The Project Gutenberg eBook of Storia universale del canto, Vol. II (of 2), by Gabriele Fantoni
Title: Storia universale del canto, Vol. II (of 2)
Author: Gabriele Fantoni
Release Date: April 23, 2023 [eBook #70632]
Language: Italian
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STORIA UNIVERSALE
DEL
CANTO
DI
GABRIELE FANTONI
Dottore e Cavaliere di più Ordini, Membro di RR. Accademie
e di Istituti Nazionali e Stranieri
Notaio di Venezia.
VOL. II.
MILANO
NATALE BATTEZZATI — EDITORE
1873.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Diritti di traduzione e riproduzione riservati.
Milano. 1873 — Tip. Commercio
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Fu allorquando si cominciò trattar l’arte, non pel ministero servile della voce soltanto, ma per quell’alta speculazione voluta, come dicemmo, da Boezio, che la Scuola avea dovuto levarsi allo splendore che il vero suo spirito ne disvela: ed ecco quel trattatista, già sopra accennato, che possiede la scienza per la pratica e pel sentimento; e che ancora in oggi può dirsi primo de’ metodisti al perfezionamento rivolti.
Intorno al 1740, cantava ed insegnava in Roma Emanuele Garcia, detto anche Garzia o lo Spagnoletto, perchè oriundo d’Iberia; cantava le arie del Galuppi e del Porpora, e insegnava alla bella Catterina, figlia al cuoco del principe Gabrielli, dal quale ebbe il nome, fatto più chiaro dal suo canto.
Pare che da quell’organo prodigioso di voce della Gabrielli, ispirato dal più vago capriccio, traesse il Garcia serio argomento alle sue speculazioni. Avea inoltre da studiare negli emuli Pacchiarotti e Marchesi, coi quali la Gabrielli rapì Europa intera alla ammirazione e non fu da lor superata.
La seguì a Lucca, dov’ella cantava la Sofonisba; [6] a Vienna, dove Metastasio la introdusse alla corte per la sua Didone; a Palermo, dove per un pranzo del Vicerè non accettato, la capricciosa fu carcerata; in Russia, dove la Gabrielli chiese a Catterina II. 10,000 rubli all’anno, e all’osservazione della imperatrice, che non dava tanto ai suoi feld-marascialli, quella rispose, che i suoi feld-marascialli facesse cantare.
Garcia potè educare nella propria carriera il figlio che portò il suo stesso nome, questi pure dotato di disposizioni eccellenti per la bell’arte; trasfuse in lui le pratiche sue cognizioni, non senza far di pubblica ragione però alcune buone norme e classici esercizj[1]. Il degno figlio ed erede de’ pratici e speculativi studj paterni, trovò per singolare fortuna altro condegno modello onde meglio approfondare le sue osservazioni, da poterle poi esibire come il più fondato e completo sistema d’insegnamento.
Emanuele Garcia figlio, divenia padre in Parigi nel 1808 di Maria Felicita, che fu poi la Malibran. Quel mostro canoro che, seguendo la famiglia paterna in Italia, a soli cinque anni, sostenne al teatro Fiorentino di Napoli, a mente, la intera parte del fanciullo nella Agnese di Paër; e che al suo terzo lustro, non sentì più bisogno dell’istruzione paterna nella bell’arte, e s’abbandonò ai proprj slanci naturali ispirati dal genio. Garcia studiò i confronti nella Pasta, che non meno brillante carriera della figlia iniziava a Londra; studiò i prodigiosi artifizj vocali del musico Veluti, le cui lezioni disputavansi le ricche e capricciose figlie della metropoli; e qui si decise aprire una nuova scuola di canto (1824).
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Con basi così potenti, quest’era la vera scuola pratico-speculativa; e a suo monumento, il figlio dello Spagnoletto, e padre alla Malibran, diè quel trattato che lascia poco da aggiungere agli odierni nostri maestri, e che si può ritenere ancora realmente quale l’autore lo ha intitolato: Trattato completo dell’arte del Canto.
A prefazione del metodo pose il Garcia alcune parole che servono a schiarimento intorno allo spirito del suo lavoro, e che spargono qualche luce sulla storia di questo pratico insegnamento.
«Sarebbe cosa interessante il conoscer l’andamento che tenne l’arte del canto dai tempi più remoti fino a’ dì nostri; e principalmente piacerebbe lo studiare ne’ suoi dettagli il metodo, d’insegnamento, seguìto nei secoli diecisette e dieciotto dalle scuole dei Fedi, di Pistocchi, di Porpora, d’Egizio, di Bernacchi ecc.... che produssero tanti e sì belli risultamenti. (Uscirono da queste scuole gl’illustri cantanti, Ferri, Farinelli, Conti, Raff, Bernacchi, Tosi, ecc.)
È però una sventura che quest’epoca non ci abbia trasmesso sulle sue tradizioni fuorchè documenti vaghi ed incompleti. Le opere di Tosi, di Mancini, i lavori di Herbst, d’Agricola, qualche passo sparso qua e là nelle storie di Bontempi, di Burney, di Hawkins, di Baini, non danno che una idea approssimativa e confusa dei metodi professati in quei tempi.
Figlio d’un artista generalmente stimato come cantante, e per la meritata rinomanza di molti fra i suoi allievi (Maria Malibran, Adolfo Nourit ecc...) commendabilissimo come maestro, io ho riunite le sue istruzioni, frutti d’una lunga esperienza e del più squisito gusto musicale. È dunque il suo metodo che io [8] qui riproduco, che soltanto ho procurato di ridurre a forma più teorica, e di rannodarvi gli effetti alle cause.
Siccome poi in ultima analisi tutti gli effetti del canto sono il prodotto dell’organo vocale, così ne sottoposi lo studio alle considerazioni fisiologiche. In conseguenza di tal metodo, io giunsi a riconoscere il numero preciso de’ registri, e la vera estensione di ciascuno; ho potuto determinare i timbri fondamentali della voce, il loro meccanismo, e i loro caratteri distintivi, i diversi modi di eseguire i passi, la natura ed il meccanismo di trilli ecc...
Io sono persuaso che l’insegnamento riguardato in questa maniera, debba riuscire nel suo tutto più preciso e più completo. Tutti gli effetti, sia che appartengano ad una esecuzione particolare della melodia, sia che dipendano dal timbro speciale impresso alla voce dalla passione, sia finalmente che risultino da un accento qualunque, possono essere analizzati e trasmessi sotto una forma sensibile.
Per applicare in modo logico la teorica così concepita, è mestieri, secondo la nostra opinione, isolare la difficoltà e far di ciascuna l’oggetto d’un lavoro speciale. Nella prima parte di quest’opera sono indicati gli esercizj proprj a formare ed a sviluppare la voce. Nella seconda farò l’applicazione di questo primo studio alla pronuncia, all’arte di fraseggiare, al colorito delle passioni, ai varj stili ecc...
Forse qualcuno s’attende a trovare in questa opera de’ vocalizzi; l’uso dei quali ci è ben noto essere antichissimo e quasi generale al presente. Se però noi li abbiamo esclusi da questo metodo ne fu cagione il non aver essi più, secondo la nostra scuola, quei vantaggi che porgevano altre volte ed il condurre [9] che fanno ad inconvenienti che gli antichi metodi sapevano prevenire[2].
I vocalizzi sono melodie senza parole che offrono all’allievo la riunione di tutte le difficoltà del canto. Questo esercizio suppone che l’allievo sappia già posar la voce, renderla pura, uguale, intensa, unire i registri, variarne i suoni, comandare all’emissione del fiato, eseguire le scale, gli arpeggi, i trilli, i mordenti, e per dirla ad un tratto, ch’egli possieda tutte le qualità del cantante, eccettuata soltanto la pronuncia. Tutte queste parziali difficoltà amalgamandosi nei vocalizzi confondono e trattengono per molto tempo l’allievo. Qualcuno dirà, è vero, ch’egli può insistere isolatamente su quella parte che lo imbarazza; ma ciascuno di questi inciampi si rannoda ad un complesso di difficoltà della stessa natura che avrebbero dovuto essere anticipatamente e separatamente l’oggetto d’uno speciale esercizio. Il trillo, per esempio, invece d’essere studiato in una frase particolare, dovrebbe esserlo dapprima da sè solo e in tutte le sue forme diverse, e questo studio ne preparerebbe per certo l’applicazione [10] a tutti quei passi in cui esso venisse ad offrirsi. Principiando in tal guisa si avrebbe guadagno sul tempo e si otterrebbero risultamenti più estesi e più completi. Ecco i motivi che ci hanno fatto preferire il metodo analitico al sistema contrario più generalmente adottato.»
Il Garcia quindi, con quella concisione propria ai savj istitutori, affinchè gli allievi ancora inesperti non vadino naufragando nelle confusioni, riduce principalmente i suoi argomenti, allo Stile del canto ed alla Educazione dell’organo vocale.
E veramente in quest’ultima materia diè saggi di una sperienza non comune e di osservazioni diligentissime. Inventò il Laringoscopio.
Egli descrisse poi, quanto si può meglio, l’Apparecchio vocale: apparecchio complicatissimo che dipende da quello della respirazione e della voce, funzioni intimamente legate.
Presentò anche una Memoria sulla Voce umana all’Accademia delle Scienze in Parigi (16 novembre [11] 1840). La Commissione eletta a riferire intorno a quella Memoria venne formata dai signori Megandie, Savart, e Dutrochet; i quali se inoltrarono in essa seriamente i loro studj, non giunsero però a dare un risolutivo giudizio; e conchiusero la loro relazione del 12 aprile 1841, col dire che: «la teoria della formazione e variazione de’ suoni per mezzo dell’organo vocale umano è ben lontana dall’essere completa; non essendosi neppure d’accordo sul genere di strumento a cui possa essere comparato.» Piacque a quasi tutti i fisici considerarlo siccome del genere degli strumenti a fiato, nei quali il suono producesi per le vibrazioni di alcuni corpi solidi ed elastici. Solo il Savart paragonò l’organo vocale umano agli strumenti de’ cacciatori che si servono per imitare il canto degli augelli, del genere dei flauti, in cui il suono non è prodotto se non dalle vibrazioni dell’aria che percuote sulle pareti d’una cavità, o che si rompe sul tagliente di un’ugnatura.
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Ben si sa come Roberto Schumann, fra i suoi primi precetti musicali, richiamasse la riflessione continua de’ musicisti ai suoni prodotti dalle campane, dai vetri delle finestre, dal cuculo, ecc., consigliando a sforzarsi di conoscerne le qualità, di coltivare l’orecchio a discernerli, la voce a imitarli. (Sperimento già usato spontaneamente anche dal Rameau). Egli soggiungea: «Fatti per tempo una chiara idea della umana voce nelle sue quattro principali specie; osservala specialmente nel coro; indaga in quali intervalli sta la sua maggior forza, in quali altri si può adoperare con flessibilità e dolcezza.»
Vedemmo gli antichi tutti ignari anch’essi, od incerti sulla teoria della formazione e variazione della voce umana, fermare le loro osservazioni in sugli effetti meglio che sulle cause.
E credo che anche il Garcia basandosi agli effetti abbia potuto bensì studiarli, provocarli, confrontarli, imitarli, modificarli; ma non s’abbia potuto mai rendere ragione del perchè le estese e acute note della Gabrielli non potessero essere eseguite da altri, se non fosse un violino abilissimo; e la Catalani sia riuscita appena a imitarle; del perchè la voce di petto nella Malibran toccasse la tredicesima, la massima estensione che voce di donna ha raggiunto; del perchè il timbro della Pasta, dapprima aspro e velato, siasi spiegato con tanta sonorità; mentre le rimaneva invincibile la difficoltà delle scale ascendenti; ed il trillo in lei ritenuto impossibile, dopo dieci anni di celebrata carriera, improvvisamente siasi permesso alla sua voce, la sera del 15 novembre 1830, nel teatro italiano di Parigi, in cui con istupore generale, nuovamente, la cavatina del Tancredi brillò d’un trillo a inflessioni magnifico.
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E chi avrebbe potuto spiegare le cause per cui la Sontag e la Persiani s’impadronirono con lunghi studj del re e del mib, mentre la Demeric alla sua prima comparsa (1819) emise il fa, con incomparabile bellezza e purezza di voce?
Come trovare l’origine del re gigantesco di Lablache; e del sol nell’ottava sotto ai bassi ordinarj, con cui il russo Yvanoff discendeva a un registro ignoto ai cantanti?
Da che, la segnalata organizzazione con registro percorrente tre ottave, d’Hitzinger, Duprez, Rubini, principi fra i tenori?
Per sì mirabili effetti Garcia potè fare vaste osservazioni e fissare norme utilissime. Definì anche esattamente alcune modificazioni della voce, e ne trovò le corrispondenti immagini e le artificiali imitazioni.
Dimostrò, per esempio che, «il Trillo avviene da un movimento oscillatorio nella laringe, non dissimile a quello d’uno stantuffo moventesi nel corpo di una pompa; e si opera nella faringe che serve di inviluppo alla laringe.» Nei rossignoli, trovò l’esempio più perfetto di questo fenomeno. Trovò il trillo artificiale in quello ottenuto agitando esternamente la gola coi diti.
Studiò il Timbro, e lo definì «quel carattere proprio e variabile all’infinito, che ogni registro ogni suono può prendere, fatta estrazione dalla intensità.» Quindi timbro aperto, come dicesi in Francia, quella voce bianca che gl’italiani danno alle donne ed ai fanciulli; timbro chiuso alla voce mista.
Ridusse a due soli i Registri possibili, quello di petto, e di falsetto: escluse i così detti appoggi.
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Asserì che non sarà mai cantante chi non sa rendersi padrone del proprio fiato.
Anch’egli trovò solfeggi da esercitare efficacemente gli organi vocali, accogliendone alcuni paterni, ricordando quelli del Panseron e di altri sperimentati maestri.
S’attenne altresì ai trovati ed ai giudizj di alcuni pratici celebrati; e ritenne col Veluti che l’Eco flautato (filatura) riesca coll’ingrandire tutto l’arco di dentro.
Disse Vibrazioni di voce, que’ suoni filati con inflessioni eguali di forze e di durata, il di cui effetto Catruffo nel suo metodo di vocalizzo indicava col mezzo di sincopi.
Sulla così detta voix sombrée s’attenne allo studio fisiologico relativo dei signori Diday e Pétrerquin; e chiamò registro di contrabasso, questo suono straordinario assai basso e rauco, simile al grugnito d’animale. Registro di voce umana, inferiore per la gravità dei suoni alle note più profonde che possano prodursi da un basso in voce di petto; che s’impiega in Russia nei canti religiosi; voce portata in Francia nel 1837 da un artista teatrale italiano; e di cui ne diede contezza ai fisiologi, per primo, il dott. Bennati.
Ritenne anche Garcia, come il Lichtenthal, che l’appoggiatura, e quella specialmente ripetuta o doppia, debbasi al Pacchiarotti, con altri abbellimenti e fioriture registrate nell’opera del Calegari. (Vedi retro, vol. I, p. 158.)
Ottemperò i fondamentali suoi giudizj intorno alla voce umana agli antichi dettati di Aristoxene, e alle recenti ricerche del fisico e letterato Dodart[3].
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Con tali e simili osservazioni, offerse poi un buon sistema educativo per ogni voce, emendando il difetto lamentato da Rousseau nei maestri francesi, di non distinguere le voci e non appropriarvi speciali esercitamenti, a scapito della lor musica; e compendiando i varj metodi che a seconda delle proprie voci e delle speciali sperienze alcuni celebri artisti moderni avevano dati separatamente a guida dei nuovi cantori, com’erano gli esercizj proposti da Lablache o da Rubini[4], atti soltanto alle voci che alla natura e carattere delle loro rispettivamente tenevano.
In omaggio però alle storiche ricerche ed al vero, devesi ricordare che altri zelanti cantori e maestri italiani tentarono non solamente di dar qualche regola per la educazion della voce, ma di scrutare le cause vocali e porgerne le scoperte.
Fra i primi, quel fantastico genio e appassionato cantore che fu Gaetano Donizzetti. Questi, che nella prima gioventù parea chiamato alle genialità del disegno ed alle armonie dell’arte della sesta, passò a quelle della bell’arte sorella, cantando con gusto particolare, come già quasi tutti i compositori italiani cominciarono la lor musicale carriera; e si occupò d’una maniera tutta speciale del meccanismo della voce umana. Su questa grande e misteriosa architettura eresse anche un lavoro, ch’egli pure, quasi contemporaneamente a quello del Garcia, indirizzò all’Istituto di Francia.
Quivi, dove gl’italiani maestri per tanto tempo ricorsero quasi al battesimo del buon gusto e della scienza, porgendo fatalmente lo strano spettacolo di [16] cercar essi maestri i giudizj dei discepoli e degli allievi, per quell’aura orgogliosa e suprema di cui questi nell’altrui decadenza aveano saputo circondarsi; in Francia dico, fu ammirato e rimase più noto il lavoro del Donizzetti di quello che nella sua patria; perfino si pretese da alcuni, che di non pochi materiali di quel suo trascurato edificio, il prefato Garcia, per riverenza o per astuzia, abbia il proprio arricchito.
Anche Pietro Generali lasciava un metodo per apprendere il bel canto, e parecchi solfeggi utilissimi.
Anna Maria Pellegrini-Celoni di Roma, una Grammatica o regole di ben cantare; ed ivi pure la Grammatica melodiale di Francesco Rossino, 1793.
Il maestro Albanese prescrivea utili norme ai suoi allievi di canto per lettere (1773), alcune delle quali furono pubblicate nel 1850 da periodici d’arte.
Savinelli lasciava esercizj noti ai vecchi cantanti, non men di quelli di Rubini e di Generali.
Asioli fra i parecchi suoi trattati d’armonia, dettò Principj elementari che furono adottati dall’Istituto di Milano, e furono imitati da altri, quali il Cajani, il Cattaneo[5], il De Marchi.
Vitali Geremia intese a riformarli (Milano 1850).
Recentemente il Parisini li estese in forma più analitica e storica, e ottenne al suo lavoro l’approvazione pei licei musicali d’Italia in sostituzione all’Asioli[6].
Picchianti parlò di canto ne’ suoi Principj generali [17] e ragionati della musica teorico-pratica. Milano 1830; ed ivi, Reicha Antonio, nel suo Trattato di Melodia 1841[7].
Guido Cimoso padre, di Vicenza, nel «Trattato element. di Musica, ossia Principj element., seguendo il metodo di Bonifacio Asioli aggiuntevi alcune annotazioni necessarie nello studiare quest’arte, ad uso de’ suoi allievi ed a chi volesse approfittarsene, con sette tavole relative» (Vicenza, tip. Picutti 1828, in 4.º).
Anche Gianelli Pietro, analogo trattato grammaticale dava in Venezia nel 1820, seguito da un dizionario; e un Sunto teorico, Sartorelli Alessandro, 1836. Massimino, a Milano nel 1846.
Paragoni storici delle Musiche e de’ loro sistemi, osservazioni e provvedimenti al loro progresso, avemmo poi da Perotti Gian Agostino, 1811-12; da Mayer Andrea, Padova, 1821; e quivi poscia da Zacco, 1855; da Revoire Lorenzo, Milano 1833; da Hogart Giorgio, ivi tradotto 1836; e da Ancini Pietro, che trasse il suo ragionare da Martini, Kircher, e d’Alembert (Milano 1826).
G. A. Villoteau ricercò sull’analogia della musica colle arti, Parigi 1807; Pier Francesco Tosi osservò il canto figurato sulle opinioni de’ cantori antichi e moderni (Venezia); e Saverio Mattei ponea le sue Probole se i Maestri di Cappella son compresi fra gli artigiani (Napoli).
Il dottor Bennati medico, lasciò una memoria sulle cause vocali e sul relativo esercizio, poi convalidato da una scuola pratica, in occasione del XI. Congresso medico a Vienna nel 1831.
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A Milano, Tettamanzi Flaminio dava nuove Teorie pel canto fermo, 1832; Luraschi Gaetano altro metodo per tale canto, 1840; ed altro, Macchi Giovanni, 1845; Gambale Emanuele le sue Riforme, 1840; Catruffo G. Nuovi vocalizzi.
De Garaudè Alessio un suo completo metodo di canto pei fanciulli.
Basevi ragionava degli effetti fisici, 1838; Boucheron dei filosofici, come a lui piacque chiamarli, 1842; e in quella gran sede musicale, nuovi saggi cantabili, ad istruzione e diletto, veniano dati dai due celebri tenori Crescentini[8] e Crivelli; indi da Moretti Luigi, Nava Antonio, Rabitti Luigi, Ubaldi Carlo, Biava Samuele (1838).
Lauro Rossi pubblicò a Milano nel 1858 una Guida di Armonia pratica orale. Indi, Enrico Boucheron, il Corso completo di canto.
Antonio Leoni un Breve Metodo di canto corale, per la r. Scuola milanese, ove le belle tradizioni degli asili dell’arte egli insegna.
E quivi nuovi studj ed esercizj per la Divisione, ed a voci di soprano, tenore e contralto, del Bona; per baritono e per tutte le voci, del Nava; in genere, del Varisco, del Consolini, del Perelli, del Mazzucato, e d’altri maestri.
Ultimamente alla Scuola Corale, considerata anche come arte educativa, Giovanni Varisco porse nozioni tecniche ed esercizj (Milano, 1872); ed Ernesto Panofka espose in francese idioma (Firenze, tip. Cellini 1872), tradotto subito dal Meini, 28 Capitoli di Considerazioni [19] generali sulla voce e sull’arte del canto, dove esamina l’organo vocale dallo stato suo naturale sano e forte, fino al suo educamento alla vera arte, senza sforzo e imitazione, per le quali esagerazioni specialmente avverte la cagione e i fenomeni della decadenza vocale; consiglia i mezzi ad evitarla, e quelli in pari tempo valevoli a migliorare l’insegnamento[9].
Ermagora Fabio, maestro di canto a Venezia, fornì di suo metodo un nuovo istituto musicale privato (Camploy), autorizzato dal Governo nel 1838, che però presto si spense. Indi Plet Luigi nel 1852.
Gervasoni Carlo parimenti diede un metodo alle scuole di Piacenza e di Parma, 1800-12; Venturini, a Bassano 1820; Adriano Balbi, autore della Grammatica ragionata, a Padova.
Francesco Canneti a Vicenza; Masutto Giovanni a Treviso; Baldissera Giacomo a Polcenigo, colle Composizioni ginnasiali e corali; Benelli e Vivaldo Vivaldi, diedero le Teorie elementari; e Vitangelo Nisio la Grammatica facile alle scuole primarie.
Salvatore de Castrone-Marchesi, nella scuola di canto da lui diretta al conservatorio di Colonia, sperimentò i suoi eccellenti Vocalizzi elementari progressivi per unire l’articolazione alla vocalizzazione (Milano, per Lucca, 1870) che furono ritrovati utili a ridestare quelle purtroppo obbliate leggi di saggia economia nella emissione della voce, delle molteplici sue sfumature, dell’uso dei differenti registri, della spontanea morbidezza d’esecuzione.
Vaccaj scrisse il Metodo pratico del canto italiano [20] per camera; nell’intento di renderlo più famigliare, e ricondurlo siccome maestro di civiltà nelle modeste pareti d’onde esso canto era uscito d’infanzia.
Luigi Felice Rossi, uno di Lettura musicale e canto, a Torino, 1834.
Francesco Zingarle, altro metodo di canto elementare, a Trieste, 1869.
Platania parimenti a Palermo.
Corinno Mariotti, Norme pel canto popolare onde renderlo efficace, Torino 1870.
Beniamino Carelli, Sull’arte del canto, intitolò una parte, Cronaca del respiro; trattò l’anatomia della gola; il danno dell’accompagnamento: alcuni Consigli ai Cantanti dalla voce alterata o stanca, seguiti da analoghi esercizj, fanno completo il trattato di igiene e di estetica musicale. Napoli (1871).
All’estero, fra i distinti maestri e metodisti, Francesco Dominga Varalles de San-José, avea pubblicato per le scuole della Spagna e del Portogallo, un Compendio di Musica teorico-pratica; Porto 1806.
L’inglese dottor Burney, che fin dal 1770 percorreva l’Italia per raccogliere tradizioni e documenti, benchè non dasse nella sua Storia della Musica, che una riproduzione di quella del padre Martini, sulla quale specialmente s’era fondato, giovò non pertanto a diffondere i principj della nostra Scuola anche per quanto al canto si riferiscono.
Il dottor Pietro Lichtenthal porgeva alle scuole austriache un nuovo suo Dizionario musico con leggi pel canto, da Milano 1830.
Delle teoriche francesi di Galin — Paris — Chevé, e quindi d’Halevy, specialmente rivolte a facilitare e diffondere il canto abbiamo parlato, come pure del [21] Manuale completo di musica vocale e strumentale, di Alessandro Stefano Choron.
F. J. Fétis, direttore della cappella del re dei Belgi e del Conservatorio in Bruxelles, erigendo il nuovo suo Dizionario di Biografie universali dei Musici, che fece precedere da un breve compendio storico della musica (1837), non mancava di dare le sue opinioni sul canto. Ma in queste non fu sempre felice; fu più che imitatore nella storia; inesatto nelle biografie e trascurato specialmente per gl’italiani, onde il prof. Canal di Padova ad una opportuna correzione s’accinse. Migliore, se non completa, è la Storia generale della Musica che imprese a pubblicare nel 1869 a Parigi, alla cui continuazione desiderasi più imparziali e generali compilatori.
Allievo peraltro del Conservatorio di Parigi, e per elezione classicista, Fétis fu più rispettabile pei suoi dettati sulla armonia, di cui lasciò il Trattato del contrappunto; mentre fu poco amico dei maestri e della musica italiana, benchè gli uni e l’altra abbia a fondo studiati, onde talvolta ne fu savio critico e insieme archeologo, morì a 87 anni nel marzo 1871.
Successe alla sua doppia cattedra altro belga distinto, il Gevaert.
Alla Danimarca, A. P. Bergreen dava un trattato istorico musicale, relativo però più che altro alle terre Scandinave, sul quale specialmente s’informano[10].
Al Conservatorio di Parigi, con eclettico sistema, insegnavasi colle norme migliori di parecchi maestri; [22] ma come da altri fu detto, mancava sempre un buon indirizzo di canto dove il canto non era.
Lo stesso Garcia biasimava in quell’istituto la distruzione della più bella melodia Cherubiniana, attribuita, a suo vedere, specialmente all’ingenito difetto di attaccare i suoni con portamento di voce inferiore, che attira il biasimo dell’uomo di gusto.
E attorno il tempo appunto de’ cennati metodisti e dei metodi chi riuscirono più o meno completi, e più o meno accetti, per non parlar di tanti altri che rimasero più o meno cogniti o fortunati, emergea quello da noi osservato del Garcia a Londra insegnante.
Al quale, se pur non vuolsi accordare la efficacia di formare il cantante, specialmente dopo i nuovi modi introdotti dalle moderne declamazioni, gli si confermerà sempre il primato ne’ riguardi teorici dell’arte; e resterà sempre la pratica più opportuna nei fisiologici rapporti; onde il suo autore fu giustamente proclamato, sovrano legislatore dell’igiene del canto.
Fatto non indifferente alla conservazion degli artisti, alla vita dell’arte, al soccorso umanitario. Questione di perdita delle voci e rovina degl’organi, o di rafforzamento vocale e sanità polmonare, alla quale rivolsero speciale attenzione Crescentini, Busti, Aprile, Choron, Chevé; Cuvier, che dovette il riordino del suo petto agli esercizj della sua cattedra corale; Ferrein, Müller, Weber, Segond, Wrisberg, Lichfeldt, Raffaello dottor Folinea, scrittori musicali; Lablache Luigi, Panofka, Casamorta, maestri che propugnano l’utile ginnastica; Mantegazza, che la prescrive per lo sperimento della propria fisica debolezza vinta con regime analogo; Fantoni scrivente, che provò egual [23] giovamento; Carelli, che nella sua Cronaca d’un respiro, conchiude: Vuoi star ben, canta bene.
Nè mal s’appone quest’ultimo scrittore, se in vista della infervorata accettazione della bella scuola anche come metodo salutare, osa avvertire a un’alba novella pel risorgimento del canto italiano.
Il professore di canto nel Conservatorio di Milano, Alberto Mazzucato, voltò dal francese nell’italiano idioma il metodo del Garcia. Vi premise alcune proprie osservazioni: confermando che — la formazione della voce umana, e specialmente la modificazione della voce pel canto, s’avvolse e s’avvolge tuttora nel mistero. — Lamentando quindi il difetto dell’unità di insegnamento, così si esprime nella sua prefazione:
«E chi trova giusto di rotondare, chi di quadrare la bocca, chi di aprire sguajatamente le vocali, chi di chiuderle[11], a tale che un povero allievo cui fosse venuto il grillo di cambiare più volte d’insegnatore, [24] anche passando da un reputato ad un altro più riputato ancora, trovavasi ogni volta in uno ripetuto caos, se per non altra causa, per la disparità che aveavi nel modo di far emettere la voce; e non di rado avveniva che nello sforzo di ridurre a nuova forma l’organo vocale vi perdesse anche la voce medesima. Nè parlo di ciò come di cosa passata, che al giorno d’oggi pure non avvi maestro di canto, il quale non abbia idee sue proprie e sì disparate dalle altrui, da sembrare per sino, sarei per dire, non trattarsi dell’istessa materia. Non così negli strumenti propriamente detti. Ivi la buona, la vera scuola è una; ed ogni istitutore valente parte da un principio, che ad eccezione di modificazioni lievissime è sempre lo stesso e s’accorda cogl’altri tutti. Nè a modo d’esempio, un allievo di Rolla avrebbe dovuto rifare intero lo studio ed anzi dimenticare come biasimevole il già fatto, se posto si fosse in seguito sotto la scuola di Paganini.
Ben altrimenti nel canto, lo ripeto, dove, salvo rare eccezioni, ogni maestro trova falso il metodo dell’altro maestro, e rimette il nuovo allievo affatto ai principj, inculcandogli di dimenticare totalmente i studj già fatti e i vizj nell’antecedente scuola appresi. E perchè dunque? Per due ragioni: 1.º per totale, o quasi totale ignoranza del meccanismo e modo di agire dell’organo vocale; 2.º per ignoranza delle differenti e rilevantissime modificazioni cui va soggetto quest’organo dall’uno all’altro individuo[12].»
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Nell’importantissima osservazione dell’illustre Mazzucato con tanta semplicità esposta, trovo purtroppo compendiata una dolorosa passione ch’io medesimo ebbi a provare nella scuola genialmente invocata della musica vocale; e riportate al vero le fiere vicende d’un tradito educamento.
Altro che incolpare la musica della rovina dei cantanti! la musica sente il danno de’ cantanti che si danno a lei rovinati.
Dai più abili insegnanti che non erano mossi nè da vanità, nè dallo interesse, io appresi le prime norme del vocale educamento. La natura prima e fedele maestra, m’avea lasciato poco da chiedere all’arte. Ma l’idea della necessità della scuola e dell’utilità d’assiduo e regolato studio, mi fe’ cercare e affrettare il possibile perfezionamento.
E come accade sovente pel concorso delle circostanze, o per l’avidità d’apprendimento, da uno all’altro reputato maestro cercai tormento, confusion, perdizione.
Un appassionato cantore, cui per poco avea sorriso il favor della natura, e che in sè medesimo non avea saviamente osservato, mi spingea ciecamente per la strada dove egli stesso era caduto.
Un teorico maestro faceami convinto ch’altro mezzo non m’avrebbe giovato fuora di tal sistema che in questo e in quell’allievo mostrato aveva i mirabili effetti, e che all’uno come all’altro dovea assicurar la riuscita.
Consultato uno più pratico, da una sola udizione pretendendo aver penetrato il mistero tutto d’una voce, giudicava subito di trattarla, come da un’altra, fosse pure di natura opposta o derivante da organismo [26] assolutamente diverso, avea ricevuto o gli era sembrato ricevere consimili impressioni.
Un amico artista dedito alle modulazioni ed alla agilità, inculcava doversi attendere a questo studio, che non nuocerebbe alla sicurezza e alla forza.
Un provetto declamatore insinuava la libertà e la manifestazion della voce, nè mancherebbe poscia il suo abbellimento.
A Venezia un parere; un altro a Milano.
Lo sforzo continuo di riformare l’organo vocale pagavasi intanto col tesoro della voce. Nella confusione ingenerata, per cui al paziente non era ormai più possibile discernere la retta via, ammenochè lunga dimora non s’avesse frapposta, ritenuta da altri anche questa nociva, io pur ricordo una bella sentenza, che in questo argomento noto ad onore d’un egregio maestro, men ch’altri superbo e vocicida.
Francesco Canneti di Vicenza[13], buon compositore per sapienza cumulata al Liceo di Bologna, e insegnante il bel canto senza posseder filo di voce, mi guidò qualche tempo nei vocali esercizj.
Dopo ch’io l’avea lasciato per attingere alla scuola lombarda ritenuta superiore, reduce da questa, riferiva al primo maestro il consiglio ivi suggerito di emettere la voce con intera apertura del petto e della bocca, onde giovare alla sua forza, mentre il cantar sempre di petto dovea costare meno fatica. Canneti si tacque.
[27]
Un dì mentr’egli accompagnava sul cembalo il mio canto, ad una bella nota libera, forte, spontanea, si arresta, mi guarda, e mosso da nobil’impeto mi dice:
«Siano pur queste note di petto, di testa, di gola, o come meglio aggrada ad altri giudici il riguardarle; emettete sempre questo la come vi dà natura, e sarà sempre nota bella e stupenda; e vel dica il consenso non di chi quà dentro v’applaude, ma degli estranei e meno periti che passando in fondo alla via v’odono anche da lungi, si soffermano ed esclamano: che bella voce!....»
Altra volta, essendo io accompagnato d’altro bravo maestro, giovane e ignoto, Luigi Facchin, con me amico al famigerato Apolloni, m’ebbi richiesta da Gaetano Fraschini presente, che mi giovava di suo consiglio, perchè spingessi a certi modi alcune note. Alla risposta mia cònsona al vanto di elevato insegnamento, il grande tenore mi soggiunse parole da farmi comprendere come il giovane panattiere di Pavia dai modesti cori della sua parrocchia di San Feliciano avesse egli medesimo insegnato al futuro suo maestro Moretti la guida per cui poscia a più elevati voli dovea confortarlo.
Questo naturale supremo effetto, libero mistero della voce, aveano fortunatamente compreso la cuciniera del Gabrielli, quando senza scuola veruna e ottimamente, cantava le arie del Galuppi; la figlia a Garcia quando ribellandosi anche agli insegnamenti del padre, s’abbandonava ai proprj slanci naturali, ispirata dall’inclinazione e dal proprio sentire per diventare la Malibran; il sarte e corista al teatro di Bergamo, quando cantava il celebre Nozzari, che [28] senza curar di imitarlo e per cantar a modo suo, superò ogn’altra fama di tenore, e fu Rubini.
Si pretese poscia che le virtù di questo esimio potessero acquistarsi seguendo il suo metodo di canto, se può dirsi metodo l’esercizio vocale da lui lasciato nelle Dodici lezioni di canto moderno. Vana pretesa in chi lo consiglia; illusione in chi lo adopra.
Rispettabili sono le lezioni di chi volle poco o nulla alle lezioni altrui assoggettarsi: e tanto più in quanto che, per risonante che sia il grido del cantante, diversamente da ogni fama, è destinato a perdere in breve tempo l’èco che sparse, se l’artista non lascia più stabile monumento.
Rubini, che ammirò il mondo della sua voce e della sua maniera di canto, lasciò il più grande insegnamento nel nessuno sistema, e nelle poche lezioni di vocale esercizio: ma lasciò la libertà, e il segreto per conservare al cantante il tesoro della sua voce.
Questo lo insegnò tacitamente nella negazion del sistema; e lo espresse nella sentenza che la tradizione ci serba a mirabile documento.
Allorchè prematuramente il più grande tenore francese avea terminata la sua carriera, per aver sforzata la magnifica sua voce, l’incontrò un giorno Rubini a Bruxelles, essendo reduce da Pietroburgo, e benchè più attempato, pure nella pienezza ancora dei suoi mezzi. — Ebbene, gli disse Duprez, tu canti ancora, ed io dovei ritirarmi (et moi j’ai du mettre chapeau bas!...) —
— Eh mio caro, rispose il re dei tenori, tu hai cantato col tuo capitale, ed io canto cogli interessi. —
Oh quanti di questo vero ebbero a fare fatale [29] sperienza! E quanti maestri non concorsero anche involontariamente a sacrifizj così crudeli!
Sentite, sentite, a proposito di metodi e di insegnamento per il bel canto, che cosa scrisse non ha guari un reputato critico, e consigliere nominato e riconfermato a far parte nei giudizj accademici del r.º Conservatorio di Milano, parlando appunto della scuola di canto ivi pure famosa e parte d’uno degli Istituti musicali più importanti e rinomati di Europa[14].
«Le due accademie finali al Conservatorio (settembre 1870) mi suggerirono alcune serie considerazioni sui risultati degli studj musicali in quell’importante istituto: queste considerazioni non pullularono nella mia mente all’improvviso; esse si rinnovarono con più tenace persuasione, e siccome sono verità mi sembra obbligo indeclinabile il dirle, qualunque sia la mia attuale posizione nel Conservatorio.
Premetto però ch’io non mi pongo fra coloro che trovano il Conservatorio pessimo, che lo credono più dannoso che inutile....
Il Conservatorio rende incontestabili servigi all’arte, facilita l’istruzione musicale, e non difetta che d’un buon indirizzo artistico. La Musica nel Conservatorio la s’insegna bene, quanto alla sua parte materiale e oserei dire meccanica; gli allievi di canto, anzi le allieve, perchè i maschi brillano sempre per la loro assenza, quando escono dal Conservatorio, cantano quasi tutte barbaramente, con pessimo gusto e colla voce [30] sciupata prima d’incominciare la carriera; ma la musica la sanno per bene, e possono leggere a prima vista, accompagnarsi sul cembalo, e mettere giù un basso correttamente....
Cattivo sistema di sommare insieme tanto gli studj musicali che gli altri letterarj. Abbondanza di premj così badiale e stemperata, da perdere ogni merito, ogni efficacia, e da sembrare veramente ridicola; e mi basta citare quell’allieva diecenne di canto, che ebbe il gran premio musicale! Premiata un’allieva di canto di dodici anni! con qual voce? con quali speranze per l’avvenire?....
Sui risultati delle scuole di canto mi basti il dire, senza far nomi, che ho udite voci guaste forse dai cattivi metodi, emissioni viziose, canto senza grazia, senza eleganza, e senza giusta espressione. Un’eccezione è la signorina Suardi ch’è un vero portento, con quella sua cara vocina, quell’accento così giusto, quel fraseggiare così elegante, e un’agilità, una nitidezza da canarino; questa piccola Patti è allieva del Lamperti, ed è già scritturata a Varsavia, che sarà per lei il principio d’una luminosa e fortunata carriera....»[15]
Così Filippo Filippi, nell’Appendice della Perseveranza, 18 settembre 1870 N. 3909.
Nè io da questa libera e severa opinione prendo animo adesso a censurare; chè, come sopra ho già [31] accennato, ebbi campo ben prima d’ora, a lamentare le conseguenze d’un malinteso sistematico educamento, avendone provati pur troppo in me medesimo i tristi effetti.
Nè serbar posso rancore alla scuola di Milano; se il mio povero collega e concittadino Marco Viani, colto cantore egli pure, di bel tesoro di voce egli pure da natura fornito, vidi dalla scuola di Venezia cogliere i medesimi amarissimi frutti; se cent’altri dalle varie scuole d’Italia e dell’estero, incolsero nella stessa sventura.
Nè tampoco questo torna a demerito de’ singoli insegnanti, maestri e cantanti illustri per sè medesimi.
Non consento a fregiare interamente i maestri della gloria dei loro allievi: addebito la colpa ai metodi ed ai sistemi impotenti a spiegare ed informare i misteri delle umane voci, e tiranni quanto la moda.
A sfogo di questo dubbio da gran tempo in me ingenerato, che poi fissossi nella mia mente come certezza, deponeva in altri miei scritti alcune osservazioni, dalla sperienza appunto suggerite; colla confidenza che il soldato in sul campo ferito, discorre e specula intorno ai casi della battaglia.
Ho scritto nelle mie memorie: Devo rammentare, anche per la possibile istruzione altrui, quanto sia difficile e raro un buono insegnamento di canto, e adatto ai singoli individui che alla bell’arte si dedicano; quanto sia facile di rincontro e frequente il perdere in questo studio preziosi tesori, doni peregrini di cielo e gelosissimi.
Io sperimentai fra gl’insegnanti i meglio stimati [32] in Vicenza, città peraltro distinta anche nelle cose musicali, altri in Venezia, ed in Milano; e posso asserire che se ciascuno di quelli potea incorrere nella sorte di legare al suo nome fortunati allievi, nessuno potea essere istitutore di canto.
E veramente parea che il destino volesse per le mie fatiche musicali formare in me piuttosto un osservatore che artista; perocchè attraversandomi quasi sul colmo ogni progetto, mi lasciava soltanto dell’esperienza. È per questo, che non mi pèrito talvolta di levare la voce in argomento, e che non rinunzio di poter discernere, e forse meglio di qualche laudato professore od artista, sulla bontà e sulla opportunità de’ mezzi che s’impiegano alla educazion delle voci, che dovrebbero essere sempre variabili e relativi, mentre pur troppo li vedo quasi sempre assoluti e sistemati. A sostegno della mia credenza, che non è pretensione, basta ch’io indichi il fatto d’aver visto ai miei tempi, epoca de’ canti Verdiani, tanti istitutori e molti de’ grandi artisti impuntarsi a ritenere che una tale maniera di scuola avuta buona per un individuo, oppure provata in loro medesimi felicemente, possa e debba riuscire acconcia per ogni altro; e quindi quasi tutti sovra ad un metodo, per formare, distruggere; non occupati d’altro sui loro allievi che ad usare; a sforzare precipitosamente i mezzi trovati; chiedere miracoli a lor modo pedantemente, dai metodi scritti; ostinati a voler dalla natura quello che dovea porgere l’arte; e non accordare all’arte i suoi riposi e quel tempo, senza i quali ella non crea.
Quasi che gli artisti ambissero di goder negli allievi i loro imitatori, anzichè lasciare alla natura il proprio sentire e le spontanee sue forze; e quasichè [33] i maestri avessero sempre a ricreare in iscuola le loro orecchie, piuttosto che pazientare e stancarsi onde preparare per gli altri.
Non è vero che natura sia avara di belle voci; ella facile le dona. Raro è il mantenerle. La trascuranza, e i falsi sistemi ce le disperdono. Non sono i modi Verdiani che guastano i cantanti: sono i cantanti che si guastano, e i loro educatori che ne affrettano la rovina.
In questi tempi di sconfinate idee, purtroppo notar si deve anche una prodigalità di fiato, una esagerazione d’accento; il che pone in contrasto forze, espressione, intonazione.
Se è ammissibile un sistema, soltanto quello provvido di Auber e predicato da Rubini dev’essere: Economia della voce; la eccellente regola nella difficil’arte.
Bella voce, buona attitudine, finita educazione fanno il cantante. Quest’è la potenza una e trina al suo genio. Egli ha in sè il metodo del sentimento. — Gli altrui insegnamenti s’aggiungono a conservazione ed a fregio.
Io tengo che, pel canto nessun metodo possa fermarsi; se, il canto è melodia dell’animo; se, è quel movimento originale, spontaneo, men suscettibile di legami, meno inclinato all’imitazione.
Quel filosofo che in tutte le arti scorgeva la imitazione, e la lamentava nella poesia e nella musica, insegnò: — doversi riflettere costantemente che la sola specie di canti imitativi da ammettersi nella repubblica, sono gl’inni in onore degli Dei e le lodi ai grandi uomini; oltre a questa eccezione, la Musa imitativa nuoce alla verità, e fuorvia l’uomo dal buono e dal bello. —
[34]
Ed io trovo il metodo uno strumento della più servile imitazione, che limita il potere dell’animo, si impone al mistero della sua manifestazione (la voce); inceppa quindi i naturali slanci, e toglie dal vero e dal bello.
Lascio di trascrivere un altro libro di mie osservazioni in proposito, per far luogo ad altre sentenze.
Con quali sistemi mai erano rette e giudicate le scuole del Fedi, del Pistocchi, del Redi, del Brivio, del Bernardi, dell’Amadei, e de’ napolitani Leo, Feo, e del Gizzi?
Ove sono i grandi e sapienti artisti di quei tempi, quando il Pasi cantava con largo stile e magistrale, e Ferri in un sol fiato percorreva ascendendo e discendendo due piene ottave continuamente trillando e segnando i gradi tutti della scala cromatica con sorprendente giustezza[16]?
Perchè era possibile allora sentire un grande artista cantare con uno stile proprio e diverso da quello di altri grandi pure educati alla medesima scuola?
Perchè oggi, quando il numero de’ libri scritti, così detti metodi, è cresciuto a dismisura, avvi tanta deficienza di cantanti che ne meritino il nome, e da ogni lato proclamasi la decadenza dell’arte?
Così domanda lo studioso maestro Caputo. Ed io intrometto: potrebbesi a lui rispondere coscienziosamente coi motivi ai quali il De La Fage accagiona tal decadenza, cioè allo stabilimento de’ Francesi in Italia, alla soppressione delle scuole, all’abolizion dei castrati, alla deviazione dai primitivi sistemi[17]?
[35]
Il Mancini invece, ancora nel 1777[18], prevedea questa deviazione dalle lunghe, pazienti, innamorate pratiche dell’arte; accusando l’aurea fame risvegliata nei maestri, e la smania di subito guadagno, causa di corruzione e decadenza.
Fétis nel suo Metodo de’ metodi di canto, limita la colpa agli avvenimenti della guerra e della politica, che toccando le basi delle scuole ne affrettarono il decadimento e prepararono la rovina.
Marchesi poi, ne compendia le cause esprimendosi in questi termini: «Volgiamo tutta la nostra attenzione alla vera arte del bel canto italiano, la quale oggi giorno si trova in uno stato di completa decadenza, alla quale a gara l’hanno spinta il realismo, l’empirismo, ed il ciarlatanismo; ma guardiamoci dal volere apporre dei limiti alle infinite rivelazioni dell’umano intelletto nelle sfere trascendentali. Queste cambiano bene di forma nel modo di manifestarsi, seguendo loro malgrado l’impulso della direzione morale della umanità, nelle sue alternanti fasi di progresso e decadenza, ma non si estinguono mai, perchè sono eterne, tal che la fonte d’onde esse emanano, il cielo.
.... L’epoca più gloriosa della musica fu quella nella quale l’arte del canto era giunta all’apice della sua perfezione; e se oggi, maestri altamente dotati, mostrano nelle loro composizioni una certa materiale, realistica, e direi quasi, volgare tendenza, io oso asserire che la loro divagazione dal retto sentiero, e le loro stranezze sono l’effetto della completa ignoranza del meccanismo e della vera missione della voce umana, [36] nonchè del vero bel canto.... Tanto i moderni cantanti, quanto i moderni compositori, tutti, meno pochissime eccezioni, cercano soltanto con titanici sforzi vincere le più grandi difficoltà, soltanto per sorprendere l’uditorio, invece di commuoverlo. La forza regna da per tutto; la grazia, questa madre santa e pura delle belle arti, è divenuta una rarità[19].»
Rossini elogiando i 24 Vocalizzi della signora Marchesi ebbe ad esprimersi: «Ho percorsi col massimo interesse (quei esercizj), sono composti con somma conoscenza della voce umana, con chiarezza ed eleganza, essi contengono quanto fa d’uopo allo sviluppo d’un’arte che da troppo tempo io assimilo alle Barricate vocali! Possa il di lei interessante lavoro profittare alla gioventù odierna, che trovasi un tantino fuori della buona via. Insista pure ad insegnare il bel canto italiano, esso non esclude l’espressione e la parte drammatica, che va riducendosi ad una semplice questione di polmoni, e senza studio (c’est bien commode!)[20].
Goethe sentenziò, che la madre della sublime fra le arti belle «non richiede deduzione nè di materiale, nè di soggettivo elemento; poichè dessa è tutta forma e possanza, ed eleva e nobilita tutto ciò che esprime.»
Rousseau: «La melodia italiana trova in ciascun suo movimento, espressioni per tutti i caratteri, quadri per tutti gli oggetti. Ell’è a piacere del musicista, triste sur un movimento vivace, gaja sopra uno [37] lento, senza dipendere dalla parola, e senza esporsi a contrassensi. Ecco la fonte di quella prodigiosa varietà che offrono i maestri d’Italia (del suo tempo); varietà che previene la monotonia, il languore, la noja, e che i musicisti francesi non possono imitare...
La imitazione teatrale francese sia pel canto che per l’armonia è un’arte barbara e gotica.»
(Scudo la definì «quella imitazione premeditata che s’immagina poter sorprendere il secreto della vita e togliere clandestinamente l’altrui bene di cui pretende glorificarsi; ben diversa dalla imitazione spontanea che procede dalla ispirazione e risulta dalla affinità de’ genj; sterile e fallace, perchè chi la pratica, incapace d’essere commosso, si fa illusione simulando a passione che non prova e riproduce per solo artificio, quasi tenendosi alla lettera, il linguaggio dell’amore).»
Meglio sarebbe, segue Rousseau, «conservare il duro e ridicolo canto francese qual’è piuttostochè più ridicolmente sforzarsi a fabbricarlo italiano, tanto più disgustevole e mostruoso, quanto che è impossibile associare all’italiana melodia la lingua francese[21].»
Disse inoltre quel profondo osservatore — insostenibile il principio della semplicità dei rapporti sulla quale vorrebbesi fondare il piacere della musica[22] — impossibile l’imitazione di quelle espressioni naturali e solenni dell’amore e del dolore; e predisse arditamente che il tragico canto italiano non potrebbe essere d’altri nemmeno tentato[23].
[38]
Ammise qualche successo nelle comiche e leggiere espressioni; il favore delle sinfonie; la potenza in altri delle armoniche combinazioni.
Colla forza del genio parea presentisse le misteriose ricerche di Beethoven, gl’intrelciati arpeggiamenti di Haendel, le fantasie tumultuose di Berlioz, le fabbricazioni di Wagner, i progressi de’ loro imitatori che appartengono al regno della scienza, non confondibili coi semplici naturali concetti dell’invenzione, con quelle semplici forme possibili soltanto al vero canto, e che infatti scorgonsi conservate malgrado le riforme introdotte dalle italiane scuole del passato secolo.
Ed è in conferma il gran fatto, che la scienza nell’impossibilità di trovare il bel canto fuor dalle pure fonti e naturali, e vedendo inutile ostinarsi a far comune il retaggio di pochi, volse per altra via i suoi conati, dove immancabile esito potea ripromettersi; e si diè a fabbricare armonie, laudabili, talvolta sublimi; ma che non hanno a che fare col vero canto.
Fra questo e quelle è insussistente adunque la question del primato; ed anzichè questione, v’ha confessione reciproca dell’attitudine relativa, e della diversa natura.
Per la composizione sono opportunissimi il metodo ed il sistema: il metodo non può essere che sussidiario alla espressione; il sistema non può essere che micidiale al bel canto.
A dimostrazione speciale di questo criterio, oltrechè ad esporre le fonti più feconde de’ canti universalmente riconosciuti siccome i più puri, grati, ed esprimenti, noi ci siamo per lunga via intrattenuti con istorici ricordi degli antichi compositori, gelosi [39] tutti, più che modernamente non sia, di marcare un carattere proprio, uno stile particolare e indipendente.
Alto insegnamento anche a colui che vuol farsi vero interprete delle varie composizioni cantabili, inesprimibili senza un accurato studio sulla natura speciale alle medesime, e per la perfetta espression delle quali, deve regolare il proprio sentire a seconda del loro carattere e del loro stile.
I maestri cantanti più degni di questo nome inculcarono sempre questa indispensabile conoscenza, proponendo a migliore scorta lo studio de’ diversi stili negli antichi compositori.
«All’artista cantante non basterà possedere il dono d’una bella voce, ed averla anche educata a tutte le difficoltà del canto, se a questo non vi si aggiunga una profonda educazione musicale, che gli permetta d’immedesimarsi col pensiero poetico, sul quale s’ispirò da prima il compositore, egli stesso.
L’educazione vocale basterà per l’esecuzione materiale di una musica fatta più per dilettare le orecchie che per commuovere il cuore: ma il cantante di espressione, oltre all’educazione vocale che lo deve porre in caso d’eseguire tutte le difficoltà di una melodia, deve inoltre possedere molta sensibilità d’animo e l’arte della espressione; principio sul quale si basa la vera interpretazione melodica. Nessuno studio sarà più atto a sviluppare questo sentimento, quanto quello dello stile de’ primi maestri che si distinguevano sopratutto per una schiettezza ed una spontaneità rimarchevoli.
Nell’esaminare attentamente la storia de’ differenti generi di musica che diedero poi nascita a quello oggi in uso, si formerà un giusto criterio del [40] carattere e dello stile particolare ad ognuno d’essi — e questo studio nell’allargare le conoscenze del cantante svilupperà in lui lo stile ed il sentimento del bello.»
Così consiglia anche il celebre artista Leone Giraldoni, in una sua Guida teorico-pratica ad uso dell’artista cantante[24]; alla quale operetta viene egli pure a introdursi colla lamentanza sulla scarsità di maestri sapienti per la educazione vocale, e sulla inopportunità de’ sistemi de’ pretesi maestri, che in cambio di rivolgere ogni lor cura alla conoscenza ed alla regola dell’istrumento al cui buon uso essi devono indirizzare e con tanto maggior studio quant’esso è più delicato, la voce, si danno incredibilmente premura d’inculcare all’allievo il proprio loro modo di sentire, unica cosa, come il Giraldoni soggiunge, che non si possa trasmettere.
«I nostri antichi cantanti avevano più buon senso di noi altri su questo particolare; ed i Nozzari, Crescentini, Righini, Garcia, facevano passare ai loro allievi anni interi negli studj materiali della voce, non curandosi che della parte meccanica della gola, persuasi che vinta quella difficoltà ed ammaestrata la voce a tutte le risorse dell’arte, il cantante potesse proseguire da sè stesso nell’incominciato cammino.»
Pienamente d’accordo in questa massima coi grandi maestri-cantanti che furono, e col rinomato artista dei nostri giorni, noi abbiamo anzi mostrato di restringere [41] l’opportunità del sistema anche in ciò che esclusivamente all’organo materiale si riferisce; chè mentre in alcuni casi abbiamo dovuto ammettere la prodigiosa virtù d’un metodo al buon indirizzo delle voci, l’abbiamo in tanti altri riconosciuto inefficace per modo da non poterlo ammettere col Giraldori giovevole sempre e indispensabile «ad estirpare que’ primi e naturali difetti — che snaturano la emissione semplice del suono — che recano impedimento al cantante nell’esercizio dell’arte sua — che ritenute leggi di natura dai maestri in generale e perciò non infrangibili senza pericolo, egli riguarda più spesso come vizj di natura.»
Siano pur leggi o vizj, l’arte può realmente mutarle od emendarli?...
Io non convengo che «da tale assurdità, come si esprime il Giraldoni, provengano tante voci difettose che ogni giorno si odono sulle scene» e che per conseguenza i sistemi vocali, anche impiegati a suo tempo, avrebbero potuto sollevarci da tutti quegl’ingratissimi suoni.
Infatti l’autore medesimo, deve soggiungere: «vi sono certamente alcune voci che hanno ricevuto dalla natura stessa tali prerogative da poter essere ammaestrate da chicchessia, facendo così la fama del maestro, senza sua colpa, però sono assai rare. Il caso pure viene in ajuto allo scolaro, il quale senza sapersene rendere conto, incontra un bel giorno insoliti effetti di sonorità nella sua voce....»
Insiste altrove sulla estirpazione de’ naturali difetti, e sulla possibilità «di giungere con uno studio intelligente e coscienzioso a cambiare la voce in meglio ed in modo irreconoscibile,» ma combatte col dottor [42] Mandl[25], il metodo di canto del Conservatorio di Parigi, che si scosta dai modi più naturali — funesta teoria — principio fatale, non mai contraddetto abbastanza, preconizzato in metodo officiale. —
Conviene che l’artista, o sacerdote dell’arte, è colui che «dedicandosi al culto e all’incremento di questa, anima colla favilla del suo genio ogni concepimento di cui dev’essere l’interprete; come Pigmalione animò l’inerte marmo col fuoco derubato dal cielo.... A portare meritevolmente questo nome nell’arte melodrammatica, è d’uopo armarsi di gran volontà e d’instancabile costanza: — e solo dopo, per una primitiva ed elaborata educazione (trascurata purtroppo generalmente) potrà aspirarvi l’ingegno colto ed il cuore sensibile — e dopo un assiduo e indefesso studio, il cantante potrà sperare di essere distinto in mezzo al gregge de’ sedicenti artisti.» E posti gli esempj di Rubini e Duprez, conviene che, il primo anche dopo le sapienti cure del maestro Nozzari, il quale spiò nel rejetto di Napoli[26] le potenti risorse che lo fecero poscia un portento, ebbe a sfidare lunghe scoraggianti prove, nelle quali più che la scienza medesima pur tanto acclamata che il nuovo maestro gli avea trasfusa, gli valsero gli studj pratici in sè stesso, le proprie scoperte e la costanza.
Il secondo egualmente, in onta all’ottima istruzione che portò seco al primo calcare delle scene, dovè durar parecchi anni alla formazione della propria [43] scuola; e fu tutta opera sua quell’ampio fraseggiare, quella declamazione espressiva, quello stile largo ed elevato, quella pronunzia vibrata e quell’emissione acquistata in Italia, per cui giunse a detronizzare Nourrit innanzi allo stesso pubblico parigino che da quindic’anni non si stancava di festeggiarlo; e pose il fondamento della sua estesa e durevole fama. Il ritorno di Duprez a Parigi e il trionfo nella sua apparizione nel Guglielmo Tell fu tale, che non si rammenta l’eguale negli annali del teatro dell’Opera.
Bel conforto ai primi passi degli iniziati nell’arte; e bell’esempio con cui il Giraldoni li invita allo studio continuo ed alla costanza instancabile.
Ottimi del resto i suggerimenti di questo sperimentato artista, sia ai riguardi della respirazione, come per la pratica de’ registri, sulle esercitazioni vocali, sugli effetti drammatici, sulla erudizione e sull’igiene del cantante, coi quali argomenti discorre nei dieci brevi capitoli della sua Guida.
E bene conchiude considerando, che «pittore vivo dell’umana natura in sè stesso, l’artista incontrerà l’oggetto principale de’ suoi studj ed il germoglio della sua scienza.»
— Coi doni della natura, anche straordinarj, giungerà a dilettare le orecchie, ma giammai a commuovere il cuore se non accoppia una bella educazione. —
L’artista cantante è sacerdote educatore. La sua ignoranza pervertisce un pubblico, come un pubblico ignorante piega servilmente al gusto depravato l’artista colle lusinghe de’ suoi favori. — L’artista che cerca l’effetto plateale, abdica le sue sovrane prerogative, sacrifica alle facili soddisfazioni dell’amor proprio [44] l’alta missione di cooperare alla educazione del popolo, dirigendo verso il bello artistico il di lui sentimento e buon gusto, e tradisce sè stesso. Ma sia ben guardingo a non lasciarsi trasportare dalla foga del proprio sentire — più l’artista sarà padrone di sè per dominarsi, più grande sarà l’effetto della espressione; effetto che deve stare nei limiti del vero. — Mercè la educazione infatti, il sano criterio e il giudizio intelligente saranno la miglior guida anche alla regola e buon impiego delle doti naturali, colle quali potenze soltanto potrà il cantante innalzarsi al di sopra di quelle migliaja di così detti artisti, che vegetando tutta la vita nell’esercizio di tal professione, che per loro non è altro che un mestiere volgare, bestemmiano contro la fortuna, o il destino che li dimentica, quando dovrebbero invece accusare la loro nullità, ignoranza e presunzione.
Con ciò finisco sui metodi con cui vorrebbesi, erroneamente, formare e modificare la voce umana; finirò intorno alle moderne scuole con qualche autorevole giudizio, coll’espressione della pubblica opinione, colla convinzione de’ fatti.
Un altro splendido documento a conferma delle idee suesposte, e specialmente a prova della necessità indispensabile e prima di coltura nel sacerdozio del canto, e di profonda e variata dottrina nell’artista, è la lettera di Giuseppe Verdi, bene perito nelle bisogne, colla quale declinava la onorifica offerta fattagli [45] dai napoletani affinchè egli assumesse la Direzione di quell’illustre Conservatorio, lasciata vacante per la morte all’arte funesta di Mercadante[27].
Verdi, cui la scienza affida i suoi alti misteri per fare al popolo la rivelazione del bello; che mantiene le tradizioni senza rinunziare alle ricchezze delle forme straniere, così pronunciavasi:
«Mi sarei fatto una gloria, nè in questo momento sarebbe un regresso, di esercitare gli alunni a quegli studj gravi e severi, e in uno così chiari dei primi padri, A. Scarlatti, Durante, Leo...
Per comporre, studiate Palestrina e pochi suoi coetanei, saltate dopo a Marcello, e fermate la vostra attenzione specialmente sui recitativi. Fatti questi studj uniti a larga coltura letteraria, non aumenterete la turba degli imitatori e degli ammalati dell’epoca nostra... Nel canto avrei voluto pure gli studj antichi uniti alla declamazione moderna.
Ma per mettere in pratica queste poche massime facili in apparenza, bisognerebbe sorvegliare l’insegnamento con assiduità... vuolsi un uomo dotto sopratutto e severo negli studj. Tornate all’antico e sarà un progresso[28].»
[46]
Questa lettera è un vero programma artistico, dignitoso, savio, leale; che insiste sulla dottrina necessaria ai cultori d’un’arte divina, che per lungo tempo, e generalmente, parve abbandonata alla gente più incolta. «Questa lettera è un vero balsamo, — commentò Filippi, — un refrigerio alle piaghe che affliggono la musica: Dio voglia che la evangelica parola del grande Maestro, faccia i molti miracoli per la redenzione dell’arte... e pel ritorno dei Conservatori alle gloriose tradizioni.» E qui dietro il rifiuto dell’autore del Rigoletto, proponeva Antonio Bazzini di Brescia quale compositore e conoscitore approfondito d’ogni musicale disciplina, e tale che per la coltura sua «potrebbe rialzare le sorti d’uno stabilimento sceso così al basso da smarrire quasi ogni tradizione del suo gloriosissimo passato.»
D’Arcais v’aggiunse, che il Ministero per la pubb. istruzione in Italia, dovrebbe far precedere una tal nomina da una mutazione quasi generale degli ordinamenti di quell’istituto, per non dannare a riuscita manchevole il nuovo Rettore per quanto valente[29].
Accagiona le tristi condizioni in cui il più celebre Conservatorio è caduto, all’errore d’aver lasciato sullo stallo difficile del Zingarelli, fino all’ultimo tramonto dell’età sua, quando più conveniagli riposo, il Mercadante, cieco, affranto da dolori fisici e morali; coadjuvato bensì da un Consiglio di governatori e da un emerito archivista; ma atto piuttosto a presiedere onorariamente la conservazion d’un museo, che ad [47] allontanare i danni onde il reale Collegio fu colpito e che lo ridussero alla condizione cui presentemente si trova.
Tale Collegio, di san Pietro a Majella, sorto dalle rovine di parecchi altri Istituti che fiorivano in Napoli, raccolse in sè tutte le glorie della scuola napoletana; o per dir meglio, ha goduto i frutti d’un glorioso passato.
Il cav. Francesco Florimo archivista, nel suo Cenno storico sulla scuola musicale napolitana, testè pubblicato (tip. Rocco) ci narra le vicende dei Conservatorj napoletani che prima di quello ora esistente furono quattro, chiamati: dei Poveri di Gesù Cristo; di sant’Onofrio; della Madonna del Loreto; e della Pietà dei Turchini. Aboliti i primi, rimasero per qualche tempo quelli della Madonna di Loreto e dei Turchini, finchè anche questi furono riuniti in un solo che prese il nome di Collegio R. di Musica; occupò diversi locali, e finalmente quello di san Pietro a Majella. Sorto in principio di questo secolo, quando la scuola napoletana era all’apogèo di suo splendore, se paragoniamo i suoi frutti a quelli che per tanti anni vennero dati dai Conservatorj precedenti, siamo tratti alla conseguenza che la scuola napoletana cominciò a cadere fin da quel tempo.
Addito questo fatto a coloro che portano a cielo gli ordinamenti di quell’Istituto, che furono a più riprese modificati, ma mai profondamente e per modo tale da accennare a un mutamento di sistema.
Abbiamo veduto, come dalle sue varie sedi quel tempio chiarissimo nell’arte della composizione s’abbia ingloriato degl’illustri fondatori Porpora, Durante, Scarlatti, Leo, Cherubini, Feneroli, Zingarelli, Bellini, [48] Pacini; venerò viventi fino a questi giorni Saverio Mercadante[30] e Michele Carafa; nè cessa di vantare in Enrico Petrella un degno emulo a Verdi.
Ricorda ultimamente i bravi maestri di canto, Carlo Conti ed Angelo Ciccarelli.
Ora nuovamente s’illustra del suo concittadino Lauro Rossi chiamato all’onore di quella direzione nel 1871.
Tale stabilimento può dirsi anche l’Archivio musicale il più ricco d’Europa; e mercè i riordinamenti e le cure del sullodato archivista, mostra le sue Stanze artistiche quasi complete nelle collezioni de’ classici d’ogni nazione, d’opere didattiche e teorico-musicali, d’autografi dei celebri compositori, e perfino di una raccolta ritenuta per unica di ritratti originali ad olio de’ maestri italiani e stranieri dal diciassettesimo secolo al presente, speciale dono del cav. Florimo[31].
Ma fra tante memorie e ricchezze, vi si è mantenuta in fiore la scuola napoletana? la scuola che sembra essersi chiusa con Paisiello e Cimarosa?!
Nel nostro secolo è bensì uscito qualche valente compositore; ma poco per volta andarono miseramente perdendosi le tradizioni dell’antica scuola che aveva riempiuto il mondo di maestri.
Le scuole artistiche possono vivere e prosperare indipendentemente dai Conservatorj e dalle Accademie; ma non è men vero che un Conservatorio può e deve giovare a conservare le tradizioni.
Una delle parti più importanti dell’insegnamento [49] musicale è il canto; e quivi pure questo è in decadenza.
Procede lo stimabile critico D’Arcais: — le cose stanno in questi termini. I professori di canto vi sono anche male retribuiti; due o tremila lire! onde traggono lucro dalla loro abilità fuor del Conservatorio, il cui posto è in generale ambito unicamente per procurarsi una numerosa clientela, ed è una occupazione di sopra più, mentre tutte le cure sono rivolte e consacrate agli alunni perfino patroni di agenzie teatrali, onde innumerevoli abusi.
Nessuno può chiedere l’abolizione dei Conservatorj di musica, ma se è giusto che lo Stato si sobbarchi ad una spesa non lieve per tenerli in vita, è pure indispensabile ch’essi rechino all’arte maggior utilità di quella che presentemente se ne ritrae.
La malattia è grave, ma invece di uccidere l’infermo, cerchiamo il rimedio.
Nel riordinamento generale di tali Istituti si lasci per carità V elemento burocratico, i mecenati consiglieri, i posti ad honorem ed a riposo —[32].
Nè valgono a far rifiorire degnamente la scuola di canto in Napoli tanti maestri che anche fuori del r.º Collegio esercitano l’opera loro nel campo già culto felicemente dal Marotta discepolo a Crescentini.
I maestri Seidler e Costa insegnarono per molto tempo nei primarj Educatorj di quella città, ora diretti pel canto da Giorgio Micieli.
Hanno bel nome di maestri e compositori: Paolo Serrao, De Giosa, Nicola d’Arienzo, Beniamino Carelli, Carlo Caputo, Delfico, Mazzone, Bonamici.
[50]
Seguono: Sarria, Colletti, Casammata, Nani, Moscuzza, Achille Valenza autor delle Fate, Claudio Conti che or regge la scuola al r.º Albergo dei Poveri.
Mancarono di recente: Salv. Sarmiento, L. Siri, L. Graziani, Pasquale Mugnone, Raffaele Giannetti.
Promettono: Paolo Manica di Catanzaro, Vincenzo Fornari, Pietro Musone di Casapulla[33].
Fra la folla poi de’ presunti virtuosi, a ben pochi fu dato di tenere non del tutto inchinata la bandiera della bell’arte.
Sul quale argomento, il medesimo D’Arcais, parlando dell’Istituto Fiorentino (Rassegna Musicale), ebbe a ripetere: «L’arte del canto è senza dubbio in cattive condizioni per tutta Italia. Mancano buoni maestri. E fu proposto da molti di stabili scuole normali pei professori di canto, come mezzo più utile a rialzare quell’importantissimo insegnamento. Si dovrebbe scegliere que’ pochi maestri che conoscono e conservano le tradizioni del bel canto italiano, per questa nuova scuola destinata a produrre buoni professori di canto.....»
Senonchè, Francesco Dall’Ongaro proponendo di introdurre l’insegnamento del canto anche nelle nostre scuole primarie, come si pratica nella Svizzera, nella Germania, in Inghilterra, in America, sentì opporsi dal suo amico prof. Alessandro Biaggi:
«Dove trovare un maestro di canto?...»
«Mancano i maestri, e mancano i valenti esecutori del canto, e a questo si deve ascrivere la decadenza [51] dell’arte e non già alle vicende politiche — disse pure in questi giorni Giuseppe Rota, maestro alla Cappella e al Teatro Comunale di Trieste, in occasione d’apertura della Società filarmonica Triestina di mutuo Soccorso. — L’arte non è il trastullo del senso; mentre la vediamo associarsi alle più nobili aspirazioni del secolo, e partecipare al dolore di un pubblico lutto, e alla gioja d’un avvenimento eroico, nazionale.... l’arte piange e sorride con noi, in noi. Fu gloria de’ più secoli; illustrò nazioni; è fomite di civiltà e progresso[34].
L’antico poeta di Salmona avea già dimostrate le ingenue arti come quelle che «ingentiliscono i costumi, nè permettono all’uomo d’esser crudele, purchè s’apprendano fedelmente, non in maniera superficiale per solo passatempo o trastullo, ma con pienezza di giudizio.»
«L’arte, dice C. Cantù, deve associarsi alla civiltà.»
Ma la bell’arte del canto è in realtà fuorviata: ed è pur questa, come disse Massimo d’Azeglio della letteratura «una delle cagioni dell’abbassamento notevole che ognuno conosce nel termometro morale della società leggente e cantante d’Europa.»
Fra questa società, bisogna pur confessare, alcune straniere nazioni minacciano di rapire alla madre Italia collo studio, quel primato che non poterono mai torle col genio. Ed ecco legarmisi l’idea dell’ottima proposta di un urgente provvedimento per l’istruzione del canto anche nelle scuole primarie.
— In Germania, Francia, Inghilterra, leggesi a [52] prima vista gli Oratorj di Haydn, e le musiche a cappella di Palestrina, Carissimi e Marcello, poichè in quelle scuole corali tutti gli elementi sociali vi prendono parte, e non i soli operaj che hanno poco tempo di dedicarvisi. Aristocrazia, borghesia, commercianti e popolo coltivano il canto; quindi la possibilità di quelle numerose e perfette masse corali, e maggior probabilità di speciali distinte riuscite quanto più vasto è il seminato.
Nuoce dunque al progresso dell’arte in Italia la limitazione del canto alle Scuole popolari; e benchè in quest’anno si constati anche a Milano un miglioramento, specialmente nella Scuola corale, — che corrispose alle cure intelligenti ed assidue del direttore Leoni, coadjuvato dall’aggiunto m.º Prina[35] — pur si rimarca il gran danno d’abbandonar tanta coltura solamente alla classe men colta.
Non devono arrestarsi gli Italiani sulle passate glorie e sugli ottenuti trionfi, ma adoperare ogni mezzo, per procedere di pari passo coll’odierno progresso, e per mantener quel primato che non fu a loro fin qui contestato, potente ancora presso a’ stranieri, come vedremo passando in breve rivista le attuali più importanti scuole europee e mondiali.
[53]
E tornando brevemente a quella milanese, dopo aver accennato alle critiche ed alle lamentanze che si fanno su quel Conservatorio, dobbiam constatare una lodevole attività non affatto infruttuosa anche oltre le porte di quell’Istituto, una gara di docenti che pur lascia sperare migliore indirizzo, come da suolo irrigato da spesse sorgenti è probabile che quella più pura abbia a scaturire.
Laddove ricordasi Sammartini, vecchia guida melodica ai compositori, e Secchi maestro, per tanti anni creator di cantanti, e quindi Lamperti padre esimio maestro, adesso il figlio Giov. Battista e B. Prati, trattano il canto teatrale; Leoni quello corale.
Fuori del Conserv., finirono da poco la loro carriera, Ronchetti e Giovanni Rossi istitutori alle scuole popolari, gravi d’anni; ed in fiorente età, De Giovanni, Tamburini Riccardo, Eugenio Torriani, Giano Brida. Ed oltre a quei già nominati fra i metodisti, s’hanno accreditati maestri, Gerli, Zarini, Bona, Prina, Ronzi, Gamberini, Garzoni, Perelli, Bruni, Sangiovanni, Marcarini; la Aspri-Bolognotti, Antonio Davila, Gaetano Nava, B. Pisani, non ignoti compositori; Baretta, che fu già rettore del Conservatorio di Bologna, ora attende in Milano ad erigere un nuovo Dizionario musicale. Binaghi, veterano tenore, che ora insegna ai ragazzi; Isabella Alba che apre una scuola collettiva; Enrico [54] Boucheron preposto ai cantori del Duomo; Enrico Panofka che esamina le Voci e il loro educamento; Giovanni Varisco che propone l’indirizzo normale ai maestri medesimi.
Merita anche menzione il pietoso impiego del canto nel Manicomio di Milano, e quivi la istruzione dei cori, con felice e rinnovato successo (Vedi vol. I, pag. 107).
Il trasferimento dell’illustre Lauro Rossi alla direzione del Collegio di Napoli, e l’innalzamento del prof. Alberto Mazzucato[36] a quella del milanese Conservatorio, valgano a fonderne con unisona norma e con eclettico studio i buoni sistemi; perocchè è certo che a base educativa vuolsi pure un metodo stabile e generale, che potrà essere poi modificato, o per meglio dire, diversamente applicato e indirizzato dai vari cultori, a seconda delle opportunità e circostanze; ma nella sua iniziativa non deve variare di artista in artista, offerendo mille strade dubbie e nessuna sicura; distruggendo la scuola, scemando gli artisti; e, come scriveva fin dal 1844 il pratico Ferrary Rodigino, peggiorando l’arte con un negativo progresso[37].
Non è, diceva egli saviamente, come noi sopra abbiamo osservato, non è scuola la misera imitazione, il tirocinio pubblico, la servilità al metodo di questo o di quell’artista felicemente riuscito, chè il teatro non fa l’arte, nè è questa un mestiere.
Dei tanti pretesi artisti che pullulano in siffatta [55] maniera, non per proprio valore ma ad altrui rimorchio, strano il più delle volte e incompreso, si può dire col Varchi, che dessi non servando metodo alcuno non intendono sè medesimi. Come poi potrebbe agire moralmente una siffatta educazione? Fu detto che, «la educazione artistica non può formare il cuore.» Vuolsi dunque una fondamentale istituzione savia e uniforme.
Il ministro per l’Istruzione pubblica del regno d’Italia, Cesare Correnti, formulando il nuovo Statuto organico del Collegio musicale di Napoli, pubblicato con r.º Decreto 14 gennajo 1872, «cercò allargare anche il campo delle lettere, perchè gli artisti devono oggimai persuadersi che non saliranno mai in altezza ed in fama durevole e meritata senza quell’ajuto[38].»
Il 1.º Congresso musicale espresse quindi il voto che anche il Conservatorio di Napoli abbia a tramutarsi in vero Liceo, come gli altri d’Italia, e quelli di Parigi, Praga, Bruxelles, tendono mano a trasformarsi.
Dopo i Conservatorj di Napoli e di Milano, di cui abbiam fatto cenno, devesi oggi notare distintamente in Italia l’Istituto Fiorentino. — Che se non vanta antiche origini al pari di qualche altro della penisola, e per copia di mezzi, per numero d’insegnanti e di allievi, è inferiore ai due suddetti, non è certamente da meno di qualunque altro stabilimento musicale per ciò che riguarda la bontà dell’insegnamento. — Ne è [56] preside il cav. Casamorta valente compositore. Il venerando Pietro Romani maestro di canto, vecchio amico di Cimarosa, di Meyerbeer, di Rossini, e consigliere ai più celebri artisti, è incaricato del corso di perfezionamento.
S’aprono annuali concorsi a premio, specialmente per composizioni di canto[39].
Sono unite all’Istituto: una scuola di estetica e di storia musicale, di cui è titolare il prof. Biagi, ed una scuola elementare che rimedia al difetto d’istruzione, solito nei dedicati alla carriera teatrale...
Una commissione, sotto il ministero Bargoni, unificò l’Istituto colla scuola di declamazione. — I frequenti esercizj pratici gioverebbero agli allievi delle scuole del canto, come le prove di studio annuali. Chè i cantanti esordienti, appena usciti dal Conservatorio non sempre sanno accordarsi colle orchestre, di rado si presentano convenientemente al pubblico, e quasi mai accompagnano il canto coll’azione[40].
A quest’utile pratica intese venire in ajuto la Società Filarmonica diretta dall’abile istitutrice di canto Cecilia Varesi in Firenze, che gareggia cogli insegnamenti d’altra riputata cantatrice Sofia Vera-LorinL Altri sodalizj, quello del Cherubini, al cui nome rende onore la fondatrice di tale scuola corale, la tedesca Laussot, quelli de’ Fidenti e degl’Orfeisti, s’adoprano al culto dell’arte.
Anche un Teodulo Mabellini, conoscitore approfondito [57] d’ogni musicale disciplina, non lascia dimenticare la scuola dal Marchesi ivi tenuta: nè la dimenticava quel Cesare Paganini, compositore, cantante, scrittore ed artista, di cui ora si piange la perdita a Firenze. Avvi il Gamucci; ed il Palloni, uno degli ottimi compositori di musica vocale, rinnova la mèsse feconda de’ bei canti popolari toscani.
Nella esecuzione poi di tali canti un altro solerte maestro, Giulio Roberti, spinse le sue cure fino a cingersi d’un numeroso coro di Orecchianti, i quali colla memoria e il buon volere rendono un soave profumo alle riunioni del povero e alle case di beneficenza, nè sono inutili a rendere più solenni le patrie pubbliche feste.
Questa bella attività nella nuova Firenze, che meritò provvisoria sede capitale dell’Italia riunita, compensi il letargo miseramente succeduto in altre illustre città che di gloriosi Conservatorj ebbero vanto.
A Venezia, da secoli culla di cantori famosa, non v’ha più scuola formale.
A Venezia, i cui pii conservatorj, gareggianti con quelli di Napoli, diedero la prima idea e i primi ordinamenti delle scuole musicali del mondo. Dove, fino ai primi anni di questo secolo, in quattro conservatorj femminili fioriva la musica e il sacro canto, in cui vedemmo ad ogni tratto concorsi, a dare o a ricevere rinomanza, distinti maestri, come a solenne areopago che dai primordj del XIV secolo pronunciava.
Vantaggio ora affatto perduto; e non solo per l’artistico decoro, ma, come espresse Francesco Fapanni, per quel compenso che, la sventura di nascita illegale e l’orfanezza dei genitori almeno in parte trovavano [58] da un po’ di educazione e dalla coltura nelle arti musicali.
Al vespro d’ogni domenica, riassunse il cennato scrittore, s’aprivano le chiese di quattro pii istituti, ed ognuno accorreva a udir con immenso diletto le melodie di que’ sacri drammi. L’azione, tratta dai libri biblici, era scritta in cattivi carmi latini, talvolta rimati, con arie, duetti, a solo, come i vecchi drammi italiani; e c’era un’ansia, una ressa ad avere il libretto, a fermare lo scanno.
Nel Conservatorio della Pietà era maestro prete Bonaventura Furlanetto nato in Chioggia, nel 1738. Quivi sonavansi tutti gli istrumenti, ed erano celebri le organiste Lucietta e Matilde, che accompagnavano qualsiasi musica all’improvviso, con trasporto di tuoni e di mezzi tuoni[41].
Molte le sonatrici d’arco, di fiato, di tasto; ed erano le più acclamate la Marina, la Marcella, la Gregorietta, l’Ignazia dalla voce maschile: la Benvenuta poi era sublime nel canto, e ben se ne valeva il Furlanetto, detto pur esso il maestro di raro gorgozzule. Riuscivano mirabili i suoi cori di cui lasciò gran copia. De’ suoi drammi ed oratorj emersero La Caduta di Jerico, e La Sposa de’ Cantici.
Ai Mendicanti una Ventura Teresa, nata in Vicenza nel 1750, levavasi in grido fra quelle allieve, e giungeva a insolite fortune pel suo bel canto. Chè di là uscita, maritavasi a Benedetto de’ Pretis, e poi, sciolto quel nodo, al nob. Alvise Venier, recando nelle stanze del patriziato di quella sua dote i pregi. Morta [59] nell’anno 1790, 2 gennajo, meritò che la nob. Accademia de’ Rinnovati di Venezia la onorasse con pubblico funere in Santo Stefano, e le erigesse iscrizioni lapidarie in una delle camere dell’Accademia stessa, nelle quali si celebra la di lei straordinaria abilità e nel canto e nella declamazione teatrale. Avvi alle stampe una Raccolta di composizioni in sua morte col titolo «I Pianti di Elicona sulla tomba di Teresa Ventura Venier». (Parma, 1790, dalla Stamp. Reale, in 4.º)
Il nome della famiglia Venier va congiunto con altre memorie della coltura del canto fra la nobiltà veneta del passato secolo, la quale se non isdegnò talvolta violare perfino l’aristocratico riserbo nei legami matrimoniali per amore dell’arte, come anche il nob. Benedetto Marcello avea dato l’esempio, facea poi suo particolar vanto la partecipazione allo studio e la protezione de’ musicisti.
Vedemmo già fra i mecenati del secolo XVI, (pag. 183, vol. I), quel Domenico Venier, le cui rime furono musicate dal Baccusi e dallo Zarlino e cantate dalla Bellamano e dalla Gaspara Stampa.
E prima di Teresa Ventura, la nobil donna Maria Venier avea illustrato la famiglia di questo nome per le sue cure allo studio del canto, e meritò che Giuseppe Seratelli, maestro in uno dei conservatorj, ad esercizio della sua bella voce di soprano componesse appositi solfeggi[42], ed altri le dedicassero arie e cantate.
[60]
Gerolamo Venier, Procuratore di san Marco, nella schiera invece dei compositori, lasciò prove de’ studj suoi musicali colle Arie, Oratorj, ed altri canti, scritti dal 1732 al 1745.
Fino agli ultimi istanti della Signoria veneta, erano ricetto alle celebrità de’ canti, le ville di Mira e di Dolo, dove rimase e finì l’istesso Veluti ultimo de’ nostri musici; e sui vicini colli Euganei, ancora nel 1802, un Santonini cultore e mecenate dell’arte, era da tanto di dare nella privata sua villa di Arquà, la prima volta l’opera intera Teresa e Claudio, in accoglienza del generale Bellegarde nuovo proconsolo delle Venezie[43].
Perdurava poi la fama della Villa o Conservatorio Contarini a Piazzola, dove quell’illustre famiglia, detta degli Ambasciatori, attirando quanto di più celebre avea girato il mondo nella classe di maestri e cantori, die’ gli spettacoli superiormente accennati, e lasciò memorie e collezioni preziose, fra quali, quel museo istrumentale notato a pag. 184, vol. I, e la biblioteca musicale che per generoso legato del co. Gerolamo, nel 1843, recò tesori alla Marciana.
Continuando poi colle memorie dei Conservatorj di Venezia, fu detta ultimo sostegno ed onore di quello dei Mendicanti, riguardo al canto, quella Bianca Sacchetti altrove citata. Cantatrice ed arpista singolarmente culta e amoreggiata dal maestro Francesco Bianchi che per lei scrisse e per la Catalani, il di cui educatore Alberto Cavos era stato in Venezia suo allievo insieme a Giambattista Cimador, Giuseppe Carcano, [61] e Antonio Calegari poi direttore della cappella patavina del Santo.
Il Bianchi alla caduta della Repubblica s’era rifuggiato in Londra ove per ultimo suo lavoro diede l’Ines de Castro nel 1795.
Finalmente ai Mendicanti, cantava, e toccava squisitamente il violino una Antonietta Cubli, cui sola potea stare a rincontro la Giacomina Stromba, degli Incurabili.
Ma sovra tutte al Conservatorio di questo nome, dove per vent’anni (1730-1750) fu maestro fra gli altri il celebre Giovanni Adolfo Hasse detto il Sassone, indi Giuseppe Carcano, cremonese, applaudivasi l’Elena Corner, nell’immaginoso dialetto veneto surnomata Oseletti, pel suo canto indorato di gruppetti, trilli, gorgheggi, a mo’ degli augelli.
Il quarto Conservatorio di musica era l’Ospedaletto, anch’esso come i Mendicanti, locato presso a’ SS. Giovanni e Paolo.
Queste cantorie ed orchestre accennate da un Veneziano[44] che ne sentì la soavità e ne ricorda i trionfi, erano le cantorie e le orchestre innovate dal Croce, dal Baccusi, dal Vicentino, dal Zacchino, e dai Gabrieli; a cui s’aggiungeano le glorie della massima cappella dai Willaert, Zarlino, Monteverde nel secolo XVI; e quindi, dai Lotti, dai Galuppi, Bertoni, e dal medesimo Furlanetto, l’amico di Rossini, morto il 6 aprile 1817[45]; per cui la cantoria e l’orchestra che [62] servì a modello a quelle tutte chiesastiche e teatri di Italia[46].
Perotti Lodovico continuò la serie degli abili maestri alla cappella, col vice-direttore Don Carlo Faggi, e s’ingegnò di raccogliere gli elementi delle antiche soppresse scuole di Venezia in una Congregazione detta di santa Cecilia, che non potè più aver vita col precedere de’ nuovi grandi Istituti d’altre città d’Italia e delle capitali europee.
Quindi un coro di fanciulli della povera classe circondò il Buzzola nella insigne patriarcale cappella, e pochi privati docenti insegnarono a pochi scolari. Concluderemo fra poco della Scuola veneziana coll’attualità di suo stato.
[63]
Mentre di quando in quando qualche volonteroso richiama l’idea di ricostituire a Venezia una scuola, il veneziano Manzato ne conduce prosperamente una a Vicenza, ove in vero elementi non mancano. Nella gentile città, anche tuttora di cultori del canto tanto feconda[47], ad una folta schiera di maestri, musicisti ed artisti, stanno a capo Francesco Canneti e Giuseppe Apolloni benemeriti al teatro ed al tempio. Domenico Sbabo e Andrea Donà battono alle cantorie gloriose del Vicentino e del Grotto.
Nella patavina cappella del Tartini, dello Stradella, e del Calegari, Chiocchi Gaetano, l’egregio fattore di violini fra i custodi di quest’arte italiana, diresse fino a questi giorni in cui morì (31 agosto 1872). Melchiorre A. Balbi conta un’antica serie d’allievi cantori. Girotta regge una nuova scuola corale. Luigi dott. Farina, l’ab. Canal, e il cav. Balbi predetto (inventore d’una nuova notazione), scrivono di cose musicali.
Verona, le cui arie danno sovente di belle voci all’italo canto, si dolse della perdita d’abili insegnanti, per la morte del m.º Foroni e dell’artista Conti, e per la partenza di Pedrotti, l’autor della Fiorina; ed ha attualmente l’istituto filarmonico degli Ansioni, Paolo Bombardi e Alessandro Sala alla privata scuola, prete Sante Aldrighetti alla cappella.
A Trento, Antonio Micheletti nei canti corali, pei quali scrisse anche un breve metodo (Bolzano 1871), educa quegli italiani come conviensi in sulle porte delle città tedesche della corodia tanto cultrici.
[64]
Ad altro confine d’Italia, la arcivescovile cappella Friulana illustrata recentemente dal Comincini d’Udine, dal Tomadini di Cividale, e da Leonardo Marzona di San Daniele, è diretta dal non meno valente prete Giambattista Candiotti. Anche un Vieri Adamo d’Arezzo insegnò in Udine.
Nella vicina Gorizia, una scuola musicale fondata, nel 1854, avea Carlo Mailing maestro pel canto.
La scuola Torinese, che dai primordi del secolo ricorda Pugnani, Radicati e la Bertinotti, col Liceo cui appartiene è decaduta. Ebbe non pertanto, Alari Adamo, e il Demacchi che ne tentò la ristaurazione colle scuole serali cantanti. Ebbe le celebri cantatrici A. Zoja e Teresa Sasso di recente perdute; ha il Bernacovich, il Pedrotti, Corinno Mariotti, e Stefano Tempia.
A Genova, patria di Paganini e Sivori, v’ha men penuria di maestri che di cantanti: nominansi, Emilio Bozzano, Sanfiorenzo, Bossola, Lavagnino, Cordiali, Denina, Grimaldi.
A Cagliari G. B. Dessy, diede molti spartiti, a speciale onore della Sardegna.
Lucca, che fin dai tempi della sua repubblica illustravasi della Confraternita di Santa Cecilia, ove i maestri Boccherini, Manfredi, Romaggi, ebbero seggio, e che tuttora nel settembre d’ogni anno grandiose musiche appresta, fondò a cura di quel Municipio il nuovo Istituto Pacini, v’ascrisse il maestro Andrea Bernardini, e s’attendono i frutti. Intanto per l’istituto medesimo e per la cappella, ammaestrano a’ bei trovati, il suddetto Bernardini da Buti, Michel Puccini, Carlo Angeloni autor dell’Asraele, ed Augusto Michelangeli della Comunal scuola di canto istruttore.
Trassero tarda età fino a questi giorni e benemerenti [65] della Pistoiese cappella, Luigi Gherardeschi, e Giuseppe Pillotti, del quale sono allievi Gelli e Mabellini.
Nella scuola di Parma, fondata già da Agostini illustrata da Paër, attualmente insegna Lodovico Spina, e fra gli altri un Giov. Bolzoni le fa onore. Di là un Tommasi passò a istruire i cori teatrali a Vicenza.
A Modena, Alessandro Gandini, che era succeduto al padre suo, Antonio, nella cappella ducale Estense, lasciò morendo, nel 1871, anche buoni lavori teatrali nelle opere Demetrio, Zaira, Isabella di Lara. Ivi pure Venceslao Zavertal si fece insegnante.
La scuola di Felice Moretti a Pavia prende anima alla gloria del suo grande allievo Gaetano Fraschini.
Cremona, che diede tanti maestri ai primi Conservatorj, e quindi quei rari artefici che agli strumenti d’arco seppero meglio dar quasi voce che imitare possa l’umano canto, seguì colla scuola illustrata da altro Ruggero Manna autor di Jacopo da Valenza, e Preziosa.
Distinguonsi i maestri Abele Barazzoni e Lovati Cazzulani a Como[48]. Raffaele Luccarini e Gaetano Braga, autore di Reginella, a Lecco. Morì da poco a Bergamo Bort. Radici.
Trivalsi insegna a Brescia, dove il celebre violinista e maestro Antonio Bazzini compone le nuove Sinfonie cantate per la Società dei Concerti da cinqu’anni fondata nell’eroica sua patria, quasi a mostrare che anche dove maggiormente rifulge il poter musicale, l’anima sempre è dovuta all’ispirazione ed al canto.
Perugia attende nuovo lustro al suo Istituto dal nuovo eletto maestro Agostino Mercuri, or chiamato [66] a comporre la prima opera pell’aperto teatro della vicina Repubblica di San Marino[49].
Loreto colla sua famosa cappella dai 12 Cantori fornisce pure maestri ed artisti ad altre regioni, alle scuole e ai teatri. Vivono ancora in essa i metodi e le composizioni magistrali di Luigi Vecchiotti, che legava morendo a quella Basilica tutti gli studj suoi (1863), ora continuati dall’attuale maestro Amadei.
Nell’antico asilo del sacro canto, in Assisi, dove insegnarono il Francesco, il Rufino, il Boemo (maestro a Tartini), e anche dopo che Benedetto XIV, nel 1775, levando la scuola all’onore di Cappella papale, veniva a bandire dal suo sistema musicale ogni altro istrumento dal violino, violoncello ed organo in fuori, eppur diede il classico contrappuntista Mattei (maestro a Rossini), ivi tale scuola è degnamente rappresentata ancora dal minorita Alessandro Borroni discepolo del Pesarese e di Mercadante.
Da Fossombrone, il bravo Enrico Panicalli intende specialmente a coltivare e generalizzare il canto tra i fanciulli, ed offre agli Asili d’infanzia geniali e nobilissime esercitazioni.
Ben conduce una scuola a Cento, Leone Sarti anche distinto violinista.
A Roma, per lungo tempo la scuola rimase stazionaria sui corali ormai insufficienti, e stanca su quelli purtroppo corrotti.
Non pertanto dalla cappella Vaticana risuonano ancora concerti soavi d’una ventina di voci espertissime, condotte attualmente dal maestro Meluzzi.
Quella di santa Cecilia non è più che una accademica [67] mostra in onoranza de’ socj vaghi del nome dell’illustre donzella romana auspice ai canti. Ora però che di Real titolo s’appella, diretta dal cav. Alessandro Orsini, accenna a risveglio, ripigliando intanto i privati settimanali esercizj, i vocali agli istrumentali alternati.
Possa la trasformata Roma rinnovare le glorie della sua scuola antica e delle sue provincie, e ristorare anche quell’arte, tanto meno immobile quanto men positiva, e che mirabilmente si presta alla trasformazione.
Ne siano auspici, la brava Orsola Aspri maestra di canto e compositrice che sciolse il primo Inno al Re d’Italia (1870); Filippo Marchetti del Ruy-Blas, Libani della Gulnara, e Decio Monti della Graziella, inventori; Pietro Terziani di nuovi cantici sacri; Rotoli, Bertini, Sgambati, Jacovacci, Sangiorgi, D’Este, Teresa Rosati, Erminia Tecchi, de’ corali concerti benemerenti; Luigi Mililotti che da tempo apprestava il canto Te Dio lodiamo, a quattro voci, col rimbombo del cannone, pel trionfo nuovissimo in Campidoglio. Ma furono invece a migliaja e libere le voci che benedissero alla prima comparsa del Re galantuomo liberatore: l’inno coi feroci accompagnamenti attenda le nuove vittorie sugli stranieri nemici[50].
[68]
La cappella Petroniana, non men di quella di san Pietro, gloriosa del suo passato, sentì già l’impulso delle istituzioni che si risvegliarono accanto ai depositi della sua scienza[51].
Al Liceo di Bologna non mancano valenti che speculano sull’orme de’ padri Martini e Mattel; vi operò lodevolmente il direttore Baretta, che vedemmo ritirato in Milano a scrivere di cose musicali; e Federico Parisini che in oggi v’insegna il canto corale, si mostra egregiamente fornito di quella scienza non disgiunta dalle eleganze che i bolognesi cantori appresero dal Bernacchi[52].
Ma in quella scuola dove in auree cifre sta scritto — qui Rossini entrò discepolo e sortì principe — si dimentica forse che questi, negl’ultimi suoi momenti, finì ripetendo: Melodia Melodia!...
Non importa sotto qual forma; ma sempre grazia e melodia, che sole possono piacere in ogni tempo e sott’ogni costume, e senza le quali il progresso non potrà raggiungere il bello.
[69]
Le splendide tradizioni e un’attitudine innata e speciale ne’ bolognesi mantengono tuttavia vivo il culto della bell’arte, onde al suo decoro concorrono spontaneamente, anche fuori dalle chiostre particolarmente alle scienze dicate, e il popolo e il patriziato.
Di questo, mantiene il vanto Antonio Sampieri dei conti di San Bonifacio, che s’impiega specialmente allo studio di quelle espressioni che nella serenità religiosa e nella rassegnazione della preghiera trovano non men facile ajuto di quello che la profana musica non trovi nel dipingere le varie sensazioni della vita materiale ed il contrasto di tante passioni.
Chi si dà al sacro canto porge nobile eccitamento a studiarne le arcane maraviglie, e concorre a tenerlo in onore quanto si deve, e più che dai superbi od ignari purtroppo non facciasi.
Qui gli altri valenti maestri, Busi, Antonelli, Capanna, Brunetti, Gattinelli, Adolfo Crescentini, Pietro Romagnoli, Dom. Lucilla.
Giova poi ricordare che il sig. Casarini, già sindaco di Bologna si fece iniziatore di un gran centro artistico musicale per l’esecuzione di tutti i grandi capolavori di tutte le scuole, secondo un criterio storico e cronologico da esaurirsi in un numero determinato d’anni, nella basilica Petroniana per le sacre composizioni, e per le profane ne’ teatri, dove ha special sede quel preclaro direttore che è Angelo Mariani.
Nell’isola estremale d’Italia, dove le traccie dell’arabe canzoni non sono distrutte interamente, dove il genio di pura itala melodia in Bellini rinacque, e il sole della ispirazione non manca, il fior del canto pur tarda a sviluppare.
[70]
Non pertanto a Palermo mantengono le illustri tradizioni i De Carlo[53] e i Platania.
All’altro estremo, dove Dante ponea il confine del nostro mare, là presso del Quarnaro — che Italia chiude e i suoi termini bagna — a Trieste, la istituzione di canto ecclesiastico ed accademico, promossa intorno l’anno 1850 da Luigi Ricci, e bene sperimentata da prima, pel falso sistema di voler ad ogni tre anni rinnovati gli alunni che formar dovevano la cantorìa, cagionò ruina a sè stessa e precoce morte all’affaticato maestro. Il suo allievo Giuseppe Rota imprese a stento di restaurarla.
Ma accanto a quella di san Giusto prosperava altresì quella Civica, retta da Francesco Sinico, continuata poi in adozione privata da Sinico Giuseppe figlio; Scuola popolare, che a quest’ora diede già buon numero d’artisti e ben riputati alle scene[54].
Guido Cimoso vicentino, l’autore del grande studio Armonico religioso, la Distruzione dell’Universo, Trieste 1864, ha cooperato alla coltura e all’amore della buona scuola.
Altri bravi maestri e compositori, quali, Zingarle, Buccelli[55], Mazza, Lionello Ventura, De Grandi, sorsero in quella città; Luigi Cortelazzi ed altri negl’Istriani dintorni; Teodoro Smitter già distinto baritono e compositore, morto ne’ primi del 1871; Domenico Desirò che passò all’educazione dei Cori in Padova; fanno tutti testimonianza della bella inclinazione [71] dalla scuola Ricciana ridestata, e d’ottime sementi in buona terra deposte.
Altre terre italiane videro nascere più o men fortunate o durevoli simili scuole popolari, unite talvolta alle serali, per estendere anche agli artigiani il mezzo d’impiegar nobilmente le vigorose voci e salvarle dai frastuoni e dagli oscuramenti delle taverne: e bene intendono i Municipj se le sorreggono, come quello di Siracusa fondò e mantiene la propria Scuola serotina di canto, affidata a Bertolini Ferdinando (1870).
Milano, fin dal 1867, colle sue Scuole comunali ne avea dato l’esempio, nominandovi ad insegnante Eugenio Torriani, che le fornì tosto d’un corso elementare pel canto corale.
Vedemmo l’estensione e i miglioramenti che tali scuole esigono ancora per dirle veramente giovevoli, e come il Varisco s’adopra al loro perfezionamento.
A Venezia tale istituzione si dice esistente. Fu chiesto infatti un maestro milanese, Manfredini a fondarla; e dà qualche segno di vita nelle scuole elementari, ma quasi a puro servigio delle mosse ginnastiche.
Dal 1866 coll’acquisto di libertà, que’ cori d’artigiani che allegrano le calli e le piazze nelle sere carnovalesche, portando il nome tradizionale di cori de’ pittori; perocchè fin d’antico, nelle scuole dei veneti famose in quell’arte, allievi e maestri poeticamente passassero dalla tavolozza alla musica.
Anche durante la schiavitù che vietava ogni società e riunione, pure una larva di que’ cori erasi mantenuta.
Alcuni artisti e compositori, vaghi delle tradizionali [72] canzoni, quali: Duval, Tonassi, Bertaggia, Tessarin, Cestari, Galli, Aloysio[56], Malipiero, informarono a que’ canti le rozze voci, e l’espressivo dialetto dei gondolieri.
Giacomo Bortolini ora conduce il coro dei pittori, ricostituito sotto il nome di Compagnia nazionale di canto della Laguna per cui compose e pubblicò una raccolta di nazionali canzoni. — Acerbi istruisce i cori teatrali. — Nicolò Coccon sostituisce alla direzione dei fanciulli e cantori di san Marco il perduto Buzzola.
Antonio Buzzola di Adria, era succeduto verso il 1846 al bravo maestro Perotti, per ultima proposta di questo medesimo che lo avea avuto ad allievo e compagno nella cattedra del Furlanetto.
Erudito da viaggi, pratico de’ varj stili musicali, già istitutore nel canto delle reali donne di Prussia, e direttore nel teatro d’Opera di Berlino (1843), il Buzzola maestro primario alla metropolitana basilica di san Marco, e duce de’ cori veneziani, compositore di riputati spartiti teatrali e di ottime salmodie[57], morì [73] nel marzo 1871; lasciando una collezione estesissima di sue canzoni sopra temi in dialetto veneziano, onde per lungo tempo echeggieranno ancora le lagune del suo patetico genio, e l’arpe delle straniere cantatrici ripeteranno altrove le veneziane memorie, come dovea il teatro per di lui opera rimasta incompiuta, dar musicato il linguaggio gentil del Goldoni.
Quel linguaggio specialmente poetico e musicale, creato prima da un popolo per istinto cantore. Egli è quello che canta per naturale vaghezza e non per dettame o imitazione.
«A Venezia, ebbe a dire l’amico Fapanni, canta il gondoliero all’unisono della remigata; canta il marinajo ammainando le vele; canta il pescatore nel gettare e raccogliere le reti; canta la donnicciuola infilando perlette seduta all’uscio della casa; e la giovinetta nello stendere sull’altana i pannilini risciacquati, modula pur essa le canzoni cognite al suo cuore.»
Che parlo io dunque di teoriche scuole e di maestri al popolo di Venezia che canta sempre a sua posta?!...
— Sulle adriatiche lagune, io stesso posi mente talvolta al popolano che non medita ed opra, a quello spirito semplice e forte che alla verità prima più ci ravvicina: lo contemplai perfino in quei momenti ch’egli tormenta nell’ebbrezza del vino lo spirto dell’uomo, per rinvenire sollazzo alla stanchezza dell’animale; e dal suo delirio intesi levarsi qualche suono, tenuto in cantilena di flebile lamentanza, e in compassione [74] della sua donna, gloriandone gli atti e le parole. Ho sentito l’ebbro svelare i segreti e le tenerezze nella poesia del suo cielo; e rammentare, come in pianto, gli affetti della generosa compagna: e nell’intervallo d’una lunga cadenza, i campi di acque ripetere sotto alla notte le parole della donna del povero, quasi ne significassero l’amore all’universo. Mentre quella donna nello stretto di meschine pareti prolungando una sforzata veglia, sopra a interrotti infantili vagiti, piange, e canta anch’ella, in mesto amor discolpando il traviato sposo.[58] — Chi potrebbe raccogliere gli effluvj di que’ lamenti?.. Come le melodiose note dei cantori del bosco, si perdono nelle armonie del creato.
Abbiamo toccato della passione ingenita dei Veneti, da antico profumata in loro quasi orientalmente, pel contatto colle poetiche terre lungo tempo prima che ad altri popoli per le Crociate fossero note. Vedemmo quasi indipendente e spontanea avanzata la scuola de’ suoi compositori e cantori, e men degenere ai tempi madrigaleschi. Ed allora che la semplicità e il piacere riformavano fra i Fiorentini il barocchismo delle astruserie e delle straniere importazioni, il genio a Venezia tendeva alla stessa meta.
Lazzaro da Curzola, canzoniere del 1500, opponeva ai madrigali le sue facili Frottole, che un secolo dopo, per le canzoni di Paolo Briti, non erano ancora dimenticate.
E quando i compositori sospendeano di somministrare nuovi canti al popolo, questo da per sè [75] esprimeva musicate le espressioni de’ suoi affetti di patria e d’amore, come ai tempi delle guerre contro l’Ottomano (1571), e del clamoroso interdetto di Paolo V. (1606); o ricorrea all’antiche rime e tornava a melodiare — Intanto Erminia fra le ombrose piante.
Successivamente al ricomparire di eletti trovatori s’attagliava il popolo ai canti da essi nuovamente proposti; quindi le canzoni musicate dal Lamperti, dal Perucchini, dal Veluti sempre nel facile modo, nel tenero idioma[59].
Anche un Angelo Colonna stimato suonator di violino a Venezia, al fine del secolo scorso, melodiava deliziose canzoni; ed è sua l’aria in forma di barcarola — La biondina in gondoletta — che divenne tanto acclamata, e nell’alta società, e fuor d’Italia fu cantata da Pacchiarotti, dalla Todi, dalla Sacchetti e dalla Catalani. A quei dì pure, un giovinotto barbitonsore, Domenico Dragonetti, associatosi con una donzella popolana, la Brigida Banti, e con qualche altro che toccasse il violino, avea formato uno di quei musicali drappelli, che anche oggidì s’odono per Venezia; e moveva, primo forse, per le contrade, egli col violoncello, e la Banti con voce d’angelo. Vennero poi in tanta rinomanza, che dalle callajette di Venezia salirono oltremonti, chiesti a concerti nelle sale e ne’ teatri.
La Banti inaugurò il nuovo teatro la Fenice nel 1792, assieme a Giacomo David e al Pacchiarotti, coll’opera di Paisiello, I Giuochi d’Agrigento.
Di là tanti girovaghi ch’ebbero la lor fama, e che destarono muse gentili alle modulazioni volte per [76] istinto a’ soavi concenti, a quelle canzoni che nel popolo son l’effusione di anime vergini[60].
Finchè il patrio risveglio rifuse coi dolci idilj le forti canzoni; e cogl’aspiri nazionali, e le elegie del rinnovato servaggio, e gl’inni della riscossa corroborarono di nuova impronta i popolari rispetti le spontanee vaghezze de’ moderni cantori che, lungo le sponde di Venezia e di Napoli, per l’invenzione melodica, non abbisognano di maestro.
«Le melodie caratteristiche di que’ popoli sono in piena armonia con quel cielo tutto amore che eleva l’anima a sublimi concenti, che infonde nel cuore dei suoi figli quell’alta poesia, la quale si apprezza col sentimento e non si giudica colla scienza; poesia esistente nell’animo di quelle nature la cui vita sembra un canto immortale, dolce, melanconico come una rimembranza, come un eco che dorme ne’ boschi e fra monti, e che mormora appena, fino a che non lo desta il grido delle passioni e del dolore[61].»
Declinarono appunto i Conservatorj, divenuti che furono quasi istituti meccanici, innanzi a quello sviluppo i cui frutti maturarono presto sotto il sole delle rivoluzioni.
Per ricondurli a nuovo splendore, e riattendere un utile dalle loro scuole, gl’intelligenti proposero di provvedere — a un corso di tecnici studj compiuto in ogni sua parte, che non sia più un vago insegnamento, frazionato, e senza intento bene determinato — ad [77] una istruzione che valga a togliere la musica dalle basse regioni della perizia unicamente meccanica e dagli intenti vani o mercantili, per trasportarla in quelle dell’arte vera e della poesia — allo sviluppo e perfezionamento delle attitudini naturali degli allievi — alla educazione del gusto ed al guadagno di tempo, per una letteraria istruzione[62]. —
[78]
In onta però alla decadenza de’ più antichi ed illustri Collegi di cantori, siccome il bel genio non potè nè può dipartirsi dalla terra di suo speciale retaggio, non poche scuole fuori di Italia ricorsero ancora a noi per ricercare il retto cammino, animate ancor da una fede, memore d’un passato incontrastabile e d’un presente non interamente perduto.
Nelle straniere scuole reso pure insufficiente quell’insegnamento pratico mantenuto dalle Maîtrises della Francia e del Belgio, quello della Abbadia di Scheussenzied, quello della scuola detta della Croce di Dresda, di San Tommaso in Lipsia, benchè tutte lodatissime così per la copia come per l’eccellenza dei frutti; e sentito il bisogno ivi pure di emancipare ormai l’istituzione musicale da quelle scuole o conservatorj de’ passati tempi che dipendevano ovunque, od erano poste ai servigi di cappelle, di confraternite, congregazioni, o sodalizj religiosi, e lanciarsi con nuovo progresso nei più liberi campi aperti col tramonto di que’ collegi dal genio musicale italiano; con risoluto abbandono più che non avessero usato in cospetto alle rivoluzioni operate dai nostri sommi maestri delle cappelle e de’ conservatorj, tutte le scuole si volsero ai potenti che disertavano dalle viete pratiche, ai nuovi geniali nomadi del bel canto.
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A Parigi, ove con Cherubini s’accolse la riforma, e la nuova anima del movimento musicale francese, sorse quell’Istituto di cui il siculo maestro fu prima gloria. E come al tempo del Cherubini si regola ancora; chè poco o nulla fu innovato, nè maggior progresso si nota sotto l’unico maestro che l’italiano rettore ebbe a sostituire.
Daniele Auber di Caen fu questi, allievo, e successore nel 1824 del primo maestro, i di cui dettami non fece che seguir fedelmente, e sulle basi puramente italiane giunse alla bella fama, per cui l’autore della Muta di Portici fu riverito. E come perdita di nostro compositore, nell’epoca della fatal rivoluzione di Parigi (11 maggio 1871), lamentasi la morte di lui che era nato il 29 gennajo 1782.
Il nestore de’ maestri francesi aveva poi subìta più d’ogni altro, e fino agl’ultimi anni di sua vita, la Rossiniana influenza.
Della quale risentesi il vivente Bonnheur, e Thomas seguace di tale scuola, e che succede ad Auber nel Conservatorio.
Non ne era stato esente anche Herold, ispiratosi in Napoli al tempo di Murat, e che toccava l’apice colle due partizioni Zampa e Pré-aux Clercs, ultimo lavoro di lui morto il 19 gennajo 1883, appena quarantenne.
Se v’hanno scuole in Francia che abbiano men risentita la influenza italiana, sono quelle del canto leggiero e veramente francese, di cui Charlot, vissuto fino al 1871, fu all’Opèra Comique primario maestro.
Ma questo non fece che confondere e corrompere la buona tradizione, trascurata sempre più dalla moda. Ragion per cui in oggi (settembre 1872), nella Francia [80] sconvolta e repubblicana si deplora la perdita di continuatori della bella scuola, specialmente nei compositori, i quali coi lor canti e pei canti medesimi sono i primi naturalmente a formare gli esecutori; e s’invoca la venuta di nuovi creatori di cantanti, con una tal quale ingenuità di confessione non disgiunta dalla connaturale jattanza, ch’io non posso fare a meno di riportarne alcune parole testualmente.
«Le répertoire de l’Opéra, toujours le même depuis bientôt un demi-siècle, ne se transmet plus de chanteur à chanteur; les grands maîtres parmi les interprètes se sont tous depuis longtemps, et les chanteurs nouveaux ne savent plus comment se diriger dans les oeuvres du passé. Aussi plus nous nous éloignons du temps où les grands compositeurs défendaient pur eux-mêmes leurs ouvrages, plus l’exécution faiblit et elle faiblira jusqu’au jour où elle deviendra une question d’art vocal, d’archéologie musicale.
On se demande souvent comment parer à cette déchéance de l’art du chant, qui s’accuse de jour en jour. Ne vous en prenez pas au Conservatoire; le Conservatoire ne fait pas des chanteurs, il les prépare. (Les traditions sont là). C’est le compositeur qui fait des chanteurs; c’est lui qui s’impose à eux, qui leur donne la direction, qui leur indique les effets, qui les oblige à être les interprètes de son oeuvre: il est leur meilleur maître, leur guide infaillible, et après ce grand travail des répétitions il ne leur abbandonne son oeuvre en face de public que quand il est sûr d’eux. Rossini a été à lui seul un conservatoire; et il a fait deux générations de chanteurs. Auber a créé des artistes du chant élégant, fin, spirituel comme sa musique. Le talent tout italien de [81] Levasseur s’est transformé sous la direction de Meyerbeer.
Les comédiens se forment avec les leçons de l’auteur; les chanteurs sous la direction du compositeur (l’auteur fera son chanteur); le savoir, le goût et l’intérêt du compositeur vous répondront de la valeur de l’exécutant. Mais où est-il cet auteur qui deviendra souverain maître de chant de l’Opéra?
Si glorieuse qu’elle ait été, cette gran scène de l’Opéra mourra si l’on n’en renouvelle pas les éléments, c’est-a-dire les oeuvres et les chanteurs: l’Opéra italien est bien mort, et pourtant quel répertoire et quels interprêtes n’at-il pas eus!...
Il serait pourtant temps, de se mettre en quête et de faire proclamer aux quatre coins du monde, par la voix des hérauts de l’Opéra, que notre Académie républicaine de musique demande des compositeurs; qu’ils viennent, come sont venus par le passé Spontini, Rossini, Meyerbeer, Donizzetti, Verdi; qu’ils se pressent, sans cela nous allons mourir d’inanition.»
Così M. Savigny critico teatrale di Parigi, che dal giusto rimpianto dei sommi italiani ristauratori anche del canto nazionale francese, precipita alla disperata sentenza che la italiana opera è morta!... Peggio per lui! Se può mai valere quel grido più che non abbia meritato quello che facea dell’Italia la terra dei morti! e più che non sia stato veridico il famoso Jamais! a Roma.
Nelle osservazioni della stampa francese, rispetto al canto attuale di quella nazione, in cui già si comprende per gran parte anche quello delle regioni finitime, giova piuttosto por mente alla rassomiglianza e quasi rinnovazione dei lamenti e della disperazione [82] di Rousseau intorno ai canti e cantori del suo tempo; osservazioni che sembrano in oggi venute a riconfermare le schiette confessioni di quel filosofo, e a suggellare la verità che, pel canto, all’Italia si dovrà sempre ricorrere.
Non fu poi celebre italiano e maestro che a Parigi non fosse invitato. Di tale concorso di genj in quel centro, fu fatto merito talora allo spirito francese, vantandone o la imparzialità da cui fu detto ch’egli trae la sua forza, o l’elevato ecletismo che accetta e s’appropria quanto è di buono, dovunque venga senza inquietarsi della sua origine, o l’ottimo gusto alla cui sanzione il genio si volle ricorso; altre volte invece s’attribuì quel vanto alla vaghezza di protezione, alla pretesa d’incivilimento, alla boria di possedere tutte le rinomanze, alla leggerezza delle novità; più spesso, quel forastiero concorso fu trovato rispondere all’istinto mutabile della nazione, alla sterilità natia di veri genj, all’aureola della migrazione, alle lusinghe infine del lieto vivere e largo.
Fatto stà che Lulli, Fantoni, Duni, i Rossi, Piccini, Sacchini, Spontini, Cherubini, Donizzetti, Rossini, Carafa, Ricci F., e Verdi, e gli stessi Mozart, e Meyerbeer fecero arrossire secondo alcuni, e secondo altri fecero andar fiera la Francia.
Ultimamente ancora, a quella Accademia delle scienze, il gran premio al Concorso di Francia lo riportava il nostro prete Tomadini, maestro di Cividale (Friuli), di cantici sacri esimio fattore.
Dell’antica scuola poi di bel canto del Mengozzi, tanti altri italiani rinnovarono gli allievi a Parigi, che apprezzò fino a questi giorni un Antonio-Matteo Ottolini Porto, e un Francesco Del Sante, di fresco [83] perduti[63]; i Ronzi, associati ai nomi di riputatissime allieve[64]; il Tempia di Torino, ed il Viannesi. Michele Carafa illustre soldato e compositore per oltre 50 anni istruì le armate di Francia reggendo il Conservatorio musicale militare a Parigi[65]. Muzio milanese e il Dami dirigono ancora quel teatro italiano.
Per molti anni anche Giuseppe Persiani, marito alla celebre cantatrice di questo nome, e compositore di varie opere, insegnò in Francia, e morì a Ternes, in agosto 1869.
Al Conservatorio di Colonia il prefato Marchesi, maestro di canto e di lingua e letteratura italiana, si adoprò attivamente anche cogli scritti e con pratiche regole di sua invenzione a restaurare la buona scuola ai cantanti.
Similmente il dottor Bennati aveva operato a Vienna fin dall’anno 1831, quando dopo l’undecimo Congresso medico tenuto in quella capitale, per cui scrisse, come vedemmo, sull’organo vocale, ivi rimase e fondò una sua speciale scuola di canto.
Ora a Vienna, la Marchesi moglie al succitato professore, maestra a quell’imperiale Conservatorio, vanta fra le sue allieve le cantatrici di maggior rinomanza, quali la Sass, la Fritz, la Krauss, la Spitzer, la Murska, la Dory, la Leontieff, la Schmerhofsky, all’italiano canto egregiamente riuscite.
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Salvi fu l’ultimo della serie de’ nostri italiani a quel teatro e a quella Corte (1863).
A Dresda, nella scuola del parmigiano Paer, brillò il veneto Casorti Alessandro, celebre violinista, compositore e maestro, che ancor giovane, da esaltazione di mente spento, ivi nel 1867 ho compianto.
In Russia, dove i più rinomati cigni della maravigliosa scuola napolitana del passato secolo fermarono stanza facendo echeggiare d’insoliti accenti quelle fredde lande, ai tempi appunto che Cimarosa vangelizzava la melodia, e Galuppi v’aggiungea il calore delle veneziane canzoni, fu chiamato a Pietroburgo anche il celebre italiano Sarti, 1784, al governo della imperiale cappella.
E già nel 1788 la sua scuola era tale che fu solennizzata la famosa festa di Okzakow col suo Te Deum cantato da innumerevoli voci di cori russi, ai quali formavano base i colpi dei cannoni di differente calibro tirati a tempo e assegnati ad intervalli dalla corte del castello, sorpassando ogni effetto fino allora ottenuto nella capitale del Nord.
Nella scuola della capitale medesima regolò poi per varj anni il bel canto Federico Ricci; Pietro Repetto fu ultimo maestro di canto a quel Conservatorio; il torinese Mario, dal 39 al 50, vi sparse largamente le sue maniere; Cesare Pugni insegnò fino al 1870 in cui morì; il tenor Calzolari vi diffonde ancora le finitezze della sua arte; il maestro Fenzi le sue composizioni.
Al nuovo Conservatorio imperiale di Mosca fu chiamato nel 1868 il valente artista tenore Giacomo Galvani già allievo del Tadolini di Bologna; il quale se fu stimato in Italia perchè geloso delle dolcezze [85] del nostro canto, ivi ebbe vanto e libertà di fondare la sua scuola delle graziose modulazioni.
A Tiflis insegnò l’arte fino a questi giorni Giuseppe Catani fratello al rinomato buffo cantante. A Karkoff, Gaetano Grazia. A Odessa il basso comico Lodovico Cammarano, ivi morto nel 1869.
A Tangrog s’avvicendano maestri italiani. Anche in quest’anno, 1872, Fenzi e Antonietti diedero nuove opere a quelle scene.
A Jassy (Moldavia), Francesco Caudella già da molti anni fondò un Conservatorio, e lo diresse fino all’età sua d’anni 87, in cui morì (luglio 1869).
In Dalmazia distinguonsi i maestri Ravasio ed Alberto Visetti.
Svezia e la sua Corte, solo da pochi anni perdettero il bravo veronese maestro Foroni, autore dei Gladiatori, nelle terre Scandinave tutte rinomatissimo.
Celebre altrettanto per la scuola di canto in Danimarca è l’italiano Siboni, vivente a Copenaghem.
Nella nobile terra, sorella di sventure e di glorie all’Ungheria ed all’Italia, e alla quale Misckieviz lasciava morendo i suoi canti immortali, a Versavia, insegnò Achille Bassi, e il tuttora vivente Quattrini.
Il professore dell’Istituto musicale di Cracovia, Stanislao Mirescki, ricorre a Milano onde perfezionar sè medesimo nell’insegnamento, e si fa scolare al Lamperti pel canto; esibendo un nobile esempio che dovrebbero imitare tanti maestri[66].
Pel Conservatorio nazionale di recente fondato nella bella capitale della risorta Ungheria[67] chieggonsi [86] i nostri maestri. Mentre la nob. Albina Burky di Pest, maritata in Benedetti a Milano, continua quivi a studiare e compor canti ad onore del suo paese.
Non cessa nelle Spagne l’eco di Farinelli: un Baldassare Saldoni è al Conservatorio di Madrid, dove voleasi a direttore il Lauro Rossi; e al teatro Luigi Cuzzani.
A Valenza, Venceslao Agretti è ora compianto tenore insegnante e compositore.
Succedonsi gl’italiani maestri al Liceo di Barcellona.
Coppola, l’autor di Nina pazza per amore, illustra Lisbona.
Tradizioni d’un bravo maestro Pajago milanese rimangono ancora a Corfù.
Nelle terre dei Turchi, non disgiunte dalle memorie delle terre spagnole, dove anticamente Arabi, Persi ed Indiani, istrutti nel canto, veniano condotti schiavi, e mercè la loro scienza trovavano libertà e ricchezze, cui corrispondevano educando ad un culto quasi ignoto i feroci loro conquistatori, ogni traccia della diversa propaganda, nel passato secolo potea dirsi smarrita, o ridotta almeno alla confusa cacofonia di rumorosi strumenti.
In alcune Moschee soltanto conservansi, come tuttora, quella specie di declamazione accentuata proposta già da Khaldoun, dappoichè il Corano vietò l’uso della musica nella sua lettura, ed i puristi a malincuore tollerarono una larva di canto.
Non trepidavano più sotto alle lor bende le bramose mussulmane ai canti delle celebri Obeideh e Moleijem, che lasciarono impressioni profonde; della Oreib, che superava tutte le cantatrici dell’Hedjaz, [87] conosceva 21500 melodie, e la cui vita fu un mar di avventure; della Dokak, delizia alle corti di Aaron e di Mamoum. Le schiave non possedevano più quei facili maestri, quale fu Jésid-Haura di Medina, tacciato d’aver perduta la sua originalità per aver egli comunicato tutto il suo metodo alle schiave di Madhi (785 era volg.); nè eranvi più gli storici che di esse cantatrici e de’ loro successi si facessero banditori[68].
Le corti non andavano più superbe nè subivano più le influenze dei tradizionali cantori Jbraim, Jshak, Mocharik; come alla famiglia dei Barmecide rimase legata la fama del medinese Mabed-Jakthin; nè andavano più superbe di famosi musicisti quali Selsel (o Schaefen), ed Omer Meidani di Bagdad, detto il maestro delle espressioni dei canti (800).
I guerrieri non avevano più chi loro intonasse gl’inni, come ricordavasi Hind figlia di Otha fra i Coreisciti, e il giovanetto Olimpio de la Serra fra le Moresche schiere nelle Gallie irrompenti[69]. I potenti non aveano più da gettare a larghe mani l’oro per un Sobeir-Jbn-Dahman, od un Kalem[70], nè aveano a fremere, come Maometto satirizzato dal cantore Fertina figlio dell’arabo Katal, al quale sentenziò la morte[71]; e come Al-Mamoum califfo, che per levarsi d’attorno la bella e tremenda voce di [88] Mohammed-Jbonoh-Hares, voleva a questi mozzare la testa[72].
Ma queste non son più che memorie rimaste ai dotti ricercatori di quelle terre, e smarrite a quei popoli, come le loro sabbie portate altrove dai venti.
Non è a dir se poco o nulla rimanga fra le odierne tribù del deserto, di que’ memorandi improvvisatori arabi liberamente diversi dai mirabili loro confratelli detti Mohaddety, cantori storici, e dai Mousahher, o risvegliatori religiosi, che nelle asiatiche e africane terre giravano un tempo.
E nelle regioni Asiatiche occupate dai Turchi, ove si tennero gl’immensi cori di Davide e Salomone, dove Heman figlio di Joal co’ suoi quattordici figli cantava al Signore, dove furon maestri Azaph figlio di Barachìa, Ethan figlio di Ben, e Chenanìa; dove gli storici trovarono degni d’essere tramandati i nomi dei cantori: Zacharia, Oziel, Semiramoth, Jahiel, Unni, Eliab, Benaia, Maaséia, Mathithia, Eliphleia, Mikneia, Obed-Edom, Jechiele, Jdithum e figli, e tanti altri; dove anche i Romani scelsero i più periti che cantassero ai loro trionfi; ora che resta?.... pochi romiti stranieri salmodianti in fioco metro attorno una pietra di sepolcro.
Nelle Moschee di Costantinopoli, negli Haarem di Tunisi e del Cairo non rimanevano che pallide tradizioni.
Pei canti religiosi ricorrevasi ancora ai servi persiani, fra quali Aboul Jaafar ebbe la maggior rinomanza.
Per gli altri canti, che si distinguono in Turchi, [89] Scharki, e Turkmani, corrispondenti a popolari, eroici, erotici liberi, o accompagnati, inventori ed esecutori erano quasi tutti greci di Smirne e Costantinopoli, i quali poteano darsi vanto che uno della loro nazione, nomato Chiveli-Oglu-Zorgaki, avesse avuto l’onore straordinario di cantare innanzi al sultano Mahmoud.
Ma venne la lotta di libertà; seguì la emancipazione della Grecia dall’impero Ottomano; il progresso occidentale fa sentire la sua forza oltre i mari; ed ecco anche nuovi modi e nuovi canti s’impossessano delle regioni abbandonate dall’indigeno genio. Colla civiltà novella, Europa comunica anche i suoi tesori musicali, che lenti dapprima colle missioni, colle istituzioni di carità (Vedi retro pag. 87), coi saltimbanco, si diffondono poi rapidamente e signoreggiano colle scuole e i teatri.
A Costantinopoli, dove nel nostro secolo l’arte si svolse specialmente per l’opera di Giuseppe Donizzetti, fratello al fecondo compositore, innumerevoli italiani maestri di canto fiorirono. Fra questi, Zanardi, l’arpista veronese, e G. F. Foschini insegnarono lungo tempo e fruttuosamente in Turchia[73].
Vedremo appresso più recenti maestri e cantori in quella capitale, e i nostri nuovi trionfi nel Cairo.
Chè, colla propagazione dello incivilimento, perfin nelle terre più incolte e degenerate, concorrendo anche le scuole e i teatri, s’aumentano da ogni parte alla scuola madre le richieste degli allievi che le fanno più onore.
[90]
Io non appunto, come piacque a qualche statistico, il danno delle nuove erezioni di tanti teatri, alla smania eccessiva del divertirsi, ma piuttosto ne accordo il merito all’agitamento imperioso dell’umano progresso, e questo pure riguardo siccome dato di civiltà[74].
Nelle Indie, riguardo alle quali abbiamo notato per le origini del canto, non estraneo all’antica civiltà di que’ popoli il culto della musica, la quale riduceasi specialmente alla parte vocale, e quindi la conservazione religiosa dei modi consentiti al proprio linguaggio, il corso inesorabile de’ secoli ne avea nonpertanto distrutta quasi ogni traccia[75].
Nemmeno la Persia mandava più êco di quel grido che i suoi cantori aveano spinto, come vedemmo, in Arabia, in Turchia e in Babilonia, la cui storia ricorda perfino il medesimo governatore persiano di quest’ultima, Aunarus, che avvolto in muliebri vestimenta cantava fra i cori delle sue mense.
Gli scopritori penetrati in quelle regioni non trovarono di canto che il monotono lamento d’una oscura decadenza.
Seppero di antichi codici musicali, ma resi rari, [91] e abbandonati. Nè valsero a rianimare quelle spente teorie, le traduzioni e i commenti d’un Mirza-Khan, sotto il patronato di Aazem-Schah, che voltò in persiano i libri: Sangita Ratnakara, Ragarnava, Ragarderpana, Sabbavinoda, e Darpana, antichi trattati musicali indiani.
Le Sangita Damodara e Narayana trovarono custodia perpetua nelle biblioteche della Società scientifica di Bengala e Calcutta. Rarissimi maestri indiani attenevansi ormai a que’ libri divenuti di lingua morta.
Hussein-Houly-Khan forse fu l’ultimo a decifrarli in parte, nel suo nuovo trattato del 1830.
Ma le esecuzioni pratiche vocali nell’Indie odierne sono condotte ben diversamente che dalle antiche teorie.
Il carattere primitivo tutto alterato non sarebbe più riconoscibile. Perfino i canti delle ardenti bayadères non apparivano ormai che insipide cascanti salmodie[76].
Furonvi non pertanto alcuni meno infelici cantori i cui nomi dal cadere dello scorso secolo ci furono tramandati. Dillosock il più celebrato; la avvenente ed abile Chanam, Chorèe inventore delle arie dette [92] Toupphas; Soudaroung, Nour-Khan, Janie, Gholam, Roussoul, Charket, nomadi cantanti, regolati anche da accompagnamenti istrumentali.
Era la estesa importazione europea che dava agli antichi sistemi l’ultimo crollo. Era l’opera dirozzatrice de’ Missionarj nell’Indie che fondava nuove norme anche pei canti e le corodie. Nè vi mancarono artisti che della scuola italiana, nomadi o fisse vi piantarono le tende.
A Calcutta si successero maestri e cantori nostrali, ed un Guglielmo Mack, che adesso vi compone ed insegna, è un allievo della scuola napolitana. Anche la Varesi educò al canto gli abitatori di quelle regioni.
Panizza vi sperimentò una sua nuova Opera (1872).
A Simla, vicereale residenza del vasto impero Indiano, è il fiore degli allievi e degli amatori delle nuove musiche, diretti ordinariamente da maestri italiani.
Nell’isola Ceylan, si è stabilita quella Marras, il di cui padre Giacinto Marras, rinomato tenore e maestro compositore, dal settembre 1870 prese a percorrere le principali città indiane iniziandovi il gusto de’ classici concerti, già favorito a Madras, a Simla, nel Punjaub e a Magdala dal Vicerè lord Mayo, protettore della musica e dell’arte italiana nell’Indie, cui toccò morire assassinato nel gennajo di quest’anno 1872. Altri governatori accolsero il Marras, e lo invitarono, novello awelcome, a ritornare in quelle città, quando restituivasi a Londra dove rappresenta la pura scuola di canto italiano[77].
[93]
Un Gasperini insegnò canto a Java, e nelle Filippine.
In China, Ugo Pellico triestino, cantore baritono, fissando or son tre anni stabile dimora ad Hong-Kong, riusciva, mercè la non comune intelligenza e attività, a iniziarvi una scuola, e una Società corale inglese, dando così all’arte del canto, anche in quelle lontane regioni, lustro maggiore, dopo l’apostolato dei missionarj che a nuovo civilimento non ultimo il religioso canto vi hanno fatto conoscere. Ma il povero Pellico ivi morì ventiottenne (1871).
Nelle Americhe, dove i canti selvaggi commisti talvolta a lontane reminiscenze di modi indo-egizi furono sorpresi primamente dalle canzoni genovesi-spagnole, e dove non tardò ad insediarsi con natural supremazia il canto italiano, sia di stile drammatico che religioso, il nostro secolo diffuse il generale suo progresso e vi compì, dirò quasi, anche per la musica l’assimilamento europeo. Affrettò l’opera il facilitamento delle comunicazioni, e più frequenti i vangelizzatori del canto concorsero. Tanti là trapiantati finirono, ed ivi soltanto rimase la loro memoria.
Un Besanzoni Ferdinando veneziano fu maestro per venticinque anni in America, e giunse appena a morire in patria nel 1868.
Manzocchi Mariano napoletano tenne scuola di canto a New-Jork fino al principio del 1870, in cui morì. Antonio Biagioli bolognese, ivi pure finì d’insegnare a 76 anni dove altro suo compaesano, Giuseppe Sarti, già addetto ai teatri di quella Accademia, rinnovava la scuola, e ritornando in patria per ristorar la salute moriva a 39 anni (ottobre 1871)[78].
[94]
A Nuova Orleans fanatizzava col canto Amalia Garcia, quando colta da infelice amore si propinò un narcotico, si pose al pianoforte, e cantando finì (1871).
Il concorso degli italiani nel nuovo mondo, non disgiunto, è vero, dalla vaghezza di cercarvi fortuna, fu anche spinto peraltro da quello spirito di propaganda e dal bisogno quasi di trasfusione dell’arte geniale; per amor della quale potrebbonsi annoverare anche non pochi martiri in quelle ed altre lontane regioni. Basterebbe la sfida alle terribili morìe cagionate dalla febbre gialla fra i nostri artisti, cui tratto tratto s’aggiunsero le persecuzioni gelose agli europei.
Per accennare soltanto ad alcune ultime vittime dell’arte, segno la relazione sola di questi giorni, d’un egregio tenore, Melchiore Vidal, e della Concetta Rubini, periti pel morbo tiranno in Avana, e del giovane maestro Giov. Panormo assassinato a New-Jork.
Venceslao Fumi è maestro a Buenos-Aires. Luigi Delurie, marito alla Borsi, nel Chili. Da ben tredici anni, Lelmi tenore percorre quelle contrade. Un La Cecilia, già generale, v’impiega la voce baritonale.
Altri italiani in Avana, alla Accademia Ceciliana, ed alla Avanera, dove Lauro Rossi fu maestro e scrittore di sacre melodie; ed altri al Conservatorio imperiale di Rio-Janeiro. Anche alla direzione di questo, veniva chiesto e desiderato il Rossi, che nel Messico, fino al 1843, tanta fama acquistavasi, e di tanti buoni allievi arricchiva quelle regioni, che dicevasi dal popolo, a sommo suo elogio, bastar quel maestro per cantare anche senza mezzi organici[79].
[95]
Altri italiani in Australia ammaestrarono al bel canto dai teatri e dalle stanze di Melbourne e di Sydney, quali, il Neri, la Tamburini, ed or la Bosisio.
In Inghilterra, dove la istruzione elementare e lo studio dell’arte musicale non furono mai come adesso tanto diffusi, eppur sembra che non possano mai sorgere indigeni compositori forti da togliersi alle viete, continue, avvicendate cantilene, le sole ispirate da quel cielo nebuloso, e quindi avidamente gl’inglesi si volgono agl’italiani canti della vita[80].
A Londra, fra tanti italiani cantori e maestri, Tito Pagliardini riprese la scuola celebrata del Veluti e del Garcia; e fino al 1870 diresse ivi l’insegnamento [96] vocale della r. Accademia il prof. Adolfo Ferrari. Michele Costa è l’anima d’ogni vocale e istrumentale concerto; lo si può dire il padrone del teatro italiano Drury-Lane, dei concerti dell’Albert-Hall, del Palazzo di Cristallo, e di S. James-Hall e lo chiamano a Londra Conductor maximus.
Un altro campo di direzione e d’insegnamento rimase pure in Londra assegnato a Giulio Benedict alemanno, ma tale che sacrato tutto alla musica italiana, influenzò ivi a diffonderla e si può ascriverlo tra i maestri eccellenti di bel canto. Per tali meriti, a questo ed al Costa gl’inglesi non furono schivi d’accordare un onore raramente concesso, quello della nobiltà col titolo Sir.
Antonio Bottesini veronese, il prodigio dei contrabassi, e compositore di facile vena melodica, sostenne vario tempo in Londra il prestigio del canto buffo italiano coll’opera Alì-Baba, altrimenti musicata un giorno da Cherubini; e passò quindi con riconfermate scritture al teatro nuovo vicereale del Cairo, ove altro italiano Devasini è stabile istruttore dei cori (1872), ed anche un Taddeucci è maestro.
Il maestro Campana ed il Foli diffondono in Londra buona musica italiana da camera; così Tito Mattei, che fa ripetere in ogni stanza il suo romantico canto Non è ver — e Pietro Arditi i ballabili a canto, come il suo Bacio.
In pari tempo un allievo del m.º L. Ricci, Alberto Randegger, propagò colle composizioni e gl’insegnamenti le apprese maniere; ed il principe Paniatowski, già seguace onorario della scuola italiana, testè balzato dal seggio senatoriale di Francia, s’è reso effettivo maestro di canto fra la inglese aristocrazia.
[97]
Nè gl’inglesi, pur tanto gelosi delle cose loro, disdegnano d’accogliere con più o men favore tanti altri italiani maestri, quali, il Piatti di Como; lo Schira[81]; Pinzutti; Benvignani; Gaetano Masini; Luigi Golfieri, che diffondono il nostro canto popolarmente.
Chè, gl’inglesi non si lasciarono sfuggire mai le occasioni che l’arte o la politica loro offerse, e per la loro ospitalità liberale, non fu maestro o cantore italiano da cui non accettassero insegnamento.
Altre scuole straniere invece pretesero desse venirci in ajuto. Queste, e forse le più impotenti al nostro canto, ci proposero il loro, progredito se vuolsi, ma sempre strano, rubello, e alla nostr’anima incomprensibile, ingrato.
Esse vorrebbero dimenticare che un’Affabili ha preceduto Weber a Praga (1810)[82], ed un Gabrieli a Berlino (1790): che in quella capitale boema Luigi Ricci (di cui diremo altrove) fondò scuola e fece allievi ammirati. Giovanni Gordigiani di Modena[83], antico [98] maestro durato fino all’ottobre 1871, mantenne splendidamente l’insegnamento di canto a quel Conservatorio; mentre nella capitale prussiana la influenza operata da Clementi e Spontini non è ancora spenta, e le saporite canzoni del veneziano Buzzola si modulano tuttora a quella Corte[84]. Incancellabili poi le tradizioni lasciate a Vienna d’Austria, tra gli altri italiani, dal Mazzola, dal Sarti, dal Mancini, dal Salieri[85], dal Donizzetti.
Rinnoverebbero il ritornello iniziato dai musurgisti tedeschi al principio del secolo, contro il melodico compositore Felice Maurizio Radicati, torinese, violino alle corti di Torino e di Vienna; cioè: «Le menti italiane atte non essere a composizioni d’altissimo stile»; sfida peraltro che, rivolta al Ristauratore del Quartetto italiano, non osava ancora colpire i nostri grandi inventori di canti, contro i quali si mosse dopo il silenzio di Rossini soltanto.
Fu allora infatti che coll’altera pretesa di avere scosso il convenzionalismo della composizione con Meyerbeer, e d’averlo rotto con Gounod, insinuarono la modesta proposta di sciogliere dal convenzionalismo della esecuzione anche la scuola del nostro canto. Finzione, che vela un’audace arroganza, che cospira [99] a traviarci maggiormente, che tenta a diseredarci perfino delle nostre tradizioni gloriose sempre.
Di queste! che, «sono la base delle arti belle. Se Dio ha posta nel cuore d’alcuno la fiamma del genio artistico, le sole tradizioni possono tirarla fuori all’aperto e mantenerla viva. Se manca la sacra fiamma, dalle opere del passato s’imparerà almeno a fuggire le stranezze, e a cantare se non con nuove invenzioni, almeno con buone.» (Dall’Ongaro).
Cercar si deve il buon gusto artistico nel passato, non nelle nebbie dell’avvenire.
Che potevano imparar mai da quel maestro che confessa nella prefazione d’uno de’ suoi libri nebulosi:
«Non ebbi mai la fortuna d’esser compreso; nè i critici nè il pubblico ebbero l’intelligenza delle mie opere, nè del mio scopo. Eccettuati pochi amici, nessuno ha simpatizzato col mio sentimento, e ho dovuto riconoscere, dopo molte esperienze, che niente ho da aspettarmi dall’attuale generazione; è solamente per l’avvenire che io lavoro.»
La Cappella di Weimar, accreditata scuola della Germania, volle farsi prima erede di questo misterioso avvenire; fece l’incompreso Riccardo Wagner suo oracolo; fissò in lei il centro di attività alle mistiche consultazioni; il punto di partenza de’ suoi proseliti.
Ecco gli Avveniristi — che non hanno stima, nè cura dell’arte del canto, delle tessiture e delle possibilità di esecuzione vocale, che scusano il canto con un abuso di declamazione, e che questa accompagnano da una serie d’accordi dissonanti e discordanti, dissonanze non preparate e risolte, sovrapposizioni di tonalità e di segni ritmici...
Ecco il mago, riformatore de’ cantanti; che li [100] vuole — appassionati nelle parti drammatiche, indifferenti al trattamento delle arie, aridi nelle cadenze.
Che vuole il pubblico, accorso bramosamente per sentir cantare, meditante sui varj caratteri, e non inteso al bel linguaggio, alla grata voce dell’esecutore? —
Fremiti, monologhi, astrazioni incomprensibili; se spunta qualche cosa di bello, lo si dice melodico all’italiana, e presto sia spento. Gli effetti volgari si fuggano studiatamente.
Bando ai molli riposi che seguono alla voluttà della allegria; bando alle cadenze, alle toniche finali; che gl’italiani imparino a tenere il filo drammatico e musicale, lungo, continuo nel labirinto indefinito.
Per la comprensione, concorrino la volontà, la pazienza, le tradizioni, l’imaginazione, la lunga pratica, gli studj indefessi; chè l’arte è res profunda!...
Ecco i seguaci: «i Wagneriani hanno lunghi i capegli, scarmigliati molto, la barba lunga, prolissa, incolta, le unghie lunghe ed anche incolte» come i cadaveri viventi del Vascello Fantasma uscito dalla strana imaginazione del loro maestro.
Che questa roba produca soavità, e formi la bellezza di canto per gl’italiani?!
Edoardo Scurè, profondo analizzatore di un tal sistema, lo vede come una fantasmagoria, e fa di Wagner, in fin de’ conti, un visionario.
Eberle, direttore dei Maestri cantori di Wagner, vi s’immedesima ed impazzisce[86]!
Il pubblico italiano non senta più, e finalmente rifletta! Da quell’abbujato trarrà la luce dell’avvenire; [101] da quelle visioni la riforma; in quelle frementi a melanconiche declamazioni troverà la bellezza del suo canto!
Oh! venga a togliermi il genio di Rossini dall’incubo tremendo.
Venga pur egli, che, a detta de’ pedanti non ne sapea di contrappunto: ei che non ebbe il genio di Janacconi, nè i miracoli di pazienza di Ballabene, Giansetti, Soriano, del contemporaneo Raimondi, pur abili imitatori degli alemanni. Venga egli che era soltanto il gran colorista degli strumenti umani. Venga colla sua prima Grande Cantata del 1808, Il Pianto dell’Armonia, poi tramutata in scena delle tenebre nel Nuovo Mosè, tipo di grande concerto; venga colla ultima sua Petit Messe — dove al sentimento religioso di Pergolese, alla castità di Palestrina, egli anima d’un soffio ispiratore potente le vecchie e gelate convenzioni scolastiche del secolo XVI, apparecchia sorgente feconda di nuovo e di bello, raggiungendo effetti insoliti e prepotenti, che commuovono, esaltano, e fanno sclamare: Ecce Deus! —
Altro che avvenire! Il passato ha un valor vero e reale; ivi la vera scuola e la delizia del cantante! «È nel passato che lo spirito trova l’introduzione ai forti studj, la materia prima d’ogni scienza e d’ogni bellezza[87].»
S’accordi pure di ammirar nella musica le astruserie, le complicazioni, le stravaganze; ma queste non saranno mai mirabili e possibili al canto. In questo si potrà riconoscere e rispettare l’indole del genio nazionale, [102] se ne soffrirà le durezze, se ne onorerà le scuole; ma non si potrà lodarne le bellezze e permettersene il confronto col canto ad altri donato.
Una brutta fisonomia, se pur caratteristica, sarà sempre brutta, nè regge alla bella.
Lo conobbe Beethoven, e non fece che un solo tentativo; si tenne alle armonie, e restò magnifica la sua musica perchè non ardì corrompere il canto.
Mozart volle essere italiano, n’ebbe la forza, e vi rimase.
Errico Mehul avea mostrato di attingere alle pure fonti italiane la sua eleganza (1790). E Lesner, non meno che Weber, in quelle modificaronsi.
Hérold, solo imitando Rossini avea trovata la sua fama[88].
Meyerbeer, sebbene innovatore e abbastanza sviato dal vero cammino, ha saputo essere grande e ammirabile. Egli non ha voluto slegarsi dalle leggi della melodia; e non l’hanno compreso, o mentono, coloro che vorrebbero riporlo fra i fondatori della pretesa scuola avvenire, da cui lo istesso Wagner lo esclude e seco lui non vuol dividere il regno. Nè fu fondatore, perch’egli Meyerbeer stesso, dopo aver imitato per lungo tempo Rossini, non cessò di chiamare l’amico pesarese, divino maestro.
E sebbene, quando a lui venia meno la ispirazione di puro melodista, sapea ricorrere con tanta sublimità ai tesori della sua artistica erudizione, e ne usava in maniera tanto meno nociva quanto meno imitabile, [103] ei non per questo pretese di farsi profeta e di far schiavo ai suoi modi l’avvenire[89].
Se Verdi ultimamente imitò la scuola straniera, lo fece per dimostrare non essere a lui negata la vantata potenza; e fece quanto altri, ma rimanendo sempre italianissimo.
E in ciò s’accorda anche il dott. Filippi caldo di Wagner ammiratore.
Finisco infatti con questo anche al mio storico periodo intorno alle scuole depositarie del vero canto sebben decadute, e di quelle per storti fini di ridestata superbia vantatrici di riforma. E come ho fatto nel ricordare il contestato argomento della relazione del canto alla parola, finisco colla risposta di chiaro maestro, a non meno illustre critico e giornalista, zelante difensore delle straniere teorie.
In seguito allo Strambottolo per la posterità pubblicato dal maestro Lauro Rossi, essendo direttore del Conservatorio milanese, della cui pochezza, diceva il compositore, se ne può trarre tuttavia utili conseguenze[90], l’illustre autore del Domino nero e dei Monetarj [104] falsi veniva tratto a rispondere, anche per le stampe, al consigliere di quel medesimo Istituto ed allora direttore del giornale il Mondo Artistico, in questi termini «..... Filippi vede in questo povero Strambottolo una parodia ed un’offesa a Wagner ed ai suoi seguaci, mentr’io non m’intesi che mettere le basi d’una conciliazione fra il passato, il presente, e l’avvenire. Filippi va in furia perchè ho detto che la musica dell’avvenire si fabbrica.
Sissignore, e lo ripeto, la musica scritta malamente per le voci umane, e su di una traccia sinfonica preventivamente ideata, si fabbrica e non si crea dal compositore... Mi si punzecchia anche sta volta chiamando le povere mie cose composizioni di ritornelli. Io non intendo menomamente di mettermi in polemica con Filippi, ch’io non sono meno progressista di lui. La differenza sta, secondo me, che Filippi accetta ciecamente ogni innovazione, io invece vorrei che le innovazioni non distruggessero il pregio per cui la musica esiste, cioè la melodia[91].»
Quella melodia che Rossini difese, per difendere la scuola italiana, la scuola madre; per difendere la vera fede dai traviamenti del razionalismo; per salvare il vero canto dalla distruzione vandalica dei riformisti.
Questi, infatti, colla scomposizione del ritmo, colla violazione delle tonalità e delle naturali progressioni armoniche, col predominio degli strumenti sulle voci, coll’impiego delle voci al legamento delle combinazioni [105] e a servizio della materia, col loro genere declamato, ad altro non tendono che alla soppressione della melodia, alla distruzione del canto.
Lamentevole profeta, questo prevedeva Rossini, quando scriveva; «la testa la vincerà sopra il cuore; la scienza prenderà l’arte a rovescio, sotto un diluvio di note, quello che si dice istrumentale sarà la sepoltura delle voci e del sentimento![92].
Ancora un cenno sui provvedimenti che col risorgimento della italiana Nazione furono proposti, e in parte già sperimentati, al ristauramento anche del bel canto italiano.
Quello studio che gli antichi faceano procedere di pari passo colla letteratura e le altre scienze, che nella primitiva chiesa rimase a lato delle sue dottrine e progredì colla sua acquistata grandezza, quello studio che non solo nelle accademie e ne’ templi, ma in ogni umile villaggio accanto ai principj religiosi ed ai primi rudimenti letterarj spontaneamente venia coltivato; onde non v’era ministro che nella sua cura non ne dispensasse come poteva l’insegnamento, e non v’era paese che a decoro almeno della sua chiesetta non avesse teneri cultori, a poco a poco tutelato da leggi, regolato da metodi, compensato da stipendj; divenne parte del primario educamento in Germania, Svizzera, Inghilterra, Svezia, America; ed anche in Italia nel riorganizzamento scolastico non venne dimenticato.
[106]
Manifestossi allora purtroppo la maggior difficoltà per la introduzione e sviluppo di tale insegnamento, nel difetto de’ maestri, o nelle loro tendenze più inclinate alla scienza della musica, alle lusinghe delle composizioni, di quello che all’arte del canto.
Non mancarono generosi che pensarono subito al raddrizzamento d’una piega dannosa che rende sensuale o interessato un elemento alla libertà ed elevazione dello spirito.
Zelanti maestri, come vedemmo, porsero pratiche norme alla esecuzione de’ bei canti di camera e di chiesa.
Valenti scrittori vennero confortando i primi sforzi col valor delle osservazioni e degli esempj, suggerirono mezzi ritenuti più acconci.
La Storia che, come disse Sismondi, «è il deposito della esperienza sociale», emancipata dalle censure, aperse liberamente i suoi tesori.
La Scienza porse i suoi lumi alle ricerche dei Governi e degli educatori. Formaronsi speciali Congressi per discuterne gli argomenti, come in quello di Napoli, che fu il primo musicale italiano nel 1864.
I Pedagogici non ommisero proposte di pubblici elaborati e temi da svolgere su questo ramo educativo. Municipj elessero Commissioni per istudiare sulle volute riforme[93].
Nobili autorità tutelarono pratiche fondazioni, e ne seguono premurosi il loro incremento.
Parecchie Associazioni all’uopo fondaronsi in Italia, [107] e rivolte ad uno scopo meglio indirizzato delle antiche Scuole, Confraternite, Casini, od Accademie, costituironsi a educazione dello spirito, e a salvamento dello studio che è uno de’ più bei nostri vanti.
Non v’ha città ormai che sia priva di qualche bella colleganza di cantori e di filarmonici.
Quella medesima, che dalle private conversazioni delle sue nobili famiglie, nel 1590, diè tanto impulso alla rigenerazione del canto, la bella Firenze nel breve tempo che tenne la sede capitale d’Italia, attese in vero anche a’ pregi suoi musicali; quivi fra le altre, la moderna Società Cherubini, fondata e diretta dalla zelantissima e valente signora Laussot, che alemanna rese onore al nome del gran fiorentino e al canto italiano, offrì interessantissime udizioni di classico canto corale.
Il canto dell’alta società trova risposta nelle camerate dell’ingenua scolaresca; e già le scuole elementari risuonano delle bianche voci guidate al nuovo insegnamento.
Ed in proposito oggi vien scritto:
Lo sviluppo di tali Scuole da qualche tempo manifestato, spinse altresì alla ricerca del metodo didattico elementare più semplice ed alle menti infantili più acconcio. A ciò provvide con felice invenzione il solerte prof. Varisco, fondatore in Milano d’una scuola di perfezionamento al canto corale, e d’una Orfeonica femminile, per la quale scrisse analoghi esercizj e cantate; e non risparmiando sacrifizi e studj, potè inoltre dopo lunga esperienza, presentare un nuovo istrumento musicale e un metodo didattico di canto in coro, che raggiunge precisamente lo scopo accennato. Il Guida-voci è un’elegante cassetta con una tastiera [108] a due ottave. Il suono è più forte di quello dell’armonium; l’aria vien data da un piccolo mantice messo in movimento da un robinetto laterale, che il maestro fa scorrere colla mano sinistra, mentre colla destra tocca i tasti. Per comodità del docente, avvi un peso a piombo, il quale permette di battere il tempo, mentre l’istrumento somministra la nota di cui abbisogna. Per facilitare all’allievo la conoscenza delle note e degli accidenti musicali; il sullodato maestro ideò dei cartelli scritti in modo da riescire intelligibili anche ad una scolaresca numerosa, la quale senza alcuna difficoltà e fatica, potrà eseguire dopo poco tempo i piccoli solfeggi.
Un’autorità competente in materia, il cav. Lauro Rossi, al cui giudizio imparziale il maestro Varisco sottopose il guida-voci e il nuovo metodo, encomiò l’inventore, affermando che per la semplicità e pel poco costo il nuovo istrumento merita d’essere preso in considerazione, e di suggerirne l’uso alle Commissioni degli Asili e ai Presidenti scolastici; il che porterebbe non poco incremento allo sviluppo del canto corale, parte non ultima della moderna educazione, di cui si sentì il bisogno d’arricchire la crescente generazione. (Mondo Artistico, Milano, febbr. 1871.)
Nè solo all’educamento del popolo e de’ fanciulli per via del canto, si limitò il Varisco colle sue zelanti proposte e co’ suoi felici esperimenti, ma estese il suo disegno alla Istruzione delle scuole militari di canto, ritenute anche in questo campo, fonte di vantaggi morali, materiali ed artistici; e fin dal principio dell’anno 1870, ne ponea ad effetto una prova in Milano, col 30.º battaglione bersaglieri.
Se infatti, come scrisse il ministro generale Ricotti, [109] «allorchè l’amministrazione, la giustizia, la guerra, la religione in una sol mano sono strette, la storia della milizia è la storia della nazione», quando nella milizia ai precetti dell’arte s’accoppia la civile istituzione, quella per sua parte è atta a concorrere al nesso felice, perocchè li suoi adetti saranno e soldati e concittadini.
La istituzione della nuova scuola dunque divien compimento del sistema educativo del soldato, destinato a tornare più regolato e più culto in seno alla famiglia; egli che in guerra anche a mezzo del canto avrà trovata la scintilla che accende ed infiamma il cuore dei generosi.
Il prof. B. E. Maineri encomiava gli sforzi efficaci del Varisco, ragionando pubblicamente sulla utilità del canto fra l’armi, e sui pratici esempj dei più strenui guerrieri.
Ed il tenente colonnello d’artiglieria Carlo Mariani, celebre autore di scritti militari, attestò il voto suo perchè la bella prova addivenga generale osservanza nella milizia, la cui missione assume un carattere eminentemente civile, in ragione non solo delle armi, ma degl’obblighi spettanti ai figli di libera terra. Ricordò come di tale istituzione tanto s’onori la Elvezia, che per opera di Haupert la possiede sino dal 1833. Convenne che, per la importanza appunto della ragione numerica, trar si potrebbero grandi masse corali, desiderate sempre nè avute sin oggi in Italia.
Confermò, che se Platone, sommo ammiratore delle militari virtù, consigliava si educasse il soldato alla musica — la quale il rende umano, ne esalta il cuore a sentimenti magnanimi, e lo infiamma alla pugna — giova che i nostri soldati imparino a cantare [110] le forti imprese degli eroi e le generose azioni dei benefattori della umanità; e tornati alle loro famiglie, al villaggio nativo, facciansi propagatori di quelle canzoni, con molto profitto del sentimento nazionale, della sua morale, e dell’educazione del popolo[94].
Gli storici e i filosofi della musica constatarono che da quando le forme sensuali della musica teatrale sostituirono quelle della musica popolare, da camera e da chiesa, la bellissima fra l’arti belle cessò istantaneamente e completamente di concorrere colla sua potente efficacia alla parte educativa dell’uomo. — Perciò, quanto grande fu il bisogno di ristabilire il canto corale sull’antico e glorioso suo seggio, non v’ha chi nol veda; presso i popoli specialmente oltramontani è tenuto in altissimo onore.
Il prof. Giovanni Varisco accarezzò l’idea di fondare nelle principali città d’Italia Scuole normali musicali, le quali fornirebbero alle città minori abili docenti, e così fra non lungo tempo, sulle labbra del nostro popolo risuonerebbero non più canti sibaritici, bensì i solenni accenti ispirati da Dio, dalla Patria, e dalla Famiglia. — A facilitare l’istituzione di tali scuole, si dovrebbero annettere alle normali, letterarie, ecc. sì maschili che femminili. Il corso normale musicale potrebbe durare due anni, per un insegnamento inferiore, e per uno superiore. Di qui si avrebbero abili insegnanti di canto corale. E tale sarebbe il programma dell’egregio Varisco.
«Perfezionamento nello studio del canto corale. — [111] Studj speciali di accompagnamento. — Conferenze allo scopo di mostrare praticamente il metodo più facile, più breve e in pari tempo più proficuo da tenersi nell’istruzione della musica popolare. — Nozioni di storia e di biografie musicali a partire dall’XI secolo, cioè da Guido monaco di Arezzo, inventore dei monosillabi musicali, giungendo sino ai più celebri musicisti dei nostri tempi. — Nozioni elementari di estetica musicale, che serve d’ampio corredo tanto agli studj musicali che ai letterarj. — Esecuzione di componimenti a diverse parti vocali.» Il nuovo edificio apporterebbe sensibili vantaggi all’arte ed alla civiltà. Gioverebbe a quella, iniziando ad una buona educazione gli eletti, e discoprendo più facilmente i tesori vocali che rimangono ignorati, se non si perdono nelle pratiche oscene de’ trivj e delle taverne, mentre alle scene sembrano divenire sempre più rari e più impreziosiscono quelli già manifesti. Concorrerebbe poi a ricondurre il popolo alla semplicità ed alla letizia degli abbandonati costumi, che invidiando guardiamo adesso fra le genti in apparenza più rozze ed in realtà più vergini e più felici.
I rapporti consolari delle regioni più remote dal superbo centro d’Europa ci ridestano all’ammirazione, ed invogliano noi sazj di magnifici canti a sentire l’umile solfeggio delle Scuole scandinave e de’ Seminari d’uomini e donne (o scuole normali), che in fra i precetti d’insegnamento hanno il Cantare Salmi in chiesa ove le facoltà naturali il permettano[95], e l’inneggiare all’accompagnamento de’ funeri, o al ritorno [112] dalle pratiche religiose o dagli esercizj guerreschi per la fede di patria.
Il prof. E. Boucheron, che tiene la sede dei Gabuzj e dei Pellegrini alla metropolitana cappella lombarda, autore dell’accennato Corso completo di canto, e che non ha guari dettava un libro intitolato la Filosofia della Musica, solerte anch’egli alla civilizzatrice bisogna, lodò per le stampe[96] la proposta del Varisco d’un corso di perfezionamento nel canto per gli allievi ed allieve delle scuole normali; «persuaso che non si ritrarrà alcun pratico vantaggio dall’insegnamento del canto introdotto nelle scuole elementari finchè non venga affidato a persone di provata capacità.»
Egli pensa però che tale progetto non si possa attuare per le scuole suddette, se non a condizione d’un personale speciale, come è stabilito per la calligrafia, il disegno, e lavori d’ago. Mostra infatti la circostanza delle numerose materie da insegnare in dette scuole; e l’inconveniente per cui gli allievi e le allieve aspiranti al magistero, compiuti gli studj delle principali materie e ottenuta la patente d’idoneità, costretti sarebbero a impiegare altri due anni per abilitarsi nel ramo aggiunto.
«Ammesso invece il sistema dei docenti speciali, cessa il bisogno di prolungare il corso normale: il professore di canto sceglie nel primo anno gli allievi o allieve dotati di migliore disposizione, e su questi rivolge principalmente le sue cure, bastando che gli altri possano coadjuvare i primi; questi docenti [113] speciali poi avranno un particolare interesse a ben istruire le loro classi, per poco si sappia eccitarne l’emulazione nell’atto stesso di sorvegliarne l’operato.»
Ottimo consiglio la cura de’ maestri e delle elementari scuole, più urgente dei trattamenti ai signori de’ conservatorj.
Che vale lo specioso titolo di professore ch’oggi ciascun s’arroga?...
Non perdano almeno questo di buono i cultori della musica, che più sensibili alle belle tradizioni dell’arte loro, conservarono l’onorato nome di Maestri, e non si umiliarono ancora a confessarsi miseri professionisti.
Sì; maestri di camera, maestri di cappella, maestri de’ cori, maestri al cembalo, maestri sulla scena, maestri compositori, maestri di canto. Umili pure, come quelli che insegnano gli elementi della parola, ma che possono forse vantare maggiori glorie de’ professionisti primarj e titolati perfezionisti. Chè, dagli elementi procede la sapienza gli elementi innalzarono tanti uomini grandi, e talvolta essi soli bastarono al genio.
Non si pensi subito alle splendide scene, ai famigerati artisti, ai sommi trionfi. Si pensi alla camera dei Caccini, ai fanciulli del Palestrina, alla popolana di Marcello.
Le stanze ed i chiostri, dove germogliò la scienza, dove le produzioni e gli esercizj del genio ricoverarono in altre persecuzioni di Vandali, e presso ad umili cultori anche in tempi barbari poterono prosperare.
Per la civilizzazione delle masse, ricercansi i [114] maestri elementari delle lettere, più che i filosofi universitarj. Ed elemento precipuo d’incivilimento è la conoscenza e la pratica del linguaggio del canto; il canto di camera, di chiesa, di coro nelle oneste brigate; il maestro avveduto, paziente, modesto.
I Madrigali, le Ballate, i Mottetti, salvarono la dolcezza de’ canti in tempi di ferro; adentellarono i greci rigori ai costumi gentili; fondarono la nuov’arte sublime che dalla camera, dai chiostri e dai prati, passò alle scene liriche ed alle drammatiche.
Quelle cantate per le quali non richiedeansi i maestri di declamazione nè i profondi speculatori, essendo tutto l’anima e la voce di chi le modulava; e tenendosi per cosa secondaria o indifferente l’uno o l’altro accompagnamento, la poesia più o meno forbita, e perfino i medesimi compositori, dei quali, quasi a’ nostri ricordi, poco importava anche il nome, in confronto a quello degli esecutori.
Quindi, varietà immensa nei cantori, che tutti colorivano secondo il loro sentire; per modo che in ciascuno il canto era nuovo, originale; e quest’era la libertà feconda e famosa de’ grandi artisti dell’andato secolo; mentre adesso tutti s’imitano, ed in onta al genio ed alle disposizioni individuali il più vago linguaggio qual è il canto, resta prescritto dal primo o dal migliore interprete, e diventa quasi uniforme.
Che importa che l’ampiezza de’ teatri e la folla delle orchestre non ammettano che gli organi portentosi? V’hanno stanze da rallietare, ed amatori che non si possono escludere.
Nè mancano adesso quegl’aurei anelli di congiunzione, quelle sementi prolifiche d’ottimi frutti. Tengono il posto degli antichi madrigali e delle cantate, tante [115] graziose e semplici composizioni moderne non ingombre di combinazioni fonetiche, nè bisognose di difficili accompagnamenti che sotto i nuovi nomi di Romanza, Preghiera, Versetto, Mattinata, Serenata, Notturno, Brindisi, Pensiero, Capriccio, Melodia, Stornello, appassionano soavemente; non sono inutili all’arte, nè dalla scienza e dal diletto devono andar trascurate.
Con esse vediam musicate tutte le forme di verso, e le più care e famigliari parole.
Anche il ritmo appunto dello stornello, ritenuto ripugnante alla regolare melodia, i nostri trovatori seppero impiegare; ed è ventura che anche a quello siansi famigliarizzati, poichè conferisce agevolmente la vaghezza e la novità che si vuole ai nostri canti abbisognare.
Queste belle lezioni dei migliori nostri maestri, saranno gli elementi che apparecchieranno alle grandi arie, alle caballette, ai rondeau, gli eletti alle espressioni solenni melodrammatiche.
Le nostre belle dame, prima d’affaticarsi colle scene dello Stiffelio e del Don Carlos, non modularono la geniale romanza Il Poveretto, musicata dall’ancora ignoto compositor di Busseto?
Avrebbe bastato Donizzetti ad arricchire di tali canti le nostre camere. Ma chi possede non cura: e nelle vaste aspirazioni, nel culto esagerato allo spettacolo, tiensi a vile il cantore di camera; e pochi compositori s’erano occupati a questo genere utile e vivo.
Fra i primi e più fedeli che inoltratisi come tutti i maestri nelle vie della creazione musicale con qualche semplice melodia, non disdegnarono poi la vena famigliare di Cimarosa, furono il Vaccaj, il Buzzola, [116] Luigi Sangermano arpinate, ch’è pur l’autore di Goretta.
Tenne assai Napoli alle sue facili e ardenti Canzoni. (Vedi il Canzoniere del Florimo.)
La bella fonte delle romantiche Barcarole non è ancora scemata a Venezia. Dopo la ricchezza sparsa dal Buzzola pel mondo, Campana, Tonassi, Tessarin, Malipiero, danno felicissimi saggi.
Non mancano gl’Idilj alpigiani e campestri; i Ricordi orientali di Nicola de Giosa; gl’Inni di patria dell’Olivieri; i Cantici sacri degl’ultimi celebri maestri delle cappelle di Venezia e di Napoli, Buzzola, e Sarmiento[97], e dei viventi De Giosa, Tomadini, Tempia[98], Canneti, Terziani, F. M. Albini, Gerol. Barbieri, Pillotti, Sampieri, Cortellazzi, Bernardini da Buti, Giani da Viadana, de’ fratelli Cagnoni[99], imitatori degl’ultimi estri lasciati nella Pétit Messe da Rossini.
Alle dilavate Raccolte dei Marenzio, dei Guasco, dei Capuci, dei Squarcialupi, e d’altri antichi madrigalisti, subentrarono le Corone, i Serti di fiori, gli Albo de’ trovatori moderni[100].
[117]
Il Canzoniere testè pubblicato da Fr. G. Zingarle di Trieste, ad uso de’ fanciulli che frequentano le scuole minori, porge a questi modo opportuno e comoda ginnastica agl’organi vocali, educamento di buon gusto e d’affetti, interesse morale e umanitario[101]. Così le Cantate per gli Asili di infanzia d’Enrico Panicali di Fossombrone[102].
Altri canti facili e puri nell’Albo De Giosa[103]; altri in quello popolare di Giov. Frippo; in quelli melodici di L. Gordigiani, e di Filippo Coletti.
A Firenze, il maestro G. Palloni ci diè un nuovo Album vocale — Pensieri ed Anima — gentili melodie fra cui il pezzo stupendo: — Lamento d’una madre: piccolo riccio di capelli biondi — vero strazio dell’anima. Il Palloni, fido seguace della buona scuola di canto, è per la musica popolare un conservatore di quelle eccellenti tradizioni toscane, delle quali fu legittimo padre il Gordigiani; e successori suoi, il Luzzi e il Mariani.
Ivi pure, Favi pubblicò l’Iris Florentina; Vincenzo [118] Capocelatro, Le Veglie[104]; Hackensöllner, Le Memorie d’una cantatrice (Marianna Barbieri-Nini).
A Roma, appena libera, lo Sgambati donò un Albo vocale, pel cui accompagnamento, peraltro, trovato oscuro e difficile, s’ebbe da’ critici il ricordo che gli stessi Schumann e Schubert scrivendo per camera rendevano semplici e piane le lor cantilene violentando l’istinto. Quivi nella capitale, con egual titolo, L. Militotti diede più schiette paesane reminiscenze.
Abbiamo quindi le Romanze del Fabiani e del Sangermano, dello Stanzieri che si fan largo a Parigi e a Londra come ogni cosa italiana che piace. Abbiamo le Napoletane di Luigi Mazzone, di Sessa, di Graziani, di Montenegro da Barletta, di Antonio Coppola da Catania.
In tanta fioritura di giardino melodico, perchè adunque fantasticare colla pretesa di genj, e sudare colle imprese de’ sapienti attorno le meditazioni e i labirinti stranieri, nelle chiese, ne’ teatri, e perfin nei nostri privati e geniali ritrovi? — Prendiamo intanto a scuola nostra e a diletto quello che subito e facile piace e s’apprende, come il puro concetto d’un libro educativo, il cui pregio è la chiarezza.
Che se il sapiente Schumann, il David alemanno, ne’ suoi precetti musicali, parlò talvolta a dispregio di cotesta musica facile d’indole veramente italiana, ebbe a smentirsi quasi nel periodo istesso dell’argomento suo, aggiungendo:
«Ascolta attentamente tutti i canti popolari, son dessi una miniera delle più belle melodie che ti aprono gli occhi intorno al carattere delle diverse nazioni.» [119] Onde la Liedertafel famosa (tavola delle canzoni), in cui Zeller dipinse il suo popolo. Nè diversamente si informa il bellissimo libro A travers Chants, d’Ettore Berlioz: ed accenno soltanto il Canzoniere Lisinski a fedele fotografia della sua Polonia.
Badiamo che non s’avveri il dubbio di Delécluz, critico di molti studj e di squisito gusto, amantissimo della musica italiana e che la difese più volte dagli assalti del Conservatorio parigino, il quale in uno dei suoi ultimi articoli lamentò il decadimento nostro, vaticinandone quasi la diseredazione, colle dure e pur vere parole: «Gl’italiani de’ giorni nostri fanno dell’arte musicale quel medesimo governo che de’ poderi gli affittajuoli di mala fede, quando è per scadere il termine di locazione: diboscano, recidono, portano via il meglio e il più che possono, sfruttano e smungono il terreno, cessano dai buoni modi di coltura e mandano ogni cosa in rovina.»
Abbiamo il bene che ci ha dato Iddio, nostro, libero, campato nello spazio interamente; come Gioberti seguendo quanti furono scrittori d’estetica, considerò la prima e regina delle arti belle, che non si lascia stringere da regole e formule nella sua essenza, che non ha nella natura fisica nè tipi, nè forme, nè misure a cui tenersi e riferirsi; che fugge dalla imitazione e da servitù, destando in altri vaghezza ed eccitamento; e cercheremo nuovi miti, deità inanimate, ordini barbari, novità straniere?..
«Con consiglio che mai si giungerebbe dire compiutamente quanto e come improvvido, noi abbiamo ristretta l’esistenza della musica al melodramma — ebbe a dire non ha guari il Biaggi; — ed ora postergate le secolari e gloriose nostre tradizioni, posti in canzone [120] i nostri grandi capolavori, compatiti i nostri grandi compositori, andiam cercando le teoriche del melodramma in Germania, e a quelle ci attacchiamo di preferenza che più sono avverse all’indole dell’arte nostra, al nostro gusto, alle nostre naturali attitudini. E intanto ecco che in Italia, nel paese cioè della melodia e del canto, ha vita lunga e fortunatissima, la Marta, opera certo pregevole, ma la cui esistenza appena si sarebbe avvertita fra noi quando scrivevano il Donizzetti, il Mercadante, il Pacini. Ed ecco che si mette sugli altari il Faust, opera pregievolissima anch’essa e degna di studio per più di un rispetto, ma che tolta a modello, non potrà riuscire ad altro che a impicciolire e ingrettire l’arte nostra, portandola dal discorso magniloquente alle piccole frasi e ai giuochi di parole, dalle linee grandi ed ardite de’ frescanti, alla minuta e paziente punteggiatura de’ miniatori[105].»
Conchiudo in proposito con la felice espressione del celebre costruttore d’organi vicentino G. B. De Lorenzi: «Studiamo i classici d’ogni nazione e poi scriviamo italiano[106].»
E col nostro istinto italiano diamoci pure al facile nostro canto. — È il cantar gentil d’Ausonia onore e vanto —; non l’arruffato, il tetro, nè il cantar spietato.
Cantiamo adunque nelle nostre stanze, e sentiremo meno apatìa nei teatri.
Cantiamo nelle scuole popolari, e avremo dalla natura quello che l’arte ci lascia desiderare.
[121]
Fu detto che in Italia siam tutti artisti; e siamo dunque tutti anche cantori. E come artisti e cantori non deve muoverci a sprezzo l’umile scuola, nè il rozzo porgere di qualche insegnante, o il distratto vezzo di imperiti scolari. Chi non sa quai tesori possano ivi scoprirsi! Chi non sa, che alcune note al di sopra di que’ cori non ci rivelino una Catalani o un Duprez!
«Ecco le speranze della Francia,» ripetea sovente il bravo Alessandro Choron, presentando i poveri allievi della sua scuola elementare che andava raccogliendo nei villaggi, e lungo le strade più miserabili di Parigi.
E la scuola di Choron e di Ramier, che fu una delle più rimarcabili istituzioni secondarie che fossero state introdotte nel 1816 dalla munificenza della Ristorazione, nel breve periodo di sua esistenza, perocchè disparve nel 1830 col governo che l’avea creata, era giunta ad incendiare d’invidia il superbo Conservatorio che rimaneva lì, come sterile monolite accanto il campicello ubertoso, umiliato dai frutti straordinarj generati sì presto a gloria della Francia nell’arte del canto che nel primario istituto parea quasi spenta.
Eppur notavasi Hèrold come una celebrità, premier chef du chant alla Reale Accademia.
La umile scuola elementare, malgrado la sua breve esperienza ebbe gran parte col movimento musicale di quell’epoca, ed influì sommamente alla propagazione dei veri principj dell’arte.
E quivi pure non era estraneo l’elemento italiano; chè il metodo che si professava alla scuola di Choron era poi quello del Mengozzi, dal quale maestro era sorto il più ammirabile cantante francese che sia [122] mai stato il Garat. Fu detto dallo Scudo che, il gusto squisito e lo stile pieno di passione drammatica e di grazia di questo celebre allievo del Mengozzi, era un composto della bella dicitura francese e della vocalizzazione italiana. L’arte e il colorito del suo canto non avean nulla a che fare col cosiddetto urlo francese del Nourrit padre, del Dèrivis, e di Madama Branchu, già colossi dell’Opèra. Non da questi, ma dall’umile focolare de’ buoni studj, vennero Levasseur, Adolfo Nourrit figlio, e la Damoreau, della nuova scuola francese.
Ma il direttore Choron e il docente Ramier erano veri maestri di canto.
Il primo, senza tanto apparecchio di diplomi, ma tratto da una potente inclinazione, s’era dato benchè tardi allo studio della musica sotto i consigli dell’ab. Roze, quando avea potuto superare l’opposizione dei parenti, a venticinque anni; nè giunse a farsi compositore. Ma era dotato d’una squisita sensibilità, d’un profondo sentimento del vero; s’era ornato di buona erudizione, e d’una seria conoscenza della storia dell’arte; e s’avea fatto un colpo d’occhio di penetrazione veramente profetica. A Duprez fanciullo, dalla voce debole e incerta, Choron diceva: Tu sarai il primo cantor del tuo tempo.
Per la sua delicata e sensibile organizzazione e pegli studj in cui s’era specialmente intrattenuto, egli avea una predilezione quasi esclusiva all’antica scuola italiana. Iniziava a que’ principj i suoi allievi, alla pratica de’ grandi maestri, segnatamente Scarlatti, Pergolese, Porpora, de’ quali facea a loro cantare le limpide melodie, sprovviste d’ogni futile ornamento, ma ricche d’incomparabile semplicità e bellezza. Là il cantore riconosce le proprie forze, e lotta colle difficoltà tanto [123] più ardue quanto elleno sono tutte del sentimento. E Choron vi ponea l’anima nella sua istruzione; s’abbandonava alle emozioni, e gestiva, cantava, rideva, piangeva, fosse nella solitaria sua stanza o in isplendida adunanza. Amava molto i suoi allievi, dai quali egli era adorato; li sapea entusiasmare, e li dirigeva nella via che conveniva alle loro speciali disposizioni.
Erano i suoi tesori, che nei giorni di riposo e cogli scarsi risparmj, andava cercando nei borghi e nelle ville, penetrando nei collegi e nelle scuole, e coll’arte di padre sapea affezionarseli. Vivea per loro: e quel giorno che gli furono tolti, quando il governo abbandonò la sua scuola, se ne morì di dolore.
Nel numero degli allievi che fecero epoca alla scuola di Choron, quattro specialmente erano i favoriti, messi sempre dinnanzi quando il maestro volea dare un buon saggio di suo insegnamento. Erano: Duprez, che fu il celebre tenore dell’Opèra; Boulanger-Küntze, poi buon professore di canto a Parigi; Vachon, che fuori d’Europa portò i suoi talenti; e il veneziano Scudo, narratore di questa pagina, bozzetto interessante, ch’io reputo il miglior ritratto d’un bravo e modesto maestro, e il pegno d’affetto più nobile e più espressivo del cantore discepolo riconoscente.
«Ciascuno di questi giovani allievi con più o meno disposizione aveva un genere suo particolare, che il maestro sapea discernere e indirizzare.»
A sedici anni, Duprez già possedeva quello stile largo, quel canto spianato che gli valse la sua bella riputazione.
In ragione del talento che questi allievi promettevano, e dell’alto favore di cui essi godevano presso [124] il capo dello stabilimento, li si onorava della qualifica d’Artisti.
V’era una festa, un pranzo, una serata; Choron vi si recava accompagnato dai suoi quattro evangelisti.
I giorni di vacanza, quand’egli avea danaro, ciò che non era sempre, veniva a passo di lupo al refettorio, e diceva all’orecchio d’uno di noi: — non v’impinzate tanto... avremo oggi la merendata. — Allora le forchette s’arrestavano, anche innanzi ai bocconi più ghiotti... Madama Choron lo rimproverava... egli partiasi ridendo.
Un giorno giunse alla scuola anelante. Ci fe’ chiamare tutti quattro. — V’hanno delle novità, ci disse; il ministro del re è cangiato, v’ha adesso M. de Lauriston, sì mal disposto per noi che, vuol sopprimere la scuola. Ottenni, con fatica, che prima di prendere una tal decisione, egli volesse almeno sentirci. Vi andremo questa sera: coraggio! Ne va dell’avvenir di noi tutti; bisogna cantare ciò che meglio sapete: prima un’aria ciascuno, poscia due duo.
Duprez, vien qua figlio mio, tu canterai: O des amants déité tutélaire! Tu Boulanger: Oh que je fus bien inspirée! Tu, mio gran matto di Vachon: Di piacer mi balza il cor. E tu mio bel veneziano: Non più andrai farfallone amoroso.... Ah, signor Lauriston, voi volete congedarci, lo vedremo. — E ripetendo le arie, seguiva: — non resisterà, no, no; e i signori del conservatorio ne saran disperati — e rideva, saltava, cantava. — Tutto andrà bene, tutto andrà bene...! Andate a spazzolare i vostri abiti, gli stivali, pulite i vostri bottoni; siate lucenti, raggianti; e sopratutto mangiate poco, mi capite? vi si darà un dito di Medoc per eccitarvi la imaginazione. —
[125]
La sera, al palazzo del Ministro, fummo introdotti in un vasto salone... e presentati ad una dozzina di giudici...
M. Panseron si pose al piano per accompagnarci, e con qualche accordo ci diè tempo a respirare fra il terribile battito del nostro cuore.
Un silenzio profondo si fece, e tutti gli sguardi si fissarono su di noi. Dopo alquante battute un mormorio d’approvazione venne a dilatare i nostri petti. La nostra voce vibra e si espande, il nostro stile s’eleva; ci si copre d’applausi. Bene, bravo, ci si dicea d’ogni parte. — Sì, sì, bravo, sublime! ripetea il maestro pieno di lagrime; ricominciate, figli miei, tutto va bene; e sotto voce: La Francia è salvata!... —
Quella sera memorabile finì felicemente come avea cominciata... e la scuola fu mantenuta.
Da quella scuola medesima venne Rosa Niva, raccolta d’in sulla strada da Ramier, altro maestro dal carattere e dal fare del tenero Choron di cui era dipendente, imitatore, ed amico. Un la magnifico di soprano sortito a caso dalla bocca della fanciulla le avea guadagnato la protezione dell’uomo generoso, dell’appassionato cantore, che prima di coltivar quella voce, prese a dispor l’animo quasi selvaggio della povera abbandonata, e comporne l’esterna figura che lasciava appena un’ombra di qualche interesse, cominciando a prescriverle otto giorni alla purificazion delle mani.
Coll’amore, col rigore, colla costanza della Provvidenza, ridusse quella personcina pulita e graziosa, piegò il suo animo all’ordine e alla obbedienza, la lingua alle facili espressioni, il fare alle maniere gentili, sviluppò poi quella voce ai modi più soavi. Giunse a non poterla riguardare senza sentirsi fiero d’averla [126] così rigenerata; nè potè udire gli altri a lodarla senza scorgere in loro un’invidia che gli aumentava la gloria.
Perfezionò l’opera del suo cuore; e quando se la vide staccare dal nuovo destino che aspettava la giovane cantatrice, Ramier soffrì lo strazio colla rassegnazione paterna. Dagli splendidi palchi de’ suoi trionfi, ella divenuta celebre, riconobbe talvolta nel fondo dell’orchestra l’amoroso maestro che piangeva di tenerezza, e la commozione le toglieva la voce, e gli rispondeva col pianto.
L’allieva di quell’umile scuola era Rosina Stolz; del cui nome altre non meno celebri udimmo ai nostri giorni, e che avremo qui ad accennare.
Sotto le toccanti figure di questi maestri, non vi par di vedere i modesti ritratti degli antichi Maestri de’ fanciulli, e di tanti maestri dei villaggi, che dalle piccole scuole e dalle devote cappelle diedero alle storie ed al mondo i più illustri musicisti e cantori?
E queste scuole, non potrebbero giovare ancora, meglio forse che i superbi istituti, secondo le antiche tradizioni d’Italia e coi frutti copiosi dei classici tempi?
Nell’umiltà e nell’amore fecondano i genj.
Dalle minute sementi crescono i più nobili arbusti; colle pianticelle s’infoltano i boschi; la educazione di quelle dev’essere la cura che precede la vaghezza degli artificj e l’opportunità di loro trapiantamento.
Ma alle scuole primarie anche del canto, ai piedestalli di tant’arte, si accorderanno le riforme volute dal progresso medesimo che non permette il loro abbandono, o la lor trascuranza.
Ed anzi tutto, sarà d’uopo ridestare il valor nei [127] maestri, la volontà negli scolari; e negli uni e negl’altri l’amore.
Inutili sarebbero tutte le scuole se disgraziatamente dovesse ripetersi a lungo: Dove trovare un buon maestro di canto?... Fatal ricerca, che rese facile un’altra: Chi vuol sommettersi a un bravo istitutore?..
«Sì, a che giova tacerlo? La vera scuola dei canto è in abbandono.» Mi valgo di alcune belle parole del cantante e maestro Luigi Celentano[107] perchè il loro lamento sembrami contenere un utile programma alle buone scuole desiderate.
«E moralmente abbandonata; perchè non pochi sono i discenti, nè mancano, per ora, institutori; ma non più, in generale, si apprende e s’insegna seriamente l’arte del cantare.
È vana cosa propugnare a voce i precetti contenuti nelle prefazioni dei classici metodi, se poi non si ha il coraggio di seguirli nella applicazione, e manca la forza autorevole di farli apprezzare, o se questa forza e quel coraggio s’infrangono in faccia alla corrente che tutti involge e trascina.
Dove sono gli studj lunghi e severi, coi quali già ben riconosciuta l’indole della voce, la gola dell’allievo giungeva ad acquistare sicurezza d’istrumento?
Dov’è la paziente ricerca della più vera emissione del suono, in cui la nota tenuta o messa di voce, nell’atto che sceverava e piantava il più bel suono, insegnava la tranquilla e profonda respirazione, il sostegno ed equilibrio del fiato, e la parabola sonora, base della mezza voce e di tutte le innumerabili gradazioni del chiaroscuro?
[128]
Dove sono le progressive esercitazioni d’ogni maniera di vocalizzi, onde, insieme all’impasto di tutti i registri e alla facilità dell’estensione, si otteneva la morbida concatenazione de’ suoni e lo stacco, la varietà del colorito nell’unità di metallo, e il mezzo artistico di tenere sempre esercitata la voce nel suo vero bello, o di svegliarla se per lungo silenzio pareva fioca?
Dov’è quel complesso di tanti accertamenti che menano a quella suprema sicurezza d’intonazione, che si ride d’ogni tempesta, e che vuol dirsi infallibile, non già quando giunge a sfuggire alla riprensione, ma se dà pace alle orecchie?
Dov’è più la fermezza del metodo, che nel maestro è certezza di giungere, senza fallo, allo scopo studiando e soccorrendo la tempra speciale di ciascuna voce; e in chi apprende è abito costante e radicato di rispettare, nella pratica i confini dei proprii mezzi, sì che riescano esercitati, non consunti dall’uso?
Dov’è l’antico rigore, l’antica docilità, l’antico coraggio di spendere degli anni per avvicinarsi alla meta, che una più alta e non iscoraggiante coscienza dell’arte diceva sì lontana, da non potersi toccare?
Il più largo uso del canto declamato, nelle sue forme sillabiche (trascorso tant’oltre, che oggi l’interpretazione esecutiva soverchia la misura dell’arte e l’intenzione degli autori), ha turbato e sconvolto il metodo didascalico.
La vera scuola si travagliava prima a formare l’istrumento per facilità e modulazione, e poi, come a corona dell’insegnamento, perveniva, segnatamente con lo studio del recitativo, a forbire la sentita pronunzia cantabile della parola, in che rifulge la sovraeccellenza [129] dell’organo canoro. Tutti i pregi e i modi tutti dell’arte, non erano altrimenti studiati, che nel suono puro e schietto della voce, al quale solamente appartengono; e la parola era tenuta, qual è veramente, l’ultima modificazione di esso. Percorrendo ogni maniera di combinazioni di note nei rispettivi registri, perveniva la gola a maneggiare tutte le trasformazioni del primitivo suono vocale, serbandone sempre la maggiore bellezza, il più libero corso, e la più variata unità, ch’è ciò che dicesi modular la voce. Lo studio, le cure, le ricerche, gli accorgimenti, la pazienza, il disinganno o la gioja, non eran riferibili che al suono e all’istrumento. Quando poi questo suono timbrato e modulato, padrone di sè e ricco di belle forme, muoveva finalmente ad abbracciar la parola, lo scopo poteva già dirsi ottenuto, poichè degno di accoglierla, era pur così vigoroso, che non vacillava a sostenerla.
La scuola dei moderni, all’opposto, ben poco si profonda nel meccanismo dell’istrumento, e nell’organizzazione dei suoni in rispetto ai pregi ed alle difficoltà generali dell’arte. Nè gradazione, nè certezza di metodo, nè flemma di preparare e attendere lontani risultati. Sempre in cerca di nuove e non sicure scorciatoje, s’industria piuttosto d’ajutare la buona disposizione dei frettolosi scolari. Con viva e non intermessa preoccupazione d’ingrossare il corpo delle voci, dopo un discreto numero di solfeggi, passa rapidamente al sospirato canto con la parola nei pezzi delle opere, e, in men che si creda agli spartiti. Chi più promette meno s’indugia, e vola a sua fortuna; e più spesso rimane a struggersi al bello dell’arte sol chi per difetto di voce, s’è visto impotente a sposarla. [130] Su gli spartiti si fa una certa pratica di musica (se pur non ajuta l’orecchio) e si cerca d’acquistare quel che dicono spolvero, chè è la maschera dell’arte. Si chiariscono difficoltà elementari a misura che si presentano, puntando o troncando a dirittura, le altre a cui si mostra ribelle l’infantile inesperienza dei candidati della scena.
Accelerati in tal modo i passi, e confusi i criterii, non si coglie nel segno, e torna più facile scambiare i soli pregi dell’arte con le immediate rispettive esagerazioni, che sono altrettanti difetti. Per avere la forza si fa allo sforzo; per la sonorità al grido; per l’impeto al conato; si vuole il piano, e s’ha lo sfiatato; bisogna l’oscillazione, e si è contenti dello stridore, s’evita la grazia per non dare nello sguajato. La respirazione, in tanto sciupo, divenendo affannosa non abbraccia la frase musicale, tradisce il ritmo, spezza la parola: e le voci, faticando a disagio, si spossano nell’atto appunto che si vorrebbe avvezzarle alla teatrale fatica!
Gli scolari impazienti sogliono passare da un maestro all’altro per l’unica ragione di fare più presto. I più brevi son tenuti più bravi.
Di costoro, in sul declivio dell’arte s’è ingrossata la schiera, giacchè non pochi son venuti a prender posto nel campo inseminato e infecondo. Ignari del meccanismo vocale (cioè di quel complesso di norme di esperienza e tradizione imitativa, con le quali, studiando il fatto estrinseco dei suoni, si determina, si regola, e si assicura il maneggio dell’invisibile strumento), trovano proseliti a cieche e lusinghevoli massime: «che al canto basta la buona voce; che la natura fa da sè; che la bella disposizione fa miracoli, [131] che con gusto e intelligenza si arriva a tutto; che in ogni caso il teatro fa il resto.»
Nè questi inganni parvero nel fatto smentiti quando i nuovi cantanti improvvisati, salite le scene, vi trovarono un repertorio che poteva, fin a un certo segno, mascherare la loro imperizia, e gli applausi del pubblico, che generoso con gli esordienti, si malavezzava alla depravazione dell’arte.
I migliori maestri in ogni centro musicale d’Italia, stimati per pruove d’incontestabile valore, han dovuto accorgersi che, dicendo il vero, si predicava al deserto. Taluni si son tratti fuori del terreno nel fervore della lotta! Han quasi abbandonata l’ambizione di formare allievi al teatro, ch’è sì cara, come sapevano gli antichi, che per lei lasciavano la scena: e si tengono modestamente paghi a far delibare l’arte a chi la coltiva per diletto, o forse anche per affetto. Ma lo scopo non si raggiunge; perocchè costoro, sebbene non incalzati dallo spettro dell’odierna carriera, restano sempre lontanissimi dalla vera responsabilità dell’arte, e da quell’altezza invidiata, cui solo l’artista, nella febbre continua delle emozioni, pel coraggio instancabile di mille prove rischiose, e per l’alterna vicenda di trionfi e cadute, ha diritto di aspirare. Altri per non restare isolati, e mantenendosi severi a parole, si lasciano rapire nel fatto, più o meno a malincuore dalla bieca corrente; pur non disperando che questa trovi un argine più forte del loro volere.
E intanto quest’arte divenuta, come per incantesimo, la cosa meno disagevole di questo mondo, falsata nella maggioranza delle scuole è parimente tradita pressochè su tutte le scene. Avidi speculatori, per guadagno giornaliero vi adescano giovani poco [132] esperti, i quali perdono voce e speranza, e tosto disillusi, cedono ad altri più illusi il posto di cui niuno s’è reso meritevole. Fatta quasi impossibile una vera carriera (che vuol dire progresso di fama e di fortuna), i nostri giovani contemporanei, tranne poche o meritate o fortunate eccezioni, salgono e scendono in balìa del caso e degli intrighi dei mezzani. Acquistando un falso coraggio, che non è quello del sapere e dell’esperienza, allora s’avveggono della distanza che li separa dall’arte, quando a fronte di artisti di più antica e severa disciplina, messi a cantare un genere, a cui non è del tutto applicabile la panacéa del declamato, affogano nei cantabili, non sorretti da fragoroso strumentale.
Anzi mancando la sicurezza, che vien dallo studio, le più belle intenzioni dell’arte sembrano, in faccia al pubblico, piene di pericoli. Si rifugge per ciò dalla mezza voce, e da ogni altra finezza e delicatura di modi eleganti (che sono, a un tempo, squisitezze d’arte e riposi), e si è costretti ad abbracciare, come più sopportabile e sicura, la fatica suprema ed ignobile di cacciar fuori a tutta possa la voce. E felice chi arriva alla fine!
Oggi, segnatamente per gli uomini, danno a pensare poche note, scorrenti di seguito su d’una stessa vocale. Dove si può s’infarciscono sillabe a ricovrir note. Nelle stesse chiuse degli adagi, ove si soleva aspettare, e gustare qualche acconcio abbellimento vocale, che tuttavia i compositori sogliono lasciare a piacere, si ricorre all’arido ripiego di rimartellare le parole, già ripetute abbastanza nella melodia. Chi concerta la musica propria o l’altrui, si fa più ardito ogni dì a sfollare gli agglomeramenti di note, come [133] più e più van divenendo ineseguibili. E si avverte la caratteristica differenza tra i più antichi e più recenti cantanti, che quelli sorvolavano il passaggio astruso sdrucciolando su la parola e abbandonandosi al vocalizzo; e questi, sol calcando la sillaba, giungono a schermirsi dalle scabrose intonazioni.
I più accorti badano anche a cangiar la parola, per incontrar su la nota di pericolo, o d’effetto, la vocale meno sfavorevole alla propria voce. Accorgimento naturale nei cantanti moderni conforme alle ultime delicate esperienze dell’Aesticau sul fenomeno del suono, le quali dimostrano come — per ciascuna vocale vi ha sulla scala musicale delle note privilegiate che danno al suono il suo colore specifico e il suo pieno valore; e per trarre il miglior partito dall’istrumento della voce non si dovrebbe cantare su d’una data vocale che certe note soltanto. — Ma così le recenti indagini scientifiche e l’istinto pratico odierno mettono sempre più in luce la superiorità e la grandezza dell’antica scuola italiana, che invece di temprare i suoni nelle vocali, sapeva trovare nella voce, e vi piantava e radicava quella conciliante e studiata unità di suono, che tutte le abbraccia e fa intendere, senza cangiar l’appoggio per ciascheduna.»
Ecco riassunte da questo egregio conoscitore alcune osservazioni da noi in precedenza annotate, altre da migliori pratici e studiosi desunte[108]; ecco le prove, come diè a divedere il Mazzucato, di mancanza di scienza nei pretesi maestri, e di voglia negli scolari di tutt’altro che scienza.
Ecco le cause, per le quali, anche a mio vedere, [134] mentre i Conservatorj fioriscono per la composizione, in cui indispensabilmente si studia, si spopolano nelle scuole di canto, a segno di tenerle e fuggirle come nocive.
Ammessa qualche modificazione nei severi quanto schietti giudizj del Celentano, e inteso per bene il lungo e accurato studio, non in base al sistema, ma alla conoscenza del macchinismo e alla azione dell’organo vocale, ed alle variabili condizioni da educare, sembrami che da quel riassunto potrebbonsi ricavare i precetti migliori alla interpretazione de’ metodi, alla savia loro applicazione, e per conseguenza alla formazione delle voci da teatro o da camera atte al mantenimento ed al progresso dell’arte, al diletto perenne in un colla istruzione degli uditori, precetti valevoli al cantante ed alla sua fama.
[135]
Raccogliamoci un istante prima d’accedere al massimo monumento: gettiamo ancora uno sguardo sul cumulo e sulla varietà di memorie che si offersero lungo il cammino di secoli.
A tutto il 18.º, una sola influenza vedemmo prevalere su tutte le influenze di stili, di scuole, e di paesi. Dalle monodie di Tepandro, ai corodiaci madrigali; dalle cantate di Carissimi, al Don Giovanni, la melodia ha dominata la musica; la iniziativa fu sempre del sentimento; prevalse lo spiritualismo del bel genio italiano: l’arte, tutta emanazione del cuore, non divideva ancora l’impero colla forza del lavoro.
I prodigi di questo mirabile ausiliare vidersi nel nostro secolo; dall’epoca appunto in cui segnando una linea demarcativa in queste memorie, abbiamo sospeso il procedimento storico della serie interminabile dei trovatori ed esecutori del canto: quando, cioè, parea che Mozart avesse rapita la scintilla famosa dal fedele antico tempio, il canto e la passione degli italiani, per conciliarla, veramente con alto pensiero, agli artificj fantastici oltramontani.
[136]
Ma la nuova Triade della nostra fede manifestossi colla sua onnipotenza e col suo splendore: venne a redimere e ad assicurare il suo regno.
In questa manifestazione sta la nuova legge dell’arte del canto inventivo, che si collega mirabilmente alla antica tradizione, al testamento che nel secolo 18.º avea compimento, ed in cui una plejade di profeti e di precursori avea vaticinata e bandita la prossima êra della rigenerazione.
Per quella guisa che Dante pria d’innoltrarsi negli eterni regni, si soffermava a riguardare le magnanime ombre de’ veggenti raccolte nella tranquilla valle, quasi a ridestarvi la ispirazione, volgiamo pure uno sguardo ancora al nostro limbo glorioso, per procedere più riverenti e commossi e nella fede ravvalorati, fra i contrasti de’ reprobi, e i cori eletti dell’altissima gloria.
Concludiamo quanto fu esposto, restringendosi all’ultimo periodo, lo scorso secolo, che fu detto l’età d’oro della musica.
— Aperto da Carissimi e chiuso da Mozart, vide nascere un numero considerevole di grandi compositori che svilupparono e fecondarono tutte le forme dell’arte.
La scuola napolitana, illustrata dallo Scarlatti suo fondatore e da suoi allievi, Feo, Durante, Porpora, e successori Pergolese, Jomelli, Piccini, Sacchini, Trajetta, Majo, Clementi, Guglielmi, Cimarosa, Paisiello, coro di cantori immortali, creò l’opera seria.
Venezia, che fu detta il sorriso del mondo, e la cui scuola fondata dai Gabrieli conta ne’ suoi fasti, Monteverde, Croce, Legrenzi, Lotti, Marcello, Zarlino, Carissimi e Galuppi, diè alla luce l’opera buffa.
[137]
Pittoni, Pisari, Casali, Allegri, conservarono a Roma le tradizioni del divino Palestrina, e difesero il grande e vero stile della musica sacra contro la rivoluzione de’ tempi.
Cantanti incomparabili sono formati per le cure di Gizzi, Feo e Porpora a Napoli; di Amadori a Roma; di Redi a Firenze; di Peli a Modena; di Bernacchi a Bologna; di Brivio a Milano; di Vallotti, Salieri, nelle Venezie.
I tenori e soprani, Orsini, Senesino, Gizzielo, Manzuoli, Caffarelli, Farinelli, Babbini, Babbi; la Tesi, la Mingotti, la Faustina, l’Agujari, la Cuzzoni, fanno risuonare l’Europa de’ loro sublimi accenti; sono rimpiazzati dai Guadagni, Guarducci, Pacchiarotti, Rauzzini, Raff, Rubinelli, Marchesi, Crescentini, castrati famosi, da Ansani, da David padre; dalle Banti, Mara, Gabrielli, celebri virtuose che furono seguite alla lor volta dall’emula schiera delle Pisaroni, Sontag, Persiani, Colbran, Belloc, Mombelli, Mingotti, Demerich, la Pasta e la Malibran; da Lablach, Garcia, Tamburini, Tacchinardi, Veluti, Duprez e Rubini.
L’istrumento che più d’ogn’altro avvicina la voce umana, e che ne imita meglio la vibrazione toccante, le cambianze infinite, il violino, fu culto da Corelli, dal grande Tartini, da Nardini, Pugnani, Viotti, Radicati, Aliani, che aprirono il campo alle alte scuole ispirate e novatrici, italiana e belga, coi Paganini e Beiriot.
Finalmente da tutti i punti d’Italia levansi maestri e cantori ne’ quali la scienza eguaglia la ispirazione; la di cui abilità pratica non soffoca il sentimento, e che projettano un mare di luce inconsumabile sulla nostra nuov’epoca maravigliosa.
Al principio di questo secolo, i grandi maestri [138] italiani, ripetuti in questo riassunto, non erano più, od aveano chiusa la loro carriera. Fra i numerosi e pallidi imitatori che s’erano divise le loro spoglie e riproduceano le loro forme illanguidite, tre compositori più originali si disputavano l’impero: Mayr (o Mayer), Paër, e Generali.
Con questa triade ci siam soffermati nella rivista de’ compositori celebri di nuovi canti nella prima parte di queste memorie.
In essa vediamo quasi gli albòri o i prenunzi della triade sublime rigeneratrice che con Rossini, Bellini, e Donizzetti comparve.
Dai canti della Ginevra di Scozia, della Medea, e della Rosa bianca e la rosa rossa, l’italianizzato maestro del bergamasco istituto fece trasparire quell’ingegno facile ed elevato, sensibile e ardente che dovea spiegare l’allievo concittadino.
Il parmigiano Paër, più abile e più variato, annunziava nella Camilla un carattere originale, un colorito marcato; parea che sentisse l’echeggio lontano della Norma, ma non potesse coglierne le vaghezze.
Il brio e la vivacità del Generali fecero presentire la possibilità di slanci più vasti e più splendidi d’un fortissimo genio.
In mezzo a tali idee, a tanta aspettazione, e ad una certa ricchezza di forme melodiche ed armoniose, comparve Gioacchino Rossini, nel 1812[109], pieno di gioventù e d’audacia, cogliendo tutto che l’opportunità gli offeriva e per tutto ove gli parea conveniente, [139] sapendo ben egli appropriarsene, trasformare, e creare rigenerando.
«Rimarcabile per gli slanci della imaginazione, per l’abbondanza e la freschezza de’ motivi cantabili, per la potenza degli accompagnamenti e la novità delle armonie, per la veemenza e limpidità che dà al linguaggio della passione. Genio eminentemente italiano, tutto improntato dello spirito ardente e sensuale della sua epoca, Rossini la rompe violentemente con tutti che l’han preceduto.
Egli sorte dal dieciottesimo secolo come da una valle ombrosa e pacifica, e s’avvanza per l’avvenire colla impazienza d’un dominatore. Lo si direbbe Bonaparte valicante la cima dell’Alpi per conquistare i luminosi piani di Lombardia.»
Quando infatti diede il Mosè, egli avea tutto conquistato. Ciò fu confermato dal Fétis medesimo, non troppo tenero certamente pei compositori italiani, allorchè dopo il successo di quello spartito all’Opèra di Parigi, il 26 marzo 1827, scrisse; «Godo del tuo trionfo, o Rossini; egli è ben meritato! I tuoi detrattori e i tuoi invidiosi devono rinunciare ad una lotta ineguale, nella quale non resta nemmeno la speranza d’una ragionevole resistenza.»
Eppur Rossini non era pago di sè interamente; e rifiutò la onorificenza per cui Carlo X allora lo aveva ascritto alla Legion d’Onore, riserbandosi di chiedere questo premio quando se ne sentisse degno; come fece dopo il Guglielmo Tell.
Di questo gran Trovatore inutile dire di più.
Come regolatore di voci, nella cui arte fu pure maestro abilissimo, dirò soltanto che, i primi interpreti delle musiche del suo tempo, pel drammatico [140] eccesso, volendo eccitare coll’azione più che colla maestria vocale, simili alle cantatrici di Damasco imprigionate da Dario, incorsi nella condanna del pubblico, egli medesimo informandoli nuovamente a quei canti, li salvò, ed i fischiati della Semiramide, si riprodussero non più spregiati, come le cortigiane che cantavano nella reggia babilonese di cui essi rappresentavano gli antichi avvenimenti, ma come esecutori prototipi di bel canto.
Fu ben delineata la situazione stravagante del primo periodo del nostro secolo colla seguente pagina di Letteratura musicale.
— Il movimento filosofico e letterario che scoppiò alla caduta del primo impero, come un grido di libertà, ha cominciato a penetrare anche in Italia verso il 1820. Questo movimento nato dallo spirito d’indipendenza e dal bisogno di rilevare l’ideale della natura umana avvilita dal dispotismo; quest’insieme di strane dottrine, miscuglio di aspirazioni religiose, reminiscenze del passato, tenere e ingenue fantasie che venivano di là de’ monti, come un soffio di nordico spiritualismo, ad invadere la rilassata civiltà de’ popoli meridionali, suscitarono una scuola di novatori ardenti, fra quali figurano Manzoni e Pellico. Appoggiati al principio che le arti devono essere l’espressione delle varie emozioni e più intime dell’animo, eccitati dalle traduzioni recenti dei capi d’opera di Goethe, di Schiller, dei poemi di Byron, e dei romanzi di Walter Scott, questi uomini distinti si sforzarono d’imprimere alla letteratura del loro paese un carattere più serio, più casto e più logico, di ringiovanire tutte le forme della poesia e della imaginazione.
La musica non tardò punto a seguire l’impulso [141] generale degli spiriti, e fu Bellini che tentò di farle subire questa novella trasformazione. —
Nato a Catania, il 3 novembre 1802, Vincenzo Bellini fece i primi suoi studj musicali al conservatorio di Napoli sotto la direzione di Tritta e poi di Zingarelli. Dopo aver ottenuto un successo d’incoraggiamento al San Carlo per la sua Bianca e Fernando (1826), chiamato a Milano, l’anno seguente, compose il Pirata per la Pasta e Rubini. Coi canti di quest’opera i nomi dei tre grandi artisti furono assicurati.
Il siculo compositore, felice di tanto successo, si sforzò d’aggrandire il suo stile nella Norma, che fu l’ultima creazione della Pasta.
Compose i Puritani, facendone eseguire le parti dai quattro celebri virtuosi che facevano nel 1834 la fortuna del teatro Italiano in Parigi, la Grisi, Tamburini, Lablache, e Rubini suo favorito cantante.
Mostrò che il suo genio elegiaco sapea trovare, al bisogno, accenti più profondi e variati. Sei mesi dopo la prima rappresentazione di quest’opera sublime, morì Bellini, giovane tanto, «come uccello celeste, esalato appena l’ultimo suo lamento.»
— Natura fina e delicata, genio melodico più tenero che forte, più commosso che vario, fugge l’influenza di Rossini, e s’ispira direttamente ai maestri del 18.º secolo. Procede specialmente da Paisiello, di cui ha la soavità, e ne riproduce la melopea piena di languore.
Questa affinità è rimarchevole sopra tutto nella Sonnambula, spartito che meglio d’ogni altro esprime la personalità del giovane compositore, e che si direbbe la figlia della Nina tutta commossa ancora dal dolore materno.
[142]
Musicista di felice istinto, che una affrettata educazione non avea interamente sviluppato, Bellini non trovava soltanto nella emozione del suo cuore le melodie squisite e originali, ma sovente altresì le piccanti armonie, come nel bel quartetto dei Puritani.
La sua istrumentazione, debole in generale, non manca talvolta d’una certa energia. Ma il suo carattere è più elegiaco che veramente drammatico. Si distingue per una declamazione sobria, contenuta, in cui circola un’emozione sincera; canti meno splendidi e sviluppati di quei Rossiniani, perchè sono pura emanazione dell’anima, e non sentono d’altro artificio.
Nato in una beata contrada, assuefatto l’orecchio dall’infanzia alle flebili melodie ripetute da secoli fra i pastori della Sicilia; pieno il cuore di quella serena melanconia che, nel paese amato dal sole, ispirano le grandi ombre della sera e l’orizzonte infinito del mare; melanconia di cui si trova qualche espressione in Teocrito, in qualche madrigale di Gesualdo, ma specialmente nei canti di Pergolese e Paisiello, Bellini mesce l’accento nativo del suo genio meridionale alle aspirazioni cupe e fantastiche della letteratura alemanna ed inglese, e ne forma un tutto squisito pieno di grazia e di mistero[110]. —
Il terzo astro che compone il mondo di luce musicale del nostro secolo, spuntò nel 1798, a Bergamo, terra fertile di cantori, dove nasceano David e Rubini del canto impareggiabili sacerdoti.
Era Gaetano Donizzetti, che da umili genitori trasse [143] una grande ricchezza di genio per le arti belle di cui fu cultore appassionatissimo. Cominciò con quella della sesta, e architetto abilissimo, finì sublime compositore.
Parlando di Simone Mayr che gli fu maestro, abbiamo parlato implicitamente della buona scuola che nella stessa sua patria s’ebbe il Donizzetti, perfezionato poscia a Bologna dall’ab. Mattei.
Benchè ancora giovane egli abbia dato saggi ammirati d’ingegno, come fu nel 1818 a Venezia, per la sua prima opera Enrico di Borgogna, e successiva di Roma, Zoraide di Granata, 1822, si può dire che anch’egli è della generazione dei compositori drammatici che s’impossessarono della scena italiana poi che Rossini avea imposto silenzio al suo genio e gettava sdegnosamente la penna dopo aver scritto Guglielmo Tell!
Donizzetti e Bellini allora si disputarono primi la corona cui Rossini abdicava, e gettava lungi da lui come peso importuno: e l’anno 1831 segna un’epoca speciale ne’ fasti del Donizzetti, che pose in scena a Milano, colla Pasta, Rubini e Galli, la sua Anna Bolena, ottenendo straordinario successo, malgrado la presenza di Bellini e l’entusiasmo ch’egli vi eccitava colla Sonnambula interpretata pure da que’ celebri artisti.
La falange di sommi cantori vissuti in quel tempo prestossi mirabilmente ad esprimere i concetti d’una mente tanto feconda. La Ungher fu una Parisina impareggiabile; la Persiani, Duprez e Coselli ministrarono la prima volta i tesori della Lucia.
Fu presunto che lo stile largo e severo del gran tenore Duprez abbia esercitato un’influenza favorevole sulla ispirazione del compositore.
[144]
Il capo d’opera di Donizzetti passò subito da Napoli a Parigi, divorato dall’entusiasmo; e lo spirito dell’autore trovò lena di volare da trionfo in trionfo colla Figlia del Reggimento, I Martiri, La Favorita, La Linda.
Eppur la fortuna non gli fu tanto amica. Oltre alle ansie in lui sollevate dalle altissime rivalità, il Donizzetti trovò spesso incerti o prevenuti gli uditorj; inesorabili le censure; carnefici gli appaltatori; instabili i cantanti; brevissimo il tempo. Gli mancò Nourrit nei Martiri composti per quel tenore, che se ne avea tratte egli medesimo le parole dal Poliuto di Corneille.
E Donizzetti, cantante egli pure, e come altrove abbiam veduto, studioso speculatore della voce umana, tenea in sommo grado l’importanza e l’influenza del geniale sacerdozio.
Per non perdere Lablache, improvvisò il Don Pasquale in otto giorni; onde si narra che, quando gli si dicea che Rossini ne avea impiegati quindici pel suo Barbiere, Donizzetti replicava: «Non mi sorprende, egli è così pigro!» — Durante le prime rappresentazioni delle sue opere, lo si vedeva sovente errare solingo tutta la notte nei luoghi più remoti delle capitali, fuggendo lo spettacolo pieno d’angosce in cui le ispirazioni più intime dell’anima venivano giudicate da esseri ignoti; e si disse che egli fu il primo compositore italiano ch’abbia rifiutato di comparire alle prime rappresentazioni, come si usa da tempo immemorabile.
Fu costretto a precipitare il lavoro d’un colossale spartito, pel quale ei gridava: «il Don Sebastiano mi uccide.» Fu sventurato negli affetti di padre e d’amante; egli tanto amabile ed affettuoso. E [145] finalmente fu scosso nella viva e delicata sua organizzazione, che aggiungeva tanta grazia alle singolari qualità dell’artista, e in quella divina facoltà d’immaginazioni tanto feconda.
Essendo a Vienna, maestro della cappella di Corte, diede segni non equivoci d’alienazione mentale. Declinò precipitosamente, e venne a morire nella sua città natale, il 1.º aprile 1848; quando la patria progredita anche pel suo genio nell’arti e nella civiltà, iniziava politicamente la sua riscossa.
Donizzetti lasciava intorno a cento spartiti d’Opera, una farragine di canti separati, cantate, romanze, messe, capricci.
Nell’entrare di sua carriera avea seguite l’orme di Rossini, ma nel procedere avea sviluppate le qualità speciali del suo genio, aggiungendole per così dire all’eredità paterna.
Nè egli avrebbe potuto sfuggire all’influenza che i canti del cigno pesarese doveano esercitare anche sul suo ingegno. In fatti nella storia delle arti belle è facile riscontrare come i genj più vigorosi cominciano ordinariamente imitando i maestri, che già possedono il favore del pubblico o che s’attirano per secreta affinità di natura l’amor degl’allievi.
«La giovinezza è di rado originale — ed ognuno che ha fatto epoca nella storia dello spirito umano, ha dovuto balbettare la lingua della sua nutrice prima di trovar quella della propria anima.»
Abbiamo notato che Mozart ha formato il suo incantevole stile imitando i genj italiani, come Giorgio Benda e i medesimi Bach[111], Haendel, Gluck, ed Haydn; [146] Beethoven s’è ispirato di Mozart; e Rossini ha depredate per metà le ricchezze di Cimarosa, di Mayr, di Paër e di Generali, confessando egli stesso gli esemplari usati ne’ suoi primordj, e rammentando specialmente «quel Matrimonio secreto in cui non v’ha pezzo il quale non basti a fare la riputazione d’un compositore.» Coi raggi melodici della scuola italiana, e colle ombre armoniose di quella alemanna, creò il proprio sole, brillando sopra tutti.
Bellini seguì Paisiello. Donizzetti, meno originale, più abile e vigoroso, viene immediatamente dopo a Rossini di cui è il più brillante discepolo; e dappresso alle variate ed eleganti melodie dell’Otello e della Semiramide, vivranno nella posterità i canti della Lucìa, per cui maggior valore acquistarono le belle voci di Duprez, Rubini e Moriani, onde l’êco non è ancora spento, nè cessano i lor successori di rinnovare al mondo la tenerezza di sentimento e le dolci espressioni di lui che ritrasse sè stesso, cantando — O bell’alma innamorata! —
Da questa triade sublime rigeneratrice di canti, benchè meno vasti e fecondi generarono nuovi astri pur luminosi: Mercadante, Pacini, Verdi[112].
[147]
Ma prima di scendere a questi, mi convien soffermarmi a un’altra scuola che del genio italiano lasciata da tanto tempo in disparte, ai nuovi progressi Rossiniani, generosamente scossi, impresero arditi slanci; e senz’attendere ai mezzi vollero fama ad ogni costo.
La Scuola germano-gallica, cui la natura nelle belle espressioni del canto fu tanto matrigna, ma forte della virtù della scienza, tentò con nobile sforzo la propria riabilitazione.
Di tanta impresa un forte nobile carattere si fè iniziatore. Giacomo Meyerbeer, nato a Berlino nel 1794, sortì un ingegno straordinariamente inclinato alla bell’arte di Euterpe, e n’ebbe gli elementi dalla italiana fonte del Clementi, quindi da un allievo del celebre padre Vallotti, già maestro alla cappella di Sant’Antonio di Padova, quale fu l’ab. Vogler di Darmstadt, e quindi dei Weber: e reso profondo nelle leggi positive e nelle grandi teorie del suo paese, venne a sollevare il suo genio fra gli incanti della scuola italiana, presso a un Salieri che l’incuorò alla composizione della sua Romilda e Costanza per le scene di Padova, con una Pisaroni che gli rivelò gli effetti d’una interpretazione perfetta, e coll’ajuto del gran cantor Pacchiarotti, che, vivente ancora, e più che ottuagenario, volle donargli efficaci consigli sulla maniera di scrivere per la voce umana.
Quei conforti che erano stati negati in patria alle sue prime composizioni, Meyerbeer li trovò assieme alla esperienza, nella colta città di Padova, che accolse il giovane tedesco come a lei appartenente pei legami d’una parentela intellettuale.
Nè bastò questo; chè Venezia gli offrì il grande esempio e l’amicizia del Rossini, che allora vi rappresentava [148] il primo suo capo d’opera, Tancredi; ed aprì a lui pure i suoi teatri per l’Emma di Resburgo, Margherita d’Anjou, ed il Crociato, elevando il nome dello straniero accanto a quello del pesarese; onorando indistintamente i genj cui è patria il mondo. Da Venezia, nel 1825, si sparse il nome di Meyerbeer in tutta Italia, e d’allora si fissarono in lui tutti gli sguardi d’Europa.
Di qui, la coscienza della sua grande personalità; lo sviluppo dello spirito penetrante, la manifestazione delle idee complicate e profonde, l’anima del filosofo esilarata dalla poesia, l’orecchia intruonata dalle selvaggie e complesse sonorità istrumentali, raffinata alle eleganze della melodia, di qui l’autore del Roberto, del Profeta, e degli Ugonotti.
Ma quest’autore era alemanno d’origine, e dovea dimorare e ricevere affascinanti ovazioni in Parigi, dove Gluck poch’anni prima avea promossa la rivoluzione memorabile nella musica e nel drammatico canto.
Al facile melodico genio d’Italia gravò il positivo e complesso spirito oltramontano; e ne rinnovaron la prova Wagner, Flotow, Gounod, Thomas, Halevy.
Quest’ultimo peraltro, temperò meglio alle fonti italiane lo stile de’ suoi canti. Da padre tedesco israelita, nato a Parigi (1799), a diec’anni già allievo di Cherubini creator di maestri e di cantanti in quel Conservatorio, dimorato a lungo fra le ispirazioni di Roma, dove acquistò il gran premio nel 1819, quivi esercitossi alle gravi espressioni delle salmodie; passato quindi a Napoli, provò l’ingegno in quelle vaghe canzoni di cui il bel clima è fecondo; scrisse italianamente per Vienna il Marco Curzio, ed altre opere anche nel genere buffo, secondo lo stile degli studiati italiani maestri; [149] e finì sotto al cielo prediletto a Nizza, 1862. Dunque esso pur, nuovo Mayr, può ben dirsi frutto alla terra di sua coltura e di suo trapiantamento; e come abbiam veduto di altri celebri stranieri; anche l’autor della Ebrea è grande massimamente quando più si discosta dalla oscurità che nemica alla scuola italiana vuol rapirle il suo vanto.
Per la sorte del canto e della bella sua patria, sorsero Mercadante e Pacini dalla classica scuola napoletana, e dalle spontanee fantasie dell’organista di Busseto venne un Verdi. Così dalla Lombardia all’estrema penisola riconfermò il canto nuovamente il suo regno.
La critica straniera, fatta più ardita, trovò allora a dire non essere Giovanni Pacini che un facile imitatore di Rossini, un ingegno non pronunziato.
Saverio Mercadante, nel corso d’una vita rallietata dai canti di Elisa e Claudio, della Vestale, degli Orazj e Curiazj, del Bravo, d’Emma, Gabriella, Giuramento, Normanni, di cantici sacri resi ormai familiari, e di mille frutti di cui non fu spoglia la sua veneranda vecchiaja, fu vezzo giudicarlo siccome «musicista istruito ed abilissimo, cui peraltro il cielo negò il dono del canto e della originalità.»
A Giuseppe Verdi s’attribuì un’immaginazione più elevata che feconda, ravvisando assai ristretto il cerchio in cui svolge le sue idee, non peraltro sprovviste di certa potenza e splendore, ma non variate e sviluppate dall’arte.
Lo si disse l’uom della formula, la quale confina colla indigenza. Spirito preoccupato dei drammatici effetti, alla realizzazione de’ quali spinge al grido le voci, la musica alle sonorità.
Gli si fece l’onor d’assimigliare i suoi canti a [150] rustiche vivande, che abile culinario può talvolta far comparire in mezzo a splendido banchetto per rinfrescare il palato ardente de’ convitati[113].
Di queste vivande peraltro son molto avide le genti, e sembrano ben bruciati davvero i palati per tutto il mondo!
Che il carattere della scuola italiana in generale abbia sensibilmente modificato dopo Rossini, e l’influenza della letteratura straniera e delle nuove teorie su l’arte drammatica musicale abbia eccitati i compositori del paese di Cimarosa alla ricerca di violente espressioni nella passione, trascurando forse le soavi tinte de’ sentimenti amabili e delicati, per quelle oscure de’ più fieri trasporti, io ne convengo: mi unirò altresì a lamentare l’abuso di far procedere quasi a pari passo il canto della voce umana coll’echeggio de’ più volgari strumenti, a scapito della bella scuola, e una certa facilità che sa di negligenza, a danno della elegante varianza.
Ma se il misticismo trovò accesso nella immaginazione serena degl’italiani, lo si deve purtroppo all’andazzo venutoci d’oltremonte, ed alle rivalità suscitate dai pretesi cantori della riforma.
Come i naviganti modificano talvolta a seconda del vento il loro corso, per non restare arrenati, o per trarne partito migliore, così gl’inventori si lasciarono trasportare peccando d’imitazione e di servilismo. Se v’ha censura, questa si dovrebbe rivolgere ai nuovi esempj della vantata riforma, pei quali il carattere melodico si lasciò fuorviare dal naturale suo corso; se v’ha debolezza o decadenza, quest’è soltanto nell’aver ceduto all’altrui imitazione.
[151]
Così l’autor della Niobe, della Saffo, e del Buondelmonte, volle esagerarsi per non parere da meno dei declamatori e istrumentalisti complicati che per questi meriti soli pretendevano la palma: mostrò il suo valore, massimamente nell’ultimo suo lavoro, Don Diego di Mendoza; ma peccò necessariamente egli pure d’offesa al bel canto, quando confuse le melodie cogl’artificj[114].
L’autor del Nabuco, variando di stile in stile, venne al Don Carlos, e diede un saggio di saper vincere anche la propria natura per stare a paro dei riformisti; e Verdi, ben più che de’ suoi facili canti, pentirsi dovrebbe d’essersi atteggiato all’altrui foggia.
Bene a ragione Verdi potrebbe ripetersi quello che il vecchio Gluck solea dire di sè a coonestazione delle sue secche e sterili composizioni, meglio che a puro omaggio del vero; cioè: «aversi egli sforzato nel comporre ad obliare che era musicista, interdicendosi tutte le bellezze dell’arte sua che non gli sembrassero necessarie alla traduzione fedele della parola, soffocando i belli slanci della imaginazione per soddisfare alle leggi d’una logica da pedanti!»
Ma d’altra parte, il medesimo Verdi ben può vantarsi d’un altro prodigio.
Chiamato ultimamente (1871) dal munificentissimo Ismail Kedivè d’Egitto a comporre una grand’opera per quelle scene nuovamente a imitazione italiana fabbricate, là, su quelle rive, dove in altri tempi i Tolomei raccoglievano a migliaja gl’indigeni musicisti [152] per celebrare le feste del Nilo[115], e d’onde poscia traevansi a Roma i cantori che meglio corrispondevano allo splendore degli Imperatori e all’allegria de’ Circensi, Verdi scrisse l’Aida.
L’italiano maestro in tale lavoro, continuando pure lo svincolo dalle convenzioni e dalle formule, e le concessioni alle esigenze dell’arte nuova, tornò agli sfoghi d’una individualità che non può dimenticare. Combinò quindi in maniera stupenda la larghezza della frase che affascina coll’efficacia calorosa del dramma. Aggiunse alle tradizioni del gran canto italiano, la invenzione di quello jeratico-egizio, dalle forme piane e cadenzate, non dissimili dal canto fermo. Mosse un’onda sonora continua or voluttuosa or selvaggia, ora tenera e appassionata, ora scherzosa, ma sempre melodica che s’alterna per tutto il corso dell’opera a seconda delle situazioni del dramma. Fè risorgere il bello fra le macerie dell’antichissima civiltà; onde fu detto che, se Verdi fu il primo onorato di scrivere per l’Egitto, gli Egiziani stessi deggiono essere lusingati che sia stata scritta per loro l’Aida, bella ed artistica glorificazione della loro passata grandezza; sublime ricambio d’omaggio fra quella terra da cinquanta secoli sacra, e l’Italia regina in eterno delle muse e del canto[116].
[153]
Le ricerche degli effetti e del plauso moderno fuori dalle melodiche tradizioni del canto italiano, vinte anche dai compositori e dai cantori cui pareano impossibili, se turbarono forse il vergine primitivo splendore della melodia e la bella grazia del canto, non poterono fortunatamente rapire quell’intimo accento, quell’innata tenerezza, quella sobrietà più cara delle ricchezze e degli sviluppi, che faranno sempre, come ciò che appartiene alle verità dell’animo, la sola espressione immortale.
Contro il misticismo d’un avvenire oscuro e indefinito, quasi a naturale protesta, dalla terra melodica sursero adunque a moltitudini nuovi banditori di canti, che rinnovano le vibrazioni soavi dell’anima senza opprimerla, o esagitarla.
Il melanconico genio trovò nuovo interprete nel cantor veneziano Giambattista Ferrari, che tratto alla gloria e nei conforti de’ valenti maestri, diede alle scene della Fenice, essendo egli trentenne, l’applauditissima Maria Tudor o d’Inghilterra; e tradusse poi in meste note le tragiche avventure di Candiano IV, e i lamenti degli Ultimi giorni di Suli, ispirazioni profonde che rapirono tutto il giovane autore e non gli lasciarono forze da soppravvivere ad una sconoscente fortuna. Morì a 36 anni, nel 1845.
Amor di patria, quando la credeva redenta, per [154] l’avvenimento di un papa miracolo, quale Pietro Giordani avea detto volersi onde fondare in lui le speranze d’Italia, disfogò, nel 1847 dal dolcissimo canto — Del nuovo anno già l’alba primiera, — che precorse ed accompagnò i moti delle famose rivoluzioni di quell’epoca per l’estro di Gaetano Mergazzari di Roma, esule illustre che pur giunse a morire nella sua terra rivendicata (1872).
Cantò e scrisse un Michele Carafa di Colobrano, nato a Napoli nel 1787, contemporaneo a Rossini, e interruppe lo studio geniale per pigliare le armi allorchè re Murat promise una patria agl’Italiani; e rimasto da questi abbandonato, ritornò al conforto della musica e nel 1818 scrisse la Gabriella di Vergy, e l’ufficiale delle guardie assunse la cattedra e la direzione del Conservatorio musicale militare di Parigi, ove morì nel 27 luglio 1872.
Musica e amore, come a sè diceva, ispirarono il giocoso amatore della bella cantatrice Angiolina Gandolf, che da Napoli a Trieste, da Stambul alla Opèra, fece gioire di ridevole canto; Luigi Ricci, che senza tanti artificj, calcoli, servilità convenzionali, nè forme stentate fu gajo e festevole, fedele sempre alla parola e al soggetto; conoscitore delle voci del canto, preciso nella sillabazione, naturale nei parlanti, mormoreggiante nel conversare dei cori. — Fu chi asserì recisamente essere il Ricci nel terzetto superiore a qual sia compositore, e porse a modello le riunioni vocali di tal fatta quali s’ammirano nelle sue opere buffe: Scaramuccia, Chiara, Nuovo Figaro, Esposti, Chi dura vince.
E tanto brio del canzoniere teatrale seppe pur temperare sì eccellentemente ne’ biblici concetti e colle [155] solenni modulazioni delle religiose salmodie, dove l’immaginosa poesia orientale non trasmoda in moderne lascivie, nè i chiassi profani corrompono l’unzione della preghiera; per cui la Settimana santa del Ricci si ritiene classica, ed egli, che seppe torcere il piede dai ginepraj musicati fantasticati oltre monti, fu detto un conservatore all’Italia del nazionale suo canto[117].
Vedemmo in altri genj le espressioni più gravi non disdegnanti l’associamento delle melodiche allegrezze; chè il riso e il pianto si toccano quaggiù, ed anche il sepolcro non è sprovvisto di fiori.
Vedemmo da un albero egregio rinverdire nuovi germogli: e l’invenzione del Ricci si propagò nel fratello, chiamato più volte a compagno nel lavoro di musicali composizioni (come nel Crispino); Federico, ora stanziato a Parigi, e nel terzo, Vincenzo, che portò i dolci canti romanticamente oltre l’oceano[118].
I modi di canto di Luigi eran ritratti dalla infelice Lella Ricci, morta nel 1871.
Vedemmo profeti cantori lasciar memorabili giudizj; e dal Ricci ereditammo colla melodia deliziosa, il bel detto: «Amar la gloria come la patria — nè serva, nè compra — la lode dal popolo, egli n’è il padrone ed il giudice.»
[156]
L’amico a Generali, rivale a Zingarelli maestro, collega a Bellini, critico a Verdi, presagì bene di Sinico e d’Apolloni. Questi cantò soavemente l’Ebreo, quello i Moschettieri.
F. Ricci, A. Cagnoni[119], L. Rossi, De Giosa, De Ferrari[120], Pedrotti, Marchetti, Petrella, brillano innanzi alla schiera eletta alla custodia ed al progresso delle itale tradizioni.
Custodia e progresso che per noi non possono andare disgiunti. Nè v’ha pericolo che questi ed altri compositori lascino negligentato il vasto campo delle nuovissime ricerche, che di ricercatezza e di speculazione sovverchia sono fra noi talvolta appuntati.
Così vediamo anche nella maggior parte d’essi rinnovarsi quello strano e curioso contrasto che i meglio riusciti alle espressioni dei giocosi canti teatrali, parimenti emergono in quelle degli elegiaci e severi de’ templi, dov’è più frequente la separazione del melodico canto dalla lirica poesia: argomento in oggi con calore richiamato, ricerca elevata adesso a questione e spinta così da sembrar confinata colla soluzione d’assurdo; mentre, senza tanto clamore, i nostri compositori chiesastici, da gran tempo vi si aggirarono dappresso nel cantar di musica i salmi, dalle liriche ben diversi, e musicando all’uopo con altrettanta spontaneità, e con altri vantaggi chiesti dalla scienza (come retro accennammo a pag. 115), persino il più lirico verso dello Stornello.
Nè ci mancarono studiosi che ai conati di rendere [157] appunto più indipendenti fra loro poesia e musica, e di togliere affatto l’antico vezzo delle parole ripetute, si sperimentarono specialmente; tali fra gli altri V. Pontano m.º d’Orvieto, testè mancato, ed il bar. G. Crescimanno che diè saggi a Torino di musicare alcune scene tragiche dell’Alfieri[121].
Le grandi insegne del dramma serio sono ancora fra noi sostenute gloriosamente da Giuseppe Verdi, proteiforme campione rimasto al primo posto; e lo seguono più prossimi alla elevata meta, l’ispirato cantor della Jone, e quello meditato del Ruy Blas[122].
Temperati a questo vario sentire, a tanta copia d’esempj, e imitatori del genio italiano, come vedemmo i più grandi compositori stranieri che furono, ora nuovi seguaci s’appresentano.
Tali: Asger Hamerik, danese, che per sole tre voci scrive i canti della Vendetta[123]. Melesio Morales dal Messico, cantor d’Ildegonda.
D. Emilio Arrieta, felice compositore dell’opera spagnuola Marina, a Madrid, dove non scarseggiano tuttora maestri distinti, quali: l’Oudrid, Iose de Goizueta, Eslava ed il suo allievo Zabiaurre.
[158]
Oscar-Camps[124] e Agostino Perez, maestri a Saragozza, vi fondarono anche un’Accademia musicale.
Gaula e Obiols a Barcellona.
Guglielmo Mack dal Conservatorio di Napoli, torna a Calcutta per scrivere la nuova Giovanna Grey.
Marras nell’Indie, Hopskins, Gottschalk e Balatka, negli Stati Uniti, scrivono a imitazione dei classici.
Albert Giraud porge la prima opera in Algeria.
Carlo Gomez, che in Rio Janeiro sua patria coi successi dell’opera Guarany, mosse quell’Imperatore ad onorare solennemente colui che iniziato avea nell’arte musicale il giovane autore brasiliano, Lauro Rossi, allora direttore del milanese Conservatorio[125].
Lajtz, altro allievo di Milano scrive per Zagabria.
Flotow imitatore pur esso di dolci melodie nella Marta e nell’Ombra.
Thomas Gregorio, erudito maestro del parigino conservatorio nella sua Mignon (ridotta com’è da Opera-comica sotto la cui forma era scritta), elegantemente riesce a cantilene soporifere, a complicati ballabili[126].
[159]
Ebbero vena alle nazionali canzoni in Parigi, fra gli altri, C. G. Roussel, che fu maestro fino al 1870 all’Istituto de’ Ciechi; Amato Maillart di Moulis, autor della Sara; Hervè di facili cantilene fecondo, tutti e tre, che, come Auber loro principe, non sopravissero ai danni estremi della patria nell’ultima guerra fatale.
Altri non oscuri compositori diconsi, Giulio Cohen e Pantaleo Battù. Egualmente nel Belgio, Alessandro De Vigne già maestro a Gand.
Tali, Guglielmo Berlijn in Amsterdam, e Bernardo Molique di Nuremberg, antico direttore alla Corte di Stuttgard.
Raff, svizzero (nato a Lachen 1822), maestro a Wiesbaden, men felice nei canti del Re Alfredo, che nelle critiche della Wagnerfrage.
Beer, all’idioma francese addatta i canti della sua Elisabetta d’Ungheria; come Carlo Loevve ebbe grido di ben comporre per l’Alemagna e la Francia[127].
Hüller tedesco, e Sullivan inglese, scarsi d’idee, s’ingegnano del loro meglio per emergere in Londra. Quivi ricordansi i maestri: Smart e Balfe, di fresco perduto; Ugo Pieson che or diede la Contarini; E. Bunnef, ed il sunnominato J. Benedict, ricercatori di canti all’inglese teatro.
Bruk ed Hopffer viventi a Berlino. Frank, del Musikverein di Vienna. Wasielewski violinista e maestro alla cappella di Bonn in Prussia. Scholz Bernardo, ed Haus bar. di Bülow, già alla cappella di Monaco, pur distinti alemanni.
[160]
Lachner Francesco di Rain, che fu maestro a Vienna, a Manheim, a Monaco, lasciò musicato anch’egli l’Edipo di Sofocle, e divise la fama coi fratelli Ignazio e Vincenzo.
Glink fu il principe de’ russi maestri; fra quali era specialmente cultore delle melodiche tradizioni il Weyrauck che fu anche rinomato cantore, e quel compositore principe Galitzin che fu assassinato in novembre 1869.
Niels. Wiehelm Gade è il maggiore dei compositori di Danimarca, dove S. A. Paulli, d’origine italiana, levò in rinomanza la r. cappella di Copenaga; e F. P. E. Hartmann, il suddetto Asger Hamerick, ed E. V. Ramsoë, classicisti, son pur riverenti all’italica scuola.
Tale Brams Giovanni, che in quella dei grandi elegiaci musicali alemanni incrementa vieppiù le ricchezze degli Oratorj.
Vatroslay Lisinski, morto nel 1854, faceasi custode del Canzoniere polacco: e Moniuszko, morto a Varsavia, 1872, delle Operette popolari.
Vedemmo retro, a pag. 85, d’alcuni distinti compositori Ungheresi.
Prock Enrico, viennese, successore al Salvi a quel teatro e alla cappella imperiale, aumentò di duecento Lieder il canzoniere alemanno.
Fètis padre fu tale nel Belgio, non parimenti felice nelle Operette di cui volea mostrarsi fecondo.
Offemback più grazioso e leggiero nelle cantilene delle Operette, che in oggi la politica, sotto color di tutela al classicismo della grande composizione ora in andazzo, proscrisse dai grandi centri, i quali poi fuori dal naturale vanno cercando armonia.
[161]
Hervè suo imitatore, non incorse nello strano ostracismo, forse perchè nell’epoca appunto di queste aberazioni governative veniva a morire in Londra (1871).
Più fervido ancora dell’Offemback, il Suppè, nato però in riva all’Adriatico; ma tale che anche allorquando affetta i ritmi tedeschi, ha uno spiccato sapore di melodia italiana.
E parecchi principi delle medesime studiose terre franco-alemanne, quali, il Paniatowski e Giorgio d’Annover, stanno fra i più felici imitatori.
Ma se per assaporare le vere dolcezze, e per diffonderle anche frammiste ad estranei sapori, concorrono tutti, come insegnò Carlo Magno, alla prima fonte; come mai, quella schiera graziosa providenzialmente preposta alla estasi del bello, alla delicatezza del senso, alla ebbrezza del piacere, nell’arte più soave, tiensi quasi esclusivamente nel coro delle servili esecutrici?...
Al linguaggio degli angeli e delle vestali, alla mistica eloquenza dell’anima, alle forme specialmente sacrate alla preghiera, e preferite dall’amore e dal mistero, attendano anche le donne italiane; memori che le antiche, al dir dell’Ariosto, hanno fatto mirabil cose nelle sacre muse, e son venute in eccellenza di ciascun’arte ove hanno posto cura.
Le donne, che dall’amore ricevono la loro coltura, e sen fanno agl’uomini distributrici[128], immagini della natura, madri del dolore da cui le grandi anime e gli alti portenti, e della letizia d’onde il profumo della vita e la ispirazione; rammentino la Femonea, [162] la Saffo, la Debora, antichi genj del classico canto; e le Caccini e le Guidiccioni concorse alla riforma melodica ed alla creazione dell’italo melodramma.
Non lascino il fertile campo a sola cura del loro superbo compagno, contente di sfruttare dalle sue fatiche; come ogni altra scienza in cui vanno rivendicando l’onor della gara, anche nella composizion musicale arrechino la loro geniale ispirazione: e sia salutata con gioja Carolina Ferrari, da Lodi, che nella terra di Cagliari interpreta colle nuove note di suo trovato, le virtù d’Eleonora d’Alborea (1871) poeticamente e musicalmente illustrando il più bel tipo di donna italiana del medio evo; ed Orsola Aspri, che nella gran Capitale inneggia ai nuovi destini d’Italia.
Innanzi a tanti apostoli viventi nell’esercizio della bella missione, e più o men fortunati nell’acquisto di chiara fama, m’arresto.
Il giudizio sulla nobile gara è ancora in mano del tempo.
Anche gli acoliti d’un’altra scuola attendono l’avvenire... Scuola e rivalità che non sono nuove; e abbiam veduta predicata quella, e questa ritentata fino dai tempi dei Ricercari di Frescobaldi e delle Fughe di Bach; di Piccini e Gluck; di Rossini e di Wagner.
Dall’epoca delle semplici composizioni e dei melodrammi cantabili, in cui il teatro lasciava ancora i Cori alle chiese, e le Orchestre alle bande militari, a quella dei colossali spartiti che impiegano truppe di virtuosi e di professori, dal 1600 ai giorni nostri, la composizione progredì tanto da dare al teatro una media di cinquanta opere all’anno.
L’arte continua il suo cammino, or latente, ora palese — scriveva non ha guari il maestro Sessa — la [163] musica è la compagna, il prodotto necessario dello spirito umano solo ed unico fattore d’essa: finchè vi sarà al mondo uno spirito che viva, una mente che si agiti, un cuore che batta e senta vi sarà musica, e data questa, vi sarà pure l’arte musicale, che è la musica fatta degna del suo facitore, lo spirito umano; arte velata, mezzo incomprensibile (nel che sta appunto la sua attrattiva maggiore e peculiare) vera iride delle arti, ma arte sempre.
«... Questa cammina, buon grado o malgrado i critici; e nel suo cammino ne incontra di tutte sorte: or tira dritto ed eguale, or trasvia, or va troppo in giù, or troppo in su, ora inciampa e cade, ora risorge, ma cammina pur sempre, e nel suo cammino sviluppa necessariamente gli elementi suoi indefiniti, indefinibili, inesauribili.
Oh! io mi rallegro meco stesso, che in Italia, in questa nostra amata Italia, sorgano i giovani compositori dovunque, forniti d’intelligenza e di cuore, di sapere e di sentire, e ci facciano assistere alle prove luminose della loro abilità.
Vi saranno inaccortezze, esuberanze, difetti: ciò è inevitabile; ma che monta? Le disaccortezze giovano a far accorti per un’altra volta, le esuberanze si frenano, i difetti si tolgono. Se è dell’uomo il peccare, meglio il peccare per eccesso che per mancanza, meglio peccar d’ambizione che d’accidia.
Avanti! avanti! Non ci arrestiamo dopo una o due pruove felici o infelici. Avanti! cauti sì, non alla cieca, ma avanti pur sempre. Non dimentichiamo mai canto, melodia, anima, ideale; il canto domini; l’armonia, lo strumentale non servano, ma accompagnino, non superino soffocandolo, il canto.
[164]
Facciamo che la musica esprima il sentimento del cuore, non il concetto della mente; facciamo che dessa resti vaga, indefinita, ch’essa sia spiegata, cementata dalla parola, e non che la parola sia commentata e spiegata dalla musica; non la immiseriamo, non la materializziamo!
Avanti signori Marchetti, Ventura, Miceli, Perelli, Gomez, avanti tutti ch’io non nomino. Siate o non siate genj (il genio è pazienza, assiduità, costanza) avanti! fate, producete, fateci sentire i vostri bei canti a dispetto degli invidiosi e de’ mille ostacoli materiali e morali che s’oppongono all’uscita e riuscita dell’opera d’un giovane maestro sul palcoscenico.
Il pubblico è avido di sentir vibrare corde nuove e non consunte. Il vecchio repertorio facciamo che riposi alquanto: così ci apparirà rinfrescato e più bello a riudirlo dopo un certo tempo, dopo aver udito le cose giovani, fresche, ridenti di quella bellezza che la gioventù sola può dare. — L’arte, l’Italia, si aspettano molto da voi![129]»
Quest’è l’avvenire: le Speranze.
Altri aspettano, e sperano dall’avvenire: e fanno bene. Essi camminano per altra via, e fuori dalle tradizioni e dalla scuola italiana di tutti i tempi. Essi redivivono e si riformano: e non v’ha, nè può farsi questione.
La strada è diversa, diverso l’intendimento.
La parola riforma pronunciata dai nordici, non può suscitare i meridionali se questi erroneamente non se la appropriano.
[165]
Lasciata a loro esclusiva con tutta l’idea che rappresenta, quella parola anzichè sollevare lotta comune, apporta un utile all’arte, un fecondo conciliamento.
Chè definite omai son le due scuole, e vive ciascuna di sua esistenza: nell’antitesi spiegata non rimane altro dubbio; e le demarcate nature non lasciano luogo a processo.
Sarà permesso un confronto od un parallelo: e con quello che ci dà il maestro Oscar Gamps y Soler, chiudo sulle composizioni.
Scuola italiana. | Scuola gallo-germanica. |
Ispirazione | Calcolo |
Genio | Ingegno |
Melodia | Armonia |
Idealismo | Realismo |
Spontaneità | Studio |
Improvvisazione | |
Espressione | Effetto |
Tradizione | Invocazione |
Semplicità | Complicazione |
Chiarezza e rotondità di forma | Astrusità e rumore |
Ritmo preciso | Ritmo incerto, vacillante, alterato e controvertito. |
Modulazione corretta e naturale. | Snaturalizzazione delle leggi naturali della tonalità e della modulazione. |
Imitazione soggettiva, vale a dire: ancorchè non tratti di esprimere un determinato sentimento, impiega per l’imitazione oggettiva un idealismo che ingigantisce il ricordo dell’oggetto imitato e lo eleva alla stessa altezza che sa elevare i sentimenti ideali spiritualizzandolo tutto. | Imitazione oggettiva: vale a dire, ancorchè non tratti d’imitare un oggetto materiale determinato, impiega per l’imitazione soggettiva con servilismo, un razionalismo che ricorda assai troppo la nuda realtà dei sentimenti, materializzandolo, umanizzandolo tutto. |
[166] | |
Ispirazione | Calcolo |
Dolce fusione di voci e stromenti con predominio assoluto della parte vocale. | Labirintico imbroglio della parte strumentale cui soggiacia costantemente la parte vocale. |
Bel canto | Melopea |
Creazione che estasia l’anima. | Artifizio che ci fa sorprendere e ci fa ammirare. |
Calore che si sente e non si può spiegare. | Grandiosità che si spiega e non si sente. |
Situazioni sceniche ingrandite dalla musica. | Musica ingrandita dalle situazioni sceniche. |
Ma da questa antitesi perfetta potrebbe avvenire un accordo?....
Ecco come conchiude il medesimo esponente:
«Vorrete pure citarmi come trofei della scuola innovatrice gli spartiti di Marta, Faust e Hamlet?
Ebbene, io saluterò con voi e Flotow, e Gounod, e Thomas, e dirò loro: Siate i benvenuti; salve a chi porta nell’arte tanto splendore. — Son questi i riformisti? che leggi trasgredirono dell’antico codice? Non armarono forse le loro lire e non le temprarono ai toni del sentimento, dell’affetto, e non intuonarono forse un’egloga alle passioni del cuore? non sono essi melodisti?.... i pezzi culminanti e più applauditi non potrebbero ostentare sul loro frontispizio un nome italiano?....
Che se pure i lor canti hanno una strana accentuazione e gli accompagnamenti della lor melodia è originale, sovvenir deve che l’euritmia e la prosodia musicale variano naturalmente a norma delle diverse lingue, dei diversi costumi, climi, epoche....
E in quanto agli accompagnamenti, mentre non si potrebbe incolpare alla scuola italiana la trascuranza dopo il Guglielmo Tell, Rigoletto, Aroldo, Trovatore, Orazj e Curiazi, Fidanzata Corsa, Don Carlo; non [167] s’avrebbe ragione di classificare fuori della scuola italiana un’opera che si distingua per la istrumentazione.
Se la natura è incatenata a una legge invariabile, se il nostro cuore non può elevarsi dal limite segnato, se l’anima nostra è immagine di Dio, se il bello deve relazionarsi eternamente col buono, e il male col deforme, se infine lo stolto orgoglio umano deve sempre cadere nella polvere e nell’abbiezione.... l’avvenire che volesse prefissare il calcolo all’ispirazione de’ canti — l’effetto al sentimento — il realismo all’idealismo — Wagner a Rossini — dovrebbe davvero rimanere eterno sotto la lapide dell’obblio![130]»
Ma, nessuno, può vantare di dettar leggi sull’avvenire; — soggiunse quasi contemporaneamente il maestro Melchiorre Balbi. —
In ogni secolo la musica ebbe un sovrano potere sul cuore umano; in ogni nazione vanta la sua eterea influenza. L’Itala terra, auspicata da un purissimo cielo, ispira ai suoi prediletti figli, il genio creatore.
Qualunque altra nazione, la quale non possa vantare questo precipuo bene di natura, suggerisce ai figli suoi dedicarsi alla scienza e all’arte, che mercè una ben regolata scuola, vale a ricompensare largamente i prodotti dell’ingegnoso cultore. Se la natura dà il genio, la sapienza dà l’ingegno: ed ogni possibile perfettibilità musicale sta nel loro connubio.
Non dica l’italiano — la Melodia è tutto — nè l’oltramontano — il tutto sta nell’Armonia: che non vi sarà mai musica senza un equiparato melo-armonico concetto. Così alla rivalità fra melodisti ed armonicisti, [168] subentri una fratellevole mutuità, e questa sola potrà dare, ora e per l’avvenire, l’adempimento di ogni Oraziano precetto, secondo il celebratissimo codice De arte poetica[131].
Ed in vero, importa tanto che gli eletti nostri ingegni s’affatichino a difendere l’istinto nostro e la sua espressione che è il canto; importa, che tanti giudici si sollevino a pronunziare sulle lotte ridestate in oggi dagli appassionati per l’introduzione in Italia dei capi d’opera Wagneriani, provocando nuova decisione sull’altrui classicismo e sulla nostra naturalezza?! Merita che in tanto progresso, il giornalismo in lunghe pagine agiti ancora la ingrata questione? Che il Biaggi colla finezza di retoriche concessioni, e con ironica eloquenza, accordi agli avversarj — che il largo svolgimento della melodia, e il canto che canta, e il personaggio cantante, offendano la verità drammatica, ed invece la servano meglio il canto-recitativo, il canto-salmodia, il personaggio-orchestra, per tirarli a convenire e conchiudere che, l’egemonìa del dramma non ebbe mai il sopravvento che nei momenti di carestia melodica, e ricadde sempre a un tratto e lasciò campo libero alla musica, non appena uscì fuori una fantasia della tempra di quelle che s’ebbero i nostri grandi maestri, i quali in una di quelle melodiose cabalette, delizia dei nostri primi anni, e disperazione dei compositori stranieri, stringevano come in una rapida sintesi il carattere e gli affetti dominanti nei pezzi d’opera, pensieri così belli, così seducenti, [169] che mandavano raggi da tutte le parti con ben faccetati diamanti....![132].
Merita che il D’Arcais a lieta transazione c’inviti, mostrando possibile che — il canto medesimo possa operare la fusione perfetta tra il dramma e la musica, non con l’opera suonata, sperimentata la prima volta in Italia con Lohengrin dato a Bologna 1871, ove bastava l’orchestra e sostituiva al canto l’ode-sinfonica, ma l’opera cantata che pur descrive la drammatica verità colla buona e regolare disposizione della forma e la bellezza del linguaggio che abbisogna di conciliarsi l’orecchio per scendere a padroneggiare il cuore...?[133].
Merita che il medesimo Filippi nella difesa delle straniere teorie ci confessi che — non si tratta d’imporle esclusivamente al nostro paese, di proporle come modello di carattere e di stile ai nostri compositori, nè di farle accettare al pubblico come la sola forma ed espressione possibile dell’arte, ma come lezione al suo progresso e alla fede nel dramma musicale... senza pericolo poi di corromperci, di contaminarci, perchè l’indole, il carattere nostrano, grazie al cielo, non si smarrisce per tali importazioni; perchè in musica l’imitare e copiare sono infruttiferi, e gl’imitatori passano come meteore fugaci, sia che imitino Wagner, sia che plagino Verdi e Rossini...?[134].
Val la pena che da noi tanto si dica?
[170]
È il capo della pretesa scuola riformatrice, il tipo di quel recitativo sinfonico che è lo straniero canto, il profeta involontario, trascinato da altri a mostrarsi anche confuso scrittore, ma quello solo a cui spettarebbe veramente di portare e difendere le attitudini naturali sue e de’ suoi, risparmiandosi però anch’egli i confronti, è Wagner medesimo, men presuntuoso forse che non lo facciano i suoi partitanti, che ci avverte di tanto.
Dopo aver dichiarato che una egra tetraggine esagerava le sue sensazioni, anche quando ricorreva in Italia, dove Goethe s’era lamentato di dover torturare la sua musa poetica coll’idioma tedesco, in paese ove gli pareva che la favella italiana gli avrebbe sollevato il lavoro, si valse della osservazione fatta — che la facoltà caratteristica produttiva di un popolo, è di rintracciarsi più là dove la natura si mostra avara, che là dove si mostra feconda de’ suoi doni; — dice: Che se i tedeschi da cent’anni a questa parte, hanno acquistata un’importante influenza sul perfezionamento della musica a loro trasmessa dagl’italiani, ciò è spiegabile (a voler considerare da fisiologo tale fatto) principalmente dal fatto ch’essi mancanti del dono essenzialmente melodico della voce, hanno dovuto applicarsi con profonda serietà alla parte tonale dell’arte; paragonabili in ciò ai loro riformatori religiosi, i quali appurarono la religione del santo Vangelo abbandonando l’abbagliante splendore delle pompe ecclesiastiche per darsi allo spiritualismo puro dell’anima... Eppure, soggiunge, un anelito secreto ci avverte, che noi tedeschi non possediamo l’intero essere dell’arte; una voce intima ci dice che l’opera d’arte vuole finalmente diventare un fatto completo [171] che appaghi anche il senso, che scuota tutte le fibre dell’uomo, che lo invada come un torrente di gioja... è necessario il connubio del genio d’Italia e quello Germanico[135].
In tal confessione dell’alemanno maestro c’è di più che non occorra per troncar la questione; nè confondere più gli altrui conati, colla potenza riconosciuta del canto.
Potrà essere che un momentaneo torpore del genio melodico, o come disse il Biaggi, un momento di carestia melodica, possa permettere effimeri trionfi alle straniere forme, solite, e che non sono innovazioni; ma non sarà tardo il risveglio del genio italico «alla cui incomparabile feracità, dal rinascimento in poi (escluso se vuolsi il secolo barocco delle pirouette e dei musici) l’epoca moderna deve tutte le sue arti.»
Ben piuttosto il difetto di bravi e veri cantanti è la breccia fatale, la porta spalancata, alle nuove teorie. «La scuola del Wagner, disse il D’Arcais, farà proseliti anche in Italia, perchè risponde alle tristi condizioni dell’arte nostra. Il Wagner non ha bisogno di cantanti di vaglia. Nelle opere di quella scuola, sono i cantanti, come suol dirsi, la quinta ruota del carro. I maestri italiani seguono quella via perchè, presentemente, è la più comoda. Ai nostri tempi la maggior parte dei cantanti non escono dal mediocre, compromettono invece di assicurare il successo d’uno spartito; ne viene necessariamente di conseguenza che i maestri procurano di diminuire la loro importanza; e così poco per volta l’opera in musica cede il campo [172] alla sinfonia descrittiva con accompagnamento di canto.» Regresso fatale dove possedonsi le memorie e le voci più belle del mondo. E fossero poi drammatici questi pseudo-cantanti!
La nullità enciclopedica del maggior numero di questi vieppiù risalta, dove nemmeno il diletto melodico non vale più a trattenere gli spettatori. Allora cercasi di tornare all’antico canto, ma allora manca l’arte di questo, sono impossibili le note dopo l’abbandono delle volate, delle scale, de’ vocalizzi, non son più atte le voci paralizzate dal brontolìo e dall’abbajare così detto drammatico.
Il geniale pensatore ed artista, che in tutte le belle discipline perito, prima di dipartirsi da noi, ci die’ i sapienti suoi Ricordi, Massimo D’Azeglio, in brevi parole, confermando l’asserto degli antichi scrutatori dei misteri musicali, ci lasciò detto: Di tutte le opere dell’uomo, la più maravigliosa ed insieme la sola inesplicabile essere la musica; ma la rivelazione consistere nelle melodie, certune delle quali, sono come una voce, una dolce memoria che si ridesta...[136], di cui l’anima è l’êco (avea detto Victor Cousin) dove il suono acquista nuova possanza, per que’ rapporti maravigliosi che fisicamente e moralmente fra l’una e l’altro vi hanno.
Ma come un sistema esclusivo melodico renderebbe monotono il senso, e concorrerebbe ad affievolir l’animo snervandolo delle sue forze, l’armonia esclusiva, eccitando soverchiamente l’animo e i sensi, finirebbe per l’estremo opposto a renderli spossati, ottusi, macchine cui l’oracolo più non risponde!
[173]
Abbiamo cominciato in queste memorie osservando, fin dagli indizj che i più remoti tempi serbano alla storia, spossato il canto melodico alle armonie dell’arpe e dei cori.
Poeti e divinatori Egizj, Greci, ed Ebrei intuonarono invenzioni e reminiscenze cui risposero popoli, guerrieri e leviti con immenso concerto; come alla prima stella innumerevoli astri fanno corteggio.
Ben lo intesero i genj superiori; e Salomone invaghito del proprio patetico canto, non escluse le migliaja di bianche stole che gli tenessero bordone.
Sia pace adunque anche alla moderna gran patria dei perfetti Corali, solenni d’innumerevoli esattissime voci, purchè quella non voglia escludere superbamente la davidica ispirazione.
La tendenza alle armoniche speculazioni è sublime allora che segue la voce superna cagione di quelle e regolatrice.
In questo grande concetto Händel armonizzò melodiando, siccome Sphor melodiò nell’armonia.
Si ripetano adunque i sublimi canti degli antichi popoli: Noi siam del Signore, cantano a mille voci i vangelici della Germania, sopra la patetica lamentanza di chi ricorda il piagato di Nazaret[137].
Ecco il Messia, ripete un infinito coro ad una rivelazione dell’epopeja cristiana nella sacra Armonica [174] Società di Londra[138], e in quella biblica, L’Israele in Egitto è redivivo nei grandi oratorj Händeliani.
Fino dal 1785 tali enormi concerti iniziavansi nella mondiale metropoli col concorso di 600 cantori; ma nel 1868, nell’Händel Festival del Palazzo di cristallo per l’esecuzione dell’oratorio il Messia, s’unirono in coro fin 3067 cantanti, accompagnati da 500 suonatori.
I cantori dell’universo ivi s’erano dati la posta; e 781 venuti dalle provincie d’Inghilterra, e dalla Scozia — sottoposta al Polo; altri ne manda — la divisa dal mondo ultima Irlanda. —
Di tale memorabile coro, diretto dall’italiano Costa, fu detto che «nell’assieme, l’articolazione delle parole era distinta come se uscissero da una sola capacissima bocca.» Ed aggiungo, che, tanto risuono non impedì la melodia scendesse a ricercar talvolta le arcane fibre del cuore.
Tale avvenimento nella storia del canto è degno di tutto il suo progresso, e ci ricongiunge, per così dire, col circolo indefinito di Vico, all’incompresa grandezza degli Omerici canti.
Nel giugno 1871, ricorrendo il grande triennale, rinnovossi il Festival con un coro di 4000 voci e proporzionata orchestra avanti un pubblico di 30,000 persone nel medesimo Cristal Palace raccolto. Nel tempo stesso all’Albert Hall altri 2000 cantori accompagnano le signore Titiens, Sinico e Trebelli nelle sublimi frasi Rossiniane dello Stabat Mater.
Pel Temperance Festival del 27 luglio 1872 a Londra s’unirono 5000 voci.
[175]
Questo gran coro viene ripetuto alla corte vicereale di Simla nell’Indie, assieme alla Gallia, Salma o cantata di Gounod, e a quella Edenland, di Marras in Ceylan ed altre lontane regioni Indiane e nelle Americhe, dove gl’inglesi specialmente diffusero la passione dei cori, che trovano egregi direttori quali, Gerome Hopkins, Gottschalk, Hous-Balatka anche fra gli americani.
Nell’esercizio di sì grandiosi moderni concerti, bisogna pure accordare buon merito alle nuove Società tedesche, che vanno a gara per ridestare le solenni memorie di quelle masse che accompagnar doveano i canti di Fingallo e d’Erminio.
Ogni ceto di persone vi prende parte, perocchè intendano essere il canto e la musica, linguaggio e insegnamento comune.
Non disdegnano il connubio d’altre voci per ambire lo sterile privilegio di cantar solitarj; come quegl’immondi che pretendono di soddisfar meglio ai precetti della religione d’amore, avvinti alla legge di tenersene schivi, e rinunziano ai cari legami pei quali il Creatore chiamò tutti gli uomini nel coro comune della società e della famiglia.
Quindi bene comprendono i docili alemani l’insegnamento degli antichi, richiamato da Schumann, che, chi vuol essere buon musicista deve esercitarsi assiduamente nei cori[139], come dagli esercitati nelle file sorge il miglior generale, e colla pratica di sì buon precetto, porgono un bell’esempio, che in questa parte anche gl’italiani dovrebbero veramente imitare.
[176]
Nè soltanto ai riguardi dell’arte, ma, come chiaro apparisce, anche a vantaggio della nazionale educazione. Chè i canti del popolo, disse Herder, sono i suoi archivi, il tesoro della sua scienza, della sua religione, della sua teogonia e cosmogonia, della vita de’ suoi padri, de’ fasti della sua storia.
L’associamento al canto cominciato anche in Isvizzera per opera d’Haupert nel 1833, segnò quasi un nuovo periodo di moralità in quelle contrade.
In Prussia, auspice Lutero, compì la riforma del movimento intellettivo, che per la Sassonia, Baden e Württemberg, si diffuse anche nella Baviera e nell’Austria.
Anche le città più ristrette possedono un corpo di bene addestrati cantori, che presso ad altre nazioni non si potrebbe forse raccogliere se non da più luoghi. E ricordo, in Innsbruck, nel 1868, aver veduto radunarsi in brev’ora un magnifico coro di duecento voci maschie e muliebri, per cantare a quel teatro imperiale l’Oratorio di Sphor.
A Baden-Baden, la Messa di Rossini, con straordinarj rinforzi di masse corali. Parimenti a Göteborg, ove dirigeva un Patti; a Kannstadt per opera del Molique maestro alla vicina Stuttgard; ed a Mehadia, luogo di bagni nell’Ungheria, dove si danno grandi concerti.
Alla Cappella già ducale di Dessau, dove Federico Schneider, dapprima organista di Lipsia, fu rinomato maestro, questi potè trovare elementi per le sue grandiose composizioni rituali, come il ben riuscito Giudizio universale che si ricanta nelle città tedesche; per le quali il medesimo autore fino dal 1853 in cui morì, lasciava un solenne Tedeum Cesareo, [177] profetando non lontano un nuovo Germanico Imperatore[140].
A Bayreuth s’inaugura il teatro Wagner (1872) con oltre trecento cantori.
La Società Filarmonica Viennese (Gesellschaft der Musikfreunde) è una delle istituzioni musicali, più grandiose, complete e perfette che esistano; non solamente è un eccellente Conservatorio per l’educazione musicale in ogni ramo dell’arte; è anche il tempio consacrato alla esecuzione delle musiche più belle e difficili, all’udizione degli artisti e virtuosi più eminenti. È fondata da un pezzo, ma si è rinnovata su basi più vaste, pochi anni fa, collo scopo anche di erigere un apposito edifizio per le Scuole e pei concerti.
La sola proficua ingerenza dello Stato fu il lauto dono fatto dall’Imperatore alla Società dell’area per la costruzione del sontuoso edifizio.
Ora dirige il Dessoff, e insegna il nostro Marchesi.
Vienna poi ha più di sessanta Società corali, bene organizzate e fiorenti. Fra queste: la Società del canto corale — dell’Accademia corale — del canto corale maschile — del canto accademico corale — del canto Francesco Schubert — cui si eresse splendido monumento (maggio 1872).
Queste concorrono fraternamente a formare le grandi masse ne’ solenni concerti, come fu nel 1870, per le feste di Beethoven, in cui s’ammirò un corpo corale di ben 300 voci, di soprano e di basso [178] specialmente bellissime, ed educatissime tutte, che richiamarono a viva memoria la Messa solenne di quel compositore.
E in tal circostanza meritarono distintamente i solisti di canto per la Nona Sinfonia, a quattro voci, la Wilt, soprano; la Bettelheim, contralto; il Labatt, tenore; e lo Schmid basso, che condussero a meraviglia quel quartetto vocale, con quelle note che pajono sbagliate, talmente sono ardite, da rendere scabrosa oltre ogni dire la intonazione.
Il tenore Walter, di buona scuola, in oggi il miglior cantante del teatro imperiale, non potè nascondere che la sua voce è disgraziatamente spirante: come la Dustmann, alla magnifica voce ed al gran sentimento, ma senza scuola, rivelò passato omai colla sua freschezza anche l’interesse ad occuparsi de’ suoi difetti.
Beck non avea che un buon resto di mezzi vocali e l’aspetto, come Draxler dalla voce di legno.
La Tellheim, nell’ardua prova vide essa pure smarrir la stella — che per istanti la fortuna accorda. —
Se la marmorea effigie di Beethoven avesse potuto pronunziare sentenza, non s’avrebbe mostrata tristissima della sordità per tanti anni funesta, e sarebbe ricorsa alle memorie del 1814, quando essendo maestro della cappella viennese Umlauff, cantava il suo Fidelio colla Milder-Hauptmann l’italiano Radichi.
Anche la Francia coltiva passionatamente le sue truppe d’artisti che conservano le corali cantilene sue tradizionali e che alle comiche scene con garbo intrecciano il canto. La parigina Schneider è alla testa delle attrici-cantanti d’operette; e specialmente nella [179] Francia meridionale formansi compagnie di cantori, che varcano i loro confini e viaggiano per far sentire cori e le canzoni di Provenza e di Linguadoca.
Le pastorali canzoni, i melanconici idilj! Ma, e gli entusiastici cori delle sue masse marziali?.... ahi, che almen per ora, spirano sulle labbra ai franchi le note di Rouget-de-l’Ile potenti per tutto un secolo a suscitare, come i morti d’Ezechiello, i figli di quella terra a migliaia, per combattere gloriosamente.
Ripigliano invece la forza di milioni di voci, e si diffondono con êco imponente per le campagne dell’Alemagna, le cantate di Körner che parevano spente coll’eroico suo inventore sul campo di Schwerin dal Genio di Corsica.
E per tutta Europa, baldi d’inaudite vittorie, i Germani cantori non si peritano più di far sentire l’Inno della spada, di Weber; la Guardia del Reno, di Wilhelm, Dio lo vuole, di Mendelssohn; i Brindisi (Trinklied), di Marschner; le Marcie, di Stiehl.
Anche i soldati d’Iberia nella riconquista delle loro libertà riprendono lena a intuonare la lor Madrilena. I Magiari rinnovano liberamente i loro cori inaugurati nel 1848 dall’artigliero immortale di Segeswar, Sandor; dall’ultimo cigno che accompagnò le titanniche prove, Alessandro Petöfi.
Perfino le brevi legioni dei nipoti di Temistocle e di Epaminonda ripetono i canti che le riscosse al sacro entusiasmo di Riga.
E l’Italia?!... Oh può anch’ella finalmente rinnovare i suoi cori nella vasta famiglia del suo esercito, nella fratellanza de’ suoi cittadini, che da barbare separazioni il numero non le vien più conteso.
Prodromo fatidico di questi canti cumulativi che [180] ormai la Nazione intera può sciogliere liberamente, intesi pure l’anno 1858, nella terra dell’ospitalità che fu santa Vestale all’Italia, e lo ricordo con commozione.
Solennizzavasi a Torino il decimo anniversario dello Statuto, quando tutte le altre città sorelle gemevano oppresse e divise: ma oltre trentamila de’ migliori patrioti erano concorsi da ogni parte alla festa; ed ivi confondeansi i piemontesi dialetti, col bisbiglio de’ liguri; coll’idioma festivo veneziano, il burlevole lombardo, il canoro toscano, il napoletano infocato. La sera del 10 maggio, sulla piazza san Carlo, uniti 500 italiani cantori, professori e artisti d’ogni paese, dilettanti, allievi della Scuola accademica filarmonica, delle tecniche e della Scuola teatrale Vittorio Emanuele, diretti dal maestro Luigi Fabbrica, echeggiò un gran coro, il primo di tal fatta che sparse fremito insolito nella penisola.
«Và pensiero sull’ali dorate»
(Nabuco).
«E la morte sul campo di gloria
Le nostr’alme avvilir non potrà.»
(Assedio di Corinto).
«Sul fior degli anni — chi muore e che non dà
Di gloria un segno — alla futura età
Di fama è indegno.»
(Donna Caritea).
Insolito fremito io dissi: chè, soltanto pel difetto di libertà non era usa Italia a tai concerti, e suo malgrado in queste prove ad altri popoli rimase addietro.
Mutarono le sorti. Dove anch’essa, nel tempo delle rivoluzioni famose, coll’ultimo de’ suoi soldati-cantori, Goffredo Mameli caduto a Roma, parea che avesse perduto il genio delle belliche muse per sempre, può da quelle sacre mura riaprire adesso gl’inni [181] del trionfo a una massa di coro che risponde dalle Alpi ai Mari.
Dalle scuole degli Asili d’infanzia a quelle dei Reggimenti militari, l’Italia può educarsi al canto suo nazionale.
Ricordiamo che il canto in bocca del popolo è fede e amore, religione e patria; nel ceto eletto è scienza; nel soldato è valore.
Ricordiamo che quando l’inglese Edwort volle cancellare la nazionalità Gallese, fece trucidare i gloriosi bardi, nei canti dei quali vivea la forza morale di quel popolo, restava la vita di quel paese.
Il canto corale l’abbiamo accennato nella antichità più remota siccome il solo concerto. Col progresso strumentativo lo vedemmo anima dei concerti, e la sarà sempre.
Vedremo in seguito l’influenza della parte vocale nell’arte musicale propriamente detta.
Ora passando dai doppj concerti surriferiti che si iniziavano nello scorso secolo, ai puri concerti corali che imiterebbero gli Orphéons antichi, dovremo col sig. Dupont convenire che questa è una riconquista della moderna civiltà.
La riunione di uomini cantori costituiti in società privata allo scopo di eseguire cori senza accompagnamento, non risale che ai primi dieci anni di questo secolo.
Alle imprese tutte nelle quali necessitava il concorso e la riunione di molti individui, l’Italia pur troppo per le sue condizioni politiche, pel suo smembramento, per li suoi sospettosi dominatori non potea partecipare.
Appena appena le restava un’ombra, un’idea [182] d’associamento nelle fraterne religiose, nei pii sodalizj raccolti soltanto attorno gli altari. Ond’ecco nelle Chiese, e specialmente a Roma, mantenuta pure la corale unione, solenne, famosa sì, ma limitata alle esigenze del culto. Bisogna adunque distinguere il primato delle grandi associazioni corali da quello delle religiose corodie, per le quali Italia in ogni tempo fu maestra e ispiratrice. Vediamo infatti precedere anche alla riconquista moderna di cui parliamo, i saggi di Roma, dove già nel 1774 un Gregorio Ballabene dava una speciale sua Composizione a 48 voci per uso del tempio, della quale il tedesco Joseph Heiberger fece subito tesoro, illustrandola, e porgendola quasi a modello a’ suoi compositori, a risveglio di più vasti concerti.
L’italiano Sarti già sperimentava nel 1788 la esecuzione del suo colossale Te Deum a Pietroburgo, trovando elementi e libertà alla riunione di grandi masse. E Cherubini a Parigi, la sua celebre cantata magistrale a sole voci La Ronda.
Ma le prime Società corali propriamente dette, formavansi adunque in Germania: fu Carlo Federico Zelter, allievo e successore di Fasch, che nel 1809 creava la Liedertafel, Tavola delle Canzoni, la prima idea della quale era venuta fuori l’anno innanzi in occasione che parecchi membri della celebre Singakademie avevano dato una cena ad Otto Grell.
I canti di Körner musicati dal Weber contribuirono a rendere popolare il genere nuovo. Senonchè, quasi contemporaneamente, Noegeli fondava il Männer Chor, Coro di uomini, di Zurigo. Però a Berlino la Liedertafel era istituzione di tendenze aristocratiche, o puramente artistiche; mentre a Zurigo il Männer [183] Chor aveva popolari tendenze, presentiva cioè lo spirito degli Orphéons moderni. Dal 1808 al 1835 le società corali, sul modello di quelle, vennero su rapidamente, in modo che ogni città di Germania ne contò una. La Svizzera noverò bentosto venti mila cantanti: quivi peraltro, e precisamente a San Gallo, esisteva fin dal 1620 una simile istituzione, come vuolsi che anche a Greiffenberg in Pomeriana nel 1673, una di genere analogo fosse iniziata.
Vennero dopo il Belgio e la Francia. Nel Belgio, terra classica di corale canto, queste società potenti esercitarono grande influsso sul gusto musicale del popolo, a speciale merito del regime di libertà. Nondimeno fu solo verso il 1830 che svilupparono notabile importanza e rapidissima diffusione.
— A partire dal 1834, scrive il citato Dupont, ebbero luogo nel Belgio i primi concorsi pubblici degli Orphéons tra di loro: l’iniziativa presa da questo paese fu presto seguita dalla Francia e dalla Germania.
Quella propose il primo concorso internazionale delle Società corali nel 1862, e per le cure ed il metodo di Emilio Chevè, offerse circa 200 abili cantori improvvisati[141], e per Pellet le scuole popolari di mutuo insegnamento: questa rinfuocò le provette sue forze, ed accrebbe la sua riputazione.
D’allora la vera vita delle sociali riunioni di cantanti.
Chi non assistette a tali gare artistiche interessanti al sommo grado non può immaginarsi l’ardore e il talento d’esecuzione spiegati da varie di queste Società a fin d’ottenere la palma del trionfo[142]. —
[184]
La Società reale dei Cori, del Belgio, si recò in massa perfino in Inghilterra a provocarvi una nobile gara.
Ed ultimamente, poichè s’intese sul finire del 1871, il gran Concerto (23 decembre) dei patrioti di Gand, ove la nuova cantata di Leon Van-Ghelhuwe rivolta ad una delle più belle e romantiche città d’Italia venia eseguita — Venise Sauvée —, s’intese a Londra per le feste del risanato principe di Galles, (27 febbrajo 1872) l’inno di grazie nel San Paolo, espresso da mille voci, e innanzi al Buckingham Palace un idilio cantato da 30,000 fanciulli. A Boston s’apre un Festival con un coro di 11,000 cantanti (17 giugno 1872).
Or si propone di portare fra i vasti campi dell’Algeria una straordinaria massa di cantori, organizzandovi tale concerto in cui concorrano tutte le Società corali del Belgio, Svizzera, Francia ed Italia.
Quelle Società naturalmente furono i vivaj dei nuovi rinomati artisti stranieri: da quelle una gran parte dello sviluppo alla lor musica.
Da quelle, è duopo confessare, che il paese musicale per eccellenza, è costretto invocare gli esempi, per trarre anche da siffatte istituzioni nuove ed ampie sorgenti di splendore e di lucro.
Ecco peraltro nel 1871 i cantori lombardi che s’associano per sciogliere nella gran piazza di Milano nuovamente costruita, e in occasione d’una Esposizione regionale, presente il Re, nuovi inni musicati per grandi masse corali dai maestri Panzini e Perelli, e la gran Cantata sinfonica orale del Mazzucato.
Ecco in Roma, per la commemorazione del suo 20 settembre, rinnovarsi questa Cantata stupenda, [185] allusiva alle patrie glorie da legioni di cantori quasi d’improvviso risorti e che non saran più disciolte.
L’Inghilterra ha indetta pel 1872 una Esposizione internazionale d’Opere musicali a Londra, sotto la direzione del Commissario della Regina magg. generale Enrico Scott incaricato d’eleggere un Comitato per scegliere le composizioni meritevoli d’essere eseguite nella gran Sala reale Alberto durante l’esposizione medesima.
Spiacque che l’Italia non abbia avuta tale iniziativa, come fu lamentato che alle sue Esposizioni artistiche la parte musicale fu sempre ommessa o mancante. È ben vero che in Italia è permanente e continua la esposizione musicale, ma non pertanto miglior conoscenza delle sue forze e maggior lustro ricaverebbe anche da tali mostre, come da grandi Congressi e Concorsi, che speriamo vorrà ben presto imitare.
— In un’epoca in cui tanti spiriti si lasciano sedurre dalle magnificenze della istrumentazione, al punto di negligentare la melodia vocale, non è senza interesse di richiamare quale sia stata la influenza del canto, e particolarmente del canto italiano, sui destini dell’arte musicale. —
Così trovava di scrivere P. Scudo, cantore, e colto articolista teatrale della Revue de Paris, nel 1848.
Mentre l’interesse delle sue osservazioni non ebbe che ad aumentare per l’andazzo degli anni che si successero, riferirne alcune in questo luogo coll’estensione [186] richiesta dal periodo di grande aberrazione cui superbamente siamo saliti, stimo modo opportuno onde riassumere, dirò così, a sommi capi, le memorie fin qui compendiate, e conchiudere sur una storia che dalle più semplici e istintive regioni della natura, s’è portata a quelle della più raffinata e difficile arte.
Per quelle leggi naturali, il linguaggio del canto l’abbiam veduto eterno; nei legami dell’arte è veramente colla musica moderna ch’egli comincia a balbettare, e ne segue tutti i movimenti, e ne divide con essa i destini.
— A misura infatti che la scala dei suoni percettibili alla nostra orecchia s’ingrandisce e dilata, progressione che forma il carattere essenziale e la storia istessa della musica europea dal IV secolo dell’età nostra, la voce umana si sforza anch’essa d’estendere la sfera di sua azione e d’elevare il suo diapson; quindi l’arte di dirigerla e modularla si complica e divien più difficile, perchè quanti più gradi v’hanno a percorrere, e più vuolsi d’abilità per legarli assieme, depurarli, e comporne un tutto melodico.
Avviene quindi del nostro organo uditivo, come dell’occhio, che l’educazione ne perfeziona la sensibilità, e a lungo andare, perviene a discernere e a gustare quelle varietà che sulle prime non rilevava. La relazione dell’orecchio col nostro organo vocale è pure sì intima, che la delicatezza dell’uno influisce sempre sulla flessibilità dell’altro.
Il canto piano chiesastico, formato dagli avvanzi della musica greca, di cui fu duopo semplificare il sistema per accomodarlo ai bisogni ed alla inesperienza dei fedeli, quel miscuglio di antiche melopee senza [187] ritmo e modulazione e senza tonalità precisa, la di cui alterazione aprì la luce ad un’arte novella, per quella guisa che le lingue moderne nacquero dalla corruzione della sintassi latina e dall’istinto supremo de’ popoli, il canto piano non esigeva da coloro che lo interpretavano una grande abilità vocale.
La conoscenza de’ segni e de’ tuoni, il rispetto della prosodia latina, le di cui sole leggi regolavano il valor relativo delle note, ecco tutta la scienza necessaria ad un cantore de’ primi otto secoli dell’era nostra.
E come mai da un sistema così contrario in apparenza ad ogni novazione musicale, l’umano spirito s’è levato alla creazione del canto moderno?
Per risolvere un tale problema, basta richiamarsi quanto è difficile il comprimere gli slanci della fantasia, e quanto l’esprimere l’altrui pensiero senza confondervi il soffio della propria spontaneità.
Annojato dalla uniformità e dalla lentezza monotona della salmodia gregoriana, il cantore cercò variarla con leggeri vocalizzi o fioriture di sua invenzione, che collocava ordinariamente sulla nota finale del tuono.
Questi capricci melodici, inventati dall’istinto d’abile cantore, doveano trascinare l’orecchia fuori de’ limiti della tonalità indecisa del canto fermo, e darvi il presentimento di combinazioni novelle e di piaceri ignorati.
Quando poi nacque il ritmo, a poco a poco, dal contatto delle lingue moderne colla melodia popolare, e si svincolò lentamente dalla ingenua canzone, come un soffio del sentimento e un’êco della vita, ei non tardò a irrompere anche nel canto chiesastico; e l’influenza [188] del ritmo aggiunta alle fioriture ed ai mille capricci che si permetteano i cantori, finì per alterare il carattere del canto fermo, e per renderlo quasi irriconoscibile. Tutti i teorici di quel tempo, osservatori gelosi, come sempre, delle regole stabilite, levaronsi contro a tanto disordine, di cui essi erano lontani dal sospettar l’importanza, giacchè era il caos precursore d’una grande rivoluzione dell’arte, la venuta della musica misurata che si emancipava dal giogo della prosodia.
Tutta la musica del sedicesimo secolo, que’ madrigali a quattro, a cinque, a sei parti, d’un’armonia sì pura e sì elegante, quelle canzoni, quelle ballate così numerose che si cantavano in Europa in tutte le riunioni dell’eletta società, furono i primi risultati di questa rivoluzione compiuta dal sentimento e dalla fantasia de’ cantori.
Furono essi che guidarono la penna de’ più grandi contrappuntisti; le loro escursioni vocali aveano risvegliata l’immaginazione de’ compositori, elevato il diapson, purgata l’armonia da ogni barbaro elemento, e provocato lo sviluppo d’una melodia più vasta e più colorita. Furono i cantori che ispirarono a Palestrina la sua riforma della musica sacra; e furono alcuni virtuosi di genio che crearono anche il dramma lirico alla fine del secolo decimosesto. Dalla qual’epoca il canto, che aveva avuto una sì grande influenza sulle trasformazioni successe nella musica, prese nuovo cammino. Le Opere di Monteverde, di Cavalli, di Cesti e di quasi tutti i compositori che hanno preceduto Alessandro Scarlatti, non erano che un lungo seguito di recitativi solenni, d’una andata lentissima, interrotta frequentemente da lunghi riposi. L’idea melodica [189] ondeggiava ancora incerta e si distaccava a stento dal limbo dell’armonia dissonante e dalla modulazione ch’erano pure sul nascere. L’irradiamento della pressione colle sue mille cambianze, il contrasto de’ diversi sentimenti spiegato in ampie forme melodiche come l’aria, il duetto, il terzetto, ec. non esistevano ancora e doveano essere il retaggio d’un’epoca più fortunata del secolo XVIII, l’età d’oro de’ cantanti.
Ben si comprende che l’influenza de’ cantori dovea ingrandire in ragione de’ gloriosi risultati che produceva. L’idolatria del canto si tradusse bentosto in un fatto significativo cui merita d’arrestarci.
Nelle prime Opere italiane non s’impiegò che due specie di voci: il tenore e il soprano. La voce di basso non fu ammessa nell’opera buffa che all’epoca di Pergolese. La parte di soprano fu cantata primieramente da donne e da fanciulli.
La figlia di Giulio Caccini e la famosa Archilei sono state le più celebri cantatrici drammatiche della fine del XVI secolo, le prime dive che siano state coronate di rose e di sonetti.
I fanciulli, soggetti a mutanza di voce che, ineguale e debole non si presta alla espressione de’ sentimenti energici, furono ben presto allontanati dalla scena lirica; e si vide allora comparire al loro posto, voci ed esseri eccezionali, che doveano esercitare sull’arte del canto e sulla musica drammatica un’azione eccessiva forse, ma sotto molti aspetti benefica. —
Sono i cantori castrati; già noti all’antichità; esistenti fin dal duodecimo secolo anche in Italia, ove le ridestate speculazioni della Grecia, antica maestra, e il lusso de’ pontefici che amalgamavano costumi [190] orientali ai loro riti, li aveano richiamati a sussidio de’ piaceri degli aremme e dei chiostri.
Nella prima parte di questo lavoro, lunghesso le memorie del canto antico, ci siamo pure intrattenuti su di un tal fatto, riportando quelle osservazioni fisiologiche e artistiche, che condussero anche da questo lato allo svolgimento del linguaggio affidato alle umane voci ed alla conoscenza della vita del canto, sorretta e sviluppata anche dal sacrificio de’ mutilati, resi comuni e indispensabili nel secolo decimosesto, rimpiazzanti i contraltini nei cori de’ fanciulli, e introducenti la nuova parte de’ falsetti, bramati tanto alle corti ed alle cappelle.
In questo nome loro compendiavasi la natura falsata di quelle voci, che più o meno pure ed estese acquistavano timbro di soprano o di contralto; e, ammenochè la divinità del canto non negasse ogni favore al garzone che sacrificavasi sopra il suo altare, non mancava compenso a tali vittime rese dalla moda indispensabili.
Compiuto il sacrificio e riuscita l’operazione, lo strozzato adolescente veniva accuratamente iniziato a studj minuziosi e costanti; per cui dopo otto o dieci anni di educazione musicale in un conservatorio e sotto abile maestro, poteva soltanto nobilitarsi l’allievo col nome di artista musico, e comparire sulla prima scena a tentar la sua sorte disputata a lui da numerosi competitori. Ad una debole riuscita non mancavano mai i cori d’una cappella. Se le scene d’Italia gli accordavano grido, s’aprivano al fortunato tutti i teatri e le corti tutte d’Europa.
Ma, e a che prò tanta gloria?...
— Si potrebbe credere che tutti questi esseri vili [191] ed infelici, avessero dovuto necessariamente formarsi freddi cantanti e manierati, commedianti ridicoli, mostruosi così nel morale come nel fisico.
Eppure, per la più parte, non solamente possedevano voce estesa, sonora, flessibile, ch’essi aveano abituata a tutte le difficoltà della vocalizzazione, ma dotati sovente di bella figura, di buon gusto, e di metodo sapiente acquistato da lunghi anni di studio e di esercizio, pervenivano ad esprimere le passioni più varie, ed a commuovere coi loro modi gli animi più gravi, le menti più fredde. —
Farinelli colla grazia e la forza delle sue modulazioni valse a cambiar natura e consiglio nell’animo di Filippo V.
Guadagni, coll’aria sublime di Orfeo: Che farò senza Euridice, che Gluck avea composta per la sua voce, facea versar lagrime agli imperiali d’Austria e a Gluck medesimo.
Alcuni papi dai loro pingui falsetti presero ispirazioni.
Alcuni tiranni apersero l’animo a nuovi sensi di pietà, per la potente forza del canto. Narrasi che Amurat IV, presa Bagdad, nel 1637, ordinò la strage di trentamila persiani. Durante la esecuzione della feroce sentenza, Schah-Kuli, il più celebre cantore persiano di quell’epoca (ritenuto castrato), penetrò fin presso il Sultano, e cantò al suono della scheschadar, specie d’arpa, le sventure della patria: Amurat commosso versò lagrime e sospese il massacro. Condusse poi a Costantinopoli il cantore ed altri 4 musicisti persiani, i quali vi posero scuole, rianimando in Turchia il gusto musicale[143].
[192]
Federico il grande intenerivasi e turbavasi alle note dei celebri musici del suo tempo.
Napoleone I. non potea contenere la sua emozione quando Crescentini cantava alla sua corte: Ombra adorata aspetta, di Giulietta e Romeo, del Zingarelli.
Nè que’ illuminati despoti vinceano i despoti del piacere, e come Catterina di Russia dalla Gabrielli, e Federico dalla La Mara, Napoleone patì sconfitta dalla Catalani e da Marchesi.
Per tali arti, qualche musico giunse perfino alla potenza di principe e di ministro, come vedemmo l’influenza di Farinelli alla corte di Spagna.
Se quest’è un fatto mostruoso, non è da meno la influenza somma e quasi esclusiva ch’ebbe questa voce di musico nel movimento musicale dell’epoca.
Ed anzi alcuni scrittori, fra quali il De La Faye, accagionano alla susseguita abolizione de’ castrati il lamentato decadimento dell’arte.
Certo è che quel periodo fu uno de’ più belli della musica vocale, pel quale l’arte del canto estese tanto il suo culto, e toccò rapidamente in Italia l’apice di sua perfezione. È dal secolo XVIII che datano le sue tradizioni migliori, e che la scuola del canto italiano trova le vere origini de’ suoi più brillanti ricordi.
[193]
La storia della musica vocale durante il passato secolo, si può dividere in due periodi, ne’ quali l’influenza de’ grandi cantanti italiani si mostra parimenti dominante.
Il primo periodo è riempiuto da Scarlatti, Leo, Durante, Porpora, Jomelli, e si prolunga al 1760; nel secondo si vede apparire successivamente Piccini, Sacchini, Guglielmi, Cimarosa, Paisiello, gruppo di genj immortali che chiudono quel cielo di meraviglie.
— Esaminando i canti di que’ primi compositori vi si trova una sovrabbondanza di modulazioni incidentali, la quale appalesa com’essi fossero ancora preoccupati della grande novazione introdotta circa un secolo prima da Monteverde; onde cercavasi d’allettare ben più la curiosità dell’orecchio col rapporto e colla successione delle diverse tonalità, di quello che a toccare per la semplicità del disegno melodico e per la espressione profonda della parola. Que’ maestri mostravansi ancora impressionati dalla lusinghiera conquista che la modulazione avea fatto sullo spirito umano e s’abbandonavano facilmente al pericoloso piacere che procura la difficoltà superata. Ed è sempre così, al principio del periodo in cui la lingua dell’arte viene a formarsi, come allorquando tutte le formule melodiche sembrano esaurite: nè v’hanno composizioni che più rassomiglino alla nostra musica moderna tutta piena di dissonanze e modulazioni, quanto quella dei compositori italiani della prima metà del passato secolo. La loro idea melodica è, generalmente, assai breve, troncata sempre da numerose cadenze, sovraccarica di piccole note comprese in un tessuto d’accordi assai mordenti. Parea che la gemma armonica non fosse ancora matura, e non dovesse sbucciare che nel secondo [194] periodo, sotto l’influenza di quel gruppo di nuovi genj e d’ammirabili virtuosi per cui videsi scoppiare quella italiana melodia larga, spigliata, colorita, fiore d’incomparabile bellezza, espressione d’un momento unico nella storia in cui la maturità dell’arte collegavasi alla giovinezza del sentimento.
Fu in questo periodo fortunato che s’intese i virtuosi più maravigliosi, e che l’arte del canto elevossi per così dire al suo ideale.
Allora, un’opera non conteneva che due o tre situazioni semplicissime, di cui era sempre soggetto l’imagine di tormenti o della ebbrezza dell’amore.
L’amore è l’unica passione drammatica, che ha ispirato i compositori italiani del XVIII secolo; è l’amore che regna quasi esclusivamente nel teatro di Metastasio. Nella storia dell’arte, come nella vita degli individui, v’hanno tali momenti in cui l’imperioso dominio d’un sentimento comprime tutti gli altri ed assorbe tutte le forze vitali. Tal’è la parte dell’amore in quel tempo. Non fu che alla venuta di Gluck e di Mozart che la musica drammatica si provò a pingere caratteri più forti, passioni più complicate e più austere: fino allora avea ondeggiato sulla superficie dell’anima, e preludiava i suoi gloriosi destini con capricci adorabili, e le si voleva ancora qualche anno di prova, perch’ella potesse penetrare nella città dolente, nell’eterno dolore.
Un bel cantabile, preceduto da recitativo che ne preparava la bella comparsa, un duetto composto di adagio che ripetevano un dopo l’altro gli esecutori e terminava in allegro brillante e appassionato; qualche volta un terzetto, e più di rado il quartetto; tutto accompagnato semplicemente, e in maniera da porre [195] in rilievo la vocale melodia che così sviluppava in tutta la sua pienezza: ecco gli elementi d’un’opera seria, che bastavano ad allettare un pubblico per tutta una sera o per una intera stagione.
Un’aria, come Per questo dolce amplesso, di Hasse, che Farinelli cantò ogni giorno, per venticinque anni al re di Spagna; un duetto, come quello dell’Olimpiade, di Paisiello, Ne’ giorni tuoi felici, era tutto un dramma commovente in cui il grido della passione esalava attraverso i prestigi della fantasia. Quelle note, profumate di voluttà e frementi d’amore, scendevano a scuotere le corde più secrete del cuore: gli uditori vi rimaneano sospesi come l’Olimpo alla catena d’oro di Giove.
Fu certamente una bella epoca quella in cui si potè udire uniti sulle scene d’un medesimo teatro, Caffarelli e Gizzielo, Farinelli e Bernacchi, la Mingotti e la Faustina; Pacchiarotti e la Gabrielli; Marchesi e la Grassini.
Questi virtuosi ammirabili erano quasi tutti ingegnosi musicisti che alle interpretate idee sapevano dare ben più alto valore che non avesse creduto riporvi il medesimo compositore. I pezzi che per essi scrivevansi, il più delle volte non erano che semplici traccie melodiche ch’essi compivano secondo le loro ispirazioni, quali poeti improvvisanti, sur un tema dato, capi d’opera di grazia e di passione.
Un tale trionfo, esaltando oltre misura l’amor proprio degli artisti, dovea purtroppo trasportarli anche ad eccessi deplorabili. I castrati mostravansi sovente d’una insolenza insopportabile; essi sforzavano i più grandi compositori a subire i loro capricci. Essi cambiavano, trasformavano tutto a seconda della lor vanità: [196] qui volevano un’aria, là un duetto scritto sotto a tali condizioni, con questo o tal altro accompagnamento. Essi erano i re e i tiranni de’ teatri, dei direttori e dei compositori. Ecco perchè si trova nelle opere le più serie de’ grandi maestri di quel tempo lunghe e fredde vocalizzazioni, che i castrati esigevano per far brillare la bravura e la flessibilità della lor gola. «Io ti prego di cantare la mia musica e non la tua» disse un giorno il vecchio e terribile Guglielmi ad un virtuoso insolente, minacciandolo d’un colpo di spada. —
Marchesi, il brillante cantore, che però non avea nè il patetico di Guadagni, nè lo stile elevato del Pacchiarotti, colla sua femminea voce, per la quale in una parte di donna avea debutato a Roma nel 1774, volea sostenere parti virili e fiere che gli permettessero di portare grand’elmo dorato e a piume rosse e bianche. Volea sempre entrare in scena discendendo una collina, dall’alto della quale potesse gridare, Dove son’io? Esigeva quindi che un trombetta facesse sentire alcune squillanti note, per poter nuovamente esclamare: Odi lo squillo della tromba guerriera? Allora, avanzando al margine della rampa, cantava invariabilmente un rondeau composto di due movimenti contrarj, in cui malediceva la cruda sorte; e lanciava un diluvio di scale e volatine le une più rapide delle altre, che ondeggiavano e sfavillavano come le piume e il bagliore del suo caschetto.
Il rondeau che Sarti avea per lui scritto nell’opera Achille in Sciro «Mia speranza io pur vorrei» ha fatto con Marchesi il giro d’Europa; egli lo cantava ovunque, intercalandolo in ogni composizione; era il suo gran cavallo di battaglia, la sua prescritta aria di baule.
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Nè è da maravigliare che i maestri piegar dovessero alla pressione di tali capricci, e gli uditori fossero costretti ad arrendersi alle lor voglie, se i medesimi coronati e potenti subir doveano o il loro fascino o il loro dispetto, e i vincitori innanzi a quelle strane potenze erano vinti. Chè, il medesimo Marchesi non ha mai voluto cantare innanzi a Napoleone I ch’egli trattava da usurpatore; mentre agli arciduchi d’Austria, cui pareva attaccato, compiaceasi sfoggiare tutte le grazie dell’arte sua, fanatizzando a tal segno le dame di quella corte da indurle tutte a portare sul loro seno la non sospetta e casta sua imagine; e dopo l’incoronazione dell’imperatore e re a Milano, di cui era nativo Marchesi, questi fissando pur ivi il suo ritiro, abbandonò il teatro, essendo cinquantenne soltanto e nella pienezza di voce, quasi dicesse alla sua patria: se a quella gloria avete applaudito, non gioirete più della mia!
Abbiamo accennato alle strane pretese della Gabrielli alla corte di Russia; quelle di Prussia e d’Inghilterra divennero teatro allo strano carattere ed alle bizzarre avventure della Mara[144]; quella di Francia ebbe a soffrire la boutade di Crescentini; come poi la Reggenza di Portogallo, i capricci della Catalani[145].
[198]
L’influenza infatti de’ cantanti sui compositori e sulle udienze fu tale da legittimare l’asserto che «la musica vocale e tutto il sistema lirico italiano del XVIII secolo, fosse ben più l’opera de’ virtuosi che quella de’ maestri.»
Ma quando l’accrescimento delle forze d’orchestra e la varietà d’effetti nella istrumentazione, l’influenza de’ gravi avvenimenti europei, la nuova piega della letteratura, e il maturato spirito de’ tempi, apportarono anche sulle scene il bisogno d’azione più seria e di lavori più sviluppati, anche la musica drammatica vide giunto il momento d’allargare il suo cerchio, e rinnovare le sue forme.
— Questa rivoluzione preveduta e bramata da tutti i forti spiriti italiani, dal padre Martini, dall’ab. Conti, da Eximeno, da Planelli, giunse al suo compimento quando Rossini, in principio del secolo, col ringiovanire l’orchestra di Mozart, e ritemprando, per così dire, la melodia italiana nelle amare sorgenti della passione moderna, edificò l’opera mirabile in cui l’arte del canto si trasforma e si colloca in un quadro più complicato, senz’attentare alle belle tradizioni del secolo precedente.
Qui s’apre nella storia dell’arte un nuovo e brillante periodo, che anche oggidì, malgrado le usurpazioni della istrumentazione, è ancor lungi, e lo speriamo, da toccare al suo termine.
Nell’opera italiana, ingrandita dal genio di Rossini, che la fece così partecipare ai progressi dello [199] spirito umano e a quelli dell’arte musicale, il cantante, conservando sempre una importantissima parte, fu costretto tuttavolta sommettersi ad esigenze fin allora ignote, e conformarsi alle leggi d’una verità drammatica più seria. L’espressione del sentimento a mezzo della melodia fu completata dalla variazione degli accompagnamenti dell’orchestra che più attivamente intervenne alla dipintura delle passioni, e limitò la libertà alla fantasia del cantante. Questi si vide obbligato a rispettar meglio il pensiero del compositore, conformarsi al piano della parte a lui affidata per l’esecuzione, lasciare al ritmo la sua integrità, seguirlo nelle sue ondulazioni, e far manovrare la voce umana in mezzo ad una grande conflagrazione armonica e sopra una potente risonanza.
Peraltro, i successi ottenuti dai grandi artisti precedenti aveano troppo ben dimostrato l’importanza del canto considerato come elemento essenziale del dramma lirico, perchè la rivoluzione operata da Rossini dilatando la parte dell’orchestra, potesse compromettere così presto la freschezza e la flessibilità dell’organo vocale. La melodia messa in evidenza, e sobriamente accompagnata, non cessava di fluire limpida e luminosa; ella lasciava al cantante il tempo di respirare, di dare sfogo alla sua immaginazione, e di seminare lo spazio da lui percorso di capricci e di gorgheggi graziosi che abbellivano la verità senza snaturarla.
Il vero carattere di tale rivoluzione è, che il virtuoso dovette cangiare la sua dignità reale assoluta, in monarchia temperata ma ancora gloriosa, e contentarsi d’essere la parte saliente d’un tutto complesso e possente. —
[200]
Questa rivoluzione musicale, e ragioni più gravi d’umanità e di convenienza, fecero sparire i castrati dall’opera italiana: quindi anche dalle funzioni meno lusinghiere nei cori chiesastici che già essi aveano abbandonati per calcare le scene di maggior lucro.
Come il Rossi e il De Sanctos furono i primi falsetti più noti, che iniziarono l’avventurosa carriera de’ musici alla cappella papale nel 1600, così il Crescentini e il Veluti furono gli ultimi de’ più celebrati che s’udirono in Europa e che chiusero, si può dire, le sorti della lor casta verso il 1830[146].
Rossini li avea rimpiazzati per le sue opere coi contralti femminini; e nella stessa maniera che non mancarono di queste ammirabili virtuose che propagassero le creazioni de’ maestri italiani del passato secolo, si formò tutta una famiglia di cantatrici incomparabili che resero il medesimo servigio ai capi d’opera della nuova scuola musicale.
La Gafforini, la Malanotte, la Marcolini, la Mariani, la Pisaroni, la Pasta, la Malibran, tali sono le principali rappresentanti di quel gruppo di contralti che esercitarono sul genio di Rossini una notabile influenza. Da quella bella schiera discendono quindi l’Alboni, la Catalani, la Persiani, la Sontag.
Di queste famose sacerdotesse del canto, le une personificavano la parte seria, le altre quella comica del genio italiano. Alcune maravigliosamente dotate, riuscirono in ambo i generi.
Prima di tutte, seguendo l’ordine cronologico, la Gafforini emerse specialmente nell’opera buffa; Elisabetta [201] Gafforini, veneziana, è stata una delle più care virtuose che apersero le nuove memorie del presente secolo di canti lussureggiante.
Ella brillò in Italia e ne’ principali centri d’Europa dal 1796 al 1815. La sua voce di contralto, limpida e pieghevolissima, che saliva al fa e discendeva in fino al la, attrasse specialmente l’ammirazione nei canti della Dama soldato di Federici, del Ser Marc’Antonio di Pavesi, e del Ciabattino.
Il ritratto della bella cantatrice portò l’epigrafe: La vedi o l’odi? eguale è il tuo periglio. Ti vince il canto, e ti rapisce il ciglio.
Il suo nome fece epoca; e sì che con lei gareggiavano altre celebrità per que’ canti, quali: la Giorgi-Belloc, la Morichelli, la Strinasacchi, ed i buffi Poggi, Brocchi, e Raffanelli; quando appunto il giovane Rossini a Venezia incalzava nelle prove il suo genio[147].
Il nome di Adelaide Malanotte è consacrato dalla memoria d’un capo d’opera immortale.
Rossini trovò la Malanotte, nel 1813, a Venezia dov’ella giungeva raccomandata da qualche successo ottenuto in pubblici concerti o scene secondarie.
Scrisse per lei la parte di Tancredi. D’allora la riputazione della Malanotte si sparse chiarissima per tutta Italia, e il suo nome vi vive ancora all’ombra del felice e brillante genio di cui ella fu la interprete prediletta e ne inaugurò la gloria immortale.
Unendo tutte le grazie di donna ad una voce di [202] contralto potente, facile e pura, la Malanotte cantava con vigor pari al sentimento, e sapea associare la grazia della fantasia ai movimenti i più patetici. Fu dessa che, non soddisfatta dell’aria primitiva che le avea scritto il giovane maestro, ne richiese un’altra, e per tal capriccio di prima donna assoluta, diè origine alla creazione di quella famosa cavatina — Tu che accendi — ripetuta tanto. Quando, nel bel duetto di Tancredi ed Argirio, la Malanotte brandiva la spada e scioglieva quella frase incomparabile: Il vivo lampo... sollevava entusiasmo.
Ma chi avrebbe preveduto allora la triste fine che alla bella guerriera era serbata? Dopo alcuni anni di trionfo e d’ebbrezza, la cantatrice famosa per la quale fu composta l’aria — Di tanti palpiti, di tante pene — inno della giovinezza e dell’amore ch’ella ha probabilmente ispirato, morì abbandonata e quasi folle, a quarantasett’anni.
Il canto buffo italiano trovò in Marietta Marcolini, come nella Gafforini, degna e graziosa interprete. Dal 1805 volava la fama della sua bella voce di contralto, estesa al fa diesis, e d’una flessibilità prodigiosa, che ispirò ben tosto il pesarese creatore ad affidarle i nuovi canti dell’Equivoco stravagante, in Bologna; della Pietra del Paragone, in Milano, dell’Italiana in Algeri, a Venezia, l’anno stesso del Tancredi (1813). Le arie di bravura, ch’ella avea pretese ai finali di quelle Opere, restano a dolce testimonianza della rara agilità della sua voce, del suo brio, e del felice ascendente che essa avea saputo acquistarsi sul genio del primo compositore drammatico del nostro tempo.
Una vocazione tutta differente chiamava la Pisaroni alla interpretazione dei capi d’opera tragici di Rossini. Benedetta-Rosmunda Pisaroni nacque nel 1793, [203] a Piacenza, dove finì di vivere in questi giorni del 1872. Dopo aver apprese lezioni di musica da un maestro oscuro del suo paese, fu diretta pel canto dal famoso castrato Marchesi, che in vero dalla sua scuola principalmente esercitata in Firenze ebbe vanto d’allieve gloriose, quali fur questa e la Catalani.
Quando la Pisaroni a diciott’anni debutò nella Griselda e nella Camilla di Paer, avea voce di soprano acuto. In seguito a grave malattia le mancarono molte note nel registro superiore, mentre che le corde basse acquistata aveano in lei una sonorità potente e inattesa. Dal 1813 ella si vide obbligata a cantare le parti scritte per voce di contralto, per le quali divenne una delle più grandi cantatrici del suo tempo. La Pisaroni scusò la ineguaglianza della sua voce con una grandiosità di stile e di portamento che ricordava la maniera larga del Guadagni e del Pacchiarotti.
Giunse a Parigi nel 1827, e colla formidabile voce tuonò: Eccomi alfine in Babilonia!..
Il nuovo Arsace, provò alla Malibran che, la gioventù, la voce, l’energia e la medesima prontezza del genio non possono lottar sempre con vantaggio contro uno stile semplice, grande e vero. Rossini scrisse per la Pisaroni la parte di Malcolm nella Donna del lago, poi quella di Ricciardo accanto a Zoraide.
E il grande interprete delle umane voci ben s’avvisò in quelle composizioni mostrar nè logico nè indispensabile che il contralto apparir dovesse sotto a virili spoglie, quasi che il timbro di tale voce, trascurato prima per tanti secoli, si avesse poi a ritenere mostruoso. Attribuì a quel timbro il suo valore vocale, serbandone il privilegio del sesso; e mostrò erronea l’opinione che il vero contralto basso sia mascolina [204] voce, mentre nella sua natura maravigliosamente si presta alle più tenere e dolci espressioni quanto alle parti serie ed energiche, nei caratteri di matrona, di madre e di eroina.
A confermare la savia riforma nell’impiego di un timbro così rimarchevole, e a tradurre le serie creazioni Rossiniane, un altro bel genio comparve in Giuditta Negri, sì celebre sotto il nome di mad. Pasta.
Nata a Como, di famiglia israelitica, nel 1798, e venuta al conservatorio milanese con poche nozioni musicali, Asioli ne avea con pena coltivata la voce di mezzo soprano, sorda, dura, ineguale, che non cessò mai di mostrarsi ribelle. Ma la passione e l’intelligenza supplirono alle imperfezioni dell’organo vocale; lo studio e la costanza acquistarono alla cantatrice tragica fama elevata, l’ammirazione del medesimo Talma, la ricerca de’ grandi compositori. La Pasta cantò da Romeo come Zingarelli mai non s’avrebbe aspettato; e nella Nina di Paisiello ella ricordò la celebre Coltellini e i prodigi del gran secolo dell’arte[148].
È noto che, qualità del tutto opposte posero la Malibran al primo rango delle virtuose drammatiche di questo secolo. La figlia del tenore Garcia avea ricevuto colla vita il retaggio della passione. Dotata d’una voce vibrata che estendevasi dal fa de’ contralti al do acuto de’ soprani, non incontrava difficoltà alcuna al di sopra della sua audacia e della maravigliosa sua facilità. Ella cantava in ogni parte e carattere: vivace Rosina nel Barbier di Siviglia, appassionata Desdemona [205] nell’Otello, ella ebbe l’ambizione, la foga, lo splendore e la versatilità del genio: riunì mirabilmente i diversi istinti e le facoltà più rare dei grandi cantori italiani.
Dato sì grande impulso al comico canto e poste le basi tanto potenti alla interpretazione dei sommi lavori della musica tragica, la rivoluzione proseguiva il suo corso. Ma ad un movimento così fecondo, dovea succedere naturalmente una reazione molesta: ed il culto esagerato della istrumentazione non tardò a spingere i suoi conati per abbattere quello del canto e rimpiazzarlo.
L’interpretazione dei capi d’opera primiticci del secolo, in presenza di tentativi siffatti, vide farsi più difficile e vasto il campo delle sue prove; divenne più scabroso il suo còmpito, non sempre favorito dalle simpatie generali, ma acquistò d’importanza. Trattavasi di lottare, a nome delle più belle tradizioni dell’arte, contro le ingrate novità che tentavano sostituirle, l’arte del canto esigeva più che mai abili ed ispirati difensori; e la loro missione facevasi più solenne quanto più energicamente l’orchestra disputava alla melodia il bel posto in cui i precedenti compositori l’aveano innalzata.
Prima a combattere nel nuovo campo, e quasi anello che congiunse la semplice alla complicata missione, si può classificare una cantatrice straniera ornata essa pure delle doti più belle, sia ai riguardi delle grazie seducenti, come dei mezzi felici; emula quindi e rivale della Pisaroni, della Pasta e della Malibran.
Da una di quelle nomadi famiglie di commedianti alemanni, di cui Goethe nel suo Wilhelm Meister ci offerse la poetica istoria, nel 1805, a Coblenza, era sortita Enrichetta Sontag.
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Le disposizioni al canto si pronunciarono in lei così precoci e luminose, da attirare l’ammirazione fin dal sesto anno di sua età, in cui iniziò a Darmstadt l’avventurosa carriera, cantando l’opera popolare tedesca la Figlia del Danubio — Donauweibchen — e meritando che Weber si occupasse d’una voce così promettente educandola nella sua scuola di Praga, d’onde la fanciulla esercitossi a quella vocalizzazione maravigliosa che fu il principale suo vanto.
La scuola tedesca avea dato allora le famigerate cantatrici, la Mara, educata a Leipzig da Hiller, e la Mainveille-Födor, virtuosa del conservatorio di Vienna.
Colle tradizioni dell’una e pei consigli dell’altra, la Sontag arricchì il suo ingegno; e trovò auspici le patrie tendenze.
La colta gioventù e tutti gli spiriti ardenti e generosi che voleano sottrarre l’Alemagna dalla dominazione straniera così nell’impero della fantasia come in quello della politica, non è a dire se acclamassero con entusiasmo l’autore del Freyschütz e dell’Eurianthe, e la bella interprete di que’ canti, la giovane Sontag. Tributavasi gratitudine a lei che consacrava un organo felice ed una vocalizzazione poco comune oltre l’Alpe, per cantare la musica forte e profonda di Weber, di Beethoven, di Sphor, e dei nuovi compositori alemanni, che aveano rotto ogni patto con l’empietà straniera, e così aprir campo al patrio genio ringiovanito.
Berlino specialmente, la città protestante e razionale, il centro del movimento intellettuale e politico che fin d’allora cercava assorbire l’attività tutta della Germania, alle spese di Vienna cattolica, dove regnava lo spirito di tradizione, la sensualità, il fare e [207] le facili melodie d’Italia, Berlino innalzò Weber e la Sontag.
Questa nuova ispirata interprete della musica nazionale fu soggetto ai filosofi Hegheliani de’ loro dotti commentarj, che salutarono nella sua voce limpida e sonora: il subbiettivo confuso con l’obbiettivo in una unità assoluta!
Dalle rivalità colle illustri virtuose italiane trasse nuova luce alla sua gloria; dalla fortuna e dalla politica ebbe splendore.
Alle note di soprano acutissimo, eguali e scorrenti come un ruscello sul prato, flessibili come l’erbetta de’ margini, risuonanti come un campanello d’argento, venne poscia ad aggiungersi l’aureola del nome che le diede il conte Rossi ambasciatore, onde le corti d’Europa le resero più brillanti i trionfi, e gli scrittori Auber e Scribe la pinsero nella lor opera l’Ambasciatrice.
La Sontag fece rifiorire le rose delle corone avvizzite sul capo all’antica Mara (Schmoeling), che, nata a Cassel nel 1747, finiva d’anni 84 in Livonia, il 20 gennaio 1833; e parvero per un tratto quasi deposte sul capo di erede, che continuar dovesse la gloria che quella avea acquistata al canto alemanno.
Ma ahi, che le rose del canto non sono il fior più omogeneo e durevole delle nordiche terre.
La Germania, che ha prodotto tanti genj nelle istrumentali discipline, fu molto meno feconda nelle produzioni del dramma lirico e nell’arte del canto che vi si lega direttamente. Mozart fu miracolo.
I di lui successori ricorsero alla sua ispirazione ed a quella della scuola italiana. I loro canti rimasero avvinti ad un sistema che non permette alla voce [208] umana di spiegar tutta la sua magnificenza; e la riputazione de’ loro cantori pena a sorpassare i limiti della nazionalità. Le due prefate cantatrici possono dirsi le sole ch’abbiano riportato fama europea. Però nè l’una nè l’altra fecero epoca, come suol dirsi, rimpetto alle cantatrici d’Italia; chè cantando la Smoeling-Mara colla Luigia Todi nel 1790 nel teatro San Samuele di Venezia, sol per quest’ultima ch’ebbe pieno il trionfo, fu segnata quella stagione, che si ricorda ancora ne’ fasti teatrali — anno Todi.
Anche un’altra rinomata cantatrice di quel tempo, Elisabetta Weischsell-Billington, benchè figlia ed allieva di valente maestro e compositore tedesco, e di altro musicista inglese consorte, benchè vissuta a Napoli romanticamente, ed avvolta in misteriose avventure, benchè illustrata nelle sue memorie dalla penna giovanile di Adolfo Thiers, non isfuggì ad una dimenticanza che non gravita ancora sulle nostre italiane interamente.
Ma nè questa, nè la Mara, nè la Mainveille-Födor, nè la Damoreau, nè la Sontag, oltre alla seduzione delle grazie e alla ricchezza di voce, possederono il trasporto della passione, l’energico stile elevato delle Pisaroni, Pasta, Grisi, Malibran; nè la gajezza facile e spontanea della Marcolini e della Persiani; nè la spirituale dolcezza, i lampi divini della Catalani e dell’Alboni.
Parlerò ancora di queste due cantatrici, una soprano ed una contralto, che pari nei doni naturali alle riformatrici straniere contesero loro il primato colla forza della ispirazione e del sentimento, e accogliendo prime in Italia le più moderne forme dei canti, furono potenti da salvarne le tradizioni.
[209]
Colle loro memorie parmi rivivere nel loro tempo; ed apprezzo la sentenza del Schumann, che «dai cantanti e dalle cantatrici molte cose si possono apprendere.»
Marietta Alboni, nativa delle Romagne, in tali circostanze, comparve quale erede del metodo che dalla creazione del dramma lirico ha illustrato tanti cantanti italiani. Rossini che non avrebbe sdegnato sorvegliare la educazione musicale della giovane sua concittadina, le avrebbe ripetuto, incoraggiandola a calcare le scene, la sentenza dal vecchio Porpora rivolta al suo allievo Caffarelli: «Va, mia figlia; ora tu sei la prima cantatrice d’Europa. Non imitare alcuno; fa anzi il contrario di quanto intenderai fare attorno di te, e puoi esser certa di camminare così nella via della salute».
Voce di contralto la più chiara e soave partiva dal fa basso come un vezzo di perle per l’estensione di due ottave e mezza legate dall’argentea grazia più che dall’oro della energia, abbellite dal facile riso meglio che dalla forza della sorpresa. Fatta per que’ concerti melodiosi, calma e serena espressione dell’amore, fece Parigi speciale teatro del suo apostolato e de’ suoi trionfi; benchè avesse ivi trovate fresche le memorie, nè disseccati ancora gli allori delle grandi prime donne italiane, e quasi vi oscillassero ancora le note di certa Mombelli (1823), ritenuta la più perfetta interprete della Cenerentola, nei quali canti fu ritenuta unica emula l’Alboni.
In mezzo agl’inni della vita eterea più che terrena delle Vestali del canto, ma non esente dal soffio della critica che investiga anche le regioni dello spirito, passò a lato di questa deliziosa soprano, l’Angelica Catalani, contralto.
[210]
Vide anche questa la luce nella terra delle Romagne e precisamente in Sinigaglia (1785), e aprì al canto la vergine parola nel vicin convento di Gubbio, ritiro di nobili donzelle alle quali apparteneva la Catalani per legami di parentela coi conti Mastai, dalla quale famiglia venne Pio IX.
«Ecco l’Italia coi suoi grandi contrasti, e l’alleanza dell’arte e della religione, dello inflessibile dogma e della mondana fantasia che forma il tratto caratteristico del suo genio.»
E chi non ricorderebbe a questo punto, che anche quello strano[149] Pontefice, incline al canto fin dalla giovinezza, quando non aspirava che allo scettro dell’amore e della carità, lo coltivò, e lo apprese agli infedeli dell’altro emisfero? Spiegò la magnifica voce non disgiunta da insinuante dolcezza, di cui fu da natura specialmente fornito, innanzi al sole della sua patria, per benedire nel 1848 la italiana Crociata, e mille canti ravvivati risposero alla sua intuonazione; indi spense le altrui voci e la sua, per occultarsi nelle tenebre a mormorare il lugubre anatema; quella e questo impotenti a serbargli il fracido scettro del mondano potere.
Ma torniamo alla celebre cantatrice, di gentil sangue, e che serbò l’animo veramente pio, dalla cui biografia vergata dallo Scudo[150], e da alcuni dettagli tratti dalla medesima di lei famiglia, rileviamo che [211] nel convento di S. Lucia di Gubbio la giovane Angelica ricevette le prime nozioni dell’arte musicale.
Merita riflesso la operazione, che un convento italiano, ancora alla fine del passato secolo, non era altra cosa che una specie di Conservatorio in cui, la preghiera, la musica e l’amore erano l’unica occupazione; come lo disse un amabile teologo: pregare amare e cantare sono tre voci diverse, ma esprimenti un solo e medesimo desiderio.
Nelle domeniche e ne’ giorni di gran festa, quando le religiose e le novizie faceano risonare de’ loro pietosi cantici le volte della cappella di S. Lucia, in mezzo a quelle voci fresche e verginali, fu subito rimarcata quella d’Angelica, il di cui timbro, l’estensione e flessibilità destavano già l’ammirazione delle compagne. Le religiose volendo mettere a profitto sì rare facoltà, le fecero cantare qualche piccolo solo, attirando maggior concorso alla chiesa. Andiamo a sentire la maravigliosa Angelica, diceansi gli abitatori di que’ contorni; e la folla assediava quelle porte, dove, come in paradiso, v’aveano più chiamati che eletti.
E in quanti altri monasteri non vidi anch’io volgere il popolo, bramoso delle dolcezze che dalle velate cantorie monacali scendevano all’animo, preferendo la preghiera interpretata da quelle voci verginali e misteriose!
I successi piuttosto profani che otteneva la monachella di Gubbio finirono per scandalizzare le anime più divote, ed il vescovo ordinò alla superiora di riporre la luce disotto al madio, e di vietare che la giovane novizia cantasse da sola. Fortunatamente, meno ascetica e più intelligente del prelato, la superiora, che non volea privar la sua chiesa d’un elemento di [212] successo giovevole alla carità e alla divozione medesima, ricorse ad un sotterfugio, e perchè Angelica non cantasse sola, la collocava fra un gruppo di monache e con tal sottigliezza metteva in pace il debito suo della obbedienza, temperando soltanto la sonorità di quella voce che dovea un giorno maravigliare l’Europa.
Ma quando questa spiegava il canto dell’Ave Maris Stella, l’emozione e l’entusiasmo impossessavano i fedeli che voleano vedere e abbracciare la Verginella che Dio aveva sì riccamente dotata, per la quale provavano al cuore tanta tenerezza, e indicavano di strapparla alle mura del chiostro, perchè libera infondesse al mondo tanta letizia.
Non tardò infatti che il padre dovesse acconsentirvi; e a quattordici anni l’Angelica fu inviata a Firenze sotto la direzione di Marchesi, opportunissima a rivelare tutti i tesori di quella voce e a impiegarli nobilmente, preparandone i gloriosi destini.
Marchesi le insegnò a moderare la estrema sua facilità, ornandola dei più complicati gorgheggi; e in capo a due anni, egli stesso l’accompagnò e la porse sulle maggiori scene di Venezia, coi canti di Monima e Mitridate del Nasolini.
La Catalani, diciassettenne, era già l’idolo della corte di Portogallo. Le arie del Piccini, di Cimarosa, di Nicolini, di Nasolini e di Portogallo, servirono a lei specialmente pei primi sfoggi della maravigliosa sua vocalizzazione. Ivi fu sposa al cavaliere Paolo de Valabrèque uffiziale attaccato all’ambasciata francese (1805). Seguace forse anche negli affetti all’amoroso suo maestro Marchesi nemico a Napoleone, rifiutò a questi la conquista del genio suo, e sprezzando centomila franchi, lo fuggì, recandosi a Londra (1806).
[213]
Il gusto degli inglesi per la musica e i cantanti italiani rimonta ad epoca assai lontana. Dal secolo XVI vedemmo i cantori de’ madrigali e delle canzoni figurare in tutte le feste galanti della regina Elisabetta.
L’opera italiana esisteva a Londra dal 1700; e in quel teatro, frequentato in ogni tempo dalla più eletta società, brillarono successivamente i cantori più celebri che le scuole di Napoli, di Roma, di Bologna e Venezia, allevavano per divertimento de’ barbari. Ivi scoppiarono le famose lotte fra Carestini e Farinelli, la Faustina e la Cuzzoni, la Mara e la Banti, la Billington e la Grassini, la Todi e la Mara, la Pasta e la Malibran, la Lind e l’Alboni, quella e la Catalani; e i partiti politici mescolaronsi a que’ duelli della fantasia, appoggiando o l’uno o l’altro de’ campioni.
I Toristi, per esempio, applaudivano con trasporto alle scale arpeggiate e cromatiche ed ai trilli fosforescenti della Mara; mentre lo stile largo e il canto patetico della Todi sollevavano l’entusiasmo dei Wighs: e queste rivalità furono spinte a segno che ciascuna fazione volle avere, come in oggi, il suo teatro italiano. Haendel dirigeva quello della corte dove esponeva i suoi lavori, che il Senesino interpretava mirabilmente; e Buononcini coll’ajuto di Farinelli, attirava la folla nel teatro della opposizione; ed Haendel, malgrado la sua sapienza, e la facoltà avuta da re Giorgio di cercar per tutto il regno e fuori le migliori voci, dovette soccombere nella lotta accanita, rimettendovi la sua fortuna e la sua pace.
Sospendevansi le sedute della camera dei Lord, perchè que’ gravi parrucconi potessero assistere comodamente alle rappresentazioni del Pacchiarotti. Il celebre Castlereagh, fra i più fervidi dilettanti, ambiva [214] la vicinanza e il concerto coi grandi artisti italiani del suo tempo; e durante il suo soggiorno a Parigi, nel 1814, menava trionfo della bella conquista che aveva servito a Napoleone per distrarre l’opinione pubblica dalle più gravi preoccupazioni, vogliam dire, della famosa Grassini, colla quale occupavasi egli medesimo a cantare dei duo italiani alla presenza dell’amico Wellington, il quale riguardando i begl’occhi della virtuosa, trovava la voce del primo ministro gradevolissima.
L’effetto che produsse la Catalani sul pubblico inglese fu sì possente e generale, che il governo nella sua lotta perigliosa contro il grande agitatore d’Europa, ricorse sovente al genio della cantatrice per ritemprare lo spirito nazionale. E all’annunzio che l’itala Sirena cantar doveva coi fiocchi — il God save the King — al Drury-Lane, fino il povero irlandese accorreva all’incanto irresistibile, e dimenticando la sua oppressione, s’accendea d’entusiasmo. Fu così che la Catalani si vide arruolata alla grande coalizzazione che l’Inghilterra assoldava contro l’implacabile suo nemico; e cogli alleati prese parte a Parigi nel 1814 al trionfo comune cui aveva ella contribuito senza dubbio coll’armi seduttrici e vigorose delle sue note.
Disparve nei cento giorni, e si rese a Gand con Luigi XVIII ch’ella avea conosciuto in Inghilterra; e con lui fu centro e conforto degli emigrati più illustri, e tornò a Parigi colla seconda ristaurazione. Quel re intese compensare l’attaccamento della Catalani alla sua persona e alla causa della legittimità, accordandole il privilegio del Teatro italiano con 160,000 franchi di sovvenzione.
Ma pareva che a carcere d’oro non fosse destinato quell’uccello divino, che prese volo per la Germania, [215] ove i severi pensatori pretesero di giudicare quell’abitatore del paese dell’aurora coi principii aristarchici d’una estetica rigorosa[151]. Rivide Venezia, ove trent’anni prima sbucciate s’erano in lei la gioventù e la rinomanza; ma in luogo del suo condiscendente Marchesi, trovò il Pacchiarotti vivente ancora (1817) che ammirò solamente una magnificenza superficiale, le penne d’oro della natura più che il prodotto dell’arte.
Alessandro di Russia invece si rinfuocò ai lampi di voce dell’antica alleata. Dublino (1828) chiuse la sua carriera teatrale.
Le Fiesolane colline intesero ultimamente ancora l’eco di quella voce che dalla villa di suo ritiro attirava la curiosità degli amatori come dalla solitaria cella di Gubbio; voce che avea sorpreso l’Europa in un secolo di rivoluzioni e di battaglie, e che nella ormai grave età d’oltre sessant’anni non cessava un giorno d’esercitarsi, per l’amore del canto, pel piacer degli amici, e sopratutto pel soccorso agli infelici che invocavano la sua magìa.
Non era dimenticata per la nuova celebrità che esordiva a Firenze e a Livorno, il 1832, nella figlia del tenore Tacchinardi, la Persiani, che dotata pur essa d’una voce rara a que’ tempi che potesse prestarsi alle varie specie di canti, onde i maestri allora usavano scrivere a seconda degli interpreti che possedevano, e iniziava un trionfo di 18 anni sulle principali scene di Europa, sempre avanzando nell’arte in cui il padre artista le avea data seria coltura[152].
[216]
Eppure la Catalani era invece assai poco versata nella musica: non solo ella non sapeva accompagnarsi con verun istrumento, come tanti altri cantanti pure di grido, ma le era stato sempre impossibile di leggere a prima vista la più semplice cantilena; ciò che si vede pur troppo in qualche famigerato virtuoso de’ nostri giorni. Abituata a seguire i capricci della fantasia, ell’era nulla più che una orecchiante ammirabile. Ecco un nuovo caso di metodo naturale, indirizzato da qualche pratico illustre, quale a lei fu Marchesi. Dovea essere però che la negligentata sua educazione artistica impedita le avesse la perizia di scena; ma la sicurezza della memoria non le turbava mai il brio della imaginazione, e l’esercizio vocale l’avea resa signora così de’ suoi mezzi, da scusar la passione coll’artificio. Ella era, a rigore di termine, la cantatrice da camera, una regina delle sirene dal delizioso linguaggio incantatore.
S’attagliavano alla stupenda sua vocalizzazione i canti del Piccini e de’ grandi maestri della vecchia scuola italiana, dove l’adorabile semplicità lasciava più libero campo alle fioriture dell’estro. Cantò le arie di Mozart, il cui genio però le fu men famigliare. Restò poi estranea alla rivoluzione operata da Rossini; chè l’educazione imperfetta e la poca attitudine scenica, non le permisero di prendere parte a quella grande novazione del drammatico canto.
— Fra gli ornamenti infiniti che, mercè la prodigiosa vocalizzazione, ella ordiva con una rara eleganza, rimarcavasi sopra tutto la facilità con cui eseguiva le scale cromatiche ponendo su ciascuna nota un trillo che scintillava come diamante d’acqua purissima. Talvolta lo battea con vigore imitando lo squittire della [217] allodoletta; talvolta, lo copriva d’un velo melodico che ne raddolciva il fragore. Le piaceva pure picchiettare la nota con reiterati colpi di gola, martellato grazioso ch’era stato il giojello favorito della Mingotti, una delle più celebri cantatrici della prima metà del bel secolo. La sua respirazione lunga e ben condotta le permetteva di dare alla frase melodica il necessario orizzonte, e d’accidentare il suono sempre vivo e pastoso. Impareggiabile poi negli effetti di contrasto facea succedere alla potente cavata, la mezza voce più misteriosa. — Sorvolava su quello scoglio insormontabile e duro a tutti i cantanti; e di là domava ogn’altra difficoltà.
Il più gran difetto che s’abbia potuto appuntare a quella vocalizzazione sì splendida e ricca, fu un movimento nervoso del mento che la Catalani mai non giunse a correggere. Movimento ingrato alla vista, che accusa un vizio di educazione vocale, e adesso tanto comune, che lo si riscontra pressochè in tutti gli artisti più rinomati. La Ugalde, Rubini, Mario, la Stoltz, non ne furono esenti.
Quell’uccello di paradiso che giuocò la voce come Paganini le corde, e i cui voli eguagliarono la magnificenza delle penne di cui andò rivestito, fuggì dai poggi ameni di suo ritiro per la epidemìa del 1849; ma il morbo cholera non lo rimosse da Firenze che per colpirlo fatalmente a Parigi[153].
[218]
Ci siamo dilungati colle memorie d’una cantatrice che senza ajuti di metodi e di conservatorj, per arte propria, salì a rinomanza, per dare un’idea di quelle maniere di canto applaudite innanzi al tempo delle esigenze drammatiche, maniere bastate allora ai più valenti; per dimostrare in pari tempo che i rari tesori ammirati da Europa non lasciarono traccie più fertili, che se fossero rimasti rinchiusi nel chiostro dove prima modestamente avevano brillato. Da cui la riflessione, che la sola scienza depone sementi di frutto, accanto ai lussureggianti frutti della natura.
Diversamente il canto più superbo passa come quello spontaneo della pastorella ignorata sul monte, o del pescatore solitario nell’onde.
Dopo la generazione ammagliata dal fugace splendore d’angeli canori, altri che avranno da apprendere e da ricordare?
In un mondo dove nulla perisce, che rimane a noi dei tesori d’una Musa ritenuta divina?
Di tanta celebrità che mai resta? Che resta di queste grandi sacerdotesse che pur mantennero la bella scuola e la arricchirono di nuove forme e del lustro di loro fama?
Avveraronsi le profezie di que’ fatidici genj, e levossi [219] il superbo edificio dell’odierno canto eretto sulle basi da quelle sublimi donne consolidate, e sursero sulle lor orme nuove schiere d’illustri virtuose, e nuove ancora... e che resta dei nomi loro?
Elettrizzarono il mondo co’ loro accenti, e passarono come folgore che abbaglia e sparisce.
E quando i musici sacrati all’arte si tolsero dalle scene, e col loro tramonto ingrandì la missione dei tenori accanto alle contralti e soprani, che avvenne di tante nuove riputazioni nella valente coorte iniziata dai David e dai Rubini?
Eppure la loro splendida scuola generò i Duprez, i Donzelli, i Conti, i Crivelli, i Moriani; e da questi i Cuzzani, i Giulini, i Negrini, i Viani, che come cigni, versarono di canti onde inebbrianti, e finirono.
Così colle voci baritonali e profonde, sublimi modulatori rinnovarono le note di Tamburini, di Coselli, di Lablache, di Marini, e di Ronconi; eppure colle vibrazioni potenti svanirono i nomi: e degl’uni e degl’altri resta appena qualche debole memoria; qualche ultimo richiamo sulle labbra più prossime all’eterno silenzio; qualche logora carta o trascurata stampa critica, adulatrice, mendace.
Dunque la fama divisa non è più durevole.
Dunque, come ogni piacere, passano le ebbrezze del canto e gli eletti destinati a mescere di quel nettare le dolcezze.
Dunque di tanti appassionati felici che s’affaticano negli studj della bell’arte e concorrono a gara a dilettare la presente generazione, non lascieranno di loro il più debole ricordo, nonchè ai nipoti, ma ai figli della generazione medesima fra le amarezze divinamente esilarata?
[220]
Chi ricorda ancora in Inghilterra quella che sollevava gli animi oppressi dai trionfi del prepotente?
Chi in Austria il devoto confortatore?
Chi a Venezia quel simpatico Viani, che nelle strettezze del famoso suo assedio (1848-49) facea dimenticare i flagelli che la dilaniavano, coi canti ricordanti la disfatta d’Attila sterminatore?
E qual città, quale terra non ebbe il suo angelo idolatrato che associa i ricordi di qualche grand’epoca co’ suoi dolcissimi canti?
Eppure restano le storie, i templi, i teatri, i monumenti, ma quegl’angeli sorvolano inosservati ai posteri più vicini, e di lor non resta nota o memoria.
La Francia, prima a Strasburgo, quindi a Marsiglia, a Parigi ed in ogni angolo delle sue terre, fino dal 1792 ripetè, ed anche non ha guari, ahi tanto fatalmente! il suo canto solenne di guerra ma ricorderebbe il primo ispirato cantore, se non ne fosse stato anche l’inventore e poeta?.. Fu Claudio Giuseppe Rouget de Lisle, che sulle reminiscenze d’una antica popolare romanza alsaziana[154], nuovo Tirteo, diede quel Canto all’Armata del Reno, battezzato poi per Marseillaise, dai soldati di questa città che primi l’accettarono.
Strasburgo medesima, ricorda forse la Dietrich che dal labbro del compositore in quel tempo apprese quel canto intuonandolo sulle eroiche sue mura?
M.ª Conneau, cultrice esimia del canto, esule in Inghilterra, che interpreta la dolorosa Cantata di Gounod sulle lamentazioni di Geremia nuovamente adattate alle sorti della sua Francia e della capitale regina fatta vedova e [221] deserta, verrebbe ricordata oltre all’epoca della Esposizione artistica in Londra (maggio 1871), se l’illustre cantatrice non facesse risovvenire l’intima amicizia e clientela del terzo Bonaparte caduto, e se la memoria di lei non s’associasse a quella dello splendido avvenimento per cui le composizioni ed il canto delle principali Nazioni a quella Esposizione mondiale vennero con onore rappresentate?
Ramenteranno a lungo Italia ed Europa i primi agilissimi gorgheggiatori delle eterne fioriture proposte da Cimarosa e da Rossini, quale fu il tenor Vincenzo De Rosa, primo a cantare la parte d’Almaviva, sulle norme di Emanuele Garcia[155]; ed altri che senza una estensione acutissima, pure crearono eletti modi di canto, quali il Crivelli nel Turco in Italia, e Donzelli sotto le spoglie del Bravo?
Rammenteranno quelli che con una declamazione spiegata e potente ardirono salire alle modulazioni di Rubini colle note piene e tenute, intese di raro nei vecchi canti, nè prima richieste dai compositori?
Parlo dei nostri stentorei, che ai si e do maravigliosi seppero pure accoppiare la dolcezza della voce sovrana di tenore e all’anima penetrante.
Cuzzani, l’Ernani appassionatissimo — Mirate, indifferente a declamare È il sol dell’anima, la vita è amore (Rigoletto) — Negrini, che scorse la sua stella Mesta d’incerto raggio (Ebreo)[156] — Carrion, che sfida Il più crudel periglio (N. Mosè) — Tiberini, che Ignoto incanto prova (Matilde di Chabran) — Fancelli, [222] che ripete Il caro accento (Ugonotti) — Villani, e la sua Figlia diletta (Ebrea) — Tamberlick, D’ogni re maggior (Trovatore) — Steger sublime nei casi di Don Carlos — Brignoli, che l’America chiama il tenore dalla voce d’argento — Fraschini, prodigio che, sessantenne, lega e fonde ancora note potenti e flessibili nelle passioni di D. Alvaro (Forza del Destino) — Mario, il lovely tenor di Londra, che alla vibrata azione del Masaniello, fa succedere lo Spirto gentil della Favorita, in dolce cantilena, colla quale proponevasi di dare addio alla vita d’artista che fu l’idolo d’una generazione (Plymouth 1870), ma più degl’anni in lui potè l’amore, e coll’antica voce ritornò alle scene!
Schiera eletta d’artisti dalla voce che supera in dolcezza ogni espression di natura; che trovarono favori presso ogni gente, che dai regnanti ebbero onori; onde i figli del popolo pel genial merto insigniti vennero, con nuovo costume, dei più serbati gradi cavallereschi da governi monarchici e repubblicani, in omaggio all’arte libera e cosmopolita; colla quale liberalità forse prima la Spagna, derogando dalle aristocratiche leggi, decorò de’ suoi ordini, fra primi, i tenori Tamberlik, Fraschini, Mongini, Stagno, Naudin, Ugolini, Perotti, De Azula, Baragli, Bulterini.
Novello costume che nobilita la virtù artistica ed obbliga in pari tempo alle morali virtù. Il titolo di Cantante di camera di questa o quella Altezza o Maestà Sovrana, fin qui e tuttora conferito, potrà trovar derivazione o riscontro nella esclusività di esercizio all’una o all’altra corte degli antichi giullari e trovatori, che godeano perfino de’ privilegi cavallereschi, senza esser dessi cavalieri.
Ma dappoichè la parola cantante non suonò più [223] dispregio; dappoichè i nuovi virtuosi non si trascinarono più da paese in paese sopra un miserabile forgone, come i commedianti di Molière; nè li costrinse più il pregiudizio dei tempi a condur vita zingaresca, ricca soltanto delle più strane peripezie; e l’artista educato a comprendere meglio la sua missione, come ad un civile e gentil sacerdozio vi si consacra; non disdice più la partecipazione dei distintivi per le sociali benemerenze come ai maestri d’arte vennero sempre accordate.
Nè fa più maraviglia che i principi stessi e i sovrani, non per sola pompa e trastullo come nelle corti medioevane, ma per scienza e coltura, attendano alle cose musicali fra le gravi cure di Stato, come ce ne porsero nobili esempi re Giorgio d’Inghilterra[157], i Reali del Belgio, di Baviera, Sassonia[158], Don Pedro del Brasile, Giovanni di Portogallo e Giorgio d’Annover protettori ed artisti.
Non sembra più strano che donne teatrali, guardate una volta in compassione dagli ascetici, o prese a gioco dagli aristocratici, trovino conti, principi, duchi degnevoli a stringere con esse nobilitate dall’arte serio connubio.
Fu un avvenimento che nel 1708 una cantante francese, forse la prima, diventasse marchesa di Villiers; corse quasi mezzo secolo prima che un’altra, [224] che fu Rosaly dell’Opèra di Parigi, trovasse marito nelle alte sfere e si trasformasse in contessa De Maesen. Erasi allora trovato un eccesso che il re di Francia avesse elevato alla dignità di conte e cav. di S. Michele il povero organista di Digione, Gian Filippo Rameau, maestro, cantore e compositore di corte.
Ma quanto più l’arte elevossi, calarono tanto più i pregiudizj del sangue: nel 1778 la Levasseur cantatrice non è sdegnata dal barone di Saint-Empire e poi dal conte Mercy d’Argentan; mentre la Cleron sposava il principe d’Anspack. Nel nostro secolo la Sontag divenne contessa Rossi; la Tavola contessa Benintendi; la Baldi baronessa de Wandestein; la Catalani marchesa de Valabréque; l’Alboni contessa Pepoli; la Dumilatre, Clarke de Castillo; la Lagrange contessa Stankovich; la Cazzaniga marchesa Malaspina; Grisi Giuditta, contessa Barni; Grisi Giulia, Getard de Melcy; Favelli Stefania, marchesa Visconti-Aimi; la Balfe, Lady Crampton, poi duchessa de Frias; la Piccolomini, già nobile, marchesa Caetani; la Lövve principessa la Lucca baronessa de Rhade; la Cruvelli baronessa Vigier; la Patti marchesa de Caux; e tant’altre.
È gloria inoltre di alcune città, come usarono ad onore de’ celebri compositori, intitolare le loro reggie dei canti dal nome di qualche artista distinto; o perch’ebbe in esse i natali, come Pavia chiamò il suo teatro Fraschini, Sebenico intitolò le sue nuove scene ora costrutte col nome del tenore Mazzoleni Francesco oriundo dalla dalmata terra del Tommaseo; o perchè il bel genio v’impiegava nobilmente, come Venezia ricorda nel suo popolare teatro la Malibran, la quale mentre trionfava sulle massime scene attirando folle di spettatori, non patì veder deserto il teatro [225] detto allora di S. Giov. Grisostomo, dove poveri attori languivano e con una serata ivi data a lor beneficio li indennizzò d’ogni danno.
Alberto Mario, o Giuseppe marchese di Candia, nato a Torino nel 1808, già ufficiale dei Cacciatori di Sardegna e marito alla Giulia Grisi, morta già a Berlino (novembre 1869), pel suo rinomato soggiorno in Russia dal 1839 al 1850, e da quest’epoca in poi pelle sue glorie in Inghilterra a quante Società e Istituti non diede egli il nome? E quanti palagi e quante ville nei più splendidi poggi e sulle più belle rive del mondo, non sono riconosciuti dai nomi di cotali o simili artisti; i quali smentirono che fossero esagerazioni gli stipendj richiesti dalla Gabrielli a Catterina di Russia, se in oggi sotto a enormi cifre soltanto segnansi i patti delle loro scritture, e mancano le celebrità cantanti alle contanti somme che in tutti i grandi centri dispongonsi dalle Corti, dai Comuni, e dai Grandi; se leggiamo in oggi stipendiato il tenore Mongini dal Kedivé d’Egitto a 25,000 franchi il mese; e se il banchiere Spinger di Vienna dona a Sultzer, vecchio cantante che gli rallegrò una Soirée, una Villa valutata 15,000 fiorini; se infine gli stipendj dei cantanti crebbero in generale a tali cifre da superare le liste civili di parecchi sovrani.
Dopo i tenori, un altro timbro di voce men delicato e incantevole, ma più durevole e forte e non grave tanto e monotono quanto quello dei bassi, è il timbro baritonale.
Genere di voce comune se vuolsi, e pur trascurato prima dai canti moderni, se non sia che s’impiegasse talvolta a scusare come poteva il tenore od il basso del cui doppio fare partecipa.
[226]
Per baritono infatti s’intese il cantore di tale voce dotato, e la voce stessa virile intermedia al tenore e al basso; in tale denominazione seguendo forse il greco vezzo per cui chiamavansi verbi baritonali quelli dall’accento grave sulla ultima sillaba.
Si cominciò a comporre pel canto speciale in questo timbro, quando appunto le voci femminili de’ contralti subentrarono a quelle de’ castrati, e per la mancata usanza di questi, la scena d’uomini cantori si trovò più sprovvista. Ma ne’ primi tempi Rossiniani in poco conto ancora tenevansi i baritoni; e lo stesso Mejerbeer disdegnò scrivere per tali voci che le dicea comuni a tutti gli uomini.
Senonchè, anche i naturali contralti patirono una epoca di trascuranza; e di tal crisi deplorabile abbiamo un prezioso documento nella risposta di Rossini al cav. Luigi Ferrucci che lo richiedeva del perchè «il contralto non figurasse più tra le parti principali in composizione.»
Il grande maestro col solito suo stile sapiente e faceto, scrisse che: «per intendere tal fatto, mentre però il contralto non avea perdute le sue naturali simpatie, andasse (il richiedente) alla Messa cantata. Al Sanctus l’abile organista, sul registro della voce umana, si fa strada al cuore dei devoti col patetico sviluppato per lo più in un andante.
L’organista del villaggio è il primo maestro di logica, misurandola a battute.
Il contralto è la norma a cui bisogna subordinare le voci ed istrumenti in piena composizione musicale. Se si vuol fare a meno del contralto si può spingere la prima donna assoluta fino alla luna, e il basso profondo nel pozzo. È questo far vedere la luna nel pozzo. [227] Convien lavorare sulle corde di mezzo perchè si riesca sempre intonati; sulle corde estreme quanto si guadagna di forza, tanto si perde di grazia; e per abuso si dà in paralisi di gola, raccomandandosi poi per ripiego al canto declamato, cioè abbajato e stonato. Allora nasce la necessità di dar più corpo alla istrumentatura per coprire gli eccessi delle voci a discapito del bel colorito musicale...[159].»
Ecco adunque come dalla trascuranza d’un timbro omogeneo, e in pari tempo dalla necessità inevitabile delle corde di mezzo, s’accolse a ripiego il quasi tenore, o basso saliente.
In seguito, la migliore accuratezza d’esercitar la voce in tale timbro, e la scarsezza anche de’ veri tenori, resero il baritono gradito, interessante, parte indispensabile e dirò quasi quadrangolare del vocale concerto.
Influì la voce magnifica baritonale di un Ronconi perchè i grandi scrittori del nostro secolo dedicassero a quella chiave parti speciali e primarie, onde poi si mantenne l’usanza; mentre i canti ascritti ai baritoni de’ vecchi tempi non servivano che a riempitivo del concerto e del coro. (Vedi Merçenne 1635.)
Presto levaronsi celebrità anche fra i cantori di questo genere. Ronconi, adunque, Duce di tanti eroi; Cartagenova, dei Sacerdoti (Aleandro nella Saffo); Salvadori, Arbace; De Bassini, Belisario; Varesi, Rigoletto; Corsi, Ezio; Giraldoni, Ebreo; Aldighieri, Machbet; Steller, Don Giovanni, Müller e Medini, Cardinale De Brogne; Marini (Ignazio), Mosè; Bellini, conte di Posa; Merly, Nelusko; Cottone, Beneventano, [228] Antonio Cotogni, Selva, David, d’ordini cavallereschi recentemente fregiati; Natali che fa risuscitare le opere del vecchio repertorio italiano.
Non saprebbesi poi trovar ragione, se non la si attribuisse ad un curioso oltraggio di fortuna, perchè un’altra schiera di cantanti non meno ingegnosi, ed ai quali anzi devono arridere specialissime disposizioni, restar debbano dalla fama più presto negletti; intendo parlare dei bassi comici destinati alle parti buffe.
È ben vero che nelle antiche produzioni, e principalmente nelle Opere del passato secolo, quasi tutti i cantanti doveano attagliarsi anche al genere di musica scherzosa, che non riesciva strana o gravosa in forza delle medesime loro istituzioni.
È vero altresì che coll’ampliamento musicale del nostro secolo, salito il canto alla interpretazione di più grandi espressioni, rimase quasi secondaria la modesta azione che pur nel comico era stata maestra e creatrice.
S’aggiunga che tanti nomi i quali mantengono ancora la loro celebrità, l’ebbero già fondata sulla doppia maniera di canto; come vien ricordato Lablache, egregio nel comico e nel drammatico.
Non pertanto è d’uopo registrare che le memorie delle maschie voci, le quali destarono all’ammirazione ed alla gajezza le passate generazioni, non sopravissero alla ilarità che beneficamente suscitarono in questa umana razza più studiosa di cercar le serie e potenti emozioni, di quello che conservare l’ingenuo riso della letizia.
Risvegliatori moderni di questo bisogno pur prepotente della vita, ricorderemo quel Pasquale Savoia [229] che ha creato quasi tutte le parti comiche dell’antico repertorio napoletano; e poi fra i più rinomati fin oggi: Raffanelli, De Grecis, Bassi, Remolini, Bandicchi, Madrigali, Scudo, Cambiaggio, Zucchini, Rocca, Scalese, Soares, Cavisago, Scheggi, Menin Domenico, Zambelli Giuseppe, Fioravanti Valentino, Borella Maurizio, Marchisio Giovanni, Bottero Alessandro, Fattori Tommaso, Migliara Francesco, Tessada Augusto, Ciampi Giuseppe, Catani Filippo, Castelli Giacomo, Ristori Cesare, Topai Enrico, Zoboli Alessandro, Bellincioni Cesare, Coreggioli A., Savoia Francesco (figlio), Grandillo anche compositore[160].
Più al di sotto, la straniera falange di tali artisti si tramutò in bizzarri caratteri non privi di piacevoli effetti, certi comici-cantanti, parodisti talvolta dei veri e grandi cantori, ond’ebbero grido in Francia, mad. Theresa, Levassor, Berthelier; in Inghilterra, Matthews, Mackney, deliziatori principali del Mabille di Parigi, del Cremorne ed Allambra di Londra, della Neue Welt di Vienna.
Quindi tante donne dall’appassionato gorgheggio, che fanno meno scarso corredo alle scene mondiali; schiere leggiere e brillanti che si spandono ovunque alla conquista di nuovi affetti, e più o meno fortunate o valenti, apprestano onori a questa lor terra madre dei canti e ispiratrice; e meno pieghevoli allo sconforto del sesso più forte che milita sotto alle stesse [230] bandiere, procedono costanti accanto all’emula legione illustrata da maggiori trionfi, quasi consapevoli che i nomi più chiari, quali per debito storico s’avranno qui pure ad accennare, poco prima o dopo, avranno a smarrire, come le oscillazioni delle note vibrate dal coro intero di tutte esse amabili cantatrici.
Ricorderanno i Germani le profetesse delle nuove loro rivelazioni; virtuose trionfatrici di quei confini che da secoli escludevano le nordiche figlie dal ministero de’ canti? Quelle che valsero a rendere avvertita la loro esistenza nei regni delle belle espressioni, e confortarono la nascente loro scuola, ne diffusero le dottrine, e soccorsero ai loro compositori nell’apostolato delle grandi speculazioni?
Eppur esse giunsero a gareggiare colle figlie del sole, e presso alla madre ed alle sorelle più franche, furono tanto più ammirate e gradite, quanto meno da loro attendevasi. Ma delle riformatrici e propugnatrici di quella scuola, e d’altre che s’acquistarono onore consacrando il loro genio specialmente alla scuola italiana, fedeli a questa e innamorate, benchè non deluse nella lor parte di gloria, per quanto tempo rimarranno famose?
La ventura generazione richiamerà per caso i nomi delle Demerich, Schmoeling, Föder, Sontag, Billington, Dobre, dell’Ungher e Müller, della fiamminga Enrichetta Laland, delle parigine Duperon, e Rosa Niva Stolz, delle boeme sorelle Stolz Lidia, Francesca, e Teresina[161]. Sentirà ricordati appena quelli di Anna Winen, [231] delle Schwartz, delle Kellogg, delle Meyer, Grün, Mäesen, Csillag, Liebhart, Saass, Bettelheim, Brandt, Ohm, Saar; della Spitzer Erminia, della Bianca Blume, di Gabriella Krauss, Geistinger, Wilt, Laussot, Prohaska, Mila Röeder, Gabriella Kotzmayer, Giovanna Spierling, Emma Wiziak, Carolina Schmerhofsky; bionde sacerdotesse che in oggi colgono applausi[162].
E i fratelli di queste, meglio celebrati, che pure in quest’epoca, i primi forse, acquistarono allori alla loro nazione nell’arte del canto, ed influirono massimamente alla rivelazione ed al credito della lor musica, non lasciando memoria che nelle cronache teatrali, rimarranno come i vecchi arnesi delle scene abbandonati in un canto, resi inutili e di niun valore.
Mero caso che, una Storia, mostrando in generale gli svolgimenti dell’arte, ospiti ne’ suoi appunti questi primi stranieri, i quali benchè pochi e tardi, provano non impossibile affatto il bel canto moderno alle loro aspre laringi, e il grido loro fecero uscire dalle regioni in cui tal fama era negata.
Più raro caso poi, e fortuita loro ventura, che anche la Storia, nell’odierna apatìa, non rimanga negletta.
I cantanti stranieri cominciano in vero aver passo frequente fra noi, chè fin qui (non sa il Biaggi se per ossequio o per derisione) usarono dessi nascondere le aspre desinenze de’ loro nomi sotto le soavi e musicali dei nostri.
[232]
Fra gli Alemanni adunque, dopo quel Bader che cantò le opere di Spontini, e visse pure fino questi giorni a Berlino, si notino: Kellner, Kunert, Fritz, Brettschnieider (morto 1871), Beck, Schmid, Mann, Molferteiner, Koehler, Szigethy, Winffen, Frank, Walter, Labatt, Varenrath, Sultzer, Bülow, Beeker, il principe di Wittgenstein, il buffo Just, rinomati cantanti[163].
Si fanno oriunde Sveve, la Ostava Tornquist (Torriani), la Jenny Lind, la Cristina Nilsson.
Dalle immense lande di Russia ci giunsero celebrati i nomi: d’Erminia Rudersdorf, Murscka, Carolina Leontieff, De Filatoff, Mentzikon, Davidoff, soprani; di Malknecht e Luwroscky contralti, di Nicola Andreff tenore; Rapport, Gorrinzi, di Weyrauck, non ha guari estinto cantore e compositore di Livonia.
Dalla non men fredda, ma più entusiastica Albione, levaronsi in rinomanza: la Titjens, la Wynne Edith, la Lemms-Sherrington, la Kapp Jung Luisa, la Gaurieff, la Colson, la Balfe figlia al celebre compositor di Dublino[164].
Non dico di tante appassionate inglesi della miglior società che serbano le culte voci alle sale nei canti loro ispirati oggi dal napoletano Salvatore Scuderi e dagl’altri specialisti compositori italiani di camera che vedemmo a Londra stanziati e prescelti (pag. 95-97), [233] e non isdegnano consacrarle ai grandi concerti dei classici loro e nostri orfeisti.
Da una delle più cospicue famiglie di Scozia, Lady Liza Campbell-Otvvay, iniziata dal Garcia figlio e dal Romani, passò al grande sacerdozio del canto.
Accrescere la fama d’un nome illustre per ricchezze e per sangue, colle glorie dell’arte, si ascrive comunemente agli eccentrici capricci dell’aristocrazia inglese, mentre dovrebbesi notare invece a nobile insegnamento.
Miss Anna Parken segue l’esempio della Campbell; così la inglese che veste il nome di Matilde Florella.
Altre, Cora de Willhorst, Harrisson, Patey, Weldon, Martell e la Cholmeley contessa ed artista.
Sims-Reeves vien proclamato il primo de’ tenori inglesi: lo seguono, il Commings, Santley, Mapleson, Tom Karl irlandese, Maler e Maybrick.
Dalle Americhe, ove sulle pareti delle aule scientifiche iscrivonsi ad onore i nomi delle più belle figlie del mondo, che di libero sapere nobilmente coll’uomo gareggiano, nè è privo il tempio dell’arte delle erudite sacerdotesse, ci vennero già in bella fama, Elisa Franck, la Kate Scott, la Escalante, la Resbourg, l’Irma De-Höwe.
Giulio Perkins basso, William Castle tenore, Jerom Hopskins, i Cook contralto e baritono, le pseudo Leonia Carini e Matilde Filippi contralto.
Di Francia e Belgio, tengono bel nome, i soprani: Marty, Lafon, Harris, Colmack (Vaneri), Gasc-Curbel, Galli-Marié, Dory, Danery Alix, Vanders, Cinti-Damoreau figlia, De Baillou-Marinoni, Briol, Bertrand, Soustelle, Spaak-Moresi Alice, belga, e la sua maestra De Roissy; Finck Anna olandese, ora maestra di bel [234] canto in Napoli. I contralti: Miolan, Demeric, Mombell, Langlois e buffe: Carvalho, Marimon, Cabel.
I seguaci a Duprez: Roger, Nourrit, Naudin, Bouchardé, Verger, Michot, Caron, Troy, Pouget, Gayarre, Achard, Capoul, Coy, Sylva.
I bassi: Verger, Didot, Gonet, Baroilhet[165], Castelmary, Maurel, Fallar, Faure, Souvestre, Lassalle, Rives, Bremond, Barrè. Altri: Bouchè, Ponsard, Gaspard, Deleurie, Vielles, Gorè, Giroud[166].
Di Spagna: la Colbran che innamorò Rossini; la Benita Moreno, che educata in Italia al principio del secolo, fu detta la prima che facesse conoscere nelle sue regioni native il nuovo repertorio italiano, e morì ottantenne a questi giorni. La Segovia, la Lola-Vega, la Llanes, la Fité-Goula, Ramirez della Zarzuela, Camilla Dos-Reis, Laura Sainz de Santjana.
I tenori: Carrion Emanuele, Padilla, Mendioroz, Fernandez, Marin, Blasco Federico, Aramburo.
I bassi: Puente, Rodas, Varvaro, Moragas, Ruyz.
Perfin dall’Africa sortì una cantatrice, la prima del suo colore che giunse a trovar grido in Europa, e che a Parigi fu battezzata col nome di Patti Noire nel 1872.
Quella miriade poi d’itale Sirene sparirà per sempre nell’abisso del tempo? Non resterà forse una sola a disputare la più durevole rinomanza della loro Regina che fu figlia a Garcia?!
Non saranno state più che visioni dall’arcano accento, [235] come la Catalani e l’Alboni, Elisabetta Gafforini, Benedetta-Rosmunda Pisaroni, Teresa Cecconi, Teresa Belloc, Virginia Blasis, Santina Ferlotti, Giuditta Grisi, Giovanna Codecasa[167], Caravoglia Luigia, Stefania Favelli, Luigia Boccabadati, Teresa Tavola, Rosa e Giuseppina Mariani, Anna Cosatti, la Strepponi, la Sacchetti, la Carradori, Eugenia Tadolini, Amalia, Maria (contralto basso) e Teresa Brambilla?...
E gli astri vagheggiati ancora, che di scena in scena ripeterono i trionfi, quali: la Santoni, la Penco, la Spezia, la Borghi, la Frezzolini, la Bendazzi, la Barbieri-Nini, la Scotta, la Salvioni, la Benzoni, la Lotti, l’Albertini, la Fricci, la Rebussini, la Piccolomini, la Albani, la Trebelli, la Salvini-Donatelli, la Galetti, la Marziali, la Volpini, la Vaneri, la Tiberini, la Montaldo, la Moro, la Biancolini, le De Giuli-Borsi, le Cruvelli, le Caracciolo, le Ronzi, le Marchisio[168], le Ferni[169], le Patti?...[170].
Narrasi che, Farinelli trovandosi un giorno nella biblioteca del padre Martini, e mostrando al raccoglitore inglese Burney le opere del sapiente bolognese, dicesse: «Ciò ch’egli ha fatto resterà; mentre nessuno avrà un’esatta idea del genio mio, e il mio nome [236] si cancellerà dalla memoria degl’uomini così presto come i trasporti d’ammirazione di cui io fui l’oggetto per quarant’anni della mia vita!» Tale espressione era degna di chi infatto potea vantarsi uno de’ più grandi virtuosi che avessero mai esistito; e il suo riflesso sulla fragilità delle glorie brillanti degli esimii cantori, sulla sorte riservata a que’ divini artisti che dopo aver inebbriate le generazioni contemporanee, e averle tenute sospese ai loro labbri ispirati, sfuggono a stento da un eterno obblio, è vero così quanto egli è triste.
Il tempo che ripara tante ingiustizie, sembra in tal fatto rigoroso ad eccesso. L’arte di commuovere colle inflessioni della voce umana nei limiti d’un’azione drammatica, è un’arte assai complicata; ella esige da chi vuole emergervi le più rare qualità. Quanto stadio, quanta pazienza per giungere a signoreggiare quell’organo, e per esprimere fedelmente quel che sentesi dentro!
Il suono che s’invola dalle labbra del cantante, tutto impregnato, per così dire, dell’essenza della sua anima, riflettendo i mille colori della passione, dev’essere stato, come il diamante, sommesso per lungh’anni alla lima del lapidario.
Eminenti artisti spesero all’edificio d’una gloria efimera una somma di qualità che basterebbero alla creazione d’un’opera durevole; e dopo tanto tempo di lotta, dopo aver consumati tesori d’intelligenza e di sensibilità, dopo mille trionfi, in cui essi hanno veduto ai loro piedi i potenti della terra, questi grandi cantori si spengono in una solitaria vecchiaja, circondati soltanto da qualche lusinghiera memoria, avendo attraversata la vita come un sogno d’amore.
[237]
La ragione d’un sì triste destino fu trovata nella impossibilità di tessere la storia di tutti questi uccelli del paradiso dai canti melodiosi.
La fama che sovviene alla storia, negli andati tempi stentava è vero a farsi strada nel mondo, più che adesso non le avvenga, ed una volta, era soltanto lo straordinario valore che le apriva le vie. Ma in oggi all’estremo opposto siamo forse ricaduti. La sconfinata pubblicità la rende forse per eccesso più debole e fugace.
La riputazione de’ cantori s’appoggia specialmente al Giornalismo: ed in vero, anche quello musicale e teatrale non è rimasto in dietro, chè lo vediamo servire talvolta alla storia ed alla estetica dell’arte, alle corrispondenze, alle critiche, alle biografie, alla statistica, alla rassegna, al movimento artistico in generale, ed alle cronache in particolare.
Ma dura la fama affidata a quelle effemeridi? E valgono queste a caratterizzare veramente gli artisti, a svelarne la diversa natura e la intimità della loro artistica vita?
La sentenza del Farinelli non è che troppo vera. Come trasmettere alla posterità, colla fredda parola una inflessione di voce, un guardo, un gesto, una pausa, quelle mille ombreggiature dell’arte e della bellezza, che caratterizzano lo stile d’un grande cantore? Come potrebbesi tener conto delle qualità misteriose de’ timbri e de’ tessuti vocali, dei secreti della emissione, della acquistata o scemata potenza, delle varie forme introdotte, delle rivoluzioni promosse o compiute?
Come infatti enumerare tutti gli astri, e spiegar l’armonia de’ loro canti; penetrare i capricci e i bagliori delle loro luci, pesarne il loro calore?
[238]
Scrisse adunque il destino sulla piega del loro tramonto: nomen et cineres una cum vanitate sepulta!
Di tanto fiera sentenza parvemi di ravvisare forse un solo compenso: un’ombra di ereditaria perpetuazione.
Mentre infatti veggonsi generalmente in ogni scienza ed arte, i figli ed i nomi tralignare dal valor e dalla fama de’ maggiori, nell’arte del canto e della musica, perocchè debba in essa dominare l’istinto, la bella disposizione più facilmente trasfondesi, e veggonsi rinnovate per discendenza tante belle riputazioni.
Il genio del canto in tante famiglie passò di generazione in generazione, e se non trovò da propagarsi tra nipoti, sembrò talvolta che perfino ai nomi soli abbia voluto conservare i suoi favori.
Quindi il nome dei Sarti, più o meno congiunti, si mantiene nelle Romagne dal 1650, e per tutta Italia quello degli Allegri, quello de’ Rossi cantori e musicisti.
La fama dei Pacini o Picini rinnovossi a Napoli e a Roma; ed ivi e a Venezia quella de’ Sabatini.
Dal 1520 passò di padre in figlio la celebrità dei Gabrieli in Venezia, e nei più strani modi, fedele quasi a quel nome, passò alle Gabrielli di Roma 1750, di Ferrara 1770 (detta la Gabriellina), in Prussia 1790[171].
Coi Fantoni da tre secoli, passò il culto del canto dalla Toscana all’Alsazia, ed al Veneto; e quivi specialmente i Marini parvero ricomparire.
I Gafori, i Castellani, i Grossi, i Conti, i Marchesi, i Todi, i Zani o Giani, gli Agricola, i Bellini, i Zanotti, i Fioravanti, i Ronconi, i Corsi, in Italia; e di [239] padre in figlio gli Scarlatti, i Gabrielli, i Venier, i David, i Garcia, i Bassi, i Ricci, gli Scheggi, i Gerli, i Varesi, i Crivelli[172], i Zucchelli, i De Bassini; le Patti, le Tosi, le De Giuli, e fra sorelle: le Ruggiero[173], le Cruvelli, le Ferni, le Caracciolo, le Marchisio.
Altre nacquero come suol dirsi in pien cartello per parentele d’illustri artisti, come la Balfe, la Vitali[174].
In Francia, per lungo tempo parve fissarsi la fama ai nomi di Salomon e di Lalande. Fra i Germani, a quelli di Wolf, Sartorius, Weis, Meyer[175], Müller, Stolz.
Ma non per questo quella gloria è più durevole. E ne fan prova i cantori celebri e rari de’ passati secoli, quando la loro influenza era più rimarchevole e grande; quando poco o nulla calcolavasi il compositore in confronto all’interprete, e quello a questi umilmente serviva; quando al culto del canto sacrificavasi perfino la virilità e la vita.
Il genio di tanti maestri rimurchiato da quello dei cantori, naufragò allora eternamente; e tante invenzioni affidate alle voci fuggirono con esse. Eppure a furia d’invenzioni e di esecuzioni, tanta scuola levossi, tante tradizioni eternaronsi, tante novità generarono. [240] I nomi de’ cantori scomparvero, come strumenti abbandonati; quei de’ creatori furono richiamati, ed essi e le loro creazioni rimangono, e il tempo e la storia rendono o presto o tardi giustizia.
Che vuol dir tanto mistero?
Egli è che la virtù vera esiste e non muore. Passano le vanità, la scienza rimane.
La fama degli sterili esecutori o ripetitori delle altrui ispirazioni è quella che fugge come l’èco, che si spegne come fatui bagliori.
La vera luce dei genj, de’ virtuosi che riconobbero l’arte profonda della musica, che specularono nel mistero de’ canti, che unirono il sapere alle doti felici, se pur sembra velarsi e smarrire, non manca: non è passeggiera meteora, ma vive anche dopo il tramonto.
A lato dei sommi creatori de’ canti, vediamo risorgere e ricomparire il valor di sapienti che in linea più umile o bassa parea obbliato; e così rivive la fama degl’interpreti che non contenti di farsi stromenti passibili e caduci, si associarono colle speculazioni e gli studj nell’arte maravigliosa; quelli che prodigate o perdute le vocali ricchezze dalla natura e dalla fortuna sortite, lasciarono eredità imperitura di belle opre della mente e del cuore.
Questo sia di conforto ai moderni sacerdoti del canto.
Non è la loro sorte più vana di quella della farfalla; non è la lor carriera macchinale servigio, mezzo che s’adopra e s’abbandona.
È ministero d’un’arte profonda; è nobile finchè tende esso pure alla conquista del vero e del bello; è l’Apollo divino figliuolo all’Eterno, ma che esige il culto e l’amore delle divinità.
[241]
Egizj, Caldei, Ebrei, Greci e Latini c’insegnarono come essi nella antichità avessero fatto del canto uno studio sublime. Se i secoli contrastarono ai dotti la conservazione o la restituzione degli esempî dei loro canti, le eterne porte del tempo non prevalsero alle manifestazioni di que’ canti medesimi.
Restano imperituri monumenti, i sacri poemi coi quali i primi cantori svolsero le religiose dottrine ai varj popoli; le Omeriche muse; le odi Pindariche; le liriche d’Anacreonte e d’Orazio; i cantici della Scrittura, i salmi reali.
Quanta scienza ai cantori affidata! quanto erudito ed elegante quello ch’essi cantavano; e come rigorosamente attenevansi ai ritmi della nobile usanza!
Ma i filosofi, poeti, legislatori, re, sacerdoti, furono i primi fattori e i più abili esecutori di canti; indi nobili cavalieri, monaci studiosi, pellegrini eruditi[176]: e pel loro sapere, anche fra i più oscuri tempi, non ismarrirono i nomi loro.
Tanto studio con cui un Orfeo inneggiava agli Dei, Pindaro onorava gl’illustri, non poteva andare dimenticato: e per poco si rifletta ai versi che celebrarono le Olimpiche vittorie, od al Phitico poema che esprime la lotta d’un Dio col dragone maligno, o alle frasi che canteranno in eterno le misericordie del Signore, balena tosto alla mente la necessità d’interpreti corrispondenti per coltura agli elevati concetti.
[242]
Splende la scienza di Timoteo quando imprende a cantare le battaglie d’Orzia, innanzi ad Alessandro Macedone, il quale sente rinfiammato il suo valore, ed esclama — così devonsi esprimere i regi cantici! —
Quanti più vasti argomenti non offrirono ai compositori e cantori, i tempi migliori, la religion più sensata!
Quando nacque, come vedemmo, il canto drammatico, poterono bastare le forme, ed i primi sperimenti appagaronsi degl’insoliti effetti. Allora che si prescielsero le voci bianche, e si chiamarono le belle figlie dell’amore e della poesia ad unire le loro voci ai cori delle nuovissime scene teatrali, gli uomini più dotti ed anche le più serie Accademie in quel tempo fiorenti, che tenevano in pregio sommo la musica, che avevano proprj musicisti e loro davano tetto, stipendio e regali, adoprandoli nelle onorate foresterie, nei banchetti, fra le lezioni e gli esercizj, e in ogni rito solenne, elessero a preferenza le donne «avendosi osservato — come motivava una siffatta deliberazione l’Accademia Olimpica, 1609 — che la mediocrità del saper delle donne incontra forse più che l’eccellenza degli uomini.»
Ma tutte non erano per certo mediocri, notava il Lampertico raccoglitore delle memorie della celebre Accademia Vicentina, se i virtuosi e le donne state a que’ stipendj, fin da quando Guglielmo III di Mantova veniva ivi festeggiato (1582), meritarono di passare al servizio del Duca, e d’aver nominanza anche fuori d’Italia, e accoglienza alle straniere Corti. Che se pure, io soggiungo, le mediocrità servirono allora a quelle barriere e in que’ concerti e rimasero oscure, non patirono la sorte medesima quelle donne e que’ maestri che fra gli accademici, ai geniali titoli del canto e della musica associarono le doti dell’animo e della mente.
[243]
Se qualche umile cronaca serbò appena i nomi delle cantatrici, sebben laudatissime, riputate volgari[177], poeti e scrittori eternarono a chiarezza dei posteri le più sapienti.
Quindi le distintissime Fiorentine celebrate dal Doni, la Adriense compianta dal Groto[178], e le vere Accademiche Lucrezia Chiericato e Maddalena Casulana illustrate, quella dal Calmo e dal Bartoli, questa dal Maganza[179].
Anche in quell’epoca adunque in cui speciali condizioni [244] resero le mediocrità sopportabili o preferite, il merito migliore soltanto vinse l’obblio, ed ebbe dal tempo alla sua volta preferenza e giustizia.
Dappoi, la indulgenza concessa all’infanzia, più non si riscontra colla maturità dell’arte: e nei tempi più recenti, proceduta questa collo sviluppo delle scienze, ad ultimo retaggio della mediocrità, aurea una volta vantata, non rimase che il nulla.
Quindi i maravigliosi avvenimenti dell’età nostra se porgono infinita materia da sublimare ne’ canti, quante cognizioni però non richieggono alla complicata e difficile interpretazione! Voglionsi le risorse tutte dell’arte.
Fu detto che — l’Italia, primogenita figlia della Grecia in fatto di arti belle, dilaniata per lunghi anni da sciagure intestine non ebbe sempre l’agio di riscaldare e sviluppare tutte le inclinazioni del suo genio: e forse non ultima cagione dei tanti disinganni patiti è forza riconoscerla in quella malaugurata fiducia nella facilità del proprio ingegno, da cui è invasa la maggioranza degl’italiani, e che li rende generalmente neghittosi ad approfondir seriamente qualunque disciplina.
Gli stranieri invece, più fortunati di noi, sia per condizion di governi, sia per qualunque altra causa, fecero loro prò delle idee nostre e le condussero ad una perfezione relativamente ammirevole — alimentarono collo studio le scintille tolte al nostro suolo lasciate da noi quasi abbandonate. — Quindi, come le nostre scuole, anche i nostri cantori non lasciarono che belle tradizioni, ma facili e vaghe, mentre altri studiano a soverchiarci con artistici tipi. — Però v’ha in questo un conforto: gli stranieri ci rendono giustizia e riconoscono la fonte da cui hanno tratto le [245] scintille fecondatrici. Ebbene, facciamo noi altrettanto, rendiamo loro la giustizia dovuta, prendiamo da essi quanto ci manca — gli esempj d’uno studio vasto, profondo — e facciamo nostro pro del frutto della loro sperienza.
Nelle loro scuole l’arte giunse a contrastare al genio la palma.
Se i nostri cantori accoppiassero al felice istinto la scienza!.. Non morirono i pochi che in questa ritemprarono l’arte.
L’arte lunga, mentre breve è la vita.
Non è qualche dote naturale che forma il vero artista; bensì la intima e profonda conoscenza degli elementi tutti che concorrono all’arte sua. Ed il canto è l’arte sublime che in sè riassume pittura e poesia: onde all’artista cantante è serbato d’interpretare le ispirazioni di chi raccoglie il concetto nel verso, e di chi lo disegna colla varietà delle note.
S’affidino adunque i cultori allo studio.
Ma uno studio vasto, profondo, universale; non limitato alla parte superficiale soltanto dell’arte da professare, ma bensì alla natura dell’arte, che è pur vasta, universale e profonda.
Obbedienti alle leggi della scienza per lo scibile tutto a cui gli artisti per quanto possono deggiono avvicinarsi, restino pure liberi e indipendenti nella pratica dell’arte prescelta.
A riconferma della necessità di sapere, e in pari tempo di quella libertà creatrice che abbiamo propugnata con giudizj e con esempj ragionando dei metodi e dei sistemi, insufficienti al sacerdozio del canto[180], [246] mentre prima del maestro ogni uomo ha in sè medesimo il suo genio, vengano rammentati i consigli che il massimo filosofo, chiaroveggente dell’antichità, dava ai giovani ateniesi cultori delle belle arti.
Socrate avea imparato la scoltura dal padre, e la musica, che allor non era che il canto, dal valente Damone, e riconosceva l’utile riportato alla sua sapienza anche da quelle cui specialmente non si era dedicato, avendo, com’egli diceva, ascoltato in ogni studio il proprio genio.
Invidiava a Fidia e ad Omero, ma per imitazione o per metodi non s’avrebbe attentato emularli.
Ei riguardava la poesia come sapienza ispirata, ed il canto, una concitazione del genio.
Concitazione che sarà sublime, e negli effetti immortale, se originata da un genio ben culto.
Così i cantori possono rendere i loro nomi tanto più durevoli, quanto men passaggiere lascieranno le impressioni che sono destinati a destare.
A questo riflettano seriamente i cantanti dei nostri giorni; perocchè sia questa veramente l’epoca della serietà e della riflessione, e meriti l’argomento di non essere più trattato colla leggerezza d’un tempo, onde le fatiche loro procedenti a paro colle moderne esigenze, rendano l’opra loro non inferiore almeno in vitalità e consistenza dei manuali prodotti dell’artiere, dei frutti non ispontanei tratti dalle reclusioni e dalle condanne.
Ripensino gli attuali artisti teatrali a quella verità poc’anzi annunciata, che la fama quanto più divisa tanto è meno durevole: e in oggi, propagati i misteri dell’arte, resi a tutti accessibili gli scenici templi, generalizzato il costume de’ teatrali spettacoli, ricercherebbero [247] in vano le romantiche avventure, le influenze straordinarie, fuori dallo stretto còmpito dell’arte.
Se nell’ultima parte di questa istoria abbiamo ripetuto qualche memoria biografica di alcune celebrità del passato secolo e de’ primi anni di questo, e ricordammo i casi loro avventurosi e straordinarj nel rimestamento sociale, egli si fu appunto perchè nessuno di que’ successi potrebbesi narrare degli odierni cantanti, essendo ben altre in oggi le influenze in politica, e potendosi dir finita la potenza dei poeti e de’ musici nelle sorti dei regni e della diplomazia; e perchè inoltre ben poco adesso si potrebbe notare di loro anche ai riguardi delle novazioni, dei progressi e dell’influenze nell’arte medesima.
Passano adesso più o meno applauditi e salariati tutti, e fluiscono tutti egualmente. E un’artista non dovrebbe finir mai!
Cessata l’opra in cui il vigor di natura e le forze più balde richieggonsi, rimane il senno, prolifica la dottrina. Resta il cittadino, cui più felici circostanze sorrisero, e lo misero in grado più ch’altri di fornirsi d’utili pregi a sè ed alla patria, la quale ripete ancora da lui nuova azione nel campo dei lumi, degli studj, del beneficio, delle onorate imprese, del procedimento nei figli.
È ben misero che finisca un uomo col cessare d’un suono, collo smarrire, d’una lieta impressione momentaneamente destata!
L’eco sola d’una voce, per quanto mirabile o straordinaria, dileguerà; e l’organo suo, senz’altro pregio, rimarrà come strumento spezzato. Quindi toccherà subir nuova prova dei fatali parossismi della vita: estremo di dolcezza e di dolore.
[248]
Un canto forse più umile, ma da ben’altri valori accompagnato, non cesserà mai di risuonare nel mondo civile, che tratto tratto ne richiamerà le delizie con nuovo studio e nuova maraviglia. Ond’è, che il vero merito rende fra le anime colte imperitura la fama di Francesco Landini, l’Omero toscano; di Gaspara Stampa, la Saffo veneziana; di Giovanni Paita, il ligure Orfeo; di Francesca Boschi, detta la Salomona della musica; di Antonio Pasi e Giambattista Minelli, soprannominati i sapientissimi artisti.
Come Timoteo è avvinto alla immortalità d’Alessandro, perdureranno i loro trionfi, quanto più prossimi all’altar della scienza.
Facili glorie non son consistenti: le fronde cresciute da lunghi e forti studj, e feconde di egregi frutti, così facilmente non appassiscono.
Ma glorie non sono quelle de’ Filoteti e delle Baccanti che cantano il piacer della vita; nè sono note che resistono al tempo, quelle che sortono dalla freddezza d’animo, accompagnate dalla indifferenza e dalla ignoranza. Gli accenti nati dalla preziosa sensibilità, passati pel fuoco della passione, e purificati nel crogiuolo della bella coltura, son quelli soltanto che lasciano impronta tradizionale e incancellabile alle generazioni e alla storia dell’arte.
La gloria del vero cantor musicista, che fa studio delle armonie della natura, e rivela le ispirazioni de’ cieli, compreso di sua missione, conscio di che sia canto, la gloria del virtuoso vero, non è effimera; è partecipe a quella della creazione, nelle cui ricerche può farsi immortale.
[249]
Parte nuova. | |
III. | |
Continuazione sui Metodi e sulle Scuole. — Norme didattico-fisico-speculative. — Metodi artistici. — Metodisti moderni. — Sistemi. — Conservatorj. — Cappelle. — Loro decadenza. — Osservazioni. — Esempj. — Giudizj | pag. 5 |
Segue la rivista delle Scuole Italiane. — Degli studj sovra esse e giudizj. — Nuovo indirizzo de’ Conservatorj. — Ultime fasi della scuola Veneta. — Attualità delle principali nostre scuole, e loro speranze | 53 |
Seguito della rassegna delle attuali scuole. — Conservatorj oltramontani. — Influenza Italiana all’Estero. — Rivoluzioni straniere. — Preponderanza | 78 |
Provvedimenti e inviti alle Scuole — alle Composizioni — ai Maestri | 105 |
Continuazione della parte nuova. | |
IV. | |
Secolo XIX. — Ritorno ai Compositori. — Sublimità dello sviluppo melodico italiano. — Genio. — Imitatori. — Progressi delle altre Nazioni. — Maestri contemporanei. — Rinnovazione degli attentati ultramontani. — Falsi e veri profeti | 135 |
Scuole corali. — Società. — Cori-masse moderni | 173 |
Cantanti sul finire dello scorso secolo — e sul principio del corrente. — Loro influenze | 185 |
Artisti contemporanei. — Loro memoria. — Glorie effimere. — Vero avvenire | 218 |
I. Elenco di Cantanti dal 1750 al 1850, oltre a quelli già citati nel contesto dell’Opera | 251 |
II. Elenco dal 1851 al 1872, come sopra | 263 |
[251]
CANTANTI DAL 1750 AL 1850
fra i più chiari, oltre a quelli nominati nel contesto dell’Opera e segnati nell’Indice generale.
UOMINI
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[263]
CANTANTI DAL 1850 A QUESTI GIORNI 1872
oltre a quelli nominati nel contesto dell’Opera e segnati nell’Indice generale.
UOMINI
A
B
C
D
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F
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G
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I
J
L
M
N
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DONNE
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C.
D.
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J.
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S.
T.
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V.
W.
Y.
Z.
1. Ediz. G. Ricordi.
2. — Questo si riferisce ad alcuni curiosi dettagli della Storia musicale. Ne’ secoli undici, dodici e tredici, non si studiava la musica fuorchè col soccorso della voce. Gli allievi destinati specialmente al canto, erano, in questo studio, diretti dallo stesso maestro, che loro avea appreso il solfeggio.
Talvolta, e per isfuggire alle difficoltà che nella nomenclatura delle note presentava il sistema delle Mutazioni, allora in vigore, al nome delle note si sostituiva una vocale. Da questo modo impiegato per caso, nacque l’uso, ora sì comune, d’insegnare indistintamente col mezzo del vocalizzo, e la musica e il canto speciale. L’odierno sistema non sembra a prima vista che la continuazione dell’antico; eppure l’applicazione ne è essenzialmente diversa. Allora nell’insegnamento del solfeggio il maestro con attente precauzioni preveniva tutte le viziose abitudini che avrebbero potuto nuocere ai futuri studj del cantante. Egli lo invigilava nella emissione della voce, nell’articolazione del nome delle note, nel modo di respirare; lo rendeva famigliare ad un sentimento puro e corretto della musica, ecc. In seguito si applicava, col mezzo di esercizj speciali e vocalizzati, allo sviluppo completo di tutte le qualità della voce; e si avea ricorso alla messa di voce, al portamento, al trillo, al gruppetto, alle smorzature, ecc. Adesso lo studio della musica e quello del canto non sono più affidati ad uno stesso maestro, e il primo è spesso il preparamento incompleto o vizioso del secondo. Inoltre, scomparse ora interamente le difficoltà dell’antica nomenclatura, nulla avvi che ci costringa a sopprimere i nomi delle note ed a privarsi per tal modo del mezzo il più efficace di istruirsi nella lettura musicale. Finalmente il vocalizzo, usato come unico esercizio per lo studio delle difficoltà materiali del canto, presenta degli inconvenienti che ci poniamo a sviluppare. — (Prefazione al metodo di Emanuele Garcia).
Anche il maestro Carelli, nel recente suo metodo, segue in gran parte le osservazioni del Garcia, sugli inconvenienti da lui suaccennati quando, avendo posto esso Carelli per base della educazione vocale il colpo di glottide, mostra la fallacia dell’insegnamento che comincia dalla scala tenuta e dalla messa di voce. Mostra dannoso lo studio, che si fa col solfeggio cantato, e col vocalizzo. Egli separa, con sistema logico, lo studio di un processo da quello di un altro, prescrivendo esercizj speciali per l’intonazione per posar la voce, svilupparla, unire i registri, variare il timbro (colore). Quando poi l’allievo si è reso padrone del suo organo, lo consiglia a studiare il solfeggio vocalizzato, per passare al sillabato, come istradamento alla unificazione della parola col canto.
3. Vedi Dizion. Mus. di Rousseau. — Voix.
4. Metodo pubblicato intorno al 1840 col nome di Lablache, ritenuto non suo. — Douze leçons de Chant moderne di Rubini.
5. Cattaneo Eustachio, Frusta musicale, 1856.
6. P. Parisini, Bologna. R. Stabilimento Felsineo L. Trebbi, 1870. Principj elementari di Musica.
7. Tradotto in Venezia da Luigi Rossi e Pietro Tonassi.
8. Pregiate sono le 6 cantate e 18 ariette a voce sola di Gerol. Crescentini.
9. Vedi anche Discorso sulla Musica nel sistema educativo, di Poli Giacinto, 1872.
10. Folkesane og Melodier Samlede og udigione. Copenhague.
11. Io noterò in proposito la libertà degli antichi, riscontrata nei varj usi dei cantori secondo che loro dettava la natura, libertà confermataci dalle rappresentazioni delle antiche imagini, quali, i cori d’angeli delle pitture Belliniane, ed il famoso bassorilievo dell’imitator di natura Della Robbia, che lascia distinguere il tenore dal basso, dall’atteggiamento differente delle labbra. Vedi anche retro, nelle osservazioni fisiologiche degli antichi, ed ivi a pag. 45 (Parte 1.a), sul dipinto di Robert; e a pag. 296.
E quivi ripeterò un precetto del maestro Albanese, scritto ad una sua allieva nel 1773: «Specialmente nei passaggi la bocca non deve fare movimento alcuno, tocca alla gola d’agire e null’altro. Sopratutto fate bene attenzione che una volta emesso il suono della voce, esso resti lo stesso fino alla fine del passaggio... Cantate senza stento, e secondo naturalezza... tutto ciò che dà nell’esagerato spiace, ed è contrario alla dolcezza del contegno... siate modestamente ardita nel cantare, evitate le smorfie, e rammentatevi che un viso sorridente fa sempre piacere.»
12. Vedi retro, pag. 46 e seg., sulle osservazioni fisiche degli antichi.
13. Autore delle Opere: Saul, Francesca da Rimini, la Duchessa di Bracciano. Di molti Oratorj, Messe e Cantici sacri di classico stile in cui specialmente emerse; e di un recente Metodo di contrappunto.
14. Al r. Conservatorio di Milano si insegna: Lingua italiana — Storia universale — Letteratura poetica — Strumenti di corda, da fiato — Pianoforte, organo ed arpa — Canto — Armonia, contrappunto, fuga e composizione — Declamazione — Storia della Musica, corso inferiore e superiore.
15. Anche la Grisi e l’Antonietta Brambilla sono allieve del Lamperti; e da quella scuola, la Fabbrica, la Strepponi, ed altre valenti. Di Lamperti padre, è pure allievo il tenore palermitano cav. Vincenzo Andreoli-Stagno, La Rosen-Babet, Ida Corani e Carola Jury. Isabella Alba allieva emerita di Francesco Lamperti, aprì testè in Milano una scuola collettiva di canto e di declamazione, e ci diè tosto la Dos-Reis ben riuscita.
16. Lichtenthal. Diz. della Musica.
17. Encicloped. Music.
18. Pensieri e riflessioni pratiche sul canto figurato. Milano 1777.
19. Prof. Salvatore De Castrone — Marchesi. Vienna 25 luglio 1870, al giornale La Scena.
20. G. Rossini, alla signora Matilde de Marchesi, Passy de Paris, 3 luglio 1863.
21. Lettere sulla Imitazione teatrale francese, e sulla Musica francese.
22. Lettera a D’Alembert, tom. II, pag. 449.
23. Nota finale alla lettera sulla Mus. franc. Tomo 15, pag. 406.
24. Bologna. Marsigli e Rocchi editori, 1864. Tale operetta fu tradotta dall’italiano in lingua spagnuola da D. José Maria de Goizueta, e pubblicata a Madrid, 1869, dove l’autore la dedicava alla scuola nazionale di Musica. Allievo del suo metodo è il tenore Aramburo.
25. De la fatigue de la voix dans ses rapports avec le mode de respiration.
26. Rubini venduto all’impresario Barbaia in Napoli come secondo tenore, fu levato di scena come incapace di sostenere una parte secondaria.
27. In pochi mesi morirono i Direttori di tre fra i più importanti Conservatorj musicali d’Europa. Mercadante e Auber autori d’opere teatrali applauditissime, lasciarono in poco floride condizioni gl’Istituti rispettivi. Il Conservatorio di Bruxelles governato dal Fètis, illustre per storici libri e didascalici, più che per componimenti, è considerato come uno dei migliori Istituti musicali dei nostri giorni, e dà ottimi fruiti, malgrado alcuni difetti, che lo stesso Fètis avea avvertiti, ed ai quali il Governo belga recherà rimedio. Debole sovra tutto vi è la scuola del canto.
28. Da Genova, 5 gennajo 1871, al cav. F. Florimo archivista del Conserv. di Napoli.
29. Vedremo appresso altre assennate proposte di provvedimenti pel riordino de’ Conservatorj, di G. A. Biagi.
30. Nato nel 1797, allievo e successore di Zingarelli, maestro a Novara dal 1832 al 40, morì direttore del Conservatorio nel 17 dicembre 1870.
31. Vedi sua Relazione ed offerta, 1.º maggio 1868.
32. L’Opinione di Firenze, 16 gennajo 1874, n. 16, in Append. D’Arcais.
33. Questo giovane maestro della banda del 76.º regg. d’infanteria diede in questi giorni a Napoli con bel successo l’opera Camoens.
34. Trieste 1870.
35. Relazione di F. Filippi, Genn. 1871. Sull’esperimento annuale delle Scuole popolari.
36. Il cav. Alb. Mazzucato, Udinese di nascita, 1813, Milanese per dimora e vita artistica, eletto quivi direttore nel 1872.
37. Progetto di Riforma dei Teatri musicali italiani, di A. Ferrary Rodigino. Venezia, Tipi Passari-Bragadin 1844, pag. 66.
38. Vi stabilì cattedre di: 1 Grammatica, 2 Letteratura italiana, 3 Storia, 4 Geografia, 5 Letteratura poetica e drammatica, 6 Storia della Musica, 7 Elementi di lingua e prosodia latina, 8 Lingua francese, 9 Calligrafia, 10 Aritmetica.
39. Pel 1872 è proposto un Mottetto per sole voci, fuga a sei parti e tre soggetti.
40. Francesco D’Arcais, Rassegna musicale. Dalla N. Antologia, settembre 1870.
41. Dei tanti suoi allievi in quello strumento divenne professore distinto Antonio Rota, organista in san Marco, 1820.
42. Solfeggi per voce di soprano col suo basso, ad uso della nobil donna Maria Venier. Nella Bibliot. Marciana, raccolta Contarini.
43. Vedi Biografia del Colonnello Giacomo cav. Zanellato, dell’Autore. Venezia 1871.
44. Francesco Fapanni, Venezia nelle canzoni e nella musica sacra. Monografie Veneziane, IV (1871).
45. Storia della Musica sacra nella già Cappella Ducale di san Marco dal 1318 al 1797, di Francesco Caffi veneziano, presidente dell’Istituto Filarm. che fu in Venezia. Tip. Antonelli 1854.
46. Vedemmo per gli antichi veneti compositori già formata, fra le prime, un’orchestra alla cappella di san Marco. Gli antichissimi strumenti musicali di chiesa, avanti l’organo, si chiamavano il rigabello, il torsello, il ninfale. Usavansi anche l’arpa e la tiorba.
Era l’incumbenza d’un Donaducci, e poscia d’un Fedeli sonar sul violino un melodioso a solo all’elevazione della messa; e durò quest’uso fino all’anno 1692.
L’ultimo sonator di tiorba in san Marco fu un Bartolomeo Brigadi, morto nel 1748. Il maestro Baldassare Galuppi riordinò poi l’orchestra, che era composta di 35 strumenti. Costavano ducati annui 1150. Erano: 12 violini, 6 viole, 4 violoncelli, 5 violoni, 4 oboe e flauti, ed altrettanti corni e trombe. Il famoso concertista Nazari, allievo di Tartini era capo orchestra; questa riuscì allora la migliore d’Italia e servì poscia a modello per le orchestre teatrali.
L’istesso Tartini vi suonò per buon tempo.
Ritiensi che v’abbia cantato Alessandro Stradella (benchè non se ne trovi memorie), famoso cantore di chiesa, la cui storia pietosa il Carrer immortalò in una ballata, ch’è certamente fra le più belle del lirico veneziano.
47. In Vicenza sono frequenti le voci di tenore, e come tali s’acquistarono bella fama teatrale, Gennaro, Confortini, Castellani, Fantoni, Viani, e in oggi il Piccioli, Vanzan.
48. Anche Antonio Spadina fu maestro di canto a Como, che, divenuto pazzo, s’uccise nel 1869.
49. L’Adelinda, 1.ª Opera posta in scena a S. Marino. Settembre 1872.
50. Non sarebbe nuovissima la stranezza di un tal concerto-pirotecnico, da un altro italiano essendo stata già tentata fin dallo scorso secolo e in più opportuno teatro. Fu il celebre Sarti che, essendo maestro della imp. cappella a Pietroburgo, in occasione della festa ivi celebrata nel 1788 per la presa di Okzakow, compose un Tedeum che fu eseguito nel Castello Imperiale da numerosi cori e grandi orchestre, a cui talvolta formavano base i colpi di cannone di differente calibro, collocati nella corte del Castello e tirati a tempo e assegnati ad intervalli.
La tradizione del Sarti, anche in questo, non è stata perduta in quel paese. In un gran trattenimento campale tenuto nel 1836 a Krasnoë-Selo, nei dintorni di Pietroburgo, una gran parata alla fine delle manovre fu chiusa con un guerresco canto, la cui introduzione era formata dai colpi simultanei di 120 cannoni, che poscia a intervalli battevano il tempo a una massa innumerevole di cantori di tutti i reggimenti, sostenuti dalle bande, da due corpi di trombe e 600 tamburi.
Lo stravagante esperimento del Sarti, fu ritentato da Carlo Stamitz, violinista a Norimberga.
Poi anche a Reims nella circostanza dell’incoronazione di Carlo X, il celebre Le Seur collocò il cannone nel suo ammirabile coro Per vicos ejus cantabitur alleluja.
51. Vedi: Ragguagli sulla Cappella musicale di S. Petronio, e ricerche e documenti e memorie sulla storia dell’arte musicale in Bologna, dal secolo 14.º a mezzo 16.º, del cav. Gaspari, socio della Deputazione di Storia patria per le provincie di Romagna, 1870.
52. Vedi retro, Principj elementari di Musica del Parisini.
Anche un Marchesi e un Zucchelli furono in passato riputati maestri cantori, col celebre Tadolini. (Vedi Vol. I, pag. 298).
53. Leonardo De Carlo, direttore del Teatro Bellini, morì nel febbrajo 1872. Adesso compongono nuovamente in Palermo i maestri, Gaetano Impallomeni, e Giovanni Avolio.
54. Fra questi: l’Oliva-Pavani, il Petrovich, il Navary.
55. Morto (1870).
56. Angelo Cestari, autore del Cleto, avea istituita una scuola sociale, 1863, ma immatura morte lo tolse, e la scuola si spense, 2 agosto 1869.
Andrea Galli, veneziano, autore dell’opere Varbeck, e Il Duca di Foix.
A. Aloysio pubblicò un suo Nuovo sistema di Notazione musicale, 1872.
Francesco Malipiero autore delle opere: Alberigo da Romano, Linda d’Ispahan.
57. Una celebre messa di requiem compose per l’Accademia di santa Cecilia in Roma, altre ne avea apprestate per le solenni esequie a Rossini, in cui tutti i grandi compositori concorsero.
Di spartiti teatrali scrisse ed eseguì a Venezia, il Ferramondo sua 1.ª opera: Mastino, pel baritono Superchi (1841); Gli Avventurieri (1842); Amleto (1847); Elisabetta di Valois; la Puta onorata, e quella in dialetto d’ultima sua invenzione. I suoi manoscritti furono per coletta acquistati a decoro del Museo Civico. Anche a Napoli scrisse Canzoni, essendo ivi allievo di Donizzetti.
58. Vedi Principj Anagogici dell’Autore. Cap. V. Venezia, tipi Naratovich, 1865.
59. Vedi Gamba, sul Veneziano dialetto.
60. Un di questi veneti trovatori che s’accompagnava col mandolino, e che per trent’anni fu acclamato, è disegnato da Eugenio Bosa nell’album di Ernesta Viezzoli sorella a Daniele Manin.
61. Felice Venosta, nel racconto Salvator Rosa.
62. G. A. Biaggi, Sul riordinamento de’ Conservatorj. Nella N. Antologia, Aprile 1871, Fasc. IV.
63. Il primo morto nel 1870 d’anni 57, il secondo nel 1871, d’anni 60. Anche un Carlo Plantada vecchio ed amabile compositor di canzonette morì a Parigi nel 1871, d’anni 84.
64. La Olimpia Bertrand è allieva di Ronzi Stanislao; la De Filatoff, di Luigi.
65. Ivi morì nel 27 luglio 1872, d’anni 85.
66. Vedi Mondo Artistico, n. 35, settembre 1870.
67. È istituita in Pest anche una nuova Società musicale Ungherese, che ha per organi speciali i Giornali: Zenészeti, e Capok.
68. Ebio Suleiman, schiavo persiano affrancato, scrisse un libro sulle Cantatrici schiave (755-775, e. v.).
69. Vedi Ariosto, Orlando Furioso. Can. XVI, 71, 72.
70. Il primo era pagato a monete d’oro per ogni nota: e leggesi di Kalem, che costò al califfo Waisik 10,000 pezze d’oro, poichè fu inteso a cantare una sua composizione.
71. Vedi Tharik-el Khamiecy, Biogr. de Mahometh.
72. Storia del Califfato. Anno 840.
73. Oggi il Foschini, e l’Antonietti, già maestro in Russia, si fanno onore a Messico.
74. Recenti dati indicano la esistenza attuale de’ seguenti teatri: Italia, 358. Francia, 337. Germania, 191. Spagna, 168. Austria, 152. Inghilterra, 150. Russia, 44. Belgio, 54. Olanda, 23. Svizzera, 20. Portogallo, 16. Svezia, 10. Danimarca, 10. Grecia, 4. Turchia, 4. Rumenia, 3. Egitto, 3. Serbia, 1. In America, soltanto a New-Jork v’hanno già 18 teatri. Nell’Indie 6, e 4 nell’Australia.
75. Vedi in principio di quest’Opera, e in seguito, colla scorta dell’Indice, alla parola India; e per la rivelazione istintiva dei canto all’umanità, spontanea come quella del linguaggio, vedi specialmente a pag. 19 e seg. 55, 169, 283, Vol. I.
76. Vedi: Viaggi nell’Indie.
De la Loubère, Description du royaume de Siam. In cui avvi una raccolta di Canzoni indiane. Amsterdam, 1700.
William Bird, Ricerche Asiatiche, 1770.
G. W. Johonsom, Il Canto nell’Indie.
Carlo Edward Horn, Melodie Indiane etc. Londra, 1813.
Sòma, Tratt. de Sangita Narayana, Ragavibodka, e Sriraga, modi di canto.
Willard, Tratt. di Mus. dell’Indostan. Calcutta, 1834.
77. Relazione di viaggio del signor Marras, autore dell’Edenland, nelle Indie. Novembre 1871.
78. Giuseppe Sarti, fratello al tenore di questo nome.
79. Lauro Rossi nel Messico sposava Isabella Obermayer prima donna di que’ teatri, da lui perfezionata nel canto.
80. «In Inghilterra sono innumerevoli le scuole e le istituzioni dirette allo scopo educativo musicale. La pubblicazione di opere didattiche vi è incessante; la fabbricazione degli strumenti è portata a un grado di sviluppo e perfezionamento straordinarj, e sulla via dell’arte vi è una moltitudine di cultori numerosa e fitta da sorpassare di molto il bisogno. I cantanti si moltiplicano a vista d’occhio, i compositori crescono a dismisura; le opere teatrali pullulano. Ma non sì tosto lasciamo i bassi fondi dell’arte, e dalla cifra, dalla nota, dal meccanismo noi saliamo sulle regioni dell’estetica, e volgiamo alla manifestazione di concetti e di sentimenti, alla esplicazione di tipi ideali, noi ci troviamo quasi nel vuoto. Nessun segno di vita, nessuna potenza.... Qui non vi fu mai un compositore insigne dal quale i giovani maestri possano prendere le mosse. O questi si appoggiano alle astruserie tedesche, o rimangono fermi in quelle composizioni slavate che si appagano d’inezie e son poste al servizio di frivoli intendimenti. La fantasia di questi maestri inglesi si trova impedita dalla forma... la loro melodia è una cantilena continua di vieta forma, di vieto effetto, che non tocca, non esilara, non commuove, non infonde nella sua esecuzione quel fluido affascinante che viene dalla ispirazione, dall’estro.»
Corrispondenze da Londra alla Scena, 23 settembre 1872, del Prof. G. M. Sersanti.
(Simili impressioni ebb’io a provare in Inghilterra).
81. Lo Schira, autor della Lia, ebbe l’incarico di compor la Cantata pel Festival Birmingham, 1872, da eseguirsi con 2000 voci.
82. L’illustre musicista Carlo Maria barone di Weber morto a Londra in età d’anni 40, il 5 giugno 1826.
83. Figlio di Antonio Gordigiani cantante d’opera, esordì di soli anni otto, a Monza nel 1803, in una Cantata composta dall’Asioli pel vicerè Eugenio Beauharnais. Studiò a Milano. Organizzò un istituto per l’insegnamento del canto a Ratisbona. Passò professore a Praga, dove potè vantare fra i molti allievi: i tenori, Lukes, Duban, Vecko, Bachmann; i bassi, Scitky, Vogel (questo ora maestro di canto corale allo stesso istituto); le donne Beranek, Meitl, Hlava, Gevviner, Dubsky de Wittenau (poi vedova Taux che fu direttore del Motzarteo di Salisburgo), baronessa Riese, Engst, Richter, D’Ilsenau-Röder; la Zavertal, le Stolz, la Boema, la Soukup, la Wagner (morta a Lipsia.) Compose alcune Operette, e Canti sacri, e da camera. Imitò Ricci perfin nell’abbigliamento e nel cappello a larghe falde da questi usato. Ebbe un fratello minore, Luigi Gordigiani, pure abile compositore di canti per camera, onde fu chiamato lo Schubert italiano, e che morì a Firenze nel maggio 1860.
Anche uno Smetana, compose il Dalibor, per quel teatro boemo, alla cui direzione fu preposto, e fu in Praga insegnante.
84. Famosa a Berlino la Cantata del Buzzola scritta per l’anniversario del Re (1843), delle nipoti del quale era maestro di canto.
85. Colui che scrisse a Vienna nel 1788 la famosa Tarare.
86. A Berlino, maggio 1870, avvenne il fatto di questo fra i più riputati direttori d’orchestra della Germania.
87. L’Italie, 22 settembre 1870, ammirando le melodie di Giannina e Bernardone riprodotte a Firenze.
88. Hérold, parigino, dopo la sua opera Zampa di stile rossiniano, promettea molto; quando nel 1833 lo colse immatura morte a 42 anni.
89. «Questo colosso ebbe un battesimo puramente italiano, e lo confermano, il Crociato, Romildo, Costanza, e le più belle pagine dei suoi capolavori quali, il Roberto e il Profeta...
Se Meyerbeer avesse avuto tutta la spontaneità e tutta la ispirazione del genio di Rossini, se avesse saputo fare in 28 giorni un Guglielmo Tell, non si sarebbe affaticato certamente a rintracciare nelle combinazioni strumentali, negli artificj complicatissimi del contrappunto, nei nuovi e sorprendenti effetti acustici e nei rovesci armonici, la maggior parte delle sue glorie; dissi la maggior parte, perchè altra e non piccola la deve alla melodia, al canto ed alla ispirazione.»
O. Camps y Soler, Lettera trascendentale. Bilbao 1870.
90. Editore De Giorgi, 1870.
91. Lettera 30 agosto 1870, pubblicata nel Mondo Artistico, 4 settembre n. 35, in risposta ad altra ivi inserita il 28 agosto precedente.
92. Lettera da Norbamby a Luigi Ferrucci.
93. Fra queste, quella di Napoli in precedenza al Congresso Pedagogico del 1871, di cui fu relatore il m.º Caputo col lavoro surriferito.
94. Discorsi relativi, in occasione del primo esperimento di Canto corale tra soldati nel quartiere di S.t Eustorgio in Milano, il 20 marzo 1870. Florilegio di Conferenze popolari. Serie 2ª vol. 5. Milano.
95. Vedi Bollettino Consolare da Stockolm del Conte Zannini. Settembre 1870, sull’Istruzione primaria ecc.
96. Lettera 7 settembre 1870 da Milano, al prof. Varisco, inserita nel Mondo Artistico N.º 56.
97. Salvatore Sarmiento, maestro della cappella napoletana, morto nel 1869, coi colleghi Luigi Graziani e Luigi Siri, mancati pure intorno a quel tempo, seguirono pei sacri cantici l’orme del Mercadante.
98. Come il prete Tomadini da Cividale al concorso di Francia, così il cav. Stefano Tempia di Torino fu premiato nel 1870 a Firenze per un religioso mottetto.
99. Antonio Cagnoni, allievo del conservatorio di Milano, e maestro di cappella a Vigevano, il compositore di tanti pregiati spartiti teatrali ben noti.
100. Fra gli Albo musicali pregiati pei valenti scrittori, e la copia elegante di siffatte composizioni, distinguesi quello che da parecchi anni pubblica il simpatico giornale milanese Il Trovatore. Più recente e che diffonde musica da camera, è Il Pacini, giornaletto di Napoli.
101. Questo serto di canti, edito a Milano, contiene: l’Onomastico, cantata di Bazzanella; il Ritorno dalla Scuola e la Ricreazione, cori di Dolzan; Fuggite la menzogna e Amore ai poveri, canzoni di Pincherle; Il Mattino e i Tre Amori, di Mazza; La madre e Festa giovanile, duetto e coro, di Sinico; Canto degli Operaj e degli Amici, cori di Wiesselberg; Viole e Tripudio campestre, canzoni di Zescevich; La Gioventù e Misericordia pei vecchi, di Zingarle.
102. L’Augurio, Laude, la Scuola, Preghiera pei genitori, ai Benefattori, cantate.
103. Milano, Edit. Canti, 1871.
104. O. Morandini, ed E. Paoletti; Firenze 1871.
105. G. A. Biaggi, I Conservatorj ed i loro ordinamenti. N. Antologia, aprile 1871.
106. Discorso alla Accademia Olimpica, 1871.
107. Alla Scena 1. settembre 1870, N. 14.
108. Vedi specialmente a pag. 46, vol. I; 23 e seg. di questo.
109. Nel 1812, Rossini scrisse le prime sei Opere: L’Inganno felice, Ciro in Babilonia, La Scala di seta, Demetrio e Polibio, La Pietra del Paragone, L’Occasione fa il ladro, le quali tutte gli fruttarono franchi 1800.
110. L’avv. Filippo Cicconetti pubblicò a Prato nel 1859 la biografia del Bellini, di cui poi si valse il cav. Florimo ne’ suoi cenni sulla Scuola musicale di Napoli.
111. Vedi Backismo in Germania e Palestrinismo in Italia, di Filippo Saraceno, 1872.
112. D’altri valenti maestri e autori di canti di quel tempo mi vien fatto in corso d’opera di accennare: qui però non trascuro di ricordare: Francesco Gnecco autor dell’Arsace e Zamira; il Mellara, dei Gauri; il cav. Morlacchi, di Tebaldo e Isolina; Carlo Coccia, di Catterina di Guisa; Ottone Nicolai, del Templario; Antonio Ronzi tenore e autor della Luisa Strozzi; Mario Aspa speciale autor de’ Buffi napoletani, fra cui I due Forzati, il Muratore; ed Enrico Sarria, suo seguace, autor della Carmosina e del Babbeo; Andrea Galli, Ruggero Manna, Gualtiero Sanelli, Angelo Villania, Graffigna, Vincenzo Mela, Nini, Achille Peri, Vaccaj.
113. Revue de deux Mondes, 1848.
114. Vedi Biografia di Giovanni Pacini, dell’avvocato Filippo Cicconetti.
115. Soter II. (Tolomeo) 85 anni av. Cr. ordinò un coro di 600 persone.
Vedi retro a pag. 86-90 (Cairo ed Asia).
116. In questo primo e clamoroso avvenimento musicale in Egitto, tutto fu in mano agl’italiani artisti: dopo il maestro Verdi colmato d’oro, fu Bottesini direttore alla orchestra; Devasini maestro ai cori; Mongini tenore, la Pozzoni prima donna, la Contarini, Medini basso. Trionfo dell’arte italiana nel Cairo. Riprodotta tosto a Milano (Carnevale 1872) col maestro Faccio, Zarini dei cori, Fancelli tenore, la Stolz e Waldmann prime donne.
Dopo l’Aida di Verdi, diedesi al Cairo nella medesima stagione altra nuova opera dell’italiano maestro Pasini, Ivanhoe, coronata essa pur di successo.
117. Di Luigi Ricci, vedi Biografia, Trieste 1860; e Vincenzo Ermenegildo Dal Torso, Scena, Venezia 1869.
118. Federico Ricci, ora stanziato a Parigi, vien collocato, con Cagnoni e Pedrotti, nella triade vigente, che mantiene l’onore della vera opera buffa italiana.
Vincenzo, il terzo de’ fratelli, datosi all’arte del canto, corse, paesi molti con romantiche avventure, e da ultimo trovate fortune ed alte protezioni, forse fatali, nel Brasile, colà si ammogliò, nè altro si seppe di lui.»
119. Cagnoni che a 19 anni si diè la fama col Don Bucefalo.
120. De Ferrari autore del Pipelet, del Menestrello, e d’altri spartiti.
121. Torino, tip. Bianchi, 1872.
122. Questi e tutti i nostri migliori compositori viventi fanno a gara di produrre al teatro nuovi lavori.
Enrico Petrella napoletano, noto autor del Marco Visconti, Giovanna II, Duchessa d’Amalfi, Assedio di Leida, Promessi Sposi, sta scrivendo per le scene di Roma.
Apoloni dà in oggi a Trieste il nuovo Gustavo Wasa; mentre dicesi inteso a musicare il medesimo soggetto anche il Marchetti.
Odoardo Perelli appresta pel teatro La Scala la nuova opera Viola. Braga un’altra. Nuovi giovani compositori pure s’attentano. Onde anche il prossimo anno 1873 non s’appresenta scarso di frutta.
123. Milano 1870.
124. Scrittore di cose musicali, pubblicò recentemente: Apuntes Filologico-Musicales.
125. Corriere d’America. Genn. 1871. Venne insignito dell’ordine della Rosa col grado d’Ufficiale, e le insegne in brillanti.
Nell’anno stesso il Rossi fu trasferito al massimo collegio di Napoli (pag. 54).
Ora il Gomez dà la nuov’opera Fosca pel gran teatro di Milano.
126. Distinguansi gli esimj musicisti, come questo, e Feliciano David, Maubuè, e Paladilhe in Francia, e tanti altri stranieri pure influenti al musicale progresso, quali, Moscheles, Chapin, Heller, Rubinstein, Kaus di Francfúrt, dai genj atti a trovare le vere e più felici espressioni del canto. E vogliasi ricordare, che noi veniamo accennando anche fra i compositori moderni, come facemmo pei passati, quelli che meglio riuscirono al canto.
127. C. Loewe mori a Kiél nel 1869; il figlio è marito alla cantatrice M. Deslin.
128. Sulla Educazione degli Uomini, Discorso dell’Autore, per un Congresso di Donne. Tipi Naratovich, Venezia 1865.
129. Articolo — Speranze — del maestro Carlo Sessa, da Modugno 23 aprile 1870; Vedi Scena n.º 49, anno stesso.
130. Lettera trascendentale sulla Petit Messe di Rossini, 1870.
131. La musica dell’Avvenire. Lettera di Mel Balbi al periodico di Trieste il Teatro, 10 settembre 1870, Padova. Inserta al num. 140.
132. Rassegna musicale, dalla Nazione. Firenze, 3 dicembre 1871, num. 337.
133. Rassegna musicale, dalla Opinione. Roma, 21 novembre 1871, num. 322.
134. Rassegna musicale, dalla Perseveranza. Milano, 6 novembre 1871, num. 4317.
135. Lettera di Riccardo Wagner, al maestro Arrigo Boito, da Lucerna, 7 novembre 1871.
136. I miei Ricordi, 1, c. 10.
137. Le cinque Piaghe di Sphor; come Mercadante musicò per grande concerto le Sette Ultime parole di Cristo.
138. Sacred Harmonic Society, in Londra.
139. Schumann suggerisce inoltre di cantare in coro particolarmente nelle parti di mezzo.
140. Questo canto solenne fu presentato al nuovo imperatore Federico Guglielmo di Prussia nel marzo 1871.
141. Vedi sopra sul Metodo Galin-Paris-Chevè.
142. Vedi Maineri, Conferenze Popolari.
143. Vedi Letteratura Turchesca, dell’ab. Giov. Batt. Toderini, vissuto a Costantinopoli, 1800. Ivi sui modi di canto Indo-Persi; da cui appariscono derivati quelli dei Turchi, come la maggior parte de’ loro istrumenti musicali. Erano anche più riputati i persiani per le belle voci, molto più rare fra i turchi; ed i Dervì oriondi di Persia erano più abili, sia nei canti religiosi a coro, come nei danzanti ed in quelli seducenti d’amore. Notisi anche che l’uso della castrazione de’ cantori ebbe origine in Asia, e specialmente fra Medi e Persi.
Vedi retro, a pag. 86 e seg. dei canti turchi e loro esecutori.
E vedi dei Castrati al Vol. I, pag. 47 e seg.
144. «Cette capricieuse divinité eut des démelés avec le grand Frédéric, dont le despotisme éclairé s’appesantissait aussi bien sur les cantatrices que sur les philosophes et les poètes. La Mara fut obligée de se sauver de Berlin comme Voltaire, et faillit être appréhendée au lit par un soldat aux gardes.» (Scudo).
145. Dei principali cantanti, che oltre alle celebrità specialmente accennate in questa opera, interpretarono le composizioni teatrali dei maestri dello scorso secolo, e della prima metà del presente, daremo in fine un elenco. — Cantanti dal 1750 al 1850. — Seguirà poscia un’altro elenco — Cantanti dal 1850 a questi giorni (1872), — oltre ai contemporanei che saranno nominati nel testo.
146. Vedi Veluti a pag. 51, Vol. I; 60 e altrove di questo, come all’Indice generale. Egli cantò ultimamente a Londra nel 1826. Si ritirò al Dolo ove morì.
147. Rossini del 1810 al 1813, compose meglio che dieci nuove opere in Venezia; come per quel nuovo teatro la Fenice, giunse all’apogeo scrivendo la Semiramide (1823).
148. Questa degna emula della Catalani, diva dell’epoca di Paisiello, fu proava del vivente maestro e scrittore Beniamino Carelli.
149. Questo epiteto strano dato a Pio IX anche in altra nostra opera storico-militare: I Fasti della Guardia Nazionale del Veneto negl’anni 1848-49 meritò una lunga lettera di N. Tommaseo che fu resa nota colle stampe. (Tip. Grimaldo, Venezia 1868, volumi due).
150. Parigi, ottobre 1849.
151. Gazzetta musicale di Lipsia, 21 agosto 1816.
152. Nata a Roma nel 1818; abbandonò le scene nel 1850; morì d’apoplessia a Neuilly ai primi maggio 1867.
153. I tre nobili figli della Catalani eressero di recente un magnifico monumento nel Cimitero famoso di Pisa, alla gloria ed alla virtù della lor madre. Lo scultore Costoli ideò sotto al Genio della musica, raffigurato in santa Cecilia, l’Angelo della Carità che soccorre alla Indigenza.
La unità e l’espression del concetto in quel magnifico monumento sarebbero, a mio vedere, meglio riuscite, se le due figure inferiori, l’angelo e la mendica, non fossero state addossate una contro l’altra alla base della statua primaria, ma in altra postura avessero pure contribuito all’armonia delle linee piramidali.
154. Stand ich auf hohen Bergen....
155. De Rosa morì nell’età d’anni 90 in Napoli, agosto 1871.
156. Carlo Negrini, il tenore del sentimento, morto giovane, ha busto nel primario teatro di Roma.
157. Fin dallo scorso secolo il genio di Haendel avea suscitato gli spiriti musicali del re Giorgio, che cooperò alla formazione dei cori ed alla coltura delle voci in Inghilterra. Anche i Reggenti di Francia attesero nuovamente alla musica, quali il compositore della Pantea, e il successor Carlo VI.
158. Fra questi la principessa Maria Amalia, distinta poetessa e compositrice, morta li 17 settembre 1870.
159. Dalla Villa Norbamby.
160. Anche di cantori serio-comici, altri nomi si troveranno nei citati due Elenchi in calce a questa Opera.
Siccome poi di tali cantanti specialmente nei passati tempi, furono tanto feconde le scuole di Napoli, chi ne volesse rilevare gli allievi, troverà guida nei Cenni storici sulla Scuola Napoletana, da quell’Archivista cav. Florimo ora pubblicati.
161. Per le due prime sorelle, allieve del conservatorio di Praga Luigi Ricci componeva due grandi Cantate sulle parole del Metastasio, 1845. La terza d’attual rinomanza.
162. Per altre cantatrici e cantori alemanni e boemi contemporanei, vedi anche a pag. 83 e 97 di questo Vol.
Vedi poi il 2. Elenco in fine dell’Opera, come si richiamerà in appresso, oltre ai nominati nell’opera stessa e segnati all’Indice generale.
163. Non parlo delle terre conterminanti all’Italia, dove il genio del canto s’è fatto quasi congenere, come già dimostrai per l’Illirio, e come nella Dalmazia i cui cantanti si confondono coi nostri, quali il suddetto Mazzoleni, lo Stermick Simeone di Zara, e tant’altri. Vedi 2. Elenco, alla fine dell’Opera.
164. Balfe G. F. autor della Zingara e della Figlia di San Marco, e d’altre 20 operette, decesso nel 1871, d’an. 62.
165. Baroilbet Paolo morto fra le barricate di Parigi 1871.
166. Prima di questi erano stati rinomati tra i francesi: la Branchu, la Damoreau, il Garat, il Nourrit padre, Dérivis, Levasseur, Boulangerr, Latour, Vachon, ed altri che troveransi in seguito e negl’Elenchi rispettivi.
167. Codecasa Giovanna, contemporanea di Paisiello e Cimarosa e prima a cantar le lor opere, morì quasi centenne a Milano nel novembre 1869. Parimenti la Caravoglia-Sandrini Luigia morta d’anni 88 pur nel novembre 1869.
168. Carlotta, soprano di questo nome, morì di parto a Torino a 35 anni, 28 giugno 1872.
169. Teresa e Carolina Ferni celebrità artistiche anche quali violiniste.
170. Altri nomi di Cantatrici e di Cantori resi famigerati negl’ultimi anni, o tuttora dediti ai teatri, potranno riscontrarsi in fine dell’Opera, nella 2. Nota Cantanti dal 1850 a questi giorni.
171. Anche adesso si ha una prima donna Aurelia Gabrielli.
172. Morì non ha guari a Milano, Enrico Crivelli baritono, da non confondere col tenor di quel nome.
173. La Adele Ruggiero d’Udine rimasta vittima dello scoppio del vascello che riconducea dalle Spagne la compagnia italiana, assieme alle compagne artiste Giuseppina Flory, Rosa Mariotti, Ottavia Papini, giugno 1872.
174. La Vitali conta fra i parenti la Ronzi, la Ferlotti, Scalese, Fraschini.
175. Quattro sono in oggi i soprani di questo nome.
176. De’ Trovatori, dei bassi tempi e di quelli medioevani, oltre a quanto fu da noi dello nella prima parte dell’opera (vedi Indice), si veda anche: Bernardo di Ventadour fra poeti provenzali del sec. XII; e di Tannhäuser fra quelli alemanni del sec. XIII. — Millot. Hist. litt. des Troubadours, pei francesi. — Warton’s. History of English Poetry, pegl’inglesi.
177. Nelle Memorie dell’Accademia Olimpica si ricordano nel 1582 certe sorelle Pellizzari figlie del Bidello, salariate con 20 ducati l’anno cadauna per le musiche dell’Accademia due volte alla settimana occorrendo. Una Beatrice figlia di Antonio Veronese, piffero stipendiato, la quale con Gerolamo suo fratello e Antonio cugino cantava, rimunerati anche di 36 ducati pel fitto. Prè Girolamo Pigafetta, regalato nel 1580, e nel 1585 di 24 scudi. I preti Zuane e Antonio Magrè, zio e nipote. Francesco e Antonio Dal Liuto, prè Zangiacomo Montecchio, Sigismondo organista del Duomo, Biasio Dall’Oro, Bortolameo d’Arzignano, Vincenzo Dal Violino, Zuanantonio suo figlio e Girolamo e Antonio germani, pifferi della città, retribuiti 50 ducati l’anno, poi ad alcuni uno scudo il mese (1593-1600).
I rinomati compositori Alessandro Romano figlio di Paolo pur musicista (1596), già citato a pag. 181, vol. I, e D. Leon Leoni che scrisse le musiche per la strepitosissima barriera nell’Accademia del 4 marzo 1612, citato a pag. 103, vol. I, appartennero anche a quell’Accademia con ben altra fama.
Vedi per tali memorie monsig. Ziggioti, e i Ricordi Accademici letterarj offerti dall’attuale Preside Fedele Lampertico, § 5, p. 23. (Atti del Consiglio Accademico 5 marzo 1872). Tipografia Paroni, Vicenza.
Vedi anche retro al vol. I, pag. 122, 123.
178. Vedi retro a pag. 102, 131, 135, vol. I.
179. Ai musici e donne di tal professione stipendiati, era concesso da principio il solo titolo di Accademici Olimpici, ma senza voto, nella maniera degli absenti. Ziggioti succitato.
180. Vedi specialmente a pag. 247 vol. I, e pag. 27 e seguenti vol. II.
181. Poi moglie al fu M.o Andrea Casalini, vicentino, autor della Sposa di Murcia.
182. Questo cantante e compositore di Trieste è autor dell’Orio Soranzo.
183. Del m.º Antonio De Zorzi che fu in Udine buon compositore.
184. I nomi contenuti nel I volume non portano che una linea; gli altri hanno la indicazione del volume II.
185. Per altre Scuole qui in seguito non indicate specialmente, vedi alle rispettive Nazioni e Provincie.
Nota del Trascrittore
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