The Project Gutenberg eBook of Il tesoro del Presidente del Paraguay

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Title: Il tesoro del Presidente del Paraguay

Author: Emilio Salgari

Release date: May 23, 2025 [eBook #76147]

Language: Italian

Original publication: Torino: Speirani, 1898

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL TESORO DEL PRESIDENTE DEL PARAGUAY ***

IL TESORO
DEL
PRESIDENTE DEL PARAGUAY


EMILIO SALGARI

IL TESORO
DEL
PRESIDENTE DEL PARAGUAY

TORINO
GIULIO SPEIRANI E FIGLI
Editori-Librai
1898
Terza Edizione


PROPRIETÀ DEGLI EDITORI

Diritti di traduzione e riproduzione riservati a norma delle vigenti leggi.

Torino — Tip. Origlia, Festa e Comp., via Ospedale, 35.



INDICE


[1]

I. Una nave misteriosa.

La notte del 22 gennaio 1869 un battello a vapore della portata di quattrocentocinquanta a cinquecento tonnellate, attrezzato a goletta, che pareva sorto improvvisamente dal mare, eseguiva delle strane manovre, cambiando rotta ogni due o trecento metri, a circa quaranta chilometri dall’ampia foce del Rio della Plata nell’America del Sud.

Le sue forme svelte, la sua prua munita di sperone, i numerosi suoi sabordi che parevano destinati a bocche di cannone o per lo meno a canne di mitragliatrici, la sua velocità di gran lunga superiore a quella delle navi mercantili, e sopratutto i suoi ottanta uomini che in quel momento occupavano la tolda tutti armati di fucili, e il suo grosso pezzo di cannone montato su di una torretta blindata che si alzava dinanzi all’albero di trinchetto, lo davano a conoscere a prima vista per un solido legno da guerra o più precisamente per uno di quei legni che chiamansi incrociatori, potenti ausiliari delle grandi navi corazzate.

Nè sull’alberetto della maistra, nè sul picco della randa, nè sull’asta di poppa portava alcuna bandiera che potesse indicare a quale nazione apparteneva, e quantunque la notte fosse oscura come la culatta di un cannone e navigasse in paraggi assai frequentati, dove una collisione poteva da un [2] momento all’altro accadere e mandarlo a picco, non portava alcuno dei fanali prescritti dai regolamenti marittimi.

Degli strani discorsi s’incrociavano in lingua spagnuola fra i marinari, specialmente fra quelli che vegliavano sulla prua, abbastanza lontani dagli ufficiali che si tenevano ritti sul ponte di comando, occupati a scrutare il mare con potenti cannocchiali.

— Dimmi, Pedro, — diceva un giovinetto che masticava con visibile soddisfazione un grosso pezzo di sigaro, volgendosi verso un quartiermastro che stava appoggiato ad una piccola mitragliatrice mascherata da una coperta di tela cerata: — si approda, o si vira ancora di bordo?

— Non ne so più di te, Alonzo, — rispose l’interrogato. — È il capitano che comanda, e lui sa che cosa deve fare.

— Bel modo di navigare! Ecco due giorni che al calar del sole ci avviciniamo alla costa e che al sorger del sole si prende frettolosamente il largo. Che il capitano abbia paura della febbre gialla?

— Altro che febbre gialla! Teme qualche cosa di peggio.

— E cosa mai?

— I Brasiliani e i loro alleati.

— Bah! Il nostro valoroso presidente Solano Lopez li tiene troppo occupati perchè rimanga a loro tempo di pensare a noi.

— E io ti dico che a loro preme più occuparsi ora di noi che dell’esercito del Paraguay. Sai tu cosa portiamo nella stiva?

— Trecento casse piene di vesti pei nostri soldati, ha detto il capitano.

— È qui che t’inganni.

— Abbiamo adunque un carico sospetto?

— Ottocentomila cartuccie e trentamila fucili, mio caro.

— Pei nostri bravi soldati?

— Lo hai detto, Alonzo.

— E il capitano non ce lo ha detto?

— La prudenza non è mai troppa in tempo di guerra.

— Ma credi che i Brasiliani sappiano ciò che contiene il Pilcomayo?

[3]

— Quando siamo usciti da Boston per caricare in alto mare le casse del bastimento inglese, una lancia a vapore ci seguiva, e quando noi abbiamo presa la via del sud io l’ho veduta tornare a tutto vapore in porto. Quella lancia, se non lo sai, era del console brasiliano.

— Dunque tu credi...?

— Dico che al Rio della Plata ci aspettano i legni degli alleati e che appena ci scopriranno ci daranno tutti addosso.

— Uh! che brutto affare! Eppure bisognerà approdare in qualche luogo.

— Approdare! Bisogna entrare nel Rio e salirlo fino ad Assuncion, se questa città ancora resiste agli assalti delle truppe del Brasile, della Confederazione Argentina e di Montevideo.

— Se ci mandano a picco sarà un colpo terribile pel nostro presidente.

— La sua rovina, poichè oltre alle armi e munizioni noi portiamo...

— Che cosa?

— Pst! Parla piano, che nessuno ti oda. Noi portiamo nientemeno che il tesoro del Presidente, sette od otto milioni in tanti diamanti.

— Chi te lo ha detto?

— L’ha detto una sera il capitano mentre discorreva coll’agente del Governo.

— Con quel brutto señor Calderon?

— Sta zitto, se non vuoi farti mettere ai ferri.

— Mi è antipatico quell’agente.

— Pst!... Oh!... oh!... cosa c’è di nuovo? — brontolò il quartiermastro.

— Macchina indietro! — aveva gridato il capitano. — Tutti a posto di combattimento!...

I marinai si precipitarono ai loro posti, gli uni dietro alle murate, passando i fucili fra le brande arrotolate sul capo di banda[1], e gli altri dietro il grosso pezzo di cannone [4] posto sulla torretta e dietro la mitragliatrice, che il quartiermastro Pedro aveva subito smascherata. Tutti gli occhi si fissarono ansiosamente sull’ampia distesa di acqua che si apriva dinanzi lo sperone del Pilcomayo, ma in mezzo alla profonda tenebrìa non si scorgeva cosa alcuna che avesse l’apparenza di una nave.

Tuttavia qualche cosa doveva essere stata scorta dal capitano per aver dato quel comando.

Passarono alcuni minuti, durante i quali l’incrociatore rimase perfettamente immobile e il silenzio regnò assoluto: poi si udì ancora la voce del capitano gridare:

— Eh! Cardozo, la scorgi?

Dall’alto dell’albero di maistra caddero lentamente queste parole, che parevano emesse dalla voce di un ragazzo.

— Sì, a tre o quattro miglia sottovento, capitano.

— I fanali?

— Mancano.

— Naviga?

— Verso di noi.

— Legno a vapore, o a vela?

— A vapore, capitano.

— Non è lui! Morte e dannazione! Che sia stato calato a picco? Eppure doveva incrociare in queste acque... Mastro Diego!

Un uomo sulla quarantina, di statura alta, dalle membra enormemente sviluppate, dalla pelle cotta e ricotta dal sole e dai venti del mare, dai lineamenti energici, si fece sotto la passerella[2] e attese salutando.

— Il Paranà doveva incrociare? — gli chiese il capitano.

— In questi paraggi, comandante, — rispose il mastro.

— Sei certo?

— L’agente del Governo lo ha detto.

— E il segnale doveva essere...

— ... un razzo azzurro.

— Che sia stato catturato?

[5]

— Ecco ciò che io ignoro, comandante. Ma se esso non apparisce è segno che gli è toccata qualche disgrazia o che gli alleati gli hanno impedito di prendere il largo.

— Mettiti alla ruota del timone e preparati a tutto.

— Quando il mio capitano mi ordinerà di sventrare il brasiliano con un colpo di sperone, io lo farò.

— Sta bene: al tuo posto.

In quell’istesso momento dall’alto dell’alberatura cadde l’istessa voce di prima:

— Capitano, abbiamo un altro legno a poppa!

— Ah! — esclamò il comandante mordendosi i baffi. — Si cerca di pigliarci di mezzo! Non credevo che i Brasiliani sorvegliassero così bene; ma se sperano di avere il mio carico s’ingannano di grosso.

Si volse verso i due ufficiali che gli stavano ai fianchi e disse: — Forse quelle navi, che appartengono certamente agli alleati, non ci hanno scorti; ma le precauzioni non sono mai troppe. Che i fucili e le cartuccie finiscano in fondo al mare piuttosto che servano ai nostri nemici sia pure; ma il tesoro lo dobbiamo salvare. Fate portare sul ponte la cassa.

— E poi?

— Adattate il tubo al primo cilindro e attendete i miei ordini. Prima che le navi degli alleati ci raggiungano, tutto sarà pronto.

I due ufficiali fecero aprire il boccaporto, un palanco fu calato nella stiva e poco dopo rimontò, sotto i giri dell’argano, portando con sè una enorme cassa che venne calata sulla tolda con grandi precauzioni.

I marinai strapparono il coperchio e ai loro occhi meravigliati apparve un ammasso di un tessuto che sembrava seta, coperto da una maglia di solide funicelle che finiva in un grande anello di metallo. Sotto si vedeva sporgere un gran cerchio di acciaio che sembrava vuoto, sul quale venivano ad annodarsi tutte le corde.

Ad un ordine degli ufficiali due gherlini[3] furono fatti [6] calare dagli alberetti di maistra e di trinchetto e furono legati all’anello.

— È fatto, — dissero gli ufficiali al capitano.

— Il tubo?

— È già stato adattato e basta introdurlo nell’orifizio.

— Si chiami l’agente del Governo.

Un marinaio scese nel quadro di poppa e poco dopo ritornava accompagnato da un uomo tutto vestito di nero e che pareva si fosse appena allora svegliato.

Era un uomo sui trentacinque o trentasei anni, di statura alta, assai magro, dalla tinta pallida e la faccia accuratamente sbarbata. I suoi occhi, piuttosto piccoli e che avevano qualche cosa di falso, le angolosità del suo viso, il sarcastico sorriso che errava continuamente sulle sue labbra sottili, non lo rendevano troppo simpatico, e fino dal primo momento in cui aveva posto piede sull’incrociatore, fra i marinai aveva destato un senso di viva antipatia.

— Signore, — gli disse il capitano, muovendogli incontro, — noi siamo inseguiti e il brigantino del capitano Avellana non è comparso.

Il viso del signor Calderon rimase perfettamente impassibile, nè le sue labbra si schiusero per rispondere.

— Mi avete ben compreso? — replicò il capitano.

L’agente del Governo fece un cenno affermativo col capo.

— Voi che avete avuto pieni poteri dal Presidente, che cosa mi consigliate?

— Fate il vostro dovere, — rispose l’agente con voce pacata e secca.

— Vi prevengo che, se mi vedo stretto da vicino dalle navi degli alleati, darò fuoco alle polveri piuttosto che le armi e le cartucce cadano nelle loro mani.

L’agente questa volta trasalì e corrugò leggermente la fronte.

— E il tesoro del Presidente? — chiese.

— Ho quanto mi occorre per salvarlo.

— Se noi tutti saltiamo, anche i milioni salteranno.

— No, signore.

[7]

— Spiegatevi.

— Ciò riguarda me.

— Ho diritto di saperlo, comandante, — disse Calderon con tono imperioso. — Io sono l’agente del Governo.

— A voi, signore, non spetta che dirmi se devo forzare il passo o riprendere il largo, e nulla di più, — rispose il capitano con alterezza.

— Ma il tesoro...

— Vi ho detto che possiedo i mezzi necessari per farlo giungere a destinazione, anche se la mia nave saltasse o venisse calata a fondo, e ciò vi basti. Aspetto i vostri ordini, signore.

— La goletta di Avellana non è comparsa?

— No, e credo che non comparirà per facilitarci lo sbarco. A noi non resta omai che di forzare la foce del Rio della Plata e di correre su Assuncion. Attendo i vostri ordini.

— Forzate la foce.

— Vi avverto che, giunti dentro il fiume, non ne usciremo più e che forse colà tutti ci lasceremo la pelle.

— Non importa.

— Vi avverto ancora che, se ci calano a picco nel fiume, gli alleati potranno ricuperare le armi e le munizioni.

— Basta così, si vada innanzi. Tali sono gli ordini del Governo, — disse seccamente l’agente.

— E così sia. Avrò sempre un paio d’ore di vantaggio per far partire il tesoro.

— Non vi comprendo, signore.

— Meglio così.

— Badate che il Presidente conta sui milioni.

— Gli saranno consegnati.

— Ma in qual modo?

— Macchinista, — gridò il capitano invece di rispondere all’agente, — macchina avanti. E voi altri giovanotti approntate i fucili e armatevi di coraggio. Fra poco qui farà molto caldo.

— Signore! — disse l’agente, che si era fatto pallido.

— Desiderate? — chiese il capitano con ironia.

[8]

— Sono l’agente del Governo!

— Ed io sono il capitano del Pilcomayo, e in questo momento a bordo del mio legno comando io dopo Dio. Mi avete ben compreso, signore?... Volete ora un consiglio? Riguadagnate la vostra cabina e non uscite che a lotta finita, poichè fra poco parlerà il cannone, qui le palle grandineranno fitte fitte, e gli agenti del Governo di queste cose non s’intendono e non le sanno evitare. Andate, signore, se così vi garba.

Ciò detto, volse le spalle al signor Calderon, che si mordeva le labbra a sangue, e risalì sul ponte di comando col portavoce in mano.

Quasi nel medesimo istante una striscia di fuoco si alzò in mezzo al mare, a due chilometri da poppa del Pilcomayo, e salì in aria per trecento metri, spandendo all’intorno miriadi di variopinte scintille.

Poco dopo un’altra striscia, ma appena visibile, fendeva le tenebre verso l’ovest, per poi spegnersi.

— Sta bene, — disse freddamente il capitano, che aveva seguìto con viva attenzione quei segnali, che nulla di buono pronosticavano. — Le navi corrispondono colla costa e si danno vicendevolmente l’allarme. Mi si aspettava e si preparano a ricevermi. La vedremo!

Estrasse l’orologio e guardò: erano le 2 del mattino.

— Ingegnere! — gridò. — Avanti a tutto vapore e che Dio ci protegga!

[9]

II. Una pagina di storia.

Nel 1865 il telegrafo annunciava al mondo che una guerra sanguinosa era scoppiata negli irrequieti Stati dell’America del Sud, fra la repubblica del Paraguay da un lato, e l’impero del Brasile, il Montevideo e la Confederazione Argentina dall’altro.

Il grande impulso dato dal presidente Francesco Solano Lopez, nominato a tale carica il 16 ottobre 1862, al Paraguay, le sue mire, che forse erano ambiziose, avevano scatenato la guerra. Il Brasile, il Montevideo e la Confederazione Argentina, gelose dell’influenza, che poteva a loro diventare fatale e che a poco a poco esercitava il Paraguay nel cuore dell’America Meridionale, collegatesi, avevano deciso di schiacciare la giovane repubblica. Lopez, abile presidente e valoroso condottiero, aveva subito raccolto il guanto della sfida, e, malgrado l’enorme sproporzione delle sue forze di fronte a quelle numerosissime degli alleati e i grandi ostacoli che aveva da superare in paesi quasi vergini e quasi privi di comunicazioni, radunate in furia le sue truppe, si era messo in campagna, fidando nella sua buona stella e nella propria abilità in materia guerresca.

Alla metà del 1865 le ostilità erano cominciate da ambe le parti con accanimento senza pari.

Lopez non aveva con sè che un esercito molto debole, [10] male armato, ma pieno di buona volontà e risoluto a tutto. Fortifica le rive settentrionali del Paranà, accumula provvigioni in varî luoghi, fa centro della sua difesa Stapira, e di Assuncion e della fortezza di Humaïta i suoi parchi di riserva; poi corre a contrastare il passo al generale brasiliano Porto Alegre, che si avanzava nel territorio paraguayano colle forze alleate.

Per un anno intiero il valoroso presidente tenne la campagna, combattendo con varia fortuna, finchè, esausto di forze e di munizioni, in procinto di venire circondato dalle preponderanti forze degli alleati, si vide costretto ad abbandonare quei luoghi, dopo d’aver incendiato il suo campo di Stapira.

Ma il 23 aprile 1866 il leone dell’America del Sud ritornava gagliardo ancora alla riscossa e si fortificava nuovamente a Humaïta, erigendo numerose batterie sull’alto fiume. Assalito dal generale argentino Mitre, lo sconfigge completamente sotto Humaïta, rigetta le condizioni di pace e riannoda le comunicazioni con Assuncion.

Sul finire del 1867 la febbre gialla fa strage fra le sue truppe, ma ancora non cede, e ai primi del 1868 affonda parecchi legni brasiliani che avevano tentato di avvicinarsi al campo trincerato di Humaïta.

Ma questi sforzi giganteschi dovevano alla fine sfibrare il suo valoroso ma scarso esercito. Infatti, verso la metà dello stesso anno, incalzato dagli alleati, che ricevevano nuovi e sempre freschi rinforzi, Lopez era costretto a ritirarsi. La divisione navale corazzata e i Brasiliani ne approfittavano per rovesciare gli sbarramenti e risalire il fiume; ma le batterie paraguayane, erette al nord di Humaïta, riescivano ancora a tenerla in iscacco, mentre la signora Lynch, una valorosa inglese, alla testa dei suoi battaglioni di amazzoni, cagionava agli alleati danni rilevanti.

Il 25 luglio Lopez è nuovamente alle strette. Il suo esercito, decimato da quella lunga campagna e circondato dagli alleati, più non resiste e abbandona Humaïta, dopo però sei giorni di sanguinosi combattimenti. La metà era rimasta sul campo di battaglia.

[11]

L’ardito condottiero si rifugia cogli scarsi avanzi a Tebicuary, poi a Timbo, che fortifica, indi a Villarica, città posta a dieci leghe sotto Assuncion, e finalmente a Villeta.

Gli alleati, che lo inseguono accanitamente, lo assaltano in quest’ultima città e lo costringono a rifugiarsi ad Angostura dopo un combattimento di sei giorni. Il 27 dicembre gli si intima la resa.

Ma Lopez non si crede ancora vinto e fieramente la rigetta. Gli alleati montano all’assalto, s’impadroniscono del ridotto centrale, e la flotta entra nel porto di Assuncion, dove egli si è rifugiato.

Impotente ormai a resistere, si vede costretto nuovamente a fuggire, lasciando nelle mani dei nemici la capitale, tre mila uomini e sedici cannoni, quanto cioè rimaneva del suo esercito, che da tre anni lo aveva seguìto su tutti i campi di battaglia.

················

Dieci giorni dopo che il telegrafo aveva recato agli Stati d’Europa e d’America la notizia della caduta della capitale del Paraguay, della completa sconfitta delle truppe e della fuga del presidente Lopez, e quando già ormai da tutti si considerava la guerra come definitivamente terminata, un dispaccio cifrato, spedito da Valparaiso, giungeva a Boston all’agente consolare del Paraguay.

Il suo significato era il seguente:

«Tenetevi pronto a ricevere l’agente governativo signor Josè Calderon, partito il 29 dicembre da Rio Janeiro. Reca le istruzioni necessarie pel comandante dell’incrociatore il Pilcomayo, dato che questa nave sia ancora in porto.

«Solano Lopez».

Il 10 gennaio, verso il tramonto del sole, un uomo in abito da viaggio, che portava a bandoliera una piccola valigia, si presentava all’agente consolare, che si trovava occupato nel suo gabinetto.

[12]

— Io sono la persona indicatavi dal dispaccio mandatovi da Valparaiso, — disse con voce lenta e misurata.

— Il signor Calderon? — chiese l’agente consolare, muovendogli precipitosamente incontro e stringendogli vigorosamente ambe le mani.

— In persona.

— Dunque il Presidente...?

— È vivo ancora e si prepara alla rivincita.

— Dunque hanno mentito i dispacci qui giunti che lo dicevano fuggitivo su di un legno degli Stati Uniti o nascosto in Bolivia.

— Hanno mentito.

— Si trova ora...?

— Lo ignoro, avendo preso imbarco due giorni dopo la caduta di Assuncion. Un dispaccio che trovai qui, mi dice che sta riorganizzando le sue disperse truppe e nulla di più.

— E voi credete...

— Basta così, signore, — disse l’agente del Governo con rigido accento. — I minuti sono preziosi.

— Desiderate, signor Calderon...?

— Il Pilcomayo è in porto?

— Sì.

— Sorvegliato?

— Una corvetta brasiliana incrocia dinanzi al porto ed aspetta che esca per catturarlo.

— Mandate a chiamare il capitano.

L’agente consolare chiamò un servo e gli diede le istruzioni necessarie.

Un quarto d’ora dopo un uomo di statura quasi gigantesca, dalle membra poderose, il viso abbronzato e adorno di due grandi baffi nerissimi, la capigliatura folta, ricciuta e che aveva dei riflessi metallici, entrava nel gabinetto dell’agente consolare. I suoi occhi, che avevano degli strani bagliori e nei quali si leggeva un indomito valore ed una fierezza più unica che rara, si fissarono subito con profonda attenzione sul signor Calderon, come se volessero penetrargli fino in fondo al cuore.

[13]

— L’uomo annunciato dal telegramma, forse? — chiese egli con un accento che aveva qualche cosa di metallico.

— Sì, signore, — rispose l’agente consolare. Poi, volgendosi verso l’agente del Governo e indicandogli il gigante:

— Il signor Candell, comandante dell’incrociatore.

I due uomini s’inchinarono.

— Aspetto i vostri ordini, — disse il capitano poscia.

— Signor Candell, il presidente Lopez chiede a voi uno di quei favori che vi possono costare la vita.

— Un marinajo non guarda indietro quando deve giuocare la propria esistenza. Parlate, signore.

— Si tratta di prendere il mare.

— Lo prenderò.

— Vi avverto che un legno brasiliano sorveglia l’uscita del porto.

— Lo colerò a fondo, o lui colerà me.

— Bisogna vivere e non morire, signore. Il nostro Governo non ha altro legno che quello che voi comandate, e questo è assolutamente necessario per la salvezza della nostra patria.

— Dovrò uscire in mare come un ladro? — chiese il capitano, aggrottando la fronte. — Non temo il brasiliano che mi spia.

— È necessario.

— E sia; ma se quel cane mi attraversa la via gli farò assaggiare un po’ del mio ferro.

— Farete ciò che vi parrà opportuno. Ascoltatemi ora.

— Parlate, signore.

— Voi uscirete in mare stasera e andrete a incrociare alla intersecazione del 310º meridiano col 40º parallelo. Colà una nave proveniente dall’Inghilterra vi consegnerà trecento casse contenenti ottocentomila cartuccie e trentamila fucili destinati alle truppe che il nostro presidente sta radunando sotto la sua bandiera.

— Ma come faremo noi a farlo pervenire al nostro presidente?

— Una nave mercantile, comandata dal capitano Avellana, [14] vi attenderà alla foce della Rio della Plata e imbarcherà il carico.

— Come faremo a farle sapere che noi l’attendiamo?

— Tutte le notti Avellana lancierà un razzo azzurro; il che significherà che voi potrete imboccare il fiume senza timore degli alleati. Al momento opportuno vi dirò dove troverete il brigantino.

— E se il brigantino per un caso qualunque venisse catturato prima del nostro arrivo?

— Allora forzerete la foce del fiume.

— E dovrò misurarmi contro tutta la flotta degli alleati?

— Avreste paura? Ad altri allora il comando, — disse l’agente del Governo con accento secco.

Il capitano lo guardò con due occhi che mandavano fiamme.

— Signor Calderon, siete voi che vi permettete di dire a me simili cose? — chiese egli coi denti stretti. — Forse che voi ignorate chi sia il capitano del Pilcomayo? Ho sedici ferite sul mio petto, e non credo che voi ne abbiate tante, signor agente del Governo. Ah! voi volete che io forzi il blocco del Rio della Plata? Sta bene, lo forzerò; ma dubito che il Presidente riesca a vedere i fucili che io imbarcherò.

— Così vuole il Governo.

— E così sia.

— E vi avverto che ho ampi poteri e che posso destituire chi non mi ubbidisce, signor Candell.

— Basta così, signore!

— Un’altra cosa devo dirvi.

— Parlate.

— Dalla nave inglese voi riceverete una cassetta contenente sette milioni, regalati da alcuni signori europei al presidente Lopez, onde continui la guerra.

— Saranno sicuri.

— Vi avverto che sono tutti in diamanti, onde poterli facilmente nascondere nel caso che i Brasiliani o gli Argentini catturino il vostro legno.

— Li terrò sempre con me.

[15]

— Badate che questi milioni sono assolutamente necessari al Presidente, che si trova affatto a secco di danaro.

— Il Presidente li avrà, parola di Candell, qualunque cosa possa toccare alla mia nave.

— Anche se i Brasiliani calassero a picco il Pilcomayo?

— Sì.

— Ne siete ben certo?

— Sicurissimo, purchè mi si concedano sei o sette ore.

— Cosa intendete di dire?

— Lo so io, e basta, signor Calderon.

— Arrivederci a mezzanotte sul ponte del Pilcomayo.

— Verrete anche voi al Rio della Plata? — chiese il capitano con sorpresa.

— Devo accompagnare il tesoro del presidente Lopez.

— Cioè volete sorvegliarmi, — disse il capitano con ironia. — Fate come vi aggrada; ma badate che la vostra preziosa pelle correrà dei brutti rischi. Addio, signore.

Alla mezzanotte il valoroso capitano giungeva a bordo del suo legno, le cui macchine già erano sotto pressione, e faceva imbarcare tre grandi casse, ermeticamente chiuse, che parecchi uomini avevano condotto alla spiaggia su alcuni carri. Cosa contenevano? A nessuno lo disse: però, quando furono a posto in fondo alla stiva, lo si vide stropicciarsi le mani con visibile soddisfazione e lo si udì mormorare parecchie volte: — Ora sfido gli alleati a togliermi il tesoro del Presidente.

Alle 12,20 il signor Calderon saliva sul Pilcomayo.

— Quando desiderate, siamo pronti, — gli disse il capitano, ricevendolo sulla scaletta.

— Partiamo, — disse freddamente l’agente del Governo.

Dieci minuti dopo l’incrociatore lasciava silenziosamente il quai, passava in mezzo alle numerose navi che ingombravano il porto e usciva arditamente in mare. Il capitano era sul ponte di comando fra i suoi ufficiali, tutto l’equipaggio sotto le armi, il cannone della torretta caricato e la mitragliatrice di prua pronta.

Il legno da guerra brasiliano incrociava dinanzi al porto, [16] ma era assai lontano in quel momento e non s’accorse dell’uscita del Pilcomayo, che navigava senza fanali e tenendosi sotto la costa.

Quando si vide fuori di portata, il capitano Candell lanciò la sua nave a tutto vapore verso il sud, e tre giorni dopo incrociava all’intersecazione del 310º meridiano col 40º parallelo. La nave inglese recante le armi, le munizioni e il tesoro del presidente Lopez vi era di già da parecchi giorni. Il trasbordo del carico fu subito fatto, poi le due navi si separarono, l’una diretta in Inghilterra e l’altra verso il Sud.

Il 20 gennaio il Pilcomayo si arrestava a sole quaranta miglia dalla foce del Rio della Plata.

— Le vostre istruzioni, signore? — chiese il capitano Candell all’agente del Governo.

— Aspettare la notte e avvicinarsi alla foce del Rio, — rispose il signor Calderon. — Quando vedrete il razzo azzurro, imboccherete il fiume a tutto vapore e risalirete la corrente, finchè ve lo dirò io.

— E se non vediamo il segnale?

— Riprenderete il largo e tornerete la notte seguente.

— E se vengo attaccato?

— Darete battaglia, se sarete dentro il Rio; fuggirete, se sarete in alto mare.

— Ma se mi calano a picco nel Rio, gli alleati ricupereranno le armi.

— Ma salverete il tesoro.

— Non riesco a comprendervi.

— Non importa: tali sono gli ordini del Governo: ubbidite.

— Obbedisco per ora, signor Calderon.

— Come! per ora?

— M’intendo io.

— Spiegatevi.

— Quando sarà giunto il momento.

— Ora.

— Signor Calderon, a bordo del mio legno comando io, — disse il capitano con accento minaccioso. — Voi comanderete quando saremo a terra.

[17]

— Osereste ribellarvi?

— Anche, se la salvezza del tesoro e delle armi lo esigessero. Lasciate pensare a me su ciò che devo ora fare, poi direte al Presidente ciò che meglio crederete.

E vedendo che l’agente del Governo stava per ribattere parola: — Non una sillaba di più, — aggiunse, — o mi vedrò costretto a chiudervi nella vostra cabina. M’avete compreso? Il comandante qui sono io!

Ecco per qual motivo il Pilcomayo, come abbiamo veduto nel precedente capitolo, incrociava dinanzi la foce del Rio della Plata, che le navi degli alleati, senza dubbio messe in guardia dall’inaspettata partenza dell’incrociatore da Boston, segnalata dai loro consoli, rigorosamente guardavano, pronte a respingerlo a colpi di cannone e possibilmente a catturarlo.

[18]

III. Le casse del capitano Candell.

Al comando dato dall’intrepido capitano Candell di «avanti a tutto vapore», il Pilcomayo aveva raddoppiato la corsa, mettendo la prua all’imboccatura del Rio della Plata. Filava con una velocità di quattordici nodi, cosa non comune a tutte le navi, specialmente in quei tempi, e che doveva procurargli un immenso vantaggio sulle navi degli alleati, di cui le più veloci non sorpassavano i dodici.

Il suo equipaggio, da tre notti preparato alla pugna e formato tutto di persone che avevano già dato prove di non dubbio valore, era a posto di combattimento: i fucilieri dietro le murate colle carabine in pugno e la sciabola d’arrembaggio al fianco e gli artiglieri attorno al grosso pezzo, posto in batteria sulla torretta corazzata, e dietro la mitragliatrice.

Il capitano sul ponte di comando, col portavoce in una mano e un revolver nell’altra, aveva a fianco i suoi ufficiali, mentre mastro Diego si teneva ritto dietro la ruota del timone, pronto a virare di bordo o a dirigere l’incrociatore dentro la foce del Rio.

Un profondo silenzio regnava sul legno, rotto solamente dai colpi precipitati della macchina e dai muggiti del vapore.

Dopo i segnali fatti, nessun altro razzo aveva solcato le tenebre, nè sul mare nè sulla costa: però il nemico tutti lo sentivano vicino. Le navi segnalate parevano scomparse, [19] ma dovevano essersi già lanciate sulle tracce del fuggitivo, pronte a tagliargli la strada al sud e al nord nel caso che avesse da virare di bordo per riguadagnare l’alto mare.

Il Pilcomayo correva da mezz’ora, senza deviare di una sola linea dalla rotta stabilita, quando a trecento metri da prua apparve improvvisamente, quasi a fior d’acqua, un punto luminoso che si muoveva con grande rapidità.

— Oh! oh! — esclamò mastro Diego, che diede tosto un mezzo giro di ruota. — Chi è che vuole farsi tagliare dal nostro sperone? Bada, mio caro, che è molto solido e che farà di te una frittata.

— Oh! una lancia a vapore a prua! — gridò una vedetta posta sulle crocette di maestra.

— Che nessuno faccia fuoco! — gridò il comandante.

La lancia segnalata, appena accortasi della presenza del legno, aveva prontamente virato di bordo, filando verso il sud. In pochi istanti scomparve fra le tenebre.

— Di’, Diego: cosa credi che sia venuta a fare qui? — chiese una voce.

Il marinajo che così parlava era un ragazzo di sedici o diciassette anni, magro ma nervoso, che pareva dotato della straordinaria agilità delle scimmie, bruno come un indiano, ma di lineamenti belli e con certi occhi in cui si leggeva di già un coraggio più che straordinario.

— Ah! sei tu, ragazzo, — disse il mastro: quella lancia è un uccello di rapina che è venuto a spiarci.

— Allora siamo stati scoperti.

— Ora te ne accorgi?

— Lo avevo sospettato, Diego. E come ne usciremo?

— Se non sapessi che, malgrado la tua giovane età, hai nelle vene del buon sangue e che hai già dato prove di non dubbio coraggio, mi guarderei bene di dirti la verità.

— Tu vuoi dire adunque che la nostra pelle corre un serio pericolo.

— Temo che fra un pajo d’ore si vada tutti a picco, povero ragazzo.

— Non ho paura, Diego, — disse l’ometto con fierezza. — [20] Mi vedrai combattere come un vecchio marinajo e morire da coraggioso.

— Lo so: tu sei di buona razza. Tuo padre è morto da eroe sul ponte del suo legno colla bandiera paraguayana in pugno, e tuo fratello ha mostrato ai Brasiliani come sanno morire i figli della nostra patria. Qual dolore per la tua povera madre, se anche tu le venissi a mancare!...

— Diego, — disse il ragazzo con viva emozione, — non è questo il momento di ricordarmi la famiglia, nè che una madre adorata mi attende in chissà quali ansie.

— Hai ragione, Cardozo; certe cose fanno più male che bene, quando si ha assoluto bisogno di sola audacia. Ma io veglierò su di te come se tu fossi mio figlio, e qualunque cosa possa accadere mi troverai sempre al tuo fianco.

— Grazie, Diego, — disse il ragazzo sorridendo. — Purchè una palla non ti mandi a dormire prima di me.

— Allora buona notte; ma qualcuno avrà cura di te. Il comandante ti vuole molto bene e non ti dimenticherà!... Ah! Ci siamo!...

— Cosa vedi?

— Dei lumi dinanzi a noi.

— La flotta nemica?

— Senza dubbio, e veglia proprio dinanzi all’imboccatura del Plata.

— Prepariamo gli orecchi alla musica. Udremo fra breve un bel concerto.

— Ah! tu scherzi?

— Ti dispiace, vecchio lupo?

— Tutt’altro, figlio mio, poichè ciò indica che tu non hai paura.

— Mastro Diego! — gridò in quell’istante il comandante.

— Ai vostri ordini, signore! — rispose il timoniere.

— Poggia al sud in maniera da evitare l’incontro degli alleati. Gli scorgi?

— Perfettamente.

— Sta bene! Marinai, pronti a far parlare il cannone, e possibilmente rispondete presto e picchiate sodo.

[21]

I fanali della flotta erano lontani sei o sette miglia, ma si distinguevano perfettamente sulla oscura linea dell’orizzonte. Dal loro numero era facile arguire che i legni erano molti e disposti in modo da chiudere gran parte della grandissima imboccatura del fiume gigante.

Il Pilcomayo, che divorava la via con crescente velocità, piegò verso il sud, dove non si vedeva brillare alcun fanale, e in meno di mezz’ora giunse nelle acque del Rio.

— Si vede nulla? — chiese il capitano ai marinai in vedetta sulle crocette.

— Nave a babordo! — gridò una voce.

Tutti i cannocchiali e tutti gli occhi si volsero verso la direzione indicata. Una massa nera, di dimensioni enormi, era apparsa a sole poche gomene di distanza e correva addosso all’incrociatore coll’intenzione di calarlo a fondo con un buon colpo di sperone.

— A tutto vapore! — gridò il capitano Candell. — Diego, tutta la barra all’orza!

Un istante dopo, e a sole poche braccia dalla poppa del Pilcomayo, passava la nave nemica, la quale, trasportata dal proprio slancio, passò oltre, scomparendo fra le tenebre.

— Auff! — esclamò il mastro, asciugandosi la fronte col dorso della mano. — Un momento di ritardo, ed eravamo perduti!

— L’hai veduta bene, vecchio lupo? — chiese Cardozo, che non aveva lasciato il suo fianco.

— Sì, figlio mio, e ti so dire che era una fregata delle più grosse. Se ci toccava, ci sventrava completamente.

— Tornerà alla carica?

Mastro Diego non rispose. Un lampo era balenato al largo, seguìto da una fortissima detonazione. Una palla passò fischiando sopra il ponte dell’incrociatore, perdendosi in mare.

— Maledizione! — esclamò il capitano Candell. — La partita è perduta!

— Perchè, signore? — chiese una voce.

— Ah! siete voi, signor Calderon? — chiese il comandante [22] con ironia. — Vi credevo nella vostra cabina al sicuro dalle palle degli alleati.

— Vi ho fatto una domanda, non vi ho detto di scherzare alle mie spalle, — disse l’agente del Governo con voce pacata, ma quasi minacciosa.

— Allora vi dirò che questo colpo di cannone farà accorrere tutta la flotta nemica, la quale ci chiuderà la via. Guardate se ho ragione.

Infatti i fanali delle navi, poco prima immobili, si erano messi in movimento e si avvicinavano rapidamente. Per di più, dei razzi s’alzavano sulla costa, solcando le tenebre in tutte le direzioni.

— Passerete? — chiese l’agente del Governo, dopo alcuni istanti di silenzio.

— È impossibile, ora che siamo stati scoperti.

— E dunque che avete intenzione di fare? Se ci gettassimo alla costa?

— Non avremo fatto un miglio entro terra, che avremo addosso i soldati argentini o del Montevideo.

— E dunque che contate di fare?

— Riprendere il largo, salvare il tesoro del Presidente e poi tornare qui per farmi uccidere, onde non lasciarvi il sospetto che io abbia avuto paura degli alleati, — rispose il capitano con fierezza.

— Non so con quali mezzi intendete salvare i milioni del signor Lopez.

— È affare che riguarda me solo.

— No, signore, e vi ordino di forzare il passo, dovessimo andare a picco tutti.

— Dopo, prima no.

— Capitano Candell, voi mi ubbidirete, o darò io il comando di andare innanzi.

— Fatelo, signore, e vedremo se i miei fedeli marinai ubbidiranno a voi o a me.

L’agente del Governo, ben comprendendo che sarebbe stata una prova inutile, si morse le labbra e fece un gesto di dispetto.

[23]

— Farò rapporto al Presidente, — disse con sorda voce.

— Fatelo pure, signore; ma difficilmente io allora sarò ancora fra il numero dei viventi.

Imboccò il portavoce e, raddrizzando l’alta statura, gridò:

— Timoniere, vira di bordo e avanti al largo!

Un istante dopo l’incrociatore virava di bordo, volgendo la poppa verso la costa americana e si slanciava a tutto vapore sulle onde dell’oceano Atlantico.

La fregata poco prima incontrata riapparve ancora a breve distanza, mostrando il suo acuto sperone. Tre lampi seguiti da tre detonazioni balenarono sul suo ponte e tre grossi proiettili fischiarono fra l’attrezzatura dell’incrociatore.

— Troppo in alto, miei cari, — disse il capitano Candell, ridendo. — Ehi? mastro Alonzo, manda un confetto nel corpo di quel birbante! — Il mastro cannoniere, che non aspettava che quel comando, si curvò sul grosso pezzo, mirò alcuni istanti, poi strappò violentemente il cordone tira-fuoco.

Una gran fiamma irruppe dalla bocca, illuminando il ponte dell’incrociatore, seguita da un formidabile scoppio che fece tremare l’intera alberatura. Pochi secondi dopo, al largo si udiva uno schianto e si vide la fregata rallentare la corsa e poi fermarsi quasi istantaneamente.

— Buono! — esclamò il capitano Candell.

Sul ponte della fregata si videro correre dei fanali, poi una voce distinta gridò: — L’elica si è spezzata!

— E uno, disse mastro Diego. — Quel dannato legno per ora ci lascierà tranquilli.

Altri due lampi balenarono dai sabordi della fregata, poi una serie di detonazioni, che parevano prodotte da qualche mitragliatrice, echeggiarono verso poppa.

— Quei galantuomini vanno in bestia, — disse il giovane Cardozo, che non si prendeva la cura di porsi al riparo da quella grandine di palle. Bah! siamo duri noi: è vero, vecchio lupo?

— Sì, finora, — rispose il mastro. — Vedremo dopo però, se la nostra pelle resisterà ai cannoni della squadra intera.

— Che ci insegua?

[24]

— Senza dubbio, figlio mio. Guarda quei fanali come corrono.

— Ma noi corriamo di più, mastro.

— Se durerà il carbone. Temo che noi ne abbiamo poco nel ventre. Ah..... Ancora quei dannati di jeri sera!

Verso il nord due razzi si erano innalzati e un altro verso l’est. Certamente partivano dalle due navi segnalate alcune ore prima e che dovevano ancora incrociare al largo. Vedendo quei segnali, la fronte del capitano Candell si corrugò.

— Temo di finirla male, se non mi spiccio a salvare il tesoro, — mormorò. — Ho almeno tre ore di vantaggio: ciò può bastarmi. — Discese dal ponte di comando, facendo segno agli ufficiali di seguirlo, e si avvicinò alla misteriosa cassa che era stata trasportata in coperta.

— Tutto è pronto? — chiese agli ufficiali.

— Tutto — risposero.

— Allora affrettiamoci.

— A che fare? — chiese una voce.

— Ah! ancora voi, signor Calderon, — disse il capitano. — Ora lo vedrete.

— Ma che cosa contiene quella cassa?

— Un pallone, signore.

— Un pallone!... E per che farne?

Carrai! Per salvare i milioni del Presidente.

— Non vi comprendo.

— Comprenderete dopo. Ora lasciatemi tranquillo; ho i minuti contati.

Poi disse lentamente e con voce perfettamente tranquilla: — Ingegnere, fate spegnere i fuochi!...

— Ma, signore! — esclamò l’agente del Governo. — Non vedete che la squadra degli alleati ci dà la caccia?

— La vedo.

— Se fate spegnere i fuochi, non avrete più scampo.

— Lo so; ma mi preme che le scintille che potrebbero uscire dalla ciminiera non facciano scoppiare il mio pallone.

— È una pazzia, un voler farsi uccidere.

Il valoroso comandante alzò le spalle.

[25]

Fece un cenno ad alcuni marinai che si erano riuniti ai piedi degli alberi di maestra e di trinchetto. Tosto i due gherlini legati all’anello che si vedeva emergere dalla misteriosa cassa, portata poco prima sul ponte, vennero ritirati, e si vide innalzarsi un pallone, sgonfiato ancora, ma che doveva avere dimensioni enormi a giudicarlo dalla sua lunghezza.

Quando l’estremità giunse quasi a livello degli alberi, un tubo che saliva dalla stiva fu introdotto nell’apertura inferiore, la quale venne sollecitamente legata.

— Aprite la valvola — comandò il capitano ad un ufficiale.

Si udì un fischio acuto, che pareva prodotto da una violentissima fuga di gas e si vide a poco a poco il pallone gonfiarsi con un dondolamento marcatissimo, e tendendo a salire.

— Ma dove avete questo gas? — chiese il signor Calderon, che sembrava eccessivamente sorpreso di quanto vedeva.

— Immagazzinato a forza dentro solidissimi cilindri di acciajo, che ho portato con me da Boston, — rispose il capitano. — Basta adattare il tubo e aprire il rubinetto: una cosa facilissima, come ben vedete.

— E quando il pallone sarà pronto, cosa farete?

— Faccio entrare nella navicella due o tre uomini dei più fidati e dei più valorosi, affido a loro il tesoro e taglio la fune, — rispose pacatamente il comandante. — Vi assicuro che gli alleati non si prenderanno i milioni.

— Ma neanche il Presidente.

— E perchè no, signor Calderon? Il vento in questa stagione e in questa regione soffia quasi sempre dall’est; il pallone verrà spinto verso terra, passerà sopra le teste degli alleati o andrà a cadere molto lontano. Agli uomini che lo montano non sarà difficile guadagnare il Paraguay.

— Ma se il vento, per una circostanza qualsiasi, cambiasse e lo portasse invece al largo, assai lontano dalla costa?

— Meglio che i milioni cadano in mare, che nelle mani dei nostri nemici. Ora vi prego di lasciarmi tranquillo, onde io sorvegli attentamente il gonfiamento.

L’aerostato si gonfiava rapidamente, assorbendo l’idrogeno [26] carbonato pressato nei cilindri d’acciajo. Ormai si librava nell’aria tendendo le funi che parecchi marinai trattenevano. Ancora pochi cilindri, e sarebbe stato pronto a prendere il largo.

Ad un tratto si udì in lontananza una detonazione e una palla venne a cadere a poche braccia dalla poppa dell’incrociatore, facendo rimbalzare l’acqua.

— Ah! sono qui, — disse il capitano con voce perfettamente tranquilla. — Presto, un altro cilindro, e poi fate attaccare la navicella.

Guardò verso il punto ove era balenato il lampo e scorse a circa sei chilometri un gran vascello, il quale si avvicinava rapidamente. Un po’ più lontano si vedevano altri legni i quali si disponevano in modo da circondare il povero incrociatore.

— Quando saranno a buon tiro, il pallone sarà libero, — disse egli.

Lanciò uno sguardo sul suo equipaggio, che aspettava intrepidamente l’attacco della flotta nemica, poi gridò:

— Mastro Diego!

Il timoniere si fece innanzi, salutando.

— Mio vecchio amico, — disse il comandante, — affido a te un grave incarico.

— Comandate, signore.

— Tu devi salire in questo pallone e tentare la sorte.

— Vi salirò, mio capitano, — rispose il mastro senza esitare.

— Affido a te i milioni del Presidente.

— Sta bene, comandante.

— Giurami che, se tocchi la costa, glieli recherai in qualunque luogo egli si trovi.

— Lo giuro sul mio onore e sulla bandiera della nostra patria.

— Grazie, mio valoroso. Scegli un compagno di tua fiducia.

— Eccolo, capitano, — disse il mastro, additandogli il giovane Cardozo. — Non avrai paura tu, figlio mio?

— No, Diego, — rispose il ragazzo; anzi ti ringrazio di aver pensato a me.

[27]

— Signor Calderon, — disse il capitano, rivolgendosi verso l’agente del Governo, — preferite morire, o vivere?

— Perchè questa domanda? — chiese l’agente.

— Perchè, se voi rimanete con me, fra un’ora sarete morto, mentre, se salite sul pallone....., chissà, potreste salvarvi.

— Il mio posto è presso il tesoro del Presidente.

— Sta bene, signore.

Un altro colpo di cannone rimbombò sul mare e una seconda palla cadde a pochi metri dal Pilcomayo.

Il capitano gettò uno sguardo sull’aerostato, il quale era quasi interamente gonfiato.

— Togliete il tubo — comandò egli, — legate l’orifizio e attaccate la navicella.

Quei diversi comandi furono tosto eseguiti.

— Manca nulla? — chiese poi volgendosi verso gli ufficiali.

— Nulla, signore, — risposero. — Armi, viveri, vesti, zavorra sono a posto.

Un’altra palla partita dalla fregata attraversò il ponte dell’incrociatore, sfiorando questa volta il pallone.

— Imbarca! — comandò il capitano con voce un po’ commossa.

L’agente del Governo, mastro Diego e il giovane Cardozo salirono lestamente nella navicella.

Allora il capitano, levandosi di tasca due grossi astucci, li consegnò nelle mani del mastro.

— Questi sono i milioni del Presidente, — gli disse. — Io li affido alla tua lealtà e al tuo onore.

— Saranno sicuri, mio comandante, — rispose il marinajo con viva emozione.

— Addio, mio valoroso.

— Che Dio vi salvi, signore.

Il capitano fece un gesto. I marinai lasciarono andare le funi e l’aerostato libero s’alzò maestosamente nell’aria, mentre l’equipaggio dell’incrociatore gridava:

— Viva il Paraguay! Viva il Presidente!...

[28]

IV. Il combattimento.

Era tempo!

La flotta alleata correva a tutta velocità addosso al valoroso incrociatore, che si trovava completamente immobile coi fuochi spenti, nell’assoluta impossibilità di manovrare o di salvarsi con una pronta fuga.

Era composta di tre fregate e di quattro corvette, armate di trentanove pezzi d’artiglieria, quasi tutti di grosso calibro, e di parecchie mitragliatrici e montate da tremiladuecento uomini; una forza imponente, invincibile pel povero Pilcomayo, che aveva un così scarso armamento e un così poco numeroso equipaggio, quantunque valorosissimo e pronto a tutto, anche a saltare in aria piuttosto di cedere le armi e le munizioni che formavano il carico. Scorgendo il pallone slanciarsi rapidamente in alto e salire con una rapidità straordinaria, un urlo di furore scoppiò a bordo delle navi nemiche. Senza dubbio gli alleati sospettavano il bel tiro giuocato dal capitano Candell, non ignorando che il Pilcomayo portava, oltre le armi, i milioni donati al presidente Lopez.

Sopra ogni ponte di comando s’udì un solo grido:

— Fuoco su quel pallone!

A quell’ordine parecchie scariche partirono dalle navi. I marinai, inerpicatisi rapidamente sulle coffe, sulle crocette [29] e persino sui pennoni, scaricavano le loro carabine, mentre le mitragliatrici, volte colle canne all’insù, vomitavano senza interruzione i loro messaggeri di morte. Due navi arrestarono persino la loro marcia innanzi e ripresero il largo; tirarono in aria alcune cannonate, ma ormai era troppo tardi.

Il pallone era già alto assai e continuava a salire con crescente rapidità. In pochi istanti scomparve fra le tenebre.

Era allora giunto a duemilacinquecento metri di altezza, e, incontrata una corrente favorevole, filava al disopra dell’oceano con una velocità non inferiore ai cinquanta o sessanta chilometri all’ora.

Mastro Diego, Cardozo e lo stesso agente del Governo, usciti tutti e tre sani e salvi da quello uragano di piombo e di ferro, in preda ancora ad una viva emozione, si erano curvati sul bordo della navicella, concentrando tutta la loro attenzione sui punti luminosi che solcavano l’oceano. In quel momento nessuno si occupava dell’aerostato, che li portava chissà mai verso quali terre o verso quali mari; non pensavano che al povero Pilcomayo, che avevano abbandonato in così terribili condizioni, stretto da ogni parte dalla squadra degli alleati e coi fuochi spenti.

Dopo le violenti scariche di moschetteria indirizzate allo aerostato, un profondo silenzio era succeduto. Nessun rumore perveniva agli orecchi degli aeronauti, nemmeno i muggiti delle macchine, che pur dovevano funzionare: nemmeno i comandi dei capitani, che pur in quel momento dovevano echeggiare a bordo di tutte le navi.

Ad un tratto però, un lampo balenò sul mare e una forte detonazione s’innalzò nell’aria. Poi un altro ancora, un terzo, infine molti altri, seguiti da scoppi violentissimi e da lunghi crepitii, che parevano prodotti dai fucili e dalle mitragliatrici. Linee di fuoco s’incrociavano per ogni dove, mandando in aria nuvoloni di polvere che di quando in quando si tingevano di rosso; poi in mezzo a quel furioso cannoneggiare si udivano delle grida che a poco a poco diventavano più fioche, man mano che l’aerostato si allontanava dal teatro della pugna.

[30]

D’improvviso un gran lampo fendette le tenebre salendo alto e lanciando per ogni dove dei punti luminosi, seguìto a breve distanza da un cupo rimbombo che durò qualche minuto, poi tutto tacque e tutto divenne oscuro.

Mastro Diego e Cardozo, che avevano seguìto le diverse fasi della battaglia col cuore stretto e la fronte madida di un freddo sudore, si risollevarono, guardandosi fissamente in viso.

— Sono saltati, — disse il mastro con viva emozione.

— Lo credi? — chiese Cardozo, su’ cui occhi tremolava un lagrimone.

— Lo temo.

— Ma può essere saltata una nave nemica.

— No, poichè non avrebbero taciuto le artiglierie.

— Ah! potessimo saperlo!

— Il vento ci allontana rapidamente, e quando spunterà l’alba chissà quanto saremo lontani dalla foce del Rio della Plata.

— Ma un giorno sapremo bene la sorte toccata ai nostri disgraziati compagni.

— Lo spero, purchè noi non siamo più disgraziati di loro.

— Cosa intendi di dire, Diego?

— Non voglio lasciarti delle illusioni, mio buon Cardozo. Non voglio nasconderti che noi ci troviamo forse in peggiori condizioni dei nostri compagni.

— Perchè?

— Sai tu dove finiremo noi? Il mare ci sta sotto e forse ci inghiottirà.

— Ma non corriamo verso la costa americana?

— Per ora no: il vento ci porta verso il sud.

— Ma possiamo incontrare una nave e scendere. Non hai mai manovrato simili navigli?

— Mai, Cardozo.

— E il signor Calderon?

— Credo che ne sappia quanto me.

— Pure ci sarà un mezzo per scendere.

— Per questo non occorrono grandi cognizioni: basta dare [31] uno strappo a questa corda che scende dall’alto e aprire la valvola.

— Quando conosci la manovra necessaria per discendere, non ti domando di più, Diego.

— Vedremo se basterà, Cardozo.

— A quale altezza ci troviamo?

— A tremila metri, — rispose il mastro; — ma tendiamo ad alzarci ancora, poichè vedo che il barometro si abbassa.

— Buono! Non mi spiacerebbe salire in cielo.

— Ciò non accadrà, sta certo, ragazzo mio: anzi non tarderemo a scendere, lo vedrai. Il gas sfugge sempre, per quanto sia buono il tessuto che lo tiene prigioniero.

— Di’: non ti pare che il pallone sia stato poco riempito? Vedo che fa delle grandi pieghe.

— Se lo avessero riempito completamente, a quest’ora sarebbe scoppiato, poichè, quantunque non m’intenda di manovrare simili vascelli dell’aria, so che il gas si dilata di mano in mano che il pallone sale e che diminuisce la pressione atmosferica, in virtù della sua forza espansiva, e so ancora che parecchi aerostati sono scoppiati per averli appunto troppo gonfiati.

— Speriamo che non ci tocchi una simile sorte. Diamine! Che brutto capitombolo, mio vecchio lupo di mare!

— Un saltino di tremila metri!

— Meno male che abbiamo il mare di sotto.

— Ma nessuno di noi lo toccherebbe ancora vivo: te lo assicuro, Cardozo.

— Camminiamo molto? È strano: si direbbe che noi siamo perfettamente immobili.

— E invece io credo che corriamo con grandissima velocità. All’alba vedremo quanto saremo lontani dalla costa americana. Ah! se potessimo attraversare la Repubblica Argentina e calare in mezzo al Paraguay, fra le brave truppe del nostro valoroso presidente! Sarebbe quello il più bel giorno...

Un risolino secco secco, ironico, gli interruppe la frase. Il vecchio marinajo si volse cogli occhi in fiamma e la fronte aggrottata, e si trovò dinanzi all’agente del Governo, il quale, [32] appoggiato al bordo della navicella, colle braccia incrociate sul petto, lo guardava in istrana guisa.

— Cosa avete, signore, per ridere a quel modo? — gli chiese con voce ruvida.

— Rido, perchè voi parlate di scendere nel Paraguay, mentre il vento ci spinge sopra l’oceano Atlantico, — rispose l’agente con voce lenta, misurata.

— È impossibile, signore! — esclamò il mastro. — Poco fa il vento soffiava dall’est e portava verso la costa.

L’agente alzò le spalle e gli mostrò senza dir verbo la bussola.

I due marinai si precipitarono verso l’istrumento e si risollevarono entrambi pallidi, mormorando: — Andiamo al largo!...

Per alcuni istanti un profondo silenzio, rotto solo dallo sfregamento delle pieghe dell’aerostato, che il vento agitava, regnò nella navicella. Malgrado il loro non comune coraggio i due marinai del Pilcomayo si sentivano prendere da una vaga paura, ben sapendo quali disastrose conseguenze poteva produrre quella corsa sopra l’oceano Atlantico.

— Possiamo fare nulla per ritornare? — chiese Diego all’agente.

— Nulla, — rispose questi senza dimostrare la più piccola emozione.

— Quando scenderà il pallone?

L’agente crollò il capo, poi volse le spalle, si appoggiò al bordo della navicella e guardò altrove.

— Auff! — esclamò il mastro, tergendosi alcune gocce di freddo sudore. — Comincio a vedere bujo nella nostra situazione, che poco fa mi pareva tanto rosea. Bah! Dopo tutto eravamo votati alla morte come i nostri compagni rimasti sul Pilcomayo.

— Chissà che il vento cangi, Diego, — disse Cardozo.

— Speriamolo, piccino mio... Dimmi: hai paura?

— No, te lo giuro. Ho provato un po’ di emozione, ma è passata.

— Ciò mi fa piacere, Cardozo. Ora còricati, chè devi essere [33] stanco, e lascia a me la cura di vegliare. Se avrò bisogno delle tue braccia ti sveglierò, non temere.

— Ti ubbidisco; ma quando sorgerà l’alba, tirami le gambe.

— Te lo prometto, figlio mio. Sdrajati sopra quei sacchi di zavorra e dormi tranquillo, chè per ora non c’è alcun pericolo.

Cardozo, che faticava assai a tenere gli occhi aperti, si gettò sui sacchi, si avvolse in una coperta per ripararsi dal freddo che si faceva sentire assai acuto a quell’altezza, e non tardò ad addormentarsi. Diego, dopo aver dato un nuovo sguardo alla bussola e uno al barometro, che indicava sempre un’altezza di 3000 metri, si cacciò in bocca un pezzo di tabacco e si appoggiò al bordo della navicella, guardando le fitte tenebre che si estendevano sopra l’oceano.

Un silenzio quasi perfetto regnava attorno al pallone, il quale continuava la sua rapida corsa con un dondolamento appena sensibile. Non si udivano nè il muggito delle onde, che forse il vento che regnava in quelle alte regioni lasciava tranquille, nè alcuna detonazione che indicasse la vicinanza della flotta alleata, nè alcun rumore che segnalasse il passaggio di qualche battello a vapore, nè una voce umana, nè un grido di uccello qualsiasi.

E se il silenzio era profondo, l’oscurità non lo era meno. Fitte tenebre avvolgevano la superficie della terra, che pareva ormai completamente scomparsa, nè appariva, per quanto il mastro aguzzasse gli occhi, alcun lume in nessuna direzione, che indicasse la presenza o di una costa o di un essere umano qualsiasi. Solo sopra il pallone scintillavano superbamente gli astri a milioni e milioni, fra cui spiccava vivamente quell’ammirabile croce del sud, che nell’emisfero meridionale indica il polo antartico.

A poco a poco però verso l’est cominciò a manifestarsi un vago chiarore, che ben presto fece impallidire gli astri e fugare lo tenebre. Giù in fondo, verso la terra, cominciò ad apparire una superficie bruna dapprima, azzurra poi, che [34] si perdeva con certi riflessi d’acciajo verso il nord, il sud e il ponente.

Alla luce biancastra successe una luce rossastra, che tinse splendidamente la superficie del pallone e che fece scintillare qua e là l’azzurra superficie del mare, cospargendola di pagliuzze infuocate; poi un’onda di luce viva, brillante, spuntò sull’orizzonte, e il sole apparve in mezzo a due grandi nuvole fiammeggianti.

Il mastro, che sonnecchiava col capo appoggiato al bordo della navicella, si rialzò, si stropicciò gli occhi e guardò sotto di sè a lungo. Nulla, assolutamente nulla; la superficie del mare era completamente deserta, e sull’orizzonte occidentale, dove dovevasi trovare la costa americana, nessuna terra appariva.

Carrai! dove siamo noi? — mormorò egli, masticando energicamente la sua cicca. — Si direbbe che il mare in queste poche ore si è bevuto la flotta degli alleati e che ha coperto l’America tutta.

Si volse e guardò nella navicella: l’agente del Governo era ancora là, appoggiato al bordo, colle braccia incrociate sul petto e gli sguardi fissi dinanzi a sè, sempre calmo, sempre freddo. La sua faccia pallida e punto simpatica non manifestava nè alcuna sorpresa, nè alcuna apprensione.

Sdrajato sui sacchi di zavorra, il giovane Cardozo dormiva tranquillamente, colle pugna chiuse, ma il sorriso sulle labbra.

— Il piccino sogna senza dubbio... — mormorò il marinajo, guardandolo con occhio amoroso. — Che peccato che io l’abbia immischiato in questo brutto viaggio, che può mandarci a bere a crepapelle in fondo all’oceano!

Guardò la bussola e lanciò una sorda imprecazione.

— Ancora verso l’est! — esclamò con ira. — Dove finiremo noi?

Guardò il barometro e vide che segnava duemila ottocento metri. Questa scoperta, ancora più grave dell’altra, lo sgomentò. — Di già scendiamo!... — E invece di avvicinarci alla costa ci allontaniamo sempre più!... Dove saremo noi fra quarantotto ore?...

[35]

S’avvicinò all’agente del Governo e gli battè leggermente sulla spalla.

— Cosa desiderate? — gli chiese Calderon senza volgersi.

— Sapete, signore, che noi discendiamo?

— Lo so... — rispose l’altro sempre calmo.

— E non vi spaventa ciò?

— Forse che io ho un mezzo per innalzarci?

— No, ma...

— Quando il sole comincierà a scaldarci, il gas si dilaterà e supereremo i tremila metri.

— Dite il vero, signore?

L’agente alzò le spalle e non rispose.

— Hum! che razza di orso è quest’uomo! — brontolò il mastro. — Il capitano già lo vedeva come il fumo negli occhi, ed aveva i suoi buoni motivi. Ma, bah! si addomesticherà.

Si avvicinò a Cardozo e lo svegliò. Il ragazzo si stropicciò gli occhi, si stirò le membra e balzò agilmente in piedi.

— Ah! sei tu, mio buon Diego! — esclamò. — Io sognavo d’essere a casa mia, anzichè in questo pallone. Ah! il sole è finalmente spuntato! E dunque, dove siamo? Si vede la costa?

— Dove ci troviamo non te lo saprò mai dire, poichè non credo che qui ci sia un ottante per fare il punto; la costa poi credo sia tanto lontana, ch’è meglio non pensarci almeno per ora.

— Sicchè la flotta degli alleati...?

— È scomparsa.

— L’avesse almeno inghiottita il mare.

— Io dico invece che naviga allegramente, portando con sè le spoglie del povero Pilcomayo. Ma lasciamo andare quei birbanti, e cerchiamo invece di porre sotto i denti qualche crosta di pane. Io spero che il capitano avrà pensato anche al nostro stomaco.

— Cerchiamo, Diego. Vedo qui una quantità di sacchi e sacchetti e casse, che qualche cosa di utile devono contenere.

— Faremo l’inventario.

[36]

Il previdente capitano aveva pensato a tutto. I due marinai trovarono nella navicella una quantità di oggetti che dovevano in avvenire essere a loro di somma utilità, sia sul mare che in terra.

Un centinajo di chilogrammi di biscotti, sufficienti per quattro o più settimane, un’abbondante provvista di carne conservata e di pesce secco, alcuni pacchi di cioccolatto, vesti di ricambio, coperte di lana, due carabine di precisione e due pistole con abbondanti munizioni, una scure, un pajo di coltelli, tre cinture di salvataggio che dovevano rendere grandi servizi nel caso che il pallone dovesse cader in mare, poi due barometri, due termometri e due bussole. Da ultimo una piccola cucina portatile, fornita di una discreta quantità di alcool.

— Lo dicevo io che il povero capitano era un gran brav’uomo, — disse Diego dopo di avere esaminato tutta quella roba. — Dovessimo finir anche su di un’isola deserta, avremo da vivere per un discreto numero di giorni e di che procurarci della selvaggina.

— Di’, marinajo, possiamo per ora dare un colpo di dente a qualche cosa?

— Stavo per proportelo, figliuol mio.

In quell’istesso momento il signor Calderon, che non avea abbandonato il suo posto, pronunciò lentamente queste parole:

— Un punto sull’oceano!

[37]

V. Il capodolio.

A quell’annuncio, che per tutti e tre aveva una grandissima importanza nelle condizioni in cui si trovavano, così lontani da terra e su quel pallone, che poteva fra breve scendere in mare per non più rialzarsi, il mastro e Cardozo balzarono in piedi, precipitandosi verso il parapetto della navicella.

L’agente del Governo non si era ingannato. Verso il sud, sulla nitida e azzurra superficie dell’oceano appariva distintamente un grosso punto nero, che pareva si dirigesse verso l’est, cioè sulla via che allora seguiva l’aerostato. Sopra di lui non si scorgeva alcun pennacchio di fumo, nè alcuna cosa biancheggiante che indicasse delle vele; ma la sua forma allungata somigliava a quella di una nave e, cosa importante, malgrado la lontananza, quella strana nave si vedeva camminare con non comune velocità.

— Cosa sarà mai? — si chiese il mastro, che aguzzava gli occhi. — Nè fumo, nè vele, nè alberi! È un nuovo genere di vascello?

— Che sia un rottame? — domandò Cardozo.

— Non camminerebbe, e invece fila con notevole velocità.

— Che sia qualche corazzata? Tu sai che talune portano solamente un alberetto pei segnali.

[38]

— Potrebbe essere una corazzata. Ah! se avessi un cannocchiale!

— Quanto stimi lontana quella nave?

— Otto o dieci miglia.

— Se facessimo dei segnali?

— L’idea è buona, Cardozo; dammi le carabine che le scarichi.

Il ragazzo prese le armi, le caricò con cura e le passò al mastro, il quale le scaricò in aria.

Le detonazioni si propagarono a grande distanza, ma non ebbero alcuna risposta. Anzi ai due marinai parve che quella misteriosa nave affrettasse la sua marcia.

— Quei galantuomini non sono troppo educati, — disse Cardozo, sorridendo. — Quando si saluta, si usa rispondere.

— A me sembra strano che non ci abbiano scorti. Per bacco! Se ci fossero delle nubi o delle montagne attorno noi, lo comprenderei; ma navighiamo in mezzo ad un’atmosfera purissima. Che ne pensate voi, signor Calderon?

— Nulla, — rispose l’agente.

— Mi sembra che a voi la presenza di quella nave non faccia alcun effetto. Eppure, signore, si tratta della nostra pelle.

L’agente non s’incomodò a rispondere.

— Come vi piace, signore, — disse il mastro un po’ piccato. — Non siete un amabile compagno, ve lo assicuro.

— E dunque cosa decidi di fare, marinajo? — chiese Cardozo. — Bisogna cercare tutti i modi possibili per avvicinare quella dannata nave.

— Lo so, ma non trovo nessun modo, — rispose il mastro, che si grattava furiosamente il capo, come se in quel modo volesse far scaturire una qualche idea.

— L’ho trovato! — esclamò ad un tratto il ragazzo. — Se ci abbassassimo di qualche po’?

— Ben detto, figlio mio!

— A poche centinaja di piedi dall’oceano quei naviganti ci vedranno di certo, tanto più che il vento ci spinge sempre sulla loro via.

[39]

— Hai ragione.

— Abbassiamoci adunque.

— È presto fatto, Cardozo.

Il mastro, senza calcolare quali disastrose conseguenze poteva portare quella discesa nel caso che non venissero raccolti, afferrò senza esitare la funicella della valvola e diede uno strappo. Tosto in aria, verso la sommità dell’aerostato, si udì un leggero fischio, seguìto tosto da una serie di piccole detonazioni. Il gas, che non cercava che una uscita per lasciare l’involucro di seta, sfuggiva rapidamente.

Il pallone cominciò subito a discendere lentamente con un largo dondolamento, pur continuando ad avanzarsi verso l’est, ossia verso il preteso vascello, che continuava la rapida marcia.

Cardozo, cogli occhi fissi sul barometro, che continuava a salire, contava:

— Duemilacinquecento metri..... duemila..... millecinquecento..... mille.... cinquecento..... quattrocento..... trecento.....

— Basta! — disse Diego, lasciando andare la funicella.

Tutti e due si precipitarono sul bordo della navicella. Sotto di loro, ad una distanza brevissima, muggiva l’oceano, percorso da larghe ondate spumeggianti che s’innalzavano verso il pallone, quasi fossero desiderose di afferrarlo e di inghiottirlo.

A sei o sette chilometri il vascello continuava a camminare; ma, cosa strana, ora pareva quasi completamente sommerso, e, cosa ancora più strana, su di lui non si vedeva nè la bianca superficie della tolda, nè un albero qualunque, nè una ciminiera[4], nè una manovra qualsiasi.

Il mastro e Cardozo si guardarono in viso, interrogandosi reciprocamente cogli occhi.

— Ci capisci tu qualche cosa? — chiese infine il ragazzo.

— Temo di aver commesso una grande bestialità, figlio mio, — rispose il mastro.

— Perchè, mio buon Diego?

[40]

— Perchè quello là non deve essere un vascello.

— E cosa vuoi che sia?

Il mastro non rispose. Curvo sul bordo della navicella, colle mani dinanzi agli occhi per ripararsi dai raggi del sole, guardava fisso fisso, colla fronte aggrottata, la supposta nave. Ad un tratto un grido di rabbia gli sfuggì.

— Maledizione!...

— Cosa è accaduto? — chiese Cardozo con inquietudine.

— Guarda!

Il ragazzo guardò nella direzione indicata e fece un gesto di stupore. La pretesa nave, che pochi momenti prima ancora navigava, era scomparsa!...

— Inabissata? — chiese egli.

— Lo vedi.

— Era un rottame adunque?

— No, una balena, un capodolio, un mostro marino insomma.

— È impossibile!...

— Ho veduto io con questi occhi, che sono ancora molto buoni, la sua coda alzarsi e poi abbassarsi.

— E abbiamo salassato il nostro pallone per una balena!...

— E che salasso, Cardozo! Non siamo più che a centocinquanta metri dalla superficie del mare!

— Ma abbiamo della zavorra, Diego.

— Lo so, ma la nostra situazione è peggiorata e il vento soffia ostinatamente dall’ovest!

— E le nubi si alzano, — disse l’agente del Governo, uscendo dal suo mutismo.

Infatti verso l’ovest, là dove l’oceano si confondeva col cielo, una massa, che diventava rapidamente nerastra, era allora comparsa e saliva con una certa velocità, ingrandendo a vista d’occhio. Poteva portare solamente un buon acquazzone, ma poteva anche scatenare uno di quegli uragani che godono una sì trista fama sulle coste dell’America meridionale e specialmente della Patagonia.

— Tutto è contro di noi, — disse il mastro, crollando a più riprese il capo. — Sarei curioso di sapere come finirà questo viaggio del malanno.

[41]

— Ci occuperemo più tardi di ciò, marinajo, — disse Cardozo, che non pareva troppo spaventato. — Per ora occupiamoci della nostra colazione, così brutalmente interrotta dalla comparsa di quella dannata balena. A tavola, signor Calderon, se vi sentite un po’ di appetito.

Il bravo e coraggioso ragazzo si assise sui sacchi di zavorra e si mise a sgretolare alcuni biscotti, mentre il mastro, ritornato di buon umore, apriva una scatola di carne conservata e faceva saltare il collo ad una bottiglia di vecchio vino di Spagna, rinvenuta in fondo ad una cassa dove teneva compagnia ad un rispettabile barilotto di wiscky della capacità di una ventina di litri, e che doveva essere di non poca utilità nei brutti momenti.

Finito il pasto non troppo succolento, ma assai sostanzioso e abbondante, i due marinai accesero le pipe e si rimisero in osservazione. L’agente del Governo, che era ritornato muto e impassibile, si sdrajò invece sui sacchi, immergendosi in profondi pensieri.

Il pallone, malgrado il «salasso» subìto, come diceva Cardozo scherzando, si comportava sempre bene, filando rapidamente sopra le onde dell’oceano a centocinquanta o centosessanta metri d’altezza. Nondimeno, sia in causa della perdita del gas o per qualche difetto di costruzione, talvolta faceva delle brusche discese fino a pochi metri dalla superficie liquida, per poi riprendere però l’altezza di prima.

Il vento disgraziatamente non accennava a cambiare, allontanandolo sempre più dalla costa americana, che ora doveva essere lontana parecchie centinaja di miglia, e per di più la nube segnalata non cessava di alzarsi, prendendo delle tinte minacciose.

Verso il mezzodì, quando maggiore era il calore, un fenomeno strano venne a rompere la monotonìa del viaggio. Mentre i due marinai aguzzavano gli occhi verso il nord nella speranza di scoprire qualche veliero o qualche piroscafo che li raccogliesse, scorsero, con una sorpresa che si può bene immaginare, un pallone un po’ più piccolo del loro, ma esattamente simile in quanto alle forme, e che portava anch’esso [42] nella sua navicella due uomini, che parevano intenti a guardare nell’istessa direzione.

— To’! — esclamò il mastro, stentando a credere ai suoi occhi. — Un altro pallone!... Sogno io forse, o il vino di Spagna mi ha ubriacato?

— No, non sogni, poichè lo vedo anch’io, — disse Cardozo con viva emozione.

— Ma cosa fa qui quel pallone? Da dove è venuto, che prima non lo abbiamo veduto?... Chi sono gli uomini che lo montano?... Signor Calderon!... signor Calderon!...

L’agente del Governo si alzò lentamente, guardò per alcuni istanti il pallone che filava nell’istessa direzione di quello da lui montato.

— To’! — esclamò il mastro, che cadeva di sorpresa in sorpresa. — Gli uomini sono diventati tre!

— E diventerebbero quattro, se il nostro ne avesse tanti, — disse l’agente del Governo.

— E perchè, signore? — chiese Cardozo.

— Perchè quello là è il nostro pallone.

— Ecco una cosa che stenterò a crederla, — disse il mastro. — Vi dico che quello là è un altro pallone, e non vorrei che quegli uomini fossero Argentini o Brasiliani lanciati sulle nostre tracce per carpirci il tesoro del Presidente.

— Alzate le vostre braccia.

Il mastro ubbidì, e vide uno di quei tre uomini fare esattamente lo stesso. Poco persuaso però, rinnovò i movimenti, agitò il cappello, fece sventolare il proprio fazzoletto, poi spiegò una piccola bandiera coi colori paraguayani, e vide fare altrettanto con scrupolosa precisione.

— È un fenomeno molto strano, — disse.

— Ma abbastanza comune, rispose il signor Calderon, che diventava, cosa davvero insolita, loquace.

— E come si chiama?

— Il miraggio.

— E come avviene?

— Basta che gli strati d’aria abbiano delle densità disuguali. Allora i raggi solari, rifrangendosi, dànno una seconda [43] immagine dell’oggetto in vista, come se si rifrangessero in uno specchio, o in una superficie d’acqua.

Nel nostro caso gli strati d’aria disuguali sono vicini al mare; ma avviene talvolta che lo sieno invece quelli superiori, e allora gli oggetti si rappresentano capovolti.

— Ho udito parlare ancora di questo fenomeno, signor Calderon. Un mio amico francese, che fece parte della spedizione di Egitto col grande Napoleone, mi narrò più volte delle grandi disillusioni provate in quelle sabbie in causa del miraggio.

— Nelle pianure sabbiose il fenomeno è comunissimo in causa del grande calore.

Ad un tratto il pallone scomparve.

— Buon viaggio, — disse Cardozo.

— Il fenomeno è finito, — disse l’agente. — Gli strati d’aria hanno ripreso il loro equilibrio. — Poi abbandonò il posto, tornò a sdrajarsi sui sacchi e non parlò più.

Il mastro ed il ragazzo continuarono a rimanere in osservazione scrutando sempre l’orizzonte, che si manteneva ostinatamente deserto, e seguendo con qualche ansietà il nero nuvolone che non cessava di alzarsi, minacciando d’invadere tutto il cielo.

Verso le 3 pomeridiane il vento, che fino allora si era mantenuto debole, quasi improvvisamente accrebbe. Una raffica uscì dal seno della nuvola e spazzò l’oceano, alzandolo in larghe ondate e facendo trabalzare vivamente il pallone, il quale raddoppiò la marcia, ora alzandosi e ora abbassandosi.

A poco a poco l’acqua prese una tinta più oscura, cominciò a ribollire come se fosse mossa da forze sottomarine, indi si formarono delle alte ondate che si misero a correre dall’ovest all’est, urtandosi e sfasciandosi con lunghi muggiti. Alcuni spruzzi giunsero fino alla navicella, che talvolta scendeva di parecchi metri, come se al pallone di quando in quando venissero a mancare le forze.

— Siamo ammalati, — disse Cardozo, che esaminava attentamente l’aerostato. — Il poveretto a poco a poco perde il suo sangue.

[44]

— Purtroppo, figliuol mio, — rispose il mastro, che era diventato pensieroso. — Il gas sfugge attraverso i fori del tessuto, nè vedo alcun mezzo per arrestarlo.

— E la tempesta ci è alle spalle!

— Non inquietarti, Cardozo. Finchè abbiamo della zavorra da gettare non corriamo alcun pericolo.

— Ma l’uragano può portarci assai lontani, marinajo, e chissà poi se riusciremo a raggiungere le coste americane.

— Conto sull’incontro di qualche nave.

— Ma siamo in una regione che è poco battuta dai navigli.

— Lo so, ma possiamo incontrare qualche baleniere in rotta per le ragioni antartiche. Ah!

— Cos’hai?

— Guarda laggiù!.... Ancora quel dannato mostro che ci ha fatto salassare il pallone.

Infatti a quattro o cinque miglia verso l’est si vedeva emergere sulle onde una enorme massa nerastra, la quale gettava in aria delle nuvolette, emettendo contemporaneamente delle potenti note metalliche che parevano prodotte da una impetuosa colonna d’aria cacciata dentro un tubo di bronzo.

— È una balena senza dubbio, — disse Cardozo.

— No, deve essere invece un capodolio, poichè vedo una sola colonna di vapore. Un brutto mostro, figliuol mio, specialmente quando è irritato.

— Si avvicina molto rapidamente a noi.

— Fra pochi minuti sarà qui, poichè si dice che balene e capodolii percorrano la bagatella di 660 metri al minuto.

— Impiegano poco tempo allora a fare il giro del mondo.

— Un capitano baleniere, sotto i cui comandi feci una campagna, mi disse che basterebbero 47 giorni, seguendo l’equatore, supponendo che dodici ore al giorno siano sufficienti pel riposo e sole 24 ore per andare da un polo all’altro.

— Hai pescato delle balene adunque?

— Ne ho ramponata una presso il capo Horn, che aveva ventidue metri di lunghezza.

[45]

— Mi viene un’idea, marinajo.

— Di’ su, ragazzo mio.

— Se ci facessimo rimorchiare da quel mostro che vedo diretto verso la costa americana? Abbiamo un’àncora qui che ci può servire per...

— Là, là, tu sei pazzo. Carrai! Non mi sento in vena di far una passeggiata in fondo al mare.

— Hai ragione, marinajo. Non avevo pensato che siffatti giganti possono tuffarsi a loro piacimento. Eccolo!... Per bacco, come è brutto!

Il capodolio, che s’avanzava con straordinaria velocità, non era allora che a poche centinaja di passi dall’aerostato, il quale aveva senza dubbio attirato la sua attenzione.

Era enorme e, solo a vederlo, anche dall’alto del pallone, cioè fuori d’ogni pericolo, metteva addosso un certo brivido. Misurava non meno di sedici metri, con un diametro di tre e mezzo e forse quattro, e la sua testa era così grande da eguagliare il terzo della lunghezza.

La sua bocca smisurata, capace di contenere parecchie botti e di assorbire un pesce-cane dei più grossi, mostrava certi denti conici che non dovevano pesare meno di quattro chilogrammi ognuno.

Giunto presso il pallone, che si trovava cinquanta o sessanta metri dalla superficie del mare, il mostro si fermò come colpito da meraviglia, guatandolo coi suoi brutti occhietti a riflessi giallastri, poi cominciò a dar segni di violenta collera, emettendo lunghe note e facendo spruzzare alta l’acqua colla sua potente coda bilobata.

Malgrado la sua mole, cominciò a muoversi con una vivacità straordinaria, seguendo il pallone, poi, sprofondandosi più che mezzo, con un vigoroso colpo di coda si slanciò d’un buon terzo fuori dell’acqua coll’enorme bocca aperta, tentando senza dubbio di arrivare fino alla navicella.

— Ah, mio caro, non siamo gente da lasciarci inghiottire come pesciolini, — disse il mastro. — Aspetta un po’ che ti darò io qualche cosa da masticare e che ci metterà al sicuro dai tuoi assalti.

[46]

Afferrò un sacchetto di zavorra e lo lanciò nelle fauci del gigante, che subito le chiuse con un colpo secco. Il pallone, così alleggerito, fece bruscamente un salto in aria, elevandosi di seicento metri, tanta è la sensibilità di siffatti veicoli aerei, ai quali basta la sottrazione di pochi grammi per innalzarsi.

Il capodolio, punto soddisfatto di quel cibo insolito e forse spaventato da quell’improvvisa elevazione del pallone, si rovesciò bruscamente su di un fianco, battendo con furore l’acqua, poi s’immerse, formando un largo vortice.

— Buona digestione! — gridò Cardozo.

In quell’istante, il sole sparve sotto l’orizzonte e la nera massa di vapori, che aveva già invaso quasi tutto il cielo, s’illuminò sotto la livida luce del primo lampo.

[47]

VI. Una terribile notte.

La notte calava con rapidità estrema.

Gli ultimi bagliori del tramonto erano subito scomparsi come soffocati dalla brusca invasione delle nubi, che ora s’accavallavano verso l’orizzonte occidentale. Il mare aveva perduto i suoi riflessi sanguigni o madreperlacei ed era diventato nero come l’inchiostro.

Dopo il primo lampo una calma assoluta era succeduta. Il vento, come se volesse prima riprendere tutta la sua forza per la gran lotta che stava per impegnarsi, era cessato, e le nubi avevano arrestato la loro corsa.

Il pallone, non più spinto, rimaneva ora perfettamente immobile a circa cinquecento metri dalla superficie del mare, come se un’àncora lo trattenesse. Le sue pieghe, che poco prima si gonfiavano e si sgonfiavano, ora cadevano inerti, senza più produrre alcun strofinìo.

Il mastro, Cardozo e l’agente del Governo, in preda a vaghe inquietudini, erano diventati silenziosi, e guardavano con ansietà quel cielo calmo sì, ma che pareva da un istante all’altro dovesse sconvolgersi tutto e gareggiare coll’oceano, che stava pure per risvegliarsi.

Passarono due ore, durante le quali nessun rumore venne a turbare il silenzio che regnava nella navicella e la calma che regnava in quell’atmosfera, che si sentiva tuttavia carica di elettricità; poi un lampo abbagliante fendette il [48] cielo da oriente ad occidente, come una immensa scimitarra, e nella profondità delle nubi rullò il tuono.

Parve quello un segnale. Un impetuoso colpo di vento, che pareva fosse uscito dalla fenditura fatta dalla prima scarica elettrica, si precipitò sull’oceano, corrugandone la tranquilla superficie, e scosse ruvidamente il pallone, cacciandolo innanzi a sè con estrema rapidità.

— Ci siamo, — disse Cardozo, che cercava di mostrarsi calmo. — Messer Eolo vuol divertirsi un po’ e ci farà danzare assai bruscamente.

— Purchè non guasti un po’ troppo la stoffa del nostro veicolo, — disse Diego, che esaminava con qualche inquietudine le pieghe dell’aerostato.

— Speriamo che resista, Diego. Ma... to’! mi pare che ritorniamo.....

— Hai ragione, Cardozo, — disse il mastro, guardando la bussola. — Questo è vento d’est e che vento!

— Allora ci spinge verso l’America.

— Ma sì, Cardozo, ci conduce a casa.

— Che la tempesta sia la benvenuta!

— Adagio, figliuolo. Abbiamo un vascello assai fragile e che porta in corpo una vera S. Barbara.

— Una S. Barbara? Non abbiamo più di cinque chilogrammi di polvere, marinajo.

— Ma abbiamo sul nostro capo non so quante centinaia di litri di gas infiammabile. Se un fulmine vi mette fuoco, siamo tutti spacciati.

— To! Non avevo pensato a questo. Bisognava mettere un parafulmine sulla cupola.

— E se mettessimo invece i fulmini sotto di noi? Che ne dici, Cardozo?

— Innalzandoci sopra le nubi?

— L’hai detto, ragazzo. Abbiamo un buon quintale di zavorra da gettare, e, scaricati di questo inutile peso, faremo un bel salto, te lo dico io.

— Ci terremo pronti ad alleggerirci, marinajo, e vedrai che faremo presto. Ma... ecco che il vento torna a cadere.

[49]

— Sta riprendendo le forze, Cardozo.

Carrai! Desidera un bicchierino?

— Non ne ha proprio bisogno. Corpo d’un vascello sventrato! Che oscurità! Non vedo più il mare.

— Ma lo odi brontolare.

— Più di prima.

— Scendiamo forse?

— Tuoni e fulmini! — esclamò il mastro, che si era avvicinato al barometro. — Scendiamo, figliuol mio.

— Brutto segno.

— Siamo a soli quattrocento metri.

— Gettiamo zavorra?

— Risparmiamola per ora: avremo sempre tempo per alleggerirci.

La calma, per alcuni istanti interrotta, era tornata. Il vento dopo i primi colpi di prova era nuovamente cessato e anche i lampi non apparivano più: però i tre aeronauti udivano sotto i loro piedi muggire sordamente l’oceano e sopra le loro teste rumoreggiare di quando in quando il tuono.

L’oscurità era ora tale che non si scorgevano più nè le nubi, nè la superficie del mare: però di tratto in tratto sopra e sotto il pallone brillavano delle misteriose luci che apparivano e scomparivano rapidamente, prodotte forse dalla comparsa di molluschi fosforescenti, che le onde travolgevano nella loro corsa, o dall’elettricità.

Alle 10 l’uragano non era ancora scoppiato e il vento non aveva ancora ripreso i suoi soffi. Cardozo e l’agente governativo, che si sentivano affaticati e volevano essere freschi per la gran lotta, si coricarono sui sacchi, cercando di addormentarsi.

Il mastro, rotto a tutte le fatiche, abituato a lunghe veglie, rimase a guardia, tenendo gli occhi fissi sul barometro, che lentamente si alzava, segnando la discesa dell’aerostato.

Ma dopo qualche ora, forse a causa della elettricità di cui era satura l’atmosfera, sia per le precedenti veglie, sia perchè [50] tranquillizzato dalla calma che ancora regnava, a poco a poco chiuse gli occhi e si lasciò cadere a fianco dei compagni, che già russavano sonoramente.

Quanto dormì non lo seppe mai. Un chiarore intenso, accompagnato da un furioso tuonare e da un fischiare indiavolato e da assordanti muggiti, lo strappò bruscamente dal sonno.

Balzò rapidamente in piedi e guardò. Il cielo pareva in fiamme, solcato in tutte le direzioni da lampi lividi, azzurri e rossastri: il vento, scatenatosi improvviso, soffiava con estrema violenza, scuotendo disordinatamente l’aerostato, che fuggiva semi-rovesciato; in alto, le scariche elettriche tuonavano orrendamente e, sotto, il mare, sollevato a prodigiose altezze, muggiva e rimuggiva, scagliando ovunque nembi di candidissima schiuma.

— All’erta!... — gridò il mastro, aggrappandosi alle corde, per non cadere. — L’uragano!

Cardozo e l’agente abbandonarono precipitosamente il loro giaciglio.

— Ah! che musica! — esclamò il ragazzo. — Il maestro ha dato il segnale di principiare il concerto?

— Dove siamo? — chiese il signor Calderon, aggrappandosi ai bordi della navicella.

— Non ne so più di voi, signore, — rispose il mastro. — Ma mi pare che non siamo su di un letto di rose.

Un colpo di mare s’alzò dinanzi alla navicella e vi lanciò dentro un grande spruzzo.

— Tuoni e lampi! — esclamò il mastro, dando indietro. — Stiamo per inabissarci!

Si precipitò verso l’orlo della navicella e guardò. A soli venti o venticinque passi, l’oceano, sollevato dai furiosi colpi di vento, si rompeva con orribili muggiti, minacciando di inghiottire l’aerostato.

— Presto! presto! innalziamoci, o siamo perduti — gridò.

— Getta la zavorra! — comandò l’agente del Governo.

Una striscia di fuoco passò a pochi passi dal pallone, immergendosi nello spumante oceano, seguìta da una scarica [51] così violenta da paragonarsi allo scoppio simultaneo di parecchi pezzi d’artiglieria.

Il mastro, che stava per afferrare i sacchetti, si arrestò titubante.

— Signore, — disse, volgendosi verso Calderon, — se io getto tutta questa zavorra, noi salteremo sopra le nubi.

— Lo so, rispose l’agente.

— Non verremo fulminati nell’attraversarle?

— Chi lo sa?

— Dunque?

— Lo stesso pericolo lo corriamo anche qui.

— Ma.....

Un’altra ondata si slanciò verso la navicella e la scosse violentemente. Il mastro non esitò più.

— Gettiamo, Cardozo!

Afferrarono i sacchi e li lanciarono in mare.

— Saldi in gambe! — gridò l’agente.

Il pallone, alleggerito bruscamente di oltre cento chilogrammi, fece un balzo immenso e s’innalzò con vertiginosa rapidità verso lo nubi.

— Diego! — esclamò Cardozo, che si teneva aggrappato con disperata energia alle corde. — Mi manca il respiro!

— Tieni saldo, ragazzo... — rispose il mastro.

— Che si rovesci il pallone?

— Non temere: salirà senza malanni.

— Non vedo più il mare.

— Tanto meglio!

Il pallone, semi-rovesciato dall’impeto del vento che ruggiva e fischiava attraverso la rete e le corde, saliva sempre, facendo ondeggiare disordinatamente la navicella, la quale In certi momenti pareva che fosse lì lì per rovesciarsi. Ora pareva che stesse per arrestarsi e rallentava l’ascensione, ma poi, come se avesse ripreso nuove forze, balzava attraverso le tenebre con improvvisi salti che spostavano le casse e i barilotti dei viveri, rovesciando gli uomini gli uni addosso agli altri.

Ad un tratto una fittissima nebbia lo avvolse tutto; mentre [52] sotto e sopra scariche violentissime, le une secche secche e le altre lunghe, interminabili, si succedevano con rapidità straordinaria, assordando gli aeronauti.

— Diego! — esclamò Cardozo, che cominciava ad aver paura, non vedendo più nulla attorno a sè, tanta era fitta la nebbia. — Dove sei?

— Sono qui, figliuol mio, — rispose il mastro con voce leggermente tremula e che indicava come anche lui non fosse tranquillo.

— Ma dove siamo noi? Non vedo più nulla.

— Siamo entrati nelle nubi, — rispose una voce, che fu riconosciuta per quella del signor Calderon.

— Nelle nubi! — esclamò Diego. — Ma questa nebbia non bagna, signore!

— Avviene di rado che nelle regioni dell’aria il vapore acqueo sia umido, — rispose l’agente. — Saliamo?

— Sempre, signore, — rispose Cardozo.

D’improvviso la nera massa, che pareva si agitasse rapidamente, si illuminò tutta d’una luce vivissima, e una immensa lingua di fuoco la solcò dall’alto in basso, seguita da una acuta detonazione, che fece oscillare violentemente l’aerostato e le corde della navicella.

— La folgore! — esclamò il mastro impallidendo. — Dio ci protegga!

— Scendiamo, Diego! — disse Cardozo.

— No! — esclamò l’agente del Governo, che anche in quel terribile frangente conservava la sua abituale calma. — Più su, più su.

— Ma il pallone si squarcerà, signore!

— Tanto peggio!... Se si deve...

Uno scoppio violentissimo soffocò la sua voce. Cardozo mandò un grido.

— Cosa succede? — chiese il mastro, che provò una stretta al cuore. — È il pallone che scoppia?

Tre o quattro lingue di fuoco balenarono a destra e a sinistra e sparvero nel seno delle nubi, lasciandosi dietro delle emanazioni asfissianti. Una detonazione spaventevole, [53] paragonabile solo allo scoppio di una polveriera, scosse furiosamente gli strati dell’aria, sfondando con urto irresistibile le nubi, che si squarciarono in mille luoghi.

Il pallone si allungò, poi si allargò come se volesse scoppiare, oscillò violentemente a destra e a sinistra, quindi fece un balzo in aria così improvviso da rovesciare gli aeronauti l’uno sull’altro.

Quando questi si alzarono, la fitta nebbia più non li circondava. Il pallone si librava in una atmosfera purissima, trasparente, dolcemente illuminata dagli azzurrognoli raggi della luna, la quale vagava fra miriadi di scintillanti stelle. Solamente la temperatura era diventata bruscamente freddissima e il termometro continuava ad abbassarsi rapidamente.

— Dove siamo noi? — si chiese Diego, che cadeva di sorpresa in sorpresa. — Siamo caduti sul polo, o dove?

— Saliamo, marinajo, — rispose Cardozo.

— Ancora?

— Quattromila metri, e il barometro precipita.

— Ma questo pallone non si fermerà più?

— Faremo un altro salasso, Diego.

— Per tornare fra le nubi? No, ragazzo mio, non ci tornerò più io là in mezzo. Ti confesso che ho provato una certa paura.

— Io mi credeva spacciato, Diego. Ma dove sono le nubi, che non le vedo più?

— Almeno a millecinquecento metri sotto di noi. Non odi questi tuoni?

— Saliamo molto in fretta. Quattromila e cinquecento metri!..... Che capitombolo, se il pallone perdesse improvvisamente le sue forze!

— Ma si comporta sempre bene, fortunatamente; è vero, signor agente?

— Troppo bene, — rispose il signor Calderon. — Se continua a salire, ci darà degli altri pensieri.

— Bah! Del freddo non abbiamo paura. Ma... corpo d’un vascello sventrato!... Si comincia a gelare!...

[54]

— Sei gradi sotto zero, — disse Cardozo.

— Bisognerà prendere le coperte, se la continua ancora un po’. Ma!... to’!... è il freddo, o qualche cosa d’altro?... Si direbbe che i miei polsi galoppano e che...

— La nostra macchina funziona male, — disse Cardozo. — Mi pare di essere... È strano! Si direbbe che io ho bevuto una bottiglia di câna (acquavite).

— Infatti, anche la mia testa gira, e i miei occhi vedono doppio. Cosa mai sta per succedere?

— Dimmi, Diego: sono pallido io?

— Pallidissimo, figliuol mio.

— E anche tu.

— Oh!... un marinajo della mia specie che diventa pallido!... Sono diventato una femminuccia? Eppure non ho paura, te lo giuro.

— Ci sarà una causa, Diego.

— Che sia il gas?

— Ma io non sento alcun odore. Brrr!... che freddo cane!... Più saliamo e più l’aria diventa gelata. Cinquemilacinquecento metri!...

— E saliamo ancora!... Si direbbe che il pallone vuol cadere sulla luna.

— Che sia attratto dal satellite?... Ah!...

— Cos’hai, figliuol mio? Io comincio ad aver delle vaghe paure.

— Sento che le mie forze se ne vanno, marinajo, e che mi assale una certa nausea... Eppure non ho mai provato il mal di mare.

Carrai!... bisogna pensare a qualche cosa. Ho la lingua che stenta ad articolare le parole, il polso galoppa sempre più, ho la faccia in congestione e per di più provo delle vertigini!... Signor Calderon!...

L’agente non rispose: senza che i suoi compagni si fossero accorti, si era adagiato su di una cassa, colle mani strette attorno al capo, e pareva che dormisse, quantunque i suoi occhi fossero aperti, anzi addirittura sbarrati.

— Signor Calderon! — ripetè il mastro, che nel vedere [55] quell’uomo in quello stato provò un senso di vera paura. — Vi sentite male?...

Non ottenendo ancora risposta, fece per avvicinarglisi, ma un grido mandato dal ragazzo lo arrestò.

— Diego!... Diego!... — esclamava Cardozo coll’accento di vivo terrore. — Soffoco!... Non mi reggo più!...

Il mastro si slanciò verso di lui e lo ricevette fra le braccia.

— Figliuol mio!... Cosa... Cosa hai? Gran Dio! Del sangue!...

Infatti il povero ragazzo, ch’era diventato pallido come un cadavere e che respirava furiosamente come se gli venisse meno l’aria, aveva del sangue sulle labbra e attorno agli occhi.

— Signor Calderon!... — esclamò il marinajo. — Aiuto!... Cardozo muore!...

Ad un tratto si sentì venir meno le forze, intorbidire la vista e gli parve che il ventre a poco a poco gli si gonfiasse. Lasciò il ragazzo, che non dava ormai più segno di vita, e si aggrappò disperatamente ai bordi della navicella.

— Ajuto... aju... to!... — balbettò; ma la sua voce si perdette senza risposta nella gelida atmosfera. — Soffo..... co!..... Si..... gnor..... Cal..... deron..... aju..... to!..... — ripetè.

Una voce appena distinta gli giunse agli orecchi: — A..... pri!..... a..... pri..... la... val... — Era quella dell’agente del Governo.

Il mastro comprese. Facendo uno sforzo disperato, afferrò la funicella e con uno strappo violento aprì la valvola; ma subito le forze gli mancarono e cadde all’indietro svenuto, mentre il gas sfuggiva, scoppiettando, dall’apertura.

[56]

VII. Terra! Terra!

Se i due marinai del Pilcomayo e l’agente del Governo non fossero stati alle loro prime armi in fatto di ascensioni, avrebbero senza dubbio compreso subito che quegli strani fenomeni ad altro non erano dovuti che all’eccessiva altezza a cui era salito il pallone in causa dell’improvviso getto di tutta la zavorra, fenomeni che potevano condurre a gravissime, anzi a fatali conseguenze.

Il male degli aeronauti, che un tempo si credeva prodotto da un’azione meccanica, ossia dalla sottrazione della pressione atmosferica, e che invece è dovuto alla diminuzione della tensione dell’ossigeno, che a certe altezze non penetra più nel sangue in quantità sufficiente per mantenere le combustioni vitali nel loro stato di energia normale, è stato per lungo tempo oggetto di studi e ha dato luogo alle più strane dicerie. Se ne son dette d’ogni specie e se ne sono raccontate d’ogni colore su questo male, che viene anche chiamato delle montagne, manifestandosi simili fenomeni anche sulle vette molto elevate.

Degli aeronauti hanno narrato persino che il sangue, ad una grande elevazione, usciva a catinelle dai pori della faccia e dagli orecchi. Robertson ha detto che gli si gonfiò il capo in siffatta guisa da non essere stato di poi più capace di mettersi il cappello.

[57]

Studi più coscienziosi e più recenti hanno modificato in parte tutte quelle dicerie, non escludendo però che, ad una grande elevazione, la morte possa colpire l’aeronauta.

Secondo queste osservazioni, si notò che i primi fenomeni del male degli aeronauti si manifestano a 2150 metri, altezza corrispondente all’altipiano del Messico. La pressione è di 590 millimetri, e il polso batte 70 volte al minuto.

A 4150 metri la pressione è di 450 millimetri e il polso batte 84 volte al minuto; si manifesta un principio di nausea, il ventre comincia a gonfiarsi, si provano delle vertigini e si sente la faccia in congestione.

A 6000 metri il polso, strano fenomeno, ridiscende a 70; si prova uno sbalordimento, la vista si offusca, le forze cominciano a mancare, si pena assai a muovere anche la sola testa, la lingua si paralizza.

A 7000 si cade svenuti, se non si hanno canne d’ossigeno; a 8000 il sangue spiccia dalle labbra e si muore uccisi talvolta anche dal freddo, che a quell’altezza è veramente terribile.

Fortunatamente il signor Calderon, che, quantunque semisvenuto, conservava ancora un po’ di lucidità, colle ultime parole aveva impedito al pallone di salire a quell’immensa altezza, dove tutti e tre avrebbero certo trovato la morte.

Il mastro, che, essendo più vigoroso degli altri, aveva più resistito alla terribile prova, anche nella caduta non aveva abbandonato la funicella, lasciando così sfuggire il gas. Il pallone, dopo di essere salito per alcuni metri ancora, aveva ricominciato la discesa con una rapidità così notevole che tre o quattro minuti dopo si trovava a soli cinquemila metri.

Quel ritorno nelle regioni dell’aria respirabile produsse pronti e maravigliosi effetti. Il mastro, che pochi minuti prima pareva morto, ben presto si scosse, si stropicciò gli occhi, aprì le mascelle, aspirando rumorosamente l’aria, poi si rizzò sulle ginocchia, guardando i compagni, che pareva dormissero tranquillamente.

— Oh!... — esclamò egli con stupore. — Sono morto, o vivo?... Se non mi trovassi ancora in questa navicella col [58] pallone sulla testa e il mio Cardozo a fianco, direi che sono tornato in vita in quell’altro mondo... Ma cosa è successo?... Che il diavolo mi porti se io capisco qualche cosa!... Il capitano doveva avvertirmi dei brutti giuochi che fanno questi vascelli dell’aria... Ma dove siamo noi?

Si alzò, lasciando libera la fune della valvola, e si curvò sul bordo della navicella.

Ad una distanza di duemila o duemilacinquecento metri egli scorse una grande massa nera, che di quando in quando s’illuminava d’azzurro o di rosso e che veniva solcata in tutte le direzioni da lingue di fuoco che parevano folgori, tanto erano rapide. Dei sordi brontolii salivano accompagnati da strani ruggiti che parevano prodotti da un vento furioso.

— Devono essere le nubi, — diss’egli. — Siamo ancora alti assai; ma, se non m’inganno, il pallone scende con una certa rapidità. Temo di averlo salassato un po’ troppo.

Lasciò il posto, si curvò su Cardozo e lo sollevò delicatamente, chiamandolo a più riprese. Il giovanotto aprì subito gli occhi ed emise un sonoro sternuto.

— Come ti senti, figliuol mio? — gli chiese premurosamente il mastro.

— Ma benone, marinajo, — rispose Cardozo. — Ma... ho dormito io forse?...

— No, sei caduto svenuto.

— Sì... sì... ora mi ricordo... stavo assai male, la testa mi girava, il polso batteva furiosamente, il ventre mi si gonfiava... Eppure ora provo un gran benessere.

— Lo credo.

— E il signor Calderon dov’è?...

— Qui, — rispose l’agente, che si rizzava lentamente.

— Ben felice di vedervi ancora vivo, signore, — gli disse Diego. — Mi spiegherete ora cosa ci è successo.

— Il pallone scende?

— Sì, signore.

— La discesa ci ha salvati.

— Perchè? — chiesero ad una voce il mastro e Cardozo.

[59]

— Il nostro svenimento è stato causato dalla grande elevazione a cui era giunto l’aerostato, — disse l’agente. — Settemila metri!.... A simile altezza non si può vivere.

— E perchè non dirmelo prima? — chiese il mastro. — Avrei fatto il salasso a tempo opportuno.

L’agente alzò le spalle e non rispose. Si levò, guardò il barometro, lanciò uno sguardo al di fuori, poi si accomodò tranquillamente fra i sacchi e tornò a chiudere gli occhi.

— Signore, — disse il mastro, — noi discendiamo.

— Non so cosa farci, — rispose l’agente.

— Fra poco caleremo fra le nubi.

— Tanto peggio.

— Buona notte allora. Auff! Che orso!

— Bah! Sapremo noi levarci d’impiccio senza di lui, quando sarà giunto il momento opportuno! — disse Cardozo.

— Eh! non prendertela tanto allegramente, figliuol mio. Il pallone scende con molta rapidità.

— Abbiamo dell’altra roba da gettare: le coperte, i viveri, la provvista d’acqua, il barilotto di wisky.

— Una sessantina di chilogrammi in tutto. Poca cosa, Cardozo.

— Poi getteremo la navicella e ci aggrapperemo alla rete.

— Speriamo di non arrivare a questo punto.

Ahimè! A questo punto dovevano pur troppo arrivare e più presto di quanto lo credevano. Il pallone, che aveva già subito due abbondanti salassi, pur continuando a marciare con notevolissima velocità verso la costa americana, si abbassava sempre di tre o quattrocento metri all’ora. È bensì vero che di quando in quando faceva dei balzi di qualche centinajo di piedi, come se prendesse novella forza, ma poi tornava a ricadere e più presto di prima.

Alle 11 Cardozo, che si era seduto presso il barometro, constatò che non si trovavano che a millecinquecento metri. Le nubi erano vicinissime e si vedevano accavallarsi confusamente, lacerarsi e rinchiudersi sotto i violentissimi colpi di vento, abbassarsi ed alzarsi, e tingersi di luci vivide o rossastre.

[60]

Nel loro seno le folgori s’incrociavano in tutti i versi, producendo scariche formidabili, che assordavano i due marinai, ma che parevano non essere abbastanza forti pel flemmatico e taciturno agente, che continuava tranquillamente a dormire, come se si trovasse in una comoda stanza.

Alle 11,15 il pallone, che si era bruscamente innalzato, precipitò fra la massa dei vapori. Non vi era un momento da perdere, se non volevano correre il pericolo di venire fulminati.

Il mastro afferrò il barilotto contenente una ventina di litri di wisky e lo gettò al di fuori. L’aerostato s’elevò rapidamente fino a cinquemila metri, vi si mantenne per due ore, ma poi tornò lentamente a ricadere.

Alle due del mattino, il mastro, che guardava con inquietudine sotto di sè, non vide più le nubi. Solamente verso l’est scorse ancora dei rapidi bagliori che dovevano essere lampi.

Il vento si era un po’ calmato, ma si manteneva abbastanza fresco, spingendo continuamente l’aerostato verso la costa americana.

— L’uragano ha voltato strada, — diss’egli a Cardozo. — Bene: almeno non correremo il pericolo di ricevere qualche fulmine in pieno corpo.

— Ma la situazione non è però migliorata, mio buon Diego, — rispose il ragazzo. — Scendiamo sempre.

— Quanti metri?

— Milleduecento.

— Soli?

— Non uno di più. Siamo assai ammalati, marinajo, e se non mandiamo il nostro pallone in qualche ospitale, domani mattina ci farà bere nella gran tazza.

— Ma prima che ci tuffi in mare getteremo tutto, anche le armi, se la nostra salvezza lo esigerà. Intanto, finchè abbiamo tempo, pensiamo a mettere al sicuro il tesoro.

Si tolse dal seno una piccola chiave, aprì una cassettina d’acciajo che era avvolta fra le coperte, e levò due larghe cinture di seta che mostravano delle rigonfiature ineguali.

[61]

— Chi direbbe che qui dentro ci sono sette milioni in diamanti? — diss’egli. — Affè di Dio! Una bella somma! Prendi e nascondi questa cintura sotto le tue vesti.

— Sarà sicura, Diego, — rispose il ragazzo con voce leggermente commossa. — Bisognerà che mi uccidano per rapirmi il tesoro del nostro valoroso presidente. Ma... e il signor Calderon, non la reclamerà? Egli è un uomo ed io non sono che un ragazzo.

— Il capitano ha affidato il tesoro a noi due, e non al signor Calderon.

— Forse che diffida?...

— Chissà!... Quel viso non è fatto del resto per ispirare fiducia, e tanto meno i suoi modi strani. Se...

S’interruppe, e parve ascoltasse con profonda attenzione.

— Che hai? — chiese Cardozo.

— Odi! — esclamò il marinajo, prendendolo per una mano.

Fra i sibili del vento che s’ingolfava fra le pieghe dell’aerostato, Cardozo udì, non senza un brivido, dei lontani muggiti che si elevavano tra le fitte tenebre.

— L’oceano! — esclamò.

— Sì, è il nostro vecchio amico che ci chiama, — rispose il mastro, cercando di scherzare, ma diventando pallido. — Brutto amico in questo momento! Getta qualche cosa.

Cardozo prese la cucina portatile e la gettò nello spazio assieme alla provvista d’alcool.

Il pallone tornò alzarsi a tremila metri; ma fu cosa di pochi momenti perchè tornò a ricadere. Le provviste di carne e di pesce secco, le coperte, buona parte della provvista di biscotto, seguirono la stessa via un po’ più tardi.

Quel peso non indifferente fece salire l’aerostato a seimila metri, ma erano sforzi vani. Il gas non era più sufficiente a sostenere quei tre uomini, e le pieghe del tessuto si allungavano sempre più. Senza dubbio sfuggiva attraverso i pori e forse attraverso la valvola che non chiudeva più bene.

Alle tre del mattino, i muggiti dell’oceano si fecero ancora udire. Diego e Cardozo, che non pensavano a chiudere [62] occhio, credettero di scorgere attraverso le tenebre la schiuma delle onde.

— Il terribile momento si avvicina, — disse il mastro, tergendosi il freddo sudore che bagnavagli la fronte. — Fra qualche ora le onde ci daranno il primo bacio. Ah! se si scorgesse almeno la terra!

— Speriamo, marinajo, — disse Cardozo, che conservava un ammirabile sangue freddo, malgrado la sua giovane età. Siamo un po’ abituati a sfidare la morte e ne abbiamo vedute di quelle brutte nei nostri viaggi.

— Non dico di no.

— Che sorpresa pel signor Calderon, quando aprirà gli occhi!

— Bah! È uno di quegli uomini che di nulla si sorprendono. Dorme come se si trovasse in un comodo letto, al sicuro d’ogni pericolo.

— Che strano tipo!, marinajo.

— Da invidiarsi talvolta, Cardozo... Oh!...

— Che hai?

— Là... guarda laggiù... figliuol mio!... — esclamò il marinajo con voce tremante.

— Un lume!

— Sì, un lume!...

— Siamo salvi!...

Il marinajo non si era ingannato. Attraverso le tenebre, ad una grande distanza, verso occidente, brillava un punto rossastro che non doveva essere una stella, poichè pareva che fosse a fior d’acqua. Era un fuoco acceso su qualche terra, oppure il fanale di una nave? L’uno, o l’altro, pei disgraziati aeronauti era la salvezza.

— Presto, dei segnali! — esclamò Cardozo.

— Sì, sì, dei segnali! — rispose il mastro, che pareva scombussolato da quell’inattesa scoperta. — Dammi una carabina.

Cardozo raccolse l’arma che era stata ricaricata e gliela diede. Il marinajo fece fuoco nella direzione del punto luminoso.

[63]

Alla detonazione che si propagava a grande distanza limpidamente, l’agente del Governo si svegliò.

— Cosa succede? — chiese colla sua solita voce pacata.

— C’è una nave o una terra in vista, — rispose Cardozo.

— Ah!...

Si alzò lentamente, e si curvò sul bordo della navicella, guardando il punto luminoso che solcava l’orizzonte.

— Scendiamo? — chiese dopo qualche po’.

— Sì, signor Calderon, e abbiamo vuotato quasi tutta la navicella, — rispose Cardozo.

— Dammi l’altra carabina, — disse il mastro.

Afferrò la seconda arma e fece fuoco, poi scaricò le due pistole.

Passò un lungo minuto pieno di angoscie pei due marinai.

— Odi nulla? — chiese il mastro a Cardozo.

— Nulla.

— Eppure dovrebbero risponderci.

— Forse non ci hanno uditi.

— È impossibile.

— Diego!...

— Cardozo!...

— Il lume si allontana!...

— E il pallone scende, — disse con voce funebre l’agente del Governo.

— Miserabili!... — esclamò il mastro, tendendo le pugna verso il punto luminoso, che a poco a poco spariva verso il nord. — Ci abbandonano!

Ricaricò le armi e tornò a spararle, ma anche queste quattro detonazioni rimasero senza risposta. Pochi minuti dopo il fanale — poichè tale doveva essere — scompariva.

Diego gettò le armi nella navicella, e si asciugò il sudore che bagnavagli la fronte.

— È finita, — disse con voce cupa.

— Speriamo, marinajo, — rispose Cardozo.

— Ma il pallone scende e precipitiamo in mare, — disse l’agente del Governo, che sorrideva lugubremente, come se fosse contento di quello scioglimento.

[64]

Ad un tratto il mastro, che si era lasciato cadere in un angolo della navicella, scattò in piedi, mandando un urlo.

S’aggrappò alle corde, si spinse in fuori più che potè e stette in ascolto cogli occhi fissi verso occidente. Cosa aveva udito? Cosa cercavano quegli occhi?

— Cardozo! — esclamò con voce rotta.

— Cosa vedi? — chiese il ragazzo?

— Odi questo fragore?...

— Sì, sì, pare che l’onda si rompa, — rispose Cardozo, dopo aver ascoltato con profondo raccoglimento.

— È la risacca!

— La risacca!...

— C’è una terra dinanzi a noi!

In quell’istante un raggio di luna, apertosi il passo fra la massa di vapori che a poco a poco aveva invaso anche quella porzione di cielo, illuminò l’oceano.

Il mastro mandò un grido:

— Terra!... terra!... Siamo salvi!

[65]

VIII. I selvaggi delle «Pampas».

L’ultima ora non era ancora suonata per gli arditi aeronauti. L’oceano, che parea ansioso di inghiottirli, doveva rimanere deluso.

A cinque o sei miglia di distanza, una striscia nerastra, che smarrivasi verso il nord e verso il sud, era improvvisamente comparsa. Era una semplice isola o il continente americano? Ecco quello che almeno pel momento si ignorava; ma gli aeronauti non si davano pensiero di ciò; a loro bastava di trovare un punto solido su cui posare il piede, e niente di più; pel resto avrebbero provveduto dopo.

Il pallone scendeva sempre, ma vi erano ancora degli oggetti nella navicella, e che tutti insieme costituivano un peso non indifferente. Per di più il vento continuava a soffiare da oriente e lo spingeva verso quella terra benedetta.

— Cardozo, — disse il mastro, che sembrava ringiovanito di dieci anni, — non ci anneghiamo più. Fra un’ora porremo piede su quella costa.

— L’abbiamo scappata bella, marinajo, — rispose il bravo ragazzo. — Ormai io non davo una piastra della mia pelle.

— Ed io meno ancora, figliuol mio. Che il diavolo si porti tutti i palloni dell’universo!..... Carramba!..... in queste poche ore ho provato più emozioni che non in trentasei anni di navigazione sui cinque oceani del globo.

[66]

— Ma dove scenderemo noi?

— Chi può dirlo? Io suppongo che quella terra sia la costa americana, poichè dal mezzodì di jeri camminiamo costantemente verso occidente.

— Ti sembra che siamo scesi verso il sud?

— Sì, e di non poco.

— Allora è la costa della Patagonia.

— Te lo saprò dire quando il sole sarà spuntato.

— Conosci forse la costa patagone?

— Vi ho naufragato una volta, e ho vissuto sei mesi fra i giganti che l’abitano. Se un viaggiatore inglese non mi avesse strappato dalle mani di quei pagani, scommetterei che ci sarei ancora.

— E se invece fosse la costa argentina?

— Tanto meglio.

— E il tesoro?...

— Bah!... Chi potrebbe sospettare in noi dei marinai del Pilcomayo, incrociatore della repubblica paraguayana?... Potremo inventare una storia qualunque: per esempio, che veniamo dall’Europa.

— Hum!...

— Ti garantisco un successo enorme, Cardozo. Perbacco!... Che accoglienza si farà ad aeronauti che vengono d’oltre oceano!

— Si pubblicheranno le nostre peripezie sui giornali, e metteranno in vendita le nostre fotografie.

— Sì, burlone!

— Le onde, — disse in quell’istante l’agente del Governo.

— Ah! diavolo! — esclamò Diego. — Mi era scordato che il nostro ammalato perde continuamente le forze. Getta qualche cosa, Cardozo.

Il ragazzo prese la rimanente provvista di biscotto e la gettò ai pesci. Il pallone risalì per milletrecento metri, e incontrata una corrente d’aria più rapida filò verso la costa, che ormai si distingueva nettamente.

Cominciava ad albeggiare. Il mare perdeva la sua tinta cupa, gli astri rapidamente impallidivano, le tenebre si [67] dileguavano, e per l’aria si vedevano volare e si udivano squittire degli uccelli costieri annuncianti lo spuntare del sole.

Alle quattro il pallone sì trovava a sole poche centinaja di braccia dalla costa. Diego, Cardozo e l’agente del Governo spinsero i loro sguardi su quella terra, che pareva si prolungasse.

Poco dopo il pallone abbandonava definitivamente il mare, e filava sopra quella costa sconosciuta che si estendeva a perdita d’occhio verso il nord, il sud e l’ovest, abbassandosi lentamente in forma di conca, coperta qua e là da un’erba assai alta, d’un verde brillante, da grandi mazze di canne dal fusto esile terminante in un largo ciuffo setoloso in forma di scopa, e da grandi mazzi di carciofi selvaggi.

In lontananza apparivano, qua e là disseminati, degli alberi giganteschi in forma di ombrelli smisurati, ma non una abitazione, non un accampamento, non un essere vivente di qualunque specie. Pareva che quel paese fosse assolutamente disabitato.

Il mastro, che da qualche istante dava segni di una certa inquietudine, osservava minutamente quelle erbe e quegli alberi, come se cercasse nella sua memoria di rammentarsi il loro nome. Ad un tratto si volse bruscamente verso Cardozo.

— Io conosco questo paese, — disse. — Sono scorsi molti anni, ma mi ricordo di aver calpestato questo brillante tappeto che si estende dinanzi a noi e che ci accompagnerà per centinaja e centinaja di miglia.

— Dove siamo? — chiese il ragazzo.

— Vedi là quell’erba corta, robusta, lucente? Si chiama cortadera. Vedi quelle masse arruffate? Sono le paja. Conosco anche quelle ortiche, quei carciofi selvaggi, quegli jaccas, quei cactus, e anche quegli alberi che somigliano allo quercie: sono gli ombù della pampa.

— Siamo sulle coste della Patagonia, adunque? — chiese Cardozo.

— L’hai detto.

— Non mi dispiace, marinajo. Ma in qual punto ci troviamo noi?

[68]

— Non è cosa facile a saperlo. So che due fiumi di una non piccola lunghezza e molto larghi attraversano queste terre, il Colorado al nord e il Rio Negro al sud; ma dove sono essi? Se ne vedessi uno ti saprei dire dove noi ci troviamo.

— Incontreremo qualche essere vivente, che ci dirà qualche cosa.

— Guardiamoci bene dagli abitanti di questa regione, Cardozo. Chi più, chi meno, sono tutti feroci e odiano mortalmente gli stranieri, in ispecial modo gli Spagnuoli e i loro discendenti.

— Troveremo qualche bianco.

— Sì, se non siamo molto lontani dal territorio della Repubblica Argentina.

— To’! cosa si vede laggiù?

— Un accampamento?

— No, si direbbe un recinto sfondato.

— È un corral, figliuol mio.

— Cioè?

— Un recinto dove i gauchos radunano il bestiame, per metterlo al sicuro dagli assalti delle bestie feroci.

— Troveremo qualcuno?

— Te lo saprò dire più tardi. Il vento spinge il pallone a quella volta.

Infatti l’aerostato, che si manteneva ad un’altezza di duecentocinquanta metri, tendendo però sempre a cadere, filava in direzione del corral, che diventava di minuto in minuto più visibile. Il mastro, Cardozo e lo stesso agente del Governo si erano aggrappati ai cordami per veder meglio, issandosi sui bordi della navicella.

Ben presto il pallone, che procedeva con una velocità di nove o dieci chilometri all’ora, fu a breve distanza dal recinto, fatto di semplici pali. Non senza stupore gli aeronauti notarono che quel corral in più luoghi era stato sfondato come se avesse subìto un violento assalto, e scorsero nel suo interno parecchi cadaveri di cavalli e di buoi, sopra i quali volteggiavano parecchi falchi.

[69]

— Brutto segno, — disse il mastro, scuotendo il capo. — Qui deve essere successo qualche combattimento.

— Fra chi? — chiese Cardozo.

— Forse fra gli Indiani e i proprietari del corral. Ah!... un morto!...

— Dove?...

— Laggiù in mezzo a quel gruppo di cactus.

Cardozo guardò nella direzione indicata e scorse in mezzo alle piante un cadavere completamente denudato e in parte scarnato dagli uccelli di rapina. Giaceva su di un fianco e la sua testa pareva che fosse stata schiacciata da una poderosa clava, non presentando che una informe massa di sangue, di brani di cervello e di capelli.

— È un bianco, — disse Cardozo.

— Forse un gaucho, — rispose il mastro, che erasi fatto pensieroso.

— Assassinato da chi?

— Dagli Indiani, e sono certo di non ingannarmi.

— Come lo sai?

— La sua testa è stata spaccata da una bola perdida, e quest’arma non la possiede che l’Indiano.

— Com’è questa bola perdida? Ne ho udito parlare vagamente altre volte e con un certo terrore.

— È un pezzo di pietra terminante il più delle volte in una punta, avvolta in un lembo di pelle e che l’Indiano lancia a guisa di fionda, servendosi di una corda di tendini di struzzo e di guanaco intrecciati, lunga un metro. Talvolta invece di essere di pietra è di metallo bianco, che viene tenuto sempre molto lucido per poterlo trovare più facilmente fra le erbe. Sia di pietra o di metallo, è sempre un’arma terribile nelle mani dei guerrieri rossi, i quali con essa, a cinquanta o sessanta metri di distanza, fanno scoppiare la testa del nemico come una semplice zucca.

— L’adoperano anche per la caccia?

— No: per la caccia degli struzzi hanno il chumè, che è formato di due palle più piccole, e per quella del guanaco il yachicho, che ne ha tre. Per prendere invece i cavalli [70] selvaggi hanno il lazo, che adoperano con un’abilità prodigiosa.

— Un rancho, — disse in quel momento l’agente del Governo, che era in osservazione, seduto sull’orlo della navicella.

Cardozo e il mastro spinsero i loro sguardi sulla pampa e scorsero, a circa un chilometro di distanza, una specie di capanna, ma che pareva mezzo distrutta. Guardando più attentamente, videro un gran numero di uccelli svolazzare intorno a quella misera costruzione, alzandosi e abbassandosi.

— Vi sono laggiù degli altri cadaveri, — disse Diego, scuotendo il capo. — La finirà male.

Non s’ingannava. Il rancho, come il corral poco prima incontrato, portava le traccie di un assalto. Le pareti di mattoni seccati al sole erano in parte rovesciate, il tetto era sfondato, la porta non esisteva più, e a breve distanza, quasi nascoste tra la folta erba, si vedevano delle masse rossastre che parevano cadaveri di buoi e di cavalli.

Tutto all’intorno l’erba era calpestata come se fosse passata per di là una numerosa truppa di cavalieri, e il mastro, che osservava con profonda attenzione, scorse a terra una lunga lancia dalla punta di ferro assai acuminata e adorna di penne di rhea.

— È una lancia indiana, — diss’egli — una vera waichè. Amici miei, stiamo in guardia e procuriamo di mantenerci alti, poichè temo che gl’indiani non siano lontani.

— Non abbiamo quasi più nulla da gettare, — rispose Cardozo, girando un malinconico sguardo nella navicella. — Vuoi forse gettare le armi?

— No, poichè ora ci sono necessarie per tenere lontani i ladroni della pampa.

— Ma che si tratti di una vera insurrezione d’Indiani o di una semplice scorreria?

— Non te lo posso dire, figliuol mio; ma temo che si tratti di una insurrezione. Senza dubbio gli Indiani hanno avuto sentore della guerra che si combatte al di là del Rio [71] della Plata, e ne approfittano per violare le frontiere della Repubblica Argentina e mettere tutto a ferro e a fuoco.

— Io vorrei che giungessero fino a Buenos-Aires.

L’agente del Governo, a quella sortita del ragazzo, si mise a sorridere, ma d’un certo riso che pareva un sogghigno.

— Vi spiacerebbe, signore? — chiese Cardozo, sorpreso di non trovarlo d’accordo, trattandosi di nemici della sua patria.

Il signor Calderon non rispose e volse il capo altrove.

Cardozo e il mastro si scambiarono uno sguardo di meraviglia.

— Si direbbe che non odia abbastanza gli Argentini, che tanto male cagionarono a noi, — mormorò il mastro. — Chi mai comprenderà quest’uomo? Ehi! Cardozo, scendiamo; getta qualche cosa.

— Non abbiamo che l’àncora, pochi biscotti, e pochi litri d’acqua.

— Getta l’àncora: sarà un’imprudenza che forse rimpiangeremo; ma bisogna assolutamente innalzarci.

Cardozo ubbidì. Il pallone, che si trovava allora a soli sessanta metri dalla prateria, si alzò bruscamente di seicento e filò verso il sud, avendo incontrato a quell’altezza una nuova corrente d’aria.

Ma anche in quella nuova direzione si scorgevano dovunque le tracce della guerra che doveva infierire nella sterminata distesa d’erba. Ora si vedevano dei ranchos distrutti dal fuoco, ora dei corrals sfondati o colle palizzate rovesciate e schiantate; ora delle tambos, piccole capanne, ove si raccolgono le mucche per mungerle, scoperchiate e coi muri crollati; poi dei chacras, — orticelli lavorati, — devastati, colle siepi di agave rovesciate, e infine qua e là dei cadaveri di buoi e di cavalli semi-divorati e sui quali volteggiavano in gran numero, disputandosi le carni corrotte, i chimangos, i gallinajas e i carrauchos, specie di avoltoi che si cibano di carogne. Talora, traverso alla splendida distesa di verbene melindres dai fiori scarlatti, alle macchie [72] delle purpuree flor morada, delle gialle romerille e delle azzurre nemofila, che si estendevano per grandi tratti fra le erbe, si scorgevano come delle larghe striscie oscure dove i fiori apparivano come strappati dal passaggio di una impetuosa tromba, ma che invece additavano il passaggio dei saccheggiatori e dei loro indomiti destrieri.

A mezzodì, quando il pallone cominciava a scendere, il mastro, che guardava con profonda attenzione dinanzi a sè, scorse delle forme non ancora ben distinte, che correvano disordinatamente attraverso la prateria, semi-tuffate fra le alte erbe.

Carrai! — esclamò, aggrottando la fronte. — Sono cavalli selvaggi che galoppano, o sono gl’Indiani? Cardozo, ragazzo mio, stiamo per passare un brutto quarto d’ora.

— Sono Indiani? — chiese il ragazzo, senza dimostrare alcuna apprensione.

— Lo temo, — rispose il mastro, che continuava a guardare con viva attenzione.

— Che accoglienza ci faranno? Scommetterei che scambiano il nostro pallone per la luna.

— Ho i miei dubbi, figliuol mio. Lo vedrai, ci daranno la caccia e ci tempesteranno di palle di fucile e di bolas.

— Bah! io me ne infischio dei loro terribili bolas. Siamo ancora alti, marinajo.

— Ma ci abbassiamo rapidamente.

— Disgraziatamente ciò è vero; ma abbiamo ancora qualche cosa da gettare.

— E cosa mai? La navicella è affatto vuota.

— Te lo dirò quando sarà il momento d’alleggerirsi. Corpo di un treponti sventrato! Sono uomini quelli là!

— Indiani, Cardozo! Sono pronte le armi?

— Sono cariche, Diego, e con buoni confetti.

— Signor Calderon, prendete le pistole, — disse il mastro. — Noi faremo parlare le carabine.

L’agente del Governo, che non aveva perduto una linea della sua calma abituale, prese le armi, si assicurò che erano cariche e se le passò alla cintola, senza aggiungere sillaba.

[73]

Il pallone, che un vento discreto spingeva verso il sud, mantenendosi ad un’altezza di cento o centoventi metri, in breve tempo fu a poca distanza dagli Indiani, che galoppavano disordinatamente attraverso alla prateria, volgendo le spalle agli aeronauti.

Erano cinquanta o sessanta, montati su quei rapidi cavalli di prateria che chiamansi mustangs, animali alti, robusti, dai garretti solidi, capaci di percorrere trenta leghe al giorno, accontentandosi di poca erba e di un sorso di acqua. Al mastro bastò una sola occhiata per riconoscere quegli uomini: — I Pampas! — esclamò, — Dio ci protegga!....

Nell’istesso istante urla di furore si alzarono fra i cavalieri, i quali tosto si arrestarono cogli occhi fissi sull’aerostato, che filava sopra le loro teste. Parvero stupiti; ma il loro stupore fu di breve durata, poichè si slanciarono innanzi, spronando vigorosamente le loro cavalcature e agitando freneticamente le loro armi.

La caccia ai disgraziati aeronauti incominciava!

[74]

IX. L’inseguimento.

In quella immensa pianura erbosa che si estende dalle frontiere della Repubblica Argentina ai confini della regione patagone, limitata all’est dall’oceano Atlantico e all’ovest dalla grande catena delle Ande, si agita costantemente una popolazione irrequietissima, di razza pura indiana, che non ha nulla di comune coi Patagoni e cogli Araucani.

Se queste due ultime razze si limitano l’una a cacciare tutto il tempo dell’anno, onde provvedere al proprio sostentamento, e all’allevamento dei cavalli, e la seconda a custodire gelosamente le proprie montagne e a difendere la propria indipendenza, costantemente minacciata dai Chileni, quella delle grandi pianure Argentine dedica tutto il suo tempo e tutte le sue forze al saccheggio.

I Pampas o Penks, — tale è il nome che portano questi arditi briganti delle praterie, — possiedono l’audacia degli Araucani e l’astuzia dei Patagoni. Non sono molti, ma danno molto da fare agl’Ispano-americani; e lo sa il Governo Argentino, che di tratto in tratto vede violate le proprie frontiere da quegl’intrepidi cavalieri. Mai stabili, mai quieti, scorrazzano le pampas in tutti i versi, accampando un giorno qui, un altro colà, a capriccio, sotto semplici tende di pelle. Come i loro fratelli del Gran Chaco, nemici irreconciliabili [75] dei Brasiliani, e i loro fratelli del Nord, nemici giurati dei visi pallidi, odiano profondamente gli Argentini, che riguardano come usurpatori del loro territorio, e non lasciano sfuggire occasione alcuna per infliggere ai loro potenti vicini dei sanguinosi rovesci.

Quando si crede ch’essi siano lontani e la calma e la speranza cominciano a rientrare nello spirito degli arditi coloni che s’inoltrano nelle pampas, ecco tutto d’un tratto irrompere i rossi guerrieri. È una meteora spaventevole che passa, che in pochi giorni tramuta le pampas in un deserto.

Piombano come avoltoi sulle numerose mandrie, uccidono spietatamente i gauchos e quelle portano via; investono i villaggi, approfittando per lo più delle tenebre; massacrano i difensori, rapiscono le donne e i fanciulli, saccheggiano le abitazioni, poi le distruggono col fuoco; persino i forti, posti a difesa della frontiera, — forti che del resto non sono in grado di resistere ad una compagnia di soldati europei, — non fanno indietreggiare quegli audaci ladroni e soccombono come i villaggi.

Quando l’allarme è dato, quando la sorpresa diventa difficile e le truppe del Governo accorrono, allora fuggono nel deserto, in luoghi pressochè inaccessibili ai soldati della Repubblica, traendo con loro i frutti del saccheggio e gran numero di prigionieri, che più tardi verranno sottoposti alla più degradevole schiavitù. E quanti sono quei disgraziati! Basti dire che quando il generale Rocha liberò il territorio di Buenos-Aires da quei predoni, riprese loro perfino cinquecento prigionieri che erano stati rapiti nei villaggi delle pampas.

Senza dubbio informati della guerra che la Repubblica combatteva al di là del Rio della Plata, i Pampas avevano abbandonato i loro deserti, sicuri dell’impunità, e si erano gittati verso le frontiere, tutto distruggendo sul loro passaggio, come lo dimostravano i ranchos, i corrals, i chacras rovinati o incendiati e i numerosi cadaveri incontrati dagli aeronauti nella loro corsa attraverso l’immensa pianura.

Una delle loro colonne, che operava verso la costa, aveva [76] scorto il pallone, e dopo il primo sentimento di sorpresa che doveva produrre su quegli animi primitivi la vista di quella grande palla montata da uomini e che correva attraverso lo spazio, si era messa coraggiosamente ad inseguirla, certamente colla speranza di non aver nulla da perdere.

Fortunatamente l’aerostato, quantunque sfinito, semi-vuoto, si manteneva ancora in aria e fuori di portata dai terribili bolas degli inseguitori.

— Che ne dici, Cardozo? — chiese il mastro, che osservava con inquietudine l’avanzarsi dei cavalieri.

— Io dico che, se non troviamo modo di mantenerci alti, riceveremo una pioggia di projettili, — rispose il ragazzo. — Mi sembrano risoluti d’inseguirci per un bel pezzo, quei pagani dai musi dipinti.

— E non ti spaventano?

— Per ora no; vedremo più tardi, quando il pallone si sdrajerà sull’erba.

— Se ci pigliano, ci faranno schiavi.

— Ma fuggiremo.

— Ti sfido a farlo. Quei dannati possedono certi mezzi da guastare i piedi dei prigionieri in siffatto modo.... Aoh!.... carrai!....

— Si cade.

— Lo vedo.

— To’! un altro salto! Fra poco urteremo e ci fiaccheremo il collo.

Pur troppo era vero. L’aerostato, che si manteneva a cinquecento metri dai cavalieri, esausto di forze, erasi repentinamente abbassato fino a venti metri dal suolo.

Gl’Indiani, che non lo perdevano di vista e che forse indovinavano in quali tristi condizioni si trovavano gli aeronauti, spronarono le loro cavalcature e in brevi istanti giunsero a soli duecento passi.

Per alcuni istanti gli aeronauti poterono contemplarli a loro agio. Erano di media statura, ma solidi, dalla muscolatura potente, dalla pelle indefinibile, essendo quasi interamente coperta da strati di colori che si incrociavano sui [77] loro visi in tutti i sensi, a linee e a punti, a disegni gli uni più strani degli altri.

I loro costumi pittoreschi si adattavano bene a quei fieri tipi di banditi. Anelli d’argento e collane di egual metallo ornavano i loro orecchi e il collo, producendo un tintinnìo grazioso; splendidi ponchos dai vivaci colori, somiglianti a pianete, coprivano i loro corpi, lasciando però vedere le larghe cinture adorne di perle e di pendoli d’argento, detti quiripiquê, nelle cui pieghe brillavano lunghi coltelli; e portavano i lunghi stivali di pelle di guanaco o di cavallo giovane, armati di speroni colossali.

Giunti a portata, i guerrieri ripresero le loro vociferazioni, agitando le lunghe lance adorne di piume e facendo ondeggiare le loro bolas, colle quali si servono per ispaccare la testa ai nemici.

Ad un tratto un cavaliere, che sembrava un capo, a giudicarlo dalla ricchezza delle vesti, di statura più elevata degli altri, dal viso orribilmente imbrattato di colori, si slanciò a tutta carriera verso il pallone, e, giuntovi quasi sotto, pronunciò alcune parole.

— Cosa desidera quel pagano? — chiese Cardozo, che per ogni precauzione aveva armato una carabina, pronto a servirsene.

— Ci invita semplicemente a discendere, — disse il mastro.

— È un po’ esigente quel signore dal muso dipinto.

— Minaccia di farci passare per le armi, se ci rifiutiamo.

— Gli dirai che, non potendo per ora farlo, lo si prega di salire da noi, se è capace. Che ne dite, signor Calderon?

— Non trovo risposta migliore, — rispose l’agente.

— Ma non pensate, signore, che fra poco noi toccheremo terra? — chiese il mastro. — Si potrebbe cercare d’intenderci con queste canaglie, quantunque non ci sia da sperar molto, nè da fidarsi.

— Provatevi, — rispose l’agente.

Il mastro tentò di parlamentare; ma dopo poche parole comprese che non c’era da sperare da quei banditi. Il capo [78] non intendeva di accettare alcuna condizione; voleva una resa completa, minacciando, in caso contrario, di cominciare le ostilità.

— Manda al diavolo quel birbante, — disse Cardozo. — Se vuoi, m’incarico io di piantargli un buon confetto sul muso.....

— E dopo ci faranno a pezzi, figliuol mio. Ah, se soffiasse, un buon vento e ci fosse modo di alleggerirci!

— Buttiamo addosso a quelle canaglie la navicella, — disse il ragazzo. — E perchè no? La rete è solida: ci arrampicheremo su di essa, o ci metteremo a cavalcioni del cerchio di legno, e saliremo tant’alto, da perdere di vista anche la prateria.

— Ben detto, ragazzo! — esclamò il mastro. — Orsù, non si perda un solo minuto.

— Signor Calderon, soffrite le vertigini? — chiese Cardozo.

— No, — rispose l’agente.

— All’opera dunque!

In quell’istante il pallone fece una nuova caduta, toccando col fondo della navicella le alte erbe della prateria; ma subito si rialzò di una trentina di metri.

Gl’Indiani, che si erano fermati in attesa del ritorno del capo, si precipitarono innanzi, empiendo l’aria di urla tutt’altro che pacifiche, alzando le lance e levando dalla cintura le loro navaje dalla lama larga e leggermente ricurva.

Il capo, che si trovava più vicino all’aerostato e che temeva senza dubbio che la preda gli sfuggisse, afferrò la bola perdida e la fece fischiare attorno al proprio capo, facendole descrivere dei circoli vertiginosi.

— Attenti, amici! — esclamò Diego, che non perdeva d’occhio gl’indiani. — Occhio alle bolas!

— Il primo che ne lancia una è uomo morto! — rispose risolutamente Cardozo, alzando la carabina e puntandola verso i cavalieri.

— Ben detto, figliuol mio; ma non perdiamo un solo istante se ci preme la pelle. Voi, signor Calderon, prendete le pistole e questo pacco di munizioni, e salite sul cerchio. Badate di non cadere, perchè non potremmo più raccogliervi.

[79]

— Non temete, — rispose l’agente.

— E tu, Cardozo, — continuò il mastro, aprendo il suo coltello di manovra, — prendi le carabine e queste munizioni e raggiungi il signor Calderon, mentre io mi occupo a tagliare le corde. Se gli Indiani si avvicinano troppo, manda a loro un paio di buone pillole.

— Li guarirò per sempre, marinajo: te lo assicuro io, — rispose il ragazzo.

S’aggrappò alle corde e raggiunse il cerchio di legno, sul quale s’era già installato l’agente del Governo.

Gl’Indiani, immaginandosi senza dubbio che si stava per giuocarli, raddoppiarono le loro urla e spronarono furiosamente i loro cavalli.

D’improvviso qualche cosa di lucente attraversò l’aria fischiando, e passò per le funi della navicella, cadendo dall’altra parte della sottostante prateria.

— Una bola! — esclamò Cardozo.

— E di ferro, — rispose il mastro, che, tenendosi con una mano aggrappato al cerchio, coll’altra, armata del coltello, recideva rapidamente le corde.

Un’altra palla, lanciata dal capo, che precedeva i guerrieri, frantumò con impeto irresistibile l’estremità della navicella, a pochi pollici dal mastro.

Carrai! — esclamò questi. — Un po’ più innanzi e la mia testa scoppiava come una zucca.

— Ma scoppierà la zucca del capo! — esclamò una voce accanto a lui. — Sta attento, marinajo! — Cardozo, poichè era lui che così aveva parlato, appoggiatosi alle corde e stringendo fra le gambe il cerchio, mirava freddamente l’Indiano.

S’udì una detonazione, seguìta da un urlo di dolore. Il capo indiano, colpito in mezzo alla fronte dalla palla del bravo ragazzo, cadde sconciamente d’arcione, stramazzando a terra.

Gl’Indiani mandarono urla di furore e si slanciarono innanzi, spronando a sangue le loro cavalcature. Sei o sette bolas fischiarono attorno agli aeronauti, perdendosi in diverse [80] direzioni. Cardozo e l’agente del Governo scaricarono la seconda carabina e le due pistole in mezzo al gruppo. Un cavallo cadde e un altro cavaliere stramazzò in mezzo alle erbe.

Gl’Indiani, resi più circospetti da quei colpi maestri, contro i quali non potevano opporre che le bolas, rallentarono la marcia, continuando però le loro spaventevoli vociferazioni.

Quel momento di tregua bastò al mastro, che tagliava con una specie di furore le numerose corde sostenenti la navicella.

— Attenzione! — esclamò. — Tenetevi saldi.

— Ci siamo, rispose Cardozo.

Il mastro passò sul cerchio e con due colpi di coltello recise le due ultime corde. La navicella precipitò pesantemente a terra, sprofondando fra le alte erbe.

Il pallone, bruscamente alleggerito di quel peso, che toccava i cento chilogrammi, si alzò con grande rapidità. In brevi istanti i cavalieri, che si erano precipitati verso il luogo ov’era caduta la navicella, diventarono appena appena visibili, e le loro grida divennero così fioche, che a gran pena si udivano.

— Tremila... quattromila... cinquemila metri! — esclamò il mastro, che aveva portato con sè un barometro. — I Pampas non ci prendono più. Ah! ragazzo mio, hai avuto una grande idea, e ti ringrazio di cuore.

— Si trattava di salvare la pelle, marinajo, — e ci tenevo molto a conservarla. Che brutto viso avranno fatto gli Indiani vedendoci salire così rapidamente, quando già credevano di tenerci in loro mano!

— Se giungono a riprenderci, ti assicuro che ci faranno scontare la gherminella, come pure ci faranno pagare a prezzo di sangue la morte del loro capo. Ragazzo mio, che colpo d’occhio hai tu! Mi hai spacciato quel povero selvaggio come se fosse un uccellino, e glie l’hai piantata proprio in fronte la palla. Che bersagliere!

— Si fa come si può, — rispose modestamente il ragazzo.

— E spero che di questi colpi ne farai ancora, se la nostra cattiva stella ci riconduce fra quelle ardite canaglie.

[81]

— Credi che incontreremo degli altri Indiani?

— Se si sono tutti sollevati, è cosa certa.

— E continueranno l’inseguimento quelli che galoppano laggiù?

— Senza dubbio; ma fra breve ci perderanno di vista. Il pallone ha incontrato una rapida corrente d’aria, e filiamo verso il sud in ragione di sessanta miglia all’ora.

— Ci allontaniamo dai paesi civili, marinajo.

— Ma forse è meglio, visto che le frontiere della Repubblica Argentina sono infestate dagli Indiani.

— E cadremo fra le mani dei Patagoni, — disse l’agente del Governo con istizza.

— Preferireste cadere nelle mani degli Argentini, signor Calderon? — chiese il mastro.

— Forse.

— E io no.

L’agente del Governo alzò le spalle e guardò altrove, non senza però fare un gesto di dispetto, che non isfuggì ai due marinai.

— Ha delle bizzarre idee talvolta, — disse Diego a Cardozo. — Eppure deve premere anche a lui che il tesoro non cada nelle mani dei nostri nemici.

— Se così non gli accomoda dica al pallone di tornare verso il nord, — disse Cardozo. — E i nostri Indiani dove sono?

— Scomparsi, figliuol mio. Non si vedono più.

— Buon segno. Guarda, marinajo: non vedi qualche cosa brillare laggiù, dinanzi a noi?

— Sì, perbacco! Lo si direbbe un nastro d’argento gettato attraverso la pianura.

— È un fiume.

— È vero, Cardozo.

— E ingrandisce rapidamente. Che fiume sarà mai?

— O il Colorado, o il Rio Negro. È più probabile però che sia il primo.

Il vento spingeva rapidamente il pallone verso quel fiume, che ormai si scorgeva nettamente, nonostante la grande [82] altezza a cui si trovavano ancora gli aeronauti. Era vasto assai e correva con grandi serpeggiamenti dall’ovest all’est, fra due rive piuttosto elevate.

Ben presto l’aerostato ci fu proprio sopra. Diego e Cardozo gettarono uno sguardo sulle due rive; ma non scorsero nè un’abitazione, nè alcuna creatura vivente.

Lo avevano appena varcato, che Diego lanciava una sorda imprecazione.

— Cos’hai? — chiese Cardozo.

— Scendiamo.

— Ancora?

— Sì, e questa volta per non più rialzarci.

[83]

X. La scomparsa dell’agente del Governo.

Erano le quattro pomeridiane.

L’aerostato, dopo aver percorso circa un centinajo di miglia nello spazio di quattro ore, tornava a ridiscendere, e questa volta, come aveva giustamente detto il mastro, per non più rialzarsi, perchè più nulla vi era da gettare dacchè la navicella era stata precipitata nella prateria.

Mezzo vuoto, tutto pieghe, non si trascinava innanzi che a furia di sforzi, più spinto dal vento che sorretto dal gas, ormai ridotto a una quantità molto piccola. Discendeva però gradatamente, metro a metro, tentando talvolta di rialzarsi, ma per poi ricadere più bruscamente.

Fra un quarto d’ora, forse mezz’ora, tutto doveva essere finito.

— Orsù, non disperiamoci, — disse Cardozo. — Ha durato anche troppo questo povero pallone, e ciò doveva accadere; nessuno di noi lo ignorava.

— Ah! — esclamò il mastro. — Se si trovasse qualche cosa da rinforzarlo.

— Non vedo nessun gasometro per quanto giri gli sguardi. Prepariamo le gambe, marinajo, e carichiamo i fucili, onde non cadere inermi in qualche imboscata. Vedi nulla?

— La prateria mi sembra deserta, per buona fortuna.

— V’ingannate, — disse l’agente del Governo.

— Cosa vedete? Degli Indiani forse?

[84]

— Mi pare sia un rancho.

— Che nasconda Indiani? — chiese Cardozo.

— Non lo credo, — rispose Diego, che guardava attentamente la capanna, la quale rizzavasi in mezzo a una fitta piantagione di cardi, a circa sei chilometri verso il sud. — I Pampas e i Patagoni non hanno che tende.

— E chi può abitarlo?

— Chissà! forse dei pastori argentini, quantunque mi sembri un po’ strano che si possano incontrare a tanta distanza dalla frontiera argentina. Vedo anche un corral e in buone condizioni, se l’occhio non isbaglia.

— E anche due cavalli, — aggiunse l’agente del Governo.

— Cosa facciamo? — chiese Cardozo.

— Preparare le armi e attendere, — rispose il mastro. — Il vento ci porta proprio sopra il rancho, e andremo a cadere nelle sue vicinanze. Guarda: vedo del fumo uscire dalla capanna.

— Che stiano preparando la cena? Ti assicuro, marinajo, che ci farei molto onore. Oh! oh! saldo, mio caro pallone! Che diamine! non c’è tanta fretta di scendere.

— Precipitiamo! — esclamò il mastro. — Tenetevi saldi alle funi.

L’aerostato infatti scendeva con rapidità, come se il gas sfuggisse da qualche grande apertura. Scese di trecento metri, si arrestò un momento, poi ricadde di altri trecento in pochi istanti e si mise a ondeggiare, descrivendo coll’estremità inferiore dei cerchi concentrici.

— Oh diavolo! — esclamò Cardozo. — Si direbbe che il pallone ha preso una sbornia solenne.

— Rolla come una nave presa dal tifone, — disse il mastro. — Brutto segno, ragazzo mio.

— Cosa temi?

— Che ne so io? Ho paura però che non la finisca troppo bene.

— Che stia per rovesciarsi?

— Speriamo di no. Aho!... tenetevi saldi!

Il pallone aveva ripreso la discesa con grande rapidità e [85] questa volta pareva non dovesse più arrestarsi. Il mastro, Cardozo e perfino l’impassibile signor Calderon, cominciavano a diventare inquieti.

— Ci accopperemo, — disse il ragazzo, che non si sentiva più in vena di scherzare.

— O meglio, ci schiacceremo contro terra, — aggiunse l’agente del Governo. — Non v’è nulla da gettare?

— Cinque biscotti, le nostre armi e le munizioni, — rispose il mastro.

— Non saranno sufficienti ad arrestare la caduta.

— E poi dalle armi non mi separerei a nessun patto, signore. To’! un’idea!

— Buttala fuori, marinajo, — disse Cardozo. — Sbrigati, chè la prateria si avvicina con rapidità spaventevole.

— Arrampichiamoci fino alla rete. Quando toccheremo terra, si schiaccerà prima il pallone, poi ci lascieremo cadere in mezzo all’erba, che è alta assai e molto fitta.

— Purchè l’aerostato non si squilibri e non si rovesci.

— Non temere, ragazzo. Ci disporremo in modo da mantenerlo in equilibrio.

— Alla rete allora, e Dio ci protegga!

Abbandonarono precipitosamente il cerchio, si aggrapparono alle funi e si arrampicarono fino alla rete, che copriva una buona metà dell’aerostato.

— Ci siete? — chiese il mastro, che non poteva più scorgere i compagni, che stavano dall’altra parte.

— Sì, — risposero ad una voce l’agente del Governo ed il ragazzo.

— Tenetevi pronti a lasciarvi andare al mio comando, o il pallone trascinerà in aria qualcuno di noi.

— Saremo pronti, — rispose Cardozo.

Il pallone scendeva sempre senza rallentare, come se avesse fretta di riposarsi su quella verdeggiante prateria. Pareva che una grande colonna di aria lo cacciasse verso terra e che un’altra sotto di lui lo aspirasse. La distanza spariva con fantastica rapidità. Non era più che a cento metri e precipitava con l’eguale velocità.

[86]

— Marinajo, — esclamò Cardozo, che guardava con un certo terrore la prateria, che pareva gli volasse incontro.

— Presente, — rispose il mastro.

— Mi sembra che la mia testa giri.

— Sta saldo, figliuol mio! Non accadrà nulla... la prateria è soffice!... Attenzione!...

I cento metri sparvero in un lampo. L’aerostato s’immerse fra le grandi erbe, che raggiungevano l’altezza di due metri. L’estremità inferiore si schiacciò, allargandosi sui fianchi, quasi da scoppiare. Rimase un istante immobile: quel momento bastò.

— A terra! — tuonò il mastro.

Due corpi rotolarono fra le erbe, ma uno rimase fra le maglie della rete.

Il pallone, scaricato di quel peso, fece un salto in aria, portando con sè l’uomo che non erasi lasciato cadere a tempo e che si dibatteva disperatamente, come se cercasse sbarazzarsi da qualche legame.

Un grido echeggiò nell’aria:

— Ajuto!... ajuto!...

I due corpi che erano stramazzati fra le erbe si risollevarono prontamente: erano il mastro e il giovane Cardozo.

— Signor Calderon! — esclamarono.

Ma il signor Calderon omai più non li udiva. Il pallone non era più che un punto oscuro, che spariva rapidamente verso il sud.

— Gran Dio!... — esclamò il mastro.

— È perduto! — esclamò Cardozo.

— No perduto, poichè lo ritroveremo, mio figliuolo.

— In cammino, Diego!...

— La!... là... non facciamo sciocchezze, ragazzo mio. Inseguire il pallone sarebbe una pazzia, e poi siamo tanto scombussolati che ci dovremmo arrestare a qualche miglio di qui.

— Ma perchè non è disceso al tuo comando?

— Perchè si era imbrogliato fra la rete. Mi pare che avesse le gambe dentro le maglie.

— E dove andrà a finire ora?

[87]

— Chi può dirlo? Fortunatamente non ignora che il pallone ha una valvola, e sono certo che a quest’ora il gas sfugge.

— Ma cadrà molto lontano da qui.

— Ma lo ritroveremo, ragazzo mio: te lo giuro. Non possiamo abbandonare in questo luogo un nostro compagno che ha diviso con noi tanti pericoli.

— Purchè non cada fra gl’Indiani.

— Ha delle armi, le sue pistole, e saprà difendersi. È un uomo di poche parole, ma ci ha mostrato di essere assai coraggioso.

— Povero signor Calderon! lo rimpiango di cuore, benchè non fosse troppo simpatico.

— Ti dico che lo ritroveremo, Cardozo, si dovesse camminare fino allo stretto di Magellano.

— E intanto cosa facciamo?

— La notte cala rapidamente e la fame batte alle nostre porte; cerchiamo il rancho e chiediamo ospitalità. Puoi camminare?

— Mi sembra che nulla vi sia di rotto nelle mie gambe.

— Tanto meglio. Ti ricordi dove si trovava il rancho? Fra queste erbe giganti non vedo più in là della punta del mio naso.

— Mi pare che si trovasse alla nostra destra quando cademmo, ma non potrei assicurartelo. In quel momento la testa mi girava, come se avessi bevuto un boccale di rhum.

— Sali sulle mie spalle e dà uno sguardo al di là di questo mare di vegetali.

Cardozo s’arrampicò coll’agilità di una scimmia sulle spalle del mastro e si alzò in piedi, mantenendosi in equilibrio.

— Eccolo laggiù, — disse.

— Molto lontano?

— Appena a cinquecento passi... Ma...

— Cosa vedi?

— Mi pare che qualcuno si avvicini, poichè vedo le erbe a muoversi dinanzi a noi.

— Uomo, o bestia?

[88]

— È impossibile saperlo, poichè è nascosto fra le erbe e per di più comincia a farsi oscuro.

— Scendi e prendiamo le armi. In questo brutto paese non si sa mai chi si può incontrare.

— Vi sono dei carnivori?

— Dei coguari e dei giaguari molto feroci.

Cardozo saltò giù e raccolse la carabina, mentre Diego armava la sua.

A breve distanza si udiva un fruscìo, a cui talvolta si univa un certo tintinnìo che pareva prodotto dall’urto di varie monete o dall’agitarsi di un pajo di sproni.

— È un uomo, — disse il mastro.

— E chi sarà mai?

— Qualche abitante del rancho. Senza dubbio ha assistito al nostro capitombolo e viene a cercarci.

— Zitto!... eccolo!...

Le alte erbe si erano aperte a pochi passi da loro, ed un uomo bizzarramente vestito e formidabilmente armato era comparso, guardando con viva sorpresa i due marinai. Era alto di statura, magro assai, dalla pelle abbronzata, i capelli lunghi, neri e cadenti sulle spalle, gli occhi incavati, ma assai brillanti.

Portava indosso una camicia di lana a vivaci colori, stretta ai fianchi da un largo pezzo di stoffa colorata a striscie, da un chiripà e da una larga cintura di cuojo, adorna di scudi d’argento, detta tirador. Le sue gambe, assai arcuate, sparivano dentro larghe calzoncillas di cotone, adorne di merletti macchiati e strappati, e dentro uno strano pajo di stivali lunghi, che sembravano fatti di pelle di cavallo non conciata e che all’estremità lasciavano a nudo il dito pollice. Un paio di speroni smisurati, la cui rotella aveva un diametro di almeno dieci centimetri, un ampio cappello di feltro, un lungo coltello di quelli che gli Spagnuoli chiamano navaja, passato nel tirador, e un trombone a pietra dalla bocca assai larga, completavano l’abbigliamento di quello sconosciuto.

Per alcuni istanti guardò co’ suoi occhietti vivi e nerissimi [89] i due marinai, che non si erano più mossi, poi abbassò il trombone, che aveva diretto verso di loro, e, levandosi il cappello, disse colla più squisita cortesia:

Buena noche, caballeros[5].

— Buona notte, signore, — risposero Diego e Cardozo.

— Se i signori vogliono seguirmi, sarò ben felice di offrire a loro la mia capanna e la mia tavola, — continuò lo sconosciuto.

— Non domandiamo di meglio, — rispose il mastro.

— Favoriscano seguirmi adunque. Il rancho non è che a due passi di qua.

Si gettò a bandoliera il trombone e, snudata la sua formidabile navaja, si mise a tagliare le alte erbe a destra e a sinistra per far largo ai due marinai, che gli si erano messi dietro.

— Diego, — mormorò Cardozo, che era al colmo della sorpresa, — ma dove siamo caduti noi?

— In mezzo alle pampas, ragazzo mio.

— Lo vedo bene: ma non avrei mai creduto di trovare in questo brutto paese, infestato da feroci indiani, delle persone così educate e cortesi.

— Educate!... hum!...

— Forse che quell’uomo è un mascalzone?

— Dici addirittura un briccone.

— Ecco una cosa che non crederò mai.

— Se tu ti fossi trovato altre volte in questi luoghi non parleresti così.

— Ma chi è adunque quest’uomo che ci invita così gentilmente, che ci saluta con tanta cortesia e che è un briccone?

— Un gaucho.

— Ne so meno di prima.

— Ti spiegherò più tardi.

— Abbiamo da temere?

— Sì e no.

— Ecco un enigma inesplicabile.

[90]

— Voglio dire che, se sono di buon umore, ci terranno compagnia e ci useranno mille gentilezze; ma sta in guardia, ragazzo! Sono uomini molto suscettibili, violenti, permalosi e che regalano un colpo di coltello come se regalassero uno zuccherino.

— Uomo avvisato...

— Pst!

— Che c’è ancora?

— Qualcuno ci segue.

— Infatti le erbe si muovono.

Il gaucho si era pure accorto di ciò e aveva bruscamente interrotto la marcia, armando rapidamente il suo trombone.

— Ramon! — esclamò.

— Eccomi, rispose una voce.

Le erbe si aprirono rapidamente, e un altro gaucho comparve. Era armato e vestito come il primo e anche nei lineamenti gli somigliava.

Scorgendo Diego e il ragazzo, fece un gesto di stupore, poi salutò cortesemente con un «Buona notte, signori cavalieri».

— Mio fratello, — disse il gaucho che li guidava, mentre l’altro s’inchinava.

— Siate il benvenuto, signore, — rispose Diego, levandosi il berretto, — e abbiate anche voi i nostri ringraziamenti.

— Sono felice di vedervi ancora vivi, — rispose Ramon. — Carrai! Avrei giurato di ritrovarvi morti.

— Ci avete veduti precipitare dal cielo? — chiese il mastro.

— Sì, stavo abbeverando i cavalli nel corral, quando vidi il pallone cadere sulla prateria e poi innalzarsi ancora e sparire verso il sud. Ma mi parve che fossero tre gli uomini. È morto il vostro compagno?

— No, signore: è rimasto sul pallone.

— Forse che egli non voleva scendere?

— Anzi ne aveva il desiderio; ma pare che si fosse imbrogliato fra le maglie della rete.

[91]

— E dove si trova ora?

— Chi può dirlo? Senza dubbio è molto lontano da qui a quest’ora.

— E non discenderà?

— Spero che sì.

— Lo cercherete?

— Appena che lo potremo.

— E noi vi ajuteremo: è vero, Pedro?

— Se i signori lo permetteranno, — rispose il compagno.

— Vi ringraziamo fin d’ora, — rispose il mastro.

— Ma donde venite? — chiese Ramon.

— Dal mare.

— Dal mare! — esclamarono i due gauchos con stupore.

— O meglio da una grande isola che si trova sull’oceano.

— Per puro divertimento?

— Per fare degli studi sulle correnti aeree.

— Bell’audacia: ve lo dico io. Ma basta per ora; avanti, caballeros, che la cena vi aspetta.

Cinque minuti dopo i quattro uomini giungevano dinanzi al rancho.

[92]

XI. I gauchos.

Quella piccola abitazione, perduta in mezzo a quella immensa pianura erbosa, lontana da ogni centro incivilito, sul suolo scorrazzato da soli Indiani, era meschina assai, tanto da non valere nemmeno il nome di capanna.

Pareva che fosse stata fabbricata da poco tempo, ma era ormai cadente. Le sue mura di calcestruzzo presentavano da ogni parte crepi, come se avesse sostenuto un qualche furioso assalto o fosse stata scrollata da un formidabile terremoto; il suo tetto formato di erbe mostrava già delle larghe fessure, per le quali doveva passare abbondantemente la pioggia; la porta, fatta di frasche spinose, si reggeva a mala pena. Perfino la siepe che la cingeva era qua e là strappata, come se degli uomini avessero tentato di attraversarla senza incomodarsi a saltarla.

L’interno non valeva di più. Il suolo era ancora erboso e pieno di rottami, di ossa, di frasche ammonticchiate alla meglio e che forse dovevano servire di letto. La mobilia si riduceva a due selle grandi e pesanti, ad alcuni fornimenti da cavallo, alcune coperte, poche corde, una pentola di ferro, e a due crani di bue, che dovevano supplire le sedie.

Nel mezzo però, sopra un buon fuoco, finiva di arrostire un enorme pezzo di carne, il quale spandeva all’intorno un profumo appetitoso.

[93]

I due gauchos, appena entrati, offrirono cortesemente ai due marinai i due crani di bue, pregandoli di sedersi e scusandosi di non poterli far accomodare su di un sedile un po’ più soffice.

— Bah! — esclamò il mastro, messo in buon umore dalla gentilezza di quegli uomini mezzo selvaggi e dall’arrosto che pareva pronto. — Siamo abituati a sederci sul duro e a dormire anche per terra: è vero, Cardozo?

— Non siamo troppo delicati, — rispose il ragazzo. — Sul mare si fa la pelle dura e le ossa diventano d’acciajo.

— Permettete che vi offriamo un pezzo di asado[6], che avevamo preparato per la nostra cena, — disse il gaucho Ramon. — Mi dispiace di non offrirvi qualche cosa di meglio, ma in questo dannato paese non si può trovare assolutamente nulla, neppure un sorso di câna[7].

— Faremo egualmente onore al pasto: ve lo assicuro, — rispose Cardozo, dimenando le mascelle. — Sono dieci buone ore che il nostro sacco nulla inghiotte. Ah! se ci fosse qui il signor Calderon, sarebbe ben contento di dare un colpo di dente a quest’arrosto.

— Ha le sue pistole, figliuol mio, e quando uno è armato in un paese ricco di selvaggina, non muore di fame. Forse a quest’ora sta cenando allegramente.

— Purchè non sia caduto fra le unghie dei Pampas.

— O piuttosto dei Patagoni. Ma lo ritroveremo, Cardozo: te lo assicuro.

— A tavola, caballeros, — disse Ramon, levando l’asado e deponendolo su di una pelle di montone stesa per terra. — È carne di un guanaco che abbiamo ucciso ieri mattina, e vi accerto che è migliore di un filetto di bue.

Cavarono i coltelli e assalirono vigorosamente l’arrosto, che fu dichiarato eccellente ad unanimità. Bastarono pochi minuti a quelle potenti mascelle e a quei vigorosi ed affamati [94] stomachi per farlo scomparire tutto, quantunque pesasse almeno sei chilogrammi.

Finito quell’abbondante, ma modesto pasto, Ramon mise dinanzi al fuoco la pentola di ferro colma d’acqua, mentre il suo compagno gettava entro una zucca delle foglie secche minutamente tagliate, e che a prima vista sembravano foglie di thè.

— Cospettaccio, che lusso! — esclamò il mastro, che non aveva perduto d’occhio quei preparativi. — Ci si offre del matè in pieno deserto.

— È l’ultimo pugno d’erba che possediamo, e siamo proprio desolati che la nostra provvista sia finita così presto, — disse Ramon. — Un gaucho senza matè è come un marinajo senza tabacco.

— E non possono procurarsene? — chiese Cardozo.

— E dove mai? Non c’è una pulperia[8] a cento leghe d’intorno.

— Ma dove siamo noi? — chiese il mastro.

— Dove?.... sul Rio Negro.

— Sul Rio Negro! — esclamò il mastro, al colmo della sorpresa. — Non siamo adunque sul territorio Argentino?

— È lontana la frontiera, assai lontana.

— Ma voi come siete qui? So che i gauchos di rado varcano la frontiera Argentina.

— È vero questo, señor; ma l’aria della Repubblica non è più buona per noi, — disse Ramon, sorridendo.

— Siete fuggiaschi adunque.

— Abbiamo ucciso tre uomini che ci volevano arrestare e storpiato altri tre o quattro, e ci siamo gettati nel deserto assieme ad alcuni nostri amici. Voi lo sapete che noi non ci badiamo più che tanto a dare una coltellata.

— Conosco i gauchos; varcata la frontiera, più nulla avevate da temere.

— È vero; ma altro ci ha spinti fin qui.

— Gl’Indiani forse?

[95]

— Lo avete detto. Quei dannati sono insorti e si sono gettati sulle pampas argentine, massacrando quanti gauchos son caduti nelle loro mani e distruggendo tutte le fattorie, le pulperie e i saladeros[9].

— Sicchè è impossibile ritornare al nord.

— Tanto impossibile, che noi siamo fuggiti fin qui coll’idea di restarvi appena qualche settimana, poichè gl’indiani scorrazzano anche questa regione. I nostri compagni sono stati uccisi tre giorni sono, a venti chilometri da qui.

— Ma dove contate di recarvi?

— Al Chilì, se gl’indiani....

— E noi, Cardozo, quale via prenderemo? — chiese il mastro, volgendosi verso il ragazzo.

— Quella del Chilì, se non saremo d’impiccio a questi signori.

— Anzi ci sarete di ajuto, giacchè siete eccellentemente armati. Penseremo noi a procurarvi dei buoni cavalli, che prima domeremo.

— Ma vi prevengo che non lascierò questi luoghi senza aver trovato prima, vivo o morto, il nostro compagno.

— Lo troveremo. Orsù, caballeros, un buon sorso di matè.

Levò la marmitta e versò lentamente l’acqua, che era quasi bollente, sulle foglie contenute nella zucca e sulle quali aveva prima sparso alcuni pizzichi di zucchero. Pochi istanti dopo serviva ai compagni l’eccellente bevanda, invitandoli a succhiarla in certe cannucce d’argento, dette bombilla, terminanti in una palla traforata, onde non venissero sorbite anche le foglioline.

Questo matè, di cui tutti gl’Ispano-americani e anche gli Indiani dell’America del Sud fanno un uso smodato, preferendolo di gran lunga al miglior caffè, è su per giù un thè, l’altra bevanda così grandemente diffusa in tutto l’estremo oriente del continente asiatico e tanto cara anche ai palati inglesi e russi.

[96]

Si ottiene colle foglie dell’yerba (Ilex paraguayensis), un arbusto alto otto o dieci metri, che coltivasi specialmente nel Brasile, a Rio Grande e S. Paulo, dove lo si chiama arvore de Congonha, e sopratutto nel Paraguay, dove cresce più bello e dà foglie più profumate.

Non appena l’arbusto ha raggiunto il suo massimo sviluppo, si tagliano i rami e vengono messi un po’ sul fuoco, affinchè le foglie si stacchino più facilmente; poi queste, assieme ai rami più giovani, vengono stese su graticci intrecciati (barbracnas), accendendovi sotto un fuoco, che si mantiene per quarantotto ore, quindi, quando sono ben secche, si battono con certe sciabole di legno, facendole passare attraverso le barbracnas, e da ultimo si chiudono entro sacchi di pelle non conciata, detti tercios, della portata di circa cento chilogrammi.

Lo smercio che se ne fa è immenso, poichè quasi tutti gli abitanti del Paraguay, del Rio della Plata, del Rio Grande del Sud, del Chilì, della Bolivia e di gran parte del Perù, ci sono tanto abituati che non saprebbero farne senza. In quanto poi ai gauchos, lo preferiscono al tabacco o ai liquori; il che è tutto dire per quei furiosi fumatori e insaziabili bevitori di câna.

Sorseggiata la deliziosa bevanda, i due gauchos s’alzarono di comune accordo, raccogliendo i loro enormi tromboni, stati già precedentemente caricati fino quasi alla bocca con palle, chiodi e anche ciottolini.

Caballeros, — disse Ramon, il più ciarliero e anche il più gentile, — occupate i nostri letti e non datevi pensiero di noi. Accampiamo all’aperto, a fine di non lasciarci sorprendere dagli Indiani, che non devono essere molto lontani.

— Buona notte, — rispose Diego, — e se vedete avvicinarsi quelle canaglie, non indugiate a svegliarci. Abbiamo dei buoni fucili e siamo abili tiratori.

— Non dubitate, — risposero i gauchos.

— Che ti pare di quegli uomini, marinajo? — chiese Cardozo, quando furono soli.

[97]

— Dico che possiamo fidarci, — rispose il mastro. — Del resto hanno interesse a rimanere con noi e a trattarci bene, cogli Indiani che scorrazzano la prateria.

— Ma che persone sono? Cosa fanno? Dove vivono?

— Te lo dirò domani, figliuol mio. Approfittiamo per ora di questo istante di tregua per schiacciare un buon sonnellino. Sono tre notti che appena appena chiudiamo un occhio.

— È vero, e se vuoi che te lo dica francamente, mi pare di avere le ossa tutte rotte.

— Bùttati giù adunque, e chiudi gli occhi.

Gettarono sulle foglie secche una larga corconilla, soffice coperta di manifattura araucana, e vi si stesero sopra dopo d’aver collocato le armi a portata della mano e d’aver aperto due pacchi di cartucce. Pochi istanti dopo, entrambi russavano così sonoramente da far tremare le malferme pareti della capanna.

La notte, malgrado la vicinanza dei feroci Pampas, passò tranquillissima. Nessun allarme, nessun colpo di trombone o di fucile venne ad interrompere il sonno dei due marinai.

Non si svegliarono che verso l’alba ai nitriti dei cavalli dei due gauchos, che salutavano i primi raggi dell’astro diurno.

Carramba! — esclamò il mastro stiracchiandosi le braccia e sbadigliando, — ecco una dormita che mi era proprio necessaria per rimettere la mia macchina in completo assetto.

— Ed io ho sognato di dormire su un letto di piume, vecchio mastro, — disse Cardozo, saltando agilmente in piedi. — E i nostri amici sono ancora accampati fuori?

— Non li vedo, nè li odo.

— Speriamo che non siano stati accoppati.

— Non avrebbero risparmiato noi quei signori Pampas. Hanno la brutta abitudine di torcere il collo a quanti trovano sul loro cammino, vecchi o giovani, maschi o femmine.

— Odo un tintinnìo di sproni.

[98]

— Sono i nostri uomini.

Infatti Ramon s’avvicinava alla capanna, con quel dondolìo che è particolare ai gauchos, valentissimi cavalieri, ma altrettanto pessimi camminatori. Vedendo i due marinai, diede cortesemente il buon giorno.

— Nulla di nuovo? — chiese Diego.

— La pianura è perfettamente tranquilla, — rispose il gaucho, — ma non bisogna fidarsi troppo. Temo che questa calma non duri molto.

— Avete veduto degli Indiani?

— No, ma sento istintivamente la loro vicinanza, e faremmo bene a metterci subito in marcia verso il sud.

— Non domando di meglio, tanto più che è verso il sud che troveremo il signor Calderon. Ma noi come potremo tenervi dietro? Le nostre gambe sono solide, è vero, ma non tanto da sfidare quelle dei vostri cavalli.

— Avrete quanto prima dei rapidi cavalli anche voi, — disse il gaucho, sorridendo. — A dodici miglia da qui c’è un laghetto che è molto frequentato dai cavalli selvaggi: andremo direttamente là, ci imboscheremo fra i cactus giganti e faremo lavorare i nostri lazos. Prima di domani mattina saremo tutti montati e su buoni corsieri.

In quell’istante apparve sulla porta suo fratello. Pareva assai preoccupato e molto inquieto.

— Che hai, Pedro? — chiese Ramon.

— Affrettiamoci, fratello.

— Forse che hai scorto qualche indiano?

— Ho veduto un sottile pennacchio di fumo.

— Dove?

— Verso il nord.

— Sono i Pampas.

— Lo credo anch’io.

— Che vengano, — disse Cardozo. — Ho una voglia matta di scambiare quattro fucilate con quei predoni.

Ramon si volse verso il ragazzo che brandiva con atteggiamento fiero la sua carabina, e lo guardò a lungo con una specie di sorpresa.

[99]

Es un pollito que un dia serà gallo[10], — disse poi, sorridendo.

— È un buon gallo di già, — disse il mastro con orgoglio. Ha ucciso un capo indiano e si è battuto tre volte contro le truppe brasiliane.

— Bravo, ragazzo! Somigli a quelli della nostra razza.

— A cavallo, fratello, — disse Pedro. — I minuti sono preziosi.

— Partiamo adunque!

Si caricarono delle coperte, dello spiedo, della pentola di ferro e abbandonarono la capanna. Al di fuori due alti cavalli, dalla testa leggera, le gambe secche, nervose, e completamente bardati, nitrivano e scalpitavano.

— Sapete tenervi in sella? — chiese Ramon.

— Un marinajo bene o male è cavaliere.

— Montate questo cavallo, io e mio fratello monteremo l’altro, e trottiamo.

Balzarono in arcione, accomodandosi alla meglio sulle grandi e pesanti selle, e, spronati i cavalli, partirono di buon trotto verso il sud.

[100]

XII. I cavalli selvaggi.

L’immensa prateria che li circondava era completamente deserta, ma non presentava quella uniformità che generalmente si crede offrano quelle vastissime pianure che si stendono al di là del territorio argentino e che si chiamano pampas.

Il territorio saliva e scendeva dolcemente in forma di lunghissime ondate, con depressioni talvolta molto profonde e tal’altra con elevazioni non indifferenti e che intercettavano la vista. Oltre a ciò, non era sempre erba quello che lo copriva, ma qua e là si alzavano gruppi di carrubi selvatici, cespugli di gynerium, e più oltre si vedevano torreggiare, come immensi ombrelli, dei superbi ombù dal fogliame verde cupo e dal tronco massiccio e bitorzoluto.

La fauna, pel momento almeno, mancava completamente. Infatti, per quanto Cardozo e il mastro spingessero i loro sguardi, non si vedeva verun animale attraversare quegli splendidi tappeti verdi, chiazzati di variopinti papaveri. Pareva che i guanachi, gli struzzi, i giaguari, i coguari e i lupi aguara, animali che abbondano nelle pampas, fossero scomparsi o fossero emigrati, per paura degl’Indiani, verso altre regioni. Solamente per l’aria si vedevano svolazzare qualche zenostrichia piteta, o passero comune, qualche vindita, uccello tutto nero colle remiganti bianche, e dei [101] superbi trochilidi o uccelli mosca, che ronzavano attorno ai cespugli di banchsie.

— Che ne dici, Cardozo, di questa prateria? — chiese il mastro che stringeva vigorosamente colle muscolose gambe i fianchi del cavallo.

— Dico che manca di bistecche, marinajo, — rispose il ragazzo che si teneva saldamente aggrappato alla monumentale sella.

— E poi?

— Che credevo la pampa fosse differente.

— E perchè?

— Mi avevano detto che era una pianura perfettamente piana, coperta di erba, ma senza un cespuglio, senza un albero.

— E chi ti aveva detto questo?

— Lo avevo letto sui libri.

— Hanno mentito.

— Lo vedo bene.

— Andate un po’ a credere ai libri! E questa, ragazzo mio, è vera pampa.

— Ma dove sono i cavalli selvaggi e le bestie feroci?

— Troveremo gli uni e le altre, te lo assicuro. Senza dubbio la vicinanza degl’Indiani li ha fatti fuggire verso il sud.

— Dannati Indiani! Se mi capitano a tiro...

— Meglio che stiano sempre lontani, Cardozo.

— Sfuggiremo a quei predoni?

— I gauchos non li lascieranno avvicinare. Sono uomini da dare dei punti ai selvaggi.

— Hanno il tipo di selvaggi anche i nostri uomini.

— Eppure sono di razza bianca come me e te. Tutt’al più hanno qualche goccia di sangue indiano nelle vene.

— Sono di razza spagnuola?

— Sì, poichè discendono dai primi coloni sbarcati sul Rio della Plata.

— Dimmi, marinajo; che uomini sono questi gauchos? Io non lo so ancora.

[102]

— Sono guardiani di bestiame che vivono ordinariamente nelle praterie che circondano il territorio di Buenos-Aires. Quantunque discendenti dagli Spagnuoli, questi strani uomini hanno in profondo orrore la civiltà, e sfuggono, come se avessero paura della febbre gialla, le vicinanze delle città. La loro patria è la pampa, nè da questa si discostano per qualsiasi motivo.

— Sono coraggiosi?

— Temerari fino alla follia. Hanno un disprezzo assoluto per la morte. Da giovanetti frequentano i saladeros, che sono stabilimenti grandiosi, dove si macellano migliaja di buoi all’anno. Abituati a guazzare in mezzo al sangue, crescono sanguinari, battaglieri, feroci. Non sognano che colpi di trombone e coltellate e non hanno che un desiderio: segnare in viso gli avversari. Uccidere un uomo è come sgozzare un pollo; affrontare un duello mortale è per loro come andare ad una festa.

— Ma pure mi sembrano assai cortesi e molto ospitalieri.

— Sì, sono cortesi, anzi ci tengono molto a mostrarsi tali e sono molto larghi di cuore; ma pure sono gran bricconi. Basta che un oggetto qualsiasi, che tu, puta caso, porti indosso, a loro piaccia, perchè non si facciano scrupolo di assassinarti appena uscito dalla loro capanna. Sono poi estremamente suscettibili; uno scherzo, che a loro non garbi, te lo pagano con una coltellata; se tu per caso li ferisci, sei certo che alla prima occasione si vendicheranno, anche se convintissimi che tu li abbia offesi per mero accidente.

— Bisogna star in guardia, marinajo. Ecco dei consigli veramente preziosi. Ma dimmi un po’: la polizia argentina non s’immischia mai nei loro assassinii?

— Chi metterà il naso nelle faccende dei gauchos? Eppoi, credi tu che il gaucho, commesso il delitto, rimanga lì ad attendere la polizia? Salta sul suo cavallo, riempie le sue alforjas (bisacce) di viveri, e se ne va in altra provincia a cercare un altro padrone.

— Devono essere abili cavalieri questi uomini.

— Si vantano molto i vaqueros messicani e i cow-boys [103] del Far-West degli Stati Uniti; ma i gauchos superano gli uni e gli altri. Sono i primi cavalieri del mondo, te lo dico io, nè alcuno può eguagliarli.

Sono capaci di stare in sella per cinque giorni senza mai discendere, e di attraversare cento volte l’America del Sud, dormendo solamente poche ore. Sono talmente abituati a cavalcare, che non sanno quasi più camminare, e ritengono che il cavallo sia così indispensabile all’uomo, da non credere che vi siano degli individui che non sappiano cavalcare.

— Facciamo una ben magra figura noi, di fronte ai nostri due compagni. Che meschino concetto si faranno!

— Bah! ce la caviamo discretamente, figliuol mio.

— Ma però.....

— Pst!.....

— Cosa c’è?

— A terra! Presto, figliuol mio, a terra!.....

Cardozo, senza sapere di cosa si trattasse, con un superbo volteggio si slanciò fra gli alti cactus, mentre il mastro si gettava dall’altra parte. I due gauchos avevano già fatto altrettanto con una rapidità prodigiosa e avevano atterrato il loro cavallo in mezzo alle folte e alte piante.

— Ma cos’hai veduto? — chiese Cardozo, che per ogni precauzione aveva armato il fucile.

— Dei cavalieri, — disse il mastro.

— Dove?

— Passavano a tre o quattro chilometri da qui.

— Indiani, o viaggiatori?

— Non ho potuto guardarli bene; ma non so quali viaggiatori si arrischierebbero ad attraversare questo dannato paese.

— Che dobbiamo far parlare le carabine? Non mi spiacerebbe di esercitarmi un po’ sulli pelli rosse.

— Vedremo, Cardozo.

— E i due gauchos?

— Ci sono... Oh!... in guardia, Cardozo!

A pochi passi da loro si era improvvisamente alzata una [104] coppia di teruteri, specie di pavoncelli, ed era volata via, mandando acute strida.

— Qualcuno ha spaventato quegli uccelli, — disse il mastro con inquietudine. — Che gl’Indiani siano giunti già qui?

— Diego!...

— Che vedi?

— I cactus si agitano dinanzi a noi.

— Imbraccia il fucile e sta pronto a far fuoco.

Cardozo puntò l’arma nella direzione indicata. Si vedevano i cactus leggermente piegarsi a destra e a sinistra come per dar posto ad un corpo, e si udiva tra le foglie un certo strofinìo accompagnato da un lieve tintinnìo.

Il mastro ed il coraggioso ragazzo, inginocchiati dietro il cavallo, coi fucili puntati, decisi a tutto, aspettavano col dito sul grilletto.

Una testa finalmente apparve a pochi passi e una voce a loro ben nota disse rapidamente:

— Coprite la testa del vostro cavallo.

— Ramon! — esclamarono i due marinai.

— In persona, — rispose il gaucho.

— S’avvicinano gl’Indiani? — chiese Cardozo.

— Quali?

— Quelli che abbiamo veduto, — disse Diego.

— Ma dove?

— Oh! — esclamò il lupo di mare al colmo della sorpresa. — Non gli avete veduti passare a tre chilometri da qui?

Il gaucho si mise a ridere.

— Non vi comprendo, — disse il mastro.

— Ma, amico mio, sono cavalli quelli che avete veduto.

— Senza cavalieri?

— Cavalli selvaggi e nulla più.

— E perchè vi siete nascosti?

— Per sorprenderli. Si dirigono a questa volta, e fra breve io e Pedro daremo a loro la caccia.

— Sono molti? — chiese Cardozo.

— Una trentina.

— E perchè volete che copra la testa del nostro cavallo?

[105]

— Perchè, se sente i compagni avvicinarsi, comincerà a nitrire e gli altri scapperanno.

— Forse che s’intendono fra loro?

— Pare di sì. Eccoli che arrivano ai galoppo: li udite?

In lontananza si udiva infatti un sordo galoppare accompagnato da sonori nitriti. Il gaucho prese una coperta e avvolse lestamente la testa al cavallo.

— E vostro fratello dov’è? — chiese il mastro.

— Laggiù: pronto a saltare in sella appena la tropilla[11] sarà qui.

— E siete sicuro di prenderne un paio?

— Abbiamo l’occhio infallibile e il braccio abile, — disse il gaucho con orgoglio. — Mai un cavallo sfugge all’infallibile lazo dei cavalieri delle pampas. Eccoli che arrivano: guardateli.

Aprì lentamente i cactus che si estendevano sulla sua destra, fiancheggiando un largo tratto coperto di erba assai bassa, e mostrò la truppa, che si dirigeva verso di loro caracollando disordinatamente.

Erano circa trenta cavalli fra maschi, femmine e poledri, alti, robusti, dal mantello bajo cupo, la criniera folta, gli occhi grandi e vivi. Non erano veramente belli; ma s’indovinava in quelle gambe secche e nervose e in quei fianchi stretti una resistenza insuperabile, unita ad una sobrietà a tutta prova. Erano, come tutti gli altri cavalli che popolano l’estremità dell’America del Sud, spingendosi fino allo stretto di Magellano, i discendenti di quei settantacinque cavalli spagnuoli sbarcati a Rio della Plata nel 1507. È noto che essi si propagarono così rapidamente in quelle immense e grasse praterie che dopo soli quarantatre anni ne furono presi proprio all’estremità meridionale del continente, di fronte alla Terra del fuoco.

Anche oggidì, malgrado l’enorme consumo che ne fanno gl’Indiani, che vivono quasi esclusivamente di carne di cavallo, sono numerosissimi e si vedono scorrazzare in grandi [106] bande le ubertose praterie, sfuggendo il contatto dell’uomo, ch’è diventato il loro peggiore nemico.

La tropilla segnalata dal gaucho in breve giunse a soli quattrocento passi dalle macchie di cactus, dove si arrestò, mettendosi a pascolare senza diffidenza.

— Non muovetevi e state zitti, — disse Ramon ai due marinai. — Se i cavalli si accorgono della nostra presenza, partiranno di gran carriera e non potremo più raggiungerli.

Si avvicinò al suo cavallo e dal disotto della coperta levò una correggia di pelle intrecciata, lunga una decina di metri, terminante in un nodo scorsojo, passato in un largo anello di ferro. Era un lazo, terribile arma nelle mani di quei figli delle pampas, di cui si servono sia per imprigionare cavalli e buoi, sia per strangolare i loro avversari.

Si assicurò che un’estremità fosse saldamente legata al pomo della sella, poi arrotolò la correggia in grandi cerchi, tenendola nella mano sinistra, e attese a fianco del cavallo.

La tropilla si avvicinava sempre fiancheggiata dai poledri, i quali caracollavano in tutti i sensi, inseguendosi e rotolandosi fra le erbe.

Ad un tratto i maschi, che camminavano in prima fila, si arrestarono, alzarono la testa come per fiutare l’aria e si misero a nitrire vigorosamente.

La tropilla interruppe bruscamente il pasto e si strinse attorno ai maschi, dando segni di una forte inquietudine. Un momento di ritardo e tutto era perduto.

Ramon in un momento fece saltare in piedi il cavallo, gli balzò in groppa e lo spinse addosso alla tropilla, mandando alte grida. Quasi subito, a cinquanta passi, si vide sorgere Pedro, il quale si slanciò al largo, onde chiudere il passo ai fuggitivi.

La tropilla sorpresa, spaventata, stette un momento ferma, poi fece un rapido voltafaccia e si slanciò a tutta carriera attraverso la prateria coi crini al vento, gli occhi in fiamme, le femmine e i poledri in testa, i maschi dietro, come se avessero voluto proteggere la ritirata. Parea che passasse un uragano sulla prateria: le erbe, i cespugli, [107] i grandi cactus piegavansi e cadevano spezzati o contorti sotto le zampe di quei cavalli spaventati e il suolo tremava.

I due gauchos, spronando furiosamente le loro cavalcature, in pochi istanti raggiunsero la fuggente truppa, obbligandola a fare un secondo voltafaccia e a dividersi, poi levarono i lazos facendoli girare rapidamente attorno alla loro testa, procurando colle dita della mano destra di tenerli aperti.

Le due solide corregge caddero fischiando in mezzo alla tropilla, che si sbandò da tutte le parti, fuggendo in diverse direzioni. Due cavalli, i più belli e vigorosi, s’impennarono bruscamente gettando nitriti di furore, poi caddero a terra agitando pazzamente le zampe.

Erano ormai prigionieri. Gli infallibili lacci dei gauchos erano caduti sul loro collo e li stringevano in maniera da strangolarli.

— Bravi! — esclamò Cardozo, battendo le mani.

— Sono valenti, — disse il mastro, stropicciandosi allegramente le sue.

— Si arrenderanno i due prigionieri?

— Opporranno una fiera resistenza, ma finiranno col cedere. Ai gauchos nessun cavallo, per quanto sia selvaggio e forte, resiste.

Ramon e Pedro erano intanto saltati a terra portando con loro un altro laccio. Avvicinatisi ai due cavalli selvaggi, che continuavano a dibattersi disperatamente tentando di spezzare la correggia che li soffocava, cominciarono a imprigionare abilmente le zampe anteriori e le posteriori, finchè li ebbero ridotti all’impotenza.

La tropilla in quel frattempo aveva galoppato attorno ai due prigionieri, come se avesse voluto portare a loro ajuto; ma appena vedutili legati, si allontanò ventre a terra e pochi minuti dopo spariva verso il nord.

[108]

XIII. Gli scorpioni velenosi delle «Pampas».

I gauchos non si erano ingannati nella scelta. I due prigionieri erano magnifici corridori, alti di statura, di mantello baio, come lo hanno generalmente i cavalli delle pampas, dai garretti solidi, la testa leggera, il petto assai sviluppato e il ventre stretto assai che dinotava una sobrietà a tutta prova.

Parevano avviliti di sentirsi, essi che da quando erano nati scorrazzavano liberamente per le immense praterie, stretti da quei lacci e gettavano sugli uomini che li circondavano cupi sguardi. Un tremito generale agitava le loro membra e dalla bocca scendeva abbondante la schiuma, che di quando in quando si tingeva di rosso, come se fosse mescolata a sangue.

— Sono stupendi, — disse Cardozo, che li esaminava con viva attenzione. — Devono filare come il vento.

— Sfidano qualunque cavallo, — disse Ramon, che si era seduto a fianco dei prigionieri, tenendo in mano i lazos. — Possono percorrere trenta leghe al giorno senza affaticarsi.

— Sono di razza spagnuola?

— Andalusa pura, che in queste immense praterie si è assai migliorata.

— E ve ne sono molti in questa regione?

— A migliaja, e continuano a crescere malgrado l’enorme [109] consumo che ne fanno le tribù indiane e specialmente i Tehulls, o Patagoni, se così meglio volete chiamarli.

— Ma come li consumano?

— Mangiandoli.

— Ah! i ghiottoni!

— Se i cavalli non abbondassero, la razza indiana a quest’ora si sarebbe spenta, poichè la selvaggina non sarebbe stata sufficiente a nutrirli tutti.

— Ma pure non sono molti secoli che gli Spagnuoli hanno introdotto i cavalli. Cosa mangiavano adunque prima?

— Si dice che mangiassero degli altri cavalli di una razza differente. Infatti si sono trovate moltissime ossa somiglianti a quelle dei nostri.

— E come si chiamavano quegli animali?

— Gli scienziati hanno dato loro il nome di equus cervideus.

— E sono scomparsi ora?

— Pare di sì, poichè non se ne sono più trovati di vivi, e si dice che siano scomparsi subito dopo la venuta dei cavalli spagnuoli.

— Ecco una cosa che nessuno mai è riuscito a spiegare. Forse le due razze non andavano troppo d’accordo, e la più debole è stata distrutta dalla più forte, — disse Diego.

— Nella vostra provincia si allevano i cavalli? — chiese Cardozo.

— In grandissima quantità, e si uccidono per ricavarne le pelli ed il grasso, cose che in commercio hanno un notevole valore.

— Ditemi, señor Ramon: sono difficili a domarsi i cavalli selvaggi?

— Bisogna essere gauchos per riuscire, — disse Ramon. — Nessun altro sarebbe capace di farlo. Volete provarvi?

— Rinuncio volentieri.

— Allora a noi due, Pedro: daremo la prima lezione a questi selvaggi.

— Basterà una? — chiese Cardozo.

— Occorrono quattro e talvolta cinque prove prima che [110] il cavallo selvaggio diventi un caballo rodomon, ossia domato.

Ramon e suo fratello si avvicinarono al più robusto dei due animali, gli legarono le gambe anteriori con una manca, che è una larga fascia di cuojo, poi sedutisi sul di lui collo, lo costrinsero ad aprire la bocca, cacciandogli dentro a forza un pezzo di cuojo — primo morso — legato a solide briglie. Ciò fatto, lo liberarono dai lacci.

Il cavallo, sentendosi un po’ libero, balzò agilmente in piedi gettando un sonoro nitrito, e cercò di slanciarsi attraverso la prateria, ma il gaucho Pedro, afferratolo per le nari, lo costrinse a frenarsi.

— Affrettati, fratello, — disse. — Questo cavallo ha il fuoco nelle vene.

Ramon in pochi istanti levò la sella al proprio cavallo e si accinse a bardare il mustano selvaggio. Dapprima gli gettò sul dorso due grosse gergas, specie di coperte di lana, piegate in quattro, poi un largo pezzo di cuojo ricamato e battuto a martello, detto carona de vaca, indi la recado, sella di grandi dimensioni pesante circa venticinque chilogrammi, coperta di pelle e adorna di chiodi d’argento, che si assicura al ventre del cavallo con una larga fascia di cuojo, chiamata cincha. Vi sovrappose quindi una pelle di pecora dipinta a vivi colori, poi il sobre puesto, che è un largo pezzo di pelle conciata e frastagliata, e finalmente la sobre cincha, che lega completamente la sella.

Ciò fatto, Ramon si levò gli stivali, tenendo però i grandi sproni, gettò il cappello stringendosi il capo con un fazzoletto variopinto, si sbarazzò del poncho e balzò in sella senza toccare le staffe.

— Lascia andare, — gridò, raccogliendo le briglie.

Pedro con un sol colpo liberò il cavallo dalla manca che gl’imprigionava le gambe posteriori, e lo lasciò andare.

Il destriero parve dapprima sorpreso di sentirsi libero e di aver sul dorso quel peso, che non aveva mai provato; poi si slanciò innanzi cogli occhi injettati di sangue, il capo basso, spruzzando a destra e a sinistra le erbe di schiuma.

[111]

Percorse cinquecento metri in linea retta colla velocità di una freccia, poi fece un brusco voltafaccia e si precipitò in mezzo ad una piantagione di cardi che percorse in tutti i versi, distruggendola quasi completamente. Uscito di là e sentendosi ancora il cavaliere indosso, sembrò che tutto d’un tratto impazzisse.

Si precipitava innanzi come se non vedesse più nulla, poi s’inalberava rizzandosi quanto era lungo sulle zampe posteriori, sferrava calci per ogni dove, girava su se stesso come se fosse côlto da un capogiro, scartava a destra e a sinistra, ripartiva come un uragano falciando le erbe coi solidi zoccoli, poi tornava a inalberarsi tentando colla testa di urtare e di mordere il cavaliere, riprendeva la disordinata corsa gettando nitriti soffocati, abbassandosi or dinanzi e or di dietro, inarcando bruscamente la potente groppa per sbalzare il domatore, poi si gettava per terra o si rialzava, e tornava rotolarsi fra le erbe.

Ma l’uomo teneva duro. Colle ginocchia nervosamente strette ai fianchi del selvaggio destriero, le briglie raccolte, gli occhi in fiamme, pronto a lasciare le staffe per non farsi schiacciare o stritolare le coscie, non lo abbandonava. Pareva che fosse inchiodato alla sella: più ancora: pareva che formasse un corpo solo col cavallo.

Non vi era nulla che potesse toglierlo di là; nè i bruschi salti, nè le scosse più violente, nè le cadute, nè i cosidetti salti di montone, ai quali ben pochi cavalieri possono resistere. E stringeva sempre più i fianchi dell’animale togliendogli il respiro, e agli scarti rispondeva con strappate che scuotevano i denti, e ai balzi con furiose speronate che facevano scaturire rivoletti di sangue.

Cardozo e il mastro contemplavano con viva ammirazione quella lotta fra l’essere selvaggio dotato di una forza brutale e l’essere incivilito, e applaudivano entusiasticamente il valente cavaliere. Perfino il silenzioso Pedro, quantunque lui stesso abilissimo cavaliere, che aveva domato chi sa quante centinaja di cavalli, era trasfigurato e seguiva con sguardi ardenti quella strana lotta.

[112]

L’uomo doveva finalmente vincere. Il cavallo, sfinito, lordo di sangue e di schiuma sanguigna, dopo aver tentato tutti i mezzi per liberarsi dal cavaliere che gl’imponeva a colpi di sperone la propria supremazia, dopo aver percorso come un pazzo il campo di cactus coprendosi di ferite, di essersi gettato a terra una dozzina di volte, di aver tentato di spezzare le briglie con furiosi colpi di testa, cominciò ad ubbidire, mettendosi a galoppare meno disordinatamente, piegando ora a destra, ora a sinistra, secondo lo desiderava il gaucho. Dopo una mezz’ora trottava come un cavallo perfettamente domato e ubbidiva quasi a perfezione. Ramon, soddisfatto, lo spinse verso i compagni e, balzato agilmente a terra, lo fece cadere, legandogli le gambe colla manca.

— Bravo! — esclamò il mastro, stringendogli energicamente la destra. — Siete, e ve lo dice un uomo che ha percorso il mondo in lungo e in largo, il più ardito e valente cavaliere che io abbia veduto fino ad oggi.

— Tutti i gauchos sono come me, — rispose Ramon. — Ora a te, Pedro.

Il taciturno gaucho liberò il secondo cavallo, lo sellò, poi balzò in arcione. La lotta non fu meno ostinata dell’altra, ma anche questa volta l’uomo trionfò completamente e ricondusse il selvaggio figlio del deserto quasi ammaestrato all’accampamento.

— Per domani tutti e due saranno pronti a marciare, — disse Ramon. — Un’altra prova, e poi basta.

— La farete subito? — chiese Cardozo.

— Prima di sera. Intanto voi dovreste battere i dintorni onde cercare il pranzo.

— Infatti mi scordavo che la nostra dispensa è perfettamente sprovveduta e che gli albergatori si tengono lontani da questi luoghi. Ehi! marinajo, prendi il fucile e facciamo una passeggiata.

— Ben volentieri, figlio mio. Sento qui dentro qualche cosa che mi tanaglia lo stomaco. Deve essere fame bella e buona.

— Andiamo dunque a cercare una dozzina di costolette.

— O almeno un buon arrosto d’uccelli.

[113]

Mentre i gauchos, stanchi della lotta sostenuta contro i due cavalli selvaggi, si sdrajavano sui loro ponchos, i due marinai si gettarono in ispalla i fucili e si allontanarono verso il sud, dove si vedevano dei fitti cespugli.

Disgraziatamente pareva che quella porzione di pampa non fosse frequentata dagli animali, poichè, per quanto girassero gli occhi, i due marinai non scorgevano nè guanachi, nè struzzi, nè coguari, nè giaguari, e pochissimi uccelli i quali per di più non meritavano un colpo di fucile, essendo quasi tutti mangiatori di carogne.

Frugando però in mezzo ai cespugli, Cardozo riuscì finalmente a scoprire un nido di struzzi, fornito di ben sessanta uova, grosse tre volte di più di quelle dei tacchini, disposte con un certo ordine e coperte di fili d’erba.

— La frittata è assicurata, — esclamò egli, balzando in mezzo al cespuglio.

— E che frittata — esclamò il mastro, che se ne intendeva. — Purchè le uova non contengano già i piccini.

— Sarà più appetitosa, Diego. Carrai! Saresti uno schizzinoso?

— Io?... Mi vedrai quando porremo la frittata al fuoco. Ma ora che ci penso, se questo è il nido, possiamo trovare anche i proprietari. Per Bacco! Se potessimo regalarci un bell’arrosto di nandù?

— Cosa sarebbe questo nandù?

— Gli struzzi si chiamano con questo nome, anzi gl’Indiani li chiamano nandù guazu, il che vuol dire grosso ragno.

— Forse che somigliano ai ragni?

— Quando camminano fanno un certo movimento colle loro monche ali, che ricorda curiosamente i movimenti oscillanti dei ragni, quando percorrono le loro tele aeree.

— La carne...

— È delicatissima, figliuol mio.

— Allora ci sdrajeremo qui e attenderemo.

— Sì, ma prima confortiamoci lo stomaco, — disse il mastro, levando un uovo e guardandolo attraverso un raggio di sole. — Devono essere stati covati da pochi giorni.

[114]

— E i nostri bravi gauchos?

— Bah! sono uomini abituati a lunghi digiuni. Del resto prenderanno la rivincita sulla frittata.

Il ghiottone ruppe delicatamente l’uovo e lo vuotò.

— Eccellente, ragazzo mio, disse. — Sa un po’ di selvatico; ma noi siamo gente che non bada a simili inezie.

Stavano per romperne un altro, quando sopra il loro capo passò una numerosissima banda di uccelli dalle gambe lunghe.

— Ah! i batitu![12] — esclamò.

— Cosa sono? — chiese Cardozo.

— Come vedi, sono uccelli.

— Eccellenti?

— Non dico di no. Se ci fossero qui gli Argentini, si divertirebbero.

— E perchè mai?

— Vanno pazzi per cacciare i batitu.

— Forse perchè sono difficili a uccidersi?

— Tutt’altro, ma perchè si cacciano in carrozza.

— Oh! questa è curiosa!

— È come te la dico. Quando nella pampa argentina i batitu calano, i gran signori argentini salgono in carrozza bene armati e si slanciano attraverso la prateria, facendo fuoco sugli uccelli, i quali non si danno la briga di fuggir lontano. Ho assistito più volte a simili cacce. Che corse indiavolate, ragazzo mio! I cavalli, frustati a sangue, vanno come il vento, la carrozza trabalza orribilmente, gli spari si succedono agli spari, e gli uccelli cadono a centinaja. Se poi...

— Pst!

— Cosa vedi?

— I tussak si muovono.

Diego si alzò con precauzione e guardò verso le piante graminacee accennate. Cardozo non si era ingannato. I tussak si aprivano lentamente come per dar posto ad un essere vivente, la cui direzione pareva appunto quella del nido.

[115]

— Indiano, o animale? — chiese Cardozo, armando la carabina.

— È un nandù, la femmina forse, — rispose il mastro. — Tira giusto appena che sei sicuro del colpo.

— Aspetta che si mostri e vedrai.

— Forse abbiamo dinanzi parecchie femmine, Cardozo, poichè so che covano le uova in parecchie.

— Prepara anche il tuo fucile e...

S’interruppe bruscamente, rovesciandosi s’un fianco e lasciandosi sfuggire la carabina; il suo volto si coprì subito di un pallore cadaverico.

— Diego! — esclamò.

— Che hai, ragazzo mio? — chiese il mastro stupefatto.

— Qui... alla gamba... mi si morde...

Il mastro si precipitò sopra di lui senza più curarsi degli struzzi e mandò un grido di disperazione.

Un grosso scorpione, che pareva un granchio di mare, era attaccato solidamente alla gamba destra del ragazzo, nelle cui carni aveva cacciato lo robuste tenaglie.

— Gran Dio!... — esclamò il mastro, schiacciando con furore il piccolo mostro.

— Diego! la vista mi si intorbidisce...

— Coraggio, ragazzo!...

— Sento un brivido... che mi sale al cuore... Cosa mi è successo?... Diego!... ho paura..... qualche serpente mi ha punto.

No, non era un serpente; ma quel morso era forse più terribile ancora, e il mastro non lo ignorava. Gli scorpioni dell’America del Sud sono velenosissimi, più degli stessi serpenti a sonagli, assimilandosi il loro virus al sangue umano in un modo quasi istantaneo.

Fortunatamente il mastro non aveva perduto la testa. Cercando di non mostrarsi atterrito per non scoraggiare il povero ragazzo, operò prontamente nella speranza di poterlo salvare.

Con un colpo di coltello gli aprì il pantalone e mise a nudo la gamba, che era già intorpidita, gonfia, e che diventava [116] rapidamente azzurra. Senza badare al grande pericolo a cui si esponeva, applicò le labbra alla piaga e succhiò vigorosamente, sputando il sangue che assorbiva.

Cardozo, che era caduto senza forze, parve sollevato da quella cavata di sangue e si rialzò balbettando:

— Grazie... Diego... mi sembra di stare un po’ meglio.....

— È nulla, ragazzo mio, — rispose il mastro, tergendosi il sudor freddo che irrigavagli la fronte. — È stata una puntura dolorosa, ma niente di più.

— Guarirò?

— Sì, presto... sta certo, Cardozo; ma bisogna che ti porti subito al campo.

— Perchè?

— Perchè i gauchos possono farti guarire più presto.

— Ma chi mi ha morso?

— Bah! un serpentello, — disse il mastro. — Vieni! — Afferrò il povero ragazzo, se lo strinse al petto e si slanciò a tutta corsa attraverso la pampa, gridando:

— Ramon! Pedro! accorrete!...

[117]

XIV. I Patagoni alla caccia del pallone.

Quando giunse all’accampamento, Cardozo non dava quasi più segno di vita. Le succhiature avevano ritardato i progressi del veleno, ma non lo avevano estratto tutto dalla piaga. Ancora pochi minuti e la morte sarebbe giunta.

I due gauchos, che stavano ammaestrando i due cavalli selvaggi, udendo le grida del mastro, si erano affrettati ad accorrere, dopo di aver legato le cavalcature. Vedendo Cardozo in quello stato, indovinarono subito di che si trattava.

— È stato morso da uno scorpione, — disse Ramon, dopo d’aver gettato un lungo sguardo sulla gamba ferita, che era diventata assai gonfia e d’una tinta molto oscura.

— È perduto? — chiese con angoscia il mastro.

— No.

— Avete un rimedio?

— Sì, e vi assicuro che noi lo salveremo.

— Dio sia ringraziato!

— Potete ringraziarlo di cuore, poichè senza il nostro incontro questo coraggioso ragazzo sarebbe perduto. Pedro, va a prendere la mia tazza d’argento e la mia bisaccia, e voi, Diego, adagiate il ferito, accendete il fuoco e mettete un po’ d’acqua nella marmitta.

[118]

— Ma mi assicurate proprio che non morrà?

— Ve lo prometto, Diego.

— Se dovesse morire, io non avrei più bene sulla terra.

— Non disperatevi, e agite. I minuti sono preziosi.

Diego non se lo fece dire due volte. Strappò le erbe per un giro di tre o quattro metri, onde il fuoco non si comunicasse alla prateria, causando una terribile catastrofe, e mise a bollire la marmitta, dopo avervi versato dentro un po’ d’acqua. Aveva appena finito, che Pedro tornava recando il sacchetto e la tazza.

Ramon aprì il primo ed estrasse una radice nera, di forma allungata, che tagliò a metà con un colpo di navaja. Fece a pezzetti una parte, gettandoli poscia dentro la marmitta, che cominciava già a grillettare, e si mise a masticare vigorosamente l’altra, riducendola in una specie di pasta.

— Ma cos’è quella roba lì? — chiese Diego, che lo guardava con viva ansietà.

— Una radice e niente di più, ma che guarirà quel caro ragazzo, — rispose il gaucho.

Cardozo, che fino allora non aveva dato segno di vita, in quel momento apriva gli occhi. Il poveretto, pallido, disfatto, già quasi irrigidito dalla morte, che si avanzava a grandi passi, aprì con fatica la bocca e mormorò:

— Diego!... Diego!...

— Eccomi, piccino! — rispose il mastro, curvandosi su di lui.

— Sto orribilmente... male...

— Lo vedo; ma Ramon ti salverà.

Il ragazzo sorrise tristamente e scosse il capo.

— Temo che sia troppo tardi... — mormorò.

— No: ti salveremo: me lo ha giurato Ramon, e quell’uomo lì non è tipo da promettere senza mantenere.

— Oh!... ma non ho... paura di... morire; è che mi.... dispiace lasciarti... solo... qui...

— Coraggioso marinajo! — esclamò il mastro, le cui abbronzate gote erano irrigato da due grossi lagrimoni, forse i primi che spargeva in quarant’anni.

[119]

— Càlmati, Cardozo: sono da te, — disse Ramon, che aveva terminato di masticare il pezzo di radice. Mise a nudo la gamba, si levò di bocca quella specie di pasta, che tramandava un odore di orina fortemente ammoniacata, e l’applicò sulla piaga, legandovela con un pezzo di stoffa tagliato da una corconilla.

— Ora trangugierai la bevanda, — disse quand’ebbe finito, — e poi ti addormenterai tranquillamente.

Levò la marmitta, versò il contenuto nella tazza d’argento e porse il liquido al ragazzo, il quale nel sentire quell’acuto odore di orina ammoniacata contorse la bocca.

— E che? Mi fai lo schizzinoso ora? — chiese Diego con dolce rimprovero. — Animo, piccino mio; un marinajo deve saper inghiottire tutto.

— È vero... — mormorò Cardozo, sforzandosi a sorridere.

Accostò le labbra alla tazza e la vuotò d’un fiato. Subito stramazzò fra le erbe, come fosse stato fulminato, colle pugna strette e le membra tese, irrigidite.

— È morto! — esclamò il mastro, guardando ferocemente il gaucho.

— No: si è addormentato di colpo, — rispose Ramon.

— Me lo assicurate?

— Ve lo giuro.

— E quando si sveglierà?

— Domani, e non si ricorderà più di nulla.

— Guarito?

— Sì, ma assai debole: occorreranno quattro o cinque giorni prima che si rimetta completamente.

— Resteremo accampati qui adunque?

— No: anzi partiremo questa notte istessa... Ho veduto dei cavalli, due ore fa, sfilare verso il nord, e dalla andatura ho capito che non erano cavalli selvaggi. Sono certo di non ingannarmi: gl’Indiani hanno scoperto le nostre tracce e ci spiano.

— Non ci mancherebbe altro. E dove andremo noi?

— Bisogna guadagnare il Rio Negro e frapporre quel largo corso d’acqua fra gl’Indiani e noi.

[120]

— È lontano?

— Una mezza dozzina di miglia, e niente di più.

— E Cardozo potrà cavalcare?

— Lo porterete voi, mentre noi guideremo i cavalli selvaggi.

— Allora partiamo.

— Dopo cena, se avete trovato qualche cosa da porre sotto i denti.

— Aspettatemi qui, e avrete da rifocillarvi largamente.

Stava per mettersi in cammino onde recarsi a raccogliere le uova di struzzo, quando Ramon lo trattenne violentemente.

— Cosa c’è ancora? — chiese il mastro sorpreso.

— Udite!...

Il mastro tese gli orecchi, curvandosi verso terra. In lontananza si udivano delle grida selvagge che parevano avanzarsi rapidamente.

— Gl’Indiani? — chiese egli, raddrizzandosi.

— Sì, gl’Indiani.

— E vengono verso noi?

— Forse.

— Che ci abbiano scoperti?

— Non lo so. Pedro, atterra i cavalli.

— E cosa faremo noi con Cardozo in quello stato? — chiese il mastro con disperazione.

— Lo difenderemo, — rispose il gaucho. — Ramon non abbandona gli amici.

Ad un tratto il mastro indietreggiò vivamente, mandando una formidabile esclamazione:

— Tuoni e lampi!...

— Cosa vedete?

— Il pallone!

— Il pallone?...

— Sì, eccolo là!

Ramon alzò il capo e guardò. A due chilometri dall’accampamento, a circa trecento metri da terra, libravasi faticosamente il povero aerostato, già quasi tutto vuoto. Per quanto aguzzassero gli occhi, nè il gaucho, nè il marinajo scorsero persona alcuna aggrappata alla rete.

[121]

— Come mai si trova ancora in aria? — si chiese Ramon.

— E il signor Calderon dove sarà caduto? — si chiese il mastro, che, quantunque non nutrisse troppa simpatia per quell’uomo, pure sinceramente lo compiangeva.

— Senza dubbio sarà caduto nelle mani degli Indiani, — rispose Ramon.

— E forse a quest’ora l’avranno ucciso.

— I Pampas non risparmiano i loro prigionieri; ma i Tehulls, o Patagoni, se così meglio vi piace, si accontentano di farli schiavi.

— A terra! — esclamò Pedro, che ritornava correndo.

Era tempo. A due chilometri dal campo una grossa truppa di cavalieri, mezzo sepolta fra gli alti cardi della pampa, passava galoppando furiosamente e in disordine dietro al pallone e mandando acute grida.

Il suo passaggio fu così rapido, che i due gauchos non riuscirono a distinguere se fosse composta di Pampas o di Tehulls. Ad ogni modo quei cavalieri, interamente assorti nella caccia del pallone, non s’accorsero degli accampati, poichè continuarono a galoppare, dirigendosi verso il nord.

— Se ne sono andati, — disse Ramon, quando non li vide più. — Bisogna affrettarsi a trovare un ricovero, o verremo scoperti ed assaliti.

— Ma dove andare? — chiese il mastro.

— Ve lo dissi già. Solamente i boschetti che crescono sulle rive del Rio Negro possono celarci agli occhi di quei predoni.

— Non domando che di andarmene. Dieci minuti per raccogliere qualche dozzina di uova pel mio Cardozo e poi in sella.

— Affrettatevi adunque.

Il mastro si gettò in ispalla la carabina e si allontanò correndo, portando con sè una coperta. Non gli fu difficile di trovare il nido degli struzzi, che si trovava a breve distanza dall’accampamento, in mezzo ad un gruppetto di cactus.

Riempì la coperta di uova, la legò e ritornò presso i gauchos, i quali avevano fatto alzare i cavalli.

[122]

Ramon sellò il proprio cavallo, che era il più docile, e fece salire il mastro, passandogli Cardozo, che dormiva tranquillamente, avvolto in una grossa corconilla.

— Povero piccino! — esclamò il marinajo, serrandoselo al petto e accomodandolo sul dinanzi della larga sella. — Cercherò di non svegliarti.

— Il cavallo è tranquillo ed il ragazzo non si accorgerà di nulla — disse Ramon. — E poi fra un pajo d’ore saremo al fiume e riposerà meglio.

— E i cavalli selvaggi chi li condurrà?

— Ci incarichiamo noi, e vi assicuro che non ci sfuggiranno.

Il mastro strinse le ginocchia, e l’intelligente animale si mise in cammino, prendendo un passo allungato e dirigendosi verso il sud. Poco dopo lo raggiungevano i gauchos, montati sui due cavalli selvaggi e conducendo con loro anche il quarto cavallo.

La notte era calata. L’immensa prateria era diventata oscura: solamente sulla linea dell’orizzonte scorgevasi un vago chiarore, projettato dalle stelle, fra le quali spiccava superbamente la Croce del Sud. Ovunque regnava un profondo silenzio, che solo di quando in quando veniva interrotto dal leggero stormire dei cactus agitati da una fresca brezza che scendeva dalle lontane catene delle Ande, o dall’urlo di qualche lupo rosso che vagava in cerca di preda.

La piccola truppa, che si avanzava senza scambiare parola, cogli orecchi tesi ai più piccoli rumori, gli occhi bene aperti ed i fucili sotto mano, onde non lasciarsi sorprendere, costeggiò per qualche tratto una piantagione di cactus, poi entrò in una vasta zona scoperta, su cui stendevasi un’erbetta corta, minuta, lucente, che smorzava interamente il rumore prodotto dagli zoccoli degli animali.

— Stiamo bene attenti, — disse Ramon, che veniva per ultimo, col trombone posto sul dinanzi della sella. — Al primo allarme affrettatevi a gettarvi a terra.

— Speriamo che tutto vada bene, — rispose mastro Diego, [123] che sosteneva delicatamente il povero Cardozo. — Non vedo più nulla: è segno che gl’Indiani si sono allontanati.

— Non fidiamoci troppo.

— Bah! a quest’ora sono tutti dietro a quel dannato pallone.

— Silenzio, chè la voce in queste vaste pianure si espande ad incredibili distanze.

— Chiudo il becco.

Si avanzarono per un mezzo chilometro attraverso quel terreno scoperto, che in caso di pericolo non offriva il minimo rifugio camminando con precauzione e non perdendo di vista i piccoli gruppi di cactus che si scorgevano disseminati qua e là, poi piegarono verso il sud-ovest, dove apparivano alcuni cespugli alternati ad alcuni alberi che parevano carrubi selvatici e che in caso di bisogno potevano nasconderli agli occhi degli Indiani.

Stavano per raggiungerli, quando Pedro, che cavalcava in testa, bruscamente si fermò, gettando uno sguardo sospettoso su quel gruppo di verzura.

— Oh! — esclamò il mastro, serrandosi al petto il povero ragazzo. — Cosa si cela là sotto?

— Cosa vedi? — chiese Ramon, raggiungendo il fratello.

— Nulla; ma mi è sembrato che quelle piante si muovessero, — rispose il gaucho.

— Sei certo di non esserti ingannato?

— Non so cosa dirti; ma io diffido.

— Giriamo al largo; forse le ha mosse qualche giaguaro o qualche guanaco.

— Taci!...

— Cosa odi?

— Gl’Indiani che ritornano!

Per todos sanctos![13]... È vero.

Infatti verso il nord, ad una grande distanza però, si udivano delle grida accompagnate da un sordo fragore, che parava prodotto dal furioso galoppare di parecchi cavalli.

[124]

— Dannato pallone! — esclamò il mastro. — L’ha decisamente con noi!

— Vedi nulla, Pedro? — chiese Ramon.

— Sì, il pallone, che si avanza rasentando il suolo.

— Il vento è cambiato adunque. Non ci voleva che questo per farci passare una brutta notte.

— Cosa facciamo? — chiese Diego. — Bisogna prendere subito una decisione, o gl’Indiani ci scopriranno.

— Andiamo... eh!... eh!...

— Cosa?...

— Sprona!... sprona!...

Quattro cavalli si erano improvvisamente rizzati fra i cespugli. Diego, Ramon e Pedro cacciarono gli sproni nel ventre dei loro corsieri e si slanciarono verso il sud, senza nemmeno volgersi indietro.

Un istante dopo s’udì un furioso galoppo accompagnato da grida tuonanti.

— I Patagones! — esclamò Ramon.

Diego si volse indietro. Quattro cavalli, montati da quattro indiani di statura gigantesca, gl’inseguivano, guadagnando rapidamente via.

— Ah, briganti! — esclamò. — Se non avessi Cardozo, vi appiopperei un pajo di palle nelle costole.

— Sprona! sprona! — gridò Ramon.

I cavalli divoravano la via; ma quelli dei Patagoni, forse migliori e forse più riposati, guadagnavano sempre, e per colmo di sventura i loro cavalieri urlavano sempre, come se volessero attirare l’attenzione dei loro compagni che stavano inseguendo il pallone.

— Alto! — esclamò d’un tratto Ramon.

— Altri nemici? — chiese Diego.

— Mano ai coltelli! Attenti ai lazos!

I Patagoni arrivavano di gran carriera addosso al piccolo gruppo, che si era arrestato per far fronte al nemico. Passarono a pochi passi di distanza senza arrestarsi, gettando i loro lazos.

Diego si curvò sul cavallo, evitando le corregge che dovevano [125] strapparlo di sella o strangolarlo; ma Ramon, che era in prima fila e che lottava contro il cavallo, che in quel supremo istante si era imbizzarrito, si sentì avvincere a mezzo corpo e trascinare. Mandò un grido terribile:

— Ajuto!...

Strappato bruscamente di sella, fu trascinato in mezzo alle erbe, dietro ai cavalli dei Patagoni, che continuavano a galoppare furiosamente.

— Fuoco! — gridò Pedro: — fuoco sui cavalli!

— Pronto! — rispose Diego.

Un colpo di trombone e un colpo di carabina rintronarono. Due cavalli caddero fulminati al suolo, trascinando nella caduta i loro cavalieri.

— Ramon! — gridò Pedro, slanciandosi innanzi.

— Eccomi, fratello, — rispose una voce.

— Vivo?...

— Sì.

— Dio sia ringraziato!

— Più tardi lo ringrazierai.

— Sei ferito forse?

— No; ma stiamo per essere presi: guarda!...

[126]

XV. L’inseguimento dei Patagoni.

Infatti la situazione dei cavalieri stava per diventare disperata. Gl’Indiani lanciati dietro al pallone, che forse avevano preso per la luna o qualche cosa di simile, udendo quei colpi di fucile rimbombare nel silenzio della notte e le grida d’allarme dei loro compagni, avevano fatto una rapida conversione, dirigendosi verso il luogo che occupavano i gauchos, Diego e il povero Cardozo.

Erano molto lontani e non potevano ancora, stante la profonda oscurità, aver compreso di che si trattasse; ma non dovevano tardare a giungere, poichè si udiva il galoppo precipitato dei loro cavalli. Bisognava affrettarsi a prendere il largo, onde non venire circondati e perdere per sempre la libertà e fors’anche la vita.

— Avanti a tutta carriera, — disse Ramon, che si era affrettato a raggiungere il suo cavallo, che non aveva avuto il tempo di fuggire.

— E riusciremo a cavarcela bene? — chiese Diego con ansietà. — Non tremo per me, ma per questo povero ragazzo.

— È ciò che vedremo, ma vi assicuro che faremo il possibile per salvare Cardozo, — rispose Ramon. — Orsù, al galoppo!

— Una parola ancora: dove sono fuggiti i quattro individui che ci hanno assaliti? Là non vedo a terra che due cavalli.

[127]

— Bah! Corrono come cervi anche a piedi, e devono essere già molto lontani quei due che avete così bene scavalcati. Quanto agli altri, mi pare di vederli galoppare incontro alla banda che c’insegue. Ad ogni modo caricate le armi e tenetevi tutti pronti.

— Sta bene.

— Avanti!

Ramon lasciò andare il cavallo selvaggio che conduceva a mano e che era più d’impiccio che di utilità, balzò sull’altro e si mise alla testa del piccolo gruppo, dirigendosi verso il sud, dov’era certo d’incontrare fra breve il Rio Negro. Diego, dopo essersi legato per bene al petto Cardozo con un solido laccio, onde all’occorrenza aver le mani libere, e di aver caricato la carabina, gli si mise dietro, mentre Pedro si poneva alla retroguardia.

Gl’Indiani erano allora lontani un mezzo chilometro e spronarono i loro cavalli, mandando sempre acute grida. Sapendo senza dubbio di aver innanzi più cavalieri, si erano allargati in forma di mezzo cerchio, onde poterli prendere in mezzo tutti. Alcuni di loro però si vedevano galoppare verso l’ovest dietro al pallone, che continuava a trascinarsi per la prateria, facendo di quando in quando dei balzi giganteschi per poi ricadere e quindi risalire.

Per una buona mezz’ora nulla accadde di straordinario. I fuggitivi, spronando sempre, riuscirono a mantenere la distanza, anzi a guadagnare qualche centinajo di metri sugli inseguitori; ma ben presto le cose si cambiarono a loro svantaggio.

Mentre stavano superando un tratto di terreno ingombro di cespugli di luma, dalle cui frutta gl’indiani traggono un ottimo vino, e di boughe, alberi sacri per gli Araucani e dalla cui corteccia si estrae una specie di cannella, videro alzarsi dieci o dodici cavalieri colà posti in agguato o che forse si erano fermati per far riposare i loro cavalli durante l’inseguimento del pallone.

Carramba! — esclamò Ramon, ripiegandosi frettolosamente verso i compagni che si erano subito arrestati col [128] dito sul grilletto delle loro armi da fuoco. — Eccoci addosso anche tutti questi!

— I quali poi non faranno fatica a raggiungerci, — disse Pedro. — I loro cavalli saranno ben riposati e galopperanno più dei nostri, che cominciano già a dare segno di stanchezza.

— Si vede il Rio? — chiese Diego.

— No, ma non deve essere lontano, — rispose Ramon. — Ah! se potessimo frapporre il fiume tra noi e queste canaglie!

— Orsù, cosa si fa?

— Continuiamo a fuggire per ora.

— Vi avverto che il mio cavallo non correrà più a lungo, col doppio peso che porta.

— Ramon, — disse Pedro, — quanti uomini credi che siano?

— Una quarantina per lo meno, — rispose Ramon.

— Se si cercasse di dividerli? Abbiamo i nostri tromboni, Diego ha le sue carabine, e uno ad uno possiamo, se non distruggerli, ridurli ad un numero tanto esiguo da far loro venire meno il coraggio di continuare l’inseguimento.

— Hai ragione, fratello.

— In questo modo possiamo attirare su di noi l’inseguimento e forse salvare il giovane Cardozo.

— Grazie, signor Pedro, — esclamò Diego vivamente commosso. — E poi si dica che i gauchos non hanno cuore!

— Lasciate in tasca i ringraziamenti, — disse il gaucho. — Ramon, io parto pel primo verso l’est; appena me li vedo a tiro, scarico addosso a loro tutta la mitraglia del mio trombone, poi sprono.

— Va, fratello, e guardati bene dai bolas.

— Tirerò prima: te lo assicuro. E dove ci ritroveremo?

— Al di là del Rio Negro. Galoppa verso l’est fin che puoi, poi piega al sud e attraversa il fiume.

— Sta bene.

— Che Dio vi aiuti! — disse Diego.

— Grazie, — rispose il gaucho.

Guardò i dieci o dodici indiani che si erano levati dietro [129] ai cespugli e che guadagnavano rapidamente via, si mise sul dinanzi della sella il trombone, arrotolò il lazo, poi lanciò il cavallo verso l’est.

— Lo inseguiranno? — chiese Diego.

— Certamente, — rispose Ramon con voce tranquilla. — Eccoli!

— E sfuggirà ai bolas? Quei cani di Patagoni sono infallibili nel lanciarli.

— Pedro ha buoni occhi e non si lascierà cogliere; di più non permetterà loro di avvicinarsi troppo, finchè avrà polvere e chiodi da cacciar nel suo trombone.

La piccola banda che precedeva il grosso della truppa, vedendo Pedro separarsi dal gruppo e fuggire verso l’est, si era precipitata dietro di lui, mandando spaventevoli vociferazioni, considerandolo ormai una preda sicura. Solamente uno di loro aveva continuato a inseguire Ramon e Diego, tenendosi però in distanza.

— Ah! birbante! — esclamò Ramon.

— Perchè non segue i suoi compagni?

— Non lo comprendete?

— No davvero.

— Aspetta il grosso della truppa per lanciarla dietro di noi.

— Si potrebbe spacciarlo.

— Le vostre carabine che portata hanno?

— Lanciano una palla a ottocento metri.

— E quell’uomo non ne dista che quattrocento. Volete tentare?

— È presto fatto.

Il mastro arrestò il cavallo, accomodò Cardozo sulla sella, staccò dall’arcione una carabina e la puntò sull’Indiano, mirando con grande attenzione. Un mezzo minuto dopo una acuta detonazione rimbombava nella prateria. L’Indiano, colpito dall’infallibile palla del marinajo, si accasciò sul collo del suo cavallo, poi stramazzò pesantemente a terra, rimanendo immobile.

— Bel colpo! — esclamò Ramon.

[130]

— Il confetto è stato un po’ duro, — disse il mastro, ridendo. — Devo mandarne uno anche al cavallo?

— È inutile, Diego; risparmiate le munizioni, che sono molto necessarie in questo paese.

— Abbiamo un migliajo di colpi fra me e Cardozo.

— Ma il Chilì è lontano. Al galoppo!

In quell’istante un lampo balenò verso l’est, seguìto da una fragorosa detonazione.

— Pedro regala anche lui dei confetti, — disse il mastro.

— E di quelli che pungono, — disse Ramon. — Sono chiodi belli e buoni quelli che caccia nella pelle dei patagoni. Sproniamo e speriamo di ingannare queste canaglie che c’inseguono.

— Alto là!...

— Cosa c’è ancora?

Un oggetto brillante, che pareva una grossa palla di metallo, passò fischiando dinanzi a loro, perdendosi fra le erbe cinquanta passi più innanzi.

— Tuoni e lampi! — esclamò il mastro. — Un bolas!

— Degli altri Patagones?

— Senza dubbio, e ci sono molto vicini, a quanto pare.

— Ma dove sono?

— Forse celati in quelle macchie.

— Ah! devono essere i due Indiani che avete scavalcati poco fa, — disse Ramon. — Non monta! Avanti, Diego.

Spronarono i cavalli e si slanciarono attraverso un magnifico tappeto di folte erbette, screziato vagamente di verbene multicolori, le quali tramandavano un penetrante profumo.

Percorsi cinquecento metri, Ramon si volse indietro per vedere se fosse inseguito, e non potè frenare una imprecazione. Il grosso della truppa li seguiva sempre e, quello ch’era peggio, aveva guadagnato un bel tratto, poichè non distava che sette od ottocento metri.

— Orsù, bisogna separarci, — diss’egli.

— Anche voi mi lasciate? — chiese Diego.

— È necessario per la salvezza di Cardozo.

[131]

— Ah! se non avessi questo povero ragazzo!

— Cosa fareste?

— Mi imboscherei in qualche macchia e poi aprirei un fuoco d’inferno su quelle canaglie.

— Sono troppi, Diego. Il meglio che ci resta è di continuare a fuggire e di attraversare il Rio Negro prima di loro.

— Se lo potremo. Il mio cavallo comincia a dar segni di stanchezza.

— Chissà che gl’Indiani corrano tutti sulle mie tracce. Voi intanto correte sempre diritto e possibilmente gettatevi attraverso a quell’altura che vedo sorgere là in fondo. Forse colà troverete qualche nascondiglio.

— E dove ci ritroveremo?

— Al di là del Rio.

In lontananza si udì un’altra detonazione, accompagnata da un urlo di furore.

— Ecco Pedro che si fa sentire, — disse Ramon. — Addio, Diego, e se non vengo ucciso, contate su di me.

— Grazie, mio buon amico, e siate certo che non dimenticherò mai quanto vi devo.

Ramon fece cenno al mastro di andare innanzi, poi tornò bruscamente indietro, come se volesse caricare gl’Indiani.

Pochi minuti dopo Diego, che aveva continuato la corsa, udì un colpo di trombone e, voltatosi, vide Ramon fuggire ventre a terra verso l’ovest, seguito da una banda di cavalieri.

— Bravo giovane! — esclamò il lupo di mare con voce commossa. — Se esco sano e salvo da questo deserto, lo raccomanderò come si merita al Presidente della Repubblica. Ah!... ancora quei birbanti!... Decisamente l’hanno con me, e non c’è verso di mandarli a casa di messer Belzebù!... Marinajo mio, questa volta non scappi più dalle mani di quei pagani!...

La manovra dei due coraggiosi gauchos pur troppo non era riuscita interamente come avevano sperato. Il grosso della truppa, quantunque considerevolmente assottigliato, non aveva abbandonato l’inseguimento del terzo cavallo, montato dal marinajo e da Cardozo.

[132]

Anzi, vedendolo solo, aveva affrettato la marcia e guadagnava a vista d’occhio, allungandosi sempre più in forma di semicerchio, onde poterlo prendere in mezzo. Ormai la fuga era quasi impossibile e il mastro ben lo sapeva, avendo sotto di sè un cavallo quasi stanco.

Nondimeno non si perdette d’animo. Caricò la carabina colla quale aveva poco prima abbattuto il patagone, preparò l’altra, accomodò meglio che potè Cardozo, che continuava a dormire profondamente, legandolo solidamente alla larga sella, indi spronò vigorosamente il cavallo, dirigendosi verso l’altura poco prima scoperta e che non distava più di due chilometri.

— Se riesco a raggiungerla prima di avere alle costole tutti questi birbanti, posso sperare di salvare la pelle, — diss’egli. — Vedo là dei cespugli che possono servirmi di nascondiglio. E Ramon?

Guardò verso l’ovest e vide delle ombre fuggire, poi udì una seconda detonazione.

— Buono! — mormorò. — Quel bravo gaucho darà molto da fare ai suoi inseguitori.

Intanto i Patagoni, che parevano avessero compreso la sua intenzione, guadagnavano sempre, e li udiva eccitare i loro cavalli colla voce. Le due estremità del semicerchio erano già molto innanzi ed accennavano a restringersi per prenderlo in mezzo. Alcuni cavalieri non distavano più di quattrocento passi, e uno, il più vicino, lanciò anche un bolas, che si arrestò a mezza via.

Diego, benchè fosse assalito da brutti presentimenti e cominciasse ormai a disperare, spronava sempre. Disgraziatamente il cavallo, caricato di un doppio peso, non ne poteva più e ansava fortemente. Certi momenti il marinajo lo sentiva tremare ed era costretto a sostenerlo a furia di strappate.

Doveva essere la mezzanotte quando giunse ai piedi dell’altura, che si alzava per un tre o quattrocento metri, affatto isolata e coperta qua e là di cespugli e di carrubi selvatici.

— Un ultimo sforzo, povero animale, — disse il mastro, accarezzandolo. — Orsù, al galoppo!

[133]

Il cavallo, invece di ubbidire, si arrestò colla testa china verso terra.

— Avanti! — gridò il mastro, piantandogli spietatamente gli sproni nel ventre.

Il povero animale mandò un nitrito di dolore e salì la collina di galoppo; ma era proprio l’ultimo sforzo. Aveva percorso appena quattrocento passi, quando tornò ad arrestarsi, cadendo sulle ginocchia.

— È finita! — esclamò il mastro, tergendosi il freddo sudore che imperlavagli la fronte. — Non si va più innanzi! Fortuna che questi pagani, se mi prendono, non conoscono il valore dei diamanti! Presto, a terra, e pronti a difendere la pelle!

Si gettò in ispalla le carabine, prese fra le braccia Cardozo e si mise a salire la collina correndo. I Patagoni erano allora giunti al basso. Sette od otto bolas vennero lanciati dietro al marinajo, ma non lo colpirono. Il cavallo, che aveva appena abbandonato, ferito alla testa, stramazzò al suolo per non più rialzarsi.

— Animo, marinajo! — gridò il mastro. — La fortuna mi protegge.

In quell’istante i suoi occhi caddero su di una roccia, che al basso presentava una nera apertura, una caverna senza dubbio.

— Sono salvo! — esclamò, e si diresse a quella volta a tutte gambe; ma ormai era troppo tardi. I Patagoni salivano la collina di gran galoppo, mandando grida di trionfo.

In pochi istanti quindici o venti cavalieri gli furono addosso, urtandolo furiosamente. Il mastro cadde, trascinando nella caduta Cardozo.

S’alzò furioso con una carabina in mano e la scaricò a casaccio in mezzo al gruppo. Stava per impugnarla per la canna onde servirsene come di una mazza, quando si sentì afferrare per di dietro e rovesciare violentemente a terra.

Un indiano di statura gigantesca alzò su di lui il pugno, grosso quanto una mazza di fucina, e lo percosse furiosamente sul cranio.

— Ajuto! — gridò, e stramazzò al suolo come fulminato!

[134]

XVI. I grandi piedi dell’America del Sud.

In quella specie di triangolo smussato che l’America meridionale forma alla sua estremità, distendendosi per 168 miriametri fra gli oceani Atlantico e Pacifico, confinante al nord col Rio Negro, che la divide dalla Pampa Argentina, e al sud collo stretto di Magellano, — al quale triangolo fu dato il nome di Patagonia dal navigatore Magellano, che pel primo lo visitò nell’anno 1519 — vive un popolo che da tre secoli e più ha destato fra gli scienziati dei due mondi e fra i più arditi navigatori il più vivo interesse e le più appassionate discussioni.

Intendiamo parlare dei Patagones o degli Uomini dai grandi piedi, come li battezzò Magellano, tratto in errore dai loro giganteschi calzari di pelle di guanaco. Il loro vero nome però è quello di Ahonicauka o meglio ancora di Tehouk o di Tehuels, come vengono comunemente chiamati dai popoli vicini.

Fu la loro statura elevatissima, prodigiosa, che li rese celebri, nonchè la loro forza veramente straordinaria, il loro spirito d’indipendenza e il loro genere di vita. I primi naviganti che si avventurarono sulle desolate coste della Patagonia, lasciarono di questi Indiani descrizioni che mettono paura.

Magellano, che pel primo li vide, lasciò scritto che i marinai delle sue navi giungevano appena alla cintura di quei [135] colossali Indiani, ai quali inoltre egli attribuiva una forza prodigiosa e una tal voce che sembrava muggissero più forte dei buoi. I navigatori però, che li visitarono più tardi, diminuirono gradatamente la statura di quegli uomini, i quali, senza essere così giganteschi, possono considerarsi ancora oggidì i più grandi, i più sviluppati e i più vigorosi che vanti la razza umana.

Drake, che li visitò nel 1578, disse che erano un po’ più alti di alcuni inglesi, niente di più; Cavendisk, che li vide nel 1586, disse che l’impronta dei loro piedi era di diciotto pollici; Knyvet, che sbarcò su quelle coste nel 1591, vide Indiani alti dalle quindici alle sedici spanne; Van Nort nel 1598 disse che erano tutti di alta statura; Sebald de Veert nel 1599 li fa alti dai dieci agli undici piedi: più di tre metri; Spilbergen nel 1614 li chiamò veri giganti; Le-Maire e Schouten nel 1615 trovarono degli scheletri alti dai dieci agli undici piedi, e videro crani così grandi che si potevano portare come elmi; Falkner nel 1740 vide un capo Indiano alto due metri e trentatre centimetri; Byron nel 1764 vide pure un capo così alto e altri un po’ più bassi; Wallis nel 1766 trovò degli Indiani alti due metri e qualcuno alto sette piedi; Bougainville, nel 1767, non più alti di sei piedi e non più bassi di cinque o sei pollici; Viedman nell’anno 1783 li vide usualmente alti sei piedi; King, nel 1827, dai cinque piedi e dieci pollici ai sei piedi; D’Orbigues, nel 1829, non oltre i cinque piedi e undici pollici; Fitzroy e Darwin nel 1833, metri 1,94; Mayne e Cunningham negli anni 1867-69, cinque piedi e undici pollici, ma ne videro uno alto metri 2,08; Auton nel 1865 disse che i più grandi toccavano metri 1,94.

Senza dubbio la loro razza è andata a poco a poco abbassandosi, come lo dimostrano gli scheletri elevatissimi, che si rinvengono anche oggidì; ma si possono considerare i Patagoni gli uomini più giganteschi della razza umana. Molto probabilmente però, alcuni navigatori vennero tratti in errore per aver visto questi Indiani solamente a cavallo. Infatti, quando sono sui loro destrieri sembrano più grandi [136] di quello che siano realmente, avendo per lo più le gambe corte, il busto lunghissimo e le forme sviluppatissime, ma che sembrano maggiori a causa del lungo manto di pelle di guanaco, che portano col pelo di sotto.

Questo popolo, il cui numero si fa ascendere a circa 120.000 anime, numero ben esiguo per una regione che ha una superficie di 12.000 Mmq., forma un tipo assolutamente a parte, che si stacca completamente dagli Indiani Pampas, che occupano la regione vicina alle frontiere Argentine, dagli Indiani Araucani, che occupano la Patagonia confinante coll’oceano Pacifico, e sopratutto dagli indigeni della Terra del Fuoco, brutti, luridi e, quello che è più strano, tanto piccoli da poterli chiamare veri nani, quantunque solo poche centinaia di metri di acqua li separino dai Patagoni.

Oltre la statura che li distingue, hanno la testa grossissima, i capelli lunghi, gli occhi neri, vivaci, il volto per lo più ovale; la fronte convessa, il colorito bruno rossiccio, e sono affatto sprovvisti di barba, che si strappano accuratamente col mezzo di un piccolo strumento di argento o con pezzi di vetro. Sono meno crudeli dei loro vicini, che di rado risparmiano i prigionieri e specialmente gli uomini di razza bianca; ma odiano profondamente gli Spagnuoli, che distinguono col nomignolo di cristianos, perchè li considerano come gli usurpatori dei territori posti a settentrione.

Per lo più sono taciturni, dall’espressione malinconica, ma amano i grandi parlatori, e in famiglia talvolta scherzano coi loro figli, che adorano, e colle loro mogli, che assai rispettano.

Nomadi per eccellenza, non hanno nè centri, nè villaggi. Vanno e vengono per le immense praterie del loro territorio, spinti dal capriccio o dal desiderio di trovare luoghi migliori per la caccia, e pare che si prendano ogni cura per evitare il contatto cogli uomini di razza bianca. Si direbbe che hanno paura della civiltà, della quale del resto ebbero quasi sempre a dolersi, e la sfuggono. Infatti, ben di rado osano varcare il Rio Negro, di là dal quale vivono i [137] Pampas e più oltre gli Argentini, che aborriscono in ispecial modo.

Intrepidi cavalieri da eguagliarsi ai famosi gauchos, si può dire che anch’essi vivono sempre in sella, essendo il cavallo diventato per loro tanto necessario da non poter più farne a meno. Si può anzi dire che, se la razza equina si estinguesse, quella dei Patagones non tarderebbe molto a seguirne il destino.

È infatti il cavallo che dà la vita all’Indiano delle pampas, che lo nutrisce, che lo ajuta nelle caccie, che lo veste, che gli somministra perfino la tenda; e il Patagone, che ciò non ignora, ama immensamente il suo destriero, più della propria moglie, più, forse, dei figli.

I Patagoni vivono in completa libertà. Si radunano in piccole bande, che di solito non superano i due o trecento individui, eleggendosi un capo, che viene scelto fra i più valorosi, ma che ha un ascendente molto limitato sui componenti la tribù. Hanno però una certa venerazione pei loro stregoni, che per lo più sono scaltri impostori che si dicono protetti da Vitamentru, un genio buono per tener lontane le bricconate di Gualisciù, che è il genio del male e che comanda agli spiriti maligni.

Del resto, poco si occupano della religione. Tutte le loro occupazioni sono rivolte ai cavalli, alla famiglia, alla caccia, dalla quale ritraggono il loro sostentamento, ignorando affatto l’agricoltura, e alla guerra, che amano assai, essendo tutti coraggiosi e di un temperamento tutt’altro che tranquillo.

Dati questi brevi cenni su cotesto popolo, sulla cui terra sono caduti i superstiti del Pilcomayo, riprendiamo il filo della nostra veridica storia.

················

A circa sessanta chilometri dalla foce del Rio Negro, meglio conosciuto dagli indigeni sotto il nome di Gusa-Leuvre, bel corso d’acqua che si forma sotto il 39°,40ʹ di lat. S. ed il 70° di longit. O. dalla congiunzione del Rio Sanguel [138] col Leuvre e che corre attraverso le pampas per oltre centocinquanta leghe, si era accampata una piccola tribù di Patagoni, formata da una cinquantina di famiglie.

All’ingiro erano state già erette le tende, dette comunemente toldos, o meglio ancora hou, come le chiamano i Patagoni, formate di pelle di guanaco e di cavallo, cucite accuratamente e rese impermeabili da un denso strato di terra rossa mescolata a grasso, di forma quadrangolare, lunghe circa quattro metri, larghe tre e alte due e mezzo sul dinanzi e solamente due sul dietro onde far scorrere l’acqua.

Uomini e donne, bizzarramente vestiti e coi visi dipinti di bianco, di nero e di giallo, si affaccendavano attorno ai cavalli, che vi erano in gran numero; altri attorno ai fuochi che ardevano dinanzi alle toldos, e altri ancora dietro alle armi, che venivano pulite con grande accuratezza e piantate in terra a breve distanza dalle capanne.

Nel mezzo del campo alcune donne dalle forme giunoniche e di statura elevata, erano occupate a ornare una tenda, piantandole attorno delle lance, alle cui estremità portavano gruppi di piume di nandù e campanelluzzi d’argento, che tintinnavano graziosamente.

Ad un tratto ecco uno strano clamore alzarsi alla estremità del campo che guardava verso un piccolo bosco di carrubi e di boyghe, facendo bruscamente interrompere tutti i lavori. Poco dopo si udì qua e là una specie di rullo, che pareva emesso da un tamburo, accompagnato da certi suoni bizzarri che sembravano prodotti da alcuni flauti molto stonati.

Gli uomini abbandonarono precipitosamente le tende e si radunarono in mezzo al campo, attorno a quella che le donne stavano addobbando colle lance.

Un guerriero uscito dal boschetto e montato su di un rapido cavallo dal mantello bianco-sporco, si avvicinava all’accampamento, facendo volteggiare al disopra della sua testa una lancia dalla punta di ferro, adorna all’altra estremità di un gruppo di penne di rhea.

[139]

— Il gounak![14] — si udì esclamare da ogni parte. — Lo stregone sta per venire!

Il guerriero che si avvicinava, spronando vivamente il cavallo, era uno dei più superbi campioni della razza patagone.

Era alto due metri e qualche centimetro, aveva il torace ampio, le spalle larghissime, la testa grossissima, fornita di una lunga e ruvida capigliatura nera. La sua tinta spariva quasi interamente sotto uno strato di color bianco, tinta che si dànno nelle cerimonie festose; ma il suo viso mostrava qua e là un colore rossiccio, quantunque anch’esso portasse abbondanti segni in forma di mezzaluna, fatti con terra ocracea impastata con midolla di ossa di selvaggina.

Indosso portava il costume nazionale, che è formato da un gran manto di pelle di guanaco cucito con tendini di struzzo, tinto internamente di rosso e all’esterno arricchito di disegni pure rossi, assicurato da una larga cintura, detta wati, e da un pezzo di pelle, detta chiripà, che gli copriva parte del ventre e delle gambe.

Ai piedi calzava i botas de podro, grandi stivali fatti di pelle di guanaco accuratamente raschiata, che davano alle sue estremità proporzioni fenomenali, e al collo, ai polsi e agli orecchi portava collane, pendenti e braccialetti di argento, grossolanamente lavorati, ma non mancanti di un certo gusto artistico.

Giunto in mezzo all’accampamento, quel superbo cavaliere balzò a terra con un’agilità sorprendente per un uomo di tale statura, e volgendosi verso gli uomini che l’avevano subito circondato, chiese con una voce così potente da essere udita a un chilometro di distanza:

— È pronta la tenda?

— Sì, capo, — risposero gl’interrogati.

— Conducete il cavallo ed il bambino.

— E lo stregone non viene? — chiesero i guerrieri con una certa ansietà.

[140]

Il capo aggrottò la fronte e tracciò in aria alcuni segni, dicendo con voce triste:

— Gualisciù ha vinto il genio del bene ed ha ucciso lo stregone.

— È morto?

— Un serpente lo ha ferito presso i toldos del capo Akuwa, ed il povero uomo è morto in meno tempo che occorra a voi di lanciare tre volte il bola.

— Brutto presagio per tuo figlio, o capo, — disse un guerriero.

— Tutto è nelle mani di Vitamentru, — rispose il gigante scuotendo la testa. — Orsù, conducete il cavallo ed il ragazzo, e la cerimonia si compia.

— Senza uno stregone? — chiesero con sorpresa i presenti.

— Mio figlio ha compiuto i quattro anni la ultima luna che è sorta: egli deve diventare un piccolo uomo, — disse il capo. — Lo stregone è morto, ma ci sono io, e posso supplirlo nella presente cerimonia.

Ad un suo cenno un bellissimo cavallo, che pareva fosse stato appositamente ingrassato, tanto era grosso, tutto adorno di campanelluzzi d’argento e coperto da una splendida gualdrappa, che somigliava ad una di quelle che tessono gli Araucani e che chiamansi corconillas, fu condotto presso la tenda addobbata.

Due uomini lo atterrarono e gli legarono solidamente le gambe con robuste cinghie di pelle di guanaco, in modo che non potesse fare più alcun movimento. Tutti i guerrieri e le donne dell’accampamento subito lo circondarono.

Quasi subito si vide uscire dalla tenda addobbata una donna dalla tinta biancastra, di statura alta, di complessione robusta, coi capelli divisi in due trecce, allungati artificiosamente con peli di guanaco e adorni di sonagliuzzi di argento e di nastri, il cui colore era ormai diventato di un nero untuoso.

Indossava il manto nazionale, trattenuto sul dinanzi con un grande spillo formato da una specie di disco d’argento; una lunga chiripà di cotone le scendeva fino ai piedi, sul [141] capo portava il kotchi, specie di fascia bianca che cinge la fronte, e agli orecchi dei pesantissimi pendenti d’argento quadrati e assai barocchi.

— L’ora è giunta, o donna, — le disse il capo, che si manteneva ritto accanto al cavallo. — La pittura è completa?

— Idisciè non domanda che di diventare un piccolo guerriero, — rispose la donna.

— Conducilo adunque.

La donna rientrò nella tenda e poco dopo usciva, conducendo con sè un ragazzo di quattro anni, ma che per la statura ne dimostrava otto, vestito come il capo, ma orribilmente dipinto di rosso, di nero e di bianco. Il suo viso sembrava una maschera ributtante: aveva la parte inferiore compresa fra gli occhi e la bocca dipinta in rosso, sotto le palpebre inferiori portava due mezzelune nere, lucenti, grosse quanto un dito, e sopra gli occhi altre due mezzelune bianche.

Il capo contemplò con un certo orgoglio il ragazzetto, poi lo prese e lo sdrajò sul cavallo, mentre alcuni guerrieri battevano furiosamente certi tamburi di pelle e suonavano disperatamente certi flauti formati di ossa, che si avrebbe giurato essere tibie di gambe umane.

Prese un osso acuminato e sottile che la donna gli porgeva, e, dopo d’aver tracciato in aria parecchi segni bizzarri e di aver mormorato alcune parole misteriose, con un colpo rapido traforò gli orecchi del ragazzetto, cacciando dentro i fori due piccoli pezzi di metallo destinati a conservare e ingrandire l’apertura praticata.

Compiuta quella specie di battesimo, senza che il ragazzetto avesse dato segno del minimo dolore, il capo si volse verso sei guerrieri, che parevano i più valorosi della tribù, a giudicarli dalle numerose cicatrici che coprivano i loro corpi, e collo stesso osso acuminato punse a tutti la prima falange del dito indice, facendo uscire alcune gocce di sangue, che gettò a terra, esclamando:

— A Vitamentru e a Gualisciù!

[142]

Fatta quella strana offerta ai genii del bene e del male, impugnò una lancia e l’alzò sopra il cavallo per immergergliela nel cuore, onde le sue carni servissero di banchetto ai convitati.

Stava per vibrare il colpo, quando un grido acutissimo, seguìto poco dopo da intense grida emesse da tutta la tribù, lo arrestò. Alzò il capo e guardò in aria: la lancia gli sfuggì dalle mani, mentre tutti gli uomini che lo circondavano cadevano col viso contro terra.

[143]

XVII. Il figlio della luna.

Uno spettacolo strano, affatto nuovo per quei selvaggi, che nulla avevano mai visto all’infuori delle loro smisurate praterie, dei loro fiumi e delle stelle, si offriva ai loro sguardi stupefatti.

Sull’orizzonte, a un miglio di distanza, era improvvisamente apparso un globo di dimensioni enormi per quegli ingenui figli delle praterie, che non avevano mai visto nell’aria un astro più grande della luna e del sole. S’avanzava con notevole velocità in direzione del loro accampamento, con un dondolamento marcato, mantenendosi a soli due o trecento metri sopra la prateria, ma tendendo ad abbassarsi di mano in mano che si avvicinava.

Cosa poteva mai essere quell’astro di nuovo genere che appariva così grosso, con una macchia nerastra su di un fianco, che la distanza non permetteva ancora di ben discernere? Ecco quello che si domandava il capo, il quale era rimasto in piedi, cogli occhi stravolti e i lineamenti alterati dal più profondo stupore, che non mancava di una certa dose di superstizioso terrore. Quello stupore fu però di breve durata. Il bravo patagone di repente si scosse, si rianimò, e, alzando le braccia, gridò con voce tonante:

— Figli di Tehulls, non isgomentatevi! La luna si degna di visitare i figli prediletti di Vitamentru. A cavallo! a cavallo!

[144]

Udendo la voce del capo, i guerrieri balzarono in piedi, mandando assordanti clamori, staccarono i cavalli, salirono in arcione, impugnarono le lancie e si slanciarono dietro al capo, che galoppava intrepidamente attraverso la prateria per accogliere degnamente l’astro che si degnava visitare i figli delle pampas.

La supposta luna era lontana pochi tiri di fucile e scendeva lentamente. Aggrappato al suo fianco si vedeva un uomo, il quale pareva che osservasse con viva attenzione i cavalieri che gli correvano incontro.

Il capo, giunto proprio sotto la luna, o, meglio, sotto al pallone, come già il lettore avrà indovinato, alzò le mani verso quell’uomo, gridando: — O sciasciè![15].

Il figlio della luna, che non comprendeva forse la lingua patagone, non rispose e continuò a guardare i cavalieri, che seguivano il pallone al piccolo trotto, agitando festosamente le lancie. Il capo ripetè la parola in lingua spagnuola, pregando che lo sciasciè si degnasse di scendere fra i prediletti figli di Vitamentru.

Il figlio della luna questa volta si degnò di rispondere con un gesto affermativo; ma il pover’uomo, che pareva non disponesse di alcun mezzo per effettuare la discesa, non abbandonò la rete, a cui si teneva solidamente aggrappato.

Il pallone però, che doveva essere quasi vuoto, a giudicare dalle innumerevoli pieghe che cadevano lungo i suoi fianchi, scendeva sempre con dei dondolamenti fortissimi e pareva che fosse, in certi momenti, lì lì per rovesciarsi a causa senza dubbio di quell’uomo, che si teneva come incrostato alla rete. Ben presto ondeggiò a soli quattro metri di altezza, sfiorando coll’estremità inferiore le cime di alcuni cespugli di huignal, carichi di grosse bacche. Il figlio della luna, che ormai si trovava nell’impossibilità di sfuggire all’inseguimento dei Patagoni, liberò le gambe, che teneva dentro le maglie della rete, e si lasciò cadere a terra, sprofondando fra i cespugli.

[145]

Il pallone, liberatosi da quel peso ragguardevole, fece un immenso salto nell’aria e, trovata una corrente contraria, fuggì verso il nord, inseguito dalla maggior parte dei cavalieri, che non volevano perdere la luna.

Il capo patagone, balzato rapidamente d’arcione, si slanciò in mezzo ai cespugli, esclamando:

— O padre! o gran padre!

Il preteso figlio della luna, dopo quel magnifico capitombolo, si era lestamente rialzato impugnando un paio di pistole, che tosto diresse contro il capo, dicendo con voce secca e minacciosa:

— Vieni da amico, o da nemico?

Il capo, che non si aspettava certamente quella accoglienza da un uomo che scendeva dal cielo, si fermò stupefatto, guardando con occhio triste e quasi indignato lo straniero.

— Perchè minacciare il capo dei buoni Tehulls, che chiedono la tua amicizia, o figlio della luna? — chiese il capo con dolore. — Forse che tu hai da temere qualche pericolo da noi?

— È vero, — rispose lo straniero con un sorriso strano: — io sono il figlio della luna, che visita i buoni figli della prateria.

Poi il signor Calderon, l’agente del Governo, l’uomo che aveva accompagnato il mastro e Cardozo nella pericolosa spedizione, poichè era lui in carne ed in ossa, si passò tranquillamente le pistole nella cintura e incrociò le braccia, guardando fissamente il capo patagone, come se volesse leggergli in fondo all’anima.

— Il figlio della luna si degna di accettare l’ospitalità che gli offre il capo dei Tehulls? — chiese il patagone dopo un breve silenzio.

— Ti seguo, — rispose il signor Calderon.

Il gigante indiano uscì dalla macchia seguito a breve distanza dall’agente del Governo, che non aveva perduto una briciola della sua consueta calma, quantunque la sua situazione potesse da un momento all’altro diventare pericolosa, e si diressero verso l’accampamento, mentre i guerrieri che [146] non si erano lanciati dietro al pallone lo precedevano, gettando assordanti grida e facendo volteggiare in segno di giubilo le lancie e i bolas.

Le donne e i fanciulli della tribù, che avevano assistito a quella caduta straordinaria del preteso figlio della luna, mossero tutti incontro al corteo urlando e danzando; ma il capo con un gesto energico intimò a tutti il silenzio, e condusse l’ospite in una vasta tenda, che era la più bella di tutte quelle esistenti nel campo.

Il signor Calderon, che pareva ormai rassicurato circa la sua sorte, lo seguì senza esitare, limitandosi per ora a guardare attentamente il capo indiano e tutti quelli che lo circondavano.

Quando si vide sotto la tenda in presenza del solo capo, un leggero pallore si diffuse sul suo volto già abbastanza pallido, e aggrottò la fronte.

— Capo, — disse bruscamente, — cosa desideri da me? quali intenzioni hai tu?

L’Indiano lo guardò con sorpresa come se non comprendesse il senso di quelle interrogazioni, poi rispose:

— È la tenda tua: sei l’ospite gradito del capo dei Tehulls.

Poi fece atto di uscire; ma il signor Calderon con un gesto lo trattenne.

— Parliamo, — disse.

— Il figlio della luna non ha fame adunque? — chiese il Patagone.

— Hai ragione: sono a digiuno da due giorni.

— La luna non dà viveri a’ suoi figli?

— Aveva troppa fretta di scendere, — disse l’agente del Governo con un lieve sorriso.

— Hauka però non ha fretta e darà da mangiare al figlio del cielo.

Il bravo capo uscì, dopo di aver lasciato cadere la tenda di pelle che chiudeva il toldo, onde gli sguardi dei curiosi non disturbassero il signor Calderon.

Questi, rimasto solo, si mise a osservare con vivo interesse la tenda, che poteva diventare anche la sua prigione.

[147]

Era di forma quadrilunga, come sono per lo più le toldos dei Patagoni, lunga oltre quattro metri, larga tre e alta due e mezzo sul dinanzi e solamente due sul di dietro, onde lasciar scorrere la pioggia. L’ossatura era composta di piccoli bastoni lunghi nove o dieci centimetri, sostenuti da pertiche più lunghe; il rimanente era di pelli di guanaco cucite e dipinte con una miscela di grasso e di terra rossa.

Tutto il mobilio consisteva in qualche cuscino sdruscito, in alcune coperte araucane, in qualche ponchos[16], in uno spiedo, una pentola di ferro ed alcuni gusci di armadillo[17], che servivano di recipienti.

— Per Bacco! — mormorò il signor Calderon; — non mancava che quest’avventura. Eccomi diventato anche il figlio della luna! Mi lasciassero almeno, questi stupidi selvaggi, andare in cerca di quei due dannati marinai! Oh! ma il tesoro non andrà perduto!

Si sedette su di un mucchio di coperte e parve s’immergesse in profondi pensieri.

La ricomparsa del capo lo strappò bruscamente dalle sue riflessioni.

— Eccomi, o figlio della luna! — disse il capo entrando. — Hauka porta dei viveri eccellenti.

— Sei tu che porti questo nome? — chiese l’agente del Governo.

— L’hai detto.

Prese dalle mani di un indiano un voluminoso sacco e lo vuotò dinanzi al signor Calderon. Conteneva gran copia di vegetali, radici, bulbi, patate selvatiche, certi spinacci e dei pezzi di gomma del bolax glebaria, di cui i Patagoni sono molto ghiotti e che dicesi mantenga i denti bianchi.

Quindi depose a terra parecchi gusci di armadillo, contenenti alcuni del sangue ancora caldo, altri della midolla di ossa di guanaco sciolta nel grasso e infine una specie di piatto di ferro contenente un cuore di guanaco crudo, un [148] vero manicaretto pei palati patagoni. Da ultimo mostrò una bottiglia piena di aguardiente, una specie di acquavite di provenienza spagnuola, trovata forse nella dispensa di qualche nave naufragata su quelle coste e serbata con grande cura per le occasioni eccezionali.

Il signor Calderon, che moriva di fame, poichè da due giorni non toccava cibo, si gettò avidamente sui bulbi, sulle radici e sulle patate selvatiche e bevette un buon litro di sangue caldo, malgrado fosse orribilmente salato.

Un abbondante sorso di aguardiente, che gli restituì prontamente le forze, pose fine a quello strano pranzo.

Il capo, che aveva assistito a quella scorpacciata con visibile soddisfazione, quando vide che il figlio della luna aveva terminato, gli offrì una pipa di legno colla cannuccia d’argento, carica d’un eccellente tabacco, detto golk, che il signor Calderon si affrettò ad accendere, servendosi del suo acciarino, quantunque il previdente patagone gli avesse presentato il suo unitamente ad un certo fungo che si raccoglie ai piedi delle Ande e che, ben seccato, serve di esca.

— Siedi, capo, — disse il figlio della luna, dopo d’aver aspirato alcune boccate, — e se vuoi, discorriamo un poco.

Il patagone ubbidì, sedendosi colle gambe incrociate alla moda dei Turchi.

— Dove sono disceso? — chiese l’agente del Governo.

— Presso il Rio Negro.

— Dove vai?

— Dove vorrà il figlio della luna.

— Credi che io rimanga con te?

— Giacchè sei venuto da me, vi resterai: così vuole la mia tribù.

Il signor Calderon non potè trattenere un gesto d’impazienza e di dispetto.

— E se io volessi andarmene? — chiese.

— Te lo proibirei.

— Anche se tornasse la luna a prendermi?

— Terrei con me anche la luna e la farei vedere ai miei compatrioti del Sud.

[149]

— Ma cosa intendi di fare di me?

— Lo stregone della mia tribù, giacchè l’altro è morto. Tu discendi dal cielo e ci proteggerai come lo stesso Vitamentru, ci darai selvaggina in abbondanza, curerai i nostri guerrieri e le nostre donne, e noi saremo tutti felici.

— Bella prospettiva in verità! — mormorò il signor Calderon coi denti stretti. — Bah! durerà fin che durerà. — Poi volgendosi bruscamente verso il capo, gli chiese:

— Hai incontrato degli uomini bianchi?

— Vengo dal sud, e non vidi che uomini rossi.

— Questi uomini mi abbisognano, capo.

— Chi sono?

— Figli della luna come me.

— Dove si trovano?

— Sono discesi verso il Nord.

— Sono potenti?

— Come e forse più di me.

— Auh! — fe’ il capo. — La mia tribù sarà la più potente e la più felice della terra dei Tehulls. Questi uomini si cercheranno appena i miei cavalieri saranno di ritorno colla luna.

— La luna non si lascierà prendere, capo.

— Perchè?

— Perchè risalirà in cielo ad illuminare le terre dei Tehulls.

— Ben detto! Ora che ti sei riposato, bisogna che tu venga con me.

— Dove mi conduci?

— Lo saprai più tardi.

Il capo si alzò e battè le mani. La coperta che chiudeva la tenda si alzò, e il signor Calderon potè vedere un bellissimo cavallo, che scalpitava a pochi passi di distanza, trattenuto a gran fatica da un guerriero di statura gigantesca.

— Vieni, o figlio della luna, — disse il capo.

Il signor Calderon, quantunque desiderasse di fare una bella dormita, si alzò e uscì, non dimenticando di portare [150] con sè le pistole, sulle quali molto calcolava in caso di disgrazia.

Benchè fino allora il capo patagone si fosse mostrato verso di lui pieno di attenzioni, egli ricominciava a ridiventare inquieto, ignorando il motivo di quella gita misteriosa; pure, ben sapendo che una resistenza sarebbe stata del tutto vana, anzi assai compromettente, finse di far buon viso alla cattiva fortuna.

Hauka osservò con profonda attenzione il cavallo da uomo che se ne intende, poi gli gettò sulla groppa una grossa coperta araucana, sovrapponendovi la tusk, che è una grande sella, ben fatta, di legno ricoperto di pelle, e passò in bocca al destriero il morso, che è di legno, fornito di solide briglie di pelle intrecciata.

Afferrò poscia il signor Calderon e, senza sforzo alcuno, lo mise in sella, legandogli ai piedi due strani speroni, detti watercu, composti di due cilindri di legno, forniti di un chiodo molto acuto.

Appese alla sella le staffe, che sono di legno ben pulito, coll’arco di pelle, poi balzò su di un altro cavallo che era stato già bardato.

Ad un suo fischio tutti i guerrieri che erano nel campo inforcarono i loro cavalli e si misero dietro al figlio della luna in maniera da impedirgli ogni tentativo di fuga.

— Andiamo, — disse il capo.

— Ma dove mi conduci? — chiese ancora il signor Calderon, le cui inquietudini crescevano.

— Lo saprai ben presto.

— Ricordati che io sono il figlio della luna, e che con un solo cenno ti posso far morire.

— Hauka è buono, — si accontentò di dire il capo. — Partiamo, chè il tragitto è lungo.

I cavalli, spronati vigorosamente, partirono di carriera, scomparendo verso le grandi praterie del sud.

[151]

XVIII. Un supplizio spaventevole.

Otto ore dopo la partenza del capo, del signor Calderon e dei guerrieri, una truppa di cavalieri che aveva passato a nuoto il Rio Negro, entrava nel campo schiamazzando, salutata dai nitriti dei cavalli attaccati ai piuoli delle tende.

Le donne, i vecchi ed i fanciulli, svegliati bruscamente da tutto quel chiasso, che assumeva proporzioni tali da rompere i timpani anche agli orecchi meglio conformati, credendo di essere stati sorpresi da una banda di Pampas, che non li vedono troppo di buon occhio scorrazzare le immense praterie del Sud, si precipitarono confusamente fuori dalle toldos, armati di lancie e di bolas, pronti a difendere il loro campo, malgrado l’assenza dei guerrieri.

La loro apprensione fu di breve durata. Quantunque la notte fosse assai oscura, nei cavalieri che invadevano il campo riconobbero tosto i loro compatrioti che si erano slanciati dietro le tracce della luna e che ritornavano dopo una corsa furiosa di dieci ore, coi cavalli coperti di schiuma e mezzi rattrappiti.

— Largo! largo! — tuonò il capo della truppa, che cavalcava in testa a tutti.

— Dov’è la luna? — chiesero le donne ed i vecchi, che non riuscivano a scorgere l’astro.

[152]

— È tornata in cielo, — rispose il capo.

— Disgrazia! disgrazia! — si misero ad urlare le donne.

— Ma portiamo con noi qualche cosa d’altro, — disse il capo.

— Un altro figlio della luna?

— No: due maledetti cristianos che hanno ucciso alcuni dei nostri più coraggiosi compagni.

Una esplosione di furore si manifestò fra i Patagoni del campo.

— A morte i cristianos! — vociarono tutti, alzando le lancie e facendo volteggiare i bolas.

— Sì, a morte, — dissero i cavalieri.

— Subito! subito!

— All’alba, — disse il capo. — Largo ai cristianos!

Due cavalli vennero spinti in mezzo all’accampamento. In groppa, solidamente legati e semi-coricati, portavano un uomo ed un ragazzo, che pareva non dessero più segno di vita. Alcuni guerrieri li sbarazzarono dei legami e li gettarono bruscamente a terra, senza badare se quei disgraziati prigionieri in quella ruvida caduta si rompevano le membra.

Il più anziano, che era il nostro mastro Diego, il quale, dopo il potente pugno ricevuto dal patagone che lo aveva fatto prigioniero, non era più tornato in sè, sentendosi buttare a terra, aprì gli occhi, esclamando:

— Per Bacco! un po’ più di grazia, miei cari selvaggi! Volete rompermi anche le gambe, per soprammercato? Corpo d’un treponti sventrato! Ho dormito, o mi avevano mezzo accoppato?

Facendo uno sforzo si alzò sulle ginocchia, girando attorno uno sguardo sospettoso.

— Hein! — mormorò. — Mi pare d’essere in brutta compagnia. To! anche delle donne, dei bambini... Corpo di un cannone smontato! Come finirà questa brutta avventura? E il mio povero Cardozo?

— È qui, — rispose il ragazzo, che a poco a poco si alzava.

[153]

— Ah! ragazzo mio! — esclamò il mastro, abbracciandolo e stringendolo amorosamente al petto. — Ti svegli in un gran brutto momento!

— Dove siamo noi, marinajo?

— Lo vedi: nelle mani dei giganti della Patagonia.

— Ma come è successo ciò? E i gauchos, perchè non sono con noi?

— Brutte cose sono accadute mentre tu dormivi, mio povero ragazzo. I Patagoni ci hanno dato la caccia, i gauchos si sono fatti inseguire nella speranza di salvarci, e non so più dove siano, se pure sono ancora vivi, e noi siamo stati presi e condotti al di qua del Rio Negro.

— Ma cosa vogliono fare di noi questi giganti del malanno?

Il mastro lo guardò con gli occhi umidi, ma non rispose.

— Marinajo, — disse il coraggioso ragazzo, — sai bene che io non ho mai avuto paura. Apri il becco e butta fuori tutto quello che sai.

— Mio povero Cardozo, temo che la finisca male per noi. Questi pagani sono furibondi contro di me perchè ho ucciso o storpiato tre o quattro loro compagni, e sono certo che ce la faranno pagare cara. Guarda che brutte occhiate ci lanciano e come impugnano fieramente le lancie e i bolas.

— È un po’ duro, marinajo, il dover morire per mano di questi selvaggi. Ah! se potessimo contare su qualche ajuto!

— E su chi mai, figlio mio? I gauchos sono forse stati uccisi, e se pur fossero ancora vivi, non si arrischierebbero a venire fin qui pei nostri begli occhi.

— E il signor Calderon?

— Chissà dove sarà andato a finire quell’antipatico agente del Governo. Ma to’! Se i Patagoni inseguivano il pallone... Dove mai sarà caduto colui? Hum! se fosse qui quel dannato uomo! Eppure...

Non finì. I Patagoni che li circondavano e che parevano aspettassero un ordine, si erano gettati bruscamente sui due disgraziati marinai, che in pochi istanti si trovarono solidamente legati.

— Ah! birbanti! — esclamò il mastro, allungando un [154] potente calcio al selvaggio più vicino. — Ci prendete per dei salami, per legarci in tal guisa? Brutti pagani, se avessi ancora la mia carabina, vi insegnerei io a trattare un po’ meglio le persone che vanno pei loro affari.

— Marinajo, ti sfiati inutilmente, — disse Cardozo.

— Lascia che mi sfiati finchè mi lasciano la lingua, ragazzo mio... To’! cosa succede ancora? Anche quelle maledette streghe se la prendono con noi? Ih!.... che baccano!

Una quarantina di donne, alte come granatieri, si avvicinavano ai disgraziati prigionieri, urlando con quanta voce avevano in gola:

— Morte ai cristianos!

— Siamo noi questi cristianos? — chiese Cardozo, che non sembrava troppo commosso, malgrado la situazione fosse tutt’altro che bella.

— Precisamente, Cardozo. Questi pagani appellano con tal nome tutti gli Spagnuoli, o, per meglio dire, tutti gli uomini di razza bianca.

— Ma cosa vogliono quelle donnacce?

— Divertirsi alle nostre spalle: ne sono certo.

E il mastro non s’ingannava. Quelle furie, fattesi largo fra i guerrieri ch’erano stati posti di guardia, si misero a danzare disordinatamente attorno ai prigionieri, che giacevano a terra solidamente legati, assordandoli con grida acute, sputandovi sopra e facendo sberleffi di ogni specie.

Diego, meno paziente di Cardozo, sfogava la sua rabbia con epiteti d’ogni specie e, non potendo adoperar le mani, tirava calci in tutte le direzioni, e non sempre andavano perduti.

La rabbia impotente del bravo marinajo parve che mettesse in buon umore quelle granatiere. Fattesi più ardite, si strinsero tutte attorno a lui, calpestando il povero ragazzo, e si misero a tirargli i capelli e la barba fra grandi scoppi di risa.

— Ah! dannate streghe! — urlava il mastro, dibattendosi come un ossesso. — Se avessi una mano libera, vi farei strillare io come vi meritate. Ehi! Cardozo, figliuol mio, [155] tira calci a queste furie. Ahi! ahi! i miei capelli se ne vanno!

Ma le donne, invece d’aver compassione delle sue grida, continuavano tirando capelli e barba con maggior forza e sempre ridendo. Il tormento non era però ancora finito, anzi aveva da cominciare ancora, poichè alcune di quelle donne ben presto arrivarono portando con loro dei tizzoni accesi.

— Ah! briganti di pagani! — esclamò il mastro. — Ci lascieranno arrostire vivi da queste furie senza cuore?

Un grido acuto gli fece gelare il sangue: lo aveva mandato Cardozo.

— Figlio mio! — gridò il mastro, facendo uno sforzo poderoso per liberarsi dai legami.

— Ehi! marinajo, — rispose il ragazzo, — mi pare che ci arrostiscano.

— Coraggio, Cardozo.

— Mi hanno fatto assaggiare un tizzone ben ardente. Queste streghe sono più feroci degli uomini. Che ci accoppino subito adunque!

Fortunatamente i guerrieri, che fino allora avevano lasciato fare, vedendo che i prigionieri facevano sforzi disperati per liberarsi dalle corde, respinsero brutalmente le donne che si apparecchiavano ad abbrustolire la pelle del mastro.

— Grazie, pagani, — disse il lupo di mare. — Almeno voi avete più buon cuore di quelle donne.

— Lo vedremo domani, — disse Cardozo. — Temo che abbiano paura che ci guastino troppo, invece.

— Chissà! speriamo, ragazzo mio.

Ad un tratto rabbrividì e la sua pelle, quantunque cotta e ricotta dal sole e dai venti del mare, divenne livida.

Una donna nell’allontanarsi gli aveva gridato contro:

— Ti vedremo domani alle prese coi mondongueros!

— Gran Dio! — mormorò il mastro mentre un freddo sudore gli inondava la fronte. — Siamo perduti!

— Cosa mormori, vecchio lupo? — chiese Cardozo che si era trascinato vicino a lui.

[156]

— Nulla, figlio mio.

— Tu mi nascondi qualche cosa.

— È vero.

— Butta fuori, per Bacco! Ti pare che io debba ignorare certe cose, mentre stiamo forse per andarcene al mondo di là?

— Cardozo, hai del coraggio, — disse il mastro, guardandolo con ammirazione. — Tu scherzi con la morte, come se si trattasse di scherzare con una bottiglia di aguardiente.

— Meglio così, vecchio lupo, — disse il ragazzo sorridendo. — E poi chissà che la cosa non sia tanto brutta quanto sembra.

— T’inganni, se speri. Domani avremo da fare coi mondongueros.

— Cosa sono questi signori mondongueros?

— I mangiatori d’interiora.

— Ne so meno di prima.

— Dei pesci; ma che pesci, ragazzo mio! Non ci lascieranno indosso un pezzetto di carne grosso come una palla di carabina.

— Mi fai rabbrividire, vecchio mio. Che razza di supplizio è mai questo?

— Te lo dirò in poche parole. In parecchi fiumi dell’America del Sud, non escluso il nostro Rio della Plata, solamente in alcuni luoghi però, si trovano dei pesciolini lunghi tutt’al più dieci centimetri, dalla pelle azzurrognola nella parte superiore, marmorizzata di macchie rossicce nella parte inferiore, e armati di denti triangolari, attaccati a certe mascelle di tal potenza da stritolare persino un pezzo di ferro.

«Questi pesciolini sono dotati di una voracità spaventevole. Basta che un cavallo entri nel fiume da loro popolato perchè si slancino tutti sul disgraziato animale, gli forino i fianchi e gli divorino le interiora con una rapidità spaventevole; di qui il nome di mondongueros, che significa «mangiatori d’interiora».

— E si limitano a mangiare le budelle?

[157]

— Ma che! divorano anche la carne e con tal furore che in dieci minuti ti riducono un uomo allo stato di scheletro pulito a tal punto da non lasciare neanche un pezzetto di pelle, nemmeno il più piccolo tendine.

— Sicchè noi verremo mangiati vivi, — disse Cardozo, diventando pallido.

— A meno che qualcuno venga in nostro soccorso.

— Conti su qualcuno?

— Non conto che su un miracolo.

— Hum! i miracoli sono rari al giorno d’oggi, marinajo.

— Lo so! Dannati Patagoni! c’è da diventare matti a pensare a quale orribile supplizio ci hanno destinati questi feroci selvaggi. Mangiato dai pesci! Fossero almeno pesci di mare, ma no: da pesci di fiume!

Poi, come se avesse esalata tutta la sua collera in quelle parole, il degno mastro si lasciò cadere a terra e non parlò più. Cardozo, quantunque non meno atterrito del compagno, si mise invece a guardare attentamente l’accampamento e i sei guerrieri che erano stati posti a guardia. Il bravo ragazzo ruminava nel suo cervello un ardito tentativo di fuga. Ben presto, fingendo di aver sonno, si rovesciò sul dorso, mettendosi però le mani di dietro, e si mise lentamente, ma tenacemente, a tirare le corregge che lo legavano, allungandosi più che poteva per diventare più esile.

È vero che anche libero aveva da lottare contro i sei guerrieri; ma egli calcolava assai sulle proprie gambe e sopratutto sui cavalli che pascolavano a pochi passi di distanza, già insellati, pronti per la partenza.

A forza di unghie e sempre tenendo gli occhi sui guerrieri, a poco a poco riuscì a sciogliere un nodo, poi un secondo e quindi un terzo, liberando così una gamba. Stava per avvertire il mastro della buona riuscita, quando vide i guerrieri del campo uscire dalle tende in pieno assetto di guerra.

Ad oriente una luce biancastra cominciava a spuntare, facendo impallidire la luce degli astri: il sole stava per comparire.

Cardozo lanciò una sorda imprecazione. Il mastro, svegliato [158] da quella specie di torpore che lo aveva invaso, si alzò per metà e chiese:

— Che hai, figlio mio, da mormorare?

— Spunta l’alba, — disse Cardozo coi denti stretti.

— Tutto è adunque finito per noi?

— Pare di sì, Diego.

— Ma...

Non ebbe tempo di proseguire. I sei guerrieri lo afferrarono bruscamente, e lo alzarono fino alla sella di un cavallo, legandolo con altre corregge.

— Miserabili! — urlò il marinaio, tentando, ma invano, di dibattersi fra quelle poderose braccia.

Altri guerrieri afferrarono poscia Cardozo e lo caricarono su di un altro cavallo.

— Avanti! — si udì gridare dall’uomo che il giorno innanzi aveva diretto la caccia al pallone.

— E il capo? — chiese una voce.

— Ci raggiungerà al fiume collo stregone bianco, — rispose il guerriero.

Quelle parole erano state udite dal mastro, che conosceva a fondo la lingua dei Tehulls; nell’udire parlare d’uno stregone bianco, un subitaneo sospetto gli balenò nel cervello, facendogli nascere una lontana speranza.

— Cardozo, — disse con viva emozione, — comincio a sperare che i mondongueros non ci mangieranno.

— Su chi conti? — chiese il ragazzo, alzando vivamente la testa.

— Ho udito parlare di uno stregone bianco.

— E così?

— Se fosse...

— Chi mai?

— Se il signor Calderon fosse caduto qui? Un uomo che cade dal cielo deve essere una cosa straordinaria per questi pagani.

— Hai ragione, marinajo.

— Ah! i mondongueros non ci mangieranno più.

La conversazione fu coperta da un clamore assordante.

[159]

Tutto il campo si era messo in movimento dietro agli sfortunati prigionieri: guerrieri, donne e ragazzi, chi a cavallo, chi a piedi, correvano tutti verso il Rio, mandando grida feroci.

Il sole si alzava fiammeggiante sulle sterminate pianure del levante, quando i Patagoni giunsero sulla riva del Rio Negro, in un luogo dove descriveva una grande curva.

Cardozo e il mastro, che, malgrado si fosse maggiormente radicata in loro la speranza di venire salvati, cominciavano a diventare terribilmente inquieti, furono sbarazzati dai legami e buttati ruvidamente al suolo.

— Hai coraggio, figliuol mio? — chiese il mastro, che impallidiva a poco a poco.

— Lo credo, — rispose il ragazzo con voce abbastanza ferma.

— Non mostriamo a questi dannati pagani di aver paura: d’altronde la morte sarà rapida, se è destinato che dobbiamo morire.

— Guarda!

Il mastro si alzò sulle ginocchia e guardò. Alcuni Patagoni si erano avvicinati ad una roccia tagliata a picco sul fiume e stavano gettando in acqua dei pezzi di carne sanguinolenta.

— Cosa fanno? — chiese Cardozo.

— Aizzano i mondongueros. I piccoli mostri accorreranno ben presto a migliaja a disputarsi quei pezzetti di carne, e quando, inferociti, comincieranno a mangiarsi fra di essi, com’è loro abitudine, i Patagoni ci lancieranno in acqua.

— Scellerati! Ah, se avessi la mia carabina!

— Sterili rimpianti, ragazzo mio! Orsù, mostriamoci uomini!

Alcuni guerrieri si erano avvicinati ai due disgraziati, che si sentirono sollevare e portare proprio sulla roccia. Due lunghi lazos furono passati sotto le loro ascelle, onde impedire a loro di salvarsi a nuoto sulla sponda opposta, nel caso che riuscissero a liberarsi dai legami o che venissero sciolti dagli acuti denti dei mondongueros.

Cardozo e il mastro, pallidi non ostante il loro coraggio, cogli occhi stravolti, i capelli ritti, la fronte bagnata di [160] freddo sudore, furono curvati sulla roccia in maniera che potessero vedere ciò che avveniva nel fiume, prima che venissero divorati dai loro terribili carnefici.

Proprio sotto la rupe si erano radunati a migliaja i feroci pesci. Quei mondongueros, chiamati anche caraibi, messi in appetito dai pezzi di carne dapprima gettati dai Patagoni, parevano in preda ad un tremendo furore, ad una fame diabolica. S’inseguivano in tutti i versi, mostrando le loro piccole bocche armate dei potenti denti triangolari, azzannandosi l’un l’altro, combattendosi con un accanimento senza pari, lacerandosi, mangiandosi a vicenda. Interi battaglioni scomparivano in pochi istanti, divorati dalle potenti mascelle dei più forti e dei più svelti.

Cardozo e il mastro chiusero gli occhi per non vedere. Un istante dopo si udì il capo dare il comando di calarli nel fiume.

— Cardozo! — gridò il mastro con accento disperato.

— Marinajo! — rispose il ragazzo con suprema energia. — Non ho paura!

La corda scorreva nelle mani dei Patagoni, ma lentamente. Pareva che quelle esecrabili creature provassero un gusto diabolico nel prolungare l’agonia degli sventurati superstiti del valoroso Pilcomayo.

Ad un tratto i due prigionieri toccarono l’acqua e si immersero lentamente. Cardozo mandò subito un grido orribile. Una torma di caraibi si era slanciata sopra di lui, stracciandogli con furore le vesti e intaccandogli ferocemente le carni.

— Diego! — urlò l’infelice, facendo sforzi disperati per sbarazzarsi dei legami.

Il mastro rispose con un vero ruggito, con un ruggito di dolore. Anche lui era stato assalito e anche per lui cominciava l’orribile supplizio di sentirsi mangiare vivo, pezzetto per pezzetto. D’improvviso si udì una voce a tuonare: — Fermate! Sono i figli della luna! Sia maledetto chi li tocca!

Un istante dopo i due prigionieri, imbrattati di sangue, colle vesti in più parti bucate, venivano lestamente issati e sdrajati sulla rupe.

[161]

XIX. Lo stregone.

Quando rinvennero dalla profonda emozione provata, i due prigionieri si trovarono quasi soli e completamente liberi; un uomo si trovava a pochi passi da loro, seduto su di un pezzo di roccia, colla testa fra le mani, come se fosse immerso in profondi pensieri.

Tutti gli altri si erano ritirati ad una notevole distanza, formando però una specie di semi-cerchio, che impediva qualsiasi evasione, essendo il fiume diventato un vero pericolo con tutti quei feroci caraibi che l’infestavano e che continuavano a divorarsi nei pressi della roccia.

Cardozo e il mastro, sentendosi liberi ed ancora vivi, si misero ad osservare attentamente quello strano personaggio, che era giunto in così buon punto per salvarli dai denti dei mondongueros, e che pareva non si occupasse gran fatto di loro.

Era alto, allampanato, e se non aveva la statura dei Patagoni, poteva passare per tale, poichè non mancava nè del manto nazionale, che era assai bello anzi, dipinto in rosso allo interno e all’esterno, nè della wati, la grande cintura, nè del chiripà. Ai piedi portava pure degli smisurati botas de podro di pelle di guanaco col pelo raschiato, distintivo degli uomini, e in testa il kotchi, che è una larga fascia bianca, e che era sormontata da un magnifico pennacchio [162] di penne di rhea, trattenuto da grandi spilli d’argento e da spine di carruba.

Il suo corpo era quasi interamente imbrattato di terra ocracea rossastra, punteggiato di nero, e sulle braccia avea parecchie linee azzurre parallele che parevano prodotte da un tatuaggio fatto di recente. Anche il suo viso era coperto di pitture disposte a macchie bianche e nere.

Parecchie collane, formate da certe ossa che parevano vertebre di serpenti, completavano quel bizzarro abbigliamento.

— Cardozo, — disse il mastro, che sbarrava tanto d’occhi, — chi è mai quell’uomo lì?

— Quello che ci ha salvati, suppongo, — rispose il ragazzo, che si stropicciava i fianchi scorticati dai denti dei mondongueros.

— Che sia lo stregone bianco?

— Il signor Calderon?

— Lui o un altro: poco monta.

— Se non avesse tutte quelle pitture, giurerei che è il nostro agente del Governo, marinajo.

— Ohè! Signor Calderon! — esclamò il mastro. — Se siete proprio voi, degnatevi di dare uno sguardo ai vostri disgraziati compagni.

L’uomo alzò lentamente il capo e disse con voce tranquilla:

— Siete voi? Me ne rallegro.

I due marinai balzarono in piedi, gettando un grido di gioja, e si precipitarono verso quell’impassibile individuo colle braccia aperte; ma egli li arrestò con un gesto.

— Non fate sciocchezze, — disse.

— Ma, signor Calderon... — disse il mastro. — Non riconoscete più i vostri compagni? Eh! per mille boccaporti! non m’inganno, no: siete proprio voi, quantunque vestito come un pagano e con uno strato di unto e di minio.

— Sì, sono io, — rispose l’agente del Governo con un risolino secco secco; — e dovreste ringraziare queste pitture e questo barocco abbigliamento, ai quali dovete la vostra vita.

[163]

— L’accoglienza è un po’ brusca, signor Calderon. A quanto pare, non siete di buon umore, — disse Cardozo. — Eppure, credetelo, noi ci siamo fatti prendere nel cercare voi ed il pallone...

L’agente del Governo alzò le spalle e non rispose.

— Buona o cattiva accoglienza, noi dobbiamo ringraziarvi del vostro intervento, signor agente, — aggiunse il mastro. — Senza di voi il mio corpo a quest’ora potrebbe figurare in qualche sala d’anatomia, con poco piacere del proprietario, ve lo assicuro. Ma chi vi ha fatto indossare quel diabolico costume?

— I Tehulls.

— Vi hanno adottato forse? — chiese Cardozo.

— No.

— Siete adunque...?

— Uno stregone, — disse l’agente coi denti stretti.

I due marinai scoppiarono in un’allegra risata.

— Ah! vi divertite, a quanto pare! — disse lo stregone, lanciando su di loro un’occhiata obliqua.

— Non si può far a meno di ridere, signor Calderon, nel ritrovarvi sotto quel costume, — disse il mastro. — Ma dite: quando siete caduto col pallone?

— Jeri.

— Ma dove siete stato che non vi abbiamo veduto al campo, quando quei pagani del malanno ci condussero colà legati come se fossimo salami?

— Nel bosco sacro.

— Per l’investitura dell’alta carica che occupate?

L’agente fece un cenno affermativo, e poi, alzandosi bruscamente, disse:

— Seguitemi.

— Dove?

— Al campo.

— Io preferirei alzare i talloni, — disse Cardozo.

— Seguitemi, — ripetè l’agente con stizza, — e non dimenticate che siete i figli della luna.

— Buono! — esclamò il mastro, messo in allegria. — Almeno [164] quei pagani non oseranno tormentare gli uomini che hanno la invidiabile fortuna di capitombolare dal cielo... In marcia!

Invece però di partire, il signor Calderon si fermò, come se fosse stato colpito da un grave pensiero. Si volse bruscamente verso i due marinai e chiese a bruciapelo:

— E i diamanti?

— Li abbiamo con noi, — risposero i marinai.

— Che nessuno li veda.

— Oh! potete esser certo che nessuno ce li prenderà, — disse Diego. — Bisogna che mi facciano in centomila pezzetti per levarmeli di dosso.

— Basta così: seguitemi.

Si misero in cammino, dirigendosi verso i Patagoni, che si tenevano sui loro cavalli, spiando attentamente le mosse dei tre figli della luna, che veneravano sì, ma che non desideravano vederseli fuggire di mano.

Il capo Hauka, che si trovava in mezzo ai suoi guerrieri colla lancia in resta, mosse incontro allo stregone, seguìto da una dozzina dei suoi più prodi guerrieri, distinti da un maggior numero di tatuaggi, e giunto a pochi passi di distanza, balzò agilmente a terra.

— Sono i tuoi fratelli? — chiese all’agente.

— Sì, — rispose l’interrogato.

— Siano adunque i benvenuti nel mio campo; nulla hanno da temere da Hauka e dai suoi guerrieri.

— Ehi, marinajo, — esclamò Cardozo, — pare che le cose camminino a meraviglia.

— Sì, mercè quel brutto costume da orco che ha indossato l’agente del Governo.

— Non ci mancherebbe che ci rendessero i nostri fucili, per farci pienamente contenti.

— Hum! da questo lato non ci sentono, figliuol mio.

— Cosa dicono? — chiese Hauka allo stregone, additando i due marinai.

— Che vorrebbero le loro armi.

Il capo fece una smorfia.

[165]

— I gilwum mandano palle e fiamme, — disse. — I figli della luna non ne hanno bisogno nel mio campo.

— Che il diavolo t’impicchi! — brontolò il mastro che lo aveva capito. — Ma se posso rubarti i nostri gilwum, come tu li chiami nella tua lingua barbara, ti farò vedere io come se ne serviranno i figli della luna.

— Partiamo, — disse il capo.

La cavalcata si mise tosto in moto, seguita da tutte le donne e da tutti i fanciulli, ch’erano accorsi per veder mangiare vivi i due marinai, verso i quali ora professavano un profondo rispetto, che non era però esente da un sentimento di misterioso terrore. I figli della luna camminavano liberi in uno spazio sufficiente per non venire urtati dai cavalli, ma completamente circondati, onde impedire a loro qualunque tentativo di fuga: precauzione, del resto, affatto superflua, poichè pel momento una fuga sarebbe stata affatto impossibile.

Giunti all’accampamento, i Patagoni formarono attorno ai prigionieri un vasto cerchio e il capo si avanzò solo fino ai figli della luna, i quali, non sapendo di che trattavasi, cominciavano a ridiventare inquieti.

— Che i potenti figli del cielo si corichino, — disse, indirizzandosi a Cardozo e al mastro.

— E perchè, o capo? — chiese il lupo di mare.

— Perchè non dovranno più mai lasciare il capo Hauka e le sue genti.

— Cosa vuole quel volpone? — chiese Cardozo.

— Ne so meno di te, ragazzo, — rispose Diego. — Pretenderebbe forse che noi vivessimo sempre coricati? Vecchio mio, bisognerà adoperare la forza.

— Mi hanno capito i figli della luna? — chiese il capo con una certa impazienza.

— Obbediamo e stiamo a vedere, — disse Diego. — Vedo che il signor Calderon è tranquillo: segno che non corriamo pericolo alcuno.

I due marinai si coricarono. Subito sei vigorosi guerrieri si fecero innanzi e li afferrarono per le braccia e per le gambe, impedendo a loro di fare qualsiasi movimento.

[166]

— Signor Calderon, — disse il mastro, — cosa vogliono fare questi pagani?

L’agente del Governo, che si era tranquillamente seduto a breve distanza, si accontentò di alzare le spalle e di fare un gesto di dispetto.

— Sempre di cattivo umore quel diabolico uomo, — brontolò Cardozo. — Si direbbe che le parole gli guastano i denti.

— Che un pescecane mi mangi in un sol boccone se io capisco qualche cosa, — disse il mastro. — Che si tratti di qualche cerimonia?

— Pare che sia così, — rispose Cardozo. — To’! Un altro stregone?

Un patagone, che portava al collo dei monili di denti di belve feroci e di vertebre di serpenti e sul capo un grande ciuffo di penne variopinte, si avvicinava a loro, portando in mano un bizzarro arnese che pareva un coltello smussato, ma più largo all’estremità che verso l’impugnatura.

Ad un suo cenno i guerrieri strapparono ai due marinai gli stivali e le calze, mettendo a nudo i piedi. Il mastro mandò un grido di furore e con una potente ma inutile spinta tentò liberarsi dalle mani che l’inchiodavano al suolo.

— Briganti! — esclamò.

— Cosa sta per succedere, Diego? — chiese Cardozo, che era diventato pallido. — Ci tagliano forse i piedi?

— No, ma c’impediranno di fuggire, come se non li avessimo più. Ah! doveva aspettarmi un simile tiro da questi pagani!

— Signor Calderon, — disse Cardozo con voce supplichevole, — accorrete in nostro ajuto.

L’agente del Governo, invece di rispondere, accennò i propri piedi, poi crollò le spalle, come per dire che nulla poteva fare.

Intanto il nuovo stregone arrotava il suo strano coltello su di un pezzo di pietra arenaria, provando di quando in quando il filo, come se volesse prima accertarsi se era tagliente al punto che lo desiderava.

[167]

— Va bene, — disse ad un certo momento. — Datemi il piede.

— Che ti colga un accidente! — gridò il mastro, e, non potendo muoversi, sputò contro lo stregone.

Due guerrieri afferrarono la gamba destra di Cardozo e l’alzarono. Il disgraziato, non sapendo ancora di che trattava, malgrado il suo straordinario coraggio, impallidì orribilmente e gettò un grido.

— Chetati, figliuol mio, — disse il mastro, che nondimeno era vivamente commosso. — Si tratta di una semplice incisione.

Lo stregone afferrò bruscamente il piede del ragazzo e praticò sotto la pianta una leggera incisione, penetrante però nello strato muscolare e che si estendeva dal dito pollice fino al tallone. Il dolore fu così lieve che Cardozo non mandò neanche un sospiro.

— Ecco fatto, — disse il mastro, che seguiva ansiosamente quella strana operazione. — Ti hanno fatto male, ragazzo mio?

— No, — rispose Cardozo. — Si direbbe che mi hanno fatto una leggerissima bruciatura.

— A me adunque.

Sporse spontaneamente il piede, e lo stregone gli fece l’istessa incisione. Subito i due prigionieri vennero lasciati liberi.

— Ma perchè ci hanno fatto questo segno? — chiese Cardozo, che si guardava il piede.

— Per impedirci di fuggire, — rispose il mastro, che si era prontamente rialzato.

— In qual modo? Vedo che io cammino abbastanza bene, marinajo.

— Sì, ma non potresti fare una marcia molto lunga, poichè il piede ben presto si gonfierebbe e ti darebbe tali dolori da forzarti ad arrestarti.

— Ma la ferita non si rimargina dunque?

— Sì; ma quel dannato stregone avrà cura di mantenerla sempre aperta. Ogni mattina verrà a visitare il nostro piede e lo riaprirà con quel coltello che tu hai veduto.

[168]

— E il signor Calderon? che non abbia subito l’operazione?

— Ho veduto poco fa che camminava zoppicando.

— Sicchè nessuno di noi tre potrà battersela.

— Bah! ce la batteremo, figliuol mio: te lo assicuro, e se non potremo farlo a piedi, lo faremo a cavallo. Che diavolo! Ci sono tanti cavalli qui! Lascia che si maturi il progetto che vado molinando e vedrai.

Un guerriero si avvicinò in quell’istante a loro e ordinò che lo seguissero. Il marinajo e Cardozo lo accompagnarono zoppicando fino dinanzi ad una tenda, che pareva fosse una delle più grandi e delle migliori.

— Entrate, — disse il guerriero. — È il regalo del capo.

— Finalmente abbiamo una casa, — disse il mastro allegramente.

— Non ci mancherebbe che una buona zuppa, — disse Cardozo.

— Verrà, figliuol mio.

E non tardò infatti a venire. Non era precisamente una zuppa, ma qualche cosa di migliore forse, poichè venne recato un enorme pezzo di cavallo arrostito, che mandava un odore appetitoso, assieme ad una certa quantità di gomma bolax e di midolla di ossa.

I due marinai, che morivano di fame, assaltarono bravamente quei cibi sostanziosi, poi si avvolsero nelle coperte trovate sotto la tenda e si addormentarono, senza più occuparsi nè del signor Calderon nè dei Patagoni.

[169]

XX. I giaguari delle Pampas.

Dormivano da parecchie ore, russando sonoramente, quando vennero improvvisamente svegliati da clamori assordanti: erano grida di uomini, strilli acutissimi di donne e di ragazzi, nitriti e scalpitii di cavalli. Pareva che tutto il campo fosse in rivoluzione.

Diego e Cardozo, sospettando che fosse capitata una qualche grave sciagura, si precipitarono fuori della tenda, stropicciandosi energicamente gli occhi, pronti ad approfittare della confusione per svignarsela sui primi cavalli che avessero potuto aver sotto mano.

Le tenebre, che erano calate da parecchie ore, non permisero a loro di ben distinguere cosa accadesse nel campo, mancando la luna e anche le stelle, che erano scomparse sotto un denso strato di vapori. Videro però confusamente accorrere in diverse direzioni uomini e donne, chi a piedi o chi a cavallo, mandando grida che parevano di furore o di disperazione.

Alcuni, che passarono di corsa a pochi passi dalla tenda, portavano delle armi, lancie, lazi e bolas, mentre altri cercavano di rompere le fitte tenebre con dei tizzoni accesi, che si vedevano correre attraverso le file delle tende, con grande pericolo di incendiarle.

— Che il campo sia stato assalito? — chiese Cardozo.

[170]

— Non ne so più di te, rispose il mastro; — ma io penso che dovremmo approfittare di questa confusione per prendere il largo.

— E vuoi tu lasciar qui il signor Calderon?

— Hai ragione, figliuol mio. Ah! se si potesse sapere dove si trova quel benedetto uomo! L’ho sempre detto io che quel gambero ci sarà più d’impiccio che di utilità.

— Cerchiamolo, e, se lo troviamo, faremo giuocare le gambe.

— Dei cavalli però, poichè noi non potremo andare molto lungi colle nostre.

Non vedendo nessuno nei pressi della loro tenda, si gettarono in mezzo all’accampamento, procurando di non farsi scorgere; ma non avevano ancora fatto venti passi, che videro i Patagoni ritornare verso le loro tende. Parevano ancora in preda ad una viva eccitazione e mandavano grida di rabbia.

— Troppo tardi, — disse Cardozo, fermandosi.

— Tuoni e lampi! — esclamò il mastro, digrignando i denti e applicandosi un furioso pugno sul capo.

— Che abbiano ributtato i nemici?

— Ma quali nemici? Dev’essere un falso allarme, poichè vedo che ritornano tutti.

— Ma mi sembrano furiosi.

— Che scoppino!

— Ehi! marinajo, tu diventi idrofobo — disse il ragazzo ridendo.

— Bisogna diventarlo. Ecco una bella occasione perduta, e tutto per colpa di quel dannato agente del Governo. Senza di lui a quest’ora noi saremmo lontani.

— Dove vanno i figli della luna? — chiese in quell’istante una voce, dietro di loro.

Si volsero e si trovarono dinanzi al capo e al signor Calderon.

Il mastro stava per rispondere, ma il capo non gli lasciò tempo, poichè riprese subito con accento irritato:

— Poco fa un giaguaro del Rio Negro è entrato nel mio [171] campo e ha divorato un ragazzo, un figlio dei Tehuels! Perchè i figli della luna, che sono così potenti, non l’hanno ucciso prima che entrasse?

— Oh diavolo! — esclamò il mastro. — Guarda, ragazzo, che questo pescecane di prateria se la prende con noi.

— Se domani i figli della luna non vendicheranno il figlio dei Tehuels, morranno!

— Olà, capo, avete bevuto troppa aguardiente?

— Ho detto!

Poi, senz’attendere altra risposta, il capo volse bruscamente le spalle e si allontanò. Cardozo e il mastro, sorpresi da quell’inattesa minaccia e come trasognati, si guardarono in viso.

— Che il capo sia impazzito? — chiese Cardozo. — Cosa c’entriamo noi in questa storia del giaguaro e del bambino mangiato?

— Siete i figli della luna, — disse l’agente del Governo, che non si era allontanato.

— E perchè voi, signor stregone, non avete mandato nel fiume quel signor giaguaro? — chiese il mastro con violenza. — Che il diavolo si porti la luna e quei dannati pagani, che ci prendono per uomini caduti dal cielo.

— State in guardia, — disse l’agente: — Hauka non è uomo da scherzare.

— Sicchè noi dovremo andar a scovare il giaguaro?

— Lo ha detto Hauka.

— E con quali armi?

— Avrete i vostri fucili.

Ciò detto, se n’andò senza aggiungere altro. Cardozo e il mastro rimasero lì, ancora stupiti di quella strana avventura, che poteva costare a loro la pelle.

— Cosa ne dici, figliuol mio? — chiese alfine il mastro.

— Io dico che quel volpone di Calderon cerca di metterci in brutti imbarazzi.

— Lo sospetto anch’io, Cardozo. Io non so il perchè: ma diffido sempre più di quell’uomo, e non vorrei... Basta così; lo terrò d’occhio quell’agente dalla faccia scialba.

[172]

Poi, guardando bene in viso Cardozo:

— Hai paura dei giaguari?

— Nemmeno di un elefante, quando sono con te, — rispose senza esitare il bravo ragazzo.

— Allora ce la caveremo a dispetto dell’agente. Figliuol mio, andiamo a dormire.

Ritornarono nella loro tenda, si avvolsero nuovamente nelle coperte e si riaddormentarono tranquillamente, come se nulla fosse loro toccato.

Il loro sonno fu però di breve durata, poichè furono svegliati da una brusca scossa. Un patagone era entrato sotto la tenda portando con sè i due fucili promessi dall’agente del Governo.

Diego e Cardozo ricevettero con vera gioja le loro fedeli carabine, che ormai credevano per sempre perdute, nonchè alcuni pacchi di cartucce, che i Patagoni avevano conservati con grande cura, a quanto pareva.

— Seguitemi, — disse il Patagone. — L’alba sta per sorgere.

— Andiamo, — disse Cardozo. — Sono impaziente di cacciare questo signor giaguaro, che tiene fra le sue zanne la nostra pelle.

— Lo uccideremo, figliuol mio, — disse il mastro, che caricava attentamente la carabina: — te lo assicuro. Me ne intendo io di queste cacce.

Uscirono dalla tenda e seguirono la loro guida, che li condusse all’altra estremità del campo, che si prolungava verso il fiume. Quantunque il sole non fosse ancora alzato, alcune donne erano già in piedi, occupate a pettinarsi con certe grosse spazzole, operazione che curano assai, avendo la precauzione di gettare prontamente nel fuoco i capelli caduti, per tema che un nemico li prenda e se ne serva per gettare contro le proprietarie dei malefizi, essendo tale la credenza; anche alcuni uomini vegliavano qua e là, agli angoli del campo, passando il tempo a giuocare con certe carte di cuojo che chiamano bersen, o ai dadi, giuoco questo importato dagli Spagnuoli.

[173]

Giunto fuori dell’accampamento, il Patagone additò ai marinai una fitta macchia, che poteva chiamarsi un bosco, il quale si estendeva per un lunghissimo tratto, seguendo la riva del Rio Negro.

— Il giaguaro è là, — disse. — Che Vitamentru vi guidi e Gualisciù si tenga lontano.

— E che il diavolo ti porti, — concluse il mastro.

Stava per rimettersi in marcia, quando la sua attenzione fu attirata da un cavaliere che si teneva ad una certa distanza. Aguzzò gli occhi, ma, essendo la notte troppo oscura, non riuscì a distinguerlo.

— Sarà il capo, che viene ad assistere alla nostra partenza, — disse. — Orsù, in cammino, Cardozo, e non aver paura, chè i giaguari non sono tali animali da affrontare due uomini armati di carabine.

— Non temere, marinajo. Ho il polso fermo e l’occhio giusto.

Volsero le spalle all’accampamento, si misero le carabine sotto il braccio e si diressero verso il bosco colla stessa tranquillità come se andassero a fare una semplice passeggiata, anzichè alla caccia del più pericoloso felino dell’America meridionale.

Un silenzio quasi assoluto regnava sulla pampa. Non si udivano che lo squittire di qualche mattiniera tanagra azzurra solcante lo spazio, e il sordo rumore del tuco-tuco, animaletto che abbonda nelle praterie patagoni e che occupa il suo tempo a scavare gallerie sotterranee, sovente assai lunghe.

Qua e là, in mezzo ai cardi, brillavano vagamente, come se fossero scintille cadute dal cielo, i lurioles, grossi vermi che tramandano di notte una luce vivissima, e si sentivano fuggire i chaunas, grossi uccelli gallipedi, colle ali armate di forti speroni, le dita dei piedi lunghissime e una voce forte e aspra come quella dei pavoni.

I due cacciatori, attraversata la prateria, s’inoltrarono sotto il bosco, formato da un agglomeramento inestricabile di boyghe, di carrubi, di guegued e di luma, fra i quali [174] di quando in quando si alzava giganteggiando sopra tutti qualche superbo ombù. Il mastro si fermò un momento per ascoltare, poi passando la carabina dalla mano sinistra alla destra, disse:

— Dirigiamoci verso il fiume, Cardozo. I giaguari amano la vicinanza dei corsi d’acqua.

— E ne troveremo noi? — chiese il ragazzo.

— Questi carnivori abbondano nella pampa patagone. Occhi bene aperti e le mani sul grilletto, poichè ti avverto che la selvaggina che cerchiamo è talvolta molto feroce.

— Non ho paura, marinajo; avanti.

Aprendo con precauzione i rami dei cespugli che impedivano il passo, cogli orecchi ben tesi onde raccogliere il menomo rumore, i due marinai si cacciarono intrepidamente sotto la boscaglia, guardando attentamente a destra e a sinistra per non venire sorpresi dal felino che cercavano e che poteva da un istante all’altro apparire e piombare su di loro.

Procedendo lentamente a causa dei molteplici ostacoli, allo spuntar del sole giungevano sulla riva del Rio Negro senza aver trovato le tracce del feroce carnivoro. Cardozo, che si sentiva assetato, discese la riva per bere un sorso d’acqua, ma si arrestò dinanzi ad uno spettacolo che lo fece fremere.

La corrente, che in quel luogo era tranquilla a causa della curva che il fiume descriveva, fin dove giungeva l’occhio, era coperta di ammassi di pesci dalla pelle azzurrognola, punteggiata di rosso, e che parevano tutti morti. Li conobbe subito e, quantunque ormai non corresse più alcun pericolo, impallidì.

— I mondongueros! — esclamò.

— Ventre di foca! — esclamò a sua volta il mastro, che era pure disceso. — Guarda che strage!

— Sono morti?

— Lo vedi, — rispose il mastro.

— E chi può averli uccisi?

— So che spesso fra quei mostri si sviluppano certe malattie che fanno vere stragi. Specialmente nella stagione dei [175] grandi calori si vedono di frequente i fiumi travolgere immense quantità di caraibi.

— Adunque è scoppiata anche qui l’epidemia.

— Sì, e ci ha ben vendicati, Cardozo. Che disgrazia non aver una rete.

— Per che farne?

— I caraibi, se tu non lo sai, sono squisiti, migliori anzi delle trote, che sono pure tanto delicate.

— E chi mangerà tutto questo pesce?

— Le bestie feroci, che sono ghiotte della carne dei mondongueros. La corrente li porterà sulle rive, dove quelle canaglie faranno ancora tribolare gli uomini, poichè le loro mascelle armate di quegli acuti denti che tu già per prova conosci, renderanno il camminare estremamente pericoloso.

— E tu vuoi...?

— Pst!...

— Cosa succede?

— Taci e guarda!

Cardozo guardò nella direzione che gli indicava il mastro e involontariamente rabbrividì. A sessanta passi di distanza, un animale che aveva l’aspetto di un leopardo, dal mantello giallastro picchiettato di nero, stava sdrajato su un ramo di albero che si protendeva sulla corrente.

Pareva che fosse occupato a cacciare qualche cosa, poichè guardava fissamente l’acqua che scorreva sotto il ramo, tenendo le zampe anteriori distese, pronto ad immergerle, mentre la sua coda sfiorava delicatamente la corrente.

— Il giaguaro? — chiese sottovoce Cardozo, abbassandosi dietro un cespuglio.

— Lui, o un altro, — rispose il mastro.

— Cosa fa?

— Pesca.

— Ah!... un giaguaro che pesca?

— È cosa che accade spesso di vedere sui fiumi brasiliani e delle repubbliche centrali. Quei carnivori, quando hanno fame, si sdrajano su qualche riva deserta, immergono la loro coda, che serve di esca, e quando qualche grosso [176] pesce arriva e l’abbocca, con una sveltezza straordinaria allungano le zampe e lo prendono.

Volsero le spalle al fiume per sorprendere il giaguaro per di dietro e si addentrarono nuovamente nel bosco, procedendo con infinite cautele e nel più profondo silenzio. Diego, che conosceva l’audacia di tali carnivori e che non ignorava le loro furberie e la loro agilità veramente straordinaria, di quando in quando si arrestava per tendere meglio gli orecchi e per esaminare attentamente i cespugli e gli alberi circostanti.

In capo ad un quarto d’ora i due cacciatori giunsero a pochi passi dal luogo dove trovavasi il felino. Scostarono pian piano i rami che impedivano a loro di vedere e guardarono verso il fiume: ma, con loro grande sorpresa e anche non poco terrore, non lo videro più.

Si era accorto del loro avvicinarsi, o, dopo di aver divorato qualche pesce, si era allontanato? Si trovava ancora nei dintorni, o era fuggito?

— Ragazzo mio, stiamo in guardia, — mormorò il mastro, gettando un rapido sguardo fra i cespugli e sui rami degli alberi. — Forse ci ha uditi e s’è posto in agguato per balzarci addosso.

— Ma io nulla odo.

— Sono agili e leggeri, e... Zitto!

Alla sua destra aveva udito un leggero fruscìo ed aveva veduto muoversi un cespuglio. Armò rapidamente la carabina e attese, mentre Cardozo faceva altrettanto, ma tenendo gli occhi fissi sui cespugli di sinistra.

Alcuni rami si mossero lentamente e si udì un brontolìo, che però diventava sempre più soffocato.

— È là? — disse Diego. — Ci ha sentiti, e forse ci spia.

— Che ci attacchi?

— Se è affamato, non esiterà a farlo.

— Cosa facciamo?

— Credi di essere sicuro del tuo colpo?

— Ho un certo tremito nelle braccia, ma non ho paura — rispose il coraggioso ragazzo.

[177]

— Allora seguimi.

Il mastro si cacciò risolutamente fra i cespugli, seguìto dal giovane marinajo, che si volgeva di frequente indietro per paura di venire improvvisamente assalito alle spalle. Percorsi quindici passi, si trovarono dinanzi ad una piccola radura circondata da fitte macchie di huignal. Non si udiva più alcun rumore, nè si vedevano agitare i rami. Tuttavia il giaguaro non doveva essere lontano, poichè l’aria era appestata di un acuto odore di selvatico.

— Fermati qui, figliuol mio, — disse il mastro. — Io vado a battere le macchie; ma non ti perderò di vista.

— Va bene, marinajo, — rispose Cardozo, che cercava di mostrarsi tranquillo.

Aprì ben bene le gambe, alzò la carabina onde essere pronto a portarla alla spalla, e attese con bastante sangue freddo l’uscita del giaguaro.

Diego si cacciò fra le macchie senza allontanarsi dalla radura, risoluto a scovare il carnivoro, che doveva essersi appiattato nei dintorni.

Passarono due minuti, lunghi come due secoli pel ragazzo, che per la prima volta in vita sua si sentiva invaso da un vivo terrore.

Ad un tratto i rami di un cespuglio si aprirono lentamente, e un bellissimo animale dal mantello giallastro picchiettato di nero apparve, gettando un potente miagolìo, che poteva chiamarsi un sordo ruggito.

Gli occhi della belva, contratti in forma d’un I, si fissarono sul ragazzo, che era diventato pallidissimo sì, ma che non aveva fatto un passo indietro. Pareva che la belva fosse sorpresa di trovarsi dinanzi ad un cacciatore così piccolo, o, contrariamente alle sue abitudini, invece di slanciarsi, si arrestò, cacciando i potenti artigli dentro la terra.

— Calma e occhio sicuro, — mormorò il ragazzo. Puntò la carabina, mentre un freddo sudore gli inondava la fronte, mirò attentamente e fece partire il colpo.

Il giaguaro emise un ruggito di dolore, ma non cadde: la palla gli aveva solamente fracassato una spalla. Indietreggiò [178] di due passi, come se volesse prendere maggior spazio, si accorciò poi bruscamente e si allungò, slanciandosi d’un salto attraverso la radura.

Cardozo, pallido, terrorizzato, inerme, mandò un grido di spavento a metà strozzato: — Ajuto, Diego!...

Un colpo di carabina rispose a quell’appello disperato. Il giaguaro, colpito al volo, cadde colla testa innanzi, dimenò furiosamente le gambe, poi rimase immobile.

Quasi contemporaneamente si udì una voce tranquilla esclamare: — Bel colpo!

E il vecchio lupo di mare si slanciò nella radura col fucile ancora fumante.

[179]

XXI. Una detonazione misteriosa.

I giaguari (felix onca), senza essere i più grandi animali del continente americano, sono i più terribili e i più sanguinari; non la cedono che agli orsi grigi delle Montagne Rocciose, dei quali è già fin troppo nota la ferocia e la forza, che è veramente irresistibile.

L’Asia ha le tigri, l’America ha i giaguari: due razze che si somigliano per la struttura, per gl’istinti, per lo slancio e per la vigoria, che in certi casi è superiore a quella dei leoni. Non diversano che nel mantello, poichè, mentre nelle prime la pelle è striata di nero e di arancio, nei secondi invece è irregolarmente picchiettata di macchie color rosa con grossi punti neri nel mezzo, su di un fondo giallognolo che è veramente superbo; sono anche un po’ più piccoli delle prime, poichè di rado superano i due metri di lunghezza dall’estremità del muso alla radice della coda.

I giaguari s’incontrano in tutta l’America del Sud, ma non sono rari anche nel Messico, nella California e nel territorio indiano fin presso le Montagne Rocciose. Ma, come dicemmo, la loro vera patria è l’America del Sud, e più specialmente le fitte boscaglie del Brasile, delle repubbliche meridionali e le grandi praterie della Patagonia. Formidabili distruttori di carne, poichè sono dotati di una voracità straordinaria, fanno vere stragi di selvaggina, e nelle pampas [180] recano immensi danni ai mandriani, abbattendo indistintamente cavalli e buoi. È tale la loro forza, che basta un colpo di zampa per ispezzare la colonna vertebrale al più grosso animale, e non di rado se ne sono veduti taluni varcar di un salto un recinto, portando in bocca un grosso capo di selvaggina o un vitello.

La loro audacia, vince talvolta quella della stessa tigre, poichè non teme l’uomo, anche se formidabilmente armato. Attacca indistintamente qualunque essere vivente, si avvicina ai villaggi per rapire le donne e i fanciulli, e si narra perfino che un giaguaro, entrato una volta in una chiesa, sbranò tre preti e un sagrestano prima di venire ucciso.

Il felino ucciso dai marinai era uno dei più superbi campioni, poichè toccava i due metri. Le due palle l’avevano ridotto in cattivo stato, poichè quella di Cardozo gli aveva fracassata la spalla destra, e la seconda gli aveva spaccato il cranio, mettendo a nudo un buon tratto della scatola ossea. La morte, dopo il secondo colpo di carabina inviatogli dal mastro, doveva essere stata istantanea.

— Corpo d’un treponti sventrato! — esclamò il degno lupo di mare, che girava e rigirava attorno al cadavere. — Ecco davvero un bel colpo e sparato proprio a tempo; un momento di ritardo, e tu, mio povero ragazzo, eri spacciato.

— Ti giuro che me la son vista brutta, marinajo, — disse Cardozo, che non si era ancora completamente rimesso dall’emozione. — Si ha un bel dire che una palla può uccidere anche un elefante, ma ti confesso che ho provato una gran paura.

— Bah! Sei stato anche troppo bravo, ragazzo mio. Ho conosciuto degli uomini due volte più forti di te, che tremavano tanto dinanzi ad un giaguaro, da non essere capaci d’alzare il fucile.

— Dimmi, marinajo: che sia stato questo a divorare il piccolo patagone?

— Non te lo so dire; ma, sia stato questo o un altro, per noi è tutt’uno. Lo porteremo al campo ed al capo diremo che l’abbiamo ucciso mentre stava rosicchiando la vittima.

[181]

— Ritorniamo?

— Aspetta un momento.

Sciolse una lunga corda di pelle intrecciata, una specie di lazo, legò la belva pel collo e provò a tirare.

— È un po’ pesante, ma verrà, — disse. — Andiamo, ragazzo, che ho una fame diabolica.

Si attaccarono tutti e due alla corda, e, riunendo le loro forze, si misero a trascinare il carnivoro attraverso la foresta. Dopo parecchie fermate onde dar riposo ai loro piedi, che in causa del taglio aperto dallo stregone si erano gonfiati mettendo sangue, giunsero nella prateria, dove si fermarono di comune accordo, in preda ad una certa inquietudine.

Ad un centinajo di passi dal margine del bosco, una cinquantina di cavalieri parevano che li aspettassero. Erano tutti armati di lance, di bolas, di lazos e di coltelli d’ogni forma e dimensione, e dipinti di bianco dalle anche fino al collo. Dinanzi a loro, ad una breve distanza, stava il capo Hauka, pure dipinto di bianco e con una grande penna infissa nella pezzuola bianca che stringevagli la fronte.

— Corpo d’un cannone! — esclamò il mastro. — I nostri pagani colla pittura di guerra! Cosa vuol dir ciò?

— Ehi, marinajo! — esclamò Cardozo. — Che abbiano intenzione di giuocare qualche brutto tiro?

— Non ne so più di te. Vedi il signor Calderon?

— Eccolo là in mezzo. Mi pare che abbiano dipinto anche il povero uomo.

— È carico il tuo fucile?

— A doppia palla.

— Tienti pronto a tutto, figliuol mio, e quando darò il comando fa fuoco sul capo.

Hauka, che aveva scorto i due cacciatori, s’avanzava di carriera, spronando vivamente il suo superbo cavallo. — Giunto a pochi passi, si arrestò, e, rivolgendosi al mastro, disse:

— Sei un brav’uomo.

— Lo credo, capo, — rispose il mastro.

— Conosci le nostre pitture?

[182]

— Sì.

— Andiamo alla guerra, come ben vedi.

— Contro chi?

— Lo saprai; lascia il giaguaro e vieni.

— Ma noi siamo stanchi.

— I figli della luna sono forti.

— Ma io muojo di fame.

— Si parte, — disse il capo ruvidamente.

Mandò un lungo fischio, servendosi di un osso che pareva un flauto. Tosto due guerrieri si fecero innanzi, conducendo per la briglia due vigorosi cavalli di prateria, dalla testa leggera, i fianchi stretti, le gambe secche e nervose come quelle dei cervi.

— In sella, — comandò il capo.

Cardozo e il mastro, ben sapendo che ogni resistenza sarebbe stata pericolosa, balzarono in arcione. I guerrieri che stavano schierati nella prateria raggiunsero il capo, conducendo con loro il signor Calderon, che montava un mustano dal mantello bianco, adorno di ogni sorta di amuleti.

Due uomini ad un ordine del capo scesero di sella, si caricarono del giaguaro e s’avviarono verso il campo, le cui tende rapidamente venivano sciolte e arrotolate; gli altri si avviarono di galoppo verso il Rio Negro, dove un’altra banda, formata da una cinquantina di uomini che parevano appartenere ad un’altra tribù, li attendevano.

— Ma dove andiamo noi? — chiese Cardozo, che non si era ancora rimesso dallo stupore cagionatogli da quell’improvvisa partenza.

— Ne so meno di te, figliuol mio, — rispose il mastro, che gli cavalcava vicino. — Pare che sia accaduto qualche cosa di grave, poichè noi andiamo alla guerra a giudicarlo dalle pitture dei nostri uomini.

— Ma contro chi?

— Contro gli uomini del Nord, — rispose una voce dietro di loro.

Si volsero e videro l’agente del Governo, il quale, cosa veramente strana, pareva che fosse di buon umore.

[183]

— Gli Argentini forse? — chiese il mastro.

— Dei cavalieri hanno recato la notizia che gli Argentini si battono, e i Patagoni accorrono per saccheggiare la frontiere assieme ai Pampas.

— Pare che siano un po’ in ritardo in fatto di notizie questi signori selvaggi, — disse Cardozo. — Per Giove! sono parecchi mesi che la guerra è scoppiata fra le repubbliche del Sud e il nostro paese.

— Arriveranno sempre a tempo.

— Sono arcicontento di questa spedizione, — disse il mastro. — Ci avvicineremo ai paesi civili e ci sarà più facile darcela a gambe.

— Lo spero, — rispose il signor Calderon.

La banda era allora giunta sulla riva del Rio e si era arrestata. Due guerrieri si avanzarono verso il fiume, scandagliando colle loro lancie il letto, a fine di assicurarsi della profondità dell’acqua, poi entrarono risolutamente nella corrente.

— Cerca di rimanere indietro, Cardozo, — disse il mastro. Possono giungere da un istante all’altro quei dannati mondongueros e causare una confusione funesta.

— Sarò uno degli ultimi, — rispose il ragazzo.

I cavalieri, a tre, a quattro, senza ordine di sorta, entrarono nel fiume, spronando i cavalli, che parevano avessero fiutato qualche pericolo poichè si mostravano recalcitranti, sferrando calci per ogni dove. In breve tutta la banda si trovò immersa, coll’acqua fino alle anche. Si trovava già a mezza via, quando si udirono i due cavalieri che si trovavano in testa mandare delle grida che parevano improntate di un vivo terrore. Quasi subito si videro i loro cavalli inalberarsi, sollevando intorno delle vere ondate.

— I mondongueros? — chiese Cardozo a Diego.

— Temo che vi sia qualche cosa di peggio, — rispose il mastro, che scrutava la corrente.

Ad un tratto, tra i cavalli che seguivano le guide, si manifestò una grande confusione. Nitrivano disperatamente, balzavano a destra e a sinistra urtandosi furiosamente, sferravano [184] calci, s’impennavano tentando di rovesciare i cavalieri, che non parevano meno spaventati e che mandavano grida di vero terrore.

In mezzo alle onde sollevate dai destrieri si vedevano apparire e scomparire dei lunghi corpi nerastri, che somigliavano a grosse anguille, le quali pareva che si accanissero contro i disturbatori della quiete acquatica.

— Tuoni e lampi! — esclamò il mastro impallidendo.

— Cosa succede? — chiese Cardozo, che dava furiose speronate al cavallo e che stringeva fortemente le ginocchia per non venire buttato giù.

— I gimnoti! Sprona, Cardozo, sprona!

Il ragazzo stava per obbedire, quando ricevette un colpo che parve una vigorosa scarica elettrica. Il suo cavallo emise un nitrito di dolore e fece uno scarto violento, piegandosi poscia sulle gambe, come se le forze gli fossero venute meno.

— Cardozo! — esclamò il mastro.

Il povero ragazzo, intontito da quella strana scossa, che non sapeva ancora a chi attribuire, perdette l’equilibrio e cadde di sella; ma il mastro, che gli era vicino, fu pronto ad afferrarlo per la cintola e a trarlo sul proprio cavallo.

— Cardozo, figlio mio, — esclamò.

— Non spaventarti, marinajo, — rispose il giovanetto, che ebbe la forza d’animo di sorridere. — Ho perduto le forze: ecco tutto.

— Cerca di tenerti aggrappato a me.

Poi cacciò gli sproni nel ventre del cavallo, che si mise a balzare innanzi, tagliando la corrente obliquamente. Il bravo marinajo, sempre spronando ed eccitando il destriero colle briglie e colla voce, evitò i cavalli dei Patagoni, che si dibattevano furiosamente in mezzo al fiume, scavalcando i cavalieri, correndo all’impazzata per ogni dove, cadendo e risollevandosi, e raggiunse la riva opposta.

Cardozo, rimessosi dalla scossa ricevuta, fu pronto a lasciarsi scivolare a terra. Parecchi cavalli erano già arrivati, ma quasi tutti privi di cavalieri, e giacevano distesi in mezzo [185] all’erba, come se fossero impotenti a muoversi. Tremavano fortemente, mandavano nitriti dolorosi, i loro occhi brillavano più del solito ed erano straordinariamente dilatati, e dalla bocca lasciavano cadere un’abbondante schiuma sanguigna.

I Patagoni che giungevano, non sembravano in miglior stato, e si stropicciavano vigorosamente le membra indolenzite.

— Ma con quali nemici abbiamo avuto da fare? — chiese Cardozo, che seguiva con sorpresa i salti disordinati dei cavalli che si trovavano ancora in mezzo al fiume.

— Coi gimnoti, ti ho detto, — rispose Diego.

— Che pesci sono?

— Sono specie di anguille che si trovano nei nostri fiumi dell’America del Sud e che pare possiedano una vera pila elettrica, poichè lanciano delle scariche poderose, che talvolta riescono anche mortali per gli esseri deboli.

«Vivono in mezzo al fango; ma quando sono disturbate salgono a galla e attaccano i disturbatori con grande accanimento. Fortunatamente dopo la prima scarica i gimnoti perdono le loro forze e diventano pressochè innocui, poichè occorre loro un certo tempo per riprendere vigore e tornar a scaricare.

«Guarda: non li vedi galleggiare in gran numero mezzi morti?

— Infatti scorgo parecchie anguille.

— La lotta è finita, — riprese il mastro. — Ecco i cavalli che tornano tranquilli e che si affrettano a guadagnare la riva.

Infatti tutti i cavalli che si trovavano in mezzo al fiume si avanzavano frettolosamente, carichi di uomini che si erano aggrappati alle criniere e alle code, quasi tutti, dal più al meno, addolorati per le scosse ricevute. Tanto i primi quanto i secondi, appena giunti a terra, si lasciarono cadere come se fossero privi di forze.

— E il signor Calderon? — chiese Cardozo, che era disceso incontro ai nuovi arrivati.

[186]

— Eccolo là sul suo cavallo, — rispose il mastro, che lo aveva seguito. — Mi pare che non stia troppo male, perchè il suo viso non mi sembra niente alterato.

— Signor agente, come stiamo di salute? — chiese Cardozo. — Siete stato anche voi fulminato?

— No, — rispose seccamente Calderon.

— Fortunati stregoni! — esclamò il mastro ironicamente. — Possiedono persino la potenza di paralizzare le scariche dei gimnoti!

L’agente gettò sul marinajo uno sguardo obliquo, ma non rispose, e si avvicinò al capo Hauka, che stava discutendo calorosamente con parecchi guerrieri.

— Che brutto sguardo! — esclamò il mastro ridendo. — Pare che non sia contento dell’alta carica conferitagli dal capo.

— Bada che non ti faccia qualche brutto tiro, marinajo.

— Bah! Finchè abbiamo i milioni, non ardirà alzare un dito contro di noi, e poi sa bene che senza il nostro ajuto non sarà mai capace di sfuggire alle unghie del capo.

— Ma credi tu...

Cardozo si era bruscamente interrotto. Una detonazione si era improvvisamente udita verso il nord, dietro una grande macchia di carrubi che si estendeva lungo la riva sinistra del fiume.

Hauka e i guerrieri balzarono in piedi come un sol uomo colle lancie in pugno, gettando sguardi inquieti sulla piccola boscaglia che nascondeva la grande prateria.

[187]

XXII. Attacco notturno.

Chi mai poteva aver sparato quel colpo di fucile, in quel luogo deserto, lontano parecchie centinaja di leghe dalle frontiere argentine? Chi mai poteva essere l’audace che si era inoltrato tanto nelle grandi praterie della Patagonia, che sono guardate al nord dalle bellicose tribù dei Pampas, nemiche acerrime della razza bianca? Era stato un indiano armato di un fucile, cosa piuttosto difficile ad ammettersi, non conoscendo questi che molto imperfettamente le armi da fuoco, o un vero bianco, giunto fin là chi sa mai in seguito a quali straordinarie circostanze?

Hauka, dopo essere stato per alcuni minuti in ascolto, prese una pronta risoluzione. Balzò sul suo cavallo, che pareva non avesse sofferto durante la lotta coi gimnoti, e impugnata fieramente la lancia colla sinistra e il bola dalla palla di metallo bianco colla destra, gridò:

— A cavallo, Tehuels!

Una quarantina di guerrieri, che non erano stati colpiti dalle scariche dei gimnoti, risposero all’appello e lanciarono i loro cavalli dietro al capo, che si era coraggiosamente cacciato dentro il bosco. Cardozo, Diego e perfino il flemmatico agente del Governo erano della partita.

La cavalcata attraversò di galoppo il bosco, che lasciava qua e là dei larghi passaggi, e sbucò nella grande prateria che si estendeva a perdita d’occhio verso il nord.

[188]

Una figura indecisa, che pareva quella di un uomo montato su di un rapido cavallo, si allontanava verso il nord, semituffata fra i grandi cardi. Era ormai così lontana, che il mastro e Cardozo, quantunque possedessero una tal vista da sfidare un potente cannocchiale, non riuscirono a distinguerla.

Hauka s’accorse che era giunto troppo tardi per raggiungerla, specialmente coi cavalli ch’ei possedeva, che, quale più e quale meno, sembravano assai stanchi; nondimeno diede ordine ad una decina di guerrieri, che parevano i meglio montati, d’inseguire il fuggiasco, che era ormai ridotto ad una piccola macchia nera, appena visibile sul verde tappeto della prateria.

— Tempo sprecato, miei cari, — disse il mastro, che era rimasto col capo, il quale aveva ripreso la via del fiume.

— Che sia un indiano quell’uomo che fugge? — chiese Cardozo.

— Dubito assai che sia tale: non sarebbe fuggito così presto all’apparire dei Patagoni.

— Credi che sia un bianco?

— Sono quasi certo che sì.

— Ma noi siamo in un paese abitato da soli indiani e lontano assai dalle frontiere.

— Può essere qualche gaucho cacciato al sud dalle scorrerie dei Pampas... Ah!...

— Cos’hai, marinajo?

— Se fosse...

— E chi mai?

— Uno dei nostri gauchos? E perchè no? Erano tutti e due ben montati e bene armati, e uno, se non tutti e due, può essere sfuggito all’inseguimento dei Patagoni.

— Ma bisognerebbe che ci avessero seguiti e spiati.

— Possono essersi nascosti nel bosco: in questo, per esempio.

— Ma allora, perchè quel colpo di fucile?

— Per avvertirci della loro presenza.

— Marinajo! — esclamò Cardozo, colpito profondamente dalla giustezza di quel ragionamento.

[189]

— Figlio mio, io sono convinto che i nostri fedeli amici vegliano per la nostra liberazione.

— Ah! se ciò fosse! Come si potrebbe accertarci che non sono stati uccisi?

— Interrogando i Patagoni.

— Ma possono insospettirsi.

— Hai ragione, ragazzo mio; ma forse il signor Calderon, che è nell’intimità del capo, può saperci dire qualche cosa.

Spinse il cavallo verso quello del signor Calderon, che camminava a pochi passi da quello del capo patagone, e tirò il lungo mantello che avvolgeva l’agente del Governo.

— Una parola, signor Calderon, — disse il lupo di mare.

— Sia, — rispose lo stregone col suo solito accento secco.

— Vi prevengo che si tratta della nostra salvezza, che forse è molto vicina.

— Ne dubito per ora.

— Non importa, signor agente del Governo. — Ditemi, se lo potete: avete saputo nulla dei due gauchos che accompagnavano me e Cardozo e che erano stati inseguiti dai Tehuels?

— Mi si disse che uno era stato ucciso con un colpo di bola.

— E dell’altro? — chiese con viva ansietà il marinajo.

— Credo che sia sfuggito all’inseguimento, poichè al campo non si riportarono le sue spoglie.

— Allora siamo salvi!

L’agente del Governo lo guardò come si guarda un uomo che ha perduto la testa, e sorrise ironicamente.

— Vi ripeto che la libertà è vicina, — disse il mastro. — L’uomo che ha sparato il colpo di fucile è uno dei nostri gauchos.

— Non ardirà più ritornare.

— Tornerà, signor Calderon.

— Meglio per voi, — rispose l’agente, alzando le spalle e spronando il cavallo per raggiungere il capo.

— Non capirò mai codesto uomo, — brontolò il mastro, rivolgendosi a Cardozo. — Non importa: mi basta di sapere che uno dei nostri amici è ancora vivo e che ci segue.

[190]

— E cosa faremo intanto? — chiese il ragazzo.

— Staremo in guardia, e alla prima occasione pianteremo i pagani e i loro alleati. Una voce mi dice che il gaucho ci farà sapere sue nuove molto presto, e io credo ai presentimenti, ragazzuccio del mio cuore.

Erano allora giunti sulla riva del Rio Negro, che era ingombra di persone giunte dall’accampamento, vecchi, donne e fanciulli, conducenti gran numero di cavalli carichi di tende bene ripiegate, di coperte, di attrezzi d’ogni sorta e di grosse provviste di charquì (carne secca).

Il capo Hauka passò rapidamente in rivista tutte le sue genti, che non attendevano che il segnale per partire, staccò un’avanguardia di trenta guerrieri scelti, muniti di grosse corconillas, che dovevano supplire le tende durante la notte, si mise alla testa di questa e partì verso il nord di gran trotto. Tutti gli altri, comprese le donne, senza le quali il Patagone non si mette mai in campagna, dovevano seguirlo a piccole tappe, mantenendosi però ad una distanza di poche leghe dall’avanguardia, onde, in caso di bisogno, ajutarla nei primi scontri.

Cardozo, Diego e l’agente del Governo, che colle loro carabine erano d’un ajuto potente, facevano parte dell’avanguardia.

La piccola truppa, dopo d’aver attraversato il bosco, si slanciò attraverso la grande prateria, che appariva sgombra di qualsiasi ostacolo e coperta di sole piante graminacee, dette tussak.

A poche miglia dal fiume i Patagoni incontrarono i loro compagni che si erano slanciati sulle tracce dell’uomo che aveva sparato il colpo di fucile; avevano i cavalli semi-rattrappiti per la lunga corsa, e non erano riusciti a raggiungere il fuggiasco, che era scomparso verso il nord, in direzione del Rio Colorado.

Diego e Cardozo s’affrettarono a interrogarli, ma nulla riuscirono a sapere. I Patagoni non erano stati capaci di distinguere il fuggiasco, che aveva già guadagnato un immenso tratto di via, fino dal principio della caccia.

[191]

— Non importa, — disse il mastro. — È lui, è il nostro gaucho: il cuore me lo dice.

Hauka, a cui premeva di non indebolire la sua retroguardia, rimandò indietro gli uomini della caccia e proseguì la corsa verso il nord, premuroso senza dubbio di raggiungere il Rio Colorado e di entrare nel territorio dei Pampas per avere nuovi alleati e forse per procurarsi notizie più precise sulla guerra che si combatteva sui confini Argentini.

Alle sette di sera, dopo una marcia di oltre sessanta chilometri, l’avanguardia si accampava presso le rive di un largo stagno salato, che sembrava deserto, contornato da piccoli boschetti, per entro ai quali si vedevano galoppare cavalli e buoi in gran numero, forse selvaggi o forse fuggiti dalle grandi estancias[18] Argentine.

Furono accesi grandi fuochi per tener lontane le fiere che potevano trovarsi nei dintorni, si legarono i cavalli in circolo attorno ad alcuni pali piantati solidamente in terra, e si allestì la cena, composta di carne bollita e di poche radici che bene o male supplivano il pane.

Disposte alcune sentinelle agli angoli del campo, ognuno si affrettò a preparare il proprio letto, molto semplice e non troppo comodo per chi non vi è abituato: una corconilla per terra, resa più soffice dal pellon e dal sobre pellon, che servono di gualdrappa ai cavalli, e l’alta sella per capezzale.

Cardozo e Diego, ch’erano stati posti al centro del campo, fra una doppia fila di Patagoni, onde non saltasse a loro il ticchio di fuggire, dopo di aver subìto una dolorosa visita da uno stregone, che riaprì a loro le incisioni del piede, non tardarono ad addormentarsi a fianco delle loro carabine, alle quali per maggior precauzione avevano cambiato la carica.

Il sonno del mastro fu però di breve durata. Era inquieto, si voltava e rivoltava sulla sua coperta e di quando in quando si alzava per scrutare le vicinanze del campo e specialmente [192] la piccola boscaglia, porgendo ascolto ad ogni stormir di fronda. Senza dubbio il degno marinajo sperava di veder comparire qualche persona, probabilmente il supposto gaucho, che una voce interna gli diceva esser vicino.

Potevano essere le due del mattino, quando i suoi orecchi distinsero un lontano fragore che pareva si avvicinasse rapidamente. Veniva dalla parte della piccola boscaglia e sembrava prodotto da un numero infinito di pesanti animali galoppanti nella prateria.

Guardò agli angoli del campo, e accanto ai fuochi vide le sentinelle che sonnecchiavano, appoggiate alle loro lancie, coi cavalli coricati ai loro piedi. Pareva che nessuno di quei Patagoni si fosse accorto di quello strano fragore, che sempre più si avanzava.

Maggiormente inquieto, si abbassò verso il ragazzo, che russava tranquillamente, e lo svegliò con una brusca scossa.

— Cos’hai, marinajo? — chiese Cardozo, stropicciandosi gli occhi e alzandosi a sedere.

— Non odi nulla tu?

— Ma... sì, perbacco! come un galoppo di parecchi animali, misto...

— A dei muggiti, vuoi dire.

— Sì, marinajo. Cosa sarà?

— Non te lo so dire; ma ho notato che il galoppo si avvicina sempre più.

— Che sia la retroguardia che s’avvicina?

— A quest’ora così tarda?

— Può essere stata assalita.

Il mastro crollò il capo, come credesse poco a una simile supposizione.

— E i Patagoni? — chiese Cardozo, dopo aver ascoltato nuovamente. — Si sono accorti di nulla?

— No, a quanto sembra. To’!... guarda!...

— Dei lumi! — esclamò il ragazzo, saltando in piedi.

Quasi nel medesimo istante si udirono le sentinelle gridare:

— In piedi, Tehuels!...

Per la oscura pianura si vedevano scorrere delle masse [193] che procedevano nel massimo disordine, portanti in alto dei punti luminosi che parevano fiaccole ardenti, e nel silenzio della notte si udivano dei formidabili muggiti che parevano emessi da una immensa mandria di buoi terrorizzati e furiosi. Dietro a quelle ombre, l’occhio acuto del mastro scorse un uomo a cavallo, il quale di quando in quando scaricava in mezzo alla mandria dei colpi di arma da fuoco che producevano detonazioni formidabili.

I Patagoni, svegliati di soprassalto dalle grida delle sentinelle, dai muggiti e da quelle fucilate che somigliavano a colpi di trombone, anzichè di carabina, balzarono lestamente in piedi colle armi in mano, in preda ad un vivo terrore, che la voce del capo non riusciva a calmare.

Alcuni più coraggiosi si portarono dinanzi al campo, onde proteggerlo da quello strano assalto; ma i più corsero ai cavalli, i quali nitrivano fortemente e s’impennavano, tentando di rompere i legami e di fuggire. Il tempo però mancò.

Un centinaio di buoi, resi furiosi da certi fastelli di legna che bruciavano attaccati alle loro corna, irruppero furiosamente nel campo, gettando formidabili muggiti e scagliandosi a testa bassa contro uomini e cavalli.

I Patagoni, che erano accorsi a proteggere il campo, furono travolti, calpestati, e parecchi lanciati in aria coi fianchi aperti; poi quegli animali, che parevano impazziti, si slanciarono contro tutti gli altri, che si erano raggruppati intorno ai cavalli.

Una confusione indescrivibile successe. I Patagoni, spaventati, impotenti a tener fronte a quel brutale e irresistibile attacco, si cacciarono in mezzo ai cavalli, cercando di salvarsi con una pronta fuga. Hauka, che pareva non avesse perduto la testa in quel terribile frangente, seguìto da alcuni de’ suoi, si trincerò dietro ai poveri animali che cadevano sventrati dai colpi di corna dei buoi, menando colpi di lancia per ogni dove: gli altri, gettate le armi per essere più liberi, si slanciarono verso il lago e vi si immersero, raggiungendo alcune piccole isolette che si scorgevano a poche centinaja di passi dalla riva.

[194]

Cardozo e Diego erano nel numero di questi, entrambi sani e salvi. Il signor Calderon era rimasto con Hauka e lo si udiva sparare colpi di pistola.

L’assalto fu però di breve durata. La mandria, dopo di essersi gettata contro i cavalli che formavano un ostacolo alla sua corsa disordinata e di averne uccisi parecchi, si divise e fuggì colla medesima rapidità ond’era giunta, scomparendo verso l’est.

Un istante dopo un uomo montato su di un rapido corsiero attraversava come un lampo il campo, sparando in aria un colpo di trombone, poscia scomparve verso l’est. Cardozo e Diego, che durante l’assalto dei buoi lo avevano costantemente cercato cogli occhi, presentendo che quell’uomo doveva essere quello stesso che aveva sparato il colpo di fucile presso le rive del Rio Negro, al lampo prodotto dalla polvere del trombone lo riconobbero.

— Ramon, — esclamarono ad una voce.

Ma il gaucho, poichè era proprio lui che seguiva la mandria, era ormai scomparso nelle tenebre, trasportato dal suo rapido cavallo.

— Ramon! — ripetè Cardozo, in preda ad una viva commozione. — Ah! coraggioso e leale compagno!...

— Rispondiamo al suo segnale, — esclamò il mastro: — forse ci udrà. — Puntarono le carabine in aria e fecero fuoco. Pochi istanti dopo verso l’est si vide un debole lampo, seguito da una detonazione.

— Ci ha risposto! — esclamò Cardozo, che sembrava impazzito dalla gioja.

— Taci, o tu ci perderai, figliuol mio, — disse il mastro, che non era meno commosso. — Se questi pagani si accorgono di qualche cosa, ci faranno a pezzi.

— E suo fratello, lo hai visto tu?

— No: era solo.

— Che sia stato ucciso?

— È probabile.

— E che sia stato Ramon a lanciarci addosso quei buoi furiosi?

[195]

— Senza dubbio, ragazzo mio. Egli cerca di distruggere, o almeno di assottigliare la banda per liberarci.

— Ma come ha fatto a spingerci addosso tutti quegli animali?

— Tu sai che i gauchos sono inarrivabili nel getto del lazo. Probabilmente Ramon è riuscito a radunare tutti quegli animali, appartenenti forse a qualche grande mandria fuggita dagli estancias del nord, rendendoli poi furiosi col fuoco e fors’anche col guegued, che è una pianta il cui succo rende gli animali furibondi.

— E ritornerà?

— Ne sono certo.

— Bisogna dormire con un solo occhio, onde essere pronti a tutto.

— Anzi non dormire affatto: veglieremo per turno.

— Tenterà un altro colpo?

— È cosa certa, Cardozo. Andiamo a vedere quanti uomini dell’avanguardia sono rimasti in piedi.

— Hauka è vivo, poichè lo odo urlare; deve essere furibondo.

— Che il diavolo se lo porti.

— E il signor Calderon?

— Comincio ad essere seccato di quell’uomo, che diventa sempre più enigmatico. In acqua, Cardozo!

Si tuffarono, abbandonando l’isolotto e attraversarono il piccolo braccio d’acqua, prendendo terra a pochi passi dall’accampamento.

[196]

XXIII. Il cavaliere della notte.

L’attacco improvviso e irresistibile di tutti quegli animali furiosi aveva causato ai Patagoni perdite considerevolissime.

Più di mezzi i cavalli che non erano stati capaci di spezzare i legami, giacevano a terra in una confusione inenarrabile, ridotti in uno stato veramente deplorevole, coi petti squarciati, dai quali uscivano, insieme cogl’intestini, veri torrenti di sangue; alcuni rantolavano, dibattendosi disperatamente fra le strette dell’agonia, altri si trascinavano attraverso le erbe, mandando nitriti dolorosi.

Sette od otto uomini, senza dubbio i primi che avevano affrontato la valanga vivente, erano distesi fra le erbe, schiacciati, sventrati, sanguinolenti, senza vita, e altrettanti gemevano qua e là, invocando l’ajuto dei compagni.

Hauka, come il mastro aveva predetto, era furioso per lo scacco subìto. Andava e veniva, bestemmiando contro lo sconosciuto cavaliere che lo aveva assalito in quella strana guisa, rimproverava aspramente i suoi uomini, che avevano abbandonato il campo, lasciando i cavalli senza difesa, e si scagliava contro i figli della luna, che avevano seguìto il cattivo esempio. Vedendo il mastro ed il mozzo, mosse loro incontro coi pugni chiusi e gli occhi accesi, gridando:

— Anche voi adunque siete femminucce? Dov’è la vostra potenza? [197] Bisogna dunque che vi faccia divorar vivi dai mondongueros del Colorado o dai giaguari della prateria?

— Ehi, capo, non infiammarti tanto, — disse Cardozo, che non lo temeva più, dacchè aveva il suo fucile. — Forse che tu non ti sei trincerato dietro ai cavalli, mentre i buoi li massacravano?

— E poi, mio caro Hauka, anche a noi premeva la pelle, — aggiunse Diego.

— Basta! — tuonò il capo.

— Meglio per te, — rispose il mastro, che si sentiva non meno forte di Cardozo, specialmente ora che sapeva di avere un buon compagno nella prateria.

I Patagoni, che erano già tutti ritornati al campo, ajutarono i loro compagni feriti e macellarono i cavalli inservibili, poscia ad un ordine del capo insellarono gli animali rimasti incolumi, che non sorpassavano la ventina.

Cardozo e il mastro, non senza stupore e inquietudine, li videro partire quasi tutti verso l’est, dietro le traccie dei buoi e del gaucho. Il capo, il signor Calderon e tutti gli altri rimasero però nel campo, che venne subito riparato da una specie di palizzata formata da grossi rami d’albero.

— Tuoni e lampi! — esclamò il mastro, seguendo cogli occhi i cavalieri che si allontanavano di carriera. — Non vorrei che quei briganti sorprendessero il nostro gaucho.

— Bah! è un uomo che sa il conto suo, — disse Cardozo. — Si immaginerà di venire inseguito e si terrà in guardia.

— Purchè il suo cavallo tenga duro.

— Mi ricordo che il suo era un animale da corsa, rapido come il vento e dal piede sicuro.

— Ah! se fossimo partiti anche noi cogl’inseguitori, che bel tiro avrei voluto fare a loro, appena a portata di Ramon!

— Saresti fuggito?

— Senza dubbio.

— E non si potrebbe tentarlo ora, marinajo? Vi sono pochi uomini al campo, e...

— E i cavalli?

— Abbiamo le nostre gambe.

[198]

— Gambe assai malandate, ragazzo mio, che si rifiuteranno di portarci dopo qualche lega. Ritornati i cavalieri, verremo presi di nuovo e chissà a quale orribile supplizio destinati poi.

— E dunque?

— Aspettiamo per ora.

— Allora propongo di riprendere il sonno, giacchè la notte è ancora oscura.

— Dormiamo pure, Cardozo.

Andarono a cercare alcune coperte, si avvolsero accuratamente per ripararsi dall’umidità, che in quelle vaste pianure è abbondante e sovente causa di seri malanni, e senza occuparsi più dei Patagoni, affaccendati a scorticare i cavalli, la cui carne, seccata al sole, doveva più tardi convertirsi in charquì, attesero il ritorno dei cavalieri lanciati sulle tracce del gaucho.

Passarono parecchie ore senza che si udisse il menomo rumore sulla grande prateria, che le tenebre coprivano. Più volte si alzarono, credendo d’aver udito in distanza il trombone del gaucho tuonare contro i Patagoni, o di udire il galoppo furioso di parecchi cavalli; ma la notte trascorse senza alcun incidente e senza detonazioni che indicassero qualche cosa di grave.

Verso l’alba apparvero finalmente i cavalieri partiti nella notte. Lo sguardo acuto del mastro, si fissò subito sul gruppo, e non distinse alcuno straniero fra di loro.

— Dio sia ringraziato! — esclamò, respirando a pieni polmoni. — Anche questa volta i pagani sono rimasti delusi.

— Dove mai si sarà rifugiato il nostro bravo amico? — chiese Cardozo.

— Avrà frapposto delle buone leghe tra il suo cavallo e quelli degl’inseguitori; ma sono certo che tornerà: lo sento.

La truppa rientrò nel campo, affranta per la lunga corsa. I cavalli erano coperti di schiuma e sudavano come avessero percorso dieci leghe sempre di galoppo.

Hauka, di assai cattivo umore per l’insuccesso dell’inseguimento, diede ordine ai nuovi arrivati di accampare e di [199] procedere al seppellimento dei cadaveri, onde sottrarli ai denti dei giaguari e dei coguari.

Servendosi dei coltelli e delle lancie, i Patagoni scavarono diverse buche le une vicine alle altre, e vi calarono dentro i cadaveri, colle gambe incrociate in modo che le ginocchia toccassero la bocca e le calcagna posassero sulla parte estrema delle coscie. Se il tempo non fosse stato ristretto, quei selvaggi, che hanno un grande rispetto pei loro morti, non avrebbero mancato di far seguire i funerali con sacrifici, che consistono per lo più nell’uccisione dei cavalli appartenenti ai defunti; ma questi animali erano troppo preziosi in quei momenti per fare ciò.

— Fanno le cose assai spicce, — disse Diego, che aveva assistito alla cerimonia insieme con Cardozo. — Si vede che il capo non vuol perdere tempo.

— In tempo di pace cosa fanno? — chiese il ragazzo.

— Oh! le cose vanno per le lunghe. Al seppellimento intervengono tutti i parenti, tinti di nero, i quali dapprima distruggono tutti gli oggetti che appartennero ai defunti, non esclusa la tenda, e poi scannano tutti i cavalli. L’animale favorito però non si ammazza che sulla tomba del defunto, onde possa poi servirsene nell’altro mondo.

— E le vedove, cosa fanno? Portano forse il lutto?

— Senza dubbio, e che lutto! Per un anno intero sono costrette a serbare la fedeltà conjugale, pena la morte; non possono nè lavarsi, nè cambiare vesti, nè uscire dalla loro tenda, esclusi pochi minuti per procurarsi il cibo necessario alla loro esistenza.

— E si tingono pure di nero?

— Senza dubbio.

— Le compiango sinceramente.

— Bah! sono selvagge come gli uomini!

A mezzodì, nel momento che veniva calato nella fossa l’ultimo cadavere, una nuova banda, composta di una ventina di cavalieri, giungeva al campo, preceduta da alcuni uomini dell’avanguardia, partiti fino dalla notte. Il capo, che pareva avesse fretta, riorganizzò la sua truppa, lasciò a guardia [200] dei feriti gli uomini sprovvisti di cavalli e comandò la partenza.

Girata la palude, che si estendeva per parecchie miglia dal nord al sud, ingombra di piante palustri, in mezzo alle quali si vedevano sbadigliare degli jacarè[19] dalle potenti mascelle, in attesa di preda, e svolazzare gran numero di fenicotteri dal collo smisurato e dalle forme barocche, e di specie di anitre, si diressero di galoppo verso il Rio Colorado, che non doveva essere molto lontano, a giudicare dagli innumerevoli torrenti che correvano verso settentrione.

La prateria aveva ripreso il suo impero al di là dei boschetti che circondavano il lago, e si estendeva a perdita d’occhio, non già piana come generalmente si crede siano le pampas, ma con piccole ondulazioni, seminate da straordinarie quantità di fiorellini dai vivaci colori, e da agglomeramenti di bellissimi cardi, in mezzo ai quali si vedevano saltellare e fuggire numerose viscaccias, animaletti che somigliano ai castori, forniti di un pelo pregiato, e non poche zorillas, specie di martore, colla coda ricca di peli, la quale si fende per lasciar sfuggire un puzzo infernale, che si espande a più di una lega e che è sufficiente per arrestare i cacciatori e anche i cani. Di quando in quando si scorgevano qua e là dei piccoli laghetti, che ordinariamente contenevano acque salmastre e di gusto cattivo, e dei torrentelli, che correvano invariabilmente verso il nord.

Verso il tramonto la banda, che aveva galoppato quasi senza posa verso il settentrione, giungeva sulla riva del Rio Colorado, detto pure Rio Mendoza, bellissimo fiume, dalle acque però rossicce, che nasce nella provincia di Mendoza, sul versante orientale delle Ande, e che corre attraverso le pampas per 1330 chilometri, scaricandosi nell’oceano Atlantico di fronte all’isola Triste, dopo d’aver attraversato i laghi Grande e Lagunilla e di aver ricevuto sulla sua destra il Tamija, l’Aceguia e il Tungayan.

Hauka stava per spingere il proprio cavallo nel fiume [201] onde cercare un guado, quando la sua attenzione fu attirata da una sottile colonna di fumo che si alzava sulla sponda opposta, radendo alcune macchie di cactus. La sua fronte si corrugò e il suo sguardo si accese, mentre le sue mani impugnavano la lancia e il bola.

— Pampas, o Argentini? — chiese egli agli uomini che lo seguivano.

Nessuno rispose alla domanda: poteva essere un accampamento d’Indiani, e anche di Argentini fuggiti verso il sud in seguito alla guerra di frontiera iniziata dai primi.

— Sento odor di polvere, — disse Cardozo, che aveva pure notato quel fumo. — Che ne dici, marinajo?

— Io suppongo che sia un accampamento di Argentini, — rispose il mastro. — I Pampas devono essere tutti al nord.

— Cosa farà il capo?

— Se sono Argentini, non esiterà ad attaccarli.

— E noi cosa faremo?

— Saremo costretti ad ajutare questi briganti per non pagar dopo il conto, in caso di una vittoria. Del resto, ho una voglia matta di dare addosso a quei nemici della nostra patria, che ci fecero tanto male.

— E se le cose volgono alla peggio pei nostri pagani?

— Passeremo al nemico, potendolo.

— Ben detto, marinajo.

Il capo, dopo un breve consiglio coi suoi più abili e più prodi guerrieri, fece distaccare due uomini di provato coraggio, coll’incarico di esplorare la riva opposta, ordinando agli altri di accampare in mezzo ai cespugli per non venire scorti dai presunti nemici.

I due esploratori, trovato un guado, attraversarono la corrente, ch’era tranquillissima, e, legati i loro cavalli ad un albero, scomparvero fra i cactus della opposta riva.

Trascorse mezz’ora, durante la quale il capo non abbandonò un solo istante la riva; poi, al di là del fiume, si udirono i cavalli nitrire e quindi immergersi. Al vago chiarore delle stelle furono scorti gli esploratori che attraversavano rapidamente la corrente.

[202]

— Pampas, o Argentini? — chiese il capo appena furono a portata della voce.

— Argentini, — risposero i due esploratori.

In un baleno tutti i guerrieri che si tenevano appiattati fra i cactus furono in piedi colle armi in pugno, affollandosi sulla riva. Cardozo, il mastro e perfino il flemmatico signor Calderon erano pure accorsi.

— Quanti? — chiese il capo, i cui occhi brillavano come quelli d’un gatto, nella profonda oscurità che avvolgeva la pampa.

— Dodici, — risposero gli esploratori.

— Dove sono accampati?

— A cinquecento braccia dal fiume.

— Armati?

— Di fucili.

— Hanno carri?

— Quattro.

— Sta bene, — concluse il capo.

Diego, che non aveva perduto una sillaba, si fece innanzi.

— Capo, — disse, — cosa intendi di fare?

— Darò battaglia ai cristianos.

— E noi cosa dobbiamo fare?

— Verrete con noi e ci ajuterete: ma vi avverto che al menomo sospetto vi faccio abbruciare vivi tutti e tre.

— Grazie dell’avviso, capo, — disse il marinajo.

Hauka, che pareva impaziente di dar addosso ai cristianos, certo di guadagnare un bel bottino, fece montare in sella i suoi uomini, raccomandò a tutti di avvolgere nelle coperte le teste dei cavalli onde non nitrissero, poi entrò nel fiume.

Il passaggio si operò nel più profondo silenzio e nel massimo ordine, grazie all’assenza dei caraibi, delle anguille elettriche e dei caimani, i tre flagelli dei fiumi dell’America meridionale. Alle nove la banda toccava la riva opposta, nascondendosi fra i cespugli.

— Non si attacca dunque? — chiese Cardozo, vedendo che i Patagoni discendevano di sella.

— I briganti sono furbi come giaguari, — rispose Diego [203] imitando i Patagoni. — Non assaliranno gli Argentini che a notte inoltrata, onde sorprenderli nel sonno.

— Dimmi, marinajo, che ci sia il nostro gaucho fra quegli accampati?

— Corpo di un treponti disalberato! — esclamò il mastro, colpito da quella riflessione. — Se ciò fosse!...

— Eccoci in un bell’imbarazzo!

— No, non può essere, — disse il mastro, dopo alcuni istanti di riflessione. — Ramon non sarebbe stato solo, quando ci scagliò addosso quella valanga di buoi.

— Se potessimo accertarci di ciò? Non mi perdonerei mai di aver ajutato questi pagani contro degli uomini che lavoravano per la nostra salvezza.

— E nemmeno io, Cardozo; ma... zitto!...

— Cosa odi?

— Non ti sembra di udire un galoppare precipitato sulla riva opposta? Guarda, anche i Patagoni si sono accorti.

Cardozo tese gli orecchi, mentre i Patagoni si alzavano l’un dopo l’altro, lanciando sguardi sospettosi verso il sud. In mezzo al profondo silenzio, appena rotto dal mormorìo del Colorado, il giovane marinajo udì distintamente un galoppo che si avvicinava rapidamente.

— È Ramon, — mormorò egli.

— Sì, dev’essere lui, — disse il mastro. — Segue la nostra banda e si dirige verso il fiume.

— Che non sappia che noi ci troviamo qui?

— È troppo furbo per cadere stupidamente in mezzo a noi.

— E perchè viene qui adunque?

— Senza dubbio per assicurarsi se noi abbiamo passato il fiume o no.

— Che Hauka gli lanci dietro alcuni de’ suoi?

— Ha troppo bisogno di uomini in questo momento per pensare al gaucho.

— Zitto!... eccolo!

Infatti un cavaliere era uscito dalle macchie e si avanzava cautamente verso il fiume. — Alla incerta luce delle stelle, i due marinai videro brillare nelle mani di lui un’arma [204] che sembrava un trombone. Il cavaliere si spinse fin presso la riva e guardò attentamente all’opposta parte, cercando senza dubbio di discernere i Patagoni, che si tenevano celati fra le piante.

Ad un tratto un sibilo acuto si fece udire in aria, e una palla lucente, un vero bola, attraversò il fiume, cadendo fra i cespugli occupati dai guerrieri. S’intese una specie di grugnito, che pareva emesso da Hauka, poi alcuni bolas partirono.

Il cavallo del gaucho fece un salto, come se fosse stato colpito, poi ripartì di carriera, seguendo la riva destra del fiume, e scomparve verso l’est.

— È Ramon, — disse il mastro.

— Sì, sì, l’ho riconosciuto, — confermò Cardozo. — Ah! e non poter fargli alcun segno!

— Sa egualmente che noi siamo qui, ragazzo mio, poichè continua a seguirci.

— Ritornerà?

— Passerà il fiume alcune miglia più in giù, e poi si rimetterà sulle nostre tracce.

— Credi adunque che ignori la presenza degli Argentini che stiamo per assalire?

— Sì, poichè non avrebbe mancato di dare l’allarme collo sparare il suo trombone.

— Meglio così.

Cardozo stava per alzarsi, quando si sentì appoggiare una mano sulla spalla. Si volse e si trovò faccia a faccia con Hauka, il quale dardeggiava su di lui due occhi infiammati.

— Figlio della luna, — disse con accento duro, — conosci tu quel cavaliere?

— E tu? — chiese a sua volta Cardozo prontamente.

— È un nemico.

— Lo suppongo anch’io.

— Tu e il tuo compagno lo dovete conoscere.

— T’inganni, capo, — disse il mastro.

— Hauka ha lo sguardo del serpente.

— E cosa vuoi concludere?

[205]

— Nulla per ora, ma dopo l’attacco ne riparleremo.

Ciò detto, il capo si allontanò, non senza fare colle mani un gesto di minaccia, che non isfuggì ai due marinai.

— Qualcuno ci ha traditi, — mormorò Cardozo.

— Così penso anch’io, — disse il mastro.

— E sospetto su qualcuno.

— E anch’io.

Si guardarono in viso l’un l’altro, e lo stesso nome uscì dalle loro labbra: — Calderon!

Nel medesimo istante si udì comandare l’attacco dell’accampamento argentino.

[206]

XXIV. Il campo Argentino.

Al comando dato dal capo, i Patagoni, che erano impazienti di menar le mani, si alzarono come un sol uomo, tenendo in pugno la bola perdida, terribile arma nelle loro mani, che può lottare con vantaggio, se la distanza è breve, colle palle di fucile.

Formate due colonne, si misero silenziosamente in cammino, tenendo per la briglia i cavalli, non osando combattere a piedi, aprendo con precauzione i cespugli che impedivano il passo e tenendosi più che era possibile sotto la fosca ombra degli alberi per non venire scoperti dalle sentinelle dell’accampamento.

Giunti sul limitare del piccolo bosco, si arrestarono, spingendo i loro sguardi nella prateria. A trecento passi quattro grandi carri, coperti da ampie tele bianche, stavano disposti su di una doppia fila coi fianchi rivolti al sud ed al nord, onde proteggersi contro un possibile attacco dei Pampas e dei Patagoni.

Nel centro parecchi cavalli dormivano in piedi, da veri animali di buona razza, e si vedevano pure sdrajati diversi buoi e non pochi montoni di quella specie che dà una lana assai pregiata sui mercati Argentini.

Un solo uomo vegliava, appoggiato ad un fucile e a pochi [207] passi da un gran fuoco, che doveva preservarlo dagli improvvisi attacchi dei giaguari e dai denti degli aguaras, animali vili se sono pochi, ma audaci se numerosi.

Un silenzio assoluto regnava nell’accampamento, segno evidente che gli uomini dormivano profondamente sotto le tende dei carri.

Hauka collocò Diego, Cardozo e il signor Calderon, che possedevano armi da fuoco, di fronte alla sentinella, facendoli nascondere in mezzo ad una fitta macchia di cactus, poi comandò ai suoi uomini di montare a cavallo e d’estendersi a destra e a sinistra, in modo da tagliare la ritirata al sud, all’est e all’ovest.

Quando vide i guerrieri a posto, con alcuni dei suoi più coraggiosi e più abili si avanzò verso il campo, tenendo nella sinistra la lancia e nella destra la terribile bola perdida.

La sentinella, che sonnecchiava, appoggiata al suo fucile, udendo i cavalli avvicinarsi, si svegliò di soprassalto e gridò, puntando il fucile:

— Chi vive?

— Amici, — rispose Hauka.

— Chi siete?

— Poveri indiani che vanno al nord.

— Che nessuno si avanzi.

Hauka era abbastanza avanti per servirsi della bola perdida. Tenendo stretta la correggia fra le dita, fece fischiare la palla in aria due o tre volte e la lanciò con impeto irresistibile.

Si udì un colpo sordo, e la sentinella, colpita nel capo, stramazzò pesantemente a terra, mandando un urlo straziante, terribile.

— Avanti, Tehuels! — tuonò il capo, spronando il proprio cavallo.

Tutti i Patagoni, che non aspettavano che questo segnale, allentarono le briglie e si lanciarono contro i forgoni colle lancie in resta, pronti a trafiggere i nemici qualora questi tentassero la fuga.

[208]

Il grido della moribonda sentinella era stato però udito dagli accampati. In un baleno gli Argentini furono in piedi colle armi in pugno, e una violentissima scarica partì dall’alto dei forgoni, gettando a terra tre o quattro cavalli e altrettanti cavalieri.

I Patagoni, che credevano di piombare su degli uomini ancora addormentati e che non si aspettavano una vigorosa difesa, volsero le briglie e si dispersero per la prateria, gettando urla di furore e di dolore, salutati da una scarica di tromboni, che fece stramazzare altri due o tre cavalli. Lo stesso Hauka volse le spalle, cercando un rifugio in mezzo ai cespugli.

— Buono! — esclamò Cardozo, che si compiaceva di quel primo scacco.

— Pare che quegli Argentini abbiano del buon sangue nelle vene, — disse il mastro. — Là, là, miei cari, accarezzate per bene le spalle di questi pagani.

— Devo far fuoco?

— Io farei fuoco sui Patagoni, Cardozo.

— Ma se vincono?

— E vinceranno, pur troppo.

— Lo credi?

— Sono molti per dieci o dodici uomini.

— E dunque, cosa facciamo?

— Gèttati a terra, onde non ricevere qualche palla, e tira a casaccio, per aria, se puoi farlo senza che quel dannato Hauka se ne accorga. To’, senti! Calderon brucia la sua polvere.

— Tirerà contro gli Argentini quell’uomo.

— Bah! polvere sprecata, poichè le palle non giungeranno. Orsù, facciamo un po’ di baccano anche noi prima che giunga Hauka.

Si coricarono in mezzo ai cactus, nascondendosi dietro ad una piega del terreno, e aprirono il fuoco, mandando le loro palle sopra i carri degli accampati, ma tanto alte, che non v’era alcun pericolo che colpissero.

Una violentissima scarica partì dalla parte degli Argentini, tempestando i cactus per un largo giro.

[209]

— Ohè! grandina terribilmente! — esclamò Cardozo, ridendo.

— Niente paura, figlio mio, — rispose Diego.

— Bum! bum!... Sono tromboni questi.

— E di quei grossi: sento i chiodi fischiarmi sopra la testa.

— Si caricano con chiodi quelle bocche da fuoco?

— E anche con sassi.

Un urlo feroce soffocò le parole del mastro. I Patagoni, dopo di essersi radunati in mezzo ai cespugli, tornavano alla carica, gettandosi furiosamente contro i forgoni. Cardozo ed il mastro, scaricate le carabine, balzarono in piedi per non perdere nulla di quello strano combattimento, che per loro era di un interesse grandissimo, trattandosi forse della loro liberazione.

Gli Argentini, che si tenevano trincerati dentro i forgoni, avevano subito risposto all’urlo di guerra dei Tehuels con una scarica generale dei loro tromboni e delle loro carabine; ma, quantunque parecchi cavalieri vuotassero sconciamente l’arcione, gli altri avevano continuato la corsa, incoraggiandosi con urla feroci. Giunti a cinquanta passi dal nemico, piegarono bruscamente a destra e si misero a galoppare furiosamente attorno ai forgoni in maniera da accerchiarli quasi completamente, e a lanciare con una precisione terribile le bolas. Quella nuova tattica parve sconcertare gli assaliti, poichè si videro abbandonare precipitosamente le loro posizioni e radunarsi in mezzo dei carri, onde non venire colpiti da quelle palle che piovevano fitte fitte, sfondando con un fracasso indiavolato le tavole e perfino le ruote.

Hauka, che galoppava in testa alla colonna, incoraggiando i suoi guerrieri colla voce e con l’esempio, tentò caricare gli Argentini entrando in mezzo ai forgoni colla lancia in resta: ma una scarica di tromboni bastò per ributtare gli uomini che lo seguivano, i quali ripresero la sfrenata corsa circolare, raccogliendo con una agilità singolare le bolas gettate, per rimandarle ai nemici.

— La va male per quei poveri Argentini, — disse Diego, [210] che seguiva attento le fasi del combattimento, scaricando di quando in quando la carabina, ma senza far male ad alcuno.

— Lo credi, marinajo? — chiese Cardozo.

— Fra dieci minuti Hauka li caricherà in mezzo ai forgoni, e nessuno di loro potrà sfuggire alle lancie dei cavalieri.

— Se fossi sicuro del contrario, aprirei il fuoco contro questi briganti di prateria.

— Guardati bene dal farlo, se ti è cara la vita, figliuol mio.

— Eppure è duro lasciar macellare degli uomini bianchi da questi miserabili pagani.

— Il nostro ajuto non sarebbe di nessuna utilità, Cardozo. Se avesse potuto giovare, avrei mandato già una palla all’amico Hauka.

— To’! i Patagoni cambiano tattica.

— Si dividono per forzare da due parti la posizione degli Argentini. Se non si decidono a fuggire, nessuno di loro rimarrà vivo.

— E li lasceranno fuggire?

— Ai Patagoni preme il contenuto dei forgoni e non la pelle degli Argentini. Ah!...

— Cosa vedi?

— Gli Argentini si decidono a battersela. Orsù, un po’ di baccano ancora, e poi andremo a cenare con un bel pezzo di carne fresca.

Il marinajo aveva detto il vero. Gli Argentini, che già si vedevano a mal partito per le perdite subite e fors’anche per la scarsità delle munizioni, approfittando del momento in cui i Tehuels si riorganizzavano su due colonne per rinnovare l’attacco a colpi di lancia, avevano improvvisamente abbandonato i forgoni, slanciandosi nella prateria. Erano sette, montati su eccellenti cavalli, e tenevano in pugno i loro tromboni.

I Patagoni, vedendosi sfuggire la preda, che del resto per loro, che miravano più che altro al saccheggio, era la meno importante, si slanciarono contro i fuggiaschi; ma questi, fatta una scarica generale, spronarono vivamente le loro cavalcature, che partirono ventre a terra verso l’ovest.

[211]

Hauka, alla testa di una ventina di cavalieri, si gettò sulle loro tracce, lanciando le ultime bolas, che non ebbero effetto; ma, fatti cinque o seicento passi, dovette rinunciare all’inseguimento a causa della stanchezza dei cavalli, che da oltre un’ora galoppavano, senza contare la lunga marcia eseguita nella giornata.

In lontananza si udirono ancora alcuni colpi di trombone e qualche colpo di carabina, poi il silenzio tornò a farsi sull’immensa prateria.

— È finita, — disse Diego. — Ora non si prendono più.

— Meglio così, — disse Cardozo. — Quantunque nostri nemici, mi rincresceva la morte di quei bravi Argentini.

— Ora stiamo in guardia, e, se si presenta l’occasione, scappiamo anche noi.

— Su che cosa speri?

— Lo so io, ragazzo mio.

I Patagoni, ritornati all’accampamento argentino, si erano gettati come un sol uomo contro i quattro forgoni, avidi di saccheggio, senza occuparsi dei cadaveri dei compagni che giacevano in mezzo all’erba in numero non piccolo, nè di quelli dei nemici, che presentavano uno spettacolo orribile, essendo stati uccisi a colpi di bola.

Casse, cassette e barili, contenenti vesti e viveri, furono aperti da quei predatori, che frugavano dapertutto con accanimento senza pari, disputandosi tutti gli oggetti a colpi di pugno e anche di lancia. Un gran grido echeggiò ad un tratto fra di loro e si videro due uomini balzare da un carro portando fra le robustissime braccia due barilotti della capacità di una cinquantina di litri ciascuno.

Tutti gli altri li seguirono confusamente, compreso Hauka, tendendo le mani e urlando a squarciagola.

— Che abbiano trovato qualche tesoro? — chiese Cardozo, che si era avvicinato, seguito da Diego e dall’agente del Governo.

— Sì, ma sotto forma di câna, — rispose il mastro, che era diventato raggiante. — Ora assisteremo ad una bella orgia, figliuol mio, e noi ci guarderemo bene dal non approfittarne.

[212]

— Perchè, marinajo? Se conti di prendere parte alla bevuta, dubito assai che quei golosi ti lascino una sorsata di liquore.

— Rinuncio volentieri alla bevuta, — rispose il marinajo, che sorrideva con fare misterioso. — Orsù, bevitori, sfondate i barili!

Non c’era bisogno di quell’incoraggiamento. I Patagoni, che sono formidabili bevitori e che amano alla frenesia le bevande spiritose, come del resto si è notato in tutte le popolazioni selvagge, avevano sfondato i due barili e si erano messi a bere, servendosi delle mani riunite in forma di conca.

Pareva che fossero diventati tutti frenetici: si urtavano, si spingevano, si rovesciavano l’un l’altro, si calpestavano furiosamente per essere i primi ad immergere le mani nella forte bevanda, le cui esalazioni alcooliche si spandevano all’intorno, eccitando quelli che si trovavano ultimi e che temevano di giungere troppo tardi. Hauka, che non pareva meno esaltato degli altri, nè meno goloso, si era aggrappato ad un barile e resisteva energicamente agli sforzi di coloro che cercavano di trarlo di là per prendere il suo posto.

Cardozo e il mastro, seduti per terra a breve distanza, colle carabine in mezzo alle ginocchia, onde tenersi pronti a tutto, ben sapendo che da selvaggi ubriachi tutto si può aspettare, seguivano con viva attenzione la lotta di quei bevitori. Dietro di loro stava il signor Calderon, il quale, secondo il solito, pareva che fosse affatto estraneo a tutto ciò che succedeva a lui d’intorno.

I bevitori parevano che avessero uno stomaco senza fondo e che possedessero una resistenza incalcolabile, poichè, malgrado le lunghe e frequenti sorsate, non accennavano a perdere la testa e si rimettevano a bere con novella lena. A poco a poco però quella sete inestinguibile cominciò a calmarsi.

Alcuni uomini, i meno forti, già traballavano e «rollavano come una nave in piena tempesta», secondo l’energica espressione del mastro, e gli altri cominciavano ad esaltarsi. Hauka, che aveva resistito vittoriosamente a tutti gli sforzi [213] dei compagni, era caduto e pareva che non fosse più capace di muovere nè le gambe, nè le braccia, tanto era ubriaco.

— E uno, — disse il mastro; — quello lì non si muoverà per ventiquattr’ore.

— E due, — disse Cardozo. — Ecco là un altro che è stramazzato come uno colpito da sincope.

— Segno che quella câna è di qualità eccellente.

— C’è pericolo che dopo diventino furiosi?

— Tanto peggio per loro, se vogliono prendersela con noi. Ho trovato i pacchi delle cartucce che Hauka ci aveva presi quando ci fece prigionieri; possiamo quindi mandare al diavolo tutti questi ubriaconi... E quattro!...

Infatti, altri due patagoni erano ruzzolati per terra, come se fossero morti. Gli altri continuavano a immergere le loro manacce nei barili; ma non ne poteano più e mantenevansi ancora in piedi per un prodigio di equilibrio.

Alcuni, diventati furibondi per le soverchie libazioni, altercavano già e si scambiavano formidabili pugni, mentre altri cantavano a squarciagola e saltavano disordinatamente coi capelli sciolti, i manti laceri, gli occhi strambuzzati, e due o tre si dimenavano per terra in preda a violente convulsioni, mentre nelle mani raggrinzate stringevano delle strane pipe, nelle quali avevano fumato chissà mai quale strana miscela.

— Che si siano avvelenati? — chiese Cardozo, che si era alzato per meglio osservare quegli strani fumatori.

— No: si divertono, — rispose il mastro.

— Ma non vedi che si contorcono come se soffrissero?

— Ti ripeto che si divertono.

— Mi spiegherai un po’ in qual modo.

— Osserva quel fumatore e non perderlo di vista.

Un Patagone, che si manteneva in equilibrio per un vero miracolo, si era in quel momento allontanato dai compagni, che continuavano a disputarsi accanitamente gli ultimi sorsi di câna, tenendo in mano la sua pipa di pietra.

Sdrajatosi, o, meglio, lasciatosi cadere fra le erbe, la caricò con un pizzico di tabacco, mescolandovi una certa sostanza che pareva avesse raccolto da terra.

[214]

— È sterco, disse il mastro, prevenendo la domanda di Cardozo: — sterco di cavallo, che il fumatore ha mescolato al golk (tabacco).

Acceso il miscuglio, l’ubriaco si rovesciò sul ventre ed aspirò sette od otto volte il fumo, inghiottendolo e rigettandolo solamente qualche minuto dopo dalle narici e tutto in una sola volta. Un fenomeno strano si verificò allora in quell’uomo: la pipa gli sfuggì dalle mani, stralunò gli occhi, mostrando solamente il bianco, le forze improvvisamente lo abbandonarono e ricadde lungo e disteso, agitando convulsivamente le membra, soffiando fortemente ed emettendo dalle labbra semi-aperte larghi getti di saliva.

— È ubriaco? — chiese Cardozo.

— Lo hai detto, — rispose il mastro sorridendo.

— E tu mi assicuri che quell’uomo si diverte?

— Così dev’essere, poichè i Patagoni fumano quasi sempre in questo modo: essi dicono che anche il loro Dio ha partecipato a questo bizzarro godimento; anzi prima di fumare offrono a lui qualche boccata e una preghiera.

— E durano molto quelle convulsioni?

— Pochi minuti, poichè ordinariamente i compagni dei fumatori le fanno cessare con una lunga sorsata d’acqua.

In quel mentre altri sette od otto bevitori, briachi fradici, stramazzarono a terra. Il mastro, che non perdeva di vista i Patagoni, si alzò bruscamente.

— Cardozo, — disse, — l’ora della liberazione è suonata. Fra pochi minuti nessuno di questi uomini sarà in grado di tenersi in piedi, e prima di dodici ore Hauka non si accorgerà della nostra scomparsa: fuggiamo!

— Sono pronto a seguirti, marinaio, — rispose Cardozo, saltando in piedi colla carabina in mano.

— Va a preparare tre cavalli e conducili dietro ai forgoni.

— Viene con noi anche l’agente del Governo?

— Se vuole rimanere qui, si accomodi pure: mi farebbe quasi un piacere.

— E dove fuggiremo?

— Verso la frontiera del Chilì.

[215]

— E Ramon?...

— Mille fulmini!...

— Non possiamo abbandonarlo.

— Lo cercheremo.

— Ma dove?

— Non dev’essere molto lontano: è quindi probabile che lo incontriamo.

— Corro a preparare i cavalli.

Mentre Cardozo si allontanava, cacciandosi fra i cactus per non farsi scoprire dai bevitori, il mastro si avvicinò all’agente del Governo, che si era disteso indolentemente fra le erbe.

— Signor Calderon, — disse.

— Cosa volete? — chiese l’agente, alzandosi lentamente.

— I Patagoni sono tutti ubriachi.

— Tanto peggio per loro.

— E noi fuggiamo.

— Voi fuggite? — chiese l’agente con sorpresa.

— Sì, o signore.

— Volete farvi uccidere?

— Meglio uccisi in mezzo alla prateria che schiavi di questi briganti. Venite voi?

L’agente incrociò le braccia e lo guardò fisso senza rispondere.

— Mi avete compreso? — chiese con voce quasi minacciosa il marinajo.

— Perfettamente.

— Ebbene?

— Voi portate i milioni del Presidente: vi seguo!

[216]

XXV. Il gaucho Ramon.

Cardozo li attendeva al posto stabilito, tenendo per la briglia tre vigorosi cavalli, scelti fra i migliori che avevano i Patagoni; alle selle aveva appeso un certo numero di sacchetti di pelle contenenti del charquì, e una certa dose di gomma, non essendo prudente contare sulla selvaggina della prateria, che poteva mancare.

Nessuno aveva fatto attenzione a lui, tanto i Patagoni erano ubriachi e occupati a vuotare i barili, sicchè la fuga doveva, almeno pel momento, effettuarsi senza pericolo di sorta.

Quando il mastro comparve, seguito dall’agente del Governo, il bravo ragazzo era già in sella, pronto a prendere il largo.

— Affrettiamoci, — disse. — Potrebbe giungere da un istante all’altro la retroguardia, attirata dalle fucilate degli Argentini.

— Siamo pronti, — rispose il mastro, salendo in sella. — È carica la tua carabina?

— Sì, marinajo.

— E le vostre pistole, signor Calderon?

L’agente del Governo fece un cenno affermativo col capo.

— Partiamo adunque, e Dio ci protegga.

Lanciò un ultimo sguardo verso il campo. Al chiarore [217] degli ultimi fuochi vide sette od otto Patagoni, i più formidabili bevitori della banda, che altercavano attorno ai due barili, che dovevano essere già vuoti. Tutti gli altri, disseminati dinanzi ai carri e semi-tuffati nella fresca erba, russavano con tal fragore, che si udivano a parecchie centinaja di passi. Gettò un secondo sguardo verso il Rio Colorado, le cui acque si vedevano scintillare attraverso le radure della foresta: non si vedeva nulla, nè si udiva in quella direzione alcun rumore che accennasse l’avvicinarsi della retroguardia.

— Avanti! — disse, spronando vivamente il cavallo.

I tre animali partirono di carriera, dirigendosi verso l’ovest, la via che conduceva verso le frontiere del Chilì. Nel campo patagone si udirono alcune grida; ma ben presto si spensero, e il più profondo silenzio regnò in breve sulla grande prateria, a malapena rotto dal sordo galoppo dei corsieri.

La notte era oscura, essendo il cielo semi-coperto da dense masse di vapori che salivano dal sud, invadendo rapidamente la vôlta stellata, e un vento freddo soffiava ad intervalli, facendo piegare le cime dei cactus e dei cardi. Il mastro però, orientandosi alla meglio colla croce del sud, che di quando in quando appariva fra gli strappi delle nuvole, si manteneva sulla direzione scelta.

Avevano percorso quasi quattro miglia, seguendo una specie di sentiero aperto fra due fitte piantagioni di cactus e di cespugli spinosi, quando l’agente del Governo, che fino allora non aveva aperto bocca, arrestò bruscamente il cavallo.

— Cosa avete, signor Calderon? — chiese Cardozo, che gli veniva dietro, tenendo la carabina sul davanti della sella.

— Dove andiamo? — chiese l’agente.

— Lo vedete bene che fuggiamo, — rispose il mastro, che si era pure arrestato.

— Ma noi corriamo verso l’ovest.

— È la nostra via, signore.

[218]

— Questa via conduce al Chilì.

— Ebbene?

— E perchè non fuggiamo verso il nord?

— Avete forse dimenticato che gli Argentini sono nostri nemici?

— E che importa?

— E che noi portiamo i milioni del Presidente?

— E chi lo sa?

— Eh?... chi?... Eh! per mille treponti! — esclamò il mastro, che pareva uscisse dai gangheri e che stesse per dirne una di grosse. — Noi siamo in tre a saperlo, signor agente del Governo.

— E supporreste voi.....? Scherzate, mastro Diego?

— Supponete che io scherzi, o sia eccessivamente sospettoso: poco mi cale. Il fatto è che io trotto verso la frontiera del Chilì.

— E che io ti seguo, marinajo, — aggiunse Cardozo.

— E se io mi opponessi? — disse il signor Calderon, il cui pallore era già diventato più sbiadito.

— Eh! signore, non siamo nè sul ponte del Pilcomayo, nè sul territorio della nostra Repubblica, — rispose il mastro ruvidamente. — Qui siamo nella prateria e completamente liberi.

— È una rivolta adunque?

— Chiamatela come meglio credete: io faccio ciò che meglio mi talenta, signor agente del Governo. Se vi spiace seguirci al Chilì, non avete che a ritornare fra le braccia del vostro amico Hauka, che sarà ben felice di rivedere il suo stregone.

— Miserabili! — esclamò l’agente, impugnando una pistola.

— Oh! signor Calderon! — esclamò il mastro, alzando la carabina, mentre Cardozo faceva altrettanto. — Vi prevengo che siamo soli, e che la mia carabina ha una palla.

Il signor Calderon guardò il mastro con due occhi che mandavano foschi lampi e divenne pallido come un cadavere, più per l’ira che per la paura; ma poi, rimettendo [219] bruscamente la pistola nella cintura, disse, cercando di sorridere, ma senza riuscirvi:

— Noi siamo pazzi per minacciarci in questo momento, in cui abbiamo bisogno di andare d’accordo per far fronte forse a nuovi pericoli. Orsù, giù le armi, e galoppiamo verso il Chilì.

— Non domando di meglio, signor agente del Governo, — rispose il mastro. — Non se ne parli più di questa brutta questione, e pensiamo a salvare la nostra pelle.

— Al galoppo! — gridò Cardozo, eccitando il proprio cavallo.

I fuggiaschi ripresero la corsa, seguendo il sentieruzzo aperto fra i cactus e i cespugli spinosi, il quale si spingeva verso l’ovest, ossia in direzione della frontiera chilena, che era però ancora lontanissima. Un secondo incidente, forse più pericoloso del primo, venne ad interrompere nuovamente quella precipitosa fuga.

Stavano salendo una leggera altura, quando udirono improvvisamente uno strano fischio, seguito poco dopo da un sordo rumore, che pareva prodotto da un cavallo galoppante sulla erbosa pianura.

Il mastro, che procedeva cogli occhi bene aperti e cogli orecchi ben tesi, arrestò di colpo il proprio cavallo, lanciando all’intorno uno sguardo sospettoso.

Non vide nulla, essendo i cespugli piuttosto alti, e non udì nessun rumore, per quanto tendesse gli orecchi e si curvasse contro terra.

— Che mi sia ingannato? — mormorò, mentre Cardozo si inoltrava in mezzo ai cactus per osservare la pianura dalla parte opposta.

Inquietissimo, discese di sella e appoggiò l’orecchio contro il suolo, ma non gli pervenne alcun rumore.

— Vedi nulla, Cardozo? — chiese.

— Affatto nulla, — rispose il ragazzo, che si rizzava sulle staffe per abbracciare maggior spazio.

— E voi, signor Calderon?

L’agente del Governo, che era ricaduto nel suo mutismo, fece col capo un cenno negativo.

[220]

— È strano, — mormorò il mastro. — Eppure non siamo sordi.

— Cosa facciamo? — chiese Cardozo, che era ritornato sul sentiero.

— Prepariamo le carabine e tiriamo innanzi.

Risalì in sella, armò il fucile e ripartì, seguito dai due compagni. I cavalli, eccitati colle briglie, superarono di carriera la piccola altura e discesero sempre di corsa il versante opposto.

D’improvviso il cavallo del mastro stramazzò violentemente a terra, sbalzando il cavaliere in mezzo ai cactus. Gli altri due cavalli, che erano vicinissimi, caddero alla loro volta, lanciando a destra e a sinistra Cardozo e l’agente del Governo.

Quasi contemporaneamente un lampo rompeva le tenebre, seguìto da una fragorosa detonazione, ed una pioggia di projettili passava fischiando sopra i caduti.

Cardozo, il più agile di tutti, si alzò rapidamente in piedi, e, senza curarsi di sapere se si era rotta qualche costola in quell’improvviso capitombolo, puntò la carabina contro un uomo che era improvvisamente apparso fra i cespugli tenendo in mano un trombone ancor fumante. Già stava per far scattare il grilletto, quando quell’uomo si slanciò innanzi gridando:

— Ferma, Cardozo!...

Il ragazzo lasciò cadere la carabina, mandando un grido di gioja.

— Corna di mille diavoli! — esclamò il mastro, che si era alzato zoppicando. — Chi è che assassina la gente?

— Io, — rispose una voce ben nota.

— Ramon! — esclamò il mastro. — Mille milioni di fulmini!

Il gaucho si fece innanzi, conducendo per la briglia il suo cavallo, che si era tenuto appiattato fra i cespugli.

— Mi rincresce immensamente, signori, di avervi fatto cadere così bruscamente e d’aver rovinato i vostri cavalli, — disse con accento di dolore. — Spero che non avrò ferito nessuno.

[221]

— Non mi pare, — rispose il mastro, vedendo l’agente del Governo rialzarsi senza bisogno di ajuto. — Vi confesso però che il capitombolo è stato molto brusco, e che, senza questi cactus, non so chi di noi avrebbe le membra intatte, mio caro Ramon. Ma che cosa avete messo su questo sentiero, per farci stramazzare tutti e tre?

— Il mio lazo teso fortemente fra due cespugli, — rispose il gaucho.

— E per chi ci avevate presi adunque?

— Per Patagoni lanciati dietro le mie tracce.

— Bah! sono tutti ubriachi fradici.

— Chi? I Patagoni?

— E ubriachi di câna eccellente, — aggiunse Cardozo.

— E voi ne avete approfittato per fuggire.

— Lo vedete.

— Sono felicissimo di rivedervi liberi, signori. Io però vi seguivo da lungo tempo, sperando di farvi fuggire.

— E noi vi ringraziamo di tutto cuore, poichè sappiamo molte cose sui vostri audaci tentativi per sbarazzarci dei nostri guardiani.

— Mi avete riconosciuto adunque? — chiese il gaucho ridendo.

— Perbacco! Non ci voleva molto, caro amico, per riconoscervi. Ma...

— Che cosa, mastro Diego?

Il vecchio lupo di mare si era arrestato bruscamente, guardando fisso fisso il gaucho.

— Dite, — mormorò Ramon.

— Vi cagionerò forse del dolore.

— Vi comprendo, — disse il gaucho con accento triste. — Mio fratello è morto...

— Ucciso?

— Dai Patagoni: ho trovato il suo cadavere attraversato da due colpi di lancia.

— Povero Pedro! — esclamarono ad una voce il mastro e Cardozo.

— Oh! ma l’ho vendicato! — esclamò il gaucho, il cui [222] viso aveva tutto d’un tratto assunto un’aria selvaggia. Poi, cambiando tono: — Orsù, non perdiamo dei minuti che possono essere preziosi... I Patagoni non tarderanno ad inseguirci: lo vedrete.....

— Partiamo, — disse il mastro.

— E i cavalli potranno camminare? — chiese Cardozo.

— Vediamo, — disse Ramon.

Si diressero verso i quadrupedi, che non si erano ancora rialzati, e cercarono di farli saltare in piedi. Uno fu pronto ad ubbidire; ma gli altri due si rifiutarono, mandando dolorosi nitriti. Guardatili meglio, Ramon e il mastro videro che avevano le gambe anteriori spezzate.

— Ecco una disgrazia che possiamo pagare cara, — disse il gaucho, scuotendo il capo.

— E cosa si fa? — chiese il mastro.

— Bisogna fuggire egualmente.

— I nostri piedi sono stati rovinati dai Patagoni.

— Coll’incisione? Lo avevo sospettato, mastro Diego. Monteremo sui due cavalli che ci rimangono e cercheremo di raggiungere una estancia che so trovarsi a una trentina di chilometri verso il nord.

— E dopo?

— Poi daremo la caccia a qualche banda di cavalli selvaggi...

— Partiamo adunque.

Non c’era tempo da perdere; tre ore erano già trascorse, e i Patagoni potevano essere di già a cavallo in cerca dei prigionieri. Bisognava fuggire al più presto e trovare il rifugio promesso dal gaucho, l’unico che potesse salvarli.

Ramon e Cardozo montarono sul mustano e gli altri due sul cavallo preso ai Patagoni, poi partirono, dirigendosi verso il nord, in direzione del lago Urre, che è un vastissimo serbatojo formato dall’unione dei fiumi Cho di Euba e Desanguadero, entrambi scendenti dalla grande catena delle Ande.

Cominciava ad albeggiare. Le tenebre rapidamente scomparivano, lasciando vedere chiaramente l’immensa prateria, [223] che pareva si agitasse tutta: bande numerosissime di pappagalli grigi, di cardinali superbi, di pernici da campo, si alzavano fra le erbe, gettando grida gioconde, mentre fuggivano rapidamente in tutte le direzioni i nandù, che somigliano assai agli struzzi africani nelle forme, mandando delle grida stridenti, sgradevolissime, e si celavano dentro gli stagni salmastri i guillius, che somigliano alle lontre e che hanno un pelo pregiato quanto quello dei castori.

I due cavalli, quantunque portassero doppio carico e avessero già percorso diversi chilometri, galoppavano con bastante rapidità, tuffandosi fra le alte e grasse erbe che coprivano la gran pianura. Del resto i cavalieri, ai quali premeva di porre una grande distanza fra loro ed i Patagoni, non risparmiavano nè grida, nè speronate, per eccitarli sempre più.

Alle 9 il gaucho, che apriva la marcia, rassicurato dalla calma assoluta che regnava sulla pampa e dal silenzio perfetto, fece fare una breve sosta sulle sponde di un piccolo corso d’acqua, in mezzo al quale nuotavano in gran numero grosse anguille, superbe trote e pesci-re (cyprinus regius).

I cavalli erano esausti e richiedevano un po’ di riposo, e gli uomini, che avevano vegliato quasi tutta la notte, erano affranti. Ramon approfittò di quel po’ di sosta per abbattere con un colpo di trombone una ventina di pappagalli che schiamazzavano fra i rami di boughe, e Cardozo per fare una discreta provvista di uova di struzzo, scoperte dentro una specie di cavità.

Il mastro, che moriva di fame, cucinò una mezza dozzina di quelle uova, che furono subito divorate, malgrado il loro sgradevole sapore di selvatico.

Alle 11 i cavalieri si rimettevano in marcia, seguendo un piccolo arroyo, un torrentello che pareva corresse verso il lago Urre. Dei Patagoni nessuna traccia fino allora, quantunque Ramon avesse accostato più volte l’orecchio a terra, onde cercare di raccogliere il galoppo dei loro cavalli.

Però nè il gaucho, nè il mastro si illudevano, ben conoscendo i Patagoni. Entrambi davano segni di una viva [224] inquietudine; di quando in quando si fermavano per scrutare le erbe e per tendere gli orecchi, e spingevano i loro sguardi verso il sud, temendo sempre di vedere comparire sull’orizzonte i cavalli degli Indiani.

Parecchie volte, credendo di udire delle lontane grida o un lontano galoppo, si arrestarono, armando i fucili e sdrajando i cavalli in mezzo alle erbe.

La giornata tuttavia passò tranquilla, e alla sera si accampavano in mezzo ad un gruppo di fitti cespugli. Avevano percorso oltre sessanta miglia dal campo patagone fino a quel luogo.

Sicuri di non venire disturbati, nè scoperti, si addormentarono profondamente, dopo un magro pasto composto di charquì e poche uova di struzzo.

All’indomani, rimessi in forze da quel benefico riposo, riprendevano la fuga, dirigendosi sempre verso il nord.

A mezzodì, dopo una corsa di altre venti miglia, Ramon, che cavalcava dinanzi, segnalò la tanto sospirata estancia.

— Era tempo! — esclamò il mastro. — I nostri cavalli sono completamente rovinati.

— Ne prenderemo degli altri, — disse il gaucho, che aveva notato in terra parecchie tracce.

— È abitata quella estancia?

— No.

— Sono fuggiti i proprietari?

— Pare che sia così.

— Che siano giunti i Pampas sin qui?

— Non è improbabile.

— Speriamo di trovarla ancora in buono stato.

— Le sue cinte non sono state toccate.

— Voi dunque siete venuto qui?

— Sì, mastro.

— Quando?

— Ve lo racconterò più tardi; armate i fucili e avanti!

[225]

XXVI. L’estancia abbandonata.

Le estancias delle pampas consistono ordinariamente in un grande recinto formato da tronchi d’alberi ben uniti, onde potere, in caso di attacco, opporre una valida resistenza agli assalti degli Indiani, e in una o due capanne di mattoni cotti al sole e qualche volta di semplici frasche, che servono di abitazione ai puesteros, o pastori.

Si trovano disseminate in non piccolo numero sul territorio dipendente dalla Repubblica Argentina, ma divise da moltissime leghe e qualche volta tanto lontane dai centri abitati, da non avere che rarissimi contatti con altri esseri viventi. Servono di ricovero alle numerose pecore, ai buoi e ai cavalli dei grandi proprietari, i quali talvolta possiedono parecchie migliaja di animali, affidati alla custodia di pochi pastori, che ordinariamente sono baschi, o tedeschi, o alsaziani, ai quali corrispondono una paga di sessanta lire mensili, oltre una certa provvista di matè, di zucchero, di rhum e di candele.

Le occupazioni di questi puesteros, chiamati anche corrales, si limitano al taglio della lana, che poi rinchiudono in sacchi per consegnarla al catapaz del padrone, all’allevamento degli animali e alla difesa di questi contro i ladroni delle pampas, o contro gli assalti dei coguari e dei giaguari.

[226]

L’estancia che stavano per occupare i fuggiaschi, non differiva molto dalle solite. Era però piccola, avendo un recinto limitato, e conteneva una sola capanna costrutta con mattoni cotti al sole e in parte sfondata.

All’ingiro non si scorgevano che degli ammassi di sterco, alcuni carcami di pecore, un carro che pareva avesse sostenuto un furioso assalto, a giudicarlo dalle sue tavole squarciate e dalla sua coperta sventrata, e alcuni teschi di buoi, che parevano avessero servito di sedili ai puesteros.

Nessun’anima vivente nè all’esterno nè all’interno, eccettuati alcuni chimango, certi uccelli amanti delle carogne, che stavan sonnecchiando indolentemente sulla cima della capanna.

Ramon, dopo essersi assicurato con una rapida occhiata che nessun indiano si trovava nascosto nel recinto, si avanzò fin presso la capanna, poi balzò a terra, invitando i compagni a fare altrettanto.

Tenendo sempre il trombone in mano, fece il giro della catapecchia con molta precauzione, poi entrò, tenendo l’arma tesa. Visto che l’interno era affatto vuoto, si rassicurò e, volgendosi verso i compagni, disse:

— Siamo in casa nostra.

— Non c’era bisogno di tante precauzioni, — disse Cardozo: — chi poteva occupare questa catapecchia?

— Dagli Indiani si può aspettare qualunque sorpresa, — rispose il gaucho. — Nella pampa la prudenza non è mai troppa.

— È vero, — affermò il mastro.

— Ma dove saranno fuggiti i proprietari di questo recinto? — chiese Cardozo.

— Non ne so più di voi, — rispose Ramon.

— Che abbiano avuto con loro delle pecore?

— Forse delle migliaja.

— E dove saranno ora?

— Probabilmente disperse per la prateria.

— Qualche altro proprietario le farà sue allora.

— V’ingannate, Cardozo, — disse il gaucho. — Gli animali [227] della estancias, siano cavalli, buoi o pecore, portano tutti una marca, che non è sconosciuta ai grandi allevatori. I primi la portano impressa sulla pelle, e si fa con un ferro rovente, e le pecore sulle orecchie, onde non guastare la loro lana, che, come voi già saprete, è molto pregiata sui mercati argentini. Queste marche vengono poscia depositate presso le autorità argentine e sono una garanzia pei proprietari, che più nulla hanno da temere.

— È vero, — disse Diego. — Nessun proprietario ardirebbe porre la mano su di un animale che porta una marca appartenente ad un altro.

— I proprietari di questa estancia hanno adunque la speranza di ricuperare un giorno i loro armenti?

— Sì, Cardozo, se non cadono però fra le mani degli Indiani, — disse Ramon.

— Quando voi siete venuto qui, avete trovato degli animali? — chiese il mastro al gaucho.

— Un centinajo di buoi, che erano ritornati senza dubbio da pascoli lontani.

— Forse gli stessi che lanciaste contro di noi?

— Sì, mastro, — rispose Ramon sorridendo. — Mi avevano seguìto, e io ne ho approfittato per tentare di sbaragliare l’avanguardia dei Tehuels, onde facilitarvi la fuga.

— Ma come avevate saputo che noi eravamo nelle mani di quei pagani? — chiese Cardozo.

— Sì, sì, narrate, — disse il mastro, accomodandosi sul cranio di un bue.

— Vi ricorderete senza dubbio di quella terribile notte in cui ci si diede la caccia.

— Non l’ho scordata, — rispose Diego. — Carramba! che brutta notte!

— Io era fuggito verso l’est, inseguito da una dozzina di Patagoni, che mi lanciavano dietro delle bolas per storpiarmi il cavallo e per fracassarmi il capo. Non so quante miglia percorsi, abbattendo di quando in quando qualche inseguitore a colpi di trombone, quando mi trovai d’improvviso dinanzi al Rio Negro.

[228]

«Lo attraversai e mi rifugiai sulla riva opposta, dove mi nascosi in mezzo a dei fitti cespugli. Credevo di essermi assai allontanato dal luogo dove avevo lasciato voi, quando invece mi accorsi di trovarmi a poche centinaja di passi dall’accampamento dei Tehuels.

«Ignorando cosa fosse avvenuto dei miei compagni, stetti nascosto, e all’indomani, ai primi albori, scorsi i Patagoni attraversare il fiume assieme con voi.

— Ah! voi eravate a pochi passi da noi? — chiese il mastro.

— Sì, e vi distinsi perfettamente, legato in groppa ad un cavallo. Cardozo era portato da due uomini di statura gigantesca.

— È vero, — disse il mastro.

— Non potendo venire in vostro soccorso, riattraversai il fiume onde cercare Pedro e concertarmi con lui per la vostra liberazione. Ma, ohimè! il mio povero fratello era caduto sotto i colpi dei nemici e trovai il suo cadavere semidivorato dai giaguari della pampa.

— Infelice! — esclamarono Diego e Cardozo, profondamente commossi.

— Seppellii il povero Pedro, — continuò il gaucho, — e mi misi in traccia di ajuti, risoluto a strapparvi dalla prigionìa. Sapendo che qui un tempo esisteva una estancia, mi diressi a questa volta; ma i puesteros, spaventati forse dall’insurrezione dei Pampas, erano fuggiti.

«Trovati i buoi, discesi verso il sud, e vi incontrai coll’avanguardia. Voi sapete de’ miei tentativi, che non riuscirono che in parte; ma vi giuro che non vi avrei abbandonato, avessi dovuto affrontare da solo quelle canaglie.

— Siete un bravo compagno, Ramon, — disse il mastro, stringendogli vigorosamente le mani. — Noi tutti vi ringraziamo di quanto avete fatto per la nostra liberazione.

— Bah! non parliamone più, — disse il gaucho. — Ora pensiamo a procurarci dei cavalli, e poi cercheremo di guadagnare la frontiera del Chilì, che non dev’essere lontana più di sei o sette giorni di marcia.

— Cosa dobbiamo fare intanto?

[229]

— Voi e Cardozo batterete i dintorni onde procurarci della selvaggina, il vostro compagno rimarrà a guardia dell’estancia, e io andrò in traccia dei cavalli.

— Sperate di trovarne?

— Ne troverò: siate certo. Se occorre, mi spingerò assai lontano, verso il lago Urre, sulle cui rive vivono delle numerose bande di cavalli selvaggi.

— All’opera dunque, — disse il mastro.

— Sì, affrettiamoci: prima di venir sorpresi dai Patagoni, dobbiamo essere pronti.

Infatti la prudenza più elementare insegnava di affrettare i preparativi per la partenza. I Patagoni, che a quell’ora dovevano essersi svegliati, non potevano tardare a mostrarsi, sicuri di riavere il loro stregone e i due figli della luna.

Il gaucho, che pareva instancabile, rimontò in sella e spinse il suo cavallo verso l’est; Cardozo e il mastro, gettatesi in ispalla le carabine, si avventurarono nella prateria, mentre il signor Calderon si appollajava sulla cima della capanna onde sorvegliare i dintorni.

La giornata prometteva di essere buona pei due cacciatori. Per l’aria volteggiavano immensi stormi di avoltoi neri, di vindita, di pernici da campo, e attraverso le erbe si vedevano fuggire in non piccolo numero struzzi, volpi azara e viscacha, piccoli roditori, che si affrettavano a rifugiarsi nelle loro tane. In lontananza correvano disordinatamente anche parecchi guanachi, i quali però parevano di non aver voglia di lasciarsi avvicinare.

Cardozo e il mastro, dopo aver dato uno sguardo verso il sud, onde assicurarsi che per allora nessun pericolo minacciava l’estancia, e un altro verso l’est, dove galoppava il gaucho in traccia dei cavalli, che non si scorgevano in alcuna direzione, si diressero verso alcune macchie, in mezzo alle quali giganteggiava un ombù dal superbo fogliame.

— C’imboscheremo colà, — disse il mastro, — e faremo fuoco sulla selvaggina che verrà a tiro delle nostre carabine.

[230]

— Bell’idea, marinajo, — rispose Cardozo, — poichè, se devo dirti la verità, ho i piedi gonfi e le membra fracassate da quella corsa furiosa.

— Ne avremo ancora per poco, mio povero ragazzo. Se tutto va bene, fra otto giorni potremo riposarci in un comodo albergo.

— Lo spero, mastro. Ehin! Cosa vedo là?

— To’! — esclamò il mastro, fermandosi. — Si direbbe un bue che sta schiacciando un sonnellino.

— O una carogna?

— È ciò che sapremo presto, Cardozo.

A due o trecento passi da loro, coricata fra le erbe, si vedeva una massa biancastra che somigliava ad un grosso bue. Quantunque all’intorno svolazzassero in gran numero dei grossi falchi, detti dagli indigeni carrancho, non si muoveva.

— Temo che sia una carogna, — disse il mastro, dopo aver fatto alcuni passi. — Quegli uccelli non ardirebbero abbassarsi tanto su un essere ancora vivo.

Il mastro non si era ingannato. Il bue, che era di forme colossali, pareva morto da parecchio tempo: nondimeno Cardozo, che si era avvicinato per meglio osservarlo, notò con molta sorpresa che non tramandava alcun odore.

— Che sia morto da soli pochi giorni? — chiese egli. — In tal caso possiamo levare alcune bistecche.

— Prova a toccarlo, — rispose il mastro.

Il ragazzo ubbidì; ma, appena vi si appoggiò sopra, la massa cedette con un grande scricchiolìo di ossa infrante, mentre dal disotto fuggivano degli strani animaletti, che pareva si fossero trovati un ricovero là dentro.

— Cosa sono? — chiese Cardozo, facendo un salto indietro.

Il mastro, invece di rispondere, afferrò la carabina per la canna e si mise a picchiare furiosamente gli animaletti; ma questi si ripiegarono in forma di palla, presentando a quei colpi una specie di corazza ossea, che pareva fosse più dura del ferro.

[231]

— Non ne verrò mai a capo, — disse il mastro, arrestandosi. — Ci vorrebbe un martello del peso di un quintale per sfondare queste dannate scaglie.

— Ma che animali sono? — chiese Cardozo.

— Armadilli, o, meglio, fiere corazzate, — rispose il mastro. — Osservali bene, figliuol mio: ne vale la pena.

Cardozo si curvò e guardò quegli strani animali, dei quali aveva udito più volte vagamente parlare. Erano piccoli quanto una volpe giovane, armati di lunghi artigli, che dovevano essere duri quanto l’acciajo, e avevano il corpo difeso da lunghe piastre ossee, traversali nella direzione dei fianchi, grosse e assai resistenti a giudicarle a colpo d’occhio. Anche la testa appariva difesa da una specie di visiera di grosse scaglie, che dovevano essere a prova di palla.

Ripiegati strettamente, colla coda sotto il ventre, non si muovevano e presentavano ai nemici una specie di palla, completamente difesa dalle scaglie.

— Che bizzarri animaletti! — esclamò Cardozo. — Cosa facevano nel ventre del bue?

— Mangiavano la sua carne, — rispose il mastro. — Gli armadilli amano nutrirsi di carni corrotte, e quando trovano la carogna di un bue o di un cavallo vi si cacciano dentro, non lasciando intatte che le ossa e la pelle.

— E non si possono ammazzare?

— La loro corazza sfida la scure e la sega.

— Sono buoni da mangiarsi?

— Passano per eccellenti.

— Ma come faremo a portarli via?

— Li legheremo, e quando li avremo messi su di un bel braciere, ti assicuro che si cucineranno a meraviglia, malgrado la loro corazza. A noi, care bestioline.

Il mastro sciolse una lunga corda che portava stretta ai fianchi, legò gli armadilli solidamente e li appese ad un ramo onde ritrovarli al ritorno.

— Ora continuiamo la caccia, — disse egli, quand’ebbe terminato l’operazione. — L’arrosto per ora l’abbiamo; il resto verrà dopo.

[232]

Abbandonarono la carcassa e si diressero verso il boschetto, dove speravano di trovare qualche cosa di meglio degli armadilli. Stavano per entrarci quando Cardozo, che girava gli occhi in tutte le direzioni onde cercare di scoprire la selvaggina, fece osservare al mastro numerosi monticelli, sui quali si tenevano ritte delle grosse civette, che pareva spiassero i cacciatori.

— Cosa fanno là quei brutti uccelli? — chiese egli.

— Sono le sechuza dei gauchos, — rispose il mastro.

— E cosa fanno su quei monticelli?

— Ci spiano.

— Hanno il loro nido?

— Sì, entro quei monticelli. Se tu provassi avvicinarti, le femmine non tarderebbero a fuggire nella tana, mentre i maschi ti correrebbero addosso colla speranza di spaventarti.

— E son essi che si scavano le tane?

— Qualche volta sì; ma per lo più occupano quelle delle viscacha, che sono grossi roditori di prateria. Guarda che brutte smorfie ci fanno.

— E quegli altri monticelli cosa sono?

— Dei formichieri.

— Nidi di formiche vuoi dire?

— Sì; ma... to’! non vedi tu muoversi qualche cosa presso quei monticelli?

Il ragazzo si alzò sulle punte dei piedi e guardò attentamente nella direzione indicata.

— Infatti, — disse poi, — mi pare che qualche animale o grosso uccello si agiti laggiù.

— Andiamo a vedere, Cardozo. Forse ci sono delle costolette per la cena.

I due cacciatori si gettarono a terra per non far fuggire l’animale o il volatile segnalato e si misero a strisciare in direzione dei formichieri, che erano contornati da fitti gruppi di cactus e di grossi cardi. Giunti a pochi passi, si alzarono con precauzione, armando le carabine.

Dinanzi ad un monticello che appariva coperto di formiche, [233] un animale non meno curioso degli armadilli si agitava, mandando dei sordi grugniti.

Era grosso quanto un lupo aguara, ma più lungo, coperto di peli di color bruno, con una larga striscia di peli neri orlati di bianco che gli serpeggiava sul dorso. La sua testa, assai allungata, si assottigliava stranamente alla estremità e pareva che fosse sprovvista di bocca, e le zampe, corte assai, si vedevano armate di lunghi artigli. Una coda lunga un buon metro, che teneva alzata e ricurva sui corpo, munita di peli lunghissimi e fitti, completava quello strano animale.

— Cos’è? — chiese Cardozo.

— Un orso formichiere, — rispose il mastro.

— E cosa fa?

— Pranza.

— Ma se non ha bocca...

— T’inganni, ragazzo mio. Non vedi uscire dall’estremità del muso, da una specie di buco che vorrebbe essere una bocca, una lingua lunga assai, terminante in una specie di strale e che l’animale accorcia a piacimento? È spalmata di una materia assai vischiosa, alla quale si attaccano a centinaja le formiche, che il ghiottone mangia con molto appetito.

— È buono a mangiarsi?

— La sua carne somiglia a quella del majale.

— Allora fa per noi, marinajo, — rispose Cardozo, puntando il fucile.

— Risparmia la carica, — disse il mastro. — Siffatti animali, quantunque siano provvisti di lunghi artigli, non sono pericolosi che pei formicai. Lascia fare a me.

Il mastro afferrò la carabina per la canna, balzò addosso al formichiere, che non aveva pensato nemmeno a mettersi in guardia, e con una calciata applicatagli sul cranio lo rovesciò a terra fulminato.

— La cena e il pranzo per domani sono assicurati, — disse il mastro, raccogliendo la preda. — Ora pensiamo alle provviste per il viaggio.

[234]

XXVII. Ancora i Patagoni.

Tutto il giorno i cacciatori batterono la prateria in tutti i sensi, spingendosi parecchie miglia verso il nord e tirando numerosi colpi di fucile sulla selvaggina che incontravano. Giunta la sera, erano tanto carichi da non essere quasi capaci di portare le numerose prede all’estancia.

Sei armadilli, due orsi formichieri, tre struzzi e una mezza dozzina di viscacha formavano il loro pesante bagaglio, che bene o male rimorchiarono fino alla capanna, dove li attendeva il signor Calderon, il quale durante la lunga giornata non aveva abbandonato un solo istante il suo posto.

Il gaucho non era ancora ritornato; ma nè il mastro, nè Cardozo s’inquietarono, quantunque da qualche ora il tempo si fosse cambiato, minacciando di scatenare uno di quei terribili uragani, per cui vanno famose le pampas della Repubblica Argentina. Senza dubbio il bravo cavaliere, non trovando cavalli nelle vicinanze, si era spinto verso il lago Urre, che si trovava a una trentina di miglia più al nord.

— Verrà domani, — disse il mastro a Cardozo, che lo interrogava. — Un gaucho sa sempre trovare la sua strada senza bisogno di bussola e sa anche trovare un rifugio contro gli uragani delle pampas. Non dobbiamo inquietarci di questo suo ritardo.

Cardozo, un po’ tranquillato da quelle parole, accese il [235] fuoco e gettò fra le vampe quattro o cinque armadilli, mentre il suo compagno scorticava con abbastanza sveltezza la selvaggina abbattuta, che, ben seccata e affumicata, doveva formare la riserva pel viaggio. Il signor Calderon, come il solito, se ne stette in disparte rinchiuso nel suo silenzio.

La cena fu fatta in pochi minuti, inaffiata da una sorsata d’acqua corrotta, presa da una pozza che si trovava nell’interno della cinta; poi l’agente dei Governo e Cardozo si distesero nella capanna, in attesa del loro quarto di guardia. Il mastro, più resistente di tutti e più abituato alle fatiche, si accomodò al di fuori, dopo aver spento il fuoco, onde non servisse di faro ai Patagoni, nel caso che questi scorrazzassero quei dintorni.

La notte prometteva di diventare assai cattiva. Densi nuvoloni galoppavano pel cielo, spinti da un vento furioso che soffiava dal sud, da un vero pampero, come dicono gli Argentini. La grande prateria, poco prima silenziosa, si agitava fino agli estremi limiti dell’orizzonte; si piegavano i grandi cardi, si spezzavano i cactus, si torcevano, scricchiolando sinistramente, gli smisurati rami degli ombù e sotto le erbe e i cespugli si udivano urlare lugubremente i lupi rossi, spaventati dall’appressarsi della procella.

Di quando in quando un lampo azzurrognolo dalla tinta cadaverica illuminava le tempestose nubi e la pianura, seguito da un rullo che si perdeva fra il lontano orizzonte.

Il mastro, sdrajato presso l’entrata del recinto, colla carabina nascosta sotto la casacca per ripararla dai larghi goccioloni che cominciavano a crepitare sulle erbe, spinti in tutti i sensi dai furiosi soffi del pampero, teneva gli occhi fissi verso il sud. Si sentiva invaso da una forte inquietudine, che non riusciva a calmare, e presentiva la vicinanza di un pericolo.

Di tratto in tratto si levava, brontolando contro la bufera, che tendeva a diventare più violenta, e si sforzava di vedere più lontano che era possibile, spingendo gli acuti sguardi sotto le grandi erbe, che potevano nascondere l’avvicinarsi [236] dei nemici. Tre o quattro volte si arrampicò fin sul tetto della capanna, interrogando l’orizzonte, che i lampi illuminavano, e tendendo gli orecchi, parendogli di udire fra i fischi del vento delle lontane grida o il galoppo di parecchi cavalli.

— Non ci vedo dentro, — ripeteva il degno marinajo, scuotendo la testa. — Se almeno fosse qui Ramon: ma chi sa quanto sarà lontano quel bravo gaucho.

Verso le 11, mentre l’uragano cominciava a infuriare con maggior rabbia, l’attenzione del mastro fu richiamata da una numerosa banda di struzzi che veniva correndo dal sud, fuggendo verso il nord. Qualunque altro non si sarebbe inquietato; ma il mastro, che aveva profonda conoscenza delle pampas e de’ suoi abitatori, si impensierì gravemente.

— Quegli struzzi sono spaventati e fuggono un pericolo che viene dal sud, — mormorò. — Che i Patagoni si avanzino?

Si slanciò sulla palizzata, vi si arrampicò coll’agilità di un gatto e guardò attentamente. Un lampo illuminò la grande pianura, mostrandola come se fosse giorno fatto.

— Eccoli! — esclamò il mastro, discendendo precipitosamente. — Il cuore non m’ingannava.

Si precipitò verso la capanna e svegliò Cardozo e l’agente del Governo con due vigorose scosse.

— Tocca il quarto? — chiese il ragazzo, alzandosi.

— Sì, ma un brutto quarto, figliuol mio, — rispose il mastro. — I Patagoni sono qui.

— I Patagoni!

— Sì, ho visto or ora parecchi cavalieri galoppare per la pianura.

— Sono molti?

— Non lo so ancora, ma lo sapremo ben presto.

— E Ramon è tornato?

— Non l’ho veduto.

— Che sia stato ucciso, Diego?

— Non lo credo, poichè i Patagoni vengono dal sud ed egli si è diretto verso l’est, o verso il lago Urre.

[237]

— Andiamo a vedere questi brutti pagani, marinajo.

Cardozo, che non pareva troppo inquieto della presenza dei nemici, il mastro e l’agente del Governo, che non aveva perduto una linea della sua solita calma, abbandonarono la capanna e si diressero verso l’uscita della cinta.

La pianura era allora oscurissima; ma i lampi non dovevano tardare ad illuminarla. Infatti, pochi minuti dopo, alla luce di un lampo i tre uomini scorsero a circa tre chilometri dalla estancia una numerosa truppa di cavalieri armati di lunghe lancie.

— Corpo di una fregata sventrata! — esclamò il mastro, applicandosi un pugno furioso sul berretto. — È la tribù intera che si avanza!

— Siamo in un brutto imbarazzo, marinajo, — disse Cardozo. — Quel brigante di Hauka ò stato più furbo di quanto lo supponevo.

— E non siamo che in tre!

— Fortunatamente siamo buoni bersaglieri, e le munizioni non iscarseggiano.

— Ma non basteranno per tutti.

— Guarda, Diego! Si dirigono a questa volta.

— Ma faremo loro una brutta accoglienza, ragazzo mio; te lo assicuro. Il primo che giunge a portata del mio fucile è uomo morto.

— Ecco che parli bene, marinajo. Bisogna tener duro fino al ritorno di Ramon.

— Speriamo che ritorni con dei buoni cavalli.

— Orsù, organizziamo la difesa.

— Sono pronto, Cardozo. Cominciamo collo ingombrare l’entrata del recinto onde non farci fracassare la testa dalle bolas.

— E con che cosa? Non abbiamo nulla, a meno che tu non ti rechi ad abbattere qualche albero.

— Abbiamo il cavallo: ciò sarà sufficiente per ripararci.

Il bravo marinajo, vedendo che i Patagoni si avanzavano di buon trotto, punto curandosi dei lampi, dei tuoni e del pampero, che continuava a soffiare con estrema violenza, [238] fece alzare il cavallo, che sonnecchiava in un angolo dell’estancia, lo condusse presso l’entrata e con un vigoroso colpo di coltello lo fece stramazzare a terra cadavere.

— Presto, — disse poi, armando la carabina, — collocatevi dietro a questo morto e, appena i Patagoni giungono a tiro, aprite il fuoco. Signor Calderon, spero che non risparmierete i vostri antichi adoratori.

— Non m’interessano, — rispose l’agente con un sorriso sdegnoso.

— Sta bene; tenetevi pronti a far fuoco al mio segnale.

— Vi avverto però che le mie pistole hanno una portata piccola.

— Lo so, signor Calderon: ve ne servirete quando lo crederete opportuno.

I Patagoni avevano rallentato la corsa e si avvicinavano con precauzione, tenendosi riparati dietro ai grossi mazzi di cardi, che li nascondevano in buona parte. Senza dubbio sospettavano la presenza dei fuggiaschi e, sapendoli armati ed eccellenti bersaglieri, non volevano esporsi troppo.

Giunti a circa seicento metri, si fermarono, rizzandosi sulle staffe per abbracciare maggior orizzonte e spingere gli sguardi nell’interno dell’estancia. Diego, che non perdevali di vista un solo istante, giudicò opportuno dar segno di vita.

Si alzò sulle ginocchia, appoggiò la carabina sul corpo del cavallo e, appena un lampo illuminò la pianura, mirò il cavaliere più vicino. La detonazione fu coperta da urla di rabbia e da un precipitoso galoppo.

— Qualcuno è caduto, — dissegli alzandosi.

— Sì, sì, — confermò Cardozo: — vedo un cavallo senza cavaliere che fugge.

— Ne avremo uno di meno.

— Zitto...!

Il galoppo era cessato improvvisamente. Cardozo e il mastro attesero un nuovo lampo, e videro che la pianura era ridiventata deserta.

— Oh! oh! — esclamò il mastro, grattandosi furiosamente la testa. — Dove sono fuggiti?

[239]

— Si saranno nascosti fra le erbe, — rispose Cardozo.

— Cosa hanno intenzione di fare quei dannati pagani?

— Cercheranno di avvicinarsi strisciando fra le erbe: ne sono certo, marinajo. Tu sai che le loro bolas non vanno molto lontano.

— Non vorrei che li scoprissimo troppo tardi.

— O che ci assalissero alle spalle.

— Mille milioni di fulmini! Non ci mancherebbe che questo brutto tiro! Signor agente del Governo, abbiamo bisogno di voi per salvare la nostra pelle.

— Comandate, — rispose il signor Calderon.

— Se non vi rincresce, portatevi dall’altra parte della cinta e fate attenzione alle erbe, che potrebbero celare i briganti che ci assalgono. Vi avverto che bisogna tenere gli occhi bene aperti e le mani sulle pistole.

L’agente si alzò senza dir verbo e si allontanò con passo lesto.

— Ora possiamo essere un po’ più tranquilli, — disse il mastro. — Oh! oh! le erbe si muovono dinanzi a noi.

— Dove?

— Laggiù, a trecento passi.

— E anche più vicino, marinajo: non vedi quel gruppo di cactus aprirsi? Il vento li piegherebbe, ma nulla più.

In quell’istante, tra i fischi furiosi del pampero e gli scrosci del tuono, si udirono alcune acute note, che parevano emesse da un flauto. Era il segnale dell’attacco, o di qualche nuova manovra?

Cardozo e il mastro balzarono in piedi per meglio osservare le alte erbe, che si vedevano agitarsi in parecchi luoghi.

— Apri bene gli occhi, Cardozo, — disse il mastro.

— Sono tutt’occhi, Diego.

In quel momento si udì fra le tenebre un fischio acuto, e una bola lanciata da un robusto braccio urtò furiosamente contro la palizzata, schiantando un palo.

Il mastro, che al chiarore dei lampi aveva seguìto il volo del pericoloso projettile, puntò rapidamente la carabina e fece fuoco. Nessun grido rispose alla fragorosa detonazione.

[240]

— Corna di Belzebù! — esclamò con rabbia. — Ecco una palla perduta, che forse rimpiangeremo.

— Attenzione, marinajo! — disse Cardozo.

— Vengono?

— Eccoli!

A cinquanta o sessanta passi erano improvvisamente sorti dalle erbe quindici o venti uomini. Una grandine di bolas cadde contro lo steccato, aprendo dei fori nel legno semimarcito, poi i nemici si scagliarono innanzi colle lance in mano, empiendo l’aria di urla terribili.

Cardozo, quantunque spaventato dalla vicinanza dei formidabili guerrieri, le cui stature gigantesche spiccavano vivamente sul fondo azzurrastro dell’orizzonte, che i lampi illuminavano quasi senza interruzione, puntò la carabina e fece fuoco nel mezzo della banda.

Un uomo cadde fra le erbe: ma gli altri continuarono la corsa, mentre altre bande apparivano qua e là. Il mastro, che in quel frattempo aveva caricato il fucile, fece pure fuoco.

Un altro guerriero cadde, gettando un urlo di dolore. I suoi compagni, spaventati da quei colpi maestri, si arrestarono indecisi, poi volsero le spalle, gettandosi in mezzo alle erbe.

— Era tempo! — esclamò il mastro, tergendosi il freddo sudore che gli inondava la fronte. — Ancora pochi passi, e per noi era proprio finita.

Ma la sua gioia fu di breve durata. Le altre bande, che non avevano ancor provato gli effetti del fuoco, si avanzavano intrepidamente, lanciando le bolas, che se non colpivano i difensori dell’estancia, sfondavano a poco a poco la malferma palizzata. Erano oltre cento guerrieri, armati tutti di lancio e decisi, a quanto pareva, a tutto.

— Non perdere colpo, Cardozo, — disse il mastro.

— Ho il polso fermo, — rispose il ragazzo.

— Tira sui più vicini.

— Sì, marinajo.

— E se vedi Hauka, non risparmiarlo.

[241]

— Sarà il primo a cadere, se si mostra.

— Vedi l’agente?

— È al suo posto.

— È necessario che venga in nostro ajuto. Signor Calderon!

L’agente del Governo, che aveva già compreso quanto fosse disperata la posizione dei compagni, invece di rispondere, lasciò il posto e si avvicinò all’entrata della cinta.

— Sono con voi, — disse colla sua solita calma.

— Avete udito nessun galoppo verso il nord?

— Nessuno.

— Ah! se Ramon potesse udire le nostre fucilate!

— Sarà lontano assai, — disse Cardozo.

— Confidiamo in Dio. Ognuno a posto, e tenetevi pronti a tutto, anche a fuggire se non potremo più resistere.

— Eccoli! — disse Cardozo.

I Patagoni erano appena a cinquanta passi. Si radunarono strettamente, forse per incoraggiarsi vicendevolmente o forse per essere più pronti ad irrompere nella cinta dalla stretta apertura, poi si scagliarono innanzi gettando il loro grido di guerra.

Quattro spari si udirono a breve distanza l’uno dall’altro e tre uomini scomparvero fra le alte erbe, senza dubbio colpiti dalle palle degli assediati. I loro compagni, niente atterriti da quella accoglienza micidiale, continuarono la corsa, incoraggiandosi a vicenda con vociferazioni spaventevoli, e si slanciarono all’assalto con furia incredibile.

Diego, Cardozo e Calderon, malgrado si vedessero ormai perduti, non si perdettero di animo. Radunatisi dinanzi all’entrata della cinta, che non permetteva il passaggio a più di due uomini e che era semi-ingombrato dal cadavere dei cavallo, fecero intrepidamente fronte all’attacco.

Scaricate un’ultima volta le armi, che fecero altre quattro vittime, impugnarono le carabine per la canna, menando per ogni dove colpi disperati, mentre l’agente del Governo, che conservava anche in quel terribile frangente una ammirabile calma, caricava e scaricava senza posa le sue pistole.

[242]

La cosa però non poteva durare molto. I tre difensori dopo pochi minuti si videro costretti a ripiegarsi nell’interno del recinto e a rifugiarsi nella capanna. I Patagoni, furiosi per le perdite subite, irruppero nel recinto, mandando urla di vittoria.

— Siamo perduti! — esclamò Cardozo.

— Fuggiamo nella prateria, — disse l’agente.

— Non ancora! — tuonò il mastro.

Aveva veduto un guerriero di alta statura attraversare l’entrata e in quell’uomo aveva riconosciuto il capo Hauka.

Si lanciò fuori della capanna a rischio di farsi sfracellare il capo da qualche bola e puntò la carabina.

Già stava per far scattare il colpo, quando dalla parte opposta del recinto si udì una voce gridare:

— Tenete saldo, amici! Son qui io!

Una detonazione formidabile seguì la voce, coprendo le urla di furore dei Patagoni, e Hauka, colpito in pieno petto, cadde fulminato in mezzo ai suoi guerrieri.

Il mastro, sorpreso da quell’inaspettato soccorso, si volse verso la cinta e vide Ramon che si avanzava correndo, con in mano il trombone ancora fumante.

[243]

XXVIII. La prateria in fiamme.

Udendo quella voce a tutti e tre ben nota e quella fragorosa detonazione, che non si potea attribuire che ad un trombone, Diego, Cardozo e perfino il flemmatico agente del Governo si erano precipitati fuori della capanna, onde appoggiare l’offensiva del gaucho; ma non vi era ormai più bisogno.

I Patagoni, già malfermi per le perdite subite e la vigorosa difesa opposta dagli assediati, spaventati dalla morte del capo, sul quale assai contavano, e dall’arrivo inaspettato di quel nuovo nemico armato d’un fucile così terribile, si erano dati a precipitosa fuga, disperdendosi per la pianura.

Ramon, caricato sollecitamente il trombone, si affrettò a raggiungere i compagni, che lo accolsero a braccia aperte e con grida di gioja.

— Ah! mio bravo amico, credevo di non rivedervi mai più, — disse il mastro, stringendogli energicamente le mani.

— Non si abbandonano gli amici nel pericolo, — rispose il gaucho con dignità. — Sono felicissimo di essere giunto in così buon punto e di avere spacciato il gounak (capo) di quei giganti indemoniati. Pedro è vendicato!

— Avevate udito le nostre fucilate?

— Ero a dodici miglia da qui quando udii il primo vostro [244] colpo di fucile. Immaginandomi che voi eravate stati attaccati dai Tehuels, mi diressi di corsa da questa parte. Son giunto un po’ tardi, ma a tempo, a quanto vedo.

— Ancora pochi minuti e per noi era finita, — disse Cardozo. — La capanna non avrebbe resistito a lungo all’assalto di quei demoni.

— Credete che ritornino alla carica? — chiese Diego.

— Senza dubbio, — rispose il gaucho. — Io li conosco assai bene i Tehuels e so che sono assai vendicativi e tenaci nei loro progetti.

— Potremo resistere ad un secondo assalto?

— Non siamo bastanti per sostenere l’urto di tutti quei selvaggi: ma noi non li attenderemo.

— Avete condotto con voi dei cavalli?

— No; ma forse qualche cosa di meglio.

— Che cosa mai? — chiesero Diego e Cardozo con stupore.

— Il vostro pallone.

— Il nostro pallone?

— Sì, l’ho trovato sgonfiato a otto chilometri da qui in mezzo a un gruppo di cespugli.

— E dov’è?

— L’ho caricato sul mio cavallo, il quale non dev’essere molto lontano.

— Ma a che cosa ci servirà il pallone, se non abbiamo del gas da riempirlo? — chiese Cardozo.

— Lampi e tuoni! ciò è vero! — esclamò il mastro.

— Non si può innalzarlo? — chiese il gaucho con istupore. — Credeva che voi poteste farlo.

— E lo faremo, — disse l’agente del Governo, che fino allora non aveva pronunciato sillaba.

— In qual modo, signor Calderon? — domandò il mastro con aria incredula. — Avete per caso scoperto qualche gasometro?

— Basterà quest’erba secca, — rispose l’agente.

— Perdonate, signor Calderon: io sono una bestia a due gambe, — disse il mastro. — Se fossi stato solo, non avrei mai pensato a questo espediente, che può salvarci tutti.

[245]

— Tutti no.

— E perchè?

— Peseremmo troppo.

— Il pallone è grande.

— Non basterà.

— Allora lasciamolo fra i cespugli.

— Ditemi, signore: quante persone potrà portare? — chiese Ramon.

— Tutt’al più tre, compreso fra queste Cardozo, che non pesa molto.

— Che cosa si vuole esigere di più adunque quando basterà per salvarvi tutti e tre?

— Ma voi...? — chiesero Cardozo e Diego.

— In quanto a me, non vi seguirò in aria, — rispose il gaucho, sorridendo. — La mia patria è la prateria, non le nubi.

— E ci credete capaci di abbandonarvi al furore dei Patagoni? Oh! questo non accadrà mai, mai! — esclamò il mastro.

— No, mai! — confermò Cardozo.

— Se avete questo timore, potete tranquillizzarvi, amici. So quello che farò, e quando voi vi sarete innalzati, eleverò tale barriera dinanzi ai Patagoni, da impedir loro per vari giorni di inseguirmi.

— Spiegatevi, Ramon.

— È presto fatto, mastro. Incendio la prateria, approfittando del pampero, che soffia dall’est, e fuggo. I Patagoni, che accampano all’ovest, saranno ben costretti a ritirarsi dinanzi al mare di fuoco e a rinunciare per un bel pezzo all’inseguimento.

— E non ci rivedremo più? — chiese il mastro con dolore.

— Dove andate?

— Al Chilì: ve lo abbiamo detto.

— Ci verrò anch’io.

— Ma dove potremo noi ritrovarci? Il Chilì è grande.

— Fissate una città.

— Vi attenderemo a Nuova Concezione.

[246]

— Il posto dell’appuntamento?

— Al Consolato del Paraguay, o sul molo.

— Sta bene; non mancherò, amici miei. Ah! ecco il cavallo che giunge. Andiamo a prendere il pallone e gonfiamolo prima che i Patagoni si riorganizzino e tornino alla carica.

Al di là del recinto si vedeva avanzarsi il cavallo del gaucho, carico a segno da penare assai a tirare avanti. Diego, Cardozo e Ramon, dopo d’aver raccomandato all’agente del Governo di fare buona guardia, sfondarono una parte della cinta e fecero entrare l’animale.

Il pallone fu subito disteso sull’erba ed esaminato scrupolosamente onde essere sicuri che non avesse degli strappi. Fortunatamente la grossa seta, malgrado tante peripezie e tante volate, aveva resistito meravigliosamente e non offriva alcuna laceratura. La rete era intatta.

— Non finirò mai di ringraziare questo valoroso aerostato, che dopo d’averci condotti a terra, ci salva nuovamente, — disse il mastro.

Nella pianura si udirono in quell’istante delle grida che pareva si avvicinassero, accompagnate da un furioso abbajar di cani. Ramon impallidì.

— Che sia troppo tardi? — mormorò.

— Speriamo di spiccare il volo prima della loro venuta, — disse Cardozo. — L’erba secca abbonda nell’estancia e in poco tempo il pallone sarà gonfiato.

— Vi consiglierei di fuggire prima di noi, Ramon — disse il mastro.

— Non datevi pensiero per me, — rispose il gaucho. — I Patagoni giungeranno sempre troppo tardi, poichè posso incendiare la prateria in qualunque luogo mi piaccia.

— Come desiderate, — disse il mastro. — Signor Calderon, cosa dobbiamo fare?

L’agente del Governo accorse e s’incaricò di dirigere l’innalzamento dell’aerostato: lavoro, del resto, che richiedeva poca fatica e non molte cognizioni aerostatiche.

Ai due lati dell’estancia si innalzavano due altissimi alberi, [247] che forse servivano di osservatorio ai puesteros, onde non venire improvvisamente sorpresi dagli Indiani, che dovevansi mostrare di frequente in quei paraggi così vicini alla frontiera patagone. L’agente del Governo se ne servì molto opportunamente per innalzare l’aerostato, mediante una lunga corda tesa fra i rami più elevati, e che attraversava l’estancia in tutta la sua lunghezza. Ciò fatto, fece allargare l’orifizio del pallone e accumulare sotto una grande quantità d’erba ben secca, alla quale venne subito dato fuoco.

Le fiamme, irrompendo attraverso l’apertura, che i quattro uomini tenevano ben tesa onde il tessuto non s’incendiasse, cominciarono a gonfiare il gigantesco pallone.

Pareva che l’operazione dovesse terminare senza incidenti, malgrado i furiosi soffi del pampero, che scuotevano orribilmente l’aerostato, minacciando di lacerarlo contro la cinta, quando nella pianura scoppiarono spaventevoli vociferazioni. Diego mandò un vero ruggito.

— Siamo perduti! — esclamò.

— Non ancora, — rispose il gaucho. — Incaricatevi del pallone voi; io m’incarico dei Patagoni. — Strappò due manate d’erba accesa e si precipitò fuori dell’estancia.

Alcune bande di Patagoni si avanzavano urlando, dirigendosi verso il recinto. Senza dubbio al chiarore dei lampi avevano veduto l’aerostato e, immaginandosi che i loro ex-prigionieri stessero per fuggire colla luna, accorrevano per far prigionieri tutti insieme.

Il gaucho, senza inquietarsi troppo della loro vicinanza, sparpagliò per un tratto piuttosto lungo le erbe infiammate, le quali comunicarono il fuoco ai cactus e ai cardi, che crescevano in grande abbondanza e che erano quasi secchi. In pochi minuti sette od otto colonne di fumo si alzarono qua e là, e poco dopo una cortina di vampe immense si alzò crepitando e illuminando vivamente la notte.

I Patagoni, che non distavano che poche centinaia di passi dall’estancia, si arrestarono di colpo, mandando urla di rabbia.

[248]

— Alto là! — esclamò il gaucho, scaricando sui più vicini il suo trombone. — Di qui non si passa!

Sicuro di non venire inseguito, tornò rapidamente presso i compagni. L’aerostato, quasi completamente gonfiato, faceva sforzi prodigiosi per rompere la corda che lo teneva prigioniero e innalzarsi fra le tempestose nubi.

— Siete pronti? — chiese il gaucho.

— Non occorre che tagliare la corda, — rispose l’agente del Governo.

— M’incarico io.

Il gaucho si arrampicò sull’albero più vicino e sguainò la sua navaja dalla lama tagliente quanto un rasojo. L’agente del Governo, Diego e Cardozo coi piedi allontanarono le erbe che ancora bruciavano, e, caricatisi delle armi, si aggrapparono alla rete.

— Ramon, — gridò Diego con voce assai commossa — Vi aspettiamo a Nuova Concezione.

— Vi sarò, amici. Che Dio vi protegga.

— Addio, Ramon!

— Addio, amici!

Il gaucho con un vigoroso colpo di coltello tagliò la corda, che filò rapidamente nell’anello, lasciando libero l’aerostato.

— Tenetevi saldi! — gridò Diego.

Il pallone, non più trattenuto, sfondò con irresistibile slancio l’enorme massa di fumo che ondeggiava sopra la estancia e salì fino a cinquecento metri; poi, investito dai soffi impetuosi del pampero, piegò verso l’ovest, fuggendo colla velocità d’una rondine.

Nella pianura si udirono ancora le urla di furore dei Patagoni, che vedevano fuggire la tanto agognata preda, e un colpo di trombone seguito da un grido di trionfo.

Diego, Cardozo e l’agente del Governo, aggrappati alle maglie della rete, guardarono giù. Uno spettacolo spaventoso s’offerse ai loro occhi.

La prateria era tutta in fiamme. Immense lingue di fuoco, alimentate dal vento, correvano verso l’ovest con incredibile [249] velocità, tutto abbattendo e tutto distruggendo sul loro passaggio. Sparivano i cactus, si fondevano, per modo di dire, le immense distese di cardi, cadevano e si contorcevano i carrubi selvatici, s’infiammavano i boyghe, scoppiavano i mirti, e i grandi ombù, accesi in cento luoghi simultaneamente, fiammeggiavano come smisurate torce, oscillando e crepitando in mille guise.

Immense colonne di fumo, lacerate e abbattute dal vento, si alzavano qua e là, turbinando o correndo all’impazzata, oscurando la gigantesca cortina di fiamme che si espandeva sempre più con cupi ronzìi e sinistri crepitìi e lunghi sibili, mentre nelle alte regioni vagavano a milioni le scintille, che fendevano lo spazio come altrettante stelle.

Il cielo e la terra per un tratto immenso apparivano rischiarati come in pieno giorno, ma da una luce sanguigna, la quale tramandava fino alle nubi un calore orribile, rendendo l’aria scottante e quasi irrespirabile.

In mezzo a quella spaventevole distruzione di vegetali di ogni specie, gli aeronauti scorsero i Patagoni che fuggivano disperatamente verso il sud, incalzati dalle fiamme, e verso il nord il bravo gaucho, il quale galoppava in direzione del lago Urre, gettando di quando in quando delle grida di trionfo e sparando in segno di addio il suo trombone.

Dinanzi a lui in una confusione indescrivibile galoppavano furiosamente tutti gli animali della prateria, che erano stati bruscamente svegliati dalla improvvisa invasione delle fiamme. Struzzi, bande di cavalli e di guanachi, lupi rossi, giaguari e coguari fuggivano mescolati assieme, mandando grida, nitriti, ululati e ruggiti, senza punto pensare, in quei supremi momenti, a difendersi, o a divorarsi.

— Quale spettacolo! — esclamò Cardozo. — Dio faccia che quel bravo amico possa sfuggire alle fiamme ed agli animali feroci che fuggono in sua compagnia.

Il pallone, spinto dal pampero, che in quelle regioni elevate soffiava con forza estrema, fuggiva con celerità incredibile al disopra della avvampante prateria. In breve uscì da quella atmosfera ardente che lo circondava e si diresse [250] verso il nord-ovest, tuffandosi tra le vorticose nubi che correvano all’impazzata fra tuoni orribili.

I tre uomini si trovarono immersi quasi da un istante all’altro in una profonda oscurità, che i riflessi dell’immenso incendio non riuscivano a rompere. Solo di quando in quando, in mezzo a qualche strappo aperto dal vento, che fischiava orrendamente, tra il fumo apparivano ai loro occhi le fiamme, che sempre più si allontanavano, o pervenivano ai loro orecchi le grida delle belve cacciate dai loro covi dall’elemento distruttore e le vociferazioni dei Patagoni, i quali galoppavano nella direzione dell’aerostato.

Alle tre del mattino, ossia un’ora dopo, l’incendio era completamente scomparso. Il pallone, che l’uragano trasportava sulle sue possenti ali con una velocità incalcolabile, percorreva allora una regione affatto nuova, una specie di altipiano che pareva s’innalzasse rapidamente.

— Dove siamo mai? — chiese Cardozo al mastro, che si teneva imbrogliato fra le maglie, ma dalla parte opposta, onde non squilibrare l’aerostato.

— Non ne so più di te, — rispose il vecchio lupo di mare. — Ma alla luce di un lampo ho visto che il terreno è cambiato; la prateria sta per tramutarsi in una montagna.

— Che abbiamo attraversato tutto il territorio?

— Non sarebbe da sorprendersi, poichè questo vento è talmente rapido, da stimarsi non inferiore ai centocinquanta chilometri all’ora.

— Vedi nessun riflesso all’orizzonte?

— All’est tutto è oscuro, figliuol mio.

— Dove finiremo mai?

— In qualche luogo cadremo e fra non molto, Cardozo, poichè mi pare che il pallone cominci a scendere.

-A me pare invece che sia il terreno che si innalza, marinajo.

— Forse c’inganniamo tutti e due, con questa diabolica oscurità.

— Marinajo!...

— Cosa vuoi, Cardozo?

[251]

— C’è pericolo di urtare contro qualche montagna?

— Non credo che siamo vicini alle Ande.

— Se urtassimo?

— Allora buona notte a tutti.

— Il pallone non resisterà?

— Si schiaccerà come una semplice pera cotta.

— Mi fai venire i brividi.

— E a me viene caldo.

— Ah!...

— Buona notte, ragazzo!

Il pallone, cui il vento continuava a spingere innanzi con velocità crescente, sostenendolo egregiamente, era rientrato nelle nubi, che si accavallavano confusamente. L’oscurità divenne completa attorno agli aeronauti, essendo cessati i lampi.

Nell’aria si udivano dei sordi brontolii che parevano prodotti da lontani tuoni e di sotto dei fischi stridenti che talvolta si cambiavano in veri ruggiti. Si avrebbe detto che il vento scuoteva con furore senza pari delle immense piante, torcendone come fuscelli i rami e i tronchi.

Alle quattro del mattino avvenne un urto alla base dell’aerostato, che per poco non fece cadere i tre aeronauti.

— Marinajo! — esclamò Cardozo, che aveva impallidito, — abbiamo toccato.

— Lo so, figliuol mio, — rispose il mastro, che aveva la fronte imperlata di freddo sudore.

— Che il pallone sia disceso?

— O che la terra si sia innalzata? — chiese invece il mastro. — Mi parve d’aver veduto una massa oscura agitarsi a pochi passi da me.

— Un picco, od un albero?

— Più un albero che un picco. Signor Calderon!

— Cosa desiderate? — chiese l’agente del Governo, la cui voce per la prima volta non era più tranquilla.

— Sapreste dirci dove siamo?

— Sopra una foresta di pellin alti almeno cento piedi.

— Allora siamo sulle Ande.

[252]

— È possibile anche questo.

Una massa nerastra, che si agitava a destra e a sinistra con violenza, apparve confusamente dinanzi all’aerostato. Cardozo e il mastro gettarono un grido di terrore.

— Siamo perduti!

L’aerostato, spinto dal vento, la investì con estrema violenza e si piegò a sinistra con acuto crepitìo.

— Precipitiamo! — gridò il mastro.

— Tenetevi saldi! — si udì a gridare l’agente del Governo.

Il pallone, piegato su d’un fianco, cadeva con grande rapidità, descrivendo dei cerchi concentrici. Dai suoi fianchi, senza dubbio lacerati, sfuggivano nubi di denso fumo.

— Diego! — esclamò Cardozo, che si teneva aggrappato disperatamente alle maglie della rete.

— Getta la carabina! — rispose il mastro, sbarazzandosi della sua.

— Ecco fatto.

— Giù le munizioni!

— Non ne ho più.

Il pallone, quantunque alleggerito di quel peso, che, del resto, era di poca entità, continuava a scendere, ma con meno velocità, sostenuto in parte dal vento, che s’ingolfava nelle sue pieghe.

— Tenetevi saldi! — gridò ad un tratto il mastro.

Un istante dopo il pallone toccava terra, rovesciandosi presso l’orlo di uno spaventevole abisso.

[253]

XXIX. Nuova Concezione.

I tre aeronauti, anche questa volta sfuggiti alla morte, grazie alla loro buona stella e alla loro straordinaria audacia, appena si videro a terra, si affrettarono a sbarazzarsi delle maglie che li stringevano e ad alzarsi.

Assicuratisi che nella caduta, quantunque fosse stata piuttosto brusca, non avevano riportato nè fratture, nè contusioni gravi, la loro attenzione si portò sul paese circostante, che per loro era assolutamente nuovo.

L’uragano li aveva trasportati nel bel mezzo di un’immensa agglomerazione di montagne e di estesi altipiani. A destra e a sinistra, e segnatamente verso l’ovest, delle grandi catene di montagne, quasi tutte coperte di nevi verso la cima, si estendevano a perdita d’occhio, solcate da una infinita quantità di piccole vallette, dove crescevano a profusione dei superbi cipressi, dei cedri rossi, dei pini altissimi, dei bellissimi pellins alti non meno di cento piedi, dei lauri detti lemmo, che dànno delle frutta dalle quali si estrae una specie di burro, e qualche pino araucano (pinus araucana, detto pure pehuen dai naturalisti), che si slanciava in aria per duecento cinquanta piedi, scuotendo le sue numerose frutta, che somigliano alle nostre castagne. Abissi profondi, dove si udivano muggire dei grossi torrenti; delle [254] spaccature spaventevoli, dei sentieruzzi appena appena visibili, delle rupi tagliate a picco si vedevano per ogni dove, mentre in lontananza, verso l’est, si scorgeva una linea verdastra, che indicava la grande prateria dei Patagoni e degli indiani Pampas.

— Dove siamo noi? — chiese Cardozo, che ammirava quell’enorme accatastamento di montagne.

— Non si può ingannarsi, — rispose il signor Calderon, che pareva contento di trovarsi colà. — Questa grande catena si chiama la Cordigliera, o, se vi piace meglio, le Ande.

— Allora siamo a due passi dal Chilì, — disse il mastro.

— Sì, purchè troviamo un passaggio.

— Le gambe sono ancora buone e, se occorre, ci arrampicheremo su quelle montagne, che ci chiudono il passo verso l’ovest.

— Guarda, guarda, marinajo! — esclamò Cardozo.

— Cosa vedi?

— Una montagna che manda fumo.

Il marinajo e l’agente del Governo guardarono nella direzione indicata e scorsero verso il nord una grande montagna che si elevava sopra le nubi, coperta di candidissima neve e sulla cui cima s’alzava un pennacchio smisurato di fumo, che il vento di quando in quando abbatteva.

— È un vulcano, — disse l’agente del Governo. — Forse quello d’Antuco.

— E quelli là, signor Calderon, non vi sembrano uomini? — disse il mastro. — To’! non credevo d’incontrare dei visi umani in mezzo a quest’orrido paese.

Da un sentieruzzo, aperto fra la spaccatura di un monte e che pareva mettesse capo ad una valletta, un drappello di uomini scendeva lentamente. Malgrado fossero ancora assai lontani, il mastro s’accorse che erano Indiani e che tutti portavano dei fucili.

— Chi saranno mai costoro? — chiese Cardozo.

— Degli Araucani, senza dubbio, — rispose l’agente del Governo.

— Gente da temere?

[255]

— No, poichè gli Araucani sono gl’Indiani più inciviliti delle due Americhe.

— Che ci abbiano veduti a cadere?

— È probabile.

— Sono ospitali?

— Ospitalissimi, e col loro mezzo noi potremo calare nel Chilì senza troppe fatiche.

— Allora siano i benvenuti, — disse il mastro.

Il drappello era giunto allora a cinquanta o sessanta passi e si era arrestato, guardando con viva curiosità gli aeronauti e specialmente il signor Calderon, il cui costume di stregone patagone doveva sembrare abbastanza strano indosso ad un uomo dalla pelle bianca. Quella brigatella si componeva di sette Indiani, di statura elevata e ben proporzionata; avevano la testa e viso rotondo, fronte piccola, naso un po’ schiacciato, occhi piccoli e vivaci ed il colorito leggermente abbronzato, tirante però un pochino all’olivastro.

Indossavano delle grosse camicie di lana azzurra, stretta ai fianchi da una larga fascia rossa, calzoni piuttosto attillati e il tradizionale poncho dai vivaci colori; alle braccia e alle orecchie avevano pendenti d’oro e d’argento di forma per lo più quadrata, e alle dita grossi anelli.

Il mastro, vedendo che non si muovevano e che avevano un’attitudine niente affatto ostile, mosse a loro incontro, salutandoli cortesemente.

Un Indiano, che pareva il capo a giudicarlo dalle vesti più ricche e dalla maggior copia di anelli e di braccialetti, si fece innanzi, dicendo in lingua spagnuola:

— Dobbiamo accogliervi come amici o come nemici?

— Siamo amici, — rispose il mastro.

— Siete discesi dal cielo?

— Sì, ma con un pallone.

L’Indiano sorrise.

— Io conosco i palloni degli uomini bianchi, — disse poi con un certo orgoglio. — Gli Araucani non sono selvaggi.

— Ciò mi dispensa dal darvi delle spiegazioni, che sarebbero assai imbarazzanti.

[256]

— Sono vostri fratelli? — chiese l’Araucano, accennando Cardozo e l’agente del Governo.

— Sono miei amici.

— Dove eravate diretti?

— Al Chilì.

— Da dove venite?

— Dalla grande prateria, dove eravamo stati fatti prigionieri dai Tehuels.

— I Tehuels sono cattivi uomini, lo so, — disse l’Indiano; — e sono felice che voi siate sfuggiti dalle loro mani.

Poi, togliendosi di dosso il poncho e alzando le braccia:

— Io sono Peguemmapù, capo della vallata degli Uta, — disse. — Gli uomini bianchi sono miei ospiti; mi seguano.

— Non chiediamo di meglio, signor Peguemmapù, — disse il mastro. — Io e i miei compagni vi ringraziamo di tutto cuore.

— Venite al mio villaggio, adunque, e quando vorrete, vi farò condurre nei bassipiani del Chilì.

I sette Indiani e i tre aeronauti si misero in cammino, seguendo il sentieruzzo che, come abbiamo detto, metteva in una graziosa valletta aperta fra due altissime montagne.

Colà, non senza una viva sorpresa da parte degli aeronauti, che credevano d’essere caduti in una regione affatto disabitata, si rizzavano trenta o quaranta comode abitazioni, popolate da un centinajo di pastori araucani, i quali fecero ai nuovi arrivati la più ospitale accoglienza.

Peguemmapù ebbe per gli ospiti caduti dal cielo le maggiori attenzioni che immaginare si possa. Pranzi succolenti, partite di caccia sugli scoscesi fianchi delle Ande, scorrerie attraverso le valli furono fatte in onore degli stranieri, i quali largamente ne approfittarono.

Il quarto giorno, sentendosi ben rinvigoriti, i due marinai e il signor Calderon, che avevano fretta per motivi diversi di raggiungere la costa, davano un addio al capo araucano, lasciando come regalo un numero non piccolo di nazionali e come ricordo il pallone, che per loro non era più di alcuna utilità.

[257]

Montati su robuste mule, dalle unghie di acciajo e dal piede sicuro, e guidate da un catapaz che doveva portarsi alla costa, attraversarono, per mezzo di sentieri noti solamente agli agili guanachi e agli Araucani, la gran catena delle Ande, e il giorno appresso giungevano negli altipiani inferiori, facendo una breve fermata a Santa Barbara.

Colà, fatto acquisto di cavalli, proseguirono verso l’ovest, toccando Nacimento, e finalmente giungevano in vista di nuova Concezione, o, come la chiamano gli Araucani nella loro lingua, Penco.

— Finalmente! — esclamò il mastro, respirando a pieni polmoni l’aria che veniva dal mare, che scintillava all’orizzonte. — Ora possiamo chiamarci proprio salvi.

— Lo credo, — rispose Cardozo che animava il cavallo a colpi di scudiscio, impaziente di entrare in città. — Era tempo che ci trovassimo in un paese incivilito, dopo essere stati per tante settimane fra i selvaggi della grande prateria.

— I tuoi milioni li porti sempre?

— Non li ho mai toccati, — rispose il ragazzo. — Sono sempre qui, nella cintura nascosta sotto la camicia.

— Ed io ho i miei. Il Presidente può chiamarsi fortunato di riavere questo tesoro, che forse crede perduto in fondo al mare.

— Forse ci conta ancora, marinajo. Il capitano Candell e qualche uomo del suo equipaggio possono essersi salvati.

— Dio lo volesse, ragazzo mio! — disse il mastro con voce commossa — Mi rincrescerebbe immensamente la morte del nostro eroico comandante.

— Alto! — disse in quell’istante l’agente del Governo, fermandosi dinanzi ad una trattoria situata a mezzo chilometro dalla città.

— Non entriamo in città? — chiese Cardozo. — Abbiamo dato l’appuntamento a Ramon al Consolato.

— Eppoi dobbiamo intenderci col console per sapere dove ritroveremo il nostro amato Presidente.

— Spero che non vorrete presentarvi con questi costumi stracciati, che puzzano di selvaggi, — disse l’agente del Governo.

[258]

— Avete ragione, signor Calderon; tanto più che io muojo di fame.

Entrarono nell’albergo, affidando i cavalli ai mozzi di stalla, e, chiamato il proprietario, lo incaricarono di procurare delle nuove vesti e di fare allestire un succolento pranzo.

Poche ore dopo, tutti e tre vestiti a nuovo, scendevano nella sala, dove si sedevano dinanzi ad un lauto pranzo, che inaffiarono con parecchie bottiglie di squisito vino spagnuolo.

Il signor Calderon, che aveva avuto già un lungo colloquio col proprietario dell’albergo, durante il pasto diede ai suoi compagni le prime notizie della guerra che ancora si combatteva fra il Brasile e la Repubblica Argentina da una parte e il Paraguay dall’altra.

L’eroico dittatore, malgrado la grande sconfitta subita ad Angostura, nè era fuggito, come era corsa voce, nè aveva disperato di spuntarla sulle forze degli alleati. Secondo le ultime notizie giunte al Chilì, si trovava allora a Cerra-Leon, occupato a riorganizzare il suo esercito ed a fortificare Piribebuy, che aveva nominata capitale provvisoria della Repubblica.

— Fosse anche in capo al mondo, noi lo raggiungeremo, — disse il mastro. — Coi milioni che noi portiamo e che faremo convertire in tanto danaro dal nostro console, il valoroso generale potrà tener testa per lungo tempo ancora agli alleati e forse scacciarli completamente dal territorio della nostra repubblica.

— Sì, speriamolo, — disse l’agente del Governo con un sorriso che pareva forzato.

— Possiamo partire?

— La vostra presenza al Consolato per ora sarebbe inutile, — rispose l’agente. — È meglio che mi presenti solo per metterlo al corrente di ogni cosa e per intenderci sul modo migliore e più rapido di raggiungere il Presidente.

— Oh, noi non vi saremo d’impiccio, signor Calderon, — disse il mastro.

[259]

— Lo so; ma desidero che non mi seguiate in città, per ora.

— E i motivi, signor agente del Governo?

— Non devo rendere conto a voi, mastro Diego. Non dimenticate che io rappresento il Presidente della nostra repubblica.

— E quando potremo entrare in città, se è lecito?

— Quando sarò tornato io.

— Vi avverto però, signor Calderon, che noi non consegneremo il tesoro che nelle mani del Presidente.

— Nessuno ve lo toglierà di dosso, — rispose l’agente del Governo, alzando le spalle.

— Quando è così, partite pure.

L’agente uscì dall’albergo, fece sellare nuovamente il cavallo, balzò in arcione e partì a spron battuto, dirigendosi verso la città, che era lontana appena mezzo chilometro.

Mastro Diego, che lo aveva seguito cogli sguardi a lungo, quando lo vide sparire sotto le vôlte delle mura, crollò il capo a più riprese, mormorando ripetutamente:

— Quell’uomo lì mi diventa sempre più strano e più incomprensibile.

— Hai ancora dei dubbi? — chiese Cardozo.

— Non so cosa dire, figliuol mio.

— Sospetti qualche cosa?

— Forse.

— Eppure il Presidente deve conoscerlo a fondo.

— Talvolta anche i grandi uomini s’ingannano.

— Cosa facciamo?

— Lo attenderemo.

— E sia, marinajo.

Fecero portare due altre bottiglie, accesero dei sigari e si sedettero all’aperto, attendendo pazientemente il ritorno dell’agente: ma batterono le due, le quattro, le sei, senza che lo vedessero. Cominciavano già a inquietarsi di quella prolungata tardanza e si disponevano a dirigersi in città, quando videro galoppare verso l’albergo due vigorosi cavalli attaccati ad una specie di berlina.

[260]

— Che sia lui? — chiese il mastro, che non poteva stare più fermo.

— Sì, — rispose Cardozo, gettando un grido di gioja. — L’ho scorto seduto presso lo sportello.

Infatti poco dopo la berlina si arrestava proprio dinanzi all’albergo e il signor Calderon discendeva. Il mastro gli si slanciò incontro.

— Ebbene? — chiese.

— Partiamo, — rispose l’agente.

— Avete veduto il console?

— Sì, e ci aspetta.

— Saliamo, Cardozo.

Presero posto nella berlina, e i due cavalli, vigorosamente frustati, dopo pochi minuti entravano in Concezione.

[261]

XXX. Il tradimento.

Nuova Concezione, chiamata anche la Mocha e nella lingua del paese anche Penco, quantunque non contasse in quell’epoca più di 15,000 abitanti, era, e lo è anche oggidì, una delle più importanti città del Chilì.

Fondata nel 1550 da Pietro Valdivia, il celebre luogotenente di Pizzarro, che aveva conquistato il Chilì, era dapprima situata in fondo alla baja di Concezione. Mercè la sua posizione fortunatissima, il suo commercio e la fertilità delle terre che la circondavano, era fin da quei tempi salita a grande rinomanza, sopratutto per la vicinanza delle celebri miniere di Quilacoya, dalle quali gli Spagnuoli trassero per lungo tempo gran copia d’oro.

Ma fino dai primi tempi era stata disgraziata per una lunga serie di circostanze. Abbandonata nel 1554, dopo la sconfitta degli Spagnuoli a Monte Adalicano, era stata subito incendiata dagli Araucani. Riedificata nel novembre dello stesso anno, il capo araucano Sautarù la riprendeva, trucidando gran parte della popolazione, e tornava a rovinarla completamente. Ricostruita da don Garzia di Mendoza nel 1558, veniva incendiata nel 1603 dal capo araucano Paillamachù-Toqui, e quindi nuovamente riedificata, per venire nuovamente rovinata nel 1730 da uno spaventevole terremoto.

[262]

Non per questo gli abitanti abbandonarono quella città, che pareva perseguitata da un crudele destino. Nel 1731 tornavano a rialzarla; ma venti anni più tardi un altro terremoto la sfasciava da capo a fondo.

Solamente allora decisero di farla risorgere in altro luogo, ossia a tre leghe dal mare, in una vasta pianura detta La Mocha, sulla riva settentrionale del Rio Bobio.

Non tardò a diventare ancora una delle principali città del Chilì e a riguadagnare il perduto commercio, che ogni giorno va crescendo, grazie la sua vicinanza al mare e le innumerevoli produzioni del suolo.

Oggi Nuova Concezione occupa una grande superficie, essendo le sue case tutte di un solo piano, affinchè meglio resistano al terremoto, che si fa di quando in quando sentire con estrema violenza; ha una bellissima cattedrale, un ospedale, un collegio, caserme, spaziosi conventi e diversi consolati, fra i quali quello del Paraguay e di altre repubbliche dell’America del Sud.

La berlina che trasportava l’agente del Governo e i due marinai, dopo di aver attraversato quasi tutta la città con un baccano infernale, senza lasciare quasi tempo a quelli che la montavano di vedere dove andava, si era bruscamente arrestata dinanzi ad una casa di bella apparenza, che sorgeva sulla riva destra dell’Andalien, corso d’acqua che bagna la parte meridionale di Concezione.

L’agente del Governo, che durante il tragitto non aveva pronunciato una sola parola, aprì la portiera e balzò agilmente a terra, dicendo ai due marinai: — Siamo giunti.

Due uomini stavano fermi dinanzi all’abitazione, avvolti nei loro ponchos, che nascondevano quasi del tutto i loro volti. Vedendo l’agente del Governo, lo salutarono con un: Buena noche, caballero, e si ritrassero da una parte per lasciargli libero il passo.

— È questo il Consolato? — chiese il mastro.

— Sì; affrettiamoci, — rispose il signor Calderon.

— Cosa fanno quegli uomini?

— Sono stati posti qui per maggior sicurezza.

[263]

— Hum! — mormorò il marinajo, scuotendo il capo. — Chi può mai sapere che noi siamo giunti? I Brasiliani, o gli Argentini forse?

Seguì l’agente del Governo, che saliva frettolosamente una scaletta. Cardozo tenne loro dietro.

Giunti sul pianerottolo, trovarono un altro uomo, ma armato, il quale li introdusse in un salotto che era illuminato da una sola candela, la cui luce impediva di osservare di primo tratto tutto ciò che conteneva e particolarmente le finestre, che erano state coperte da grandi tende.

— Accomodatevi e attendetemi, — disse l’agente del Governo, indicando ai due marinai due poltrone.

— Dove andate? — chiese Diego.

— Vado ad avvertire il console del vostro arrivo. Intanto potete vuotare qualcuna di quelle bottiglie che occupano quel tavolo.

— Non mancheremo di farlo.

L’agente uscì, seguìto dall’uomo che li aveva introdotti.

— Corpo di una cannoniera sventrata! — esclamò il mastro quando fu solo con Cardozo. — Quante precauzioni! Si direbbe che noi ci troviamo in un paese nemico, anzichè neutrale.

— Il console forse avrà le sue buone ragioni per agire così, — rispose Cardozo. — Chi sa cosa può essere accaduto nel tempo in cui noi siamo stati nelle mani dei Patagoni.

— Che gli Argentini e i Brasiliani si siano alleati coi Chileni?

— Potrebbe essere successo anche questo, marinajo.

In quell’istante udirono un rapido stridore, che pareva provenisse dalla porta.

— Avanti, — disse il mastro, credendo che avessero bussato.

Nessuno rispose e nessuno si vide entrare. Il mastro, ritenendo che non lo avessero udito, si avanzò fin presso la porta; ma tosto retrocedette pallido come un morto e coi capelli irti.

— Che hai, marinajo? — chiese Cardozo sorpreso.

[264]

— Ho... ho... che la porta è stata chiusa! — esclamò il mastro con voce rotta.

— Si fa riaprire.

Il mastro, che pareva in preda ad una terribile agitazione, si scagliò contro la porta, percuotendola con tal fracasso da far tremare l’intera casa. La porta non si scosse nemmeno, tant’era grossa e ben chiusa; ma dal di fuori si udì una voce a gridare:

— Fermi, o faccio fuoco!

— Mille milioni di fulmini! Aprite! — tuonò il mastro.

— Aprite, o saltiamo dalle finestre! — aggiunse Cardozo.

Uno scroscio di risa fu la risposta che ottennero. Il mastro, fuori di sè, cogli occhi schizzanti dalle orbite, corse alle finestre; ma tosto retrocesse mandando un vero ruggito: erano tutte e due difese da grosse sbarre di ferro e chiuse esternamente da solide imposte.

— Siamo stati traditi! — esclamò il marinajo con voce strozzata.

Poi, come se avesse esaurito in quelle parole tutta la sua straordinaria energia, cadde, come fosse stato fulminato, su di una poltrona.

Cardozo, ancora istupidito da quell’inatteso avvenimento, non si mosse. In mezzo alla stanza, colla destra raggrinzata sull’impugnatura della sua navaja, egli si domandava se era impazzito, o se si trovava in preda ad uno spaventevole sogno.

— Traditi! traditi! — esclamò finalmente, scuotendosi; — Ah! Calderon! ti strapperò il cuore!

Stava per avvicinarsi al mastro, che pareva non dovesse più rimettersi da quel tremendo colpo, quando udì scorrere i catenacci e la porta gemere, come stesse per venire aperta.

— A me, marinajo! — esclamò. — I traditori vengono!

Il mastro nell’udire quelle parole si era rapidamente alzato, gettando un urlo di gioja selvaggia. Nella destra stringeva la navaja, arma formidabile nelle mani di quel vecchio marinajo.

La porta si era aperta, e tre uomini erano entrati. Due [265] erano armati di fucile e alla cintura portavano, per maggior precauzione, delle rivoltelle di grosso calibro; il terzo era disarmato e pareva una persona autorevole, forse il console.

— Miserabili! — tuonò il mastro, lanciandosi contro di loro col coltello alzato. — Dove siamo noi? Parlate, o vi uccido tutti e tre.

— In casa mia, — rispose l’uomo inerme, mentre gli altri due puntavano i fucili verso i due marinai.

— E a chi appartiene questa casa?

— Al Consolato Argentino, — rispose quell’uomo, sorridendo tranquillamente.

— Al Consolato Argentino! — esclamarono Diego e Cardozo.

— Sì, o signori.

— Ma non sapete che noi siamo sudditi del Paraguay? — chiese il mastro, tendendo i pugni.

— Lo so, o signori, ed è perciò che io in nome del mio Governo vi dichiaro prigionieri di guerra!

— Miserabile! — tuonò il mastro, facendo atto di slanciarsi contro quell’uomo.

— Vi prevengo che se fate un passo vi faccio fucilare, — rispose l’agente argentino.

— Ma cosa si esige da noi? — chiese Cardozo.

— Il versamento dei milioni destinati al vostro Presidente.

— Ma è un furto, indegno di una nazione che si chiama la Repubblica Argentina.

L’agente alzò le spalle.

— Tutto è buono in guerra, — disse.

— Ma noi siamo qui al Chilì, in territorio neutrale, — gridò il mastro.

— Reclamate presso il Governo chileno, se lo potete.

— Siete un miserabile!

— Delle vostre invettive non mi preoccupo.

— Dov’è il signor Calderon? — chiese Cardozo.

— Credo che sia occupato a pranzare.

— È lui adunque che ci ha traditi?

— Ci voleva poco ad indovinarlo.

— Ma chi è adunque colui?

[266]

— Un abile agente del Governo argentino, che era riuscito a guadagnarsi la fiducia del vostro Presidente.

— Ah! — esclamò il mastro, — i miei sospetti erano veri! Ed io, stolto, che lo salvai, invece di abbruciarlo nella prateria; ma giuro a Dio che non morrò finchè non gli avrò immerso nel cuore la mia navaja!

— E lo giuro anch’io, Diego, — disse Cardozo.

— Se lo ritroverete, — disse l’agente argentino con un sorriso ironico. — Orsù, signori, bisogna arrendersi e sborsare i milioni che portate indosso.

— Per poi assassinarci? È così, signore? — chiese il mastro.

— No, e ve ne do la mia parola d’onore.

— I briganti pari vostri non hanno onore.

— Come vi piace. Se depositate i milioni, voi uscirete da qui sani e salvi, e vi faremo imbarcare su di una nave argentina che giungerà in porto domani, onde impedirvi di reclamare verso il Governo chileno, che tutto deve ignorare. Vi si trasporterà in qualche città della nostra repubblica, e al termine della guerra sarete restituiti assieme a tutti gli altri prigionieri.

— E se rifiutiamo?

— Rimarrete qui finchè vi arrenderete.

— Ebbene, in tal caso dovrete aspettare un bel pezzo, poichè nè io, nè Cardozo ci arrenderemo.

— Io credo il contrario.

— Perchè?

— Perchè la fame vi costringerà a capitolare.

Il mastro si slanciò innanzi col coltello in pugno; ma l’agente argentino e i suoi uomini, che si aspettavano senza dubbio quell’assalto, con una mossa rapida si erano gettati fuori della stanza, chiudendo violentemente la porta.

— Vi strapperò il cuore! — urlò il mastro al colmo del furore.

— Come vi aggrada, — rispose l’agente dal di fuori.

— Ah! briganti! — esclamò Cardozo.

— Li puniremo tutti, figliuol mio, — disse il mastro.

[267]

— Ma in qual modo, che siamo rinchiusi?

— Fuggiremo.

— Per dove?

— Non lo so; ma fuggiremo, te l’assicuro.

— Bisogna fuggire, sì, bisogna uscire a qualunque costo di qui prima che la fame ci tolga le forze.

— All’opera, ragazzo mio. Siamo ancora forti e non del tutto inermi.

— Cosa dobbiamo fare?

— Prima di tutto barrichiamo la porta, — disse il mastro. — Non dobbiamo farci sorprendere nel più bello delle nostre operazioni.

Nella stanza si trovavano per buona fortuna diversi pesanti mobili: una specie di libreria, due grandi tavoli, un pesante cassettone e diverse poltrone e sedie. I due marinai, radunando le loro forze, accumularono tutta quella mobilia contro la porta, formando una barricata tale da sfidare l’urto più potente e da opporre una lunga resistenza alle palle di fucile e di revolver.

— Ora, — disse il mastro quand’ebbero terminato, — esaminiamo la nostra prigione.

— Ah! marinajo! — esclamò Cardozo.

— Cosa c’è ancora? — chiese il mastro.

— Stiamo per essere liberi.

— Sei impazzito, figliuol mio?

— Guarda là.

— Un caminetto!

— Forse possiamo uscire di là.

— Ventre di balena!

— Guardiamo, marinajo.

Presero una candela e si avvicinarono al caminetto, che occupava la parete situata di fronte alla porta d’ingresso. Cardozo esaminò la canna e la trovò tanto larga da permettere la salita ad un uomo di grossezza media.

— Siamo salvi, — disse.

— Dio sia ringraziato! — esclamò il mastro. — È assai alta la canna?

[268]

— Tre metri appena.

— Non perdiamo tempo allora.

— Ma il tetto sarà alto?

— La casa mi parve piuttosto bassa e poi fiancheggia un corso d’acqua.

— È vero, e in caso disperato salteremo nel fiumicello, che mi parve abbastanza profondo.

— Vuoi salire?

— Alzami, e salirò.

Il marinajo prese Cardozo per i piedi e lo spinse in alto. Il bravo ragazzo si aggrappò a due sporgenze, che dovevano aver servito agli spazzacamini, e, puntando le ginocchia contro i muri della gola, si mise ad arrampicarsi colla sveltezza di un vero scojattolo. Giunto presso l’uscita, si arrestò, trovandosi imprigionato in una specie di pinacolo fornito di alcune aperture assai strette.

— Ebbene? — chiese il mastro con ansietà.

— Bisogna atterrare il pinacolo, — rispose il ragazzo.

— Hai forza bastante?

— Lo spero.

Cacciò le mani in una apertura e scosse furiosamente i mattoni. Il pinacolo, che era di costruzione leggera, gli cadde addosso.

— Auff! — esclamò Cardozo, respirando a pieni polmoni l’aria fresca della notte. — Siamo salvi.

Si issò sul tetto e lanciò un rapido sguardo all’ingiro. Presso la grondaja scorse un albero i cui rami si allungavano sopra le tegole, favorendo in tal guisa la discesa.

— Sali, marinajo, — disse, curvandosi verso la gola del camino. — Fra cinque minuti noi saremo salvi.

— Vengo, — rispose il mastro.

Adoperando i piedi e le mani, s’arrampicò su per la canna e dopo pochi istanti raggiungeva Cardozo, che si era già aggrappato ad un ramo, pronto a discendere nella sottostante via.

— Vedi nessuno? — chiese il vecchio lupo di mare.

— La via è deserta, — rispose il ragazzo.

[269]

— Vi sono degli uomini presso la porta?

— Non vedo alcuno.

— Discendiamo, e sopratutto non facciamo rumore.

Si aggrapparono ai rami, guadagnarono silenziosamente il tronco dell’albero e si lasciarono scivolare fino a terra. Appena il mastro si trovò libero, si raddrizzò con uno scatto da belva, esclamando con intraducibile accento d’odio:

— Ora a noi due, signor Calderon!

— Fuggiamo, marinajo, — disse Cardozo. — Qui possono sorprenderci e assassinarci.

— Andiamo, figliuol mio.

Voltarono in fretta l’angolo della casa e si slanciarono di corsa nella prima strada che si videro dinanzi. Avevano percorso appena cento metri, quando si arrestarono entrambi alla vista di un uomo che si avanzava a lenti passi, rasentando i muri delle case. Quantunque la notte fosse assai oscura, i due marinai l’avevano conosciuto.

— Calderon! — esclamò Cardozo.

— È Dio che ce lo manda, — mormorò il mastro con voce lugubre. — Il destino ci doveva questa rivincita!

— Attento che non ci fugga, marinajo.

— Il traditore morrà.

— Bada che non sia armato.

— Lo ucciderò, ti ripeto.

Spinse Cardozo dietro l’angolo di una casa, e gli si mise dinanzi colla terribile navaja in pugno, raccolto su se stesso, come una tigre che sta per avventarsi sulla preda.

L’agente del Governo, poichè era proprio lui, diretto senza dubbio alla casa del console argentino, si avanzava senza sospetto, colla sua solita calma e immerso, a quanto pareva, in profondi pensieri. Non aveva nemmeno fatto caso a quei due uomini, che forse non aveva neanche scorti.

— Eccolo! — mormorò il marinajo quando se lo vide vicino.

Fece un salto innanzi e piombò con slancio irresistibile addosso all’agente, afferrandolo strettamente per la gola.

— Mi conosci, traditore? — gli ruggì agli orecchi il marinajo, [270] mentre Cardozo gli si poneva di dietro col coltello in pugno.

L’agente del Governo, nel vedersi dinanzi i suoi antichi compagni, che aveva così vilmente traditi e che credeva di ritrovare ancora prigionieri nella casa del console argentino, divenne pallido come un cadavere e tentò, con uno sforzo disperato, di sottrarsi alla stretta che lo strozzava.

— Mi riconosci, traditore? — ripetè il mastro con accento terribile.

— Grazia, — balbettò l’agente.

— Eccola!...

L’acuta navaja del mastro si sprofondò fino all’impugnatura nel cuore del signor Calderon, il quale stramazzò al suolo fulminato.

— Così periscano tutti i traditori! — disse il mastro.

— Fuggiamo, Diego, — consigliò Cardozo.

— Sì, fuggiamo, e cerchiamo d’imbarcarci questa notte istessa su qualche nave.

Ripresero la corsa verso l’ovest e, usciti dalla città, si diressero verso la baja, nella quale si vedevano ancorati numerosi bastimenti. Stavano per dirigersi verso la Sanità onde informarsi se vi era in porto qualche nave con bandiera del Paraguay, quando scorsero un uomo a cavallo, che trottava verso la città.

Un grido sfuggì a tutti e due: — Ramon!

Il cavaliere, che li aveva già oltrepassati di alcuni passi, volse il cavallo e in brevi istanti li raggiunse.

— Diego! Cardozo! — esclamò, balzando a terra. — Ah! finalmente vi ritrovo!

— Amico mio, siete arrivato in buon punto, — disse il mastro, stringendo energicamente la mano al bravo gaucho.

— Siete arrivato oggi?

— Due ore fa, dopo cinque giorni di galoppo indiavolato, e andavo in cerca del Consolato.

— È inutile cercarlo.

— Perchè?

— Perchè fuggiamo.

[271]

— Per qual motivo?

— Ve lo spiegheremo più tardi.

— Ma non vedo con voi il signor Calderon.

— L’abbiamo ucciso poco fa.

— Ah!...

— Era un traditore.

— Lo avevo sospettato.

— Venite.

— Vi seguo.

Il porto era vicino. Diego corse alla Sanità, e colà seppe che si trovava nella baja un bastimento con bandiera del Paraguay, che doveva partire all’alba.

Senza perdere tempo noleggiarono un’imbarcazione, e due ore dopo si trovavano nella cabina del capitano, al quale raccontavano le loro straordinarie peripezie.

Alle quattro del mattino, all’alta marea, il bastimento scioglieva le vele, recando con sè i portatori del tesoro e Ramon, che non aveva voluto abbandonare i suoi vecchi e valorosi amici.

[272]

Conclusione.

Sette giorni dopo i nostri amici, sfuggiti miracolosamente a tante strane avventure ed ai tradimenti dell’infame Calderon, sbarcavano sani e salvi sulle coste della Bolivia, stato neutrale, che favoriva anzi l’espansione e l’influenza del Paraguay.

Dopo alcuni giorni di riposo, i nostri eroi si rimettevano in marcia, onde raggiungere l’esercito del Paraguay che si diceva concentrato nei dintorni di Cerra-Leon. La traversata della Bolivia, le cui comunicazioni sono tutt’altro che agevoli, richiese due buone settimane; ma finalmente raggiungevano il generale Solano Lopez, che si era trincerato in Piribebuy, della quale avea fatto una capitale provvisoria, in attesa di riconquistare Assuncion, che si trovava ancora nelle mani degli alleati.

I milioni furono versati scrupolosamente nelle mani dell’eroico generale, che omai si trovava colle casse vuote e che aveva perduto ogni speranza di poterli avere dopo appresa la notizia della perdita del Pilcomayo, fatto saltare in aria dal suo valoroso capitano.

Cardozo, Diego e anche Ramon, che aveva validamente, quantunque senza saperlo, cooperato alla salvezza del tesoro, furono largamente ricompensati dal presidente, che amava i coraggiosi, e nominati suoi ajutanti di campo. La loro fortuna fu però di breve durata, poichè due anni più tardi, caduto sul campo di Cerra-Gordo l’eroico presidente, ucciso assieme a suo figlio quattordicenne nel colmo della mischia, l’esercito veniva sciolto dal nuovo presidente, e i due marinai venivano rimandati a bordo della squadra fluviatile, mentre Ramon emigrava in Bolivia.

Fine.


[273]

INDICE

I. Una nave misteriosa Pag. 1
II. Una pagina di storia 9
III. Le casse dei capitano Candell 18
IV. Il combattimento 28
V. Il capodolio 37
VI. Una terribile notte 47
VII. Terra! Terra 56
VIII. I selvaggi delle Pampas 65
IX. L’inseguimento 74
X. La scomparsa dell’agente del Governo 83
XI. I gauchos 92
XII. I cavalli selvaggi 100
XIII. Gli scorpioni velenosi delle Pampas 108
XIV. I Patagoni alla caccia del pallone 117
XV. L’inseguimento dei Patagoni 126
XVI. I grandi piedi dell’America del Sud 134
XVII. Il figlio della luna 143
XVIII. Un supplizio spaventevole 151
XIX. Lo stregone 161
XX. I giaguari delle Pampas 169
XXI. Una detonazione misteriosa 179
XXII. Attacco notturno 187
XXIII. Il cavaliere della notte 196
XXIV. Il campo Argentino 206
XXV. Il gaucho Ramon 216
XXVI. L’estancia abbandonata 225
XXVII. Ancora i Patagoni 234
XXVIII. La prateria in fiamme 243
XXIX. Nuova Concezione 253
XXX. Il tradimento 261
  Conclusione 272

DEL MEDESIMO AUTORE:

Il Re della montagna L. 1 —
I Naufragatori dell’«Oregon» 1 —
Un naufragio nella Florida, vol. illustrato 0 25
Avventure del Padre Crespel nel Labrador, volume illustrato 0 50

NOTE:

1.  Parapetto del bastimento.

2.  Ponte di comando.

3.  Piccole funi.

4.  Fumajuolo.

5.  Buona notte, cavalieri.

6.  Arrosto.

7.  Acquavite.

8.  Vendita di viveri.

9.  Grandi macellerie che si trovano nelle pampas, che sono così ricche di bestiame.

10.  È un pollo che un giorno diverrà un gallo.

11.  Truppa di cavalli.

12.  Archtiturus Bartramius.

13.  Per tutti i santi.

14.  Capo.

15.  O padre!

16.  Coperte che servono da mantello, con un buco nel mezzo.

17.  Piccoli rosicchianti difesi da una corazza ossea.

18.  Grandi recinti dove si custodiscono pecore, buoi e cavalli.

19.  Specie di coccodrilli.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.