Title: Ugo: Scene del secolo X
Author: Ambrogio Bazzero
Release date: January 1, 2006 [eBook #9641]
Most recently updated: January 2, 2021
Language: Italian
Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso, Charles Franks and the Online Distributed Proofreading Team
Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso, Charles
Franks and the Online Distributed Proofreading Team.
This book has been completed in cooperation with the Progetto Manuzio, http://www.liberliber.it
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1876
Sulla piazza della curte di ***, di messer Ugo cavaliero, conte di
Lanciasalda, sui monti di Saluzzo, ad ora di vespro, Guidello,
trombetto e araldo dell'eccellentissimo signore Adalberto, conte di
Auriate, lesse il bando pasquale: e così:
"Avvicinandosi il giorno di Pasqua di Resurrezione, ed il nostro illustre signore desiderando partecipare coi vassalli dell'inclita signorìa la grazia, il gaudio, la letizia avuta e concessa dall'onnipotente Signore Iddio, in questo dì per la solennità di messer Jesù Salvatore, ha deliberato ed ordinato di ricevere l'omaggio dalli gentiluomini predetti. Si gridano i nomi delli cavalieri:
Messere Gisalberto, di messere Ursulo, cavaliero d'arme, con investitura per lanceam et vexillum.
Messere Aginaldo, di messere Luitardo, cavaliero addobbato, con investitura per tradizione ed omaggio della coppa d'oro.
Messere Baldo, di messere Erimberto, cavaliero d'arme, con investitura per tradizione ed omaggio delli sproni.
Messere Ildebrandino, di messere Sichelmo, cavaliero a sprone d'oro, con investitura per tradizione ed omaggio del guanto.
Messere Ugo, di messere Oldrado, cavaliero a sprone d'oro, con investitura per tradizione ed omaggio dello sparviero.
Il che per la presente ordinazione e mandamento di Sua Celsitudine si fa manifesto, a gaudio e consolazione e per speciale partecipazione, come è predetto, dell'allegrezza e festività, a laude e gloria dell'altissimo Iddio e del nostro glorioso patrono e della celeste curia in eterno trionfante.
Signat: Warinus. Ingus. Gridata da Guidello, sono tubæ præmisso…."
Guidello, finita la lettura, prese la pergamena, colla sua funicella rossa la assicurò spiegata al bastoncino d'araldo e la levò sopra la testa, osservando:—Io dico. Se vi è qualcuno, il quale tacci di mislealtà i miei occhi nel leggere, la mia lingua nel parlare, la mia intenzione volta a vilipendio di messer Domineddio, del nostro avvocato santissimo, della giustizia degli uomini, quello si faccia avanti, e purchè sia tale che porti o possa portare speroni d'oro o d'argento, alla presenza di un chierico che conosca l'arte della lettura, comprovi quanto dica.
Ai piedi della scalea della chiesa, intorno a Guidello, v'erano quattro cavalieri cogli scudieri. Ma nessuno parlò.
Per cui l'araldo:—Messeri, allora dichiaro.
Stette un poco, poi si rivolse a un chierico che gli era accanto, come_ magister librarius_, e disse:—Recitate.
Fu recitata l'avemaria, e tutti risposero ad alta voce.
All'amen Guidello aggiunse con solennità:—Dichiaro bandita la volontà del molto magnifico nostro signore.
Poi, colla destra impugnata una lunghissima tromba, adorna di un drappo quadro stemmato:—Messeri,—disse:—fate come di conformità agli usi. Voi sapete: quando la tromba dell'araldo suona a festa si suole dire tromba d'argento. Da valenti messeri adunque—e mise alle labbra lo strumento, ne volse la bocca all'insù, e squillò tre volte. Intanto i cavalieri diedero mano alle borsucce, e fecero come d'usanza: poi se ne andarono.
Guidello si chinò, dicendo:—Tromba di rame—perchè raccolse poche monete: acconciò il cordone con un nodo alla militare, in guisa che gli si attraversasse alla schiena la tromba e il drappo sventolasse come un mantelletto, tolse la pergamena dal bastone, la fece a rotolo, e la consegnò al chierico.
Questi interrogò:—Guidello?
L'araldo rispose:—Non si guadagna nemmeno il fiato.
E mossero giù dalla scalea della chiesa. La piazzuola della curte era deserta. Essi presero ad uscire dalla viuzza fiancheggiata dalle casucce dei montanari, oggi boscaiuoli, domani alle giornate d'armi, sempre poveri e sempre irosi. Intorno all'edera frusciavano con volo tortuoso le nottole; gli usci erano chiusi, gli arconcelli delle finestre lucenti di strisce rosse dal sotto in su, che venivano dai focolari posti in mezzo alle stanze; sullo sfondo si vedeva una montagna già sfumata nella nebbia del crepuscolo.
I nostri due procedevano silenziosi, e, benchè sotto la protezione del loro signore, pure affrettavano il passo e sulla punta dei piedi.
E l'uno calava il cappuccetto sulla testa tonsurata e nascondeva la pergamena sotto la tonaca, e l'altro storceva una mano all'indietro ad assicurarsi che la tromba non percuotesse coll'elsa della spada o col pugnale: e quegli guardava sospettoso le pieghe del drappo ventilante dallo strumento del compagno, come se da quelle dovesse uscirgli il malanno: e questi imprecava il calzolaio che aveva fatto pel chierico scarpe così disacconce per suolo sospettato.
Passavano e guardavano. Quelle tavolacce di quercia parevano fatte apposta per spalancarsi ad un'insidia: da quegli arconcelli i tizzoni che erano sui focolari con maledetta furia potevano essere sbattacchiati nella strada. Basta! il santo patrono tenesse buoni i gloria! Ma la preghiera era smezzata: e l'uno calcolava che con quell'antacce si facevano tante aste, coi chiodi tante punte, colle toppe tante scuri: e l'altro si ricordava, ai tempi che il padre soffiava alla guerresca, e ch'egli giovinetto gli era accanto col piffero per imparare a toccare il soldo e le graffiate, si ricordava di una certa mistura diabolica che venne giù da una balestriera a impegolare i baffi al vecchio trombettiere, e a conciare un povero ribaldo come un torcione di resina acceso nelle gazzarre soldatesche. Si continuava il gloria…. Ah! erano passati da quell'uscio, da quelle finestre: si poteva fiatare. Di più: messere il chierico sapeva leggere, sapeva pingere le capitales litteras dei messali, cioè le iniziali, sapeva a mente i canoni accetti al vescovo di Saluzzo; d'armi credeva intendersi sin troppo, dicendo:—A chi le toccano, le toccano le ferite e la morte!—Niente altro: pure in quel momento nella sua fantasìa staccava tante maglie dall'armerìa del castello e tante spade, trovava gagliardi che le vestivano, le impugnavano, e moveva contro quelle case di rabbiosi: no, prima alla rôcca di Ugo. Messere l'araldo sapeva suonare con voce dolcissima o squarciata: Guidello proprio avrebbe voluto essere a fianco del padre, tra un'oste poderosa, e dare alle trombe il fragore delle petriere, curve le travi sotto ai pesantissimi massi. Ma sì, ma sì! Altro che il cappuccio aguzzo a vece di pennacchio da cavaliero: altro che il bastone d'araldo in luogo di un buon lanciotto!
Fuori della curte di messer Ugo c'era una cappelletta: qui i due fecero un inchino pieno di gratitudine, e da qui cominciarono a mettersi l'uno a fianco dell'altro, e salirono per la stradetta, la quale, grigiastra, lasciava vedere tante e tante pozzette d'acqua dai melanconicissimi riflessi di cielo: erano le orme dei cavalli passativi il dì innanzi, dalla curte al castello di messere Adalberto. E stradetta e cavalli menavano al sicuro.
Incominciò Guidello:—Dacchè suono la maledetta, vi dico, Ingo, che non mi parve mai mi tormentasse le labbra come stassera, sulla scalea. Sapete: ieri a mattina, abbiamo pubblicato il bando al castello d'Ildebrandino; a dì basso, al ponte levatoio di Baldo; l'altro ieri a vespro, alla piazza di Aginaldo. Che si è raccolto? Tanto da poter proclamare solennemente, al primo armeggiamento festoso, che il cavaliero di Rupemala, quello di Roccanera, e messere della curte di santo Uperto, sono fregiati di cortesìa cavalieresca. Dico vero?
—Verissimo, Guidello.
—E sapete: tra voi che avete appreso l'arte della lettura e me che la professo a obbedienza del nostro padrone, lasciando da parte la cavallerìa, e discorrendo della tascuccia che ogni cristiano ha allato se deve camparla, tra noi si è spartito un bel mucchietto.
—E di quelli d'argento.
—Così si dà e si riceve a gloria di messere Domineddio; e così si fa differenza tra il vento che buffa alla foresta e il fiato dei battezzati.
—Verissimo, Guidello.
—Mi diceva il padre mio, il valente Guidaccio….
—A cui Dio conceda la verace gloria!
—-Mi diceva così, nè più, nè manco. E il suo fiato da battezzato, eh!
Ingo, fu come l'uragano nella tromba, contro ai dannati nella Spagna e
contro ai miscredenti in Terrasanta, a fianco del padre di messere
Adalberto, il cavaliero Brunone.
—Requiem in pace!
—A fianco del cavaliero Brunone, lo dicevano della stirpe di
Tubalcain.
—Santa Maria!
—Quella era voce del padre mio! Quella ci voleva adesso là sulla scalea della curte di Ugo, ma ad un patto.
—Tromba d'argento.
—Messere, no: lo strumento suonasse come quelli, dicono, del dì del finimondo.
—E le mura di quella rôcca fossero come quelle di Jerico, per virtù soprannaturale, che noi possiamo chiedere colla preghiera.
—Così fosse!
—L'altro dubitò, e riprese:—Ed io avrei voluto che la pergamena parlasse come la condanna che appiccammo alla porta di Lamberto, il ribello a messere il vescovo di Saluzzo. Vi ricordate?
—Voi non ci eravate.
—C'era Gausprando; ma so. A Gambazza sulla destra del Po.
—Chi ci appose il vidit e dichiarò bandita la pergamena? Il nostro signore Adalberto istesso, piantando poderosamente un pugnale al luogo del suggello. Quella la fu impresa! Di lì a un mese, del castello non rimase in piedi che un arco e quello per dire:—Di qui passarono i prigionieri!—So che il padre mio ghignava burlescamente e fieramente, e so che mi disse:—Figliuolo, quando suoni, ricordati che hai in mano tutt'altra cosa che un'azza. Guarda che, stringendo troppo, il rame si ammacca, e le ammaccature tra noi soldati le cerchiamo soltanto sul petto nudo e non sull'arme e sui bagagli—mi disse. Tant'altre cose mi raccomandò, finchè s'ebbe quella seconda impegolata a scuoiargli la faccia, e allora mi fece cenno che le labbra arsicce erano buone all'avemaria e ai paternostri, lasciò il castello e cercò un monistero.
—Se lo conobbi, quel valente Guidaccio!
—E Guidaccio anche lui suonò su quella scalea di Ugo, quando c'era ancora, più arcigno di questi, il suo padre Oldrado, che fu quello, sapete, il quale aizzò i suoi servi contro l'araldo che bandiva le giornate d'armi, sì che quelli a vespero spalancarono usci e finestre, e mostrarono scuri da boscaiuoli fra certe manacce rabbiose!
—Rammentate la storia di Guidinga.
—Gesummaria!
Tacquero, perchè vicino era il castello del loro signore, e quel discorso, spiato o frainteso, poteva far scricchiolare alla sera istessa i cavalletti di tortura.
I due, alla parola del saluzzese che era di guardia, risposero come il motto d'ordine portava quel dì: entrarono, salirono una scala, e, trovato in capo a un corritoio un paggetto, il quale sonnecchiava su un archipanco, Guidello domandò:—Filippuccio, ne attende il nostro signore?
Il fanciullo, come se d'intorno agli occhi si togliesse le ragnatele, affaccendandosi colle manine, rispose:—Io non credevo che foste per ritornare dalla guerra sì tosto…. Ero lontano assai, sulle ginocchia della madre mia… là giù…. Ah siete? Il sonno coglie, e si va, si va…. Chiedete?
—Ne attende messere Adalberto, e dove?
—Sì, Guidello araldo, e voi, maestro: nella sala della torre.—E li precedette nel corritoio fino in fondo, s'arrestò a destra, alzò un usciale, e disse:—Sono tornati: a vostra obbedienza, messere.
Al comando:—Siano messi dentro e vattene, Filippuccio—i tre atteggiarono la persona alle linee marcatissime della loro professione: l'araldo si drizzò dignitoso, come se gridasse un bando, l'altro si piegò, come se sfogliasse un messale nella cappella, il paggetto si storse, sollevando l'usciale con sforzo per verità degno di compassione. Entrarono.
La sala era triste: e, a dire quello che si poteva scorgere alla poca luce delle tozze finestre, presentava le muraglie saldissime e nude: solo ornamento una statuina di un beato protettore con lancia e pastorale, male allogata in una nicchia che pareva una balestriera; e, sotto quella, due drappi, tutti a polvere e sudiciume, forse due stendardi, forse due coltri mortuarie: v'erano dei seggioloni a masse d'ombre così nere da far richiamare alla fantasìa il frate bianco che sopra vi stesse nel coro, e un macchinoso tavolaccio, adatto a sostenere quello che sosteneva, la potentissima persona di un cavaliero.
Messer Adalberto era un uomo nel vigore pieno della età virile: mostravasi vestito di panni oscuri: volto verso la porta: e dalla sua posizione, da sedere tanto irrequieto, chiaramente può dirsene l'indole ruvida e l'attesa impaziente. Nè più, nè manco: erano quelli i tempi in cui un cavaliere noverava, come un sellaio, le fibbie e i chiodi della sua sella da battaglia e neppure sbagliava in un sopranome a quegli arnesi, e forse forse moriva senza tutto avere appreso il paternoster dalla bocca della madre o del chierico: tempi in cui, io credo, che la natura non si sarebbe messa su via fallata, se avesse ai priminati delle famiglie baronali dato a vece di cranio addirittura un elmo, a vece di lingua una lama, e per cervello qualcosa di bollente che fuori uscisse e fosse mostruoso cimiero. Io non so se anche allora i bambinelli si tormentassero colle fasce se così fosse stato, non mi sarebbe punto di maraviglia se ancora trovassi nelle cronache che la madre di Garmario saluzzese, madonna Sandra, torturasse le membra del suo figliuolo, serrandole in una bandiera insanguinata, o che il padre di Forcone da Ivrea recasse al castello per la bisogna materna della sua moglie Ageltruda la soprasberga dell'inimico bucata e ribucata a colpi di spada: l'avo Attone da Susa legò con sacramento ai nascituri dal suo Rogerio il lembo stracciato a morsi della sozza camicia che vestiva nella torre della fame. Messer Adalberto era primogenito, ed aveva avuto madre come l'ebbe Garmario, padre come quello di Forcone, ed avo della taglia di Atto. Finchè vissero i suoi, imparò che nelle sale feudali l'agnello santo del perdono ci sta figurato solo per spasso di qualche frate dipintore, il quale fa il mestiero, è pagato, e se ne va dal ponte: imparò che negli steccati dei giuochi d'arme, se le cadute da cavallo v'incarnano gli anelli di maglia nelle membra, perchè la lancia dell'avversario vi coglie, è meglio che quelli vadano fino al cuore a condensarvi dentro tutto l'odio, e questa vi avesse passato fuor fuora, senza accorgervi di provare vergogna! Imparò che le dita ci furono date da natura per contare le vendette da farsi: segnar croce colla penna è da monaco, tagliare colla spada da cavaliero: si vive collo usbergo maledetto, si muore coll'abito immacolato di qualche monistero. Insomma tanto e tanto: sicchè, quando dallo stanzone dell'armi uscì un feretro, e un altro, e un altro, all'ultimo messere Adalberto schiuse la portaccia colle sue mani stesse. Partì, per sempre suo padre, messer Brunone: ma venne dentro subito un ospite aspettato e vagheggiato: l'orgoglio del comandare! Adalberto se gli abbracciò siffattamente, che si trovò tolta la requie di giorno e il sonno di notte.
Il cavaliere, divenuto signore, sentì tutta la potenza del suo volere e s'ingagliardì tristamente ne' suoi disegni d'impero e di conquisto. Si trovò forte per un vastissimo patrimonio. Dal suo castello, sui monti di Saluzzo, poteva fino alle cime di Monviso spingere i segugi, inseguendo camozzi su terreni suoi: da oriente a Po se sorgevano torri di cavalieri, stavano a condizione di ubbidienza a lui; alzavano i pennoni degli avi a seconda della investitura dei feudi, a patto fastoso dell'omaggio, e a patto più valido di bei mucchi d'oro e di giornate d'armi. Su quello adunque che c'era non so chi osasse scuotere una lancia adorna di una banderuola di ribellione: a quei tempi le idee manco sottomesse di un valentuomo si pagavano a slogature di membra, a flagellazioni da ebrei, a carezze d'aguzzino: e dico poco; lascio le scuri, le forche, e i quattro cavalli per gli squartamenti.
Messer Adalberto fece atto da padrone, riconfermando i feudi e ricevendo con bieca superbia l'omaggio. Se non che, siccome da desiderio nasce cupidigia, comandare su quello che si ha è molto, poter comandare su quello che si vorrebbe avere è moltissimo: il cavaliero guardò le armi del padre sepolto, e disse:—Quello scudo egli adoperò quando mosse al castello di Baldo. Quel petto ebbe le falde smagliate dalla lancia di Aginaldo. Su questa sella messere passò vittorioso sui ponti dei nemici!
Guardò le sue armi: lucentissime nei giuochi di guerra e nel giorno della festa, quelle non erano da cavaliero: buone solo per chi avesse speroni d'argento. L'armatura che si sogna nelle cupide veglie dell'ambizione è quella ammaccata, schiodata, fatta nera dalla pece e dagli olii bollenti, quella che si sveste la sera dopo il combattimento furioso, esclamando:—Datela da riassettare alle mani del vinto!
Duri erano i tempi; e così avvenne di Adalberto, come di tutti. Ho detto: indole ruvida e attesa impaziente. Comandava: e, per vero dire, nessuna differenza metteva tra il ringhiare a un soggetto signore:—Messere, mi obbedirete!—e al suo cavallo:—Torci a diritta.—Sorrise alla sua spada:—Se vuoi fodero, cercala alla pelle di un mio nemico.—Acquetò gli scrupoli di suo fratello monaco:—Pensateci: voglio la mia eterna salvazione: pregate o vi faccio baciare una medaglia arroventata.—Voleva comandare: e sapeva che c'era una rôcca da cui non poteva passare, se non guardandosi alle terga, e nel fossato della quale giacevano con poco convenevole sepoltura, insaccati nelle ferraglie rose dal tempo, gli avanzi di un suo avo Adalberto, il quale v'era andato a conquisto e non a morte da stoccate traditore. Sapeva che c'era un altro castello in cui gemeva una donna! Per Adalberto non era amore, era furore!
Adalberto bandì a' suoi vassalli le giornate d'armi, poi si fece predire la ventura dall'astrologo, e perchè questi sapeva che nel suo mestiero bisognava vedere le stelle, come voleva il padrone, per non vederle da stare sul cavalletto della tortura, come voleva il tormentatore, gliela predisse buona, e così:—Egli è opinione degli astrologhi che quando l'animo dell'uomo è spinto al desiderio di sapere alcuna cosa in un subito, ciò nasca non da elezione o consiglio, ma dall'influsso della costellazione, che in quell'ora si ritrova nel cielo. E però se costui domanderà consiglio all'astrologo, esso potrà dirgli il vero della cosa che gli domanderà dalla figura del cielo fatta in quell'ora della interrogazione, cioè: se l'amico assente sia vivo o morto, se l'ambasciatore mandato ritornerà salvo, se ritroverà ovvero spedirà prosperamente la cosa per la quale egli è stato mandato, se il tempo sarà buono per seminare, tagliare legni per le fabbriche, acciocchè non siano mangiati dai tarli e corrotti dalla tarma, per cavare il sangue, per tagliare membri, per risanare, per prendere medicine, per fondare case, per menare moglie, per comperare, per vendere, per vestire nuovi vestimenti, per vendemmiare, per bere il vino in pace, per incominciare opera di alchimìa, per mettere putti a' maestri, per mutare luogo, per accingersi a viaggio per terra od acqua, per far compagnìa, per parlare con uomini di qualunque stato e dignità, per trattare negozii, per entrare nei bagni, per torre servi, per mandare messi, per andare a caccia nelle selve o nei fiumi. Vostra Celsitudine domanda se avrà vittoria nella intrapresa guerresca. Questa richiesta non nasce da elezione o consiglio, ma dall'influsso della costellazione che in quest'ora si ritrova nel cielo. Ho interrogato gli astri: ho interrogato la sorte. La sorte si fa sicura, tirando i punti di numero incerto, avendo voltata la faccia nella luna, con altre osservanze, dal raccogliere i quali punti si fanno quattro figure che si chiamano matri, dalle quali si cavano altre non poche, e i loro aspetti si nominano con nome dei pianeti, e così il rispetto, che hanno fra loro, come li considerano nel cielo. Perocchè mentre l'uomo dal desiderio di ricercare le cose future segna i punti, egli è venuto a questo per la costellazione della sua natività, talchè la forza del cielo guidi la sua mano, talchè non faccia nè più nè meno punti di quello che basta al giudicio delle cose che ricerchiamo: la quale divinazione si chiama Geomanzìa. Mio signore, gli astri e la sorte hanno risposto: vittoria!
Adalberto, prima che l'astrologo fosse a metà della noiosa chiaccherata, sbuffando, fece trarre le torri di legno e le macchine guerresche, i trabuchi, le manganelle, le petriere; si pose a capo dei cavalieri, e colla somma ragione del più forte e del più ladro, mosse al castello d'Ildebrandino. Mandò Guidaccio con quaranta lance al cavaliero, dicendo: messer Adalberto l'aspettava per la prossima Pasqua di Resurrezione all'omaggio: da cavaliero non mancasse: era istituito vassallo col guanto da volare gli astori, con molto onore, con giuramento.
Il presidio della rôcca era inferiore assai alla scorta dell'araldo: per il che messere Ildebrandino, sporgendo il capo tra un merlo e l'altro a guardar giù, dovette dirsi:—Sono spacciato!—e tanto dovette mordersi le labbra a sangue, che fosse lì lì per scagliare, a vece di risposta, il trombetto a gambe levate: pure pensò alla ruina di Lamberto, l'oppositore del vescovo di Saluzzo, e, serrato tra le quaranta lance, lui stesso sentì il bisogno di guardarsi alle spalle. Domandò a Guidaccio:—Messere l'araldo, avete altro a dire?
—Messere sì.
—Vi ascolto.
—Le nostre torri d'assedio e i nostri trabuchi sono fatti colle legna dei ribelli vinti: il cavaliero Lamberto, lo rammentate?
—Chi vi disse?
—Il mio signore.
—Il nostro signore è potentissimo—e Ildebrandino, amarissimo, fece una reverenza di sommessione, e aggiunse:—È ventura l'essere sotto le bandiere del signore, quando si hanno sproni d'oro e fortuna nemica, ma anima sempre libera. Suonate la tromba per noi: i nostri figli, ove Dio li conceda, spero ricorderanno questi squilli!
Così s'arrese Ildebrandino. Messere Adalberto, quando Guidaccio gli ricomparve innanzi, per poco non gli dette la mazza sul capo. Egli desiderava l'araldo insultato o peggio, le lance catturate, il ponte levatoio alzato a precipizio, inalberato sulle torri lo stendardo, tumultuosamente bandita l'oste: invece l'impresa si racconciava, come una briga da' frati, con un inchino e un—Fiat voluntas tua.
Con tempestoso desiderio Adalberto si fece capo della vanguardia delle lance, e, mandato Guidaccio in coda alla torma a fare compagnìa all'arnese più disutile, l'astrologo, corse al castello di Oldrado…. In quello c'era madonna Guidinga!… Ad Adalberto scoppiava il cuore al fragorosissimo segno dell'arme! Fu calato il ponte, s'aperse il portone, e venne innanzi un garzonotto tutto in bianco, con un bastoncello alzato, il quale proclamò:—Quelle non essere le regole delle castella, doversi procedere come l'uso fra onorati cavalieri comporta. Passate tre ore da questa dichiarazione, mandate pure l'araldo, e noi risponderemo, e mandatelo suonando le campanelle dalle torri di legno, noi risponderemo suonando i pifferi dalle torri di sasso.—E il garzonotto tanto tenne levato il bastoncello bianco, a segno di inviolabilità, sicchè nessuno potè coglierlo in fallo, e nessuno per tema di essere tacciato misleale alzò la mano su di lui. Ch'ei fosse venuto, insultando, non c'era dubbio: ch'ei si partisse sano e salvo, era stizza di tutti, ma norma di guerra, la quale tanto più feriva messer Adalberto che aveva voluto solo procedere colla forza e senza lealtà.—O Guidinga! o schiava di messer Oldrado!—smaniava, tormentandosi, Adalberto…. Ma per consiglio dei capitani aspettò… Tre ore sulle brage dell'inferno, tre eternità!
Si schiuse tutto il portone, segno d'arresa, e comparve il garzonotto in nero, e lesse il bando, per cui—al molto glorioso signore di Auriate si calavano le bandiere.—Messere Adalberto galoppò dritto nella rôcca, e ambiziosissimo s'impose:—Prima regoliamo la bisogna del marito! Venga Oldrado, ed oggi stesso riceverò da lui l'omaggio. Questo suo vitupero sarà la più bella gioia per Guidinga!—E, scavalcato, passando per la porticina stretta che da un corritoio dava nella chiesa solitaria, udì dietro le spalle sbattersi irremissibilmente l'antaccia di quercia, si trovò a un tratto separato da' suoi capitani, si volse all'indietro e scorse tutto buio, si volse all'innanzi, ed ecco in capo al corritoio il paggio nero, il quale recava un cuscino nero e s'inchinava rispettoso, dicendo:—Messere Oldrado è pronto a prestarvi l'omaggio.—Adalberto si contorse molto iroso, irosissimo più che del pericolo, d'avere avuto per un momento paura, s'avanzò, e, sotto l'usciale sollevato dal paggio, entrò nella chiesa. Quivi trovò Oldrado solo e ritto, in aria così beffarda che pareva gli dicesse:—Sono il marito di Guidinga: lasciate fare a me! Avete saputo fare voi?—Che in quei tempi non si trovasse neppure schermo alle vendette ai piedi degli altari, si sa, e si sa che gli accorgimenti per condurre allo scopo i giuochi insidiosissimi avevano tutto lo studio delle faccende scrupolose. Adalberto doveva ascoltare quell'araldo bianco, vipera forse del tradimento? Doveva sgozzarlo! Doveva aspettare le tre ore? E rivederlo ancora? Doveva sgozzarlo! E il pronte s'era messo giù, il secondo portone spalancato, i porticati apparivano deserti. I traditori tutti! Ed egli si era lasciato cogliere! Oh il suo furioso amore per Guidinga era di quelli che si spaventano dei mezzi? Ma se lo scopo era già per sè stesso tremendo e ineluttabile!… E quell'arcone che menava al corritoio, e il coirritoio che menata alla chiesa! Che c'era nel corritoio? Una porta inchiovata che valse una muraglia: i suoi cavalieri al di là forse erano scannati: egli al di qua forse con tutta la irrisione di una vendetta pensata e ripensata era tratto all'inganno, e dall'inganno alla morte! O Guidinga! Guidinga!
Messere Oldrado era là nella chiesa solo e ritto. Aveva faccia di quelle che anche nel sonno mostrano aggrottate le sopraciglia, rugosa tenacemente la fronte, aperta la bocca al grido di battaglia, collo da far disperare quelli che, per amore di qualche taglia bandita da alcuno prepotentaccio vicino, dessero ascolto all'inferno, e arrotassero la coltellazza e già preparassero il sacco, come Giuditta la gagliarda; torace che portava tre usberghi e poi chiedeva anche il quarto, braccia da armaiuolo milanese, gambe le quali se inforcavano gli arcioni vi si serravano con tanta saldezza, sì che non ci fosse lancia da cavaliero poderoso da allentarle o farle staffeggiare.
—O conte,—disse per il primo Oldrado:—mi accorgo che la cerimonia poco soddisfa il vostro amor proprio.
E l'altro:—Messere neppure è da scudiero la insidia.
—Voi sbagliate: non sono armato e mi dichiaro vassallo vostro.
—Consento—con questa risoluzione Adalberto richiamò tutto il suo odio;
E Oldrado:—Ed io consento. Udite: un debole cerbiatto tanto fa che un giorno o l'altro debba essere dilaniato da uno sparviero: ma gli può ficcare attraverso la gola un ossicino da mettergli tanto strozzamento da far maledire il pasto.
—Messere, Oldrado, che le azioni vostre mi permettano di chiamarvi cavaliere!
—Vi dissi: non sono armato e mi dichiaro vassallo vostro. Volete ricevere l'omaggio? O fuggite le pompe?
—Voglio.
—Io pure. Bonello, fatti avanti—comandò Oldrado; e il paggio che si era fermato sulla porta, entrò nella chiesa e recò il cuscino. Il padrone lo prese, lo depose ai piedi di uno scanno larghissimo, a seggio baronale, e invitò Adalberto. Il quale con grande dignità s'assise, e le parole furono poche.
—Cavaliero, riconoscete vostro signore Adalberto, conte di Auriate?
—Riconosco.
—A quale istituzione?
—Questo tocca a voi.
—Sì: e giacchè avete parlato di sparviero, sia ad instituzione collo sparviero.
—Collo sparviero.
—Giurate.
—Giuro a messere Domineiddio.
Poi spaventoso Adalberto corse per tutto il castello, e, ghignando, entrò nella stanza di madonna Guidinga….
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il signore di Auriate, quando furono introdotti nella sua sala della torre Guidello ed Ingo, si levò impazientissimo, interrogando:—E così, araldo?
—Con la grazia somma—rispose Guidello:—io ho salve l'ossa, voi la onoratezza di cavaliero.
—Come andò?
—Il sagrato ci parve una benedizione del cielo: spiegai il bando e diedi l'avviso.
—Chi accorse? Venne Ugo?
—Messere sì, c'era Ugo.
—Dunque?
—Con Ugo, lo scudiero: c'erano messere Ildebrandino, messere Aginaldo, messer Baldo, con certi uomini di facce così sinistre!… Il chierico bisbigliò un esorcismo di tutto cuore, ed io di tutto cuore risposi.
A questo punto anche mastro Ingo entrò interlocutore:—Cavaliero potentissimo, mio padrone, vi dico che qui ai vostri comandi scrivo quanti malefizi volete, ma quando tirano cert'arie ai quattro venti….
Gridò il signore:—Dì su, Guidello.
E l'araldo:—Vi dico: vidi l'Aimone d'Oldrado, con quel ceffo di cane rabbioso!
—Chi ti parla di scudieri?—interruppe sdegnosamente il signore:—E chi ti dice che quelli siano a sproni d'argento?
—Messere, dico per dire.
—Parla di quei dappochi coi garzoni di falconerìa, e tieni le loro imprese per narrare quando i miei servi stregghiano i somieri.
—Fatemi perdono.
—A un patto, Guidello: che la tua mano un dì o l'altro corregga la scappata della lingua. Hai capito?
—Presto capito, e presto fatto con l'aiuto del mio santo protettore.
—Dunque c'era Ugo. E disse?
—Nessuno dei cavalieri parlò.
—IL bando fu pubblicato a tutte le castella?
—Messere sì.
—Senti, Guidello, tienti bene nutrito e conserva buon petto. Orvìa—e messere prese una borsa dal tavolaccio:—La gola è asciutta: a voi.
—Ecco qui—disse l'araldo e cavò di petto alcune monete di rame, le noverò, poi, dandone una metà al chierico che gli stava serrato alle coste, cupido come un bracco alla ferma:—Che mi rimane?
—Ma c'è il padrone che pensa. Vanne, Guidello, chiedi a Filippuccio, e quegli ti condurrà dove c'è mensa rizzata.
Si mosse con reverenza l'araldo, e si mosse anche il chierico.
—Ingo,—lo trattenne il cavaliero:—restate, chè ho da parlarvi.
Ingo, già stizzito per la paura, per il poco guadagno e per la tolta speranza di una cena, fece visino sorridente, e piegò la persona a un—V'obbedisco.
—Ho d'uopo—disse il messere:—della vostra saggezza e del vostro buon volere.
—Se voi comandate così, mi compiaccio assai: la saggezza a pro di ricco e nobilissimo conte, come voi, deve sempre essere accompagnata dal buon volere di saperla così ben usata.
—L'astrologo m'è diventato un fanciullo…. Nella vostra camera voi avete certi rotoli antichissimi di pergamene.
—Signore sì, certe disquisizioni dei latini.
—L'astrologo non sa suggerirmi…. Erano valenti questi latini?
—Oh pensate, messere, sono i maestri del mondo.
—Sta bene. Che cosa insegnarono?
—Messere, di tutto.
—E a petto di quello che dicono questi maestri nessuno sa schermirsi?
—Ai nostri tempi, no certo. Nell'abbadìa io sentii dire da frate Giocondo che noi siamo più rozzi degli ungari, e so che cinque frati altro non facevano tutto l'anno che copiare certi e certi codici sbiaditi di Cicerone che valevano un archivio e mezzo: e tanto mi raccontò l'abbate, che appresi l'arte della lettura per desiderio, poi quella della scrittura, ed ora vi dico che mi lagno d'avere soli due occhi che bastano a leggere poco, e vorrei che ci fosse un inchiostro d'oro fino stemperato per potere con quello scrivere certe sentenze antiche, le quali sono la magnificenza istessa di Salomone.
—L'astrologo non sa suggerirmi…. Ingo, dite, e i greci?
—I greci furono popolo artistico e coltissimo.
—Avete rotoli vecchi di quelli?
—Messere, se vorrei averne! Ci fu Platone che scrisse degli Dei, come se li vedesse, ci fu Aristotele che disse tanto dell'anima, quanto un dottore di santa madre chiesa, ci fu Socrate che morì, bevendo il veleno con tanta filosofia….
—E non sapeva farlo bere agli altri?—interruppe Adalberto, così mostrando la sua intenzione.
—Socrate era filosofo stupendo. Se vorrei averne di quei rotoli! Ho solo un discorso che è un pozzo di sapienza! Se lo vedeste! Un manoscritto che mi costò un anno di lavoro nella cella, ma riuscì così nitido, così corretto, a facciuole di santi e di beati, che sono cose da mettere su un altare, se quel sommo non fosse pagano, e l'anima dannata, com'è!
—Non sapevano farlo bere agli altri!—risolse Adalberto:—Ingo, io vorrei un greco, un latino, o un dimonio che fosse diverso da quel vostro filosofo stupendo.
—Ho capito.
—L'astrologo è diventato un fanciullo. E perchè non vi abbiate a pentire, Ingo, d'avere due soli occhi, vi do di che allegrarli a sazietà: queste le sono monete d'oro: ma l'oro non stemperatelo in inchiostri per onorare di fregi le chiacchere disutili dei morti, tenetelo per, voi che siete vivo. Avete capito?
—Ho capito!
Pel giorno di Pasqua di Resurrezíone, nella chiesa del castello d'Adalberto, diceva la messa un frate, e ad ascoltarla vi era il signore su un seggio, a destra dell'altare maggiore: a sinistra cinque cavalieri, in piedi, con più di cinque paggi in seconda linea, e di questi chi recava lancia, chi vessillo, chi coppa, e via, a seconda dell'omaggio che doveva rendere il proprio padrone. Messer Adalberto, perchè in quell'ora si gloriasse di tutta la sua dignità, vestiva una maglia lucente, a maniche, cappuccio e falda assai lunga, portava strisce di cuoio rinforzate da piastrelle di acciaio intorno alle gambe a stringergli i panni ruvidissimi e attorcigliati, scarpe acute pure di maglia, e speroni d'oro da combattimento. La spada a croce, col cingolo d'arme, e un cerchio comitale di ferro, gli erano accosto su un tavolaccio di faggio, sul quale anche si vedevano certe collane disusate, gli emblemi della perfetta cavallerìa degli avi, da Brunone suo a Sannuto, l'antichissimo fondatore dalla stirpe dei lupi d'Auriate. I vassalli comparivano quali in quel dì dovevano, cioè spogli di tutte le insegne che accennassero vita guerresca disgiunta dalla obbedienza al signore: avevano tonache succinte, corte, aderenti alle braccia e al busto, calze strette in gamba, di colore oscuro, usatti neri, puntuti, senza calcagni e senza lacciuoli.
Finita la messa, Adalberto si alzò, e fece cenno al maestro Ingo, il quale spiegò una pergamena: Guidello, divisato coi colori del suo signore, entrò, recando bastone e tromba, e su quello legò il bando pubblicato la settimana prima: poi si pose dietro il seggio di Adalberto. E questi, appoggiandosi con fierezza ai bracciuoli, si drizzò in piedi, come per degnazione, levò la destra all'altezza delle teste, quasi per deprimerle, e—Cavalieri,—disse:—quello che lesse il nostro araldo è quanto noi pensammo e pensiamo. La festa fu celebrata nella chiesa a maggior lode di Dio, il quale ci diede il potere.—Queste le parole, ma il pensiero ben diverso.
Il signore sedette, comandò a Guidello, e Guidello gridò i nomi, giusta l'ordine della nobiltà più antica. Venne innanzi Gisalberto, conducendosi allato due paggi, uno che reggeva la lancia, l'altro il vessillo su un'asta ferrata. Poi il cavaliero Ugo….
Questi aveva vesti nere, affatto nere, lo scudo coi propri colori ricamato sul petto, gli sproni d'oro ai piedi: chi l'avesse osservato bene, come certo notarono i baroni che stavano con lui, avrebbe scorto che il suo ampio giustacuore era stretto fìn sotto alla gola, e non lasciava vedere la striscia bianca del collare, sì bene una gorgera a fìtti anelli d'acciaio, i primi giri della maglia del giaco. Il suo volto aveva certe rughe sulla fronte che di sicuro non vi avevano impresso gli anni, i quali erano pochissimi; capegli rabbuffati, come quelli che di recente si fossero sprigionati di sotto il ferro di un elmo; gli occhi che pareva guardassero innanzi l'adempimento di un disegno, e chi sa quale, a giudicare dalla pertinace contrazione delle labbra. Aveva Ugo uno scudiero, vestito pure di panni neri, un uomo dall'aria più spavalda che irata, il quale, porgendo le braccia in avanti, recava un cuscino coperto da un drappo colore di lutto. Messere Adalberto, durante la messa, aveva bensì cercato di fìggere gli occhi sopra Ugo, e di avvezzarsi tanto alla vista di esso, che, quando colui gli fosso per comparire innanzi, il sospetto e l'ira non trapelassero dalla sua persona, e così potesse accogliere l'omaggio colla stessa autorità con cui voleva ricevere gli altri: ma Ugo col suo scudiero ad arte tenevasi prima dietro ai cavalieri, poi anche dietro ai paggi, nel canto più oscuro, nella posa più dimessa. Aveva pensato Adalberto:—E dov'è il maledetto figlio di Oldrado? Forse che abbia sdegnato di presentarsi all'invito? O che tema qualche agguato? O che invece lo tenda?—e guardava sul tavolaccio la spada, rassicurandosi:—Il filo ne è liscio e lucente, messeri, e pare da gioco? Verrà giorno in cui sarà dentato come una sega, e insanguinato come quello che mi scuoteva innanzi il padre, quando mi disse che le merlature delle rôcche vassalle irridono da beffarde!—e qui Adalberto procellosamente risognava un assedio, come voleva!… O Dio! nel castello di Ugo non c'era più madonna Guidinga!… E messere, soffogando gli antichi strazi dell'amore orrendo nella sua ambizione infrangibile, saettava d'uno sguardo i cavalieri lì soggetti, e—Questo me lo diede il vecchio, e questo, e questo… Oh lasciate fare anche a me!—e si tormentava:—E quell'Ugo?—Guarda, guarda: l'aveva veduto finalmente! Era là, volto all'altare, appoggiato, come stanco, la spalla destra alla parete, tutto in ombra: la quale posizione non permetteva che si svelassero i distintivi che aveva sui talloni e sul petto. Pure lo sguardo acuto, reso acutissimo dall'odio, fece sì che messer Adalberto potesse dal profilo risoluto di Ugo leggere, e tanto e così rabbiosamente, che egli si dicesse:—Tal e quale il padre suo, quando mi invitò all'instituzione!
Allorché adunque Guidello chiamò messer Ugo di Oldrado da Lanciasalda, il cavaliero, tenendosi allato lo scudiere, si fece avanti con un certo passo violento che e' pareva movesse incontro al suo cavallo sellato per la zuffa, s'arrestò davanti al seggio del signore, come se aspettasse clamore di sfida, poi si chinò, e, chinandosi, diede a divedere tutt'altra intenzione che quella per cui era stato chiamato, toccò con rustica noncuranza le corregge degli sproni, quasi ad assicurarsi ch'elle fossero affibbiate. Messer Adalberto intese troppo bene, e, seduto com'era, colla persona appoggiata tutta sul bracciuolo destro, si storse tutto sul sinistro; ebbe un movimento verso il tavolaccio su cui gravava la spada, e guardò lo scudiero. Questi si stette ritto dietro il proprio padrone, e per verità tanto alzava il cuscino che si sarebbe detto scambiava l'atto della offerta con quello consueto di porre l'elmo al cavaliero.
Messer Ugo gli disse:—Offrite, o Bonello.
Adalberto vide il garzonaccio in volto. Ah chi era? Lo sapeva ora! Il giovanetto s'era fatto un uomo. Ecco il paggio stesso che recava lo stesso cuscino nero, colla stessa aria ribalda, con cui gli aveva detto vent'anni prima:—Messer Oldrado è pronto a darvi l'omaggio!—Adalberto fissò il garzonaccio. Costui, come se fosse ufficio suo l'operare sempre con tristizia, buttò giù dal cuscino il drappo, e sporse l'offerta. Intanto Ugo diceva:—Messere, instituzione collo sparviero.
Adalberto, prima di ricevere, guardò. Sul cuscino giaceva uno sparviero stecchito.
—Messere!—ripetè Ugo.
Il signore allungò la mano, ma la trattenne dal percuotere sul capo di Ugo, o dal venire dal sotto in su a gettare il cuscino ed ammaccare la faccia dello scudiero: contrasse i pugni ed urlò—Messere, pei falconieri disattenti ci sono le verghe dei servi!
—Oh conte, no!—rise allora Ugo colla sicurezza la più aizzante:—Non ti apponi bene. Lo sparviero era montano: si trovò di becco forte e volle divorarsi un cerbiatto: un ossicino se gli pose attraverso la gola, e tanto gli fece male che dovette morirne. Ti ho reso l'omaggio mio!—e si levò animoso.
Quando l'araldo chiamò messer Ildebrandino, messer Aginaldo, messer Baldo, nè Ildebrandino, nè Aginaldo, nè Baldo, si mossero: si strinsero accanto ad Ugo: e davvero fu ventura che essi dovevano presentare solo un guanto da astori, una coppa d'oro e gli sproni, perchè se si fosse trattato di spada, lancia e vessillo, attesto che quelle avrebbero lavorato come il loro uso comporta, e questa avrebbe potuto servire di ultima coltre per messere l'infeudante. Pure qualcosa di gagliardo, si vide: il guanto cadde sfidatore sulle gambe di Adalberto: questi si drizzò come una biscia, l'araldo suonò dalla porta nel cortile. Allora i cavalieri non badarono all'altare, e si urtarono verso quello per toglierne le due armi già presentate all'omaggio: gli scudieri si rimescolarono urlando. Si sarebbe potuto fare, ma non si fece, perchè autorevolmente messer Ugo gridò:—Il segno è dato da noi: ma l'araldo avvertì di chiuder il portone e di chiamare le azze mercenarie!—E Gisalberto e Ildebrandino affermarono:—Qui ne vieta di colpire l'onore della cavalleria!—e uscirono tutti, frettolosi e tumultuanti, cercando scampo…
E, colle due armi e col pugnale d'Ugo, l'ebbero.
Oldrado di Lanciasalda è conte sconosciuto nelle istorie. Solo qualche poeta solitario, il quale si abbia posto tra mano il bordone e in testa il cappellaccio da pellegrino, e su per la valle di Po siasi arrampicato ad un mestissimo santuario dell'alpi, può aver letto quell'unico nome Oldradus, su un avello di granito: solo i bimbi del sagrestano, innanzi a quella chiesetta, s'inginocchiano vicino al luogo della requie… fra le poche ruine di un castello! Il poeta nell'impeto della fantasìa avrà interrogato quello squallore, avrà evocato la vita, e la polvere giacente inerte si sarà levata a potentissimo corpo, e l'anima sarà scesa in quello, come vento d'uragano!… Oh recate l'armatura, portate la lancia! Venite, vassalli, e inchinatevi all'omaggio, siate corteo alle mense giulive, fate ala per le uscite fragorosissime alla caccia! Arrendetevi, o nemici: le vostre bandiere serviranno di gualdrappe ai ronzini, i vostri nomi suoneranno infimi tra quelli de' servi… Che?… Porgete il salterio e cantatemi, o paggi, l'amore del cavaliero!… Era bella? Era fastosa? Era tripudiante nella vita delle castella?… Silenzio… I puttini del sacrestano s'inginocchiano davanti quell'avello. Perchè ancora il mesto e pietoso pensiero?… O bimbi, perchè il suolo è erboso lì davanti, perchè l'attenzione al vostro giuochetto infantile vuole che stiate sui ginocchi a spiare se la pietruzza, che uno di voi getta in alto, cade nelle manine o cade sul terreno… Forse a te, fanciulla, a te, maschietto, a voi che apprendeste l'alfabeto sul grembo della mamma, forse in quei giorni d'autunno in cui la scuola del paese è chiusa, e voi tutto il dì su vi state all'ozio, forse capitò sott'occhio quell'Oldradus, e voi raccoglieste a stizza ed a cattivo augurio, perchè vi rammentò una lettera dimenticata del libricciuolo, e un inverno che verrà, e una bacchetta minacciante, sempre a stizza ed a cattivo augurio!…
Oldrado fu cavaliero a sperone d'oro. Io non so quando nascesse, nè come crescesse. Me lo presento al suo castello, appoggiato ad una colonna nella stalla dei cavalli, rivolto ad Ugo, il quale fa porre la sella d'arme al suo puledro membruto.
—Tu sai quanto abbisogna ad un conte.
—Messere sì. Conoscere la propria lancia, conoscere il cavallo, non conoscere una cosa sola, la paura.
—Ad un cavaliero per farsi con onore porre la propria spada accanto, quando venga calato nella buca dei maggiori?
—Avere molti nemici, come diceste voi.
—Basta?
—Averli vinti, come voglio fare io.
—Ricordati che sei di messere Oldrado!—e il padre si strinse con amore guerriero il giovane, ed io affermo che vi ponesse la istessa forza e la istessa intenzione, che usava, serrandosi al suo cavallo, per inseguire un nemico.
Ugo moveva ad un armeggiamento ad armi cortesi, per il che il padre lo domandò con scienza sperimentata:—Sai come si chiama il rischio a cui tu corri?
—Giuoco.
—Si chiama giuoco, perchè, per quanto tu faccia, non potrai mai forare da banda a banda il tuo avversario. Conosci la tua lancia?
—O messer sì. L'asta è fatta col legno folto sulle nostre rupi, e il ferro si chiama da passafuora: quella è tre volte di lunghezza la persona, per attestare che tre virtù sono necessarie a chi la maneggia, fortezza nel pensare, fortezza nel fare, perseveranza sempre: quello è assicurato da quattro chiovi, per dichiarare che quattro sono i nemici da vincere, quelli dell'onore, quelli del nome, quelli del potere, quelli della religione.
—Conosci il tuo cavallo?
—Meglio che se fosse mio fratello: è baio sanguigno, balzano della staffa, sulla testa segnato di cometa.
—Conosci la paura?
—Voi pure non me la dipingeste, conte, ed io dico che ho troppo bene appreso alla scuola vostra.
Ugo, afferrata la criniera dell'animale, stava per saltare in arcioni, se non che Oldrado:—Sei pure impaziente! Non vedi che tu, uscendo a cavallo di qui, ti romperesti la fronte nell'arco della porta? Chi t'ha insegnato a metterti in sella come un indiavolato?
Il giovane superbissimo di questo rimproccio che tornava a tanta sua esaltazione, ripose il piede in terra, si fece portare la sua maglia e il piastrone del petto, indossò l'una, si affibbiò l'altro, cinse la spada che era appiccata alla colonna, e, come si provò saldo, disse:—Avete ragione, padre, messer Adalberto non ci viene incontro di certo.
E il padre:—Conviene esser leali: neppure fuggo.
L'armeggiamento fu vinto con assai gloria da Ugo, e, quando questi, alla sera, stava nello stanzone dell'arme, Oldrado, ruvidamente passandogli la mano tra i capegli per disbrogliargli certe ciocche grommate di sangue, Oldrado gli parlava:—Ti ho avvertito: figliuolo, andavi a giuoco: pure se da quello che tu hai operato devo presagire di te e del mio casato, fatti cuore e pensa che il giuoco fu buono. Dimmi: chi ti diede questa?—e il padre gli toccava la scalfittura del capo.
—Oberto, nipote d'Ildebrandino!
—Oberto, mi dicono lavori assai bene di spada.
—Ed io di lancia! Lo pagai a mille doppi, facendolo staffeggiare al primo incontro, ruinandolo giù dalla sella al secondo, schiodandogli il piastrone al terzo.
—In oggi sei degno di tuo padre! Ed oggi è deciso che io ti parli assai gravemente, e tu mi ascolti con quella reverenza che si conviene a chi si accinge a prestare un giuramento. Ti ripeto: figliuolo, andavi a giuoco, ma fatti cuore, e pensa che fra poco devi cambiare gli speroni d'argento in altri d'oro, e saranno quelli del padre.
Ugo, che per sentirsi dire tali parole avrebbe voluto ritornare dalla lizza anche col petto squarciato o la testa fessa, si toccò la scalfittura, con atto così rozzo e spietato, che il padre gli domandò:—Ugo, che fai?
—Voi mi concedete troppo onore: io ho sofferto poco e non lo merito!
—Oh pensa! pensa, figliuolo mio: non darti cura se l'operato ti pare così inferiore al guiderdone: questo, sta sicuro, ti offrirà da fare più che tu non creda e più che non comporti il tuo debito. Io condanno il tuo capo ad ogni sorta d'affanno, e tu, pronunciando il giuramento, avvelenerai le tue labbra con tutta l'amarezza della maledizione e ti dilanierai il cuore con lo strazio della vendetta!—lamentò Oldrado.
—Accetto il tormento del corpo e dell'anima, se voi mi credete capace di fortissimi fatti!—esultò Ugo.
—Figliuolo, sì, ti saranno cinti… Ma ricordati: non è solo la mano scabra del padre che ti porgerà gli sproni: un'altra manina, lenta, dilicata, bellissima… La destra di tua madre!—e Oldrado rise con tetra ironìa.
—Requie a lei!… Come? Voi non me ne parlaste mai?
Oggi…?—maravigliò Ugo.
—Perchè sia requie ai morti, vuolsi guerra tra i vivi!
—Padre mio, ditemi! Ed io vi affermo, per la promessa che mi avete fatta, che questa sera medesima mostrerò ai vostri nemici ch' io so reggere l'armi di messer Oldrado!
—Io ti dirò!
Il figliuolo con piglio militare tolse da un trofeo la spada del padre, se la pose innanzi, appoggiò le mani sopramesse al pomo, e levò la persona così gagliardamente, che e' parve già cavaliero. Messere Oldrado se gli allontanò d'alcuni passi, fece scricchiolare il dossale di un seggiolone, poi si alzò e tremendo nella posa, e colla tempesta nella voce, incominciò:—Figliuolo, quanti anni hai?
—Voi sapete: venti.
—No, io non so, perchè i tuoi li misurai dall'angoscia, e questa degli anni fa secoli! Dici venti, e sarà bene: da venti anni è morta tua madre, madonna Guidinga! Ascolti?
—Ascolto.
—E fremi! Qual ricordo hai tu della tua infanzia?
—Rammento una sala deserta, oscura, vastissima e in quella una donna.
—Non era tua madre!—interruppe irosamente Oldrado.
—Sulle sue ginocchia, mi pare… Ma se stavo su quel grembo, ricordo che ci stavo piangendo, e se piangevo, lì vicino… schiacciante e formidabile, al solo mio agitarmi, una mano guantata di ferro, mi sembra mi sorreggesse, dondolandomi, e con aspra cantilena una bocca m'invocasse il sonno.
—Tuo padre non sapeva più che fosse carità!
—Rammento i portici paurosi, una cappella sempre parata a lutto, e, sotto gli archi, fra i neri drappi, io so di certe strisce candidissime, fumose, che mi apparivano innanzi gli occhi… le dita come di una larva…
—La madonna perduta!—gemette Oldrado, e si fece segno di croce.
—Padre mio, sì, nell'aria c'era qualcosa che mi ammaliava… Io non so… Ero fanciullo, e sempre, sempre solo! Amavo il silenzio, la notte, la vasta oscurità: tacevo, mi rannicchiavo, affranto sotto il peso di un mistero, ficcavo gli occhi nella tenebra… Qualcuno era con me!… Chiamavo, spiavo, salutavo!… Perchè fuggi? Ma chi fuggiva? Fuggiva per ritornare: ritornava per fuggire… Chi era?
—Ascolta, figliuolo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
—Come l'amai! Oh madonna Guidinga! Ella fu dell'invitto Eude, il quale, conducendola sposa a questo castello, con lieto seguito di baroni, annunziò il suo gaudio nel proclamare che la diletta usciva dal portone degli avi per entrare grande signora in quello di un cavaliere di Lanciasalda. Eude dall'anima altera e fatta audace colle lotte sostenute per conservare la sua indipendenza dalla rapacità dei castellani più forti. Guidinga pose il piede in queste sale, e sorrise! Ma oh la gioia si andò, come suono di salterio nella bufera!… Sorrise! Mi parve bella, immacolata, come le nevi delle nostre cime, promettitrice di pace, come un'alba rosata: colle manine che dovevano spargere fiori! Aveva diciassett'anni o poco meno. Chi era Oldrado? Ella nol conosceva.
Messer Eude le aveva detto:—Lo sposerai—ed ella aveva risposto:—Sì,—mestissima, come all'ancella, che sedevale da' piedi, toccando l'arpa nei crepuscoli, e che le rimproverava:—Madonna, non cantate più le laudi?—come all'ancella rispondeva:—No, cara.—Inconscia di tutto, melanconica o gaia, cupida di fantasìe ultraterrene, Guidinga conosceva non l'amore, ma l'irrequietudine, e questa la sospingeva, la sospingeva nei voli del desiderio… Dove aleggiava, sorradendo giardini dalla eterna primavera, la sua mente desiosa?
—Chi è il mio sposo?—domandava la gentile al padre, varcando il mio ponte.
—Figliuola: i cavalieri della stirpe di Oldrado e le fanciulle della mia usarono sempre di darsi la mano, quelli togliendo la destra dall'elsa della spada adoperata nel combattimento, queste offrendo la ciarpa d'onore al vittorioso. Così si conoscono la prima volta.
—Perchè si ritarda adunque dall'armi? Chi sarà il mio sposo?
—È Oldrado.—Così diceva messer Eude. Lo sposo doveva essere vincitore: se vinto, supplicava l'avversario di misericordia, e misericordia somma era l'essere ucciso con un solo colpo. Allora la sposa dallo steccato funesto passava diritta al monistero, ove dichiarava all'abbadessa:—Dio Sapiente ben provvide: piuttostochè essere donna di marito fiacco e madre di figli che un dì possano seguire l'esempio del padre col vitupero di mia schiatta, piuttosto consento ad essere sposa del Signore e madre dei poverelli. Ciò a salvazione dell'anima e a soddisfacimento dell'onore. Voglio prendere il velo.
Guidinga sorrise ai giovinetti cantori che la salutavano regina della beltà, fiore della gentilezza virginea, speranza del signore e dei vassalli! Sorrise e fece doni, e si ammantò di bianco, e, a mano del padre, attraversando le corti del castello, affollate e rumorose, uscì alla spianata, entrò nello steccato, e s'assise al posto eminente.
—Chi è lo sposo?—ridomandò la giovinetta ad Eude.
—Ti dissi.
—Fate cominciare l'armeggiamento.
Figliuolo, in quell'istante io non potei togliere gli sguardi dalla sua bellezza delicatissima. Ero tutto serrato nell'armi, e mi sentivo soffogare dall'ardore di mostrarmi degno di lei, dalla brama perigliosa di cimentarmi con qualunque avversario, dalla preghiera sfidatrice che io lanciavo al cielo:—Mandami il piu formidabile cavaliere! Io ti giuro che ella, non ravvisandomi dall'armi, mi ravviserà dall'imprese superbissime. Ella deve esser mia! Moglie di gagliardo guerriero, madre di figli i cui vagiti si mescoleranno agli squilli vittoriosi delle trombe paterne!… Vengano, vengano i forti!
Vennero: arnesati, io non li riconobbi: però il mio scudiero Unfrido mi disse:—Là è Baldo, questo è Aginaldo, quell'altro il Montanaro. Messere, per amore del nostro santo protettore, state saldissimo contro Baldo! Messere, l'altro è debole sulle staffe. Il Montanaro vien sotto, come un toro inferocito, ma nella furia… Ed io:—Lo so.—E pensavo, guardando la bellissima:—O Guidinga, tu attendi! Qui vi sono i cavalieri, nessuno ha distintivo nell'armi, e tu non conosci! Oh il tuo cuore ti dice: "Vedi! eccolo!" Non lo sai?… Vittoria! vittoria! Fra brev'ora lo saprai! Alzerà l'elmo! Lui! eccolo! eccolo il trionfante Oldrado!
L'araldo del primo campione gridò:—A cavallo!
Lo scudiero mi susurrò:—Messere, ascoltate un fedele: fate il giro dello steccato e fermatevi di là: così non avrete il sole negli occhi.
Corsi lo steccato: trovai il cavallo, mi serrai su quello. Ad un tratto mi soccorse un pensiero:—Mi riconoscerà dall'animale bianco!-ma dai pertugi dell'elmo vidi che Unfrido, il quale ancora mi era accanto, faceva un certo viso da traditore che mi sapeva maladettamente, vidi che io non avevo sotto il mio bianco, sibbene un morello!
Con l'aiuto d'Iddio, abbattei il primo avversario e il secondo, e lo steccato così suonò d'applausi.
Dopo udii che si diceva, non so da chi:—Ma come? Messer Oldrado non si muove?—È sempre là ritto accanto al suo cavallo bianco.—Era lui che doveva fare tante prodezze!—Come sapete che è Oldrado? Non si deve conoscere alcuno nell'armi.—Sì, non conosce chi non vuole. Chi dei castellani a venti miglia tutt'ingiro ha un bianco come quello? E poi rispondetemi se quell'armato là non è Oldrado, se dal cavallo si fa ragione del cavaliero.—Ma vedrete!
Io mi tormentavo:—Oh perché mi fu cambiato l'animale? Che giuoco c'è sotto? Ed io non dovevo accorgermi?… Ma Unfrido mi avrebbe dato l'usbergo che si smagliasse o una lancia fessa, o addirittura una coltellata alle reni, quando mi vestiva il saio di pelle! Ma il cavallo me l'avrebbe mutato con uno tristo! E invece questo pare nato per le mie ginocchia! e l'armi saldissime! Chi ha pagato Unfrido? E dov'è? Là proprio vicino al mio bianco e tiene la staffa al cavaliero. Chi è quel cavaliero? Per Dio! quell'animale è tutto fuoco, e crede di reggere il padrone! Chi è quel cavaliero?
Facendo il giro dello steccato, passai sotto al seggio di madonna, e sa il cielo che cosa fantasticai: parvemi che una manina tremante mi levasse l'elmo, sorretto da' miei polsi febbrili, e due labbra mi baciassero sussultanti, acclamandomi già vittorioso: mi rizzai sugli arcioni con grande orgoglio e fui lì lì per gridare:—O vergine, voglio per te farmi degno di alto onore!—Dimenticai Unfrido e il bianco mio… No, che non li dimenticai: me li sentii tosto fitti in cuore ad atroce martirio e per opera tanto villana, che, ti dico, poco stetti ch'io non balzassi giù ad adoperare sulle schiene la mia spada, come si usa coi traditori. Senti: proprio sotto a quel palco due garzoncelli parlavano assai clamorosamente, e volti colla facce all'insù, perchè madonna ascoltasse.
Diceva uno:—Chi è lo sposo?
E l'altro:—Non lo sapete?
—Costui che passa, a lancia alzata?
—Oh sì! costui sa fare tanto d'andare ruzzoloni nella polvere, come un mastino trattato a calci.
—Come? se vinse i due?
—In grazia di sortilegio.
—Dite vero?
—Vedrete la terza impresa se vorrà essere così scempia: la terza si corre tra messere dal cavallo morello e quello là dal bianco.—
—Chi è quello?
—Evviva lo sposo!
Mi sentii le briglie tra mano e la lancia alla staffa, perchè suonò la tromba. L'ignoto avversario mi venne incontro: alle punte opponemmo lo scudo, ma nessuno colpì, per il che, scagliate le aste, diemmo mano alle spade. Era combattimento di due valentissimi… Quando si levava dalla moltitudine il grido di:—Viva lo sposo!—io l'ascoltavo con tale tumulto di gioia e di spavento di non meritarmelo, che tempestavo di braccia, come un fabbro sull'incude, e l'altro addoppiava la furia verso di me. Maledizione! una volta intesi:—Viva lo sposo!—e fu contrapposto, parmi, da due vociacce sotto il palco di madonna:—Viva il cavallo bianco!—Che fossimo in due a meritarci quel grido? Io non sapevo quale, ma certo si celava insidia! Per il che badavo nel tirare le botte ad accompagnarle col nome di qualche santo. Figliuolo, potei finire una litanìa e ancora incominciarla e ancora finirla: pure nessuno di noi consentiva a cedere, e il giuoco cortese s'avviava ad essere duello a tutto transito, con grandissima festa degli spettatori.
A un tratto l'araldo squillò, come si usa quando si ingiunge di cessare dall'armi. Nessuno di noi obbedì, tanto eravamo odiosi, e, menando quegli ultimi colpi, procuravamo con potente ira che fossero i mortali. Di nuovo la tromba suonò grave, e allora io, tra il dare un fendente, lui tra il pararlo, ascoltammo queste parole:—Cavalieri, per la cortesìa della dama.—E noi lasciammo andare le braccia penzoloni: in quel momento di posa alla tempesta del corpo in me successe quella dell'anima: il perchè io ruggivo domandandomi:—E chi è questo dannato?—In lui, credo, succedesse altrettanto, perchè ascoltai una bestemmia atrocissima verso Dio! Stemmo l'uno contro l'altro, e, se non era l'araldo a porre il suo bastoncino tra noi, io dico ci avremmo scambievolmente fatto contro qualunque tradimento. Eravamo di posizione vicino al palancato di legno e vicinissimo al palco di madonna. Si alzavano d'ogni intorno le grida: chi parteggiava per il morello, chi per il bianco, chi per lo sposo, chi per l'avversario, chi pel sinistro e chi pel dritto. Messer Eude non poteva restare indifferente a tanta lotta di favori, egli già maestro di cento feste d'armi e già vecchissimo guerriero in cento battaglie, si levò… Non so che facesse, tra baroni, perchè io aveva impedita la veduta dalle gocce di sudore, so che udii anche la sua voce:—Lo sposo principiò colla offesa e finì colla offesa…—Madonna del cielo! Se io avessi potuto vedere come si stava Guidinga! Sì, che vidi ad un tratto, vidi che sventolava una ciarpa!
Pesti, ansanti, a fatica retti dai cavalli, prendemmo postura riverente dinnanzi ai gradini della dama, ed ascoltammo l'araldo: questi proclamò, un giudice, messer Eude.
Tra il silenzio Eude parlò:—Da valenti cavalieri. Il giuoco fu aperto con gagliardìa, sostenuto con scienza, finito… No, messeri, finito non può dirsi: pure io, re d'armi, dichiaro che sia finito, e ognuno di voi faccia promessa di attenersi al mio detto. L'accanimento mi piacque! Per il che io dichiaro qui che nessuno dei due combattenti procedette per virtù occulta: ambidue invitati a comparire innanzi al seggio della regina. A me è data facoltà di instituire i premi: lo sposo avrà la ciarpa, il valoroso compagno un bacio di madonna. Così si potrà dire che l'uno e l'altro avranno bene meritato.
Noi due avversari, scavalcati, ci demmo la mano, poi a paro venimmo sotto al palco di Guidinga.
Ella mosse incontro al mio compagno: egli si levò l'elmo… Era messere Adalberto!… Guidinga sorrise!
Eude mostrò grandissima sorpresa, e domandò:—Ma chi aveva cavallo, bianco?
-Lo sposo mio!—affermò vivacemente la donzella, e di nuovo sorrise ad
Adalberto, come ad un arcangelo.
Eude mi tolse l'elmo…—Messere Oldrado!—esclamò, e volto a Guidinga tristamente:—A lui il bacio: ad Oldrado la ciarpa—Ed io non so come si tenesse in piedi:
—Chi aveva cavallo bianco?—domandò la fanciulla dolorosissima.
Adalberto ricevette il bacio… Era bellissimo il giovane: era bellissima la giovinetta! Io, sposo, non potevo che piangere!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qui il cavaliero narratore interruppe il racconto, tormentandosi gli occhi perché non dessero lagrime; e la luna che entrava dal finestrone fu riflessa da un guizzo; terribile, la spada di Oldrado negli artigli di Ugo.
—Figliuolo, che fai?
—Vorrei fare quello che non faceste voi!—rampognò trucemente la voce del figlio.
—Giudicherai se queste erano parole da dirsi ad un padre!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Adalberto aveva veduto una sola volta Guidinga, ad una caccia, nei lontani monti di lei, quand'ella era a fianco di Eude: ma una sola volta bastò per aizzare nell'anima maledetta una passione così rovente e rodente di desideri, che il cavaliero ghignò di volerla un giorno nelle sue braccia!
Inconscia di tutto, melanconica e gaia, inesplicabile e cupida sempre di fantasie ultraterrene, Guidinga conosceva non l'amore, ma la tremenda irrequietudine de' suoi sedici anni e delle sue sventure, e questa la sospingeva nei voli del desiderio… Ella aveva veduto Adalberto! Dal di della caccia fino a quello dell'armeggiamento era scorso un anno senza più che l'uno si abbattesse nell'altra: nulla ella sapeva di lui, neppure il nome: nè mai il padre parlò. Sapeva che per lui, più notti, il cuore le si era scosso nei tumulti febbrili! Poi si sentì spossata! Nei sogni l'immagine di Adalberto veniva, ma coi mesi e coi mesi sempre più sfumata… Ed era vestito di bianco e per lei sorrideva e piangeva (Adalberto!): ma non aveva profilo; le linee si perdevano nell'espressione; era una gioia, un dolore carissimo. E Guidinga sempre più diveniva ansiosa di fantasìe, e spandeva l'anima sua nella immensità dei cieli, ponendo negli azzurri l'ideale della vita poeticissima, e là sfavillava di tutte le luci il suo desiderio, e là la gioia e il dolore avevano tanta voluttà di dolcezza, quanto mistero l'infinito!… Svegliata dal suo delirio abituale, nella vita di quaggiù più non trovava cose degne di lei, provava la noia del cammino dopo lo slancio placidissimo del volo! Svegliata, più non chiamava lo sposo! Quando il padre Eude le disse:—Sposerai Oldrado-ella rispose:—Sì—perché certo pensava:—È lui!…
—Ma se è lui… perché sciupare colla realtà l'ideale affascinantissimo che io ho nell'orizzonte tutto mio? E se non è lui… perché vivere, se questa è vita d'anni e quella sognata è eterna e sempre inebbriata d'amore?—e disse all'ancella che più non amava le armonie: la musica è divina e dell'anime blandite dalle lusinghe dell'ignoto…
Richiamata alle scosse della esistenza giornaliera, la sua indole fece sì ch'ella dinnanzi agli occhi portasse sempre un lembo di nebbia iridescente, la nebbia dai vortici pieni di sogni, la quale, posandosi sugli oggetti veduti o intraveduti, li rendeva circonfusi di luci mitissime, li tuffava come nel crepuscolo dileguante di una visione. Così l'ideale si sfumava col reale: e il volto del padre cavaliere divenne buono e tutto per lei, la imagine della madre sepolta si presentava alla culla, o quella dello sposo veniva, veniva, come nei primi giorni… Che? il viso di messere Adalberto. Guidinga domandava:—Dov'è lo sposo?—e poi sorrise.—Sarà per me: o lui, o il monistero! E se nell'armeggiamento egli restasse vinto?—E tacque, fidentissima, con Eude.
—Messer Adalberto sapeva di struggersi, non sapeva d'essere amato. Per furore di gelosia giurò (perchè non voleva scoprirsi a lei se non con atto tale che facesse parlare tutti i cavalieri) giurò di uccidere me Oldrado e di vituperarmi, insomma in modo che ella fosse non mia, come l'ebbi richiesta! E che non fosse nemmanco del monistero lascia fare a lui! Era prontissimo ad ogni sacrilegio. Così si presentò al giuoco, comperò il mio scudiere, per far credere lo sposo dal cavallo bianco autore di tante prodezze, mentre poi alla fìne Oldrado doveva esser trovato morto, e lui colmo di tutto l'onore! E Guidinga… Oh! fu aiutato dalla fortuna più che non credesse: la decisione del re d'armi lo ammise al bacio della dama! Si levò l'elmo..; O Signore! Guidinga guardò il suo volto e il mio!… Guidinga bestemmiò a me condannato il corpo di lei, ad Adalberto benedettamente dedicava tutta l'anima!.. Ci sposammo, ma, se a vece della ciarpa a toccare il petto dalla parte del cuore, a vece della corona di fiori d'arancio sul capo, ella avesse dato a me tante stoccate, io a lei una corona di spini, noi avremmo offerto a Dio la espiazione delle nostre peccata! Guidinga da angiolo divenne, dimonio!
Dopo nove mesi ella portava sozzamente nelle viscere il beffardo frutto dell'odiatissimo nostro connubio, e giurava e spergiurava che perdere madre e figliuolo sarebbe stato opera meritoria. Io la facevo di continuo guardare. Un giorno ella era presa da strazianti dolori; io origliavo all'uscio attendendo… A un tratto di fuori al castello odo un suono di trombe, poi un paggio mi strappa la veste, gridando:—Messere! messere! i nemici!
—Chi è?
—Adalberto!
O Signore! nel castello so che eravamo male apparecchiati, scarsi d'uomini e scarsissimi di vettovaglie. Che fare? Oh che tormento fu quello! Resistere? Il sommo pericolo! Arrenderci? Il vitupero di mia schiatta!… Guidinga udì quel nome, e nel delirio proruppe:—Adalberto! tu vieni a togliermi da questo inferno!—Invocava il nimico, ed io aspettavo da lei uscisse o un bambino un dì destinato ad ascoltare il testamento del padre, o una bambina che avesse a dare ai figli col latte il veleno dell'odio! Ringhiavano le trombe al di fuori. Io mi precipitai dalle scale, ed ecco occorrermi il mio fedele Aimone.
—Messere, siamo perduti!
—Per Dio! ditemi! fate qualcosa!
E quegli dubitava:—Ricorrere alle armi…
—Ricorriamo al tradimento! E che fece egli con me? Per Dio!—e mi accordai con lui, e conclusi:—Dammi un pugnale avvelenato, e tu a tempo sbatti la porticina nel corritoio.
—Messere sì!
—Dammi un pugnale avvelenato: e lascia a me la cura di sgozzare
Adalberto!
In cima allo scalone ascoltai un grido così feroce che mi rivolsi e temetti di avere alle terga il nominato: guardai e vidi madonna che, nuda, oscenissima e sanguinante, si rotolava giù di gradino in gradino… Accorsi, più che per odio a lei, per amore furioso della creatura che si teneva in seno!… forse già schiacciata per le violenti percosse! Accorsi e la avvinghiai, ed ella con affanno straziantissimo, supplicandomi ed imprecandomi:—Messere, salvate Adalberto! Non fate tradimento! Non fate, per pietà dei sette dolori santissimi!
Ed io:—Datemi la mia creatura!
—Sì!
—Datemela!
—Salvatelo! Che vi ha fatto! V'ha fatto troppo! Ma era destino così!
Perdo le viscere!
—Datemi la mia creatura!
—Si, vi giuro! Giurate voi di non fare tradimento!
—Lasciatemi!
—Ho giurato! E voi siete così sleale! Voi siete cavaliero? Ah so! non giurate perchè siete dannato nell'altra vita! Non credete in Dio!
—Madonna! vi giuro!
—Vieni, o mio Adalberto! Egli non ti uccide!—rincominciò ella nel delirio, ed io balzai dalla scala!… No! ritornai, e la trasportai nel suo letto, nel nostro talamo! E stetti al suo fianco, attendendo l'istante… Oh quelle tre ore!… Nacque il bambino:—sei tu! Entrò Adalberto nel castello, io gli prestai l'omaggio nella chiesetta. Quando gli dissi ch'ero disarmato e mi dichiaravo vassallo suo, gittai il pugnale, perchè avevo giurato a lei! Poi feci aprire la porticina del corritoio e tutte l'altre delle camere, indovinando il tristo pensiero di Adalberto. Quando il signore, correndo per il castello, venne al letto di Guidinga, trovò una morta, senza lume accanto, senza frate, senza croce fra le mani!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Così rompeva messer Oldrado il suo racconto. E fremeva:—Però nessuna occasione fu da me trascurata! Chiamo in testimonio il bianco spettro di tua madre! Ho ribellato Lamberto, mancai all'omaggio, comparvi al convito colla spada, feci percuotere l'araldo! Combattei! Ma non ebbi mai completa ventura, per maledetta condanna! Figliuolo, sei cavaliero: eccoti gli speroni: figliuolo, sei erede di tutto. Ecco il mio testamento!
Pochi giorni dopo Oldrado, trascinatosi nello stanzone del castello, cogli occhi smarriti cercava i suoi sproni, e, solissimo, là moriva percuotendo le sue armi. Un tristissimo malore, toltagli la ragione, l'aveva tutto disfigurato. Ugo lo volle vedere nel cofano aperto: e comandò lo si lasciasse giacere due notti ai piedi di quel tremendo scalone…. Dicono le cronache che vi venisse la _madonna perduta _e ripetesse la condanna:—Voi non credete in Dio!
Oldrado fu sepolto. Ugo si fece cupo, angosciosissimo, apparve come la fiera che tende l'insidia: temette le squille pei poveri trapassati, e, rammentando certi portici deserti, una cappella sempre parata a lutto, fingendosi alla fantasìa un dì in cui si sentissero suonare tutte le trombe del castello, correva al camerotto dell'armi, quasi attendesse ancora il padre, si travolgeva sul letto nel quale sapeva lui essere nato, essere morta la madre, interrogando:—È questa la vita a cui mi dannaste? Che delitto ho commesso prima del mio nascimento? Perchè nacqui colla maledizione?—e lagrimava nell'angoscia:—Ho venti anni! E in venti anni tre volte ho sorriso: quando la prima volta su un'altissima cima vidi all'orizzonte sorgere il sole, e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi raggi: quando suonò la tromba che mi chiamava all'armi: quando…. Non è riso, è sogghigno! Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo tanto deserto!… Dicono che ci sia il mare. Com'è il mare? Dovrebb'essere come l'anima… Com'è l'anima?—Non aveva mai parlato nè con una donna, nè con un frate, nè con un amico: e si sentiva rozzo, villano, cattivo, crudele, fortissimo, libero…. Con economìa di parole si esprimeva:—Mi sento tormentato! Voglio odiare! E voglio amare!
Il testamento di Oldrado era confìtto nella memoria e nella volontà di Ugo.—Vendicati! Sì, e poteva sorridere o sogghignare per la quarta volta: Adalberto stava sempre chiuso nel suo castello d'Auriate, forte d'uomini, e scaltrito dall'astrologo. Venisse il giorno in cui Ugo, battendo l'avello del padre colle calcagna spronate, potesse dirsi:—Mi ascoltate? Io non ho tempo d'ascoltar voi, se anche mi narraste le istorie del di là!
Venne il giorno, sì: quello in cui l'araldo bandì doversi prestare l'omaggio al signore. Ugo stava ai piedi della chiesa nella sua curte: c'erano pure messer Ildebrandino, Baldo, Aginaldo, e tra gli scudieri Aimone. I cavalieri ascoltarono, diedero mano alle borsucce, poi se ne andarono: Ugo, tenendosi vicino Aimone; gli altri dietro, legati da nessun aperto discorso, pure tacitamente affratellati da un odio solo.
Ugo disse allo scudiere:—Il meno che si sarebbe potuto fare?
—Messere,—rispose questi—dargli a masticare la pergamena.
—Ah! parli dell'araldo?
—In quanto a messere…!
—Ci abbiamo pensato!—attestò Ugo: poi—Aimone, hai conosciuto
Unfrido? Sai com'è morto?
—Vostro padre lo fece trascinare dall'istesso puledro morello. Ma perchè dite così?
—Per avvisare i traditori—Ugo disse ad alta voce.
—Per Dio!
Allora, udendo questo, Ildebrandino prese a camminare lesto, in modo da giungere a pari di Ugo, e aggiunse:—Per avvisare i traditori e i traditi.
Ugo, il quale struggevasi nell'ardentissime battaglie dell'anima, e in quel momento più che mai sentiva amaro l'essersi ingozzata la vergogna di quel bando, udendo le parole d'Ildelbrandino e notandone il tono, fu lì lì per gridare ai cavalieri: —Qua la mano e giuriamo vendetta!—E sarebbe stato ascoltato. Egli conosceva Ildebrandino, come Ildebrandino conosceva lui: si salutavano cortesemente quando il raro caso portava che fossero insieme, ma ognuno pensava tra sè:—Se quel valente mi fosse allato!—e l'uno e l'altro nella sommessione al comune signore, trovava, anzichè una spinta ad amicarsi ed operare, un argomento penoso per starsi lontani, sospettando che quegli potesse dire di questi, e questi di quegli: —Perchè ha sopportata tuo padre?—Perchè hai sopportato, come un giumento, finora?—Adunque Ildebrandino fu soddisfatto di aver dato appicco a quella conoscenza che sperava doversi stringere e mutarsi nella sospirata congiura, giacchè di Ugo presagiva molto, sapendolo valoroso e bollente. Ed Ugo fu contentissimo di avere con sua volontà eccitate quelle parole, buon indizio di tempra inflessibile.
Si fecero l'uno appresso all'altro, e il loro esempio fu imitato dagli altri due baroni, messere Baldo e messere Aginaldo: quello un vecchio ringhioso e impaziente; questo un cavaliero poderoso, guerriero quando ci fossero petti da passare fuori, non importa se d'amici o di nemici, cacciatore di lupi audacissimo quando gli mancassero gli uomini.
Si avvicinarono Ildebrandino ed Ugo, e siccome Aimone stette per porsi dietro ad essi, Ildebrandino, cogliendo l'occasione di più chiarire il suo animo e applicando il motto che ci si guadagna ad accarezzare il cane per il padrone:—Scudiero—disse:—avete capegli bianchi e l'essere invecchiato presso messere Oldrado so quanto valga.
Ugo si drizzò tutto, e trovò di concludere così:—O Aimone, imparerai ad aprire i portoni delle castella. Aimone, non farti scrupolo: quando portavi a mio padre la lancia pel combattimento ti facevi forse di dietro? Metti conto che il viaggio può essere lungo. Ma noi ci incamminiamo. Messere Ildebrandino?
—Con la grazia d'Iddio—rispose questi.
—E con la nostra volontà.
E i due cavalieri sporsero simultaneamente la destra e se la strinsero.
Il giorno di Pasqua di Resurrezione già abbiamo veduto come Ugo abbia fatto e Ildebrandino risposto.
I cavalieri eruppero dal castello d'Auriate, avviandosi dietro ad Ugo, e tale era la furia di voler la pugna che si udiva esclamare:—Messer Aginaldo, che dite?—Dico che vorrà essere ottimo giuoco!—Mandiamo i paggi per le armi!—Era tempo!—E i nostri montanari sono tutti pronti e vogliono le prede.—E quelli di Ugo!—Educati da Oldrado!—Orsù!
Ed Ugo gridava:—Ci vuole unione di consiglio.
—Dove andiamo ora?—interrogava rabbiosamente Baldo.
—Se ci attardiamo all'impresa siamo perduti!—gridavano gli altri.
—Volete combattere oggi?—domandava Ugo.
—Oggi!—Sì, sì, gli facciamo in tal guisa gli omaggi!—Oggi!
—Messeri—disse Ugo:—è giorno di Pasqua.
Aginaldo che non lo ascoltava o non voleva ascoltarlo:—Liberiamo le nostre castella! Gli avi le tennero sì o no? Più bella giustizia non si sarà mai resa! Chi è Adalberto? Chi siamo noi? Noi sì siamo i padroni dei nostri servi, ma noi non siamo servi ad alcuno: egli non può essere signore di gente libera.
—Messeri,—ripeteva Ugo:—vogliamo esser leali!
—C'è tregua fino a che il sole va sotto! Dopo si possono squassare quante lance si vogliono—diceva Aginaldo.
—Vero anche questo.
—E poi che cosa è il combattere? Conseguenza di una sfida che non si poteva fare? No, è difesa—esclamava il Baldo.
Qui parlarono di regole d'armi: gridarono, sempre camminando, per togliersi fuori dalla gittata degli archi saluzzesi, che potevano essere nascosti tra merlo e merlo o alle feritoie del castello.
Alla fine Ugo concluse:—Così non si fa alcuna cosa! Unione di consiglio e d'armi: per quella vuolsi che ognuno esponga recisamente: per questa che ognuno sappia di quali e quante forze può disporre. E per l'una e l'altra richiedesi obbedire a un capo.
Tutti intesero benissimo: Ildebrandino e Aginaldo ardenti di entusiasmo:—Voi!—cominciarono a gridare:—Voi il capo! Sappiamo come avete incominciato! Pensiamo come volete finire!
Egli, a vece di rivolgersi a loro, si volse a Dio, acclamando solennemente:—L'omaggio deve essere reso a Te solo. Noi non siamo torme di ribelli, perchè non erano torme di schiavi gli avi nostri ab antico! Dunque, cavalieri,—strinse Ugo:—dove ci riuniamo?
—Dite voi.—Dite voi.
—Più atto ad esplorare i movimenti che potesse fare il conte parmi il castello di messere Ildebrandino. Assentite, cavaliero?
—Per la spada di Sichelmo mio! Quando, e' saranno venti anni, venne Guidaccio sul mio torrione, avevo tutti gli uomini appestati da un certo pellegrino che ospitai. "Suonate per me: i nostri figli, spero, ricorderanno questi squilli" dissi. Figli maschi non ho: io voglio rispondere, io stesso, e con me il mio Oberto!
—Al castello d'Ildebrandino—disse Ugo.—Mezzogiorno è ancora lontano. Messere Aginaldo, quanto impiegate dal vostro portone a quello di Ildebrandino su un buon corridore?
—Io non ho cavalli grami—morse il cavaliero:—Con qualunque de' miei in due ore vi sono.
—Dunque, messeri,—comandò il capo dell'impresa:—fra quattro ore a
Rupemala.
—Non ho cavalli grami!—incioccò i denti Aginaldo.
—Non dico questo: ne è caso vi offendiate. Ad andare al vostro un'ora, a rassegnare le armi e i vassalli un'ora e mezza, un'altra e mezza dal vostro castello a Rupemala, o forse manco, perchè le vostre scuderie hanno tanta rinomanza quanto il vostro valore.—Così fu contento anche messer Aginaldo.
E si separarono.
Primo a mettere il piede sul ponte di Rupemala fu Ugo. Aveva tanto osato e tanto ottenuto in quel giorno, che per ambizione audace, tentava di cancellarsi dalla mente la memoria del padre e della madre, lanciandosi colla fantasìa in un combattimento vittorioso, per fare tutta sua la gloria dell'impresa. Quei fantasmi gli rubavano! E per Dio! suo l'ardimento, sua la valentìa che gli aveva sottoposti spontanei anche i vecchi cavalieri, suo l'accorgimento, e suo l'esito… E se fosse rotta? Oh rotta no, no! Che vitupero!…
Ugo entrò nel castello, perchè tosto al suo nome si aperse il portone: fu condotto in una sala d'armi, aspettò poco, osservò molto, computando quanti uomini si potessero arnesare subito con piastra e maglia, poi s'inchinò là dove la porta si spalancava. Venne innanzi messer Ildebrandino coll'usbergo sopra l'abito di pelle: e con lui un bellissimo giovane di diciotto in diciannove anni, pallido, aggraziato, più atto, a giudicare dalla sua persona, a toccare il salterio che a reggere il lanciotto del signore, come voleva il suo ufficio, e questo appariva dagli sproni d'argento.
—Oberto,—disse Idebrandino, prendendolo per un braccio:—questi è il cavaliero Ugo, il quale ti farà degno della sua stretta di mano quando tu avrai la fascia sull'armi.
—Non me la faceste promettere?—Oberto interrogò lo zio coraggiosamente. Si trovava di fronte a quell'Ugo che in un ultimo gioco l'aveva soperchiato in tre incontri! E quell'Ugo già aveva gli speroni d'oro! E lo zio, sperimentato cavaliero, s'inchinava a quel venuto del malanno!
—Quando messere Ugo lo creda,—disse Ildebrandino.
—Quando io la meriti!—interruppe Oberto.
Ugo davvero incominciò ad amarlo.
Vennero i cavalieri, e furono presi gli accordi per la dimane Ildebrandino con Oberto sopraintenderebbe alle macchine guerresche: messer Aginaldo darebbe gli arcieri più abili, coi capitani Guelardo ed Irnando: Baldo vi unirebbe i suoi savoiardi con Aldigero e Ugonello, al cavaliero il comando dei cavalli di retroguardia: a Gisalberto il servizio di esplorazione notte e giorno co' suoi, Oddone, Eleardo capo dei saluzzesi armati di scuri: Ugo alla testa di venti valentissime lance regolerebbe le mosse di vanguardia e d'investimento: e via, e via: i castelli non istarebbero sguerniti: si lascerebbero armi ed avvisatori in ognuno di essi.
Come voleva la cortesìa delle usanze, i messeri furono convitati. Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante di mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di lupi. Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio, allentarono le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono andare giù sui panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere, perchè un posto, e il più eminente, rimaneva vuoto. Nè attesero a lungo: si sollevò l'usciale della sala, e un paggio, affacciando mezza persona, annunziò:—Madonna Imilda.
Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia, di vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura, cinta su da uno scheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo appuntato: s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole dal padre, s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a sinistra il suo parente Oberto.
Ildebrandino così la salutò:—Valenti, udite: la figliuola mia sa assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate in modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi; e la sua bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci grazia!
Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì nostri, e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio per la domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non aveva tagliere dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il che era richiesto dal suo decoro verginale.
Ugo guardava… La smorta faccia di Oberto non era faccia che egli si potesse dipingere incorniciata di maglia, colla bocca che impreca ai nemici, col naso fiutante la polvere del combattimento, cogli occhi dai lustri audacissimi… Imilda, melanconica e dolcissima, aveva l'aureola dei biondi capegli, le labbra dischiuse al canto amoroso, le nari voluttuosamente ebbre come d'alito profumato, le pupille lente nel sopore placido delle visioni insidiose.
Ugo guardava irresistibilmente. Il viso di Imilda gli pareva sfumasse nelle nebbie di un sogno. Che sogno? Oberto toccava il salterio: ella cantava le laudette religiose. No! no! Oberto riprendeva lo strumento e atteggiava la persona al mollissimo abbandono dell'amore.—Per l'inferno, spezzategli le corde!—Ugo con moto improvviso sorse, e si cinse la spada, poi ne morse gli elsi con potentissimo affetto.
—Chi siete?—una e due volte domandò Imilda ad Ugo.
—Sono il figlio di Guidinga.
Imilda lo interrogò con un lungo sguardo. Ed Ugo nuovamente pensando:—Com'è il mare?—si rispose:—Dovrebb'esser come l'anima quando è in tempesta! Come l'anima quando sorge il sole!
E veramente per la prima volta sorrise….
L'indomani mattina Ugo era capo di un drappelletto di lance in vanguardia, moveva al castello di Adalberto, e così parlava ad Aroldo, un capitano di Gisalberto, che gli era accosto:—Io vi dico che la sorpresa deve riuscire benissimo. Sentite: lo spione che inviammo colà all'alba ne tornò dicendo essere il portone guardato bensì, ma pure aperto per dare accesso ai carri che vanno e vengono da' vassalli per le provvisioni, perocché il messere teme l'assedio. Dunque i pochi balestrieri di Aginaldo girano per di qua e si presentano sotto le torri, alla facciata secondaria; là l'offesa, là pure si concentrerà la difesa, e intanto non vorranno cessare i carri e le carrette di passare col necessario, tanto più che essendo debole l'investimento non darà luogo a soverchie precauzioni. Si penserà, state sicuro, al pericolo avvenire; quello della fame. Quando noi lance avremo il segno di sbucare dalla selvetta, di rovinare giù al portone…
—Sentite o non sentite?—l'interruppe Aroldo:—St, st. Fermate i cavalli. Sentite?
—Per l'anima di Oldrado, se è tromba! E i balestrieri non sono ancora a posto!—meravigliò Ugo.
S'udì ancora uno squillo venire dalla banda del castello, ed ecco poco dopo, alla svolta della strada, di lontano, comparire un gruppo di cavalieri, coi pennoncelli spiegati.
Ugo si drizzò sulle staffe e disse a Aroldo:—Guardate che colori sono quelli.
—Azzurro e bianco.
—Colori amici. I pennoncelli d'Ildebrandino. Ma come…?
—Tre cavalieri e due paggi da piede… cioè tre cavalli e quattro cavalieri. Oh come ci sta a disagio quel messere! Su un animale due cavalcatori! Che quella fosse fuga?
—Ma chi diede ordini così? A chi si obbedisce? Suonò forse il mio trombetto?—e Ugo tormentavasi e già malediva i nomi degli altri capitani.
Avvicinandosi la compagnia, poterono meglio vedere. Aroldo notava e riferiva:—Conosco il cavaliero: è Oberto.
—Oberto?—e Ugo diede una rabbiosa strappata di redini al cavallo: poi, per non farsi scorgere, accarezzò la criniera dell'animale, dicendo:—Con questa furia atterreresti un portone!
—È Oberto con Bonifacio ed Eustachio.
Venivano, venivano: erano a pochi passi: s'arrestarono. Oberto trionfalmente scosse la lancia, dicendo ad Ugo:—S'incomincia bene. Facciamo suonare la vittoria nostra dalla bocca del nemico! Bonifacio, mostrate che caccia si è fatta.
Il nominato saltò d'arcioni, e fece grandi sforzi per trascinare giù dalla groppa del suo cavallo quel secondo cavalcatore, un uomo a sarcotta discinta, a capo scoperto, il quale colle braccia piegate dinnanzi si celava la faccia per vergogna, ed aveva al collo una tromba. E dalli e dalli, pesta e ricevi, a conti fatti, il prigioniero rotolò giù e fu messo tra due cavalli, intanto che Eustachio dal sacco della sella apparecchiava una fune gagliarda… Era Guidello l'araldo!
—Messere,—disse, Oberto ad Ugo coll'aria di chi finalmente parla da pari a pari:—lo zio voleva ch'io mi rimanessi alla scorta degli artífici militari. I trabuchi e le manganelle li ho anch'io!—e diedesi a muovere le braccia, come se rotasse uno spadone.—Mettete i tardi e i vecchi alla guardia, i giovani alla battaglia! Dunque mi cacciai giù al castello con due cavalieri, venni al ponte: il portone era spalancato, e mi spinsi dentro! Trovo l'araldo che voleva dare l'avviso dell'agguato: eh!
Ugo non lo lasciò finire è domandò:—Dov'è vostro zio?
—Dunque, Guidello lo afferro alla gola…
—Andate da vostro zio e ditegli che, facendo come fate voi, non si guadagnano più gli speroni d'oro. Croce di Dio! chi diede ordini così? A chi si obbedisce?
Oberto sbuffò tra i denti:—E messere Ildebrandino non sapeva e non doveva essere capo?—e in cuor suo diede tante bestemmie ad Ugo che a volersi questi redimere non bastavano le limosine di tutta cristianità al santo sepolcro. L'irrequietudine dell'età, la baldanza di affrettare quel giorno in cui comandasse a vece d'Ildebrandino, la brama di cose nuove, l'inferiorità sua in confronto di Ugo, erano dardi fitti nell'anima di Oberto. E l'amore! Messeri sì, l'amore per Imilda! E ad Imilda doveva comparire innanzi come uno scudiere frustato! allo zio come un traditore dell'impresa! ai duci come indegno di cavallerìa! Oh messere Ugo! Ma Ildebrandino non sapeva e non doveva essere capo!
—Conducete il prigioniero a Rupemala—aggiunse Ugo:—e fatelo guardare.
Il quale Ugo, dopo che ebbe detto ad Aroldo e alle lance che lo seguivano:—Corriamo ad avvisare i balestrieri—stringendosi fieramente sul cavallo, alla tempesta della corsa per la montagna associò una furia di pensieri giù per il precipizio della gelosìa. Se un indovino gli avesse detto:—Messere, c'è una donna!—Ugo avrebbe risposto:—Quante tratte di corda vuoi per metterti a luogo la testaccia?—Eppure! Così bolliva sordamente:—E dire, o giovinettino, ch'io ti facevo solo buono a toccare il salterio e a startene sul cuscino ai piedi del seggiolone! E mi giuochi di quelle imprese arrischiate! Rompi i comandi, ti cacci a dirotta sul terreno nemico, con due lance!… Eh se t'avessero chiuso dentro al castello e squartato come un traditore? Il tuo coraggio deve piacere! Con due lance? E non ti acconci ad ungere le ruote delle manganelle? Altro che leuto! Ma sei bello, e suonavi bene lo strumento e t'atteggiavi ai piedi del seggiolone! Morte dell'anima mia!—Fremeva Ugo, sentendosi addoppiare il cuore da un nuovo tormento:—Madonna Imilda ti guarda e canta al tuo suono…. Galoppa, galoppa, o mio morello: stringetemi a sangue, o maglie! Perché non si combatte?… Che voglio dirmi? Che voglio scoprire in me? Ugo non deve saperlo!… Padre, Guidinga, supplicate voi ch'io sia ferito a morte! Suona, Aimone!… Ci sarà fragore, pugna, sangue, ma in me sempre una colpa, un rimorso, un tristo serpente!… Ugo non deve saperlo! O solo quando Ugo ne rida!
L'audacia di Oberto danneggiò le operazioni militari divisate. I balestrieri, i quali con Guelardo s'incamminavano a disporsi, vedute le lance con Ugo che movevano verso di loro, credendo che quelle avessero dei nemici alle spalle, si diedero alla fuga, precedendole nella direzione che quelle avevano preso nel corso, e così oltrepassarono la facciata secondaria del castello, poi, trovato il terreno scosceso, mutarono cammino e presero a salire la montagna per nascondersi nelle macchie, e per quanto le lance gridassero ad avvertire Guelardo di ritornare, continuarono scompigliati. Dal rumore delle trombe e dalla voce tremenda di Ugo avvisati gli arcieri di Adalberto, salirono sulle torri o incominciarono un formidabile saettamento.
—È così!—diceva Ugo:—A chi dobbiamo gratitudine per questo cominciamento di pessimo augurio?—E fu contento di rispondersi:—Vituperato le mille volte quell'Oberto!
Due dì dopo, di buonissima ora, era incominciato il combattimento sotto le mura di Adalberto. Si erano mandati innanzi i balestrieri, i valentissimi di messer Aginaldo, con Irnando, coll'ordine di principiare l'offesa su un lato per ingannare il nemico, facendogli su quello concentrare la difesa: poi venivano le torri e le macchine balistiche con robuste travi, e queste dovevano investire dai fianchi più deboli: poi cento saluzzesi, forniti di scale e armati di scuri, con Eleardo, i quali avevano comando di starsi appiattati nelle boscaglie per correre ad un segnale al ponte e al portone: poi i cavalli e i fanti: c'erano Ildebrandino con Oberto, Ugo, Aginaldo, Gisalberto, Baldo.
Ildebrandino e Oberto stavano colle macchine da un lato verso la valle. Ugo dal lato seguente, in direzione del castello d'Ildebrandino, e con lui c'erano Gisalberto e Aginaldo. Baldo doveva guidare le lance e i fanti.
Ugo, legato il cavallo a un troncone delle moltissime piante, tenevasi dietro ad una torre di legno, e badava a rotolare i massi che si spaccavano dalla montagna sotto la tempesta di certe azze montanare: li rotolava verso la maggiore petriera, e dava loro l'augurio:—Tu pari fatto apposta per piombare sull'elmo di Adalberto. Tu se colpisci come so io, vali tant'oro quanto pesi!—E via, e via, aiutava, più come fante, gli armati d'Ildebrandino, che come capitano della spedizione, faceva cuore ad essi:—Da valenti, assestate la trave, tirate la fune! Da valenti, giù, giù, giù!—E il colpo partiva. Dopo messere levava il volto su ai battifredi, si toglieva l'elmo e lo buttava a terra, dicendo:—Sbalestrate anche questo, chè io non temo le frecciate!—rialzava la faccia e chiamava:—Vedeste? Più a dritta o più a mancina? Quando siamo a tempo! Voglio balzare con voi sul battuto! Dite, Aginaldo!
E quelli dall'alto:—La muraglia cede. Dalle balestriere vien giù l'inferno, ma i nostri arcieri non indietreggiano di un passo. Santa Maria! Seguitate! Su una torre è sbucato Adalberto! Fate avanzare le macchine!—E gli armati che erano sul battifredo, si precipitarono giù dalle interne scale di esso, perchè fosse più leggiero; e, attaccatigli cavalli dai lati, e dietro spinto da Ugo, Aginaldo, Gisalberto e da molti fanti, quello si avanzò, tentennando maestosamente, fino a dieci passi dal fossato. Arrestatosi, gli armati s'incalzarono per salirlo, gridando:-Calate il ponte!—Era il ponte una lunghissima tavola, sostenuta da catenoni, la quale si abbassava, precisamente come i levatoi, a mettere in comunicazione la piattaforma del battifredo colle mura nemiche.
—Calate il ponte!—gridavano ancora Gisalberto e Aginaldo, correndo sulle strette scale.
—Maestro Sega, mettete i contrappesi!—comandava Ugo con poderosa voce:—Girate le ruote e tendete le corde!—Ma non vedeva il maestro.
Gli armati nell'ardore dell'assalto udirono quel comando, e credendo fosse ubbidito, o, a meglio dire, fremendo unicamente per menare le mani, erano giunti all'alto. Aginaldo liberò un catenone, poi l'altro, nè tenne la fune del ponte perché abbassasse a poco a poco, ma lasciò andare. Gisalberto esultava:—Investiamo con impeto!
Al basso Ugo ancora affannosamente minacciava:—I contrappesi o la dannazione eterna!—ed ecco ficcando intorno gli occhi, gli venne veduto il maestro orrendamente schiacciato nel terreno e dimezzato il corpo da una rotaia sanguinosa: una freccia gli era confitta al petto.
—Cavalieri!—ebbe ancora cuore di urlare Ugo:—tenete i catenoni!—ma non aveva ancora detto, che ecco la torre barcollò verso la fossa…. Egli che si stava attaccato ai congegni delle ruote posteriori fu balzato a cinque passi sul terreno: la torre con fragore di ruina schiantò il ponte contro le mura nemiche, e precipitò nel fossato Gisalberto, Aginaldo e quanti armati v'aveva. Nel castello suonarono i pifferi a scorno e dalle feritoie i balestrieri levarono grida di vittoria… Si scosse Ugo, dolorosissimo, e ancora incerto di quanto era accaduto, ancora imprecava:—Maestro, v'hanno pagato per tradirci?—Si volse su un fianco e vide gli uomini che, abbandonate le petriere e le manganelle, accorrevano animosissimi, giungevano alla torre, vi s'arrampicavano come gatti, tentavano di unghiarsi alla muraglia: ma la muraglia restava troppo alta e non dava appicco; piovevano gli olii e la pece, guizzavano d'alto in basso le punte: e chi degli assalitori rifaceva il cammino: chi era incalzato: chi incontrato: e chi piombava nella fossa: e chi, avvinghiato al legname, si spenzolava!… Intanto sopraggiunsero i fanti e i cavalli che erano indietro.
—Avanzate le manganelle! Se il ponte c'è, per Dio! fate la breccia!—tuonava Ugo, tentando di rizzarsi dal terreno sul quale lo inchiodavano le doglie.
Cominciarono poco più di dodici uomini, incontro alle frecce nemiche, a trascinare le macchine e a caricarle di sassi, e a porle da assestare i colpi. Presero a farle giuocare: un proietto percuoteva nelle mura, l'altro nella torre, sconquassandola e facendola sempre più piegare, e i nemici ridacchiavano e ululavano i troppo presti assalitori così sfracellati dagli amici.
Ugo, non sapendosi persuadere che fosse desto, così com'era senza l'elmo, si tormentò fortemente la faccia, poi si rotolò davanti a una pozza d'acqua, e in essa tuffò il capo per averne refrigerio.
Accorrevano in quella Oberto ed Ildebrandino, e venivano dall'altro lato del castello, investito dalle petriere e dai trabuchi, a portare la trista notizia che troppo deboli erano le macchine, nulla si era potuto fare, dalla porta deretana avevano dato il passo ad una banda di nemici, combattendoli sì, ma non sperdendoli. Tutti credevano che questa masnada fosse venuta alle spalle di Ugo per distruggere le torri di legno.
Oberto incominciò a meravigliare:—Come? Qui non ci sono i nemici?—e vedendo, alla lontana, Ugo disteso bocconi:—Messere,—disse allo zio:—è morto!
—Chi?
—Ugo. Si storce nell'agonìa. Guardate!
Ildebrandino per dolore volse via la faccia esclamando:—Oh la libertà delle nostre castella!—e vivamente:—Ma i nemici non sono venuti per di qua?
—Tutto non è perduto, messere. Fate lavorare le scuri al ponte!
—Ugo è morto!
—Fate in vostro nome!
E tutti e due galopparono oltre, per un pezzo, verso le macchie: ad un tratto ecco sul cammino loro incontro il trombetto di Ugo.
—Che avete?—domandò Ildebrandino.
—Lasciatemi, chè ho grandissima furia!
—Che avete?
—Devo parlare a lui!
—Ugo è morto! Mi riconoscete?
—Morto?
—Morto di punta—confermò energicamente Oberto.
—Santa Madre di Dio!—proruppe il trombetto:—Torno dall'inseguire un traditore accorso di lontano, che poco stette mi mettesse lo scompiglio nei saluzzesi! "Messere! dov'è Ildebrandino?" gridava egli per farci abbandonare l'assalto: "L'ho difeso quanto ho potuto! ho difeso madonna! ma il castello d'Ildebrandino è in mano dei nemici!"
Oberto e lo zio furono lì lì per rovesciarlo d'arcioni.
E quegli seguitava:—Ma dite! Il capitano è morto?
—Pensiamo ai vivi—rispose irosamente Oberto.
Lamentò Ildebrandino:—Che si è fatto da Aginaldo? Da Gisalberto?
Baldo ancora aspetta coi cavalli! Che aspetta?
In quella quattro uomini, gittando l'armi, venivano per la montagna, abbandonate le macchine e lasciati vilmente i compagni. Come videro i cavalieri e il trombetto Aimone, certo si sentirono a mal punto, il perchè due ad alta voce dissero a giustificazione:—Aginaldo e Gisalberto sono morti! Aldigero, Ugonello, Oddone, sono fuggiti alla valle!—e con artifìcio:—Voi che avete tromba, dove siete stato? Il capitano ci mandò in cerca di voi. Presto, suonate! ad avvisare i saluzzesi!—e si dispersero nel bosco.
—Dio volesse che fosse come voi dite!—lamentò Aimone.
—Pensiamo ai vivi—replicò Oberto con ambizione:—Due dì fa l'impresa fu cominciata da tale che aveva sproni d'argento!
—E con quel tale io la compirò!—comandò lo zio:—Vi faccio cavaliere d'arme! Voi sarete tanto valente che sbatterete la testa di Adalberto sul ponte di Rupemala a orrendo giuoco dei mastini!—e così proclamando in atto di solenne promessa volse il capo nella direzione del suo castello. Una nube nerissima, a vortici rigurgitanti, dal sotto in su insanguinata da riflessi guizzanti, si levò dal basso del monte, roteando nella valle.
—Oberto!—gridò Ildebrandino, afferrando il nipote per un braccio sì fortemente che quasi lo fece staffeggiare:—E non diemmo le mazze sul capo al malaugurato! Guarda! La masnada era corsa la!
Oberto guardò e non riuscì che a dire:—E potemmo lasciare sola
Imilda!
Il trombetto si toccò la spada, dicendo, come ad ammansarli col pensiero di vendetta:—E affermava dunque il vero quel traditore! Ma gli ho pagato l'ambascerìa quanto valeva: tre stoccate sulla testa tanto vecchia e tanto pelata! E ancora parlava! "Ho difeso!" E voleva dirmi il suo nonme, e lo disse, ed io lo bandirò per vitupero dei traditori: Federigo saluzzese.
—Il mio fedelissimo servo!—urlò lldebrandino: e Oberto spronava al suo castello.
—Tu l'hai ucciso! Vitupero a te, figlio di bifolchi! Non conosci i forti e i fedeli?… Oberto! Oberto! attendimi al tuo fianco!… Tu l'hai uccìso? E tu mi tradisci?… Oberto! Oberto! Noi due soli? E i nemici quanti saranno? Ah! quelli cui diemmo il passo! E Federigo perchè lasciò Imilda? Forse che tutto era già perduto? Ma quelli che appiccarono il fuoco, non sono nemici di tutti! Dunque su tutti!… Suona la ritirata, o araldo, suona poi a raccolta e muoviamo al castello!… Oberto! Oberto! attendici! Saremo più di cento lance!… Suonate la ritirata, suonate, messer l'araldo! Suonate, per pietà!—Così finiva a supplicare il cavaliere, quasi impazzato, e pregava, alzando la mazza, e minacciava a mani giunte, e strappava le redini al cavallo per raggiungere Oberto e le strappava per accostarsi al trombetto.
Aimone avrebbe le mille volte voluto una freccia a forargli le orecchie, piuttosto che quelle parole a straziargli l'anima, e chiamava il capitano che lo conducesse al furore di una zuffa, così:—Messer Ugo! Ditemi che non è morto! Perchè mi partii dal suo fianco? No, fu lui che mi mandò ad Eleardo! Messer Ugo!…
—Suonate, la ritirata!
E l'araldo dolorosissimo:—Oldrado non mi diede mai questo comando!
—Dopo fate a raccolta!… Oberto! Oberto!
—E se messer Ugo tornasse?
—Anche là al mio castello sono i nemici di tutti!
Il trombetto si disse con risoluzione guerresca:—La voce del capitano è la tromba: udite la voce—e squillò, verso il monte.
—Che segno è questo?—domandò trepidante il cavaliere.
—Quello che avvisa i saluzzesi di accorrere al portone!—disse superbamente l'araldo, e suonò verso la valle, e vide che dopo lo squillo si muoveva un drappelletto di cavalieri… Che? Un'insegna? Un'insegna quadra di comando. Fosse…?—Era l'insegna dì Ugo. Aimone staccò la tromba dalle labbra e guardò. Per una via Ugo veniva. E per un'altra Ildebrandino cacciavasi a rovinosa corsa dietro ad Oberto….
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Alla mattina di quel giorno, nel castello d'Ildebrandino, partiti i cavalieri, lasciandovi poca scorta, madonna Imilda era scesa nella cappella. Oh sì eh'ella aveva grandissimo bisogno di conforto!
—O Signore, o Vergine santissima! Fate che il padre mio mi torni salvo dall'armi! Almeno il padre! Oh come vi prego! Tu che sei interceditrice potente, e tu che tutto ascolti!… Se ci fosse anche la madre mia a pregarvi! Come la vorrei accanto a me!—E Imilda piangeva dirottamente:—Ella m'avrebbe salvata da questo tumulto! Vedi, anch'io vorrei esser tra l'armi, per udire quel grido:—vittoria!… Vergine dolcissima, tu sorridi a me che piango? E tu che sei Dio hai voluto per immenso gaudio avere in eterno la madre! A me l'hai tolta! Salvatemi il padre, che mi protegga!… Che sarebbe d'Imilda deserta nel castello degli avi?… Deserta?… O Signore, per un'altra persona io ti prego, per Oberto… Oh ma sarei deserta senza padre, sola nei lunghissimi giorni dell'abbandono! Oberto, povero Oberto, da tre notti non ho più cucito la tua fascia… Qual tormento, quale dolcezza novissima in me! Tu non sai! E se sapessi!… Ma che ho fatto? Che ha detto? Perché basta uno sguardo, una compassione, una lagrima?… Una vita infelice!—E Imilda fremeva tutta: e taceva, non osando nemmeno a sè stessa confessare il grido dell'anima combattuta: poi—A Oberto m'aveva promessa il padre: ed ero contenta, e sarei stata tranquilla… O Madonna, che voglio dirti? Che vuoi ascoltare? Non so… voglio… vorrei… devo, oh sì devo! come cristiana, pregarti per un altro cavaliero: devo, come nata da liberi castellani, pregarti per il capo dell'impresa! Egli ci rende tutto! Ed è valente, e cortesissimo…. Perchè sorridi, Vergine santissima? Non so, ma mi sorridi, come mai non facesti. Ah perchè anche tu lo scorgi benigna? E fai bene perchè mi fu detto ch'egli è infelice. Io sento che è infelicissimo! Non conobbe la mamma sua. Tu che sei la mamma di lassù fagli conoscere almanco… una sorella del suo dolore! E fammi grazia: disponi sì che ci sia un'altra giovinetta, bella e religiosa più di me, la quale preghi per Oberto. Così tu potrai esaudirla… Io sono… Io non so!…. Mi trovo irrequieta…. Ah tu sai ed esaudisci! Mi trovo tormentata! Amo messer Ugo! "Chi siete?" "Sono il figlio di Guidinga"… Ugo!
Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si fa in piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto.—I nemici!—ascolta la voce del vecchio Federigo:—Salvate madonna!—ed ecco ancora:—Fuoco! fuoco!
La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare, scongiurando con fiero rimorso:—O Signore, salvate mio padre! Come vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto?—ed ode ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima che comandava:—Balestrate fuoco nelle finestre!—e un'altra:—Se tutto arde che ci rimane di bottino?
—Combattete!—gridava Federigo agli uomini del castello:—Giuratemi!
Alla fantasìa della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco: e qua sotto alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione… Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo scalone, il corritoio, lo stanzone dell'arme…—O Signore! la fanciulla se li imaginò al lume delle torce incendiarie nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano, venivano!… Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già afferrata: ella si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!… O padre! O Ugo!…
La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare.—Non sia vero!—Fu scossa. Di nuovo la voce:—Balestrate fuoco nelle finestre!—E un'altra:—Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella.—Ancora la prima:—Sconficcate le inferriate!
Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò:—E se vuoi mandarmi la morte! fa che non sia vergognosa!
In quella al di là della porta del sacro luogo s'udirono due pedate affrettatissime e caute, e queste voci, diverse da quelle prime:—Capitano, qui c'è la cappella. Gli ori e gli argenti sono nostri. Non fate chiasso. Io provvederò—e fu chiusa la porta per di fuori e tolta la chiave.
—Voi, Ingo, guarderete le finestre, e l'impresa avrà fruttato qualcosa, vi pare?—Dopo più nulla.
Poi nella corte:—Oibò! guardate dal porre mano sulle cose sacre! C'è su scomunica di pontefici sommi. Via, dalle inferriate, marmaglia!
Ma più poderosa gridava la voce:—Balestrate fuoco nelle finestre! dappertutto!
Madonna Imilda per somma grazia della Vergine santa aveva perduto i sensi.
Quando dopo un pezzo risentì l'angoscia della vita, si trovò avvinghiata fra le braccia di un cavaliero. Era suo padre? Era Oberto? Era un nemico?… Il primo pensiero che le si affacciò fu questo tremendo:—Quanto castigo! Almeno Ugo sia morto nella pugna! Ugo tristissimo!
La vergine spossata levò la faccia… Oh sì l'angoscia della vita!—Sei tu!
Era Ugo il cavaliero.
La cappella ardeva tutta: la porta infiammata vedevasi parte cadente, parte squarciata, parte a terra. Al di là ecco la voce d'Ildebrandino:—È qui! È salva! Oberto la tua sposa è salva!—Con queste parole il vecchio credeva aggiungere maggiore gloria al fatto di Ugo: ed adempiva ad una promessa tra la sua donna morta e il morto padre di Oberto.
Ugo lanciò uno sguardo alla porta, e parvegli vedere il volto di Oberto, lo vide, e parvegli che le fiamme gli fischiassero il pensiero di quello:—Imilda nelle braccia di Ugo!
—Sì!—esultò, come Lucifero, il cavaliero tormentato e tormentatore, in un minuto solo di trionfale passione e di vendetta! La salvata gli avvelenava la faccia coll'alito scottante, e la persona coll'abbandono delle membra, insidioso e annuente.
Oberto mosse un passo, ma arretrò soffogato. A quel solo movimento di lui, Ugo addoppiò la stretta al corpo d'Imilda, e fu ventura ch'egli non inciampasse, ubbriacato dalla malìa di quel peso: poi la spinse verso le fiamme, con atroce disegno….
—Di qui passerete un giorno sposa!—lamentò Ugo.
—Può essere la porta che conduca al paradiso o all'inferno!—susurrò
Imilda.
Oberto mosse un secondo passo.
—Pietà!—stridette Imilda.
—Non sai morire?—tempestò Ugo nell'anima, scagliò a terra l'azza, e rise.
E veramente per la prima volta sghignazzò.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Come Ugo era accorso nella cappella?
Rifacciamo un po' di cammino, tornando al luogo della battaglia. Lasciammo Ugo, sbalestrato a terra, vicino alla pozza d'acqua, stordito ed ammaccato. Quand'egli ebbe levata la persona e guardato intorno nel bosco folto ed altissimo, vide fanti e cavalli fuggenti per ogni direzione. Non scorse però nè Ildebrandino nè Oberto che volavano a Rupemala per un cammino assai basso e nascosto. Il dolore dell'anima in Ugo la vinse sui dolori del corpo, perch'egli disperatissimo si diede per riannodare tutta quella gente scompigliata, ma invano. Gridavano in cento:—Oh quanti morti! Sarà gran ventura se domani avremo le gole salve dal capestro. Fummo traditi! Messer Baldo e Ildebrandino già lo dissero. Fummo traditi!
—E chi il traditore?
—Traditrice la poca esperienza degli anni in voi.
—Morire domani? Oh non è meglio cercare oggi un ultimo sforzo di vittoria e gloriosa vittoria?
Ma i dispersi erano troppo spaurati dalla gravità del fatto commesso e dai casi della mattina… Ugo gridava… A un tratto ode uno squillo di tromba.—Il segnale ai saluzzesi! Suono come questo non può uscire che dalla tromba di Aimone! Demonio! che suoni di là, dall'altra vita? Non è più tornato! E chi mi disse ch'è morto?—sclama Ugo, e sorge sul suo cavallo e rizza l'insegna, e, mostrando la faccia audacissima e disarmata, chiama intorno a se tre o quattro lance accorrenti, Aroldo, Bonifacio, Eustachio, trova Aimone, muove alle macchie, scavalca, solleva i saluzzesi, e solo si precipita al castello…. Che? Nessuno vorrebbe credere, ma è così! il ponte levatoio calato. Ugo, strappata la scure a un tardo soldato e datagliela sul capo, si mette a lavorare contro il portone, con braccia poderosissime, tanto più quanto più dolorose. Accorrono a lui fanti. L'insidia tremenda! ad un tratto si scuotono i catenoni e il ponte si solleva. Ugo, perduto l'equilibrio, piomba all'indietro e per somma sua ventura, siccome non vi era sbarra, rotola nel fossato.
I fanti volsero le spalle per fuggire, ma il legno inclinantesi all'insù li fece sdrucciolare giù al portone, ove tutti in un fascio si maledirono orrendamente schiacciati. Ugo si abbranca ad uno dei ritti che sostengono il ponte quando sia calato, e quivi, chiamando e richiamando, giunge a farsi porgere una lancia da Bonifacio. Appena in salvo alla riva, non trovando più il suo cavallo, stramazza d'arcione Aroldo, monta sull'animale di quello, comandando:—Sorprendiamo cogli arcieri dalla parte della valle! Aimone! Aimone! Dov'è Aimone? Cercate di lui e dite che suoni a richiamare tutti i duci vicino a me!
Bonifacio osserva:—È troppo tardi! Qui tutto è perduto!
—E che? In tutti un impeto solo!
—Baldo e Ildebrandino vi diranno….
—Per Dio! obbediranno! Io solo sono il capo dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io, io! Aroldo, Bonifacio, Eustachio, non credevo di parlare con gente pari vostra!—Galoppa verso il terreno raso, ed alza la faccia… Vede un fumo sollevarsi di lontano.—Il forte d'Ildebrandino! Chi disse di lasciare sguernite le castella? O Gesù!—e con spronate furiose Ugo lancia il cavallo… In quale direzione? Pareva che cento demoni strappassero il freno all'animale, perchè era tormentato innanzi, indietro, a destra, a sinistra, come una cosa pazza.—Qui tutto è perduto!—ripeteva il cavaliero straziatissimo le parole di Bonifacio.—Ed io voglio vittoria!
—Fugge il messere! Il capo dell'impresa!—fischiano dietro ad Ugo
Bonifazio ed Eustachio: e poco dopo Baldo accorre dalla valle.
Ugo lancia il cavallo così da averne mozzo il respiro, lancia e smania! Eccolo al ponte di Ildebrandino: entra nel castello, balza d'arcioni gridando:—Io voglio combattere i nemici! Qui si raggrupperà una fortissima pugna! Suonate tutte le trombe! Tutti i duci vicino a me!
Gli si presenta a terra un ferito, il quale, giungendo le mani:—Per amore della croce, abbiatemi misericordia!
—Dov'è madonna?—supplica Ugo:—Ah!… misericordia a me!
—Non uccidetemi!
—Dico di madonna! Madonna! I nemici!
—Misericordia, gran barone! Il traditore è quello che era all'uscio della cappella! Ho risparmiato anche il veleno per voi, gran barone!
Ugo si caccia per le scale e nelle camere, trova nemici predatori e li combatte. Scompigliati, gli scarsi che avevano tentato la sorpresa, facile dacchè il castello era poco difeso, sono stretti a sgombrare, gridando:—È qui Ugo con cento cavalli!—Ugo, giù ancora per lo scalone, entra nei corridoi incendiati. Oh ecco! vede Ildebrandino ed Oberto. Incalza Ugo:—Ov'è madonna?
Quegli meraviglia spaventato:—I morti tornano!—E questi:—Ugo è risuscitato per mia dannazione!—E tutti e due, facendosi segni di croce, si danno a fuggire, guardandosi alle spalle. Ugo dolorosamente li chiama e li richiama per tutti i santi: poi si mette dietro ad essi, corre, corre… È nella corte ed inciampa. Lo stesso ferito geme:—Abbiate pietà!—Il cavaliero guarda, e vede che quegli ha sul petto lo stemma di Adalberto, e sulla testa sanguinosa la tonsura di chierico.
E quello:—Fate da cavaliero cristiano! Sono sul sagrato!—Era Ingo difatti sotto una finestra della cappella.
Ugo, con subito pensiero religioso, esclama:—Voto una lampada d'oro alla Vergine di Saluzzo!—e facendo sgabello col corpo del ferito, s'aggrappa all'inferriata di una finestra aperta, si strascina su col petto, e ripete:—In luogo sacro voto due lampade d'oro!—D'improvviso una vampa guizza dal sotto in su ad infuocargli i capegli, e un globo di fumo gli soffoca il respiro… Riapre gli occhi: storce la bocca a ricevere aria dalla corte, fa per balzare… No, prima nell'ardentissimo strazio dell'anima raddoppia il voto alla Vergine del cielo:—Quattro lampade d'oro, per quel che ho falto! per quello che voglio fare!—e fìcca gli occhi dolorosi nella cappella, cercando l'altare a cui drizzare la destra…. Imilda è là dentro arrovesciata ed immota!… Ugo balza a terra, strappa di sotto al corpo del ferito un'azza, precipita dove gli pare debba essere l'ingresso della cappella. L'uscio è in fìamme! Lo squassa terribilmente. È chiuso! Tempesta colla scure.
A quell'indiavolare accorrono Ildebrandino ed Oberto. Essi avevano combattuto gli invasori, ma non avevano trovato Imilda per tutto il castello, né alcuna cosa saputa di lei. I servi e le ancelle crano stati uccisi: il povero Federigo più non tornava dal campo di certo. Accorrono dunque Ildebrandino e Oberto, sclamando:—È proprio lui! Gii spiriti hanno braccia di nebbia. Questo no, per Dio!
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Alla sera di quel medesimo giorno, narrano le cronache: Adalberto, andando nella sua camera e buttandosi armato sul letto, trovò al capezzale la fascia che Oldrado aveva riportato nel gioco d'arme, vent'anni prima, e su quella c'era scritto il numero dei morti e dei feriti nemici.
Narrano anche che quello sparviero presentato all'omaggio, sorgesse dalle ortiche fra cui fu gettato, e apparisse cogli artigli di ferro e col becco di ferro, vecchio, lontano, lontanissimo, su un monte, ma ancora pronto a spiccare il volo.
Queste ciance furono scritte dall'eremita di Malandaggio, un veggente che la sapeva assai lunga!
Morti Aginaldo e Gisalberto: abbandonate le macchine sul campo: lasciativi i cadaveri insepolti e i feriti inutilmente imploranti pietà per lo strazio del Calvario: molti uffìziali fuggiti, e moltissimi soldati corrotti dall'oro e dalle promesse: incendiato il castello d'Ildebrandino: le cose rotolarono giù con maledetta rapidità di male.
Ugo fu ad una voce accusato. Aveva mostrato certo ardimento in principio: ma quale esperienza in lui? I tempi per ricorrere all'armi non erano proprio quelli: bisognava aspettare, e Aginaldo già da cinque anni aveva fìsso un pensiero d'impresa che doveva essere sicura, Aginaldo sì, sperimentato, risoluto, tenacissimo! Ma il vecchio aveva saputo aspettare, e ancora avrebbe aspettato, se la storia di quello sparviero stecchito sul cuscino nero non fosse venuta a metter le febbre in tutti i polsi. E poi Ugo era fuggito dal campo, lui proprio che aveva detto a Bonifacio:—Io solo sono il capo dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io, io!—Ildebrandino e Oberto bastavano soli a liberare Rupemala. Ugo che aveva fatto? Quante cose sconciate! Quante armi e quanti uomini perduti! Come aizzato Adalberto! Per Ugo anche l'impresa da farsi fra dieci anni da quella, l'impresa che doveva proprio riuscire, era guasta ed anche resa impossibile.—Ma perchè l'avevano ammirato, ed ubbidito e acclamato capo?
Ugo dunque fu accusato: il castello di Aginaldo due notti dopo sorpreso dagli armati di Adalberto, i quali violarono la fierissima vedova rimasta e poi la serrarono in un monistero a fare penitenza: assediato il forte di Gisalberto che lasciava due figliuoletti ed unica guida un maestro d'armi: Baldo ringhiò che sapeva e doveva resistere da sè, che i suoi capegli bianchì non aveva mai creduto gli avessero a dare la vergogna somma, e Baldo alzò il ponte levatoio giurando di voler uccidere Adalberto e il traditore dell'impresa.
Adalberto, illustrissimo ed eccelso signore, dalle torri del suo castello, con trombe militari, ai gentiluomini dell'inclita signoria pubblicò un bando con cui poneva prezzo d'oro sulla testa di Ugo, promettendo perdono a quello o a quelli dei soggetti che gliela recassero su un bacile vilissimo, nella chiesetta d'Auriate, senza scorta d'armi, con tonache dì penitenza e corda al collo. Ciò a commemorare l'omaggio reso tanto bene nel giorno di Pasqua di Resurrezione.
Ed Ugo? Ugo, chiuso nel suo castello, ad occhi aperti sognava sempre di lanciarsi in una cappella ardente, come una fornace, sognava tutti i supplizi del corpo e dell'anima. Una donna strideva, brancolando, tra il fumo e le vampe: la cappella era lunga lunga, e più egli avanzava, più cresceva il lamento…. Giungeva a lei, l'afferrava, l'alzava: ella chinava il capo sulla spalla, abbandonatissima: egli si sentiva legato alle gambe, inciampava, rompeva potenti lacci: ella supplicava:—Strappami da questo fuoco eterno!—E. da quel fuoco neppure egli poteva uscire. Crescevano gli strazi:—Strappami!—ella lo supplicava:—Pietà! pietà del mio tormento del cuore!—Ah! è così ch'ella domandava pietà? Si! Ugo, che voleva abbandonarla alle fiamme, nulla più vedeva, nulla sentiva, sentiva solo un bacio rovente… un bacio di Imilda!—T'amo, t'amo, Imilda! In qual momento te lo dico! M'hai ascoltata? Sei viva? Chi ti strappò a me? Io ti allentai le mie braccia? Non so quello che accadde! Ma tu non sei morta? Supplico Dio, no, no! Quale incertezza!—Ed Ugo, così torturato, sentiva corrersi per tutte le fibre una potenza di nuova vita: e sorrideva! Allora ecco alla fantasia il padre, in un tratto, che rampognava orrendamente:—Perchè ti diedi speroni d'oro? Perche tu fossi vinto? Già troppo affanno fu nella famiglia di Oldrado per il serpente della donna! Guardati, Ugo, guardati!—Ed Ugo piangeva:—Padre, se ella è viva ancora, come si tormenta! Io non posso odiarla!
Allora Ugo vedeva l'acqua stagnante di un fossato, tutta sozza di sangue, putrefatta e fangosa: alla superfìcie venivano a scoppiare con flaccido gorgoglio e con lentissimi cerchi alcune bolle d'aria: sotto qualcosa si moveva all'insù: ecco una testa coi capegli impegolati sul volto da una melma verdiccia. Che? si chinava salutando. Sulla nuca era aperta e scheggiata: si drizzava e boccheggiava, come quella di un ferito e di un annegato. Era messer Gisalberto! Quel morto affondava: qualcosa ancora si dondolava all'insù. Messer Aginaldo quest'altro! E i due cavalieri a vece di pupille avevano un globo bavoso che colava, il naso pesto, alle labbra cascanti penzolate le irrequiete code dei vermi. E i due borbogliavano:—Traditore tu?—…. Ecco Manfredo e Bello, i figliuoletti di Gisalberto, affamati disperatamente nel pattume di un sotterraneo e disperatamente imprecanti:—Traditore!—E madonna Marzia, la vedova, sbattuta a terra da due sozzi ferocissimi, chiamava la Vergine, e si rannicchiava ululando:—Per te traditore!—E il vecchio Baldo si armava e ringhiava:—Muoverò al tuo castello!—Poi Ildebrandino e Oberto: Oberto era il dimonio della gelosìa; lividissimo, furente, toglieva una ciotola ai cani, in quella sputava, e in quella poneva la testa di Ugo. Il conte d'Auriate ridacchiava….—Madonna di Saluzzo, voto dieci lampade d'oro!—gridava Ugo. Allora di nuovo ecco una cappella ardente, ecco una donna….
—S'io non l'avessi veduta—gridava Ugo:—non l'avrei conosciuta, non sarei fuggito per lei! E chi è lei? S'io non l'avessi conosciuta? Cavaliero che combatte senza pensiero di dama è vulgare mercenario! Se io non l'avessi amata? Ma se era destino, se è destino ch'ella riaccenda la vendetta! E la vendetta sarà atrocissima su tutti! S'io non fossi fuggito dal campo? Ma quelli che erano al suo castello non erano nemici, e non volevo io raggruppare la pugna decisiva?… Se non ci fosse stata lei! Ma se così era, chi sarebbe ora dinnanzi alla mia fantasìa orrenda a misurarmi nei deliri dell'affanno? Non la rabbuffata larva del padre! Non la oscena di Guidinga!… No, no, voglio vivere e vivere di guerra! Sono vinto, e ancora voglio sostenere il peso vituperante della vita! Sono disonorato, e non mi schianto per mia volontà d'abbominio! Sono abbandonato da tutti, e voglio meditare fortissimi fatti! E impreco colla voluttà della sfida: "Dammi ancora maggiore tormento!"… Oh se non ci fosse stata lei! Ella mi supplica nel giorno, nella notte: "Vieni, cercami, fammi giurare, precipitati e vinci!" La voglio! La voglio mia fosse pure in mezzo ad un fuoco che per secoli non si spegna! Imilda, dimmi che sei viva! Ti supplico!
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E Imilda? Ritorniamo a Rupemala.
Imilda, in quel momento in cui Ugo aveva riso, senza più una coscienza al mondo, fu afferrata e salvata da Oberto, spinta fuori della cappella. Ildebrandino, a cui le vampe vividissime e sibilanti avevano impedito di vedere gli atti e di ascoltare i gemiti di quelle povere anime disperate, Ildebrandino abbracciò Ugo, uscito lentamente dalle fiamme, e volle che Oberto l'abbracciasse, gridando:—Gran mercè! Nipote mio, questo è un esempio!—Imilda fu trasportata in una camera e soccorsa. Ugo s'involò dal portone: e nulla a Rupemala si seppe di lui.
Il dì dopo, continuando l'incendio, per quanti sforzi si fossero usati a vincerlo, Ildebrandino decise risolutamente di resistere ad Adalberto, contendendogli mattone per mattone dell'irreparabile ruina: e disse ad Oberto:—Qui dobbiamo morire con esempio non unico certo nella nostra famiglia. Avesti gli sproni d'argento: dunque sii contento, e ricordati che la ubbidienza agli esperti è grande virtù di guerra.
Oberto era tetro. E a quelle parole rise amaramente.
—So che vuoi dirmi, Oberto. Ti paiono pochi gli sproni? Sii contento: non a tutti è data l'audacia delle cose fortissime. Hai parlato con Imilda stamattina?
—No.
—No?
—Ha domandato di me?
—Sì: e ringrazia Iddio….
—Ringrazi messer Ugo.
—A tutte l'ore!
—Dannato sia!—imprecò Oberto.
—Come? Come? Quanto fu valente per noi! Sì!—affermò Ildebrandino.
—Per la impresa?—rise Oberto, invelenito: guardando lo zio con degnazione, quasi gli dicesse:—Mi accontenterò io dei vostri giudizi?
—Oberto, l'hai veduto nelle fiamme?
—Troppo ho veduto!
—E per la impresa, tu dici? Ugo ha pugnato, come un forte, e l'amo!
Ma Dio ci maledisse.
—Perchè c'era lui!
—Oberto, che hai? La tua ira mi piace! Contro chi?—si accese
Ildebrandino.
—Contro di voi—ardì Oberto.
—Ti sono amare queste parole?
—Zio!—rispose Oberto ad un tratto:—Voglio sposare Imilda, anche oggi!
—Quando Ildebrandino consenta—rimproverò lo zio. Allora Oberto con astio e con ironìa:—Ah volete combattere voi? Ugo sarà con noi?—E, meditando una offesa verso Ildebrandino e una vendetta contro Ugo, domandò tra sè stesso:—Venti anni fa, quando Adalberto mosse qui, come combattè lo zio?… Che gloria!… E voi, messer Ugo, perchè avete spezzato l'uscio della cappella sacra? Era meglio che Imilda morisse, là, sola! Volete ch'io parli al vescovo di Saluzzo?—E Oberto, dopo un silenzio beffardo collo zio, si espresse così:—Fate che, morendo voi, io abbia un castello, o la memoria di un castello: e voi le esequie da cristiano.
—Duri la guerra un mese, duri un anno!—rispose Ildebrandino, offeso più che mai e più che mai dignitoso:—Perchè mio nipote parla così? Ch'io non sappia combattere? Ch'io non conosca i valenti? Ebbene, senza messer Ugo io sfiderò Adalberto.
Oberto fu contento.
—Senza Ugo, sì: e mio nipote ascolti:—Ildebrandino andò al fondo di torre dove sapeva che era stato chiuso Guidello: lo trovò rabbioso di fame, lo trasse su, lo fece rifocillare, poi lo accommiatò così:—Va, araldo del malanno, tromba di vergogna. Io ti lascio e ti comando questo: torna al tuo signore e digli che con Ildebrandino c'è Oberto. Digli che Oberto vuole un castello per sè e per i suoi: il castello può essere quello di Adalberto. Madonna Marzia, Manfredo e Bello domandano vendetta. Che pensi Baldo non so: so che i vili e i traditori non sono più sotto il suo tetto. Io ti lascio e ti ho comandato.
E Ildebrandino e Oberto s'apparecchiarono a disperatissima difesa e a furioso conquisto. Oberto un giorno disse:—Zio, lasciate ch'io vada a domandar benedizione al vescovo di Saluzzo.
Ildebrandino crollò la testa: ma Oberto volle proprio uscire dal castello. Tornato di lì a poco tempo, con volto soddisfattissimo, domandò:—Ov'è madonna Imilda?—come se dicesse:—La mia! Voglio sposarla oggi, col piacere suo e con quello di Ugo!
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Madonna Imilda non era più con Ildebrandino. Questi, per toglierla dai pericoli dell'armi, l'aveva segretamente affidata alla custodia dei figliuoli del povero Federigo e della vecchia Agnese, e fatta partire per una casetta di boscaiuoli, lontano, su una delle montagne, che, con quelle su cui sorgevano le castella dei cavalieri e del signore Adalberto, formava il contrafforte che si spicca dal Monviso. Questo contrafforte coll'altro staccatosi dal monte Meidassa chiude la valle ove nasce il Po: al di qua la valle di Varaita, di là quella del Pelice, all'apertura Saluzzo.
Là su stette madonna Imilda, un giorno, e due, e tre… Le diceva la vecchia Agnese:—Madonna, oggi si combatte. Preghiamo.
Imilda rispondeva:—C'è un cavaliero che vince sempre e tutto.
Alla sera venivano sulla montagna i figliuoli di Agnese a portare le nuove: e le donne domandavano:—Nessuno sa niente? che Imilda è qui?
—Nessuno.
—E quel cavaliero?
I boscaiuoli intendevano di Oberto e rispondevano:—Coll'usbergo è un san Giorgio. Ma sa niente!
Oh come pregava Imilda in tutti i momenti!—Madonna del cielo, non dovevi mandarmelo! Sarei morta su i tuoi gradini e tu mi avresti dato il paradiso! Non avrei conosciuto l'inferno in questa vita! Amare come amo io! Come volle Dio che amassi!… E non so nulla di lui! E non oso domandare di più…. Ma è questo l'amore?… E che mi disse egli perch'io abbia diritto ad amarlo? Che fece! Vinse il fuoco!… E che era morire a confronto di questo vivere? Ugo, Ugo cavaliero, Ugo infelicissimo! Perchè non vieni? Forse che t'hanno ucciso? Forse che m'hai dimenticata?… Ucciso!… Chi può avere alzato la mano su di te?… L'anima mia non sa combattere l'incertezza tremenda! Così disse: "Sono il figlio di Guidinga!" E chi era Guidinga? Un'innamorata? Ma ella forse fu un angiolo. Io sono condannata in questa vita e nell'altra.! L'amore cominciò tra le fiamme, e tra le fiamme inestinguibili sarà eterno tormento!… Pietà, madre dei pentiti: io non so quello che dico! E tu m'avresti dato il paradiso! Ma se già mi hai condannata, questo è troppo strazio: e lo spezzarmi così è indegno di te che tutto puoi. Puoi volere anche in me la bestemmia…. Non sono io che parlo: è Ugo in me! No, no, Ugo sarebbe perduto, ed io voglio invece la sua eterna salvazione! Non è Ugo, ti giuro, ti scongiuro! È il cuore straziato!
E la vergine una sera si fece raccontare da Agnese i casi di Guidinga. E Agnese concludeva:—Dite, se la conobbi! Come conosco voi. Giusto, come voi, la piangeva sempre quando il suo Adalberto era lontano. Voi perchè piangete?
—Ho paura!—rispondeva Imilda.
—Conoscete la fantasma fiammante di bianco?
—La madonna perduta?
—È l'anima di Guidinga fino al dì del giudizio.
—È così disperato l'amore! Chi ci resiste?—lamentava Imilda.—Come reggerò al rimanermi quassù?
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Ugo da quattro giorni, sempre chiuso nel suo castello, si combatteva atrocemente.
E così:—Ildebrandino ed Oberto ieri vinsero. I servi prigionieri nel castello di Aginaldo l'altra notte uccisero il capitano di Adalberto. Baldo con Manfredo e Bello s'apparecchia a muovere qui per guadagnare la taglia…. E tu che fai, Ugo? Tu capo dell'impresa, tu redentore, tu giovanissimo conte!… Se Dio ci faceva vincere! se i morti di là avessero supplicato coll'ardore delle fiamme! E tu hai pensato ad essi? Oh i morti ora si levano ferocemente ad imprecarti! E la viva sorride!… Il padre già dalla culla ti condannava alla vergogna e al furore, e tu che avresti dovuto maledire la donna, tu per la donna sei maledetto!… Temi la taglia? Ma che vale la tua testa? Vale oro, non onore. Temi la morte? Ma che vale la tua vita? Fu già carica d'onte. Speri la vittoria? Speri l'amore? C'è la morte! Oh questo sì ch'è strazio ineffabile! E anch'io supplico: "Pietà!" come supplicò Imilda. Pietà della mia vita! Ecco la vilissima preghiera! Preghiera di donna!… Sì, ti sogno ancora nella cappella avvampante: giungo a te, ti stringo: e tu chini il capo sulla mia spalla, ed io ti dico: "Ti odio!" Ecco l'anima mia, ecco il mio dovere!… Che faccio ora? Io che mi sento la forza e la ruina dei turbini. Io che voglio uccidere, e crollare le torri, e sghignazzare fra il suono di cento trombe, e morire pur che Dio mi ascolti!… Dio non ascolta mai!… È così muto il sepolcro del padre! È così trista l'ironia del nulla!… Voglio vita, vita strapotente, ed ogni vita è in queste parole: "Ti odio! Femmina, ti odio!" O viva, o morta, sii detestata!
Una sera (la quinta dal giorno della rotta) Ugo era nella sua cappella parata a lutto, da tre ore cogli occhi fitti nella croce, colle membra invase da una febbre crudelissima.
Finiva appunto di parlarsi così:—Il martirio m'ha addoppiato! Finalmente! Stanotte istessa vedranno i miei nemici chi è Ugo, quando vuole e dev'essere il figlio di Oldrado!—Ed ecco ad un tratto, nello spessore delle pareti, come un rumore di ferri scossi e di ruote scorrenti: certo indizio che si calava al di fuori il ponte levatoio, senza squillo di corno e senza parola data e ricambiata. Che era mai?
Ugo si accigliò: pure continuando ne' suoi pensieri:—Non è giorno di sabato, nè ora da tregenda…. Giuoco d'imaginazione, via!… Chiamerò Bonello: ch'egli faccia apparecchiare gli uomini, e, questa notte istessa vedranno i miei nemici! Ugo ama ed odia una cosa sola: la sua spada!—e se la cercò al fianco, e non avendola, si morse le labbra. Impazientissimo andò verso la porta: ed ecco si abbattè con Bonello che veniva innanzi lentamente e colle mani nascoste dietro le reni.
—Messere,—disse Bonello:—siete disarmato?
—Debbo temere i traditori nel mio castello?—rispose fieramente Ugo, e comandò:—Bonello, fate alzare subito il ponte.
—Ah voi sapete?—e lo scudiero s'avanzava strisciando sulla parete che la lampadetta dell'altare lasciava al buio, e vedendo sull'altra l'ombra della sua persona barcollare gigante, continuava:—Sapete: tante cose le paiono, ma non sono?
—Come a dire?
—Io fui sempre sicuro e fedele.
—Bonello!
—Ma sapete quanto vale la vostra testa? Oggi fu triplicato il prezzo. E voi sapete com'io sia povero diavolo, ad onta dei servigi che ho fatto ad Oldrado.
—Tu! tu ami l'oro! Bonello, questo è castigo d'Iddio! Tu puoi! Ma io ti risparmio il delitto! Ti amò messer Oldrado!—ed Ugo diedesi a chiamare:—Aimone! Aimone!
—È inutile, messere. Ho preveduto, è spacciato, e non risponde più.
—Io non consento, Bonello, che tu perda l'anima in modo così vile! A me!—e prima che Bonello si muovesse di un passo, Ugo tolse un candelliere dall'altare e lo rotò come una mazza:—Potrei ucciderti! Ma nemmanco voglio!—e lo balestrò sul pavimento.
—Messere, colla taglia che avete sul capo c'è tanto da pagare tutti gli uomini del castello. Avete pensato? Noi abbiamo pensato.
—Bonello! m'ammazzi un ribaldo anche pagato da te, ma tu no, no!
E Bonello, come preso da un rimorso:—Ho giurato a messer Adalberto!
—Morire così? Voglio vivere per combattere! Scellerato!—ruggì il cavaliere, e con un lancio balzò all'uscio della cappella, e furiosamente prese giù per il corritoio:—In questa chiesetta dunque così mi si pagherebbe il tradimento di Oldrado!
L'altro sempre a cinque passi gli era dietro bestemmiando:—Ho giurato!
Ugo venne nella corte. Tutto era buio, e poco mancò non inciampasse e fosse trucidato. L'unico luogo che fosse illuminato da una fiaccola era l'androne della porta: Ugo vi si diresse, cogli occhi invano cercando un'arma qualunque: vide aperto il portone e calato il ponte, come era stato fatto per preparare la fuga a Bonello nel caso di colpo fallito, o per preparare il peggio. Ad un camerotto si affacciarono gridando dieci o dodici uomini, e minacciando. Ugo ne atterrò due in un baleno, ma, mentre stava per strappare loro la spada, eccogli vicinissimo quel grido di condanna:—Ho giurato!—Ugo, abbrividendo, si scagliò contro Bonello, e in un fascio tutt'e due stramazzarono sul ponte, e ruzzolarono innanzi sette od otto passi, sì che dalla tavola di legno vennero al ciglione del fossato. Bonello tentava di adoperare il pugnale, ma sotto la stretta del signore non poteva: la lotta divenne accanita per le percosse menate alla cieca. Alla fine Ugo abbrancò il pugnale. Bonello si svincolò, sorse, e prese a fuggire giù da una stradetta. Ugo corse, corse, giù, a fiaccacollo per balze, giù, perdette la traccia dell'altro, precipitò, e cadde rotoloni…. Non ascoltò più…. Quando si drizzò gridando:—Voglio tornare al mio castello!—ascoltò dietro, all'insù, già, lontano, queste grida ubriache:—Viva messer Adalberto!—Ugo si rivolse e vide moltissime fiaccole che giravano intorno alle sue mura e sparivano a poco a poco entrando nel portone.—Adalberto è padrone del mio castello!… Il tradimento era preparato!—disse Ugo, ed imprecò:—Che mi resta? Il mio odio e il mio amore!—e a vece di scheggiare la testa contro un masso per finire il martirio, l'alzò superbissima al cielo.
Due o tre fiaccole venivano giù dalla porta verso la stradetta, e una voce gridava:—Bonello! Bonello!—e poi:—Si accresce la taglia di due mucchietti d'oro…. O vivo messer Ugo o morto….
Ugo scese senza una direzione per la valle, nella notte oscurissima, poi s'arrampicò ad un monte, sempre alla cieca, percuotendosi nelle piante, molte volte cadendo, affondando, squarciandosi i piedi e legando le gambe nei rovai, e spiando cogli occhi intentissimi, coll'odorato, colle mani….
Camminò, camminò. Ad un tratto gli parve che qualcuno parlasse di lontano. Egli si protese a terra, ficcò gli occhi nella tenebra, e scorse tra il nero degli abeti una striscia più chiara che montava, montava, si perdeva: era una stradetta. Dio sa per dove! Ugo nulla conosceva. Concentrò tutta l'anima nel senso dell'orecchio: capì che due uomini armati venivano su parlando tra loro.
Ugo incominciò ad afferrare queste sole parole:—…. quello che dite voi è un cavaliere valoroso. Ma l'altro è da sgozzare.
Avvicinandosi i due interlocutori, Ugo rattenne il fiato: e sentì distintamente il colloquio: ed eccolo:
—Chi disse che Ugo era morto per ferro, chi per sasso. E compare a menar così la scure, rompendo l'uscio della cappella, una cosa sacra.
—Perdono d'Iddio!
Ugo, per tacere, si cacciò un pugno in bocca.
Diceva l'uno:—Adesso c'è su scomunica per tutti. Ohe, non ditelo, fratello, a mamma Agnese, se no ci troviamo giuntati anche di quel po' di cena, dopo una giornata d'arme come questa.
E l'altro:—Messer Oberto non parlò con noi? Si è spento l'incendio, per grazia della Vergine: perciò fu pubblicato un bando dal duomo di Saluzzo: con cui Ugo è scomunicato, sette volte sette, noi solo una…. ed è di troppo! Ma lodiamo Dio! sarà levato il peso dell'anime nostre solo quando madonna potrà sposare un cristiano leale che paghi il papa.
—Dicono d'Oberto.
Ugo quasi si sgangherò le mascelle.
Continuava l'uno:—Ed ha di già fatto sacramento al vescovo messer
Oberto. Hai veduto la croce sulla pergamena?
Diceva l'altro:—Oberto è un cavaliero valoroso.
E i due si allontanavano. Ugo guardava ed ascoltava. Solo tenebra e silenzio. Ugo fece per alzarsi e seguire i due uomini, ma non potè! Così disteso a terra com'era, si cercò alle reni il pugnale per appuntarselo al petto e poi pregare con religiosi e suicidi contorcimenti: l'atto della supplicazione, credeva, avrebbe celato a Dio il delitto. Non trovò l'arma: allora disse:—È volere del cielo ch'io non muoia così orrendo!—e potè rizzarsi, e salire la montagna.—O Signore—scongiurava:—fammi capitare a Malandaggio! C'è un buon romito nella grotta…. Ch'egli mi ribattezzi coll'acqua del Chiusone!… Nella valle giù…. c'è…. Imilda…. Imilda!… E voglio fuggirla!… Su, su, su, t'arrampica!… Imilda!—e vaneggiando:—Su, su!… È pur triste la strada al paradiso!… Sulla cima m'attende la morte!…
L'eremita era lontanissimo, oltre la valle del Pelice, nella valle del
Chiusone, sul Malandaggio, tra le Porte e il Villaro.
In questi pensieri, smarrita ogni traccia di sentiero, errò tutta la notte….
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Torniamo a Rupemala.
Oberto e Ildebrandino erano divenuti nemici, come si vide, e i nemici in casa sono peggiori di quelli coll'armi alla mano. Ildebrandino pensava:—L'ho colmato di benefizi, come se fosse mio figlio, e speravo tanto d'Oberto! L'avevo bene cresciuto! "Voglio Imilda!" Dopo ch'io gliela avevo concessa' Non doveva, non poteva dire così…. Ma v'è un'offesa maggiore!—Sì, Ildebrandino aveva udito amarissimamente rinfacciarsi la sua mala fortuna di un tempo, e fu trafitto da quel dubbio villano: "Fate che, morendo voi, io abbia un castello o la memoria…." E che aveva soggiunto Oberto? Le esequie? Ildebrandino aveva capegli grigi: pensò e ripensò, e si sentì come maledetto…. Quel giorno in cui Oberto tornò da Saluzzo chiedendo d'Imilda, Ildebrandino rispose:—È mia figlia!—e veramente provò addoppiato l'amore per lei, già lontana, ma sicura. Oberta domandò a tutti per sapere qualcosa, ma invano. Allora lodò lo zio, finse di volersi pacificare con lui, forse per acconciargli più traditora una certa sorpresa che meditava pel dimane, escì con lui a cavallo per vedere dove fossero appiattati i nemici; si rappattumarono un poco, ma sulle loro labbra c'era sempre un'ironia velenosa, sempre quell'espressione—Lascia fare a me—che si mostrava più e più, quand'essi volevano ricacciarla.
All'indomani entrò un frate nel castello e parlò con Oberto, perchè lo zio era uscito coi balestrieri ad apparecchiare una offesa contro Adalberto, che continuamente faceva scorrazzare della cavalleria. Oberto parve assai dimesso, ricevette un rotolo di pergamena dal frate, e lo accommiatò:—Che messere il vescovo ne faccia grazia! Speriamo nella Vergine di Saluzzo. Sì, farò ancora limosina al convento, copiosissima….—Poi tra sè:—Se il papa mi sapesse dire dov'è Imilda?
Ad Ildebrandino nulla fu detto. E quel giorno il cavaliero volle combattere, combattè fino a sera, cessò, e, meditando una certa impresa per la notte, tornò al suo castello, e sembrò riconciliato con Oberto, perchè questi gli fu allato sempre, come un prode. Ildebrandino, cogliendo il momento che Oberto non vedesse, chiamò a sè, in una torre, i figli del vecchio Federigo e di Agnese, e loro disse:—Ritornate su alla montagna e portatemi per domani le nuove di Imilda.
Oberto che era nella corte, da un pezzo meditabondo, vedendo partire i due fratelli, credette che si recassero dai vassalli cogli ordini per la notte: domandò loro:—Dove andate?
E quelli:—Dove vuole messere.
—Vuole lui? Non sempre si è obbligati a obbedire noi—istigò
Oberto:—Vuole?
—Come?
Oberto mostrò loro la pergamena che aveva in petto, parlò sommessamente, rivelando una gran cosa accaduta, e concludendo:—Siete sciolti da ogni giuramento verso lo zio. Obbedite a me che posso salvar tutti! Ditelo ai soldati. Io voglio comandare a tutti loro, se ad essi preme il nome di cristiani e la salute dell'anima.
—Che mistero!—disse uno dei fratelli, avviandosi.
E l'altro:—Non ditelo a mamma Agnese. E se stanotte il dimonio ci gioca!—e fece l'atto di segnarsi colla croce, ma si arrestò lamentando:—Non si può più, e mi trema la mano!
—Che cosa! Quando gli altri la sapranno!
I due uscirono dalla porticella di soccorso, e s'incamminarono, taciti e compunti, alla montagna: e furono proprio quegli armati che Ugo ascoltò con tanto amore.
Quella sera, appena Oberto vide Ildebrandino:—Zio—gli disse:—Ho da parlarvi e da senno.
—Senti chi vuol parlare da senno!—interruppe lo zio, egli stesso suonando un corno:—Dobbiamo fare una sorpresa, devo farla. So che una congrega di demonii deve passare non lontano di qui, colle fiaccole, per tentare un tradimento al castello di Ugo, so…. Che hai? Orvia, parla.
Oberto voleva che maggiore solennità accompagnasse la rivelazione che aveva a fare, perciò si morse la lingua, dicendo:—A tempo migliore parleremo. L'auguro per me e per voi.
Uscirono, trovarono i nemici e combatterono: nullameno i traditori proseguirono il loro viaggio. Ildebrandino guadagnò una ferita alla gola, leggera, lo credette, una graffiatura, ma con un certo bruciore…. Oberto pensò:—Quella proprio che ci voleva per tenermelo quieto—accompagnò lo zio al castello, lo sdraiò sul suo letto e lo guardò. Quegli si smarriva negli occhi, borbogliava sordamente, dicendo:—Niente!—e cominciava però a contorcersi.
—Messer Ildebrandino,—prese a dire il nipote:—debbo annunziarvi che il vescovo di Saluzzo…. Non mi ascoltate?
Non lo ascoltava davvero.
—Debbo annunziarvi che il vescovo di Saluzzo…. Svegliatevi!… Ma, ma, zio! Che avete?… Non posso pregare per voi, mi spiace…. Svegliatevi! Ah, ma com'è questa scalfittura? Che ei si vada addormentando come un ghiro?… Zio, ditemi, ov'è Imilda?—finì per comandare:—Ditemi!
Ildebrandino era assopito: la ferita, d'arma avvelenata, si faceva livida e gonfia.
Oberto prorompeva:—Ah la mia vendetta! Perchè cadrà a vuoto? Zio, zio! Ho tanto fatto, e sì bene!… Ascoltatemi! per poco…. Che mala fortuna!… S'egli morisse?… Zio!
Per tutta la notte Oberto trepidò, senza chiamare aiuto d'uomo. All'alba tolse su lo zio, lo denudò, lo portò nel corritoio, nella corte, lo pose a terra dinnanzi alle finestre della cappella, e lo coperse del drappo nero dei morti, ma senza croce, senza un ramoscello d'olivo, senza una goccia d'acqua, lasciandogli sporgere i piedi unghiuti e i capegli irti. Poi prese una mazza, e tra una finestra e l'altra inchiodò la pergamena che aveva avuto il giorno prima, gettò sullo zio un po' di cenere, e dicendo:—Almeno è morto scomunicato!—lo stette a guardare un pezzo.
Ad un tratto il drappo nero si mosse, e dalle pieghe sporse una mano che ne ghermì la frangia, la strappò, la strappò: apparì fuori il volto di Ildebrandino, paonazzo, furente, soffogato: gli occhi si ficcarono sulla pergamena segnata di croci e di grossi caratteri: si spalancarono, ma furono accecati dalla cenere che vi cadeva dal drappo sempre più scosso dalle mani febbrili.
—Zio!—disse Oberto:—è inutile che chiamiate il becchino. Gli scomunicati come noi giacciono insepolti.
—Ah sei tu? Oberto!—incominciò Ildebrandino, svegliandosi per poco dal lungo sopore:—Perchè non so leggere, come un frate? La vedo lì la condanna, la vedo! Ma nemmeno tu sai leggere: sono contento!
Oberto si piantò sotto la pergamena, esultando:—Non so leggere, ma io l'ho dettata al vescovo di Saluzzo. Ugo è scomunicato sette volte sette: noi una sola: sarà levato il peso all'anime nostre solo quando un cristiano leale sarà padrone di questo castello.
Ildebrandino si contorse tutto, gettò il drappo, e fece per rizzarsi: ma ricadde:—Perchè sono qui?—domandò, e tacque.
—Voi morite così?
—Ah Oberto!
—Morite scomunicato, insepolto? Pensate qual castigo orrendo!
Scomunicato, insepolto!
—E che a me?—delirò il moribondo:—Vedi tu questo drappo? Nera è la morte e senza speranza. Nulla sento, nulla ricordo più!
—Voi dunque morite così?
—Solo i frati veggono i demoni, solo le donne veggono gli angioli.
—Le donne? Pensate che Imilda è scomunicata! Dice la pergamena: sarà levato il peso dell'anime appena ch'ella possa sposare un cristiano leale che faccia molta limosina.
—Imilda?—A quel nome Ildebrandino si tirò addosso la coltre col massimo rispetto: e comandò:—Lasciami, Oberto!… Mi manca la lena…. Non gettarmi nel pattume!
—Che bel momento per cercarvi la sposa! È venuto!…
—Lasciami!… Mia figlia non è qui?… Come si muore senza fede!—e il vecchio quasi pianse:—Imilda!… Nulla sentivo, nulla ricordavo più!
—Desiderereste che Imilda fosse qui?
—Tu la vuoi sposa?… Ma no!
—Imilda che dirà di suo padre, che tutti ci volle dannati! Dannati per lui che moriva! Imilda deve vivere.
—E volevo vivesse felice!—Ildebrandino era straziato in modo ineffabile: e pregava:—Dammi la mazza sul capo! No? Dio, fammi morire!… Morire?… Nella morte c'è un mistero che mi pesa! Sento adesso: no, no…! Oberto, lasciami: tristo, vituperato, ingratissimo….
—De profundis clamavi ad te, Domine.
Infine Ildebrandino disse:—Va alla casa di Agnese e di Federigo: là è Imilda…. Affrettati, affrettala!… Prima ch'io muoia!… Fa limosina coi gioielli di Adelasia mia, prega, fa pregare! Affrettati! Sposa Imilda, prima ch'io muoia, ah!… O Signore, dammi un po' d'ore di vita, a costo di qualunque spasimo! Carità! Credo nel Signore!… Affrettati!
Oberto corse al monte.
D'Ildebrandino parliamo per l'ultima volta. Prima che Oberto giungesse alla casetta di Agnese, egli moriva supplicando:—Carità! carità!—raggomitolandosi nel drappo, e trascinandosi fino a toccare una pietra della cappella. Come nel castello si svegliarono gli armati e come le sentinelle calarono dalle torri, la novella trista passò di bocca in bocca; tutti si spaventarono orrendamente. Pare che Adalberto tosto sapesse qualcosa, perchè investì il portone, con pochi fanti, e s'impadronì del castello.
Oberto che andava cercando la sposa, perdeva in pochi momenti gli averi. Pure si sentiva contento, e chiamava:—Imilda!
Giunto alla casetta potè chiamarla per un bel pezzo:—Imilda, Imilda!
Dov'è Imilda? Voglio!
Nessuno rispondeva. Che nuovo mistero.
Come abbiamo detto, Ugo, smarrita ogni traccia di sentiero, errò tutta la notte.
Appena l'alba imbiancò i colmi dei tettucci alle capanne inerpicate su per le saluzzie Alpi, Ugo si trovò, spossatissimo e irrigidito, buttato sotto una grotta formata da una rupe stillante.
Com'egli si era ricovrato là? Non sapeva. Sapeva che intorno c'era una pace, un silenzio, una tranquillità! Che Dio sia benedetto, sulle alte cime, lontano dagli uomini, Dio padre della natura!… A venti passi vedevasi sorgere su uno sfondo di vapori perlacei l'assito posteriore di una casetta dalle gronde ospitali, dalla povera finestra, dal fumo lentissimo sfuggente, quasi incenso mattiniero alla crocetta guardiana del colmo. Chi abitava là dentro?… O gente fortunata, che non conosci i tormenti dell'anima, vivi lieta, e fai che le tue fanciulle si levino sempre, cantando, dai giacigli innocenti! Qual pace, sì, quale silenzio, quale tranquillità!
—Dove sono?—si domandò Ugo, ma non potè rispondersi. Egli non conosceva quel luogo: guardò ancora attorno, e sospirò con invidia quasi religiosa: vide sulla grotta vicino a lui una rozza statuina di Madonna, vide un abbeveratoio coll'acqua traboccante, vide sette od otto agnellini. Da un uscio che si aperse nel fianco della casetta venne sulla gradinata di ciottoloni rotondi una figura di fanciulla, colla foggia montanara, il volto coperto da un panno: guardò giù la montagna, poi, non col passo della massaia che solerte si dà alle bisogne del mattino, andò all'abbeveratoio, cautissima nella rugiada e fastidiosa. Un agnello venne, ritroso e saltellante, bebbe e s'allontanò con graziose tresche: ella si diede ad inseguirlo, corse, venne quasi sotto alla rupe, senza veder Ugo.
Ugo in quel momento proprio pensava:—Che vita incomincia per me?
La montanina guardò ancora giù dalla montagna, stette un pezzo come pensierosa, e, piegando le ginocchia, disse:—Perdonami, madre! Io devo fuggire!—e stava per muovere il piede: si lasciò scappare questo lamento:—Non ho ancora pregato stamattina!—e si volse in due passi alla grotta, verso la statuetta.
Vide Ugo, si avventò su di lui, supplicando ansiosissima e dolorosa:—Siete ferito? Siete salvo?—e buttò via il panno dal capo, lo raccolse per farne una fascia, sollevò la faccia a Dio. Era madonna Imilda! Quella lì vicino la casa di Agnese.
Ugo non credette e lanciò innanzi le mani, come per stracciare una nebbia, gridando:—No! È crudeltà questa illusione! Lasciatemi morire!
—Morire? morire voi!—ruggì Imilda. Così in lei, straziata sul subito la gioia affannosa del riabbraccio dalle parole deliranti di lui, l'amore cupido dell'infinito volle vincere il tempo, soperchiandolo colla intensità dell'anima. Non si può amare tutta una vita? Si impazzisce un'ora nella ebbrezza più prepotente e si muore. L'amore diventa furore.—Ugo! Ugo!—e la vergine se gli gettò in braccio, ammaliandolo con un modo procacissimo che sfidava Dio e gli uomini:—Se sapeste che tormento! E vi trovo quassù! Chi ve lo disse ch'ero qui? E voi volete morire! Ugo mio, io non credevo che tu avessi a dirmi così!
—Ma sei proprio tu?—Ugo si storceva come sotto un incubo.
—Sono io! Non mi senti? Ti bacio, ti mordo, ti voglio!
—Imilda, la tua faccia è fiamma!
—E voglio che bruci la tua. Ti discaccio la morte!
—Io ti strappai al fuoco: tu al fuoco mi rigetti!—E poi, come se Ugo acquistasse coscienza:—Imilda, fuggimi, per carità! Perchè incominciare un nuovo tormento? Va!
—Io fuggivo alla valle—sorrise Imilda:—per te!
—Che ti dissi? Non dobbiamo vederci più! Se muoio, tu non devi saperlo: se vivo, ho un giuramento a compiere! Ti supplico: fuggimi!—Ed Ugo, rizzatosi, spingeva Imilda su quella stessa stradicciuola per cui Oberto doveva venire, e veniva, per condurre a Rupemala la sposa a vedere il padre per l'ultima volta:—Fuggimi! Tu non sai che cosa ho pensato di te!
Ella trepidò.
Ed egli:—Affrettati!
—Non m'ami?
—…. T'amo, sì! Ma tu qui vedresti un grande tormento! Oldrado e
Guidinga verranno a ghermirmi tra poco!—ed Ugo barcollò.
—Ugo!—gridò Imilda.
E fu così potente la voce di lei, che il cavaliere si scosse, rattenendola e lamentando:—Questa è voce di paradiso! Imilda, non fuggirmi! Sono nell'affanno immenso! Non fuggirmi dalla terra!
—Ugo, sono qui avvinghiata a te! Nessuno può rompere questo nodo fatale!
—Nessuno? E chi ti dicesse chi io sono?
—Nessuno! E nessuno lo può dire perchè tu sei Ugo!
—Io devo dirlo. Sono vinto e vituperato.
—T'amo!
—Scomunicato e fuggente.
—T'amo, e sono tutta tua!
—Perchè m'ami? Che t'ho fatto per condannarmi così?
—Ed io che t'ho fatto?
—Ricordati Guidinga.
—È così disperato l'amore! Chi ci resiste?
Imilda nascose Ugo nella grotta, andò nella casetta e fu lietissima che mamma Agnese non ci fosse, perchè la stava stendendo dei pannilini in un pratello: i figli di Federigo dormivano ancora, colle membra rotte dal combattimento: Imilda tolse su del pane, dei cibi, delle vesti, e con gran cura involò da un pancone un suo cofanetto prezioso.
Ritornò da Ugo, lo fece rifocillare, lo animò tutto, gli domandò:—Ugo, sei pronto?
—A tutto, purchè tu mi baci!—rispose Ugo.
—Ancora e sempre.
—Ora mi trovo saldissimo.
—Dunque decidi di me.
—Dai morti non ebbi che strazio. Da te viva voglio la felicità! E qual'è? quella degli agi, dell'ambizione, del potere? Tu non sai com'è l'anima mia! come amore, memorie, gelosia, impotenza, strapotenza, come tremendi uragani l'abbiano squassata! Dammi un poco di pace! Io non so dirti…! Prima di tutto, per la salvazione nostra! andiamo dal romito di Malandaggio che non ci conosce….
—E quegli benedica le nostre nozze.
—Poi…. O Imilda, ci abbiamo pensato?—Ugo fu come ghermito da un pensiero.
—E di che temi dopo? Dio sa che tu sei mio, ch'io sono tua. Se così volle per tormentarci, questi istanti audacissimi di vita vincono tutti gli anni!
—Imilda—dubitava fieramente Ugo:—non posso! non devo!
—Come mi ami poco! Ma non vedi? Io fuggo anche da mio padre per te!
—Se vuoi ch'io comandi, comando: fuggiamo!—esultò Ugo.
—Sì, andremo lontano da Adalberto….
—Da Oberto!
—Da tutti! Senti: ho pregato tanto. Oh lo sa la madre mia. Ugo, in questo cofanetto ho i suoi gioielli, fuggiamo lontano…. "Chi siete?" domanderanno. "Siamo esuli." "Di che terra?" E diremo: "Il saracino Alzor disertò le nostre castella sulla riviera ligure." Fuggiamo lontano. O mio Ugo, vivremo lontano da tutti! Ci benedica il romito.
—Affermano i boscaiuoli ch'egli è profeta: ci predirà l'avvenire.
—Ma chi più profeta del mio cuore? Ascolti, Ugo? Morremo d'amore!
Tra le vesti Imilda aveva trafugato anche quelle dei figli di Agnese: Ugo si coperse con quei rozzi panni: Imilda si strinse a lui, dicendo:—Tu hai pane nella bisaccia? Quando sarà finito, lo domanderemo ai boscaiuoli, per pietà d'Iddio.—E s'incamminarono sulla montagna: nel primo torrente in cui s'abbatterono Ugo gettò il suo saio da cavaliero, e le calze, e gli usatti, esclamando:—Mi sento buono!
E montanaro e montanara s'arrampicarono sempre più, sempre più obliando che c'era un mondo basso nel quale la gente viveva in tanta guerra, inconsci affatto che c'era un castello con un morto maledetto e vituperato dai nemici, che c'era una strada sulla quale camminava Oberto, ringhiando:—Che vita sarà la mia con Imilda?
Quella di Imilda con Ugo doveva essere…. felice?
Dal dì che Imilda è fuggita con Ugo è passato un anno, due…. Nulla più nelle valli, nè a Saluzzo, si seppe di loro….
Solo il romito di Malandaggio ci tramandò su certi foglietti certe notizie, che mi venne fatto rintracciare nell'archivio di Saluzzo. Ma a che pro? Voi non ci credereste. Ebbene?
Sulle cime che dominano le valli di Fenestrelle, in cui si sbalza il torrente Chiusone, il rovaio, spezzandosi nelle forre dagli acuti ciglioni, dalle frementi profondità, stride cogli spiriti della mezzanotte, abbattendo, indiavolando, storcendo. È nero il tempo…. Una donna appare! Chi è?… Ella rompe il lenzuolo nei vepri: ecco svolazzano i brandelli sibilando. Si squarcia i piedi nei radiconi: vaporano le pozzette di sangue col verde fumoso delle meteore. Cade: ghignano le cortecce degli abeti colle boccacce rugose. Si lamenta collo strido della lupa trafitta: l'alito suo, uscendo dalle labbra, fuma come torcia di funerale notturno. Fanno tresca allo spettacolo spirti glauchi, spirti bigi, spirti scialbi. I brandelli sono lacerati, il vapore turbinato, le cortecce agghiacciate, l'alito diffuso in nebbia inargentata. Ecco la tormenta!
Ecco la valanga! La donna ancora rompe il lenzuolo e si scopre l'oscenissimo fianco…. Chi è? È Guidinga, la morta senza croce fra le mani. Guidinga rotola le valanghe al Monviso, sghignazza al Meidassa, le rotola al Glaisa, sghignazza al Genèvre, le rotola al Chalierton, sghignazza al colle dell'Assietta…. Fanno tresca gli spirti.
Prega il buon romito di Malandaggio che veglia tutte le notti e tutte, perchè sono l'ultime di sua vita, ed a ogni parola di lui ecco un castigo inflitto da Dio agli spiriti del male: quello colle aliuzze crepitanti fu impegolato alla resina gocciante da un troncono, quello punzecchiato colle foglie aghiformi di un pino, l'altro legato colla coda ad un roveto, l'altro propagginato in una buca di calabroni…. O Guidinga, o madonna perduta, se tu fischi verso qualche casetta di montanari, è indizio di sventura!
Su, su, su: là nell'opaca foresta, che si distende a falde scendenti, come un calderotto di pece riversato dalla montagna su si vede un lumicino. Pare una favilla minutissima addormentata sull'immensa fuliggine di una cappa ne' castelli. Può essere un fuoco acceso dai folletti colle pergamene rubate al vecchio di Malandaggio, o un voto fatto alla Madonna santissima, da qualche pastore: lume di finestretta no, perchè le cime dei monti già sono nevose e i boscaiuoli già sono calati nelle valli: eppure!
Giù tra i dirupi d'una frana s'ode una voce che dice:—Com'è lontano!
È voce d'uomo: non è grido di fiera, nè fragore d'acqua travolta, nè rotta, nè corsìa di vento.
Chi può essere?… Oh vedi, un pellegrino!
O pellegrino della notte nera, ove t'inerpichi? Quegli cammina, cammina. O pellegrino che cammini, perchè t'inerpichi e dove? Forre, di qua, spaccate boscaglie di là, sentieri taglienti, tempo da lupi, ora da spiriti: ritorna alla valle. O pellegrino che non ritorni alla valle, dimmi chi sei?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Cammina e cammina. Il pellegrino è arrivato ad una capanna, su, nell'opaca foresta.
La finestretta quadra gli sbatte addosso un po' di luce e lo mostra qual'è, un alpigiano inferraiolato: la portella si apre sollecitamente: ma oh! questa che spinge la robusta tavola di quercia non è mano di montanara!… Qua nella stanzuccia di legno ecco appese le scuri del boscaiuolo, qua due giacigli, una culla di poverissime lane e nella culla un bambolino, qua entro quattro lastre di pietra ecco un focolare vampeggiante.
L'uomo e la donna sfogano nei cupidissimi baci e negli abbracci potenti la desolazione delle lunghe ore già deserte.
—Lodato Pio e i santi! O Silverio!
—Sono qui, o Maria!
—Tu non venivi mai!
Egli, pigliando a ciocche i capegli della donna e con quelli facendo fascia maliarda d'amore al volto irrigidito, egli esclama:—Perchè così sorridi?
Ed ella:—Perchè sospiri così?
—Mia Imilda!
—Ugo, ti aspettavo tanto!
Ecco adunque, come racconta il vecchio di Malandaggio, uniti il cavaliero ardente e la promessa sposa di Oberto, un boscaiuolo e una montanara, Silverio e Maria.
Ugo in due anni era cresciuto di corpo, dimagrato di volto, ma sempre contento, come marito, come padre, senza più gli ardentissimi tormenti pei deliri d'amante e di figlio. Ugo si volgeva al suo passato, come tentava di specchiarsi nei rapidi torrenti dell'Alpi: un gran tumulto che si perdeva, ecco il passato. Imilda a tutte l'ore ringraziava Iddio: dalla cappella ardente era venuta alla placidissima casetta della massaia! Imilda attendeva alla sua creaturina, alla capretta, alla bisogna del pranzo e della cena, cantava sempre fissando il cielo: e alla sera aspettava il suo Ugo che tornasse dai boschi. Due anni erano scorsi in pace'.
—Ugo—dice Imilda, cambiando tutta quella, festa in una scena placidamente dolorosa:—Dio sa come, anche oggi, fu affannato il tuo viaggio, con questo gelo, sulle scoscese rive del torrente, senza di me! Ma la mia solitudine! Oh sei qui: non voglio saper altro, tra le mie braccia tenaci! Ugo!—E ad un tratto:—Perché dunque stasera sospiri così? E perché non mi domandi della bimba?
—Perché non me ne parli?—Ugo tenta quasi schermirsi da tanto amore.
Ugo è triste e combatte per infingersi.
—Oh come io ti aspettavo, e come t'aspettava anche lei! Non voleva chiudere gli occhi senza il bacio del babbo.—Imilda, gentile e sagace interprete, vuole snebbiar la fronte del suo Ugo colle sante labbra dell'angiolo custode.
—Dorme?
—Meglio che se posasse in culla d'oro. Non dici il tuo scherzo d'ogni sera?
—Sì….—Ugo sorride, beato e tormentato da quella soave violenza:—Lascia ch'io la baci, la mia castellanina.
—Messere, non siate scortese colle belle. Voi la svegliereste a bacioni….—dice Imilda col tono di una gran dama, regina di venti damigelle e cento paggetti, sporgendo il labbro inferiore, facendo un inchino alla culla di legno e porgendo al cavaliero, perchè lo baci, un lembo della sua gonna di pelli cucite: gioca fanciullescamente e amorosissamente deridendo il passato: ma poi, fissando Ugo che non l'asseconda, o l'asseconda come smemorato, poi con dispiacere e quasi offesa:—A bacioni? No: è lo scherzo d'ogni sera, ma non l'abbiamo detto…. Tu non l'hai detto celiando, come sempre….—Infine incertissima:—Che cos'hai, Ugo?
Ugo con voce addolorata:—Baciala tu per me!
—Ugo?
—Imilda, prega il tuo angiolo che nel sonno dica a Dio una parola per me!—Ugo, pentito di quel lamento che gli è prorotto, piomba in un silenzio desolato.
E Imilda meravigliata e trepidante:—Ugo, che c'è? Tu guardi la cuna e non sorridi? Tu sei pensieroso? Tu m'hai stretto a te, celandomi un dolore—E con stringicore ineffabile, quasi a scongiurare un pericolo:—Non sono la tua sposa? E perché l'angiolo nostro preghi per noi, forse vuoi dire che le nostre orazioni non sono più quelle?
Ed Ugo affannato, ma sempre più facendosi forza, quasi per non tradire un segreto:—Le tue sì, le mie….
—Che vuoi nascondermi?
—Lo sai…. Da un pezzo…. Sempre: c'è nelle mie orazioni un rimorso!
—C'è nelle mie una dolcezza ineffabile!
—Imilda, rammenti quel giorno, dopo quello in cui ci sposò il romito?
—E non ci vedeva Iddio?
—Senti: quel giorno io spiai i tuoi piedi insanguinati nella corsa ruinosa, il delicatissimo petto ansante di fatica, gli occhi spossati, più che d'amore, di travaglio! Io ero vinto, vituperato, scomunicato, fuggente, e potevo io dirti mia? Ecco il mio rimorso!
—E sapevo io resistere? Ecco la mia gioia!
Ed Ugo, titubando:—Ahi da quel giorno ad oggi!—e combattuto:—Non posso dirti, e come! Mi tormento!—Poi ad una stretta di lei:—T'ho detto…. il mio rimorso!
Ma Imilda:—No, no! Tu mi celi qualcosa! È un altro il segreto. E lo so: stamane sei partito più presto, con un pensiero….—e pregando:—Dimmi! Fu tanta la pace, che anche il dolore ci giunge benedetto!
Ed Ugo risoluto e tremante:—Ebbene ti dirò. Sì, stamane sono partito prestissimo, sì con un pensiero, una febbre, che mi tormentavano da due notti. In questi mesi ho obliato, lo sai, ma l'anima talora mi rigurgitava in petto, e volevo sapere qualcosa! Ressi a lungo, penai, penai, poi non ressi più. Stamane, scendendo giù per le valli coi boscaiuoli, boscaiuolo io pure, volli richiedere novelle di coloro che abbiamo lasciato giù… Dopo due anni!
—Ah! perchè?—freme Imilda con rimprovero grave:—Perchè? Non ti bastava il mio amore?
—O mia donna! passai il Chiusone, venni a Inverso, a san Germano, a
Torre di Luserna.—Ed Ugo rimane, palpitando dolorosamente.
Sospira Imilda:—La valle del Pelice ov'è il castello di mia madre!—e china la testa, come pronta a subire il castigo della disubbidienza del suo Ugo.
—A Luserna. Più oltre non osai! E come un rozzo villano, indifferente, per il solo amore di un po' di pane, feci questa domanda: "O buona gente, volete braccia? Vi è un signore potente, non lontano di qui, il quale abbisogni di scuri per apparecchiare le travi alle macchine di guerra? C'è forse quel signore? E come si chiama?" Oh lo strazio di quella simulazione!
A questo punto gli accenti divengono procellosi,
—Hai saputo dunque d'Adalberto? di mio padre!
—Adalberto è vinto: Oberto è vincitore: Ildebrandino è morto.
—Morto?—così domandando, Imilda rompe in uno scoppio di pianto.
—Di altri non seppi. So che il mio tormento è grande, e tu piangi. E so che Oberto….—Ugo ripete astiosamente, quasi aizzato dalle memorie:—Oberto!
—Ebbene?
—Rizzi il capo a sentire il nome di colui? Oberto è nel mio castello…. signore potentissimo!—Ed Ugo è straziato dalle sante lagrime d'Imilda:—E la sposa? mi domandai. Non ha sposa. O Imilda, s'io non ero il tuo dimonio, tu ora saresti madonna di grande stato, moglie di Oberto, in belle sale, fra gentile corteo di damigelle. Ma sei qui, con me!… Perche ho valicato oggi il Chiusone?—e con forza gioiosa:—Ugo ritorna in me!
—Ugo!—rimprovera solennemente la donna:.—Dovevi lasciarmi nel fuoco quel giorno! Non avrei oggi ascoltato questo!… Ugo!… Mio padre!
—Questo ti grava?—minaccia tristamente Ugo: poi sogghignando:—E sei serbata ad ascoltare di più! Sappi dunque: che i traditori giungono dappertutto: e Bonello che un dì fu pagato da Adalberto contro di me, contro di noi può essere pagato da Oberto….
—Oh quel valente, no! Voi che dite così non siete cavaliere!—Imilda pavida e sdegnosa dell'immenso pericolo ribatte il dubbio col cuore:—No, no, Ugo!
E a quest'altro punto la procella si scatena tremenda, e Ugo si percuote il petto, si rizza furiosissimo, immenso nell'amore e nell'odio. Imilda si spaventa, e più è spaventata, più subisce il fascino di lui.
—Ma sono padre!… Perché ho valicato il Chiusone?… Vedete quella cuna? Che c'è, che c'è, Dio mio, nel destino perchè la maledizione debba pesare su quella creatura? e su voi? Tormenta me, se godi di questa atroce potenza: io faccio sacramento di rendere un giorno agli uomini quello che essi mi hanno fatto, col furore addoppiante della vendetta! Ma una donna, una bimba! Ad esse fu dato il cuore per amare, non per odiare!
—Ugo, tu bestemmii! Senti: castigo d'Iddio! il vento vuol sfasciare la capanna! O Signore, la mia cuna!
—Non temere! Il tristo dono della vita non si ritoglie mai a tempo. Gioisci? Muori. Ti strazii? La morte invocata non VIENE. Tutto è martirio!
—Ugo! Ugo, tu piangi?
—Se Bonello venisse quassù?
—Tu hai la scure: io so pregare Iddio.
—Tu non temi l'ira del cielo, perché tu sai che in cielo Dio è l'amore: io temo quella degli uomini, perché in terra Dio è l'oro!
—Ti dissi io: "Ugo, fuggiamo! I boscaiuoli già sono tutti al piano: qui temo la bufera, la valanga, la morte" ti dissi?
—Ed io devo supplicarti: fuggiamo! Oggi lo seppi, sì; fu scoperto che noi siamo quassù: fu giurato il nostro martirio, lo scempio della tua creaturina, il tuo vitupero, la mia prigionia!
Bonello, forse domani, o solo col tradimento, o violentissimo con cento armati, verrà su queste cime, a guadagnare la taglia! Io ho udito il bando e la promessa in oggi stesso! Fuggiamo, Imilda!
Imilda è già soggiogata, non si lamenta, non si dibatte, non si stringe ad Ugo, non prega Dio, ma solo geme col sospiro più profondo:—E la nostra poverina?
Quel sospiro soffia in un grande inferno: perché Ugo bestemmia:—Sempre un rimorso nella mia preghiera!
Ma Imilda se lo stringe a sè. Quando il boscaiuolo era entrato nella capanna era Silverio, ora il cavaliero era Ugo. Con Silverio Imilda amava la pace, con Ugo adorava il passato, il presente, l'avvenire.
—No, Ugo! Io ti seguii! Non ti seguii: ma ti volli, ti trascinai, ti inebbriai! Oh com'era il tuo amore? Ch'io non ti abbia poi conosciuto mai in tanti mesi? Che tu non sii forte come me?
—Imilda!
—Come sarà il tuo amore?
—Sarà come adesso! Ardente, santo, santissimo, pronto a tutto!
L'indomani mattina era tempo assai sinistro. Nelle valli di Fenestrelle stagnava un morto nebbione: i torrenti scrosciavano colle note basse della loro più tetra solitudine, direcciando dai picchi squallidissimi, o tra le rupi invetrate di gelo rotando colla schiuma cinericcia: pendevano secchi e scarmigliati dai ciglioni a squarci gli arbusti selvatici: gli abeti davano le loro tinte fosche a quell'immenso cimitero della natura: cadevano foglie e cortecce e rami e poveri uccelli migranti che non vedevano più cielo: il cielo era una caligine sola e le montagne, che v'immergevano le cime, mostravano le loro ossature di macigni profilate di nevi, disegnandosi come bigi carcami raccosciati o caduti. Era forse il dì de' morti…. La notte prima era dirupata la valanga? dove? come? Chi l'ha detto? Alla luce scialba di questa tristissima mattina si sono fugate le imaginose poesie del giullare della notte…. Dov'è Guidinga? Chi attende?… I lividi pinnacoli del Monviso, del Meidassa, del Glaisa, del Genèvre, del Chalierton, dell'Assietta, non conoscono donna alcuna!
Qual freddo deserto! Eppure non è deserto per Ugo e per Imilda, che lentamente aprono la porta della loro capanna: quello curvo sotto un fascio di povere robe, con pochissimi cibi, colla sua scure pesante: la donna rimbaccuccata in dieci pelli di agnello, non a proteggere lei, ma la creaturina, che amorosissimamente si aveva al petto.
Imilda trepidante guarda giù al sentiero per la valle, e, stringendosi ad Ugo, mostra il viso affannato da una veglia tormentosa, come quella che, cogli apparecchi non mai decisi, coi dubbi, coi rimpianti, precedette il tristo giorno di un viaggio verso l'ignoto. Quale veglia!—Ma è proprio vero che fuggiamo? Che mio padre è morto? Quante cose con noi si dovrebbero portare! Quali? Ma il fardello sempre cresce! Questa veste è necessaria? proprio? Se il freddo, se la bimba…. Eravamo tanto tranquilli! Non si può pensare! Che succederà? Abbiamo preso tutto. Tutto? Quell'oggetto qualunque è lì nella casetta: non c'è fatica a staccarlo, aumenta di poco il peso al fardello, lo porterò io, e potrebbe divenirci il più necessario: lo portiamo sì o no? Lo abbiamo lasciato! Torniamo: si va: si ritorna…. Quell'oggetto è forse inutile. Se si potesse avere una culla! Dove andremo, o Dio? Che abbiamo fatto?… Quale figlia fui rispetto a mio padre?… Uno spavento grandissimo stringe sempre d'attorno la casetta: i nemici, i pugnali, il tradimento! O Dio Signore! Passerà la notte. Ma che non passi! Qui l'ore un giorno erano felici: di qui dobbiamo esulare! Non passi e sia l'ultima in pace!—Fra l'angoscia, i dolori dell'amore e l'amore dei dolori, è passata! E bisogna fuggire. Imilda ha la mano tremante sulla porta, la tocca, e, come se quella fosse di legno benedetto, la bacia, si fa segno di croce: esce, e guarda giù. Sospira quasi liberata da un gran dubbio, il peggiore, dicendo:—Bonello non viene!
Ugo tace. Ugo stette per tutta la notte senza pronunciare una parola.
La capanna aveva al suo lato posteriore l'orticello e una stalletta con un finestrino a terra. Ugo e Imilda, uscendo per la porta dinnanzi, senza nulla più vedere, incominciarono a salire il monte…. Si udì un belato…. La capra della massaia sporgeva dal finestrino sull'erba il muso gemmato di brina, cogli occhioni sbarrati, col campanaccio che suonava con grave lamento: levò la testa…. Addio!
I fuggitivi sentirono quel belato: ma nessuno ebbe tanta forza da aprir bocca…. Addio, santa e tranquilla casetta dell'amore! Da te ancora esce una voce per noi! E noi ritorneremo?… O travi, cui recise e inchiodò la mano del boscaiuolo nelle lucenti mattine di primavera, o travi, quanti ricordi ci sorridono nell'anima!… Due anni prima, dopo il tormentoso esulare di giorni e di notti, dopo la benedizione del romito di Malandaggio, dopo mille paure e troppe gioie, al primo giungere su quelle cime sicure, Imilda era caduta affannosissimamente nelle braccia di Ugo, aveva avuto da lui tanti baci, quant'erano stelle nel cielo, a salutarli felici, ed aveva incominciato a susurrare:—Ti ricordi com'erano fiacche le corde del mio liuto?… Sai, non sento più suoni, nè più vedo…. Eppure la mia mamma Adelasia anche lei mi diceva di volermi bene!… Ugo, che cosa sono le stelle? Fuochi o anime che si adorano? Bisogna proprio morire per diventar stelle? Quei fuochi palpitano, quell'anime baciano, ma non hanno braccia per stringere forte forte…. Stringi!… L'edera e la quercia sono cose di questa terra, e come sono felici!… Ugo, che cosa dirà la Madonna santissima? Ma io l'ho sempre pregata: e, pregandola, non sapevo che lei, una notte, la dovesse arrossire!… La Madonna è su, su, su, lontana! Tu sei qui! Stelle, Madonne, baci, fiori, sorrisi…. tutto io sogno. Tu non sei un sogno?… Un giorno ti sognai bello, arcangelo mio, e coll'ali fiammanti e colla lancia del trionfo…. Ora ti sento mio: e ti strapperei l'ali, per paura che tu mi fuggissi! Ed ora sei vinto!… Ieri, l'altrieri, mi pareva di morire nell'imaginarmi le gioie del tuo amore, ora vivo di vita addoppiata!… Tu mi credi moribonda perchè ho il seno discinto e ansante?… Voglio dirti…! Ricominciamo… il pellegrinaggio dove vuoi, per giungere ancora qui, alla prima notte di nozze, per non veder più stelle, nè cielo, nè sante protezioni, per cadere ancora qui, e dirti ancora che sei mio!… Ricominciamo il pellegrinaggio…. Su, su…. Eppure! mi alzo, dò un passo, non ho più forza e ripiombo!—Aveva finito a susurrare così, e aveva dormito sotto un padiglione di frasche, avvinta alla persona del suo cavaliero, odorando l'effluvio dell'erbe aromatiche su cui posavano l'api: la luna l'aveva vestita come d'una coltre di serico bianco, e, fra i mille bisbigli del vastissimo silenzio, lì vicino il gemitìo d'un ruscelletto le preparava nella schiuma iridescente le fuggitive perle alle sue nozze. S'era svegliata, più stanca, soffogandosi gli occhi leziosamente e domandando:—Dove sono?—per sentirsi rispondere:—Sei ancora sul mio petto!—E sul petto di Ugo ella, che nel castello d'Ildebrandino aveva vissuto dei giorni solitari e freddi come una monaca, ella ad ora diveniva poetessa gentile, ad ora fremente, come una sibilla, insaziata di baci e audace nelle profezie, ad ora bambina, ingenua, tranquillissima, secondo i sonni della notte. Quando Ugo, felice e infelice, le aveva detto:—O Imilda, qui su queste rupi è morto tutto il mondo per noi! Qui siamo soli, e possiamo esser soli per un secolo! Io scenderò giù giù coi boscaiuoli al lavoro….—No, no!—ella aveva supplicato:—Rimani sempre con me!—poi aveva sorriso sprezzantemente al cofanetto dei gioielli, soggiungendo:—Sì, tu lavorerai e avremo il pane de' montanari, e lavorerò anch'io.—Ti grava la solitudine? Monti e monti, e cielo e silenzi e voli d'aquile superbe: intorno a te è il deserto.—Il deserto? Ugo, facciamo un mondo, siamo creatori: monti e monti, e cielo e silenzi e Dio sparso dappertutto: tra questo mistero facciamoci una casetta; vuoi nominarla castello, romitorio, reggia, monistero, o mondo? Sia come vuoi: da questi picchi noi pregheremo e regneremo…. Che? Ameremo! ecco la idea della divinità.—Imilda aveva scelto il luogo per la casetta, con grande importanza ciarlando della maggiore o minore probabilità dei venti molesti, prevedendo l'inverno col caldo dell'amore (ma non l'inverno vero!), occupandosi della comunicazione col ruscello, con un prato fiorito per la preghiera del mattino, e col sentiero che conducesse giù alla prima vallicella, e giù ancora e giù e giù a qualche lontana capanna d'anima viva: e pel luogo aveva tratto placido augurio da un sogno che aveva fatto…. Era sposa da tre o quattro giorni e già amava le cose piccine, i fiorelli, le erbucce, simulava la vocina capricciosa e la pronuncia ingenua, temeva le api; poi riposava molto, cantava un'antica canzone, tutt'altro che cavalleresca, lenta, sempre a ritornello, affrettava sempre più l'opera della casetta, senza più chiamarla colle voci poetiche ma volendola sicura e bella e pulita, desiderava una capretta da mungere, con tanto latte e tanto pelo, pregava a notte, arrossiva dinnanzi a Ugo. Spesso, quand'egli lavorava a tagliare, ad inchiodare, a connettere, ella sedeva silenziosa, e finiva con un rimorso castissimo:—Mi spiace ch'io non possa aiutarti!—e temeva l'inverno…. Con scrupolo delicato si toglieva di collo la medaglia della madre, dicendo:—Tu assisterai al battesimo…. Ma che? l'acqua che ne manda Iddio nei ruscelli è tutta benedetta!—In quei primi mesi dell'idillio il cielo era azzurro con cento azzurri, splendido, diafano, e colla vita del suo sole, colla poesia della luna e delle stelle, pioveva smeraldi alle selve, porpore alle rupi d'occidente, diamanti all'acque, paci alle vallee, e amore a tutta la natura: tutto bisbigliava, tutto si incoloriva, tutto scaldava, tutto fremeva…. Ugo calava giù alle capanne dei boscaiuoli a lavorare, a guadagnarsi le provvisioni, mostrava la crocetta che gli aveva dato il romito di Malandaggio, si spacciava come uno che fosse tornato a' propri monti dopo avere lavorato in Francia, senza parenti, solo, solissimo: giù l'aria gli pareva più greve: i pochi aspetti degli uomini lo conturbavano: quando risaliva alla sua donna non si volgeva più a fissare la direzione delle sue terre, del suo castello, de' suoi nemici. Dopo tanta passione, la pace sola aveva padroneggiata l'anima sua desiosissima! Ugo si ricordava d'avere visto nascere il sole da un'alta vetta, quando si sentiva rozzo, villano, cattivo, crudele, fortissimo, libero: ma Ugo non rammentava più quello che aveva operato.—Ho fatto il mio dovere, ed ecco la mia pace!—si diceva, non cercando l'eccelse cime per indovinare coll'anima cupida di mistero, per indovinare affannosamente il vasto sogno de' suoi deliri, l'infinito! Egli, nato da un Oldrado che era precipitato nel nulla e sempre aveva taciuto all'evocazione del figliuolo spronato, e da una Guidinga che, colla potenza dei mali spiriti, aveva centuplicato l'anima perversa dopo morte, una madonna perduta che aveva ascoltato, ascoltava, e doveva ascoltare fino al dì dell'universale giudizio le supplicazioni dei montanari:—Non rotolate la valanga!—Ascoltava, ma non esaudiva. E doveva essere castigata, dopo quel giorno ultimo dell'uman genere, nei secoli dei secoli dei secoli! Che cos'è la morte? Come si posa? Come si rivive? Oldrado aveva finito? Perché Guidinga sghignazzava sempre? Cos'è l'anima? il mistero? la condanna in vita e nell'avello? l'occulto delitto che si sconta? Ma pure vi sono i gaudenti, i tripudianti, gli epuloni?—Ugo non sapeva leggere, e poi allora c'erano pochi libri che sapessero persuadere alle belle cose. Ugo parlava male, pensava male, senza legame, senza logica, e soffriva peggio; di questo si accorgeva. Aveva patito e patito! Che importava a lui dei grammatici e dei logici paffuti? Ugo aveva avuto poca vita per la sua anima procellosa: eppure era già stanco: amava ed odiava!—In questa prima parte del nostro racconto il carattere d'Ugo l'abbiamo tracciato sconnesso, a sbalzi, tristamente indecifrato, come i foglietti dell'archivio di Saluzzo volevano, riferendo quelli unicamente le date e poche parole di quegli avvenimenti descritti da noi: la colpa non fu nostra: l'analisi ci avrebbe ghiacciato la penna fra le mani: né il romito di Malandaggio fu più felice di noi: confessiamo che, seguendolo passo passo e colorendo il nostro Ugo sul suo, dovemmo gettare il calamaio e la carta. Nella seconda parte del nostro racconto, dopo di averci ben pensato, speriamo di accontentare quei pochi che a ragione ci domandano:—Chi è questo Ugo?—Ugo non cercava più l'eccelse cime per indovinare il mare, ma si chinava dimesso alla sua donna per sentirsi replicare:—Ho bisogno…. Abbiamo bisogno di poco: tanto così! Guarda: una casettina!—e Imilda diceva cose che uscivano da una bocca, si ascoltavano da un orecchio, e domandava altre cose che si misuravano colle mani, si toccavano, si mangiavano…. La vita reale!—Nell'infinito sognato nelle notti temporalesche dell'anima, o Dio o il mare o il mistero, c'è lo squallore del silenzio e sempre nel povero cuore l'insoddisfatto bisogno dell'ali: ma invece, sotto quattro travi lontane da tutti, se c'è Imilda che dica:—Ti amo!—c'è nell'uomo, che anche creda Imilda immortale, il dovere sacrosanto di domandarle:—Siamo soli. Hai fame? hai sete? Dimmi che vuoi! Il mio amore starà nel risparmiarti, più che mi sarà dato, i sacrifici. Tu devi vivere! Ti darò da mangiare, da bere, da difenderti dal freddo; io sarò il tuo servo.—Alla poetica baldanza, solitaria, indagatrice, spossatrice, per la vita del pensiero, succede per la vita del cuore, per cagione della donna, una catena di obblighi concreti, santi, prosaici e poetici, legata alla terra: una catena che avvince due amanti di carne ed ossa, ma pure amantissimi. Vedendo lei che morde un frutto procuratole da noi, noi esultiamo di pienissima gioia. Dio-mistero ha troppo inghiottito l'anima nostra: troppo la disperse il mare: noi non siamo più noi…. Ma Imilda voleva una casetta. E fu fatta…. O travi, sì ripeto, o travi cui recise e inchiodò la mano del boscaiuolo nelle lucenti mattine di primavera! O finestretta, che parevi fatta apposta per la castellanina nascitura! Panca di bianco abete, su cui gli sposi sedendo, ai loro desideri avevano per calendario i fiori del pratello e per gnomone i fusti eretti dei pini! Addio! O porta, che sì ti chiudevi gelosamente anche in certe ore di giorno, e contro cui veniva importunissima a battere la testa la capretta: o porta, che eri aperta da una manina fattasi tremante! Addio!… E tu, scure, che spaccavi i tronchi, che carezzasti le assicelle a connettere la culla, che là alla parete di legno baciavi l'ulivo della pace! Voi, pietre del focolare, su cui posava a tradimento quel piedino, liscio come cigno! Voi, misteri divinissimi di gaudi, di tripudi, d'amore, di baldanze, di sfinimenti! Addio!… Imilda voleva una creaturina, a cui rendere placidissimi i baci, ch'ella, roventi, riceveva da Ugo. Imilda fu beata: sentì il dolce peso, i cari sussulti, la vita addoppiata da una vita arcana, il rigoglio del seno, i santi dolori e il premio di gioie: Imilda fu superba…. O capretta, capretta pezzata di bianco e di nero, che al vagito della bimba rispondesti col belato tremulo e insistente! Addio!
I fuggitivi mossero pochi passi e si rivolsero…. O bambinella, là dentro alla capanna tu saresti cresciuta la figlia di Maria la montanara e di Silverio il boscaiuolo. Ugo e Imilda avevano presi questi nomi. Senti, bella innocente, sì, saresti cresciuta e il massimo tesoro sarebbe stato l'oro de' tuoi capegli, baciati da mamma e da babbo. Senti, bellissima ritrosa: un dì, col grembiale della festa, col viso sorridente di tutti i giorni, tu saresti andata giù alla chiesuola della valle. Oh qual pace!… Ti colori in volto? Dillo alla mamma che non lo vedi quel giovinetto che cantava, cantava nei boschi, e non canta più!… Ma sì! sì, n'è vero che canterete insieme? La ninnananna accanto ad una culla…. Chi è nato? Se è un maschietto mettetegli in nome Silverio: s'è una piccina, Maria…. E con voi la famiglia dei boscaiuoli si continua nella casetta che fece il nonno di sue mani, davanti al focolare che segnò la nonna colla croce… Il nonno? la nonna? Non ci son più. Dio li abbia in pace. Sì, ma è un pezzo che son morti…. I nonni diventano bisnonni, e i bisnonni gli arcavoli, e…. Passarono gli anni, gli anni, gli anni, eh! Non passò l'acqua del torrente? Non le nevi sulle cime? Passarono le gioie e i dolori…. E poi?… Noi poveri morti preghiamo Dio che ci lasci tornare un minuto ai nostri cari: e torniamo alla capanna, che ci pare quella sì e no, e domandiamo alla gente che c'è:—Chi siete?—Boscaiuoli.—Lui come si chiama?—Enzo si chiama.—Lei?—Agnese.—Non si chiamano Silverio e Maria?—No.—….Oh come? Anche il nome si è perduto! E noi vogliamo raccontare di noi, e incominciamo a raccontare, ma siamo interrotti: così:—O buona gente, voi non sapete l'istoria? C'era una volta in questa casetta….—Le si è rifatto ancora il tetto l'anno scorso.—C'era una massaia che aveva in nome Maria….—L'uscio vecchio schiodato dall'uragano s'è messo nuovo con tavole robuste.—E un boscaiuolo c'era chiamato mastro Silverio, e una piccina. E dovete sapere che lui…. Vi dico l'istoria di un conte, di un capitano, di un famoso che ha patito tanto e….—Quanti anni sono passati? Che ci importa?… O buoni vecchietti che veniste su a cantare le vecchie storie, volete le limosine? Chi siete?
Quanti anni sono passati? È venuto l'oblìo!… Io non so quanti anni, ma sono passati in pace, in pace, in pace!… O bimba, saluta la nostra casetta! Noi fuggiamo! Addio!,.. Addio!…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I fuggitivi si rivolsero ancora. Valicato un torrente profondo e rabbiosissimo su un ponticello di legno, che Ugo aveva gittato un giorno dall'una all'altra dell'aspre rive, un unico troncone barcollante, Ugo e Imilda s'allontanavano più che potevano lentamente, tenendo alle alture di sinistra, inverso Francia! Oh la capanna presentava il lato più bruno, su cui s'appoggiava la stalletta di strame bigio e l'abbeveratoio muscoso: dinnanzi a quello, ed era il più caro perché aveva un balconcino di quattr'assi a buchi tondi, fatto apposta e apposta ornato di un prunello selvatico per la massaìna, c'era l'orto ricinto da tanti scheggioni ammucchiati…. Dalla stalletta chiusa, per la finestruccia, come prima, la capra sporgeva la testa…. S'udì ancora un belato….
Imilda, che seguiva Ugo alla lontana, colla testa chinata, stringendo la bambina, non resse più allo schianto del cuore, si arrestò, volse indietro la faccia, e chiamando:—Ugo! Ugo!—lamentò due volte:—Quella povera bestiuola pare la ci saluti!… Perché non l'abbiamo condotta con noi? Ella forse cerca la padroncina….
Ugo per tre passi finse di non intendere: quando udì il sospiro dì Imilda e un nuovo belato gemebondo, dovette fermarsi: e disse:—Quando troverà la casa vuota!
Incominciò Imilda con un dolce rimprovero, ma pure felicissima di sgroppare a lui colla parola il muto dolore di quei momenti:—Volgiamoci indietro!… Ugo, io credevo che tu la conducessi con noi, e perciò stamane non me ne ho preso pensiero… ma….
—Non la volle venire—rispose Ugo forse per iscusa.
—Perchè? Se è così obbediente! Se è la nostra amica da due anni! Con me, Ugo, la verrà: le mostrerò un poco di fieno nelle mie mani.
—Tu vuoi che noi torniamo ancora là? Oh, Imilda, risparmiaci il dolore!
Pensò Imilda un poco, e poi timidamente:—Ebbene ci andrò sola: tu attendimi qui.
—Lasciala!
—Poverina!
—Sul cammino ci sarà d'impaccio; di qua, di là sbandandosi…. Dove trovare un filo d'erba?
—Ella ci sarà sempre accosto, e poi….—Imilda si scosse vivamente a un tratto, giungendo le mani sopra la sua creaturina:—Sì, Ugo, questo pensiero me lo manda la provvidenza! Senti: per due, per tre giorni… forse più… io non so dove e come andremo… e tu non m'hai detto….—e la gentilissima s'affisava in Ugo, collo sguardo quasi dicendogli:—Perchè hai taciuto tutta la notte? Che amore il tuo nei tristi momenti?
—Dove andremo? Imilda!—Ugo si compresse fieramente il cuore, come se in esso sentisse il serpe di un rimorso. Non sapeva quale passo; quale cima, quale direzione scegliere: dappertutto squallore, ostacoli, morte! E bisognava fuggire! Un pensiero gli era venuto: scendere diritto alle sue valli, al suo castello per pietà d'Imilda, e….
—La nostra piccina potrebbe domandarci…. Le nostre provvisioni nella capanna erano già troppo scarse: ora che abbiamo con noi?… Ugo, se il mio seno si inaridisse?—e Imilda straziata nell'anima sua, ma coll'aria rassegnata sul volto, e quasi umile da chiedere perdono:—Ugo, forse per lo spavento di questa notte…? Oh no, il Signore è buono!—e, già fidente, si scoperse il seno: se diede un brivido, fu brivido d'amore: perché la baciò la bimba, le sorrise con invito soave di madre e se la strinse: la bimba aprì gli occhi, sembrò spaurata di non trovarsi nella sua culla, ma in quella grigia solitudine, agitò le manine, posò la testina, tentò suggere le mammelle, e vagì.—Sono già inaridite!—pianse Imilda, volgendosi a Ugo, alla bimba, a Dio. Poi, già fidentissima, ricorse al primo pensiero:—Ugo, questa è ispirazione della provvidenza! Conduciamo con noi la capra: almeno la nostra creaturina avrà del latte, non morrà di fame.
All'atroce dubbio s'era mescolato un raggio di speranza. Almeno per un giorno, o due, la bimba non morrà di fame! E poi?
Imilda incalzava:—Tu, Ugo, deponi il fardello. La capra sarà la sua vita.
—Sì—disse Ugo: e il suo volto a un tratto s'illuminò d'immenso affetto.—Andrò alla capanna. Voglio quella povera bestiuola.
E Imilda con dolce violenza:—No! Con te non la volle venire e non verrà. E poi tu vedresti ancora quelle pareti!—e, sorridendo, con tutta l'aureola santa di una mamma:—Io voglio ancora baciare quella culla. Sì, Ugo: tu non sai. Staccando la creaturina dal mio seno, ho fatto un voto. Per questo Dio ci vede e tu devi sperare.
—Un voto?
—Credi tu in me? Ho pregato il cielo, e noi ritroveremo un tetto, una culla, del pane, e i nostri giorni felici!
—Imilda! E il tuo voto?
—Devo pregare in luogo santo. Ebbene? Nella capanna abbiamo abbandonato un altare di gioie e di memorie…. Ugo, lasciami tornare là….
—Se hai speranza!
—Speranza e fede. Deponi il fardello, pigliati la bimba, ma non farle prender freddo, ve'—e la mamma si spogliò delle pelli con studio d'amore soave, e fra esse avvolse la bimba, e gaiamente scherzando:—Sta qui. La mamma? Sai, è andata a prenderti la nutrice. Tu sei figlia di gran signori e i signori sono allevati da petti venduti. Noi ti diamo una nutrice da imperatori e da regine…. Fammi un bacio, inviziatella, un altro, un altro, un altro. T'ho scaldata a baci?
Ugo da tanto amore si lasciò soggiogare: disse di sì, depose il fardello e la scure: si trovò la bimba sul petto. Quell'alito innocente, tranquillo, purissimo, come l'olezzo dei fiori, parve gli penetrasse al cuore, refrigerando la piaga che v'aveva, più e più squarciata dall'immensa passione: la mente sua che prima in un caos tumultuante rifletteva, per così dire, quel cielo uggioso, quella natura squallida, senza avere un pensiero distinto, tutta presentimenti e tristezze, la mente accolse una idea di pace. Imilda l'aveva guardato negli occhi, e nelle pupille della donna c'era più che lo sguardo della madre e della moglie. Ugo fremette dolcissimamente, e, quasi meravigliato di sè, vezzeggiò la bimba, con garbi fanciulleschi, come nei giorni felici, e sorridendo spiò Imilda che si allontanava…. Quante memorie, sì, ma quante speranze rinate! Quando l'uomo, anche perseguitato dal più perverso destino, ha con sè i suoi tesori, una donna, una creaturina, che gli hanno ridato una pace e una fede gentile! Sì, quali e quante speranze! Ugo in quello sterminato deserto si sentì a un tratto contento….
—Bada al ponte!—Ugo gridò dietro a Imilda. Imilda era al ponte: la si volse, come dicendo:—Sta tranquillo!—si fece il segno della croce, passò al di sopra delle acque fragorose, e lesta lesta fu alla capanna. Quanto avrà pianto e sorriso! Quanto avrà pregato per Ugo, per la figlia, per lei! E, solissima, finalmente avrà supplicato—O padre! o padre, mi perdona!… Padre, ero nata da te, ma ero nata per l'amore!… Non mi guardi più?
Ugo, non trovandosi per un momento Imilda al fianco, provò d'amarla doppiamente.—O mia donna!—proruppe:—La mia grande sventura è la mia ventura! Sì, se gli uomini mi condannarono alla fuga, alla solitudine, all'esiglio, la mia stella mi concesse la ferma, la piena, l'unica vita dell'affetto! Come ho amato! Come amo! Laggiù in mezzo agli uomini, all'armi, alla potenza, avrei provato tutto lo squallore del deserto! Trista era l'anima mia più che l'avello dei morti! Volevo vivere e morivo, volevo morire e vivevo! L'odio e l'amore!… In poco tempo s'era squassata l'anima mia…. Quassù ho dimenticato i miei nemici, i miei più fieri, Oldrado e Guidinga, il mio fìerissimo Ugo ho dimenticato, e sono Silverio…. O mia donna! Che cos'è Dio? l'anima? il bene? Io non so: so che tu sei il mio Dio, l'anima mia, il mio bene! Tu il mio riposo!… Vieni, ch'io ti voglio: e con un ardentissimo bacio voglio sul tuo cuore suggellare le care speranze che ti allietano questi dirupi dell'esiglio!… Quando in me vedi il boscaiuolo, eccomi pronto a sfidare la valanga, fosse pure per coglierti un solo filo d'erba che ami: quando in me ricordi e compiangi e susciti il cavaliere, eccomi, armato come vedesti, audace senza l'elmo, insignito di sproni d'oro, tremendo figlio d'una traditrice e di un tradito, non quale fui, meschino in confronto alla tempesta che mi ruggeva in petto, ma quale avrei voluto essere, eccomi…. come un paggio a' tuoi piedi…. e tu comanda! Tu non comandi mai, Imilda! Tu desideri, tu guardi, tu baci…. Tu mi hai donato una bimba…. O fanciullina mia, non sai come si chiami tuo babbo? Silverio? Ugo? Si chiama felice: e ti basti. E qual vita ebbe? Nessuno mai te lo racconterà, perché andremo in terra straniera: noi taceremo gli strazi di un dì, perchè non turbino le famigliari gioie della nostra povertà!… C'è Bonello? c'è Oberto? c'è Adalberto laggiù? Io, fuggendoli, li oblìo!… O fanciullina, che so del mio ieri, del nostro domani? So che ti amo, ti bacio, e ti supplico:—Tu chiuderai gli occhi a tuo padre!—O mia donna! o mia bimba!… È triste momento questo, ma io non so perché provo nell'anima unicamente l'amore! Perché? Imilda ha fatto un voto. E per quello sento d'amarvi sette volte sette, come porta la mia scomunica! Ed ecco il mio premio!
Imilda dall'orticello tornava colla capretta. Quali erano i suoi pensieri? La capretta le era dinnanzi irrequieta di contentezza: lei dietro tenendole fanciullescamente una funicella al collare e canterellando, quasi per dire al suo Ugo:—Ho veduto quelle pareti: senti, ma non soffro! Sii contento, Mio Ugo, ti voglio tanto bene!—e quasi ancora per dire alla bimba:—Odi la mia canzone? Ti voglio tutto il mio amore!—
Imilda giungeva al torrente. Ugo guardò sorridendo…. Imilda e la bestiuola erano a mezzo del ponte: Imilda si fece il segno dì croce: la capretta in quel momento, ravvisando la bimba, per molta gioia diede un lancio all'innanzi, saltando sul ciglione diruto. La donna fu trascinata da quella con troppa furia su quel tronco stretto e vacillante. Ugo vide due braccia agitarsi, rinculare la capra, poi sollevarsi un turbinìo di schiuma…. E il ponte era deserto!
In quell'attimo Ugo tese spaventosamente le mani, sforzo d'aiuto inutile e pericolo per la bimba, la quale poco stette gli sfuggisse e cadesse: poi s'avventò, rugghiando, al torrente…. La capra e la donna erano scomparse per sempre!
Giù, giù, al basso, là dove le acque sbalzate a piombo si travolgevano, diguazzandosi nella spuma occhiuta, là i massi rattenevano come un fascio sanguinoso. L'ingorgo avvenuto in quella orrenda chiusura faceva rigurgitare le nuove acque cadenti, finché queste ebbero forza di spazzare: allora quel fascio, trafitto, affondato, aggirato fu spinto sull'orlo, straziato, poi di nuovo giù di balza in balza, di scheggione in scheggione, ora per diritto, ora per traverso…. Avrà avuto la mollissima quiete del galleggiare addormentata solo alla valle, dove il torrente si spiana e bisbiglia d'amore prima di mescersi all'ondoso Chiusone. Imilda!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L'immensa pietà fece sì che Ugo avesse l'immensa ferocia della belva.
Perché la capra con lei? Perché non la bimba? Non era sua madre quella? Ugo fu per travoltolarsi furiosamente nella forra imprecando—Sia con suo padre!—ma in quel momento il dimonio dello scherno costrinse le pupille del tormentato a guardare la santissima casetta dell'amore….
—Che mi resta?—domandò Ugo con disperazione atroce.
Ugo credeva d'avere in vita sua già sorriso e già sghignazzato! Ma verissimamente allora per la prima volta sorrise e sghignazzò….
Sotto alle sue strette feroci la bimba vagì rabbiosamente. Erano due mesi che Ugo e Imilda dalle labbra di lei aspettavano con ansia d'amore quei primi suoni balbettati con cui s'invoca la mamma. In quel momento, amorosissima tra i goccioloni di pianto che venivano giù per le guance a pozzettine, la boccuccia farfogliò:—Mem…. mme….
Che minuto di paradiso per un padre! per uno sposo!—Bonello! Bonello! vieni e uccidila sotto i miei occhi, e uccidi me!—supplicava il cavaliero, più che pazzo, andando incontro a un invisibile supplizio, e, più che indemoniato, retrocedendo, fuggendo, tentando divincolarsi disperatamente e ruggendo contro i lividi dirupi e per le selve desolate:—Imilda! Imilda!—e più supplicava:—Venite! O Bonello! o Dio! o il dimenio!.. Datemi la mia donna!—e dieci volte lasciò la bimba sugli scheggioni, e, come uno spettro, piombò di spaccatura in spaccatura al torrente, ma invano, sdrucciolando sui fianchi gelati dei massi e cadendo a precipizio: e di là dalle profondità sorde e strepitanti, violastro, insanguinato, inzuppato, s'inerpicava con ogni tormento a ricercare la bimba…. Non glie l'avevano rubata? Sì o no?.. E perdendo le tracce della sua via crucis nell'inestricabile labirinto degli orridi ciglioni gemeva come una lupa trafitta lungi dal covo, e s'aunghiava, s'inerpicava, s'inerpicava, e giù avventavasi ancora….
Intorno c'era il deserto. Stette per più di un'ora avvinghiato a un arbusto a spini, tormentando i piedi nel fondo scheggioso di un'acqua ghiacciata, sporgendo il capo da una caverna nerissima su un abisso senza misura e senza colore, e speculò giù la valle, le valli, implorando da quell'ultimo lembo di cielo che vedeva all'orizzonte, e diceva il cielo della sua patria, implorando il Dio tristissimo del suo castello e la ferocia de' suoi nemici vivi…. Nessuno veniva, nè Adalberto, nè Oberto, nè Baldo, nè i vili prezzolati!
Tornò su alla bimba. Intorno c'era il deserto. In quel cielo caliginoso sentiva il vuoto e non osava guardare: dalla immensa natura gli si stringeva intorno formidabile il regno del silenzio e della morte…. Nessuno veniva. Chi doveva accorgersi di lui? Chi poteva ascoltarlo da una vetta eccelsa? Ugo impugnò la scure, e volle simulare il fragore della bufera, spaccando i massi, a trarne scintille di sotto il ghiaccio, a farne volare le scheggie agli abissi e al cielo, spaccando, indiavolando, ululando, rotolandosi e piangendo….—Ho squarciato l'uscio della cappella! Così sono entrato in paradiso! Così mi spalancassi il baratro!
Infine Ugo sghignazzò con un subito pensiero:—Ah! vedrò se i morti, almanco i morti sono ancora in ispirito, e se hanno pietà, quanto strazio essi ebbero dai vivi!—strinse la bimba, stette un pezzo ancora aspettando dalla valle e dalle cime, poi d'improvviso scagliò lungi la scure e il fardello, e s'inerpicò sulla montagna…. Per dove?
Ugo camminò, e camminò, e camminò….
Al morire del giorno egli vagolava in mezzo alle nevi crepitanti sotto i suoi passi incalzati, senza più sentiero, insanguinato e fradicio le mille volte, lui e la bimba: a tratto gittandosi carpone, a tratto balzando sulle rocce…. Ove c'era una vallicella, la appariva squarciata e striata da una grande ruina di macigni rotolati: le boscaglie divelte, il terreno sommosso, trascinato, franato: non un filo d'erba: qua e là enormi solchi, nuovi torrenti deviati, fra gli scheggioni e le zolle ferrigne. Nell'aria rombava sempre come il fragore d'un diluvio, la nebbia a strappi turbinava sui picchi, il cielo sembrava quello che i dannati debbono vedere dallo inferno. Calava la sera. Ugo giungeva ove quella valle castigata s'addentrava in una piegatura rocciosa del monte. Vide quelle mostruose tracce di distruzione, respirò quell'aria, odorò quelle brume, e ritto, stupendo, supplicatore e sfidatore, prese la bambina sotto le ascelle, alzò le braccia quanto potè, come chi faccia offerta a un grande altare…. Era venuto a luogo di salvamento, oh sì! Intese dov'era.—Udite!—quasi cantò, sinistramente, come l'araldo di una sfida a quel deserto portentoso:—Udite, udite il giullare che si chiamò Ugo conte di Lanciasalda!… Laggiù alla valle il torrente mette nel Chiusone, oltre ancora il Chiusone nel Pelice, oltre ancora il Pelice nel Po. Verrai al Po nativo, o Imilda! Oh non scendi cullata tra le foglie di rose! Non attorci le bionde trecce ai fiori tremolanti alla superficie delle acque, nè sveli le bellissime membra addormite di voluttà, come una dolce suicida!—e ai vagiti della bimba, aspro come una tromba di guerra:—Chi vedendoti, o Imilda, dica: "Questa è sventura" ascolti una voce d'uragano, così: "L'odio dell'uomo prepara ben altre vendette che quelle del destino!" Chi, vedendoti, si faccia segno di croce, preghi per sè e per i suoi, non per te…! Verrai al Po nativo, o Imilda! Un giorno anch'io scenderò per quelle valli e il boscaiuolo Silverio sarà ridiventato Ugo il cavaliero! Ugo il cavaliero!—e squassò la testa, e si chinò al destino che gli sghignazzava dalle punte dell'Assietta.
Tacque, poi, come aspettando una risposta, più alzò la bimba, gridando:—O Guidinga, rotola la valanga per me! Come un giorno dallo scalone hai rotolato il tuo corpo per te!
E camminò ancora, ancora:—O Guidinga, guardate per cui vi chiamo! Una bambina che stride!
Ancora:—O madonna perduta, ho gli sproni d'oro!
Al passo dell'Assietta, erto, lugubre di vastissimo silenzio, desolato da un cielo implacabile, irto di spettrali pinete, Ugo aspettò la morte. Neve, deserto, immobilità: tanto ascoltano i vivi, come i trapassati.
Ugo, gettatosi sul terreno, sdrucciolando sui ghiacci, senza più pregare, si strinse furiosamente la bimba: strisciò: venne innanzi a battere allo spiraglio di un gran masso spaccato e guardò giù per quella balestriera…. Al di là vide l'altro versante del monte: giù le capanne mostravano i tettucci di pietra allineati sul ciglio di un torrentello: giù un paese, giù la valle con in fondo incertissimamente due macchie di borgate sulla striscia fumosa di un fiume. Il paese era Meana: e le borgate Susa e Bussoleno.
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Ugo stette senza più coscienza, percosso e rannicchiato contro il macigno. Si svegliò e gemette: scosse la bimba: era morta? Ugo giacque ancora, e sognò la ghiacciata requie dell'avello, sognò il regno pallido dei morti, e vide come un grande cimitero coperto da un unico lenzuolo funerario. Solo il cuore gli dava tormento: e si diceva:—Ecco i vermi lo forano: i vermi? Questi che martellano così sono avoltoi di rapina!—Sentiva un che di tepido sul volto; al petto si stringeva qualcosa, e andava susurrando:—I morti almeno credono all'angiolo della resurrezione! Ecco che coll'ala mi scalda la fronte! Ma com'è penetrato nell'avello? Qui sono alla curte, con mio padre…. Lui si sfa, ma è tutto freddo e orrendo…. Che cos'ho al petto?… La mia fascia dell'armi?… Vorrei sapere che sarà scritto su questa pietra…. Pietra? Ma io non giaccio sotto! io sono portato dall'acque di un fiume che va alla valle, al mare. Chi mi scalda? Sono quelle ciocche di capegli di donna che ho tanto baciate!…—Infine provò un freddo solo: sparvero le visioni: e fu come sepolto….
Ugo si svegliò. Egli aveva ficcato la persona nella spaccatura della rupe: nel togliersi di là, ancora guardò giù e alla prima luna, che splendeva bugiarda di lontano, vide proprio Susa e Bussoleno….
Ma che? Santa Maria! lungo la Dora strisciavano sì e no nel vapore denso e radente certi e certi fuochi…. Di sopra al suo capo il cielo era sempre livido e brumoso e freddissimo.
—Se là ci fosse guerra!—ringhiò Ugo, e si rizzò, scosse la bimba, con grand'ansia e con grande tormento vide ch'ella era viva: allora prese a discendere dal colle dell'Assietta verso quella valle.
Cammina, e cammina…. Aveva fame. Se egli avesse avuto quello sparviero stecchito presentato all'omaggio! Picchia a una capanna, è deserta: a un'altra, è deserta: a un'altra, è deserta: tutte deserte. Nemmanco la provvidenza ha pietà, perchè sul monte comincia la neve a cadere a fiocca a fiocca, e s'addensa il nebbione: di lontano sparisce la luna.
Ugo si precipita giù, giù, giù….
Giunge a Meana. Là vi è una cappelletta dei poveri morti, un arcuccio soffogato in un pattume con cinque o sei crani grotteschi. Ugo, per la nessuna pietà che i morti ebbero per lui, insulta quegli avanzi, imbrattandoli coll'istessa poltiglia che loro serve di guanciale: raschia la terra e trova una mano ricisa di fresco. La mano ha le dita volte al basso, verso Susa.
—Accetto l'augurio!—dice Ugo, inconscio di ciò che lo aspetti, e si leva: svoltando dietro la cappella con troppa furia poco sta che non ischiacci la bambina: ed ecco trova raccosciati sulla roccia consacrata un uomo e una donna. Sono vivi? sono morti? Che fanno?… L'aria è buia.
—Chi siete?-domanda Ugo.
I due sobbalzano spaventati, lo guardano, poi sembrano rassicurarsi, piangendo.
—Chi siete?
E l'uomo:—Fuggite, o cristiano, se avete lena! Fuggite! Non cercate di nessuno! Noi abbiamo fallato il cammino…. e ci siamo rassegnati a morire qui!
—Come? Che vi accadde?—ridomanda Ugo, già fiutando l'odore del combattimento. Ma con chi c'era guerra? perchè? Qual rumore era giunto agli alti picchi del suo nascondiglio?
E la donna:—Ah! voi siete di quelli scampati già da ieri e non sapete! Ben faceste. O Signore!—e col massimo affanno, ripiombando e facendosi segno di croce:—Oggi Alzor è alla Dora!
—Alzor?—meraviglia spaventosamente Ugo. Ugo sapeva che da tempo il padre gli aveva detto che quel Saracino era calato di Provenza per ghermire la lontana, lontanissìma Genova: poi i casi di Ugo e il rumore della guerra contro Adalberto avevano fatto tacere nelle valli ogni altra novella d'armi. In due anni, da due o tre boscaiuoli, romiti come lui che non varcavano le loro selve, Ugo aveva udito che Casale era minacciata, e suonava un gran nome di dimonio, Alzor: ma Casale era lontano, eh! Poi più nulla. Solamente il giorno prima, quando aveva passato celeremente il Chiusone, spinto da un sogno inquieto che aveva fatto, quando aveva chiesto:—C'è forse un signore potente, il quale abbisogni di braccia per apparecchiare le travi alle macchine di guerra?—aveva saputo che Adalberto s'armava. Aveva sfuggito ogni casa, pure aveva chiesto, tormentosamente simulando, ad alcuni valligiani le novelle della sua rocca e di quella di Imilda, ma, ingozzandole amare, nulla più aveva potuto né chiedere troppo attento, né ascoltare da quei disattenti. Solo per caso udì, sul piazzaletto di una tavernaccia, un ribaldo bandire una nuova taglia di sei in sei mesi sulla testa di Ugo, per comando di Oberto, promettendo i tre mucchietti d'oro di prammatica. La gente quasi rideva. Ugo? Andatelo a prendere! Dove sarà? Solo il banditore aveva detto:—Bonello ci penserà: sa tutto: domani Bonello giura che guadagna la taglia. Ai monti!—e tant'altre cose.—Ugo era fuggito, aveva rivalicato il Chiusone, s'arrampicava alla capanna. Adalberto s'armava ancora? Contro chi? Certo contro i vassalli ancora. Ugo nulla sapeva: quindi quasi domandò a se stesso:—Alzor? il saraceno? Come? Egli già qui?
E l'uomo alla cappelletta:—Mi difesi! Ho sette ferite! All'ultimo m'ebbi mozza la mano. Venni qui a seppellirla in luogo consacrato. Laggiù in oggi ogni misfatto è permesso: è divenuta terra di saracini la nostra. Perché siete fuggito voi, ieri, al momento del supremo pericolo?
E la donna:—Fuggite nella valle del Chiusone! Fuggite, se avete un bambino, e se quello è ancora vivo tra le vostre braccia. Io fui madre!
Ugo ridomanda:—Ma come?
E l'uomo:—Che giorno d'estrema ruina! Ma il sire di Saluzzo e quello di Susa resisteranno ancora! Io sarò con essi! Donna, lasciami! Io voglio essere con essi!
E la donna:—O Signore, perchè non mi avete uccisa insieme al mio bambino?
Ugo, ancora chiedendo:—Ma come?—e non avendo risposta da quegli impazzati dal dolore, che continuavano a crederlo un fuggitivo, Ugo muove il passo innanzi, dicendo:—V'è battaglia dunque?
E l'uomo:—Alzor ci piombò con un lancio da liopardo! O Signore nostro Jesù, per la fede sacratissima del tuo vangelo, ti supplico, ti supplichiamo! Ora ti veggo, o montanaro. Sei pronto tu? Ma non hai la scure neanche tu? Su, istessamente: adopreremo scheggioni di rupi! Su! su, su, tutti alla riscossa, da Susa con messer Oberto capitano e con Adalberto!—e l'uomo si alzò, barcollando.
—Oberto? Adalberto? Ancora sono vivi? Non li straziò oggi il saracino?—imprecò terribilmente Ugo.
—La Iddio mercè, tanta sventura non è ancora avvenuta!—lamentò l'uomo, e fraintendendolo, s'accese nel furore di Ugo:—Da Susa a Saluzzo cogli altri migliori duci, Taizzone, Agobardo, Fulberto, insomma da Susa a Saluzzo si vuol resistere, per la gloria di Maria santissima! Su, su, su! Una spada!… Se non avessi mozza la destra! Se non avessi la donna che mi trascina alla viltà!
E la donna:—Non eravamo rassegnati a morire qui?
—E Oberto, Adalberto?—ridomanda Ugo potentemente.
E l'uomo:—Sapranno resistere! Oh se sapranno!…—e dopo una tremenda pausa:—Se pure un traditore non schiude al saracino i passi delle valli, girando dietro l'alpi e abbattendo ad una ad una le castella vassalle a quei valorosi!
—Ah!—geme Ugo con suono ineffabile.
L'uomo si caccia a piangere, lasciandosi andar giù sul terreno fino ad insozzarsi di mota la fronte.
Ugo fatale invidia quella posizione di massimo avvilimento, ma i suoi muscoli s'inturgidano, la persona si leva audace: egli è invaso da un tremito spaventoso e inciocca i denti pel ribrezzo della febbre.
Succede un momento di terribile ansia.
Poi Ugo, guardando giù, oltre la valle, quei fuochi di guerra, interroga cupamente:—Messere, o barone o boscaiuolo, che cercate voi?
—Io la vendetta!—esulta l'uomo e rizza la testa.
—E la vorreste?
—A qualunque costo!—ma l'uomo ricade agonizzando. Ed Ugo con spasimo satanico di gioia:—Sono straziato io più di voi! Io voglio la vendetta, a qualunque costo! Diceste che laggiù in oggi è terra di pagani ed ogni misfatto è permesso? Vi auguro di morire! Morite, qui, subito! Non ascolterete l'atrocissimo delitto!
Ugo precipita dalla montagna, e alla bambina famelica dà a suggere le proprie labbra lorde di sangue e di bava….
Alzor, nato dalla stirpe di Maometto, fremebondo di sterminata ambizione di conquista, audace per giovanissima anima e crudele e insaziato, era uscito profeticamente da' suoi deserti di sabbia e di sole, aveva predato l'Egitto, la Numidia, il regno de' Mauri, e, tragittato il mare, co' suoi tigri di soldati aveva rotti i Goti e i confratelli Arabi di Spagna. Dalla Spagna era piombato in Provenza, di Provenza, per sommo castigo di Dio, in Italia. Qui giurò nel nome di Maometto di piantare il suo seggio fatale.
Il luogo di Frassineto serba incerte e guerresche tradizioni intorno a queste orde di miscredenti. Negli Annali d'Italia il Muratori cita all'anno DCCCXXXIII Frodoardo cronista (in Ch. T. II Rer. Franc. Du-Chesne): i Saraceni abitanti in Frassineto meatus Alpium occupant, atque vicina quaeque depraedantur. All'anno DCCCCXL Frodoardo ancora dice che "una gran brigata d'Inglesi e Franzesi, incamminata per devozione a Roma, fu costretta a tornarsene indietro, occisis corum nonnullis a Saracenis. Nec potuti Alpes transire propter Saracenos, qui Vicum Monasterii Sancti Mauritii occupaverunt. Se qui è indicato il Monastero Agaunense di S. Maurizio ne' Vallesi, avevano dilatato ben lungi quegli Infedeli assassini di strada il loro potere". Segue ancora il Muratori, all'anno DCCCCXLI: "Circa questi tempi più che mai infierivano i Saraceni abitanti in Frassineto ai confini dell'Italia e della Provenza (Liut., lib. 5, n. 4). Studiava il Re Ugo la maniera di snidare quei crudeli masnadieri, e conoscendo di mancargli le forze per mare, giacchè in quei tempi gli Imperatori e Re d'Italia poco attendevano ad avere armate navali, prese la risoluzione d'inviare ambasciatori a Costantino e Romano Imperadori de' Greci, per pregarli di volere a lui somministrare una competente flotta di navi con fuoco greco, acciocché mentr'egli per terra andasse ad assalir quei barbari ne' loro siti alpestri, esse incendiassero i legni dei mori, ed impedissero, che non venisse loro soccorso dalla Spagna." E Frodoardo ancora, all'anno DCCCCXLII: Idem vero Rex Hugo Saracenos de Fraxinedo eorum munitione desperdere conabatur. Osserva il Muratori: "Pertanto dovrebbe appartenere all'anno presente ciò che scrive Liutprando (lib. 50, n. 5). Cioè che avendo Romano Imperadore inviato uno stuolo di navi a requisizione del Re Ugo, questi le incamminò per mare a Frassineto. L'arrivo d'esse colà, e il dare alle fiamme tutte le barche dei Saraceni che quivi si trovarono, fu quasi un punto stesso. Ugo nel medesimo tempo arrivò per terra a Frassineto colla sua armata. Pertanto non si fidando i Barbari di quella lor fortezza, l'abbandonarono e tutti si ridussero sul Monte Moro, dove il Re li assediò. Avrebbe potuto prenderli vivi, o trucidarli tutti: ma per un esecrabil tiro di politica se ne astenne. Tremava egli di paura, che Berengario, già marchese d'Ivrea, fuggito in Germania, non sopravenisse in Italia con qualche ammasso di Tedeschi e Franzesi. Però licenziata la flotta dei Greci, capitolò con gli assediati Saraceni di metterli nelle montagne che dividono l'Italia dalla Suevia, acciocchè gli servissero di antemurale, caso mai che Berengario tentasse di calare con gente armata in Italia. Non è a noi facile l'indicare il sito, dove a costoro fu assegnata l'abitazione. Solamente sappiamo, che a moltissimi cristiani, i quali incautamente vollero passare per quelle parti, tolta fu la vita da quei malandrini: iì che accrebbe l'odio e la mormorazione degli Italiani contro di questo Re Ugo, il quale lasciò la vita a tanti scellerati, affinchè potessero levarla a tanti altri innocenti…."
Abbiamo voluto citare questo fatto di Ugo per soggiungere che un altro Ugo, non re certamente, ma una figura bieca che la tradizione ci dice senza certezza cavaliere e boscaiuolo, un altro Ugo, non nelle grandi pagine del Muratori, ma sulle cartapecore sibilline del romito di Malandaggio, appare di nefastissimo nome ai cristiani e agli abitanti delle valli intorno a Saluzzo. Quando è morto il romito? Quando veramente è vissuto quell'Ugo? Nessuna data è certa. Anche la tradizione è morta da un pezzo. Frassineto ebbe delle leggende, e sono svanite: Malandaggio ebbe un romito vecchio che scrisse e che morì, e un altro che misteriosamente gli successe, che non aveva scritto, perché aveva operato, e non scrisse perché ancora operò prima di morire….
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Non ci intrichiamo nella storia a stabilire date o a fissare il progresso di questi Saraceni, ma pel romanzo accettiamo la tradizione.
Più breve d'ogni cronista, e senza mettere date, eloquentissimo, il romito che scrisse lasciò questa memoria:—Cadde Genova, cadde Casale, cadde Torino. Alzor è alla Dora!
Alzor era alla Dora. Una sera di un giorno vittorioso egli aveva posto l'alloggiamento in un Santuario della Vergine. Fulgente di gioia, gloriosissimo e temuto, sontuosamente vestito, colla spada ricurva e con un pennacchio di diamanti, egli sedeva sui gradini dell'altare maggiore: gli incensi cristiani e e gli aromi insidiosissimi degli harem intorno a lui spandevano tepori e profumi: uno schiavo di Provenza suonava l'organo da flato: vampeggiavano per scherno sulle fredde lastre dei morti due grandi cataste di pino olente: danzavano seminude, procaci e velenose, o si raccosciavano sui sacri paramenti, afflosciate dalla voluttà, venti schiave diverse, dalla nerissima alla bronzina, alla candida rosata. Alzor banchettava: servivano a lui e alle femmine i vasi d'oro e d'argento, che aveva predato nella sua corsa di conquista, e per abiti si buttavano indosso le planetas de coco e toalias cum frixio, opere plumarie, e crysoclava et vela holoserica, de basilisci, fundatum de alithinum, della Soria, di Costantinopoli, della Persia, dell'Egitto, le cose insomma che troviamo nelle cronache dell'evo medio, e gli ornamenti, come inaures, anulos, dextralia et perselides, monilia olfactoria, acus, specula. Dall'Africa e dalla Spagna aveva rubato cortinaggi, addobbi, tapetia belluata, che Sempre trascinava con sé, profumandoli coi nettari e insozzandoli col sangue, letti di voluttà e coltri pei moribondi.
Alzor, dice il romito, calpestava una veste della santa Madonna di Provenza, vestem chrysoclavam ex auro gemmisque confectam, habentem historiam Virginis cum facibus accensis mirifice comtam. Alzor giaceva trionfalmente sui cuscini palpitanti di otto o dieci ardentissime more: Alzor, al principio dell'orgia, s'era circondato di cento armati fedeli: aveva il carnefice al fianco, e pure a fianco un bardo ispirato della sua razza che cantava le vittorie di quel giorno e la somma protezione di Maometto:—O felice, o potente, o caldo, o amato, o pasciuto, o protetto dal profeta, Alzor! Tu hai Dio, il denaro, la donna, la spada, la vittoria. Preghi coll'ardore del nostro sole adorato: getti le gioie e gli ori come il villano getta la semente: le donne si sdraiano su tuoi tappeti e muoiono di voluttà, felici se il loro ultimo sospiro ti rinfocola un nuovo tripudio: la tua spada è più possente e più curva del grand'arco dei cieli; insanguinata, si gemma: nè sul tuo acciaio s'annubila il riflesso mesto del tramonto…. Il tramonto? Chi dirà questa parola?
Alzor aveva già fatto un cenno al carnefice.
Continuava il bardo:—La vittoria, la gloria, il regno! Esulta, o
Alzor!… Esulta!… Noi ti adoriamo!
Ricominciava l'orgia, e Alzor era felice. Sì, aveva Dio, il denaro, la donna, la spada, la vittoria! Felicissimo!
Udite strano contrasto. Quella sera, in quell'ora di beatitudine smodata, a un tratto entrò nella chiesa un montanaro.
Egli era lacero e scarmigliato, insozzato, puzzolente e sinistro. Cupo come una belva famelica, livido pel freddo, custode rabbiosissimo di un fardelletto di pelli, si drizzò, camminando sui tappeti, le sete, le coppe rovesciate e gli ori, fra le donne nude, al riverbero del fuoco, fra il fumo degli incensi e delle dapi, fra il canto del bardo, si drizzò verso Alzor.
Cessò l'orgia.
—Chi sei tu?—domanda l'audacissimo Saracino. Le sue guardie gli si stringono appresso: il carnefice ghigna: ma più maledette ghignano le femmine insaziate….
Il montanaro pare nè vegga nè ascolti.
—Chi sei tu?—ridomanda Alzor:—Non temo l'insidia! Si scuote allora l'uomo e grida profondamente:—E tu chi sei?
—Io un eletto del profeta.
—Io un castigato da Dio.
E Alzor già infastidito:—Ebbene? Che cerchi qui?
—La mia vendetta!
Vieppiù si stringono le guardie: e le donne ancora, svegliandosi briache, superano in protervia crudele il carnefice. E Alzor discacciandolo:—Vanne!
Ma il montanaro ruggisce:—No!
—No! no!—supplicano intorno le schiave, avide di sangue,
—Ebbene parla—comanda Alzor.
—Io parlerò! Tu sei potente, o Alzor! Osanna! Ma tu hai fallato se credi di resistere nel piano alla colleganza dei signori da Saluzzo a Susa.
—Parla.
—Io parlerò!… Tu sarai vittorioso, o Alzor!—esulta il montanaro, stringendo il suo fardelletto come se fossevi correlazione tra la sua mente e quello:—Si. Io ti apro i passi delle valli: lungo la Dora ti conduco in valle del Chiusone, là sorprendi quelle rocche che sono vassalle al sire di Susa: poi ti slanci improvviso dai monti sopra Saluzzo, senza che dalla Dora Taizzone, Agobardo, Fulberto, possano mandare aiuto ai collegati.—Poi, sfavillante orrendamente in volto, colla gioia di un profeta:—Nella valle del Po vi sono le castella di un Adalberto, di un Oberto, di un Baldo. Se vinci, come ti giuro che vincerai, mi dai que' tre prigionieri? Alzor fece circondare l'uomo dagli armati: credette sì e no: e disse:—Vuoi altri patti?.
—Hai tu ancelle?—sospirò il montanaro, quasi emettendo un alito di fuoco.
—Il sorriso dell'amore è più bello fra l'armi. Vedi le mie conquiste! Ho egiziane, numide, maure e gote, arabe, spagnuole, provenzali, serpenti contìnui di continue voluttà. Uomo, non guardarle! Ti comando. Sei tu, cristiano, che aspiri al mio paradiso? Ascolta: ho anche l'aguzzino.
—Non ascolto! Ma supplico!—gemette il montanaro:—Tu hai ancelle: cerca il seno più ardente, e, fammi somma carità, lascia che il latte sia succiato da chi muore di fame! Ho qui una bambina morente!
—Che? i vagiti fra l'armi?
Allora il montanaro, facendosi pensoso e sciogliendo il fardelletto, mostrò una creaturina già quasi paonazza, un piccolo mostro di dolore: e disse:—Su questa bambina, nata da conti illustri, c'è su copiosissima taglia ove sia consegnata ancora viva in valle di Po, a Lanciasalda. Se vuoi, là ti aspetterò, e la ventura è tua.
—Cristiano, quante castella vale?—domandò Alzor che intendeva sotto quelle poche parole nascondersi un gran mistero di fatti.
—Tre castella. Ma mi darai i tre prigionieri.
—Ho da pagare Almor, Zanata, Zullik, rapacissimi. I soldati vogliono posa, i duci oro.
—T'offro guerra breve e tesori.
—Cristiano, ciò che hai detto è conforme a verità?
—Interroga il profeta.
—Il profeta non risponde: mi risponderà la tua testa.
E il montanaro si piegò tutto come se sopra il suo capo gravasse una catena di ferro. Erano anella e anella di delitti: era la catena del destino.
Ed Alzor, sorgendo e ributtando una egizia che gli si avvinghiava pregando, comandò:—Suonate le chiarine e i timballi.
L'uomo baciò la figlia: poi la vide suggere da un seno avidissimamente: poi si volse ad Alzor:—Io sarò con te!