio in provincie russe; e da parte nostra non si poteva pretendere dal paese ciò che il paese non ha nelle sue proprie costumanze. In ciò la Russia transcaucasica non è in condizione peggiore di quel che sia una parte del mezzogiorno della stessa Russia europea, ove il mobiliare della casa, tranne che presso i grandi signori, e le alte autorità, è ridotto, o, dirò meglio, mantenuto, alla semplicità de’ tempi patriarcali. Non solo ne è sbandito quel superfluo che è tanto necessario al molle occidentale, ma perfino ogni elemento del più ordinario _confort_. Non v’ha più di un passo per raggiungere l’estremo che è la mitologica semplicità persiana, alla quale andavamo incontro. Basti dire che un giaciglio da potersi veramente chiamare un letto, non fu da noi ritrovato ulteriormente, nel lungo tratto percorso in territorio russo, che nel viaggio di ritorno, a Mosca. Ogni città della Russia transcaucasica possiede un _casino (club)_, al quale è annesso un _restaurant_, ed ove convengono pe’ loro pasti, pe’ loro divertimenti, ed anche, occorrendo, per qualche piccola orgia notturna, gli ufficiali dell’ordine civile e del militare. Dapertutto noi eravamo non solamente ammessi al casino, ma fattine padroni; e là eravamo serviti della colazione e del pranzo, ai prezzi correnti nel paese, i quali, e ciò sia detto per sempre e per ogni genere, sono per lo meno il doppio di quanto si paga nella stessa Inghilterra. Non appena giunti, senza perder tempo si presero d’assalto i più vicini _droschki_, e... _pascioll_, di gran carriera, la nostra brigala si diede a scorazzar per la città. Questi così detti _droschki_ sono veicoli esclusivi alla Russia, di forma particolare, costante e immutabile per tutta la estensione del grande impero, come un carattere nazionale; piccole carrozzette scoperte, basse, senza portiera, capaci di due sole persone, oltre il cocchiere, colla sponda sporgente attorno al cuscino di non più di un palmo, tirate da due cavalli attaccati in modo singolare; uno fra le due stanghe proprie del veicolo, l’altro al fianco sinistro, come fosse di rinforzo. Per abitudine vanno di gran carriera, ed i novizj, quali eravamo noi, devono stare molto in guardia onde non esserne sbalzati fuori, specialmente quando si corre un terreno disuguale. Kutais, l’antica _Cotatisium_, è ancora una piccola città, ma assai graziosa ed in posizione amenissima, alle falde delle colline che si continuano nel grande sistema del Caucaso. Il Rioni limpido, vivace, rumoreggiante, ne separa un grosso quartiere, quello precisamente per il quale eravamo venuti, e che può dirsi un sobborgo. Vi sono molte case, belle, eleganti, e per lo stile e per l’eccellente materiale di costruzione tratto dal vicinissimo colle. È una calcarea grigio-giallognola, così tenera, allorquando è di fresco estratta, da lasciarsi lavorare con ogni facilità, ma che acquista, per l’azione dell’aria, una sempre maggiore resistenza. Per tale preziosa qualità la calcarea di Kutais ricorda la pietra di Viggiù in Lombardia. Col favore di questa circostanza la città è in continuo sviluppo, ed accenna a divenire fra breve una delle più belle e forse la più bella delle provincie caucasiche. La parte vecchia è, come generalmente, nel centro, e qui pure trovasi il mercato, o _bazar_, il quale è tutto in legno, e consiste in due file di botteghe aprentisi sotto due porticati stretti, ineguali, screpolati e abbruniti dalla vetustà e dalle intemperie. Questo mercato è ben provisto di generi di consumazione e di manifatture indigene, tra le quali primeggiano le belle cinture ed i _kangiar_ ricchissimi per ornati d’argento. Quasi nel centro della città è pure il giardino publico, assai vago ed ombroso. Tra i publici edificj ci fu particolarmente indicato un palazzo non ancora ultimato, fatto erigere dalla principessa Woronzoff, per fondare e dotare a tutte sue spese una casa di educazione per giovani zitelle. La fama della bellezza delle donne georgiane, non punto smentita dalla realtà, vuolsi particolarmente sostenuta dalla Mingrelia e dalla Guria, e solo in grado di poco minore da questa confinante provincia dell’Imerezia. Perdoni il lettore questa frivolezza; ma davvero anche i più austeri della missione italiana non sapevano trattenersi dal lanciare sguardi, che in Europa sarebbersi detti petulanti, alle curiose imeretine facenti capolino dalle finestre e riguardanti, per la novità, non meno fissamente le nostre persone. È singolare l’uniformità del tipo in queste donne: si direbbero tutte di una famiglia. Grandi occhi neri con fine ma regolari e spiccanti sopraciglia; naso leggermente aquilino; mento rotondetto, e piuttosto pronunciato; carnagione rosea. Aggiungi a questo l’elegantissima acconciatura nazionale del capo, con quel piccolo berretto orlato di ricami, inclinato alquanto sul fronte, col velo che dal disotto ne sfugge, per cascar mollemente sulle treccie e sulle spalle. Nè men bello e caratteristico è il tipo degli uomini, ai quali pure molto dona il pittoresco costume, il _papach_, grande berretto di denso vello, le due cartucciere che s’incontrano ad angolo nel mezzo del petto, la cintura e la daga ricchissima di ornati d’argento a fiorami e rabeschi. Altri in luogo del _papach_, portano il _koudi_, piccola pezzuola che sta sull’alto del fronte come una visiera alzata, tenuta in posto da un nastro che si allaccia sotto il mento. La popolazione del resto è mista, come in tutte le città del Caucaso; della quale miscela dirò fra poco. Com’era di preciso dovere ci portammo a far visita al governatore, generale Kolioubakine. La sua residenza è un elegante palazzina posta al lembo orientale della città, sul ciglio di una valle fresca e verdeggiante di castagni, faggi, carpini, melegrani; sul fondo della quale serpeggia un ramo del Rioni. Dal loggiato che la domina, questa bella solitudine, ridente come un giardino naturale, ci toccò le più delicate fibre del cuore per la sua perfetta rassomiglianza con un paesaggio subalpino. Ci parve d’esser trasportati nella valle della Dora presso Torino, in un punto elevato fra Alpignano ed Avigliana. Il nostro pensiero s’abbandonava a questo accordo fantastico di realtà e di rimembranze, quando venne a richiamarlo uno strepito di passi affrettati: e subito dopo ci si presentò il generale con alcuni ufficiali del suo seguito. Ci accolse con quella squisita urbanità, con quel tono sciolto ed affabile che trovammo in tutti gli alti funzionarj della Russia, e che è il frutto di una accuratissima educazione. Inutile il dire che il generale Kolioubakine parlava francese corretto e spedito (della qual lingua non comprendeva sillaba un giovane principe mingreliano del suo seguito). La conversazione fu animata e varia, e conchiusa coll’assicurazione di efficaci provvedimenti per la più felice continuazione del nostro viaggio. E veramente ne dovevamo provare gli effetti. Sorbito il caffè, passammo dal loggiato nelle belle ed ampie sale: il generale ci mostrò la sua piccola ma scelta biblioteca, molti bellissimi disegni del Caucaso; e ci fece vedere il sito preciso sul quale pochi anni prima era stato assassinato il suo predecessore, principe Gagarine, da un altro principe della Mingrelia. Il matino seguente, mentre tutto era disposto per la partenza, e noi eravamo radunati, lungamente aspettando i cavalli e qualche veicolo di rinforzo, ecco invece giungere il nostro capitano Romanoff trafelato, sbuffante, col sudore a goccioloni sol viso abbronzato, e fra sonore bestemmie nella più perfetta _verve_ francese annunciarci che non si trovava mezzo di portarci in quel giorno stesso verso Tiflis; che i castroni di Marani, sprezzando ogni offerta, si rifiutavano a procedere oltre il termine già raggiunto del loro contratto. Che fare? Perduto altro tempo in commentare questa difficoltà del tutto inattesa in una città come Kutais, venne finalmente la soluzione. Fra l’autocrazia d’un governatore russo, e quella inerente al grado militare, il generale Kolioubakine ne aveva anche di troppo per imporne a chichesia, e tanto meglio ai nostri vetturini, i quali, nell’alternativa o della prigione o di una nuova tangente di rubli, scelsero filosoficamente il secondo partito. Così potemmo metterci in cammino che già era oltrepassato il mezzogiorno. La strada, tosto lasciata Kutais, serpeggia fra boschetti e prati in dolce pendio per valloncini e colli deliziosi; e si interna nella valle della Kwirila; altro grosso ramo tributario del Rioni. Di quando in quando uno squarcio del terreno mette a nudo strati della medesima calcarea di Kutais, alternanti con marne ora argillose, ora sabbiose, passanti per gradi alla sottoposta arenaria. Tutti questi strati, sono sollevati, ed in vari luoghi rotti e profondamente alterati da emersioni porfiriche. Procedendo, il paese diventa sempre più alpestre e pittoresco: il fianco de’ monti è rivestito d’un fitto cespugliame di lauri, di melagrani, di lecci; dapertutto spiccano elegantemente grandi macchie pavonazzine per gli addensati cespiti dell’_Azalæa pontica_, in perfetta fioritura. Passiamo presso antichissimi ruderi di un castello che la tradizione attribuisce al padre di Medea, e più discosto dalla strada, sull’alto di una rocca, vediamo le pittoresche rovine di una vecchia fortezza turca. Poi il cammino, sempre più erto, ora scorre al piede di grandi scogliere, ora sul ciglio di un burrone, o fra gole dirupate, finchè si giunge quasi d’improviso ad un pianerottolo cinto da alte montagne e scogli di calcarea bianchissima, ov’è la stazione postale di Bielagori, nostra tappa della giornata. Ci avviammo il dì seguente di buon matino al passo di Suram. Dopo Bielagori la roccia è ancora una calcarea compatta con selce piromaca, in grandi strati, e di nuovo ricompajono grandi masse di porfido alcune delle quali profondamente alterate, come _caolinizzate_. Dopo la stazione postale susseguente, e procedendo sempre verso il culmine della montagna, la roccia cambia affatto natura. È un conglomerato con pasta di arenaria e grandi ciottoli, e perfino enormi massi per entro contenuti in gran copia. Sotto questo conglomerato ricompare un’altra calcarea ora compatta, ora marnosa, sino a far passaggio ad una vera marna variegata, ma con predominanza del rosso. Questa marna alla sua volta prende maggior consistenza, s’indurisce, e diventa una vera roccia metamorfica con cristalli d’anfibolo; ed infine presso la cresta del monte, sotto questa serie di roccie, emergono grandi masse di una diorite granitoide. Il conglomerato, di cui ho detto, contiene pezzi di tutte le roccie susseguenti, della calcarea, della marna, della roccia metamorfica, della diorite stessa, e massi talvolta così voluminosi, da esser perfino difficile lo stabilire se questi massi siano veramente inviluppati nel conglomerato, oppure roccie in posto che vi sono compenetrate. Una bellissima foresta di quercie, carpini, frassini, faggi, e conifere qua e là disseminate, riveste tutto il versante pel quale si ascende, e fino al passo di Suram, in un abbassamento della catena del Likhi, la quale, collegando il Caucaso agli estremi contraforti settentrionali della catena del Bambak, separa il bacino del Rioni da quello del Kur, ossia l’Imerezia dalla maggiore provincia detta da’ Georgiani _Karthli_ o _Karthuli_, la quale forma, colle sue suddivisioni, la massima parte della Georgia attuale. Superato questo passo di Suram, si scende in un alto piano ove il terreno è fertilissimo e ben cultivato, avente in qualche luogo l’aspetto di una torbiera dissodata. Il Kur (_Cyrus_ degli antichi) scorre presso le falde de’ monti dal lato opposto, che limitano la valle a mezzogiorno. Tutto il paese prende un aspetto nuovo: bei villaggi, praterie, campi seminati, grandi armenti di bovini. Facemmo una breve sosta alla stazione postale, rassomigliante non poco ad uno di quei grandi cascinali che fanno centro de’ pingui latifondi della bassa Lombardia. Le stesse montagne alla destra del Kur sono rivestite di bei pascoli naturali alla loro base e verso le sommità boscose. Dovevamo pernottare a Jekalkalaki, ove infatti una _telega_ con due dei nostri compagni ci precorse. Ma il grosso della comitiva, giunta in ritardo, sul far della notte, a Gori, fu obligata ad arrestarvisi provvedendo alla meglio alla cena ed all’alloggio. Ne ripartimmo alla prima luce del matino, che appena potevansi discernere le rovine di antichi forti, e più lungi biancheggiar nella nebbia le case della città che fu un tempo grande e popolosa, e sede de’ re georgiani. Sferzando i cavalli, per riguadagnare il terreno perduto il giorno inanzi, percorrevamo lietamente il nostro cammino, quando la curiosità del naturalista e del cacciatore fu scossa da una scena inaspettata, da una strana giostra di animali a un tiro di fucile da noi. Un lepre spaventato correva a tutta furia di gambe, inseguito da uno stuolo di corvi, mossi da inconcepibile istinto di malignità, ed or l’uno, or l’altro corvo, con rapida vicenda, scendeva a piombo verso il povero quadrupede, come per punzecchiarlo, ma senza raggiungerlo, e rialzandosi presto a livello degli altri. Intanto a maggiore altezza battevano le ali due avoltoi, coll’aria diplomatica d’essere là per la loro strada naturale, ma in fondo per ispiare se c’era da prender parte al festino; come due fregate inglesi ove ci sia del torbido. Raggiunti in breve tempo i nostri compagni a Jekalkalaki, allestita sollecitamente una _telega_, questa volta facemmo da corrieri io e Lessona. La strada continua bellissima in una valle fiancheggiata in gran parte da aride montagne calcaree; ma al suo fondo ampia, amena, tutta a pascoli e campi coltivati. S’incontra anche qualche villaggio georgiano, con case sotterranee, circondato di bei giardini, frutteti e vigne. Ad un certo punto veggiamo sulla nostra sinistra, sul fianco tagliato a picco di un’alta montagna calcarea, con strati quasi orizzontali, alcune aperture di caverne, ampie tanto da passarvi liberamente un uomo; ma appena accessibili da chi possa inforcare un ippogrifo, o più prosaicamente raccomandandosi a lunga e robusta fune, si faccia calare dall’alto. In quelle cavità hanno tante volte cercato rifugio i poveri abitanti nelle irruzioni de’ Tartari. Dapertutto, nella Georgia, le grotte, le fessure degli scogli, sono state convertite in asili contro la ferocia delle orde musulmane, ed ove non era predisposto il lavoro dalla stessa natura, la mano dell’uomo si rivolse alle roccie meno ribelli; e così si formarono perfino in alcuni luoghi interi villaggi sotterranei. Passammo quindi per la piccola città di Mtzchetha, antica capitale della Georgia, pittorescamente situata sul Kur, a cavaliere di erti scogli, fra i quali, in un profondo burrone, spumeggia il fiume. Due chiese di stile maestoso, che prende maggior risalto dalla severa tinta del tempo, richiudono le tombe dei re georgiani. Poco oltre è l’ultima stazione postale, nuova, ben costrutta, con camere abbastanza belle, ed una fra queste, rarità dovuta alla vicinanza di Tiflis, addobbata con tutto l’apparato di un _restaurant_ europeo. Noi avevamo preceduto di circa un’ora il resto della carovana, coll’incarico di far tener pronti i cavalli. Credevamo che, nell’ignoranza della lingua del paese, la sola nostra presenza bastasse a far capire al mastro di posta chi eravamo e ciò che da lui si voleva; ma c’ingannammo, e riesciti vani anche gesti da disgradarne un mimo da teatro di provincia, ricorremmo all’espediente di ripetergli all’orecchio: _italianski, français, deutsch_; onde metterlo sulla strada di trovarci almeno un interprete. Per buona ventura la corta intelligenza del mastro di posta si risvegliò quel tanto appena da comprendere ciò che era più essenziale. Fatto cenno colla mano di attendere, ci condusse poco dopo una donna che parlava anche il tedesco, per mezzo della quale potemmo spiegarci, e dar l’ordine di preparar subito cavalli per cinque carrozze attese fra breve. Il mastro di posta protestò di non aver avuto alcun ordine od avviso preventivo per un bisogno così straordinario, quindi non aver disponibili per quel giorno un numero sufficiente di cavalli. Il sito era bello e noi ci saremmo tanto volontieri rassegnati ad una sosta forzata fino all’indomani; ma anche qui dovevamo vedere la potenza magica di un paio di bestemmie in russo, sussidiata da qualche gesto ancora più eloquente de’ nostri. Giunsero infatti le attese vetture, e con esse il capitano Romanoff, il quale, sentito il nostro rapporto, si rivolse al mastro di posta con quel grazioso piglio che il lettore può indovinare, ed i cavalli spuntarono dal terreno come gli uomini di Cadmo. Convenne per altro aspettare un’ora, spesa del resto in una refezione della quale sentivamo bisogno. Alle 4-1/2 pomeridiane di quel giorno 17 maggio eravamo in Tiflis, all’_Hôtel du Caucase_. IV. Valore d’un nome geografico. — Gli ultimi giorni della Georgia. — Tiflis. — Le colonie tedesche: strana origine loro. — Le colonie militari. — Le alte autorità nel Caucaso. — Consoli esteri. — Pranzi d’etichetta. — La musica europea e la musica asiatica. Il principe di Metternich ebbe a dire una volta che l’Italia era un nome geografico, non riflettendo quel grande uomo di Stato quanto acconsentisse sotto questa frase. Per non essere un nome geografico la Georgia è appunto caduta. Gli scrittori hanno diversamente considerata questa provincia dell’Asia; quando ristretta alla sola parte superiore del bacino del Kur, quando invece estesa a tutte le regioni al di là del Caucaso professanti il cristianesimo. I suoi confini non sono mai stati in alcun modo precisamente stabiliti, seguendo essi il vario successo delle armi, non già linee naturali costanti e indelebili. Due linee di separazione di aque, e due mari, avrebbero veramente potuto costituirla in unità geografica, ma non la costituirono mai; chè diverse eterogenee famiglie, fissate nel grande spazio compreso fra questi limiti naturali, hanno vissuto fra loro in continua ostilità, senza che mai quella che ne occupava il centro, ed era pur designata ad esser la predominante, abbia avuto la forza o di respingere o di assimilar le altre. Così la Georgia non ebbe mai che incerti confini politici, tracciati al più dalla linea irregolarissima della separazione delle due religioni, la cristiana e la musulmana, finchè poi non vennero le stazioni de’ Cosacchi a toglier di mezzo ogni quistione, ed a formar un’altra linea senza alcun rispetto alle precedenti. Dell’antica Georgia i Russi hanno fatto la moderna Grusia, alla quale hanno aggiunte le provincie successivamente conquistate sugli altri principi del Caucaso, e sulla Persia. Prima che fosse tutta assorbita nel vasto impero russo, la Georgia era composta dei seguenti Stati: la Guria, il cui principe aveva il titolo di Guriel; la Mingrelia, altro principato il cui regnante ha il titolo di Dadjan; l’Imerezia governata da un re, nella lingua del paese chiamato _Mephe_; ed infine il regno della Karthli o Karthuli, la Georgia propriamente detta, suddivisa nelle seguenti provincie: la Karthli superiore, comprendente la parte più elevata del paese solcata dal Kur; la Cachezia, verso oriente, tra il fiume e la catena del Caucaso; la Karthli interna fra la Cachezia e l’Imerezia; la Karthli inferiore, alla destra della bassa regione del Kur; ed infine, al di sotto di questa, la Sfomchezia, estremo lembo settentrionale dell’Armenia, sottomesso al governo de’ re georgiani. Devesi ancora annoverare tra le provincie della Georgia, al nord della Mingrelia, la Suanezia, o paese de’ Suani, la quale però ha finito per rendersi in massima parte suddivisa in distretti indipendenti, governati da principi proprj, perdendo la religione greca senza sostituzione di alcun’altra, e lasciando un solo distretto sotto l’autorità del Dadjan della Mingrelia, e sotto la tutela spirituale di un vescovo greco. Le altre provincie caucasiche, in massima parte musulmane, non facenti parte nè della Georgia nè della Russia, tra l’una e l’altra frapposte, erano, procedendo da occidente ad oriente: la Circassia, l’Abcasia, la Basiania, l’Ossezia, la Kistia o Kistezia, od anche Mizdsegia, il Schirwan, ed il Daghestan o Lesghistan[9]. Sarebbe del tutto fuori di posto il ritessere qui la storia de’ progressi della Russia in questa regione del Caucaso. Ove non giovarono le lusinghe valsero le armi. Alle provincie travagliate da guerre intestine o dalle invasioni de’ Turchi e de’ Persiani, cominciò la Russia a far assaporare il suo protettorato: a’ principi vanitosi ed inetti, il fasto della sua corte, de’ suoi gradi militari, delle sue decorazioni. La storia dolorosa degli ultimi re della Georgia non è che la peripezia d’una lunga serie di vicende che ha desolato per secoli quell’infelice paese. La città di Tiflis saliva a prosperità sotto il regno di Eraclio II, della stirpe de’ Bagrationi, allorquando nel 1795 una poderosa armata, condotta da Aga Mohamed Khan, invase la Georgia. Lo sventurato re, vinto dai Persiani in un combattimento disuguale, dovette cercar rifugio, colla massima parte degli abitanti, nelle alte valli del Caucaso, abandonando la sua residenza al furore del nemico, il quale vi rimase il tempo necessario per metterla a sacco ed a rovina. L’anno seguente i Georgiani incominciavano ad escire da’ loro rifugi, a riedificare i distrutti focolari. Una tregua riparatrice seguiva le vittorie dell’armata russa, che sotto il comando del conte di Luboff avea conquistato Derbend, il Chanato di Ghandscha, e battuti i Persiani a Baku: ma fu breve tregua. Alla morte di Caterina II il corpo del conte di Luboff venne richiamato, e di nuovo i confini della Georgia furono aperti alla rabbiosa vendetta de’ Persiani. Gli abitanti e lo stesso re correvano agli antichi rifugi, quando per loro buona ventura Aga Mohamed fu assassinato da uno schiavo, e così l’armata invaditrice scomposta. Il re Eraclio morì nel 1798; gli successe il figlio col nome di Giorgio XIII; il quale, dopo aver fatta stanza in Telaw, si portò a Tiflis, ove, non avendo più alcun palazzo suo proprio, fu obligato a risiedere nella casa d’un privato. Per sorreggersi fra i tumulti dello Stato, e le sanguinose rivalità di membri della sua stessa famiglia, fu astretto a chiedere un corpo ausiliario russo; ma come questo non poteva accorrere con prontezza pari all’urgente bisogno, ebbe frattanto ricorso al mezzo disperato di assoldare un esercito di 12,000 Lesghi. Questi piombarono sulla Georgia come una nuova calamità; insultavano, derubavano crudelmente i miseri abitanti, abbattevano perfino le case, al solo scopo di estrarne il legno. Dopo undici mesi di una protezione di questo genere, venne infine il sospirato ajuto della Russia. Il debole re Giorgio morì in Tiflis il 28 dicembre 1800; ma inanzi la sua morte erasi già sottomesso al suo potente vicino, giudicando questo essere il solo mezzo di salute pel suo paese. Così ebbe termine il regno della Georgia, passato definitivamente alla corona di Russia il successivo 1801[10]. In modo analogo caddero il regno di Imerezia, il principato della Guria. Come un esempio vivente di questo processo politico che pose la regione transcaucasica nelle mani della Russia, rimasero ancora due larve di Stati: la Mingrelia e l’Abcasia, con una pallidissima larva di indipendenza puramente nominale, ciascuno col suo principe vassallo, cui non rimane più altra autorità fuori quella di spremere dai sudditi qualche magra imposta per suo particolar benefizio. Gli altri principi del Caucaso, i quali non hanno accettato questo vassallaggio umiliante e per di più effimero, hanno dovuto luttare contro i grossi battaglioni della Russia. È fresca ancora la sconfitta dell’eroico Sciamyl, e la completa conquista del Daghestan. Ora le forze poderose del colosso moscovita sono tutte rivolte al Caucaso occidentale, al paese montuoso fra il Kuban ed il mar Nero, abitato da popolazioni circasse. Quella stagione che ne’ grandi Stati europei è spesa in parate militari, in battaglie simulate, è invece per la Russia, e lo sarà ancora per varj anni, stagione di imprese sanguinose contro un nemico invisibile, piccolo, ma pertinace di animo, e potente per difese naturali. In pochi anni la Russia aggiunse così, all’oriente ed al mezzogiorno, all’antico regno della Georgia, il Schirwan, il paese di Talysch, il Karabagh, e fece della sua Grusia una provincia vasta quanto la Prussia. In quali condizioni Tiflis sia giunta nelle mani de’ Russi, è facile imaginare. Per dieci anni la città rimase tutta ingombra di macerie, miserandi ricordi delle devastazioni persiane; ma poi la fiducia nel nuovo ordine di cose, pronta e intiera in gente scevra di ogni sentimento di nazionalità, e solo memore delle passate sventure, gli incoraggiamenti ed i privilegi accordati a’ riedificatori di case, il concorso attivo del nuovo governo, la fecero risurgere dalle rovine. Ora Tiflis è il centro vitale della Russia transcaucasica, ed una delle più belle e più originali città dell’Asia occidentale. Le case di stile georgiano con que’ grandi loggiati tutti all’ingiro, quelle colonnette sottili che si alzano a sostegno della tettoja leggera e dipinta, e nelle più eleganti, vi accompagnano anche ornati e festoni di un gusto tutto proprio, rompono la monotonia dello stile semplice, pesante se si vuole, ma grandioso degli edifici russi. Alla varietà pittoresca ed affatto caratteristica di Tiflis contribuisce pure il contrasto fra la parte nuova della città, che si estende lungo il Kur, e s’erge alquanto sul pendio delle adiacenti colline, e quanto è rimasto o fu soltanto restaurato della città vecchia, posta nel centro, separata dalla prima dagli avanzi delle antiche fortificazioni. Le contrade sono, nella città nuova, spaziose, regolari. La maggiore, che è somigliante ad un _boulevard_, è quella appunto che si percorre venendo da Kulais, ed è imponente pe’ belli fabricati di cui è adorna, come il ginnasio, la gran guardia, il palazzo del governatore generale, costrutto sulle rovine del palazzo degli antichi re, il caravanserai. Questa contrada mette ad una bella piazza, nel mezzo alla quale surge un grande edificio contenente nell’interno il teatro, e tutt’attorno il nuovo bazar, in due piani, ciascuno con un ordine di botteghe interne aprentisi verso uno spazioso corritojo che fa il giro dei quattro lati. Le botteghe in questo bazar sono di negozianti armeni e russi. V’è un altro bazar di stile orientale nella parte più bassa, presso la città vecchia, occupato da negozianti georgiani e persiani. Lungo la contrada principale, e sulla piazza del teatro, si trovano anche botteghe di francesi e di tedeschi, ma specialmente de’ primi. Vi sono de’ confettieri, de’ profumieri, de’ parrucchieri, de’ mercanti di mode francesi, i cui magazzini sono bene forniti di ogni sorta di merci europee, che si vendono al triplo de’ prezzi che siffatte merci hanno ne’ luoghi di produzione. I trasporti invero sono assai costosi, le tasse doganali assai forti: ma i negozianti europei convertono questi danni in profitti, caricandone ad usura il prezzo della merce. Tutto a Tiflis è orribilmente caro, molto più caro che sulle stesse rive della Neva. Il teatro è aperto gran parte dell’anno con opera italiana, e doppia compagnia de’ principali artisti; ma perchè ciò sia, il governo lo fornisce di una dotazione annuale di 40,000 rubli d’argento. Le chiese sono del solito stile greco, piuttosto belle, ma nessuna eminente per pregi particolari. La popolazione ordinaria ha più che raddoppiato in pochi anni, ed ora si calcola intorno ai 50,000 abitanti. Genti diverse, ciascuna col suo particolare costume, danno vita alle contrade, alle piazze, e sovratutto ai mercati. Presso che generale è l’ornamento delle cartucciere sul petto, della cintura e del pugnale con ricchi bottoni e piastre d’argento; ma poi si distingue il georgiano dal grande _papach_ a foggia di turbante, il tartaro dal berettone di pelo con forma conica, l’armeno dal volgare berretto europeo, dalla sottoveste di seta o cotone montante fino al collo, e dal soprabito con lunghe maniche fesse e pendenti. Poi vi sono i Lesghi, i Circassi, gli Osseti, in minor numero e più avveniticci che parte della vera popolazione stabile. V’hanno in Tiflis relativamente pochi Europei, oltre i funzionarj del governo, ed i militari; ma Persiani in gran numero, specialmente addetti alle costruzioni in muratura, nelle quali sono abilissimi. Abbiamo sovente incontrato nel seguito del nostro viaggio piccole schiere di Persiani migranti nella Grusia in cerca di lavoro, seminudi, scalzi, ed il capo coperto da una calotta liscia di feltro compatto. I meno miserabili che stanziano in Tiflis per scopo di commercio, portano il solito berettone. Si calcola che possano trovarsi annualmente nella Russia transcaucasica almeno 50,000 sudditi dello Schah. Come ognuno può arguire dalle cose dette, si parlano in Tiflis diversi idiomi, e predominanti naturalmente sono il georgiano, l’armeno, il tartaro. Quest’ultimo, che è una modificazione del turco, è pure la lingua convenzionale della piazza, e quella che serve al commune intendersi fra di loro di genti tanto diverse, press’a poco come l’italiano ne’ porti del Levante. La lingua russa però, lentamente, per la sola forza delle cose, senza alcuna particolare coazione del governo, è in cammino per sovrapporsi a tutte, e già è diventata la lingua ordinaria nel conteggio, nelle misure, in alcune trattative dello stesso piccolo commercio; così che le lingue caucasiche andranno col tempo circoscritte, come il basco odierno, in chiusi distretti, materia di ricerca agli eruditi futuri. La nobiltà indigena è strabocchevolmente numerosa, in generale povera, altiera, tenace della sua lingua e de’ suoi costumi, non curante de’ beni di superiore civiltà. Pare che il governo russo, dal canto suo, non si curi di trasformarla, solo concedendo facilmente quei vani onori de’ quali essa è tanto sodisfatta da non chieder di più. I principi sono a battaglioni. Nel solo distretto di Gori, Eichwald asserisce esservene da circa 1500, il che vuol dire più assai che nella Russia Europea e nella Germania prese insieme. Nessuna maraviglia: ci avviciniamo alla Persia, ove la sola discendenza di Feth Alì Schah si calcola di 3,000 principi del sangue. I soldati non hanno un particolare uniforme che li distingua da quelli della Russia europea; soltanto gli ufficiali dell’armata del Caucaso si riconoscono dal portar la sciabola ad armacollo, sospesa ad uno stretto ma robusto nastro dorato, piuttosto che pendente dalla cintura. Tutti in estate mettono al largo berretto una sopracoperta bianca. Il Kur divide Tiflis in due parti: alla sua destra è la città, suddivisa, come abbiamo detto, in nuova ed antica; alla sinistra stanno i sobborghi, uno de’ quali, che s’erge fin sopra il colle dicontro alla città vecchia, è l’_Awlabar_; l’altro, che si protende verso oriente, è il _sobborgo delle sabbie_. Vi sono due posizioni dalle quali la vista di Tiflis è veramente magica; l’una è dagli alti colli che sovrastano alla città nuova, dai quali lo sguardo spazia in tutta la valle; l’altra è dal ponte Woronzoff che unisce la città nuova col sobborgo delle sabbie. Il Kur ivi è largo; le sue sponde sono popolate da belle case, ai lati e di prospetto estendentisi sulle alture delle due catene di colli, che si ravvicinano per lasciare al fiume uno stretto passo, una chiusa. Al di là di questa chiusa Tiflis si estende ancora in due lunghe braccia seguenti le due sponde del Kur secondo gli accidenti del pendio, finchè poi si decompongono in giardini, ville e poderetti. Oltrepassato il ponte Woronzoff, e piegando a sinistra, nella continuazione del sobborgo, la strada mette ad un ampio viale fiancheggiato da filari di alberi, e più indentro da abitazioni, tagliato perpendicolarmente da altre strade che servono di sfogo a nuovi quartieri in costruzione. Questa parte del sobborgo è detta la vecchia colonia tedesca, perchè infatti abitata in massima parte dalle prime famiglie tedesche venute, come dirò fra poco, a stabilirsi nel Caucaso. Lungo questa via si incontrano sulla sinistra alcuni publici stabilimenti, come le scuole di ginnastica ed il grandioso osservatorio meteorologico; e si giunge infine al giardino publico, luogo di convegno, per verità alquanto troppo remoto, rallegrato in determinati giorni della settimana dalla musica militare. Questo sarebbe veramente l’estremo lembo orientale della città; ma io devo condurre il mio lettore alquanto più lungi, nella stessa direzione, alla nuova colonia tedesca detta anche _nuova Tiflis_. Essa è veramente segregata dalla città, ed ha tutto l’aspetto d’un villaggio improvisato. Un altro spazioso viale perpendicolare al fiume, e per conseguenza anche alla strada che mena alla colonia stessa, dà accesso alle case allineate regolarmente a destra ed a sinistra, di stile semplice, modesto, uniforme, separate da cortili o da giardini. Nell’ordine monotono di queste abitazioni, ma sempre collo stesso carattere, si distinguono la chiesa e la scuola. Intrattenutomi a colloquio con alcuni di questi coloni, fin dalle prime risposte, alla particolare pronuncia mi parvero Svevi; e tali infatti si dissero quando furono interrogati sulla loro provenienza; però una famiglia, presso la quale io ed alcuni miei compagni ci eravamo recati a cercar del latte, era di origine bavarese. Questi coloni sono da lungo tempo stabiliti presso Tiflis, così che alcuni, i quali denotavano all’aspetto di essere piuttosto al di là che al di qua dei trent’anni, vi erano nati. Tutti però conservano religiosamente lingua e costumi; tanto che il russo parlano assai poco, e solo quanto possa occorrere a’ più necessarj rapporti sociali. I nitidi utensili, la agiata semplicità, la pulitezza generale nell’interno delle case, gli attrezzi rurali e le raccolte provigioni nel cortile o nell’orto, sono altri evidenti segni esterni dell’origine europea in genere, ed alemanna in ispecie. A ciò aggiungi il tratto riguardoso, ma urbano; una certa aria di onestà e bonomia che traspare dalla persona, e si traduce nelle opere. Alla famiglia che ci aveva somministrato del latte, e ricoverati per alquanto riposo, non potemmo far accettare la tenue mercede di un rublo: nella gara de’ rifiuti dovemmo cedere noi, riprendendo quanto oltrepassava il valore del latte che era di pochi _kopeki._ L’ignavia de’ Georgiani contribuisce non poco alla prosperità attuale di queste colonie: sono esse che, oltre ai maggiori produtti agriculi, provvedono di verdure e di frutta il mercato di Tiflis, attendono alla fabricazione del vino e della birra, ed alcuni coloni, abili e industriosi artigiani, profittano del prezzo elevatissimo con cui vi è rimeritata la mano d’opera. La storia della fondazione delle colonie tedesche del Caucaso è talmente strana, che, per quanto possa sembrare fuori del proposito, merita di essere più conosciuta; ed io la riassumerò in poche parole[11]. La sollevazione generale del popolo tedesco contro il primo Napoleone, la guerra combattuta con tanto furore, e coronata infine colla indipendenza della Germania, aveano avuto il suo naturale ineluttabile seguito, la miseria, aggravata ancora dalla scarsità de’ ricolti. Questa calamità generale a tutta Europa colpì specialmente alcune provincie tedesche. Schiere di mendicanti affamati percorrevano il Würtemberg; e la desolazione vi giunse a tal punto, che gli spiriti, esaltati dalla superstizione, credettero giunta ormai la fine del mondo. Il governo dal canto suo non avea voluto indugiare l’attuazione di quelle riforme che i tempi rinnovati più urgentemente chiedevano, e comprese tra queste la riforma del catechismo: ma il basso popolo che teneva alle vecchie regole della confessione di Augusta, eccitato da alcuni fanatici, considerò il nuovo lavoro religioso come un flutto dell’incredulità filosofica, e vi si oppose. Apparvero allora alcuni scritti ad accrescere l’incendio della reazione superstiziosa, e primo tra questi l’_Heimweh_ di Stilling, predicante un’emigrazione a Gerusalemme, ove doveva aver principio _il regno millenario._ Già alcune colonie tedesche, e specialmente sveve, si erano stabilite, sotto Caterina II, ne’ dintorni di Odessa, e queste naturalmente si tenevano in communicazione colla madre patria. L’imperatore Alessandro, il quale voleva seguire il pensiero della sua grande ava, di popolare di laboriosi alemanni le deserte steppe del suo vasto impero, volle trar profitto della miseranda sorte de’ contadini del Würtemberg, e si valse a tal uopo d’una signora di Pietroburgo, della signora di Krüdener, la quale si portò tra i fanatizzati suoi correligionarj, disse loro che la vera strada per Gerusalemme era attraverso la Russia, facendo perfino credere che lo stesso potente imperatore sarebbesi ad essi congiunto. Si formò allora una prima associazione di emigranti, la quale, favorita dall’ambasciata russa di Stuttgart, e dalla concessione del governo del Würtemberg, lieto di liberarsi di uno stuolo di indomiti malcontenti, si pose in cammino nel settembre dell’anno 1816; e, per la via di Vienna, Buda e Galatz, si ricongiunse ai compatrioti già stabiliti nelle vicinanze di Odessa. I nuovi ospiti ebbero cordiale accoglienza, ma non soddisfatti della chiesa locale, tenevano separate adunanze religiose, e turbavano la pace della colonia. Verso la metà del susseguente anno venne un ordine che fissava Tiflis per sede di quella nuova emigrazione. L’allontanamento di questa schiera di separatisti non ristabilì la pace religiosa nel Würtemberg e nel vicino stato di Baden; crebbe anzi, per nuovi fanatici promotori, il numero de’ dissidenti dalla chiesa dominante, e col titolo di _armonie_, si costituirono altre numerose adunanze di pietisti che domandavano ad alte grida di lasciare quella che essi dicevano la terra di Babele, per recarsi in terra santa. L’_Heimweh_ di Stilling leggevasi più avidamente della stessa Bibbia; e chi non credeva ciecamente nel promesso _regno millenario_, era condannato come un reprobo. Due fratelli, di nome Koch, si fecero capi di questa nuova emigrazione di _veri credenti_. A ventiquattro anziani venne affidata la cura delle anime, la amministrazione de’ sacramenti; i ricchi diedero una parte del loro avere ai poveri; ed in breve una schiera di 130 famiglie mosse per l’Oriente, noleggiando a tal uopo quattro battelli sul Danubio. Ma il fanatismo pel _regno millenario_ erasi diffuso come un vasto incendio; poco dopo altre otto società di emigranti od _armonie_, formanti nel complesso 1400 famiglie, seguirono la medesima strada, verso la medesima sospirata meta. Dire le traversie e le disillusioni giornaliere di tanta gente in così lungo e penoso viaggio, non potrebbesi in poche parole. Speravano trovare in Odessa, presso le autorità ed i compatrioti, un rimedio ed un compenso a tanti mali, ma astretti ad una lunga quarantena in Ismail, gli stenti, le privazioni, ed un tifo orrendo vi portarono tale strage, che nel lasso di 24 giorni 1200 infelici perirono. I superstiti giunsero in Odessa affranti di corpo e di spirito, e là furono di nuovo ripartiti fra le vecchie colonie tedesche; e là pure nuove scissure religiose. Invano il governatore, generale Jelzoff, tentò persuaderli a fissarsi in quella provincia: pochi furono quelli che seguirono i suoi consigli. Cinquecento famiglie, malgrado il disfavore della stagione, le contrarietà d’ogni maniera in un viaggio lungo fra contrade inospitali, vollero passare il Caucaso; e fra stenti grandissimi e grandissimi sforzi e potenti sussidj del governo russo, giunsero nel tardo autunno in Tiflis. La prima schiera di emigranti aveva fondata la colonia di Marienfeld; queste ultime 500 famiglie vennero ripartite a costituire sette nuove colonie; la nuova Tiflis, Alexandersdorf, Petersdorf, Elisabeththal, Katharinenfeld, Armenfeld, ne’ dintorni di Tiflis, e più lungi, nell’antico _Chanato_ di Gandscha, Helenendorf. Se un cieco fanatismo superstizioso non avesse sconvolto il senno di questi disgraziati, nessuna compagnia di coloni avrebbe trovato più efficaci ed immediati provedimenti, maggiore guarentigia per l’avvenire. Ogni famiglia ebbe, come fondo di primo stabilimento, 100 _rubli_ (argento); ogni persona un sussidio giornaliero di 10 _kopeki_ per tre anni; esenzione da’ tributi per 15 anni, e solo scorso questo termine, imposto il modico tributo di 15 _kopeki_ per ogni _dessatina_ di terreno[12]. Venne l’invasione persiana di Abbas Mirza, venne la mortifera epidemia che poi ha desolato la stessa Europa, ma non furono tanto calamitose per le giovani colonie tedesche, quanto il crescente tumulto religioso. La società delle missioni protestanti di Basilea aveva ottenuto di fondare una casa in Schuschka. Per quanto i dissidenti svevi tenessero al proprio culto, riescì ad un pastore svizzero, di nome Saltet, di farsi loro accetto, di prendere sovra di essi una specie di supremazia; ma Saltet morì dell’epidemia, ed il governo russo, contro le sue promesse, volle intromettersi negli affari religiosi delle colonie tedesche affidandone la cura spirituale alla missione di Schuschka, preponendo ad ogni colonia non un _fratello_, ma un pastore, infino a che reputò venuto il momento di sottomettere tutti i protestanti del Caucaso al supremo concistoro di Pietroburgo. L’effetto immediato di questa misura fu un’esacerbazione del separatismo; i coloni abbandonarono le loro chiese, per darsi alla segreta entusiastica lettura del libro di Stilling: non più battesimi, non più nozze, ma connubbi disonesti, e perfino communanza di donne; e, con sì profondo pervertimento, il singolare contrasto dell’aspirazione verso la terra santa, salita al grado del furore. D’improvviso apparve fra quelle colonie, come inviata dal cielo, una vecchia di sessantaquattro anni, di nome Spohn. Respinta da Katharinenfeld, ov’era ancora qualche cervello sano, si portò nella colonia di Marienfeld, ove le donne pietiste avevano il sopravento, ed ivi, in convegni notturni, colla parola infuocata, predicando il _regno millenario_, fu da tutti riconosciuta come profetessa, e con tale riputazione, già diffusa all’intorno, ritornò a Katharinenfeld, ove questa volta fu ricevuta in trionfo. Gli sforzi del governo russo per dominare questa nuova irruzione di delirio superstizioso, le esortazioni, le concessioni simulate, lo specchio de’ pericoli di un viaggio a Gerusalemme fra le orde rapaci dei Curdi, a nulla valsero. La Sphon si proclamava la fidanzata di Gesù, e presentava due giovanetti quali paraninfi alle sue celesti nozze. Atteggiata ad estasi sovrumana annunciava che un giorno il Messia sarebbe disceso a prendersi la sua sposa, e seco portarla al talamo nuziale; che invero questo non sarebbe stato spettacolo concesso ad occhio mortale, ma che i credenti avrebbero sentito nelle pure regioni dell’aria il coro celeste degli angeli. Ciò accadeva nel 1843! Salita al colmo l’impazienza di que’ deliranti, al grido di _Gerusalemme o la morte_, convennero fra loro che se la terza festa della Pentecoste non fosse giunta la concessione imperiale per emigrare alla terra santa, sarebbero in ogni modo partiti. L’acciecamento andò al punto che molti, persuasi di non aver più bisogno d’alcuna cosa mondana, fecero donazione di ogni loro avere a connazionali, od anche a Georgiani, ad Armeni, a Tartari. Un ufficiale del governo, Kotzebue, figlio del celebre poeta, ebbe incarico di ricondurre quegli smarriti alla ragione; ma ogni sua cautela, ogni sua premura riescirono a vuoto. Venne il giorno fatale: Kotzebue fece un’ultima prova, e finì col minacciare in caso di renitenza l’uso della forza. La profetessa, adorno il capo della corona nuziale, ed i suoi due giovanetti a lato, presentossi alla turba, che giubilando si pose al suo seguito. Kotzebue, tentata un’estrema volta la via della persuasione, ed ancora invano, fece inoltrare i suoi Cosacchi, e loro comandò di impadronirsi di quella energumena; ma questa, più che mai delirante, impose loro di arrestarsi; minacciando vendetta celeste terribile e pronta a chi osasse toccare la sposa di Gesù. La turba immobile e taciturna aspettava i cherubini dalla spada infuocata difensori in tale estremo cimento, ma il solenne silenzio non fece che più distinta la parola del comando e la cadenza del passo dei soldati. La Spohn fu circondata e presa; a tale atto i suoi seguaci si prostrarono ginocchioni colla faccia a terra, come tementi di riguardare ciò che sopra di loro accadesse; ma poscia, l’uno dopo l’altro alzando il capo, e vista la natura tranquilla, e realmente avvenuto ciò che alcuni minuti prima credevasi impossibile sacrilegio, alzò poi anche l’intiera persona, e tutti, come rinvenuti da un sogno, si lasciarono infine persuadere di tornare alle loro case. Così ebbe fine, nè doveva altrimenti, questo mostruoso portato dell’ignoranza e della superstizione. Le menti di que’ poveri illusi rinsanirono; le forze attive di tanta gente onesta nel fondo, laboriosa, intelligente per istinto, si riconcentrarono al lavoro della terra; le colonie prosperarono. Ed a queste colonie formatesi per la strana causa, e la più strana serie di vicende che ho narrata, altre posteriormente si aggiunsero al di qua è al di là del Caucaso. Attualmente la razza tedesca pura entra per una quantità ragguardevole nel computo della popolazione tanto varia e screziata della Russia meridionale. La famiglia, il campo, l’officina, la chiesa, fanno per questi coloni il mondo intiero. Della madre patria non sanno più nulla o non si curano, o loro basta la coscienza di avervi lasciato ideologi in esuberanza, per fare anche la loro parte nelle eterne discussioni del potere centrale, della bandiera, della flotta, degli antemurali del territorio germanico. Non vi è popolo più del tedesco accomodabile ad ogni posizione geografica, più desideroso e pago di vita patriarcale, più colonizzatore. Assai più numerose e sparse per le provincie caucasiche, e tutt’ora moltiplicantisi, come il solo mezzo per assicurare le nuove conquiste, sono le colonie militari, tra le quali è distribuita la massima parte dell’armata del Caucaso. In queste colonie il soldato, pronto sempre ad ogni appello, vive tranquillamente colla sua famiglia, e rivolge alla coltivazione de’ campi, od all’esercizio di qualche arte manovale, il tempo, sovente assai lungo, che gli rimane libero dal servizio, e così ritrae dal lavoro delle sue mani, piuttosto che dall’insufficientissimo salario, di che onestamente campare la vita. Famiglie di soldati ammogliati sono anche disseminate nelle città e ne’ villaggi, fuori delle colonie militari propriamente dette. Ogni domenica si tiene in Tiflis un mercato particolare, ove questi soldati artieri portano le loro manifatture, consistenti sovratutto in tela, panni grossolani, scarpe, mobili, armi, che vendono a prezzi proporzionatamente bassi. Siffatta istituzione che tanto bene si accorda colla natura del paese e colla relativamente scarsa popolazione indigena, permette al governo russo di mantenere nel Caucaso con poco dispendio una poderosa armata pronta ad ogni evento; ma la sua origine non è dovuta soltanto ad un piano provvidamente premeditato; vi ebbe parte eziandio la necessità di troncare una causa di diserzioni e di apostasie. Anche sotto la scorza del soldato, indurita dalla ferula della disciplina, si rimuove un verme roditore che infragilisce la tempra umana. Ne’ primordj del dominio russo nella Grusia, e dell’invasione del Daghestan, que’ poveri soldati che da varj anni subivano tutte le privazioni della dura vita del campo, si trovavano esposti ad un nuovo tranello di guerra, che abilmente adoperavano contro di essi emissarj persiani; e molti passavano corpo ed anima al nemico, sedotti dal promesso immediato guiderdone d’un pajo di mogli. Fu allora che il generale Jermoloff propose ed ottenne sanzionato il solo espediente efficace suggerito dal male istesso che si trattava d’ovviare; che fossero spediti cioè quanto più potevansi nel Caucaso soldati ammogliati insieme alle loro famiglie. La opportunità di questa misura non tardò a farsi conoscere negli effetti: le diserzioni diminuirono rapidamente, e finirono per cessare del tutto. I soldati ammogliati formano uno de’ cinque battaglioni onde si compongono i reggimenti di fanteria nel Caucaso, e del pari il corpo detto de’ Cosacchi della linea, per distinguerlo dai Cosacchi del Don mandati in distaccamento fino agli estremi confini della Russia transcaucasica. Le così dette _stanizze_ sono villaggi improvisati nel terreno che la Russia va mano mano conquistando attorno al Caucaso, nella continua guerra alle popolazioni circasse non ancora sottomesse. Il militare attende alla prima loro fondazione; compie le opere di difesa, i suoi proprj stabilimenti, e vi pone a guardia una o due compagnie. Poscia vengono trasportate nel nuovo villaggio famiglie di coloni russi, al cui sostentamento provvede per tre anni il governo; trascorso il qual termine, la colonia potendo già vivere coi frutti de’ campi circostanti, viene emancipata. Il governo russo stringe così i Circassi col sistema delle _stanizze_, trasportando in pari tempo nell’interno del vasto impero le famiglie indigene del terreno occupato[13]. Non dirò nulla della società georgiana che non ebbi occasione di conoscere. Ne’ sedici giorni forzatamente passati in Tiflis pel ritardo de’ nostri bagagli, dovuto alla mala fede dello speditore di Marani, ebbimo a fare e ricevere molte visite delle primarie autorità. Gli alti funzionarj sono, anche in questa segregata parte dell’impero russo, ben diversi del concetto che se ne fa ciecamente nell’Europa occidentale; sono in generale poliglotti, assai culti, e sommamente cortesi nel tratto. Molti appartengono all’importazione tedesca incominciata fino da Pietro il grande. Il principe Bariatinski, luogotenente generale dell’imperatore nel Caucaso, con autorità piena ed assoluta, trovavasi da alcuni mesi in Europa. La sua assenza era generalmente lamentata non solo da Russi o Georgiani, presso i quali il principe gode di una immensa popolarità, ma anche dagli altri Europei e specialmente negozianti, privati de’ frutti della sua splendidezza. La suprema autorità era provisoriamente affidata al principe Orbeliani, di stirpe georgiana, devotissimo alla Russia; ma l’amministrazione effettiva del paese dipendeva quasi esclusivamente da due governatori: l’uno militare, il generale Minchwitz; l’altro civile, il signor di Krusenstern, di origine svedese. Non esistono in Tiflis che tre rappresentanze di Stati esteri; vale a dire un consolato persiano, uno turco ed un consolato francese. Quest’ultimo vi era già stabilito sotto il dominio dei re georgiani, ed assai anticamente, cioè dal regno di Luigi XIV di Francia. La Russia non vi ammetterebbe ora la fondazione di nuovi consolati, de’ quali d’altronde non vede la necessità in interessi europei da tutelare; e su questo punto ha risposto con una recisa negativa alle sollecitazioni del governo inglese, troppo gelosa contro questa ingerenza estranea, e sospettosa di questi occhi continuamente aperti sovra ogni sua mossa nell’Asia. Console di Francia è il barone Finot, nobilissimo carattere, cuore largo e schietto. Non ci volle più dell’istante della semplice presentazione per fare di lui un vero e caldo amico di noi tutti. Dobbiamo particolarmente alle sue instancabili cure se il soggiorno di Tiflis, prolungato oltre ogni previsione, riescì tanto aggradevole da far tacere la naturale nostra impazienza di continuare il viaggio. L’invito alla mensa, che è la forma patriarcale dell’ospitalità, è divenuto anche, degenerando nella serie de’ secoli, la forma diplomatica. Non parlerò qui degli amichevoli simposj dal barone Finot, ove la cordialità viva e schietta sopprimeva l’etichetta diplomatica: dirò invece che la missione italiana intervenne a due pranzi solenni dati in suo onore l’uno dal principe Orbeliani, l’altro dal console di Persia. Il primo, col pretesto di una indisposizione, ma in realtà per essere ignaro affatto di lingue europee, si fece rappresentare dal generale di Minchwitz, governatore militare delle provincie caucasiche. Il pranzo fu dato in una villa privata del suburbio, appartenente ad un vecchio armeno di 92 anni, che intervenne alle ultime libazioni, e volle farci capire come fosse lieto dell’onore toccato alla sua casa. Secondo il costume russo, sovra due tavolini collocati presso la tavola principale, erano imbanditi prosciutto, sardine, aringhe, caviar, formaggi, ed altri manicaretti stuzzicanti il gusto, con vini di Spagna e di Sicilia, e liquori spiritosi; ed i commensali, stando in piedi, pigliavano alla rinfusa qua e là quanto loro aggradiva. È questa la così detta _zakuska_, preludio al vero desinare, del quale fortunatamente ho detto tutto, quando ho detto che era composto secondo le prescrizioni della sola unica ammissibile, inappuntabile, vera, universale, cucina diplomatica, che è la francese. Anche da Mirza Abdul Rahim-Khan, console di Persia, tutto era europeo: l’ammobigliamento elegante della casa, la maniera del ricevimento, il sontuoso pranzo; per il che dovrò attender altra occasione per dare qualche cenno della cucina persiana discretamente singolare. All’una ed all’altra cerimonia due affatto diversi ed eterogenei corpi di musica accompagnavano alternativamente il sussurro delle intrecciate ciancie, «_e ’l vario acciottolio delle scodella_». Dal principe Orbeliani la banda dello stato maggiore dell’armata ci faceva gustare bellissimi pezzi del repertorio italiano, eseguiti con precisione alemanna. Fra l’uno e l’altro, cessato il risonante concerto delle trombe e dei clarini, ed il rimbombo della gran cassa, sorgeva, come da un angolo remoto, una voce sottile, stridula, accompagnata da un misto di cicala e di oboe stuonato, e da ritocchi di tamburrini. Era un saggio di musica giorgiana della più scelta, monotona, disarmonica, solo di quando in quando producente qualche effetto per certi _crescendo_ selvaggi, vibranti in modo caratteristico. L’orchestra era composta di due pifferi; di una specie di violino panciuto, a tre corde, tenuto verticalmente; di due tamburrini, e di due timpani; il cantante era persiano. Terminato il pranzo, gli artisti giorgiani salirono a raccogliere le nostre felicitazioni, ed a vuotar grandi tazze di vino; ognuno di noi poscia dovette subire il particolare saluto di quello che sembrava il musicante capo, ricevere da lui tre baciozzi in volto, ed il vino d’onore, vuotando d’un fiato una gran mestola d’argento, che subito dopo i baci venivaci posta forzatamente alla bocca. Poi venne il turno della danza giorgiana. Gli attori erano due individui di sesso maschile, che presero posizione nel mezzo della sala, e piegato all’infuori le ginocchia, protese spasmodicamente le braccia, il muso in alto e gli occhi stralunati, si misero a girare sul proprio asse, accompagnando in cadenza la musica collo scalpito dei piedi. Nessuno ci dirà indiscreti se non abbiamo trovata la cosa di gusto molto fino. Altra simile vicenda di musica europea e di musica esotica al pranzo del console di Persia. Tra le sinfonie del _Guglielmo Tell_, della _Semiramide_, della _Muta de’ Portici_, magistralmente eseguite dal’orchestra del teatro, erano intercalate le cantilene monotone e convulse della musica persiana, col solito ronzio del violino e del piffero, colle solite botte frementi dei tamburini. Il cantante era, come si direbbe fra noi, di alto cartello, niente meno che un cantante di camera dello Schah: ma che ceffo: che musica! La sua voce, sommessa e più nasale che gutturale sul principio della cantilena, andava a poco a poco crescendo di forza, ed anche quanto più era possibile di acutezza; ed allora la bocca mantenevasi spalancata fin presso il punto di lussazione della mandibola, mentre le vene del collo facevansi oltremodo gonfie, e tutta la persona era agitata da un tremito convulsivo, col braccio sinistro posto di traverso davanti alla faccia, come per ripercuotersi alle proprie orecchie la voce divenuta tutta gutturale, concitata e rauca. E del resto nessuna traccia di una melodia qualunque; non il benchè menomo accordo del canto cogli istrumenti e di questi fra di loro; nessun ritmo, fuorchè nella cadenza dei tamburini. A questo saggio di musica persiana ho trovato perfettamente consoni tutti gli altri che nel seguito del viaggio ho potuto sentire, e perfino le cantilene dei _ferrasch_. La musica polifonica, l’armonia, non passano il Caucaso; non entrano affatto nel gusto estetico di queste popolazioni: starei per dire che sono per esse una vera impossibilità fisiologica. Nè colla miglior volontà del mondo si può scoprire una melodia qualunque in quella lunga strisciatura di inflessioni a gruppetti e rabeschi indefinibili. La scala musicale non ha simboli per fissarla, come non ne ha pel canto degli uccelli. Per rispetto al senso estetico musicale non v’è transizione tra l’Europa e l’Asia, come ve n’ha, per esempio, fra i costumi. Quale differenza enorme fra le canzoni popolari della Russia, le stesse cantilene de’ Cosacchi, e le nenie monotone e stuonate de’ Georgiani e de’ Persiani! Una linea, una semplice linea separa due affatto diverse nature, l’una dotata, l’altra priva di istinto musicale; due regioni, l’una che ha la musica scritta, l’altra che non l’ha e non la può avere. È un gran fatto che non deve sfuggire alle meditazioni degli etnografi. Pel caso possibile che, seguendo la strada battuta ora con tanta franchezza, essi arrivino un giorno ad ammettere la necessità di due Adami distinti, l’uno al di là, l’altro al di qua di questa linea, io mi affretto a prender qui un brevetto d’invenzione d’un pensiero cotanto peregrino. V. Il governo russo nel Caucaso. — La scienza in Tiflis. — La produttività agricola della Georgia. — Il vino di Cachezia. — La produzione serica. — La pastorizia. — Il monte Solalaki. — Escursioni geologiche e zoologiche presso Tiflis. Cosa voglia fare il governo russo delle sue provincie transcaucasiche non è chiaro neppure a lui stesso. Protendere un secondo braccio nell’Asia è già uno scopo che per sè solo compensa grandi sacrificj; e poichè la gelosa Europa si accontenta del lasciare il colosso moscovita alle prese colla sua propria conquista, e vede senza commoversi le steppe unirsi alle steppe, il sistema della lenta assimilazione ha i suoi grandi vantaggi. Verso le estreme diramazioni de’ suoi immensi dominj, la Russia spinge chiese, stazioni di Cosacchi, strade e _droscky_, ed attende che il resto venga da sè. Il suo giogo non pesa alle popolazioni transcaucasiche, lasciate vivere ciascuna co’ proprj usi. Prive di una tradizione storica continuata, non hanno idea di nazionalità, come il cieco nato non ha idea de’ colori: disseminati in un territorio immenso, ove non sono vene aurifere, ove non allignano il cotone, l’indaco, il tè, sono lasciati in riposo dalle compagnie degli speculatori d’Occidente. La Russia, che vede benissimo come da questa parte abbia tempo a discrezione, vi fa grande risparmio di forza viva. Base del governo russo nelle provincie transcaucasiche è la tolleranza, e prima la religiosa; ma intendiamoci bene: una tolleranza alla russa. Gli Ebrei non vi soffrono le vessazioni alle quali vanno soggetti ne’ dominj europei dello czar, e se il loro numero in queste parti dell’Asia non è maggiore, ciò è solo dovuto alla popolazione armena, formidabile concorrente in tutte le finezze del commercio. I Musulmani possono con tutta libertà far le loro preghiere, frequentar le moschee, piangere il loro profeta, seguirne i precetti, alla sola condizione di non trattare i cristiani come esseri immondi. A Baku l’antico tempio ghebro è ancora aperto al culto del fuoco, ed è mantenuto nel possesso di alcune terre adjacenti. Le tribù nomadi de’ Jesidi, adoratori del genio del male, sono libere di piantar le loro tende, e pascere i loro magri armenti nelle deserte valli dell’Armenia. In queste sue provincie del Caucaso la Russia relega, come abbiamo veduto, la setta degli Scapsi, e quella più numerosa dei Malacani che sono i protestanti in faccia alla chiesa ortodossa, suddivisi ancora in sette di secondo ordine. Ognuno adunque è liberissimo di professare in queste provincie il culto de’ suoi avi, ma poi, se vuol cambiar fede non è più libero della scelta. Nessun musulmano può ricevere il battesimo da altre mani che da quelle di un popo greco. Finchè i protestanti di Basilea potevano servire a tener in freno i separatisti svevi, furono lasciati in pace, ma sedate le turbolenze delle colonie tedesche, un ordine del governo disperse la missione di Schuschka. Pochi sacerdoti cattolici a Kutais ed a Tiflis tutelano la coscienza di qualche migliaja di cattolici armeni; ma ove osassero versare l’aqua battesimale sul capo di un miscredente, la Siberia è là pronta per ingojarli. Le popolazioni transcaucasiche sono esenti dal reclutamento militare, ben inteso finchè non piaccia ad un _ukase_ imperiale di altrimenti disporre: devono però somministrare contingenti di milizie a cavallo pel servizio interno del paese. Pagano imposte che si possono dire gravose, per rispetto alla fortuna dei contribuenti, ma che sono un nulla al confronto delle spogliazioni alle quali per lo addietro andavano soggette. La sicurezza publica, nella maggior estensione del paese, e particolarmente presso le città, è sufficientemente tutelata: la Russia ha mezzi per ciò; se non che la potenza di questi mezzi scema grandemente agli estremi confini verso la Persia e la Turchia, e nel Daghestan, presso i covi degli ardimentosi e rapaci Lesghi. Dell’istruzione popolare il governo russo non si dà quasi alcun pensiero; ma bisogna esser giusti: non è questo un trattamento particolare che faccia parte integrante di un piano amministrativo delle provincie asiatiche: le provincie europee del mezzogiorno sono poste sul medesimo piede. Generalmente quando giunge una lettera in un villaggio, resta a sciogliersi la difficoltà di trovare chi la sappia leggere. La mancanza di scuole elementari è una grave piaga che le stesse autorità deplorano apertamente. Ho sentito parlare di tentativi falliti, di scuole fittizie improvisate sul passaggio dello czar, come i giardini ed i castelli sulla strada percorsa da Caterina II nella piccola Russia. Nel viaggio che Parrot intraprese all’Ararat nel 1829, gli fu dato per compagno ed interprete un giovane diacono di Etschmiadzin, di nome Abovian, il solo che parlasse il russo di quel dotto seminario. Abovian conversando familiarmente col professore di Dorpat, fu presto invaso da ardente desiderio di coltura europea, e tanto fece, che dal governo ottenne i mezzi per recarsi alla medesima università ove Parrot professava. Vi rimase sei anni, acquistò profonda conoscenza del tedesco, solida istruzione in varie discipline letterarie e scientifiche, e con tale corredo ritornato alla sua nativa Armenia, chiese invano di poter dividere i benefizj dell’educazione ricevuta fra’ suoi più stretti compaesani. Respinto perfino dal seminario di Etschmiadzin come contaminato dalle false dottrine d’Europa, ebbe rifugio in Tiflis, ove fondò un privato istituto per la educazione dei giovani armeni. Esiste in Tiflis, come di passaggio ho accennato, un ginnasio. Ivi sul georgiano, sull’armeno, sul tartaro s’innestano il latino, il russo, il tedesco ed il francese, e vengono pure insegnati agli alunni i primi rudimenti delle scienze fisiche. Direi che è il principale istituto d’istruzione della Grusia, ove non fosse il solo. Appena merita di essere mentovato un germe abortito di un museo locale, consistente in un camerotto con quattro piccoli armadj, entro i quali si conservano pochi campioni di roccie, una dozzina di rettili mummificati ne’ loro vasi, e qualche oggetto di curiosità. Il governo russo è largo di mezzi per l’illustrazione scientifica del vasto impero, ma alla condizione che tutto affluisca al centro. È in grazia di questo che Tiflis può ancora dirsi un’oasi nel deserto della barbarie orientale, una colonia della gran metropoli della scienza russa. Da molti anni è stabilito nel Caucaso, ed ha in Tiflis il suo quartiere d’inverno, uno dei più celebri geologi viventi, il sig. Abich. Egli ha ormai perlustrato il paese in tutte le direzioni raccogliendo un prezioso materiale che ha ordinato in una serie di classiche monografie, stampate nelle _Memorie dell’academia di Pietroburgo_. Si deve alla sua mirabile attività, alla sua profonda dottrina, se la Russia transcaucasica è divenuta, sotto il punto di vista dell’orografia, della geologia e della paleontologia, uno dei paesi meglio conosciuti. Quando noi arrivammo in Tiflis, il sig. Abich ne era partito da pochi giorni pel suo giro annuale, e la fatalità volle che anche nel seguito del viaggio, ad Erivan, a Nachidjevan, ci trovassimo sulle orme che egli avea di fresco lasciate. Incontrammo invece, prossimo a partire pel Kurdistan, un altro naturalista, suo ajutante di campo, di nazione ungherese, il sig. Bayern, indefesso raccoglitore; e che ci fu cortese di molte utili indicazioni, e liberale di varj oggetti del suo emporio. Non si può parlare della vita scientifica in Tiflis, senza ricordare i lavori geografici dello stato maggiore dell’armata del Caucaso, e le ricerche archeologiche del generale Bartolomei; ma poi, come istituzione permanente, merita un posto d’onore l’osservatorio metereologico, che è uno dei più importanti del mondo, uno dei principali della gran rete ideata per cercare qualche luce in questo campo tenebroso della scienza fisica. Sorto da poco dalle fondamenta, è grandioso, ben fornito di strumenti e di personale, sotto la direzione di un dotto alemanno, il sig. Moritz. Quando noi lo visitammo vi era in costruzione un grande apparato per le osservazioni magnetiche[14]. In più stretto immediato rapporto col benessere di un così vasto paese sono le istituzioni tendenti a promovere la vera ricchezza, la produttività agricula. La buona volontà non è mancata al governo russo; bensì la giustezza del piano fondamentale, il buon uso de’ mezzi largamente disposti. Si profuse il danaro in vane esperienze di culture esotiche, in premj, in sussidj che poi si lasciarono ingojare da vulgari astuzie, e si ebbe il duplice danno di simili tentativi male riesciti: danaro sprecato, e tolto il coraggio per altre più fruttuose imprese; l’indolenza de’ Georgiani rimase ancora padrona del deserto terreno. Una società economica esiste in Tiflis di solo nome: non è aria quella per simili istituzioni di sì poco vantaggio pratico nella stessa Europa. Di scuola agricula non si pronuncia tampoco il vano desiderio, e da questa parte il governo può almeno evitare la sorte sicura di un disperdimento di qualche migliaja di rubli. La solerzia, l’operosità delle colonie tedesche reagirono ben presto sul mercato di Tiflis: vi resero più abondanti, ed a miglior prezzo, varie derrate alimentari; altre nuove, e per esempio i pomi di terra per lo dianzi sconosciuti, divennero di uso commune; di tutte si accrebbe il consumo, e con questo il profitto de’ coltivatori. Ove un insegnamento così vicino, così eloquente, così pratico, ha potuto rimaner sterile, è tronca ogni speranza alla miglior volontà del legislatore. Bisogna lasciar il Georgiano alla pastorizia, alle sue piccole industrie manifatturiere, alle sue vecchie tradizioni agricule, e chiamar dal di fuori concorso di braccia robuste e intelligenti. Quali mezzi a ciò si richiedono sanno perfettamente gli economisti; ma finchè la fiducia in un ordine politico razionale e stabile non sia riescita a vincere la ripugnanza de’ grossi capitali europei a passare la cresta del Caucaso, il sistema delle piccole colonie è il solo possibile. Però, anche per questo sistema, l’azione del governo non si deve più limitare alle concessioni di terre, a’ sussidj in danaro, a qualche privilegio temporaneo. In tutti gli altri piani dell’Asia occidentale il terreno, per la natura minerale, è molto appropriato alla coltivazione, ma le protratte arsure dell’estate lo isteriliscono: vi manca un elemento che pure è in abondanza riversato per la china del Caucaso e si dirama come un capitale perduto nei solchi di aride steppe. — I Persiani, i barbari Persiani, saprebbero trarne profitto assai meglio di quel che sin qui abbiano fatto i Russi civilizzatori. La derivazione di canali irrigui da tante scaturigini, da tanti rivoli o fiumi, da tanti naturali serbatoj, è di prima necessità per lo sviluppo dell’agricultura nel Caucaso, e quest’operazione, razionalmente condotta, con quella grandezza di mezzi di cui il solo governo dispone, può solo fare di questo immenso paese, quasi improduttivo, il giardino dell’Impero moscovita. La vite è qui nella sua culla primitiva, e dalla Mingrelia al Caspio è frequentissima nelle foreste, maritata naturalmente a quelli alberi eccelsi; e ne pendono bei grappoli con acini grandicelli, sugosi, zuccherini, affatto esenti dall’infezione parasita che devasta i vigneti d’Europa. Essa è pure estesamente coltivata dai Georgiani, e specialmente nella Cachezia, d’onde proviene il vino più rinomato del paese. Il liquore di Bacco, senza del quale un Russo non saprebbe vivere, trovasi dapertutto, ad un prezzo relativamente vile, ed è quindi di uso affatto vulgare; se non che vulgare del pari ne è l’abuso, per giustificare il quale si lede perfino la riputazione delle pure e limpide aque delle sorgenti caucasiche. Queste provincie sono un paradiso pei Cosacchi mandativi in distaccamento. Frequentava il nostro albergo in Tiflis, e ci fu presentato come un personaggio singolare, un capitano di Cosacchi, vero Ercole di corporatura, dalla faccia tosta, rotonda, gioviale, carico di medaglie militari, non parlante che il russo, ma non privo di qualche sentore di altre lingue europee. Un matino, mentre egli dava principio alle sue quotidiane libazioni nel _buffet_ dell’albergo, da un crocchio dei nostri che lo stava ammirando surse una esclamazione: che pezza d’uomo! Qualche cosa intese il Cosacco, il quale rivoltosi a noi, in stentato francese, appoggiando le parole d’un gesto molto espressivo, soggiunse: _oui.... mais.... du vin.... et.... beaucoup!_ Questo vino di Cachezia non era però ai nostri palati di un gusto rispondente al lusinghiero suo color rubino; e se già la virtù della temperanza non fosse stata in noi connaturale, ce l’avrebbe imposta col suo disaggradevole odore di nafta, contratto dai recipienti in cui si conserva. Questi sono otri di pelle di capra, nella concia delle quali si fa entrare la nafta, non saprei bene per quale scopo. Per le sue qualità proprie il vino di Cachezia sarebbe dei migliori, e ce ne potemmo convincere gustandone di quello invecchiato nei fiaschi, ove col tempo aveva perduto l’insopportabile profumo degli otri. La Georgia è fatta dalla natura per diventare un centro di produzione serica rivale della Lombardia. Dapertutto vi potrebbe prosperare il gelso, e ne fa prova la cresciuta rigogliosa di pochi alberi solitarj piantati per raccoglierne i frutti zuccherini, più che per l’allevamento de’ filugelli. Solo in alcune oasi musulmane, a Nachidjevan, ad Ordubad, e specialmente a Nouka, il raccolto della seta si mantiene tradizionalmente, ma ancora in quantità relativamente scarsa. Per questo importante articolo la Russia è sempre tributaria de’ finitimi distretti della Persia e della Tartaria, quando, lo ripeto, potrebbe produrne in casa propria in quantità esuberante il consumo interno. Or sono alcuni anni il governo fece assegnamento sulle colonie tedesche, e le eccitò a tentare questa coltura per esse nuova ed esotica. Le colonie prestaronsi infatti; ed un esperimento in proporzione sufficiente riescì, com’era da aspettarsi, perfettamente bene. Ma l’autorità volle immischiarsi dello spaccio del nuovo produtto: la seta ricavata fu spedita a Mosca, ma fra mille pretesti non venne di là il pagamento che scarso e tardivo. Come tutti i popoli semibarbari i Georgiani sono piuttosto pastori che agricultori. Il bestiame è in tutta la Russia transcaucasica abondante, in rispetto alla popolazione, ma ben lungi da quanto lo permetterebbero l’estensione del paese e la varietà dei pascoli. Non dirò nulla de’ cavalli, ineleganti di forme, buoni e duri al lavoro; nulla de’ buoi; nulla de’ buffali, solo notando di passaggio come siano più piccoli de’ buffali d’Italia, e non limitati soltanto ai piani più bassi ed umidi, ma portati anche in regioni assai elevate ed aride. Da Tiflis in poi numerose mandre di camelli da una sola gobba, fanno il più pesante servizio delle carovane. Le popolazioni cristiane del Caucaso fanno grandissimo uso delle carni porcine, ed i Georgiani in particolare ne sono ghiotti, onde il gran numero di majali che essi posseggono in contrasto colle popolazioni musulmane. Ma non trascorrerò così di volo sulla razza di pecore che nella Georgia non solo, ma benanco in Persia, esclusivamente si alleva in greggie numerose, sparse dapertutto. Appartiene alle razze dalla coda adiposa, e più propriamente a quella che Pallas ha chiamato _ovis aries steatopyga_, per la singolare conformazione delle sue parti deretane. Una gran massa di grasso circonda la base della coda, e la coda stessa ripiegandosi poscia in alto, incurvata all’apice, sembra quasi tracciare una divisione della massa anzidetta in due lobi distinti, in due natiche accessorie. Questa razza, vero dono della providenza per l’Asia occidentale, è, come il camelo, un animale del deserto. Vive pazientemente, spelluzzicando le parti meno legnose degli sterpi, grigi, ispidi, rari, o quel poco di verde che osa spuntare alla loro base, per valli e dossi, arsi da sette continui mesi di sole; ed è siffattamente accommodata a sì magro regime, che trasferita in pascoli più ubertosi intristisce rapidamente. La sua carne è saporita e sugosa quant’altra mai, incomparabilmente migliore di quella delle communi razze d’Europa, priva di quel sapore di sego, che più o meno in tutte queste si risente; e lo stesso grasso, il quale sembra sparire da tutte le parti del corpo, per concentrarsi nella coda, è ben differente dal sego ordinario, e può esser accettato per condimento delle vivande anche da un palato europeo. Non direbbe male chi dicesse che non si mangia altra carne per tutto l’Oriente, ove è a sì basso prezzo, che il più povero _ferrasch_ potrebbe regalarsi quotidianamente qualche fila di _kiabab_ dai friggitori dei bazar. Non so il perchè alcuni viaggiatori, nel far cenno di questa razza di pecore, abbiano pronunciato un giudizio sfavorevole sulle qualità della sua lana. Io l’ho trovata piuttosto rara, ma lunga, e sempre più o meno morbida, talvolta finissima; e del resto i suoi pregi sono attestati dai bei tessuti lesghiani, dai scialli di Mesched e di Kerman. Quando le società così dette d’_acclimazione_ vorranno scendere dalle nuvole delle utopie per mirar dritto a proposte e, meglio ancora, ad esempj di vera ed immediata pratica utilità, troveranno questa razza orientale degna delle loro sapienti cure, come quella che potrebbe prosperare ove altre razze non allignano, in tanti luoghi deserti del littorale italiano, in tante arse isole del nostro mare. Ho raccolto a disegno, in un fascio, argomenti diversi che non sono dell’uno piuttosto che dell’altro punto del nostro viaggio, a fine di procedere nel seguito più speditamente, ed ora faccio ritorno a Tiflis ed alle sue più strette adiacenze. I colli che sovrastano in largo anfiteatro alla capitale della Grusia, affatto sterili e nudi, sono costituiti da strati di calcarea marnosa, di arenarie e di conglomerati del terreno miocenico. Quello che surge all’oriente della città nuova, a pochi passi dall’_Hôtel du Caucase_, il così detto monte Solalaki, è una propagine del lato destro della valle, come una grande sbarra diretta di traverso al letto del Kur. Tutto lungo il suo culmine scorre una strada, in remotissimi tempi scavata profondamente nella roccia a scopo di difesa; e per essa si giunge infatti alle antiche fortificazioni, sovrastanti alla chiusa del fiume, ov’è il limite fra la città vecchia e la nuova. Dietro questo culmine è un fresco valloncino chiuso fra pareti dirupate, sul cui fondo si raccoglie la poca umidità filtrante, e si compone un limpido rivoletto che scende alla città, inaffiando l’ombroso e pittoresco giardino del governo, dietro i ruderi del diroccato castello. Un piccolo canaletto ne è derivato da tale altezza da poter essere rivolto verso la città nuova, affatto insufficiente però ai bisogni anche di un solo quartiere. Non si beve in Tiflis che la torbida aqua del Kur, raccolta in grandi otri di pelle, e riversata nelle case in ampj tini, d’onde per lo più viene spillata, senza farla tampoco passare per un filtro; a sempre maggiore glorificazione del vino di Cachezia. Nel quartiere della vecchia città, immediatamente dietro le rovine delle antiche fortificazioni, sono pure le surgenti di aqua termale, che alimentano i tanto rinomati bagni di Tiflis. Malgrado la sua posizione, la città difetta di buoni materiali di costruzione. Due sorta di roccie vi sono più communemente in uso: un’arenaria giallastra grossolana, tenera allo scalpello, poco resistente agli agenti atmosferici, ed una trachite bigio-scura, la quale occupa il rango che ha il granito nell’Italia superiore. Entrambi questi materiali provengono dai corso inferiore del Kur, ma non in quantità sufficiente alle esigenze di una grande città, e quando si è proveduto agli edifizj in costruzione, a qualche marciapiede in alcuno dei luoghi più importanti, non ne rimane più pel lastrico delle strade, lasciate nel più completo stato di natura; e quale sia questo stato ognuno può imaginare, sapendo che il fondo del suolo è un tritume marnoso. Tiflis potrebbe chiamarsi la metropoli del fango e della polvere. L’alternarsi della pioggia e del vento vi è cosa ordinaria, specialmente in primavera; piove: e le contrade e le piazze sono convertite in pozzanghere impraticabili di melma scura semiliquida, che in alcuni luoghi giunge quasi all’altezza del ginocchio: il cielo è rasserenato; ed un vento furioso solleva nembi di polvere che toglie il respiro, e la vista a due passi di distanza. Il fondo del bacino al cui estremo limite orientale è collocata la città, è un piano di circa 10 _verste_ di lunghezza, che dalla sponda sinistra del Kur, dolcemente si eleva a sterilissime colline marnose, mentre dal lato opposto, a piccola distanza dal fiume, la parete meridionale del bacino medesimo si innalza con rapido pendio a formar una catena ritagliata da combe e valloncini trasversali, sul cui fondo serpeggiano rivi e torrenti, seguiti nel loro decorso da una bella vegetazione. Anche i più interni monti da questo lato sono in gran parte rivestiti di pascoli e di cespugli. Questo bacino è una valle di erosione; la terra vegetale del piano riposa direttamente sulle testate della formazione miocenica, come distintamente si vede nelle pareti, per certi tratti verticali, del profondo solco del Kur; mentre nel riparo de’ valloncini trasversali sonosi conservati avanzi del grande deposito diluviale che un tempo ha dovuto estendersi dall’uno all’altro lato della valle. Molto interessante pel geologo è il monte Solalaki. Esso è costituito da strati prevalenti di una calcarea marnosa or bigia or quasi nera, or più or meno fissile, e da altri minori strati irregolarmente alternanti di arenaria, tutti profondamente sconvolti e screpolati. Una laumonite cristallina ha compenetrate queste roccie, infiltrandosi in sottilissimi veli fra gli straterelli della marna; qua e là gli elementi dell’arenaria sono modificati in terra verde; alcuni rari frammenti di vegetali sono carbonizzati; le numerose intersecantisi screpolature di tutta questa massa di strati sono state riempite di candidissimo spato calcareo. Siffatte alterazioni sono evidentemente state produtte dall’azione d’una roccia emersa dal seno della terra in stato di fusione, e con tutta probabilità dal trappo amigdaloide, le cui masse compajono al lato orientale di questa catena di colli, di cui il monte Solalaki fa parte. Il nostro bottino zoologico nei contorni di Tiflis è riescito assai modesto; ma devo subito soggiungere che assai modeste del pari erano le nostre aspirazioni. Che potevamo fare dopo Güldenstaedt, dopo Pallas, dopo Eichwald, in un paese ch’è quasi una continuazione dell’Europa, e che noi dovevamo semplicemente traversare? Eravamo disposti a trovare dapertutto vecchie conoscenze, e così fu. Ecco in breve le principali cose notate sul mio diario. In primo luogo, quanto ai mammiferi, io mi era proposto di cercare con particolare attenzione le piccole specie, d’ordinario le più neglette: ma il fatto più importante che ho raccolto è il fatto negativo della scarsità sorprendente di pipistrelli, non solo a Tiflis, ma anche nel seguito del nostro viaggio. Un piccolo _Sorex_, ch’io ebbi dalla gentilezza del sig. Bayern, e che rinvenni anche più tardi in Persia, non corrisponde ad alcuna delle specie descritte vagamente da Pallas, e fu da me registrato col nome di _Sorex fumigatus_. La stagione molto inoltrata, il passo degli uccelli ormai chiuso, rendevano meno variato il produtto delle nostre caccie, ma limitandolo alle sole specie nidificanti, ne crescevano da un altro lato l’interesse. Ecco in breve le specie da me trovate, e che si possono ritenere come le più frequenti nelle adiacenze di Tiflis. _Neophron percnopterus_: ne vidi qualche coppia sul monte Solalaki, e fin ne’ sottoposti giardini. _Astur palumbarius_, molto commune al piano, ove fa caccia attiva alle quaglie. _Lanius collurio_, _L. minor_, frequentissimi; _L. rufus_, piuttosto raro. _Saxicola oenanthe_, abondante; _S. stapazina_, più rara, sul monte Solalaki. _Anthus campestris_; _Alauda arvensis_; _A. brachydactyla_; _Emberiza miliaria_, nel piano; _E. hortulana_, abondantissima fra i cespugli nei luoghi più elevati; _Euspiza melanocephala_, commune assai in tutto Oriente; spinge i suoi avamposti fino in Dalmazia e nell’Italia meridionale. Io ho incontrato qui a Tiflis per la prima volta questa graziosissima specie, nella sua bella livrea nuziale, che le dà quasi l’aria di un uccello esotico. La femina modesta e taciturna sta celata fra i cespugli, mentre a lei vicino il maschio procace, pavoneggiandosi sulla punta dei rami verticali, riempie l’aria dei melodiosi gorgheggi di un canto che tiene dell’allodola e del capinero; così caldo d’amore si lascia avvicinare a mezzo tiro di pistola, ed infine spiega le ali a volo tremulo e tardo, per posarsi di nuovo a poca distanza. Io ho trovata frequentemente questa specie anche in Persia, ma ai primi di agosto le coppie erano già sciolte, gli individui adulti spariti, ed i giovani più tardi ad emigrare, stanno riuniti allora in branchi numerosi. La passera commune nel Caucaso e in tutta la Persia è la _Pyrgita domestica_, mentre nella Siria è la _P. hispaniolensis_. Molto frequente pure è la _Petronia stulta_, che sta ordinariamente a terra, in piccoli branchi, fra le pareti sassose de’ monti al sud di Tiflis. Il passo delle quaglie era ormai finito; molte però ne erano rimaste ne’ campi coltivati, presso la nuova colonia tedesca. Un sentiero poco discosto dalla città, sulla strada di Kutais, devia sulla sinistra, e termina ad una valletta amena, sul cui fondo scorre, a versarsi nel Kur, un piccolo fiumicello. Là è il mulino Andreowsky. Vi giungemmo a caso in una delle solite escursioni, e mentre, presso l’abitato, stavamo riguardando e titubanti, una donna, china a lavar pannilini, ci volse la parola: _Avancez-vous, messieurs, vous êtes chez des Français_. Era infatti una famiglia francese colà stabilita da varj anni, la quale ci accolse con vera cordialità; e quel luogo, che noi chiamammo poi il mulino francese, divenne uno de’ convegni di predilezione nelle nostre caccie. Sovrasta al mulino un arido monte calcareo, popolato di testuggini (_Testudo ibera_ Pall.). Più al sud, ad un’ora circa di salita, nel mezzo d’un pianerottolo verdeggiante, è un piccolo stagno salato, ove trovammo in gran copia la _Cistudo europæa, var. lutaria_. Frequentissimo per tutti i monti che da questa parte fanno corona a Tiflis, nei luoghi più rupestri e sassosi, è lo _Stellio caucasicus_. Corre con velocità anche sugli scogli verticali, ma non lo direi il più veloce fra i saurj. Quando è avvicinato dall’uomo, inanzi prender la fuga, lo fissa, e rizzandosi alquanto sulle gambe anteriori, scuote verticalmente, come in atto di riverenza, la parte anteriore del corpo. Due cose molto singolari ho notate in questo saurio: daprima che esso è erbivoro, e come tale unico rappresentante, nell’antico continente, degli _Iguanoidi_ americani; poscia che muta colore come il camaleonte, ma, al rovescio di questo, diventa bruno, quasi nero nell’oscurità, impallidisce alla luce[15]. La commune lucerta è a Tiflis la medesima osservata già a Trebisonda, la _L. laurica_ Pall. Sul monte Solalaki e specialmente ne’ suoi valloncini ho trovato diverse specie di serpenti, ovvie del pari nell’Europa orientale e meridionale, e sono _Tyria Dahlii_, la più commune; _Tarbophis fallax: Cælopeltis lacertina_. L’unica specie di rana, l’unica di rospo, sono le stesse già notate a Trebisonda. Stando al risultato delle ricerche fatte sinora, un fatto importante da notarsi, e che io pure dovrei confermare, sarebbe la completa assenza di anfibj urodeli in tutta la regione caucasica ed in Persia. Una sola specie di _Triton_ dell’Asia occidentale, fu raccolta dall’infaticabile viaggiatore M. Wagner. Il Kur aprovigiona di pesci il mercato di Tiflis. Abonda in prima linea il _Silurus glanis_, cattivo pesce, che sarebbe per la sua voracità da sterminarsi dapertutto, e che ebbe invece, nel furore delle _acclimazioni_, l’immeritato onore di essere introdutto in Francia. Molti individui ne vidi raccolti in una peschiera entro la città, e parecchi fra questi portavano al capo un gran numero di enormi piscicole (_Piscicola fasciata_. Kol.). Un’unica specie di trota di questo fiume e de’ suoi affluenti ha tutti i caratteri del _Salar obtusirostris_ di Heckel. De’ ciprinidi non mi fu dato raccogliere più di tre specie: un barbio, i cui caratteri corrispondono precisamente a quelli del _B. lacerta_. Heck. di Siria; una nuova specie di _Abramis_ (_Abr. microlepis_. De F.), ed una communissima alborella, che Eichwald riferisce al _Cypr. alburnus_. L, ma che deve piuttosto essere considerata come specie distinta (A_lburnus Eichwaldii_. De F.). VI. Partenza da Tiflis. — Kody. — I Tartari del Caucaso. — Il ponte rosso. — Salahogly. — Scompiglio della nostra carovana. — La valle dell’Akstafa. — Delidjan. — I Malacani. — Passo dell’Eschek Maidan. — Il lago Goktscha. — La vista dell’Ararat. Il 29 maggio l’arrivo de’ bagagli, lungamente attesi, impresse vigore novello e novello trambusto ai preparativi della nostra partenza da Tiflis. Già il commendatore Cerruti avea stipulato accordo con alcuni Malacani, perchè ci facessero da vetturini sino al confine persiano; il servizio dei trasporti, e perfino de’ _droschki_ nel Caucaso, essendo quasi per intiero nelle mani di questa setta religiosa. Nuovi forgoni furono aggiunti alla nostra carovana, poichè d’allora in poi non dovevamo più separarci dai nostri bagagli, e furono del pari aggiunte, a liberarci dai tormenti della _telega_, due vecchie carcasse di vetture rattoppate alla meglio, comperate dal nostro ministro col previdente proposito di trascinarle, per ogni buon fine, sino a Teheran. Questo vero _tour de force_ riescì, e corrispose perfettamente alle mire che lo avevano suggerito. Nell’ordine delle marcie fu stabilito che i forgoni col grosso intangibile carico de’ bagagli, i due cucinieri con qualche servo, e cogli utensili di cucina e di tavola ridutti al più stretto necessario, come per un _diner sur l’herbe_ in una partita di caccia, ci dovessero precedere sempre di qualche ora e nella partenza e nell’arrivo alle stazioni. Le tappe furono in tal modo fissate, che la media del cammino giornaliero fosse press’a poco di quattro ore nel matino ed altrettante verso la sera. Finalmente il 3 giugno, assai per tempo, tutto si dispose per la partenza, fra un’orribile confusione per l’ingombro dei bagagli e dei veicoli nell’_Hôtel du Caucase_, siffattamente che non prima delle dieci ore la carovana si potè avviare processionalmente tra la folla dei curiosi e gli Italiani addetti al teatro, accorrenti a stringerci la mano. Tutti con vera gioja salutammo il barone Finot, quando ci comparve a cavallo ed in completo assetto di viaggio, col seguito di un suo domestico tartaro, e caracollando accanto alle nostre vetture, dimostrava col fatto esser fedele alla promessa di accompagnarci per qualche giorno. Noi avevamo pure al nostro seguito, come scorta d’onore e di sicurezza, un picchetto di militi urbani a cavallo; bene armati, forti in sella, abilissimi alle più difficili manovre di destrezza, facevano a gara di quando in quando, e secondo l’opportunità del terreno, a rallegrarci con quello spettacolo svariato, che in stile di equitazione si chiama una _fantasia_. Ad ogni stazione dovevamo trovare un nuovo picchetto di ricambio, ed ai posti principali un uffiziale, in pieno uniforme, che indirizzava nella sua lingua il complimento d’uso al nostro ministro. La strada da Tiflis ad Erivan esce per la città vecchia, segue per un certo tratto il corso del Kur, col fiume a sinistra, e gli scogli del monte Solalaki a destra, ma a tale distanza da lasciare frapposto un pendìo coperto di magri pascoli, ove stava infatti sparsa una numerosa greggia; e vedevamo roteare sprazzi di fosche ombre, projettate dai soliti immancabili avoltoj, vigilanti dall’alto, mentre un gruppo di più famelici, o più immondi o più fortunati, stavano più lungi spacciando un carcame di camelo. La via quindi ripiega a destra, dietro il monte, su di un alto piano ondulato, affatto arido, tagliato da torrenti asciutti, ed anche da una bella oasi, con grandi alberi. Procedendo, vedemmo sulla sinistra, a non molta distanza, un basso fondo tutto biancheggiante del deposito cristallino di uno de’ tanti stagni salati della Georgia, dei quali non si è pensato mai a trarre alcun profitto. Poco dopo, per una breve salita, giungemmo a Kody, ove si fece sosta. Kody è un grosso villaggio georgiano, con case sotterranee, fra boschetti e giardini, in un alto piano molto fertile e ben coltivato, che mi ha fatto risovvenire i _campidani_ della Sardegna. I monti che veggonsi a poca distanza verso il nord, hanno il medesimo aspetto di quelli che avevamo lasciati a Tiflis; e sparsi per la pianura trovammo molti massi di trappo amigdaloide. Una scorrazzata alla caccia, mentre si allestiva il nostro pranzo, non fruttò che tortore e quaglie alla cucina. Ho visto qui per la prima volta un aratro georgiano in azione, ed ho contato non meno di cinque paja di buoi e tre di buffali, che facevano stentatamente il lavoro di un sol pajo di buoi di Piemonte. D’onde ciò? Non nella profondità del solco, minore anzi di quanto fra noi si usa; non in una particolare difficoltà del terreno. Ho pensato che i contadini georgiani hanno bestiame in esuberanza, e che il numero delle coppie sotto l’aratro sia forse per essi un segno esterno di rango e di potenza, come il numero delle coppie di cavalli sotto i cocchi sontuosi de’ sardanapali europei. Stavamo radunandoci pel desinare, quando la nostra attenzione fu chiamata da una carrozza arrivante di carriera per la strada alla quale eravamo diretti. V’era seduto un uffiziale russo, che passando a noi dappresso si alzò, ed agitando il berretto, emise uno stentoreo _viva Italia!_ Era il generale Jwanewsky che avevamo conosciuto a Tiflis. Lasciato Kody, dopo un’ora e mezzo di cammino, valicato un piccolo dosso, passiamo per Saravan, villaggio tartaro, in bella pianura ben coltivata, col favore di un fiumicello che la irriga. Un ufficiale stava attendendoci; e fatto il suo _speech_ di etichetta al commendatore Cerruti, rimontò a cavallo, e s’aggiunse alla nostra comitiva. Uno schizzo d’un villaggio tartaro è presto fatto. Case propriamente dette non se ne vedono; le abitazioni sono tutte sotterranee, al di fuori indicate soltanto da piccoli cumignoli di terra, rassomiglianti più a nidi di termiti che a costruzioni umane, e da piccole porte quadrate alquanto sporgenti, alle quali vedevamo al nostro passaggio affacciarsi per curiosità qualche miserabile figura più o meno antropomorfa, come marmotte alla porta della loro tana. Qualche gruppo di pali, qualche cumulo di fieno, concorrono a dire: qui abitano esseri umani. I Tartari sono buoni agricultori, più industriosi, più duri alla fatica dei Georgiani. I loro villaggi sono nella state quasi deserti, pel gran numero di pastori che portano in quella stagione le loro greggie a’ pascoli montani; e noi abbiamo infatti incontrate soventi volte le miserabili tende di queste tribù seminomadi. A distanza si distinguono subito i Tartari per la predilezione del rosso nel vestito delle donne, le quali portano larghissimi calzoni, una cortissima giubba, la testa ravvolta fra cenci, scoperto il viso, annerito dal sole e dal sudiciume. A differenza de’ Turchi e de’ Persiani, i Tartari scelgono per cimiteri luoghi affatto appartati e deserti, distanti dalle abitazioni. Anzi l’incontro di questi campi desolati, irti di pietre con scolpiti versetti dei Corano, era sulla nostra strada il segnale di qualche villaggio tartaro lì più o meno discosto, che del resto ci sarebbe facilmente sfuggito. La sera di quel giorno 4 giungiamo assai tardi a pernottare a Mouganly. La stazione postale è così sprovista d’ogni supellettile, che l’ingegno inventivo de’ nostri servi supplisce colle più strane trasformazioni de’ più vulgari oggetti, e, per esempio, improvisando de’ candelieri con delle cipolle. Abbiamo due sole camere per 22 persone; la providenza però ci soccorre col mandarci una notte fredda. Il dì seguente assai per tempo io, co’ miei amici naturalisti, precediamo di qualche ora il rimanente della carovana. Mouganly, miserabile talpiera, ove la sola stazione postale s’erge fuori dal terreno, è posta sul ciglio d’una ripa che scende con erto pendio nell’ampia e fertile valle del Chram, suddivisa dal fiume in isole verdeggianti e cespugliose. Percorriamo questa valle parallelamente alla strada, poscia, raggiunti dalle vetture, siamo in breve tratto al così detto _Ponte rosso_ sul Chram; vecchio ponte grigio, ad arco acuto, di stile persiano, mezzo rovinato. La località così bella e pittoresca, gli stormi d’uccelli che s’alzano gridando nell’aria al nostro arrivo, invogliano tutti ad una breve fermata, e dato di piglio ai fucili, facciamo un vero fuoco di fila. Nelle screpolature e nei cavi di quelle vecchie mura annidano gheppj in gran numero (_Falco cenchris_); molti cadono sotto i nostri colpi, ed altri falconidi pur ivi sorpresi in convegno, come _Circus æruginosus_, _Pandion haliaetus_, _Milvus parasiticus_. Il nome di _ponte rosso_ deriva probabilmente dal colore della roccia alla sponda destra del fiume, messa a nudo, in un bellissimo taglio naturale. È un porfido rosso che ha sollevato gli strati di una calcarea simile a quella di Kutais, contenente avanzi organici, fra i quali chiaramente se ne distinguono molti di _Inoceramus Cuvieri_. Una breccia porfirica è interposta fra la roccia eruttiva e la calcarea. Dal _ponte rosso_ passiamo a rivedere il Kur ingrossato dal Chram e da altri minori affluenti, alla stazione di Salahogly, grosso villaggio tartaro sul ciglio della spaziosa valle, nella quale i molti rami in cui si decompone il fiume, circoscrivono isolotti ricoperti di grandi salici, pioppi e platani, e fanno umide, paludose e ricche di folta vegetazione, anche le sponde. Tortore e gazze marine annidano fra quegli alberi in gran numero. Passando fra i cespugli, lungo un canale, sento una successione di ripetuti tonfi, come di corpi pesanti lanciati nell’aqua; e vedo sulle due rive, schierate a centinaja, grosse tartarughe palustri (_Emys caspica_) immobili; ma che ad ogni mio passo di qua e di là successivamente si precipitano nel canale. Non aveva mai trovata precedentemente questa specie, la quale però ascende fin presso Tiflis; e mi diedi a farne la caccia; ma tentati inutilmente mezzi più semplici e più diretti, per la profondità del canale e la prestezza di quelle bestie a tuffarsi, dovetti ricorrere al fucile caricato di grossi pallini. Io l’ho poi frequentemente rinvenuta anche nel resto del viaggio, ma sempre lungo le aque correnti, mentre la commune _Cistudo europæa_ non si trova nel Caucaso che negli stagni, e specialmente negli stagni salati. L’_Emya caspica_ ha avuto dalla natura un altro mezzo di farsi rispettare, nell’insopportabile puzzo, come di aglio fracido, che tramanda dalle parti posteriori. Un altro villaggio tartaro, Hussein Beglar, sulla sponda sinistra di un altro fiumicello, l’Akstafa, doveva accoglierci la notte. Ivi neppur la stazione postale è in muratura; e solo ricovero pei viaggiatori è una grande tenda calmuca, sostenuta da un gran palo nel mezzo, e tutt’attorno confitta circolarmente al suolo. Il pavimento fa da sedile e da tavola da pranzo; e quindi disposti i nostri materassi nella direzione dei raggi del circolo, ci poniamo a giacere colla testa alla periferia ed i piedi rivolti al centro, come ciambelle sul quadrante della fortuna in una fiera campestre. Il seguente matino domando al nostro capitano Romanoff l’indicazione della strada per la quale dovevamo avviarci, nell’intento di precedere le vetture, come aveva fatto il giorno antecedente. Ridendo della mia dabenaggine egli mi chiede alla sua volta se in queste regioni del Caucaso accada mai di trovarsi imbarazzati ad un bivio: mi fa cenno col braccio teso, e mi dice di tirar dritto, che in ogni caso l’ampiezza della strada e le rotaje mi sarebbero state di guida sicura. Moviamo allora, io, Doria e Bosio, nella direzione accennata, e fatto qualche migliajo di passi, ecco lì il bivio che non era tampoco lecito il sognare; forti però de’ così vicini insegnamenti della nostra guida, persistiamo nella strada più larga e più diritta, lasciando in disparte una a manca, più ristretta, e che sembrava terminare ad un casolare vicino. Dopo una buona mezz’ora di cammino, giungiamo ad uno spazioso circo fra alture sterili e deserte, percorso da un torrente asciutto. La strada, sempre chiaramente tracciata anche dai solchi de’ carri, volgendo a sinistra, attraversa il torrente, sale a ridosso di un colle, e si dirige obliquamente contro la corrente del fiume. Certi di essere quivi raggiunti dai compagni, ci disperdiamo, intenti ciascuno alle proprie ricerche. Scorso un tempo che incominciava a sembrarmi alquanto lungo, salgo la vetta di un colle, d’onde lo sguardo si prolungava a sinistra per lo stradale che ci aveva condotti: e da questa parte nessun essere vivente; a destra dominava per lungo tratto il corso dell’Akstafa; e qui invece la vista in lontananza di un ponte sul fiume, mi fa nascere qualche sospetto. Ecco infatti, tendendo da questa parte lo sguardo, moversi qualche cosa là nel fondo, tra gli intervalli delle piante; le nostre carrozze, l’una dopo l’altra, sfilar sul ponte, riascendere per certo tratto la riva destra del fiume, poscia prendere una via obliqua, sparire, ricomparire, e perdersi infine alla vista. Noi avevamo dunque smarrito il cammino; del che non appena accorto, chiamo i compagni; ma, la voce non giungendo ad essi, ricorro all’espediente di tirar il fucile d’allarme. Radunati infine, discutiamo il da farsi, ed il partito è presto preso: accelerare il passo, proseguir la strada, avente la direzione approssimativa del nostro punto obiettivo, ed affidarci alla fortuna. Quella strada ingannatrice terminava ad un villaggio tartaro. Bosio, cui il turco è quasi lingua nativa, ci fa da dragomanno, ed al prezzo di una discreta somma di rubli, ottiene cavalli ed una guida. Passato a guado il fiume, per viottoli tortuosi fra i campi, muoviamo di carriera ad incontrar la via maestra, ed una buona stella ce la fa raggiungere infine nel largo di un bosco, ove le nostre carrozze avevano fatto sosta, ed i nostri compagni stupiti di non averci fino allora incontrati, tendevano lo sguardo per varie direzioni. Le interpellanze, le recriminazioni, le giustificazioni si intrecciano, e l’episodio finisce con qualche risata alle nostre spalle. Qui in questo preciso luogo, ove la nostra carovana si ricompone, i massi di basalto, onde il suolo è ingombro, ed un aspetto nuovo nella vegetazione e negli accidenti del terreno, denotano già un cambiamento nella natura generale del paese. Qui infatti è il limite fra le popolazioni tartare, sparse fra le steppe di un altipiano appena ondulato, lungo i solchi del Kur e de’ suoi affluenti, e le popolazioni armene della sbarra montuosa, che potrebbe adottarsi come limite geografico fra due contrade diverse; l’una al nord, con prevalente carattere europeo, l’altra al sud, con prevalente carattere asiatico. La stazione postale di Uzumdagh od Uzumkala, ove ci arrestiamo alcune ore, è alla sponda destra dell’Akstafa, al piede di monti rivestiti di folti cespugli, al margine di campi ubertosi e boschi palustri con grandi platani, che ricordano alquanto il Rioni. Le lepri vi abondano, e così le starne (_Perdix cinerea_), le quali sono qui al loro estremo confine meridionale. Le solite tortore, le solite gazze marine, incontransi dapertutto, e ne’ boschi della parte montuosa vidi commune, più che altrove, la ghiandaja d’Oriente (_Garrulus melanocephalus_). Alcuni del luogo che ci servono di guida alla caccia, asseriscono trovarsi pure frequenti in questa valle orsi e caprioli. Risalendo la valle nel pomeriggio, passiamo accanto alla fontana monumentale, eretta dagli abitanti, in onore del generale Rosen, antico governatore della Grusia, cui si deve la strada carrozzabile da Tiflis ad Erivan; e sul far della sera giungiamo al grosso villaggio armeno di Caravanserai od Istibulak, e prendiamo possesso di quella stazione postale. Fu buon per noi l’esser stati solleciti, che mezz’ora dopo giunse per opposta direzione, in una grande vettura chiusa, con numerosa scorta di cavalieri e folla di valligiani, il patriarca armeno Matthæus, che dalla sua residenza di Etschmiadzin si recava a compiere solenni cerimonie del suo rito a Tiflis. Soffermatosi davanti alla stazione postale, non vi rimase che il tempo sufficiente per sapere ch’era già occupata da gente di un paese di cui egli forse ignorava perfino il nome, e per accogliere l’invito d’uno dei notabili del villaggio, che lo pregava di accettar ospitalità in sua casa. La matina del 6 giugno un mesto silenzio presiedeva alle disposizioni della partenza: la consueta vivacità non animava più i nostri crocchi; eravamo tutti profondamente commossi dal commiato che infine prendeva da noi il barone Finot. Lo abbracciammo come si abbraccia un amico; e cercando illusione al nostro dolore, con un affettuoso _a rivederci_, ci allontanammo affrettatamente. Poco oltre il villaggio, la valle prende sempre più un carattere alpestre: l’Akstafa spumeggia fra grossi macigni e il verde de’ rovi e degli ontani, o di qualche lembo di prato. Fatte alcune _verste_, la strada scorre al piede di grandi scogli di una calcarea bianca, poscia rasenta una gigantesca parete, formata da masse di porfido euritico, divise pittorescamente in prismi o colonne verticali, sovraposte agli strati orizzontali di una marna arenacea indurita. Dopo una breve sosta a Ciaruslam, arriviamo a Dilidjan, che gli ultimi raggi del sole indoravano ancora le vette de’ monti. Dilidjan è una grossa borgata, alla congiunzione di due convalli e di due strade: una alla nostra sinistra è la strada di Erivan; l’altra a destra è quella di Alessandropoli; e da questa parte pure è la valle principale, donde l’Akstafa trae la sua origine. Molte botteghe ben fornite, allineate a guisa di bazar, una bella chiesa su di un’altura, ed alcuni cospicui edifizj, concorrono colla posizione all’importanza di questa borgata. Due grandi fabricati chiusi, deserti, ma ben conservati, vi furono costrutti dai Russi ad uso di magazzeni nel 1854, all’epoca dell’assedio di Kars. L’altezza de’ circostanti monti, ancora impolverati di neve alla sommità, i bei pascoli sul loro pendìo, le macchie selvose fra scogli qua e là dirupati, i rivoli cristallini che al fondo gorgogliano fra le erbe rigogliose, formavano tale un quadro da trasportarci col pensiero nel cuore della Svizzera, in una delle più belle sue vallate. L’illusione è cresciuta dallo stile delle case di legno, allineate sulla strada di Alessandropoli. È questo il quartiere abitato dai Malacani, una delle tante sette separatesi dalla chiesa ortodossa, all’epoca del fermento religioso, sotto la tirannia di Pietro il Grande. Il _knout_ e la Siberia non avendo produtto altro effetto fuori quello di esacerbare il fanatismo de’ dissidenti, la grande Caterina si volse a più miti pensieri, e raccolti i Malacani dispersi nelle varie provincie dell’immenso impero, tutti li relegò nelle steppe della piccola Russia, presso la _Maloschna_ (fiume di latte), ove costruirono villaggi, fertilizzarono terreni, divennero ricchi possessori di armenti. Da queste primitive colonie furono più tardi smembrate le colonie filiali, quando il torrente moscovita si rovesciò oltre il Caucaso. Ma la stessa setta de’ Malacani è lungi dall’essere unita e compatta; le dissidenze, nel suo proprio seno, andarono quasi al completo abandono del cristianesimo, ed al ritorno al giudaismo; e queste secondarie sette di Malacani, sono nella Russia transcaucasica ripartite in diverse sedi. Allevano molto bestiame, e specialmente buoi e bufali; ma non preparano latticinj, e tutto il latte consumano nella famiglia, o lasciano alla moltiplicazione degli armenti. Posseggono terreni, loro concessi dal governo; possono fra di loro venderli, permutarli, ma non cederli a persona estranea alla loro setta, nè acquistare terre di altra provenienza. I Malacani di Dilidjan sono onesti, laboriosi, amanti l’ordine, la nettezza della casa, credenti a loro modo, ma fervorosamente credenti. Si respira fra questa gente una cert’aria di rustica agiatezza, di quiete, di rassegnazione contenta, da movere il cuore più all’invidia che alla pietà. Alla prima aurora tutto questo incantevole paesaggio alpestre era animato a festa primaverile. Non mi sovvengo d’aver mai veduto un più lieto svolazzare di augeletti, da aver mai udito un più vario intreccio di gorgheggi. Il denso fogliame presso il villaggio risuonava del melodioso canto del capinero; sulla china de’ monti l’ortolano filava le sue melanconiche note; dagli sparsi cespugli s’alzava per breve tratto nell’aria e rimpiombava cinguettando la sterpazuola, mentre dal fondo de’ burroni rispondeva l’acuto sibilo della cutrettola, e qua e là sui pianerottoli, netta e staccata la nacchera gutturale della quaglia. Poi il cardellino, il verdone, la passera, la cincia codona, la cingallegra, lo storno roseo in branchi, in stormi, movevano irrequieti per le macchie, pei campi. La passera è anche qui la commune _Pyrgita domestica_, mentre in Italia la specie sorella della _Pyrgita cisalpina_, non sale mai a tanta altezza ne’ monti. Una bella cicogna nera in piena livrea mi passò a mezzo tiro di fucile sulle case del villaggio, e roteante nell’aria, vidi ancora una coppia della commune vaccaja (_Neophron percnopterus_). Già s’apprestavano le vetture, ed io non sapeva staccarmi da questo amenissimo luogo, creato dalla natura per essere asilo di pace e di libertà, quando un fragor di catene venne a rompere l’incanto: era un picchetto di soldati che scortava altri due soldati prigionieri, tradotti nella fortezza di Erivan. Ecco le miserie umane! Lo sguardo pieno di stupore di quelli infelici pareva supplicasse quella pietà che l’inatteso incontro faceva traboccare dal cuore. Di che fossero colpevoli, non sapemmo nè allora nè poi. Moviamo ancora assai per tempo a valicare finalmente, pel giogo dell’Eschek Maidan, la catena del Bambak, che separa la Georgia propriamente detta dall’Armenia russa; il bacino del Kur dal bacino dell’Arasse; la natura europea dalla natura asiatica. Dopo breve tratto, un sentimento di compassione pe’ nostri cavalli, l’aspra bellezza del sito, l’erto cammino tutto lungo la balza spumeggiante del torrente di Dilidjan, ci determinano a fare a piedi la salita del colle. Le massime alture che fanno corona al passo sono di nudo scoglio calcareo, e non formano, come nelle Alpi, pittoresche guglie e creste frastagliate, ma cocuzzoli smussati. La roccia fra la quale è aperta la strada è ancora lo stesso porfido delle stazioni precedenti, in qualche luogo penetrato da grossi filoni di serpentina; ed anche qui il carattere diverso della vegetazione segna l’ordine delle diverse roccie. Ove la china del terreno lo permetta, sui dossi di porfido, fra l’erba rigogliosa ed il minuto cespugliame s’ergono quercie e pini silvestri; ma tra il verde spiccano distinte le aride liste della serpentina; poscia la vegetazione arborea cessa improvvisamente per ceder il terreno alla fitta erbetta dei pascoli alpini. Giungiamo infine alla sommità del colle, ove un prato aquitrinoso manda le sue filtrazioni pei due opposti versanti. Di là scendiamo ad un gruppo di casolari che precede di pochi passi il villaggio di Simonowka; e siamo ancora fra i Malacani. I più solleciti entrano nella più vicina abitazione, ove trovano tè e latte in copia, a ristoro anche di quelli che alla spicciolata vanno giungendo. Ho detto che la cresta del Bambak separa due nature. Non saprei in quale altra catena, se non nell’Elburz, sia così evidente il contrasto fra i due versanti, e, partendo da questi, fra i due paesi ne’ quali vanno perdendosi gli opposti contraforti. La regione nella quale andiamo discendendo, spetta geograficamente alla Persia, come vi ha politicamente appartenuto, e si distingue subito per la mancanza completa della vegetazione arborea spontanea. Da questa parte dell’Eschek Maidan non spunta più un solo arbusto. Dopo breve sosta a Simonowka, per radunarci e riprender le vetture, ad una svolta del cammino si spiega al nostro sguardo l’ampio specchio del lago Goktscha, ed in breve ne tocchiamo la sponda. Lasciato a sinistra il villaggio tartaro di Tchubukly, si costeggia il lago fino ad Helenowko. I Cosacchi di un posto isolato, dominante la strada, schierati al nostro passaggio, ci rendono il saluto militare. Poco inanzi il villaggio fissato per la nostra diurna fermata, il nostro sguardo è attratto dall’isola Sevang, pittoresco scoglio ad una _versta_ e mezza dalla sponda, sul quale, fra massi di trachite, sorgono non meno di quattro conventi armeni, oggetti ancora di singolare venerazione nel paese. La tradizione attribuisce la fondazione del più antico a San Giorgio, il quale poichè vide compita l’opera sua, ebbe ad esclamare _Sa-e-wan_; vale a dire: _questo è un convento!_ d’onde venne il nome di Sevang, dato in origine al chiostro, da questo esteso all’isola, e dall’isola all’intiero lago. Il lago Goktscha, o lago azzurro, o lago Sevang, occupa uno dei più elevati bacini idrografici del mondo antico, la sua posizione essendo a 5500 piedi sul livello del mare. La lunghezza misura 55 _verste_, e dalle 10 alle 15 in larghezza; la sua profondità, a mia cognizione, non è stata peranco scandagliata: però non dev’essere molto grande, dietro la circostanza che d’inverno tutto il lago è rappreso dal gelo. Più di trenta piccoli rivi, scorrenti per le conche dei monti, che gli fanno corona particolarmente al suo lato nord-est, lo alimentano di pure aque, le quali, singolar carattere di questo lago, non defluiscono da alcun emissario naturale. Il livello del lago è quindi soggetto a grandi variazioni, i cui estremi corrispondono alla stagione della fusione delle nevi in primavera, ed al colmo della siccità estiva. La sua aqua, limpida come il più puro cristallo, è tuttavia affatto dolce, perchè le vene montane che vi affluiscono, scorrono per troppo breve tratto in letti vulcanici, eccessivamente poveri di materie solubili. Un piccolo fiume, il Sanga, avuto le sue origini dalla catena del Bambak, passando, ne’ suoi serpeggiamenti, assai vicino alla sponda occidentale del lago, ne riceve qualche misero tributo, e nel suo decorso abbevera la città di Erivan, prima di versarsi nell’Arasse. Anche questo fiume va naturalmente soggetto a grandi magre estive, alle quali provide lo Schah della Persia, Abbas il grande, facendo scavare un largo canale che mette lago e fiume in diretta communicazione. L’esempio fu seguito in epoca recente dal generale Koljubakine, governatore di Erivan, per opera del quale un altro canale fu derivato dal lago, due _verste_ al disotto di Helenowko, ad irrigare l’alto piano dell’Agmangan. Tutto questo è un perfetto nulla in confronto dei tributi che il lago Goktscha potrebbe dare a rendere fertili le sterilissime valli e le steppe della sottoposta contrada. Il lago è circondato da monti, in massima parte vulcanici: i più elevati sono appunto quelli dianzi accennati, del suo lato nord-est; la lava, la trachite, il basalte, sono le roccie predominanti. È però affatto inesatto il considerare tutto il grande bacino del Goktscha come un immenso cratere. Con tutta probabilità questo bacino è il resto di una valle limitata da due contraforti del sistema del Bambak, e chiusa più tardi al sud ed all’ovest da nuovi sollevamenti vulcanici, ond’ebbe origine quell’immenso gruppo di coni che impartì un così particolare carattere all’Armenia russa. Le pareti, le sponde, di questo bacino sono affatto nude, od appena rivestite di magri pascoli: solo in qualche circoscritta depressione del terreno un po’ di buona terra vegetale permette qualche coltura. A questo stato della vegetazione contribuisce l’elevatezza del luogo ed il lungo intenso freddo che di conseguenza vi regna, e del quale noi trovammo ancora un residuo molto sensibile il 7 giugno. Helenowko è ancora un villaggio di Malacani, ma di Malacani dissidenti, i quali, retrocedendo verso la religione mosaica, santificano il sabato, e non ammettono il battesimo. Mentre si ammaniva la nostra colazione alla stazione postale, ci separammo in due partite di caccia: l’una ad un vicino stagno che avevamo visto in passando, popolato da un’immensa quantità di uccelli aquatici; l’altra sul lago, verso un isolotto e macchie di canneti di prospetto al villaggio, ove pure vedevansi svolazzare stormi di gabbiani, di rondini di mare, di anitre. La caccia fu profittevole, e le specie prese, o distintamente vedute, sono le seguenti: _Larus argentatus, fuscus, ridibundus: Sterna hirundo: Casarca rutila: Oidemia fusca_, quest’ultima sovratutto abondantissima: _Pelecanus_, che alle dimensioni suppongo esser ii _crispus: Fulica atra: Ciconia nigra: Totanus calidris: Hialicula minor: Pandion haliaethos: Sturnus vulgaris: Hirundo rustica: Pyrgita domestica: Calamoherpe arundinacea: Motacilla flava melanocephala_[16]. Dei rettili una sola lucerta presa sul monte presso Simonowka, distinta per caratteri affatto particolari; degli anfibj una sola specie di rana frequente nello stagno presso il lago, ed è la _Rana oxyrhyncha_ (_R. temporaria_ L. Eichw.). De’ pesci del lago due sole specie mi pervennero tra le mani: quelle che i pescatori del luogo portarono in copia alla nostra cucina: l’una è una trota che non si distingue da quella antecedentemente veduta da me a Tiflis e posteriormente in Persia e sul Caspio, munita di due ordini molto distinti di denti vomerini, col muso breve arrotondato: l’altra è il _Cyprinus capoeta_ di Güldenstaedt, tipo del genere _Scaphiodon_ di Heckel, o meglio _Capoeta_ di Valenciennes, che nell’Asia occidentale rappresenta i _Chondrostoma_ d’Europa[17]. Tutti gli esemplari esaminati di questa specie portavano infissi sul tegumento, in varie parti del corpo, un crostaceo parasito del genere _Tracheliastes_, assai probabilmente nuova specie. Degli animali inferiori menzionerò soltanto alcune interessanti specie di Irudinee; due _Hæmopis_ che appena si distinguono pei colori dall’_Hæm. vorax_, e due certamente nuove e chiare specie di _Clepsine_[18]. Lasciammo Helenowko verso l’imbrunire, e deviando dalla sponda del lago, ed abbandonando a sinistra un imponente gruppo di coni vulcanici, percorrendo una campagna desolata, tutta ingombra di pezzi di lava e di trachite, si giunse, in ora tarda, a pernottare ad Achia. — Il dì seguente (18 giugno) breve sosta a Suchoi-Fantan, povero villaggio, mancante perfino di aqua, la quale vi è portata su carri dalla distanza di 6 verste. La stazione postale è costrutta di trachite. Moviamo al più presto anche da questa stazione, nell’intento di giungere in buon’ora ad Erivan; la via è tracciata nel deserto appena qua e là chiazzato da qualche campicello, ed è siffattamente ingombra da frantumi di lava e di ossidiana, da rendere assai malagevole il procedere delle carrozze, fra scosse e sussulti che ci fanno ricordare il supplizio della _telega_, e mettono a prova la robustezza dei nostri veicoli. Fatto un pajo di verste da Suchoi-Fantan, un grido percorre da un capo all’altro la carovana: l’Ararat, l’Ararat! e spuntava infatti al nostro prospetto, dall’estremo orizzonte, la sommità nevosa della classica montagna che nella cosmologia mosaica è la seconda culla del genere umano; poi tutto a poco a poco si disegnava nettamente sul piedestallo di una catena montuosa questo cono gigante e solitario, col suo rampollo a lato. Trascorsa ancora qualche ora, un’altra voce richiama il nostro sguardo nella stessa direzione: ecco Erivan; il nostro vetturino lo indica a dito, dice che è lì presso, eppur non ci riesce vederlo. Effettivamente la città è in un bacino, e solo dall’orlo sporgono le sommità degli alberi de’ suoi giardini, di qualche torre, di qualche minaretto; nè si dispiega allo sguardo del viaggiatore che d’improviso, nello stesso momento in cui vi si giunge, per una svolta della strada che discende erta ed orribilmente sassosa. Alle cinque di sera, accolti anche qui da ufficiali che ci condussero al casino, ov’era predisposta la nostra stanza, arrivammo nell’attual capitale dell’Armenia russa. VII. Abbas Mirza, Jermoloff e Paskevitsch. — Erivan e la sua cittadella. — L’Ararat e le sue dipendenze. — Alcuni tratti della fauna del paese. — Abbozzo orografico degli altipiani dell’Armenia russa. — Nachidjevan. — Djulfa. Alle condizioni naturali, al carattere asiatico, e propriamente persiano, della regione al sud dell’Eschek Maidan, risponde la sua storia politica. La Persia stringeva a mezzodì ed a levante l’antico regno della Georgia, oggetto per essa di tanta cupidigia, quando il potente dominio della Russia, sostituito al debole governo dei Bagrationi, venne ad invertire la proporzione della forza delle due parti. Dopo varj anni di continue lutte, la Persia dovette infine, nel 1813, cedere alla Russia il Daghestan, il Schirvan, il Karabagh, il Chanato di Baku, e riconoscere come linea di confine il corso inferiore del Kur e dell’Arasse, conservando soltanto alla sinistra di questo fiume i due Chanati di Erivan e di Nachidjevan. Alla piena esecuzione del trattato non mancava più che la definitiva rettificazione de’ confini, ma la Russia, tutta assorta allora nell’estrema lutta contro l’impero Napoleonico, lasciava accumularsi dalla parte del governo persiano la mala voglia di sanzionare con un ultimo atto le perdite subite. Così passarono anni fra insistenze da una parte, tergiversazioni diplomatiche dall’altra, e rappresaglie: la Persia avanzandosi alquanto ne’ paesi ceduti, la Russia facendo altretanto nei paesi che non le spettavano. Abbas Mirza, erede al trono della Persia, governatore e pressocchè sovrano assoluto dell’Aserbedjan, principe intraprendente e geloso della grandezza della sua casa, aveva profittato di questo tempo per ricomporre l’armata e preparare una riscossa. Coll’opera di ufficiali inglesi e francesi accrebbe i corpi regolari non solo di numero, ma anche di intrinseca forza, introducendovi la disciplina europea; chiamò alle armi un forte contingente di cavalleria; istituì in Tauris una fonderia di cannoni; tutto operando, per spingere il paese alla guerra. Alla corte di Teheran il memore Feth Alì stava oscillando fra la prudenza e l’ardire, fra la paura del suo terribile avversario, e i continui eccitamenti del figlio. Quando la notizia della congiura militare scoppiata sul cader del 1825 in Pietroburgo, e della sollevazione de’ Tchetschenzi nel Caucaso, fecero credere all’ardente Abbas Mirza esser giunto il momento di romper gli indugi. Il principe Menschikoff, inviato ambasciatore di pace dal novello autocrate al sovrano della Persia, fatto accorto dagli immensi preparativi di guerra visti in Tauris, e dall’accoglienza timidamente ostile avuta dallo Schah al campo di Sultanieh, ripassò l’Arasse. Giunto ad Erivan fu trattenuto dal Sardar, e, poscia lasciato libero, sottraendosi per una studiata via obliqua agli assassini che il Sardar stesso aveva messi in agguato sul diretto cammino, riescì a portare a Tiflis la notizia di quanto aveva udito e veduto. Alla metà del luglio di quell’anno 1826 Abbas Mirza irruppe improvisamente nel Karabagh, alla testa di 40,000 uomini, sollevando i Tartari sul suo passaggio, mentre altri corpi marciavano lungo il Caspio, e gli antichi Chan del Schirvan e di Baku penetrati nelle già provincie persiane vi eccitavano la insurrezione, ed il principe Alessandro di Georgia tentava fare altrettanto nella Cachezia: tutto questo prima che Jermoloff, occupato a sottomettere i Tchetschenzi, potesse adunare le sue forze, ed opporle al torrente invasore. Abbas Mirza inviluppò subito colla sua armata la fortezza di Schuschka, munita di piccola guarnigione, e di soli 4 cannoni, de’ quali due affatto inservibili. Dopo varj tentativi per indurla alla capitolazione, il 30 luglio i Persiani ne tentarono l’assalto, ma poi ristettero alla minaccia del comandante, di uccidere i notabili tartari che aveva nelle sue mani. Infine la fortezza, allo stremo de’ viveri e di munizioni, era sul punto di arrendersi, quando d’improviso Abbas Mirza dovette levar il campo per portarsi al soccorso del Sardar battuto dai Russi a Schamchor. L’eroica resistenza del colonnello Reutt in Schuschka, e l’inazione di Abbas Mirza davanti ad una fortezza che avrebbe potuto senza danno lasciarsi alle spalle, decisero le sorti della guerra. Ne’ quarantasette giorni di durata di quell’inutile assedio Jermoloff ebbe tempo a concentrar le sue forze, a combinare i suoi piani; e così avvenne che le truppe russe, molto inferiori per numero alle persiane, rimanessero in ogni scontro vincitrici. Pasckevitsch sconfisse l’armata di Abbas Mirza ad Elisabetopoli, mentre Davidoff sulla destra moveva vittoriosa sopra Erivan, Krabbe sulla sinistra scacciava i Persiani dal Schirvan e da Baku, e Jermoloff nella Cachezia domava e puniva i Lesghi sollevati alle spalle dell’armata del Caucaso. La campagna era così felicemente inoltrata, quando un ordine dell’imperatore Nicolò tolse il bastone del comando dalle mani di Jermoloff, per confidarlo a quelle di Pasckevitsch, il quale rivolse allora tutte le sue disposizioni strategiche contro la fortezza di Erivan, che i Persiani nelle loro poesie popolari decantavano come inespugnabile. Dopo una serie di gloriosi fatti d’armi, il primo ottobre, fu aperta finalmente la breccia dal lato del fiume; ed il reggimento unito delle guardie imperiali, che a lavar la macchia della ribellione aveva avuta inflitta la nobile punizione di montar all’assalto, irrompeva animoso sull’erto cammino, quando il presidio della fortezza, composto di 5,000 uomini, col suo comandante Hussein Chan, e sette altri dei più notabili Chan della Persia si arrese a discrezione. Immense provigioni di armi, di munizioni e di viveri, ed il tesoro del Sardar, compirono il bottino di questa giornata. Aveva per l’appunto parte a questa fazione, come appartenente al reggimento delle guardie, il nostro capitano Romanoff, che ci narrò sul luogo i più importanti particolari dall’assedio. Colla presa di Erivan la campagna era propriamente finita; non restava più che raccogliere i frutti della vittoria. Abbas Mirza si era ripiegato in Choi; tutto il paese sgombravasi davanti alla truppe russe che marciavano su Tauris. I Serbasi[19], da principio atteggiati a difesa di questa città, si dispersero al primo apparire de’ Russi, ed il general Paskevitsch vi fece il suo ingresso trionfale il 19 ottobre. Stringente era pel governo persiano la necessità di conchiudere la pace; e già tutto era perfettamente inteso ed acconsentito dalle due parti, quando Feth Alì Schah, non ancora penetrato della dura condizione de’ vinti, sorse a richiedere come atto previo all’esecuzione, la ritirata de’ Russi al di là dell’Arasse. L’effetto immediato di questa strana pretesa fu l’ulteriore progresso dell’armata vincitrice. Infine venne conchiuso il 10 febrajo il trattato di Turkmantschai che cedeva definitivamente alla Russia i due Chanati di Erivan e Nachidjevan, sgombrava affatto il paese di Talysch, e fissava in 18 millioni di rubli la contribuzione di guerra da pagarsi dallo Schah, restando la ricca provincia dell’Aserbedjan occupata dalle truppe russe fino alla completa esecuzione dei singoli capitoli. Il riabilitato reggimento delle guardie ebbe l’onore di scortare fino a Pietroburgo i convogli dei belli e lucicanti _tomani_ spremuti allo Schah, ed il generale Paskewitsch aggiunse al suo nome il predicato di Erivanski. Questo abozzo istorico dà la ragione del particolar aspetto anche delle opere umane in questo paese che ora forma l’Armenia russa. La città di Erivan ha conservato tutto il suo primitivo carattere persiano, col quale fanno contrasto le nuove costruzioni russe. Bella, spaziosa, imponente è la piazza nella quale, dopo breve tratto, sbocca la via di Tiflis; a destra un lungo porticato di costruzione moderna, popolato da mercanti armeni, e dietro questo la vecchia città su dolce pendìo, colle sue case piccole, mozzate, le sue vie ristrette ed ingombre di macerie; a sinistra in bel ordine i grandiosi edificj del governo, e sulla linea di questi il casino ov’erano disposti i nostri alloggiamenti. Il rimanente della piazza oblunga, rettangolare, serve da mercato, ed ivi sulla destra, terminata la linea dei portici, lo sbocco del bazar, alla sinistra un filare d’alberi contornanti il publico giardino, ed in seguito l’accesso alla grande cittadella. Anche in Erivan, come in tutte le città dell’Oriente, sono bagni, ed uno abbastanza bello e grandioso è il bagno armeno, del quale tutti profittammo. Il bazar grande, solidamente costrutto in muratura ed a vôlta, di stile persiano, è ben fornito di mercanzia d’ogni genere. Erivan conta ora da circa 20,000 abitanti, fra Armeni e Tartari, in proporzioni press’a poco eguali. Sotto il rozzo despotismo de’ Sardar, gli Armeni duramente governati, formavano la parte minore della popolazione; ma dopo la vittoria de’ Russi vi refluirono dall’Armenia turca e dalla Georgia, ove centinaja di famiglie aveva dovuto cercar rifugio. Venne allora il turno de’ Tartari, i quali, mossi da solo fanatismo religioso, seguirono in massa la ritirata delle truppe persiane, finchè l’emigrazione non venne a cessare, in parte per forza, in parte per la persuazione che dispotismo per dispotismo il nuovo era di molto preferibile all’antico. Il dì seguente al nostro arrivo, dopo il pranzo offertoci dal governatore, ci portammo a visitare la tanto rinomata cittadella. È un immenso spazio quadrato, circoscritto per tre lati da un fossato asciutto, e dietro questo da un muro merlato costrutto di fango, quindi da un altro fosso, dal fondo per gran tratto erboso per un rigagnolo che nel mezzo vi scorre. La piazza centrale del recinto è circondata dalle costruzioni russe, come la caserma, i magazzini, la gran guardia, la chiesa greca; mentre gli edifizj persiani, sono raccolti verso il lato di mezzogiorno, ove le loro mura s’ergono sulla scogliera basaltica che discende, difesa naturale, in ripide balze al Sanga. Questi monumenti persiani ci hanno fatto concepire delle opere d’arti che avremmo trovati nel seguito del nostro viaggio in città più cospicue un’alta idea che la realtà poi ha delusa. Nessuno de’ _talar_ da noi visti nelle stesse residenze dello Schah vale la gran sala del Sardar di Erivan. La vôlta suddivisa da una rete di spigoli e pignoni e tutta incrostata di specchi; le pareti dipinte da un artista che è stato certamente il Rafaello della Persia; le due grandi finestrate opposte, con vetrini colorati fra rabeschi finissimi, e per una di questo la vista del burrone del Sanga, del giardino oltre il fiume, e nel fondo dell’Ararat in tutta la sua maestà, hanno prodotta in noi una profonda incancellabile impressione. La bella moschea, perfettamente conservata, è sontuosa per mosaici di mattoni smaltati, e, come tutte quelle della Persia, si distingue dalle moschee turche per l’ampio frontone, il vaso largamente aperto nel mezzo di esso, e la mancanza de’ minaretti. Lì presso è l’_harem_ del Sardar ora convertito in ospedal militare, che trovammo perfettamente governato. Accadeva una strana avventura, mentre noi sedevamo alla mensa del governatore. Il professore Lessona, il quale con altri pochi non v’era intervenuto, passeggiava in compagnia di Clemente lungo il margine del fosso esterno della cittadella, inseguendo gli agilissimi scinchi _(Plestiodon Aldovrandi)_ che qui vedemmo per la prima volta, sollevando pietre, e facendo passare da quei nascondigli diurni nelle sue boccette quanti poteva trovare di insetti, di millepiedi, di scorpioni, di que’ falangi _(Solpuga)_ che sono lo spavento anticipato de’ viaggiatori europei in Oriente. Coll’impassibilità, colla quiete, ma con quell’ardore interno che i profani deridono con sì imperdonabile leggerezza, attendeva chino a terra al suo paziente lavoro, quando un’ombra, in quella deserta e nuda spiaggia, guida d’un tratto il suo sguardo ad un paio di stivali, e su per questi alla tunica, alla barba, al berretto bianco d’un sergente russo, non meno di lui fisso e curioso. — Dopo breve, reciproco interrogarsi degli occhi prese la parola il soldato, una parola che naturalmente morì nell’aria. Per farsi meglio capire il sergente si ritrasse, e ritornò pochi momenti dopo col rinforzo di un altro del suo grado, ed un po’ con gesti, un po’ colla voce riescì a far capire ai due indiscreti cercatori che dovevano render conto delle loro azioni in fortezza, e dolcemente li spinse colle mani. La mano di Lessona corre istintivamente nella tasca al fido _revolver_, ma corse nel medesimo tempo lo sguardo alle baionette luccicanti lì presso, ed il pensiero ai cannoni poco discosti. Convenne cedere e fare qualche passo fino al corpo di guardia; ma lì nuova pausa ostinata, colla schiena al muro, finchè Lessona riescì ad ottenere che rimanesse il solo Clemente in ostaggio, ed egli se ne andasse in cerca d’ajuto, con un _droschki_ che passava di là opportunamente. In un quarto d’ora la cosa fu chiarita, ed il sergente persuaso che i due stranieri non erano topografi esploratori. Naturalmente questa avventura fu argomento nei nostri crocchi alle più lepide fantasticherie, e compiangemmo il nostro amico per la mancata forte emozione di almeno un’ora in una prigione russa. Un caso analogo od inverso, come si vuole, ci toccò il dì seguente. Mentre i nostri compagni eransi recati a visitare Etschmiadzin, la Roma Armena, io e Lessona, rimasti in Erivan, ci proponemmo un escursione zoologica ne’ fossi della cittadella, pel che io aveva ottenuta una previa esuberante licenza del governatore. Vi andammo adunque, sicuri di trovare passaggio libero e sgombro; ma giunti alla porta la sentinella ci attraversa il passo; altri soldati accorrono; e lì spiegazioni chieste e date dalle due parti nella propria lingua. Dal primo corpo di guardia siamo accompagnati ad un secondo; e lì pure gesti e parole inutili, ed una nuova scorta che ci accompagna alla gran guardia, ove è subito chiamato l’ufficiale di picchetto. Gli rivolgo la parola prima in francese, poscia in tedesco, e l’ufficiale era uno de’ pochissimi in Russia che non conoscano o l’una o l’altra od entrambi queste lingue; però egli stesso chiamò un soldato, il quale parlando il tedesco, ci fece da dragomanno. Esposto il nostro desiderio, l’ufficiale andò a prendere gli ordini dal comandante, e pochi momenti dopo tornò coll’aria tutta complimentosa, e, sempre colla scorta del nostro interprete, ci invitò a seguirlo; e nel tenergli dappresso per varj andirivieni, la nostra conversazione fu quella che in brevi parole qui riassumo. — Osservate, dice l’ufficiale; questa è la superba moschea persiana. — Grazie tante, l’abbiamo già vista. — Bene; entriamo nella magnifica sala del Sardar. — Vi fummo già jeri, nuove grazie. — Venite a vedere la finestra d’onde fece il salto la vergine armena. — La conosciamo, e sappiamo tutta la storia[20]. — Guardate il selciato di questo cortile: è tutto di granate persiane. — Va bene, ma non c’importa. — Ah! ho capito, replica l’ufficiale; vi piacerà visitare l’arsenale; è poca cosa ma ce n’è anche troppo per i Persiani. — Grazie mille, non fa per noi. Infine durammo molta fatica a fargli capire che non eravamo militari, che non domandavamo altro che di esser liberi a cercar serpenti, lucerte e scorpioni fra le ortiche e le macerie del fosso interno. — Quando gli fu ben chiara la nostra intenzione, l’ufficiale che non voleva farci grazia d’un affusto, d’una cartuccia, lasciando trasparire dalla fisonomia il giudizio ben poco lusinghiero che in quel momento faceva della nostra dappocaggine, rivolse bruscamente il passo, lasciandoci per altro sotto la custodia del soldato. Questi era un polacco arruolato per castigo di atti sediziosi verso il governo imperiale; e narrandoci come fosse in Erivan, ed aiutandoci a rovesciar massi e prendere i rettili ancora intorpiditi dalla brezza matutina, ci fece fare il giro del fossato, e ci aprì infine una porticina sulla sponda dirupata del Sanga. Raccogliemmo in quella escursione alcune sanguisughe, lombrici, insetti, crostacei, e varj belli esemplari di _Typhlops vermicularis, Tyria Dahlii, Plestiodon Aldovrandi, Stellio caucasicus, Emys caspica_. Il Sanga spumeggia fra i macigni del suo letto sassoso in un profondo solco a mezzo giorno della città, e nella densa e rigogliosa vegetazione erbacea, nelle macchie di pioppi, di salici, di ontani che ne seguono il corso, mantiene i caratteri della sua origine; è come una radice del sistema del Caucaso, che si perde nelle steppe dell’Armenia. Un vecchio ponte di fattura persiana, come lo indica l’acutezza del suo arco, conduce alla riva opposta, all’ampio ombroso giardino del Sardar, nel cui mezzo sorge un elegante _kiosco_ vagamente dipinto. Due piccoli canali, pochi passi al di sopra del ponte derivati con molta arte dai Persiani, seguono la corrente, poi, aprendosi la valle, deviano per distribuirsi in benefiche vene fra i campi. Un _Gammarus_, una piccola Paludina (_Bithynia_), una _Neritina_, un _Ancylus_, abondano fra i sassi e le conferve nei ristagni lungo la riva; ed abonda pure nelle fessure del terreno, sotto le pietre, anche all’asciutto ne’ luoghi più freschi ed ombrosi una _Telphusa_ (_Cancer iberus_. Pall.), che non si distingue affatto dalla _T. fluviatilis_. Trovammo sempre questa specie communissima anche lungo i fiumicelli della Persia. La fauna ornitologica delle adiacenze di Erivan non mi ha presentato alcun che di particolare; solo ho notato come assai più abondanti qui che nel paese precedentemente percorso l’_Alauda cristata_, il _Pastor roseus_ e l’_Upupa epops_. Quest’ultima specie, così diffusa in Oriente, ha una vera predilezione per la città di Erivan, ove trovasi dapertutto in quantità straordinaria, sugli spalti della cittadella, nelle piazze, nelle contrade; mentre in Europa è tra gli uccelli più cauti e solitari. Frequentissima è sui colli sassosi a pochi passi dalla città una pernice rossa; la _Perdix (Caccabis) chucar_, la medesima che per l’Elburz si estende fino alle Indie. Non ho che poche cose a dire intorno ai mammiferi. Presso il farmacista di Erivan (il quale è un tedesco, come al solito, in tutta la Russia), ho visto alcune pelli di _Mustela sarmatica_, di _Capra ægagrus_, di _Ovis Gmelini_; e fui assicurato esser queste due specie tuttora assai frequenti sull’Ararat. Da Erivan in avanti per tutta la Persia è communissimo un piccolo Criceto _(Cricetus phœus)_, il quale s’introduce nelle case, ove pare tenga luogo del sorcio commune, che io non ho mai potuto vedere in tutto il viaggio, per quanto cercassi constatarne l’esistenza. Due individui di questa specie di Criceto furono appunto presi nel nostro stesso alloggio in trappole da sorci. La natura del terreno su cui la città di Erivan è costrutta vedesi chiaramente ne’ tagli lungo il Sanga. È sempre un terreno vulcanico, ma in cui si distinguono le traccie di varie eruzioni successive. Così, per esempio, alla destra del fiume, in prossimità del ponte, sono messe a nudo tre distese di roccie vulcaniche molto nette. L’inferiore è una roccia basaltica compatta, cinericcia, in grossi banchi orizzontali; poi su questa riposano le masse prismatiche verticali di un altro grosso banco di basalto, il quale è un lembo della gran colonnata che a sinistra forma il rialto coronato dalla cittadella; infine questo lembo basaltico è ricoperto alla sua volta da una vera lava ancora basaltica, scoriacea e bollosa. Dal Sanga al piede dell’Ararat corrono circa 30 verste in un terreno affatto piano, ed in gran parte coltivato. Come altrove ho detto, questa classica montagna, che spinge il suo cocuzzolo all’altezza di 13,518 piedi, porta sulla sua base un altro cono filiale, che è il piccolo Ararat. Secondo la leggenda armena, quell’eccelsa vetta non è accessibile da piede mortale: e S. Giacomo volendo ostinatamente vincere il divieto, per raccogliere là su qualche frammento dell’arca noetica, allo svegliarsi da ogni stazione notturna, trovavasi riportato al punto dove era partito. Con tutto questo è indubitabile che Parrot pel primo, e dopo di lui Autonomoff vi salirono: ma nata contesa sulla realtà del successo di Parrot, non fu a questi possibile riportare la testimonianza delle stesse sue guide, le quali, piuttosto che portar offesa alla sacra leggenda, negarono il fatto; ed asserirono che, per non affrontare il castigo di Dio, aveano fatto credere a Parrot stesso di essere alla cima del monte, quando in realtà ne erano ancora lontani. Non fu più creduta, anzi lo è meno l’ascensione fatta da due Inglesi nel 1861. Infine è partito preso, ed a nessuna condizione gli armeni si lascerebbero indurre a stampare la parola _Ararat_ sul bastone alpino del più forte e coscienzioso viaggiatore. L’Ararat domina tutta l’Armenia, inalzandosi nel centro d’azione delle forze sotterranee che l’hanno sommossa; forze non per anco del tutto spente. Non si hanno per verità ragguagli sicuri di vere eruzioni di là partite in tempi storici; ma i terribili crolli che hanno desolato l’Armenia in varie epoche, ed anche in epoche recenti, si connettono senza dubio ad un resto di attività del grande vulcano. Al dire di Reineggs quelli del 5 gennajo e del 22 febrajo 1785 sarebbero stati accompagnati da fumi e fiamme. Memorabile su tutti è il terremoto che, il 20 giugno 1840, da quella massa colossale si propagò per grande estensione tutt’attorno, recando spavento e danni alla città di Erivan, rovinando quasi per intiero Nachidjevan, devastando i distretti di Charaour e di Sourmal. In questa catastrofe il florido villaggio di Arkouri[21] ed il convento di S. Giacomo, posto in una valle sul pendío stesso del monte, furono intieramente distrutti e sepolti sotto una congerie di massi e di tritumi. Tre anni dopo l’avvenimento, il dotto viaggiatore Maurizio Wagner, raccolse sul luogo stesso il racconto di alcuni testimonj occulari, tutti concordanti nel riferire che un getto enorme di vapori e di massi pietrosi sia escito, quel giorno fatale, con grande impeto del seno del vulcano[22]. Il giorno 12, di buon matino, lasciammo anche Erivan. — La processione delle nostre carrozze sfila da principio per una campagna arida e sassosa; ma, fatte poche _verste_, la gran pianura che si distende alle falde dell’Ararat, fertilizzata dalle aque del Sanga, è perfettamente coltivata a prati, campi, vigneti, giardini con grandi filari di pioppi e di salici. Incontriamo sulla via alcuni villaggi armeni, o piuttosto gruppi di umili casicciuole costrutte dell’unico materiale architettonico di tutta la Persia, ch’è fango, impastato tutt’al più con alquanta paglia minutamente tagliuzzata. Alle 9 giungiamo a Kamerlou, ove la necessità di riparare un’avaría di un nostro _tarantass_, ci obliga ad una sosta di alcune ore. La stazione è ombreggiata da un boschetto di grandi alberi, cinto dagli avanzi di un muricciuolo oltre il quale sono pascoli aprichi solcali da canali, e sparsi di bellissime _Iris_ in piena fioritura. Ne’ dintorni della stazione belli e grandi gelsi, dei quali non si trae profitto veruno. Gli uccelli da me presi in questa giornata, appartengono alle seguenti specie: _Glareola pratincola, Cuculus canorus, Picus major, Emberiza miliaria, Ægithalus pendulinus_. Qui trovo inoltre per la prima volta l’_Hypolais elaeica_, così frequente anche in tutta la Persia. Lasciate poscia le fertili campagne di Kamerlou, la strada attraversa aride steppe con fioriture saline. Alla sera giungiamo a pernottare a Sardarak. Sorto il giorno seguente alla prima alba, mi valgo d’una concessione d’un pajo d’ore per fare un’escursione sui colli sassosi situati dietro il villaggio, d’onde si domina tutta la vallata. Quei colli sono formati da una calcarea silicifera scura, molto venata di bianco, tanto ricca di fossili devoniani, e sovra tutto di polipai (_Columnaria, Cyathophyllum, Favosites_), da esserne quasi per intiero costituita. Gli strati di questa calcarea alternano con altri di una marna friabile e corrosa, frammezzo i quali si ergono a guisa di muraglie. Fra questi massi trovo per la prima volta alcune interessanti specie di uccelli: l’altisonante _Sitta syriaca_, la _Saxicola aurita_, il cui volo è così diverso da quello delle altre specie del genere, ed una _Emberiza_ affine alla _cæsia_, ma da questa chiaramente distinta, e da me registrata col nome di _Emberiza (Fringillaria) Cerrutii_, in onore dell’uomo egregio posto a capo della nostra missione[23]. Girando lo sguardo sulla valle sottoposta, dall’alto di uno di questi colli, si acquista dell’orografia generale del paese una prima idea che poscia si svilupperà più chiara e costante. Due catene di monti fiancheggiano l’alto piano che noi percorriamo nella lunghezza; parallelo a ciascuna ed al loro piede si distende un antemurale formato da una serie continua di colline affatto nude. La catena di monti che forma qui il fianco destro dell’altipiano, si distacca dall’Ararat. A poche verste da Sardarak gli antemurali dei due lati spiccano ciascuno un contraforte, e i due contraforti incontrandosi formano una sbarra che separa questo altipiano da un secondo inferiore. Aggiungerò ora che una simile disposizione affatto caratteristica si riconosce anche nel seguito. Tutta la regione elevata che dall’Armenia si continua nella Persia, lungo il versante meridionale dell’Elburz, è una serie di altipiani, or più or meno estesi, disposti in modo da rappresentare immense gradinate, limitati ciascuno ai lati da una doppia serie di rilievi nel modo che ho detto, e l’un dall’altro separati da una sbarra traversale, che serve di linea di separazione delle aque. Io avevo intrapreso quell’escursione da solo. Al ritorno mi trovai impegnato fra due muricciuoli che mi condussero nell’interno del villaggio, in un labirinto di fango e di focaccie di sterco, nel quale io non sapeva più discernere i viottoli dagli anditi privati, le aiuole dai cortiletti. Qua e là sugli accessi di luridi antri, figure cenciose tendevano verso di me uno sguardo avido e fosco, che indicava chiaramente di lasciarmi passare per grazia. Tanti giri e rigiri, senza mai trovare un’escita, due cani che mi s’erano messi alle calcagna, ed abbaiando chiamavano su miei passi maggior gente e faccie meno rassicuranti, mi suscitavano crescenti angustie. Quando Dio volle mi trovai di nuovo fuori del villaggio, e di nuovo salito su di un’altura, e studiati meglio i punti cardinali, e le traccie ai cumuli di fieno della stazione postale, mi riescì infine mettermi sulla giusta via e raggiungere i miei compagni, i quali già erano in pena pel mio ritardo. Il capitano Romanoff mi fece intendere d’essermi avventurato troppo imprudentemente, che il paese ove c’innoltravamo non è molto sicuro, e che Sardarak in special modo è ricetto di ladri. Oltrepassato l’altipiaoo di Sardarak, per la sbarra di cui ho detto più sopra, la strada scende ad un secondo altipiano paludoso, popolato da uno sterminato numero di cicogne, aironi, vanelli, anitre, e lo costeggia fino a Bascnurascen, villaggio tartaro, ove animatissima è la vita agricola, grande il moto di armenti e di carri, e tutta la campagna d’intorno intersecata da una rete di canali, perfettamente coltivata a campi, a prati, a grandi risaje. Il padrone di questo villaggio, Hali-bey, dev’esser un Creso dell’Armenia. Nella breve sosta che vi facemmo, ho trovato frequente l’_Aedon galactotes_ ed un’allodola ancora imperfettamente conosciuta, la _Calandrella pispoletta_ (Pall.) Fin dalla stazione precedente incominciano a mostrarsi forme nuove di saurj; l’_Eremias variabilis_, l’_Ophiops elegans_, il _Phrynocephalus helioscopus_, communissimi da qui in poi. Ripartiamo sul pomeriggio, passando a guado i rami di un piccolo fiume, l’Arpatschai, d’onde sono derivati i canali irrigatorj che si diramano nel piano di Bascnurascen; e quindi, lasciando le risaje sulla nostra destra, la strada piega su di un’arida steppa che si continua fino a Keuvrak, nostra stazione notturna. Continua al di là di Keuvrak la steppa, più mossa, più ondulata, compresa ancora fra due catene di montagne, ognuna delle quali ha qui come antemurale una serie di colli marnosi, con strati variegati di rosso più o meno intenso, che nel taglio, visto dalla strada, appajono per lo più orizzontali, appartenenti alla formazione salifera (miocenica) di Nachidjevan. Il loro fianco rivolto verso la valle dell’Arasse è affatto nudo e bizzarramente solcato dalle aque pluviali; ed ove la strada, piegando alquanto a sinistra, tocca il piede di questi colli, fa bello spettacolo un’infinità di sprazzi abbaglianti, pei raggi solari che si riflettono ne’ cristalli di gesso disseminati copiosamente fra gli straterelli marnosi. Il tratto per giungere a Nachidjevan era breve, e fu allegramente percorso nelle prime ore del matino. Prendiamo alloggio nel miglior quartiere, offertoci dal colonnello Quartano, capo della polizia del circolo, vecchietto robusto, secco, vivace, poliglotto, che avevamo incontrato a Tiflis, ov’erasi trattenuto dopo la nostra partenza di colà. Nachidjevan è ancora mezzo rovinata dal terribile terremoto del 1840; le sue case sono di fango, con appena qualche rivestimento di calce ne’ fabricati che servono di abitazione agli impiegati, e pochi edifizj in muratura. Fra questi primeggia la scuola che trovammo vuota, per non so quali ferie. Il suo direttore, che era assente, dev’esser un uomo assai colto, dalla ricca e scelta biblioteca e dalle collezioni di oggetti naturali che trovammo nel suo ufficio. Il materiale della città non solo, anche lo stile è tutto persiano; e le contrade strette, ed i muricciuoli di fango cingenti giardini scompigliati con grandi alberi, e specialmente salici e gelsi, ed i ruderi di antichi monumenti, fanno testimonianza della secolare dominazione de’ Khan. Fra questi monumenti spiccano per l’eleganza e per la mole una porta di una moschea con due torri ai lati, e lì presso altra torre colossale massiccia, carica di ornamenti e di iscrizioni del Corano. Ci recò graditissima sorpresa l’incontrar qui due negozianti lombardi, intenti al raccolto di semente di filugelli, che incominciava appunto allora; e con sodisfazione vera potemmo constatare noi stessi il pieno vigore dei bachi e la bontà dei bozzoli. È la bella razza di Brianza trapiantata a Nouka, e di là anche ad Ordubad, ed in questo estremo angolo conservatasi immune dalla epidemia che devasta il suo antico centro di produzione. Questi nostri compatrioti sericoltori ci regalano di vino del luogo, talmente squisito, da strapparci un voto di fiducia, in favore della tradizione armena, secondo la quale Nachidjevan sarebbe stata costrutta da Noè. È ancora oggetto di venerazione un antro oscuro e corroso da’ secoli, non lungi dalla città, ove si crede riposino le ceneri del patriarca del genere umano. Alcuni de’ nostri compagni si determinarono a partire la sera stessa per Djulfa, a fine di accelerare la formalità del nostro passaggio sul territorio persiano, e spedire, ove occorresse, un corriere al _mehmendar_ che doveva essere pronto a riceverci con solennità, sanzionata da usi e tradizioni secolari. Ci raccontarono poscia come avessero dovuto lungo il cammino rimaner bene in guardia, colle armi impugnate, e sostener il coraggio de’ vetturini e degli stessi Cosacchi di scorta, tementi, al farsi della notte, un attacco di qualche orda di Tartari o di Curdi, che infestano il paese, fatti audaci dal sicuro asilo del prossimo confine. Il seguente mattino (15 giugno) il resto della comitiva si mosse nella stessa direzione. Appena fuori di Nachidjevan la strada solca una bassa pianura qua e là pantanosa, ma ancora in generale ben coltivata; poi riascende su di una landa affatto sterile, ondulata, rispondente ancora al già descritto carattere orografico del paese, compresa fra una duplice linea di monti che si protendono all’incontro dell’Arasse. Le due catene più remote, colle loro punte, alcune tuttora nevose, presentano tutti i caratteri di sollevamenti vulcanici; gli antemurali interni che si distendono alla loro base sono ancora una continuazione della formazione salifera di Nachidjevan. Lungo il fianco orientale, ch’è il nostro fianco sinistro, fra la catena vulcanica ed il suo antemurale, s’alzano cumignoli conici isolati, evidentemente ancora vulcanici. Presso Djulfa la valle si ristringe; i conglomerati rossi prendono il sopravento sulle marne, i colli si elevano con fianchi dirupati e cresta così bizzarramente ritagliata, da produrre in varj luoghi un effetto come di ruderi di antichi forti. Lungo il letto dell’Arasse ho trovato frantumi di una bellissima puddinga, che deve certamente considerarsi come una varietà dell’anzidetto conglomerato; una varietà con cemento omogeneo siliceo, assai rassomigliante alla bella puddinga silicea di Scozia, come questa suscettibile di bel pulimento, e molto da apprezzarsi dai lapidarj. Varrebbe ben la pena di cercare il posto originario di questa roccia. Le pernici del deserto (_Plerocles_) di cui io aveva già osservato qualche coppia nell’aria fino da Sardarak, qui incominciano a mostrarsi a stormi numerosi, forieri di quelli che dovevamo incontrare ogni giorno nel seguito del nostro viaggio. Un Cosacco cacciatore ce ne regala per la nostra cucina, insieme a due _Otis houbara_. — I rettili presi per via spettano ancora alle già accennate specie _Ophiops elegans, Eremias variabilis, Phrynocephalus helioscopus, Stellio caucasicus, Plestiodon Aldovrandi_. Djulfa, sulla sponda sinistra dell’Arasse, un tempo grosso villaggio, trovasi ridotta ora a qualche stazione di Cosacchi, a qualche gruppo di catapecchie e di rovine, il cui colore si confonde con quello del circostante, sassoso deserto. Lo sguardo del viaggiatore è attratto dal biancheggiante edifizio della quarantena, per rispetto al luogo, maestoso ed elegante, e messo là apposta, come per scrivere: qui cessa la civiltà europea. Ivi raggiungiamo i nostri compagni, e troviamo cordiale accoglienza dal direttore, di origine tedesca, uomo di bella presenza, di poche parole, ma assai cortese, e ne’ suoi tratti manifestante una perfetta educazione. Questo edifizio surge precisamente sulla sponda sinistra dell’Arasse, assai più elevata della sponda opposta, e scendente con pendìo ripido al fiume che ne lambe il piede. Dal loggiato che domina la sottoposta valle, vedesi di prospetto l’antitesi di un vecchio e cadente fabricato persiano, che serve di ricovero ai doganieri ed alle guardie di confine; e lì presso l’accampamento persiano, singolare anzi bello spettacolo per noi. Tutto il pianerottolo sassoso oltre l’Arasse era animato di nuova vita; centinaja di cavalli sbandati vagavano al pascolo; giacchi rossi di militi persiani movevansi d’ogni parte affaccendati: qua e là fasci di fucili e sentinelle, e più prossimo al fiume un villaggio di tende. Il direttore della quarantena ci raccontò come tutta quella gente fosse là radunata per riceverci da quasi un mese, precisamente per tutto il tempo della nostra fermata in Tiflis ed in Erivan. Scorsa appena qualche ora, ecco giungere a far omaggio al ministro d’Italia, con gran codazzo di uffiziali, militi e servi, ed in grande uniforme, Kuli Khan, il _mehmendar_[24] che ci doveva accompagnare fino a Tauris. Scambiati gli inchini ed i complimenti, abbastanza lunghi nello stile orientale, si venne infine a parlare del nostro passaggio sul territorio persiano; ed il _mehmendar_ dichiarò di non poterci ammettere ne’ dominj del re dei re, se non in forma solenne, e rivestiti dell’uniforme del nostro rango. La cosa fu lungamente discussa, con tutta la serietà di una quistione diplomatica; poi, assicurato il ministro Cerruti sulla costanza dei casi precedenti, si decise di ottemperare alle esigenze dell’etichetta persiana. Il mattino del 16 giugno, in pompa magna, passammo l’Arasse. VIII. Il nostro ingresso nell’impero dello Schah. — Scacciamento del dragomanno. — Modi di viaggiare in Persia. — Le stazioni postali ed i caravanserai. — Veicoli. — Il nostro accampamento. — Ordine delle marcie. — Forma dall’accoglienza persiana. — Dare per avere. — Sicurezza delle strade. Varcammo l’Arasse alla spicciolata, per adattarci alla capacità della sconquassata barcaccia che intrattiene sul fiume il governo persiano, geloso di conservare le difficoltà del passaggio dal territorio russo sul suo proprio. Il nostro immenso bagaglio ci aveva già in gran parte preceduti il giorno inanzi, e ci aveva del pari preceduti il nostro dragomanno Mehrab. Alla sponda destra del fiume stava aspettandoci uno sciame di soldati e di _ferrasch_[25], gli uni tenenti a mano i cavalli che dovevamo inforcare pel decoro della cerimonia, gli altri per farci scorta d’onore. Montati in sella, fummo subito classificati secondo il nostro valore relativo nell’equitazione. L’alta e la bassa e la nessuna scuola in confusa miscela, resero discretamente scompigliata la nostra fila, e quando la voce del comando dei più esperti incominciava già ad ottener qualche successo, il breve tratto che ci separava dall’accampamento era già percorso. Kuli Khan stava aspettandoci, colla sua scorta, in tenuta di parata. Uditi e ricambiati i complimenti d’uso, scendemmo di cavallo, ed entrammo nella gran tenda, ove si dovea compiere la seconda parte delle formalità del nostro ricevimento. Seduti in cerchio su vecchi sedili sgangherati, ripresero i complimenti e incominciò la circolazione da una bocca all’altra dell’indispensabilissimo _kalian_, mentre i servi si davano gran moto a versarci thè, caffè, _sherbeth_, e ad offrirci sovra enormi bacili di legno frutta e confetture. Così fu fatta definitivamente la consegna delle nostre persone al _mehmendar_. Resi liberi infine, ci affrettammo a svestirci dell’uniforme, a riprender il nostro abito di fatica, ad assettare i nostri particolari bagagli, a tutto disporre pel nuovo sistema di viaggio che doveva incominciare all’alba del domani. Principal cura doveva esser la scelta de’ cavalli, appropriata al nostro vario grado di sicurezza in sella, essendo nella nostra schiera i due estremi, cavalcatori di prima forza, ed altri pei quali tutta la pratica precedente non andava al di là di qualche asinata campestre. I forti, da buoni fratelli, ajutarono i deboli, anche con un’istruzione accelerata nelle più fondamentali norme dell’equitazione. Noi eravamo sufficientemente provisti di selle europee: i cavalli, buoni in generale, sebbene di forme poco eleganti, provenivano, per offerte che si dicevano spontanee, dalle scuderie delle primarie autorità di Tauris. Mentre la maggior parte della comitiva attendeva a questa importante bisogna, il ministro Cerruti occupato nella sua tenda alle più generali disposizioni pel viaggio, aveva dovuto muovere qualche rimbrotto al nostro dragomanno Mehrab, per la sua trascuratezza in eseguire gli ordini ricevuti. Costui che non avrebbe avuto l’ardire di alzar gli occhi in faccia ad un’autorità persiana di secondo ordine, era già guastato dal trattamento affabile e benevolo ch’aveva ricevuto da noi, e trascese fino a stancare la longanime pazienza del ministro, e ad accendere il giusto sdegno di uno de’ nostri che trovavasi presente. Non appena la notizia di questo fatto si diffuse nella nostra brigata, fu unanime la deliberazione di pregare il commendatore Cerruti a liberarsi di quell’uomo, dal quale non era più sperabile utile servigio. Il signor Mehrab, immediatamente e lautamente pagato, ripassò l’Arasse, per ribattere pochi giorni dopo le nostre orme, ed accagionare alla missione nuove importunità in Tauris, cessate con nuovo sacrifizio di danaro. La mancanza del dragomanno stipendiato non ci fu punto sensibile. Il turco è la lingua parlata per tutto l’Aserbedjan, e si spende molto bene anche al di là, e questa lingua, non punto straniera ad alcuni membri della missione, ed allo stesso ministro, era profondamente conosciuta dal console Bosio, che ben di buon animo si lasciò acclamare dragomanno ufficioso. L’effetto di questo malaugurato incidente fu presto mandato in fumo: la giornata sarebbe stata ancora condita di una discreta dose di buon umore generale, se il vento, già molesto dal mattino, non fosse divenuto impetuoso verso la sera, travolgendo densi nembi di arena, e minacciando ad ogni istante di travolger insieme anche le tende. Ma i Persiani sanno, e dovemmo imparare anche noi, che con questo elemento bisogna far conti giornalieri; epperò tutti i congegni delle tende sono diretti a sfidarlo, ed i nostri _ferrasch_ affaccendati attorno ai nodi ed ai piuoli, ci assicurarono l’asilo per la notte. L’ordine che mi sono prefisso in queste note, esige ora che io descriva il modo di viaggiare in Persia. I semplici privati ottengono facilmente dal governatore di una provincia qualunque un firmano, e col firmano una piccola scorta della quale è capo un così detto _golam_, sorta di guardia nazionale a cavallo, che provede per via a tutti i bisogni del viaggiatore, e sovratutto all’alloggio per la notte in qualche abitazione privata; ma le persone rivestite di un carattere publico, gli ambasciatori de’ sovrani esteri, hanno a guida un _mehmendar_ ed una scorta più numerosa, e devono subire le noje di lunghi cerimoniali e di regali enormemente passivi ad ogni stazione principale. Se l’ambasciata è poco numerosa, come fu dal 1860 al 1861 l’ambasciata prussiane, di sole quattro persone, gli alloggiamenti sono presi ne’ villaggi o nelle città che si incontrano sul cammino; in caso differente, come appunto fu il nostro, il ricovero ad ogni fermata è un piccolo villaggio improvisato di tende. Non occorre il dire che solo veicolo possibile in Persia è il cavallo. Ora su tutte le linee più battute si trovano di tratto in tratto stazioni di posta, nel linguaggio del paese chiamate _tschaparkhané_, ove si effettua il cambio dei cavalli, ed ove pure si trova disponibile qualche cella oscura e sudicia pel riposo, un _samovar_ ed un kalian, per quella forma di ristoro di cui ogni viaggiatore sente maggior bisogno in Persia. Ogni _tschaparkhané_ si distingue da un piccolo cortiletto chiuso fra mura di fango, nelle quali mura sono scavate piccole nicchie che servono di mangiatoja pei cavalli; una stanza terrena, ed un’altra superiore alla porta di entrata, costituiscono quasi dovunque i soli quartieri per gli alloggiamenti. Oltre i _tschaparkhané_, i quali sono d’ordinario ne’ villaggi, od a questi molto vicini, s’incontrano in Persia i _caravanserai_, grandi edifizj, alla costruzione dei quali hanno proveduto con particolar cura i varj Schah che si sono succeduti nel dominio del paese, od alcuni di que’ pochi ai quali i Schah permettono arricchirsi, e per animo pietoso, o, più di soventi, per un contratto interno colla propria coscienza, vogliono lasciare ai posteri qualche memoria di sè. Questi edifizj sorgono nella solitudine delle steppe, fra le maggiori tratte da un villaggio all’altro, e sono una vera providenza pei viandanti. La loro forma di grandi recinti quadrati, con tronchi di torre ai quattro angoli, ed un’unica grande porta di accesso, li fa rassomiglianti a piccoli forti. Ve n’ha che sono costrutti in mattoni cotti, con un certo gusto architettonico, primeggiando quelli edificati da Abbas il grande, ma non ve n’ha alcuno che non porti le traccie del tempo e dell’estrema incuria de’ Persiani; e non rari sono quelli affatto rovinati ed abbandonati. Nell’interno di questi caravanserai, ai quattro lati del recinto, sono allineati grandi archi a guisa di casematte, che servono di stanza ai viaggiatori. Non ci mancarono occasioni per far conoscenza pratica di questi sucidi asili, ed a suo tempo darò, all’abbozzo che ne ho fatto, qualche tocco di chiaroscuro. Ho detto che solo veicolo in Persia è il cavallo; questo per la commune de’ viaggiatori, cioè per uomini, ed uomini sani. Il commendator Cerruti ha voluto tentare l’impossibile, e vi è riescito, facendo trascinare al seguito della caravana due vetturaccie, pel caso che alcuno di noi cadesse ammalato per via, o per qualche altro accidente imprevisto: e realmente questa misura ci salvò da gravi imbarazzi in più di una circostanza. Sebbene non siano in Persia strade propriamente dette, la natura del paese renderebbe agevole il viaggiare in vettura, ove si accomodassero i burroni che di quando in quando tagliano la solita via delle caravane. Più di una volta ci trovammo nella necessità di far portare le carrozze attraverso passi impraticabili. — Due altre forme di veicoli indigeni sono particolarmente ad uso delle donne e de’ malati. L’una è il _kegiavé_, sorta di gabbie appajate ed equilibrate sul dorso di un mulo; l’altra è il _tartaraval_, lettiga chiusa, su due stanghe legate a due muli, l’uno al davanti, l’altro al di dietro. Secondo la condizione della perfetta reciprocità, era stato stabilito che tutte le spese del nostro viaggio, dall’Arasse a Teheran, fossero a carico del governo persiano; e questo ci aveva muniti di un doppio sistema di tende, in tal modo che, mentre uno ci serviva di ricovero, l’altro viaggiava su muli alla stazione del giorno seguente, ove tutto l’accampamento doveva trovarsi già disposto al nostro arrivo. Questo accampamento era diviso in due parti, una per noi, l’altro pel _mehmendar_ e pel suo seguito. Fra le tende minori che ci servivano di stanza, sorgeva la tenda principale funzionante come sala di ricevimento e sala da pranzo, adobbata da un grande baldacchino interno in tessuto serico di Tauris. Sul pavimento erano distesi grossi feltri stampati a disegni con discreta eleganza, e nella tenda maggiore uno di que’ tappeti che per la tessitura, la vivacità e la solidità de’ colori non hanno rivali in Europa. Nell’interno di questa tenda stava disposta in tre pezzi malamente connessi una vecchia tavola che aveva servito da chi sa quanti anni alle ambasciate europee, ed all’intorno sedili scarsamente sufficienti. Le tende erano sempre erette in prossimità di qualche villaggio. Che se il nostro modo di viaggiare, le provigioni delle quali eravamo forniti, potevano anche emanciparci da questa vicinanza, una necessità assoluta era per noi qualche rivolo, qualche canale ove attinger aqua, e questi si incontrano in Persia così rari e distanti, da determinare necessariamente la posizione di ogni luogo abitato ed abitabile anche temporaneamente. I servi che avevano la cura di preparare il nostro accampamento, non mancavano mai di scavare presso la tenda principale un apposito bacino rettangolare, della profondità di un metro all’incirca, e di guidarvi dal vicino canale un filo d’aqua. Una forte compagnia di mulattieri era stata assoldata dal governo persiano pel trasporto dell’immenso materiale della nostra caravana. Come già avevamo dovuto far nel tragitto per le provincie caucasiche, i nostri bagagli erano divisi in due parti: i materassi e gli involti, cogli oggetti di uso giornaliero, viaggiavano con noi; le valigie e le casse più pesanti erano confidate a’ mulattieri che partivano separatamente da ogni stazione, precedendo di cinque o sei ore la caravana. Rimando ad altra occasione l’assolvere un debito di coscienza verso questi uomini duri alla fatica, intelligenti, sobrj, che sono i _tscharvadar_ o mulattieri persiani. L’ordine delle nostre marcie fu discusso a Diulfa tra il commendatore Cerruti, forte della sua responsabilità, della sua esperienza in altri lunghi viaggi, ed il professor Lessona, che riuniva alla conoscenza pratica del clima dell’Oriente, alla fiducia di noi tutti, il carattere ufficiale di medico della missione. La stagione estiva nel suo corso ascendente, l’idea preconcetta degli ardori canicolari della Persia, che però trovammo nel fatto maggiore della realtà, suggerirono la misura di viaggiare dalle ultime ore della notte alle prime del mattino. La bontà di questa disposizione, che trovò da principio qualche animo restio, fu messa fuori di dubio in due circostanze dalla prova comparativa dell’ordine invertito. Per tal maniera noi giungevamo alla novella stazione verso le nove del mattino; era presto preparata la colazione, alla quale succedeva qualche ora di riposo spontaneo e prescritto, dopo il quale i naturalisti ed i cacciatori mettevansi in moto fino all’ora del pranzo. La fibra ritemprata in questa vicenda delle ore diurne, apriva ne’ più giovani e più vivaci della nostra brigata la vena del buon umore, ed i nostri crocchi sotto la tenda s’animavano di racconti, di dispute ora scientifiche ora scherzose, di commenti alle scene persiane delle quali eravamo testimonj, tanto che le veglie serali si prolungavano fino a dimenticare che il sonno, al quale era pure riserbato il trionfo finale della giornata, ci doveva essere inesorabilmente misurato. Verso le due di notte, ad un cenno del vigile nostro capo, i servi, dato di piglio a bacini di rame, passavano da una tenda all’altra a batterci la diana nelle orecchie ed a farci trasalire sui nostri materassi. Superato più o meno sollecitamente, secondo la varia tempra individuale, questo momento della nostra vita giornaliera, il più duro e nello stesso tempo il più comico, raccolte fra i barcollamenti di un sonno tenace le nostre robe, cercato a tentoni fra l’oscurità e l’intricato cordame delle tende il nostro cavallo, eravamo finalmente in sella. Alcuni fra i migliori cavalcatori della brigata, portando un lampione all’estremità di un’asta, ed intuonando in coro passabilmente stuonato una canzone napoletana, mettevansi a dare ordine e moto alla caravana. La quale s’avviava in lunga fila, preceduta da due fantaccini delle milizie dello Schah, portanti a mano una mazzuola, e seguita dai nostri servi europei, dalla schiera de’ _ferrasch_, e dal codazzo dei muli carichi dei nostri materassi, delle masserizie di cucina, e dei piccoli bagagli. Nella nostra propria fila s’immischiavano il _mehmendar_ ed alcune persone del suo seguito, due delle quali erano per noi di particolare importanza: l’_abdar_ ed il _kaliandar_. Quello portava al mezzo la sella due enorme bissaccie contenenti in bottiglie metalliche una provigione di aqua, questo teneva in mano un _kalian_ munito di lungo tubo di cuojo, e sospeso alla sella un fornello con carboni ardenti, necessarj ad alimentare la consumazione del delizioso _tombeki_. Il posto a fianco del _kaliandar_ era in generale il più disputato ed il più ricambiato fra buoni amici. Un cavallo d’onore (_Jedäk_), riccamente bardato, era condotto a mano da un palafreniere dietro la persona del ministro, come cavalcatura di parata negli ingressi solenni, sebbene anche in queste circostanze il ministro non abbandonasse il cavallo di viaggio. Di quando in quando staccavansi dalla nostra fila cavalieri persiani, ambiziosi di darci una prova del loro valore nell’equitazione colle bizzarre e grottesche movenze della _fantasia_, nelle quali non ebbimo a notare che una sola cosa: l’assoluta inferiorità dei Persiani in confronto de’ Georgiani e dei Tartari. Noi stessi di quando in quando ci prendevamo il gusto di spinger il cavallo alla corsa, sopravvanzandoci l’un l’altro, e così, fra esercizj equestri, e ciancie e canzoni, si rompeva la noja e la trista solitudine di quelle interminabili steppe. Dopo una marcia di sei o sette ore, giungevamo alla nuova stazione, che il biancheggiar delle tende faceva discernere a distanza; lì ci attendevano i salamelecchi, i complimenti, i doni delle autorità dei vicino abitato, più o meno sperticati e solenni a norma della relativa importanza di questo. La popolazione maschile si affollava a farci ala, descrivendo col culmine del berettone, al nostro passaggio, grandi archi di cerchio, mentre le donne, schierate dietro i muricciuoli di fango, ci sbirciavano dai trafori o dai lembi dei pannilini che tenevano stretti al volto, tanto più tenacemente, quanto più scarse e grinzose erano le mani, strumenti allora non di modestia o superstizione persiana. Presso le città, fra la gente che ci veniva incontro, distinguevasi sempre qualche _dervisch_ seminudo, trafelante, dagli occhi spiritati, che brandendo un’accetta, in tuono fra il supplichevole ed il minaccioso, con esclamazioni selvaggie, mettevasi a seguire dappresso il nostro ministro, finchè non era mandato in pace con qualche elemosina. All’ingresso delle principali borgate o delle città, tenevasi pronto nel mezzo della via un uomo premente col ginocchio un montone, armata la destra di coltello, e coll’altra mano torcendo il collo del povero animale, per quindi scannarlo ai piedi del cavallo del capo dell’ambasciata. Questa costumanza, contro la quale protestò invano l’animo sensibile del commendatore Cerruti, è senza dubio una tradizione continuata da’ templi biblici, una forma primitiva di offerta ospitalità. I doni che ci venivano recati su grandi bacini di legno, consistevano ordinariamente in latte naturale, latte acido, miele, frutta, citrioli, alle quali cose s’aggiungevano, nelle città, pacchi di thè, pani di zuccaro, ed un profluvio di insipide confetture. Ne avevamo soventi in tale esuberanza da distribuirne largamente a tutte le persone del nostro numeroso seguito, perchè ne’ luoghi principali, ove hanno sede autorità diverse, ciascuna di questa ci portava il suo tributo. Ma sotto l’aspetto della cortese liberalità cova la gatta; l’apparenza del dare copre l’avidità, connaturale ai Persiani, del ricevere ad usura. Questi doni venivano tosto ricambiati non già nella misura del loro intrinseco valore, ma in ragione del grado della persona alla quale erano presentati. Un piatto di citriuoli che sarebbesi pagato pochi schahi sulla piazza, acquistava il valore di alcuni _tomani_ pel semplice atto dell’offerta ad un ministro di un sovrano europeo.[26] Le ambasciate diplomatiche non si impegnano mai in un viaggio nella Persia, senza aver prima ben notate a taccuino, non soltanto la formalità dell’etichetta orientale, ma anche la distribuzione dei presenti, ed in questa faccenda le tradizionali costumanze sono insegnate da un’ambasciata all’altra con tanta fedeltà, da rendere inutili trattative ufficiali col governo persiano, e da lasciare così il carattere della spontaneità più naturale a ciò che in sostanza è una vera tariffa. Senza contare i paoli imperiali, i zecchini olandesi, i tomani, che il nostro ministro doveva giornalmente distribuire a destra ed a manca, molte casse del nostro complicato bagaglio contenevano donativi consistenti particolarmente in armi di lusso, ed erano mano mano alleggerite, ad ogni visita ufficiale di qualche importanza. Intorno alla sicurezza personale de’ viaggiatori in Persia, le nostre idee hanno dovuto modificarsi d’assai da quel che erano al momento della partenza. Uno straniero non percorre questo paese senza un firmano, che è quanto dire senza la protezione visibile del governo, e di un governo al quale non manca una certa idea indeterminata, colorita di qualche utile ricordo, della potenza dell’Europa, geloso delle apparenze almeno di un ordine interno, ed anche animato da un certo punto d’onore verso coloro ai quali accorda l’ospitalità. Un attentato contro la roba o la vita di un europeo innocente, amico e come tale riconosciuto, sarebbe subito punito colle pene più strane, per giustizia sommaria. Nè v’è a temere da parte delle popolazioni alcuno di que’ terribili scoppj di fanatismo maomettano che hanno fatto spargere tanto sangue cristiano nella Siria. Un persiano potrà rifiutarvi da bere nella sua scodella, gettare subito a terra con disprezzo quella che per caso avesse toccato il vostro labbro; tirarvi dietro le spalle, con mano timida e furtiva, qualche sassata; ma non ardirà mai far di più. Il governo, in questa tutela de’ viaggiatori, è generalmente obbedito, e se qualche corriere, anche in epoca recente, fu svaligiato ed ucciso, lo fu per ordine segreto del governo stesso, il quale poi dovette fare le finte più ostentate di ricercare i colpevoli. La pompa colla quale procedeva la nostra caravana, la sua forza numerica e quella della sua scorta, erano perciò tutela esuberante contro ogni tentativo di ladri o di malevoli. Eppure noi eravamo armati da far spavento; pistole nelle tasche dell’arcione, pistole in saccoccia, fucili e carabine ad armacollo. Quando il sig. Hanhart negoziante svizzero stabilito in Tauris, vide questo arsenale, soggiunse ridendo, che avremmo fatto assai meglio portando al posto di tutta quella roba del cioccolatte; ed aveva perfettamente ragione. Le strade non sono infestate che lungo il tratto confinante col paese de’ Curdi; ma anche nell’emergenza di uno scontro con queste orde rapaci, le armi non fanno che complicare il pericolo, poichè i Curdi non attaccano una colonna di viandanti se non dopo averla spiata di lontano, ed essersi bene assicurati di trovarsi in forza preponderante; in tal caso la resistenza può essere eroica, ma è quasi sempre fatale. Un buon fucile da caccia deve bastare al viaggiatore per tutti gli eventi. La Persia! Che bello, che pittoresco paese avete percorso; ci ripetevano i nostri amici al risalutarci vivi e più o meno sani, dopo sette mesi di assenza. Dedico a questi esclamanti il capitolo che segue. IX. Tratti orografici della Persia occidentale. — Aridità del paese. — Modi di irrigazione. — Carattere della vegetazione. — Agricoltura persiana. — Mulini e villaggi. — Combustibile e viveri. — Clima. — La vita nelle steppe. La massima parte della Persia è costituita da un sistema di altipiani collegati colla grande regione centrale del deserto salato, come propagini irregolari che da questo grande deserto tutt’all’ingiro si espandono negli spazj rimasti fra i gruppi di monti, i loro contraforti, e le diramazioni di questi. Nella parte che abbiamo percorsa, estremo lembo occidentale di quell’immensa regione, compreso fra le provincie Caspiche, l’Armenia ed il Kurdistan, si può osservare, nella distribuzione delle montagne e degli altipiani, un certo ordine predominante. Volendo ora esprimere la cosa in termini assai generali, si può dire, che la via dall’Armenia russa a Teheran segue una serie di piccoli altipiani successivi, a gradinate, limitati lateralmente da due principali sistemi di monti, e rotta da sbarre trasversali, che formano precisamente i limiti de’ gradini. I confini naturali di questa regione della Persia, que’ confini che sono tracciati dalle linee di separazione delle aque, sono a maggior distanza, e veramente si devono fissare, al lato est e nord, nella linea della Catena contornante il gran bacino del Caspio, nel Bagrukuh, nel Mokaleschkuh, nell’Elburz; al sud-ovest nella linea congiungente le scaturigini dei varj confluenti del Tigri. Lo spazio compreso fra queste due estreme linee laterali, può considerarsi come un’unità geografica omogenea; è un sistema di altipiani aridissimi, suddiviso e intersecato dalle numerose diramazioni di altri monti, nella distribuzione de’ quali si può vedere ancora una certa regolarità. Un sistema di cui i punti culminanti sono l’Ararat, il Sahand, e l’Elavund, attraversa longitudinalmente questa regione della Persia, press’a poco paralella al suo limite occidentale, e per un certo tratto della sua lunghezza, separa le aque defluenti al Caspio, da quella che si versano nel gran lago salato di Urmia. Una grande sbarra, che è un prolungamento dell’Antitauro, taglia questa regione di traverso, nella direzione prossima di un circolo paralello, e concorre a formare il limite sud del bacino dell’Arasse; questa sbarra si estende dal Maschukkuh al gran cono del Savalan. Più al mezzogiorno una seconda sbarra montuosa è quella formata dal Kaplankuh e dall’Agdagh, che separa l’Aserbeidjan dall’Irak. Ancora più al sud la via battuta passa a ridosso di un’altra sbarra trasversale così poco sporgente da esser appena sensibile; quella che separa le aque del Zendjanrud da quelle dall’Abhar. Lo stampo di queste grandi divisioni è pure seguito dagli scompartimenti secondarj interni. Il viaggiatore il quale per Erivan, Marend, Tauris, Mianeh, si dirige a Teheran, trova che il suo cammino è per valli longitudinali comprese fra due catene; quella a sinistra, piuttosto regolare e continua, quella a destra, or più or meno discosta, irregolare e spezzata. Al piede di queste due catene laterali, e ad esse parallele, scorrono, come antemurali, colline per alcuni tratti interrotte, per maggiori tratti continue, e dalle quali di quando in quando si distaccano piccoli contraforti che si perdono subito nel piano. Per renderci ragione della particolare fisionomia del paese, è d’uopo ora che ci facciamo un’idea della particolare condizione delle sue montagne, e sovratutto della lunga catena che lo separa del bacino del Caspio. La catena che dal Bagrukuh si continua nell’Elburz, aperta soltanto per dar passaggio al Sefidrud, e che circoscrive all’oriente ed a settentrione la Persia occidentale, non presenta nella distribuzione de’ suoi rami laterali quell’ordine che in generale si osserva nelle altre grandi catene del globo, non siegue quella conformazione tipica, la quale si esprime così chiaramente per mezzo del paragone colla spina dorsale di un pesce. Essa rivolge verso gli altipiani dell’Aserbeidjan e dell’Irak, non già una successione di valli trasversali aperte, ma una serie di muraglie continue longitudinali, che limitano valli secondarie pure longitudinali, versanti le loro aque dal lato opposto della catena principale, dal qual lato soltanto scendono, per la china di numerose valli trasverse, rivoli e fiumicelli alpini, che dopo breve tragitto vanno a farsi inghiottire nel Caspio. Quasi tutte le aque di questa grande catena che dal Bagrukuh si prolunga nell’Elburz, si versano fuori del gran sistema di altipiani della Persia occidentale, ed ecco la principiale e per sè medesima evidente causa dell’estrema aridità di questo immenso paese. I venti continui, gli ardori estivi, una siccità regolarmente continuata per sei lunghi mesi dell’anno, fanno il resto. È difficile il trasfonder in chi non l’ha aquistato co’ suoi proprj occhi un concetto adequato della tristezza, della desolazione di questo paese; tanto più difficile in quanto che si ha da vincere la prevenzione dell’antica potenza della Persia, dell’idea di grandezza e di sfarzo che ciecamente è in noi associata alla parola geografica _Oriente_. I piani, le colline, le montagne, tutto è sterile, aridissimo, tristamente monotono da Erivan a Teheran, e questo ancora non è che l’anticamera del deserto! Grigio è il terreno, uniformemente costituito da tritume marnoso: grigio è il verde delle erbaccie che uniformemente lo rivestono, rare, ispide, spinose, crepitanti sotto i passi, senza un albero, senza un arboscello; grigie del color naturale della loro sostanza che è il fango delle steppe, sono que’ gruppi di topinaje cadenti e corrose che hanno nome di villaggi. Non v’ha conforto allo sguardo che nelle macchie verdeggianti disseminate qua e là, rare e distanti nello sterminato miserissimo fondo generale del quadro, oasi disseminate nel deserto, laddove qualche zampillo d’aqua, qualche fiumicello permetta la coltura del terreno e lo sviluppo della vegetazione arborea. E qui si vede la lotta industre, pertinace, mirabile, de’ Persiani contro una ribelle natura. Il terreno, per la sua composizione minerale, sarebbe dapertutto attissimo alla coltura; e la causa perenne, costante, indomabile, della sua sterilità, è il difetto d’aqua. Fra i pochi fiumi che hanno un nome nella geografia della Persia, pochi ancora sono quelli che meritano questo onore; ed anzi, sulla strada che abbiamo percorsa, di tali non trovammo che i più grossi affluenti del Sefidrud: gli altri sono poveri rigagnoli che, dilatati e decomposti fra le ineguaglianze d’un letto sassoso, vanno a perdersi fra le ghiaje del deserto, per di più soggetti a grandi magre estive. Tutti scorrono generalmente in solchi troppo profondi per poterne derivare canali alla coltivazione delle steppe; e tuttavia lunghi serpeggiamenti di verzura, spiccanti fra il tetro colore del paese, segnano all’occhio del viaggiatore il corso naturale di queste aque. Ove il loro letto si dilati alquanto, là, raccolte e governate in canaletti, ristagnano in risaje, o circoscrivono e fecondano campi, giardini, ombrosi boschetti. Nell’economia delle aque, il povero agricoltore persiano, avrebbe ben poco da imparare dagli stessi più industriosi popoli d’Europa. Torturato e spremuto da rapaci esattori, inaffia di sudore i solchi della messe non sua, e con opera dura, paziente, eppure spesso delusa, va raccogliendo di lontano il tesoro sotterraneo di qualche venuccia d’aqua, a magro compenso di quella che il cielo gli rifiuta e che l’arso terreno gli chiede inesorabilmente. Fin da’ primi nostri passi nelle steppe della Persia dovetti fare attenzione a certi cumuli di terra di forma conica, aventi alla sommità una sorta di cratere, in molti ostrutto, in altri aperto, come la bocca di un profondo pozzo, allineati in lungo ordine perdentesi nell’orizzonte. Ognuna di queste linee di coni, non male rassomiglianti a colossali _talpiere_, dalle radici dei monti si protende nel piano, e segna la direzione di un canale sotterraneo, che raccoglie le poche filtrazioni profonde per comporne un canaletto, il quale infine, sgorgando dall’estremo cumulo come da un antro, si versa direttamente sui vicini campi. I coni stessi non sono altro che materiale gettato fuori di tratto in tratto, onde aprire sotterra un corso all’aqua. In alcuni luoghi ho visto lavoratori intenti a questi scavi, traendo coll’argano dalla bocca dei pozzi il materiale che altri, educato alla scuola delle talpe, andava mano mano esportando nel progresso sotterraneo. La profondità della scarsa vena dell’aqua, e la rozzezza degli strumenti di lavoro alla quale supplisce la pazienza dei Persiani, sembrano le cause che fanno ai Persiani preferire questo sistema a quello dei canali aperti. Queste linee di coni che si incontrano di quando in quando negli altipiani della Persia, terminano, come ho detto, ad un antro, dal quale esce un rivoletto d’aqua limpida e fresca. Qualche volta questo rivoletto si versa in un piccolo stagno artificiale, circondato di salici, e dal quale l’aqua si diparte per varj rami alle campagne circostanti. Da questi canali artificiali dipende la vita dei poveri villaggi sparsi nelle steppe, lontani da corsi di aque naturali. Che se, come pure accade, la vena dell’aqua accumulata a sì gravi stenti e con sì pertinace lavoro, venga a mancare col tempo, ed il canale sotterraneo si renda asciutto, la misera popolazione del villaggio è obligata a trasportar altrove i suoi penati. Noi abbiamo infatti incontrato sul nostro cammino più di un villaggio affatto deserto e rovinato per siffatta cagione. Io non so veramente se alcuno non abbia mai suggerito ai Persiani un altro sistema assai più razionale, e che potrebbe cambiare affatto la condizione di intere provincia; voglio dire lo scavo di pozzi artesiani. Quanto si può scorgere nella direzione dei rilievi e degli avvallamenti dell’Elburz, nella disposizione delle roccie stratificate a’ piedi delle cime nevose di questa catena, infonde le più legitime speranze sulla riescita d’una simile impresa. L’esempio che fu coronato d’un così prospero successo nel Sahara algerino, non potrebbe andar a vuoto nelle steppe della Persia, e qui centuplicherebbe da sè per quell’intelligeuza, quella destrezza, quella ostinazione al lavoro che rende i persiani così superiori ai turchi ed agli arabi. La vegetazione rada e stentata che dalle steppe degli altipiani, si continua sul dosso arrotondato delle colline e ne’ ritagli fra le nude roccie a’ piè delle montagne, ritrae il suo particolare carattere da alcune forme predominanti di piante, fra le quali devonsi annoverare in prima linea specie di cinaree (_Carduus, Cousinia, Cirsium, Centauræa_), di salsole, di astragali, di senecionidee (_Achillæum, Pyrethrum, Artemisia_), di euforbie, di edisaree (_Onobrychis, Athagi_), di asfodelee, di silene e di lepidii. Non un albero, non un arboscello nè al piano nè al monte! L’impressione non fugace ma costante e ponderata che ha produtto in me l’aspetto generale del paese percorso, è questa; non trovarsi per sì grande estensione, fin dove l’occhio può giungere, un solo albero che non sia piantato dall’uomo. A mio senso questa espressione può esser presa alla lettera, ed è giustificata dalla disposizione sempre visibilmente artificiale degli alberi stessi. Dapertutto, ove l’uomo ha trovato un po’ d’aqua, elemento di che la natura è stata così avara all’Asia occidentale, alla desolazione della steppa succede la più florida vegetazione. Quasi ogni villaggio è ombreggiato da alberi fronzuti, addensati, in filari, in boschetti, ora all’aperto ora nei chiusi, è circondato da frutteti arruffati ma rigogliosi, da ajuole verdeggianti, da campi ubertosi, bruscamente contornati nel deserto. Gli alberi che maggiormente abbondano sono i pioppi, i salici ed i platani, e tra i fruttiferi, i gelsi, i pomi, i ciliegi, i pruni, gli albicocchi, i cui rami cadenti al peso delle frutta mature, trovammo quasi dovunque traboccare e pendere all’infuori de’ muricciuoli di fango che ricingono i giardini. Una pianta estesamente cultivata è pure l’_Eleagnus hortensis_, il cui frutto farinoso, rassomigliante ad una giuggiola, vedesi in gran copia ne’ _bazar_, col nome di _ssedschit_. Lungo il letto dei fiumi si cultiva il riso, ne’ campi raramente il sesamo, più communemente il ricino, ma per assai maggior estensione il frumento e l’orzo; e quest’ultimo serve di principale foraggio ai cavalli. A tal fine, l’orzo mietuto è sul campo stesso tagliuzzato da grandi coltelli circolari, giranti sul loro asse messo in moto da cavalli, dopo di che, raccolto fra reti di corda, si porta all’abitazione. Altre piante diffusamente cultivate in Persia, sono i poponi e specialmente i cocomeri; ma questa cultivazione richiede un terreno bene innaffiato. I cocomeri sono uno de’ principali prodotti di questo paese non solo, ma anche delle provincie caspiche della Russia, ed è veramente incredibile il consumo che ne viene fatto. Si può dire che per tre mesi dell’anno, il nutrimento principale de’ Persiani consiste di questo frutto, assai più succulento e dolce che in Europa, ed il quale dappertutto si trova in gran copia ed a prezzo vilissimo. I Persiani sono ghiotti di frutta zuccherine; i loro mercati ne rigurgitano, e sì grande è le loro abondanza in alcuni luoghi, che se ne lascia perfino infracidire una gran parte sul terreno. Le piantagioni di gelsi, relativamente rare in questa parte della Persia ch’è al sud dell’Elburz, non danno altro produtto che nei frutti, essi pure assai più dolci che fra noi. Si cultiva anche la vite, ma questa soltanto presso la città od i più grossi villaggi, ed in modo affatto particolare, imposto dalle condizioni del clima e dalla penuria assoluta di legno da pali. I ceppi della pianta sono allineati in aperta campagna sulle scarpe di grandi solchi irrigati con gran cura, ed i tralci si estendono liberamente sul terreno a guisa delle zucche. L’uva che se ne raccoglie è della più bella e della più gustosa che dar si possa, affatto immune da ogni traccia di crittogama (_Ooidium_), mentre ne sodo invasi, fino alla completa distruzione dei grappoli anche in questo paese, i rari pergolati dei giardini. Non si fa vino in Persia che in assai scarsa quantità, e dai soli Armeni, e questo vino, forte, disaggradevole, non conviene a palati europei, apprezzanti appena, ed allora come cosa eletta, quello rinomatissimo di Schiraz. Da quando in quando, lungo i pochi e miseri fiumi della Persia, si incontrano mulini, i quali sono di uno stile tutto particolare. Si presentano come casipole con mura di sassi quasi senza cemento, erbosi per l’umidità naturale del luogo; di forma prismatica quadrata, senza finestre, con una sola porticina d’accesso. L’aqua vi è condotta per un piccolo canale di legno che trapassa nel suo mezzo il tetto, formando con questo un angolo di circa 45.° Nulla traspare dal di fuori del mecanismo della macina. Si può facilmente vedere quanto debba costare ai Persiani il trasporto del grano da’ sili di sua produzione, talvolta per distanze enormi, ai pochi mulini qua e là disseminati; sì pochi da non comprendersi come mai possano bastare ai bisogni della popolazione. Ma ciò che si comprende ancora meno si è come nessuno abbia mai pensato a rivolgere al servizio de’ mulini un altro motore naturale, costantemente attivo per tutta l’estensione del paese, voglio dire i venti che soffiano senza posa. I villaggi sono labirinti di muricciuoli di fango, dai quali appena sporgono gli alberi de’ giardini, e le miserabili abitazioni interne, costrutte dal medesimo materiale, fango, con tettoje piane, che nelle notti estive, servono di letto. La struttura di questi sucidi tugurj è studiata in modo da fare il massimo risparmio possibile di legno e di ferro, da escluderli quasi affatto; quindi le porte e le finestre sono misurate per numero e per dimensioni al più stretto bisogno. È inutile il ripetere che le finestre sono tutte rivolte ne’ cortiletti interni o nei giardini. Ad una certa distanza i villaggi passerebbero inosservati, confusi col colore generale del terreno, ove la loro presenza non fosse invece tanto chiaramente indicata dalle piantagioni d’alberi. La grande scarsità di combustibile, fa sì che il cemento calcareo ed i mattoni cotti siano cose di lusso, fin nelle città, riserbate ai bazar ed alle moschee. Una strana singolarità è pur questa, che mentre in Europa i villaggi più floridi sono lungo le principali vie di communicazione, in Persia è perfettamente il contrario. Lungo quelle linee, che si dicono strade principali, perchè più battute dai viandanti, i villaggi hanno in generale l’aspetto della più squallida miseria, mentre negli angoli più segregati da queste linee, si trovano i villaggi più popolosi e fiorenti, per quanto la floridezza è conciliabile colla natura del paese. La ragione di questa dissonanza è semplicissima. Le vie delle caravane sono pur quelle più frequentemente battute dalle truppe, dai numerosi cortei dello Schah e de’ grandi personaggi, i quali, lungi dal lasciare sul loro passaggio i benefizi del commercio e della vita sociale, impongono ai villaggi contribuzioni gravissime. È anzi costume, quando lo Schah onora della sua augusta presenza le provincie del suo vasto impero, che gli anziani dei villaggi, prossimi al supposto suo cammino, gli si rechino incontro con offerte anticipate e spontanee, e con felicitazioni di un prospero viaggio contenenti l’implicito voto che i villaggi, de’ quali sono rappresentanti, siano risparmiati. Noi stessi non siamo sicuri di non aver portato con noi qualche piccolo carico di imprecazioni dai villaggi ove il nostro _mehmendar_ doveva fare le proviste per la nostra caravana. Rimando ad altra occasione qualche aneddoto curioso su questa materia. La povertà estrema della vegetazione arborea, relativamente all’estensione del paese, toglie si può dire affatto l’uso della legna come combustibile, ed obliga i Persiani a rivolgere a tal uso lo sterco de’ cameli e de’ bovini. Veramente questa industria è commune alla massima parte dell’Asia occidentale, ed all’Egitto, anche in provincie ove non sarebbe tanto strettamente imposta dalla necessità. A tal fine lo sterco, commisto collo strame fracido delle stalle, è impastato a mano sotto la forma di larghe focaccie, e queste sono distese ad essiccare sulle aje dei villaggi, e perfino, a crescerne l’ornamento, sui muri delle abitazioni: al qual lavoro attendono particolarmente le donne. Mi fu assicurato che tal sorta di combustibile dà buon fuoco. In pochi luoghi soltanto, come, per esempio a Tauris, si accatasta legna da ardere, e quasi esclusivamente per uso dei pochi Europei che vi hanno stanza. La somministrazione della legna al consumo giornaliero nella cucina, non doveva essere la minore delle cure di chi provedeva ai bisogni della nostra caravana. Malgrado le tanto sfavorevoli condizioni fisiche della Persia, il tenue prezzo del lavoro e l’abondanza del bestiame, fanno sì che le derrate di prima necessità per la vita materiale vi abondino, e siano a prezzi molto più miti che in Europa. Frutta, riso, pane, polli, montoni, si trovano ad ogni villaggio di qualche entità, a poco danaro ed in copia. Il pane è sotto forma di grandi fogli che si fanno cuocere prestamente e male, impastandoli sulle pareti dei forni, e si pongono in vendita ne’ bazar su grandi piani inclinati, irti di chiodi. Questi fogli ci hanno le tante volte servito di tovagliolo, di piatto e di cibo nel tempo medesimo. Le esposte condizioni naturali del paese, la sua latitudine, la sua altezza sul livello del mare, rendono ragione del suo clima. L’inverno è lungo, rigidissimo nella parte più elevata, appena raddolcentesi alla posizione di Teheran; e gli abitanti ne approfittano per ammassare provigioni di ghiaccio; conforto inestimabile a chi, al pari di noi, viaggia la Persia nei mesi più caldi dell’anno. La breve primavera è caratterizzata dalle pioggie, il cui benefizio però è rapidamente disperso dai venti, i quali alla loro volta rattemperano gli effetti de’ raggi solari in estate, e rendono le notti sarei per dire fredde. Chi percorre queste contrade nella bella stagione non deve tanto premunirsi contro il caldo estivo, inferiore alle communi prevenzioni, quanto contro i salti giornalieri di temperatura, come quello, per esempio, che accadde a noi di provare, passando da un mattino sufficientemente fresco, ad un calore meridiano di 34° R. all’ombra. I venti e il debole potere irradiante del terreno fanno sì che, malgrado la serenità delle notti, la rugiada sia insensibile, e non dia compenso alcuno alla vegetazione della mancanza completa della pioggia durante la stagione estiva. Questa lunga, costante arsura, ed il carattere mite delle pioggie in primavera ed in autunno, sono appunto tali condizioni naturali da permettere ai Persiani di costruire le loro case in fango che altrimenti, all’impeto delle pioggie temporalesche sarebbero in breve tempo stemperate. Uno spettacolo, si può dir quotidiano, che l’aridissimo terreno delle steppe percosso da’ cocenti raggi solari produceva al nostro sguardo, era la fata morgana, spesse volte di effetto sorprendente. Rimettendo a miglior occasione le cose da me osservate sulla fauna della Persia occidentale, vorrei pure dare un po’ di maggior effetto all’abbozzo che ho rapidamente tracciato della fisonomia del paese, coll’aggiungervi qualche macchietta caratteristica di esseri animati. Il silenzio e la quiete del deserto regnano nelle steppe, ed i pochi animali che vi si incontrano, per la mutezza e pel colore, armonizzano con quella squallida natura. Il grigio terreo di varie gradazioni, ora uniforme, ora screziato, è il color generale del loro vestito; un colore che, volendo poetizzare la frase, direbbesi il colore della steppa. Scarsissimi sono i mammiferi naturali a questi luoghi: appena qua e là, stando in agguato, si può vedere qualche spermofilo, qualche criceto, muovere cauti passi attorno alla sua tana, o nelle prime ore del matino sorprendere ancora qualche topo saltante _(Dipus)_. Poche specie di uccelli sono i principali animatori di queste apriche e sterili lande; e sono specie appartenenti ai due generi delle massajòle _(Saxicola)_ e delle alcate, o pernici del deserto _(Pterocles)_. Dapertutto, non appena il sole scaldi il terreno, guizzano come folgori fra le erbaccie singolari forme di lucertole (_Eremias, Ophiops, Agama, Phrynocephalus_). Se a questo elenco aggiungiamo la locuste, di poche specie ma in numero strabocchevole di individui, avremo bastantemente compiuta l’idea generale del regno delle steppe. La scena è alquanto più animata alle falde dei monti, da lepri, da qualche branco di capre selvatiche, da pernici, da grossi lucertoni (_Stellio_), e fra gli scogli il silenzio è rotto dal sommesso sibilo degli ortolani, e dalla sonora nota del peciotto di Siria. Presso i terreni cultivati, presso i boschetti ed i frutteti de’ villaggi, anche la vita animale spiega d’improviso un carattere affatto differente, nella maggior varietà delle forme ed eleganza de’ colori. Da queste oasi tutt’all’ingiro roteano per l’aria sciami innumerevoli di storni rosei, e colombi e vespieri e gazze marine: ogni passo ne’ campi fa svolazzare branchi di allodole e di calandre: varie specie di falchi si concentrano pure in questi luoghi, ove la preda è ad essi più abondante e più facile. Numeroso è il grosso bestiame domestico in Persia, e per quella che Darwin ha chiamato elezione naturale, le sue diverse razze si sono perfettamente accomodate al carattere generale del paese. Il loro stomaco ha imparato a digerire anche il fusto legnoso delle erbe delle steppe, e così alla mancanza di pingui pascoli supplisce la sterminata estensione de’ magri. Queste razze sono le medesime delle quali ho fatto cenno parlando della Georgia; ed anche qui prevalgono numericamente le pecore dalla coda adiposa, che formano la base del nutrimento animale per tutta la Persia, e per di più somministrano la lana finissima de’ bei tessuti di Mesched e di Kerman. Nella stagione estiva gli armenti lasciano le stalle, e sono guidati al pascolo libero in luoghi di elezione per entro le montagne, od anche nelle più ime valli, non richiedendosi altro, a costituire un pascolo, se non qualche ruscello poco discosto, ove abbeverare le povere bestie. Numerosissime mandre di pecore pascenti sugli arsi pendii delle colline e de’ monti, custodite da pastori nomadi attendati, sono fra i più communi incontri in queste solitudini. Non parlo de’ cameli che sono qui nel loro regno naturale, fatti, si direbbe quasi, a bella posta per le steppe, e le steppe per essi. Anche i buoi ed i bufali trovano il loro sostentamento per molti mesi dell’anno in questa magra pastura, alla quale si abbandonano pure i cavalli ed i muli delle caravane, col rinforzo di qualche giornaliera razione di orzo. L’incontro di una caravana era una distrazione tutt’altro che frequente, ma si può dire giornaliera, e sempre gradita per la sua originalità orientale. La lunghissima fila di cameli procede a passo lento e misurato, al suono grave del sonaglio appeso al collo di alcuni ripartiti nella loro schiera con certo ordine, come ne fossero i regolatori, senza che per altro questo apparente uffizio tragga seco una diminuzione del carico enorme e voluminoso per tutti. Questo carico consiste in prima linea di quella specie di tabacco (_tombeki_) che si consuma così estesamente nel _narghileh_ turco, fratello germano del _kalian_ persiano, ed in seconda linea di cotone. Ad ogni caravana trovasi unito un certo numero di passaggeri, e la cosa più curiosa a vedersi sono i _kegiavé_ ne’ quali oscillano, in cadenza co’ passi del mulo, certi involti di tela grossolana azzurra a larghe pieghe, con un pannilino bianco pendente al davanti, che vogliono dire donne persiane. Questi pochi tratti della fisonomia generale della Persia occidentale servano ad ajutare la mente del cortese lettore, che avrà la pazienza di seguire, nelle pagine successive, la processione dell’ambasciata italiana. X. Partenza da Diulfa. — Ghelim kiayà. — Marend. — Il monte del castello. — I Tepe della Persia. — Passo del Maschuk. — Sofian. — Solenne ingresso in Tauris. — Nostri alloggiamenti. — Ozj forzati. — Bozzetti zoologici. — Lo storno roseo. Il dì susseguente (17 giugno) col primo biancheggiar dell’alba, il pianerottolo squallido e deserto di Diulfa era tutto animato dal nitrir de’ cavalli, da grida confuse, da un brulicame di affaccendati. Quando piacque al cielo, dopo un pajo d’ore, tutto era in compiuto ordine di marcia. I fidi malacani, che aveano acconsentito a condurre le nostre due carrozze fino a Tauris, ci precedettero per fare ai nostri occhi le prime prove della difficile impresa che si assumevano. Stretta la mano al capitano Romanoff che ripassava l’Arasse, recando seco un fascio di nostre lettere per l’Europa, s’avviò infine anche l’interminabile caravana avente alla testa un picchetto di _serbasi_. Doveva esser un bello spettacolo guardato dall’alto della quarantena russa che biancheggiava sulla nostra destra, e che in breve perdemmo di vista. Dopo qualche ora di cammino, la strada (non si dimentichi il valore di questa parola, quando si tratta della Persia) sale in una valle orribilmente sassosa, anzi propriamente nel fondo di un torrente alpestre, ove tale è l’ingombro de’ macigni che riesce assai malagevole lo studiare fra svolte e balze il passo de’ cavalli. Giunti infine presso il termine del burrone, all’ombra ospitale di un gruppo di salici, dal cui piede scaturisce un rigagnolo di fresca e purissima aqua, mentre prendiamo ristoro dell’arsura di un sole asiatico e di un cammino faticoso, seduti a crocchio colla testa fra le mani, pensiamo alla sorte delle povere nostre carrozze ed alla pretesa più che ardita di far loro superare quel passo che aveva già costato a noi così gravi stenti. Eravamo in questa sosta angosciosa da una lunga ora, quando infine, guardando nel fondo della valle, ci vien fatto di scorgere due baracche traballanti fra un turbine di gente stretta d’attorno, e mettiamo un gran respiro nel riconoscere le nostre carrozze più portate che sospinte fra quei macigni, e per quell’erta via, da gente del nostro seguito e da altra raccolta ad un villaggio a piè del monte. Poco c’importava de’ veicoli, molto degli oggetti che ne formavano il carico, poichè tra questi si trovavano gli strumenti fisici e geodetici. Superata questa difficoltà, mentre la caravana si ricompone, alcuni di noi ci distacchiamo in avanguardia, per far poscia nuova sosta in un sito di elezione che troviamo in un pianerottolo in parte cultivato, ove un piccolo aquedutto si dilata in un bacino cinto di salici; e qui, dopo tirati alcuni colpi alle tortore ed ai falchetti (_Falco subbuteo_), abbiamo il divertimento forzato di dar la caccia ad uno de’ nostri cavalli che sbrigliatosi avea preso, saltellando capricciosamente, la via dei campi. Raggiunti dal rimanente della comitiva e ripreso il cammino, dopo breve tratto un’altra avventura sospende la marcia. Il sole ardente percuote il nostro povero _mehmendar_ che incomincia a barcollare, poi si rovescia di sella tramortito. Per buona sorte le vetture non erano molte discoste. Toccava adunque non a noi, molli europei, ma ad un persiano cader prima vittima, ed in tutto il viaggio unica, di quel sole che la Persia ha preso per suo emblema; e rendere così il primo omaggio alla previdenza del ministro Cerruti di portar al nostro seguito due vetture ad uso di ambulanza. Ghelin Kiayà, luogo designato per stazione, ove giungiamo verso le undici dei mattino, è un villaggio discretamente popoloso, in un piccolo seno compreso da montagne affatto nude. Le case sono tutte di fango, con angoli arrotondati, ed i tetti coperti di paglia confusamente distesa. Kuli Khan tirato fuori dalla vettura cascante come uno straccio, è ricoverato in una tenda, ove i nostri medici lo assistono con applicazione al capo di pannilini di aqua agghiacciata, che presto e fortunatamente lo rimettono in istato di continuare il cammino. Le montagne sovrastanti al villaggio appartengono alla stessa formazione di Diulfa, e constano ancora di puddinga e di arenaria in strati alternanti, ma la puddinga predominante e più resistente all’azione continua dell’aria, sporge in grandi scogliere dirupate che servono di nido ad una moltitudine di colombi selvatici (_Columba livia_). Queste roccie sono state smosse e compenetrate da un’emersione trachitica. Oltre Ghelin Kiayà il terreno, per un gran tratto ancora deserto e sassoso, è quasi piano; la strada è più nettamente tracciata, e, singolar cosa, vi distinguiamo chiare impronte di ruote. Ben tosto ci si apre allo sguardo una valle ampia, ben cultivata, e con frequenti e dense macchie di alberi; il più bello, il più ridente paesaggio, da che avevamo lasciato le provincie del Caucaso. In quella valle è Marend, la prima città persiana che incontriamo sul nostro cammino. Innanzi giungervi, un gruppo di cavalieri che stava aspettandoci, si muove di galloppo al nostro incontro. Erano il governatore ed il capo della religione, con numeroso seguito. Scambiati i complimenti, sotto gli ordini del conte Grimaldi, ci disponiamo in due ranghi, dietro il ministro, per dare un certo tono di solennità al nostro ingresso in Marend; quand’ecco uno spiritato _dervisch_ avanzarsi di furia alla testa del cavallo del commendatore Cerruti, alzando un’accetta in gesto minaccioso. Fu un istante di gravissimo pericolo per noi: chè uno de’ miei compagni, visto quell’atto, aveva già posto mano al _revolver_, in difesa del ministro. Per buona ventura con pari rapidità alcuni Persiani accorsero a circondare il _dervisch_, cercando con esclamazioni supplichevoli di rimuoverlo. Kuli Khan stesso, rompendo frettoloso la folla, si rivolse a quel mal capitato, e lo acquietò con una manata di _schahi_. Fummo avvertiti in quell’occasione che altri simili incontri ci sarebbero occorsi in avvenire, che però non avremmo giammai avuto da temere alcun male, mentre dall’altro lato l’offesa recata ad un _dervisch_, avrebbe facilmente attirato su di noi il furore della popolazione. La città di Marend non si vede se non quando vi si è nel bel mezzo, tutte le case essendo nascoste sotto l’ombra di grandi alberi. La percorremmo nella sua lunghezza, per accampare, nello spazio fra la città stessa ed il monte che le sovrasta a mezzogiorno, in un piccolo prato, presso una sorgente di aqua purissima. La giornata è limpida e serena, l’aria è rinfrescata dai monti ancora nevosi sulle punte culminanti, ed il florido aspetto di questo _eden_ della Persia occidentale ci rianima tutti. Se fossi condannato a scegliere il mio soggiorno nel dominio del Re de’ Re, credo che non mi accingerei tampoco a cercare un altro angolo di terra da preferirsi a questa valle di Marend, alla quale ben poco manca per essere veramente deliziosa. Due catene di monti fanno corona a settentrione ed a mezzo giorno ad una pianura ampia e verdeggiante, e confondendo ad oriente i loro contraforti, chiudono da questo lato la valle. La neve che rimane molto avanti nella state sulle cime de’ monti, alimenta i canaletti con molta arte diramati a fertilizzare le campagne benissimo cultivate. Dalla nostra stazione, rivolgendo il dorso alla catena del Maschuk, veggiamo davanti a noi il solito corrispondente antemurale, qui interrotto, e nell’intervallo è posta la città che abbiamo precisamente di prospetto. In questo medesimo intervallo, all’oriente della città, sorge un monticello di forma irregolarmente conica, il quale da’ circostanti rilievi si distingue per la sua nudità perfetta, e pel suo color grigio di cenere. Io e Lessona, col nostro fucile ad armacollo, e colla guida di due soldati, dirigiamo colà appunto la nostra consueta escursione, e ne ritorniamo col dolore di non potervi consacrare almeno una settimana di ricerche. [Illustrazione: Fig. 1. Il monte del castello a Marend.] Quel monticello (fig. 1) è detto nel paese monte del Castello di Marend (_Marend Kalè tepe_), perchè alla sua cima era costrutto anticamente un piccolo castello, del quale veggonsi ancora le rovine. Il materiale di cui è formato presso che intieramente, è un limo compatto, del tutto simile alla terra delle steppe persiane. La sua forma è quale già dissi, conica, irregolare, e la superficie tutta solcata e corrosa dalle aque pluviali. La sua dimensione, valutata ad occhio, ci parve misurare da circa un centinajo di metri in altezza e trecento in diametro della base. Sul dosso del monticello non spunta un filo d’erba. Ma il nostro esame fu particolarmente rivolto a certi tentativi di gallerie e di trincee che veggonsi in varj punti, ed in particolare ad un antro largamente aperto, a piccola altezza (V. fig. 2) dal lato rivolto verso la città. In questo taglio sono messi a nudo due distinti straterelli orizzontali, con ghiaja, rottami di stoviglie, frantumi di ossa, pulviscolo carbonoso, e numerosi frammenti di carbone vegetale. Il maggiore di questi strati era visibile pel tratto di quattordici metri; ma le traccie che a qualche distanza, al medesimo livello, ricompajono nettissime, fanno supporre allo strato medesimo una grande estensione. Le ossa da noi raccolte nel breve tempo del quale potevamo disporre, sono tutte di ruminanti, e, tranne qualche falange, tutte rotte, ed in siffatta maniera da fare attribuire, senza dubio alcuno, tale rottura all’azione diretta della mano dell’uomo[27]. Esse conservano ancora una forte proporzione di sostanza animale. Nel fondo dell’antro, che si dirige verso il centro del monticello, trovammo in parte già smossi, in parte ancora al loro posto naturale, massi pietrosi di dimensioni maggiori di quelli che veggonsi sparsi nella campagna circostante, ed uno fra essi evidentemente scavato ad arte, come per farne un mortajo. Risalendo poscia verso il monte, non trovammo più che uno straterello di cenere in una piccola trincea, e pochi frammenti di carbone e di stoviglie moderne affatto superficiali. [Illustrazione: Fig. 1. Il monte del castello di Marend. a — a strati con frantumi di carbone vegetale, ossa, stoviglie.] Noi eravamo adunque in presenza di uno di que’ _tepe_[28], così frequenti in Persia, dei quali i viaggiatori hanno soltanto, ed alla sfuggita, accennata l’esistenza, limitandosi a riportare la vaga tradizione locale che li considera come luoghi di sacrifizj degli antichi Ghebri. Eppure sarebbe questa materia del più vivo interesse scientifico, ora tanto più, da che avanzi consimili di antiche popolazioni umane in Europa, hanno svelato un nuovo campo di investigazioni oltre le colonne d’Ercole della cronologia paleografica. A mia conoscenza Maurizio Wagner è il solo che abbia dato qualche cenno alquanto particolare de’ _tepe_ della Persia, nelle vicinanze di Urmia, lo riferisco le sue stesse parole. «Oltre questi naturali rilievi, si trovano anche colline artificiali di forma regolare, con sommità appianata, somiglianti alle famose _Mohille_ o _Kurgane_ delle steppe della Russia meridionale, ed agli antichi monticoli cimiteriali di Kertsch sul Mar Nero, ma più grandi, di maggior periferia, e non di forma conica siccome son questi. Siffatte colline, al lago di Urmia, sono ricoperte di terra vegetale, di prati o di colture. Al disotto della terra vegetale si rinvengono ceneri, scheletri umani, ossa di animali, frantumi di stoviglie, monete di rame e di argento, per la massima parte affatto lisciate ed irriconoscibili. Quelle monete nelle quali si può ancora scorgere uno stampo, appartengono, pel maggior numero, all’epoca della dominazione romana, pochissime al tempo degli antichi Persiani. Noi visitammo due di questi colli presso il villaggio di Degalu. Si vedono qui gli avanzi di grandiosi scavi; gallerie di oltre cento passi in lunghezza, colle quali si è voluto senza dubio andar alla ricerca di supposti tesori. In siffatti scavi si trovano realmente, sebbene scarse, monete d’argento. Ne’ casi più sfavorevoli la cenere, che non manca mai, e che viene adoperata a concime delle campagne, dà qualche compenso alla fatica degli scavatori. Gli indigeni danno a queste colline artificiali, la cui origine e la cui significazione non conoscono, nessuna altra denominazione fuori quella di _tepe_, e le attribuiscono, dietro la dominante tradizione, a Zoroastro, ai Magi, agli antichi adoratori del fuoco»[29]. Questo brano senza alcun ragguaglio preciso sulla giacitura delle monete romane e degli scheletri umani, non sparge per verità alcuna luce sul problema dei _tepe_ della Persia. È lecito perfin dubitare che i _tepe_ di cui parla Wagner siano della stessa formazione di questo di Marend e degli altri, pigmei al paragone, che abbiamo incontrati nel seguito del nostro viaggio, tutti con ogni probabilità anteriori all’epoca dell’invasione romana in Oriente. Dovrò riprendere in altra occasione questo argomento; ora mi limiterò a dire che i naturalisti, i quali intendessero di proposito ad istituire ricerche scientifiche sui _tepe_ della Persia, dovrebbero fare il più gran conto del monte del castello di Marend, per la imponente sua mole, e per l’abondanza de’ frantumi di ossa e di stoviglie che vi si contengono. Ritornati da questa escursione alle nostre tende, vi trovammo ancora in visita di commiato il governatore, uomo che al grado ed alla intelligente fisonomia, doveva esser da noi considerato come il rappresentante della scienza persiana in Marend. Lo interrogammo sull’argomento che ci aveva presi di tanto interesse, e seppimo da lui come nessuna tradizione locale fosse congiunta al monte del castello, e come gli scavi che vi sono praticati abbiano avuto per solo scopo l’estrazione di buon materiale di concimazione de’ terreni. I raggi della scienza europea si estinguono nell’atmosfera opaca della barbarie orientale, ma se vi potessero penetrare, si troverebbero in molti punti prevenuti da antiche pratiche tradizionali. Liebig potrebbe aggiungere alla sua bella dissertazione sull’agricultura chinese, qualche pagina sulle industrie agronomiche dei Persiani. Il mattino seguente valichiamo la catena del Maschuk, per una via ripida, nel fondo di un vallone tortuoso che separa due diverse sorta di roccie. I monti sulla nostra sinistra sono di un conglomerato rosso di varia struttura, passante per gradi dall’arenaria alla puddinga con massi enormi, ed hanno forme più arrotondate, cresta meno elevata de’ monti calcarei che sorgono al lato destro della valle, terminati da scogli e da aguglie ancora biancheggianti di sprazzi nevosi. Verso la sommità della catena la valle si allarga, ed il suo fondo è ricoperto da un immenso deposito di ghiaje e sabbie, che nei solchi de’ torrentelli, e nelle scarpe qua e là scoscese si veggono in strati orizzontali: primo saggio di questi sterminati cumuli di tritumi che dovevamo più tardi osservare nell’Elburz, e che costituiscono un carattere particolare di queste grandi catene del nord della Persia. Superato il pendìo, ci si apre un alto piano cultivato ma senza un solo arbusto, ove le rovine di un grandioso caravanserai fanno testimonianza della munificenza di Abbas il grande e della forza dei terremoti dell’Asia. Scendendo per l’opposto versante si percorre il letto di un torrente ampio e commodo, con aqua limpida, macchie di pioppi e di salici, poi di nuovo la steppa, ed infine si giunge al miserabile villaggio di Sofian, presso il quale, in un piccolo angolo ingombro di piante e intersecato da canali, sono pronte a ricoverarci le nostre tende. L’allegria del nostro pranzo fu in quel giorno di nuova specie, un’allegria arrabbiata, condita di bestemmie innocenti, chè invero non ci aspettavamo di mancare di ghiaccio, di vino e perfino di buona aqua, a così poca distanza dal grande emporio di Tauris. Quando, sul far della sera, ecco giungere al nostro campo un corriere speditoci dal ministro degli affari esteri di Tauris, con un plico di lettere per noi: le prime lettere da che avevamo lasciata l’Europa! La gioja febbrile di quel momento, la ressa attorno al ministro distributore delle lettere, l’avidità dell’esser tutti assorti nelle memorie affettuose dei parenti e degli amici, il ricambio delle notizie e dei saluti, si possono più facilmente imaginare che descrivere. Quel corriere, che parlava discretamente il francese, aveva faccia da cristiano, ed era infatti un giovane armeno cattolico, nato a Tauris. Ci disse tante, belle cose del nostro ricevimento per l’indomani, dell’alloggiamento che ci era preparato, delle feste che si progettavano per noi. Col pensiero commosso da tante impressioni nuove e diverse andammo a passare una notte insonne sotto le tende. Il 20 giugno, di buon mattino, in sole quattro ore di marcia, eravamo in vista della allora da noi tanto sospirata Tauris; ma l’entrarvi non doveva essere affare tanto spedito. Dopo una magra colazione servita alla rinfusa, ci svestimmo de’ polverosi abiti di viaggio per indossare le brillanti nostre divise, e mentre eravamo affaccendati a questa trasformazione resa complicata dalla fretta, dall’angusto spazio, e dalla confusione de’ bagagli, ecco avanzarsi al nostro accampamento un drappello di cavalieri, fra’ quali distinguiamo con graditissima sorpresa vestiti europei, ed erano appunto europei che venivano a farci visita: il console inglese, M. Abot, alcuni svizzeri e tedeschi, ed un italiano di nome e di famiglia, il sig. Castelli, residente da lunghi anni in Tauris. Montammo infine in sella, con questo rinforzo di scorta, per recarci a non più di qualche centinajo di passi, ove, presso un altro accampamento, stavano aspettandoci le autorità di Tauris con immenso seguito di servi e di soldati. Tutto questo turbine di gente, quando fummo a certa distanza, si mosse al nostro incontro, e ne venne un parapiglia, come di due masse di cavalleria urtantisi in battaglia, se non che la battaglia era qui di inchini e di _salamelecchi_, e le due masse si confusero in una, che disordinatamente unita, fece ancora pochi passi al galoppo, fin al muricciuolo d’un giardino suburbano, ove s’era aperta, per quella circostanza solenne una piccola breccia tanto da lasciarci passare carponi ad uno ad uno. Là mettemmo piede a terra lasciando i cavalli a’ palafrenieri, ed entrati nel giardino, sotto una spaziosa tenda, attorno ad una gran tavola stracarica delle solite confetture, ci ponemmo gravemente a sedere, facendo ala al nostro ministro occupante il posto d’onore con al suo fianco il governatore di Tauris, generali persiani ed altri de’ più alti funzionari della provincia. Uno sciame di servi si diede a portar in giro _scherbeth_[30], thè, e _katian_, finchè lo stesso nostro ministro alzandosi non venne a dare il segnale della partenza. Nuova inestricabile confusione per riprender i nostri cavalli, e compiere infine la cerimonia del solenne ingresso nella città, fra la siepe di teste e di busti che sporgeva dai muriccioli, e la folla che in più luoghi ingombrava il passaggio, intanto che il nostro arrivo era annunciato ai quattro venti dallo sparo de’ cannoni. Il caracollar de’ cavalli di una turba fattasi cotanto numerosa e stipata, travolgeva nell’aria un tal nembo di polvere da non vederci più l’un l’altro, da urtarci ad ogni tratto, da dover studiare più che il passo il modo di respirare, mentre dall’alto ci sferzava le spalle un sole ardentissimo. Secondo i nostri più discreti calcoli questi tormenti dell’etichetta del sito e della stagione, avrebbero dovuto aver presto un fine, se d’altro non si fosse trattato che di muovere per la via più diritta, attraverso la città, a’ nostri alloggiamenti. Ma ci eravamo ingannati. Le autorità persiane che si eran poste a capo della cavalcata diplomatica, ci imposero il supplizio del giro attorno alle mura della cittadella, che durò per sè solo oltre un’ora. Questa cittadella occupa un’immensa area che basterebbe ad una intiera città; il suo recinto è un muro di fango, rotto da corrosioni, fessure e scoscendimenti, che appena e malamente potrebbe servire di difesa contro una popolazione inerme. Dall’orlo del muro sporgono rovine di case, di castelli e di qualche torre. Infine questo spettacolo non era tale da produrre in noi un alto concetto della potenza militare della Persia, ma solo noja e stanchezza. Quando piacque a’ nostri ospiti fummo condotti al quartiere assegnatoci, il quale era niente meno che lo stesso palazzo dello Schah, ove ripresero come cosa nuova i complimenti e le felicitazioni ufficiali, tanto da non lasciarci liberi di respirare infine a nostro agio se non ad ora assai inoltrata. Questo palazzo sorge sul confine meridionale della città, nel mezzo di un ampio giardino rettangolare chiuso da un muro. Fu edificato da Feth Alì Schah, ed è per conseguenza recente; ora per l’incuria connaturale ai Persiani, e pel cattivo materiale di costruzione, che è in massima parte fango, trovasi già in uno stato di deperimento assai prossimo alla rovina. Il corpo principale consta di un ordine di camere terrene, e di un piano superiore, quello che propriamente serve di abitazione al sovrano quando recasi in Tauris. Un gran salone o _talar_, sta sopra il portone d’accesso, ed occupa colla sua grande vetriata la parte di mezzo, che è pur la maggiore, della facciata rivolta verso la città. L’interno del salone è ornato nel modo istesso della gran sala del Sardar di Erivan; colla volta a specchi, e le pareti dipinte con quadri rappresentanti caccie e battaglie, ed in mezzo alle figure di questi quadri spicca, colla sua grande barba nera quella di Feth Alì. Tra questi dipinti ci fece sorpresa il vedere due grandi figure isolate e simmetriche di due imperatori europei, Alessandro e Napoleone. Due piccole camere, una per lato, compiono questo piano superiore. Serviva di stanza al nostro ministro una di queste due camere, ai ricevimenti ed alla mensa la gran sala: il rimanente personale dell’ambasciata si distribuì nelle camere al piano terreno. In un’ala laterale di antri di fango, fu preso il meno rovinato per farne la cucina. Kuli Khan, sebbene padrone di una delle più belle case della città, rimase con noi da mattina a sera durante la nostra fermata in Tauris, ed a tal uopo si fece piantare la sua tenda particolare nel giardino, di fianco al palazzo. L’ammobigliamento di questo, che per la Persia si può dire ancora sontuoso alloggio, consisteva de’ nostri materassi e delle nostre casse; solo nella sala superiore trovammo disposti alcuni vecchi sedili e qualche tavola sconquassata. La spianata al davanti del portone d’accesso, secondo lo stile persiano, era quasi per intiero occupata da una gran fossa quadrata, ma inetta a mantener l’aqua per lo stato delle sue pareti; la facciata opposta del palazzo formava uno dei lati di un piccolo giardino interno chiuso dal suo proprio muro di fango, diviso regolarmente in ajuole coperte di erbe selvatiche ed arbusti scompigliati. Il grande giardino circumambiente era piuttosto un bosco denso ed incolto, suddiviso da viali rettilinei intersecantisi ad angolo retto, con qualche pezza di vigneto e di prato naturale. Tale era il nostro alloggiamento in Tauris. Chi è schiavo delle mollezze europee ci compiangerà; ma chi viaggia privatamente in Persia, invidierà la nostra sorte. Tre o quattro giorni, necessarj d’altronde alle interminabili cerimonie ufficiali, potevano trascorrere per noi abbastanza confortanti e lieti. Ma gli ostacoli che incominciavano qui a farsi gravissimi, per la speditezza del nostro viaggio, ci hanno condannati ad una dimora lunga e nojosa oltre ogni previsione. Noi naturalisti in particolare dobbiamo lamentare un prezioso tempo perduto. Se nel piano del viaggio fosse stata compresa una fermata di undici giorni in Tauris, avremmo colta con vero trasporto questa opportunità per spingere un’escursione al lago di Urmia, od al Saband, ma la prospettiva della partenza ad un indomani che si trasportava sempre per impedimenti nuovi ed inattesi, ci ha tenuti presso che prigionieri, ed ha ristretto le nostre escursioni nel recinto del giardino reale. Gli ozj di Tauris non hanno lasciato nelle reminiscenze del nostro viaggio che la vana amarezza di una bella e rara occasione infruttuosa. Licenziati i malacani di Tiflis, il governo persiano mise a disposizione del nostro ministro, pel trasporto delle vetture, cavalli dell’artiglieria. Bisognava provedere ai cavalli per noi, ed alle tende, poichè i cavalli e le tende che ci avevano servito da Diulfa, non dovevano procedere oltre Tauris. Kuli Khan, il quale aveva sempre mostrato per noi la maggior premura, doveva cedere l’ufficio ad un altro mehmendar di rango superiore, che il governo aveva scelto nella persona di un generale, Alì Naghi Khan. Spuntò in noi la persuasione che non vi fosse da guadagnare nel cambio; e questo sentimento fatto palese anche col desiderio espresso, della conservazione presso la nostra ambasciata del primiero _mehmendar_, ha sicuramente potuto agire in modo sfavorevole sull’animo del _mehmendar_ nuovo, e gli ostacoli, che si presentavano al progredimento sollecito del nostro viaggio, furono da noi attribuiti intieramente alla mala voglia di questi. Supporre in tali circostanze un sentimento di reazione e le sue naturali conseguenze, non è calunniare un persiano, posto a contatto con infedeli europei: giustizia per altro vuole che io soggiunga, altra esser stata la vera causa de’ lamentati impedimenti, da noi conosciuta più tardi, e siccome a suo luogo dirò. Reclusi forzatamente in questo recioto, il meglio che potevamo fare, quando la noja e l’impazienza delle giornaliere contrarietà non ci deprimevano affatto, era il cacciare nel giardino. La _Testudo ibera_ e lo _Stellio caucasius_, vi sono abbastanza communi; ma qui per la prima volta trovai da aggiungere alle già raccolte specie di rettili due scincoidi, cioè l’_Ablepharus ménetriési_, Dum. Bibr. ed una nuova specie di _Euprepis_ che io ho chiamato _E. affinis_[31]. Quanto agli uccelli, ecco le specie da me trovate. _Athene noctua, var. persica; Upupa epops, Pyrgita domestica; Carduelis elegans; Euspiza melanocephala; Sturnus vulgaris; Acridotheres roseus; Parus major: Muscicapa luctuosa; Saxicola aurita; S. œnanthe; Hypolais elaica; Curruca hortensis: Curruca cinerea var. persica._ Quest’ultima specie nidificante in grande abbondanza nel giardino, insieme all’_Hyp. elaica_, è del tutto simile alla sterpazola da me veduta a Delidjan, il cui canto io aveva trovato sensibilmente più melodioso ed argentino di quello della communissima _Curruca cinerea_ d’Europa, dalla quale del resto costantemente si distingue per una statura minore, e colorito meno volgente al fulvo. Queste differenze non mi decidono ancora a considerare come specie distinta la sterpazola del Caucaso e di Persia, come non posso seguire l’esempio di coloro che separano specificamente dalla commune civetta d’Europa quella di Persia, solo perchè di un colore costantemente molto più pallido. Di un’altra specie non posso dare che una vaga indicazione. Passeggiando un giorno senza fucile nel giardino, fui colpito da un gorgheggio forte e sonoro che metteva un uccello dell’aspetto e della statura dell’_Acrocephalus turdoides_, posato su di un ramo a pochi passi da me, d’onde potei contemplarlo a mio agio. Il dì seguente, ricercandolo appositamente lo rividi e gli diressi un colpo; ma sgraziatamente l’uccello ferito si perdè nel bosco, nè per quanta diligenza io facessi mi venne dato rinvenirlo. Non poteva essere certamente, in luogo cotanto asciutto, la commune specie d’Europa, dalla quale differiva altresì per il colore più giallastro del petto e del ventre, e pel canto ancora più altisonante. Io voglio prendere ora l’occasione di dire qualche cosa del così bello e così commune storno roseo (_Acridotheres roseus_), i cui branchi innumerevoli fanno gradita impressione ad ogni viaggiatore in Oriente, fosse il più alieno dalle emozioni di un naturalista. Il bel contrasto dell’elegante vivo e delicato roseo col nero vellutino della testa, delle ali e della coda, le centinaja, le migliaja di individui volanti di concerto in branchi stipati, fanno di questa specie una delle più caratteristiche delle campagne dell’Oriente. Questa splendida livrea è però solo del maschio adulto. I giovani e le femmine hanno una piuma assai più modesta, grigio di fumo, con appena qualche velatura di roseo. Io ho visto branchi di individui adulti, ed altri affatto separati di giovani dei due sessi. Nella buona stagione questi branchi si scompartono in copie, le quali però rimangono sempre approssimate in una località di elezione. Nordmann che ha data un eccellente monografia di questa specie, assicura di aver osservato branchi i quali passano tutta una estate senza attendere all’opera della propagazione. Il nutrimento di questi uccelli consiste di insetti, e specialmente di locuste; ma nella primavera avanzata preferiscono le frutta e specialmente le ciliege, ed allora ingrassano assai, di una pinguedine di bel colore roseo. La loro carne, che in altra stagione è dura e spregevole, diventa in questa tenera e grata quanto mai, e l’ambasciata italiana ne può fare ampia testimonianza, a salutare istruzione per chi viaggia la Persia, e deve provedere a tutta la bisogna del vitto giornaliero. Sul far della sera gli individui che s’eran dati a pascolare nei campi e ne’ giardini, si appollajano in grandi branchi sugli alberi, stretti siffattamente gli uni presso gli altri, da piegare sotto il peso grossi rami. Dall’alto di queste piante fanno sentire un gorgheggio, un cicalìo continuo e sostenuto, che cessa poi quasi d’improviso quando il sole sia tramontato. È facile allora il farne una vera strage, lasciandosi essi avvicinare dal cacciatore, per poco questo sia cauto, a breve tiro di fucile. Lo storno roseo è uccello providenziale per l’Oriente, per la quantità immensa di locuste che distrugge, senza che per altro valga a lottare con profitto contro il numero sterminato di questi insetti che ne’ deserti hanno le loro covate al riparo di un altro ben maggiore nemico che è l’aratro. I Tartari e gli Armeni tengono gli storni rosei in grande venerazione, e benedicono il loro arrivo, quando vedono i campi minacciati di totale sterminio dalle cavallette. Ancora oggi gli Armeni hanno fiducia in una sorgente miracolosa che scaturisce ai piedi dell’Ararat; credono che l’acqua di questa sorgente abbia la virtù di chiamare gli storni rosei; epperò ne conservano sempre scrupulosamente una certa provigione che espongono all’uopo nelle minacciate campagne, e, quando la provigione è esaurita, se ne riforniscono, facendo apposite peregrinazioni, anche di lontano, alla sacra fonte. In molti paesi dell’Europa civile, che non hanno nè gli storni rosei nè l’acqua dell’Ararat, si esorcizzano direttamente, da ignoranti ministri di superstizione, i bruchi e gli scarafaggi, a scorno dell’impotenza delle academie d’agricultura. XI. Uno sguardo a Tauris. — I _bazar_. — Un _dervisch_. — Visite e controvisite. — Vuote gare statistiche. — I medici europei in Persia. — Visita al Principe ereditario. — Festa in onore della ambasciata italiana. — Successione di giorni perduti. — La carovana si ricompone. — Partenza. — Lebbrosi. — Da Tauris a Mianeh. Tauris (_Täbriz_ de’ Persiani), capitale della vasta provincia dell’Aserbedian, ha conservato ancora, attraverso i secoli, i terremoti, e l’indomabile incuria musulmana, il suo rango tra le primarie città della Persia, ma ha perduto e va ogni giorno perdendo quello che per sì lungo tempo ha tenuto fra le città di tutta l’Asia occidentale. Chardin la visitò nel 1673. I moderni che percorrono la linea battuta, in epoca tanto remota, dal viaggiatore francese, possono ancora verificare ad ogni punto la scrupolosa esattezza delle sue descrizioni, ma non trovano più in Tauris le 15,000 case, le 15,000 botteghe nei labirinti de’ bazar, i 300 caravanserai, le 230 moschee, i 500 mila abitanti. Il solo perimetro è rimasto: e veramente l’estensione di questa città, vista da una delle sovrastanti alture, non pare all’occhio molto inferiore di quel che sia Parigi dal _Mont Valérien_, comprendendovi da circa 10,000 giardini, che sono per verità rinchiusi nella città stessa, e ne fanno parte integrante. Tra l’ingombro intricato e interminabile delle vecchie mura di fango stemperato, fra le rovine di antichi monumenti, sorgono nuove costruzioni di fango, e nuove rovine che sono la città attuale. Viottoli tortuosi irregolari, pericolosi per le buche profonde che frequentemente vi si incontrano, tristamente rinchiusi fra continui muricciuoli di fango, s’intersecano per questa immensa area. Solo indizio delle abitazioni, nascoste ad ogni sguardo de’ passanti, sono le porticine lunghesso i muri, ed affinchè attraverso le sconnessioni e le fenditure delle imposte, l’occhio de’ curiosi non violi i penetrali gelosamente custoditi, s’alza di contro ad ogni porticina un secondo sipario interno. Di quando in quando queste vie si aprono in piazzali dal pavimento ingombro di macerie e di rottami, quando non è di lapidi sepolcrali, poichè i Persiani hanno per costume di eleggere a cimiteri le piazze più battute nell’interno delle città. Fra le opere monumentali sono da annoverarsi la cittadella, della quale ho già detto nel precedente capitolo, l’arsenale, salito a tanta importanza sotto Abbas Mirza, ed ora in completo decadimento, le moschee ed i _bazars_. Sono invero imponenti, maestose, le rovine della grande moschea distrutta nei terribile terremoto del 1780, tali da far credere essere stato quello uno dei più grandi e forse il più grande monumento della Persia moderna. Come in tutte le città dell’Oriente, così anche a Tauris la vita si concentra ne’ bazar. È singolare il contrasto fra la solitudine e la quiete delle vie deserte, e la folla rumorosa de’ mercanti, de’ compratori, de’ vagabondi che si agita e si urta da mane a sera in quelle immense interminabili gallerie, dalla volta solidamente costrutta in mattoni, con larghi spiragli per dare adito alla luce, e file non interrotte di botteghe ai due lati. I bazar di Tauris sono dei meglio forniti di tutta la Persia, anche di mercanzie europee, delle quali fanno particolarmente commercio gli Armeni. Di quando in quando alcuni rami o svolte di queste gallerie mettono ne’ caravanserai, ove hanno i loro depositi i più facoltosi negozianti, ed ove sono apprestati alloggiamenti e magazzeni per i grossi mercanti avveniticci. Alcuni di questi caravanserai sono assai pittoreschi e grandiosi, con due piani e due ordini di grandi finestre degli edifizi che circoscrivono uno spazioso cortile adorno di piantagioni e di fontane. Ne’ caravanserai hanno pure i loro _comptoirs_ ed i loro magazzeni i pochi negozianti europei. L’abbondanza e la varietà degli approvigionamenti de’ bazar della Persia, e di questi di Tauris in particolare, hanno superata la nostra aspettazione. La folla, il nuovo aspetto delle cose e della gente, fanno sì che un europeo, il quale per la prima volta s’interna in questi labirinti, facilmente si smarrisce, e mentre studia la sua via e tende l’occhio in cerca delle sue guide, è urtato dagli affaccendati del luogo, ed anche da qualche fila di asini e di cammelli stracarichi, de’ quali non s’avvede se non quando si sente sospinto al dorso. Qui è la vita publica: qui il governo fa noti i suoi editti, e dà spettacolo dell’esecuzione delle sue leggi. Un giorno ci occorse di vedere un povero infelice, con un anello di ferro passato attraverso le narici, e per una corda passata per questo anello condotto a mano da due soldati, mentre un agente della polizia di quando in quando leggeva ad alta voce una sentenza. Il giorno dopo lo stesso condannato, nel medesimo modo, veniva tradotto ancora per tutto il bazar, ma colla mano destra penzolante dal collo. L’individuo era colpevole di furto. Tutti rubano in Persia a man salva, e più i grandi e potenti che i poveri del basso volgo. Non è dunque il rispetto della proprietà che si vuole insegnare con pene cotanto strane, ma soltanto il rispetto della forma, una certa quale grazia, od almeno la simulazione del diritto, nell’appropriarsi la roba altrui. Di un’altra curiosa scena fummo testimonj ne’ bazar di Tauris. Un santone, o _dervisch_, a cavallo, avvolto in un ampio mantello bianco, dal sorgere al tramontar del sole percorre i bazar, nel solco che la folla apre rispettosamente davanti a lui, e grida a tutta gola, di continuo, col semplice intervallo di un respiro, _Alì hò Alì hò!_ L’incontro di questo fantasma, macilento, spiritato, grondante sudore, ci ba fatta profonda impressione. Seppimo poi che esso mena questa vita da dodici anni. Alla sera soltanto prende qualche cibo che a gara gli viene offerto dalla pietà _dei veri credenti_, si sdraja; e sorto di nuovo col sole, inforca il primo cavallo che incontra e che gli viene immediatamente ceduto, per ricominciare la sua faticosa missione. Ne’ forzati ozj di Tauris, i frequenti e geniali rapporti cogli Europei che vi hanno stanza, sono stati per noi il più grato conforto alla noja della prigionia ed alla pesante etichetta delle visite uficiali. Devo qui ricordare con compiacenza in particolar modo i signori Vlasto, della casa Ralli; il sig. Castelli, di origine genovese, ma da lunghi anni stabilito in Tauris come facoltoso privato; un medico tedesco, il Dott. Jurist; e due negozianti svizzeri, i signori Würth e Hahnart. Le cortesie delle quali ci colmarono, ed i signori Vlasto, Würth ed Hahnart anche più tardi in Rescht, rimarranno fra le più gradite reminiscenze del nostro viaggio. Farò grazia al lettore della descrizione de’ ricevimenti uficiali. La nostra sede era un andirivieni continuo di autorità, di funzionarj, di parenti e di amici dell’antico e del nuovo _mehmendar_. Si convenne fra noi una specie di turno a far ala al nostro ministro in questi ricevimenti. I discorsi finivano sempre a cadere sul nostro paese, e su quello che ci ospitava. I Persiani non hanno alcuna idea degli stati europei, che tutti in massa comprendono sotto la denominazione di _Frengistan_; solo qualche cosa sanno, e per dura esperienza, della grandezza e della forza della Russia. Abbiamo avuto per un istante la speranza di poter raccogliere in questi ricevimenti qualche notizia statistica sulla Persia, ma alle prime prove lasciammo ogni lusinga, accorgendoci noi subito come l’esagerazione persiana varcasse ogni limite. Il meno che i nostri interlocutori facessero si era raddoppiare le nostre cifre, che per verità noi medesimi spiattellavamo arrotondate con larghissimo arbitrio, calcolando con chi s’aveva a fare. Noi dicevamo, per esempio, che la popolazione dell’Italia era di 25 millioni, e subito quella della Persia diventava di cinquanta millioni; che la nostra armata contava 500 mila soldati, e l’interloculore persiano soggiungeva immediatamente che lo Schah dispone d’un millione di armati. Così per tutto il resto. Da ciò venne l’impossibilità di una qualche cifra alquanto prossima al vero, fosse pure della sola popolazione di Tauris. La Persia non è paese da statistiche. Il sig. Castelli per altro mi disse che pochi anni prima, all’occasione di un orribile carestia che travagliò il paese, si dovette fare un censo improvisato alla meglio della popolazione di Tauris, onde provedere all’approvigionamento della città; e che il risultato ottenuto in quella circostanza diede un cento mila abitanti all’incirca. Sono stabiliti in Tauris due medici europei: uno inglese, il dott. Cornick; l’altro tedesco, il già nominato dott. Jurist. Il principale loro provento consiste nelle somme annuali pattuite colle poche famiglie europee risiedenti nella città, o con qualche famiglia armena. La clientela mobile, oscillante, non riesce loro di alcun profitto, chè l’avarizia dei Persiani è più forte della cura della salute. Solo in certi casi di gravi malatie chirurgiche i Persiani chieggono l’assistenza de’ medici europei, stipulando previamente la mercede pel caso di fortunato esito della cura. Pei casi ordinarj i malati ricorrono agli empirici del luogo che retribuiscono di pochi _schahi_. Anche in Persia ogni europeo è ritenuto come un _Hakim_, vale a dire medico; e non si può dire quanto lavoro giornaliero toccasse al nostro bravo Lessona, nel visitare infermi attratti dalla notizia del passaggio dell’ambascieria italiana. Ad ogni stazione accorrevano processioni di malati da’ vicini paesi, a domandar consigli dal nostro medico; consigli, è inutile il dirlo, non solo gratuiti, ma seguiti dalle somministrazioni caritatevoli dei rimedj della nostra farmacia. Tutta questa gente sarebbesi senza titubanza allontanata, ove si fosse posta la condizione di una mercede, anche tenuissima al consulto. Sia questo un utile avviso pei medici italiani, i quali volessero tentare la sorte in Persia; sorte che è strettamente legata all’esistenza di colonie europee, quindi alla residenza nelle maggiori città. La capitale è naturalmente la città meglio fornita di medici europei, addetti quali al servizio sanitario dell’armata, quali alle ambasciate residenti di Russia, d’Inghilterra, di Turchia, oltre l’archiatra dello Schah, ch’è il dottore Tholosan, di nazione francese. Tale e sì grande è l’importanza di Tauris che per costante tradizione ha residenza in questa città, collo splendore di una corte, l’erede al trono. Il 22 giugno l’ambascieria italiana, in gran pompa, fu ammessa al ricevimento solenne del figlio primogenito dello Schah, che pochi giorni inanzi era stato proclamato, fra publiche feste, vicerè della Persia. È un giovinetto di otto anni, pallido, rachitico, con grandi occhi neri, fisonomia espressiva, al quale sovrasta un’epoca terribile per un principe persiano di così gracile struttura: l’epoca della pubertà. Non dirò delle interminabili cerimonie che precedettero e seguirono l’udienza. Dopo la presentazione di ogni singolo membro dell’ambasciata, il ministro Cerruti rivolse al giovine principe queste nobili parole: La mia età mi dà il diritto, Altezza, di porgervi, non complimenti ma augurj; ed io vi auguro che possiate mai sempre seguire le vie dell’umanità e della giustizia, le sole per le quali un principe sia in grado di compiere il debito suo, di render felici i suoi popoli. Dopo la visita del principe l’ambasciata si recò dal _Sardar_ che è il generalissimo dell’armata, una delle maggiori autorità dell’impero, al consiglio del quale s’affida lo Schah nelle più importanti deliberazioni di Stato. Fu quella una vera giornata campale, specialmente per diplomatici d’occasione, quali eravamo la maggior parte. Il principe rispose coll’invitarci pochi giorni dopo ad una grande festa nella sua residenza, astenendosi per altro dall’intervenirvi di persona, e facendosi rappresentare dalle primarie autorità di Tauris. Il giorno 27, sul cader del sole, movemmo ancora tutti, in abito di gala, al così dettò palazzo vicereale, affollato di gente, e addobbato con insolita pompa di lumi, di cristalli e di festoni. Sotto un atrio ornato di specchi, con un immenso cortile di prospetto, sedemmo in schiera co’ dignitari messi a farci onore, e, dato il segnale, incominciarono i fuochi d’artifizio nella corte, scomposti ma varj e di bello effetto. Dopo il turno de’ razzi e delle girandole, venne quello delle mine, o grandi petardi sotterranei, con scoppj così potenti che tutto il fabricato ne era scosso, ed ogni colpo staccava in frantumi gli specchi sovra il nostro capo, tanto che si dovette dare ordine di cessare. Ma la guerra era dichiarata alle nostre orecchie. Masse di tamburini e di trombettieri, a tutta forza di braccia e di polmoni, davano a capriccio negli strumenti, tirandone un frastuono infernale che non voleva dar tregua. Consumate le machine incendiarie, si presentarono davanti a noi tre ballerini, due dei quali trasfigurati in donna, ed intrecciarono danze convulse e barrocche da muovere a noja ed a nausea. Così il tempo trascorreva senza che si parlasse del pranzo, che era pure nel programma, e del quale le nostre viscere cercavano indarno un qualche segno esterno. Finalmente si spalancarono le porte alle nostre spalle, e fummo introdotti in una sala splendidamente illuminata, ove era imbandito un banchetto sardanapalesco, con lusso esagerato di cristallerie di Boemia, e, ciò che più importava, con sedili e posate, oggetti dei quali i Persiani fanno assolutamente senza. I personaggi che aveano fatti gli onori della prima parte della festa, sedettero nostri commensali, e tra questi due andavano distinti per la conoscenza perfetta di lingue europee: Davoud Khan, smirniotto di nascita, generale nell’armata dello Schah, parlante speditamente il buon italiano; e Jahja Khan, il quale, addetto un tempo all’ambasciata di Pietroburgo, vi aveva appreso correttamente il francese. Il pranzo fu servito con profusione di vini e di vivande. Tutte le invenzioni della cucina persiana ci passarono per lo meno sotto gli occhi; pilaw, o riso asciutto, in tante portate quanti sono i condimenti in uso, di sole spezie, di sostanze zuccherine, di salse agre, di sughi di carne di montone, poi citrioli ripieni e carni arrostite sulle bragie, e tutta questa roba con intermezzi di piatti più o meno europei; tanto che il pranzo si protrasse assai avanti nella notte. Abbiamo osservato, in questa circostanza, che anche _i veri credenti_ sanno all’uopo metter in disparte la disciplina del Corano, e tracannare, senza tante cerimonie, grandi e ricolmi bicchieri di vino, da disgradarne un cosacco. Ma in nessun modo si poteva riescire a fare per noi di Tauris una Capua, e la nostra pazienza, portata all’estremo, diede libero sfogo alla crescente energia delle rimostranze onde si affrettassero da senno i preparativi della partenza. Il nostro nuovo _mehmendar_, Alì Naghi Khan, colla secca, abbronzita, impassibile sua fisionomia, apertamente prometteva e riprometteva, sottomano studiando sempre nuovi ostacoli per trattenerci. I cavalli che ci avevano portati dall’Arasse dovevano esser cambiati, ed egli trovò modo di farci perdere alcuni giorni nella scelta de’ nuovi, portandoci a prova ronzini viziosi che gli esperti della nostra brigata rifiutavano. Quando sembrava che la difficoltà de’ cavalli fosse superata, e già tutti quelli che ci occorrevano stavano raccolti e vaganti nel recinto, sorse l’altra difficoltà delle tende che il _mehmendar_ seppe governar destramente ad ottenere nuove dilazioni. Questa condotta delle autorità persiane, che tanto ci inaspriva, dava luogo da parte nostra a commenti e congetture che finivano quasi tutte a carico del _mehmendar_. La vera causa di queste tergiversazioni, che si ripeterono ad ogni tratto anche nel seguito del viaggio, non ci fu nota che assai tardi, tanta era la gelosia del nostro _mehmendar_ a tenerla segreta. Lo Schah si trovava in quel tempo a’ bagni di mare ed alle caccie nella provincia dei Mazanderan, e non era disposto a tralasciare così di subito queste sue occupazioni, per recarsi in Teheran a ricevere l’ambasciata del re d’Italia. I suoi ministri scrivevano continuamente al _mehmendar_ di rallentar le nostre marcie, di trattenerci per via con ogni astuzia, ed in questo sono stati molto bene serviti da Alì Naghi Khan. Infine lettere del ministro degli affari esteri, come ultimo espediente, ci esortavano colle espressioni le più commoventi ad aver cura della nostra salute, a non sfidare con troppa imprudenza l’inclemente clima della Persia, a viaggiare a piccole giornate, a lasciar trascorrere il culmine dell’estate prima di giungere a Teheran, che ci era dipinta come una fornace fatale agli Europei. — Pure ogni giorno si avvicinava a quello da noi tanto invocato. Il piano, l’ordine, la disciplina del viaggio discussi e definitivamente assentiti, pronte le tende, le cavalcature e le coppie di cavalli dell’artiglieria pel trasporto delle nostre due vetture, venne infine il momento di dare un addio a Tauris. La nostra carovana erasi fatta più numerosa; ma prima di descriverne il cammino devo far qualche cenno di alcuni individui che ne facevano parte. Era necessario un dragomanno persiano, in sostituzione del signor Mehrab, ed il nostro ministro trovò molto opportunamente preferibile l’averne uno di non troppe pretese, uno, come direbbesi, di buon comando, da potere all’occorrenza (scusi l’animo sensibile del lettore) trattare col bastone o colla punta degli stivali. L’individuo scelto a questo ufizio fu Mirza Alì[32], birbo di svegliato ingegno, che da servitore di bassa sfera s’era, per industrie d’ogni specie, innalzato di grado, ed avendo avuto occasione di accompagnare fino a Parigi un mercante di semente di bachi raccolta a Rescht, aveva discretamente imparato il francese. Il _mehmendar_ condusse con sè un suo figlio, il quale, senza avere mai comandato una mezza compagnia, doveva ricevere a Teheran il brevetto di colonnello: giovinotto di tratto piacevole, di carattere apparentemente buono, e che sapeva pure balbettare qualche parola di francese. Un curioso tipo del basso personale del nostro seguito era un palafreniere del Sardar, di nazione curdo, di nome Khiazembey, allegro, serviziato, gran bevitore, capace di vuotare d’un sorso una bottiglia di rhum. Per tutta la strada ci divertì colle sue mattezze, colle sue fantasie, e con certe canzoni che egli accompagnava con un singolare batter della dita, così ricche di immagini poetiche e di colorito orientale, da rincrescermi ora il non averne trascritta la traduzione che me ne andava facendo l’amico Bosio. Tipo d’altro genere per la instancabile attività, pel contegno discreto ed onesto come raramente si incontra in un persiano, per l’ordine scrupoloso in tutte le faccende sue, era un vecchietto di nome Ismail, che nell’ufizio importante di magazziniere ci ha resi servigi non mai abbastanza lodati. Il nostro seguito persiano si era così ingrossato in Tauris, ma era diminuita, con rincrescimento generale, la nostra propria brigata. Orio, che aveva ricevuto dal governo italiano lo speciale incarico di esaminare in Persia la coltivazione del filugello, si valse della compagnia e dell’ospitalità cortesemente offerta dai signori Vlasto; e coll’accordo di ritrovarci più tardi in Kazvin, si diresse pel passo di Massula nella provincia sericola del Ghilan, ove stava appunto per compiersi il raccolto dei bozzoli. Salutammo con vera gioja l’alba del 2 luglio, irrevocabilmente fissata per la nostra partenza. Le 3 del mattino eran di poco trascorse, che già tutti sfilavamo per le contrade di Tauris, senza neppure attendere il _mehmendar_ che ci doveva raggiungere più tardi. Appena fuori della città, si offerse ai nostri occhi lo spettacolo miserando d’un gruppo di lebbrosi accampati presso la strada, che al nostro passaggio avanzandosi stendevano la mano implorando pietà con alte e lamentevoli grida. Era questo il primo e non doveva essere l’ultimo incontro di questi esseri umani a tale estremo di abbandono e di miseria da vincere ogni confronto, ogni imaginazione. Luridi, sfigurati dai patimenti e dal morbo, seminudi, privi di ogni cosa, perfino di tetto, respinti, come creature maledette, da ogni consorzio umano, prigioni in uno spazio angusto, ricinto di sassi sconnessi tra il deserto, sul margine di una strada, attendono dalla carità dei passanti (e di quali passanti!) qualche raro frustolo di pane. Non esistono sulla faccia della terra umane creature in più deplorabile stato; e rammentandole in queste pagine mi si gonfia il cuore di profonda commiserazione. La strada fuori di Tauris, nettamente e largamente tracciata per esser molto battuta, passa bruscamente dalla pianura verdeggiante per mille e mille giardini, ad un terreno aridissimo, disuguale, mosso a grandi onde che diventano ai lati colline arrotondate, del triste ed uniforme cinereo del deserto. Gli squarci di queste colline presso la strada mettono a nudo strati marnosi cinericci per lo più orizzontali, o qua e colà pochissimo inclinati. Dai due lati, lungo le falde di colline più lontane e più elevate, veggonsi alcune case e villaggi. Quindi per qualche tratto si segue il corso di un fiumicello, il Basminsch, lungo il quale ripiglia la vegetazione, fino ad un bellissimo bosco di pioppi, nel cui mezzo è un _kiosco_ rovinato dello Schah. Le colline de’ due lati sembrano poscia congiungersi in bel anfiteatro, nel quale il serpeggiare di alcuni rigagnoli intrattiene una vegetazione abbastanza vivace. Dopo cinque ore di marcia giungiamo al grosso villaggio di Basminsch, presso il quale erano alzate le nostre tende. Una delle nostre vetture aveva sofferto nel cammino una leggera avaria, facilmente riparabile con una piccola cintura di ferro. Si manda pel fabro che, in un villaggio di quella importanza, non doveva certo mancare: ed eccolo infatti; ma con molta nostra sorpresa, e senza il benchè minimo imbarazzo da parte sua, come di cosa affatto naturale, il fabro ci dice che gli manca la materia prima, che non ha neppur un chiodo. Per fortuna nostra egli era padrone di due tanaglie, ne comperiamo una, che viene battuta e lavorata all’uopo. Questo fatto dimostra quanto sia raro e prezioso il ferro in Persia, e spiega tante particolarità delle costruzioni in questo paese. Lasciata questa stazione prima dell’albeggiare, siamo ancora nel deserto. Ci dirigiamo verso una piccola catena di montagne sulla nostra sinistra, passando rasenti le mura di un grande caravanserai che trovammo animato da una folla di passaggeri. Più avanti altri lebbrosi, ed al piè del monte altro caravanserai. La strada qui si fa assai difficile per le nostre vetture; pure l’erta è superata, e scendendo pel versante opposto troviamo altri due caravanserai, uno minacciante rovina, l’altro in rovina completa. Scesi nella valle si dispiega al nostro sguardo un ampio stagno popolato da una moltitudine di uccelli; i medesimi che già avevamo visti al lago Goktscha, con di più branchi di marangoni (_Phalacrocorax_). Fra la strada e lo stagno v’ha un ampio pascolo paludoso sul quale si distendeva, come un fitto velo, uno sciame innumerevole di libellule (_Agrion_). La strada continua poscia in una valle sparsa di monticoli marnosi con strati orizzontali. I più elevati e più discosti monti sulla nostra destra sono contraforti della gran cresta del Sahand, che alza di lontano i suoi cocuzzoli nevosi. Oltrepassato il piccolo villaggio di Haggi-Aga, accampiamo al luogo detto Udjan, presso un castello reale che deve essere stato un tempo assai grandioso, ed ora è tutto macerie, con appena qualche fresco restauro, al suo lato di settentrione, e fra le rovine qualche misera catapecchia di coltivatori[33]. Il _mehmendar_, il quale, tenero per la nostra salute, voleva assolutamente che non ci stancassimo, ci fece fare il dì seguente una marcia di sole tre ore, non oltre il villaggio di Dichmadatsch. Percorrendo qui i colli aridi e sassosi presso il nostro accampamento, ho trovato tra il predominante tritume marnoso, ed i soliti ciottoli porfidici, altri ciottoli di ferro magnetico compatto, in parte soprossidato, indizio certo di qualche non discosto potente filone; ricchezza affatto perduta in un paese ove si è ridotto a non aver altro combustibile che sterco essiccato. Il 5 luglio facemmo sosta a Karatschemen. La strada che vi conduce taglia trasversamente una serie di dossi e valloncini, propagini dei monti che si ergono sulla nostra sinistra; valloncini freschi, umidetti, con terreno fertile e ben coltivato a cereali, ma senza un albero, senza un villaggio se non qui e là rarissimi e distanti dal nostro cammino. Karatschemen è nel seno di una valle ristretta, compresa fra monti di porfido in gran parte decomposto, e sul cui fondo scorre un piccolo fiumicello di aque limpidissime. Qui comincio a far conoscenza co’ pesci degli altipiani della Persia propriamente detta, e dei quali farò qualche cenno a suo luogo. La stessa fisonomia del paese, lo stesso serpeggiar della strada per dossi e vallette, si continua oltre Karatschemen, ed anche, per circa tre ore di cammino, al di là di Turkmantschai. La roccia in posto è un’arenaria passante di quando in quando alla puddinga, alternante con una calcarea silicifera, l’una e l’altra quasi intieramente ricoperte da un potente deposito di sabbia e minuta ghiaja, tanto che le roccie solide sporgono qua e là soltanto ne’ fianchi di qualche burrone. Per un terreno siffatto si estendono le filtrazioni derivanti da vicini monti, e l’umidità sotterranea permette la coltura de’ cereali. Questo tratto di paese è considerato come il granaio della Persia. Turkmantschai è un grosso villaggio, in una valle ben coltivata, ombreggiata da grandi alberi, ed è luogo celebre negli annali della Persia, per essere stato qui sottoscritto il trattato che pose fine alla disastrosa guerra colla Russia, della quale ho tenuto discorso in uno de’ precedenti capitoli. In questa stazione ebbimo il piacere di accogliere per qualche ora sotto le nostre tende il signor Hahnart che vi era di passaggio per recarsi a Rescht. Passeggiando dopo il pranzo nel villaggio, fummo accostati da un uomo monco delle due mani che ci chiese qualche elemosina. Interrogato come fosse ridotto in quello stato, rispose di aver avuto le mani mozzate all’occasione della guerra colla Russia, in pena dell’essersi portato a vender aquavite nel campo nemico. Il 7 luglio, sempre al primissimo albore, riprendiamo la marcia. Presso il villaggio di Sumai-kociuk, facciamo breve sosta in un prato ombreggiato da grandi alberi, ove i cucinieri del _mehmendar_ ci allestiscono prestamente una refezione persiana. Oltre questo villaggio il paese incomincia a cambiar aspetto per le emersioni porfidiche che rompono qua e là il terreno, e due ore inanzi giungere a Mianeh, giganteggiano in nude montagne e scogli dirupati. Gli strati di arenaria e di calcarea sono da queste eruzioni sconvolti ed alterati. Talvolta il porfido commune passa ad una varietà con numerosi e grossi cristalli geminati di feldspato. Dopo aver serpeggiato fra queste rupi, la strada scende nell’ampio letto di un torrente ghiajoso, lungo il quale spunta qualche verdura. Lì incontriamo un accampamento di Curdi. Gli uomini cogli armenti sono a pascoli lontani, e dalle nere tende escono fanciulli e donne; le quali hanno la faccia scoperta, atteggiata a maraviglia alla vista di una così imponente schiera di cavalieri in quella solitudine. La nostra carovana s’era già infatti ingrossata di drappelli dei notabili di Mianeh venutici incontro alla spicciolata. In massa compatta, spronando i cavalli, e percorrendo fra un denso nembo di polvere il lembo settentrionale della città, arriviamo infine all’accampamento che ci era preparato in un giardino suburbano. XII. Mianeh e le sue cimici. — Passo del Kaplankuh. — Il ponte del pastore. — Un cattivo quarto d’ora. — Cane ingannatore e fidi ranocchi. — Sartschem. — Nickbey. — Il bastone è moneta. — Le alcate. — Zendlan. — I Babi. Mianeh, la più miserabile città della Persia, è collocata in una pianura fra un circo di montagne, la quale è in massima parte un letto sassoso, solcato dalle diramazioni di un povero fiume, del Schahrud. Posta sulla principale arteria di commercio della Persia occidentale, a’ piedi di un difficile passo montuoso, è una tappa d’obligo per le carovane, le quali ne scappano al più presto, come da un luogo infesto. Le sue _cimici_ le hanno data una triste rinomanza, dalla quale i viaggiatori europei si lasciano invadere al segno di perdervi la quiete. Io sono dolente e mortificato di non poter correggere questo strano pregiudizio con osservazioni od esperienze mie proprie, di non poter aggiungere una parola a quello che già può dire il buon senso di ogni naturalista, nella quiete del gabinetto. Questo pregiudizio riescì a portar un po’ di scompiglio anche nella nostra piccola società. Agli scorpioni, ai falangj, che già ballavano la ridda notturna nella fantasia di alcuni miei compagni di viaggio, si immischiarono qui le cimici. Nessuna eloquenza riescì a vincere il ribrezzo irresistibile onde questi miei amici furono presi all’avvicinarsi delle tenebre. Già nel loro pensiero tutte le _cimici_ del paese, così avide, come dice la fama, di sangue straniero, si erano dato convegno per assaggiare alquanto di quello melato che scorre nelle vene italiane. Però al mattino cercarono invano sul loro corpo le lividure delle terribili bestiuole, e così la partita fu saldata con una notte inquieta per vane paure, in aggiunta alla molestia vera e reale delle zanzare. Queste così dette _cimici_ hanno un pajo di gambe di troppo per esser veramente tali: appartengono invece alla famiglia delle zecche, col nome scientifico di _Argas persicus_. La specie non è neppure particolare a Mianeh, ma estesa per gran parte della Persia occidentale. La puntura di questi _Argas_ è invero più dolorosa di quella delle zecche propriamente dette, e quando attacchino in gran numero una persona debole e sensibile e già predisposta dalla paura, possono anche determinare qualche alterazione generale, possono diventare almeno una causa predisponente alla febbre della malaria, più nociva in Mianeh di tutte le bestiuole che la natura vi ha poste[34]. Ma siccome i pregiudizj non vanno mai scompagnati, così questi _cimici_ ne hanno originato fra i Persiani un altro stranissimo. Trovandomi io sulla porta del nostro giardino, ho visto ud uomo del nostro seguito il quale colla punta di un coltello raschiava del calcinaccio dal muro, e biascicatolo lo trangugiava. Avendo chiesta spiegazione di quell’atto, mi fu risposto che così faceva onde premunirsi dagli effetti della puntura delle _cimici_, contro le quali è opinione generale essere quella materia sicuro antidoto. Del resto accampati all’aperto, nel mezzo d’un giardino, noi eravamo per questo solo al riparo dell’attacco degli _argas_, i quali annidano nelle case. Il desiderio di veder in faccia queste bestiuoline, e, per noi naturalisti, quello di farne raccolta, non stette a lungo sospeso, che spontaneamente parecchi del paese ce ne portarono come oggetti di curiosità per tutti gli stranieri[35]. Rimanemmo in Mianeh anche gran parte del giorno seguente; e di questa fermata approfittai, co’ miei due amici naturalisti, per fare un’escursione nel letto del fiume. Vi trovammo, fra varie specie di uccelli communi nel tratto fin qui percorso, una sola novità per noi, il _Merops persicus_, volitante in gran numero insieme al commune _M. apiaster_. Nel mezzo di questo pianerottolo sassoso sorge un piccolo monticello isolato, che già a distanza ci si annunciava come un _tepe_. Direttivi i nostri passi, troviamo che lo è realmente, e sebbene vero pigmeo al paragone di quello di Marend, è composto dei medesimi materiali disposti nel medesimo modo, come si vede nel taglio naturale operato da un ramo del fiume: grossi ciottoloni nel centro della base, e pel resto ghiaja, sabbia e limo con oscura disposizione quasi orizzontale, e disseminati per entro frammenti di ossa e di stoviglie. L’altezza di questo tepe è di circa 8 metri, il suo diametro alla base, di circa 80. Lasciammo Mianeh alle quattro e mezza del pomeriggio, curiosi del risultato di questo primo esperimento di marcia vespertina. Dopo breve tratto la strada volge nel letto stesso del fiume, le cui aque raccolte passano sotto un ponte maestoso, di ventidue arcate, ma, quasi inutile è il dirlo, cadente in rovina. Oltre il ponte incomincia subito la salita della catena del Kaplankuh, la quale forma qui un cuneo tra il fiume di Mianeh ed il Kyziluzun che lo riceve. Questa montagna affatto nuda, senza il benchè minimo arbusto, consta di strati di marna e di arenaria raddrizzati, sconvolti, e profondamente alterati da grandi emersioni porfidiche. Il porfido stesso varia assai nel colore della sua massa, onde i varj colori, or il grigio, ora il rosso, ora il verde, ora l’azzurrognolo de’ fianchi scoscesi luogo la strada, e de’ pittoreschi dirupi che scendono ne’ valloni, e qualche volta in abissi spaventosi, a fianco di essa. Il paesaggio è imponente di un orrore alpestre affatto particolare, degno del pennello del più abile pittore di scogli. La strada in alcuni passi è così stretta, inclinata e sovrastante a precipizj, da incuterci serj timori per le nostre carrozze; ma come già si erano vinte altre difficoltà, così fu superata anche questa. Sulla parte più elevata per un gran tratto la strada è, in modo affatto insolito, regolare e selciata; opera dello Schah attuale. Nello scendere pel versante opposto, veggiamo, a picco di un profondo burrone sulla nostra sinistra, le rovine di un antico castello, secondo la leggenda locale, abitato un tempo da una principessa persiana, la quale si era invaghita di un giovine pastore che di giorno guardava i suoi armenti oltre il fiume, ed al far della sera passava a nuoto la gonfia corrente del Kyziluzun per recarsi all’amoroso convegno. La leggenda aggiunge che la principessa fece costrurre a sue spese il ponte sul fiume, per far libero in ogni tempo il passo al suo diletto. Quel ponte si chiama ancora oggi il ponte del pastore. Scendendo per questa china veggonsi potenti strati marnosi sollevati, colle testate sporgenti e corrose. La marna ha qui subito, per l’azione della pasta fusa dei porfidi, un processo di cottura che l’ha trasformata in una specie di diaspro porcellana a strati sottili variopinti, di vaghissimo aspetto, e suscettibile di bella pulitura. Il ponte è di un solo arco molto acuto, e la sua vôlta è tutta incrostata da una quantità immensa di nidi di balestruccio (_Chelidon urbica_), accavallati l’un sull’altro. Il fiume, incassato fra pareti scoscese, è qui molto profondo ed impetuoso: le sue acque sono sensibilmente salate, solcando per lunghissimo tratto strati ricchi di salgemma. Dirigendosi verso il mar Caspio il Kyziluzun squarcia la catena dell’Elburz, alle cosidette _Fauci Ircanie_, come fa l’Elba nell’Erzgebirge, e al di là di quella catena prende un altro nome; quello di Sefidrud. La catena del Kaplankuh separa il paese nel quale la lingua turca è predominante da quella in cui si parla il puro persiano, l’Aserbedjan dall’Irak, la Media dal paese de’ Parti. Oltre il ponte del pastore la strada risale erta fra nude roccie marnose, nelle quali sono intercalati banchi di gesso fibroso e straterelli di salgemma. Ma si giunge ben tosto sull’altura, e da questa lo sguardo si estende in basso, per valli intersecate bizzarramente da monticelli marnosi con scarpe frastagliate. A destra vedesi in lontananza un tale assembramento di questi frastagli lavorati dalle aque pluviali, che dà sembianza di una grande città formata di piramidi strette le une presso le altre. L’altura si continua in un piano affatto deserto, solcato da torrenti paralleli al fiume, e compreso da serie interrotte di cumignoli arrotondati. Sull’imbrunire attraversiamo un villaggio ove gli abitanti accorrono ad offrirci latte in abbondanza. Così ristorati io e Lessona spingiamo allegramente il cavallo per la via che un mite chiaror di luna rendeva molto bene distinta, e disputando di cose diverse con quella cordialità che scaturisce da un’antica e profonda amicizia, senza avvederci andiamo sempre più allontanandoci dal resto della carovana, che a passo più lento procedeva unita dietro di noi. Il tempo in questi colloquj passa rapidamente, ed infine, quando la notte era già inoltrata e noi avevamo fatto un bel cammino, la solitudine ci scuote. Ove siamo noi? ci chiediamo a vicenda: ove sono gli altri? Fermi e silenziosi tendiamo l’orecchio per sentir in distanza lo scalpitar dei cavalli; ma invano: perfetto silenzio per tutto il nostro aspettare. La cosa incominciava a prendere un grado crescente di serietà. L’accidente occorsomi ad Hussein Beglar mi si ripresentava alla memoria, ed entrambi ci risovvenimmo di aver visto addietro un’apparenza di biforcazione della strada, alla quale non badammo, tanto eravamo sicuri della nostra direzione. Già incominciavamo a fantasticare sulla sorte di due Europei non parlanti una sillaba della lingua del paese, che si trovassero smarriti fra le steppe della Persia; quando ecco giungerci all’orecchio, per la via verso la quale eravamo diretti, l’abbajar d’un cane. Dimenticando l’orrore che hanno i Persiani per questo fido compagno dell’uomo[36], quella voce fu per noi il segnale che là, non molto lontano, doveva esser un villaggio, e forse, al tempo da che eravamo in marcia, quello fissato per nostra stazione, cioè Sartschem. Continuammo allora il cammino, ma non tardammo ad accorgerci dell’abbaglio. Quel cane apparteneva ad un accampamento di pastori curdi, le cui nere tende potemmo distinguere a pochi passi. Un uomo a cavallo, armato della sua lancia, era lì presso sulla via, e rimase, al nostro passaggio, affatto immobile. Procediamo per evitare il pericolo di essere interrogati dal Curdo, e soffermati di nuovo, sentiamo infine un calpestìo approssimarsi: era uno de’ nostri servi, Clemente, il quale del resto della carovana non sapeva più di noi. Fatto ancora un centinajo di passi, ecco altre voci, in quel silenzio che la notte e il deserto rendevano doppiamente solenne; un gracidar di rane, indizio di vicini stagni, quindi di acqua, quindi di prossimo villaggio. La nostra fiducia si rinfranca, ed infatti non è delusa; chè dopo breve tratto veggiamo muoversi in distanza un lume, lo veggiamo avvicinarsi a noi, e infine comparir con esso un individuo che dava segno di attenderci, e fatto cenno di seguirlo, ci conduce per un sentiero di traverso alle nostre tende. Da quel momento, il gracidar de’ ranocchi è diventato per noi, in tutto il resto del viaggio, una voce amica, ospitale. Sartschem è un villaggio, con un grande caravanserai, al margine di un vasto greto, piano, largo, sassoso, compreso fra piccoli rilievi allineati e cumignoli aridi costituiti di strati orizzontali di marna grigio-rossastra, ne’ quali è intercalato qualche strato di marna indurita, e sono anche disseminati cristalli di gesso. Questi monticelli mi ricordano quelli già visti nella valle dell’Arasse, appartenenti alla formazione salifera di Nachidjevan. Tutto il paese all’intorno è una steppa aridissima. Il nostro accampamento è lontano dal villaggio, ad un gomito del fiumicello la cui vena si dirama, pel suo letto ghiajoso, in rivoli qua e là ristagnanti in piccoli guazzi riboccanti di pesciolini. Questo fiumicello è il Zendjanrud, o fiume di Zendjan, ed è qui molto impoverito dalle derivazioni superiori, le quali, dopo essersi diramate in canaletti irrigatorj sui campi lungo la sponda, si consumano in massima parte per evaporazione. Quel poco che resta del fiume si versa nel Kyziluzun. Rimanemmo in questa stazione di Sartschem tutto il giorno 9, che i naturalisti utilizzarono in escursioni. Nel pianerottolo aridissimo sul quale erano alzate le nostre tende, tra il fiume ed i monticelli marnosi che limitano la valle, trovammo sparsi molti cumuli di fango rassodato, dell’altezza dai 50 ai 60 centimetri, che furono subito riconosciuti per nidi di termiti, di specie non determinabile per non esser noi riesciti a trovar negli eserciti immensi di operai e di soldati, individui adulti. Qui rinvenimmo pure communissima un’assai interessante specie di onisco, imperfettamente descritta da Brandt col nome di _Porcellio Klugii_, la quale si trova già nell’Europa meridionale, in Dalmazia, e si estende, così risulta dalle osservazioni di Dona, fin nella parte meridionale della Persia occidentale[37]. Sono tanto rari i pipistrelli in Persia, che non prima di questa stazione di Sartschem ci fu dato ucciderne. La specie era il _Vespertilio turcomanus_ Ewersm. Partimmo il dì seguente inanzi l’alba per Nickbey, ove giungemmo verso le 9 del mattino. Il villaggio ha l’aspetto di una discreta floridezza; i campi all’intorno sono bene coltivati, ed era appunto animatissimo al nostro passaggio il lavoro della mietitura. Nel letto del Zendjanrud molte pezze di terra sono ben coltivate anche a piccole risaje, e poco oltre il villaggio, nel terreno basso ed umido, nel quale stava appunto il nostro accampamento, rigogliosa è la vegetazione dei pioppi e dei salici. Nugoli di zanzare ed il fracasso straordinario dei mulattieri ci fanno passare una notte perfettamente insonne. Ma qui accadeva un’avventura che potrà dare un’idea del carattere de’ Persiani. Il figlio del nostro _tscharwadar_ (mulattiere capo) aveva, nella notte precedente il nostro arrivo in Nickbey, rubato in un campo alcuni covoni di orzo, e per sopramercato ne aveva bastonato il padrone, il quale si recò alle nostre tende, reclamando giustizia dal _mehmendar_. La sentenza fu che il ladro pagasse immediatamente il valore dell’orzo, di circa trentasei de’ nostri soldi, sotto comminatoria di cinquanta colpi di bastone. Il _tscharwadar_ padre, piangendo dirottamente, gridava mercè pel figliuolo, ma non voleva saperne di metter mano alla borsa, ben fornita d’altronde, e trarne que’ miserabili tre grani, co’ quali tutto si sarebbe finito all’amichevole. La sentenza fu eseguita senza pietà, ma in riguardo alle nostre persone, in un luogo alquanto discosto, non tanto però che non arrivassero fino alle nostre orecchie gli acuti strilli del bastonato. Così il padrone dell’orzo non ebbe la roba sua, il ladro non restituì la roba rubata, e la giustizia persiana fu sodisfatta. Mezz’ora dopo, il _tscharwadar_ e suo figlio stavano già fumando tranquillamente il _kalian_. Questo fatto me ne fa risovvenire un altro che mi venne raccontato del signor Nicolas, primo dragomanno della legazione francese in Teheran. Alcuni anni sono egli doveva recarsi a Bender Buschir, per ricevervi il conte Bourée, ministro di Francia. Passando da Schiraz il governatore gli fece l’offerta d’un _mehmendar_ che il signor Nicolas non accettò, allegando gli ordini precisi del suo governo di pagar tutto lungo il suo viaggio. Il governatore lo indusse ad accettare almeno la scorta di due _golam_, che poi munì d’un firmano in tutte le regole. Dopo una faticosa giornata di marcia, la piccola carovana giunse ad un villaggio, ed il signor Nicolas, consegnate alcune monete al suo cuoco, gli ordina di comperare tutto quanto era necessario a far il pranzo; ma ecco, trascorso alquanto tempo, il cuoco ritornarsene col suo danaro in mano, dicendo che non aveva potuto trovar nulla, assolutamente nulla. Nell’incalzante pericolo di rimaner digiuni, il signor Nicolas chiamò a sè l’anziano del villaggio, gli espose i suoi bisogni, e gli fece vedere il sonante danaro col quale tutto sarebbe pagato appuntino; ma quegli, stringendosi nelle spalle, replicò esser il villaggio miserabile, mancante di tutto, non potere somministrare alcun che di quanto veniva richiesto. Uno de’ due _golam_, saputa la cosa, si rivolse al signor Nicolas e gli disse: voi non avete potuto ottener nulla col vostro danaro? Ora lasciate fare a me: e via, pel villaggio, con un buon bastone. Dopo una mezz’ora eccolo, il _golam_, con un montone, polli, uova, riso, frutta, miele, tutto quanto insomma occorreva ad ammanire un buon pranzo. Richiamato l’anziano, il signor Nicolas gli indicò col dito tutta quella grazia di Dio, maravigliandosi altamente del mezzo, così contrario alle sue intenzioni, col quale l’aveva ottenuta; ed alla chiesta spiegazione di una così inconcepibile condotta, l’anziano non seppe risponder altre parole di queste: «cosa volete? noi siamo fatti così...» La vera ragione consisteva nell’interesse del villaggio ad apparir miserabile più di quanto non lo fosse realmente, per la circostanza della prossima venuta dell’esattore, col quale bisognava regolar i conti ad un tanto per cento. Ed in tali occasioni si fa sempre questa comedia: l’esattore mette avanti pretese esageratissime, appoggiandole colla comminatoria del bastone, ma col proposito di fingere viscere umane, riducendole alla metà; ed i contribuenti offrono la metà di quanto sentonsi disposti a pagare, per fingere alla loro volta di rassegnarsi ad ultimo sacrifizio, raddoppiando la somma. Il giorno il ci mettiamo in cammino per Zendian, pe’ deserti pianerottoli alla sinistra del fiume, le cui inflessioni sono accompagnate dapertutto da una bella vegetazione. Nelle gole dei monti che vi deversano le loro aque si distinguono qua e là macchie di alberi e vilaggi. Vedo più frequenti che nel tratto fin qui percorso stormi di _alcate_, o pernici del deserto (_Pterocles_), ed in una breve sosta alcuni miei compagni si dilettano a farne la caccia all’agguato lungo il fiume, ove da lungi accorrono per abbeverarsi. Seguendo l’ordine del mio giornale darò qui una succinta notizia di questi uccelli animatori delle steppe, e così soventi nominati nelle poesie degli orientali. Le ali acute, robuste, rombanti, i grossi muscoli pettorali, la carena dello sterno sporgente più che in qualunque altra specie, ne fanno de’ volatori capaci a vincere il più veloce falco, e dall’occhio del falco li sottrae il colore delle loro piume confondentesi con quello delle steppe. Sono assai regolati e metodici nelle loro abitudini. Ho osservato per via che in generale, nella stessa ora, tutti volano indirizzati verso un medesimo punto cardinale. Nelle ore più calde del giorno stanno in riposo. Le loro zampe con tre dita brevi, e solo un rudimento di pollice, li farebbero supporre uccelli corridori; camminano invece con passo stentato non più celere di quello de’ piccioni, simile a questi anche pel modo; e sono così facile preda della volpe delle steppe (_canis vulpes melanotus_), guidata alla caccia dalla finezza dell’odorato. Ve n’ha in tutta la Persia occidentale due sole specie; il _Pterocles alchata_ ed il _Pt. arenarius_. Quelli della prima specie vanno a stormi più numerosi e più compatti, emettendo un breve e sommesso gracchiare simile a quello delle taccole, però sensibilmente più acuto. L’altra specie invece si incontra in piccole truppe, sovente in sole coppie, e gli individui tengonsi distanti, come seguentisi l’un l’altro, e la loro voce assai fioca è paragonabile ad una debole trombetta gorgogliante nell’acqua. La loro carne è dura ed insipida. Un’ora inanzi giungere a Zendian, la solita schiera d’onore stava già pronta a riceverci solennemente. Un grosso drappello di cavalieri, in vedetta sulla via, non appena ci scorse in distanza, mosse di galoppo al nostro incontro. Aveva alla testa un principe, giovanetto di 18 anni, nipote dello Schah, che in assenza del padre copriva le funzioni di governatore della provincia. Poichè ebbe sciorinato il consueto formulario, colla mano sul cuore e fendenti obbliqui del berettone, replicati i complimenti dal nostro ministro, tutti di concerto e di passo più animato, riprendemmo il cammino. Giunti al luogo ove poco dianzi era appostato quel primo drappello, da un vicino bosco di pioppi uscì d’improvviso un nuovo e più numeroso sciame di cavalieri festanti, che si posero ai nostri fianchi, e con bizzarre fantasie e spari continui ci accompagnarono in città. Fummo condotti in un giardino ombroso di pioppi e di platani, nel cui mezzo, al crocicchio di due viali, sorge un _kiosco_ di stile del tutto originale, fatto erigere dall’avo dello Schah regnante. È di forma ottagona, ma con quattro de’ suoi lati più grandi, ed a ciascuno di questi lati maggiori corrisponde una specie di cappella o tribuna aperta verso l’interno, chiusa dal lato opposto da grandi vetriate con arabeschi finissimi e vetri colorati. Di siffatte tribune sono due ordini, uno terreno e uno superiore. Le pareti, le vôlte sono coperte di pitture in gran parte scrostate; e nel mezzo del _kiosco_ è una gran vasca, pure ottagona, ad uso di bagno. Ci distribuimmo negli otto scompartimenti di questo dormitorio, attorno al quale, nelle ajuole del giardino, stava accampato il nostro seguito. Non appena accasati fummo subito accorti che ci si preparava in Zendian una ripetizione delle scene di Tauris, col medesimo pretesto del cambio de’ cavalli; ma le rimostranze del nostro ministro furono fin dai primi momenti così energiche, da tagliar corta ogni astuzia, e vincere l’inerzia comandata e naturale del nostro _mehmendar_. In meno di tre giorni furono riordinati i preparativi per la continuazione del viaggio. La storia della Persia serberà a Zendian una pagina sanguinosa. Qui fu vinta colle armi, e però non distrutta, la setta dei Babi, onde fu posto a repentaglio estremo il regno dei Kagiari; della quale setta darò in succinto alcune notizie attinte a fonte autorevolissima. Viveva in Schiraz, sua patria, un giovane chiamato Mirza Alì-Mohamed, al qual nome fu poscia aggiunto il titolo di _el Bab_, cioè _la porta_ (_per cui si entra nella perfezione_). Questo giovine di ingegno ardente, vissuti alcuni anni di vita meditabonda e tutta rivolta a studj teologici, incominciò verso il 1845 a predicare una nuova dottrina, sostenendo doversi ristabilire nel Corano alcuni versetti soppressi; abolire la poligamia; non dover le donne andar velate, ma a viso scoperto; aver esse il diritto di ripudiar il loro marito, come il marito ha quello di ripudiar la moglie; doversi proscrivere l’uso del kalian, ammettere l’uso moderato del vino; infine il trono della Persia spettar ai Seidi discendenti dal Profeta, non alla regnante usurpatrice dinasta de’ Kagiari. La fama di Alì-Mohamed el Bab si diffuse rapidamente; da ogni parte accorrevano turbe per ascoltarlo, _mollah_ per discutere seco lui della necessità della riforma. Egli fece allora una domanda formale allo Schah, perchè gli fosse concesso di esporre la nuova dottrina ai sapienti di Teheran, ma, com’era naturale, la sua domanda venne respinta. Questa ripulsa non fece che aumentare i proseliti di Alì-Mohamed; e si incominciò a vedere in lui il precursore del _Saheb-ez-zeman_, il signore del secolo, che se ne sta sempre nell’aria, e non si farà vedere a terra che il giorno della risurrezione. Una donna giovane e bellissima, infervoratasi dalla dottrina del _Bab_, si recò a predicarla nella città di Kazvin, e vi fece numerosi proseliti. Questi fatti accadevano tra il 1848 ed il 1849. Allora i Babi, così si chiamarono i seguaci di Alì-Mohamed, si credettero abbastanza forti per scendere sul terreno dell’azione militante, e tentarono impadronirsi del Mazanderan, ma sconfitti dalle forze regolari dello Schah, si concentrarono nella città di Zendian, pronti a disperata resistenza; e fu tale infatti; ma la città ribelle, stretta da regolare assedio, alla fine venne presa d’assalto con orribile eccidio. In tanto sangue parve ritemprarsi, non estinguersi, la setta de’ Babi. Perduta ogni speranza di successo da una lotta in campo aperto, ordivano una congiura contro la persona dello Schah. All’esecuzione di questo temerario disegno offersero la loro vita due fanatici settarj, ed atteso lo Schah, nelle vie di Teheran, uno di essi gli si appressò come in atto di presentargli una supplica, e colto l’istante che lo Schah stendeva la mano per riceverla, gli sparò contro una pistolettata, la quale non lo colpì. È facile imaginarsi quale sorte sia toccata a due cospiratori. Lo Schah miracolosamente salvato, ordinò vendetta terribile e pronta, sterminio de’ noti o de’ sospetti Babi. Alcuno de’ più zelanti della sua corte, avendogli susurrato all’orecchio il nome di alti funzionarj del suo impero macchiati di babismo, determinò di sottometterli ad una singolare prova, ripartendo fra di essi l’ingente numero di colpevoli o di sospetti, perchè ne facessero a gara la più esemplare giustizia. Non bastava a questi rifatti ministri della volontà suprema del Re dei Re il lavare nel sangue l’onta del solo dubio: dovevano essi imaginare le più strane crudeltà, i più atroci tormenti da infliggersi agli sventurati colpiti di tanta ira; i quali tutti subirono il martirio con tale fermezza da far impallidire i loro carnefici. Erano fra i Babi giovinetti di dodici, di dieci anni, che per un certo sentimento di pietà e pel numero delle vittime designate, si volevano strappare alla tortura ed alla morte. Si domandava a questi poveretti una confessione qualunque di non appartenere alla setta; si richiedeva un solo cenno affermativo alle risposte che venivano ad essi presentate colle inchieste, e tutti fieramente ricusarono la grazia. La bella profetessa fu bruciata viva. Alì-Mohamed, arrestato in Tauris, fu sopeso con funi alle mura della cittadella, e dodici soldati ebbero l’ordine di tirargli addosso. Dissipato il fumo della fucilata, il _Bab_ non fu più visto; avea potuto svincolarsi dalle funi e fuggire illeso. I presenti al supplizio gridavano già al miracolo; ma poco dopo arrestato di nuovo, cadde moschettato a bruciapelo. Il _babismo_ con un prevalente carattere politico, serpeggia ancora fra le popolazioni della Persia, innestato alla massoneria importata di Francia. XIII. Sultanieh. — Cenni zoologici. — _Tepe_ del castello reale. — Falso allarme. — Sainkalè. — Bella sezione naturale dell’altopiano. — Massi granitici. — Doloroso avvenimento. — Importanza geologica della linea dell’Abbar. Il 14 luglio sul pomeriggio, lasciammo il bel chiosco e l’ombroso giardino di Zendjan, e, fatta breve sosta ed una cena frugale su di un deschetto erboso presso il villaggio di Diza, arrivammo a notte a Sultanieh. Dell’antica grandezza di questa, che fu capitale della Persia, prima che la residenza degli Schah fosse trasferita ad Ispahan, non rimane più che l’enorme cupola della sua celebre moschea, torreggiante in un campo di cadenti abituri, di rovine e di macerie. Distesa sul lembo delle colline umili aridissime e ritagliate, che formano il lato sinistro della valle, la città domina una vasta pianura solcata dalle radici del Zendjanrud che la rendono paludosa nella stagione delle pioggie, e nella state lasciano ancora qualche sparsa pozzanghera ad alimento di incolti pascoli. Dal lato opposto sorgono i primi antemurali della grande catena dell’Elburz. La pianura di Sultanieh è, per secolare tradizione, un campo favorito di parate e manovre militari. All’occidente della città, prima di giungervi per la via di Zendjan, si protende nel piano, a foggia di lingua sporgente, un piccolo promontorio, sul quale s’innalza un castello reale, abbandonato alla sorte di tutti gli edifizj della Persia. Al piede di questo promontorio, sul margine di un piccolo canale, stavano erette le nostre tende. Il carattere particolare del sito prometteva un discreto bottino a’ naturalisti, epperò cercammo di trar profitto alla meglio della fermata che il nostro ministro acconsentì a prolungar di un giorno, con soddisfazione grandissima del mehmendar. Sultanieh è rinomata anche pei suoi ratti; ce lo dissero per via le nostre guide persiane, stupite di veder gente d’Europa dilettarsi di questa sorta roba. Non tardammo a riconoscere come questa rinomanza sia meritata. Tutto il terreno attorno al castello è bucherato da topinare, e, stando noi fermi all’aguato, scorgevamo qua e là qualche muso far capolino, e più in distanza alcuni grossi ratti attraversar saltellando piccoli tratti di terreno e rimbucarsi prontamente. Un colpo di fucile sciolse immediatamente la quistione zoologica. I famosi ratti di Sultanieh appartengono ad una specie assai frequente anche nelle steppe degli Urali, registrata ora fra le marmotte, ora fra gli spermofili (_Arctomys fulvus o Spermophilus fulvus_ Licht.). Le piante de’ piedi nude callose, la mancanza di borse alle guancie, le dimensioni, la fisonomia generale, il fischio acuto e quasi latrante che emette quand’è stuzzicata, ne fanno decisamente una specie di marmotta. Questa razza di Persia si distingue leggermente dalla più nordica per colori alquanto più pallidi, e statura alquanto minore[38]. Ne prendemmo molti individui con un mezzo assai semplice e divertevole, inondando i loro sotterranei cunicoli, ed obbligando così la bestia a farsi strada al di fuori. Qui ritrovammo pure il communissimo _Cricetus phæus_, ed un’altra specie del medesimo genere, il _Cr. nigricans_, Brandt, per lo addietro rinvenuto soltanto nel Caucaso. Una quarta specie di rosicante che ebbi qui per la prima volta, e che rinvenni abbondantissima anche nel seguito del viaggio, è un grosso ratto campagnolo, che appena si distingue dall’_Arvicola amphibius_ d’Europa per un colore alquanto più volgente al fulvo nei fianchi, e sensibilmente più bianco sul ventre. I caratteri osteologici sono perfettamente i medesimi. Ora, poichè si parla di rosicanti più o meno rassomiglianti ai ratti, devo aggiungere un’osservazione abbastanza curiosa; non aver io trovata traccia, in tutta la linea percorsa nella Persia, del grosso ratto delle chiaviche (_Mus decumanus_), che dalle Indie, verso la metà del secolo scorso, si è diffuso per tutta Europa, ed ora anzi è divenuto pressochè cosmopolita, e neppure del sorcio comune d’Europa (_Mus musculus_). Fra gli uccelli presi in questa stazione, devo notare tre specie non incontrate nelle precedenti, e comuni all’Europa: _Ægia lites cantianus_, _Vanellus cristatus_, _Cursorius œuropæus_. Fra i più communi saurj delle steppe è da qui in poi un _Phrynocephalus_, che io ho fatto conoscere col nome di _Phr. persicus_, e che è molto bene distinto dal _Phr. helioscopus_ della valle dell’Arasse. Abonda nelle pozzanghere della pianura una specie di rana identica a quella trovata precedentemente, a così diverso livello, al lago Goktscha, e che non si può in alcun modo distinguere dalla _Rana oxyrhina_ d’Europa[39]. Il rialzo sul quale è edificato il castello reale è un _tepe_ perfettamente identico nella struttura a quello di Marend, distinto solo per la forma allungata, ed una assai minore altezza. Qui pure, in alcuni vecchi scavi, ho trovato grossi ciottoli alla base, e pel resto limo, ghiaja, sabbia, con ceneri, minuzzoli di carbone vegetale, frantumi di ossa, e pezzi di stoviglie; ed una visibile tendenza alla disposizione stratificata orizzontale di tutti questi materiali. Questa stratificazione era sovratutto evidentissima in un piccolo squarcio verso la metà del promontorio. Singolare affatto è il carattere delle stoviglie di questo _tepe_. Sono di una pasta per lo più nera, impura e grossolana al maggior grado, ed anche per l’imperfezione del lavoro si palesano come opera di un’arte affatto primitiva. Il piano, ai due lati del promontorio, porta le traccie degli accampamenti militari che si sono così frequentemente succeduti a Sultanieh; scavi, rialzi, trasporti di terra, ne hanno sconvolto lo strato più superficiale; ma in molti luoghi è posto a nudo uno strato profondo che presenta gli stessi materiali del promontorio, e, ciò che devesi tener in particolar conto, frammenti di stoviglie del medesimo già accennato carattere. Questo si può vedere specialmente in un campo affatto nudo, all’occidente del promontorio, sul quale sono distribuiti in gran numero piccoli coni crateriformi di fango, che evidentemente hanno servito di mangiatoie a’ cavalli dell’accampamento, e pozzetti verticali, d’onde fu tratta la materia di quelle strane costruzioni. Questi pozzetti sono in massima parte ostruiti da franamenti, ma ve n’ha la cui interna parete è ancora abbastanza conservata, ed in questi appunto, come in altri scavi dalla parte opposta del promontorio, al di sotto di uno strato di limo delle steppe, vario in grossezza dai 50 agli 80 centimetri, veggonsi disseminati i materiali che ho detto. Si può adunque dedurre da ciò che il deposito del _tepe_ del castello si continua tutt’attorno nel piano. _Nephelis persa._ De F. Affine alla _vulgaris_ d’Europa, ma con sei occhi distribuiti in tre paja. Bruno rossastra, con margini del corpo e linea mediana del dorso di color più pallido. _Clepsine beryllina._ De F. Affine alla _bioculata_ per la forma generale, e pel numero degli occhi, ma con soli 50 segmenti assai più distinti. Corpo jalino verdognolo, con molte macchiette pigmentali verdi. Aggiungerò qui, per ogni buon fine, che in uno di quei pozzetti, al limite inferiore dello strato di limo, ho raccolto un pezzetto di vetro iridescente per vetustà, che alla forma si direbbe un manico di un piccol vaso. Nelle ore pomeridiane del 15 luglio abbiamo avuto uno spettacolo meteorologico raro per la stagione e per il paese. Alcuni nuvoloni, che durante il giorno vagavano isolati, si congiunsero d’improvviso e rovesciarono un turbine di fitta e violenta pioggia che mise il nostro campo in orribile scompiglio. Per buona ventura il diluvio non durò più di venti minuti, ed il sole riapparso nella sua cocente splendidezza ne dissipò rapidamente ogni traccia. A notte fatta, mentre stavamo per coricarci, un nuovo tumulto venne a rompere la monotomia della vita della tenda: un grido d’allarmi: ai ladri, ai ladri, che avevano dato l’assalto ai nostri bagagli accumulati sul piano dal lato opposto del castello. Afferrati i fucili in men che nol si dica, mezzo svestiti, muoviamo confusamente, ma uniti e deliberati, verso il luogo minacciato, pronti ad una di quelle avventure che avevamo sognate come parte integrante del nostro viaggio, al muovere da Europa. Ma l’avventura doveva finire subito ed in modo piuttosto comico: fra la notte buja e le grida confuse de’ _ferrasch_ e de’ mulattieri, non era possibile nè vedere nè capir nulla: scappò qua e là qualche fucilata, e chi ne andò colpito fu un innocente, uno de’ nostri servi persiani, cui toccarono alcuni pallini in una mano. In breve tutto rientrò nell’ordine, e noi ci ricoricammo colla curiosità insoddisfatta di quanto fosse realmente accaduto. Nessuno de’ nostri bagagli fu tocco; il _tscharvadar_ capo accusò il rapimento di due muli; il mehmendar simulò con tutta serietà un processo, e confiscò tre cavalli alla vicina città. Era proprio scritto nel libro del destino che noi dovessimo andar frustrati dell’emozione di un qualunque fatto d’armi. Un piccolo incidente in questa nostra fermata a Sultanieh riescì a me assai molesto; il furto della mia sella. Il 17 luglio, di buon mattino, la cercammo invano, ove il dì precedente tutti l’aveano veduta, e dovetti rassegnarmi a continuar la strada in carrozza. La pianura che percorriamo oltre, non dirò la città, ma le rovine della città, è ancora in parte coltivata, finchè v’è qualche filo d’acqua; mai poi sale ad un piano affatto arido, che forma una sbarra traversale, separante la valle del Zendjanrud, che lasciavamo alle spalle, da quella dell’Abhar, nella quale dovevamo discendere. Passiamo rasenti il villaggio di Emirabad, fortificato da un vecchio e cadente muro di cinta. Poco oltre la campagna deserta è tutta sparsa di piccoli mucchi di pietre affatto disordinati, senza un piano, senza uno scopo apparente. È venerata da’ persiani la tradizione che in questo luogo Alì abbia fatta la sua prima professione di fede, epperò ogni passante crede suo debito religioso il raccogliere un sasso di terra e porlo sovra di un altro. Verso le 10 arriviamo alla stazione di Sainkalé. Il nostro accampamento era preparato sulla sponda sinistra di un fiumicello, che è appunto l’Abhar, un chilometro all’incirca innanzi il villaggio. Qui un doloroso avvenimento ci obbligava ad una lunga fermata. Uno de’ nostri compagni, il conte Grimaldi, cadendo su di una di quelle scalette mostruosamente erte che nel chiosco di Zendjan conducono alla galleria superiore, aveva riportata una forte contusione ad un gomito. Il male s’era aggravato per via, e già aveva preso il carattere minaccioso di un flemmone. Qualche riposo era per lui e per la tranquillità di noi tutti di assoluta necessità. L’Abhar scorre qui decomposto in un largo letto ghiajoso. La sponda opposta, corrosa dalle piene intercorrenti del fiume, è per alcuni tratti tagliata a picco, ed uno di questi tagli presentavasi appunto dicontro al nostro accampamento. Là rivolsi la mia prima escursione; e non posso dire la mia sorpresa per quanto mi si offerse immediatamente allo sguardo. Avanzi di opere umane, affollo identici a quelli de’ _tepe_ di Marend e di Sultanieh, si trovano qui in strati perfettamente regolari ed orizzontali, in un deposito incontestabilmente naturale, al disotto del terreno di trasporto, onde è costituito tutto l’altopiano. La parte nuda, scoscesa, della scarpa (_thalus_) si prolunga qui per un centinajo di passi: la sua altezza dal livello attuale del fiume e di 4^m, 65. La successione degli strati è rappresentata nell’unito disegno (fig. 3). [Illustrazione: Fig. 3.] _a_. Terra vegetale, o, per dir meglio, limo delle steppe. _b_. Ghiaja minuta con numerose e grandi chiazze nere di ferro idrossidato. _c_. Straterello di marna giallastra. _d_. Argilla grigio scura, con molti frammenti di vasi di terra cotta, minuzzoli di carbone, pezzetti di ossa. _e_. Ghiaja e sabbia. _f_. Argilla sabbiosa giallastra alla base, e per tutta la estensione della scarpa nascosta da franamenti degli strati superiori. Andando a ritroso del fiume, per circa 250 passi, si incontra un altro taglio molto netto: la successione degli strati è ancora la medesima, con leggiere modificazioni (fig. 4). [Illustrazione: Fig. 4.] _a_. Limo delle steppe. _b_. Ghiaja e sabbia con grandi chiazze nere. _c_. Argilla con frantumi di stoviglie, di carbone vegetale e di ossa. _d_. Straterelli di sabbia. _e_. Banco di argilla. In questo secondo taglio ho trovato ancora, entro l’argilla, minuzzoli di carbone, frammenti di ossa e di stoviglie, sebbene assai più rari e più minuti che nel taglio precedente. Nello stato inferiore d’argilla, alla profondità di 3 metri, raccolsi ancora un pezzetto di carbone vegetale, col quale ho potuto benissimo tracciare segni sulla carta. I frammenti di terra cotta, in questi strati d’argilla, sono di fattura assai grossolana, di color rosso mattone, senza traccia di intonaco. Uno scavo fatto eseguire, con strumento imperfettissimo, da uno dei nostri _ferrasch_, non mise allo scoperto oggetti differenti da quelli che si palesavano alla superficie della scarpa. Anche qui, come a Marend, come a Sultanieh, ho cercato invano fosse pur qualche frammento di armi o di strumenti di lavoro di qualsiasi natura. Questi importanti fatti che si presentavano così netti e decisi in luogo così prossimo al nostro accampamento, invitarono il ministro Cerruti ed altri miei compagni di viaggio a constatarli co’ loro proprj occhi; e lo fecero col più vivo interesse, riconoscendone tutta l’importanza. Devo ora ritornare allo strato di sabbia e ghiaja che ricuopre l’argilla con frammenti di pentole. Questo strato presenta, come ho detto, molte grandi macchie o chiazze di color nero, d’aspetto carbonoso, ma veramente costituite da ferro idrossidato prontamente solubile nell’acido cloridrico diluito. Esse macchie sono caratteristiche di questo strato, in massima parte costituito da tritume porfidico, resistente all’azione del detto acido, e lo faranno sempre riconoscere anche più avanti, quando lo strato stesso acquisterà tanta potenza da formare per sè solo le sponde del fiume, e da non lasciar vedere nulla al di sotto. Anche in alcuni paesi d’Europa, si trova immediatamente al disotto della terra vegetale un deposito di ghiaja e sabbia, con grandi macchie nere di ferro idrossidato del tutto simili a queste di Sainkalé. Citerò le colline dell’Astigiana, ove questo deposito ricuopre i banchi di sabbia con ossami di elefante o di mastodonte. Un altro giorno mi portai ai monti che limitano a sinistra l’alto piano. Dopo una perlustrazione zoologica che non mi fruttò alcun che di nuovo, giunsi all’ingresso d’una valletta, posta sul meridiano stesso del villaggio, per verdeggianti declivi, fra pittoresche balze, sorridente di alpestre bellezza. Grandi massi di granito ingombrano il passaggio. Per un sentiero tortuoso ed erto, tracciato fra i dirupi dal passo degli armenti, mi internai nella valle, sempre più incantato da quell’aspra e maestosa natura che nessuna penna saprebbe convenientemente ritrarre. La fedeltà stessa del pennello sarebbe piuttosto creduta fantasia ossianesca, o si direbbe raffigurante il teatro della guerra dei Titani a Giove. Que’ giganteschi dirupi di granito, que’ massi enormi franati sul fondo ed accavallati l’un sull’altro formano uno spettacolo nuovo ed imponente, onde il pensiero è sospinto nella notte de’ tempi mitologici. Tutti que’ dirupi, tutti que’ massi, in ogni loro parte presentano grandi incavazioni, a guisa di tazze o bacini, toccantisi, confluenti, alcune aperte verso il cielo, come scodelle o mortai di giganti, altre di fianco, altre di sotto, come volte di antri. La curva di molti fra questi incavi è quasi regolarmente sferica, e la superficie pulita, come se ne fosse nettamente staccata una bomba; ma sul terreno non si trovano i corrispondenti massi convessi, onde si deve credere che siffatte bombe siano dell’istesso materiale, dell’istesso granito, caduto in decomposizione. Qualche sottile venuccia d’acqua scorrente qua e là, e tosto riassorbita, fa pullulare un po’ di vegetazione, e perfino qualche tapino virgulto di pruno, di pesco selvatico, di rosa. Grandi lucertoni (il solito _Stellio caucasicus_) corrono su per que’ massi in ogni verso. Fra gli uccelli la _Sitta syriaca_, l’_Emberiza Cerrutii_, qualche _Saxicola_, sembrano padroni del luogo. [Illustrazione: Fig. 5. Massi di granito presso Sainkalè.] Il tempo del quale, per una causa malaugurata, potevamo disporre in questa stazione, ci permise pure una partita di pesca, asciugando un piccolo ramo del fiume; e fu molto profittevole. Abbondano qui (come in tutti i fiumi della Persia occidentale) rappresentanti de’ due generi _Cobitis_ e _Capæta_ (_Scaphiodon_ Heck). Ne prendemmo un gran numero di individui da fornire perfino ad esuberanza la cucina, e da porre molti belli esemplari nello spirito di vino, in una gran scattola di latta. Questa scattola giunse perfettamente in Torino, ma per mia mala ventura il suo contenuto fu trovato in completo stato di spappolamento, e andò così intieramente perduto. Ne attribuisco la colpa alla cattiva qualità dello spirito di vino adoperato, che io aveva preso in Tauris da un Armeno. Solo riescii a conservare alcuni esemplari di _Cobitis_ (_C. malapterura_ Val.) riposti in un vaso separato. La malattia del conte Grimaldi s’era improvvisamente aggravata. L’infiammazione della parte contusa del braccio s’era diffusa, ed aveva preso il carattere deciso di un flemmone. Nella notte fra il 18 ed il 19 luglio comparve la febbre, con invasione violenta, e decorso minaccioso con subdelirio. Quanto ne fossimo costernali ognuno può facilmente credere! Conveniva prendere una determinazione, premendoci il tempo, in ragione delle altre molte circostanze che rallentavano il nostro viaggio; e la necessità impose la determinazione più dolorosa: separarci. Fu presto trovato nel villaggio stesso di Sainkalé un ricovero pel nostro malato; si convenne che rimanessero ad assisterlo Clemencich e Lessona con alcuni servi, sotto la scorta di Abdul Hussein khan, figlio del mehmendar. Si convenne pure che non appena il conte Grimaldi avesse potuto senza pericolo sopportare il trasporto in vettura, ci raggiungesse in Kazvin, ove in ogni caso avremmo dovuto arrestarci alcun tempo. Il nostro ministro diede anche le occorrenti disposizioni, affinchè ogni giorno un corriere ci portasse le novelle del malato. Con profonda mestizia, col pensiero angosciato dalla minaccia di una più grande, forse di una irreparabile sciagura, vedemmo aprirsi una delle nostre tende, ed escirne, fra un cupo religioso silenzio, una lettiga. L’accompagnammo fino al villaggio, ed ivi con strette di mano agli amici, che adempivano al pietoso officio di infermieri, più che colla parola impedita dalla piena del dolore, ci separammo. All’alba del 21 luglio, volgendo a sinistra sull’altopiano, riprendemmo la via delle steppe; dominando sempre collo sguardo il letto dell’Abhar nettamente tracciato da una successione di macchie verdeggianti, di boschetti e di villaggi. Con alcuni amici io aveva preceduto il resto della carovana, e giunto al villaggio di Kurremdereh, profondamente incassato fra due rive scoscese, approfittai di questo vantaggio per scendere in un burrone, nel quale la sponda molto alta e nettamente tagliata, lasciava chiaramente scorgere la composizione del terreno. Il solito strato superficiale di limo delle steppe qui è cresciuto di grossezza da 1^m, 50 a 2^m, e sotto di esso trovasi disteso, e qui tagliato, un immenso deposito di sabbia e ghiaja che scende sino al fondo del vallone. In questo deposito trovo ancora le medesime grandi chiazze nere caratteristiche, osservate alla stazione precedente. Una di queste chiazze mi si presenta sensibilmente diversa dalle altre, la materia nera essendovi come in sottili strati regolari, sensibilmente inclinati, ed alternanti con altri di sabbia fina, come costituisse con questi una massa inclusa nella ghiaja. Non potendovi giunger direttamente per l’erta della scarpa, la natura del terreno, ed un canale d’acqua che ne lambe il piede, raccolgo di quella sostanza nera, improvvisando alla meglio una specie di cucchiajo all’estremità di un ramo. La piccola quantità raccolta, appena bastante per un esame colla lente, era in grani neri, lucenti, più simili a tritume carbonoso che al solito ferro idrossidato. Una cosa si può intanto qui rilevare con sicurezza: la continuità e la crescente potenza de’ due strati che, alla posizione più elevata di Sainkalé, sono sovraposti all’argilla con frantumi di pentole. Da questa breve sosta, in altre due ore di marcia, siamo alla stazione di Kyrvah, alla sinistra del villaggio, lasciandolo a circa un chilometro di distanza. L’Abhar scorre anche qui in un profondo solco, le cui sponde sono ancora costituite dei medesimi materiali, cioè del solito limo delle steppe, cresciuto ancora di potenza, fino a costituire uno strato di circa 5 metri, e del solito sottoposto grande deposito di ghiaja e ciottoli, sempre colle sue caratteristiche macchie nere. Qui la ghiaja è in massima parte cementata in una specie di puddinga abbastanza resistente, formante anche massi pittoreschi staccati dalle sponde, e sui quali sono edificate alcune delle capanne del villaggio. Alcuni fatti della più grande importanza risultano adunque dal collegare queste osservazioni istituite in varj punti del corso dell’Abhar: 1.º la perfetta continuità dello strato di ghiaja sottoposto al limo delle steppe, per tutta l’estensione dell’altopiano tagliato dal fiume: 2.º la crescente potenza di questo strato, e la crescente grossezza de’ suoi elementi (grani di sabbia e ciottoli), partendo dal lembo superiore del bacino: 3.º l’esistenza al disotto di questo strato di un deposito regolarmente stratificato di sabbia fina ed argilla, con opere dell’industria umana (Sainkalé). [Illustrazione: Fig. 6.] La qui unita figura (n. 6) rappresenta graficamente la coordinazione delle cose rilevate a’ tre citati punti d’osservazione, 1º. limo delle steppe; 2.º strato di ghiaja con grandi macchie nere di ferro idrossidato; 3.º argilla e straterelli intercalati di sabbia fina, con frantumi di stoviglie, di ossa e di carbone vegetale. La freccia indica il corso dell’Abhar. Questi fatti troncano al suo nascere un dubbio che potrebbe insorgere nella mente di alcuno: se per avventura il deposito di Sainkalé non sia da considerarsi come di formazione in stretto senso moderna, affatto locale, come un sedimento dell’Abhar. Ci vuol poco a vedere che l’azione di questo fiume è assolutamente contraria; che nelle sue piene corrode le sue sponde, non le rialza; esporta e non deposita. L’Abhar ha solcato un terreno di trasporto preesistente, terreno che non è tampoco dovuto all’azione di una corrente diluviale avente la stessa direzione dell’attuale fiume. Ciò è pienamente dimostrato dalla crescente potenza degli strati di materie più pesanti partendo dalle radici del fiume stesso. Evidentemente l’altopiano dell’Abhar è un bacino, un lago, o meglio ancora un seno ricolmato da tritumi riversativi dalla grande catena dell’Elburz. Sainkalé trovasi al lembo superiore di questo seno, ed ivi si è potuto formare tranquillamente il sedimento di argilla del quale ho detto, sul quale sedimento si è poscia esteso il lembo assottigliato del gran deposito di ghiaja che ha ricolmato il seno stesso. Tutto l’altopiano dell’Abhar è dunque di formazione posteriore alla diffusione della specie umana. È questo un fatto isolato, o non piuttosto applicabile a tutti gli altipiani della Persia occidentale, così strettamente connessi con quello dell’Abhar, come membri di un sol corpo? Dovrò più tardi riprendere questo soggetto, quando saranno venuti in scena altre osservazioni concorrenti a dimostrare i grandi cambiamenti che in questa parte dell’Asia hanno avuto luogo dopo che l’uomo vi si era già stabilito. Riprendo ora l’itinerario. Il 22 giugno, dopo una marcia di cinque ore per un ampio deserto, giungiamo in Sijadehin, grossa borgata, ove stavano ad attenderci da quattro giorni alcuni notabili di Kazvin. Dopo una giornata brusca per l’aridità del luogo, pel difetto di buona acqua, pel vento furiosissimo, ci avviamo alla città. Al piccolo villaggio di Sultanabad facciamo breve sosta per la colazione, in una casa che gli abitanti ci lasciarono sgombra per qualche ora, e composta in tutto di un cortiletto, di una stalla terrena e di un camerotto superiore perfettamente nudo, col solo addobbo di alcune singolari stampe religiose appiccicate alle pareti. — Là il commendatore Cerruti ebbe a ricevere dispacci del conte Gobineau, ministro di Francia in Teheran, enumeranti le disposizioni che aveva prese pe’ nostri alloggiamenti, e condite di paterni consigli sul modo col quale l’ambasciata italiana avrebbe dovuto contenersi. Ripresa la cavalcala, sotto un sole ardente, incontrati da un nuovo ed assai numeroso corteo d’onore, facciamo infine il nostro ingresso trionfale in Kazvin. XIV. Kazvin. — Caccia nel giardino imperiale. — Monticoli di lava presso Hissar. — Kyschlak. — Kurdan. — Kerretsch. — Vista del Demavend. — Khend. — Accoglienza alle porte di Teheran. — Tedgrisch. — La nostra abitazione. — Colonia europea. — Servizio postale in Persia. La città di Kazvin è nel mezzo di un’ampia oasi conquistata sul deserto. Tutt’all’intorno, e per qualche miglia di raggio, l’arida steppa è stata con mirabile arte e duro secolare lavoro convertita in un giardino. Per lungo ordine di solchi la vite vi dirama i suoi sarmenti; alberi delle solite specie vi sono disseminati, tapini e diradati verso il deserto, sempre più spesseggianti e fronzuti verso la città, centro dell’oasi. La posizione del luogo permette alla vegetazione un carattere alquanto più meridionale, e qui infatti prospera il pistacchio, i cui bei grappoli erano già prossimi alla maturanza. Il solito brillante e numeroso corteo d’onore ci guidò in città. Dopo pochi tratti ci s’aperse dinanzi un viale ampio, diritto, maestoso, ombreggiato da due filari di annosi sicomori, terminanti ad un ampio portone, decorato dello stemma dell’impero: un leone minaccioso, impugnante una sciabola, e col disco raggiante del sole che sembra spuntargli dalla schiena. Per questo portone, attraversati due ampi cortili circondati di grandi platani, fummo introdotti in un giardino e lì nel mezzo in un chiosco reale, assegnato a nostro quartiere. Il dire delle visite, dei ricevimenti, dei donativi, delle noie infinite dell’etichetta, sarebbe una pura ripetizione delle cose già narrate. Qui riabbracciamo Orio, reduce dalla sua spedizione nel Ghilan; ed i corrieri apportatori delle sempre più confortanti notizie della salute del conte Grimaldi, ci annunciano l’imminente arrivo della frazione della nostra schiera lasciata a Sainkalé. Ed eccola infatti, dopo quattro giorni, salutata con grido generale di gioia, con festa insolita e commovente, nel nostro campo. Il conte Grimaldi in piena convalescenza, grazie alle cure dei suoi infermieri e del suo medico Lessona, aveva potuto percorrere il non breve tratto di cammino in una di quelle carrozze che la provida ostinazione del nostro ministro aveva fatto trascinare al nostro seguito. Senza questa ambulanza gravissimo sarebbe stato il nostro imbarazzo. Kazvin è senza contrasto una delle più belle città della Persia. La proporzione del fango e delle rovine vi è assai minore che in Tauris. Possiede un bazar vasto e ben proveduto, belle moschee, un sontuoso bagno, un grande serbatojo sotterraneo di purissima aqua, e case signorili. In una di queste case, molto notevole per la perfetta conservazione, la freschezza, il buon gusto, fummo introdotti e lautamente trattati dal padrone, uno dei più ricchi negozianti della Persia. Anche qui le nostre caccie furono ristrette ne’ limiti del giardino ove eravamo alloggiati. Rinvenni ancora la _Testudo mauritanica_, lo _Stellio caucasicus_, l’_Euprepis affinis_: ma di particolar interesse mi riescirono gli uccelli. Un immenso nugolo di corvi s’appollajava la sera sugli eccelsi platani vicini al nostro padiglione. Ne uccisi sette d’un colpo, e riconobbi il _Corvus frugilegus_, vero paradosso ornitologico in questa latitudine ed in questa stagione; e non il solo. Aveano nidificato nel giardino, oltre l’usignolo commune, anche il _Parus cæruleus_ e la _Ruticilla phœnicura_, due specie che fuggono i calori estivi della pianura di Lombardia, per far nido o sulle Alpi od in più nordiche regioni. Un’altra specie per me affatto nuova, e delle più rare nelle collezioni d’Europa, è la bellissima _Erythrospiza obsoleta_ Licht. Ne presi vari individui adulti dei due sessi e giovani dell’anno, fra di loro pochissimo differenti. La loro voce ordinaria è uno strillo sommesso, rassomigliante a quello della quaglia che frulla, e questo strillo si ripeteva d’ogni intorno anche da’ platani de’ cortili e de’ giardini vicini al nostro, il che vuol dire che la specie è commune in questa località. Il 29 luglio, di buon matino, diamo un addio a Kazvin. Il mehmendar, sorridendo di compiacenza al desiderio espressogli di non affaticare troppo il nostro convalescente, ci aveva fatto allestire il campo a soli tre _farsach_[40], presso il villaggio di Hissar, quasi alle falde dell’Elburz. Vicinissimo all’antemurale di questa catena, all’oriente del villaggio, e da questo distante un tre chilometri all’incirca, surgono due monticelli isolati, che io feci scopo di una mia escursione, malgrado il sole ardentissimo (avevamo sotto la tenda +36° c.) Rimasi sorpreso al riconoscervi due monticelli vulcanici, di vera lava nera e scoriacea, la cui massa è alla superficie tutta spezzata in grossi frammenti angolosi. Il più grosso di quei monticelli, e precisamente quello che sta più da vicino all’antemurale della catena, è un monte gemello, ossia formato da due coni congiunti fin presso la sommità. Non vidi traccia alcuna di cratere nè di roccie dislocate. Tutti all’ingiro nel piano sono disseminati frammenti della stessa lava, il cui nero colore fa contrasto col grigio del terreno: ma tali frammenti si arrestano a qualche centinaja di passi dalle grandi masse d’onde furono staccati; sono evidentemente sovraposti al tritume generale dell’alto piano e non in questo inclusi. I monticelli medesimi sono incontestabilmente posteriori alla formazione generale delle steppe. Ne’ torrenti asciutti che attraversano l’arido piano, i frantumi arrotolati constano di marna più o meno alterata, indurita e cotta, di varie sorta di roccie porfidiche, una delle quali è un amigdaloide con noduli di calcedonia. Il bottino zoologico non mi ha dato nulla di osservabile fuori l’incontro fatto qui per la prima volta di una specie di saurj delle steppe, che, aggiunta alle precedenti, rimane d’ora in avanti communissima. È l’_Agama agilis_ Oliv. Il dì seguente movemmo per far sosta a Kyschlak. L’altipiano che percorriamo è in massima parte affatto arido, e di tale estensione che verso oriente, e quindi di prospetto al nostro sguardo, si perde nell’orizzonte. Qua e là, numerosi più che nel tratto antecedentemente percorso, veggonsi cumignoli conici, coperti della vegetazione delle steppe, i quali non sono altro che piccoli _tepe_. Trascorsa un’ora dalla stazione di Hissar, incontriamo sulla nostra sinistra i ruderi di un piccolo villaggio distrutto: quindi, a poca distanza, procedendo, altro villaggio più grande alla nostra destra, pure deserto e rovinato, ma con tutti gli indizj di esserlo da poco tempo. Non durammo fatica a riconoscere la causa per la quale questo villaggio era stato abbandonato: l’aqua avea cessato di fluire pel condotto sotterraneo che vi portava un così essenziale elemento di vita. A Kyschlak le nostre tende erano state providamente erette presso lo sbocco di uno di questi canali, d’onde scorreva una ricca vena di aqua limpidissima e fresca. Mentre da noi si andava pregustando un così prezioso ristoro ad un’arsura che già toccava l’estremo limite della toleranza, ecco una frotta di Persiani del nostro seguito precipitarsi nel canale, ascendere anche la corrente nel suo antro, ravvoltolarsi nell’aqua, spidocchiarsi, e mandar così in regalo a noi una corrente di immondizie. Dovemmo adoperar la forza, bastonate e sassate, a scacciarneli, e far poscia custodire da una sentinella lo sbocco del canale. Il calore di quella giornata fa il massimo per noi sopportato in Persia: 34 R. all’ombra. Lì presso alle nostre tende era un _tepe_, sulla cui cima vedevasi ancora qualche rudero di antica torre. Le aque pluviali vi avevano tracciati profondi solchi; ma la mia speranza di trovarvi, come a Marend, ossa d’animali, carbone e cocci, andò affatto delusa: il _tepe_ non è d’altro costituito che del solito limo grigio e compatto delle steppe. Ne’ campi circostanti era più che altrove abbondantissima l’_Alauda cristata_. Qui vidi pure qualche coppia della gazza commune (_Pica caudata_), e roteanti nello spazio fra il villaggio ed il nostro accampamento molti falchi (_Milvus ater_). Lasciato Kyschlak, piegando alquanto a sinistra, ci avviciniamo all’Elburz, ove la nuova stazione ci era apprestata in una delle più deliziose oasi della Persia. Passiamo rasenti il villaggio di Meschinabad, ombreggiato da grandi alberi, fra i quali sotto forma di una moschea attrae il nostro sguardo la magnifica tomba dell’Imam-zadé. Il cammino ci conduce ove l’antemurale dell’Elburz, che avevamo fino allora seguito a distanza, si decompone in rami formanti il fianco di una valle pittoresca, ascendente per balze e chine di una bellezza affatto inattesa verso la catena centrale. I ruscelletti che scendono da questa valle vi sviluppano una vegetazione così diffusa, così varia e lussureggiante, da vincere quella stessa della valle di Marend; e vanno poscia a perdersi nell’Abi-Schür (fiume salato), che termina alla sua volta perdendosi nel deserto. Il bel villaggio di Cinan, circondato di densi frutteti e macchie di grandi alberi, ci si presenta come un luogo di elezione per farvi sosta; ma procediamo oltre, e, dopo breve tratto, eccoci ad un ampio torrente asciutto, chiuso fra due sponde dirupate, unite una volta da un ponte ora del tutto rovinato, e che il governo persiano non ebbe cura di ripristinare. Passato questo torrente non senza gravi stenti, arriviamo a Kurdan, altro villaggio non meno ricco di giardini e di boschi ombrosi, e lì troviamo preparato l’accampamento. La giornata fu in gran parte spesa alla caccia delle lepri e delle quaglie abondanti nelle circostanti campagne. Verso sera immensi sciami di storni rosei vennero ad appollajarsi sugli alberi vicini alle nostre tende. Ne facemmo una vera strage, che ogni colpo in quelle masse compatte ne faceva cadere una grandinata. Il 1.º agosto pernottammo in Kerretsch, importante villaggio ancora alle falde dell’Elburz, lambito da un fiumicello che trae dal villaggio stesso il nome di Kerretschrud, ed è un altro affluente del fiume salato. Un grandioso castello reale avrebbe potuto offrirci asilo, ma vi si erano già stabiliti un alto funzionario di Tauris, ed uno fra le milliaja di Mirza o principi del sangue che felicitano la Persia. Trovammo perciò le nostre tende piantate nel giardino stesso del castello, all’ombra dei pioppi e de’ platani. Eccettuando il doloroso accidente occorso al conte Grimaldi le condizioni sanitarie dell’ambasciata erano state in generale corrispondenti ai bollettini, consolanti pe’ nostri amici e pe’ nostri parenti, che ad ogni opportunità di corriere venivano spediti in Europa. Qui incominciavano ad insinuarsi fra noi i primi germi de’ mali proprj del paese. Lo stato di malessere di uno de’ nostri servi si spiegò in decisa e violenta febre periodica. Io medesimo fui colto da una strana affezione, da un accesso di asma notturno, che si rinovò nel seguito varie volte per intervalli irregolari. Prima della novella alba muoviamo anche da questa stazione, impegnandoci subito nel guado del fiume, reso difficilissimo dalle ineguaglianze del suo letto, dai macigni e dall’oscurità. La luce del crepuscolo matinale ci rischiara bentosto la via, lunghesso le falde dell’Elburz, in un terreno affatto arido, screpolato, disuguale, limitato, alquanto più lungi sulla nostra destra, da piccoli dossi allineati nella medesima direzione della catena d’onde si direbbero staccati. Dopo circa due ore di cammino, eccoci di nuovo ad un’interruzione della parete antemurale dell’Elburz, per la quale da lungi si presentano al nostro sguardo le cime de’ più interni monti, e fra queste gigante e maestoso il cono del Demavend, biancheggiante di perpetue nevi. Un gran fascio di luce solare, scappando fra questo cono e la più vicina sommità de’ monti vassalli, si projetta nelle alte regioni dell’aria, e cresce l’incanto di quella stupenda scena della natura. I primi arrivati s’arrestano a raccoglier le espressioni di maraviglia de’ sopravegnenti. Fin da questo punto, ed anche più avanti, nelle adiacenze di Teheran si può notare come l’asse del cono del Demavend, non sia affatto perpendicolare al piano orizzontale della sua base, ma sensibilmente inclinato verso occidente. Per l’alveo di un altro torrente asciutto parallelo ai precedenti, la strada sale quindi sull’opposto più elevato piano, ricco di bella vegetazione, e conduce al florido villaggio di Khend. Con alcuni amici io aveva precorso il resto della comitiva, e già eravamo alle prime case, quando ad una svolta vediamo un drappello festante di cavalieri, fra i quali distinguiamo cinque splendide uniformi come di ufficiali europei. Grande emozione provammo nell’udire queste parole nella nostra bella lingua: «Voi siete della missione italiana? lasciatevi dunque salutare da vostri compatrioti: ov’è il ministro?» Erano cinque colonnelli italiani al servizio della Persia, i signori Pesce, Giannuzzi, Andreini, Barbara e Materasso. Ricambiati i saluti frettolosamente, ma con piena effusione di cuore, e sul cenno che il ministro seguiva a qualche distanza da noi, spronarono i cavalli al suo incontro. Pochi minuti dopo eravamo tutti riuniti in un piccolo padiglione da caccia dello Schah, chiuso fra quattro mura, ove dovevamo soffermarci pel resto della giornata. Gli ufficiali italiani rimasero alcun tempo fra noi: e venuto infine l’ora del commiato, col proposito di rivederci il domani alle porte di Teheran, riepilogammo la soddisfazione viva e naturale di quell’incontro, e le scambievoli offerte, in cordiali strette di mano. Ai primi albori (3 agosto) lasciammo Khend: in pochi minuti quella bella oasi scomparve alle nostre spalle, e con trotto sostenuto, variato soltanto, per frequenti tratti, da vere giostre al galoppo, ci avviammo alla capitale dell’impero Persiano. Passando vicino ad una bottega ombreggiata da un gruppo di alberi, solitario nella vasta steppa, alla vista di un samovar fumante, ci colse la tentazione di alquanto ristoro; ma il thè ci fu sdegnosamente rifiutato, che le nostre labbra impure non dovevano profanare le tazze ove bevono i fedeli credenti di Alì. V’era lì accanto un mucchio di poponi e di cocomeri, e questi furono lasciati a nostro arbitrio, per sottintesa concessione niente affatto lusinghiera alla nostra natura di uomini. Dopo due ore di questa lieta cavalcata eravamo già in piena vista di Teheran. Le mura, le torri, le lucenti cupule delle moschee, gli alberi del giardino imperiale, si disegnavano nettamente al nostro sguardo; ma dovevamo veder Teheran senza entrarvi. A pochi minuti di distanza dalla città, nella deserta pianura, v’ha l’_Aspidivan_, ampio recinto ad uso di arena per la corsa de’ cavalli. Lì scendemmo di sella, per ricoverarci nello ampio loggiato che serve di palco alla corte dello Schah, nell’occasione degli spettacoli, ed in questo loggiato attendere lunghe ore il declinare del sole, e l’apprestamento delle pompe colle quali l’ambasciata del re d’Italia doveva essere accolta nella sede del Re dei Re. — Da oltre un’ora, vestiti delle nostre brillanti divise, ed impazienti come chi è in pieno diritto di esserlo, tendevamo inutilmente lo sguardo al lontano brulicame di gente che andava mano mano adunandosi per noi; quando infine venne dato il cenno della partenza. Movemmo questa volta in ischiera perfettamente ordinata, col nostro ministro alla testa, da prima quasi in linea tangente la cerchia di Teheran, poi convergendo subito a sinistra, verso la non lontana catena dei monti. Per la campagna deserta, sassosa, disuguale, stavano distribuiti forti e numerosi drappelli, e l’uno dopo l’altro, all’avvicinarsi della nostra colonna, s’accostava; quindi, compiute le formalità del saluto, vi si aggiungeva. Oltre le principali autorità della capitale, ciascuna seguita da un brillante corteo, v’era il personale delle legazioni di Francia, d’Inghilterra, di Turchia, v’era il drappello de’ nostri compatrioti, e folla di spettatori; e tutta questa massa di gente inviluppata fra un denso nembo di polvere, galoppava confusamente, preceduta da lacché dello Schah, e seguita da squadroni di cavalleria. Giunti a _Kas’r Kadgiar_ (castello de’ Kagiari), scendemmo di sella, per compiere la vera formalità del ricevimento sotto un ampio padiglione entro il recinto del giardino. Lì attorno ad una grande tavola stracarica di confettura e di frutta, assistemmo alle cerimonie ricambiate fra il commendatore Cerruti ed il ministro degli affari esteri dello Schah. Circolavano frattanto ricchissimi _Kalian_, bacili di thè e di _scherbeth_: e di tanto tramestio noi profittavamo per far la prima conoscenza cogli addetti alle legazioni europee. Compiuta questa solennità riprendemmo la nostra marcia, lasciando a _Kas’r Kadgiar_ gran parte de’ cortei che ci avevano fino là accompagnati. Nel percorrere l’ampio letto di un torrente, ci fu di graditissima sorpresa il veder staccarsi dal piede di un gruppo di alberi tre signore elegantemente vestite all’europea, agitanti verso noi, in segno di festa, candidi fazzoletti: erano le signore Pesce, Andreini e Gianuzzi, che ebbimo poi la fortuna di conoscere personalmente. Infine riescimmo alla residenza per noi fissata in Tedgrisch, che già annottava. Tedgrisch è uno dei villaggi disseminati nella zona di oasi che si distende a’ piedi dell’Elburz, a due ore da Teheran, in una valle aprica, limitata a settentrione dalla parete montuosa, ed a mezzodì da una serie di collinette o meglio ondulazioni aridissime, che vanno mano mano decomponendosi e morendo nel deserto in cui è fabricata la città. La neve che rimane assai avanti nell’estate sulle più alte cime de’ monti, e della quale vedemmo ancora qualche avanzo, fa scaturire al loro piede numerose surgenti, che raccolte e distribuite con arte mirabile, permette lo sviluppo della cultivazione sotto molteplici forme. Secondo gli accidenti del piano la steppa è tutta intersecata da filari, da macchie, da giardini, da boschetti, da campi di grano, di sesamo, o di trifoglio. In più luoghi la vegetazione arborea è stupenda. Fra il verde biancheggiano ville o gruppi di case, costrutte con ricercatezza, alcune perfino con qualche lusso. Ov’è una moschea e qualche bottega, là si dice essere un villaggio, come il nostro di Tedgrisch, come Rustemabad, Sultanabad, Niaveran. Lo Schah, che ha sparsi nell’immensa estensione de’ vari dominii, in ogni villaggio di qualche importanza, chioschi e castelli, ne ha pure anche qui in gran numero. Ma non bastano le case in questa privilegiata zona. I ministri europei prendono in affitto un giardino, e vi stabiliscono le loro tende per tutta la calda stagione. La sola legazione d’Inghilterra pensa a provedersi di una villa in muratura, che noi trovammo in corso avanzato di costruzione. La vita sotto la tenda è, durante i calori estivi, e per nostra propria esperienza, preferibile a quella dei casolari di commune stile in Persia. Ogni legazione europea ha per sè un vero accampamento, le cui tende sono aggruppate con studio, all’ombra di grandi alberi. Presso la tenda principale è scavato un bacino di forma rettangolare, costantemente pieno di aqua, ad uso di bagno, e così insidioso che nell’oscurità più d’uno di noi vi ebbe a cadere, credendo camminare al sicuro sul terreno. Fra questi accampamenti si distingueva per la magnificenza quello della legazione inglese, ove un’immensa tenda indiana in fitta e robusta stoffa, serviva per sala da ricevimento, ed avrebbe all’uopo perfettamente servito per sala da ballo. La nostra abitazione, per verità una delle migliori reperibili nelle adiacenze di Tedgrisch, ci era stata procurata, contro un molto rispettabile prezzo di affitto, dal nostro zelante protettore conte Gobineau. Si imagini il lettore un recinto circondato da un muricciuolo di fango, che lo suddivide nell’interno in scompartimenti secondarj, communicanti fra loro per breccie irregolari. Tutto questo recinto poteva chiamarsi un giardino, o meglio un boschetto inculto, selvaggio, di alberi addensati e cresciuti quasi solo in lunghezza per cercar la luce dall’alto. Alcuni viali rettilinei tra filari di maggiori alberi, o sotto un pergolato, stabilivano le communicazioni. In questi scompartimenti erano distribuite alcune capanne di due o tre camerette cadauna, costrutte di fango un po’ meglio impastato e lavorato di quello del muro di cinta. Imposte scassinate ne guernivano gli ingressi; alle finestruole neppure traccia di vetri, che son cose di lusso pel luogo e per la stagione. Nella meno informe fra queste capanne e nella più spaziosa camera fu stabilito l’officio del nostro ministro; e lì presso, sotto una tenda, si dispose una gran tavola improvisata alla meglio, pel pranzo. In linea con questa tenda erano la immancabile fossa rettangolare, ed un’altra buca nel cui fondo gorgogliava una copiosa surgente di aqua limpidissima e fresca. Il mobiliare che trovammo al nostro arrivo, non consisteva che in alcuni tappeti distesi sul pavimento, concessi provvisoriamente dal governo, e che dovemmo ricambiare con altri comperati dal nostro ministro. Si mise presto mano al corredo delle masserizie portate con noi per sì lungo cammino dall’Europa, rimaste fino allora intatte. Mediante certi letticciuoli elastici, mediante le nostre casse, ci accasammo, lo deve dire, abbastanza bene, anche per un lungo soggiorno. Il giorno medesimo del nostro arrivo, nella tarda sera, ebbimo la visita del conte Gobineau, ministro di Francia in Teheran, il quale si affrettò a fornirci i primi insegnamenti elementari sul nostro contegno, e fra gli altri questo: che nessuno di noi avesse ad escire senza scorta, non per scansare oltraggi che non avevamo a temere, ma per la debita considerazione della nostra dignità. Altro sollecito avviso, per verità utilissimo, fu che nessuno di noi facesse di suo capo acquisti di curiosità persiane, delle quali saremmo stati facilmente allettati. Il conte de la Roche Chouart, _attaché_ alla legazione francese, si offrì graziosamente a nostro mentore in queste faccende. Una persona di rango non si reca a’ _bazari_, ma riceve in sua casa i mercanti, i quali poi, colla ciera la più innocente, cercano affibbiare da prima tutti gli scarti, poi ad una ad una cavano le cose migliori, chiedendo sempre il doppio, il triplo del prezzo che sono disposti a ricevere. Ci separammo colla testa piena delle più cordiali offerte, e ripromettendoci un’eccellente compagnia da questo centro di società europea. Il conte di Gobineau è uomo ancora nel vigor dell’età, di ingegno irrequieto, amante di varia ed accelerata cultura, e conosciuto nel mondo letterario per le sue relazioni di viaggi alla Terra-Nuova, in Persia e specialmente per la sua opera sull’_ineguaglianza delle razze umane_. Noi lo trovammo tutto intento allo studio della letteratura e della filosofia persiana, sotto la scorta di un sapiente _mollah_; e siffattamente preso di entusiasmo da trovare arcane bellezze in ogni cosa di gusto persiano, perfino nella musica. Un po’ alla volta, ne’ giorni susseguenti, facemmo conoscenza del personale delle legazioni di Turchia e d’Inghilterra. Ministro dell’impero ottomano era Haider effendi di bell’aspetto, perfettamente educato alle forme più scelte, e parlante con grande facilità il francese. Ministro d’Inghilterra da un anno o poco più era il signor Allison, del pari assai cortese persona. La diplomazia inglese in Oriente si esprime anche nel decoro delle rappresentanze diplomatiche negli Stati ove il liocorno non è assunto dominatore. Il personale delle legazioni vi è più numeroso, meglio retribuito, e circondato di tutti gli emblemi dell’agiatezza e della potenza. Lo componevano il signor Fane, il signor Watson ed il signor Thomson, segretari. Il dottore Dickson, assai dotta e garbata persona, vi era addetto in qualità di medico. Noi avevamo già avuta per via la notizia del riconoscimento del regno d’Italia da parte del governo russo; ma la communicazione officiale non ne era peranco pervenuta alla legazione dello czar in Teheran, e tale circostanza impedì ogni rapporto diretto tra il nostro ministro colla legazione di Russia, il cui accampamento trovavasi a poche centinaja di passi da Tedgrisch. Il signor Anitchkoff trovò modo di farci esprimere il suo rincrescimento, e gli addetti alla legazione russa, che frequentemente incontravamo nelle tende delle altre legazioni, usavano con noi tratti così cortesi, da non renderci accorti del difetto della vernice diplomatica. Noi ci trovavamo quasi ogni giorno a contatto or con l’una or con l’altra legazione, ma in forma privata: l’etichetta esigendo assolutamente che le visite officiali non fossero fatte e rendute se non dopo il solenne ricevimento dallo Schah. Il dottore Tholosan, archiatro, che appena ebbimo tempo di conoscere personalmente, alcuni officiali, e tra questi i cinque colonnelli italiani de’ quali ho detto più sopra, qualche negoziante, qualche operajo, due sacerdoti lazzaristi, uno francese, l’altro italiano di Liguria, il padre Varese, ecco, oltre il personale delle legazioni, la colonia europea di Teheran. E qui sento il bisogno di soddisfare ad un sentimento di riconoscente amicizia verso un’altra persona, che, sebbene eliminata dalla sfera officiale, ha prestati a me e ad altri miei compagni servigi così segnalati, con sì franca e costante cordialità, da rimanerne perenne in noi la memoria; devo rammentare il signor Nicolas, primo dragomanno della legazione di Francia, profondo conoscitore della lingua e della letteratura persiana, che per dissapori sempre più inacerbiti col signor conte Gobineau avendo chiesto ed ottenuto un congedo, faceva i suoi preparativi di partenza per l’Europa. Il nome del signor Nicolas dovrà ricomparire in queste pagine. Le frequenti giornaliere visite ricevute e ricambiate, gli inviti a pranzi come di famiglia, le geniali conversazioni, ci facevano quasi dimenticare per lunghe ore di essere tanto lontani dall’Europa, ed alleggerivano la crescente oppressione della nostalgia, che in tutti più o meno acerbamente si faceva sentire. Si animò in questi ozj di Tedgrisch la nostra corrispondenza co’ parenti e cogli amici lontani. Non esistono in Persia offici postali, come nei paesi più civilizzati, ma il ricambio delle lettere coll’Europa si fa con soddisfacente regolarità col mezzo di corrieri del ministro degli affari esteri, e delle legazioni di Francia e d’Inghilterra, per la via di Trebisonda e Costantinopoli, e della legazione di Russia, per la via di Rescht. Il tratto da Teheran a Trebisonda, che dalle carovane ordinarie è percorso in quaranta giorni almeno, lo è da’ corrieri in soli tredici giorni, trottando di continuo dieciotto ore nelle ventiquattro, non perdendo tempo ne’ _tschapark hanè_ che lo strettamente richiesto pel cambio de’ cavalli. Vi sono de’ viaggiatori anche europei che riescono a sopportare una così dura marcia. Il mio amico Doria, nel suo viaggio di ritorno in Europa, ne fece vittoriosamente prova. Le notizie che ci pervenivano sull’epoca del ritorno dello Schah, e quindi del nostro solenne ricevimento, erano incerte; però s’accordavano in generale nel farci presumere circa una ventina di giorni di aspettazione. I contorni di Tedgrisch non presentavano alcun particolare interesse per ricerche scientifiche; si organizzò adunque prontamente, in questo intervallo, un’escursione al Demavend, la quale venne felicemente compita, come in seguito narrerò. Intanto alla spicciolata ognuno di noi volle far la sua visita alla vicina capitale dell’impero persiano. XV. Teheran. — La cultura publica in Persia. — La giustizia. — L’Emir — Il Sadrazam. — Confronti. — Massacro della legazione russa nel 1829. — Guerra coll’Inghilterra nel 1856 — Herat. — L’armata. — I Turcomanni. — Le febbri a Tedgrisch. — Lo Schah. — L’udienza imperiale. — Il ministro degli affari esteri. — Dopo l’udienza. Teheran è posta nel deserto, a breve distanza dalla catena dell’Elburz, nello spazio tra le ridenti oasi del Schemran e le rovine della biblica Rages. L’italiano Della Valle, il pellegrino che la visitò sullo scorcio del secolo decimosettimo, la chiama la città de’ platani; la descrive come grande, ma poco popolata, intersecata da ruscelli, ricca di giardini e di frutteti. Già anticamente, in varie riprese, l’aveano scelta a loro temporanea sede alcuni re della Persia; ma al rango di capitale del vasto impero non salì che verso la fine dello scorso secolo, col surgere della nuova dinastia. Aga Mohamed khan vi costruì nuovi aquedotti, bazar, moschee, palazzi, e pago infine dell’opera sua trasferì nella rifatta città la residenza dei Re de’ Re, abbandonando l’antica sontuosa metropoli di Ispahan. Una sola costante legge governa in Persia le capanne ed i palazzi, gli umili villaggi e le grandi città; tutto è predestinato alla rovina sin dalla fondazione, ed i Persiani non riparano, ma ricostruiscono. Io non farò la descrizione di Teheran, rimandando il lettore a quanto ne scrissero i viaggiatori e più recentemente, colla maggiore accuratezza, il sig. Brugsch[41]. La fisonomia generale di questa città non è gran fatto diversa da quella delle altre città persiane: il materiale di costruzione vi è il medesimo: fango, puro fango: le contrade sono strette, sudicie, irregolari, estremamente polverose in estate, e fangose nella stagione della pioggia. Un’alta muraglia di fango ed un gran fossato asciutto la ricingono, e vi danno accesso sei porte, che dal tramonto al surgere del sole rimangono gelosamente chiuse. Alcuni gruppi di casolari, presso le porte, formano i suburbj, uno dei quali, dal lato del Schemran, trovammo intieramente stemperato da una pioggia diluviale e da una innondazione dell’anno precedente. Nell’ampia distesa di casipole e muricciuoli di fango surgono, qui più che altrove, opere monumentali della moderna arte persiana, costrutte in buoni mattoni cotti, con eleganti mosaici di mattoni smaltati. Le porte fiancheggiate di torri, le moschee, i bazar, sono per una certa magnificenza di stile, per le decorazioni, per la freschezza, quanto di più bello si può vedere in tutti i dominj degli Schah. La porta del nord, detta la porta dell’impero, e lì presso il mausoleo che racchiude la testa del Khan di Khiva, furono i primi bei monumenti che si offrirono al mio sguardo nella visita fatta alla città. Da questo lato si trova il più importante dei quattro quartieri, nei quali la città stessa è divisa. Oltrepassata quella porta si percorre una strada lunga e diritta, regolarmente selciata, rasente il muro di cinta del giardino dello Schah, ed a questo muro sono attaccate in lungo ordine molte cassette vetrate, nelle quali arde di notte una candela, tutto il contorno della residenza imperiale essendo illuminato, quando il resto della città è nelle tenebre. Per quella strada si giunge a una grande piazza, circondata di frontoni maestosi, che servono d’accesso a’ bazar, a’ caravanserai, al palazzo dello Schah e de’ suoi ministri. Nel mezzo di questa piazza sta quella che da noi si direbbe la gran guardia: una batteria di cannoni di diverso calibro, ed uno fra essi di enormi dimensioni, con gruppi di soldati quali in sentinella, quali accosciati fumando tranquillamente il kalian. Il giardino dello Schah è imponente pel lusso della vegetazione, per maestosi viali, per grandi piscine, per la pulitezza, l’ordine, l’eleganza che domina dappertutto, e rivelano arte, gusto, costumanze d’Europa. Il direttore, infatti, è un francese. Non mi accingo tampoco a descrivere l’interno del palazzo, la favolosa ricchezza de’ troni, l’addobbo sontuoso di alcune sale, contrastanti in singolar modo colla nudità, colla decadenza de’ fabricati imperiali che avevamo fino allora visti. Varj grandiosi edifizj, tutti press’a poco del medesimo stile, co’ loro grandi talar prospicienti l’immenso giardino, compongono questa residenza del Re de’ Re. Alcuni servono d’abitazione a’ grandi di corte, altri al ricevimento de’ dignitarj nelle varie solennità; altro infine chiude il tesoro reale, indescrivibile assembramento di perle, di rubini, di smeraldi, di diamanti, della più rara bellezza, per un ammontare che vien calcolato oltre 1,250,000,000 di franchi. Da questa parte della città, presso la porta dell’impero, trovasi il collegio, istituzione europea, che la volontà dello Schah attuale mantiene, che un altro regnante può distruggere, senza che ne rimanga tampoco la memoria nell’indifferenza del paese. È una specie di istituto politecnico, nel quale ad una quarantina di allievi si dà una istruzione elementare nella fisica, nella chimica, nella mecanica, nella topografica, nella lingua francese. Naturalmente vi sono addetti professori europei, ma già si manifesta e si traduce in effetto l’intenzione di sostituire loro a poco a poco professori persiani. Un italiano, il signor Focchetti, vi tenne per alcuni anni la catedra di fisica e di chimica, ed ha lasciato buon nome e desiderio di sè, non solo fra i pochi suoi connazionali, ma fra gli altri Europei e le istesse più intelligenti notabilità persiane. Noi trovammo in costruzione un grandioso fabricato nel quale sarà ben tosto trasferito il collegio che lo Schah ha intenzione di chiamare a nuova vita. L’Inghilterra tiene lo sguardo fiso sopra Herat, e pel resto si appaga del grande sfogo che aprono alle sue manifatture i bazar persiani. La Russia pure inonda la Persia delle sue merci, e contiene la politica dello Schah colla salutare paura. Fino dai tempi del primo Napoleone, e della spedizione del generale Gardanne, Parigi è, nel concetto generale de’ Persiani, il centro del _Frengistan_; e la Francia spiega ancora la prevalente influenza ne’ consigli dello Schah. La maggior parte degli officiali europei al servizio della Persia sono francesi. A Parigi il governo persiano mantiene una cinquantina di allievi, perchè abbiano ad istruirsi nell’industria manifatturiera, nelle arti dell’ingegnere, nella medicina. Qual profitto essi ne traggano la loro patria non cura. Non appena vi abbiano fatto ritorno, l’harem ed il kalian riprendono il loro pernicioso dominio, e svanisce perfino quella vernice parigina che ingentilisce il vizio. Pure ciò che è buono nella natura dei Persiani è ottimo: e questo è l’ingegno aperto, vivace, che li rende atti ad apprendere con mirabile facilità ogni arte, ogni industria, ove la memoria, i sensi, e la destrezza fisica abbiano la parte prevalente. I lavori che i Persiani, per tradizione secolare, e con strumenti imperfettissimi, riescono a fare, sono veramente stupendi. Non si perverrà forse giammai ad imitare in Europa le tanto apprezzate sciabole del Korassan, mentre, sotto la direzione di abili officiali e capi officine francesi, la fabricazione delle armi da tiro, anche di precisione, sul modello europeo, ha preso, nell’arsenale di Teheran, rapido sviluppo. Dal 1861 è teso un filo telegrafico, che, partendo da Teheran, si biforca a Kazvin, per terminare con un estremo a Tauris, coll’altro a Rescht. Il primo stabilimento, o, come direbbesi, l’impianto di una novità così inconcepibile alla scienza orientale, fu naturalmente affidato ad Europei; ma in sì breve spazio di tempo il servizio del telegrafo è già intieramente passato a funzionari persiani, e procede nel modo più regolare. Non sia giudicata frivola cosa quest’altra prova del singolare ingegno imitativo dei Persiani, ch’ebbe con profitto grandissimo suo e dalla scienza il mio amico Doria. Durante il suo viaggio nelle provincie meridionali della Persia, vennegli in pensiero di addestrare a ricerche naturali il suo cuciniere, giovinotto di non ancora venti anni, nativo di Schiraz, di nome Kerim, ed in breve riescì a sviluppare in lui un talento straordinario, un perspicace senso pratico, una decisa passione per tutti gli artifizi delle collezioni zoologiche. Condottolo seco alla sua nativa Genova, bastarono poche lezioni del bravo e compianto preparatore De-Negri a fare per soprapiù del giovane Kerim un tassidermista abilissimo. Così il marchese Doria si è assicurato un prezioso ajuto, che ogni naturalista ha ragione di invidiargli. La cultura dello spirito è molto più apprezzata dai Persiani che dai Turchi. Tengono la suprema gerarchia del sapere i _mollah_, che sono i dottori del Corano, ed i conservatori sacri delle tradizioni storiche e filosofiche. Poi vengono i _mirza_, o letterati communi, e di questi grande è il numero. Senza che il governo se ne curi gran fatto, l’istruzione elementare è più diffusa in Persia che in alcune provincie della stessa Europa; se non che l’islamismo è un irremovibile ostacolo a ciò che ne scaturiscano que’ frutti che essa virtualmente in sè racchiude. Quasi tutti coloro che al vestito si palesano superiori all’umile plebe sanno leggere e scrivere, e portano abitualmente nelle saccoccie del vestito un astuccio con penne e calamaio, ed un rotolino di carta alla cintura. Quasi ad ogni moschea si trova annessa una scuola (_madrassèh_), ove, sdrajati sovra rozzi tappeti, vedi ragazzi intenti a deciferare scritture, a tracciare scarabocchi sulla carta. Nelle città, ne’ villaggi, si incontrano molto frequentemente crocchi di uditori intenti alla lettura entusiastica de’ novellieri e de’ poeti, onde la Persia mena giustamente sì gran vanto. Tra le botteghe de’ bazar se ne trovano alcune di librai. La stampa si fa col mezzo della litografia. Nè mancano giornali: uno è pubblicato in Tauris dallo stesso nostro primo mehmendar Kulikhan; l’altro in Teheran, sotto la personale alta direzione dello Schah e de’ suoi ministri, e questo è adorno di disegni, o, come direbbesi tra noi, illustrato. I Persiani riconoscono la supremazia degli Europei in tutto quanto si riferisce al benessere materiale della vita, compiangendo però i vani bisogni in cui si sono avviluppati, e la conseguente complicatezza delle industrie per sopperirvi; ma in fatto di teologia, di filosofia e di letteratura, essi tengono gli Europei per bambini, o, senza cerimonie, per barbari. Rompendo l’ordine del mio diario, intercalerò qui un saggio abbastanza curioso della filosofia naturale de’ Persiani. La scena è in un caravanserai di Kazvin, ove ci troviamo io e Lessona in compagnia del sig. Nicolas, in crocchio con vari notabili della città. Mentre l’ottimo dragomanno disputava cogli altri del crocchio, in lingua persiana, io e Lessona, che non comprendevamo verbo, stavamo badando ad uno scalpellino che lì presso lavorava un masso di bellissima trachite rosea; e raccoltone alcune schegge le esaminavamo colla lente. «Che fanno que’ signori?» domandò uno dei Persiani del crocchio al sig. Nicolas. «Guardano di quali elementi il buon Dio ha composta quella pietra. «Che necessità di guardare? Lo diremo noi: quella pietra è fatta di aria, di aqua, di terra e di fuoco. «Questa è scienza antiquata e morta. Noi Europei sappiamo da quasi un secolo che l’aria, l’aqua, la terra, non sono elementi, ma sostanze composte, e che il fuoco non è una sostanza particolare. «Se accettate la discussione su questa materia, noi siamo pronti, e vi convinceremo del vostro errore:»...... — e via di seguito, dissertando con un miscuglio di Aristotele e di Maometto d’uno in altro argomento; asserendo che la terra non si muove, che è portata sulle corna di un bue, e questo riposa su di un pesce; che è assurdo ammettere l’esistenza degli antipodi; e concludendo sempre che quella è la vera, la sola scienza. Al sentir di queste belle cose, io e Lessona non potevamo tenerci dal farne, ridendo, le alte maraviglie; se non che venne tosto ad ammorzarle una triste riflessione. La scienza che è di sua natura incoercibile come l’etere, indefinitamente progressiva, che non conosce confini, e meno ancora contrasti di nazioni, procede forse nel nostro stesso paese senza spinte retrogade, senza inciampi di strane zavorre? Non abbiamo anche fra noi consorterie di dotti ignoranti, i quali per rifiutare altrui il diritto del libero esame, incominciano dal respingerlo essi medesimi, come un incommodo peso? Che per cullarsi in beato ozio sotto le ali oscuranti di qualche Aristotele di provincia, convertono perfino in danno permanente quelle che pur sarebbero glorie storiche della nazione? Buona gente del resto, che non domanda altro che di esser lasciata vivere, e a chi dà rende incensi a larga mano. Ma ahimè, per l’incessante proclamarla quella che non è punto, la loro scienza non diviene la sola, la vera, la intangibile, meglio che nol sia quella de’ dottori delle moschee. Più che al diretto comando degli Schah ha contribuito al rifiorire di Teheran un Cavour della Persia, un ministro riformatore di rara intelligenza, che ha lasciata nella storia contemporanea del suo paese una pagina incancellabile, e la cui tragica fine è ancora materia de’ racconti popolari, ed universalmente compianta. Un figlio di un povero cuoco di Kermanschah, di nome Mirza Taghi, addetto al servizio del principe ereditario Nasr-ed-din Mirza, riescì pei suoi talenti, per la sua operosità, per l’energia del suo carattere, a guadagnarsi i favori e la confidenza del suo signore, ed a vincere i nemici insurti a disputare a questi, alla morte di Mohamed Schah, il trono della Persia. Portato allora egli medesimo al rango supremo di gran Visir, col titolo di Emir, ottenuta in isposa una sorella dello Schah, Mirza Taghi khan tutto pose in opera onde riparare le devastazioni della sfasciata amministrazione precedente, contenere l’avidità spogliatrice de’ governatori e de’ grandi di corte, ordinare i diversi rami del publico servizio e sovratutto la finanza, nel tempo medesimo che intraprendeva con prodigiosa attività grandi opere publiche, ponti, strade, bazar, caravanserai. Ma i rovesci della fortuna sono violenti in Persia, ed anche per quest’uomo straordinario doveva suonare l’ora fatale. Un intrigo di corte, abilmente ordito da feroci rivali, da coloro che sotto quella mano di ferro aveano dovuto cessare da inveterati abusi, riescì a far credere allo Schah che l’Emir minacciava l’ordine dello Stato. La memoria degli antichi servigj, l’evidenza de’ nuovi, gli stessi vincoli del sangue, non valsero a salvarlo. Fu allontanato dalla corte ed esigliato in una sua villa presso Kaschan, ove non tardò a raggiungerlo l’ultimo scoppio dell’ira imperiale. L’infelice trovavasi nel bagno quando gli giunse un messo dello Schah accompagnato dal carnefice, colla sentenza di morte. L’Emir aveva libera la scelta del genere di supplizio: gli fu proposto l’avvelenamento con una forte dose di oppio, ma egli rifiutò. Si fece aprire le vene nel bagno stesso, e mentre la vita gli andava mancando ebbe ancora la forza d’animo di scrivere col dito intriso del suo sangue la sacra esclamazione de’ Musulmani: _la allah ill’allah_; non v’è altro Dio che Dio. Mirza Aga kan che gli succedette nella carica di gran Visir, col titolo di Sadrazam, fu appena più fortunato coll’aver salva la vita. Straordinariamente ricco, intraprendente, amante del lusso, padrone di un sontuoso palazzo nella capitale, di castelli e di terre, dovea necessariamente suscitare l’invidia e la gelosia dei cortigiani, che lo accusarono di impinguare i suoi forzieri a danno dello Stato. L’accusa prese corpo al sopravenire di una crisi annonaria e di una gran penuria di danaro; ed anche in questa circostanza il despotismo dello Schah si manifestò in tutta la sua forza. Il Creso persiano dovette sottostare a taglie enormi, poi infine venne esigliato a Yezd, spogliato dei suoi possedimenti; e la carica di gran Visir fu abolita. Da questo esempio, e da altri che ho dovuto narrare nelle pagine precedenti, si può avere un’idea del modo con cui si amministra in Persia la giustizia. Tutto il codice è compendiato in un sottinteso articolo, che si potrebbe esprimere così: la vita e la proprietà de’ Persiani sono in facoltà del sovrano. L’arbitrio, il solo arbitrio, determina la procedura, la sentenza, il genere e la specie della pena. De’ carnefici accompagnano dappertutto la persona dello Schah, ed il capo di essi è una vera dignità in corte. La prigione costerebbe troppo. Tutte le pene sono pecuniarie o corporali: le prime oscillano tra la multa e la confisca, ad arbitrio ed a profitto del sovrano; i gradi delle seconde sono l’esiglio, la bastonatura, le mutilazioni, la morte, e tanti tormenti quanti se ne possono imaginare. Ma anche su questa materia non mancano riflessioni e confronti. Ad ogni scoppio di barbarie musulmane tutta Europa si commove. Noi eravamo in Tiflis, allorquando i giornali ci portarono la novella del supplizio di sessanta Turcomanni, che allora aveva avuto luogo sulla piazza d’armi di Teheran. Quegli infelici, legati tutti in fila, servirono per alcune ore di bersaglio a’ battaglioni che si facevano successivamente sfilare loro dinanzi, a tutto tiro di fucile. A tanto orrore noi fummo sul punto di credere che l’ambasciata italiana non avrebbe proceduto oltre: ma in seguito, ben ponderate le circostanze, si venne a conchiudere che la sorte di sessanta ladroni, colti in istato di guerra, non avrebbe incontrato nella stessa Europa altro diverso trattamento che nel tempo, nel luogo, ed in una semplice più legale formalità; differenza sproporzionatamente minore che non sia quella del relativo stato di civiltà ne’ due paesi. Bisogna ammettere ne’ nostri giudizj sulla Persia circostanze molto attenuanti. Quel paese è, di confronto coll’Europa, arretrato di dieci secoli, ma gli orrendi supplizj de’ Babi, che non mi bastò l’animo di descrivere pel minuto, sono ancora un pallido raffronto ai tormenti co’ quali, or fa appena un secolo (nel 1757), per sentenza di tribunali, in una metropoli del mondo cristiano, tredici carnefici, per dodici ore continue, fecero scontare a Roberto Damiens il delitto di aver attentato alla vita di Luigi XV. La tortura e la ruota non sono peranco sparite dalla memoria de’ contemporanei; il supplizio alla bocca del cannone fu trovato molto speditivo ed esemplare, in certe circostanze, anche da propagatori di civiltà; e fanno raccapriccio le inumane torture colle quali, or sono pochi anni, gli agenti del governo delle Indie spremevano ai contribuenti morosi il pagamento delle imposte, onde altre grida di pietà e di sdegno risuonarono nella Camera de’ communi di Londra. Con sì largo e terribile arbitrio in chi comanda, col sentimento morale così ottuso nelle masse, convien dirlo, a minor onta della natura umana, gli eccessi del potere da una parte e i delitti dall’altra, sono molto più rari in Persia di quanto generalmente si creda. Le punizioni sono strane e violente, ma almeno pronte ed esemplari, ed il più delle volte applicate a veri e riconosciuti colpevoli. Nelle grandi occasioni però, quando occorre agire sull’istante, e colpire le masse con grandi esempi, le vittime si pigliano alla cieca e per categoria. Al principio del 1861 la gran neve caduta ed il pessimo stato delle vie di communicazione aveano reso impossibile il regolare trasporto de’ grani per i centomila ventricoli della capitale, e la carestia vi prese terribili proporzioni. Un giorno, migliaja di donne furibonde, scoperto il volto in segno di disperazione, circondarono minacciosamente lo Schah che ritornava dalla caccia, gridando pane e giustizia. Ma il pane non si crea per volontà di despota; bensì qualche atto clamoroso al quale dare il nome di giustizia si può sempre improvvisare, e lo fu in questa circostanza. Sua Maestà fece semplicemente strangolare il Kelantar, o capo della polizia della città, e trascinarne il cadavere, per le vie di Teheran, a coda di cavallo; fece bastonare i Ketkodà, o capi de’ quartieri, e l’insurrezione s’acquietò, come avesse mangiato. Un altro tumulto popolare accaduto in Teheran, in epoca più remota, e che finì col massacro della legazione di Russia, è raccontato in qualche libro con alcune varianti da quanto mi venne riferito sul luogo da persone degne di fede, e tra di loro concordi fin ne’ particolari. Ecco il tragico avvenimento. Dopo la pace di Turkmantschai era stato spedito a Teheran, come ministro residente dello czar, il signor di Gribojedow, con numeroso personale, conformemente al rango, ed alla circostanza della pace succeduta ad una grossa guerra. Fra i sudditi dello czar, abitanti in Teheran, e sui quali naturalmente si estendeva il diritto di protezione del suo ministro, v’era una donna armena, che era stata a forza chiusa in un harem. Le insistenti domande e le proteste del sig. di Gribojedow, onde la donna fosse consegnata alla legazione, non avevano avuto altro effetto che di esacerbare il fermento della plebe, irritata già dalle conseguenze della guerra disastrosa che era stata allora suggellata con una pace invisa. Sul rifiuto ostinato delle autorità locali, il ministro russo mandò i Cosacchi del suo servizio a strappare la donna all’harem. Il tumulto salì per questo fatto al colmo; e lo stesso capo della religione, che fino allora s’era efficacemente adoperato a calmare gli animi, fè cenno che ormai ogni freno fosse tolto. La plebaglia furibonda si portò in massa contro la residenza della legazione russa; dalle imprecazioni passò alle minacce ed all’attacco. La porta chiusa, e fortemente appuntellata, era sul punto di cedere sotto gli urli della moltitudine, quando partì di là una scarica di fucilate. In pochi istanti l’onda inferocita degli assalitori invase l’interno della casa; ed impegnatasi la lutta corpo a corpo, cinquanta persone, componenti la legazione, fra le quali lo stesso ministro, ed alcuni fedeli servi persiani, dopo un’eroica difesa, rimasero scannati. Solo riescì a sottrarsi alla strage un giovane segretario, arrampicatosi sui tetti, e raccolto dalla carità di un _mollah_, che lo tenne celato nel sacro inviolabile asilo del suo proprio harem. Quanto le conseguenze di questo fatto dovessero presentarsi terribili al governo persiano, ognuno può imaginare. Un principe del sangue fu immediatamente spedito a Pietroburgo a chieder umilmente perdono a’ piedi dello czar, e ad offrire pronta riparazione. La quale fu fatta ampia e clamorosa, con solenne apparato di inchieste e scena finale di centinaja di nasi, di lingue, di orecchie, e di teste cadute sotto il coltello del boja. Una seconda ambasciata russa non tardò molto a giungere in Teheran, accolta con pompa straordinaria. Altro episodio, in cui del pari figura una donna tra i personaggi principali, avrebbe potuto avere conseguenze funeste pel governo persiano, quand’anche non fosse contemporaneamente concorsa al medesimo effetto un’altra complicazione politica molto più grave. Mirza Haschim, caduto in disgrazia dello Schah per la sua famigliarità colla legazione britannica, aveva dovuto infine ricoverarsi definitivamente sotto la protezione di questa; e dal sig. Murray era stato nominato agente consolare a Schiraz. Mentre il prevedibile conflitto dava luogo ad uno scambio di note e di proteste aspre ed energiche fra il ministro inglese ed il governo persiano, lo Schah fece rapire la moglie del Mirza, sua parente, accusata non solo di leggerezza in conversare cogli Inglesi a viso scoperto, ma perfino di rapporti scandalosi col ministro. Invano il sig. Murray si fece a reclamare, pe’ lesi diritti internazionali, la restituzione immediata della donna: lo Schah intervenne personalmente nella questione, scrivendo di suo pugno al ministro britannico, e caricandolo delle più basse contumelie. La misura era colma, e l’offeso ministro mandò al governo persiano un’ultima ingiunzione: che fosse fatta giustizia a’ suoi reclami, che lo Schah ritirasse l’ingiurioso scritto, od altrimenti egli avrebbe abbassato lo stemma della sua nazione. Spirato invano l’ultimo termine concesso a queste riparazioni, la legazione inglese abbandonò Teheran, ed il sig. Murray scrisse al governatore di Bombay, invitandolo a far un’imponente dimostrazione armata davanti Bender Buschir. Questo avveniva nel dicembre 1855. Poco dopo una poderosa armata persiana invase il territorio di Herat, e si impadronì della città. Il governo inglese che per vendicar il grave oltraggio fatto, per una frivola causa, alla sua bandiera, avrebbe dovuto muovere guerra alla Persia, fu così tratto d’imbarazzo, e, per la nuova causa sopragiunta, troncò ogni titubanza. Una flotta di 47 navigli, con 5000 marinai ed 8000 soldati, sotto gli ordini del commodoro Leeke e del generale Outram, si portò nel golfo persico. Le truppe sbarcate bombardarono Bender Buschir, che si arrese dopo quattro ore di fuoco; quindi, procedendo, vinsero ancora in varj scontri i Persiani, ed attaccarono la fortezza di Mohammerah, la quale, sebbene difesa da 13,000 uomini e da numerosa artiglieria, fu presto evacuata. Malgrado l’enorme sproporzione delle forze, la vittoria seguiva il vessillo inglese. Ma le vere difficoltà di questa guerra non sarebbero incorse che più tardi, coll’avanzarsi nella regione montuosa, e già erano pronti a salpare da Bombay nuovi rinforzi, quando giunse la notizia al generale Outram che, per mediazione dell’imperatore dei francesi, un trattato di pace fra l’Inghilterra e la Persia era stato sottoscritto il 4 marzo (1887) in Parigi, da lord Cowley e da Ferruk khan. Le ratificazioni non si fecero a lungo aspettare, ed il signor Murray fece di nuovo trionfale ingresso in Teheran. Il miserabile piccolo canato di Herat sarà ancora per molti anni un pomo di discordia, un punto obbiettivo delle rivalità e della strategia politica della Russia e dell’Inghilterra, veggenti nel lontano avvenire la possibilità di trovarsi un giorno di fronte a contrastarsi il predominio nelle più ricche contrade dell’Oriente. Il possedimento di Herat è poco meno d’una quistione di vita per la Persia: e per quella che si chiama in Europa legitimità di aspirazione, non le dovrebbe esser contrastato. La Persia ha necessità di quella posizione per dominare le gole dei monti aperte alle invasioni dei Turcomanni nel Korassan meridionale; e la Russia ve la spinge sottomano, nell’intento di allontanare sempre più l’influenza inglese, e predisporsi una facile via che le forze della Persia non saprebbero mai difendere, quando venga il giorno di stendersi verso le Indie. L’accorta Inghilterra giuoca l’altra partita, favorendo le ambizioni del suo alleato Dost Mohamed, sultano del Cabul, nelle cui mani Herat sarebbe un’opera esterna coprente i confini occidentali de’ suoi propri possedimenti. Perciò fin dal 1853 era stato conchiuso un trattato fra la Persia e l’Inghilterra, per il quale il governo persiano rinunciava ad ogni pretesa di sovranità sopra di Herat, obligandosi a non invadere questo territorio se non in quanto fosse strettamente richiesto per difenderne l’indipendenza dagli attacchi effettivi del Cabul. Fu appunto la violazione di questo trattato che obligò l’Inghilterra a ricorrere alle armi, siccome ho narrato. Il trattato di Parigi conferma essenzialmente la clausola del 1853, ed aggiunge che alla minaccia di una lutta colle forze di Dost Mohamed, la Persia non abbia ad intervenire se non dopo aver esperimentati i buoni officj dell’Inghilterra verso il suo alleato, officj che l’Inghilterra stessa obligavasi ad interporre. Fu anche contemplato il caso di Mirza Haschim, e stabilito che l’Inghilterra, conservando la sua protezione ai Persiani che già aveva assunti al suo servizio, si obligava a non estenderla ad altri, fuorchè nel caso che un simile diritto fosse più tardi stato accordato dal governo persiano ad altre potenze. L’occasione non tardò per metter a prova il trattato di Parigi. Noi eravamo appunto in Teheran, quando vi era giunta da poco la notizia che Dost Mohamed era di nuovo penetrato con forze imponenti nel territorio di Herat, e stringeva d’assedio la città. Fra i varj pretesti dell’invasione v’era pur quello, probabilmente vero, che Ahmet, khan di Herat, fosse creatura dello Schah. La Persia non s’era per anco rifatta dall’infelicissima spedizione contro i Turcomanni, epperò non poteva opporre al sultano del Cabul che una debole armata di 18,000 uomini, sotto il comando del vecchio Murat Mirza, zio dello Schah, e governatore del Korassan; ma risovvenutosi in buon tempo degli accordi stipulati col governo inglese, domandò formalmente l’esecuzione dell’art. 6 del trattato di Parigi. Il sig. Eastwick fu spedito sul teatro della guerra, come incaricato d’affari del governo inglese, ma non si diede tampoco la pena di vedere Dost Mohamed, e si limitò a scrivergli onde impedisse dalla sua parte il passaggio de’ Turcomanni sul territorio persiano. Herat fu assalita e presa, ma il suo conquistatore, già gravemente ammalato all’incominciar della campagna, morì qualche giorno dopo la vittoria. L’esercito persiano consta di 80 battaglioni di fanteria, ciascuno nominalmente dagli 800 ai 1000 uomini, ma effettivamente aggirantesi intorno alla metà di queste cifre: di 4 reggimenti di cavalleria regolare, e 2 di artiglieria. In caso di guerra questa armata può esser rafforzata da un numero indeterminato di uomini di cavalleria irregolare. Ho già riferite altrove le cure dell’attivo ed intelligente Abbas Mirza, per introdurre in quest’armata la disciplina, o piuttosto l’istruzione europea. Nasr-ed-din, lo Schah regnante, continua questa tradizione. I nostri compatriotti, colonnelli istruttori, si dimostravano molto contenti de’ successi delle loro fatiche, della facilità colla quale i battaglioni della fanteria persiana aveano imparate le mosse e le manovre di campo, tanto da non rimanere in ciò molto al disotto delle truppe d’Europa. La piazza d’armi di Teheran biancheggiava di tende pei battaglioni che vi erano adunati in campo d’istruzione; e fino a Tedgrisch perveniva il suono delle fanfare, il rullo dei tamburi, il rumore della moschetteria degli esercizj giornalieri. Il conte Grimaldi, il capitano Clemencich, che formavano la sezione militare della nostra ambasciata, invitati un giorno dai colonnelli italiani ad una gran manovra, ne rimasero soddisfatti oltre ogni aspettazione. Però quella che veramente si chiama organizzazione dell’esercito è ancora tutta da creare: e la truppa persiana, che può fare abbastanza buona figura ad una rivista, è intieramente sfasciata in una campagna guerresca. Il servizio che suol dirsi delle intendenze e delle ambulanze è affatto negletto, ed il soldato deve provedere da sè alle necessità ed alle contingenze quotidiane, anche sul teatro dell’azione; ond’è scomposto ogni ordinamento delle fila, quando appunto maggior ne sarebbe il bisogno. S’aggiunga a tutto questo che gli officiali europei sono semplici istruttori; hanno il comando dei battaglioni sul campo delle manovre, ma fuori di là, quando venga il caso di far valere il profitto di questa istruzione, i soldati che hanno imparato ad ubbidire, passano sotto gli ordini di officiali indigeni, che non sanno comandare. Per questo complesso di circostanze non solo l’esercito persiano è stato e sarà costantemente battuto da corpi sproporzionatamente inferiori di truppe europee, ma ebbe perfino a subire una totale ignominiosa sconfitta dalle orde indisciplinate de’ Turcomanni. Queste orde, rapaci per indole e per odio, non lasciano tregua ai paesi limitrofi della Persia, ed or qua or là piombano d’improviso sulle carovane, sui villaggi, e fin sulle città popolose del Mazanderan e del Korassan saccheggiano, rubano armenti, e traggono seco prigioni i miseri abitanti, che poi vendono come schiavi sui mercati di Khiva e di Bukhara. Il governo persiano decise finalmente una grande spedizione militare onde infliggere loro una tremenda lezione. Nel 1860 un esercito di 24,000 uomini, sotto il comando del governatore del Korassan, irruppe sul territorio turcomanno, senza incontrare alcuna resistenza, chè le popolazioni, a modo barbaro, andavano mano mano ritirandosi verso l’interno, e concentrandosi. Così senza colpo ferire i Persiani giunsero alla città di Merve, che era stata del pari evacuata, e se ne resero facilmente padroni. Il principe Hamza Mirza, comandante in capo, spedì corrieri allo Schah apportatori di tanto liete novelle, che furono accolte nella capitale con grande entusiasmo e fuochi di gioja. Dopo un successo così inatteso credettero i Persiani non aver altro a fare che raccogliere i frutti della vittoria, ma quando i Turcomanni ebbero maturati gli artifizi, ed assalirono infine i Persiani, le sorti della guerra mutarono a precipizio, ed alla spensieratezza degli illusi seguì un generale irrefrenabile spavento. Hamza Mirza con pochi battaglioni riescì a trovare uno scampo, rientrando nel Korassan, tutto il resto dell’armata fu preso. Gli officiali di questa armata erano tutti persiani puro sangue, fatta eccezione di un solo europeo, del sig.^r de Bloqueville, francese, che di officiale avea il rango e l’uniforme, non però l’autorità, e traeva seco invece un completo apparato fotografico, onde prender vedute di paesi intieramente sconosciuti agli Europei. Anche il sig.^r de Bloqueville cadde nelle mani de’ Turcomanni, e fu tenuto prigioniero, finchè non venne riscattato al prezzo di 8,000 tomani (96,000 franchi), che lo Schah sborsò della sua cassa privata. Io ebbi il piacere di fare la sua conoscenza nell’abitazione del signor Nicolas presso Tedgrisch, e di sentire da lui narrare le strane vicende di questa guerra. La dissoluzione dell’armata invaditrice fu così rapida e completa come non occorse mai per nessuna armata in Europa. Per avanzarsi sul territorio nemico, attraverso il deserto, i Persiani dovevano pensare da prima ad assicurarsi l’aqua, ed a tal fine aveano deviato in un antico canale abbandonato il piccolo fiume di Herat, ma furono crudelmente delusi, perchè il fiume venne assorbito dalle sabbie. Qui incominciarono i disastri. Un gran numero di cavalli venne a morir di sete, ed anche de’ Persiani molti, rompendo ogni ordine, vaganti in cerca di aqua, erano fatti prigionieri alla spicciolata, all’esca di qualche scodella d’aqua, che i Turcomanni offrivano agli smarriti, alla condizione di deporre le armi. L’armata persiana, già a mezzo sfasciata, si trovò al Mourgab, dietro il quale stavano accampate le masse de’ Turcomanni: ma, tentato invano il guado del fiume, dovette pensare a ripiegarsi su Merve. Su questa circostanza aveano abilmente calcolato i Turcomanni; ed infatti, improvvisamente deviando il corso del fiume, lo riversarono sulla ritirata de’ Persiani; ed allora la disfatta fu compiuta. La sola cavalleria già ridotta dalle precedenti perdite, potè salvarsi: la fanteria fu tutta presa, e quasi si direbbe pescata. Il fatto accadeva nella notte fra il 2 ed il 3 ottobre. Il signor de Bloqueville fatto prigioniero appunto in questa circostanza, ebbe ne’ primi giorni a soffrire ogni sorta di privazioni quando i Turcomanni stessi mancavano di tutto; ma poi la sua condizione andò migliorando; il ricovero ed il vitto gli vennero apprestati con discreta larghezza, e l’apparente generosità de’ suoi padroni andò fino a permettergli, e procacciargli anzi, sotto buona scorta, il passatempo della caccia. Il clima, i disagi, i patimenti morali alterarono la sua robusta salute, e le cure verso di lui raddoppiarono. La ragione di questo trattamento non è quella che forse per la prima s’affaccia al pensiero del lettore; non è un sentimento di umanità, è un calcolo raffinato. Il signor de Bloqueville vivo era una mercanzia di valore, ed il fatto lo ha comprovato; morto non era che un essere immondo da lasciar a pascolo degli avoltoj. Peggiore assai fu la sorte del povero Hamza Mirza, malgrado la sua parentela collo Schah. Chiamato a rendere conto del mal governo e della precipitata fuga, entrò carico di catene in quella Teheran che nella sua fantasia orientale si era rappresentata plaudente alle sue vittorie; e fu spogliato de’ suoi gradi e delle sue immense ricchezze. L’esito di questa disastrosa campagna fu doppiamente fatale, la Persia non si potrà così presto rifare delle perdite subite, mentre dall’altro canto l’ardire de’ Turcomanni crebbe a dismisura. Nella vicenda delle rappresaglie qualche abbastanza severa lezione toccò anche a costoro, e già ho accennato a quella sessantina di fucilati sulla piazza d’armi di Teheran, ma questi esempi non produssero alcun salutare effetto, od effetti contrarj. Bisogna aggiungere inoltre che fra i Turcomanni ed i Persiani lo stato permanente di ostilità è invelenito dall’odio religioso fra sunniti e sciiti. Era intenzione di noi naturalisti di comprendere la gita al Demavend nel nostro viaggio di ritorno in Europa, ed allora, poichè già eravamo sul cammino, fare un’escursione nel Mazanderan, e raggiungere il battello a vapore russo ad Astrabad; ma coloro ai quali communicammo questo progetto, e specialmente i nostri compatrioti residenti in Teheran, ce ne disuasero affatto, in vista delle continue scorrerie de’ Turcomanni nella parte Orientale di quella provincia, e del pericolo che vi corrono particolarmente gli Europei, dopo che l’esempio del sig. de Bloqueville ne aveva tanto rialzato il valore sul mercato. Adunque, siccome ho detto già altrove, profittammo del lasso presumibile di tempo, che ancora ci separava dalla udienza dello Schah, per fare subito un’escursione al Demavend. Eravamo già nel ritorno presso l’ultima tappa, quando ci venne incontro uno de’ nostri servi, colla guida di un soldato, recante un biglietto del cav. Gianotti per sollecitarci, coll’annuncio che la solenne cerimonia doveva compiersi il giorno 18. Ci trovavamo già naturalmente in misura, epperò non ebbimo che a proseguire del nostro passo. Giunti alla nostra residenza di Tedgrisch, fummo dolorosamente sorpresi dal vederla convertita in ospedale. Quattro de’ nostri compagni giacevano a letto colti da febre intermittente, con predominante carattere gastrico. Fu quello il segnale che la stagione delle febri incominciava, e che si doveva pagar il tributo all’inesorabile clima. Volendo pur cercare un fomite di miasma in quell’aridissima regione, non poteva rinvenirsi altrove che nel rigagnolo scorrente presso il muro della nostra residenza. Un canaletto derivatone dall’alto per l’irrigazione de’ campi metteva di quando in quando il rigagnolo all’asciutto, ed allora ne’ bacinetti, fra le balze del suo letto sassoso, rimaneva stagnante l’aqua, d’onde esalavasi fortemente il tanto caratteristico odor di palude. Dovrei insistere sulla realtà di questa causa febrifera pel fatto che la febre onde quasi tutti, a diversi intervalli, fummo colti, scemò quando fu ridata l’aqua al rigagnolo, e si riaccese quando ne fu tolta di nuovo. Frattanto, nella tema che non giungessimo in tempo, il comm. Cerruti aveva ottenuto di far differire di due giorni la nostra udienza dallo Schah. Il matino del 20 agosto gran tramestio nelle nostre celle, onde esser tutti pronti in abito di gala per l’ora convenuta. Anche gli appena convalescenti fecero forza a loro stessi: rimase condannato al letto il solo atletico, e tanto caro a noi tutti marchese di S. Germano, pel quale incominciava allora una lunga iliade di febri persiane, non vinte che assai tardi nel clima benefico della sua patria. Ci occorreva un dragomanno di rango, e mancandone la nostra ambasciata, convenne accettarne uno della legazione di Francia. Il dragomanno titolare di questa legazione vivendo ritirato, come ho detto altrove, in aperta scissura col conte Gobineau, questi offerse il suo cancelliere sig. Querry, che fu bene accetto al nostro ministro. È a sapersi che nelle solenni udienze dello Schah, ed anche in quelle del Sultano a Costantinopoli, l’etichetta richiede assolutamente che la communicazione fra il sovrano e l’ambasciatore straniero si faccia col mezzo di un interprete, anche quando i due personaggi principali potrebbero intendersi direttamente. Una ventina di cavalli delle scuderie dello Schah piuttosto modestamente bardati, uno stuolo numeroso di _ferrasch_ e di soldati, erano già raccolti all’ingresso della nostra abitazione. Alle 10 ore montammo in sella, e la lunga processione, preceduta da un forte picchetto di guardie, sfilò al non lontano castello di Niaveran, ove lo Schah stava aspettandoci. Ma ora è bene farci un’idea dell’altezza del personaggio al quale andavamo a far riverenza. Se il decantarsi grande vuol dire esserlo, non v’è certamente grande nazione al mondo quanto la Persia, non v’è tanto sublime regnante che sia all’altezza di colui che siede sul trono di Dario e di Ciro. Schah significa re, ma propriamente il sovrano della Persia ha il titolo di _Schahynschah_, ossia Re dei Re, parola che il linguaggio araldico d’Europa non ha saputo tradurre altrimenti che _imperatore_. È però sottinteso che in questo titolo si abbiano a mentalmente compendiare tutti gli altri, che nel discorso non si potrebbero recitar di fila senza perder il flato. L’elenco di questi titoli non corrisponde, come pe’ sovrani europei, ai vari dominj che riuniti hanno costituito il reame o l’impero, ma è una litania magniloquente di appellativi di grandezza, in stile orientale. Eccola, quale Chardin si è preso il gusto di trascriverla: «_Il più alto dei viventi — Surgente della maestà — Surgente della grandezza, della potenza, e della gloria. — Capo dei grandi re, il cui trono è la staffa del cielo. — Agente del cielo nel mondo — Centro del mondo — Oggetto de’ voti di tutti i mortali. — Dispensatore dei buoni e grandi nomi. — Signore delle sorti. — Capo della più sublime setta dell’universo. — Sedente sul trono imperiale del primo essere temporale. — Il più grande, il più luminoso. — Principe de’ fedeli. — Nato e uscito dal trono che è l’unico trono della terra. — Re del primo ordine. — Monarca de’ sultani e de’ comandanti dell’universo. — Ombra di Dio massimo sparsa sulla faccia delle cose sensibili. — Primo nobile e della più antica nobiltà. — Re, figlio di re, discendente dai più nobili re. — Sovrano, figlio di sovrano, discendente dai più nobili sovrani. — Imperatore di tutti i tempi e di tutti gli esseri corporali. — Signore delle rivoluzioni e del mondo. — Padre delle vittorie. — Principe della potenza sovrana. — Dispensatore delle corone e de’ troni._» Nas’r-ed-din, attuale Schah di Persia, appartiene alla stirpe turcomanna de’ Kagiari, originaria di Astrabad, la quale, nelle guerre civili che desolarono la Persia, nella seconda metà del secolo scorso, erasi già fatta indipendente, e regnante sul Mazanderan, quando nel 1793 Aga Mohamed Khan, l’eunuco, giunse ad impadronirsi del trono di Persia. Nas’r-ed-din, quarto Schah di questa dinastia, successe a suo padre Mohamed nel 1848 nella giovanissima età di dieciotto anni. È uomo di bella corporatura, di aspetto intelligente e piacevole, con due grandi baffi neri e due grandi sopraciglia, che gli artisti suoi sudditi dipingono con tale esagerazione da spiccar soli nell’ovale del viso. La caccia forma la prediletta sua occupazione, ed in questo esercizio spiega tutto il fasto e la potenza d’un sovrano d’Oriente. Lo seguono dignitari di corte, l’archiatro Tholozan, e milliaja di ferrasch e di soldati, quelli per ammirare la sua veramente grande destrezza, questi per stendersi in catena e muovergli incontro la grossa selvaggina, della quale soltanto l’imperiale Nembrod si diletta. Relativamente all’ampiezza ed alle tradizioni del potere degli Schah Nas’r-ed-din è di animo buono e mite, inclinato alla giustizia, favorevole agli Europei. Assai culto egli stesso nella sua nazionale letteratura, apprezza per istinto la scienza straniera che gli si manifesta per immediate utili applicazioni, e vorrebbe trapiantarne i germi nel suo impero: infine è per la Persia un principe civilizzatore. Attorno alla villa imperiale di Niaveran stava accalcata, al nostro arrivo, una folla immensa di curiosi, contenuta da due battaglioni scelti, bene armati di fucili moderni, in assetto di parata, che in doppia fila al nostro passaggio ci fecero gli onori militari con precisione europea. Scesi di cavallo, ci accolse dapprima una gran tenda, ove i ministri dello Schah ed altri personaggi, fra i quali l’immancabile Iahja Khan, compierono il prologo della cerimonia con inchini, saluti, felicitazioni, colle libazioni consuete di thè e di _scherbeth_, e la consueta circolazione de’ kalian. De’ Persiani i soli militari portavano un uniforme semieuropeo: le altre dignità, non avendone alcuno, vestivano la lunga tunica in tessuto ricamato a fiorami. Tutti sfoggiavano al petto la stella dell’ordine del leone e del sole: il ministro degli affari esteri inoltre portava pendente al collo da un nastro cilestro il distintivo supremo del ritratto dello Schah contornato di brillanti; ed impugnava, come emblema del suo rango, un bastone con gran pomo tempestato di preziosi giojelli. Entrammo poscia tutti nel cortile del castello, ove ci salutò il rullo de’ tamburi, ed il presentar delle armi di altri soldati disposti in quadrato. Lì il mastro della cerimonia, nel mezzo della corte, rivolgendosi all’unica sala superiore o talar, quella precisamente ove stava attendendoci lo Schah, pronunciò ad alta voce non so quali parole; poi salimmo noi stessi, per un’angusta ed erta scaletta, alla sala d’udienza. Bisogna che io ricordi qui che i Persiani stanno in casa co’ piedi scalzi ed il capo coperto, e che questa tenuta è di assoluto rigore alla corte. Non permettendoci il nostro costume di cavar gli stivali, lasciammo invece a piè del talar le soprascarpe delle quali ci eravamo appositamente calzati; e tenemmo noi pure, ben s’intende, il nostro cappello in testa. Il Re de’ Re stava in piedi, quasi nel mezzo della sala: a’ suoi lati, ed a certa distanza da lui, stavano parimenti in piedi i ministri e le altre dignità persiane: noi ci schierammo lungo il lato della porta d’ingresso. Un magnifico tappeto, un gran cuscino ricamato, alcune sedie a bracciuoli in legno dorato, formavano tutto il mobiliare della sala. Prima nostra impressione fu lo stupore per l’abbagliante ricchezza del vestito dello Schah. Indossava egli una tunica di velluto azzurro ricamata a grandi rabeschi di brillanti: sul berettone o kolà scintillava una gran rosa di magnifici brillanti: tutta l’impugnatura e tutto un lato del fodero della sciabola erano d’oro coperto d’un fitto mosaico ancora di grossi brillanti: alla sua cintura luccicava uno dei più grossi diamanti conosciuti al mondo, il famoso _deria-i-nur_ (mare di luce). Il nostro ministro cominciò un discorso che il sig. Querry andava traducendo periodo per periodo. Parlò delle antiche relazioni dell’Italia colla Persia[42], e del bene di riannodarle, ora che l’Italia era risurta tutta unita a nuova potenza; parlò dell’alta stima del re Vittorio Emanuele per sua maestà imperiale, e della prova solenne che gliene dava coll’inviargli il gran collare del suo ordine supremo dell’Annunciata. A questo punto il cav. Gianotti s’avanzò colle insegne dell’ordine che lo Schah si pose ad osservare con visibile compiacenza, consegnandole poscia al suo ministro degli affari esteri. Rispose lo Schah rallegrandosi delle nuove condizioni d’Italia, e mandando felicitazioni al suo re. Il commendatore Cerruti fece in seguito la presentazione dei componenti l’ambasciata, declinando di ognuno i titoli e gli offici, sui quali lo Schah domandava di mano in mano nuovi schiarimenti. Quando si venne al prof. Lignana, qualificato come professore di lingue orientali (la parola filologia comparata sarebbe stata incompresa): «Di lingua araba» soggiunse lo Schah. «Non di questa sola, rispose il ministro, ma anche di persiano.» All’udir questo, lo Schah rivolse direttamente la parola al nostro collega, il quale rispose con franchezza ed in buona lingua persiana, riportando dall’augusto esaminatore un sorriso di approvazione. Venne poi il turno del sig. Montabone. Lo Schah, sentendo come fosse distinto fotografo, espresse il desiderio di vedere i suoi lavori e di farsi egli medesimo ritrarre. Infine chiuse l’udienza lo Schah stesso, esprimendo il suo interessamento per la nostra salute, dicendo che non ci aveva ricevuti subito al nostro arrivo per lasciarci ben riposare, che però ogni giorno aveva voluto avere nostre notizie. Di questa accoglienza, e sovratutto dell’esteriore persona dello Schah Nas’r-ed-din, ci è rimasta assai gradevole impressione. Passati poscia nuovamente sotto la tenda a ricevere i complimenti per l’alto favore di sua maestà imperiale disceso sovra di noi, il ministro degli affari esteri chiese alla sua volta una particolar contezza dei membri dell’ambasciata. Egli aveva un qualche sentore degli avvenimenti pe’ quali s’era fatto il regno d’Italia, ma li interpretava alla persiana; sapeva cioè che uno Stato piccolo ma forte, col quale la Persia era già stretta in patto d’amicizia, s’aveva un dopo l’altro uniti altri Stati, e volle sapere anche quali di noi appartenevano allo Stato forte primitivo, quali invece ai paesi che egli pensava conquistati. Il commendatore Cerruti sodisfece immediatamente l’onesta curiosità indicandoci uno per uno. Ma qui bisognava vedere il diverso contegno del ministro persiano, secondo che il presentato era, come diciamo noi, delle antiche provincie, oppure delle nuove: al primo rispondeva il buon uomo con un inchino in aria compunta ed ossequiosa, al secondo con ridere sgangherato ed un dar colla mano tagli obliqui al vento, come, sarebbe a dire: «Ah! te l’hanno fatta! ti sei lasciato prendere!» Le idee di una volontà nazionale, di una forza conquistatrice diversa da quella del cannone, della sciabola e della corda, non entreranno mai in un cervello persiano. Ritornammo alla nostra abitazione discretamente stanchi, ma più e meno contenti di questa fazione diplomatica: contentissimi poi coloro pei quali era così raggiunta la fase culminante del viaggio. La coda di questa cerimonia doveva essere una frotta di vampiri, ossia dei più o meno titolati anche di seconda e terza sfera, del seguito dello Schah, che piombarono a Tedgrisch, a ricevere dalle mani del nostro ministro, sotto l’apparenza di regalo, la tassa convenuta tradizionalmente in simili occasioni. Non mancò il buffone di corte, non mancò neanche il boja, il quale almeno, in compenso di una bella manciata di tomani, ci portò a regalare un sacchetto di nocciuole. Noi eravamo stati, fin dal primo giorno del nostro arrivo, in contatto giornaliero colle legazioni europee, ma in forma privata. Dopo l’udienza imperiale le visite ripresero in forma solenne, le quali però, in grazia dei nostri precedenti rapporti, e di quella cordialità che lega subito europei di diverse nazioni in un paese come la Persia, ha consistito semplicemente nel vestir l’abito di spada. E prima e dopo l’udienza quasi ogni giorno alcuno di noi era convitato agli accampamenti di Francia, d’Inghilterra o di Turchia, o addetti a queste legazioni sedevano al nostro desco, a subire gli intingoli di _monsù_ Martin; ma poi venne anche il turno dei pranzi diplomatici. Infine anche nelle steppe e sotto la tenda, od in capanne di fango, abbiamo fatto un discreto sciupio di cravatte bianche e guanti gialli. Più animato si fece anche il ricambio delle visite coi nostri compatrioti; e fu come una festa di famiglia quel giorno in cui sedettero essi alla nostra mensa colle loro gentili signore. Parlammo della patria lontana, delle vicende che l’avean fatta risurgere, delle lutte che l’avvenire le teneva ancora preparate. Ma se la nostra presenza era per essi una consolazione, era pure un tormento, come quella che faceva loro sentire più acuta la spina della nostalgia. Del resto, ben retribuiti, tenuti in considerazione dalle autorità persiane, la vita materiale trascorrerebbe loro abbastanza agiata. Alle occupazioni, non punto gravose, del loro officio, altre aggiungono per elezione. Il colonnello Pesce, abilissimo fotografo, ha radunato un prezioso _album_ di vedute della Persia, molte delle quali rappresentanti grandiosi monumenti dell’antica Persepoli. Il colonnello Andreini si diletta di collezioni di oggetti naturali, ed il museo di Torino deve alla sua liberalità un buon numero di belli esemplari. Possano queste poche righe giungere loro come un saluto, ravvivar la memoria dei pochi giorni passati insieme nelle oasi del Schemran, e la speranza di rivederci presto sotto il cielo della commune patria. XVI. Partenza pel Demavend. — Ingresso nell’Elburz. — Hafdscheh. — Valle del Lar. — Ask. — Grande formazione di travertino e di conglomerato vulcanico. — Reinah. — Abigerm. — Stazione Thomson. — Roccie del Demavend. — Salita al gran cono. — Ritorno alla stazione. — Precedenti ascensioni e misure del Demavend. — Resto di attività di questo vulcano. — Sua probabile epoca. — Leggenda del re Zuhaq. — Cenni zoologici. — Città di Demavend. — Ritorno a Tedgrisch. Grazie alle sollecite disposizioni del nostro ministro, ai consigli ed alla cooperazione attiva de’ signori Fane e Watson, segretari della legazione d’Inghilterra, in meno di due giorni tutto fu allestito per la nostra escursione al Demavend. La brigata riescì composta di me, Lessona, Orio, Ferrati, Clemencich, Doria, Centurioni, e del sig. Champain, capitano del genio dell’armata delle Indie, gentile e colto signore, ospite del signor Alison. Mirza Alì fu incaricato del doppio uffizio di dragomanno e di _golam_. Il 9 agosto sul meriggio, muoviamo pieni di lena dal nostro quartiere generale di Tedgrisch, verso oriente, per viottoli e campi, lunghesso le falde della grande parete del Schemran, fin dove questa si abbassa per aprire un varco, deviando alquanto verso il nord, e spiccando un contraforte verso mezzogiorno, che, decomposto in una zampa d’oca di colline aridissime di tritume marnoso, va perdendosi nella steppa. Passando a ridosso di questo contraforte raggiungiamo ben presto la strada di Teheran, per la quale ci impegniamo nella salita della montagna. Giunti sull’altura, ecco aprirsi al nostro sguardo una valle profonda, ben cultivata, con alberi e villaggi, e per un pendìo assai ripido vi scendiamo. La sponda opposta della valle è scoscesa, e lambita da un fiumicello, e nell’ampio taglio che si presenta a noi di prospetto vedesi in basso un’emersione porfidica; per tutto il resto calcare marnoso, che a contatto del porfido diventa screziato. Più in basso, seguendo alquanto il corso dell’aqua, la scarpa è tagliata in un immenso deposito di tritume. Lì, passando il fiumicello su di un ponte in muratura, dopo breve ascesa si giunge a Sinak, bel villaggio fra campi e prati e filari di piante, oltrepassato il quale si passa di nuovo su di un ponte, il ramo principale del Dschadscharud, limpido, vivace, rumoreggiante fra grossi massi di puddinga. Tutt’attorno, come in ampio anfiteatro circoscritto da pittoreschi scogli, i zampilli, i rivoletti che si portano al fiume, animano la vegetazione. Eravamo in questo punto entrati nell’Elburz, e da questo punto non si presentano più al nostro sguardo che nude gigantesche rupi, e nelle valli freschi verdeggianti pascoli. Dopo una mezz’ora di cammino nella valle, riprendiamo la salita lungo il ciglio di un profondo burrone nel cui fondo, rotto da cascatelle, scorre un altro piccolo affluente del Dschadscharud. Qui si incontra ancora puddinga alla base, e sovra di essa strati inclinati di marna argillosa alternanti con altri di calcarea, i quali, più resistenti alla corrosione, sporgono a guisa di muraglie. Probabilmente queste roccie spettano alla formazione carbonifera. Eravamo saliti così ad una nuova altura, ad un altro scalino dell’Elburz, e già annottava; ma un bel chiarore di luna ci illumina la via e tutta la scena dintorno. Passiamo presso il villaggio di Kubad sepolto fra grandi alberi, in un profondo vallone sulla nostra sinistra, e giungiamo infine alla stazione di Hafdscheh, ove prendiamo alloggio nel castello del Sadrazam. La notte fresca, serena, chiara, ci lascia scorgere distintamente il bel paese che si domina dal terrazzo, le case sul pendìo del monte, e la popolazione che si è posta a dormire sui tetti. Inanzi radunarci per la partenza, il mattino seguente, profittammo fin della prima luce per spartirci in piccole scorrerie ne’ dintorni, e deliziarci all’aspetto di una natura così differente dalla triste monotonia delle steppe. Tutto il villaggio apparteneva all’infelice Sadrazam, del quale mi è occorso far cenno nel capitolo precedente. Il castello è principesco, solidamente costrutto di pietra da taglio e di mattoni, in vari grandiosi corpi connessi fra loro per ampie gradinate a terrazzi e giardini, sull’erto fianco del monte, d’onde lo sguardo scende pei vari accidenti di una valle pittoresca. I pianerottoli, le convalli, i burroni circostanti, sono rivestiti di bella vegetazione, con folto cespugliame e grandi alberi in dense macchie od in filari intersecanti campi cultivati e prati naturali. Gli uccelli da me visti in questa breve escursione sono: _Pica caudata, Pyrgita domestica, Euspiza melanocephala_ (giovani in branchi numerosi), _Hirundo rustica, Chelidon urbica, Parus major; Muscicapa grisola, Luscinia lusciola, Ruticilla phœnicura_, e, come novità, un’altra specie non descritta per lo addietro, la quale per vari caratteri, e specialmente per la livrea e pei costumi, deve formar il tipo di un genere apposito nella famiglia delle _Saxicolinæ_. È la mia _Irania Finoti_. Da Hafdscheh, ripigliando la salita, la strada serpeggia per lungo tratto sul culmine di un immenso dosso tutto costituito da tritumi incoerenti e massi di varia mole frammisti senz’ordine, ricolmante una profonda valle, e solcato a’ suoi lati dalle aque torrentizie. Più oltre procedendo, qua e là ai lati del nostro cammino, si scorgono altre convalli ingombre da formazioni di ugual natura. È un fatto meritevole di particolare attenzione la grande potenza di questi depositi di tritumi nell’Elburz, perchè nelle Alpi simili formazioni di trasporto sono dovute in parte principale all’azione dei ghiacciaj, mentre nell’Elburz si cercherebbero invano le traccie anche remote di un periodo glaciale, come non riescì al sig. Abich il trovarne nel Caucaso. Dopo una breve discesa che ci conduce in un piano che sembra un letto di torrente, pieghiamo sulla destra, ove il piano si allarga come ad anfiteatro, e di là s’incomincia la salita di un monte calcareo, per un sentiero angusto tortuoso ed erto, fra dirupi e burroni. La nostra marcia è resa ancor più difficile dall’incontro di una carovana lunga e spezzata di muli, carichi di carbone del Mazanderan. Varie interessanti specie di uccelli mi si offrono in questo tratto di strada: di nuovo l’_Irania Finoti_, una _Saxicola_ o meglio _Dromolæa_ di nuova specie, nettamente caratterizzata (_Dr. chrysopygia_ De F.), la _Fringilla nivalis_, il _Serinus pusillus_, frequente in numerosi branchi, e nell’istesso modo frequente una _Otocoris_ che io ho chiamata _O. larvata_, l’_Emberixa hortulana_, la _Cotyle rupestris_ e la commune _Saxicola oenanthe_ in gran numero. Valicata quest’altura scendiamo nella valle del Lar, nella quale troviamo stabilita una famiglia di pastori nomadi. Le aque del fiume, limpide come cristallo, si diramano in un ampio letto fra isolotti e praticelli. La _Ferula_ del galbano, in piena fioritura, copre, specialmente verso la sponda sinistra del fiume, lunghe liste di terra, colle grandi foglie e gli steli oltre l’altezza d’un uomo. Oltrepassata questa valle e tagliato un altro ramo del fiume, incassato in un profondo solco, ridiscendiamo al Lar, il cui ampio letto è rivestito di giunchi e pingui pascoli. Le bellezze di una natura alpestre e selvaggia si spiegano sempre più col nostro avanzare. Ci si presenta qui in tutta la sua mole l’eccelso cono del Demavend, ma non ancora la roccia di questo gran focolaio vulcanico; i monti che rinchiudono la valle sono sempre di calcarea grigia. Il sole indorava ancora le alte cime circostanti, quando i nostri _ferrasch_ ci allestivano le tende per la notte presso il casolare solitario di Hanlar-khan unico per grande estensione in queste valli. Potei dunque profittare dell’ultimo ritaglio del giorno per un’escursione attorno al nostro campo. Il terreno è tutto bucherato da una piccola specie di _Arvicola_ ch’io ho chiamata _A. mystacinus_. Molte specie di uccelli hanno qui il loro convegno estivo: _Serinus pusillus, Carpodacus erythrinus, Saxicola oenanthe, Pratincola rubetra, P. rubicola, Phyllopneuste trochilus, Anthus arboreus, A. aquaticus, Coturnix dactylisonams, Aegialites minor, Totanus ochropus_. Seppi dagli abitanti del casolare essere qui frequenti l’_Argali_, la _Capra ægagrus_, ed il _Tihu_ (_Ammoperdix griseogularis_). Tra i rettili devo indicare l’immancabile _Stellio caucasicus_, ed una piccola lucerta, assai ovvia anche a più elevato livello, e che, malgrado il ventre rosso di fuoco, non si può distinguere dalla commune _Lacerta muralis_ d’Europa, mancante al piano. Copiosa vi è pure la rana commune. Il Lar abonda straordinariamente di trote, tanto che ne ebbimo ad esuberanza pel nostro desinare. Il pieno disco della luna surse a vestire di nuovo incanto questa scena maestosa. Conversando e passeggiando fino ad ora assai tarda, malgrado le fatiche della giornata, passammo una notte deliziosa. Il termometro segnava +11° C. Il mattino seguente (11 agosto), per la sponda destra della valle, ricca di profonde cristalline surgenti, seguiamo il corso del fiume, quindi lo passiamo a guado, ove, dalla sinistra della valle, vi affluisce un rivo di aqua lattiginosa, probabilmente per contenere in sospensione del caolino. Di lì attraversiamo un ampio pascolo, circondato da una gran curva del fiume, ed animato da numerosi armenti e da tende della tribù nomade de’ Curdi Biati, che, guidata da Hanlar khan, sorta di principe vassallo, lascia ogni anno in estate la pestifera steppa paludosa di Veramin, per riparare alla fresca ubertosa valle del Lar. Questi Iliati non sono rapaci come i Curdi del confine; le loro donne tengono il viso scoperto, e mostrano i tratti d’un bel tipo. Mentre le pecore e le capre pascolano sul pendio de’ vicini monti, il piano verdeggiante è di preferenza riserbato ai cavalli. Il nostro Mirza Alì, che avevamo perduto di vista, ci raggiunge guidando un bellissimo puledro che egli dice aver acquistato al prezzo di 14 tomani, e che al prezzo medesimo cede o finge di cedere volontieri al capitano Clemencich. Al ritorno, quando già eravamo ad una sola marcia da Teheran, il puledro scompare, e Mirza Alì giura e bestemmia che gli fu rubato, che non gli sarebbe possibile il ricuperarlo; ma una comminatoria secca ed energica del nostro amico, una minaccia pronunciata con tutto il tono di volerla mantenere, fanno sì che l’innocente Mirza Alì ribatta la strada, e riprenda felicemente il puledro ai ladri, ossia lo sleghi dal nascondiglio ove l’avea trafugato. Oltrepassato questo pascolo, ove il Lar si ripiega verso il Demavend, rinchiuso in un profondo burrone, incontriamo per la prima volta la roccia vulcanica. Essa forma una corona di monti depressi attorno al gran cono, ed è tutta screpolata a grossi frantumi angolosi, ingombranti anche i circostanti campi, onde è reso molto difficile il nostro cammino. Da questo luogo si può rilevare come un lembo della massa vulcanica si estenda oltre il fiume, in un avvallamento della montagna calcarea: fatto importante che si collega ad altri osservati nel seguito, e si riferisce ad una delle ultime grandi fasi di questo centro vulcanico. Codesti monti sono parte di una immensa corona che circonda il cono proprio del Demavend, come Somma circonda il Vesuvio. Qua e là, per grandi breccie in questa corona, scappa fuori un enorme ventaglio di tritumi vulcanici. La linea che battiamo quasi sempre senza traccia alcuna di strada o di sentiero, è un grande arco di cerchio alla base del Demavend. Inanzi giungere ai monti che sovrastano ad Ask, il nostro progredire è fatto straordinariamente difficile, per l’ingombro di enormi frane. Quindi valichiamo un dosso di grossolano conglomerato vulcanico, per scendere ancora nel solco del fiume, dalle cui pareti s’erge una bella vegetazione che ci preannuncia un luogo popoloso. La discesa è così difficile che alcuni di noi, ed io fra questi, reputiamo prudente il farla a piedi; ma giunti in basso eccoci ad un ruscello d’aqua fortemente ferruginosa, sì grosso che per guadarlo mi è forza risalire a cavallo. Da questa parte lo stesso cemento della puddinga è ferruginoso a notevole altezza sull’ima valle. I monti del lato opposto del fiume sono pure di conglomerato vulcanico. Una grande scogliera di basalto prismatico s’erge dirupata a dominare il sentiero che ci porta ad Ask. Ask è una piccola città, capo luogo del distretto del Laridjan, rinomata in tutta la Persia per le sue aque minerali, salino-termali, solforose, ferruginose, che in larghe vene, come produtti dell’azione vulcanica, zampillano da molti punti nelle sue adiacenze, e nella città stessa. Quantunque il paese abondi naturalmente dei migliori materiali di costruzione, la città è quasi per intiero formata del solito fango, qui non più di necessità, ma di inconcepibile elezione. Le sue case, fra le quali ve n’ha di grandi e signorili, sono in modo assai pittoresco accavallate sulla sponda sinistra che scende per erto pendio al fiume, spumeggiante nel profondo, fra dirupi di travertino. Pel declivio delle stradicciuole anguste, tortuose, quasi impraticabili, che mettono all’unico ponte gettato ove il burrone del fiume è più angusto e scosceso, andiamo a prendere quartiere al di là del ponte, in un abituro isolato. La scelta di questo sito non poteva essere più favorevole, e per godere dell’incantevole orrida bellezza della valle, e per osservare i tagli naturali delle sponde, ne’ quali sta scritta la storia delle ultime fasi di questa contrada vulcanica. Il travertino, in istrati irregolari e grandi mammelloni occupa il fondo della valle. È in massima parte compatto o leggermente cavernoso, ma passa per gradi a’ due stati estremi di tufo e di alabastro, e contien anche straterelli di gesso cristallino candidissimo. Esso è stato sepolto da un immenso deposito di sabbia e ciottolame vulcanico, che ha dovuto, un tempo, ostruire la valle. Seguendo per breve tratto la corrente del fiume, ove questa forma un angolo, si vede la parete sinistra della valle tagliata a picco, per un’altezza (misurata ad occhio) dai 200 a 250 metri. Tutto questo taglio è nella puddinga e nella ghiaja vulcanica, con disposizione in strati orizzontali. Risalendo dal lato opposto ad un centinajo di passi dal ponte, si arriva ad altro taglio elevato e scosceso nello stesso deposito di sabbia e ghiaja vulcanica, ora incoerente ora cementata, e qui si può vedere benissimo la transazione del travertino alla ghiaja, in modo che gli strati superiori del travertino sono sabbiosi, gli strati inferiori della sabbia sono più o meno solidificati da cemento calcareo. In questi strati veggonsi eziandio copiosamente sparsi cristalli isolati di gesso, a dimostrar sempre più il legame fra il travertino e il deposito incoerente che lo ricuopre. La roccia solida in posto, che costituisce i monti del lato destro della valle, è una calcarea grigia, compatta. In faccia alla città, oltre il ponte, ove una grande scogliera scoscesa forma un piccolo seno, anche le frane della roccia calcarea sono state legate da cemento di travertino. Più verso il nord, dicontro all’angolo del fiume, si può vedere un piccolo promontorio della stessa roccia calcarea grigia inviluppata da una gran crosta di travertino, che ha riempita anche una fessura, a guisa di un piccolo filone. Chiunque guardi la posizione di Ask, le nude e verticali pareti della valle, il burrone sul quale è gettato il ponte, deve necessariamente acquistar la convinzione che qui la massa del travertino, la cui recente formazione non potrebbe mettersi in dubio, con tutto quanto le sta sopra, è stata spaccata sotto un violento parossismo della forza vulcanica, onde venne aperto un nuovo passaggio alle aque del Lar. Questa spaccatura gira per grande tratto intorno alla base del Demavend, e in generale segna il limite fra il circo proprio del vulcano e quello più esterno delle montagne calcaree, però non senza che lingue di roccie vulcaniche si sovrapongano alla calcarea alla destra del fiume, e inversamente propagini de’ monti calcarei passino alla sua sinistra. Il giorno 12 lasciamo Ask di buon mattino, nell’intento di portarci a pernottare al piede del cono proprio del Demavend. Fuori della città si entra subito in una scura gola, aperta nel conglomerato vulcanico, e nelle cui pareti gli abitanti hanno scavate molte grotte, alcune delle quali sono chiuse da imposte. Poscia la via ripiega a destra sul monte, erta e difficile, fra l’ingombro di massi enormi, che ci incutono serie apprensioni sul passaggio de’ nostri muli col voluminoso carico delle tende e delle provvigioni. Questo monte è dello stesso conglomerato, con varia tenacità del cemento, onde lo sporgere orrendamente confuso delle masse che hanno più resistito alle corrosioni delle aque meteoriche. Vinta la salita si giunge ad un altopiano ben coltivato, e quindi a Reinah[43], gruppo di case ombreggiate da grandi alberi. Mirza Alì, tutto fiero di farci vedere un _echantillon_ di donne persiane, ci mette in attenzione della decantata bellezza di queste che avremmo incontrate nel villaggio. Accorsero infatti, allo scalpitar della carovana le donne, che non avean pensato a coprirsi il viso; ci guardarono il tempo necessario a soddisfar la loro e la nostra più discreta curiosità, poi fuggirono a precipizio. Mirza Alì aveva ragione. Oltre Reinah il cammino, girando sempre attorno alla base del Demavend, attraversa dossi arrotondati, propagini de’ monti marnosi-calcarei separati dalla massa principale dalla grande spaccatura del Lar. La roccia eruttata dal vulcano ha invase le depressioni fra questi dossi. In più luoghi si vedono anche breccie e puddinge vulcaniche con cemento ed incrostazioni di travertino. Eran le 9 dello stesso mattino quando scendemmo di cavallo ad Abigerm. Lì, in praticelli a’ piè dell’erto pendìo del monte, ombreggiati da filari di salici, fumano le surgenti termali che danno il nome al villaggio. Il getto principale si versa immediatamente in un bacino cinto da un muricciuolo, d’onde l’aqua trascorre in rigagnoli ed in vaschette a certe costruzioni che hanno più l’aspetto di tumuli che di celle da bagni. Alcune donne nude stavano lavando pannilini, ed al nostro approssimarsi si posero frettolosamente un cencio sul capo, e fuggirono al villaggio. La temperatura dell’aqua, allo sbocco della sorgente, era di +63,5° C. Dovemmo far sosta per l’asciolvere, per aspettare i muli co’ carichi più pesanti, e sovratutto per fare gli ultimi preparativi per la salita. Mirza Alì spedito al prossimo villaggio in cerca di guide, di alcune delle quali, già sperimentate nell’ascensione de’ Prussiani e degli Inglesi, avevamo il nome scritto, ritornò con alcuni uomini di mala voglia, i quali, forse per caricare la mercede da pattuirsi, esagerarono la difficoltà dell’impresa, la lunghezza del cammino, ed insistevano onde si pernottasse in Abigerm. Tenemmo consiglio, e riescì felicemente a trionfare la fermezza del capitano Champain; onde si deliberò di partir subito, e passar la notte nel circo interno del Demavend, a’ piedi del gran cono. Mentre noi eravamo affaccendati a semplificar i bagagli, onde non portar lassù con noi se non le provvigioni e gli equipaggi di prima necessità, le guide persiane si raccolsero in numero di dieci, prepararono bastoni, e certe scarpe di strana foggia, formate da pezzi di pelle di capra con trafori nel lembo, pei quali si passa una correggia che stringe il piede come in una borsa. Sottometto questo modello di scarpe all’approvazione de’ club alpini; dirò intanto che pochi di noi si decisero ad adottarlo. Partimmo ad una mezz’ora dopo mezzo giorno. Passato il villaggio di Abigerm la salita si fa subito molto erta, in un vallone le cui pareti sono di strati fortemente inclinati e ripiegati di arenaria e di marna alternanti (del terreno carbonifero?). La vegetazione arborea s’arresta al villaggio; continua invece una svariata e rigogliosa vegetazione erbacea. Incontriamo un’altra surgente ferruginosa, di sapore sommamente piccante e stitico. La ripidezza della valle e tutta la difficoltà del cammino crescono col mutar della roccia, col passare ad un potente deposito di conglomerato vulcanico che sporge in erte scogliere, ed ingombra il terreno di frane; quindi si incontra la roccia vulcanica massiccia, tutta rotta in massi angolosi, sui quali si perde ogni traccia di sentiero: è questa la roccia che forma la corona basale del Demavend. Alle 5 scendiamo dall’orlo dirupato di questa corona nell’immenso circo da me già paragonato a quello del monte Somma, orribilmente ingombro di frantumi angolosi, eppure non spoglio di verdura. Vi trovammo infatti una mandra di cavalli al pascolo. Piegando sulla sinistra andammo a cercare un posto conveniente per passarvi la notte, e dopo varie esplorazioni ci riescì trovare due ajuole rettangolari, circoscritte da informi muricciuoli formati co’ massi tolti dall’interno: testimonianza sicura che già qui, prima di noi, altri europei aveano fatta stazione. Qui dunque ci arrestammo. D’ogni intorno gorgogliavano rivoletti e cascatelle, od allo scoperto o ne’ profondi vani fra i massi petrosi. Il nostro cuoco si diede ad ammannire un parco desinare, i nostri _ferrasch_ a preparar l’unica tenda della quale potevamo disporre, essendo caduto e morto per via un mulo che portava l’altra. Alcuni di noi, ed io precisamente fra questi, dovettero rassegnarsi a passar la notte, come dicono i Francesi, alla _belle étoile_. Pieni di lena passammo una lietissima sera, e non ci coricammo prima di aver ad una voce battezzato questo sito col nome di stazione _Thomson_. Preghiamo i viaggiatori futuri, e sovratutto chi farà la carta del Demavend, a conservarlo, in memoria del primo europeo che toccò la sommità di quell’eccelso cono. Qualche _touriste_ ha cercato lasciare più stabile memoria di sè. Sulla parete verticale di un masso prossimo all’accampamento io trovai scolpite queste lettere A B P, come principio di una iscrizione incompiuta. Non mi riesce interpretare questo enigma con alcuno de’ nomi a me noti de’ visitatori del Demavend. Quel masso intanto starà come un segnale della stazione Thomson. [Illustrazione: Fig. 7. — Veduta del Demavend e del nostro accampamento alla stazione Thomson. Da un disegno del capitano Champain.] La notte fu molto fredda: al mattino il termometro segnava ancora -3° C, e d’ogni intorno brillavano croste e stallattiti di ghiaccio. Per buona sorte eravamo bene proveduti di mantelli e di coperte. Più che il freddo riescì molesta a me la rarefazione dell’aria, a quell’altezza di 3,600^m; ond’ebbi a provare un grave insulto di asma notturno. Io ho sempre parlato fin qui di roccie vulcaniche in genere, senza mai pronunciare alcun nome particolare, evitando perfino di servirmi della parola spicciativa _lava_ che adoperano i viaggiatori quando parlano del Demavend. Egli è che in fatti sulla strada da noi percorsa, non si incontra in alcun luogo una vera lava, come quella, per esempio, che io ho trovata presso Hissar, o come quella eruttata da vulcani attivi d’Europa. La sola distinzione netta e precisa che si possa fare delle roccie onde è costituita la gran massa del Demavend, è quella delle due categorie che hanno per tipi rispettivi il basalto e la trachite, presentanti ciascuna varietà secondarie di struttura, di colore, di diverse proporzioni de’ minerali elementari. Le roccie basaltiche, ben caratterizzate anche dalla presenza dell’olivina, hanno la pasta ora compatta ora cristallina, e contengono in varie proporzioni cristallini feldspatici, fino ad assumere la vera struttura porfidoide, come, per esempio, accade del basalto prismatico di Ask. Le roccie trachitiche presentano due estreme varietà ben distinte di colore, l’una bianca, con struttura più cristallina, e mica nera, l’altra rossa, con struttura più compatta, e mica color tombacco: l’una varietà si fonde nell’altra per tutti i possibili passaggi. Il nome di lava si potrebbe tutt’al più adoperare per indicare la crosta di trachite rifusa, leggermente scoriacea e bollosa, sulla quale si cammina per lungo tratto in salire alla sommità del cono. Nella collezione di saggi di roccie fatta in Persia dall’insigne botanico russo Buhse, e scientificamente descritta da Grewingk[44], si parla di pomici, di lave, di pietra picea, che possono tutt’al più riferirsi a qualche rara ed affatto isolata varietà di roccie delle suaccennate due categorie. Altri autori parlano di pomici del Demavend, Kotschy specialmente, il quale per di più segna nella sua carta, al lato nord-ovest intorno al cratere, grandi monticoli e scarpe di lapilli e frantumi di questa sostanza. I saggi di Buhse sono stati raccolti sulla strada medesima da noi percorsa, e fino alla base del monte presso Abigerm. Per quanto io facessi particolare attenzione alle roccie sul nostro cammino, non mi venne mai dato di trovare alcun frammento paragonabile veramente, e pei caratteri e pel modo di formazione, alle vere pomici dei vulcani d’Italia. Gli stessi saggi di Buhse che io ho visti nel Museo mineralogico dell’Academia delle scienze di Pietroburgo, non mi sembrano esattamente determinati come pomici. Alcuni pezzi di assai apparente aspetto pumiceo raccolti dal prof. Lessona intorno al cratere, uno fra gli altri coperto da bellissimi cristallini di ferro oligisto, sono frantumi di trachite profondamente alterata da soffioni solforosi: vi si possono infatti distinguere colla lente minuti cristallini, anche della caratteristica mica, sfuggiti all’azione di vapori alteranti. Io credo perciò che, fino a nuova più sicura prova del contrario, si possa mettere in dubio l’esistenza di vere pomici al Demavend, per quanto la produzione di questa sostanza sia ne’ vulcani legata coll’esistenza delle roccie trachitiche. È impossibile determinare in una semplice escursione, e per un solo lato del Demavend, l’ordine di successione delle emersioni trachitiche e basaltiche. Il solo fatto che mi sia risultato ben chiaro è questo: che le prime sono prevalenti nel cono centrale, le seconde nella corona basale del vulcano. È pure da notarsi, come assai importante che, nel perimetro di questa corona, le roccie eruttive riposano generalmente sovra conglomerati, i cui frammenti sono ancora delle stesse roccie basaltiche e trachitiche. In alcuni luoghi, come per esempio presso Ask, il basalto è compreso fra due depositi di conglomerati. Questo prova che l’aqua ha avuto una parte molto importante nelle dejezioni del Demavend, come in generale di tutti i vulcani. All’alba del 13 agosto incominciò la salita vera del cono. Avevamo avuta la previdenza di far tener pronti alla stazione Thomson i nostri muli, i quali ci giovarono per circa un’ora di cammino, frammezzo alle frane, infinchè l’erta cessò dall’esser praticabile anche da muli persiani. La superficie del cono è assai ineguale, ma i rilievi e gli avvallamenti hanno una visibile disposizione come di raggi che partono dalla sommità, e si allargano verso la base. Gli avvallamenti, non occorre il dirlo, sono letti di neve. In qualche sinuosità più riparata ne avevamo già viste alla base alcune pezze isolate; queste crescono naturalmente di numero e di estensione coll’altezza, così che, verso la sommità, imponenti distese di nevi perpetue occupano tutto lo spazio tra le coste del monte. Seguimmo da principio per lungo tratto una cresta, poi scendemmo in un gran letto di lapillo trachitico, onde il procedere era fatto ancora più faticoso. Da questo passammo su di una crosta scoriacea di trachite rossastra che si continua fin presso la sommità del monte, come una gran colata fluita dal cratere. L’effetto della rarefazione dell’aria non tardò molto a farsi sentire in alcuni di noi. Da prima si arrestò una delle nostre guide di Abigerm presa da vomito, poi Doria; ed infine, a quattro quinti della salita, dovetti io pure rinunciare con profonda invidia a dividere co’ miei compagni la gloria di toccare la cima del grande vulcano. I sintomi che ebbi a provare furono nausea, vertigini, affanno di respiro, ed un sonno invincibile non appena m’arrestassi a prendere alquanto riposo. Dovetti quindi cedere e ridiscendere alla stazione, accompagnato da una delle guide. Prendo dalle relazioni verbali avute sul luogo il giorno istesso, e specialmente dal giornale del mio amico Lessona il racconto del resto della salita. Piegando alquanto verso oriente si lascia la roccia solida per passar ancora sul lapillo, da cui escono qua e là punte e scogli di trachite; quindi si arriva al passo più pericoloso, al così detto _Bamsi bend_ (passo del gatto), che è uno stretto sentiero da indovinarsi attraverso un immenso ripidissimo letto di neve entro un avvallamento della montagna. All’opposto lato la difficoltà cresce ancora per lo sporgere della roccia, sotto la quale conviene curvarsi per passare, dividendo l’attenzione fra la testa ed i piedi; e se un piede manca, si è irreparabilmente perduti, scivolando nell’abisso. Il prof. Lessona ed il capitano Champain furono i soli che, governando prudentemente il bastone, escirono da questo passo senza ajuto delle guide, mentre altri due non furono salvi che per la prontezza onde furono soccorsi. Al di là di questo passo l’erta riprende faticosissima su di una cresta rocciosa, poi di nuovo su di un’erta di lapilli più ripida delle precedenti. Da questo punto si vede già l’orlo del cratere tutto giallo di solfo. Succede un nuovo avvallamento occupato da una gran massa di neve meno erta della precedente, ma non meno pericolosa in altra ora od in altra stagione, quando, solidificata dal freddo, non ceda sotto il passo. Qui il prof. Lessona ed il capitano Champain sentirono contemporaneamente uno scoppio dalla cima del monte, e videro sollevarsi un denso getto di vapore: l’aria d’ogni intorno era piena di esalazioni solfuree. — Si compie l’ultimo tratto della salita nella neve cosparsa di polvere di solfo, o nella roccia incrostata di solfo. Primo a toccar la sommità (eran le 2 pomeridiane) fu Orio, che fece sventolar il fazzoletto sulla punta del bastone, gridando _viva Italia_. Fu immediatamente raggiunto dal capitano inglese, poi dagli altri. Mirza Alì, ed alcune guide che soffrivano della rarefazione dell’aria, s’arrestarono più in basso, in una caverna scavata nello solfo. Il cercine del cratere ha la figura di un’elisse, il cui maggior diametro, dall’ovest all’est, misurerebbe, all’occhio del prof. Lessona, trecento metri, l’altro ad esso perpendicolare, forse cento. All’est ed all’ovest vi sono due depressioni, al nord e al sud due rialzi. Tutto il cercine era coperto di neve, meno che dalla parte tra l’est ed il sud, ove tutta la apparente sua massa era purissimo solfo. L’interno era un piano di neve e di ghiaccio sul quale nessuno osò avventurarsi. Quando i miei compagni vi arrivarono vi si vedeva ancora dalla parte verso l’est un vano circolare che in breve si chiuse: era forse di là partito il getto di vapore osservato poco prima. Il barometro del capitano Champain si era guasto per via: quello del prof. Ferrati invece, perfettamente conservato, giunse felicemente alla cima. I miei amici vi si promettevano la vista delle selve del Mazanderau e, più lungi, del Caspio: non videro invece, verso il nord, che uno sterminato mare di nebbia, al sud-ovest l’immensa distesa dell’altopiano iranico, dalle altre parti nubi e vertici di montagne, che dal basso sembravano giganti e di lassù pigmee. Rimasero sull’orlo del cratere un’ora, spesa anche in parte nelle osservazioni barometriche; scrissero i loro nomi su di un foglietto che fu riposto in una bottiglia, e questa, ermeticamente chiusa, abbandonata colà, come documento ai futuri _touristes_. Alle 3-1/2 le guide instavano onde si discendesse precipitosamente. Una nuvoletta avea ravvolta per un istante tutta la brigata, altre maggiori accennavano di seguirla ingrossando, ed il pericolo era imminente di non poter discernere più, nel fitto della nebbia, il buon cammino. La discesa fu senza inconvenienti. Alcuna delle nostre guide, sui piani inclinati di neve, si lasciava scivolare in basso. Mirza Alì per discendere in questo modo, s’accoppiò stranamente con un altro persiano, ma presto rotolarono entrambi, e furono ben fortunati di poter riprendere il cammino più lento ma più sicuro della roccia. Io medesimo, avendo incautamente ceduto alla seduzione di questo mezzo accelerato, corsi pericolo estremo di vita. Alle ore sei eravamo tutti radunati alla stazione Thomson, lieti del successo, ed il nostro amico prof. Ferrati lietissimo di poter intervenire autorevolmente nella discordia delle cifre dell’altezza del Demavend. Al desinare, mancandoci il vino che avevamo espressamente lasciato ad Abigerm, un po’ d’aqua tinta di rhum ne tenne le veci al _toast_. Lì pernottammo di nuovo, e il dì seguente fummo di ritorno ad Ask così per tempo da passare in quell’interessante località tutta la giornata. L’unica via per la quale si possa ascendere il Demavend è quella che abbiamo seguita; per tutto il resto del perimetro del gran cono l’erta è impraticabile, od almeno non fu ancora tentata. Ho già detto come il Demavend, visto dai contorni di Teheran, si presenti col suo asse sensibilmente inclinato verso ovest, come se la sua base fosse stata sollevata verso oriente. La posizione di Ask corisponde appunto alla elevazione del piano di questa base, onde viene che da qui la retta applicata sul pendio, in un piano verticale all’orizonte, formi con questo un angolo più acuto che non altrove. È importante l’osservare subito che a questa parte del monte corrisponde pure la grande spaccatura che aprì il corso alle aque del Lar: sulla quale circostanza dovrò tornar fra poco. Quasi ogni anno i montanari di Reinah e di Abigerm salgono alla cima del Demavend per raccogliervi solfo, e si racconta che non rari siano i casi di pagare colla vita l’avidità del guadagno: ma per lungo lasso di secoli nessun viaggiatore europeo aveva ardito affrontar una simile impresa. Doveva naturalmente toccare ad un figlio della bionda Albione il dare il buon esempio, e ad altri poi seguirlo. Il paese che sotto varj aspetti è ancora una terra incognita, le difficoltà d’ogni genere che vi si incontrano, il rango di quella montagna fra le più elevate del globo, la sua stessa natura, le misure discordi ottenute in varie riprese della sua altezza, fanno sì che, negli annali de’ viaggi, la salita del Demavend sia ancora adesso un fatto meritevole di registrazione. Ecco in breve, ed in ordine cronologico, le notizie che ho potuto raccogliere sulle ascensioni e sulle misure ipsometriche di questo grande vulcano. 1837. Nel settembre. Taylor Thomson è il primo europeo che si cimenti alla salita del Demavend, portando seco un barometro, ma essendo la sommità del monte ravvolta tra le nebbie s’arresta ad una caverna alcune centinaja di metri più in basso, e quivi prende le sue misure termometriche e barometriche. Ainsworth su queste misure calcolò approssimativamente l’altezza del Demavend in 13,793 piedi parigini. Humboldt invece, sui dati medesimi, arriva ad una cifra assai più elevata: 18,400 p. p. 1838-39. Il capitano Lemm è spedito in Persia dal governo russo, per accompagnare un invio di doni allo Schah ed al governatore del Korassan, e coll’incarico di determinare l’esatta posizione geografica de’ principali punti sulla sua strada. Dalla sua tabella estraggo queste altezze, misurate trigonometricamente da Teheran. Teheran: casa della legazione russa 3,579. p. p. sul livello del mare. Cima del Schemran 12,247. — Cima del Demavend 18,846. — 1843. Kotschy, dalla metà di giugno ai primi di agosto, percorre in varie direzioni la base ed i contorni del Demavend, specialmente per ricerche botaniche. Agli ultimi di luglio intraprende la salita del cono: ne dà una minuta ed esatta descrizione, ed assai belli disegni. Percorre l’orlo del cratere in 378 passi. La sua relazione, stampata molti anni più tardi (_Mittheilungen di Petermann_, 1859), è quanto di meglio finora fu scritto sul Demavend. Kotschy non prese misure ipsometriche. All’occasione della stampa della sua relazione sentenziò esser molto esagerata la cifra dell’altezza del Demavend data dagli Inglesi; giudicando ad occhio da esperto alpigiano, com’egli stesso dice, e dalla natura della vegetazione, concede tutt’al più un maximum di 15,000, p. p. 1852. Czarnotta, ufficiale montanistico austriaco al servizio del governo persiano. La sua ascensione (in agosto) è qualche cosa di romanzesco. Abbandonato dalle sue guide passa una notte solo, privo di coperte e di provigioni, alla distanza di due ore dal cratere, sotto una buffera di gelo che gli intirizzisce le membra, e fa discendere il termometro a -17 R. (!!). Dopo stenti infiniti arriva alla sommità e passa una seconda notte a poca distanza dal cratere. Incontra individui estranei che sembrano attentare alla sua vita; le stesse sue guide che più tardi lo raggiungono, dopo averlo derubato de’ suoi istrumenti e delle sue pistole, non dimostrano più miti intenzioni. Tratta per la sua salvezza, gettando a quella gente quanto danaro aveva. Ritornato a Teheran poche settimane dopo muore di tifo. (Vedi ancora le _Mittheilungen di Petermann_, 1859). 1854. Renold Thomson, fratello dell’altro citato più sopra, e lord Kerr, salgono il Demavend, ma per mancanza di istrumenti nè fanno osservazioni nè publicano relazione alcuna. 1858. Gli stessi, in compagnia del sig. di S. Quintin, addetto alla legazione francese, e del sig. Castelli (di Tauris), ripetono la salita con un eccellente ipsometro ad ebullizione di Casella. Questo sig. Thomson è il medesimo che ebbimo la fortuna di conoscere personalmente ne’ nostri frequenti convegni colla legazione inglese. Il suo rapporto, publicato nel giornale della società geografica di Londra, è molto ben redatto. Il risultato dell’osservazione fatta in questa circostanza darebbe al Demavend un’altezza di 20,192. p. p. 1859. Il sig. Beguer, segretario della legazione russa, ed il sig. Barthelemy francese, morto poco dopo a Teheran, ribattono il medesimo cammino, e toccano la punta del Demavend, ma non fanno osservazioni. 1860. Il barone Minutoli, il sig. Grolman, il sig. Brugsch della ambasciata prussiana, accompagnati dai signori Watson, Fane e Dolmage della legazione inglese, intraprendono l’ascesa del Demavend verso la fine di luglio, essi pure muniti di un ipsometro ad ebullizione, mentre il sig. Nicolas, stando al piede del vulcano, alla stazione di Abigerm, istituisce contemporaneamente osservazioni di confronto. I dati ottenuti conducono ad attribuire al Demavend un’altezza di circa 20,000 p. p. 1861. La spedizione russa del Caspio, sotto la direzione del sig. Iwastschinzow, determina l’altezza del Demavend mediante osservazioni trigonometriche alle due stazioni dell’isola Aschuradah, nella baja di Astrabad, e dello sbocco del fiume Tedjen presso Ferhabad. La media ottenuta è di 17,326 p. p. al disopra del livello del mare generale. 1862. La sezione dell’ambasciata italiana. Le misure barometriche del nostro collega com.^e Ferrati intervengono molto a proposito fra tanta discordia di cifre. Sebbene per la natura stessa del metodo siano da ritenersi come semplicemente approssimative, esse hanno su tutte le altre precedentemente prese il grande vantaggio di esser state confrontate con osservazioni barometriche e termometriche eseguite nel giorno stesso ed alla stessa ora, alla stazione russa di Aschuradah, sul Caspio, presso la base al nord del Demavend, con istrumenti regolati, come quelli medesimi del Prof. Ferrati, all’osservatorio meteorologico di Tiflis. Ecco ora le cifre datemi dall’egregio collega, come esprimenti altezze sul livello medio dell’oceano. Teheran 1240 metri Ask, presso il ponte 1795 » Abigerm 2275 » Cima del Demavend 5670 » È un errore soventi ripetuto ne’ libri che il Demavend serva di faro ai naviganti del Caspio. Non potrebbe essere tutt’al più che un faro diurno ed a ciel sereno, poichè non getta mai fuoco, ed il languido persistente suo lavoro vulcanico si manifesta ora soltanto con fenomeni secondarj. Il suo cratere attuale è sproporzionatamente piccolo in confronto della immensa mole del cono; e nessuna conosciuta memoria storica accenna a masse fuse di là eruttate. Quella colata di trachite scoriacea, di cui ho fatto cenno, è ben poca cosa al paragone della massa compatta attraversata da potenti _dicche_ onde tutto il cono è formato. La sommità del monte è una solfatara attiva. Lo solfo che incessantemente vi si sublima, accompagnato da soffioni di vapori aquei, è in fiori ed in minuti cristalli, inquinato da gesso. Vi si trova anche, nella trachite alterata da questi soffioni, qualche sublimazione di ferro oligisto. Alla stessa causa interna, onde è alimentata la solfatara della sommità, si collegano le surgenti termali e solforose della base. L’attività vulcanica del Demavend è manifesta eziandio da terremoti. Morier ha fatto una relazione di quelli del 1805, e del giugno del 1815; il quale ultimo, come risulta pure da un rapporto di Bell, ha cagionato gravi sconvolgimenti. Alla base del monte verso occidente, sulla strada da Amol a Teheran, tra Karu e Balkulum, Bell ha visto, come effetti di questo terremoto, rovine di edifizj, ponti distrutti, i cui pilastri non si corrispondevano più. Molti villaggi pure furono sconquassati, e le strade fatte impraticabili per due anni dopo l’avvenimento. Abbiamo precedentemente veduto: 1º che la formazione di travertino di Ask, e la ingente massa di tritume e conglomerato vulcanico che vi sta sopra, si debbono considerare come di formazione recente; 2º che il burrone del Lar, circuente per gran tratto, a sud-est, la base del Demavend si è aperto nel travertino stesso. È molto probabile che il medesimo terremoto, per forza del quale si è fatta questa grande spaccatura, abbia sollevata da questa parte la base del vulcano, ed inclinatone l’asse verso occidente. Aggiungerò pure come sia antica tradizione, tuttora vigente in Teheran, che il Demavend abbia cambiato di forma. L’età moderna di questo vulcano si desume anche da altri dati. È impossibile non vedere una continuità di processo tra la formazione del travertino del burrone di Ask, e le aque solforose-termali che sgorgano da questa parte in sì gran copia; fra il ruscello d’aqua ferruginosa che si passa arrivando ad Ask da Teheran, ed il cemento ferruginoso fino ad assai notevole altezza della puddinga vulcanica a’ piè della quale scorre il ruscello stesso. Devesi poi fare particolare attenzione a questo, che, per quanto risulta dalle mie osservazioni, nè le tanto caratteristiche roccie del Demavend, nè altre roccie vulcaniche in istretto senso, trovansi rappresentate nel tritume generale degli altipiani della Persia occidentale; per il che sarebbe da concludersi che le formazioni vulcaniche dell’Elburz sono posteriori alla dispersione de’ tritumi onde quegli altipiani furono costituiti. Abich ha osservato la stessa cosa nel Caucaso e nell’Armenia. Certamente poi la ingente mole del Demavend non è surta tutta in una sol volta, ma prima si formò la corona basale, poscia il cono centrale. Nel tratto percorso della base di questo monte, io ho quasi dapertutto osservato che le masse eruttive delle roccie, e specialmente delle basaltiche, riposano sovra strati più o meno potenti di conglomerato vulcanico. Ho accennato più sopra alla mancanza di un attendibile documento istorico di lave roventi eruttate anticamente dal Demavend. Un qualche dato della antica maggiore attività del vulcano sembrami tuttavia trasparire dal velame della leggenda mitologica del re Zohaq, ancora oggi tanto popolare fra gli abitanti del nord della Persia, e così poeticamente narrata dal loro immortale Firdusi. L’empio Zohaq, nato ne’ deserti dell’Arabia, erasi legato in patto infernale con Arimane, e coll’ajuto di questi aveva ucciso il proprio padre, per usurparne la corona. Il genio del male che, sotto forma di un bel giovinetto, erasi posto al suo servizio, e lo nutriva di sangue, gli chiese un giorno di potere imprimer sulle di lui spalle un bacio, come segno e mercede della sua fedeltà. Non appena le labbra infuocate di Arimane toccarono le spalle del suo signore, spuntarono da queste due neri serpenti, che nessun arte valse a distruggere, e che si dovettero satollare di cervella umane. Zohaq, eletto poscia re dagli Irani, stendeva sul paese da oltre un secolo il suo terribile scettro, ed ogni giorno gli erano immolate due vittime umane; quando il fabro Kawe, al quale erano stati presi sedici figliuoli per farne pasto ai serpenti, sul punto di vedersene tolto ancora uno, chiamò gli Irani all’insurrezione. Un giovine eroe, Feridun, nato nelle aspre gole del Demavend, intraprese la lutta col potente Zohaq, e, fattolo prigioniero, lo rinchiuse nell’immensa interna spelonca di quella montagna, ove carico di catene _strepita_ e _mugge_ il vinto tiranno. Come segno che doveva annunciare tutt’all’intorno la vittoria, Feridun accese, sulla sommità del Demavend, _un fuoco di gioja_. Ogni anno, l’ultimo giorno di agosto, nella città che trae il nome dal grande vulcano, la festa commemorativa della caduta del re Zohaq è celebrata con grandi clamori, corse tumultuanti di cavalli, e fuochi[45]. Ora se anche in questa, come in ogni altra leggenda tradizionale, è lecito ricercare qualche fondamento di reale, due cose fermano l’attenzione: la fiamma accesa da Feridun sulla cima del Demavend, probabile indizio di materie ignee eruttate, o di vapori illuminati dalle bragie del cratere ora da secoli estinto; e gli strepiti, i muggiti dell’incatenato Zohaq, alludenti a rumori di vera attività vulcanica, piuttosto che all’impeto de’ soffioni attuali. Non può a meno anche di far impressione alla mente l’analogia fra la leggenda persiana ed il mito greco di Encelado fulminato da Giove, e chiuso nelle viscere dell’Etna. Non lascerò Ask senza aggiungere qualche cenno sulla fauna di questa parte culminante dell’Elburz. Due sole specie di rettili ho trovato attorno alla corona del Demavend, la _Lacerta muralis_, varietà del ventre rosso di fuoco, e lo _Stellio caucasicus_. Quest’ultima è quella che si porta a maggior altezza, ma non fino a passare nel circo attorno al cono centrale. Il carattere alpino della fauna ornitologica già dianzi osservato, si fa sempre più evidente. La _Sitta syriaca_ riempie la solitaria vallata di Ask delle sonore sue note. La _Pyrgita domestica_ qui scompare, ed è sostituita dalla _Pyrgita montana_ abbondantissima ne’ campi e negli orti attorno alla città. Nel pianerottolo di Reinah trovai ancora la tortora commune (_Turtur auritus_), e stormi di _Fregilus graculus_. Il _Serinus pusillus_, l’_Otocoris larvata_, la _Petrocincla saxatilis_, salgono fino all’orlo della corona del Demavend. Nel circo al di là di questa corona si trovano: la _Ruticilla tithys_, l’_Accentor alpinus_, ed il _Pyrrhocorax alpinus_; e fin qui sale del pari la pernice (_Caccabis chucar_), il cui chiocciare ripercuotevasi al mattino per que’ dirupi. Uno stormo di ventisette individui passò a tiro di fucile sulla nostra stazione la mattina stessa dell’ascesa del cono. Una moltitudine di avoltoi (_Vultus fulvus_) vedevasi costantemente roteare per l’aria al disopra de’ pascoli. Nella sua escursione al Demavend Kotschy racconta aver visto un branco di venti capre selvatiche, o, come egli dice, stambecchi, scendere dalla sommità del monte, e mettersi a pascolare tranquillamente fra i muli della sua piccola caravana. — La gente del seguito avea già data mano al fucile, ma ne fu trattenuta da Kotschy stesso, che voleva da una parte evitare il pericolo di ferire invece d’una capra uno de’ muli, dall’altra era curioso di studiare da vicino il contegno di quelle così circospette bestie. Ad un tratto le capre presero a fuggir precipitosamente sui greppi inaccessibili a piede umano. Causa di questo improvviso spavento fu una grossa tigre che Kotschy ebbe agio di osservare a circa 500 passi di distanza. La fiera che al dir di una guida era salita dalla parte di Ask, rimase accosciata alcuni minuti, poi, all’aspetto del fumo dell’accampamento e della gente, si allontanò di nuovo. La mattina del 15 agosto, tenuto consiglio per la scelta del cammino di ritorno, prevalse la proposta di non ribattere quello stesso che avevamo fatto in venendo, ma di passare per la città di Demavend. Dal punto di vista delle collezioni zoologiche questa scelta fu infelice. Io calcolava su di abondante caccia delle specie osservate ne’ giorni precedenti, e il calcolo, col mutar delle condizioni del paese, andò fallito. Lasciata adunque Ask, ribattuta per un certo tratto la strada medesima per la quale eravamo venuti, giunti al bivio, lasciammo la via di ponente, scendendo ancora le pittoresche balze fra grandi frane e pianerottoli erbosi del sistema del Demavend, finchè si giunse al Lar, ad un ponte in muratura; reso da due anni impraticabile per guasti che, secondo il costume persiano, lungi dal riparare prontamente si lasciarono progredire. La rapida corrente si passa su di un ponte posticcio. Al di là del fiume, prima di impegnarci in una gola fra roccie calcaree, si incontra, sulla destra del cammino, l’ultima propagine del Demavend: una lingua di roccia basaltica, separata dalla sottoposta calcarea, dal solito conglomerato vulcanico, e che cessa bruscamente. La località è interessante perchè anche qui si può vedere chiaramente come i frantumi delle roccie caratteristiche del Demavend, non si estendano oltre le frane della base propria del vulcano. Di là il cammino continua per lungo tratto chiuso fra monotoni ed aridissimi dirupi calcarei, con appena qualche po’ di vegetazione lungo un povero ruscello. Varcato il giogo sul quale s’inerpica il sentiero, si discende in una valle trasversale aprica, tutta cultivata; e qui si vede succedere alla calcarea un’arenaria rossa compatta di grana finissima. Si valica di nuovo un colle formato di strati di calcarea marnosa indurita, in massima parte di vaghissimo color turchesino, per ridiscendere ancora in una valle più ampia, benissimo cultivata, con macchie e filari di alberi, e popolata di armenti. Nel fondo, tra il denso fogliame dei boschetti e de’ giardini, spuntano le torri e le cupole smaltate delle moschee della città di Demavend: meta sospirata dopo una marcia di otto ore. Il nostro golam-dragomanno ci condusse pei viottoli tortuosi della città all’estremo opposto, in una casa qualunque che egli si era prefissa senza che si potesse concepire alcuna ragione della scelta. Il nostro cuoco era già intento ad ammannire il pranzo, e noi a trovar qualche posto in quell’orribile catapecchia ove distendere i nostri materassi, quando supragiunse il padron di casa a lagnarsi di questa violazione della sua proprietà, e ad intimarci di sgombrare. Mirza Alì non fece altro, in nostra presenza, che applicargli subito una buona razione di scappellotti e di calci, e mandare invece lui, il padrone, a cercarsi un altro asilo per quella notte. La città di Demavend porta nel mio giornale una nota particolare per l’abondanza e la squisitezza delle frutta, ed in ispecie dei sugosi e dolci cocomeri. Lasciandola alle nostre spalle, il dì seguente, attraversammo da prima il bosco che la ricinge ad occidente, quindi ancora i bei campi che formano la ricchezza della città, per salire, dopo breve tratto, sui colli che da questo lato limitano la valle. Non tardammo ad avvederci del molto brutto cambio che avevamo fatto mutando strada, lasciando i fantastici dirupi, le erbose valli, le ridenti oasi del Dschadscharud e del Lar, per una interminabile successione di grandi onde di colline marnose orribilmente nude, monotone e tristi. Ad ogni salita movevasi l’animo nostro alla fiducia di vedere di colassù mutar l’aspetto del paese, ma invano: un nuovo avvallamento, una nuova salita dello stesso inesorabile carattere. Dopo lunghe ore di un cammino siffatto, eccoci finalmente ad un po’ d’aqua nel fondo di un valloncino, e al di là ad un piccolo caravanserai ove facciamo sosta per la colazione. Vi trovammo due mercanti diretti alla capitale con stoffe e pelli del Mazanderan, e traenti seco a spettacolo publico due belli animali vivi: un grosso babbuino grigio (_Cynocephalus hamadryas_), ed un giovane leone mansuetissimo, che i due mercanti aveano avuto a Schiraz. Oltre il caravanserai la strada continua ancora a ridosso di colline marnose aridissime, rotte però qua e là da masse di melafiro, con vene e rognoni di mesotipo. Poco prima di scendere ai Dschadscharud, sulla sinistra del cammino, si può vedere un taglio del terreno cogli strati marnosi sollevati ricoperti dal tritume generale, i cui frammenti sono adagiati non già in posizione orizontale, ma secondo l’inclinazione degli strati sottoposti, onde si dovrebbe inferire che il sollevamento di queste colline si è compiuto dopo la dispersione del tritume generale stesso, e forse per opera della emersione del melafiro. Sul far della sera arriviamo infine all’ultima stazione, al greto del Dschadscharud, la cui rapida corrente ha qui l’importanza di un vero fiume, quantunque diretta a farsi tutta assorbire nel deserto. Alziamo le nostre tende fra una capanna di poveri coloni ed il ponte che, per caso raro in Persia, era in perfetto stato di conservazione. Il vino che ci era mancato sul Demavend ci soprabondava qui, ed il proposito di non riportare a casa che bottiglie vuote è puntualmente eseguito. I brindisi, gli evviva, le canzoni patrie, risuonano per quella nuda e squallida solitudine, finchè ci regge il fiato ed il _Bordeaux_ non ci aggrava le palpebre. Il mattino seguente una breve e lieta cavalcata ci ricongiunse ai nostri compagni in Tedgrisch. XVII. Separazione della nostra ambasciata. — Chi rimane in Persia e chi ritorna in Europa. — Carovana della quale faccio parte. — Da Tedgrisch a Kazvin. — Da Kazvin al passo di Kharzan. — Prima impressione del Ghilan. — Rustemabad. — Avventure di viaggio. — Bellezza del paese. — Rescht. — Industria serica nel Ghilan. — Il Murdab. — Enzell. — Addio alla Persia. La durata del soggiorno nella capitale della Persia era pe’ singoli componenti la ambasciata italiana misurata dagli ufficj rispettivi, ed a ben pochi poteva cader in mente il prolungarla per suo particolar diletto: il desiderio più forte e più generale era scapparne al più presto. — Lo stesso giorno dell’udienza imperiale si incominciò a parlare, nel nostro campo di Tedgrisch, della separazione. Il ministro Cerruti, cogli addetti alla sezione diplomatica, aveano ancora da sostenere la gran lutta contro l’ostinazione persiana, onde conchiudere un trattato di commercio che potesse giovare alla tanta compromessa industria serica in Italia; ma gli altri avendo compiuto al loro ufficio di fare da comparsa all’augusta presenza del re de’ re, pensarono subito alle disposizioni pel ritorno in Europa, ciascuno essendo libero della sua linea, in conformità alle proprie inclinazioni, agli stretti legami di famiglia, ad altri impreteribili doveri di ufficio. Premeva sovratutto il raggiungere i piroscafi russi in stagione ancora favorevole alla libera navigazione del Volga. A noi naturalisti il soggiorno di Tedgrisch non presentava alcuna attrattiva: il nostro tempo vi era assolutamente perduto. Il marchese Doria che per la sua età e per la sua posizione sociale era libero di seguire gli impulsi del suo ardore per la scienza, avea divisato di esplorare le provincie meridionali della Persia, unendosi al sig. conte de la Rochechouart, della legazione di Francia, che stava appunto per recarvisi; a me ed a Lessona importava il poter rimanere per qualche tempo in riva al mar Caspio. Fu data opera adunque a rifare i particolari bagagli, a disporre le cavalcature, l’accompagnamento, i necessari firmani del governo, ed i passaporti russi, che ci vennero con assai cortese sollecitudine rilasciati dal sig. di Anitschkoff. I sigg. Paulow e dott. Bretschneider, addetti alla legazione russa ebbero anche la gentilezza di fornirci istruzioni, indirizzi, e commendatizie. Una volta decisa la partenza, ci separammo in piccole brigate. Primi a lasciar Tedgrisch furono i professori Lignana e Ferrati ed il marchese Centurioni, ultimi il conte Grimaldi, il capitano Clemencich, il fotografo sig. Montabone ed il dott. Orio; convegno generale ad Enzeli per raggiungere il piroscafo russo il 12 settembre. Io e Lessona, col preparatore Ballerini, approfittammo della gentile offerta dei sig. Nicolas, il quale doveva ritornare in Francia colla sua famiglia, cioè colla sua signora e due bambine, l’una di due anni, l’altra di due mesi. Il signor Nicolas si era già mostrato per noi un vero e schietto amico, e volle porre il suggello a questo carattere facendoci godere i vantaggi della sua lunga esperienza del paese, della sua padronanza delle lingue orientali, dell’ottimo suo cuore. Dobbiamo a lui se questo viaggio, intrapreso colla qualità di semplici privati, senza lusso di scorte e di tende, potè condursi al termine senza incagli ed anzi con tutti quegli agi della vita giornaliera che sono compatibili colla natura della Persia e dei Persiani. La nostra partenza era definitivamente fissata pel 28 agosto. La piccola carovana del sig. Nicolas che da Gezer doveva fare una punta su Teheran, per riescire poscia a Khend, si mise in moto fin dal mattino; noi, avendo a percorrere una linea più breve e più diretta, dovevamo raggiungerla verso sera. Affaccendati a’ tanti minuti preparativi del viaggio, un solo pensiero ci aveva fin qui dominati: lasciare infine le tristi inospitali steppe della Persia, rivedere l’Europa, riavvicinarci ai nostri cari. Ma sedate le distrazioni e le fatiche di tante cure materiali, col farsi più vicina e più certa l’ora della separazione de’ nostri compagni, sentimmo più che mai quanto questi fossero nostri amici, quanto costasse al nostro cuore il rompere le abitudini di una lunga convivenza, che, nata dalla sorte commune e dalla disciplina, erasi fatta immediatamente spontanea e simpatica. La nostra contentezza fu adunque assai conturbata, e per me si aggiunse un’altra circostanza. Fin dal mattino mi aveva preso un legger mal essere che io attribuiva alle fatiche de’ preparativi del viaggio, ed alla commozione morale. Sul mezzo giorno, quando il carico dei bagagli era pronto, pronte le cavalcature e le guide, e ce ne avvertivano con ripetute grida e gesticolazioni i nostri _ferrasch_, quando noi prendevamo commiato dall’ottimo ministro Cerruti, e da’ nostri amici diplomatici, il male crebbe rapidamente. I miei compagni, che mi leggevano in volto i brividi della febre, mi assalirono di consigli e di istanze per farmi rimanere; mi schierarono dinanzi le conseguenze possibili di una inconsiderata ostinazione, la minaccia di restar per forza relegato in qualche villaggio. Io dal mio canto rifletteva che rinunciando al l’opportunità presente del viaggiar lento in carovana, mi sarei più tardi trovato nella necessità di un viaggio accelerato da corriere, che sarebbe stato per me incomportabile. Decisi adunque di partire ad ogni costo, ribellandomi questa volta alla stessa autorità del ministro. Il marchese di S. Germano ed il console Bosio vollero accompagnarci. Il primo, a metà circa del cammino rinovati i saluti ed i buoni augurj, volse il cavallo, ed in breve ci sparì di vista; Bosio continuò cavalcando al mio fianco, e ad ogni tratto insistendo amichevolmente per ricondurmi con lui a Tedgrisch. Arrivammo a Khend a sera inoltrata. La famiglia Nicolas si era stabilita nel medesimo casino imperiale di caccia che ci aveva accolti un mese prima nella nostra andata a Teheran, ed era già in pena pel nostro ritardo. Affranto dalla violenza della febre mi gettai su di un materasso, lasciando che i pietosi miei amici mi coprissero ben bene di mantelli. Il mattino seguente venne la crisi e l’accesso finì, ma io mi sentiva ancora troppo debole per sostenere una lunga marcia a cavallo. Si ritardò adunque la partenza oltre il pomeriggio. Nel frattempo il sig. Nicolas m’avea trovato nel villaggio un vecchio _kegiavé_, e fattolo riparare convenientemente mi vi adattò abbastanza bene, ponendovi a far contrappeso valigie, attrezzi, ed un supplemento di sassi. Preso definitivo congedo da Bosio ci ponemmo in marcia per Kerretsch, ove giunti a notte, ci fu dato ricovero in uno degli scompartimenti del castello dello Schah, grandioso ma cadente ed affatto nudo. Dirò ora come fosse composta la nostra carovana. Il _tartaravan_ ove stava la signora Nicolas colle sue bambine ne formava il centro; noi gli stavamo dappresso: nostra guida era un _golam_ di bell’aspetto, e vestito con qualche eleganza: due servi persiani soltanto ci seguivano; un ragazzotto che aveva lo speciale incarico di attendere alle bambine, e con esse dovea continuar fino a Parigi, ed un cuciniere, un mezzo _cordon bleu_, altrettanto abile quanto lesto, che in un’ora o poco più dal nostro arrivo alla tappa giornaliera, ci faceva trovar allestito un pranzetto molto _confortable_. V’erano infine cinque mulattieri o _tscharvadar_, il cui abbigliamento completo consisteva di una sdruscita camiciuola di tela azzurra, in una calotta di feltro, e in un pajo di ciabatte. Costoro seguivano a piedi vigili e snelli a tutti gli accidenti della carovana, correndo or qua or là a ricondurre muli in linea, a stringer funi, a rimettere carichi in equilibrio, facendo così tutto il cammino a zig zag. E con tanto sciupìo di forze, il loro giornaliero nutrimento altro non era che qualche frusto di pane secco e qualche spicchio di cocomero. Si direbbe che si avessero preso l’assunto di dare una mentita alle leggi fisiologiche della dietetica animale. Il 30 agosto, lasciammo Kerretsch di buon mattino, e, fatta breve sosta ad un _tschaparkhaneh_, si giunse alle quattro pomeridiane a Kassemabad, povero villaggio abitato da agricultori curdi. Il _golam_, che ci aveva preceduti di una mezz’ora, ci fece trovar sgombra una delle meno miserabili case, composta di una camera, d’una stalla abbandonata, di una tettoja, e d’uno spazioso cortile, il tutto, non occorre il dirlo, di rozzo fango. Nella camera il solo mobile era una specie di vasca di fango bizzarramente ornata con frantumi di specchio. Attraverso una parete stava l’arma inseparabile del Curdo, una lancia, ma non vedevasi chi l’avesse a portare. Quella casa era abitata da una vecchia e da una giovine rimasta vedova da poco tempo. Costei, come le donne curde in generale, portava il viso scoperto, bello, pienotto, con due grandi occhi, e, per barbaro vezzo, una stella incisa nella cute fra le sopraciglia, ed un altra sul mento. Nella notte io fui preso di nuovo dalla febre, aggravata questa volta dalla complicazione di un accesso di asma, simile a quelli provati nell’escursione al Demavend, ma di tale forza che io credeva morirne, e andava pregando il buon Lessona, che mi sorreggeva, onde mi aprisse le vene. Questo insulto d’asma fortunatamente cessò verso il mattino, nè ebbe mai più a rinovarsi in seguito. La febre continuava, ma ben adagiato e ben coperto nel _kegiavé_, potei rimettermi senza ritardo in viaggio cogli altri, e perfino ristorarmi per via di quel sonno che mi era mancato nella notte. La marcia fu assai lunga, fino ad Abdullahbad, ove prendemmo alloggio in un’abitazione abbastanza pulita. Da qui in avanti le febri mi lasciarono per vari giorni libero e così ristabilito in forza da poter rimontar a cavallo. Il primo settembre assai per tempo facemmo il nostro ingresso in Kazvin, col proposito di prenderci un riposo di due giorni. Il nostro _golam_ si era recato come corriere dal governatore onde farci assegnare un alloggio; il governatore stava in colloquio col _kelantar_ o capo della polizia della città, il quale, al sentire il nome del sig. Nicolas, suo antico conoscente, rispose subito che l’alloggio era bell’e fissato in sua casa ed a tal fine spedì al nostro incontro, alla porta della città il suo proprio figliuolo apportatore del cortese invito. Mirza Assad-Ullah, _kelantar_ di Kazvin, è il più schietto onest’uomo da noi conosciuto in Persia: il suo volto, i suoi tratti, spirano sentimenti umani e cordialità sincera. Ci accolse con ogni dimostrazione di festa, pose a nostra disposizione la sua casa, una della più grandi e signorili della città, ci fece ammannire un lauto pranzo, e solo dopo vive e ripetute istanze del sig. Nicolas, acconsentì a lasciar a noi la cura del nostro vitto. Questi due giorni di riposo furono per noi di gran conforto. Il suntuoso bagno, onde va tanto rinomata la città di Kazvin, era a pochi passi dalla nostra abitazione, ed a noi pungeva non la vana curiosità, ma l’imperioso bisogno di una radicale lavatura del corpo, sotto la spazzola e l’insaponata nello stile orientale. Ma i bagni persiani sono gelosamente chiusi agli infedeli europei, e dopo Tauris, ove ci era aperto un bagno armeno, avevamo dovuto rinunciare a questo benefizio così prezioso in Oriente, non per la sola polizia, ma ben anco per l’igiene del corpo. A costo di far torcere il naso al benigno lettore io devo aggiungere che noi eravamo tormentati dai pidocchi, da quella specie particolare del Levante che annida di preferenza ne’ panni, e sotto il calore del letto trafigge la pelle di sì acute punture da non lasciar riposo. Col mutar delle camicie e delle flanelle si cacciano i vecchi pidocchi, ma poi ne sopragiungono di nuovi. Mirza Assad-Ullah pregato istantemente di procurarci l’accesso al bagno, fu da principio sorpreso e quasi spaventato della prova alla quale erano messi i suoi sentimenti e quasi i suoi doveri di ospite; ma infine cedette, e ci promise il per noi tanto desiderato ristoro. A notte, quando gli abitanti di Kazvin si erano già ritirati nelle loro case, eccolo il buon uomo, colla faccia atteggiata alla grande responsabilità che si tirava sulle spalle, invitarci a seguirlo ma cautamente, in silenzio, come malfattori che s’accingano al delitto. La timida fiammella d’un lampione c’era di guida fra le tenebre. Per via e davanti alla porta del bagno alcune ombre immobili erano senza dubio fidi del _kelantar_ messi a custodia degli sbocchi delle vie. Entrammo così furtivamente nel bagno, e gli scarsi lumicini sotto quell’immensa vôlta, il profondo silenzio, le affrettate manipolazioni de’ lavatori, davano al complesso di quella scena un non so che di grave e di terrifico. Il mattino seguente ebbimo il divertimento di veder il _kelantar_ nell’esercizio delle sue funzioni. Accosciato fuori della porta della sua casa, coll’inseparabile kalian, avea davanti una piccola schiera di suoi dipendenti che uno per volta, avanzandosi verso di lui, gli facevano il rapporto del giorno precedente, ricevevano i novelli ordini, e se ne andavano. Di registrazioni, di archivii, di protocolli non v’è in Persia neppur la stampa, nè è questa la più grave magagna del paese. Il nostro gentile ospite ci volle accompagnar fino alla prima stazione, a soli tre _farsach_ da Kazvin, ad Aga Baba, villaggio chiuso da un’alta muraglia di fango, con bei pascoli e vigneti. Presso il villaggio è un piccolo _tepe_ rivestito della solita vegetazione delle steppe; noi vi eravamo appunto in cima, quando, pensando sempre a queste curiose formazioni, mi suggerì di interrogare Mirza Assad-Ullah sulla tradizione che a sua notizia vi fosse congiunta nel paese. Mi rispose essere credenza generale che siano monticoli fatti inalzare dalla regina Semiramide, per contemplar da quelle alture la sua armata. Da Aga Baba la strada sale a poco a poco per immense scalinate, ed il paese assume un carattere sempre più montuoso completamente arido, fuorchè per brevi tratti ed isolati, ove trapeli dal terreno qualche venuccia d’aqua. La roccia dominante è il porfido, in qualche luogo attraversato da vene e filoni di dolomite. Giungiamo sul mezzodì a Kharzan, gruppo di miserabili catapecchie sul passo della catena che separa l’Irak dal Ghilan, e lì prendiamo stanza nel _tchaparkhanéh_. Il meno schifoso rifugio, ossia una specie di terrazzo coperto sovra la porta, era già occupato da un altro viaggiatore che all’aspetto si poteva prendere per uno straccione qualunque, ed era invece niente meno che un principe del sangue. Ci impossessammo adunque, la famiglia Nicolas della meno sucida stanza terrena, io co’ miei compagni dell’altra che appena sarebbesi potuta chiamare stalla. Mentre eravamo in attesa del pranzo, ecco giungere un altro viandante in abito europeo: era il dott. Küsten sassone, medico a Rescht, diretto a Teheran, col quale passammo assai aggradevolmente una buona mezz’ora[46]. Poi ecco nuovi avventori: un mollah con un suo compagno. Il povero mollah raccontava singhiozzando come fosse stato poco dianzi aggredito da quattro mariuoli che lo aveano spogliato di tutto il suo avere, una cinquantina di tomani, e per di più fieramente bastonato. Il mattino seguente era freddo e nebbioso da lasciarci appena discernere fra que’ nudi greppi il tracciato della via che scende, subito dopo Kharzan, con ripido pendìo, di tratto in tratto rotta e tortuosa tanto da obbligare la signora Nicolas a smontare dal suo _tartaravan_. Quando la cresciuta brezza montana venne a dissipar la nebbia, si aprì al nostro sguardo uno stupendo paesaggio alpestre. Alla sinistra del sentiero scogliere verticali concedenti appena un angusto passo ai viandanti, e grandi squarci con pendii ripidi e sassosi fino alla cima del monte; a destra un vallone profondo con gole e burroni laterali dominati da potenti dirupi salienti a creste e guglie più lontane. Il carattere nuovo di questo versante s’appalesa subito dagli arbusti che scappano dai fessi delle roccie, o già riuniti in macchie vestono qua e là i clivi meno erti, e chiusi pianerottoli. Il frequente chiocciar delle pernici, gli stormi che s’alzano strepitando a volo, non appena alcuno di noi esca dal sentiero battuto, ci svegliano una potente tentazione di sostare a far un po’ di caccia, ma vinse il bisogno di guadagnar tempo. Dopo due ore circa di questo cammino eccoci al fondo, ad un letto di un torrente abbastanza ampio, oltre il quale surge un caravanserai. Da qui in avanti le sponde de’ torrenti e de’ rivi sono segnate da grandi liste cultivate a canne (_Arundo donax_.) Si giunse poscia al Scharud, le cui aque limpidissime dopo breve tratto s’intorbidano d’improviso, per l’affluenza di torrenti montani. Costeggiamo il fiume, e presso un gran ponte solidamente costrutto, in un piccolo spazio ombreggiato da uno scoglio, fra i salici, i giunchi ed i tamarici, ci ristoriamo con una buona refezione. Oltrepassato il ponte, la strada non incontra più il fiume che in qualche suo angolo. La vegetazione si fa sempre più rigogliosa. Quella graziosa specie di piccola pernice che i Persiani chiamano _tihu_, e che è tanto frequente anche al sud dell’Elburz, qui pure è abondantissima, e ne uccidiamo senza scostarci dalla strada. Un vento impetuoso, surto quasi d’improviso, ci molesta grandemente, ed a questo si aggiunge l’altra difficoltà di un rivo profondo, gonfio di aqua, attraversante il cammino, e che passiamo a guado non senza gravi stenti. Ed eccoci infine in una valletta aprica, cinta da poggi verdeggianti, al villaggio di Mendjl. Qui incomincia veramente la ricca vegetazione del Ghilan; qui cresce già l’ulivo. Un bel caseggiato di stile europeo sul pendìo di un colle, appartiene ad una compagnia russa che vi esercita l’industria dell’estrazione dell’olio. Il nostro _golam_ ci procura alloggio in una casa nel centro del villaggio. Il porfido che forma la sommità de’ monti lasciati il mattino, cessa ad un’ora di distanza da Kharzan, e gli succedono potenti masse stratificate di arenaria e di puddinga con grossi elementi, rotte ancora di quando in quando da emersioni porfidiche. Questi monti, discostandosi, comprendono la valle del Schahrud, ma alle loro falde si estende d’ambo i lati una serie di colline di formazione più recente, costituite da strati di arenaria e di marna alternanti, in direzione quasi orizontale, o parallela all’inclinazione generale della valle stessa. Dopo Mendjl il cammino, internandosi da prima in un bosco d’ulivi, si dirige al fiume principale del Ghilan, al Sefidrud (fiume bianco) che si varca sovra un bel ponte nuovo di sette archi, costrutto ove la valle si ristringe, e il fiume s’impegna in una forra dirupata. La roccia delle erte scogliere ad ambi i capi del ponte è un porfido con fitti cristallini feldspatici, impastante massi di varia mole, ora angolosi ora rotondati, di altre roccie, tanto da prendere qua e là l’aspetto d’un conglomerato. Procedendo nella direzione del fiume, succedono al porfido strati alternanti e sconvolti di calcarea, di marna, di arenaria e di puddinga del terreno carbonifero: sottili straterelli di litantrace si presentano infatti in alcuni tagli. Qua e là queste masse stratificate sono rotte da guglie e _dicche_ di porfido. La bellezza del paese, la pompa della vegetazione crescono col progredire nella valle del Sefidrud. Fra le spesseggianti macchie de’ melagrani, de’ pruni, de’ cornioli, de’ frassini, spiccano i bei fiori persichini del _Paliurus aculeatus_; fronzuti oliveti si estendono lungo il letto del fiume, e su per le vallette che vi scendono; i fianchi più elevati dei monti sono rivestiti da boschi di cipressi e di tuje; il fondo della valle è tutto pascoli e risaje, intersecato da folte siepi, ombreggiato da grandi alberi. Qual contrasto col regno delle steppe del versante opposto dell’Elburz! L’umidità del terreno, le sorgenti, i ruscelli che s’incontrano ad ogni passo scendenti da quelle balze montane, ne danno ampia ragione. Sulla destra del Sefidrud tutta la china di un monte è scompartita in scaglioni regolari, cultivati in risaje colle aque di un canale diramantesi dal vertice. Il grosso villaggio di Rudbar che attraversiamo è in un vero giardino, e al di là il sentiero percorre un gran bosco di annosi ulivi stracarichi di frutti. Dopo circa sette ore di cammino che non ci sembrarono troppo lunghe in sì ridente e vario paesaggio, facciamo sosta a Rustemabad, ove non è possibile trovare meno orrendo ricovero che nel _tchaparkhanéh_. Anche là, come a Kharzan, un principe del sangue, specie più che vulgarissima in Persia, ci aveva preceduti, ed occupava la tettoja (non oso dir camera) sovra la porta. L’unica scura cameraccia terrena che serve di sala pei viandanti, fu occupata dalla famiglia Nicolas; per me e pe’ miei compagni fu spazzato alla meglio un pollajo ove stendiamo i nostri materassi. La vasta pianura tra la strada ed il fiume, tutta siepaglie, fratte e boschi, intersecanti prati aquitrinosi, risaje e canneti, mi ricorda la valle di Batum. In un’escursione ornitologica dopo il pranzo ebbi a notare le seguenti specie europee, non rinvenute per lo addietro in Persia: _Cuculus canorus, Gecinus viridis, Sitta cœsia, Orites caudatus, Coccothraustes vulgaris, Fringilla cælebs, Columba palumbus_. Il seguente mattino (7 di settembre), all’ora fissata per la partenza, muli e mulattieri se ne stavano ancora tranquillamente al pascolo lungi dal villaggio, nè accennavano a moversi di là per una ragione che, venuta in chiaro ben tosto, ci pose in estrema agitazione. Le stemperate pioggie de’ giorni precedenti aveano ingrossate le aque de’ torrenti e de’ fiumi, ed un altro Schahrud, a poca distanza da Rustemabad, sulla strada di Rescht, avea rotto il ponte e reso impossibile il passaggio. Tutte le notizie che il signor Nicolas si faceva premura di raccogliere confermavano questo per noi grave disastro. Due grandi carovane stavano lì coi loro carichi a mucchio, accampate ne’ vicini prati, condannate con gravissimo loro danno ad aspettare un qualche provedimento lontano ed incerto che stabilisse il passaggio. Si pensi ora allo spavento di cui fummo invasi noi stessi, al pericolo imminente di perdere l’occasione, quasi certamente ultima nell’anno, del corso regolare dei piroscafi russi del Caspio e del Volga! A consolare la signora Nicolas, Lessona cercava di farle comprendere come un inverno a Rustemabad potesse anche passare discretamente, ma la sanguinosa celia moriva a fior di labra, e nel pensiero v’era tutt’altro. Mentre stavamo tormentando il cervello in ricerca di qualche espediente, venne il _tschapar,_ ossia il mastro di posta, a dirci che se avessimo avuto fiducia in lui, ed un po’ di coraggio, egli sentivasi in grado di condurci sul buon cammino al di là del Schahrud, tagliandolo fuori, e passando invece a guado il Sefidrud. La proposta venne subito accettata, e dopo altra perdita di tempo nel raccogliere i muli, movemmo all’azzardosa impresa. Dopo breve cammino per la via battuta, la nostra guida ci fece volgere a destra, e scendere attraverso campi e boscaglie al greto del Sefidrud, ove questo essendo molto largo, le sabbie lasciano spazio al fiume per dilatarsi nei suoi serpeggiamenti. Uno stormo di avoltoi (_Neophron percnopterus_) vi stavano spacciando un cadavere di cavallo, e si alzarono a volo a due buoni tiri di fucile. Prima la guida cercò il guado, e superatolo seguimmo felicemente il buon esempio. Così ci trovammo alla destra del fiume, ma il nostro cammino essendo sulla sinistra, lo guadammo una seconda volta, dopo aver percorso un lungo tratto sulla sabbia. Fra un passaggio e l’altro avevamo compreso lo sbocco del Schahrud, e così la difficoltà che ci aveva atterriti qualche ora prima era superata. Non fu per altro impresa tanto facile, perchè l’aqua giungeva al petto dei muli, e la forza della corrente, oltre all’essere una resistenza da vincere, produceva un’illusione ottica che tendeva a farci pericolare. I nostri mulattieri furono mirabili di buon volere e di fermezza. Salimmo così sulla riva sinistra per una foresta vergine ove, attraverso i pantani, gli alberi abbattuti, ed ingombri d’ogni natura, riesciva difficile il trovar il passaggio ai muli, e più ancora al _tartaravan_, ma poi dopo lunghi andirivieni riescimmo sulla buona via. Non erano per altro ancora finite le peripezie di questa marcia. Dopo una mezz’ora di cammino, eccoci ad una nuova rottura della strada, ove questa fa un angolo in cui, fra macigni sconnessi, scendono le aque delle pioggie da un piccolo burrone. Lì il _tartaravan_ non poteva passare che vuoto, ond’io per far la mia parte mi avvicino alla portiera e prendo nelle braccia la bambina lattante della signora Nicolas; ma in quel mentre il mio cavallo dà un salto di groppa ed esce nella boscaglia, passando con forza sotto un fronzuto paliuro, le cui forti ed acute spine mi trafiggono e lacerano orrendamente il viso; le braccia, tutte consacrate al carico che mi era affidato, non potevanmi servire di difesa alcuna. Fortunatamente Lessona era lì pronto col suo astuccio chirurgico, e con liste di taffetà mi suggellò le molte ferite, acconciandomi la faccia come un luogo da affissi. Ho voluto narrare alquanto per disteso queste vicende per far vedere in qual condizione si trovi la strada da Rescht a Kazvin, che è pure la principale arteria dell’immenso commercio che la Persia intrattiene necessariamente colla Russia. Ma, come si vedrà in seguito, questa è ancora una vera strada trionfale al confronto del tratto da Rescht al mare. La giornata era scura, di quando in quando piovigginosa, ed allo stato del terreno vedevasi chiaramente che molta aqua era caduta ne’ precedenti giorni. Il caravanserai di Imamzadeh-hascem, ove facemmo tappa, è un grosso edifizio quadrato in solida muratura, e coperto di tegole. Nell’interno non vi sono stanze, ma casematte allineate per tre lati dello spazioso cortile che noi trovammo convertito in uno schifoso pantano di melma nera alta fino al ginocchio, così che l’andare ed il venire dalle nicchie non ci era possibile che a dorso di cavallo od a spalla d’uomo. Lì, in un antro sudicio ed umidissimo, dovemmo bivaccare tutti assieme. Bisogna passare alle regioni intertropicali per vedere una vegetazione più rigogliosa, più splendida di quella che da Rudbar in avanti domina in tutta la vallata del Sefidrud, anzi, a vero dire, per tutta l’estensione delle provincie caspiche della Persia[47]. La mitezza del clima, l’abondanza delle pioggie, ed anche senza queste, la frequenza delle fontane, de’ ruscelli che le grandi giogaie di separazione degli altipiani versano in queste provincie, ne fanno la più bella gemma della corona del re de’ re. Il carattere di questa vegetazione non è gran fatto diverso da quello della valle del Rioni, però meno monotono. La parte piana del Ghilan è in massima parte occupata da foreste vergini, ma più spezzate e più varie; quali folte, impenetrabili, quali diradate, con grandi alberi facenti ombrello ad un ricco tappeto del più fresco ed intenso verde. Gli aceri, i pioppi, le quercia, gli olmi, gli ontani, sui quali s’arrampicano i rovi, la vite, la smilace eccelsa, costituiscono il folto di queste belle foreste, dal quale si distaccano pel loro particolare aspetto esotico grandi acacie e gleditschie. Da Imamzadeh-hascem a Rescht tutto il paese si direbbe un continuo sontuoso parco. Il gelso è pure abondantissimo, qua e là in filari o più soventi in grandi siepi fra le boscaglie naturali ed i campi per lo più cultivati a risaje. In questi campi s’incontrano sorta di capanne isolate in massima parte costrutte di vimini, che servono le une per temporaneo magazzino di riso, le altre per bigattiere. La via molto fangosa per le pioggie de’ giorni precedenti, è per lunghi tratti regolare, larga più dell’ordinario, fiancheggiata da canali, come una strada campestre della bassa Lombardia. Avevamo di poco oltrepassato Duschambe Bazar, quando vedemmo venirci incontro una brigata di cavalieri in abito europeo: erano i signori Hahnart, Moltoni e due fratelli Vlasto, i quali, non appena ci scorsero, spronarono i cavalli per venirci ad offrire a gara l’ospitalità in Rescht. Fu una vera festa di saluti e di felicitazioni; ma la nostra promessa era già data al sig. Hahnart fino dal nostro passaggio in Tauris; ed il sig. Nicolas aveva già accettato l’invito del console russo. I nostri compagni Ferrati, Lignana e Centurioni che ci aveano preceduti da tre giorni ed erano del pari stati ospiti del sig. Hahnart, s’erano già diretti ad Enzeli, col progetto, che poi non poterono eseguire, di fare una corsa col piroscafo russo fino ad Astrabad. Rescht, capitale della provincia del Ghilan, si distingue dalle città degli altipiani della Persia dall’essere le sue case costrutte in muratura e coperte di tegole, privilegio che essa deve alle frequenti e diluviali pioggie; ma questo non vuol dire che vi abbia a difettare l’ordinario inevitabile corredo di rovine e di macerie. Il suo bazar, molto ben fornito, non è in anditi chiusi, come nelle altre città, ma consiste di botteghe allineate l’una presso l’altra nelle contrade più centrali. Si vede subito da queste botteghe quanto vi sia animata l’industria della seta, in che infatti consiste il principale produtto dell’intiera provincia. L’argomento della cultura del filugello nel Ghilan è stato molto bene e compiutamente esposto dal nostro compagno Orio, in un’adunanza dell’Associazione agraria di Torino il 19 gennajo 1863. Come ho detto altrove egli aveva visitata la provincia nella stagione del raccolto serico, e l’avea trovata immune dalla terribile epidemia che devasta le bigattiere d’Europa, al che non reputa indifferente il modo di educazione dei bachi, presso che all’aria libera, in capanne isolate dette _tilimbar_, aperte in basso, chiuse in alto da viminate. Il Ghilan è ancora una località sulla quale fare assegnamento per la provigione di semi di bachi nelle attuali critiche circostanze d’Europa; e sotto questo aspetto il trattato conchiuso dal ministro Cerruti in Teheran, scopo della nostra ambasciata, è veramente utile all’Italia. In forza di questo trattato l’esportazione dalla Persia di semente di bachi da seta, per lo addietro vietata con tanto rigore, è libera agli Europei per quattro anni, contro una modica tassa[48]. La trattura della seta si fa nel Ghilan in modo affatto rozzo e primitivo. Il filatore dà moto all’aspo con un piede, e mette nella bacinella bozzoli a sorte, quanti vengono sotto il pugno, senza previa scelta delle qualità, senza cura del numero, onde nasce che la seta persiana sia tra quelle di minor prezzo. Una compagnia di filatori italiani che tentasse la prova di stabilirsi colà ed introdurvi que’ metodi ne’ quali i Lombardi sono maestri, troverebbe, non v’ha dubio, ampio compenso alla sua industria. Dal sig. Hahnart abbiamo trovato un’accoglienza così amichevole che ci ha messi subito, come direbbero i Francesi, _à notre aise_; abbiamo trovato tutti i ristori della vita materiale, e larghe offerte per quanto ci potesse occorrere anche pel seguito del nostro viaggio. Fu pure una grande sodisfazione il conoscervi personalmente il signor Moltoni, addetto a quella casa commerciale, nostro compatriota di Valtellina, ed il sig. Würth, fratello dell’altro che avevamo conosciuto in Tauris. Le due case Hahnart e Vlasto fanno in Rescht il commercio della seta che spediscono principalmente in Europa per la via di Tauris e di Trebisonda, minore al paragone essendo la quantità che mandano direttamente in Russia per la via del mar Caspio. La seta viene spedita in piccole balle strettamente involte da pelli d’agnello. Il giorno 9 settembre nel fare alcune proviste per la città, mi occorse assistere allo spettacolo di un _tazieh_, sorta di dramma religioso, che ha per tema la persecuzione e la morte di Alì. In una gran piazza stava radunata una folla compatta, gli uomini e le donne in due distinti scompartimenti. Sotto un tendone disteso fra due alberi stavano gli attori, un uomo e due ragazzi: quello declamava gesticolando con enfasi, questi interloquivano. Di quando in quando gli spettatori davano tutti uniti in dirotti scoppii di pianto, fra i quali principalmente si facevano sentire gli strilli acuti delle femmine; poi di nuovo questi pianti cessavano tronchi, e ricominciavano gli attori. Sebben Rescht sia una delle città persiane nelle quali maggiormente domini il fanatismo religioso, nessuno ci molestò o fece atto d’intoleranza della profanante presenza di infedeli europei. È singolare come i Persiani abbiano le lagrime pronte a volontà. Nelle loro cerimonie funebri, ed anche nelle publiche, ricorrenti a battuta d’almanacco, non fingono di piangere, piangono davvero. Incomincia per essi, nel mese che corrisponde al nostro giugno, una quaresima di lutto, il _moharrem_, durante la quale giornalmente i fedeli persiani si recano alla moschea a piangere in memoria di Alì e de’ suoi figli Hussein ed Hassan, primi e legitimi eredi della autorità del profeta. Ho dimenticato di dire a suo tempo come questa circostanza fosse appunto fra le tante invocate dal _mehmendar_, per ritardare il nostro arrivo a Teheran, col pretesto che essendo appunto allora stagione di lutto generale e sacro, il governo non avrebbe potuto accoglierci con que’ segni di giubilo e quelle onoranze che pure avrebbe voluto. Molte volte Abdul Hussein Khan, il quale durante il viaggio amava conversare famigliarmente con noi, alzandosi d’improviso, e troncando un discorso il più delle volte faceto od anche alquanto licenzioso, ci salutava e diceva: — Ora devo andare a piangere. Lo stesso giorno 9 arrivarono in Rescht a marcie forzate anche gli altri nostri compagni partiti da Tedgrisch sei giorni dopo di noi, ed accettarono il cortese invito de’ fratelli Vlasto. Dal canto nostro tutto era disposto onde precederli ad Enzeli; ed a tale scopo avevamo già noleggiato, pel giorno appresso, nuovi muli e nuovi mulattieri del paese, i soli che siano in grado di fare il servizio da Rescht a Piribazar. Volevamo così approfittare anche della compagnia del sig. Würth che doveva consegnare a bordo del piroscafo russo una spedizione di balle di seta. Era pure convenuto di riprendere il viaggio di concerto col sig. Nicolas, per la cui signora fu improvisata una specie di barella portata da due uomini scortati da altri di ricambio. Altre due persone s’erano aggiunte alla nostra carovana: il console russo sig. Zinowiew, ed il sig. Weinberg, giovane diplomatico. Preso commiato dai nostri urbanissimi ospiti, pagato un piccolo tributo ad un posto di doganieri appena fuori la città, ci trovammo impegnati in un orribile bosco paludoso. Quanto ci avean detto delle strane incredibili difficoltà di questo cammino era la stessa verità. Sentiero propriamente detto non ve n’è: la miglior strada, quando la si possa seguire, è un fiumicello tortuoso dall’aqua presso che stagnante. Il resto è fango vischioso e tenace o melma semiliquida ove i muli s’approfondano da non escirne spesso che a stenti grandissimi. Queste povere bestie sono dotate di un singolare istinto nel trovar i passi possibili, e l’attenzione di chi sta loro in groppa è abbastanza occupata nell’evitare di farsi arrotare una gamba contro un albero, o di dar del naso nel sarmento di una vite, o ne’ forti aculei delle gleditschie. Così si continua per due lunghe ore fino a Piribazar. E questo è pure uno de’ più importanti sbocchi al commercio persiano, e da qui passa, per non dire altro, quasi tutto il ferro che si adopera ne’ vasti dominii dello Schah. Al luogo detto Piribazar due soli caseggiati, uno per deposito di merci, l’altro per spaccio di frutta e di pane, surgono in riva ad un canale navigabile, lungo le cui sponde stanno allineati alcuni barconi in attesa del carico. Ne noleggiamo due: l’uno cioè per le casse e per le valigie, l’altro per le persone. Quel canale, d’aqua perfettamente stagnante, serpeggia in un bosco di salici ed ontani, e sbocca nel Murdab[49]. È questo un’immensa laguna, separata dal mar Caspio per mezzo di un gran cordone litorale, intersecata da lingue e da isole di canneti, particolarmente presso i margini. Nell’entrarvi pel canale, di Piribazar si naviga appunto per luogo tratto in un più ampio canale o braccio fra due sponde di questa natura; poi si esce al largo, lasciando ancora ai lati ed all’indietro sempre più rare e distanti isolette di canneti, finchè lo specchio delle aque si dispiega allo sguardo nella sua massima estensione, come un gran lago tranquillo, limitato all’estremo orizonte da una sottile striscia indistinta. Così all’aperto, se il vento è favorevole, si spiega la vela e si ritirano i remi nella barca. Ma ove pel diradarsi de’ canneti è lasciato lo spazio libero all’aqua, sottentra alla vegetazione emersa delle canne la vegetazione sommersa de’ potamogeti, delle ninfee, delle castagne lacustri, che inalzano le loro foglie sino a fior d’aqua, a costituire immensi banchi, ove l’aqua è sì poco profonda, e così fitto è l’intreccio delle erbe, da starvi a pascolo innumerevoli stormi di uccelli. V’erano, al nostro passaggio, millioni di aironi (_Buphus bubulcus_) e branchi numerosissimi di mignattaj (_Ibis falcinellus_). Resta ancora la massima parte dello stagno affatto libera e navigabile in tutti i versi; ed era infatti solcata da navicelle veleggianti, dirette da varii punti verso Enzeli, ove approdammo alle sei del pomeriggio. La cortesia russa, della quale avevamo avute già tante prove, non si smentì in questa circostanza. Il sig. Zinowiew ci volle suoi ospiti, in una piccola casa che egli appigionò a tal uopo. Sebbene preso dalle febri, alle quali però aveva finito per abituarsi, egli era in continuo moto a indovinare i nostri desiderii, a dar provedimenti pel vitto, pe’ preparativi della partenza, a stendere commendatizie per le autorità russe sulla nostra linea, aiutato in ciò dal sig. Weinberg, gentilissima persona, col quale dovevamo viaggiare sino ad Astrakan. Enzeli è una piccola città sul cordone litorale, presso l’interruzione o la bocca che mette il Murdab in communicazione col mare. La linea delle case, elegantemente spezzata dal verde fogliame degli aranci, è verso lo stagno, lungo il quale scorre appunto la strada principale, sorta di _quai_, ove mettono i pochi e scuri viottoli delle più interne abitazioni, e con una lunga fila di barche appoggiate alla sponda. Di prospetto è un gruppo di isole, ed una fra queste, la maggiore, riccamente vestita, e con varie case fra le boscaglie, presenta un lato tutto canneti e salici, parallelo alla sponda della città, limitante così un largo canale d’aqua affatto stagnante, che seguendo sempre la costa si prolunga verso occidente, diramandosi ivi per un vero arcipelago di isolotti di canne, giunchi e salici. Il resto della gran lingua litorale dietro la città è arido, sabbioso, ed a rialzi ondati, o veramente a piccole dune assai inuguali, colla scarpa quasi a ridosso delle case, e col versante opposto dolcemente inclinato verso la spiaggia del mare. Per queste dune sono sparsi rari ed isolati cespiti di melograni e di giunchi. Sulla spiaggia marina verso la bocca del Murdab v’è un edifizio a foggia di rotonda, acuminato in una specie di torre, che serve di caserma per una compagnia di artiglieri. Un pajo di cannoni di grosso calibro difendono il canale dal mare allo stagno, il qual canale, per quanto stretto e poco profondo, permetterebbe ancora il passaggio anche alle grosse navi, con grande sollievo del commercio. Ma la Persia esercita con ostinata gelosia i suoi piccoli diritti maritimi, ed obliga i piroscafi russi ad ancorarsi a grande distanza dal lido. L’anno precedente uno di questi piroscafi portava una machina a vapore per l’arsenale di Teheran, nè essendo possibile farne lo scarico sui battelli in mare, il comandante voleva entrar nel canale, ma gli fu risposto colla minaccia di esser colato a fondo dai cannoni della costa. Fortunatamente il telegrafo sciolse la vertenza. L’autorizzazione chiesta a Teheran venne sollecita: e la nave entrò nel Murdab a deporre direttamente a terra il suo carico. Un’industria particolare ad Enzeli è quella del pane biscotto che è veramente di qualità superlativa. Ognuno di noi pensò a provederne pel seguito del viaggio. I due giorni passati in questa città furono per noi aggradevolissimi; i naturalisti ed i cacciatori vi troverebbero sempre a spendere molto bene il loro tempo. Però devo aggiungere che gli infedeli europei vi sono visti di mal occhio, ed anche provocati con atti di sprezzo e peggio. Due volte, nel passar pe’ viottoli fra i giardini lungo la spiaggia maritima, fui salutato a sassate tirate da mano invisibile, che per buona ventura non mi colsero. Grande è la varietà degli animali che popolano le fitte boscaglie, i canneti, le spiaggie del Murdab. Alla prima oscurità della notte udivamo surgere quasi di concerto, dall’isola a noi di prospetto, gli urli confusi de’ sciaccali vaganti famelici in cerca della preda; grandi stormi di anitre calavano al pascolo, e di qua, di là vedevansi gallinelle palustri col loro tardo volo radere i canneti, o passar da un’isola all’altra. La caccia fatta al mattino in battello, e poscia lungo la riva del mare, fu molto abondante. Noterò particolarmente le seguenti specie: _Eudromias asiaticus, Totanus calidris, Totanus glareola, Xenus cinereus, Tringa cinctus, Tringa Temminckii, Gallinago scolopacinus, Ardea cinerea, Egretta alba, Egretta garzetta, Hydrochelidon hybrida, Hydrochelidon leucoptera, Hydrochelidon nigra_: tutti gli individui di queste tre specie in livrea di gioventù. La piccola testuggine lacustre (_Cistudo europæa_) abonda così smisuratamente lungo la riva dello stagno, nella stessa città, da esserne in alcuni luoghi, durante le ore calde, letteralmente ricoperta la spiaggia, e sifattamente che, per scappar all’avvicinarsi dell’uomo, le testuggini sono obligate a montare l’una sull’altra. Il sig. Zinowiew volle procurarci nel dopopranzo il divertimento d’una partita di pesca, con due barche, in una delle quali eravamo noi, ed un abile pescatore in piedi sulla prora munito del suo sparviere, nell’altra bolliva il _samovar_, e stavano i servi intenti a versarci il thè. Il produtto fu di alcune grosse ed eccellenti _lucioperche_, imbanditeci la sera stessa a cena. Il Murdab non ha alcuna propria specie di pesci; tutte sono communi al mar Caspio, per quanto la qualità dell’aqua sia differente. Quella dello stagno è quasi dapertutto affatto dolce, soltanto salmastra presso Enzeli; quella del Caspio è salata, sebbene in assai diverso grado ne’ varii suoi punti, intorno al qual argomento dirò fra poco. Il giorno 11, sulla sera, giunsero anche i nostri compagni rimasti in Rescht: eravamo così tutti radunati e pronti alla partenza. Il piroscafo russo che doveva prenderci a bordo era atteso il dì seguente davanti ad Enzeli; e noi di tratto in tratto correvamo alla spiaggia per spiare verso oriente qualche colonna di fumo che lo annunciasse: ma per tutto quel giorno il nostro attendere fu invano. Una buona novella si diffuse nella nostra brigata il mattino seguente: il piroscafo era giunto nella notte, e stava solitario all’àncora ad un tiro di cannone dalla sponda. Era la _Tamara_, comandata da un capitano tedesco, il sig. Müller. Molte barche movevano dalla città a caricarvi merci e specialmente enormi balle di cotone; e ci affrettammo noi pure a spedirvi il carico de’ nostri non pochi bagagli. Il mare era tranquillo affatto, e ci prometteva felice navigazione; non così il bastimento che servendo quasi esclusivamente al trasporto di mercanzie, tiene per mero soprapiù un qualche posto per una mezza dozzina di passaggieri: e noi eravamo quattordici, non contando le due bambine del sig. Nicolas. Il capitano al riceverci fece le sue scuse del non poterci offrire un più conveniente asilo, aggiungendo che un numero così grande di passaggieri era qualche cosa di affatto insolito pel tratto dalla Persia a Baku. Ci allogammo alla meglio, parte nel piccolo salotto, parte nel piccolo spazio sul ponte dalla parte di prora, altri infine sulle balle di cotone ond’era ingombro tutto il maggior spazio restante. Poco dopo il mezzo giorno la _Tamara_ salpò, e noi mandammo un saluto _sans regrets_ al caro lido della Persia che andava dileguandosi da’ nostri occhi. Da questo momento ci consideravamo in Europa. Il mar Caspio è a tutto rigor di termine e di pieno dritto un lago russo. Lungo la deserta e quasi sconosciuta sponda orientale del paese de’ Kirgisi e de’ Turcomanni, s’incontrerebbe appena qualche barca peschereccia, o nave di pirati. La Persia è condannata dalla sua inerzia ed anche, per formalità, dal trattato di Turkmantschai, a non aver su questo mare che piccole barche pel cabotaggio: la grande navigazione è dunque tutta in mano della Russia, la quale vi intrattiene una marina di guerra esuberante al bisogno, ed ha concesso ad una società privata il privilegio de’ trasporti de’ passaggeri e delle merci. La navigazione mercantile si estende fra i due punti estremi di Astrakan ed Astrabad. Solo nella buona stagione, cioè da maggio a settembre, vi sono due regolari corse mensili fra questi due punti con stazione intermedia e cambio di bastimenti a Baku, e fermata agli scali di Petrowsk e Derbent sulla prima linea di Lenkoran, Astara ed Enzeli sull’altra. Per meglio assicurarsi questa linea, nel 1841 la Russia prese possesso di due isolotti al porto di Ashuradah presso Aslrabad, e vi impiantò una forte stazione maritima. Fuori degli indicati limiti di tempo la navigazione del Caspio non è più regolare, ma dipende dallo stato del mare e de’ venti; e nel cuor dell’inverno le corse fra Baku ed Astrakan sono sospese affatto. Anche nella buona stagione, in caso di mare grosso che impedisca davanti ad Enzeli un sicuro ancoraggio, i piroscafi russi filano diritto senza arrestarvisi. Da questo si comprenderanno le nostre inquietudini di Rustemabad, e la nostra gioja di trovarci infine sulla linea d’Europa bene o male poco importava, purchè sicuramente. XVIII. Il mar Caspio. — Sua salsedine. — Carattere lacustre della sua fauna. — Antico suo perimetro. — Una communicazione diretta fra il mar Caspio ed il mar Nero non ha mai esistito. — La guerra agli istmi. — Provedimenti del governo russo. Noi avevamo dunque raggiunto il Caspio, questo mare anomalo: mare per l’estensione e la natura delle aque, lago per l’isolamento, e sovra tutto per la fauna. Per quanto potesse sembrare temeraria pretesa lo spigolare in un campo ove già aveano mietuto uomini come Güldenstaedt, Pallas, Eichwald e Baer, stava fra i più vagheggiati progetti del nostro viaggio quello di passare qualche tempo sulle rive di questo mare, e visitare alcuno dei suoi grandi stabilimenti di pesca. La fauna ittiologica del Caspio ha ancora bisogno di qualche ritocco, ed i naturalisti possono sperare ancora di trovarvi qualche angolo inesplorato nel mondo secreto degli animali inferiori. Ma le febri che mi perseguitavano, e quelle che sulla sponda stessa di questo mare colsero il mio inseparabile compagno Lessona, ci consigliarono ad affrettar il viaggio verso la nostra patria. Tuttavia i giorni passati alle stazioni di Enzeli, di Baku e di Astrakan non andarono affatto perduti, ed il poco che ho potuto vedere mi ha posto in grado di meglio apprezzare gli importanti lavori degli academici di Pietroburgo, pe’ quali venne aggiunto il suggello della scienza alla ragione della forza, che fa del Caspio un lago russo. La superficie libera di questo mare è all’incirca il triplo di quella dell’Adriatico[50]; ed è noto da gran tempo che il suo livello medio è inferiore a quello del vicino mar Nero, di 81,4 piedi, ossia metri 26,40. Per la massima parte del suo perimetro è limitato il Caspio da aride steppe e pianure sabbiose: soltanto al sud ed al sud-ovest la spiaggia sale per scaglioni alle grandi catene del Mazanderan, del Ghilan, e del paese del Talysch. Sono, al paragone, affatto insignificanti i rilievi della sponda orientale, come la piccola catena che attraversa la penisola del Magynschlak, il promontorio Tük-karagan, e più al sud, presso il Kara-bogas, i monti Tschagadan e Balchan. Nessuna isola sorge in mezzo a questo mare. Un numero immenso di isolette di sabbia sono allineate presso la sponda al nord, ed altre presso la costa orientale, tra le quali le due maggiori Tschelekän e Ogurtschinsk, importanti per la caccia delle foche, e la prima ancora più per l’altro cospicuo produtto della nafta. L’Atrek e l’Embla, con altri minori fiumi intermedi provenienti dalle steppe turaniche, quindi procedendo l’Ural, il Volga, il Kuma, il Terek, il Kur congiunto coll’Arasse, e da ultimo il Sefidrud, portano il tributo di una immensa massa di aque, a quanto pare non peranco sufficiente a compensare l’evaporazione dall’ampio specchio di questo gran mare chiuso, il quale, per conseguenza, va lentamente ma di continuo, diminuendo di estensione. Si deve aggiungere che stando ad alcuni fatti il mar Caspio andrebbe soggetto ad una periodica vicenda del suo livello, intorno alla quale però si ha difetto di precise osservazioni. Questa vicenda, attribuita da alcuni a periodiche oscillazioni di inalzamento e di abbassamento del fondo del mare, e delle circostanti sponde, sarebbe piuttosto dipendente da una causa meteorica[51]. La salsedine del Caspio ha una origine evidente. La quantità di sali che molti e grossi fiumi versano continuamente in questo ampio bacino chiuso, e che per evaporazione vi si concentrano, risulterebbe immensa anche solo prendendo quest’aqua affluente nella composizione dell’ordinaria aqua dolce. Aggiungasi ora che l’aqua di alcuni tra questi fiumi contiene sali in proporzione assai maggiore. L’Arasse, per esempio, sbocca nel Kur e quindi nel Caspio, dopo aver lavato il terreno salifero dell’Armenia; un piccolo fiume, l’Atrek, sboccante presso Asterabad, mena aqua salmastra, ed io ho trovata l’aqua del Kyzil-uzun, ramo principale del Sefidrud, al ponte del pastore presso Mianeh, così sensibilmente salata da non essere potabile. A questa crescente salsedine del Caspio si è attribuita la estinzione (in parte almeno contradetta) di alcune specie di molluschi delle quali non si trovano che i vuoti nicchi. Tutta la creazione organica di questo mare è minacciata di estinzione in un avvenire più o meno remoto; e ben fondati sono i timori che agitano il governo russo per la sorte delle grandi pescaje caspiche rappresentanti, fra gli annui profitti demaniali del vasto impero moscovita, la grossa cifra di circa cinquanta millioni di franchi. Non è infatti da dubitarsi menomamente che per l’accumularsi incessante dei sali l’aqua di questo mare, separata dalla grande circolazione oceanica, non finisca per divenire impropria al mantenimento della vita. Non si può a questo proposito fare altra quistione che del tempo. Per buona sorte questa è stata sciolta dall’illustre Baer in modo da dissipare i timori della presente umana generazione: la soluzione pratica della questione ha mitigato il rigore della sentenza teorica. Il dotto academico di Pietroburgo ha dimostrato che, entro un certo limite di tempo, la media generale della salsedine del Caspio non cresce sensibilmente, perchè l’eccesso de’ sali invece di rimaner uniformemente distribuito in quella immensa massa di aqua, è portato dalle correnti verso la sponda orientale, ne’ seni e ne’ golfi, ove i continui venti ed il calore ardente di estati senza pioggie promovono una rapida evaporazione. Il golfo scitico, il Karabogas, questo immenso estuario quasi circolare che s’interna nelle steppe, e communica col mare per un piccolo stretto, agisce come un ampio bacino di concentrazione, a tal punto che il sale vi si deposita continuamente sul fondo. La stessa concentrazione, meno rapida però, ha luogo in altri seni verso il nord, come nel Karasu, e nel Mertewyi Kultuk. Hanno così origine degli stagni saturati che la continua formazione dei cordoni litorali tende a separare a poco a poco dal resto del mare. Con tutta probabilità questa è l’origine da attribuirsi a’ laghi salati chiusi nella pianura nella provincia di Astrakan alla sinistra del Volga; ed in tal modo l’affluenza incessante de’ sali nel mar Caspio è controbilanciata in gran parte da una continua perdita. Al dire di Plinio e di Plutarco l’aqua del mar Caspio era dolce e potabile quando per di là passarono Alessandro e Pompeo: che tale sia stata quell’aqua in origine è opinione sostenuta anche fra i moderni, da Buffon e da Goebel. Hommaire de Hell invece le attribuisce un grado di salsedine superiore a quella stessa dell’Oceano. Tutti potrebbero aver ragione ancora oggi, secondo il luogo ove si prenda l’aqua per l’assaggio. La distribuzione dei sali per la vasta estensione di questo mare va soggetta a grandi mutazioni, secondo i luoghi, e secondo la direzione e la forza dei venti. Ho accennato ora alla concentrazione dell’aqua del Caspio in alcuni seni della sua sponda orientale. Le correnti dei fiumi si spandono invece assai lungi in pieno mare. Noi abbiamo trovata, per esempio, l’aqua perfettamente dolce e potabile a 60 miglia di distanza dalle bocche del Volga, quando la terra non era per anco in vista. L’aqua lungo la spiaggia ad Enzeli, presso lo sbocco del Murdab, era appena salmastra, ed entro il Murdab stesso, per poco si deviasse dal canale che dà in mare, perdeva ogni sapore salino. Questo ordine cambia intieramente colla direzione dei venti; così, per esempio, un forte vento del sud spinge l’aqua salsa fin presso Astrakan. Tolto il Karabogas, il mar Caspio si divide in due bacini: quello settentrionale non ha più di 19 metri di profondità[52], e l’aqua vi è quasi dolce per gli sbocchi del Terek, del Volga, dell’Ural e dell’Embla: nell’altro al sud la profondità cresce rapidamente, e nel suo mezzo gli scandagli non arrivano a toccare il fondo. Questo secondo bacino è diviso ancora in due parti da una linea congiungente la punta di Apscheron ed il capo Krasnodowsk. Il signor de Baer volendo far rinovare l’analisi dell’aqua di questo mare dovette inanzi tutto vincere la difficoltà della conveniente scelta del luogo, ove la composizione di quest’aqua potesse rappresentare la media generale; e questo luogo fu determinato presso il promontorio Tük Karagan, ove è più costante la miscela dell’aqua del bacino settentrionale con quella del bacino meridionale. Il campione d’assaggio fu preso alla superficie, mancando il signor de Baer di un apparato per attinger aqua nel profondo. Ecco il risultato dell’analisi instituita dal signor Mehner[53]. Cloruro di sodio 8,9504 » di potassio 0,6510 Solfato di magnesia 3,2610 » di calce 0,5592 Bicarbonato di magnesia 0,2034 » » di calce 0,3730 Aqua e perdita 986,0000 ——————————— 1000,0000 Questo risultato è molto importante. La forte proporzione di solfato di magnesia è un carattere affatto proprio e caratteristico dell’aqua del Caspio, e contribuisce per sua parte a mostrare sempre più come questo mare non possa essere tenuto in conto di uno smembramento dell’Oceano. Il nodo di tutte le questioni che si agitano intorno al Caspio sta nella sua fauna. Il prospetto seguente è fondato sulla pregevole monografia del signor Eichwald, alla quale ben poco hanno aggiunto le ricerche posteriori. Una rivista generale, una nuova critica delle specie, e sovratutto de’ Salmonidi e de’ Ciprinidi, è lavoro da raccomandarsi caldamente ai naturalisti russi, ma qualunque abbia esserne il frutto nell’interesse della zoologia pura, il risultato generale che già si ottiene coi materiali attuali non potrà essere mutato. Ecco adunque l’elenco degli animali del Caspio. _Phoca caspica_ Nils. Molto abondante specialmente lungo la spiaggia e sugli isolotti della costa orientale. _Accipenser huso._ L. (Bieluga). _Acc. Güldenstaedti._ Brandt (Ossetr). _Acc. stellatus._ Pall. (Sevriuga). _Acc. pygmæus._ Pall. (Sterlet)[54]. _Silurus glanis._ Lin. _Cobitis_ (_Acanthopsis_) _tænia._ Lin. _Cob. caspia_ Eichw. (Specie incerta) _Esox lucius._ Lin. _Trutta Sieb_..... Nell’inestricabile confusione e forse miscela reale delle specie del genere _Salmo_ ristretto da Cuvier, è impossibile determinare, senza apposito studio e confronto d’un gran numero di esemplari, se nel Caspio se ne trovino una o più specie, e cosa sia veramente il grosso salmone di questo mare. Pallas registra come specie del mare stesso e de’ suoi fiumi le seguenti: _Salmo nobilis_, _S. spurius_, _S. hucho_, _S. fario_, tutte da rivedersi e da confrontarsi colle specie dell’Europa centrale. Io dirò soltanto che tutti gli esemplari da me esaminati, alcuni anche grossissimi, aveano due ordini molto bene distinti di denti vomerini. Eichwald conferma la frequenza nel Volga e nell’Ural, proveniente dal mare, della specie anomala, _coregonoide_, descritta da Pallas col nome di _Salmo leucichthys_, che si trova anche nell’Obi e nel Lena, ove rimonta dall’Oceano artico. Questa specie è da assoggettarsi a nuovo esame. _Clupea pontica._ Eichw. Beschenka de’ Russi. Con questa specie è ormai riconosciuta identica la _Cl. caspia_ del medesimo autore. _Atherina caspia._ Eichw. _Ath. pontica._ Eichw. O queste due specie sono da riunirsi in una sola, oppure la seconda trovasi anche nel Caspio, avendola io rinvenuta communissima a Baku. Gli esemplari che si conservano ora nel museo di Torino mancano della fossetta anale caratteristica della prima specie, ed in tutto si conformano alla descrizione data da Eichwald della _Ath. pontica_. _Perca fluviatilis._ Lin. _Lucioperca sandra._ (L.) _L. volgensis._ (Pall.) _L. marina._ Cuv. (_Pesca labrax._ Pall.) _Gobius batrachocephalus._ Pall. _G. sulcatus._ Eichw. _G. affinis._ Eichw. _G. caspius._ Eichw. _G. nasalis._ De Fil. (Archivio di zoologia ecc., Modena, 1863)[55]. _Benthophilus macrocephalus._ (Pall). _Cyprinus carpio._ L. _Tinca vulgaris._ Cuv. _Capæta Sevangi._ De Fil.[56]. _C. Güldenstaedti_. De Fil. (_Scaphiodon capœta_. Heck). _C. nigra_. (_Scaph. niger_. Heck). _Chondrostoma regium_. (Chondrochylus. Heck.[57] _Cypr. nasus_ iuxta Pallas?) _Barbus mustaceus_. (Pall.) _Leuciscus rutilus_. L. _Abramis brama_. (L.) _A. vimba_. (L.) _A. ballerus_. (L.) _A. sapa_. (Pall.) _A.? persa_. (Pall.) _A. (Blicca) laskyr_. (Güld.) _Pelecus cultratus_. (L.) _Aspius rapax_. Ag. Sarebbero da aggiungersi qui altre specie non sufficientemente definite da Eichwald, co’ nomi usitatissimi ma di così incerto significato, di _Cypr. idus, C. erythrophtalmos, C. orfus, C. cephalus, C. gristagine, C. leuciscus_, ecc. _Syngnatus caspius_. Eichw. _S. nigrolineatus_. Eichw. _Petromyzon fluviatilis_. L. _Astacus leptodactylus_. Esch. _Gammarus_.... Tre distinte specie, non ancora sufficientemente studiate, abbiamo raccolto di questo genere, ad Enzeli ed a Baku, a due delle quali potrebbe convenire la frase troppo succinta colla quale Eichwald contrasegna il _Gam. caspius_ di Pallas, differenti però tra loro notevolmente pei caratteri delle antenne. _Idotea acuminata_. Eichw. Del mar nero. La sua presenza nel Caspio è soltanto dallo stesso Eichwald supposta[58]. Pe’ molluschi ommetto le specie fossili, e mi attengo al catalogo di Eichwald. _Paludina vivipara_, (delle bocche del Volga). _P. variabilis_. Eichw. _P. (Bithynia?) pusilla_. Eichw. _Rissoa (Bithynia?) caspia_. Eichw. _Neritina liturata_. Eichw. (_N. danubialis_. Ziegl.) _Dreissena polymorpha_. V. Ben. _Mytilus edulis_. L. Accennato vagamente da Eichwald come trovantesi nei Volga: probabilmente confuso con qualche varietà della specie precedente. _Cardium Eichwaldii_ Reeve (_C. edule_. Eichw. non Lin). _C. rusticum_. L. _Didacna trigonoidea_. (Pall.) _D. crassa_. Eichw. _Monodaena caspia_. Eichw. _Adacna edentula_. (Pall.) _A. plicata_. Eichw. _A. laeviuscula_. Eichw. _A. vitrea_. Eichw. _A. colorata_. Eichw. Delle foci del Don, ed anche probabilmente, secondo Eichwald, di quelle del Volga. _Nereis noctiluca_. Pall. Eichwald stesso non è sicuro della presenza di questo anellide nel Caspio. Lo scintillare fosforico di questo mare nelle notti estive è attribuito, anche secondo il nominato Eichwald, ai piccoli gammari. Aggiungerò a tale proposito che per quanto io facessi attenta osservazione nelle notti passate su questo mare, dall’undici al venticinque di settembre, non mi venne fatto di scorgere alcuna traccia di fosforescenza. _Alcyonella?_... Attorno ai rami semifracidi del fondo del Murdab rinvenni colonie di briozoi, aventi il carattere delle Alcionelle nel modo di aggregazione degli individui. Le circostanze non me ne permisero un accurato studio. Fra queste colonie si costruisce il nido un piccolo ragno che del pari non potei convenientemente esaminare, sebbene con ogni probabilità debba considerarsi come affatto nuovo, e molto interessante pe’ suoi costumi. _Tubularia (?) caspia_. (Pall.); specie troppo imperfettamente conosciuta, sebbene, al dir di Eichwald, non rara. Direi che è impossibile il non essere subito e vivamente colpiti dal carattere affatto lacustre di questa fauna, se il fatto non avesse dimostrato che qualche volta anche l’evidenza non si vede; se la pluralità degli autori, tenendo conto soltanto di pochi titoli molto dubiosi non avessero saltato di piè pari la discussione degli altri assai più validi per numero e per autenticità, che spogliano il Caspio del diritto legitimo ad ogni parentela coll’oceano. La sorpresa cresce quando si vede uno dei giudici più autorevoli, il signor Ehrenberg, ancora affatto recentemente, prendere la difesa di quella usurpata dignità, e sostenere che il Caspio conserva ora, come ha avuto fino dall’origine, il più deciso carattere di mare. Non soltanto vi manca assolutamente ogni rappresentante di grandi tipi pelagici, come di plagiostomi, di cefalopodi, di echinodermi, di polipi veri, ma perfino non vi è penetrata alcuna specie, anche fuorviata, di pesci marini viaggiatori, come sono gli scomberoidi così abondanti nel vicino mar Nero. Pel contrario nessuna delle specie che abbiamo registrate può ritenersi come esclusivamente marina; e quelle stesse che sono state dagli autori citate come tali, non fanno punto eccezione. Così le foche si trovano anche nel lago Baikal, la cui aqua è affatto dolce. Un molto bello e grosso individuo di _Lucioperca marina_ cadde nelle nostre reti in un canale del Murdab, ove l’aqua era del pari sensibilmente dolce. Si citano i Latterini (_Atherina_) e gli Aghi (_Syngnathus_); ma i primi sono così poco esclusivamente marini, che noi ne abbiamo nelle aque dolci d’Italia, e dei secondi io ho trovato una specie nel lago Paleaston presso Poti. Il _Gobius batrachocephalus_ che trovasi pure nel mar Nero, fu da me pescato anche in un ruscello presso Batum; il _Benthophilus marocephalus_, pure commune al mar Nero, si trova anche nel Murdab, in siti ove l’aqua può dirsi dolce. La _Clupea pontica_ risale il Volga in banchi enormi. Il _Cardium edule_ del Caspio è differente dal vero _C. edule_ degli autori, il quale d’altronde entra nel Tamigi fino all’altezza di Gravesend: specie del genere _Adacna_ si trovano anche negli sbocchi del Volga, del Don, del Dnieper e del Dniester. La presenza nel Caspio di una _Idotea_ e di una _Nereis_ è talmente dubiosa, che non se ne può fare conto veruno. Quanto alla _Tubularia (?) caspia_, essa è in primo luogo troppo imperfettamente conosciuta, ed in secondo luogo non potrà mai figurare come un tipo esclusivamente marino, dopo la scoperta di una Tubularia (_Cordylophora_) d’aqua dolce. L’esame microscopico del fango preso collo scandaglio in varj punti dal fondo del Caspio, ha rivelato al sig. Weisse ed al signor Ehrenberg una moltitudine di forme nuove, e date come veramente marine, di politalamj, di poligastrici, di diatomee. Il fatto è certamente molto interessante; ma la diffusibilità di questi organismi microscopici può essere altrimenti spiegata che per mezzo della continuità dell’ambiente ordinario della loro vita. Non sarà certamente il celebre autore della monografia sulla polvere alisea (Passatstaube) che vorrà contrastare la possibilità della diffusione di questi minutissimi corpuscoli pel gran veicolo dell’atmosfera. Vengono ora le alghe. Il signor Eichwald ne cita tre specie marine nello stretto senso della parola: cioè _Ulva intestinalis_, L. _Chondria obtusa_, Agd. _Polysiphonia fruticulosa_ Grew, le quali sono veramente frequentissime nel Caspio. Anzi con ogni probabilità non saranno queste le sole specie di alghe marine di quelle aque: ma noi conosciamo, per un numero esorbitante di esempj, con quanta varietà di mezzi avvenga la diffusione delle piante anche per grandi distanze, in siti affatto isolati. La fauna del Caspio adunque è senza contrasto una fauna di carattere lacustre: ma possiamo far di più. Paragonandola con altra più anticamente conosciuta, possiamo asseverare che è una fauna danubiana, con aggiunta di poche specie proprie destituite di uno stampo locale deciso; specie sedentarie, per le quali si può ammettere la possibile circoscrizione ad un lato soltanto di un gran bacino. Altre poche specie aggiunte hanno invece uno stampo asiatico, come sono quelle del genere _Capoeta_, com’è pure il _Barbus mystaceus_ così ben caratterizzato dallo straordinario sviluppo del terzo raggio osseo della pinna dorsale. Se facciamo attenzione ai soli pesci, possiamo stabilire approssimativamente le seguenti proporzioni: su circa 45 specie, di tipo essenzialmente marino nessuna; communi al Danubio 28; proprie del Caspio 7; communi al mar Nero 5, tutte trovantisi anche in aque dolci; di origine asiatica e trovantisi anche nei fiumi della Persia 5. L’_Astacus leptodactylus_, la _Neritina liturata_ (da non distinguersi dalla _danubialis_), ed anche la _Dreissena polymorpha_, concorrono a dar alla fauna del Caspio il carattere danubiano, o meglio ancora inversamente alla fauna del Danubio il carattere caspico. Adunque coloro che intendono tracciare la storia fisica della grande regione nella quale questo mare è incluso, devono più che il Ponto Eusino aver di mira il Danubio. Da Pallas in poi si ripete ad ogni occasione che il mar Caspio ed il mar Nero sono stati un tempo congiunti. Questa espressione è per lo meno inesatta. Una communicazione diretta fra i due mari parmi si possa ricisamente negare: un’antica communicazione fluviale molto indiretta è forse ammissibile, ma non è di questa che s’intende parlare, che altrimenti l’espressione non avrebbe portata alcuna. Il perimetro del mar Caspio è molto diminuito da quanto era anticamente; ed una gran parte del suo primitivo fondo trovasi ora all’asciutto. Su questo riguardo le antiche osservazioni di Pallas hanno ricevuto piena conferma dai lavori più recenti di Murchison e di Baer. Sull’epoca nella quale le aque del Caspio rientrarono nel bacino attuale, le opinioni sono diverse. Pallas, fondandosi su molto oscuri ed incerti documenti istorici, sostenne che le aque del Caspio bagnassero ancora, nel IV e V secolo, un gran tratto di quella che ora è pianura asciutta all’occidente; ma d’altra parte chiari e positivi dati che si trovano in Erodoto escludono ogni dubio che fin dai tempi di questo scrittore il Caspio fosse ridotto già all’estensione attuale. Baer con nuovi argomenti, tra’ quali è importante quello del tempo immensamente lungo che il Volga ha dovuto impiegare a scavarsi l’attuale suo letto, concorre a dimostrare che il ritiramento del Caspio si è effettuato in tempi anteriori ad ogni testimonianza umana; in epoca da chiamarsi storicamente antica, sebbene geologicamente moderna. Depositi per lo più incoerenti, con strati di conchiglie di specie identiche a quelle che vivono tutt’ora nel Caspio, occupano una grande estensione di terreno nella Russia meridionale e nelle confinanti regioni dell’Asia. Essi prolungansi molto avanti nel nord, fin oltre Saratow, per tutta la pianura solcata dalle aque del placido e quasi dormiente Volga. Ad oriente, girando attorno l’alto piano dell’Ust Urt, si estendono, senza limiti ben definiti, per il vasto deserto de’ Kirgisi e de’ Turcomanni; ad occidente occupano le steppe de’ Calmucchi, ed oltrepassando l’istmo si fanno vedere ancora lungo le sponde del mar di Azow. Questi depositi costituiscono quella che i signori de Verneuil e Murchison hanno chiamata formazione caspica superiore, perfettamente sincrona col pleistocene dell’Europa occidentale. Al di sotto di essi occupano un’assai maggior estensione altri sedimenti, che sono marne di varie qualità, e pietre calcaree in strati regolari, orizontali, o poco dislocati, ricchissimi di conchiglie d’aqua dolce o salmastra, di specie poco numerose, ma in numero veramente strabocchevole di individui. Domina fra queste roccie una calcarea, non d’altro costituita che da frammenti di conchiglie o nicchj intieri cementati: è la roccia chiamata calcarea delle steppe, o calcarea Aralo caspica. Le conchiglie univalve (paludine, rissoe, limnee, neritine) sono sproporzionatamente scarse al confronto delle bivalvi, cardiacee e mitilacee. Le specie tutte affatto differenti da quella che abitano ora il mar Nero, sono invece grandemente analoghe a quelle che ora vivono nel mar Caspio ed allo sbocco de’ maggiori fiumi della Russia meridionale: tanto analoghe che per un buon numero di esse la differenza specifica è ridotta a pochissimo od a nulla. È questa la formazione caspica inferiore, equivalente al pliocene del bacino del Mediterraneo. Dalle falde dell’Hindu-kho e de’ monti della Tartaria, per tutta l’immensa pianura aralo-caspica, questa formazione si prolunga verso occidente dalle steppe del Don fin nella Bessarabia. Sono troppo note le belle ricerche di Dubois de Montperreux, di de Verneuil, di Murchison sull’estensione e la giacitura di questa formazione, perchè sia d’uopo riepilogarle qui nei loro particolari. Mi basterà soltanto aggiungere che, al disotto della calcarea delle steppe, si distendono in Crimea altri strati fossiliferi, ricchi di specie marine affatto differenti da quelle dell’attuale mar Nero, e che ben a ragione i geologi, di commune consenso, riferiscono al periodo miocenico. La così detta calcarea delle steppe segna il limite occidentale-meridionale, il solo positivamente determinato, di un immenso mare interno che all’epoca pliocenica occupava una gran parte dell’Europa orientale e dell’Asia. Dalla natura degli esseri organici, dalla grande estensione della superficie evaporante, e da quanto si rileva dei bacini residui, si può dedurre che l’aqua di questo mare fosse appena salmastra. Il ponto Eusino, il Caspio, il mar d’Aral, il lago Balkasch ed una moltitudine di altri piccoli laghi disposti a rosario come per raggiungere a nord-est il mar glaciale, sono considerati da Humboldt come membra staccate di questo sterminato mar interno, che estendevasi fino a communicare direttamente coll’Oceano artico. Già qualche cosa di ciò aveva balenato alla mente perspicacissima di Pallas, quando, al proposito dell’estensione geografica dell’Accipenser huso, lasciava scritto: _dicuntur etiam (cum reliquis accipenserum speciebus) pullulare in vastis lacubus magnae Tatariae deserti: Aral, Balkasch, Alak-Tughul, quos olim cum mari caspio per plana communicasse verosimile est._ Tutte le osservazioni posteriori sono venute in appoggio di questo pensiero di Pallas, amplificato da Humboldt: ma non abbiamo un solo veramente valido argomento che accenni ad una communicazione diretta di questo gran mare interno col mare generale: le specie veramente pelagiche ne sono affatto escluse. Come già ho fatto osservare, nessuna specie genuinamente mediterranea si trova ora nel mar Caspio, o negli altri grandi laghi salati del medesimo originario sistema: e dall’altra parte non vi si riscontra alcuna forma marina boreale, e per esempio, alcuno de’ tanti copiosi gadoidi dell’oceano Artico[59]. A questi caratteri negativi della fauna si aggiungano i positivi delle particolari specie di storioni, di ciprinidi (_Abramis, Petecus_), di cardiacei e di mitilacei (_Dreissena_); ed emergerà sempre meglio l’indipendenza, l’isolamento di questo gran mare interno europeo-asiatico. Passiamo ora al mar Nero. Noi non ci preoccuperemo di un’epoca remota nella quale il bacino pontico abbia potuto far parte del gran mare salmastro interno: noi dobbiamo prender il mar Nero al momento in cui ha avuto un’esistenza distinta ed una fauna marina. Sotto questo punto di vista il mar Nero è una dipendenza del Mediterraneo, ed appena si distingue dalla madre patria per un minor grado di salsedine, e per una molto minore varietà di specie: due caratteri in stretta relazione fra di loro. Se cerchiamo la ragione di queste differenze, ci troviamo in faccia ad una fondamentale quistione. Quando il bacino pontico è diventato un golfo del Mediterraneo, e ne ha presa la fauna? È nota l’opinione che riferisce l’apertura del bosforo tracico, e la consecutiva invasione del Mediterraneo nell’attuale mar Nero, ad un’epoca molto recente, se non storica nello stretto senso della parola. Aristotele, Strabone, Diodoro Siculo, fanno coincidere questo avvenimento col diluvio di Deucalione. Dubois de Montperreux lo riferisce alla fine dell’epoca quaternaria, ed ha consenziente la massima parte de’ geologi. Malgrado una così rispettabile autorità è impossibile non vedere nelle traccie della primitiva fauna marina pontica documenti di una più antica esistenza del mar Nero attuale. Sono preziose a questo proposito le recentissime osservazioni del signor Abich[60], il quale ha descritto, lungo le due penisole di Kertsch e di Taman, un deposito litorale (già vagamente indicato dal signor di Verneuil), che si inalza dai 12 ai 16 piedi sul livello attuale del mare, caratterizzato da un gran numero di conchiglie mediterranee differenti in gran parte da quelle che vivono oggi nelle corrispondenti regioni del mar Nero stesso, e indicanti, pel numero delle specie, una fauna molto più ricca dell’attuale di questo mare. Con ogni probabilità si devono considerare come depositi dell’istessa natura e della medesima epoca quelli oscuramente accennati da Hommaire de Hell nella Romelia e nell’Anatolia, ad un’altezza ancora maggiore sul livello del mare. Questi dati che fanno credere all’esistenza del mar Nero con una più ricca e più decisa fauna mediterranea fin dal principio dell’epoca quaternaria o pleistocenea, sono di un gran peso nella quistione, poichè è forza ammettere la coesistenza, nella stessa epoca, del mar salmastro interno nel secondo suo periodo, in quello cioè che ha dato luogo al deposito della formazione caspica superiore. Il limite fra i due mari doveva esser quello medesimo segnato tutt’ora dalle frastagliate scogliere (_falaises_) di calcare delle steppe, che dalla Bessarabia, congiungendosi ai colli litorali della Crimea, si continuano, colla sola interruzione del bosforo cimmerio, fino allo sperone occidentale del Caucaso. Due argomenti depongono per la perfetta separazione de’ due mari: cioè quello già trattato più sopra della separazione delle due faune, e l’altro, che ora si presenta, della maggior ricchezza e del più deciso carattere marino della fauna pontica pleistocenica in confronto dell’attuale, onde è pure da inferirsi un grado di salsedine delle aque superiore al presente. Il mar Nero trovasi ora in processo continuo di diluzione o di _dissalamento_. Una corrente d’escita pel canale del Bosforo scarica nel Mediterraneo aqua salsa in quantità corrispondenti all’eccesso del tributo de’ fiumi sull’evaporazione; e questo spiega la povertà attuale e crescente della fauna marina pontica. Il mar d’Azow che riceve direttamente gli sbocchi del Don e del Kuban, non ha ora che aqua salmastra, e va trasmutando rapidamente la sua fauna marina in una d’aqua dolce. Questa nuova fase del ponto Eusino ebbe principio dall’epoca moderna, quando per un abbassamento del terreno di una gran parte della Russia meridionale, il Dniester, il Dnieper, il Don ed il Kuban versarono direttamente nel mar Nero l’aqua che prima tributavano al gran mar interno. A questo periodo corrisponde pure l’abbassamento del fondo del mar Caspio, le cui espanse aque si raccolsero così nell’attuale più ristretto perimetro. Per questo movimento del terreno tutto il gran mar interno andò smembrato nei mari chiusi e grandi laghi dell’Asia centrale, e la sua fauna si è ripartita non solo in questi bacini, ma anche nei fiumi dall’Embla al Danubio. Ove questi fiumi ristagnano in larghi seni, ivi si è mantenuto nella primitiva purezza il carattere della fauna ora divenuta caspica, come si vede, per esempio, nel piccolo lago di Ackermann formato dal Dniester. Ristretto una volta il Caspio ne’ suoi limiti attuali, bastò l’umile rilievo dell’istmo caucasico, misurato anche soltanto al punto di separazione delle aque del Manytsch, per dividerlo dal mar Nero. Pietro il Grande avea già concepito il disegno di metter in communicazione il mar Nero col mar Caspio per mezzo de’ fiumi, congiungendo con canali artificiali sia il Don al Volga, sia il Kur al Rioni; e questo disegno del grande autocrata avea perfin ricevuto un principio di esecuzione, riescito a vuoto per le vicende politiche e per la velata ma pertinace opposizione delle autorità locali. Più recentemente fu ripreso il progetto con un altro piano, studiando la possibilità di una communicazione diretta fra il Caspio ed il mar d’Azow per la depressione del Manytsch e del Kuma, ed incominciando dal vero principio, cioè da una esplorazione di quella contrada che, per un complesso di circostanze locali, era fino a questi ultimi anni rimasta una _terra incognita_ nello stretto senso della frase. Il signor de Baer mise in evidenza tutta la difficoltà di costruzione di un canale diretto tendente a far confondere le aque de’ due mari, e conchiuse consigliando l’abbandono del progetto. Il sig. Bersträsser fondato su posteriori livellazioni de’ signori Ivanow e Nasaroff, trova pel contrario possibile questa communicazione per mezzo di un canale alimentato dalle aque convenientemente dirette del Kala-us e del Kuma, e da grandi serbatoj accumulanti le aque di cui tanto abonda in primavera la valle del Manytsch. L’uomo, questo vivente irrequieto, pare si diletti delle più colossali contradizioni, e vorrebbe a suo talento accommodare la faccia del globo, congiungere quello che la natura ha separato, separare quello che la natura ha congiunto. L’ardito esempio del signor di Lesseps ha suscitata una guerra generale agli istmi, e le millanterie tecniche hanno rotto ogni freno. Mentre non si ha il coraggio di fare un taglio fra le due Americhe, la Spagna ha potuto un momento pensare sul serio a diventare un isola, aprendo un passaggio alle navi dal golfo di Biscaglia alla baja di Alfaques in Catalogna. Il governo russo ha fatto bensì studiare diligentemente da’ suoi geometri l’istmo caucasico, ma non si lascerà indurre così presto a dar mano al piccone. Ed affinchè i grandi progetti abbiano tempo a maturare, e si possa frattanto chiarire se il commercio dell’Europa coll’Asia centrale sia veramente chiamato a riprendere la via del Caspio, v’era una nuova porticina da aprire e fu aperta. Le pelli e le sete di Bokara, le sete ed i cotoni del Mazanderan salgono o possono salire il Volga fino a Tzaritzin, d’onde, per mezzo d’un piccolo tronco di ferrovia, passano nel Don, e scendono il fiume fino a Taganrog, ove approdano i bastimenti d’Europa. Le mercanzie europee sono a Taganrog riprese, e col mezzo di un particolare sistema di rimorchiatori, fatte riascendere il Don sino alla stazione della ferrovia. Questi trovati dell’attuale civiltà non bastano a far deviare il commercio della Persia dall’antica direzione, a sostenere la concorrenza col primitivo patriarcale sistema delle carovane, e le sete stesse dagli emporj di Rescht sono ancora spedite direttamente a Trebisonda, malgrado la via lunghissima di terra, lo scabroso passo di Massula, i pericoli delle rapine de’ Curdi, e le esazioni delle dogane turche. XIX. Lenkoran. — Baku ed i suoi fuochi eterni. — Derbend. — Petrowsk. — Burrasca. — Le bocche del Volga. — Astrakan. Toccata, inanzi l’alba del 14 settembre, Astara, luogo di confine tra la Russia e la Persia sulla sponda del mare, si giunse di assai buon matino alla stazione di Lenkoran. Potendo noi disporre di alcune ore, ci affrettammo a scendere a terra, per far un’escursione alla città nascosta dietro il fogliame degli alberi, a circa una _versta_ dal lido. Alcuni _droschki_ venuti molto a proposito in cerca di passaggeri, ci fecero guadagnar tempo. Lenkoran, capoluogo del Talysch, pare una città improvvisata, e quel poco che vi è in muratura è tutto nuovo. Un ampio viale tra due file di alberi e di case rammenta la colonia tedesca di Tiflis, ma serve di quartiere a famiglie di Malacani, e guida ad una piazza nel cui mezzo surge una bella chiesa di legno. Da questa si passa ad una seconda piazza che serve agli esercizi ginnastici, quindi ad una terza circondata da botteghe, che è il bazar, e poscia ad una quarta maggiore piazza che è il mercato. Quantunque dì festivo la maggior parte delle botteghe erano appena socchiuse, ed i mercanti venivano al nostro incontro chiedendoci a gara i paoli imperiali che dovevamo aver portali dalla Persia, per cambiarli, a condizioni molto vantaggiose per noi, colla sola moneta circolante in Russia, vale a dire con biglietti di banco. Il clima del Talysch, le condizioni tutte del terreno sono ben poco dissimili da quello del Ghilan, e ne fa prova la bella vegetazione del piano e quella pure de’ non lontani colli; ma un non so quale governatore della Grusia ne ha avuto troppo alto concetto, quando volle tentare nella campagna di Lenkoran la cultura della canna da zuccaro. I polloni recativi dal Mazanderan germogliarono quel tanto precisa che valeva a disconsigliare la continuazione dell’esperimento, senza l’umiliazione d’un fiasco assoluto. Il seguente matino ci risvegliammo nella rada di Baku, determinali a bene spendere il nostro tempo ne’ cinque giorni di sosta che ci erano assicurati. Il signor Nicolas si stabilì colla sua famigliuola in una casa privata della città; il capitano Clemencich ci abbandonò sollecitamente, per recarsi nel Caucaso occidentale onde assistere a qualche fazione militare della campagna che doveva far cadere nelle mani della Russia quest’ultimo asilo de’ Circassi; noi mantenemmo il nostro quartier generale sulla Tamara, per quindi trasferirlo sul nuovo piroscafo atteso da Astrakan. La città di Baku, conservante l’antico stampo persiano, s’erge su di un piccolo contraforte d’una catena di colli affatto nudi e sterili. La circonda un vecchio muro, e le danno accesso, verso terra, due porte munite di ponte levatojo, ed altra porta dalla rada. Fuori delle mura, ad occidente, sono allineate lungo la spiaggia alcune belle ed eleganti case moderne ornate di qualche tentativo di giardino. Due antichi monumenti colpiscono lo sguardo di chi la guarda dal mare: sull’alto i minaretti, le cupole, i frontoni dell’antica residenza de’ khan; in basso, non lungi dalla porta della marina, una gran torre cilindrica, tozza, nera per vetustà, detta la torre della vergine, dalla leggenda che le è connessa di una donzella la quale, astretta dal padre ad un inviso connubio, di là si precipitò in mare. Nel piano fuori delle mura, a nord est, è il sobborgo o meglio la città nuova, con strade rettilinee intersecantisi ad angolo retto, sede de’ principali mercanti e di alcuni offizi del governo, quello delle poste compreso. Baku ha appartenuto agli schah del Schirwan, finchè alla morte dello schah Nadir, nel 1748, scomposto il regno, riescì a costituirsi centro di un canato indipendente. Al principio di questo secolo il dominatore Hussein Kuli Khan, della stirpe de’ Kagiari, tentò riunire in una lega commune, contro l’invasione russa, i varj principotti musulmani del Caucaso orientale; quando assalito egli stesso nella sua residenza, ed esperimentata la debolezza delle sue forze, si pensò di meglio riescire col tradimento. Finse di voler scendere a patti, e chiese un abboccamento al principe Tsitsianoff, comandante supremo delle forze russe, per trarlo in agguato ed ucciderlo. Un armeno venuto in cognizione della congiura ne avvertì il principe, il quale, non ascoltando che la nobiltà del suo carattere, rispose semplicemente: non oserà. Andò infatti, e fu trucidato. L’inaudita scelleratezza ebbe la pronta e radicale punizione che era da attendersi: il conte Goudowitsch non fece altro che impadronirsi immediatamente del canato a nome della Russia. Baku ha una popolazione di circa 10 mila abitanti, la massima parte persiani. La vita vi è discretamente animata, per essere questa città uno dei principali emporj del commercio della Russia colla Persia. Alla porta della marina il piazzale interno, i magazzeni circostanti, il lido stesso, erano ingombri di ferro delle miniere degli Urali. Il commercio proprio del luogo consiste in tappeti, seterie, zafferano e specialmente bitume. La penisola di Apscheron, che forma la massima parte del circolo di Baku, è rinomata pe’ suoi numerosi pozzi di nafta, danti un produtto medio annuale di 300 mila _pud_[61]. Di questa preziosa sostanza si hanno diverse sorta: la nafta solida, picea, chiamata _kir_; la vischiosa, la liquida o petrolio. Quest’ultima è la sorta prevalente presso Baku, mentre all’opposta sponda del Caspio, all’isola di Tschelekan, è la prima, ossia la nafta picea che si estrae quasi esclusivamente. Il _kir_ viene poscia spedito in Russia, a Bokara ed in Persia, per farne terrazzi, come si pratica dell’asfalto in Italia ed in Francia, che in vero fra questi due bitumi non esiste differenza che di nome. Sono altresì rinomati da secoli i fuochi di Baku, ossia i getti continui di gas infiammabile, simile affatto per la natura e per la origine al così detto gas delle paludi, al _feu grisou_ delle miniere di litantrace. Non v’ha dubio che si debba collegare la formazione di questo gas a quella stessa della nafta, ed è molto interessante il fatto osservato dal sig. de Baer che, nella penisola di Apscheron, in corrispondenza delle surgenti gasose, la nafta è liquida[62]. La sera stessa del nostro arrivo fummo cortesemente invitati da un officiale della marina russa al singolare spettacolo delle fiamme del mare, del quale però mi tenne defraudato un nuovo accesso di febre. A circa un’ora di distanza, al sud della città, presso gli scogli della sponda, gorgogliano veementi getti gasosi trascinanti seco alquanto petrolio che in sottilissimo velo si diffonde sull’aqua. Il contatto d’una face accesa fa sollevar d’intorno turbini di fuoco agitati in balìa delle onde, ed i miei compagni si dilettarono di scorrervi frammezzo, col battello guidato dalle braccia nerborute dello stesso capitano Müller, esponendo le barbe ed i capegli alla sommità ripiegate delle spartite fiamme. Il dì seguente sul tramonto, noleggiati alcuni _droschki_, ci recammo a visitare il famoso tempio degli adoratori del fuoco, a 12 verste dalla città, presso il villaggio di Sarochani. La strada percorre una campagna ondulata, deserta, che non ha nulla da invidiare alle più aride steppe della Persia: solo qualche rara pezza di stentato verde si presenta allo sguardo nel fondo di qualche remota valletta. Poco oltre uno stagno, aU’ultima luce del giorno biancheggiante ancora di incrostazioni saline, vedemmo già comparire in distanza nel vasto piano alcune fiamme solitarie, e, dopo breve tratto, i nostri cocchieri si arrestarono alle tetre mura di un grande fabricato che d’ogni intorno diffondeva nell’aria una pallida luce giallastra. Li ci fu spalancata una porta, ed attraversando un cortile ove in una fossa, come in una fornace, soffiava un impetuoso getto di fuoco, entrammo nel sacro recinto. È questo una scura ed angusta cella, nel cui mezzo arde su di un altare di fango una fiammella eterna, mentre un secondo altare applicato al muro, dicontro alla porticina di ingresso, è adorno delle strane cianfrusaglie del rito. Il sacerdote, un indiano spiccato dalla metropoli ghebra di Bombay, non si fece aspettare; diede qualche tocco di campanello sul limitare del tempio, e si rivolse, come a cosa d’abitudine, a ripetere davanti a noi la cerimonia della sua religione. Incominciò dal soffiare in una grande chiocciola di tritone, traendone il noto suono cupo e penetrante di questo strumento, poi fra genuflessioni, gesticolazioni incomposte, e vario maneggio degli oggetti sacri dell’altare, brontolò le sue preghiere, nelle quali non potemmo intendere chiaramente che il ripetuto nome di Brama. La rappresentazione durò un quarto d’ora, all’incirca, e fu chiusa coll’offrire a ciascuno di noi dello zuccaro candito su di un piattellino, sul quale noi, alla nostra volta, depositammo tanto da fare un pajo di rubli. Ci fece sorpresa il trovare, tra i varj oggetti posti alla rinfusa sull’altare, un crocifisso, e fatto interrogare su di ciò il ghebro, che pure intendeva discretamente il russo, ci rispose che egli teneva in venerazione anche il Cristo, come un gran santo; la qual cosa ci confermò nell’opinione essere il nostro uomo anche un tantino impostore. I fuochi di questo tempio sono eterni, od almeno di durata indefinita, però le più antiche memorie storiche intorno ad essi non vanno oltre il decimo secolo: anzi Massudi, scrittore arabo di quel secolo appunto, ne parla come fossero in epoca a lui prossima improvvisamente apparsi, dopo una eruzione dal terreno[63]. Una della nostre guide, nel cortile stesso del tempio, si fece a scavare la terra colle sole mani, sino alla profondità di circa due palmi, ed approssimando poscia alla fossa un foglietto di carta acceso, ne fece sollevare una fiamma spenta di nuovo col riversare nella fossa la sabbia circostante. Gli abitanti dei dintorni sono affatto liberi dalle cure per l’alimento de’ loro focolai: un tubo piantato nel terreno sino a pochi piedi di profondità, dà la fiamma sull’istante, duratura a norma de’ bisogni ed anche ad arbitrio. Il terreno intorno a Baku risulta per intiero della così detta formazione caspica inferiore di cui ho fatto cenno nel precedente capitolo: però gli strati furono molto sensibilmente sollevati, tanto da costituire da soli i colli e le sponde qua e là dirupate del seno di Baku, come della massima parte dell’intiero perimetro del Caspio. Ne’ tagli naturali del terreno al sud della città si distinguono, procedendo dal basso, i seguenti strati fra loro connessi da passaggi insensibili dell’uno all’altro. 1.º Marna sabbiosa e sabbia finissima zeppe di conchiglie (_Bithynia, Dreissena, Monodacna_). 2.º Aggregato friabile di conchiglie de’ medesimi generi. 3.º Calcarea intieramente composta di grossi frammenti di conchiglie, e nicchj intieri determinabili, per la massima parte di cardiacei: una vera lumachella infine, solida e cavernosa, eccellente materiale di costruzione, e d’onde infatti è fabricata la città. Nelle dislocazioni, senza dubio repentine e violenti, di questo terreno, gli strati della calcarea rimasero fratturati più del sottoposto sedimento incoerente, fino a trovarsi in diversi luoghi da questo discordanti, colle testate disordinatamente sporgenti. Il giorno 17 settembre giunse da Astrakan l’atteso piroscafo che doveva dare il cambio alla Tamara. Era il Bariatinski, magnifico bastimento, con ampio e elegante salone sul ponte, avente per tetto un secondo ponte a commodo di chi volesse godere il fresco notturno. Ci occupammo il dì seguente del trasbordo delle nostre robe, e dell’assestamento delle nostre celle, mentre andava a poco a poco formandosi il carico del bastimento, e nuovi passeggeri giungevano ad occuparlo. Venne così a comporsi nel salotto una eletta società, in massima parte di ufficiali russi, e di una signora che allo spirito sciorinato in purissima lingua francese, alla considerazione ond’era circondata, palesava la distinzione dei suo rango, come ne’ tratti dei viso le traccie d’una passata bellezza. Era la contessa Freigang, moglie d’un generale, antico capo della stazione navale di Baku, ed ora trasferito ad altra sede nell’interno dell’impero. Il Bariatinski avea portato i giornali di Mosca e di Pietroburgo accumulati da due settimane, pieni di gravissime notizie per noi. Gli ufficiali russi, con visibile commozione al saperci italiani, gareggiavano nel tradurle e nel commentarle, esprimendo anche in questa circostanza la profonda simpatia pel nostro paese, e la ammirazione per la grande personalità di Garibaldi che abbiamo sempre e dapertutto incontrate in Russia. Mancano le parole ad esprimere la costernazione e lo stupore onde fummo compresi al racconto del nuovo estremo cimento della nostra patria, e della fatalità che lo volle scongiurato col sangue sui campi di Aspromonte! Coll’animo straziato ed il pensiero travolto ne’ turbini di un imprevedibile che la distanza de’ luoghi rendeva più tetro, rimanemmo ancora tre giorni nella rada di Baku. La matina del 22 giungemmo in faccia a Derbend. Il signor Alessandro Dumas, che già era stato tema principale delle nostre conversazioni colla signora contessa Freigang, venne ancora alla nostra memoria. In Torino, pochi giorni prima della nostra partenza, conferendo con me e con Lessona, trasfondendoci, collo splendido colorito della sua parola, le sue impressioni di viaggio ne’ paesi stessi che avremmo dovuto percorrere, ci aveva fatto promettere di visitare questa così singolare città, e la gran muraglia e la porta di ferro. Era quindi per noi quasi lo sciogliere un voto lo sbarcare: ma il mare era grosso, e molta la distanza dal lido, ed il capitano da noi interrogato rispondeva che non poteva assicurarci poi la possibilità del ritorno a bordo. Questo bastò per farci rientrar subito nei limiti di quella prudenza che era stata fino allora la nostra scorta, e restar paghi di rimirare la città dal ponte del bastimento. Il panorama era per verità stupendo. Le case di stile tutto orientale, stipate sull’erto pendio del monte ed allineate da strade l’una sull’altra parallele fra loro ed alla spiaggia, la muraglia che s’inerpica sul monte, e ricingendo strettamente la città la isola dal circostante rupestre deserto, danno a Derbend un tale carattere, che descritto colla fedeltà della prospettiva può sembrare ancora fantasia di romanziere[64]. Sul far della sera fu ridato il moto alle ruote, ed inanzi l’alba si gettò l’ancora a Petrowsk, per rimanervi buona parte del giorno. È questa una piccola città affatto nuova, con belle case, ed un forte che domina la spiaggia. I magazzini, ed un grande molo che trovammo in costruzione molto inoltrata, lasciano credere che il governo russo voglia farne la principale stazione navale del Caspio, qui soltanto essendo possibile, per tutta la sponda occidentale di questo mare, un simulacro di porto. Dietro la città surge un monte col dosso prolungato così regolarmente da rassomigliare ad un piccolo Iura. In distanza, in un valloncino, appicciccata alla roccia come un nido d’aquila, vedesi la città lesghiana. La sponda presentasi qui ancora costituita della stessa calcarea di Baku. Era giorno di mercato, e la piazza vedevasi animata di cenciosi Lesghi dalla truce fisionomia, di soldati russi, ed anche di qualche elegante gonnella. Incontrato un carro di pescagione che andava al peso publico, lo seguii da vicino, finchè la merce fu riversata in grandi corbe. Erano tutti lucci, tinche e carpe. Ecco i bei pesci marini del Caspio! Nella sera, quando ancora stavamo seduti alla tavola del pranzo, e il Bariatinski avea preso il largo, fummo assaliti da una violenta bufera. Il fischio orribile del vento, l’impeto delle ondate sui fianchi della nave, il forte rullìo, il tumulto dei passaggeri sbattuti sul ponte, il passo concitato e le grida del capitano e de’ marinai, producevano un baccano infernale. Fu prudenza l’ardire del capitano di avvicinarsi alla costa e gettar l’ancora, e così fummo salvi. Il giorno dopo, dileguata rapidamente la tempesta, vedemmo tutta la gravezza dell’incorso pericolo. Il capitano stesso ci assicurò che in tanti anni di navigazione sul Caspio non s’era mai trovato così prossimo al naufragio. Tre valigie erano state svelte da una furiosa ondata e gettate in mare, un gran numero di colli avea sofferto avaria, ed una donna piangeva dirottamente i suoi rubli di carta macerati. Il Bariatinski avea ripreso felicemente il suo corso, quando visto in distanza un segnale d’allarme deviò prontamente a quella volta. Era un bastimento mercantile, che veniva da Astrakan, diretto a Petrowsk, e sbattuto dalla burrasca, avendo perduto l’albero maestro ed il timone, ebbe la buona ventura d’esser preso a rimorchio e ricondotto al punto d’ond’era partito. La matina del 25 eravamo già pervenuti ai bassi fondi, ove le grosse navi corrono pericolo d’arenarsi. Alcuni anni prima, infatti, il piroscafo Costantino, incappatovi a 60 verste dalla spiaggia, rimase condannato all’immobilità per due intieri mesi, co’ suoi passaggeri a bordo. Dopo questo avvenimento il governo russo ha fatto costrurre dei piccoli rimorchiatori che ricevono il carico de’ piroscafi corrieri, e lo trasportano ad Astrakan. Dovemmo adunque passare noi medesimi, colla folla stipata degli altri passaggeri, e l’ingombro dei colli e delle mercanzie, quali su di un grande barcone piatto, quali sul rimorchiatore stesso, che trascinò eziandio per altre cinque leghe il Bariatinski vuoto, e il bastimento salvato. La terra non era peranco in vista, e già potevamo bevere l’aqua dolcissima del Volga. Dopo alcune ore il verde dei canneti che spuntano già in distanza, qualche isolotto a fior d’aqua, sparse navi ancorate, fra le quali un bastimento da guerra impegnato nelle sabbie, poi qualche capanna di doganieri e di pescatori, ci annunciarono il gran delta del fiume. Alle due pomeridiane fummo accostati dalla barca della dogana, ed un commissario montò a bordo per le perlustrazioni del suo officio. Quanto ci aveano detto del rigore e delle vessazioni delle dogane russe fu pienamente smentito, e noi in particolare fummo trattati con tutti i riguardi che si usano verso i diplomatici, cioè col non aprire tampoco le casse e le valigie di nostra pertinenza. Eravamo frattanto entrati nel braccio principale tra gli ottanta in cui si decompone al suo sbocco il maggior fiume d’Europa; e il dì seguente, allo spuntar del sole, approdammo ad Astrakan. Alcuni de’ miei compagni si occuparono immediatamente delle disposizioni per continuare il viaggio. Lessona prostrato dalla febre avea bisogno urgente di riposo e di un asilo almeno tranquillo per qualche giorno, e questo fu subito trovato a pochi passi, chè la scelta dell’albergo non era imbarazzante. Questa città così grande, così commerciante, così ricca, non ne conta più di tre, tutti di infima classe. Fidandoci dell’esterno entrammo in quello che poteva passare per il meno sucido, ove ci furono aperte quattro camerette anguste come celle da prigione, colle pareti di semplici assite, ed il mobiliare composto in tutto di due sedie, di un tavolino, e di un canapè duro, appena largo e non tanto lungo quanto la persona, senza nè cuscini nè coperte. Per buona ventura avevamo ancora qualche materasso di scorta, e la fibra temprata da sei mesi all’abbandono di ogni mollezza. Astrakan, come del resto la massima parte delle città sul Volga, è formata di due parti: d’un gran sobborgo con case di legno lungo il fiume, e della città con spaziose lunghe contrade rettilinee, eleganti case in muratura, di stile severo e maestoso, e belle botteghe riccamente fornite di mercanzie d’Europa. La via principale del sobborgo scorre parallela al fiume, e nello spazio frapposto sta il folto delle abitazioni, degli emporj, e degli officj delle compagnie di navigazione. Questa parte della città vive della vita della principale arteria commerciale della Russia, e dell’affluenza della pesca del Caspio. La quantità di minuto pesce che si consuma fresco sul luogo, o secco e salato viene spacciato a prezzo vilissimo per grande estensione di paese, è ancora un nulla al paragone dell’immenso produtto degli storioni, delle aringhe e delle foche, che viene qui preparato e convertito in generi del grande commercio, con grande profitto anche delle saline erariali. Stanno allineati in gran numero sulla riva grandi barconi, vivaj riboccanti di pesci, fra i quali è sovratutto da segnalarsi il delizioso sterletto, pienamente meritevole del pregio in cui è tenuto dai sibariti russi. Il pesce morto che si espone sui banchi del mercato, relativamente in assai scarsa quantità, e solo pel consumo giornaliero, è poco meno che sprezzato. I grossi storioni che affluiscono a questo centro di manipolazione vengono subito sventrati e fatti a pezzi. La carne, e specialmente la musculatura del dorso, è acconciata col sale e seccata; le ovaia, spogliate degli inviluppi membranosi e salate in barili, danno il caviar (_ikra_), di cui si fa uso così esteso, così generale e quasi prescritto all’antipasto (_zakuska_). I lunghi rigorosi digiuni del rito greco concorrono in gran parte a mantener viva la consumazione dell’immensa quantità di materia alimentare che le grandi pescaje caspiche versano annualmente sul mercato. Un produtto di grande importanza, un vero monopolio di Astrakan, è la colla di pesce, tanto ricercata, come sostanza di prima necessità in diverse industrie. Le foche, provenienti in massima parte dai banchi e dalle isole della sponda orientale del Caspio, danno un cospicuo provento nel grasso e nelle pelli. L’aringa o _beschenka_ (_Clupea pontica_), rimonta il Volga in banchi talmente enormi da suggerire e quasi render scusabile lo scialaquo che si fa di tanta abondanza col non tener conto che dell’olio. Si può calcolare la preda ordinaria annuale di questo pesce, nella parte inferiore del Volga, a 50 millioni di teste. Il consiglio di non lasciar andare tutta dispersa una così ingente massa di buona sostanza alimentare non fu ascoltato che tardi e soltanto in assai ristretta misura. Gli eccitamenti del signor de Baer non ottennero qualche effetto se non durante la guerra della Crimea. Nel 1855 10 millioni di aringhe salate (200,000 _pud_) furono messe in commercio, con grande profitto de’ privati e del publico erario, e rappresentarono un capitale di 153,600 rubli; mentre la stessa quantità di pesca semplicemente manipolata per l’estrazione dell’olio, non avrebbe dato che 10,000 _pud_ di questa sostanza, per un capitale di 10,000 rubli. Il produtto della grande pesca alla quale attendono non meno di 4,000 barche, fu per la provincia di Astrakan, nel 1861 il seguente. Beluga (_Accipenser huso_) 35,500 teste Osotr (_A. Güldenstädtii_) 50,000 — Sevringa (_A. stellatus_) 200,000 — Ikra (_caviar_) 8,000 _pud_ Colla di prima qualità 600 — Fasci musculari dorsali 600 — Foche 50,000 teste La provincia di Astrakan occupa una superficie di 185,550 verste quadrate, con una popolazione stabile di 550 mila abitanti (50,000 nella sola città principale), ed altrettanto di popolazione mobile, di Tartari, Kirgisi e Calmucchi dati alla pastorizia. Il terreno è piano, sabbioso, solcato dalle inumerevoli diramazioni del Volga, che ristagnano in molte paludi. Facendo anche una larga parte alle steppe della parte occidentale della provincia, popolate dalle tribù de’ Calmucchi, una grande estensione del terreno è di sua natura fertilissima, eppure inculta per difetto di braccia. Scarsa è la stessa produzione del riso per rispetto al grande consumo che fanno di questo genere gli orientali, ed alla vastità del terreno irrigabile[65]. La produzione del bestiame è invece considerevolissima. Quella de’ soli cavalli ascende al numero di 230,000 teste, numero che sarebbe forse raddoppiato ove si tenesse calcolo delle immense mandre allevate dai Kirgisi nomadi, e che in una parte dell’anno passano nel vicino governo di Orenburgo, o fra le tribù indipendenti. V’hanno inoltre Buoi 500,000 Montoni 1,500,000 Capre 610,000 Camelli 30,000 Porci 50,000 La provincia di Astrakan comprende anche non meno di 140 laghi salati, de’ quali uno solo, quello di Elton, per verità il maggiore, potrebbe somministrare tutta la quantità di sale che può occorrere a metà della Russia. Nel 1861 le saline di questa sola provincia produssero 5,500,000 _pud_ di sale, smerciato a 35 _kopecki_ il _pud_; oltre 80,000 _pud_ di solfato di soda per le vetraje. Importante è anche il produtto delle pelli, specialmente de’ montoni. Quelle che si conoscono in Europa col nome appunto di Astrakan, provengono però in massima parte da Bokara. Rimanemmo in Astrakan tre giorni; e qui incominciammo a rincivilire, rientrati ormai nell’ambiente della società europea. Fummo accolti dal governatore, signor Deshayes, di stirpe francese, con ogni maniera di cortesia, invitati a pranzo, e ad un convegno, nelle splendide sale della sua residenza, della più eletta società di Astrakan. Era un concerto di beneficenza, nel quale i primi onori toccarono alla consorte stessa del governatore, molto gentile e avvenente dama, che eseguì deliziosamente, colla sua voce pura e soave, alcune belle melodie del genio italiano. La febre di Lessona avea preso un tale aspetto di gravezza da incuterci molto serie apprensioni, ma poi una forte dose di chinina data a tempo restituì talmente le forze da render possibile la continuazione immediata del viaggio, calcolando anche sui lunghi giorni che dovevamo passare sul Volga, in condizioni certo non più disagiate di quelle che ci offriva l’albergo di Astrakan. Ci liberammo degli oggetti più pesanti e voluminosi divenuti ormai inutili, lasciandoli in regalo ad un povero savojardo che aveva fatto presso noi l’officio di servitore e di interprete, e trovavasi balestrato in questa estrema parte d’Europa, come disertore dell’esercito sardo. Il 28 passammo sul piroscafo _Likoi_, riunendoci ancora all’ottima famiglia Nicolas, dalla quale non dovevamo separarci che a Berlino. XX. Prime linee d’una fauna della Persia occidentale. Mentre la flora persiana è stata in questi ultimi anni così compiutamente illustrata, per le ricerche di Boissier, di Kotschy, di Koch e di Buhse, lo stesso non può dirsi della fauna. Non manca per verità una somma di fatti negli scritti di Güldenstädt, di Pallas, di Ménétriés, di Eichwald e di Brandt sulle confinanti provincie del Caucaso e del Caspio, nelle osservazioni parziali di alcuni viaggiatori francesi, e nelle monografie ittiologiche di Heckel e del conte Keyserling, ma un lavoro d’insieme che esprima il carattere vero della fauna di questo così singolare e per vari aspetti così interessante paese, è ancora tutto da farsi. Il riassunto che ora presento delle mie note è assai lontano dal riparare a questa lacuna della scienza. Tuttavia la costante cura di profittare di ogni ritaglio di quel tempo che mi era così scarsamente misurato, e la cooperazione de’ miei compagni di viaggio, mi inspirano la fiducia che l’abbozzo della fauna persiana che ora compare per la prima volta, possa, per quanto necessariamente povero ed incompleto, formare un piano generale che potrà essere molto arricchito, ma non sconvolto, dagli ulteriori lavori di naturalisti fruenti di migliori condizioni delle mie. Aggiungo nell’elenco dei vertebrati per me raccolti o veduti, sulla linea percorsa dalla ambasciata italiana, anche le specie raccolte dal mio amico Doria nelle provincie meridionali della Persia; facendo voto che questo giovane, istrutto, ed infaticabile naturalista possa fra non molto ridurre a compimento il lavoro ch’egli si era proposto, come di sua predilezione e di tutta sua competenza, voglio dire l’illustrazione del ricchissimo materiale entomologico che sta nelle sue mani. _Mammiferi_. Quel pochissimo che è riferito dalla commune de’ viaggiatori sugli animali dell’Asia occidentale, riguarda particolarmente i grossi mammiferi che più vivamente colpiscono l’attenzione volgare, e che sono materia alle nobili caccie dei grandi. Chi al pari di noi non può spingere le sue escursioni lungi dalla via battuta dalle carovane deve appagarsi di un’assai più modesto bottino. Le poche specie incontrate per via, o delle quali ho potuto constatare la esistenza dietro spoglie di provenienza accertata, si riducono alle seguenti: =Vespertilio= (_Vesperus_) =mirza=. De Fil. =V.= _serotino affinis, sed rictu longiore. Supra cofeino-grisescens, vellere longo, nitore sericeo, subtus griseo-fulvus. Alis et auriculis aterrimis._ Affine al _Vespertilio serotinus_, ma distinto pe’ colori, e pel muso più allungato, di modo che la distanza dall’angolo dell’orecchio alla punta del naso è maggiore dell’altezza dell’orecchio stesso, mentre nel serotinus è subeguale. Ecco le principali misure: Dal cubito alla punta dell’ala spiegata 0^m,135 Da un cubito all’altro, cogli omeri distesi 0^m,076 Dall’ano al muso 0^m,085 Dall’angolo dell’orecchio alla punta del naso 0^m,021 Altezza dell’orecchio 0^m,015 Zendjan, Kazvin. =V. turcomanus=. Eversm. Sartschem. Zendjan. =V.= (_Pipistrellus_) =marginatus=. Rüpp. Raccolto dal M. Doria nella Persia meridionale. =Serex= (_Crocidura_) =fumigatus=. De Fil. =S.= _cauda elongata, crassa, inter pilos procumbentes setis longissimis verticillatim dispositis. In regioni mento-jugulari, utroque latere, verrucis piliferis quatuor. Supra fusco plumbeus, subtus cinereus._ È affine al _S. araneus_ ma se ne distingue pel colorito, per il primo falso molare relativamente più sviluppato, per la coda molto più lunga, come dal confronto seguente: _S. araneus_. Lunghezza del corpo 0^m,071 — della coda 0^m,034 _S. fumigatus_. — del corpo 0^m,062 — della coda 0^m,042 Un altro carattere, che però non si può riconoscere che negli esemplari conservati nell’alcool, consiste nella presenza in questa specie di quattro bitorzoletti portanti ciascuno un lungo pelo, ad ogni lato della regione mentogolare, lungo la mandibola. La descrizione data da Pallas (_Zoographia Rosso-Asiatica_) del _S. Güldenstædtii_, può convenire anche a questo nostro, il quale però ha le orecchie così distintamente sviluppate, da non poterglisi applicare la frase _auriculae vix a vellere emergentes_. Se poi il _S. Güldenstædtii_ rassomiglia tanto al _S. leucodon_, da formare con questo una specie medesima (GIEBEL _Die Saugethiere_ pag. 902), allora le differenze col _S. fumigatus_ sarebbero ancora maggiori. Ebbi di questa specie un individuo in Tiflis dalla gentilezza del signor Bayern, naturalista e raccoglitore indefesso, ed altri due mi furono recati di fresco uccisi in Teheran. =Ursus arctos=. L. Nel Caucaso e nell’Elburz. =Mustela sarmatica=. Pali. Erivan. =Lynx cervaria=. Tem. Caucaso. =Felis chaus=. Güld. Provincie caspiche. =F. pardus=. Lin. Ghilan. Mazanderan. =F. tigris=. Lin. _ibid_. =Cynailurus jubatus=. Wagn. Mazanderan. =Hyœna striata=. Zim. Annovero questa specie sulla testimonianza generale, non solo dei persiani da me interrogati, ma anche di un naturalista, del signor Bayern, che mi raccontò il caso di un individuo ucciso pochi anni prima nella città stessa di Tiflis, presso la posta dei cavalli. =Canis aureus=. L. Commune nel Ghilan. =C. lupus=. L. Commune nell’Elburz. Incontrato da noi presso Kazwin. =C.= (_Vulpes_) =corsae.= L. Dovunque. =C.= (_Vulpes_) =melanotus=. Pall. Frequente anche nelle steppe. La sua pelliccia è un importante articolo di commercio. =Lepus timidus=. Varietà più piccola e più pallida della commune di Europa. Assai frequente alle falde dei monti. =Dipus jaculus.= (Pall.) Communissimo dovunque, nelle steppe[66]. =Merlones tamaricinus=. (Pall.) Dall’Armenia, per tutta la Persia occidentale. Preso anche a Schiraz dal marchese Doria. =Arctomys fulvus= (_Spermophilus fulvus_. Licht. _Sp. concolor_. Geoffr.) Communissimo particolarmente a Sultanieh. =Cricetus nigricans=. Brandt. Trovato a Sultanieh. =Cr. phœus=. Pall. Communissimo dall’Armenia per tutta la Persia occidentale. S’introduce anche nelle case. =Cr. isabellinus=. De Fil. Per la distribuzione generale de’ colori, la qualità del pelo, le proporzioni del corpo e della coda, molto rassomigliante al precedente, ma di assai maggiore statura, e colorito sensibilmente diverso. Dalla punta del naso alla radice della coda 0^m, 15; (nel _Cr. phæus_ 0^m, 095 al massimo); lunghezza della coda 0,028. Superiormente grigio isabellino, alquanto più chiaro sui fianchi: la metà inferiore del corpo bianco candido, i due colori bruscamente distinti, sovratutto ai lati del collo. Preso a Teheran dal marchese Doria. =Mus sylvaticus=. L. La sola specie del genere osservata nel nostro viaggio (Sainkalè. Teheran). Portata anche da Schiraz dal marchese Doria. Il risultato negativo delle mie apposite ricerche mi farebbe concludere per la mancanza assoluta nella Persia occidentale non solo del _Mus musculus_, ma anche del _M. decumanus_. È questo un fatto molto singolare, in quanto che quest’ultima specie si è diffusa per tutta Europa venendo dall’Asia centrale, per la via di Astrakan e del Volga, in grandi schiere, nel 1727, rasentando quindi i confini della Persia, ma lasciandola privilegiata col non stabilirvi colonie. =Arvicola amphybius=. L. =var persica=. Molto commune nei luoghi che sarebbero appropriati al _Mus decumanus_, lungo i rigagnoli ed i canali, fin ne’ giardini e nelle case. Si distingue, in confronto colla razza ordinaria di Europa, per il colore che passa al fulvo sui fianchi, ed al bianco nelle parti inferiori. I caratteri osteologici sono assolutamente i medesimi. =Ar. mystacinus=. De Fil. =A=. _arvali affinis, sed auriculis et mystaceis longioribus, cauda breviore, facile distinguendus_. Affine all’_A. arvalis_, da cui però si distingue per le orecchie molto più grandi e più sporgenti dal pelame; pei mustacchi misti di peli bianchi e neri, i primi, assai più lunghi, adagiati ai lati del capo vanno fino al lembo esterno del padiglione dell’orecchio; per la coda molto più breve, tanto da misurare sei volte la lunghezza dell’intiero corpo. Colore superiormente grigio di sorcio, inferiormente più chiaro. Questa specie è abbondante nella valle del Lar. =Antilope= (_Gazella_) =subgutturosa=. Güld. In piccole schiere nelle steppe, particolarmente presso Kazwin. =Ovis Gmelini=. Blyth. Sui monti. Ararat. Elburz. =Capra ægagrus=. Gm. Pure sui monti dal Caucaso all’Erburz. Assai frequente. =Sus oper=. L. Communissimo nelle foreste del Ghilan e del Mazanderan. _Uccelli._ La stagione nella quale percorremmo le provincie del Caucaso e della Persia occidentale, fra il passo di primavera compiuto, ed il ripasso autunnale non per anco incominciato, era la più sfavorevole per collezioni ornitologiche, come quella che scemava la ricchezza e la varietà delle prede, e dava una predominanza di individui giovanissimi, o con piuma logora od in muta. Sotto altro e miglior punto di vista questa circostanza ci riesciva pel contrario assai propizia, il carattere locale della fauna ornitologica di un paese esprimendosi meglio nella stagione della nidificazione che nelle altre dell’anno. Noi non abbiamo fatto che raccogliere la specie che venivano quasi ad offrirsi ai nostri colpi sulla nostra strada, ma anche questa sfavorevole circostanza fu compensata dal concorso che mi prestarono alcuni miei compagni di viaggio, e specialmente il cav. Bosio, cacciatore insuperabile. Ho dunque fiducia che il catalogo seguente possa dare un’idea sufficientemente adeguata del carattere della fauna ornitologica del paese percorso. =Gyps fulvus=. (L.) Specie commune dapertutto nelle regioni montuose, e più che altrove attorno al Demavend. =Neophron percnopterus= (L.) Raro in Persia al sud dell’Elburz, frequenti nel Caucaso e nel Ghilan. =Falco lanarius=. Schleg. =F. communis=. Schleg. Riconobbi queste due specie tra i falconi allevati per la caccia. Due individui femmine di _F. communis_, uccisi a Tauris ed a Zendjan, sono in livrea corrispondente a quella figurata da Schlegel nel suo _Traité de fauconérie_, sotto la denominazione di _Faucon tiercelet sors au plumage de cresserelle_. =Hypothriorchis subbuteo=. (L.) Ucciso presso Marend. =Cerchneis cenchris=. Naum. Communissimo nelle regioni caucasiche. In numero stragrande nidificante al così detto _Ponte rosso_ sul Kram. =Pandion haliætus=. (L.) Regioni caucasiche. Ghilan. =Milvus ater=. (Gm.) Molto commune nelle regioni caucasiche e nell’Armenia. Preso anche in Persia (Kyschlak). Volteggia nell’aria attorno ai villaggi. =Astur palumbarius=. (L.) =Accipiter nisus=. (L.) S’incontrano di frequenti, ma anche questi più nelle valli del sistema del Caucaso che in Persia. Entrambi queste specie veggonsi allevate per la caccia. =Micronisus badius=. (Gm.) Bender-Abbas (Doria). =Circus œruginosus=. (L.) Ucciso ne’ contorni di Tiflis. =Athene noctua=, var. =persica=. (L. Bp.) Assai frequente in Persia. Si distingue dalla commune razza di Europa, per colori appena più pallidi. =Caprimulgus=. Sp. Un solo individuo di questo genere vidi una sola volta in Kazvin; non mi fu dato di prenderlo. =Cypselus apus=. L. Dapertutto, però non molto frequente. =Chelidon urbica=. (L.) Molto commune nei siti rupestri alla base dei monti. =Cotyle rupestris=. Scop. Sui monti dirupati attorno al Demavend. Anche a Bender Abbas. (Doria). =C. riparia=. L. Trovata molto copiosa a Mianeh. =Hirundo rustica=. L. Dapertutto ma assai meno abbondante che in Europa. =Coracias garrula=. L. Coppie solitarie di questa specie trovammo in tutto il paese percorso. =C. indica=. L. Da Ispahan in avanti, nella regione delle palme. (Doria). =Merops apiaster=. L. Communissimo dovunque. =M. persicus=. Pall. Ucciso a Mianeh ed a. Nickbey. Molto più raro del precedente. =M. viridis=. Lin. Bender Abbas, ov’è communissimo. (Doria). =Upupa epops=. Molto diffusa, particolarmente nell’Armenia, presso i luoghi abitati. =Halcyon smirnensis=. (L.) Schiraz (Doria). =Alcedo hispida=. L. Presa una sol volta a Nickbey. =Muscicapa luctuosa=. Tem. =M. albicollis=. Tem. Nei giardini di Tauris. =Butalis grisola=. (L.) Nei giardini alle falde dell’Elburz. (Kurdan, Tedgrisch, Hafdscheh). =Erythrosterna parva=. (Bechst.) Ne uccisi un solo individuo a Poti. Il marchese Doria trovò questa specie molto commune ne’ contorni di Teheran in primavera. =Lanius minor= Gm. =L. rufus= Bris. =L. collurio= L. Incontrati dovunque, più frequenti per altro nelle regioni caucasiche. =Ægithalus pendulinus=. (L.) Armenia (Kumerlou) Persia (Mianeh). =Parus major= L. Raro dovunque, nei giardini. =P. cœruleus= L. Trovato nidificante ne’ giardini di Kazvin. =Sitta syriaca=. Ehr. Frequente ne’ siti rupestri non troppo elevati, dall’Armenia per tutta la catena dell’Elburz. =Troglodytes europœns=. Cuv. Ghilan. =Cinclus aquaticus= Bechst. Lungo i fiumicelli montani presso Teheran, e nel Ghilan. =Crateropus Salvadorii=. De Fil. _Supra griseus inconspicue olivascens. Plumis capitis et dorsi late, colli laterum stricte brunneo nigrescenti flammulatis, cœeteris plumis scapo nigrescenti. Gula alba. Pectore abdomineque griseis pallidioribus, illo nonnihil in cervino vergenti. Rectricibus alarum inferioribus pallide cervinis. Rectricibus supra transversim obsolete brunnescenti striolatis. Plumulis frontalibus tantum rigidis. Rostro fusco corneo, pedibus pallidis._ _Longit. tot. 0^m, 24, longit. tarsi 0^m, 027, Corporis longitudine caudæ longitudine œguali._ Questa specie porta il nome del distinto ornitologo italiano conte T. Salvadori. È communissima nella regione delle palme, dopo Schiraz, in branchetti. Vola colle ali distese quasi immobili. (Doria). =Ixos leucotis=. Gould. Frequente sulla costa del Golfo persico. (Doria). =Turdus merula=. L. Trovato in Persa una sol volta, nel nostro giardino a Tedgrisch. =Petrocincla saxatilis=. (L.) sull’Elburz. (Ask, Kharzau). =Ruticilla phœnicura= (L.) Ne rinvenni alcune nidiate nel giardino reale di Kazvin. =Cyanecula suecica= L. _var. (C. leucocyana._ Br.) Nella Valle del Lar. =Erythacus rubecula=. (L.) Ne’ boschetti presso Khend e nel Ghilau. =Lusciola luscinia=. (L.) Ne’ giardini di Zendian e di Kasvin. =Irania= n. gen. _Ex Saxicolinis._ _Rostrum mediocre, apice subincurvo; carina inter nares prominula._ _Alae elongatae: remigibus pogonio interno lato, integro: prima (spuria) tectrices externas longitudinae aequante, secunda longa, quintam subaequante, tertia et quarta longioribus._ _Cauda elongata, subquadrata._ _Tarsi graciles, elongati. Digiti ut in Saxicolis, sed halluce digito interno breviori._ =Irania Finoti=. De Fil. _Supra griseo-olivacea, in dorso infimo uropygioque sensim griseo-plumbea. Remigibus fuscis, apice subtilissime cervino-pallido limbatis; tectricibus alarum macula hujus coloris terminatis; anulo orbitali, regione parotica, colli lateribus rufescenti tinctis; loris gulaque albescentibus; abdomine medio crissoque albis; pectore ochraceo et coeruleo inconspicue transversim undato. Tectricibus alarum inferioribus, lateribusque abdominis fulvo-ochraceis. Cauda nigrescenti, subtilissime transversim colori obscuriore lineata. Pedibus nigris._ Questa specie porta il nome del barone Finot, console di Francia in Tiflis, che ha lasciato nell’animo de’ componenti la missione italiana in Persia la più grata ricordanza, tante furono e così vigili e così continue e così schiettamente cordiali le cortesie prodigate a tutti ed a ciascuno durante il nostro soggiorno in quella capitale delle provincie Russe Transcaucasiche. Essa fu da me trovata piuttosto frequente nella gita al Demavend, ad Hafdscheh da prima, quindi nella valle del Lar. Sta ne’ pianerottoli montani fra i cespugli o fra le più rigogliose piante erbacee, d’onde cacciata piglia un volo basso, incerto, breve, e tosto ripiega le ali per nascondersi ancora tra le fronde, così che non riesce agevole l’ucciderla. =Saxicola oenanthe.= (L.) Dell’intiera classe è questa la specie più diffusa in tutte le steppe della Persia. =S. deserti.= Rüpp. Bender Abbas. (Doria). =S. aurita.= Tem. Uccisa a Sardarak e ad Udjan. =S. stapazina.= Tem. Tiflis. =S. leucomela=. Pall. Contorni di Teheran. =Dromoloea chrysopygia=. De Fil. _Capite, collo, dorso supremo cinereo plumbeis; dorso infimo fuscescente; uropygio tectricibusque caudae (elongatis) albescenti-flavidis, sensim in rubiginoso vertentibus; collo infimo, pectoreque supremo, cinarescentibus, caeterum infra sordide alba; crisso laevissime rubiginoso tincto; remigibus fusco cinereis, secundariis extus rubiginoso marginatis; rectricibus fulvo rubiginosis, versus apicem nigris, limbo extremo denuo rubiginoso._ Il nero sul fondo rosso della coda è esteso per la terza parte delle timoniere laterali, ma nelle due mediane per la metà. Nelle parli più elevate e sassose de’ monti che fanno corona al Demavend. Rara. =Pratincola rubetra=. (L). Valle del Lar. =P. rubicola= (L.) Turkmanschai. =P. Hemprichii=. Ehr.[67] Marend. Udjan. =Accentor alpinus= (Gm.) Demavend. =Curruca hortensis=. (Penn.) Tauris. =C. atricapilla= (Bris.) Delidjan. =C. cinerea= _var_. =persica=. Da Delidian in avanti, communissima. =Sylvia Doriæ=. De Fil. _Habitus, magnitudo, rectricum pictura ut in S. conspicillata, sed rostro breviori, digitis rubustioribus. Supra grifeo isabellino, tectricibus caudæ rufescentibus: subtus alba. Pectoris lateribus pallidissime grisescenti, abdomine infimo pallidissime isabelline adumbratis._ Molto abbondante tra i bassi cespugli del deserto salato, intorno a Yezd. Sta sempre a terra, colla coda alzata. (Doria). =Drymoica gracilis=. Rüpp. Presa dal marchese Doria nei giardini di Schiraz. =Phyllopneuste trochilus= (L). Valle del Lar. =Ficedula elaica=. Lindm. Communissima dall’Armenia fino a Teheran nei giardini e nei boschetti. =Œdon galactodes=. (Tem.) Diffusa come la specie precedente, quantunque meno commune. =Acrocephalus= sp. Tauris. =Calamoherpe arundinacea= (Bris) Helenowko. =Motacilla alba=. L. Dapertutto, ed appena si distingue dalla commune nostrale pel bianco delle cuopritrici alari più esteso, in modo da formare una gran macchia bianca, come nella _M. dukunensis_. =M. boarula=. Penn. Trovata a Delidian, e nell’Elburz lungo un piccolo affluente del Lar. =Budytes flavus= (_melanocephalus_) (Licht.) Di questa specie non rinvenni che la razza dalla testa nera, dall’Armenia in avanti, nei siti umidi, erbosi. =Anthus aquaticus=. (L). Nei pascoli dell’alta valle del Lar. =A. pratensis=. (L.) Trebisonda. Tiflis. =A=. (_Agrodomus_) =campestris=. (Bechst). Tiflis. Valle del Lar. =Galerita cristata= (L.) Molto abbondante dapertutto, specialmente presso i villaggi. =Certhilauda desertorum=. Stanl. Bender Abbas (Doria). =Alauda arvensis=. L. Dovunque, nei campi coltivati. =Calandrella brachydactyla=. Nè luoghi deserti, dovunque. =C. pispoletta.= Pall. Armenia (Basc-Nurascen). =Otocoris larvata=. D. F. _Habitus Otocoridis penicillatae, sed paullulo minor; capitis et colli parte antica intense nigra, lunula frontali tantum et macula gulari parva triangulari albis._ Questa specie è affine all’_O. penicillata_ di Gould, ma se ne distingue per la grande maschera nera (nel maschio adulto) che occupa la parte anteriore del capo e del collo, appena rotta da una sottile lunula frontale, e da una piccola macchia triangolare sulla gola, di color bianco. Le piumette allungate laterali del capo sono in tal modo disposte da far sì che i ciuffetti caratteristici del genere siano doppj come nell’_O. bilopha_. La frase troppo succinta colla quale Bonaparte nel suo _Conspectus avium_ caratterizza l’_Alauda albigula_ di Brandt, potrebbe anche applicarsi a questa nuova specie, ma gli esemplari originali dell’_A. albigula_ da me osservati nel museo di Pietroburgo non differiscono per nulla dall’_O. penicillata_. L’_O. larvata_ si trova sui monti che circondano il Demavend. Vive a terra in piccole truppe, e prendendo il volo fa sentire un sibilo breve, risonante, alquanto modulato[68]. =O. penicillata=. Gould. Ne ebbi vari individui presi nei contorni di Teheran dal colonnello Andreini[69]. =Melacorypha calandra=. (L.) Nei campi coltivati, dapertutto. =Emberiza hortulana=. L. Abbondante nel Caucaso, più rara nell’Elburz. =E. Cerruti=. De F. V. la nota a pag. 113. =Cynchramus miliaris=. (L.) Dovunque, nei campi coltivati. =Euspiza melanocephala=. (Scop.) Communissima nelle valli cespugliose, e ne’ campi a’ piè dei monti. =Pyrgita domestica=. (L.) Dappertutto. =P. montana.= (L.) Ask, a piedi del Demavend, ove tien luogo della specie precedente. =Petronia stulta.= Bp. Molto commune nelle regioni caucasiclie, nei siti rupestri alla base de’ monti. =Montifringilla nivalis= (L.) Sul Demavend. =Fringilla cœlebs=. L. Vista soltanto nel Ghilan (Rustemabad). =Linota cannabina=. (L.) Nè pianerottoli attorno il Demavend. =Carduelis elegans=. Steph. Tauris. =Serinus pusillus.= (Pall.) Nelle valli attorno al cono del Demavend, in branchi numerosi. =Carpodacus crythrinus= (Pall.) Alta valle del Lar. =Erythrospiza obsoleta.= (Licht.) Ho trovato questa specie piuttosto copiosa nidificante ne’ giardini di Kazvin. Il colonnello Andreini ne ha uccisi parecchi individui a Teheran; e per contrario non ebbi ad incontrare l’altra specie affine (_E. rhodoptera_. Licht.) che dall’estremo lembo della Persia occidentale tocca i confini d’Europa. =Chlorospiza chloris= (L.) Trovata soltanto nelle regioni caucasiche (Tiflis, Delidian). =Coccothraustes vulgaris= Bris. Visto soltanto nel Ghilan (Rustemabad). =Sturnus vulgaris=. L. Commune dappertutto ne’ villaggi. =Acridotheres roseus.= (Bris.) Estremamente commune nel Caucaso, nell’Armenia, nella Persia occidentale, si fa sempre più raro verso Oriente. =Oriolus galbula.= L. Raro. Ne uccisi due soli individui: l’uno a Tedgrisch, presso Teheran, l’altro ad Hagi Baba presso Kazvin. =Fregilus graculus=. L. =Pyrrhocorax alpinus=. Viell. Ne vidi branchi numerosi alle falde del cono del Demavend. =Corvus monedula=. L. Commune nel Caucaso e nell’Armenia: più raro in Persia. =C. frugilegus=. L. Ne uccisi d’un sol colpo sette individui di uno stormo numerosissimo che veniva sulla sera ad appollajarsi nel giardino reale di Kazvin. =Corvus corax=. L. Avuto dal signor colonnello Andreini in Teheran. =Pica caudata=. Ray. Al sud dell’Elburz vista rare volte: piuttosto ovvia nel Ghilan. =Garrulus melanocephalus= Gené. Nelle regioni subcaucasiche (Uzumkalè, Delidian). =Picus maior=. L. Armenia (Kamerlou). =P. khan=. De Fil. _Occipite, cervice, dorso, fuliginoso-nigris: vertice coccineo: fronte, gula, collo antico, summoque pectore, griseo-cervinis: alis fuliginoso et albo variis: regioni scapulari late alba; remigibus omnibus maculis magnis albis; rectricibus nigris, extimis maculis lateralibus albis, ad apicem flavescentibus: superciliis, collo laterali, albis: pectore, abdomine toto, eodem colore, laeviter griseo flavescenti tinctis; crisso coccineo: maculis nonnullis indistinctis coccineis in regione pectorali: vitta laterali nigrescenti a loro per oculum ducta, et alia intense fuliginosa ab angulo oris usque ad pectus descendente._ Il genere de’ Picchj non può essere che assai scarsamente rappresentato in un paese ove la vegetazione arborea è così rara ed in sparse oasi come nella Persia. Io ne ho visto un solo individuo che non mi riuscì di prendere, nel giardino reale di Tauris, ed un secondo che fu da me ucciso a Tedgrisch, presso Teheran, quello sul quale è fondata la presente nuova specie. La quale deve stare in un medesimo gruppo coi _P. syriacus, assimilis_ ed _himalayensis._ Da tutti si distingue per le macchie bianche sulle ali grandi, più grandi del nero interposto; dal _P. syriacus_ in particolare pel becco alquanto più depresso alla base, per il collo anteriormente ceciato, e colla striscia nera laterale ben separata dal nero del dorso per il bianco interposto. =Cuculus canorus=. L. Armenia (Kamerlou,) Ghilan (Rustemabad). =Columba palumbus=. L. Trovata soltanto, e più volte, nelle foreste del Ghilan. =C. œnas=. L. Ne uccisi parecchi individui nella pianura di Suram (Caucaso). =C. livia.= Bris. Communissima nelle steppe della Persia, lungo gli aquedotti sotterranei, negli spiragli dei quali si rifugia. Ne uccisi molti individui, tutti colla parte inferiore del dorso di color bianco. =Turtus auritus.= Ray. S’incontra dappertutto ove siano boschetti o filari di alberi. =Pterocles arenarius=. Pall. =P. chata=. Pall. Su queste due specie animatrici delle steppe, vedi pag. 189. =Phasianus colchicus=. L. Frequentissimo nelle foreste lungo il Rioni, lungo il Kur ed alle sponde del Caspio. =Francolinus vulgaris=. (?) Steph. Se alla razza tipica, oppure a quella inalzata al rango di specie da Bonaparte, col nome di _F. tristriatus_, spetti il Francolino di Persia, non potrei dire. La specie non si trova che nella provincie meridionali. Il marchese Doria che ne uccise molti nel suo viaggio, non ne raccolse le spoglie. =Tetraogallus caucasicus.= Pall. (_Kepkederreh_ de’ Persiani) sulle catene del Caucaso e dell’Elburz tiene il posto del _Tetrao tetrix_ nelle Alpi. Ne ebbimo un individuo di fresco ucciso sui monti presso Diulfa. =Perdix chucar=. Abbondantissima da Erivan in poi, sulle montagne. Ne incontrai molti branchi alla base del cono del Demavend ed a Kharzan. =Ammoperdix griseogularis=. (Brdt.)[70]. È il _Tiku_ de’ Persiani. Straordinariamente abbondante nelle valli alle falde dell’Elburz. =Starna cinerea=. (L.) Non oltrepassa i monti settentrionali dell’Armenia. Presa ad Uzumkalè. =Coturnix dactylisonans=. Meyr. Assai copiosa dappertutto, nei campi coltivati. =Otis tarda=. L. Frequente nelle steppe del Caspio. =O. tetrax=. L. Ne vedemmo una copia su di un isolotto sabbioso lungo il Rioni. =O. houbara=. Gm. Due individui assai malconci, di fresco uccisi, di questa precisa specie, non dell’affine _O. Macquenii_, ci furono regalati in Djulfa da un cacciatore tartaro. =Oedicnemus crepitans=. Tem. Sui greti di Mianeh e di Sainkalè. =Cursorius œuropœus=. Lath. Ucciso nel piano di Sainkalè! =Glarcola pratincola.= (L.) Erivan, Sultanieh, Sainkalè. =Œgialites cantianus=. (Lath.) Sultanieh. =Œ. fluviatilis.= Bechst. Assai commune ne’ letti sabbiosi de’ fiumicelli. =Eudromas caspius=. (Pall.) Lungo la spiaggia del Caspio ad Enzeli. =Vanellus cristatus= M. et W. Nei pascoli a Kamerlou ed a Sultanieh. =Gallinago scolopacinus=. Bp. Nelle paludi presso Enzeli. =Pelidna minuta=. Leisl. =P. cinclus=. L. Trovati entrambi abbondanti sulle spiaggie sabbiose presso Enzeli. =Totanus calidris=. L. Visto in varj luoghi: ad Helenowko, a Sainkalè, nel Murdab. =T. glareola=. (L.) Enzeli. =T. ocropus=. (L.) Mianeh-Saìnkalè. =Xenus cinereus=. (Güld.) Ucciso presso Enzeli. =Ibis falcinellus.= (L.) In grandi truppe nel Murdab. =Ardea cinerea=. (L.) Mianeh. =Egretta alba=. (L.). =E. garzetta=. (L.). =Buphus bubulcus=. (L.) Uno sterminato numero di individui di queste tre specie, e dell’ultima sopratutto, pascolavano nel grande stagno del Murdab. =Ciconia alba=. Bris. Commune dappertutto. =C. nigra=. L. Vista soltanto nel Caucaso. (Delidian). =Gallinula porzana=. L. Trovata commune a Veramin in primavera dal marchese Doria. =G. chloropos=. L. In gran numero nè canneti del Murdab. =Fulica atra=. L. Abbondantissima in uno stagno presso il lago Goktscha. =Casarea rutila.= (Pall.). =Oidemia fusca=. (L.) Vidi queste due specie abbondantissime nel lago Goktscha, ed in uno stagno fra Basminsk ed Udian. =Phalacrocorax carbo.= (L.)? Nello stagno dianzi accennato, è nel Murdab. =Ph. pygmœus=. (Pall.) Nel Murdab. =Pelecanus crispus=. (=?=) Bruch. Lago Goktscha. =P. onocrotalus=. L. In truppe numerose presso Astrakan. =Sylochelidon caspia.= (Pall.) Mar Caspio. =Hydrochelidon hybrida=. (Pall.) =H. leucoptera=. (Tem.) =H. fissipes= (L.) Trovasi questa specie straordinariamente abbondanti presso Enzeli. Ne uccisi molti individui tutti in livrea di gioventù. =Sterna hirundo=. L. Mianeh. Enzeli. =St. minuta=. L. Mianeh. Enzeli. =Croicocephalus ridibundus.= (L.) Lago Goktscha. Murdab. =Larus argentatus= (_leucophæus_). Licht. =L. fuscus= (_fuscescens_) Licht. Trovati entrambi nel mar Caspio, presso Baku. _Rettili_. =Testudo ibera=. Pall. Communissima dovunque ne’ giardini, nei boschetti, ed anche nei luoghi sassosi ed aridi presso le aque. =Cistudo europea=. Schöpf. Negli stagni salati della regione caucasica, e nel Murdab. Straordinariamente abbondante ad Enzeli. =Emys caspia=. Schweig. Communissima dovuuque lungo le aque limpide e correnti. =Gymnodactylus caspins.= Eichw. Nelle provincie caspiche. Il marchese Doria ne ha portato un esemplare da Hamadan. =Stenodactylus guttatus.= Cuv. Bender Abbas. (Doria). =Varanus arenarius=. Geoffr. Molto commune nella pianura di Veramin. Ne ebbi un bel esemplare dal colonnello Andreini. =Stellio caucasicus=. Eichw. Molto frequente ne’ luoghi sassosi e montani, anche a notevole altezza sull’Elburz. =St. nuptus.= De Fil. _Stellio carinatus_ Dum. (1851). Io ho descritto fin dal 1843 questa specie, col nome di _Agama nupta_[71], dietro un esemplare raccolto a Persepoli dal signor Osculati. Questo nome specifico non fu da me scelto per sola bizzaria di contrasto col nome generico, ma anche per indicare la connessione fra i due generi _Agama_ e _Stellio_ che veniva stabilita dalla coda, nè completamente embriciata, nè completamente verticillata di questa nuova specie. La _folidosi_ omogenea del dorso fu interpretata da me come carattere prevalente di _Agama_. Gli esemplari portati parimenti da Persepoli dal marchese Doria mi hanno convinto della convenienza di trasportare definitivamente questa specie fra gli _Stellio_. Un carattere importantissimo sfuggito all’egregio erpetologo parigino, consiste nell’essere lo squame dorsali e caudali finemente pettinate, il quale carattere si trova, sebbene in minor estensione, anche negli _Stellio vulgaris_ e _caucasicus_. =Agama=. (_Podorrhoa_ Fitz.) =agilis=. Oliv. Molto ovvia nelle steppe da Kazvin a Teheran, ed anche nelle provincie meridionali. =A=. (_Eremioplanis_ Fitz.) =Lessonæ=. De Fil. Questa nuova specie che porta il nome del mio amico e compagno di viaggio Lessona, fu trovata dal marchese Doria presso Ispahan. È affine assai per tutto il complesso de’ caratteri all’_A. mutabilis_, ma se ne distingue facilmente per le squame del capo e del dorso tutte distintamente carenate. Superiormente grigiastra, con fascie brune-trasversali, rotte da una macchia chiara nel mezzo del dorso, e da altre macchie longitudinali sui fianchi. Inferiormente bianco perlacea. =Phrynocephalus helioscopus=. (Pall.) Nelle steppe dell’Armenia. =Phr. persicus=. De F. _Nares rotundatæ distantes_. _Notei pholidosis valde heterogenea, mucronibus hinc et inde fasciculatis in cervice, in dorso, in caudae et artuum parte supera. Squamae foemorales et humerales laeves._ _Griseo rufescens, maculis lateralibus angulatis fuscis. Ad latera colli maculae duo amplae pallide indigotinae, rubiginoso marginatae; gula lineis cinereo-azureis vermiculatis adspersa._ Questa specie si distingue dal _Phr. helioscopus_ (Pall.) pe’ seguenti caratteri: 1.º Per le squame spiniformi sporgenti distribuite a fascicoli su tutte le parti superiori del corpo, e formanti lungo la parte mediana del collo una piccola cresta longitudinale; 2.º per le squame de’ femori e delle coscie non carenate; 3.º per le narici separate da una serie di 5 squame (da due sole nel Phr. helioscopus); 4.º pel contorno del muso più ottuso; 5.º infine pe’ colori. Dal _Phr. varius_, Eichw.[72] è pure differente per gli accennati due ultimi caratteri ed inoltre per le squame labiali superiori ed inferiori uguali, per le squame marginali della palpebra inferiore assai sporgenti ed acute. A maggior ragione poi si distingue dalle altre specie del genere, le quali hanno le squame del dorso fra loro poco disuguali e tutte, adagiate. Del rimanente eccone una più particolare descrizione: Testa larga; corpo assai depresso, grosso. Gli scudetti delle regioni frontale ed occipitale grandicelli, rilevati, quelli della regione supraorbitale notevolmente più piccoli e più appianati. Piastrelle labiali superiori ed inferiori in numero di 20 per ogni lato, tutte subeguali e senza pori. Molti fascicoli di squame spiniformi con tendenza a disporsi in serie lineari longitudinali alla parte anteriore del corpo, ed in gruppi circolari alla parte posteriore. Nel mezzo della regione cervicale una piccola cresta longitudinale. Questi fascicoli di squame spiniformi si trovano non soltanto sul dorso, ma alla regione timpanica, ai lati del collo, sulla regione omerale, sulle estremità posteriori, sulla base della coda. Il _Phr. persicus_ è il più irto di tutti i Frinocefali sino ad ora conosciuti. Un grigio terreo alquanto rossastro costituisce il fondo generale della parte superiore; un bianco sporco volgente un poco al roseo occupa tutta la parte inferiore o terrestre dell’animale. Da questa parte la sola gola offre delle linee vermicolate formanti un marezzo grigio-azzurro. La parte superiore del capo è senza macchie. Ai lati del collo trovansi due grandi macchie di color indaco cinerognolo, e contornate di un sottile lembo ruggine che l’azione dell’alcool fa sparire prontamente. Quattro macchie angolari brune trovansi per ogni lato del dorso e due simili alla base dalla coda; alle quali poi seguono altre macchie più numerose e più arrotondate. Altre poche macchie brune trasverse trovansi sulle gambe. La descritta livrea è affatto costante, e costituisce quindi un ottimo carattere di questa specie, la quale è diffusa a profusione nelle campagne deserte da Sultanieh a Teheran. =Phr. Olivierii=. Dum. Bibr. Molti esemplari furono raccolti nelle provincie meridionali dal marchese Doria. =Eremias variabilis=. Fitz. Estremamente abbondante nelle steppe dall’Armenia per tutta la Persia. =E. pardalis= Licht. Più raro assai della precedente. =Lacerta viridis=. _var. strigata_. Eichw. Ovvia nelle regioni caucasiche (Tiflis, Lenkoran). È una razza costante, assai prossima al rango di vera specie. =L. Brandtii=. De F. _Habitus Lacertae muralis._ _Narium scutellis posticis duobus; squamulis temporalibus latiusculis; scutellorum abdominis seriebus decem._ _Supra grisee-olivacea nigro maculata; maculis nonnullis azureis prope regionem axillarem; suttus pallide glauco-viridis, regione anali et caudae parte infera igneo colore suffusis._ Specie distintissima per lo straordinario numero delle serie degli scudetti ventrali. Due scudetti formano il contorno posteriore delle narici, uno de’ quali sarebbe il naso frenale di Duméril e Bibron. Pori femorali 16-18 per ogni lato. Collare poco distinto: una piastrella mediana piuttosto grande, le laterali che vanno presto impiccolendosi fino alle proporzioni delle squame ordinarie del collo, così che appena si possono contare tre piastrelle ad ogni lato della piastrella maggiore mediana. Presa a Basminsk, prima nostra stazione dopo Tauris. =L. Taurica=. Pall. Frequente al piano, da Trebisonda, per le provincie del Caucaso, fin nell’Armenia. Non vista più oltre. =L. muralis.= Latr. Rara, e solo nei luoghi elevati (valle del Lar). =Ophiops elegans=. Mènètr. Communissima nelle steppe dell’Armenia per tutta la Persia occidentale, al di qua e al di là dell’Elburz. =Plestiodon Aldovrandi=. Dum. Bibr. Mollo commune da Erivan a Diulfa: sembra però che non oltrepassi, verso Oriente, la valle dell’Arasse. =Euprepis affinis=. De F. _Supra cinereo-olivaceus, lævissime aeneo micans; subtus perlaceus. Dorso seriebus quatuor parallelis longitudinalibus macularum nigrarum, sensim in regione pelvica evanescentium. In utroque latere fascia latiuscula nigra supra et subtus late albo limbata._ Questa specie è affine all’_Eup. septemvittatus_ dell’Abissinia, al quale perfino rassomiglia non poco nella distribuzione de’ colori, se non che gli scudetti del capo non sono punto contornati di nero. Le squame del dorso presentano ciascuna tre piccole carene divergenti e così poco rilevate da essere difficilmente riconoscibili. Io ho raccolta questa specie a Kazvin. Il Marchese Doria l’ha portata anche dalla Persia meridionale. =Ablepharus Ménétriesii=. Dum. Bibr. Piuttosto rara. Trovato a Tauria ed a Kazvin. =Anguis fragilis.= L. Io rinvenni questa specie a Tiflis. Il marchese Doria mi assicura averla veduta anche a Teheran. =Pseudopus Pallasii=. Opp. Questa specie, non deve mancare anche negli alti piani della Persia: io però non la incontrai che una sola volta, nelle provincie caucasiche (Hussein Beglar). =Typhlops vermicularis=. Merr. Piuttosto frequente ad Erivan ne’ siti umidi. =Eryx jaculus=. _var_. Teherana. Jan. Merita d’essere distinta come varietà dall’_E. jaculus_ d’Egitto. Color del fondo nocciuola; distribuzione delle macchie un po’ differente che nel tipo della specie; esse sono assai irregolari, isolate fra loro o tutt’al più confluenti a due a due; le più grandi stanno sul dorso, le minori sui fianchi; tutte son formate da striscie nerastre parallele decorrenti sui margini delle squame. Circa gli scudetti laterali della testa, poco differisce dalla specie tipica. In ambedue gl’individui esaminati s’osservano 4 scudetti o grandi squame in linea retta fra il nasale e l’occhio; nella specie non sono più di 3 e poste assai irregolarmente. Scudetti che formano il cerchio dell’occhio 11, 12; nel tipo son quasi sempre 10. Sopralabiali 12, cioè: due o tre di più che non nella specie tipica. Dimensioni Museo di Torino Coll. Doria Lunghezza totale 46" 56" — della coda 5" (mozzata) 3" — scudetti addominali 191 185 — — caudali 25 — 14 Serie longit. di squame 45; prima dell’ano 28, dopo 22; alla metà della coda 10. =Eirenis collaris=. (Ménétr.) Trovato a Tiflis, ad Erivan, ed anche nella Persia meridionale. =Tyria Dahlii.= (Fitz.) Tiflis. Erivan. =Tarbophis fallax.= (Fitz.) Tiflis.[73]. =Periops caudolineatus.= (_Zamenis_. Günth. Cat. of the snakes in the Brit. Mus. p. 104). Per la sua forma deve essere separato dai _Zamenis_ ed andare riunito al gen. _Periops_. Fra i molti individui esaminati è rimarchevole la varietà _nera_ che trovasi nella collez. Doria e fu raccolta a Teheran. Si osservano anche differenze notevoli, probabilmente dovute a diversità di sesso. La maggior parte degli individui hanno le squame con carene assai visibili; in altri invece si rimarca appena una leggiera convessità in mezzo alle squame. Negli uni le macchie del dorso sono grandi, subrotonde e sono circondate addirittura dal color del fondo; negli altri sono più piccole, ovali e contornate da un orlo bianco-giallastro. Su tutti però si osservano le striscie nere longitudinali che cominciano alla parte posteriore del corpo e continuano su tutta la coda. =P. parallellus=. Geoff. var Schiraziana, Jan. Differisce dagli esemplari dell’Egitto per le macchie del dorso subrotonde; quelle che alternano sui fianchi sono d’ordinario ovali o subrotonde non mai allungate e rettangolari. Inoltre negli individui d’Egitto i prefrontali stanno a contatto col frontale, mentre in quelli di Persia sono separati da tre piccoli scudetti; questa particolarità è così costante nei molti esemplari da me veduti, che può essere ritenuta per un buon carattere per distinguere dalle altre la varietà della Persia. =Psammophis Doriæ=. Jan. Rassomiglia grandemente al _Ps. moniliger_ e precisamente a quella varietà che mi fu communicata dal museo di Leyda come il tipo del _Choridoson sibiricum_. Differisce nondimeno da tutti i _Psammophis_ per la singolar struttura del nasale che consta di tre scudetti: l’anteriore è il più grande e riceve in un angolo rientrante il foro della narice; dietro ad esso stanno gli altri due sovrapposti, dei quali l’inferiore è piccolo ed il superiore è assai lungo ed arriva sino alla metà del frenale al quale sovraincombe. Gli altri suoi caratteri soqo: 1 preocculare, 3 postoculari, 5-6 temporali; 9 sopralabiali di cui il 4º, 5º e 6º toccano l’occhio; 11 sottolabiali di cui il 6º è il più grande. Squame liscia in 17 serie longitudinali. La tinta generale del corpo è bianco-giallognola con tre serie longitudinali di punti neri sul dorso, ciascuno dei quali occupa l’apice di una squama; sulla testa vi hanno delle fascie longitudinali nerastre come nel _Ps. monigiler_. L’esemplare è lungo 65" 5''', la coda 15". Contansi 178 addominali e 79 caudali doppi. =Zamenis viridiflavus=. var. =Z. rhodorachis.= Jan. Questa specie fu da Günther ritenuta come una varietà del _Z. florulentus (Z. ventrimaculatus_ Günth. Cat. of the Snakes in the Brit. Mus. p. 106). Egli la descrive così: «Var. C. Olive, without cross bands, a broad rose coloured band along the whole back; form and structure of head shields completely the same as in the following varieties» _(florulentus)_. — Essa però è non solo sempre priva delle macchie trasversali che distinguono a prima vista il _Z. florulentus_, ma ha costantemente 19 serie, e non 21 come le ha quest’ultima specie. =Spalerosophis.= n. gen. Appartiene alla famiglia dei Colubridi ed ha alquanto l’aspetto dei _Periops_, ma se ne stacca pei seguenti _Caratteri generici_. Parte anteriore della testa coperta superiormente da 20-25 _piccoli scudetti irregolari che stanno al posto degli internasali_ e dei _prefrontali_; ad essi tengon dietro un frontale, due sopraoculari e due parietali. Occhio interamente circondato da 10-13 scudetti di varia forma, che gl’impediscono di toccare i labiali. Rostrale troncato all’apice, a sei angoli ben decisi. Nasale diviso. Frenale e temporali sostituiti da piccole e numerose squame. Labiali sup. 14-15, inf. 15-17. Due paia di inframascellari. Squame piccole, liscie, convesse, disposte in 41-43 serie longitudinali. Anale intero. Caudali doppi. Denti della mascella superiore lisci, uguali in grandezza, senza intervallo _(Isodonta)_. =Sphalerosophis microlepis.= Jan. Color del fondo quasi di camoscio (o meglio caffè al latte). Superiormente notansi delle macchie nerastre rettangolari strette e trasversali al dorso, fiancheggiate da altre, longitudinali presso il collo, indi più piccole, subquadrate, alternanti; una fascia nera corre fra gli occhi e si prolunga fin dietro la bocca. Di sotto è di color giallastro senza macchie. L’esemplare raccolto da Doria nel Laristan misura 123", la testa 3" 8''', la coda 24". Dopo 4-5 paja di squame gulari contansi 263 addominali e 100 caudali doppi. Un altro posseduto dal museo di Milano, proveniente a quanto pare da Schiraz, è lungo 70", la coda 15". Esso è in tutto eguale al primo, sia pel colorito, sia per la folidosi. =Tropidonotos hydrus.= Pall. È senza contrasto la specie più abbondante in Persia, ed anche la più diffusa, trovandosi dalla Russia meridionale, sin nelle provincie meridionali della Persia. =Echis carinata.= Merr. =Vipera lebethina.= Forsk. _Anfibj._ =Rana cachinnans.= Pall. È molto incerto se questa specie debba andar distinta dalla commune _R. esculenta_ di Europa. La diversa macchiettatura e la diversa voce farebbero propender per l’affermativa. Sarebbe allora da riferirsi a questa specie la rana commune da Trebisonda per tutta la Persia occidentale. =R. oxyrhina.= Steenslr. Probabilmente la vera R. temporaria manca nella Persia occidentale. Gli individui da me raccolti presso il lago Goktscha ed a Sultanieh presentano tutti i caratteri dell’_oxyrhina_. =Bufo variabilis.= Pall. S’incontra dovunque siano pozzanghere o stagni. _Pesci._ Avendo già enumerate la specie finora conosciute del Caspio, eviterò una inutile ripetizione, e farò cenno soltanto de’ pesci degli altipiani della Persia, e de’ confinanti paesi, lamentando che il mio bottino ittiologico, per sè stesso non ricco, siasi ancora assottigliato dalla perdita di una molto bella collezione fatta a Sainkalè. =Gobius macropus.= De Fil. _Minor: corpore subcilindrico; pinnis pectoralibus et ventralibus valde elongatis; squamis semicircularibus._ D. 6 — 18. A. 14. V. 12. _Squam. ser. long._ 56. _ser. vertic._ 22. Di color pallido, con poche macchiette brune disseminate, e liste longitudinali brune sulle natatoje dorsali e sull’anale. Pettorali con raggi assai lunghi, arrivanti fino al 3º raggio della 2ª dorsale; la ventrale lunga che, distesa sul ventre, oltrepassa l’apertura anale. Occhio grande più di un terzo del capo; superiormente l’uno quasi contiguo all’altro. Dal lago Palestem presso Poti. =Cyprinion tenuiradius.= (Heck. Fische Syriens. pag. 159) contorni di Schiraz (Doria). =Systomus alpinus.= De Fil. (_Syst. albus var alpina_ Heck. op. cit. pag. 155). Trovo conveniente convertire in nome specifico quello dato da Heckel alla varietà di Persia del suo _Sys. albus_, dissonando troppo quest’ultimo nome per una specie di color piombino scuro. Portata da Schiraz dal marchese Doria. =Barbus lacerta.= Heck. (op. cit. pag. 54. tav. II. fig. 1). Molti individui delle sorgenti dell’Eufrate presso Erzerum mi furono spediti dal cav. Bosio R. console d’Italia in Trebisonda. =B. Cyri.= De Fil. Questa specie del Kur presso Tiflis, fu da me confusa colla precedente. (Archivii di zoologia, ecc. tomo II, Modena 1863). Mi risulta invece, dopo il confronto col vero _B. lucerta_, come affatto distinta per l’occhio notevolmente più piccolo, le labbra meno carnose, il 3º raggio della dorsale molto più grosso per due terzi della sua lunghezza, e coll’apice molle. Dal B. _scincus_ Heck, al quale pure molto rassomiglia, si distingue per le squame più piccole. D. 2 — 8. A. 2 — 5. _Squam. scr._ 66 13/13. =B. miliaris.= De Fil. _Microlepidotus: corpore elongato; centro oculi supra, apice operculi infra axin corporis. Radio osseo pinnae dorsalis supra pinnarum abdominalum origine, margine postico serrato, apice molli._ D. 2/8. A. 2/6. V. 1/8. P. 1/14. _Squam. ser._ 92 18/20. Gli occhi superiormente sono fra loro distanti di un diametro e mezzo. Fra l’occhio ed il cirro angolare corre poco più di un diametro oculare. La pupilla è superiore, l’apice dell’opercolo invece è inferiore all’asse del corpo. Il diametro oculare sta quattro volte e mezza nella lunghezza del capo; e la lunghezza del capo misura altrettante volte la lunghezza totale, compresa la coda. Finalmente macchiettato di nero anche sul ventre e sulle pinne dorsale ed anale. De’ fiumicelli presso Teheran. =Abramis microlepis= De Fil. _Corpore compressiusculo, longitudine altitudinem ter superante._ _Capite impressione nuchali a thorace distincto. Linea lateralis in medio corporis. Squamae exiguae._ D. 2/9. A. 2/17. _Squam. ser._ 82 15/15. La lunghezza del capo misura una volta e mezza l’altezza del corpo. La mascella superiore è alquanto sporgente; la bocca piccola. Il diametro oculare è uguale ad un quarto della lunghezza del capo. La perpendicolare calata dal primo raggio dorsale corrisponde alla metà delle ventrali adagiate sul corpo. Argenteo, verdastro sul dorso. Una fascia scura longitudinale ai fianchi circa al terzo superiore dell’altezza del corpo. Pinne bianco-ranciate; la dorsale coll’apice nerastro. Del Kur, presso Tiflis. Questa specie è molto affine al _Cypr. chrysoprasius_ di Pallas (_Zoographia Rosso-Asiatica_, pag. 318), ma se ne distingue per tre soli raggi alla membrana branchiostega, come nelle altre specie del genere, e per un minor numero di raggi alla pinna anale. =Capoeta chebisiensis= (Keys). (_Neue Cypriniden aus Persien pag. 8_, tav. 11). =C. saadi= (Fleck). (Op. cit. pag. 158). Esemplari di questa e dell’antecedente specie furono raccolte dal march. Doria presso Schiraz. =C. umbla?= (Heck). (Op. cit. pag. 70). Fra i pesci raccolti a Sainkalé nell’Abhar, e che andarono perduti, una specie vi era che pe’ caratteri generali e sovratutto per la minutezza delle squame si ravvicina a questa. =C. socialis= (Heck). (Op. cit. pag. 115). =C. fratercula= (Heck). (Op. cit. pag. 69). Le piccole capete così frequenti in tutti i fiumicelli da Tauris a Teheran si riferiscono in massima parte a queste due specie. =Squalius turcicus.= De Fil. Molto assomigliante allo _Sq. cavedanus._ Taglio della bocca obbliquo. Mascella inferiore alquanto sporgente. Diametro dell’occhio misurante 5 volte la lunghezza del capo: questa subeguale all’altezza del corpo, e misurante 5 volte la lunghezza del corpo stesso. Fronte piana, larga: il diametro oculare sta 1 3/4 nella distanza fra un occhio e l’altro. Perpendicolare del 1º raggio dorsale cadente sulla 16ª squama della linea laterale. Pinna anale piuttosto alta, arrotondata, squame grandi 41 7/3. D. 2 — 8. A. 2 — 9. Dell’Arasse presso Erzerum. Avuta dal cav. Bosio. =Telestes leucoides.= De Fil. _Habitus, corporis proportiones, pictura, uti in Leucode aula. Pinna dorsalis ventralibus retroposita._ D. 2/8. A. 2/9. Ser. squam. 40 7/4. Rassomiglia perfettamente ad uno dei pesci più volgari di Lombardia e di Piemonte, che è il _Leucos aula_ Bp; ma se ne distingue per que’ caratteri che separano il genere _Telestes_ dal genere _Leucos_ cioè per avere due ordini di denti faringei, e non già un ordine solo. Proprj di questa specie, in confronto delle congeneri, sono la forma del corpo assai meno svelta, l’attacco della dorsale dietro quello delle ventrali, le grandi squame. Ho trovato questa specie in un rigagnolo presso Batum. =Phoxinus Marsilii= (?) Heck. Nello stesso fiumicello di Batum guizzavano in gran numero dei Phoxinus dalla linea laterale distinta e continua fino alla coda, e nei quali spiccava un carattere che io non ho mai riscontrato, in alcuna stagione, nel commune Ph. levis d’Europa: l’angolo superiore dell’opercolo rilevato e di color bianco, d’onde risultavano due macchiette laterali bianche marcatissime. È noto che Heckel, autore della specie che porta il nome di _Marsilii_, la ha poscia ricongiunta al _Ph. lœvis_. =Alburnus Eichwaldii.= De Fil. _Cypr. alburnus Lin._ juxta Eichw. _Corpore elevatiusculo: longitudine altitudinem quater superante. Oculis majusculis._ D. 2/8. A. 2/12. _Squam. ser._ 50 11/7. Corpo più elevato che nelle specie congeneri: la sua altezza sta quattro volte nella lunghezza, compresa la pinna caudale. Muso acuto; la mascella inferiore poco sporgente. Dorsale posta molto all’indietro dell’attacco delle ventrali. Linea laterale che segue la curva del ventre. Dorso bruno verdastro chiaro. Una striscia nerastra longitudinale equidistante dal profilo del dorso e della linea laterale. Abbondantissimo nel Kur presso Tiflis. =A. iblis.= Heck. Erzerum. Arasse. Eufrate. =A. Doriæ.= De Fil. Rassomigliante pei colori e per le proporzioni alla specie precedente, ma distintissimo per le squame assai più grandi. Sq. 53 8/4. D. 3 — 7. A. 3 — 9. Linea laterale quasi diritta, cioè che lo distingue dal _Leuciscus albuloides_. Val. Portato dal marchese Doria dai dintorni di Schiraz. =Cobitis persa.= Heck. (Op. cit. pag. 164). È la specie la più abbondante e la più diffusa di tutti i fiumicelli della Persia; e così rassomigliante in tutto alla _C. insignis_ Heck. di Siria, da non doversi da questa specificamente separare. =C. merga.= Krinicki. Questa specie, da cui non sembrami punto differire la _C. malapterura_ Val, e sarei per dire neppure la _C. tigris_ Heck, fu da me trovata ne’ fiumicelli di Sartschem e di Sainkalé, ma in scarso numero di individui. =Acanthopsis aurata.= De Fil. _Habitus Acanth. taeniae, sed corpore longiore, cirris longioribus, aculeo infraorbitali cum diametri verticalis oculi prolungatione coincidente. Corporis lateribus et abdomine nitide auratis._ D. 1 — 7. V. 7. P. 8. A. 1 — 6. L’altezza del corpo sta 6-1/2 nella lunghezza totale. Cirri lunghetti: il mascellare esterno disteso sulla guancia arriva al maggiore anteriore dell’orbita. Spina sottorbitale corrispondente alla perpendicolare calata dal centro della pupilla. Colori distribuiti come nella _C. taenia_; più distinte però sono le macchie quadrate nel mezzo del dorso, e fra esse e le macchie laterali nebulosità sfumate. Lati del corpo e ventre di un bel dorato brillante. Trovata in un fiumicello presso Sartschem. =Petromyzon.= Molti individui ancora allo stato di larva (_Ammocætes_), furono da me pescati in un ruscello presso Batum. Rassomigliano in tutto alla commune piccola lampreda d’Europa, (_P. Planeri_ sen _Ammocætes branchialis_), colla sola differenza delle dimensioni alquanto maggiori. Non avendo potuto rinvenire la forma adulta, la specie non mi riesce determinabile. Qui finisce l’elenco degli animali vertebrali osservati nel nostro viaggio. Il ricchissimo bottino entomologico che trovasi tuttora nelle mani del march. Giacomo Doria non sarà così presto scientificamente ordinato. Il giovane naturalista che ha troppo gustate le emozioni della vita attiva per campi inesplorati, le immediate soddisfazioni del ricercatore felice, è ancora impaziente del tranquillo minuto e duro lavoro del gabinetto. Per non lasciare però a questo posto una troppo grave lacuna, darò qui, valendomi delle osservazioni stesse communicatemi durante il viaggio dal mio amico Doria, un abbozzo che esprima almeno l’impressione generale del carattere dominante nella fauna entomologica del paese percorso. Come nelle altre classi del regno animale, la Persia non offre nulla di caratteristico in quella degli insetti. Non vi sono tipi particolari al paese. È la fauna circum-mediterranea nel nord e nel centro; quella d’Egitto e di Siria, con aggiunte di alcune poche specie indiane, nel sud, fino alla sponda del golfo persico. Di coleotteri la Persia è poverissima. I deserti salati, che per i due terzi formano la faccia del paese, sono poco favorevoli allo sviluppo delle specie. Pochi Tenebrionidi, Adesmie, Pimelie, Tentirie, abitano quelle immense desolate pianure. Fra le radici delle salsole, e di altre piante caratteristiche dei terreni salini sono abbondanti alcuni _Dyschirius_ e specie di Anticini. Quest’ultima famiglia è una delle più riccamente rappresentate nella Persia. La completa mancanza di foreste e la grande aridità (si eccettuino sempre il Ghilan ed il Mazanderan), spiegano la grande scarsità de’ Carabici. Negli altipiani, Doria non ebbe a trovare una sola specie di _Carabus_, soltanto una piccola _Calosoma_ che di giorno corre sui terreni infuocati del deserto, ed è veramente caratteristica del paese per la sua grande estensione dalle falde dell’Elburz fino alle sponde del golfo Persico. Uguale distribuzione geografica ha il _Metabletus exclamationis_, abbondante del resto anche in Siria ed a Cipro. Poverissima vi è la famiglia degli Idrocantari, ed appena mediocremente rappresentata quella de’ Brachelitri. I prati, così di piano come di monte, che in primavera ricuoprano alcune più fortunate parti del paese, sono abbastanza ricchi di insetti florali. Le _Cantharis_, le Litte, le _Mylabris_, le Cerocome, ed alcuni bei Cleriti, vi sono abbondantissimi. Anzi le _Mylabris_ sono caratteristiche del paese per eccellenza. Gli Elateridi vi sono in numero minimo. Non così i Buprestidi, rappresentati dalle belle Iulodis viventi in famiglia innumerevoli sull’_Alhagi camelorum_, dalle grosse _Capnodis_ de’ salici, e da molte piccole specie assai interessanti. Lamellicorni e Cerambicini pochissimi. Fra i primi qualche bel Rizotrago: straordinariamente commune la _Polyphylla fullo_, e commune pure qualche bella Cetonia, per esempio la _Oxythyrea cinclella_, che rappresenta, come in tutto Oriente, la volgare _stictica_ di Europa. Fra i secondi qualche specie di _Oberea_, _Clytus_, _Leptura_, e la solita _Aromia ambrosiaca_, ma di grosse specie nulla. La povertà di queste due ultime famiglie è sufficientemente spiegata nella Persia dalla mancanza di vecchi tronchi in decomposizione. Meno alcune specie di Altiche, e la communissima _Coccinella 7-punctata_, di Crisomeline e Coccinelle vi è grande scarsità. Pochi Curculioniti, ma in compenso di specie assai interessanti. Grande abbondanza di Ortotteri, ma più di individui che di specie. La scarsità di aque trae con se una grande povertà di Neurotteri. In quei grandi deserti sono però numerosissimi i Formicaleoni, e non rari tumuli di Termiti. Sulle montagne alcune belle Erebie, e nelle pianure alcune Pieridi ed Antocaridi sono i più abbondanti tra i Lepidotteri. La Persia è il paese degli Asilidi e degli Antracidi tra i Ditteri. L’ordine degli Imenotteri poi è riccamente rappresentato, specialmente dalla specie scavatrici. Di Emitteri assoluta penuria, eccettuate alcune piccole specie interessanti, abitatrici de’ paesi sabbiosi. Un paese arido e monotono quale è la Persia non può offrire copia nè di specie nè di individui tra i Molluschi. Le poche specie raccolte nel viaggio furono sottomesse allo studio del giovane e cultissimo naturalista Arturo Issel, il quale ne ha fatto argomento di una bella monografia che vedrà fra non molto la luce ne’ volumi della R. accademia delle scienze di Torino. Il Ghilan deve presentar senza dubio una fauna malacologica discretamente ricca e svariata, ma noi non abbiamo fatto che attraversarlo rapidamente. Accenno qui il fatto singolare del non aver noi trovato nei fiumicelli della Persia alcun rappresentante de’ generi _Unio_ ed _Anodonta_, e trascrivo, dal lavoro del signor Issel, l’elenco delle specie viventi terrestri e fluviali del paese percorso. =Melania tuberculata.= Müll. Nelle aque termali di Kerman. =Melanopsis mingrelica.= Bay. Poti: pochissimo distinta dalla _prœrosa_. =M. Doriæ.= Iss. Kerman. =Paludina mammillata.= Küst. Poti. =Bithynia hebraica.= Bourg. Nel Sanga presso Erivan. =B. Uzielliana.= Iss. Kerman. =Neritina (Theodoxus) fluviatilis.= (L.) Poti. =N. schirazensis.= Parr. Erivan. =N. Doriæ.= Iss. Kerman. =Succinea Pfeifferi.= Rosm. Armenia. =Zonites lucidus.= Drap. Armenia. =Helix syriaca.= Ehren. Erivan. Ghilan. =H. Langloisiana.= Bourg. Schiraz. =H. derbentina.= Andrz. Ghilan. =H. Krinickyi.= Andrz. Caucaso. Ispahan. =H. atrolabiata.= Kryn. Ghilan. =H. stauropolitana.= A. Schm. Ghilan. =Bulimus interfuscus.= Mouss. Armenia. =B. sidoniensis.= Fer. Ghilan. =B. polygyratus.= Reeve. Bender Abbas. =B. subcylindricus.= Lin. Dovunque. =B. Doriæ.= Iss. Ispahan. =B. anatolicus.= Iss. Trebisonda. Erivan. =B. Bayerii.= Parr. Ispahan. =Id. var. Kubanensis.= Bay. Armenia. =B. tridens.= Müll. Ghilan. =B.= (=var. attenuatus.= Iss.) Trebisonda. =B. Isselianus.= Bourg. Rive del lago Goktscha. =B. ghilanensis.= Iss. Ghilan. =Pupa armeniaca.= Iss. Erivan. =Clausilla canalifera.= Ross. Armenia. =C. Duboisii.= Charp. Trebisonda. Armenia. =C. foveicollis.= Parr. Transcaucasia. Erivan. =C. erivanensis.= Iss. Erivan. =C. Lessonæ.= Iss. Ghilan. =Cyclostoma costulatum.= Pfeiff. Trebisonda. Erivan. =C. glaucum.= Pfeiff. Ghilan. =Planorbis complanatus.= Lin. Armenia. =Ancylus Janii.= Bourg. Erivan. =Lymnæus palustris.= Müll. Kerman. =L. limosa.= Lin. Enzeli. =L. Filippii.= Iss. lago Goktscha. =L. auricularia.= Lin. Kerman (_var. persica_). XXI. Carattere della fauna della Persia occidentale, in probabile accordo colla formazione recente di quelli altipiani, e co’ dati geografici dell’Avesta. — Materie a ricerche future. La regione elevata circoscritta dalle ultime propagini del sistema Tauro-caucasico e dall’Elburz a settentrione ed all’occidente, dalla linea congiungente le scaturigini degli affluenti del Tigri a mezzogiorno, ed a levante perdentesi nel gran deserto salato, è una ben definita unità geografica, alla quale dovrebbe corrispondere un qualche particolare stampo nella fauna e nella flora, ma questa corrispondenza non si trova affatto. Sotto l’aspetto della fauna e della flora, questa regione non è che una provincia di un assai più vasto regno, che è il regno delle steppe, comprendente la Turania, ossia la grande depressione Aralo-Caspica. La differenza di livello fra gli altipiani della Persia occidentale ed il bacino del Caspio, compensa in parte la differenza della latitudine; ma tra i due paesi s’interpone, nella direzione quasi di un circolo parallelo, la catena dell’Elburz, seguita per tutto il suo versante settentrionale dalla oasi paradisiaca del Mazanderan e del Ghilan. Una grande continua barriera di questa fatta, comportandosi come le altre catene principali della superficie terrestre, dovrebbe servire di separazione tra due faune sensibilmente distinte, eppure non separa nulla. V’è una assai maggiore differenza nella fauna al di qua e al di là delle Alpi, all’oriente ed all’occidente d’Europa, che non in quella al nord ed al sud dall’Elburz. La fauna della Persia occidentale si distingue prima di tutto per la grande prevalenza di specie europee. Ma se bene si riflette, un gran numero di queste specie, e nel caso nostro le più caratteristiche, sono limitate all’Europa orientale, e sarebbero più propriamente da chiamarsi specie dell’Asia occidentale, se lasciando noi il vezzo di far centro del mondo il nostro gabinetto, riferissimo piuttosto le specie ai loro veri focolaj naturali. La fauna della Persia occidentale, priva di uno stampo suo particolare, è fondamentalmente una fauna turanica. Quando io vidi in Pietroburgo la collezione fatta da Karelin nelle steppe de’ Kirgisi, rimasi colpito dal trovarla in gran parte costituita dalle medesime forme che io aveva osservate nella Persia; cioè dalle stesse precise specie, o da specie fra loro pochissimo differenti. La Turania forma nell’Asia, dal punto di vista zoologico, il regno de’ Criceti, degli Spermofili, de’ Merioni, de’ topi saltanti (Dipus), delle Otarde vere, delle Glareole, degli Ophiops, de’ Frinocefali, degli Ablefari, degli Storioni, e di particolari forme di ciprinidi (Abramis, Aspius, Pelecus). Ora se il carattere turanico della fauna della Persia occidentale non è puro, ciò non dipende dal miscuglio con tipi proprj a questa provincia dell’Asia, ma da elementi venuti dal difuori, da paesi circonvicini. Ed è poi di sommo interesse l’osservare come questi paesi abbiano concorso con tributi differenti: le più orientali regioni dell’Asia con specie di mammiferi e di uccelli; l’Africa coi rettili; il bacino dell’Eufrate coi pesci. Infatti la tigre, ed il ghepardo si trovano in questa parte della Persia al loro estremo confine occidentale; e lo stesso può dirsi dell’_Otocoris penicillata_, dell’_Ammoperdix griseogularis_, e del _Tetraogallus_[74]. Alcune specie meno decise, alcune razze locali, manifestano parimenti ne’ loro tratti distintivi, rapporti della medesima natura, così l’_Ovis Gmelini_ congiunge ai caratteri del vero _O. musimon_ la cornatura del vero Argali dell’Altai[75]; le sue corna cioè sono triquetre, colla faccia anteriore piana, non arrotondata come nel mufflone? d’Europa. Così il mio _Picus khan_ collega il _P. syriacus_ coll’_hymalayanus_; la _Motacilla alba_ è rappresentata da una razza che fa passaggio alla _dukunensis_, e la _Budytes flava_ lo è dalla razza melanocefala che predomina tanto nelle Indie. La stessa derivazione orientale si dovrà forse riconoscere per altre specie che dalla Persia si estendono verso occidente nell’Africa settentrionale, come per esempio, il _Canis corsae_, la Jena rigata, il Leopardo, il _Pterocles chata_, ed il _Pt. arenarius_ ecc. Tutto fa credere che dal principio dell’epoca attuale il movimento estensivo della specie di mammiferi e di uccelli, nel così detto continente antico, prevalga nella direzione da oriente verso occidente. Lasciando da parte gli animali che possono aver subita l’azione diretta o indiretta dell’uomo, i pochi ma ben constatati esempi di nuove colonie fondate a nostro propria testimonianza da qualche specie dell’anzidette due classi, ne danno ampia dimostrazione. È troppo nota, per esempio la diffusione del _Mus decumanus_. Il _Carpodacus erythrinus_, specie per rispetto alla stessa Persia affatto orientale, si è da circa trent’anni stabilito in Finlandia, ove era prima affatto sconosciuto. Tutti i giornali zoologici hanno parlato in questi ultimi anni dell’emigrazione del _Syrrhaptes paradoxus_, fin nell’occidente d’Europa, e della nidificazione avvenuta di queste specie nel Jutland. Non v’ha dubio che senza la persecuzione de’ cacciatori questa specie sarebbesi definitivamente stabilita anche in Europa. Basta soltanto percorrere l’elenco schierato nel precedente capitolo per vedere quanto siano prevalenti il carattere africano nella fauna erpetologia della Persia occidentale, ed il carattere siriaco nella povera fauna ittiologica degli altipiani di questa regione. Al cospetto di questi fatti si è tentati di credere che la Persia occidentale abbia preso l’attuale suo assetto dopo che l’ordinamento dei centri di diffusione delle specie era compiuto, come una terra nuova e neutra colonizzata poscia da immigrazioni dalle terre vicine. Si è tentati, dico, e ben riflettendo si trova che cedere a questa tentazione è accostarsi alla verità. Lo stampo caratteristico proprio della fauna e della flora è il vero blasone geologico di un paese. Così, per esempio, quel grande continente australe che ha preso il nome di Nuova Olanda, lungi dall’essere una terra nuova, nella quale la creazione organica non sia ancora pervenuta allo sviluppo che ha raggiunto negli altri continenti, si deve ritenere come la terra più antica, come quella che ha conservato ancora al giorno d’oggi il carattere primitivo di una flora e di una fauna che nelle altre parti del mondo sono state rinnovate per intiero da’ successivi cambiamenti geologici[76]. In perfetta antitesi colla N. Olanda è la Persia occidentale. In questa regione, geograficamente così ben limitata, la mancanza di un qualunque carattere proprio, locale, nella fauna e nella flora, è una patente di nobiltà nuova, di nuova origine. Alla quale conclusione si giunge pure, ed anzi più speditamente, per un’altra via, per un’altro genere di ricerche. Le poche ma sufficientemente chiare e nette osservazioni che io ho potuto fare nel mio viaggio, mettono in evidenza l’epoca recentissima di quelle fasi geologiche, per le quali questa parte dell’Asia ha presa l’attuale sua conformazione. È di somma importanza la sezione naturale dell’alto-piano dell’Abhar, operata dal fiume nelle intercorrenti sue piene. L’immensa formazione di tritume porfidico e marnoso onde questo alto-piano risulta, vedesi molto chiaramente, presso Sainkalè, sovraposta ad un grande deposito di argilla e sabbia in strati regolari, orizzontali, contenenti in copia produtti dell’industria umana, come cocci, ossa d’animali artificialmente rotte, frantumi di carbone vegetale. Si può dire con certezza che l’altopiano dell’Abhar è di formazione posteriore alla comparsa dell’uomo, quindi all’ordine attuale di distribuzione delle più caratteristiche forme organiche. Che gli altri altipiani della Persia occidentale, per la natura del terreno e per la continuità così strettamente collegati con questo dell’Abhar, non debbano far causa separata, è opinione talmente sostenibile, che la contraria non potrebbe essere ricevuta senza molte valide prove. I tagli del terreno da Sultanieh a Kirwah parlano abbastanza chiaro. Qui non si tratta di depositi circoscritti, isolati, distinti, ma di una sola continua formazione, di un terreno di trasporto disteso sul fondo di tutto l’altipiano. Sull’epoca sua più o meno antica, per rispetto ad altre formazioni consimili di Europa, si può discutere, ma già soltanto per la sua estensione e grossezza, in nessun rapporto con cause locali possibili od anche soltanto immaginabili dell’epoca attuale, non si può esitare ad applicare la denominazione di terreno diluviale a tutto il deposito di ghiaja e sabbia disteso in questo altipiano sotto il limo delle steppe. Non resta più che a cercare in questo terreno qualcuna di quelle che si chiamano _medaglie della natura_, come sono i denti di elefante e di rinoceronte, e le accette di pietra nel famoso terreno di Abbeville. Ora qui abbiamo qualche cosa di egualmente solenne ed incontrastabile, qui abbiamo gli strati argillosi di Sainkalè con sì chiare e numerose traccie dell’industria romana. Anzi riprendendo qui in esame i fatti già esposti, e i diversi livelli di Sultanieh, Sainkalè, Kurremdereh, e Kirwah, si trova che il gran deposito di ghiaja e sabbia di questo altipiano ne ha occupato particolarmente il più basso fondo, assottigliandosi verso i lembi, ove il terreno era più elevato; ed ivi ricoprendo strati preesistenti, con avanzi dell’opera umana. La località di Sainkalè è da prendersi, allo stato presente come punto di partenza per le questioni che si vorrebbero trattare sul terreno di trasporto degli altipiani della Persia occidentale. Gli strati di argilla, con frammenti di carbone vegetale e di stoviglie grossolane, ivi ricoperti da uno strato di ghiaia e sabbia che si continua e prende uno sviluppo crescente a livelli inferiori, costituiscono un orizonte geologico di una chiarezza incontrastabile. La formazione di questa gran massa di terreno di trasporto, non potrebbe, a mio avviso, essere considerata come un fatto isolato, locale, senza contraccolpo in Europa. Io sono ben lontano dall’avere come dimostrata l’opinione la quale considerasse, per esempio, l’oramai celebre terreno di trasporto di Abbeville come dovuto a cause affatto locali; ma ben si può dire che l’opinione contraria non emerge necessariamente dalla posizione di questo terreno; e lo stesso può ripetersi di altri depositi corrispondenti, situati a pochi metri di altezza sul livello del mare. Qualora non intervengano altre considerazioni in contrario, l’azione della causa che li hanno produtti, potrebbe imaginarsi ristretta ne’ limiti di determinati bacini. In Persia la cosa è ben differente: là abbiamo una molto estesa formazione detritica a grande altezza sul livello del mare. Prendiamo per ora i soli limiti nei quali questa formazione fu da noi presa in speciale considerazione; cioè i due estremi di Sultanieh e di Kirwah, distanti fra loro in linea retta dai 70 agli 80 chilometri. Dalle osservazioni ipsometriche fatte accuratamente ad ogni stazione dal mio amico e collega prof. Ferrati, risulta che Sultanieh è all’altezza di 1860 metri sul livello del mare, Sainkalè 1724, Kirwah 1450. Ora la causa produttrice di una così sterminata irruzione di aque, come quella che era necessaria per formare a tanta altezza un tale deposito, non può a meno che aver avuto un assai esteso perimetro di azione. Ed anche supponendo questo deposito formato ad un livello inferiore, poi sollevato lentamente e per gradi, si può subito scorgere che questi cambiamenti pei quali si costituirono infine al posto e coll’estensione attuale gli altipiani della Persia occidentale, non possono non aver spiegata una influenza anche sul clima dell’Europa. Alla formazione de’ terreni di trasporto dell’Europa centrale ha contribuito in gran parte l’azione dei ghiacciaj e di correnti parziali da questi direttamente provenienti. Io ho già avuto occasione di notare l’enorme sviluppo de’ cumuli di tritumi nell’Elburz, ma la assoluta mancanza di massi erratici, e di formazioni corrispondenti alle morene. Io credo che le rispettive antiche condizioni delle Alpi e dell’Elburz siano veramente rappresentate da’ loro stati attuali: là sulle più elevate creste nevi perpetue, sulle valli più elevate ghiacciaj residui dell’antico periodo glaciale, qui invece, come ricordi di antiche potentissime nevicate poche liste di nevi perenni entro i solchi ed i valloncini de’ più elevati cumignoli. Soltanto dalla fusione di questi grandi masse di nevi si potrebbe derivare l’ingente massa di aque che ha lasciato il deposito diluviale degli altipiani della Persia occidentale. Perchè il periodo _nevale_ della Persia non potrebbe esser sincrono del più recente periodo glaciale delle Alpi? Le osservazioni precedenti determinano l’epoca la cui gli altipiani della Persia occidentale presero la estensione e la conformazione del presente: fanno vedere che allorquando entrarono in azione le cause formatrici di questi altipiani, già in alcune poche parti abitabili del paese, ed in propagini delle regioni vicine l’uomo si era stabilito, ed aveva raggiunto tale grado di coltura da saper lavorare e cuocere le terre. La vita distrutta o cacciata durante il periodo nevale ricomparve nel ricomposto paese, per immigrazione dalle terre circostanti. Qui non mi posso difendere da altri ravvicinamenti. I moderni commentatori de’ libri sacri de’ Parsi convengono tutti nel riconoscere nel primo libro dell’Avesta un monumento geografico di grande autorità. Ora le province nominate in quel capitolo, ed anche ne’ susseguenti, spettano tutte all’Iran orientale, al paese fra l’Indo, l’Oxus, il Caspio, ed il gran deserto salato. Una sola provincia ne sarebbe esclusa, l’Ayriana vaedscha, la creduta patria di Zoroastro, che i più autorevoli iranologi[77] collocano all’esterno lembo occidentale e settentrionale della Persia, cioè alle falde dell’Ararat. Della regione frapposta, corrispondente appunto agli altipiani di formazione recente, della Media e della Partia, non si fa cenno alcuno. Se questo frutto degli studi de’ moderni iranologi è così sicuro quanto è asseverantemente proclamato, ne risulterebbe una singolare coincidenza, forse non affatto fortuita, fra la carta geologica della Persia all’epoca immediatamente anteriore all’attuale, e la carta geografica tracciata sui documenti dell’Avesta. Un accordo fra l’interpretazione dell’Avesta e l’induzione geologica è non meno apparente, ed a mio credere veramente fondato, sovra un altro punto. Abbiamo veduto come, a spiegare la derivazione dell’ingente massa di aque necessaria al trasporto de’ tritumi per gli altipiani della Persia, sia forza ricorrere, se non ad un vero periodo glaciale, di cui non v’ha nelle montagne dell’Elburz alcuna traccia, almeno ad un periodo corrispondente di grandi nevate, rappresentate tuttora dalle nevi perpetue sui più eccelsi culmini. Ecco ora nell’Avesta accennarsi al dominio del gelo, alla desolazione del verno, nella provincia dell’Ayriana vaedscha, per l’influenza di Arimane nella sua lotta col genio creatore Ahura-Muzda. È estremamente probabile, a mio senso, che le parole dell’Avesta, piuttosto che al freddo presente della regione fra l’Arasse ed il Caucaso, alludano al freddo passato del periodo nevale che ha dominato anche su tutta la catena dell’Elburz; così che sotto la forma del mito, la storia avrebbe registrata una delle ultime fasi geologiche per le quali la Persia occidentale ebbe il presente suo assetto. Io vedo perfettamente quanto sia il disaccordo fra queste idee e l’opinione generalmente dominante sull’antichità rispettiva del periodo glaciale e dell’origine della schiatta umana; ma io non saprei arrivare a differenti conclusioni co’ fatti che mi stanno dinanzi alla mente. Una circostanza da tenersi nel massimo conto si è l’analogia di composizione fra alcune formazioni di sedimento della Persia, indubitatamente naturali, e le formazioni reputate umane de’ _Tepe:_ limo, sabbia, cocci, carbone vegetale, ossa artificialmente rotte nelle une e nelle altre, a Sainkalè, come a Sultanieh, come a Marend. Nuove ricerche sui _Tepe_ sarebbero del più grande interesse, poichè, siccome ho già detto, non si hanno intorno ad essi che assai indeterminati e poco attendibili tradizioni, congetture emesse dietro la prima impressione, e come alla sfuggita, nessuna ricerca veramente condotta con metodo e con scopo scientifico. Lo stesso signor Brugsch che, per la natura stessa degli studj nei quali si è acquistata una così bella fama, avrebbe potuto addentrarsi di proposito in tale questione, non fa che riprodurre, accordandole intiera fede, la volgare tradizione che attribuisce quelle singolari formazioni ai ghebri, ossia agli adoratori del fuoco e del sole, e le considera come gli altari de’ loro sacrifizj. Ecco le sue parole. «Nelle nostre escursioni in Persia, in nessun altro distretto del paese noi ebbimo ad incontrare _tepe_ in sì gran numero, come in questo tratto del nostro cammino (presso Rabbat-Kerim, sulla strada che Teheran ad Hamadan). La ragione di ciò pare sia molto semplice. Gli altari del sole doveano trovarsi in luoghi elevati, e perciò si scieglievano nelle regioni montuose alture appropriate come piazze pei sacrifizj, le traccie de’ quali, secondo la leggenda e le tradizioni, sono conservate nelle vicinanze di antiche rinomate città. Noi ricordiamo, a questo proposito, l’altare del sole sul monte dietro Rei, quello sull’alto dell’Elwend presso Hamadan, e l’_Ateschgâh_ o tempio del fuoco, presso Ispahan, alla sinistra della strada che da Hamadan conduce all’antica residenza de’ re persiani. Ove i monti erano troppo discosti, come nel distretto di cui parliamo, ivi presso le borgate e le città stesse, venivano erette colline artificiali, sulla cui sommità erano poscia accesi i sacri fuochi a Mithra (il sole). Noi non abbiamo tralasciato di salire, all’occasione, di questi _tepe_, per meglio esaminarli, e ricercarvi traccie dell’opera umana. Queste colline dalla base piuttosto elittica che circolare, e dell’altezza dai venti ai trenta piedi, sono terminati da un piano del perimetro dai quindici ai venti passi, per tutta la sua estensione coperta di frammenti di vasi in gran parte smaltati, e qua e là ornati di rozzi disegni»[78]. Io non posso contraddire al signor Brugsch se non in un punto, il quale però sarebbe essenziale. Le sue osservazioni potrebbero convenire per alcuni _tepe_, e specialmente per quelli sparsi nelle steppe circostanti a Teheran, ma non per altri, e per esempio per quello colossale di Marend, posto non solo in una contrada montuosa, ma anche nel vano lasciato fra due elevazioni naturali. I frammenti di vasi di terra accennati dal sig. Brugsch non sono nulla di particolare ai _tepe_, ma si trovano dapertutto: Una cognizione fondata di queste collinette non si può acquistare se non col mezzo di scavi. Allora verrà dimostrato che non tutti i _tepe_ sono identici nella costruzione, nè tutti spettano ad una medesima epoca, nè tutti forse devonsi attribuire al medesimo modo di formazione. I _tepe_ che al pari di quelli di Sultanieh e di Marend, racchiudono strati con frammenti di ossa, cocci, e carbone vegetale, sono essi pure di fattura umana? E come spiegare in tal caso la inclusione di que’ materiali con distribuzione stratiforme, nella massa generale composta di ghiaja, sabbia, e limo delle steppe? Il più volte mentovato deposito di Sainkalè, sarebbe risultante da un nivellamento di antichi _tepe_, accaduti prima della diffusione del terreno di trasporto dell’altipiano? Questi dati da me raccolti percorrendo rapidamente la linea delle carovane nella Persia occidentale dimostrano almeno che in questo paese si racchiudono materiali preziosissimi relativi alle più remote epoche della storia umana, e fors’anche ai cambiamenti contemporanei nelle condizioni del clima in una gran parte dell’antico continente. Possano almeno i risultati apparenti dai pochi ma finora soli fatti messi in luce, determinare a più ampie ricerche qualche viaggiatore padrone del suo tempo e delle sue linee di escursione. Una ricca messe scientifica coronerebbe le sue fatiche. Io non posso che raccomandargli ancora di prendere la nostra stazione di Sainkalè come punto di partenza. Non gli sarà difficile il riconoscerla a circa un chilometro all’ovest del villaggio, ove la sponda destra dell’Abhar e per alcuni tratti tagliata a picco. Poi non deve essere spenta così presto nella memoria degli abitanti la ricordanza dell’accampamento dell’ambasciata italiana, poi infine si troveranno ancora sul posto nel greto dell’Abhar, de’ _Kiökkenmöddings_ ritraenti il carattere di una civiltà tutta moderna, nelle ossa lavorate dal coltello dello scalco e da denti diplomatici. XXII. La navigazione sul Volga. — Sarepta. — Le due sponde del fiume. — Kasan. — Nishnyi-Nowgorod. — Mosca. — Pietroburgo. — La Russia. Il passaggio dalla state all’inverno è rapido nel mezzogiorno della Russia. Noi eravamo ad Astrakan allo spirar di settembre; il sole non si facea meno sentire che in Italia, e già le compagnie di navigazione sul Volga faceano gli apprestamenti per l’inverno con una previdenza che a noi parve eccessiva, ma che trovammo poi nel fatto pienamente giustificata. Erano quelle, siccome già ci aveano detto, le ultime corse regolari fino oltre Nishnyi Novgorod; e la loro durata, e la loro tratta, dipendevano intieramente dal capriccio della stagione, al quale non era prudenza per noi l’affidarsi. Adunque la mattina del 29 settembre ci imbarcammo sul _Likoi_, disposti a passar undici continui intieri giorni sul maggior fiume d’Europa, il bastimento non era di primo rango, ma almeno eravamo noi i padroni delle celle di prima classe, mentre sopra coperta v’era folla stipata di donne, di contadini, di merciajuoli, ma sovratutto di soldati. La stagione delle corse di piacere, se mai ve ne possono essere sul Volga, da vari giorni era chiusa: il personale di servizio licenziato, rimanevano soltanto un cuoco ed un cameriere per tutti i viaggianti di prima e di seconda classe. I guasti dell’ormai spirata campagna, e per esempio i vetri rotti alle finestre, erano lasciati stare, fino alle riparazioni generali del maggio. Le celle non erano tampoco provedute di coperte, mentre i russi puro sangue, affollati sul ponte, conoscitori del clima del loro paese, erano già inviluppati nel loro bisunto _touloup_[79]. Il freddo delle notti si fece infatti subito sentire molto vivo, e ben presto si prolungò nel giorno, sino a rendersi permanente, ed i nostri mantelli, le nostre coperte erano insufficienti. Le provigioni non mancavano a bordo: ve n’era ancora un abbastanza grosso avanzo, e d’altronde sarebbersi potuto ogni giorno rifare. Ma il _sicciäss, sicciäss_ (subito subito) che l’affacendato cameriere rispondeva ad ogni nostra ordinazione avea finito per esser da noi tradutto in _fra due ore_. Poi v’erano altre dolcezze quotidiane. I piroscafi del Volga non bruciano altro materiale che legna, e le grandi cataste sul ponte sono presto consumate. Ogni compagnia adunque, tiene su tutta la tortuosa linea del fiume, ripartiti a misurata distanza, i suoi depositi, ove all’arrivo del battello sono già pronte schiere in massima parte di donne, per rifar la provigione. Tutti i portatori, l’uno dopo l’altro giunti sul ponte, e precisamente sovra le nostre teste, lasciavano cadere di piombo il carico, attorno al quale altri s’affacendavano per ricomporre la catasta, e non è dirsi il fracasso infernale, onde noi chiusi come in una cassa armonica, avevamo straziati e timpano e nervi! Questo trattamento ci toccava almeno due volte nella notte, che di giorno sapevamo evitarlo, passando noi stessi a terra. Con tutto ciò, e malgrado la tetra monotonia delle sponde del Volga, la noja era bandita a bordo del _Likoi_. La lettura, il conversare, il rivolgere il pensiero alle cose vedute, le impressioni nuove che pur non mancavano e che ciascuno analizzava a suo modo ad alta voce, davano pascolo al tempo. Ma principale distrazione era per noi la vista della città lungo questa grande arteria della Russia. Il giorno susseguente a quello della nostra partenza approfittammo subito della opportunità di una fermata di qualche ora per visitar Sarepta, distante circa una versta dal fiume, nella bassa pianura coltivata, d’onde s’ascende subito ad un immenso deserto. La città è piccola, raccolta, pulita, con belle case ed una piazza a guisa di _square_. La sua popolazione di circa 3 mille anime è tutta tedesca. L’industria principale consiste nel raccolto e nella manipolazione della senape, che poi viene spedita in tutta la Russia. Vedendo molti passeggeri, che erano scesi con noi, recarsi difilati e processionalmente alla farmacia, situata appunto nella piazza, mi prese la curiosità; ed entrato io pure, vidi tutta quella gente far ricerca di un balsamo che ci si disse godere di immensa riputazione per tutto il paese all’intorno, come di una panacea universale. Nessuno passa da Sarepta senza provederne per sè e pei suoi amici. Ve n’ha di due forme, di unguento e di estratto liquido, ed il più ricercato era l’unguento. Altra più caratteristica singolarità di Sarepta è la perpetuazione tradizionale, rispettata come sacra ed inviolabile, de’ vincoli ond’eransi in origine legati i fratelli Moravi fondatori della colonia. In questa isola segregata affatto dal tramestio di cupidigie e di passioni della grande società europea, vige un sistema di amministrazione generale dei proventi de’ singoli individui, che molto rassomiglia alla famosa utopia de’ socialisti francesi. A breve distanza di Sarepta è Tzaritzin, ove è la stazione del piccolo tronco di strada ferrata che congiunge il Volga al Don. Il sobborgo lungo il fiume è una bella fila di case di legno nuove ed eleganti. Qui termina il governo di Astrakan. Da Nishnyi Nowgorod fino a Tzaritzin la sponda destra del Volga è alta e scoscesa, la sinistra invece depressa e piatta, tanto che i russi chiamano la prima sponda montana, la seconda sponda dei prati, perchè essendo soggetta alle ricorrenti innondazioni del fiume, è anche più rivestita di pascoli. Già Pallas avea notata come costante questa differenza di livello fra le due sponde in tutti i fiumi della Russia meridionale. La mente perspicacissima del sig. di Baer cercandone la ragione ha visto in questo caso particolare la manifestazione di una legge generale, per lo addietro inavertita, che regola ne’ fiumi la direzione della forza laterale della corrente, quindi la forma del letto, in dipendenza del moto di rotazione della terra. Risulta da questa legge che in tutti i fiumi dell’emisfero boreale l’azione della corrente si esercita particolarmente sulla sponda destra, sulla sinistra invece nei fiumi dall’emisfero australe. Questa azione è sovratutto evidente nei fiumi aventi una direzione prossima a quella di un meridiano, e ciò per ragioni facili ad intendersi, ma si deve pure ammettere pei fiumi aventi la direzione di un parallelo. Le osservazioni del signor di Baer hanno la data del 1853, e furono publicate in Russia nel 1854, cinque anni prima che il signor Babinet, senza citare alcun predecessore, trattasse questo medesimo argomento, arrivando alle stesse conclusioni, nel seno dell’istituto di Francia (_Comptes rendus_, vol. 49, 1859). Il signor di Baer ha in seguito nuovamente esposte ed estese le sue osservazioni in una classica memoria che forma il numero VIII de’ suoi _Kaspische Studien_. Il giorno 2 di ottobre si fece altra più lunga fermata in Saratow, grande città, con strade dritte, spaziose, intersecantisi ad angolo retto, e magnifici fabricati, ma così deserta come non vidi mai altra città al mondo. Per intiere strade, fin dove l’occhio poteva giungere, non un’anima vivente. Saratow è centro di un governo. Il grande tronco di ferrovia che la deve congiungere a Mosca, ed infondervi così vita novella, era in costruzione assai inoltrata, ed ora, mentre scrivo, è compiuto. Qui lasciammo il Likoi per passare sovra di un’altro molto più elegante e spazioso battello, il Kasan, appartenente alla stessa compagnia Samolet, la quale possiede non meno di 36 piroscafi sul Volga. Il giorno 5 visitammo la bella città di Simbirsk che due anni dopo doveva esser intieramente distrutta per mano di quella terribile ed occulta società di incendiarj che fa vedere fino a qual punto si sa esser barbari in Russia, quando si vuol esser barbari, e contro la quale a nulla finora valsero gli occhi d’Argo della polizia di Pietroburgo. Il freddo si era frattanto reso molto intenso. Nella notte dal 5 al 6 (ottobre) nevicò a larghe falde, e nella susseguente il termometro scese a -7° C. Le sponde del nostro battello brillavano di ghiacciuoli. La campagna era verde e gelata. Io voleva veder Kasan, una della più importanti città della Russia, presso l’estremo confine orientale di Europa. Mi era anche di particolare interesse il far una visita al dottor Nicola Wagner, professore in quella università, e chieder schiarimenti sovra la sua scoperta della generazione delle larve in alcuni insetti (Cecidomine), che trovava affatto miscredenti i naturalisti di Germania, ai quali era stata communicata. Orio si lasciò facilmente sedurre ad essermi compagno, e giunti allo scalo ci separammo dalla nostra brigata, che ci avrebbe aspettati a Nishnyi Nowgorod. Lungo la sponda del Volga si distende anche qui il solito sobborgo, con qualche buona taverna, ed una lunga fila di botteghe di legno che forma un vero bazar. La città è discosta tre verste che percorremmo celeremente in _droschki_. La strada è da principio alquanto difficile, ineguale, pantanosa per le ricorrenti piene del fiume, poi si fa larga e piana fra una campagna vestita di boscaglie paludose; e passato un altro sobborgo di ville signorili e giardini, si giunge ad un ampio greto, solcato da’ rami di un piccolo fiume, la Kasanka, e che si attraversa su di un lunghissimo ponte-terrapieno, terminante alla porta stessa della città. Prima di giungere a questa ci colpì lo sguardo un grande tronco di piramide, sorgente, dalla sinistra sponda del fiume. È un mausoleo eretto in onore di Ivan Vassilievitsch e dei suoi prodi caduti nella vittoria riportata sui Tartari. La città di Kasan è grande, popolosa, con belle contrade e grandiosi fabricati e si presenta assai pittorescamente anche di lontano, colle sue case affollate su di un piccolo dosso. Gli abitanti sono ancora in massima parte Tartari, perfettamente assimilati co’ loro conquistatori. Il sole già prossimo al tramonto non ci permise che la vista esterna del magnifico palazzo dell’università, della grande colonnata e dell’atrio. Il prof. Wagner ci accolse cortesemente; mi espose pel minuto la sua interessante scoperta, oramai confermata; e mi volle anche fornire materiali affinchè potessi io medesimo, nelle rimanenti ore di ozio sul Volga, verificarne alcuni particolari. Professor di fisica alla stessa università è un italiano, il signor Bolzani; ma ci mancò l’occasione di farne la conoscenza personale, non essendo egli peranco di ritorno da Londra, ov’erasi recato per la grande esposizione industriale. Alloggiammo all’albergo Resanoff, albergo di primo rango, ove però non sono ancora introdotti i letti all’Europea. Il mattino seguente, dopo altro giro per la città allo scopo anche di provederci di difese contro il freddo, ritornammo al sobborgo alla sponda del fiume. Mancava ancora da circa un’ora alla partenza del battello, e passeggiando noi oziosamente lunghesso la fila delle botteghe, scortane una di libri, entrammo. Non fu poca la nostra maraviglia nel trovare quasi null’altro che produzioni della letteratura parigina contemporanea, edizioni di Hachette e di Levy: qui, presso che alle porte della Siberia! Per mio conto comperai un libretto di Alfonso Karr: _la pêche_ che mi ha divertito assai, e per que’ saporiti frizzi che piovono così spontanei dalla penna dell’autore delle _guèpes_, e per una sequela di grosse castronerie che il buon Karr si è lasciate sfuggire. Dopo altri due giorni di navigazione, raggiungemmo finalmente i nostri compagni a Nishnyi Nowgorod, la celebre città, ove si tiene la più grande fiera del mondo. La città propriamente detta, sulla sponda destra del fiume, elevata tanto da dominar di colassù grande estensione di paese; vince in bellezza ed in amenità di situazione le altre città del Volga. Ha un bel giardino publico, spaziose contrade, ed una grande piazza che dà accesso al Kremlin, o cittadella, ampio recinto contenente caserme e la residenza del governatore. A piè dell’altura, in parte lungo il Volga, ed in parte lungo il suo confluente Oka, è un grande sobborgo abitato particolarmente da mercanti. Una seconda immensa città, nell’angolo compreso fra i due fiumi, tutta magazzini e case di legno, scompartita in isolati regolari da lunghe contrade rettilinee, è popolata soltanto durante la fiera, vuota affatto nel resto dell’anno. Anche questa ora è diventata un mucchio di ceneri! Io ed Orio ci recammo subito a far visita al governatore, pel quale avevamo una lettera di presentazione. Il generale Alexis Odyntzoff ci accolse colla più squisita cortesia, condita da una certa apparente ruvidezza militare, e volle assolutamente che sedessimo a mensa colla sua famiglia. V’erano, oltre la sua signora, due graziose bambine e due istitutrici francesi. Si parlò della ricchezza del paese, della grande fiera, e di viaggi. Seppimo in questa occasione che due mesi prima erano passati per Nishnyi Nowgorod il signore e la signora di Bourboulon, che erano venuti per via di terra da Pekino; dura impresa per un uomo rotto alla vita del cavallo e della tenda, mirabilissima per una donna. La fiera di Nishnyi Nowgorod si apre ai 29 di luglio, e si chiude verso la metà di settembre, non ad un giorno assolutamente fisso, potendosi anche prolungare, come appunto avvenne nel 1862 oltre il termine consueto. Le nazioni manifatturiere d’Europa vi sono rappresentate, ma in scarso numero al confronto delle popolazioni asiatiche, de’ Tartari, de’ Kirgisi, de’ Tongusi, de’ Kamtschadali, de’ Mongoli, de’ Cinesi, de’ Persiani. Vi affluiscono tutte le produzioni del mondo antico, dai tessuti di Manchester e dai giuocatoli di Norimberga, ai cuoi della Tartaria, ai tappeti persiani, alle pelliccie della Siberia, al thè della China. Quest’ultimo è anzi uno de’ principali articoli. Quasi tutto il thè di cui si fa così esteso consumo in Russia, è portato dalle caravane a questo grande centro di commercio, sebbene ora vada prendendo piede la concorrenza della via di mare e degli emporj inglesi. La fiera del 1862 fu delle più animate. Vi si portarono mercanzie pel valore complessivo di 96 millioni di rubli, e ne furono smaltite per 95 millioni. Mancando i mezzi ed il tempo per l’applicazione di un più esatto metodo di statistica, si fece approssimativamente il calcolo del numero delle bocche dalla quantità di pane cotto nei forni in eccedenza della consumazione ordinaria, e si giunse così alla cifra di 60,000 persone accorse alla fiera. A Nishnyi Nowgorod eravamo finalmente ad uno degli estremi capi della gran rete di ferrovie dell’Europa centrale. Fra gli impiegati alla stazione trovammo un nostro compatriota, un genovese, che si adoperò con molta premura a toglierci da molti imbarazzi, e primo da quello della regolare consegna dei nostri bagagli. Scendemmo alla stazione di Mosca al matino del giorno 11, ed ivi stava aspettandoci un signore prevenuto dal nostro arrivo che, scortici alla fisionomia, ci accostò rivolgendoci la parola un po’ in francese un po’ in italiano. Era il signor Billo che ci offriva ricovero nella sua _pensione_ nel quartiere della grande _Lubianska_. Fu una vera fortuna per noi il non avere da fare altro che seguire il nostro ospite, il quale, come un esperto capitano, con cenni e parole monche distribuite qua e là, diede prestamente tutte le disposizioni che facevano al caso nostro, e fattici salire in _droschky_ ci condusse di filo alla sua casa, ove per la prima volta, dopo sei mesi, potevamo riconfortarci di tutti gli agi di tutte le ricercatezze della vita materiale, non richieste veramente dalle nostre ordinarie abitudini, ma dallo stato in cui eravamo ridotti dalle febri persiane. Ne’ tre giorni da noi passati in questa splendida metropoli il signor Billo fu tutto per noi, e spinse la cortesia sino a volerci fare egli medesimo da Cicerone. Le mura di questa immensa città portano scolpita la storia delle grandi epoche della Russia. Nel 1300 Mosca era tutta compresa nell’angusto perimetro dell’attuale Kremlin, difesa per un lato dal fiume (la Moskova), e pel resto da una siepe, finchè in quel medesimo secolo il gran duca Demetrio Donskoy non la ricinse di mura; le quali dovettero sostenere numerosi assedj dai Tartari e dai Lituani, e distrutte infine per le ingiurie degli uomini e del tempo, furono riedificate e munite di torri sotto lo czar Giovanni III, per opera di architetti italiani. Questo primitivo recinto fu presto insufficiente, crescendo rapidamente la popolazione col costituirsi del novello impero: molte case sorsero d’attorno, poscia tutte rinchiuse in un secondo muro di cinta, che sussiste ancora e limita la così detta _citè_, (_Kilay-gorod_) tutt’attorno della quale crebbero ne’ secoli successivi le più recenti costruzioni che formano la massima parte della Mosca attuale. Mosca ha veramente uno stampo affatto proprio, nelle costruzioni non posteriori all’epoca di Pietro il Grande, e sovratutto nelle chiese e nei conventi: ma negli edificj moderni va sempre più sacrificando il carattere nazionale alla purezza dello stile, così che si trovano in questa città le più strane e dissonanti associazioni, dal più mostruoso barocco, nella cattedrale della Intercessione della Vergine[80], all’estremo dell’eleganza e della magnificenza nel palazzo imperiale. Fra le costruzioni moderne si distinguono i sontuosi palazzi dei così detti baroni dell’aquavite, ossia degli arricchiti nell’appalto dell’imposta sui liquori spiritosi, che forma una delle principali rendite della finanza russa. Le case dei privati sono eleganti, ma generalmente basse, di un sol piano oltre il terreno, il che determina, per una sì grossa popolazione, la vastità dell’area occupata. Gli edificj publici sono colossali. La cavallerizza, per esempio, è un salone, col soffitto piano, avente non meno di 170 metri di lunghezza, e 44 di larghezza, ove possono manovrare tremila cavalli. L’albergo dei trovatelli è una città nella città, poichè vi si dà ricetto ed istruzione a non meno di quindici mila derelitti. Una vera maraviglia, un vero museo di grandiosi monumenti, è il Kremlin, il vaticano del culto greco, il cuore di Mosca, come Mosca è il cuore della Russia. Quattro cattedrali abbaglianti di stendardi ricchissimi, di imagini sante, di candelabri, di oro e di gemme, il palazzo imperiale, il palazzo del patriarca, gli arsenali storici della Russia, il tesoro, sono, ciascuno per sè, un tale stipato assembramento di singolarità stupenda, da sottrarsi ad ogni descrizione. Non esiste città al mondo ove le chiese siano tante numerose come a Mosca. Non le ho contate, ma fui assicurato esservene intorno alle quattrocento, ciascheduna con molti campanili terminati da una cupola rigonfia, e questa alla sua punta da una enorme croce dorata. Dal baluardo del Kremlin io rimirava una sera per l’immensa città questa selva di torri crucigere. La vôlta del cielo, d’un triste uniforme grigio, andava oscurandosi; solo verso ponente una gran zona purpurea circoscriveva l’orizzonte. Quando il sole vi passò nel suo tramonto, le croci dorate delle chiese brillarono improvisamente di viva luce spiccante dal fondo scuro del cielo, e fu per alcuni minuti uno spettacolo incantevole, come di un gran fuoco d’artifizio per tutta la città. Esiste in Mosca una celebre università, fondata nel 1755, aggrandita da Caterina seconda, e dotata dal principe Paolo Demidoff di un esteso dominio lavorato da 3500 servi, e di un forte capitale in danaro per sopraggiunta[81]. Ha pur sede in questa città una società di Scienze naturali che è tra le più celebri academie di Europa. Con tali elementi fa maraviglia la povertà delle collezioni scientifiche, ed in particolare della collezione zoologica, ove tolti una dozzina di pezzi capitali che sono un monopolio della Russia (uno scheletro di Mammouth, per esempio, ad uno di Ritina), il resto, anche numericamente ben poca cosa, è sformato, cadente, e per di più deturpato da errori madornali nelle determinazioni sistematiche. Nello spiattellare questa verità devo aggiungere, che il professore di zoologia nell’università, signor Bogdanow, non ha alcuna ingerenza nel Museo. Dall’antica alla moderna capitale dell’impero moscovita, corrono venti ore di ferrovia. Lo spettacolo della prospettiva di Newsky che percorremmo per gran tratto nel recarci all’albergo Klee, fu il preludio delle impressioni vive e profonde fra le quali passammo otto giorni in Pietroburgo. Non può entrare nel mio piano il descrivere la magnificenza delle contrade, de’ palazzi, de’ templi, le multiformi meraviglie d’arte accumulate in questa città, surta per incanto, ad un cenno del più grande despota creatore che abbia esistito. Ogni dì le nostre particolari inclinazioni ci portavano oltre la Newa, a quei stupendi santuarj della scienza che sono l’osservatorio di Pulkova, il giardino botanico, il museo del Corpo delle miniere, l’academia imperiale delle scienze. Dovunque fummo accolti colla gentilezza più squisita ed operosa, ed a me è grato in particolar modo il ricordare il prof. Besser, il generale di Helmersen, il colonnello di Kocktscharoff, il prof. Brandt, i signori Strauch e Moravïtz addetti al museo zoologico, e l’academico Carlo Ernesto di Baer. Io aveva già avuto la fortuna di conoscere in Milano, sedici anni prima, questo decano illustre de’ viventi naturalisti, e grande fu la mia soddisfazione in rivederlo, malgrado le infermità fisiche della vecchiezza, vivace e robusto di spirito come all’epoca in cui fondava le basi dell’embriologia. Ma se rinuncio a descrivere le grandi monumentali opere di Pietroburgo, non posso trattenere una esclamazione di orrore per le traccie che vi ha lasciato il genio della distruzione. Tutta Europa fu scossa dalla notizia del terribile incendio che nel maggio del medesimo anno 1862 ha ridotto in cenere il gran quartiere dell’Apraxine dvor e del ministero dell’interno. Non si può vedere il teatro di questo disastro senza rimanere soprafatti dal pensiero della potenza del male. È un isolalo immenso, centro del commercio della metropoli; e le ricchezze distrutte, le famiglie gettate nella miseria, fanno raccapriccio. Quando io visitai questo desolato campo di macerie fuliginose vi erano risorte in gran numero botteghe improvisate, e tutt’attorno era in pieno corso l’opera della riedificazione. Ma dove si reclutano queste mute invisibili masnade volanti di furie? Nessuno lo sa, ognuno lo crede a suo modo, e intanto le fiamme spente in un luogo, divampano in un altro. I giornali asseriscono che la reazione e la rivoluzione si ribattono in Russia l’accusa di una così insana e feroce barbarie: noi veramente non abbiamo udite queste recriminazioni de’ partiti estremi e piuttosto fummo sorpresi dall’indifferenza generale del paese come di eventi oramai abituali. Il paese era preoccupato di ben altro. Il tratto più spiccante nella fisionomia morale del popolo russo è lo spirito religioso, o per dir meglio l’abbondanza del culto esterno. Lungo le contrade più frequentate delle città sono di quando in quando appese al muro imagini sacre con adobbo più o meno vistoso di cerei, e nessuno passa di là senza far tre inchini e tre segni di croce, od almeno levarsi molto rispettosamente il cappello. A Mosca una delle sei porte del Kremlin è la così detta porta santa. L’imperatore stesso nel passarvi scende di carrozza e si scopre il capo, onde tener vivo in tutti il buon esempio. Pe’ dimentici o per gl’ignari di questo atto di riverenza è appostata una sentinella. In ogni camera abitata sta appesa in un angolo, e molto in alto, un’imagine sacra, con una lampada ardente; e ciò basta perchè la camera sia convertita in un vero santuario, e lo starvi a capo scoperto sia di assoluta prescrizione. Nella sala de’ _Traktyr_ (osterie), ove conviene il publico, due oggetti sono immancabili: un grande organo a cilindro che ripete le arie nazionali, e specialmente l’inno allo Czar, e l’imagine santa nella sua cornice dorata e col suo lumicino perpetuo. Così il luogo è santificato; un leggero oblio di questa circostanza fu sul punto di involgerci in una vertenza che avrebbe potuto avere conseguenze molto serie. Uno de’ nostri compagni, tenendo il berretto in capo, si facea servir da pranzo nel salotto commune del nostro albergo in Astrakan, ove stavano seduti, attorno ad una tavola separata, alcuni giovinotti di civile condizione, ma già riscaldati dal vino. Scorso qualche tempo noi li vedemmo confabulare tra di loro in modo assai concitato, di quando in quando accennando al nostro compagno che stava tranquillamente smaltendo una porzione di _hucha_, ossia di zuppa di sterletto. Il sig. Nicolas che per caso giunse nella sala, ed intendeva perfettamente il russo, ci mise in avvertenza delle esclamazioni di que’ giovinotti diretti contro di noi, per non sapeasi qual insulto fatto da un italiano al nobile sangue russo. Il nostro compagno finito il suo pranzo, si era tranquillamente allontanato, e nullameno la scena prendeva col vuotarsi di nuovi bicchieri un carattere sempre più minaccioso, tanto che l’oste medesimo impaurito mandò per un commissario di polizia, il quale accorse prontamente, ma durò molta fatica ad impedire uno scandalo e ad avviare quei giovani alle case loro. L’insulto era nella profanazione del luogo pel berretto in testa del nostro compagno, veduto e giudicato attraverso i fumi del vino. L’istruzione publica è tutta nelle mani del governo. Io ho già avuto occasione di deplorare l’estrema negligenza dell’istruzione elementare, aggiungo ora che un’epoca riparatrice è surta da poco, ed un grande salutare movimento per la diffusione delle scuole ne’ villaggi, si è ridestato in tutti gli ordini della società russa. Le università sono organizzate militarmente: a ciascuna è preposto un curatore che il più delle volte è un generale in ritiro; la disciplina vi è rigorosa al maggior grado; la censura vigile e sospettosa. Fino a questi ultimi anni il numero degli studenti era determinato per ogni università, e gli ammessi dovevano sottostar ad enormi tasse, con che l’iscrizione in un albo universitario era un vero privilegio. Fra le riforme che segnalarono i primi anni di regno di Alessandro II quella degli studj fu compresa. Le tasse di molto ridotte, tolto il limite al numero degli studenti, questi accorsero in folla da tutti gli angoli della Russia alle università, vi si costituirono in corporazioni, fondarono società di mutuo soccorso, biblioteche, sale di convegno. La gioventù delle università è la stessa in tutti i luoghi, facile all’entusiasmo, a tradurre in atto i primi moti di una nobile passione. Dopo i massacri di Varsavia nel febbrajo del 61, in tutte le università dell’impero gli studenti polacchi fecero celebrare un servizio divino in suffragio delle vittime, e gli studenti russi s’unirono nella mesta cerimonia ai loro compagni. Pochi mesi dopo una sollevazione di contadini a Kasan fu domata colla forza delle armi: in segno di compianto gli studenti raccolti di quella università sparsero di fiori il feretro de’ caduti. Questi fatti comparvero nelle alte regioni del governo come preliminari di un movimento che bisognava tosto reprimere. Il sig. Kovalevski, ministro della publica istruzione che avea secondate le riforme liberali, cedette il posto all’ammiraglio Poutiatine, per opera del quale furono ristabilite le tasse annuali d’iscrizione degli studenti in 50 rubli, richiamati in vigore le più vessatorie discipline de’ tempi trascorsi. Frutti di queste inconsiderate misure fu una vera insurrezione degli studenti a Mosca e a Pietroburgo, sciolta coll’estremo rimedio delle armi. Tali avvenimenti si eran fatti compiere durante il viaggio in Crimea dell’imperatore. Al ritorno nella sua residenza Alessandro II fu vivamente scosso dal trovar chiuse le scuole, gli studenti dispersi o chiusi in fortezza; e di nuovo l’onda del potere si volse alle riforme liberali. Un nuovo ministro il sig. Golovnine fu chiamato alla direzione della publica istruzione. Un completo riordinamento delle scuole stava appunto elaborandosi al nostro passaggio per la Russia. Si parlava già di una forte diminuzione delle tasse scolastiche, e dell’istituzione in tutte le università de’ privati docenti, fino allora tolerati soltanto alla università di Dorpat, per concessione all’indole germanica degli abitanti della Livonia. Le antiche durezze andavano a poco a poco rilasciandosi, la gioventù ripopolava gli atenei. La censura de’ libri, per iniziativa stessa del novello ministro, doveva farsi meno sospettosa ed arcigna. Non possiamo dire se queste buone intenzioni siano state intese ed obedite. A me recò non poca meraviglia il trovar sui giornali venuti di Francia o di Germania un singolare marchio dell’ufficio di revisione. Tutti i fogli sono regolarmente distribuiti, ma sui periodi che il rigido censore avrebbe voluto soppressi, si applica uno stampo nero indelebile, il quale propriamente par che dica: lettore, ecco un brano che ti deve interessare vivamente; cercalo in ogni modo e leggilo bene. Accade che de’ giornali portino talvolta delle mezze colonne, delle colonne intiere di un bel nero, intenso, uniforme, riquadrato con molta regolarità. A Mosca vidi nella vetrina esterna d’un librajo un fascicolo di un giornale tedesco sulla Russia: volli comperarlo, ma il librajo me lo rifiutò pretendendo che io pagassi l’abbonamento anticipato di un anno. Cercando sodisfar la mia curiosità in Pietroburgo, i librai ai quali mi diressi soggiunsero che l’opera era severamente proibita, e non volevano credere che io la avessi veduta esposta in Mosca. È sempre così: l’arbitrio, il capriccio, l’intelligenza stessa del revisore fanno veramente la legge. Come mai gli uomini di Stato della Russia non veggono che la censura dei libri nuoce perfino all’intento vero pel quale fu istituita; che essendo misura di governo inefficace e screditata di sua natura, rende popolare e più audace l’opposizione a tutte le altre! Ma la Russia è il paese delle grandi contradizioni. Da una parte questo affanno minuto, geloso, incessante dell’autorità per tener misurata l’aria vitale all’intelligenza che si spiega, e dirigerne le mosse a battuta di tamburo, dall’altra favori ed onoranze all’ingegno che è surto e si impone col prestigio del successo. Nessun altro paese d’Europa tiene la scienza in maggior estimazione. L’aristocrazia della dottrina è posta in Russia al medesimo ordine colla aristocrazia del sangue, e questa non si crede degradata per ciò. Il governo è larghissimo di mezzi al culto dei severi studi, alla sola implicita impreteribile condizione che non s’attenti all’ordinamento politico dell’impero. È una ambizione nazionale il mettersi tra le fila de’ militanti per la scienza: epperò la Russia prende una parte veramente cospicua al progresso generale in Europa sopratutto delle scienze fisiche ed etnografiche. Molti de’ suoi dotti più illustri appartengono ancora all’importazione alemanna, ma la massima parte di essi non conservano altro segno esterno della loro culla che il suono del nome, mentre per lingua, abitudini ed affezioni sono perfettamente assimilati nella nuova patria. La Russia scientifica e la Russia moderna si confondono nella loro origine dal ferreo antiveggente despotismo di Pietro il grande, pel quale il paese fu veramente germanizzato. Nella opinione generale due partiti sono in antagonismo al governo della Russia, con varia prevalenza; il partito alemanno ed il partito moscovita, aventi rispettivamente come sede e centro d’azione Pietroburgo e Mosca, ossia, con espression popolare, la testa ed il cuore della Russia. Ebbene, continuando il paragone, è facile vedere che appunto per la divisione del lavoro fisiologico fra questi due nobilissimi visceri ha potuto crescere con tanto vigore il colossale organismo della Russia. Noi trovammo però molto pronunciato un movimento di reazione, così che le catedre universitarie oramai sono affatto chiuse ai dotti della vicina Germania. Questa sodisfazione dell’amor proprio nazionale è tanto più legitima, in quanto che non è congiunta colla pretesa di una scienza ortodossa russa, diversa da quella dell’occidente, o colla millanteria narcotica di un primato fittizio. L’importazione occidentale è cessata, ma i giovani più distinti degli atenei della Russia sentono vivamente il bisogno di compiere la loro scientifica educazione col tanto efficace mezzo de’ viaggi, ed annualmente sono a centinaja quelli che lasciano il loro paese per riprendere la vita dello studente ne’ principali istituti di Germania, di Francia e d’Inghilterra. La facilità di apprendere le lingue straniere, ch’è un carattere particolare delle razze slave, fa sì che nulla rimanga ignorato ai Russi di quanto si fa di memorabile nei vasto mondo della scienza. Fin qui i più grandi lavori de’ Russi sono stati publicati in latino, in tedesco od in francese, e l’uso della loro lingua fu tutt’al più riserbato a’ lavori di storia nazionale. Ora dal partito moscovita puro si vorrebbe cambiato questo sistema, e far adottare la sola lingua russa anche per le opere di scienze fisiche e naturali. È sperabile che questo tentativo non riesca, sebbene alcuni abbiano già dato l’esempio. È troppo presto il pretendere d’imporre all’Europa una nuova lingua scientifica; non è cavalleresco per parte dei dotti russi il segregarsi così dai loro confratelli d’occidente, e non è del loro interesse il rinunciare a quella giusta sodisfazione che consiste nel vedere i proprj lavori apprezzati oltre i confini del proprio paese. La veramente grande e generale preoccupazione degli spiriti era l’emancipazione dei contadini, oramai inapellabilmente decretata con tutta la forza di una legge organica dell’impero. È noto quale fosse la loro condizione: veri servi della gleba aveano in usufrutto un pezzo di terra da cultivare, a condizione di cultivare anche le terre del padrone, e di prestarsi ad ogni chiamata in schiere (_corvées_), a certi determinati altri lavori: non poteano possedere, non poteano abbandonar le loro terre, ed erano esclusi da ogni ingerenza nelle faccende del commune. I padroni reclutavano pure tra di essi i contingenti per l’armata. L’importanza de’ possedimenti era misurata ed espressa dal numero de’ servi che vi erano attaccati. Il pensiero dell’affrancamento de’ contadini, che aveva balenato appena nel cervello di qualche solitario moralista, prese maggior consistenza all’avvenimento al trono dello Czar attuale, che sino da’ suoi primi atti annunciava un’epoca novella alla Russia; ma le difficoltà dell’esecuzione apparvero così gravi, la crisi conseguente così spaventosa, che questa radicale riforma sociale fu ritenuta come da aversi presente allo spirito, ma da effettuarsi in un’epoca indeterminata. L’_ukase_ imperiale del 19 febrajo 1861 troncò gl’indugi; dichiarata la libertà de’ servi, stabilì minutamente le norme affinchè potessero, a prezzo di danaro, diventare veri padroni delle terre che aveano avuto in uso fino allora da padre in figlio, in pari tempo redimendosi dal lavoro obligatorio. Due anni di tempo erano concessi per la transizione dall’antico al nuovo ordine di cose, per la stipulazione de’ nuovi patti fra i contadini ed i padroni. Questo biennio era appunto prossimo a spirare quando noi attraversavamo la Russia, e non s’era ancora presa alcuna deliberazione, e si vedeva con terrore l’approssimarsi del termine ultimo. Tutta la società era cupamente travagliata, tutti gli interessi rovinati. I servi non volevano accettare l’_ukase_ che in una sola parte: in quella che li scioglieva dalle prestazioni di lavoro a vantaggio del padrone, e si rifiutavano a qualunque imposizione per esser mantenuti al possesso di terre che per lunga serie di anni, perfino da secoli, essi consideravano già come incontrastabile loro proprietà. Noi apparteniamo al padrone, dicevano essi, ma la terra appartiene a noi; e frattanto rifiutavansi ad ogni tributo. Pochi mesi dopo la publicazione dell’_ukase_ diecimila contadini insursero armati nel governo di Kasan, per reclamare la proprietà assoluta delle loro terre, senza condizione: e fu d’uopo d’una vera battaglia per sottometterli. Non è a dirsi lo stato dei proprietarj in una sì violenta crisi sociale! Questo grande atto che trasforma intieramente la Russia non fu imposto da alcuna stringente necessità materiale, fu un omaggio reso alla scienza sociale, alla scienza d’occidente. La vita trascorreva pei contadini abbastanza tranquilla e contenta. Quelle medesime condizioni di isolamento che li rendevano industriosi a proveder a tutti i bisogni della famiglia, agli alimenti, alle vesti, a’ mobili, agli attrezzi rurali, faceva sommo, a’ loro voti, il bene più facilmente e più sicuramente conseguibile, la rustica agiatezza della vita patriarcale. Di raro vedevano i loro padroni; alcuni perfino, invecchiati sul luogo, non aveano mai vista la faccia del signore al quale pagavano tributo: tutti infine erano attaccati alle loro terre dall’affezione per la cosa posseduta. La miseria del contadino della pingue Lombardia è sconosciuta in Russia: ne’ due mesi che noi passammo nelle provincie russe al di qua e al di là del Caucaso, non ci occorse mai di vedere una mano stendersi a cercare l’elemosina. Alcuni servi della gleba hanno potuto perfino accumulare fortune colossali. Dall’altra parte i signori, scevri da ogni cura di amministrazione de’ loro beni, potevano darsi affatto liberamente alle alte cariche dello Stato, circondarsi degli agi e del lusso del loro rango fin ne’ posti avanzati dell’estrema Asia, ingolfarsi ne’ fasti olimpici della vita di corte, o nelle dissipazioni della vita parigina. Ora tutto è cambiato, e pel momento con una grave perturbazione generale. Surge pe’ contadini, colla dignità dell’uomo libero, la vera lutta per l’esistenza; si preparano nel loro prossimo avvenire fortune e procelle per lo addietro ignorate, nuovi desideri, nuovi più elevati godimenti, ma anche nuove illusioni. Il perturbamento è ancora più grave nella classe dei signori, non foss’altro per la sospensione delle rendite durante la lutta pe’ nuovi accordi co’ servi, e non poche fortune, già minate dalla crisi finanziaria che travaglia ancora la intiera Europa, andarono in completa ruina. L’emancipazione de’ contadini è frutto de’ tempi maturati durante il famoso raccoglimento della Russia, annunciato dal principe di Gortschakoff dopo la guerra di Crimea; è sintomo e fomite ad un tempo di uno spirito novello che agita in Russia tutte le classi della società; è la creazione del terzo stato; radicale riforma da cui dipendono tutte le altre, che poi necessariamente trascina dietro di sè. Fin qui non sarebbe stata possibile in Russia che una rivoluzione di palazzo, od una sollevazione brutale di quella plebe che si palesa dalla fiaccola devastatrice come il leone dall’unghia; ora è aperta l’arena alla pacifica, potente e ferace rivoluzione delle idee. Ferve il lavoro nelle stesse regioni del governo, e già per nuove leggi sono informate a più liberali principj l’amministrazione della finanza publica, l’amministrazione communale, la magistratura. La rottura col passato è ancora più decisa ed energica in ogni manifestazione della vita publica. Nelle assemblee della nobiltà raccolte lo stesso anno 1862, a Pietroburgo, a Mosca, a Tver, s’udirono le proposte di stati generali, e di parlamento nazionale; e coloro che le hanno pronunciate non furono deportati in Siberia. Notisi questa circostanza come sintomo assai espressivo della attuale situazione e dell’avvenire della Russia! FINE DEL VOLUME. ERRORI E CORREZIONI. Devo riparare ad una ommissione a proposito delle ascensioni dell’Ararat. La cima di questa colossale montagna fu veramente raggiunta nell’agosto del 1850 da una spedizione russa avente a capo il colonnello (ora generale) Chodzko, e della quale facevano parte il sig. Moritz, direttore dell’osservatorio meteorologico di Tiflis, il sig. Chanikow che più tardi si rese tanto distinto pel suo viaggio nel Kurassan, con altri quattro uficiali e sessanta soldati. Il generale Chodzko rimase sulla cima del monte sei intieri giorni a fare osservazioni. Non mi è nota la cifra per esso trovata esprimerne l’altezza del grande Ararat. La quota del piccolo Ararat è a 12,805 piedi inglesi sul livello del mare. _Pag._ _linee_ _leggi_ 1 13 perduto perduta 6 18 disertare dissertare 9 7 _Paffinus_ _Puffinus_ 21 18 angitica augitica 29 4 trarformarsi trasformarsi 39 10 Alpigiano Alpignano 49 11 tutti tutt’ 69 9 mezzo mezzi 92 3 infioravano indoravano 96 4 combe conche 101 23 Schach Schah 104 16 sinistra destra » 17 destra sinistra 165 I. XI. 183 23 _Cotyle_ _Chelidon_ 188 12 Borè Bourée 213 6 amgdatoide amigdaloide 216 8 altre alte 227 18 officiali al officiali europei servizio al servizio 229 18 vari vani 237 17 asdirazione aspirazione 249 30 regolare regalare 255 15 _l’Argali_ (_Copra _l’Argali, la ægagrus_) Capra ægagrus_ 258 15 orrizzontali orizzontali 273 8 inguinato inquinato 278 18-19 applicarmi applicargli 293 22 ad orso a dorso 298 3 Vürth Würth 306 10 sud-est sud-ovest 316 10 specia specie 329 28 barò farò 348 17 _isabelline_ _isabellino_ 349 22-23 cespugliane cespugliose 353 18 _rotundataæ_ _rotundatæ_ 363 11 =Cyclestoma= =Cyclostoma= » 15 =Lymnoen= =Lymnæus= » 16 Engeli Enzeli 366 17 _Pteroches_ _Pterocles_ 369 22 orrizzonte orizonte 370 34 ingenta ingente 375 8 lavorata lavorate 379 1 lungò lungo » 31 _Kapische_ _Kaspische_ 387 2 Klec Klee NOTE: [1] SPALLANZANI, _Viaggio alle due Sicilie_. [2] Affatto recentemente il mio amico Doria, ritornando dalla Persia, trovavasi a bordo d’un grosso vapore del Llyod, quando, verso il capo Matapan, si videro d’un tratto gettati sul ponte del bastimento un gran numero di calamaj. Era uno stormo che, inseguito forse da qualche pesce vorace, si saettò fuori dell’aqua, e con tale impeto, che perfino sette individui caddero sul ponte del comando. Il marchese Doria ne raccolse parecchi esemplari, nei quali riconobbi una specie finora rarissima nelle collezioni: la _Loligo (Ommastrephes) æquipoda_ di Rüppell. [3] Per esempio, la barletta _(Falco rufipes)_, il pett’azzurro _(Cyanecula suecica)_, la gambetta _(Tringa pugnax)_, il croccolone _(Gallinago major)_, la marsaiola _(Querquedula circia)_. [4] Communicata alla regia academia delle scienze di Torino nella tornata del 3 maggio. [5] Le mie escursioni zoologiche in Costantinopoli dovettero limitarsi alle visite de’ mercati, ove trovai portarsi allora in gran copia mitili esculenti, tonni, palamiti (_Pelamis sarda_), grossi caponi (_Trigla_, e specialmente _Trigla lyra_), acciughe e latterini. Questi ultimi (_Atherina hepsetus_), dagli abitanti europei del gran quartiere di Pera, sono chiamati _eperians_, per una certa rassomiglianza col vero eperian dell’Oceano (_Osmerus eperianus_), che è tutt’altra cosa. Vidi anche molti storioni, e fra questi trovai un esemplare di quella singolare anomalia dell’_Accipenser stellatus_, descritta da Brandt come una specie distinta, col nome di _A. Ratzeburgi_. [6] _Anthus rufogularis_. [7] Vedi anche _Bulletin de l’Académie Imperiale de St. Petersbourg_, tomo III, pag. 84. [8] Il _samovar_ è un vaso, per lo più in lamina d’ottone, con doppia parete, e così costruito che nel centro si pongono carboni accesi, alla periferia l’aqua da far bollire. È l’utensile di cucina più usato in tutta la Russia e in tutta la Persia: e converrebbe anche, per la commodità e per l’economia, ad ogni famiglia in Europa. In Russia se ne fanno anche di eleganti, pel servizio del tè nelle sale di società. [9] V. GÜLDENSTÄDT, _Beschreibung der Kaukasischen Länder_, Berlin, 1834. [10] EICHWALD, _Reise in den Kaukasus_, pag. 85. [11] Vedi particolarmente KOCH, _Wanderungen in Oriente wahrend der Jahre_ 1843-44, vol. III. [12] Un _rublo_ equivale a poco meno di quattro franchi; un _kopek_ a circa quattro centesimi; una _dessatina_ a poco meno di 110 are. [13] Sull’organizzazione dell’armata del Caucaso, e sulle operazioni della campagna del 1862, vedi una serie di interessantissimi articoli nell’_Italia militare_ dal giugno all’agosto 1863. L’anonimo di quelli articoli è di una trasparenza cristallina. [14] Mentre scrivo queste linee vengo a sapere che recentemente è stato addetto a questo istituto, collo speciale incarico delle osservazioni magnetiche, il sig. Radde, il celebre perlustratore dell’Amur. [15] Su questa particolarità, e sulla struttura della cute nello _Stellio_, ho fatto apposita communicazione alla R. Academia delle scienze di Torino, nella seduta del 31 maggio 1863. [16] Trovai qui per la prima volta nell’Asia questa specie esclusivamente rappresentata dalla sua varietà dalla testa nera, la quale perciò potrebbe esser considerata come una razza locale, asiatica, che manda soltanto i suoi avamposti nell’Europa meridionale. [17] Eichwald (_Reise in den Kaukasus_) descrive tre specie di pesci del lago Guktscha, che egli denomina _Salmo fario_, _Cyprinus cupoeta_, _Cypr. barbus_. Le prime due corrispondono certamente a quelle da me raccolte: dell’ultima non mi riescì trovar esemplari, per quanta offrissi lauto compenso ai pescatori di Helenowko. La critica ittiologica era ancora molto bambina pochi anni addietro, e sarebbe ora assai difficile lo stabilire a quale delle specie descritte da Pallas e da Eichwald, sugli incertissimi caratteri del colore, si possa riferire la trota che io ho trovato costante nell’Asia occidentale. I suoi caratteri corrispondono perfettamente a quelli del _Salar obtusirostris_ di Heckel, salve alcune variazioni nella forma del muso, che si rende meno ottuso coll’età. [18] _Clepsine orientalis_. De F. affine alla _complanata_, ma di dimensioni sensibilmente maggiori, di corpo più molle, di color molto più verde. _Clepsine Leuckarii_, De F. affine per le dimensioni, per le forme e per la consistenza del corpo alla _Cl. bioculata_, ma perfettamente distinta dagli occhi in numero di otto, e dal colorito. Il fondo generale del corpo è un bruno tabacco, con fitte marezzature giallo-ranciato, sporche ai lati, ed altre simili più rare nel mezzo del dorso. [19] Così si chiamano i fanti regolari in Persia. [20] Non è chi, visitando la cittadella di Erivan, sfugga al racconto di questo episodio della vita di Hussein Khan. Era nel paese una zitella armena, decantata per la sua bellezza, e fidanzata ad un giovane della sua religione. Il Sardar la fece rapire e trarre nel suo _harem_; ed ivi colmandola di affettuose premure e di ricchi doni, tentava ogni mezzo per vincerne l’animo restio. Una delle sue notti angosciose, la giovane prigioniera ode, a piè della rocca, fra il mormorio del Sanga, un canto noto e caro al suo cuore: e nel delirio amoroso si precipita dalla finestra, e rimane tramortita a piè delle mura nelle braccia del suo disperato amante. Le guardie accorrono, riconducono i due innamorati al cospetto di Hussein Khan, il quale, commosso da un ardente affetto che oramai disperava poter rivolgere a lui stesso, accordò ad entrambi immediata libertà. [21] È generale credenza nel paese che Arkouri sia stato fabricato da Noè; il quale ivi avrebbe altresì piantata la prima vite. [22] Vedi _Reise nach dem Ararat_, Stuttgart und Tübingen, 1848. [23] La descrizione che di questa specie ho data nell’_Archivio di zoologia_ (vol. III, fasc. 1.º), riguarda alla sola femmina, e deve perciò esser rifatta. Il maschio mi giunse più tardi con altri oggetti, in una cassa che io reputavo perduta. L’_Emberiza (Fringillaria) Cerrutii_, sarà quindi così caratterizzata. _E. cœsiæ affinis, sed mento et annulo orbitali albis, torque griseo pectorali nullo, abdomine infimo crissoque cervinis._ MAS. _Capite, colloque postico et laterali, cinereo plumbeis; collo antico pectore toto summoque abdomine fusco æruginosis; dorso brunneo rufo, lævissime fusco adumbrato._ FŒM. _Capite, collo postico dorsoque supremo cinereo fuscis; pectore pallide æruginoso_. [24] _Mehmendar_ vuol dire ricevitore degli ospiti, ed è sempre un personaggio di rango, delegato a questo ufficio dal governo persiano. [25] _Ferrasch_ vale quanto servo. Ogni forestiero di qualche rango ne deve avere intorno a sè un numero proporzionato al rango stesso. [26] Il tomano che è la moneta d’oro della Persia, equivale a circa 12 fr., e si decompone in 10 grani, monete d’argento grossolanamente coniate, e rassomiglianti nella forma a piccoli lupini. Il grano si divide in due _penabat_, ed il _penabat_ in dieci _schahi_. [27] A tutti è noto come in certi casi sia difficile, a chi non dispone di un copioso corredo di materiali di confronto, la determinazione precisa di frammenti isolati di ossa. Quelli che si prestano ad una simile operazione tra i pezzi da noi raccolti nel monticello di Marend, spettano a ruminanti domestici. Di particolar interesse è un grosso frammento di mandibola co’ molari molto consumati, e che si distingue per la crescente larghezza della mandibola stessa, partendo dal margine alveolare, press’a poco come nei majali. In una mia breve memoria inserita nella _Rivista contemporanea_ (_Agosto_ 1863.), ho creduto poter riferire questo frammento ad una specie di cervo; ma poscia, uno de’ più esperti paleontologi dell’epoca nostra, il sig. Lartet, al quale io aveva communicato un modello di quel frammento, mi scrive che, a suo avviso, malgrado l’aspetto _cerviforme_ da que’ molari preso per la consumazione, quel frammento deve riferirsi piuttosto ad un bue di piccola statura. Rimane sempre il carattere accennato della grossezza della mandibola, maggiore assai che nelle ordinarie razze domestiche del bue commune. [28] Tepe vuol dire in turco monticello, promontorio, ed è quindi vocabolo assai generico; ma io me ne servirò per indicare esclusivamente quei monticelli che per la struttura e pel modo di formazione fanno causa commune con questo di Marend. [29] _Reise nach Persien und dem Lande der Kurden_, Leipzig 1852, vol. II, pag. 133. [30] _Scherbeth_ è aqua raddolcita con sciroppo. Da questa parola viene senza dubio il nostro _sorbetto_. [31] Trovai di nuovo questa specie nella bella collezione di rettili fatta dal mio compagno ed amico marchese Doria nella Persia meridionale. [32] La parola _Mirza_ premessa al nome indica un letterato, posta invece dopo il nome indica un principe del sangue. [33] Qui, nel pieno di Udjan, come già prima a Marend, ho trovato la _Pratincola Hemprichii_ di Ehrenberg. Questa specie, dall’Egitto, ove per la prima volta fu rinvenuta, si innoltra nell’Asia occidentale. Io l’ho riveduta più tardi a Pietroburgo, nella collezione fatta da Karelin nel paese de’ Kirgisi. [34] Da una lettera di Bokara ho appreso che i tre viaggiatori italiani, sulla cui sorte, mentre io scrivo, si è in tanta angosciosa trepidazione, hanno avuto molto a soffrire nella Tartaria per le molestie di certe specie di zecche. Sarebbe mai la specie dell’_Argas persicus_ estesa fin là? [35] Un assai pregevole monografia anatomica su questa specie è quella del signor Heller, publicata nel _Bullettino dell’Accademia di Vienna_, 1858. [36] Non abbiamo visto in Persia che rarissimi cani, e questi per lo più levrieri di somma bellezza, che si pagano perfino a prezzi superiori a quelli de’ più bei cavalli. [37] Il prof. Lessona farà meglio conoscere questa specie così distinta pe’ suoi costumi da tutti gli altri oniscidi. Vive nelle steppe, in profonde gallerie: un individuo adulto si trova ad ogni buco, come di guardia: i giovani in sul far della sera vagano per la campagna, e si arrampicano sulle erbe. Attorno all’ingresso della galleria sono accumulati frammenti terrosi figurati, che io credo esser gli escrementi stessi dell’animaletto. Potemmo osservare diversi individui trascinanti pezzetti d’erba alla propria tana. [38] Isidoro Géoffroy di S. Hilaire ne ha fatto una specie distinta, col nome di _Spermophilus concolor_. [39] In queste acque ho pur trovato tre nuove specie di Irudinee. _Hæmopis incerta._ De F. Parte superiore olivaceo-rossastra, con molti punti neri in due serie ai lati di una linea mediana alquanto più chiara: ventre dello stesso colore del dorso, ma più pallido, e senza macchie. [40] Il farsach, misura itineraria in Persia, equivale a cinque chilometri e mezzo. [41] _Reise der K. preussischen Gesandschaft nach Persien._ 1860-61, Lipsia due volumi in 8.º grandi. Questa opera è senza contrasto una delle più importanti finora publicate sulla Persia, non soltanto per essere la più recente, ma eziandio per la ricchezza delle descrizioni, delle notizie storiche e statistiche, e la pompa del’erudizione linguistica. [42] I Veneziani specialmente aveano avute relazioni diplomatiche colla Persia, spedite e ricevute ambasciate. Gli atti di queste ambasciate furono raccolti, per eccitamento del mio amico comm. Cristoforo Negri, dal signor Guglielmo Berchet, in un bel volume escito alla luce allora appunto che si stava rivedendo le bozze di questo capitolo. [43] Alcuni scrivono Rena o Rhaena: ma già non vi sono due autori che scrivano nel medesimo modo i nomi de’ villaggi persiani. [44] _Die geognostischen und orographischen Verhältnisen des noerdlichen Persiens._ Pietroburgo, 1853. [45] V. _Ritter. Asien._, V, 561. BRUGSCH, Op. cit. I, 293. [46] Un anno dopo venni a sapere che questo D. Küsten era morto di febri maligne in Rescht. [47] A dare una più adequata idea del clima di queste provincie e specialmente del Mazanderan, aggiungerò che la coltivazione del cotone vi prospera tanto da esser divenuta uno de’ principali prodotti. Da alcune prove fatte risulta che la canna da zuccaro vi può vegetar perfettamente; e presso Sari crescono ancora oggi le palme. [48] Il risultato delle educazioni fatte sinora in Italia con semente di Persia riescì in verità scoraggiante per la cattiva qualità de’ bozzoli ottenuti; ma bisogna riflettere che queste prove furono fatte sotto l’influenza del regime proibitivo, quindi con semente ottenuta di contrabando, confezionata da’ Persiani stessi, senza buone norme, e senza scelta di partite. I Persiani non vanno tanto scrupolosi nella qualità de’ bozzoli: ciò che loro importa è l’averne molti, di brutte o di belle razze non importa: e ve ne sono infatti delle une e delle altre. Alcune tavole scelte che io vidi dal sig. Hahnart non erano per certo inferiori in qualità all’antica e tanto apprezzata razza di Lombardia. [49] _Murd’ab_ vuol dire in persiano morta aqua. [50] L’ammiraglio Smyth calcola la superficie dell’Adriatico in 2493, quella del mar Nero in 7525 miglia geografiche quadrate (di 15 al grado). Non conosco misure precise della superficie del Caspio; posso dire soltanto che Bergsträsser la giudica, come non v’ha dubio che sia, superiore alle 6000 miglia quadrate. [51] BORSZCZOW, _Ueber die Natur des Aralo-Caspischen Flachlandes. Würzburger naturw. Zeitschift_, 1. _Band_. [52] Il signor de Baer, dal quale ricevo questa notizia, dice 9 braccia (Faden). Prendo questa parola come equivalente alla sagena russa, la quale corrisponde a 2^m,134, e trascuro la frazione. [53] Io aveva raccolto presso Baku da circa 4 litri di aqua da sottomettere in Torino all’indagine di alcuno dei nostri valenti chimici: ma i due bottiglioni suggellati che la contenevano mi furono involati sul battello a vapore da qualcuno che forse ha creduto di fare un buon bottino di aquavite. Quanta non sarà stata la doppiamente amara disillusione di questo _voleur volé_! [54] Lo Sterletto del Caspio si distingue da quello del Danubio per il muso meno prolungato e la bocca più piccola. [55] _Minor: corpore compresso; tubulis nasalibus binis exertis supra maxillam. Squamis rhombeis._ D. 6 — 21. P. 15. A. 17. V: 12. _Squamis ser. vert. 20. ser. longit. 48._ Questa piccola specie è communissima fra le alghe presso Baku, e si distingue pel corpo molto compresso, come nei Blennii, e per due tubi nasali prolungati, al di sopra della mascella superiore. Gli occhi, alquanto rivolti in alto, distano fra loro di mezzo diametro. La pinna ventrale arrotondata rimane col suo estremo lembo distante dall’apertura anale per uno spazio uguale alla metà della sua propria lunghezza. Le misure e le proporzioni in un esemplare di medie dimensioni sono le seguenti: Lunghezza totale del corpo 0^m,06 Distanza dall’apice del muso al lembo dell’opercolo 0^m,015 Altezza del corpo 0^m,012 Colore verdastro sul dorso, più pallido sul ventre, con molte fascie di colore più scuro irregolari e verticali sui fianchi, onde il corpo risulta come zebrato. [56] Il genere _Scaphiodon_, creato da Heckel nel 1843, comprende il _Cyprinus capoeta_ di Güldenstaedt, che precedentemente avea servito al signor Valenciennes per la fondazione d’un genere apposito _Capoeta_. Secondo le buone leggi della nomenclatura il nome generico del professore parigino deve avere la preferenza, ed io non esito punto a sostituirlo a quello del compianto ittiologo viennese. Questo genere è veramente caratteristico della fauna ittiologica dell’Asia occidentale, e comprende molte specie, il cui numero verrà forse ridotto quando se ne rifarà un’accurata critica. Veggasi l’importante opera di Heckel (_Fische Syriens_) e la più recente bella monografia del conte di Keyserling. Una specie che è molto abondante nel lago Goktscha fu da me riferita sull’autorità di Eichwald a quella tipica di Güldenstaedt, ma il confronto diretto con esemplari di questa posteriormente avuti, mi rendono persuaso che la specie del lago Goktscha deve esserne affatto distinta. Tra le specie del corpo grosso, arrotondato, questa viene in prima linea, tanto il corpo stesso è quasi cilindrico, mugiliforme. La larghezza del capo, presa tra i due opercoli sensibilmente rigonfi, è uguale all’altezza del corpo stesso: la lunghezza misura cinque volte ed un terzo quella dell’intiero corpo, ed è uguale all’altezza del corpo istesso, il diametro dell’occhio sta sei volte nella lunghezza del capo, e da un occhio all’altro corrono tre diametri e mezzo. Un carattere proprio di questa specie consiste nel terzo raggio della dorsale che è gracile, liscio, con appena debolissimo indizio di seghettatura al suo lato posteriore. Il colore è bronzato cupo sulle parti superiori, volgente alquanto all’argenteo sul ventre. D. 3/9. A. 2/5. Squam. ser. 54 9/8. Ritengo probabile che questa specie scenda anche al Caspio, ov’io però non l’ho veduta. Sicura è l’esistenza in questo mare delle due seguenti, che ebbi a trovare anche nell’Arasse a Djulfa, e delle quali alcuni individui facevano parte di un’interessante collezione di pesci di Erzerum, mandatami dall’amico Bosio, R. console d’Italia a Trebisonda. [57] Tre individui di questa specie, provenienti dalle sorgenti dell’Arasse presso Erzerum, mi furono spediti dal predetto signor cav. Bosio. Non differiscono per nulla dal _Chondrochilus regius_ di Heckel, se non pel carattere dei denti faringei 6 — 6 e non 7 — 6. Il che vuol dire semplicemente che questo carattere non può avere per sè solo quel valore che Heckel gli vorrebbe attribuire: e ciò conferma quanto ebbe a notare l’illustre mio amico profess. de Siebold nella sua veramente classica opera sui pesci dell’Europa centrale. Annovero il _Chondr. regium_ tra i pesci del Caspio, perchè abita uno de’ grandi fiumi che si versano in questo mare e perchè si può molto ragionevolmente supporre che a questa specie debbasi riferire il _Cyprinus nasus_ registrato da Pallas e da Eichwald come un pesce caspico. [58] Mentre io stava correggendo le bozze di questo capitolo, ripassando i numeri del _Bullettino della imp. academia delle scienze_ di Pietroburgo, di fresco giunti in Torino, trovo in una nota del sig. de Baer l’interessante notizia che fra le specie recentemente raccolte nel Caspio dal signor luogotenente Ulski (ch’ebbi la fortuna di conoscere personalmente in Baku), trovasi pure l’_Idotea entomon_. Questa specie manca nel mar Nero, trovasi invece nel Baltico e nel mar Bianco, e, secondo le relazioni degli academici Brandt e Schrenk, si estende fin sulle sponde del Kamtschatka. [59] Il _Salmo (?) leucichihys_ e la _Idotea entomon_ accennerebbero per verità ad una antica communicazione del gran mare interno europeo-asiatico col mar glaciale, ma una semplice communicazione indiretta per via de’ fiumi, poichè la prima specie è da ritenersi piuttosto fluviale che marina, e la seconda si trova pure in aqua dolce, nel lago Wenern in Svezia. [60] V. _Bulletin de la société géologique de France_, tomo XXI, pag. 259. [61] Il _pud_ russo equivale all’incirca a 13 chilogrammi. [62] Non è possibile separare, quanto al processo di loro formazione, questi così fisicamente diversi produtti che i chimici hanno per lo addietro compresi sotto la molto vaga denominazione di idrocarburi naturali: tutti derivano indubiamente da sostanze organiche. Il Prof. Stoppani di Milano, in una dotta sua memoria publicata nel _Politecnico_ (vol. XXIII.), ha cercato invece spiegarne l’origine per la diretta combinazione de’ loro elementi sotto l’influenza delle forze vulcaniche. Io non mi farò qui a discutere se l’associazione delle surgenti di gas infiammabile e di petrolio colle salze, e di queste co’ vulcani veri, sia intima e causale, più che fortuita. Mi pare che la cosa non sia per anco sufficientemente dimostrata, sebbene i fatti addotti dal prof. Stoppani siano di molto peso, e ricevano l’appoggio dell’incontestabile autorità del sig. Abich, il quale ha trovato nella disposizione de’ vulcani di fango e delle sorgenti bituminose della penisola di Apscheron uno stretto rapporto colle linee di dislocazione dovuta alle emersioni trachitiche (_Mem. dell’Acad. Imp. di Pietroburgo_, tomo VI, 1863). A mio avviso vi sono qui due generi di fatti da separarsi assolutamente. Da una parte la formazione e condensazione locale de’ così detti idrocarburi, dall’altra il loro sprigionamento. Quest’ultimo si potrà concedere all’azione vulcanica od almeno plutonica; ma quando è così chiara l’origine del gas delle paludi e di quello delle miniere di litantrace, quando tutti i terreni d’onde scaturiscono emanazioni infiammabili s’appalesano così ricchi di sostanze organiche (come le marne terziarie d’Italia, la formazione aralo-caspica, e le stesse roccie per lo addietro considerate come azoiche de’ distretti del petrolio nell’America settentrionale) non è più necessario andar fantasticando in traccia di nuovi misteriosi agenti. Dovunque io mi sono imbattuto nella formazione della marna azzurra subapennina ho notato che dalle fratture fresche di questa roccia esala un distinto odore di nafta. È noto poi il fatto del gas infiammabile imprigionato nel sale decrepitante di Vieliczka, onde venne al pensiero del prof. Bianconi un’ipotesi certamente ingegnosa, se non in tutto sostenibile, sull’origine de’ così detti terreni ardenti. [63] Koch. _Vanderungen in Oriente_. Vol. III, pag. 250. [64] Non si può capire per quale strano abbaglio un viaggiatore di questo secolo, Gamba, abbia potuto scrivere che Derbend è a quattro verste dal mare! [65] Dagli immensi canneti del gran delta del Volga si trae un profitto che potrà sembrare strano, ma che è bene sia conosciuto: la pannocchia, opportunamente battuta e spogliata dei semi, viene convertita in una specie di lana vegetale di cui si imbottiscono cuscini e materassi specialmente pei militari. [66] I neonati hanno le gambe posteriori non più lunghe delle anteriori. [67] Questa specie, trovata per la prima volta in Egitto da Ehrenberg, deve avere una grande estensione geografica verso oriente. Io l’ho vista rappresentata anche nella collezione fatta da Kareljn nelle steppe de’ Kirgisi. [68] Ho qualche dubbio che questa specie da me descritta come nuove possa non esser altro che l’abito di nozze della _O. penicillata_, il quale però non è punto descritto dagli autori, e neppure nella recentissima opera di Jerdon gli uccelli delle Indie. [69] Questa specie può figurare legittimamente nel quadro delle sospese. Io l’ho vista in Astrakan in una piccola ma assai interessante collezione di uccelli di quel territorio. [70] Questa specie fu descritta contemporaneamente (1843) anche da Fraser (Proced. Zool. Soc.) col nome di _Perdix Bonhami._ Preferisco la denominazione di Brandt come quella che esprime un carattere così netto e deciso della specie, non mentovato da Fraser, e neppur rappresentato nelle figura che ne diede questo autore nella sua _Zoologia typica_. [71] Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo, tomo 6.º [72] Nouv. Mém. de la Societé Imp. des Natur. de Moscou Tom. IX. pag. 423. [73] Le seguenti specie di Ofidii, tutte recate dalle provincie meridionali della Persia dal marchese Doria, sono state determinate dall’illustre erpetologo professore Jan, e qui descritte colle stesse sue parole. [74] Il _Tetraogallus caucasicus_ si distingue dall’_himalayanus_ pel sottocoda di color nero. Se a quella od a questa specie si debba riferire il _Kepkederneh_ de’ Persiani, non potrei dire. [75] Io ho raccolto dalla bocca di alcuni persiani il nome di Argali applicato anche al mufflone dell’Elburz, od _Ovis Gmelini_. Mi è mancato l’occasione di studiar bene i caratteri di questa specie, della quale non posseggo che un cranio regalatomi dal colonnello Andreini. A Khiva si chiama _arkal_ (notisi l’analogia del nome con _argali_) un mufflone che il prof. Brandi considera come una specie particolare, ma che nella rassomiglianza coll’_O. tragelophus_ parmi avere appunto uno de’ caratteri che Blyth assegna al suo _O. Gmelini_. [76] Vedi UNGER, _Neuholland in Europa_, Wien. [77] Vedi particolarmente: SPIEGEL. _Eran, das Land zwischen den Indus und Tigris_, ecc. Berlin. 1863. [78] Op. cit. vol. 1, pag. 331. [79] Il _touloup_ è un soprabito di pelli di montone camosciate, col pelo rivolto all’indentro. Ve n’ha che sono cuciti con qualche eleganza, anche a disegni o ricami. [80] Si racconta che Giovanni il terribile, fatta costruire questa chiesa nel secolo decimosesto, tanto se ne compiacesse, che esaltando di lodi l’architetto, gli domandasse se mai fosse possibile inalzare più splendido monumento. L’architetto (era un italiano) avendo risposto che sentivasi egli medesimo capace di fare ancora qualche cosa di meglio, fu subito rimeritato dalla brutale gelosia del tiranno coll’aver strappati gli occhi, onde la novella chiesa restasse unica nel suo genere. [81] Anche gli atti di splendidezza prendono in Russia enormi proporzioni. Eccone un altro esempio. In questi ultimi anni il signor Sidonow non legò in morte, ma diede lui vivente la somma di un millione di rubli (circa quattro millioni di franchi), per fondare una università in Siberia. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 397-98 sono state riportate nel testo. La notazione ^ indica che il carattere seguente è in apice. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NOTE DI UN VIAGGIO IN PERSIA NEL 1862 *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. Project Gutenberg eBooks may be modified and printed and given away—you may do practically ANYTHING in the United States with eBooks not protected by U.S. copyright law. Redistribution is subject to the trademark license, especially commercial redistribution. START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a Project Gutenberg™ electronic work and you do not agree to be bound by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the person or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8. 1.B. “Project Gutenberg” is a registered trademark. It may only be used on or associated in any way with an electronic work by people who agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few things that you can do with most Project Gutenberg™ electronic works even without complying with the full terms of this agreement. See paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project Gutenberg™ electronic works if you follow the terms of this agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg™ electronic works. See paragraph 1.E below. 1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation (“the Foundation” or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection of Project Gutenberg™ electronic works. Nearly all the individual works in the collection are in the public domain in the United States. If an individual work is unprotected by copyright law in the United States and you are located in the United States, we do not claim a right to prevent you from copying, distributing, performing, displaying or creating derivative works based on the work as long as all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope that you will support the Project Gutenberg™ mission of promoting free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™ works in compliance with the terms of this agreement for keeping the Project Gutenberg™ name associated with the work. You can easily comply with the terms of this agreement by keeping this work in the same format with its attached full Project Gutenberg™ License when you share it without charge with others. 1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern what you can do with this work. Copyright laws in most countries are in a constant state of change. If you are outside the United States, check the laws of your country in addition to the terms of this agreement before downloading, copying, displaying, performing, distributing or creating derivative works based on this work or any other Project Gutenberg™ work. The Foundation makes no representations concerning the copyright status of any work in any country other than the United States. 1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg: 1.E.1. The following sentence, with active links to, or other immediate access to, the full Project Gutenberg™ License must appear prominently whenever any copy of a Project Gutenberg™ work (any work on which the phrase “Project Gutenberg” appears, or with which the phrase “Project Gutenberg” is associated) is accessed, displayed, performed, viewed, copied or distributed: This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. 1.E.2. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is derived from texts not protected by U.S. copyright law (does not contain a notice indicating that it is posted with permission of the copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in the United States without paying any fees or charges. If you are redistributing or providing access to a work with the phrase “Project Gutenberg” associated with or appearing on the work, you must comply either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg™ trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9. 1.E.3. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is posted with the permission of the copyright holder, your use and distribution must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms will be linked to the Project Gutenberg™ License for all works posted with the permission of the copyright holder found at the beginning of this work. 1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg™ License terms from this work, or any files containing a part of this work or any other work associated with Project Gutenberg™. 1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this electronic work, or any part of this electronic work, without prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with active links or immediate access to the full terms of the Project Gutenberg™ License. 1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary, compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including any word processing or hypertext form. However, if you provide access to or distribute copies of a Project Gutenberg™ work in a format other than “Plain Vanilla ASCII” or other format used in the official version posted on the official Project Gutenberg™ website (www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means of obtaining a copy upon request, of the work in its original “Plain Vanilla ASCII” or other form. Any alternate format must include the full Project Gutenberg™ License as specified in paragraph 1.E.1. 1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying, performing, copying or distributing any Project Gutenberg™ works unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9. 1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing access to or distributing Project Gutenberg™ electronic works provided that: • You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from the use of Project Gutenberg™ works calculated using the method you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed to the owner of the Project Gutenberg™ trademark, but he has agreed to donate royalties under this paragraph to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid within 60 days following each date on which you prepare (or are legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty payments should be clearly marked as such and sent to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in Section 4, “Information about donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation.” • You provide a full refund of any money paid by a user who notifies you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he does not agree to the terms of the full Project Gutenberg™ License. You must require such a user to return or destroy all copies of the works possessed in a physical medium and discontinue all use of and all access to other copies of Project Gutenberg™ works. • You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the electronic work is discovered and reported to you within 90 days of receipt of the work. • You comply with all other terms of this agreement for free distribution of Project Gutenberg™ works. 1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project Gutenberg™ electronic work or group of works on different terms than are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing from the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager of the Project Gutenberg™ trademark. Contact the Foundation as set forth in Section 3 below. 1.F. 1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread works not protected by U.S. copyright law in creating the Project Gutenberg™ collection. Despite these efforts, Project Gutenberg™ electronic works, and the medium on which they may be stored, may contain “Defects,” such as, but not limited to, incomplete, inaccurate or corrupt data, transcription errors, a copyright or other intellectual property infringement, a defective or damaged disk or other medium, a computer virus, or computer codes that damage or cannot be read by your equipment. 1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the “Right of Replacement or Refund” described in paragraph 1.F.3, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project Gutenberg™ trademark, and any other party distributing a Project Gutenberg™ electronic work under this agreement, disclaim all liability to you for damages, costs and expenses, including legal fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH DAMAGE. 1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a written explanation to the person you received the work from. If you received the work on a physical medium, you must return the medium with your written explanation. The person or entity that provided you with the defective work may elect to provide a replacement copy in lieu of a refund. If you received the work electronically, the person or entity providing it to you may choose to give you a second opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If the second copy is also defective, you may demand a refund in writing without further opportunities to fix the problem. 1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in accordance with this agreement, and any volunteers associated with the production, promotion and distribution of Project Gutenberg™ electronic works, harmless from all liability, costs and expenses, including legal fees, that arise directly or indirectly from any of the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any Defect you cause. Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™ Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of electronic works in formats readable by the widest variety of computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.