Title: Roma contemporanea
Author: Edmond About
Release date: June 24, 2025 [eBook #76373]
Language: Italian
Original publication: Milano: Francesco Colombo, 1861
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)
ROMA
CONTEMPORANEA
PER
EDMONDO ABOUT
MILANO
PRESSO FRANCESCO COLOMBO EDITORE-LIBRAJO
Contrada S. Martino, N. 3 rosso
1861
TIP. ALBERTARI
[5]
A
FRANCESCO SARCEY
IN ATTESTATO
D’ANTICA E FRATERNA AMICIZIA.
[7]
Questo non è nè un libello nè un libro politico. Se il lettore vi cercasse delle considerazioni generali sul governo del papa, si vedrebbe deluso nella sua aspettazione.
Si disse a difesa e contro il potere temporale tutto quanto dirsi poteva; e quanto a me non ho nè autorità nè libertà sufficiente per riassumere i dibattimenti. Ho sostenuto una parte troppo attiva e come accusatore e come accusato, perchè la mia imparzialità non sia sospetta. La parola tocca al presidente, il quale tace.
E potrebbe darsi eziandio che il tempo delle discussioni fosse passato, non meno che il tempo de’ saggi consigli e delle utili riforme. La questione romana è abbastanza ben chiarita, perchè i meno perspicaci distinguano il vero, e perchè i più esitanti abbiano preso una risoluzione. Gli uni si sono decisi per delle ragioni di coscienza, gli altri per ragioni d’interesse o di politica; ma certo si è che l’azione è venuta a succedere alla parola.
Il lavoro adunque che offro al pubblico non è altro che uno studio letterario sugli Stati del papa: in esso ho raccolto [8] in corpo di volume tutte le osservazioni che aveva notato durante un viaggio di sei mesi.
Questi materiali giacquero nel mio scrittojo per ben due anni: cionullostante mi sembra che siansi piuttosto maturati che non invecchiati. Roma non si è sensibilmente cambiata sotto un regime che si fa gloria d’essere immutabile. Bologna ed alcune altre città non fecero che proclamare una rivoluzione, che era già compiuta da lungo tempo negli animi e nei costumi.
Il giorno in cui tutti i sudditi del Santo Padre avranno le medesime idee, i medesimi costumi ed i medesimi diritti che i Bolognesi nel 1860, il mio libro non sarà altro che una curiosità archeologica; ma non ne moverò lamento.
[9]
Dicesi che ogni strada mena a Roma; ma per noi cittadini di Parigi, la via più breve è quella che passa per Marsiglia.
Perchè il nome della Canebière è comico a Parigi? D’onde procede che Marsiglia ed i Marsigliesi abbiano ereditato il privilegio di farci ridere, dacchè la Garonna ed i Guasconi più non ci divertono? I sandi! ed i cadedi! che sollazzavano i contemporanei di Molière, sono caduti nel dominio della storia, siccome le facezie militari scritte sulle pareti di Pompei: più non si ride se non delle esclamazioni marsigliesi. Ne’ crocchi di giovani, un narratore che sappia fare da Marsigliese è sicuro di rapire l’uditorio; certe facezie, accompagnate da certe smorfie e condite da certo accento, commovono infallibilmente la milza più refrattaria. Tutto è ridicolo in quel Marsiglia di convenzione che i begli spiriti ci hanno fabbricato: l’aridità del suolo, il sucidume delle vie, l’infezione del porto, la rozzezza degli uomini. Il Marsigliese da scherzo è una specie di scimia burbera che mangia dell’aglio, purga degli olii, vende dei negri, e da del tu a tutti quanti. E perchè il popolo più attivo e più interessante della Francia si è tirato addosso questo ridicolo? Perchè i più diretti discendenti dell’antica Grecia servono di zimbello agli Ateniesi di Parigi? Perchè tutti questi peccati veniali di lesa maestà contro la regina del Mediterraneo? Perchè? perchè? perchè?
Perchè Marsiglia regalava ai giornali dì Parigi una dozzina di compilatori maligni, che un po’ troppo spiritosamente ci fecero [10] gli onori del loro paese. Non parlo nè di Amedeo Achard, nè di Mery, nè di Luigi Reybaud, nè di Leone Gozlan, nè di coloro che erano abbastanza ricchi di loro proprio ingegno per lasciar Marsiglia in pace. Ma dopo l’emigrazione dei principi è venuta l’emigrazione dei popoli. Ogni volta che un Provenzaletto, mosso da prurito d’ambizione, povero d’idee, sbarca negli ufficj d’un giornaletto, il suo articolo d’esordio è bello e trovato: la Canebière! I primi scherzarono, i seguenti caricarono la tinta; il comico lasciò il posto al buffone, il buffone al grottesco, e Marsiglia ricevette dalle mani de’ suoi figli cinque o sei strati di ridicolo, che non si possono cancellare in un solo giorno. Essa se ne consola, dicendo: La è colpa mia; non sarei sì ridicola se non avessi fatto tutti questi uomini di spirito.
Quanto a me, lo confesso umilmente, Marsiglia non mi ha fatto ridere. È uno spettacolo che dà a pensare. Per poco interesse che si prenda all’avvenire della Francia, si osserva con curiosità passionata questa città vivente, che va crescendo ed allargandosi quasi a vista d’occhio, siccome una pianta de’ tropici; si sospende il proprio respiro per rimirare correre questo popolo avventuriero, che pazzamente galoppa su tutte le vie del progresso, a rischio di rompervisi il collo.
Aveva abbandonato Parigi sulla metà di marzo, un gran mese prima della fine d’inverno. Ma gl’inverni di Parigi sono sì aggradevoli, che un uomo che sia dedito ad occupazioni non saprebbe rinunciarvi troppo presto. Me ne andava ben lungi e per lungo tempo, carico di mille questioni da risolversi, felice d’avere uno scopo, e confortando il mio rammarico colla speranza di riportarne un libro.
Da Parigi a Marsiglia il viaggio mi parve eterno, poichè presentiva che in un prossimo avvenire si potrebbe farlo più presto. Senza dubbio è piacevole l’attraversare la Francia in venti ore, in un’eccellente carrozza; ma il vapore non mantiene ancora tutto che ci ha promesso. Quando si viaggia per viaggiare, vale a dire per godere ad ogni passo della varietà degli oggetti, non saprebbesi andare troppo lentamente; ma quando si prende la strada ferrata, si è per arrivare, e non per altro; non saprebbesi dunque andare troppo presto. La strada da Parigi al Mediterraneo, [11] una delle più perfette che siano in Francia, si ferma ancora troppo spesso e troppo lungo tempo, quando trasporta viaggiatori.
Conduce la valigia delle Indie in dodici ore; anzi ne’ giorni passati fece meglio, poichè una locomotiva spedita da Marsiglia con un pacchetto dell’amministrazione, è caduta, nove ore dopo, come una bomba, nella stazione di Parigi. Ecco il vero impiego delle strade ferrate. Per un semplice passeggio, basta il bordone.
A partire da Lione, dove perdemmo un’ora, il clima si raddolcì, il sole si fece sentire e gli alberi fiorirono sui lati della strada: avreste detto che la primavera ci veniva incontro. A Parigi ci avevano dato de’ scaldatoj, a Valenza ci furono offerti i sorbetti. Questi trapassi parranno assai più miracolosi, quando potremo addormentarci alla Bastiglia e svegliarci in vista del castello d’If.
Fra la città d’Arles e lo stagno di Berre, la strada corre lungo un’immensa pianura, più trista che la landa più desolata. La si chiama la Crau; la natura s’è data la briga di spargervi de’ sassi con una prodigalità favolosa. Gli uomini tentarono qua e colà di seminarvi altra cosa, ma la messe non è ancora comparsa. Quando si misura coll’occhio quell’estensione di suolo sterile, si rimpiange il tempo in cui nulla era impossibile alla verga delle fate. Spero che la chimica industriale, vera maga de’ tempi moderni, saprà far crescere il grano dai giardini d’Arles fino alle saline di Berre. Il quesito è posto a studio; ed io conosco un giovane dotto che si vanta di saperlo risolvere.
Ma perdonatemi cotesta fermata: le strade ferrate ne fanno d’assai più lunghe.
I viaggiatori che escono dalla stazione discendono a Marsiglia per larghe vie fiancheggiate da belle case e piantate di vecchi alberi. È come il vestibolo d’una grande città. La strada si ristringe bruscamente appiedi della contrada Noailles: si fanno cento passi all’ombra in una sorta d’angusto corridojo. Ma tutto ad un tratto l’aria, la luce, lo spazio, tutto abbonda in pari tempo. Ecco aprirsi intorno a voi una piazza monumentale, mentre [12] due immense vie vi sboccano, distendendosi a destra ed a sinistra. Dirimpetto una via più larga, ma infinitamente più corta che la via di Rivoli, vi mostra il vecchio porto stipato di vascelli: Salutatela! è la strada Canebière!
La Canebière è una porta aperta sul Mediterraneo e sull’universo intero; poichè la liquida strada che di là move, fa il giro del mondo. La Canebière vide sbarcare, nel 1856, quattrocento mila viaggiatori e due milioni di botti di merci, che fanno due mila milioni di chilogrammi. L’area della Canebière si vende in ragione di mille franchi al metro quadrato, ossia dieci milioni l’ettaro. La Canebière è dunque una delle strade più laboriose, più utili, più rispettabili del mondo incivilito.
Il porto che la chiude, o piuttosto che la continua, le dà una fisonomia originale. I costumi pittoreschi dell’Oriente la screziavano ancora, or sono pochi anni, ma questo tempo beato non è più. L’Oriente più non invia i suoi costumi in capo al mondo, conservando per sè que’ pochi turbanti che ancor gli rimangono, per farsene un onore agli occhi degli stranieri e mostrar loro che esso è proprio l’Oriente.
Quando si discende verso il vecchio porto seguendo la Canebière, vedesi a sinistra la città nuova, propriamente in linea retta, su terreno piano; a destra la vecchia Marsiglia alla rinfusa agglomerata sulla montagna. La città dell’avvenire è situata più lungi, al di là della vecchia Marsiglia, lungo i porti della Joliette.
La nuova città è pulita ed anche elegante. Rende imagine d’un piccolo Parigi, e non è più il tempo in cui i cittadini gettavano giù dalle finestre il soverchio delle loro case. Tre grandi strade parallele attraversano la giovane Marsiglia in tutta la sua lunghezza. La strada di Roma ha qualche apparenza della nostra contrada di Richelieu: e conviene che la somiglianza sia sensibile, poichè il consigliere De Brosses l’aveva accennata, or fanno già cento anni. La strada San Ferreol è una vaga copia della strada Vivienne, benchè la borsa si tenga nella via del Paradiso. È all’aria aperta, sotto il cielo, che i Marsigliesi si raccolgono due volte al giorno per trattare i loro affari. [13] Hanno però un piccolo edifizio di zinco o di cartone per rifugiarsi in caso di pioggia, ma non vi entrano quasi mai. È usanza sì radicata, che nel mattino fra le 11 1⁄2 ed 1 ora, e la sera fra le 4 e le 5, i cocchieri fanno un giro per evitare la via del Paradiso. Allorquando la nuova Borsa, che si compie sulla Canebière, sarà aperta ai mercanti ed agli speculatori, non vi verranno se non saranno spinti, nè vi si fermeranno, se non vi verranno racchiusi.
Marsiglia ha i suoi Campi Elisi. Nelle vicinanze del corso Bonaparte veggonsi delle contrade intere, delle casette ben costrutte, comode ed anche ornate con buon gusto. Potrei citarne una, che sarebbe ammirata dovunque, anche a Parigi. Questa città nuova, che però non manca nè d’aria nè di luce, si è data il lusso di due grandi passeggi. Uno è una via tagliata nel masso in riva al mare, ed a rispettabile distanza dal porto; la si chiama Prado. L’altro è un giardino zoologico, piacevolmente situato, ricco d’alberi e ornato d’un bella famiglia di viventi. I teatri, i castelli de’ fiori, i caffè, le statue (poichè Marsiglia ne ha due), il museo ed il liceo sono nella città nuova, come ben v’imaginerete.
Quanto alla città antica, vorrei darvene un’idea paragonandola a qualche quartiere di Parigi; ma, fortunatamente per noi, non abbiamo più nulla di simile. Cotesta montagna, impraticabile alle carrozze, inaccessibile alle signore, ributtante agli occhi ed all’olfatto, sparsa di fetido fango, irrigata da chiaviche simili a torrenti, non ha nulla di somigliante al mondo, tranne il Ghetto di Roma, che uno scrittore del secolo XVIII chiamava una archisaloperia. L’industria, la miseria ed il vizio si disputano cotesto nido di passatempi.
Vi si veggono de’ quartieri considerabili riservati ai divertimenti de’ marinaj; e, per una tolleranza, di cui non so rendermi ragione, la bandiera tricolore serve d’insegna al commercio che fa meno onore alla Francia. Giammai sì nobile vessillo ha servito di coperte a sì abbietta mercanzia.
Bisogna essere un archeologo ben fanatico per andare in [14] traccia di perle in quel letamajo. Eppure un bel mattino mi vi cacciai, sotto la condotta d’un giovane magistrato assai istrutto, il signor Camoin de Vance. Vi abbiamo ravvisato insieme alcune case del XIII e XIV secolo, ed una bella facciata a punta di diamante; un palazzo di giustizia, che non è un capolavoro di architettura, ed un carcere che rassomiglia a tutti quelli del buon tempo antico. L’albergo di città non manca di grandezza; si vede alla Consegna una mezza dozzina di quadri mediocri, ed un eccellente basso rilievo del marsigliese Puget. Il mercato del pesce merita una piccola sosta per sentirvi a parlare quelle donne: la rettorica delle nostre venditrici di aringhe è bene fiacca a petto di quella che colà è in fiore.
Rimane ancora una reliquia dell’antica cattedrale, che i Marsigliesi chiamano la Maggiore. Questo venerando edifizio era stato costruito sulle rovine d’un tempio pagano; fu tanto e sì bene diroccato, che più non serba nulla d’antico nè di moderno, di pagano o di cristiano: non rimane più nemmeno di che foggiarne una chiesa di villaggio.
Ma due passi più lontano, tra l’antica città che deve sparire, e la città nascente, che cresce rapidamente, si veggono sorgere da terra le fondamenta d’una cattedrale che promette assai.
L’antica città ebbe già la sua esistenza; se ne spianeranno non solamente le bicocche, che vi si accumulano, ma ben anche la montagna che la sorregge. L’avvenire della Joliette è a questo prezzo, e ben si potrà comprendere in due parole: Parigi si porterebbe verso i Campi Elisi, se la montagna Santa-Genoveffa occupasse la piazza della Concordia?
Per ora i pesci e gli uccelli vanno da Marsiglia alla Joliette più comodamente che gli uomini. Però la città futura si va fabbricando per una popolazione numerosa. Ho veduto sette enormi caseggiati, uniformi e d’un’architettura, a parer mio, troppo lussureggiante. I mercanti di Cartagine non hanno mai ricoverato le loro balle entro templi sì magnifici, ed il signor Mires può già eclissar Didone.
La società dei porti di Marsiglia, fondata e battezzata da quel grande finanziere, ha per iscopo l’utilizzazione di varj ettari di terreno situati in faccia ai nuovi porti. Essa non ha nulla di [15] comune colla costruzione dei porti ed i lavori del genio marittimo; esse non apre un rifugio alle navi balestrate dal maestrale: non è questo il proprio assunto. I suoi rapporti coi bacini che si vanno costruendo, sono rapporti di vicinato, ed essa chiamasi Società de’ porti perchè vi stanzia dappresso.
Nè ciò vale a dire che la speculazione del signor Mires e dei suoi azionisti sia stata inutile al popolo di Marsiglia, chè la città aveva de’ terreni da vendere; terreni infetti, paludosi, corrosi dagli scoli della saponeria, difficili a costruirsi, e per colmo di sventura esposti a tutti i venti che flagellano il paese. Cotesti difetti sono compensati dall’immediata vicinanza d’un porto che promette assai; eppure nessuno degli aspiranti offriva più di venti franchi al metro. Il signor Mires ne diede cinquanta, onde i Marsigliesi gliene seppero buon grado stringendogli energicamente la mano.
Attualmente l’affare è buono per la città; e lo sarà un giorno anche pel signor Mires. La città intasca de’ milioni che non l’imbarazzano, poichè è indebitata ed intraprendente. Il signor Mires ricupererà il suo danaro quando i suoi terreni saranno fabbricati, e segnatamente quando saranno in comunicazione diretta con Marsiglia. L’antica città, che reca noja a tutti, la reca a lui particolarmente più che a verun altro. Ond’egli si offre di sradicar la montagna al prezzo più equo.
In questo stato di cose, non mi starò più a sciupar tempo nel descrivere una città che sarà forse dimani rovesciata. Marsiglia, al pari di Parigi, non può essere dipinta, se non sotto la pena di ricominciarne ogni giorno il ritratto. All’incontro scommetterei che Bordeaux, se n’eccettui qualche ciottolo, è attualmente qual era l’anno scorso nel mese d’aprile. E vi prometto di farvi un quadro di Roma, che i nostri pronipoti potranno verificare, parola per parola, purchè la rivoluzione non vi metta mano.
Il progresso picchia alle vicinanze di Marsiglia non meno che nelle sue strade; invade in pari tempo la città, i borghi ed il circondario più remoto. Questa campagna era rinomata altre volte per la sua aridità, e, Dio me lo perdoni! eccola verde. I Marsigliesi [16] sono andati in traccia della Duranza, e l’hanno condotta per mano fino in casa loro. L’acqua circola in tutte le case della città fino ai più alti piani; essa innaffia le strade, e in questa patria della polvere, feconda i giardini, e fa crescer l’erba nei prati.
E però non temete che la Provenza diventi una succursale del paese di Caux; il sole è sempre là. Disegna sull’azzurra superficie del mare i vaghi profili di Ratonneau, di Pomegue o del castello d’If; indora graziosamente le belle montagne grigie, che incoronano Montredon; fa fiorire negli scogli la rosamarina ed il cactus, ed i colossali gambi dell’aloe; distilla il balsamo penetrante de’ corbezzoli e de’ lentischi.
Ecco ciò che un nuovo pellegrino sbarcando scorge al primo colpo d’occhio entrando in Marsiglia. Ora, se vi piace, conversiamo un po’ cogli abitanti, i quali non dimandano nulla di meglio.
Coloro che videro Marsiglia nel 1815, ne parlano siccome d’una succursale del gran deserto. L’unico porto della città era vuoto; la popolazione saliva appena a 90,000 abitanti, che morivano di fame. Ora le cose sono ben mutate, segnatamente negli ultimi anni. Il nuovo censo del 1841 noverava 147000 Marsigliesi; quello del 1856 ne dà 250,000: è un aumento di circa 90,000 anime in quindici anni. La cifra delle nascite s’è accresciuta d’un ottavo nel 1857, onde si può calcolare l’aumento d’un ottavo sulla cifra della popolazione, la quale ascende a 265,000. Aggiungete la popolazione ondeggiante, gli stranieri non compresi nel ruolo della popolazione, i Francesi ommessi volontariamente[1] in un interesse locale: vedrete allora che Marsiglia è città di 290,000 anime. Duecento mila di più che nel 1815!
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Non ho bisogno d’aggiungere che cotesti 200,000 Marsigliesi non sono tutti nati in Marsiglia. L’aumento rapido d’una città non si spiega punto per la fecondità eccezionale de’ matrimonj. Dovunque v’è danaro da guadagnarsi, ivi i cittadini accorrono e stanziano; e la popolazione si accresce, senza che le donne se ne frammischino. Marsiglia cresce eziandio tutti i giorni per le invasioni interessate del nord e del mezzodì. Essa racchiudeva, nel dicembre del 1837, più di 18,000 sudditi Sardi. Gli Italiani, i Greci e gli Spagnuoli sono la stoffa con cui si foggiano quasi tutti i Marsigliesi.
Malgrado la diversità delle loro origini, hanno una fisonomia comune e direbbesi quasi una cera di famiglia. Non è già che esista, propriamente parlando, un tipo marsigliese; ma il sole del mezzodì, la vita all’aria libera, la preoccupazione degli affari, la moltitudine delle distrazioni, la continua vicenda del lavoro e del piacere hanno stampato su que’ volti un’impronta che si riconosce. I Marsigliesi hanno l’occhio vivace, la parola pronta, il gesto instancabile. Il loro spirito avventuriero ed il loro temperamento sanguigno gli spingono alle grandi imprese ed alle grandi follie. Pochi Francesi sono più lesti a fare o disfare fortuna. In quasi tutti i paesi del mondo il padre di famiglia accumula i milioni ed il figlio gli spende: ma in Marsiglia veggonsi degli uomini d’ogni età assumersi la parte insieme di padre e di figlio. Dopo il guadagno, prodighi del loro tempo e della loro fatica, soffermansi di tempo in tempo, come lo scojattolo sul ramo, per divorare il frutto del loro lavoro. La loro vita è suddivisa ben diversamente che la nostra: noi ci affatichiamo nell’età de’ piaceri, e cominciamo a darci ai divertimenti allorquando non ne possiamo più; il Marsigliese non aspetta ad assaggiar la mela quando i suoi ultimi denti gli siano caduti.
Ha lo spirito aperto, siccome l’orizzonte che lo circonda; ha viaggiato, ovvero viaggierà: chè il Mediterraneo è un sobborgo di Marsiglia ch’egli presto o tardi vorrà visitare. Ei pensa che il Senegal non è poi tanto lontano, e che Parigi è alla sua porta. Se gli affari lo trattengono nel suo studio, può vedere il mondo senza escir di casa: e non è forse vero che l’universo intero [18] passa per la Canebière? Egli ha veduto de’ tipi d’ogni paese; sa un po’ di tutto senza aver cacciato il naso ne’ libri; si sente in grado di ragionare su tutte le questioni, benchè di rado si dia la pena d’approfondirne una sola. La facilità della sua percezione, l’apertura del suo spirito, la sua prontezza a percorrere la superficie delle cose ne fanno un ragionatore piacevole, ed ei trova sempre il tempo di conversare.
Quasi tutti i Marsigliesi hanno la medesima dose di spirito naturale ed il medesimo grado d’istruzione: poco sapere e molte idee. Marsiglia è appunto la città di Francia dove l’eguaglianza degli uomini rassomiglia meno ad una chimera. Nessun’ombra di caste: non potrebb’esservi vecchia nobiltà in una popolazione nuova affatto. I principali abitanti sono avventurieri fortunati nel senso più onorevole della parola: gli altri hanno la speranza di far fortuna coll’industria. Ora non ci sono che due categorie di Marsigliesi: coloro che hanno già fatto fortuna, e coloro che tentano di farla. La prima classe è meno numerosa di quel che generalmente si crede, e se n’è già spiegata la causa; ed è che la smania di godere è più forte che il desiderio di accumulare. Non vi sono nella città dieci famiglie che contino cinque milioni. I semplici milionarj, qualora se ne facesse il novero, non sarebbero più di quaranta. Cotesti favoriti della fortuna non si pavoneggiano della loro superiorità finanziaria: sia che si rammentino ciò che sono stati, sia che meditino talora sulla instabilità delle fortune meglio consolidate, accolgono con bonomia coloro che s’accingono a correre la sorte. Il Marsigliese, ricco o povero, è innanzi tutto famigliare, senza cerimonie e di buona pasta. Conosco ben poche città dove sia più consueto il darsi del tu, dove si faccia minor caso degl’inutili complimenti: così doveva essere nelle repubbliche commercianti della Grecia.
Cotesta bonomia non regna solamente nel linguaggio: la si trova nel costumi, e finanche negli affari. Si diffonde talvolta sì lontana, che i mercanti del vecchio stampo ne sarebbero assai maravigliati. A’ tempi in cui fiorirono il signor Arnolfo, il degno Orgon e quel buon signor Dimanche, un mercante che non faceva onore alla sua firma era un uomo perduto: non aveva [19] che a gettarsi in mare a capo in giù. Questi principj rigidi vigono ancora in certi dipartimenti della Francia. Se una crisi commerciale venisse ad interrompere per sei mesi la prosperità di Rouan, ogni Normando, fondandosi sui proprj diritti e compreso dalle sue vecchie idee, farebbe spietatamente agire la legge contro il suo vicino e compare, e dormirebbe senza rimorsi. Ma se per caso il medesimo fatto avvenisse a Marsiglia, tutto s’accomoderebbe all’amichevole, e vedreste cinquanta liquidazioni tollerate per un fallimento dichiarato.
È dessa benevolenza, ovvero previdenza? compassione verso gl’imbarazzi del prossimo, ovvero riflessione sopra sè medesimo?
Non oso decidere.
Certo è però che a Marsiglia un creditore preferisce incassare dieci per cento e tacere, anzichè infierire contro il proprio debitore.
Or sono alcuni anni, un Marsigliese che aveva fatto fortuna all’estero, dopo alcune vicissitudini, legò la propria sostanza alla sua città natale e stipulò che i redditi sarebbero consacrati a liberare i prigionieri per debiti. Videsi allora un legatario assai imbarazzato, ed era il consiglio municipale di Marsiglia. Aveva un bel cercare prigionieri per debiti, che non se ne faceva in quella città. Poco mancò che il legato non venisse spedito all’altro mondo siccome inutile, ingiurioso ed incompatibile colle costumanze attuali. La cosa era a tal punto allorchè uno scaltro borghese disse al suo vicino: «Fammi gettar in prigione per debiti; sarò liberato coi denari del legato di quell’uomo dabbene, e noi spartiremo il danaro.» L’invenzione parve così saggia, che la prigione trovò alfine qualche inquilino. Essa non ne avrebbe mai avuto, se non fossevi stato quel benefattore Marsigliese.
Cotesta tolleranza all’americana, cotesta indifferenza in materia di religione commerciale, reca delle inconvenienze che non occorre accennare; tuttavia non è priva di qualche vantaggio. Rallentando la briglia agli speculatori arditi, infervorando i timidi, essa accelerò il progresso della città e contribuì alla prosperità della Francia. So benissimo quanto si può dire giustamente, [20] contro lo spirito avventuriero, ma quando veggo quale slancio i Marsigliesi diano alla pubblica ricchezza, con quale impeto si gettino in un affare, con quale gara essi s’impegnino in un’impresa dacchè loro sembra utile, quanto audaci siano i loro capitali, pronti a mostrarsi ed inclinati a moltiplicarsi col movimento, sento una certa secreta smania di scusare cotesto romanticismo commerciale, che essi neutralizzano tra noi.
È egli necessario aggiungere che la grandezza degl’interessi e l’ardimento delle imprese li rende larghi, ospitalieri e generosi fino alla prodigalità? I commercianti della scuola primitiva (se ne trova ancora qualche tipo a Rouan, a Lione e a Saint-Etienne) sarebbero maravigliati di vedere come l’oro guizza nelle mani d’un negoziante marsigliese. Il pezzo di venti franchi non è più timido a Marsiglia che a Parigi; vi si nasconde sì poco, e vi fa i medesimi salti. Il lusso, vizio eccellente, salutare e lodevole fra tutti quand’è sorretto dal lavoro, fiorisce sulla Canebière così baldanzosamente come sui nostri boulevard. Marsiglia consuma più seterie che Lione e più nastri che Saint-Etienne; la Riserva vede saltare più turaccioli che il Molino Rosso od il Padiglione d’Armenouville; e per ultimo, cosa incredibile a dirsi! tutti i palchi del gran teatro sono affittati ad anno.
Ho passato a Marsiglia una settimana di otto o dieci giorni, durante i quali gli abitanti mi hanno fatto gli onori del paese e di sè medesimi con una squisita cordialità. Ho trovato le loro sale ed i loro cuori aperti, e mi sono convinto che non erano più avari della loro amicizia che del resto. Quello ch’io conosco de’ loro piccoli difetti, sono essi che me l’hanno detto; poichè volentieri si confessano.
Confessano che l’amore dell’aria libera e certo spirito di vagabondaggio gli spingono troppo spesso fuori delle loro dimore. Se si lasciano trovare due o tre volte al giorno in casa loro, non vi rimangono però mai. Gli affari, il circolo, il giuoco, il chiasso, il movimento, il sigaro, certo abbandono di modi, che non si permetterebbe in casa propria: ecco i vincoli che riuniscono gli uomini in gruppo e li ritengono lontani dalla casa. Cotesta vita esterna comincia colla pubertà e si prolunga quanto [21] la vecchiaja. Il matrimonio l’interrompe per la durata d’una luna di miele, poscia l’abitudine ripiglia i suoi diritti. Sonvi molte derelitte, le quali per consolarsi si gettano nelle braccia della religione, e frequentano le chiese. Sarebbe facile ad esse l’andare più lontano, poichè sono belle, od almeno assai attraenti. Ma non hanno null’altro di vivace che gli occhi, e ciò è molto opportuno pei signori mariti.
Ben v’imaginerete che gente sì dedita alla vita attiva non può perdere gran tempo nella lettura. Divorano i libri, e trovano assai comodo lo sfogliar i giornali. Se i libraj mi dissero il vero, in quella città di 290,000 anime non si vendono dieci copie di Molière in un anno, e, trascorso il tempo delle strenne, non se ne vende più nessuna. I libraj sono ben informati per cotesto genere di statistica, poichè s’incaricano di porgere l’alimento agl’intelletti. Cionullostante si contano in Marsiglia alcuni uomini serii e colti; hanno da 45 a 60 anni, ed è una generazione che sparisce. Vi si noverano ben anche due dilettanti di pittura, di cui l’uno è inoltre un conoscitore erudito. Possiede, se ben mi ricordo, cinque quadri, la Maddalena di Van Dyck, un ammirabile Cristo di Rembrandt, e tre Poussin, di cui uno è un capo lavoro. Queste cinque tele vengono dal loro padrone conservate con rispetto religioso in una sala espressamente fabbricata, che riceve la luce dall’alto: sono idoli in un tempio. L’altra galleria non regge al paragone, benchè abbia costato assai più, e valga forse non minor prezzo (circa 150,000 franchi).
La pittura moderna non è in grande onore a Marsiglia, e quando per avventura vi nasca un artista di genio, bisogna compiangerlo. La fame lo caccerà verso Lione, verso Parigi, ed anche (s’è visto) fino a Costantinopoli. Può recare giusta sorpresa che i ricchi negozianti, quando fabbricano in città od in campagna, prodighino i marmi, gli stucchi, i metalli, ed i legni preziosi, e siano poi taccagni unicamente sull’arte, che è il più bel lusso della vita. Ho visitato, sulla spiaggia del mare, de’ padiglioni assai eleganti, situati a meraviglia, ben costruiti e mobigliati, tappezzati di piante rare, circondati da deliziose fontane, [22] popolati d’uccelli miracolosi e sconciati da affreschi degni di taverna. Un solo milionario ebbe il coraggio d’introdurre gli artisti nel suo palazzo di Marsiglia e nella sua villa di Montredon. Questo esempio sarà desso imitato? Lo desidero, ma non lo spero. Non è impossibile che la nuova generazione possa lasciarsi innamorare dalle belle arti; ma se presto fede a’ miei presentimenti, si dedicherà di preferenza ai cavalli, ai cocchi ed a tutte le inezie della corsa.
La caccia è già in grande onore nelle vicinanze della Canebière, e fa piacere il sentire i Marsigliesi medesimi burlarsi della loro passione per quest’esercizio fragoroso. E di vero è più il chiasso che vi fanno che non la preda, poichè la selvaggina è quasi ignota in quel paese. Evvi cacciatore che fece ben sette leghe per pigliarsi un’allodola. Ogni castello, ogni villa, ogni casolare, e finanche la più modesta capanna è fiancheggiata da un sito per i tordi. Questo sito è una stanzuccia formata di fogliame, cinta di rami che attendono l’uccello. Guai al povero volatile che si smarrisce nel dipartimento delle Bocche del Rodano! Ogni albero su cui tenta posare l’espone al fuoco d’un nemico. Fugge da sito a sito, in mezzo al piombo, al fracasso ed al fumo, finchè cade morto: ed ecco cento cacciatori accorrono per disputarsene la preda. In mancanza di tordi si uccidono merli, ed in mancanza di questi, passeri e rondinelle. Una rondinella, dicesi, vale quattro soldi sul mercato. La campagna è spopolata d’uccelli, poichè i bersaglieri marsigliesi hanno un colpo d’occhio infallibile. Se mai nella profonda pace d’una notte di primavera, l’usignuolo spiegasse incautamente la sua bella limpida voce, i cacciatori si porrebbero subito in campagna, e non lo risparmierebbero di certo.
Io non ho assistito a queste caccie inverosimili, onde in tal proposito ripeto quanto i miei amici di Marsiglia mi hanno raccontato. Ma co’ miei occhi ho veduto i Marsigliesi al teatro, ed è sempre uno spettacolo interessante. Essi sono sinceramente appassionati per la musica, siccome tutti i popoli meridionali; nè mi si leverà dalla mente l’idea, che la smania di dilettante nel Nord non proceda un po’ dall’affettazione. I Marsigliesi [23] amano dunque la musica, e vanno all’Opera non per altra cosa che per poter dire: «Ci sono andato.» Sono essi grandi conoscitori? Non lo giurerei. Evvi davvero qualche pubblico che sia intelligente? Ho sentito jeri sera una platea italiana applaudire i cantanti ogni volta che gridavano troppo forte; e questo fenomeno si riproduce ben sovente a Marsiglia. Si applaude al talento puro e classico di Carolina Duprez; ma quando Armandi è in voce, è tutt’altra scena! Armandi è un tenore più che mediocre, e s’è veduto far naufragio all’Opera, nella parte di Roberto. Egli ha preso terra a Marsiglia, ed ivi, colla bagattella di cinque mila franchi al mese, suscita alternativamente l’entusiasmo ed il furore del pubblico. Lo si fischia e lo si applaudisce nel medesimo pezzo; gli si gettano torsi di cavolo e mazzi di fiori, si porta alle stelle e si minaccia di sprofondarlo nel porto. L’emblema di quel pubblico dovrebb’essere: «All’eccesso!»
Si rappresentano drammi e vaudeville in una sala disadorna ma sempre affollata: ivi è la voga. Ho veduto la prima rappresentazione d’un dramma inedito di Alessandro Dumas: I Guardaboschi. Il lavoro era improvvisato, ma vi si sentiva in più d’un luogo la mano del maestro. Il pubblico mostrossi indeciso fino alla fine dell’atto terzo; non diceva nè si nè no. Sentivasi lusingato dal sapere che un uomo di talento, una celebrità, fosse venuto espressamente da Parigi per offrirgli delle primizie, ma nell’ombrosa sua vanità non voleva essere zimbello accettando roba di scarto. Due o tre scene eccellenti lo rassicurarono interamente, e gli chiarirono fino all’evidenza che non si voleva punto burlarsi di lui. Allora cominciò un fremito di gioja, una furia d’ammirazione, che non erasi ancora calmata tre ore dopo la calata del sipario. Il nome dell’autore fu proclamato fra mezzo ad un diluvio di fiori; l’Ateneo operajo slanciò sulla scena una corona di carta dorata, grande come l’anello di Saturno; il direttore recò sopra un cuscino di velluto una corona d’argento massiccio, l’autore trascinato alla ribalta fu accolto con tale salva d’applausi, che lo fecero quasi cadere a rovescio. Fuggì al suo albergo, ma la folla degli spettatori ve lo seguì. Si preparò un concerto di stromenti sotto le sue finestre; e buono o mal [24] grado, ei dovette affacciarsi al balcone, discendere in istrada, ascoltare delle aringhe, parlare al popolo, abbracciare la folla: la città non si ridusse al riposo prima delle tre del mattino. Ecco i Marsigliesi quando vi si mettono! Il giorno seguente la rappresentazione medesima non ottenne introito; chè i Marsigliesi avevano fatto le loro riflessioni e pensavano che, tutto ben ponderato, il dramma che gli aveva fatti fremere, piangere, ridere, era scritto troppo facilmente. Eppure il cartello del Ginnasio portava in lettere cubitali: I Guardaboschi, di A. Dumas, membro dell’Ateneo operajo di Marsiglia. Nello stesso giorno davasi all’Opera: Il Barbiere di Siviglia, di Beaumarchais e Castilblaze. Beaumarchais mi è tanto caro.
Voi non conoscereste se non a mezzo il popolo di Marsiglia, se mi dimenticassi di dirvi che è nemico giurato del popolo d’Aix. Atene non fu mai tanto animata contro i suoi vicini d’Egina. Aix può dirsi un’ex-grande città: ha sofferto delle calamità, ma conserva ancora delle belle reliquie. Le rimane sopratutto una corte imperiale, un arcivescovado ed una piccola Sorbona, che molto piacerebbero agli abitanti di Marsiglia, onde si dimandano con qualche dispetto, perchè mai quelle cose là non si vendano al mercato.
Gli abitanti d’Aix non fanno affari e non guadagnano denaro. Hanno de’ bei nomi, de’ splendidi palazzi, de’ castelli rispettabili, aggravati da qualche ipoteca. Guardano dall’alto lo spirito mercantile e l’attività febbrile de’ Marsigliesi, si dànno vanto di sdegnare le cose materiali; frequentano le lezioni della Facoltà di Belle Lettere; il loro regno non è di questo mondo; essi sono puri spiriti, simili ai gigli delle valli, che non sanno nè filare nè tessere, e che nullameno indossano candida veste. Se tutte le città di Francia fossero animate da spirito consimile, noi non saremmo già alla testa dell’incivilimento.
Bisogna sentire i Marsigliesi sul conto de’ loro vicini! Mi ricordo che un giorno del mese di marzo eravamo una buona ventina di chiassosi, dopo pranzo, nella serra d’un castello in riva al mare. La conversazione aveva già fatto due o tre volte il giro del mondo. Un commensale ci aveva raccontato siccome [25] certo pascià d’Egitto, desiderando mettere alla testa del suo esercito una banda europea, scrisse al suo corrispondente di Marsiglia, che gliene mandasse una. Il negoziante comprò gli stromenti più perfetti e gl’imbarcò per Alessandria. Il pascià, lietissimo della bellezza di tutti quegli oggetti di ottone, subito li fece distribuire ai soldati più vigorosi del suo esercito, ed ordinò loro, sotto pena del bastone, di suonargli qualche cosa. Eseguirono essi una tale babelica cacofonia, che furono subito castigati con una selva di bastonate, e si chiamarono altri individui. Dopo varj esperimenti del pari inutili, il pascià venne a dubitare della qualità della merce, che gli era stata spedita, ne mosse lamento; ma il commissario protestò, che aveva fatto il meglio, e vi tenne dietro un lungo carteggio. Da ultimo il Marsigliese fecesi a dimandare al pascià, se aveva de’ suonatori? «E chè!» rispose l’altro, «se avessi de’ suonatori, non avrei bisogno di musica.»
Un altro ci aveva narrata la storia molto più recente di quel re del Gabon che scrisse (sempre a Marsiglia) per dimandare delle corazze. Fatta la consegna, il re medesimo s’accinse a farne la prima esperienza, radunò il consiglio de’ ministri, di sua mano indossò loro la corazza, e poi vi sparò contro un cannone carico a mitraglia. Ora non solamente il negro monarca protestò di lasciare le corazze per conto, ma reclamò il prezzo di sette od otto Eccellenze uccise dal cannone.
Anche Aix, alla sua volta, ci fu dipinto sotto colori più bizzarri che l’Egitto ed il Gabon. Non c’era nessuno che non vi fosse stato, che non avesse veduto falciar l’erba nelle vie, trovato delle testuggini in terra sulla piazza grande, incontrato delle portantine, inteso suonare il coprifuoco a quattr’ore di sera, o strappato qualche grande ragnatela all’ingresso d’una bottega. Uno degli assistenti si era reso celebre, or sono alcuni anni, proponendo nel consiglio municipale di Marsiglia di comprare le case d’Aix per una ventina di milioni e congedarvi tutti gl’indigeni.
Per tale maniera, l’arcivescovado, la corte imperiale, e le tre facoltà, per grazia o per forza, avrebbero dovuto trasmigrare a Marsiglia. Cotest’idea, assai comica in sè stessa, vi parrebbe assai più ridevole se mi fosse dato di dipingervi i gesti dell’oratore, [26] la vivacità della sua fisonomia, il fuoco de’ suoi sguardi; e lo spirito, il brio, la bonomia, e la malizia che leggevansi su tutti i volti dell’uditorio. Alessandro Dumas è forse il primo narratore della Francia; ma in quella conversazione ei sostenne quasi la parte d’un personaggio muto. La facondia marsigliese di Berteaud l’aveva reso attonito.
L’industria, il commercio e la speculazione si dividono la città di Marsiglia.
L’industria abitava già tempo la vetta delle montagne, la sponda de’ torrenti, l’interno delle selve; ora la trovo meglio stanziata nei porti. Il mare ci reca le materie prime e n’esporta i prodotti manofatti. Il grande operajo, il motore universale, il carbone che fa rimbombare i martelli delle officine, si trasporta economicamente sulla intera superficie de’ mari. Marsiglia in breve tempo diverrà una delle capitali dell’industria francese, e le sue fabbriche faranno tanto romore da ridestarne Bordeaux.
Intanto le principali industrie della città occupano ad un dipresso ventimila operaj. Vi si fabbrica zucchero, olio, sapone, poichè noi siamo nella metropoli della spezierìa francese.
Lo zucchero di canne ci giunge dalle colonie entro casse o entro ballotti, sotto forma d’una polve nerastra e grumosa. I raffinatori marsigliesi lo mescolano, lo fondono, lo cuociono, lo clarificano, lo disseccano in pani, e di nuovo lo riducono in polve; disseminano su tutte le coste del Mediterraneo cotesta polve bianca, cristallina e brillante, di cui i meridionali sono sì ghiotti. La metamorfosi dello zucchero nero in bianco durava da tre a quattro settimane, a’ tempi che il tragitto da Marsiglia a Costantinopoli durava tre o quattro mesi. Attualmente l’onnipotenza del vapore trasforma lo zucchero in otto giorni, e lo trasporta in una settimana, ed i nostri raffinatori raddoppiano, per così dire, il loro capitale ad ogni istante. Sopra cento milioni di chilogrammi che se ne consumano tutti gli anni nel Mediterraneo, Marsiglia ne somministra venti; i Belgi e gli Olandesi fanno il resto. Fra vent’anni, a Dio piacendo, tutto il mercato ci apparterrà, e Marsiglia sarà in grado d’inzuccherare il Mediterraneo come una semplice tazza di caffè.
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Non è già d’olive l’olio che si fabbrica a Marsiglia: toglietevi questo pregiudizio dal capo. L’olio d’olive si fabbrica in campagna, a poco a poco, a seconda delle raccolte, sempre scarse; è quasi un’industria domestica. I mulini della città, che girano ventiquattro ore al giorno, schiaccerebbero in un momento tutte le olive della Provenza. È un cibo troppo vuoto da mettere sotto i loro denti; recate loro de’ vascelli carichi di sesamo, d’arachide o di noci di cocco: ecco il pascolo che loro si conviene.
Sesamo, apriti! è la parola d’Aladino nel racconto delle Mille e una Notti. A questa magica frase, la caverna de’ tesori si spalanca. Chi ce l’avrebbe detto, quando eravamo fanciulli, che il sesamo, fuor d’ogni magia, racchiudesse inesauribili tesori? È un granello dell’India, piano, bislungo, nerastro; ne ho veduto delle belle montagne nei magazzini di Marsiglia. Lo si fa passare sotto il laminatojo: Sesamo, apriti! Ne schizza fuori un olio bianco, limpido, eccellente a mangiarsi. Lo si porta poscia sotto macine enormi di granito di Scozia: Sesamo, apriti! Lo si sottopone all’azione di macchine idrauliche che possono spezzare una colonna d’acciajo siccome un fanciullo romperebbe una noce: Sesamo, apriti! Lo si schiaccia a caldo, se ne ritrae dell’olio per la saponeria, dell’olio d’ardere, e quando si è consumato fino all’ultima stilla, rimane una torta, un pastone atto ancora ad ingrassare i campi.
Il sesamo d’Aladino è chiamato ai più alti destini. Detronizzerà le arachidi, le rape, i papaveri, i faggiuoli, le noci e fino le olive, allorquando il nolo de’ vascelli dell’India sarà meno caro. Granello che diverrà gigante, quando sarà traforato l’istmo di Suez.
Non voglio abbandonare l’olio e lo zucchero senza parlarvi dello spettacolo più interessante che mi sia stato mostrato a Marsiglia. Mi venne fatta vedere, in uno studio fangoso, affumicato, più che modesto, una vedova ancor giovane, la quale riceveva in abito nero e colla penna alla mano tutti gli ambasciatori del commercio. Essa governa e fa prosperare due fabbriche d’olio importanti ed un’enorme raffineria; compra e suddivide de’ grandi terreni al nord della città, acquista un possesso d’un [28] milione in un dipartimento vicino, vi scopre delle miniere di ferro, vi erige alti fornelli, guadagna un milione e mezzo con processi contro le comuni confinanti, scopre una miniera di rame, la sola che siavi in Francia, e s’accinge ad utilizzarla; nel tempo medesimo che alleva diciasette ragazzi, figlie, nipoti, senza tener conto de’ pronipoti. Cotesta persona straordinaria e per nulla stravagante, che fa circolare una decina di milioni senza far chiasso, ha posto da sè medesima le fondamenta della sua fortuna. Ben vedete che la spezieria è prossima parente della magia. Sesamo, apriti!
La fabbricazione de’ saponi non va punto soggetta a progressi, come quella degli zuccheri e degli olii. Non ha fatto quasi un passo da duecento anni in qua; era già adulta dalla nascita, siccome Minerva, sorta bella e armata dal cervello di Giove. Il solo cangiamento da accennarsi si è, che dopo l’invenzione della soda fattizia, gli olii di sesamo acquistarono diritto di cittadinanza nel paese della saponeria. Ma le fabbriche di sapone che infettano di puzzo tutto un quartiere al sud del vecchio porto, hanno conservato un aspetto antico e primitivo. Figuratevi un’immensa navata, dove alcune caldaje ciclopiche, riscaldate da invisibili focolari, bollono e spumeggiano in silenzio. Un po’ più lontano il sapone si raffredda entro ampj serbatoj; quindi si taglia in pezzi quadrati, si pesa, s’imballa: il vapore qui non c’entra. Coteste vaste case sono templi d’industria patriarcale e di probità ereditaria. Il fabbricatore si studia di conservare la riputazione del suo marchio, e non è cosa facile, mentre la minima falsificazione negli olii che compra può guastare un’intera partita di sapone. È sopratutto in causa della saponeria, che Marsiglia meritava per lo passato la sua fama d’infezione e di sudiciume. Nulla è più sporco del sapone, quando lo si sta facendo, mentre lascia dietro di sè dei residui liquidi e solidi, che i Marsigliesi dell’età dell’oro deponevano alla loro porta, o lasciavano sgorgare nel porto. L’amministrazione non permette coteste licenze: si fanno gettare le acque lorde lontano dal porto, e le terre fetide lontano dalla città. Forse un giorno ogni industria saponaria si trasferirà ne’ sobborghi. I fabbricatori, se si decideranno [29] ad emigrare ad alcuni chilometri, economizzeranno le spese di trasporto ed il dazio consumo che pesano sui loro prodotti; essi restituiranno alla popolazione agiata di Marsiglia un bel quartiere ben tracciato e ben costrutto, reso inabitabile dalla puzza. Potranno stabilirsi nelle vicinanze delle fabbriche di soda, dove mille operaj lavorano per essi.
Non mi allontanerò troppo dalla spezieria dicendo, che si trovano a Marsiglia diciotto raffinerie di zolfo e quaranta fabbriche di paste d’Italia. Vi si preparano quelle confetture del mezzodì che hanno fatto a Castelmuro una rinomanza europea. Ma il canale della Duranza, fecondando un suolo polveroso, ha aumentato la bellezza dei frutti a scapito del loro sapore. Se ne raccolgono in maggior quantità e sono molto più grossi dappoichè sono meglio nutriti, ma hanno perduto quella quintessenza d’aridità che li distingueva dagli altri. I frutti sono come gli uomini: un po’ di miseria li rende migliori.
Mi fu mostrata a Marsiglia una piccola officina, veramente curiosa e che, se non erro, è unica nel suo genere. È una fabbrica di turaccioli di sughero ove tutto si fa a vapore. Avevo visto altre volte un operajo abile, armato d’un coltello ben affilato, tagliar fuori dei turaccioli dalla scorza della quercia-sughero, e mi sembrava impossibile che una forza cieca e priva d’intelligenza eseguisse un lavoro sì dilicato. Ma la macchina che mi si fece vedere ha dello spirito come una persona e della destrezza come una fata. Il fabbro o piuttosto bigiottiere che l’ha costrutta, sarebbe nel novero degli Dei, se avesse avuto la precauzione di nascere due o tre mila anni più presto. Vorrei poter mostrarvi quelle piccole mani d’acciajo liscio che afferrano il sughero greggio, lo volgono, lo rivolgono, lo tagliano in forma cilindrica, lo assottigliano a guisa di cono, si fermano per tastare se va bene, lo gettano nello scarto se va male, lo ritoccano se occorre, e lo gettano finalmente in una cesta nello stato di turacciolo finito sotto gli occhi del capo-fabbrica. È un piacere il sorvegliare questi operaj metallurgici, che lavorano dalla mattina alla sera senz’altro stimolo che un colpo di stantuffo, con una goccia d’olio per tutto alimento. Mi si disse che le piccole mani della macchina guastavano un po’ più di sughero [30] di quelle dell’uomo. Stento a crederlo, ma in ogni caso l’economia della mano d’opera compensa largamente il calo.
Non vi dirò nulla delle macine di Marsiglia, abbenchè impieghino più di 1100 operaj, nè delle concie di pelli, nè delle ferriere, nè delle fonderie, nè di quegli ammirabili cantieri della Ciotat, ove si costruiscono le navi. Basta che abbiate visto da ciò che precede, che i Marsigliesi hanno il buon senso di far camminare insieme il commercio e l’industria. Parliamo di commercio.
Il vecchio porto di Marsiglia è eccellente; il nuovo è discretamente buono; il terzo che si sta costruendo sarà passabile. La città possederà ben presto una superficie d’acqua al sicuro, valutata a 160 ettari. Non occorre molto di più per ricoverare tutto il commercio marittimo del Mediterraneo. I privilegi del porto sono abbastanza seducenti per attrarre i navigatori e fare concorrenza alle franchigie di Trieste. Le navi estere che si fermano a Marsiglia sono esenti da ogni diritto di navigazione; i bastimenti francesi non sono sottoposti che ai diritti fissati per il rilascio degli atti di nazionalità francese e di congedo. Le merci importate che pagano un diritto principale minore di 15 franchi per 100 chilogrammi sono esenti dalla sopra tassa del 10 %, allorquando sono importate da Marsiglia. L’emporio fittizio, che dappertutto altrove è d’un anno, qui è di due anni e può essere prorogato.
Questi piccoli favori producono grandissimi risultati. L’emporio di Marsiglia ha ricevuto, nel 1836, otto milioni e mezzo di quintali metrici rappresentanti un valore di 479 milioni di franchi. Sono all’incirca 4⁄9 di tutto ciò che la Francia ha ricevuto nei suoi emporj. Lo stesso anno Marsiglia figurava per più di 36 milioni e mezzo nei redditi delle dogane. Essa possedeva, al 31 dicembre, 882 bastimenti a vela di 101242 tonnellate. Ma la sua più bella ricchezza ed il suo avvenire più brillante stavano già nella navigazione a vapore.
Vi farei stupire assai, se vi facessi le confidenze d’una compagnia modestissima e niente affatto numerosa, che ha i suoi uffici [31] a Marsiglia, i suoi battelli alla Joliette e i suoi cantieri alla Ciotat. Essa maneggia un capitale di trenta milioni, trasporta due cento trenta mila passaggeri, sessantasette mila tonnellate di mercanzie e percorre trecento mila leghe senza tamburo nè trombetta. Si avrà un’idea della moltiplicità e della varietà delle sue operazioni, quando dirò, che a Marsiglia soltanto essa riceve tutti gli anni quarantamila lettere al suo indirizzo. È la compagnia delle Messaggerie imperiali che si è slanciata in mare l’8 luglio 1851.
Il trasporto dei dispacci, dei passaggeri e delle merci nel Mediterraneo era stato fino allora un privilegio dell’amministrazione delle poste. Le sue navi, che camminavano lentamente, percorrevano novanta mila leghe incirca, ed ebbero a soffrire nel 1847 un deficit annuale di quattro milioni e mezzo non comprese le spese generali, l’interesse del capitale impiegato, l’assicurazione ed il deperimento del materiale. Non trasportavano più di ventisette mila passaggeri e novemila tonnellate di merci. La legge 8 luglio sostituendo l’attività degl’interessi personali alla freddezza d’un’amministrazione disinteressata, ha quasi decuplato il movimento dei viaggiatori e delle mercanzie, e questo miracolo si è compito in due anni.
Io ho viaggiato sette anni sono, sui bastimenti della compagnia, e posso misurare il progresso che hanno fatto. I vecchi carcami lasciati dall’amministrazione delle poste furono scartati. I cinquanta bastimenti che solcano il Mediterraneo compongono una flotta che sta bene. Non fanno cinque leghe all’ora come il Valetta ed il Vectis della compagnia Peninsulare, ma svolgono correttamente i loro dieci nodi all’ora, qualunque sia il carico della nave e la resistenza del mare. Il passaggero vi trova tutti i comodi della vita e sopratutto quella nettezza francese che si apprezza immensamente quando si ha fatto un viaggio o due sotto bandiera estera; e poi i comandanti sono gente di questo mondo, e non lupi di mare. La compagnia, che pensa a tutto, impiega i bastimenti a elice per i trasporti diretti, e delle navi a scale per le passeggiate a vapore lungo le coste. I viaggiatori premurosi hanno meno paura del moto del vascello; le giovani coppie, che vanno da Marsiglia a Genova, da Genova a Livorno, da Livorno a Civitavecchia e a Napoli sotto i raggi argentei della [32] luna di miele s’addormentano in un equilibrio più stabile fra le larghe ruote del battello.
La rapidità dei trasporti ha dato delle ali al commercio di Marsiglia. Il vapore usurpa di giorno in giorno il cabotaggio del Mediterraneo che diventa un lago marsigliese. Io non m’incarico di enumerare qui le mercanzie che la città esporta in Oriente; otto pagine di giornale non basterebbero forse alla lista. Preferisco dirvi in succinto che i commissionarj di Marsiglia vendono di tutto. Essi importano in iscambio i prodotti greggi del Mediterraneo e del Mar Nero, le raccolte dell’America, della costa d’Africa e dell’India; i cotoni, le cuoja, gli alcool, gli zuccheri, ma anzi tutto e sopratutto le granaglie d’ogni sorta.
Io vi ho fatto cenno delle sementi oleose, vi sarebbe da fare un libro sull’importazione delle granaglie. La Francia ha fatto cinque raccolte meschinissime dal 1832 al 1857. Chi è che ci ha nutriti? Marsiglia. La Canebière ha visto sfilare in sei anni più di 13 milioni di carichi di grano che fanno più di venti milioni di ettolitri. Al principio del 1836, quando le raccolte della Russia erano bloccate nel mare d’Azof, quando i prezzi correnti dei nostri mercati andavano di rialzo in rialzo, i Marsigliesi correvano a Napoli e ad Alessandria, e vuotavano i granaj d’Egitto e di Sicilia.
In mezzo ad un aumento di cui nessuno prevedeva un termine, la speculazione prese uno slancio pericoloso. Un negoziante andava a cercare il grano alla sua fonte, lo comperava a qualunque prezzo, sicuro di rivenderlo con guadagno. In fatti intanto che il bastimento veleggiava col vento in poppa verso Marsiglia, era richiesto sulla piazza, venduto, rivenduto sempre con aumento, e cambiava venti volte di padrone prima d’entrare in porto. Fra i compratori ed i venditori circolava il sensale, uomo esperto interessato a far crescere e moltiplicare gli affari. Si sono visti dei carichi passare per tante mani, che il valore del grano bastava appunto a pagare le senserie. Si è visto il sensale primario di Marsiglia, un giovane che ha veramente il genio dell’intromissione, guadagnare 1,200000 in un anno!
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Questa foga temeraria de’ Marsigliesi avrà gettato qualche imbarazzo nei loro affari, ma non dimentichiamo che essi ci hanno dato del pane.
Era impossibile che il ritorno dell’abbondanza ed il ribasso di tutte le derrate non colpisse all’improvvista qualche speculatore. Le crisi finanziarie che cagionano certi disastri privati, sono una conseguenza inevitabile dello sviluppo del credito. I nostri padri non lo conoscevano, ma conoscevano la carestia.
La speculazione sui fondi pubblici e sugli effetti industriali è un frutto nuovo a Marsiglia. Si stima però che, dal 1.º gennajo 1855 al 1.º gennajo 1858, i Marsigliesi hanno comperato della carta per un centinajo di milioni; intendo della carta solida qual è la rendita dello Stato, le azioni di strade ferrate e le obbligazioni garantite[2].
Fin allora il parquet faceva un lavoro piuttosto ingrato; negoziava delle azioni locali di poco valore, per conto di speculatori senza denaro. Si trafficava su delle miniere dubbiose, delle torbiere incerte, e delle banche mal piantate. Il capitale si nascondeva in un buco, allorchè vedeva passare un agente di cambio. A dir il vero, la compagnia degli agenti mal reclutata non offriva delle guarentigie molto solide. Le cariche erano offerte a 50000 franchi senza acquirenti; dieci agenti sopra venti erano stati obbligati a vendere il loro studio. A lato del parquet, una coulisse imponente s’era costituita in regola, con Sindaco e camera sindacale. Il pubblico che non sospetta alcun male negli affari di borsa, s’era avvezzato a riguardare i Coulissiers come altrettanti agenti di cambio. Questa confusione non era di natura a lusingare gli agenti perchè vedevano in mezzo a’ loro compagni degli uomini screditati, pieni di debiti fino agli occhi e sopracarichi di condanne giudiziarie.
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Fortuna volle che la camera sindacale nominata a quell’epoca prendesse a cuore gl’interessi e la riputazione della piazza. In quanto al sindaco, sig. Paolo Blavet, era giovine ed aveva la smania di far bene. Si gettò sui Coulissiers come una tigre e li trascinò dinanzi al procuratore imperiale. Il tribunale li condannò tutti, come un sol uomo; la corporazione degli agenti fu liberata da una concorrenza parassita e compromettente.
Alla dispersione dei Coulissiers successe la convenzione dei sensali intrusi. Il terribile sindaco diresse i suoi attacchi contro gli agenti non patentati che facevano da mediatori di effetti commerciabili. Questa categoria si componeva in generale d’uomini serii avvezzi al lavoro, discretamente provvisti di denaro e di clienti, e ammessi nelle migliori case. Si diede loro la caccia, ma urbanamente onde costringerli a mettersi in regola. Ognuno d’essi si rifugiò in una delle piazze d’agente di cambio che si trovavano vacanti, ed il parquet si trovò costituito solidamente.
Gli uomini serii apportarono gli affari serii; i valori locali furono proscritti dalla lista dei prezzi a termine, e non figurarono più che per memoria su quella dei prezzi a contanti. Gl’impieghi di denaro si fecero sui grandi valori come alla Borsa di Parigi. Le transazioni sui titoli presero di giorno in giorno un nuovo sviluppo e le piazze di agente di cambio, che si offrivano non ha guari a 50000 franchi, sono ricercate in oggi con offerte di 120 a 150000 franchi.
Basta attraversare Bordeaux, Lione, o Marsiglia per vedere che i parquet di provincia, sotto l’influenza di sindacati intelligenti, tendono a discentralizzare il mercato dei fondi pubblici. Altre volte Parigi era il solo mercato, la Francia intiera vi dirigeva i suoi ordini di compra o di vendita. Gli agenti di provincia erano stati Istituiti per la trasmissione degli effetti di commercio e delle cambiali, come i sensali per la trasmissione delle mercanzie, e la prova è che sono ancora assimilati ai sensali e posti come essi sotto la dipendenza del ministro del commercio. Gli agenti di Parigi, soli incaricati della vendita e della compra dei fondi erano sottoposti ad un’organizzazione [35] speciale e collocati sotto la mano del ministro delle finanze. Allorchè un privato di Marsiglia, di Bordeaux o di Lione voleva vendere o comperare della rendita, si dirigeva al ricevitore generale, che faceva fare l’operazione a Parigi col mezzo di un agente. Ma dopo che i parquet di provincia funzionano regolarmente, la rendita si vende e si compra a Marsiglia senza fare il viaggio di Parigi; i negozianti di Bordeaux o di Lione speculano sul rialzo o sul ribasso col mezzo dei loro agenti, senza dir nulla al ricevitore generale. Questa rivoluzione nelle abitudini della provincia è più importante e più utile che non si suppone al primo colpo d’occhio. Allorchè tutti gli affari affluiscono allo stesso mercato, la concorrenza di tutti gli ordini di vendita che si concentrano simultaneamente sopra una sola piazza in tempo di crisi politica o finanziaria, contribuisce a deprezzare il credito e precipita il ribasso. Quando i mercanti di provincia sono là per diminuire l’urto, il ribasso si sente meno perchè resta ripartito.
Or fa appunto un anno che sgridavo con tutte le mie forze il consiglio municipale di Bordeaux, rimproverandolo d’essere ricco e cattivo; ricco di risparmiare un po’ spilorciamente le rendite d’una città grande e potente, e di camminare senz’entusiasmo in quella via di lusso e di progresso in cui la Francia intiera galoppa ad esempio di Parigi. È certo che l’economia è la più sciocca e la più sterile di tutte le virtù. Allorchè una spesa è utile, la si deve fare senza mercanteggiare e senz’aspettare. Io conosco un uomo che viaggia sei mesi dell’anno, e che ha per principio di non pagar nulla troppo caro; l’abitudine di mercanteggiare gli risparmia una dozzina di franchi per giorno, e gli toglie per più di cento franchi di piaceri. Il mio avolo era un degno paesano, ma prudentissimo per sua e nostra disgrazia. Egli possedeva sotto il Terrore dodici mila franchi in oro e sei figli. Sì presentò l’occasione d’acquistare il castello del villaggio e un dominio che vale un milione. Il mio avolo non era sì pazzo! Egli conservò il suo denaro per prudenza e quando morì nel 1845 si ritrovarono i dodici mila franchi nel suo baule! Io stesso, che non sono più economo di un [36] altro, ho trovato per caso in questi giorni in una bottega di Roma un pugnale di Trivulzio, un capo autentico del massimo interesse. Il fodero d’osso lungo un mezzo metro porta il nome del possessore, il suo ritratto, il ritratto di Luigi XII, e il ritratto d’una donna ignota ch’io non ho ancora incontrato nella storia. Questa bell’arme era da vendersi per 150 franchi: essa ne vale quattro volte tanto; me la sono lasciata portar via da un mercante d’anticaglie di Parigi. Che cosa volete? Ho aspettato, ho fatto come il mio avolo, con questa differenza che i 150 franchi non si troveranno nella mia eredità.
Nessuno penserebbe a fare dei risparmi, se fosse ben penetrato di questa verità incontrastabile; l’oro e l’argento ribassano impercettibilmente tutti i giorni, nel mentrechè l’arte ed il lavoro dell’uomo aumentano tutti i giorni. I sette napoleoni e mezzo che io ho bestialmente conservato nel mio scrigno valgono già qualche cosa meno della settimana passata; ed il pugnale del Trivulzio fra quattro o cinquecento anni varrà dieci volte tant’oro quanto pesa.
Se l’economia è assurda nei privati essa è quasi colpevole in coloro che governano. La ricchezza e la grandezza di un paese non derivano già dal denaro messo a parte dai sovrani, ma da quello che essi hanno sborsato a proposito. Il denaro speso è il solo che resta, quello risparmiato finisce sempre per iscomparire. Le assemblee cittadine non sono di questo parere, perchè esse sono della scuola di mio avolo; esse fanno delle spilorcerie al presente, senz’alcun profitto per l’avvenire.
L’abitudine di assottigliare il budget e specialmente di differire sistematicamente delle opere riconosciute necessarie, è costata carissima alla Francia. Se la strada ferrata da Parigi a Marsiglia fosse stata costrutta alcuni anni prima, il porto di Trieste non avrebbe fatto fortuna a nostre spese. Gli allargamenti che si fanno rapidamente nei quartieri più ingombri di Parigi, avrebbero costato la metà di meno nel 1758. Essi costerebbero dieci volte di più se uno spirito di temporeggiamento parlamentare li differisse d’anno in anno fino al 1958. Ne consegue da ciò, che per tutte le opere d’utilità o di splendore pubblico, nulla è più prudente che la fretta, e nulla è più economico quanto la spesa.
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La storia che giudica i governi in ultima istanza non resta loro molto obbligata dei milioni che hanno messo nella cassa di risparmio. Essa considera Galba come un ladro, e non ha Vespasiano in odore di santità. Le magnificenze di Luigi XIV ancorchè un poco personali hanno lasciato un miglior ricordo che le spilorcerie di Luigi XI. Perciò se noi vogliamo essere benedetti dai nostri figli e ammirati dalla posterità spendiamo tutti i nostri redditi in imprese grandi ed utili; è il miglior impiego.
Noi dicevamo dunque che la città di Bordeaux prendeva troppo poco sui suoi redditi per farsi bella. È vero che i secoli precedenti le hanno lasciato poco da fare. In quanto ai Marsigliesi, che hanno tutto da creare, si dibattono come diavoli per la maggior gloria del loro paese. Essi non differiscono nulla all’indomani, intraprendono dieci cose in una volta, e fanno camminare insieme l’utile, il piacevole ed il maestoso. Due porti, un canale, un palazzo di giustizia, una residenza imperiale, una borsa, una cattedrale, un giardino zoologico! Non dimentico io nulla? no, nulla tranne l’allargamento della contrada Noailles, e della contrada d’Aix. È una bagatella di nove milioni per la prima, e diciassette milioni per l’altra; ventisei milioni affinchè le vetture circolino più comodamente all’ingresso della città. Luigi XI e tutti i suoi simili deciderebbero all’unanimità, che coloro sono pazzi.
Confesso che al primo colpo d’occhio questo furore d’intraprendere mi aveva quasi spaventato; ho chiesto a me stesso, se questa giovine ed impetuosa Marsiglia non isprecava storditamente i suoi ben nati e nascituri; se non conveniva di darle un consiglio giudiziario invece d’un consiglio municipale; il budget della città mi ha risposto: le spese le più enormi e le più folli in apparenza si riducono a nulla allorquando colui che le fa è in via di prosperità, allorchè tutto gli va a seconda e che il denaro gettato dalla finestra rientra immediatamente per la porta seguito da grossi interessi. Gli stabilimenti privati che fioriscono a Marsiglia provano abbondantemente questa verità. L’amministrazione dei teatri paga 75,000 franchi all’anno di pigione; essa dà 500 franchi al mese al suo primo tenore; 2,500 [38] franchi al suo basso; 4000 franchi alla sua prima cantante, e tutto nella stessa proporzione. Eppure i direttori hanno incassato 75,000 franchi di guadagno netto nel 1857. I caffè dove si canta, del Casino e dell’Alcazar sfoggiano un lusso quasi ridicolo che stupirebbe gli abitanti di Parigi; ma più spendono, più guadagnano e la follia dei loro sborsi gli arricchisce in pochissimo tempo. Gli azionisti del giardino zoologico hanno acquistato il loro terreno nel 1855. Era un affare di 118,000 franchi senza contare le costruzioni e le bestie. Ma il solo introito del 1857 ascende a 95660 franchi. La raccolta di un anno copre quasi il capitale, come nella cultura del lino.
Passate dal piccolo al grande, e i risultati sono gli stessi. Le spese della città aumentano tutti gli anni. Esse vanno con passo rapido, ma che importa? Se i redditi hanno sempre uno o due milioni d’avanzo! Si sborsano circa dieci milioni nel 1855, e se ne incassano più di dodici. L’anno seguente per undici milioni spesi se ne introitano tredici. Nel 1857, si fanno delle follie: diciotto milioni e mezzo. L’introito giunge quasi a venti milioni. Sapete voi che vi sono degli Stati in Europa il cui budget non ascende a tanto? Comunque sia non ne conosco alcuno la cui prosperità si sviluppi così rapidamente.
Si ha tanta fiducia nei destini di Marsiglia, si conoscono tanto bene le sue entrate, la si crede tanto solvibile, che può tôrre ad imprestito ciò che le piacerà. Tutti i prestiti che ha aperto furono sottoscritti immediatamente dai cittadini della città all’interesse il più moderato, cioè per la maggior parte al 4 1⁄2 %.
Il suo bilancio può compilarsi con poche righe; esso prova la saviezza dei suoi amministratori. La città è autorizzata con diverse leggi a prendere ad imprestito 43,250,000 franchi. Essa ha realizzato 35,750,000 franchi e ne ha di già rimborsati 8,900,000. Sono dunque 26,850,000 franchi di cui è debitrice, una bagattella! Un uomo che ha 20,000 franchi di rendita e che ne spende 12,500 può fare 27,000 franchi di debiti senza incorrere nell’interdizione. Gli si permetterebbe d’indebitarsi del triplo, se sperasse nell’avvenire qualche buona eredità. Ora la mia Marsiglia è figlia del commercio e dell’industria, ha quindi nell’avvenire un’eredità illimitata e delle speranze incalcolabili.
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La sua spesa principale è stata la costruzione del canale della Duranza, che costa circa 35 milioni e mezzo, ma la vendita delle acque produce già 450,000 franchi all’anno, senza parlare della salubrità acquistata dalla città, della polvere compressa, e della campagna trasformata. La costruzione dei porti è intrapresa a spese comuni dalla città, dal dipartimento e dallo Stato. È la città che ne raccoglierà i primi frutti. La cattedrale costerà cara. Quanto? Nessuno può dirlo. Il preventivo dei fondamenti è di circa 1,300,000 franchi. Ma era impossibile che il vescovo di Marsiglia officiasse più a lungo in una chiesa di villaggio. Lo Stato ha sottoscritto per due milioni e mezzo, la città ne darà quattro; uno sul suo budget, tre sui terreni della Joliette che ha venduti. Il palazzo di giustizia costerà quattro milioni, ma è il dipartimento che paga. La borsa ne costerà sei e mezzo, ma è la camera di commercio che fa quasi tutte le spese. La città fornirà una sovvenzione di 600,000 franchi pagabili in dieci anni; essa ha ceduto il suolo delle strade.
Si va a construire una residenza imperiale al sud del vecchio porto, sull’area della riserva vicino, a quel villaggio dei Catalani che Monte-Cristo ha reso celebre. Già da molto tempo il villaggio dei Catalani non è più che un’ombra. Questa repubblica di pescatori, portata dall’emigrazione, si è messa di nuovo ad emigrare. È per odio della coscrizione marittima, od è forse perchè il pesce manca sulle nostre coste? Non si sa. Intanto il fatto è che il piccolo porto si fa deserto e che le celle imbiancate colla calce sono quasi vuote. È molto se odesi in quella solitudine il suono gutturale d’una frase spagnuola: bisogna errare molto tempo fra le ruine prima d’incontrare sulla soglia d’una porta aperta una vecchia donna col volto abbronzito che pulisce la testa del suo nipotino.
I Marsigliesi spendono il loro reddito comune da uomini intelligenti, non dico da artisti. Gente di spirito fin che si vorrà; io sono pronto ad esagerare ancora tutti i superlativi delle lodi, ma in materia d’arti non è ad essi che io domanderò parere. Il saper discernere il bello è un frutto dell’educazione piuttosto che un dono di natura, ed i Marsigliesi non hanno ancora [40] vôlto la loro mente da quella parte. Manca loro quella tradizione d’arte che si è conservata qua e là in alcune città di Francia, a Lilla, a Valenciennes, a Digione, a Grenoble, a Lione e direi perfino a Bordeaux. I nuovi edifizj di Marsiglia non s’annunziano come capi lavori di architettura: si fanno ugualmente bene a Washington e a Cincinnati. Dinanzi la nuova borsa, che è decisamente brutta, si vede un carnefice che mostra al popolo una testa tagliata di fresco. È la statua di Puget martellata da Ramus, e offerta in dono alla città da un gran signore di Gerusalemme. Il museo non manca di buoni quadri, ma non sono nè ben collocati, nè bene conservati, nè ben mantenuti. Egli è qui che mi disgusto col consiglio municipale di Marsiglia. È spiacevole che di due sale di pittura la prima sia mal rischiarata e la seconda non lo sia affatto. Si deplora di veder sedere in trono al posto d’onore cinque o sei scarabocchi della scuola moderna, quando il Mercurio di Raffaello copiato alla Farnesina dal sig. Ingres è collocato sotto la soffitta, nell’angolo più oscuro d’una camera tetra. Infine i ristauratori del paese sono quasi altrettanto imprudenti quanto i nostri vandali di Parigi.
Di tutti i privilegi municipali sapete voi qual è quello che si ama di più in provincia? quello di cui si è più fieri? quello che si difende con maggiore ostinazione contro le usurpazioni della capitale? È il diritto di demolire un bel fabbricato per erigerne uno brutto; di scegliere una cattiva statua fra dieci di buone, di fare la notte e il giorno in un museo, e di eleggere un professore di disegno che non sappia disegnare. Questo furore non è esclusivamente francese; si può osservarlo a bell’agio in tutta l’Europa incivilita, ed esso contribuisce, da un certo numero d’anni, alla decadenza che vediamo. In ogni città di dieci mila anime i notabili dicono unanimemente: Noi abbiamo il diritto per il nostro denaro di proteggere le arti a nostro modo; nessun potere umano non può impedirci di condurre la barca di traverso, attesochè il carico è nostro.
Un Bavarese che abita in Roma, mi raccontava questi giorni passati l’aneddoto seguente, che trascrivo per intero, quantunque [41] non concerna nè l’Italia, e neanche Marsiglia. Ma esso tocca un punto che interessa le anime più nobili di tutto il paese. Ascoltatelo dunque attentamente; è il mio Bavarese che parla:
Sono nativo di Niguenau, città di dodici mila anime, situata a sessanta miglia da Monaco, e capoluogo della provincia. Si può dire che i miei concittadini siano ricchi, essi fecero fortuna fabbricando tessuti di cotone e bambole di porcellana. Il loro massimo piacere è di mangiar salami, bevendo birra del paese, che è eccellente; non conoscono nulla di meglio nè di più degno d’un uomo incivilito che la birra ed i salami. Tuttavia siccome le belle arti sono, da qualche anno in poi, di moda in Baviera, e siccome a Monaco v’ha chi se ne occupa attivamente, così le persone più distinte di Niguenau, per conservare il loro grado nel regno, consacravano tutti gli anni qualche migliajo di fiorini alla coltura delle arti. Mantenevano un architetto giurato allo scopo di ristaurare gli edifizj municipali e di ridipingerli in rosso. Possedevano un museo composto a caso, ma il caso ha talora la mano fortunata. E da ultimo nudrivano alla buona di Dio un maestro di pittura. Il maestro, il conservatore e l’architetto erano tre figli del paese, conformemente a quel principio municipale: «Non date ad uno straniero il denaro del comune». Questi tre personaggi ricevevano il loro assegno dal borgomastro, e per conseguenza obbedivano a lui solo. Ora il borgomastro era un uomo eccellente, un medico abilissimo ed una delle persone più spiritose di Niguenau; ma in materia d’arte, era un asino. Ei si mostrava tanto più geloso della sua prerogativa, e gli argomenti d’arte erano i soli sui quali ei non intendeva ragione.
«L’amministratore (o prefetto) della provincia era un intelligente illuminato dai viaggi, dalla vita di Monaco e dal consorzio de’ grandi artisti. E perciò ogni suo consiglio era cansato, e quando officiosamente ne dava alcuno savio, il borgomastro si raccoglieva nella sua toga con sussiego municipale, e rispondeva con impertinente civiltà: «Il signor prefetto se n’intende meglio di noi, e noi siamo gente da prender abbagli; ma Niguenau è abbastanza ricca da pagare i nostri errori, e non ne costerà un soldo al governo».
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«Quando trattossi di rifabbricare il palazzo del comune che cadeva in rovina, il borgomastro e l’architetto acconciarono insieme un piccolo progetto di tempio greco, sormontato d’un campanile gotico e circondato d’un ballatojo alla Svizzera. Il prefetto vide per caso i disegni di quell’ibrido edifizio, e non potè trattenere qualche esclamazione di sorpresa. Gli fu risposto, ch’era la città che pagava».
Verso il medesimo tempo, il conservatore del museo, che non aveva mai toccato pennello in vita sua, soffermossi dinanzi al quadro del Perugino, solo che noi avessimo, ma che era la perla del museo. Cotesto animale (mi si perdoni il nome, ma non ne trovo di più civile) si ficcò in capo, che il dipinto era troppo giallo, e s’accinse a raschiarlo con una lama finchè scoperse il legno. S’accorse allora che aveva fatto un po’ troppo la tela rasa, e, per riparare allo sconcio, distese uno strato di bitume sullo spazio che aveva raschiato. Ma essendosi molto a proposito ricordato che il quadro primitivo aveva certe parti nella luce, e certe altre nell’ombra, graffiò via il bitume colla punta d’un temperino dovunque gli piacque di porre de’ lumi. Il prefetto lo sorprese durante quell’operazione, e gettò un grido di collera, e stava sulle prime per fulminarlo con un calcio, ma si limitò a provocarne il licenziamento. «Ci perdonerete, rispose il borgomastro, poichè costui è pagato sul nostro budget».
«Il maestro di pittura alla scuola comunale venne a morire. Non aveva saputo nulla in tutta la sua vita, e per ben vent’anni insegnava alla gioventù di Niguenau una certa pittura a pastello, che formava l’ammirazione de’ genitori. Ora il prefetto si persuase che quella fortunata morte avrebbe salvato il buon gusto nella città, e voleva chiamarvi da Monaco un uomo maturo, pieno di talento, lodato nelle esposizioni, onorato di varj premj, ed abbastanza modesto da preferire un posto fisso in provincia alla vita militante della capitale. Ma il borgomastro ed i consiglieri avevano un altro candidato, un giovane del paese che si era fatto conoscere con felici saggi fino dall’età d’anni dodici.
Era stato mandato a Monaco con una pensione di trecento fiorini, sperando che s’acquistasse il premio di Roma e che facesse onore alla città di Niguenau. Aveva concorso per tutto il [43] tempo che l’età sua gli permetteva, vale a dire fino al trentesimo anno, e non aveva nemmeno riportato un secondo premio. Non già ch’ei dipingesse a pastello, ma egli disegnava i suoi quadri colla punta d’un chiodo. Fu eletto all’unanimità dal consiglio municipale, ed il borgomastro si fece un dovere d’informarne il prefetto. «La signoria vostra, gli disse, apprezzerà i sentimenti da cui siamo stati mossi. Siamo noi che abbiamo spinto questo giovane nella carriera della pittura, somministrandogli i mezzi di studiare. Poichè non è riescito, è dover nostro di procacciargli i mezzi di sussistenza. — Ma che? ripigliò l’amministratore intelligente, appunto perchè questo giovane ha dimostrato la sua incapacità a Monaco, voi gli conferite il posto d’un uomo capace! Voi non conoscete tutto il male che un professore di disegno può fare in un paese, e quale deplorabile influenza egli eserciti sul gusto del pubblico. — Ciò facciamo a nostro rischio e pericolo, rispose il borgomastro; d’altronde siamo noi che paghiamo. — E chè! per Dio! un uomo avrà egli il diritto d’avvelenare i suoi figli, sotto pretesto che ha pagato il veleno?»
«Così l’architetto, il conservatore ed il maestro trionfavano nella nullità loro, a dispetto dell’amministratore, quando capita di quelle parti il re. Era un principe dolce, come è noto, ma artista passionato ed intrattabile nelle questioni di gusto. Ei fece chiamare al palazzo della prefettura il borgomastro ed i consiglieri, e disse loro: «Buona gente, voi credete d’avere il diritto di fabbricare degli edifizj ridicoli, di rovinare i quadri del vostro museo e corrompere il gusto de’ figli vostri; e ciò perchè il maestro di disegno, il conservatore del museo e l’architetto della città sono pagati sul vostro budget. Cotesto pregiudizio è radicato in tutti i capoluoghi del mio regno; ond’è che non ho dieci persone di buon gusto fuori di Monaco. È ormai tempo di cambiar sistema. Voglio che tutti gli edifizj pubblici siano costrutti da’ miei architetti, che i conservatori di tutti i musei abbiano fatto i loro esperimenti nella capitale, e che i maestri di pittura siano scelti dal mio ministro siccome i professori di greco e di latino che insegnano nei collegi reali. Voi potete opporre che cotesti signori sono di vostra [44] nomina, perchè sono al soldo vostro: è di legge. — Ma la legge dice eziandio che, quando un impiegato è stipendiato dallo Stato e dalla città, la nomina allora spetta al governo. Ond’è che, a datare da questo giorno, io contribuirò per un fiorino all’anno all’assegno dell’architetto, del conservatore e del maestro di disegno di Niguenau; ma non verranno nominati che da me».
«Dopo quest’atto d’autorità reale, venne fabbricato a Niguenau un palazzo di città semplice e di gusto irreprensibile: gli allievi della scuola di belle arti più non dipingono a pastello, nè più disegnano con un chiodo; il museo è ben illuminato, ben conservato e messo in ordine. Sotto ogni quadro si veggono il nome dell’autore e l’indicazione del tempo in cui viveva; i capolavori sono collocati in posti d’onore, onde il pubblico sia istrutto di ciò ch’ei può ammirare a colpo sicuro; e se la nostra collezione non è delle più ricche, è però d’un buon esempio al pari di quella di Monaco».
Cotesto discorso, tradotto dal tedesco, ci ha trasportati sì lontano da Marsiglia, che, in fede mia, ho quasi voglia di non farvi più ritorno. Così pure, noi abbiam veduto ogni cosa, se son venuto a capo di mostrarvi in poche pagine ciò che ho studiato in dieci giorni. E dissi ciò che penso de’ Focesi, in bene ed in male, e converrete certamente con me, che la somma del bene supera d’assai quella del male.
Ora, se vi piace, andremo a Roma, e vi entreremo d’un salto. Se avessi percorso la via di pellegrino, col sacco in ispalla, siccome gli artisti dei buon tempo antico, avrei molti paesaggi da descrivere e delle scene d’albergo da raccontare. Ma, essendo partito sopra un vapore delle Messaggerie, a dieci ore di sera, ora militare, fui sbarcato a Civitavecchia trent’ore dopo, senza aver avuto il mal di mare. Ecco tutti gl’incidenti del mio viaggio. Il paesaggio non variò un istante, azzurro dovunque. Potrei farvi il ritratto e la storia de’ miei compagni di tragitto, ma non potrei dirvene che bene, d’altronde, non essendo persone note, non vi possono interessare.
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Eravene uno però, di cui mi ricordo con troppo piacere, perchè non abbia a farne parola: è il signor Bailliencourt, colonnello del 40.º di linea, uno degli uomini più amabili e più leali ch’io m’abbia mai conosciuto.
Ho sempre amato i soldati. Strano gusto, dirà taluno, in uno scrittore che puzza di filosofia. Per bacco! So bene anch’io, al pari di voi, che l’uomo non è su questa terra per uccidere gli altri uomini. L’attività, il coraggio e l’intelligenza hanno mille modi più utili e più sublimi in cui possono esercitarsi; su tal proposito non voglio movere disputa. Ma io amo i soldati, e questa passione è più forte di me. Gli amo colle loro doti, coi loro difetti, colla loro istruzione e colla loro ignoranza, colla loro grandezza d’animo e colle loro contrarietà, e segnatamente con quell’eterna gioventù di cuore che li distingue da noi. Ciò che piace alle governanti di fanciulli, alle modiste e talvolta alle nobili signore, è l’uniforme. Ciò che mi seduce nel soldato, di qualunque grado, è certa onesta ingenuità, una generosa ignoranza del male, una semi-verginità d’anima, che si conserva sotto l’uniforme fino ad un’età assai matura.
Il mio onorevole compagno di viaggio è ancor giovane, e credo che sia uscito dal collegio di Saint-Cyr nello stesso tempo che il maresciallo Canrobert. Eppure è già un vecchio soldato. Egli ama l’esercito come una patria, il reggimento come una famiglia, la bandiera come un campanile. Un numero scritto sui bottoni d’una tunica gli fa battere il cuore, sicchè, sbarcando a Civitavecchia, ha gettato un grido di gioja ravvisando un uomo del suo reggimento. Mi racconta, accarezzandosi i mustacchi con gioja commovente, che si verrà domattina, colla banda, a presentargli la bandiera.
Quest’uomo di buona famiglia aveva chiesto congedo d’un mese per rivedere i suoi dopo un’assenza di parecchi anni; ed or ritorna al reggimento, prima dello spirare del congedo, essendosi sentito compreso dalla nostalgia della bandiera.
A Civitavecchia ho preso la posta siccome personaggio di vaglia. Essa costa due o tre franchi di meno, quando si conosce il modo di valersene, e si arriva assai più presto. Io credo, Dio [46] mel perdoni, che abbiamo compito il viaggio in sette ore. I miei quattro cavalli hanno attraversato la Città Eterna facendo echeggiare i loro sonagli, e gli ho congedati sulla piazza di Spagna. Era in casa mia, od almeno non mi rimanevano che tre o quattrocento gradini da salire.
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ROMA.
Carlomagno era alloggiato nel palazzo de’ Cesari, sul monte Palatino. Questo albergo imperiale, dai barbari rispettato fino all’anno 800, non è più attualmente abitato, anzi non vi rimangono che rovine, entro cui i gufi medesimi trovano difficilmente un comodo nido.
Carlo VIII, nella sua irruzione trionfale, abitava in capo al Corso quel gigantesco palazzo di Venezia, sì deforme e sì nero, dove il conte Colloredo dà le più belle feste di Roma.
Montaigne andò a stanziare all’albergo dell’Orso: ora non vi si trovano più pedanti, essendo ricetto de’ cocchieri.
Il nostro divino Rabelais alloggiava sotto la medesima insegna, ma poco mancò, che non gli venisse accordato gratis il più bell’appartamento del forte Sant-Angelo. Il padre dello spiritoso francese sarebbesi trovato bene colà, per ragionare a suo bell’agio sui costumi e le usanze dell’isola Sonnante.
Nicola Poussin viveva poco lontano, rimpetto alla chiesa della Trinità de’ Monti, a due passi dal bell’affresco di Daniele di Volterra, da lui tanto apprezzato, e cui il governo francese sperò un istante di collocare nel Louvre.
Il presidente De Brosses, a’ tempi ch’era consigliere e che mostrava sì strane figure sulla portiera della sua carrozza, abitava [48] sulla piazza di Spagna. Chateaubriand si era annidato presso l’ambasciatore di Francia, e la Stael nelle nubi.
Ma io meschinello sono meglio alloggiato che non tanti Francesi illustri, e dalle due finestre del mio osservatorio veggo le cose da un punto assai più sublime.
Ho appena rinoverato i gradini che mi sollevano al di sopra della piazza di Spagna, dove gli stranieri si danno convegno. Sono 327, nè più nè meno: mettetene 135 per giungere al livello dell’Accademia di Francia; aggiungetene 77 fino al suolo del giardino, che è al primo piano, siccome nel palazzo di Semiramide. Da ultimo, doveste anche metter fuori la lingua, salirete ancora 115 gradini prima d’entrare nella camera turca, che è la mia.
Non potreste sbagliare l’uscio: siamo in capo alla scala a chiocciola, sul vertice della torricella destra dell’edifizio: i soli inquilini che mi signoreggiano di tempo in tempo sono le cornacchie, annidate sul tetto. Una mezza luna di ferro, tracciata sopra la mia serratura, vi accenna ch’entrate in Turchia, e che questa mia porta è una cugina in terzo grado della Porta Sublime.
Un O ed un V, disegnati sulla chiave, vi chiariscono che l’operajo l’ha fatta per Orazio Vernet.
Poichè anche il mio albergo ha alloggiato ospiti illustri, essendo nientemeno che l’antica villa de’ Medici. Galileo vi fu racchiuso, se la tradizione non erra; e la prigione del grande astronomo è una stanza assai bella e maravigliosamente situata. Auguro siffatto carcere a tutti i martiri della verità.
Nel 1803 l’Accademia di Francia, fondata dalla munificenza di Luigi XIV, erasi trasportata lontano dal tumulto delle vie, nella villa Medici. Dopo quel traslocamento, quasi tutti i grandi artisti del nostro paese hanno abitato quel palazzo e meditato sotto quelle belle pianto. David, Pradier, Delaroche, Ingres e Vernet vi hanno scritto i loro nomi sulle pareti.
Il primo aspetto del palazzo è grande, maestoso, ma senza molti ornamenti. Veggonsi da lontano e sopra la porta gli stemmi e la bandiera di Francia. Il solo lusso dell’entrata consiste in un viale di querce verdi ed in un getto d’acqua cadente in una larga vasca. Si passa fra due colonnette di marmo antico [49] rarissimo e bellissimo, ma assai modesto; non ve n’è là che superi il valore di sei mila franchi.
Il portinaio è degno d’essere rimirato siccome uno de’ più bei tipi della razza romana. Grande, dal torso largo, ben fatto, ha faccia pienotta, con barba a ventaglio, porta maestosamente il bastone di capotamburo e de’ guardaportoni delle case principesche. È un uomo di certa importanza, ed ha proprj domestici; suo figlio gli bacia le mani ogni volta che rientra od esce. Nei dì festivi quando si veste in gran livrea sulla soglia dell’Accademia, i sempliciotti gli fanno cerchio intorno e lo stanno ammirando. Ei li lascia giungere vicini, ma per tratti, per evitare la confusione. Di cinque in cinque minuti, gli allontana dolcemente col suo bastone e loro dice con tuono paterno: «Basta! voi avete già goduto il colpo d’occhio; lasciate che si avvicinino gli altri.»
Il primo piano è occupato dagli appartamenti di ricevimento, vasti, magnifici, ornati de’ capolavori de’ Gobelins, e degni per ogni rispetto della grandezza della Francia. Viene poscia e per dipendenza un vestibolo ammirabile, ornato di colonne antiche e di statue foggiate anch’esse all’antica. Ma il lato più appariscente della casa è la facciata posteriore, la quale può noverarsi tra i capolavori del Rinascimento. Si direbbe che l’architetto ha esaurito una miniera di bassorilievi greci e romani per tappezzarne il suo palazzo. Il giardino è dell’epoca medesima, e data dal tempo in cui l’aristocrazia romana professava il più profondo disprezzo pei fiori. Non vi si veggono che de’ gruppi di verdura, allineati simmetricamente con cura scrupolosa. Sei prati, cinti da siepi all’altezza della mano, si distendono dinanzi la villa, e lasciano correre la vista fino al monte Soratte, che chiude l’orizzonte. A sinistra, quattro volte quattro pezzi quadrati di zolla s’incorniciano entro alte muraglie di lauri, di bossi giganteschi e di verdi querce. Queste mura d’alberi si riuniscono in fascio in cima ai viali e gli avviluppano d’un’ombra fresca e misteriosa. A dritta una terrazza di stile elegante raccoglie un boschetto di querce verdi, contorte e rese cave dal tempo. Mi vi reco talora a scrivere all’ombra; e la merla e l’usignuolo fanno a gara i loro gorgheggi sopra il mio capo, in quel modo che un bel cantore di villaggio può rivaleggiare [50] con Mario o Roger. Un po’ più in là, una rozza vite si estende fino alla porta Pinciana, dove si dice che Belisario abbia mendicato. Vi si vede almeno una pietra ornata del celebre motto: Date obolum Belisario. I giardini piccoli e grandi sono sparsi di statue, d’ermeti e di marmi d’ogni specie. L’acqua sgorga nei sarcofagi antichi, ovvero zampilla entro vasche di marmo: marmo ed acqua sono i due oggetti di lusso di Roma; noi, a Parigi, non li conosciamo che per fama.
Questo bel possesso della Francia è appoggiato in tutta la sua lunghezza ai bastioni della città. Confina da un lato col passeggio del Pincio, dall’altro col convento francese della Trinità. Domina tutta Roma, ed ha il vanto di abbracciarla d’un solo colpo d’occhio.
L’Accademia esercita generosamente l’ospitalità. I suoi giardini sono pubblici, le sue gallerie di studio e le sue sedute di modello sono accessibili ai giovani artisti d’ogni paese; le sue sale si aprono una volta alla settimana a tutti i Francesi dì condizione civile; il suo territorio è un asilo inviolabile dove la polizia romana non ha il diritto d’inseguire un accusato.
Gli artisti che al concorso ottengono il diritto di compirvi i loro studj, non hanno tutti il medesimo talento, sebbene tutti abbiano riportato il medesimo premio. Se ognuno d’essi ritornasse in Francia nella condizione d’uomo di genio, la Francia più non saprebbe dove collocarli, e l’eccesso della nostra gloria ci cagionerebbe grave imbarazzo. Ma si può francamente affermare che un soggiorno di alcuni anni in una tale dimora ed in un paese di tal natura, non è mai stato inutile allo sviluppo d’un uomo. Una vita modesta, ma senza il pensiero del pane quotidiano, l’obbligo stretto di lavorare unito all’assoluta libertà del lavoro stesso, lo spettacolo de’ più bei paesaggi, de’ più grandi edifizj e delle popolazioni più pittoriche, la vicinanza di ricche collezioni, il contatto perpetuo colle memorie d’un passato più vivo che il presente, tutto ciò forma dell’Accademia l’abitazione più sana che sia in tutto il mondo. E bisogna ch’io ne sia ben convinto, se vi ritorno a mettermi in pensione.
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A tutti i vantaggi enumerati aggiungete la calma insinuante, che emana dalla Città Eterna, certo spirito di pace e d’armonia, d’ordine e dignità, che s’impossessa all’insaputa d’ogni cervello il più disturbato. In questa solitudine abitata che si estende da S. Pietro a S. Giovanni di Laterano, le memorie della vita militante ci appajono da lontano siccome sogni d’una notte procellosa. Chi vede l’agitazione di Parigi senza prendervi parte, prova il medesimo stupore, lo stesso malessere e lo stesso sdegno che s’ei vedesse un vortice di danzanti aggirarglisi intorno in un ballo di carnevale, senza sentire i violini.
I giornali ciarlieri che assordano i Parigini non giungono sino a Roma; i mascalzoni più celebri e più temuti dagli artisti non vi sono nemmeno conosciuti; e gli arzigogoli della stampa minuta non vi sarebbero nemmeno compresi. Vi si lavora in pace, in un onesto raccoglimento, senza curarsi delle dicerie, de’ passaggeri capricci del pubblico, cogli occhi rivolti alternativamente alla natura ed ai maestri.
Roma è forse, dopo Atene, la città dove meno si diverte. Eppure gli stessi giovani confessano che non ve n’è altra di più attraente. Il primo movimento de’ pensionisti dell’Accademia è d’annojarsi come ad un còmpito, e di noverare i giorni che li separano ancora da Parigi; essi se ne vanno poi tutti con rammarico o piuttosto con dolore.
Si può dire di Roma, ciò che un critico diceva del più grande poeta dell’antichità: C’est avoir profité que de savoir s’y plaire.
Il piacere elevato che la grande città ci procura non si può già provare in capo ad otto giorni. Mi fu mostrato un esemplare del Guido-Giovanni, arricchito di note manoscritte d’un commesso viaggiatore. Cotesto bell’uccello di passaggio aveva scritto in margine all’articolo S. Pietro di Roma: «Ho veduto qualche cosa di meglio di ciò.» Io non so bene ove potesse aver veduto di meglio; ma scuso i falli d’un viaggiatore di otto giorni.
Papa Gregorio XVI, ch’era un vecchio spiritoso, accordava volentieri udienze ai viaggiatori stranieri. Dimandava a tutti da quanto tempo erano in Roma. Quando gli si rispondeva: «da [52] tre settimane» ei sorrideva maliziosamente, e diceva: «andiamo avanti! Addio.» Ma se il viaggiatore aveva passato tre o quattro mesi in città, il santo padre allora gli diceva: «A rivederci!»
E di fatti, tutti coloro che conobbero Roma per un tempo sufficiente da saperne gustare il bello sentono il bisogno di ritornarvi, come se vi avessero dimenticato qualche cosa loro appartenente. Si riconoscono tra loro, od almeno si ravvisano dopo pochi minuti di conversazione. Si danno una buona stretta di mano, siccome uomini che abbiano amato una medesima persona ad alcuni anni di distanza, e che ne siano stati egualmente ben trattati. E finalmente si danno convegno al Foro, al Vaticano, o sull’eterna piazza di Spagna.
Il direttore attuale dell’Accademia, signor Vittore Schnetz, vi si è recato per la prima volta nel 1816; è quasi mezzo secolo! Aveva fatto il viaggio a piedi, secondo l’eccellente abitudine degli artisti di que’ tempi. Dopo il giorno del suo arrivo, ei non lasciò più la città se non colla speranza di ritornarvi. Vi ha vissuto ventiquattro anni, e crede che sia poco. Ha 72 anni, ma ne dimostra non più di 60. Il clima di Roma è tanto favorevole ai pittori quanto alle pitture. Quell’uomo eccellente ha conservato tutto il vigore del suo corpo e del suo spirito; passeggia con passo sicuro tra le rovine e le memorie della città. Nessun Francese conosce meglio di lui i Romani, e ne è meglio conosciuto. La nobiltà indigena lo considera siccome sua creatura, ed ei gode di considerazione eguale a quella de’ principi e de’ cardinali. La sua vita privata, tranne i giorni di gala, è d’una semplicità affatto romana. Io asciolvo con lui, e pranzo coi pensionisti; la sola differenza tra il suo pranzo e quello degli allievi, è che l’uno viene servito al primo piano e l’altro nel mezzanino.
Forse è tempo di farvi entrare nella mia camera. Non è la più grande della casa, ma posso farvi sette passi in linea retta, ed è quanto mi basta per lavorare. La cupola che v’è in essa, è abbastanza alta, sicchè l’aria non manchi a’ miei polmoni. Orazio Vernet l’ha fatta dipingere in uno stile orientale sopra disegni [53] copiati in Algeria. La tradizione vuole, che gli uccelli d’ogni colore, che svolazzano sopra il lampadario, siano di mano stessa del maestro. Se ciò fosse vero, la rondinella del caffè Foy troverebbe qui una sorella. Le pareti sono coperte di majolica dipinta, la cui freschezza mi reca gran noja. L’ingresso dell’alcova si spartisce alla moresca, fra due enormi mazzi di fiori fantastici. Sonvi poi iscrizioni arabe sopra al letto, sulla porta e sulle finestre. Venite pure a coricarvi, se vi piace, sul tappeto, ad adagiarvi sopra uno de’ miei due divani, od a sprofondarvi entro la sedia a bracciuoli; ma non toccatemi quel mio tavolino: è sopra di esso che compongo la mia prosa, rimpetto a Monte Mario.
Non saprei perchè mi sono accovacciato a questa piuttosto che all’altra finestra: probabilmente perchè il sole vi si mostra più tardi. L’altra è quasi a mezzodì, questa è quasi ad occidente. Veggo i sedici praticelli dell’Accademia entro il loro cerchio d’alberi verdi; poscia viene il Pincio, quindi la verde campagna, il fulvo Tevere ed una serie di collinette. Monte Mario è coperto d’alberi, paragonabili ad ombrelle: la più parte aperte, ed i cipressi ad ombrelle chiuse. A destra veggo parte della villa Borghese, ed a sinistra l’obelisco della piazza del Popolo. Riepilogando, poca parte di Roma e molta della sua campagna. Tuttavia quando il sole si corica entro nubi nerastre screziate di grandi macchie sanguigne, rimpiango che non siano qui con me a vederlo tutti quanti gli amici.
Quando mi affaccio all’altra finestra, veggo quattro quinti della città, numero le sette colline, percorro le strade regolari che si distendono fra il corso e la piazza di Spagna, faccio il novero de’ palazzi, delle chiese, delle cupole e de’ campanili; mi smarrisco entro il Ghetto e nel Transtevere, non veggo rovine più di quel che bramerei: esse stanno ammucchiate là in fondo, nelle vicinanze del Foro. Però veggo presso noi la colonna Antonina e la Mole di Adriano. La prospettiva viene poi gradevolmente chiusa dai pini della villa Pamfili, che riuniscono le loro ampie ombrelle e formano quasi una tavola da mille piedi per un banchetto di giganti. L’orizzonte si perde a sinistra a distanze infinite; la pianura è nuda, ondosa ed azzurra siccome [54] il mare. Ma se vi mettessi in presenza d’uno spettacolo così immenso e diverso, un solo oggetto attirerebbe gli sguardi vostri, uno solo colpirebbe la vostra attenzione: non avreste occhi che per San Pietro. Quel mio commesso viaggiatore aveva veduto alcun che di meglio; ebbene io lo sfido d’aver veduto alcun che di sì grande.
Dal punto più lontano d’onde si scorge Roma, è San Pietro che si disegna all’orizzonte, la sua cupola è parte nella città, parte in cielo. Quando apro la mia finestra, verso le cinque ore del mattino, veggo Roma immersa nelle nebbie della febbre: sola la cupola di San Pietro è vestita della rosea luce del sol nascente. Mi ricordo che, recandomi un giorno da Scira a Malta, vidi la Sicilia alla distanza di quaranta leghe: era un tempo magnifico, al cader del giorno. Tuttavia mi fu mostrata un’ampia ed eccelsa montagna che sembrava spingere le sue radici nel mare. Era l’Etna che sorge sopra il suolo di Sicilia, siccome San Pietro al di sopra di Roma. Noi non distinguevamo la Sicilia, ma vedevamo l’Etna.
Un giorno di grande solennità (credo nella settimana santa), mi sono imbattuto in un uomo assai scandalizzato. Era un dabben Normando, pacifico per indole ed educazione, ed antico consigliere municipale della città d’Avranches. Come lo vidi alzar le spalle, dimandar il sole a testimonio, non potei trattenermi dal dirgli: «Che avete?»
— Che ho? Sono ormai due ore e più, che quivi entra un’onda di gente, eppure nella chiesa non v’è folla. L’edifizio è troppo vasto. Questa gente non ha criterio ed esagera in tutto.
— Ohimè! Signore, gli diss’io, che direste del presbitero? Questo Vaticano, che è un’appendice della chiesa, è stato costrutto colla medesima esagerazione. Non vi si contano meno di dodici mila sale, trenta corti, e tre cento scale.
— Assurdo, davvero! È come quella chiesa, che mi venne mostrata a due o tre chilometri di qua.
— San Paolo fuor delle mura?
— Appunto. Essa è troppo grande e fuor di proporzione coi bisogni della località.
[55]
— Lo credo benissimo! difatti la parrocchia si compone d’un albergo e di due trattorie.
— E noi, signore, quando abbiamo fabbricato la nuova chiesa d’Avranches, abbiamo preso sì bene le nostre misure, che non s’è speso un centesimo di più in pura perdita.
— Me ne congratulo con voi. Ma bisogna dire, a giustificazione de’ Romani, che essi hanno costrutto, in San Pietro e San Paolo, non già delle chiese private, come quella d’Avranches, ma le parrocchie centrali di tutto il popolo cattolico.
Per bella che sia Roma, quale la veggo dalla mia finestra, m’imagino ch’essa era ancor più sorprendente or sono tredici secoli. San Pietro non era ancora fabbricato, nè alcuno degli edifizj, che noi ora tanto ammiriamo; ma l’antichità era vivente e florida, malgrado le invasioni de’ barbari ed i saccheggi d’Alarico. Secondo una statistica del secolo VI, scoperta dal cardinal Mai e citata da Ampère, la gran città contava ancora:
380 strade larghe e spaziose;
46603 case;
17097 palazzi;
13052 fontane;
31 teatri;
11 anfiteatri;
2 campidogli;
9025 bagni;
5000 fosse comuni;
2091 carceri;
8 grandi statue dorate;
66 statue d’avorio;
3785 statue di bronzo;
82 statue equestri di bronzo;
2 colossi.
Se v’ha taluno che supponga inverosimili queste cifre, sarà certo perchè non conosce i Romani, nazione eccessiva in tutte le cose, e più esagerata nelle sue azioni, che non fossero i Greci stessi nelle loro parole.
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Sonvi de’ giorni in cui, per quanto osservi fuori delle mie finestre, non veggo altro che pioggia e nubi. Il cattivo tempo è qui peggiore che altrove. Quando il vento di sud-ovest, il maledetto scirocco, comincia a soffiare, lunghe nubi grigiastre s’addensano all’occidente, e gli uomini non meno che le bestie vengono assaliti da uno strano malessere. Sulle uniformi superfici del mare e della terra, il vento d’Africa spira tumultuosamente senza trovar ostacoli; Roma è la prima resistenza ch’ei trova per ora, onde s’aggira in vortice intorno ai sette colli, e direbbesi che a quell’urto le case scrollino dalle fondamenta. Le nubi si addensano le une sulle altre, siccome montagne sovraposte da un Titano, fino alla sommità della volta celeste. Ed in breve più non formano che una massa compatta, che oscura la luce del giorno. Quindi si spalancano quelle nubi siccome cataratta, ed ecco un torrente fitto, uniforme, inestinguibile si scatena allora fragorosamente sulla città. Il vento continua a spirare, accumula nuove nubi, e riempie di nuovo i serbatoj atmosferici, prima che siano vuotati. Qualche volta il tuono si fa compagno, e l’acqua, il vento, i lampi, le scosse che fanno traballare la mia stanza, mi rendono perfetta imagine d’una nave sbattuta dalla procella.
Talora l’uragano minaccia, passa e scompare senza lasciar traccia, siccome un re che fosse atteso in una città, e che non vi si fermasse che il tempo di cambiare i cavalli.
Si bussa alla porta del mio osservatorio: è una visita. È persona sensata e spiritosa, sebbene non vada esente da pregiudizj aristocratici. S’installa, forma sigaretti di tabacco turco, fuma una buona mezz’ora senza dir sillaba.
La sua conversazione mi ha recato piacere e paura in pari tempo, offrendosi d’insegnarmi tutto quanto sa intorno all’Italia, ma in pari tempo mi sfida a scrivere un libro che abbia il senso comune.
«Se mi credete, disse egli, consacrerete tre o quattro mesi nello studiare Roma, senza osservare nè quadri, nè rovine, nè nulla di quanto gli stranieri vengono qui a vedere. Voi senza dubbio non avete l’intenzione di ripetere ciò che tutti i viaggiatori hanno scritto; e d’altronde l’Italia contemporanea non ha [57] nulla di comune coll’antichità, col medio evo o col rinascimento. Limitatevi all’esame delle instituzioni, de’ costumi e de’ caratteri; ne avrete per molto tempo, se cercate la verità. Studiatevi di veder tutto da voi; non fate conto nè sui Francesi nè sugl’Italiani per aver notizie, chè i Francesi osservano poco, e la divisione militare occupante, di cui ho l’onore di far parte, non si compone di filosofi. Noi Francesi vi diremo molto bene o molto male degl’Italiani, a norma della casa dove ciascuno di noi è alloggiato. Vi diremo anche qualche sciocchezza. Uno de’ nostri soldati, parlando ad un Italiano, e furibondo per non essere inteso, esclamava mostrandogli il pugno: «E che? poltrone! Sono oramai nove anni che noi siamo qua, e tu non sai ancora il francese?» Noi tutti, di tratto in tratto, ricadiamo nel ragionamento di questo soldato. Parlate cogl’italiani nella loro lingua, quand’anche sapessero esprimersi nella vostra. La nobiltà romana, cominciando dal papa e dal cardinal Antonelli, sa il francese quasi così bene come voi; epperò anche il più dotto Italiano, quando non parla la sua lingua, non è del tutto nel proprio elemento. E d’altronde perchè vorreste privarvi del piacere di ascoltare questa bella lingua armoniosa? Venire in Italia per conversare in francese, è come andare all’opera senza sentir la musica. Passeggiate a piedi per le strade, e badate di non conoscere la strada; il caso vi condurrà nei luoghi migliori.
Se entrate in una chiesa, non osservate solamente ciò che v’è; ma osservate eziandio ciò che vi si dice e ciò che vi si fa. Impegnate la conversazione con tutti coloro che incontrerete. Non siete già in Inghilterra: non istate ad aspettare d’essere presentato ad un muratore per poterlo interrogare. Parlategli, e vi risponderà. Non vi garantisco che vi abbia a dire la verità, nè egli nè altri: chè tutti gl’italiani, ricchi e poveri, sono diffidenti per natura, essendo stati quasi sempre ingannati. Non vi sarà agevole il cavare un sì od un no dai vostri interlocutori. Non istate a scoraggiarvi se vi si guarda con inquietudine, e se vi si dà una risposta evasiva quando dimanderete che ora è.
«La società romana è divisa in tre classi: nobiltà, plebe e ceto medio, che si move fra le due. La nobiltà è ospitaliera, e vi riceverà, se lo bramate: ma v’è poco a dire. I principi della [58] Chiesa ed i principi romani hanno da lungo tempo rinunciato al sistema del nipotismo e del cicisbeismo. I cardinali sono poveri, e le più nobili signore vanno nel mondo senza amante.
«La plebe è più interessante da studiarsi, ma è già nota per gli studj degli artisti. Essi s’abbatterono nel lato pittorico de’ costumi, mentre andavano in traccia del pittorico de’ volti e delle foggie.
Il ceto medio è quello che inspira maggior interesse ed è meno conosciuto. Si stende ben lontano, abbracciando tutto che non è nobile nè mendico, da più modesti mercanti del corso, fino agli antichi ministri del 1848. Tutti gli avvocati, i medici, gl’impiegati e lo stesso ministro, quando per avventura non appartenga alla prelatura, formano parte di questo mondo intermediario, che non ha alcun contatto col grande. È il ceto medio che lavora, progredisce, si agita e minaccia. Esso ha fatto la rivoluzione del 1849, potrebbe far meglio, potrebbe far peggio, essendovi molto a sperare e molto a temere da gente siffatta. Dove li trovereste? Vivono tra loro, in casa loro; buona parte di essi passa metà dell’anno nei campi, e chiamansi mercanti di campagna. Coltivano le terre de’ grandi signori, pagano fitti enormi, e fanno fortuna, senza darsene il vanto. Mi si accerta che parecchi di costoro sono assai intelligenti ed onesti, ma dubito che la loro compagnia vi sia aggradevole, poichè hanno poche idee comuni da scambiare con voi. Supponendo che il vero mondo vi permetta di frequentare quello là; supponendo che il medio mondo consenta a ricevervi, vi sarà più che difficile di frequentarli entrambi alla volta; chè essi non fanno nulla nel medesimo modo, nè nelle ore medesime.
«Nondimeno voglio supporre che abbiate la pazienza, il talento e la felicità necessaria per approfondire la società romana: non avrete ancora fatto grandi passi. Roma è città d’eccezione, che non rassomiglia a verun’altra; nè convien giudicare l’Italia su quello stampo, e nemmanco lo Stato romano. È un saggio magnifico, ma la pezza è d’altra stoffa.»
— Non importa, risposi. Cominciamo dal conoscer Roma. Parmi che se esco di qua a mia gloria, il resto procederà da sè e mi costerà pochi sforzi.»
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I nobili stranieri che visitarono Roma in calesse conoscono poco, o male, il piccol mondo di cui sto per parlare. Si ricordano d’essere stati importunati da facchini chiassosi e da mendicanti instancabili, non videro altro che mani aperte per ricevere, non intesero che voci stridule per chiedere l’elemosina ad alte grida.
Dietro questo sipario di mendicità si celano ben centomila persone pressochè indigenti, senz’esser oziose, e che guadagnano a stenti il loro pane quotidiano. I giardinieri ed i vignajuoli che coltivano parte della cerchia di Roma, gli operaj, i manovali, i domestici, i cocchieri, i modelli, i merciajuoli girovaghi, i vagabondi onesti, che aspettano per cenare un miracolo della Provvidenza, ovvero un terno al lotto, compongono la maggioranza della popolazione. Vivono discretamente d’inverno, quando gli stranieri seminano la manna sul paese; si stringono poi le visceri d’estate. Molti sono troppo fieri per dimandarvi cinque soldi; ma nessuno è abbastanza ricco da rifiutarli, se gli vengono offerti. Ignoranti e curiosi, ingenui e perspicaci, suscettibili all’eccesso senza soverchia dignità, prudentissimi d’ordinario e capaci delle più sanguinose imprudenze; fanatici nella devozione e nell’odio; facili a commoversi, difficili a convincersi; più accessibili ai sentimenti che non alle idee; sobrj per abitudine, terribili nell’ubbriachezza; sinceri nelle pratiche di divozione la più eccessiva, ma prontissimi benanche ad irritarsi contro i santi siccome contro gli uomini; persuasi che hanno poco a sperare sulla terra, confortati di tempo in tempo dalla speranza d’un mondo migliore, vivono in una rassegnazione alquanto ringhiosa, sotto un governo paterno che loro dà del pane quando ne ha. L’ineguaglianza delle condizioni, più evidente a Roma che a Parigi, non gli stimola punto all’odio.
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Si sono accomodati alla modestia della loro condizione, si rallegrano che vi siano de’ ricchi, affinchè il povero possa trovare de’ benefattori. Nessun popolo è meno capace di guidarsi da sè; e perciò il primo arrivante può agevolmente condurlo. Costoro rappresentarono la parte di comparse in tutte le rivoluzioni di Roma, più d’uno si è ben battuto senza comprendere la commedia che si rappresentava. Essi credevano sì poco alla repubblica, che in assenza di tutte le autorità, allorquando il santo padre ed il sacro Collegio si erano rifuggiti a Gaeta, ben trenta famiglie plebee si erano accampate in casa del cardinale Antonelli senza rompervi un bicchiere. Il ristabilimento del papa sotto la protezione d’un esercito straniero non gli ha per nulla sorpresi: essi l’aspettavano siccome un felice avvenimento ed il ritorno della tranquillità pubblica. Vivono in pace coi nostri soldati, quando questi non s’intromettano nelle loro famiglie, e l’occupazione non li contraria, se non allorquando ne sono personalmente incomodati; e non temono d’immergere il loro coltello nell’uniforme d’un conquistatore, ma potrei accertare ch’essi non celebreranno mai de’ Vespri siciliani.
Si vantano di discendere in linea retta dai Romani della Roma antica gloriosa, e cotesta innocente pretensione mi sembra assai bene fondata. E di vero essi sono divoratori di pane, e avidissimi di spettacoli; trattano le loro donne siccome fantesche, non lasciano loro l’arbitrio d’un centesimo, e fanno la propria spesa essi medesimi: ciascun d’essi è cliente del cliente d’un patrizio. Sono ben tarchiati, robusti, e capaci di dare un colpo di collare, che sbalordirebbe i buffali; ma non ve n’ha alcuno che non studii la maniera di vivere senza lavorare. Operaj eccellenti quando non posseggono un soldo, impossibili a rintracciare quando hanno in tasca uno scudo; buoni diavoli, famigliari e semplici di cuore, ma convinti della loro superiorità sul resto degli uomini; economi all’ultimo segno, finchè trovino un’occasione solenne di divorare in un giorno le loro economie, raccolgono, soldo a soldo, dieci scudi nell’anno per prendere a nolo il palco d’un principe nel carnevale o per mostrarsi in carrozza alla festa dell’Amor Divino: ed è così che la plebe di Roma dimenticava il passato e l’avvenire nei Saturnali. L’imprevidenza ereditaria da cui sono padroneggiati [61] si chiarisce per l’irregolarità de’ loro mezzi di sussistenza, la periodicità degli scioperi, e l’impossibilità di giungere senza miracolo ad una condizione superiore. Mancano loro non poche virtù, e tra le altre la delicatezza, la quale però non entrava nel retaggio de’ loro antenati.
Ciò che loro non manca è la conservazione ed il rispetto di sè stessi. Essi non si abbandonano nè alle basse facezie, nè agli abbietti bagordi. Non li vedrete mai insultare gratuitamente un signore che passi per via, o slanciare una parola sconcia in faccia ad una donna. Cotesta classe d’uomini vili, che chiamasi canaglia, è qui affatto sconosciuta: i tratti ignobili non sono merce romana.
Ho passata l’intera giornata d’jeri nel mondo plebeo; era domenica. Mentre scendeva la scala dell’Accademia, ho incontrato un frate questuante, vera plebe della Chiesa. Ei mi salutò cortesemente, ignorando ch’io fossi della casa, e soffermossi per aprirmi la sua tabacchiera.
«Mille grazie, gli dissi, non prendo tabacco».
Risposemi egli sorridendo: «Tanto peggio!»
— E perchè?
— Perchè se aveste accettato la mia presa, mi avreste regalato qualche soldo, pel mio convento».
Sorrisi anch’io, e gli dissi: «Ciò non fa caso. Vi darò ciò che vorrete, ma ad una condizione.
— Dite.
— Che mi conduciate fino alla piazza Farnese, rispondendo alle mie interrogazioni.
— Volentieri; non ho più nulla a fare prima di asciolvere.
— Ho portato or ora qui l’ultima mia insalata.
— Quale insalata?
— Quella che sta sera mangerà il direttore dell’Accademia.
— E che! reverendo, voi vendete l’insalata!
— No, ma ne dono ai benefattori del nostro ordine. L’Accademia, siccome tutte le grandi case, ci fa un’elemosina al mese, ed in ricambio di tal bontà noi le portiamo un’insalata ogni domenica».
Strada facendo mi narrò tutte le piccole professioni ch’egli [62] esercitava gratuitamente, a vantaggio dei benefattori dell’ordine. Strappava i denti con certa destrezza, prestavasi per modello degli artisti per la testa e la barba; seguiva col cereo in mano i funerali de’ grandi personaggi. Il mestiere di questi frati mendicanti non è già d’essere oziosi: essi sono famigliari ed amici dei piccoli, umilissimi e devotissimi servi de’ grandi, il popolo gli ascolta volentieri perchè sono popolo. Predicano nel Colosseo, sulle piazze, nelle strade, in lingua veramente del volgo, colla mano sui fianchi, ed alla buona di Dio. Se qualche parolona può dare più di nerbo alla loro rettorica, essi la slanciano con tutta naturalezza. «Ecco come siamo noi altri, dicevami il mio compagno di passeggio: non siamo dotti; non conosciamo nè telegrafo, nè gaz, nè vapore; ma ne sappiamo abbastanza per dare un buon parere.»
Una vecchia gli si fece incontro chiamandolo per nome. «Padre» gli disse «il mio terno non è sortito. Datemene un altro. È sabbato a mezzodì che si fa l’estrazione di Roma».
Ei la respinse colla mano, dicendole: «Andate a spasso! Non sarebbe egli meglio, quando per caso aveste dieci soldi, di comprare un pane ed una bottiglia di vino, che vi darebbe forza, anzichè perder tutto al lotto?»
La vecchia rispose: «Scusatemi. Quando avrò mangiato il pane e bevuto il vino, la fame e la sete mi nasceranno subito; mentre che, col mio viglietto in tasca, io sono ricca fino a sabbato».
Il cappuccino le volse le spalle senza aprir bocca.
«Signore, mi disse, ripigliando i passi ed il discorso, non si può levar di mente a coteste creature, che noi abbiam mano in pasta nella lotteria. Se volessi fabbricare de’ terni per tutti coloro che me ne dimandano, non me ne rimarrebbe più veruno per me».
M’accinsi ad interrogarlo sui redditi del suo ordine e su quanto un cappuccino può procacciarsi in un giorno. A ciò egli rispose ad un bel circa come il ciabattino di Lafontaine: «Or più or meno. Altre volte, mi disse egli, io era in un convento di Tivoli, mendicava nelle case de’ contadini, e riceveva le elemosine in natura. In questo genere di viaggio, bisogna portarsi ben lontano e sudar molto per guadagnar poco. Faceva quattro questue all’anno [63] nell’ordine delle raccolte. Nel primo viaggio riceveva del grano e dei bozzoli; nel secondo del formentone e delle fave; nel terzo del vino, e nel quarto dell’olio. In ogni villaggio il benefattore del nostro ordine mi offriva l’ospitalità e custodiva la mia piccola provvista, che veniva poi ritirata dall’economo del convento. A Roma le elemosine che ci si danno sono quasi sempre in danaro. Quando sono invitato da un pittore a far da modello, mi viene data una mercede per seduta. Quando strappo un dente, le persone generose mi regalano una moneta di dieci soldi; quando seguo un convoglio funebre di qualche gran signore, ricevo cinque soldi ed una candela di cera; allorchè un artista desidera la mia bella corona del rosario fatta di bosso, è ben di rado ch’io non ritorni al convento con uno scudo. Da ultimo, quando impiego il mio scarso ingegno per uno straniero pio e caritatevole, sono ben certo ch’ei porrà venti soldi nel salvadanajo che qui vedete».
La mendicità è, e deve essere florida nella capitale del mondo cristiano. Non la si può nè intendere, nè frenare, essendo essa un invito perpetuo ad esercitare una delle virtù cardinali. Ogni appello alla carità vi è permesso fino dai primi tempi della Chiesa; lo zoppo ha diritto di mostrare ai passaggieri la compassionevole nudità delle sue gambe. I Romani, stimolati da ogni parte, soddisfanno tutti, nell’esercizio de’ loro mezzi, al precetto dell’elemosina. Ricchi e poveri danno molto; e senza dubbio l’ostentazione prende parte nella pratica d’una virtù sì costosa, ma la bontà naturale del popolo vi si presta spontaneamente.
Di tutti i mendicanti che pullulano nella città, i più onesti e più utili sono senza dubbio i frati questuanti. Ma si dà per certo, che essi hanno la cattiva abitudine di entrare dovunque senza farsi annunciare, di penetrare ex abrupto nelle stanze posteriori delle botteghe, e mendicare con tuono di autorità che imbarazza i timidi ed i piccoli.
Ritorniamo, se vi piace, alla piazza Farnese, dove mi ha lasciato il mio dispensatore d’insalata. I viaggiatori che sono bramosi di contemplare la mole imponente del palazzo Farnese, la [64] sua cornice disegnata da Michelangelo e le due belle fontane che zampillano dinanzi alla facciata, possono farvisi condurre in ogni tempo; ma è alla mattina che io preferisco di recarmivi. La domenica è il giorno in cui i contadini arrivano a Roma. Quelli che cercano l’impiego delle loro braccia vengono ad accordarsi cogli affittajuoli per lavorare a giornata. Quelli che sono già in servizio, e lavorano fuori delle mura, vengono a fare i loro affari e rinnovare le loro provvigioni. Entrano in città allo spuntar del giorno dopo aver camminato buona parte della notte. Ogni famiglia mena un asino che porta il bagaglio. Uomini, donne e fanciulli, spingendo l’asino davanti a loro, vanno a prostrarsi in un angolo della piazza Farnese o della piazza Montanara. Per un privilegio speciale le botteghe vicine restano aperte fino a mezzodì. Si va, si viene, si compra, poi v’ha chi si accoscia in un angolo per contare le monete di rame. Intanto gli asini si riposano sulle loro quattro gambe vicino alle fontane. Le donne vestite d’una giubba a foggia di corazza, d’un grembiale rosso e d’una veste rigata, incorniciano la loro faccia con un panneggiamento di stoffa candidissima. Esse sono tutte, senz’eccezione, da dipingere; quando non è per la bellezza dei loro lineamenti, lo è per l’eleganza ingenua dei loro atteggiamenti. Gli uomini hanno il mantello lungo cilestre ed il cappello acuto; al disotto i loro abiti di lavoro spiccano meravigliosamente abbenchè logori dal tempo e diventati color di pernice. Il costume non è tutto uguale; si vede più d’un mantello color d’esca rappezzato d’azzurro vivace o di rosso simile alla robbia. Il cappello di paglia abbonda in estate. La calzatura è assai capricciosa; scarpe, stivali e sandali calpestano successivamente il selciato. Quegli scalzi trovano qui vicino delle botteghe grandi e profonde ove si vendono delle robe usate. Vi sono delle scarpe d’ogni sorta di cuojo, e di tutte le epoche: in questi tesori della calzatura frugandovi bene vi si troverebbero forse dei coturni dell’anno 500 della repubblica. Ho testè appunto veduto un povero diavolo che provava un pajo di stivali a trombini. Dessi vanno bene alle sue gambe come una piuma all’orecchio di un porco; ed era un piacere il veder le smorfie che faceva ogni volta che posava il piede a terra; ma il mercante lo confortava con buone parole, dicendogli: non aver paura, tu soffrirai per cinque o sei giorni, [65] e poi non ci penserai più. Un altro mercante vende dei chiodi a peso; l’avventore li conficca lui stesso nelle sue suole, al qual uopo vi sono dei banchi appositi. Lungo i muri cinque o sei sedie di paglia servono di bottega ad altrettanti barbieri all’aria aperta. Si paga un soldo per tagliare una barba di otto giorni; il paziente, tutto impiastricciato di sapone, volge gli occhi al cielo con aria rassegnata; il barbiere gli tira il naso, gli mette le dita nella bocca, s’interrompe per affilare il rasojo sopra una coramella attaccata alla spalliera della sedia, o per morder via un pezzetto di focaccia biscotta che pende dal muro. Eppure l’operazione è fatta in un momento; lo sbarbificato si alza, e il suo posto è già occupato da un altro. Potrebbe andare a lavarsi alla fontana, ma trova più semplice di asciugarsi col rovescio della sua manica.
Gli scrivani pubblici si alternano coi barbieri. Si portano loro le lettere che si sono ricevute; le leggono e vi fanno la risposta. Spesa totale, tre soldi. Appena un contadino si avvicina alla tavola per dettare qualche cosa, cinque o sei curiosi si riuniscono officiosamente intorno a lui per sentir meglio. Vi è una certa bonarietà in questa indiscrezione, chè ognuno vi mette la sua parola, ognuno dà un consiglio. Dovresti dir questo. — No — dì piuttosto quello. — Lascialo parlare, grida un terzo, egli sa meglio di te ciò che vuole far scrivere.
Alcune vetture cariche di focaccie biscotte d’orzo e melgone girano in mezzo alla folla. Un venditore di limonea munito d’una molla di legno, spreme i limoni nei bicchieri. L’uomo sobrio beve alla fontana facendo un acquedotto coll’ala del suo cappello. Il ghiotto compera delle vivande passate in seconda mano ad un banco, ove si rivendono a spizzico gli avanzi delle cucine. Per un soldo, il venditore riempie di manzo pesto e di ossa di costoline un brandello di giornale vecchio; un pizzico di sale aggiunto al tutto condisce mirabilmente la mercanzia. Il compratore mercanteggia non sul prezzo, che è invariabile, ma sulla quantità; egli prende dal mucchio alcune bricciole di carne e lo si lascia fare, poichè nulla si conclude a Roma senza tirarsi di prezzo.
Gli eremiti ed i frati passano di gruppo in gruppo questuando [66] per le anime del purgatorio. A me pare che questi poveri operaj facciano il loro purgatorio in questo mondo; e che sarebbe meglio dar loro del denaro piuttosto che loro chiederne, eppure ne danno e senza farsi tirare per le orecchie.
Talvolta un bel parlatore si diverte a raccontare una storia; si fa cerchio intorno a lui, e a misura che l’uditorio s’ingrossa, egli alza la voce. Io ho visto dei narratori che avevano la fisonomia dilicata e ben contenta, ma non conosco nulla di più piacevole dell’attenzione del loro pubblico. I pittori del quindicesimo secolo avranno sicuramente preso sulla piazza Montanara i discepoli che essi aggruppavano intorno al Cristo.
La musica mi toglie alla conversazione e corro. Voi sapete forse che si sente pochissima musica a Roma. La gente del popolo vi canta altrettanto falso quanto gli Ateniesi, ed è lo stesso suono nasale. Qui mi trovo dinanzi un chitarrista cieco, un violinista guercio ed una vecchia prima donna di strada che fanno tanto fracasso come due organetti di Barberia. Ho comperato la loro canzone, poichè essa è stampata con superiore autorizzazione. Potrei tradurvela da un capo all’altro, ma indovinerete la storia quando avrete letto l’intitolazione:
CASO TRAGICO
SUCCESSO A BORGOGNA
TOLTO
DALL’ISTORIA DI MARGHERITA,
REGINA DELLA DETTA CITTÀ.
È superfluo l’aggiungere che si tratta della Torre di Nesle, in italiano Torre di Nesler. Coloro che credono che Firenze sia in Inghilterra, perchè gl’Inglesi vengono da Firenze; coloro che domandano quale dei due sia più grande, se la Francia o Parigi non avranno fatica a persuadersi che Margherita era regina di una città chiamata Borgogna, e che suo marito l’ha strangolata l’anno scorso.
Ne ridevo ancora, quando scôrsi presso un banco, ove i mozzi di sigari si vendono all’ingrosso, un contadino di quarant’anni [67] suonati che piangeva senza dir motto, nè asciugare gli occhi. Era d’una bruttezza piuttosto volgare, ed il suo dolore non lo abbelliva. Due o tre uomini della sua età raccolti intorno a lui procuravano di consolarlo; ei teneva in mano una lettera aperta. Io mi avanzai verso di lui e gli domandai che avesse, imperocchè l’indiscrezione di questa buona gente è contagiosa. Egli mi ascoltò con un’aria stupida senza rispondere; ma uno de’ suoi vicini mi disse: È una lettera che ha ricevuto da sua madre.
— Ebbene?
— Ella è morta.
— Imbecille! essa non è morta, perchè scrive.
— Oh signore, interruppe il paziente, è come fosse morta. Leggete piuttosto.
Mi porse la lettera, e la lessi ad alta voce lentamente, perocchè era scritta male e piena di errori d’ortografia, ma di uno stile e di una rassegnazione antica. Il povero diavolo che si era fatto decifrare quella triste notizia da uno scrivano della piazza, ripeteva meco ogni parola con un dolore tranquillo e profondo, e le sue lagrime continuavano a cadere. Ecco ciò che sua madre gli scriveva:
«Figlio mio, io vi scrivo queste righe per farvi sapere che ho ricevuto il viatico e l’estrema unzione. Affrettatevi di ritornar qua, affinchè vi veda ancora una volta prima di morire. Se tardaste troppo trovereste la casa vuota di me. Vi saluto teneramente e vi mando la mia benedizione materna.»
Che ne dite? Ma io non credo che le eroine dell’antica Roma avrebbero avuto maggior coraggio dinanzi alla morte! E non crediate già che questo coraggio sia eccezionale, chè i Romani ravvisano la morte naturale come un debito da pagare; essi non amano tutto ciò che può anticiparne la scadenza. Dicono con una ingenuità assai originale: Io non voglio bagnarmi nel fiume, vi si annega; io non voglio montar a cavallo, si cade; io non voglio andar alla guerra, vi si ricevono delle palle. Ma allorquando la vecchiaja o le malattie fanno loro segno di partire, essi hanno ben presto chiuso la loro borsa da viaggio. Vi racconterò in proposito delle cose curiose, quando saremo al capitolo della morte, e vedrete che vi sono delle buone lezioni da prendere in questo paese.
[68]
Ho restituito al mio contadino la lettera di sua madre sdrucciolandogli nelle mani uno scudo; ei non ha pensato nemmeno a dirmi grazie, e si è rimesso a considerare attraverso le lagrime quel doloroso scritto che non sapeva leggere.
Allorchè il cannone del castello di Sant’Angelo ha suonato mezzogiorno, gli angoli della piazza Montanara erano ingombri di gente che dormiva. Ogni famiglia forma un mucchio di cenci magnifici, ove un pittore trova sempre da copiare. I barbieri e gli scrivani pubblici incominciano ad incrociarsi le braccia, le taverne delle vicinanze si vuotano; i fornaj, che aveano sempre avuto folla tutta la mattina, si spopolano, e finalmente si fa un po’ di silenzio dopo tanto rumore. Ma se un prete viene a passare col corteggio che accompagna il viatico, tutti quelli che dormono si svegliano di soprassalto, e col cappello in mano si mettono in ginocchio.
Ho abbandonato la piazza Montanara per fare una visita al Ghetto, ma non chiedetemi quale strada abbia preso. Vi ho avvertito che io non sapevo mai la mia strada. Mi pare che la piazza Farnese sia piuttosto vicina alla cancelleria, ove cadde il povero conte Rossi. Credo esser sicuro che la piazza Montanara è all’incirca a piedi della Rocca Tarpeja; il Ghetto costeggia il Tevere in qualche parte; vi sono poche contrade diritte in Roma, tranne fra il Corso e la piazza di Spagna. Tutti i rettifili sono a zig-zag, e bisognerebbe demolire metà della città per tracciarvi una strada di Rivoli. Il Tevere che non ha sponde abitate serpeggia sì capricciosamente che lo s’incontra dappertutto. Si scorge la sua acqua gialla, qui attraverso una porta, là nel vano di una finestra. Voi credete d’avergli volto la schiena! tutt’altro, egli è là davanti a voi. Cercate una barca, o un ponte, e troverete l’una e l’altro.
Mercè il sistema ch’io pratico, impiego spesso una mezza giornata a scoprire la casa ove ho a fare, ma gl’incontri nella strada compensano il tempo perduto. Ciò che fa di Roma la città più amabile del mondo, e la migliore da abitare, è che vi si trova sempre del nuovo. I vecchi di cento anni che non [69] ne sono giammai usciti vi fanno delle scoperte alla loro porta. La complicazione delle strade, il mistero dei quartieri aggiungono ad ogni scoperta il prestigio dell’improvviso. Io comincio a gustare questa leccornia romana che si chiama l’incerto. L’incertezza è qui la gran molla degli uomini; quanti ve ne sono che non agiscono che nella speranza dell’incerto! Un domestico preferisce lasciar diffalcare cento franchi dal suo salario di un anno anzichè rinunziare ai quaranta o cinquanta franchi di buona mano che compongono l’incerto delle sue rendite. Un cocchiere non vi conduce già per i quaranta soldi della corsa, ma per i cinque o sei soldi di mancia che non è certo di ottenere. Che cos’è la lotteria se non il tempio dell’incerto? allorchè vengo accostato nelle strade di Roma, io sono quasi sempre nel caso di rispondere come Esopo: «Non so dove vado.» Però io non manco mai d’andare al Ghetto perchè lo sento da lontano.
Prima d’ingolfarmi nelle sue strade e nei suoi odori, ho cura di far colazione. È un’operazione non tanto facile a Roma per mancanza di trattorie. Vi sono bensì le tables d’hôte dei grandi alberghi e tre confetturieri, che danno da mangiare quando a loro piace; ma tutti si trovano intorno alla piazza di Spagna, ed io ne sono ben lontano. Per bacco, dissi fra me stesso, postochè sono nella plebe fino al collo, asciolverò alla plebea, e la prima bottega di frittura sarà il mio trattore. Trovai bentosto quanto mi abbisognava. Alla svolta della strada, una gran bottega ai quattro venti offriva alla mia scelta dieci montagne dorate in gran piatti di rame stagnato, coperti d’inscrizioni gotiche. In una padella enorme bolliva a due passi la mercanzia; era calda e crocante. Presi una michetta dal fornajo vicino, un bicchiere di limonata alla fontana la più prossima; dei pesci fritti, dei carcioffi fritti e delle frittelle, mi composero un pasto delizioso. Non ho forse mai meglio asciolto a Roma, perchè la frittura si fa nell’olio, senz’alcuna mistura di quel burro forte che avvelena tutto. O magnifici armenti della campagna romana, grandi vacche bianche ombreggiate di grigio, qual burro si fabbrica col vostro latte! Le cuoche di Parigi dicono che gli spinacci sono la morte del burro; a Roma, è il burro che è la morte degli spinacci!
[70]
Io avevo lavato le mani alla fontana e le asciugavo al sole, allorchè un mormorio di voci nasali attrasse la mia attenzione. Mi lasciai guidare dal romore, e giunsi in breve davanti ad una di quelle innumerevoli madonne, che la divozione dei Romani ha Incastrato in tutte le muraglie. Quattro uomini del popolo, tre vecchi ed uno giovane, in ginocchio nella polvere, col naso rivolto verso il muro, baciavano divotamente le litanie della Vergine. È qui che il rispetto umano non molesta alcuno, e che le anime cristiane si curano poco dei pettegolezzi della gente[3].
Un po’ più lontano trovai la strada inondata nel mezzo. Due manovali lavoravano ad una pompa per tirar l’acqua da una cantina. Le inondazioni sono altrettanto frequenti a Roma quanto son rari gl’incendj. Le case non bruciano quasi mai, perchè gli appartamenti sono grandi e poco ammobigliati e perchè raramente vi si accende fuoco, fors’anche perchè il piano terreno è inumidito da quelli che passano. Il terreno sotto la città è attraversato in tutti i versi da migliaja d’acquedotti che alimentano le fontane private e pubbliche. Le montagne dei [71] dintorni mandano le loro limpide acque a Roma per la via più diretta e ciò fino dall’antichità, giacchè la sabbia liquida del Tevere non è mai stata potabile. L’acqua abbonda sì nelle proprietà private come sulle piazze pubbliche. Essa si presenta tal fiata in masse sì imponenti, che rende imagine di torrenti versati nei laghi, come alla fontana Paolina e alla fontana Trevi. Se Napoli è sur un Vulcano, Roma è su mille fiumi. Allorchè torno un po’ tardi all’Accademia, io non sento che il rumore dell’acqua in mezzo al più profondo silenzio; ma gli acquedotti sono soggetti a delle eruzioni, e quest’è il motivo per cui vi sono dei pompieri nella città.
Sono entrato nel Ghetto dalla piazza delle Sinagoghe; ve ne sono cinque installate in due case per i quattro riti in cui si divide la popolazione israelita. Noi abbiamo il rito italiano, il portoghese, il catalano ed il siciliano. Le sinagoghe sono pulite e modeste; le loro parrocchie sono sporche ch’è un orrore.
È certo che l’edilità pubblica lascia molto a desiderare nella capitale del mondo cristiano. Vi è troppo permesso di lordare nelle strade, e v’è troppo poca cura di spazzarle. Le finestre vi si aprono troppo spesso per lasciar cadere delle cose orribili; la quantità di pannilini che vi si fanno asciugare lungo le case ed i palazzi fanno credere agli stranieri che si entri nella capitale della lavanderia; ma questi sono gigli e rose, quando si ritorna dal Ghetto. Nella città cristiana la pioggia lava le strade, il sole dissecca le immondizie, il vento porta via la polvere, ma non vi è nè pioggia nè vento nè sole che possa nettare il Ghetto: abbisognerebbe per purificarlo un’inondazione o un incendio.
Avrete forse inteso parlare della smania di riproduzione che possede la razza romana: non s’incontra una donna che non abbia almeno un fanciullo sul braccio. Ma al Ghetto è tutt’altra cosa. I ragazzi vi nascono come i funghi ed ogni famiglia compone una tribù. Se devesi credere all’ultimo censimento, v’erano 4196 Ebrei in questa valle di fango. Vivono nella strada in piedi, seduti, coricati in mezzo ai cenci: bisogna ben guardare dinanzi a [72] sè per non commettere un infanticidio ad ogni passo. Il tipo è brutto, il colorito livido, la fisonomia degradata dalla miseria. Eppure questi disgraziati sono intelligenti, atti agli affari, rassegnati, facili a vivere e di costumi irreprensibili.
L’esistenza di una colonia di Ebrei, a pochi passi dalla sede apostolica, è un anomalia curiosa. Sarebbe più curioso ancora ch’essa avesse prosperato, ma ciò non è. Il Ghetto è povero, e vado a dirvi perchè è povero e lo sarà sempre. Un ebreo non può essere nè possidente, nè affittajuolo, nè industriale; può vendere della roba nuova e della roba vecchia; gli è permesso di accomodare la vecchia per farne della nuova. Ma violerebbe la legge, se fabbricasse una sedia, un gilet ed un pajo di scarpe. Rinchiusi nel loro commercio gli Ebrei riescono qualche volta a far fortuna, ma emigrano subito verso un paese ove le leggi siano più dolci, ed un popolo che li disprezzi meno. Essi trasportano i loro beni a Livorno: di mano in mano che i privati s’arricchiscono, il Ghetto s’impoverisce.
Non è già che il governo sia crudele e nemmeno severo. La severità sta nelle leggi antichissime che il progresso dei costumi e la bontà del papa correggono un poco tutti i giorni. Il sangue degli Ebrei non è scorso a Roma durante il medio evo, allorchè inondava la Spagna e le sue provincie. Il papato conservava gli Ebrei come saggio di un popolo maledetto, che deve trascinare una vita miserabile fino alla consumazione dei secoli; si limitava a tenerli ad una certa distanza, ad umiliarli e spogliarli. Si rinchiudevano nella valle Egeria a più di due miglia dalla porta San Lorenzo, a più d’una lega dalla città abitata. Era ben lontano; verso il quattordicesimo secolo, si mitigò tal rigore e fu loro permesso di abitare il Trastevere. Fra il 1555 e il 1559 fecero un nuovo passo. Paolo IV gli stabilì al Ghetto. Le porte della loro prigione si chiudevano tutte le sere, alle dieci e mezzo in estate, ed alle nove e mezzo nell’inverno. Se qualcuno ritornava dopo l’ora, non era mai senza pagare la compiacenza del soldato di guardia. I proprietarj delle case che abitavano erano cattolici ferventi oppure comunità religiose, che ritenevano fare un’opera pia scorticandoli senza pietà. Quest’abuso [73] eccitò la compassione d’Urbano VIII, che credette fare un atto di giustizia e di previdenza fissando una volta per sempre i prezzi delle pigioni. Tale casa sarà affittata dieci scudi, tal’altra quindici, mediante un’investitura di enfiteusi perpetua trasmissibile alla più remota posterità; e mediante dieci scudi il proprietario sarebbe tenuto a far eseguire tutte le riparazioni necessarie. Urbano VIII è morto or sono duecento trentaquattro anni, e la sua bolla imprudente ha sempre forza di legge. Ne consegue che le pigioni sono aumentate in tutto l’universo, fuorchè nel Ghetto. Gl’inquilini israeliti vivono letteralmente a spese dei loro padroni di casa. Me ne fu mostrato uno che è mantenuto da un convento di Orsoline. Ha in affitto per trenta scudi una casa delle più grandi e delle più adatte per commercio; ei la subaffitta quindici volte tanto, vale a dire quattro cento cinquanta scudi. E siccome il fabbricato non è nuovo, così le Orsoline devono spendere tutti gli anni cento scudi in riparazioni. Esse sono ridotte a procedere giudizialmente contro un inquilino sì oneroso, affinchè si accontenti di tenere a pigione la casa per niente senza pagar fitto, ma senza pretendere le riparazioni. Il mio Ebreo si difende come un diavolo; la sua investitura è il patrimonio dei suoi figli, la dote di sua figlia!
Dal 1847 in poi le porte del Ghetto sono demolite, ed alcuna barriera visibile non separa più gli Ebrei dai Cristiani. Essi sono autorizzati dalla legge, se non dai costumi, a spargersi nella città, e ad alloggiare ove loro piace. Taluni si lamentano vedendo che i proprietarj de’ bei quartieri non vogliono o non osano dar loro a pigione; si lagnano di essere costretti a restituire in secreto le libertà che furono loro accordate in pubblico: essi accusano il governo pontificio di rimpiangere troppo vivamente i beneficj del 1847. Essi domandano il ristabilimento di quelle porte che li rendevano interessanti, assicurando la loro tranquillità per tutta la notte. I più saggi d’Israello prendono filosoficamente il loro partito, godono della semi-gratuità delle pigioni, della modicità delle imposte, dei beneficj d’un alto protettore straniero che introduce qualche articolo secreto in loro favore in tutti i trattati di finanza; essi si sovvengono in fine che, se il purgatorio è a Roma, il paradiso è a Livorno.
[74]
Egli è ancora sotto il regno di Pio IX che Israello ha cessato di fare le spese del carnevale. Nel medio evo lo pagava colla propria persona; la municipalità dava al popolo lo spettacolo di una corsa di Ebrei. Benedetto XIV vi surrogò de’ cavalli liberi che corrono meglio senza confronto; ma tal cambiamento costò ottocento scudi all’anno al popolo ebreo. I principali del popolo andavano a portare la somma in gran cerimonia a casa del Senatore che li riceveva senza complimenti.
— Chi siete voi?
— Ebrei di Roma.
— Non vi conosco; andatevene! A questo discorso così affabile il primo magistrato municipale aggiungeva inoltre, dieci anni sono, un gesto co’ piedi.
— L’ambasciata così allontanata, se ne andava da uno dei conservatori della città. «Chi siete voi?»
— Ebrei di Roma.
— Che cosa domandate?
— Noi imploriamo umilmente da Vostra Signoria il favore di dimorare qui ancora per un anno.
Si accordava loro la permissione, condita da alcune ingiurie, e in segno di riconoscenza essi offrivano i loro ottocento scudi che si degnava di prendere. Il sovrano gli ha affrancati dalla spesa e dall’umiliazione.
Eccone un’altra, da cui non sono ancora esentuati. All’avvenimento di ogni papa, i deputati del popolo ebreo si collocano sul passaggio del santo padre vicino all’arco di Tito. Il papa domanda loro che cosa fanno là. Essi presentano una Bibbia dicendo «Noi chiediamo la grazia di offrire a Vostra Santità un esemplare della nostra legge». Il papa accetta dicendo: «Legge eccellente, stirpe detestabile».
Vedrete all’ingresso del Ghetto, in capo al ponte delle quattro Teste, una chiesetta dove gli Ebrei erano costretti di venire, ogni sabbato dopo pranzo, in numero di cento cinquanta. Un predicatore, pagato da essi, regalava loro una buona diatriba contro la loro ostinazione. I centocinquanta uditori erano puntuali, ed a ragione, perchè la loro comunità avrebbe dovuto pagare uno scudo [75] per ogni testa assente. Un vecchio ebreo di mia conoscenza dicevami jeri: «Per venticinque anni, signore, non ho mancato una volta al sermone». Ma questo popolo ha dura cervice, nè lo si può costringere a conversione. Pio IX ha dispensato gli Ebrei dall’omelia, e la chiesuola è diventata deserta; si è tentato di farvi predicare l’abbate Ratisbonne, ma nessuno volle andarvi a sentirlo.
Eppure ogni anno, al sabbato santo, si fa una conversione. Il battistero di Costantino si spalanca a due battenti dinanzi ad una vecchia ebrea, che guadagna ottanta scudi ed il paradiso. Il popolo di Roma però non presta troppa fede alla sincerità dei catecumeni: «È adesso, egli dice, che gli Ebrei si fanno Turchi».
Riepilogando, gli Ebrei di Roma non sono più nè racchiusi di notte, nè multati nel carnevale, nè catechizzati loro malgrado, e cotesto triplice beneficio lo debbono a Pio IX: sono amministrati dai loro notabili ed invigilati dai loro rabbini. Se alcuno di essi manca alla legge del sabbato, il cardinal vicario lo condanna, è bensì vero, alle galere, ma a norma di richiesta del rabbino. Nelle inondazioni del Tevere la municipalità romana fa loro portar de’ viveri, ed usa loro l’attenzione delicata di mandar loro vivande apprestate a norma del rito ebraico. Nè si dimentichi che buon numero di essi sono alimentati dai proprietarj delle loro case. Pagano per tassa generale 450 scudi da cinque franchi, i quali, ripartiti fra circa 4500 persone, formano qualche cosa più di 50 centesimi per testa. La contribuzione non è grave; eppure dopo il 1848 rifiutano di pagare anche questa.
L’origine di questo balzello merita d’essere fatta conoscere. Due o tre secoli fa, un ebreo si convertì, entrò nel convento de’ neofiti e nel silenzio della sua cella scrisse un libello contro i proprj correligionarj, accusandoli, fra l’altre cose, di mangiare dei bambini. Ora questo suo zelo fu ricompensato, imponendosi al Ghetto di pagare 450 scudi di rendita allo scrittore che sì bene gli aveva dipinti. Il Ghetto pagò, e la rendita del monaco, com’è naturale, fu devoluta al tesoro del convento. Ma il neofito, che non era eterno, venne a morire; onde il convento, che aveva goduto [76] quella somma, e l’aveva trovata vantaggiosa, non volle rinunciarvi. «È forse colpa nostra, dissero i frati, se il nostro confratello è morto? Noi l’abbiamo assistito per bene. Questo reddito era sua sostanza, e noi siamo i suoi eredi. E poi gli Ebrei hanno preso l’abitudine di pagare questi 450 scudi all’anno, e Roma è una città d’abitudine».
Attualmente gli Ebrei pretendono che, non avendo pagato nel 1848, ne hanno perduto ad un tratto l’abitudine, e per nulla al mondo s’indurrebbero a ripigliarla. Dopo lunghe contestazioni tra essi ed il convento, il papa finalmente permise loro di liberarsi del passato e dell’avvenire mediante un quarto della somma reclamata; ma gli Ebrei fanno il sordo, e preferirebbero non pagar nulla affatto.
Se accettano le condizioni loro offerte, saranno in progresso esenti da ogni tassa, al pari de’ gentiluomini.
Saranno forse più felici? Chi lo sa? Ho riferito in buona fede tutto quanto Pio IX aveva fatto in loro vantaggio, ma non posso dissimulare che la popolazione Israelita va rapidamente decrescendo negli Stati della Chiesa. Essa era, nel 1842, di 12700 persone sotto il rigido Gregorio XVI. Undici anni dopo, nel 1853, sotto il paterno regno di Pio IX, era diminuita di più d’un quarto, e caduta sotto la cifra di 9237 anime.
Cotesta spaventosa diminuzione d’una stirpe naturalmente feconda non può spiegarsi altrimenti che per l’emigrazione. Ho dimandato notizie, e venni chiarito, che difatti gli Ebrei disertavano gli Stati del papa appena che potevano ottenere un passaporto e pagare il viaggio.
Gli sciagurati non vollero, o piuttosto non osarono dirmi qual fosse la causa che gli scacciava. I più coraggiosi mi supplicarono di non scrivere nulla in loro favore, se non volevo aggravare i mali onde sono travagliati. In somma credetti d’aver compreso, che la tolleranza del governo attuale era unicamente alla superficie, ed ecco un fatto che convalida la mia ipotesi. Un ebreo di Roma campava la vita coltivando la terra. Per violare la legge in modo sì flagrante aveva bisogno d’un complice, onde trovò un cristiano, il quale, mediante un premio, consentì di prestargli [77] il proprio nome. Ma la canaglia delle vicine terre non istette lungo tempo ad ignorare che le messi appartenevano ad un ebreo, onde si pose a saccheggiarle; ed in quello spoglio del frumento e grano turco dell’ebreo ciascuno credeva far opera meritoria. Il derubato non osava nè lamentarsi, nè difendersi; ma ben a proposito si risovvenne che i Francesi erano in Roma, e che esercitavano certa autorità. Ricorse dunque al generale Goyon per ottenere il favore di far giurare una guardia, che all’occorrenza avesse a stendere il processo verbale.
Il conte Goyon, a parte la politica, è un uomo eccellente. Ebbe pietà di quell’ebreo, e promise di ottenere ciò che dimandava. Anzi fece di più: andò in persona dal cardinal Antonelli.
Questi non dissimulò ch’era cosa mostruosa il far prestare giuramento ad un cristiano nell’interesse d’un ebreo. Però, siccome non si poteva rifiutar nulla al più saldo appoggio della santa Sede, così fu promesso non solamente di dare una guardia giurata, ma ben anche di sceglierla.
Si prese tempo per fare la scelta; un po’ di tempo, circa un trimestre. Il saccheggio intanto continuava, l’ebreo non osava più dir parola, ed il generale, persuaso d’aver fatto una buona azione, dormiva pacifico. Un bel mattino, una voce timida venne a svegliarlo; dicendogli che non s’era fatto nulla. Partì rapidamente, e corse di nuovo al Vaticano. L’autorità, messa alle strette, non osò più resistere, accordò la guardia promessa; e la nomina fu fatta a tamburo battente. Il generale Goyon la recò egli stesso, e la consegnò vittoriosamente al proprio protetto.
L’ebreo proruppe in ringraziamenti, siccome Mosè al capitolo XV dell’Esodo. Mancò poco che non bagnasse di lagrime il nome benedetto della guardia che gli si dava. Ma era il nome d’una persona ignota, scomparsa già da sei anni, e di cui non si aveva più traccia.
Che potevasi fare? Tornar dal generale? Lagnarsi una terza volta? Dimostrare ad un galantuomo, ad un personaggio rispettabile, che le autorità romane si erano corbellate di lui? L’ebreo vi pensò veramente. Ma la polizia, che non dorme giammai, gli ordinava di rimanere in casa sua, di vivere in pace e contento, sotto minaccia delle pene più severe.
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Quando per avventura i nostri ufficiali l’incontravano, gli dicevano: «Or bene, voi avete quanto vi occorre. Le vostre messi sono poste al sicuro. Siete in debito d’una grazia all’esercito francese!» Ed egli ringraziava prudentemente, sorrideva per necessità, e se ne andava a piangere in disparte.
Non voglio qui ripetere la storia del fanciullo Mortara. Essa dimostra che gli uomini più esercitati a dare lo spettacolo della tolleranza dimenticano qualche volta la loro parte.
Il fatto del signor Padova, meno conosciuto, meritava non minore celebrità. Sebbene l’abbia già narrato molto tempo fa, non posso trascurare quest’occasione per ripeterlo.
Il signor Padova, negoziante israelita di Cento, provincia di Ferrara, aveva moglie e due figli. Un commesso cattolico sedusse la signora Padova; ma, sorpreso e scacciato dal padrone, fuggissene a Bologna, dove l’adultera lo raggiunse, traendo con sè i due figli.
Il marito corse a Bologna, e chiese che gli si rendessero almeno i proprj figli. L’autorità gli rispose che i suoi figli erano battezzati, non meno che la madre loro, e che perciò eravi un abisso tra lui e la sua famiglia. Tuttavia gli venne accordato il diritto di pagare una pensione, colla quale vissero tutti, compreso l’amante della signora Padova. Alcuni mesi più tardi egli potè assistere al matrimonio della sua legittima consorte col commesso che l’aveva sedotta. Chi benediceva le nozze officiando era nientemeno che S. Em. il cardinal Oppizzoni, arcivescovo di Bologna.
Mi fu riferita la storia d’un ebreo che dalla sua religione seppe ricavare il più singolar beneficio. Aveva commesso un delitto, quasi inaudito presso gli Ebrei de’ tempi nostri, aveva cioè assassinato, e la vittima era suo cognato. La cosa era evidente, ed il fatto comprovato. Ora ecco la ragione di difesa che venne impiegata dal suo avvocato:
«Signori, d’onde procede che la legge punisce severamente gli uccisori, e va talora fino a colpirli colla morte? Egli è che, [79] assassinando un cristiano, se ne ammazza in pari tempo e il corpo e l’anima. Si manda al cospetto del giudice supremo una creatura non bene preparata, che non si è peranco confessata dei suoi falli, che non ne ha quindi ricevuta l’assoluzione, e che precipita diritta in inferno, od almeno in purgatorio. Ed ecco perchè l’uccisione d’un cristiano non è mai soverchiamente punita. Ma che abbiamo noi ucciso? Null’altro, o signori, che un miserabile ebreo, già predestinato alla dannazione. Se anche gli fossero stati concessi cento anni per convertirsi, abbastanza è nota l’ostinazione della sua stirpe, egli sarebbe morto senza confessione come una bestia. Abbiamo pur troppo, ne convengo, anticipato d’alcuni anni la scadenza della giustizia celeste; abbiamo per ciò affrettato un’eternità di pene, che presto o tardi non gli poteva mancare; ma via, siate indulgenti per una colpa veniale, e riserbate la vostra severità per coloro che attentano alla vita ed alla salute d’un cristiano».
Cotesta perorazione sarebbe assurda e ridicola a Parigi; ma era logica a Roma, dove il reo potè trarsi d’impaccio con alcuni mesi di carcere.
Gli Ebrei sono tollerati in parecchie città dello Stato romano ed in alcuni villaggi. Abitano in Roma, Ancona, Ferrara, Pesaro, Sinigaglia. È in Roma che sono trattati con maggior dolcezza; mentre in Ancona, nell’anno passato, fu rimessa in vigore dal delegato un’antica legge che proibisce ai cristiani di conversare in pubblico cogli Ebrei.
Il popolo minuto li disprezza, ma non gli odia. Ho veduto un ragazzo di quindici anni accostarsi ad un vecchio ebreo, dargli un colpo sul cappello, sicchè glielo cacciò fino sugli occhi, ma non gli avrebbe fatto alcun male. Ho inteso un contadino dire ad un ebreo: «Voi altri siete ben fortunati; voi non temete la morte di apoplessia (senza confessione), poichè non avete, come noi, un’anima da salvare».
I frati, i preti, e generalmente tutto il clero inferiore, circolano nel Ghetto senza ostensibile ripugnanza; ma il papa, i cardinali, i vescovi ed i semplici monsignori sono esclusi da questo luogo impuro, chè degenererebbero dalla loro casta ponendovi il piede.
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Però gli ecclesiastici romani pongono molta differenza fra gli Ebrei ed i Protestanti: se pei primi hanno un po’ di disprezzo, nutrono contro gli altri un odio implacabile. E n’è causa, che gli Ebrei sono i vinti, ed i Protestanti sono i ribelli. La Chiesa non ha dimenticato quel gran principio di politica romana, che Virgilio aveva condensato in un solo verso, di cui il concetto è risparmiare i vinti, e debellare i superbi.
Permettetemi di citare un fatto all’appoggio del mio asserto. Un israelita di Parigi, che era venuto a vedere la settimana santa, aveva preso alloggio in una casa privata. Alcuni giorni dopo Pasqua, ricevette la visita d’uno dei preti incaricati di raccogliere i viglietti di confessione e di denunciare alla giustizia chiunque avesse violato il comando della Chiesa. «Perdonate, signore, rispose l’Ebreo aprendo la sua porta, io non sono cristiano.
— È Luterano il signore? chiese il prete con più civiltà che tenerezza.
— No, signore; Israelita.
— Ebbene! meno male».
Egli è certo che gli Ebrei, per grande che sia la loro fortuna, conservano al cospetto della santa sede un’attitudine rispettosa; nè mai le prestano denaro senza domandarle perdono della gran libertà che si prendono. Per lo contrario i Protestanti fanno un po’ ostentazione della loro eresia. Vi è sempre a Pasqua, nella cappella Sistina, qualche inglese di gigantesca statura, che se ne sta ritto sulle sue gambe in mezzo alla folla inginocchiata. Lo si potrebbe inutilmente sradicare, chè ripullulerebbe l’anno appresso.
Ma rientriamo in Ghetto. Questa finestrella, al terzo piano d’una casa orribile, in una delle vie più luride del quartiere, è celebre nelle scherzose tradizioni dell’Accademia di Francia. È costume che i nuovi pensionisti paghino il loro buon ingresso con una giornata di grandi noje e di mistificazioni talora un po’ forti. Si narra che un giovane compositore israelita fu avvertito arrivando che avrebbe ad alloggiare al Ghetto. «Tu potrai [81] mangiar qui, gli fu detto, poichè noi siamo in un luogo d’asilo; ma bisogna dormire in mezzo al tuo popolo: su questo proposito la legge romana è inesorabile!» Ei pranzò coi camerati, e dopo le frutta fu condotto nell’appartamento che era stato preso a nolo per esso. I mobili erano stati scelti appositamente per far orrore all’uomo meno dilicato; se il letto posava su tre piedi, era già di soverchio. L’albergatrice era distinta pel sucidume più ributtante; però promise al giovane inquilino che lo avrebbe curato siccome un figlio ed avrebbe per esso mille riguardi. È appunto in questa prospettiva, dicesi, ch’ei si coricò; e la notte fu sì cattiva, che il giorno appresso ei parlava di ritornare in Francia. Lo scherzo però non fu spinto più in là, onde il giovane rientrò all’Accademia, nella sua stanza legittima, e non vi perdette il tempo. Ma chi sa, se in progresso, quand’egli scrisse la bella partizione della Giudea, le memorie del Ghetto non gli siano ritornate in mente?
Gli abitanti del Ghetto fanno tutto in istrada, come già si è detto: forse perchè le loro case non sono sicure. Ciò che ho veduto del loro interno non mi ha inspirato nessun desiderio di penetrarvi. Mi terrò pago d’attraversare il quartiere in tutti i sensi, ed ecco in qual modo m’inizio alle costumanze di questa popolazione. Nella settimana li veggo vendere e comprare, lavorare pazientemente colle loro mani, mangiar poco e male. Il regime vegetale cui sono condannati dalla miseria, aggiunto alla rarità dell’aria respirabile, impoverisce il loro sangue, e fa deperire la loro salute. Benchè vicini al Tevere, essi vanno soggetti alla febbre meno che gli abitanti de’ paesi più elevati; poichè non è già l’acqua del fiume, ma sibbene i miasmi della campagna apportati dal vento che avvelenano i Romani. Al sabbato cotesti poveri Ebrei si vestono con abiti festivi per invadere le sinagoghe. Jeri, ch’era domenica, trattarono affari fino a tre o quattro ore dopo mezzodì; ma ben presto le botteghe semiaperte si rinchiusero per intero; il popolo prese la sua ricreazione. Ho trovato nell’angolo d’ogni via una tavola circondata da dieci a dodici persone de’ due sessi, con un giuoco di tarocchi nel mezzo. Non sono abbastanza scienziato per penetrare [82] il mistero di queste carte da zingari, cui il popolo minuto di Spagna e d’Italia correntemente sa spiegare. Ciò che ho osservato si è che non v’era denaro sui tavoli, e che nullostante insorgevano litigi ad ogni tratto.
Credetti un momento che nascesse un parapiglia generale a proposito d’un asso di spade o d’un sette di bastoni. Uno dei giuocatori gettò in viso al suo avversario le carte di tarocchi; l’altro rispose gettandogli il gesso di cui si serviva per segnare i punti. Le donne s’intromisero fra i combattenti, ma non si potè impedire che si pigliassero pei capelli. Tutta la contrada prese parte bentosto alla baruffa, ciascuno parteggiando pei proprj parenti, ed in un batter d’occhi quelli de’ quartieri vicini affluirono sul campo di battaglia. I disputanti si scagliarono ingiurie in un dialetto per me inintelligibile, e gli Italiani, attirati dal rumore, non vi comprendevano gran cosa. Tuttavia in capo ad un quarto d’ora tutto ritornò in calma, e poscia seppi che tutto questo tumulto erasi suscitato per mezzo soldo. Non ridete della somma: conosco un professore di mandolino, che diede diciassette coltellate al suo miglior amico per una discussione di cinquanta centesimi.
Mi allontanai colla testa sbalordita. In vita mia non aveva mai inteso tanto fracasso, tranne forse all’uscita del teatro di Pera, quando la popolazione delle strade si abbandona a lotte urlanti co’ morsi. Ma quelle battaglie notturne di Costantinopoli non sono d’uomini.
La mia giornata doveva finire al Transtevere, nel quartiere più romano di Roma. La popolazione che abita al di là del Tevere è senza dubbio la più maschia, la più fiera, la più ombrosa e la più onesta della città. È anche la più bella e la più pittorica: e non s’è detto nulla d’esagerato in sua lode. I Transteverini hanno senza dubbio lo spirito meno pronto e meno agile degli abitanti dei monti, ma posseggono maggior lealtà e coraggio.
Mi sono smarrito per istrada, ed invece d’arrivare al Ponte Rotto, che m’avrebbe condotto nel cuore del Transtevere, mi ritrovai in mezzo ai magazzini di fieno ed alle chiese che circondano la Bocca di Verità. Que’ magazzini erano nel loro migliore [83] aspetto: quaranta carri simili a montagne quadrate arrivavano in fila, tratti da’ buoi. Sotto l’ultimo carro vedevasi il buon Sant’Antonio, protettore degli animali. Non ho veduto nulla di più sano, di più bello e di più odoroso che questi fieni della campagna di Roma, e non è scarso piacere l’incontrare in seno ad una grande città i lavori, i costumi e gli odori delle campagne. Quando Roma non sarà più la prima città del mondo, sarà ancora il villaggio più pittorico dell’universo.
Cotesta Bocca di Verità, che ho testè nominato, è una curiosa reliquia del medio evo, serviva ai giudizj di Dio. Figuratevi una ruota di mulino che somiglia ad un viso di luna: vi si distinguono degli occhi, un naso ed una bocca aperta, dove l’accusato poneva la mano per prestare giuramento. Questa bocca mordeva i mentitori, almeno per quanto la tradizione l’attesta. Vi ho introdotto la mia destra, dicendo che il Ghetto era un luogo di delizie, e non sono stato morsicato.
È presso la Bocca di Verità, dinanzi il piccolo tempio di Vesta, non lontano dalla Fortuna Virile, che la giustizia romana manda al patibolo un assassino sopra cento. Quand’io giunsi sulla piazza, non vi si ghigliottinava nessuno; ma sei cuciniere, di cui una bella al pari di Giunone, danzavano la tarantella al suono d’un tamburo da banda. Per mia sfortuna esse indovinarono ch’io era straniero, e si misero a fare la polka contro tempo. Fuggii quindi a tutte gambe, e caddi sul ponte che andava cercando.
Il Ponte Rotto è un’opera antica, di cui il Tevere portò via ben due terzi, e che Pio IX provvisoriamente fece riparare. Un parapetto di legno, sospeso a fili di ferro, lo congiunge alla sponda sinistra. Si può fermarsi qualche minuto su quel tremulo impalcato, che la vista è bella non meno che sul ponte dell’Instituto. Il sole si nasconde all’in su del fiume dietro la cupola di San Pietro, mentre gli obliqui suoi raggi si riflettono [84] sull’acqua del fiume che si fa color d’oro. L’isola sacra si disegna siccome nave fra due ponti che l’uniscono alla città. Aveva altre volte la forma ed il colore d’una galleria di marmo; ma i suoi ornamenti se ne sono iti, non so dove. Le case elevate che fiancheggiano il Tevere sono tappezzate di fichi e di ellera, ovvero sono cinte da terrazze di limoni in fioritura. Dall’altro lato, scendendo il fiume, vedete a sinistra l’enorme bocca della cloaca di Tarquinio: più in su, la graziosa rotonda di Vesta; più in alto ancora, i conventi, i giardini e le pergole che incoronano il monte Aventino. A dritta, il Trastevere, che osserverete più davvicino, se mi fate l’onore di venire a pranzo da me.
Non temete nulla, che non mangeremo troppo male, e non saremo mangiati. Nella sera si darà forse più d’una coltellata, poichè è giorno festivo; ma noi godremo dello spettacolo senza correre alcun rischio. Vedete uomini robusti come tori e non meno irascibili, che scagliano un pugno colla facilità con che da noi si tracanna un bicchiere d’acqua, e che nol danno mai senza avere una lama in mano. La polizia non verrà intorno a noi per proteggervi, chè essa è sempre assente. D’altronde se offendeste uno di que’ robusti bravacci, ei vi ammazzerebbe anche tra le braccia de’ gendarmi. Ma voi potete andare e venire in mezzo a loro, spender molto, pagar in oro, far risuonare la vostra borsa, ed escire dopo mezza notte nelle vie più oscure, senza timore che venga in mente ad alcuno d’attentare al vostro danaro. Anzi, può dirsi meglio: questa gente vi accoglierebbe volentieri e si ristringerebbe per farvi posto. Non ci osserverebbe come bestie curiose, si presterebbe anzi molto cortesemente alla nostra curiosità, purchè non sia impertinente. Non abbiamo a temere che il vicino gli ecciti a provocarsi a liti, ma guaj a noi, se per disgrazia ci facciamo noi a provocarle! Non hanno il vino aggressivo, ma lo hanno suscettibile. Il loro amor proprio di osteria non perdona un’offesa nemmeno involontaria, se questa ha potuto esporli alle burle de’ loro compagni. Quando vedrete una donna col proprio marito, od una fanciulla col padre, tenete gli occhi a casa vostra! È spesso imprudente l’osservare le Transteverine di sottecchi, e potrei citare più d’un curioso, che ebbe a pagarlo colla vita. Entriamo? Esitate? Ebbene, addio; entro soletto.
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Però non prima d’aver letto quel piccolo cartello che sta inchiodato sulla porta:
«Fratelli dilettissimi, astenetevi dalle bestemmie e pensate:
«1.º Che Dio vi vede;
«2.º Che Dio vi giudicherà su tutte le vostre parole, e specialmente sulle bestemmie;
«3.º Che Dio è capace di castigare col fuoco questa lingua, che vi è stata data per benedirlo e non per offenderlo.»
Il cartello poteva aggiungere senza mentire, che in questo mondo la bestemmia è talora punita più severamente che non l’assassinio. In un villaggio delle vicinanze di Roma, due contadini hanno peccato in un medesimo giorno. Uno ha scagliato una maledizione contro la Madonna, l’altro ha avvelenato sua madre: il tribunale condannolli entrambi alle galere, ma il parricida ha scontato la sua pena, ed al bestemmiatore rimangono ancora degli anni.
Ho trovato l’osteria affollata, chè essa è delle più celebri e più frequentate. Non vi si va solamente per bere, siccome ne’ piccoli siti d’egual natura, ma eziandio per mangiare. Anzi il padrone si spaccia per cuoco, e darebbe una buona coltellata nella pancia a colui che l’accusasse di lasciar bruciare le frittate. La sua clientela si compone di cocchieri e d’artisti calzolaj, artisti fonditori, artisti maniscalchi, artisti filatori di lana. Non vi sono operaj a Roma che non prendano il nome d’artista, lo che è considerato come un’ingiuria da pittori e scultori. L’ultimo copiatore di quadri, il minimo modellatore, il più cattivo suonatore di violino, andrebbe in collera e diventerebbe tutto rosso se gli diceste che è un grande artista. «Signore, direbbe seriamente, io sono professore!»
In questi ultimi giorni volevo far attaccare un bottone ad uno stivaletto. Feci chiamare la moglie di un domestico e le chiesi se si sentiva capace d’intraprendere un tal lavoro. «Io, mi rispose ella ringalluzzandosi, io sono figlia dell’arte: mio padre era calzolajo!»
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Gli artisti che vengono qui alla domenica, non vi compajono negli altri giorni della settimana. Essi si nascondono nei loro tugurj per bere dell’acqua e mangiare dell’insalata. Ma la domenica, quando hanno economizzato alcuni soldi, reputano ad onore di mostrarsi all’osteria e di provare all’universo che spendono del danaro. Essi ragionano all’incirca come i nostri giovinotti della Borsa, che vanno a pranzare una volta la settimana dal trattore il più caro dei boulevard, affinchè si vedano entrare ed uscire.
Mi sono seduto a capo di un banco dinanzi ad uno di que’ tavoloni massicci che circondano la gran sala. La bettola è selciata come la strada, e quasi altrettanto male scopata; i muri sono dipinti a traliccio senza alcuna decorazione. La cucina occupa una delle estremità della sala ed il guattero porta di tanto in tanto una fascina di canne per tener vivo il fuoco nella stufa. Due lampade a due becchi illuminano modestamente tutto il recinto, ed una terza arde dinanzi alla madonna.
Si sente poco rumore in questa assemblea di cinquanta a sessanta persone. I miei vicini a destra sono cinque giovinotti della stessa età che sembrano compagni di officina; il colore delle loro mani e certe tacche mi fanno supporre che lavorino in ferro. Quegli che si è ritirato per farmi sedere è certamente uno dei più begli uomini che si possano vedere qui; grande e ben fatto, dal volto lungo, l’occhio umido, la bocca piccola, le labbra rosse, il naso leggermente curvo, la barba fina come la peluria d’un cigno nero, rassomiglia piuttosto ad un tenore dell’opera che ad un garzone di fabbro. I suoi compagni non sono tutti della stessa stoffa, e vedo proprio in faccia a lui una figura di bull-dog, che non mi piace molto; ma un’allegria franca e tranquilla presiede al loro piccolo pasto. Il mio bel vicino mi ha presentato un bicchiere invitandomi a bere; vi ho immerso le labbra per provare che io conosceva gli usi di Transtevere, e che ero un uomo bene educato.
Alla mia sinistra la tavola vicina è occupata da gruppi svariati, che non posso discerner bene con una luce torbida e stretta parente della notte. Vedo bene due giuocatori seduti uno in faccia [87] all’altro; essi sono vestiti da carrettieri. Vi è un po’ di denaro al giuoco, forse tre o quattro scudi in moneta spicciola. Il più vecchio dei due avversarj non deve essere in vena, dacchè getta ogni carta sul tavolo con un colpo di pugno che lo fa traballare; l’altro guadagna senza ridere e senza parlare, e beve a centellini. Un po’ più lontano un mugnajo del Tevere, fatto come l’Ercole Farnese, cena lautamente con sua moglie e sua figlia. La madre è grossa e triviale, la figlia è bella, bianca come una Venere. I suoi capelli neri legati in grosse ciocche, sono tutto ciò che ha in testa. Le fanciulle di Roma, non portano nè berretto nè cappello; la natura le ha acconciate caldamente per l’inverno. La mia bella mugnaja in ricambio è un po’ sopraccaricata di gioje: soltanto colla sua collana e co’ suoi orecchini si pagherebbero i balzelli della repubblica di S. Marino. Un bel fazzolettino di merletto s’incrocia sul suo petto, è la moda di Trastevere. Ma la gonna è forse più gonfia che non si richiederebbe, la crinolina giunge in barca per guastarci il costume nazionale. È un piacere il vedere come la madre e la figlia vuotino un bicchier di vino che il padre ha empito fino all’orlo. I Romani allorchè escono dalle loro abitudini di sobrietà sono i più formidabili bevitori di tutt’Europa: vi sono poche Romane che non siano in caso di star a petto agli uomini. La Trasteverina la più vezzosa assorbirebbe la razione di dodici marinaj, e non vacillerebbe minimamente lasciando la tavola. È vero che hanno dei piedi, e che piedi!
Mi perdonerete se dopo questo primo colpo d’occhio intorno alla mia tavola, la mia attenzione si è concentrata un istante sulla cena che mi venne servita. Avevo corso tutto il giorno, avevo asciolto sui due piedi e nel vostro stesso interesse dovevo ristabilire le mie forze. Ventre affamato non ha più nè occhi nè orecchie, ed un osservatore a digiuno vi riferirebbe poche cose.
Dapprima mi s’imbandì l’insalata che è il fondamento d’ogni cena romana: poscia un pezzo di manzo stufato che vi farebbe venir l’acquolina in bocca, se potessi trovar della poesia nel suo odore e nella sua broda. Un gigot di capretto è venuto in seguito con un piatto di piselli. Il piatto di mezzo era composto d’una rotella [88] di formaggio dolce, fritto in padella, ed ebbi per frutta un gran piatto di fragole di Albano, squisite in verità. Ecco come si cena all’osteria per una quarantina di soldi; è vero che negli alberghi e nei pasticcieri la cucina è altrettanto cara quanto detestabile. Il vino a Roma non è buono in nessun sito, ma è ancora all’osteria ove si beve meglio. È alquanto chiaro, limpido, e color d’oro: lo si serve in bottiglie di vetro bianco leggiere come il soffio, e fragili come la virtù.
I miei vicini a destra avevano finito di cenare molto prima di me, ma siccome non avevano finito di bere, così il bel fabbro ha proposta una passatella; che è un giuoco proibito, ma nella città di Roma niente è permesso e si fa tutto. Ciascuno dei convitati ha dato quattro soldi e l’oste ha portato cinque fiaschi di vino in mezzo alla tavola. Ognuno il suo scotto è un motto romano che ho tradotto in francese. Si estrasse a sorte per sapere a chi toccasse tutto il vino pagato in comune, e quale dei cinque commensali sarebbe il padrone del vino. Ma nei pique-nique moderni la dignità reale degenera sovente in tirannia, e provoca delle rivoluzioni sanguinose. Il padrone del vino fu il mio vicino, il bel fabbro. I privilegi del suo grado consistevano primieramente in bere fino a sazietà, prima di darne una goccia agli altri; ed in secondo luogo a scegliere un ministro, che empirebbe ora un bicchiere ora un altro sempre a beneplacito del re, e non mai senza il suo consenso.
Pare che il nostro vicino dal muso di bull-dog non fosse molto in favore, mentre due volte porse il bicchiere per domandare da bere, due volte il ministro prese una bottiglia per versargli del vino, e due volte pure il principe leggiadro prese piacere a dire: «Ei non beverà». sono io che beverò, Ministro, amico mio. Eccellenza del mio cuore, ecco il bicchiere che bisogna empiere. E si rideva. Il bull-dog era il signore della trista figura. Aveva pagato, la gola gli pruriva, il vino gli passava sotto al naso, e i suoi amici si burlavano di lui.
Il vino fu ben presto esaurito ed il bull-dog che aveva da prendere la sua rivincita propose lui stesso una seconda passatella. Che io sia il padrone del vino! diss’egli al bel fabbro, e vedrai [89] se te ne do una goccia. — E che cosa m’importa! rispose l’altro ridendo sgangheratamente, tu vedi bene che non ho più sete. Sete o no, la sorte gli fu ancora favorevole, e la disposizione del vino gli toccò una seconda volta. Il bull-dog, mezzo serio, mezzo ridente, gli disse: abbiamo scherzato abbastanza! ci ho messo otto soldi della mia tasca, e spero che ora mi lascerai bere? È mestieri, replicò il mio bell’amico, accontentarsi di poco e talvolta di nulla. Sei tu cristiano, sì o no? esercitati dunque alla virtù della pazienza.
Siccome questi signori parlavano ad alta voce ed i loro vicini si scompisciavano dalle risa, così l’attenzione di tutta l’osteria si volse insensibilmente verso di loro. La bella mugnaja gettò un’occhiata sulla nostra tavola, senza chiedere il consenso dei suoi genitori. I nostri sguardi s’incontrarono due o tre volte, e credo anzi ch’essa mi sorridesse francamente con quella facilità delle fanciulle d’Italia, che si avrebbe gran torto d’interpretare sinistramente.
Il solo uomo che non avesse l’occhio alla passatella era il vecchio giuocatore della tavola vicina. La fortuna delle carte s’ostinava in apparenza contro di lui, perocchè dopo cinque o sei giuocate imprudenti a doppia posta, aveva messo al giuoco il suo orologio d’argento per perdere tutto o riguadagnar tutto. Prima di levare le carte, andò ad inginocchiarsi dinanzi alla Madonna dell’osteria, e la supplicò di restituirgli tutto ciò che avea perduto, con qualche piccolo guadagno, promettendo di dividere il dipiù con lei e di portare una grossa torcia di cera alla chiesa di S. Agostino. Intanto il suo avversario si faceva prudentemente il segno della santa croce, e borbottava senza moversi dal suo posto una contro-preghiera alla stessa Madonna. La partita fu animata, ed io la seguii con attenzione. Il vecchio carrettiere la perdette come tutte le altre. Si alzò da tavola, calcò il suo cappello sulla testa e ritornò a portarsi in faccia all’imagine che aveva adorata. Io credeva che si mettesse ad ingiuriare la Madonna, ma qualche cosa lo trattenne e fece piombare tutta la sua collera sul divino infante che essa portava nelle braccia. «Miserabile bambino, gli gridò, ben fece Giuda a venderti». — Così [90] consolato, se ne andò. Il suo avversario raccolse il suo denaro e l’orologio, domandò un altro fiasco di vino che bevette lentamente, esaminò la punta del suo coltello, si fermò all’uscio dell’osteria per vedere se nessuno lo aspettava di fuori, e partì.
Una terza passatella s’era impegnata alla mia destra e la sorte caparbia avea ancora favorito il mio bel vicino. Il bull-dog ebbro di sete e di dispetto gli diceva delle parole ingiuriose, di cui quegli non faceva che ridere. Egli rispondeva scherzando alle maledizioni del suo nemico, ed oso dire ch’erano di peso. Ecco un saggio di quelle litanie:
«Faccia da cane!
«La forca a’ tuoi morti!» vale a dire possano i tuoi antenati esser periti per la mano del boja!
«Possa tu morire d’accidente a freddo!» L’accidente semplice è l’apoplessia; l’accidente a freddo è una coltellata.
«E tu, rispondeva il mio vicino, tu morrai d’un accidente a secco».
Questo scherzo provocò un’ilarità generale e il bull-dog ne ebbe un raddoppiamento di collera.
Io avevo scambiato tanti sguardi colla bella mugnaja che noi eravamo divenuti, malgrado la distanza, buoni amici. Ella mi fece una cortesia più diretta, mandando sua madre a chiedermi un bicchier d’acqua di cui non ve n’era che sulla mia tavola. Mi affrettai di offrirle la bottiglia e ricevetti due ringraziamenti in una volta. La giovane mi sorrise più dolcemente che mai, e suo padre mi fece degli occhiacci terribili.
Più vicino a me il bull-dog, stanco di esser oggetto di risa, s’era ritirato brontolando. Gli altri miei vicini lo seguirono ben presto e dissi loro addio, non senza offrir loro quattro sigari di fabbrica romana, un po’ insipidi ma ben fatti e facili da fumare. Il bel fabbro mi porse la mano ed io gliela strinsi di buon cuore; senza sapere che non avesse più che due minuti da vivere.
I posti vacanti allato a me furono occupati immediatamente da tre soldati francesi leggermente ubbriachi. Essi percorrevano [91] in trionfo tutte le taverne di Transtevere, dopo aver riportato una luminosa vittoria sopra quattordici soldati del papa. Questi vincitori vuotarono un fiasco, cantarono una strofa e trasportarono la loro gloria e la loro allegria in un altro teatro. Furono ben tosto surrogati da tre soldati pontificii che si vantavano d’avere sconfitto quattordici Francesi.
Riguardai allora un nuovo venuto che aveva preso posto alla tavola vicina. Era un vegliardo di sessant’anni suonati, ma ancora vegeto e robusto. Egli osservava l’assemblea senza parlare, vuotando il suo bicchiere fino al fondo. Un fazzoletto allacciato intorno ad una gamba ed una macchia di sangue che traspariva al disotto mi fecero credere che fosse ferito; ma siccome la sua fisonomia non indicava che fosse in vena di confidenze, così partii senz’avergli domandato il suo segreto. Il primo cameriere dell’osteria, che si chiamava il signor principale, m’indicò un caffè vicino in cui vi era un divertimento di poesia e di musica. Io ci vado tutte le sere, e son certo che anche voi non trovereste niente di meglio.
Fui ben presto raggiunto dal mugnajo e da sua moglie, che avevano ricondotto a casa la loro figlia! Il mugnajo si sedette dirimpetto a me, ad alcuni tavolini di distanza, e mi guardava ostinatamente in una maniera che voleva dire: «Tu non sarai mio genero». Era l’ultimo de’ miei pensieri ed io vuotai pacificamente il bicchiere di caffè che mi era stato portato.
Il pavimento della sala era pulito, e le pareti erano coperte di percalina bianca con orli rossi a tutti gli angoli. Il mobigliare si componeva di sedie di paglia e tavole di marmo; i cucchiarini d’argento erano di forma antica e molto pesanti. Una ventina di operaj e d’operaje componevano tutto il pubblico; però gente ben educata che prendeva il suo caffè ed il suo rosolio senza strepito.
Il mio arrivo non avea interrotto una lotta fra virtuosi. Quasi tutte le domeniche alcuni dilettanti di poesia si riuniscono per improvvisare dei versi. Si accoppiano a due a due e si disputano a vicenda sopra un soggetto dato, come i pastori di Virgilio. Il [92] teatro solito delle loro improvvisazioni è la storia antica o la mitologia. Io non so dove abbiano fatto i loro studj, ma galoppano senz’inciampare nei campi della favola e della storia; dal caos fino ai tempi di Nerone. Se si scandagliassero troppo accuratamente i loro versi si troverebbe forse qualche anacronismo nelle particolarità, ma la poesia copre tutto col suo mantello di porpora e d’oro. La prosodia italiana non impone leggi tanto severe; la rima si trova facilmente in una lingua in cui una metà delle parole finisce in O e l’altra in A. Ma ciò che mi ha più sorpreso in questi giuochi d’ingegno si è la scelta quasi sempre felice di una espressione brillante. Il vocabolario poetico, molto diverso dal linguaggio familiare, si è conservato, non so come, in queste menti semi-incolte. Un calzolajo che sapeva appena leggere ci ha narrato la guerra di Troja in uno stile il più pomposo e il più fiorito.
Un mandolino pizzicato discretamente accompagnava la voce del poeta, poichè i versi si cantano e non si parlano. È una specie di recitativo misurato, una melopea monotona e romorosa. I Romani hanno la voce alta, sonora e quasi sempre enfatica. Non vi è una sillaba nei loro discorsi solenni che non sia accentata dall’orgoglio nazionale. È un piacere sentire un ragazzotto cantare in istrada.
Augusto imperator romano.
oppure
Anderemo al Campidoglio.
La giostra durò un’ora e mezzo, e fui ben dispiacente di non avere nè penna nè matita per stenografare alcuni versi. Gli applausi dell’uditorio erano la ricompensa dei vincitori; i fischi e lo schiamazzo punivano il vinto, non appena la sua lingua incominciava ad imbrogliarsi. Il calzolajo della guerra di Troja conservò il vantaggio per qualche tempo, ma poi fu battuto completamente da un conciapelli del quartiere della Regola. Tutto pareva finito, ed il conciapelli si metteva il suo abito per andar a dormire [93] sui suoi allori, quando una donna si alzò da una tavola, e si mise dinanzi a lui colle mani sui fianchi. Era per verità una creatura magnifica, svelta, grande e bella, quale all’incirca si rappresentano le donne ai tempi dei re. Ho saputo che essa era una lavandaja e suo marito un soffiatore di vetro.
Voi non ve ne intendete un fico, diss’ella, ed io vi batterò tutti. Tu prendi il mandolino. Essa cominciò dall’origine del mondo, e proseguì con passo fermo a traverso l’istoria degli Dei. Quella francona possedeva la mitologia come Esiodo in persona. Ben presto ella entrò a piè pari nella guerra di Troja, salvò Enea dall’incendio, lo condusse nel paese del Lazio, bastonò Turno e tutti gli altri, balzò d’un salto alla nascita di Romolo, scacciò i re con Lucrezia, condusse gli eserciti della repubblica alla conquista del mondo, rischiarò il caos delle guerre civili, applaudì Cicerone, uccise Cesare ai piedi della statua di Pompeo, mise Augusto sul trono, rovesciò gl’imperatori gli uni sugli altri come dei cappuccini di carta, e finì con un’invocazione diretta alla Madonna che le sorrideva dietro una lampada con un infante in braccio.
Ella tirò sempre dritto, ripigliando talvolta il filo, non fermandosi mai, surrogando una parola con un’altra, incominciando il passo applaudito e correggendolo senza pensarvi. I suoi occhi brillavano come quelli di una pitonessa; la sua voce tremava di piacere; il suo gesto semplice e un po’ troppo regolare scandeva i versi e appoggiava sulla frase. Essa fu applaudita come si usa applaudir qui. Nè il calzolajo nè il conciapelli si provarono a risponderle, ed essa ritornò tutta rossa presso suo marito, che aveva tenuto il fanciullo durante quel tempo.
Io mi abbandonai al piacere di battere le mani, come ad una prima recita, allorchè m’accorsi che il mugnajo mi guardava in cagnesco. E perchè? non saprei davvero, imperocchè io non avevo fatto nulla da offenderlo. Forse i suoi vicini dell’osteria avranno scherzato sul prestito della mia bottiglia d’acqua, ma, comunque sia, se era stata commessa un’incongruenza, non era certo da parte mia. Frattanto egli borbottava fra i denti ogni sorta di osservazioni riprovevoli sulla gente che doveva restarsene in casa ed attendere a’ loro affari. Quanto meno io fingeva [94] di prestar attenzione a’ suoi detti tanto più egli alzava la voce; era uomo da trattarmi più male, se avessi fatto mostra di volgergli la schiena. Risolvetti pertanto d’attaccarlo di fronte, e perciò non ci voleva gran coraggio. Si sa in tutti i paesi del mondo che «can che abbaja non morde». Io mi alzai repentinamente proprio nel momento in cui aveva pronunziato la parola «Francese» e mi presentai dinanzi alla sua tavola dicendo «è con me che l’hai?» Rimase un momento confuso prima di rispondere. «Ma no, io non l’ho con nessuno, ti sei ingannato» «Allora contro chi brontoli tu?»
«Contro mia moglie; è una bagascia, un’intrigante, una mezzana, che voglio bastonare di santa ragione quando torno a casa.»
A ciò non eravi da replicare. Se ognuno è padrone in casa sua, il mugnajo è padronissimo di battere sua moglie ed il suo asino, quando gliene viene il capriccio.
Verso le dieci e mezzo il principale che mi aveva servito a pranzo venne a prender posto accanto a me, vestito come un signore. «Ebbene! gli dissi, la giornata è finita?»
— Mi rispose a mezza voce: «Sì, signor cavaliere, e temo pur troppo, finita male per me.
— Come?
— Non dovrei forse raccontarvi l’affare, ma voi siete testimonio, che io non ho preso alcuna parte alla quistione e nella vostra qualità di Francese, voi potrete ajutarmi a cavarmela.
— Che cosa diavolo è successo?
— Avete voi rimarcato quel vecchio che aveva un fazzoletto annodato intorno alla gamba?
— Sì, un ferito.
— Ei non era ferito: era il sangue del giovane; egli l’aveva portato a casa nelle sue braccia, e ritornava ad aspettar l’altro al varco.
— Qual altro?
— L’uccisore per certo; colui che avea ucciso suo figlio.
— Qual figlio?
— Quello che ha pranzato accanto a voi, l’uomo della passatella.
[95]
— Il bel fabbro?
— Non era tanto bello. D’altronde aveva torto. Perchè rifiutare da bere ad un amico, quando ha pagato per questo?
— Ma è impossibile! Non l’hanno ucciso!
— Proprio davanti la nostra porta, Eccellenza, nel momento in cui usciva.
— Ma i suoi amici erano con lui; avrebbero impedito il delitto!
— Ciascuno per sè in questo basso mondo.
— Com’è che noi non abbiamo sentito niente?
— Non si fa mai rumore. Il giovine è morto; sono andati a dirlo a suo padre; egli ha portato il corpo in casa sua, poscia è ritornato a sedere dove l’avete veduto nella speranza che l’altro ripassasse da noi; ma non è sì gonzo! Ciò che mi rincresce si è che l’altro mariuolo aveva preso il mio coltello per fare il suo colpo.
— Ma è spaventevole! Ecco come si scannano nel quartiere!
— E che volete? Allorchè un amico vi fa un insulto non si va già a divertirsi, ad intentargli un processo. Una coltellata nel ventre, e tutto è finito. Se almeno avesse preso un altro coltello e non il mio!
— Allora voi passate la vostra vita ad assassinare gli amici?
— Non si ha a fare con quelli che non si conoscono; ma voi potete contare che da noi sopra quattro uomini ve n’è ben uno che ha giuocato col coltello almeno una volta in sua gioventù.
— E tu? vediamo!
— Oh! io avevo ragione. S’era permesso di gridare ad alta voce che il nostro vino era manipolato, e che noi avveleniamo la gente. Che avreste fatto voi al mio posto?»
Io ripresi la strada dell’Accademia, e, alla svolta della contrada, caddi sopra un gruppo di ragazzi inginocchiati avanti ad una santa imagine. Essi cantavano all’unissono con voce chiara e quasi in tempo:
Viva Maria
E chi l’ha creata?
[96]
Se i coltelli romani non fossero giammai usciti da Roma, io ne avrei detto abbastanza intorno a questa curiosità locale. Ma nello stato attuale della società, allorchè i rifugiati Italiani abbondano in molti paesi ed i loro coltelli insanguinano le taverne di Londra come le bettole di Costantinopoli, credo fare opera di buon cittadino d’Europa trattando seriamente una quistione di sicurezza europea.
Prima d’ogni altra cosa, e dovesse pure eccitare sorpresa in Francia, incomincierò a fare un complimento agli assassini di questo paese; essi non sono ladri. In quasi tutte le grandi città di mia conoscenza sopra dieci assassinii commessi, ve ne sono sei che hanno il furto per iscopo. Si uccide un uomo per aver il suo denaro come una volpe per avere la sua pelle. I Romani considerano il furto con solenne disprezzo. La loro delicatezza un po’ ottusa non sa schermirsi di qualche colpo di scaltrezza, di qualche prepotenza pubblica; ma il furto propriamente detto li ributta. Provatevi a gridare: al ladro! nelle contrade della città; o che, per esempio, un abitante del quartiere de’ Monti (sonvene molti che non valgono gran che) si pigli il divertimento di rubare un fazzoletto da dieci soldi: ebbene la folla si farà ad inseguirlo con incredibile accanimento. Ora che avverrebbe se l’avesse ucciso prima di fare il suo colpo? Lo si ammazzerebbe sul fatto, non v’è punto a dubitarne.
[97]
Tengo sotto gli occhi la lista di 247 assassinj commessi nella città, tra il 1850 ed il 1852; e tra questi sonvene appunto due soltanto che si spiegano col furto. Tutti gli altri sono conseguenza di dispute mosse da vanità o da interesse, da rivalità d’amore, da liti al giuoco, da ingiurie profferite dopo aver bevuto. La violenza del sangue, del vino e della primavera fu causa di pressochè tutti gli altri delitti. Per la più parte dei casi che condussero a queste coltellate, un Francese avrebbe dato un pugno, una stoccata, ovvero un appello alla giustizia. Ma al popolo di Roma non vanno a sangue nè i pugni, nè i duelli, nè i processi. I pugni non manifestano abbastanza profondamente la superiorità del vincitore; il duello espone a perire chi ha dalla parte sua la ragione; la lunghezza delle procedure, e la venalità di quasi tutti i giudici inspirano ai cittadini l’orrore de’ processi. Tutto s’accomoda a coltellate, anche le dissensioni di famiglia. Alla medesima pagina trovo un fratello colpito dal fratello, un cognato dal cognato, due generi dai loro suoceri, ed un nipote dallo zio. Uno zio del Ginnasio sarebbesi accontentato di esclamare: «Briccone di nipote!»
Nel 1853, i tribunali dello Stato Romano punirono 609 delitti contro le proprietà, e 1344 contro le persone. Nel medesimo anno le Corti d’Assise giudicavano in Francia 3719 persone accusate di furto, e 1921 incolpale di delitti contro le persone. Se ne potrebbe conchiudere che i Romani sono più violenti e più onesti di noi.
Desiderate qualche altro frutto più recente? Ecco quanto si è operato in sei giorni, verso la fine del mese d’aprile 1858. Vedrete che la primavera si fa sentire in Italia.
«Nella caserma Serristori, il volteggiatore Maurizi ha ucciso con una coltellata il granatiere Caponia. Affare di giuoco.
«Si è fatto baccano sotto le finestre d’un vecchio, di nome Ferri, che ammogliavasi in terze nozze.
«Egli ha colpito con un sasso uno de’ chiassosi, detto Bernardini.
«Il vignaiuolo Bravetti è stato ucciso con un colpo di zappa [98] da un mercante d’insalata, che lo accusava di rubare degli asparagi nella sua vigna.
«Alcuni giovani, che avevano passato la giornata all’osteria, attraversano la contrada del Mascarone. Insorge una disputa, uno di que’ signori entra da un fornajo, prende un coltello, e corre a dare tre colpi mortali a certo Vaccari di ventun’anni. Va poscia dal padre del Vaccari e l’uccide.»
Misura di prudenza!
«Carolina Paniccia e suo marito Giovanni escivano da un’osteria dopo aver cenato, quando si videro assaliti a colpi di coltello da un tal Pierazzi. La donna è ferita, il marito è morto. Pierazzi era innamorato della moglie e geloso del marito.
«Il giovane Alfonso Ambrogioni, di 13 anni, ha ucciso sua cognata tagliandole la carotide. Gli Ambrogioni odiavano quella giovane, perchè uno di essi, Pietro, era stato costretto a sposarla dopo averla sedotta.»
Si può asserire senza paradosso che, sopra dieci assassini a Roma, havvene almeno uno che non avrebbe ucciso se avesse avuto altro mezzo di farsi rendere giustizia. Ma il denaro, il credito, le protezioni sono cose sì difficili a superarsi che un poverino, offeso nel proprio onore o leso nel proprio diritto, non sa rivolgersi ad altro che al proprio coltello.
Non temo d’affermare, poichè n’ho il destro, che sette od otto uccisori sopra dieci si guarderebbero ben bene dal cavare il loro coltello, se sapessero preventivamente che un carnefice taglierebbe loro la testa. Ma sono quasi così certi dell’impunità, com’essi sarebbero convinti del castigo in Francia ed in Inghilterra.
Quasi tutti i rapporti di polizia che ho citato or ora, si chiudono uniformemente con questa frase solenne: «Il colpevole si è sottratto colla fuga.» Il popolo, anzichè inseguirlo, gli porge ajuto. Agli occhi suoi, l’assassino ha ragione, e la vittima aveva torto. I nostri Romani plebei non hanno maggior disprezzo per un assassino, di quello che i Parigini per un uomo che abbia lealmente ucciso il suo avversario in duello. E di vero, l’assassinio, [99] quale qui si pratica, è un vero duello. Allorchè nel calore della disputa due uomini sono venuti a certe parole, sanno che il sangue deve scorrere tra loro; la guerra è implicitamente dichiarata; la città intera è il terreno trascelto; la folla fa da testimonio accettato da ambe le parti, ed i due combattenti sanno che ad ogni ora del giorno e della notte bisogna stare in guardia. La plebe crede adunque, nè è pregiudizio facile a sradicarsi, che l’uccisore è un uomo giusto.
Si protegge la sua fuga. Ma dove troverà ricetto? Non troppo lontano, poichè la città è piena d’asili. Le ambasciate, l’Accademia di Francia, le chiese, i conventi, il Tevere sono altrettanti santuarj dove la legge non penetra. Se un uomo inseguito minaccia di uccidersi, la polizia è obbligata a lasciarlo fuggire; ed è perciò che il Tevere è un asilo inviolabile. Si teme che l’accusato non si getti nell’acqua, e quindi vi perisca senza confessione. Colui che giunge ad afferrare un frate per l’abito è dichiarato sicuro, come se abbracciasse gli angoli dell’altare. I gendarmi seguono il frate gridando con voce supplichevole: «Fraticello, abbandonalo: è un assassino! — Non potrei, risponde il frate: egli non vuol andarsene!» L’accoltellatore arriva così fino alla porta del convento.
Alcuni cavalieri della divisione d’occupazione incontrano sulla strada di Ponte Molle un malfattore inseguito dalla polizia, e si mettono a dargli la caccia a briglia sciolta. Quell’uomo corre al Tevere, e per tendere un’insidia all’esercito francese, si annega. Fu quindi un grave affare, e credo che la diplomazia abbia dovuto occuparsene. I nostri soldati non avrebbero dovuto mettere un uomo nel cimento di morire senza confessione.
Il possessore d’un luogo d’asilo è libero di ricevere o d’espellere i colpevoli. So, per esempio, che all’Accademia di Francia, il signor Schnetz prende accurate informazioni sugli ospiti che fanno invasione in casa sua. Se per caso vi capitasse un povero giovane minacciato di galera per aver messo una figlia nell’imbarrazzo, le porte si spalancherebbero dinanzi a lui. Ma le ho vedute chiudersi dinanzi ad uno sfrontato, che ridendo s’accusava d’una cosetta contro natura.
[100]
Tra Velletri ed il mare sonvi dieci leghe di paese che sono un luogo d’asilo. È un vasto territorio che chiamasi la Pianura Morta, ed è d’una insalubrità comprovata. È noto che gli omicidi non potrebbero vivervi a lungo, è noto eziandio che gl’innocenti non consentirebbero di render sano un tal paese. I colpevoli vi restano impuniti ed occupati in pubblici lavori, finchè la febbre abbia contro di loro fatto le funzioni di carnefice.
Spesso l’assassino viene sottratto al rigor delle leggi dal delitto d’un altro assassino. Una figlia cade sotto il coltello a quattr’ore di sera; ebbene, prima di notte viene raccolto il cadavere del suo uccisore. Il delitto era già espiato quando la giustizia lo venne a conoscere. Perciò succede che il colpevole si consegna da sè stesso per isfuggire alle private vendette, e preferisce la prigione a tutti i luoghi d’asilo.
Quando la giustizia l’ha côlto, ecco insorgere un’altra serie di difficoltà. Non si trovano testimonj che depongano contro di lui. Potreste risuscitare anche il morto, che non direbbe il nome del suo uccisore. Si raccoglie un uomo ferito a morte sulla strada, ma tuttora semivivo. «Chi ti ha malconcio in questo modo? — Nessuno; va a cercarmi un prete, e non parliamo d’altro.» Egli ha regolato i suoi conti con un amico; ora non pensa più che a regolarli con Dio. Un uomo ne pugnala un altro: l’uno parte pel carcere, l’altro per l’ospitale. Quando l’uno sarà liberato e l’altro guarito, si stringeranno la mano senza rancore. Ma se il ferito avesse confessato dinanzi al giudice d’aver ricevuto una ferita, nè l’assassino, nè i suoi parenti, nè i suoi amici nol lascerebbero godere della sua convalescenza.
Il rifiuto di deporre in giudizio è un male talmente incurabile, che non si trovano testimonj nemmeno contro i ladri. Eppure vi dissi quanto sono detestati! Li detestavamo anche in collegio, e ci facevamo parimenti un punto d’onore di non denunciarli. Li mettevamo in quarantena, li facevamo passare per l’armi, a gran colpi di palla elastica; ma avremmo creduto di disonorarci da noi stessi consegnandoli al maestro degli studi. I Romani sono ragazzi in ogni età, siccome noi lo eravamo a quindici anni.
[101]
La loro avversione pei ladri si è manifestata, or sono due o tre anni, quando ne venne frustato uno sulla piazza del Popolo. Era un certo Pietro Brandi, se ben mi ricordo. Egli aveva gettato la confusione in una pubblica festa, per pescare nel torbido e rapire qualche borsa o fazzoletto da tasca. La sua speculazione aveva costato la vita a due o tre persone e la salute a parecchie. I giudici lo condannarono a ricevere 25 colpi di sferza, non già sulla pianta de’ piedi. La moltitudine accorse al suo supplizio siccome a pubblico spettacolo, e ad ogni colpo gridava: «Bravo! Più forte!» Mastro Titta, mosso dall’entusiasmo del popolo, aggiunse un ventesimo sesto colpo per buona mancia; come s’indica in italiano, ciò che noi Francesi indichiamo pourboire.
Nel medesimo paese, presso il medesimo popolo, un contadino s’accorge che gli fu rubato un majale. Indovina chi sia il colpevole, corre alla sua casa, e trova ancora l’animale attaccato dinanzi alla porta. «De’ testimoni! esclama egli; Santa Madonna, mandami de’ testimoni!» Alla fine, passa un uomo; egli lo afferra pel collo: «Vedi tu quel majale?
— Qual majale? dice colui, che subito s’accorse, che trattavasi di fare da testimonio.
— Per tutti i santi, tu non sei cieco! Osserva là un majale.
— No, non v’è majale.
— Oh! non vedi quel majale, là, dinanzi alla porta?
— Io non veggo majale. Addio, corro a’ miei affari. — »
Il derubato fermò dieci testimonj, l’uno dopo l’altro; ma nessuno volle vedere il majale. «Poichè tu non vuoi veder nulla, disse egli all’ultimo, io vado a staccare questa corda ed a riportarla a casa mia coll’animale che vi è attaccato.» Ed è così ch’egli avrebbe dovuto cominciare.
I Romani stessi confessano che le leggi penali non furono introdotte nel loro paese se non sotto il dominio francese. Di que’ tempi il potere era abbastanza forte per costringere i testimonj a dire ciò che avevano veduto, e per rassicurarli sulle conseguenze della loro deposizione.
Non è già che manchino i mezzi di repressione al governo pontificio, mentre ha delle buone carceri e dei bagni in buono [102] stato. La prigione cellulare esisteva all’ospizio di San Michele cent’anni prima d’essere inventata dagli Americani. La ghigliottina è una macchina italiana che data dal tredicesimo o quattordicesimo secolo. Ma quasi tutti i papi si sono trasmessi, d’età in età, de’ principj di dolcezza e d’indulgenza senile che disarmano alquanto la legge. Le condanne capitali sono sempre state soverchiamente rare in questo Stato, dove, a norma della statistica del 1853, si commettono più di quattro omicidj al giorno. È difficile che un sovrano invecchiato nell’esercizio d’un ministero di pace, s’imbarchi un bel mattino in una guerra vigorosa contro le violenze de’ suoi sudditi. L’educazione della plebe romana resta da rifarsi, ed occorre raddolcire per forza quelle indoli rozze, cui la minima contrarietà strascina agli ultimi eccessi. Bisogna insegnar loro a rispettare la vita umana siccome cosa sacra; bisogna, pel bene del loro paese e di tutta Europa, modificare forzatamente le loro idee sull’assassinio. Finchè vi sarà nel mondo incivilito un regno dove si uccide un uomo come si beve un bicchier di vino, l’incivilimento sarà in uno stato provvisorio, esposto ad ogni sorta di peripezie.
Non vi sarebbero poi a sparger torrenti di sangue per mettere un freno definitivo a cotesto giuoco di coltelli. Leone XII non ha già decimato il suo popolo per guarire la piaga del brigandaggio? e noi non siamo stati obbligati a spopolare la Corsica per sopprimere i banditi? Parimenti basterebbe qualche colpo ben applicato, e sopratutto applicato in tempo utile. Gli animali più nobili non profittano d’una correzione, se non quando essa segue immediatamente il fallo. E così i nostri terribili plebei di Roma si trovano quasi nel medesimo caso che i cavalli di corsa ed i cani di ferma. Se un processo criminale si potesse condurre a tamburo battente, se l’espiazione seguisse il delitto a pochi giorni di distanza, il popolo, per cui tutto è spettacolo, non assisterebbe ad un cattivo esempio senza ricevere subito una buona lezione. Ma quando un colpevole viene mandato al patibolo, dieci anni dopo aver commesso il delitto (è quanto avviene) i testimonj del supplizio non sentono altro che pietà per quella testa che cade. Si crede che l’omicida sarebbe [103] quasi in diritto d’invocare la prescrizione, e la sola parola che si sente circolare nella folla è quella di poveretto!
Nel luglio del 1858, il generale conte di Noue, galantuomo quant’altri mai, e partigiano zelante dell’autorità pontificia, fermossi alcune settimane a Viterbo. In uno de’ suoi passeggi intese parecchie voci maschili che cantavano de’ salmi nella prigione della città: cotesti coristi erano ventidue condannati a morte che da parecchi anni aspettavano l’ora del supplizio. Il governo stesso si fa quasi un caso di coscienza di mandare a morte un uomo pentito e forse emendato. Vi dissi ch’era una bontà e dolcezza paterna, ed avrò più d’una volta a ripetere lo stesso elogio. Un papa non potrebbe dimenticarsi che quaggiù rappresenta il Dio di misericordia; il santo padre, chiunque egli sia, deve sempre aver orrore pel sangue. Ma sembrami giusto che la misericordia s’applichi dapprima a coloro che vengono assassinati, ed il primo dovere di chi ha in orrore il sangue è quello di atterrire coloro che lo spargono.
Or sono quarant’anni, l’uccisore d’un sacerdote veniva squarciato, siccome un pollo arrostito, sulla piazza del popolo[5].
[104]
Non dimando già che si ritorni a questi feroci processi del medio evo: la soppressione legale d’un uomo è per sè stessa un fatto assai terribile, senza che la si circondi d’un apparato sì mostruoso. Ma non mi si leverà di mente, che a Roma sono necessarj degli esempj per sopprimere quella scuola del coltello, che stabilisce delle succursali dovunque.
Intanto che si preparano castighi per gli assassini, è costume di mandarli alle galere. Non posso noverare questo viaggio fra i castighi, poichè questi condannati non sono da compiangersi. Meglio alloggiati, meglio vestiti e meglio nodriti che non la più parte delle persone del popolo, lavorano appena quanto loro piace, ed il loro lavoro viene retribuito. E da ultimo, ciò che compie l’opera, si è che essi godono della stima universale. Non esagero: i forzati sono ben veduti; nè solamente sono compianti, quantunque non siano degni d’esserlo; non solamente havvi chi si ferma per le vie di Roma a dar loro del danaro, ma la mano che fa loro l’elemosina non isdegna di stringere la mano loro. E perchè? la pena non potrebb’essere più vergognosa che il delitto, ed il popolo non ha una ragione per disprezzare dopo il giudizio coloro ch’egli quasi ammirava dopo l’assassinio.
[105]
Se, malgrado i vantaggi che loro sono assicurati dalla legge e dai costumi, vengono affetti da noja, non hanno che a dirlo. La libertà sarà loro restituita un giorno o l’altro, chè la pena de’ lavori forzati a vita viene agevolmente loro commutata. Venti anni di galera sono ben presto finiti: innanzi tutto perchè l’anno è di soli otto mesi al bagno; e poi le limitazioni giungono l’una sull’altra, e se appena appena v’è qualche protettore, un giorno l’omicida vede aprirsi le porte del carcere, e, tra contento e rammaricato, ritorna all’esercizio d’un onesto mestiere, di cui ha perduto l’abitudine.
Non temete che la macchia del suo passato lo esponga al disprezzo del mondo. Sarebbe troppo strano che un forzato messo in libertà dovesse essere meno stimato che un forzato in attività di servizio. Lo si trova un po’ meno interessante, ed ecco tutto. Egli stesso parla delle sue fatiche siccome un soldato delle sue campagne. Dice con qualche sentimento d’orgoglio: «Quando mi trovavo laggiù!»
Ne’ giorni scorsi ho trovato a Frascati un eccellente viso di contadino, che camminava pian pianino sul proprio asino, per una via piuttosto disagiata. Sua moglie seguivalo un po’ più da lontano, attesochè portava un armario sul capo. Mi feci ad intavolare conversazione con questo tipo di marito, e mi piacque la natura del suo spirito. Il discorso, non so come, venne a toccare il tasto delle coltellate, essendo che da varj giorni cotesto argomento mi ripassava pel capo.
«Signore, mi disse egli, ecco ormai più di sei anni che le feste del nostro villaggio hanno perduto metà del loro prestigio. Quando le viti non erano ancora ammalate, e che si beveva del vino finchè se ne voleva, non v’era alcuna fiera, dove non si uccidessero quattro o cinque uomini. Io stesso, quand’era giovane, ne ho spacciato più d’uno; ma vennero gli anni, e la è finita. Non si può più essere ed essere stato.
— E non vi è capitato nulla di male da parte della giustizia?
— Eh! sì; perdonate. Ho fatto due anni a Civitavecchia. Mi fate risovvenire del più bel tempo di mia vita. Oh! il bagno! Non vi siete mai andato, Eccellenza, nel vostro paese?»
[106]
Il lotto è la più breve strada che dalla miseria conduca alla ricchezza. Ve ne sono di più sicure, ma niuna di più diretta. Ed è perciò che la plebe romana evita le altre e s’accalca su questa. Mi sono dimandato talora ciò che farei per trarmi d’impaccio se fossimo di que’ plebei che vivono di giorno in giorno per le strade della grande città. Ecco dapprima una carriera aperta a tutti, senza distinzione di nascita o di fortuna: la Chiesa. Nulla di più democratico in fondo di questo governo assoluto. Ogni uomo intelligente ha il piede in istaffa dacchè potè varcare la soglia del seminario: è sulla via di salire alle più sublimi cariche. Anzi dico di più: questa è la sola carriera in cui la virtù possa tener luogo di scienza, e dove la capacità viene vantaggiosamente surrogata dall’umiltà. Un uomo dell’infima classe del popolo, e mediocremente versato nelle lettere, può diventare frate, priore, generale, vescovo, cardinale e papa, camminare di pari passo coi grandi sovrani, ed accordare la precedenza ai proprj legati sugli ambasciatori di tutte le potenze.
Ma è necessaria la vocazione, e noi non l’abbiamo. — Passiamo ad altro. Gl’impieghi civili? Sono ancora ambiti da alcuni poveri diavoli, ed ognuno credesi possedere sufficiente talento per occuparli, se trova credito bastante per ottenerli. Ma per gli uomini da poco siccome noi, non vi sono che impieghi subalterni. A forza di protezioni potrei diventare capo d’ufficio; ma se voglio salire più in alto, bisogna cambiar abito. Aspireremmo alle onorificenze militari? Tutti i plebei di Roma proromperebbero in risa se udissero siffatta proposizione. Noi tutti avremo un capitolo su questo proposito. Ora a qual partito appigliarvi? La letteratura? Nulla. La legge? La medicina? Molta dipendenza, e [107] poco avvenire. L’istruzione? Osserva come sei vestito, poverino. Il tuo abito è troppo corto, almeno d’un piede e mezzo. Ma il commercio? Vi si guadagna di che vivere. L’agricoltura? Vi si fa fortuna, a patto che vi s’impieghino de’ capitali. Ora la gran maggioranza de’ plebei romani possiede il capitale dell’Ebreo Errante: cinque soldi in tasca. Tutto ben ponderato, fanno tutti come la vecchia di cui l’altro giorno vi parlava: rinunciano al pranzo, e giuocano il denaro al lotto. Scaglierete loro contro la pietra? Io non avrò mai coraggio di farlo.
Alcuni viaggiatori d’umor malinconico declamarono contro il popolo che giuoca, e sopra tutto contro il governo che porge il mezzo di giuocare; trovando cosa indegna che un’autorità, circondata dal rispetto dell’universo intero, speculi sui vizj de’ suoi sudditi. Permettetemi di confutare cotesti lamenti.
Non è già solamente a Roma, è a Napoli, a Firenze, a Venezia, e sopra tutta l’estensione di questa terra oppressa, che gl’Italiani giuocano al lotto. Se non vi fossero ufficj appositi in Roma, i Romani giuocherebbero altrove, e le diligenze di Siena, di Pisa, di Firenze e di Napoli ritornerebbero cariche di viglietti. Ora, siccome è convenuto che a questo giuoco diseguale il banchiere guadagna sempre, così la soppressione del lotto pontificio manderebbe fuori dello Stato da sette ad otto milioni all’anno; chè tale è approssimativamente l’ammontare lordo de’ beneficj realizzati dallo Stato. Ma le spese di percezione nodriscono tanti piccoli impiegati, sicchè il prodotto netto d’ogni anno non supera il milione e mezzo di franchi. Il lotto è adunque un tenuissimo frutto per lo Stato ed una massima consolazione pel popolo. Si fece bene ad abolirlo a Parigi, perchè in uno Stato ben ordinato, dove il lavoro guida a tutto, il governo deve educare i cittadini a non far conto che sul loro lavoro. Si avrebbe torto di sopprimerlo a Roma, perchè quivi il popolo, stanco e demoralizzato, sorretto nelle sue miserie dalla prospettiva della fortuna, vive specialmente d’imaginazione e di speranza: privarlo del lotto sarebbe uno spogliarlo di quel poco che gli rimane.
Sono ormai più di cento venti anni che Clemente XII ha introdotto [108] questa usanza ne’ suoi Stati, ed il giuoco è sì bene penetrato nel sangue del popolo, che non solamente i plebei, ma principi eziandio, ed anche i principi della Chiesa, prendono un viglietto del lotto, siccome noi prendiamo una tazza di caffè. È da ciò che potrete osservare la natura e l’educazione differenti degl’Italiani e de’ Francesi. Io ero fanciulletto allorchè i progressi dello spirito pubblico fecero cadere il lotto regio, ma mi ricordo che se ne parlava siccome d’un giuoco di fantesche, e che le persone della classe intelligente procuravano di non farsi vedere quando mettevano danaro al lotto. Qui per lo contrario i primi personaggi della nazione trovano naturale di tentare la fortuna e di urtare co’ gomiti i muratori nelle botteghe del lotto. Da noi questo giuoco era un vizio; qui per l’opposto non è riputato cattiva abitudine, e l’approvazione dei Romani è tanto fondata nella ragione, quanto lo era il nostro biasimo di tempo fa.
Forse non sarà discaro ch’io riassuma in poche parole la teoria di questo giuoco che gli archeologhi soli ora conoscono in Francia.
Sabbato a mezzodì, dinanzi al ministero delle finanze, sotto gli occhi del popolo radunato, una commissione, presieduta dal rappresentante del prelato ministro delle finanze, tira a sorte cinque numeri da una ruota che ne contiene 90. Fra i giuocatori premurosi che assistono all’estrazione, taluno ha giuocato il semplice estratto, vale a dire ha scommesso contro il governo che un tal numero sortirebbe fra i cinque: se il suo numero è sortito, egli ha guadagnato tredici o quattordici volte il denaro che ha speso. Un altro ha giuocato l’ambo, vale a dire ha scelto due numeri e scommesso che ambidue sortirebbero dalla ruota. Altri invece ha giuocato il terno scegliendo tre numeri: ei guadagna più di cinque mila volte la propria messa. Tralascio le altre combinazioni, quali il primo estratto, l’ambo, e i terni determinati.
Vi basti il sapere questo: un uomo che sapesse indovinare tre de’ cinque numeri che stanno per sortire, potrebbe con un luigi d’oro comprare cento mila franchi. Se non m’inganno è il massimo de’ guadagni possibili. La banca non giuoca somme sì forti; le quaderne e le quintine non lo sono.
[109]
Ciò posto, tutti i miei Romani mettono a tortura il cervello per prevedere i numeri che sortiranno.
Fino alla mezza notte del giovedì, si stillano il cervello, esauriscono ogni combinazione cabalistica, dimandano consigli ai loro amici, implorano inspirazioni celesti. Gli uni interrogano le estrazioni degli anni precedenti: questo e quell’altro numero hanno l’abitudine di comparire insieme; sono ormai più di sei mesi che non comparvero, onde staranno per sortire! Gli altri pescano le loro idee sui muri della città, e vi si trovano, ad ogni passo, de’ terni begli e fatti, scritti al carbone da qualche dilettante. Più d’uno ne compone una novena, per trascegliervi poi i numeri da mettere. Chi ebbe la fortuna di sognarsi di cani o di gatti, s’affretta a consultare il Libro dei Sogni, dove tutte le visioni trovano le corrispondenti cifre. La grande, la sola, l’inseparabile idea di tutti i Romani de’ due sessi è la ricerca dei buoni numeri.
E non sono già solamente i sogni ch’essi traducono in cifre, ma bensì tutti gli avvenimenti fortunati o calamitosi perdono il loro significato reale per passare allo stato di presagio. Un tale si è annegato. Bene! 88! Mia figlia fu assalita dalla febbre. Bravo! 18, 28, 48! Un marito rientra in casa senza esservi aspettato, sente una voce d’uomo nella stanza di sua moglie. Dio sia lodato! 90! Discende i gradini della sua scala a quattro a quattro, e va a prendere il suo viglietto.
A Roma il figlio d’un carbonajo cade da un primo piano e si fa male assai. Ora il padre, prima di chiamare il medico, compone un terno coll’età di suo figlio, l’ora dell’accidente ed il numero 56, che corrisponde alle cadute dalla finestra. Ei guadagna, il figlio muore, e più d’un padre ne ha invidia.
Un giovane si asfissia colla sua amante in una casa del Corso; ed il popolo subito invade le botteghe del lotto per giuocare su quel fatto. L’amministrazione è costretta di chiudere ossia interdire certi numeri, sui quali la moltitudine si getta tutta in una volta: l’età di ciascuno degli amanti, il numero della casa, l’ora in cui sono morti.
A Venezia un soldato austriaco si getta giù da un campanile. Il popolaccio si scaglia su di lui, dacchè è piombato a terra; si [110] strappa il numero del suo reggimento, del suo battaglione; si spingono le avide mani nella sua camicia insanguinata per trovarvi il numero di matricola. Non v’è nessuno intorno che non consideri quel cadavere siccome una preda mandata dal cielo.
A Rimini un condannato marcia verso il patibolo frammezzo a due carnefici. Una vecchia lo segue eroicamente tra la folla, gli parla di tempo in tempo, e quando non può accostarglisi più davvicino, gli fa da lontano una smorfia supplichevole. È sua madre? Niente affatto, è una giuocatrice che gli domanda dei numeri.
A Sonnino, quando ancor vigeva l’abitudine di racchiudere le teste mozzate in gabbie di ferro, intorno ad una porta del villaggio, le vecchie lottajuole si portavano a mezzanotte a pregare dinanzi a quelle orribili reliquie. Pregavano, ma con attento orecchio, spiando ogni più lieve romore. Il canto d’un gallo, il miagolio d’un gatto, il latrato d’un cane, il rumore d’una carrozza che passasse di lontano sulla via erano notati da quelle streghe siccome altrettanti avvertimenti del cielo. Così gli antichi aruspici interrogavano la volontà degli Dei, in quell’osservatorio all’aria aperta ch’essi chiamavano un tempio.
Non maravigliatevi di vedere il giuoco e la preghiera confusi insieme, chè la religione si frammischia a tutti gli atti della vita. I Romani, in questo commercio famigliare che mantengono colla Divinità, trovano semplicissimo e naturale di cointeressarla nei loro minuti affari. Un onorevole sacerdote mi ha raccontato che i suoi parrocchiani gli offrivano grosse somme, perchè collocasse tre numeri sotto il santo ciborio durante il sacrificio della messa. Non vale ragionamento a provar loro, che cotesta soperchieria sarebbe un sacrilegio, e nessuno potrebbe levar loro dalla mente, che i numeri così raccomandati a Dio non abbiano a sortire alla prima estrazione.
Mi diverto talora a percorrere le iscrizioni eccitatorie, che tappezzano le botteghe del lotto. L’una accerta che il giuoco si fa lealmente, ciò che è vero; un’altra annuncia che le vincite saranno pagate immediatamente; altra poi, che il vincitore potrà domandare la moneta che più gli piace.
[111]
Ecco un distico di buon augurio, che occupa il posto d’onore in mezzo a tutte quelle promesse:
Piccolo capital fa gran fortuna:
La Madonna v’assista, or via giocate.
Nessuno si aspettava di vedere la Madonna pigliar parte in questo affare; ma non dimenticatevi che la Madonna agli occhi degl’Italiani è la più alta potenza del cielo. Essi parlano ben di rado di Dio, e continuamente della Madonna. Quando si rimanda un povero senza dargli un soldo, gli si dice: «La Madonna ti protegga!» ed egli ringrazia. Ho inteso questa conversazione in un’osteria del Transtevere:
«Papà, d’onde vengono gli stranieri?
— Vengono dal paese di Stranieria.
— E com’è quel paese?
— V’è gran freddo, case di legno, profonda ignoranza, denaro a mucchi!
— Credono essi in Dio?
— No.
— Ma crederanno almeno nella Madonna?
— No.
— E che! Nemmeno nella Madonna?» Ecco il discorso d’un albergatore di villaggio, che voleva convertire un giovane Inglese: «Ma, asino che sei, non vedi dunque che il cielo, la terra, tu stesso, i tuoi abiti, il pane che mangi, tutto viene dalla Madonna? È dessa che fece il mondo, e bisogna essere più bestia delle bestie per ignorare tal cosa!»
Se lo spirito forte viene a regnare su questa terra, ei negherà forse Dio, ma continuerà ad ardere cerei alla Madonna. Quando un uomo sta per morire, si dice: «Andrà ben presto a veder la Madonna.» Tutti gli ammalati che vengono a morire sono vittime di quell’asino di medico; tutti coloro che sopravvivono, ne sono debitori alla Madonna. Stiracchiano sul prezzo delle visite, ma non mercanteggiano la cera alla Madonna di Sant’Agostino, che è la più venerata tra quelle che s’implorano nella città. Tutte le colonne della sua chiesa sono tappezzate d’ex-voto [112] d’oro o d’argento. La sua statua è oppressa sotto il peso di oggetti preziosi, e possiede scrigni di cui sarebbe gelosa anche una regina. Si narra che, avendo una ricca signora offerto alla Madonna tutti i suoi diamanti senza consultarne il marito, questi andò a lamentarsene dal papa. Trattavasi nientemeno che d’una sostanza. Il papa autorizzò il reclamante a riprendere il proprio tesoro, ma a condizione espressa che andrebbe egli stesso a cercarlo, una domenica, dopo la messa. Ora i diamanti vi sono ancora. La Madonna di Sant’Agostino ha un piede di bronzo, letteralmente consunto dai baci della folla, onde bisogna rinnovarlo di tempo in tempo. Migliaia di quadretti sospesi intorno a lei attestano i miracoli ch’essa ha fatto. Ho veduto altre volte, entro cornice assai modesta, madama Ristori, quasi soffocata da un fianco di scenario, e preservata dalla Madonna di Sant’Agostino. Non so dove sia andato a finire quel quadretto; ma non lo trovo più. Se la Madonna protesse una sera madama Ristori mentre rappresentava la commedia, può benissimo arricchire di tempo in tempo un povero giuocatore di lotto.
Consiglio agli stranieri, che hanno del tempo, d’assistere almeno una volta all’estrazione di Roma. Vi si veggono delle belle figure e vi si sentono delle curiose riflessioni. Il giuocatore che stette sul punto di guadagnare ingiuria i numeri che lo rovinano. «Capite voi, o signore, perchè siasi estratto il numero 37? Affè di Dio, che m’importava di cotesto numero! In fede mia, cotesto 37 è un bel numero! E non sarebbe stato cento volte più bello, più giusto e più cristiano di cavare il 42? Avrei fatto la mia fortuna».
Un momento prima dell’estrazione tutti erano contenti. «Camerata, diceva taluno, che bel giorno! — Andiamo a vedere qualche cosa di nuovo,» rispondeva tal’altro. Ma dopo l’estrazione ambidue lacerano i loro viglietti ingiuriando la sorte; si esortano scambievolmente a rinunciare al giuoco, e poi entrano insieme nella bottega più prossima per comprare altri numeri.
Ho trovato sulla piazza il domestico d’uno de’ miei amici, che sul volto mostrava evidentemente di non aver guadagnato. «Signore, mi disse, il mio terno non è sortito; ma non importa, era un bel terno!
[113]
— Fammelo vedere.
— Eccolo: 17, 56, 82! Non è egli vero che è un bel terno?»
Io non capiva perchè un terno potesse essere più bello che un altro, e quel giovane rimase attonito della mia ignoranza. «E come, dissemi, voi avete tanto studiato e non sentite ancora che 17, 56 e 82 formano un bel terno?» Credo sul serio, che a forza di rimirare le cifre in faccia, vi veggano, come Pitagora, ogni sorta di cose che non vi sono.
Un uomo del Transtevere disse al mio interlocutore:
«Io non ho mai giuocato altro che d’ambi, poichè so bene che un terno non si prenderà la pena di sortire per un povero diavolo al pari di me. Non desidero altro che guadagnare otto scudi per prender moglie, e la Madonna me gli ha sempre rifiutati. Vedremo sabbato prossimo».
Eranvi intorno a noi varj Ebrei, dal muso lungo malcontento. «Sapete perchè? mi disse uno de’ miei vicini: il perchè si è che non sono sortiti che numeri grossi, e gli Ebrei hanno l’abitudine di giuocare sui piccoli. Quando sortono cinque cifre al di sotto del trenta, v’è festa al Ghetto.» Forse gli Ebrei s’imaginano eziandio che i numeri piccoli siano più propizj alla minuta gente.
I Romani arrischiano piccolissime somme al giuoco, perciò il lotto non ha mai rovinato nessuno. I più grossi giuocatori sono gl’impiegati del lotto, che speculano sui viglietti. Profittano della circostanza che il giuoco si chiude giovedì sera, e talora ventiquattr’ore più presto, quando il giovedì è festivo. Siccome il pubblico difficilmente si rassegnerebbe ad attendere fino al mezzodì del sabbato, a braccia incrocicchiate, senza arrischiare alcuna combinazione, così l’impiegato del lotto prende a proprio rischio alcune centinaja di viglietti, e procura rivenderli con vantaggio. Ed è allora che l’interesse personale, stimolante impareggiabile, s’ingegna d’ornare la bottega e sedurre i passaggeri. Tutta la mostra è ornata di cifre infallibili. È il terno della Fortuna; è un ambo sognato da un malato; è un estratto apparso nelle nubi della sera. Spesso estratto, ambo e terno restano per conto del mercante; spesso ancora ei si rallegra di non averli esitati, poichè [114] guadagna all’estrazione. Se perde due o tre volte di seguito, e si lascia pigliare da dispetto, prenderà il partito di viaggiare, dopo avere onestamente collocata la chiave sotto la porta.
Gli stranieri che vengono a Roma, cominciano dal biasimare severamente il lotto. In capo a qualche tempo lo spirito di tolleranza che spira nell’aria, penetra poco a poco ne’ loro cervelli; scusano quindi un giuoco filantropico, che somministra al povero popolo sei giorni di speranza per cinque soldi. E ben presto, per iniziarsi al meccanismo della lotteria, entrano essi medesimi nella bottega, evitando di farsi vedere. Tre mesi dopo, s’occupano arditamente d’una dotta combinazione, e formano una teoria matematica, che volentieri firmerebbero col loro nome. Danno lezioni ai forestieri sopraggiunti; erigono il giuoco in principio, e giurano che un uomo è imperdonabile, se non lascia aperta una porta alla Fortuna.
Ogni estate poi, senza pregiudizio del lotto corrente, si tiene certo numero di tombole. La tombola è una partita di lotto giuocata all’aria aperta dalla popolazione intera. Ciascuno prende un cartone, vi scrive egli stesso quelle cifre che crede migliori. Chierici e laici, ricchi e poveri, circondano l’ufficio della tombola; e l’estrazione si fa in quell’amena villa, che il principe Borghese presta graziosamente al popolo di Roma per passeggiarvi a piedi ed in carrozza. È un immenso giardino, disseminato di monumenti di tutte sorta, e popolato da numerosi armenti che vivono ne’ prati. Che vi pare d’un giardino privato dove si fanno cinquanta mila fasci di fieno all’anno? Un ippodromo di pietra, due volte più grande che il nostro ippodromo di legno, serve di teatro alla tombola. Tutta la città vi accorre in corpo, lasciando agli storpj ed ai paralitici la cura di custodire le case.
Cotesta festa della Santa Moneta è solenne al pari d’ogni altra, e più popolare che molte altre. Vi si vedono tanti cappuccini quanti mai dietro le processioni più frequentate. Il sole, la musica, la toeletta, l’interesse appassionato degli astanti, tutto vi concorre. Ma, zitti! Si fa silenzio, il primo numero sta per sortire. [115] Eccolo, proclamato da una voce sonora, trasmesso di bocca in bocca, da un’estremità all’altra dell’anfiteatro, mentre su grandi cartelli viene esposto a tutti gli sguardi. Ognuno tiene il proprio cartone e vi segna i numeri estratti. Il primo terno, la prima quaderna, la prima quintina subito si annunciano e vanno a cercare il loro denaro sul palco de’ giudici, al suono delle trombe. Se qualche stordito s’inganna e reclama il premio senza averlo guadagnato, ritorna al suo posto in mezzo ad un uragano di fischi. Il primo cartone tutto riempito guadagna la tombola e mille scudi.
Il guadagno non è sì grosso nelle rustiche tombole che formano l’ornamento immancabile di tutte le sagre di villaggio; ma si può dire che, sia per cento od anche per cinquanta scudi, colui che vince dimostra altrettanta gioja, ed altrettanta invidia colui che perde. Guai a chi s’arrischia di guadagnare, se non è della parrocchia dove si giuoca! Viene accompagnato a casa a sassate, ed il suo danaro gli costa caro.
Non è molto che in un villaggio della Sabina tal sorte accadde ad un contadino che abitava tre leghe lontano. Il vincitore era un uomo d’età matura, dolce, paziente, tranquillo, flemmatico siccome un Normando del paese di Caux. Ei s’intascò il danaro senza dir nulla, e s’accinse a portarselo a casa. Ma la florida gioventù del villaggio si pose ad attraversargli la via, e fu tanto peggio per tutti. Si cominciò con de’ motteggi, poi vennero gl’insulti, poi quell’uomo dabbene venne aggirato siccome palla elastica. Egli consolavasi però, ricevendo qualche pugno, poichè sentiva per la scossa suonare in tasca i suoi scudi. La folla, incoraggita dal suo aspetto impassibile, si fece più audace, a tal segno che colui fu costretto a rifugiarsi in un’osteria, anzichè ritornare a casa sua. Fuvvi seguito e sempre perseguitato da grida e da pugni; ond’egli, quantunque tranquillo e inoffensivo, ne venne al punto che, avendo visto un coltello aguzzo, lo afferrò. Due minuti più tardi v’erano nella parrocchia tre morti e quattordici feriti. Il vincitore si trasse al largo, ed uscì da quella terra un po’ più ricco e molto meno innocente di quello che vi era entrato. La notte appresso ei non dormì colla moglie, ma si diresse dalla banda di Velletri, ed andò a ricoverarsi nella Pianura Morta a vivervi col denaro della tombola.
[116]
Lo si chiami borghesia, terzo Stato o ceto medio, esso è il fondo medesimo de’ popoli moderni.
I plebei e gli uomini che vivono alla giornata col lavoro delle loro braccia, sono in ogni paese una forza cieca, che dalla sua ignoranza e povertà viene esposta a tutte le seduzioni della menzogna ed a tutti gli eccessi dell’invidia. Quasi da per tutto bisogna fare conto di questa plebe, ed io non conosco paese dove si possa contare su di essa. È dovere ed interesse d’un buon governo d’illuminarla coll’istruzione primaria, e d’interessarla alla pace pubblica, incoraggiandola a formarsi un capitale. Da un lato le scuole, dall’altro le instituzioni d’economia e di previdenza, aiutano i plebei a salire di grado ed a farli entrar nella borghesia. Verrà tempo, siatene sicuri, in cui non vi saranno più plebei, perchè ogni uomo avrà con sè un’educazione sufficiente, ed un piccolo avere.
Le nazioni più incivilite sono quelle in cui la plebe più rapidamente s’immedesima nel ceto medio, che deve assorbire ogni classe. Esso già assorbe la casta aristocratica, ed è un processo che andrà a compiersi prima della fine del nostro secolo.
Il feudalismo ha reso eminenti servigi all’Europa, ma ormai ha compito il suo tempo. Dopo la rovina del mondo romano e l’invasione tumultuosa de’ barbari, esso aveva creato un ordine fittizio e brutale, ma regolare.
La monarchia assoluta, ch’era un passo verso il meglio, le diede colpi vigorosi, che non solamente lo domarono, ma benanche lo trasformarono. A datare dal secolo XVI la feudalità cambia nome, e chiamasi nobiltà. Il gentiluomo è ancora superiore al villano, ma resta a cento leghe al disotto del re. Obbedisce anzichè [117] comandare, e compra a costo delle più tristi umiliazioni il diritto di umiliare il popolo. Nel 1793 il popolo, vale a dire il ceto medio, decapita la monarchia e la nobiltà, e proclama il principio della eguaglianza degli uomini, che sarà poscia discusso, controverso, eluso, ma non mai abolito.
Basta dare attualmente un’occhiata all’aristocrazia francese, per convincersi ch’essa si fonde a poco a poco nel ceto medio. Le famiglie nobili che sopravvissero al Terrore erano spogliate d’ogni patrimonio. Le restituzioni di Napoleone I, ed i mille milioni degli emigrati non le hanno rialzate che per poco tempo. Il codice civile, che non ammette diritto di primogenitura, disfà le più colossali sostanze col suddividerle. I privilegi da cui potevasi cavare un po’ di danaro sono aboliti; gl’impieghi pubblici non sono più conferiti alla nascita, ma al merito ed alla protezione, e se un gentiluomo del 1860 avesse la pretensione di vivere senza occupazione, siccome i suoi antenati, condannerebbe la sua posterità a morire di fame. Intanto i bisogni aumentano, il lusso trascende, ciò che chiamavasi ricchezza cento anni fa, basta appena al presente a costituire una decente mediocrità. Ora che rimane all’aristocrazia del nostro paese? Essa si distingue ancora dalla folla per la purezza di alcuni tipi, l’elevatezza di alcuni caratteri, l’ostinazione di alcuni pregiudizj; ma è costretta, anche suo malgrado, a deporre il suo disprezzo ereditario per l’industria, il commercio e la finanza, ed a consacrarsi alle arti del ceto medio.
Cotesta graduale annessione di tutto un popolo alla classe più intelligente e laboriosa è una delle cause meno conosciute della nostra grandezza. Cotesta borghesia, della quale a torto deridiamo le ridicolaggini e gli equivoci, di cui condanniamo l’egoismo e lo spirito esclusivo, è però la forza più vivente della nazione francese. Si è potuto decapitare la nobiltà nel 1793 senza fare gran torto al paese; ma se la rivoluzione del 1848, com’erasi temuto un istante, avesse decapitato la borghesia, noi eravamo spacciati. L’impero romano, così saldamente costituito sotto il dispotismo democratico dei Cesari, non potè sopravvivere alla distruzione del ceto medio: è perito per mancanza di borghesia.
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Osservate intorno a noi: la Svizzera ed il Belgio, affrancati ad epoche diverse pel coraggio di alcuni borghesi, formarono due piccole nazioni assai vigorose, perchè la classe media vi prospera e s’ingrandisce. Una borghesia ricca e potente è la gran molla dell’Inghilterra, e move quell’immensa macchina, che colle sue braccia avviluppa il mondo. L’America del Nord, paese eminentemente borghese, divorerà senza posa l’America del Sud, popolata da padroni e da schiavi. La Spagna, degradata all’ultimo segno da’ suoi re e da’ suoi frati, si va rialzando con rapidità maravigliosa dacchè essa ha un ceto medio. La Russia col suo territorio, la sua popolazione, i suoi prodotti di ogni specie, concentrati in una sola mano, sembra minacciar l’Europa, ed inquieta certi politici; ma non sarà a temersi prima d’un mezzo secolo, chè non occorre meno per creare, tra i servi ed i signori, un medio ceto.
In Italia è la classe media che ha preparato la rivoluzione salutare alla quale assistiamo. I capi del movimento nella pace e nella guerra sono due uomini di genio, esciti dal medio ceto: Cavour e Garibaldi. Ciò che ci ha permesso di sperare dal primo giorno che l’Italia ricupererebbe la sua indipendenza, è lo sviluppo che il ceto medio aveva preso, ed i progressi che aveva saputo fare, malgrado tutti gli ostacoli frapposti dall’oppressione.
Se il re Vittorio Emmanuele è il sovrano predestinato della nuova Italia, non è già solamente perchè è il principe più liberale ed audace di tutto il paese; ma è sopratutto perchè il ceto medio è più colto, più preponderante e più forte in Piemonte che altrove. Si trova pure in Lombardia, in Toscana, negli Stati di Piacenza e di Modena, nelle Romagne ed anche nel regno di Napoli una plejade d’avvocati, di medici, d’ingegneri, di professori, d’industriali e di negozianti, i quali da lungo tempo sognano, procacciano e meritano la libertà della loro patria.
Roma non potrà essere affrancata che dopo Venezia e tutte le altre città italiane. La religione e la diplomazia non sono le sole cause di questo ritardo; si spiega eziandio per l’inferiorità [119] relativa in cui i padroni della città hanno abbassato e mantenuto il ceto medio. Questa casta maltrattata si compone d’impiegati laici d’ogni specie, di ufficiali d’ogni grado, d’avvocati, di bottegai, di medici, d’artisti, di locatori e mercanti campagnuoli.
Gli uomini di questa categoria vivono fra loro sopra un piede d’eguaglianza quasi perfetta: il colonnello, il ministro, il mercante e l’avvocato appartengono al mondo medesimo. Essi sono generalmente poveri, e quasi sempre dipendenti; la loro istruzione è modesta e la loro educazione appositamente trascurata. La maggior parte sono clienti di cardinali o di principi; esercitano alla loro volta una specie di patronato sui plebei. Prodighi de’ complimenti e delle cortesie, che sono la moneta corrente di Roma, hanno de’ modi sì rozzi di linguaggio, che parrebbero intollerabili da noi. Si raccolgono tra loro entro una specie di taverne, e prima di mettersi a tavola si tolgono volentieri la loro cravata e depongono il loro abito. Nella loro giovinezza sono abbastanza leggiadri, e s’abbigliano con civetteria, indossando fin l’ultimo loro scudo. A quarant’anni si trascurano, prendono tabacco, portano cravate a nodo fatto, rinunciano ai guanti, ma non già alla carrozza. Il ventre vien loro facilmente, poichè il pane e le paste formano il fondo del loro alimento, unitamente ad alcune insalate ed a molti legumi verdi. Vanno essi medesimi al mercato, e di rado lasciano alle loro mogli qualche soldo a disposizione.
I loro appartamenti sono più che semplici, il loro mobigliare è raro e negletto. Non mancano nè d’intelligenza nè di finezza; hanno grandi vantaggi a ritrarre dal loro spirito, ed inventano le più ingegnose combinazioni per guadagnare molto danaro senza fatica. Si maritano giovani, e la Provvidenza manda loro una moltitudine di figli, di cui non sanno che fare. Religiosi tutti, ma non tutti probi, si lamentano volentieri del governo, quando non temono d’essere intesi; accarezzano i prelati, e cercano un’occasione di soppiantarli. Ecco come sono tutti, o pressochè tutti; sonvi, ben inteso, delle onorevolissime eccezioni, ma non posso valutarle a più del dieci per cento.
[120]
Le loro figlie hanno bei denti, grazie alla purezza dell’acqua ed alla sua temperatura eguale; occhi grandi, cappelli in quantità prodigiosa, belle spalle e nuca ammirabile; lineamenti regolari senza molta finezza, naso ben fatto, labbra un po’ sdegnose, carnagione simpatica, braccia ben tornite, mano perfetta, corporatura spesso tozza, gamba pesante, piede troppo grande. È più grato il vederle che l’udirle, chè spesso hanno la voce virile ed anche rauca. La loro educazione, cominciata in convento, compita in casa, è ancora più negletta che quella degli uomini, ignorando esse pressochè tutto quanto dovrebbero sapere, e sapendo troppo bene delle cose che dovrebbero ignorare. Diseredate dalle leggi a profitto de’ loro fratelli, bisogna che adeschino i mariti con altre attrattive che non col danaro. Ricorrono assai spesso ad una civetteria franca, aperta, seducente, libera, allegra, niente affatto nebbiosa ed esente da ogni sentimentalismo germanico. Esse non sanno frenare nè il loro appetito, nè la loro pinguedine; non sognano al chiaro di luna; dicono altamente che se l’usignuolo è piacevole a sentirsi gorgheggiare ne’ boschi, non è pur cattivo a gustarsi cotto in un pasticcio di riso. Piace loro il romanticismo, e volentieri scoccano qualche occhiata ad un giovane che passi: s’inchinano qualche volta sul loro balcone, per iscambiarsi de’ viglietti in cima ad una cordicella; ma cotesta confidenza e cotesta libertà provano qualche cosa in loro favore. Non suppongono che s’attenti a conquistare il cuor loro senza aspirare alla loro mano; e questi amorucci innocenti sono, a’ loro occhi, delle vie di traversa che guidano al matrimonio. Tanto son facili ad accendersi quanto sono forti nel sapersi difendere. L’amante più pazzamente riamato non è più nulla per esse, dacchè perde l’aureola di futuro sposo. Lo piangono siccome morto, e dopo sei mesi s’accingono ad amarne un altro. Don Giovanni e Lovelace perderebbero il loro tempo presso queste piccole fortezze, facili ad investirsi, impossibili a prendersi. Quando poi vengono sposate, esse recano al loro marito un’innocenza illuminata, un candore istrutto.
Hanno conservato intatto il tesoro della giovane, tranne l’ingenuità. Non manca loro nulla, tranne forse la lanuggine delle pesche sull’albero. Sono come que’ frutti del mercato di Parigi, [121] che sono passati per sette od otto mani, prima che noi vi mettiamo il dente.
Dopo il matrimonio esse usano di qualche libertà, se la cronaca dice il vero. Si pretende che i mariti compiacenti siano in gran numero nel ceto medio, e che molte donne proveggano esse medesime ai bisogni della loro toeletta; ma io credo che questo rimprovero sia, se non del tutto ingiusto, almeno assai esagerato. Ecco i figli che vengono in lunga fila; le prime rughe solcano la fronte, sopraggiungono gli anni, la donna abdica, succede la madre, la civetteria si spegne, la toeletta appassisce, e più non rimane che una specie di aja in veste di lana, che cammina dietro le proprie figlie al passeggio del Pincio.
La borghesia romana rassomiglia sì poco alla nostra, che sarete senza dubbio curiosi di passarla in rivista più dappresso. Entriamo nelle file, e cominciamo dalle professioni liberali.
Marchetti, De Rossi, Lunati sono uomini eminenti che farebbero onore a tutte le avvocature d’Europa; ma il volgo de’ legali è umilissimo, timidissimo ed assai oscuro. I dibattimenti giudiziarj non sono pubblici, e quindi non si sente la tentazione di far pompa d’eloquenza, quando si perora al deserto. Spesso l’avvocato scrive invece di parlare. Le sue memorie per tale o tale altro cliente sono tirate in certo numero di esemplari. Se anche avesse l’ingegno di Cicerone, la sua gloria non oltrepasserebbe quella meta. La sua fortuna procede lentamente: piccoli onorarj, assegni fissi pagati da tre o quattro famiglie ricche, che prendono al servizio un uomo di legge. Parecchi luminari del foro servono di secretari e di consiglieri agli auditori di rota: riassumono le liti e sviluppano le sentenze della corte suprema. Ma se l’auditore di rota viene promosso al cardinalato, il suo dottissimo segretario, il suo consigliere di gabinetto cade direttamente sul lastrico. L’avvocato Vannutelli ha lasciato una bella sostanza, ma perchè era l’uomo d’affari della famiglia Bonaparte. Quanto siamo lontani dall’onnipotenza della tribuna antica ed anche dalla nobile e brillante indipendenza del foro francese!
Ciò che mi fa sorpresa si è che in questo ceto modesto e subalterno vi siano degli uomini di scienza e di coscienza.
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I medici sono anch’essi del pari dipendenti. In una città, dove le visite si pagano da venti a trenta soldi, un povero dottore morrebbe di fame, se non fosse il cliente di qualche casa signorile. Ei riceve quindi uno scudo al mese di qua, due di là, cinque o sei in altra famiglia. Per essere al corrente degli affari, ei passa tutte le sere dal farmacista all’ora dell’Ave Maria; poichè è appunto al farmacista che l’ammalato s’indirizza quando ha bisogno del dottore, mentre il domicilio del dottore è spesso sconosciuto. Quando passeggiate dinanzi un farmacista verso le sei della sera, in inverno, vedete una mezza dozzina di signori che si stringono intorno alla stufa, col cappello sulla testa: sono altrettanti medici che attendono la clientela! D’estate stanno sulla soglia, siccome i commissionarj a Parigi.
Sonvene molti che meriterebbero di vivere altrimenti, e potrei citare certo numero di medici romani, i quali hanno, siccome il celebre Baroni, onorato l’Italia ed illuminato l’Europa. Ma l’insegnamento è sì debole, sì imperfetto ed impacciato da pregiudizj cotanto ridicoli, che la massa de’ medici romani è rimasta in ritardo. Per dieci che tengon dietro passo passo ai progressi della scienza moderna, se ne contano trenta, i quali sono ancora alla terapeutica di Purgon. Quasi tutti gli ammalati sottomessi alle loro cure fanno colazione con una purga, e pranzano con un salasso. E di vero gli abitanti di Roma sono i meglio purgati e meglio salassati di tutti i cristiani. Si salassano quei poveretti che sono assaliti da febbre intermittente fino al giorno in cui, sfiniti in pari tempo dalla malattia e dal rimedio, scendono pallidi come larve nel sepolcro.
Alcuni medici di questo paese hanno ancora la jattanza chiassosa de’ ciarlatani. Spiegano al malato, ad alta voce, e con frasi inintelligibili, la causa de’ suoi patimenti. «Povera caduca creatura, è il verme che ti tormenta; tu sei letteralmente vittima dell’acrastia vermi. Per tua fortuna mi hai dimandato a tempo; il verme non è ancora penetrato nel gran tabernacolo della vita. Vado a fermarlo nel suo corso con un buon salasso, per tema che non profitti del movimento della circolazione per avanzarsi di più: procederemo in seguito ad espellerlo improvvisamente entro il torrente d’una purga detersiva». Dopo otto giorni di [123] trattamento, l’ammalato, vuote le budella come un pollo sventrato, finisce per rendere un filamento bianco o rosso, ed il medico esclama: «Rallegrati d’avere trovato un degno allievo d’Ippocrate! La scienza ha fatto un miracolo di più; il verme è domato, tu sei guarito!»
Eppure ho trovato ne’ dintorni di Roma un medico assai più modesto. Era giovane, ed il farmacista l’aveva mandato in una casa, dove per avventura mi trovava io pure. L’ammalato gli disse: «Non mi sento bene, la mia testa è pesante, sono grosso, ho il collo passabilmente corto; non mi curo di morir d’accidente: salassatemi.
— Volentieri, rispose il giovine levandosi l’abito. Il salasso è una bella operazione, utilissima e facilissima; sì, facile davvero, sebbene tutti gli uomini non siano egualmente destri. Non avete timore? Oh! nemmen’io. Che è mai un salasso? Una puntura da farsi ad un braccio. Ciò che importa è di non tremare.» Tremava però alquanto, ma si fece coraggio in presenza del pericolo; trasse la sua lancetta, tagliò la vena, ed ecco ne sprizzò un bel getto di sangue nella tazza. Il dottore cadde a ginocchi esclamando: «Ringraziamo la Madonna! Questa volta sono riuscito».
Quand’egli si fu rimesso dalla sua commozione, gli dissi: «Per bacco, dottore, voi avete la mano franca, ed io stesso voglio confidarmi alle vostre cure. Cotesto maledetto vento di scirocco, che spira da due giorni, mi cagiona non so qual malessere, e provo molta fatica a lavorare.
— Volete che vi purghi?
— Grazie.
— Bramate che vi salassi?
— Oh! mille grazie. Non abusiamo della bontà della Madonna.»
Ei ripigliò con certa esitazione: «E che fareste voi stesso?
— Son d’avviso che prenderei de’ bagni ai piedi, e ben caldi.
— Avete ragione. Sì, fatevi un bagno ai piedi, ve l’ordino. Poi, se avete fede in me, andate a letto, e fate una preghiera a S. Andrea Avellino, il cui intervento in questi casi è onnipossente».
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La distanza è breve tra questo medico dozzinale ed il bottegajo, sicchè posso osare il passaggio dall’uno all’altro. I mercanti ed i bottegaj hanno alquanto cambiato di fisonomia da cento anni in qua. Altre volte i magazzini del Corso rassomigliavano a bottegucce; ma ora sono alquanto simili ai magazzini delle nostre città di provincia. Il venditore ne’ tempi andati rispondeva con aria non curante: «Tengo ciò che volete, ma ritornate dimani; è troppo caro». Ora mostra maggior premura, ma la merce non vale di più. Roma non è il centro del commercio intero, e quasi tutte le città si proveggono direttamente in Francia od in Germania. La capitale basta a sè medesima con una fabbricazione ristretta ed una importazione limitata. Gli stranieri di passaggio vi trovano pressochè tutto, od almeno l’etichetta di tutti i prodotti del mondo sopra merci falsificate. Il prezzo di tutte le merci di lusso è esorbitante, la qualità detestabile. E ciò perchè il mercante paga diritti abbastanza forti, vende poco, e suddivide il suo guadagno con molte persone. I sensali, i servitori di piazza, gli officiosi d’ogni specie prelevano una piccola parte. Voi volete comprare un mobile, or bene il vostro domestico italiano sa dove se ne vende, onde sarete condotto siccome filo nella cruna dell’ago sino ad una bottega senza mostra, situata al primo piano d’una casa di magro aspetto, che da voi stesso non avreste potuto trovare. Dopo che voi sarete uscito, il mercante divide l’utile colla vostra guida, che dà qualche cosa al vostro domestico. Pari mistero ad un bel circa copre i negozianti di commestibili che vi danno da pranzo. A prima giunta voi credete che vendano de’ giocatoli di carta indorata; poi venite a sospettare che facciano in secreto il mestiere del confetturiere. Bisogna dire certe parole perchè vi si mostri un bifteck, che non è buono. La senseria ha tanta parte ne’ beneficj del commercio, sicchè la medesima quantità dello stesso olio si vende sei soldi all’ingrosso e quindici al minuto. Ora giudicate della parte che spetta agl’intermediarj!
Gli operai romani sono generalmente abili, lavorano adagio adagio, ma sanno fare certe cose a perfezione. Non vi sono al mondo case più solidamente costrutte di quelle di Roma. La leggerezza [125] de’ palchi da costruzione è miracolosa; e non si ripara un edifizio se non all’estrema necessità, e la vigilia del giorno in cui dovrebbe cadere. Si toglie un mattone, se ne mette un altro, s’introduce una pietra in una screpolatura; insomma, dopo alcuni mesi la costruzione si trova rifatta a nuovo.
Non avete mai inteso la storia di quel calzolajo di Milano, che fu dimandato da un general francese sotto il primo Impero? «Mio giovinotto, disse il generale, ho bisogno d’un pajo di stivali fini; ma non si fanno che a Parigi!» Il calzolajo s’inchinò, prese la misura ed uscì. Otto giorni dopo ei provava al generale uno stivale senza difetti, così esatto, elastico e fino siccome guanto. «Corpo del diavolo! esclamò il vincitore, tu sei un demonio ben destro. Il tuo stivale mi va benissimo; vediamo l’altro! — L’altro, soggiunse l’operajo, lo farete fare a Parigi».
Se gli operai romani lavorano più lentamente che i nostri, egli è sopratutto perchè non hanno danaro. Avevo ordinato un abito ad un sartorello, la cui bottega prometteva certa agiatezza. Mi fece aspettare più d’un mese, ed i pretesti che addusse basterebbero a fornir materia per un atto da commedia. Da ultimo mi venne in mente di anticipargli qualche scudo, e fui subito servito. Quasi tutti i mastri muratori, i vetraj, ecc. che s’impiegano all’Accademia di Francia, lavorano per anticipazioni che loro si fanno.
La mancanza di capitali è appunto quella che fa languire il commercio e l’industria; ed è per la stessa causa che invano si cerca in Roma quella borghesia indipendente ed illuminata, che è il più saldo fondamento di tutte le grandi nazioni. È da credersi che il compimento delle strade di ferro, facendo convergere verso Roma tutti i frutti del paese, vi potrà creare un ceto medio degno di tal nome. Si citano alcuni salsamentari che si sono arricchiti; ma la sola impresa commerciale in cui siasi fatta una fortuna principesca è quella della fabbricazione del pane. Vi ho già detto che i Romani erano i più voraci mangiatori di pane dell’universo incivilito.
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Gli operaj e mercanti, per miserabili che siano, non peccano mai per eccesso di modestia. La loro vanità e la loro imprevidenza pareggiano talora quella de’ plebei. Spendono tutte le loro economie due volte all’anno, dapprima in carnevale, poi nel mese d’agosto, durante la vendemmia. Amano la pompa, portano oro in catene, in anelli e pendenti d’orecchie. Il nostro falegname, che somiglia appuntino a Calibano, porta una turchese ad ogni orecchia, siccome i buffali hanno un anello di ferro nel naso.
Jeri sera, risalendo per la via Frattina, intesi la chiusa d’una conversazione tra un droghiere ed un legatore, che serravano le loro botteghe. «E con tutto ciò, diceva il legatore, noi siamo Romani, i primi del mondo».
L’affitto degli appartamenti mobigliati è stato per molto tempo la principale industria del ceto medio. Quando bisognava viaggiare per un mese o due per venire a Roma, gli stranieri non vi si fermavano otto giorni. Vi passavano l’inverno, ma non all’albergo, chè gli alberghi sono invenzione moderna. Di quei tempi adunque, una famiglia romana, che avesse avuto almeno alcuni scudi a disposizione, assumeva in affitto, di terza o quarta mano, tutto un piano sul Corso, prendeva a nolo de’ letti per mobigliarlo, e l’offriva poi ai nobili forestieri che arrivavano colle poste. Potevate avere, per mille scudi, un appartamento che non ne fruttava cinquanta al proprietario della casa. Il sopravanzo dividevasi fra il locatore principale, il sottaffittuario, il mercante di mobili, l’impresario delle stanze mobigliate, ed il servitore di piazza che vi aveva condotto fino alla porta. Quest’uso non è scomparso del tutto, poichè varie famiglie, di certa considerazione, non hanno altri mezzi per vivere. Abitano presso di voi, in un cantuccio, aprono la porta, ricevono le vostre visite, e si tengono compiacentemente al vostro servizio. Cotesto semi-grado di domesticità non ha nulla che gli umilii. Del resto sonvi pochi Romani del ceto medio che, a dritto od a rovescio, non siano un po’ domestici. Costui è avvocato ed intendente, colui è medico al servizio d’un principe; questi è droghiere e cameriere, quegli è tabaccaio e guardaportone d’un cardinale, e [127] quell’altro è cuoco d’un marchese e trattore. Chi non ha sentito parlare del trattore Lepri? È la taverna più celebre di Roma, e dove si pranza peggio, ma a buon mercato. Ecco in qual modo venne fondata. Il marchese Lepri era quasi rovinato negli averi, quando il suo cuoco si offrì di nutrir lui e tutta la sua famiglia a cinque soldi a testa. Non dimandava null’altro in compenso che quello d’aprire una piccola trattoria presso la sua cucina, al pian terreno del palazzo. Conchiuso il contratto, quel piccolo commercio crebbe a segno, che il trattore traslocossi altrove, con sè portando il nome di Lepri, che gli è rimasto. Ma osservate come tutto si altera in questo mondo! ei s’intitola attualmente trattore della Lepre.
I soli borghesi veramente degni di tal nome, perchè raggiungono fortuna e indipendenza, sono i mercanti di campagna. La loro industria consiste nel prendere in affitto una vasta possessione, che coltivano con grande appoggio di braccia, di bestiame e di capitali.
Se l’industria ed il commercio non brillano in Roma se non per la loro assenza, l’agricoltura non trovasi nel medesimo caso: la città è come un gigantesco podere in mezzo alla pianura più fertile del mondo. Il suolo è si potentemente ferace che, malgrado l’insalubrità dell’aria, malgrado la consuetudine, lo sciopero, l’insufficienza delle leggi civili, l’indolenza de’ proprietarj, e la deplorabile distribuzione de’ possessi, malgrado il pessimo stato delle strade, la capitale del cattolicismo è attualmente la capitale del grano. Alcuni uomini intelligenti, sorti dagli strati più modesti della plebe campagnuola, hanno sparagnato alcuni scudi; i figli loro gli hanno fatti fruttificare in speculazioni rustiche, i loro nipoti comprano capi bovini, prendono un’affittanza, pagano cento cinquanta mila franchi all’anno al principe Borghese, ovvero ad un altro, e ne mettono in serbo altrettanti. Alla generazione seguente diventano conti, marchesi, duchi, principi! Comprano il patrimonio, il nome e gli antenati d’una grande famiglia decaduta, se loro piace discendere dagli eroi di Tito Livio e non dagli schiavi di Catone.
In attesa di questa metamorfosi, il mercante di campagna [128] abita, in Roma od a Frascati, una vasta casa modesta e poco mobigliata, con camere dipinte in calce, dove offre un’ospitalità cordiale, un vino eccellente, e quattordici piatti di vivande succulenti. E voi mangiate di tutto, ve ne prego, sotto pena di spiacergli. La sua conversazione è solida e piena di cose, sopratutto se l’interrogate sui lavori de’ campi. Non è già ch’ei viva sempre nell’orizzonte della campagna romana; ei viaggia di tempo in tempo. Ha fatto una gita a Londra, ed una piccola sosta a Parigi; si propone d’andare a vedere suo fratello, che trovasi a Vienna, e forse spingerà la sua corsa fino a Costantinopoli. Non confondetelo coi Romani di professione, che non hanno mai veduto il mare, e che parlano d’Albano per averne inteso parlare. Il mercante di campagna è di tutti i paesi, siccome il grano, siccome il danaro. Suo solo difetto è quello di ripetere fino alla noja: «Siateci indulgenti, noi siamo gente di campagna.» Senza questa modestia esagerata, si proverebbe un piacere perfetto a conversare con esso. Ma scusatelo per un istante, bisogna assolutamente ch’egli vi lasci. Egli ha collocato questa mattina medesima mille e seicento mietitori in un campo di grano. Permettetegli di montare a cavallo, e d’andare a vedere co’ propri occhi, se la grandine d’jeri sera gli ha fatto perdere più di cento mila franchi. I suoi grani sono a due leghe lontani di qua; fra poco più di un’ora ei sarà di ritorno, e tutto per voi.
Ve lo mostrerò nell’esercizio delle sue funzioni, se mi fate l’onore di seguirmi un giorno nella campagna. Per ora, levatevi il cappello, ecco i signori impiegati.
Che moltitudine, sommi Dei! E chi dunque ci diceva che i laici non pervenivano agl’impieghi negli Stati del Papa? — Non datevi la briga di contarli: sono 8500, secondo l’ultimo censo ufficiale. Un uso inveterato vuole che ogni personaggio importante, cardinale, prelato o principe, si dia cura di alloggiare i propri clienti ed amici in qualche posto del governo. La moltiplicità degl’impieghi e la modicità degli onorarj procedono da ciò, e sono due veri flagelli. Si procura d’accontentare tutti, senza però dar fondo al tesoro. Tutti cotesti signori sì ben collocati [129] ricevono assegni molto modesti, ad eccezione di cinque o sei. La gran maggioranza s’accontenta da venticinque a cento franchi al mese, e coloro che arrivano a cinquanta scudi sono personaggi di vaglia. Ecco de’ governatori e vicegovernatori di città, che amministrano e giudicano, che hanno il diritto di mandar un uomo alle galere per cinque anni, e percepiscono dall’erario 125, 100, ed anche 60 soli franchi al mese! Ecco de’ giudici di prima istanza a 100 franchi, de’ consiglieri della corte d’appello a 350. Sono pagati meno che gl’impiegati del lotto. Se siete curiosi di sapere come facciano a vivere, è un secreto che posso svelare senza scandalo. Il capo divisione del ministero delle finanze è in pari tempo incaricato della tenuta de’ libri d’un mercante di campagna. Non sono due ore che un domestico del fittajuolo è venuto a pungerlo al suo ufficio per certe scritture in ritardo. Questo impiegato del Senato discende dal Campidoglio una volta al giorno per ordinare delle cifre al Ghetto, nella retro-bottega d’un israelita. Costoro crescono clandestinamente la propria rendita con qualche incerto, che ottengono stendendo la mano a proposito. Coloro sono troppo altieri per stendere la mano; la introducono furtivamente nella cassa. Ecco un gruppo di persone oneste, che servono lo Stato con zelo assiduo, disinteressato, direi quasi eroico. Può darsi che taluno d’essi arrivi per caso a qualche impiego elevato; ma la plebe che non stima, se non le grandezze ereditarie od ecclesiastiche, difficilmente li tratterà con serio riguardo. Non perdonerà loro nè l’umiltà della sua nascita, nè le funzioni modeste sostenute. L’aristocrazia lo terrà rigorosamente a distanza e gli chiuderà le sue sale; il clero vedrà in lui un intruso, che ha raggiunto il suo scopo per vie tortuose. Alla prima occasione proverà la sorte del povero Campana. Del resto, debbo confessare, che queste fortune politiche sono assai rare. Non solamente i cittadini più onesti e più capaci sono allontanati dagli alti impieghi, ma essi medesimi se ne tengono lontani e prendono altra via.
L’esercito spetta alla plebe pei soldati, ed al ceto medio per gli ufficiali; non occupa un grado fra i corpi dello Stato, e non forma, siccome in Francia od in tutti i paesi militari, una classe [130] distinta ed onorata. Le menti non sono ancora avvezze a considerare nel soldato qualche cosa più che un uomo del popolo, e gli spallini d’ufficiale non sono distintivo di nobiltà, ma sibbene quello d’un impiego come tutti gli altri. Questa specialità merita un capitolo completo; ed io la differisco per trattarla a fondo.
Ma non mi congederò dal ceto medio senza farvi osservare quella piccola schiera di bottegaj in uniforme. Vanno di questo passo al Vaticano ad occupare la seconda anticamera, fra gli Svizzeri e la guardia nobile. Si presteranno loro de’ fucili per la giornata, ed essi li restituiranno all’uscire. Questa guardia nazionale si chiama la scelta. Si veste a proprie spese, ma credo che ciascuno degli scelti riceva nove scudi all’anno, ed una dote di 300 franchi quando marita una delle sue figlie.
Si trova ancora a Roma un certo numero d’artisti distintissimi. Io non ho la pretesa di far conoscere all’Europa i nomi de’ sig. Tenerani, Podesti, Calamatta, Mercuri. Ma mi sorprende che questi nomi abbiano potuto morire in una città, ove l’arte è un ramo d’industria coltivata da un certo numero di borghesi.
Gli artisti di tutti i paesi appartengono alla classe media, ma è in Italia solamente ove fanno parte integrante della borghesia. Gli studi dei pittori hanno nello stesso tempo della fabbrica e della bottega. I teatri sono magazzini in cui si danno a buon mercato delle derrate indigene di qualità mediocre e delle merci estere adulterate dai venditori.
I nostri borghesi di Parigi hanno tutti, secondo la loro età e la loro educazione, un pregiudizio favorevole o contrario agli artisti. Un commesso di negozio crede onorarsi bevendo l’acquavite [131] con un buffone del Palazzo Reale; il padrone dello stesso negozio trova che il suo commesso si compromette in sì cattiva compagnia. I giovani borghesi che incontrano un lavapennelli nella contrada dei Martiri, lo considerano come un essere superiore all’umanità; gli uomini d’una certa età e d’una certa agiatezza non sono alieni dal vedere in lui una creatura degradata dall’abuso dei colori forti. Dal canto loro gli artisti affettano quasi tutti un profondo disprezzo per la casta borghese; che fa pagar care le pigioni e compra pochi quadri. I commedianti stessi, che sono mantenuti dalla borghesia, non fanno alcun caso dell’opinione dei borghesi. Non istimano che gli applausi d’una trentina di persone che hanno pagato i loro posti. Anche i nostri autori scrivono per essere ammirati da un piccol numero d’individui che non comprano molti libri; si fa loro un rimprovero sanguinoso allorchè si accusano di lavorare per i borghesi. Scrittori, pittori, scultori, compositori, cantanti e commedianti vivono da noi meglio o peggio, ma per certo in modo diverso dei fabbricatori di berrette.
Si suppone generalmente in Francia che i difetti e le doti de’ nostri artisti si ritrovino negli artisti italiani con quella dose d’esagerazione che il clima comporta. Del pari che le piante senz’odore dei paesi temperati prendono un olezzo violento all’avvicinarsi dell’Equatore; come i serpenti inoffensivi del Nord fanno delle ferite mortali nel Mezzodì, così taluni s’imaginano volentieri che i talenti ed il carattere dell’artista si scaldino e s’irritino ai raggi di un sole più ardente. Il teatro ed il romanzo francese vengono a cercare in Italia dei compositori nervosi, dei poeti arsi dalla febbre, dei pittori ebbri di gloria, delle cantanti di fantasia esaltata, che fabbricano castelli in aria. Oh! la buona gente che noi siamo!
Cominciamo dalla gente di teatro, e vedrete come rassomiglino poco ai ritratti che ci furono dati. Il direttore è un uomo che ha poco denaro da arrischiare. Egli domanda il permesso di rappresentare la commedia per tre mesi in uno de’ teatri della città; un protettore risponde della sua moralità, e la polizia consente: eccolo direttore. L’anno scorso era mercante di campagna; [132] l’anno prossimo speculerà sulle somministrazioni dell’esercito; nello stesso momento se l’introito non va bene egli si rifarà sulla pesca delle acciughe di cui ha il monopolio.
La sala in cui stenderà le sue reti al pubblico è una sorta di pozzo con dei palchi tutto all’intorno e la platea in fondo. Contate sei file di palchi tutti uguali e disposti nello stesso ordine delle finestre di una casa. La platea e l’orchestra sono tutt’uno; vi sono delle panchette comode, e vi si gira comodamente. I palchi si affittano a stagione o seralmente a prezzi eccessivamente bassi; essi sono forniti di sedie di paglia; il locatario è libero di mettervi delle poltrone. L’illuminazione costa poco, perchè la sala è un po’ meno scura d’un forno. Le riparazioni consistono in uno strato di pittura a guazzo, che non si rinnova di sovente.
L’amministrazione si compone di due impiegati, di cui l’uno vende i biglietti in una bottega vicina, e l’altro li riceve all’entrare in platea. Non vi è alcuna controlleria, e non vi sono operaje; ognuno arriva col suo biglietto o colla sua chiave, secondochè va in platea od in palco. Il vestibolo serve di sala d’aspetto; si può anche passare il tempo fra un atto e l’altro, passeggiando in istrada.
Se l’impresario giudica a proposito di offrire a questo rispettabile pubblico una stagione d’opera, egli affigge preventivamente un proclama a’ suoi Mecenati; poi strombetta con grande sfoggio di elogi i nomi degli autori, dei compositori e degli artisti che ha scritturato. I primi soggetti sono pagati ragionevolmente, molto meno che a Parigi, ma hanno di che vivere all’italiana. I coristi ed i suonatori si raccolgono in un momento, perchè di questa merce ve n’è sempre abbastanza, e nulla qui abbonda quanto la mediocrità.
La prima cantante assoluta è una buona madre di famiglia; le sue sei creature hanno avuto l’attenzione dilicata di non guastare minimamente la voce della loro mamma.
Suo marito è un baritono, talvolta un gentiluomo rovinato ch’essa mantiene. Non temete ch’ella gli sia infedele; essa ha troppo da fare. Gli spettacoli, le ripetizioni, i figli, e la cucina assorbono tutta la sua anima. Però, essendo donna, darà forse [133] un colpo o due di temperino nel contratto, ma ella non abbandonerà giammai suo marito per cantar meglio. Vi è molta semplicità, molta bonarietà, e dell’onestà vera in questa prima donna, semprecchè il lusso di Parigi e di Pietroburgo non le abbia fatto girare la testa. Suo marito è per essa un mobile necessario, che la conduce e la riconduce a casa dal teatro, firma le scritture, guida i piccoli ragazzi alla scuola, e fa le provviste per la cucina.
I cantanti e le cantanti non sono nè più bene nè più mal visti degli altri borghesi. I gran signori li ricevono la sera e danno loro del tu. Hanno dei parenti bottegaj che li riconoscono volontieri. Sono un poco invidiati allorchè guadagnano molto denaro, e si compiangono quando trascinano i sandali. Hanno imparato la musica, come avrebbero studiato la legge, l’arte di cucire, o la medicina. Gli applausi arrecano loro piacere, e non si suicidano se non quando loro accade d’essere fischiati. Del resto si applaudiscono ogni volta che lo meritano un poco. L’Italia è più entusiasta della Francia. Noi siamo gelosi dei nostri artisti come dei nostri uomini grandi, e noi rimproveriamo loro gli applausi che ci strappano. L’Italia guasta i suoi. L’abitudine di richiamarli dopo ogni pezzo è sì forte, che fa mestieri lasciare un’apertura in mezzo al sipario. Per poco successo che abbiano, non fanno che entrare ed uscire fino a mezza notte passata. La critica non impedisce loro giammai di dormire; se un uomo, che ha buon gusto, avesse qualche buon consiglio da dar loro, sarebbe obbligato di scriverlo sui muri, e ciò per la semplicissima ragione che non vi sono giornali.
Ognuno di essi, verso la fine della stagione, dà una recita a suo beneficio. Va in persona, allungando il collo, a portare le chiavi di palco ai gran signori. Glielo si paga più caro del prezzo d’affitto solito, ed egli ringrazia umilmente. All’ora dello spettacolo egli siede in persona sotto il vestibolo del teatro, dietro un vasojo d’argento, ove ciascuno getta la sua offerta: egli s’inchina in segno di ringraziamento per una moneta di venti soldi.
I poveri diavoli dell’orchestra e dei cori fanno tutti qualche altro mestiere per vivere. Il cumulo è di moda e di necessità [134] nel paese. Ieri ho preso un calesse da un mercante di sementi che dà legni a nolo, ed il cocchiere si trovò essere un cantante del teatro Argentina.
Il teatro si apre con un’opera in tre atti, d’un divino maestro, il cui nome non giungerà fino a Parigi. È maestro di cappella d’un gran duca microscopico, o cliente di qualche principe romano. S’alza il sipario, il tenore canta un’aria, il pubblico applaudisce. A questo segnale si va a cercare entro le scene un omicciatto in paletot nocciuolo e in cravatta a quadretti. Un artista lo conduce innanzi la rampa, ed egli saluta profondamente: è l’autore. Lo si richiama ed ei ritorna. Alla fine di ciascun pezzo, gli applausi lo fanno tornar fuori, una volta, due volte, tre volte; la sua povera schiena non ne può più. Questo giuoco in apparenza gli piace, perocchè invece di togliersi all’affronto di una tal gloria egli si è trattenuto fra le scene, come un lacchè in un’anticamera, aspettando il beneplacito del pubblico. Conviene in verità che le sue orecchie sieno ben affamate, perchè eccolo ora che viene da sè stesso, al primo rumore d’applausi, senza che un sembiante di violenza scusi un trionfo sì basso. Alla sua quattordicesima genuflessione un ribrezzo mi assale, ed esco. Il primo atto era quasi finito.
Ciò che può sembrare inverosimile, è l’entusiasmo d’un uditorio che paga per un’opera mediocre ed eseguita debolmente. Gli applauditori non esistono qui; è il vero pubblico che si sfiata a tutta gola a gridare bravo, e batte le mani fragorosamente. Io non ho osservato se le persone del bel mondo prendessero i sorbetti o parlassero d’affari durante la recita. Essi ascoltano con tutte le loro orecchie ed applaudiscono con tutto il loro cuore. I Romani di Roma fanno gratis e vigorosamente ciò che i Romani di Parigi fanno mollemente e a prezzo d’oro.
In capo alla stagione di tre mesi, l’impresario che ha dato tre opere, compreso una nuova, si ritira con gloria. Egli ha perduto un po’ di denaro; se ne consola, facendo scolpire sopra una lastra di marmo alla porta del teatro i successi che ha ottenuto e la riconoscenza del popolo. Talvolta va a cercar fortuna altrove; alcune volte pure, per rifarsi, tenta una stagione di drammi e commedie.
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Egli ha avuto cura di assicurarsi il concorso di tre o quattro avvocati; è l’avvocato che scrive le commedie. I poeti della compagnia sono annunciati sul programma in seguito agli attori. Il più delle volte questi signori si accontentano di tradurre i drammi ed i vaudevilles di Parigi. È così che Terenzio e Plauto s’inspiravano alla commedia greca; ma Terenzio e Plauto non iscrivevano le loro traduzioni currenti calamo. L’autore romano raramente si nega il piacere di firmare l’opera che ha tradotto; vecchia abitudine d’un popolo conquistatore. Qualche volta si cancella il nome dell’autore, e si lascia credere al pubblico che la produzione si è fatta da sè. Il signor Eugenio Scribe è il solo che abbia il privilegio d’essere sempre nominato. Il pubblico romano non ama che le produzioni francesi. Vi piange, vi ride, e vi applaudisce. Ma di quando in quando il suo amor proprio si ribella contro il suo gusto. «E che! dice la platea, siamo Romani ed applaudiamo agli autori francesi!» Dopo ciò, si fischia, solo per dar principio, la produzione che aveva piaciuto di più. L’anno scorso a quest’epoca il pubblico si mise a fischiare per un nonnulla il suo autore favorito. Questo giovine comprese subito ciò che gli si voleva dire. S’incrociò tranquillamente le braccia e rispose: «Signori, confesso che noi facciamo malissimo a porgervi tutti i giorni delle derrate estere. Noi c’impegniamo da oggi in avanti a darvi esclusivamente delle commedie nazionali.... tostochè però i vostri signori autori si daranno la pena di farne.»
I signori autori vi si accingono di tanto in tanto, ed è allora che si vedono comparire tante puerilità morali e stiracchiate: Egoismo e buon cuore; l’Orfano vendicato; un tardo ravvedimento; gl’inconvenienti di un temperamento focoso, ecc. ecc. Il pubblico sbadiglia un poco a queste rapsodie, ma qualche volta anche vi piange. La sua sensibilità superficiale si scioglie in acqua, per poco che un padre benedica i suoi figli, o che un peccatore chiegga perdono de’ suoi falli. Gli autori che gusta di più sono quelli che mandano fuori una voce sì forte da far crollare la sala, o che girano due occhiacci bianchi in modo da farli quasi uscire dalla loro orbita.
Fra i rari scrittori, che lavorano per il teatro, vi sono alcuni [136] distinti allievi di Goldoni. Moderati nel comico e nel patetico, non mancano però nè d’invenzione nè d’eleganza. Ma il buon volere della platea e gli applausi d’un pubblico che non è abbastanza esigente, lo avvezzano ad accontentarsi di troppo poco. Essi adattano un dialogo leggero ad un argomento un po’ fiacco; innestano qua e là alcuni squarci morali o sentimentali, e la commedia è fatta. Un autore inglese non è contento, se non ha incastrato due o tre azioni nel suo dramma; i drammaturgi italiani ne prendono a loro piacere, e non temono di sviluppare in cinque atti un semplice aneddoto. Lo spirito irrequieto, violento, esorbitante dell’Inghilterra, il genio facile e scorrevole dell’Italia si tradisce in ciò come in tutto.
La censura è inetta a Roma, come in tutti i paesi afflitti da una censura. Non vi è nulla di più irriprovevole delle moralità drammatiche che s’inventano in Italia, e Bossuet stesso farebbe grazia al teatro, se potesse vedere solamente una volta il tardo ravvedimento.
Ma l’uomo a cui si danno le forbici per tarpare le ali al pensiero vuol guadagnarsi il salario con coscienza. Ei cavilla su delle bagattelle innocue, ed è dotato d’un olfatto particolare per trovare il pericolo dappertutto ove non c’è. Si è costretto il traduttore a cangiare il titolo del Birrajo di Preston, perchè Birrajo suonava quasi come sbirrajo. Si dovette adottare nell’interesse della quiete pubblica, il Liquorista di Preston.
Nella traduzione di Diana de Lys, si sono tolte queste parole: ordinate i cavalli. Non si ordinano i cavalli, disse il censore, non si ordinano che i preti. In ricambio, egli lasciò passare delle indecenze che il pubblico dei Funamboli di Parigi non tollererebbe.
I commedianti di questo paese sono tutti d’una mediocrità tollerabile, come gli altri artisti; essi non mancano nè d’intelligenza nè di zelo, e a vederli recitare alla sera, non s’indovinerebbe mai che hanno letto la parte alla mattina per la prima volta. Li troverete qualche volta eccellenti nelle commedie familiari di Goldoni, lo Scribe italiano. Mi sembrarono quasi tutti [137] buoni jeri l’altro nella Fiammina ovvero un’espiazione commedia anonima. Daniele Lambert e sua moglie non avevano altro difetto che di fare stralunare gli occhi, ogni qualvolta la situazione volgeva al patetico. Il solo rimprovero da farsi a Silvano Duchâteau, è che entrava dappertutto col suo cappello abbassato fino alle orecchie. Malgrado alcune incongruenze di azione, malgrado il berretto greco di pittore e il fazzoletto rosso col quale s’asciugava la fronte, il dramma produceva un’impressione profonda. I gendarmi di servizio piangevano a calde lagrime. In quanto a me non potei trattenermi dal ridere vedendo lo scioglimento aggiunto dal traduttore. Daniele Lambert perdona a sua moglie, le apre le braccia e dice al giovane Enrico: Noi saremo due ad amarti. Silvano Duchâteau aggiunge immediatamente: Io e mia sorella, faremo quattro. Il sipario cade su questa goffaggine: lasciamolo cadere.
Per quanto modesta sia la letteratura drammatica, essa è ancora ciò che si trova di più brillante in questo paese. Si stampa di tempo in tempo una dissertazione sulle piaghe di N. S. Gesù Cristo; un’offerta al cuor di Maria, modello di diacono cristiano; una vita di Santa Geltrude di Frosinone, oppure del beato Nicola da Velletri; alcune edizioni purgate di un classico latino, qualche trattato elementare d’astronomia o di archeologia. La stampa periodica si riduce a due piccoli fogli politici del formato del Charivari. Essi rendono conto delle cerimonie celebrate a Roma, e dei grandi avvenimenti accaduti all’estero. S’intitola Giornale di Roma, e l’altro Il vero amico del popolo. Dell’uno e dell’altro si tirano alcune centinaja di copie. Citerò per ricordo alcune altre pubblicazioni effimere, che tentano di vivere togliendo dagli altri, e la Civiltà Cattolica che ci onora qualche volta colle sue ingiurie.
Ne ho detto abbastanza su tal argomento, imperocchè non è nè il teatro nè la letteratura che attirano i viaggiatori a Roma. Questi sanno che gli spettacoli vi sono soltanto tollerati, e che da due secoli non vi si fa nulla per incoraggiare gli scrittori; ma è mio dovere di combattere un pregiudizio ridicolo di cui [138] gli Americani, gl’Inglesi ed i Francesi stessi sono le vittime. Si crede ancora a Nuova-York, a Londra ed a Parigi che i pittori e gli scultori romani siano i primi del mondo, come ai tempi di Raffaello. Roma possiede un piccolissimo numero di veri artisti e una plejade di fabbricatori che vivono sulla riputazione de’ loro antenati. Non v’è ricco viaggiatore che non si creda obbligato di portar via da Roma una statua, qualche quadro ed un ritratto. Le fabbricerie delle nostre parrocchie del Mezzodì, quando hanno da commettere qualche oggetto di marmo, si dirigono volontieri ad uno scultore Romano. Gli Americani arricchiti dal commercio o da un fallimento si fanno costruire un tempio greco sull’orlo d’una foresta vergine; ed affinchè l’interno della casa sia in armonia coll’esterno, si viene a Roma con gran pompa; si fa man bassa, colla borsa in mano, in tutti gli studi, e si porta via un assortimento d’oggetti d’arte. Io ebbi il piacere di accompagnare un gentiluomo di Cincinnati in una di queste precipitose spedizioni. Egli era venuto a Roma verso la fine di aprile e non poteva restarvi che tre giorni. Era poco, nonostante trovò il tempo di vedere la città minutamente, di comperare un centinajo di quadri e una mezza dozzina di statue, e di farsi fare un busto ed un ritratto in piedi. «L’occasione è favorevole, mi diceva egli, uscendo dall’albergo. Secondo le informazioni che ho preso, l’estero ha dato poco: quest’inverno i magazzini degli artisti sono ingombri: i quadri sono ribassati del venticinque per cento dall’anno scorso; i marmi sono più sostenuti, dicesi, eppure le prime marche hanno ceduto da dieci a quindici per cento dal 1.º marzo in poi.» Ei disse al servitore di piazza che ci conduceva «Andiamo, giovinotto! dal primo scultore di Roma!»
Il mariuolo non se lo fece dire due volte; egli era avvezzo a questa sorta d’ordini, e sapeva la strada di cinque a sei studi ove si danno le mancie più abbondanti. La carrozza si fermò dinanzi l’insegna d’un celebre marmorino. Il padrone raschiava negligentemente una figurina di terra, intanto che venivano gli avventori. Egli ci corse incontro con lo stesso zelo del miglior capo di negozio in un magazzino di Parigi. Ciò non accade [139] senza gettar un’occhiata di convenzione col galantuomo che vi consegnava nelle sue mani. Una volta ch’ebbe preso possesso delle nostre persone ci fece passeggiare in uno, due, tre, quattro, e cinque studi successivi; ci spiegò il soggetto di tutte le sue composizioni, ci fece fermare davanti tutte le statue che aveva fatto in vita sua, e citò i nomi di tutti i personaggi che ne avevano commesso una copia. Tale figura era stata venduta successivamente a dodici stranieri, ed il modello era sempre là, pronto a servire. Se n’era appunto terminata una copia; un’altra era abbozzata, un’altra punteggiata. Io ammirava fra me l’ingenuità degli scultori francesi, che vendono col marmo la proprietà della loro opera. Gl’Italiani non sono sì pazzi. Allorchè vi danno per 15000 franchi una Psiche od un Adone, si riservano il diritto di ricopiarli in grande ed in piccolo, finchè vi saranno degli amatori per prenderli.
Io non avrei voluto prendere nulla in questi magnifici studi, quand’anche mi si fosse dato tutto per niente. Il cattivo gusto delle composizioni gareggiava colla trivialità delle figure e la mollezza della modellatura: sotto la mano di quaranta bravi praticanti il marmo diventava burro. Il mio Americano per lo contrario era in estasi. Ciò che gli faceva più meraviglia era la purezza del marmo di Carrara, bianca come lo zucchero meglio raffinato; era la lisciatura incomparabile che un operajo armato della pietra del Bernino dava a questa materia preziosa; era la perfezione colla quale gli allievi cesellavano gli accessori, attributi, sedie, abiti di seta, merletti, piume, libri, fibbie di scarpe, bottoni d’abiti. Gli scultori italiani hanno una superiorità positiva su tutti gli altri in tutto ciò che non è del dominio dell’arte.
Ci si mostrò dell’antico e del moderno, delle figure mitologiche, una tomba destinata ad una chiesa di Roma, un monumento ordinato dalla repubblica di Guatimala; una collezione di busti sempre mediocri, talvolta ridicoli, in cui la borghesia di tutte le nazioni dell’Europa sfoggiavano le sue acconciature, le sue ciocche di capelli, i suoi favoriti, i suoi fiumi di diamanti serpeggianti fra due cavità, le sue cravatte annodate matematicamente intorno ad un colletto rimesso. Devo dire che ciò che mi urtava meno, erano le figure allegoriche. Alcune ricordavano [140] discretamente i capolavori dell’antichità; esse le ricordavano perfino un po’ troppo. Io salutai qui il braccio della Venere del Campidoglio, il torso della Venere di Milo; più in là le gambe della Venere de’ Medici. L’Americano comperò quattro figure di donna, consegnabili in luglio, però non senza tirare alquanto di prezzo, benchè stretto dal tempo. Per giunta voleva avere il suo busto, ma il venditore non volle saperne. Io non vi ho sopraffatto nel prezzo d’un solo scudo, diceva egli, com’è vero che sono un grande artista! Quel ch’io guadagno con voi è ben poca cosa; i miei profitti sono limitati dalla concorrenza, ed io non faccio che cambiare il mio denaro. Il lavoro di una cava di marmi mi costa un occhio del capo; perocchè li faccio cavare io stesso, per averli senza difetti. Il bastimento che li trasporta a Roma è mio, e devo mantenere l’equipaggio per tutto l’anno. I miei praticanti mi mangiano vivo. I miei studi rappresentano un capitale di 200,000 franchi, a’ cui interessi vanno aggiunte le spese generali dello stabilimento; perciò se volete il vostro busto che sarà certamente un capo-lavoro, aggiungerete tre mila franchi al totale della commissione. L’Americano si lasciò convincere. Il padrone fece un segno, e tosto uno de’ suoi allievi si mise all’opera; scelse fra cinque o sei busti già abbozzati, quello che rassomigliava di più al mio compagno, prese alcune misure col compasso, ritoccò la fronte, rotondò il naso, aggiunse i baffi, rinforzò i favoriti, e dopo una seduta di due ore la parte più importante del lavoro era fatta. Tornate domani, disse il padrone; sono io che finirò il ritratto mettendovi la rassomiglianza. Domani sera modelleremo, dopo domani toglieremo il gesso, e il marmo sarà recato a bordo della nave, insieme agli altri capi acquistati il 31 luglio. Dopo di ciò il modello strinse la mano all’artista con un ammirazione sincera ed uscimmo. Ciò che sopratutto lo lusingava, era di avere a che fare con un uomo che maneggiava dei grossi capitali.
A Dio piacesse, soggiunsi io timidamente, che maneggiasse ugualmente bene la terra creta! Tentai di dimostrargli con una critica eloquente, che il più modesto allievo della nostra scuola di Belle Arti, era un Michelangelo a petto di tutti questi fabbricatori! [141] Gli spiegai per qual motivo non avevano inviato nulla all’esposizione universale; egli è perchè i prodotti toccati e ritoccati delle loro manifatture non avrebbero potuto essere collocati che come pietre di confine al di fuori dell’edifizio. Ei si turava ostinatamente la bocca, e cantava colla sua voce pretta americana. «Roma nutrice delle arti!»
Il servitore di piazza si buscò una seconda mancia conducendoci da un pittore rinomato. Seppi di poi che non ci avea condotti presso il peggiore della città, ma il diavolo mi porti se io me n’ero accorto nello studio! I marmorini romani, per quanto siano mediocri, devono avere la precedenza sui fabbricatori di pitture. È qui che le composizioni sono triviali, che la povertà delle idee, la volgarità del disegno, la semplicità dei colori formano un insieme veramente insipido. Ma questa volta l’americano fu del mio parere. Non ostante diede una seduta di due ore, perchè l’artista era compiacente, perchè gli aveva dato dell’Eccellenza, perchè gli aveva promesso di dipingerlo in costume di pescatore napoletano, in un campo di cotone colla sua carabina sulle spalle, e la sua filatura in lontananza.
Ma siccome un ritratto, per quanto sia interessante, non basta per decorare un palazzo, così ci facemmo condurre da un pittore che copia i quadri dei maestri per l’esportazione. «Decisamente, mi diceva l’Americano, preferisco cento copie, a cento originali mediocri. Queste riproduzioni sospese a tutti i muri del mio palazzo mi ricorderanno i capi d’opera della scuola italiana che avrò visto, un po’ in fretta, nei musei e nelle gallerie.»
La gran fabbrica di copie che soddisfa tutta l’Europa non intelligente, non occupa mai meno di cinquanta operaj. Cinquanta giovani, riuniti intorno ad un intraprenditore, copiano dalla mattina alla sera delle copie fatte su altre copie. Una dozzina di quadri, che non sono i migliori, hanno il privilegio di farsi ricopiare eternamente, ad esclusione di tutti gli altri. La Cenci di Guido, il Giuocatore di violino di Raffaello, due Amorini in un quadro di Correggio, una Erodiade di Guido, un Cristo del Guercino, una Vergine di Carlo Dolci, una Giuditta di Gherardo delle Notti, e l’Aurora del Guido sopraddetto, compongono il fondo del [142] magazzino centrale, di cui il soprabbondante, per certi sbocchi, trascorre in tutte le botteghe della città. Il mio Americano assaggiò quella merce, si fece un collo di trenta copie incorniciate, tanto per lui quanto pei suoi vicini. Il più caro di quei quadri gli costò 250 franchi, compresa la cornice.
Nell’escire dalla officina mi andava comunicando le sue riflessioni. «Come potete voi negare, mi diceva, che i Romani siano i primi artisti del mondo? Coteste copie non sono malfatte, ne converrete: riconoscete dunque in coloro che le fabbricano un’abilità sufficiente, ed ho veduto tra loro de’ ragazzi. E potete voi credere che i vostri allievi della scuola di Belle Arti di Parigi saprebbero fornire una merce così ben condizionata ad un prezzo così basso?
— No.
— I nostri giovani Americani, che non sono sciocchi, lavorerebbero dieci anni prima di mettere in commercio de’ prodotti di questa qualità; ed il loro prezzo non potrebbe sostenere la concorrenza. Da ciò conchiudo che i Romani sono più atti che noi per la pittura.
— Voi avete ragione, ed io non dissi mai il contrario. Se la pittura è un mestiere, i migliori pittori del mondo nascono a Roma, siccome i migliori fumisti in Piemonte. I ragazzi romani, cui si cacci in mano un pennello, imparano, in meno che non si dica, la pratica della pittura. Un’esercizio di tre o quattro anni li pone in grado di camparsi la vita; per disavventura, essi non vanno più in là. È colpa loro? No. Io non accuso che la società in cui sono nati; forse se fossero a Parigi produrrebbero de’ capi d’opera. Date loro de’ maestri, de’ concorsi, delle esposizioni, l’appoggio d’un governo, gl’incoraggiamenti d’un pubblico, i consigli d’una critica intelligente. Tutte queste buone cose, che abbondano da noi, mancano loro assolutamente; e non le conoscono se non per fama. Il loro solo incoraggiamento, la loro unica molla è la fame che gli spinge, e lo straniero che passa. Fanno a chi fa più presto, vi gettano là una copia in otto giorni, e, quando è venduta, ne ricominciano un’altra. Se qualche ambizioso intraprende un’opera originale, a chi dimanderà [143] egli se è bene o mal fatta? La classe media non se ne intende, ed i principi anch’essi non ne hanno intelligenza. Il possessore della più bella galleria di Roma, il principe Borghese, diceva l’altro giorno, nel salone d’un’ambasciata: «Io non ammiro che il chic.» Il principe di Piombino ha comandato una soffitta al signor Gagliardi; voleva assolutamente pagarlo a giornata. Il governo ha ben altre cure che l’incoraggiamento delle arti. I pochi giornaletti che circolano si divertono talora a citare il nome de’ loro amici, ma ciò è per scioccamente piaggiarli. Gli stranieri che vanno e vengono sono talora uomini di buon gusto, ma non compongono un pubblico. A Parigi, a Monaco, a Dusseldorf, a Londra, il pubblico è un vero individuo, un uomo dalle mille teste. Quando un giovane di talento ha colpito la sua attenzione, lo segue cogli occhi, l’incoraggisce, lo biasima, lo spinge innanzi, lo riconduce indietro; s’innamora di questo, si sdegna con quello. S’inganna talora, ha delle parzialità ridicole e de’ cambiamenti ingiusti, ma vive e dà vita; e si può per esso lavorare. Se Roma possiede qualche persona di talento nelle arti secondarie, lo deve al pubblico di Parigi. Mercuri e Calamatta sono allievi della scuola di San Michele a Roma; ma li vedreste ancora incidere imagini per l’esportazione, se Parigi non gli avesse adottati.
— Ora, mi disse l’Americano, vorrei comprare dei piccoli ricordi in marmo per mettere ne’ miei scaffali insieme alle conchiglie ed agli uccelli impagliati.»
Il servo fedele, che non ci abbandonò mai, ci condusse dai mosaisti, marmorai, incisori di camei, tornitori in pietre dure. Il mio compagno fece ampia raccolta di monumenti antichi, ridotti a proporzioni borghesi. Comprò due Colossei, un arco di Tito, una colonna Trajana, quattro obelischi ed una tomba degli Scipioni. «Gli architetti romani sono assai felici, dicevami egli, d’avere senza posa di sì bei modelli sotto gli occhi.
— Ed è vero, gli risposi; ma non ne profittano. L’architettura, è un’arte perduta già da cento anni. Gli edifizj degli ultimi due secoli, in quello stile rococò che porta il nome dei gesuiti, non erano sempre di buonissimo gusto, ma non mancavano nè di [144] grandezza, nè di ricchezza, nè di decoro. Vedrete a San Pietro al Gesù, a Sant’Ignazio, alla Vittoria, delle cappelle un po’ troppo cariche d’ornamenti, ma che si è costretti d’ammirare, poichè fanno stupore. Nè mai forse l’impiego de’ colori vivaci e delle forme ardite non fu meglio inteso. La scoltura del Bernino vive, palpita e si agita in mezzo a quell’orgia di bronzo e di porfido. Ma i nuovi fabbricati sono degni di ricettare quelle scolture piane, di cui seco voi portate i campioni. La basilica di San Paolo è assai deforme all’esterno e pulita nell’interno. La cappella Torlonia, a San Giovanni di Laterano, è decorata a modo d’un caffè. La colonna che si è innalzata sulla piazza di Spagna somiglia ad un candelabro di chiesa, o ad un tubo di stufa, se alcuno si ricorda ancora dell’architettura romana, è certamente l’ingegnere che gettò un ponte sulla valle dell’Ariccia; ma voi non avete tempo di venire sì lontano.»
L’Americano intanto non mi ascoltava, tutto inteso com’era a comprar mosaici. Io m’accinsi a dimostrargli che, se il mosaico è ammirabile allorchè adorna l’emiciclo delle vecchie basiliche, ovvero copia i quadri de’ maestri ingrandendoli, per le cappelle di San Pietro; esso è davvero ridicolo in aghi da cravatta ed in bottoni da gilet. — Ma quegli riempiva le sue tasche di medagliuzze minute, dove, a forza d’attenzione, ravvisavansi de’ mazzolini di fiori, delle figure d’animali e de’ monumenti antichi. Fece poscia una buona provvista di camei, di sigilli incisi, di coralli cesellati e di malachiti intorniate a foggia di perle. Così fa ogni forastiero che conosce i suoi doveri.
Quand’ebbe compiuta la sua provvista, gli dissi: «Avreste mille scudi ancora da gettar fuori della finestra?»
Mi rispose col sorriso raggiante de’ milionarj:
«Ebbene, seguitemi dal più grande artista che io m’abbia mai scoperto costì.»
Lo condussi quindi presso la posta francese, dall’uomo che fece risorgere la giojellerìa romana. La scala, incrostata d’inscrizioni e di basso-rilievi antichi, gli fece credere che noi entrassimo in un museo. Ei non s’ingannava di molto, chè un giovane mercante, erudito al pari degli archeologi, gli fece vedere [145] una collezione d’antichi giojelli di tutte l’epoche, dalle origini della Etruria fino al secolo di Costantino. È la fonte da cui Castellani trae gli elementi d’un’arte nuova, che prima che trascorrano dieci anni detronizzerà il fardelletto del Palazzo Reale. I nostri piccoli giojelli d’oro arricciati sono una cosa ben meschina di fronte a quegli ornamenti semplici, larghi, ingenui e sempre improntati dell’immancabil gusto dell’antichità. Il mio Americano, ghiotto di pezzi grossi, gettò quanto richiedevasi per uno scrigno che racchiudeva la toeletta di una dama romana; collana da bolle d’oro, braccialetti di scarabei, spille da pungere il seno delle schiave, pettini d’avorio coronati d’oro, agrafi marchiate d’un’iscrizione di buon augurio, anelli assortiti per tutti i giorni della settimana, mille civetterie, mille ricchezze, la cui descrizione riempirebbe un capitolo, se mi lasciassi ridurre a mostrarvele. Gettò sul tavolo il valore del riscatto di dieci schiavi, e fuggissene, siccome il ladro di Plauto, col suo tesoro sotto il braccio.
«Eccellenza, gli disse il servitore di piazza, poichè le forti spese non vi fanno paura, siete forse voi che comprerete il tondo d’Apelle. Vale cinquanta milioni.»
Io non credeva che i Greci avessero mai dipinto su majolica; tuttavia la cifra di cinquanta milioni mosse la mia curiosità. Quell’uomo ci condusse in una botteguccia malconcia, o piuttosto in una trabacca, il cui padrone era in un canto rannicchiato in tal foggia, che, trovatolo per via, gli avreste fatto l’elemosina. Ei ci squadrò con tale cera, che pareva volesse dire: «Se non avete il Toson d’oro in tasca, la mia merce non è per voi.» Tuttavia degnossi d’aprire una scatola di legno prezioso, ed io scorsi fra due cuscini di seta bianca un tondo di Faenza, dipinto da Raffaello, e che a Parigi potrebbe forse valere 4000 franchi. «Eccovi, diss’egli, il prezzo è di 50 milioni. Non mi occorre dirvi esser questo l’unico capolavoro di Apelle.
— Mio brav’uomo, gli chiesi, sapete voi bene che cosa siano 50 milioni?
— Sì, signore; è poco meno di dieci milioni di scudi romani: [146] voi vi guadagnate. Dieci milioni di scudi romani farebbero 53,500,000 franchi a rigor di tariffa.
— Non vi è stato mai detto che il vostro tondo, che è bellissimo, potrebb’essere semplicemente di Raffaello?
— Di Raffaello! Eccone là di tondi di Raffaello.» Ci fece vedere una dozzina di tondi consimili, ma opera del secolo passato. «Raffaello non era un minchione, e vi sarebbero molte cose a dire in sua lode; ma il solo Apelle, fra tutti gli uomini, ha potuto fare un capolavoro come questo.
— Supponendo ancora ch’ei fosse d’Apelle, non sarei persuaso che potesse valere 50 milioni.
— Eppure, nol darò mai a meno.
— Or via, siate ragionevole. Questo signore è uno de’ più ricchi d’America; ma non credo che possa spendere più d’una trentina di milioni in un capriccio di fantasia.» Quegli alzò sdegnosamente le spalle, e borbottò: «Ho fissato quel prezzo e morrò senza diffalcarne uno scudo.»
E di vero, ei morrà ricco e povero, felice e miserabile, ingolfato siccome un tacchino nella speranza dell’incerto.
«Nel mezzo del secolo XVII, disse Ranke, si noveravano in Roma circa 50 famiglie nobili, che contavano 300 anni d’esistenza, 35 che ne avevano 200, e 16 che datavano da 100 anni soltanto. Non si voleva riconoscere quelle che rimontavano più in là, e si attribuiva loro una bassa origine.» In totale, 101 famiglie patrizie.
Attualmente l’Almanacco romano conta 111 famiglie patrizie, di cui 20 principesche, e 11 ducali. L’effettivo della nobiltà non è dunque sensibilmente cambiato da due secoli in qua.
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La nobiltà romana si può dividere in tre categorie, se queste si considerano soltanto dalle loro origini.
Ad ogni signore il proprio onore. Cominceremo, se vi piace, dalla nobiltà feudale.
I primi successori di S. Pietro, che non esercitavano alcun potere temporale, non contavano nè nobili nè villani nella loro diocesi.
Fu nel medio evo che il vescovo di Roma si fece accettare siccome sovrano d’un piccolo impero. Ei dovette uniformarsi alle usanze del tempo, e riconoscere de’ fatti politici, che non erano conformi nè alla lettera nè allo spirito de’ libri santi.
In buona logica, era necessario che tutti i sudditi del papa fossero eguali al cospetto del loro Sovrano, siccome tutti gli uomini lo sono dinanzi a Dio.
Il blasone non è scienza evangelica, e se gli apostoli hanno convertito una parte del mondo antico, non è già predicando l’ineguaglianza delle caste.
Ma il poter temporale, fino dalla sua origine, dovette venir a patti coll’elemento feudale. Eranvi de’ signori in Roma e vicinanze, siccome in tutta Europa. Gli uni appoggiarono le pretensioni monarchiche della Santa Sede; gli altri con ogni mezzo vi si opposero, finanche colle armi, siccome i Colonna. Nè fu se non dopo lotte interminabili, che i papi poterono domare l’ultima resistenza ed imporre la loro signoria alla nobiltà indigena.
Non solamente si fece la pace, ma l’aristocrazia locale finì col rendere il papato solidale delle sue pretensioni e de’ suoi privilegi.
L’avvenimento successivo di quasi tutte le grandi famiglie al papato collocò sul trono le idee aristocratiche, e formò tra esso e la nobiltà de’ vincoli stretti. I Savelli, i Conti, gli Orsini, i Colonna, i Gaetani portarono la tiara, e regnarono sui Romani prima della fine del medio evo. I Piccolomini, i Borgia, i Medici, [148] i Della Rovere, i Farnese, i Boncompagni, gli Aldobrandini hanno poscia inaugurato la storia moderna.
Fra le antiche famiglie feudali che al papato diedero più di quanto ne ricevessero, alcune si vantano di risalire ai primi tempi della storia romana. I Muti discendono da Muzio Scevola, i Santa Croce da Valerio Publicola, i Massimo da Fabio Massimo, almeno a quanto dicono. In ogni caso la loro nobiltà è molto antica.
Napoleone interpellò un Massimo con quella ruvidezza che intimidiva tante persone: È egli vero, gli chiese, che voi discendete da Fabio Massimo?
— Non potrei chiarirvelo, rispose il nobile romano, ma è fama che corre già da ben mille anni nella nostra famiglia.
Gli stemmi dei Massimo rappresentano delle tracce di passi incrocicchiati in tutti i sensi. È un’allusione alle marce e contromarce del temporeggiatore. Il motto della casa è: Cunctando restituit.
I Gaetani, meno antichi, procedono da un tribuno romano detto Anatolo, che fu creato conte di Gaeta nel 730 da papa Gregorio II.
Si parla d’un Pietro Colonna, spogliato di tutti i suoi beni nel 1100, da papa Pasquale II. È chiaro che la famiglia doveva essere già passabilmente antica, poichè le grandi sostanze non si formano in un giorno.
Gli Orsini, di cui più non rimane che il ramo Orsini-Gravina, discendono da un senatore dell’anno 1200.
La famiglia Orsini, originaria di Firenze, esisteva prima dell’anno 1300. Ma la ricchezza, lo splendore ed il titolo di principi procedono da Clemente XII.
I Doria romani sono un ramo staccato della grande famiglia [149] genovese. I Lante Della Rovere erano consoli a Pisa nel 1190. Un Altieri fu maggiordomo di Ottone II verso la fine del secolo X.
Si legge nell’inimitabile Viaggio del consigliere De Brosses:
«Sonvi quattro grandi case a Roma: Orsini, Colonna, Conti, Savelli. Ma i Crescenzi, gli Altieri, i Giustiniani, ed altre famiglie, che non credono esser minori di quelle quattro, non ammetterebbero volentieri questa distinzione.»
Ebbi la curiosità di rintracciare ciò che rimaneva di queste grandi famiglie, un secolo dopo il nostro gentil viaggiatore. Non vi sono più nè Conti, nè Savelli. Gli Orsini hanno cento mila lire di rendita, i Colonna duecento mila, gli Altieri trentamila. I Crescenzi ed i Giustiniani sono estinti, come i Savelli ed i Conti, che avevano dato tanti pontefici alla Chiesa. Sonvene almeno dieci del nome di Conti.
Nel secolo XVII i Savelli esercitavano ancora una giurisdizione feudale, ed il loro tribunale, regolarmente costituito, chiamavasi Corte Savella. Avevano essi il diritto di liberare da morte un reo all’anno, diritto di grazia, diritto regale riconosciuto dalla monarchia assoluta dei papi. Le donne di questa illustre famiglia non uscivano punto dai loro palazzi, se non in carrozza ben chiusa.
«Gli Orsini ed i Colonna si vantavano che, per de’ secoli, nessun trattato di pace fosse stato conchiuso fra principi cristiani, in cui essi non fossero stati nominativamente compresi.» Ranke, Storia del Papato, sfigurata dall’oltremontano Saint-Cheron.
Ma già Roma vedeva prosperare e crescere una nobiltà novella, sorta dal nipotismo.
Tutti i papi, per umili natali che avessero sortito, si facevano quasi un dovere di fondare una famiglia. Non contenti di creare un Cardinal nipote, che usufruisse per sè tutte le prerogative della Santa Sede, regalavano il titolo di principe ad altro nipote, lo dotavano riccamente a spese di tutta Italia e dell’universo cattolico, lo sposavano a qualche erede di ceppo feudale, [150] e costruivano per esso alcuno di que’ palazzi, di cui ammiriamo ancora l’insolente splendore.
Quest’uso era sì bene stabilito, che il casuista Oliva, gesuita, dichiarò che Alessandro VII commetteva un peccato lasciando i suoi nipoti a Siena, invece d’invitarli alla sua Corte. È noto con quale docilità l’onesto Chigi si sottomise all’obbligo di far germogliare la sua famiglia.
Questo dilapidamento delle pubbliche entrate a profitto d’alcuni privati s’appoggiava, non solamente sui consigli di alcuni cortigiani, ma sugli esempi più augusti.
A non parlare di Alessandro VI, che non trascurò nulla per arricchire ed accrescere la sua famiglia, erasi veduto l’antico pastore Sisto V dare ad uno de’ suoi nipoti un reddito ecclesiastico di 300,000 franchi, assicurare all’altro un principato e fondare sopra solide basi la casa dei Peretti. Clemente VIII non aveva fatto di meno pei suoi: Gian-Francesco Aldobrandini s’arricchì abbastanza rapidamente per dare due milioni di dote alla propria figlia. La fortuna dei Borghese era cresciuta ancor più rapidamente sotto il regno di Paolo V. Essi ricevettero cinque milioni di franchi, acquistarono i più bei possessi dello Stato Romano, ed ottennero de’ privilegi signorili d’un valore incalcolabile. Gregorio XV aveva permesso a suo nipote Ludovisi di ritirare dall’entrate ecclesiastiche un milione all’anno. Questo papa, che regnò due anni e cinque mesi, diede alla sua famiglia quattro milioni di franchi in luoghi di monte, che valevano denaro sonante. Urbano VIII aveva fatto più ancora pei Barberini, i cui tre fratelli acquistarono tanti beneficj e proprietà, che la loro entrata annua ascese a 2,500,000 franchi. Se è impossibile il supporre che i Barberini abbiano accumulato 525 milioni sotto il pontificato del loro zio, è già molto che gli scrittori o contemporanei abbiano potuto arrischiare una cifra sì mostruosa.
Sulle traccia di questo esempio, Innocenzo X, fratello di Donna Olimpia, fu costretto, direbbesi quasi, di fondare la casa Panfili. I casuisti ed i giureconsulti lo sollevarono dagli scrupoli, provandogli che il papa era in diritto di economizzare sui [151] redditi della Santa Sede, per consolidare l’avvenire di sua famiglia. Fissarono, con una moderazione che fa ribrezzo, la cifra delle liberalità permesse ad un papa. Secondo essi, il sovrano pontefice poteva, senz’abusare, fondare un maggiorasco di 400,000 franchi di rendita netta, fondare una secondo-genitura in favore di qualche parente meno favorito dalla fortuna, e dare 900,000 franchi di dote a ciascuna delle sue nipoti. Il P. Vitelleschi, generale de’ gesuiti, approvò questa decisione, onde Innocente X s’accinse a formare la fortuna della casa Panfili, a costruire il palazzo Panfili, a creare la villa Panfili, ed a panfilizzare, finchè potè, le finanze della Chiesa e dello Stato.
Clemente IX, che distribuì tre milioni nei primi mesi del suo regno, fu accusato di trascurare la sua famiglia: eppure fondò la sorte dei Rospigliosi. Clemente X non fu già inutile alla grandezza di casa Altieri. L’austero Innocente XI non impedì i progressi della famiglia Odescalchi; Clemente XII ajutò i Corsini a formare quella fortuna, che attualmente è una delle più imponenti di Roma, ed il nipotismo non iscomparve dalle costumanze pontificie se non dopo il regno di Pio VI e de’ Braschi.
I papi del periodo del nipotismo non trascuravano verun mezzo per alleare i loro nipoti alle famiglie più antiche. Ed è perciò che noi vediamo una casa Doria-Panfili, una Borghese-Aldobrandini, una Barberini-Colonna, una Pallavicini-Rospigliosi, una Boncompagni-Ludovisi-Ottoboni.
Il fondatore d’una nuova famiglia procurava d’instituire un maggiorasco, vale a dire un capitale inalienabile, trasmissibile in linea maschile, e destinato a perpetuare indefinitamente lo splendore del suo nome.
Da ciò procede che vedesi qualche casa, ricca in terre, palazzi, ville e gallerie, ma gravata di debiti, portare stentatamente un nome illustre privo di sostanza, ed un enorme capitale privo di rendita. Affinchè tal casa possa liquidare la propria sostanza e soddisfaccia i suoi creditori colla vendita d’alcuni quadri o di qualche immobile, occorre un atto speciale dell’onnipotente volontà del pontefice.
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È pure il capriccio de’ sovrani pontefici che intruse nell’aristocrazia romana qualche famiglia plebea dalla sorte arricchita.
Un fornajo di nome Grazioli accumula ricchezze, ed il papa ordina ch’ei venga inscritto sulla lista del patriziato romano. Compra una baronia, ed il papa lo crea barone; poi una ducèa, ed eccolo duca Grazioli. Suo figlio sposa poscia una Lante Della Rovere.
Un antico servitore di piazza, diventato speculatore e banchiere, compra un marchesato, poscia un principato; crea un maggiorasco per suo figlio maggiore, ed una secondo genitura in favore dell’altro. L’uno sposa una Sforza Cesarini, e congiunge i suoi due figli, l’uno ad una Chigi, poi ad un Ruspoli, e l’altro ad una Colonna Doria. Ed è per tal maniera che la famiglia Torlonia, per la potenza del denaro ed il favore del santo padre, si è innalzata quasi d’improvviso all’altezza delle più grandi case nipotiche e feudali.
Un impiegato alla fabbrica de’ tabacchi fa fortuna, e diventa marchese Ferrajuoli; un direttore del Monte di pietà s’arricchisce, ed è creato marchese Campana; così parimenti un mercante di campagna, che viene creato marchese Calabrini. I Macchi di Viterbo erano mugnai prima d’essere gentiluomini. Il padre dei conti Antonelli era contadino, intendente, contabile e monopolista prima d’essere rivestito delle lettere di nobiltà.
I parenti d’un papa sono tutti nobili di pieno diritto. I cardinali ed i semplici prelati si sforzano pure d’elevare i loro parenti alla nobiltà.
Benedetto XIV e Pio IX presero cura di consolidare le barriere che separano la casta nobile dal mezzo ceto. «Considerando, dicon essi, che la distinzione delle classi è il più bell’ornamento degli Stati.....»
Sessanta famiglie nobili sono inscritte in Campidoglio. Una congregazione Araldica, instituita da Pio IX, venne applicata alla verificazione de’ titoli.
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Se il governo pontificio fosse più solidamente stabilito in Italia, darei un buon consiglio a tutti i nostri favoriti dalla fortuna, sia al commercio, sia alla borsa.
Invece di usurpare de’ titoli e semititoli, che i tribunali francesi hanno talora l’impertinenza di toglier loro, non avrebbero che a trasferirsi negli Stati del papa. In quel piccolo regno sonvi molti castelli da vendere, senza annoverare i dominii più importanti.
La compra d’una torre cadente può sollevare il contadino al titolo di principe, se il santo padre non vi si oppone.
Si legge nell’Almanacco romano:
«La famiglia Montholon de Semonville è una delle più illustri di Francia. Il principe D. Luigi Desiderato, rampollo di questa casa, comprando il castello del Precetto nell’Ombria, è diventato principe romano.»
Sento dire intorno a me che, per ottenere il medesimo onore, non si avrebbe bisogno di discendere da una delle più illustri famiglie di Francia. Basterebbe di recarsi a Roma con alcuni milioni.
La nobiltà indigena, dopo d’essere stata immensamente ricca, è caduta in una sorta di mediocrità fastosa. Si posseggono beni immensi, un magnifico palazzo a Roma, una splendida villa nelle vicinanze, alcuni castelli nelle provincie, una o due gallerie che formano l’ammirazione degli stranieri; ma tutti questi averi formano un maggiorasco inalienabile, cui si è obbligati a mantenere ed anche averne cura. I redditi, che basterebbero a tutto, sono aggravati da molte ipoteche. Nè solamente si deve ai creditori, ma benanche agli antenati, per fondazioni di canonicati, di collegi, di cappelle. Ora la cappella, il collegio, il capitolo sono altrettanti pesi opprimenti che aggravano il povero erede. Onde avviene, che l’entrata disponibile delle più illustri famiglie non è in proporzione coi bisogni del loro grado sociale.
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Non vi sono che due famiglie, la cui rendita, per così dire, sia illimitata: la famiglia Torlonia e la famiglia Antonelli. Gli Antonelli sono i più ricchi, se credesi al principe Torlonia, ma non vogliono convenirne, ed anzi se ne schermiscono siccome d’un delitto. Non ho mai potuto conoscerne la causa.
Ricco o povero, un principe romano è costretto a conservare il proprio grado, poichè suo primo dovere è conservare l’apparenza. È quindi necessario che la facciata del palazzo sia riparata, che gli appartamenti di gala mostrino grande lusso, che la galleria non ecciti, per l’incuria in cui sia lasciata, la compassione degli stranieri. Bisogna che i servi siano numerosi, che le livree non manchino di passamani, che le carrozze siano dipinte a nuovo, ed i cavalli ben nodriti, anche a costo che i padroni rinuncino ad un piatto del loro pranzo. È necessario che i clienti della casa siano assistiti in caso di bisogno, e che i mendicanti benedicano la generosità del signore. È necessario che la toeletta del signore e della signora sia non solamente elegante, ma anche ricca: poichè in fin de’ conti la nobiltà non dev’essere confusa col medio ceto. È finalmente necessario, che tutti gli anni si dia qualche festa nojosa e splendida, che consumerà in lumi un quarto dell’entrata di tutto l’anno. Se taluno mancasse ad alcuno di questi obblighi, si cadrebbe nella classe di que’ signori caduti, che si nascondono e si fanno dimenticare.
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Per qual miracolo di secreta economia que’ poveri ricchi vengono a capo di bilanciare le loro spese coll’entrate? È una storia complicata e melanconica: è una condanna annuale a sette od otto mesi di villeggiatura, a vivere con una sobrietà italiana, anche in Roma, in quel gran palazzo che ha le proprie enormi cucine. Si fa più ancora: il padrone della casa, l’erede d’una baronia feudale o d’un nipote de’ papi, si fa capo d’amministrazione nella prima casa. Si rinchiude sei ore al giorno con dei commessi; rivede egli stesso i conti dell’entrate e delle spese, ritaglia le locazioni, rilegge i titoli, si lorda le mani nella polve delle pergamene. Per evitare le perdite inevitabili che esauriscono le più grandi sostanze, ei consuma la vita a verificare delle addizioni. Eppure tutti lo derubano, ed i medesimi suoi commessi finiscono per arricchirsi a sue spese, poichè il più delle volte egli non è nè istrutto nè capace.
E come avrebb’egli imparato a difendere la propria sostanza od a farla valere? Fu messo da piccoletto ne’ collegi de’ padri Gesuiti, se forse non fu trovato più nobile di tenerlo in casa propria sotto la sferza d’un abbate. I suoi precettori o professori gli hanno insegnato il latino, le belle lettere, la storia santa, il blasone, il rispetto alle autorità, la sommissione ai voleri della Chiesa, la pratica delle virtù cristiane, l’odio alle rivoluzioni, la gloria degli avi, ed i privilegi che deve ereditare per la grazia di Dio. Ei considera le libertà e le scienze del nostro secolo come invenzioni del demonio. In fine de’ conti egli è buono, dolce, semplice di cuore, più malleabile della cera e più bianco della neve.
Quando lo si vide grandicello, gli fu dato un cavallo, un orologio di Ginevra appeso ad una catenella di Mortimer o di Castellani, un abito nuovo tagliato secondo l’ultimo gusto da Alfredo di Parigi o da Poole di Londra. Prese l’abitudine di far visite, di passeggiare al Corso od al Pincio nell’ora in cui il bel mondo vi fa mostra, di frequentare i teatri e le chiese alla moda. Si è affiliato a due o tre confraternite religiose, di cui segue assiduamente le riunioni. Non ha viaggiato, non ha letto nulla, ha potuto sfuggire alle passioni, ai dubbj ed ai tumulti [156] interni della gioventù. Tra il suo 22.º ed il 23.º anno, la volontà rispettabile di suo padre l’ha ammogliato senz’amore ad una giovane di buona famiglia, che esciva di convento, semplicetta ed ignorante ai pari di lui. Ha molti figli, che educa siccome egli stesso fu educato. Insegna al primogenito che i suoi fratelli gli debbono obbedienza, ed ai cadetti, che debbono essere devotissimi servi del loro primogenito. Mette le proprie figlie nello stesso convento, dove la loro madre ha appreso l’ignoranza, recita il rosario in famiglia, tutti i giorni dell’anno, e dimanda al cielo la continuazione d’un ordine di cose sì felice, sì nobile, sì perfetto.
Nonostante tutti i difetti che l’educazione gli ha dato, ei non manca nè di bontà nè di grandezza. Dona quanto le sue finanze gli permettono, ed anche più; tutte le miserie, anche fittizie, commovono il suo cuore, ed aprono la sua borsa. Non conosce i quadri della sua galleria, ma tiene aperta la sua galleria al pubblico.
Non sa cavar profitto d’un parco o d’una villa che lo ruinano, ma la villa ed il parco sono aperti ai Romani ed agli stranieri. Quando si tratti di rappresentare in un congresso o di festeggiare una ristaurazione de’ poteri legittimi, ei darà 100,000 franchi al suo ambasciatore, siccome il principe di Piombino, ovvero offrirà al popolo di Roma un banchetto di 1,200,000 franchi, siccome il principe Borghese.
Confesso che la nobiltà è un elemento un po’ caduco nella popolazione romana. Le sue doti più notevoli sono negative, come la sommissione e la politezza. Non credo che manchi di coraggio, ma il suo coraggio non ebbe, da gran tempo, occasione da mettersi alla prova. Eppure essa non è nè dispregiabile nè odiosa. La rivoluzione italiana avrebbe torto di fare alcun fondamento sopra una casta stanca e priva di slancio, ma sarebbe imperdonabile se volesse farle alcun male. Una rivoluzione simile alla francese del 1793, che le confiscasse i palazzi aperti ed ospitalieri, meriterebbe il biasimo di tutte le persone oneste dell’Europa. Un Marat che desse in balia del carnefice quelle belle teste sorridenti e leggiere sarebbe il più assurdo degli scellerati.
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E le donne della nobiltà? V’è poco a dire pro e contro la loro virtù. Il cicisbeismo, al pari del nipotismo, è passato di moda. La spudorata dissolutezza che fioriva ne’ primi anni del secolo XIX cedette il posto a’ costumi più discreti.
Qui, come dovunque, le donne sono migliori dei loro mariti; e non già perchè leggano di più, nè perchè siano state diversamente educate. Ogni loro superiorità procede dalla natura, che ha favorito il sesso amabile a preferenza del sesso virile.
Quasi ogni giorno faccio un passeggio in carrozza che comincia alla villa Borghese, continua al Pincio e termina sul Corso, dopo il tramonto del sole. È mio compagno inseparabile un ingegnere francese, uomo di spirito e perspicace, che abita Roma da gran tempo e conosce incognito la massima parte dei personaggi della nobiltà. Non ebbe bisogno di farmi osservare quell’aria di nullità oziosa e soddisfatta che distingue una buona metà dell’aristocrazia. Ma quando la nostra attenzione si rivolge verso le donne, noi cambiamo di tuono. Non solamente esse sono belle ed eleganti, ma i loro occhi, le loro attitudini, i loro gesti, tutto indica in esse un non so che d’indomito, ed una secreta ribellione contro il nulla. Povere donne! Allevate nell’ombra fitta d’un convento, maritate senz’amore a qualche bel riproduttore, che le opprime di famiglia, sono esse condannate, per colmo di miseria, ad una vita di parata glaciale, piena di visite, di riverenze e di cerimonie nojose. Tutto è dovere per esse, finanche il passeggio quotidiano. Il mestiere di donna del mondo, quale viene loro imposto, non lascia loro spazio per l’amore e nemmeno per l’amicizia.
Vorrei qui riassumere in poche parole lo spirito delle tre classi che vivono a Roma sotto il dominio del clero.
Questa popolazione non è nè peggio nata, nè peggio dotata, nè meno degna di ricuperare la sua indipendenza, che nol sia il resto della nazione italiana. Ma si ebbe cura di educarla diversamente, e di sradicarvi siccome da campo bene sarchiato tutte le idee liberali, e tutti i sentimenti vigorosi che potevano crescere nelle anime. Questa mala erba rinacque sempre, grazie a Dio, [158] ma sempre più debole e più grama di quanto non converrebbe. La nobiltà romana è più inetta, la plebe romana è più povera e più ignorante, il ceto medio medesimo porge minori mezzi a Roma, che in nessun’altra città d’Italia. Eppure la classe media è quivi il solo elemento sul quale si possa contare.
D’altronde bisogna dire che la popolazione di Roma, presa in blocco, non è positivamente contraria al poter temporale. Attualmente, come sempre, essa ha pel papa un’amicizia ineguale, fantastica, interrotta da lamenti e da collera; ma i vantaggi reali ch’essa ricava dalla presenza del santo padre, dalle spese della Corte e dall’affluenza degli stranieri, controbilanciano spesso a’ suoi occhi lo svantaggio della servitù. Può darsi benissimo che, trascinata dal movimento italiano, essa ricominci a’ suoi rischi e pericoli la rivoluzione del 1849; ma non mi stupirei punto ch’essa rimpiangesse i suoi padroni dopo averli scacciati. Poichè Roma non è solamente la vittima, è anche complice del poter temporale, ed in ciò ben differente di Ancona, di Bologna e di tante altre città, che pagarono le spese del dispotismo senza dividerne i vantaggi. Io penso adunque, che la liberazione di Roma, quantunque possa essere desiderata da alcuni cittadini, è più necessaria alla riorganizzazione dell’Italia di quello che conforme ai voti de’ Romani.
Il suffragio universale ne sa molto più di me su questo dilicato proposito, ed è quello che vorrei consultare.
Non dico già che noi siamo tutti eroi, nel nostro caro paese di Francia; ma credo che noi siamo tutti un po’ soldati.
Si ha un bel dire e fare il filosofo, sostenere che l’uomo non [159] è nato per uccidere gli uomini, esecrare gli stromenti di distruzione a misura che diventano più perfetti, ed applaudire alle eccellenti idee di Cobden; spunta un bel mattino, e si scorge che siamo nati con un pajo di pantaloni rossi, e che tutti gli altri abiti, che si erano portati, non erano che travestimenti.
Nel luglio del 1853, io mi credeva pienamente convinto delle idee predicate dal congresso della pace. Giunsi a Roma, mentre sfilava un battaglione francese, colla banda in testa, sulla piazza del Quirinale. L’uniforme, la musica, la bandiera, tutto quell’apparato di guerra, che non m’aveva mai fatto sensibile effetto, mi scosse allora fino nei penetrali dell’anima. Erano due anni che aveva lasciato la Francia: l’imagine della patria m’apparve più che mai vivente, i miei occhi si turbarono. Guardai la bandiera, e mi parve più risplendente che il labarum di Costantino. Chinai lo sguardo sul mio pantalone; era rosso, e d’un sì bel rosso, che vedendolo proruppi in pianto.
Evvi una bandiera pontificia, se non m’inganno, colle chiavi di S. Pietro nel bel mezzo. È una bandiera ben conservata, in buono stato, chè nè palle nè bombe non vi fecero fori: ma io sarei davvero attonito, se mi si dicesse che un Romano, osservandola, ha versato lagrime.
Vi ricordate di quel fico che era del misantropo Timone? Tutti gli Ateniesi volevano appiccarvisi, perchè già parecchi giovani e robusti vi si erano appiccati. Ora la bandiera del papa è un fico, su cui nessuno pensa ad appiccarsi, perchè nessuno ancora vi si è appiccato.
E la ragione è chiara: la coscrizione, che è tanto compenetrata nei nostri costumi, per lungo tempo non potrà essere costumanza romana. La Francia può dire ai giovinotti di vent’anni: Venite, estraete a sorte. Coloro che otterranno un numero basso, conserveranno il loro pantalone rosso; gli altri saranno autorizzati a prendere il pantalone nero.
I ragazzi di Francia non sono mai sì felici, come quando giuocano al soldato; i ragazzi romani per lo contrario giuocano a far il prete. Dicono delle piccole messe, e fanno processioncelle; sono vestiti da abbatini, que’ che furono savii. I nostri aspettano il primo dì dell’anno perchè vengono regalati d’uno schioppetto, o d’una sciabola, od almeno d’un tamburino.
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Si dovrà forse conchiudere che i Francesi sono più coraggiosi che i Romani? No, certamente. La razza italiana, che ha conquistato altre volte il mondo, è ancora attualmente una delle più maschie ed energiche d’Europa. I Romani sono Italiani di sì buona stirpe come gli altri, ma diversamente educati.
Il principe che regna a Roma non dovrebbe aver bisogno di soldati. Nello spirituale, ei governa pacificamente gli spiriti di 139,000,000 d’uomini, ciò che è assai bello. Nel temporale amministra un dominio che basta ampiamente a tutti i suoi bisogni. Se cercasse ad estendersi o arrotondarsi per via di conquista, commetterebbe un peccato mortale, e si porrebbe nella necessità di dannarsi da sè medesimo. La questione delle frontiere naturali non gli porgerebbe una scusa sufficiente, poichè in fin de’ conti il suo regno è formato di donazioni di persone pie; ed a caval donato non si guarda in bocca.
Il papa non ha bisogno di soldati nè per conquista nè per difesa, poichè i suoi confinanti sono principi cattolici, che si farebbero scrupolo di coscienza d’armarsi contro un vecchio inoffensivo.
Ora perchè mai il papa tiene un esercito? Per reprimere il malcontento de’ suoi sudditi; ma è evidente che i Romani non sarebbero malcontenti, e che il papa non avrebbe bisogno d’esercito, se governasse i suoi Stati in modo da render contento il suo popolo.
Se il papa si crede costretto di levare un esercito, è senza dubbio perchè i Romani sono malcontenti, molto probabilmente è, perchè il governo del pontefice non fa ciò che è necessario per contentarli.
Suppongo che i Romani siano molto difficili ad essere accontentati, o che il papa non abbia il tempo di accontentarli, poichè trova più spiccio e più economico di mantenere un esercito che incuta timore ai sudditi.
Ma qui sorge un’altra difficoltà. I Romani non sono proclivi a vestire i pantaloni rossi ed a caricarsi le spalle d’un fucile in [161] servigio del papa. Perchè? mi chiederete. Precisamente per la ragione che vi ho detto: perchè sono malcontenti.
Il papa, che è sovrano assoluto, potrebbe decretare la coscrizione; ma questa novità raddoppierebbe il malcontento, e lo scopo sarebbe fallito.
D’altronde la coscrizione fa paura al governo pontificio. Un esercito raccolto con questo mezzo apparterrebbe meno al papa che alla nazione: ed è ciò che importa d’evitare.
Sessanta franchi di premio a tutti i Romani di buona volontà che acconsentiranno ad arruolarsi per soldati del papa!
Sessanta franchi, è ben poca cosa: a tal prezzo non si comprano persone scelte. Se foste garzone d’aratro, o porta mortajo sotto gli ordini d’un muratore, non preferireste quella libertà relativa alla servitù dello stato militare? E basterebbero sessanta franchi per far traboccare la bilancia?
I Francesi si arruolano gratis; anzi veggonsi de’ giovani di buona famiglia, all’uscire del collegio, piegare il loro diploma di laureato in legge, chiuderlo nella giberna di soldato, ed andarsene arditamente colà dove la patria gl’invia. Se si offrissero sessanta franchi, a coteste volontarie reclute, esse risponderebbero che è troppo, e troppo poco. Ma noi siamo proclivi alla vita militare, la nostra gioventù ama la patria siccome un’amante, e non teme di farsi ammazzare pe’ suoi begli occhi.
La patria, per un Romano di buona nascita, è l’Italia: ora il papa non è la patria, non è l’Italia. Sonvi di coloro che sarebbero pronti a farsi soldati d’Italia, ma non consentirebbero ad indossare l’uniforme per la difesa del papa. Si dice pure, in alcuni circoli, che il papa e l’Italia non sono i migliori amici del mondo, e che il mettersi al servizio dell’uno sarebbe rendere cattivo servizio all’altro. È un errore, ne convengo: un’assurdità, se volete. Ma negli Stati del santo padre è un articolo di fede, ed agli ufficiali ingaggiatori si risponde, e la gioventù romana risponde: «Non vendo la mia patria per dodici scudi!»
Si tratta di portare a 20 scudi il premio d’ingaggio: la è una [162] mezza misura, un meschino ripiego. Un uomo da 100 franchi non varrà molto più d’uno da 60.
Se volete creare un esercito, raccogliete gente fra i galantuomini. In Francia un soldato innanzi tutto debb’essere un uomo onesto. La più assoluta fiducia regna nelle caserme, dove il minimo furto viene punito con un rigore saggiamente esagerato. Ed un individuo che abbia soggiaciuto alla condanna più leggiera, non viene ammesso ad arruolarsi come soldato.
Il governo pontificio è troppo indulgente sulla virtù delle reclute volontarie. Si domanda loro, è vero, un certificato di buona condotta firmato dal curato della loro parrocchia; ma i curati non si fanno scrupolo di garantire la moralità de’ peggiori sudditi, quando si tratti di spedirli all’esercito. Una bugietta serve a sbarazzarsene; quindi i tribunali stessi, se stanno processandone taluno, non vanno già a pigliarlo sotto le bandiere, onde avviene che uomini malvagi, recidivi, disonorino l’uniforme.
La gendarmeria si arruola, parte dall’esercito parte dal ceto civile. Nel civile non è meglio servita che le altre armi; ma nel militare è peggio, poichè s’invitano gli ufficiali superiori de’ diversi corpi ad indicare i soldati che meritano di passare gendarmi. E coloro raccomandano i peggiori soggetti, per potersene liberare.
Non è raro l’udire che un furto è stato commesso da un soldato, ed anche da un gendarme. Poichè come mai individui di dubbia probità diverrebbero onest’uomini sotto l’uniforme? Nè la buona condotta, nè il tempo passato sotto le bandiere, nè le azioni meritorie, nè la coltura personale servono all’avanzamento. Questo si fa da’ prelati, sopra raccomandazione d’altri prelati.
Mi venne accertato che nel 1849 eravi più disciplina e probità nelle schiere rivoluzionarie di Garibaldi, che non nell’esercito regolare del papa. Il furto d’una collana di coralli, d’un prosciutto, d’un’inezia, era immediatamente punito colla morte.
Mi sono imbattuto in parecchi gendarmi che non sapevano neppur leggere.
Quando furono ritirati dalla circolazione i pezzi da cinque soldi in rame, tutto quel cumulo fu diretto verso Roma, ed ogni [163] convoglio era scortato da una schiera di gendarmi, i quali sventravano alcuni sacchi ed alleggerivano il carico delle vittime. Ciò mi è stato confessato appunto da un gendarme.
Può darsi che una cattiva causa raccolga de’ buoni soldati; così il re di Napoli si è formato un esercito assai rispettabile. Pur troppo il dovere non è l’unico motore dell’uomo: ne abbiamo di meno nobili e d’egual potenza, siccome l’orgoglio e l’ambizione. Dovunque i gradi si accordano al merito, il soldato si studia di acquistarseli.
Nello Stato pontificio il soldato è nulla; anzi è meno di nulla, e valgano due esempi per mille a chiarirlo. Un cocchiere che conduce il suo padrone al teatro rompe la propria consegna. La sentinella reclama invano, poichè il cocchiere sferza i cavalli e passa via dicendo: «Fate il vostro mestiere di soldato, e lasciate fare a me quello di servo!» La livrea è più nobile dell’uniforme.
Un modesto borghese di Roma dà una serata. Vi si presenta uno straniero: è figlio del proprietario, addetto alle guardie di finanza. Il primogenito va a riceverlo in anticamera, e lo prega di ritornare il giorno seguente. Sonvi de’ Francesi invitati, v’è gente, e la famiglia non vuol compromettersi presentando un soldato! Il giorno appresso cotesto primogenito trova sulla piazza di Spagna un forzato, e gli porge la mano in pubblico. Onde l’amicizia del condannato è meno compromettente che non la parentela d’un soldato.
E gli ufficiali? Sono sul medesimo piede degli altri impiegati civili. Fanno parte del ceto medio, il mondo non li riceve e li tiene in poca considerazione. Un frate, a qualunque titolo, sarà sempre stimato superiore ad un colonnello.
Il grado di colonnello è anche attualmente il più elevato nell’esercito, poichè adempie alle funzioni di generale; si economizza il titolo, o piuttosto lo si tiene in serbo pei capi dei diversi ordini religiosi.
È ben mestieri che il santo padre abbia bisogno del suo esercito, perchè accordi a’ de’ semplici laici questo bel nome di generale, [164] che viene così fieramente portato da un domenicano, da un certosino, da un cappuccino.
Il disprezzo dell’aristocrazia e del clero pesano sull’esercito e soffocano quello spirito militare che non fiorisce se non circondato da un’aureola di gloria. Ufficiali e soldati vegetano nella mal’aria dell’onore.
Sotto Gregorio XVI un ufficiale si permise di eseguire la sua consegna fermando la carrozza d’un cardinale: venne punito, nonostante che il cardinale fosse passato oltre.
A Napoli, per lo contrario, in simile occasione, un semplice soldato diede un colpo di sciabola al cocchiere d’un vescovo. Ferdinando II, che pur non era un volteriano, encomiò il soldato. Egli voleva avere un esercito, mentre il governo pontificio non sa ancora ciò che voglia.
Il ministro delle armi è un prelato, obbedisce al cardinale segretario di Stato, il quale dipende dal papa. Tre preti alla testa dell’esercito!
Attualmente (giugno 1858) il ministero delle armi è popolato di vecchi, o di persone invise, disprezzate, notoriamente colpevoli delle più gravi abbiettezze. Si confessa la necessità d’una riforma; tuttavia non se ne fa nulla.
Un onorevolissimo intendente dell’esercito francese, signor Testa, attende da gran tempo alla riorganizzazione dell’esercito romano. Il generale Goyon, il generale De la Noue e tutti gli ufficiali generali da noi spediti a Roma hanno lealmente atteso a porre il papa in istato di difendersi senza di noi, ma tutto fu inutile, ed io stesso gli ho uditi confessare la loro impotenza. Il principio del governo, l’ombra de’ monasteri, l’aria di Roma, tutto si oppone alla creazione d’un esercito pontificio. I nostri consigli, i nostri esempi, la fatica de’ nostri istruttori, tutto fu gettato al vento.
Tuttavia, debbo render giustizia ad alcuni ufficiali romani, che fanno sforzi onorevoli, studiando, rivaleggiando nobilmente cogli ufficiali francesi. Ma a che pro? Ogni promozione, al disopra del grado di capitano, dipende dal favore.
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Le armi speciali contano degli uomini distinti, che potrebbero conservare ovunque il loro grado. Gli ufficiali del genio sono teorici eccellenti, mancano soltanto di pratica. Agli ufficiali poi d’artiglieria non manca nemmeno la pratica. Ma il buon volere ed il talento di alcuni individui sono forze perdute in un esercito senz’avvenire, privo di spirito di corpo, di decoro, di zelo, di fiducia; dove non si può fare assegnamento nè sul vicino, nè sul capo, nè sulla bandiera.
La scuola de’ cadetti è destinata a formare degli ufficiali. Essa non è una istituzione aristocratica, come il suo nome farebbe credere; chè l’aristocrazia romana non pensa a mettere i suoi figli nell’esercito, più di quello che il sobborgo di San Germano non pensi a gettare i suoi figli nella Società de’ Diritti Riuniti. I cadetti sono per la più parte figli di merciajuoli o di ufficiali.
Sono ricevuti senza esame, sulla semplice raccomandazione di qualche personaggio; e vengono istrutti pienamente, alla romana, sotto l’alta tutela del cappellano dell’esercito.
Nel 1858 il generale Goyon si compiacque di visitare egli stesso la scuola dei cadetti; e chiarì che certi allievi non erano in istato di fare una divisione. Il corso di lingua francese non esisteva che sui programmi. Il professore di storia, dopo sette mesi di lezioni, balbettava ancora spiegazioni intorno al quarto o quinto giorno della creazione del mondo. Il programma poi non faceva alcuna menzione della storia moderna. La casa era mal tenuta ed in gran disordine. Gli acquasantini collocati in capo al letto d’ogni alunno erano privi d’acqua santa, onde il general Goyon, voltosi ad uno degli impiegati, scherzosamente gli disse: «E che, signore! manca fin l’acqua santa?» Il poveretto ingenuamente rispose: «Eccellenza, se ne prepara della fresca.»
I soldati romani portano lo stesso uniforme dei nostri, non essendovi se non una piccola differenza nel collare, ed una ben grande nella tenuta.
Talora insorgono alterchi tra gl’individui de’ due eserciti; ma i nostri generali puniscono severamente queste liti da taverna.
Mi ricordo che un artigliere francese fu assalito da quattro [166] soldati della fanteria romana. Gli aggressori trovarono ingegnoso di scagliare contro di lui le loro sciabole per colpirlo da lontano. Quegli raccolse un’arme da terra, corse contro i nemici, e tagliò una punta di naso o d’orecchio. Il generale, per atto d’imparzialità forse eccessiva, condannollo, insieme al ferito, ad un mese di carcere.
L’esercito pontificio costa dieci milioni all’anno e si compone di circa 15,000 uomini. Ora in Francia questa truppa costerebbe circa 15,000,000; ma noi ne abbiamo pel nostro danaro.
Non ho ancora parlato de’ due reggimenti di fanteria straniera, che fanno parte dell’esercito romano, e che sono arruolati dovunque, ma principalmente in Germania. Cotesti mercenarj arrivano nudi, e disertano ben volentieri quando il papa si è data la pena d’equipaggiarli. Sono trattati duramente, ed assoggettati al bastone.
Chiunque arriva a Roma con quaranta reclute è ufficiale di pieno diritto nella fanteria straniera.
Un giovane francese di buona famiglia era caporale nell’esercito francese. Si condusse così male, e fece tante pazzie, che i suoi capi pensavano seriamente a scacciarlo dal reggimento. Che fece egli? Procurossi 40 tedeschi, ed entrò come ufficiale al servizio del papa.
Se bramate sapere, miei cari lettori, ciò ch’io pensi del governo pontificio, la cosa è ben facile. Fate un viaggetto in Svizzera o nel Belgio, entrate dal primo librajo che trovate e dimandate un volume intitolato: La questione romana. Voi vi vedrete tutta intera la mia opinione nel classico costume della Verità.
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Ciò ch’io stampava nell’aprile del 1859 era vero e lo è ancora: non ritratto una sillaba, ma la prudenza m’impedisce di ripetere le stesse cose. Se mi abbandonassi al piacere di darvi qui la seconda edizione di quell’opuscolo condannato, i magistrati del nostro bel paese sequestrerebbero Roma contemporanea per leggerla a loro bell’agio. E forse mi manderebbero in prigione, quantunque la pensino come me.
Perciò m’atterrò alla savia prudenza de’ gatti scottati, i quali hanno paura anche dell’acqua fredda. Eccovi la copia esatta, e senza commentarj, de’ dati statistici, che mi furono somministrati nel 1858 da un devoto campione del poter temporale.
Il nostro santo padre papa Pio IX felicemente regnante è il 258.º successore del principe degli apostoli. È nato a Sinigaglia, il 13 maggio 1792, dalla nobile famiglia de’ conti Mastai Ferretti; fu assunto al pontificato il 16 giugno 1846, fu coronato il 21 giugno, e prese possesso del governo l’8 novembre dello stesso anno.
«Da tempo immemorabile, il santo padre è non solamente capo spirituale della Chiesa cattolica, che comprende 139,000,000 d’anime, ma eziandio sovrano temporale d’uno Stato italiano, la cui superficie novera 4,129,476 ettari, e la popolazione 3,124,668 anime. Riunisce in sue mani i poteri del pontefice, del vescovo e del sovrano.
I suoi Stati, che sono la malleveria della sua indipendenza morale, gli appartengono in proprietà assoluta, e non dipendono che da lui. Egli è padre de’ suoi sudditi, ed ha sopra di essi i diritti de’ genitori sulla prole. Ei può fare le leggi, cambiarle, abrogarle, senz’altro limite che quello ch’ei volesse da sè medesimo imporsi. La sua autorità è assoluta, e non temperata se non dalla giustizia e dalla bontà del suo cuore.
«Per l’amministrazione degli affari generali della Chiesa, il santo padre si consiglia naturalmente col sacro collegio de’ cardinali, i quali formano intorno a lui diverse congregazioni, ciascuna delle quali esercita una funzione speciale. Abbiamo: La Santa Inquisizione romana e universale, la Congregazione concistoriale, la Visita Apostolica, la Congregazione de’ Vescovi e [168] de’ Regolari, del Concilio di Trento, della Revisione de’ concilii provinciali, della Residenza de’ Vescovi, dello Stato de’ Regolari, dell’Immunità ecclesiastica, della Propaganda, dell’Indice, dei Riti sacri, del Cerimoniale, della Disciplina regolare, delle Indulgenze e Sante Reliquie, dell’Esame de’ Vescovi, della Correzione de’ libri della Chiesa d’Oriente, della Venerabile Fabbrica di San Pietro, di Loreto, degli Affari ecclesiastici straordinarj, degli studi, della Ricostruzione della Basilica di San Paolo, della Penitenzieria, della Cancelleria e della Dateria apostolica.
«Pel governo delle cose temporali, il santo padre si riserva il diritto di promulgare le sue volontà sotto forma di costituzione, di motu proprio, di chirografo sovrano, di rescritti, e tutto quanto egli giudica acconcio a decidersi con forza di legge nel presente e nell’avvenire. Ma egli suol liberarsi dalla cura degli affari correnti a profitto d’un cardinale secretario di Stato, primo ministro, amico e confidente del santo padre, rappresentante del sovrano presso gli stranieri e presso i sudditi pontificj. Questi nomina e dirige il personale diplomatico composto di cardinali o di prelati; pubblica editti cui devesi la più stretta obbedienza, come se emanassero direttamente dal santo padre; confida, a suo beneplacito, i portafogli subalterni dell’interno, de’ lavori pubblici, delle finanze e delle armi. I ministri non sono suoi colleghi, ma suoi impiegati, poichè egli è cardinale ed essi sono solamente prelati. È egli stesso che nomina i prelati che debbono amministrare le provincie, siccome i prefetti de’ vostri dipartimenti.
«Nella qualità vostra di Francesi, conoscerete probabilmente l’organizzazione della Chiesa gallicana, ma essa differisce talmente dalla nostra, che le mie parole sarebbero per voi lettera chiusa, se non ponessi qualche parola di spiegazione qui appresso.
«Nel vostro sciagurato paese, balestrato da lunga serie di rivoluzioni, il clero, spogliato de’ suoi beni e de’ suoi privilegi, dovette racchiudersi nel dominio spirituale. Un seminarista francese, dopo aver ricevuto il sacramento dell’ordine, se ne va siccome coadjutore in qualche meschino villaggio, dove pasce alcune pecorelle in zoccole. Il governo scettico, che tratta sopra [169] un piede d’eguaglianza perfetta i ministri di tutte le religioni, inscrive nel budget questo prete del vero Dio fra il maestro di scuola ed il guardaboschi. In ricambio d’un gramo salario di 900 franchi, voi esigete che il sacerdote obbedisca da schiavo a delle leggi atee, e si umilii dinanzi alle autorità laiche. Se dà saggi di talento e di zelo, lo nominate arciprete o curato, nella qual carica egli è inamovibile, e prende un onorario da 1200 a 1500 franchi a norma della popolazione; ma non esercita nessuna autorità legale fuori del santo tempio, ed al pari del primo arrivato va soggetto alla giurisdizione de’ tribunali laici, e non ha nemmeno il diritto di far mettere un uomo in prigione! Se per le sue virtù merita d’essere innalzato all’episcopato, ei non può ottenere l’instituzione del santo padre, se non dopo d’essere stato nominato dal capo laico del vostro governo. Così esige il concordato firmato nel 1801 dal papa Pio VII e dal console Napoleone Bonaparte. Io fremo quando penso, che l’arcivescovo di Parigi Sibour, che morì da martire appiedi de’ santi altari, era stato nominato dal generale Cavaignac! Nessun fatto potrebbe mostrare, con più deplorabile evidenza, quanto il potere spirituale sia tra voi francesi schiavo del temporale.
«Le cose procedono ben altrimenti negli Stati soggetti al santo padre. Una logica irreprensibile mantiene nel dominio temporale l’ordine e la gerarchia ecclesiastica. Il santo padre è padrone assoluto de’ beni e delle persone de’ suoi sudditi, perchè tutto ciò fu dato incondizionatamente al capo supremo della Chiesa. Dopo di lui la principale autorità ed i più elevati impieghi appartengono ai cardinali, e nulla pare più giusto e naturale, poichè i cardinali sono i principali capi della Chiesa, e ciascuno di loro, coll’ajuto dello Spirito Santo, può un giorno diventar papa. Dopo i cardinali, principi tanto dello Stato quanto della Chiesa, si colloca l’alta e rispettabile nobiltà de’ prelati, i quali tutti sono in via d’essere nominati cardinali. Il resto segue nel medesimo ordine, e le 38,320 persone, che compongono il clero secolare e regolare, esercitano nello Stato un’influenza proporzionata al grado che occupano nella Chiesa. L’ultima di quelle 38,320 persone è immediatamente superiore al primo dei [170] laici. E questa gerarchia è così costante agli occhi del governo, come agli occhi di Dio stesso.
«Nel 1797, prima delle spogliazioni di cui fummo vittima, il clero romano, tra regolare e secolare, possedeva 214 milioni di franchi in beni immobili. Attualmente la sua sostanza territoriale è portata al cadastro per 535 milioni. Ben vedete che ha riparato le sue perdite. I cardinali romani non ricevono che 20,000 franchi all’anno sulla cassetta del papa, ma bisogna aggiungere a questa modica somma il reddito di qualche vescovado, di qualche beneficio, o d’un alto impiego, scelto fra i più lucrosi. Questa combinazione permette loro di parer poveri e di esser ricchi. Quando al cospetto vostro venisse fuori alcuno ad assalire il fasto della corte di Roma, voi potrete sempre rispondere, col signor Rayneval, che i cardinali non ricevono se non 4000 scudi all’anno; ma voi avrete abbastanza buon senso per accorgervi, che la sola loro scuderia divora sovente più di 4000 scudi.
«Il sacro collegio de’ cardinali, il cui numero varia fra 60 e 70, si forma nella prelatura, instituzione tutta romana, che non trova analogo riscontro negli altri Stati d’Europa; dacchè anche in Francia si indicano sotto il nome di prelati i vescovi e gli arcivescovi. È dessa una specie d’aristocrazia spirituale e temporale eletta dal santo padre, che le accorda le lettere di nobiltà. È una scuola, da cui si sale per gradi fino alla dignità di cardinale; ed è una carriera politica, dove alcuni entrano per ambizione, riservandosi la facoltà d’escirne per incoraggiamento. I cadetti di buona famiglia, all’uscire di collegio, possono ottenere ed anche comprare certe cariche domestiche o giudiziarie, che loro aprono le porte della prelatura. Da quel punto essi sono come i vostri laureati di Francia, che hanno il diritto d’aspirare ad ogni impiego. Portano le calze di color viola, e procedono, così calzati, nella via degli onori. L’amministrazione, la diplomazia, le alte corti di giustizia, sono il dominio, o, se meglio vi piace, l’aringo delle corse de’ prelati. I più destri e meglio pensanti arrivano alla meta prima degli altri, ma sono necessarii il lavoro, la protezione, la condotta, e sopratutto certo decoro. Quando un prelato arriva a farsi nominare auditore di [171] ruota, o chierico di camera, o secretario d’una grande congregazione, può sperare, senza soverchia presunzione, di morire nella porpora. Colui che raggiunge uno de’ quattro primarj impieghi della prelatura è sicuro di riuscire ai sommi gradi, e diverrà cardinale. Questi impieghi, che si dicono cardinaleschi, sono quelli di governatore di Roma, di tesoriere generale, di auditore di camera, e di maggiordomo del papa. I loro titolari fruiscono in anticipazione di alcune delle prerogative riservate al sacro collegio: bisogna dipingere le loro carrozze in rosso, e mettere de’ fiocchi di seta rossa sulla testa de’ cavalli.
«Non è mai troppo tardi per entrare nella prelatura, e si è sempre padroni d’uscirne. Suppongo che un uomo ben pensante, come voi, possa svegliarsi colla vocazione o l’ambizione di giungere al sacro collegio. Il santo padre può nominarvi prelato oggi stesso, porterete le calze color viola, ed apparterrete, ipso facto, all’aristocrazia della chiesa romana, allo stato maggiore del papato, e ciò senza contrarre alcun impegno religioso. Diverrete cardinale e prenderete le calze rosse il giorno in cui il santo padre lo crederà opportuno, fra 24 anni e 24 ore. Converrà che negli ultimi momenti vi facciate ordinar diacono, perchè senza formalità non si potrebbe diventar cardinale. Se il cappello si fa troppo attendere, se perdete pazienza, se trovate per via l’occasione d’un matrimonio vantaggioso, non avete nessun ostacolo che v’impedisca di abbandonare la prelatura. Mettete calze bianche, ed ecco fatto. Il conte Spada, che era prelato e ministro delle armi, è uscito dalla prelatura per ammogliarsi. Ma egli non è, e non sarà più nulla nello Stato, dacchè ha cambiato il color delle calze, sebbene non siasi fatto nessuno sforzo per ritenervelo.
«Il santo padre, i cardinali ed i prelati governano la nazione con dolcezza paterna. Hanno ogni riguardo pei privati, pei principi e pei nobili, non solamente perchè la nobiltà romana è in modo speciale d’origine pontificia, ma anche perchè la distinzione delle caste è fondamento degli Stati inciviliti. Tengono in serbo per un principe romano la carica onorifica di senatore o podestà di Roma. Un altro gran signore, per privilegio speciale, dirige, senz’obbligo di calze color viola, l’amministrazione delle [172] poste. Quattro nobili romani, principi, duchi o marchesi, accompagnano sua santità nelle cerimonie religiose, sotto titolo di camerieri di cappa e di spada. I cadetti di alcune case distinte formano la guardia nobile, in abito azzurro: e si può dire in generale che i figli di famiglia fanno carriera più rapida, che non gli avventizj nella gerarchia ecclesiastica.
«Il popolo minuto viene trattato dolcemente; viene compianto, assistito, ricreato. Non si pretende altro se non che viva cristianamente evitando gli scandali. Lo si vorrebbe più perfetto e sopratutto meno violento; ma siccome è sottomesso a’ suoi dogmi ed a’ suoi padroni, così si stende un velo indulgente sui suoi peccati, e si evita più che è possibile di spargere il suo sangue.
«Il ceto medio anch’esso avrebbe torto se osasse lamentarsi. Gli si permette di coltivare la terra e di dedicarsi al commercio ed all’industria. Nessuno viene ad angariarlo sulle sue opinioni religiose e politiche, a patto però che abbia cura di tenerle in sè; non gli si richiede che l’obbedienza alle leggi e 70 milioni d’imposte, di cui gli si restituisce qualche particella. Poichè i prelati gli cedono generosamente una quantità di piccole cariche, colle quali un uomo che s’accontenti di poco, guadagna agevolmente di che vivere. Ogni borghese ben pensante e ben appoggiato trova posto in qualche amministrazione, tribunale, venditorie di tabacco, o bottega da lotto. Il punto sta nella scelta d’un protettore, nell’obbedirgli in ogni cosa, nell’accontentarsi d’una condizione umile e modesta, e nella pratica ostensibile delle virtù cristiane.
«Si può dire, per riepilogo, che gli Stati pontificj furono sempre governati all’amichevole, da uomini dolci e gentili, già dalla educazione, dall’abitudine e dalla fede predisposti alla indulgenza. I principi della Chiesa, umilmente soggetti allo scettro venerabile del santo padre, si spartiscono quietamente e concordemente un’autorità secondaria. Cedono un’ampia parte ai principi romani loro alleati ed ai prelati, loro futuri colleghi. Uno scambio di buoni ufficj, di raccomandazioni e di concessioni reciproche unisce strettamente tutti gli uomini che sono qualche cosa nello Stato. Una tradizione di patrocinio e di clientela, così antica come Roma stessa (poichè ebbe origine da Romolo), sottomette loro il popolo minuto ed il ceto medio.
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«Tutto dunque procederebbe a meraviglia, se lo spirito rivoluzionario, scatenatosi dagli abissi, non si fosse sparso sull’Europa e sull’Italia stessa. Già da oltre due secoli alcuni novatori, nemici parimenti della fede religiosa e della tradizione monarchica, si sforzano d’instillare nelle menti il così detto principio dell’infallibilità umana. Dopo avere scalzato le fondamenta dell’autorità clericale, rivendicando a profitto dell’individuo il discernimento del vero e del falso, del bene e del male, che non appartiene che alla Chiesa, sono giunti, per una conseguenza logica del loro sistema, a negare la legittimità d’ogni potere temporale, ed a mettere i sudditi al disopra dei re. Si videro de’ milioni d’uomini, trascinati dal torrente d’un comune errore, affermare che un regno loro appartiene per ciò solo che vi sono nati, ed abolire o limitare il potere de’ loro principi.
«Cotesto contagio non s’è fermato sui confini del nostro Stato, e già da parecchi anni il sovrano pontefice ed il sacro collegio sono costretti a lottare contro le più intollerabili esigenze dell’orgoglio umano. Senza l’esercito francese che ci difende, il popolo di questi paesi proclamerebbe la repubblica, o getterebbesi nelle braccia di qualche principe straniero. Costretto poi a riconoscere l’autorità de’ legittimi suoi padroni, domanda insolentemente di prender parte nel governo. Non v’ha più nè città nè villaggio, che non reclami il diritto d’amministrarsi da sè medesimi e di scegliere un corpo municipale. I laici pretendono usurpare gli alti impieghi riservati alla prelatura e servire il papa, anche suo malgrado. Gli avvocati vogliono raccogliersi in assemblea e fabbricar leggi, come se la legge, nello Stato del papa, potesse essere altra cosa che la volontà del papa medesimo! Finalmente i contribuenti che debbono pagare a Cesare ciò che è di Cesare, ed a Dio ciò che è di Dio, non temono di reclamare da noi che si rendano i conti.
«Si avrebbe a sdegno di rispondere a delle pretensioni sì nuove e mostruose, se non fossero in qualche modo appoggiate dai nostri protettori medesimi. Chi lo crederebbe? L’ambasciatore d’un principe cattolico qualifica del nome d’abuso le instituzioni fondamentali della nostra monarchia. Lo stesso vostro imperatore, in una lettera che nessuno di noi prese sul serio, ci [174] consigliava di secolarizzare l’amministrazione e di adottare il Codice Bonaparte!
«La prudenza ci comandava di obbedire, almeno in apparenza, a consigli venuti sì dall’alto. Abbiamo quindi promesso ciò che ci si dimandava, e tracciato sulla carta il piano particolareggiato della nostra ruina. Ma l’invasione de’ laici negl’impieghi del governo, l’adozione d’un Codice rivoluzionario, l’emancipazione delle nostre Comuni, la discussione pubblica dei nostri budget avrebbero trasformato il santo padre in un re costituzionale. La sua autorità religiosa non avrebbe lungo tempo sopravvissuto, nello spirito degli uomini, alla sua infallibilità politica; il papa non sarebbe stato più papa! Ora noi professiamo una religione che c’interdice il suicidio.»
A questo quadro abbellito, ma però abbastanza esatto, a questo raziocinio invincibile nelle sue deduzioni, ma fondato sopra assiomi dubbiosi, non aggiungerò che poche parole.
Il governo del papa, per dare soddisfazione ai desiderj de’ suoi protettori e de’ suoi sudditi, ha instituito una foggia di regime rappresentativo. Il santo padre nomina degli elettori comunali incaricati di nominare in ogni città un consiglio municipale. Ma per risparmiar loro gl’imbarazzi della scelta, s’incarica egli stesso di comporre il consiglio.
I consigli municipali, così formati, presentano al santo padre una lista, su cui sceglie egli stesso i membri dei consigli provinciali.
I consigli provinciali, alla loro volta, presentano al sovrano una lista, sulla quale egli sceglie i membri della consulta delle finanze. Il papa aggiunge a questo consiglio, da lui stesso formato, alcuni prelati da lui medesimo prescelti.
La consulta delle finanze è destinata a porgere il suo parere su tutte le questioni che interessano il tesoro. Venne instituita nel settembre del 1849, entrò in carica nel dicembre del 1853. Essa dà il proprio avviso, e non se ne tiene conto alcuno.
Il sindaco porta il nome di senatore a Roma ed a Bologna, di gonfaloniere nelle città di minore importanza, e di priore nei [175] villaggi. Ma senatore, gonfaloniere o priore, ei non è altro che uno stromento passivo nelle mani dell’autorità ecclesiastica.
Il santo padre può sospendere indefinitamente, con suo chirografo sovrano, l’esecuzione d’un giudizio regolare, anche in materia civile. Io non credo che siavi alcun altro sovrano dell’Europa, che domini la legge così dall’alto.
Si può dire, senza timore d’essere smentiti, che il papa regna e governa.
Il secretario di Stato, incaricato di difendere all’estero ed esercitare nell’interno l’autorità assoluta del santo padre, è, già da dodici anni circa, il cardinale Giacomo Antonelli.
Se questo capitolo sarà gremito di enormi contraddizioni, prego il lettore indulgente di non se ne maravigliare, chè tutto è contraddizione in Roma, dove il popolo è ben nato, e male allevato, il governo è pieno di grandezza e di meschinità; dove sono leggi dolcissime e leggi in massimo grado dispotiche; imposte assai modiche eppure gravosissime; dove regna un gran fondo di sincerità naturale, e molta ipocrisia raffinata; dove sono e vita economica e spese pazze; prudenza meticolosa e collera cieca; abitudine di nascondersi e furor di comparire; sentimento vivissimo dell’eguaglianza, profondo rispetto per le ineguaglianze sociali; costituzione abbastanza dispotica per riunire tutti i poteri nelle mani d’un uomo solo, ed abbastanza democratica per mettere la corona di re sulla testa d’un cappuccino.
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Tutte le statue che si veggono a Roma, sia sulle piazze pubbliche, sia anche nelle private gallerie, portano una foglia di vite. Furono coperte d’un mantello di lata le figure allegoriche, le quali decoravano alcune tombe d’antichi papi. L’artista le aveva fatte nude, considerando che ai morti non si deve altro che la verità; ma l’ipocrisia moderna volle rivestirle, mascherarle, soffocarle, come se una bella statua potesse essere un oggetto di scandalo. In ricambio si permette ad uomini veramente nudi di bagnarsi nel Tevere, od anche nel bacino della fontana Paolina. Nessuno sentesi offeso da questa libertà, nè la polizia, nè il pubblico, nè le donne romane, che vanno e vengono e lavano i loro panni intorno a quelle statue viventi, senza pensare al male.
Esco dall’ospitale dello Spirito Santo, stabilimento immenso, che è il più ricco e meglio dotato di tutti i nostri. Un giovane addetto mi ricevette alla porta e fecemi passeggiare cortesemente, senza conoscermi. È un medico od almeno ha sostenuto gli esami del dottorato teorico. Fra due anni egli passerà gli esami di pratica, ed andrà ad esercitare la medicina in qualche villaggio. Intanto egli studia, ma non tutto ciò ch’ei vuole; ed in confidenza mi confessa, che non ha mai veduto il corpo d’una donna viva. «Ed i parti? — Noi facciamo partorire de’ fantocci incinti d’una bambola. Ma quando avrò sostenuto il mio ultimo esame, avrò diritto di assistere ai parti delle donne. — Compiango la prima che vi toccherà per mano. — Ed io pure.»
Le sale dell’ospitale sono vastissime in lunghezza e larghezza; contengono quattro ordini di letti senza cortine, capo a capo! I piedi d’un malato toccano la testa dell’altro. Fu sacrificato l’interesse di quegli infelici all’aspetto grandioso dell’edifizio.
Un cartello posto al capezzale d’ogni letto indica la dieta prescritta ad ogni ammalato: «Porzione intera, mezza porzione, minestra ed ova, viatico.» Quest’ultima parola mi ha fatto rizzare i capelli in testa. — Poveretti, che 24 ore prima sono condannati a morte!
Si chiama la mia guida per mostrargli il numero 200.º, intanto [177] che passavano. — Io lo seguo e veggo un corpo agitato dalle convulsioni dell’agonia. Era un contadino colpito da gastrite acuta per essersi mal nodrito. Un infermiere distende le sue membra, toglie la camicia, stende un lenzuolo, accende una lampada. Allora m’accorgo d’altre cinque o sei lampade accese nella sala: sono altrettanti cadaveri. Il mio cicerone mi fa osservare, che si ebbe la felice idea d’adattare ad ogni letto una specie d’anello per la lampada funebre.
Un grasso cappuccino circola nella sala, distribuendo l’assoluzione a chi la dimanda: sonvi però due grandi confessionali dinanzi la porta d’ingresso.
Mi viene mostrato un contadino rosso come un pomo d’oro e trasudante a grosse goccie nel suo letto. È stato morso dalla tarantola, eppure non v’è nulla nel suo contegno che riveli la passione della danza. Il mio giovane dottore m’assicura che il morso delle tarantole induce un movimento di febbre assai gagliarda. Tuttavia ei credette osservare che la paura entrava in buona parte in questa malattia; tanto che basta qualche volta un bicchier d’acqua pura, od una pillola di mollica di pane, per guarirla radicalmente.
Una sala a parte è destinata ai soldati ammalati, che vengono paternamente assistiti, anche per le malattie irreligiose. Ma in questo caso speciale il prezzo delle medicine viene dedotto dal loro soldo. Da ciò nasce, che un soldato ammalato evita l’ospitale, e resta infermo finchè a Dio piace.
Ho visitato il teatro, il gabinetto d’anatomia, e tutte le collezioni scientifiche spettanti all’ospitale. Il pezzo più notevole è un cadavere scorticato, colla foglia di vite per edificazione dei giovani medici. Et nunc erudimini!
L’ospitale dello Spirito Santo, come tutte le proprietà ecclesiastiche, è un luogo di asilo, dove può guarirvi o morirvi il ladro, il parricida, l’assassino, sotto lo scudo delle leggi. Alcuni ammalati, profittando d’una sì dolce impunità, credettero che fosse loro permesso di rubare e d’uccidere in quel recinto inviolabile. Ma l’autorità pontificia, considerando che non bisogna abusare degli abusi, decise che i delitti commessi nell’ospitale non avrebbero diritto all’impunità. Questa legge, scolpita sopra [178] una lastra di marmo, resta esposta agli occhi degli ammalati, i quali però non sanno leggere.
L’ospizio de’ Trovatelli, allo Spirito Santo, vide il prologo d’un piccol dramma, che parrebbe inverosimile, se i tribunali non si fossero data ogni cura di verificarlo.
Nel 1807, la duchessa X, che aveva già un figlio ed una figlia, sgravossi clandestinamente d’un terzo figlio, nel palazzo del proprio marito. Perchè fece essa portare il neonato all’ospizio anzichè presentarlo al duca X? Forse perchè il duca, già da parecchi anni, teneva letto separato. Il piccolo Lorenzo X fece il suo ingresso nel mondo per la porta de’ Trovatelli, senz’altro capitale che la metà d’un pezzo da 5 soldi appesa ad un filo.
Qualche tempo dopo, la duchessa, che aveva visceri umani, provò che il pezzo di 5 soldi ed il fanciullo appartenevano a lei. Ripigliò il suo Lorenzino, lo diede a nutrire ed assegnò una pensione di 26 franchi al mese, che fu scrupolosamente pagata fino all’età maggiore. Mercè la generosità della madre, Lorenzo non morì di fame ed imparò la miniatura.
La morte di suo padre e del fratel maggiore venne a stornarlo dalla sua vocazione. Ei vedeva una bella sostanza, 75,000 franchi circa di rendita, andarsene dalla principessa T., sua sorella, che non ne aveva precisamente bisogno. La contessa T. possiede da quaranta a cinquanta milioni! La fame, l’occasione, il favore pubblico e certi nemici della famiglia T., spinsero Lorenzo a reclamare il nome ed i beni degli X.
Se qui potessi trascrivere i documenti del processo, che furono riuniti in un volume, vi trovereste alcuni fatti curiosi. Gli avvocati del pretendente rinfacciavano alla duchessa d’aver lasciato languire suo figlio nella miseria, mentre faceva follie per un droghiere di Frascati. La principessa T.... diceva, per l’organo del suo difensore: «Questo giovane è figlio di mia madre, sia pure; ma certamente mio padre non c’entra per nulla. Essa variava all’infinito ne’ suoi gusti. Se Lorenzo è figlio di qualcuno, lo è probabilmente d’un Russo di nome M.»
Ma più maraviglioso è quanto ebbe a dichiarare la duchessa. [179] Nel momento di comparire al cospetto di Dio, cotesta illustre persona non si vergognò di attestare, per favorire la figlia, che il giovane era bastardo e quindi inetto a succedere.
Malgrado una testimonianza sì grave, Lorenzo guadagnò il suo processo: Is pater est quem justae nuptiae demonstrant. D’altronde gli avvocati avevano provato che il defunto duca si era compromesso con tutte le donne, la duchessa con tutti gli uomini, e per conseguenza il duca e la duchessa avevano dovuto incontrarsi almeno una volta nelle loro avventure. Lorenzo, cresciuto nell’avversità, è diventato uno degli uomini più attivi, più intelligenti e liberali dell’aristocrazia romana. Lo vedrete alla testa di tutte le imprese che possono favorire il progresso dell’Italia.
Fa educare i figli in Piemonte, e non concede loro di venire a Roma, nemmeno nelle vacanze, quasi che l’aria della città Santa potesse loro avvelenare lo Spirito.
Suo unico difetto è un deplorabile imbarazzo nel maneggio dell’armi da fuoco.
Altro romanzo. La duchessa A. era rimasta vedova nel 1850, con una fortuna ancora imponente, benchè d’alquanto scemata, ed uno splendido palazzo.
Il cielo permise che un reggimento di dragoni francesi fosse accasermato nelle vicinanze del palazzo A. Tutte le mattine la duchessa non aveva che a mettersi alla finestra per contemplare l’ordinamento de’ cavalli, d’onde osservò un giovane sott’uffiziale di bello e nobile aspetto, benchè sopravegliasse un’operazione abbastanza prosaica. A forza di vederlo, ella ne fu presa d’amore, e siccome anch’essa non era fatta per dispiacere, così piacque al giovane. Prese informazioni, essa venne a sapere che il signor H. apparteneva ad un’onorevolissima famiglia di coltivatori normandi, ed egli stesso era stimato dai capi e dai camerati, onde in breve avrebbe ottenuto gli spallini. La duchessa attese ch’ei fosse uffiziale, persuasa, e non a torto, che ogni ufficiale francese vale un gentiluomo.
Ora il signor H. ha ottenuto congedo, coltiva le terre di sua moglie e rialza una fortuna che l’incuria romana aveva lasciato scadere. Sua moglie non è più duchessa, ma sarà ricca e felice.
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Il difficile sarà di persuadere ai domestici di Roma ch’essi debbono annunciare l’antica duchessa A. sotto il nome di signora H. Quanto ai contadini delle sue terre, mi dissero ingenuamente: «Il nostro nuovo padrone si chiama duca A., dacchè ha sposato la signora duchessa.»
Quando l’amore si radica in un cuore romano vi signoreggia da re. Tutto cede: gl’interessi, i doveri e finanche i pregiudizj. Eccovi un giovinotto d’età piuttosto matura che corre verso la piazza di Spagna. È il principe C., che va a baciare la mano d’una giovane droghiera, di cui è innamorato fino al punto di volerla sposare. E questa follia non farebbe stupore a nessuno. È però vero che la donna occupa sì poco spazio nella famiglia, e che si può sceglierla dovunque si vuole, senza derogare.
Non è già che le donne di Roma siano creature di nessuna importanza; sonvene di molto spiritose, siccome la principessina C. di S.
Il principe C. di S., morto di vecchiaja nel 1849, aveva sposato nel 1848 una persona assai più giovane di lui. E nello stesso giorno ch’ei fu seppellito, la vedova dichiarò d’essere incinta, e non fu smentita, essendosi sgravata d’un maschio proprio al limite legale del tempo, e la sua presenza di spirito le valse una fortuna. «Questo fanciullo è nato coll’orologio alla mano,» dicevano i giureconsulti.
L’educazione ha bel fare: si trovano delle romane fierissime e nobilissime, anche nella nobiltà!
Quella povera Tolla o Vittoria Savorelli, di cui ho pubblicato la storia or sono alcuni anni, non era certamente un’anima volgare.
Poco dianzi ho incontrato il suo seduttore, uomo pingue e di nessun merito, che non fu certo dimagrato dai rimorsi, se pur ne ha.
Il signor Savorelli padre si è ingolfato nell’industria, fabbrica candele steariche e rialza così la fortuna della sua casa. Conserva in casa un bel busto di sua figlia, scolpito da un fratello di Tolla.
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Mi venne mostrata una giovane di buonissima famiglia, che ebbe il coraggio d’imparare un’arte, la pittura, per isposare un giovane povero che essa amava. Dopo diciotto mesi di studj, diventò capace, spinta dall’amore, di dipingere copie così belle come quelle che si vendono agli stranieri, ma l’amante aveva cessato d’amarla, e ne corteggiava un’altra.
Quest’eroica giovane non è morta siccome Tolla. Si è poi innamorata d’uno straniero che non la sposerà, che glielo disse, e ch’essa ama a dispetto del senso comune. Essa ha rifiutato la mano d’un vecchio diplomatico potentemente ricco, per restar fedele a questo francese, che non è nemmeno suo amante.
Il principe T., l’uomo più ricco di Roma, ne è forse il più infelice. La sua famiglia ha perduto in poco tempo un bel ducato, un’eredità importante ed un’impresa infinitamente più lucrosa. La moglie è pazza, i suoi eredi sono ragazze, suo fratello è una nullità, uno de’ suoi nipoti è idiota e l’altro, che meriterebbe di vivere, non vivrà. Sic transit gloria mundi. Tutta la città compiange sinceramente il principe T. Ei vende il suo danaro un po’ caro; ma fece del bene, incoraggiò le arti, e diede delle belle feste.
I suoi due nipoti hanno sposato delle figlie di case illustri, e sono ambidue belle. La moglie del primogenito è d’un carattere aperto, leale, appassionato; e resiste energicamente alle soperchierie di sua cognata, che spende più di politica che non Richelieu e Mazarino, per confiscare la primogenitura a profitto del proprio consorte.
Questi ultimi giorni, il cardinal Antonelli aveva invitato le dame della nobiltà romana ad un passeggio colle fiaccole nelle catacombe di San Pietro. Alla cena che venne appresso, Sua Eminenza si accostò alla giovane principessa T., moglie del primogenito, e si scusò di non avere invitato la sua cognata. «Avete fatto assai bene, rispose la fiera romana. Bisogna saper conservare la distanza fra i primogeniti ed i cadetti.»
Una romana, una principessa allevata in un convento, ha commesso qualche imprudenza; la cameriera sa tutto e fa comprendere [182] alla sua padrona ch’essa potrebbe dir tutto. In simile occasione, quale è la francese che non avrebbe transatto? La mia Romana dà uno schiaffo alla impertinente creatura, la getta a terra, la calpesta e la scaccia sul momento.
Se il nostro povero Stendhal fosse vissuto, avrebbe ammirato quel tratto di coraggio. Notate, se vi piace, che la principessa non era già una matrona imponente, ma una donnetta, mingherlina e dilicata. La fantesca è partita e non ha mai parlato. È l’eroina che ha raccontato l’avventura al suo amico.
Di tutti i nobili romani, il più francese è il principe di S., discendente da Valerio Publicola. Ha fatto l’assedio di Roma coi nostri uffiziali, e s’è meritato il nastro della Legione d’onore. Ho veduto presso di lui un mobiliare ricco ed anche di buon gusto, ciò che è più raro. La sua conversazione è solazzevole e svariata, segnatamente prima di pranzo; egli è quello che a Parigi dicesi buon figliuolo, ma troppo fanciullo. Jeri egli trovavasi a Rignano, per la solenne investitura del giovane duca. La municipalità aveva preparato un fuoco d’artifizio; ma il principe di S. ebbe il capriccio di apporvi il suo sigaro ed accendere i razzi di bel mezzodì!
Ho talora incontrato al Pincio un altro principe di S., principe anch’esso al pari del cugino, e ridotto a vivere d’una pensione di pochi scudi al mese. Questi in paese laico sarebbe stato un bel soldato: da Nemrod rassegnato, si consola della forzata inazione dando la caccia ai caprioli ed ai cinghiali.
Sul Pincio egli conduce i suoi cani filosoficamente, nell’ora in cui il duca Grazioli e tanti altri fornaj arricchiti conducono pomposamente i loro cocchi.
Roma è piena di cavalli, carrozze, lacchè, livree, stemmi gentilizj; chè il più meschino parroco pretende il lusso d’un blasone. Nessuno, tranne i nocchieri di vetture pubbliche, attacca un cavallo solo alla propria carrozza. Le carrozze poi sono alte, larghe, pompose; e vi si sale per una scala, siccome pel Paradiso. Ho sempre dimandato a me stesso, perchè i cardinali e gli altri grandi signori traessero tre domestici, in piedi sul medesimo [183] banchetto, dietro la loro carrozza, mentre basterebbe un solo. Comprendo benissimo perchè i Turchi mettono talora due guardie in una garetta: il tempo della consegna è lungo e pesante, onde la seconda sentinella potrebbe servire a risvegliare la prima. Ma tre domestici balestrati al piccolo trotto dietro un cardinale! Evvi forse in ciò qualche intenzione caritatevole? Il secondo ed il terzo sono forse messi per impedire che il primo cada? In tal caso tenetene un solo, e fatelo sedere.
A Roma, il più umile borghese si fa scrupolo di non portar nulla da sè. I ragazzi che vanno a scuola ravvolgono i loro libri in un fazzoletto e li dondolano negligentemente. Far vedere che portano da sè i loro libri alla scuola, sarebbe un confessare che non hanno domestici!
Un notajo di Parigi che aveva studiato questo governo diceva, rientrando in casa: «Non v’è che un mezzo solo per risolvere la questione romana. Mettete tutti i laici alla porta, e non lasciate che i sacerdoti.»
È una misura un po’ violenta, e m’imagino che si potrebbe raggiungere il medesimo scopo per altra via. Diamo l’Italia agl’Italiani e Roma al papa. Allora la città eterna non sarà popolata che da persone tranquille e rassegnate anticipatamente ad una dolce servitù: cardinali, prelati, preti, frati, principi, clienti, commissarj, lacchè. In totale, cinquanta o sessanta mila individui, che tutti hanno sollevato l’obbedienza all’altezza d’un principio. Aggiungete una popolazione ondeggiante di ventimila stranieri, che verranno ad ammirare le ruine racchiuse in questa ruina.
I cardinali romani non escono mai a piedi per la città, chè la loro grandezza esige la carrozza. Coloro poi che provano il bisogno di fare un po’ d’esercizio, vanno a passeggiare nella villa Borghese, o piuttosto in un giardino deserto che si stende dietro il Colosseo. Non mi ricordo d’averne veduto alcuno a passeggiare al Pincio, ma vi s’incontrano però de’ prelati acconciamente vestiti, baldanzosi e seguiti da domestici.
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Mi viene accertato che i cardinali non possono por piede in una chiesa senza un certo cerimoniale; ond’è che, se un cardinale fosse tentato d’aprir la porta e d’andar a pregare come un semplice fedele, l’etichetta glielo impedirebbe.
Il servitorame di Roma, compreso di rispetto pei cardinali, non è molto curante verso la dignità episcopale, e ciò pel gran numero di vescovi che si trovano in Roma. Si narra che, in una di quelle cerimonie che attraggono la folla, un guardaportone di parrocchia respingeva le persone a colpi d’alabarda. «Guardatevi! gridò un domestico, vorreste forse bastonare Sua Eminenza?
— Perdonatemi, esclamò il guardaportone, prostrandosi dinanzi al cardinale, io credevo che fosse un vescovo!»
Quando un cardinale passa in carrozza dinanzi ad un posto militare, i soldati vengono fuori e gli presentano le armi. Il cardinale saluta senza toccare il cappello, alzando leggiermente il vetro della carrozza. I semplici prelati salutano nello stesso modo.
Un pensionante dell’Accademia francese di Roma, che potrei nominare, va a visitare un giorno la manifattura dei mosaici. In una delle sale dello stabilimento, vede un prelato che passeggia col cappello in testa. Ei crede che si possa restar coperti, e si copre. Il prelato gli va incontro e con un manrovescio gli fa cadere il cappello. Quest’aneddoto è del 1858.
Non si fanno più miracoli a Roma, nè nello Stato Pontificio. Alcuni zelanti tentano bensì di quando in quando, ma il Santo Ufficio gli arresta subito.
Una giovane morta all’Ospitale San Giovanni conserva per qualche tempo la faccia vermiglia. Monsignor Tizani grida al miracolo; l’inquisizione gli ordina di tacere.
A Sezza, or sono quattro o cinque anni, una giovine santa diretta da due preti si mette a predire il futuro. Il popolo ride di quelle profezie; il governo fa arrestare la pitonessa ed i suoi due direttori.
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Tre anni sono una giovane estatica attira la folla a un miglio da Rimini. Due ecclesiastici dicevano la messa nella sua stanza; ella profetizzava con molta facilità; ma tre domenicani accorsero da Roma, e fecero cessare il miracolo; si investigò l’affare, e dietro un processo, che durò tre anni, la giovane ed i suoi magnetizzatori presero la strada delle galere.
Taluni possono forse chiamarsi fortunati che il miracolo sì lucroso della Salette sia accaduto in Francia. Il Santo Ufficio di Roma è più severo del clero di Grenoble, o più prudente. Ha paura dello scandalo e si attiene ai vecchi miracoli.
La legge, od almeno l’uso di Roma, permette ai poveri di rubare una pagnotta nel cesto del fornajo, se hanno fame.
Io ho visto dei disgraziati affamati che non usavano di questo privilegio. Un contadino, d’una cinquantina d’anni, passeggiava lungo il corso, guardando a dritta ed a sinistra con aria d’indifferenza. All’angolo d’una strada adjacente scorge un enorme torso di cavoli in mezzo ad un mucchio d’immondizie, vi corre, lo prende e lo mangia con un’avidità terribile a vedersi.
Aspettate! Allorchè fu saziato o nauseato gettò l’avanzo. Un giovinotto di vent’anni, che lo seguiva da alcuni minuti, raccoglie quell’avanzo e se lo divora.
Ecco delle osservazioni che il vero viaggiatore dilettante non farebbe. Ci vuole il tempo, l’occasione ed un certo genere di curiosità.
Le donne turche dormono tutte pettinate e le greche tutte vestite. Le romane, i loro mariti, i loro figli, dormono tutti nudi. A Parigi è una sconcezza il coricarsi colle calze; a Roma è sconcio il tenere la camicia.
Una dama francese m’aveva incaricato di portare un regalo alla sua sorella di latte maritata a un fabbro di Borgo. Ci vado la domenica mattina verso le sette. Batto: «Chi è?» risponde una voce d’uomo. Espongo l’occorrente. «Scusatemi, replicò egli, non sono vestito. Non importa, risposi. — Allora entrate.»
Entro. Era nudo come un verme, e faceva dei grandi inchini. Mi condusse fino da sua moglie che era in letto nello stesso [186] costume. Le consegnai l’orologio d’argento che avevo per essa. Ella mandò un grido di gioja. — A questo rumore quattro uccelli senza penne si levarono a mezza vita sopra un letto vicino. Erano i figli della casa; due maschi e due femmine.
Racconto d’un mio amico artista, giovine di buona fede ed incapace di mentire.
Allorquando io correva le montagne per studiare i costumi, aveva il mio quartier generale nel villaggio di.... Il più delle volte io era guidato nelle mie passeggiate da un buon uomo d’eremita, che questuava lungo la strada.
Era un degno uomo e piuttosto utile a suoi concittadini, perchè sapeva cavare i denti. Una sera, ci fermiamo insieme nel borgo di.... Nessun albergo; entriamo nella casa d’un contadino ove troviamo un’ospitalità sperticata. Sento due grida: méé e cuic! il primo era di un capretto che si stava scannando, e l’altro di un pollastro, al quale si serrava il collo in un tiretto. Dopo cena il contadino mi fa un letto nella sua stanza. Tu, diss’egli all’eremita, ti coricherai bene con noi. Egli era ammogliato. Io vado a letto, egli fa altrettanto, dopo avere smorzato la lampada, la moglie sul davanti, il marito in mezzo e l’eremita in fondo, tutti e tre nel costume nazionale. Alla mattina prima di giorno sento un rumore: è il contadino che si alza per andare a’ suoi lavori. Torna alle otto per preparare la colazione.
Noi stiamo per partire, io voglio pagare. Il paesano rifiuta seriamente, io insisto, egli va in collera; finalmente dice all’eremita: «Postocchè questo signore non vuole ch’io vi abbia data l’ospitalità per niente, prendi i tuoi ferri e cavami un dente; ne ho qui uno che si guasta; non mi fa male, ma un giorno o l’altro bisognerà pur levarlo.»
Il popolo delle città e delle campagne, e generalmente tutta la gente minuta di questo paese, amano i fiori. Vi sono ben pochi contadini che non mantengano intorno alla loro vigna una siepe di rose. Le donne del popolo mettono dei fiori ne’ loro capelli; il coltivatore che ritorna dal campo attacca un mazzolino [187] al suo cappello. Gli amanti perseguitati corrispondono fra di loro col mezzo di alcuni fiori sparsi sulla strada; è una scrittura in regola, ove ogni ramoscello dice qualche cosa. In un villaggio vicino a Roma, le processioni sono esercitate a disegnare, cammin facendo, un ricco tappeto di fiori. Non è più di venti anni che la nobiltà romana si distingueva dal volgo per un disgusto aristocratico, per il puzzo dei fiori. Ciò che mi stupisce si è, che in un paese ove tutti gli odori naturali, perfino i più disgustosi, sono sopportati pazientemente, siasi fatta una eccezione contro le rose, le violette e l’eliotropia.
Da alcuni anni in qua il bel mondo si è convertito a de’ gusti più naturali. Ho visto alla villa Borghese un’esposizione d’orticoltura che dimostra un progresso evidente. Ma se percorrete i giardini del secolo scorso, vedrete che i fiori erano esclusi dal disegno primitivo. Non vi si volevano che dell’erbetta, della mortella, dei lauri, delle quercie verdi, dei cipressi, dei pini ombrelliferi e molte pietre da taglio.
Non vi è a Roma uno stabilimento di bagni un po’ ben ordinato. Gli stranieri si bagnano all’albergo, e i gran signori nel loro palazzo. Una gran parte della popolazione si priva di questo piccolo piacere, che d’altronde costa carissimo.
Si lavano i morti nell’acqua calda. Quanti Romani non ebbero che quel bagno!
«Per chi mi prendete? rispose una giovane Romana, io sono una ragazza onesta, non immergo il mio corpo nell’acqua!»
Un bagno pubblico tenuto con un po’ di pulizia e messo alla portata di tutti, ecciterebbe la stessa sorpresa come l’illuminazione a gaz, il telegrafo elettrico, la prima locomotiva di Frascati, o i primi fantocci giranti, che hanno attirato la città intiera davanti la bottega di un parrucchiere del Corso.
Tutti sanno che nello Stato Pontificio un uomo ammogliato non può far fortuna. Non vi è avvenire che per i celibi. Però la natura ha tanta forza che i Romani d’ogni classe si ammogliano giovani. Questo popolo vive con semplicità; i suoi padroni gli permettono poca ambizione, pochi piaceri, e poche [188] idee; egli si dedica attivamente alla riproduzione, e Iddio benedice i suoi sforzi. Da ciò quel formicolajo di ragazzi che coprono il selciato di Roma. Il Sovrano, vale a dire il clero, non tollera quelle unioni libere che sgraziatamente abbondano da noi. Allorchè una fanciulla ed un giovane vivono in comunione, la polizia gli spia, li sorprende, fa venire un prete e infligge loro la benedizione nuziale.
Tali sorprese vi sembreranno inverosimili; esse sarebbero impossibili in un paese retto da leggi; ma ricordatevi che a Roma non vi è legge. Il matrimonio colà non è un atto, ma un Sacramento. I registri dello stato civile sono tenuti, e tenuti piuttosto male, dai curati. In fatto di nascita, di matrimonio e di morte l’attestato del curato è il solo documento che faccia fede.
Se il clero sposa le persone a loro malgrado, gli sposi, per un altro genere d’abuso, possono strappare la benedizione nuziale e forzare la mano del curato. Se due giovani, che abbiano risoluto d’unirsi senza il consenso delle loro famiglie, si recano da un prete, e lo sorprendono all’uscir dal letto, e l’uno d’essi dice a voce alta ed intelligibile: «Ecco mia moglie.» l’altra: «Ecco mio marito.» E se il prete ha inteso le due frasi, è obbligato a benedire i due sposi. Il colpo è fatto, il matrimonio è indissolubile, come se i podestà dei venti circondari di Parigi lo avessero sancito. L’autorità potrà procedere con rigore contro i delinquenti, mettere sotto chiave il giovine per quindici giorni, rinchiudere la fanciulla in un convento per un mese; ma quando avranno pagato il loro debito alla giustizia, nulla impedirà loro di consumare il matrimonio.
Un buon uomo di curato, in una parrocchia delle vicinanze di Roma, s’era lasciato prendere al laccio, e aveva sposato due giovani suo malgrado. Il suo vescovo lo accusò di essersi lasciato corrompere, e lo punì con un mese di ritiro. L’anno seguente, i suoi parrocchiani gli tesero lo stesso laccio, ma non si lasciò più cogliere. Lo si sveglia di notte per portare il Sacramento a un ammalato in extremis. Si veste in fretta, accende la sua lucerna, e corre in una casa isolata; era là che gl’innamorati lo aspettavano. Ma si rimise ben tosto in guardia, e quando vide con che [189] sorta di ammalati aveva a fare, si turò le orecchie, cantò, ballò, fece delle giravolte, e finalmente infilzò la porta, e se ne fuggì a gambe senz’aver udito le due frasi sacramentali.
Vi è in questo momento a Roma una giovine contadina del regno di Napoli, che tutti gli artisti conoscono sotto il nome di Stella. Il pubblico di Parigi, senz’averla mai vista, conosce bene la sua figura ed il suo costume, avendo essa servito di modello a più d’un pittore francese. Stella è bellissima e savissima; essa gira impunemente in tutti gli studj senz’altra custodia che quella di sua sorella minore Gaetana. Queste due ragazze (la maggiore ha diciott’anni, la minore nove o dieci) guadagnano insieme una dozzina di franchi al giorno, a fare il mestiere di modello. Esse servono di modello per la testa ed il costume. È una fatica penosissima, specialmente le prime volte. L’immobilità assoluta del corpo in un’attitudine prescritta diventa gravosa in capo ad una mezz’ora; ed io ho visto dei modelli inesperti cadere come una massa inerte a metà della seduta.
Stella, ve l’ho detto, è d’una saviezza irriprovevole. Questa giovine, che non sa leggere, che non ha ricevuto alcuna educazione morale, che vive tutto il giorno in mezzo ai giovinotti, e che sente le conversazioni più svariate, non ha giammai dato appiglio alla critica. Ella fa il suo mestiere con coscienza, accumulando scudo sopra scudo, fino al giorno in cui sarà bastantemente ricca per comperare nel suo villaggio una casa, e procurarsi un marito.
Sgraziatamente il villaggio di Stella è sotto il potere del curato. Il curato ha paura che Stella non si corrompa a Roma; egli ne scrive al vescovo della provincia, che scrive al prelato incaricato della polizia pontificia, il quale ordina a Stella di andarsene o di maritarsi. I pittori gridano altamente e fanno agire delle alte influenze; si ottiene un mese d’indugio; ma il curato, il vescovo, e la polizia ritornano alla carica. Si trova un marito per Stella. È un tanghero delle stesse montagne, brutto, stupido e fannullone. Ei s’incrocicchia le gambe da un sarto, ma s’incrocicchierà le braccia quando sarà padrone d’una moglie che guadagna del denaro. L’affare però è ancora in sospeso; [190] Stella piange, e la Gaetanina promette d’uccidere quell’uomo.
Voi mi chiederete perchè questi onesti ecclesiastici si fanno un dovere di maritare una povera fanciulla, che non dà fastidio a nessuno. È per amore della virtù? No, è per l’orrore dello scandalo. La virtù non è più comune a Roma che nelle altre capitali d’Europa, ma lo scandalo vi è meglio soffocato. La polizia non permette che una fanciulla abbia un amante; vi sarebbe scandalo, ma una donna maritata può far traffico della sua persona; la bandiera copre la merce.
E i mariti, che cosa dicono? Secondo le circostanze. Io incontrai da un mio amico pittore una giovine donna che non andava da lui certamente per farsi dipingere. Mi metto a parlare con lei, e mi dice ch’è maritata ad un calzolaio della via F....; ella si loda di suo marito, di sua suocera, de’ suoi figli. Ma, gli diss’io, che cosa penserebbe vostro marito se sapesse ciò che venite a far qui? Egli non troverebbe mal fatto che io vada a guadagnare un po’ di denaro dalle persone di garbo. «Ah! se io mi dessi con delle persone della nostra sfera mi ucciderebbe.» Capite? da una parte la miseria; dall’altra la vanità. Il senso morale?... manca.
Ecco un tratto più originale. Un giovine di Lione rappresentante di una casa di commercio, si ferma a Roma e prende un’alloggio vicino alla Posta, ove riceve la visita d’un mezzano. Questi signori abbondano nella città, e quando si dà loro cinque franchi vi baciano la mano. Il mio Lionese, coll’ajuto del mezzano, trova un amante. Essa era maritata ad un postiglione, uomo onestissimo e molto più geloso del calzolaio della via F.... Se essa faceva qualche cosa di contrabbando, era all’insaputa di suo marito. Egli non andava mai dalla sua bella, se non quando aveva visto il marito uscire a cavallo dalla corte della posta. Sapeva allora che la lunghezza delle stazioni postali e la necessità del servizio gli assicuravano cinque o sei ore di perfetta sicurezza. Un giorno però fu colto. Il marito s’era ben messo [191] in viaggio facendo scoppiettare la sua frusta, ma a mezza strada s’era sentito male. Un camerata, che ritornava a Roma, aveva cambiato i cavalli con lui. Insomma tornò a casa inaspettatamente, e il suo primo moto fu di tirar fuori il coltello.
Il Lionese si spiegò, pregò, ragionò, fece valere la sua qualità di Francese, offerse in compenso i cinque o sei scudi che aveva addosso. Si finì per accettare le sue ragioni ed il suo denaro. «Vestitevi, disse colui, ma se mai voi raccontate ciò ch’è accaduto qui oggi, se m’esponete agli scherni della gente del mio mestiere, vi giuro di uccidervi foste pure in Francia, e appiè degli altari. Buon viaggio!.... o piuttosto, no; aspettatemi. Vengo con voi.» Ripose in tasca il suo coltello, rinchiuse sua moglie a doppio giro ed uscì col Francese più morto che vivo. Il povero giovane raccomandava la sua anima a Dio, ben convinto che non aveva dieci minuti da vivere. Tutte le volte che entrava in una strada mal illuminata, diceva fra sè. È qui. Giunse nullameno senza accidenti alla sua porta, e la sua terribile guida prese cortesemente congedo da lui. «Or bene, disse il giovane meravigliato di vivere, perchè vi siete preso l’incomodo di ricondurmi a casa? Il Romano rispose con una sublime bonarietà; La città non è sicura, e temevo che vi accadesse qualche disgrazia».
L’eroe di quest’avventura (è il Francese che intendo) è al presente ammogliato, padre di famiglia e capo d’una delle primarie case di Lione. Non ha più nulla a temere dal coltello del postiglione romano, e tuttavia, quando racconta la sua storia, abbassa la voce d’un tuono, e guarda macchinalmente se la porta è chiusa.
Io ho conosciuto un ufficiale francese, bellissimo giovinotto in fede mia, ch’era alloggiato in camere mobigliate presso una bella donna di Roma. Il marito domestico di un cardinale guadagnava una cinquantina di franchi al mese; la moglie faceva il resto. Cosa strana! questa creatura aveva concepito una vera passione per il suo amante. Ella gli faceva talvolta delle scene di gelosia, e l’arrivo del marito non le chiudeva la bocca. Per Dio, diceva il pover uomo; lasciatemi dunque cenare in pace! [192] Se non potete vivere senza quistionare, non avete tutta la giornata in libertà? Questa donna aveva un figlio, dell’età di dieci anni. Essa non si curava di nascondersi da lui. Però, il fanciullo le baciava la mano tutte le sere, ed ella gli dava la sua benedizione.
Il popolo di Roma ha delle delicatezze di linguaggio inaudite, e delle brutalità incredibili. Ei non dirà un porco ma un animale nero, per eufemismo. Al contrario tratta arditamente di porco qualunque essere umano che gli dispiaccia. Un muratore che entra in una osteria, chiama il mercante di vino il signor padrone, sua moglie la signora sposa, il suo cameriere, il signor primo, il signor principale. Ma se voi provocate una ragazzina di quattro anni, ella vi dirà delle ingiurie che lorderebbero la bocca di una donna della feccia del popolo.
Io mi sono trovato in una vettura con un borghese di cinquant’anni ed una bellissima giovane che era sua figlia. Al primo cambio di cavalli, il padre disse alla signorina: «Vuoi discendere? — No, papà. — Se hai da soddisfare a qualche piccolo bisogno, faresti ben male a prenderti soggezione. Questi signori te lo diranno al pari di me; faresti male. — Grazie, papà. Ci ho pensato prima di partire.» — Oh, natura! Io ho addolcito le parole traducendo.
Questo stesso borghese, scrivendo al suo compare, non mancherà di mettere sull’indirizzo: all’illustrissimo, al pregiatissimo signor Bortolo.
Nel circondario di Roma i vignaiuoli ci chiamano Eccellenza, e ci danno del tu.
Il signor di Levis fu oltremodo scandalizzato, salendo le scale del Vaticano, d’incontrare un domestico che porgeva la sua tabacchiera ad un cardinale, ed un cardinale che vi prendeva una presa di tabacco. Queste domestichezze si vedono tutti i giorni, in una città ove le condizioni sociali sono separate da [193] abissi. Visitando gli scavi della Via Latina io ho visto il cardinale Barberini circondato da prelati, da preti, da domestici in livrea; i domestici si frammischiavano alla conversazione, e si fece un cerchio intorno a lui. Il cardinale che era molto piccolo girava intorno al gruppo, e non vedeva che la schiena de’ suoi domestici.
Monsignor Muti, prelato romano, discende in linea retta da Muzio Scevola. Taluno gli domandava: «Che cosa fate voi alla sera? non vi si trova più nel mondo. — Io vivo in casa mia. — Ma dovete annoiarvi? — No, noi giuochiamo una piccola partita; faccio salire il cuoco, e gli vinco due o tre scudi».
Quest’aneddoto mi è stato raccontato a Frascati dall’ambasciatore d’una grande potenza, il sig. De Martino ministro di Napoli a Roma, ed i tre quarti del corpo diplomatico l’hanno intesa pure al pari di me.
In un piccolo viaggio che ho fatto intorno a Roma in compagnia del nostro ottimo sig. Schnetz, ho osservato che gli albergatori mettevano solitamente quattro posate per il nostro pranzo. Noi non eravamo che due, ma il sig. Schnetz aveva il suo cocchiere ed il suo cameriere, e si trovava naturalissimo che li facesse sedere a mensa con noi.
I Romani d’oggidì, come quelli d’una volta, sanno morire. È una giustizia che bisogna render loro. Essi accettano con indifferenza filosofica tutte le necessità della vita, compresa quella di morire. Muojono come mangiano, come bevono, come dormono, come amano; naturalmente, semplicemente, famigliarmente.
Si è colpiti d’ammirazione, leggendo in Tacito come i grandi [194] cittadini dell’impero facessero poche cerimonie in presenza della morte. La rassegnazione degli antichi si spiegava colla speranza logica e ragionata d’un sonno eterno; forse anche collo spettacolo quotidiano delle uccisioni nel circo. La rassegnazione dei moderni si spiega colla speranza d’una vita beata nel mondo ideale, e cogli avvertimenti reiterati di una religione che dice «bisogna morire».
Tutti i sermoni che ho sentito per lo spazio di cinque mesi contenevano almeno uno sviluppo sull’imminenza della morte. Tutte le chiese dinanzi alle quali sono passato, avevano affisso di quelli avvisi sinistri, sui quali si vede da una parte lo stemma di qualche defunto, e dall’altra uno scheletro orribile con questa epigrafe: Hodie mihi, cras tibi. La tua volta verrà!
«Apro le porte del cielo e dell’inferno:
Per il giusto sono la vita, per il peccatore la morte».
Ho visto perfino a Velletri dinanzi la bottega di un maniscalco lo scheletro di un cavallo dipinto sull’insegna, per far conoscere agli animali che devono morire.
E perchè no? Anche gli animali hanno un dovere da adempiere in questo singolare paese. Vanno tutti gli anni a prendere l’acqua santa nel giorno di sant’Antonio.
Torniamo alla razza umana. Al domani del giorno di tutti i Santi, in tutte le chiese si rappresenta qualche scena della Scrittura, come la morte di Giacobbe o i funerali di Davide. I personaggi sono di cera, da alcuni anni; non è ancora molto che si adoperavano dei veri cadaveri, scelti negli ospedali. In quest’occasione, le monache mandano in tutti i palazzi dei dolci, chiamati ossa di morti, in cui il midollo è fatto di confettura. Strano espediente per nutrire i Romani del pensiero della morte!
Chi non ha visto sulla piazza Barberini quell’appartamento dei Cappuccini dove è tutto morto, anche il mobigliare? È un pian terreno di otto o dieci stanze che danno sulla corte. Mi sono fermato ad osservare l’interno, un giorno che tutte le finestre erano aperte per dar aria al locale. I mobili sono uniformi [195] e gl’inquilini sono uniformemente vestiti; la tappezzeria è uno strato di scheletri, e scheletri di cappuccini stanno adagiati su letti di riposo incassati nel muro. I cappuccini sono coperti della loro tunica, questi ha ancora la pelle, l’altro la barba. Ghirlande di vertebri abbelliscono la nudità de’ muri. L’imaginazione capricciosa de’ frati si è sfogata in mille fantasie funebri: gomiti intralciati, fasci d’ossami d’ogni foggia, e gambe e cranii acconciati in forme bizzarre.
Il pavimento d’ogni stanza contiene una quindicina di cappuccini, coricati in due file in bell’ordine. La terra che direttamente li copre senza avello, è una terra miracolosa, recata dalle crociate. E di vero è una specie di pozzalana mista d’arsenico, che possiede la virtù di divorare le carni in pochi giorni, onde in certo modo farebbe l’effetto del rogo antico.
Noi abbiamo una caserma nello stesso convento; onde i nostri soldati fumano tranquillamente la loro pipa nella corte davanti a quelle finestre aperte.
La chiesa della Buona Morte ha la sua sepoltura ornata nello stile funebre come il convento de’ Cappuccini. Vi si conservano, colla possibile eleganza, le ossa degli annegati e d’altre vittime accidentali. La confraternita della Buona Morte va a cercare i cadaveri; un sacristano, abbastanza ingegnoso, ne dissecca i cadaveri, e li dispone a forma d’ornamenti. Ho conversato qualche tempo con cotesto artista: «Signore, mi disse, io non sono felice che qui, in mezzo al mio lavoro. Non è già pei pochi scudi che guadagno tutti i giorni mostrando la cappella agli stranieri, no certamente; ma questo monumento che io conservo, che abbellisco, che adorno col mio talento, è diventato l’orgoglio e la gioja della mia vita». Mi fece vedere i suoi materiali, vale a dire alcuni mucchietti d’ossa in un cantuccio, fece l’elogio della pozzolana, e mostrò il suo disprezzo per la calce.
«La calce strugge le ossa e le riduce in polve. Non si può far nulla di buono colle ossa che sono state nella calce: sono robaccia».
I funerali in Roma sono veri spettacoli. Al cader del sole, nell’ora del passeggio, trovate il corso invaso da un esercito di [196] cappuccini. Due o tre confraternite procedono in lunga fila verso un palazzo aperto. Entrate arditamente colla folla. La bara, circondata da alcune torcie, attende il cadavere, portato a braccia: viene posto sopra una barella, viene coperto d’una strato d’oro o d’argento, e quattro facchini, travestiti da membri della confraternita, lo prendono sulle spalle, e procedono innanzi! La processione de’ cappuccini si mette in marcia, si accendono le torcie, che rischiarano tutta la strada; poi vengono le confraternite, poscia i preti e il cadavere, poi due casse piene di cerei, poi le carrozze del defunto tutte vuote.
Che andate cercando cogli occhi? I parenti? Gli amici? Non vi sono. I parenti pagano le spese dello spettacolo; gli amici vi prendono parte come voi. Sono là, tra la folla, col sigaro in bocca, ad osservare la processione de’ cappuccini.
Lungo il corteggio, trottano cinquanta o sessanta monelli, armati di cornetti di carta, per raccogliere la cera che sgocciola dalle torcie, ed anche per distaccarne, quando possano, qualche pezzo. Giunti dinanzi alla chiesa, essi rotolano la cera in pallottole, e giuocano tra loro quel bottino della serata. Intanto che costoro s’abbaruffano e s’accapigliano, il cadavere viene deposto in un angolo senza cerimonie, e ciascuno ritorna a casa.
Si procura sempre di far passare i più splendidi funerali pel Corso, benchè il defunto avesse abitato all’altra estremità di Roma. Ecco la smania di figurare!
Se qualche famiglia ebbe la sventura di perdere una figlia leggiadra, e che dalla morte non sia stata troppo scomposta, si domanda e si compra il permesso di seppellirla a viso scoperto. La s’imbelletta, la si mostra, si fa parlare di lei e di sè per ventiquattr’ore. È un bell’onore.
I nobili vestono a bruno, un lutto di comparsa che li distingue dal popolo. Il ceto medio ed il popolo minuto non fanno nessun cangiamento nei loro abiti. Un borghese si vestì da lutto per la morte di sua madre, ed io intesi su questo proposito la riflessione seguente: «Altre volte il lutto non era che pei principi; ma ecco ora i vassalli che vi aspirano. Dove andremo noi a finire?» Notate bene il nome di vassalli.
Nell’aristocrazia un cadetto è tenuto a portare il lutto del primogenito. [197] Il primogenito poi, se gli aggrada, porterà il lutto pel cadetto.
Le lettere di partenza sono un uso nuovo, che avrà pena a stabilirsi. Perchè? Perchè il giorno appresso ai funerali il morto è dimenticato. È in paradiso, Dio ha ricevuto l’anima sua, e non se ne parla più. Le visite di condoglianza sono di cattivo gusto, essendo poca creanza il ricordare alle persone la perdita che hanno fatto.
Un Francese ha danzato qualche volta in una casa di Roma, sente la morte del padre e crede dover fare una visita alla figlia. Gli si parla della pioggia e del bel tempo; ma egli affronta di assalto il tristo soggetto che l’ha quivi condotto. «Madama, diss’egli, ho preso gran parte al dolore che avete provato. Voi ben sapete se io amava quel povero conte!
— Finalmente, disse l’orfanella, con un dolce sospiro, egli era ben vecchio.
— Sì, o signora, ma siccome egli aveva conservato in quella grave età l’esercizio delle facoltà sue, lo spirito giovane, il carattere intero!
— Oh! sì, tanto intero, ch’ei ci rendeva talora la vita ben dura!
— Ah! com’è così, ripigliò il Francese sopra un tuono affatto nuovo, io non parlava che per gentilezza e per farvi piacere. Ma in fondo al cuore me ne rido, e non vedo ragione per cui la morte di vostro padre debba recare a me maggior dispiacere che non a voi. S’egli è partito, buon viaggio!»
Le persone illustri vengono sepolte nelle chiese. Usanza malsana; Voltaire l’ha tanto detto e proclamato, che la legge francese venne poi a mettervi riparo. La legge romana anch’essa non vuol più che si alimenti sotto ogni chiesa un fomite di pestilenza. Ma quivi gli abusi hanno più autorità che non le leggi.
È proibito di seppellire le persone prima che siano trascorse ventiquattr’ore dopo la loro morte, eppure ho veduto seppellir due persone morte nella giornata. È proibito seppellire nelle chiese, ma io posso certificare che nella piccola città di Forlì, tra il 1830 [198] ed il 1858, questa legge è stata violata ben 1,435 volte. Io stesso ho computato la cifra sopra i registri ufficiali.
Il clero romano è interessato a fare un carniere di tutte le chiese: fa pagare una soprattassa per violazione della legge.
Forlì è una piccola città di 17,000 abitanti; Roma ne conta più di 170,000. Ora calcolate la quantità di carne umana che si deve accumulare sotto le chiese di Roma!
Eppure noi abbiamo costrutto pei Romani il cimitero di San Lorenzo fuori delle mura. È un edifizio del 1811, fatto alla romana, per uniformarci alle costumanze del paese. Figuratevi una cinta quadrata, con pavimento e riparo di muraglie. Quattrocento larghe pietre, disposte in triangoli equilateri, formano 400 tombe di 4 metri cubici cadauna. Ogni sera si leva una pietra, mentre un omnibus reca i cadaveri della giornata, e vi si rinchiudono dentro l’uno dopo l’altro. La calce ed i topi divorano ogni cosa in meno d’un anno, e così non si manca mai di spazio.
Il sig. Tournon ci narra che, a’ suoi tempi, i Romani seppellivano i morti in un semplice lenzuolo, e con ciò si economizzavano quattro pezzi di legno di abete.
Ignoro se quest’usanza siasi conservata in Roma. Le tombe di San Lorenzo e l’uso della calce viva mal s’accorderebbero coll’uso del feretro.
Ciò che posso affermare si è che a Bologna i poveri vengono sepolti senza bara, in una fossa che il giardiniere scava colla zappa, siccome per seminare patate. È lo stesso giardiniere, o sepoltore, di quell’ammirabile campo santo che me lo ha detto.
Si vede a Roma, nelle vicinanze della piramide di Cestio ed a due passi della polveriera, un campo di riposo ombreggiato da alcuni alberi ed ornato di fiori. È desso il cimitero degli accattolici, ossia degli stranieri eretici o scismatici, che la chiesa condanna, ma che il governo non ardisce espellere da Roma. Sono detti accattolici dai Romani, per uno sforzo di tolleranza. I Russi, gl’Inglesi, i Tedeschi della Germania pensante riposano [199] daccanto in quel dolce e melanconico romitaggio. Sono colà non pochi artisti, che erano venuti a Roma a cercare il talento e la gloria, e non vi trovarono che la febbre. Quasi tutte le iscrizioni ripetono quella formola piena di mestizia: Qui riposa lungi dalla sua patria.... Quasi tutti coloro che dormono colà poterono dire morendo, siccome Sigifredo dei Nibelongi: «Mia madre e i miei fratelli chi sa fin quando m’attenderanno!»
Un capriccio della fortuna riuniva in un medesimo angolo il figlio di Goethe ed il figlio di Carlotta, Augusto Kestner, ministro di Annover, nato nel 1778, morto il 5 marzo del 1853.
Vi troverete le ceneri di Percy Bysshe Shelly, amico di Byron, cuore de’ cuori, cor cordium, dice l’iscrizione; e Keath, quel giovane poeta disperato, che fece scolpire sulla propria tomba quest’epigrafe sì straziante:
THIS GRAVE
CONTAINS ALL THAT WAS MORTAL
OF A
YOUNG ENGLISH POET
WHO
OH HIS DEATH BED
IN THE BITTERNESS OF HIS HEART
AT THE MALICIOUS POWER OF HIS ENEMIES
DESIRED
THESE WORDS TO BE ENGRAVED ON HIS TOMB STONE
HERE LIES ONE
WHOSE NAME WAS WRITTEN IN WATER.
THE
FEB. 24, 1821.
E non è qui concentrata, in queste ultime parole, tutta l’amarezza d’un orgoglio offeso! «Qui giace un uomo che ha scritto il suo nome sull’onde!»
Sull’ingresso di questo cimitero si trova un piccolo padiglione, ben acconcio, dove emerge la regolarità meticolosa dell’Inghilterra. Vi lessi:
1.º La tariffa delle spese di sepoltura;
[200]
2.º Il catalogo degli oggetti preziosi confidati alla custodia del guardiano;
3.º I nomi dei morti, incorniciati siccome quelli degl’inquilini alla porta d’un albergo.
Il medico della comune di Frosinone, villaggio di 3,000 anime, mi ha fornito i seguenti particolari, che non intendo assumere sotto la mia responsabilità:
«L’autorità pontificia vuole che noi prescriviamo i sacramenti all’ammalato, alla seconda visita che gli facciamo; ma io conosco troppo bene i selvaggi di queste montagne per uniformarmi alla legge. Dacchè uno d’essi ha ricevuto i sacramenti, più non si pensa a seppellirlo al più presto. Cessano ogni regime, chiudono le pozioni negli armadj, strappano via i cataplasmi ed i vescicanti. Se il paziente chiedesse un bicchier d’acqua, sono gente da rispondergli: «Berrai in paradiso.»
Per compenso poi vanno a comprar torcie pei funerali, e dimandano all’infermo se gli pare che si facciano bene le cose.
Gli recano le assi della bara, per convincerlo che l’abete è di qualità scelta; prendono la misura della camicia funebre, che deve recar seco nell’altro mondo; preparano l’acqua calda per lavarlo dacchè sarà morto. Questi preparativi non si fanno senza complimenti di condoglianza ed esclamazioni commoventi: «Mio povero padre! mio sventurato fratello! mio infelice cugino!» Dacchè l’agonia comincia, l’intero villaggio accorre nella camera, e vi rimane fino alla morte, come richiede la civiltà. Di minuto in minuto si getta dell’acqua benedetta sulla testa del paziente, per discacciare gli spiriti maligni. Ad ogni convulsione, i parenti si gettano sul corpo infermo, prorompendo in alte grida. Non ci vorrebbe nulla di più per uccidere un uomo sano. I meno dilicati profittano di queste occasioni per appropriarsi qualche anello o pendente d’orecchi. Quel giovane che là vedete sulla soglia della bottega, è accorso al letto di morte del proprio padre con certa chiave falsa in tasca. Spirato il vecchio, quel figlio mostrò un dolore sì violento, che nessuno potè strapparlo via dalla casa paterna. Rimasto solo, spogliò la cassetta del morto a danno degli altri eredi.
[201]
Io ho veduto l’estrema unzione produrre un effetto ben curioso sopra uno de’ miei ammalati. Aveva avuto la vigilia una crisi un po’ forte, che doveva decidere della sua guarigione. Ma la famiglia, vedendolo star peggio del solito, gli aveva fatto amministrare gli ultimi sacramenti fino dal mattino. Trovo il mio paziente sul dorso col crocifisso in una mano, la madonna nell’altra: premeva le sante imagini sul suo cuore e mostrava il bianco degli occhi.
« — Ebbene? gli dissi.
« — Ahimè! caro dottore; tutto è finito.
« — Perchè? Ti senti peggio?
« — Nol so; ma tutto è finito.
« — Dammi la mano, affinchè io tasti il polso! Per bacco! non hai più febbre!
« — Non fa caso, andate pure; tutto è finito.
« — Fammi vedere la tua lingua: è bellissima!
« — Sono ben contento per voi, mio buon dottore; che quanto a me, vi dico che tutto è finito.»
«Cotesto consulto in extremis dato ad un uomo che stava bene, fu interrotto per venti volte dagli omei della famiglia e degli amici. Fui costretto a ricorrere alla forza per discacciare que’ piagnoloni dalla porta e far sorgere l’ammalato, che era quasi guarito. Due giorni dopo ei mangiava una libbra di carne; la domenica seguente passeggiava nella camera ripetendo: «Avete un bel fare, mio dottore, quando un uomo ha ricevuto i sacramenti, si può dire che per lui tutto è finito.» In capo ad otto o dieci giorni, ei ritornò tutto dolente a’ suoi ulivi ed alla sua vigna; aveva ricuperato l’appetito e la forza, mangiava la parte d’una tigre e lavorava quanto un bue: tuttavia ei non era abbastanza convinto della sua risurrezione, ed aveva bisogno che gli si facesse sentire qualche colpo di pugno sulle spalle per convincerlo che non era tutto finito.
«Se l’ammalato muore, tutte le persone presenti gridano e piangono in coro: è un dovere di convenienza. Dopo di che si manda a cercare la confraternita delle Anime del Purgatorio, essendo richiesto dall’usanza che al giungere della bara si rappresenti una farsa. Una donna della casa si oppone al trasporto del [202] cadavere, onde si cerca di convincerla, di persuaderla, finchè essa lasci fare. Talora il cadavere è ancor caldo, poichè la prescrizione delle 24 ore non esiste che nella legge.
«I parenti e gli amici accompagnano il morto alla chiesa, dove si lascia in deposito fino a notte. Nessun servizio funebre, non più che a Roma: ed è tutto dire.
«Il più prossimo parente del defunto conduce seco tutti gli astanti, e si sforza di consolarli meglio che può.
«Ho visto degli orfanelli sì bene consolati, che ritornavano a casa allegramente.»
Se l’autore di questa relazione ha esagerato i difetti de’ suoi concittadini, io ne lascio il carico alla sua coscienza. Ma ciò che ho veduto nel paese m’induce a credere ch’ei dicesse il vero.
Romani, miei cari amici, io v’amo sinceramente, perchè siete oppressi; ma credo che tutte le verità sono buone a dirsi, ond’io racconto senza perifrasi tutto che ho veduto ed inteso attraversando il vostro ammirabile paese. Se mi tocca di citare qualche tratto d’ignoranza o di barbarie, guardatevi bene dal supporre ch’io vi stimi ignoranti e barbari, nè ch’io scriva questo libro contro di voi. Mi adiro unicamente contro i reggitori del popolo, che lo educano male, e che, piacendo agli Dei, potremo un giorno cangiare.
La campagna di Roma è una vasta prateria interrotta in qualche sito dall’aratro. È la più bella pianura d’Europa, è anche la più fertile, la più inculta, la più malsana.
Sei decimi di que’ preziosi terreni sono proprietà di manimorte; [203] tre decimi appartengono a de’ principi, mentre il decimo restante viene diviso fra varj privati.
Le terre degl’instituti religiosi e quelle de’ principi sono affittate in grandi partite a de’ ricchi industriali che si chiamano mercanti di campagna. Il proprietario consegna loro il suolo nudo, con contratti a breve scadenza, sicchè l’affittajuolo non ha nessun interesse a costruire edifizj, nè a piantar alberi, nè a procurare il miglioramento del suolo.
Alcuni vi seminano grano ed ottengono bei risultati; ma il governo preleva una tassa fissa del 22 per cento sulla messe. D’altronde le comunità religiose non mancano d’interdire la coltura delle buone terre con una clausola espressa del contratto. E ciò fanno per timore che il suolo non s’impoverisca, ed il reddito degli anni avvenire non ne venga scemato. Un altro ostacolo alla coltura è il regime vessatorio che autorizza o proibisce arbitrariamente le esportazioni. Supponete che un monopolizzatore di grani sia padrone assoluto della Francia e possa a piacer suo chiudere tutte le nostre frontiere all’uscita del grano, nessun agricoltore s’esporrebbe a produrre grano oltre i bisogni del paese.
La coltura del grano esige spese enormi, molte braccia, un materiale importante, ed un bestiame considerevole: e tutto ciò colla prospettiva d’un esito incerto. L’allevamento del bestiame occupa poche persone ed esige poche spese; dà risultati mediocri, ma pressochè sicuri, ed è l’industria più compatibile coll’insalubrità dell’aria, lo spopolamento del paese e lo scoraggiamento degli affittajuoli.
Una terra di 184 ettari, se viene coltivata a granaglie, esigerà 13550 giornate d’uomini e costerà 8,000 scudi romani da fr. 5,35. Essa frutterà, per medio all’anno, 1,300 misure di grano, le quali al prezzo medio di 10 scudi valgono 13,000 scudi: utile netto, 5,000 scudi, ossia 26,750 franchi. La medesima estensione di terra lasciata alla pastura non dà che 4,000 o 4,600 franchi di netto ricavo.
Ma è il pascolo che prevale, onde parleremo di esso.
I cavalli romani nascono e vivono all’aria aperta, non essendovi scuderie in quelle vaste solitudini. Di notte, di giorno, d’inverno, [204] d’estate, piova o tiri vento, gli animali sono all’erba, sotto la custodia d’un cavaliere pastore. Uno stallone vive in libertà con venti o venticinque cavalle; i puledri crescono sotto il cielo, e non ne soffrono per nulla. Non conoscono altra malattia che il barbone, che loro viene come la scarlattina, fra l’8.º e il 20.º mese. È un’eruzione di glandole sotto il collo, e si guarisce con qualche vescicante.
All’età d’un anno, i puledri sono presi al lazzo e marchiati con una cifra del loro proprietario. A tre anni sono domati, poi venduti, impiegati.
La razza è bella e buona. Alcuni abili educatori mi dissero che era poco suscettibile di miglioramento, e che gl’incrociamenti tentati finora avevano dato scarsi risultati. Il cavallo romano, quale natura lo ha fatto, è di statura media e di costituzione robusta; vivace, raramente cattivo, pieno di fuoco, con molta solidità. Si veggono animali, che non hanno mai mangiato altro che erba e fieno, e non conoscono il gusto dell’avena, fare gli stessi miracoli del cavallo meglio allevato.
Perciò il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, il regno di Napoli comprano i loro cavalli nella campagna di Roma, ed ai Romani non resta che il rifiuto. Uno stallone si vende da 300 a 350 scudi romani; una cavalla di tre anni vale da 70 a 100 scudi; una bella coppia di cavalli da carrozza si paga da 300 a 500 scudi; un bel cavallo da sella, da 80 a 150; un cavallo di rimonta, da 80 a 90. Gli animali di minor valore, che si riservano per l’agricoltura, non costano che 35 o 40 scudi.
Si videro de’ cavalli romani di 25 anni e più rendere ancora de’ buoni servigi.
Ogni educatore ha la propria razza. Silvestrelli alleva de’ cavalli baj; Serafini è il proprietario della razza cardinalesca; il principe Borghese ha ottenuto con degli incrociamenti una razza assai bella, ma troppo fina e di troppo piccola statura.
Le razze più stimate appartengono ai principi Chigi e Piombino, al duca Cesarini, ai mercanti di campagna Silvestrelli, Titoni, Piacentini, Serafini, Senni.
I coltivatori romani non si servono del cavallo pei carri, ed [205] ancor meno per l’aratro, che i trasporti sono troppo difficili e le strade troppo cattive. L’aratro esige sforzi prodigiosi, poichè trattasi sempre di dissodare una prateria; e per sì dure fatiche non vi sono che i buoi ed i buffali.
Il cavallo s’adopera per brillare il grano.
Terminata la messe, tutti i cavalli disponibili si pongono entro un chiuso, mentre a cento passi di distanza, sopra un’aja battuta, si dispongono lo spiche ritte in piedi in covoni. Sei cavalli di fronte si slanciano al galoppo e girano scalpitando finchè la paglia sia staccata dal grano. È un’aspra fatica sotto il sole di luglio.
Si ventila il grano subito dopo, lo si ammucchia, lo si mette in sacchi, lo si spedisce a Roma. La paglia si trasporta o si brucia sul posto, secondo lo stato delle strade o la vicinanza delle città. Il campo resta nudo finchè le prime pioggie dell’inverno vi facciano nascer l’erba: così ritorna prateria e riposa così per sette anni almeno.
Ho chiesto ai mercanti di campagna perchè non impiegassero la macchina di battere il grano; e mi hanno risposto, che per essi l’oggetto più importante era quello di affrettare il ritiro del grano. Essi non hanno nè granaj, nè ricoveri nella campagna; il paese è malsano, e non si ha un istante a perdere, che ogni ora di ritardo può costare la vita d’un uomo. I cavalli galoppano, il grano cade, l’affittajuolo raccoglie la sua messe, e poi subito fugge.
I Romani del secolo di Catone non conoscevano que’ grandi buoi di color grigio, che ora abbelliscono la campagna di Roma. La razza indigena era piccola e di color fulvo, ed aveva corna piccole.
Nelle montagne se ne trovano ancora de’ modelli. Gli armenti dalle lunghe corna vennero colle invasioni dei Barbari.
Sono abbastanza noti, mercè la pittura, onde non ho bisogno di descriverli. La loro ammirabile corporatura, l’enorme loro ossatura fanno di essi de’ maravigliosi stromenti pel lavoro dei campi. Un educatore normando direbbe a ragione che i Durham [206] sono più acconci alla macelleria; ma ciò dipende dall’essere il bue in Normandia un essere predestinato a trasformare il fieno in carne.
Del resto, sì il bue che il vitello che si mangiano a Roma sono di qualità eccellente.
Il duca di Northumberland ha testè comprato dal signor Titoni mercante di campagna, quattro vitelle d’un anno e due vitelli della medesima età per trasportarli in Inghilterra.
Il signor Titoni ha preso in affitto circa 4,400 ettari di praterie per allevarvi delle bestie cornute. In buon terreno due vacche si nutriscono assai bene sopra un rubbio, che è circa la metà d’un ettaro.
Le belle razze sono quelle de’ signori Rospigliosi, Graziosi, Titoni, Silvestrelli, Dantoni, Senni, Grazioli, Floridi, Serafini, Piacentini, Franceschetti, Rocchi.
Non sono pratico abbastanza per fare giustizia ai meriti che distinguono le razze romane. Si rassomigliano tutte al primo colpo d’occhio, e credo che siasi fatto ben poco per migliorarle.
In questo mezzo però si è formata una società di agricoltura, ed ho assistito alla prima esposizione. Il governo pontificio ha dapprima interdetto, poi tollerato questa novità, che modestamente traspare dietro una società d’orticoltura.
I buoi romani sono eccellenti operaj, lavorando essi senza posa dal sorgere del sole fino a mezzodì. Si prolunga la loro giornata fino alle 2 1⁄2 nella stagione d’inverno. Non conoscono altro alimento che il fieno e l’erba; sono sani e robusti. Si tagliano a tre anni; e si castrano pure i tori di otto anni per ingrassarli e venderli alla macelleria.
Un bue di tre anni, già domato, vale da 50 a 60 scudi. Un bue di 11 anni s’ingrassa in tre mesi e si vende da 60 a 75 scudi. Una bella vacca da macello vale fino a 250 franchi.
Ho veduto 80 aratri tratti da 4 buoi lavorare sopra un medesimo campo; ed alcuni mesi più tardi ho veduto 1100 operaj occupati a mietere un fondo. — La coltura romana è una grande industria, e le occorrono enormi capitali.
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La più evidente imagine della brutalità è il buffalo. Le sue forme pesanti e come sbozzate, il suo lungo collo, la sua testa schiacciata, il suo largo muso, le nodose corna, il dorso pelato, il muggito feroce, tutto ci dice che questo mostruoso abitante delle paludi dell’India è un superstite dell’ultimo diluvio, una reliquia d’una creazione più remota della nostra, un modello arcaico dimenticato nella rifusione, un fossile vivente.
Gl’Italiani l’hanno naturalizzato già da oltre 12 secoli, ed esso è un alleato semi-selvaggio, però contento del poco: Ei si delizia voluttuosamente ne’ pantani più fetidi, nutrendosi di giunchi e di canne, felicissimo se può immergersi nel fango fino al collo e dormirvi.
Porta un anello nel naso, come i Cacichi d’America; e per esso si guida, se però può dirsi che si lasci guidare. Il suo padrone lo toglie a prestito dalla natura, allorquando bisogna dare di que’ colpi di spalle, che spaventano e uomini e cavalli e buoi. Lo si aggioga ad un masso, ad un albero, ad una montagna, ad una selva intera. Ed egli si scatena, a testa bassa, allungando il suo collo di serpente, stirando i suoi muscoli enormi. Tutto cede, tutto viene trascinato da quella forza prodigiosa, che rovescia ogni cosa sul suo passaggio. Giunto alla meta, lo si sgioga, ed egli ritorna al suo pantano, e vi si delizia.
Questa belva è dotata di memoria, obbedisce a chi lo chiama per nome. La si battezza due volte, la prima alla sua nascita, poi all’età di 13 mesi. Il suo secondo nome le resta fino all’età di 11 anni quando viene mandata al macello.
Spesso nasce lotta fra un buffalo ed il suo pastore. L’animale furibondo si getta sull’uomo e l’uccide, non a colpi di corna, ma a colpi di testa. Se il custode è esperto in questo genere di scherma, si distende in terra col suo coltello sguainato alla mano; e quando il buffalo, che non è scaltro, viene a cercare la sua vittima a tastoni, l’uomo gli vibra sei pollici di lama nel muso, ed il mostro si mette in fuga. È l’unica ragione che intende, perchè i bastoni si spezzano sul suo dorso siccome zolfanelli, ed un colpo di fucile carico a grosse palle di piombo gli vellica piacevolmente l’epidermide.
Nelle paludi Pontine una truppa di buffali è incaricata della [208] pulizia de’ canali. Vengono spinti nell’acqua a gran colpi di pertica, ond’essi nuotano, si avvoltolano, sradicano le erbe acquatiche, poi fuggono alfine carichi di fango ed incoronati d’una viscosa verdura.
Rospigliosi ha 1,400 buffali. Cesarini 800, e Caserta 1000. Un buffalo maschio da 3 anni vale 35 scudi; una femmina 18 o 20; un castrato si vende fino a 30.
La carne di buffalo è grama cosa, ma i Napolitani se ne accontentano, ed i Giudei del Ghetto se ne compiacciono.
A Terracina, sui confini degli Stati del Pontefice, si uccide un buffalo per settimana in settembre, ottobre e novembre. Gl’indigeni si persuadono che la carne è più dilicata quando l’animale è più affaticato, onde attaccano una lunga corda alle corna di quella vittima deforme, e venti robusti terrazzani s’attaccano all’altro capo. Così accompagnato, si spinge il buffalo attraverso le contrade, e quando esso ha preso un grande slancio, viene arrestato sul colpo. Poi si rinnova la spinta, e quand’è in gran foga, lo si ferma di bel nuovo, finchè conserva le forze. Non riceve il colpo estremo, se non dopo avere spezzati alcuni alberi, sfondato qualche muro e storpiato qualche passaggiero.
Spesso avviene che lo si caccia entro una piazza, si chiudono con sbarre le uscite; quindi i giovani più ardimentosi escono dalle loro case per stimolarlo, e rientrano al più presto. Un giorno accadde che un buffalo, stanco d’essere preso a zimbello, sfondò una porta da cocchio e salì fino al secondo piano. Non si diede mai spettacolo più burlesco di quello che allora presentava cotesto comico diventato spettatore. Il solo macellajo potè toglierlo da quel palco.
Questi giuochi crudeli entrano nei gusti del popolo minuto, e mi fa stupore che un governo sacerdotale non abbia fatto nulla per raddolcire i costumi. Sui ponti di Roma veggonsi i ragazzi pescare le rondinelle, mentre nelle vie di Roma alcuni monelli slanciano passeri sugli alberi come noi gettiamo i sassi, ed altri si percuotono con de’ gattini. Gli uccellatori della Rotonda vendono cardellini ed altri uccelletti dopo aver loro cavati gli occhi.
La legge Grammont è di quelle che dovrebbonsi introdurre [209] costì. Ma chi sa quanti secoli occorreranno prima che sianvi leggi a Roma? Basta! non bisogna disperare di nulla.
In quel paese incolto che si stende intorno alla città si mantengono numerose greggie di pecore, di belle razze. Oltre la spagnuola e la bastarda, si stima assai la sopravissana, da Visso, presso Spoleto. È una pecora rustica e di sangue vigoroso, che mirabilmente resiste all’intemperie dell’aria.
La lana indigena si esporta in Francia, in Svizzera ed in Piemonte, dacchè le fabbriche del paese, che in altri tempi erano numerose e celebri, più non fanno che panni grossolani.
Le tre prime qualità di lana si vendono da 21 a 31 soldi la libbra, secondo la dimanda. La quarta e la quinta da 18 a 24 soldi. La nera da 14 a 18 soldi.
La libbra romana è di 339 grammi. Siccome i buoi ed i cavalli, così le pecore vivono costantemente all’aria aperta, pascolano nove mesi nella pianura, ed in luglio agosto e settembre vengono condotte alla montagna.
L’animal nero (è il majale, salvo il rispetto ch’io debbo a’ miei lettori) è abbandonato ai piccoli proprietarj dell’alto paese. I montanari l’allevano con premura, poichè non costa nulla per l’alimento. Vive nella intimità delle famiglie, e si fanno pochi passeggi senza di esso. Ogni volta che si va nei campi, gli si permette di guastare un tratto di terreno; di solito lo si caccia in fondo a qualche fosso.
Le giovinette gli annodano una corda intorno al corpo, e lo guidano qua e là alla ventura. Ho veduto eziandio più d’una volta, nelle anguste vie che conducono ai villaggi, un bambino appeso alla coda del suo majale, siccome un naviglio alla poppa del rimorchiatore. Le persone più distinte della parrocchia vanno a far visita col loro majale, a quel modo che io esco col mio cane.
Quest’amico di casa si ammazza nel mese di dicembre.
L’educator di bestiame avrebbe diritto, non dico già alla protezione, ma per lo meno alla tolleranza del governo, poichè è una delle sorgenti più feconde della ricchezza nazionale. Mi viene [210] assicurato che gli allevatori vanno soggetti a delle tasse vessatorie, e che un bue prima di morire può pagare allo Stato il 20 o 30 per cento del suo valore.
I cavalli che crescono nell’agro romano vengono assoggettati ad una tassa del 5 per cento ogni volta che cangiano di padrone; di modo che, se uno d’essi fosse venduto venti volte, il fisco e l’allevatore se ne dividerebbero il prezzo per metà.
Un romano mi risponderebbe forse che, nei ridenti paesi di Francia, grazie all’enormità dei diritti di mutazione, il fisco può incassare in quattro o cinque anni il valor integrale d’un immobile; nè potrà negare il fatto, essendo vero.
Quasi tutte le cifre esposte in questo capitolo mi furono somministrate a Roma, da un agricoltore onorevolissimo ed assai competente.
Il povero giovane, ch’era ricchissimo, rammaricavasi di non poter viaggiare, parendogli cosa vergognosa il non conoscere che Roma e sue vicinanze, e pronto a spendere molto denaro per ottenere un semplice passaporto.
Non crediate però che gli venisse rifiutato questo pezzo di carta! Oh! no, la polizia sa troppo bene il vivere del mondo. Mons. Matteucci, vice camerlingo della santa Chiesa, direttore della polizia, l’aveva molto gentilmente rimandato al capo dell’uffizio de’ passaporti, ma cotesto onorevole impiegato non si poteva mai trovare. E questo giuoco durò varj anni.
Sento or ora dai giornali, che il mio povero amico ha finalmente ricevuto il suo passaporto senz’averlo dimandato, come pure il figlio del grande orefice Castellani e tanti altri concittadini che formano l’onore di Roma. Non sono esigliati, a vero dire, ma fu loro consigliato paternamente di non ripatriare.
E probabilmente ripatrieranno.
[211]
Mi ero ben promesso di non abbandonare gli Stati del papa senz’aver fatta un’escursione a Sonnino, città di cui tanto mi era stato parlato, il cui nome tante volte si trova nella storia del brigandaggio. I pittori hanno sì spesse volte raffigurato i costumi e le imprese de’ suoi abitanti, ch’io voleva co’ miei occhi vedere il paese e gli uomini, e rintracciare se rimanesse su quel suolo, o nell’indole degli abitanti, qualche vestigio del passato. L’assunto era scabroso, non solamente perchè Sonnino è a tre giornate dal Vaticano, e fuor di mano delle strade frequentate, ma in modo speciale perchè io era straniero; ed uno straniero in viaggio non conversa se non cogli albergatori. Un egregio ed onorevole amico che io aveva in Roma si offerse pronto a liberarmi dall’impiccio. Mi promise di condurmi a Sonnino nella sua carrozza, di procurarmi alloggio presso persone di sua conoscenza, d’introdurmi nella vita intima de’ suoi abitanti. Egli stesso aveva visitato quel paese, verso l’anno 1830, ed era certo di trovarvi una vecchia, vedova d’uno o due briganti, da esso altre volte impiegata siccome modello, e che soccorreva onde avesse mezzo di vivere, passandole una tenue pensione. Accettai pieno di riconoscenza un invito sì grazioso, e ci ponemmo in viaggio il 10 giugno 1858.
Albano, l’Ariccia, Genzano e quasi tutti i villaggi di que’ d’intorni si presentano con aspetto grandioso, essendovi sparsi qua e colà i palazzi ed i conventi. Le case de’ mercanti di campagna, senza aspirare al grandioso, sono larghe ed elevate, e recano cert’impronta di borghesia rustica, senza l’apparenza del ricco avventuriero.
[212]
Nelle terre prossime alla capitale, le professioni di macellajo, di fornajo, di droghiere, ecc., vengono esercitate in virtù d’un privilegio, siccome pubblici impieghi; onde si ricorre per una patente di droghiere, siccome per tener bottega da lotto, o vendita di sale e tabacco.
Il privilegio s’insinua dapertutto negli Stati pontificj. Compagnia d’assicurazioni, di vetrame, di raffineria, fabbrica di stearina, ogni industria infine un po’ interessante è fondata sopra un privilegio. Gli stessi cesti dove si vendono i frutti, sulla piazza Navona, sono affittati ai mercanti da un impresario privilegiato.
Da Albano a Velletri attraversiamo un certo numero di ponti costrutti dai papi, siccome rilevasi da varie iscrizioni. Non conosco paese dove il lusso epigrafico sia spinto più in là. Non si getta un ponte sopra un ruscello, non si fabbrica la minima caserma per gendarmi, senza scolpire sopra lastra di marmo il nome del pontefice che si è illustrato con quel beneficio.
Evvi presso la città eterna una fontana d’acqua minerale, dove i nipoti di Romolo vanno a bagnarsi per divertimento. Iscrizioni sopra iscrizioni! Un pontefice è lodato per aver condotto l’acqua, un altro per aver riparato i condotti o per averli rinnovati.
Questa prodigalità di parole pompose parrà, a primo colpo d’occhio, un po’ meschina e ridicola; ma è un uso romano!
Due parole che spiegano e scusano in pari tempo. È vero però che, se gli antichi fossero stati più sobrj d’iscrizioni, noi ignoreremmo molte cose, che ci vengono ricordate dai marmi. L’epigrafe è una delle sorgenti più limpide, a cui lo storico abbia potuto attingere.
Talora però mentisce, e n’è prova quella inscrizione che attribuisce a Pio VII gli ammirabili lavori, di cui l’amministrazione francese ha abbellito il Pincio. I papi cancellarono dovunque le orme del nostro passaggio, non conservando che i nostri beneficj. I consiglieri di Pio VII, dopo la ristaurazione, avrebbero voluto sopprimere tutto ciò che ricordava la Francia: fino al segno che trattavano di togliere i riverberi, che il generale Miollis ed il signor Tournon avevano introdotto in Roma.
Non ho trovato che un solo monumento che serbasse il nome [213] di quell’illustre e coraggioso Miollis. È una piccola lastra di marmo nascosta nelle grotte di Tivoli.
Durante la rivoluzione del 1849, quando Mazzini regnava in Roma ed il santo padre a Portici, il bel viadotto che unisce Albano all’Ariccia rimase forzatamente interrotto. Un semplice fittajuolo delle vicinanze apri la sua cassa e continuò i lavori a proprio rischio e pericolo. Nessuna iscrizione ricorda questo bel tratto.
Velletri è un villaggio di 16,000 anime ed è capitale d’una provincia: ha vescovo e prefetto, come Versailles. Vi si trovano pure de’ briganti, poichè Velletri è tra le montagne, circondata da selve e boscaglie, ed all’ingresso di quel celebre Campo Morto, che appartiene al capitolo di s. Pietro. Ho già detto perchè la pianura morta, o Campo Morto, era un luogo mal frequentato. Il diritto d’asilo raccoglie una moltitudine di ladri e d’assassini su quel territorio insalubre. Il vicinato procura a Velletri una specie d’insalubrità morale, che si è manifestata non ha guari col delitto di Vendetta.
Ecco il fatto siccome circola di bocca in bocca nella città e nelle terre vicine.
Ai piedi di Velletri, verso la porta che conduce a Napoli, si trova un convento di Gesuiti, i quali tengono scuola. Sentii un bisbiglio di voci infantili e lessi sopra una porta: Classis elementaris. La loro cappella è una chiesa piuttosto antica, dove ho ammiralo una bella porta del Rinascimento, una soffitta ricchissima, benchè di gusto incerto, ed un bell’affresco della scuola del Perugino. Ma il più prezioso de’ loro tesori è una Madonna miracolosa dipinta da s. Luca.
La storia non dice che l’evangelista s. Luca sia stato nè pittore nè scultore, anzi è noto ch’egli fu convertito da s. Paolo dopo la morte di Gesù. Eppure l’ingenuità pubblica si compiace nell’attribuire al suo nome tutte le antichissime imagini che rappresentano la Vergine ed il Bambino, sia in pittura sia in scoltura. In pari modo nelle tradizioni dell’antica Grecia tutti i colpi di clava di certa importanza venivano attribuiti ad Ercole. [214] Checchè ne sia, l’imagine miracolosa di Velletri è religiosamente conservata in una nicchia chiusa da imposte, in fondo ad una cappella difesa da una griglia. Gli abitanti de’ vicini villaggi professano un culto superstizioso per questa pittura, e tutti gli anni le portano preziose offerte.
Un oste del Campo Morto soprannominato Vendetta concepì il disegno d’una speculazione ardita. Già da lungo tempo ei taglieggiava gli abitanti di Velletri e delle vicinanze, a chi chiedeva due scudi ed a chi dieci o dodici. Chiunque avesse una vendemmia pronta, degli alberi carichi di frutti, un fratello in viaggio, pagava senza mercanteggiare quella strana imposta. Eppure Vendetta da ultimo si annojò di quel mestiere sì lucroso, lusingandosi di poter ritornare alla vita normale, con un reddito modesto ed un onesto impiego. Per venire a capo di siffatto scopo, ei non seppe trovar nulla di più ingegnoso che di rubare la Madonna di Velletri e deporla in sito sicuro.
Si avvicinava una festa solenne, in cui la Madonna doveva comparire agli occhi del popolo con tutti i suoi diamanti, allorchè il sacristano, aperta la nicchia, s’accorse, prorompendo in grida di dolore, che l’imagine non v’era più. Si cerca d’ogni parte, ma non si trova nulla.
Intanto il popolo si ammutina, e si propaga un’effervescenza fino nei prossimi villaggi. Il clero del paese accusa i Gesuiti d’essersi derubati da sè medesimi; i Gesuiti recriminano contro i preti di Velletri; ed il convento viene invaso, in ogni parte perquisito, frugato e messo a soqquadro da una moltitudine idolatra. Finalmente, la domenica, alla messa solenne, Vendetta, armato d’un pugnale, sale sul pulpito e si denuncia da sè medesimo. Prega il popolo di accogliere le sue scuse, e promette di restituire la Madonna, appena che abbia regolato i suoi conti coll’autorità. Questa tratta con lui da potenza a potenza; ed egli chiede la propria grazia e quella di suo fratello, una rendita di certo numero di scudi ed un impiego del governo. Si promette ogni cosa, ma Roma rinnega i proprj agenti e non vuol sancire nulla. Intanto la popolazione delle montagne si mette in cammino, ed una moltitudine di contadini minaccia d’inondare Velletri. Il brigante cede al numero, rivela il nascondiglio dove [215] ha celato la Madonna, e si arrende a discrezione. Sarà decapitato, e nessuno ne dubita in Velletri.
La Madonna viene reintegrata. Una grande affluenza di divoti mi permise di ravvisare la cappella dov’essa fece tanti miracoli; ma una tendina azzurra, ricamata col nome di Maria, non mi lasciò vedere il capolavoro di s. Luca.
Vendetta è un brigante della decadenza, che ebbe il suo momento di audacia, e quel sermone pronunciato in piena chiesa non è un’azione volgare. Ma quanto siamo lontani dal Passatore! Ecco un vero grand’uomo fra gli aggressori di strada!
Il Passatore prese una città di 5000 anime, Forlimpopoli. Tutti gli ottimati erano raccolti in teatro, quando, al levarsi del sipario, si vede un coro d’uomini armati, che appuntano i fucili contro gli spettatori. Arriva il tenore, voglio dire il Passatore, con un foglio in mano. «Signori, grida egli, tutte le uscite del teatro sono custodite, la città è in nostro potere, ma noi non abuseremo. Abbiamo imposto a Forlimpopoli una contribuzione di tanti scudi, ripartiti come segue. Ciascuno di voi escirà, all’appello del suo nome, ed andrà, sotto buona scorta, a procacciarsi la somma che ci deve.»
Cominciò il novero, e finì senza confusione, facendosi pagare in tanti bei contanti la somma pretesa, poi ritirandosi pacificamente con un ricavo maggiore di quanti mai il teatro avesse prodotto.
Cotesto Passatore, oltre l’audacia e la grandezza, aveva delle doti speciali, mentre facevasi scrupolo di spogliare un infelice, e più d’una volta vuotava la propria borsa per empirne una trovata vuota.
Un giorno egli venne ferito gravemente, onde vide necessaria l’assistenza d’un uomo dell’arte. Ma come supporre che un medico avesse a venire senz’esservi forzato, a riporsi nella gola del lupo?
Fece quindi rapire il più celebre medico di tutti i paesi circostanti, e lo tenne custodito finchè ebbe bisogno della sua cura. Quando si sentì veramente bene, ordinò al proprio tesoriere di [216] rimandare quel valentuomo dopo averlo pagato: ciò che venne eseguito.
«Quanto gli fu dato? chiese il Passatore.
— Dieci scudi.
— Come? dieci scudi a chi ha salvato la vita all’illustre Passatore! Sei pazzo? Corri a raggiungerlo, consegnagli cento scudi e non dimenticarti di dirgli, che non è ancora ben pagato!»
Imaginatevi lo spavento del medico quando si vide raggiunto sulla strada da un uomo a cavallo che galoppava!
Sei mesi più tardi ei traversava la montagna a passo di mula, allorchè per caso si trovò faccia a faccia col suo antico ammalato. Il povero dottore questa volta si pentì d’averlo guarito. Ma il Passatore gli fece un mondo di cortesie, e conchiuse dimandandogli in quale ora egli si sarebbe trovato in città. Essendosi accorto che un orologio d’argento stava nel taschino del suo liberatore, esclamò: «È egli possibile? Il medico del Passatore non ha che un orologio d’argento! Dammi il tuo orologio!» Lo gettò contro una rupe, onde andò in frantumi siccome un uovo. Alcuni giorni dopo il dottore trovò sopra il suo tavolo un eccellente cronometro fabbricato a Londra, e recato in Italia da qualche viaggiatore inglese, che forse ancora lo rimpiange.
Questo eroe fu ucciso in una mischia. I pontificj s’impossessarono, è vero, del suo cadavere, ma la sua fama correva ancora per le montagne, e la sua masnada studiavasi ancora di far credere ch’ei fosse sfuggito.
Per convincere della identità del cadavere, non si trovò nulla di più ingegnoso che di mostrarlo alla madre del brigante. Quella vecchia decrepita attinse nell’odio e nella vendetta tanto coraggio quanto occorreva per negare. Fu tenuta per un’ora e mezzo in presenza di quel corpo, ma essa ostinatamente ripetè che non lo riconosceva. La prova parve concludente, e si permise alla vecchia di andarsene. Ma a quest’ultimo istante, quando il passo più difficile era fatto, la natura riprese violentemente i suoi diritti; la madre tornò bruscamente indietro, abbracciò il cadavere del figlio, lo bagnò di lagrime, e proruppe in imprecazioni contro i soldati che l’avevano ucciso.
[217]
Coloro che non videro le paludi Pontine si rappresentano una vasta estensione di paludi sterili e fetide, tanto spiacevole alla vista, quanto ripugnante all’odorato.
Nulla è più lontano dal vero. Le paludi Pontine sono uno de’ più bei paesi dell’Europa, uno de’ più ricchi e de’ più ameni per tre quarti dell’anno.
Imaginatevi una lunga pianura, che da un lato confina col mare, e dall’altro con una catena di montagne pittoresche, coltivate accuratamente e coperte d’alberi su tutti i loro declivii: è un immenso giardino sparso d’uliveti, le cui frondi grigiastre sembrano in ogni stagione bagnate da un vapore mattutino. Le prime falde proteggono de’ boschi di vecchi aranci floridi. La pianura si divide in foreste, in praterie ed in coltivi. Le foreste, alte e vigorose, attestano l’incredibile fecondità d’un suolo vergine. Esse alimentano i più begli alberi d’Europa, e le liane gigantesche. La vigna selvatica e la rosa canina colorano e profumano le frondi sempre verdi del sughero.
Le praterie sono coperte da innumerevoli gregge; sì belle che non se ne troverebbero di uguali che nell’America o nell’Ukrania. Delle frotte di cavalli semi-selvatici galoppano in libertà entro recinti immensi; le vacche ed i buffali pascolano in pace l’erba alta e folta. I custodi di questo bestiame, inchiodati sulla sella dei loro cavalli, col mantello in groppa, il fucile ad armacollo, la lancia in resta, vestiti di velluto forte e con uose di cuojo grosso e lucide che arrivano fino al ginocchio, galoppano intorno ai loro allievi. I giovani puledri ritti in piedi sulle loro gambe sottili disegnano all’orizzonte la loro ombra fantastica.
Se i viaggiatori vengono in Italia per ammirare delle città antiche e magnifiche, dei capo-lavori di scultura e pittura, delle rovine pittoresche, delle cerimonie religiose d’una magnificenza unica, delle feste popolari la cui originalità non è ancora scancellata, dei campi di una fertilità miracolosa, delle belle foreste folte e cupe che danno la più alta idea della fertilità del suolo, un popolo forte, abbronzito, vestito di foggie che fanno risaltare l’eleganza naturale del suo corpo, appagheranno i loro desiderj senza uscire dagli Stati della Chiesa.
[218]
Le paludi Pontine valgono già il viaggio.
Le coltivazioni vi sono rare ma gigantesche. Alla primavera si vedono fino a cento paja di buoi occupati a lavorare lo stesso campo. Alla fine di giugno non è raro l’incontrare un campo di grano che indora una lega di terreno. I frumenti sono belli, i melgoni sono sì grandi che un uomo a cavallo vi è altrettanto invisibile quanto una pernice nei nostri solchi. I fieni dappertutto ove l’acqua non fa moltiplicare il giunco e la carice, sono altissimi, sani e di buon odore. La coltura paludosa trova perfino un posto in questa fecondità universale. Egli è nelle paludi Pontine che si coltivano in tratti di molti ettari quei carcioffi semi-selvatici, di cui il popolo di Roma si nutre in estate.
Un drennaggio a cielo scoperto semplice e poco dispendioso basta a produrre tutte queste buone cose. Quasi tutti i papi, specialmente Sisto V e Pio VI, hanno fatto lavorare ai grandi canali collettori. L’interesse privato ha seguito l’impulso, ogni possidente ha scavato dei canaletti nel suo campo.
Le paludi Pontine sono sottoposte alle stesse cause di sterilità insalubre delle nostre lande. Il vento d’ovest che ammassa le dune sulle nostre spiagge della Guascogna e della Gironda, ingombra ugualmente di sabbia la costa occidentale dell’Italia, e arresta lo scolo delle acque. La sola differenza fra queste lande e le nostre è che qui la terra vegetale è mille volte più abbondante e che non vi è alios. Il calore del sole vi è più cocente e più fecondo.
Però, tutto non à fatto per le paludi Pontine poichè non sono abitabili. La popolazione che le coltiva scende dalle montagne, lavora, falcia o miete, e se ne fugge tosto sotto pena di morte.
Egli è anzi tutto, che le acque non iscolano abbastanza presto ed occorrerebbe qualche canale di più, e poi che i detriti di materie vegetali che compongono questo suolo fecondo, subiscono nei grandi calori una fermentazione terribile, se ne sviluppano dei veleni sottili, che sfuggono all’odorato, ma sono funesti alla salute. La decomposizione dei prodotti animali è fetida ma innocua e quasi salubre. Non vi è alcun pericolo ad abitare Monfaucon, nel mentre che queste praterie imbalsamate generano la peste. Quando il sole di luglio ha sprigionati i gaz [219] micidiali che covano sotto l’erba di queste campagne, il vento li porta via ove gli piace, e si vedono, a dieci leghe di distanza nella montagna, in un paese naturalmente sano, gli uomini morire avvelenati.
Questo flagello che decima regolarmente gli Stati del santo padre, e che fa progressi ogni anno, non è però senza rimedio. Basterebbero buone arature per espellere tutti i veleni dalla terra. Dando aria alla terra, e aprendo un passaggio ai gaz mortiferi, si renderebbe sano tutto il paese.
Bisogna rompere coraggiosamente tutte le praterie e seminare del grano. Io non dispero di veder operare questa rivoluzione che arricchirebbe i possidenti e popolerebbe la pianura in meno di un quarto di secolo. Alcuni aratri a vapore basterebbero per questo miracolo. Nessun paese è più acconcio a questo genere di cultura, perocchè il suolo è piano e senz’alcun accidente di terreno. Converrebbe che i veri amici del popolo romano si mettessero a predicare il vapore, come gli apostoli hanno predicato l’evangelio; ma le menti sono mal preparate ad accogliere un tal beneficio.
Nulla di più curioso che una masseria nelle paludi Pontine. Voi entrate in un villaggio semi-abbandonato da tre o quattro mesi. Quasi tutti gli edifizj appartengono al signore; il suo stemma ducale sta sopra la porta delle capanne. I granaj che egli ha costrutto, i pozzi che ha scavati sono altrettanti monumenti che celebrano la gloria del suo nome. Un’iscrizione pomposa vi prega fieramente di non obbliarlo mai.
Il suo palazzo vasto, quadrato, monumentale, sormontato da una torre che suona le ore, è il centro del villaggio e dei lavori agricoli. Quest’edificio non ha mai visto nè il padrone attuale, nè suo padre, nè il suo avolo; tutt’al più il bisavolo vi si sarà fermato una volta di passaggio. Il mercante di campagna ha stabilito il suo studio in questo monumento. Si vede entrare ed uscire come nelle podesterie di provincia un giovine impiegato, col sigaro in bocca, e la penna dietro l’orecchio. — Verso sera, i guardiani del bestiame, gl’ispettori dei lavori, i sorveglianti giurati, ornati d’una piastra d’argento colle armi ducali, arrivano [220] sui loro cavalli che vanno tra il passo e il trotto. Alcune carrette trasportano delle derrate al magazzino, o delle bestie coricate sui fianchi, colle gambe legate e col muso legato con una corda di fieno. Si registrano i prodotti, e si spediscono a Roma, dopo aver prelevato ciò che ognuno crede poter prendere senza pericolo. E pertanto la terra è sì feconda, gli animali eseguiscono sì vigorosamente la loro opera di riproduzione, che il mercante di campagna metterà da parte circa dieci mila scudi alla fine della stagione. In quanto al possidente, al padrone della masseria e del castello, al duca di Carabas, ei non sentirà mai a parlare di tutta questa ricchezza. Egli ha esatto alcuni anni anticipati per dar una festa o per costruire un giardino. Si dice perfino che si trovi in cattive acque, e che stia per affittare il suo palazzo di Roma, affine di viaggiare a buon mercato in Francia od in Germania.
Noi abbiamo lasciato la nuova strada da Roma a Napoli, che attraversa le paludi Pontine in linea retta. I nostri cavalli ascendono penosamente la strada vecchia, abbandonata dall’amministrazione delle poste, e perciò assai negletta. Eccoci a Piperno, villaggio di cinque mila anime, capoluogo di governo nella provincia di Frosinone. Il nostro albergo, il solo di Piperno è una catapecchia. Bisogna attraversar la rimessa per salire alle camere del primo piano, e che camere!
Per lo contrario, la piazza del villaggio è molto pittoresca. Il mercato lo si tiene all’ombra di dieci begli alberi d’arancio; i notabili del paese vi si radunano tutti i giorni dinanzi alla bottega del farmacista. Io feci conoscenza col medico, col chirurgo, col flebotomo, col notajo e con alcuni consiglieri. Ecco il curato che giunge; ei si ferma a dieci passi da noi per far mettere due o tre libbre di ciliegie nel suo moccichino. L’acquacedratajo vicino sospende delle scorze di limone sul davanti della sua bottega per annunziare che ha preparato dei sorbetti. Io mi metto a parlare coi notabili, che mi assicurano che la gente del paese non è infelice; la proprietà è ragionevolmente divisa, si raccolgono molte olive, l’olio si vende bene, e nella comune non vi sono nè nobili nè mendicanti.
[221]
A due ore e mezzo tutte le case si chiudono, senza eccettuare la bottega ospitaliera del farmacista. È il momento della siesta; il villaggio dorme fino alle cinque. Io feci intanto il giro della città seguendo la strada di cinta. Gli antichi bastioni sono coperti di giardini abbastanza verdi; gli aranci vi fioriscono dappertutto. Una iscrizione mi ordina di fermarmi; faccio alto e leggo:
FERMATI UN ISTANTE, VIAGGIATORE,
QUALUNQUE SIA LA FRETTA CHE TI SPINGE!
PRIVERNA, ANTICA CITTÀ DEL LAZIO,
CAPITALE DEI VOLSCI,
MUNICIPIO ROMANO,
VITTIMA DEL FURORE DEI TEUTONI,
HA LASCIATO, TU LO VEDI,
POCHE TRACCIE NELLE ROVINE CHE COPRONO
LA PIANURA VICINA;
GLI EDIFIZI NUOVI ERETTI SULLA CIMA
DI QUESTA COLLINA
ATTESTANO IL GRAND’ANIMO E I SENTIMENTI GENEROSI
DEI CITTADINI INTREPIDI
CHE HANNO RISUSCITATO IL NOME E L’ESISTENZA
DELLA LORO PATRIA ESTINTA.
AFFINCHÈ QUESTA GLORIA DI PRIVERNA E DEI PRIVERNATI
NON PASSASSE INAVVERTITA DINANZI A TE,
IL SENATO E IL POPOLO DI PRIVERNA
HANNO INNALZATO QUESTO MONUMENTO
L’ANNO DELLA REDENZIONE 1753.
RISTAURATO NEL 1845.
I Privernati ci consigliarono di prendere dei cavalli di rinforzo, e piuttosto tre che due, se volevamo arrivare di giorno a Sonnino. Noi seguimmo il loro avviso, ed uscimmo dalla capitale dei Volsci per la via consolare. Una strada laterale si chiama la via Camilla.
Sonnino si vede da lontano sulla cima di una rupe. Gli edifizj sono uniformemente d’un grigio colore di ruine. Si distingue la [222] base di alcune torri demolite per metà; è tutto ciò che rimane del recinto fortificato. Due o tre fabbricati nuovi d’un bianco crudo spiccano nel paesaggio e guastano l’armonia trista del luogo. La strada stessa mi parve trista, quantunque fosse tutta fiorita. Gli uliveti, le vigne, le clematidi, i rovi, le ginestre, fiorivano a gara, i bottoni di mirto stavano per aprirsi, eppure questo lusso vigoroso d’una primavera d’Italia non ci parlava nè di amore, nè di piacere. Noi misuravamo la profondità dei burroni che fiancheggiavano la strada, seguivamo collo sguardo l’ertezza delle rupi aride, e ci cacciavamo col pensiero nel folto impenetrabile dei macchioni. Alcuni campi larghi come la mano, ci spiegavano la vita nuova degli indigeni, il loro lavoro ostinato ed il magro frutto dei loro sudori. Qua e là usciva dalla terra un pugno di frumento, d’avena o di melgone, ma la cultura principale è quella degli ulivi, e l’occhio spazia tristamente sulle loro frondi azzurrognole.
Due conventi di grassi frati contribuiscono colle loro preghiere alla prosperità di Sonnino. L’uno è situato a un mezzo miglio dalla città, l’altro se ne sta come un ufficio di dazio consumo sulla porta al basso della città. Ci fu giuocoforza fermarci al secondo per mettere la nostra vettura al coperto ed i cavalli in iscuderia. Quei buoni religiosi vendono l’ospitalità ai cavalli ed agli equipaggi, e la fanno pagare tanto più cara, in quanto che una carrozza non potrebbe entrare in città. L’arteria principale è una via, che gli abitanti chiamano con semplicità strada di mezzo. Due porte la terminano; al basso, la porta s. Giovanni; all’alto, la porta s. Pietro. A dir vero, questa strada non è che una specie di scala sdrucciolevole, che passa tra due file di case nere, ineguali, senz’alcun rettifilo. Essa è ombreggiata di tratto in tratto da vôlte scure come i tunnel delle strade ferrate. Tre uomini possono camminarvi di fronte; quest’è ciò che le distingue da tutte le altre, ove non vi è posto che per due. Di distanza in distanza s’incontra a destra un precipizio spaventevole colla pianura in fondo; ecco le strade adjacenti. La nostra venuta era stata annunziata. La vedova dei briganti aveva fissato un alloggio per noi in casa d’un suo parente, antico brigadiere di gendarmeria [223] e grosso borghese di Sonnino. Egli ci venne incontro fino alla porta S. Giovanni, e ci diede cordialmente il benvenuto. Era un uomo corpacciuto, rubicondo, d’una fisonomia aperta, ma con pochi, o quasi senza denti, ciò che rendeva la sua conversazione difficile a comprendersi. Egli ci condusse al suo domicilio e mise la sua casa e le sue genti a nostra disposizione: la casa che abita è di un piano difficile a descrivere. Vi si entra dalla strada di mezzo, ma il primo piano fa un salto e passa in un altro quartiere. Un corridoio a scala ci condusse in una cucina affumicata, ove se ne stava la padrona di casa colla sua figlia unica, una bella brunettina di quindici anni. Dopo i primi complimenti, ci si fece salire per una dozzina di gradini e ci si mostrò la sala da pranzo. Di là passando io per altri intricati corridoj, giunsi alla mia camera.
Ben tosto la mia amabile guida mi fece chiamare per presentarmi il suo antico modello. Io vidi una creatura grande e robusta di cinquanta a sessant’anni, guercia e quasi cieca, ma piena di buon umore e di salute. Essa parlava lestamente, con una voce veramente maschia e in tuono burbero; nonostante mi fece buona accoglienza. L’arrivo del suo benefattore e del suo antico padrone, che aveva forse qualche cosa di più per essa, le cagionò una soddisfazione evidente, ma la sua gioja non aveva nulla di espansivo nè di fragoroso. Si riconosceva nelle sue maniere quell’impassibilità villereccia, che ha la sua sorgente nell’abitudine di lavorare e di soffrire. Il suo costume era affatto moderno e simile a quello delle contadine di Bievre o di Montreuil. Ella preferiva evidentemente le vesti d’indiana ed i fazzoletti di Lione agli ammirabili tessuti di lana scura che avea portato in sua gioventù. «Voglio sperare che avrete portato i vostri vestiti della festa.» La nostra risposta la contrariò assai. Ella strinse le spalle e disse: «Non si crederà mai che voi siate signori. Domani è la festa di sant’Antonio, patrono di Sonnino. Vi sarà processione, corsa di cavalli, e fuochi d’artificio. La nuova banda suonerà delle arie dalla mattina fino alla sera; imperocchè noi abbiamo una banda composta dei migliori giovani del paese. Essi hanno imparato la musica, e hanno comperato degli stromenti. Che peccato che non abbiate portato i vostri abiti neri!»
[224]
Noi ci scusammo alla meglio, io specialmente, che desideravo ottenere le sue buone grazie. Le feci tanto bene la corte, che mi promise di raccontarmi al domani la storia della sua vita. «Ma a che scopo? diceva ella col suo tuono brusco. Io ho vissuto come le altre, e non mi è accaduto nulla di straordinario; tutti a quell’epoca erano nella stessa mia condizione.»
Ci fu servita la cena, ma Maria Grazia non volle parteciparvi; però ella accettò un bicchiere di vino e ne bevette diversi. «Ciò fa bene, diceva essa, è molto tempo che non ne avevo bevuto, perchè questa mercanzia è ad un prezzo eccessivo.»
Il nostro ospite fece togliere le posate dei nostri domestici, allorchè seppe che non avevamo l’abitudine di mangiare con essi. Ci presentò il suo futuro genero, un giovane ingegnere che aveva l’aria di un collegiale.
Io manifestava il mio stupore, che dei ragazzi così giovani si sposassero per farne degli altri; mi si rispose che era l’uso.
A Sezza, nei paesi malsani, le ragazze si maritano ancora più presto, e si vedono delle adolescenti di quindici anni passare a terze nozze. I mariti muojono sì presto intorno alle paludi Pontine!
Il pasto fu buono e soprattutto abbondante. Noi non avemmo a lagnarci di nulla, fuorchè della cortesia eccessiva dei nostri ospiti. In queste montagne gli uomini si servono prima delle donne, quando però queste osano mangiare dinanzi a loro. Ma l’uso impone un grande scialacquo di complimenti. «Buon appetito. — Grazie. — Voi siete il mio padrone. — Accomodatevi come vi piace. — Fatemi il favore. — Davvero, è troppo! Voi mi colmate. Io non saprei come riconoscere. — Con vostro permesso. — Desidero che questo pasto vi faccia buon pro! Vi sbarazzerò della mia presenza. — Addio. — Buona sera. — Buona notte. — Dormite bene. — La Madonna vi accompagni! — E notate bene che al principio il padrone di casa vi ha detto: Noi vi tratteremo alla buona, senza cerimonie, senza complimenti.»
Io dormii come si dorme in viaggio. La seguente mattina [225] uscendo dalla mia stanza, incontrai il giovine ingegnere che si offrì gentilmente di farmi vedere la città e la fiera, lo che accettai ben volontieri. Strada facendo lo confessai un poco. Egli aveva fatto i suoi studj a Roma, e aveva frequentato i corsi della Sapienza. Nel mentre studiava le matematiche aveva trovato il tempo di leggere alcuni volumi di Voltaire e di Rousseau; leggeva il francese ma non lo parlava. Rousseau era il suo favorito e più volte s’era riunito con alcuni camerati per commentarlo a porte chiuse. Egli giudicava il governo pontificio come tutti gli uomini della classe media, e sperava di vivere abbastanza per vederlo rovesciato. Intanto faceva istanza per un impiego nei lavori pubblici.
La fiera si teneva alle due estremità del villaggio. Io contai una dozzina di botteghe discretamente mal assortite. S’indovinava al primo colpo d’occhio, che Sonnino non era la capitale del commercio. Alcune pezze di tela, alcuni fazzoletti di seta o di cotone, un po’ di rame da cucina, e delle stoviglie ordinarie, molte corone, e ciliegie in quantità: ecco tutto ciò che io ho registrato nelle mie memorie. Aggiungete un fondo di libreria consistente in istorielle da un soldo, e in lamenti edificanti; infine un carico di assiccelle sottilissime, che il mercante adatta in un momento per fabbricare sedie, bauletti, poltrone e perfino dei canapè.
Le strade cominciavano a empirsi di gente; gli uomini erano magri, grandi, e bruni; le donne leggiadre e dilicate. Il costume nazionale, che è insieme severo e spiccante, spuntava qua e là, ma le stoffe di seta moderne che finiranno per tutto invadere, guastano già la toeletta delle donne. Uomini e donne avevano dei fiori in mano, in bocca, od in testa.
La folla andava e veniva senza sdrucciolare lungo le scale umide. Di quando in quando bisognava incollarsi sul muro per lasciare libera la strada ad un mulo, ad un asino od a qualche piccolo greggie di animali neri; vi ho già spiegato questo eufemismo.
La strada di mezzo s’allarga un poco in certi siti per formare ciò che si chiama la piazza. Domandai al mio giovine ingegnere, [226] se non era là che si era piantato il cavalletto sotto il pontificato di Leone XII? Rispose che non ne sapeva nulla, e si mise a parlar d’altro.
Mi mostrò il palazzo del governo, una vera catapecchia, ove regna un giudice governatore con settecento franchi al mese, assistito da un cancelliere con cinquantatre franchi e mezzo.
Io riconobbi la porta s. Pietro per averne udito parlare molte volte. È quella ove anticamente si appendevano entro gabbie le teste dei briganti che si erano lasciati prendere. Al dì d’oggi non vi si vede più che lo stemma del papa. Il mio Cicerone mi assicurò, stringendosi nelle spalle, che non vi è mai stato appeso altro; io lo pregai di mostrarmi l’area di qualche casa fatta radere al suolo da Leone XII per i misfatti del suo proprietario, ma mi disse non aver mai inteso a parlare di quelle strane esecuzioni.
All’incontro mi fece visitare una casa grande da contadino con una torre in rovina da un lato. Un custode od intendente che vi alloggiava, ci condusse in alcune stanze quasi nude, ammobigliate con sedie di paglia e letti di legno dolce. Cinque o sei mobili dorati bellissimi, di stile rococò, giacevano vergognosamente sul granajo. S’incontravano qua e là delle imagini volgari, dei Gesù di cera colorati, delle litografie rustiche. In una specie di sala, un piccolo s. Pietro di legno intagliato guardava gravemente quattro statuette di gesso semi-decenti. Era una donna che allaccia il suo busto, un’altra che annoda la sua giarettiera, un’altra che cerca le pulci nella sua camicia. In questa casa è nato il più illustre dei figli di Sonnino, e colui che ha dato le maggiori brighe ai diplomatici dell’Europa: S. Em. il cardinale Antonelli.
Il custode non ci lasciò partire senza mostrarci il luogo principale della casa. È un magazzino in cui vi si raccoglie un enorme quantità d’olio d’oliva in pozzi di muro. La famiglia Antonelli compera l’olio al minuto dai piccoli coltivatori di Sonnino, per rivenderlo all’ingrosso ai negozianti di Marsiglia.
Il suono delle campane e la musica della banda ci avvertirono che la festa religiosa stava per incominciare. Si celebrava [227] una messa grande in onore di s. Antonio nel convento ove avevamo lasciato i nostri cavalli. Noi vi giungemmo un momento prima della cerimonia, intanto che i contadini e le contadine apportavano i loro voti e le offerte ai piedi del santo. Ciascuno dava ciò che aveva, e domandava ciò che gli mancava, il tutto ad alte grida. Una madre presentò il suo fanciullo ammalato, dicendo a s. Antonio: «Guariscilo, o prendilo!»
La messa durò lungo tempo. Quando fu terminata, la processione uscì. Quasi tutti gli uomini di Sonnino sono inscritti in una confraternita, di cui portano il mantelletto ed il cappuccio. La confraternita delle Anime del Purgatorio è la più nobile, vale a dire che si compone del contadini più agiati. Quelle del Corpo di Gesù e del nome di Maria sono rivali. Insorse fra loro una disputa per il passo, e vidi il momento in cui i mazzieri stavano per giuocare di bastone. Tuttavia si limitarono alle ingiurie, l’ordine fu ristabilito e un lungo corteggio irto di croci e di stendardi s’innoltrò inciampando nelle contrade della città. La processione era chiusa da un vitello adorno di nastri, offerta un po’ pagana, che un possidente aveva fatto a s. Antonio. Il donatore menava devotamente l’animale, cui teneva con una mano per la testa, e coll’altra per la coda.
Bene spesso il corteggio si fermava. Ora compariva uno stendardo che non poteva passare sotto una vôlta, ora un fanciullo che cadeva, ora i portatori di s. Antonio che si davano il cambio, ora il vitello finale che rifiutava d’andar più avanti. Ad ogni stazione qualcuno gridava: Ave Maria! ciò che nello stile di processione vuol dire: fermatevi!
I pochissimi abitanti che erano rimasti in casa, se ne stavano alla finestra e facevano piovere dei fiori di ginestra o delle foglie di garofani.
Noi eravamo corsi avanti, e ci eravamo collocati in un angolo della piazza. Ivi feci conoscenza col medico comunale, che venne a presentarsi a me senza cerimonie. Il medico comunale è un personaggio piuttosto importante in queste piccole città. Ha studiato a Roma, ed ha ottenuto il suo posto al concorso. La comune gli paga sui suoi redditi un emolumento fisso, affinchè [228] curi gratis i ricchi ed i poveri. È lo spirito municipale d’Italia che ha creato quest’instituzione, che meriterebbe di essere introdotta in Francia. Il mio nuovo interlocutore mi raccontò che riceveva mille seicento cinque franchi all’anno, e che il suo collega chirurgo era pagato sullo stesso piede. È più che sufficiente in un paese, ove una casa discreta si affitta sessanta franchi, e ove una persona sola può nutrirsi con soli dieci soldi al giorno. Egli mi disse che la municipalità di Sonnino è ricca, mercè l’estensione del suo dominio comunale. Essa ha novanta mila franchi di avanzi, che destina a ristaurare il palazzo di governo, e specialmente a migliorare le strade. Gli abitanti sono assai sobrj e molto laboriosi. Quasi tutti possedono un piccolo pezzo di terra; sono poveri, ma non vi è neppur un indigente. La salute pubblica è abbastanza buona. La febbre vi domina poco o niente; soltanto alcune gastriti acute cagionate secondo ogni apparenza dalla farina di grano turco. L’istruzione pubblica non è brillante, poichè sopra trenta adulti non se ne trova uno che sappia leggere. Ma quaranta fanciulli del sesso mascolino vi frequentano le scuole: le fanciulle sono in maggior numero per la semplicissima ragione che desse sono meno utili nei campi. La cifra esatta della popolazione è di due mila cinque cento cinquant’otto individui, di cui trenta ecclesiastici.
«Va benissimo, dissi al dottore. Ma parlatemi un po’ del brigandaggio.» Gettò gli occhi su di me, poi sul mio vicino l’ingegnere, ed un furtivo sorriso brillò ne’ suoi occhi. Sorriso eminentemente italiano, pieno di cose, e più istruttivo d’un discorso intero. «Mi chiedete se le scorrerie guastatrici sono sempre in uso in queste campagne? Pur troppo sì! I nostri contadini si farebbero scrupolo di rubare un soldo sulla via, ma considerano quasi siccome un giuoco innocente il furto de’ frutti, dei grani e de’ foraggi. Quanto alle coltellate, non sono nè più rare nè più comuni qui che altrove. Dipende molto dalle vendemmie. Si ammazza minor gente quando il vino costa più caro.»
Non era precisamente quello ch’io gli dimandava, ma però non mi arrischiai a ripetere l’interrogazione. Il giovane ingegnere contava senza dubbio alcuni de’ suoi antenati fra gli eroi [229] della porta San Pietro, ed io era già stato abbastanza indiscreto parlando del brigandaggio in sua presenza.
La processione alfine era passata; i più tardivi raddoppiavano il passo; il povero vitello, sfinito dalla fatica, s’era da ultimo fatto portare. Tornammo quindi a casa, dove il pranzo ci aspettava e dove il nostro ospite ci narrò, che una donna ammalata era spirata appunto in quel momento che s. Antonio passava dinanzi a lei. I parenti dell’estinta si consolavano, dicendo che il santo l’aveva presa con sè.
Gli abitanti di Sonnino hanno un passeggio, di cui a buon diritto vanno superbi. È una strada lunga un miglio, costrutta a forza di braccia sulla sommità della montagna. Comincia alla porta San Pietro, e finisce ad un gruppo di verdi querce. Il suolo è abbastanza compatto da potervisi correre in carrozza; ma sgraziatamente le carrozze non potrebbero salire fino là su. Vi si fanno correre cavalli nel giorno della festa, quando la Provvidenza permette che se ne trovino in quel paese.
La corsa era promessa per le 22 ore, vale a dire doveva cominciare due ore prima della caduta del giorno. In attesa dello spettacolo, mi recai da solo nel boschetto delle verdi querce, dove le vacche avevano lasciato larghe tracce del loro passaggio. Tuttavia mi assisi alla meglio sopra un tronco, e m’accinsi a notare colla matita ciò che aveva visto e inteso fino dal giorno precedente. Tutt’ad un tratto il cielo si offuscò, era un temporale che passava, venendo dalle montagne di Napoli. La luce scomparve d’improvviso, e la valle si coprì de’ più fantastici colori. I lampi ed i fulmini si rendevano più frequenti, e poco dopo credetti sentire il tuono anche sopra il mio capo.
Non potevo ripararmi nel villaggio, senza affrontare per un buon miglio una grossa pioggia, ed ero vestito con panni leggerissimi. Mi rassegnai dunque a rimanere dov’ero fino alla fine dell’uragano. Però il cielo mi mandò compagnia numerosa, chè parecchi pastori, mandriani, custodi di buffali, di capre e di pecore, vennero a ricoverarsi intorno a me. Erano inzuppati fino all’ossa, eppure nessuno d’essi pensò ad indossare il proprio abito, e lo portavano sbadatamente sulla spalla sinistra, come vuole il costume del paese. Offrii loro de’ sigari, ed essi volonterosi [230] gli accettarono, per isminuzzarli nelle loro pipe di legno ornate di chiodi dalla testa di rame. Un giovinotto, per ricambiare la cortesia, mi regalò delle mele verdi, che avrebbero potuto esser mature alla fine d’agosto. Aperse poscia un fazzoletto di cotone rosso nascosto sotto il suo abito e pieno di ciliegie. Ne accettai due o tre discretamente, ma egli bravamente insistette, dicendo: «Non temete di divider meco queste ciliegie: non le ho pagate, ma mi appartengono per diritto di preda. Se non volete prenderne da voi stesso, aspettate, che andrò a servirvi io medesimo.» — Me ne diede molte sulle prime, poi me ne caricò fin di soverchio: mi trattò d’Augusto a Cinna; e quando vide ben chiaro, che ne avevo ad esuberanza, distribuì il resto fra’ suoi compagni.
Quand’io mi vidi in mezzo a quella buona gente, di cui v’era alcuno che faceva i primi passi nella vita, mentre altri avevano già varcato i dodici lustri, mi venne in pensiero di risvegliare in essi le reminiscenze del brigandaggio. Un solo di essi era stato brigante, e contava alcuni anni di servizio sotto quel famoso Gasparone, che ho veduto di poi al bagno di Civita-Castellana. Ricordavasi a meraviglia del tempo in cui il cavalletto e la sferza di bue erano in permanenza sulla piazza di Sonnino; ed aveva veduto la porta San Pietro ornata di 18 teste d’uomini, e personalmente aveva conosciuto una mezza dozzina di quelle persone. Era presente allorchè Giuseppe De Santis morì per accidente, percuotendo il calcio del suo fucile contro la terra. Il colpo partì, ed egli ne fu ucciso. Il governatore gli fece recidere il capo e mettere cogli altri, ma indebitamente, poichè De Santis non era mai stato preso. Il mio narratore era con Gasparone, allorchè venne a staccare quella testa, a dispetto del governatore e del presidio, per dargli sepoltura. Ricordavasi di alcune altre imprese, ma parlava sì confusamente ed in un dialetto sì napolitano che, malgrado l’attenzione più fissa, io non poteva tenergli sempre dietro. Il più bel capitolo della sua epopea era la resistenza che aveva osato fare a Gasparone. Quel gran capitano l’aveva mandato a far acqua di notte ad una sorgente che doveva essere sorvegliata. «Rifiutai assolutamente, dissemi egli, asserendo d’aver risposto: «Mandami a portar via del vino [231] dalla cantina del governatore, a rapir un bue dai pascoli del Pellegrini, andrò, se di giorno; ma di notte, in quel sito, ho troppo paura d’un’imboscata. Ammazzami, se vuoi... E vedi mo’ signore, se avevo ragione! Colui che andò per comando di Gasparone invece mia ha potuto appena fuggire, con pericolo della vita, fra cinque o sei palle di fucile.»
Quest’eroe pieno di prudenza era caduto due o tre volte fra le mani de’ soldati, ma aveva sempre saputo persuader loro che accudiva onestamente a’ suoi affari. In somma, ei non era stato vero brigante di professione, poichè il suo mestiere era di custodire i buoi; ma egli aveva fatto come gli altri, finchè il brigandaggio era stato di moda nel paese.
E non è a dirsi che gli esempi severi gli fossero mancati, chè anzi nella sua giovinezza aveva assistito al supplizio di venticinque masnadieri, presi e fucilati dai Francesi. Il fatto era appunto accaduto all’ingresso del boschetto, dove ci eravamo ricoverati per la pioggia; ed i loro cadaveri erano stati gettati in una caverna profonda e tenebrosa a tre miglia da Sonnino.
Gli chiesi quali fossero le cagioni che avevano fatto cessare il brigandaggio. «Ciò avvenne perchè il mestiere non era più conveniente sotto il papa Leone XII. Appena preso un galantuomo, subito lo si decapitava, e non v’era più nemmeno il tempo di fuggir di prigione. Ecco come la moda ha cessato.» — Parlava di quell’epoca sanguinosa colla più bella tranquillità del mondo, senza rimorsi, senza orgoglio, senza passione, senza rancore; trattando in pari modo i gendarmi ed i briganti, il delitto e la legge; a quel modo che chi vede giuocare una partita a scacchi osserva i bianchi ed i neri, o come Macchiavelli contempla la lotta del bene e del male. I suoi compagni l’ascoltavano colla stessa imparzialità italiana.
Bramai sapere s’egli rimpiangesse le sue ricreazioni antiche. «Tu sei mandriano, gli dissi, e guadagni poco. Tu mangi del pane di melgone, non bevi vino tutte le domeniche. E non rimpiangi dunque il tempo in cui non avevi che a prendere?
— E davvero, risposemi, ebbi de’ bei momenti, ma ne ho patito di pessimi. Non eravamo sempre i padroni, ed invece d’inseguire, [232] si fuggiva. Del resto, non c’è da scegliere, poichè il brigandaggio non è più di moda.»
La conversazione era a questo punto, quando mi saltò in capo che i miei nuovi amici avrebbero avuto bel giuoco su me, se avessero amato il pittoresco al pari de’ padri loro. Spiegai loro il mio pensiero, per veder meglio come la pensassero. «Buona gente, dissi loro, se foste come gli antichi abitanti di Sonnino, già da qualche ora avreste frugato nelle mie tasche: siete dieci contro uno, ad un buon miglio dal villaggio. Dovete ben supporre che uno straniero, il quale venga fin qua, debba avere qualche scudo nella sua borsa. Vedete che sono inerme, mentre voi tutti quanti avete, oltre il bastone, un buon coltello affilato. Se gridassi ajuto, non sarei inteso; se movessi lamento, non potrei indicare i vostri nomi, che ignoro. Perchè non mi spogliate?»
L’antico soldato di Gasparone non si scandalizzò della mia dimanda, e mi rispose con semplicità: «Noi non faremo una cosa simile, poichè siamo galantuomini.
— Dunque non eri un galantuomo quando correvi la montagna con Gasparone?
— Sì, ero un galantuomo, ma faceva quello che tutti gli altri già facevano. Era usanza di que’ tempi. Ed anche allora, se tu fossi stato seduto presso di me, se m’avessi dato de’ sigari, se tu avessi mangiato con me sulla stessa pietra, io non t’avrei tolto un soldo. Però se tu avessi avuto del denaro in tasca, e se m’avessi donato un ritrattino del papa, l’avrei accettato per bere alla tua salute.»
Il temporale era svanito; il sole riapparve; l’ora delle corse si accostava. Già vedevamo tre cavalli escire dal villaggio ed avanzarsi di passo verso il nostro boschetto, dove si doveva dare il segnale della partenza. Intanto che i miei compagni giudicavano i corridori a distanza, e scommettevano pel bajo scuro, pel bianco, vidi da lungi un piccolo corteggio di circa dodici persone scendere da Sonnino per la porta San Giovanni, e procedere di passo verso la chiesa di Sant’Antonio. «Che è ciò? chiesi al vecchio mandriano. Si direbbe che portano qualche cosa.
— E di vero, rispose egli, portano a seppellire una donna morta oggi durante la processione.
[233]
— È impossibile!
— E perchè?
— E la legge permette di seppellire le persone quattr’ore dopo la morte?
— Eh! è forse proibito, ma tanto peggio. Da noi non si ha tempo a perdere, e quando le persone sono morte, si seppelliscono».
La defunta, appena fredda, entrava in chiesa nel momento in cui i tre cavalli arrivarono a noi. Io non sono grande conoscitore, e non ho mai appartenuto a società di corse; tuttavia mi fu facile il predire che la corsa sarebbe mediocre. I tre cavalli inscritti stavano per disputarsi senza jockey un premio di 10 scudi. Il morso e lo sprone erano surrogati da alcune palle di piombo armate di punte per istimolarli ne’ fianchi. Una ventina di mariuoletti gl’inseguirono ad alte grida ed a sassate: non era già una partenza, ma qualche cosa di simile ad una spinta in fuga. A mezza strada, le povere bestie, non sentendosi più inseguite, si misero al passo, nonostante che i proprietarj accorressero verso di loro per richiamarle al dovere. La folla ebbe un bel fare a stimolarne l’amor proprio con tutti i projettili che poteva aver fra mano, la corsa fu compiuta a piccolo trotto, e le tre povere bestie malgrado loro raggiunsero la meta.
Arrivai io stesso quasi nel medesimo tempo, quantunque non mi venissero gettati sassi, e vidi uno spettacolo ben curioso. L’autorità locale rifiutava di aggiudicare il premio, allegando che corsa viene da correre, e che i cavalli non erano corsi. Il proprietario del cavallo vincitore era abbastanza calmo, ed andava ripetendo ostinatamente: «Ho guadagnato, datemi dunque dieci scudi». Ma coloro che avevano scommesso per lui erano meno pacifici, accusavano il popolo di Sonnino, gridavano al ladro, a rammentavano con allusioni abbastanza vive la vecchia fama del paese. La cosa sarebbe andata più in là, nonostante l’intervento della gendarmeria, se il vino fosse stato meno caro.
Una compagnia di suonatori continuava a percorrere le strade, e non si fermò che alla sera. Aveva salutato l’aurora, annunciato la messa, accompagnato i canti della chiesa, seguito la processione, [234] aperto e chiuso le corse. Condusse poi il popolo ai fuochi d’artifizio, e non tacque se non coll’ultimo razzo. Era la prima volta che i giovani di Sonnino davano un concerto pubblico, ed è chiaro perciò che più ardente era il loro zelo, più caldo il loro fanatismo.
Terminata la festa, si accesero alcune centinaja di torcie, e ciascuno rientrò in casa. Maria Grazia non s’era coricata, e m’aspettava. «Eccomi, diss’ella, vedendomi a rientrare, vedete ch’io sono di parola. Vorrei raccontarvi la mia storia, benchè non contenga nulla di sorprendente: ma a che pro? Che ne farete? A che vi servirà il conoscerla?
— Maria Grazia, le risposi, quando conoscerò la vostra storia, la racconterò nel mio libro. Le persone della mia patria videro già il vostro ritratto; ora conosceranno il nome vostro.»
Un sorriso di compiacenza illuminò il suo vecchio viso. Sedette presso di me, sul mio baule da viaggio, ed a mezza voce mi raccontò la storia seguente:
«Sono nata a Sonnino, ne’ tempi del brigandaggio. Debbo avere ad un bel circa cinquant’anni; bisognerebbe chiederlo al curato. A quindici anni ho sposato il mio primo marito, bravo giovane, mandriano di professione, e che possedeva qualche cosuccia. Abbiamo avuto un figlio, che in progresso è morto. Mio marito ebbe qualche litigio per le prede insieme al padrino di mio figlio: non saprei dire se fossero olive o grani che ci avesse preso, ma era una bagattella, non v’è dubbio. Ed era meglio di perdonargli. Ma mio marito lo denunciò al governatore e lo fece mettere in prigione per un mese. L’altro minacciò vendetta. Io credeva che non avrebbe fatto nulla, attesochè era nostro compare e ci aveva sempre mostrato amicizia. Tuttavia mio marito credette bene di cambiar paese, ed andossene a custodire i buoi dalle parti di Roma. Ma anche l’altro vi si recò nell’anno appresso, ed avendo trovato mio marito che dormiva in un campo, lo uccise con un colpo di coltello.
«Allora feci conoscenza col mio secondo marito, ch’era nato nel regno (di Napoli), ma abitava a Terracina, dove mi condusse, e ci ponemmo a lavorare la terra.
[235]
«Non era gran tempo ch’io m’era rimaritata, quando mia sorella mi fece dimandar consiglio per isposare colui che mi aveva ucciso il primo marito.
«Le faceva la corte, ed essa lo trovava di suo genio. Le risposi che facesse ciò che le piaceva; che mio marito era morto, ed io non era una santa per risuscitarlo. Essa sposò quindi l’altro che, come vi dissi, non era un uom cattivo, e che per noi aveva avuto molta amicizia.
«Io aveva avuto due figli dal mio secondo marito, e viveva felice in sua compagnia, quando gli accadde un gran disastro. Egli reclamava due o tre scudi da un uomo pel quale aveva lavorato, ed il suo debitore rifiutava di pagare, atteso che era ricco e che conosceva il giudice. Allora mio marito, non potendo ottenere altra giustizia, l’uccise; quindi il poveretto, dopo quel colpo, non ebbe altro scampo che farsi brigante e correre la montagna. Capitò dalla banda di Sonnino e si mise cogli altri. Io ritornai presso i miei parenti, dove ricevevo spesso sue notizie. Ora ei veniva a trovarmi di nascosto; ora mi faceva pervenire qualche dono.
«Ma il papa Leone, che aveva risolto di sterminare i briganti, ordinò che le mogli ed i figli di coloro che correvano per le montagne fossero condotti per forza a Roma. Fui messa alle Terme insieme a molte altre donne de’ nostri paesi, e vi trovai mia sorella, il cui marito era pure alla montagna, e più della metà delle famiglie di Sonnino. Il papa era salito in tanta collera, che parlava di distruggere il villaggio. Si erano trasportati de’ cannoni fino sulle montagne che ci dominano, e non vi vedreste pietra sopra pietra, se il cardinale Consalvi non avesse intercesso per noi.
«Intanto che noi eravamo alle Terme, i signori e gli artisti venivano tutti i giorni, gli uni per vederci, gli altri per copiare i nostri costumi, e fu allora ch’io cominciai a servire di modello pel signor Schnetz, e mia sorella pel signor Robert. È mia sorella che fa da tamburino nel quadro della Madonnina dell’Arco. Io poi fui copiata ben migliaja di volte nel mio costume, e mi fu detto che il mio ritratto stava nelle chiese e nei palazzi del vostro paese. Eravamo trattati dolcemente, essendoci permesso [236] d’andare negli studj d’artisti ed anche di collocarci siccome governanti presso persone rispettabili.
«Ma mio marito, ch’era un brav’uomo, siccome vi dissi, e che mi amava assai, venne a sapere ch’io era stata arrestata; e, credendo ch’io fossi infelice in prigione, andò egli stesso a consegnarsi per ottenere la mia libertà e quella de’ figli. Ora il santo padre aveva promesso salva la vita e poco tempo di prigione per coloro che volontariamente facessero la loro sommissione tra le mani del vescovo della loro provincia.
«Ma il mio povero marito prese abbaglio per ignoranza: invece di consegnarsi al vescovo di Piperno, che era il nostro, andò a costituirsi prigioniero a Terracina. E così perdette il benefizio della legge, e gli fu detto: «Se tu fossi andato a consegnarti a Piperno, avresti ottenuto la grazia, poichè il papa l’aveva promesso; ma sei andato a Terracina, tanto peggio per te.» — Fu mandato alle galere del Porto d’Anzio.
«I signori ch’io conosceva a Roma ebbero pietà del mio dolore, e domandarono che mio marito fosse rinchiuso in sito più vicino a me, onde fu trasferito in Castel Sant’Angelo, da cui gli fu anche concesso di venire qualche volta a vedermi. Il poverello si diportava bene in carcere, imparava a leggere ed a scrivere, ed era un modello da imitare, onde gli fu permesso di lasciarsi copiare da’ pittori, e guadagnò un po’ di danaro. Sopravvennero alcune amnistie, la sua pena fu diminuita parecchie volte, a segno che in capo a due o tre anni non gli rimanevano più che 18 mesi di condanna. Eravamo contenti e pieni di speranza, e facevamo conto di costruire un piccolo albergo verso la porta Portese e di finirvi tranquillamente la nostra vita; quand’egli, che era sempre stato così savio in prigione, commise non so quale imprudenza. Mi pare che, in un momento di collera abbia proferito qualche villana parola contro i santi. E per tal colpa fu condannato in vita al bagno di Civitavecchia.
«Vi dissi già ch’egli era il più dolce ed il migliore degli uomini, ma questa volta fu preso dalla disperazione; chè, quando si è tanto vicini alla liberazione, non vi si può rinunciare per sempre. Egli quindi prese concerto con un compagno di pena; ed un giorno ch’erano stati mandati a far legna fuori della città [237] con un solo soldato per custodia, essi se ne sbarazzarono. Bisogna che la Madonna gli abbia assistiti miracolosamente in seguito, perchè abbiano potuto rompere i loro ferri, cambiar d’abiti, passare il Tevere senza saper nuotare, e pervenire a Sonnino, che è all’altra estremità del paese.
«Ivi si difesero per più d’un anno contro i soldati dello Stato (Pontificio) e contro quelli del regno (di Napoli), che da tutte parti gl’inseguivano. Il santo padre aveva messo a prezzo le teste, in ragione di cento scudi l’una. Credete che, se resistettero sì lungo tempo, fu miracolo del loro coraggio, pratica del paese, esperienza del mestiere, ed onestà de’ buoni pastori del vicinato, che preferivano denunciar loro i gendarmi anzichè guadagnare cento scudi.
«Ma da ultimo, un traditore scoprì la capanna dove s’erano ritirati a passare la notte, e furono accerchiati da soldati napoletani. Quando vollero uscire, era troppo tardi. Il compagno fu ucciso sul colpo, e mio marito ferito a morte, con una spalla fracassata.
«Sventuratamente per lui e per me, egli non morì subito, ma fu trasferito dapprima all’ospitale di Terracina, ed i soldati napolitani lo seguirono per reclamare la somma loro promessa. Ma interrogandolo s’accorsero che non era suddito del papa, ma del re. Fu dunque riconsegnato all’autorità napolitana, ed i soldati si mandarono a farsi pagare a casa loro, ond’essi s’indirizzarono al governatore di Gaeta, che mandolli al diavolo, attesochè il re non aveva promesso nulla. Così non furono pagati da nessuno, e sta bene!
«Quanto al mio povero marito, rimase 18 mesi nell’ospitale di Gaeta, senza decidersi nè a vivere nè a morire. Durante la sua malattia s’era fatto il suo processo, ed i giudici l’avevano condannato a morte, ma il carnefice aspettava ch’ei fosse guarito per tagliargli il capo. Perciò il poverino non aveva coraggio di guarire, ed avrebbe voluto rimaner malato fino al giudizio universale.
«Tutto ciò era ben affligente per me, tanto più ch’io vedeva mia sorella felice, e ch’io stessa aveva trovato un’occasione d’esserlo. Mio cognato, che aveva ucciso il mio primo marito, aveva [238] fatto pace colla giustizia, e, denunciando alcuni camerati, aveva ottenuto un posto di carceriere. Guadagnava discretamente, e Teresa non aveva a lamentarsi di lui. Io poi conosceva a Roma un cappellajo che mi amava e desiderava sposarmi. Ma non poteva prendere un terzo marito, finchè non fosse ben morto il secondo. Ora in questa trista condizione, non essendo, nè nubile, nè moglie, nè vedova, presi il partito di fare scrivere una petizione al re di Napoli, perchè facesse compiere la sentenza contro il mio povero marito tal qual era, senza attendere la sua guarigione. In pari tempo cominciai con mia sorella e col cappellajo una novena a s. Giovanni decollato. La mia petizione rimase senza risposta, ma la novena riuscì, poichè mio marito venne a morte, ben confessato, all’ospitale di Gaeta, ond’io sposai il cappellajo, ch’era anch’esso un degno uomo ed un marito esemplare. Ne ebbi un figlio che morì dragone nell’ospitale di Viterbo, mentre il padre morì a Roma, nella sua stanza, della morte de’ giusti. Anche mia sorella e mio cognato sono morti. Ho inteso dire che quel povero Robert si era ucciso per disperazione, in causa d’un quadro. Ed io sto bene, e vivrò lungo tempo, se piace a Dio, benchè faccia gran freddo a Sonnino, che ci vegga poco coll’occhio che mi resta, e che il vino sia a sette soldi il mezzo litro.»
Ci siamo congedati da Maria Grazia e dalla sua troppo celebre patria. Ora ecco il villaggio di Prossedi, che anch’esso vanta qualche gloria negli annali del delitto. Gasparone, il gran Gasparone non era di Sonnino, ma di Prossedi.
È un borgo di 1500 anime popolato di contadini che coltivano gli ulivi ed i gelsi, e seminano grano per loro consumazione.
Qui l’ignoranza è forse più grande che a Sonnino: non sono più di 15 i ragazzi che frequentano la scuola. È l’uno per cento della popolazione.
Il villaggio è costrutto di tal modo, che le carrozze non vi potrebbero penetrare. Il nostro albergo è situato fuori delle porte, dinanzi al castello dal principe Gabrielli, il quale è proprietario d’una buona parte delle case. La prigione della città è sua, ed il suo ministro, ossia intendente, ha due carrozze.
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Il comandante di piazza è un brigadiere di gendarmeria.
Gli abitanti in mancanza di carrozze posseggono una grande quantità d’asini e di muli, chè molti di vero ne occorrono per trasportare nelle montagne tutte le cose necessarie alla vita.
Le donne sono belle e vezzose, vanno a piedi nudi, e portano enormi fardelli sul capo, siccome le donne di Sonnino. Il villaggio è tristo e lurido, e quasi tutte le case avrebbero bisogno d’essere riparate, ma non lo si fa a cagione della spesa. In compenso non v’è quasi nessuno degli abitanti, che non abbia fatto scrivere sulla porta: «Viva Gesù! Viva Maria! Viva il sangue di Gesù! Viva il cuore di Maria!» Cotesto allagamento d’iscrizioni è frutto d’una missione quinquennale, che fu fatta nel mese di marzo. Il pittore del villaggio vi fece fortuna, poichè ogni iscrizione in grandi caratteri gli venne pagata 25 paoli, ossia franchi 13,40.
Tutti questi villaggi si rassomigliano, onde chi ne ha veduto uno può dire d’averli veduti tutti, e sarebbe opera perduta il descriverli ad uno ad uno.
Alla mattina gli uomini vanno nei campi, le donne vanno a prender acqua e legna. Nell’ore più calde, la piccola città è deserta e come morta. Verso sera, quando il vento si rinfresca, gl’impiegati escono dai loro ufficj e vanno a sedere dinanzi al caffè. Se v’ha prelato in alcuno di questi villaggi, esso comincia il suo passeggio in calze color viola, accompagnato da due famigliari laici od ecclesiastici e seguito da un suo lacchè in gran livrea. Al cader del giorno, i mercanti di verdure dispiegano la loro merce sulla piazza, i contadini rientrano nel villaggio, carichi de’ loro pesanti arnesi, e comprano qualche grama provvista per la cena. Le donne ritornano dalla fontana colla conca piena d’acqua fresca: quindi si cena e si dorme. Qualche volta parte della notte viene spesa nel sentire una predica in una chiesa ornata di bagattelle. La fatica del corpo, la sonnolenza dello spirito, l’ignoranza del passato, le difficoltà del presente, l’incertezza dell’avvenire ed una certa sonnifera rassegnazione formano il tessuto della vita di queste povere popolazioni. Una noja glaciale svapora da quelle mura: vi si lavora, si mangia, si beve, si procrea, e tutto malinconicamente.
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Se Roma venisse inghiottita da un terremoto, i contadini di questi villaggi continuerebbero a coltivare i loro campi, a consumare le loro raccolte sul posto ed a vegetare in una miseria abbastanza coraggiosa. Ogni piccolo municipio vive da sè e per sè sopra un suolo che non è sterile. Le contribuzioni comunali pagano il medico comunale, il chirurgo comunale, l’institutore comunale e la riparazione comunque siasi della strada comunale. Lo Stato preleva una grossa parte sui redditi d’ogni anno. In cambio dell’imposta, esso manda un giudice governatore che vende la giustizia. L’agricoltura è la sola carriera aperta all’attività dell’uomo: non v’è nè commercio, nè industria, nè affari, nè movimento nelle idee, nè vita politica, nè alcuno di que’ potenti legami che attaccano le provincie alle capitali.
Di tutti gli animali utili, la donna è quello che il contadino romano impiega con maggior profitto. Essa fa il pane, la pizza, il mortajo; fila, tesse, cuce; va ogni giorno a cercare le legna a tre miglia, ed il pane ad un miglio e mezzo. Essa porta sulla sua testa il carico d’un mulo; lavora dal sorgere al cader del sole, senza ribellarsi ed anche senza mover lamento. I figli ch’essa mette in luce in gran numero e che nodrisce essa medesima, sono una fonte preziosa, chè dall’età de’ quattro anni vengono adoperati a custodire altri animali.
Io m’informo in ogni dove del progresso de’ lumi. «Quante persone sono quivi che sanno leggere? — Pochissime.» — La risposta è uniforme. — Istruzione primaria.
Quando un albero ha bisogno d’esser tagliato, se ne taglia la testa a mezzo. Un tratto di sega in linea orizzontale ha ben tosto compito l’opera. Quando si ha bisogno dell’albero intero, lo si sega ad un piede dal suolo: la radice ed il resto del tronco imputridiscono sul posto. — Istruzione professionale.
Le imposte comunali sul vino, sulla carne, sui salumi, ecc., sono affittate ad impresarj che ne ritraggono ciò che possono e vendono qualche cosa alla comune. — Scienza amministrativa.
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Le tasse comunali sono assai gravi ed il contadino si lamenta d’esserne oppresso. Nei più modesti villaggi bisogna pagare un soldo di dazio consumo per 339 grammi di carne o di salumi; da 15 a 30 soldi pel più piccolo barile d’aceto; un tanto per ogni testa di cavallo, di mulo o d’asino, un tanto per ogni majale che si fa crescere in casa. Il focatico si paga da due a cinque scudi: quest’ultima imposta, a quanto ho potuto giudicare, è progressiva.
Eppure non si può dire che questa brava gente sia miserabile siccome gl’Irlandesi, per esempio: basti il dire che sono poveri. L’avere gratis il culto, la scuola, le cure mediche, compensa fino a certo segno l’enormità de’ loro pesi.
Il loro lavoro sui proprj campi basta a farli vegetare fino alla vecchiaja, onde passano la vita nel guadagnarsi la vita, e la loro esistenza somiglia ad un cerchio vizioso.
Si potrebbe forse essere ben attoniti, sentendo che havvi qualche villaggio di 2000 anime che possiede una trentina di preti, se non si sapesse in pari tempo che quei preti non gli costano nulla. Posseggono de’ benefizj, delle dotazioni, delle terre, grazie alla liberalità di qualche signore del buon tempo. I loro beni sono affittati, ed essi vivono d’entrata.
Bisogna dunque convenire, che cotesta moltitudine d’ecclesiastici, che sarebbe onerosa ad ogni altra nazione, costa relativamente ben poca cosa al popolo romano. Un cardinale, a cagion d’esempio, non percepisce che 4000 scudi sull’entrate dello Stato; ed il resto delle sue rendite si compone di alcuni grossi benefizj e soprattutto delle cariche ch’egli occupa. L’accumulazione è autorizzata, e se ne fa largo uso.
In causa della mal’aria e della poca sicurezza della pianura, furono i contadini di queste terre costretti a porre le loro abitazioni sopra rupi aeree e poco accessibili. Questa usanza è antichissima, poichè buon numero di cittadelle dove noi ci fermammo sono ancora cinte di mura ciclopiche. Quando la popolazione diminuisce, si lascia cadere in ruina qualche casa; quando cresce, le persone si racchiudono in maggior numero nelle case esistenti. [242] Si fabbrica ben poco, per mancanza di capitali: si ristaura di rado, ed all’ultima estremità. Tutte queste città hanno l’apparenza d’essere state costrutte nello stesso giorno, e fatte d’un solo pezzo. Il contadino si accovaccia nel meschino suo tugurio, tenendo poco conto delle distanze, della ripidezza de’ sentieri, e soprattutto dell’incomodità delle case. La vita si passa nei campi.
Per questi lavoratori che sudano da mattina a sera sotto un sole ardente, sopra un suolo riarso, in strade guaste, l’uomo che rimane in casa senza far nulla, e non esce nemmeno in strada per passeggiare, è un uomo felice, privilegiato, nobile per eccellenza e prossimo parente degli Dei immortali.
Io stava sulla piazza del Palazzo, alla porta di Prossedi, e faceva conversazione con un giovane indigeno. Questi mostravami a qualche distanza un uomo ben vestito, che veniva costretto da cinque o sei persone a salire in carrozza. Era una persona distinta della città, che, avendo smarrito la ragione, veniva condotta all’ospitale di Perugia. «Ecco, dicevami quel giovane, un uomo che ha passato tutta la sua vita in casa sua, siccome un principe; non lo si vedeva fuori più di quattro volte l’anno. Ed ora viaggia sulle pubbliche strade siccome un semplice contadino.»
Pagliano conta 4250 abitanti, 50 uomini di presidio, 30 carcerieri, 250 detenuti politici, i quali l’anno scorso fecero un tentativo di evasione. Sei furono uccisi a colpi di fucile, dai tetti; altri sei saranno assoggettati a giudizio, e potranno essere condannati a morte in virtù d’un vecchio decreto del cardinal Lante, che venne or ora rimesso in vigore.
Lo stato delle strade è sì miserabile in queste montagne, e sì grande la difficoltà de’ trasporti, che non si è stabilito alcun equilibrio nel prezzo delle derrate. La libbra di pane costa due soldi qui, e due soldi e mezzo a quattro leghe più lontano. Il trasporto per queste quattro leghe val dunque mezzo soldo alla libbra. Il vino costa sette soldi la foglietta (mezzo litro) [243] a Sonnino, e due soldi e mezzo a Pagliano, dove è buono; mentre a Sonnino è cattivo. Costa dunque quattro soldi e mezzo per trasportare a 10 leghe un mezzo litro di liquido.
Jeri, mentre facevamo la siesta a Pagliano, udimmo le campane suonar per temporale, ed era il quarto che incontravamo dopo la domenica. Però questa volta ne uscimmo a buon patto; poichè caddero poche goccie di pioggia sulla fortezza, il tuono romoreggiò da lontano, e noi potemmo rimetterci in viaggio per Olevano.
Questa mane, andando da Olevano a Palestrina, abbiamo veduto le traccie d’un turbine spaventoso. I ruscelli gonfiati dalla poggia avevano invaso i campi vicini; alcune aje erano cadute sulla via con enormi frane di terra. Ma questi guasti non erano nulla; la gragnuola aveva fatto peggio: ecco noci flagellate da spesse ammaccature, i germi delle viti spezzati, le foglie degli alberi gettate a terra. Tutto che era tenero e verde, tutto che dava promessa o speranza, era perito.
Ci siamo fermati all’albergo di Palestrina. Vedevasi una chiesetta, dall’altra parte della strada, tutta inondata. Nei villaggio tutti i vetri infranti, ed i contadini ci si fanno intorno per descriverci la grossezza della gragnuola ed i guasti del turbine. Direbbesi che il loro dolore ha bisogno di espandersi; nè si trastullano punto col darci dell’Eccellenza sotto il naso, ma ci danno del tu, e ci chiamano fratelli.
È cosa volgare il descrivere la miseria del contadino che vede perire in un istante il frutto di tutte le sue fatiche d’un anno. Quando si trova questa narrazione in un libro, si è quasi tentati di gridare contro l’autore: dateci qualche cosa di nuovo, per amor di Dio! D’altronde noi siamo tanto abituati a veder l’uomo crearsi mille fonti diverse, senza contare l’agricoltura, che non sappiamo come mai qualche branco di gragnuola sopra un campo possa rovinare una famiglia intera. Ma quando si è vissuto per alcuni giorni in mezzo a questi contadini, quando si sono veduti partire innanzi l’alba per lavorare il loro pezzo di terra, quando ci è noto che non hanno altro avere al mondo, e che tutto il loro avere è là, esposto al freddo ed al caldo; e [244] da ultimo, quando si tocca col dito la distruzione della loro messe, quando si veggono i loro visi pallidi e bagnati di lagrime veraci, si scorge che questa descrizione volgare è interessante al pari del dramma più nuovo. Dimandai ad uno di quei desolati, se gli ulivi della montagna avessero sofferto quanto i campi di pianura? Alzò le spalle e rispose: «E che sono gli ulivi? E che è mai la vite? Trattasi delle nostre granaglie, che sono perdute. Quando non c’è olio, se ne fa senza; quando manca il vino, si beve acqua; ma quando il grano perisce, non v’è pane, non vi sono più uomini!»
Mi sono forse un po’ troppo dilungato sopra un viaggietto oscuro, in cui non ebbi la fortuna nè d’incontrar belle dame, nè avventure romanzesche. Contadini, e sempre contadini! Ma il nostro diletto Alfredo Musset, in uno de’ suoi più graziosi capolavori, si è dato la premura di prepararmi una scusa in rima:
Ces pauvres paysans, perdonne-moi, lecteur,
Ces pauvres paysans, je les ai sur le coeur.
I viaggiatori più eleganti nol conoscono che di vista. Se mai avete percorso l’Italia in legno di posta, vi sarà forse occorso di vedere qualche vecchia carrozza polverosa, che non è nè fiacre nè cabriolet, ma ha qualche cosa dell’uno e dell’altro, ricolma d’esseri umani, sopraccarica di valigie e di pacchi. Se mai v’imbatteste a vederla su strada disagiata, avrete avuto campo ad osservare un omiciatto in berretto e paletot trottante, colla frusta alla mano, alla destra de’ cavalli e dicente loro parole consolanti. [245] Questo conduttore borghese è il vetturale, provvidenza ambulante della classe media e degli stranieri poveri. Tutti gli artisti dal borsellino leggiero passarono qualche giornata con lui e conservarono buona memoria della sua compiacenza.
In questo regno, dove il popolo è povero, e l’attività umana è alquanto assopita, si viaggia di rado, lentamente ed a piccole giornate. La classe media non si trasmuta, ma vegeta in quel cantuccio dove il caso l’ha fatta nascere. Pensate che è impossibile l’uscir da Roma senza passaporto, e che i passaporti non si danno che alle persone ben affette, costano cari assai e non servono che per un viaggio. Così un abitante di Terracina, che fosse costretto a passare cento volte all’anno la frontiera napolitana, dovrebbe pagare cento volte uno scudo sia all’ingresso che all’uscita. Aggiungete che non si può traversare una piccola città, senza sopportar le noje della vidimazione del passaporto, e senza pagar tributo alla mendicità d’un impiegato. Anche il più smanioso viaggiatore avrebbe di che scoraggirsi.
Allorchè un modesto borghese di Roma è assolutamente costretto a mettersi in viaggio, tratta col vetturale: cosa grave, poichè si discute sulla durata del viaggio, sul numero dei pasti, sul caffè e latte del mattino, sul prezzo del trasporto, e sulla mancia.
Il vetturale s’impegna d’arrivare a tal sito, in tanti giorni e per tal via, a prendere quanti buoi e cavalli possano occorrere di rinforzo, a pagare il passaggio de’ ponti e le barriere che attraversano la strada, ad alloggiare il suo viaggiatore nei migliori alberghi, ed a somministrargli un dato numero di pasti. Tutti questi patti sono descritti in carta, se ne stende un contratto in doppio esemplare, firmato dalle due parti contraenti.
I prezzi del vetturale sono d’una moderazione favolosa; e, se la memoria non mi tradisce, un viaggiatore può essere trasportato, nodrito, alloggiato, servito per una somma di circa sette franchi al giorno. Ma si va molto più lentamente che non sulle strade ferrate, e bisogna adattarvisi. I giorni discreti sono quelli da dodici leghe di viaggio.
Il primo viaggiatore che trattò col vetturale è il padrone del legno, ed ha voce preponderante nelle dispute che insorgono [246] strada facendo. Debbo però dire che le dispute sono rarissime, essendo che il vetturale ed il suo servo sono armati d’una compiacenza inalterabile, ed ho sempre dovuto ammirare la cortesia degli Italiani che viaggiavano con noi. Era simpatia pei Francesi? Era semplicemente l’effetto di quel vecchio pregiudizio romano, che vede in tutti gli stranieri altrettanti signori? Propendo per la prima ipotesi. Lo stesso vetturale agiva con noi meno famigliarmente che non co’ suoi compatriotti, e credetti vedere che negli alberghi avevasi per noi una cura particolare. Eppure gli albergatori sanno, meglio che ogni altro, che i viaggiatori del vetturale non sono propriamente signori.
In questo modo ho viaggiato da Roma a Bologna. Eravamo, al momento della partenza, cinque Francesi ed un giovane avvocato romano. Quattro nella carrozza, e due sull’imperiale: questi, ogni volta che si sentivano oppressi dal caldo, dimandavano di cambiar posto.
Cotesti miei compagni erano un giovane dilettante di viaggi dotato di molto spirito, il signor Dugué De la Fauconnerie, un pittore dell’accademia di Roma di nome Giacometti, due altri artisti, Pradier figlio dell’illustre statuario, e Giulio David nipote del gran pittore, e cugino germano del mio buon amico barone Gerolamo David. Non mi ricordo il nome del giovane avvocato, ma era un uomo dolce e benevolo. Mancava forse di quel non so che, che fra noi è il distintivo delle persone ben educate. Però noi eravamo quasi dispettosi di vedere che il vetturale lo trattava quasi in tuono di perfetta eguaglianza. Noi eravamo d’un paese, dove la distanza è enorme fra un conduttore di diligenze ed un dottore in legge.
Non conosco nulla di più desiderabile nè di più dilettevole che la buona compagnia. Però quando viaggerete collo scopo d’istruirvi, io vi consiglio d’andar solo. Dall’ora in cui il vetturale venne a prenderci facendo risuonare i campanelli de’ suoi tre cavalli, fino alla città di Foligno, dove io dissi addio a’ miei amici, osservai ben poche cose. Lo confesso a mia vergogna, ma non senza certo piacere retrospettivo, la conversazione non fu altro che un continuo scoppio di risa.
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La campagna triste e desolata intorno a Roma cangiò di faccia a misura che ci allontanavamo dalla città. È un fatto da me già notato varie volte sui miei ricordi, che Roma è forse la sola grande città senza distretto, la sola che sia circondata d’una zona incolta. Bisogna escirne e viaggiare molto tempo prima di trovare le strade ben conservate, la circolazione romorosa, la coltura attiva e prospera. Quanto più si allontana dalla capitale, tanto più si trova il paese vivo ed il popolo felice. Concludo da questo fenomeno unico nel suo genere, che Roma sarà forse un giorno la capitale d’Italia, ma che al giorno d’oggi non è la capitale degli Stati romani.
A Civita-Castellana, il vetturale vende i suoi cavalli, avendo trovato occasione di fare un buon mercato, ed ei non è uomo da trascurare i suoi affari. «Ma e di noi che sarà? — Eh! che! risponde egli con un sorriso filosofico. La Madonna non ci lascerà in istrada.»
Fatto sta che la mattina seguente la carrozza era pronta tirata da tre ronzini, così deformi, arditi e strepitanti, quanto i primi.
Ecco l’ordine e la marcia invariabile del vetturale. Al primo albore egli sveglia i suoi viaggiatori e fa caricare i bagagli. Un caffè s’apre a dieci passi dall’albergo, ed il vetturale ci conduce colà e ci fa apprestare la prima colazione. Si comincia a trottare verso l’ora fresca, e si continua fin verso le dieci ore del mattino. Allora è il momento della fermata, e si depongono i bagagli pel caso in cui qualche viaggiatore avesse il capriccio di cambiar abiti. Ci viene servito un pranzo modesto, ma solido, condito con un po’ di vino del paese. Quindi si fa una corsa a visitare il paese, mentre i più pigri hanno diritto di chiedere una camera e di fare la siesta. Fra le due e le tre ore si risale in vettura e si trotta, sempre piano piano, fino alle sei: allora i bagagli sono di nuovo scaricati, i cavalli vanno nella scuderia, ed i viaggiatori passeggiano fino all’ora della cena. Tutto ciò è sì ben regolato, si ben convenuto, che cinque o sei vetturali possono viaggiare di conserva senza mai perdersi di vista. Il nostro giovane avvocato raccontò la storia d’uno de’ suoi amici [248] che si ammogliò da un vetturale all’altro. Egli osservò nel primo giorno di viaggio una bella fanciulla, che co’ suoi parenti andava a raccogliere una modesta eredità; la riconobbe il giorno appresso, le sorrise il dì seguente, nel quarto giorno le parlò, nel quinto la chiese in matrimonio, e l’ottenne in capo alla settimana, grazie ad una bottiglia di Montepulciano, che il padre aveva imprudentemente accettato.
Non dipenderebbe che da noi il giuocare al medesimo giuoco, poichè ecco un vetturale che ci segue passo a passo, come per raccogliere la nostra polve. Cinque figlie da marito! ed abbastanza belle, in fede mia. Ed il naso rubicondo del loro signor padre attesta, ch’ei non avrebbe a schifo il vino di Montepulciano. Ma nessuno di noi pensa al matrimonio[6].
È nel bagno di Civita-Castellana che il famigerato Gasparone espia dolcemente i suoi delitti. Ero debitore d’una visita a quel grand’uomo, ed ora gliel’ho fatta. Si può dire letteralmente ch’ei regna in quel bagno di terra ferma, poichè 13 o 14 antichi banditi gli compongono una corte, ed il governo gli assegnò una lista civile di 5 soldi al giorno per le spese di rappresentanza; mentre gli stranieri che vengono a vederlo gli pagano tributo.
Questo monarca in vita mi ricevette in una cameraccia che gli serve di sala del trono; fece tre passi incontro a me, e mi stese la mano con un sorriso di protezione. Le persone della sua corte ed alcuni gendarmi fecero cerchio intorno a noi.
Gasparone è un vecchio grande, d’una bellezza notevole, d’alta e nobile statura, e lineamenti maschi e regolari, di guardatura sfavillante. Porta una lunga barba bianca, e reca in viso una miriade di macchiette azzurrognole segni della esplosione d’un fucile carico a polvere. Indossa un abito di panno grossolano, costume di contadino agiato; e fu dispensato dal portare la livrea de’ forzati, così pure dalla costoro compagnia. Vive solo, circondato da suoi antichi compagni, e distratto dalla noja per mezzo delle frequenti visite degli stranieri.
Delle native montagne egli non ha conservato che l’accento e [249] la calzatura. Mi fece vedere i suoi sandali attaccati alla gamba con funicelle di cuojo, e mi disse con una modestia alquanto orgogliosa: «Perdonatemi se non parlo il romano; io sono nato ciocciaro e così morrò.» Cotesto titolo di ciocciaro, ossia portatore di cioccie (sandali) è adoperato in Roma siccome termine di sprezzo. Il cardinal principe Altieri nel calore di una disputa contro il secretario di Stato, non s’astenne dal lanciargli in faccia l’epiteto di ciocciaro. È positivo che il cardinal Antonelli, al pari di tutti i figli di Sezza, di Prossedi e di Sonnino, ha portato le cioccie in sua giovinezza.
Gasparone mi domandò se io ero romano? Era evidentemente un complimento sul modo con cui io parlavo italiano. Lo ringraziai, dicendogli ch’ero francese. «Or bene! ripigliò egli sorridendo, conducetemi con voi in Francia.»
M’ingegnai di persuaderlo, che un uomo della sua condizione non troverebbe ad occuparsi in un paese come la Francia. I gendarmi che ci ascoltavano alzarono le spalle in segno d’incredulità, quando dissi che il brigandaggio era impossibile da noi.
E di vero il brigandaggio, sì bene sradicato nelle montagne di Sonnino, era allora floridissimo nelle Marche e nelle Romagne. Si parlava d’un possidente assediato in sua casa alle porte stesse di Rimini.
Si narrava la storia d’una prigione evasa in massa, detenuti e carcerieri, per mettere a contribuzione la campagna.
Gasparone non manca di certa bonomia; però mi parve alquanto sostenuto e preoccupato dell’idea di sostenere il suo grado. Egli stava in piedi, e noi pure. Mi ricorse involontariamente al pensiero la memoria di quel principe romano, che diceva nella sua altiera boria: «Non mi sono mai seduto dinanzi a persona del ceto medio, poichè avrei forse dovuto farla sedere a me vicino.» Però allorquando parlai di Sonnino, di Maria Grazia, e delle montagne che avevo visitato, il vecchio brigante se ne compiacque e cedette al piacere di parlare. Raccontò varj episodj della sua vita attiva e specialmente l’ultimo, ch’egli ha sempre in cuore. Protestò contro l’illegalità della sua prigionia. «Poichè al fine, diss’egli, i gendarmi non mi hanno preso, ed io non mi sono arreso; fui preso a tradimento. Avevo accettato [250] un abboccamento per trattare col governo, e si è violato il diritto delle genti coll’impadronirsi della mia persona.»
I gendarmi l’ascoltavano con rispettosa ammirazione, ed uno d’essi gli disse: «E di che ti lamenti? Tu hai fatto la guerra, e noi non la faremo mai: tu non mancasti di nulla, e noi manchiamo di tutto. Tu sei stato capitano, ed io, che ti custodisco, non sarò probabilmente nemmeno sergente, poichè non ho nè moglie nè figlia che sollecitino pel mio avanzamento!»
Dopo una buona mezz’ora di conversazione, presi commiato. Gasparone voleva assolutamente che portassi meco una sua memoria, onde mi offrì la lista manoscritta de’ suoi omicidj, in numero di 197, se non m’inganna la memoria. Aggiunse che gl’Inglesi non mancavano mai di prenderla.
Che strana bestia è l’uomo! Questa lista mi fece orrore, e rifiutai di prenderla. Avevo stretto senza ribrezzo la mano che aveva commesso tanti delitti, ed ora il foglio di carta su cui erano descritti m’inspirava orrore! Dissi addio al grand’uomo, che ne aveva ammazzati tanti piccoli, e gli diedi una mancia, ch’egli accettò siccome farebbe un semplice capo d’ufficio.
Il suo onorario era già di dieci soldi; ma da qualche anno fu ridotto a cinque. È un lagno che non dimentica mai in conversazione.
L’albergo di Civita-Castellana è il tipo de’ grandi alberghi italiani, siccome si trovano nei romanzi. Balconi, terrazze, fiori del mezzodì, grandi corse aperte alle sedie di posta, nulla vi manca. È però debito di verità il dire che Civita-Castellana trovasi sulla classica strada di Firenze a Roma.
Ciò che mi urta al massimo grado è la mendicità importuna e continua, che ci perseguita. Negli alberghi più agiati il cameriere stende la mano, il facchino che vi porta il baule stende la mano, il garzone di scuderia stende la mano, e qualche volta lo stesso albergatore ci fa l’onore di dimandarci l’elemosina. Lungo il cammino, allorquando il vetturale prende de’ buoi o de’ cavalli di rinforzo, l’uomo che gli ha noleggiati, e che riceve il suo salario, ci tira per la manica e ci sveglia, al bisogno, per [251] una comunicazione importante. Che vuol egli? Una piccola moneta per comprar del pane. Se il pane fosse raro o caro, questa importunità sarebbe forse scusabile; ma la messe è magnifica, come ne convengono gli stessi coltivatori, allorchè si staccano dal loro lavoro per venire a stenderci la mano. È chiaro che quelle persone non hanno bisogno de’ pochi soldi che ci dimandano, ma vanno mendicando per principio, per onor del governo e del paese.
Quanto si può esser fieri d’esser Francesi! Eppure debbo confessare che la mendicità è ancora più arrogante e più inescusabile a Parigi. Un cocchiere romano, a cui non si dia nulla di mancia, s’accontenta di maledirvi nel secreto dell’animo suo; mentre un cocchiere di Parigi v’ingiuria e talora fa peggio. Abbiamo sui boulvard di Parigi qualche caffè, che in capo ad un anno raccoglie più di cento mila franchi in elemosine. I domestici di quello stabilimento, che non hanno altro salario, suddividono questa enorme somma col proprietario, che è stupidamente ricco, e si veggono delle locazioni di 60,000 franchi pagate coll’elemosina forzata de’ poveri consumatori.
A Narni, il vetturale ci vende ad uno de’ suoi confratelli, che s’incarica di trasportarci alle medesime condizioni fino al termine del nostro viaggio.
Le cascate di Terni sono fatte di mano dell’uomo, non meno che quelle di Tivoli; e così l’arte diede mano alla natura. Fu sviato un fiume dal suo letto per precipitarlo giù dalle rupi.
Quivi i contadini industriosi hanno costrutto cento diverse chiuse ne’ dintorni della cascata, e ciascun d’essi preleva una tassa sulla curiosità de’ viaggiatori.
A Foligno dissi addio a miei amabili compagni, i quali si diressero verso Perugia, che non era ancora stata saccheggiata dalle bande mercenarie tedesche del colonnello Schmidt. Ho fatto la salita degli Appennini per una strada nuda e triste assai; ora eccomi sul pendio dell’Adriatico, nelle provincie meno soggette al dominio pontificio. Serravallo, Tolentino, Macerata, Recanati, prime città e primi villaggi della marca d’Ancona, hanno una fisonomia affatto nuova. Siamo ben lungi da Roma e dalla sua desolata campagna! Qui le vie ampie e ben conservate sono [252] coperte di pedoni e di carrozze, e fiancheggiate da fertili campagne. Non ho veduto le pianure di Lombardia, ma dubito che possano essere meglio coltivate di quest’ammirabil paese. La proprietà è suddivisa, e la popolazione non va più timidamente a rannicchiarsi entro i villaggi, che da tutte le parti si veggono abitazioni rurali in buono stato.
Vi ho spiegato come la coltura non fosse altro che un accidente passaggiero nella campagna di Roma. Si traggono de’ buoi e degli aratri sopra un prato, poscia si ara, si semina, si sarchia, si miete in fretta, quindi la terra rientra nel suo riposo per un periodo di ben sette anni. Qui per lo contrario la coltura è lo stato normale della terra, essendo essa piantata d’alberi e lavorata, zappata ed ingrassata. Ho visto spesso nella medesima pertica di terreno un cumulo di foglie di gelso, una vendemmia appesa a’ tronchi d’alberi, ed una messe color d’oro ai loro piedi. La vite si marita all’olmo, al salice ed al pioppo. Le foglie dell’olmo sono un eccellente foraggio pei buoi, che le mangiano verdi.
Quasi quasi mi dimenticavo che eravamo nello Stato pontificio, ma ecco la santa città di Loreto, che mi richiama alla realtà.
Loreto, che ha dato il suo nome ad una delle classi più floride della popolazione parigina, è una città di 5,470 anime; deve la sua esistenza ad una serie di miracoli troppo noti, perchè sia necessario di qui raccontarli. Nessun cattolico può ignorare, che la casa della Santa Vergine Maria, lunga metri 10,60, larga 4,36, ed alta 6, fu trasportata da Nazaret tra le braccia degli angeli nella notte del 12 maggio 1291. Fece una prima fermata in Dalmazia, dove soggiornò circa tre anni e mezzo. Il 9 dicembre 1294, essa attraversò l’Adriatico e venne a cercare in Italia un posto adattato. Errò per qualche tempo nelle selve vicine a Loreto, e fermossi definitivamente a tre chilometri dal mare.
La Santa Casa non ha che le quattro mura, poichè gli angeli lasciarono in Palestina il pavimento e le fondamenta; ma trasportarono i vasi di terra, in cui la Vergine Maria preparava gli alimenti pel suo divin figliuolo.
Nulla di più povero di questa casa, costrutta con pietruzze rossastre, come se ne trovan molte nel paese; e nulla di più [253] ricco e magnifico degli ornamenti onde fu abbellita. Il contrasto è pur sì grande tra l’umile capanna ed il tempio che la racchiude, quanto tra l’apostolo Pietro e papa Leone X. Essa è sì poco riconoscibile sotto i suoi rivestimenti di marmo, quanto la morale evangelica sotto la poesia del cardinal Bembo.
Questa casa miracolosa è proprietaria della città di Loreto e di tutto l’orizzonte che la circonda. Possiede 400,000 franchi di reddito in beni immobili, senza tener conto del reddito eventuale, che è enorme. Giudicatene dalla vendita delle corone e d’altri oggetti di divozione, che fruttano agli abitanti di Loreto un beneficio di circa 500,000 franchi all’anno. Questo commercio non giova se non indirettamente alla Santa Casa, ma diventa fonte di migliaja di offerte. Così, ho veduto una signora di Dublino occuparsi per un lungo quarto d’ora nel far benedire mille coserelle: anelli, medaglie, corone e campanelli contro il fulmine. Un sacerdote, di cui ho ammirato la pazienza, ha segnato per lei una ventina d’imagini, ne ha suggellato venti altre, aggiungendo a ciascuna un pezzetto di velo nero; ha santificato parecchi giojelli facendoli passare nella scodella entro cui mangiava il bambino Gesù: dopo di che, la buona signora depose un’offerta, che pareggiava almeno il valore di tutte quelle compre.
Non parlo delle offerte più preziose, che vengono inviate da principi e da grandi della religione cattolica. Sonvene di ridicole, siccome i calzoni del re di Sassonia; e di magnifiche, ond’è che il tesoro della Santa Casa ha riparato le spogliazioni del 1797.
La statua della Vergine, scolpita dall’inimitabile S. Luca, è letteralmente coperta di pietre preziose. Quella figurina di legno nero, che per qualche tempo fece soggiorno nel gabinetto delle medaglie della Biblioteca imperiale, possiede uno scrigno più ricco di quello di qualsivoglia principessa d’Europa.
Il cicerone che mi condusse è nel medesimo tempo garzone d’albergo e sacristano della Santa Casa; del resto non poco incredulo, e preoccupato soprattutto di statistica e di finanze. Mi assicura, che la Santa Casa è circondata di 120 altari, dove 120 sacerdoti celebrano ogni giorno la messa. Mi fa osservare i confessionali, [254] dove de’ penitenzieri di tutte le lingue sentono la confessione di delitti speciali, che un semplice sacerdote non potrebbe assolvere. «Tutto ciò, diss’egli prosaicamente, frutta molto danaro. Noi siamo qui più di 300 impiegati, che riceviamo ciascuno due litri di vino e due libbre di pane al giorno. Le nostre finanze vennero scompigliate recentemente da Monsignor Narducci, che lasciava in cassa un defecit di 300,000 franchi. Per la qual causa fu rivocato.
— E che si fece di lui?
— Fu nominato amministratore dell’ospizio dello Spirito Santo, a Roma, senza dubbio perchè lo Spirito Santo è più ricco e più difficile a ruinarsi.»
I viaggiatori ch’entrano nella chiesa dove è racchiusa la Santa Casa, scorgono sulla dritta un collegio de’ Padri Gesuiti, a sinistra il palazzo Apostolico dove risiede il successore di Mons. Narducci. È un palazzo discretamente conservato, dove si veggono troppe donne in bianco soprabbito di mattina, e sono senza dubbio le mogli degl’impiegati subalterni. Per lo contrario bisogna confessare che il collegio de’ Gesuiti, visto dall’esterno, imprime negli animi anche più insensibili una specie di rispetto. Ha un aspetto severo e bene ordinato, che impone.
Ne’ sotterranei del palazzo Apostolico si ammira una bella farmacia, di cui tutto il vasellame è in vera majolica di Faenza, eseguita sui disegni de’ più grandi maestri.
Ho passato tutto il giorno nella chiesa, la quale è un vero museo, e vi sarei stato veramente felice, se non fossevi stata l’importunità de’ cani, de’ mendicanti, de’ ciceroni e di alcune vecchie, le quali volevano ostinatamente far il giro della Santa Casa sulle loro ginocchia, col mio consenso ed a mie spese.
Questi piccoli pellegrinaggi salariati non si fanno solamente in Italia. Conobbi a Vergaville, paese natio della mia avola, una vecchia, pellegrina di professione, che si portava, mediante una rimunerazione, alle cappelle più celebri, e che guadagnava di che vivere acquistando indulgenze. Credo però che questo mestiere sia più lucroso a Loreto che a Vergaville.
[255]
Gl’Italiani dicono talora: «Bestia come un Inglese.»
Questa locuzione mi è sempre parsa, non solamente viziosa, ma anche inesplicabile; mentre tutta Italia sa benissimo per esperienza, che i suoi amici Inglesi non sono bestie. Un abitante d’Ancona, che aveva incontrato a Loreto, mi ha dato la spiegazione di quel pregiudizio. «Il popolo, mi disse egli, comprende sotto la denominazione d’Inglesi tutti gli abitanti delle isole Britanniche, ma in realtà questo epiteto di bestia non s’appartiene che agl’Irlandesi. Essi accolgono sì ciecamente tutti i miracoli già screditati tra noi, digeriscono con tale appetito le stolidezze più incredibili, che si prende per difetto d’intelligenza ciò che non è altro che un eccesso di fede.»
Mi ritrassi inorridito vedendo in una cappella laterale il cadavere d’un fanciullo e la sua faccia coperta di mosche. Il povero bambinello era vestito da abbatino, secondo un’usanza abbastanza diffusa. Ora andavo pensando, come mai una famiglia poteva così abbandonare le reliquie mortali della sua progenitura, ma in un batter d’occhio m’accorsi che il bambino non era solo, poichè un incaricato, pagato a giornata per custodire il cadavere e tener lontane le mosche, dormiva in un angolo della cappella. Quella trista scena guastò per me il piacere della giornata, e quando una mosca della chiesa veniva a collocarsi sul mio volto e sulla mia mano, io la discacciava con una specie di ribrezzo; parendomi che que’ schifosi insetti fossero quelli che si erano raggruppati intorno alle nari ed agli occhi del povero bambino.
Un romor di passi mi trasse fuori di chiesa, ed io vidi una processione di ciocciari a piedi nudi. I miseri erano così venuti fino dalle montagne degli Abruzzi: uomini e donne tenevano in mano il bastone de’ pellegrini, ed erano guidati da un capo, tarchiato e robusto, che portava un mantello ornato di conchiglie. Il sudore e la polve sgocciolavano insieme, a modo di fango, dai loro visi abbrustoliti; essi cantavano a piena gola un inno in volgare. A venti passi dalla soglia della chiesa e da quelle mirabili porte di bronzo, caddero a ginocchi, e v’entrarono carponi. [256] Parecchi d’essi, i più fervorosi, baciarono il pavimento dalla porta fino alla Santa Casa, che sta in fondo alla chiesa. Colà giunti, gettarono alte grida, gli uni accusandosi de’ loro falli, gli altri domandando alla Madonna la grazia speciale ch’eran venuti a chiedere. Una fanciulla piuttosto brutta implorava la liberazione d’un condannato che le stava a cuore; un marito sollecitava la guarigione di sua moglie, mentre una moglie domandava per suo marito qualche cosa, non però buona, poichè lo denunciava alla Madonna, e lo colmava delle più strane ingiurie. Quand’ebbero compiuto il loro primo sfogo, ripresero il cantico interrotto. Il veterano che custodisce, colla sciabola nuda in mano, i diamanti della Madonna, canterellava macchinalmente con loro. Non la finirei per lungo tempo, se volessi enumerare le genuflessioni, le adorazioni, gli amplessi, di cui que’ miseri mi diedero spettacolo. Bisogna compiangere gli artisti, che esposero de’ capolavori di marmo alla divozione troppo fervente de’ ciocciari. Mi ricordo d’un basso rilievo della flagellazione, dove Cristo è letteralmente consunto dagli acidi baci di que’ divoratori d’aglio.
La città di Loreto non è altro in fondo che un gran bazar dove si vendono corone. Essa mi parve piuttosto addormentata pel momento, perchè eravamo nel massimo calore dell’estate. I mercanti ch’io interrogai si lamentavano della stagnazione degli affari, e maledicevano il gran caldo.
Tuttavia, verso sera, la strada si andò animando alquanto. Vidi passare de’ grandi carri tirati da buoi e carichi di sacchi di grano. Ciascuno d’essi portava il monogramma della società di Gesù.
Gli abitanti più agiati ed i ricchi mercanti cominciarono ad uscire dalla città per prendere il fresco. Incontrai, in un cocchio, un prelato romano, che aveva alla sua destra una signora attempata, e dinanzi due giovinetti. Qui si fermarono le mie osservazioni, poichè il vetturale attaccò i suoi cavalli e ci condusse fino alle porte di Ancona.
Ci fermammo fuori della città, perchè essa ha i privilegi d’un [257] porto franco, ed all’uscita bisognerebbe assoggettarsi alla visita dei doganieri: questi però ci visitarono il dimani l’altro, a due o tre chilometri da Ancona. Era per conservare il principio, ovvero, per dir meglio, per la buona mano.
Ho passato una giornata intera in quella grande città, e non vi rinvenni nulla di ciò ch’io cercava. Il commercio languiva, le sentinelle austriache facevano buona guardia intorno ai forti, la polizia austriaca sfogliava minutamente il passaporto del più umile pedone all’ingresso della città, mentre gli ufficiali austriaci giuocavano agli scacchi nei caffè. Questi amabili Austriaci fucilarono ben sessanta persone in sette anni nella città d’Ancona; ma siccome ne fucilarono 190 in Bologna nel medesimo intervallo di tempo, così Ancona avrebbe torto di lagnarsi.
In Ancona sono tollerati 1800 Israeliti. Bisogna pur fare qualche cosa pel commercio. Il quartier degli Ebrei è il peggiore; ma la popolazione che l’abita mi ha sorpreso per la bellezza del tipo. Le ebree poi sono qui tanto belle, quanto sono brutte a Roma; ed è molto dire, e coloro che conoscono il ghetto romano mi accuseranno forse di esagerazione.
Perchè mai la stirpe medesima è qui florida, e là tanto degenerata? È certamente perchè l’oppressione religiosa è meno pesante a 210 chilometri dal Vaticano.
Sono arrivato a Sinigaglia il giorno della fiera. È dessa una città di 12,950 abitanti, ma la sua popolazione si raddoppia quasi tra il 20 luglio e l’8 agosto. Tutte le case si trasformano in botteghe; il commercio invade, trasmuta e vivifica la piccola città, che d’ordinario è tranquilla. Sgraziatamente per me, la più parte delle botteghe era ancora da affittarsi; i commercianti arrivati cominciavano appena allora a sballare i loro colli, onde la fiera di Sinigaglia rassomigliava ad una esposizione dell’industria, nel giorno dell’apertura solenne.
D’altronde mi si accerta, che questa solennità mercantile perde ogni anno di sua importanza e splendore. Così avviene a Beaucaire, a Lipsia ed in tutti i paesi inciviliti; ed è naturale, mentre [258] dove il commercio à attivo tutto l’anno, le fiere non servono più a nulla.
Un fabbricatore di pettini, detto Alberto Mastai, lasciò Brescia, sua patria, sulla metà del secolo XVI, e stanziò a Sinigaglia. Vi fece fortuna, e la sua famiglia vi prosperò sì bene, che potè insinuarsi nella nobiltà della provincia. Gian Maria Mastai ottenne la mano d’una Ferretti d’Ancona, e grazie a quell’alto parentado, ei divenne conte Mastai Ferretti. Da questo felice ceppo nacque nel 1799 Gian Maria Mastai, che regna in Vaticano sotto il venerato nome di Pio IX.
Le città delle Marche e delle Romagne non sono tutte ricchissime, ma ve ne sono poche, le quali non posseggano un teatro. Il gusto per le arti, e specialmente per la musica, è molto più sviluppato sul pendio degli Apennini, che non dall’altra parte. A Pesaro, a Rimini, a Forlì, a Faenza ed in quasi tutte le città, i muri stessi attestano il fanatismo della popolazione. I dilettanti fanno dipingere sulla loro casa il nome del maestro o degli artisti alla moda. Si legge in ogni parte: Viva Verdi! Viva la Ristori! Viva la Medori, la Corvetti, la Lotti! Viva Panciani, Ferri, Cornago, Rota, Mariani!
Mi sembra che i missionari non combattano attivissimamente contro questa influenza. Senza dubbio essi sono tutti occupati nel pendio opposto, predicando ai marinai del Mediterraneo, che non hanno bisogno d’essere convertiti; ed abbandonano i cittadini dell’Adriatico alle loro passioni mondane.
Però ho veduto sopra alcune case di Faenza il monogramma de’ Gesuiti dipinto sul muro appresso ad una piccola Vittoria nuda, che sospendeva una corona sopra il nome della Ristori.
I teatri di queste piccole città sono tutti grandi e magnifici, comodi assai, e vorrei bene che i nostri lo fossero del pari.
Non v’è teatro a San Marino, ma vi sono molti frati, molti mendicanti, non pochi ignoranti e ben poco incivilimento. Questo singolare Stato di 9500 abitanti, che in mezzo alla monarchia assoluta del papa conserva il nome di repubblica, mi arieggia [259] un ghetto rurale. Mi convinco che i successori di s. Pietro l’hanno rispettato a bella posta, per chiarire ai loro sudditi, quanto la monarchia sia superiore alla repubblica. Ed è perciò che da tanti secoli fanno vegetare un miserabile branco di Ebrei, per far risaltare la superiorità del cattolicismo.
Fu molto decantata, in Francia, la costituzione politica di San Marino, l’equilibrio del suo budget, il disinteresse de’ suoi cittadini, di cui nessuno, per lo spazio di 14 secoli, non tentò farsi tiranno. Io non voglio già scagliare la prima pietra contro questo piccolo popolo interessante, se non per le sue virtù, almeno per la sua debolezza. Ma sinceramente, come al solito, narrerò ciò che ho veduto ed inteso sul territorio di San Marino.
Avevo lasciato Rimini sotto una pioggia dirotta, sopra una carrettella, sospesa appena quanto bastava per non rompermi le ossa. Il mio cocchiere era figlio dell’albergatore, mariuolo di 14 anni al più, ateo siccome una serpe. Scandagliai, strada facendo, il fondo della sua filosofia, ed egli sbrigliò dinanzi a me cotesto spaventoso aforismo: «Dio? Credo bene che, se ve n’è uno, sarà un prete come gli altri.»
Quell’amabile ragazzo m’indicò col dito il termine che separa lo Stato pontificio dalla terra repubblicana. Non mi parve che il sole divenisse più splendido, nè il suolo più florido, nè meno insipida la pioggia. Tuttavia respiro ben volentieri l’aria delle repubbliche. Il paese squallido, la coltura per nulla maravigliosa. Un piccolo villaggio, a mezza strada, mi parve malinconico e sudicio.
La città ed il borgo sono situati sopra una scoscesa montagna, da cui si domina una bella estensione di paese, quando però non piove a torrenti. Il borgo è appiedi della montagna, la città poggia sulla cima.
Il borgo è mal costrutto, mal lastricato e lasciato in disordine. La principale industria che vi si coltiva, e probabilmente la sola, è la fabbricazione delle carte da giuoco, che si esporta di contrabbando. Mi posi in cerca d’un cicerone, e pensando che il meglio sarebbe di prendere a caso il primo paesano in cui m’imbattessi, entrai da un artista; e mi offersi di pagargli [260] la sua giornata, se voleva passeggiare con me per alcune ore. Ei non si fece pregare, ed io m’accorsi, dopo pochi minuti, che avrei potuto capitar peggio. Il buon uomo era ciarliero e compiacente, e tosto mi narrò la storia d’un medico comunale, perito a colpi di fucile, sulla piazza pubblica. Il fatto aveva due anni di data, e gli assassini erano stati condannati a due anni d’esiglio.
L’organizzazione della giustizia a San Marino è affatto elementare. Non si hanno nè leggi, nè tribunali, ma si fa venire da Roma o da Firenze un magistrato seguito da quattro gendarmi, il quale è pagato dalla repubblica, e giudica alla meglio gli affari civili e criminali. La pena di morte non viene mai applicata, ma si hanno le galere. Quando un individuo è condannato ai lavori forzati, lo si manda a qualche bagno del papa o del granduca di Toscana, e la repubblica vi paga la sua pensione.
Dalla questione giudiziaria noi siamo naturalmente passati alla politica. Un consiglio sovrano di 60 individui dirige gli affari dello Stato. Venti consiglieri sono scelti fra la nobiltà, venti fra la borghesia e gli altri venti fra i contadini: ond’emerge che San Marino è una repubblica leggermente aristocratica. Chi lo crederebbe? V’è una nobiltà a San Marino! In questa repubblica fondata da un muratore, che si era fatto eremita, ho ravvisato l’esistenza d’una classe privilegiata. Ero curioso di conoscere da qual fonte emanasse la nobiltà del paese, ed il mio cicerone mi assicura che i nobili di San Marino ammettevano di tempo in tempo qualche borghese nella loro illustre casta.
Il potere esecutivo è confidato a due capitani, che durano sei mesi nelle loro funzioni, nè possono essere rieletti se non dopo un intervallo di tre anni. Ricevono un emolumento di 25 scudi romani, un po’ più di 125 franchi, pei loro sei mesi d’esercizio. La moneta che corre nel paese è quella del papa.
La forza armata consta d’una sessantina di guardie nazionali. Grazie alla generosità d’un benefattore straniero, hanno delle uniformi, ma l’uomo che le comanda è alla borghese. Una trentina di suonatori completano l’effettivo. In caso di bisogno, [261] la repubblica potrebbe mettere circa seicento uomini sotto le armi.
Le finanze non sono mai in deficit, poichè, propriamente parlando, non vi sono finanze. Il popolo non paga contribuzioni dirette, la principale entrata dello Stato si compone dei sali o dei tabacchi, che il papa permette d’introdurre senza dazio. Lo Stato è dunque non solamente protetto, ma eziandio beneficato dal santo padre. A questi prodotti s’aggiunge quello d’una imposta sulla carne. Il consumatore paga due scudi e mezzo per un bue, 25 soldi per un majale, e soldi 7 1⁄2 per un montone. Le derrate necessarie alla vita sono a buon mercato: la carne costa otto soldi la libbra, il litro di vino si vende da 3 a 5 soldi, e per un soldo si comprano otto oncie di pane.
L’istruzione pubblica è pressochè nulla: una ventina di piccoli repubblicani vanno alla scuola dai preti.
I monumenti pubblici sono una fortezza in ruine, ed una chiesa deforme, ma in buono stato. Quattro prigionieri sono detenuti nella fortezza, ed io ho passato una mezz’ora con essi. Sono rei di furti campestri, così frequenti costì siccome negli Stati del pontefice. I miseri aspettano impazientemente che siano mandati alle galere; ma ci vorrà molto tempo, chè il giudice è morto ed il successore non è ancora nominato. Uno di quest’infelici ebbe rotta la gamba, e soffre crudelmente sul miserabile suo giaciglio.
Si vede nella chiesa la tomba che S. Marino si è scavato da sè medesimo, e la lastra di marmo dedicata dalla repubblica ad Antonio Onufrio, patri patriae, dice l’inscrizione. Cotest’Onufrio era l’incaricato d’affari della repubblica presso l’Imperator dei Francesi. Il mio cicerone parla di questo grand’uomo colle lagrime agli occhi: «Ei parlava a Napoleone come io a voi; faceva la corte all’Imperatrice; egli era davvero il padre della patria!»
Al di sotto della chiesa, una gran casa civile è abitata dal dotto numismatico Borghesi. La mia guida pretende, che questo corrispondente dell’Instituto lavori ogni giorno fino all’ora della cena, e poscia si ubbriachi; ma io credo che il mio degno cicerone calunnia la sola gloria del suo piccolo paese.
Il mariuolo s’è ben guardato dal narrarmi un fatto ch’io conosceva, e che è noto a tutta l’Italia. Nel 1849, dopo la presa di [262] Roma, Garibaldi e le reliquie del suo esercito si rifugiarono sul territorio di San Marino. Ora que’ repubblicani comprarono a vil prezzo i cavalli, gli arnesi, le armi e tutti gli effetti preziosi ch’erano rimasti ai proscritti: dopo di che gli esortarono a cercarsi un altro asilo. Questa reminiscenza è forse la causa del mio rigore verso gli abitanti di San Marino. D’altronde, quando sono acciecato dalla pioggia, non so veder le cose sotto bell’aspetto; e d’altra parte il lettore è libero d’addolcire a suo buon grado l’amarezza di questo giudizio.
Se la repubblica di San Marino dovesse un giorno essere assorbita in qualche grande monarchia, gli archeologi della politica esclamerebbero versando lagrime amare: «È dunque perito quel baluardo della libertà!» Rimane a sapersi, se un popolo rozzo, feroce, avido e miserabile, merita il nome di popolo libero.
Coloro che si occupano di statistica commerciale hanno osservato, che il piccolo commercio diminuisce di giorno in giorno. Ne’ tempi andati le nostre città erano piene di botteghe grandi come la mano, dove una famiglia di borghesi ignoranti vegetava fino alla morte. La commandita s’è impadronita degli affari, i capitaletti si sono riuniti per formare de’ milioni; si sono affittate delle case enormi, comprati de’ mucchi di merci, e si è trattato il commercio sopra una grande scala. È una intera rivoluzione, mercè la quale il capitalista accresce e raddoppia la sua fortuna, i commessi, senz’arrischiare un soldo, intascano de’ buoni assegni, ed il pubblico compra a miglior mercato.
Io non sono lontano dal credere, che in politica si farà un giorno un cangiamento analogo. I piccoli Stati sono condannati a vegetare siccome le botteguccie. Se io fossi re di Piemonte, o re di Prussia, fonderei un vasto stabilimento col capitale di 20 o 25 milioni d’uomini, e sarei ben presto in grado di dare la pace, la sicurezza, l’agiatezza e l’istruzione pubblica al 30 per cento al disotto del corso.
Le Romagne.... ma perdòno. È ormai lungo tempo che abbiamo abbandonato gli Stati del papa.
FINE
[263]
VIAGGIO.
Marsiglia e suoi abitanti. — Lentezza delle strade ferrate. — La Canebière. — La città nuova. — I Campi Elisi. — La città antica. — La Major. — La città futura. — Il signor Mirès ed i porti di Marsiglia. — Il canale della Duranza. — 1815 e 1858. — I Marsigliesi. — Carattere, costumi e difetti della popolazione. — Perchè i Marsigliesi non falliscono mai. — Lusso e lavoro. — La caccia. — Il teatro. — Una prima rappresentazione di Alessandro Dumas. — La necropoli d’Aix in Provenza. — Le corazze d’un re del Gabon e la musica del bascià d’Egitto. — Industria, commercio e speculazione. — Lo zucchero, l’olio ed il sapone di Marsiglia. — Elogio del Sesamo. — Fabbrica di turaccioli. — I porti. — La compagnia delle Messaggerie imperiali. — Speculazione. — Agenti di cambio. — Storia maravigliosa d’un giovane sindaco. — Lavori pubblici. — Reminiscenza di Bordeaux. — Mio avo ed il pugnale del Triulzio. — Elogio della follia. — Budget municipale di Marsiglia. — Progetto di residenza imperiale. — I Catalani. — La questione delle belle arti. — Un privilegio assurdo. — Racconto d’un Bavarese. — Tragitto da Marsiglia a Civitavecchia. — Il colonnello Bailliencourt, attualmente generale di brigata. — Arrivo in posta Pag. 9
I.
MIO ALBERGO.
Carlomagno, Carlo VIII, Montaigne, Rabelais, Poussins, Carlo de Brosses, Chateaubriand, la Stael. — Abito il nido di Orazio [264] Vernet. — Trecento ventisette gradini da salire. — Il carcere di Galileo. — Memorie della villa Medici. — Il portinajo. — I giardini. — L’obolo di Belisario. — Ospitalità dell’Accademia di Francia. — I premj di Roma. — Bel motto di Gregorio XVI. — Vittore Schnetz, direttore dell’Accademia. — La mia camera. — Paesaggio. — San Pietro. — Opinione d’un consigliere municipale di Avranches. — Roma 1300 anni fa. — Lo scirocco. — Una visita. — Perchè è sì difficile lo studiare Roma contemporanea? 47
II.
LA PLEBE.
I viaggiatori dilettanti non la conoscono, o la conoscono male. — Carattere del popolo minuto di Roma. — Reminiscenza della rivoluzione del 1849. — I plebei accampati presto il cardinale Antonelli. — Un plebeo della Chiesa, frate questuante. — Sua industria; sue risorse. — Commercio delle insalate, estrazione dei denti, modello degli artisti, composizione di terni. — Entrate d’un mendicante. — La mendicità è una delle basi dello Stato. — Quadro della piazza Farnese e della piazza Montanara la domenica mattina. — I contadini a Roma. — Commercio di calzature. — Barbieri all’aria aperta. — Cibi d’occasione. — Margherita di Borgogna. — Commercio di sigari mozzi. — Scrittori pubblici. — Lettera d’una contadina moribonda. — Colazione de’ poveri. — Burro di Roma 59
III.
IL GHETTO.
Divozione del popolo minuto. — Sentimento del principe di Santa Croce sui buoni esempi. — Zappatori-pompieri adoperati a lottare contro l’inondazione. — Piazza delle Sinagoghe. — Gli Ebrei di Roma. — Censimento. — Perchè ci sono Ebrei nella capitale del mondo cristiano. — Due parole di storia. — Affitti [265] di enfiteusi perpetua. — Imprudente generosità di Urbano VIII. — Un ebreo mantenuto dalle Orsoline. — Le porte del Ghetto sono demolite, grazie alla bontà di Pio IX. — Profitto che n’ebbero gli Ebrei da questo cangiamento. — Il carnevale di Roma. — Imposta modificata. — Gli Ebrei surrogati da cavalli. — L’arco di Tito e la Bibbia. — Gli Ebrei al sermone. — Conversioni solenni e grandi vittorie della Chiesa romana. — Storia d’una piccola imposta di 450 scudi — Prodigiosa diminuzione della popolazione ebrea. — Storia d’un protetto del conte Goyon. — Non più del figlio Mortara. — Affare Padova. — Assoluzione d’un omicida che non aveva ucciso altro che un ebreo. — Fromental Halevy al Ghetto di Roma. — Baccano. — La Buca della Verità 70
IV.
IL TRANSTEVERE.
Il Ponte-Rotto. — L’osteria. — Elogio dei Transteverini. — Iscrizione edificante e avviso ai bestemmiatori. — Avventori di una bettola del Transtevere. — Gli artisti di Roma. — Miei vicini. — La cena. — La passatella. — Il padrone del vino ed il suo ministro. — Il mugnajo e sua figlia. — Due giocatori di carte. — Amenità di linguaggio. — Dramma tragico. — L’uomo dal fazzoletto. — Un caffè del Transtevere. — Lotta di virtuosi. — Improvvisatori su tema classico. — Ritorno aggressivo del mugnajo. — Il principale. — Catastrofe 83
V.
GIUOCO DE’ COLTELLI.
Opinione de’ Romani sul furto e sull’assassinio. — I ladri sprezzati e odiati; omicidi stimati e protetti. — Due parole di statistica criminale. — Perchè l’omicidio è sì frequente in Roma. — Storia di sei giornate. — Ciascuno si fa giustizia da sè, in un paese dove non c’è giustizia. — Fuga degli uccisori. — Luoghi [266] d’asilo. — Ambasciate, chiese, conventi, poderi ecclesiastici, Accademia di Francia, sponde del Tevere. — Campo Morto tra Velletri ed il mare. — Difficoltà della procedura criminale. — Discrezione ostinata de’ testimonj. — Curiosa storia d’un majale. — Castigo di Pietro Brandi. — La buona mano. — Le leggi penali non vennero applicate se non durante l’occupazione francese. — I mezzi di repressione non mancherebbero al governo, se volesse valersene. — La ghigliottina e la prigione cellulare sono invenzioni italiane. — Condotta energica di Leone XII. — Orribile supplizio di Ludovico. — Le galere, luoghi di ricreamento. — Incontro d’un forzato che rimpiange il suo buon tempo 96
VI.
IL LOTTO.
Moralità, utilità e necessità assoluta di quella filantropica instituzione. — I poveri romani non hanno altro mezzo per fare fortuna. — Confutazione di dicerie; elogio del governo pontificio. — Il lotto sarebbe immorale a Parigi e a Londra; ma è lodevole nella capitale dei papi. — Storia. — Teoria del giuoco. — Preoccupazione continua dei Romani. — Calcolo dell’ambo e del terno; incetta de’ buoni numeri. — Libro de’ sogni; manuale del giuocatore. — Disgrazie fortunate. — Un padre di famiglia che perde un figlio e guadagna un terno. — Storia d’un soldato austriaco. — Due amanti asfissiati. — Un condannato di Rimini. — Le streghe di Sonnino. — Il giuoco e la preghiera. — Intervento della Madonna. — Digressione sulla Madonna. — L’estrazione di Roma. — Gli Ebrei ed i numeri bassi. — Speculazione de’ lottajuoli. — Opinione degli stranieri. — Le tombole. — Estrazione alla villa Borghese. — Avventura d’un contadino che uccise tre uomini e ne ferì quattordici, dopo aver guadagnato la tombola 106
[267]
VII.
IL CETO MEDIO.
Definizione. — Progressi del ceto medio, che va crescendo in tutti gli Stati d’Europa. — La sua storia è la storia medesima dell’incivilimento. — Servigi da esso resi all’Inghilterra, all’America, alla Francia, all’Italia. — I capi della rivoluzione italiana sono due uomini del ceto medio. — Disgrazia di Roma. — La capitale de’ papi manca di borghesia. — Il ceto medio vi è povero, timido, oppresso e quasi degenerato. — Gli uomini. — Le donne. — I costumi. — Avvocati romani; loro incarico, loro importanza, loro risorse. — Medici. — Bottegaj. — Operaj. — Rimembranza del calzolaio di Milano che fece uno stivale a Murat. — Miserie de’ mercantelli e degli operai da bottega. — Locazione degli appartamenti mobigliati, industria romana. — I soli borghesi degni di tal nome sono i mercanti di campagna. — Elogio di questa bella professione. — Gl’impiegati civili. — La guardia nazionale nell’anticamera del Vaticano 116
VIII.
GLI ARTISTI.
L’arte e l’industria si confondono in questo paese. — Distinzione chiara presso noi, confusa presso i Romani. — Errore de’ nostri romanzieri intorno agli artisti d’Italia. — Il teatro. — La sala. — L’amministrazione. — L’opera. — La prima donna e la sua famigliuola. — Entusiasmo del pubblico. — Modestia degli artisti. — Miseria de’ coristi. — Il compositore. — Una prima rappresentazione a Roma. Abusi del richiamo sulla scena. — I trionfi. — La comedia. — Gli scrittori. — Esito delle composizioni francesi. — Siamo traditi così a Roma come a Londra, ma in uno spirito differente. — La censura. — Due inezie fra mille. — La Fiammina. — Letteratura romana. — La [268] stampa periodica, nessun giornale. — Pittura e scultura. — Celebrità della fabbrica di Roma. — Visito alcuni studi in compagnia d’un ricco Americano. — Commercio de’ marmi scolpiti. — Confezione d’un busto. — Visita ad un pittore celebre. — Commissione d’un ritratto. — Manifattura di copie per l’importazione. — Riflessioni filosofiche sulla decadenza della scuola romana. — Attitudine de’ giovani artisti; educazione deplorabile; mancanza d’ogni critica e d’ogni incoraggiamento. — Architettura. — Oreficeria. — Gli studi dell’illustre Castellani, il più grande di tutti gli artisti romani. — Curiosità. — Un tondo di 50 milioni 130
IX.
LA NOBILTÀ ROMANA.
Com’era due secoli fa. — Com’è attualmente. — Sue origini. — Nobiltà feudale. — Nobiltà nipotica. — Nobiltà finanziaria. — Antica alleanza della nobiltà e del papato. — I Savelli, i Conti, gli Orsini, i Colonna, i Gaetani ottengono la tiara. — Nobiltà d’origine più antica e meno autentica: i Muti, i Santa Croce, i Massimo. — Risposta d’un Massimo all’imperator Napoleone. — Dati attinti nel carteggio di Carlo de Brosses. — Creazione della nobiltà nipotica, covata sotto la veste de’ papi. — I Chigi, i Peretti, gli Aldobrandini, i Borghese, i Ludovici, i Barberini, i Panfili, i Rospigliosi, gli Altieri, gli Odescalchi, i Corsini, i Braschi. — Maggioraschi, secondogeniture, doti di nipoti, milioni donati brevi manu. — Nobiltà del denaro: i Grazioli, i Torlonia, i Ferrajuoli, i Campana, gli Antonelli, ecc. ecc. — Redditi scarsi dell’antica nobiltà. — Dati precisi sulle grandi fortune di Roma. — Due famiglie godono d’un reddito illimitato. — Doveri d’un principe romano, ricco o povero. — Spese alle quali viene condannato. — Lavori penosi e quasi umilianti. — Educazione de’ nobili romani. — Loro virtù e attitudini. — Le donne nobili; spirito della popolazione romana presa in massa. — Opinione di tutte le classi della società sul poter temporale del papa 146
[269]
X.
L’ESERCITO.
Come i cittadini francesi sono tutti più o meno soldati. — Incontro d’una bandiera tricolore sulla piazza del Quirinale. — L’imagine della patria. — Il calzone rosso. — Il fico del misantropo Timone e la bandiera del papa. — Il papa dovrebbe essere abbastanza forte per far senza di soldati. — La coscrizione impossibile. — Sistema d’ingaggio. — Cattiva composizione dell’esercito. — Disciplina impossibile. — Furti commessi da gendarmi. — Di chi la colpa? — Deplorabile educazione degli uomini. — Il soldato umiliato. — I domestici stimati più che i militari. — Si prova rossore d’aver un fratello all’esercito, e non di stringere la mano ad un forzato. — Gli ufficiali. — Mal’aria dell’onore. — Prelati alla testa dell’esercito. — Disegni di riforma, fatti dal signor Testa. — Scuola de’ cadetti. — L’acqua santa degli ufficiali. — Risse tra Romani e Francesi. — Spesa dell’esercito. — Reggimenti stranieri 158
XI.
IL GOVERNO.
Gravi considerazioni che mi vietano di criticarlo. — Non giudichiamo per non essere giudicati. — Scrivo sotto la dettatura d’un amico del papa. — Il santo padre. — I suoi Stati ed i suoi sudditi sono sua proprietà. — Può far leggi e violarle. — Interessi generali della Chiesa; amministrati da congregazioni. — Governo temporale. — Il cardinal segretario di Stato. — I ministri subalterni. — Gerarchia romana. — Beni del clero: 535 milioni in beni immobili. — Il sacro collegio. — I prelati. — Vantaggi delle calze color viola. — Distribuzione degl’impieghi. — Patronato e clientela. — Invasione dello spirito rivoluzionario, che minaccia di turbare un ordine sì perfetto. — Mostruose pretensioni de’ popoli. — Incredibile complicità di alcuni sovrani. — Semplici osservazioni dell’autore. — Sistema di rappresentanza nazionale. — Il cardinal Antonelli 166
[270]
XII.
COSTUMI ROMANI.
Avviso importante. — Contraddizioni necessarie. — La foglia di vite ed il governo pontificio. — L’ospitale Santo Spirito. — Uno scorticato di buon esempio. — Ospizio de’ trovatelli. — Un duca romano abbandonato da sua madre. — Matrimonio d’una duchessa e d’un sergente. — Il principe e la droghiera. — Un fanciullo nato coll’orologio alla mano. — Tolla. — L’amor pittore. — Le disgrazie del principe T. — Principessa e cameriera. — Due discendenti di Valerio Publicola. — Cavalli, carrozze e lacchè. — Opinione d’un notajo di Parigi. — I cardinali esclusi dalle chiese. — Il guardaportone ed il vescovo. — Salvezza d’un cardinale. — Insolenza d’un monsignore. — Non più miracoli! — I taumaturgi in galera. — La Salette. — Furto permesso. — Miseria. — I Romani dormono nudi. — Ospitalità montanara. — Una famiglia ed un romito nello stesso letto. — I fiori. — I bagni di Roma. — Matrimonii forzati. — Storia d’un curato di villaggio. — Orrore per lo scandalo. — La moglie del calzolaio. — Il Lionese ed il postiglione. — Avventure d’un ufficiale dell’esercito francese. — Gli eufemismi romani e le parolaccie. — Il signor Levis. — Monsignor Muti ed il suo cuoco 175
XIII.
LA MORTE.
I Romani sanno morire. — Tacito ed il Vangelo. — I sermoni. — Hodie mihi, cras tibi. — Lo scheletro d’un cavallo. — Le ossa de’ morti. — Il cimitero de’ cappuccini. — Chiesa della Buona Morte. — Un artista. — I funerali di Roma. — Il lutto. — Sepoltura nelle chiese. — Soprattassa. — La fossa comune. — Cimitero degli accattolici. — Tomba di Shelly. — Il figlio di Goethe. — Tariffa inglese. — Indiscrezione d’un medico comunale. — Un morto benestante. — Addio ai Romani 193
[271]
XIV.
LE BESTIE.
La campagna di Roma. — Coltura del grano. — Pascoli. — I cavalli. — Razze migliori. — La trita. — I buoi. — Grande coltura. — Il buffalo. — I canali delle paludi Pontine. — Giuochi del popolo. — Le pecore. — L’animal nero. — Incoraggiamenti. — I passaporti 202
XV.
PASSEGGIATA NEL MEZZODÌ.
Albano e le vicinanze. — Privilegi in ogni parte. — Le iscrizioni. — Il ponte dell’Ariccia. — Velletri. — Furto d’una Madonna. — Vendetta. — Un brigante in pulpito. — S. Luca. — Il Passatore. — Il teatro di Forlimpopoli. — L’orologio d’un Inglese. — Il cadavere d’un brigante. — Le paludi Pontine. — Concimazione a ciel aperto. — Una fittarezza. — La piazza di Piperno. — Iscrizione modesta. — La strada di Sonnino. — I nostri cavalli in convento. — Una città del medio evo. — Maria Grazia. — Cena. — Un giovane ingegnere. — Festa campestre. — La casa degli Antonelli. — La banda. — Processione. La piazza pubblica. — Il medico comunale. — Corsa di Cavalli. — Pastori e predoni. — Memorie de’ buoni tempi. — Funerali nel villaggio. — Storia di Maria Grazia. — Leopoldo Robert. — Prossedi. — La donna. — Ignoranza. — Tasse municipali. — Trenta sacerdoti per un villaggio. — Pagliano ed i prigionieri politici. — Olevano. — Palestrina. — Temporale e grandine. — Vincolo comune. — Due versi di Musset 211
[272]
XVI.
IL VETTURALE.
Suo aspetto, suo costume, sua professione. — Miei compagni di viaggio. — Civita Castellana. — I nostri cavalli venduti. — L’amore sulle strade grosse. — Gasparone. — Visita a quel re decaduto. — Opinione d’un gendarme sul brigandaggio. — 127 omicidj registrati. — Albergo italiano. — Mendicità in Italia ed in Francia. — Narni. — Siamo venduti. — Le cascate di Terni. — Foligno. — Loreto e la Santa Casa. — La più fruttifera di tutte le leggende. — Monsignor Narducci. — Castigo d’un prevaricatore. — I gesuiti. — La farmacia apostolica. — La chiesa di Loreto. — Pellegrinaggio. — Bestia come un Inglese. — Il cadavere d’un fanciullo. — Le mosche. — Processione di ciocciari. — Commercio de’ rosarj. — Ancona. — Gli Ebrei. — Sinigaglia patria di Pio IX. — I teatri. — San Marino. — Un ateo di 14 anni. — Quadro d’una repubblica. — Utopia 244
FINE DELLA TAVOLA.
1. Sonvi certe tasse che crescono colla popolazione delle città, ond’è che le città sono interessate a dissimulare una parte della loro popolazione. Conosco un borgo di Lorena, che conta più che 4000 abitanti e non ha mai voluto confessarne più di 3999. Quando il progresso della popolazione sarà diventato troppo evidente, essa farà un salto da 3999 a 4999, siccome quelle donne che aspirano ancora alla galanteria, e che passano in un giorno dai ventinove ai trentanove anni.
2. Per rendere più agevole l’intelligenza di questo periodo ai lettori italiani, si crede necessario di dar il valor convenzionale de’ vocaboli francesi parquet, coulisse, coulissier, allorchè si applicano al commercio. Parquet significa il luogo dove stanno i commercianti, banchieri ed agenti di cambio a discutere i loro affari. — Coulisse, è luogo di riunione dei negozianti di cambio alla borsa fuor delle ore in cui vi lavorano gli agenti. Coulissier, sono negozianti che trattano affari alla coulisse.
3. Uno scrupolo mi trattiene al momento in cui rileggo questa frase, ed ecco che un altro ricordo mi ricorre alla mente.
Una bella sera del mese di maggio all’ora dell’Ave Maria incontrai una processione di gente del popolo e del ceto medio in numero di diciotto o venti. Essi cantavano a tutta gola un cantico italiano in onore della Santa Vergine. Intanto ch’io ammirava nel mio interno quest’atto di divozione spontanea, fui urtato da un uomo sdegnato, che gesticolava energicamente; era il principe Publicola di Santa Croce. «Che impudente canaglia! diceva ad alta voce. Cesseranno infine di rompervi il capo. Non hanno già ben guadagnato i trenta soldi che la parrocchia dà loro per edificare i forestieri?»
4. Questo capitolo, che manca assolutamente d’attualità, fu scritto alcuni mesi dopo l’attentato del 14 gennajo 1858. Io lo conservo qui per i particolari curiosi e autentici che vi sono contenuti; ma ognuno sa che un anno dopo tutti gl’Italiani degni di questo nome hanno lasciato il coltello per prendere la spada.
5. Ludovico montò la scala del palco. Il carnefice lo fece inginocchiare, ponendogli la mano sulla spalla ed obbligandolo a piegare le ginocchia. Ludovico obbedì, senza piangere, invocando con voce soffocata i proprj figli e la propria moglie, e senza pregare. Il prete, sempre borbottando il latino ad un uomo che sapeva appena il dialetto romano, s’allontanò alquanto, mentre il carnefice, detto Mastro Titta, rimase in piedi di fianco al condannato.
La moltitudine tratteneva quasi il respiro; gli uomini avrebbero potuto contare le pulsazioni del cuore delle donne loro vicine.
Mastro Titta trae dal disotto della sua casacca rossa un grosso bastone piombato ed accuratamente lo esamina, poi lo fa girare siccome un capotamburo farebbe colla sua lunga canna dal pomo d’argento, o come un giocoliere farebbe colle sue bacchette magiche. Da ultimo lo afferra ben saldo, lo fa girare due volte intorno alla sua testa, e colpisce il condannato sulla tempia sinistra.
Un grido d’orrore sorge dalla folla. La vittima cade siccome un bue, ed il suo corpo comincia a dibattersi nell’agonia. Ma la giustizia del Vicario di Cristo non è ancora soddisfatta, non ancora completo il supplizio.
Mastro Titta getta lungi da sè il suo bastone, in mezzo alla gente affollata; afferra di nuovo la sua vittima, trae dal suo fianco un coltellaccio da beccajo, e la sgozza.
Poi col coltello medesimo le fa un cerchio profondo intorno al collo, come per tracciare la linea, e taglia poscia la testa, che mostra al popolo. Il sangue di quel teschio arrossa il carnefice, mentre due fontanelle di sangue sprizzano dal collo staccato, e vanno ad inondare la tunica del prete. Credereste che il sacrificio fosse finito? No. — Mastro Titta taglia le due braccia alla clavicola, le due gambe al ginocchio del cadavere, e raccogliendo, co’ piedi e colle mani, braccia, gambe, testa, e tronco, li getta insieme in una cassa appiè del palco, mentre cavasi di tasca un fazzoletto e si forbisce il naso.
Non è a dirsi l’orrore del popolo alla vista di questa spaventosa scena.
Un grido unanime di maledizione irresistibilmente proruppe da tutta quell’onda di gente un’ora prima sì allegra: e ciò malgrado la truppa, i gendarmi, la polizia.
Il prete sul palco annasava tranquillamente a prese il suo tabacco.
Leone XII non si scosse per nulla, credendo aver adempito il suo dovere.
6. E difatti de’ quattro miei compagni, due sono ancora celibatarj. Settembre 1860.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.