*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 76035 *** OPERE DI FELICE CAVALLOTTI VOLUME V. ALCIBIADE SCENE GRECHE IN DIECI QUADRI CON NOTE MILANO TIPOGRAFIA SOCIALE, E. REGGIANI E. C. _Via Marino, Num. 3._ 1884. PROPRIETÀ LETTERARIA. La mattina del 23 di giugno dell’anno di grazia 1873, pubblicandosi in Milano il volume delle mie _Poesie_, e nell’aria fiutando che il medesimo non avrebbe forse incontrato i gusti letterarj della Regia Procura; avendo, d’altro canto, ritrovato di mio mediocre soddisfacimento l’alloggio che nel Palazzo di Giustizia alla cella N. 50 mi era stato per parecchi mesi fornito dal Regio Erario negli anni di grazia 1870 e 1871, e non nutrendo che un desiderio languido di ritornarvi: per questi ed altri motivi mi alzai quella mattina con un prepotente bisogno di andare a prendere un po’ d’aria fresca sul lago. E col primissimo treno per Arona me ne venni alla bella Meina, specchiante nel Verbano la verzura de’ suoi clivi e le casette bianche, pulite: e da Meina — visto e considerato che lì, in riva al lago, c’erano troppi villeggianti e curiosi — su, per la montagna, a Ghevio, romito villaggio dell’alto Vergante, — al capo estremo della valle che la _Tiasca_ spumosa, tortuosa, chiassosa attraversa, correndo ver’ Meina alla foce. Il mio Ghevio, dove bambino venivo, nella casa dello zio, con mio fratello e mia sorella, e i cugini, a passar le vacanze della scuola: dove sono i ricordi della mia fanciullezza e il prato ove piccini si faceano le gare delle corse: e delle corse vincitrice talora era anche lei — la _bionda vestita di cielo_ — che vidi più tardi per le vie del mondo un momento rifulgere e sparire: _la s’è racchiusa di nubi in un velo_ _la diva bionda vestita di cielo!_ il mio Ghevio ove s’andava per greppi e boscaglie e per siepi, in traccia di funghi e ciclamini, e di nidi e topolini color bianco e nocciuola; e sempre vi zampilla la _fontanella_ lungo il sentiero della montagna, che ci vedea su la prim’alba in ispezione furtiva ai lacciuoli nel prato; e su in alto è la chiesuola con dipinto nel soffitto l’arcangelo Gabriele, bellissimo, armato di spada, nell’atto che ammazza il gran drago; il quale attirava la mia attenzione più profonda mentre il vecchio prevosto facea la predica domenicale: e lì accosto il piccolo cimitero... che delle memorie più care oggi tanta parte rinserra... A Ghevio danno i tralci benigni un vino limpido di collina, secco, frizzante, brioso: interlocutore non isgradito di discussioni teologiche fra me e quel parroco molto reverendo, prima che il _Cantico dei Cantici_ turbasse la cordialità delle nostre relazioni diplomatiche: di più, vi spira un’aria montanina salubre, che risveglia gli spiriti, che allarga i polmoni; ma quel giorno parevami anche più salubre del solito: infinitamente più di quella che per me spirava in quel momento a Milano. Tanto è vero che, il domani, una lettera di mio padre avvisavami come qualmente certe faccie di malaugurio si fossero presentate a chiedere di me a casa mia, e gironzassero tutto il santo giorno su e giù per via San Zeno, come ai bei giorni del 69, coll’aria di gente che aspetta amorosamente un debitore. Il terzo dì infine potei formarmi una convinzione assoluta e precisa dei vantaggi igienici della gita mia; poichè la Eccellentissima Procura di Milano graziosamente notificava al tipografo l’ordine di sequestro delle mie poesie e il mandato di cattura contro il loro indegno papà. Il mio preciso dovere di suddito benpensante sarebbe stato, lo so, di andarmi subito a costituire e risparmiare ai vigili tutori dell’ordine la fatica e la noja di lunghe, pazienti ricerche: prevalse in me il pensiero ch’essi sono pagati apposta per questo, e l’esercizio del moto fa bene al fisico; che d’altra parte alla salute delle istituzioni e del Regno non era rigorosamente indispensabile il completo adempimento delle benevole intenzioni del Fisco a riguardo mio. — Aggiungasi che in prigione, come l’esperienza del 69 e del 70 insegnavami, mancano i comodi necessarj per lavorare: non ci è posto per mettere i libri, non ci è luce per chiarire le idee, e tutte queste cose mi bisognavano per iscrivere il mio quarto lavoro drammatico, che andavo accarezzando col desiderio da più mesi — e che doveva intitolarsi: _Alcibiade_. * * * Come la prima idea di questo lavoro mi sia venuta, e in che ora precisa del tal giorno del tal mese abbia preso alloggio nel mio cervello, non saprei: per quanto oggi sia l’uso fra i poeti di non defraudare il mondo di queste informazioni preziose. Certo — e me lo consentano i giovani autori che improvvisano drammi storici su le notizie dell’_Enciclopedia_ — non mi vi accinsi senza un grande rispetto per il mio eroe: cioè non senza essermi prima ingegnato del mio meglio a studiarlo coscienziosamente, _intus et in cute_, affinchè dall’_isole dei beati_ ei non tornasse ad intentarmi processo di calunnia: e dopo avere risciacquato alle fonti del secolo d’oro di Atene gli studj di greco prediletti in liceo. Il fatto è che, una volta deciso di ricondurre il figliuol di Clinia sulle scene, e intrattenermi secolui un certo numero di settimane, presi le mie disposizioni per non essere nei colloquj disturbato. E organizzato giù a Meina, in riva al lago, e dentro la valle, un eccellente servizio... semaforico, per avvisare a tempo la comparsa di corpi... eterogenei sull’orizzonte, ispezionai diligentemente il rustico della casa (poichè nei locali ordinariamente abitati il pericolo di seccature era evidente) per eleggere una stanza da studio... all’altezza dei tempi e delle circostanze. Ragion per cui la prima visita fu alla legnaja nella soffitta, sotto i tetti, dove togliendo via un po’ di legna, e mettendoci un po’ di buona intenzione della fantasia, il locale poteva benissimo passare per una stanza d’architettura spartana, un po’ primitiva, di quella che piaceva tanto a Licurgo. Detto fatto, per le scale tirai su un tavolino e un pajo di sedie, disposi i libri in bell’ordine simmetrico su la legna — e soddisfatto meco stesso del mio spirito inventivo, m’immersi per guadagnar tempo in profonde elleniche meditazioni. Nè so dir bene quanto durassero: so che di tutte le meditazioni la più importante fu quella ch’ebbi a fare, a un certo punto, sentendomi qualche cosa di morbido passeggiare e scivolar tra le gambe, e trovandomi colla testa in fiamme tutto grondante di sudore come uscissi allora da una stufa. Nel mio desiderio di solitudine avevo infatti dimenticato che in quella stanza... non ero solo: e poi io, che volevo darmi l’aria di pensar tante belle cose, non avevo pensato ch’eravamo a luglio — il sole della canicola, più rabbioso che mai in quella estate, batteva a piombo sulle tegole — e per non dare alla Regia Procura la soddisfazione di prendermi vivo, io le apparecchiavo la ben più dolce sorpresa di un poeta ribelle cotto arrosto. Nel mio preventivo, questo non entrava: però ridiscesi le scale — ed oh gioia! nello scendere mi s’offerse all’occhio un granaio, che serviva da stanza per l’allevamento dei bachi da seta. Quella destinazione fu come una rivelazione del genio. Imaginate una stanza rustica, appartata, a primo piano, abbastanza spaziosa, coll’uscio su una loggia di legno, prospiciente il cortile, adattatissima all’ufficio di osservatorio astronomico: dal lato opposto una finestra sul prato che mette alla valle: finestra alta non più di due metri dal suolo erboso e morbido — ed ottima, in caso di ricerche indiscrete, per isvignarsela a respirare il fresco della campagna. Aggiungi l’uscio serrantesi di dentro con eccellente catenaccio; e le tavole dei bachi da seta per disporvi in bell’ordine i libri: e il pensiero di quelli industri animaletti per imitarne il lodevole esempio. Non occorre più dire che lì fermai finalmente i vagabondi penati. * * * E lì in quella stanza, povero baco da seta, per circa due mesi mangiai la foglia di tutte le astuzie del mio eroe ateniese, e lo condussi al bosco con tutte le regole dell’arte. Cioè, mi sbaglio, siamo esatti nelle date, come la moda vuole — e poi quelle date che belle ore care mi ricordano!: dal 3 al 10 luglio composi la tessera del lavoro distribuendolo in undici parti o quadri: fattomi ben chiaro il disegno nella mente, al dì 11 cominciai dalla coda, e scrissi in due dì l’ultimo quadro: poi feci il 10.º, il 4.º, il 5.º, e via procedendo dal più facile al meno facile, ultimi i primi due, che mi costarono dose di pazienza maggiore. Lavoravo di lena, le mie sei ore filate, dalle sei di mattina a mezzodì: poi, nel pomeriggio, riscontrar classici, pigliar note, e leggere le novità che da Milano mi mandavano, al finto indirizzo di _Luigi Bianco_, mio padre ed il burbero _Pessimista_. Il quale spingea la tenera amicizia sino alla pazienza di scrivere per me un diario minuto quotidiano di tutto quanto succedeva laggiù nel mondo dei viventi all’ombra della mia cara madonnina del Duomo: e ne approfittava per intercalarvi quelle tali sue opinioni artistiche e _veriste_ — ancora in germe allora — che più tardi spaventosamente sviluppandosi doveano contro il mio romanticismo renderlo a tal segno feroce, da levarmi — lui, il migliore degli amici a quei dì — perfino il saluto nella via. Esempio di convinzione artistica meravigliosa in un secolo così scettico come il nostro. Dopo il pranzo, una giratina per la montagna a prender il fresco della sera — poi, come tutti i bambini savi, a letto all’ora delle galline. Mercè questo regime, che consiglio a’ miei giovani fratelli d’arte, ai trentuno di agosto alle quattro in punto (i minuti primi e secondi non li ricordo) scrivevo sotto al mio _Alcibiade_ la benedetta parola _fine_! ch’è quanto dire, a scriverlo, ci avevo speso quaranta giorni di lavoro utile; — perchè ai primi e agli ultimi di agosto il lavoro pur troppo ebbe a subire non prevedute interruzioni. * * * La prima — e assai dolorosa — fu la morte di Antonio Billia. Oggi gli anni corrono veloci, la febbre del domani ange i nati da jeri, e i morti van più in furia che nella ballata del poeta, e i giovani che vengono su non han più tempo di ricordarli. Ma per chi visse le lotte di quel periodo febbrile della nostra istoria italiana, che vide dopo Lissa, Mentana e i fasti della Regìa e i processi al _Gazzettino Rosa_, le ignominie medicee del processo Lobbia, e Barsanti, fanciullo biondo, fucilato; e la nazione e la fortuna caccianti a spintoni verso Porta Pia i ministri del re nell’ora che firmavano la rinunzia di Roma! — ma chi respirò quell’atmosfera di tempeste, di battaglie, di entusiasmi e di ire, ma gli antichi _bohèmes_ del _Gazzettino Rosa_ non potranno mai dimenticarti, povero _Tonio_, — tu il loro impavido avvocato dei processi quotidiani, il padrino dei quotidiani duelli, l’affettuoso consigliero, compagno in carcere e fuori di carcere alle gioje, alli sconforti, alli ardimenti — tu dal cuore buono come d’un fanciullo, dalla parola tagliente come d’una spada! Lo chiamavamo tra di noi l’avvocato _Trombone_. Con questo nomignolo firmava nel _Gazzettino Rosa_ articoli caustici come la pietra. Nel 69, il governo lo mise al forte Bormida, con gli altri redattori, sotto chiave: ma durante la custodia amorosa, i liberi elettori di Corteolona e Belgiojoso — il collegio antico di Ruggiero Bonghi — con ischiacciante votazione lo nominarono deputato. Stette alla Camera quattr’anni. Amato dagli amici, rispettato dagli avversari, presto temuto, il _bohème_ del _Gazzettino_ s’era creato nell’assemblea, ricca in quel tempo d’oratori insigni, una fama di eloquenza caustica, tutta sua. Era poi l’incubo di Giovanni Lanza, presidente del consiglio: e la prontezza di spirito non essendo il forte del medico ministro piemontese, le barzellette di Antonio Billia lo faceano salire sulle furie. Ed era stata una sera di barzellette gaje quella che fu, per il povero Billia, l’estrema. Trovavasi lassù alle acque di Santa Caterina, in una delle prime sere di quell’agosto 1873: convitato ad un pranzo nell’albergo, proprio lì a fianco di Sua Eccellenza Visconti Venosta, ministro degli esteri, avea supplito della sua vena briosa alle risorse poco divertenti della anemica eloquenza ministeriale. Tutta la sera intorno a sè tenne desta l’allegria: erano sul suo labbro facezie argute e cortesi, riboccanti di _humour_, era un fuoco di fila di motti di spirito, scoppiettanti fra la nota del cuore... i commensali ridevano, le signore applaudivano... La mattina dopo era cadavere. Avea 37 anni. L’ebbi lassù nel mio nascondiglio, due giorni dopo, la notizia della tua morte, o mio Tonio!... e il momento che mi giunse mi sta qui innanzi come se fosse ora... Nè quel giorno, nè l’altro scrissi dell’_Alcibiade_ una riga.[1] * * * Altre interruzioni al lavoro, anzi parecchie me le procurarono le sollecitudini della R. Procura di Milano. La quale non trovava nè regolare, nè discreto che io mi fossi reso per la terza volta latitante, dopo essermi già presa due volte questa libertà nel 69... ed io d’altra parte, non sapevo come farla persuasa che lo facevo non già per me, ma nello interesse esclusivo delle patrie lettere. È vero che su pei giornali io figuravo dimorante in Isvizzera: il difficile stava nel convincerne il Fisco: e il Fisco se ne era convinto così bene... che un bel dì — passeggiando fra Ghevio e Pisano a prendere una boccata d’aria e meditare il miglior modo di far fuggire Alcibiade sulla barca — m’accorsi di due individui in borghese, innanzi a me, i quali ogni tanto di sottecchi si voltavano a squadrarmi, come tra loro si consultassero sull’essere mio. Fossero gli abiti o gli orecchini o il fiuto o una certa qual pratica da _répris de justice_, lì per lì mi sovvenni di certa sera del novembre 1869, che latitante in Milano, dopo averla scapolata liscia per un mese, mi ero lasciato pigliare come un merlo, da quattro eccellenti persone che mi passeggiavano innanzi, con aria da gnorri, precisamente a quel modo; e per subitanea associazione di idee (dicono che i poeti non sono perspicaci!) rallentato il passo senza farmi scorgere — e rimesso ad altro momento lo studio del metodo di fuga per Alcibiade — lo ripresi provvisoriamente per conto mio — pigliando in via precauzionale, mentre quei signori non guardavano, una scorciatoia di fianco per i campi. L’idea pare non fosse disprezzabile, perchè avvistisi appena della scomparsa, quei due signori tornarono sui passi, precipitosi; e giù nella valle incontrai un messo da Meina che veniva a portarmi l’avviso della comparsa di... uccelli migratori. Infatto, i due viaggiatori per diporto erano scesi a Meina la mattina in compagnia di due magnifici carabinieri; e umettata con un _cicchetto_ la gola, s’erano subito informati della strada per Ghevio. — Quella visita mi obbligò a trasferire, per un po’ di giorni, i penati giù nel letto della valle, anzi del torrente, alla Cartiera delli amici carissimi Bedone e Bertoglio, luogo fresco, un po’ malinconico: indi ne viene che il mio _Cimoto_ qua e là in qualche scena si lascia un po' andare alla malinconia. Come piacque finalmente agli incomodi visitatori lasciar libero il lago e la montagna, sugli ultimi d’agosto feci ritorno al nido. * * * E come piacque alli immortali Iddii, venne finalmente quella sera del settembre, che, intorno a un piatto enorme di castagne, cominciai in famiglia la lettura intima delle gesta e miracoli del mio eroe. C’erano i miei zii, mio papà, mia sorella... che dormono ora tutti al camposanto. Il manoscritto era voluminoso anzi che no — e avrebbe, al solo vederlo, spaventato qualunque spirito forte: ma di quali eroismi non è capace l’affetto del sangue? Ho bisogno di dire che la lettura durò due sere — che fu sopportata da anime stoiche — e che l’applauso di quei cari morti fu entusiastico, unanime? Ah, quei poveri primi giudici non imaginavano che l’_Alcibiade_ avrebbe dovuto, al pari del suo papà, andar intorno ramingo, come persona pregiudicata, per più mesi, prima di essere per grazia ammesso agli onori della scena!... * * * Fatti i tagli per la scena indispensabili, spedito a Milano il manoscritto, aspettavo con qualche impazienza i primi giudizj degli amici... Silenzio su tutta la linea!... Passa un dì, passa un altro: finalmente Achille Bizzoni in un passo di una sua lettera mi scrive: «_Pessimista_ m’ha parlato del tuo _Alcibiade_ e ne è entusiasta. Lo trova troppo lungo per la scena, ma mi accerta ch’è un capolavoro. Bravo Felice!» _Laus deo!_ dico fra me... Se il lavoro arriva a contentare... perfino _Pessimista_, figuriamoci i Milanesi, che son gente ottimista in generale. Infatti il lavoro doveva darsi a Milano al _Teatro Manzoni_ in quell’autunno dalla Compagnia Marini e Ciotti, diretta da Alamanno Morelli. Il buon Ciotti — il primo impareggiabile _Raul_ de’ miei _Pezzenti_ — in settembre mi scriveva da Prato: «Fin da ora ti prometto che nulla sarà trascurato e tutto il nostro buon volere sarà messo in opera per dividere teco un colossale trionfo.».... Insomma, li auspicj non poteano esser migliori. E i giorni passavano... e gli elettori di Corteolona, eleggendomi al posto del povero Billia, obbligavano la Corte d’Appello a revocare il mandato di cattura; sicchè potei finalmente rivedere Milano — correre in Galleria per veder correre il topolino della rotonda — correre al _Manzoni_ per assistere alle prove del figliolo delle mie viscere. Quale mortificazione aspettava il mio amore paterno! La signora Virginia Marini, gentile sempre quanto brava, mi fe’ del manoscritto un mondo di elogi... ma pareva imbarazzata nel farmeli; Morelli se ne dichiarava contentone... e mi domandava come avevo passata la villeggiatura; Ciotti era entusiasta della sua parte di _Alcibiade_... e non rifiniva di felicitarmi della _Agnese_. Al Caffè Manzoni, convegno dei comici, dei critici e degli autori in attività ed in aspettativa, ufficio postale di tutte le chiacchiere di palcoscenico, mi chiedeano del quando cominciavan le prove con una certa aria di interessamento, tra benevola e protettrice, che mi faceva meravigliosamente salire la senapa al naso.... E ogni dì ne passava uno — e le prove non si vedevano venire... O insomma che era successo? Solo questo: che, dopo la lettura del lavoro, fra i comici era stato sentenziato — e la voce era corsa in un attimo per tutti i crocchi di caffè e di palcoscenico — con grande letizia di certi critici e degli autori... in aspettativa, — che l’_Alcibiade_ era una cosa irrappresentabile e che non sarebbe arrivato in là del primo atto... Soltanto — come il cuore umano è buono di sua natura — nessuno aveva il coraggio di dirmelo! E poi che io non mostravo la perspicacia di capirlo — e l’impegno con me era formale — alle prove ci si arrivò... in linea di filantropia... tanto per farmi toccare con mano quello che mi ostinavo a non intendere... e rendermi persuaso colle buone, che gli era proprio per risparmiarmi un disinganno... se giunti a metà della seconda prova, lì sul palcoscenico, mi si restituiva il manoscritto! Proprio così. E i giovanetti autori che oggi si lamentano del sol di luglio e gemono, ravvolti nel manto dei genj incompresi, sulle difficoltà del riuscire a farsi conoscere, e del fare accettar dai capocomici il loro primo capolavoro — sono pregati a consolarsi pensando che quel po’ di mortificazione — _coram populo_ — capitava a me — dopo che avevo già dato alle scene tre lavori — e tutti tre confortati dal plauso dei pubblici italiani. * * * Che fare? Rassegnarsi? Ohibò: natura m’ha fatto più testardo del mulo. Preso penna, carta e calamajo — scrissi quel dì a Luigi Bellotti-Bon — nome caro e rimpianto finchè l’arte italiana serbi il culto delle sue glorie più belle e delle sue tradizioni più gentili. A Bellotti-Bon — ch’era a Venezia e veniva al _Manzoni_ nell’imminente carnevale — domandai, nudo e crudo, se era disposto ad assumersi la recita di un lavoro rifiutato alle prove. Ecco la risposta: _Venezia, 18 novembre 1873_. «Carissimo, «Non ti dico che una parola: _Sono a tua disposizione_. Vieni qui — e c’intenderemo su tutto — e vedrò contentarti. «Avvisami del giorno del tuo arrivo onde possa essere tutto per te. «Rimane ben inteso che sarai il mio futuro avvocato presso la Comune e mi salverai dalla lanterna... ed io non abuserò della mia _onnipotenza_ presso il Tirrrrrrrrannico potere cui sono _venduto_. Ciao. «_Il tuo affez_. «LUIGI BELLOTTI-BON.» Povero gioviale amico!... Corsi a Venezia. (Cioè, prima, per mandar via l’umor negro, corsi a Roma alla Camera a far arrabbiare l’on. Lioy e la maggioranza e il presidente Biancheri con quel tale affar del giuramento, e a far la scherma di sciabola con Avanzini del _Fanfulla_ al cospetto dell’ombre della via Appia). Nella città delle lagune lessi il lavoro a Bellotti — che volle alla lettura essere solo — finito ch’ebbi, egli mi abbracciò con trasporto, mi baciò... e: «Quel che ti davano Marini e Ciotti, da questo momento te l’offro io.» Di lì a pochi giorni il cartellone del _Manzoni_ annunciava l’_Alcibiade_ fra le novità della Compagnia Bellotti-Bon N.º 2 — per la stagione di carnevale. Cacciato dalla porta, l’eroe greco rientrava dalla finestra. Finalmente!... ero in porto. Adagio. Mi correggo. Credevo di esserci. * * * Santo Stefano e carnevale eran giunti, la compagnia Bellotti-Bon era giunta, l’_Alcibiade_ sul cartellone era giunto... solamente le prove non giungevano... e Bellotti-Bon se mi incontrava parea scansarmi e girar largo... come si scansa un creditore... Ahimè! all’ottimo rimpianto artista — giunto appena da Venezia, entusiasta del lavoro mio — era toccato in proposito udirne di cotte e di crude. Sapeva, sì, e glie lo avevo detto, che nei dintorni del _Manzoni_ il mio eroe godeva cattiva reputazione, ma credeva acqua e non tempesta. Al caffè del teatro, nei crocchi artistici, dappertutto gli davan la baja. «O come! tu hai preso di quella... roba? Come! tu butti i denari a quel modo? E fai di questi servizi a Cavallotti? Così gli sei vero amico? E hai coraggio di far subire ai tuoi artisti una _corvée_ di quella fatta per un lavoro che non arriva al secondo atto? Ma non sai che la Marini qua, ma non sai che Morelli là...» Il pover’uomo avea l’orecchie intronate. Dubitò di aver preso un abbaglio. Avea sentito una sola lettura alla sfuggita... e la prima impressione, chi sa, poteva averlo tradito. Ma la parola meco era spesa — e Bellotti-Bon era gentiluomo in tutto il rigore del termine. Per levarsi dai fastidi, lasciò Peracchi, direttore, nelle peste — e andò a Firenze. Con questi belli auspicj lessi il lavoro alla compagnia. Ci volle tutta la deferenza personale delli artisti, di Giovanni Emanuel, e della signora Pia Marchi e di Zoppetti e degli altri, perchè subissero il supplizio con rassegnazione e non tradissero troppo visibilmente la impazienza... Io fingevo non vedere e tacevo. Però allora parve obbligo di coscienza il tentar meco almeno un’opera di carità; si pregò il buon Lombardi, dirigente il teatro Manzoni di persuadermi, colle buone, a ritirare il manoscritto spontaneamente. Ma di far questa parte delicata il buon Lombardi, sapendomi testardo, non ne volle sapere. Si officiò Emanuel, il protagonista, a darsi per ammalato. Ma Emanuel, a quei dì non avendo con Bellotti buon sangue, non istimò di poterlo fare. Così le prove cominciarono... eppure, per un filo, ancora in _extremis_, di salvarmi mio malgrado, non si disperò. Al dì della quinta prova doveva aver luogo nel pomeriggio una mia partita d’onore con Dario Papa. — La mattina, pregai Riccardo Castelvecchio — illustre e sempre giovane veterano dell’arte — a venir meco alla prova, per diriger egli in mia vece, in caso di disgrazia, le successive — lasciandogli all’uopo _carta bianca_, con procura scritta. Castelvecchio accettò ringraziandomi, con fratellanza artistica che riconoscente rammento. Alle quattro, finita la prova, vennero i padrini sul palcoscenico a prendermi: — appena io partito, gli artisti, per me inquieti, farsi intorno a Castelvecchio e consultar seco il modo di risparmiarmi il fiasco imminente. E affetto e desiderio eran sinceri: perchè la convinzione del fiasco e del dolore che mi avrebbe dato era intima: indi, per lo meglio, mi si augurava una piccola ferita leggiera, che mi obbligasse a letto pochi dì e permettesse a Castelvecchio di far uso de’ suoi pieni poteri: si sarebbe rabberciato alla meglio il lavoro, levatane la parte di _Cimoto_ che appariva una grossa stonatura — ed altri tagli _eccetera_, _eccetera_, — tanto che si potesse arrivare in fin di recita... Ma il calcolo a nulla approdò... conciossiafossecosachè, proprio in quel momento, a Dario Papa una magnifica spaccata a fondo con analogo colpo di punta non riuscissero sgraziatamente in tempo. E quando viceversa riuscite in tempo le cose a me e toccata a lui contraria la sorte, videro di ritorno me illeso... Giovanni Emanuel mi buttò le braccia al collo e mi promise che da quel momento si sarebbe messo a studiar con amore la sua parte. Imperocchè da quel momento parve che la mia caparbietà avesse il diavolo dalla sua — e che il contrastar oltre fosse tempo perso. Infatti le tre che seguirono furono le sole vere prove serie. Tutti gli artisti dal primo all’ultimo ci posero un impegno, un affetto, uno zelo di cui serbo il ricordo carissimo. E la sera del 31 gennajo 1874 — dopo cinque lunghi mesi — finalmente l’_Alcibiade_ andò in iscena... Il teatro rigurgitava. Al prologo cominciarono gli applausi. — Alla fine del lavoro eran quaranta chiamate. Al successo entusiastico la esecuzione di tutti concorse: e se Angelo Zoppetti fu esilarantissimo _Cimoto_ — Giovanni Emanuel del personaggio di _Alcibiade_ fece una creazione non superata nell’arte. Trieste e Venezia, per le prime, di lì a poco, ribattezzavano il successo di Milano: e in una sera non cancellata dalla memoria, l’Atene dell’Arno conferivagli la cresima. La Compagnia Ciotti e Marini mi ridomandava il lavoro, e questa volta pagandolo lautamente, trovò che era rappresentabilissimo. Infine la Commissione governativa pel concorso nazionale drammatico, in Firenze residente, assegnava all’_Alcibiade_ il primo premio del concorso (2000 lire): e il decreto di conferimento del premio, con analogo mandato di pagamento, portava l’augusta firma di Sua Eccellenza il ministro... Ruggiero Bonghi! Oh come il cuore battevami di dolce emozione nel recarmi alla regia cassa! Erano (parmi ancora vederli!) due bellissimi biglietti bianchi, da mille... quasi nuovi: e quel che agli occhi non mi sembrava vero, eran proprio denari dello Stato: così per una volta ho potuto provare anch’io la ineffabile consolazione di cibarmi alla greppia del bilancio! Di quanti soldi per vivere l’arte mi ha fruttato poi — non ne rammento che m’andassero come quelli in tanto sangue. Quei denari del governo mi rappresentavano il frutto delle persecuzioni governative e il frutto di cinque mesi di prove morali — cinque mesi che per amor dell’arte digerivo in silenzio — io che m’irrito d’una mosca — mortificazioni, compassioni e repulse! * * * Conclusione morale: pei capocomici ed artisti: ricordarsi che Ezechiele, Daniele ed Isaia, se le loro profezie fossero tutte come quelle che si fanno sui palcoscenici alle prove dei lavori nuovi, non sarebbero quei profeti così in credito che sono, anzi nessuno ai loro tempi li avrebbe presi per persone di proposito. Per i giovani autori e miei fratelli d’arte, che sognano i successi lì a portata della mano, e si impermaliscono di ogni piccolo inciampo: ricordarsi che l’arte va per sentieri di spine, è battaglia che un dì vuole i forti ardimenti e le ire — e un altro dì vuol sagrificj di amor proprio e pazienze da certosino: e quando la meta nella mente ci ride, bisogna a tempo esser anche filosofi: viene l’ora all’artista che gli ripaga le amarezze e degli esercizj filosofici gli rifonde le spese. FELICE CAVALLOTTI. Meina, 1 aprile 1884. ALLA CARA MEMORIA DI MIO PADRE CHE AMOROSAMENTE CORRESSE LE PRIME BOZZE DI QUESTO VOLUME E NON POTÈ VEDERNE LE ULTIME 8 giugno 1875. PREFAZIONE ALL’EDIZIONE DEL 1875 «Di tutti i popoli della terra, i Greci son quelli che hanno più nobilmente sognato il sogno della vita» — _scriveva un dì Goethe. Ma oggi la vita si è ben lontani dal riguardarla come un sogno. Oggi le comunicazioni fra l’Olimpo e la terra sono rotte, gli Dei di Omero non vanno più innanzi e indietro, e la vita publica e la privata non aspettan più nulla dalle nuvole. Il secolo volge al reale e al positivo; i sognatori si chiamano matti e sono messi sotto custodia, per ragioni di sicurezza publica; ai soli poeti in via d’eccezione si permette ancora qualche volta di sognare — a patto, beninteso, che non sognino più in là del ragionevole._ _E l’arte, questa grande emanazione della vita, fu invitata anch’ella colle buone a mutar via. Le venne detto ch’era tempo di cessare dal far la visionaria e dal correre dietro alle fantasime; che la vita oramai ha scopi pratici e l’arte deve averli del paro: indi necessità di mettere la testa a partito, e attendere alle faccende di casa; indi, legge unica, il vero; e il vero è tutto quello che è, e che cade, tal qual è, sotto i sensi; ciò che fu è il nulla, cioè un sogno; ciò che è fuor dei sensi, è fuor del mondo, — e fuor del mondo non vi è che l’_ideale — _un altro sogno._ _E l’arte, docile, non se l’è fatto ripetere. Messe le anticaglie da un canto, lasciati alle lor nebbie i fantasmi, si diè a studiare il presente, a vivere del proprio tempo, a_ palpitare di realtà. _La scoltura rifiutò i profili ideali e scolpì Napoleone in veste da camera. La pittura proscrisse i soggetti eroici e mitologici, e ci regalò dei veri gatti e polli d’India contemporanei, e altre bestie contemporanee al naturale. Fu ammesso, è vero, in via di grazia, il cigno di Leda, vista la possibilità di servirsene a uso d’oca, per i quadretti di roba da cucina._ _Ma la drammatica non si fermò alla zoologia. I più delicati problemi sociali furono da lei coscienziosamente esaminati; niente le sfuggì dei varj rami dello scibile, niente dei fenomeni e dei bisogni della vita reale. La economia privata e publica, a cominciar dalla questione essenzialissima dei rapporti fra il lavoro e il capitale; la giurisprudenza sul matrimonio, sulla prole legittima e illegittima, sugli orfani, sui pupilli, sulle vedove, sui contratti e sulle donazioni fra vivi e morti; la medicina legale, la psicologia, la patologia e l’anatomia comparata hanno richiamato la sua più seria attenzione; non senza il debito riguardo alle leggi relative del Parlamento, alle sentenze dei tribunali ed ai pareri medici delle Facoltà._ _Evidentemente, siamo alla pienezza dei tempi. Aver fatto servire a scopo così concreto e così utile i diletti più puri dello spirito, è l’ultima parola del progresso._ _Questa è vita piena e vera, di cui nulla si perde nell’aria e nel vuoto, nelle caligini del passato, nelle nebbie dell’ideale: dove tutto ci interessa, perchè tutto ci parla direttamente ai sensi, tutto ci riguarda materialmente, tutto ci richiama alla realtà dell’esser nostro, delle nostre occupazioni, delle nostre passioni, delle nostre noje, delle nostre circostanze domestiche e finanziarie: dal profumo de’ gabinetti agli acri vapori delle sale da ballo, dai cicalecci eleganti ai battibecchi conjugali, dalla marsina dell’eroe al_ panier _dell’eroina._ _E a questo patto, e quando da questo ambiente così vero non si esca, vada pure per qualche onesta licenza. Perchè anche là dentro in quelle sale la finzione, dicono, qualche volta è di moda, lo spirito non sempre è di rigore, e il buon senso non sempre è di prammatica. Purchè, se si manca alla verità, se si manca di spirito, se si manca di buon senso, gli addobbi e le decorazioni delle scene avvertano sempre che son mancanze contemporanee. In fondo, la questione così detta del_ realismo _riguarda molto l’attrezzista e il guardaroba. Quando i personaggi siano vestiti, ed è ciò che importa, alla maniera del mondo nostro, nulla osta che si facciano dir loro anche delle cose dell’altro mondo._ _Così il teatro ha progredito, come tutto il resto, in arte. C’è stata, è vero, qualche protesta nei dietro-bottega dei rigattieri. Le durlindane di Roncisvalle, gli elmi delle crociate e le mandóle dei trovatori, raccoltevi a parlamento, protestarono contro l’ostracismo loro inflitto in nome della verità, e dichiararono formalmente che ai loro tempi si amava e si odiava come al tempo nostro, e si moriva per amore e si accoppava per odio come ai dì nostri; soltanto si amava e si odiava meglio, si moriva con più poesia e si accoppava con più cavalleria. — Le clamidi e le toghe, intervenute all’adunanza, hanno energicamente soggiunto che ai loro bei giorni ci erano poltroni ed eroi come adesso, e tipi drammatici, quali adesso, di furbi e di ingenui, di magnanimi e di furfanti, di tormentatori e di tormentati, e nel dramma umano si rideva e si piangeva come adesso — colla medesima verità — ma più artisticamente di adesso._ _Tutte chiacchiere inutili. La sentenza era segnata. Cilindri e cravatte fecero l’ingresso trionfale con accompagnamento di pianoforte — in luogo del romantico liuto — per la festa da ballo dell’atto terzo, e di colpi d’arma da fuoco — in luogo degli esercizi d’arma bianca — per la catastrofe dell’atto ultimo. Tutto fu raggiustato, rimodernato, rimesso a nuovo. L’amore come il delitto assunsero forme meno fantastiche e maniere più incivilite. Il dolore rispettò le convenienze: non imprecò più come Prometeo, non pianse più come Ecuba. Una prosa graziosa, piena di arguzie, di riflessioni filosofiche e di ammonizioni morali, sostituì i lamenti di Edipo come le invettive di Ernani, i delirj di Aristodemo come le bestemmie di Francesco Moor._ _Soltanto, in mezzo al nuovo concerto di voci e di suoni moderni, di amori e di delitti moderni, tra il frastuono delle prediche che riformano la società e dei colpi di pistola che ne risolvono i problemi, — tra gli applausi dei buongustai che assaporano le finezze dell’arte nuova e le beffe dei critici irridenti alle scolastiche pedanterie dell’antica, — s’ode levarsi tratto tratto qualche eco di voce solitaria, bizzarra, come portata dal vento di lontano._ _Qua, un poeta dal ritmo strano e dal riso amaro, sardonico, scioglie un osanna ai semidei della greca letteratura e con entusiasmo li saluta_ eterni diletti dell’uman genere, — «sempiterna solatia generis humani!» _Là, un altro poeta dalle canzoni ancor più strane, e dall’aria melanconica come le nebbie del suo paese, manda un inno agli echi ed alle balze del Liakùra: «Ellade vaga! tutto ciò che le Muse finsero, nel tuo grembo mutasi in vero! Per anni ed anni ancora i fanciulli impareranno i tuoi fasti e la tua lingua divina. Orgoglio de’ vecchi, scuola dei giovani, il savio ti onora, a te s’inchina il vate, come al tempo che Pallade ti svelava gli arcani celesti: mentre il tempo sperderà le canzoni dei cento menestrelli ond’oggi levasi il grido!»_ _Dàlli ai bestemmiatori!_ _È Heine che sta meditando il_ Ratcliff, _in attesa dell’_Intermezzo. _È Byron che canta il pellegrinaggio di_ Aroldo, _in attesa del_ Don Giovanni. _E che!? l’arte antica, questa morta di cui assistemmo le esequie, leverebbe ancora la testa fuor della lapide del suo sepolcro, accamperebbe ancora diritti in faccia alle conquiste dei novatori? I monumenti del genio di questa sepolta, percossi da tanta ala di secoli, avrebbero ancora un linguaggio per noi, avrebbero ancora attrattive e fascini per un poeta dei nostri dì? Vi sarebbe ancora là dentro, in quelle pagine polverose, qualche cosa da cercare, qualche cosa da ammirare, qualche cosa da imparare?_ _Questo andavo fra me chiedendo un giorno che un critico dal gusto finissimo, entusiasta della_ Femme de Claude, _della_ Femme de feu _e della_ Petite marquise, _mi spiegava saviamente le ragioni per cui ai dì nostri non è più permesso, senza disonorarsi, ad una persona di spirito, di leggere Omero. E la dimostrazione mi avea convinto e mortificato: tant’è che coll’animo contrito, ricordatomi di Alcibiade, il quale le picchiava ai maestri perchè di Omero non ne sapevano, progettai di scrivere un dramma sopra il figliuolo di Clinia._ _Narro la genesi — non le ragioni del libro. Le quali sono parecchie; e perciò avevo pensato di preporre, come agli altri lavori miei, così a questo, una prefazione, lunga, lunga, coi fiocchi, dove appunto si discorresse degli intenti del lavoro, dal lato storico, drammatico e letterario, e dell’epoca storica entro cui il dramma si svolge. La benevolenza de’ critici mi costrinse a vuotare il sacco delle ragioni innanzi tempo; e tutto quello che io avevo in animo di dire a mia discolpa mi trovo averlo già detto nella lettera che mandai l’anno scorso alle stampe.[2] Lettera che, tra parentesi, per caso bizzarro, fu dai critici giudicata meno cattiva (e non ci voleva molto!) del dramma che essa studiavasi difendere: forse era più esatto il dirla più lunga che il dramma non ne valesse la pena: lunga certo abbastanza perchè io non abbia per giunta a tornarvi sopra e a ripetere le cose dette già. Tanto più poi, che in quanto la lettera era destinata a drizzar le gambe a certi critici, essa ha già avuto una efficacia superiore alle mie previsioni, ed alla quale proprio non mi aspettavo._ _Nella lettera — s’imagini! — facevo la morale agli Aristarchi che sputano sentenze sui lavori altrui, per mettere in mostra la erudizione che hanno lì per lì rubato altrove: bene, di lì a qualche tempo, una bella mattina, un critico scaraventa contro il povero_ Alcibiade _tre lunghissime appendici ove mi regala dell’ignorante a tutto pasto, e dichiara il mio dramma un aborto drammatico e storico: e per dimostrarlo alla presenza de’ suoi lettori, con mia gran mortificazione mi infigge nientemeno che una lezione completa di storia e di critica intorno a Pericle, alla sua politica ed al suo secolo: cita Senofonte, Platone, Aristofane, persino Alcifrone... soltanto la mia lettera non cita, da cui tutto quanto il materiale della sua lezione di storia — non un solo ragguaglio eccettuato — era di pianta stato preso! Anzi, per colmo d’ingratitudine e per far più effetto sui suoi lettori, dal fondo del suo pozzo di scienza quel signore con sussiego mi rimprovera di non aver ben digerito i miei studi: sarà; ma se non altro per avergli fatto tanto comodo, non toccava veramente a lui di dirne male!..._ _Da quel giorno credo di essere affatto guarito dal ticchio di difendere i lavori miei._ _Bensì mi è d’uopo il dir qualche cosa della_ forma _in cui l’_Alcibiade _esce oggi alla luce nella presente edizione, diversa in qualche parte da quella al publico già nota: m’è d’uopo, cioè, ricordare, infra i varj intendimenti del lavoro, da me accennati nella lettera, quello che in ispecie riferivasi alla publicazione del dramma per le stampe:_ «_Offrire_ agli studiosi _una pittura, dei quadri, delle_ scene, _della vita greca del secolo d’oro, colta nella sua fase più caratteristica e culminante: in quel periodo di transizione della guerra peloponnesiaca, che conservava ancora il riflesso delle grandi memorie antiche e di tutti gli splendori del secolo di Pericle e aveva già in sè sviluppati tutti i germi di corruzione, tutti i fenomeni politici che provocarono la caduta della repubblica d’Atene. Presentar quella vita studiata nel linguaggio, nelle idee, nelle leggi, nei costumi — nel_ linguaggio _sopratutto... Perchè la favella viva di un popolo è il prodotto e lo specchio fedele della sua indole, del suo genio artistico, delle sue idee — e la verità del linguaggio è necessaria a far vivere i fantasmi delle età lontane nel mondo della realtà._ _Ed è questa, anzitutto, la ragione per cui, nella edizione presente non destinata alle scene, una volta libero dalle esigenze di queste, pensai naturalmente a ristabilire quei più minuti particolari della vita greca, e tutte quelle forme e locuzioni del linguaggio greco, che per le necessità del teatro e dei publici nostri avevo dovuto, alla recita, sopprimere. Non già ch’io riuscissi a sopprimerne tanto, da risparmiare al mio dramma, quale fu rappresentato, la taccia che molti gli apposero, di essere una lezione indigesta e nojosa di lingua, mitologia e archeologia greca: ma coloro che in teatro, tra uno sbadiglio e l’altro, così lo giudicarono, sono certissimo che, a maggior ragione, per pietà delle proprie mascelle, si guarderanno con iscrupolo dal leggere questo volume. Non è dunque per essi che io lo stampo. Bensì gli studiosi probabilmente apprezzeranno le difficoltà di conciliare sempre e dovunque le ragioni sceniche colle letterarie in un tentativo di simil genere: poi che di un modesto tentativo si tratta e nulla più. E per essi non occorre ch’io mi diffonda sulle ragioni di questo studio delle forme. L’egregio Mariotti, nelle note al suo_ Demostene, _disse una cosa non nuova, ma giusta, e non abbastanza da molti avvertita, quando osservò esistere tra la lingua italiana e la greca un’affinità di linee e di genio, tutta speciale ed intima: assai più intima e spiccata che non tra l’italiano ed il latino. Potrebbesi dire, a spiegazione del fenomeno, succedere delle lingue lo stesso che della natura, nelle somiglianze ereditarie fra le generazioni alternate. In quella guisa che i monumenti di Firenze ritraggono assai più della eleganza attica, che non della maestosa grandiosità romana, così il nostro aureo trecento, nella semplicità delle sue grazie native, ricorda assai più gli scrittori del secolo di Pericle che non quelli del secolo di Augusto. Filosofia delle parole e dei modi, snodature dei periodi, pieghevolezza, grazia, armonia, tutto nella favella nostra sembra evitare la maestà asciutta della lingua del Lazio, per richiamarci «all’idioma gentil, sonante e puro» di Alcibiade, di Platone e di Demostene. E ciò spiegherebbe anche, fra parentesi, il perchè latinisti insigni — con riverenza parlando — riescano, pure a’ dì nostri, stentati e plumbei prosatori italiani, intanto che la Grecia rivelava a Foscolo e a Leopardi le bellezze più ascose e il magistero più squisito della lingua dell’Arno._ _Scrutare, qua e là, anche più in sotto della superficie, questa intima somiglianza di forme e di indole e di modi, qua e là afferrarne alcuni tratti caratteristici, fu uno naturalmente degli studi di questo lavoro. Studio uggioso ed inutile, a coloro pei quali è di moda ostentare un sovrano dispregio di tutto ciò che riguarda la forma; non inutile per me, che credo la forma essere carne e sangue dell’idea, e la ispirazione dell’artista non essere_ nulla, _finchè il magistero delle parole e delle linee non la faccia vivere nel mondo dell’arte. Oggi, per esempio, dai più si sente e si riconosce la stretta attinenza fra la questione della lingua e lo indirizzo della drammatica; intanto io mi irrito quando sento in che gergo l’arte parli sovente dalle nostre scene, e quando nulla nel suo linguaggio mi ricorda il genio artistico del mio paese, nulla mi rammenta che quella è l’arte di menti italiane. E mi domando, se non sia anche questo, per avventura, uno fra i tanti frutti della sedicente scuola_ realista; _se l’abitudine di fotografare una società che non è la nostra, e parlante un linguaggio che non è il nostro, non abbia fatto passare, a poco a poco, il forestierume dalle parole nelle idee e viceversa; se il vero ci perderebbe in faccia all’arte qualche cosa ad essere riprodotto, qui fra noi in Italia, con linee e con parvenze italiane; e se a tanta invasione di idee e di forme non nostre, non servirebbe di correttivo il contrapporre, di tanto in tanto, qualche po’ di roba_ nostra, _cioè lasciataci in legittima eredità dai nostri nonni. Sì, in una parola, io credo, come dissi altrove, che la influenza classica, associandosi ai nuovi ideali e alle nuove forme dello idioma, possa oggidì riuscire benefica anco al mutato indirizzo dell’arte. Gli è forse un pretendere che questa vada a rinchiudersi e a fossilizzarsi tra gli scaffali delle biblioteche, o faccia parlare i suoi personaggi in greco? Eh via! schiudeteli pure all’arte i suoi nuovi orizzonti; mostratele pure, come il diavolo al Cristo dalla vetta del monte, abbracciando a volo d’aquila il secolo presente e la società, tutti i novelli dominii a lei concessi, pur ch’ella adori, con Enotrio, il Satana moderno, il_ vero; _ma quando ella si sarà posta in cammino per quelle regioni del suo avvenire, non isgridatela se la si fermi tratto tratto per istrada a interrogare sommessamente il ricordo di qualche canzone antica, o a dissetarsi all’acque del rivo disceso di lontano insiem con lei dalle sorgenti della sua terra nativa; perchè il tranquillo suo corso le avrà insegnato il cammino e impeditole di smarrirsi per via; perchè anco laggiù ella avrà bisogno di qualche cosa che le parli della sua patria, di qualche lembo di cielo, fra le nebbie, che le ricordi l’azzurro del suo paese, di qualche armonia che le favelli la voce cara delle memorie e del sangue; — se pur volete che anco laggiù in quei paesi ella si rammenti pur sempre di essere e si conservi sempre_ italiana. _Punto e a capo. Lascio le metafore, e passo a dir due parole delle note._ _Le quali erano anch’esse naturalmente una necessità dell’intento propostomi in questo volume; ch’è quanto dire (e lo dico subito per risparmiare ai critici arguti e benevoli l’incomodo di malignarvi sopra) che non ve le ho poste già nella ridicola idea di illustrar me medesimo, o perchè credessi che il merito del volume valesse proprio la spesa di tante note. Pensai invece (astrazione fatta dalle note filologiche e da quelle apposte per giustificarmi da appunti critici) che valesse la pena di approfittare qua e là delle occasioni offertemi dal dramma, per guardare, insieme col lettore, un po’ più addentro nella vita privata e publica, nelle istituzioni religiose e politiche dell’antica Grecia. So gli anatemi scagliati da Alfonso Karr, in uno sfogo di santa ira agli eruditi:_ Farisei della scienza, Tartufi delle lettere: _ma non è al merito di erudito ch’io aspiro. Bensì a quello assai più modesto di avere, se non con ingegno, studiato almeno con qualche coscienza l’epoca di cui imprendevo a trattare: dacchè questo mi parea per lo artista non merito, ma obbligo: e se alla rievocazione delle età passate, malgrado certi odierni anatemi, è ancora serbato un posto nell’arte moderna, egli è a questo patto solo, che l’artista anzitutto studii di immedesimarsi con quell’età; e alla verità delle passioni — che sono in fondo le stesse in ogni tempo, com’è sempre la stessa la natura umana — ritrovi gli accenti e le corde nella verità completa dello ambiente. Allora l’illusione artistica sarà perfetta; allora le figure che l’artista evocherà saranno vere e vive, rappresenteranno_ uomini _e non_ nomi, persone _e non_ personaggi; _e il publico, trasportato con esse nei secoli remoti, s’interesserà e si commuoverà ai loro casi, nè più nè meno che a quelli della società contemporanea._ _Se avessi voluto fare dell’inutile erudizione, nulla mi sarebbe stato più facile del triplicar la mole di questo volume; come certo mi era facile anco ridur le note a proporzioni minime, se non sapessi la stizza che destano spesso ne’ libri certi schiarimenti generici, affatto vaghi e incompleti, i quali sono peggio di nulla; poi che le nozioni indeterminate generano sempre le nozioni false. Cercai stringere il molto in poco; essere breve ma possibilmente preciso; rimandare alle fonti chi volesse studiarne più in là; e sopratutto, spazzar via, dove mi si affacciavano le idee convenzionali e i pregiudizi che intorno all’epoca da me descritta ci vennero tramandati dalle scuole. Ormai la critica storica, ne’ suoi studi sull’antichità, ha fatto tali e tanti progressi, da lasciarsi ben di lunga addietro la ingenuità del giovane Anacarsi; ed è anche vero che nell’ardore delle ricerche innovatrici ella è sovente trascorsa oltre il segno; ma dal buon Barthelemy, il quale accettava tutto, a occhi chiusi, senza analisi nè discussione, sulla fede degli scrittori superficialmente esaminati, a Grote, che occorrendo sagrifica le autorità storiche alla dimostrazione di tesi ingegnose e preconcette, a Ottofredo Müller, questo martire illustre della scienza, che spinge lo scetticismo e l’acutezza dell’analisi fino a negazioni temerarie, per sostituirvi, se bisogna, ipotesi e affermazioni più temerarie ancora, — la distanza è abbastanza grande per lasciar posto ad uno spirito di esame, il quale si contenti modestamente di conciliare le autorità della storia coi risultati_ certi _e irrefragabilmente acquisiti alle moderne indagini della critica._ _Detto ciò in generale dello spirito in cui furono scritte le note del libro, mi rimane ad avvertire una cosa semplicissima, ed è che coloro ai quali elle paressero soverchie, non hanno a fare altro che saltarle di piè pari._ _Un’ultima osservazione, infine, mi resta, circa la diversità di proporzioni e divisioni fra il dramma qual esce ora alla luce, e la versione per le scene, che il publico dei teatri conosce già. Era naturale che il lavoro scritto, per la ragione stessa del suo intento, dovesse pigliarsi colla storia un po’ meno di confidenza di quello che in teatro si richiede. L’indole del lavoro, abbracciante un intero ciclo storico, e le esigenze sceniche mi obbligarono qua e là, negli ultimi quadri in ispecie, a variare e stringere l’azione, cumular date e circostanze a beneficio del dramma, lasciar nella vita del protagonista parecchie lacune, che poi, da alcuni di coloro i quali pur trovavano il dramma già troppo lungo, mi vennero benevolmente rimproverate. Nel sesto atto, per esempio, della versione scenica, sono licenze storiche e cronologiche e geografiche evidenti, eppure sfuggite per un caso curioso all’acume dei critici meticolosi, i quali me ne scopersero tante altre che non c’erano. La campagna nell’Egeo e nell’Jonia, la seconda disgrazia di Alcibiade, la sua partenza dalla flotta di Samo, vi son cumulate colla gita in Tracia, e dalla Tracia al campo di Egospotamos: due anni, quasi, in un giorno. In compenso (per quanto, beninteso, si può pretendere da un lavoro povero) l’azione ci guadagna di rapidità e di interesse, la nuova faccia del carattere di Alcibiade esce più spiccata dal contrasto immediato, e la presenza di Timandra aggiunge un elemento drammatico su cui la storia trova a ridire, ma che al dramma torna comodo ed utilissimo._ _Nel lavoro destinato alla lettura, la ragione di quelle licenze cessava. Qui perciò gli avvenimenti sono rimessi più a loro posto, il filo cronologico è più continuo, e diverse lacune son ricolmate. Il ritorno di Alcibiade ad Atene mostra qualch’altro lato della fisionomia dell’eroe. La gita in Tracia poi ne presentava ancora qualche altro, e di più offeriva una occasione opportuna di porre a riscontro dei costumi della Grecia civile qualche bozzetto di costumi di quella che potrebbe chiamarsi, per così dire, la Grecia barbara. E dalle scene di Tracia veniva più naturale e più conforme al vero la transazione alla scena di Egospotamos. Insomma, la storia è qui un po’ meno bistrattata e la figura del protagonista ne esce un po’ meno incompleta: che se il sagrificio fatto alla coscienza storica ritorna a scapito della sintesi drammatica e dello interesse complessivo del dramma, egli è che tutti in una volta non si possono contentare. Siccome però, dopo l’esito dell’_Alcibiade, _qualche compagnia mi domandò di rappresentarlo tutto completo in due sere, ed io ricisamente m’opposi; così non vorrei che la publicazione del volume suggerisse a taluno di tentar mio malgrado l’esperimento. Per risparmiargli l’incomodo ed il fiasco — ora che la legge guarentisce agli autori il diritto di disporre dei loro lavori, siano publicati o no — dichiaro qui formalmente che la presente edizione non è destinata alle scene; che assolutamente non permetto la recita di questo_ Alcibiade _in dieci quadri; che non riconosco, per versione da me autorizzata sulle scene, nessun’altra in fuori di quella che sottoposi al giudizio dei publici, dei teatri italiani e della Giunta per il concorso drammatico nazionale; e che uscirà anch’essa alle stampe fra breve, in apposito volumetto della_ Galleria teatrale _Barbini. Mi pare d’essermi spiegato chiaro._ _E qui finisco, se no a poco a poco il proemio mi piglia anch’esso le dimensioni della lettera a Yorick: e dopo che in quella rivendicai per gli autori, contro la critica prosuntuosa e brontolona, il sacrosanto diritto di non essere annojati, è di stretta giustizia riconoscere il medesimo diritto anche ai lettori._ Aprile, 1875. F. CAVALLOTTI. _AI GRECI DI TRIESTE_[3] Milano, 9 giugno 1874. «..... Fra i ricordi, non tutti lieti, della vita dell’arte, questo dei figli della Grecia terrò sempre lietissimo e caro; esso mi parla di una terra che la mia mente visita spesso, con entusiasmo di amore, ne’ poetici sogni: mi parla delle classiche memorie accarezzate negli studî della fanciullezza, assai prima che io pensassi a chieder loro i segreti della scena e le emozioni dell’arte. «Sì, amo, e non da oggi, la Grecia: questa madre del genio e degli eroi, grande nelle memorie antiche e nelle glorie del secolo presente; un giorno a Maratona, un altro a Missolungi: — questa terra che alla moderna Europa ha dato _tutto_ — una mente e una civiltà, le linee di Fidia e le pagine d’Omero — senza averne in ricambio _nulla_; e della quale le nazioni colte e superbe, nudrite del suo genio, aspettarono ai dì nostri le ecatombi gloriose, per degnarsi di accorgersi che là, in riva all’eterno Egéo, si dibatteva ancora tra i ceppi qualche cosa di vivo, qualche cosa di somigliante all’anima di una nazione. Amo la terra che fu la patria di Botzaris dopo essere stata quella di Epaminonda. «Ed io saluto con lieto animo il rinato amore dei classici studî, che da qualche tempo riporta gli ingegni verso i capolavori dell’arte ellenica; perchè esso non può a meno di rendere alla Grecia — a questa culla delle Pierie divine — il posto e la importanza che le spettano nel movimento intellettuale dell’età nostra. «Oggi, che il senso artistico delle moltitudini si va man mano snebbiando e liberando dalle anticaglie e dalle formule del pedantismo, dalle goffaggini del barocco, dai delirj delle nuove scuole, — oggi si comincia a riconoscere che l’arte greca, calunniata dai sedicenti novatori, è realmente qualcosa di _meglio_ e di _diverso_ da tutto ciò; che quest’arte che dicevasi invecchiata, solo perchè si amava confonderla col _convenzionalismo classico_, il quale non solo è vecchio, ma decrepito, quest’arte è giovane ancora, come al tempo che Eschilo e Fidia e Platone ne divinavano le forme e i segreti; e che le tendenze mutate del gusto, e i nuovi bisogni e le nuove idee hanno aperto altri mondi ai suoi voli, ma non hanno aggiunto una sola ruga alla freschezza delle sue linee. Ora si comincia a comprendere che essa non merita nè il disprezzo, nè i superbi anatemi dei pseudo-innovatori: perchè essa è più _nuova_ di tutti loro: essa è la imagine, fatta divina, del _vero_, che è _nuovissimo_, per la semplice ragione che è _eterno_. «E prima dell’immenso Shakespeare, per cui il _vero_ non ebbe segreti, vi è, in ordine di data, un altro _verista_; il primo dei veristi nella storia delle lettere: il quale chiamavasi Omero. «A questo nuovo indirizzo dell’arte tentai recare un povero, ben povero tributo, coll’_Alcibiade_ mio; valgano allo artista, se non le forze mancate, la coscienza e lo amore e i lunghi studi; ai quali la fronda dei Greci di Trieste rimarrà, fra tutte le ricompense, la più ambita. F. CAVALLOTTI. ALCIBIADE PERSONAGGI ALCIBIADE SOCRATE ASPASIA, vedova di Pericle. TIMANDRA, etéra ateniese. GLICERA, giovinetta etéra. CIMOTO, parassito. TIMONE di Colitta, misántropo. LÀMACO, stratégo comandante con Alcibiade la spedizione di Sicilia. TÉSSALO, CLEONIMO, cittadini ateniesi, nemici di Alcibiade. AMÌNIA, CARÌNADE, DIOCARE, TIMARCO, cittadini ateniesi dell’ultima classe (_thètes_). TRASILLO BACCHIDE, EUFROSINE, LAISCA, etére ateniesi. FILUMENA, CRITILLA, vecchie ateniesi del popolo. MIRRINA, giovinetta ateniese. ANTIOCO, EUFEMO, capitani ateniesi subalterni. TIDEO, CONONE, stratègi ateniesi. DUE GRAMMATICI ANDROCLE CALLIA, primo arconte (_epònimo_). GRAN SACERDOTE degli Eumòlpidi (_gerofante_). CINESIA, cittadino spartano. ENDIO, èforo di Sparta. BRÀSIDA, soldato spartano. SEUTE, re dei Traci. BERISADE, MEDOSADE, ODRISIO, traci. STRATONICA, moglie di Seute. ELPINICE, DROSO, ARGIA, donne tracie. DUE SOLDATI SIRACUSANI UN SERVO UN CUOCO UN MESSO UN BIMBO Capitani, soldati e cittadini ateniesi — Soldati siracusani Sacerdoti — Guerrieri traci. EPOCA. — _Il secondo periodo della guerra del Peloponneso, dal 415 av. l’E. V. (spedizione di Sicilia) al 404 av. l’E. V. (caduta d’Atene)_. * * * LE ETÉRE. Quanta parte della vita ateniese, quante memorie in questa parola! In Atene, ove leggi e costumi creavano alla donna di famiglia, nel chiuso de’ ginecei, posizione poco dissimile da quella che l’Oriente le assegna ancor oggi nel fondo degli _harem_, — ove il genio del popolo e il cielo e il clima prepotenti portavano al culto del bello e della Venere sensuale, — la _cortigiana_ doveva naturalmente invadere ed occupare essa sola tutto il posto, o quasi, che nella civiltà di un popolo spetta al sesso più gentile. Un posto ben importante, perchè potesse esser degno di Aspasia! Gli affetti della famiglia, santi a Sparta (alla maniera de’ tempi), e santi a Roma, lasciano luogo, fra le tepide notti del cielo jonico, ad affetti più liberi: le Andromache, le Penelopi, le Antigoni già sono d’altri lidi e d’altre età; argomento di meraviglia ai licenziosi figli dell’Attica le mogli spartane, dominatrici dei terribili mariti, giusta il vanto della sposa di Leonida; e la storia che scrive in pagine d’oro i fasti delle madri e delle spose in riva al Tevere e all’Eurota, dimentica e sopprime, come tampoco non esistesse, la donna di famiglia nel quadro della città e del secolo di Pericle. Ella ci conserva cinti d’aureola il nome della madre dei Gracchi e della madre di Bràsida; narra ai secoli la virtù conjugale di Porzia e di Chelonida; ma non si ricorda in Atene della donna di famiglia che, tutt’al più, per tramandarci il tipo della moglie bisbetica e insopportabile, in quella Santippe che il buon Socrate si teneva per esercitarsi alla virtù della pazienza. Storici, oratori, filosofi, poeti non ci parlan di donne che non sian cortigiane. Cortigiana Aspasia, le cui grazie per quarant’anni governano il genio d’Atene; cortigiana Laide, per cui tutta Grecia traeva a Corinto, e dalla quale, narra Ateneo, era più difficile impetrar udienza, che non dal Satrapo Farnabazo; cortigiana Taide, per cui Alessandro incendiava Persepoli e che Tolomeo re d’Egitto sposava; cortigiana Glicera, che Arpalo in Tarso fa salutar regina; cortigiana Rodope, a cui si innalzano in Grecia palazzi, in Egitto piramidi; cortigiana Frine, che s’offre a rialzare a sue spese le mura di Tebe, purchè vi si scriva: _Alessandro le distrusse: Frine le rialzò_. Il costumato Teofrasto dipinge i _caratteri_ d’Atene, e fuorchè cortigiane, altre donne non cita; l’elegante Alcifrone, il libero Aristeneto dettan le _Lettere_ e ci intrattengono di cortigiane. Alla cortigiana Glicera regala Alcifrone le grazie del suo spirito e del suo stile, domanda Menandro gli estri della sua Musa; colle cortigiane Teodota e Diotima conversa di filosofia l’austero Socrate nelle pagine di Senofonte e di Platone; colla cortigiana Leonzia vien filosofando Epicuro; e alla fortissima Leena, che coi denti si mozza fra’ tormenti la lingua perchè il dolor non la stringa a rivelare il nome dei patrioti cospiratori, a questa cortigiana drizza Atene monumenti che ne attestino la gloria e la virtù. Tradizioni di tal fatta intorno ad un tal nome di casta da sè lasciano intendere come ei dovesse suonar ben diverso alle orecchie ateniesi che non alle moderne orecchie pudiche; certamente, non titolo d’onore, ma senza confronto men vituperevole d’oggidì: la lingua stessa designava col dolce nome di _etéra_ — ἑταίρα — ossia _compagna_, _buona amica_, quelle alunne di Venere, dal nome di Venere _amica_ — (Athen., _Deipnos_., XIII, 571) — ad attestare, nella differenza del senso, la differenza della posizione sociale. Certo è ch’elle erano il perno e l’anima della giovine società elegante ateniese; e agli scapoli non solo, ma agli stessi mariti, malgrado i vincoli del matrimonio, poco o niun biasimo veniva dall’uso comunissimo del trescar pubblicamente seco loro: gran mercè se non giungevano a vantarsene, come si narra dello stesso Alcibiade, quando, sposo ad Ipparete, facea di sè esporre ritratti che il mostravano fra le braccia della meretrice Nemea (Andocide, _Contro Alcib_., 14); anzi nemmeno per le mogli era questo motivo di legge sufficiente a spor querela in giudizio e ad ottenere il divorzio, come Plauto ne fa fede (_Merc_., IV, 6, 3). «_Abbiamo le etére per il piacere dell’animo, le donne legittime per la procreazione della prole_» (Demost., C. _Neera_). Però a qual punto spingesse Atene la libertà del commercio colle meretrici, nulla meglio lo addita di quel giudizio di àrbitri, portato da Demostene in tribunale, ond’è risolta la lite tra Stefano e Frinione, disputantisi i diritti sulla meretrice Neera, col sentenziar la posseggano a vicenda due giorni per ciascuno (Demost., _Contro Neera_, 46). Era oblio delle virtù antiche che avevan fatto grande la città? Era corruzione infiltrata col tempo ne’ costumi? Certamente da altro punto di vista avea considerato Solone il meretricio, quando per il primo pensava a regolarlo per legge, e a organizzarlo, confinato ne’ bordelli, sotto la vigilanza dello Stato. Udiam Filemone ne’ _Delfi_ in Ateneo: «Solone, tu fosti veramente il benefattore del genere umano! poichè tu per il primo pensasti a una cosa assai vantaggiosa al popolo e alla pubblica salute. Sì, a ragione io dico questo, perchè tu considerasti la nostra città piena di giovani dal temperamento bollente, e che sarebbero quindi trascorsi ad eccessi punibili. Perciò tu comperasti delle donne, e le hai poste in luoghi ove, provviste di quanto è a lor necessario, divengono comuni a quanti le bramano. Eccole nude; perchè non ti ingannino, ispeziona ben tutto. Vieni; la porta è aperta: paga un obolo ed entra: qui non si faranno smorfie, non si farà la ritrosa. Qua, subito, se vuoi, e nel modo che vuoi» (Athen., _Deipn_., XIII, 569). Così in Atene (vuoi che Solone ne fosse realmente il primo istitutore o ch’ei ne trapiantasse l’usanza da alcune coste del Peloponneso e dell’Africa, secondo Engel, _Kypros_., II, 373) — sorgevano i primi bordelli (πορνεί ἃ παιδισκεῖα): eretti a istituzione di Stato, dacchè sappiam da Nicandro che Solone pel primo alzò un tempio a _Venere pandemia_ o _cortigiana_ (Αφροδίτη Πάνδημος, ovvero Εταίρα) col danaro raccolto dalle donne che presiedevano a que’ luoghi (Athen., _l_. _c_., cfr. Albert, ad Hesych. I, 1477). Pur erano i tempi di Atene austera, e il regno delle _etére_ non era ancor sorto. Ma in fuor delle schiave ne’ bordelli serbate, per ragioni di pubblica igiene, allo ignobile traffico, e dell’altre che privati lenoni, uomini e donne (πορνοδοσκοί) comperavano e mantenevano allo stesso scopo ed uso, per trarne lucro in loro apposite case — l’ironia del linguaggio li chiamava ἐργαστήρια, _luoghi di lavoro_ — (cfr. Demostene, _C_. _Neer_. 18, 67; Athen. X, 437, f.; Eschin., _C_. _Timarc_., 138; Plauto, _Cistell_., _Asin_., ecc.) — veniva sorgendo e moltiplicandosi — da quelle assai distinta — la classe numerosa delle _affrancate_ e delle _libere_, professanti per proprio conto il culto della Venere volgare. È per queste propriamente che il popolo, con indulgente eufemismo, mutava il nome spregiativo di πόρναι, o παλλακαί, in quello carezzevole di _amiche_ od _etére_: «Dimmi, chiede Socrate a Teodota, hai tu poderi? — No. — Ma forse hai una casa che ti dà la rendita? — Non ho casa alcuna. — Ma forse hai schiavi manifattori? — Nè anche questi. — E di dove dunque ricavi le cose necessarie alla vita? — Se alcuno fattomisi _amico_ vuol farmi del bene, questo è il mio avere» (Senof., _Memor_. III, 9). E Antifone: «Avea costui per vicina una giovine cittadina: appena la vide, che la fece sua amante: cosa tanto più facile ch’ella non aveva nè tutori, nè parenti: era una ragazza dalle inclinazioni più virtuose, oneste, d’aurei costumi: insomma quel che può dirsi veramente una meretrice (_etéra_), diversa da altre che disonorano un nome _così bello_» (_Antifone_, presso Athen., XIII, 572). E l’autore di questo dramma, leggendo, pensava alla sua ingenua Glicera. Del novero di queste cittadine ateniesi che viveano a sé, traendo frutto da’ proprj vezzi, benchè in umile grado, erano le _auletridi_, e le _citarede_, e le _ballerine_ (αὐλητρὶδες, κιθαρίστριαι, ὀρχηστριδης), le quali prestavano a prezzo, ne’ sacrificj e ne’ banchetti, l’opera de’ flauti e delle cetre e delle danze: ma associavan di regola l’una all’altra industria, vivendo da _etére_, e facendo spesso delle loro abitazioni il luogo di convegno della gioventù (Isocr., _Areop_., 48; Luciano, _Dial. delle cortigiane_, 5). Non era banchetto che non fosse rallegrato da queste leggiadre sacerdotesse di Calliope e di Tersicore: e spesso, tra i fumi del vino e le armonie de’ suoni, qualche commensale accendéasi per esse di passione violenta. (Menand., _Tesoro_, pr. Stob., LXIII, 18). E però, molte di costoro, per attrattive di mente e di beltà, dovettero emergere e salire in fortuna: ed eran di queste, parecchie fra le _etére_ più in grido, di cui si narrano i nomi e gli aneddoti in Ateneo. Suonatrice di flauto fu Lamia, la figlia dell’ateniese Cleanore, che innamorò di sè perdutmente il dominatore d’Atene Demetrio Poliorcete (Aten., XIII, 577, c.). Pure, generalmente non fu in Atene, dal grembo di queste, ma dal di fuori che vennero e sorsero quelle apparizioni veramente meravigliose, come Hermann le chiama (_Bild. des Griech. Privatleb._, II, 60), le quali, colle grazie dello spirito e coll’amabilità assai più ancora che coll’avvenenza esercitarono una influenza così strana e decisiva sulla società del loro tempo, sulle arti e sui costumi. Forestiere (ξέναι) erano Aspasia da Mileto, e Laide da Iccara e Frine. Venian per lo più fanciulle, povere e sole, nelle grandi città, a Corinto e ad Atene, per trovarvi lavoro: ivi i talenti naturali e la bellezza fermavan sovr’esse gli sguardi: e a poco a poco travolgevale il vortice. Libere e cresciute all’aperto, — a differenza delle matrone ateniesi rinchiuse da bimbe in casa, fuor degli occhi degli uomini, a imparar di conocchia e di cucina, e a vegetare più tardi ne’ talami fra la custodia di leggi pressochè claustrali, — nella libertà avean potuto coltivare i ricchi doni di natura e lo spirito; soltanto nella vita libera delle _etére_, al contatto della società, poteano omai trovarne lo sviluppo. Così circondate dal fiore di Atene, disputanti di scienze e di arti con artisti e filosofi, corteggiate dalle aristocrazie del sangue e del censo, sorgeano datrici delle leggi del buon gusto e dell’eleganza, raffinatrici di ingegni e di studii e di ogni senso del bello nelle piacevoli gare, ispiratrici care alle Muse. Aspasia apriva in Atene la prima sala di conversazione che rammentin le storie; vi cresceva alunne degne di lei; e là in quel circolo leggiadro, dove donne virtuosissime come la moglie di Senofonte non temean di compromettersi frammischiandosi alle _etére_ (Plutarco in _Pericle_; Cicerone, _De Invent._, I, 99; Quintil., _Instit. Orat._, V, 19), veniva Pericle a riposarsi dalle cure della repubblica e dalle burrasche del governo popolare. Di queste _etére_ di prima classe proverbiali erano il lusso e l’orgie ed il prodigo fasto, — spesso non discompagnati da cauti risparmj e da previdenza del futuro, spesso preparanti una squallida vecchiaja. Talora se n’immischiava, col disinteresse, anco l’amore: e Meneclide allora piangea morta la bella gioconda Bacchide, che esempio di amore e di fedeltà, contenta a’ poveri cenci di lui, avea rifiutato i ricchi doni e l’oro del satrapo (Alcifr., _Lett_., I, 38): più sovente l’interesse volea la sua parte, e Filumena scriveva a Critone lettere lunghe come questa: «A che col tanto scrivere e piangere martirizzi te stesso? Cinquanta monete d’oro mi fan d’uopo, non lettere. Se è ver che mi ami, mandale: se sei un sordido, non seccarmi altro» (Alcifr., _Lett._, I, 40). — Era il tempo che Gnaténa domandava mille dramme per una notte: e Laide a Demostene chiamato a Corinto dalla fama di lei, ne domandava diecimila, per udirsi rispondere: _Non compro a sì caro prezzo una penitenza_. Sulla fede di Suida pretesero alcuni (Petit, _Leg. Att._, p. 573-576) che le leggi stesse regolassero il lusso delle _etére_, prescrivendo loro, per distinguersi dalle matrone, date foggie di vestiario a colori. In ciò questo solo è di vero, che le leggi, rigorosissime nel frenare e punire il lusso delle matrone (Polluce, VIII, c. 9) e punirle se usciano men che modeste e decenti per via — non poneano alle _etére_ prescrizione o freno di sorta (Diod. Sic., XII, 21; Eustath. _ad Iliad._, XIX); naturalissimo poi ch’elle si valessero, quanto più bramavan piacere, tanto più ampiamente di quella libertà: e all’abbigliamento affatto modesto delle matrone sostituissero lo sfarzo delle vesti di porpora o tessute in oro, o vagamente ricamate a fiori o colori smaglianti, e gli artificj del belletto e i ricchissimi monili e le splendide ricercate acconciature (Luciano, _D’una sala_; Alessi, presso Athen., XIII, 568 a. e Clem. Al., _Paedag._, III, p. 218); salvo ai comici di ferirle in pubblico con detti ed epiteti mordaci, e alle pudiche matrone di invidiarle in segreto. Cfr. Alcifrone; Aristeneto; Ateneo, lib. XIII; Menandro e Comici greci, _Frammenti_; Luciano, _Dialoghi delle cortigiane_; Demostene, _Contro Neera_; Becker ed Ermann, _Bild. des Griech. Privatlebens_; Cl. Bader, _La femme grécque_; Laitier, _La femme dans la fam. Athen._; Wieland, _Lettere di Aristippo_, ecc., ecc. I PARASSITI. Questo nome fu lontano dall’avere in origine l’ignobile significato che ebbe di poi. Fra gli antichi l’epiteto di _parassito_ significò un ufficio _sacro_ e fu sinonimo di _commensale_. Così chiamavansi (Aten., VI, 235 c.) coloro che erano nominati a soprintendere alla scelta e alla percezione del frumento sacro (οἴ δ’ἐπὶ τήν τοῦ ἵερου σίτου ἐκλογὴν αἰρούμενοι): e vi era pertanto un _collegio_ ossia _curia_ di parassiti (καὶ ἤν ἀρχεῖον τι παρασίτων). Per il che era scritto nella legge del re: «Il re avrà cura che si creino i magistrati: e dalle varie borgate (_demi_) sian scelti, a norma delle leggi, i _parassiti_: i quali dai magazzini di grano della rispettiva classe e tribù scelgano ciascuno un sestiere di orzo, affinchè gli Ateniesi se ne cibino secondo il patrio costume.» E in Polluce si legge: «Era ad Atene una certa curia o magistratura detta _parasition_: come sta scritto nella legge del re» (_Onomasticon_, lib. VI, cap. 7). Dalla qual legge anco rilevasi che vi era una casa sacra destinata e consacrata a questa curia che i parassiti formavano. Il _parasition_ ebbe dunque il suo nome dal grano (_para sitou_) sacro di cui vi si deponevano le primizie. E col grano intendevansi in genere anche tutte l’altre offerte fatte da cittadini al tempio ed agli Dei. La parola _parassita_, scrive dal suo canto Clearco di Soli, discepolo di Aristotile, nelle sue _Vite_ (Athen., VI, 335), «la qual designa attualmente un uomo pronto a condursi secondo il piacere d’altrui, in altri tempi significava un uomo scelto ad essere commensale dei sacerdoti: anzi la maggior parte delle città annoveravano fra le prime dignità quella dei _parassiti_, come alcune le annoverano ancora.» E in Atene al Cinosargo (ginnasio destinato ai poveri e ai bastardi), nel tempio di Ercole era affisso ad una colonna questo decreto di Alcibiade scritto da Stefano figlio di Tucidide: «Che il sacerdote coi _parassiti_ faccia i sagrificii di ogni mese. I parassiti prenderan seco un bastardo e un figlio di bastardo secondo l’uso della patria. Colui che rifiuterà d’essere parassito sarà tradotto ai tribunali.» Altro decreto affisso a una colonna dell’_Anaceo_ (il tempio di Castore e Polluce): «Dei due più bei bovi che si saranno scelti, la terza parte sarà destinata alla celebrazion dei giuochi; gli altri due terzi si daranno uno al sacerdote, l’altro al parassito.» E sotto le offerte votive consacrate a Pallene, leggevasi: «Essendo arconte Pitodoro, i magistrati e i _parassiti_, cinto il capo di corona d’oro, offersero questi doni.» E altrove: «I parassiti della sacerdotessa Filea furono Pericle di Pittea e Carino di Gargetto.» E nella legge del re: «I parassiti d’Acarne sagrificheranno ad Apollo» (Ateneo, _l_. _c_.; Meursius, _Themis Attica_, II, 35). Fu molto più tardi che quella designazione di coadiutori e commensali dei sacerdoti, passò a significare in genere un’altra specie di commensali assai meno nobile, ma forse altrettanto antica. Nè si potrebbe meglio spiegare la mutata fortuna del vocabolo che colle parole di un parassita stesso, in una commedia di Diodoro di Sinope: «La mia professione è sempre stata gloriosa ed onestissima. La nostra città che rende grandi onori ad Ercole, fa sagrificii in tutti i borghi, dando a questo dio dei parassiti per queste cerimonie sacre. E non li prende già fra i primi venuti; ma sceglie a ciò dodici cittadini fra i più potenti e ricchi, e di vita intemerata. In seguito di tempo, alcuni cittadini agiati, volendo imitare ciò che faceasi per Ercole, s’impegnarono reciprocamente a prendere un certo numero di parassiti per mantenerli; ma non scelsero già persone veramente ammodo; presero invece adulatori sempre pronti a colmarli di elogi; di modo che, se il padrone rutta loro sul naso dopo aver mangiato del rafano e del pesce stantio, essi lo complimentano per le rose e le violette con cui ha pranzato. O p... egli vicino all’uno o all’altro? quegli gira il naso annusando qua e là, e domanda: Dove prendi tu questo profumo squisito? — È così che i parassiti hanno fatto, di ciò che era onesto e rispettato, una professione ignobile qual è oggi» (Athen., VI, 239 d.). Secondo Ateneo, Alessi ed Epicarmo furono i primi che introdussero nelle loro commedie il carattere del _parassito_, quello cioè che oggi da noi si intende comunemente con questo nome. Il personaggio di Epicarmo, nella commedia il _Pluto_, risponde a chi l’interroga: «Io pranzo con chi vuole: basta invitarmi. Quanto ai festini di nozze, io ci vado senz’esservi chiamato. Faccio ridere a crepapelle e non manco mai di lodare il padron di casa che dà il pranzo. Se qualcuno è di parer contrario al suo, io gli do sulla voce, e mi riscaldo. Infine, dopo aver ben bevuto e ben mangiato, me la cavo. Non ho schiavo che m’accompagni colla lanterna, ma cammino traballando e solo fra le tenebre. Se per caso incontro la ronda, le dico qualche buona parola, rendendo poi grazie agli Dei che a furia di pugni e di staffilate non m’abbia accoppato. Giunto a casa m’addormento e non penso più a quel ch’è stato, fin che il vino è padrone della mia anima» (Athen., VI, 235-6). Altri volle scorgere il primo tipo del parassito in Omero: «Fra i Trojani era Podete, valoroso e ricco, figlio di Eezione. Ettore lo avea per amico e commensale» (_Iliad_., 71): e perciò il poeta lo fa ferire al ventre da Menelao, cioè da uno spartano, amico della frugalità. Il caustico Luciano andò ancora più innanzi: e il parassito de’ suoi dialoghi, che la pretende a letterato, fa di Omero non soltanto lo scopritore, ma anche il primo panegirista di questa casta rispettabile. E cita l’elogio del viver parassitico _seduti in fila a convito, quando le mense traboccano di pane e di carni e il coppier versa intorno il pretto vino_; e nota che Omero non per nulla il pose in bocca ad Ulisse, cioè al più savio de’ Greci; e trova maliziosamente che parassiti di Agamennone eran nientemeno che Nestore e Idomeneo: e parassito di Achille lo stesso Patroclo (Luciano, _Parass_.): nella qual citazione è curioso lo scambio tra la classe dei parassiti e quella dei _donzelli_ o degli _amanti_, secondo il greco costume. Checchè ne sia delle facezie di Luciano, gli antichi poeti designavano i parassiti col nome di _adulatori_ (κόλακες). In una commedia di Eupoli, che reca appunto quel nome, un coro di adulatori così parla: «Io ho due vesti abbastanza belle che indosso a vicenda, e ne faccio sempre andar l’una o l’altra al mercato; se vi scorgo qualche sciocco riccone, subito io gli sono alle coste. Se egli dice qualche parola, mi sbraccio in elogi, mostro d’andar in estasi a quel ch’egli dice; e il nostr’uomo si vede così assalito da una quantità di adulatori che vengono alla sua tavola: e noi andiamo in panciolle a spese altrui. Là ogni discorso dev’essere adulazione, menzogna: se no, addio tavola: saremmo messi alla porta» (Athen., VI, 236 f.). Ma il nome propriamente di _parassito_, usato in questo senso, lo si incontra la prima volta nel comico Araro, da Ateneo così citato: «Mio caro, tu sei necessariamente _parassito_ (παράσιτος), poichè non è forse Iscomaco che ti mantiene alla sua tavola?» Or ecco il carattere di un parassito, dipinto dal comico Timocle, nel suo _Draconzio_ citato da Ateneo: «E che? Lascerò che si sparli di un parassito? Mainò. È la razza d’uomini più utile. Se vi ha qualcosa d’onesto a fare che possa recar piacere agli amici, il parassito non si mette ei subito all’opera? Hai una passione? il parassito ti seconderà, pronto a tutto quel che ti occorre: e persuaso che è un giusto ricambio ch’ei ti deve per la tavola che gli fornisci. Ma ecco, per finirla, ciò che prova all’evidenza quanto caso si faccia del parassito. Si accordano al loro merito le stesse prerogative che a quelli che furono vittoriosi ad Olimpia, cioè il nutrimento a spese dello Stato: poichè qualsiasi il luogo in cui si mangia senza pagar nulla, non si deve chiamarlo il _Pritaneo_?» (Athen., VI, 237 d. e.). E Antifane nei _Gemelli_: «Un parassita, se ben rifletti, è un uomo che divide con noi e la fortuna e la vita. Nessun parassita mai desiderò veder infelici gli amici; al contrario egli non augura che del bene a tutti. Sa sopportare un trasporto d’ira: se lo pigli a dileggio, ne ride: è propenso all’amore, burlone, gioviale» (Athen., VI, 238 a.). Altre simili citazioni degli antichi comici greci intorno a questa classe di persone ponno riscontrarsi da chi voglia in Ateneo; il quale prosegue ricordando nomi e aneddoti de’ parassiti più conosciuti ad Atene nel V e nel IV secolo avanti l’êra volgare, cioè: Titimallo, Corido, Cherefonte, Filosseno, Ceribione, Grillione ed altri famosi chi per voracità, chi per la vena inesauribile di facezie, o anche di impertinenze con cui rallegravano i banchetti dei loro Anfitrioni. Certo è che una tal classe rappresentava nella vita ateniese del secolo d’oro un tipo troppo interessante e caratteristico per non tentar l’estro degli scrittori che più al vivo dipinsero quell’età. Ed ecco Luciano spendervi intorno le arguzie più sottili della sua Musa; e qui far le lustre di impietosirsi sulle piccole disgrazie di quei che vivono alle spalle dei signori (Lucian., XVII), là decantarne le delizie e mostrar come e qualmente la _parassitica_ è un’arte, anzi la prima tra l’arti. «Il primo punto — osserva il suo parassito — è cercare e discernere chi può essere atto a nutrirti, con chi acconciarti meglio a desinare, senza avere a pentirti poi. Direm noi che il cambiatore ha un’arte con cui distingue le monete false dalle buone, e che uno senz’arte conosce gli uomini quali son falsi e quali buoni? Pure gli uomini è ben più difficile scernerli che non le monete. L’arte del parassita è dunque grande, se a tanto arriva. E a saper dire acconce parolette, a far di quelle cose che ti acquistino la benevolenza di chi ti dà a mangiare, non ci vuol forse prudenza e conoscenza assai? E nei conviti, l’uscirne colla miglior porzione ed avere più carezze degli altri che non hanno quest’arte, credi tu si possa far senza sapienza? E il conoscere le virtù e vizi delle vivande e degli intingoli, ti pare che sia una curiosità da poltrone? Eppure il nobilissimo Platone dice: _Chi fa un banchetto e non si intende di cucina, non può mostrare buon giudizio_. Arrogi, la parassitica non consiste solo nelle cognizioni ma anco nella pratica. Le altre arti, anche non esercitate per anni, non periscono in chi le possiede: ma se le conoscenze del parassito non sono esercitate ogni giorno, non solo perisce l’arte, ma l’artista. Nelle altre arti il dolce viene all’ultimo, e la via n’è lunga e scabrosa: il parassita solo gode dell’arte sua mentre l’impara, e mentre comincia è già al suo fine... E qual fine utile nella vita è mai il suo! Per me non trovo nella vita niente più utile del mangiare e del bere, e non si può vivere senza di ciò» (Luciano, _Parass_.). E questo è precisamente il parere non solo del parassito di Luciano, ma anche degli altri suoi degni predecessori, che vivono ancora nelle lettere del giocondo e pittoresco Alcifrone. E anche qui i parassiti occupano gran parte di quel quadro di costumi così vivo e così vero; e si raccontano a vicenda tra di loro le delizie della loro vita. Sentiamo, per esempio, il rispettabile parassita Misognifo: «Benedetta la nave che portò da Istica in Atene questo meraviglioso mercadante, appetto del quale pajon sordidi li più agiati ateniesi! Non pago di un solo parassito, ci fece venir tutti dalla città: e non solo noi, ma le cortigiane più sfarzose, le cantatrici più belle, e gli istrioni da teatro in tal numero che avresti detto non mancarvene pur uno. Egli ama essere festeggiato da cetre e flauti, il suo conversare è ridondante di grazie e di veneri: fin nell’aspetto è tutto gioviale: ne’ suoi discorsi eloquente sì come quegli _Cui di néttar la musa i labbri asperse._ Anche noi parassiti parliamo alla foggia de’ letterati, chè noi pure siam nativi dell’Attica, ove uomo non trovi che in cotali ciancie non abbia buon gusto» (Alcifr., _Lett_. III, 65). Le rose però hanno le spine, ed era tutt’altro che di sole rose la vita del parassito: obbligato ora a far ridere senza sempre riuscirvi, come il povero Filippo del _Simposio_ di Senofonte, ora a rischiar salve di busse o a servir di zimbello ai capricci e alle burle di chi lo invitava, e a starsene alla varia fortuna. Taluno pigliava filosoficamente la sua parte, come il parassita nel _Pitagorista_ di Aristofane: e si tratta di bever acqua? io sono rana. Ci son erbe o radici a rodere? io sono bruco. Bisogna far senza del bagno? io sono il grasso e il sudiciume in persona. Viver l’inverno a ciel sereno? io sono merlo. Sopportare un calor soffocante e cantare di pien mezzodì? sono cicala. Non far uso di olio? son polvere arida. Camminare a piè nudi dall’aurora? sono gru. Non dormire un sol minuto la notte? sono civetta» (Athen., VI, 238 d.). Non tutti però avevano la stessa filosofia; e allora venìano i lamenti: «O Genio cui son toccato in sorte, quanto maligno sei! Se alcun non mi invita, e’ mi conviene divorar piante selvatiche e conchiglie, ovvero andar cogliendo erbe od empiere il ventre bevendo all’Enneacruno (fontana pubblica di Atene). Finchè ero giovine e in gambe, potevo patir questi disagi; ma ora che son fatto grigio qual rimedio a tanta sciagura? Una fune d’Aliarto mi occorre e penzolerò davanti alla porta Dipila, se la Fortuna ad ajutarmi non pensa» (Alcifr., _Lett_., III, 49). È il povero parassito Capnosfrante che si dispera. Ma udiam quest’altro: «Ribaldo di barbiere!... Anzi che radermi egualmente tutto il mostaccio, senza mia saputa lo fece a metà, sicchè restommi la mascella qua pulita, là ispida. Io, ignaro della malizia, recaimi al solito a casa Pasione, benchè non invitato. Come li commensali mi videro, dieronsi a fare le più grasse risa del mondo: ed io non conobbi la cagione di tanto riso se non quando l’un d’essi mosso ver me, mi tirò pei peli rimastimi. Questi mi strappai tosto non senza grave dolore: ed ora vo’ pigliar un bastone delli buoni e darlo sul cranio al mariuolo! Poffar di cielo! Ciò che per burla fanno quei che ci pascono, ardì fare costui che non ci pasce» (Alcifr. III, 66). Questi è il parassita Ginnocheronte a cui sale presto la mosca al naso. «Oh Dio! — grida un terzo, — crudel giornata che fu quella di jeri! Che non mi fecero soffrir questi ricconi! Essi gareggiarono nel costringermi a tracannare e a mangiare oltre la capacità del mio ventre. Questi mi imbottava di salsiccia e quello per forza mi cacciava un pezzo di pane nelle ganasce; un altro mi riversava nello stomaco, come in una botte, non vino, ma brodetto di senape e di pesce spremuto e di aceto. Se il medico Acesilao vedendomi moribondo non mi facea portar via e non mi soccorreva di rimedj, era finita per me» (Alcifr., III, 7). E la umanità avrebbe perduto innanzi tempo il povero parassito Etoemocóro. Allora, co’ guai, veniva il pentimento: e insieme il proposito di mutar vita: «Vo’ pormi a far qualche mestiere: andrò al Pireo: farò il facchino. Meglio empir la pancia di cipolle e di polenta, ma goder sicurezza di vita, che gustar manicaretti ed uccelli del Fasi, e ogni giorno stare in bocca alla morte» (Alcifr., III, 7). Ma più spesso i propositi li menava il malanno: e un altro pranzo se li portava via. Tale era, in Atene, il parassito. Mezzo filosofo, mezzo buffone; con qualche sprazzo di letterato; adulatore di professione, e al bisogno, impertinente; niente invidioso de’ beni altrui, pur di goderne qualche briciolo in compagnia: sempre gaudente per istinto, spesso rassegnato per necessità; pronto a ogni servigio pur di guadagnarsi qualche dramma od un invito; capace, per far servizio, di parecchie azioni cattive, e se il caso gli veniva, persin di qualcuna buona. Un faceto mariuolo, senza l’impossibilità assoluta di cavarne per combinazione un galantuomo. Tutto sommato, una pasta d’uomo niente peggiore — migliore forse — de’ suoi figli e pronipoti della nostra età. CLASSI DI ATENE. La popolazione tutta di Atene, ossia dell’Attica, dividevasi in tre grandi categorie: _cittadini_ (πολῖται); _meteci_ o _trapiantati_ o _forestieri domiciliati_ (μέτοικοι); (_schiavi_) (δοῦλοι). Ai tempi di Alcibiade sommavano nell’Attica i _cittadini_, all’incirca, ai 20,000; i _meteci_ ai 10,000; gli _schiavi_ ai 400,000. Gli _schiavi_ erano o Greci prigionieri di guerra, o barbari per lo più di Tracia, di Caria o di Frigia rapiti dai pirati e portati sul mercato d’Atene; o Ateniesi nati di genitori schiavi. Formavano un ramo considerevolissimo di commercio; il prezzo ordinario di uno schiavo variava dalle 300 alle 600 dramme (la dramma valeva 96 centesimi di franco), però poteva salire anche a prezzi straordinarj di affezione. Adoperavansi all’agricoltura, alle miniere, alle manifatture, ai servigi domestici interni; il padrone poteva incarcerarli, incatenarli, interdir loro il matrimonio, separar il marito dalla moglie; non poteva però _ucciderli_; la legge, in Atene per essi assai più mite che non a Sparta ed a Roma, accordava agli schiavi il diritto di querelarsi dei maltrattamenti ingiusti dei cittadini e dei padroni («_chiunque a fanciullo, o a donna o ad uomo, siano liberi o schiavi, farà villania od atto illecito sia accusato ai Tesmoteti..._» Demost., _Contro Midia_); se trattati dai padroni con eccessivo rigore rifuggivansi nel tempio di _Teseo_ e di là, come da asilo inviolabile, chiedevano padrone più umano. Tutti avean diritto di affrancarsi riscattandosi; talvolta per servigi resi li affrancava la Repubblica: e nei bisogni urgenti potean essere armati per la guerra. I _meteci_ o _trapiantati_ — classe intermedia fra gli schiavi e i cittadini — erano stranieri ai quali il Senato aveva permesso di venire a domiciliarsi nell’Attica ed esercitarvi qualche industria, coll’obbligo di pagare una imposta di 13 dramme annue per ogni capo di famiglia e sottostare agli altri oneri straordinarj, nonchè al servizio militare. Formavano una sola categoria insiem con loro anche gli _schiavi affrancati_ o _liberti_. — Eran tenuti in conto di liberi; poteano esercitar l’arte che loro piaceva, posseder terre e schiavi; il governo li proteggeva; e questo patrocinio tenea luogo per essi dei _diritti politici_ dai quali erano esclusi. Perciò dovean scegliersi tra’ cittadini un _patrono_ (προστάτης) che guarentisse per loro e li rappresentasse negli atti giuridici. Poteano però in dati casi venir innalzati al grado di cittadini. Infine eccoci alla categoria dei _cittadini_, alla quale apparteneasi o per diritto di nascita, da genitori cittadini ateniesi, — o per adozione o per conferimento di cittadinanza; che fu onore _ab antico_ da principi ambito e non potea conferirsi se non per decreto popolare ratificato da 6000 cittadini. Onore caduto in discredito più tardi, perchè a troppi e immeritevoli conferito (Vedi Demostene, _Contro Aristocrate e Sintassi_). La divisione più antica dei cittadini dell’Attica fu quella di Teseo: il quale liberato il territorio dalle scorrerie de’ pastori e riuniti in un solo corpo i distretti dell’Attica, ne ripartiva la popolazione in tre classi: _eupatrìdi_ o _nobili_ (εὐπατρίδαι); _agricoltori_ o _coloni_ (γεωμόροι) e _meccanici_ o _industriali_ (δημιουργοί). Grandi disuguaglianze doveano essere tra la prima classe e l’altre due, sebbene Plutarco (in _Teseo_) ed Euripide (_Supplici_, v. 46 e seg.) ci presentino Teseo istitutore della eguaglianza politica e lodatore della democrazia. Infatti Pausania, accennando a questa pretesa istituzione della democrazia fin dal tempo di Teseo, soggiunge: _simili cose credevan coloro che prestavan fede a tutto che udivano da fanciulli in teatro_ (Paus., _Attic_., 1, 3, 2): e dallo stesso Plutarco rilevasi che considerevoli prerogative erano accordate alla nobiltà ereditaria degli _eupatrìdi_. Della classe degli eupatrìdi furono i re; indi gli arconti o re _decennali_ quando l’autorità regia fu limitata a tempo (753 av. l’E. V.) e quand’essa fu soppressa del tutto (682 av. l’E. V.) ancora fra la classe degli eupatrìdi si stabilì di scegliere i nove _arconti annuali_. Questa preminenza dava agio agli _eupatrìdi_ di opprimere le due classi inferiori: e le leggi di Dracone (624 a. l’E. V.), favorevoli all’aristocrazia, la aggravarono: indi turbolenze e lotte intestine fra le tre classi, dalle quali presero origine e nome le tre fazioni politiche dei _Pedii_, dei _Diacri_ e dei _Paralii_, ossia degli abitanti della _pianura_ (i nobili oligarchici); dei _monti_ (i poveri _coloni_, partigiani di democrazia) e delle _spiaggie_ (i ricchi _industriali_, fautori di governo misto). A cessar la completa anarchia, che fu la conseguenza di queste lotte, venne la costituzione di Solone (594 a. l’E. V.). Egli sostituì all’antica una nuova ripartizione dei cittadini in quattro _classi_, secondo il vario ammontare della rendita netta della loro proprietà fondiaria e della corrispondente cifra d’imposta. 1.ª Classe: i _pentacosiomedimni_ — (πεντακοσιομέδιμνοι), cioè i cittadini che raccoglievano annualmente 500 medimni o misure di frutti solidi e liquidi (il _medimno_ corrispondeva a un mezzo ettolitro circa — 2628 poll. cub. parigini — e al valore di una dramma); e pagavano 120 dramme d’imposta del cinquantesimo. 2.ª Classe: i _cavalieri_ (ἱππεῖς), i quali raccoglievano 300 medimni e potevano mantenere un cavallo. Pagavano 60 dramme d’imposta. 3.ª Classe: gli _zeugiti_ o _aratori — jugarj_ — (ζευγίται), i quali raccoglievano annualmente 200 medimni o 150, e possedevano un aratro (ζεῦγος). Pagavano 20 dramme d’imposta. 4.ª Classe: i _proletarj_ o _thétes_ — _capite censi_ (δῆτες) che ne raccoglievano di meno od erano nullatenenti. Di queste nuove quattro classi, la prima sola forniva i cittadini ammessi all’_Arcontato_ e per conseguenza all’Areopago; e le tre prime in generale (_pentacosiomedimni_, _cavalieri_, _zeugiti_) fornivano i cittadini per le altre magistrature. Quelli della quarta classe infine (_thètes_) concorrevano colle prime tre al diritto di voto nella assemblea popolare e all’ufficio di giudice (Vedi Plutarco in _Solone_; cfr. Aristof. scol. _Caval_., v. 627; Polluce, VIII, 129-132; Suida; Hülmann, _Costituz. di Solone_; Schöman, _Antich. greche_; Grote, Thiriwall, ecc.). Così, in luogo della vera _aristocrazia ereditaria_ — base del governo oligarchico — non si ebbe più che una semplice aristocrazia del censo — rappresentata dalle prime due classi de’ _pentacosiomedimni_ e dei _cavalieri_ — naturalmente mutabile nella sua composizione e accessibile alle classi inferiori. Il titolo di _eupatrìda_ continuò a distinguere la antichità e nobiltà del casato, ma non più come distinzione ufficiale di casta, iscritta nel diritto pubblico. E alla democrazia fu spianata la strada — volta che non più la nascita, ma il patrimonio fu la base — e quindi il _lavoro_ potè essere il _mezzo_ dell’ammissibilità di tutti i cittadini alle più alte magistrature. Dalle prime tre classi eran forniti per l’esercito i capitani, e i trierarchi ossia comandanti delle _triremi_, i cavalieri (questi in ispecie dalla 2.ª) e gli opliti o fanti di grave armatura (in ispecie dalla 3.ª). Tutti costoro servivano a proprie spese, e a proprie spese fornivano quelli la trireme, questi il cavallo, quest’altri le armi. L’ultima classe poi di cittadini forniva la fanteria leggiera e regolare (arcieri, τοξοται) e gli equipaggi della flotta. AVVERTENZA DI CIMOTO AL PUBBLICO Il _prologo_... io non sono. Io son Cimoto attore, Compagno di Alcibiade — e amico dell’autore: Il qual, tanto per romperla col suo vizio di prima, Scrivendo un dramma in prosa, — lo ha cominciato in rima. Quest’è la ragion prima della comparsa mia: Ve n’è un’altra — e ad esporvela lo stesso autor m’invia, Pregandomi di volgere sommessa una parola Al pubblico ed ai critici di questa e quella scuola. Descrivendo Alcibiade e Atene de’ suoi dì, E quel ch’era il suo secolo, quand’egli vi fiorì, È natural che parli l’autor de’ tempi suoi Diverso che ai dì nostri non parlisi tra noi: E che di idee più libere sotto il diverso lume Discordi un po’ l’italico dall’attico costume. — Però l’autor, vestendo colla pudica scoria Del dramma le severe nudità della storia, A mostrar quanto avesse serbato a lei rispetto, Illustrava di un mondo di note il suo libretto, Ove cita in appoggio di questo o di quel dato, O d’una o d’altra usanza, l’autore consultato, E per tutte e per singole le prese libertà Invoca il beneplacito di qualche autorità: Omèro, Éschilo, Sòfocle, Eurìpide, Platone, Tucìdide, Plutarco, Diodòr, Gellio, Alcifrone, Aristofane, Andòcide, Pausania e Senofonte, Trogo Pompeo, Cornelio, Luciano ed Antifonte: E l’aureo Teofrasto, e il buon cantor di Téo, E Suìda, ed Aristéneto, Polluce ed Atenéo: Poi, fra’ moderni, Wieland, Meissner, Meùrsius, Grote, Peyròn, Becker, Corsini, ed altre fonti note: E i commenti, — io li ho visti — non finivano lì... Ma il difficile stava nel recitarli qui. Come far? Per l’autore restava una via sola: Pregar pubblico e critici a credergli in parola: E a quelli che non credono, se non vedon lo scritto, O a venirlo a vedere — o a rincarargli il fitto. — Ciò riguardo alla storia: — in quanto al dramma poi (L’autor qui non ci sente — diciamola fra noi) Se sia un dramma possibile — o un dramma che non va, — Scommetto che l’autore medesimo nol sa. — Oh, s’ei potuto avesse, con un prodigio strano, Fondere in un sol tipo l’_Antonio_, il _Coriolano_, E il _Cesare_; — e il lascivo eroe babilonese, E il _Don Giovanni_ eterno del novo bardo inglese, Oh, lo so anch’io, che allora, in un battere d’occhi, L’autore un _Alcibiade_ v’avria dato coi fiocchi. Poichè, quale la storia fra i secoli il mandò, Fra i Greci fu Alcibiade un po’ di tutto ciò. — Ma l’èra dei miracoli scomparve: — ed il poeta Tremò, chiedendo indarno scintille alla sua creta, Quando, scossa la polvere delle cecrópie mura, Si trovò _solo_ innanzi la gigante figura Dell’uom, che ai Greci attoniti di un secolo lontano Mostrò tutte le faccie del poliédro umano. Di virtù e vizii impasto, qual vide raro il mondo; Di gloria e delle gioje dei sensi sitibondo; Guerrier prode, audacissimo, — zerbino effeminato, All’orgie, al lusso — e agli aspri stenti del campo usato; Libertin dissoluto, capitan savio e austero, Tra i calici il più allegro, tra l’armi il più severo; Matto negli ozii, all’opera calcolator minuto, Nelle passioni ingenuo, nelle sue azioni astuto; Or prepotente, or docile; leal, simulatore, — Nella gloria egoista, nel resto ottimo cuore; Ingannator di donne; nell’arti di Cupido Maestro; e a un casto amore sino alla morte fido: Tribuno e aristocratico; piaggiator della plebe, Ch’ei d’Asia trasse e d’Éllade a insanguinar le glebe; De’ suoi vizj sdegnoso; dall’aura popolare Sbalzato or nella polvere, levato or sull’altare; Per ambizion colpevole, per ambizion virtuoso, Di Aristide men nobile, di Marzio più glorioso; Pronto a mutar costumi, come a mutar di lido, Or dell’ira seguendo, or della patria il grido, E ad alternar fra Bacco, Marte ed Amor le cure, Tranquillo nei dì prosperi, maggior delle sventure. Tale era l’uom — fra i Greci, _segno d’immenso amore_ _E immenso odio_ — che al tumulo strappò l’incauto autore, Sperando, almen per l’ombra del Grande che già fu, Non _odio_ e non _amore_... — ma _ascolto_ — e nulla più. QUADRO PRIMO _Principio dell’anno 415 av. l’Era Volgare (2.º della Olimpiade 91.ª, 16.º della guerra del Peloponneso) Exeneto agrigentino vinse il premio ad Olimpia._ ATENE. Giardini nella casa di Alcibiade.[4] Viali di piante. La scena e i viali son decorati di figurine (κόραι) di cera, di legno, di argilla e di statue (ἀγάλματα) raffiguranti divinità. Statue di Venere e di Amore. Qualche sedile marmoreo lungo i viali e qualche tavolo marmoreo con sovrapposti un cratere e dei calici di vino. Tratto tratto si odono da lontano concerti di musica. È sera. La luna rischiara la scena. Di lontano si scorgono i riflessi di sale illuminate. SCENA PRIMA. SOCRATE; ASPASIA,[5] EUFROSINE, GLICÉRA; CIMOTO, più tardi ALCIBIADE. (_Aspasia, Eufrosine, Glicera in ricchi elegantissimi abbigliamenti_[6]; _Glicera è seduta in disparte pensierosa, scambiando tratto tratto qualche parola con Eufrosine_). SOCR. Ora dunque, o dotta Aspasia, poi che mi insegnasti il bello essere unico obbietto dell’amore, tu certo mi sai dire che cosa è bello. ASP. Se alcuna cosa è ben fatta per la destinazione che sortì da natura e ben adatta al bisogno, io questa, o Socrate, chiamo bella. SOCR.[7] O come saviamente mi insegni! E dimmi allora, perchè abbiam noi bisogno degli occhi? ASP. Per vederci, credo. SOCR. Se è così, o Giunone[8] Aspasia, io dunque ho gli occhi più belli de’ tuoi...[9] (_risa fra gli astanti_) ASP. (_sorridendo_) O come? SOCR. Perchè i tuoi guardan solo per diritto: i miei invece, essendo sgusciati all’infuora,[10] vedono anche per traverso. ASP. (_ridendo_) Ah! ah! Allora, o Socrate, anche più belli dei tuoi saranno gli occhi del granchio... SOCR. Ma nella bocca poi, s’ella è fatta per mordere, sicuramente di bellezza io cedo alla tua... e ad ogni bocca che sia di donna. ASP. Grazie dello elogio, figliuol di Sofronisco. Male adunque mi sono spiegata. Belle io chiamo le cose in cui non soltanto è armonia col fine che da natura sortirono, ma intima armonia di tutte parti fra loro. _Questo_ è il bello che amiamo. SOCR. A meraviglia parli! E certo allora la gobba del mio amico Glaucone è armonica e bella, poi ch’io so che la sua Eufrosine, qui presente, lo ama. EUFR. (_indispettita_) O non avresti, vecchio Sileno,[11] un coccio di Ténedo da mozzarti la lingua?[12] ASP. (_sorridente_) Pace, Eufrosine! I gusti sono tanti! Io intesi per intima armonia quella che tale sembra a ciascuno secondo il vario suo gusto. SOCR. Sicchè, se ho bene appreso, una cosa è bella e brutta ad un tempo, secondo piace ad Eufrosine, o dispiace ad Aspasia?... ASP. Così è. CIMOTO (_a parte_) Infatti Aspasia trova belli i tuoi discorsi ch’io trovo nojosissimi... SOCR. (_lo sente, lo guarda con tranquilla ironia, e senza rispondergli ripiglia il discorso con Aspasia_) Infatti jeri, salendo io con Cármide i Propilei[13], egli trovò brutto il quadro di Polignòto, che rappresenta Ulisse scoperto dalla bella Nausicaa. ASP. Oh, per gli amori![14] Il tuo amico Carmide è un imbecille. Quel quadro è una meraviglia di Grecia. SOCR. O vi sarebbe allora una bellezza che bella è, senza distinguer di gusti? ASP. Certo. (_Socrate si move per allontanarsi_) Ove vai? SOCR. A prendere il mio amico Carmide, perchè tu gli insegni a riconoscerla. ASP. Ma tu sai bene, o Socrate, che ciò non si insegna! Perderemmo tu il tempo, io il fiato, se già a lui, nascendo, non l’insegnarono i Numi. SOCR. Che! Di una idea di bellezza forse mi parli in noi anteriore alla culla? Per Minerva! deve essere così. Io pure or mi rammento d’aver letto qualcosa di simile.[15] ASP. E che leggesti, o Socrate? SOCR.[16] Non so dove io lessi che l’anime nostre, alate e immortali, volino, innanzi il nascere, per l’etere immenso... e come la virtù dell’ali le porta più in alto, nella region degli Dei, ivi contemplan la bellezza vera, purissima essenza divina: frammiste a’ cori de’ beati, nel corteggio di Giove, si inebbrian di lei, e via per mari profondi di azzurro, di calma e di luce ne celebrano i santi misteri. Ma poi che Adrastea le precipita, prive dell’ali, quaggiù sulla terra, vi prendon dimora ne’ corpi, loro carcere e loro tomba: e qui ritrovando le imagini riflesse di quella bellezza sì pura di lassù, confusamente si risovvengono di lei. Ed ecco allora, alla vista di forme celestiali, subito l’anima trasale, senza saperne il perchè: contempla l’oggetto vago sì come il simulacro di un Dio; e come a un Dio vorrebbe offrirgli sagrificii. Una specie di febbre la investe, un calore ardente la penetra: a quel calore squagliandosi la durezza della scoria, i germi dell’ali antiche ricominciano a spuntare. E l’anima, sentendosele crescer d’intorno, si agita irrequieta, come il fanciullo, quando i denti fan forza per ispuntar dalle gengive: se appena vede l’oggetto caro, prova una voluttà strana, come fosse lì lì per prendere il volo: se poi nol vede, subito l’ali piccine le si rinserrano, si dibatton rinchiuse, e l’anima ne prova le fitte e le punture; indi, ella dà in ismanie, delira; perde il riposo dei giorni e delle notti; dimentica averi e famiglia e amici e tutto; solo avida cerca la persona cara, perchè solo a lei presso trova a’ suoi strazii sollievo. Questa malattia gli uomini chiamano: Amore — che ha le ali; gli Dei la chiamano: Amore — che le dà.[17] (_Alcibiade è entrato da qualche momento in iscena non veduto_) ASP. (_stringendo a Socrate la mano con effusione_) O Socrate, quando parli, sei pure il potente ammaliatore! CIM. Per Giove! o Socrate, tu la sai lunga! A me invece l’avean contata più corta. ASP. (_sorridente_) Oh! oh! sentiamo Cimoto. CIM. A me avean contato ch’eran gli uomini un tempo un sesso solo, maschio e femmina insieme: con quattro gambe e quattro braccia e una testa a due faccie per ciascuno.[18] Ma quando essi ebbero l’impudenza di dare la scalata al cielo, Giove per castigarli, e un po’ anche per raddoppiare i suoi sudditi, e co’ sudditi le entrate, li spaccò in due: da quel dì le parti divise si vanno cercando pel mondo ciascuna in traccia dell’altra sua metà, per ricongiungersi insieme: e questo adesso chiamano Amore. Giove poi si riserba, appena gli uomini o le donne ne commettano qualche altra di grossa, di spaccarli in due un’altra volta; sicchè allora cammineremo con una gamba sola, come quei che saltan sugli otri nelle feste di Bacco.[19] ALCIB. (_che è entrato, come si disse, durante il discorso di Socrate, cinto il capo di corona di mirto e di piccole bende_[20]_, in atto di uom mezzo brillo, e si è arrestato a udire la fine delle parole del suo maestro, a questo punto si avanza_) E allora Giove dovrebbe averla già cominciata su te (_a Cimoto_) la seconda spaccatura: e s’ei non ci pensa, m’impegno io, Alcibiade, a farti ballare d’una gamba sola sugli otri, poichè hai la impudenza di cianciare quando Socrate parla! tu attento ai discorsi di Socrate, come l’asino al suono della lira,[21] e i Libetrj al canto di Orfeo![22] (_Cimoto si ritrae sconcertato. Alcibiade si volge a Socrate_) Ma io, o Socrate, son malcontento di te. Tu hai le sirene nelle tue parole[23] ed affascini gli animi coi tuoi discorsi, meglio che Màrsia col suo strumento[24]: io stesso, or ora, in udirti, sentivo il cuore balzarmi più forte che non se fossi agitato dalla danza dei Coribanti[25]. Intanto là nella sala portarono indarno le corone e le bende e i rami di mirto[26], e indarno intonammo, libando, il peàna: l’allegria dei calici langue, e suonatrici di flauto e citarède se ne stan mortificate, poi che i fiori più belli del convito[27] (_Cimoto si mette in mostra, Alcibiade s’interrompe volgendosi brusco a lui_) — non parlo di te — furono qui attratti dal tuo loto[28] divino. Io ti sequestro, o Socrate!... SOCR. Alcibiade!... ALCIB. (_trascinandolo via seco_) Vieni, vieni... (_si volge sorridente e cortese ad Aspasia, Eufrosine e Glicera_) Porto il delfino con me[29]; così dietro al suo canto, verranno le Nereidi... (_esce conducendosi Socrate sotto braccio; Glicera è rimasta, dal discorso di Socrate in poi, in disparte, seduta e meditabonda_) CIM. E poichè trattasi di bere... anche i Tritoni (_in punta di piedi s’affretta dietro Socrate ed Alcibiade_). SCENA II. ASPASIA, GLICERA, EUFROSINE. EUFR. Hai visto, Aspasia, che disinvoltura? Appena mostrò accorgersi di me. ASP. E di lui ti meravigli? EUFR. Oh, per Pandróso![30] dopo tanti giuramenti e tante pazzie ch’egli fece perchè lo ricambiassi d’amore! ASP. Ragione doppia, poichè lo ricambiasti, di non farne più. EUFR. Ma possibile che Venere nol punisca e Giove vindice degli spergiuri[31] non lo folgori! ASP. Se lo facessero, te ne dorrebbe! Noi dovrebbe Venere punire, perchè nostra è la colpa, se il di lei sesso patisce simile onta da costui. Usato, dovunque assale, a non trovar resistenza, la debolezza nostra fa costui baldanzoso: e la sua stessa baldanza ora gli agevola e moltiplica i trionfi. EUFR. Piglia, piglia esempio, Glicera, tu almeno, finchè se’ a tempo, da me! Guai se ti lasci accalappiar da costui!... Ma vo’ recarmi nella sala del convito: e, per la Cipria Afrodìte[32], ch’io non celebri mai più le sacre sue orgie nel dì delle Adonie[33], se costui non lo pago della sua stessa moneta. Vo’ farmi sotto i suoi occhi corteggiare da Eutidemo, e mostrarmi più indifferente e più allegra di lui! (_esce stizzita_) ASP. (_la segue sorridendo dello sguardo_) Così devota di Nemesi![34] Se sempre la faccia fosse garante del cuore! SCENA III. ASPASIA, GLICERA, poi ALCIBIADE in disparte. ASP. (_vedendo Glicera sempre seduta e pensierosa_) Sì mesta e pensierosa la mia Glicera? GLIC. Penso al discorso di Socrate intorno all’amore. ASP. E allora, o io m’inganno, o a qualcun altro insieme tu pensi... GLIC. (_vivamente_) A chi? ASP. Ad Alcibiade. GLIC. (_cercando negare_) Che! ASP. (_le si appressa e le parla con voce affettuosa_) Perchè infingerti meco? Tu fosti pensierosa tutto il tempo del convito: e più d’una volta sorpresi la direzione de’ tuoi sguardi. Glicera, bada! tu sei una fanciulla poetica e sensibile: la classe di fanciulle più pericolosa, e più esposta a pericolare. _Tu ami Alcibiade_, e sei mesta, perchè anche con te egli si finse, nella sua gioviale cortesia, indifferente. GLIC. (_abbassa gli occhi, confusa, senza rispondere_). ASP. (_ripigliando con far sorridente_) La lezione di Eufrosine ha giovato molto!... Ecco il destino di noi donne con codesti eterni ingannatori!... (_Alcibiade in questo punto, rientrando distratto pei viali, alla parola_ ingannatori _volge vivamente il capo, vede Glicera e Aspasia che stan discorrendo, e si arresta_) ALCIB. (_in ascolto a parte_) (Parla di me?) ASP. (_seguendo il filo del suo discorso_) Mille esempj lampanti ne ammoniscono: invano: ciascuna che non ha provato ancora, si affretta quanto può a crescere il numero delle ingannate. Ciascuna si lusinga di aver fascini nuovi che non ebbero le altre; o sogna per sè la piccola vanità di riuscir meglio di loro; o chiede fra sè curiosamente che sapor novo avranno le labbra che già ebbero i baci di Taide e di Mirrina, di Bacchide e di Cesira. Così, come le pecore, matrone e cortigiane[35], si corrono dietro. Povere folli! Il caso, e nulla più ha dato ad essi talora le prime vittorie: la curiosità, la vanità o l’ingenuità nostra procaccian loro le altre!... E poi che le illuse si son cavate il capriccio dello esperimento, allora invocano come Eufrosine gli Dei vendicatori, perchè hanno scoperto, un po’ tardi, che i baci di Alcibiade sono affatto simili a quelli di un altro, e che non valeva a quel prezzo la pena di accrescere inutilmente i suoi trofei! GLIC. (_levando lentamente gli occhi su Aspasia_) Ma tu che così ne parli... li hai provati tu... i baci... di Alcibiade? ASP. Se avessi voluto! Mi chiese amore — e non l’ebbe. Così m’ami Adrastea[36] come io resto sola, finora, in Atene, vendicatrice del mio sesso contro gli inganni di costui, che è più bugiardo di un Cilicio.[37] ALCIB. (_sempre in ascolto, in disparte_) Buono a sapersi! ASP. (_ripigliando_) Da te, mia cara Glicera, se la quiete dell’anima, rugiada alle rose del tuo volto, se la tua bella ed allegra giovinezza ti è cara, da te, Glicera, dipende l’essere tu la seconda. ALCIB. (_in disparte_) Parla un po’ per tuo conto! GLIC. (_con accento, fra mesto e serio, di chi prende una risoluzione ingrata_) Lo sarò. ASP. Ebbene, allora, sta in guardia! perchè la sua tristezza non è così insidiosa come la sua allegria: e nessuno mai seppe meglio nascondere i suoi disegni sotto la maschera della indifferenza. Dimmi, o Glicera, che cos’è, infine, questo Alcibiade, perchè tu debba lasciarti tradire da lui? Egli è prode, non nego: ma son migliaia in Atene prodi al paro di lui; è bello, ma Autòlico e Càrmide, e Fedro e Critòbulo[38] lo sono del pari; è ricco[39], generoso, prodigo, d’illustre famiglia[40]: Callia, Feace e Mègacle[41] pure lo sono. Forse perchè egli è più dissoluto, più vizioso, più vanitoso di loro? O perchè più di loro sa mentire e spergiurare all’orecchio di una fanciulla? Tu meriti ben meglio. O mia Glicera! quanti dolori e disinganni sarebbero a noi donne risparmiati, se imparassimo per tempo a conoscere l’uomo per quel che è: il nemico naturale del nostro sesso: e a trattarlo come tale. In questa guerra, la natura ci ha armate bastantemente all’offesa; come al toro le corna e l’unghie alla pantera, a noi per assalire diede le grazie e la bellezza: Beltà che brando od asta Non valgono a domar, Che sola a vincer basta Le folgori e gli acciar,[42] come un giorno cantava il vecchio Anacreonte. Ma pur troppo, nello armarci per lo attacco, la natura non pensò alle trincere per difenderci. La _difesa_, o mia Glicera, è il nostro lato debole: e qui ne abbisogna supplir coll’arte a quello che non diè la natura. GLIC. (_con fare ingenuo, sospirando_) Mi difenderò. ALCIB. (_in disparte_) Che cara maestra! Preferisco la scolara! ASP. (_ripigliando_) I nostri nervi impressionabili, la nostra imaginazione sempre attiva e sempre accesa, _ecco_ i traditori che il più delle volte consegnano al nemico le nostre fortezze. Colpire la fantasia di una fanciulla: è così facile! e di effetto così sicuro! ed è il piano d’attacco di costui. Colpirla, con non importa che cosa: col prestigio del valore, dell’audacia o delle stranezze, col fascino delle vanterie o colla poesia esaltata del sentimento: o col fasto chiassoso, o coi vizî chiassosi: tutto è buono per noi. Vuoi difenderti da Alcibiade? Guarda dalle sue sorprese il tuo cervello fantastico; guardati da’ suoi vanti superbi, dalla sua baldanza artificiosa, dalla menzogna delle sue parole quando parla d’amore. Mentre egli ti parla, abbi presente sempre a te che egli è da meno di quel che si vanta, e che tu sei da più di quel che ti credi. Fuggi, più che la sua tristezza, la sua aria gioviale, di cui scaltro approfitta per dar colore di scherzo alle prime audacie del linguaggio, ed estendere a poco a poco le sue licenze. Che s’egli ti assedia dappresso, ricorri a qualcuna delle tue occupazioni più favorite, e colla distrazione di questa scongiura il fascino delle sue parole! Sopratutto infine, e questo, bada, dei consigli è il più importante... fa di trovarti il meno possibile sola con lui. ALCIB. (_in disparte, alquanto ironico_) Oh, oh, la lezione comincia a farsi pericolosa!... (_tossisce, fa rumore e s’avanza per i viali cantarellando a mezza voce_) «Di unguenti rendere[43] «L’urne odorose «Che giova?! e spargervi «Tanto licor! «Tutto va al nulla! «Dammi le rose, «E una fanciulla «Recami, Amor!» ASP. _e_ GLIC. Lui! (_Alcibiade si avanza ilare verso di loro_) ASP. (_sottovoce a Glicera_) Te l’avevo detto?! Sta in guardia. Egli ti cerca. GLIC. (_sottovoce ad Aspasia_) Rientrerò nella sala. ALCIB. (_complimentoso, insinuante, elegantissimo_) Inclita Aspasia, vezzosa Glicera, sole, ancor qui? Buon per voi ch’è già sera: se no, da questi alberi v’udrebbero le cicale, messaggiere ed interpreti delle Muse:[44] e andrebbero ad Urania, ad Erato e a Tersicore a dar ben cattive informazioni delle loro alunne e del modo ond’elle defraudano de’ loro sorrisi gli sguardi dei poveri mortali. GLIC. Non temere per questo, Alcibiade. Stavo appunto per rientrare nella sala del convito. (_s’avvia per uscire_) ALCIB. Oh, Venere te ne dia premio! Ti verrò compagno. (_le offre galante il braccio_) GLIC. No, no, grazie, Alcibiade. Rimani pure. Rientro sola. (_lo scansa e fugge via_) SCENA IV. ALCIBIADE e ASPASIA. ALCIB. (_ritornando verso Aspasia, fra sè_) (Allora, a noi, inclita maestra!) ASP. Ebbene, Alcibiade, famoso cacciatore, par che s’insegua qualche nuova selvaggina. ALCIB. (_con fare indifferente ed allegro_) Eh! si passa il tempo!... ASP. Infatti, qui siam presso il fiume: e, se non erro, è precisamente in questi luoghi che il traditore Borea un giorno rapiva la vergine Oritìa...[45] ALCIB. (_indifferente, senza guardare Aspasia_)... la quale non se n’ebbe troppo a male... ASP. Il prestigio dei vezzi di Eufrósine è svanito ben presto; e il catalogo de’ tuoi amori vuol essere più lungo di quello di Esiodo[46]. Tu adocchj Glicera. ALCIB. Chi sa! E s’anco ciò fosse, non certo vorresti darmi torto od accusarmi di gusto cattivo. Ell’è un fiore sbucciato appena nei giardini di Venere. Quella età ha fascini strani! e poi, è tanto innocente!... Non ha le tue arti, nè le tue astuzie, o bella Aspasia... (_sorridente_) ASP. Per sua sventura... ALCIB. (_vivamente_) Per sua fortuna! vuoi dire. Poi ch’elle non servono che a sfrondarci la poesia della vita, a inaridir la fonte delle nostre gioie più pure, ad istrapparci ai nostri sogni più cari... Povere fanciulle! per evitare il pericolo _incerto_ di un disinganno, elle affronteran dunque la _certezza_ della noia e del vuoto; per non correre rischio di essere ingannate, ignoreran dunque per sempre che cosa sia la voluttà di _credere_; di credere ad una parola entusiasta, ad un amor febbrile, ad una passione ardente, al sogno di un minuto che vale mille anni di realtà!... Ma non varrebbe la pena di vivere!... ASP. (_con accento lento, sardonico_) Infatti... di questi sogni... a loro spese... tu _vivi_... ALCIB. (_con forza_) Ed _elle_ vivono! E che! rinunzierei a cogliere questi fiori leggiadri per ispendere la vita, ch’è sì breve, in imprese di Ercole, nello assedio di cuori adamantini, esperti in ogni astuzia, agguerriti contro ogni attacco, parati ad ogni resistenza!? Fossi pazzo! ASP. Eppure dicono sian queste, vincendo, le vittorie più dolci e più gradite... ALCIB. (_con indifferenza_) Sarà!... ASP. Come a dire? ALCIB. Io non mi ci son mai provato... e non ho voglia di provarmici... ASP. (_sorridendo ironica_) Ed è Alcibiade, il conquistatore di donne che parla? ALCIB. Conquistatore o no, lui in persona. Queste battaglie non mi vanno. Non ci trovo gusto. Esigono una posta troppo alta per me. Combattere, durar fatiche e sacrificii, colla certezza di vincere, vada: ma quando di vincere _non son sicuro_, rinuncio alla battaglia e cedo il campo. (_Alcibiade mantiene sempre il suo accento di artificiosa indifferenza_) ASP. (_ironica_) È più prudente. ALCIB. Certo. Una prima sconfitta, guai! potrebbe trarmene dietro delle altre. Le donne queste cose non le tacciono... Più di un cuore conosco (_getta occhiate espressive sopra Aspasia_), il cui possesso saria stato il mio sogno, e al quale rinunziai senza colpo ferire, solo per non urtarmi contro la sua scaltrezza. Imposi ai miei sensi di star quieti, di non sentir nulla, come a quei soldati che la disciplina obbliga oziosi sotto la tenda, mentre la tromba tirrena dà il segnale della pugna.[47] E i sensi obbedirono: benchè di un altro genere, erano sempre vittorie che riportavo su me: m’abituai a riportarle. Perciò, ora, son altri cuori che inseguo: e da buon capitano, non sciupo i miei soldati: non pongo assedio nè ai cuori scaltri, nè alle fortezze inespugnabili. ASP. Eh, non è poi detto che tutti lo siano... ALCIB. Quasi tutti (_fingendo premura_). Oh, addio, bella Aspasia. Lasciami inseguir Glicera. ASP. Non sei cortese, Alcibiade. Che premura! La farfalla già non fugge: il passero ha il volo più lungo... ALCIB. Ma il passero a sua volta non deve incantarsi per aria, perchè il falco potrebbe fargli qualche scherzo. ASP. (_ridendo_) Oh! oh! sarei io il falco? Paventeresti di me?... ALCIB. Di te, bella Aspasia? Oh, tutt’altro. Con te mi sento pienamente sicuro. ASP. (_a parte, con dispetto_) (Impertinente!) ALCIB. Con te, che sei una di quelle Amazzoni agguerrite di cui parlavo dianzi, so che non vi è nulla a fare... ASP. (_dissimulando con soddisfazione ostentata il malumore_) Ah!... manco male che lo sai... ALCIB. Quindi il mio spirito come il mio cuore si trovano in perfetta calma: e ringrazio i Numi che a me ti han fatto conoscere soltanto nella estate de’ tuoi dì... ASP. Perchè? ALCIB. Perchè se la tua state è così bella e rigogliosa, penso che la primavera m’avrebbe messo ad una prova troppo dura. ASP. (_con civetteria_) Tu vuoi dire che anche la estate mia non sia del tutto scevra di pericoli? ALCIB. Che non lo sia, tu n’hai la prova in tutti quelli che ti fan corona. Poichè _tutti_ tu hai incatenato al tuo carro... tutti...[48] (_Alcibiade fa una breve pausa, Aspasia a quelle parole leva gli occhi vivamente e con compiacenza su Alcibiade, il quale, senza mostrare d’accorgersene, termina la frase sospesa_) tranne me. ASP. (_a parte, con gesto di dispetto_) (Vanitoso!) ALCIB. (_complimentoso, galante_) Tutto ciò che Atene ha di più eletto, vecchi e giovani, ti fan corona. Socrate discute con te di filosofia, Aristofane ti legge le sue commedie, Euripide le sue tragedie. Ippia ti sottopone i suoi discorsi e il leggiadro Agatone ti dedica le sue odi. Alcamene ti consulta sulle sue statue[49] e Polignòto intorno a’ suoi quadri. Colla bellezza hai soggiogato i cuori; collo spirito esteso il tuo regno assai più in là che alla bellezza non è dato. Oh! le grazie della tua mente! nessuna Venere le pareggia. Invano la bellissima Circe percote della verga magica Ulisse, munito del farmaco del Dio; Ulisse rimane illeso, Circe per lui non è più una maga, ell’è una donna come un’altra! Ma quando le sirene lo invitano alle voluttà dello spirito e gli dicono di sapere tutto quello che fu e che sarà, è allora che Ulisse non è più padrone di sè, e bisogna che i compagni lo leghino più stretto all’albero della nave, perchè non si getti nell’onde, dietro al canto di quelle ammaliatrici...[50] ASP. Ben trovato il confronto! E allora, io, per Alcibiade, non sono Circe... e non sono neppure una Sirena. ALCIB. (_sorridente_) Perchè Alcibiade non è Ulisse... Addio, inclita Aspasia. (_fa di nuovo per avviarsi_) ASP. Che fretta!... Eppure, se mal non rammento, fu un tempo che Alcibiade si _dilettava_ al canto della Sirena... (_accentando le parole_) Rammento di una certa lettera... ALCIB. (_vivamente, con sorpresa d’uomo indifferente_) Oh, ancora la serbi?! Che mi ricordi mai!... Ah, sì, infatti! Io scherzavo allora... Sapevo benissimo che tutto era inutile... ASP. Ah!? fu uno scherzo? ALCIB. Sì (_coll’accento premuroso di chi si scusa_), ma come vedesti, innocente... ASP. (_con dispetto_) Alcibiade tratta molto leggermente gli scherzi fatti ad Aspasia! Per cui, se la povera Aspasia invece di andar guardinga, avesse creduto alle parole dette, per _ischerzo_, da Alcibiade... ALCIB. (_interrompendola vivamente_) Alcibiade sarebbe stato così felice da morirne... (_Aspasia si volge sorridente ad Alcibiade, che subito ripiglia terminando la frase sospesa_) e per questo gli Dei non lo permisero!... Oh, ma tu me lo perdoni, n’è vero? Tu devi dimenticare... ASP. (_con malumore_) Ebbene, Aspasia _non dimentica... gli scherzi..._ ALCIB. Perdonali dunque! E se non vuoi perdonare lo scherzo, allora... ASP. Allora? ALCIB. Metti che fu sul serio, e non farmene una colpa! (_moto di compiacenza di Aspasia, subito represso dalle parole successive di Alcibiade_) poichè ora vedi che son savio e ravveduto. ASP. (_fra sè_) Fin troppo... ALCIB. (_incalzante_) Non farmi una colpa, se i tuoi vezzi furono per un minuto, per un minuto solo, più forti del mio proposito. Non per nulla le Grazie ti guardarono con occhio sì benigno,[51] e non per nulla fosti chiamata novella Onfale, e Giunone e Dejanira.[52] Veder così sovente il tuo viso, udir così sovente la tua voce... era poi così strano ch’io perdessi la testa... un istante? Quanti la avrebbero perduta per sempre! Via, perdonami dunque, dimentica... dammi il bacio fraterno dell’oblio e del perdono... ASP. Un bacio?! (_ridendo_) Ah! ah! furbo, Alcibiade! ALCIB. E che vi è di male o di strano? Un bacio fraterno che suggelli la pace?... Una Aspasia vi scorgerebbe un pericolo?... ASP. Oh, al contrario... ma appunto... ALCIB. Ma appunto, dopo le tue parole di poc’anzi, tu non devi negarmelo, se pur non mi serbi rancore. Ed io voglio pace con te. Tu non puoi negarmelo un bacio, che quanto più sarà cordiale, tanto meglio proverà che non fai caso di quella mia improntitudine di allora; tu sai benissimo che ciò che può offrir pericolo per tutt’altra, non ne offre alcuno per te... _perocchè tu sei Aspasia..._ ASP. Eh, via, adulatore! taci! poichè lo vuoi, ed io non sono cattiva... sia fatta dunque la pace. ALCIB. Oh, grazie!... (_Alcibiade con moto di gioia l’abbraccia e scambia con lei un bacio lungo e appassionato; indi si scioglie mesto dall’abbraccio, come sovrappreso da un pensiero_) Ah! che peccato, Aspasia, che il destino ci abbia serbati a non essere altro che amici! ASP. (_fissandolo con sorpresa_) Perchè? ALCIB. Perchè, altrimenti, chi sa che cosa sarebbe stato di noi! Figurati, Aspasia, noi, come vedi, non ci amiamo: Nemea, invece, dice di amarmi ardentemente, appassionatamente: e forse lo crede. Ebbene, se è vero che il bacio è l’alito dell’anima, l’anima di Nemea non sa amare: perchè di tutti i suoi baci insieme, nessuno mai fu neppure della metà ardente e appassionato quanto questo tuo... (_gesto vivissimo di Aspasia_) che è poi un semplice bacio fraterno. (_Alcibiade fingendo non accorgersi del moto di risentimento di Aspasia, ripiglia con forza_) _Tu sì_, hai del fuoco!... Addio, addio, Aspasia!... Ah che peccato!... che peccato! (_esce lasciando Aspasia non ancora rinvenuta dal dispetto e dalla collera_) SCENA V. ASPASIA sola. ASP. L’impudente!... E a che mi irrito?... È Adrastea che mi castiga[53]!... Ed io facevo la lezione a Glicera!... Servirà a me per un’altra volta...! (_esce_) SCENA VI. TESSALO _e_ CLEONIMO. (_Entran discorrendo, a voce bassa e concitata, fra di loro_) TESS. E così dunque... domani Alcibiade parlerà all’Assemblea... e se non vi ci mettiam di proposito, vedrai che questo odioso giovinastro la spunterà... CLEON. Per Ercole, se la spunterà! Gli animi dei giovani[54] sono tutti per lui. Con quanti di loro ho tastato il terreno, eran tutti disposti a dare il voto per la spedizione di Sicilia, e per la nomina di Alcibiade a capitano, insieme a Lamaco e a Nicia... TESS. (_passeggiando concitato_) Capitano costui! Per i Numi! Preferirei veder Atene sommersa da un altro diluvio...[55] Ma non tutti i giovani sono Atene... Parlasti con alcuni dei più attempati? CLEON. Sì... e qui forse il terreno è migliore per noi. TESS. Bisogna dunque lavorarlo: e non perder tempo. Di molti io so che detestano Alcibiade e la sua insolenza, e che soltanto per paura esitano a dichiararglisi contro[56]. Questi smetteran le esitanze, per poco che l’esempio di altri li incoraggi. I presagi infausti potranno molto giovarci... Per questo importerebbe mandar fra il popolo qualcuno... CLEON. Oh, guarda là Cimoto! costui potrebbe fare al caso nostro... TESS. Ma non è amico d’Alcibiade costui? CLEON. È parassita, e s’adatta a tutti, come il coturno...[57] TESS. Chiamalo... CLEON. (_avanzandosi verso il fondo dei viali_) Cimoto! Cimoto! SCENA VII. Detti e CIMOTO, indi ANTIOCO. CIM. Che c’è? CLEON. (_a Tessalo presentandolo_) Quest’è l’uomo. TESS. (_a Cimoto_) Mi conosci? CIM. Per Minerva! Sei Tessalo, figliuol di Cimone Lacìade.[58] TESS. E tu sei parassita e retore. Come la ti va? CIM. Eh! si vive. TESS. Non basta. Bisogna viver bene. Mi han detto che hai la parola pronta... CIM. Come il ventre... al tuo servigio... TESS. Domani c’è l’assemblea popolare allo Pnice...[59] CIM. Lo so. (_A questo punto Antioco traversa lo sfondo della scena fra le piante. Udendo nominar Alcibiade si arresta, e sta a sentire il colloquio; poi si allontana_) TESS. Alcibiade avrà molti suffragi... CIM. Sicuro. TESS. E ti par che ciò sia bene? CIM. Eh? (È un suo amico...) Benissimo... TESS. (_gettandogli una borsa_) Ed io ti dico che ciò è male... CIM. (_con premura, afferrando la borsa_) Malissimo... volevo dire... Infatti (_fra sè_) voleva farmi saltare con una gamba sola... TESS. E degli augurî e presagi della spedizione che si dice? CIM. Finora buoni... TESS. Cattivi!... (_con forza_) CIM. (_più forte ancora_) Perfidi! TESS. Bisogna dunque dirlo al popolo... CIM. (_con aria d’intelligenza_) Lo diremo.[60] TESS. T’aspetto domattina a casa mia. (_fa cenno a Cleonimo di andar seco ed escono insieme entrambi discorrendo a bassa voce_) SCENA VIII. CIMOTO solo. CIM. To, to! che scopro mai! Dei complotti contro Alcibiade, in casa sua! E Alcibiade invita questa gente a banchetto! Per Mercurio portator di guadagni![61] Questo si chiama impiegar bene il denaro... (_pesa sulle mani la borsa avuta_) e questo, se vogliamo... si chiama acquistarlo male. Vada per tutti gli scherzi che costui mi ha fatto! Un giorno per tortelli di latte darmi a rodere ciottoli intrisi nel miele... un altro, farmi bere, per vino, brodetto di senape...[62] (_sternuta_) Oh ventre, quanti ludibrj ci obblighi a soffrire! Guardalo là il burlone... che arriva. Andiamo, andiamo... (_va via riponendo la borsa mentre stava per contarne il contenuto_), non è onesto contar questi denari in casa sua. (_esce_) SCENA IX. ALCIBIADE e GLICERA. GLIC. (_entra discorrendo con Alcibiade_) Son meste le tue parole come canto di alcione.[63] Non eri sì mesto poc’anzi, quando m’incontrasti qui con Aspasia... ALCIB. (_con aria mestissima, sospirosa_) È necessario portar sempre la maschera della gioia sul volto per non dispiacere alla bella e poetica Glicera?[64] GLIC. Oh, non dissi questo: ma... ALCIB. (_mesto sospirando_) Non è sempre il cuore di chi ride di più, quello che soffre di meno... GLIC. (_fra sè a parte_) (Infatti, mi par molto mesto. Avrà qualche affanno segreto. Se Aspasia ha detto il vero, in questo momento non dovrebbe essere pericoloso. Posso parlargli.) (_si appressa ad Alcibiade con aria affettuosa_) Ma tu che rimproveravi agli altri di abbandonare l’allegria del convito... ALCIB. Io erravo solo, cercando un istante di sollievo e di tregua alla triste necessità del fingere, fra i silenzi di queste piante, ove tu certo venisti a confidare agli astri le gioie serene e tranquille della tua anima. Ebbi torto di sturbarti e rattristarti colla mia compagnia. Perdona... mi ritirerò, se lo brami... GLIC. Oh, no, resta pure. (_fra sè_) (Com’è mansueto! E Aspasia mi diceva di guardarmi dalla sua baldanza!) E qual cosa mai può contristare Alcibiade? Non sei tu l’uomo cui tutto sorride? Non vai ricco di successi e di onori fra tutti i giovani della tua età? ALCIB. Che sono i sorrisi della vita, quando il vuoto è nel cuore? E di che successi, di che onori mi parli? Le mie corone di Olimpia?[65] Ma Gerone e Terone e Agésia di Siracusa e Psàumida di Camarina[66] ne riportarono di uguali e di più belle. Le lodi di Euripide?[67] Ma essi ebbero Pindaro. Le milizie guidate alla battaglia di Mantinea?[68] Ma sono gli Spartani che l’han vinta. La fronda di quercia di Potidea? Ma fu Socrate che la conquistava e fu la sua modestia che me la regalò...[69] GLIC. Oh! io udii da Socrate stesso che tu la meritasti... ALCIB. E Socrate non ti disse il vero. Fu egli, il prode e generoso vecchio, che a Potidea mi salvò la vita e le armi: e sua di diritto era la corona che dinanzi ai giudici volle rinunziare a favor mio... GLIC. (_fra sè_) (Non è così superbo come voleva farmi credere Aspasia!) ALCIB. Dove, dove sono dunque, o Glicera, i miei allori? Forse il rumore ed il fasto delle stranezze e delle orgie con cui cerco ingannar me medesimo, e la noja cupa e il disgusto della vita ingloriosa? Ah, quando l’anima sitibonda va in cerca di affetti e amore non la ravviva delle sue rugiade, essa non ha ali per la gloria! Ed è ciò che mi tormenta!... GLIC. Ma tu scherzi, Alcibiade! Tu sei anzi famoso per la facilità con cui li muti gli affetti; da che tua moglie morì, ti chiamano... (_abbassando gli occhi, con reticenza ingenua_) il marito... di tutte le donne![70] Di amori le donne di Atene non ti lasciarono soffrir penuria. ALCIB. Di _amori_ sì, non di _amore_. Nessuna seppe intendermi, nessuna seppe amarmi com’io volea. Io aveva... io ho... qui e qui... (_si tocca la fronte e il cuore_) un certo ideale a cui nessuna corrispondeva. Per questo fui costretto a vagare d’una in altra ramingo, cercando sempre inutilmente la donna de’ miei sogni... (_con accento mesto_) Triste, affannosa ricerca, seguita _finora_ da più tristi disinganni... GLIC. (_fra sè_) (Dopo tutto, potrebbe esser vero. Aspasia è sagace, ma non deve averlo capito bene costui) A sentirti, Alcibiade, si direbbe che delle infedeltà tue le donne abbiano per giunta a rendere stretto conto a te e non tu a loro... ALCIB. Così è. GLIC. Ma io sarei ben curiosa di conoscere questo tuo famoso ideale; e di sapere _come_ la vorresti, _come_ dovrebbe essere la donna che ti avesse finalmente a contentare... ALCIB. (_vivamente_) Come la vorrei?! Oh, anzitutto, si sa, la vorrei bella: morbide e folte e bionde le chiome, adombranti[71] la fronte candidissima (_mentre parla, fissa gli occhi amorosamente sopra Glicera_); brune le pupille come Minerva, umidette e languide come Citerea[72]; porporine le labbra, che invoglino ai baci; snella la persona, e sparso il volto non di bellezza severa, ma di dolcezza ingenua; non di maestà, ma di candore; la vorrei bella, insomma, come Venere... o... come Glicera... GLIC. Adulatore!... ALCIB. (_con inflessione di voce piana e dolcissima_) E vorrei che il suo volto fosse lo specchio della sua anima; e che la sua anima vibrasse, per segreto ineffabile accordo, a ogni più piccola oscillazione della mia; che non cercasse al mio affetto, come tutte le altre ch’io conobbi, la soddisfazione di una piccola vanità femminile o di un semplice piacere dei sensi; ma l’estasi divina di due anime confuse in una sola; che sapesse insiem colla mia vagar per gli spazii, e interrogare le mille voci della natura che parlan d’amore; intendere con me la poesia di questi silenzi, di queste notti serene, di questo cielo stellato, di questi profumi dei fiori che l’aure ci portano dalle sponde del ridente Cefiso; e nel tacito volo, venirci spogliando via via di ogni scoria della terra, di tutto ciò che non è nobile e non è puro; divinare le vie della gloria e slanciarvisi; e salire, e salire — verso tutto ciò che è bello, che è grande, verso le regioni calme e luminose di cui Socrate or dianzi parlava, e celebrarvi insieme abbracciati, fra voluttà che non han nome, i santi misteri degli dei! (_mentre parla s’è avvicinato a poco a poco a Glicera e l’ha circondata di un braccio_). GLIC. (_è venuta ascoltando avidamente Alcibiade, con trasporto di ammirazione crescente, quasi affascinata da lui_) Ah!... (_dopo questa esclamazione di desiderio, di trasporto e di amore, Glicera rimane lì interdetta, e, quasi pentita d’essersi lasciata involontariamente dominare dal suo fascino, si stacca vivamente da lui_.) ALCIB. (_vivamente, con voce affettuosa, ma come fingendo di non accorgersi dell’impressione delle proprie parole su di lei_) Che hai, Glicera? GLIC. Nulla!... (_fra sè, staccandosi da Alcibiade_) (Ha ragione Aspasia... È un ammaliatore costui. Non bisogna ascoltarle le sue parole. Pensiamo ad altro...) (_si leva dalla cintura_[73] _un rotolo di papiro,_[74] _lo apre e lo scorre_) ALCIB. Che pensi, Glicera? Che leggi? GLIC. Perdona... Son pochi versi non finiti, che stavo componendo quando m’incontrasti. Le tue parole, per richiamo di idee, mi han ricondotta la mente a continuarli... se permetti... ALCIB. Oh! che Apollo Liceo[75] e che le Muse mi guardino dallo interrompere i carmi di una Saffo così leggiadra. È egli lecito udirli... almeno? GLIC. E perchè no? Se vuoi aiutarmi a finirli... (_fra sè_) (È men pericoloso che starlo a sentire). ALCIB. Oh, io non son poeta... Ma leggi... leggi... GLIC. (_leggendo_) «Non credere al fiore, se ostenta all’aurora «Più dolce il profumo, più vago il color: «Son larve fugaci del regno di Flora... «Doman più non hanno nè tinte, nè odor. «Non credere all’albero da l’ombre gioconde, «Nè all’erba, che molle t’invita a giacer: «Mortifero è il sonno che piovon le fronde, «E ascosa è la serpe tra i verdi sentier. «Non credere al cigno, se il cantico l’ange, — «Son canti di morte che all’aura darà: «Non credere al drago se lagnasi e piange... «Chi accorre al suo pianto, ritorno non fa.» (_Glicera si arresta, avendo finito la lettura, e guarda Alcibiade che le si è di nuovo appressato, e vien leggendo seco, di sopra la spalla di lei_) Va avanti tu... ALCIB. (_chino dolcemente su la spalla di Glicera, l’occhio fisso sul papiro, come se leggesse, seguita improvvisando_) «Non creder d’astuta Sirena agli inganni, «Nè a donna che troppo ti voglia insegnar, «Se, inquieta pei vezzi che sfrondano gli anni, «Le gioie che invidia — ti insegna a spregiar. «Ma credi alla voce dell’alma segreta «Che a scerner ti insegni fra i cantici e i fior; «Al core che amando diventa poeta, «Al _forte_ che _prega_ — chiedendoti amor. (_alle ultime parole, Alcibiade, che aveva già circondato di un braccio — sul principio dell’improvvisazione — il fianco di Glicera, si trova alle sue ginocchia. Glicera affascinata dalle parole sue, gli ha già abbandonata una mano, e si china verso di lui per baciarlo, quando un ultimo senso di vergogna, nel trovarsi vinta contro sua voglia, di subito la arresta_.) GLIC. Ah! (_toglie vivamente la sua mano da quella di Alcibiade; si copre delle mani il volto, e fugge precipitosa_.) SCENA X. ALCIBIADE solo, poi ANTIOCO. ALCIB. (_seguendo ilare dello sguardo Glicera che fugge_) Il nemico fugge — dunque è vinto. Diamogli il tempo di arrendersi. (_entra affrettato Antioco_) Oh, Antioco! dove t’eri cacciato? Da un’ora non ti trovavo più. ANT. Ero qui poc’anzi... ALCIB. Anche tu? Solo? ANT. No. Con Tessalo, e Cleonimo e Cimoto. ALCIB. A discorrer con loro? ANT. A sentire di nascosto i loro discorsi. ALCIB. (_sorridendo_) Bel mestiere!... ANT. (_serio_) Ve n’è uno peggiore... ALCIB. Quale?... ANT. Approfittare dell’ospitalità per ordir trame ai danni dell’ospite, alle sue spalle, in casa sua... ALCIB. (_indifferentissimo_) Ah, lo sai anche tu che Tessalo e Cleonimo mi voglion male? ANT. E te la pigli con tanta indifferenza? E li tieni amici costoro — e li inviti? ALCIB. Certo. Per tenerli d’occhio e sorvegliarli più davvicino. E che cosa hai sentito, demone coricéo?[76] ANT. Han corrotto Cimoto, che ti aizzi contro la superstizione del popolo, spiegandogli infausti i presagi... ALCIB. (_sorridendo_) Tu vedi che se io non li invitavo, non avresti potuto sentir nulla. Grazie dell’avviso. Mi regolerò. Va, va, nelle sale — che l’orgia vi è nel punto migliore. Or ti raggiungo. ANT. Sta in guardia! ALCIB. Va, va. Un momento. (_Antioco avviato ad uscire si sofferma_) Perchè ti sei messo quei calzari? ANT. E lo domandi? Perchè è la moda introdotta da te. Li ho fatti far come i tuoi...[77] ALCIB. (_con impeto_) Scimia!... Ma io sono Alcibiade! — Va, va... e levali! (_Antioco esce_) SCENA XI. ALCIBIADE solo, poi SOCRATE. ALCIB. Così faccian gli Dei che io non abbia mai avversari più pericolosi! Ah, Tessalo, tu sei furbo! ma il Cretese questa volta è incappato in un di Egìna...[78] Ci vuol altro che questa gente per attraversarmi la via!... (_si leva dal seno e spiega un rotolo che si suppone la carta geografica della Sicilia — e la osserva; in questo frattempo Socrate è rientrato, e, alquanto in disparte, fermo, le braccia conserte, con aria tra il grave e l’affettuoso, sta osservando Alcibiade_) Ecco la Sicilia! il sogno delle mie notti, il mio sogno di gloria! Oh, Atene vedrà se Alcibiade è buono soltanto a corteggiar femmine e a far correre cavalli ad Olimpia![79] E conquistata la Sicilia e aggiunte alle nostre le forze di un’isola sì vasta, ne avrò più del bisogno per abbattere Cartagine; e caduta questa, tutto il suo imperio è nostro dalla Libia all’Iberia: e nostra è l’Italia![80] Che diventa allora la conquista di Grecia? E la guerra contro il gran re?[81] Atene padrona del mondo per opera di Alcibiade — oh, per Adrastea! è qualcosa di più degli allori di Pericle e di Temistocle!... (_a questo punto volgendosi, si accorge di Socrate, che lo guarda fisso, le braccia conserte_) Socrate! (_con malumore_) tu ancora qui! che vuoi? SOCR. (_immobile, calmo, senza scomporsi_) Nulla. Ti guardo. ALCIB. Se vieni a ripetermi, come al solito, i tuoi rimproveri e ammonimenti, non vieni in buon punto. SOCR. (_calmissimo_) Ti rimprovero io forse, ora? ALCIB. Ma tu fai peggio che rimproverarmi. Quando io più m’innalzo coi desideri oltre le nubi, tu mi trascini sulla terra. Quando parli, non ti so resistere: e allorchè più sono contento di me, sei capace di farmi arrossire e sdegnar contro me stesso.[82] Perciò, mio malgrado, ti fuggo; ti fuggo come le Sirene.[83] Non voglio più sentirti. Non voglio sentirti. (_fa per allontanarsi_) SOCR. (_sempre calmo_) Neanco se io ti favelli della gloria?[84] ALCIB. (_vivamente soffermandosi_) Oh, di quella sì!... ma non d’altro... SOCR. Infatti, se ti dicessero: Alcibiade, che preferisci tu: morir subito, o, contento degli onori che hai, rinunciar per sempre ad acquistarne di maggiori, — io credo che preferiresti morire[85]. ALCIB. (_vivissimo_) Certamente!... SOCR. E tu vivi, perchè speri divenire maggior di Pericle e di quanti illustri ebbe mai la Repubblica: ma se un Nume ti dicesse che otterrai tutto questo, e che sarai padrone di tutta l’Europa; ma che non passerai in Asia,[86] e _là_ non avrai nome... ALCIB. Oh, io non vorrei vivere per così poco!... (_con forza_) SOCR. E per questo vuoi andare in Sicilia[87] in soccorso a quei di Egesta... ALCIB. Certo. Son nostri alleati. È un debito di onore.[88] SOCR. Bene! per gli Dei! Soccorrere gli amici ed alleati, è un bel principio per la gloria. E il disinteresse è virtù cara ai Numi. Andare, vincere, ritornare — e dire ai cittadini: Abbiam lasciato laggiù 200 talenti[89] e 1000 morti: ma abbiam vinto e soccorso gli amici. Ciò è grande![90] ALCIB. Oh, ma adagio! Quei di Egesta ci faran le spese della guerra. E poi, non andiamo già per ritornare... SOCR. (_con fare ingenuo, fingendo sorpresa_) Che? vuoi restarci? ALCIB. Sicuro!... e conquistar la Sicilia! SOCR. Allora, non parliamo di servigio di amicizia. Perchè questa parola gli Dei non vogliono che si profani. Ma anche illustrare ed aumentare lo Stato colle conquiste è una gloria non meno grande. Tu avrai già pensato che ci vorrà un’armata ben grossa, perchè la Sicilia è grande, e le sue città sono molte e potenti... ALCIB. Certo. Più forte è il nemico, maggiore la gloria. È una guerra più grossa di quella del Peloponneso... SOCR. (_facendo sempre l’ingenuo_) Oh, che buona notizia mi conti! Stiam già facendo la pace con Isparta? ALCIB. Non ancora. (_con baldanza_) Ma la faremo là, in Siracusa. SOCR. Ah!... ma non ti pare — scusa sai, di queste cose io non m’intendo — non ti par egli imprudente affrontare un nemico più grosso e lontano, se ancora non abbiam potuto vincere questo che abbiam qui alle porte?[91] ALCIB. Ma da un pezzo lo avremmo vinto, se i capitani avessero saputo condur bene la guerra. Se ci fossi stato io! SOCR. Perciò parmi peccato che tu ti allontani. In ogni modo, meglio così, se no, senza di te, anche in Sicilia, le cose andrebbero come nel Peloponneso... ALCIB. Senza dubbio... SOCR. E pregherò quindi, per la salvezza dell’esercito e di Atene, gli Dei scacciamali, che tengan quieti gli Spartani fino al tuo ritorno, e là in Sicilia proteggano i tuoi dì... ALCIB. (_distratto_) Grazie. SOCR. (_con fare indifferente_) Anzi, siccome degli Dei bisogna fidarsi sino a certo punto, sarà bene tu ti tenga a qualche distanza dal campo di battaglia... ALCIB. (_con impeto_) Che! ad esser vile mi consigli? Non è Socrate che parla. SOCR. Perdona... ma poichè senza di te tutto laggiù andrebbe a fascio!... E tu convieni che se, dopo conquistata l’isola, non potessimo conservarla, e vi perdessimo tutte le nostre schiere, questo sarebbe per Atene peggior danno dell’esservi andati... ALCIB. Oh questo sì... ma... SOCR. E che Atene allora maledirebbe il primo che ebbe l’idea dell’impresa... ALCIB. Socrate! SOCR. (_senza dargli tempo a parlare, uscendo dalla pacatezza serbata fin qui e prorompendo con vivacità ed impeto repentini_) Oh, Alcibiade, prega dunque gli Dei che ti facciano immortale! Se no, che gloria ti par questa che giuoca la tua vita contro le sventure della tua città?! E ti parrà gloria, se, teco assente il fiore dei nostri, lo Spartano che spia le occasioni prendesse d’assalto le nostre mura? E ti sarà glorioso, essere laggiù, vincendo, capitano di una città serva? ALCIB. (_fatto pensieroso, impressionato dalla parole di Socrate, si riscuote_) Ma qui che faccio? E se questa occasione mi fugge, quando la gloria mi sorriderà? SOCR. (_con forza_) Non hai altri nemici a vincere, quando Sparta non fosse? Guardati intorno per Atene e per la Grecia, se nulla qui siavi da fare, prima di guardar più lontano! Guarda la repubblica cadente, da che le virtù della repubblica se ne andarono! Guarda le discordie dei cittadini, le leggi conculcate, da che Pericle governò: l’ingordigia de’ salarj[92], i rotti e molli costumi che generano l’ignavia nelle tende e sulle navi: le industrie rovinate dalle ciance del foro e della Elièa[93], dai mercenarj[94] e dalle feste[95]: le campagne desolate dall’asta spartana. Tu che agogni essere eroe, comincia ad essere cittadino! Tu che vuoi vincere il mondo, comincia a vincere te stesso![96] (_Alcibiade ha gli occhi a terra, fatto mesto, vergognoso e cogitabondo delle parole di Socrate. Col dorso della mano asciuga una lagrima involontaria. In questo punto un servo entra_) SERVO. Alcibiade! questa lettera per te. ALCIB. (_prende macchinalmente, senza dir parola, il papiro che il servo gli presenta, lo svolge e scorre: scosso improvviso dal suo abbattimento e dalla sua mestizia, dà in esclamazione di gioia_) Ah!... Glicera!... (_legge concitato_) «Sì, credo alla voce dell’alma segreta, «Che a scerner mi insegni tra i cantici e i fior; «Al core che amando diventa poeta, «Al forte che prega — chiedendomi amor!» (_smettendo di leggere, con esclamazione vivissima_) Oh, ma ora io non prego più! (_si rivolge, tornato allegro, a Socrate_) E ci vorrà del tempo, o Socrate, per riportar questa vittoria che tu dici? SOCR. Certo... ALCIB. In attesa, io ne conosco una, che ne esige assai meno!... O Socrate!... (_con voce vibrata, mostrandogli lo scritto_) Glicera mi chiama!... (_fa una pausa, indi sorridente soggiunge a voce piana, e con accento significantissimo_) Una vittoria alla volta!... SOCR. (_fa un passo come per trattenere Alcibiade che gli fugge via; lo segue dello sguardo, e quand’egli è uscito, incrocia le braccia e scrolla mestamente il capo_) Povera Grecia!... CALA LA TELA. QUADRO SECONDO ATENE. Luogo elevato e sassoso in vicinanza dello Pnice (πνύξ, luogo delle assemblee popolari). SCENA PRIMA DIOCARE, CARINADE, altri quattro o cinque popolani sdraiati, indi AMINIA. DIOC. Che furia! (_a Carinade, che arriva correndo, ansante_) Un uomo di Faléra correr tanto![97] Sembri un di quei che corrono nella festa delle lampade![98] Il gnomòne ancora segna l’ombra di quindici piedi...[99] CARIN. Davvero? Neanche la terza?! E a me parea di aver dormito le tre notti di Ercole![100] Meglio così! Già due volte, per pochi minuti di ritardo, fui segnato dalla corda rossa,[101] e il Tesmotéta[102] non mi volle dar i tre oboli[103] della paga. DIOC. (_sorridendo_) Ti premono molto i tre oboli![104] CARIN. Eh, perchè tu a vender pecore te la fai bene, e te la intendi co’ sacerdoti. Ma noi, per Cerere! se non ci fossero questi, e i tre oboli della paga di eliasta,[105] sul mestier solo del falegname ti so dir io che in giornata non ci si vive! E ancora, ancora, con quelli si tira là innanzi a stento... le nottole del Laurio in casa mia hanno una paura maledetta a farci il nido.[106] Oh Giove! quando mai verrà la rondinella!...[107] Ma non sono io solo che corre... Guarda Aminia suniese[108] il calzolajo,[109] che viene sbuffando... (_entra Aminia_) Buon dì, Aminia. Che abbiam di nuovo?[110] Come va? AMIN. Di male in peggio, alla guisa di Mandràbulo.[111] Scarpe non se ne vendono, e cause non se ne giudicano. Da tre dì, vado al mio dicastero, e lo trovo chiuso: e la mia donna, ogni mattina, si dispera, perchè le torno a casa senza i tre oboli in bocca.[112] Per tutti e dodici gli Dei![113] Se domani o dopo l’arconte non tien giudizio, non so come potrò comperarmi da cena...[114] Dovrò ricorrere a quella di Ecate,[115] e ber del vino delle _nove cannelle_...[116] DIOC. (_ridendo_) Un vino molto leggiero! Buon per me, invece, nel tribunale mio si lavora senza perdere un dì: e il bossolo dei voti non istà un momento in ozio. Ieri n’avremo condannati una ventina...[117] CARIN. Il guaio è che anco i tre oboli son pochi; una metà basta appena alla farina, alla legna, al companatico;[118] e tra la tassa del quarantesimo, e l’uno per cento, e le straordinarie,[119] e l’altre imposte, e gli interessi della luna nuova,[120] l’altra metà se la portan via. Intanto costoro che son nelle cariche, e inviati e provveditori e capitani, che non fan mai niente, si piglian le tre e le quattro dramme al giorno: e si intascano di soppiatto i doni degli alleati, e si pappano i tributi[121] e le decime di Minerva,[122] e si fan nutrire a spese pubbliche nel Pritanéo;[123] e noi, veri Ateniesi, Cecrópidi puro sangue, figliuoli della terra,[124] che la mercede ce la siam guadagnata combattendo in campo e sulle triremi, noi che avremmo ormai diritto di consacrar le armi nel tempio,[125] noi si stenta la vita ne’ tuguri e nelle torricciuole,[126] e per quella miseria dei tre oboli par che ne facciano la elemosina! AMIN. E sì poi che non ci dan nulla del loro! Fa un po’ il conto coi sassolini:[127] siam seimila giudici, fan circa 150 talenti all’anno; le entrate della città son 2000 talenti;[128] non ci dan dunque di paga nemmen la decima parte delle entrate... CARIN. E il resto dove va? AMIN. Lo sai tu?! Va in _ispese necessarie_, come rispondeva Pericle[129] quando gli domandavano i conti. Va ad ingrassare costoro che tengono il mestolo dello Stato, e vanno in giro vestiti di porpora, mentre io porto da tre anni questi cenci rattoppati, che sarebbe ormai tempo di dedicarli agli Dei.[130] Basta! là in Sicilia voglio anch’io rifarmi il guscio... DIOC. Sicchè oggi darai il voto ad Alcibiade?... AMIN. Certo. CARIN. Anch’io! Quello è un uomo! E che ama il popolo. E con lui se ne farà del bottino!... Perchè, sai, dicono che la Sicilia è ricchissima... e ci si bevono dei vini squisiti... DIOC. Oh, oh! (_guardando entro le scene_) Il sofista[131] Dionisodòro che vien da questa parte! Eccone uno che dei tre oboli non ha bisogno, e all’assemblea scommetto che non viene. In poche ore di lezione costui guadagna delle dramme... CARIN. E che cosa insegna? DIOC. Tutto.[132] Il talento di costoro è una meraviglia. Son ragionatori incomparabili che ti sanno il dritto e il torto di ogni cosa, e qualunque cosa tu dica, vera o falsa, con un certo parlare che loro hanno, te la confutano lo stesso. Ti insegnano a vincere davanti a’ tribunali tutte le cause, giuste ed ingiuste,[133] e a far comparir nero il bianco, e bianco il nero... CARIN. Ma davvero? Per cui, se io non pagassi a Creméte l’usurajo gli interessi dei debiti alla luna nuova, ed ei mi citasse al tribunale... DROC. Tu colla scienza di costoro non gli pagheresti più un obolo... CARIN. Per Erméte! Chiamalo, chiamalo... AMIN. Ohe, chiamalo anche per me... DIOC. Dionisodoro! SCENA II. Detti e DIONISODORO sofista: indi CLEONIMO, TIMARCO ed altri popolani. DIONIS. Che vuoi? DIOC. Costoro vorrebbero tu insegnassi loro quel certo parlare che tu sai... AMIN. CARIN. Sì, sì... _quello! quello!_ DIONIS. Ben volentieri. E son tuoi amici costoro? DIOC. Certo. DIONIS. Allora, la farem per poco: due dramme sole per ciascuno.[134] CARIN. Eh? due dramme? O non le ti paion troppe? DIONIS. Anzi, niente. CARIN. Come? due dramme non sono niente? DIONIS. Ma certo. E se vuoi — te lo provo. CARIN. Oh! oh! DIONIS. Avresti una dramma? CARIN. Per farne che? DIONIS. Per la prova... CARIN. Eccola — ma non sciuparmela, sai. DIONIS. (_piglia la dramma e gliela mostra fra le due dita_) Rispondi a me. Che cos’è questa? CARIN. Per Minerva! una dramma. DIONIS. Se è una, non può esser due. CARIN. (_guardandolo attonito_) Eh? mi pare. Fin qui ci arrivo anch’io. DIONIS. Ma potrebbe anche _non_ essere _una_ dramma. CARIN. Ehi là, dico! Non barattarmela. DIONIS. Quetati. Voglio dire che l’_essere_ dell’_uno_ è una cosa distinta dall’_uno_: perchè il dire _è_ — non è lo stesso che dire _uno_... CARIN. Ohe Aminia (_lo richiama che venga a sentir Dionisodoro_), sta attento come parla bene costui! DIONIS. E non può essere affatto la stessa cosa dell’uno, poichè allora il dire che l’_uno è_ — sarebbe lo stesso che dire _uno uno_ — e uno e uno farebbero due... CARIN. Ah! certo che fan due... DIONIS. E dunque l’_uno_ assoluto — per restar uno e non due — bisogna che non partecipi dell’_essere_ — perchè dal momento che cominciasse ad _essere_ — essendo l’_essere_, come hai veduto, un’altra cosa, — diventerebbero _due_ cose, e non sarebbe più uno. Non ti par giusto? CARIN. (_guardandolo estatico_) Giustissimo. DIONIS. E poi, se l’uno non fosse privo dell’_essere_ e se qualcosa dell’_essere_ entrasse nel suo _non essere_, allora di _non essere_ diventerebbe un _essere_ — e cioè sarebbe una cosa affatto diversa dall’uno... CARIN. E dunque?... DIONIS. Dunque l’_uno_ come _uno_ non _è_. — Ci son delle altre cose oltre l’uno? CARIN. Eh? (_lo guarda con aria di chi non intende_) DIONIS. Mi spiego. Tu mi hai dato questa che dici ch’è una dramma. Danne qui un’altra... CARIN. (_gli dà esitante un’altra dramma_) Oh, ma non farmela sparire, perchè ci voglio bene, io, a questi cùculi del Laurio: son rarità preziose in casa mia. DIONIS. Dà qua. Questa dunque è un’_altra_ da quest’_una_ che m’hai dato... CARIN. Sicuro ch’è un’altra. DIONIS. Se ci son dunque delle _altre_ cose oltre l’_uno_, e se l’uno come uno non _è_, nessuna di queste _altre_ cose può _essere uno_... CARIN. Sarà benissimo come dici... DIONIS. E neppur due, e neppur tre, perchè la _pluralità_ suppone l’_unità_, e il _due_ e il _tre_ non sarebbero ancora che l’_uno_ moltiplicato più volte... CARIN. Certo. DIONIS. Dunque se l’uno non è, nessun’altra cosa può _essere_, nè come _uno_, nè come _più d’uno_... CARIN. Per cui... DIONIS. Per cui, queste dramme non possono essere nè una, nè due, nè parecchie... e per conseguenza — son niente affatto. (_Risate fra gli astanti. Dionisodoro volge intorno sguardi trionfanti; indi s’avvia per allontanarsi_) — Oh addio!... i miei scolari mi aspettano... CARIN. (_dopo aver guardato stupefatto Dionisodoro, si volta ad Aminia_) Hai capito tu...? AMIN. Io no — e tu...? CARIN. Io sì, qualcosa ho capito... AMIN. Che cosa? CARIN. Ch’egli mi porta via le due dramme... (_fa un gesto significante ad Aminia, poi chiama forte Dionisodoro_) Ehi là, Dionisodoro! (_Dionisodoro si ferma_) E tutte queste belle cose tu insegni per così poco? DIONIS. Oh, queste ancora non le sono che bazzecole, a confronto del resto. E per due dramme sole!... Vieni, vieni da me; chiassetto d’oro verso Agnone,[135] la prima casa a destra; vedrai, vedrai... CARIN. (_a Dionisodoro_) Però scusa. Chiariscimi una cosa che non ho ben capito. Tu dicevi tuttavia da principio che questa che t’ho data è una dramma? (_gli ripiglia delicatamente di mano una delle dramme._) DIONIS. Lo dicevo. CARIN. E che questa è un’altra... (_gli ripiglia delicatamente l’altra_) DIONIS. Un’altra. CARIN. Ma dunque son proprio due! DIONIS. Appunto. CARIN. E tu dici che due è la stessa cosa che niente? DIONIS. La stessa che niente affatto. (_sorridendo di compiacenza, mentre stende la mano a riprenderle_) CARIN. Bravo! E allora — poichè è la stessa cosa — ti do niente. (_si rimette le due dramme pacificamente in tasca e gli volta le spalle. Grande risata fra gli astanti_) AMIN. Bravo Carinade! DIONIS. Ma pagami la lezione. CARIN. Te l’ho pagata! Non è vero, Aminia? AMIN. Verissimo. (_Dionisodoro parte incollerito fra le risate. Sopravvengono Cleonimo, Timarco ed altri cittadini_) Oh buon dì, Cleonimo... Che faccia scura, Timarco! Sembri uscito dall’antro di Trofonio.[136] TIM. Fa conto. È tutta la mattina che gli augurii mi perseguitano.[137] Mi alzo da letto, e mi buccinan le orecchie;[138] esco di casa e una dònnola mi attraversa la via; le scaglio dietro tre sassolini per iscongiurare il malaugurio, e non ho fatti dieci passi in là che incontro un epilettico furioso... Qualche disgrazia mi sovrasta... DIOC. Vuoi un consiglio? Sacrifica subito un’agnella bianca e ben grassa ad Ercole, Apollo e Polluce sgombratori dei mali...[139] Vieni da me... te ne venderò una che è una meraviglia... TIM. (_sospirando_) Ci verrò. DIOC. Anzi veramente, s’io fossi in te, per essere più sicuro, ne sacrificherei una per ciascun dei tre Numi... Vieni, vieni da me... AMIN. Del resto, consolati, non sei solo ad aver cattivi gli augurii... A me stanotte i topi han bucato il sacco della farina...[140] TIM. E sei stato dall’indovino? AMIN. Sì, certo. TIM. Che ti disse? AMIN. Che il sacco bisognava farlo rattoppare... e la farina darla a lui. DIOC. (_scrolla il capo e fa scoppiettare la lingua in segno di disapprovazione_) Un’agnella ci voleva... AMIN. (_battendogli sulla spalla_) Sta cheto. Per oggi contentati. Ne hai già contrattate tre... CLEON. Oh, a proposito di presagi, non dite nulla dei lampi e dei tuoni[141] di stanotte? Mi hanno svegliato mentre sognavo che la statua della Dea Atenapólia[142] dal Partenone scotendo l’égida minacciava la città; e la sfinge del suo elmo, mandando fiamme dalla bocca, aveva disseccato in un attimo il grande ulivo... TIM. e AMIN. Davvero? CLEON. Com’è vero che mi chiamo Cleonimo. Già dice bene qui, Timarco, qualche malanno per aria ci dev’essere... CARIN. (_a Cleonimo_) Io, fossi in te, andrei dal vecchio Lampone,[143] quel che tiene esposte le tabelle presso il tempio di Bacco e spiega i sogni...[144] DIOC. (_a Carinade_) Bel costrutto! Se il sogno è di malaugurio, l’indovino può borbottare _Aski Kataski_[145] fin che vuole, ma già non glielo cambia... (_a Cleonimo_) Dà retta a me. Sacrifica agli Dei scacciamali... E la vuoi sapere la causa di questi segni infausti che della lor collera ci mandano gli Dei? CLEON. (_affettando aria ingenua_) Che sia la spedizione di Sicilia? AMIN. Oh senti questa! DIOC. Che! che! — Guarda là in fondo (_addita verso le quinte_). Quella gente là. Amin. Ma quel che passa laggiù a piedi scalzi,[146] se non erro, è Socrate, di Sofronisco alopecense... Dioc. Lui in persona. Vedilo che tira dritto, gittando occhiate a dritta e a sinistra con quella sua andatura superba e la sua aria sardonica,[147] come fosse il gran re; tira dritto e all’assemblea non viene.[148] Degli affari dello Stato costui non si occupa; professioni non ne esercita; ma il tempo lo trova per girovagare ozioso[149] nei quadrivj e nelle botteghe, corrompere la gioventù, scrutar le cose sotterranee e quelle al disopra delle nuvole,[150] insegnar che il cielo è un forno che circonda la terra e noi ne siamo i carboni,[151] che il terremoto è il consiglio dei morti[152] e le nubi e non Giove son quelle che mandano il tuono e la pioggia, e che Giove e gli altri Dei non esistono, bensì il turbine[153] e i demonj in vece loro... CARIN. Tali cose insegna costui? DIOC. Ed altre peggiori. E dacchè costoro vanno spargendo che non ci son gli Dei, alle are fumano più rari i sacrifizii... AMIN. (_continuando la frase, con accento un po’ canzonatorio all’indirizzo di Diocare_) Di pecore se ne vendono più poche...[154] DIOC. E i numi si vendicano con noi. Oh, ma un dì o l’altro a costui bisognerà pensarci... TIM. Oh, ve’ chi arriva! Cimoto! CARIN. (_chiamando di lontano_) Cimoto! Cimoto! SCENA III. Detti, e CIMOTO. CIM. (_entrando scambia segni di intelligenza, non visto, con Cleonimo_) Buon dì, cittadini... Quanto manca all’assemblea? CARIN. Tre quarti d’ora. I Pritani[155] ancora non son venuti... E anche tu, già, voterai per la spedizione, e per la nomina del valoroso Alcibiade. CIM. (_tentennando il capo con accento di chi dice una cosa contro volontà e persuasione_) Sì... CARIN. Oh, non ne sei troppo persuaso? Non ti par egli un eccellente capitano? CIM. (_c. s._) Sì... peccato che sia così giovane per un’impresa di quella fatta!... Soltanto ventinove anni...[156] CARIN. Maggior merito, per Ercole! Così giovane e già così bravo... AMIN. E che testa quadra!... CIM. (_c. s_.) Sì... AMIN. (_vivamente, con malumore_) Negalo un po’, se hai coraggio! CIM. Un’ottima testa! Se non fosse così matto, così sventato; e avesse un po’ d’amore allo studio! Peccato! un giovine così promettente, così pieno di meriti, ubbriacarsi tutte le notti, e invece di istruirsi nell’arte del capitano, consumar il tempo fra la crapula e le donne. Eh! che ne dici tu, Cleonimo? CLEON. (_con fare ipocrito_) Ah sì, un vero peccato! CIM. (_in tutto questo suo dialogo, Cimoto affetta sempre intenzionalmente un’aria di indifferenza, pure scrutando gli animi degli astanti, e mirando a far impressione su di loro, senza darsene l’aria_) Tanto più quando si deve capitanare un’impresa così colossale, e si tratta di affidargli la vita di migliaia di cittadini... E dir che questo ragazzo, col tempo e collo studio, avrebbe potuto fare così buona riuscita... CARIN. Oh, ma noi, per maggior sicurezza, gli daremo Nicia e Lamaco a compagni nel comando... CIM. (_vivamente_) Ben fatto, ben fatto, per Giove! Così un po’ per volta imparerà l’arte del capitano, senza esporre troppo l’armata a pericolo... AMIN. (_fatto improvvisamente attento dalle sue parole, si volge a Diocare e Timarco, i quali discorrono fra loro_) Ehi! Sentite che dice costui... CIM. E senza trarla a rovina, perchè, allora, credo, non francherebbe la spesa di nominarlo... CARIN. Oh, certo, non francherebbe la spesa!... CIM. (_fingendo sempre di non accorgersi della impressione delle sue parole sugli astanti_) E un po’ di esperienza a questo giovine farà bene... CLEON. Per Minerva! se farà bene!... CIM. Perchè di doti naturali ne ha, e l’amor proprio non gli manca: anzi, è quel che lo rovina... perchè ne ha fin troppo: e ciò lo spinge a imprender cose troppo superiori alle sue forze... CLEON. E a credersi un po’ troppo da più di tutti gli altri... AMIN. (_vivamente_) Più di tutti noi, si crede? CIM. (_fingendo difendere e proteggere Alcibiade_) Fumi giovanili... TIM. Che dice costui? AMIN. (_più vivamente_) Che Alcibiade si tiene da più di noi![157] Ma per Ercole! noi non vogliamo! perchè siam noi che lo abbiam portato in alto... DIOC. (_con forza_) Certo, che non vogliamo... CIM. (_c. s. fingendo proteggere Alcibiade_) Oh, ma vedrete... siccome di buone doti ne ha, e non gli manca che l’esperienza... così alla prima sconfitta, laggiù in Sicilia, si correggerà... CARIN. (_vivamente_) Alla prima sconfitta? CIM. Sì, sì... vedrete... Allora imparerà che guidar una guerra è più difficile del sedur femmine e guidar cocchi, e che dal dire al fare c’è di mezzo il mare... E siccome di buone doti, per correggersi, ne ha, così una prima sconfitta di esperimento... AMIN. Ma che sconfitte! Noi non vogliamo sconfitte! CARIN. Ma che esperimento! Noi non siam di quei da Megara! e non siam uomini di Caria[158] da far esperimenti su di noi... CIM. Ma via, siete troppo severi! Voler che un giovane inesperto, fin qui abituato solo a darsi buon tempo, diventi di punto in bianco un capitano provetto, sicuro della vittoria!... Un giovane galante che porta per insegna nello scudo un amorino...[159] CARIN. Ah, si! l’ho vista anch’io quella insegna! ma è una insegna da donna, e non da capitano quella! AMIN. E neppure da buon cittadino! I buoni cittadini portano nello scudo emblemi della patria[160] e non amorini. CIM. (_coll’accento benevolo di chi cerca scusare_) Leggerezze, leggerezze di gioventù! Come quella dello spendere e spandere e introdur la moda dei calzari di lusso all’_Alcibiade_,[161] e portar la chioma lunga e cicale d’oro nei capelli come le donne[162] e indossar vesti fastose di porpora ermiónica...[163] Dioc. Veramente... qui fra noi, diciamo fico al fico,...[164] le son tendenze da tiranno queste....[165] CIM. E quell’altra del letto!... Cleonimo, ma sarà poi vera? CLEON. A me l’avean contata per certa i soldati che l’hanno vista... Ma ne contan tante!... AMIN. Che cosa? che cosa? CARIN. Contala, contala! CLEON. Che nell’ultima spedizione navale a Fotidea, mentre i soldati sulla sua trireme stavano a disagio, stipati come sardelle, ei s’era fatto tagliar nella nave il tavolato, ove acconciarsi il letto, per non giacere sulle nude tavole, ma su corde ivi distese, da potervi dormir più mollemente.[166] AMIN. (_scandolezzato_) Ma è una femmina, e non un uomo costui! CIM. Abitudini! abitudini! Per questo, dicevo, non bisogna esiger troppo... Avete sentito dei presagi? CARIN. Che presagi? CIM. La notizia da Delfo giunta stanotte... CARIN. DIOC. AMIN. (_vivamente, con curiosità_) Conta, conta! CIM. Uno stormo di corvi scese colà svolazzando nel recinto del tempio intorno alla nostra palma di bronzo, e a colpi di becco tanto vi lavorò, fin che vi fece cadere tutti i frutti dall’albero...[167] AMIN. Davvero?... CIM. La notizia è venuta agli Eumòlpidi.[168] E poi... CARIN. Poi... cosa? CIM. Che giorni son questi? CARIN. I giorni delle Adonie. CIM. E non ve ne siete accorti venendo qua? Non avete incontrato per via le processioni funerarie e i simulacri di cadavere esposti? Non avete udito i gemiti e i pianti delle donne d’in sui tetti? AMIN.[169] Così scoppiassero dal piangere una volta, che stamattina m’han rotto il sonno e non m’han lasciato chiuder occhio. Mi volto sur un fianco per dormire, e mia moglie sbraita saltando ubbriaca per la stanza: _Ahi! Ahi! Adone!_ — Oh, _sta un po’ zitta_, le dico, _tu e il tuo Adone insieme!_ e mi volto sull’altro fianco; e lei colle compagne mi va a ballar sul tetto da far tremare la casa, gridando tutte a squarciagola: _Ahi! Ahi! piangete Adone! picchiatevi il petto ch’è morto Adone!_[170] C’è mancato poco non saltassi su furioso, e a picchiarle, ma proprio in regola, non ci andassi io... CIM. (_con sussiego_) Religione! rispetto alla religione! Ma dimmi un po’: credi tu che sia casuale la ricorrenza delle Adonie proprio nel giorno della votazione dell’impresa? E... CARIN. (_vivamente_) E se non è, che cosa fare? che cosa fare?[171] CIM. E se non è, lo sai tu che significano questa coincidenza e il presagio dei corvi di Delfo? AMIN. Che significano? CARIN. Sentiamo, sentiamo! TIM., DIOC. _e altri popolani_. (_vivissimamente_) Parla, parla, Cimoto... CIM. (_assume un’aria grave di mistero e di importanza, mentre tutti i cittadini che son sulla scena si stringono intorno a lui_) Significa che... SCENA IV. Detti ed ALCIBIADE. ALCIB. (_fermo, in sull’entrare in iscena, ancor distante dal gruppo che è intorno a Cimoto, chiama a voce forte_) Ateniesi! (_Cimoto resta interdetto e sconcertato all’udir la voce di Alcibiade_) CARIN. _ed altri_. Alcibiade!!! AMIN. Oh, Alcibiade! bravo! vieni a tempo! Ne abbiam sentite di belle sul tuo conto. Aspetta un momento, e dopo parlerai!... CARIN. Sì, sì, aspetta un momento e poi... (_con accento di minaccia verso Alcibiade; indi si volge a Cimoto_) Su, su, parla, Cimoto... ALCIB. Una parola sola, e poi taccio. CARIN. No, no, aspetta... AMIN. Via, dilla presto... ALCIB. Avete visto il mio cane? CARIN. O che! del suo cane ci domanda il temerario? Siam noi custodi del suo cane? ALCIB. Ma la sapete la novità? AMIN., CARIN. _ed altri_. Quale? quale? ALCIB. Quel mio magnifico cane di Creta...[172] (_fa una pausa di sospensione_) AMIN. Sì, sì... quel cane così alto... bianco e nero... ALCIB. Proprio quello... che mi costava settanta mine... (_nuova pausa sospensiva_)[173] CARIN. Ebbene?... ALCIB. Con quella stupenda coda tutta bianca... AMIN. (_impazientito_) Sì, sì... ebbene... ebbene...? ALCIB. Ebbene... non l’ha più. Glie l’ho tagliata.[174] CARIN., AMIN., DIOC. _e altri in coro_. Ah!! AMIN. _e_ TIM. Impossibile! CARIN. _e altri_. Dov’è? Dov’è? ALCIB. (_additando verso l’interno della scena_) Eccolo là... CARIN. _e gli altri in coro_. Ah! Ah![175] (_gridando ed esclamando corrono via tutti in folla precipitosamente nella direzione additata da Alcibiade, e la scena in un attimo rimane sgombra, non restandovi che Cimoto, piantato lì solo, confuso e mortificato, — e Alcibiade_). SCENA V. ALCIBIADE e CIMOTO. ALCIB. (_seguendo dello sguardo i cittadini che son corsi dietro il cane, esclama forte_) Ecco i vincitori di Maratona!![176] (_prosegue a voce più bassa, con inflessione di mestizia_) Povero popolo! come t’han cambiato! (_si avanza sorridente e calmo verso Cimoto, il quale, confuso, tien gli occhi a terra_) Ebbene, o Cimoto, par che la coda del mio cane sia più eloquente della tua lingua!... Però non giudicarli severamente... Non han tutti i torti costoro... Per che cosa mai le imposture ridicole di quei che lo ingannano, e i tuoi discorsi e i tuoi presagi dovrebbero aver più importanza della coda del mio cane?... (_d’improvviso mutando accento, a voce fredda e calma_) Quanto ti han dato per recitar questa parte? CIM. (_confuso, cercando balbettare scuse_) Ma... io... ALCIB. (_secco e minaccioso_) Quanto t’han dato? CIM. (_intimidito_) Cento dramme. ALCIB. (_ritornato calmo_) E la sai la legge? CIM. Che legge? ALCIB. Chiunque piglia danaro per far danno a un cittadino, infame egli e i suoi figli...[177] Pena la morte. CIM. (_spaventato_) Ohimè! ALCIB. Sei onesto tu? CIM. Per Ercole! se lo sono. Mi offendi a domandarmelo... ALCIB. (_pacatissimo_) Ebbene... poichè sei onesto — e la legge tu la rispetti — e non hai preso che cento dramme — di duecento ti contenterai... Eccole... (_gli dà una borsa che l’altro prende, dopo qualche esitanza_) Ma li spiegherò io, a costoro, i tuoi presagi... Intendi? CIM. Ho inteso. ALCIB. (_imperioso_) E starai zitto... CIM. Più zitto di un Areopagìta...[178] SCENA VI. ALCIBIADE, CIMOTO: e tutti gli altri che ritornano in frotta. Indi, in disparte, TESSALO. CARIN. (_mentre rientra correndo cogli altri_) Che cattiveria! povero cane! DIOC. Vergogna! AMIN. Povero cane! Una così bella coda! TIM. Vergogna Alcibiade! Così rispetti le leggi?[179] Che cosa dire di te? ALCIB. Ah tu ameresti meglio si dicesse di me che ho rubato, come Cleone, i danari del popolo? AMIN. Oh, no, no! CARIN. Ben risposto, per Giove! ALCIB. (_arringando_) Ateniesi! Glorioso,[180] bellissimo popolo del magnanimo Erettèo!...[181] CARIN. (_ad Aminia_) Costui sì, parla bene. Quel villan di Cleone ci diceva invece: Infingardi! mangia-oboli! mangia-fave![182] ALCIB. (_arringando a voce alta e forte_) Eucrate,[183] il mercante di stoppe, governando, lasciò sconfiggere i nostri nella Calcidica[184] e coi tributi del popolo si arricchì... AMIN. È vero, è vero! ALCIB. Governando Callia, il pecorajo, noi perdemmo Platea, vedemmo posti i nostri alleati a fil di spada,[185] e Callia, da povero che era, lasciò un patrimonio... CARIN. Verissimo!... ALCIB. Governando Cleone, il conciapelli, fummo sconfitti dai Beoti a Tanágra,[186] dagli Spartani ad Amfipoli,[187] e Cleone intascando i danari degli alleati, rubando cinquanta talenti allo Stato,[188] si avanzò di che andar in cocchio a tiro due... AMIN. Ah sì, quel ladro di Cleone! ALCIB. Queste belle cose ricordiamo di loro; prego (_con voce solenne_) gli Dei e le Dee dell’Attica abitatrici[189] e il Pizio Apollo[190] protettor della città, che di me non si possa giammai ricordar nulla di più biasimevole di questo: — che ho tagliato la coda ad un cane — e il cane era _mio!_ AMIN. Bene! CARIN. Bravo![191] DIOC. _e altri in coro_. Viva Alcibiade! ALCIB. Ed ora sapete, che cosa testè mi diceva Cimoto qui presente, il quale lo seppe dai sacerdoti, intorno ai presagi della spedizione? AMIN. _e_ TIM. Che cosa? ALCIB. Che i Numi manifestamente ci sorridono; perchè la palma di Delfo, simbolo della potenza e della gloria onde Atene sovrasta a tutti i Greci[192] (_segni di approvazione fra i popolani_) è rimasta dritta ed illesa dai corvi: ma i frutti, che ricordano le nostre vittorie antiche, son caduti, perchè la fama di quelle sta per essere cancellata da vittorie ben maggiori che ci aspettano laggiù. TESS. (_entrato in iscena da qualche momento, si avvicina di soppiatto a Cimoto, parlandogli sottovoce_) Tu hai detto questo, furfante? CIM. (_guardandolo con disinvoltura_) Sì, sì... AMIN. Han detto questo i sacerdoti? È vero, Cimoto? CIM. Verissimo. TESS. (_minacciando, a Cimoto sottovoce_) Ti pagherò... CIM. (_mostrandogli la borsa_) Tralascia. Son già pagato. TESS. (_ad Aminia, accostandosegli, sottovoce_) Ma non è ancora una ragione per eleggere capitano un che sempre si ubbriaca... AMIN. (_a Tessalo_) Ah, sicuro! (_a voce forte, ad Alcibiade_) Ebbene, Alcibiade, poichè i presagi son buoni, noi andremo in Sicilia... ma non ti farem capitano... perchè tu ti ubbriachi troppo... CLEON. (_accostandosi a Diocare, sottovoce_) E l’affar del letto? DIOC. (_forte, ad Alcibiade_) E sei troppo effeminato! Ti fai fare il letto di corde apposta per dormir comodo sulle triremi! TESS. (_continuando ad aggirarsi di soppiatto tra la folla, egli e Cleonimo, e parlando all’orecchio or dell’uno or dell’altro, sempre cercando non lasciarsi scorgere: s’appressa a Carinade, sottovoce_) E l’affar dello scudo... CARIN. (_a voce forte ad Alcibiade_) E pensi troppo agli amori delle donne! porti fin l’insegna di un amorino nello scudo!... ALCIB. (_che in questo frattempo non ha perduto d’occhio Tessalo e Cleonimo_) E null’altro? E null’altro? (_con forza_) Oh, per Giove e per gli Dei![193] o Ateniesi, eleggetemi subito allora!... CARIN. (_con compiacenza, ad Aminia_) Eh, com’è franco! Mi piace!... ALCIB. (_proseguendo_) ... e cingetemi le corone che il Dio Tebano ci presenta in segno di libertà![194] Che importa a voi ch’io mi ubbriachi alle mense, se i miei consigli nell’assemblea, per confession vostra, furon sempre da savio? Vada pei tanti savii che vi danno consigli da ubbriaco! CARIN. _ed altri_. Bravo! ALCIB. Purchè le mie opere siano da uomo, che importa a voi s’io frequento le donne? Furono da donna forse le mie opere a Delio e a Potidea? AMIN. _e_ CARIN. No, no! TIM. _e_ DIOC. No, no, Alcibiade! ALCIB. (_rincalzando_) A voi che importa del sapere come io dorma i miei sonni, quando queste cicatrici vi rispondono delle mie veglie? AMIN. È giusto. È giusto. ALCIB. Ebbene, sì, sacrifico al figlio di Venere, e porto un amorino nel mio scudo! Voi però, o Ateniesi, mi siete testimonî che il mio scudo nessun nemico me lo ha preso, e l’ho sempre riportato dalle battaglie... TIM. _e_ CARIN. Sì, sì... ALCIB. Invece, il prode Cleonimo, che qui vedo, nel suo scudo effigiò il terribile Teseo colla mazza, ed Ercole furibondo colla clava... (_Cleonimo cerca nascondersi tra la folla; Alcibiade lo apostrofa con voce dolce, ironica_) O buon Cleonimo... dov’è il tuo scudo? AMIN., CARIN. _e_ DIOC. (_ridendo cogli altri e gridando_) Ah! ah! l’ha gettato via per iscappare![195] ah! ah! l’ha gettato via! Via, via dall’assemblea![196] (_Cleonimo confuso si dilegua tra le risa e le fischiate_) AMIN. _e_ TIM. Viva Alcibiade capitano! DIOC., CARIN. _ed altri_. Sì, sì, Alcibiade capitano! Viva Alcibiade! (_Tessalo, in disparte sulla scena, fa gesti di rabbia repressa; mentre le acclamazioni continuano clamorose, entra Timone_) SCENA VII. TIMONE il misantropo, e detti. TIMON. (_entra vestito di luridi cenci, con una zappa in ispalla, e fermo in sull’entrare, posata la zappa a terra e su di essa poggiandosi colle due mani, grida con voce più forte, così da coprir quella degli altri_) Viva Alcibiade! CARIN. Timone il misantropo! ALCIB. Timone! DIOC. Ora ne sentirem di belle! TIMON. Bravo, Alcibiade![197] Coraggio! fatti grande, e cammina sulle schiene di questa torma di schiavi! fatti grande, perchè tu possa diventare la peste ed il flagello di costoro, di Atene e della Grecia! AMIN. Dalli all’insolente! DIOC. Addosso al temerario! TIM. _ed altri_. Addosso! ALCIB. (_con voce tuonante, imperiosa_) Silenzio! E che nessuno lo tocchi! Lasciatelo parlare! (_tutti ammutiscono_) TIMON. Vedi, come già ben ti obbediscono! Non così docili obbediscon le pecore alla verga del mandriano! Possa essere tu sempre ascoltato così, finchè abbi tratto Atene alla rovina, e la terra, coperta di cadaveri, si penta — ma sia troppo tardi — di averti portato! TIM. _e_ DIOC. Ma è troppo! è troppo! ALCIB. Silenzio! (_Alcibiade si è fatto scuro in volto e pensieroso: ha gli occhi a terra_) TIMON. Lascia ch’io ti abbracci, Alcibiade! Alla folgore di Giove si son rotti i raggi, ed essa non fa più paura ai tristi ed ai bugiardi pari tuoi, che non ne faccia il moccolo d’una lucerna mattutina. Giove, il tonante Giove, ha preso il decotto di mandragora[198] e dorme; qui s’inganna, si corrompe, si spergiura, ed egli non sente; si fan scelleraggini, ed ei non le vede; povero bietolone, è diventato cieco, sordo e barbogio![199] e già in Creta gli preparan la tomba.[200] Su allegro! una buona notizia ti do. La virtù, la fede, il valore, l’onore, l’amicizia, il pudor delle vergini sono scomparsi dalla terra; le donne negano il latte del seno ai loro pargoli,[201] e perfin le lupe hanno abbandonato nella tana i lupicini. Perciò tu sarai grande, o Alcibiade! tu che porti nelle tue vene il latte di Sparta![202] Lascia ch’io t’abbracci! Cresci ed abbindola colle ciance questa turba di cianciatori! rompi la fede a questo popolo di frodolenti e di spergiuri!... AMIN. (_a Carinade_) Lo senti? Parla con te. CARIN. (_ad Aminia_) Sta zitto! È con te che parla. TIMON. Spoglia a man salva questi usurai, divoratori di paghe!...[203] TIM. (_a Diocare_) Questa poi è per te. DIOC. (_a Timarco_) Oibò! è per te. TIMON. (_proseguendo senza interrompersi_) Calpesta le loro libertà, porta l’infamia nelle loro famiglie, cambia in meretrici le loro spose! Trascinali alle guerre, e siano ingiuste, perchè le maledizioni li seguano: e siano disastrose, perchè nessuno ne ritorni! (_mentre Timone segue le sue invettive, moti d’ira repressa si scorgono fra i cittadini_). E quando tutto, anche qui, per opera tua, sia sterminio, ne sopravviva uno solo — e sia il più giusto — per assassinar te a tradimento, poi sprofondi maledetto nella terra anche lui! (_Alcibiade si è riscosso vivamente, ma non dice verbo. Timone, rimessa la zappa in ispalla, si allontana, traversando la scena. I popolani si agitano e danno in esclamazioni d’ira_) CARIN. _e_ AMIN. Dalli allo sfacciato! TIMON. Ateniesi! ho un bellissimo fico laggiù nel mio orto a Colitta:[204] vado a strapparlo per far legna da dar fuoco al Partenone.[205] Il suo tronco è alto, i suoi rami sono robusti, e le sue ombre sono amene. Chi di voi bramasse appiccarvisi, fin ch’è a tempo, s’affretti e venga con me! (_esce sghignazzando_) CARIN. È troppo, Alcibiade! Egli ha insultato te e noi! AMIN. È troppo! Bisogna castigarlo l’impudente! trascinarlo dal Tesmoteta![206] TIM. _e altri_. Sì, sì, castigarlo! (_fan per inseguire Timone, già uscito di scena. Alcibiade li arresta, sbarrando loro il passo_) ALCIB. Fermate! È già anche troppo castigato, l’infelice, perchè non sa che odiare! Se volete punirlo di più, pregate i Numi lo faccian vivere tanto da vedere in me smentite le sue profezie, e Atene vittoriosa, libera e grande! (_odesi la voce del banditore dall’interno_) BANDIT. (_di dentro a voce lenta_) «Cittadini ateniesi, all’assemblea! I Pritani han preso posto, e i purificatori han fatto le lustrazioni. Avanti, avanti, in luogo purificato!»[207] CARIN. (_correndo via_) All’assemblea! all’assemblea! attenti alla corda rossa! TIM. Attenti ai tre oboli! alla voce della patria![208] AMIN. (_correndo via_) All’assemblea! vien la corda rossa! (_I cittadini tutti corrono via, mentre nello sfondo della scena due servi pubblici si avanzano tenendo distesa una corda rossa, e mandandosi i più lenti innanzi, al modo che nelle odierne feste da ballo si usa per far posto alle coppie che succedono. — La scena rimane vuota, restandovi soltanto, fuori dello spazio percorso dai servi colla corda tesa, sul davanti della scena, Alcibiade nel mezzo, Tessalo da una parte, Cimoto dall’altra_) SCENA VIII. ALCIBIADE, TESSALO, CIMOTO. ALCIB. (_avanzandosi verso Tessalo, con voce ironicamente affabile_) E tu, o Tessalo, non vieni all’assemblea? A te i tre oboli non occorrono, ma la tua parola oggi potrebbe esservi utile! Tu, che sei uno di quelli che sanno, fai male, in affari così gravi, a privare il popolo de’ tuoi consigli!... Dianzi, parlavano tutti: tu solo non hai parlato... TESS. (_interdetto, confuso_) Io... io... ti ascoltavo... ALCIB. (_affabilissimo, con velata ironia_) Ah!... e ti pare che io abbia detto cose giuste?... TESS. (_sempre più confuso_) Certo... giustissime... ALCIB. (_sempre calmo e affabile_) Anche tuo padre Cimone avrebbe detto così... Era un uomo giusto e prode tuo padre Cimone... sai... e tu... (_fa una pausa_) TESS. (_timidamente_) E io...? ALCIB. (_cambiando repentinamente accento, con voce fatta d’improvviso grave, concitata, severissima_)... tu non meritavi di essere suo figlio. TESS. (_risentendosi_) Alcibiade! ALCIB. (_rincalzando con forza_) Tu che attacchi nascosto nell’ombra e alle spalle! TESS. Alcibiade! ALCIB. (_beffardo_) Oh, non andare in collera! Sii prudente! Ai tuoi simili non conviene lo adirarsi! hai taciuto fin qui, taci ancora! Men codardo di te, costui (_addita Cimoto che, tra pauroso e curioso, in disparte sta osservando la scena_) che parlava in pubblico, da te pagato: egli osava almeno!... Io l’uom dissoluto... e tu... il virtuoso... l’onesto... (_con iscoppio repentino di voce accennando Tessalo e levando in alto lo sguardo_) O terra, o Dei![209] guardate come è fatta l’onestà! (_Cimoto a questo punto, alquanto impaurito, fa per allontanarsi quatto, quatto. Alcibiade lo richiama_) Cimoto! (_Cimoto ritorna, un po’ trepidante, verso Alcibiade, fermandosi a distanza. Alcibiade si avanza verso lui e lo prende per mano_) Scusa, sai, Cimoto, se dianzi ti ho chiamato onesto per burla! È sul serio (_con forza_), è sul serio che parlavo! Non vergognarti!... Su la fronte! Portala alta davanti a costui, perchè tu, nato, — senza tua colpa — dal fango, hai più coraggio di lui, che nacque eupatrìda, dal sangue di Cimone! Su la fronte! e resta con me, onesto Cimoto! poichè, per tutti gli Dei, se tu nol fossi, la infamia non avrebbe nomi per costui! (_si conduce via Cimoto, mentre getta uno sguardo fulminante di sprezzo sopra Tessalo annichilito, e si allontana ripetendo a Cimoto_) Su, su la fronte, onesto Cimoto! CALA LA TELA. QUADRO TERZO _Anno 415 avanti l’Era Volgare_ ATENE Casa d’Alcibiade. Sala da convito sfarzosamente arredata. Architettura e mobilio ricchissimi. Colonne e statue: soffitto e pareti a dipinti, portiere ad arazzi e tappeti di Persia a figure. Mobili incrostati d’oro e d’avorio. Ricche lucerne pendenti dalla vôlta. Letti coperti di porpora ed oro, già pel convito disposti. SCENA PRIMA ALCIBIADE e GLICERA. (_Alcibiade in atteggiamento calmo — Glicera agitata, irritatissima_) GLIC. Non fingere! non fingere! Risparmia almeno una nuova menzogna! È questa la tua fedeltà? Così giurasti d’amarmi? ALCIB. E il vero giurai. O non abbandonai per te la bellissima Teódota, la affascinante Gnaténa?[210] Non mi diedi io interamente a te con tutto l’abbandono di un’anima ardente? Quei dì passati insieme non trasvolarono sulle nostre teste sereni e lieti come giorni alcionidei?[211] T’avevo promesso — a te d’ogni amore sdegnosa — insegnarti nel mondo una felicità sovrumana di cui avessero invidia gli Immortali... quella promessa, o Glicera... la trovasti bugiarda? GLIC. Oh! così mai non ti avessi dato ascolto! E quando cessai io d’amarti? ALCIB. Troppo, troppo mi amasti! Noi tracannammo troppo avidamente questa tazza che i Celesti ne porsero: soltanto una rugiada di cielo potea perennemente da capo ricolmarla: ma le fiamme della tua gelosia la disseccarono... GLIC. Non la mia gelosia, la mia dabbenaggine, devi dire. Per essa or son fatta oggetto di sprezzo e di scherno a colui che diceva di adorarmi... (_piange_). ALCIB. Scherno? Disprezzo? Oh Nemesi mi punisca se pur l’ombra di qualcosa di simile è in me! No, no! Allora ti disprezzerei ch’io cercassi fingere teco, per prolungare una illusione fugace di qualche giorno di più. Il nostro fu un sogno di due mesi, di un’ora, — ma splendido; ma degno di noi; lasciamolo là intatto, e andiamone superbi; non profaniamolo con una menzogna. Perchè, o Glicera, quando rientrata nella calma del tuo animo interrogherai te medesima — ti accorgerai che quel sogno esistette nella tua testa e non nel tuo cuore... (_gesto vivo di Glicera, di cui Alcibiade finge non accorgersi, proseguendo_) Tu credesti di amarmi, o Glicera. Consolati. La tua fantasia, non il tuo cuore fu vinto. Il tuo amor proprio, non la passione in te parla!... GLIC. Oh, il perfido! per difender sè stesso accusa me di non averlo amato! Maledetto l’istante... ALCIB. (_vivamente interrompendola_) No, no, non mi difendo — e tu quell’istante non maledirlo! Perchè pochi, troppo pochi sono i momenti di gioja che sulla terra ne concessero i Numi: non imprecarlo quel sogno, se ci ha fatto vivere un giorno nella vita; ciò che _non a tutti_ è dato. E poichè, restando uniti, quel giorno non lo ritroveremmo mai più, separiamoci a tempo, oggi, affinchè il ricordo di esso ci segua come una gioia tranquilla e serena; domani il ricordo potria convertirsi in incubo che ne contristi l’anima e i dì. Incerti del presente, nessuno è padron del futuro: tanto meno gli amanti: perciò sta scritto che _gli spergiuri degli amanti sono i soli che gli Dei non puniscono_.[212] Non rinunziamo ostinati, in traccia di una gioja che non ritorna a quelle che ne attendono ancora: hai provato le voluttà di una febbre della mente e dei sensi: Glicera, ti restano ancora gioje ignote, che io non posso darti: cerca chi ti dia le gioje del cuore... GLIC. E così, Alcibiade mi lascia! e così Glicera la bella, la invidiata Glicera diverrà domani la favola delle sue compagne e di Atene! ALCIB. Alla buon’ora, per Ercole! L’_amor proprio_ ora parla! La parola ti è sfuggita. Io ne aggiungerò un’altra. Tu eri corteggiata da Carmide, ricco e leggiadro: egli fece per te pazzie d’ogni sorta, e tu, che lo avresti amato s’ei ne avesse fatte un po’ meno, perciò lo respingesti. Ora Carmide s’è accorto dell’errore e si mostra gioviale e guarito: pure, giurerei che del tutto in fondo non l’è: e so che il tuo cuore, benchè occupato dalla gelosia a mio riguardo — il cuore di una fanciulla può abbracciar molte cose! — il tuo cuore è più sensibile alla sua finta indifferenza che non lo fosse alle sue smanie. Ieri l’altro tu gli scrivesti (_Glicera fa un gesto vivissimo negativo: Alcibiade tranquillissimo trae un rotolo di sotto la tunica_). Il tuo servo infedele credendo ingraziarmisi mi portò la lettera. Te la rendo (_altro gesto, come di protesta, di Glicera. Alcibiade la tranquillizza_). V’è il suggello ancora. Non la lessi... GLIC. (_vivissimamente_) Ma potevi leggerla! Ma dovevi leggerla perchè non vi è nulla di quel che credi... e... (_esibisce la lettera_) ALCIB. (_calmissimo_) No, no..., nulla io credo: e il ciel mi guardi dal leggere! Conosco Glicera. Oggi ciò (_additando la lettera_) non è nulla, lo so: ma domani potrebbe essere qualche cosa. Perciò questo, o non mai, è il momento opportuno per finir bene il nostro sogno, prima che il mare e le fortune della guerra ci separino. Oggi te ne duole e ci lasciamo amici. Domani potrebbe esser tardi per me... GLIC. E l’avresti meritato... ALCIB. Ah, per Giove! Tu ragioni! Quando si ragiona, il cuore è in calma, o comincia ad esserlo. Approfittane per dar retta ai consigli di un amico: poi che amico vero io ti sono, e vorrei lasciarti qualcosa che giovasse alla felicità del tuo avvenire. Se quella lettera (_additando la lettera che ha consegnato a Glicera e che questa ha in mano_) è un passo verso Carmide... dà retta a me: non mandarla... (_gesto negativo di Glicera. Alcibiade prosegue istessamente_) lascia che io mi allontani, e che, non chiamato, venga egli da te... GLIC. (_vivamente_) Ma io non lo chiamo affatto!... ma io... ALCIB. (_colla massima calma e dolcezza_) Meglio! meglio!... ma dà retta a me: _non mandarla!_ affretteresti le cose: e se brami conquista duratura, non precipitar nulla. Carmide è degno del tuo amore: è il giovine che potrà farti durevolmente felice: non abbi però premura di farglielo sapere. Verrà il giorno — e sarà giorno avventuroso — che tu cadrai: perchè anche tu, come dice Omero, non sei fatta nè di quercia, nè di rupe:[213] ma, anche allora — bada a me — calma, calma! Attenta a quel che fai! GLIC. (_asciugandosi una lagrima_) Così con te lo fossi stata!... ALCIB. (_calmissimo_) Ti giovi adunque l’esperienza! E amalo, sai, il tuo Carmide: amalo di un amor sincero e fervido: ma vedi di nascondergliene la metà. Tutt’al più, di tratto in tratto, lasciagliene balenare un raggio in tutta la sua vivezza, in tutto il suo ardore: ma che tosto scompaja: e sia quanto basta perchè egli si inebrii di quel che possiede, e indovini confusamente quanto più gli manca a possedere. E sia di te e de’ tuoi vezzi lo stesso che de’ tuoi baci. Lascia sempre un margine nella realtà, perchè la fantasia a sua posta vi lavori. Non occorre che egli sappia _tutti_ i segreti della tua bellezza, nè ch’ei viva sicuro di tutti i tuoi pensieri. Sii economa! sii economa! sempre gli resti da _sperar qualche cosa_, sempre _qualche cosa a temere_; perchè _timore_ e _speranza_ sono le due ali d’Amore.[214] Perfino i tuoi baci, — sono dolci i tuoi baci, o Glicera! — ma perciò appunto sian rari; e sempre chiesti; perchè il dolce soverchio sazia presto; e le cose che si hanno senza chiedere, perdono presto di valore. GLIC. Pur troppo lo vedo! ALCIB. (_ripetendo la frase di prima colla stessa inflessione dolce, piana e calmissima_) Ti giovi l’esperienza! E non essere sempre in pace con lui: una volta almeno la settimana cercagli querela e sta sul tuo: perchè il cuore dell’uomo ha bisogno dei contrasti, e il sole non par mai così bello, come quando ritorna dopo le nuvole della tempesta. — Poi non istargli troppo ai panni: Licurgo, che se ne intendeva, affinchè i mariti amasser le mogli, li obbligò a non trovarsi con esse che molto di rado, e molto alla sfuggita;[215] metti il tuo Carmide a mezzo regime di Licurgo. E sopratutto infine, se la gelosia ti affligge, guardati dal lasciarla apparire: essa è la scopa che spazza l’amore dal cuore dell’uomo: esso lo attira alle infedeltà più che il latte non attiri le mosche. GLIC. Per te ora parli... ALCIB. (_sorridendo_) Ti giovi l’es... GLIC. (_vivissimamente interrompendolo e alzandosi_) Basta!... ALCIB. (_alzandosi a sua volta_) E quando un giorno, mercè questi consigli, ti troverai contenta e felice dello amore del tuo Carmide, cresciuto alla prova degli anni, quel giorno ringrazierai Alcibiade di averti procacciato, tuo malgrado, quelle gioje serene e vere, invece del suo amore malfido e tempestoso; quel giorno, invece di piangere, ringrazierai la fortuna di averlo conosciuto — e riconoscerai che Alcibiade... (_fa una breve pausa, le si accosta e le dice all’orecchio con volto sorridente e voce lenta e pianissima, appoggiando sulle parole_) fu miglior maestro di Aspasia. GLIC. (_asciugando un’ultima lagrima, e traendo un sospiro; poi, riscotendosi risoluta in atto di avviarsi_) Addio! (_voci dall’interno di convitati che arrivano_) ANT. _ed altri_ (_dall’interno_) Alcibiade! Dov’è Alcibiade? ALCIB. Vengono i convitati. Leggiadra Glicera, vuoi restare con me, e, come due buoni amici che si lasciano, suggellar meco la pace fra i calici? GLIC. (_vivamente_) Io?... Oh Alcibiade! tu sei maestro erudito, e dopo aver distribuito la sapienza, ti svaghi subito col bicchiere; ma io sono una povera scolara (_con accento ironico pronunciato_) e ho bisogno di raccogliermi, per meditare sui profondi insegnamenti! Vedo le ghirlande pronte: ma se sono una vittima, non è almeno in tua casa che mi lascerò incoronare di fiori!... Addio!... ALCIB. Parti? ove vai? GLIC. Ove Amore sia meno erudito, meno esperto; s’intenda un po’ meno di proverbj sapienti, e più si inebrj di ignoranze divine; meno precetti di Licurgo abbia in mente, e in cuore più virtù; dove Amore sia meno ambizioso di far invidia ne’ sogni agli Dei, e sia nelle veglie più umano; meno prodigo di consigli e più leale... (_gesto di Alcibiade che vorrebbe rispondere: Glicera rincalzando non glie ne dà il tempo_) meno poeta e più generoso!... (_Alcibiade rimane tra interdetto e confuso, mentre Glicera esce_). SCENA II. ALCIBIADE solo; poi subito ANTIOCO, TRASILLO, altri convitati, indi CIMOTO. ALCIB. (_solo, appena uscita Glicera_) Povera fanciulla! Perchè urtar nella ruota del destin di Alcibiade? Meritavi di meglio!... (_va incontro ai convitati che entrano_) ANT. (_entrando, ad Alcibiade_) Fummo puntuali? ALCIB. Grazie; grazie, amici. Mi è caro rivedervi e celebrare con voi l’ultima orgia in Atene. Fra dodici giorni, ai 9 di Munichione entrante,[216] si salpa per la Sicilia. Il tempo necessario per la rassegna delle milizie e per gli ultimi preparativi della flotta. Perciò — da domani — vita nuova. Il buontempone bisogna lasci il posto al capitano. N’è vero, Antioco, mio compagno d’armi? ANT. Certamente. ALCIB. Sia dunque viva e romorosa di queste ore la gioja — e che Venere e Lièo le rallegrino de’ loro sorrisi, come se fosser l’ultime del viver nostro. Perchè posa il futuro sulle ginocchia dei Numi:[217] e non sappiamo se e quando ci sarà dato celebrare un’orgia simile al nostro ritorno... Ma Socrate non è con voi? TRAS. Lo incontrammo nel Pecile,[218] mentre avviavasi a casa... E lo chiamammo che a noi s’accompagnasse... Non volle... ALCIB. (_serio, e un po’ triste_) Socrate disapprova l’impresa... Prevedevo che non sarebbe venuto. E me ne duole... CIM. (_entrando_) Vengo io per Socrate![219] ANT. Oh! Cimoto il parassita! Chi t’ha invitato? CIM. (_con sussiego_) Dice il poeta: _Vien da sè Menelao_. ANT. Ma _non piacque ad Agamennone_.[220] CIM. Piaccio a mia moglie — e basta. N’è vero, Alcibiade, che Socrate ed io... è lo stesso? ALCIB. Sii il ben venuto, Cimoto, benchè non sia precisamente lo stesso... CIM. Oh, ma tra noi filosofi ci facciam procura. ALCIB. Tu filosofo? CIM. Certo. E ho sciolto un gran problema: il problema della vita. ALCIB. (_sorridendo_) Ah, intendo! CIM. I miei complimenti, Alcibiade! Il fumo della tua cucina[221] lo si vede da porta Dipila[222] e m’ha fatto correre qui: _già il fumo cerca i più belli_.[223] Alla distanza poi di mezzo stadio manda una fragranza di anguille di Copaide, di raie arrostite e di beccaccie e di uccelli del Fasi[224] (_annasando fortemente_) che è una consolazione. C’è da far risuscitare tutti i morti gloriosi che dormono al Cerámico...[225] ANT. (_ridendo_) Dove tu non dormirai... CIM. Vi rinunzio!... Uh! uh! che fragranza! (_gira intorno per la stanza annasando_) SCENA III. Detti, BACCHIDE, LAISCA, EUFROSINE. BACCH. (_dall’interno con voce gaja, festosa_) «Viva Bacco, dei cori festanti «E dei balli e dei carmi l’autor!» ANT. Oh, l’allegra Bacchide! BACCH. (_proseguendo dall’interno e avvicinandosi_) «Qua le tazze! di Bacco si canti, «Il compagno di Venere e Amor!»[226] Salve Alcibiade! (_entra_) ALCIB. (_movendole incontro_) E che Venere e Bacco dunque ti guardino! Sempre allegra la nostra Bacchide! BACCH. Dovrei piangere? per far rider le Parche? (_Gli altri convitati circondano Bacchide, e s’intrattengono a discorrer vivamente con lei, mentre entrano Laisca ed Eufrosine; a cui Alcibiade va incontro_) ALCIB. Gentile Laisca, bionda Eufrosine, e a voi pure Venere arrida, poi che consentiste ad onorare quest’ultimo simposio d’Alcibiade... LAISCA. I tuoi simposj sono una festa per noi. Atene sarà morta senza di te. ALCIB. (_galante_) Oh, no... finchè le Grazie vi abbiano dimora. (_accennando a lei e alle compagne_) EUFR. Temevamo esser venute in ritardo. ALCIB. Ed io temevo che l’amabile Eufrosine non venisse... EUFR. Oh, Eufrosine non serba rancori!... Ho sentito di Glicera... l’hai già abbandonata anche lei?! ALCIB. (E perciò non mi serba rancore. Carità femminina!) EUFR. (_insistente_) Confessalo!... l’hai già abbandonata?... ALCIB. Sì. Ci siamo amati troppo e troppo in fretta. Al contrario di noi mortali, l’Amore — che è un Dio — per rinforzarsi ha bisogno del digiuno. Un altro sogno che se n’è andato! La mia anima sorella non l’ho trovata ancora!... EUFR. E vuoi durare un pezzo a trovarla, mariuolo!... Povera Glicera! glie l’avevo predetto!... ALCIB. (_vivamente_) Oh, ma le fui fedele tutto un mese!... EUFR. Molto infatti! ALCIB. Eh! il giorno che gli Dei han voluto dare la fedeltà al cuor d’Alcibiade, glie l’hanno data così! (_si stringono la mano_) BACCH. Oh, sai, Alcibiade!... A momenti verrà Timandra. ALCIB. (_vivamente_) Verrà? verrà? BACCH. Me lo ha promesso. Su le prime, quando le ho fatto l’invito a tuo nome, non voleva accettare. ALCIB. Perchè? BACCH. Perchè la ti conosce appena, non ti ha parlato che una volta o due in casa mia, e assai di rado ella accetta inviti. Non è una etéra come le altre Timandra! Ha un cuor d’oro, ma le abitudini aristocratiche. Quelle volte che vado io da lei, o vien ella da me, formiamo il pajo più bizzarro a immaginarsi. Io allegra e vispa come un cardellino sul ramo; lei pensierosa che pare mediti le dottrine di Eràclito il tenebroso;[227] io alla buona con tutti, lei contegnosa come una regina. Poi, un carattere!... di que’ caratteri risoluti con cui non si scherza! Mah, che cuore! Per questo la si fa voler bene... Oh, ma sai che sul tuo conto le debbono aver dato informazioni non troppo buone? ALCIB. (_scherzoso_) Davvero? possibile? BACCH. (_maliziosa_) E ci sono anche persone le quali pretendono che non le sieno tutte calunnie... ALCIB. (_sempre scherzoso_) Calunnie! Calunnie! BACCH. Fra le quali c’è anche una certa piccola Bacchide... ALCIB. (_c. s._) Tu?!... ma come dunque...?... BACCH. Ma la piccola Bacchide è buona, e senza che tu lo meriti troppo, ti ha difeso; e gliene ha dette tante e poi tante in favor tuo, che, se questa volta non l’ha fatta innamorare, giuro alla regina Venere[228] che non è sua colpa... Basta! a furia di dirne la ho indotta finalmente a venire... ALCIB. (_complimentoso a Bacchide_) Venere forma oratori più facondi di Nestore di Pilo...[229] BACCH. Oh, parmi aver udito la sua voce... (_guardando verso l’interno della scena, poi correndo incontro a Timand._) È lei!!! è lei! Vieni, vieni, Timandra! SCENA IV. Detti, e TIMANDRA.[230] EUFR. _e convitati_. Viva Timandra! BACCH. (_a Timand. presentandole Alcib._) Ti presento quel buon soggetto del quale abbiamo discorso. TIMAND. (_cortese ad Alcib._) Alcibiade, tu hai degli avvocati molto eloquenti... ALCIB. E verso i quali (_accennando Bacchide_) non potrò mai sdebitarmi quanto basti, poi che a tanta eloquenza debbo la fortuna di veder l’inclita Timandra entro le soglie dei penati miei... Alcibiade segnerà questo giorno tra i felici, e fra tutti i presagi terrà questo il più fausto alle sue armi... TIMAND. Il tuo valore, Alcibiade, e l’amor della gloria, che solo crea le forti imprese, ti saranno il miglior de’ presagi. Quando parti? ALCIB. Fra dodici dì, col primo soffiar delle Etesie.[231] BACCH. Così presto? ALCIB. (_ai servi_) Su, su, ragazzi, servite le mense! (_i servi portano le mense innanzi ai letti, una per ciascun letto, e sciolgono quindi le calzature ai convitati che sovra i letti si adagiano — circolano le vivande — Alcibiade con Timandra, seco discorrendo, va a prender posto ad uno dei letti, il primo a destra_[232]) BACCH. (_dal suo letto ad alta voce_) Per le due Dee![233] tu fai male, Alcibiade, a lasciarci! Che mai ti venne in mente di andar in Sicilia, ad una guerra così lontana?!... TIMAND. Sarà sempre men trista delle guerre che insanguinan la Grecia. Tutti di un solo sangue, in Olimpia e a Delfo spargiamo di un solo vaso d’acqua lustrale gli altari; intanto a Delfo si ostentano i trofei de’ Greci che si scannan fra loro:[234] e i nomi delle stragi fraterne vi sono scritti col sangue di un milione di Greci: e il Dio siede in mezzo ai nostri furori. (_con voce mestissima_)[235] ALCIB. Lode ai Numi, s’io dunque, veleggiando per la Sicilia, recherò i voti della bella Timandra con me... CIM. (_ad uno dei servi che portano intorno le vivande_) Ehi là, amico! SERVO. Che c’è? CIM. Questa è la parte di Prometeo![236] (_mostrando il contenuto del suo piatto_) Tutti ossi m’hai dato!... SERVO. Ma è migliore la carne vicina all’osso...[237] CIM. Sarà benissimo; ma pesa troppo. Già che è la migliore, mangiala tu per me. Guarda, io son discreto: m’accontento di questa... (_gli invola rapidamente dal piatto un grosso pezzo di carne, rimettendovi gli ossi_). SERVO. Che fai? Dà qua subito, furfante... quella è la parte mia... CIM. No, no, per Mercurio! non far complimenti... Tienla per te, quella lì è la migliore... Mangiala, mangiala per amor mio! (_si tira il piatto dinanzi e manda via il servo, che parte minacciandolo coi gesti_) EUFR. (_dal suo posto chiamando_) Alcibiade! ALCIB. (_dal suo letto, interrompendo il discorrere con Timandra_) Eufrosine! EUFR. Per le Grazie te ne prego,[238] fa tacere questo nojoso di Trasillo! (_additando il convitato che gli giace accanto_) Egli mi parla sospirando come un mantice da fucina e mi minaccia della vendetta di Venere,[239] perchè non do ascolto a’ suoi sospiri. Se di sospiri potesse vivere una fanciulla, e s’ei tenessero posto delle miniere del Laurio... costui m’avrebbe fatto la più ricca di quante _etére_ sono in Atene.[240] ALCIB. (_scherzevole_) Trasillo! Trasillo! tu pigli una via troppo lunga per riuscire con la vaga Eufrosine! EUFR. E non sa promettermi che serti di fiori come se anticipasse gli onori al sepolcro di un morto.[241] Ma digli un po’ se si ricorda di aver giurato regalarmi[242] per le feste degli Alòi[243] un bel monile d’oro, e una veste cimbérica collo strascico e una tunica color di croco?[244] ALCIB. Il fulgor de’ tuoi occhi e il troppo amore, vezzosa Venere bisbigliante,[245] fan perder la memoria... EUFR. Meglio adunque che mi amasse un po’ meno!... Ma anche de’ giuramenti è lecito dimenticarsi?... Vedi!? a ciò non risponde... CIM. Risponderò io per lui, col tragico Euripide: «_Giurò la lingua... non la mente giurò._»[246] EUFR. Ti pigli il malanno... te... ed Euripide! BACCH. Chi, chi, ha osato nominar Euripide? EUFR. Cimoto! CIM. E che male c’è? Povero Euripide! Gli voglio bene io! Gran poeta! Gran concetti! Uom ricco, il qual non tenga in compagnia A mangiar _gratis_ tre persone almeno, In eterno perisca, e mai non sia Che ricompaja della patria in seno![247] Che versi! che potenza! che versi! (_parla mangiando avidamente_) BACCH. Pregherò (_a Cim._) i corvi che ti mangino,[248] se nomini ancora quel perfido diffamator delle donne![249] CIM. Uh! uh! che collera! lo tratti ben male! BACCH. Ma sì, per le Tesmòfore![250] difendilo anche se hai coraggio! CIM. Che cosa ha scritto poi, in fin dei conti, delle donne?! Che sono bugiarde, adultere, lascive, traditrici, pettegole, in cui non c’è nulla di sano, grande sventura per gli uomini, maestre di iniquità, vipere, peste delle case...[251] Che Giove mi fulmini se in tutte le sue tragedie ha detto una sola parola di più! BACCH. E ch’io non offra mai più colombe ad Afrodite, se non ti cavo gli occhi, brutto muso!... (_alzandosi minacciosa contro Cimoto che fa atto di scappare_) ALCIB. (_trattenendola_) Pace, pace! bellissima Bacchide! E tu, Cimoto, non seguir più oltre, che hai torto. Euripide sulle donne ne ha dette dell’altre. Fu lui ad insegnare agli uomini il segreto per renderle fedeli:... non uscire il giorno di casa, senza averle chiuse sotto chiave; far cambiare di spesso le serrature agli usci, e tener cani molossi di guardia per la notte...[252] BACCH. Quel figlio di un’erbivendola![253] Abbasso Euripide! LAISCA. Sì, sì, abbasso Euripide! EUFR. E le Euménidi furenti se lo portin via... ALCIB. No, no... lasciam le Euménidi: poichè elle non amano il vino;[254] e non si parli altro di Euripide, infelicissimo già tra i poeti: poichè essere in odio alle Grazie è ben peggio che aver le Furie nemiche. Pure, non toccherebbe alle Cariti pigliarsela coi figli delle Muse... BACCH. Già!... per l’aurea Venere![255] li rispetti molto tu i figli delle Muse!... tu che, l’anno scorso, hai fatto fischiare Aristofane...[256] EUFR. E hai bastonato Taurea che guidava il coro nelle Nubi...[257] TIMAND. (_seria_) Vero, Alcibiade? ALCIB. (_vivamente_) Oh, non fu odio all’artista! fu ira del veder posto Socrate in burla! Atene non sa chi sia Socrate; ma il pessimo, l’insolente Alcibiade non mai soffrirà che in sua presenza s’insulti colui che i Numi a ragion proclamarono il miglior dei mortali...[258] BACCH. Ah, dunque Socrate ti preme più di noi... ALCIB. (_sorridente, appoggiando sulla parola_) Forse!...[259] Però Evio Bacco, guidatore dei cori notturni,[260] preservi in teatro i poeti da altre disgrazie, così come io qui giuro, per il giuramento grande degli Dei,[261] che Alcibiade d’ora innanzi non batterà più nessuno, fuorchè i nemici in guerra... BACCH. No! per Aglauro![262] Ajutami a batter costui, che dice d’amarmi e fa gli occhietti ad Eufrosine... (_additando il compagno che le sta al fianco e che le parla calorosamente_) ALCIB. Tu scherzi, vezzosa Bacchide! unghie di donna non abbisognan di ajuti. Men terribili di esse le lancie di Ettore e del Pelìde. Ma io m’accontento della gloria degli eroi di Omero... (_con esclamazione repentina di entusiasmo volgendosi a Timandra_) Oh Timandra! gli eroi d’Omero!...[263] Ettore furibondo che insegue Diomede e gli Achei... _Quello, quello_ (_con forza_) è il mio sogno!... (_recita con enfasi i versi di Omero, cercando ritornarseli a memoria_) «Ettór venia fra i primi, e gli occhi truci «Mettean lampi e paura. E come veltro «Terribile, se insegua velocissimo «Lion fuggente od ispido cignale, «A tergo il morde, e ogni sua mossa spia, «Or le cluni addentando, ora la coscia: «Così innanzi si caccia Ettore i capo — «Chiomati Achei, sugli ultimi piombando...[264] e... e... (_s’arresta sospeso, come frugando nella memoria_) TIMAND. (_vivissima_) Prosegui! ALCIB. Maledizione! non mi ricordo più... (_impazientandosi si volge agli astanti_) Chi ha un Omero? chi mi dà un Omero... ANT. I grammatici che han scuola qui rimpetto lo avranno... ALCIB. Chiamali! ANT. Oh, eccoli là sulla porta!... Ehi là! Grillione! (_chiamando verso l’ingresso_) Vengono correndo! (_intanto Alcibiade passeggia vivamente su e giù per la sala masticando parole, — gli altri seguitano a discorrere_) SCENA V. Detti, e due GRAMMATICI. 1.º GRAMM. Salve, figlio di Clinia! ALCIB. (_secco, impaziente_) Hai un Omero? Dallo qua... 1.º GRAMM. Oh mi rincresce, Alcibiade, non ne ho.[265] ALCIB. (_battendolo_) Non hai Omero, e fai il maestro? 1.º GRAMM. (_dibattendosi_) Ahi! ahi! 2.º GRAMM. Io l’ho! io l’ho![266] (_interponendosi_) Calmati, Alcibiade!... Eccolo... (_gli dà un rotolo_) ALCIB. Ah! (_calmandosi lascia andare il primo maestro che si tasta indolenzito la persona; strappa bruscamente di mano al secondo il rotolo, lo spiega, lo sfoglia e a un tratto s’arresta_) Che cosa sono queste cancellature e queste note in margine?... 2.º GRAMM. (_sporgendo dietro di lui il capo e gettando l’occhio sulle carte con aria di sussiego e compiacenza_) Ah! sono passi di Omero che ho corretto e migliorato. Là in margine vedrai le note per dimostrare i miglioramenti fatti... Già, quel buon Omero qualche volta è un po’ barbaro... ALCIB. (_guardandolo fra sorpreso e sardonico_) Ah! 2.º GRAMM. Per esempio, quel passo dove Ettore si distacca da Andrómaca alle porte Scee, e dopo aver baciato il pargoletto Astianatte, lo restituisce alla sposa: _Ciò detto, pose in braccio alla diletta_ _Consorte il bimbo; ella il raccolse al seno,_ _E lagrimosamente sorridea._[267] Ma ti pare! È un controsenso! O piangere o ridere! Per essere più sicuro, io non l’ho fatta nè ridere nè piangere: e ho tagliato il passo. «_Ciò detto, andò via._» Eh? (_con aria di soddisfazione prosuntuosa_) ALCIB. E lo reciterai così corretto nelle feste Panatenee?[268] 2.º GRAMM. Sicuro. ALCIB. (_velatamente ironico_) E Atene non ti ha ancor dato, a te che correggi Omero, nessun ramo d’ulivo,[269] nessuna ricompensa? 2.º GRAMM. Finora nessuna... ALCIB. È la sorte del genio! E ridi? (_sospirando e guardando con aria benevola il maestro, che ingannato sulla intenzione di lui, sorride di compiacenza_) Allora... piglia questa! sfacciato! (_Gli assesta un pajo di pugni_) 2.º GRAMM. Ajuto! ohimè! CONVITATI. (_ridendo_) Ah! ah! ANT. Che fai, Alcibiade? (_trattenendolo_) ALCIB. Vendico Omero! (_i due maestri spaventati sono scappati via_) — e mostro a costui che si può ridere e piangere insieme. TIMAND. (_alzandosi e accostandosi calma e seria ad Alcibiade_) Alcibiade?! (_Alcibiade la guarda con aria interrogativa_) Tu hai fatto scrivere sulla colonna che gli Spartani violano i giuramenti...[270] Ma gli eroi d’Omero li rispettavano! La tua azione è da spergiuro. ALCIB. (_risentito_) Timandra! TIMAND. Gli eroi d’Omero non inveivano contro i deboli. La tua azione non è da uomo prode... (_esclamazione di risentimento di Alcibiade; ma la fermezza severa di Timandra lo domina: Timandra gli si accosta e gli parla a voce più bassa e risoluta_) Per gli Dei! Ritorna Alcibiade! (_fa cenno ella stessa ad un servo, senza attendere la risposta di Alcibiade_) Richiama quei due! (_al servo_)... Non abbiate paura!... (_ai due maestri che rientrano paurosi, spingendosi innanzi a vicenda e cercando appiattarsi l’un dietro l’altro_) Alcibiade vuol dirvi qualcosa (_guarda fisso Alcibiade, che l’ha lasciata fare, restando silenzioso e immobile_) ALCIB. (_riscotendosi_) Infatti! Passate dal mio maggiordomo.[271] Vi darà duecento dramme a testa... CIM. (_interloquendo comicamente serio_...) Per farvi raggiustar le ossa... ALCIB. (_con un’occhiata minacciosa lo fa tacere_...) Perchè vi comperiate un Omero per ciascuno... I DUE GRAMM. (_vivissimamente_) Oh grazie... ALCIB. (_imperiosissimo interrompendoli_) Silenzio!... (_i maestri s’avviano ad uscire, Alcibiade li richiama della voce_) Ehi! (_i maestri tornano indietro: Alcibiade soggiunge con voce imperiosa, rivolto al correttor di Omero, che precede il suo compagno_) Senza note! 2.º GRAMM. (_si inchina vivamente, e gesticola in segno di promessa e d’obbedienza: poi nell’andarsene dà sulla voce all’altro maestro che è già per uscir dalla porta, facendogli la girata del comando di Alcibiade_) Ehi! (_l’altro maestro si volge alla chiamata_) Senza note! (_esce col compagno_) SCENA VI. Detti, meno i GRAMMATICI. ALCIB. (_si volge a Timandra e le stringe cordialmente la mano_) Grazie, Timandra!... (_fra sè_) (Strana donna! È curioso! Mi par di subire un fascino che non ho subito mai!...) (_Odesi in questo punto uno squillo di tromba dallo interno della scena_) ANT. Alcibiade! la tromba! a momenti è l’ora della rassegna delle milizie[272] nel Liceo![273] ALCIB. Or su dunque, l’ultimo calice! poichè stiam per separarci e laggiù forse ne aspetta la Parca di lunghi sonni apportatrice.[274] Si colmino le tazze, e giri nel calice dell’amicizia[275] il vino puro,[276] la ricompensa che il buon Genio ne dà...[277] ANT. Che il marino Nettuno[278] propizii alle triremi dia i venti ed i flutti... BACCH. E ricco di spoglie e di allori ti riconduca al Pireo! (_Un dei servi reca un cratere d’oro da cui versa per una canna d’argento il vin puro. Entran due giovinette suonatrici di flauto e di cetra inghirlandate. Intanto altri servi portano via le tavole, recano ai convitati le corone di rose e di mirto,[279] dan l’acqua alle mani, spargon di fiori e di unguenti il suolo. Portano quindi in mezzo la seconda mensa su cui vien posto il cratere del vino_)[280] ALCIB. Al buon Genio![281] (_Alcibiade fa questa libazione, dopo aver versato una parte del licore a terra; bevuto, passa il calice a Timandra, e via di seguito in giro_) CIM. (_quando il calice è giunto a lui_) Al ritorno di Alcibiade! Che Giove salvatore[282] lo protegga e gli dia gli anni della fenice,[283] per amor di Cimoto il parassita, il quale al suo ritorno vuol bere ancora un po’ di questo vino di Chio![284] ALCIB. (_d’un tratto volgendosi all’udir Cimoto_) Cimoto! in Sicilia ve n’è del migliore... CIM. (_sospirando_) Lo so. ALCIB. E dicono che le torte di Sicilia, inventate da Gelone,[285] sono squisite... CIM. (_mandando di nuovo un sospirone_) Infatti, me l’hanno detto... E... (_s’arresta, come chi vorrebbe domandar peritante qualche cosa_) ALCIB. Che cosa? CIM. E... a che distanza tirano gli archi dei Siracusani? ALCIB. A uno stadio.[286] CIM. Per cui... (_con gesto e volto maliziosamente interrogativo_)... a uno stadio e mezzo... (_Alcibiade lo guarda sorridente_)... due al più...? ALCIB. Fa conto! (_Cimoto si allontana correndo per uscire_) BACCH. Oh, Cimoto! dove corri? CIM. Al Liceo, alla rassegna delle milizie. BACCH. Tu? e quando ci vediamo? CIM. (_con gravità comica_) Quando?... quando avremo conquistata la Sicilia!... (_esce con passo e portamento comicamente marziale_) SCENA VII. Detti, meno CIMOTO. ALCIB. (_sorridente_) Ecco un eroe! EUFR. Ora Alcibiade, devi compiere il rito. Su, su, la canzone del convito![287] BACCH. La canzone di Bacco! la canzon delle etére! TIMAND. No! quella di Armodio! la canzon degli eroi! ALCIB. A me il ramo di mirto![288] (_tiene il ramo di mirto nell’una mano, mentre declama l’Armodio_) Portar voglio il brando di mirto abbellito Siccome già Armodio quel giorno il portò, Ch’ei spense il tiranno, di Palla nel rito, E libera Atene dal giogo tornò! No, Armodio, tu morto non sei! Diomede Ti accolse ed Achille dal celere piè: Con lor dei beati nell’Isole hai sede, E sempre la terra favella di te![289] (_nel proferir l’ultimo verso, Alcibiade, come improvvisamente rattristato, si interrompe, getta via il ramo di mirto, e si volge melanconico a Timandra_) Timandra, non ti pare che la terra abbia già favellato abbastanza di Armodio? Questo Armodio mi annoja... TIMAND. A te, figlio di Clinia, il farle cambiare argomento. La Sicilia ti aspetta... ALCIB. Oh Timandra! per compir quanto basti a vivere eterno ne’ carmi, a me manca ciò che Armodio avea... (_sospirando_) Fortunato Armodio!... Più fortunato che eroe! TIMAND. Perchè? ALCIB. Perchè ebbe una donna che lo amò tanto da sacrificarsi per lui.[290] Oh! quando si può essere amati così, non costa nulla l’essere grandi! TIMAND. E amato non lo sei... tu? ALCIB. (_serio_) No. TIMAND. Vuol dire che non hai amato mai. ALCIB. Timandra!... ti hanno parlato ben male di me. TIMAND. Oh, me l’hanno detto, che, mentre amasti Teódota, in prova d’amore, vincesti per lei tre corone — poi la abbandonasti: era vanagloria, non amore; che mentre amasti Glicera, ed ella fu inferma, tu vegliasti un mese al suo letto — poi l’abbandonasti; era rimorso di coscienza, non amore... ALCIB. E che cosa è egli dunque, per gli Dei? TIMAND. Io... non lo so; ma tu vai in Sicilia, e là visse ad Iméra un poeta[291] che deve averlo saputo. Sempre, quando son mesta, una sua pagina antica mi ritorna nel core. Amor non è raggio di vampa fallace Che scherza e si muta coll’Iri nel ciel: Amor non è il perfido fanciullo procace, Sleal, se combatte, — se vince, crudel. Magnanimo è Amore: non conta con boria Le povere vittime ch’ei seppe tradir: È forte, e disprezza la facil vittoria; È altero, e per vincere, disdegna mentir. Non calcola l’ore, nè i passi misura, Non veglia agli agguati composto a virtù: Non guarda, non medita, non ciarla, non giura, Va innanzi alla cieca — non cerca di più. Non narra le penne tarpate dell’ali... _Le trova_ e si libra nell’etere e va: Non piange i sognati contesi ideali... Ai sogni li strappa — viventi li fa. E anela alla gloria, bellissima stella, Ma pura, ma scevra d’ogn’empio baglior: E cerca la fronda di quercia più bella Per farne più sante le gioie del cor. È audace, ed un nulla gli mette spavento: È timido, timido, ma tutto sa osar: Mai nulla domanda, di un nulla è contento: Mai nulla promette — ma tutto sa dar. (_Timandra dice questi ultimi versi con espressione di voce lenta, affettuosa, guardando Alcibiade che è venuto avidamente seguendola_) ALCIB. (_avvicinatosi a Timandra le parla quasi all’orecchio, con espansione viva ed inflessione lenta, soavissima di voce_) E questo è il Dio Amore che tu adori? dev’essere ben dolce l’adorarlo con te! — (_Squillo di tromba_) ANT. Alcibiade, il secondo squillo!... Alla rassegna! alla rassegna! ALCIB. Maledizione! vengo... BACCH. Alcibiade, io ho una piccola agnella tutta nera: vo’ sacrificarla alle due Dee, perchè l’anno prossimo celebriam teco il tuo ritorno e la tua vittoria... EUFR. Ed io alla cipria Venere immolerò due candide colombe... ALCIB. (_esitante a Timandra_) E tu... Timandra...? TIMAND. Io...? Io ti seguo... ALCIB. Dove? TIMAND. In Sicilia. ALCIB. Tu! TIMAND. Per veder co’ miei occhi se sai fare qualcosa di meglio che battere i deboli... ALCIB. (_con voce di rimprovero affettuoso_) Timandra!... per questo?... TIMAND. E per recarmi ad Imera a depor teco una corona sulla tomba del mio poeta... ALCIB. (_con iscoppio repentino di voce e di gioja interrompendola e stendendole le braccia_) Oh! per i Numi! Timandra vieni! e non ti scostar più dal mio fianco!... ANT. (_a Tim_.) Tu sarai il genio della vittoria! ALCIB. Che parli di vittoria?! Laggiù gli allori!... qui... non sono che un vinto! (_In proferir queste parole accoglie nelle braccia aperte Timandra, e la stringe amorosamente al seno_.) CALA LA TELA. QUADRO QUARTO _Anno_ 415 _av. l’Era Volgare_ SICILIA Campo di battaglia sulla spiaggia tra Catania e Siracusa — Parte appartata del Campo — In fondo il mare — Escursioni. SCENA PRIMA. DUE SOLDATI SIRACUSANI, poi altri SOLDATI. (_all’alzarsi della tela entrano fuggendo da parti diverse_) 1.º SOLD. (_correndo_) Di qua! di qua! Viene Alcibiade! 2.º SOLD. (_c. s._) Fuggono tutti i nostri?[292] 1.º SOLD. E alla dirotta. Tempesta Alcibiade nelle prime file. Dovunque irrompe fa strage. Niente resiste innanzi a lui. Numi! che folgore di guerra! Di qua! di qua! (_fuggono entrambi_) ALTRI SOLDATI SIRACUSANI (_traversano sparsi la scena_) Viene Alcibiade! fuggiamo! fuggiamo! (_escono di scena fuggendo_) SCENA II. CIMOTO. (_Entra armato da soldato ateniese di fanteria leggera_ — τοξότης[293] — _trafelato, sudante per il correre e la pinguedine. Si siede sur un masso, rasciugandosi il sudore_) CIM. Auff! Gran brutto mestiere la guerra! Se non ci fosse quel po’ di gloria attaccata, non varrebbe proprio la pena di farsi alunni di Marte. Non ne posso più. Da due ore non ho preso cibo! (_cava da una bisaccia ad armacollo[294] una gallina cotta_) e non mi resta che questo avanzo di stamattina! Uff! Che mestiere! (_addenta la gallina, poi, tra una boccata e l’altra, ripete:_) Se non ci fosse quel po’ di gloria! e questo po’ di vin di Siracusa! (_cava dalla bisaccia una fiala e beve, facendo scoppiettar la lingua e assaporando_)... Che caldo! (_si ripassa la mano sulla fronte asciugandosi il sudore_) Ecco finalmente come è fatto quello che chiamano il sudor nobile! per Minerva! mi par lo stesso di quell’altro!... (_continua mangiando e parlando fra sè, tra un boccone e l’altro_) Vediamo un po’, Cimoto; tu hai lavorato per la fama, oggi; e puoi essere contento di te. Il padrone[295] ne ha compiute delle gesta, ma anche tu non hai scherzato! Già, i Numi non per niente appajano i simili co’ simili![296] Se mi vedesse la mia Filumena, che mi gridava sempre: «Va a fare il ramifero,[297] vecchio Cecropone,[298] buono a niente!» — Eh, sì! il ramifero adesso è diventato un guerriero! Ma!... chi avrebbe mai indovinato che qua dentro (_si picchia la testa_) ci fosse nascosto l’istinto della gloria! (_addenta la gallina_) E questa armatura che aria mi dà! (_si alza, si osserva da capo a piedi con compiacenza, facendo due o tre passi e piantandosi in atteggiamento marziale_) Non mi manca più che la corona di quercia del valore e la mia brava iscrizione sulle Erme...[299] ... Oh! ma l’avrò anche quella... oh! sì che l’avrò... (_a questo punto è interrotto da un forte starnuto_) Ecco la prova!... Questo starnuto di buon augurio vuol dire che gli Dei me l’assicurano...[300] e... (_sternutando di nuovo si ricopre coll’elmo il capo_) che non bisogna stare scoperti quando si è sudati... E quando torneremo ad Atene, tutti mi guarderanno a bocca aperta. — «Mira Cimoto! Come? è quello il parassita Cimoto? che faccia abbronzita! che portamento marziale!» — E io dritto, serio, marcerò in capo di fila, facendo le finte di non sentir nulla! Eh, sì, sicuro! i miei cari Chiechenei![301] Il parassita Cimoto che sotto i portici e nell’agora[302] vi facea fuggire per la paura di vedervelo venir a pranzo, adesso, invece, — oh, per Ercole! mette in fuga le falangi di Siracusa... mette in fuga... (_entrano altri soldati siracusani fuggendo e traversando la scena_). SOLDATI SIRACUSANI. Salva chi può! (_Cimoto lascia cadere a terra il resto di gallina e scappa precipitoso con loro._) SCENA III. ALCIBIADE e CIMOTO. (_con Alcibiade entrano soldati ateniesi che traversano lo sfondo inseguendo i Siracusani_) ALCIB. (_entra dalla parte opposta a quella da cui fugge Cimoto coi Siracusani — e vedendolo fuggire gli dà sulla voce da lontano, mentre Cimoto è già per rientrar nelle quinte_) Cimoto! Cimoto! CIM. (_si ferma di botto udendo la voce di Alcibiade e ritorna rassicurato verso di lui, mandando un sospiro di sollievo_) Ah!... sei tu! ALCIB. Da un quarto d’ora ti cerco. Dove correvi così? CIM. Per Giove fuggitivo![303] inseguivo i nemici! (_corre intanto a raccattare furtivamente il resto di gallina da terra, e se lo ripone in bisaccia_) Sai che il tuo valore è contagioso e m’ha messo in corpo un ardore... Guarda come fuggono quelle lepri!... Eh! (_con gesto di minaccia verso la parte da cui fuggivano i Siracusani_) Se tu non mi chiamavi... ALCIB. (_secco e serio_) Basta! basta! Lasciali fuggire! CIM. Già, già... poichè lo vuoi... (_minacciando ancora del gesto nella direzione dei fuggenti_) Ma... l’han scappata bella!... ALCIB. I nostri han già messo il campo. Va ad avvertir Nicia e Lamaco che io qui li attendo. (_Cimoto si avvia; Alcibiade lo richiama_) Aspetta!... Avvicinati. (_gli parla serio, grave, a mezza voce_) L’equipaggio della mia nave è a terra? CIM. Sì, almeno tutti i _tranìti_. Gli _zigìti_ e i _talamj_ sono a bordo ancora.[304] ALCIB. Dirai al piloto che subito imbarchi anche gli altri e porti la trireme al largo, pronta alla partenza. Poi mi mandi qui alla spiaggia uno schifo. (_Cimoto fa segni di stupore_) Nessuno stupore. Di là ti reca alla mia tenda ad avvertir Timandra... e se vuoi seguirmi... preparati ad imbarcarti con lei e con me. CIM. (_sempre più attonito_) Ma... ALCIB. (_impazientito_) Che cosa aspetti? Va. CIM. Vado... (_osservandolo nell’allontanarsi_) Che sorta di enigma è mai questo? Dei! che faccia scura! (_esce_) SCENA IV. ALCIBIADE solo, poi TIMANDRA. ALCIB. (_con voce di amarezza profonda_) La vittoria è mia... (_si cava un rotolo di sotto la tunica_) e questo è il compenso!... Dinanzi a me la Sicilia, l’Italia, Cartagine, la Grecia aperte alle mie armi e alla conquista, — dietro le mie spalle la calunnia, l’invidia codarda che mi strappano al mio sogno di gloria mentre sto per tradurlo in realtà. Combatto per rendere grande Atene... e Atene mi richiama!... Stolto! e io sognavo di essere più fortunato di Milziade, di Temistocle, di Aristide, di Cimone! Anch’essi portarono ad Atene trofei... ed Atene li ricambiò coll’esilio!... Ma essi almeno avean già condotto a termine grandi cose — la loro gloria era già assicurata — l’ostracismo non poteva che renderla più luminosa e più pura... (_con gesto e voce di rabbia stringendo il pugno_) Io... io non ho ancora fatto nulla per la fama!... È la gloria che mi si strappa! Che cosa è la patria per me senza la gloria!...[305] (_stringe e spiegazza con moto convulso fra le mani il rotolo, poi legge, con accento lento, sarcastico, amarissimo_) «PITÓNICO, DIÓCLIDE, TEUCRO TI ACCUSARONO DI AVER PROFANATO I MISTERI,[306] MUTILATE LE ERME:[307] E DI AVER SEGRETE INTELLIGENZE CON ISPARTA[308]. FOSTI DANNATO NEL CAPO E NEI BENI.[309] LA NAVE SALAMINIA[310] È SPEDITA A RICHIAMARTI SOTTO MENTITO PRETESTO. TESSALO PORTATOR DEL MESSAGGIO. PROVVEDI A’ CASI TUOI...» (_interrompendo la lettura_) Onesto Tessalo! La tua mano non poteva mancare qui dentro! O gli Dei sono ingiusti che a tuo padre, Cimone, disonorano con simile prole il sepolcro, — o tu, ombra di Cimone[311] perdonami, hai qualche colpa ignorata da espiare colla ignavia di costui!... No, no, sono ingiusti i Numi!... (_riprende a leggere, sedendo sur un masso_) «I SACERDOTI TI HANNO SCAGLIATO L’ANATEMA...»[312] (_interrompendosi di nuovo con sarcasmo_) Mestiere di questa gente! non sa far altro! «MA TEANO, LA GIOVINE SACERDOTESSA DI AGRAULO...»[313] (_ancora interrompendosi mesto_) Povera Teano!... TIMAND. (_è entrata da qualche tempo in iscena, non vista da Alcibiade; porta la corazza sopra la tunica femminile, e l’elmo in testa, disotto al quale le sfuggono i capelli ricadendo sciolti sulle spalle: ha osservato Alcibiade per alcuni istanti con aria tra il mesto e l’affettuoso, se gli è avvicinata, e standogli dietro si china su di lui seduto e gli cinge con un braccio il collo, mentre continua ella stessa con voce affettuosa e dolce la lettura_)... LA GIOVANE SACERDOTESSA DI AGRAULO[314] RICUSÒ, DICENDO OFFICIO DELL’ALTARE BENEDIRE E NON MALEDIRE!» ALCIB. Timandra![315] TIMAND. (_con voce lenta, dolcissima_) Tu vedi, Alcibiade, che _non tutti_ i sacerdoti bestemmiano i Numi!... Alcibiade, fu santa la risposta di costei: compenserebbe essa sola il bando d’Atene. M’avean detto in Atene che un dì tu l’amasti, la giovane Teano... ALCIB. Io? TIMAND. Mi fu detto. Vi è male in questo?... ALCIB. Fu il sogno purissimo di un’ora, nel mattino de’ miei dì. Tutta la sua storia fu... un bacio. Ci vedemmo, ci separammo. Io mossi ad Olimpia, ai grandi clamori della vita. Ella all’altare. Povero giglio! Non lo toccai. Era troppo puro per me. TIMAND. (_con accento di rimprovero_) Sei _cortese_, Alcibiade!... ALCIB. O Timandra, perdona! Non il cuore ti offese. Ma tu sei forte, e la tua anima è ardente come il sole di Grecia. Queste febbri, che sono la mia vita e la tua, non erano per quel gracile fiore. (_prendendole una mano, con voce affettuosa_) Era un giglio; tu la rosa superba... TIMAND. Adulatore... ALCIB. (_con voce mesta e commossa_) Povera Teano! Il giorno che partii, mi dissero ch’ella era inferma, e non potei salutarla. Dal suo letto di dolore si è ricordata di me. Oh, sì, Timandra, hai ragione! tutte le maledizioni sacerdotali non valgono questa unica voce d’amore! La voce d’una fanciulla pietosa... ecco tutto ciò che resta ad Alcibiade della sua aura popolare e dell’amore di Atene! TIMAND. Alcibiade, questo scoraggiamento non è degno di te. Oggi mi hai fatto di te andar superba, quando ti vidi irrompere come leone nel folto della mischia!... Oh, eri bello, eri grande nella vittoria!... Siilo ora nella sventura! ALCIB. (_cupo_) Grande?... Chi sa!... Timandra, ascolta. Mi ami tu sempre? TIMAND. Lo chiedi? (_baciandolo in fronte_) ALCIB. Ebbene, — là in Atene — te ne ricordi? — fosti tu che chiedesti di seguirmi. Oggi è Alcibiade che lo domanda a te. — Non ho vergogna di confessarlo: ma sento che con te affronterei più ardito il mio destino. Una sorda tempesta rugge qui dentro (_porta la mano alla fronte_): mille pensieri confusi vi combattono una triste battaglia. Pavento di me. Timandra, vuoi tu accompagnarmi _ovunque_ io ne vada e dividere meco la sorte? TIMAND. Alcibiade, per la prima volta, da che ci demmo promessa d’amore, hai per me dei misteri. Mi fai temere. Che pensiero è il tuo? ALCIB. Oh, non domande! per ora. Rispondi. Vuoi tu seguirmi? TIMAND. Sì... e dovunque... in capo alla terra... tra le fiamme e tra le spade...[316] ALCIB. Grazie! TIMAND. (_terminando la frase e poggiando sulle parole_)... fin che Alcibiade sia degno di Alcibiade. ALCIB. Più tardi, più tardi lo saprai. TIMAND. No, no, per gli Dei Immortali, dimmi... ALCIB. (_vivissimo_) Dirti che cosa? Che l’ora del destino di Alcibiade è suonata e la man di un codardo non la arresterà. Sali sulla mia trireme. Cimoto ha i miei ordini. Fra breve ti raggiungerò. Va, va presto! Qui giungono i capi. TIMAND. Addio. (_si allontana pur volgendosi a guardarlo, e scrollando mestamente il capo_) Oh, tristi presagi del core! SCENA V. ALCIBIADE solo, poi subito LAMACO, ANTIOCO, EUFEMO, indi soldati ateniesi. ALCIB. (_appena uscita Timandra, prorompe con voce tonante di collera_) Ora della gloria mi fuggi? Venga dunque l’ora della vendetta! (_al sopraggiunger di Lamaco e degli altri, immediatamente si padroneggia e va loro incontro colla massima calma_) LAM. (_entrando precipitoso e impetuoso_) Salve, valoroso Alcibiade! Nicia è alle navi.[317] Ebbene, che è questo? La nave Salaminia è ancorata nel porto. ALCIB. (_calmo_) Lo so. LAM. E Tessalo ne è disceso... EUF. Con un messaggio per te... del popolo... ALCIB. (_sempre calmissimo_) Che mi richiama. Lo so. LAM. Oggi! il giorno stesso della vittoria? ALCIB. Appunto. E sai tu, prode Lamaco, di che sono accusato? LAM. (_concitatissimo_) Ne corre una voce pel campo — ma non può essere vera... ALCIB. (_c. s._) Anzi, è verissima. Sono accusato di profanazione de’ misteri e di intelligenze con Isparta. EUF. _e_ ANT. Che?! LAM. (_con impeto_) Ma è un’infamia questa! ALCIB. (_colla massima calma_) Oh, buon Lamaco, sotto la vôlta del cielo vi può star questa... e delle altre! Tu sei un soldato leale e valoroso: io, più giovine, ho imparato da te come si combattono i nemici: ma io, forse, conosco gli uomini meglio di te. La tua anima generosa, che non sa cosa sia invidia, nè menzogna, usa a guardar di fronte i nemici, ignora che vi sono altri metodi di guerra, coi quali si va innanzi più presto e si vincono le battaglie più sicuramente che in campo... Impara, impara, Lamaco!... Non per niente, tu, il più vecchio, il più bravo... e il più ingenuo dei nostri capitani, sei rimasto l’ultimo in grado! LAM. (_impetuoso_) Ma tu che conti di fare? ALCIB. Quel ch’è naturale. Ottemperare al richiamo. LAM. Ma qui ci son io... qui siamo in molti a difenderti... EUF. e ANT. Sì, sì, Alcibiade! LAM. Ed io, per gli Dei, posso costringere l’inviato a rifar la sua strada! ANT. Se tu parti, anch’io parto... ALCIB. No, no, amici, non fate nulla. Tu, Antioco, resta co’ tuoi. Tu, ottimo Lamaco, non far violenza all’inviato. Ti comprometteresti in faccia ad Atene. Se vittime ci hanno ad essere, basta una sola. SOLD. ATEN. (_entrano correndo alla rinfusa_) 1.º SOLD. Alcibiade, non vogliamo che tu parta! 2.º SOLD. Se tu parti, partiamo anche noi! LAM. Li senti? ALCIB. (_forte ai soldati_) No, amici! In nome dell’affetto che ci lega, seguiamo tutti e ciascuno la via del dover nostro. Io provvederò alle mie difese. Voi restate alle vostre bandiere. I Numi, testimoni e campioni della mia innocenza,[318] veglieranno su me! Lasciate agli accusatori la responsabilità della loro opera — e pregate gli Dei che essa non pesi su Atene. VOCI DEI SOLD. Viva Alcibiade! ALCIB. Ed ora — venga l’inviato. LAM. (_brusco e cupo_) È qui. SCENA VI. Detti e TESSALO. ALCIB. (_movendogli incontro calmo e sorridente_) Salve, Tessalo! Molte cose sono cambiate, sembra, dall’ultimo dì che ci vedemmo. TESS. Molte infatti. Alcibiade, il popolo ateniese ti prega di venire a discolparti delle accuse contenute in questo foglio. (_gli consegna un rotolo_) ALCIB. (_sempre sorridente e calmo_) Mi prega?... Il popolo ateniese è molto cortese con me.[319] TESS. Oh, esso spera, esso è certo che tu potrai discolparti... ALCIB. (_con ironia sempre dissimulata_) Ah! ed è per questa certezza che mi si obbliga ad abbandonar le schiere! Anche tu, n’è vero, Tessalo, ne sei certo? E la tua parola non avrà mancato di alzarsi in mia difesa.. TESS. (_imbarazzato_) Sì..., Alcibiade... ALCIB. Bene hai fatto, per Ercole! (_con ironia coperta_) Te ne compensino i Numi! Vedi qui che cosa mi consigliavano? Lamaco, un prode guerriero incanutito sui campi della Calcidica e del Peloponneso, dove tu, o Tessalo, non c’eri; Antioco, il leale ateniese altero della corona di quercia, guadagnata a Mantinea, dove, o Tessalo, non ti vidi; tutti costoro che oggi han rotto le coorti di Siracusa su questo campo dove, o Tessalo, giungesti un po’ tardi, — tutti costoro mi han consigliato a non partire e han messo le loro spade a mia disposizione!... Tu (_con calma ironica_) che mi consigli, o Tessalo? TESS. (_confuso, guardandosi intorno, spaventato dalle facce scure e minacciose dei capitani e soldati_) Alcibiade... ALCIB. (_vedendo la sua paura, lo tranquillizza con calma sardonica_) No... no... rassicurati. Io li ho sconsigliati. A Nicia ed a Làmaco ho già ceduto il comando e i miei trierarchi[320] hanno ordine di non obbedir più che a loro. Mi arrendo all’invito... e ti seguo... (_s’arresta, sospendendo la frase_) TESS. (_rifattosi d’animo_) Nobile atto!... ALCIB. (_completando la frase e poggiandovi sopra_) ... sulla mia nave... TESS. (_sconcertato_) Perchè non sulla Salaminia? ALCIB. Mi ci trovo meglio! È la mia nave il mio tribunal di Freatte![321] Tu non hai nulla in contrario, n’è vero, buon Tessalo? poichè tu non diffidi di me, tu sei certo che io mi discolperò... (_con ironia dissimulata sempre_) tu sai che non per nulla, innanzi di bandir l’accusa, avrà imprecato l’araldo a quei che ingannano i giudici...[322] Va dunque tu innanzi colla Salaminia: ti verrò dappresso sulla nave mia. Mandai per uno schifo che mi rechi a bordo... Oh, eccolo già... (_approda il palischermo_) Addio, prode Làmaco! Antioco, Eufemo compagni d’arme, addio. (_con voce profondamente commossa_) Triste il lasciarci nel dì della vittoria! Ma lo vuole Atene... Che le sue Dee venerande[323] vi siano propizie... Addio... (_Capi e soldati gli fan ressa intorno per istringergli la mano, con tacito dolore; imbarazzo e rabbia di Tessalo, per forza dissimulata in silenzio_) LAM. Non addio! A rivederci, prode Alcibiade! ALCIB. Chi sa?... Domandalo al Fato... e a costui. (_Addita Tessalo: stringe la mano ad altri; poi si avvia allo schifo e vi si imbarca. Ritto poi, in atteggiamento fiero, sulla poppa del palischermo, si volge di nuovo agli astanti e chiama ad alta voce_) Tessalo! TESS. (_facendo un passo verso lui_) Alcibiade! ALCIB. Guarda l’orizzonte! Vola un’aquila a sinistra[324] e sta per sorgere in cielo il Toro.[325] (_con voce tonante, terribile_) Bada a te! Minaccia tempesta!... Ateniesi! (_ai soldati_) Alcibiade offerse la sua vita a voi e ad Atene, non agli indegni che tradiscono Atene e voi! Tessalo ha le parole di miele sulla sua bocca, e il decreto di morte contro di me nella sua clamide. MOLTI SOLD. Che?! (_esclamazioni, moti di collera e di indignazione di Lamaco ed altri_) ALCIB. (_continuando colla stessa voce tonante, rivolto a Tessalo_) Tessalo, il giorno che partimmo era il dì delle Adonie, ed erano infausti (_beffardo_) quel giorno gli augurj! Ricordalo agli Ateniesi; e di’ a coloro i quali mi vogliono morto, che Alcibiade — per gli Dei! — MOSTRERÀ LORO DI ESSERE VIVO![326] (_parte sulla navicella_)[327] SCENA VII. Detti, meno ALCIBIADE. TESS. (_riscotendosi alle ultime parole di Alcibiade_) Egli fugge e minaccia! In nome d’Atene, si insegua il ribelle! Si insegua per i Numi! LAM. (_brusco e risoluto, fermandolo per il petto_) I Numi? han fatto anche troppo col darti questa toga che ti protegge. Prega Crateide,[328] non ti colga di peggio!... (_a voce sorda, risolutissima, di minaccia_) — e sta zitto! Se fai una parola o un passo di più... parola di Lamaco... la toga ti vuol servir poco. (_Tessalo rimane immobile, spaventato dalle parole e dall’accento risoluto di Lamaco e dal contegno minaccioso dei soldati. Quadro_) CALA LA TELA. QUADRO QUINTO _Anno 412 av. l’Era Volgare. (1. dell’Olimpiade 92.ª — 19.º della guerra del Peloponneso) Exagineto agrigentino vinse il premio ad Olimpia._ SPARTA Abitazione di Alcibiade. Stanza semplicemente e poveramente arredata. Il soffitto a travi greggie: due porte rozzamente lavorate a sega, una d’uscita nello sfondo, ed una interna a destra.[329] In un angolo per terra un giaciglio o strame di foglie, di giunchi e di canne (στιβὰς).[330] In un altro angolo qualche anfora e qualche ciotola laconica da bere (κώθων).[331] Alla parete armi appese (aste, elmo e scudo). Qualche sedile e un tavolo con sopravi papiri, tavolette e stili per iscrivere. SCENA PRIMA. CIMOTO, CINÈSIA spartano. (_Cimoto entra infuriato e incollerito parlando con Cinesia_) CIM. Non son Cimoto, s’io nol mando a pascer cornacchie[332] quel tristissimo mariuolo! più ladro di Euribate![333] CIN. O come l’è stata? CIM. Tornavo dalla provvista, lungo la via di Ercole, quando innanzi al Platanisto[334] mi imbatto in quel briccone di Gilippo tuo nipote. — «Buon dì, Cimoto! cos’hai lì dentro? — Un po’ di silfio,[335] di _maza_,[336] e una coscia di montone. — » E il tristaccio guardava la bisaccia con certe occhiate lunghe, amorose, come adocchiasse i tonni.[337] Poi mi si mette a discorrere e m’accompagna per via; qui presso, mi saluta e se ne va. M’avea preso dalla bisaccia il montone... e messovi invece un sasso. Lo scellerato! il ladro! CIN. Eh via! calma! dillo al Pedònomo,[338] e agli Efori,[339] che ti faran rendere la roba o l’indennizzo, e lo castigheranno colle verghe all’altar di Diana Ortia...[340] CIM. Lo castigheranno, dici? Mi renderan la roba? Proprio?... CIN. Sicuro. Ma come ha fatto a levartela? Non era chiusa la bisaccia? CIM. E a doppio giro di corda! CIN. O in che maniera l’ha aperta? CIM. È quello che non so... CIN. (_mostrando sorpresa_) Ma dunque non l’hai visto sull’atto...? CIM. To’ sentine un altra! Che sì, se lo vedevo, voleva star fresco! CIN. (_indifferente, stringendosi nelle spalle_) Oh, allora è un altro affare. CIM. (_sorpreso_) Come? un altro affare? CIN. Certo. Non se ne fa più nulla. CIM. E perchè non se ne fa più nulla? CIN. Perchè tutto è in piena regola. CIM. (_con interrogazione comica di sorpresa_) Eh...? cos’hai detto?... CIN. Che tutto è in piena regola, (_tranquillissimo come chi dice la cosa più naturale_) T’ha rubato e non ti sei accorto. La roba è ben rubata. È una legge di Licurgo! E approvata dall’oracolo!...[341] CIM. (_dapprima sbalordito, poi si avvicina con serietà comica a Cinesia_) Ah!... qui, da voi altri..., c’è la legge che assolve i ladri? CIN. (_coll’accento di chi dice cosa ovvia, naturalissima_) Quando rubano bene. E li castiga colle verghe[342] e li obbliga a restituire, se si lascian cogliere sul fatto. Così si abituano i giovani ad essere svelti... CIM. (_con accento comico_) Capisco!... E dimmi: era un onest’uomo... pare... questo vostro... Licurgo? CIN. Se era! Per i Dioscuri![343] Il fior degli onest’uomini. Tutte le leggi nostre più giuste, più savie, le ha fatte lui... CIM. Oh Minerva Poliade!...[344] dove è mai venuto il mio padrone! CIN. Via, via, non pensar altro a Gilippo; e dimmi: Alcibiade verrà presto oggi a casa? CIM. (_comicamente brusco_) Non lo so, — concittadino di Licurgo! CIN. Eppure ho bisogno di saperlo.... (_contraffacendo la voce a Cimoto_), concittadino di Solone! Io fui ospite in Atene d’Alcibiade quand’era nostro prosséno,[345] ed oggi ho bisogno di lui che mi raccomandi agli Efori per certo affar mio. Dopo le ultime sue vittorie contro Atene, val più in Isparta una parola sua[346] che una parola dei re! Per Castore! è un gran brav’uomo il tuo padrone! CIM. Bella novità! da noi non si ruba...[347] CIN. Che in larga scala — lo so. E quelli che non rubano, come Alcibiade, si condannano e si caccian via. Ma questo non c’entra. Alcibiade ha rialzato la fortuna di Sparta — e Sparta lo acclama. Tutti gli vogliono bene: e le donne per via gli lasciano gli occhi dietro... Sóstrata, la bellissima moglie di Stimodóro, ieri raggiava d’orgoglio perchè Alcibiade passando aveva fatto un bacio al piccolo Leógora, il figliuolo suo e di Filurgo... CIM. Come! come? quella bella giovane bionda è già maritata in seconde nozze...? CIN. Oibò! Stimodόro vive ancora, e Filurgo non è suo marito. CIM. O come è dunque? CIN. È semplicissima. Nicodìce, la moglie di Filurgo, è sterile e vive divisa da lui: ora Filurgo, bramando aver prole, ed onorata, ricorse alla moglie di Stimodóro... CIM. (_con aria comica, mostrando aver capito_) Ah!... e Stimodóro... senza saperlo... (_ride con aria furbesca d’intelligenza e fa a Cinesia il segno delle corna_) CIN. (_coll’accento più naturale e indifferente_) Che! che! Ha domandato a Stimodóro il permesso. CIM. (_sorpreso e scandalizzato_) Ma... dunque... è anche... contento! Tò! Io che credevo quello Stimodóro una persona così rispettabile... CIN. Anzi rispettabilissima... CIM. E cede la moglie a Filurgo...? CIN. In prestito, perchè Filurgo non resti senza eredi onorati. Un servizio tra amici. Che male c’è in questo? È una legge di Licurgo.[348] CIM. (_dà uno sbalzo per lo stupore_) Eh...? (_fra sè_) (E la mia Filumena voleva la portassi a Sparta!) CIN. Ma sicuro! Eh, le donne non sono qui da noi quel che lassù, da voi altri, ad Atene. Licurgo, sì, ne ha fatto quello che la donna deve essere. Voi altre le adoperate per arredi della casa; noi ne facciamo delle madri di Spartani. Le vostre, rinchiuse da piccole,[349] vengono su marmottine, non ad altro istrutte che a far di cucina, sorvegliar le guattere, lavorar di conocchia e di telaio: sicchè per iscambiare due parole di proposito, vi bisogna andar fra le cortigiane; e imprecate il rigor delle leggi che vi obbligano a dormir colla moglie almeno tre volte al mese![350] Intanto, la malizia del sesso, le vostre pudibonde verginelle la impiegano a fare in privato quel che non possono in pubblico: e mentre le castigate se appena si mostrino la rara volta per via non vestite con tutta la decenza, nel fondo de’ ginecei le si danno a lascivie di ogni sorta, che solo Venere Pandemia[351] le sa. Le nostre, da giovinette, danzano nude, cantano nude in pubblico, in cospetto degli uomini:[352] e crescono più caste e più virtuose delle vostre. Le van libere in giro, si mischiano cogli uomini, attendono ai loro stessi esercizii, alla corsa, alla lotta;[353] e lascian la conocchia alle serve e s’intendon di studj e di affari dello Stato.[354] Voi custodite ad Atene le mogli vostre con sigilli, chiavistelli, chiavi segrete di Laconia e cani molossi per far paura ai drudi:[355] ed elle si vendicano, giocando di furberia per tirarseli in casa:[356] e si ungono d’aglio perchè il marito non pigli sospetto quando torna dalla guardia delle mura e regalan le carni alle mezzane nelle feste Apaturie,[357] dicendo che il gatto le ha portate via. Se poi la moglie è savia, e dolce e casta, e si porta da brava la casa sulle spalle come le lumache, e ama il marito, e non brama farsi veder che da lui, — allora il marito ringrazia gli Dei che gli han dato una moglie così virtuosa... e sbadigliando va da un’etéra a cacciar la noia del matrimonio. Qui i mariti, invece di annoiarsi, cercano al matrimonio le illusioni e la voluttà del primo amore: perchè Licurgo nostro ha provveduto che la luna di miele non la consumin da ingordi: e colle spose non ponno ritrovarsi che di nascosto, e di sotterfugio, e soltanto allo scuro.[358] Ma dei figli delle donne vostre, per un che si chiama Alcibiade, cento si chiamano Clistene, il damerino:[359] i figli delle nostre... (_con accento di orgoglio e gravità_) si chiamano tutti — Leonida! CIM. Leonida? già! già! (_fa colle dita il gesto mimico di chi ruba_) Hai finito? E con questa parlantina sei di Laconia tu — e stai a Sparta? CIN. Sono di Sparta — ma fui un pezzo ad Atene. E Alcibiade ancora non giunge... CIM. Sai quel ch’hai a fare? là ci son le tavolette.[360] Lasciagli scritto quel che vuoi — e torna più tardi... CIN. Grazie, Cimoto! Perchè infatti il tempo corre ed oggi ho a far sacrificio[361] (_mostrando una focaccia che ha portato con sè_) e ho ancora questa focaccia[362] a portar via. CIM. Bene dunque: va là — e scrivi. CIN. (_depone la focaccia: va ad un tavolo ove son tavolette da scrivere, ne prende una, e postasela sulle ginocchia, vi scrive collo stilo, voltando le spalle a Cimoto_) CIM. (_appressandosi alla focaccia — fra sè_) Che bella focaccia!... (_la guarda con aria golosa; poi data un’occhiata a Cinesia che scrive, non visto da lui, ne addenta e mangia un pezzo, e mostra alle smorfie di trovarla assai di suo gusto; poi, ad un tratto, come venutagli un’idea, prende rapidamente la focaccia, e va in punta di piedi a nasconderla. — Cinesia, finito di scrivere, si alza_) CIN. A te mi raccomando — che appena giunge la legga. (_gli dà la tavoletta_) CIM. Fidati a me... E adesso tu vai a far sacrificio? CIN. Sì. Dalla leggiadra Làmpito, la moglie del vecchio Smicinzione. Che cara donna! CIM. Ah! già! capisco! (_ridendo furbescamente_) Anche tu sei di quelli che hanno chiesto il permesso... CIN. Io? tutt’altro. Il vecchio vuol mangiarmi tutte le volte che mi vede... CIM. E allora?... (_sconcertato_) CIN. (_con far naturalissimo_) E allora... siccome il vecchio ha sessanta inverni suonati, e la vaga Làmpito non ha che venti primavere — e siccome qui le donne hanno anzitutto ad esser madri, — così il vecchio è _obbligato_ a consentire che ella abbia da un giovane dei figli robusti... CIM. Che restano del giovane? CIN. Cioè no, del vecchio. CIM. (_sempre più sorpreso_) Per obbligo? CIN. Certo. E quindi, se non foss’io, sarebbe un altro.[363] Così i vecchi, da noi, ci pensano due volte prima di legare alla loro vita acciaccosa dei fiori sbucciati appena; e se lo fanno, i poveri fiori non restan sacrificati. CIM. Bravo! dimmi... anche questa è... una legge di... CIN. Licurgo! s’intende. CIM. (_con vivacità beffarda_) Ma era una perla questo vostro Licurgo! CIN. E che perla!... Oh, addio! me ne vado... (_nello andarsene va a riprender la focaccia dove l’ha posta, e la cerca_) Dov’è la mia focaccia? CIM. (_facendo lo gnorri_) Che focaccia? CIN. Quella pel sacrificio, che era qui. CIM. Io non l’ho vista. CIN. (_insistente_) Ma era qui. CIM. E allora il gatto l’avrà portata via. CIN. (_incollerito_) Sei tu il gatto!... CIM. Come puoi dirlo? M’hai visto forse? CIN. Qui non c’eri che tu. CIM. (_insistendo e poggiando sulla parola_) M’hai visto? CIN. O rendila o ti farò flagellare! CIM. (_con sussiego comico_) Dà retta a me. Non farne nulla. Sta alla legge di Licurgo. Era un onest’uomo sai... Licurgo! CIN. (_inviperito_) Mariuolo! CIM. (_beffardo_) Che perla quel Licurgo! che perla!... CIN. Per Castore![364] me la pagherai! (_va via incollerito minacciando, mentre Cimoto dà in risate_) SCENA II. CIMOTO solo. (_va a riprendere la focaccia dal ripostiglio ove l’ha nascosta_) CIM. Ancora, ancora, di tutte le leggi di Licurgo questa passa... ma le altre! Puh!... E Alcibiade servir questa gente! E far quella vita che fa! un uomo come lui, avvezzo a tutte le delicatezze del lusso! vestir come costoro, dormir come costoro, mangiar le porcherie che mangiano costoro![365] per me, già, non ho potuto ancora farci lo stomaco!... (_mangia qualche boccone della focaccia_) da che son qui, è il primo boccone da galantuomo che mando giù...: e lo devo a Licurgo. Che Giove gli perdoni tutte quelle altre stramberie! È vero (_mangiando_) che questo boccone era destinato per gli Dei... ma già, invece degli Dei, se lo mangiavano i sacerdoti... dunque è meglio che lo mangi io. Per quel bene, che han fatto i sacerdoti al mio padrone!... Povero padrone! Da ieri che è tornato dalla flotta, tutti gli fan festa! ma egli è tutt’altro che allegro!... L’abbandono di Timandra lo ha reso ben triste! (_va a riporre il resto della focaccia_) Questo glielo voglio metter via per lui... se pure lo mangierà: è diventato tanto sobrio! e vuole che lo sia anch’io!... Qui tutti sono sobrii... e un dì sì, un dì no, si patisce la fame di quei di Melo.[366] Non ci sono che i due re che stiano bene!... (_mentre parla seguita a far qualche cosa: riporre oggetti, metter ordine alla stanza, ecc._) Oh, i re, quelli sì!... loro qui hanno doppia razione, e su ogni scrofa che partorisce un porcellino da latte è per i re!...[367] Oh quelli sì!... Eh, (_sospirando_) quei di Atene erano tempi! Se non era quel briccone di Tèssalo e compagnia!... Il bel servigio che han reso ad Atene col farle nemico Alcibiade! Quarantamila uomini e duecentoquaranta navi perdute in Sicilia; il bravo Làmaco morto in campo, Nicia e Demostene presi e giustiziati, l’Attica invasa e mezze le isole perdute!...[368] Bel guadagno! Pensar tutti quei poveri ragazzi lì ad ingrassare i corvi dell’Etna o a marcir di stenti e di fame in fondo alle Latómie![369] Povera gente! (_intenerito, asciugando col dorso della mano una lagrima_) Per essere giusti, a dirla qui, il padrone s’è vendicato fin troppo!... infin dei conti, Atene è il suo paese!... ma già, gliene han fatte tante!... trattarlo in quel modo... proprio il dì della sua vittoria!... Basta, il tempo è galantuomo... (_da qualche momento Cimoto ha smesso di lavorare, e s’è piantato a chiacchierar tra sè, sul davanti della scena: ma a quest’ultima riflessione si riscuote_)... e tu, Cimoto, il tempo lo stai qui a perdere... e Alcibiade (_guardando fuori_) è qui che arriva... (_pone in assetto in furia alcune cose, e va incontro ad Alcibiade_) Uh! che faccia scura! pare abbia visto il lupo!...[370] SCENA III. CIMOTO e ALCIBIADE. (Alcibiade entra vestito da capitano lacedemone)[371] CIM. Salve, Alcibiade! dacchè s’è saputo il tuo ritorno dalla flotta, qui l’è una processione di gente. Anche or ora fu qui un tal Cinesia, tuo ospite antico. Lasciò per te questo scritto. ALCIB. (_presa la tavoletta, letta e depostala — con accento serio ed asciutto_) Fra poco verrà alcun degli Efori e Bràsida. Fuor di essi, rimanda chicchessia. CIM. Alcibiade! ALCIB. Che c’è? CIM. (_appressandosegli con voce affettuosa e insinuante e presentandogli il resto della focaccia_) Tu non mangi mai altro che maza e zuppa nera. Se oggi hai molto a discorrere, piglia un po’ di questa che ti ristorerà. ALCIB. (_brusco e severo_) Porta via!... E sempre non pensi che a ghiottonerie! Non ti vergogni di ingrassare a quel modo? CIM. (_sorpreso, mortificato_) O che colpa n’ho io? ALCIB. (_severo_) Ma lo sai che la pinguedine è punita a Sparta?...[372] CIM. (_sempre più scandalizzato_) Come?!... è punito il diventar grassi? (_fra sè_) (Questa legge di Licurgo poi non la sapevo!) Ma... ma io... ALCIB. Ma tu ingrassi, ti dico! (_minaccioso_) Bada a te!... Va... CIM. Vado... (_fra sè allontanandosi_) Anche questa! Proibito diventar grassi! Perchè lui, Licurgo, sarà stato magro come uno struzzo! O Minerva Antesignana![373] dove siam mai capitati! (_va via esclamando e borbottando_) SCENA IV. ALCIBIADE solo, poi ENDIO, éforo. ALCIB. (_solo, cogitabondo_) Eccomi ben presto di ritorno!... Città prese, battaglie vinte! vittorie cadmée![374] Ne reco molti a Sparta di allori... (_pausa, indi con voce lenta, amarissima_) di quelli che non piacciono a Timandra!... Perfino agli omicidi dalla patria banditi vuole la patria concesso nel loro esilio il riposo, e perseguitarli divieta:[375] che cosa è dunque che mi perseguita qui? (_si porta la mano al cuore e rimane lungamente e cupamente assorto: entra Endio_) END. Buon dì, Alcibiade! ALCIB. Salve, Endio! END. Gli efori e il Senato di Sparta si adunan domani a udir da te il racconto degli ultimi fatti di guerra e deliberare sulle ricompense. Venni ad avvisartene. ALCIB. Grazie. Domani Sparta saprà da me che ad Alcibiade è sufficiente compenso non avere smentita la fiducia posta in lui. Quanto al racconto de’ miei fatti sarà breve: Chio, Clazomene, Policna, Lèbedo, Ero, e Tèo, e Milèto ritolte ad Atene: la flotta ateniese messa in fuga da Chio a Samo:[376] conchiusa ai danni di Atene l’alleanza difensiva ed offensiva tra Sparta ed il re.[377] END. Di già? ALCIB. (_secco_) Di già. END. E la scitála[378] che ti spedimmo colle istruzioni intorno ai patti? ALCIB. (_sempre secco nel discorrere_) Arrivò tardi. I patti dell’alleanza eran già conchiusi, e... migliori che voi non domandaste. Alcibiade fa gli affari di Sparta meglio che Sparta non chieda. END. (_fissandolo serio in volto_) Sei ben superbo, Alcibiade! ALCIB. A te. (_gli consegna un papiro arrotolato_) END. (_continuando a fissarlo, prende lentamente da lui il papiro, lo spiega, lo legge — e dà in segni improvvisi di sorpresa e soddisfazione_) E questo è il trattato che presenterai domani agli efori[379] e all’assemblea?[380] ALCIB. (_senza dir parola s’inchina e riprende il rotolo dalle mani di Endio_) END. Sparta può essere contenta di te. ALCIB. (_asciutto, con fierezza_) Lo credo! Un tempo, anche Atene lo fu! END. E la flotta fenicia? ALCIB. L’ho fatta avanzare già sino ad Aspendo. Là attende un mio avviso per procedere oltre e venirsi a congiungere colle navi nostre in Milèto. Oggi stesso, per mezzo di Brásida, lo spedisco da qui. Al mio ritorno, subito dopo il plenilunio,[381] le flotte congiunte faran impeto contro Samo — e in breve avrò finita la guerra. END. (_calmo, senza troppa espansione_) Gli Dei salvatori facciano vero l’augurio! e Sparta ti proclamerà suo cittadino, come già fosti suo ospite. Addio. ALCIB. (_vivamente, trasalendo_) Cittadino di Sparta?!... (_con amarezza profonda_) È un bel compenso! END. Ti offende il titolo?[382] ALCIB. Oh no. (_mesto, reprimendo un sospiro_) Penso alla fortuna degli eventi — e a ciò che questo titolo significava un giorno per me. Addio. (_Endio si allontana: quand’egli è sulla porta, Alcibiade, che è immerso in meditazione cupa, si riscuote d’un tratto e lo richiama indietro_) Endio! END. (_si sofferma sulla soglia, serio, senza dir parola, con aria interrogativa_) ALCIB. Te ne vai? END. (_asciutto_) T’ho salutato. ALCIB. (_sottolineando le parole_) Sei freddo — oggi. END. Io? che vuoi dire? ALCIB. (_andando vivamente a lui, gli si pianta di fronte e gli stende la mano per prendergli la sua_) Endio!... che pensi tu di me? END. (_freddo, ritirando la propria mano_) Che sei un valente capitano. Addio. (_esce_) SCENA V. ALCIBIADE solo, poi CIMOTO. ALCIB. (_partito Endio, rimane alcuni istanti immobile, cupo, cogitabondo_) Un valente capitano?... Che ha inteso dire costui?... Questa parola che era per me un giorno il più bel sogno di gloria, potrebbe ella forse (_a voce lenta_) sulla bocca di un uomo suonare anche insulto? La gloria e il disonore avrebbero confuso, scambiato i loro nomi?... Un... valente... capitano? (_dopo sillabata lentamente, come ponderandola fra sè, questa frase, rompe in iscoppio repentino di voce e d’ira_) Ma mi disprezza costui! Per i Numi! Questo spartano sarebbe forse così superbo perchè egli ha una patria? ma questa sua patria son _io_ che glie l’ho fatta grande — e che domani posso ancora ridurla quel che era or fa un anno!... ed egli lo sa! (_dopo una pausa, calmandosi alquanto, e passeggiando su e giù meditabondo_) La mia mente ombrosa, malata, si crea sempre intorno inutili sospetti!... Egli anzi fu cortese con me... Disse che Sparta m’avrebbe fatto suo cittadino... essa non farebbe suo cittadino un uomo che disprezza!... (_pausa_) Ma... e se nulla di spregevole è in me, perchè Timandra mi ha abbandonato? Ella mi amava! «_Ti seguirò dovunque in capo alla terra, fino a che Alcibiade sia degno di Alcibiade!_...» È un anno che servo Sparta (_sempre più meditabondo_) ed è un anno che Timandra mi lasciò!... Non dovevo io dunque vendicarmi? Non fui io vittima della più nera ingratitudine de’ miei concittadini? E coloro che mi condannavano, mentre io conquistavo Catania, non ora ad Atene comandano? Essi, essi sono i veri nemici di Atene![383] Io proscritto non vado contro una patria ancor mia, ma tento riacquistare quella che mia più non è.[384] Che disonore in questo? (_riscotendosi_) Se Timandra mi lasciò... ebbene... ebbe torto! Cimoto...! CIM. (_entrando alla chiamata_) Alcibiade? ALCIB. (_prendendolo vivamente per una mano_) N’è vero che ebbe torto di lasciarmi, Timandra?... perchè io non vorrei vivere se fossi un vile... io _non lo sono_ un vile...[385] CIM. E chi lo disse? ALCIB. Chi? Nessuno! per gli Dei!... E nemmeno tu... n’è vero? CIM. Io?... Che ti salta in mente? ALCIB. Di’, Cimoto furono molto ingiusti gli Ateniesi con me!... CIM. Certo!... (_con voce di rammarico_) ma l’hanno anche pagata ben cara... fin troppo cara... ALCIB. Tu dici? (_con ansia interrogativa_) Ma avevo ragione! CIM. Sì... e per colpa di pochi (_con accento mesto, lagrimoso_) tanta povera gioventù, là in Sicilia... ALCIB. (_vivamente insistendo_) Ma avevo ragione!?... (_siccome Cimoto tace, e serba l’aspetto pensieroso, intenerito, Alcibiade lo afferra e lo scrolla violentemente, gridando con impeto_) Ma dillo dunque che avevo ragione! CIM. Ahi! SCENA VI. Detti e TIMANDRA, indi ALCIBIADE e TIMANDRA soli. TIMAND. (_già da qualche momento affacciatasi velata di nero, sulla soglia, alle ultime parole d’Alcibiade si scopre il volto e lo apostrofa con voce vibrata e severa_) E che vuoi ch’egli ti risponda quello che la coscienza non risponde a te? ALCIB. _e_ CIM. (_tutti e due con istupore_) Timandra! (_Alcibiade lascia andar Cimoto. Cimoto, a un segno imperioso di Alcibiade, si ritira ed esce_) ALCIB. (_a Timandra affettuoso, ma imbarazzato_) Tu qui? TIMAND. (_seria, alquanto ironica_) Giungo, sembra, importuna! I colloqui delle coscienze non amano testimoni. ALCIB. E perchè venisti? TIMAND. (_con voce bassa e grave, ma vibratissima_) Perchè la misura del disonore è colma ed è tempo che Alcibiade la getti lungi da sè! ALCIB. (_cercando ricomporsi in calma risoluta_) Inutilmente allora venisti. L’Alcibiade d’Atene non è l’Alcibiade di Sparta. TIMAND. (_con sarcasmo_) Oh, lo so, lo so! e poi, solo in vederti, lo si comprende! Lo so che dormi sulla nuda terra e bevi acqua e mangi la zuppa nera![386] Sei ben trasformato, Alcibiade! Colui che faceva meravigliare Atene delle sue mollezze e delle sue orgie, fa meravigliare oggi Sparta de’ suoi severi costumi! Lo scapestrato, l’effeminato, il dissoluto Alcibiade, è divenuto un Alcibiade sobrio, temperante, costumato, austero... Eppure... (_con forza_) eppure valeva _assai meglio_ quell’altro... perchè quello almeno era l’Alcibiade ateniese! ALCIB. (_risentito_) Timandra! TIMAND. Oh, hai torto di rubare alla virtù queste apparenze! Vergognati! ALCIB. (_con crescente risentimento_) Timandra!... TIMAND. (_incalzante, senza dargli tempo a replicare_) Sì, vergognati a tua volta, perchè mi hai fatto piangere di vergogna per te! Ah, tu credi che sia nulla, per una donna che ama, che ha consacrato ad un uomo tutti i suoi affetti, le sue gioie, i suoi dolori, la sua esistenza intera, il saper quest’uomo venduto ai nemici del suo paese; l’udire ogni giorno intorno a sè le imprecazioni al suo nome, vedersi d’intorno nella sua stessa patria le ruine che egli ha seminato, le lagrime che egli ha fatto spargere? Lo sai tu che ognuna di quelle imprecazioni ripiombava sul cuor mio, che ognuna di quelle lagrime vi scendeva come stilla rovente, che da ognuna di quelle rovine mi pareva alzarsi una voce e rinfacciarmi come delitto il mio amore — e domandarne castigo agli Dei? ALCIB. Cessa, Timandra! Tu sai anche quello che gli Ateniesi han fatto a me. TIMAND. Io so che nessuna ingiustizia giustifica il tradimento; ma tu giustifichi tutti i giorni l’accusa e la condanna di Atene contro di te. So che eri innocente, e che ora più non lo sei. Potevi essere Aristide — e non sei più che... Pausania! (_con iscoppio di voce_) Numi! e costui ama la gloria! ALCIB. (_rimasto fin qui come oppresso, accasciato dalle parole di Timandra, a questo punto si riscuote e le parla con voce vibratissima_) Ma tu che mi accusi, hai tu letto qui dentro? Hai tu indovinato una sola delle tempeste che vi si scatenarono e mi trabalzarono qui? Ah! tu credevi che Alcibiade si sarebbe umilmente, docilmente rassegnato alla condanna ingiusta che lo colpiva! Che ne sai tu se la mia anima ha la docilità e la rassegnazione di quella di Aristide, per chinarsi come lui alla sentenza del primo venuto e scriverla sul coccio di mio pugno?[387] Aristide si cinse di gloria! Lo chiamarono il _giusto_! Che m’importa! se per essere _gloriosi_ bisogna essere sommessi, se per essere giusti bisogna curvar la fronte agli ingiusti, — ebbene, che la giustizia non sia più per me che una fola — e che questa gloria vada lungi da me!... Mi parlasti di Pausania![388] E sia!... (_con iscoppio di voce e di rabbia_) Pur che piangano coloro che mi offesero, ch’io muoja pure come lui! maledetto dalla patria come lui! TIMAND. (_mutando l’accento severo di prima in accento più mite e mestissimo_) Eppure non era così, o pronipote di Ajace,[389] o figlio di Clinia, non era così che morivano i tuoi maggiori!... Là in Atene, al Ceràmico, dove dormono i morti per la patria, han posto, sai, da che fosti assente, la lapide pei morti di Coronea.[390] Fra quei morti... è tuo padre. Passavo dal Ceràmico giorni sono: e su quella lapide recente (_con voce che va man mano intenerendosi per l’emozione_) fanciulli e giovinette invocavano i Numi, e spargevano le pie libazioni; intorno vi pendevano e ciocche di capelli recisi e cento ghirlande votive;[391] e una turba commossa, riverente, si scopriva a quella pietra modesta, dove erano scritti da una parte i nomi — il nome di tuo padre! — dall’altra una epigrafe pietosa. Di quella epigrafe lessi — e serbai a memoria le parole. ALCIB. (_in preda a lotta angosciosa, si è gettato a sedere, nascondendo il volto fra le mani_) TIMAND. (_con voce lenta, alta, commossa, guardando il cielo_). «L’étere accolse le anime di questi, ed i corpi la terra. Caddero presso le porte di Coronea. Questa città e questo popolo di Erettéo rimpiangono codesti uomini, che pugnando fra i primi morirono, Ateniesi, figli di Ateniesi. Abbandonando le loro anime, acquistarono a sè fama di virtù, ed alla patria grande rinomanza.» (_La voce di Timandra si è venuta man mano esaltando, nel ripetere la epigrafe; alle ultime parole s’arresta con lunga pausa, fissa lo sguardo su Alcibiade, e gli si avvicina parlandogli a voce bassa e vibrata_) E a te cosa porremo?... ALCIB. Lasciami! lasciami, Timandra! Ho data la mia parola. Lasciami al mio destino! TIMAND. (_con voce affettuosa, e man mano affannosa, piangente, incalzante_) No, no, Alcibiade, tu non sei legato da nessuna parola; perchè Giove vindice degli spergiuri non accetta gli sconsigliati giuramenti dell’ira,[392] e ogni parola contro la tua terra è nulla, è nulla davanti agli Dei! Vieni! vieni meco, Alcibiade. È un anno ch’io piango per te; ch’io vivo soffocando qui dentro l’angoscia dell’udirti imprecato da coloro che ti furono cari; costretta, ineffabile strazio, a far voti agli Dei contro di te, senza poter cessare di amarti; a maledire ogni tua vittoria, io che andavo sì altera di saperti prode!... Un dì corse il grido che Atene era salva, perchè tu eri morto; e colla morte nell’anima, dovetti quel dì mostrarmi lieta, — e un rimorso e uno spasimo orrendo fu la gioja del dì appresso nell’udir bugiardo quel grido!... Eppure, cercavo ingannare me stessa, andavo fra me ripetendo: «_Cessato l’impeto dell’ira, il mio Alcibiade ritornerà_...» Ma tu non ritornavi! e le sventure attirate dalla tua collera seguitavano a piombar sopra Atene. Allora lo strazio fu più forte de’ miei propositi — e lasciai Atene per venire a trovarti ad ogni costo, per ricondurti ad ogni costo da qui. Oh, vieni, vieni, Alcibiade, colla tua Timandra; vieni alla tomba de’ tuoi maggiori; lascia la via del disonore! ALCIB. (_in preda a emozione vivissima sta per cedere allo scongiuro di Timandra, e la chiama con affetto, avanzandosi verso di lei, e stendendole le braccia_) Timandra! (_in questo punto si ode dallo interno la voce di Brasida_) Ah! BRAS. (_dall’interno_) Annunziami ad Alcibiade. Devo parlargli... ALCIB. (_all’udir la voce di Brasida si arresta come fulminato_) Brasida! è qui a prender gli ordini! Ho data la mia parola! Ho data la mia parola! (_a Timandra_) Va! non posso!... o resta con me! TIMAND. (_a quest’ultima frase d’Alcibiade, dà in un gesto vivissimo come di indignazione e di orgoglio ferito, e si drizza fieramente della persona_) Che?!... Addio, Alcibiade! (_s’avvia per uscire con passo concitato — Alcibiade si è mosso per trattenerla, poi s’è fermato e non la guarda più: ha gli occhi a terra. Timandra dalla soglia s’è volta a gettare un ultimo sguardo su di lui; poi, già sul punto d’uscire, d’improvviso, come chi ha mutato consiglio e presa una risoluzione repentina, si arresta e incrocia le braccia sul petto, in atteggiamento di calma risoluta_) SCENA VII. ALCIBIADE, TIMANDRA, poi BRASIDA. ALCIB. (_fra sè, gli occhi a terra, senza accorgersi di Timandra_) Ebbene? mi lascerò spaventare dalle parole di una donna? È donna anche la coscienza. Poi il dado è gettato: questi Spartani si son fidati in me. Tradir loro, dopo aver tradito i miei?... Sarei traditore due volte... basta una! (_a voce forte, ma sempre cupo ed assorto_) Brasida! BRAS. (_si affaccia con piglio soldatesco sulla soglia e si avanza verso Alcibiade. È in costume completo di guerriero spartano: lunga asta[393] e siéla,[394] scudo di pelli ampio e rotondo a correggie[395] e recante sull’esterno un_ Λ _iniziale di Lacedemone;[396] veste rossa sotto la corazza di feltro;[397] calotta di feltro in capo_).[398] Son qui. ALCIB. (_senza guardarlo, gli occhi a terra, come vergognoso del proprio atto, gli stende lentamente col braccio il papiro contenente l’ordine scritto_) Eccoti l’ordine per la flotta fenicia. Partirai oggi stesso precedendomi... (_alza lo sguardo su di lui nel consegnargli il papiro che l’altro prende, salutando militarmente, e in quel punto si accorge di Timandra, che lo guarda severa, le braccia conserte, quasi in aria di sfida_) Tu qui ancora?... TIMAND. (_con calma sarcastica_) M’hai detto di restare!... (_cambiando intonazione di voce, e assumendo un accento amorevole, si avanza verso Brasida, mentre Alcibiade rimane visibilmente sconcertato_) Brasida, tu porti un nome glorioso.[399] Hai molte cicatrici. Quante campagne? BRAS. (_con accento asciutto, laconico_) Sette. TIMAND. Quante corone? BRAS. Nessuna.[400] TIMAND. Il tuo grado? BRAS. Soldato semplice. TIMAND. (_vivissima_) Soltanto?... (_fissa severa Alcibiade, che incontratosi nel di lei sguardo abbassa il proprio; e ripiglia a voce lenta, rivolta di nuovo a Brasida_) Sparta è ben ingrata con te!... Ami tu qualcuno? BRAS. Sparta e la mia donna. TIMAND. E la tua donna ti segue? BRAS. M’aspetta. TIMAND. Quando? come? BRAS. (_mostrando e stendendo il proprio scudo, prima in atto d’imbracciarlo militarmente, poi rivoltolo in senso orizzontale_) O con questo — o su questo.[401] TIMAND. (_stringendogli la mano con piglio risoluto, e guardando nello stesso tempo Alcibiade_) Va! che sei un valoroso! (_Brasida s’avvia per uscire. — Alcibiade alle ultime parole di Timandra fa un gesto vivissimo, com’uom ferito nel vivo — poi visibilmente dominato da interna violentissima lotta, richiama Brasida, che è già in sulla porta per uscire_) Aspetta!... (_Brasida ritorna indietro, Alcibiade soggiunge a voce lenta_) Lo porterò invece io medesimo... Tu parti pure!... (_Brasida saluta militarmente e parte_) SCENA VIII. ALCIBIADE, TIMANDRA, poi CIMOTO. (_Uscito Brasida, Alcibiade e Timandra rimangono per qualche istante a guardarsi l’un l’altro in faccia, muti, immobili. Poi Alcibiade, coll’occhio sempre fisso su Timandra, e senza proferir parola, lacera lentamente il foglio. Gesto vivissimo di gioja di Timandra, alla quale senza dar più tempo di soggiungere altro, Alcibiade corre vivissimamente incontro, gettandosi nelle sue braccia aperte_) Grazie, grazie, o Timandra! o mio buon genio!... (_Cimoto, entrato da un istante, dopo uscito Brasida, ha assistito con segni di gioja a quest’ultima scena e si stropiccia per contentezza le mani. Alcibiade in questo punto si accorge di lui e lo chiama_) ALCIB. Vieni, vieni, Cimoto! (_Cimoto accorre a lui. — Alcibiade stende un braccio ad collo di Timandra, l’altro a quel di Cimoto e li guarda entrambi affettuosamente_) Torneremo ad Atene! (_movimento e grido di gioja di Timandra e di Cimoto, subito repressi da un gesto significantissimo di silenzio di Alcibiade. Quadro_) CALA LA TELA. QUADRO SESTO _Anno 407 av. l’Era Volgare (6 giugno, ossia 25 di Targelione) (2.º della Olimpiade 93.ª — 24.º della guerra del Peloponneso) Eubato di Cirene vinse il premio ad Olimpia._ ATENE Le Lunghe Mura, Via di Teseo, lungo il muro boreale, conducente dal Pireo alla città.[402] Davanti alla casa di Alcibiade. SCENA PRIMA. DIOCARE, AMINIA, CARINADE, altri cittadini da opposte parti. CRITILLA vecchia, MIRRINA sua figlia, poi ANDROCLE. CARIN. (_accorrendo, nell’incontrar Diocare_) E così? DIOC. (_vien correndo_) È sbarcato ora nel Pirèo. O spiriti, o Dei![403] che nuvola di gente! che baccano! che fanatismo! CARIN. E l’hai veduto? l’hai veduto? DIOC. Per Giove! E come era commosso! parea gli spuntasser le lagrime! AMIN. Stava ritto, esitante sulla prua, mentre tutti l’acclamavano; e se non era Eurittòlemo suo cugino che gli facea segno dalla riva, ancora non sapea, per la emozione, risolversi a scendere![404] DIOC. Sono otto anni che non vedeva Atene! CRITIL. (_accorrendo_) Aminia, Aminia, da che parte viene Alcibiade? AMIN. (_accennando_) Di qua. CRITIL. È lontano? AMIN. A st’ora sarà al tempio di Teseo. Mamma Critilla, se vuoi vederlo, non c’è che aspettarlo qui, dinanzi alla sua casa. CRITIL. (_a sua figlia Mirrina che l’accompagna_) Sì, sì, Mirrina, aspettiamolo qui... (_si mette intanto a discorrere con altre donne_) DIOC. (_ad Aminia_) E non ti pare che, da quando partì, si sia fatto più magro? AMIN. Per Ercole, ne ha passate tante! povero giovane! CARIN. E dire che in causa di quei calunniatori, ci siam bisticciati con lui proprio per l’ombra dell’asino![405] e l’abbiam cacciato in bando a quel modo!... DIOC. E, per gli Dei, ne abbiam pagato il fio! Se non lo condannavamo, le cose in Sicilia non sarebbero finite come finirono...[406] ANDR. (_sopraggiungendo_) Però quella d’essere passato a Sparta non fu una buona azione... DIOC. (_ad Androcle_) Avrei voluto veder te ne’ suoi panni che cosa di peggio avresti fatto.. CARIN. Che ha costui da dire contro Alcibiade? AMIN. Chi parla contro Alcibiade? DIOC. (_accennando Androcle_) Costui. CARIN. Sarà uno de’ calunniatori! Dalli al tristo! AMIN. Sì, sì, dalli al sicofante![407] DIOC. Dalli al filolácone![408] alla spia! (_Androcle fugge inseguito dai popolani_) CARIN. Duecento navi prese, e le isole riconquistate. Si fa presto a dirlo! E così giovane ancora! Che età avrà Alcibiade?... CRITIL. Oh, il conto è subito fatto! Ne avea ventinove quando è andato via; e in quel tempo mi faceva un po’ di corte... AMIN. Egli t’ha fatto la corte?! (_ridendo_) O care Ore!...[409] Quanti denti avevi? CRITIL. Scoppia! — Avevo circa la sua età — ed ero anche più bella di adesso, una volta... AMIN. (_canzonandola_) E anche i Milesj una volta eran gagliardi...[410] CRITIL. Impertinente! (_andandogli incontro coi pugni chiusi_) DIOC. (_interponendosi_) Ma sta zitto, Aminia!... Non la far arrabbiare! Sicchè, mamma Critilla, quanti anni hai? CRITIL. Sicchè, dicevo, io ora ne ho trentasette... ne avrà giusto trentasette anche lui... DIOC. Mamma Critilla, la sai la storia di Giove quando dormì con Alcmena?[411] CRITIL. E di tre notti ne fece una. DIOC. Appunto, mamma Critilla, i tuoi anni son come le notti di Giove. AMIN. _e_ CARIN. (_ridendo_) Ah! ah! CRITIL. Che le cornacchie ti mangino! AMIN. Oh! oh! Alcibiade si avvicina! (_suon d’istrumenti e voci di popolo ancora in qualche lontananza_) CARIN. (_guardando verso l’interno_) Egli arriva! Egli arriva! (_le grida e gli evviva vanno appressandosi, molti corrono incontro — la scena si riempie di popolo_) SCENA II. CIMOTO, soldati del corteo, popolo, FILUMENA, vecchia. — Un bimbo e detti. (_Cimoto entra vestito da fante leggero, precedendo nel corteo Alcibiade. Distribuisce con serietà comica e affettata modestia, come se gli applausi fossero indirizzati anche a lui, saluti e ringraziamenti a dritta e a manca_) DIOC. E chi è quello là che viene davanti? (_guardando colla palma della mano tesa davanti l’occhio_) Oh Numi! o Mercurio agorèo![412] guarda, guarda! È Cimoto il parassita! Cimoto vestito da guerriero! AMIN. (_chiamando e salutando_) Ehi là! Cimoto! Cimoto! VOCI DEL POPOLO. Evviva il trionfatore! CIM. (_a Diocare e agli altri che gli fan ressa intorno, con aria di sussiego comicamente modesta, e mimica analoga_) Grazie! Nulla! Nulla!... non abbiam fatto che il nostro dovere! (_vede sua moglie vecchia, che gli corre incontro facendosi largo tra la folla e la chiama andando verso lei_) Mia moglie! O Filumena! FILUM. O il mio tesoro! il mio amorino! Come ti sei fatto bello! e abbronzato! (_lo abbraccia_) CIM. Eh, già! il sole delle battaglie!... E dimmi, o Filumena... (_con solennità comica fissandola in volto_) mi sei stata... fedele? FILUM. Oh, te lo giuro, per la regina Venere... CIM. (_con forza interrompendola_) Giuralo ancora! FILUM. Sì, lo giuro per i misteri santissimi delle Dee! CIM. Basta. Ora ti credo... FILUM. (_accarezzandolo_) Oh il mio tesoruccio! CIM. Ma con voi altre donne non si sa mai! e la casa della virtù è tanto lontana![413] Sai, Filumena (_con accento grave, paternale_), che è un gran delitto, in odio ai Numi, mentre il marito lontano sui campi della gloria espone la vita e conquista la corona del valore, il preparargli in casa delle altre... corone? FILUM. Che gli Dei le puniscano quelle donnaccie!... CIM. (_sullo stesso tono paternale_) E vedi come punirono le Fedre, le Menalippe e le Clitennestre! Oggi, o Filumena, tre quarti delle donne son Clitennestre...[414] Guardati dal malo esempio! e i Numi ti benediranno, così come io, _reduce Ulisse al dolce antico letto_,[415] ti benedico, deponendo questo bacio sulla tua casta fronte di Penelope... VOCI DEL POPOLO. Eccolo! eccolo, Alcibiade! (_voci vicine; molti si levano in punta di piedi_) CARIN. (_drizzandosi sulle punte_) Dov’è? dov’è? AMIN. (_additando_) Il secondo a destra, dopo l’arconte. CARIN. Ah, vedo! CRITIL. (_cercando farsi innanzi e por sua figlia Mirrina in vista_) Fatti in qua (_alla figlia_), ch’egli ti possa vedere. Aggiustati quel riccio! Su, alta quella testa! Dritta la persona! VOCI. Viva Alcibiade! (_Alcibiade spunta col seguito dallo sfondo della scena_) SCENA III. Detti, ALCIBIADE, col seguito di arconti,[416] strategi, ipparchi, tassiarchi[417] ed altri ufficiali e soldati; CALLIA primo arconte; ANDROCLE; un cancelliere, e popolani. CRITIL. (_a Mirrina_) Lo vedi? È quello là, grande. MIRR. Oh Venere! com’è bello! UN BIMBO. (_dietro la folla_) Anch’io! anch’io voglio vederlo! CIM. (_avanzandosi verso il bimbo, e pigliandone per sè la curiosità_) To’! guardami! sei contento? BIMBO. (_guardandolo_) Sei tu Cibìade? CIM. Io e lui siam lo stesso. BIMBO. Va via! Tu sei brutto! CIM. (_indispettito, con aria comica, allontanandosi_) E tu una marmotta! BIMBO. (_strillando_) Cibìade! voglio veder Cibìade! VOCI DI POPOLO. Viva il vincitore di Sparta! (_Alcibiade fa cenno colla mano di voler parlare_) Silenzio! silenzio! (_silenzio generale_) ALCIB. Cittadini ateniesi! Giusta legge fra di voi punisce di morte il mancator delle promesse al popolo ed al Senato.[418] Vengo a mantenere una promessa data, partendo, otto anni or sono, a voi, e una promessa data agli efori di Sparta... (_susurro e movimenti di sorpresa fra il popolo_) CARIN. E ALTRI. Oh! oh! DIOC. Che mai dice? VOCI. Silenzio! ALCIB. Promisi ad Atene riportarle le spoglie di Siracusa. Promisi a Sparta che avrei guidato le sue navi fin dentro il Pireo. Gli Iddii non permisero che la Sicilia fosse nostra; ma sono cento di Siracusa[419] e sono cento di Sparta le triremi dalle nostre prese e rimorchiate che al Pireo navigarono con me. (_scoppio generale e fragoroso di applausi_) VOCI DEL POPOLO. Viva Alcibiade! Viva il trionfatore! ALCIB. Ateniesi, la fortuna che sì a lungo ne separava,[420] sorride ancora a questa città[421] cara a Nettuno e a Pallade Atenea! Ancora nostro è il dominio del mare, al quale ci invitano i destini;[422] nostre ancora quasi tutte le isole e le coste dell’Asia; ancora le triremi di Atene coprono l’Egèo vittoriose da Creta all’Ellesponto!... (_nuovi vivissimi applausi_) VOCI DEL POPOLO. Bravo! evviva!... AMIN. (_a Carin._) E neppure una parola ha detto dei torti ricevuti!... DIOC. E non una parola della sua condanna! Che cuore d’oro! 1.º ARC. Alcibiade, sulla colonna di Diofante sta scritto di premiar come Armodio... ALCIB. (_fra sè, con sussulto di gioia_) Armodio! 1.º ARC. ... ed Aristogitone chi per la libertà d’Atene affronta danni e pericoli.[423] Cancelliere,[424] leggi il decreto.[425] CANCELL. (_legge_) «Sotto l’arconte Callia, il dì sesto di Targelione spirante,[426] pritaneggiando[427] la tribù Leontide,[428] in assemblea convocata dai capitani, così piacendo al popolo e al Senato, Crizia di Callescro Falereo disse: Il Senato e il popolo riconoscendo i servigi di Alcibiade figlio di Clinia Scambónide, han rivocato il suo esilio, gli restituiscono i suoi beni, le sue case, i suoi servi, i suoi diritti di cittadino: lo nominano capitano supremo delle forze di terra e di mare:[429] e gli decretano corona d’oro, con bando nelle Panatenée e nelle Dionisiache,[430] il dì delle nuove tragedie.[431] Il Polemarco e i Tesmotéti, e i Pritáni e gli Agonotéti[432] sono incaricati del bando. Disse Crizia di Callescro Faleréo.»[433] (_Alcibiade, terminata la lettura, s’inchina e riceve dall’arconte la corona d’oro_) 1.º ARC. Alcibiade, i tuoi nemici e accusatori Tessalo, Cleonimo, Teucro, si sono sottratti a tempo colla fuga alla giustizia del popolo e delle leggi: costui solo dei calunniatori ci restò fra le mani: Atene lo consegna a te; scrivi la pena;[434] faranno gli Undici il resto.[435] (_fa avanzare Androcle legato fra arcieri sciti_) ALCIB. (_vivamente_) Costui?! (_serio e grave all’arconte_) Sapersi ridonato all’amore de’ concittadini è al cuor di Alcibiade risarcimento troppo grande, perchè altri ei ne brami. (_si volge ad Androcle_) Come ti chiami? ANDR. Androcle. ALCIB. Per gli Dei! M’è nuovo il tuo nome. Sei uno de’ cavalieri?[436] ANDR. Oh no... ALCIB. Certo però paghi almeno venti dramme di imposta e sei scritto fra gli opliti? ANDR. Neppure... ALCIB. Ma avrai almeno servito negli arcieri regolari... o sulle triremi... ANDR. Non ho i requisiti per appartenervi... ALCIB. (_vibrato, con sorpresa_) Come?! Tu non hai nulla, tu non sei nulla, e sei bastato per rovesciare la fortuna di Alcibiade? (_con forza_) Oh, per tutti i Numi! è ben umiliante per me!! Degno arconte, è nella legge che a me spetti la mia quota nel bottino de’ nemici? 1.º ARC. È nella legge.[437] ALCIB. Domando adunque che la mia parte sia data a costui: (_additando Androcle e intanto lo slega egli medesimo_) perchè io _ho bisogno_ che egli sia _qualche cosa!_ perchè se si venisse a sapere che un simil uomo ha potuto ingannare a mio danno una intera città, senza guadagnarvi nulla,... la razza dei calunniatori si perderebbe, e allora, per Ercole, non ci sarebbe più merito nè ad essere onesti, nè ad essere eroi. 1.º ARC. (_inchinandosi_). Sarà fatto come Alcibiade desidera. (_fa cenno agli arcieri di lasciar libero Androcle_) CIM. (_ad Androcle prendendolo in disparte_) Una bella fune di Aliarto ti ci voleva![438] Che la lezione ti serva, mariuolo, e ricordati quel che devi alla _nostra_ clemenza! ALCIB. Ora, Ateniesi, precedetemi nello Pnice. Di molte cose ho a rendervi conto, prima di ripormi fra pochi giorni in mare; e dobbiam render l’onore degli elogi funerei ai fortissimi estinti.[439] Io rientro a sciogliere il voto agli Dei tutelari di questa casa ove nacqui, dove ebbi il primo bacio di mio padre Clinia. Fra brevi istanti allo Pnice vi raggiungerò. VOCI DEL POPOLO. Sì, sì, allo Pnice! 1.º ARC. Noi, Alcibiade, ti precediamo. AMIN. Corriamo allo Pnice a pigliar posto! CARIN. E ALTRI. Sì, sì, corriamo! Allo Pnice! (_gli arconti e i capi salutano Alcibiade ed escono lentamente; i cittadini van via correndo, Alcibiade ed Antioco restano in iscena_) SCENA IV. ALCIBIADE, ANTIOCO, poi TIMANDRA. ALCIB. (_appena uscito il popolo, si volge vivissimamente, a mezza voce, ad Antioco_) Oh Antioco! hai visto chi c’era presso il tempio di Teseo? ANT. Se ho visto! Glicera! E la ti guardava! ALCIB. Come s’è fatta bella! Povera Glicera! Mezzo nascosta, là, tra la folla, colle spalle a una colonna del tempio, la mi fissava in volto quei suoi grandi occhioni... affè di Giove, non ho avuto coraggio di sostenerne l’incontro! Sulle labbra pareva errarle un mesto sorriso, e nell’angolo dell’occhio, ai raggi del sole che la investivano, m’era parso veder luccicare una lagrima... Povera fanciulla! Dei torti... e grossi... ne ho avuti con lei... ANT. (_sorridente_) Poichè lo confessi... è già qualche cosa... ALCIB. (quasi fra sè, pensieroso) Mi avesse almeno perdonato!... ANT. Del resto, io non solo l’ho vista, ma le ho parlato... ALCIB. (_con impeto vivissimo_) Tu! Come! Quando? Che ti disse? Che ti disse! ANT. Poi ch’io, vedendola, la salutai per nome, e me le accostai stendendole la mano, ella la strinse e mi rispose: _Saluta Alcibiade vincitore, per mio marito Carmide e per me_. ALCIB. Questo?... (_detta questa parola con impeto vivissimo, soggiunge subito, lento e con malumore_) È un po’ poco. ANT. Confessa che sarebbe indiscreto, ne’ tuoi panni, il pretender di più... ALCIB. (_sospirando_) È vero! hai ragione! Ma!... Destino!... Foss’ella almeno felice! ANT. Mi hanno assicurato che col suo Carmide lo sia. ALCIB. Tu dici? Ed io giurerei che non le sono uscito interamente dall’anima. Quegli occhioni! quella lagrima! quel sorriso! Come s’è fatta bella! come s’è fatta bella!... (_succede una lunga pausa, durante la quale Alcibiade sembra vada parlando e pensando fra sè, come profondamente assorto_) ANT. Che pensi, Alcibiade? ALCIB. (_riscotendosi e riprendendo il far vivace di prima_) Penso che Amore è un Dio bizzarro ed ingiusto: poichè mi dice il cuore che nessuna persona al mondo io sarei stato capace di amar quanto Glicera... ah! (_mentre sta per finire la frase, s’accorge in questa punto di Timandra, la quale si è affacciata sulla soglia della casa di Alcibiade: e lo guarda sorridente. Alcibiade corre a lei vivissimamente, con trasporto affettuoso, e l’abbraccia, intanto che rivolto sorridente ad Antioco, continua, correggendola, la frase sospesa_)... se non amassi Timandra! (_mentre bacia di nuovo Timandra, ancora rivolto ad Antioco, corregge anche l’altra frase di prima_) Non mi diceva nulla il cuore, sai! Non mi diceva nulla! (_a Timandra_) Oh mia Timandra! (_in questo punto Cimoto, che era entrato nella casa d’Alcibiade e poi ne è uscito, conduce Antioco via, facendogli intendere un po’ comicamente che è meglio lasciar Alcibiade e Timandra soli_). TIMAND. Che stavi dicendo ad Antioco, Alcibiade? ALCIB. Oh nulla, nulla! Dicevo (_sorridente in viso, e con accento dolce, poetico, amorosissimo_) che Amore è vita del mondo, è luce di Olimpo, è fiamma di mille colori, è celeste armonia di mille suoni; e che il prisma del cuor d’Alcibiade ha una faccia per ognuno de’ suoi raggi e la sua anima ha un’eco per ognuna delle sue note divine; risponde capricciosa ora all’una, ora all’altra; riflette, cangiandosi, or l’uno, or l’altro colore, — va scherzando, instabile sempre, di canzone in canzone, di luce in luce; ma che tutti quei suoni diversi si fondon pur sempre qua dentro in una armonia ineffabile e sola, e tutti quei raggi non vi forman che un fascio ed una fiamma sola; l’armonia della tua voce, o mia Timandra, la fiamma del tuo sguardo, anima mia! (_abbracciandola con trasporto vivissimo_) TIMAND. (_affettuosa_) Cattivo! ALCIB. Fedele, vuoi dire! TIMAND. E di’, sei contento, ora, Alcibiade? ALCIB. (_con affetto ed espansione di gioia_) Oh Timandra! mi hanno parlato di Armodio! TIMAND. T’ho preceduto nella casa tua, per essere, non veduta, testimone del tuo trionfo, e gustarne liberamente da sola, nel segreto dell’anima, tutta la gioia. Questi applausi e questi evviva che portavano alle stelle il tuo nome, hanno fatto balzare di ineffabile orgoglio e di voluttà sovrumana il cuore della tua Timandra. Sii benedetto per quest’ora che mi donasti! (_lo bacia con trasporto_) Era così ch’io ti sognai!... Sei contento? ALCIB. Mel chiedi?! È il dì più bello della mia vita questo, e a te, a te sola, mia Timandra, lo devo... TIMAND. E al tuo valore. Guarda chi viene. ALCIB. Che?! I sacerdoti! (_guardando verso l’interno_) TIMAND. Sì, essi: gli Eumòlpidi che vengono a ribenedirti. ALCIB. Ah, infatti! per Cerere! dimenticavo che le maledizioni delle due Dee pesano ancora su di me. È strano! Dal giorno che i sacerdoti mi hanno maledetto, tutto mi è andato a gonfie vele. Che la loro benedizione mi avesse a portare il malaugurio? TIMAND. No, no, Alcibiade, non bestemmiare... ALCIB. Io non bestemmio; ricordo. E penso che costoro coi loro anatemi son riusciti a farmi andare a Sparta, e a trarre Atene ad un pelo dalla rovina... Oh, eccoli. SCENA V. Detti, il GRAN SACERDOTE (gerofante) degli Eumòlpidi,[440] altri sacerdoti. GR. SAC. Alcibiade, noi abbiamo immolato alle Dive del profondo Tartaro,[441] e alle loro terribili ministre, le Erinni venerande,[442] un’agnella di pelo nero: gli indizj delle viscere riuscirono fausti, e l’offerta fu gradita dalle Dee. Perciò ti abbiamo ribenedetto...[443] e abbiamo maledetto invece i tuoi accusatori... ALCIB. (_fra sè, a parte_) Non c’è verso! Qualcuno costoro bisogna che maledicano!... (_si ode un suono lontano_) GR. SAC. (_in ascolto_) Senti! per essi suonan già l’_aria del fico_![444] Quanto a te, in segno della ribenedizione, abbiamo gettato in mare le lapidi su cui furono scritti gli anatemi...[445] ALCIB. (_con leggera inavvertita inflessione sardonica_) E dite... non ci sarà pericolo che ritornino a galla?... GR. SAC. Oh, no. Son di bronzo. ALCIB. A ogni buon conto però, se si potesse fare — a mie spese — un sacrifizio anche a Nettuno, perchè le trattenga ben giù in fondo al mare...? Se si potesse... GR. SAC. Oh, si potrebbe... ALCIB. In tal caso vi inviterei alla rinnovazion del sacrificio in casa mia... Preparerei da immolare una magnifica agnella... (_interrompendosi con inflessione sardonica dissimulata_) o è meglio una giovenca...? GR. SAC. Una giovenca. ALCIB. (_dissimulando sempre sotto la cordialità l’intonazione sarcastica_) Bene!... Una magnifica giovenca dalle corna d’oro... e poichè le libazioni alle Erinni, essendo astemie,[446] avranno inaridito la gola, si inaffierebbero le viscere e i voti al Nume con libazioni di eccellente vino di Chio e di Siracusa... Si può fare? (_sottolineando le parole_) GR. SAC. Oh, si può fare.[447] (_gli altri sacerdoti fanno anch’essi segni premurosi di assenso_) ALCIB. (_sempre cortesissimo nella velata ironia_) A domani adunque, in casa mia. GR. SAC. A domani! (_saluta inchinandosi ed esce cogli altri_) SCENA VI. ALCIBIADE e TIMANDRA, indi SOCRATE. ALCIB. (_appena usciti i sacerdoti, dà in iscoppio di risa_) Ah! ah! ah! TIMAND. (_che durante la scena coi sacerdoti è sempre rimasta, tacita spettatrice, in disparte_) Sei ben allegro. ALCIB. (_prosegue ridendo_) E fui bandito sotto l’accusa d’aver posto i loro riti in commedia! Per i Numi! non c’era bisogno di Alcibiade!... (_desistendo dal ridere si volge a Timandra ch’è rimasta pensierosa_) Tu vedi, Timandra! questi sacerdoti non finiscono di contentarmi: mangiano troppo, e scrivono troppo! ho bisogno di un Nume, che maledica un po’ meno, e parli all’anima un po’ più: se tu ne sai l’ara, e tu guidami ad essa: se sei il suo sacerdote, benedicimi tu! (_in questo punto Socrate traversa, lentissimo, con aria grave, lo sfondo della scena_) TIMAND. (_ad Alcibiade_) Un sacerdote tu cerchi? (_gli addita Socrate_) Eccolo. ALCIB. (_volgendosi e vedendo Socrate_) Socrate!... (_corre a lui_) Oh, finalmente ti ritrovo! (_con voce di affettuoso rimprovero_) Tutti gli amici oggi mi vennero incontro; tu solo, il più caro, non ti sei fatto vedere. Ma io di te mi son ricordato, sai!... e ho portato dei doni per te... SOCR. (_serio e grave_) Grazie. Dalli a qualcun altro.[448] ALCIB. Ma tu verrai oggi meco, e al mio fianco, nell’Assemblea, e al sacrificio e al banchetto e alla festa! Io voglio che tutta Atene sappia come Alcibiade onora il suo vecchio maestro — colui che il Nume di Delfo proclamava il miglior dei mortali. SOCR. No, no! tralascia. Non posso. C’è troppo rumore, c’è troppo baccano laggiù. Il posto di Socrate non è dove si grida, ma dove si soffre. Non è dove si applaudono i trionfatori, ma dove dormono ignorati i vinti. (_dette queste parole con voce grave, solenne e mesta, si avvia_) ALCIB. (_cercando trattenerlo_) Ma dove vai? Dove vai? SOCR. (_con calma mesta e severa_) Al Ceràmico, a deporre questa corona sul cenotafio[449] dei valorosi morti in Sicilia... ALCIB. (_sopraffatto e mortificato dalle parole di Socrate,[450] dopo un momento di pausa, si strappa dal capo la corona avuta dall’arconte e la scaglia con ira a terra; poi, come pentendosi dell’atto, e mutando pensiero, la raccoglie con gesto vivissimo e la presenta a Socrate, dicendogli, a capo chino, sena guardarlo in faccia, con voce mesta e cupa_) Deponvi anche questa! (_Socrate prende la corona, e senza dir parola, serio, a passo lento, si allontana. Alcibiade e Timandra lo seguono_). — _Quadro._ CALA LA TELA. QUADRO SETTIMO _Anno 407 av. l’Era Volgare.[451] Nel mese di Sciroforione (giugno-luglio)._ MILETO (_Jonia_) Attendamento d’Alcibiade sulla spiaggia presso Mileto. Dalla tenda aperta nello sfondo vedesi il mare: e scorgonsi le sentinelle. È sera. SCENA PRIMA. TIMANDRA, CONONE, poi EUFEMO, indi CIMOTO. (_Prima ch’essi entrino in iscena si odono di lontano alcuni brevi suoni di campanello, a cui rispondono voci lontane delle scolte_)[452] VOCE DI SENTINELLA (_lenta e lunga dall’interno, rispondente al suono del campanello_). Pallade Atenéa! TIMAND. (_entra in iscena, accompagnata da Conone e discorrendo secolui, con voce d’ansia e di dolore_) Proprio vero dunque l’annunzio? CON. Così gli Iddii nol volessero! Eufemo è di ritorno. Da lui saprai tutto. Eccolo. (_entra Eufemo abbattuto, addolorato, e stringe senza parlare la mano a Timandra_) TIMAND. (_con ansia_) Ebbene? EUF. Quindici navi perdute, Antioco morto. TIMAND. Ma Antioco aveva pur avuto ordine da Alcibiade di non dar battaglia innanzi il suo ritorno... EUF. L’amor proprio fu in lui più forte della disciplina. Il terzo dì che Alcibiade era partito, affidandogli nel frattempo il comando, impaziente di compiere qualche fatto glorioso di testa sua, navigò da Samo a Nòzio[453] a provocar Lisandro a battaglia: questi, edotto della assenza di Alcibiade, fu addosso di repente al temerario con tutta l’armata:... il resto... lo sai.[454] CIM. (_esclamando a parte_) Ecco i frutti delle imprudenze! EUF. Antioco espiò colla vita, combattendo da eroe, la sua disobbedienza e la sua folle temerità. CIM. (_con accento intenerito_) Povero Antioco! TIMAND. Sia dunque perdonato alla sua memoria, e si pensi a questo vivo che oggi ritorna fra noi, e in cui solo ormai riposano le fortune di Atene! Numi! qual dolore lo aspetta! EUF. Alcibiade è già di ritorno? TIMAND. (_sospirando_) E non sa nulla! e lieto, e pieno di speranze ritorna! Come dare il funesto annuncio a lui! come darlo all’esercito! CON. Timandra, nessuno più di te conosce le tempeste di quell’anima: nessuno più di te sa blandirne i dolori. Parlagli tu. TIMAND. Silenzio. Queste voci! Egli giunge!... SCENA II. Detti ed ALCIBIADE, seguito da parecchi ufficiali. ALCIB. (_entra affrettato, vivacissimo, raggiante di gioja_) Eccomi, mia Timandra! Amici! Buone notizie! Tutto, tutto ne sorride, e Atene di me sarà contenta! Porto denaro e bottino, da Coo, da Rodi e dalla Caria;[455] porto rinforzi di uomini e di triremi; porto le spoglie di altre dieci navi spartane prese. Su, su! fra un’ora, seguendo il corso della vittoria, partirem per Samo a congiungerci alla flotta di Antioco... CON. _e_ EUF. Che! ALCIB. Siete contenti? Sicuro! E riuniti attaccheremo Lisandro, e così mi guardi Adrastea, come io spero finire d’un solo colpo la guerra... Ma che! voi tacete! non mi dite nulla! E mi state lì, come pali, immobili!... Conone, per i Numi! tu sospiri! CON. Io? oh no... ma... ALCIB. Ma... avresti forse qualche fiamma segreta che ti rincresce di lasciar qui... a Mileto...? Ah, tu taci!... (_sorridendo, in quel punto s’accorge anche dell’aria mesta di Eufemo_) Oh, oh, Eufemo! anche tu! Sta a vedere che il molle clima di Jonia vi ha già resi più donnajoli di me! Eh via! su allegri! a Samo son fanciulle più belle che a Mileto, e Amore vi divide con Bacco il suo regno al suono delle canzoni del buon veglio di Teo![456] TIMAND. (_fra sè mestamente_) Lo stesso sempre! ALCIB. Fra un’ora daremo al vento le vele! Formione! (_chiamando un servo che porta da bere_) i calici! i calici! Mesciamo il vino ne’ crateri e facciam le libazioni della partenza![457] A te, o Pallade egidarmata, protettrice della nostra città, consacriamo quest’ora di speranze gioconde... (_Cimoto in disparte si asciuga una lagrima_) e in bando da noi ogni tristezza! TIMAND. (_con voce lenta e grave_) Anche allora che la sventura ne colpisse? ALCIB. (_vivamente_) La sventura? Quando la quercia ed il cedro avran paura del vento, quando il vino di Chio non avrà più profumi, e i baci di donna amata non avran più dolcezze per me, — allora Alcibiade temerà la sventura. Benedetta ella sia! Ce la mandano i Numi, affine di rendere le nostre gioje più sentite e le nostre anime più forti. TIMAND. (_con voce mesta e grave_) Ebbene, allora sii forte, Alcibiade: perchè la sventura è venuta; è venuta ancora a battere alla tua soglia! ALCIB. (_fattosi d’improvviso serio, calmo, imperioso_) Timandra! spiegati. E se batte... àprile. TIMAND. (_con voce solenne, commossa_) Prosegui dunque il tuo brindisi, e propina agli Dei! Udite, o Ateniesi, e tu alza, Alcibiade, ben coronato il tuo nappo[458] perchè si veda che il tuo braccio non trema e che il tuo polso non batte più dell’usato frequente. Liba agli Dei senza battere di ciglio, perchè si veda che sei ancora l’Alcibiade antico e che Atene è ancor salva fin che le resta la speranza in te! Dieci altre navi tu acquistasti ad Atene: quindici Antioco ne ha perdute a lei. ALCIB. (_in un primo scoppio di voce_) Ah, tu men... (_troncando a mezzo la parola, senz’altro più aggiungere, d’improvviso padroneggiatosi con supremo sforzo, si ricompone in calma cupa e solenne, si fa dare una corona e se la pone in capo, stende risoluto il braccio facendosi versare nel calice fino all’orlo, alza indi il calice lentamente, tenendolo alto e fermo qualche minuto col braccio teso; poi nell’atto di appressarlo alle labbra, addita a Timandra il suolo su cui non si è versata alcuna stilla di vino e le dice a voce grave, pacatissima_) Neppure una goccia! (_beve d’un sorso, poi di nuovo a Timandra, lento e con calma cupa_) Tu vedi, o Timandra, che il mio polso è sicuro. (_uscendo a questo punto repentinamente dalla sua calma, gitta con violenza il calice a terra e prorompe con impeto_) Ch’io non beva mai più da oggi innanzi il vino puro del buon Genio,[459] finchè io non abbia rovesciato di mia mano il trofeo di Lisandro!... TIMAND. Così ti amo, Alcibiade! ALCIB. (_con accento concitato, febbrile_) Eufemo, raggiungi gli avanzi della flotta d’Antioco e portali a me. Conone, tu naviga a Coo a prendervi di rinforzo le triremi che vi lasciai. Io levo il campo stasera, e parto per Samo. Raggiungetemi là. (_Cimoto è uscito un istante e rientra_) SCENA III. Detti e un Messo. CIM. Alcibiade, un uomo è giunto da Atene con un messaggio per te. ALCIB. Venga. (_va incontro al messo_) Da Atene? E chi ti manda? MESSO. Socrate. ALCIB. (_sorpreso_) Lui! Quando riparti? MESSO. Stasera. ALCIB. Avrai la risposta. (_Prende il messaggio e lo congeda_) SCENA IV. Detti, meno il Messo. TIMAND. (_a parte seguendo ansiosa dello sguardo Alcibiade_) Numi!... che sarà mai? Io tremo. ALCIB. (_spiegando lentamente il papiro_) Socrate mi scrive? Bizzarro uomo!... Il dì del mio trionfo, mentre tutti mi acclamavano, egli solo si tenne in disparte: oggi mi scrive. Si fa vivo soltanto nei giorni di sventura, costui?... (_legge e dà segni improvvisi di sorpresa, concitazione, ira, dolore: poi si ricompone forzatamente in calma_) TIMAND. (_avvicinandosegli e guardandolo ansiosa_) Alcibiade, ebbene? ALCIB. (_con calma forzata_) Ebbene... nulla è mutato. Noi partirem stanotte. (_si volge agli altri_) Andate a dar gli ordini. (_Conone, Eufemo escono, Cimoto accenna anch’egli di uscire, ma si sofferma esitante sulla soglia, non visto_) SCENA V. TIMANDRA, ALCIBIADE, e in disparte CIMOTO. ALCIB. (_Alcibiade segue gli amici dello sguardo fin che sono usciti, poi si volge a Timandra_) Quanti dì sono, o Timandra, da che lasciai fra le ovazioni Atene? TIMAND. Partimmo alla luna nuova di Targelione. Son sedici dì. ALCIB. (_conducendola verso la tenda_) Questa dunque che or si leva tranquilla dall’onde del mare di Icaro[460] è ancora la luna del mese. Pare che gli amori del popolo di Atene si mutino più presto della luna... e che un altro Icaro sia giunto a questi lidi. (_le porge il foglio a leggere_) TIMAND. (_leggendo concitatissima_) «Socrate rifiuta i doni di Alcibiade nei giorni del trionfo per avere il diritto d’essergli amico nei giorni dell’infortunio. La disfatta di Antioco è qui nota: i tuoi nemici ne han versata la colpa su te. Il popolo ti ha deposto dal comando e ti chiama a rendergli conto. Persuaso da’ tuoi successi che tu devi e puoi vincere sempre, se il vuoi,[461] esso ti imputa la sventura a tradimento. Gli inviati del popolo son partiti già.» (_Timandra lascia cadere, affranta di dolore, il foglio_) ALCIB. (_con accento amarissimo_) Liba dunque ancora agli Dei! Insegui la gloria! Timandra, sono i vantaggi della gloria, questi! TIMAND. Ed ora che pensi? ALCIB. Aspettar gli inviati forse? Subir lo scorno della destituzione in faccia a’ miei soldati? Seder umile sopra gli altari, col ramoscello dei supplici in mano;[462] portar ad Atene, in atto dimesso, questa fronte, che vi apparve or son pochi giorni cinta del lauro de’ trionfatori? Oh, no, per i Numi! questa soddisfazione non l’avranno! Gli oboli della paga ai giudici che devono sentenziar di Alcibiade non son coniati ancora. TIMAND. (_con accento angoscioso_) Oh Alcibiade! ricordati di Catania! ALCIB. Rassicurati. L’ingratitudine e l’invidia mi ritrovano oggi ben più forte di allora. Allora era la fama che mi rubavano: oggi è di questa che mi fanno una colpa. Allora mi toglievano un nome: oggi non possono togliermi più che il comando... o la vita anche; perchè oggi, se anco morissi, ricorderebbe il mondo che c’è stato un Alcibiade. Tu vedi che mi basta, e che non ho più bisogno di una colpa per vendicarmi. TIMAND. E dunque? ALCIB. E dunque questa spada che brillò al sole delle battaglie, ne faremo un prosaico spiedo da infilzar selvaggina! Atene non la vuole; non l’avrà più; la cercherà un giorno, e non l’avrà più.[463] (_Nel discorrere la voce di Alcibiade è calma e ferma: ma d’una fermezza artefatta e forzata che ha le lagrime in fondo: Alcibiade parla quasi fra sè. Cimoto dal fondo ascolta e asciuga le lagrime_) Lascerò la flotta e i compagni d’arme; andrò in luogo dove più nulla di Atene mi tocchi; dove, se è possibile, non oda nemmeno parlarne... Invece di inseguire Spartani, inseguirò camosci; vivrò, non più di gloria e di battaglie... ma di caccia e di pesca, di memorie e di sogni... come un téssalo pastore. In Tracia o in Persia vado..., in terra che d’ingrati non sia.[464] TIMAND. Solo? ALCIB. Anche solo... TIMAND. Oh, purchè non sia contro Atene, contro le Erinni e contro le Parche, io ti seguo! ALCIB. E vieni allora! Traverseremo il campo, fino alla spiaggia, frammezzo alle coorti che riposano nel sonno... (_Cimoto esce di scena_) Addio (_guardando fuori della tenda_), compagni di fatiche, di gloria e di pericoli, coi quali speravo combatter l’ultima pugna! Addio, limpide noti del cielo di Jonia che ieri ancora sorridevate al mio destino!... Vedi, o Timandra, la sera com’è serena; le stelle risplendono nel profondo azzurro, come se illuminassero, non la caduta di Alcibiade e la fuga di un proscritto, ma la passeggiata felice di due felici amanti... Non ti sembran beffarde, o Timandra, le stelle? (_a questo punto la fermezza e l’ironia forzata abbandonano Alcibiade: e la sua voce, già fatta tremante dall’interna emozione, si rompe in uno sfogo di pianto_) È troppo! è troppo! TIMAND. (_accorrendo a lui con voce affettuosa_) Alcibiade!... ALCIB. (_rasciuga le lagrime e si leva con impeto, come vergognandosi del proprio sfogo_) Andiamo! Andiamo! il tempo corre!... in sella e al lido! CIM. (_si affaccia di nuovo, serio, mesto, silenzioso sulla soglia_) ALCIB. (_con malumore, nel veder Cimoto_) Che vuoi? CIM. (_con voce calma, mestamente affettuosa_) I cavalli son pronti. Se non ti rincresce... ne ho sellati tre. ALCIB. (_dopo un momento di irresoluzione e dopo aver guardato Timandra, che collo sguardo lo prega di lasciar venire Cimoto, si volge a quest’ultimo con voce che vorrebbe esser brusca e non è_) E monta su dunque!... (_Cimoto rasserenatosi corre innanzi ed esce; Alcibiade ripiglia con voce lenta e mestissima_) Se devo ormai vivere ozioso, inutile al mondo, — è giusto che un parassito mi mostri la via! CALA LA TELA. QUADRO OTTAVO _Anno 405 av. l’Era volgare, nel mese di Boedromione. (4º della Olimpiade 93.ª — 26º e penultimo della guerra del Peloponneso) Eubato di Cirene vinse il premio ad Olimpia._ ELLESPONTO (_Chersoneso di Tracia_). Corte di Seute re di Tracia[465] a Patti sull’Ellesponto[466]. Tenda foggiata a sala di banchetto, mensa nel mezzo e sedili all’ingiro. Pelli distese qua e là per terra. Sulle mense sono posti dei corni per bere: e dei piccoli tripodi, contenenti le vivande, uno dinanzi a ciascun convitato. Armi tracie sospese in giro (targhe o pelte, sciabole, archi, faretre). SCENA PRIMA. SEUTE re, ALCIBIADE, CIMOTO, BERÌSADE, MEDÒSADE, ODRISIO traci; altri guerrieri e coppieri traci. (_Ad eccezione di Cimoto, il solo vestito alla greca, tutti i convitati, compreso Alcibiade, indossano il costume trace[467]: berrettoni di pelle di volpe_ (alopéchidi) _coprenti il capo e le orecchie[468]; tonache scendenti sulle coscie, e, sopra le tonache, mantelli più corti e screziati_ (zeire); _calzari o coturni di pelle di cerbiatto ricoprenti i piedi e le tibie; corte sciabole o scimitarre, alla cintura[469]. I convitati, a differenza dell’uso greco, son tutti seduti, non su letti, ma sopra scanni; qualcuno accoccolato su pelli distese per terra. Alcibiade siede alla destra del re. Coppieri traci portano in giro, versando da bere, grandi corni di vino. Il re, tratto tratto, fa in piccoli pezzi i pani (grandi e rotondi) e li getta ai convitati. Il banchetto è sul finire e i fumi del vino cominciano a riscaldarne l’allegria._[470]) SEUTE.[471] Alcibiade, m’avean raccontato molte cose di te: ma tu veramente sei maggior della tua fama. Sai tu che noi Traci abbiam rinomanza di cavalcatori[472] e che il puledro da te oggi domato parecchi fra i nostri più arditi s’eran provati indarno a salirlo?... CIM. (_che mangia avidamente al capo opposto della tavola_) Ma tu, o re, non sai che noi abbiamo vinto alle corse di Olimpia[473] e col carro e col celéte,[474] e che n’abbiam portato la prima, la seconda e la terza corona... SEUTE. Che! per Sabàzio![475] tu così pingue ad Olimpia? CIM. Domandalo ad Alcibiade. N’è vero, Alcibiade, che te le ho portate io le corone? SEUTE. (_ridendo con gli altri convitati_) Ah, ora meglio ti spieghi! Ebbene, Alcibiade, la tua vittoria d’oggi val bene l’altra d’Olimpia. Il vanto più antico del paese nostro — per Mercurio! — [476] è la prima volta che lo sfronda uno straniero... ALCIB. Ti sembra, o re Seute, che ancora io sia così straniero in Tracia? Qui fra voi ospitato, i miei lari, e i beni, e le castella, e tutte le mie cose son qui. SEUTE. Nè la Tracia ebbe mai ospite più degno. Anzi, più che ospite! poichè fra i Traci ed Atene sono vincoli antichi: qui è il granajo dell’Attica vostra,[477] e fu nostro re Téreo che sposò Progne, la figlia del vostro re Pandione...[478] ALCIB. Tristi cose rammenti! Téreo e Progne e Filomela, mutati in augelli, vanno ancora piangendo a notte scura l’orrida cena per i boschi di Dàulia.[479] Che giova fra i calici discorrer di delitti e di sventure! _Non parliamo d’Atene!..._ (_Alcibiade proferisce quest’ultime parole in modo singolarmente accentato; e come cercando cacciare una nube di tristezza, ripiglia subito dopo una forzata ilarità_) SEUTE. Oh Alcibiade, ma io so qualcos’altro: so che sei nato a Scambónide,[480] proprio là dove Eumolpo di Tracia[481] segnò con Atene il primissimo patto di alleanza e fondò i misteri delle Dee: e là, ov’è la tomba di Eumolpo nostro, ivi è la culla tua. Vero questo, Alcibiade? ALCIB. Sì: ma a che pro cercare vincoli incerti, se niun vincolo è più caro agli Dei di quello di ospite ed amico! Re Seute, re Seute, _non parliamo d’Atene!_ SEUTE. Dell’amicizia nostra dunque si parli... CIM. (_a Berisade che gli siede vicino, nel ricevere in questo punto un pezzettino di pane gettatogli dal re_) O perchè il re mi taglia lui e mi gitta il pane e la carne, così a pezzettini? mi ha preso per una formica? BERIS. Così si usa fra noi.[482] CIM. Ah, è il vostro costume!... Bello, bello! E invece, ad Atene, se tu vedessi come si usa... BERIS. Come? CIM. Ora ti mostro. Dà qua quel pezzo. (_gli addita un grosso pezzo di carne: Berisade glielo porge. Cimoto se lo prende intero, se lo pone sulle ginocchia e se lo mangia a grossi bocconi_) Il nostro costume... vedi, di noi altri Chiechenei,...[483] è questo... (_parla mangiando_) ALCIB. (_osservandolo, con voce di rimprovero_) Cimoto! CIM. (_seguendo a mangiare mentre i convitati ridono_) Eh? ALCIB. Che fai? CIM. Mostro qui a Berisade i costumi d’Atene. SEUTE. (_seguendo il discorso con Alcibiade_) E dunque, Alcibiade, poichè mi sei ospite e amico, accettane in pegno il cavallo che oggi domasti; purissimo sangue dei cavalli di Reso.[484] ALCIB. Grazie, o re! Ma tu violi il costume. So che in Tracia è usanza pei re non far doni, ma riceverne.[485] Io qui pur troppo non ho di che ricambiarti il regalo. Solo la spada e il braccio mi restano:[486] poichè (_con voce cupa e triste_) per altri non m’è dato adoprarli, son tuoi. Tu sei in guerra co’ Traci della montagna:[487] fa conto ch’io sia un Trace del piano. SEUTE. Oh, così il sole del Ponto ti avesse visto nascere, come del più perfetto fra i Traci mostri aver veramente le virtù... MEDOS. (_a voce forte, mezzo brillo_) Tranne una, o re, tranne una!... Alcibiade, da noi si giudicano uomini quelli soli che sono potenti a molto mangiare e molto bere![488] BERIS. (_dall’altro capo della tavola_) Medosade, non hai guardato da questa parte. (_indica Cimoto battendogli sulla spalla_) Questo è un uomo.[489] CIM. (_inchinandosi_) Grazie! Lo sapevo. BERIS. L’amico qui... (_seguendo a batter forte sulla spalla a Cimoto, che coi gesti ringrazia modestamente del complimento_) CIM. (_a Berisade che nel parlare gli batte sulla spalla troppo forte_) Sì, grazie! Ma un po’ più adagio, se non ti dispiace... BERIS. (_ripigliando da capo_) L’amico qui ha mangiato per me, per te e per altri due... MEDOS. Ma del bevere io parlo! Alcibiade, tu oggi per Trace non ti sei distinto. Ti invito alla sfida di Ercole e di Leprea.[490] Vuoi fare un brindisi meco? ALCIB. (_cortese sorridendo_) Ah! Il cavallo alla pianura![491] E perchè no? CIM. (_a parte_) Già! anche il porco una volta sfidò Minerva...[492] MEDOS. (_non ha ben capito le parole di Cimoto, però gli è parso di sentire un’insolenza, e gli si volta brusco e minaccioso_) Che cosa hai detto! CIM. Niente! niente! che sei un uomo! MEDOS. (_con aria di soddisfazione, calmandosi_) Ah! (_si volge ad Alcibiade_) Bevi questo adunque ch’è vin puro,[493] e di Bibli, alla salute del re nostro. (_si alza mezzo barcollante e gli presenta un corno enorme di vino. Alcibiade pure si alza: gli altri si stringono intorno con curiosità_) CIM. Quel po’ di roba! ma son più di quattro cótile![494] No, no, Alcibiade! sei matto? ALCIB. (_sorridendo a Cimoto_) Vuoi per te solo la gloria? (_a Medosade, freddo_) Dà l’esempio: io ti seguo. MEDOS. A te, o Seute! ho un fanciullo[495] e due schiave di Mileto: mi costano duemila cizicéni,[496] e forme più belle mai non vide la Jonia. Li dono a te. CIM. (_a parte_) Eh, anche qui non c’è malaccio a fare il re! (_Medosade tracanna e barcolla sempre più. Alcibiade dopo di lui alza il corno ricolmo_) ALCIB. Alla tua salute, o re Seute, e che Sabazio, Marte e Zamolchi protettori della Tracia concedano alle tue armi la vittoria! (_tracanna di un fiato: poi depone il corno vuoto, colla tranquillità più serena, mentre i convitati lo guardano con sorpresa_) SEUTE. (_e altri convitati_) Bravo, Alcibiade! ALCIB. (_tranquillissimo, batte sulla spalla di Medosade stupefatto e barcollante_) Amico! MEDOS. Eh? ALCIB. Io ho bevuto da Trace... ma son di Grecia: e fui un pezzo a Sparta. (_Medosade lo guarda senza comprendere_) Il re ha una sposa, e i Greci onoran le donne. Ti sei dimenticato della regina. MEDOS. (_sconcertato_) Che?! ALCIB. (_freddissimo, sorridendo_) Bevi meco ora questo alla regina! (_fra la sorpresa dei convitati fa ricolmare ancora i corni, e ne presenta uno a Medosade che guarda Alcibiade estatico e prende il corno macchinalmente_) BERIS. Sì, sì, Medosade, alla prova! Bravo Alcibiade! SEUTE. Ma è Bacco Tebano in persona, costui!... ALCIB. Alla salute della bellissima Stratónica,[497] la fida sposa del re! e che Giunone Ilìtia[498] doni al suo talamo le gioie! (_Alcibiade tracanna, poi depone calmo e sorridente il corno fra gli applausi dei convitati.[499] Medosade, senza dir parola, con uno sforzo supremo appressa il suo alle labbra; a metà lascia cadere il corno, barcolla e stramazza. Alcibiade si guarda intorno, come per vedere se qualcun altro si avanzi alla sfida, indi, calmo, ripiglia_) La sfida di Ercole e di Leprèa pare finita... (_fra sè mestamente sospirando_) (Se Timandra mi vedesse!...) SEUTE. (_levando il corno a sua volta_) E noi tutti, ora, Alcibiade, beviamo alla tua! Così ti guardino gli Iddii e ti rallietino i giorni nelle nostre case ospitali! CIM. (_a parte_) Case le chiama?! To! to! Le avevo prese per ispelonche![500] Come ci si sta bene! BERIS. (_afferrando le ultime parole_) Dove? CIM. (_canzonatorio, senza che l’altro se n’accorga_) Nelle vostre... case ospitali! CONVIT. Viva Alcibiade! (_Seute e gli altri, meno Alcibiade, che è sul davanti della scena, tracannano. Poi Seute, quel che resta di licore nel suo corno lo versa addosso al vicino, e così fanno parecchi altri. Berisade, che è presso a Cimoto, versa addosso a lui sulla testa il vino rimastogli nel corno_) CIM. (_brusco, incollerito, dando uno sbalzo_) Ehi là! cosa fai? BERIS. (_grave e dignitoso_) Ti verso il vino che m’è rimasto nel corno.[501] CIM. Che ti pigli il malanno! BERIS. Non vedi che così ha fatto anche il re? È il nostro costume di Tracia! CIM. Ah si?... Allora... aspetta... (_prende rapidamente il proprio corno per versarne il contenuto addosso a Berisade; ma nell’atto di buttarglielo addosso se ne pente e invece se lo beve_) Sarà per un’altra volta. SEUTE. Alcibiade, noi Traci sappiamo che le anime dei morti dopo un certo tempo ritornano sulla terra e in altri corpi ripigliano dimora.[502] Per Zamolchi![503] Tu certo prima di essere un Greco dovesti essere un Trace! Se resti a lungo fra noi, diverrai l’idolo delle nostre donne, e romperai i sonni di molti mariti. ODRIS. Perdono, o re! Tu fai torto alle donne nostre! Alcibiade, non sai tu nulla delle donne di Tracia? ALCIB. Ben poco. So che in Eritréa han dato le chiome per farne corda e trarre alla riva il simulacro di Ercole,[504] e questa fu un’azione buona: e so che in Dione di Macedonia hanno mangiato a pranzo il poeta Orfeo,[505] e questa, se vogliamo, fu un’azione cattiva. ODRIS. Allor sappi anche questo. Noi di Tracia siamo gagliardi e le nostre mogli sono caste.[506] ALCIB. (_sorridendo_) Davvero? ODRIS. (_continuando_) E quando il marito muore, è gara fra di esse a scegliere quella che più gli è stata diletta e fedele... ALCIB. E quando è scelta? ODRIS. La si accoppa, perchè tenga al marito compagnia.[507] ALCIB. (_avvicinandosi ad Odrisio, a voce più bassa_) Ebbene allora, amico mio, se anche tu hai mogli e se anch’elle sono caste, vigila! vigila su di loro!... ODRIS. (_incollerito, portando la mano all’elsa_) Per il Vento e per la Scimitarra![508] tu insulti le mie donne e me! ALCIB. Pace, amico! e consenti alla gioia di Bacco qualche libertà di parola. Non le ho vedute mai, le donne di Tracia, alla prova... ODRIS. Bada, io non te n’offra, di prove, una, e umiliante per te... ALCIB. L’avrò meritata. L’accetto. ODRIS. Re Seute, Alcibiade vorrebbe veder a prova di fedeltà le donne nostre... SEUTE. Nient’altro che questo? (_a un servo_) Vengano mia moglie e le mogli dei convitati.[509] ALCIB. (_vivamente_) Tua moglie! Ah no! mai! SEUTE. Ella sola temerebbe confronti? (_al servo_) Va! (_il servo esce_) BERIS. (_a Cimoto_) Ora vo’ mostrarti una delle mogli mie ch’è una bellezza. CIM. O quante n’hai? BERIS. N’avevo dieci; ma sei non le mi servivano più, e dopo un anno, le ho restituite ai parenti.[510] Dell’altre quattro, poi, una è un portento. Mio zio sposandola la pagò a suo padre duecento bei dárici sonanti: è quel che di meglio mi ha lasciato in eredità. CIM. Eh? In eredità? BERIS. Sicuro: eravam due nipoti soli eredi. Nella ripartizione dell’asse ereditario, la moglie è toccata a me. CIM. (_guardandolo attonito_) Ah?... Mi congratulo! BERIS. Esse vengono... Guarda, è la terza! CIM. (_osservandola nell’interno_) Bella davvero! (_a parte_) Povera creatura! toccar in eredità a questo bue! SCENA II. Detti, STRATONICA, ELPINICE, ARGIA, DROSO, altre donne. STRATON. Addio, Seute. A che ci hai chiamato? SEUTE. Da Alcibiade d’Atene, qui presente, lo saprai. (_Stratonica dà segni di inquietudine: le altre guardano con curiosa avidità Alcibiade additandoselo fra loro_) Farai quel che egli dice. CIM. (_a parte, a Berisade_) Così le comanda? BERIS. O non è sua moglie? CIM. Non è come a Sparta. Là, le mogli comandano ai mariti... BERIS. E qui i mariti alle mogli.[511] È più sicuro... CIM. Già! e per questo le vi son fedeli? BERIS. Certo. Ora vedrai. (_questo breve colloquio fra Berisade e Cimoto ha avuto luogo rapidamente, mentre Alcibiade e gli altri scambiano qualche parola colla regina e le altre donne_) ODRIS. Parlerò io, o re, per Alcibiade. (_ad Alcibiade_) È nel patto?... ALCIB. (_inchinandosi_) È nel patto. ODRIS. O regina, o donne, sapete di voi che cosa disse Alcibiade di Clinia, ateniese, qui presente? STRATON. Che disse? ODRIS. Tristi cose! Che le donne di Tracia non sono caste! (_esclamazioni fra le donne_) ARGIA. Per le colombe di Citerea! Egli ha detto questo? ALCIB. Ma Odrisio!... io non ho... ODRIS. Tu non hai libertà di parola, perchè mi hai dato libertà di prove. È nel patto. Tu taci. (_alle donne_) Egli ha detto questo, e peggio ancora... ELPIN. Peggio? Che cosa? ODRIS. Che le donne di Tracia sono brutte. STRATON. (_con risentimento maggiore di prima_) Alcibiade! ELPIN. O l’impudente! Questo è troppo! ALCIB. (_a Odrisio cercando difendersi_) Odrisio!... ma... ODRIS. Ma tu taci... ARGIA. Che Giove gli mozzi la lingua! ODRIS. Silenzio! E ha detto ancora... TUTTE LE DONNE _ad una voce, indignate_. Come? Come? Ancora? ODRIS. Che le donne di Tracia giurano il falso... ARGIA. Uh! l’iniquo! ELPIN. Vogliam fargli la festa d’Orfeo? CIM. (_a parte_) Povero padrone! Quella ci mancherebbe! DROSO. Che Zamolchi lo confonda! ODRIS. Confonderlo sta in voi! Giurate sull’onor vostro... CIM. (_a parte, sogghignando_) Bella garanzia! ODRIS. Di dire il vero (_esclamazioni fra le donne:_ Sì, sì!): e senza riguardo ai mariti, ponga ciascuna in un’urna il nome di colui ch’ella vorrebbe nel talamo... a compagno...[512] SEUTE (_alzandosi repente con voce severissima_) Odrisio! ODRIS. (_intimidito_) Seute? SEUTE. La tua domanda è sleale e temeraria: ringrazia la fortuna che mi trovi di umor lieto: se no, potrei ricordarmi che s’appressa la festa di Zamolchi e ch’egli aspetta il suo ambasciatore! Ma poichè osasti una simile domanda, e voi (_ai convitati_) la consentiste, sia vostra la pena e sia la domanda più completa. Abbia ciascuna di voi (_alle donne_) per sempre il compagno ch’ella si avrà scelto, sia o no suo marito: e senza timore lo scelga!... Paventi la mia collera chi ad esse oserà torcere un capello! STRATON. (_come volendo parlargli_) Seute... SEUTE. Per tutte io parlo: e anche per te. Sia schietto e libero il cuore della regina, come quel dell’ultima fra le sue donne. Ho detto. (_le donne si ritirano in un lato della sala a scrivere i nomi ciascuna separatamente_) CIM. Bravo il re! Ora vogliam vederne di belle! Coraggio, Cimoto, fatti avanti. Che fossi proprio questa volta venuto in Tracia a far fortuna![513] (_Cimoto si rassetta i capelli e gli abiti, e ripassa davanti le donne con aria da bellimbusto che cerchi mettersi in evidenza: i Traci si consultano fra di loro ostentando sicurezza baldanzosa: Alcibiade passeggia solo su e giù per la sala_) BERIS. (_con boria a Cimoto_) Ora vedrai come la mia Argia mi è fedele. La è Penelope in persona. CIM. Vedremo! E dimmi intanto una cosa... Di che ambasciatore parlava dianzi il re? BERIS. Ah, sicuro! Ognun di noi, quando muore, va a ritrovare il nostro dio Zamolchi: e per tenerci con lui in buoni termini, ogni anno gli si manda colle debite istruzioni un deputato in ambasciata. Si mettono in tre colle lancie in resta: poi l’ambasciatore nominato lo si butta dall’alto, e lo si ripiglia sulla punta delle lancie...[514] CIM. Brrrrrrrr!!! BERIS. Se muore, è segno che Zamolchi ha fatto buon viso all’ambasceria; se guarisce, è segno che l’ambasciatore è un furfante; lo si bastona a dovere, e si nomina un altro in sua vece, incaricato di nuove istruzioni... CIM. (_lo guarda spaventato_) Ah... sì?... E già... dev’essere un Trace l’ambasciatore... BERIS. (_con indifferenza_) Oh anche un forestiero può aver diritto alla nomina... Purchè acquisti la cittadinanza... Vuoi ch’io te la faccia avere? CIM. (_abbracciandolo_) Ottimo cuore! grazie! tralascia! tralascia! (_le donne frattanto han posto le tavolette in un’urna. Odrisio va a prenderle_) ODRIS. Ecco i nomi. SEUTE. E tu leggili forte. (attenzione negli astanti) ODRIS. (_estraendone una_) La regina! Seute, re. SEUTE (_avanzandosi verso la regina e baciandola_) Grazie! Porrò un segno bianco nella mia faretra.[515] Ero ben certo della tua scelta e di te. STRATON. (_con civetteria_) E se io avessi scelto... un altro? SEUTE. Idolo mio!... (_riabbracciandola teneramente e baciandola ancora_) T’avrei fatto tagliar la testa. STRATON. (_balzando di spavento_) Ma... e il tuo decreto? SEUTE (_a voce bassa_). Era per gli altri — s’intende.[516] STRATON. (_abbassando la testa fra sè, a parte_) Ho fatto bene! ODRIS. (_estrae un’altra tavoletta: fa un gesto e una pausa di sorpresa, indi con voce di malumore_) Alcibiade! BERIS. (_e gli altri Traci, guardando con occhio torvo le loro mogli_) Che!? CIM. Bene! ODRIS. (_estrae un terzo nome; nuovo atto di sorpresa: la sua faccia si fa scura, e la sua voce tradisce l’ira_) Alcibiade! (_Alcibiade ha rialzato la testa e rimane immoto, sorridente; i Traci guardano alternamente con volti scuri ora lui, ora le mogli, Seute si mostra allegro e ridente_) SEUTE (_ridendo_). Ah! ah! CIM. Benissimo!... Ci ho gusto... Eh già, noi Greci d’Atene!... (_con compiacenza ed orgoglio fregandosi le mani_) Adesso scommetto che viene la volta mia! ODRIS. (_estrae la quarta tavoletta: con voce rotta di collera repressa_) Al-ci-bia-de!... CIM. Oh, oh, adesso basta per lui! ODRIS. (_non più lento come prima, ma con precipitazione crescente estrae altre quattro tavolette fino all’ottava ed ultima e le legge con voce concitatissima_) Alcibiade! Alcibiade! Alcibiade! Alcibiade! (_all’ultima scaglia l’urna, per ira, a terra. Cimoto, che non ha visto uscire il suo nome, perde alquanto della sua aria soddisfatta_) BERIS. _e gli altri_. Che?! (_sbalordimento fra i convitati, che gettano grugniti sordi di minaccia e sguardi truci di collera verso le donne ed Alcibiade; questi rimane sempre muto, immobile, tranquillo e sorridente. Le donne in disparte si mostrano confuse e impaurite_) CIM. (_fra sè_) A chi troppo e a chi niente! E a sentirle, le innocentine, volevano fargli la festa di Orfeo!... (_si accosta a Berisiade che è cupo ed accigliato, e gli batte sopra una spalla_) ... Eh... come hai detto che si chiama la tua moglie?... Penelope? BERIS. (_si volta inviperito portando la mano all’elsa. Cimoto scappa_) SEUTE (_ad Alcibiade_). Costoro l’han voluto, e tu non hai nulla a rimproverarti. Figlio di Clinia, la fortuna ti è molto benigna, e il tuo ginecèo è molto ricco. ALCIB. (_vivamente_) Oh non già! non già! Nè Alcibiade è da tanto da aver sì splendido ginecèo, nè la scelta è così facile fra bellezze sì rare, perch’egli se l’arroghi! Re Seute, tu fa rispettare il tuo decreto, che nessuno le molesti. Amici, Odrisio ha parlato per ischerzo e certo elle per ischerzo hanno votato... Tornate allo amplesso delle vostre donne _fatte prudenti_! e tu, Odrisio (_accostandosegli a voce bassa_), come t’ho detto, vigila, vigila sulla tua! ODRIS. (_brusco_) Non ho bisogno del tuo consiglio. ALCIB. (_sempre parlando con Odrisio sottovoce e battendogli amichevolmente sulla spalla_) Te ne darò un altro, allora... (_gesto interrogativo di Odrisio_) Quando vuoi perdere un uomo agli occhi delle donne, guardati dal dipingerlo un perfido! non bisogna nelle donne stuzzicare la curiosità. (_Odrisio con un gesto brusco indispettito s’allontana, mentre Alcibiade sorride_) SEUTE. Addio, Stratonica! (_ad un cenno di Seute le donne tutte escono_) SCENA III. Detti, meno le donne. CIM. Una su otto! o fedeltà femminina! (_si accosta ad Alcibiade_) Io, già, al tuo posto, non sarei stato così generoso... ALCIB. Dovevo scegliere in presenza della regina? CIM. (_senza comprendere la risposta d’Alcibiade_) Ah! la regina! quella sì è una brava donna! ALCIB. Sì!... poveretta!... E così innamorata di me... CIM. (_attonito_) Eh?... e tu?... ALCIB. (_con fare naturalissimo_) E io ho ricusato. Seute è mio ospite, e Giove ospitale[517] mi guardi, chè io non so fargli offesa. Ma la regina è donna, ed io non potevo posporla, lei presente, ad un’altra. Buon Cimoto, se hai da fare con donne, ammazzale, che ti perdoneranno; ma non ferirle nell’amor proprio, se non vuoi trovar Nèmesi e le Furie meno terribili di loro. CIM. Lascia fare! Ci regoleremo! Va là che sei furbo! Se Timandra ti vedesse! ALCIB. Non dirle nulla oggi... sai!... BERIS. (_guardando verso l’interno_) Alcibiade! qualcuno cerca di te. ALCIB. Di me? Se tu, Seute, permetti... (_cenno cortese affermativo di Seute_) Venga! SCENA IV. Detti e TRASILLO. ALCIB. (_al veder Trasillo si fa improvvisamente torvo e scuro_) Trasillo! TRAS. (_accorrendo ad Alcib._) Salve, Alcibiade! Da Atene io vengo. ALCIB. Ad annunciarmi qualche nuova sentenza contro di me? o qualche nuova condanna di capitani vittoriosi?[518] TRAS. No, no, Alcibiade! I tuoi amici d’Atene ti salutano e ti fan sapere che negli animi del popolo rivive il desiderio di te. Ti pregano intanto che tu ti adoperi a rialzare la fortuna depressa di Atene, mentre essi van lavorando al tuo richiamo... ALCIB. (_serio e scuro in volto_) Questo ti hanno incaricato di dirmi?... TRAS. Sì... ALCIB. (_si volge a Seute_) Ascolta dunque, o re Seute! Alcibiade ha combattuto per Atene a Potidea, a Delio, a Mantinea, a Catania; e Atene in premio lo ha dannato a morte; pure Alcibiade è tornato a lei, e per lei ha vinto due volte ad Abido, e a Samo, e a Mileto, e a Cizico: ridonatole il dominio dell’isole e del mare, portate ad Atene duecento navi in trofeo: e Atene in premio lo ha condannato una seconda volta!... Ora questa Atene mi manda a salutare!... (_si volge a Trasillo e la sua voce sarcastica ridiventa grave e cupa_) Ritorna alla città! e di’ a coloro che ti mandarono, che tu hai visto Alcibiade, e che le porte dell’Erebo non son così chiuse dietro le spalle dei morti, come son chiuse le sue orecchie ad ogni voce che gli giunga da Atene! Di’ loro, che tu hai visto Alcibiade, vestito da Trace, ubbriaco come un Trace, e che le sue spoglie e il suo volto erano meno cangiati della sua anima; di’ loro che dall’alto del suo castello egli ha veduto veleggiar per l’Ellesponto le navi di Lisandro che stan preparando le sue vendette; di’ che Alcibiade non ha amici in una città di traditori e di ingrati, ove l’esilio e la morte sono il premio di quelli che combattono e vincono per lei!... TRAS. (_annichilito dalla sfuriata di Alcibiade, con voce supplichevole_) Alcibiade... ALCIB. Va! va! Annunziami che han profanato il sepolcro di mia madre Dinòmache, sarai meno male accolto che non portandomi i saluti di Atene!... Va!... (_con gesto imperioso gli interdice di replicare: Trasillo si allontana mestissimo e mortificato: Alcibiade lo richiama in sull’uscire_) Aspetta!... (_Trasillo si ferma in sulla soglia. Alcibiade evidentemente combattuto nell’interno dell’animo, vorrebbe dir qualche cosa: ma poi si riprende, e si limita a soggiungere con voce lenta e cupa, senza guardar Trasillo in volto_) Salutami Socrate! SCENA V. Detti meno TRASILLO. CIM. (_è rimasto nel frattempo in disparte con aria pensierosa di rincrescimento: partito Trasillo, si accosta ad Alcibiade e gli parla con voce piana, insinuante_) Lo hai accolto molto male... quel povero Trasillo!... (_Alcibiade non risponde, in preda a interna violenta lotta; ha il volto scuro, le braccia conserte, lo sguardo a terra. Cimoto incoraggiato dal suo silenzio, e come cercando di scrutarne l’animo, prosegue_) È andato via atterrito e mortificato..., e Giove mi renda cieco, se non mi è parso vedergli cader due grosse lagrime dagli occhi... Alcibiade, permetti una parola al tuo buon Cimoto? (_Alcibiade non risponde, nè cambia positura. Cimoto, più incoraggiato, prosegue_)... Atene ti ha fatto molti torti, ma è pur sempre la terra dove sei nato: e non tutti i perversi sono Atene. Io so che tu l’ami, tuo malgrado... Vedi, tu sei più buono che non vuoi parere, e forse già ti rincresce di esserti lasciato trasportare. (_Alcibiade fa un gesto vivissimo, come indispettito d’aver lasciato trasparire la interna commozione_) Qualora i tuoi concittadini, ravvedendosi, pensassero... ALCIB. (_rompendo bruscamente il silenzio_) Qualora pensassero che le tue ciancie han finito per un pezzo di importunarmi, per i fulmini di Giove, avranno detto il vero, se tu mi parli ancora una volta di Atene. (_Cimoto si ritrae mortificato e addolorato_) SCENA VI. Detti ed EUFEMO. BERIS. (_rientrando_) Oh, oh, Alcibiade, ti cercano ancora... ALCIB. (_con istizza_) Rimanda chiunque! non vo’ veder più nessuno! EUF. (_correndo ad Alcibiade_) Tranne me, Alcibiade!... tranne me! ALCIB. Tu qui? (_brusco_) Anche tu da Atene? EUF. Non da Atene! Dalla flotta vengo. ALCIB. (_sorpreso_) Quale flotta?... EUF. Ma la nostra!... I duci ci han dato facoltà di sbarcare... ed io, sapendoti in questi luoghi, sono corso ad abbracciarti... ALCIB. (_fatto improvvisamente attentissimo, a voce lenta, interrotta, che tradisce l’inquietudine_) I duci... vi hanno dato... facoltà di sbarcare?... E dove?... EUF. Alla foce di Egospótamo, rimpetto a Lámpsaco. ALCIB. Ah!... (_rompe in un grido fortissimo di ira ed angoscia, che sorprende e spaventa gli astanti; poi prende violentemente per un braccio Eufemo e gli parla con voce soffocata dalla concitazione_) E non sapete che a Lampsaco c’è Lisandro appostato in pieno assetto di battaglia; e se restate ad Egospotamo un giorno solo di più siete perduti?! Oh Numi! (_con voce rotta, febbrile, tonante di collera_) E son capitani, questi! Presto!... a me la corazza, le armi! (_Cimoto dà segni di allegrezza e aiuta Alcibiade a vestirsi, associandosi alle sue esclamazioni_) Ed è a questa gente che Atene affida le sue navi! Ma vedi, o Seute, se non ho ragione! se non sono traditori! La mia spada!... dove sono i duci? (_ad Eufemo, mentre gira impetuoso per la stanza cercando le armi_) EUF. (_sbalordito_) A terra! ALCIB. Ah! imbecilli! sciagurati! CIM. (_ripete con indignazione comica le parole di Alcibiade_) Imbecilli! imbecilli! ALCIB. (_pur seguitando a cercare e ad indossar l’armi precipitosamente, alla rinfusa, fra esclamazioni e voci rotte di collera_) Cimoto, un cavallo! CIM. Ce ne sono già pronti![519] (_dando segni di gioia, corre per andar via, ma prima di uscire, ritorna indietro verso Eufemo e con voce commossa, che vorrebbe essere brusca, gli dice_) Non meritereste un corno! (_esce correndo_) ALCIB. (_mentre si assetta la corazza con precipitazione convulsa_) Portar la flotta proprio in bocca al nemico! Ma sono venduti a Lisandro costoro!... Ah! l’elmo... dov’è il mio elmo? (_non trovandolo, ne strappa in furia uno appeso_) SEUTE. Che fai?! È il mio quello!... ALCIB. (_badandogli appena_) Non fa nulla! (_ad Eufemo_) Su, su, alla tenda dei duci! In groppa! in groppa! o Atene è perduta! Ah, sciagurati![520] (_esce correndo, esclamando, bestemmiando e lasciando tutti attoniti_) SEUTE. (_dopo ch’è uscito, con ammirazione_) Due Traci come costui, e conquisto la Grecia!... CALA LA TELA. QUADRO NONO _Anno 404 av. l’E. V., nel mese di Pianepsione (ottobre-novembre) (1.º della Olimpiade 94ª — 27.º ed ultimo della guerra del Peloponneso) Crocinas di Larissa vinse il premio ad Olimpia._ EGOSPOTAMO[521] Campo ateniese presso Egospotamo (nel Chersoneso di Tracia). In fondo il mare (l’Ellesponto). Tende dei capitani da un lato. Scolte nello sfondo, lungo la spiaggia. SCENA PRIMA. ALCIBIADE, EUFEMO, indi ALCIBIADE solo. EUF. (_entrano trafelati egli ed Alcibiade_) I duci, credo, stan banchettando. Attendimi qui. Vado ad annunziarti. ALCIB. (_gettandosi stanco sopra un masso_) Va, e fa presto. (_Eufemo entra nella tenda dei duci, Alcibiade rimane solo_) Stan banchettando![522] e ad Atene frattanto sovrasta la ruina!... Coraggio, anima mia!... Via da me, inutile orgoglio!... Si pensi ad Atene. SCENA II. ALCIBIADE e CARICLE soldato. CARIC. (_venendo dalle tende dei duci, con deferenza rispettosa_) Salve, Alcibiade! I duci han lasciato ora appunto le mense. Essi ti pregano di attenderli. Fra brevi istanti saranno qui. (_Alcibiade lo guarda serio e torvo, senza risponder parola. Il soldato lo osserva_) Ma tu devi aver corso per ben lungo cammino: sei trafelato, polveroso, grondante di sudore: sarai sfinito dalla stanchezza e dalla arsura. Questo è licor pretto di Chio, di quello che bevono i duci: qui, al campo, la sete non si patisce. Su, Alcibiade, ristorati... (_Alcibiade non risponde, ma scaglia a terra con moto violento d’ira il corno che il soldato gli presenta. Càricle rimane a tutta prima attonito e interdetto: poi tranquillamente va a raccogliere da terra il corno, ne succhia gli ultimi sgoccioli, e si volge ad Alcibiade con accento calmo e rispettoso_) Ti sapevo superbo, Alcibiade!... Ma se meco sdegnavi di bevere, perchè sono un povero soldato, invece di gettarlo, potevi lasciarlo per me!... (_s’allontana lentamente_) ALCIB. (_scosso dall’atto calmo e dalle parole calme del soldato_) È più savio di me!... E così ti prepari, Alcibiade, a vincere l’orgoglio! Olà!... (_forte al soldato, richiamandolo_) CARIC. (_soffermandosi_) Che vuoi? ALCIB. Come ti chiami? CARIC. Càricle, figlio di Agórato, peanéo. ALCIB. (_alzandosi e movendo a lui_) Càricle, fosti meco cortese, ed io, senza volerlo, ti offesi. Ma quel vino... il banchetto dei duci... mi avevan richiamato pensieri irritanti. Perdonami. CARIC. (_intenerito, confuso_) Che?!... tu... Alcibiade?... ALCIB. (_affabilissimo_) Io Alcibiade, figlio di Clinia, prego te, Càricle, figlio di Agòrato, a perdonarmi, e ad accettare in segno del tuo perdono lo scambio delle nostre spade... CARIC. Ma ti pare! la tua è ricca, di squisito lavoro; la mia, affatto ordinaria! Il baratto di Glauco e Diomede...[523] ALCIB. Sarò allora io Diomede; perchè son io che guadagno nel cambio. L’amicizia d’un valoroso vale ben più che l’oro di quest’elsa. Accettala dunque... o crederò... CARIC. Accetto! accetto!... (_fan lo scambio delle spade_) E pregherò i Numi che ti salvino! ALCIB. No! no! non pregarli per me! (_con voce tristissima_) Pregali per Atene che muore!... (_s’allontana da lui_) CARIC. (_seguendolo dello sguardo, con aria di stupefazione_) Che cosa dice?... (_guarda alternativamente Alcibiade e la daga avuta da lui, e scrolla il capo_) L’aria di Tracia gli deve aver dato al cervello... Peccato!... un così bravo capitano!... (_va via, guardando Alcibiade e tentennando del capo, mentre Alcibiade si è immerso di nuovo ne’ suoi pensieri_) SCENA III. ALCIBIADE solo. ALCIB. (_cogitabondo, sospirando_) Terra fatale ed ingrata, potevi risparmiarmi e i tuoi doni e gli oltraggi, se darmi non potevi anche il dono di odiarti! a che crescermi superbo come la rocca della tua dea, se umile oggi devo farmi per te! Umile dinanzi a costoro che mi odiano, perchè in me paventano un rimprovero alla loro ignavia boriosa; umile perchè la loro vanità non si adombri, e perchè Atene (_con accento di rabbia, stringendo i pugni_) — giusti Numi! — è in mano loro! Coraggio! essi vengono!... SCENA IV. ALCIBIADE, TIDÉO, ADIMANTO, CONONE. Altri due capitani, che non parlano. TID. Tu qui, Alcibiade!? Non era atteso il tuo arrivo. Comunque, sii il benvenuto. Se più presto venivi, avresti potuto fare un brindisi con noi. ALCIB. (_serio e grave_) In tal caso avrei propinato a Giove Salvatore e ai Numi caccia-mali, perchè aprissero gli occhi a te, valoroso Tidéo, e a’ tuoi compagni. TID. E Giove Salvatore e gli altri Numi avrebbero speso male il tempo: perchè vin puro bevemmo e non filtro di mandràgora: e i nostri occhi son benissimo aperti... ALCIB. Ma non vedono l’abisso sotto i vostri piedi. Ben d’altro, o Tidéo, che di far brindisi è tempo!... ADIM. (_freddo_) Di che dunque? ALCIB. (_rinforzando la voce_) Di badare alle navi! TID. Le navi sono affidate al senno e al valor nostro, e sta pur certo, Alcibiade, ch’elle sono bene affidate. ALCIB. E allora salvate Atene con esse! TID. (_ironico_) Alcibiade s’interessa alla salvezza di Atene? Sparta infatti ne serba la memoria... ALCIB. (_gli sfugge un gesto vivissimo d’ira, ma tosto lo reprime e parla con calma_) Tidéo!... lasciamo i sarcasmi. Più amaro delle tue parole, mi è il pensiero dei giorni che alla patria sovrastano. Si tratta, ripeto, di salvar lei... TID. Pare difatti, che, senza essere da te chiamati, siam qui venuti per questo... ALCIB. (_con impeto_) Così non ci foste venuti mai!... TID. (_prontamente interrompendolo, e terminando la sua frase di prima_)... e che tu, Alcibiade, sii venuto, come Menelao ad Agaménnone,[524] consigliero non necessario e non cercato... ALCIB. (_nuovo moto di risentimento e nuovo sforzo per reprimersi: si avanza vivamente verso Tidéo, gli prende una mano e gli parla a voce sorda, concitata_) Ma lo sapete che Lisandro è a Làmpsaco? TID. (_tranquillissimo_) Lo sappiamo... ALCIB. Con falangi numerose e con un’armata di duecento navi... TID. Tanto meglio!... Sarà maggiore il bottino... Per questo lo sfidiamo a battaglia fin sotto Làmpsaco ogni giorno, ed egli non osa uscir da’ suoi ripari... ALCIB. Ma è bugiarda e ingannatrice questa sua calma! Lisandro è capitano abilissimo, e non si mostra che per assalirvi all’impensata!...[525] ADIM. Venga!... sarà ricevuto!... ALCIB. Ricevuto? Ma come, se la flotta vostra è sbandata e gli equipaggi quasi tutti a terra?[526] Ma come riceverlo, qui, dispersi, sovra un lido scoperto, lontani da porti e da città a cui appoggiarvi, vicinissimi ad un nemico vigilante e compatto, esposti a dover combattere alla sprovvista, per terra, contro forze superiori? TID. (_con calma sarcastica_) E son qui tutti i consigli di Alcibiade? e perciò venisti? Affè, mi rincresce ti sii dato tanta pena. ALCIB. (_con forza_) Oh, non tutti... non tutti!... se io... TID. (_interrompendolo vivamente, con ironia_) Se tu guidassi la flotta — la guideresti meglio di noi — questo vuoi dire? ALCIB. No, Tideo! chiamo gli Dei tutelari di Atene testimoni, che nessun pensiero di ambizione è ora in me. Ma se in voi parla l’affetto della città vostra, uditemi, ve ne scongiuro! Atene vi ha affidato le sue ultime risorse;[527] delle sue navi, delle sue schiere, tutto quel che le resta è qui; qui voi non potete dire, come Spartano alle Arginuse:[528] «PERDUTA QUESTA flotta se ne armerà un’altra!» Perduta questa, è perduta Atene!... Ascoltatemi. Qui la disfatta vi sovrasta. (_La voce di Alcibiade si vien facendo ad ora ad ora insinuante, supplichevole, incalzante, affannosa per l’emozione_) In nome d’Atene, partite senza indugio da qui. Imbarcate le truppe: allontanatevi da Lisandro. Portate subito la flotta fra Sesto ed Abido: là tenetela unita, pronta alla pugna. Lisandro evita la battaglia in mare, perchè, più forte di fanterie, aspetta di assalirvi per terra; voi datemi un po’ de’ vostri opliti e di arcieri; con essi, colle mie genti e con un corpo di Traci, io m’impegno ad attaccare lo Spartano nel suo campo di Lampsaco, a ributtarlo in disordine sulle navi, e costringerlo ad accettar su di esse la battaglia, quando più vorrà evitarla e quando alla disfatta non isfuggirà.[529] Questo io farò, per la tomba di mio padre lo giuro; ma salvate Atene — per tutti gli Dei! Salvate Atene! CON. (_a Tidéo, scosso dallo scongiuro di Alcibiade_) Tidéo, il consiglio di Alcibiade mi par savio e buono... ALCIB. (_vivissimamente_) Oh, grazie, Conone!... persuadili tu dunque... TID. (_ironico_) E chi non sa che l’illustre Alcibiade non può dar che sapienti consigli a noi, novizj nell’arte della guerra?! Ma alla buon’ora, Alcibiade, ora ti spieghi più chiaro... è il comando che vuoi...[530] ALCIB. (_con forza_) No, non il comando... TID. (_beffardo, interrompendolo_) La gloria dunque, che è meglio; e l’onor della vittoria, in faccia ad Atene, or che la vittoria, mercè nostra, è fatta sicura... ALCIB. (_fra sè, a grave stento reprimendosi_) Giusti Numi, soccorretemi! (_si volge a Tideo_) No, no, Tidéo, sii tranquillo. Neppur questo. Se questo solo vi toglie di accettare il mio consiglio, ebbene, colla flotta tragittatemi a Sesto: là scenderò a condurvi la mia gente e n’abbia il comando un di voi. Io combatterò da soldato... TID. Per avere di capitano il vanto e non la responsabilità. Tardi ti prende, Alcibiade, il desiderio di risalir le navi d’Atene. Non dovevi abbandonarle come un colpevole ed un fuggiasco! ALCIB. (_in un moto violento di collera porta la mano alla daga_) Tidéo... bada a te... TID. (_ponendosi in guardia a sua volta_) Minaccie ora?... ALCIB. (_padroneggiandosi con supremo sforzo, ritira la mano dall’elsa_) Ebbene, no, non minaccie! preghiere! preghiere soltanto. Poichè, _è per Atene_, ch’io prego. Tidéo, tu ingiurii, ed io _non ti ho_ ingiuriato. Eppure anche il mio passato non è senza qualche gloria: tu vedi, io non ne parlo. Eppure Alcibiade non tollerò mai insulto da persona al mondo: tu vedi, io ti favello cortese. Parlasti di viltà, e sai che vile non sono. Se tu ami la patria e anch’io l’amo; se tu offri a lei la tua vita, ed io son pronto a darla al par di te; ma in attesa di morir per Atene, si tratta di _vincere_ per lei! TID. La tua vita! l’hai salvata, sottraendoti alla condanna, laggiù, in Sicilia... ALCIB. (_frenandosi sempre, ma con voce oramai fatta tremante per l’interna febbrile commozione, e a volte a volte concitata, angosciosa, quasi avente in fondo le lagrime_) E fu consiglio di Numi, perchè io potessi giovare ad Atene in questo dì. Sì, due volte essa m’ha dato l’esilio; ma a te, Tidéo, a voi Filocle, Adimanto, Menandro, Conone, essa non ha fatto nulla, perchè vi debba premere di perderla! (_supplichevole a Conone_) Conone, tu vincesti con gloria alle Arginuse; tu mi ascoltavi dianzi... CON. (_abbassando mesto il capo_) Io son solo. ALCIB. (_sempre più incalzante supplichevole_) Ma tu, Filocle, hai pugnato meco a Catania; tu, Adimanto, eri a Cizico con me. Parlate voi!... Voi tacete! (_con accento di disperazione_) E Lisandro è là! Dei, qual cecità, qual delirio dunque è il vostro!... TID. (_imperioso_) E tu dunque tralascia di parlare ai deliranti. E vanne! che a noi soli spetta qui il comandare[531] ed è nostra la responsabilità. ALCIB. (_tuonante, aprendo lo sfogo all’ira_) E cada essa dunque su di voi, e Nemesi vi faccia sopravvivere tanto, che Atene possa chiedervi conto delle sue sventure! Prega, o Conone, prega per Atene, perchè oggi il cielo è ben irato con lei, se ha permesso che le sue sorti cadessero in tali mani!... (_agli altri_) Oh, sì, rallegratevi, che Alcibiade si è abbassato a pregarvi; ditelo al mondo, perchè mai più non vi toccherà così alta ventura, che il superbo Alcibiade lo avete visto supplicare e piangere dinanzi a voi!... Anime abiette d’invidia e di livore, no, Alcibiade non vi ruberà nulla della vostra gloria! _Non_ duci, — _traditori_ di Atene, la gloria del tradimento[532] è tutta vostra! (_moti d’ira e di minaccia fra i duci. Conone resta in disparte a capo chino_) TID. (_sguainando la spada_) Paga tu intanto il fio della impudenza!... ALCIB. (_incrocia repentinamente le braccia sul petto, e si pianta risoluto in faccia a Tidéo, squadrandolo in atto di sfida_) Ferisci! (_Tidéo s’arresta interdetto, mentre Conone ed altri si frappongono. Quadro_) CALA LA TELA. QUADRO DECIMO _Anno 404 av. l’E. V. nel mese di Pianepsione (ottobre-novembre) (1.º della Olimpiade 94.ª — Terminata la guerra del Peloponneso) Crocinas di Larissa vinse il premio ad Olimpia._ FRIGIA Capanna presso un villaggio in Frigia (Asia minore).[533] Interno della capanna, rustico, poverissimo, con una sola uscita nel mezzo ed una apertura o finestra laterale. SCENA UNICA. ALCIBIADE dormente sopra un po’ di paglia; TIMANDRA; poi CIMOTO. TIMAND. (_sola, in ascolto, guardando fuori_) Come è scura la sera, e come fischia il vento per la campagna! Di fuori il lamento della natura, qui dentro (_guardando Alcibiade_) le tempeste di un’anima! così grande e infelice!... (_si picchia alla porta_) Ah!... finalmente!... Chi è là? CIM. (_dal di dentro_) Io... io... Cimoto... (_Timandra apre; Cimoto entra con segni di freddo e di stanchezza e va a buttarsi sopra un sedile_) TIMAND. (_ansiosa_) Che nuove? CIM. Brutte nuove. TIMAND. (_additandogli Alcibiade dormente_) Sssss! piano! egli dorme... Che dici? CIM. (_a voce abbassata_) Dico che bisogna sgombrar da qui. A Sardi ho incontrato Brasida spartano. Costui, quando Alcibiade fu a Sparta, ne ebbe benefizj e gli si affezionò. È venuto in segreto a parlarmi di lui. Appena, dopo la vittoria d’Egospótamo e la caduta d’Atene, Sparta seppe che Alcibiade si recava dalla Tracia qui in Persia, domandò al sátrapo persiano la sua testa: e il sátrapo l’ha promessa.[534] Sparta non si tiene sicura finchè Alcibiade sia vivo... TIMAND. (_con amarezza profonda_) Vigliacchi! CIM. Povero padrone! eccolo là che dorme, ignaro del pericolo! Ho fatto venti parasanghe[535] in quattro dì e quattro notti, da Sardi fin qui, solo, per dirupi e per boscaglie, affrettandomi e ansando... tremavo di non giungere in tempo. TIMAND. (_stringendogli la mano con effusione di gratitudine_) Oh, Cimoto!... Alcibiade saprà ciò che hai fatto per lui: questo anello intanto ti sia povero pegno della riconoscenza di Timandra... (_si leva una gemma dal dito_) CIM. (_serio, commosso_) Tieni il tuo anello. Quello ch’io ho fatto, l’ho fatto per amore di lui e di te. Il vecchio Cimoto parassita è morto da un pezzo. TIMAND. Oh, le due Dee mi puniscano s’io volli farti offesa! Nè già per compensarti, buon Cimoto, ti pregavo ad accettar questo ricordo. CIM. Ricordo? La memoria di Cimoto è buona, e non ha bisogno di questo. Tieni, ti prego, il tuo anello! Tu non sai quello ch’io debbo a lui. Un giorno, sono undici anni e mi par come oggi... queste orecchie, abituate a non udire che parole di scherno, udirono per la prima volta una parola amica di conforto: quella parola era la sua. E nota, o Timandra, egli non poteva aver molto a lodarsi di me; ma quel giorno egli mi pose a fronte di quel bel mobile di Tessalo, e mi fe’ comprendere che innanzi agli Dei, scrutatori dei cuori, un povero parassita può valere un nobile discendente da Milziade. Oh, tu non sai, quelle parole che bene m’han fatto! Dividere, io, il disutile, il disprezzato Cimoto, la mia sorte con Alcibiade! Mi parea d’essere come l’erba crisópoli, che attaccandosi all’oro ne piglia il colore.[536] Conobbi sentimenti nuovi per me; Atene cessò di essere per me una parola... Non dico, che l’appetito non mi serva ancora, e alla corte di Seute mi son fatto onore: e quanto a coraggio, non ce n’ho colpa se la natura non m’ha fatto un Tesèo: ma da che vivo con lui, credo di non essere più una lepre. Venendo qui, ne ho fatti tanti degli stadj, e di notte, e allo scuro: e lontano, per la nera solitudine, sentivo gli urli delle bestie feroci: se ne togli un po’ di tremito alle gambe, sull’onor mio, non ho provato altro. Animo, Cimoto! — pensavo nel sentirli — si tratta di farsi onore, di salvare Alcibiade, e... e affrettavo il passo. Sicuro! mi par d’essere diventato perfin coraggioso... E questo, tutto questo lo devo a lui! Oh, per i Numi, tieni il tuo anello! tieni il tuo anello! TIMAND. (_commossa stringendogli la mano_) Leale Cimoto! Ancora ad Alcibiade furono clementi gli Dei, se tale amico[537] gli serbarono nella sventura. CIM. Te pure gli serbarono. TIMAND. E poi ch’essi ne vollero avvinti entrambi al suo destino, la mia... amicizia... la accetti questa... almeno? CIM. (_commosso ringraziando e asciugandosi gli occhi_) Lo domandi? TIMAND. Di’, conobbero a Sardi la via da noi presa? CIM. Non credo. Almeno Brasida me l’affermò. Comunque, abbiam quattro giornate di cammino di vantaggio... TIMAND. Stasera stessa partiremo con lui... (_guarda con affetto Alcibiade_) Egli riposa; era sì stanco!... Vegliò tutta la notte! Silenzio: si agita nel sonno... Qualche sogno lo tormenta... (_Timandra e Cimoto si appressano ad Alcibiade in punta di piedi e stanno in ascolto_) ALCIB. (_nel sonno, con voci lunghe_) Attenti al segnal dello scudo!...[538] Correte alle navi! Lisandro arriva! Su, su, alle navi! alle navi!... (_con un lungo lamento_) Oh Atene! TIMAND. Atene! sempre Atene! Sogna Egospótamo e la orrenda disfatta che egli indarno previde!... Povera grande anima, quando riposerai? (_si china su di lui e lo bacia in fronte_) Un mesto sorriso gli sfiora le labbra... or sembra più tranquillo. O sogni, silenziosi figli della Terra,[539] aleggiate almen placidi intorno al suo capo! CIM. Pur converrà destarlo. Le ore passano. TIMAND. (_chinandosi sul dormiente, e chiamandolo a voce dolce e piana_) Alcibiade?! ALCIB. (_aprendo gli occhi_) Ah!... (_ravvisa Timandra_) Sei tu, Timandra? Perchè mi destasti? TIMAND. Cimoto è ritornato... ALCIB. (_macchinalmente_) Ah, di già? Addio, buon Cimoto... (_a Timandra_) Mi hai rotto un bel sogno!... Mi parea veleggiar per l’Ellesponto, sulla _Pàralo_[540] sfuggita allo eccidio di Lisandro; e a schiere a schiere le ombre dei prigioni ateniesi trucidati[541] venìan correndo alla marina, e a me stendevano le scarne braccia dal lido, domandando vendetta e pietà. Poi, la scena mutavasi: e mi trovavo al Pireo, tra una folla festante, traendomi dietro le navi e le spoglie dei vinti Spartani: echeggiavan per l’aria concenti di tibie e cantici di vittoria: il popolo gridava: _Salute al vincitore di Lisandro! al vendicatore di Egospótamo!_ E la turba e le voci via via confusamente si dileguavan lontano, finchè non mi parve più udirne che una sola: era la voce di Timone il misantropo, che seduto alla riva, raspando la terra, mi guardava fisso, come quel giorno che per via mi maledì. Ma la sua voce non era più imprecazione: il suo aspetto non era più d’uom che odia, il suo sguardo pareva sguardo di amore. _Timone_, io venivo gridandogli, _ringrazia gli Dei che ti smentirono! Il giovinastro, che preconizzasti flagello di Atene, n’è divenuto il salvatore. Timone, riconciliati cogli uomini! la virtù e l’espiazione esistono ancora sulla terra, e la legge della terra è amore!_ Ed io correa verso lui, le braccia aperte: — ma Timone già era scomparso, e il suo volto d’improvviso s’era mutato nel tuo, che mi venivi incontro bella, radiante... e mi toglievi l’armatura;[542] mi inghirlandavi di fiori, mi spargevi le chiome di unguenti e di aromi. E mi abbracciavi e baciavi, ma i tuoi baci eran di fuoco, eran vampa le tue braccia di neve: e tra quelle fiamme io mi sentìa con lunga voluttà consumarmi, come nulla più restar dovesse di me... Qui m’hai destato. Fu sogno di morte, Timandra, questo...[543] TIMAND. (_abbracciandolo e chiudendogli la bocca_) Oh, non dirlo! fu sogno di vita! E il vero sognasti, Alcibiade, poichè più vivida e perenne della fiamma di Vesta, arde qui dentro la fiamma del mio amore per te... ALCIB. (_sorridendo affettuoso_) Eppure, Timandra, è quasi sera; siam già ai primi freddi; Pianepsione è già innanzi, e sai che il tempo in cui cascano le foglie[544] è quello in cui la madre terra ci manda i sogni bugiardi fuor dalla porta di avorio...[545] TIMAND. Cattivo!... E tu allora non badare ai sogni! Che più di sogni non è tempo. Cimoto è ritornato da Sardi. ALCIB. Ah, sì, me ne scordavo! Ebbene, buon Cimoto, quali notizie? CIM. Buone e cattive. Ad Atene, il popolo, fra il terrore della tirannide spartana, sommessamente ti rimpiange e ha riposta ogni speranza in te; i fuorusciti, raccolti in Tebe, aspettano il cenno da te. Ma i tiranni, di te paventando, dichiararono a Sparta che non mai in Atene potranno tenersi sicuri, finchè tu sia vivo...[546] ALCIB. Fin qui, mi pare, han detto giusto. CIM. Lisandro esitò sulle prime; poi chiese al satrapo la tua morte; e il satrapo... per ingraziarsi Sparta... l’accontentò. ALCIB. (_tranquillissimo_) Resta a vedere se son contento io. Da quando il decreto? CIM. Dal dì stesso che lasciai Sardi. ALCIB. E quando la lasciasti? CIM. Son quattro giorni. ALCIB. Sei venuto colle ali di Pégaso. Abbiamo dunque guadagno di tempo. TIMAND. Ma le spie e gli sgherri del satrapo e di Sparta sono molti; importa affrettare la via, prima che le insidie dello Spartano ci raggiungano... ALCIB. Ebbene, prima che Sparta veda il pio desiderio compiuto, io avrò parlato in Persepoli al re Artaserse e mossolo al soccorso di Atene. Tutta la trama di suo fratello Ciro, per isbalzarlo dal trono di Persia, è in mano mia. Avviserò il re del pericolo, me gli offrirò capitano per domar la rivolta, a patto che poi mi ajuti a liberare la mia città; nè mai il nipote di Serse avrà pagato a miglior prezzo più grande servigio a un concittadino di Temistocle.[547] (_si volge a Cimoto_) E così, mio buon Cimoto, tu hai fatto seicento stadj per venire a portarmi l'avviso... CIM. Fossero stati altrettanti... TIMAND. E di notte ha viaggiato, solo, allo scuro, tra i pericoli... (_Cimoto si ringalluzzisce all’elogio_) ALCIB. Anche tu dunque, come la mia Timandra, mi vuoi bene ancora! Abbandonato da tutti, povero, proscritto, cercato a morte, due persone dividono spontanee la mia mala ventura: una etéra e un parassito. Ah, no, non era una baja il mio sogno di Timone! La virtù e la fede non sono una vana parola! Qua la mano, mio buon Cimoto. E tu, nobile etéra, porta ben alto il tuo nome, perchè mille matrone della Grecia dovrebbero inchinarsi innanzi a te. Donna dall’anima più nobile e più pura non portò mai canestri nelle feste di Cerere![548] Domani all’alba partiremo per Susa. TIMAND. Oh, non domani! non domani! Quest’oggi, Alcibiade! questa sera stessa! CIM. Sì, sì, Alcibiade! questa sera! ALCIB. Questa sera? impossibile. Tu, Cimoto, sei stanco. CIM. Oh no... tutt’altro... ALCIB. _Sei stanco_, ti dico, dal viaggio; — e tu, mia povera e buona Timandra (_le prende affettuosamente le mani_), hai vegliato il più della notte, e jeri hai camminato tanto con me. È miracolo come ti regga in piedi... Che tu ti ponga oggi in viaggio è impossibile... TIMAND. Oh, non dir così! sono assai più forte che tu non pensi! E poi, alla peggio, potrem far sosta a Celène o al Foro de’ Ceramj.[549] Per noi non vi è pericolo... Ma si tratta de’ tuoi giorni. Te ne scongiuro per l’amor nostro... ALCIB. (_serio, calmo, imperioso_) Per l’amor nostro, Timandra, non una parola di più. Alcibiade, nè ti abbandona, nè può permettere che tu ti ponga oggi in via. Partiremo domani sull’alba (_vede Timandra afflitta e le parla con voce ridivenuta affettuosa_). E perchè temer tanto? La stella che mi ha scorto tra i pericoli sin qui, vorrebbe essere ben maligna se a questo punto mi abbandonasse. Siam già assai lungi da Sardi e in luogo deserto, appartato. Senza un tradimento, gli sgherri del sàtrapo non potrebbero essere qui nè stanotte, nè domani, nè dopo. Il tuo affetto, e quel di Cimoto, ingrandiscono il pericolo e vi fan presumere delle forze vostre più che a umane forze non è dato: ma io non perdonerei a me stesso di aver abusato in tal guisa della tua abnegazione e della sua. (_le prende con affetto una mano e se la pone sul cuore_) Senti, Timandra, il cuor mio. Esso traversò tante tempeste, eppure non battè mai così calmo come oggi. Provo un benessere strano, indefinibile: qualcosa di ciò che prova il nocchiero vicino a toccare il porto dopo l’uragano. Un Nume, certo, mi ha mandato quest’ora solenne. Non ero così calmo, sai, fra le orgie e le dissolutezze ateniesi; non lo ero, quando sedevo ai danni di Atene nel consiglio dei capitani di Sparta... (_arrestandosi e facendosi mesto_) Fui molto colpevole, n’è vero, allora, Timandra? TIMAND. (_chiudendogli la bocca_) No, taci, Alcibiade! Che pensieri son questi? Ciò che hai fatto per Atene e questi sacrificj e questi stenti a cui volontario ti condanni per trar dal fondo delle sue sciagure la città che ti offese, redimerebbero ben altri falli che i tuoi. Pensa che Atene fra i suoi mali ti chiama: pensa al tuo avvenire... e... qualche volta... al tuo amore... ALCIB. (_con tristezza_) Il mio amore! Oh Timandra, io sento di non averti mai tanto amato come oggi; eppure viene nella vita il giorno che anche l’amore più fervido e santo non basta a far tacere la voce segreta dell’anima!... (_si leva dal petto un pezzetto di papiro lacero e vecchio_) Vedi, Timandra, questa lettera? TIMAND. Dei versi d’amore? ALCIB. (_baciandola_) Gelosa! Sì, dei versi d’amore, ma che datano da undici anni!... Furono scritti pochi dì innanzi la funesta impresa di Sicilia, un giorno che Socrate con rimproveri me ne sconsigliava. Quel vecchio m’avea fatto quasi piangere di rimorso e di vergogna: ma questa lettera giunse ed io corsi a dimenticare rimproveri e rimorsi sul seno di neve della bionda Glicera!... Avessi dato ascolto a Socrate! Ora il buon vecchio alza egli solo in Atene la voce contro i tiranni, e osa sfidargli egli solo.[550] Certo, in questi giorni deve aver pensato a me... TIMAND. E s’egli fosse ora qui, non sarebbe più per rimproverarti che si alzerebbe, o Alcibiade, la sua voce... Ah!... (_una vampa entra da una finestra; Cimoto accorre fuori_) ALCIB. (_balzando in piedi_) Che è questo? CIM. (_accorrendo dal di fuori_) Tradimento, tradimento! siam circondati! Le guardie di Lisandro son qui, e han dato il fuoco alla casa. ALCIB. Morte e inferno! (_con voce cupa_) Son dunque le fiamme del sogno!... Ombra di Leonida, ecco le armi de’ tuoi figli!... L’arme a me! (_afferra la daga pendente presso il suo giacilio e la impugna sguainata nella destra, attortigliandosi la clamide intorno alla mano sinistra_)[551] TIMAND. Ferma, Alcibiade! per pietà! dove corri? ALCIB. (_gridando_) Lasciami! lasciami!... Cimoto, veglia su lei! (_si slancia fuori della capanna_) TIMAND. (_a Cimoto, con accento vibratissimo_) Cimoto! un’arme e seguimi! (_brandisce un pugnale di Alcibiade e fa per avviarsi fuori della stanza, mentre Cimoto le è corso innanzi, la daga sguainata_) VOCI INTERNE DI SOLDATI. Fuggiamo! fuggiamo! CIM. Ferma, Timandra! (_guardando fuori_) È inutile; fuggono già. TIMAND. (_verso la soglia, guardando fuori con ansia_) Egli torna fra le fiamme! Numi, vi ringrazio!... (_cade in ginocchio, mentre Alcibiade riappare barcollante sulla soglia_) ALCIB. (_dalla soglia, cupo_) Troppo presto ringraziasti i Numi!... (_cade_) TIMAND. (_con grido acutissimo di angoscia_) Ah!... lo han ferito!... (_si slancia con Cimoto a sostenere Alcibiade_) ALCIB. (_continuando con amarezza la frase di Timandra_) Come feriscono i vili!... Non osarono attendermi, e una freccia mi colpì di lontano... Timandra, non piangere. Era scritto ne’ Fati! (_con voce tranquilla_) Sostienmi, circondami delle tue braccia!... così... ora il sogno è compiuto... I campi son verdi e le foglie non cascano ancora. Là... quella corona. (_le addita un angolo della stanza: Cimoto va a prender la corona; Alcibiade la prende dalle sue mani e la osserva: il suo volto moribondo componesi a un dolce sorriso_) È la mia prima corona, la memoria di Potidea... (_con voce fioca e dolcissima, e come assorto fra sè_) E anela alla gloria, bellissima stella, Ma pura, ma scevra da ogni empio baglior: E cinge la fronda di quercia più bella Per farne più sante le gioie del cor....[552] (_si cinge colla mano tremante la corona_) Timandra, un bacio!... (_lo bacia appassionatamente_) Oh, i tuoi baci sono pur dolci, e tu sei la più bella delle donne di Grecia!... Cimoto, a te la raccomando! (_additandole Timandra_)... non distaccarti da lei!... CIM. (_piangendo e singhiozzando_) Oh, mio padrone! mio padrone! ALCIB. (_a Timandra piangente che lo sorregge_) Quando tornerai in Grecia, di’ ad Atene che spirai col suo nome sul labbro... e racconta a Socrate come son morto!... Addio... ricordati di Alcibiade! (_ricade e muore_) TIMAND. (_con angoscia e pianto, china sul cadavere_) Alcibiade! Alcibiade! (_d’improvviso con accento disperato_) Tornare ad Atene?! E che cosa è Atene, lui morto, per me?! Cimoto! (_con voce di risoluzione cupa_) A me gli unguenti e gli aromi! (_aggiusta la ghirlanda sul capo di Alcibiade e gli compone e ravvia amorosamente le chiome_) Dea sotterranea che gli inviasti il sogno, ecco, io compio il tuo presagio ed il rito; abbiti dunque l’olocausto più grande di quanti fumarono a’ tuoi altari!... (_Le fiamme crescono; Timandra, pur seguitando ad adornare il cadavere, si volge a Cimoto, con voce calma_) Cimoto, vanne! Le fiamme incalzano! Ancora un istante, e non sarai più in tempo... CIM. (_cupo_) E tu?... TIMAND. (_senza guardar Cimoto, sempre intenta amorosamente al cadavere, con voce calma, soave, quasi di donna per dolore impazzita_) Io... io compio il sacrificio... ed infioro la vittima... Vanne! Le fiamme son qui. CIM. Timandra, hai ben sentito ch’egli mi ha detto di non lasciarti?[553] (_si avvicina a Timandra, incrocia le braccia sul petto e le parla con voce lenta, ferma e solenne_) Dal dì che Alcibiade mi chiamava a sè, egli non offerse mai vittima ai Numi, senza che io ne avessi la mia parte. Qui si fa un sacrificio in suo onore. Sono il suo parassita. Ci resto! (_Cimoto si ravvolge nel suo mantello, ritto e fermo, presso al cadavere e a Timandra inginocchiata. Le fiamme invadono tutta la stanza, mentre cala lentamente la tela. Quadro_) FINE DELL’_ALCIBIADE_ E DEL VOL. V. INDICE Introduzione Pag. V Dedica 1 Prefazione all’edizione del 1875 3 Ai greci di Trieste 15 Alcibiade 17 Personaggi 19 Le etére 20 I parassiti 24 Classi di Atene 29 Avvertenza di Cimoto al pubblico 33 Quadro Primo 35 Quadro Secondo 78 Quadro Terzo 122 Quadro Quarto 165 Quadro Quinto 187 Quadro Sesto 224 Quadro Settimo 253 Quadro Ottavo 263 Quadro Nono 296 Quadro Decimo 306 NOTE: [1] Qualche dì appresso Pessimista, mi scriveva dei funebri celebrati al povero amico in Milano... «Milano, 17 agosto... L’hanno calato nella fossa a destra del Cimitero.... al tuo ritorno qui faremo un pellegrinaggio insieme alla tomba del compianto _Trombone_, che lascia di sè vera eredità d’affetti... Ogni dì più si sente la sua perdita. — Che mente acuta! Che costanza indomita e buona! forse in Billia la giovane democrazia ha perduto il suo Vergniaud.» [2] _Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle_, lettera a Yorick figlio di Yorick, di F. Cavallotti — Milano, Rechiedei, 1874. — Farà parte di uno dei volumi successivi della raccolta. [3] Risposta dell’autore ad un indirizzo della colonia greca di Trieste, che accompagnavagli, dopo la recita dell’_Alcibiade_ in quella città, il ricordo affettuoso di una corona di alloro, recante le parole: τῷ ποιητῇ τοῦ Ἀλκιβιάδου — θαυμασταὶ Ἒλληνης — ἔν Τηργεστῃ, Μαρτιου, 1874. [4] L’autore ha supposto la casa di Alcibiade nella parte occidentale e più amena di Atene, tra i boschetti ombrosi ed olezzanti delle sponde del Cefiso, presso la via delle _Lunghe Mura_ che conduce dal Pireo alla città e in vicinanza dello _Pnice_, il luogo delle Assemblee popolari. [5] All’epoca in cui è supposta questa scena, era Aspasia — bellezza matura in sul tramonto, sebbene ancor lottante contro gli insulti dell’età — da quattordici anni già vedova di Pericle; il quale, come parente ad Alcibiade dal lato della madre Dinomache, gli fu anche tutore, dopo che questi a tre anni restò orfano del padre Clinia, morto alla battaglia di Coronea; e nella casa del quale Alcibiade era cresciuto, sotto gli occhi e le cure di lui e della sua celebre e vezzosa compagna. La vita politica e privata del figliuolo di Clinia provò più tardi che non per nulla egli aveva avuto di tali maestri. Di Aspasia, che nacque a Mileto, e che tanto affascinò il dominatore di Atene, da indurlo a ripudiare per lei la prima moglie e da averlo, fin ch’ei visse, amante e marito — e della sua vita, delle sue grazie, del suo spirito e della sua dottrina — narra Plutarco nelle vite di Pericle e di Alcibiade, a cui rimandiamo il lettore. I comici del tempo la attaccarono: Platone nel _Menesseno_ la collocò sì alto nella estimazione de’ filosofi, da far porre da Socrate in bocca di lei uno de’ più stupendi squarci di eloquenza che ci abbia tramandato l’antica età. Le proporzioni del dramma e le ragioni del protagonismo non consentirono all’autore che di sbozzare in iscorcio, e in semplici e fugaci contorni, questa eccezionale figura: quanto appena bastasse a compiere il quadro storico e a dare ad Alcibiade, maestro in astuzie d’amore, un avversario degno di lui. [6] Intorno ai costumi, al vestiario, alle acconciature, ecc., delle donne ateniesi, rimandiamo lo studioso alle opere moderne più note che diffusamente ne trattano (Winkelmann, _Opere_; Ferrario, _Cost. Antico e Mod_.; Becker ed Hermann, _Bild. des Griech. Privatlebens_; Willemin, _Costumes_; Barthelemy, _Anacarsi_; Guhl e Körner, _Leben der Griechen_, ecc.) Qui basti accennare, riguardo al lusso speciale che costumavan le etére, un passo caratteristico di Luciano: «A donna onesta è sufficiente, per rilevar sua bellezza, o una sottile collana intorno al collo, o in dito un anello portabile, o ciondolini agli orecchi, o una fibbia, o un nastro che raccolga la sparsa chioma, e tanto di ornamento aggiunge alla sua leggiadria quanto di porpora alla veste; ma le cortigiane la veste tutta di porpora ed il collo fanno tutto d’oro, cercando di attirare con lo sfoggio e i fregi esterni; perchè credono che il braccio pare più pulito se vi risplende l’oro; che il piede se non è ben fatto si nasconde nel sandalo d’oro, e che la faccia stessa pare più amabile fra tanto splendere d’oro» (Luciano, _Di una sala_. — Cfr. i dialoghi delle _Cortigiane_ e degli _Amori_). E in una lettera di Aristeneto, il galante Ippia canzona Filocoro, perchè vedendo una bella cortigiana riccamente vestita di una tunica di porpora, la scambia per una matrona e non osa avvicinarla. «Per Apollo, sei ben ignorante in cose d’amore! Non senti da lontano l’olezzo degli unguenti ond’è profumata? Nè udisti il suono aggradevole dei braccialetti dolcemente agitati, come soglion fare queste donne?» (Aristen., _Lett_., I, 4). [7] Sul conversar frequente di Socrate colle etére, vedi i passi da me citati (nella nota sulle _etére_, all’elenco de’ personaggi) di Senof., _Memorab_. III, (colloquio con Teodota) e di Platone, _Simposio_, nel discorso di Socrate con Diotima: nonchè Ateneo, _Deipnos_., V, 218, ecc., XIII. Traendo del resto, non senza trepidanza, alle scene il meraviglioso filosofo, l’autore non potea trascurare nè le idee di lui quali ci sono tramandate da’ maggiori fra’ suoi discepoli, Senofonte e Platone: nè la forma ed il metodo del suo dialogare divenuti proverbiali. Ben inteso, che delle idee scelse quelle le quali più pareano convenirgli al quadro; e che le esigenze della scena non poteano conciliarsi collo sviluppo della forma di dialogo socratica in tutta la minuzia, spesso nojosa, de’ suoi avvolgimenti, e delle sue gradazioni e ripetizioni. Il principio della scena è ispirato da un passo di Senofonte, _Simpos_., cap. IV; più innanzi il discorso si aggira sopra idee del _Fedro_ di Platone. [8] Era uno degli appellativi dati ad Aspasia (Plut. in _Pericle_). [9] Di Aspasia abbiamo nell’_Iconografia_ del Visconti l’effigie sola a noi pervenuta e ritratta da un’erma dissotterrata sulla spiaggia di Civitavecchia, nel posto dell’antico _Castrum Novum_ e collocata nel Museo Vaticano (_Icon. gr_., I, tav. XV a.). Essa reca sulla base il nome ACHACIA: ha la testa coperta di un velo, alla foggia di matrona greca, e forse è questo abbigliamento che la fece dare il nome di Giunone: capelli inanellati sul davanti della fronte, in ricci paralleli e verticali: viso ovale; linee stupende. Cfr. Becq de Fonquières, _Aspasie_. [10] Οφθαλμοί ἐπιπόλαιοι. Così traduce anche il Ciampi e l’autore delle spiegazioni del Museo Capitolino, inducendone che Socrate era losco. Occhi sporgenti, e naso camuso colle narici larghe, aperte all’insù (Senof., _Simpos_. IV). Aggiungansi grosse labbra, fronte sporgente e calvizie in cima della fronte, capelli corti arricciati di dietro, e barba arricciata scendente, non molto lunga, sul petto, e si ha l’effigie di Socrate, descritta negli antichi scrittori e pervenuta sino a noi. Un’erma rappresentante Socrate, del Museo Napoleone, è citata e descritta dall’Ennio Quir. Visconti nella _Iconografia greca_ (I, pag. 200; tav. XVIII), siccome l’imagine più autentica del grande filosofo. Vi traspira dagli occhi arguti la finezza dello spirito e dalla fronte serena l’imperturbabilità del carattere: il movimento stesso delle labbra sembra avere qualcosa della sottile ironia de’ suoi discorsi. Il Visconti nega per altro che Socrate fosse losco: e traduce l’ὀφθαλμοί ἐπιπόλαιοι per _occhi a fior di testa_. [11] Socrate veniva spesso paragonato ai Satiri e ai Sileni per la sua figura (Plat., _Simpos_.; Senof., _Simpos_., III, e altrove). [12] Modo proverbiale (Alcifr., _Lett_. III, 69). Forse le stoviglie di Tenedo, spiega traducendo il Negri, avean grido di essere sottili per modo che i lor frantumi riuscissero taglienti al par di un coltello. Ma più probabilmente la frase non è che una variante dell’altro proverbio, _esser mozzato con una scure di Tenedo_, derivato dalla favola di Cicno e di Tenne (Vedi Conome, _Narr_., XXVIII; Eracl., Pont., _Repub_., VII; Pausan., _Focid_., lib. X). [13] _Propilei_: famosi tra’ monumenti maggiori di Atene e dell’arte greca e del mondo. Erano i vestiboli (προπύλαια) della cittadella a cui mettevano per cinque grandi porte e per vaste gradinate. Pericle li fe’ costruire sotto la direzione di Mausicle architetto, spendendovi intorno da 2200 talenti (quasi 12 milioni di lire). Vedi Pausania; Plutarco in _Pericle_; Meursius, ecc. Tra i quadri di insigni artisti che li adornavano, questo di Polignoto è ricordato in Pausania, _Attic_., 22. [14] νὴ τοὺς ἔρωτας — esclamazione femminile (Aristen., _Lett._ I, 27). [15] Questo vezzo di porre in bocca altrui le proprie idee, riscontrasi frequentissimo nei discorsi di Socrate in Platone, e caratterizza l’arguta artificiosa umiltà del suo processo dimostrativo. Così nel _Simposio_ Socrate declina modesto le lodi di Agatone a’ suoi ragionamenti persuasivi e per ispiegarli viemeglio «_riferirà il discorso che ha udito da Diotima, una donna di Mantinea, erudita in amore e in molte altre cose_.» Nel _Fedro_ Socrate espone al suo giovine alunno, seduto al rezzo dell’acero famoso, la teoria del bello e dell’amore: e comincia: «_Il discorso che sto per pronunciare è di Stesicoro, figlio di Eufemo, nato ad Imera_...» [16] Platone, _Fedro_. Vedi quivi la dottrina socratica che tentai compendiare nel presente discorso. [17] È in bocca di Omero che Platone mette questi due versi da lui fatti dire a Socrate: «I mortali lo chiamano amore (ἔρως) che ha ali; ma gli Dei lo chiamano _pteros_ (πτέρος) perchè ha la virtù di darne» (Plat., _Fedro_). [18] Platone, _Simposio_. Vedi quivi nel discorso di Aristofane la comica teoria degli _androgini_ (maschi-femmine), qui da me alquanto semplificata pei limiti imposti dalla scena. [19] Eran le feste _Ascolie_; celebrate in onor di Bacco tra i villani dell’Attica, e così dette appunto da un _otre_ (ἀσκός) che empivasi di vino e fuori ungevasi d’olio, e sul quale i giovani a gara provavansi a saltare con un sol piede, dando frequenti stramazzate in terra, di che nasceva gran riso fra gli spettatori. Chi riusciva a rimanere col piè fermo sull’otre, guadagnava l’otre e il vino. — Questa usanza ricordata da Platone, _Simpos_., da Alcifrone _Lett_., III, 61, e dallo Scoliasta del _Pluto_, lo è anche dai Latini: _atque inter pocula aeti — Mollibus in pratis unctos saliere per utres_. Virgil., _Georg_., II v. 380. [20] Cfr. in Platone nel _Simposio_ l’arrivo di Alcibiade. — L’Ennio Quirino Visconti nell’_Iconog. grec_. (I, tav. XVI) riporta diverse effigie d’Alcibiade, delle poche pervenute sino a noi: tutte assomiglianti nelle linee principali benchè ritraenti pallidamente, e in grado diverso, quella bellezza per la quale Alcibiade andò fra i Greci famoso e che lo fece chiamar da Platone _il più bello di tutti gli uomini_ (Plat., _Prim. Alc_.). La prima (XVI, 1 e 2) è una _erma_, la cui autenticità è attestata dalle prime lettere del nome ΑΛΚΙΒ: fu scavata sul monte Celio e posta nel Museo Vaticano. Raffigura Alcibiade adulto: fronte bassa, naso diritto, lineamenti pronunciati, espressione energica, baffi unentisi alla barba corta e inanellata, e capelli arricciati. Pare opera di artista volgare: il Visconti la crede una copia di quella che l’imperatore Adriano aveva fatto porre a Melissa in Frigia sulla tomba di Alcibiade. — Un’altra testa (XVI, n. 3) è copiata da una pietra antica del gabinetto di Fulvio Ursino: e riprodotta da Faber (_Imag. ex bib. F. Urs. n_. 4). È Alcibiade assai più giovane e bello: baffi leggieri staccati dalla barba nascente, capelli arricciati. Ha rassomiglianza con una effigie di Mercurio in alcune medaglie romane e spiegherebbe l’asserto di Clemente Alessandrino, che molte imagini di Mercurio avessero avuto Alcibiade per modello (_Admon. ad Gen_., 31): asserto confermato anche da Aristeneto, _Lett._ I, 11. Un’altra effigie nel Visconti (tav. XVI a. 1 e 2) è presa da un’erma appena sbozzata, dal Museo Napoleone. Alcibiade vi ha baffi leggieri e barba arricciata. E un critico si scandalizzò per aver visto sulla scena Alcibiade coi baffi! [21] Proverbio greco. Applicavasi alle persone prive di gusto e di ingegno, insensibili al bello come il somaro all’armonia di uno stromento. «E non poneva più attenzione a me di quel che l’asino al suono della lira» (Aristen., _Lett_. I, 17). «La sapienza a lui importa poco: che ha che far l’asino con la lira?» (Luciano, _Di quei che stan co’ signori_). «E vedendo un asino trattar la cetra, come dice il proverbio, scoppia in una risata» (Luc., _Del giorno infausto_). [22] I Libetrj — scrive Mercero — erano un popolo che non avea gusto alcuno nè per la musica, nè per la poesia, nè per la scienza: a tal che ascoltarono senza esserne punto commossi i divini canti d’Orfeo, che morì nel loro paese. Indi la loro ignoranza diventò famosa e proverbiale: e diceasi in proverbio: _più ignorante o più rozzo dei Libetrj_, ἀμουσότερος Λειβεθρίων — (Aristen., _Lett_., I, 27; Mercerus, nei _Commenti_). [23] Metafora tutta greca. «_Quante Sirene erano nelle sue parole!_» ὄσαι ταῖς ὁμιλίαις ᾳὺτῆς σειρῆνες ἐνί δρύντο (Alcifr., _Lett_., I, 38). «Tu mi rapivi _colla sirena dolcissima de’ tuoi discorsi_, τῇ γλυκείᾳ Σειρῆνι τῶν λόγων. (Sinesio, _Lett_., 139. E così Aristen., _Lett_., II, 19; Procop. Sof., _Lett_., 21). [24] Plat., _Simpos_. Vedi quivi nel discorso di Alcibiade (la pittura più artistica e vera che di Alcibiade ci abbia tramandato l’antichità) ciò che Alcibiade dice del suo affetto per Socrate, e delle virtù di quest’ultimo, paragonandolo a Marsia per il fascino della parola. [25] La similitudine è in Platone. _Coribanti_ chiamavansi, com’è noto, _ab origine_ i sacerdoti di Cibele, che invasati da furor sacro, su pei monti di Frigia saltavano agitando il capo e percotendo ne’ cimbali, e comunicavano agli altri la loro mania. Indi usavasi proverbialmente il verbo κορυβαντιᾶν. — Però che da questi sacerdoti di Cibele proveniva tutta una casta di frati mendicanti (sul genere di quelli del Cattolicesimo) che sotto il nome di _questuanti della madre degli Dei_, Μητραγύρτης, giravano per Grecia, trafficando di oracoli e di sortilegi, e di porta in porta limosinando per le libazioni a Ecate e a Cibele, e iniziando alle orgie e ai lùbrici misteri di queste dee. Cfr. Plat., _Repub_., II, p. 364; Menandro, Ἱέρεια. [26] Le corone (di viole, o di rose, o di mirto) si recavano nei conviti solo al levar delle mense, quando stavasi per propinare al _buon genio_, dopo di che seguivano il peàna e gli scolii (cantati dai convitati con un ramoscello di mirto in mano) — e le libazioni copiose (Senof., _Simpos_., II, 1; Ateneo, XV, 685; Plutarco, _Disp. Conv_., 5; Becker ed Hermann, _Bild. Griech. Privatleb_., I, 181; II, 263). [27] Tre erano di regola, nel giorno, i pasti degli Ateniesi, il primo — ἀκράτισμα (detto da Plutarco anche πρόπομα) — cioè l’_asciolvere_, di buon’ora, al levarsi dal letto: il secondo — ἄριστον — verso il mezzogiorno; il terzo infine — δεῖπνον (l’Omerico δόρπος) — verso sera, corrispondeva alla _coena_ dei Romani ed era il pasto principale. Ma i Greci non usavano mangiare e bere promiscuamente; durante il pasto, non si beveva vino, e perciò alla cena — δεῖπνον — tenea dietro la mensa dei bicchieri, cioè il _simposio_ — σιμπόσιον, πότος — destinato alle libazioni e che appunto cominciava, al levar della mensa dei cibi, colla libazion del _buon genio_. Sovente questa seconda parte del banchetto risolvevasi in una vera orgia (κῶμος); soventissimo ancora il _simposio_ era dato non come una vera e propria continuazione del banchetto, ma come una riunione a parte, affatto indipendente dal δεῖπνον, di persone convenute insieme al solo scopo di bere e discorrere e divertirsi tra i bicchieri. Ravvivati da concenti musicali, da auletridi e ballerine e saltimbanchi, e da giuochi e passatempi svariati; spessissimo anche fatti pretesto di amene discussioni di filosofia e d’arte, ecc., questi simposj offrivano la pittura più caratteristica e gaja dei piacevoli costumi del tempo. Senofonte, così vero nella sua semplicità, e il fantasioso Platone, coi lussureggianti colori della sua tavolozza di poeta, ci lasciarono dei simposj greci descrizioni che vanno tra i più bei monumenti dell’antica letteratura. Una pittura abbastanza viva ne fece anche Alcifrone in qualcuna delle sue lettere, e Luciano ne’ suoi _Lapiti_ una spiritosissima caricatura. Quanto ai pesanti eruditissimi _Simposj_ di Plutarco e di Ateneo, è necessaria la pazienza di un erudito per affrontarne la lettura. Nella scena di questo atto trattasi di un simposio sul finire. Nell’atto terzo l’autore intese a dare un’idea complessiva del convito ateniese. [28] Λωτὸς, chiamavano i Greci un albero di legno duro e nero, del quale faceano flauti di suono dolcissimo: indi poeticamente diceano _loto_, λωτὸς, il _flauto_. Così in Luciano: «_Com’egli cominciò a parlare, mi riempì di tanta dolcezza di parole, che mi pareva, o amico mio, di udir le Sirene, se mai ve ne furono, o i rosignuoli, o l’antico loto di Omero: sì divine cose diceva_» (Luc., _Nigrino_). [29] Naso da delfino chiamavano gli Ateniesi quel di Socrate, perchè schiacciato e colle nari aperte all’insù. — È nota poi la credenza mitologica intorno al talento musicale dei delfini. E _amatore delle opere delle Muse_ chiama Luciano il delfino (_Dialoghi Mar_., 8): lode derivatagli dalla favola di Arione, il famoso citarista di Metimna, che, buttato in mare dai pirati, fu raccolto da un delfino accorso al suo canto, e sul dorso di esso, sonando la cetra, venne in salvo al Tenaro. .... _tergo delphina recurvo_ _Se memorant oneri supposuisse novo_. _Ille sedens citharamque tenet pretiumque vehendi_ _Cantat et aequoreas carmine mulcet aquas_. (Ovid., _Fast_., II). [30] νὴ τὴν πάνδροσον, esclamazione femminile ateniese (Aristof., _Lisistr_.) Pandroso, una delle figlie di Cecrope, veneravasi nella acropoli di Atene e sacrificavasi a lei nello stesso tempo che a Minerva (_Schol. ad Aeschin_., I, 20; Lycurg., _Fragm_., 34; Meursius, _Reg. Athen_., I, 11). [31] Giove _órcio_, vindice degli spergiuri — del giuramento vindice e custode. — Era uno degli appellativi di Giove (Eurip., _Ippol_., At., IV). [32] _Cipria Afrodite, Pafia Afrodite_ — appellativi della Venere popolare, o pandemia, spesso invocata nelle esclamazioni delle etére. Da Cipro e da Pafo ove erano templi famosi, sacri alle orgie invereconde della Dea (Aristof., _Lisistr_.). [33] _Adonie_. Queste, di cui si riparlerà nel quadro II, eran feste celebrate con gran pompa dalle donne ateniesi, principalmente dalle etére, in memoria del pianto di Venere per la morte del suo Adone. Le statue dei due divini amanti recavansi in processione su due letti d’oro tra gemiti e grida lamentose delle donne vestite a lutto e picchiantisi il petto. In molti luoghi della città esponevasi il simulacro del cadavere di un giovinetto, raffigurante il morto Adone. Si portavano in giro vasi di terra con fiori e frutta e si adornava ogni cosa di fresche lattughe, credendosi che Venere avesse nascosto sotto quelle il suo amante. La festa poi finiva con allegria, fingendosi Adone risorto a nuova vita. Si direbbe che qualcosa di quelle feste sia rimasto nei riti della nostra settimana santa, seguìti dalla _pasqua_ di risurrezione. — Una descrizione delle feste Adónie si ha in Teocrito (_Idillio_, XV), la quale appunto ha per titolo le Ἀδονιάζουσαι: ed anche in Aristof. (_Lisistr_.); e in Plutarco (_Alcib_.). — Che le meretrici in particolare le solennizzassero si rileva da Alcifrone (_Lettere_, I, 37), e dal comico Difilo, presso Ateneo (_Deipn_. VII). — Che però vi partecipassero anche le donne di famiglia si desume dal passo citato di Aristofane nella _Lisistrata_. [34] _Son devota di Nemesi:_ προσκυνῶ δε τὴν Νὲμεσιν (Alcifir., _Lett_., I, 33). Frase greca proverbiale, accennante a propositi vendicativi. [35] Attesta Senofonte che le conquiste d’Alcibiade, non si limitavano alle cortigiane: ma «_per la sua bellezza anche una quantità di donne oneste davano la caccia a lui come ad una fiera_.» Ἀλκιβιάδης, δ’ αὕ διὰ μὲν κάλ. λος ὐπὸ πολλῶν καὶ σεμνῶν γυναικῶν θηρώμενος (Senof., _Memorab_., I, 2. Cfr. Pseudo Andoc., _C. Alcib_., 10; Ateneo, XIII, 4). Pittoresca e notevolissima questa imagine della caccia ad Alcibiade, quasi caccia alla fiera: imagine che ritroviamo anche in Platone: «Di dove spunti o Socrate? Dalla caccia di quella leggiadra fiera di Alcibiade?» (Platone, _Protagora_). [36] Adrastea (soprannome di Nemesi) puniva il parlare arrogante e i falli commessi per superbia o presunzione o brame smodate. Perciò solevasi invocarla nel discorso, e chiederne il perdono, quando stavasi per esprimere qualche pensiero ambizioso, o per dire o promettere di sè alcuna cosa che sentisse di smodato elogio o di orgoglio o di temerità. — _Or dico col perdono che me ne dà Adrastea_, σὺν δ’Αδραστεὶᾳ λέγω (Eurip., _Reso_). — _Adrastea figlia di Giove, rimovi l’invidia dalle mie parole_ (Eurip., _ibid_.). — _Adoro Adrastea per quello ch’io sto per dire_ (Platone, _Repub_., V). — _Così m’ami, così mi perdoni Adrastea!_ — _Difendimi pietosa Adrastea da un pensiero troppo ambizioso_, ecc., ecc. — Usavano anche: ὢς σὺν θεῷ εἰπεῖν — _per dirla col Dio_ — cioè col perdono del Dio, intendendosi appunto Nemesi, il Dio punitore dei superbi. Vedi in Platone, in Aristeneto, in Luciano e altrove. Così l’autore della lettera ai Pisoni: _Si tamen hoc de se cuiquam promittere fas est_ — _Et Deus ultor abest_. [37] I Cilicj andavano famosi tra’ Greci per falsità: antico proverbio li chiamava bugiardi. Λόγος ἐστί παλαίος μὴ ῤαδίως Κίλικας ἀληθεύειν — (Dionys. Antioch., _Epist_., XLVI). [38] _Autòlico e Critòbulo_ son nominati come bellissimi giovani ateniesi di quel tempo da Senofonte nel _Simposio; Carmide e Fedro_ da Platone, nei dialoghi che recano il loro nome. E Luciano, facendo malignamente ritrovar Socrate, nello inferno, vicino ai garzoni più belli, nomina fra questi «_Carmide, Fedro e il figliuolo di Clinia_» (Luciano, _Dial. dei Morti_, 20). [39] Sulla ricchezza d’Alcibiade, vedi Platone (_Primo Alcib_.). Ivi Platone la fa valutare da Socrate a 300 pletri di terra. (Il pletro corrispondeva a 100 piedi greci e all’_jugero_ romano: 94 piedi e 5 pollici parigini). 300 pletri di terra potean valer circa una trentina di mila lire. Ma essa era certo maggiore, perchè Alcibiade aveva case in Atene, e imprese industriali. La sua fortuna era valutata oltre 100 talenti: ossia quasi seicentomila franchi: ricchezza enorme, se si tien conto del basso prezzo delle cose e dell’elevatissimo valore del danaro a quei tempi, in cui un ateniese potea vivere con 3 oboli (45 centesimi) ed anche con due (30 centesimi) al giorno. Qualche commentatore invece di 100 talenti attici (d’argento), intende 100 talenti babilonesi: il che porterebbe la fortuna di Alcibiade a quasi sei milioni di franchi (Lisia, _De bonis Aristoph_., 52; Elian., _Var. Hist_., IX, 29). [40] Alcibiade, secondo narra Plutarco (_Alcib_., I), discendeva, dal lato di suo padre, da Eurisace, che gli ateniesi onorarono di onori divini, e che fu figlio di Ajace, il Telamonio, re di Salamina, l’eroe de’ Greci all’assedio di Troja. Il suo avo, Alcibiade il vecchio, avea con Clistene cacciato i tiranni da Atene e stabilitavi la democrazia; il suo padre stesso, Clinia, si era coperto di gloria comandando una trireme contro i Persiani alla battaglia navale di Artemisio, e cadendo da eroe nella infelice battaglia contro i Beoti a Coronea. Dal lato poi di sua madre Dinòmache (figlia di Megacle e cugina germana di Pericle), Alcibiade apparteneva alla famiglia degli Alcmeonidi, i discendenti di Alcmeone, che organizzò le dieci tribù d’Atene e che fu figlio dell’argonauta Anfiarao; «dei quali narra la fama che, agitatori del popolo contro i tiranni, ne avessero esilio, ma raccolto denaro in Delfo dessero libertà alla patria colla cacciata dei Pisistratidi» (Demostene, _Contro Midia_). — Demostene, all’opposto di Plutarco, ma con probabile equivoco, fa discendere Alcibiade dagli illustri Alcmeonidi per la linea paterna, e per madre «da Ipponico e da avi chiarissimi per generosi servigi alla patria» (Vedi in Plutarco, Platone, Pausania, Suida, Meursio, ecc). [41] _Callia e Megacle_ erano ricchissimi ateniesi di quel tempo, che diedero fondo colle prodigalità al loro patrimonio; sono nominati da Aristof. (_Nubi_), Senof. (_Simpos_.), Plutarco (in _Alcib_.). — _Feace_ era un altro distintissimo giovine ateniese, di illustre famiglia, emulator d’Alcibiade (Plut. in _Alcib_.). — Luciano volendo nominare i più ricchi fra i giovinastri scapigliati di Atene, nomina _Callia_ e _Alcibiade_ (Luc., _Giove confutato_). Del dissoluto ricchissimo Callia, emulo d’Alcibiade negli scialacqui enormi e nella vita elegante, si parla anco in Platone (_Protagora_; Ateneo, V, p. 218, c). [42] Anacreonte, _Ode_ 2. [43] Anacreonte, _Ode_ 4. — È singolare come i traduttori di Anacreonte si siano per lo più divertiti ad annacquare o caricar di fronzoli l’aurea ed elegante semplicità del poeta di Teo. — A rendere, per esempio, il testo greco da me tradotto quasi letteralmente in queste due strofette, il Marchetti, che pur va fra i migliori, impiega _cinque_ strofe; il Caselli _quattro!_ — Il buon Marchetti poi s’è scandolezzato della frase di Anacreonte «_Cingimi di rose e portami una fanciulla_,» e per ingentilire (!), com’egli dice, il pensiero, facendo che Anacreonte _non parli in generale d’ogni qualunque donna di piacere_ traduce quella frase così greca, tutta greca, così: Figlio di Venere, _Fin ch’io respiro_ Ah! tu circondami Di rose _il crin!_ _Quella poi_ recami _Per cui sospiro_, _Quella ch’è l’arbitra_ _Del mio destin!_ Di tutto il corsivo, in Anacreonte non è una parola. Questo è tradire e non tradurre. [44] Platone, _Fedro_: «Si dice che le cicale eran uomini innanzi la nascita delle Muse. Quando il canto nacque colle Muse, parecchi uomini di quel tempo ne furono così trasportati dal piacere, che la passion del cantare li fece dimentichi del mangiare e del bevere, e morirono senza accorgersene. Da essi nacque la razza delle cicale, che ricevette dalle Muse il privilegio di non aver bisogno di alcun cibo. Dallo istante ch’elle vengono al mondo, elle cantano senza bere nè mangiare, sino al termine della loro vita; poi se ne vanno a trovare le Muse e fanno loro conoscere quelli dai quali ciascuna di esse è onorata quaggiù: a Tersicore quelli che la onorano nei cori, ad Erato quelli che la onorano coi canti amorosi, ecc., ecc.» Eliano scrivendo contro coloro che si cibano di cicale, dice che col mangiar di questi insetti, si offendono le Muse figlie di Giove. _E venerate dai poeti, care alle Muse e al biondo Apolline_, chiama le cicale Anacreonte (_Od_. 43). Bisogna creder, del resto, che in fatto di musica i Greci avessero dei gusti speciali, o che le loro cicale fosser diverse dalle nostre, se Anacreonte e Teocrito ne magnificavano il canto, e se per proverbio usavasi dire di un musico eccellente, _che canta meglio di una cicala_, τέττιγος εὑφωνότερος. Luciano volendo magnificare il canto melodioso di una donna, lo paragona, per dolcezza di melodia, a quello degli alcioni, delle cicale, dei cigni e degli usignuoli (Luc., _Immagini_). Anzi è scritto che mentre un poeta greco suonava in pubblico la lira, rottasegli una delle corde, fortunatamente una cicala saltò sull’istromento armonico, e occupando il luogo della corda mancante, rese compita l’armonia! [45] Favoleggiarono i Greci che Oritìa figlia di Erettéo re d’Atene, fanciulla di leggiadrissime forme, veduta da Borea mentre stava cogliendo fiori presso il fiume Cefiso, venisse da lui via rapita per l’aria, e trasportata in Tracia. Così Apollonio Rodio (_Argon_., I), e il suo scoliaste. Un’altra tradizione più comune la dicea invece rapita da Borea, in riva all’Ilisso. — Su questa favola di Oritìa, vedi Platone (_Fedro_), Pausania (_Attica_), Erodoto (VII), Ovidio (_Metamorph_., VI), Properzio (_Eleg_., XX), ecc. [46] «E tu recitandomi da principio l’elenco de’ tuoi amori, lungo come quello di Esiodo...» (Luciano, _Degli amori_). Suida tra le opere di Esiodo annovera anche un catalogo di donne in cinque libri γυναικῶν καταλόγος ἔν βιβλίοις ἕ. [47] La tromba, introdotta per segnale di battaglia — in luogo dell’accendere delle faci anticamente usato, — era chiamata dai Greci _tirrena_, perchè vuolsi che gli Itali pei primi la inventassero (Eurip., _Fenicie_, At. V; _Reso_, At. V; Eschilo, _Eumen_.). [48] Alcibiade aveva l’abitudine d’interrompersi spesso, a bella posta, nel discorrere (Plutarco, in _Alcibiade_). [49] Intorno al poeta Agatone, vedi Platone (_Simposio_), Aristofane (_Tesmoforie_). — Alcamene fu scolaro di Fidia, ch’era già morto da molti anni all’epoca del dramma. [50] Omero, _Odiss_., lib. X. Cfr. Procopio Sofista, _Lett_. CXVII. [51] εὐμενεστέροις ὄμμασιν ἐκείνην αἴ χάριστες εἴδον (Aristen., _Lett_., I, 11; Alcifrone, _Lett_.). [52] Plutarco in _Pericle_. [53] Vedi più sopra la nota 33 intorno ad Adrastea punitrice della prosunzione; dea invocata dianzi da Aspasia ne’ suoi vanti con Glicera, e ne’ suoi rimproveri di fragilità all’altre donne, ascoltati, dietro le spalle, da Alcibiade. Al che s’attaglia singolarmente un passo di Luciano: «Ei pare che Adrastea ti stava dietro le spalle quand’eri lodato delle accuse che davi agli altri, e la rideva di te, sapendo benissimo, come Dea ch’ella è, che tu saresti caduto nella stessa fossa...» (Luciano, _Apologia di quei che stan co’ signori_). [54] Plutarco in _Alcib_.; Tucidide, _Guer. Pelop_., VI, 24. [55] Il diluvio d’Ogige. Ogige fu il primissimo re dell’Attica (detta dal suo nome anche Ogigia): contemporaneo di Mosè, per quanto asseriscono Giustino Martire, Eusebio, Cedreno ed altri scrittori. Sotto il di lui regno avvenne il primo diluvio ricordato dai Greci, il quale sommerse tutta l’Attica. Cedreno così ne scrive: «Ai tempi di Mosè fu un uomo grande, della prosapia di Giapeto, che tenne il regno dell’Attica per trentadue anni: chiamavasi Ogige. Al tempo di lui vi ebbe un diluvio nella sola Attica: vi perì Ogige stesso e tutta quanta la regione.» E Taziano, _contra Graecos:_ Μνημονεύεται παρ’Αθηναίοις Ὄγυγος, εφ’οὔ κατακλυσμὸς ὄ πρῶτος, _è ricordato presso gli Ateniesi Ogige, sotto il quale avvenne il primo diluvio_. — Accennano a questo diluvio Platone nel _Timeo_, Stazio nella _Tebaide_, Dionisio Alessandrino, Agostino nella _Città di Dio_, ecc. L’altro dei due diluvii ricordati dai Greci fu quello assai posteriore di Deucalione. Dopo il diluvio d’Ogige, narra Eusebio (_Chron_., I), l’Attica restò interamente desolata e devastata, e senza altri re, per cento e novant’anni, fino al tempo di Cecrope, che venne dall’Egitto e fondò Atene, di cui fu il primo re (Cfr. Meursius, _Reg. Athen_., I, 6). [56] Tucidide, _Guer. Pelop._, VI, 24. [57] Modo proverbiale; e usavasi di persona pronta a mutar partito e opinioni secondo i tempi e gli eventi. Indi narra Luciano che un Don Girella di que’ tempi, Teramene, fu soprannominato il _Coturno_, perchè appunto come il coturno che si calza al piè destro e al sinistro, egli adattavasi a tutti. Quei di Chio e quei di Cio guerreggiavan fra loro; ed egli con quel di Chio dicevasi di Cio, con quei di Cio si diceva di Chio. In fatto era di Cio (Luciano, _Amori_; Schol., _Del giorno infausto, contro Timarco_). _Più mutabile del coturno_, εὐμεταβολωτέρα κοθόρνου, è detto di una donna volubile in Aristeneto, (_Lett_. I, 28). E un traduttor francese tradusse: _più incostante del vento_. Oh i traduttori!... [58] Ossia del borgo di Lacia. Il nome del borgo nativo usavasi comunemente apporre dagli Ateniesi, insiem con quello del padre, al nome proprio delle persone. Spesso aggiungevasi anco il nome della tribù a cui il borgo apparteneva. Antichissima era la divisione dell’Attica in quattro tribù (φυλὴ). Solone la conservò; più tardi cacciati i Pisistratidi e riuscita a prevalere la parte democratica con Clistene, questi portò le tribù da quattro a dieci, assegnando a ciascuna di esse un certo numero di _borghi_ o _demi_ (δημός) sia urbani, ossia d’Atene città, che suburbani, ossia dell’Attica (Gli urbani corrispondevano ai circondarj, o quartieri, delle nostre città, i suburbani ai nostri comuni rurali. Ma _cittadini ateniesi_ eran tutti i liberi nati nell’Attica, sia nella città che nella campagna). Cento dapprima, poi crebbero sino a 174 i _borghi_ (δημοὶ) ripartiti fra le dieci tribù, ch’erano le seguenti, intitolate dai nomi di eroi e di re ateniesi: Acamantide, Ajantide, Antiochide, Cecropide, Egeide, Eretteide, Ippotoontide, Leontide, Eneide, Pandionide. Ogni tribù poi contava tre _curie_ o _confraternite_ (φρατρία); ogni confraternita, trenta _classi_ o _genee_. Ma da Clistene in poi, le _fratrie_ e le _genee_ non sussistettero che come semplici corporazioni famigliari e religiose; la tribù invece, come complesso di un certo numero di _demi_, rappresentava la vera suddivisione politica, militare e religiosa. I cittadini dello stesso borgo chiamavansi l’un l’altro δημοτης, come noi diciam concittadini o conterrazzani quei che nacquero nel nostro Comune. (Erod., V, 69; Strabone, IX, 10; Ross, _Demen von Attica_; Schömann, _De Comitiis Athen._, Praef., p. XV e p. 363; _Antiq. Iur. pub. graec._, C. XXII, p. 360; Corsini, _Fasti attici_). Alcibiade era del borgo di Scambonide, appartenente alla tribù Leontide (Pausania, _Attic_., 38; _Schol. ad Aeschin_., 3, 18). [59] _Pnice_, πνὺξ, il luogo delle adunanze generali del popolo, le quali vi si tenevano ordinariamente quattro volte per Pritanìa (alli 11, 20, 50, 33): onde il popolo ateniese è detto _Pniceo_ da Aristofane, nei _Cavalieri_. Lo Pnice era uno spianato elevato e sassoso, stendentesi in semicircolo sul pendio del Licabetto, un quarto di miglio a occidente della città. In giro il semicircolo era chiuso da grosse pietre, presso alle quali stavano i seggi pel popolo; di fronte, sotto un balzo che sporgeva dal colle, era la tribuna o bigoncia degli oratori, βῆμα, alla quale salivasi per gradini dai due lati. E la tribuna, da cui dominavasi dello sguardo Atene, prospettava il mare e l’isola di Salamina; come per invitar gli oratori a più liberi e vasti pensieri, e ricordar loro continuamente che i destini di Atene la chiamavano al mare, culla della sua potenza e della sua libertà. — Sullo Pnice, vedi Suida alla voce _Pnyx_; Barthelemy, _Viag. d’Anac_., III, nota VI; Meursius, _Del Popolo d’Atene_; Wordsworth, _Athen and Attica_. [60] «_Si tratta d’esser falso testimonio? non si ha che a dirmi una parola_,» così un parassita, in una commedia di Antifane, presso Ateneo, VI, cap. IX. [61] Uno dei numerosi appellativi di Mercurio, col quale era spesso invocato dai parassiti e barattieri (Alcifr., _Lett_., III, 47; Luciano, _Timone_). Sui molteplici impieghi e corrispondenti nomi di Mercurio, cfr. Luciano, _Dial. degli Dei_, 24, e Aristofane in fine del _Pluto_. [62] Sui maltrattamenti e le burle d’ogni sorta cui eran soggetti i parassiti alle mense, vedi Alcifrone, _Lett_., III, 7, 48, nonchè III, lett. 6, 45, 66, 68, 70. — Cfr. Ateneo, _Deipnos_., lib. VI. [63] «Che voce è questa, o Socrate, che lontana ci viene dal mare? — È un uccello marino, detto Alcione, che ha questa voce di pianto e di lamento: e intorno ad esso contasi un’antica favola. Dicono che una volta egli era donna, figliuola di Eolo l’Elleno, donzelletta che si struggeva d’amore e disfacevasi in pianto perchè le morì lo sposo Ceice di Trachinia, prole dell’astro Lucifero, di bel padre bel figliuolo: e che di poi essendole spuntate le ali per volere divino, e mutata in uccello, andò scorrendo il mare in cerca del suo diletto, che ella per tutta la terra non avea potuto trovare. — E questo è l’Alcione? Io non ne aveva mai udita prima d’ora la voce. Oh mi lascia veramente un’eco di pianto nell’anima!» (Luciano, _L’Alcione_). — «L’Alcione se ne fuggì mandando un lugubre lamento» (Luciano, _Di una storia vera_). — Ed Euripide: «O augello Alcione che intorno agli scogli del mare canti il tuo aspro pietoso destino, e piangi ognora lo sposo, io non alato augello ben t’assomiglio ne’ mesti lai...» (Eurip., _Ifig. in Taur_.). Vedi ancora sulla tavola di Alcione, Ovidio (_Metamorph_., XI., 411 seg.; _Heroides_, XVIII, 81). [64] Qualche critico credette ravvisare una contraddizione tra il carattere affatto ingenuo di Glicera e la sua condizione di _etéra_. Veda quel critico il ritratto della virtuosa giovinetta _etéra_ in Antifane (Aten., XIII, 572 a.), quello della dolcissima Bacchide in Alcifrone (Alcifr., _Lett_., I, 38) da me già citati nella nota sulle _etére_; e le lodi della leggiadra Pizia in Aristeneto: «Benchè ella sia etéra di condizione, tuttavia conserva la nativa ingenua semplicità, e l’indole irreprensibile, e i costumi assai migliori della di lei condizione: nulla tanto mi fece innamorare di lei quanto la sua innocenza» (Aristen., _Lett_., I, 12). Altrove nello stesso autore, la cortigianella Filemazio scrive ai galanti che le fan la corte: «Voi credete di agevolmente ingannarmi, perchè sono una fanciulla che non ha alcuna esperienza d’amore e non è ancora iniziata ai misteri di Venere (ὥς ἐρωτικῶν ἀγύμναστον παῖδα, καί παντελῶς ἀμύητον Αφροδίτης) e potermi accalappiar più facilmente che non possa il lupo un’agnellina dormente» (Aristen., _Lett_., I, 14). — E altri esempj, in Menandro e nei comici della commedia nuova, tralascio. [65] «Verun altro non fuvvi nè privato, nè re, il quale sette cocchi mandasse ai giuochi olimpici, fuor che egli solo. Lo aver poi riportato quivi la prima, la seconda e la quarta vittoria, al dir di Tucidide e la terza al dire di Euripide, è cosa che supera lo splendore e la gloria di quanti si studiarono adoperarsi in siffatte contese» (Plutarco, in _Alcib_.; Andocide, _Contra Alcib_., 26; Tucid., VI, 16; Isocr., _De Big_., XIV., e Aten., I, 3). [66] Pindaro, _Odi_. Vincitori d’Olimpia a cui il poeta Tebano dedicò parecchie delle sue odi. [67] «_Te canterò di Clinia figlio_, ecc.» (Eurip., _Framm_.; Plut. in _Alcibiade_). [68] Spedizione del Peloponneso dell’anno 419 av. l’E. V. Fu la terza campagna di Alcibiade e la prima in cui egli ebbe un comando di stratego, e vi acquistò fama di insigni talenti militari. Qui Alcibiade, naturalmente avveduto nello spiegare a Glicera e nello _scegliere_ le ragioni della sua modestia, non attribuisce a sè che impropriamente (come Glicera dee saperlo) il torto della sconfitta di Mantinea, toccata agli alleati ateniesi ed argivi (418 av. l’era volgare). [69] Platone, _Simposio; Apologia_ XVII; Plut. in _Alcib_.; Ateneo, _Deipnosof._, V, 215 e seg. — Plutarco così narra: «Essendo ancor giovanissimo si trovò Alcibiade alla spedizione di Potidea. Egli alloggiò sempre Socrate nella sua tenda, l’ebbe compagno in tutti i combattimenti e nel giorno della grande battaglia, in cui fecero entrambi prodigi di valore. Essendo stato Alcibiade ferito e atterrato, Socrate se gli pose davanti, lo difese, e in cospetto di tutto l’esercito impedì ai nemici di prenderlo e di impadronirsi delle sue armi. Il premio del valore era dunque giustamente dovuto a Socrate; ma i capitani parendo disposti a darlo ad Alcibiade a cagion del lignaggio di lui, Socrate, il qual non cercava che di accendere in lui viemeglio il desiderio della vera gloria, fu il primo a dargli il proprio suffragio, e fu quegli che maggiormente contribuì a fargli decretar la corona e l’armatura completa, che erano il prezzo d’onore.» Ciò avveniva l’anno 431 av. l’E. V. Più tardi, alla battaglia di Delio (423 av. l’E. V.), Alcibiade ricambiava il beneficio, e combattendo valorosamente salvava Socrate alla sua volta dai nemici, — come narra Platone nel _Lachete_. [70] ούκ ὤν ἀνὴρ γὰρ Ἀλκιβιάδης, ὣς δοκεῖ, — ἀνὴρ ἀπασῶν τῶν γυναικῶν ἔστι νῦν. Così il comico Ferecrate (_Fragm. Comic. Graec,_ edizione Didot, pag. 114). — All’epoca dell’azione del dramma, la moglie di Alcibiade, Ipparete — (che d’altronde non ebbe nessuna parte notevole nella vita di lui, e non è ricordata dagli storici che per la scena del divorzio) — era già morta durante un viaggio fatto da Alcibiade ad Efeso, qualche anno prima della impresa di Sicilia (Plutarco, in _Alcib_., VIII. Cfr. Isocr., _De Bigis_, XVII). [71] Massima era l’ambizione che le donne greche e le ateniesi in ispecie, riponeano nella ricchezza e nel color delle chiome, e nella eleganza delle acconciature. Le portavano per lo più bipartite sulla fronte e intrecciate e annodate dietro il capo; però i capelli crespi o ricciuti, per arte o per natura, eran tenuti in gran pregio, giovando l’increspamento ad adombrare e far piccola la fronte, la cui ampiezza, come era un pregio per gli uomini, così ascrivevasi nelle donne a difetto (Aristen., _Lett_.). Fra i colori poi pregiatissimo il biondo: _aurea_ chiamavano Venere: e quelle che bionde non erano, per lo più si tingeano. Rileviam da’ frammenti di Menandro ch’ei discacciò di sua casa una donna la quale facea pompa di chiome artificiosamente bionde (Clem. Alex., _Paedag_., III). — Eliano scrive della chioma di Atalanta, ch’ella era _bionda_ e dovea questo colore «_alla natura, non all’arte, nè alle droghe di che le femmine fan uso per procacciarselo_» (El., _Var. St_., XIII, 1). — E Luciano: «_Il più del tempo e dello studio consuman le donne in acconciar le treccie. Alcune con tinture che hanno virtù di far d’oro i capelli, al sole di mezzodì, a guisa di bioccoli di lana, li ritingono di un biondo fiorito, scontente del color naturale. Quelle poi che si contentano_ (notisi la parola) _della nera chioma, vi spendono la ricchezza de’ mariti e spirano dalle treccie tutti i profumi d’Arabia. Con istrumenti di ferro scaldati a leggier fuoco si increspano e inanellano i capelli, che scendendo in minuti ricciolini fin sopra le sopracciglia lasciano breve spazio alla fronte: di dietro cascano in grandi anella e ondeggian sugli omeri,_» (Luc., _Amori_). [72] Cfr. Anacreonte, _Odi_, 28, 29. [73] Siccome le greche non usavan fazzoletti (le idee d’allora intorno alla pulitezza e alla creanza vietavano ad uomini e a donne di asciugarsi il sudore e di soffiarsi il naso: la siccità del naso era riguardata uno fra i pregi principali della bellezza, comunque da un epigramma di Marziale potrebbe arguirsi che gli antichi si soffiassero colle dita), così non è strano che elle non usassero nè tasche, nè borse. Però la fascia o cintura che stringea loro la tunica sotto le mammelle (_strofio_) serviva ad esse insieme per riporvi le lor coserelle più care — danaro, biglietti, lettere degli amanti, pegni dolci e furtivi d’amore, ecc., ecc Senofonte, nella _Ciropedia_, ricorda pur egli a titolo di lode, e in prova di moderato vivere, come anche i Persiani a’ suoi tempi tenessero per cosa sconcia sia lo sputare che il pulirsi il naso: e ne dà la ragione osservando «che col praticare un vitto temperato e col faticare, essi disseccavano gli umori del corpo così da potersi altrimenti dispergere» (Sen., _Cirop_., I, 1). [74] Plinio (_Nat. Hist_., XIII, c. 10) fa l’invenzione della carta di papiro posteriore di un secolo circa all’epoca del nostro dramma: egli la pone cioè ai tempi di Alessandro, ossia quasi intorno all’epoca medesima che, secondo lui, fu inventata a Pergamo la pergamena pella biblioteca d’Eumene. Ma che l’invenzione del papiro sia assai più antica, e nota ai tempi di Alcibiade, si rileva da Erodoto che già parla del papiro, sotto il nome di βύβλος (lib. V, cap. 8); anzi egli aggiunge che prima che il papiro (βύβλος) fosse comune, si scriveva già sopra pelli di capra o di pecora (lib. V, cap. 58): e se ne formava una specie di libro che diceasi διφθέρα. V’eran di tali libri in pergamena legati anche alla foggia stessa dei nostri — _tabellae_ (_Pitt. Herc_., tom. II, tav.). Quanto ai manoscritti di papiro trovati ad Ercolano, sono tutti fatti a rotolo — cioè a dire di quelli che i Latini chiamavano _volumen_. [75] _Liceo_ o _Licio_, (λυκαῖος) soprannomi, fra i tanti, di Apollo siccome nato in Licia, nell’Asia minore, o perchè autor della luce (λυκή) o perchè Latona quando lo partorì, al dir d’Eliano, trasformossi in lupa (λύκος). — _Sire della licea pendice dal bell’arco d’oro_, lo chiama Sofocle, nell’_Edipo_: — _Dio liceo fugator della notte_, nella _Elettra_. Dicevasi perciò anche _licogenete_, figlio della lupa; e _licigenete_, padre della luce: εὔχεο δ’Απόλλωνι λυκηγένει κλυτοτόξω, _prega Apollo padre della luce inclito per l’arco_ (Om., _Iliad_., 4). Ad Apollo Licio consacrò Pisistrato in Atene quel parco che più tardi divenne il celebre _Liceo_. [76] Κωρυκαῖος δαίμον. Dicevasi proverbialmente di uomo che inosservato si insinua e ascolta e spia i discorsi e i fatti degli altri. (Vedi Alcifrone, _Lett_., III, 26). Intorno alla origine del proverbio si narra che in Córico, città marittima di Panfilia, era una razza di gente malvagia, la quale, mischiandosi ai mercatanti, spiava ciò che essi recavano sulle loro navi, per dove dicevano di voler veleggiare e quando: poi ne avvertivano i corsali, e questi, colto il momento opportuno, assaltavan le navi e le predavano. — Vedi Suida, Erasmo ed altri. [77] Portava (Alcibiade) una foggia di calzari ricchissimi, diversi da quelli degli altri; che dal suo nome furon detti _alcibiadei_ (Ateneo, XII, 534 d. ἀλκιβιᾶδια son detti in Polluce, VII, 89). [78] Modo proverbiale greco, equivalente al nostro — _da galeotto a marinaro_ (Wieland, _Aristip_., V, _lett_. 4). I Cretesi avevan fama di grande furberia; e quei di Egina ancora più. Diceasi anche, per proverbio, di uomo astuto, che facesse l’ingenuo e lo gnorri: _Pare un Cretese che non abbia mai visto il mare_ (Aristen., _Lett_., II, 18). [79] Vedi il discorso di Nicia contro Alcibiade, in Tucidide, _Guerra Pelop_., VI, 12. [80] Sui vasti ambiziosi disegni di Alcibiade, vedi Plutarco, in _Alcibiade_; Tucid., _Guer. Pelop_., VI, 90; Platone, _Primo Alcibiade_. [81] _Re_ o _gran re_ chiamavano i Greci per antonomasia il re di Persia. Vedi Senofonte, _Anabasi_; Aristofane, Plutarco, Demostene, ecc. [82] ἐγὼ δὲ τοῦτον (Σωκράτη) μόνον αἰσχύνομαι. ξῦνοιδα γὰρ ἐμαυτῷ ἀντιλέγειν μέν οὔ δυναμένῳ, ὤς οὔ δεῖ ποιεῖν ἄ οὔτος κελεύει κ. τ. λ. — Vedi tutto il discorso di Alcibiade nel _Simposio_ di Platone (c. 32 seg.) e Plutarco in _Alcib_. Confronta Platone, _Primo Alcibiade_. [83] βίᾳ οὔν ὤσπερ ἀπὸ τῶν Σειρήνων ἐπισχόμενος τα ωτα οἴχομαι φεύγων (Platone, _Simposio_). [84] «Socrate era quello che aveva maggior ascendente sopra Alcibiade, e profittando della buona indole di questo giovine sapeva tenerlo in freno colla forza de’ suoi discorsi, che lo pungevano al vivo, ne mutavano il cuore e gli faceano persino versar lagrime; ma spesse volte altresì Alcibiade gli sfuggiva di mano per darsi in balìa degli adulatori: e allora Socrate a corrergli dietro... Poichè quegli che corrompeano Alcibiade si prevaleano meno della sua inclinazione ai piaceri, che non si servissero della sua ambizione e della sua sete ardente di gloria» (Plutarco in _Alcibiade_). [85] δοκεῖς ἂν μοι ἐλέσθαι τεθνάναι (Platone, _Primo Alcibiade_, 2). [86] Cfr. Platone, _Primo Alcib._, 2. [87] «Sul finir della vita di Pericle, gli Ateniesi si eran posti in capo di conquistar la Sicilia: e sotto pretesto d’inviar di quando in quando soccorsi d’armi o di truppe alle città oppresse e maltrattate dai Siracusani, vi si andavan spianando la via; ma chi accese maggiormente questa brama, chi più fortemente persuase gli Ateniesi ad andare in Sicilia non alla spicciolata, ma in grosse schiere e d’un sol colpo, con una flotta poderosa ed invadere e soggiogar quell’isola, fu Alcibiade, col pascere ch’ei faceva il popolo e sè stesso di grandi speranze...» (Plutarco in _Alcibiade_). Dallo stesso Plutarco si rileva che Socrate fu contrario alla impresa, non presagendone nulla di bene: come l’evento provò. [88] Tucidide, _Guerra Pelop._, VI, 18. — Vedi quivi il discorso di Alcibiade agli Ateniesi. [89] Sul valor del talento e sulle monete attiche, vedi atto secondo, nota 7. [90] Cfr. col processo socratico di questo dialogo anche il dialogo di Socrate e Glaucone, in Senofonte (_Memorabili_, III). [91] Questo spirito irrequieto di intraprendenza, di attività febbrile, di temerità che trascinava Atene, d’impresa in impresa, non anco uscita da una guerra in altre guerre più gravi, fu un lato caratteristico della democrazia ateniese: e il temerario intraprendente Alcibiade potè tanto sopra di Atene, perchè appunto anche in ciò fu la sintesi completa del carattere del suo popolo. Così Socrate in questa scena rimprovera ad Alcibiade di spinger Atene alla guerra di Sicilia, mentre quella del Peloponneso le sta ancor sulle spalle, — come più tardi Demostene rimproverava agli improvvidi Ateniesi di pensar a nuove guerre coi Persiani, mentre avevano il Macedone alle porte: «_Perchè imaginare nuovi nemici, mentre già li abbiamo palesi?_ τί τοὺς ὁμολογοῦντας ἔχθρους ετέρο’υς ζητοῦ μὲν; (Demost., _Sulla guerra persiana_). [92] _Pigro, ciarliero, avaro, ingordo de’ salarj_, è chiamato il popolo ateniese in Platone, (_Gorgia_, p. 515). Vedi poi Aristofane nelle _Vespe_, commedia tutta intesa a flagellare questa brutta piaga della democrazia ateniese. E Demostene, serbato a vederne a’ suoi tempi ancor più funeste le conseguenze, sclamava: «Ormai tutto come in mercato sta a prezzo: ed è scambiato da passioni che già appestarono e sovvertirono la Grecia. E quali? avara sete di mance; riso per chi la confessa; perdono per chi è convinto, e tutte l’altre necessità di corruzione» (_Filipp_., III). [93] Plutarco in _Pericle_, 9. — Platone, _Gorgia; Repub_., 6. — Cfr. Peyron, _La politica e l’amministrazione di Pericle_; § 8. [94] La riduzione del soldo militare (quattro oboli al giorno per soldato) ordinata da’ demagoghi successori di Pericle per provvedere alle strettezze dello erario, — in un tempo in cui la introduzione delle mercedi del foro e dei tribunali e degli spettacoli avea già sviluppate nel popolo le abitudini dell’ozio e l’avida sete dei pigri guadagni — ebbe per effetto di disamorare a poco a poco i cittadini dall’esercizio della milizia. I popolani, certi di guadagnar tre oboli a casa loro, sedendo nello Pnice, o a teatro o nell’Eliea, meno facilmente si adattarono a scambiare, per un solo obolo di più, la vita beata della città con quella dei campi e delle triremi. Nell’impresa di Sicilia bisognò portar di nuovo il soldo ad una dramma per allettare i cittadini a pigliar l’armi: e ancora l’aumento non sedusse gli opliti agiati delle prime tre classi: ossia i veri _opliti di catalogo_ (ἔκ καταλόγου) iscritti nei ruoli; perchè soli 1500 di questi si contarono nei 5100 opliti raccolti per quella spedizione: il resto degli opliti si dovette formare, come la fanteria leggiera, di proletarj della quarta classe, e alleati mercenarj allettati dall’aumento. Terminata la spedizione di Sicilia, col disamore dell’armi più e più crebbe questa piaga de’ mercenarj: di che Isocrate scriveva: «Noi, mentre vogliamo dominare sopra tutti, ricusiamo di militare, abbiamo eserciti mercenari composti di uomini esuli disertori, malfattori, oltraggiatori de’ nostri figliuoli, che abbandonano noi, se altri dia loro un soldo maggiore. Noi che difettiamo del vitto quotidiano, prendemmo ad alimentar questi forestieri» (Isocr., _Sociale_, 16). E Demostene: «Non mi si parli di dieci e ventimila forestieri e di eserciti mercenarj; voglio milizie cittadine, voglio 2000 uomini dei quali almeno 500 sieno ateniesi, gli altri sieno pure stranieri; voglio 200 cavalieri, de’ quali almeno 50 siano cittadini» (Dem., _Filipp_., I). Se Demostene, osserva il Peyron, volendo formare un esercito di 2000 opliti si contentava di soli 500 ateniesi, che mai erano divenuti quei 13,000 opliti cittadini, che Pericle al principio della guerra si riprometteva? Erano registrati nei ruoli, ma per più ragioni si scansavano dalla milizia (Cfr. Peyron, _La politica e l’amministrazione di Pericle_, § 8). [95] Ad Atene i popolani, per andare a teatro, ed assistere agli spettacoli, non pagavano, ma al contrario ricevevano un obolo per ciascuno. — «_Ed essendo egli incaricato di distribuire alla tribù Eretteide il denaro dello spettacolo, io andai a chiedergli la parte mia_» (Luciano, _Timone_). Indi in Demostene frequentissimi i lamenti per lo sperpero del pubblico denaro nelle feste: «_Voi_ (Ateniesi) _per le pubbliche feste ricevete danaro senza che alla repubblica ne derivi utilità_» (Dem., _Olint_., I). «Create legislatori non leggi, che n’avete già troppe: anzi sopprimetene parecchie dannose, quelle cioè che riguardano il denaro degli spettacoli» (_Olint_., III). «Voi popolo invilito, fiacco, spiantato, siete tenuti schiavi e in nessun conto, e tanto solo che vi snocciolino il denaro degli spettacoli, ne fate gran festa...» (_Ibid_). — «E d’onde, Ateniesi, che le feste Panatenee e le Dionisiache si celebrano sempre ne’ tempi prefissi, e vi si fa tanto spreco di denari che non si armò mai con altrettanto nessun naviglio e con tale apparato e moltitudine che mai la maggiore?» (_Filipp_., I. — Cfr. Demost., _Della distribuzione del danaro_). Vedi il mio opuscolo _Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle_. [96] Ho modificato nella forma, non già, credo, di molto, nella sostanza e nel concetto, la sentenza famosa che forma la conclusione del _Primo Alcibiade_ e il fondo della morale socratica: _conosci te stesso_. Nel dialogo platonico questa sentenza non è infatti presentata da Socrate ad Alcibiade, se non come corollario della incapacità di Alcibiade a governare la cosa pubblica; incapacità di cui Socrate gli strappa a poco a poco la confessione. Perchè è incapace? Perchè parla di cose che ignora. Per governar gli altri bisogna prima governar sè medesimo. Per governar sè medesimo, bisogna prima conoscersi: γνῶθι σαυτὸν (Platone, _Primo Alcib_., cap. 18, 26; _Protag_., c. 28; _Filebo_, c. 29; _Carmide_, c. 12). [97] Plat., _Simpos_., 1. — Quei di Falera (borgo di Atene, della tribù Antiochide) erano proverbiali per la lentezza con cui camminavano nelle cerimonie pubbliche. [98] _E camminiam curvi per la città, come quei che portan le lampade_ (Aristof., _Lisistr_.) Della festa o gara delle lampade (_lampadeforìa_) ch’era celebre in Atene, e solennizzavasi, secondo lo scoliaste di Aristofane, ogni anno il dì 19 del terzo mese attico, così parla Pausania: «Nell’Accademia è l’altar di Prometeo. Da qui si partono le persone e van correndo verso la città con fiaccole accese in mano. La contesa consiste in portar la face così che correndo rimanga accesa. Se si spegne al primo, egli non ha più parte nella vittoria, ma gli sottentra il secondo, e se nè questi ancora la porta accesa, il terzo è vincitore, ma se a tutti si spegnessero le faci, niuno rimarrebbe vittorioso» (Paus., I, _Attic_. 30. — Cfr. Aristof., _Vespe_; Senof., _Finanze d’Atene_, IV; Eschilo, _Agam_.) [99] Sull’ombra del gnomone, orologio solare (γνώμον, στοιχεῖον), calcolavansi l’ore. (Ateneo, _Deipn_., I, 8; VI, 42; Aristof. in _Polluce_, IX, 46; Aristof., _Eccles_., v. 652; Alcifr. III, 4). I primi orologi solari (Erodoto, II, 109, li dice introdotti in Grecia dai Babilonesi; Diogene Laerzio invece ne fa inventore Anassimandro, e Plinio, _Hist. Nat_., 76, il discepolo di Anassimandro, Anassimene milesio, che avrebbe posto il primo gnomone a Sparta) consistevano in una colonna drizzata sopra uno spazio piano, su cui segnavansi diverse linee: e l’ombra della colonna che riflettevasi successivamente su di esse, segnava le ore. In seguito, e già all’epoca del dramma nostro, usarono per maggiore speditezza piantar un gnomone o stilo di ferro sopra una parete o una colonna; e rendea lo stesso servigio. L’ombra dello stilo accorciandosi o allungandosi col corso del sole indicava le ore col numero dei piedi di lunghezza. Indi, per chieder l’ora, usavasi dire _Che ombra fa?_ Naturalmente di buon mattino l’ombra era lunghissima (Palladio, _De re rustica_, calcola di 29 piedi l’ombra di un quadrante antico, in gennajo, al levar del sole) e più diminuiva accostandosi al meriggio, per tornare a crescer poi: sicchè l’ore di primo mattino e di sera inoltrata eran segnate dal numero di piedi maggiore. Per altro, sul numero preciso dei piedi, corrispondente fra i Greci alle singole ore, non si hanno che calcoli approssimativi e molto incerti; pare, per esempio che il quadrante di Palladio, costrutto pel clima di Bisanzio, registri la divisione dei piedi in numeri maggiori probabilmente che non si usasse ad Atene: poichè in Aristofane e in Menandro, presso Ateneo, vediam fissata di solito per ora della _cena_ in Atene l’ombra di _dieci_ o di _dodici_ piedi: e si sa che ad Atene la cena (δεῖπνον) aveva luogo ad ora assai tarda, al tramonto del sole o anche dopo. Vero è che in Eubulo, presso Aten. I, 8, troviam menzionata come ora di cena un’ombra di _venti_ piedi: che accenna probabilmente ad un gnomone diviso in 24 piedi. L’ore poi del giorno erano di due sorta: _equinoziali_ che partivano il dì civile, come da noi, in 24 parti eguali: e _artificiali_, che dividevano sempre tanto il dì che la notte in _dodici_ parti, più lunghe o più brevi quindi, secondo la lunghezza dei giorni e delle notti nelle varie stagioni. Quest’ore artificiali si designavano sommandole a tre a tre, ossia si ripartivano in quattro divisioni eguali di tre ore ciascuna, tanto pel dì che per la notte. Di giorno, le tre prime ore dal levar del sole dicevansi la _prima_; le tre seguenti, la _terza_; poi la _sesta_ e la _nona_. Di notte, le prime tre ore del tramonto dicevansi _prima vigilia_, le tre successive _seconda vigilia_; poi _terza_ e _quarta vigilia_. Nella tavola di Palladio sopra ricordata, l’ombra di 15 piedi, qui accennata nel dialogo, corrisponderebbe appunto alla terza ora artificiale: vale a dire siamo sul finir della _prima_: e la _terza_ di cui parla Carinade più innanzi, non cominciava che alla quarta ora dal levar del sole (Cfr. circa l’ora mattutina dell’assemblea, Aristof., _Acarn_.; Eccles.). [100] _E dorme, come dice il proverbio, le tre notti d’Ercole_ (Alcifir., _Lett_., III, 38). È nota la favola di Giove che giacque con Alcmena, e per goderne più a lungo prolungò il corso di una notte a quello di tre: dal qual concubito nacque Ercole (vedi Plauto, _Anfitrione_). [101] Con una corda tinta di rosso e distesa due servi pubblici spingevano alla adunanza i più lenti. Il segno rosso che rimaneva sulle loro vesti li faceva incorrere in una multa ossia nella perdita dei tre oboli, come ritardatarii. Parlando dei ritardatarii, così segnati, Aristofane fa dire a Cremete nelle _Aringatrici_: «_Ed era soggetto di molto ridere nell’assemblea la gran copia di rosso che si era sparsa all’intorno_» (Cfr. Aristofane in principio degli _Acarnesi_). [102] _Tesmotéti_: erano gli ultimi sei de’ _nove arconti_. Quando l’autorità regia fu circoscritta in Atene dopo la morte del re Codro (1092 av. l’E. V.), i suoi eredi e successori della sua stessa dinastia continuarono a tenere sotto il nome di _arconti_ la dignità suprema dello Stato, con obbligo però di dar conto della loro amministrazione al popolo (Paus., IV, 5, 10; Elian., _Var. St_., VIII, 5): fino a che nel 752 av. l’E. V. gli Eupatrìdi, abbattuto l’arconte Alcmeone, limitarono il potere dell’arconte responsabile, rendendolo da ereditario elettivo, e da vitalizio temporaneo, circoscritto a _dieci anni_ (Dion. Alycarn., I, 72). Più tardi infine, nel 682 av. l’E. V., a prevenire possibili usurpazioni, anche l’ufficio dell’_arconte decennale_ fu abolito, e i poteri supremi dello Stato che si concentravano in lui furono ripartiti fra _nove_ magistrati _annuali_, che conservarono il titolo di _arconti_. Scelti ogni anno per suffragi tra la classe degli eupatrìdi, essi avevano la direzione generale degli affari interni ed esterni della città. Il primo dei nove — ch’era l’arconte per antonomasia e chiamavasi _arconte epònimo_, perchè dava all’anno il proprio nome — stava a capo dell’amministrazione civile: contratti, donazioni, successioni, matrimonj, divorzj, testamenti, tutela degli orfani, ecc. Il secondo, _arconte re_ o _basileo_, era sommo sacerdote, presiedeva agli affari del culto; sagrifizi, feste, giudizj di sacrilegio, ecc. Il terzo arconte, ossia il _polemarco_, aveva il comando supremo delle forze militari e la direzione delle cose spettanti alla guerra. Gli altri sei arconti, designati insieme sotto il nome di _Tesmoteti_, istruivano i processi criminali più importanti, giudicavano in ultima istanza delle cause civili, e in generale degli affari che non erano di speciale competenza dei primi tre arconti. Al tempo di Alcibiade però le riforme democratiche avevano diminuito di assai questo potere degli arconti. La creazione de’ dieci strategi avea tolto al _polemarco_ il comando degli eserciti, come i tribunali degli eliasti limitarono il poter giudiziario dell’eponimo e degli altri arconti, ridotto ormai a poco più che alla istruttoria e alla presidenza nei giudizi di loro giurisdizione (Corsini _Fasti attici_, I; Schömann, _Antich. greche_, I, 412; Hermann, _Antich. polit_., 138; Meursius, _Arconti_, I, 1). [103] L’obolo (_attico_) era una piccola moneta in origine d’argento, ma più tardi di bronzo, del valore di circa 15 centesimi italiani. Formava la sesta parte di una dramma (attica) ch’era moneta di argento, del valor di circa 90 centesimi italiani o poco più. Variano molto i còmputi degli scrittori circa il ragguaglio delle monete ateniesi. Valutando col Boeckh, ch’è fra i più attendibili, la lira ateniese, ossia la _dramma_ attica, 92 centesimi di franco, offro qui, a schiarimento del lettore, alcune indicazioni: Un _obolo_ valeva 15 centesimi e 33 millesimi. L’obolo dividevasi in 8 calchi: ossia il _calco_ valeva qualcosa meno di due centesimi; e tre calchi formavano il _tricalco_, ch’era piccola moneta equivalente al nostro cinque centesimi, o poco più. Dividevasi anche l’obolo in sei denari: ossia il _denaro_ valeva qualche cosa più di due centesimi e mezzo; e ogni denaro in sette _terunzj_ o _minuti_: cioè ogni terunzio valeva poco più di un terzo di centesimo. Due oboli formavano il _simbolo_ o _diòbolo_, la mercede degli spettacoli. Tre oboli erano il famoso _triòbolo_, la mercede del foro e degli eliasti = L. 0,46. Due trioboli, ossia sei oboli, formavano la dramma = L. 0,92. Quattro dramme formavano la _tetradramma_ = L. 3,68, tipo di monete d’argento, delle quali un buon numero è pervenuto sino a noi. Le tetradramme, di cui le più antiche furono battute al tempo di Pericle, hanno, negli esemplari che ancor ce ne restano, la forma solita quadrata delle monete antiche, e recano da un lato la impronta di Minerva, dall’altra quella di una civetta. Cento dramme formavano una _mina_ = L. 92. Sessanta mine, ossiano seimila dramme, formavano un _talento_ (attico) — moneta nominale — il quale valeva quindi = L. 5520. E così le entrate di Atene che nel nono anno della guerra peloponnesiaca salivano alla cifra di 2000 talenti, volevano dire la somma di L. 11,040,000. Somma ragguardevole se si ha presente il prezzo altissimo del denaro a quell’epoca in cui il triobolo, ossia i 46 centesimi degli eliasti, rappresentavano una mercede sufficientissima al vitto quotidiano di un cittadino, e in cui i provveditori generali della repubblica erano pagati con due, tre o quattro dramme al giorno (da meno di due a meno di quattro lire). Oltre le monete attiche, molte altre greche ed asiatiche avean corso sul mercato di Atene. Così la _dramma di Corinto_ e la _dramma di Egina_ che valeva L. 1,53; e l’_obolo di Egina_ che valeva in proporzione la sesta parte, ossia centesimi 25 e mezzo. Vi era il _bue_, così detto dall’impronta di un bue, che valeva _due dramme_, ossia un _didramma_; il _core_ che valeva _quattro dramme_, ossia una _tetradramma_. Vi era lo _statere_, moneta d’argento, valutato dal Peyron L. 6,12. Altri fanno lo statere (d’argento) equivalente alla tetradramma. Lo _statere darico_, ossia il _darico_, era il nostro napoleon d’oro. Valeva secondo gli uni 20 dramme = L. 18,40, secondo gli altri 25 dramme = L. 23. Il darico era moneta di conio persiano, di oro purissimo, e recava l’impronta di un saettiere. Lo _statere d’oro_, secondo il Volaterrano, valeva quanto la mina, ossia 92 lire. Il _talento babilonico_ infine valeva un quinto di più del talento attico, ossia invece di 60 valeva 72 mine = L. 6624. [104] Perchè la povertà non togliesse i proletarj che esercitavano un mestiere e del lavoro di esso campavano, dal frequentar le assemblee del foro e i tribunali; e per servire insieme alle proprie mire di dominio assicurandosi così contro la fazione che lo osteggiava l’appoggio delle classi popolari, Pericle assegnò agli intervenienti alle assemblee la mercede di un _triobolo_ (46 centesimi) per ogni seduta (μισθὸς ἐκκλησιαστικὸς) e così pure stabilì la mercede di un obolo, che venne poi anch’essa elevata a tre, per ogni tornata (μισθὸς δικαστικὸς) a coloro che sedevano giudici nei tribunali o _dicasteri_ della Eliea. In appresso Pericle completò questo suo sistema di largizioni che asciugavan l’erario, ma gli cattivavano il favor popolare, coll’aggiungere anco la mercede di _due oboli_ per li spettacoli (θεωρικὸν) e il soldo militare. — E la smania di passar il tempo nei tribunali e nelle assemblee, non tardò a divenire una caratteristica delle classi povere in Atene, acremente satireggiata da Aristofane nelle sue commedie e specialmente nelle _Vespe_. In quella de’ _Cavalieri_ Aristofane chiama il popolo _confraternita di triobolisti_. Indi Senofonte scriveva: «la _plebe ambir soltanto quelle magistrature che fruttavanle qualche obolo_,» e Aristotile: «_Mercedi, ozio e desiderio di assembrarsi esser cose connesse fra di loro_» (Senof., _Rep. Aten._, I, 3; Aristof., _Polit._, IV, VI): e Socrate infine chiamar, come vedemmo, il popolo, _chiacchierone ed ingordo di salarj_ (Plat., _Gorgia_). [105] _Eliasti_ o _dicasti_ erano i _giudici_ cittadini, ovvero i nostri _giurati_: e giudicavano così delle cause criminali come delle civili. Traevano il nome ἠλιασθαί da ἠλιος _cielo_, perchè giudicavano a cielo aperto. Si sceglievano ogni anno a sorte in numero di _seimila_, (ossia in ragione di 600 per ciascuna delle dieci tribù) fra i cittadini di tutte le classi, che avessero raggiunta l’età di trent’anni. Di questi seimila, che formavano complessivamente la Eliea, cinquemila venivano, pure a sorte, ripartiti in _dieci dicasteri_ o _corti di giustizia_ di 500 eliasti ciascuna: gli altri 1000 funzionavano da _giurati supplenti_ pei casi di assenza, morte, malattia, ecc., durante l’anno. Nei dì di seduta, tutti gli eliasti convenivano in piazza, ossia nell’_agora_, e là il tesmoteta indicava a quale dicastéro o corte era assegnata la tal causa, sicchè alla vigilia del processo gli accusati interessati ignoravano da quali giudici sarebbero giudicati. Le sedute delle corti di giustizia si tenevano sotto la presidenza di uno dei tre primi arconti o di uno dei tesmoteti, secondo la rispettiva sfera di competenza di quei magistrati; per gli affari militari si tenevano sotto la presidenza degli strategi. I magistrati presidenti avevano il carico dell’istruttoria delle cause, su cui il voto dei 500 eliasti, udite le parti e le difese, decideva (Meyer e Schömann, _Der attische Prozess_). [106] _Nottole del Laurio, civette del Laurio_ (γλαῦκες λαυριοτικαὶ, Aristof., _Uccelli_), chiamavan gli Ateniesi, con frase scherzevole, le monete di argento che recavan l’impronta di una nottola, ed erano coniate coll’argento delle miniere del Laurion. Negli _Acarnesi_ Aristofane chiama anche _tre cuculi_, κοκκυγές τε τρεῖς, i tre oboli della paga del foro. [107] Modo greco proverbiale nato dall’apparir delle rondini come nunzie della fine dell’inverno e portatrici della bella stagione: con che significavasi il voto di un mutarsi in meglio della sorte. Così Mnesiloco invoca l’apparir della rondinella nelle _Tesmoforie_ di Aristofane. Ancor oggi la _canzone delle rondinelle_, di cui parlan gli antichi, viene intonata il primo di marzo, scrive l’Ampère, dai fanciulli greci, e a Rodi i garzoncelli cantano ancora: «È venuta, è venuta la rondinella, che mena la bella stagione! Aprite, aprite la porta alla rondinella!» (Cfr. Ampère, _Poesia greca in Grecia_). [108] Ossia del borgo o demo di Sunio. Vedi in proposito la nota 55 dell’atto primo. [109] La mercede di Pericle aveva sedotto in particolar modo, come accennammo, i cittadini artigiani dell’ultima classe, i quali trovavano più comodo seder nell’assemblea che sudar nella bottega. Senofonte fa dire a Socrate nei _Memorabili_ (III, 7) che il foro riboccava di «_lavoratori, calzolaj, fabbri, agricoltori, mercanti_, ecc.» E Platone, per bocca ancora di Socrate, annovera fra coloro che dan consigli alla città nell’assemblea _architetti, fabbri ferraj, calzolaj, mercanti, nocchieri_, ecc. (_Protag._, X). [110] Questo chiacchierio sfaccendato dei popolani sciupanti il tempo in piazza a domandarsi le notizie della giornata, dava terribilmente sui nervi al buon Demostene. «Mentre Filippo sfida armi, fatiche, cimenti, non perde occasioni nè tempi, noi Ateniesi invece _impigrire e sfaccendati per piazza domandarci l’un l’altro: che c’è di nuovo?_ ἡμεῖς δὲ... οὐδὲν ποιοῦντες... καί πυνθανόμενοι κατὰ τὴν ἀγοραν εἴ τι λέγεται νεώτερον (Dem. _Sulla lettera di Filippo_). E altrove: «_Volete forse baloccando in giro su per la piazza domandarvi: che nuova c’è?_ περιιόντες... πυνθάνεσθαι κατὰ τὴν ἀγορὰν λεγεταὶ τι καινὸν. Qual nuova più strana che un uomo macedone debelli gli Ateniesi?» (Demost., _Filipp._, I). [111] «_Come van sempre peggio i fatti miei, alla foggia, com’è il proverbio, di Mandràbulo_» (Alcifrone, _Lett._, I, 9). Modo proverbiale originato da certo Mandrabulo, il quale avendo trovato un tesoro, offerse il primo anno a Giunone Samia una pecora d’oro, il secondo una d’argento e il terzo una di bronzo, il quarto nulla (Vedi Luciano, _De merc. conduct._, e Suida). [112] Usavano mettere in bocca il danaro «_Quando torno a casa, la mia figliuola, chiamandomi babbo, mi trae i tre oboli di bocca_» (Aristof., _Vespe_). [113] _Per i dodici Dei._ I dodici Dei maggiori, compresi da Ennio nel suo distico: _Juno, Vesta, Minerva, Ceres, Diana, Venus, Mars,_ _Mercurius, Jovis, Neptunus, Vulcanus, Apollo,_ avevano nella piazza Ceramica d’Atene un’ara ad essi dedicata, perciò detta δωδεκάθεον, e invocavansi spesso nelle esclamazioni. [114] «_Dimmi, o padre, se oggi l’Arconte non terrà giudizio, come mai ci compreremo noi da pranzare?_» (Aristof., _Vespe_). [115] A ogni novilunio, cioè al cominciar d’ogni mese, i ricchi usavano far le lustrazioni, ossia purificar le loro case: e i cibi che si trovavano avere, per non li buttar via, li esponevano nei trivj, dove Ecate adoravasi, in offerta a quella Dea; e diceansi: _cene di Ecate_, o anche appunto _cibi lustrali_. Per lo più consistevano tali offerte in uova e in cacio. Appena poi gli offerenti partivano, quelle vivande venivano dai poveri involate. «_Si può interrogar Ecate, se sia meglio arricchire od aver fame: poichè ella dice che i doviziosi debbono ogni mese venirle a imbandire la cena, e i poveri rapirla prima che sia imbandita_» (Aristof., _Pluto_, v. 594 seg. Cfr. Luciano, _Dial. dei morti_, 1, 22; e il _Tragitto_). Nelle lettere di Giuliano son chiamate _cene di Ecate_, τῆς Ἑκάλης δεῖπνον, là ove è detto che lo stesso _Teseo non disprezzò una cena di Ecale, ossia una magra cena, e contentossi del poco per necessità_ (Giul., _Epist._, 40). Ma Ecale dev’esser error di copista. — Il comico Antifane, presso Ateneo, VII, 313, chiama scherzosamente _cibi di Ecate_, Ἑκάτης βρώματα, alcuni pesciolini minutissimi, tanto minuti da non esserci niente da mangiare. [116] _Le nove Cannelle_, ossiano l’_Enneacrùno_, erano una fontana pubblica di Atene, che dava acqua da nove bocche. Fu fatta costruire da Pisistrato e diceasi da principio _fontana di Calliroe_; sotto il qual nome è ricordata in Tucidide (III, 15). Di essa si servivano gli Ateniesi per le lustrazioni ed altri usi sacri: e i poveri v’andavano a bere. «_Se alcun non m’invita, dovrò andar cogliendo erbe ed empiere il ventre bevendo all’Enneacrùno._» — Così un parassito in Alcifr., _Lett._, III, 49. Intorno alla storia di Calliroe e all’altra fontana nell’Acaja dov’ella venne ad uccidersi e che da lei prese il nome, vedi Pausania, _Acaja_, 21. [117] Sulla mania dei giudici ateniesi di condannare, vedi Aristofane, _Vespe_. [118] Cfr. Aristof., _Vespe_, v. 301. [119] Imposta principale, e pressochè unica, pei cittadini di Atene (astrazion fatta dalle _liturgie_, cioè spese dei cori, dei giuochi sacri, delle triremi, ecc., a carico dei ricchi), fu da principio quella sulla proprietà fondiaria, la quale appunto servì di base alla ripartizione solonica delle quattro classi. Era del _cinquantesimo_ sull’_estimato_, il quale però diminuiva di classe in classe, rendendo così l’imposta in parte progressiva. _Prima_ classe: proprietà fondiaria 6000 dramme (rendita netta 500 dramme, estimo 6000) imposta 120 dramme. _Seconda_ (_Cavalieri_): proprietà fondiaria 3600 (rendita netta 300 dramme, estimo 3000), imposta 60 dramme. _Terza_ (_Zeugìti_) proprietà fondiaria 1800 (rendita netta 150, estimo 1000) imposta 20 dramme. Quelli dell’ultima classe pagavano ancor meno o niente, se non possedevano terra. Il resto delle entrate della città era formato dal tributo degli alleati, dalle rendite delle terre pubbliche date a pigione, dai pedaggi, dazi e tasse di commercio che erano per lo più a carico degli alleati e forestieri, dalle decime sui fondi sacerdotali, dati a usufrutto, dalla tassa di protezione che pagavano i meteci (12 dramme a testa), dalla tassa di tre oboli per ogni schiavo e dal ricavo delle multe giudiziarie. Ma cresciuti i bisogni per la guerra del Peloponneso, nè i 400 talenti (L. 2,208,000) di entrata interna che davano al tempo di Pericle quelle imposte cittadine, nè gli altri 600 di entrata esterna che si ricavavano dai tributi sulle città confederate, più non bastarono ai vuoti dell’erario: e per la prima volta, nel quarto anno della guerra, i cittadini dovettero imporsi una nuova tassa di 200 talenti (Tucid., III, 19) aumentando verisimilmente insieme anche il tributo de’ confederati. Successivamente altre tasse indirette si introdussero, e così anche quelli dell’ultima classe, che l’imposta solonica non aggravava, portarono la loro parte di pesi. Qui appunto si citano fra i nuovi carichi la tassa del _quarantesimo_ introdotta da un Euripide fratello del tragico e menzionata in Aristof., _Eccles._; quella dell’_un per cento_ accennata in Aristof., _Vespe_: e le straordinarie ossiano le _sopradonazioni_ o _giunte_ (ἐπιδοσεῖς) che votavansi dall’assemblea, in fuori delle consuete, nelle urgenti strettezze dello erario (Teofr., _Caratt._, XXII; Demostene le chiama προσκαβλήματα, _C. Timoc._). Mercè i nuovi carichi e l’aumento dei tributi sui confederati, le entrate complessive della Repubblica poterono salire, nel decimo anno della guerra del Peloponneso, quando Aristofane scrisse le _Vespe_ (ossia già sei anni prima dell’epoca di questa scena) alla cifra di 2000 talenti (11,040,000), di cui 800 di entrate interne, e 1200 di esterne. Dalla spedizione di Sicilia soltanto comincia la rovina delle finanze ateniesi; oltrechè la impresa assorbì somme enormi, i disastri che seguirono, portando le defezioni dei confederati, diminuirono ogni dì più le entrate esterne: sicchè più tardi, dopo il governo dei Trenta, si trova Atene in conflitto coi Tebani, perchè non è in grado di pagar loro due talenti dovuti! Ai tempi di Demostene, perduta gran parte dei dominj del mare e perduta l’egemonia, le entrate eran scese sino ai 130 talenti: e Demostene si compiaceva che fossero risalite a 300 e 400 (Demost., _Filipp._, IV). [120] Gli interessi dei debiti si pagavano al novilunio, cioè al 30 ed ultimo del mese, il qual tempo era detto «_vecchio e nuovo giorno_» ἔνη καὶ νέα nelle citazioni dei creditori: cioè l’ultimo di una lunazione e il precursore di un’altra. Vedi Aristof., _Nubi_. [121] Sui lamenti dei popolani ateniesi contro le concussioni e i ladronecci dei magistrati e capitani della repubblica, vedi Aristofane nelle _Vespe_, nei _Cavalieri_, negli _Acarnesi_. A questi lamenti non v’era altro ad opporre se non che i venalissimi eliasti popolani erano intinti della stessa pece: chè del resto la corruzione e i brogli e le ruberie nel maneggio dei pubblici affari e dei pubblici denari — di cui parlasi in questa e in altre scene del dramma — e che le leggi soloniche _ab antico_ punivano di infamia e di morte — all’epoca di Alcibiade erano affatto all’ordine del giorno. Indi Isocrate si lamentava: _Noi curiam così poco le leggi, che mentre esse puniscono di morte chi fu convinto di corruzione, noi quelli che spargono palesemente il denaro, li facciam generali_ (Isocr., _De pace_). Nei _Cavalieri_ Aristofane fa dire dal demagogo Cleone al salsicciajo: _Io confesso di esser ladro e tu nol confessi_: e il coro a Cleone: _tu adocchii i nostri tributi come i pescatori dall’alto di uno scoglio adocchiano i tonni_: e poi il coro nelle strofe lamentando i tempi passati: _nessun mai de’ condottieri_ (al tempo degli avi) _chiese mai di nutrirsi come ora a spese pubbliche_. — Un po’ più tardi udrem Demostene discorrere de’ suoi tempi per nulla dissimili: «Chi più offende la patria, o il bifolco e il tapinello che per figliolanza e domestiche necessità mancarono ai tributi, o chi nelle taglie riscosse e negli averi degli alleati diede di piglio?... Perchè, o malvagio, tu che da più di trent’anni maneggi la repubblica e in questo mezzo la vedesti rubata or da molti capitani, or da molti oratori, non li accusasti?... Ne volete la ragione? perchè tutti si spartono la preda, tutti si divorano le esazioni ed insaziabili pelano e scorticano la repubblica» (Demost., _C. Androz._). [122] A Minerva i capitani eran tenuti ad offerire — e deponeasi nel tesoro della Dea sopra l’Acropoli, — la decima parte delle spoglie prese ai nemici. — «E non son ladri costoro che diedero di piglio nello erario sacro, nelle decime di Minerva, nelle cinquantesime degli altri Iddii? Anzi il lor sagrificio è di tutti più orribile, chè non deposero nell’Acropoli il dovuto denaro» (Demost., _C. Timocr._). [123] «Era il _Pritaneo_ un luogo sacro nella rocca di Vesta, dove era perpetuamente acceso il fuoco. Ivi si conservavano le leggi di Solone, e si forniva vitto quotidiano a coloro i quali avessero ottimamente meritato della repubblica, o che la città volesse onorare, onore giudicato grandissimo tra i Greci» (Ast., _Note al Protagora_ di Platone). Era presso i Greci quello che Tito Livio chiamava il _penetrale urbis_ (XLI, 40), e che noi chiameremmo la _casa del Comune_, il palazzo municipale. Nel Pritaneo stava l’altare degli Dei patrono della città e il fuoco appunto vi ardeva perpetuamente ad imagine del fuoco acceso nelle case private sul domestico altare agli Dei penati. Oltre alimentarvi coloro ch’eran nudriti a spese pubbliche, nel Pritaneo la città esercitava l’ospitalità verso i forestieri illustri, ed ivi pure radunavansi i Pritani, i magistrati, gli amministratori del Comune. Il Pritaneo insomma era il simbolo esterno della grande aggregazione, della grande famiglia dei cittadini, e significava che una città aveva amministrazione propria e indipendente. Son note le parole con cui Socrate inviperì i suoi giudici, allorchè, sentenziato colpevole e invitato, a tenor di legge, a dichiarare qual pena ei credesse applicabile a sè, rispose: _quella di essere nutrito a spese pubbliche nel Pritaneo_ (Plat., _Apol._, 26). [124] γηγενέις, αὐτόχθονες, _autóctoni, indigeni, aborigeni, generati dalla terra_: epiteto quasi di nobiltà che davano a sè stessi gli Ateniesi. Sull’orgoglio degli Ateniesi per la loro origine dal suolo, della quale frequente si vantavano, vedi Platone, _Menesseno_: «Questa disposizione generosa che vuol la libertà e la giustizia, quest’odio innato dei barbari è inalterabile e radicato fra noi Ateniesi, perchè noi siamo di origine puramente greca, e senza mistura coi barbari. Da noi nessun Pelope, nè Cadmo, nè Egitto, nè Danao, nè tanti altri veri barbari di origine, greci soltanto per la legge. Il puro sangue greco scorre nelle nostre vene, senza mistura di sangue barbaro; da qui nelle viscere stesse della repubblica scorre l’odio incorruttibile a tutto ciò che è straniero» (_Ibid._); e Aristofane nelle _Vespe_: «_Attici siamo_ noi, dalle aguzze diretane parti, _di vera nobiltà noi soli ornati, di questo suolo antichi figli_» Cfr. Luciano, _Anacarsi_, — dove Anacarsi dà cortesemente la baja a Solone e agli Ateniesi per questo vanto che si attribuivano di _autóctoni_, ossia _indigeni_. — Platone, nel _Crizia_, narra, che nella spartizione delle terre che fecero gli Dei tra di loro, l’Attica, _siccome terra per natura adatta alla virtù e alla sapienza_, toccò in sorte a Minerva e a Vulcano, i quali _ingenerarono in essa dei buoni uomini autóctoni_. — Così un oratore ateniese diceva con boria a Gelone di Siracusa: _Noi siamo il più antico popolo di Grecia, e soli fra i Greci non mutammo mai patria_ (Erod., VII, 161). — Pericle, nell’orazione funebre, vanta come prima lode di Atene l’aver sempre avuto gli stessi abitatori (Tucid., II, 36). — E un Ateniese, in Euripide (citato da Plutarco, _De exilio_, III): _Noi non siamo già un popolo qua trasportato da straniero paese, ma vi nascemmo autóctoni_. — L’origine vera poi di questo nome può ritrovarsi nella sottile osservazione di Tucidide, che cioè, mentre le altre contrade della Grecia, come la Tessaglia, la Beozia, l’Argolide, per la ricchezza e fertilità del loro terreno, furono continuo oggetto di contese fra le antiche stirpi guerresche, e quindi più di frequente soggette al variar degli abitanti, l’Attica invece, il cui terreno infecondo non destava la gola a nessuno, fu lasciata in pace; e così «_siccome quella che per la sua sterilità andò lungamente immune da rivoluzioni, ebbe mai sempre gli stessi abitatori_» (Tucidide, I, 2. Cfr. Pausan., _Attic._, I, 14). Vero è che questo vanto di _aborigeni_ attribuitosi dagli Ateniesi sembra singolarmente guastato dalla opinione che _Cecrope_, il loro primo re e fondatore, fosse uno straniero venuto nell’Attica con una colonia dall’Egitto: per cui il vanto di _Cecròpidi_ che Carinade accoppia all’altro di _autóctoni_, potrebbe a questo posto parere in bocca sua imprudente od illogico o fuori di luogo. Su di ciò osservo: che l’antica leggenda attica — _all’epoca del dramma_ — considerava tuttora anche Cecrope precisamente come un re indigeno od autoctono (Κέκρωψ αὐτόχθων, Apollod., lib. III), per lo che si favoleggiò di lui che fosse mezzo uomo e mezzo serpente (simbolo della terra). — Viceversa, l’opinione che Cecrope fosse egizio (registrata da Suida, dallo scoliaste di Aristofane, da Tzetzes, da Cedreno), non sorse che assai più tardi dell’epoca di Alcibiade; e cioè non prima del IV secolo av. l’E. V., quando si notarono alcuni caratteri di somiglianza tra la dea Athene e l’egizio Neith e quando i sacerdoti egiziani ebbero accreditata l’opinione che la Grecia andasse all’Egitto debitrice della sua civiltà religiosa e politica. (Cfr. Müller, _Orcomenos_, pag. 106; Vos., _Antisymbolica_, II, p. 415; e Meursius, _Reg. Athen._ Sugli altri nomi di discendenza con cui gli Ateniesi si chiamavano, vedi più innanzi la nota 85 su Eretteo). [125] «_È legge che chi si mostrò valoroso consacri tutte l’armi nel tempio_», νόμος τὸν ἀριστα είς ἱερὸν πανοπλὶαν ἀνατιθέναι (Syrianus, _Comm. in Hermog. — Consecrata jam dudum arma deposui_, Calpurn. Flacc., _Decl._, XV). Altra legge prescriveva che chi avesse per tre volte dato prova di valoroso in campo, avesse diritto entro trenta giorni a chiedere quel premio che volesse; e non tanto per cagion d’onore quanto per aver di che vivere, dispensato dal servizio militare. _Ter vir fortis militia vacet_ (Calp. Fl., _l. c._). Indi la frase del _consacrar l’armi_. [126] Aristof., _Cavalieri_, v. 792. [127] I Greci s’aiutavano nel far conti, or colle dita, or con pietruzze o sassolini (ψῆφος) detti _calculi_ dai Latini, che distribuiti variamente sul tavoliere rappresentavano le unità, le decine, le centinaia (Teofrasto, _Carat._, XIV; Alcifrone, _Lett._, I, 26). [128] Il calcolo è di Aristof., _Vespe_, v. 660, e si riferisce all’anno 10.º della guerra del Peloponneso. Cfr. più sopra la nota 23. [129] Aristof., _Nubi_, v. 859. [130] Le vesti che si avevano indosso quando si era iniziati ai misteri, dopochè si erano abbastanza usate, fatte logore ed inservibili, si consacravano agli Dei. — Aristofane accenna a questa usanza nel _Pluto_, v. 844. [131] È superfluo avvertire come, all’epoca del dramma, i _sofisti_ avessero parte grandissima nella vita pubblica d’Atene e nella formazione del carattere ateniese. I sofisti avevano invaso, può dirsi, ogni ramo dell’educazione; alla loro scuola si formavano gli oratori e i magistrati della repubblica. Essi avevano particolarmente contribuito a sviluppare quella sterilizzante ginnastica dell’ingegno, che punto curando la sostanza delle idee, si divertiva a giuocar di destrezza sulle parole; quella smania di parlare per parlare, senz’altro scopo che di dar prova di una puerile abilità dialettica poggiata sullo scambio dei vocaboli; quel destreggiarsi pretenzioso e vuoto della mente non più intesa alla ricerca di un’utile verità morale o di uno scopo nobile e pratico della vita, ma a dar spettacolo di sè a sè medesima, in un continuo giuoco di bussolotti del discorso, in confusioni ridevolmente artificiose tra le idee e i loro segni vocali, in un fuoco di artifizio di garbugli di parole e _calembourgs_. Qui giuocar sulla ambiguità delle parole, là sulle apparenti sinonimie; estendere al senso assoluto il valore accidentale d’una voce; parole a più significati intenderle in una premessa ad un modo, nell’altra ad un altro; dare alle parole che unite hanno un senso, lo stesso disgiungendole e viceversa; tirar conclusioni essenziali dalle più superficiali analogie — e via dicendo. «E più spicca l’assurdo, — scrive lo Zeller (_Gesch. der Philos._, II) — più ridicola è la tesi, più sguaiata è la scipitaggine in che l’avversario è stato preso, tanto maggiore lo spasso e più sonoro l’applauso degli uditori.» Sicchè chi aveva in pronto parecchi di questi garbugli di parole era certo di chiamar gente a sè in piazza, come oggi farebbe un cavadenti in fiera; e Socrate non per nulla loro affibbiava appunto l’epiteto di _ciarlatano, ciurmadore_, γὸης (Plat., _Repub._, X). Naturalmente costoro trovavano spesso anche pan pei loro denti: poichè quelle abitudini ginnastiche del linguaggio generalizzandosi e addestrando insieme le menti a vederne a nudo e impararne gli artificj, era facile trovar nell’uditorio chi ritorcesse i cavilli contro il cavillatore, ripagandolo della stessa moneta. Questi che abbiamo accennati erano i distintivi caratteristici della filosofia _eristica_, onde il nome di _sofista_ nel senso nobile e antico della parola era venuto man mano assumendo un altro significato. Filosofia della quale si ponno rintracciar le origini nelle sottigliezze e quisquiglie idealistiche della filosofia eleatica di Zenone e di Parmenide, e che ai tempi di Socrate era venuta specialmente in voga per opera di Gorgia, di Protagora, di Prodico, di Ippia, o meglio di una turba di loro colleghi di mestiere, che da essi ritrassero il cavillare sconclusionato e le ridevoli sottigliezze e la vacuità pretenziosa del metodo, senza possederne lo ingegno. È a questa filosofia, dominante nei tribunali, nel foro, nelle piazze, che Socrate opponeva gli attacchi della sua ironia finissima, del suo squisito senso pratico, di quella sua filosofia informata al culto del retto e del vero, che Platone e Senofonte ci tramandarono e che al grande filosofo procacciarono il bel compenso di essere spesso confuso, come nelle _Nubi_ di Aristofane, con quei medesimi che egli attaccava. Il sofista da me introdotto a parlare in quest’atto appartiene a quella categoria più volgare degli _eristici_: egli porta il nome di uno dei due eristici messi alle strette da Socrate nell’_Eutidemo_; ma i suoi sofismi (qui naturalmente acconciati alla meglio per servire ad un piccolo scherzo comico) accennano alle sottigliezze e negazioni eleatiche sull’_essere_ e sul _divenire_, di cui abbiamo un saggio nel _Parmenide_ e in altri dialoghi di Platone. [132] Una caratteristica degli _eristici_ era appunto la loro pretesa scienza _enciclopedica_. Ed era naturale: le _idee_, le _cose_, per essi non essendo _nulla_, e le _parole tutto_, niente di più ovvio dello esercitare la loro arte e i loro sproloqui su qualunque ramo dello scibile. Per essi non vi poteva essere nè scienza, nè arte difficile: tutte, per essi, si valevano a un modo, perchè erano tutte eguali davanti alla loro ciarlataneria dialettica: ed essi quindi millantavano di essere dotti in tutte. Alludendo appunto a questo ammasso sconnesso e svariato di cognizioni confuse, Socrate paragonava ironicamente l’arsenale scientifico d’un sofista — ἔμπορος (Plat., _Protag._) — ad un _emporio_. È noto di Ippia che venuto in Olimpia, oltre al vantarsi di insegnare tutto lo scibile umano, e di disputare su qualsiasi argomento, mostrava le sue vesti, l’anello, il sigillo, la profumeria, i calzari, la fascia, e perfino una stregghia, affermando _tutto quello essere lavoro delle sue mani_ (Platone., _Ipp. min._; Cicer., _de Orat._, III, 32). Nell’_Eutidemo_, Socrate, presentando a Clinia i due eristici Eutidemo e Dionisodoro, dice di loro con velata ironia che essi sono sapienti «in cose non da poco ma grandi; sanno di guerra quanto s’appartiene a un buon generale, e i modi di schierare e comandar gli eserciti; capaci anche di mettere uno in caso di aiutarsi da sè davanti ai tribunali.» — Ma i due sofisti gli dan sulla voce osservando che queste per loro le sono inezie, a cui non si applicano che per passatempo: e ch’essi sanno di meglio, e sono in grado d’insegnare anche la virtù (Plat., _Eutid._, II). [133] Cfr. Aristof., _Nubi_; Plat., _Eutidemo_, II. [134] Di Protagora — un de’ sofisti che andavano per la maggiore — nel dialogo di Platone che porta il suo nome, è detto ch’ei fosse il primo de’ sofisti a pigliar una mercede delle sue lezioni (Plat., _Protag._, II, III, XXIII); altrove nello stesso dialogo, Protagora medesimo dice: «Io credo poter ajutar chi si sia a diventar un valentuomo, in maniera condegna alla mercede che io esigo, anzi a molto maggiore. Per il che appunto alla riscossione della mercede ho posto questa norma. Appena uno abbia appreso da me, sborsa a un tratto, quando ei voglia, la mercede ch’io domando; altrimenti, andando a un tempio e giurando quel prezzo al quale egli stima gli insegnamenti ricevuti, quello depone.» (_Ib._, XVI). Il che rende inverisimile l’asserzione di Diogene Laerzio (IX, 52) che Protagora riscotesse da ciascun discepolo cento mine (circa 8590 franchi) come l’asserto che Protagora fosse il primo a prender salario è contraddetto dallo stesso Platone, ove narra di Zenone, il sofista eleate, che s’era fatto pagar le lezioni da Pitodoro e da Callia anche lui cento mine ciascuna (Plat., _Primo Alcib._, XIV): lezioni salate. Comunque sia, all’epoca del nostro dramma, questa retribuzione del _salario_, era un altro dei caratteri che distinguevano la profession del _sofista_, da quella dei _filosofi_, come Socrate, Platone, Aristotile, i quali distribuivano _gratis_ la loro sapienza. _Non esigeva mercede da nessuno_, dice, di Socrate, Diogene Laerzio (_Socr._). E perciò Socrate nel _Protagora_ affibbia ai sofisti il titolo di κάπελος ed ἔμπορος, ossia _mercante al grosso ed al minuto_; Senofonte chiama i sofisti _gente che vendono la sapienza per danaro a chi la vuole_ (_Memorab._, I, 6, 13); e Platone e Aristotile accennano al _pagamento di una mercede_ come ad una specialità distintiva della professione del sofista (ἔμμισθος θηρευτής è chiamato il sofista da Platone nel _Sofista_, e χρηματιστής da Aristot., _Soph., El._, I). [135] Via d’Atene, ricordata ripetutamente in Alcifrone, _Lett._, I, 39; III, 8. — _Agnone_ era un borgo dell’Attica, della tribù Ajantide. [136] Dalla famosa e tenebrosa grotta ov’era l’oracolo di Trofonio (presso Lebadia in Beozia) fatta spaventevole a quei che vi entravano dalle fattucchierie dei sacerdoti, era venuto tra i Greci il proverbio che usavasi parlando di uomo scuro in faccia e che non ride mai: _Egli ritorna dell’antro di Trofonio_. Sull’oracolo di Trofonio, vedi Pausania, _Beot._, IX, 39. [137] La superstizione e il culto dei presagi e degli augurj e la fedele osservanza delle pratiche religiose erano anch’esse qualità _caratteristiche_ del popolo ateniese, nel tempo stesso ch’ei tollerava sulla scena si deridessero — purchè non si negassero — gli Dei. Alla superstizione religiosa, Alcibiade dovette in gran parte il suo primo bando, Socrate la sua condanna di morte. Per accuse di reato di religione (di aver profanati i misteri, o messo in dubbio l’esistenza degli Dei, ecc.) furon pure processati e condannati, com’è noto, il tragico Eschilo, e i filosofi Anassagora, Diagora di Melo, e Protagora e Prodico di Ceo. Nè dai pregiudizj religiosi andavano esenti spesso le menti più illuminate, perchè sappiamo di Senofonte che fu superstiziosissimo, e lo stesso seriissimo Tucidide accenna agli eclissi come a segni precursori di disgrazie (_Tucid._, I, 23). — Vedi ancora su questo proposito dello spirito superstizioso e delle pratiche di superstizione tra gli ateniesi, i frammenti caratteristici che ci restano di diverse commedie di Menandro, in ispecie del _Superstizioso_ (Δεισιδαίμων) presso Clem., Alex., _Strom._, VII; del _Trofonio_, presso Stob., 98; del _Misogino_, presso Strab., VII, 297; della _Sacerdotessa_ (Τέρεια) presso Giustino, _Monarch._, 29, ecc. [138] Si accennano alcune superstizioni del volgo ateniese. Il buccinar delle orecchie, l’incontro di una donnola, di un epilettico, di un pazzo, ecc., eran tenuti per infausti presagi (Teofrasto, _Caratteri_, XVI; Aristofane, _Eccles_.; Elian., _Var. St_., IV). [139] Sgombratori o fugatori o _scacciatori dei mali_ ἀποτροπαῖοι, ἀποπομπαῖοι, ἀλεξίκαια chiamarono i Greci Ercole, Apollo e Polluce siccome divinità incaricate di allontanar dagli uomini i mali imminenti. Erano gli _averrunci_ dei Latini. Si sagrificava loro una agnella; e specialmente ricorrevasi alla lor protezione, se appariva qualche segno o presagio infausto (Senofonte, _Simpos_., cap. III; Alcifr., _Lett_., III, 47, 53; Pausan., _Corint_., II, 11; Platone, _Leggi_, IX, 854, a.). [140] Superstizione ateniese (Teofrasto, _Caratt._, XVI). [141] Scosse di terremoto, e tuoni e lampi — presagi infausti (Aristof., _Eccles_.; Eschilo, Sofocle, Omero, ecc.). [142] _Atenapólia_, o _Minerva Poliade_, altro dei soprannomi di Minerva quale protettrice della città di Atene, ove le era dedicato, in cima all’Acropoli, il tempio del Partenone. Ivi era la statua della Dea armata dell’asta e dello scudo, capolavoro di Fidia; alta ventisei cubiti, tutta d’oro e d’avorio, coperto il capo di un elmo sul quale era una sfinge (Vedine la descrizione in Pausan., _Attic_., I, 24). In faccia al tempio era un antico ulivo che la tradizione popolare voleva piantato dalla stessa Minerva: ed era tenuto per sacro: di ramoscelli di essi si premiavano i vincitori nelle feste Panatenee (Meurs., _Them. Att_., II, 36). [143] Lampone, indovino di Turio, menzionato da Aristofane (_Uccelli_, v. 521, 988). [144] «_Vo’ irmene ad alcun di coloro che appo il tempio di Bacco tengono esposte le tabelle e promettono di spiegare i sogni_» (Alcifr., _Lett_., III, 59). — Anche di Lisimaco, nato da una figlia di Aristide, si narra che con una certa sua tabella interpretava sogni in Atene presso il tempio di Bacco (Plutarco, _Arist_.). — È nota l’importanza grande che i Greci annettevano ai sogni; indi il gran numero di sogni famosi presso gli scrittori, come il sogno di Aristodemo, il sogno di Socrate, di Alcibiade, di Epaminonda, di Agesilao, ecc. [145] Sono due di quelle parole magiche che i Greci solevano chiamare _lettere efesie_ — ἐφέσια γράμματα — delle quali usavano indovini e ciurmadori per prendere a gabbo la credulità delle donnicciuole e delle persone superstiziose; sulla derivazione delle quali, e sul cui significato, osserva il Wieland, sono state scritte con molta filologia molte cose vane. Diceansi _lettere efesie_ perchè la cintura e la corona della statua di Diana in Efeso eran tutte sparse di simili parole e segni cabalistici, con cui gli indovini e preti mendicanti e mercanti d’amuleti (προβασκάνια) spacciavano di allontanare i mali spiriti, scongiurar le imprecazioni dei nemici, ecc. Cfr. Platone, _Repub_., II, 364. [146] Socrate quasi mai portava sandali (Plut., _Simp._, II; Aristof., _Nubi_); austerissimo in tutto il suo vestire. Per altro, come questo era in lui semplicità virtuosa del costume, e non ostentazione, così egli era ben lontano dalla rozzezza e dal sudiciume di Antistene e de’ Cinici: e se recavasi in una casa ammodo, vi andava senza ricercatezza, ma ben vestito — λαμπρά ἠμπίσχετο — (Diog. Laerz., _Socr_.): e così Apollodoro incontra Socrate che si reca (_Simp_., II) tutto pulito, _lavato_ e, contro il solito, _calzato di sandali_ — λελουμένον καὶ τὰς βλαύτας ὑποδεδεμένξν — al banchetto di Agatone. [147] Ὅτι βρενθύει τ’ἔν ταῖσιν ὀδοῖς καὶ τὼ’ φθαλμὼ παραβάλλεις Κανυπόδητος κακὰ πολλ’ ἀνὲχει κὰφ’ ἤμιν σεμνοπροσωπεῖς. (Aristof., _Nubi_, v. 362-3) [148] Salvo l’esatto adempimento de’ suoi doveri di cittadino, Socrate astenevasi dalla vita pubblica, dai tribunali e dalle assemblee (Plat., _Apol_., I, XIX, XX). Il suo solito _demone_, egli diceva, _lo aveva sempre trattenuto dallo immischiarsi nelle brighe di Stato_: in fondo egli sentiva dentro di sè che il campo del suo grande apostolato era altrove; e che non era già tra le ciancie e i litigi dei venali Eliasti, nè tra il cozzo delle passioni meno nobili e dei bassi intrighi disputantisi il campo nell’assemblea, ch’egli poteva sperare di far udire utilmente per la repubblica i consigli della sua sapienza e delle sue virtù. — Una sola volta, com’egli potè ricordarlo con orgoglio davanti a’ suoi giudici, egli prese la parola nelle cose della repubblica: e fu per opporsi, indarno, alla iniqua condanna dei capitani vincitori alle Arginuse (_Apol_., XX). Un’altra missione nella sua città stava innanzi alla mente di quel giusto. «In un tempo, scrive il Wieland, in cui nessuno sembrava accorgersi come la depravazione sempre crescente degli antichi costumi andava approssimando lo Stato alla sua perdizione; in un tempo in cui il troppo rapido passaggio dall’aurea mediocrità di altra volta al culmine di potenza e di ricchezza a cui Pericle avea spinta la repubblica, apriva agli invaniti Ateniesi prospettive così luminose da farli dimentichi di ogni moderazione, nè più sognar d’altro che di dominio universale, e illimitato aumento di possessioni e di tributi; in un tempo in cui un uomo di vista così lucida e di così sano giudizio, com’egli era, poteva presentir facilmente che una terribile tempesta si andava formando per piombar sopra Atene, e che ben tosto sarebbesi presentata l’occasione in cui l’universale penuria di virtù morali e politiche avrebbe dovuto farsi profondamente sentire colle più funeste conseguenze; — in siffatto tempo offrir sè medesimo, nei pensieri e nelle massime, con la voce e con le opere, qual esempio di tutte le domestiche e civili virtù, per trarre a sè con l’incentivo delle sue maniere soavi la gioventù della classe più cospicua, e formarla a poco a poco a pensamenti e principii conformi, questo innegabilmente era il servizio maggiore che un uomo prestar potesse alla patria: e l’unico uomo che il _voleva_ e lo _poteva_ era, anzi fu... Socrate» (Wiel., _Aristippo_, I, lett. 6). [149] In tutta questa parlata di Diocare, il cointeressato de’ sacerdoti, cerca raccogliere i giudizj e le dicerie che correan per Atene sul conto di Socrate, a quest’epoca del dramma (415 av. l’E. V.), cioè nove anni dopo la rappresentazione delle _Nubi_ e quindici anni prima dell’accusa di Melito: giudizi e dicerie che, accreditate, checchè se ne dica, e sia pure involontariamente, dalla satira di Aristofane, avvalorate dalla credulità, dalla ignoranza e dalla sorda guerra dei demagoghi, dei sofisti, dei sacerdoti e di tutti coloro che la ironia di Socrate aveva irritato o pei quali la sua persona era un’accusa e un rimprovero vivente, dovevano preparar lentamente il terreno a quelle prevenzioni che alla fine presero corpo nel processo e furono le cause della condanna del grande filosofo. Il metodo stesso di vita di Socrate, apparentemente ozioso, pareva fatto apposta per avvalorare i pregiudizi che cominciavano a circolare tra il popolo in odio suo. Le leggi antiche soloniche, severissime contro l’ozio, cui comminavan l’infamia (Plut. e Diog. Laerz. in _Solone_; Erodoto, II; Polluce, VIII, 6), obbligavano ogni cittadino del terzo e del quart’ordine a esercitare qualche utile ed onesta professione, o a servire immediatamente la repubblica. Nell’opinione degli Ateniesi, Socrate (sebben come soldato avesse fatto il suo dovere a Potidea, ad Anfipoli, a Delio) non faceva nè una cosa nè l’altra: poichè «ch’ei fosse a vedersi ed udirsi giornalmente per tutti i vicoli di Atene e per le pubbliche piazze, e ch’egli andasse da una bottega e da un’officina all’altra a molestar la gente ne’ suoi mestieri con le sue questioni e sottigliezze — come essi le nomavano — ciò non veniva riguardato dal basso popolo e neppure dalla massima parte di quei della prima classe, per una _occupazione_ di veruna specie, e meno ancora di verun merito» (Wieland, _Aristippo_, II, lett. 28). — Figurarsi se questa non doveva essere un’arma eccellente in mano di coloro che quell’apostolato di Socrate molestava, o che la ironia sottile del _vecchio derisore_ raumiliava. [150] Come è noto, sono questi i titoli dell’accusa promossa da Melito, Anito e Liccone, pei quali Socrate fu poi condannato. «Socrate delinque perscrutando le sotterranee e le celesti cose, e facendo dritto del torto e insegnando altrui guaste dottrine. — Socrate delinque e corrompendo i giovani e non credendo i Numi che la città crede, bensì altre nuove cose demoniache» Plat., _Apol_., III, XI. Confr. Senof., _Apologia_, — e le _Nubi_ di Aristofane, ove quelle due precise accuse (comunque si tenti scagionare Aristofane da ogni responsabilità nella morte di Socrate) si trovavano già da ventiquattr’anni prima nettamente formulate. [151] Aristof., _Nubi_, v. 95 seg. [152] Questa fu veramente opinion di Pitagora (Eliano, _V. St_., IV, 17), ma il popolo non si occupava di sceverare per sottile quali fossero veramente le opinioni di Socrate. [153] Aristof., _Nubi_, v. 379 seg.; 828. [154] Confronta in Aristofane i lamenti di una donna ateniese, venditrice di corone pei sagrificj, contro Euripide, perchè avendo persuaso gli uomini che non ci son gli Dei, le ha rovinato la sua industria (Arist., _Tesmof_., v. 450 seg.). [155] _Pritani_: i reggenti, per turno, del _Senato_. L’assemblea del _Senato_ (βουλὴ) istituita da Solone a circoscrivere e controllare, in unione all’_assemblea del popolo_ (ἔκκλησια), l’autorità degli arconti, constò da principio di 400 cittadini che Clistene portò ai 500. Erano scelti a sorte ogni anno fra tutti i cittadini che avessero compito i 30 anni, e rappresentavano nello Stato un potere direttivo e moderatore. Il Senato preparava e dirigeva i lavori dell’assemblea del popolo, studiava in anticipazione gli affari e le leggi da sottoporre al suo voto, vegliava all’esecuzione delle sue decisioni; controllava i conti dei magistrati, compilava i bilanci, ordinava i pagamenti, accordava gli appalti delle imposte e delle opere pubbliche. Nessuna legge o misura di iniziativa privata poteva presentarsi all’assemblea, ed essere ammessa alla discussione, se prima non passava sotto l’esame del Senato. E al Senato infine si portavano le denuncie di alto tradimento, circa le quali, se n’era il caso, esso convocava l’assemblea del popolo, ed esposte le denunzie, deferiva la causa ai Tesmoteti. Uscendo di carica i Senatori dovevano poi render conto della propria condotta, e il Senato stesso puniva le colpe dei proprj membri. Le attribuzioni del Senato non venivano però tutte esercitate da tutti i senatori insieme. I cinquecento senatori dividevansi in 10 sezioni da 50 senatori l’una, quanti cioè ne contribuiva ciascuna delle 10 tribù o _file_: e ogni tribù rappresentata dalla rispettiva sezione, si succedeva per turno, nella reggenza del Senato, durante l’anno, il quale restava così diviso in dieci periodi amministrativi di 35 a 39 giorni ciascuno. _Pritania_ dicevasi così la sezione dei 50 senatori della tribù in carica (_Pritani_) come pure il periodo di tempo entro il quale essi amministravano. E indicavasi nelle leggi, oltre la data del mese, la Pritania: _il dì ventesimo quinto di Elafebolione, pritaneggiando la tribù Eretteide_, ecc. (Dem., Corona). I _Pritani_ presiedean le adunanze del Senato, lo rappresentavano in permanenza (gli altri senatori essendo liberi di intervenire o no) e prendevano le decisioni in suo nome: convocavano le assemblee del popolo nello Pnice, ne formulavano l’ordine del giorno, lo pubblicavano alcuni giorni prima nell’agora, e presiedevano l’adunanza: il capo dei Pritani (_epistata_) — tratto pure a sorte ogni dì — dirigeva le discussioni. Egli custodiva eziandio le chiavi dell’Acropoli, del tesoro e dell’archivio, e il sigillo di Stato. Nel periodo dei trentacinque giorni di ciascuna pritania avevano luogo ordinariamente quattro assemblee popolari: il che dava quaranta adunanze ordinarie all’anno. I pritani però o gli strategi in casi urgenti convocavano il popolo anche in adunanza straordinaria. [156] Alcibiade prima dell’età legale entrò nella vita pubblica (Andoc., _C. Alcib._). Notisi che ad Atene i cittadini avevano bensì a venti anni il diritto di assistere all’assemblea, come, dai diciott’anni, avevano l’obbligo di servire nella milizia: ma non potevano innanzi i trenta prender la parola nell’assemblea come oratori, come non potevano prima di quell’età seder nel Senato o nei tribunali. Alcibiade nacque, secondo la versione più accreditata, l’anno 450 av. l’E. V., per cui nell’anno della spedizione di Sicilia (415), all’epoca cioè di questa scena, doveva avere realmente 35 anni. Ma altri autori fanno Alcibiade più giovane, attribuendogli 40 anni (Corn. Nep. in _Alcib_.) all’età della morte, avvenuta nel 404: secondo il qual cómputo all’epoca della presente scena avrebbe avuto appunto 29 anni. Una ragion drammatica mi fece preferire questa seconda versione all’altra più autentica. [157] Era questo un tasto debole del popolo ateniese, spesso abilmente sfruttato da coloro che bramavano eccitarlo contro qualcuno. E Demostene stesso non si ristava, occorrendo, dal valersene: «_Colui, o Ateniesi, che crede di disonorarsi rispettandovi, non è degno di mille morti? Egli farsi maggior del popolo? Oh rabbia!_» (Dem., _C. Midia_). [158] «_Noi non contiam nulla come se fossimo di quelli da Megara_» (Alcifr., _Lett_., III, 44; Teocr., _Idill_., XIV). Modo proverbiale originato dalla risposta che diede ai Megaresi l’oracolo di Delfo, il quale, da essi interrogato con doni qual popolo fra i Greci sovrastasse in bravura, rispose qualificandoli come gli ultimi fra i Greci — ὑμεῖς δέ ὦ Μεγαρεῖς οὔτε τρίτοι οὔτε τέταρτοι, ecc., ecc. — «_Megarenses neque tertii neque quarti, neque duodecimi, neque in ratione, neque in numero_.» Vedi Erasmo a questo proverbio. — «_Badate, non è sopra Carii che voi fate i vostri esperimenti_» (Platone, _Lachete_). I Carii erano mercenarj che si esponevano senza scrupolo alla guerra. D’essi parla Strabone, lib. XIV. [159] Plut. in _Alcib_. E Ateneo, _Deipnos_., XII, 534: «_Jam dux quum esset exercitus, adhuc formosus esse volebat: itaque scutum habuit ex auro et ebore confectum, in quo pro insigni erat Amor fulmen vibrans_.» [160] Plut. in _Alcib_. [161] Ateneo, _Deipnos_., XII, 543 d., Plut., _Alcib_.; Tucidide, VI, 16. Vedi la nota 74 dell’atto primo. [162] Aristof., _Nubi_, v. 980; Tucidide, I, 6. Portavano le donne ateniesi cicale d’oro appuntate nei capelli, a significare il solito antico vanto delle origini, siccome di vera stirpe autoctona, nate anch’esse dal suolo, al par delle cicale. I giovani più ricchi ed eleganti imitavano la moda femminile. [163] _Porpora ermiònica_, ricordata da Alcifr., _Lett_., III, 46. Ermione fu città del Peloponneso. La porpora che vi si tingeva era celeberrima e vendevasi a enorme prezzo. [164] _Chiamar fichi i fichi, come dice il proverbio_ — τά σῦκα σῦκα — Dir pane al pane (Demetr., _Della elocuzione_, 7; Luciano, _Modo di scriver la storia_). — La quantità dei fichi, onde l’Attica era proverbiale, forniva al proverbio greco l’imagine più comune. [165] Sui sospetti contro Alcibiade e sulla tendenza e facilità estrema degli Ateniesi della sua epoca a sospettar disegni di tirannide, in ogni minima cosa, vedi Tucid., VI, 15, 28; Aristofane, _Lisistrata, Vespe_. [166] Plutarco in _Alcib_. [167] Plutarco in _Nicia_; Pausania, _Focid_., X, 15. [168] _Eumòlpidi_, ministri del culto di Cerere (_Demeter_) e di Proserpina nel tempio di Eleusi. Erano in Atene — al pari degli _Eteobutadi_, che erano i sacerdoti di Minerva — una famiglia sacerdotale antichissima, derivante il nome da Eumolpo di Tracia, che fondò i misteri eleusini: o più propriamente da εὔ μελπέσθαι, _cantar bene_, per il loro ufficio originario di cantar gli inni sacri: onde il loro antenato Eumolpo fu detto di Tracia, ossia di Pieria, siccome della patria del canto. Gli Eumolpidi costituivano anche un foro sacerdotale privilegiato (_gerofanti_): in quanto era ad essi deferita l’accusa e il giudizio dei delitti di profanazione dei misteri; contro i quali delitti procedevano col massimo rigore, suggellando la condanna con terribili maledizioni. Fu dagli Eumolpidi che venne maledetto, come profanatore dei misteri, Alcibiade (Lisia in _Andoc._; Esichio, a q. v. Cfr. C. O. Müller, _St. della letter. gr._, cap. 3). [169] «_Essendo tutti pronti per navigare, non si vedevano già cose di buon augurio, specialmente nella sacra solennità che allora correva. Imperocchè correvano appunto in quei giorni le feste di Adone_, ecc.» (Plutarco, _Alcib._). — Intorno alle feste delle Adonie, la cui coincidenza coi giorni prefissi alla partenza per la Sicilia, era tenuta d’infausto augurio, vedi al quadro primo la nota 30. [170] Aristof., _Lisistrata_, v. 393 seg. Cfr. Teocr., _Idill._, XV; Alcmano, _Framm. ap. Hephaest._ — Cfr. Menandro, il _Misogino_, pr. Strab., VII, 297; la _Sacerdotessa_, pr. Giustin. Monarch., 29. [171] «E poi che avete l’abitudine di chiedere ogni volta all’oratore: _Che s’ha a fare?_ — τὶ οὔν χρὴ ποιεῖν; — io domanderò: Che s’ha a dire?» (Demost., _Cherson._) «Sogliono certi, prima ancora di sentir l’oratore, subito domandargli: _Che cosa fare?_» (Demost., _Filipp._, IV). [172] I cani dell’isola di Creta, e specialmente quei di Gnosso, città cretese, eran famosi e pregiatissimi per grandezza, ardire e vigoria. Di essi è menzione in Oppiano, _Cyneg_., I; Polluce, V; Alcifr., _Lett_., III, 47; Teofilatto, _Lett._, 58. Egualmente reputatissimi nell’antichità erano i cani di Laconia. [173] Alcibiade aveva l’abitudine nel discorrere, specialmente in pubblico, di interrompersi tratto tratto, e far pause improvvise, il più delle volte a bella posta e per artifizio, come gli venisse mancando la parola (Plut. in _Alcib_.). [174] «Avendo egli un cane di meravigliosa grandezza ed avvenenza, il quale gli costava settanta mine, gli troncò la coda che bella era oltremodo, e riprendendolo i di lui famigliari e dicendogli come tutti aspramente il vituperavano per aver fatto ciò, egli ridendo: «_La cosa va dunque_ — rispose — _come voglio io, perciocchè voglio appunto che gli Ateniesi parlino di questo, acciò non si mettano a parlar contro di me di cose peggiori_» (Plutarco in _Alcib_.). [175] Lo stesso Plutarco in _Alcibiade_ narra di lui che «un giorno, facendogli il popolo applauso, egli per la gioja si dimenticò di una quaglia che aveva nella veste; onde quella spaventata volò fuori, e in vederla il popolo si pose a gridare e inseguirla per prenderla.» Mi sono valso a mio modo dei due incidenti del cane e dell’uccello, fondendone insieme e modificandone le circostanze, colla libertà concessami dalla ragion drammatica. [176] _I nepoti dei vincitori di Maratona_ — avrei dovuto dire: la frase sarebbe stata più esatta: ma anche più lunga e meno drammatica. [177] Il testo preciso e completo della legge, di cui Alcibiade, per le sue buone ragioni, non dice a Cimoto che una parte sola, e a modo suo, era questo: «Se alcuno degli Ateniesi riceverà (doni o danaro) o ad altri ne darà o con promesse si farà corruttore per far danno al popolo o ad un privato cittadino, qualunque modo o artificio egli tenga, sia infame egli e i suoi figli e tutto che è suo» (Demost., _Contro Midia_). Del resto, nell’opuscolo — _Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle_, — spiegai di già (e la osservazione vale così per questa che per altre leggi menzionate in quest’atto) come le leggi soloniche, ai tempi di Alcibiade, benchè vigenti tuttora in diritto, fossero per la maggior parte cadute, praticamente, in dissuetudine. [178] Ἀρεοπαγίτου στεγανοίτερος (Alcifrone, _Lett._, I, 13). Modo proverbiale. — Nel piano legislativo di Solone l’_Aeropago_ era il sostegno e il conservatore della costituzione dello Stato. Composto degli arconti usciti di carica, e di condotta irreprensibile, rotti ai pubblici affari per l’esperienza degli ufficj esercitati, l’Areopago non soltanto funzionava da supremo tribunale nelle più gravi cause capitali, ma era anche rivestito di amplissimi poteri censorj e amministrativi. Vegliava sull’amministrazione dei magistrati, sulle decisioni delle assemblee, perchè nulla si facesse o decretasse contro le leggi; soprintendeva alla pubblica disciplina, ai costumi, alla religione, all’educazione de’ giovani. Puniva i cittadini oziosi, i dilapidatori, i viziosi, indicava ai giovani le carriere da percorrere, ricompensava gli esempj di virtù, ecc. Era in breve il rappresentante degli interessi permanenti, e delle tradizioni politiche, legislative e morali della repubblica. Ma Pericle, mirando ad abbattere la fazione aristocratica che dall’Areopago traeva forza e prestigio, mutilò d’assai i poteri di questo tribunale. Egli fece passare la legge che toglieva all’Areopago la cognizione di quasi tutte le cause, deferendole invece ai seimila giudici della Eliea. La giurisdizione degli Areopagiti rimase circoscritta alle cause di omicidio premeditato, di incendio, veneficio, empietà, e qualche altro delitto minore: però gli Areopagiti continuarono a essere circondati di quel rispetto e di quella venerazione che incutevano la loro vita austera, l’autorità morale delle loro persone, e la solennità dei loro riti. Nelle cause di omicidio l’Areopago si radunava a giudicare di notte, sul campo di Marte — Ἄρεος πάγος, collina di Marte. — Le due parti, collocate fra le viscere fumanti delle vittime, prestavan prima il giuramento, accompagnato da terribili imprecazioni. Agli avvocati era proibito ogni esordio, ogni digressione dall’argomento, ogni artificio di retorica. Gli Areopagiti ascoltavano silenziosi, e, istrutta la causa, silenziosi deponevano i voti in due urne, una di bronzo, detta della morte, l’altra di legno, della misericordia. A voti pari, l’accusato era assolto, reputandosi aggiunto in suo favore il suffragio di Minerva. Dal silenzio e dal mistero con cui gli Areopagiti giudicavano, venne il proverbio che li riguardava (Meursius, _Areopago_; Schömann, _Antiq. jur. pub_., p. 298 seg.; Potterus; O. Müller, ecc.). [179] Porfirio ricorda delle leggi date agli Ateniesi da Trittolemo, antichissimo tra i legislatori Ateniesi, essersi conservate ad Eleusi queste tre sole: γονεῖς τιμᾶν. θεούς καρποῖς ἀγάλλειν. ζῶα μή σίνεσθαι. _Onorare i parenti, offerir frutta agli Dei, non far male agli animali_ (Porph., _De abst_., IV; Meursius, _Them. Att_., I). I popolani ateniesi, fanatici delle quisquiglie forensi e dei battibecchi giuridici dell’Eliea, era naturale avessero le leggi a ogni momento in bocca — salvo sempre infischiarsene, per loro conto, nella pratica. [180] «_Nelle adunanze vi sono grate le lusinghe_, dice Demostene agli Ateniesi» (Demost, _Filipp_., III). «_I vostri demagoghi vi inebbriano di tante lodi, che ne’ parlamenti vi gustano le adulazioni, e la repubblica lasciate alle sue estreme miserie_» (Demost., _Cherson_.). E le adulazioni e le lusinghe erano un tasto di effetto così sicuro sui vanagloriosi Cecropidi, che Demostene medesimo, il quale lo rinfacciava, più d’una volta per ispronare il popolo all’opera, era costretto a ricorrervi. Però questa piaga popolare era assai più antica di Demostene: già da un pezzo le lodi smaccate e le carezze colle quali i demagoghi trascinavano il popolo ateniese a loro posta, avean fornito il soggetto alla satira sanguinosa del _Demo_ nei _Cavalieri_ di Aristofane: poichè, per una contraddizione curiosa, questo popolo così tenero del sentirsi lodare ed adulare, era poi il medesimo che si lasciava dir sulla faccia improperj d’ogni sorta. E vedi, ad esempio, le orazioni di Demostene. [181] Εὔπρόσωπος γὰρ ὄ τοῦ μεγαλήτορος Ἐρεχθῆος δῆμος — _è bello il popolo del magnanimo Eretteo_ — (Platone, _Primo Alcib_.). Δῆμον Ἐρεχθῆος μεγαλήτορος, ὄν ποτ’ Ἀθήνη θρέψε, Διος θυγάτηρ, τέκε δὲ ζεἴδωρος ἂρουρα. _Popolo del magnanimo Eretteo, cui Minerva figlia di Giove un giorno nutrì, e l’alma terra generò_ (Omer., _Il_., II). — Eretteo o Erittonio, figlio di Minerva Betonica e di Vulcano, fu il quarto dei re antichissimi di Atene (dopo Cecrope, Cranao ed Anfizione): nato, secondo la leggenda, dal seme di Vulcano sparso sulla terra (Lucian., _Filops_.). Per il primo dedicò a Minerva, sulla rocca, sagrificj, e tempio e simulacro: e istituì in suo onore le feste Panatenee, ove fu il primo che corresse sul carro e aggiogasse al carro i cavalli (_Si dice che Erittonio figlio della Dea primo degli uomini unisse i cavalli al carro_, Aristid., _Or. in Minerv._; Virgil., _Georg_., III). Si volle anche che fosse stato il primo ad introdurre in Atene le monete (Polluce, IX, 6; Plin., VII, 56): e che al suo tempo nascessero le prime api famose sull’Imetto. Regnò cinquant’anni sugli Ateniesi, che da lui furon detti _Erettidi_, _o figli di Eretteo, o popolo Erittonio_ (Demost., _C. Mid_. negli oracoli; Eurip., _Medea_, v. 824; Properz., II, eleg. 6): come _Cecropidi_ diceansi da Cecrope; e anche _Cranai_, e _città di Cranao, città Pandionia_, dal re Cranao, e da Pandione, che fu il figlio e successor di Eretteo. Con questo Eretteo od Erittonio non va confuso l’altro Eretteo, suo successore e nipote — figlio cioè di Pandione — che istituì in onor di Cerere i misteri eleusini, e diede il nome alla tribù _Eretteide_; e sotto il regno del quale i cittadini mutarono l’antico nome di _Cecropidi_ in quello di _Ateniesi_ (Erod., VIII). [182] Aristofane nei _Cavalieri_, v. 41, chiama con questo titolo _mangiator di fave_, κυσμοτρὼξ il popolo ateniese. Intorno all’arroganza del demagogo Cleone, vedi Tucidide; e Aristofane nei _Cavalieri_. [183] Volendo annoverare i demagoghi, ossia gli oratori del popolo che si succedettero, dopo Pericle, nel maneggio delle cose della repubblica, gli Ateniesi nominavano in ordine di tempo primo Eucrate negoziante di stoppe, secondo Callia, venditore di pecore, terzo Cleone conciatore (_il cuojajo Paflagone_ dei _Cavalieri_), al quale Aristofane nella sua commedia, fa succedere Agoracrito, il salsicciajo, ma nella storia succedettero Cleofonte, il formaggiajo, e Iperbolo, fabbricante di lucerne secondo gli uni, vasajo secondo gli altri; il qual ultimo fu fatto cacciare coll’ostracismo da Alcibiade. [184] Tucidide, _Guerra Pelop_., II, 79. [185] Tucidide, III, 52, 68. [186] Tucidide, IV, 96. [187] Tucidide, V, 10. Fu nella battaglia di Amfipoli che morì il demagogo Cleone, comandante degli Ateniesi, e morì anche il comandante degli Spartani, il prode Brasida. [188] Aristof., _Tesmof. Cavalieri_. [189] καλῶ δε ἑναντίον ὑμῶν, ὤ ἄνδρες αθηναῖοι, τοὺς θεοὺς ἄπαντας, καί πάσας, ὄσοι τὴν χώραν ἔχουσι τὴν ἀττικὴν, καί τὸν Ἀπόλλω τὸν πὺθιον, ὄς πατρῶός ἔστι πόλει...» (Demost., _Corona_). [190] Apollo _Pizio_ — πύθιος — altro dei soprannomi dati a questo Iddio poichè uccise a frecciate il serpente Pitone, nato dal putrefarsi — πύθεσθαι — della terra dopo il diluvio di Deucalione; in memoria di che furono istituiti i giuochi sacri nazionali detti Pizj, celebrantisi ogni quattr’anni, sul luogo della uccisione, nella pianura tra Delfi e Cirra: _Instituit sacros celebri certamine ludos_ _Pythia de domitae serpentis nomine dictos_. (Ovid., _Metamorph_., I, v. 446) Questo mito di Apollo Pitio e dei serpente da lui ucciso, appare una imagine poetica e tutta greca del prosciugarsi della terra, dopo un grande cataclisma, sotto la sferza dei raggi del sole, che ne disperdono le putride esalazioni. E non per nulla gli antichi, come osserva l’Ampère, aveano collocato il tempio di Apollo Pitio a Delfo, al piè delle rupi dette _phedriades_ (_sfavillanti_), che ancora oggi ripercuotono con tutta forza i raggi solari — ossia le _frecce del Nume_, che uccisero il mostro. [191] «_La città lo sta ad ascoltare ammirata, a bocca aperta, come dicesi che interveniva agli Ateniesi pel figliuolo di Clinia_» (Luciano, _Scita_). [192] «_Ad Atene è patrio vanto primeggiar tra i Greci nè soffrir eguali_ — ἤ (πόλει) προεστάναι τῶν Ελλήνων πάτριον, καὶ μηδὲν τοιοῦτον περιορᾶν γεγνόμενον» (Demost., _Parapresb_.). «_Agli Ateniesi è patrio orgoglio non obbedire a nessuno ma prostrar tutti nelle battaglie_ — Ἀθηναιοις πάτριον ἔστι μηδενός ὑπακούειν, ἄ πάντον δὲ κρατεῖν τοῖς πολέμοις» (Demost., _Sulla lettera di Filippo_). — Vedi in proposito più sopra la nota 84. Cfr. _Meissner_, II, 35. [193] νὴ τόν Δία καὶ πάντας τοὺς θεοὺς (Demost., _Cherson_.) μὰ τον δία καὶ πάντας τοὺς θεοὺς (Demost., _Filipp_., IV). [194] Plutarco, _Disp. Conviv_., I, 1. — Il Dio Tebano, Bacco. [195] La viltà di Cleonimo che gettò via lo scudo, è frequentissime volte ricordata da Aristofane, nelle _Nubi_, nei _Cavalieri_, nella _Pace_ e altrove. [196] Le leggi antiche ateniesi (sebbene ai tempi di Alcibiade i rilassati costumi le avesser rese gran parte lettera morta) erano severissime contro i vili. Punito di _infamia_ — e quindi escluso dall’assemblea e dall’esercizio degli altri diritti del cittadino — chi avesse in battaglia cedute l’armi. Καὶ νὸμος τὸν αποδόμενον τὰ ὄπλα, ἄτιμος εἴναι (Syrianus, comm. in _Hermog_.). Punito di carcere il disertore che usurpasse ufficj di cittadini onorati. Κᾶν ἀστρατεὶας τίς ὄφλῃ, καὶ τι τῶν αὐτῶν τοῖς ἐπιτίμοις ποιῇ, καὶ τοῦτον δέδεσθαι (Demost., _C. Timocr_.). «Comanda la legge, scrive Aristotile, fare opera d’uom valoroso: cioè _non disertar l’ordinanza, non fuggire, non gittar via l’armi_.» Προστάττει δὲ ὄ νόμος καὶ τα τοῦ ἀνδρειοῦ ἕργα ποιεῖν, οἴον μὴ λείπειν τὴν τάξιν, μηδὲ φεύγειν, μηδὲ ρίπνειν τὰ ὄπλα (Aristot., _Ethic. Nicom_., V, 1). E a chi disertasse le schiere, o fuggisse, o gittasse l’armi, era comminata _la morte_. Νόμος τὸν λιπόντα τὴν τάξιν ἀναιρεῖσθαι (Syrian. in _Hermog_.; Auct., _Problem. Rhet_., XL). Νόμος τὸν καταστείχοντα φυγάδα θανάτῳ ζημιοῦσθαι (Marcell. in _Hermog_.). Νόμος τὸν ῥίψασπιν θανάτῳ ζημιοῦσθαι (Sopater in _Hermog_.) — Chi anche soltanto per trascuraggine avesse perduto lo scudo, era multato di cinquanta dramme: ε’ ὰν τις ε’ ὶπη, ἀποβεβληκέναι τὴν ἀσπὶδα, πεντακοσίας δρακμὰς ὀφείλειν κελεύει (Lisia in _Theomnest._). Altre leggi punivano severissimamente oppignorare o vender l’armi o cederle ad altri (Suida alla voce ἐνέχυρον; Sopater, Syrianus in _Hermog._, ecc.). — E ai tempi di Alcibiade le risate del popolo e i frizzi di Aristofane erano la sola punizione di Cleonimo! [197] Plutarco in _Alcib._ e in _Antonio_. Cfr. Shakespeare, _Timone_, atto III, e Meissner, sopra l’incontro di Timone, I, 44; II, 280. [198] «_Il vino irrorando gli spiriti assopisce gli affanni e i pensieri come la mandragora gli uomini_» (Senof., _Simp._, II). Da questa virtù di assopimento attribuita alla mandragora venne in proverbio tra gli antichi _bevere la mandragora, prendere la mandragora_, per significare dimenticanza del proprio dovere, lentezza nell’operare, letargia. Così Demostene, nella _Filippica_ V, rimproverando l’assopimento insensato degli Ateniesi in faccia al pericolo, somigliano, dice, _a chi ha bevuto la mandragora o altra simile pozione_ — μανδραγὸραν πεπωκόσιν ῇτι φὰρμκαον ἄλλο τοιοῦτον ἐοίκαμεν ἀνθρώποις. [199] Luciano, _Timone_. [200] Era in Creta la tomba di Minosse con sopravi la iscrizione: Μίνωος τοῦ Διὸς τάφος. Cancellata dall’ingiuria del tempo la prima parola, rimasero l’altre: sicchè la tomba di Minosse fu additata come tomba di Giove: — e la cosa passò tra i Greci in proverbio. Luciano la ricorda di frequente: «Risvegliati, o figlio di Saturno, da cotesto sonno profondo!... se non è vero quello che i Cretesi contano di te e della tua tomba» (_Timone_). «I Cretesi dicono che Giove non solo è nato ed allevato tra essi, ma ne mostrano anche la tomba» (_Dei sacrifizj_). «Quei che vengon da Creta contano che lì han veduto una tomba e sopravi una colonna con una scritta, che dice che Giove non tuona più, perchè è morto da un pezzo» (_Giove tragedo_). [201] Le donne greche, nei tempi più antichi, ascrivevano a primo dei doveri della maternità l’allattare esse medesime i loro bambini (Omero, _Iliad._, X, v. 83; _Odissea_, XI, v. 446; Euripide, _Ion._, v. 1460). Ma in Atene ai tempi di Alcibiade questa usanza era scaduta e le poche donne che allattavano ancora, si provvedevano però anche di una nutrice (Suida alla voce τροφὸς; Aristof., _Caval._, v. 713; Plut., _Educ. dei fanciulli_). Rinomatissime erano le nutrici spartane (Plut. in _Lic._). [202] Alcibiade ebbe per nutrice una donna spartana di nome Amicla (Plut. in _Alcib._). Gli antenati di Alcibiade erano stati in Atene _prosseni_, ossia _consoli_ di Sparta e a Sparta la famiglia dell’eforo Endio, pei vincoli di _prossenia_ che a quella di Alcibiade la legavano, alternava in ogni generazione il nome di Endio con quello di Alcibiade (Tucid., VI, 89; VIII, 6). Anzi _Alcibiade_ era esso stesso un nome laconico, come osserva lo scoliaste di Tucidide (Cfr. Meurs., _Misc. Lacon._, III, 8). [203] Chi vuol leggere esempj d’insolenze ed invettive che il popolo ateniese si lasciava dire in faccia, persuasissimo in cuor suo di meritarsele e altrettanto deciso di infischiarsene e tirar innanzi a modo suo, non ha che a prender in mano i _Cavalieri_ o le _Vespe_ di Aristofane o qualcuna delle orazioni di Demostene. Ecco la descrizione del popolo sovrano dello _Pnice_, personificato nel vecchio _Demo_, che Aristofane nei _Cavalieri_ fa dire da Demostene a Nicia sulla faccia degli spettatori: Un padron ci toccò rustico, strambo, Lunatico, iracondo, mangiafave: Certo Demo Pniceo zotico, sordo, Borbotton, capriccioso, e vecchio allocco E Demostene poi, in pieno foro, ne’ suoi trasporti di virtuosa indignazione, non avea penuria di vocaboli. _Città di schiavi, non d’uomini nati a maggioranza_ (_C. Androz._); _O Ateniesi assonnati in istupidezza e codardìa_ (_Ibid._); _cianciatori, imbelli_ (_Olint._, I); _impigriti nell’ozio, per ignavia degeneri_ (_Ibid._); _popolo invilito, fiacco, spiantato, derelitto, non più altro che schiavi e avveniticcia plebaglia_ (_Olint._, III); _bellicosi ne’ consigli, vigliacchi in guerra_ (_Cherson._); _tutto è qui fra voi codardia_ (_Filipp._, IV); _voi siete, Ateniesi, un vile gentame, plebe pezzente, inerme, scompigliata, divisa di interessi e di voglie: i capitani e tutti conculcano ogni vostro decreto: muti e prostituti i vostri consiglieri: ogni patto indifferente agli affanni della patria... Voi siete bruzzaglia piena di servitù, perduta nel nulla, e d’ogni vile beneficiuolo menate gran festa_... (_Sintassi_). — E parmi che basti per provare... la discrezione di Timone. [204] _Colitta_, uno dei borghi dell’Attica, appartenente alla tribù Egeide. Vi nacquero Timone il misantropo e Platone. [205] _Partenone_, il tempio famoso di Minerva sull’Acropoli: prodigio dell’arte antica, il genio della Grecia di Pericle parla ancor oggi, traverso ai secoli, dalle sue rovine. [206] Timone ha insultato Alcibiade. Ora una legge solonica (abbastanza trascurata del resto come l’altre) vietava ingiuriar una persona in pubblico. «Proibì pure (Solone) il dir villania ad alcuno ne’ templi, ne’ luoghi dove si tien ragione, dove si trattano gli affari pubblici e dove si fanno spettacoli; e ciò sotto pena di dover pagare tre dramme a quella persona particolare che fosse svillaneggiata, e due altre all’erario pubblico» (Plutarco in _Solone_). [207] Aristof., _Acarnesi_, v. 43-44. — Si purificava innanzi la seduta il luogo della assemblea spruzzandolo col sangue di un porcellino. Nelle _Aringatrici_, trattandosi di un’assemblea da burla, Aristofane al porcellino fa sostituire un gatto: Prassagora dice alle donne: _Il purificatore porti in giro il gatto_ (Arist., _Eccles._, v. 128). [208] Naturalmente era in altro senso che l’austero Demostene diceva: _la voce del banditore è voce della patria_, τῆς πατρὶδος γωνὴ (Demostene, _Corona_). [209] ῶ γῆ καὶ θνοὶ — Apostrofe usatissima (Aristen., _Lett._, II, 20; Demost., _Corona_, e altrove). [210] Teodota e Gnatena, due delle etére più in voga ad Atene, in quei dì. Intorno a Teodota, con cui Socrate stesso amava intrattenersi, vedi Senof., _Memorab._, III, 2; Aten., _Deipn._, V, 220 e. — Ateneo cita pure Teodota e Timandra, come le due amanti più note di Alcibiade: Aten., XII, 535, c. XIII, 574, f. 588 d. — Intorno a Gnatena, vedi Aten., XIII, 558 seg. [211] ἀλκυονίδαι ἡμέραι — modo proverbiale significante giorni placidi e sereni. _Alcionj_ o _alcionidei_ chiamavano propriamente gli antichi i quattordici giorni del solstizio d’inverno, durante i quali gli alcioni usano deporre le uova in riva al mare: onde il nome stesso di quell’uccello — παρὰ ἔν τῷ ἁλὶ κύειν — (Ovid., _Metam._, XI, v. 745; Plin., _N. Hist._, X, 47). — Consideravansi come dì fausti ai naviganti, poichè in questo tempo il mare ritrovasi in perfetta calma: indi l’uso proverbiale della frase. _Stando amici con noi, ve la godrete e passerete sempre giorni d’alcione_ (ossia giorni tranquilli) — ἁλκυονίδας τ’ ἄν ἤγεθ’ ημέρας αεί — (Aristof., _Uccelli_, v. 1594). — Luciano richiama in proposito la favola di Alcione e di Ceice: «Molto onore ebbe l’Alcione dagli Dei per l’amore che ella portò al marito: chè per farle fare il nido il mondo reca alcuni giorni detti _alcionj_, placidi e sereni in mezzo del verno: ed oggi è uno di quei giorni. Non vedi come è sereno il cielo e il mare tranquillo e cheto che pare uno specchio?» (Luc., _L’Alcione_. — Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 1; Teocr., _Idill._, 7). E il Tasso: «De l’alcione al desiato parto È sopito il furor d’orridi venti, Son quete l’onde tempestose, e ’ntorno Sgombre le nubi e serenato il cielo: In sì tranquillo e sì felice aspetto De’ fidi augelli alla progenie arride.» (T. TASSO, _Mondo Creato_, Giorn. V) [212] «_Come si suol dire, ai soli spergiuri degli amanti gli Dei perdonano; perchè il giuramento venereo_ — ἀφροδίσιξς ὄρκος — _non vale_» (Plat., _Simposio_, c. 10). — «Il piacere è la più bugiarda di tutte le cose: e come va per proverbio, nei piaceri di Venere, i quali pur sembrano essere i massimi, anche allo spergiurare è accordato perdono dagli iddii, appunto come se i piaceri, a guisa di fanciulli, non avessero pur un briciolo di cervello» (Plat., _Filebo_, c. 41). — E in Aristeneto una donna così rinfaccia al suo amante la incostanza maschile: «Fintanto che siete innamorati, voi altri uomini, passate le intere notti ai nostri usci per terra e senza letto, piangendo chiamate in testimonio gli Dei, e avete i giuramenti sulla punta della lingua... Ma tosto che avete a sazietà soddisfatta la vostra libidine, e avete ridotte le amate or dianzi ad amarvi alla lor volta, allora tronfi vi ridete del rapito fiore di quelle, e prendete a ludibrio le misere ch’eran prima l’oggetto delle vostre brame: e dite _che i giuramenti non arrivano all’orecchio degli Dei_» (Aristen., _Lett._, II, 20). — E Pavillon, illustrando a sua volta un po’ crudamente la teoria greca della nullità del giuramento degli amanti: Dès qu’un objet cesse de plaire Le commerce amoureux aussitôt doit finir, Le respect des serments n’est plus qu’une chimère La perte du plaisir qui nous les a fait faire Nous dispense de les tenir. [213] Modo di dire omerico (ripetuto anche in Esiodo, _Teog._, 35) di uso proverbiale antichissimo fra i Greci, e più antico, sembra, di Omero. Οὔ γὰρ ἀπὸ δρυός ἔσσι παλαιφάτου, οὔδ’ ἀπὸ πέτρης. Così Platone: «_Per dirla con Omero, neppur io sono nato nè di quercia, nè di pietra, ma d’uomini_» (_Apolog._, 23). — Il Müller lo reputa un detto di antichissimi cantori pierii: nel quale la quercia e la rupe accennano alla semplice vita campestre degli autóctoni greci, che credevano di trarre la loro origine dai monti e dalle selve: e intorno a questi soli oggetti s’aggirava con innocente semplicità il loro pensiero. [214] «Veloce è Cupido al venire e all’andarsene; se spera prende l’ale: se appena dispera, immediatamente gli cadono. Indi la grand’arte delle etére è in differir sempre il godimento e trattener gli amanti colla speranza» (Aristen., _Lett._, II, 1). — «Io credo che l’amore grande nasce quando uno si persuade che tu poco lo curi: se è sicuro di possederti egli solo, la passione si smorza» (Luciano, _Dial. delle cortigiane_, 8). — «Che crudele costui! Ma tu stessa, o Violetta, l’hai guasto col volergli troppo bene e col mostrarglielo. Dovevi non farti vedere troppo accesa di lui: egli ora lo sa, e se ne tiene» (Luc., _ibid._, 12). [215] Senof., _Repub. Laced._, 1; Plutarco in _Licurgo_ e _Apoft. Lacon._ [216] Munichione è il decimo mese dell’anno attico, secondo lo Scaligero (aprile-maggio). Qui cadono in acconcio alcuni cenni sul _Calendario Attico_. Gli Ateniesi ebbero da principio un anno lunare di 354 giorni diviso in dodici mesi successivamente cavi e pieni, nell’ordine seguente: 1.º _Gamelion_; 2.º _Antesthesterion_; 3.º _Elaphebolion_; 4.º _Munychion_; 5.º _Targelion_; 6.º _Scirophorion_; 7.º _Hecatombeon_; 8.º _Metagitnion_; 9.º _Boedromion_; 10.º _Memacterion_; 11.º _Panepsion_; 12.º _Posideon_. Ma col tempo risultando quest’anno lunare in arretrato sul ritorno periodico delle stagioni, si consultò l’oracolo; il quale ordinò di regolare i mesi colla luna e l’anno col sole: cioè intercalare il numero di giorni necessario perchè la durata dell’anno corrispondesse meglio all’annua rivoluzione del sole. Si stabilì quindi una intercalazione di un mese di trenta giorni, la quale intercalazione avesse luogo tre volte in otto anni, ossia per ogni due olimpiadi (quadrienni): infatti otto anni di 354 giorni con tre mesi intercalati di trenta, corrispondono appunto ad otto anni di 365 giorni e un quarto. Per tal modo riconducevasi il primo giorno, il primo mese e il primo anno di ciascuna olimpiade verso la luna nuova che veniva dopo il solstizio d’estate. L’_ottaetèride_, ossia periodo di otto anni, ricominciava infatti verso questa luna e il lunario ateniese seguiva tutte le variazioni derivanti dalla sua singolare struttura. Fu questa la riforma dell’astronomo Metone, introdotta nel calendario civile ateniese appunto all’epoca di Alcibiade e precisamente nel 432 av. l’E. V. (anno 1.º dell’Olimpiade 87.ª): e da quell’epoca il mese di ecatombeone, ch’era il settimo del primitivo ordine, e cominciava appunto col novilunio susseguente al solstizio estivo (16 luglio), diventò il primo mese del calendario olimpico, che fu adottato dalla maggior parte degli Stati greci. Indi i mesi attici, corrispondenti ciascuno (secondo i calcoli del Corsini) dal 16 luglio in avanti, alla seconda metà di un mese nostro, e alla prima metà del successivo, rimasero così distribuiti: 1.º _Ecatombeone_ (luglio-agosto), _mese della ecatombe_, ossia del sagrificio. Chiamossi in antico ecatombe un sagrificio di cento buoi, più tardi un olocausto in genere. 2.º _Metagitnione_ (agosto-settembre), _mese del tragitto_. Si celebravano in esso le feste di Apollo Metagitnio, commemorative del passaggio di un popolo dell’Attica da un comune all’altro. 3.º _Boedromione_ (settembre-ottobre), ossia _mese del soccorso_. Celebravasi in esso la festa _Boedromia_, in memoria del soccorso recato da Xuto agli Ateniesi, quando questi, al tempo di Eretteo, furono assaliti dagli Eleusini sotto la condotta di Eumolpo trace, figlio di Nettuno. Vi si onorava Apollo perciò detto anch’egli _Boedromio_; e ai 15 di questo mese stesso ricorrevano in onor di Cerere e Proserpina le feste dei misteri eleusini, la cui celebrazione durava nove dì. 4.º _Pianepsione_ (ottobre-novembre), ossia _mese delle fave cotte_. Si cuocevano queste nelle feste, perciò dette _Pianepsie_, istituite in memoria di Teseo, che tornato salvo da Creta, mangionne per allegrezza alla stessa tavola co’ suoi compagni. Ricorrevano pure in questo mese le _Tesmoforìe_, ossia le feste di Cerere tesmofora, celebrate per sette giorni dalle donne di ingenua nascita, con processioni ad Eleusi, digiuni e solennissimi riti; e le _feste Apaturie_, o feste delle frodi, commemorative del duello in cui Melanto campione degli Ateniesi vinse per inganno Xanto re dei Beoti; duravan tre giorni, nel terzo dei quali avea luogo la iscrizione dei neonati. 5.º _Memacterione_ (novembre-dicembre), ossia _mese di Giove tempestoso_ — in onor del quale si celebravano le feste _Memacterie_ per implorare il tempo sereno (Il Petavio mette questo mese in luogo del _Pianepsione_ dal quale lo fa precedere). 6.º _Posideone_ (dicembre-gennajo), ossia _mese di Nettuno_, onorato nelle feste _Posidonie_, celebrate con solenni abluzioni, specialmente in Egina. Ricorrevano pure in questo mese le _Dionisiache rurali_, ossiano i _Baccanali campestri_, celebrati nella campagna colla processione del _fallo_ ritto. 7.º _Gamelione_ (gennajo-febbrajo), ossia il _mese delle nozze_, sacro a Giunone _Gamelia_, auspice e tutrice dei vincoli conjugali. 8.º _Amtesterione_ (febbrajo-marzo), ossia _floreale_. Vi ricorrevano all’11 del mese le _feste Lenee_, dette anche _Antesterie_ o _floreali_, e dedicate a Bacco Leneo: le quali duravan tre giorni: il primo, festa delle _botti_; il secondo, festa delle _coe_ o delle libazioni funerarie; il terzo, festa dei _chitri_ o delle _pentole_, perchè in tal dì cuocevansi legumi d’ogni specie in una gran pignatta, offerta in suffragio de’ morti a Mercurio. 9.º _Elafebolione_ (marzo-aprile), ossia _mese di Diana cacciatrice dei cervi_. Le si offeriva nella sua festa una torta raffigurante quell’animale. In questo mese avean luogo le _grandi Dionisiache_, ossiano i _Baccanali della città_, celebrati in Atene colla massima pompa e processioni solenni, e gara dei componimenti teatrali. 10.º _Munichione_ (aprile-maggio), ossia _mese di Diana Munichia_, così detta dal suo tempio famoso in Munichia, borgata e porto di Atene, ove celebravansi in questo mese le sue feste. 11.º _Targelione_ (maggio-giugno), ossia _mese scaldaterra_. Vi si celebravano le feste _Targelie_, in onor del Sole e delle Ore, portandosi in giro le primizie dei prodotti. Ricorreva pure ai 25 di questo mese la _festa Plinteria_, in onor di Minerva e di Aglauro, tenuta per giorno d’infausto augurio. 12.º _Sciroforione_ (giugno-luglio), ossia il _mese dell’ombrella_, la quale veniva portata ai 12 del mese, nelle _feste Scire_ o _Sciroforie_, in onor di Minerva, da Atene a Sciro, borgo fra Eleusi ed Atene, ov’era il tempio di Minerva perciò detta _Scirade_, ossia _dall’ombrella_. Il mese intercalare poi, che si aggiungeva, come abbiam detto, tre volte in otto anni, dicevasi _Posideone secondo_. Dividevasi il mese in _tre decadi_: la _prima_ dicevasi del _mese cominciante_ o _luna crescente_, ἱσταμὲνος μηνὸς — la seconda del _mese medio_ o della _luna media_, μεσοῦντος μηνὸς — la terza del _mese_ o della _luna terminante_, φθίνοντος μηνὸς. Si designavano progressivamente dall’uno al dieci i giorni della prima decade; _primo, secondo, terzo_ del mese _entrante_ o _cominciante_ (πρώτη, δευτέρα, τρίτη ἱσταμὲνος); egualmente quei della seconda: _primo, secondo, terzo del mese medio_, oppure _primo dopo dieci, secondo dopo dieci_, ecc. (πρώτη, δευτέρα, τρίτη μεσοῦντος, ovvero πρώτη ἐπί δὲκα ecc). Giunti alla terza decade, si contava per sottrazione: ossia il 21 diceasi _decimo del mese cadente_, il 22 _nono_ del mese cadente, il 23 _ottavo_, ecc. (δεκάτη, ἐνάντη, ογδόν φθίνοντος). Però talvolta si contavano anch’essi per addizione e dicevasi _primo dopo venti, secondo dopo venti_, ecc. (πρώτη μετὰ εἴκαδα, δευτέρα μετὰ εἴκαδα, ecc.). Il 30 ed ultimo del mese chiamavasi ἐνη καὶ νέα, _vecchia e nuova luna_, ossia tra il finir di una luna e il cominciar di un’altra. Il primo del mese dicevasi pure νουμηνία, ossia _novilunio_. Quando il mese era di 29 giorni invece di 30, il 21 invece di chiamarsi _decimo del terminante_ dicevasi _nono_, il 22 _ottavo_, ecc. Vedi Scaligero, Petavio, Corsini, Cesarotti, Taylor; Plutarco in _Solone_, ecc. [217] Omero, _Odissea_, e altrove. [218] _Pecile_, ossia _istoriato_, diceasi un portico famoso di Atene, ov’erano rappresentate le gesta degli Ateniesi, dipintevi dal pennello di Polignoto. In questo portico diedero più tardi le lor lezioni i filosofi che si dissero _stoici_ (στοὰ, _portico_). [219] Sull’uso del recarsi, specialmente i parassiti, anche non invitati, ai pranzi ed ai simposj, vedi in Ateneo, _Deipnos._, VI. Ivi Ateneo cita parecchi di simili casi. In una commedia di Apollodoro Caristio, un personaggio dice d’invitare il parassito Cherefonte, perchè _se anche non lo invitasse verrebbe ugualmente_. In un’altra commedia del medesimo, il parassito va non invitato a un banchetto nuziale col pretesto di portar degli uccelli alla sposa. Altrove Linceo di Samo narra ancora di Cherefonte che va ad un convito senz’esservi chiamato: e siccome egli vi si trova in più del numero normale dei convitati, i gineconomi lo vogliono mandar via: egli risponde: _Avrete contato male. Tornate a contare, cominciando da me._ — Pure a lungo discorre di questa usanza del presentarsi non invitati ai simposj, Plutarco nelle _Disp. Conviv._, VII, 6: ov’egli la giudica sconveniente e propria dei soli _parassiti_ od _ombre_: benchè la vediam praticata anco da filosofi cinici e cirenei (Luciano, _Lapiti_, 12; Aten., _Deipnos._, XII, 510): e benchè Plutarco stesso ami derivarla da Socrate che seco condusse Aristodemo non invitato al banchetto di Agatone; e più in su, da Menelao che nel 2.º dell’_Iliade_ si presenta non invitato al convito d’Agamennone. — Ma caratteristico fra tutti, su questo proposito, è un passo grazioso del cantore jonio Asio di Samo (citato in Ateneo), ov’egli con gravità omerica descrive, in tono di parodia, un parassita che accorre sfrontatamente ad un convito nuziale; che è zoppo, grigio il crine, adora il profumo dell’arrosto (κνισοκόλαξ), e coperto d’ignobili cicatrici, giunge non invitato e _a un tratto si pianta fra gli ospiti, siccome un eroe che sorge dal fango_, ἔν δὲ μέσοισιν — ηρως εἰστήκει. βορβόρου ἐξαναδύς (Aten., III, 125 d.; Callini, _Tyrt. As. carm._, ediz. Bachius, p. 142). — Nell’_eroe_ di Asio, il cui tipo sembra al Müller (_St. lett. gr._, X) il più antico esempio di parodia, il lettore potrà ravvisare la genesi del mio Cimoto. [220] Il noto verso di Omero, nel 2.º dell’_Iliade_, αὐτόματος δέ οἴ ἤλθε βοήν ἁγαθὸς Μενελαος «_spontaneo venne_ (al banchetto d’Agamennone) _Menelao valente nella mischia_» era passato in proverbio e in barzelletta tra i Greci, applicato in ispecie per ischerzo ai parassiti che venian non chiamati alle mense. Vedine esempio in Luciano, nei _Lapiti_. [221] Nel comico Difilo, presso Ateneo, un parassita invitato, guarda per prima cosa non gli ornamenti e l’architettura della sala, bensì il fumo della cucina; e si rallegra se lo vede uscir ben alto e ben denso: ma se lo vede uscir fioco si rattrista, siccome annunzio di un magro desinare (Aten., _Deipnos._, VI, 236 c). [222] Porta _Dipila_ o _Triasia_, o _Ceramica_, ovvero il _Dipilon_, era la porta all’angolo nord-ovest d’Atene, conducente dal Ceramico interno al Ceramico esterno e ai giardini dell’Accademia, distante sei stadj. È la sola porta di Atene che tuttora sussista. Seguivano, dopo quella, a settentrione le porte _Ippadi_ (conducente a Colono), d’_Acarne_ e _Melitide_ (conducente a Maratona); a levante la porta _Diomeja_, conducente al Cinosargo, e la porta _Diocari_, che metteva al Liceo; più innanzi, nella parte di mezzodì bagnata dall’Ilisso, la porta _Egea_ (sud-est) conducente al tempio di Cerere e al monte Imetto; e la porta _Falerea_ (sud-ovest) unita, per la via del _lungo muro australe_, al borgo e porto di Falera. Infine, dopo questa, nella parte di ponente, bagnata dal Cefisso, la porta del _Pireo_, unita dal _lungo muro boreale_ al porto di quel nome, al quale conduceva per la strada di Teseo; indi la porta _Sacra_, che conduceva ad Eleusi e la porta _Itonia_, e infine da capo la _Dipila_. [223] Proverbio greco popolare, giunto fino a noi. Un parassita lo cita nel _Medico_ di Aristofane: τοὺς καλοὺς πειρᾷν κακνὸς (Aten., _Deipnos._, VI, 238 c.). — _Opinantur mulierculae pulcherrimum quemquam fumum persequi_ (Victorius, cap. 21, _Variarum_). [224] Rinomatissime e ricercate alle mense erano le anguille del lago Copais, in Beozia. Così pure le _raje_ (βάτις, Arist., _Vesp._, 510; Aten., III, 104) tenute fra i pesci più delicati; e gli _uccelli del Fasi_, o _fasiani_ (fagiani — φασιανος ὄρνις — Aten., XIV, 654; Alcifr., III, 7). Dalle rive del Fasi, fiume della Colchide ove trovavansi in gran copia, gli Argonauti furono i primi a portarli in Grecia, di dove vennero trasportati in Italia, serbando l’antico nome. _Argiva primum sum transportata carina;_ _Ante mihi notum nil, nisi Phasis, erat._ (Marziale, XIII, ep. 72) [225] _Ceramico_ o _palazzo delle tegole_, era un quartiere famoso della città, che traeva il nome, secondo Pausania (_Attic._, 3), dall’eroe Ceramo, figlio di Bacco e di Arianna; ma molto più verisimilmente dai lavori in terra cotta (κέραμος, _tegola_) che vi si facevano. Estendevasi parte fuori e parte dentro della città. Nel Ceramico esterno, che si stendeva dalla porta Dipila sino all’Accademia, erano le tombe degli eroi, caduti in guerra per la patria. «_Ceramicus locus Athenis ubi bello peremptos sepeliebant, et funebres orationes habebant: statuis passim erectis, quae, quo quique loco occubuissent, indicarent_» (Suida). Nel Ceramico interno che dalla porta metteva alla piazza maggiore (_Agorà_), radunavansi il bel mondo e le meretrici (V. Suida; Meursius alla voce _Ceramicos_; Paus., _Att._, 3, 29). Avendo l’autore supposto la casa di Alcibiade (quadro I, not. 1) a ponente d’Atene, fuor delle porte, presso la via del Pireo, Cimoto uscendo dalla porta Dipila, a nord-ovest, per venire a trovar Alcibiade, doveva appunto attraversare il Ceramico esterno. [226] Anacreonte, _ode_ 41. [227] Eraclito, filosofo di Efeso, era così chiamato per la oscurità del suo stile e della sua dottrina: della quale Socrate, richiesto un giorno del suo parere da Euripide, ebbe a dire: «quel poco che riesco a capirne è buono; e voglio credere che sarà buono anche quello che non capisco: ma per penetrar quell’abisso ci bisognerebbe un palombaro di Delo» (Diog. Laerz. in _Socr._ e in _Eracl._). [228] Il giuramento o l’attestazione per _Venere! per la regina Venere!_ δέσποινα Ἀφροδίτη — era de’ più usitati fra le etére (Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 32, 36, 39 e altrove; Aristen., _Lett._, I, 23). [229] Aristen., _Lett._, I, 15; Luciano, _Imagini_; Omero, _Iliade_; e la poetessa Saffo: «_La persuasione è figlia di Venere_.» [230] Plutarco in _Alcib._, chiama Timandra la compagna fedele dell’eroe ateniese che lo assistette al momento della sua morte. Collo stesso nome la chiama Ateneo, XII, 535 c., il quale la fa anche madre della famosa Laide di Corinto: più innanzi, al libro XIII, 574 f., Ateneo la chiama _Damasandra_ — ma è evidentemente la stessa persona. [231] Ετησίαι, venti settentrionali spiranti regolarmente ogni anno, d’estate, nell’Arcipelago, per un determinato numero di giorni. — Appunto venendo dal settentrione, eran favorevoli alle navi che uscendo dal Pireo veleggiassero a mezzodì per la Sicilia (Cfr. Demostene, _Filipp._, I; _Cose del Cherson._) — E Plinio, _Nat. Hist._: «_Caniculae exortum diebus octo ferme aquilones antecedunt, quos prodromos vocant. Post biduum autem exortus, iidem aquilones constantius perfiant, diebus quadraginta, quos Etesias vocant._» [232] Nei tempi eroici più remoti, secondo vediamo in Omero, usavano porsi a tavola, come ai dì nostri, seduti: ma all’epoca del dramma nostro e, in generale, nei tempi storici, dalle guerre persiane in poi, troviamo ormai dappertutto sottentrata fra’ Greci l’usanza di coricarsi sdrajati sui letti. Solo faceano eccezione, insiem coi ragazzi, le matrone e le fanciulle, e in genere le donne di famiglia (ἔλευθεραι), le quali sedevano a tavola sopra sedie a spalliera (Welcker, _alte Denkm._, II, 240) e per lo più lontane dai mariti; invece le _etére_ e le cortigiane in genere, che rallegravano i simposj maschili, usavano coricarsi anch’esse sui letti a fianco degli uomini (Winckelmann, _Monum. ined._, 200. Cfr. Alcifr., I, 39). La forma e disposizione dei letti concordava in complesso coll’uso dei Latini: soltanto, a differenza di questi, — e contro l’opinione comunemente invalsa — pare che i letti delle mense, ad Atene, fossero ordinariamente di soli _due_ posti e non di _tre_. Così opina anche l’Hermann, arguendolo dal convito platonico, ove Agatone invita Socrate per suo compagno di letto, dà Aristodemo per compagno di letto ad Erisimaco, e solo in via di eccezione chiama Alcibiade a seder terzo fra Socrate e lui. A due a due siedon pure i convitati Greci e Persiani (ὁμόκινοι) al banchetto di Attagino in Erod., IX, 16: e anche nelle pitture di vasi antichi questa appare la disposizione numerica più comune: solo più di rado occorre nelle pitture il caso di letti occupati da tre e talora anche da un numero maggiore di convitati, fino a cinque: _Graeci quini stipati in lectulis_ (Cic., _Pison._, 1040): ciò che per altro l’Hermann attribuisce anche all’angustia dello spazio offerto dai vasi alle figure. I letti poteano essere anche più di tre: la cena del re Cleomene era detta _laconica_ perchè non vi erano che tre letti. I letti (κλίνη), nelle case agiate in ispecie, riccamente lavorati e listati di porpora, eran fatti più comodi da tappeti e cuscini. I convitati vi si poneano a giacere appoggiati sul gomito sinistro (ἐπαγκῶονος δειπνεν, Luciano, _Lessifane_) a cuscini, per lo più rotondi, che sostenevano il dorso (προς κεφάλαιον), avendo così libero il braccio destro e la parte inferiore del corpo stesa in lungo e leggiermente piegata. Per tal guisa trovandosi varj convitati sullo stesso letto, il primo giaceva sporgendo le gambe lungo il dorso del secondo, o meglio lungo il cuscino su cui il secondo si appoggiava (Millin, _Peint. des Vases_; Tischbein, _Recueil_; Ferrario, II, pag. 1041, tav. 144). Se i cibi venissero come tra i Latini portati in giro e deposti sopra un’unica tavola nel mezzo dei letti, o se ciascun letto avesse il suo proprio tavolo, non è ben definito; però questa seconda maniera è, secondo l’Hermann, più verisimile; e infatti nelle antiche pitture di simposj vediam posti uno o più piccoli tavoli (_tripodes, trapezai_) dinanzi a ciascun letto: i quali tavoli (su cui deponeansi quei piatti che non recavansi in giro) al finir dei cibi venivano dai servi portati via (αφαιρεῖν τὰς τραπέζας). Ai convitati — che interveniano al banchetto vestiti in bianco — ordinariamente era il padrone di casa che assegnava i posti; fra i quali vi era, come tra noi, distinzione d’onore; «_il posto più onorifico_, dice Plutarco, _è fra i Persiani quel di mezzo ove siede il re, fra i Greci il primo_» (in capo dei letti): e il padrone facea seder presso di sè l’ospite che volea maggiormente onorare (Cfr. Plat., _Simp._; Plut., _Disp. Conv._, I, 2, 3). Prima di porsi a giacer sui letti, i servi toglievan le calzature e lavavano i piedi ai convitati (Plat., _Simp._, p. 175, 213): al che, nelle case dei ricchi scialacquatori, invece d’acqua, facevasi uso di vino e di essenze odorose (Plutarco, _Focione_). — L’ordine del banchetto ci vien quindi così riassunto da Aristofane nelle _Vespe_ (v. 1210 seg.): «_Fil._ Come debbo coricarmi? — _Bdelic._ Con decoro. — _Fil._ Come dunque? — _Bdelic._ Stendi le ginocchia e mollemente come si usa nelle palestre ti adagia sui tappeti. Piglia quindi a lodare alcuno dei vasi di bronzo che ti son posti dinanzi. Si dà l’acqua alle mani. Si portano le tavole. Ceniamo. Ci laviamo. Si fanno le libazioni.» A tavola non faceasi uso nè di forchette, nè di coltelli. Solo il cucchiajo (μυστίλη) usavasi pei cibi liquidi; pei cibi solidi adopravansi le dita; le quali i convitati si ripulivano durante il banchetto colla mollica di pane, e coll’acqua ch’era data in fin di tavola; non vi essendo del resto alcun uso nè di tovaglie, nè di tovagliuoli. Insieme alle abluzioni alle mani (ἀπονίψασθαι) e al levar delle tavole, si lavava contemporaneamente il pavimento, spargendolo di unguenti ed essenze; si distribuivano quindi ai convitati le corone e si chiudeva colla _libazione al buon genio_ il _pranzo_ propriamente detto, ossia la mensa dei cibi (Cfr. Aten., _Deipn._, IX, 408 f.; XV, 665 b. Menandro in _Suida_, v. αἴρειν): alla quale succedeva la parte più importante del banchetto ateniese, ossia la _seconda mensa_ o mensa dei _bicchieri_. — Ma di questa più innanzi. [233] _Per le Dee!_ o _per le due Dee!_ (Cerere e Proserpina) — μὰ τὼ θεώ — Esclamazione ateniese usatissima, propria soltanto delle donne. Cfr. Aristof., _Eccles._, v. 158; _Lisistr._, v. 111 e altrove. [234] Cfr. il lamento sulle guerre civili de’ Greci, posto anche da Aristofane in bocca a una donna ateniese: «Io voglio imprendere a sgridarvi in comune, e giustamente, perchè voi spruzzando con un solo vaso d’acqua lustrale gli altari come uniti di parentela, in Olimpia, a Pilo, a Delfo, mentre avete nemici i barbari, coi vostri eserciti distruggete gli uomini e le città greche» (_Lisistr._, v. 1128 seg.). In Olimpia e a Delfo convenivano, com’è noto, i Greci di tutte le città e di tutti gli Stati per la celebrazione dei giuochi olimpici e dei giuochi pizj, feste che segnavano un periodo di tregua alle guerre fra i varj popoli di Grecia. A Delfo poi conveniva la grande adunanza nazionale dei popoli greci (_Anfizionia_) per celebrar la festa dell’oracolo in comune (Mejer, _Giuochi Olimp._; Krause, _Giuochi Pizj, Nemei ed Istmici_; Grote; Meursius; Corsini, ecc.). Un pensiero simile sulle discordie fraterne de’ Greci è in Demostene: «Gli è vero che dai Lacedemoni e da noi molto soffrirono i Greci; noi però siam tutti d’un sangue, abbiam tutti una patria comune» (_Filipp._, III). [235] Nel recinto del tempio di Delfo erano i tesori votivi dei popoli e delle città greche e i doni preziosi da esse inviati al Nume in memoria delle vittorie riportate. I trofei recavano le iscrizioni dei popoli che li offerivano e delle vittorie che rammentavano; per esempio: _Brasida e gli Acanzj, delle spoglie degli Ateniesi. — Gli Ateniesi delle spoglie de’ Corinzj_, ecc. Del numero di queste offerte votive era la palma di bronzo degli Ateniesi, ricordata nel quadro II (Vedi Plutarco, _Lisandro_, I; Pausania, _Focide_. Cfr. Barthel., _V. d’Anac._, IV, c. 22). [236] Frase greca proverbiale, derivata dalla burla che Prometeo si permise verso Giove, secondo narrasi in Esiodo. Sagrificò Prometeo a Giove un bue, e poste dall’una parte le ossa nascoste sotto bianco adipe (ὁστέα καλύψας ἀργέτι δημῷ), dall’altra le carni e il buono e il meglio della vittima chiuso nel ventre bovino, disse a Giove di scegliere quale delle due parti volesse, lasciando agli uomini l’altra. O che Giove fosse preso alla burla, come Igino racconta e scegliesse infatti il peggio, o che se ne avvedesse, come finge Esiodo, egli ne concepì tant’odio verso Prometeo, che dimentico dell’amicizia fino allora professatagli, volle punirlo in una cogli uomini da lui protetti (Esiod., _Teogon._, v. 535 seg. Cfr. _Op. e giorni_, v. 48; Igin., _Poet. Astron._, II, 15). — E Luciano fa dire da Mercurio a Prometeo, che si lagna del supplizio: «Non hai fatto alcun male tu che quando avevi l’uffizio di spartire le carni, facesti parti ingiuste e l’inganno di serbare il meglio per te e di mettere innanzi a Giove, come disse Esiodo, _ossa nascoste sotto bianco grasso_? Di poi hai formato gli uomini, maliziosissimi animali, specialmente le donne: infine hai rubato il fuoco, ecc.» (Luc., _Prometeo_). — Indi per ischerzo dicevansi _parte di Prometeo_ le ossa. «Se a tavola si trincia porchetto lattante devi una delle due, o avere per amico lo scalco, o se no ti tocca la parte di Prometeo, ossa coverte di grasso» (Luciano, _Di quei che stanno coi signori_). [237] Il comico Macone, presso Ateneo così parla del parassita Cherefonte: «Chaerefon carmen emebat aliquando. Ibi cum coquus, ut narrant, ossibus admodum grave frustum illi forte praecideret; _Coque_, inquit, _ne hoc adpende mihi osseum_. Ille vero: _At suave est_, inquit; _ajunt sane, vicinam ossibus, suavem esse carnem_. Tum Chaerefon: _Utique_, inquit, _o optime: suave illud quidem; sed quod addiicis molestissimum_ (Aten., _Deipn._, VI, 243 f.). [238] πρὸς τῶν χαρίτων — Scongiuro femminile (Aristen., _Lett._, I, 11). [239] Modo di minaccia cui ricorreano frequentissimo gli spasimanti inesauditi (Vedi, per esempio, Alcifr., I, 35). Così Orazio invoca da Venere il castigo all’arroganza di Cloe: — _sublimi flagello-tange Chloen semel arrogantem._, lib. II, od. 26. — Intorno alle vendette di Venere, vedi anco Eurip., _Ippol._, v. 545-564; Teocr., _Idill._, I, v. 101. [240] Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 36, 40; Aristen., _Lett._, I, 14. [241] Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 36. Prima di seppellire i morti e celebrar loro le esequie usavasi in Atene tener esposto nel vestibolo della casa per un giorno (e occorrendo, per accertare il decesso, fin tre giorni) il cadavere lavato, profumato, vestito di ricchi abiti e inghirlandato di fiori. In una mano gli si poneva una focaccia per ammansar Cerbero, e nella bocca uno o due oboli per pagar il tragitto a Caronte (Eurip., _Ippol._; Aristof, _Lisistr., Rane_; Luciano, _Del Lutto, Dial. dei morti_, 11; Polluce, lib. 8). «E tu dopo d’avermi spogliato stamattina, dice Blepiro a sua moglie, te ne andasti lasciandomi come un morto, salvochè non mi inghirlandasti, nè mi ponesti vicino il vaso dei profumi» (Aristofane, _Eccles._). [242] «È al valor dei regali che mi fanno i miei amanti che io giudico il loro amore» (Aristen., _Lett._, I, 14). Intorno ai doni alle etére, cfr. anche Alcifr., _Lett._, I; Luciano, _Dial. delle cortigiane_, 7, 8, 14; Senof., _Memor._, III, 11. [243] Gli _Aloi_, detti anche _feste Talisie_, celebravansi ogni anno dopo il raccolto dei frutti, in onore principalmente di Cerere; e insieme anche di Bacco e dell’altre divinità, in genere, il cui favore influiva sull’abbondanza dei raccolti. Di queste feste, siccome celebrate precipuamente dalle donne, parla Alcifrone (_Lett._, I, 35; II, 3); ed anche Teocrito (_Idill._, 7); e lo scoliaste di Luciano: «Haloa festum est Athenis mysteria Cereris et Proserpinae et Bacchi complectens pro incisione vitium, et gustatione vini aliorumque fructuum. Philocorus vero ait, ita dictum quod homines tunc in areis commorarentur.» Infatti ἄλος significa _aja_. [244] L’abbigliamento ordinario delle donne ateniesi consisteva, com’è noto, 1.º in una tunica (κιθῶν) o specie di camicia bianca, per lo più di lino, molto ampia, discendente in ricche pieghe fino ai piedi, congiunta sopra le spalle con bottoni a fermagli, e allacciata sotto le mammelle dallo _strofio_, ricca cintura, sovente d’oro; 2.º in una sopraveste (διπλοίδιον) che dev’essere la stessa cosa coll’ἔγκυκλον di Aristofane (_Tesmof._, 261), (mal tradotto dal Cappellina per _mantellino_) della stessa stoffa del _chiton_, ma più breve, spesso con maniche sin verso la metà delle braccia, adorna al basso di liste di vari colori; 3.º in un pallio a forma di sciarpa o manto (πέπλον); 4.º in un panno o velo in testa, all’uscire in pubblico (Poll., lib. 7, 14, 15; A. Tazio, _Clit. Leuc._, 1; Aristof., _Tesm., Lisis._ — Cfr. Becker, Winkelmann, Ferrario, ecc.). La tunica color di croco o _crocata_ (κροκωτὸς) era veste di lusso; così pure le _cimberiche_, vesti portate senza cintura (ὁρθοστὰδια) e così chiamate, secondo lo scoliaste d’Aristof., dal luogo in cui si fabbricavano. Cfr. Arist., _Lisistr._, v. 44, 45. [245] Αφροδίτη ψιθυρς, _Venere bisbigliante_, era altro degli appellativi sotto cui Venere adoravasi in Atene, secondo la testimonianza di Suida, dal susurrare che fanno tra di loro a bassa voce gli amanti: il che appunto diceasi, con parola d’efficacia mirabile, tutta greca, ψιθυρίζειν. In Teocrito (_Idill._, 1) la voce ψιθυρίσμα è egualmente adoperata, con isquisita armonia imitativa, a significare il dolce sibilo o susurro che fa il vento soffiando tra le frondi degli alberi (Cfr. Teocr. _Idill._, 27; Mosco, _Idill._, 5). — E vedi senso tutto artistico delle imagini e della proprietà delle parole: ψιθυρίζειν, diceano i Greci, non solo il susurrio degli amanti e il dolce bisbiglio dell’aure tra le frondi, ma anche il _calunniare_: qualche secolo prima che la _calunnia-venticello_ fosse posta in musica da Rossini. [246] Eurip., _Ippol._, v. 612: Ἤ γλῶσσ’ ὡμώμοχ’, ἤ δὲ φρὴν ἀνώμοτος. Questo verso di Euripide era divenuto, come tanti altri dello stesso, famoso e proverbiale tra i Greci. Solevasi citarlo per ischerzo, quando trattavasi di non mantenere un giuramento o una promessa. Per esempio, cfr. Aristof., _Rane_, v. 1471. Che un parassita citasse Euripide si spiegava poi tanto più facilmente, e per il posar di questa classe di persone a letterati, e per i varj passi in Euripide interpretati a favor de’ parassiti. [247] Ἀνὴρ γὰρ, ὄστις, εὖ βίον κεκτημένος, μὴ τουλάχιστον τρεῖς ἀσυμβόλους τρέφει, ὄλοιτο, νοστου μὴ ποτ’ εἴς πάτραν τυχών. (Ateneo, _Deipn._, VI, 247 c.) È da una commedia di Difilo, che Ateneo riporta questi versi, siccome attribuiti in detta commedia ad Euripide. E il parassita d’Alcifrone, dopo aver fatto una citazione di poeta, soggiunge con sussiego: «_Anche noi parassiti parliamo alla foggia dei letterati_» (Alcifr., _Lett._, III, 65). [248] _Mandare ai corvi_, ἔς κόρακας (_che tu possa andar tra i corvi! che i corvi ti piglino_, ecc.), modo proverbiale usatissimo, significante: _mandar in malora!_ (Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 16; Aristof., _Tesmof._, v. 868; _Vespe_, v. 51; _Nubi_, v. 789; _Caval._, v. 892. — Vedi Erasm., _ad Corvos_). [249] Dell’odio delle donne ateniesi contro Euripide, perchè sparlatore e denigratore di esse nelle sue tragedie, fa menzione ripetutamente Aristofane nella _Lisistrata_, nelle _Rane_ e altrove. Anzi la maldicenza di Euripide contro il sesso femminile e la vendetta di queste contro di lui formano l’argomento dell’altra commedia di Aristofane, le _Tesmoforeggianti_. Difilo poi, presso Ateneo, riportando i versi citati sopra alla nota 38, intorno ai parassiti, mette appunto a riscontro la benevolenza di Euripide verso costoro, colla sua maldicenza contro le donne: «_E non vedi quanto egli_ — Euripide — _nelle sue tragedie odii le donne, ed ami per contrario i parassiti?_» (Aten., VI, 247 b). [250] _Per le Tesmofore! Per le dee Tesmofore!_ — Cerere e Proserpina — (Arist., _Tesmof._, v. 282, 1156); lo stesso che l’esclamazione femminile: _per le due Dee!_ (Arist., _Lisis._, 51), e altre equivalenti: _Per le Dee venerande! Per Cerere! Così Cerere m’ami!_ (μὰ τὴν Δὴμετρα, Arist., _Acarn._, v. 708); _per le deità eleusine e pei loro misterj! pei sacri misterj!_ (Alcifr., _Lett._, II, 2, 3). Cerere e Proserpina avean culto, com’è noto, in Eleusi; e ai loro riti assistean solo le donne; chiamavansi anche _dee sotterranee_. — Θεσμοφόρη, ossia _legislatrice_, era propriamente lo speciale attributo di Cerere, in memoria delle prime leggi e delle prime nozioni agronomiche date agli Ateniesi da questa Dea. [251] Eurip., _Ippol._, 616 seg.; _Androm._, v. 943 seg.; Cfr. Aristof., _Tesmof._, v. 389 seg.; dove egli fa ricordare da una donna tutte le ingiurie scagliate da Euripide contro il di lei sesso. [252] Eurip., _Androm._, v. 950. — Aristof., _Tesmof._, v. 415-416. [253] Così è chiamato Euripide dalle donne, a cagione della professione di sua madre, nelle _Tesmof._, v. 387; titolo spregiativo che troviamo affibbiato di frequente a quel tragico anche nei _Cavalieri_, nelle _Rane_ e altrove. [254] Le libazioni alle _Furie_ od _Eumenidi_ od _Erinni_ erano fatte senza vino — con acqua e mele soltanto; per il che dicevansi in greco ἀοίνοί, (lat. _inviniae_): come vedesi in Eschilo, _Eumen._, v. 112. Il Bellotti tradusse: _libagioni astemie_. [255] _Venere aurea_ (χρυσὴ Αφροδίτη — Om., _Odiss._, IX, 14), _ornata d’oro_ (πολυχρύσος, χρυσῷ κοσμηθεῖσα, Om., _Inn. a Ven._), _dall’aurea corona_, dal _trono d’oro_, ecc. — appellativi usatissimi della Dea. E Luciano: «Omero in tutto il suo poema da capo a fondo dice ch’io son _l’aurea Venere_» (Luc., _Giove Tragedo_). [256] Le _Nubi_ fatte in Atene rappresentar da Aristofane nell’anno 424 av. l’E. V. (ventiquattro anni prima della morte di Socrate) fecero fiasco. Di che lo stesso Aristofane si lamenta nella parabasi della seconda edizione di quella commedia, ch’egli tornò a dare l’anno dopo, collo stesso esito; e nella parabasi delle _Vespe_. Wieland nell’_Aristippo_ (I, lett. 9) fa attribuire da Aristofane il fiasco delle _Nubi_ alla influenza di Alcibiade, di cui eran noti l’affetto e la devozione per Socrate suo maestro acremente deriso in quella commedia, e al timore che Alcibiade stesso seppe incutere in teatro col suo partito. Certo Alcibiade si trovava un po’ interessato in causa, per i frizzi frequenti al suo proprio indirizzo nelle commedie di Aristofane (Cfr. _Vespe_, 44; _Acarnesi_, 716; _Rane_, 1422), e per credersi forse satireggiato egli medesimo nel personaggio di Fidippide delle _Nubi_: e la popolarità e l’influenza del giovine _lion_ ateniese assai probabilmente poterono nuocere al successo della commedia. Le _Nubi_, del resto, e gli _Acarnesi_, ov’è posto in canzone Lamaco, e le _Rane_ ove canzonasi Euripide, provano ch’era caduta in dissuetudine ad Atene l’antica legge che vietava di citare o attaccar alcuno per nome nelle commedie (Meurs., _Them. Att._, II, 20). [257] Sulle percosse date da Alcibiade a Taurea, suo anticorégo, in teatro, vedi Demost., _C. Midia_; Andocide, _Contr. Alcib._, IV, 20; e Plutarco in _Alcib._ Qui se ne variarono le cause e le circostanze, collegando il fatto alla rappresentazione delle _Nubi_. [258] Ἀνδρῶν ἀπάντων Σωκράτης σοφώτατος — _di tutti gli uomini Socrate è il più savio_ — fu la risposta che l’oracolo di Delfo diede, com’è noto, a Cherefonte, amico e discepolo di Socrate. Vedi Diog. Laerz. in _Socr._; e Platone, _Apol._, 5. [259] Cfr. il modo vivace con cui Alcibiade prende le parti del suo maestro in Platone, nel _Protagora_, c. 23, e nel _Simposio_. [260] _Evio, Bromio, Dionisio, guidatore de’ cori notturni, amatore delle danze_, ecc., appellativi di Bacco (Aristof., _Tesmof._, v. 990, 992; Sofocle, _Antig._, v. 1265; _Edipo Re_, ecc.). [261] θεῶν μέγας ὄρκος (Om., _Odiss._, 11, v. 377 e altrove). Era il giuramento per la Stige, ossia per l’acqua di Stige, sacro e tremendo agli stessi Immortali. «_Siami testimonio la terra, e l’ampio cielo disopra, e la disotto scorrente acqua di Stige, ch’è il massimo e tremendissimo giuramento pegli Dei beati_» — così giura Giunone in Omero (_Iliad._, XV, v. 36-38. Cfr. _Iliad._, XIV, 271 seg.; _Odiss._, V, v. 184; Apol. Rod., _Argon._, II, v. 291; Esiod., _Teogon._, v. 400). La favola, raccolta da Esiodo, fa di Stige una figlia dell’Oceano e sposa di Pallante, che Giove volle onorare ordinando che per lei giurassero i Celesti. Pausania ricorda con questo nome una fonte in Arcadia, non lungi dalle ruine di Nonacri; «ivi, egli dice, una parte della montagna elevasi a picco ad altezza così prodigiosa come non ho visto mai; e dal sommo di essa stilla perennemente un’acqua che i Greci chiaman l’acqua di Stige» (Paus., _Arcad._, 17): al che corrisponde la descrizione che Esiodo fa dell’abitazione della Oceanitide nell’inferno: «Abita quivi la Dea tremenda agli Immortali, la orribile Stige: sola, appartata dagli Dei, abita inclite case coperte di sopra di grandi roccie: e d’ogni intorno sono argentee colonne drizzate fino al cielo» (_Teogon._, v. 775-779). Perchè poi la dimora di Stige fu posta nell’inferno, può spiegarsi colla osservazione di Pausania che l’acqua di quella sorgente arcadica era mortifera agli uomini e agli animali. La superstizione aggiungeva che chi fosse accusato, innocente, di qualche grande delitto, e costretto a bere di quell’acqua, poteva farlo senza averne danno, provando così la sua innocenza. Che se taluno degli Dei mentiva o mancava al giuramento dato per l’acqua di Stige, allora Giove mandava Iride a prendere dell’acqua di quella fonte, e il Nume spergiuro, costretto a beverne, preso da malore, giaceva ammutolito, senza respiro, senza poter gustare nettare nè ambrosia, appartato dal consorzio degli altri Dei per nove anni; finchè nel decimo, guarito, tornava fra i suoi compagni di Olimpo: «_tale è il grande giuramento degli Dei per quell’acqua perenne di Stige_» (Esiod., _Teog._, 783-805). Nel qual _grande giuramento_ simboleggiavano gli antichi, secondo Bacone, la _necessità_: come il solo vincolo che a preferenza di tutti gli altri, della nascita, della religione, dell’onore stesso, ecc., — lega i re e i grandi, e mantiene solo la fede dei trattati. [262] Μὰ τὴν Ἀγλαυρον (Arist., _Tesmof._, v. 533). Esclamazione ateniese. _Aglauro, Erse_ e _Pandroso_ chiamaronsi le tre figlie di Cecrope primo re di Atene. Ad esse Minerva diede a custodire il neonato Erittonio o Eretteo (figlio di Minerva e di Vulcano) rinchiuso in una cesta di vimini insieme con un serpente postovi a guardia; sotto proibizione alle tre fanciulle di guardar ciò che nella cesta si contenesse. Pandroso obbedì al divieto della Dea, ma l’altre due sorelle, Aglauro ed Erse, prese da curiosità, non seppero resistere alla tentazione d’aprir la cesta; e alla vista di Erittonio, prese, per castigo di Minerva, da subita insania, si precipitarono dalla cima dell’Acropoli in mare. Così Pausania, _Attic._; Apollodoro, lib. III, e Igino, _Poet. Astron._ Ma Ovidio narra, diversamente, che, delle tre sorelle, Pandroso ed Erse obbedirono entrambe la Dea; Aglauro sola fu tratta dalla curiosità ad aprir la cesta — _timidas vocat una sorores — Aglaurus nodosque manu deducit_. Una cornacchia andò a riferire la sua disobbedienza a Minerva, che legossela al dito; indi a poco tempo, infatti, capitato Mercurio ad Atene mentre le vergini vi celebravano la festa di Minerva, e visto Erse tra quelle, se ne innamorò: avviossi il Dio alla casa di Cecrope per averla in isposa, e fattaglisi innanzi per la prima Aglauro, la pregò di interporre per lui buoni officj presso la sorella: ma Aglauro, per punizione della Dea, presa da amor per Mercurio, e da gelosia ed invidia della sorella Erse, negossi alle istanze del Nume e tentò precludergli l’ingresso: e allora il Dio tramutolla in sasso (Ovid., _Metam._, lib. II). Indi forse non a caso, in questo punto della nostra scena, Bacchide inquieta delle occhiate del suo compagno ad Eufrosine, invoca il nome della invidiosa figlia di Cecrope. Secondo un’altra versione di Ulpiano (comm. a Demost., _Falsa legaz._), Agraulo era figlia dello stesso re Eretteo; e nella guerra mossa contro lui ed Atene dai Traci condotti da Eumolpo, avendo l’oracolo presagito la vittoria agli Ateniesi ove qualcuno si fosse sagrificato per la città, Agraulo risaputolo si sarebbe spontaneamente immolata alla patria gettandosi dall’Acropoli. — Il Meursius (_Reg. Athen._, I, 11) contesta questa versione: certo però essa spiega meglio il culto di cui Aglauro era onorata in Atene; ove ella aveva un tempio, e sacerdotesse dette _Aglauridi_ e misteri e feste a lei sacre — ch’eran le _feste Plinterie_ (Erod., VIII; Paus., _Attic._; Esichio, ecc.). Nel tempio e bosco sacro di Aglauro o Agraulo, la gioventù ateniese, all’atto di entrar nella milizia, si recava a dare il solenne giuramento di difendere la patria e le sue leggi (Licurg., _Leocr._, I, 77; _Schol._ in _Demost._, ediz. Didot, 438, 15, 17; Plut. in _Alcib._; Meurs., _Reg. Athen._, I, 9). [263] Alcibiade era ammiratore appassionatissimo di Omero — ἴ σκυρῶσ Ὄμηρον ἐθαύμαζεν (Eliano, _Var. Stor._, XIII, 38): — ammirazione in cui ebbe a somigliargli più tardi un altro greco famoso, forse non più grande nè più ambizioso di Alcibiade, ma più fortunato di lui, Alessandro il Macedone: al quale le lettere andarono debitrici della famosa edizione omerica della _cassetta_. [264] Omero, _Iliad._, lib. VIII, v. 337-341. Ecco, di questo passo, la versione del Monti, più libera della mia: «Iva Ettorre alla testa, e dalle truci Sue pupille mettea lampi e paura. Qual fiero alano che ne’ presti piedi Confidando un cinghial da tergo assalta, Od un Ilone, e al suo voltarsi attento, Or le cluni gli addenta, ora la coscia: Così gli Achivi insegue Ettorre, e sempre Uccidendo il postremo li disperde.» [265] Un critico trovò ultra-inverisimile questa difficoltà per Alcibiade di procacciarsi un Omero, dei cui poemi non v’era, a suo dire, libreria di Ateniese che fosse priva. Quel critico si inganna. Sebbene di Pisistrato e di Ipparco si narri, che coll’assistenza di Solone, avessero dato opera alla riordinazione dei canti omerici e vietato ai rapsodi di invertirne l’ordine nella recitazione, tuttavia l’_edizione_ materiale, completa nel proprio senso della parola, dell’_Iliade_ e dell’_Odissea_, a Pisistrato e Solone attribuita, non è positivamente asserita da nessun antico, sino al tardo e straniero Cicerone: e v’hanno ragioni per revocarla in dubbio. Infatti, il codice ateniese da essi compilato avrebbe dovuto tenersi prezioso siccome più vicino all’origine e avente una certa autorità pubblica: e gli Ateniesi, i quali posero nei loro archivj pubblici le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, v’avrebbero conservato gelosamente anche quelle epopee. Ora, al contrario, nè i sei codici omerici posteriori _delle città_, nè l’ultima famosa edizione della _cassetta_, ordinata da Alessandro il Grande, offrono alcuna traccia di codesta edizione ateniese o danno indizio alcuno di aver fatto appoggio su di essa. — Il vero è che fino all’epoca di quei codici, e cioè fino al quarto secolo, l’_Iliade_ e l’_Odissea_ vivevano ancora per la massima parte nella tradizione orale dei rapsodi, e neppure nelle più ricche librerie non se ne trovavano trascrizioni ordinate e complete che in un piccolissimo numero di esemplari. Tutt’al più, la maggior parte dei grammatici e dei privati possedevano trascritti soltanto alcuni frammenti o rapsodie isolate dei poemi omerici, come l’_Addio di Ettore ed Andromaca — il valor di Diomede — la morte di Ettore — la strage dei Proci_, ecc. (Vedi Pope, _Essai sur Homère_, p. 41; Wolf, _Proleg._, p. 143; Cesarotti, _Ragion. st. crit. su Omero_, I, 5; C. Cantù, _St. della lett. gr._, cap. 3; Müller, _St. lett. gr._, cap. 5, ecc.). Ciò può spiegare la risposta del grammatico, e calmar la meraviglia del mio critico, che Alcibiade non si trovasse ad avere in casa il canto che cercava: meraviglia che del resto potrebbe applicarsi anche al passo relativo di Plutarco: oltrechè non è detto che Alcibiade, padron di varie case in Atene, dovesse proprio avere sottomano, lì nella sala del convito, i suoi libri e le sue librerie. [266] L’aneddoto da cui è tratta questa scena è riferito da Plutarco alla prima giovinezza d’Alcibiade, e da lui così narrato: «Passato ch’ebbe (Alcibiade) l’età puerile, _portossi ad un precettor di grammatica, e gli chiese un libro d’Omero_; e dicendogli il precettore ch’egli non avea niente di Omero, percossolo di un pugno, sen passò oltre: e dicendogli poi un altro di avere Omero corretto da lui medesimo, — _E a che_, gli rispose Alcibiade, _ti trattieni tu ad insegnare a leggere? Atto essendo ad emendare Omero, non ti dai ad erudire la gioventù?_» (Plut., _Alcib._, 7, e _Apoftegmi_; Eliano, _V. St._, XIII, 38). [267] Omero, _Iliade_, VI, v. 482 484. Il Monti, meno letteralmente, tradusse: «Così dicendo, in braccio alla diletta Sposa egli cesse il pargoletto; ed ella Con un misto di pianti almo sorriso Lo si raccolse all’odoroso seno — dove, con tutto il rispetto al Monti, e a costo di passare per un grammatico anch’io, mi permetto di trovare che il _misto di pianti almo sorriso_ è un’amplificazione di gusto assai discutibile, e assai lontana dalla squisita semplicità della frase di Omero: _lagrimosamente sorridendo_, δακρυόεν γελάσασα. [268] Per legge posta da Ipparco, figlio di Pisistrato, i poemi di Omero dovean dai rapsodi recitarsi, ogni cinque anni, in Atene, nelle grandi Panatenee (Licurg. in _Leocr._; Platone, _Ipparco_; Eliano, _V. St._, VIII, 2). I _Panatenei_ o _feste Panatenee_, dette anche semplicemente _Atenee_ (ricorrenti nel mese di Ecatombeone, cioè nel primo mese dell’anno, al solstizio d’estate) furono istituiti ad Atene ne’ tempi più remoti, in onor di Minerva, dal re Eretteo, e ristabiliti da Teseo, in memoria, come lo accenna il nome, della riunione in un solo Stato e dentro un solo recinto di mura, dei popoli dell’Attica che vivevano prima isolati e dispersi per la campagna (Vedi Isocr., _Oraz. Paneg._, ed _Encom. d’El._; Lisia, XXI, 1; Licurgo, I, 103; _Scol._ in _Demost._, 740, 1). Erano di due specie: le _minori_ che si celebravano ogni anno; e le _maggiori_ (o _grandi Panatenee_) che ricorrevano soltanto ogni cinque anni. Celebravansi specialmente quest’ultime tra il concorso di tutti i cittadini dell’Attica con grandissimo sfarzo e solennità; con giuochi ginnastici (stadio, lotta, ecc.) e corse equestri, e pubbliche gare poetiche e musicali; e processioni di giovinette delle più cospicue case di Atene e di cittadini d’ogni classe ed età, recanti in gran pompa il peplo di Minerva al tempio della Dea. Ogni tribù dell’Attica concorreva nelle spese a rendere i giuochi più grandiosi, ogni colonia ateniese vi mandava un bue da sagrificarsi. La sera chiudeasi la festa con grandi conviti, e distribuzioni di premj, e gara delle fiaccole (lampadeforia). Le _grandi Panatenee_, le _grandi Dionisiache_ e le _Lenee_ o _floreali_ erano le tre solennità dell’anno nelle quali soltanto avean luogo le gare teatrali delle tragedie e delle commedie (Aristof., _Nubi, Pace_, ecc.; Senof., _Simpos._; Ovid., _Metam._, II; Suida; Meurs., _Panaten._; Corsini, _Fasti attici_, ecc.). [269] Ai vincitori nelle gare delle feste Panatenee veniva dato in segno d’onore un ramoscello dell’ulivo sacro a Minerva, che era in faccia al Partenone (Meurs., _Lect. Att._, IV, 6). [270] «Gli Ateniesi, per suggerimento di Alcibiade, scrissero sotto alla colonna laconica che i Lacedemoni non aveano osservato i giuramenti» (Tucidide, _Guer. Pelop._, VI, 56). [271] _Maggiordomo_: questa parola ha scandalizzato parecchi. Eppure l’ufficio precisamente rispondente a questa carica esisteva certo fin d’allora nelle case de’ ricchi ateniesi; il Settembrini usa anch’egli senza scrupolo ripetutamente questa parola nella sua versione di Luciano, I, pag. 415, 426 (_Di quei che stan coi signori_). [272] Ad Atene quando levavasi un esercito per qualche spedizione, il capitano (_stratego_) eletto per la medesima recavasi sulla piazza pubblica accompagnato da un _tassiarca_ od intendente, tenente il registro dei cittadini adatti a portar l’armi (dai 18 anni ai 60), i quali eran tenuti a presentarsi tutti indistintamente. Chiamavansi allora uno per uno ad alta voce, e lo stratego sceglieva fra di essi i soldati della spedizione. I nomi dei chiamati a militare venivano affissi alle statue _eponime_, ossia alle statue degli eroi da cui prendevano nome le singole tribù (Aristof., _Pace, Caval._; Lisia, _C. Alcib._; Polluce, VIII, 9; Suida; Esichio, ecc.). [273] Al Liceo, posto in vicinanza della città, avean luogo le rassegne dei soldati innanzi uscire in guerra e gli esercizii militari. «Per lungo tempo fummo rovinati e calpestati, andando e ritornando dal Liceo, coll’asta e collo scudo» (Arist., _Pace_, v. 357; Suida, alla voce Λύκειον; Paus., _Att._, 18). Il _Liceo_, aperto da Pisistrato, il _Cinosargo_ e l’_Accademia_ erano i tre ginnasj destinati alla educazione della gioventù. [274] τανηλεγὴς θάνατος (Om., _Odiss._, III, v. 238). [275] «_Essendo già ben avanti il convito e ormai girando assiduamente il bicchier dell’amicizia_...» (Alcifr., _Lett._, III, 55). «_Non è lecito invitare alla stessa mensa quelli che trattano queste brutte cose e bere con essi la tazza dell’amicizia e stender la mano alli stessi cibi_» (Luciano, _Conto senza l’oste_. — Cfr. Aristof., _Lisistr._, 203). κύλιξ φιλοτησία o anche semplicemente φιλοτησία, _calice dell’amicizia_, chiamavano la tazza, più ampia dell’altre, che veniva fatta girare al finir del pranzo tra i convitati e della quale tutti bevevano, facendosela passare un dopo l’altro; il che diceasi ἔν κύκλῳ πίνειν, _propinare in circolo_, e fra i latini _bibere a summo_, cioè a cominciar dal commensale che stava nel luogo più onorevole a quello che stava nell’infimo. Questa cerimonia significava che i commensali partivano dalla mensa buoni amici. Il Negri nei commenti ad Alcifrone fa di essa una propinazione separata e ben distinta dall’altre libazioni e brindisi; però sembra ch’essa dovesse precedere immediatamente o coincidere colla libazione al _buon genio_ che segnava il levar delle mense; di che si dirà più sotto. [276] ἄκρατος (οἴνος) — Lo si beveva così puro solo appunto nella libazione del _buon genio_ e in altre libazioni sacre; fuor d’esse, nei simposj ateniesi, il vino era di rigore beverlo sempre misto coll’acqua (κεκραμένος). Beverlo puro riteneasi costume de’ barbari: e appunto _bevere all’uso degli Sciti_ dicevasi il bevere vin pretto (Plat., _Leg._, I, 637; Aten., X). Una legge di Zaleuco, fra i Locresi, puniva persino di morte chi avesse bevuto vin puro senza prescrizione del medico (Elian., _V. St._, II, 37). Del resto anche in tutta Grecia l’usanza dell’annacquare il vino era generalmente consacrata e fatta risalire sino ad Anfizione. «_Filocoro dice che Anfizione re degli Ateniesi fu il primo che imparò da Bacco a temperare mescolandolo la forza del vino_» (Aten., II, 38 c.). Più diffusamente Filonide, citato da Ateneo, così spiega l’origine mitica di questo uso: «Poichè Bacco ebbe trasportata la vite dal mar Rosso in Grecia, moltissimi si abbandonarono all’intemperanza bevendo il vino puro; per il che gli uni insanivano come presi dalle furie, gli altri istupiditi dal vino e dalla crapula cadevano come morti. Or avvenne che mentre alcuni banchettavano sulla spiaggia del mare, essendo sopraggiunta la pioggia, i commensali si disciolsero, e il cratere in fondo a cui era rimasto un po’ di vino, abbandonato lì sul luogo, si riempì d’acqua: di poi cessata la pioggia e serenatosi il cielo, i banchettanti ritornarono sullo stesso luogo, e gustando il vino diluito, ne provarono una mite e niente molesta voluttà. Per il che i Greci quando al banchetto vien portato in giro il vin puro, invocano, acclamandolo, il buon genio che lo ritrovò, e che fu Bacco. Quando poi dopo cena vien ministrato il primo bicchiere di vino diluito coll’acqua, acclamano esultanti Giove salvatore, largitor della pioggia, siccome moderatore e autore della gioconda mistura» (Aten., XV, 675 a.). Quest’uso antichissimo durò fin nei tempi più tardi, e il derogare ad esso non solo, ma il non metter nel bicchiere più acqua che vino era tenuto come segno di brutta intemperanza ed estremamente dannoso al corpo ed allo spirito. «_Se alcuno beve metà vino e metà acqua, è preso da insania; se beve vino puro, gli si sciolgono le membra del corpo_» (Aten., II, 36). E però le proporzioni della mistura variavano; ma il più ordinariamente solevasi mescolare tre parti d’acqua con due od una di vino, o due parti d’acqua con una di vino. Quando la proporzione era da tre ad una dicessi bevere alla _maniera delle rane_: ma alcuni vini erano abbastanza forti per portarla. La mistura veniva fatta già nel cratere, di dove il vino versavasi nei bicchieri. Indi, allorchè nelle descrizioni antiche dei simposj si parla di vino, οἴνος si sottintende sempre vino misto coll’acqua, a meno che non si nomini espressamente il vin puro, ἄκρατος (Plut., _Conjug. praec._ — Cfr. Becker ed Hermann, _Char._, I, p. 166; II, p. 280). [277] Cfr. Aristof., _Vespe_, 525: e lo scoliaste a questo verso: _era costume al levar delle mense libare al buon genio_. Questa libazione, fatta di vino puro (cioè non misto coll’acqua come usavasi durante tutto il pranzo), chiudeva difatti il banchetto propriamente detto, o mensa dei cibi (δεῖπνον), e dava il segno delle abluzioni, del cinger le corone e dello asportarsi delle mense; dopo di che succedeansi altri brindisi e il canto del peana e degli scolii, e si passava alla parte per i Greci la più importante del convito, la _mensa dei bicchier_ ossia il vero simposio (πότος, συμπόσιον), destinato al bere e spesso degenerante nell’orgia (Plut., _Disp. Conv._, 5; Senof., _Simp._, 2, 1; Plat., _Simp._, p. 176; Diod. Sic., IV, 3). Sulla libazione del _buon genio_, ἀγαθοῦ δαίμονος, scrive più diffusamente Ateneo: «Del vino puro che vien dato in fin di cena, e che chiamasi il bicchiere del buon genio, i commensali ne libano un poco, appena quanto basti per gustarne e ricordare il beneficio del dio. Lo si dà infatti dopo che già sono sazî, perchè ne beano pochissimo: e mentre lo prendono dalla mensa, adorano il dio, quasi lo preghino perchè non abbiano a commetter mai nulla di turpe, nè ad esser mai intemperanti nel bere. E Filocoro dice, esser sancito per legge, che dopo terminati tutti i cibi venga portato il vino puro, tanto appena da gustarne e significare la virtù del buon dio: perocchè si diluiva con acqua il vino che bevevasi prima: e perciò chiamarono ninfe le nutrici di Bacco. Dopo offerto il bicchier del buon genio, si usava rimovere le mense, come mostrò con un atto sacrilego Dionigi di Sicilia: il quale in Siracusa vedendo posta davanti al simulacro di Esculapio una mensa d’oro, offerse al dio la libazione del buon genio, e subito la tavola se la fece portar via» (Aten., _Deipn._, XV, 693). — In luogo della formula al _buon genio_, usavasi anche talora l’altra ad _Igea_ (υγιείας), cioè alla _dea della salute_. Il bicchiere con cui faceasi questa libazione del buon genio o d’Igea, diceasi _metaniptro_ (Cfr. Aten., 486 f. Cfr. Becker, _Char._, I, 165). [278] _Marino_ (θαλόττιος, Arist., _Pt._, 396; αλυκός, _Lisis._, 403; αλιμὲδων, _Tesmof._, 323; Ποντοποσειδῶν, _Pl._, 1050), epiteto di Nettuno (Ποσειδῶν) specialmente come tale invocato nelle esclamazioni dagli Ateniesi (_per il marino Nettuno!_). — Dicevasi anche _equestre_ (ἵππιος, _Nub._, 83; _Caval._, 551). Però che gli Ateniesi vantassero d’aver primamente appreso da Nettuno l’arte della navigazione e dell’addestrare e guidar cavalli (Vedi Sofocle, _Edip. a Col._, v. 703 seg.). [279] Le corone, come già si notò, venivano recate soltanto in fine del banchetto (δεῖπνον) al momento di far la libazione _al buon genio_, con cui lo si chiudeva e si dava principio al bevere (πότος), cioè alla seconda mensa, o mensa dei bicchieri. «_La distribuzione delle corone e degli unguenti serviva d’introduzione al simposio della seconda mensa_» (Aten., XVI, 685 d.). L’uso delle corone, per liberare appunto il cervello dai fumi delle libazioni del vin puro, faceasi risalire a Bacco; «il quale fu reputato buon medico non solo per aver trovato il vino, soavissimo medicamento, ma altresì per avere insegnato ai presi dal furor baccanale a coronarsi il capo con l’ellera, e per aver onorata questa pianta a cagione di sua virtù contraria al vino; spegnendo l’ellera col suo freddo l’ebbrezza» (Plut., _Disp. Conv._, l. I, 1). Ma col progredire del lusso, aggiunge Ateneo, si cercò alle corone, oltre il rimedio contro i fumi dell’ebbrezza, anche il diletto degli occhi e delle nari: e allora si introdussero le corone di mirto e le corone di rose, alle quali pure attribuivasi una virtù refrigerante (Aten., XV, 675 e). Queste eran certo le più usate: e perciò Aristofane parla del demo _incoronato di rose_ (_Caval._, 966): per contrario in Ateneo si vedono proscritte dai conviti siccome nocive le corone di alloro e di viole (Aten., _ibid._); nondimeno quest’ultime dovettero anch’elle entrar nell’uso, dacchè l’aggettivo ἱοστέᾳανοι, _coronati di viole_, ricorre frequentissimo come epiteto proverbiale degli Ateniesi (Arist., _Acarn._, 636; _Caval._, 1322; Pind., _Framm._, 45, 46). Becker cita anche il giacinto; ma questo dovette usarsi particolarmente dai Dori. Del resto Plutarco e Ateneo, nei luoghi sopra citati, discorrono diffusamente delle varie specie di corone adoperate. [280] L’ordine di questi singoli riti è assai chiaramente e concordemente descritto in Senofonte (presso Aten., XI, 462, d, e), in Plutarco (_Conv. Sette Sap._, 5), nel comico Platone (presso Aten., XV, 665 b), in Menandro (presso Suida, voce αἴρειν) e in altri autori comici (Aten., IX, 408 e, f; XV, 685 d, e), ai quali rimandiamo per più ampj ragguagli il lettore studioso. Vedi anco più sopra la nota 23 — e cfr. i _Simposj_ di Platone e Senofonte. [281] Il _buon genio_ o _agatodémone_ (ἀγαθὸς δαίμων, Ἀγαθοδαίμων), era il dio benefico, la cui protezione assicurava alle case, alle terre, alla città la prosperità e l’abbondanza; divinità maschia dell’ordine dei _demoni_ e dei _genj_, rispondente alla divinità femmina dello stesso ordine, onorata sotto il nome di ἀγαθὴ τύχη, la _buona fortuna_, alla quale trovasi sovente associata. Così a Lebadia chi voleva consultare l’oracolo di Trofonio, prima di scendere nel famoso antro dovea passare alcuni giorni in una cappella dedicata al Buon Genio e alla Fortuna (Pausania, _Beoz._, 39): e ad Atene le due divinità aveano pure un tempio in comune. Ai tempi di Plinio vedevansi al Campidoglio due statue di Prassitele rappresentanti l’una il _buon genio_, l’altra la _buona fortuna_ (Plinio, _Nat. hist._, 36, 4). Ad Atene era sacro al buon genio, siccome dio fecondatore dei campi, il primo giorno in cui gustavasi il vino nuovo (Plut., _Disp. Conv._, VIII, 10). Della libazione al _buon genio_ che terminava il convito si è detto più sopra. (Cfr. Becker, _Char._, II, p. 262). Il buon genio avea per simbolo un serpente e talora anche un fallo, emblemi ordinari della fecondità. Era il _Bonus Eventus_ dei Romani. [282] _Giove salvatore_, Ζεύς Σωτὴρ — per il quale spessissimo gli Ateniesi giuravano, νὴ τὸν Δὶα τὸν σωτῆρα (Arist., _Rane_, 738; _Pl._, 877) era invocato nelle libazioni in fin di tavola insieme col buon genio: o più precisamente la libazione a Giove salvatore susseguiva a quell’altra — e facevansi entrambe colla medesima tazza (_metaniptride_). Su di che vedi sopra la nota 68 e il passo citato di Aten., XV, 675 c. E il comico Difilo nella _Saffo_: «_Archiloco, porgimi quella metaniptride colma, che libiamo a Giove salvatore ed al buon genio_» (Sulla tazza così detta di _Giove salvatore_ e sulle libazioni allo stesso, vedi pure Aten., XI, 466 e, 471 d, e; XV, 693 f, 693 a-d). [283] Modo proverbiale esprimente longevità. Vedi Luciano, _Ermotimo_. Dicevasi anche nello stesso senso _campar gli anni di Titone_ (Luc., _Ermot._; _Dial. dei morti_, 7). Sulla longevità di Titone, sposo d’Aurora, vedi Aten., I, 6; e Orazio: _Longa Tithonum minuit senectus_. [284] Era il più pregiato e celebrato tra i vini greci (Aten., IV, 167 e). Altri vini in pregio erano il vino prannio, il vin di Taso, il vin di Lesbo, di Rodi, di Siracusa, ecc. Sui vini greci e loro varie specie, vedi Aten., I; Elian., _V. st._, XII, 31. [285] Di queste torte _recanti il nome del siculo Gelone_ (che fu, com’è noto, tiranno di Sicilia) parla Alcifr., _Lett._, I, 22. Doveano essere la stessa cosa che la _torta_ o _focaccia siciliana_, σικελικὸς πλακοῦς, menzionata in Ateneo, XIV. Queste torte, πλακοῦς, eran di solito un impasto di farina di segala, cacio e mele (Aten., IX, 17). [286] Lo _stadio_ era un ottavo di miglio e più precisamente metri 184,26. Due stadj erano il _diaulo_; quattro stadj, l’_ippicon_; dodici stadj formavano il _dolico_. [287] _Scolii_ diceansi le _canzoni convivali_ che usavansi cantar alla fine dei banchetti ateniesi, dopo fatta la libazione al buon genio, e al recarsi della mensa dei bicchieri. Al qual momento la cetra ed un ramo di mirto venivan fatti girar pel convito, indi porgere a quello dei convitati che meglio sapesse dilettar la brigata con una bella canzone o con una buona sentenza in lirica forma. Su di che Plutarco: «Canterà fosse alcuno le canzoni usate a cantarsi nei conviti, appellate _scolia_ (cioè oblique e torte) quando in mezzo è la mensa con sopravi la coppa da bere, e in testa le corone... Anticamente gl’invitati cantavano dapprima tutti insieme ad una voce la canzone in lode a Bacco, poi ciascuno cantava da sè in disparte prendendo un ramo di mirto: e conveniva cantasse di mano in mano ciascuno che l’avea. Dopo questo, recavasi intorno una lira, e chi sapea sonare la pigliava e vi cantava sopra: ma quelli che non intendean di musica la rifiutavano, e così questa maniera di cantare non comune, nè a tutti agevole, fu detta _scolion_. Altri dicono che il ramo di mortine non andava intorno, ma portavasi di letto in letto, e dopo che il primo del primo avea cantato lo mandava al primo del secondo letto, e questi al primo del terzo, poi il secondo a quel del secondo: e per questa varietà e torcimento di quel girare intorno fu la canzone nominata _scolion_» (Plut., _Disp. Conv._, I. 1. — Cfr. Ateneo, XV, 694 a-d; Arist., _Vespe_, 1219, dov’è pure corrispondenza fra lo scolio di chi canta primo e di chi gli tien dietro). Ma opinione molto più credibile è che nella melodia su cui cantavansi gli scolii fossero ammesse certe licenze ed irregolarità per le quali si agevolasse la recitazione improvvisa e donde _curva_ o _torta_ si chiamasse la canzone. I ritmi degli scolii rimastici mostrano grande varietà, ma in generale corrispondono a quelli della lirica eolica; solo che l’andamento della strofa è rotto e ravvivato da slanci intermittenti. Infatti, come autori di scolii andaron celebri in ispecie i poeti lesbii: Terpandro (cui Pindaro ne attribuisce la invenzione), Saffo, Alceo: più tardi si distinsero negli scolii Anacreonte e Prasilla di Sicione: e anche alcuni poeti corali come Simonide e Pindaro (Ateneo, XV, 694-696). Aristofane, Diogene Laerzio, Solone ed altri ci trasmisero un certo numero di scolii della greca antichità. La maggior parte contengono gioconde regole di vita o brevi ditirambi, invocazioni a Bacco, a Venere e ad altri numi o lodi degli eroi: ma due di maggior estensione ed importanza ci pervennero, quello dorico di Ibria cretese, «_La mia gran ricchezza è la lancia e la spada_, ecc.,» e quello ionico, in Atene fra tutti celebratissimo, di _Armodio ed Aristogitone_; canzone patriottica attribuita a Callistrato e commemorante l’eroica morte dei due giovani ateniesi che liberarono Atene dalla tirannide di Ipparco e di Ippia, secondo narra Tucidide (VI, 54-59). Su di che più innanzi. Vedi anche, intorno agli scolii, Ulrici, _Gesch. der hellen. Dichtkunst_, II, 376 seg.; C. O. Müller, _St. della letter. greca_, cap. 13. [288] «_Poscia gli comandai che pigliato in mano il ramo del mirto, mi recitasse qualche cosa di Eschilo_» (Aristof., _Nubi_, 1364). Sull’uso del ramoscello di mirto (μυρρίνη) nel canto degli scolii, vedi la nota sopra, e la canzone di Armodio. [289] Lo scolio d’_Armodio_, che diceasi anche semplicemente l’_Armodio_ (Ar., _Vespe_, 1225) attribuito all’ateniese Callistrato, ci fu conservato da Aten., XV, 695 b. Fu composto verisimilmente non molto dopo le guerre persiane, poichè ai tempi di Aristofane lo troviamo come una canzone popolarissima e universalmente gradita ne’ conviti ateniesi (_Vespe_, 1225; _Lisis._, 632; e in Antif. presso Ateneo: _Si invocava Armodio; si cantava il peana; veniva portata la gran tazza di Giove Salvatore_, XV, 692 f). Già prima d’altronde delle guerre persiane, Armodio ed Aristogitone erano stati come eroi liberatori d’Atene onorati di statue in Atene: era vietato ai servi portare il loro nome (Liban., _Ap. Socr._): ed era concessa ai loro discendenti l’immunità dai pubblici pesi (Demost. in _Lettine_). Dello scolio d’Armodio ecco la versione letterale: «Entro a ramo di mirto la spada porterò — come Armodio ed Aristogitone — quando il tiranno uccisero — e libera per uguaglianza di leggi (ἰσονόμους) resero Atene. «Carissimo Armodio, no, non sei morto: nell’isole dei beati dicono che tu sei, — ove anche il piè-veloce Achille — e, dicono (_ci sia_) il Tidide Diomede. «Entro a ramo di mirto la spada porterò — come Armodio ed Aristogitone — quando di Minerva fra i riti sacri (_le Panatenee_) — l’uomo despota Ipparco uccisero. «Sempre di voi due la gloria durerà sulla terra — o carissimo Armodio e Aristogitone — poichè il tiranno uccideste — e libera (_di leggi uguali_) Atene rendeste.» Come il lettor vede, la traduzione mia, ridotta per le esigenze della scena, comprende le prime due strofe del testo, aggiuntivi i pensieri principali delle ultime due. Ai dilettanti di questi studj offro qui un altro tentativo di traduzione mia, completa e possibilmente letterale: Di mirto adorno porterò il brando, D’Aristogitone, d’Armodio al par, Quando il tirannico sir trucidando, Atene a libere leggi tornàr. No, non sei morto, diletto Armodio! Ma dei beati l’isole han te: Dov’è il Tidide Diomede, dicono, Ed anche Achille celere-piè. Porterò il brando mirto-vestito, D’Aristogitone, d’Armodio al par, Quando di Pallade nel sacro rito Ipparco il despota prence svenâr. D’ambo la gloria la terra ognora, O Aristogitone, o Armodio udrà: Come il tiranno svenaste allora, E per voi libera fu la città! Cattivi versi, d’accordo: però, se non m’illudo, più fedeli alla lettera e allo spirito del testo greco che non la notissima versione del professore Centofanti, la quale va per le scuole: _Su, su, ricuoprasi_ di mirto il brando, _Brando_ d’Armodio, d’Aristogitone! _Per lui si sciolsero ceppi fatali_, E Atene _è_ libera con leggi uguali. Diletto Armodio, no, non se’ morto: Ma dei beati vivi nell’isole: E là _magnanimi son teco e lieti_ Diomede e l’_inclito figliuol di Teti_. _Su, su ricuoprasi_ di mirto il brando, Brando d’Armodio, d’Aristogitone! _Che_ Ipparco spensero tiranno _ardito_ Nel sacro a Pallade _solenne_ rito. Di gloria _splendidi_ sarete ognora, Tu caro Armodio, tu Aristogitone: _Per voi si fransero ceppi fatali_ E Atene _è_ libera con leggi uguali. Nella qual versione del Centofanti, a parte le parole greche omesse e le forme cambiate, segnai in corsivo le parole aggiunte e i pleonasmi del traduttore, di cui nel greco non è traccia alcuna: e che per un componimento sì breve e caratteristico dell’antica Musa, mi paiono di là di troppi. In ispecie quel verso di stampo tutto moderno: _Per voi si fransero ceppi fatali_ — un poeta ateniese non l’avrebbe mai scritto nè pensato. [290] Secondo Pausania (_Att._, 2) la cortigiana Leena fu propriamente l’amante di Aristogitone, ma Ateneo per l’opposto (XIII, 596 f.) la dice amante di Armodio. Comunque, è noto come ella fu coinvolta nella celebre congiura dei due amici; e, dopo il primo tentativo fallito in cui Armodio restò ucciso, fatta porre da Ippia alla tortura, sofferse con fortissimo animo lo strazio, anzichè rivelare i suoi complici, finchè per tema che il dolore potesse strapparle qualche parola, si mozzò da sè stessa coi denti la lingua e la sputò in faccia agli aguzzini. Quando gli Ateniesi ebbero infine rotto il giogo, immortalarono il nome dell’eroica cortigiana drizzandole sull’Acropoli un monumento che raffigurava una leonessa (_leaena_) senza lingua. Vedi Pausania e Ateneo, _l. c._; Beulè, _L’Acropole d’Athènes_. [291] Stesicoro: nacque, secondo una tradizione comune, in Sicilia, ad Imera (colonia mista jonicodorica) poco dopo la fondazione di quella città, verso il 640 av. l’E. V.; visse sino al 560. Il suo primo nome era Tisia: fu, dopo Alcmano, il secondo de’ grandi poeti corali dorici: e la poesia corale, dapprima rinchiusa per lo più ne’ soggetti mitici e nella forma tranquilla dell’epopea, assunse con lui forme più schiettamente ed altamente liriche, ispirandosi al linguaggio appassionato degli affetti. Per questo usò sovente ne’ suoi canti non solo del grave metro dorico, ma anche dei ritmi patetici e profondamente appassionati dell’armonia frigia. Si avevano di lui molte poesie erotiche. In qual pregio fosse tenuto come poeta, in Atene, può desumersi dal _Fedro_ di Platone, ove Socrate pone in bocca a Stesicoro la stupenda teoria sull’amore, che fu compendiata nel discorso di Socrate dell’atto primo, scena prima. E il nome di Stesicoro si affacciava qui naturalmente non solo perchè di poeta siciliano, ma perchè l’innamoramento di Alcibiade e di Timandra in questa scena è appunto quell’_inconro subitaneo delle anime_ di cui Socrate, ispirandosi a Stesicoro, sul principio del dramma parlò. [292] Che Alcibiade avesse già condotto, innanzi il suo richiamo, a buon punto le cose degli Ateniesi in Sicilia, colla presa di Catania, a lui massimamente dovuta, rilevasi da Plutarco in _Alcibiade_ e da Tucidide, VI, 48-51. Di un altro fatto d’armi tra Siracusani e Ateniesi, avvenuto innanzi il richiamo di Alcibiade, e nel quale egli, con una piccola parte de’ suoi, usando di un felice stratagemma, volse in fuga i nemici superiori di numero, facendone scempio, è pur cenno in Polieno (_Stratag_., I, 40. Cfr. Tucidide, VI, 52). — Indi la supposizione della battaglia, che serve di introduzione a questo quadro, non parmi una licenza storica così temeraria come a qualche critico erudito piacque di ritenere. [293] Delle quattro classi dei cittadini, stabilite ab antico da Solone, le tre prime in generale (_pentacosiomedimni, cavalieri, zeugìti_) fornivano all’esercito gli _opliti_ o fanti pesanti, che del proprio somministravano l’armi. La terza classe in ispecie era quasi tutta d’opliti; la seconda, poi, come lo indica il nome, forniva in particolar modo anche i _cavalieri_, somministranti del proprio, oltre l’armi, il cavallo; della prima classe, come più ricca di censo, erano per lo più i _trierarchi_ o comandanti delle triremi, somministranti del proprio la trireme o la galea. Da queste tre prime classi, infine, uscivano naturalmente gli _strategi_ e gli altri ufficiali dell’armata. I cittadini poveri della quarta classe (thétes) servivano in piccolo numero come _arcieri regolari_ (τοξόται): tutti gli altri, cioè la massima parte, componevano la ciurma della flotta, che era il nerbo della potenza d’Atene: non ultima questa fra le cause originarie della democrazia ateniese (Cfr. _Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle_, Opere, IV, 283). Però i cittadini delle quattro classi non formavano essi soli le forze militari ateniesi: i _meteci_ (forestieri naturalizzati) e gli stranieri mercenarj e gli schiavi vi entravano pure in gran parte; i primi negli opliti di presidio, i secondi come formanti il grosso delle milizie leggiere irregolari (ψιλοὶ): gli ultimi, completanti i quadri delle ciurme. Laonde, nei primordj della guerra del Peloponneso, prendendo per base la enumerazione di Pericle (Tucid., II, 13), le _milizie di Atene_ si potevano così ripartire: | d’ordinanza (cittadini delle prime | tre classi dai 20 ai 60 anni) 13,000 / | oplìti cittadini (dai _Oplìti_ \ di presidio / 18 ai 20 e sopra i 60 (fanteria pesante) | \ anni) 3,500 | | oplìti metèci 12,500 _Cavalieri_ (cittadini della seconda classe) 1,000 Arcieri a cavallo (meteci o forestieri) 200 Arcieri a piedi | ἀστικοί — cittadini dell’ultima (τοξόται) (fanteria / classe (_thétes_) 400 legg. regolare) \ ξενικοί, stranieri (Sciti, Traci, | Cretesi, ecc.) 1,200 | Piloti, ufficiali delle triremi, / remigatori per 300 triremi — tra Flotta \ cittadini dell’ultima | classe, meteci, schiavi e forestieri 48,000 —————— 79,800 Fanti irregolari (ψιλοὶ) — non contati nell’elenco di Pericle (_peliasti, frombolieri_, ecc.), tutti stranieri 10,000 —————— 89,800 Tale è la cifra più alta cui potessero calcolarsi le forze d’Atene nel fiore della sua potenza. A queste forze poi venivano ad aggiungersi tutte quelle degli alleati tributarj. Gli _oplìti_ o fanti pesanti avean per armi difensive l’elmo, la corazza, lo scudo, e schinieri coprenti la parte inferiore delle gambe. Per armi offensive la picca e la spada. I _cavalieri_ portavano anch’essi corazza, scudo, elmo, lancia e spada. I _fanti leggieri_ regolari (τοξόται) portavano arco, elmo e leggiera armatura. I fanti leggieri irregolari (ψιλοὶ) erano di quattro specie: _peltasti_, recanti una lancia corta e un piccolo scudo detto _pelta; lanciatori_, che gittavano a mano il lanciotto (ἀκόντικον); _frombolieri_ che scagliavano sassi con la fionda; e _gittatori di sassi_ a mano. Preferendo Atene, per accorgimento politico, impiegare ed addestrare i suoi proprii cittadini nella marineria — (dacchè alla _forza marittima_ appoggiavasi la sua egemonia fra i Greci, e importava che quella fosse ateniese, nazionale, e non precaria) — e a mala pena bastando ai quadri della flotta i _thétes_ dell’ultima classe, così ella assoldava dall’estero tutte le milizie leggiere di cui abbisognava per il suo esercito. Per queste non v’erano nè ruoli, nè ordinamenti che ne prescrivessero le armi e gli esercizii: però Atene li prendeva fra i Greci od i barbari che in uno od altro esercizio si distinguessero. Ella aveva quindi peltasti traci; arcieri di Creta; lanciatori locresi e acarnani; frombolieri di Rodo, ecc. (Vedi Tucidide; Senof., _Anabasi_ e _Cose equestri_; Arriano, _Tattica_; Eliano, _Tattica_; Peyron, note al II e VIII di Tucidide; Boeckh, _Econ. pol. at._, II; Ferrario, _Cost_., I, ecc.). [294] I soldati in guerra portavano seco i viveri per tre giorni — carne salata, cacio, ulive, cipolle, ecc. (Cfr. Arist, _Acarn_., 197; _Pace,_ 368; Plut., _Focione_). A quest’uopo ogni soldato aveva una sportella o valigietta di vimini (γυλιον) della forma di un vaso lungo, e nella estremità molto stretto (Vedi Suida, Pottero, Scol. di Aristof.). [295] Non solo ogni comandante, ma anche ogni _oplìte_ aveva seco in guerra un servo o scudiero (ὑπασπιστὴς) che gli portava lo scudo, e alle volte lo seguiva nel folto della mischia; benchè, di solito, innanzi la battaglia, costoro fossero spediti alla custodia dei bagagli (Eliano, _V. St._, XI, 9; Senof., _Anab_., IV; Tucid., III; Polieno, _Strat_., II; Eliano, _Tatt_.). Probabilmente molti di essi erano _meteci_, che seguivano in quella, qualità il loro _patrono_ (προστάτης): ossia il cittadino dal quale ciascun meteco (obbligato al servizio militare, ma escluso dai diritti politici) dipendeva per farsi da lui rappresentare negli atti giuridici. (De-Leva, _Somm. pop. ant._, p. 211). [296] ὄμοιον ὀμοίῳ κατά θεῖον ἀεὶ προσπελάζει (Aristen., _Lett_., I, 10). Antico proverbio che Aristeneto ha preso da Platone (_Simpos_.) e da Aristotile (_Ethic_., VIII) e tutti da Omero: Ὼς αἰεὶ τὸν ὁμοῖον ἄγει θεὀς ὼς τὸν ὁμοῖον. [297] _Ramiferi_, o _tallofori_ (θαλλοφόροι) erano bei vecchioni impiegati a portar i rami d’ulivo nella processione delle Panatenee; non potendo per la vecchiezza essere impiegati in altro. Indi diceasi proverbialmente _buono a fare il ramifero_ per significare _buono a nulla_. «_Saremo derisi per le vie e chiamati ramiferi_» (Aristof., _Vespe_, 542. — Cfr. Eust., _Odiss_., 17; Senof., _Simp_., III; Etym. M.; Esichio, a q. v.). [298] Cecrope fu antichissimo re di Atene, vissuto parecchi secoli innanzi la guerra di Troja. Indi in Alcifrone una cortigiana chiama per ischerno _Cecropone_ per la sua antichità un vecchio rimbambito (Alcifr., _Lett._, I, 28). E in Aristofane il vecchio imbecille Filocleone invoca Cecrope (Arist., _Vespe_, 438). [299] _Erme_, busti di Mercurio, di cui si parlerà più innanzi. La iscrizione sulle Erme dei nomi dei valorosi ch’eransi distinti in guerra, era ricompensa militare anticamente pregiata dagli Ateniesi. «_Al tempo degli avi fiorirono molti generosi e stette ognuno contento ad una iscrizione sulle Erme_» (Demost., _Ad Leptin_. — Cfr. Eschine in _Ctesif_.). [300] Lo starnuto era tenuto fra gli antichi ora per buono ed ora per cattivo augurio, secondo i casi. Infausti eran quelli della mattina, fausti quelli del mezzodì. Così in Aristeneto una fanciulla, mentre scrivendo si lamenta del suo amore infelice, ad un tratto si rallegra perchè nello scrivere starnutò. «_Oh come a proposito starnutai! il mio amante penserebbe egli a me in questo momento?_» (Aristen., _Lett_., II, 5). — E in Teocrito: «_Fortunato sposo! a te starnutò qualche fausto genio, quando venisti a Sparta!_» (Teocr., _Idill_., 18). Un esempio, invece di starnuto infausto, si ha in Teocr. _Idill_., 7. [301] _Chiechenei_, bocche aperte, spalancate, sbadiglianti; appellativo derisorio dato da Aristofane agli Ateniesi, per indicare con una sola caratteristica parola la curiosità senza senso e senza scopo, la credulità e la balordaggine della plebe; voce tolta dallo stupido spalancar di becco delle oche, e degli uccelli piccini all’appressarsi dei maggiori (Cfr. Luciano, _Scita_; Wieland, _Aristippo_). [302] _Agora_ era la piazza maggiore di Atene, ove teneasi il mercato; la quale metteva da una parte a settentrione al Ceramico e all’Accademia, e a mezzodì ai Portici (_Pecile, Portico Regio_, ecc.). [303] _Giove fiscio_, ossia _fuggitivo_ (φύξιος Ζεὺς), veniva invocato dai fuggenti (Vedi Licofrone, _Cassandra_, v. 288, e lo scoliaste a quel verso). A _Giove Fiscio_ sagrificò Deucalione cessato il diluvio (Apollod., _Bibl._, 1. II): e di un’ara dedicata a questo nume fa menzione Pausania (_Corint_., 4). [304] Le _triremi_, ch’eran le navi da guerra ateniesi (comandate ciascuna da un _trierarca_) secondo i calcoli del Boeckh (_Econ. pol. At._, II, 22), portavano ordinariamente da 200 uomini ciascuna. E cioè: 10 soldati di fanteria navale (ἐπιβάται) destinati alla difesa della nave; 40 opliti (truppe di sbarco o combattenti sopra coperta); e 150 tra uffiziali della nave, marinaj e rematori. Questi ultimi erano oltre a cento, ripartiti in tre ordini (indi il nome di _trireme_). Nel primo ordine, il più alto sopra il livello dell’acqua, erano i _traniti_, con lunghi remi: nel secondo di mezzo gli _zigiti_, nel terzo e più basso i _talamj_, i quali ultimi remando poco più su del livello dell’acqua, avean remi assai corti e sceglievansi quindi fra i più deboli di forza; questi erano spregiati (Ar., _Rane_, 1106) e non adoperavansi in alcuna fazione. — Questi tre ordini di rematori eran diretti da un _regolatore_ (κελευστὴς), ch’era sulla nave il primo in dignità, dopo il trierarca ed il piloto (κυβερνήτης), (Tucid.; Senof., _Rep. At._, I, 2; Peyron, _Note_ a Tucid.). [305] Circa l’ambizione di Alcibiade e la sua sete di gloria, vedi massimamente il _Primo Alcibiade_ di Platone già citato: «La gloria, che tu Alcibiade — gli dice Socrate — desideri più ardentemente di quello che uomo giammai abbia desiderato alcuna cosa» (_Pr. Alcib._, 124). [306] I _Misteri di Eleusi_ (o _Eleusinie_): celebri nella antica Grecia. Potevano dirsi una imitazione de’ misteri di Samotracia, salva la sostituzione del mito di Cerere e Proserpina alla favola e ai riti dei Cabiri. Più in su risalendo, può ritrovarsene l’origine nelle antiche dottrine orfiche dell’immortalità dell’anima e della metempsicosi, raccolte più tardi e sviluppate dalla filosofia pitagorica; colle quali dottrine dovettero avere qualche relazione i riti simbolici egiziani d’Iside e di Osiride, introdotti probabilmente nell’Attica dall’egiziano Cecrope. E però Cecrope potrebbe riguardarsi il vero istitutore de’ misteri eleusini: lo stesso Trittolemo, infatti, a cui Eusebio e Giustino attribuiscono, insieme colla prima seminagione nell’Attica, l’istituzione dei misteri di Eleusi, sembra vissuto poco dopo Cecrope, al tempo di Cranao suo successore. Diodoro Siculo fa invece istitutore de’ misteri Eretteo, quinto successore di Cecrope, e come lui egizio di nazione: il quale avendo dall’Egitto portato nell’Attica, afflitta da carestia, gran copia di granaglie, gli Ateniesi per gratitudine il fecero loro re; indi dissero Cerere essere venuta nell’Attica con lui; e aver egli perciò portati seco _dall’Egitto_ i riti della Dea (τὰ μυστήρια ποιῆσαι, μετενεγκοντα τὸ περὶ τούτων νὸμινον ἐξ Αἰγύπτου.) e instituiti ad essa in Eleusi i misteri. Ma Pausania negli _Attici_, parlando della guerra tra Eretteo e gli Eleusini d’Eumolpo riguarda i misteri come già esistenti a quel tempo; e solo è a notarsi nella versione di Diodoro la conferma dell’origine egizia od orientale di quei riti, contemporanea alla venuta delle colonie nell’Attica. Prima d’allora la religione fra’ Greci consisteva, più che altro, in un superstizioso timore delle forze della natura: tutt’al più, se anche prima di Cecrope e di Cadmo gli _Dei tutelari_ di ciascun popolo, i _lari_ e i _penati_ protettori delle famiglie avean vittime e voti, era per assicurarsene la protezione e calmarne lo sdegno, da cui faceansi provenire tutti i mali fisici e morali della vita privata e pubblica. La credenza che Giove fosse il custode dei diritti dell’ospitalità e il punitore degli spergiuri, e che qualunque omicidio anche involontario fosse senza tregua perseguitato dalle Eumenidi, era al più tutto quello che la religione contribuiva di suo allo svolgersi della vita sociale fra quelle orde elleniche primitive. Ma i nuovi colonizzatori e legislatori, venendo in Grecia dai paesi orientali, già mansuefatti alle idee dei governi teocratrici e alla venerazione e al timore delle caste sacerdotali, non tardarono a sentire il bisogno di puntellare con quelle idee l’edificio sociale di quelle loro nuove colonie fra popolazioni indomite e semiselvaggie. Bisognò rinvigorire la fiacca autorità delle leggi col sostegno della fede, diffondendo la credenza che gli Dei prendessero immediata cognizione delle azioni degli uomini; che essi non solo presiedessero alle prosperità e ai mali fisici presenti, ma che non contenti di punire il malvagio e premiare il giusto _in questa vita_, citassero anche le anime dei trapassati ad un tribunale inesorabile, per essere da questo serbate secondo i meriti o i demeriti ad una nuova vita di delizie o di orribili tormenti. Questa dottrina, inculcata al popolo con la sola esposizione orale, non poteva impressionarlo gran che: ma simboleggiata nei _misteri_ e proposta fra una quantità di apparati incutenti immediato terrore ai sensi, doveva di necessità agire potentemente sullo spirito di uomini eccessivamente sensuali e superstiziosi, che nei sotterranei di Eleusi si trovavano portati, per via di artificiose illusioni, prima nel Tartaro, poi negli ameni boschetti dello Eliso. — Indi colla venuta dell’egizio Cecrope e colla instaurazione dei _misteri_ noi vediam prodursi il contatto più importante e caratteristico fra la _deisidemonia_, ossia il politeismo materiale, fisiocratico, degli antichi Elleni e lo spiritualismo delle religioni orientali, egizia, israelitica, ecc. E come in queste, così pure nei _misteri Eleusini_ il filosofo scopre, allato ad un intento presunto spirituale e morale, rivolto alla pratica del vero e del giusto, un intento più materiale e più concreto: la brama di dominio e di potenza della casta sacerdotale, volta colle arti dell’impostura ad impadronirsi dell’uomo nella persona, nell’anima e negli averi. Le ricchezze prodigiose accumulate dai sacerdoti del tempio di Eleusi provano come l’intento fosse abbastanza riuscito. I _misteri Eleusini_ erano di due sorta: i _grandi_, τά μεγάλα ossiano i veri misteri (μυστήρια) consacrati a Cerere; i _piccoli_, τά μικρά, ossia _inizj_ dei misteri (τελεταὶ) consacrati a Proserpina. I piccoli celebravansi nel mese di Antesterione, ed erano propriamente una preparazione ai grandi misteri. Durante i medesimi, i candidati alla iniziazione, o iniziati di _primo grado_ (detti _misti_, μύστης) si purificavano nell’Ilisso, si preparavano con digiuni, preghiere, sacrificj, e sopratutto con offerte alla Dea. Più queste eran ricche e più probabilità si aveva di essere iniziati, e meno terribili eran le prove da subirsi. Questi _misti_, ossia iniziati ai _piccoli_ misteri, dopo cinque anni, e per somma grazia dopo un anno, potevano essere ammessi ai _grandi_ — e allora prendevano il nome di _epopti_ (ἐπὸπτης), ossia _ispettori_, ossia iniziati di secondo grado. La quale iniziazione ai grandi misteri celebravasi ogni tre anni, d’autunno, poco prima delle Tesmoforie, nel mese di Boedromione. Durava nove giorni, dal 15 del mese in poi: le cerimonie avean luogo la notte: e giammai festa sacra fu tanto solennizzata nella Grecia come questa. Tutto che la scienza e l’arte avevan potuto scoprire di più meraviglioso era posto in opera per colpire la fantasia del candidato, già estenuato anticipatamente dai digiuni, dalle macerazioni e da altre pratiche tendenti a debilitare il corpo e la ragione. I primi tre giorni, dei nove, si passavano ad Atene in sacrificj, digiuni, purificazioni, processioni in riva al mare ed altre cerimonie preparatorie. In una di queste un fanciullino di puro sangue ateniese era posto vicino alla fiamma del sacrificio e compiva i riti espiatorj, in nome dei futuri iniziati. — Il quarto giorno, danze sacre, pantomime rappresentanti il ratto di Proserpina e l’invenzione dei processi agronomici di Trittolemo. Portavasi da Eleusi ad Atene il _calato_ (κάλαθος), canestro sacro di Cerere, sopra un carro seguìto da una turba acclamante a Cerere, _dea nutrice, dea delle messi._ Seguivano vergini, con panieri o _ceste_ (κίστη) di frutta e dolci, che servivano, insieme col ciceone, a rompere il digiuno commemorativo del digiuno di Cerere, giusta la formula degli iniziati: «_ho digiunato, ho bevuto il ciceone; ho preso dalla cesta e dopo aver gustato ho deposto nel calato; ho ripreso dal calato e riposto nella cesta_.» — Il quinto giorno, cerimonia delle fiaccole, altra imitazione del rito egizio di Sais. Gli invitati sfilano a due a due in gran silenzio, con in mano torcie accese, poi scambiano e si ripassano le torcie di mano in mano. — Il sesto giorno, la statua di Iacco (figlio di Cerere) inghirlandata di mirto, veniva portata con gran pompa in processione, dall’Eleusinio in Atene, per la via sacra, sino all’Anattorio o tempio di Eleusi. Il calato, il rombo, il fallo, seguono la processione, mentre i sacerdoti cantano gl’inni a Iacco e la turba acclama: _Iacche! evoè! Iacche!_ — Il settimo, ottavo e nono giorno, detti _mistici_, impiegavansi nella cerimonia della iniziazione degli aspiranti o iniziati di primo grado (_misti_). Gli iniziati indossano lunghe tuniche di lino, colle quali devono essere iniziati. Essi attendono la notte nel Pronao, o vestibolo, che le porte del tempio si aprano: ed ecco, ad un tratto, là, in mezzo alla più profonda oscurità, scoppiar tuoni e folgori, tremar la terra e il tempio tutto, come scrollato dalle fondamenta. Romori spaventevoli e sibili di serpenti e muggiti s’alzano dagli abissi; fantasmi e spettri ributtanti e cadaveri insanguinati sfilano alla luce sinistra dei lampi. Più in là appare Ecate tricipite, circondata da orrendi mostri. Poi tutto ritorna silenzio e buio; poi lo squarciarsi come d’una cortina metallica annunzia nuove apparizioni. È il Tartaro co’ suoi fiumi di fiamma, e i suoi odori sulfurei, i suoi tormenti e tormentati, Sisifo, Tantalo, Issione, le Danaidi, ecc. Ma il Tartaro scompare, e alle scene spaventose succedono le scene gioconde: sono i campi Elisj coi prati smaltati di fiori e il dolce mormorio degli uccelletti e i boschetti profumati, e le ombre amene, rallegrate dai cori e dalle danze delle coppie dei beati, dai banchetti di nettare e di ambrosia, dalle mistiche melodie. Dagli Elisj ecco i novizi passare ad un sotterraneo illuminato da torcie, ove si svolgono ai loro occhi le vicende di Cerere, di Proserpina e di Iacco, più o meno lubricamente, più o meno oscenamente rappresentate. Il novizio là vede dove Iside nascondesse suo figlio Oro dall’ira di Tifone; e quello che mostrasse a Cerere la vecchietta Baubo per far che la dea nel colmo della mestizia si scompisciasse dalle risa; e quel che contenessero i canestri chiusi delle figlie di Cecrope, ecc., ecc. Terminato lo spettacolo, i novizj son condotti nel recinto sacro fuori del tempio: e là trovansi ancora nel buio: quand’ecco ad un tratto le porte del tempio spalancarsi con fracasso; e nella gran navata, immenso spazio capace di cinquemila persone, in mezzo ad un mare di luce e di torcie scintillanti, apparire la statua di Cerere tutta oro e gemme, circondata da’ suoi ministri in ricchissimi paludamenti. È il _gerofante_ (ἱεροφάντης) supremo pontefice di Cerere, ed in pari tempo il gran sacerdote dell’Attica, assistito dal _fiaccolifero_ (δᾳδοῦχος), dall’_araldo_, o _cerice_ (κήρυξ) recante il caduceo, e dagli altri sacerdoti. All’entrar degli iniziati nel tempio, l’araldo grida: _lungi i profani, gli empj e tutti quelli di cui l’anima è macchiata di delitti_: e commina pena di morte a chi non iniziato sarà sorpreso nel tempio. Poi ad un segnale dell’jerofante gli Dei olimpici appariscono nel santuario (_teofanìa_) e da quel punto comincia l’iniziazione, e gli iniziati son proclamati _epopti_, siccome ammessi alla visione della divinità. Il gerofante li arringa, promettendo loro, dopo morte, le voluttà degli Elisi, negate ai profani e invitandoli a giurare per la triplice Ecate il silenzio più assoluto su tutto ciò che hanno udito ed inteso, sotto minaccie terribili di morte a chi commettesse la menoma indiscrezione. Tutti gli iniziati prestano il giuramento, ed escono dal tempio in gran raccoglimento, per recarsi in processione all’Eleusinio. Il giorno dopo gli iniziati fan festa e si ricreano dalle fatiche dell’iniziazione nelle braccia delle cortigiane; il nono ed ultimo giorno infine si rimandano i pusillanimi che non superarono le prove, e gli epopti celebrano la iniziazione con ricchissime offerte al tempio di Eleusi — magnifica gazzarra pei sacerdoti. (Diod. Sic., lib. I; Callimaco, _Inno a Cerere_; Platone, _Fedone, Gorgia_; Pausan., _Att_., 38; Giustino, lib II; Meursius, _Gr. fer.; Eleusinia; Reg. Ath._, lib. II; Wieland, _Aristip_., IV, 1; Maury, _Hist. des relig. de la Gr. ant._; Robinson, _Antiq. of Greece_; Barthelemy, _Anac_.; Preller, _Demeter und Persephone_; Cl. Bader, _La femme grecque_, I, cap. 6; Debay, _Nuits Corinthiennes_, ecc.). [307] _Erme_ (V. sopra, nota 8), così dette da Ἐρμῆς, _Mercurio_, erano masse di marmo dell’altezza di un uomo, che nella parte superiore ritraevano la testa di Mercurio, e nella inferiore terminavano in colonna tetragona. Di queste Erme ve n’erano molte per le vie, nei vestiboli delle case private e nei templi, — postevi dai privati o per ordine dei magistrati. Anzi una via intera in Atene chiamavasi _delle Erme_ perchè tutta decorata di questi busti. Ipparco, figlio di Pisistrato, ne aveva fatte por molte nel mezzo delle vie tra la città e i singoli demi rurali, con suvvi iscrizioni o precetti morali, per esempio: _cura la giustizia — non ingannar l’amico_, ecc. (Platone, _Ipparco_, 228 seg.; Tucidide, VI., 27; Suida, Arpocraz. a q. v.). Questi simulacri di Ermete eran riguardati dagli Ateniesi come custodi tutelari dei lari domestici, delle vie, della prosperità della città, della pace pubblica e delle istituzioni; e negli Ateniesi, come bene osserva l’Houssaye, l’idea religiosa associavasi siffattamente alla idea politica, che una offesa fatta ad un Dio protettore della città, come quella che poteva attirar su di essa la collera del Dio offeso, consideravasi quale un attacco contro la repubblica. — Indi il crimine di tradimento e di sacrilegio eran fatti sinonimi (Senof., _St. Ell_., I; Meurs., _Them. Att_., II, 2. — Cfr. Timeo, _Fragm. Hist. gr._; e Houssaye, _Hist. d’Alc._, II, 42). Il guasto di queste Erme, che poco innanzi la spedizione di Sicilia furono trovate una bella mattina quasi tutte mutilate nella faccia, fu tenuto in Atene per grave sacrilegio e vi destò un’emozione indicibile, di cui si valsero i nemici d’Alcibiade, per darne la colpa a lui, collegandovi anco l’accusa di avere in un’orgia contraffatto i misteri di Eleusi. Sulla mutilazione di queste Erme, sulle accuse di Pitonico e Andromaco, Dioclide e Teucro, contro Alcibiade, sulla deposizione di Andocide e Tessalo contro il medesimo, e sul processo relativo che provocò, oltre il richiamo e la condanna di Alcibiade, molte esecuzioni capitali di presunti suoi complici, vedi Tucidide, VI, 28, 53, 60, 61; Andoc., _Or. dei misteri_; Lisia, _Contro Andoc_., 36; Ps. Andoc., _Contro Alcib_.; Isocr., _De Big._, III; Plutarco in _Nicia_, 13, in _Alcib_. 18 seg.; Corn. Nep. in _Alcib_. — Cfr. Grote, tom. XI. Ma il racconto del coscienzioso Tucidide (VI, 60) intorno al modo con cui fu ottenuta la propalazione d’Andocide, che formò la base della accusa di Tessalo, e la accusa di Lisia contro Andocide stesso (c. 36), danno fondamento a dubitare della verità di quell’accusa riguardo ad Alcibiade. Infatti Tucidide afferma che «niuno nè allora, nè poi potè mai nulla affermare di certo sugli autori del misfatto, e gli Ateniesi medesimi non sapevano se la punizione delle vittime fosse giusta» (ib.). [308] Tucidide avverte che gli Ateniesi diedero al fatto delle Erme _maggior importanza_ del dovere «_giudicandola opera d’una cospirazione tendente ad innovar lo Stato e ad abbattere il governo popolare_» (VI, 27). Della facilità degli Ateniesi a sospettare per ogni cosa di mene sovvertitrici contro il governo popolare accennai altrove (V. quadro II; e _Alcib. e la crit_., Op., IV, 321). A questi sospetti associavasi sempre naturalmente il sospetto di intelligenze coll’aristocratica Sparta: indi le accuse di _filolacone_ (amico degli Spartani) e di cospiratore per introdur la tirannide, dal tempo di Ippia in poi, suonavano in Atene pressochè equivalenti (Cfr. Plut. in _Cimone_, 18; _Nicia_, 10; Aristof., _Lisis_., 619 seg.; Erod., V, 91). Perciò, appena si intese, dopo il fatto delle Erme, che un piccolo corpo di Lacedemoni si era inoltrato fino all’Istmo, si sparse subito la voce per Atene che esso si avanzasse di concerto cogli autori del sacrilegio per istabilire la tirannia (Tucid., VI, 61). [309] Ecco il testo preciso dell’accusa contro Alcibiade assente in Sicilia, quale ci fu conservato da Plutarco: «Tessalo, figliuol di Cimone Laciade, accusò Alcibiade figliuolo di Clinia Scambonide di aver commessa iniquità contro le due Dee Proserpina e Cerere, avendone contraffatti e mostrati i misteri in sua propria casa a’ compagni suoi, abbigliato con una veste simile a quella che indossa il Gerofante quando appunto mostra le cose sacre, ed avendo nominato _Gerofante_ sè stesso, e Polizione _Fiaccolifero_, e Teodoro _Banditore_, e creati gli altri compagni _Iniziati_ ed _Ispettori_, contro le leggi e gli statuti degli Eumolpidi, dei banditori e dei sacerdoti di Eleusi. — Per il qual delitto il popolo lo ha condannato a morte in contumacia, ha confiscato tutti i suoi beni, e determinato di più che tutti i sacerdoti e le sacerdotesse lo abbiano a maledire» (Plut., _Alcib_., 22. — Cfr. Tucid., 61). Il Dacier unisce erroneamente nella sua versione il testo dell’accusa coll’esposizione della condanna, che di quel testo non fa parte. Comunque sta che Alcibiade fu doppiamente condannato, nel capo e nei beni (Cfr. anche Isocr., _De Big_., 17; Giustino, V, 1; Diod. Sic., XIII, 5; Corn. Nep., _Alcib_.; Senof., _St. Ell_., I, 4). La pena di morte era difatti la pena inflitta tanto ai traditori o rei di lesa repubblica quanto ai sacrileghi (Licurgo in _Leocr_.; Hermog., _Partit. Sect._, V); pure il rigore di quella duplice condanna parrebbe eccedere la stessa legge ateniese, che vietava impor doppia pena: «_In qualunque giudizio una sola pena si dia: o corporale o pecuniaria: entrambe no_» (Demost. _ad Leptin_.); «_l’Etica condanni il convinto a pena corporale o pecunaria_» (Demost., _C. Timocr_.): conseguenza della qual legge era la facoltà di optare fra le pene, data ai rei convinti (Plat., _Apol_.; Eugraphius, in _Andriam_, Act. III; Meurs., _Them. Att_., II, 22). Così Socrate e Focione furono puniti di morte e non colla confisca dei beni. Vuolsi però notare che Alcibiade era stato condannato a morte dopo la sua evasione a Turio, cioè _in contumacia_, la morte essendo la pena irrogata di diritto al titolo del crimine: l’opzione poi era concessa solo agli accusati presenti al giudicio; la sola parte efficace della condanna di Alcibiade era l’esilio perpetuo, il divieto di esser seppellito nell’Attica, e la confisca dei beni — le quali appunto erano le pene stabilite pei colpevoli di sacrilegio o di tradimento, quando questi non si trovavano in mano della giustizia (Senof., _St. Ell_., I; Meurs., _Them. Att._, II, 2). [310] _Nave Salaminia_. La _Salaminia_ e la _Pàralo_ (o il _Paralio_) erano le due principali triremi ateniesi che stavano sempre allestite e pronte a salpare per recar dovunque gli ordini e i messaggi della Repubblica (Tucid., VI, 53), accompagnare, occorrendo, per lo stesso servizio le spedizioni da guerra (Tucid., III, 77), portar le sacre ambasciate o _Teorie_ ai principali giuochi e ai templi più venerati della Grecia, come a Delo, e per tale uffizio chiamavansi anche ambedue _navi sacre_ (Plat., _Fedone_, 58; Arpocr., Suida). Non eran montate, per il loro servizio geloso di Stato, che da cittadini liberi (Tucid., VIII, 73) ed erano fra le più veloci al corso («_Le due velocissime navi_ Paralo _e_ Salaminia _stan per sciogliere dal lido come foriere portando gli inquisitori, i quali devono far noto quando s’abbia ad uscire in guerra_.» — Alcifr., _Lett_., I, 11; Scol. Aristof., _Ucc_., 1204). La nave _Paralo_ fu la prima che si salvò con Conone dalla disfatta di Egospotamo e portò ad Atene la infausta nuova (Senof., _St. Ell_., II, 1). La _Salaminia_ (così detta dal suo primo piloto che fu Nausiteo di Salamina) era la nave, in cui, secondo la tradizione popolare, Teseo erasi imbarcato per Creta alla spedizione del Minotauro (Plut., _Teseo_). Sovr’essa gli Ateniesi mandavano ogni anno la _teorìa_ a Delo a sagrificare ad Apollo, in memoria del sacrifizio fattovi da Teseo quando tornò a Creta vittorioso; e finchè questa nave non era di ritorno, non era permesso in città far giustiziare nessun condannato a morte (Plat., _Fedone_, p. 43). Perchè la _Salaminia_ cogli anni non si sfasciasse, di quando in quando rappezzavasi: sicchè coll’andar del tempo non serbò più del primo naviglio che la forma. Era una nave di trenta remi — e fu conservata dagli Ateniesi sino al tempo di Demetrio Falereo. — Fu essa che portò ad Alcibiade in Sicilia l’ordine di richiamo (Plut. in _Alcib_. e _Teseo_; Tucid., VI, 61). [311] Intorno a Cimone, vedi Plutarco e Cornelio Nepote nella sua Vita. [312] Questo anatema fu scolpito su una colonna eretta in una delle piazze della città (Corn. Nep., _Alcib_., 4). [313] «Avendolo quindi condannato (Alcibiade) per contumacia e pubblicate avendone le sostanze, determinarono di più che tutti i sacerdoti e le sacerdotesse lo avessero a maledire: fra le quali raccontasi che una sola, chiamata Teano, figliuola di Menone, sacerdotessa del tempio di Agraulo, ebbe il coraggio di opporsi a quel decreto, dicendo: _di essere sacerdotessa per benedire e non per maledire_» εὐχῶν, οὐ καταρῶν ἱέρειαν γεγονέναι (Plut., _Alcib_., 22). — Sui riti delle maledizioni, vedi Lisia, _Contr. Andoc_.; Plut., _Arist_., 24, 25; Erodoto, V, 165. — Cfr. Maury, _Hist. des relig. de la Gr. ant._ [314] Agraulo, sinonimo di Aglauro. Vedi quadro III, nota 53. [315] Che una Timandra seguisse Alcibiade allo esercito si rileva da Ateneo: «Lo stesso (Alcibiade) partito per l’esercito, conduceva seco in giro Timandra, la madre di Laide Corinzia» (Aten., _Deipn._, XII, 535). [316] πάν διὰ πυρὸς ἤ ξιφῶν — _anche attraverso i fuochi e le spade!_ — _passar si dovesse anche tra il fuoco e le spade!_ — esclamazione proverbiale di frequente uso (Diog. Sinop., _Epist_., 30; Cratete, _Epist_., 6; Chione, _Epist. a Plat_., 17). [317] Nicia e Lamaco furono i due capitani eletti a colleghi di Alcibiade nel comando della spedizione di Sicilia. Nicia era abile capitano, ma prudentissimo sino alla paura; Lamaco audace fino alla temerità; Alcibiade radunava in sè, da eccellente capitano ch’egli era, la prudenza del primo e il coraggio del secondo (Plut., _Nicia_; _Alcib_.; Tucid., VI). Sul carattere focoso e impetuosissimo di Lamaco, le cui doti soldatesche appunto lo facevano miglior soldato che condottiero, e il quale del resto visse virtuoso e povero, e morì in Sicilia da prode, vedi Aristof., _Acarnesi, Pace_, 1290, seg.; _Rane_, 1039; Tucid., IV, 75; VI, 19, 101; Plut., _Alcib._, 12, 20; Nicia, 14; Elian., _V. st._, II, 43. — Aristofane stesso che lo canzonò, facendone il tipo d’un capitan Fracassa de’ suoi tempi, rende omaggio alla sua virtù e ai suoi meriti verso la patria, nelle _Tesmof._, 841. [318] «_In prima è probabile che i Numi, fortissimi alleati e campioni, ci assisteranno_» τούς θεοὺς μεγίστους ἡμῖν ὑπάρχειν συμμάκους κα’ βοηθούς (Demost., _Sulla lettera di Filippo_). [319] «Mandò (il popolo) ad esso (Alcibiade) la nave _Salaminia_, dando avvedutamente ordine agli inviati di non mettergli le mani addosso, nè di fargli violenza alcuna, ma di usar parole moderate, insinuandogli di venir loro spontaneamente dietro per presentarsi in giudicio, e render persuaso il popolo della propria innocenza. Usata fu tale circospezione perchè temevasi altrimenti un qualche tumulto e sedizione nell’esercito, che trovavasi in paese nemico: _cosa che Alcibiade suscitar poteva agevolmente se voluto avesse:_ imperocchè per la di lui partenza i soldati si disanimarono...» (Plut, in _Alcib_., 24). — E Tucidide: «Mandarono (gli Ateniesi) la nave _Salaminia_, ordinandole non già di arrestarlo, ma di intimargli che venisse in Atene a discolparsi. _Così vollero evitare che si eccitasse qualche moto nelle loro truppe_ di Sicilia od in quelle nemiche, e che partissero dall’esercito i Mantinei e gli Argivi, i quali, come si credeva, si erano uniti alla spedizione ad istanza di Alcibiade» (Tucid., VI, 61). Dinanzi a questa doppia testimonianza di Plutarco e di Tucidide, ci sembra nel torto il Grote, il quale non crede che Alcibiade avrebbe potuto così facilmente suscitare una sommossa militare se avesse voluto resistere all’ordine. Oltre che Alcibiade era forte degli alleati, venuti espressamente per lui, e a lui devoti, e che formavano il maggior numero, la popolarità enorme di Alcibiade fra i suoi stessi concittadini ed il suo ascendente fra i soldati erano notissimi; e i primi fatti della guerra, sopratutto la presa di Catania a lui dovuta e la felice riuscita dello stratagemma di cui racconta Polieno (I, 40), non avevano potuto che accrescerli. — Basta del resto raffigurarsi le doti geniali del carattere di Alcibiade e la sua arte squisita di cattivarsi gli animi, per ritenere senz’altro che le simpatie dell’esercito gli erano assicurate: come lo provò chiaramente la sfiducia che subentrò alla sua partenza. [320] _Trierarchi_, capitani di trireme (vedi sopra nota 13). Volendo alleviare i pesi dell’erario, Atene accollava ai più ricchi cittadini le spese di alcuni pubblici servizii, detti _liturgie_. Le liturgie ordinarie erano quattro: la _ginnasiarchia_, per cui il ginnasiarca provvedeva all’allestimento del luogo pei pubblici giuochi ginnastici, vitto e paghe dei ginnasiasti, ecc. La _coregia_, che imponeva al corego una parte delle spese dei cori, nelle gare teatrali. La _estiasi_: il liturgo, a ciò nominato da ogni singola tribù, ne allestiva il banchetto pubblico. Infine la _trierarchia_, ch’era la più onerosa di tutte. Il _trierarca_, che appunto sceglievasi tra i più ricchi cittadini, era obbligato a montare e corredare di tutti gli attrezzi una trireme a proprie spese e pagar di suo anche un complemento di soldo ai marinaj della stessa, oltre la paga che avevano dallo Stato. Lo Stato non forniva che il corpo della trireme e l’albero: e malcapitati i trierarchi cui toccavano delle vecchie carcasse da raggiustare ed armare. I trierarchi quindi nella repubblica eran tanti quante le triremi o navi da guerra: Senofonte ai suoi tempi faceva il novero di 400 trierarchi (Senof., _Rep. Aten._; Tucid., II, 24; VI, 31). Demostene così cita la legge: «_Nessuno sia esente dall’armar triremi, fuorchè i nove arconti._ Chi dunque è impotente al carico di trierarca, paga le taglie di guerra: gli opulenti invece danno galee e tributi» (Demost., _C. Lept_.). Dal che si rileva che i cittadini più doviziosi della prima classe (i pentacosiomedimni) avevano benissimo il modo di soddisfare all’obbligo del servizio militare — obbligo comune per tutti a cominciar appunto dai più ricchi (Aristot., _Polit_., V, 2) — anche senza servire nella cavalleria, dove per cavarsi d’imbarazzo li colloca erroneamente, insieme coi cittadini di seconda classe, l’Houssaye, a cui quel passo di Demostene sembra essere sfuggito (Vedi Houss., _Hist. d’Alcib. et de la rep. Ath._, I, pag. 8, nota 1). [321] Uno dei tanti tribunali d’Atene, il quale adunavasi in un luogo appartato del Pireo detto Freatte (da φρέαρ, _pozzo_, perchè ivi era un pozzo vicino) lungo la spiaggia del mare; e là dinanzi ad esso potevano venire in sicurezza a discolparsi i cittadini i quali, già sbanditi per qualche fatto dalla patria, fossero stati, mentre durava ancora il bando, accusati di qualche delitto nuovo. «L’accusato facendosi presso, ma non toccando terra, dal bordo della nave si discolpa: i giudici dal lido odono e giudicano: quegli, se convinto, è sentenziato a castigo condegno; se immune, ritorna all’esilio» (Demost., _Contro Aristocr_.). Narrasi che Teucro fosse stato il primo a discolparsi in questa guisa dell’uccisione di Aiace in presenza di Telamone (Paus., _Attic._, 28; Poll., VIII, 10; Potter, _Arch_.). [322] Imprecazione d’uso che precedeva i pubblici giudizj in Atene. Come è noto, i giudici eliasti e i senatori prestavano giuramento di esercitare secondo coscienza il loro ufficio: «or quando — prosegue Demostene — non ira, non furore, non altra rea passione detta a me giudice il suffragio, io son fedele al giuramento. Fui ingannato? è iniquo punirmi. Ho mentito a posta? Ne andrò maledetto. _E perciò l’araldo in ogni adunanza impreca non agli ingannati, ma agli ingannatori o del Senato o del popolo o dei giudici_» (Demost., _Contro Aristocr_.). [323] Le _Eumenidi_, od _Erinni_ vendicatrici (_Furie_), avevano altari in Atene dai tempi antichissimi, ed eran chiamate per antonomasia le _Dee Venerande_ come protettrici della città (Vedi Eschilo, _Eumen_.; Tucidide, I, 125). [324] Infausto augurio. Reputavasi invece augurio felice se, mentre faceansi i sacrificj, comparivano aquile volanti a destra (Vedi Omero; Eschilo, _Agam_.). [325] «Il mare si va rabbuffando... i venti minacciano metter l’onde sossopra... e gli intendenti degli astri dicono che stia per nascere in cielo il Toro. Per lo che coloro che vogliono evitar i pericoli della burrasca si ritirano in salvo» (Alcifr., _Lett_., I, 10). Le sette Jadi, che fanno parte della costellazione del Toro, al loro nascere e al loro tramonto apportano piogge e tempeste. [326] «In progresso di tempo, sentito avendo (Alcibiade) che gli Ateniesi condannato aveanlo a morte, _Ma io, disse, mostrerò ben loro che sono ancor vivo_,» ἄλλ’ ἐγώ δείξω αὐτοῖς ὄτι ζῷ (Plut., _Alcib._). [327] _Nella recita, per l’effetto scenico, cala la tela a questo punto._ [328] _Invocar l’aiuto di Crateide_, Κράταιιν σωστρεῖν (ἐπικαλέσασθαι), starsene al primo danno, prima che non capiti di peggio (Alcifr., _Lett._, I, 18). Modo proverbiale, attinto da Omero, dove Circe ammonisce Ulisse che, invece di vendicare i compagni divoratigli da Scilla, il mostro marino, preghi Crateide madre del mostro a interporsi perchè non glie ne siano divorati degli altri (Omero, _Odiss._, lib. XII, v. 124). Superfluo notare che Lamaco parla sulla spiaggia siciliana, cioè in vicinanza di Scilla. [329] Rozze e povere eran tutte le abitazioni spartane; poichè Licurgo «_cacciò via tutte le arti che troppo squisite erano ed inutili:_» sicchè «_soltanto_ i mobili di uso continuo e _indispensabile_, come le tavole e le sedie, erano presso gli Spartani lavorati con perfetto artificio.» E fra le leggi da Licurgo poste per bandire da Sparta la sontuosità ed il lusso, «altra ve n’era con cui ordinavasi che ogni abitazione avesse i palchi fatti colla scure, e le porte lavorate solamente colla sega, nè che adoprato vi fosse strumento veruno. Imperocchè Licurgo pensava che una sì fatta abitazione non lasciasse luogo nè a lusso, nè a magnificenza. Nè v’ha certo alcuno sì goffo e inconsiderato che in abitazione semplice e triviale portar voglia letti co’ piedi di argento e coperti di porpora e vasi d’oro ed altre sontuose suppellettili a queste corrispondenti: ma è necessario che tutto sia proporzionato e all’abitazione corrispondano gli arredi. Per una tal costumanza dicesi che Leonida il vecchio, cenando in Corinto e veggendo il tetto della casa ben laqueato e di grande spesa, interrogasse l’ospite suo _se presso di loro nascevano i legni lavorati e riquadrati_» (Plut. in _Licurgo_. — Cfr. Plut., _Reg. apof._, p. 125; _Lac. ap._, 222; Müller, _Dorier_, lib. IV, c. 1). [330] στιβάδα chiamavano gli Spartani i giacigli di giunchi e di foglie su cui dormivano: «fatti da loro medesimi, con rompere colle mani e senza servirsi di ferro alcuno, le cime delle canne che nascono lungo le rive dell’Eurota: nel verno poi mescolavano con tali foglie quelle di una specie di cardi, chiamati licofoni, sembrando che tal materia avesse un non so che di calido» (Plut. in _Licurgo_ e _Apoft. Lac._). [331] Il _cóton_ era il bicchiere dei guerrieri spartani: specie di ciotola di terra cotta, ad una sola ansa. «Molto celebre a Sparta era quella ciotola detta _cóton laconico_, principalmente per l’uso che, al dir di Crizia, ne facea la soldatesca: imperocchè quelle acque che per necessità si beveano, e che al solo vederle erano schifose e recavan disgusto, nascoste venivano dal color di quel vaso» (Plut. in _Licurgo_. — Cfr. Scoliaste di Aristof. nei _Caval._ e nella _Pace_; Polluce, VI, 16; Ateneo, XI, 483; Senof., _Cirop._ — Meurs., _Misc. Lac._, I, 14). [332] Vedi quadro III, nota 39. [333] Euribate fu ladro astutissimo: messo in prigione, insegnò a rubare perfino a’ suoi carcerieri. Indi passò tra’ Greci il suo nome in proverbio. «_Neppure Euribate, quel ladro famoso, osò tanto_» (Aristen., _Lett._, I, 20). Dicevasi anche _azione da Euribate_, Εὐρυβάτου πράγμα. «_Questo è un agire da Euribate, non da cittadini, non da gente onorata_» (Demost., _Corona_). — Ed Eschine: «_Nè Frinonda_ (altro ladro famoso), _nè Euribate, nè altri degli antichi furfanti furono prestigiatori e ciurmadori come costui_» (Esch., _C. Ctesif._) — Cfr. Platone, _Protag._, c. 16; Alcifr., _Lett._, III, 20; Lucian., _Aless._, 4; ed Erasmo, sulla frase proverbiale, εὐρυβατύεσθαι (_agire da Euribate_). [334] _Platanisto_ (πλατανιστάς) era a Sparta il luogo di esercizio per la gioventù, derivante il nome dagli altissimi e folti platani che l’ombreggiavano. Il fiume Eurota e il ruscello Euripo vi scorrevano intorno, formandone come un’isola, alla quale mettevano, per un ponte ciascuna, due strade: nell’una era il simulacro di Ercole, nell’altra l’effigie di Licurgo. — Nel Platanisto avevano luogo le manovre e i combattimenti degli efebi (ossia dei giovani spartani dai diciotto ai venti anni) (Paus., _Lacon._; Luc., _Ginnas._; Teocr., _Idill._, 18. — Meurs., _Misc. Lac._, II, 13; IV, 15). [335] _Silfio_, erba adoperata dai Greci e in ispecie dagli Ateniesi per condimento comunissimo e quasi indispensabile nelle vivande della loro cucina. La più credibile opinione moderna è ch’ella fosse l’_asa fetida_ dei botanici. Specialmente dal sugo condensato, estratto dai fusti e dalle radici, preparavasi quella specie di gomma resinosa dai Greci chiamata _silfio_ (σιλφιος) e dai Romani _laserpitium_. Le alture di Cirene erano coperte di questa pianta, che formava un oggetto d’esportazione lucrosissimo pei Cirenei (Vedi Ateneo, I, 28 d; IV, 170, e VII, 311 c; 322 d; XIV, 623 b). [336] _Maza_ (μᾶζα, o in dorico μὰδδα), specie di pane o di focaccia, di color nero, fatta di farina di frumento: ch’era, insieme col famoso _brodo nero_, il cibo ordinario nazionale degli Spartani. Infatti ai banchetti pubblici (_fidizj_) non mangiavasi altro che maza e brodo nero. — La maza rimase anche nei tempi posteriori, del dominio romano, il cibo ordinario delle classi povere di Sparta (Plut. in _Agide_, in _Alcib._ e _Apoft. Lac._, 230 f; Aten., II, 60; IV, 161; III, 115 a; XIV, 636; Aristof., _Caval._, 1104, 1165; _Acarn._, 834; Lucian., _Timone, Navig., Epist. Sat._; Platone, _Repub._, II, 372). [337] _Osservare i tonni_, θυννοσκοπεῖν, diceasi proverbialmente per _adocchiare con avidità ed intenzione molto intensa_ qualche cosa. — Su alte rupi collocavano i pescatori di tonni le lor sentinelle, a spiar di là attente giù nella marina quando e da che parte i tonni s’accostassero al lido. Indi l’uso metaforico frequente della parola: «Tu che hai conturbata la città, — dice il coro a Cleone nei _Cavalieri_, _e adocchj i nostri tributi come i pescatori dall’alto dello scoglio adocchiano i tonni_,» τοὺς φόρους θυννοσκοπῶν (Arist., _Caval._, 313. — Cfr. Teocr., _Idill._, 3). [338] «Licurgo volle che i fanciulli fossero governati con ampia potestà da uno di coloro che sogliono essere eletti ai supremi magistrati: e a costui fu posto nome di _pedónomo_: e gli diede piena autorità di raunare insieme i fanciulli e di castigarli severamente, se avesse veduto alcun di loro far qualche cosa trista. Gli consegnò pure alcuni di quelli ch’eran vicini a metter barba da portargli dietro le sferze; acciocchè quando faceva bisogno li potessero castigare» (Senof., _Rep. Laced._, II). — Alla vigilanza del pedónomo (παιδονόμος) eran soggetti i giovani fino all’età dei vent’anni e in altissimo onore era tenuta quella dignità nello Stato (Cfr. Senof., _Rep. Lac._, IV; Esichio. — Müller, _Dorier_, II, 297). [339] Nella costituzione data da Licurgo a Sparta (810 av. l’E. V.) il potere dei due _re_ o _arcageti_ (ἀρχαγέται) (in tempo di guerra esercitanti con facoltà illimitate il comando supremo dell’esercito; in tempo di pace investiti del supremo sacerdozio, presiedenti ai pubblici sagrificj, ai rapporti dello Stato col nume di Delfo, alla custodia degli oracoli, ai giudizî nelle cause civili, ecc.) trovavasi già limitato dalla istituzione del Senato (γερουσία), composto di ventotto cittadini o _geronti_, maggiori dei sessant’anni, eletti dal popolo a vita tra i vecchi più virtuosi. Il Senato, come potere amministrativo, discuteva insieme coi re le proposte da presentarsi all’assemblea del popolo (αλία, ἐκκλησία) — cui prendeva parte a ciascun plenilunio ogni spartano maggiore dei trent’anni — e le autorizzava con voto preventivo; come tribunale giudicava con diritto di vita e di morte in tutte le cause criminali, ed era anche investito della suprema sorveglianza sui costumi dei cittadini: nel che aveva molta analogia coll’Areopago di Atene. Però il Senato ed i re che di esso eran parte, esercitando insieme il diritto non solo di convocare e sciogliere a proprio grado l’assemblea del popolo, ma anco di annullarne le deliberazioni, — formavano unitamente un solo corpo, una sola aristocrazia dominante; ed erano essi stessi il vero perno della costituzione aristocratica dello Stato. È di fronte al Senato ed ai re che vediam sorgere in tempi posteriori — come un potere di sorveglianza e di controllo in _opposizione_ ad essi ed emanante dal popolo, — il magistrato dei _cinque Efori_ (ἔφοροι). La tradizione volgare vorrebbe assegnarne la origine alla prima guerra messenica (730-710 av. l’E. V.), dove essi sarebbero stati introdotti dallo stesso re Teopompo per provvedere al governo nell’assenza dei re partiti per la guerra. Ma più esatto è il cercare l’origine degli Efori in un antichissimo magistrato popolare, comune ai popoli dorici, ristretto in origine alla giurisdizione sui contratti e mercati, il quale, come è nella tendenza dei magistrati d’origine popolare, si venne man mano allargando, a spese degli altri poteri di origine opposta. Lo stesso modo di elezione degli Efori, scelti fra il popolo, e la loro rinnovazione d’anno in anno e la collisione finale col potere del re, a cui dovettero giungere tosto o tardi, attesta, contro l’opinione che vorrebbe farne istitutore il re Teopompo, la vera natura democratica di questo potere, la cui origine, affine a quella dei _tribuni_ di Roma, segna l’introdursi di un principio di _mobilità_ nel chiuso della costituzione stazionaria, aristocratica di Sparta: principio che riuscirà a scuoterne l’immutabilità secolare e a renderla accessibile alle successive trasformazioni del tempo. Fatto è che gli Efori, da semplici soprastanti ai mercanti e giudici nelle cause civili, crebbero man mano di potere, sino ad esercitare il sindacato ed il controllo su tutti i magistrati (tranne i geronti) con facoltà di sospenderli e destituirli, di chiamare in giudizio e di arrestare gli stessi re. Essi ebbero la sorveglianza sull’educazione della gioventù: e il diritto di convocare il popolo, raccoglierne suffragi, propor leggi: assunsero in ispecie l’alta direzione degli affari esteri e degli affari militari (ricevimento degli inviati dei nemici ed alleati, invio di ambasciatori, stipulazioni di trattati, dichiarazioni di guerra, leva di truppe, destinazione dei comandi dell’esercito, poter disciplinare sul medesimo, istruzioni ed ordini ai comandanti, facoltà di richiamarli a render conto, ecc.), nei quali casi essi agivano non tanto in nome proprio, quanto siccome rappresentanti dell’assemblea popolare. La loro autorità giunse poi al segno da poter condannare a morte chiunque senza assegnarne i motivi: e da essere pareggiata alla tirannia (ἰσοτὺραννος, Plat., _Leg_., IV). Le conseguenze di un potere così esteso, che modificava dalle basi l’antico ordinamento politico di Licurgo e ne preparava il rovesciamento, apparvero già profonde nelle lotte civili dell’età di Agide e di Cleomene (Vedi Plut., in _Lic_., _Agid_. e _Cleom_.; Senof., _Rep. Lac_.; _St. Ell_., 2, 3; Plut., _Instit. Lac_. — Cfr. O. Müller, _Dorier_, lib. III, c. 6, 7; Robinson, _Antiq. gr_.). [340] In una palude della città (Limneo) era il tempio e l’effigie in legno di Artemide o Diana _Ortia_ (Ὀρθία). Oreste ed Ifigenia recarono, secondo la leggenda, dalla Tauride a Sparta la statua ed il culto della dea: detta _Ortia_ od _Ortosia_ da ὄρθιος, _erto_, _diritto_, perchè il suo simulacro fu ritrovato da due spartani (Astrabaco e Alopèco) in un campo, avviluppato fra vetrici per guisa che non piegavasi nè da una parte nè dall’altra. All’atto del ritrovarla i due spartani furon presi da insania. Raccoltisi i cittadini dei varj quartieri di Sparta (di Limna, di Cinosuro, di Mesoa e di Pitane) per sagrificare alla Dea, lo spirito di discordia li invase e vennero a rissa tra di loro. Gli uni cadono uccisi a piedi dell’altare, gli scampati al ferro sono spenti da occulto morbo. Su ciò consultato l’oracolo, rispose doversi sagrificare a Diana vittime. Il barbaro uso durò qualche tempo, fino a che Licurgo lo abolì, ordinando che in cambio si battessero all’ara di Diana _Ortia_ a colpi di sferza alcuni fanciulli spartani, sino a che il sangue ne grondasse. La sacerdotessa presiedeva alla flagellazione, detta _diamastigosi_, διαμαστίγωσις, tenendo in mano un piccolo e leggiero idoletto della Dea: se gli esecutori, presi da compassione, rallentavano i colpi, la sacerdotessa gridava di non poter più sostenere il peso della statuetta, e allora i colpi rinforzavano. L’educazione addestrava i giovanetti a fare di questi supplizj una prova di fortezza morale, gareggiando fra loro a chi meglio li sopportasse con anima serena e volto allegro. Evidentemente questo rito era la trasformazione elleno-dorica di un rito straniero, originariamente di umane vittime, importato dall’Asia Minore (Vedi sulla _diamastigosi_, e su Diana Ortia, Pausan., _Lacon_., 16; Plut., _Lic_., 18; _Inst. Lac_., p. 254; Aten., VIII, 350; Luciano, _Icaronem_. — Cfr. Müller, _Dorier_, lib. IV, 8). [341] πυΘώχρηστοι, _emanate dall’oracolo_, solevano chiamare gli Spartani, a titolo di vanto, le loro leggi, ossia rétre (ρήτραι): dappoichè, per procacciare alle medesime autorità ed obbedienza, circondandole del prestigio religioso, Licurgo le avea poste — alla maniera di Mosè — sotto gli auspicj del Nume di Delfo, l’oracolo nazionale dei Dori, siccome ivi trasmessegli dallo stesso Dio. «E chiamò (Licurgo) le proprie ordinanze col titolo di _rétre_ (ossia _detti_, _responsi_) per far credere che fossero state dettate da Apollo medesimo e che fossero piuttosto oracoli che leggi» (Plut. in _Lic_.). «Avendo (Licurgo) fatta alcuna legge, prima portatala in Delfo, consultava s’ella fosse utile. La sacerdotessa, corrotta con denari, sempre rispondeva che sì. Perciò i Lacedemoni per paura del Dio ubbidirono alle leggi di Licurgo non altrimenti che ad oracoli» (Polien., _Strat_., I, 16). Così Tirteo nella _Eunomia_, citato dallo stesso Plutarco: «_Avendo udito la voce di Febo, da Pito riportarono i messi nella patria gli oracoli e le certissime parole del Dio_» (Plut. in _Lic_.; Tirt. ediz. mia, _Opere_, III, p. 79). Nel qual passo di Tirteo si allude ai _Pizj_, ossia ai quattro ambasciatori che i re ed il Senato di Sparta solevano spedire all’oracolo, e per l’intermediario dei quali i sacerdoti di Delfo conservarono come una specie di continua sorveglianza sulla costituzione lacedemone (Cfr. anche Senof., _Rep. Lac_., 8; Erod., I, 65: Pausan., _Lacon_., 2; Cic., _Divin_., I, 43; Val. Mass., I, 2; Giustino, III, 3). [342] ἐθίζουσι αὐτοῦς καὶ κλέπτεν καὶ τὸν ἀλόντα κολάζουσι πληγα’’ς (Eracl. Pont., _Polit_.) — La famosa legge spartana sul furto, troppo spesso travisata dal pregiudizio volgare, non era, in fondo, a Sparta, se non una parte naturalissima dell’educazione militare della gioventù, in perfetta armonia, del resto, colle abitudini e colle idee di una stirpe conquistatrice, costretta a vivere, come i Dori nella Laconia, continuamente sulle difese, a guisa di esercito accampato fra popolazioni assoggettate colla forza dell’armi: e a fare dell’abilità e maestria in ogni arte della guerra la preoccupazione suprema dello Stato. A ciò son intese dalla prima all’ultima tutte le leggi di Licurgo, questa compresa, di cui Senofonte così parla: «Del cibo volle Licurgo che ogni fanciullo maschio avesse tanto da non esser gravato di soverchio, ma piuttosto che imparasse a soffrir qualche poco la fame. Nondimeno acciocchè non fossero molestati dalla fame oltre il dovere, concedette loro di potersi pigliare quel che faceva loro bisogno, ma non senza arte ed industria: permettendo solamente di rubar tanto quanto bastasse a sfamarsi. E son sicuro ch’ei permise questo non ad altro fine se non acciocchè chi non aveva altro modo di procacciarsi il vitto, con questa sorta di industria lo si acquistasse. Perchè è manifesto che colui il quale disegna di rapir alcuna cosa, bisogna di necessità che la notte vegli, il giorno tenda insidie ed inganni: e così egli ammaestrava i fanciulli a divenire più accorti, e per conseguenza più bellicosi. Ma, dirà alcuno, per qual ragione adunque, se egli pensava che il furto fosse un certo che di bene, ordinò che quel tale che veniva colto in fatto si castigasse acerbamente? Perchè, a parer mio, gli uomini castigano coloro che non fanno bene anco le altre cose che vengono loro insegnate; ancor essi punivano costoro che erano colti in fatto, quasi non sapessero rubar bene» (Senof., _Rep. Lac_.). Ancor più spiccata appare l’indole affatto militare di quella legge da un passo dell’_Anabasi_, ove Senofonte tien consiglio di guerra coi capi dell’esercito: «Sarà miglior consiglio tentar di occupare, se ci vien fatto, celatamente e senza che i nemici se ne accorgano, una qualche parte non custodita del monte. E parmi altresì che qualora fingiamo di assalirli da questa parte, troveremo il restante del monte sprovveduto... Ma a che parlo io di cose da far di soppiatto? mentre sento, o Chirisofo, che voi Lacedemoni, quanti siete del primo ordine (τῶν ὁμοίων), sin da fanciulli vi esercitate al rubare, e che non è turpe appo voi ma necessario il procacciarsi di furto quello che la legge non vieta: laonde poi, affinchè rubiate _quanto più è possibile e vi sforziate di rimaner celati_, è legge fra voi di esser battuti qualora siate sorpresi rubando. Or dunque, ti è data una bella opportunità di mostrare la tua educazione, avendo cura che non siamo sorpresi mentre prenderemo di furto la via dei monti» (Sen., _Anab_., VI, 4). — E Plutarco: «Furano i giovinetti ogni sorta di cibo sul quale possan metter le mani, ben esperti a tendere destramente insidie a quei che dormono o che la guardano con trascuranza: ma se colti sul fatto, oltre le percosse, n’hanno in pena lo star senza mangiare» (Plut., _Lic_., _Apoft. Lac_.; Sesto Empir., _Contr. Mathem_., III, 24; Aul. Gell., II, 18). Importa anco por mente all’idea debolissima che della proprietà avevasi fra un popolo ove delle cose dei vicini, di uso più comune, era lecito servirsi per il bisogno del momento, come di cose proprie, anche senza permesso del proprietario (Plut., _Apoft. Lac._), per poter apprezzare al giusto valore quella usanza; usanza derivata probabilmente dall’originario metodo di vita delle tribù doriche sui monti della Tessaglia, ivi costrette a procurarsi il sostentamento lottando di continuo coi fortunati possessori della parte piana e produttiva della contrada. La designazione d’altronde delle cose che poteano esser oggetto di questo esercizio di destrezza, limitata su per giù a quel tanto di cibi che ogni spartano, in caccia o in guerra, aveva già il permesso di prendere dalle provvigioni del suo compagno, toglie alla legge in massima parte il carattere attribuitogli dalle nostre moderne idee (Cragius, _Rep. Laced._, lib. III; Meurs., _Misc. Lac._; Müller, _Dorier_, lib. IV, c. 5; Peyron, _I pari di Sparta_, ecc.). [343] I _Dioscuri_, o i _Gemelli_ — Castore e Polluce, i due figliuoli di Leda e fratelli di Elena — detti anche _Dei Salvatori_ (Διόσκουροι, Σωτῆρες, σωτῆρες ἄνακτες) — perchè venivano invocati, in soccorso, come liberatori dai mali, nelle burrasche, nelle gravi malattie, nelle pestilenze, nelle battaglie, e in generale da chiunque versasse in pericolo imminente di morte (Teocr., _Idill._, 22; Eurip., _Oreste_; Teognide; Omer., _Inni_; Paus., _Lacon._; Oraz., lib. 1, od. III; Artemidoro, _Onirocrit._, II, 42). Onorati a Sparta di specialissimo culto, per essi i Lacedemoni solevano giurare ed esclamare. La qual esclamazione spartana — _per i Dioscuri!_ — forma preciso riscontro alla esclamazione ateniese _per le due Dee!_ La formula infatti dell’esclamazione era la medesima: _per le due Divinità!_ (νὴ τὼ θεὼ in dorico ναὶ τὼ σιὼ): solo che per esse ad Atene intendevansi Cerere e Proserpina, a Sparta i due gemelli di Leda (Aristof., _Pace_, v. 214; _Lisistr._, v. 142; e lo Scoliaste, _ibid._; Plut., _Apoft. Lac._; Meurs., _Misc. Lac._, II, 8). [344] ὤ πολιὰς Αθηνᾶ (Elian., _Var. Stor._, II, 9), oppure semplicemente ὤ πολιὰς, o _Poliade!_ (Lucian., _Pescat._, 21). — Così chiamavasi Minerva in Atene, siccome protettrice della città (Cfr. Arist., _Nubi_, 602; Paus., _Arcad._, 47). [345] Ogni Stato greco usava tenere nella principale città degli altri Stati greci un _prosseno_ (πρόξενος) od _ospite pubblico_: quel che noi diremmo oggi un console; il quale era cittadino della città in cui abitava, ed adempiva gratuitamente al suo uffizio. Così, per esempio, il prosseno di Sparta, in Atene, era non uno spartano, ma un ateniese: egli esercitava l’ospitalità verso i viaggiatori spartani che fossero venuti in Atene, li indirizzava ed assisteva del proprio credito nelle loro commissioni ed interessi, procurava loro tutti i comodi che dipendessero da lui, dava alloggio agli inviati di Sparta, ecc. Avveniva spesso che un prosseno, siccome partigiano della città da lui rappresentata, la sovvenisse nascostamente di consigli e informazioni politiche; così i Mitilenesi, prosseni di Atene, la avvertirono segretamente che Mitilene macchinava una defezione (Tucid., III, 2). Che i maggiori di Alcibiade fossero stati _prosseni_ di Sparta si desume da Tucid., VI, 89: e più avanti Tucidide parla degli «antichi e stretti vincoli di ospitalità che legavano Alcibiade coll’eforo Endio, cosicchè la loro famiglia in grazia dell’ospitalità ebbe anche il nome laconico: quindi questo si chiamava Endio di Alcibiade» (Tucid., VIII, 6. — Cfr. Tucid., I, 29; II, 85; Senof., _St. Ellen._, IV; Eustaz. in _Iliad._, 3). [346] Intorno all’autorità ed all’influenza politica acquistatasi in breve da Alcibiade a Sparta — influenza a cui conferiva in parte anche l’assenza del re Agide, vedi Plutarco in _Alcib._; Tucid., VI, 93; VIII, 8. [347] Rigorosissime ad Atene le leggi contro il furto. Dracone lo puniva di morte indistintamente a pari del sacrilegio e dell’omicidio: Solone statuì contro il ladro la multa del doppio, se il derubato ricuperava il suo; se nol ricuperava, la multa del decuplo, tanto pel ladro che per ciascun dei complici: senza pregiudizio del carcere: mantenuta la pena di morte contro chi rubava ad un privato al di sopra di 50 dramme o rubava nei ginnasi pubblici per l’importo di 10 dramme: lecito a chiunque uccidere il ladro notturno: e chi avesse denunziato tre ladri, riceveva un premio (Plut. in _Sol._; Eschine, _C. Timarco_; Demost., _C. Timocr._; Aul. Gell., XI, 18. — Meurs., _Them. Att._, II, 1). [348] Egli è certo, nota il Müller (_Dorier_, t. II, 280) che «il matrimonio a Sparta lo si concepiva sotto una certa naturale nudità, e senza adombrare di alcun velo di sorta lo scopo essenziale del medesimo.» Leonida parte per le Termopili e dice per tutto addio a sua moglie: «_Rimaritati a uomo da bene e partorisci molti figli_.» Acrotato torna a Sparta vincitore, e le donne lo accompagnano in trionfo gridandogli: «_Gioisci colla tua Chelidonia e genera a Sparta prodi figliuoli._» Procrear figli, e robusti: ecco il primo dovere di ogni spartano e di ogni spartana, perchè di soldati e non d’altro abbisogna la città; e però a questo mirano _tutte_ le leggi spartane sul matrimonio; e le prescrizioni sul ratto delle mogli, sull’accoppiamento clandestino, ecc., per ringagliardire l’amor fisico degli sposi; e le pene severe contro i celibi, contro le nozze immature o tardive, o malassortite; e la trasmissione, in dati casi, dei diritti matrimoniali. «Ordinò (Licurgo) che mentre fossero nel fior della età si maritassero: giudicando che questo dovesse giovar grandemente al perfetto generar dei figliuoli. E se per avventura accadeva che qualche vecchio avesse la moglie giovane, vedendo che per lo più elleno erano custodite diligentissimamente, anco in questa parte ordinò certe cose diverse dagli altri. Perchè volle che questo vecchio conducesse a sua moglie qualcuno che gli paresse eccellente di animo e di corpo e di lui ne ricevesse figliuoli. Ma se ci era chi non volesse abitar colla moglie, e nondimeno bramasse di aver figliuoli onorati, determinò anco questo, che costui, appostando una donna feconda e generosa, e persuaso il marito di lei a consentire alle voglie sue, potesse a questo modo allevarsi poi dei figliuoli. Ed altre cose molte concedette di questa maniera. Per il che le mogli vengono ad aver due case, e li lor mariti acquistano fratelli alli propri figliuoli, i quali partecipano insieme del nascimento e della gagliardia: ma sono esclusi dalla roba. A questo modo, tenendo diversa opinione dagli altri nel generar figliuoli, ognun vede come egli facesse gli uomini di Sparta più eccellenti di grandezza, di corpo e di forze» (Senof., _Rep. Lac._, 1). E Plutarco: «Era lecito a valentuomo che fosse preso da affetto per alcuna donna saggia e modesta e feconda di bella prole, il persuadere colui che l’aveva in isposa a concedergli di usare con esso lei, onde produrre e ingenerare in quel fruttifero campo figliuoli buoni e valorosi, che de’ buoni e valorosi fossero consanguinei e fratelli» (Plut. in _Licurgo._ — Cfr. Theodor., _Graec. aff._, 9). Il Meursio, nella _Themis Attica_, I, 7, cita un passo di Sopatro (_in Hermog_.), da cui arguisce che anche in Atene fosse lecito agli uomini prestar ad altri la propria moglie — _juxta leges atticas licebat viro uxorem suam alteri fruendam tradere_ — ma Sopatro non cita che un esempio eccezionale ed isolato, e se si fosse trattato di un uso generale, se n’avrebbero altre testimonianze, nè Senofonte l’avrebbe notato come legge affatto speciale e caratteristica di Sparta. [349] κατάκλειστοι, _rinserrate_, son chiamate da Saffo e da Callimaco le fanciulle joniche, siccome appunto cresciute, a differenza delle doriche, nella più rigorosa clausura domestica (Saffo, _Framm_., 15, ediz. Wolf). E sembra infatti che le vergini attiche fossero custodite e chiuse negli appartamenti a loro riservati (_talamo_ o _partenone_, παρθενών) proprio letteralmente sotto chiave «ὀχυροῖσι παρθενῶσι φρουροῦνται» (Eurip., _Ifig. Aul_., 738); come appare anche dal consiglio di Focilide: «Custodisci la vergine nei talami _ben rinserrati_ (πολύκλειστοις) e non permettere che prima delle nozze la si lasci vedere innanzi alla casa» (Focil., v. 203). E in Aristeneto una fanciulla innamorata si lamenta: «A che amore combatte con una verginella inesperta, _ancor rinserrata nel talamo e circondata di sentinelle?_» (ἔτι θαλαμευομένη ἔτι φρουρουμένη)? (Aristen., _Lett._, II, 5). Dall’oscurità del παρθενὼν non uscivano le fanciulle che in quelle poche solennità o feste religiose a cui erano chiamate a prender parte (come _portatrici di canestri_ nelle processioni, ecc.): ed erano quelle le rarissime occasioni in cui potea capitar loro di innamorarsi di un giovane. — Maggiore, ma non di molto, era la libertà concessa alle maritate o matrone (ἐλευθέραι). Anch’esse abitavano nella parte più remota della casa un appartamento riservato o _gineceo_ (γυναικωνίτις) separato affatto dall’_androne_ o appartamento degli uomini (ἀνδρωνίτις): e nel gineceo, di cui l’accesso era vietato rigorosamente a qualunque uomo che non fosse stretto congiunto (Corn. Nep., _Pref._), doveano le matrone vivere appartate e ritirate, poichè _le porte dell’atrio della casa sono il confine segnato alla matrona_ (Menand. pr. Stob., _Serm_., 74:) e non le è permesso varcarle senza soffrirne nell’onore e nella fama (Eurip., _Troad_. 642). Però rarissime volte poteano uscir di casa il giorno, in date occasioni, e sempre soltanto col permesso del marito (Aristof., _Tesmof_., 790): nè poteano viaggiar di notte fuorchè in carrozza, precedute da uno schiavo recante una fiaccola (Plut. in _Sol._). Uscendo poi dovevano avere il volto coperto di un velo densissimo (Eur., _Ifig. Taur._, 372), essere accompagnate da eunuchi e da schiave (Terenz., _Eunuc._; Teofr. _Carat_.), e modestissimamente vestite. Al che rigorosamente vegliavano in Atene appositi funzionarj detti _ginecònomi_ (γυναικόνομοι): i quali punivano di multa le matrone che uscissero di casa in toeletta appena men che modesta e decentissima; e i nomi di esse, scritte su tavolette, venivano affissi al platano, destinato a quest’uso, nel Ceramico interno, cioè nel corso più frequentato della città (Polluce, VIII, 9; Aten., _Deipn_., VI, c. 9). — Pel resto, intorno alla educazione e la vita domestica delle donne di famiglia in Atene vedi Aristof., _Lisistr._, v. 507 seg., _Eccles_., v. 214, _Tesmof._, v. 414 seg., v. 789 seg.; Senof., _Econom_., VII; Eschilo, _Coef_.; Sofocle, _Edipo a Col_., _Elettra_, _Antigone_; Eurip., _Oreste, Fenisse, Ifig. in Aul., Ifig. in Taur., Jon, Eracl._; Plut. in _Solone_ e in _Licurgo_; nei _Prec. matrim_.; e nelle _Quest. rom_.; Demost. in _Evergete_; Aristot., _Repub_., ecc. — Cfr. Becker ed Hermann, _Char_., II, 250 seg.; Limbourg-Brouwer, _Hist. de la Civilis. des Grecs_, IV; Meiners, _Gesch. des weiblichen Geschlechts_, tom. I; Wieland, _Aristippo_, tom. I, Müller, _Dorier_, lib. IV, c. 2, 4; Cl. Bader, _La femme grecque_, t. II, c. 1; Gauvet, _Organisation de la famille à Athènes_ (nella _Revue de legistation_ 1845); Fouquières, _Aspasie_, cap. 9; Lasaulx, _Gesch. und. Philos. der Ehe bei den Griechen_; Van Stegeren, _De conditione domestica et de conditione civili foeminarum atheniensium_; Fickler, _Die griech. Frauen im histor. Zeitalter_; Barthel., _Anac._, t. IV, c. 20; Whiston, _Matrimonium_ (Smith’s _Dictionn_.); Robinson, _Antiquities_, ecc. [350] Plutarco, _Solone_, 20. [351] Due Veneri distinguevano i Greci: la _celeste_ od _Urania_ (Ἀφροδίτη οὐρανία) e la _popolare_ o _volgare_ o _Pandemia_ (Ἀφροδίτη πάνδημος). La prima, più antica e senza madre, figlia del cielo, presiedente all’amor puro e virtuoso, del bello e dell’onesto, all’amore dell’anime; la seconda, più giovine, figlia di Giove e di Diana, presiedente all’amor sensuale e lascivo, all’amore dei corpi. Luciano distingue una terza Venere, la _Venere degli Orti_ (ἤ ἔν κήποις). Nei sagrificj alla Venere celeste era vietato il vino; e ad essa come a quella degli Orti sagrificavasi una giovenca. Il re Egeo, padre di Teseo, implorandola per aver prole, dedicò per il primo alla Venere _Celeste_ tempio e culto in Atene. Alla Venere _Pandemia_, altrimenti detta Venere amica o _etéra_ o _meretrice_ (ἐταίρα, πόρνη Ἀφροδίτη), dea tutelare delle cortigiane — il culto della quale fu introdotto in Atene da Teseo, e a cui Solone dedicò nella città il primo bordello — offerivasi in sagrificio una bianca capra. Secondo altri la giovenca offerivasi a Minerva, e a Venere Celeste le colombe. — Vedi la distinzione caratteristica delle due Veneri in Platone, _Simp._, c. 8, 9. Cfr. Senof., _Simp._, 5; Aten., XIII, 559, 569, 572; XIV, 659; Polem. _ad Tymaeum;_ Alcifr., _Lett_., III, 64; Luc., _Dial. delle etére_; Stobeo, _Eclog. Physic._, I, 272; Pausan., _Att_., 14, 22; Cicerone, _De nat. deor_., III, 23. [352] «Tolte alle fanciulle le delizie, il vivere all’ombra ed ogni sorta di effeminatezza, Licurgo le assuefece a lottar ignude non men che i fanciulli, e a saltare ed a cantare in certe sacre solennità alla presenza dei giovani che n’erano spettatori... La nudità poi di quelle fanciulle non era già cosa che avesse del turpe, stando sempre quivi il pudore, nè luogo avendovi l’incontinenza: ma produceva un costume semplice e schietto ed una forte emulazione intorno alla buona simmetria e complessione della persona: ed a quel sesso per sè medesimo imbelle gustar faceva pensieri non bassi ed ignobili, partecipe vedendosi anch’esso della gloria che ambiva. Erano queste cose anche incentivi ai maritaggi, voglio dire la pompa che faceano quelle fanciulle, _il mostrarsi spogliate_ (ἀποδύσεις) e il tenzonare sotto gli occhi dei giovani, tratti da necessità amorose» (Plut. in _Licurgo_). Questa descrizione delle danze delle vergini spartane (danza _cariatide, bibasi_, ecc.) fu dal Savioli parafrasata nei notissimi versi: «Sparta, severo esempio Di rigida virtude, Trasse a lottar le vergini In su l’arena ignude: Nè di rossor si videro Contaminar la gota: È la vergogna inutile Dove la colpa è ignota. Se poi quella nudità (γύμνωσις) dovesse intendersi proprio nel senso letterale, o riferirsi al più che leggero e cortissimo abbigliamento delle fanciulle spartane, dette appunto _fenomeridi_ (φαινομηρίδες) perchè mostravan le coscie (Cfr. Aristof., _Lisist_., 150; Eurip., _Androm._, 588; Poll., VII, 55; Ibico, _Framm_.) fu a lungo e oziosamente discusso dalla critica moderna (vedi Müller, _Dorier_, t. II; Manso, _Sparta_, t. I, 2; Becker ed Hermann, _Char_., II, 173). Per altro le parole di Plutarco accennano troppo chiaramente a nudità vera: e che proprio affatto nude le vergini di Sparta comparissero, non in tutti, ma almeno in dati esercizj ginnastici, è posto fuor di dubbio, da Plutarco non solo, ma dalla testimonianza concorde di altri scrittori dell’antichità (Cfr. Platone, _Leg._, VI, p. 771; VII, 806; Ateneo, XIII, p. 566; Teocr., _Idill._, 18; Marziale, IV, 55). E Properzio: Multa tuae Spartae miramur jura palestrae: Sed mage virginei tot bona gumnasii, Quod non infames exercet corpore ludos Inter luctantes nuda puella viros. (III, 14) E Ovidio: More tuæ gentis nitida dum nuda palestra Ludis et es nudis fæmina mixta viris. (_Heroid_., XVI). [353] Senof., _Repub. Laced_., 1; Plut., _Licurg_., 14, _Apoft. Lac._, p. 223; Aristof., _Lisistr_., 1297 seg.; Eurip., _Androm_.; Cicerone, _Quaest. Tusc_., III, 15. — Cfr. Manso, _Sparta_, I, 2; Müller, _Dorier_, lib. IV; Meursius, _Misc. Lac_., ecc. [354] Sull’ingerenza ed influenza delle donne spartane negli affari dello Stato ai tempi dell’egemonia di Sparta, vedi Aristot., _Polit_., II, 6, 5. — Cfr. Plut., _Lic_.; Plat., _Leg_., VII, 805. Il Müller, parlando del livello elevato della coltura nelle donne spartane, scrive: «Sta in generale la osservazione che mentre presso gli Jonj le donne venivano considerate puramente come oggetti sensuali e come compagne di letto, e gli Eoli al contrario consentivano alla loro sensibilità un maggiore sviluppo, di cui fanno fede le poetesse erotiche di Lesbo, tuttavia i Dori, quasi soli, a Sparta come nella Magna Grecia, apprezzavano nella donna lo sviluppo delle facoltà superiori dello spirito e dell’intelligenza (νοῦς).» (_Dorier_, lib. IV, c. 4). [355] Aristof., _Tesmof_., 414 seg. [356] Aristof., _Tesmof_., 479 seg.; _Eccles_., 225. [357] _Feste Apaturie_ o _feste delle frodi_, da (ἀπαταω, ingannare). Vi si commemorava la frode colla quale Melanto, messenio, campione degli Ateniesi, vinse ed uccise in singolar certame Xantio, re dei Beoti, che avevano invaso l’Attica; e terminò con quel duello la guerra. Mentre i due combattevano, comparve alle spalle di Xantio una larva coperta di pelle caprina: o almeno così finse credere Melanto, il quale gridò non istar bene che venisse un terzo in soccorso dell’avversario. Xantio si volse allora indietro per veder che fosse, ed in quella rimase dall’avversario trafitto. Gli Ateniesi, mostrando di credere che fosse stato Bacco che si era così travestito in lor favore, gli istituirono le _feste Apaturie_ che si celebravano nel mese _Pianepsione_ (parte di ottobre e di novembre) e duravano tre dì. Il primo dicevasi _giorno della cena_; il secondo, _giorno del sagrifizio_; mentre celebravasi il quale, molti Ateniesi in ricche vesti giravano intorno l’altare con tizzoni accesi cantando inni a Vulcano; il terzo, festa _Cureoti_ (_puellaris_), nella quale avea luogo l’iscrizione dei neonati sul registro della tribù e della curia a cui i genitori appartenevano (Platone, _Timeo_, I; Polieno, _Strat_., I; Scol. d’Aristof, nella _Pace_; Etym. M.; Suida. — Cfr. Meurs., _Graeca feriata_, e _Reg. Athen._, III, 10). [358] «Considerando (Licurgo), quando la moglie andava a marito, che alcuni nel principio usavano eccessivamente con esse loro, determinò che fosse vergogna al marito se egli si lasciava vedere nello andare o nel partirsi dalla moglie. Onde seguiva di necessità che accoppiandosi occultamente a questo modo sentissero maggior diletto: e i parti che ne nascevano fossero più gagliardi che non quando si trovassero marito e moglie sazii di star insieme» (Senof., _Rep. Lac._, 1). «Si procacciavan le mogli per via di rapina; e la rapita consegnavasi alla prònuba, la quale radevale i crini d’intorno al capo, e messole un pallio da uomo e i calzari, la collocava sopra un mucchio di strame sola e senza alcun lume; lo sposo poi se n’andava dentro discioltole il cinto e levatala di peso la trasportava nel letto. Poichè trattenuto erasi non lungo spazio con lei, se ne partiva modestamente per andarsene a dormire dov’egli era usato cogli altri giovani; e così continuava, passando i giorni e le notti coi suoi coetanei, e portandosi di quando in quando alla sposa tutto circospetto e guardingo... Così pure la sposa con ogni arte adopravasi affinchè di nascosto trovar si potessero insieme: e ciò faceano per tanto tempo che alcuni ebbero figliuoli prima che avessero di giorno vedute le loro mogli» (Plut. in _Licurgo_). [359] Clistene, cittadino effeminatissimo e lascivo, satireggiato per i suoi molli costumi in molti luoghi delle commedie di Aristofane (Vedi _Lisistr., Tesmof., Rane, Nubi, Uccelli, Cavalieri_). [360] Adoperavano i Greci per la scrittura le tavolette od il papiro. Le tavolette (δέλτοι, πίνακες) eran generalmente di avorio e coperte di uno strato di cera sul quale scrivevasi con una punta o stilo (γραφεῖον): avean nel mezzo un bottone perchè non si incollassero insieme nel disporle a foggia di libro. Più comunemente usavano canne (κλαμοι, γραφεῖς) e calamaio (μελανοδόχον) per iscrivere con inchiostro di sostanza colorante sul papiro (βίβλος) che rotolavasi in volumi (διφθέρα), di cui i singoli fogli chiamavansi _carte_ (χάρτης). Questi rotoli applicati su due cilindretti erano scritti in colonna dall’alto al basso. Ogni volume segnato con un numero veniva chiuso in una scatola cilindrica o di forma ottagona; e cavavasi dall’astuccio mediante un cilindro che vi era attaccato (Polluce, VIII, 16; X, 58-61; Plut., _Demost_., 29; _Eum._, 1; Erod., V, 58; Demost., _A. Stef_., 2, ecc. Cfr. Gallus, t. II; Geraud, _Sur les livres dans l’antiq_., ecc.). [361] Il popolo in Grecia facea sagrificj secondo le proprie forze: i ricchi sagrificavano animali (bovi, arieti, ecc.), i poveri focaccie di pasta cotte nel forno, talora anche foggiate colla forma degli animali che si solevano offerire al Dio. «_Tutti femmo a gara per placare con sagrifizj il cielo: chi offerse un ariete, chi un becco; il povero una stiacciata_» (Alcifr., _Lett._, III, 35. — Cfr. Tucid., _G. Pel._, I, 127; Aristof., _Pluto_, v. 138; Erod., II, 47). [362] κάμμα diceasi dai Lacedemoni una focaccia assai in voga fra di loro, impastata in ispecie di olio e farina, e avvolta in foglie di lauro (Aten., IV; Esich.) — Di altre sorta di focaccie, cibi a Sparta usatissimi, vedi in Meursius, _Misc. Lac_., I, 12. [363] Intorno a questa ed altre leggi e all’intento generale della legislazione di Licurgo rispetto al matrimonio vedi più sopra nota 20. [364] Vedi sopra nota 15. [365] «Il popolo (a Sparta) era stupefatto del viver suo (d’Alcibiade) e di quel suo conformarsi interamente alle usanze di Lacedemonia: e quelli che il vedevano radersi fin su la pelle, lavarsi con acqua fredda, mangiar comunemente di quel cibo chiamato _maza_ e servirsi anch’egli della _broda nera_ usata dagli Spartani, restavan perplessi e non sapeano darsi a credere che un tal personaggio in casa sua avesse mai avuto cuoco o veduto mai profumiere o toccata mai veste di Mileto. Poichè egli avea fra l’altre molte quest’arte principalmente per cattivarsi gli uomini, l’assomigliarsi cioè e il conformarsi alle altrui inclinazioni ed usanze, avendo maggior abilità di cangiar costumi che non ha di cangiar colore il camaleonte» (Plut, _Alcib_., 23). «Gli storici narraron di lui che nato in Atene città splendidissima, tutti gli Ateniesi nella splendidezza e nel decoroso vivere superò; e che fra gli Spartani che poneano la virtù somma nella sofferenza, così dura vita menò che nella parsimonia del vino e del trattamento vinse tutti gli Spartani: che fu presso de’ Traci, uomini vinolenti e dediti alle cose oscene, e che questi ancora in cotali disordini superò» (Corn. Nep., _Alcib_., 11. — Cfr. Ateneo, _Deipn_., XII, 534 d.). Intorno al vitto austero e ai costumi rigidissimi dell’educazione spartana, vedi Senof., _Rep. Laced_.; Plut., _Licurg_., 10 seg., _Agide_ e _Instit. Lac._, Aristot., _Polit._, IV, 9; Ateneo, IV, 8; Eliano, _V. St._, XIV, 7; Plinio, _Nat. Hist_., XXXIII, 1. — Cfr. Müller, _Dorier_, lib. IV; Cragius, _Rep. Lac._; Meurs., _Misc. Lac._; Manso, _Sparta_. [366] _Fame melia_ — λιμός Μὴλιος — era frase divenuta proverbiale, per allusione all’orribile fame sofferta dagli abitanti dell’isola di Melo ribellatisi ad Atene e assediati da Nicia sin che dalla fame furono stretti ad arrendersi nell’anno sedicesimo della guerra del Peloponneso (Tucid., _G. Pel_., V, 85 seg.) — vale a dire nell’anno antecedente a quello in cui è supposta la presente scena: «_Farete morire gli Dei di fame melia_» (Aristof., _Ucc._, v. 186). [367] Senof., _Repub. Laced_., 15. [368] Un critico «_erudito_» del mio _Alcibiade_, il signor Stuart, si scandalizzò altamente ch’io avessi nell’opuscolo «_Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle_,» calcolato a _duecentonove navi e sessantaquattromila_ uomini il totale effettivo delle forze mandate da Atene all’impresa di Sicilia: e scorgendovi la prova ch’io ho scritto l’_Alcibiade_ senza leggere Tucidide, ebbe la bontà fraterna di consigliarmi lo studio del grande storico ateniese. Infatti Tucidide «_il quale_, — secondo l’_arguta_ osservazione del signor Stuart — _ha la pretesa di saperne più del signor Cavallotti_,» enumera in sole 136 navi e 5100 soldati (lib. VI, 43) le forze ateniesi della prima spedizione di Sicilia, con Alcibiade, Lamaco e Nicia: e in 73 navi e 5000 soldati il totale della spedizione di rinforzo condotta da Demostene ed Eurimedonte. Ed ecco come la spedizione di Sicilia, a detta di Tucidide, cioè a detta del signor Stuart che _dice di averlo studiato_, non si componeva che di diecimila e cento uomini in tutto; nel qual numero è veramente un po’ difficile farci stare i 40,000 _uomini_ perduti, di cui parla Cimoto in questa scena: ed ecco come il signor Stuart, tutto trionfante, conclude che «_la raccomandazione da lui fattami di leggere Tucidide era tutt’altro che inopportuna._» C’è però un guaio: Tucidide e gli altri classici antichi non basta il leggerli bisogna anche _saperli leggere_: cioè leggerli con quel corredo di studj classici e di cognizioni sull’antichità, che sono indispensabili per capirli e per non leggerli a rovescio. E a questo per l’appunto non pensò il mio critico egregio: il quale, essendo stato poco tempo addietro colto in flagrante d’ignoranza completa intorno allo storico ateniese, e volendo, pare, liberarsi da quella taccia, credette ingenuamente che bastasse il mettersi a leggerlo senz’altro, per poterlo citare con cognizione di causa. E naturalmente lo ha citato a sproposito: poichè digiuno di studj intorno all’autore che leggeva, il poveretto, non s’accorse che il calcolo mio (ch’è per lo appunto il calcolo di un insigne ellenista, il Peyron) era per lo appunto dedotto dai dati di Tucidide; il poveretto non sapeva che in quella cifra dei 10,100 _soldati_, Tucidide indica, come è uso indicar sempre, la sola cifra degli _opliti_, ossia l’effettivo della fanteria pesante d’ordinanza e non già della forza numerica; che ciascun oplite aveva seco in guerra un servo (ὑπασπιστης) non contato nei quadri; che ogni trireme, oltre le truppe di sbarco, portava 200 uomini tra fanteria navale ed equipaggio: e non sapendo tutto questo, il signor Stuart, tutto intento a dimostrare che l’impresa di Sicilia era stata proprio una bazzecola, annunziò al mondo erudito la grande scoperta che Atene aveva mandato a quell’impresa non già 64,000, ma soli 10,100 uomini, i quali in Sicilia avran poi dovuto moltiplicarsi come i pesci della Bibbia, perchè dopo tutte le battaglie e dopo tutti i disastri subìti, e dopo le grandi stragi che ne vennero fatte, ne rimanessero ancora «non meno _di quarantamila_» (Tucidide, VII, 75) nell’ultima ritirata di Nicia! — E così si parla di storia e così si fa la critica da certi critici _eruditi_ ai giorni nostri! Ecco dunque la statistica delle forze ateniesi in Sicilia, secondo i dati di Tucidide, illustrati dal Peyron: 1.ª spedizione con Alcibiade (Tuc., VI, 48): 134 triremi, in ragione di 200 uomini d’equipaggio ciascuna, totale uomini 26,800: 3 navi rodie da 50 remi, uomini d’equipaggio 100; opliti 5,100; loro servi 5,100; cavalieri 30; loro servi 30; truppe leggiere 1,300 — totale navi 136, uomini 38,460. 2.ª spedizione (VI, 94): cavalieri 250; loro servi 250; arcieri a cavallo 30. — Totale uomini 530. 3.ª spedizione (VII, 42): triremi 73; loro equipaggio 14,600; opliti 5,000; servi 5,000; truppe leggiere 500 — Totale 25,100. Totale complessivo delle tre spedizioni 64,000 — con buona pace dell’_erudito_ signor Stuart. E colla cifra dei 64,000 si spiegano i 40,000 uomini della ritirata, e i 7,000 prigionieri di cui parla Tucidide (VII, 75, 87); e si spiega come sulla sua scorta Isocrate (_Sociale_, 29) e sulla scorta di entrambi Eliano (_V. St_., V, 10) — e sulla scorta di tutti e tre il mio Cimoto — calcolassero le perdite ateniesi in Sicilia a 40,000 uomini. Isocrate ed Eliano parlano anzi di 40,000 _opliti_ perduti; è evidentemente un equivoco: gli _opliti_ dell’impresa non erano che 10,100. Ad ogni modo il signor Stuart, che _non sa leggere_ Tucidide, se l’aggiusti almeno con Isocrate e con Eliano! [369] Tucid., _G. Pel_., VII, 87; Plutarco in _Nicia_. Le _Latomie_ erano le cave di pietra, dove i Siracusani gettarono accatastati i prigionieri ateniesi. Esistono ancora presso Siracusa le vestigia di queste cave; la più vasta delle quali, la Latomia, ora detta de’ Cappuccini, dal convento attiguo, credesi quella appunto in cui gli Ateniesi furon gettati. [370] (λύκον εἴδες); _hai visto il lupo?_ (Teocr., _Idil_., 14). Proverbio greco giunto sino a noi; diceasi di chi avea l’aria stravolta e taciturna, come succedeva, secondo la tradizione del volgo, a chi avesse veduto un lupo, o ne fosse stato veduto. «_Non mi avvenga di vedere nè il lupo, nè l’usurajo_» (Alcifr., _Lett_., I, 26). Specialissima poi degli Ateniesi era la superstizione contro i lupi: ed era assegnato fra loro il premio di un talento a chi uccideva un lupicino, di due a chi ne uccideva uno grande (Scol. d’Aristof., _Ucc._, v. 368). [371] Sulle armi e abbigliamento dei guerrieri di Sparta, vedi innanzi, note 64-69. [372] «Una legge de’ Lacedemoni ordinava che nessuno de’ cittadini dovesse indicar mollezza nel colorito, o tanto fosse pingue di corpo che men atto paresse agli esercizi: perocchè l’una cosa dimostra pigrizia e l’altra non denota maschio valore. Di più era prescritto che ogni giorno gli efebi si presentassero pubblicamente nudi agli efori. Se venivano riconosciuti di gagliarda costituzione fisica, e negli esercizi quasi torniti ed intagliati, avevan lode ed approvazione; ma se in essi discoprivasi alcun membro rilassato o languido per la pinguedine dall’ozio proveniente, erano condannati e battuti» (Eliano, _V. St._, XIV, 7). [373] πρόμαχε Αθηνᾶ (Alcifr., _Lett._, III, 51). — Con un pronome consimile — Minerva _promacorma_ (προμαχόρμα) — quale soccorritrice e protettrice d’Atene, vien la Dea designata in Pausania, _Corint._, 34. Da quella sua tutela sopra Atene, Minerva era anche, come si vide, soprannominata _Poliade_ (πολιὰς, πολιοῦχος), _clavigera_ o _custode delle chiavi della città_ (κληδοῦχος), _signora della rocca_, ecc. (Arist., _Cav._, 581, 763, _Tesmof._, 1142, _Nubi_, 602, ecc.). Altri soprannomi proprj di Pallade: _alalcomenia_ (soccorritrice), _obrimopatra_ (figlia di padre potente), _persepoli, fobesistrata_ (devastatrice di città, fugatrice di eserciti), _atritonia_ (invincibile), _erganea_ (madre dell’arti), _tritogenia_, dea di _molti consigli, dagli occhi azzurri, dalla lancia d’oro_, ecc., ecc. [374] Καδμεία νίκη, _vittoria cadmea_: frase greca proverbiale, equivalente a quella dei Latini, rimasta nell’uso odierno: _vittoria di Pirro_. Vittoria acquistata a caro prezzo, sia materiale o morale. In quest’ultimo senso Aristeneto: «La mia disfatta val meglio della tua vittoria cadmea: perchè in un combattimento per cosa cattiva il più infelice è chi vince» (Aristen., _Lett._, II, 6. — Cfr. Platone, _Leg._, I, 641 c.). [375] Permetteva la legge di uccidere sul territorio attico gli omicidi sbanditi che rompessero il bando: non però di ucciderli e nemmeno di perseguitarli fuor dei confini. «Chi ucciderà o sarà cagione di morte ad un omicida che s’astiene da’ mercati conterminali (cioè dai paesi confinanti), dai ludi e dai sagrifici anfizionici, sarà colpevole come se avesse spento un Ateniese.» «Chi fuor dei confini travaglierà con persecuzioni o carcere od altra molestia qualche omicida spatriato, che sia immune da confisca, sarà condannato in multa, come se in paese fosse venuto a tali eccessi.» Demost., _Contro Aristocr._: «Legge umana e bellissima! — esclama Demostene nel commentarla. — Pensava il legislatore che ben convenisse sbandeggiare l’omicida se scampò trafugandosi: ma ucciderlo ovunque gli parve nefando: perchè l’esempio inciterebbe gli altri, onde l’unico estremo scampo verrebbe meno ai raminghi, il posare in terra da loro non insanguinata... E in verità non è egli atroce che quei fuorbanditi a cui la legge, purchè non tocchino le cose loro interdette, concede riposata vita, sieno invece ludibrio di ferocia e si veggano contesa quella consolazione di cure che tutti, sebbene prosperità ci sorrida, dobbiamo alla sventura, incerti delle sorti a noi serbate dai cieli?» (Demost., _ibid._ — Meurs., _Them. Att._, I, 20). [376] Tucid., _G. Pelop._, VIII, 14-25. [377] Tucid., VIII, 18. Il trattato fra la Persia e i Lacedemoni (anno 412 av. l’E. V.), di cui a questo paragrafo Tucidide ci trasmise il testo, dovette, al pari dei principali successi della guerra, esser opera massimamente d’Alcibiade; come si arguisce dallo stesso Tucidide (VIII, 14, 17) e da Plutarco, secondo il quale la voce pubblica in Isparta attribuiva ad Alcibiade «la prospera direzione della maggior parte degli affari» (Plut., _Alcib._, 25). [378] Le _scitale_ (σκυτάλη) in uso fra gli Spartani per la corrispondenza segreta di Stato, erano bastoncini di legno nero, rotondo, lungo e levigato. Di due scitale perfettamente uguali l’una si dava al capitano che partiva per la guerra, l’altra era ritenuta dagli efori. Volendo questi scrivere una lettera al capitano o viceversa, che non fosse letta da alcuno, voltolavano intorno alla scitala una striscia lunga e stretta di cuojo o d’altro, bianca, a foggia di spirale, e sovr’essa scrivevano; quindi svolta la banda e piegatala in vari doppi, la davano a portare all’araldo. Il capitano ricevendola spiegava la striscia, la rigirava sulla sua scitala e così i lineamenti delle lettere sparsi sulle varie parti della striscia tornando a combinarsi per la identità del bastoncino, egli potea leggere l’ordine ricevuto (Tucid., I, 131; Pind., _Od._, VI scol.; Plut. in _Alcib._; Ttzetzes., _Chil._, IX, c. 258; Suida a q. v.; Auson. _ad Paul._, ep. 23). [379] Del poter militare e politico degli efori, sopraintendenti in tempo di guerra alla direzione delle operazioni militari, alla conclusione dei trattati, ecc., si è accennato sopra alla nota 11 (Confr. su questi poteri militari e politici, Tucid., V, 19, 36; VI, 88; VIII, 12; Senof., _Anab._, II, 6; _St. Ell._, II, 4; III, 1, 2; IV, 2; V, 2, 4; VI, 4; _Rep. Lac._, 11; Plut. in _Lisand., Cleom._). [380] Si è già notato altrove che nell’esercizio di quella loro autorità militare e politica, gli efori agivano come mandatari e rappresentanti dell’assemblea del popolo (ἐκκλησία), alla quale prendean parte tutti i cittadini, con voto deliberativo, benchè, sembra, solo gli efori e i magistrati vi avessero diritto a parlare; e le cui decisioni approvate si promulgavano come decreti dei magistrati. «Parve agli efori e _all’assemblea esser necessario uscire in guerra_» (Senof., _St. Ell._, IV, 6). «_Gli efori e il popolo della città_» (ib., V, 2). «_L’assemblea dei Lacedemoni delibera_» (Tucid., V, 77). — Cfr. Müller, _Dorier_, lib. III, 5. [381] Essendo gli Spartani nelle cose di guerra osservantissimi dei segni celesti, l’accorto Alcibiade, capitano di Sparta, non era uomo da trascurarli. Una legge di Licurgo vietava uscir ad oste o dar battaglia innanzi al plenilunio «_perchè credeva non avesse eguale potenza la luna crescente e la mancante, e che ogni cosa fosse governata dalla luna_» (Luciano, _Astrol._). — Indi ricordavansi per proverbio le _lune laconiche_ (λακωνικαὶ σελήναι) (Diogenian., _Cent._, VI; _Prov._, 30) a proposito del troppo indugiare in una cosa, aspettando l’opportunità. Ricordavano gli Spartani di Eurota loro re, che per aver voluto dar battaglia agli Ateniesi, senza osservare quella legge, e sprezzando i segni astronomici, perdette la battaglia e la vita, e gettossi nel fiume che da lui prese il nome (Plut., _De flum._). All’epoca dell’invasione di Dario, Sparta, richiesta da Atene di soccorsi, li indugiò aspettando il plenilunio: onde gli Ateniesi dovettero pugnar soli a Maratona (Pausan., _Attic._). Bensì Ermogene riferisce che dopo appunto la battaglia di Maratona gli Spartani trattarono di abolire quella legge (Hermog., _De invent._, II); ma nè da Ermogene stesso, nè altronde si rileva che l’abolizione seguisse effettivamente (Cfr. Cragius, _Rep. Lac._, III, 12; Meurs., _Misc. Lac._, II, 9). [382] Gelosissima era Sparta nell’accordar l’ambito onore della propria cittadinanza: tanto che Erodoto non ricorda se non in via di eccezione l’esempio di Tisameno e di suo fratello Egia, come dei _due soli_ stranieri ai quali quell’onore venisse, in un caso di suprema importanza, conceduto (Erod., IX). Di altri stranieri che nei tempi più antichi ottenessero la cittadinanza di Sparta, ricordavasi ancora il solo Tirteo: _al quale l’abbiam data_, diceva re Pausania, _affinchè non paja e si dica che abbiam avuto un capitano forestiere_ (Plut., _Apof. Lac._; Plat., _Leg._, I, 629). La quale osservazione applicavasi esattamente al caso di Alcibiade (Cfr. lo scoliaste di Tucid. al lib. I, 77: e il Meurs., _Misc. Lac._, IV, 10). Circa i vincoli antichi di ospitalità che già univano Alcibiade a Sparta, vedi sopra nota 17. [383] «_Ibi_ (Spartae) _ut ipse praedicare consueverat, non adversus patriam sed inimicos suos bellum gessit quod iidem hostes essent civitatis_» (Corn. Nep., _Alcib._, 4). Così pure nel discorso agli Spartani, riferito da Tucidide, Alcibiade dice: «Niuno di voi prenda sinistra opinione di me, perchè, riputato una volta amator della patria, adesso di conserva co’ suoi capitali nemici vigorosamente l’assalgo... Esule, sì, io fuggo la nequizia di coloro che mi cacciarono. I nemici peggiori non sono quelli che come voi recarono qualche danno al loro nemico, ma bensì coloro che costrinsero gli amici a diventar nemici» (Tucid., _G. Pel._, VI, 92). [384] Nello stesso discorso agli Spartani, Alcibiade prosegue: «La carità di patria io la pongo non dove sono oltraggiato, ma dove con sicurezza godo della cittadinanza: nè credo di andar adesso contro una patria ancor mia, ma di riacquistare quella che non è più mia. Giacchè giusto amator della patria non è quegli che avendola ingiustamente perduta si astiene dall’assalirla, ma chi per desiderio di lei tenta ogni modo di ricuperarla» (Tucid., _G. Pel._, VI, 92). [385] _Alcib._ Io non vorrei neppur vivere se fossi codardo (οὐδὲ ζῆν ἀν ἐγὼ δεξαὶμην δειλός ὦν). — _Socr._ E ti sembra, n’è vero, la viltà il maggior dei mali? — _Alcib._ Mi sembra. — _Socr._ Eguale persino alla morte? — _Alcib._ Eguale (Platone, _Primo Alcib._, p. 115). [386] Plut. in _Alcib._ — La famosa _zuppa_ o _brodo nero_ (μέλας ζωμός) formava insieme colla maza (vedi nota 8) il principalissimo alimento spartano. Che non dovesse essere un cibo delizioso, è lecito arguirlo dall’aneddoto del tiranno Dionigi di Siracusa, il quale, per curiosità, avendo ordinato ad un suo cuoco, spartano, di fargli la zuppa nera, appena assaggiatala, la sputò fuori nauseato: di che il cuoco gli affermò di non sorprendersi, «dacchè alla zuppa mancava il meglio dei condimenti: cioè _la fatica nella caccia, il sudore, i bagni freddi nell’Eurota, la fame e la sete: con tali cose condiscono i Lacedemoni i loro cibi_» (Plut., _Instit. Lac._, _Lic._, _Agide_; Stobeo, _Serm._, 29; Cicer., _Tuscul._, V). [387] Plutarco in _Arist_. — Corn. Nep., _Arist_. [388] Intorno a Pausania, re di Sparta, al suo tradimento verso la patria, alla sua morte ignominiosa, vedi la vita di lui in Cornelio Nepote; e Tucidide, I, 95, 128-134. [389] Vedi quadro I, nota 37. [390] Alla battaglia di Coronea combattuta dagli Ateniesi contro i Beozj (447 av. l’E. V.) rimase morto il padre di Alcibiade, Clinia: e perciò ai morti di Coronea si riferisce l’epigrafe citata da Timandra in questo punto; la quale propriamente fu tradotta — salve alcune abbreviazioni e modificazioni mie — da quella di una lapide eretta in onor degli Ateniesi morti a Potidea, che fu trovata in una pianura dell’Accademia presso Atene e passò a far parte della raccolta dei marmi di lord Elgin (Boeckh, _Corpus Inscript. graec._, I, p. 300). Un’altra epigrafe sui morti nella battaglia di Cheronea (contro Filippo il Macedone), meno bella, abbiamo in Demostene, _Corona_. Intorno all’uso delle iscrizioni sui monumenti sepolcrali fra i Greci, vedi anche Gallus, III, p. 300; Becker, Char., III, 111; Robinson, _Anticq._ [391] Sugli onori e sulle offerte che davano i Greci alle tombe — e che erano destinati a placare le divinità infernali e i mani degli estinti, — vedi Esch., _Pers._, _Coef._; Sof., _Elett._, _Antig._; Eurip., _Elett._, _Alcest._, _Orest._, _If._ in _Taur._; Anacr.; Om., _Odiss._; Luciano, _Del lutto_, _Caronte_, ecc. Consistevano in ciocche di capelli, ed erbe e fiori sparsi sulle tombe — rose, mirti, amaranti, viole, prezzemolo (indi il proverbio _abbisognar di prezzemolo_, σελίνου δεῖσθαι, Plut., _Timol._, per indicar persona in punto di morte); in profumi preziosi e in libazioni (ἐνάγισμα, χοαὶ) di sangue, di vino, di latte fresco, di miele, di acqua. In ispecie il miele, come _emblema della morte_, θανάτου σύμβολον, raramente dimenticavasi nelle libazioni: indi il nome di μέλισσαι dato alle anime dei defunti, e di μειλίχιοι agli dèi infernali. I fanciulli non ancor giunti all’adolescenza, e i morti sotto l’imputazione di delitti commessi o di una condotta disonorante, non avean diritto nè alle libazioni, nè agli altri onori. Queste cerimonie avean luogo il nono e il trentesimo giorno dopo i funerali del morto; ma rinnovavansi in dati giorni del mese di antesterione, consacrati ai morti (μιαραὶ ἡμέραι — Esich.) — e in altri anniversarj detti _giorni nemesj_ (νεμέσια — Suid.) da Némesi, sotto i cui auspicj si celebravano; nei quali giorni credevasi che i mani degli estinti abbandonassero per alcuni istanti le eterne dimore e venissero a raccogliere le lagrime dell’amicizia (Lucian., _Caronte_). È ad uno di questi giorni che accenna Timandra in questa scena. — Gli Ateniesi si distinguevano poi fra tutti i Greci nell’onoranze agli estinti e nell’osservanza delle sepolture. Sappiamo da Euripide (_Suppl._) ch’essi intrapresero una guerra al solo fine di ottener sepoltura ai sette duci di Argo, caduti sotto Tebe; ed è nota la condanna dei capitani ateniesi vincitori degli Spartani alle Arginuse, puniti di morte per non aver ripescato dal mare e seppelliti i cadaveri degli Ateniesi morti nella battaglia (Diod. Sic., XIII, 18). E Demostene vanta gli Ateniesi perchè «soli fra tutti i popoli, agli estinti per la patria diedero onoranza di tombe e di funebri elogi ad eternar le gesta dei forti» (Demost., _Ad Leptin._) — Massimi infatti erano, fra tutti, gli onori ai caduti in guerra, ai benemeriti, pei grandi servigi, della patria, eguagliati agli dèi (ἰσόθεοι): sui quali onori funebri vedi Platone, _Meness._; Arist., _Panaten._; Diod. Sic., XI, _ecc._ [392] Questa idea religiosa di Timandra trovava un riscontro non solo nelle idee, ma anche nelle leggi ateniesi, che dichiaravano irrite e nulle _le cose fatte nell’ira_ (Siriano in _Hermog_.; Sulp. Vict., _Instit. Orat_. — Meursius, _Themis Att_., II, 23). [393] L’asta (δόρυ) era veramente l’arma nazionale laconica; nel cui maneggio la fanteria spartana primeggiava terribile fra tutti i Greci (Plut, in _Agesil_.; Procopio, _ep. ad Musaeum_; Greg. Naz., ep. 139). Indi Sparta medesima gloriavasi del titolo: _coronata d’aste_, δορυστέφανος (Diogen. Laerz. in _Chil_., 1). L’asta spartana sembra fosse all’epoca del dramma ancor quella dei tempi eroici: lunga, di frassino o altro legno duro, con punta di ferro. Più tardi Cleomene sostituì all’asta spartana la _sarissa_ maneggiabile a due mani (Plut. in _Cleom_. — Cfr. Meursius, _Misc. Lac_., II, 1). [394] La siela (ξυήλη) era la spada spartana: o più propriamente, a differenza della spada propriamente detta (ξίφος), la siela non era che un pugnale di forma ricurva o falcata, e cortissimo: del quale gli Spartani, usi assalire in ordinanza coll’aste, non si servivano che al bisogno, quando trovavansi impegnati nella lotta corpo a corpo (Senof., _Anab._, IV; Poll., I, 10; X, 6; Esich.). Indi, a un ateniese che scherzava sulla brevità delle siele spartane, dicendole tanto corte che un cerretano le poteva ingojare, il re Agide rispondeva: _Eppure con esse noi raggiungiamo i nemici!_ (Plut. in _Licurgo_). E Antalcida a chi gli chiedeva perchè i suoi concittadini adoprassero pugnali così corti: _Per poter combattere coi nemici più da vicino_ (Plut., _Apoft. Lac_.). Fra gli Ateniesi, la siela spartana era nota, come arma speciale, sotto il nome di κνῆστις. [395] Nello scolio di Ibria lo scudo (ἀσπὶς) dei Lacedemoni e in genere dei Dori è chiamato propriamente λαισηῖον; ch’era una targa fatta di foglie metalliche e pelli di bue non preparate, sovrapposte le une alle altre. Gli Spartani attribuivansi l’invenzione di quest’arma: — usavano servirsene col mezzo di correggie tese e attaccate con anelli; per le quali correggie (τελαμών) sospendevano, nel portarlo seco in marcia, lo scudo dietro le spalle; più tardi dell’epoca del dramma, Cleomene vi sostituì le anse (ὀχάνη) a forma di bracciale (Plut. in _Cleom_.; Stefano; Meurs, _Misc. Lac_., II, 2). [396] Eustazio, _ad Iliad_, β’. — Pausan., _Messen_., 28. [397] Portavano gli Spartani in guerra tuniche rosse (πυτὰ, φοινικὶδες) per ornamento militare e per nascondere il sangue delle ferite (Senof., _Rep. Lac_.; Plut., _Lic_.; Elian., _V. St_., VI, 6; Esichio; — Cragius, _Rep. Lac_., III, 6; Müller, _Dorier_, lib. III, 12). Alle tuniche poi sovrapponevano piccole e strette corazze di feltro, cioè fatte di lana costipata, macerata nell’aceto, come arguiscono il Peyron e lo scoliaste di Tucidide al lib. IV, 34. [398] Il pileo (πῖλος) era la copertura del capo degli Spartani che serviva loro in battaglia da elmo, a riparo dall’aste e dalle frecce (Tucid., IV, 34; Festo; Licofr., _Cass_.). Lo portavano nella milizia i soli cittadini; e coperti del pileo raffiguravansi i due Dioscuri; onde il loro soprannome di _fratelli pileati_ (Catul., _Epigr._, 38; Paus., _Mess_., 27). Il pileo era fatto esso pure di feltro e aveva la forma appunto di una calotta o propriamente di un mezzo uovo: poichè diceasi che Castore e Polluce, generati dall’uovo di Giove trasformato in cigno, si servissero ciascuno del rispettivo mezzo uovo a guisa d’elmo (Tzetzes; Meurs., _Misc. Lac_., I, 17). [399] Allude al fortissimo Brasida che sconfisse Cleone e gli Ateniesi nella battaglia di Amfipoli, dove morì (vedi Tucidide, libro V; Plut., _Apoft. Lac._). [400] Oltremodo avari e parchi di ricompense militari addita Demostene gli Spartani: «Per piegarvi (o Ateniesi) a lasciare inonorata ogni azione di merito, mi si contrapporranno i Lacedemoni, maestri di civile sapienza, ed i Tebani, i quali non concedono siffatte onoranze, eppur non mancano di valorosi» (Demost., _C. Leptin._). Però come l’infamia accompagnava i codardi, così la gloria e la riverenza universale dei cittadini, erano massima ricompensa ai valorosi (vedi Tirteo, _Elegie_). [401] ἤ ταύταν ἤ ἐπὶ ταύταν — così apostrofavano, com’è noto, le madri spartane i loro figli, partenti per la guerra, nel consegnar loro le scudo: perdere il quale in battaglia era massima infamia (Aristot. pr. Stobeo, _Serm._, VII; Sesto Empir., _Pirr. Ipotip._, III, 24; Aristen., _Lett._, II, 17). [402] Intorno alla pianta e topografia di Atene, vedasi l’opera, fra le tante la più completa, del Wachsmuth, _Die Stadt Athen_. [403] Ὅ Φαῖβ’ Ἄπολλον καὶ θεοὶ καὶ δαὶμονες (Aristof., _Pluto_, v. 81. — Cifr. Alcifr., _Lett_., I, 20; III, 29). [404] Plut., _Alcib_., 32; Senof., _St. Ellen_., I, 4. — La esitanza di Alcibiade a scendere a terra, era giustificata dal fatto che sebbene egli fosse stato richiamato dal popolo, tuttavia la sentenza di morte contro di lui non era ancora legalmente annullata. [405] περὶ ονου σκιᾶς, _per l’ombra dell’asino_ — ossia per una inezia, per una causa futile, _per una man di noccioli_. Proverbio fra i Greci usitatissimo, per significare il bisticciarsi o andar in collera per cose da nulla (Aristof., _Vespe_, 191; Plat., _Fedro_; Luciano, _Ermot_.; Demost., _Della pace_; Procop. Sof., _Lett_., 33). Demostene, con arguzia ateniese, fece un dì la storia di questo proverbio (proverbio più antico di lui, siccome già usato da Aristofane e Platone) in una pubblica aringa. E cominciò col narrar la favola di due uomini che facean viaggio insieme, dei quali l’uno conduceva l’asino dell’altro. Essendo cocentissimo il sole, nacque contesa fra i due per l’ombra dell’asino, la quale ciascuno di essi voleva godere per sè. Il padrone dell’asino diceva di aver noleggiato l’opera dell’asino e non già la sua ombra, l’altro replicava che l’ombra era parte dell’opera. Qui, Demostene tace: e il popolo a insistere curioso, chiedendo che narri come la contesa andò a finire: e Demostene subito: _Ah dunque a parlarvi dell’ombra dell’asino state attenti ad ascoltare; e quando vi si parla degli affari della Repubblica, non volete saperne!_ (Plut., 1558). [406] «_Sic enim populo erat persuasum, et adversas superiores et praesentes secundas res accidisse ejus_ (Alcibiadis) _opera. Itaque et Siciliae amissum et Lacedaemoniorum victorias culpae suae tribuebant; quod talem virum et civitate expulissent.... Nam postquam exercitui praeesse ceperat, neque terra, neque mari hostes pares esse potuerant_» (Corn. Nep., _Alcib_., VI). — Cfr. intorno ai mutati sentimenti del popolo ateniese verso Alcibiade, quali si accennano in questa scena, e ai trasporti di entusiasmo popolare succitati dal suo ritorno. — Plut., _Alcib_., 32; Diod. Sicul., XIII, 68; Senof., _St. Ellen_., I; Aten., _Deipnos_, XII, 535 e. [407] L’azione pubblica era diritto in Atene di ogni cittadino: concesso a chiunque il trarre un cittadino in giudizio, sotto l’accusa di delitti contro la religione o lo Stato, d’infrazione alle leggi, ecc. _Sicofanti_ (συκοφάνται) dicevansi gli accusatori; ai quali, se non riuscivano a provar l’accusa, era inflitta la multa di mille dramme (Plat., _Apol_., c. 25; Demost., _C. Timocr_.). Però in origine il nome (da σῦκα φαῖνειν, _palesare i fichi_) applicavasi propriamente ai denunziatori dei cittadini che esportassero fichi dall’Attica; poichè in tempo di carestia, saliti gli alimenti a prezzi eccessivi, una legge aveva vietato l’esportazione dei fichi e dei prodotti in genere, ad eccezione delle olive, sotto pena di essere maledetto dall’arconte o multato in 100 dramme; e non essendo stata in appresso quella legge revocata, uomini abbietti se ne valsero per denunciare i cittadini che davansi a quel genere di commercio. In seguito il nome significò accusatori in genere: quando poi la manìa dei litigi, sviluppando fra gli Ateniesi la manìa delle denunzie e delle false accuse, moltiplicò fra di loro la razza dei sicofanti di professione, quel nome diventò anche sinonimo di _calunniatore_ e di _falso testimonio_ (Isocr., _De permut_.; Demost., _pro Phorm_.; Scol. in Aristof., _Pluto, Caval._; Plut., _Solone_; Ulpiano; Suida). [408] φιλολὰκων, _amico degli Spartani_, epiteto sotto il quale la sospettosa democrazia ateniese designava quei cittadini ch’erano in voce di parteggiare segretamente per gli Spartani e di cospirare per ristabilir in Atene la tirannide. Queste due accuse significavano pressochè la stessa cosa: poichè gli uomini del partito aristocratico in Atene erano in generale accusati di simpatizzare per l’oligarchia spartana e di maneggiarsi a introdurre in Atene gli stessi ordinamenti politici. L’epiteto poi di _filolácone_ era divenuto, durante la guerra del Peloponneso, comunissimo e quasi equivalente di traditore (Cfr. quadro IV, n. 16). [409] νὴ τὰς φίλας Ὥρας — _per le care Ore!_ (Aristea., _Lett_., I, 11). — Le _Ore_, ossiano le _stagioni_ (perchè ὡραὶ in Omero non vuol dir altro, e la parola conservò tra i Greci lo stesso significato), aveano tempj e riti e feste proprie in Atene, Corinto ed altre città. Le si imploravano nella lor festa annua in Atene, siccome dee autrici della fecondità o sterilità del suolo, del bel tempo e del sereno; per aver propizie le stagioni e tener lontana la siccità, la grandine, ecc. Libavasi ad esse insieme che alle Grazie ed a Bacco (Omero, _Iliad_., V; Esiod., _Teog._; Orfeo; Aten., II, 36 d.; 38 c.; XIV, 656 a. — Casaub., 933. — Pausan., _Attic. Corint_., ecc.). [410] πάλαι ποτ’ ἤσαν ἄλκιμοι Μιλήσιοι (Aristof., _Pluto_, 1002, 1075; cfr. _Vespe_, 1060; Sinesio, _Lettere_, LXXXI). Proverbio significante: _non sei più lo stesso d’una volta; son passati quei tempi_, ecc. Nella parabasi delle _Vespe_ è il coro dei vecchi ateniesi che adopera, applicandolo a sè stesso, e rimpiangendo la vigoria degli anni giovanili, quella frase del proverbio. [411] Apoll. Rod., _Argon_.; Alcifr., _Lett_., III, 38; Plauto, _Anfitrione_. Indi l’epiteto di τριέσπερος che in Luciano e in Licofrone è dato ad Ercole perchè generato in tre sere. [412] Mercurio o Ermete (Ἑρμῆς) era invocato come loro speciale protettore dagli usurai, dai trecconi, dai mercanti, dai barattieri e simil gente. Al che accennano parecchi de’ tanti soprannomi ch’eran dati a questo Dio: lo si chiamava infatti κερδῶς, _apportator de’ guadagni_ (Alcifr., _Lett._, III, 47); ἐριούνιος, _assai giovevole_, portator di cose utili (Arist., _Rane_, v. 1144; Omero); ἀγοραῖος _preside dei mercati_ (Arist., _Cav_., v. 297), nel qual caso gli si poneva in mano una borsa; στροφαῖος, _astuto_ (Aristof., _Pluto_, 1153); ἐμπολαῖος, _presiedente ai contratti_ (Aristof., _Pluto_, 1155); δόλιος, _conciliator delle furberie_ (Aristof., _Pluto,_ 1157; _Tesm_., 1202). Lo si chiamava pure, secondo gli altri suoi vari attributi ed officj, Mercurio ἀλεξίκακος, _stornator dei mali_ (Aristof., _Pace_, 422); χθόνιος, _terrestre, sotterraneo, guidator delle anime dei morti_ (Sof., _Elet_., 110; Aristof., _Rane_, 1126, 1145; Omero, _Odissea_, 24); ἔναγώνιος, _preside de’ giuochi agonali_ (Aristof., _Pluto_, 1161); δίακονος, _ministro degli Dei_; ἠγεμόνιος, _guida nei viaggi_ (Aristof., _Pluto_, 1559); πυλαῖος, _guardiano delle porte_; νόμιος, _pastorale_ (Aristof., _Tesm_., 977). Cfr. sui molteplici officj di Mercurio, Luciano, _Dial. degli Dei; Dial. dei morti_; ed Erasmo. [413] Allusione proverbiale ad alcuni versi di Esiodo (_Oper._, v. 288 seg.). Così, per esempio, in Luciano: «La casa della virtù sta lontano assai, come dice Esiodo...» (_Ermot._, 2). [414] Cfr. in Aristofane: «Nemmeno una delle donne d’oggidì tu potresti chiamar Penelope; Fedre le puoi chiamar tutte» (_Tesmof._, 549). [415] Allusione proverbiale al verso di Omero nell’_Odissea_: Ἀσπάσιον λέκτοριο παλαιοῦ θεσμὸν ἴκοντο. Dello sfoggiar di erudizione dei parassiti in genere, e del nostro Cimoto in ispecie, si è già accennato al quadro III, n. 37, 38. [416] Sugli _arconti_, vedi quadro II, nota 6. [417] Dacchè in Atene s’istaurò il governo popolare, il comando delle milizie fu ripartito fra dieci capitani o _strategi_ (στρατηγοί), eletti dall’assemblea del popolo a maggioranza di suffragi, uno per ciascuna delle dieci tribù. È noto il frizzo di Filippo il Macedone, che diceva di invidiar gli Ateniesi perchè tutti gli anni trovavano dieci uomini capaci di fare il generale, mentr’egli in tanti anni non era riuscito a trovarne che uno solo. Tutti i cittadini, anche dell’ultima classe, meno quelli colpiti d’infamia o morte civile (ἀτιμία), potevano essere eletti a quella carica, purchè provassero in apposito esame (δοκιμασία) di possedere i requisiti voluti dalla legge per l’esercizio di una funzione pubblica (esser nato di genitori liberi ed ateniesi, aver compiuto i doveri figliali verso di loro, venerare gli Dei della città, aver servito onoratamente nell’esercito, non aver commesso azioni disonoranti): e alcuni speciali prescritti per la carica: aver figli e poderi nell’Attica, non aver liti pendenti in giudizio, ecc. — Gli strategi venivano eletti, come tutti gli altri magistrati, per un solo anno; potevano però essere rieletti; avevano potere eguale, con attribuzioni diverse, e ciascuno di essi, per turno quotidiano, avea il comando supremo; decidevano adunati in consiglio di guerra, a maggioranza di voti; in caso di divisione di pareri, a evitar ritardi nelle risoluzioni, aggiungevasi ai dieci capitani un altro magistrato, il _polemarco_ (πολέμαρχος), il cui voto era in tal caso decisivo. Al _polemarco_ spettava pure di diritto il comando dell’ala sinistra dell’esercito. Gli strategi, insieme col comando supremo delle forze di terra e di mare e con tutte le attribuzioni inerenti (liste di leva, congedi, equipaggiamento, tribunali militari, ecc.), avevano anche il diritto di convocare il popolo in assemblea straordinaria: diritto non concesso che ad essi ed ai pritani del Senato. Essi erano poi strettamente responsabili del loro operato in guerra e della loro gestione all’assemblea. — Quanto al grado di capitano supremo (στρατηγὸς, αὐτοκράτωρ), che fu dato ad Alcibiade al suo ritorno, e il quale gli attribuiva la supremazia sugli altri nove strategi, era un grado affatto eccezionale e non conferito che in circostanze straordinarie. Per tutto il tempo che durò la repubblica d’Atene, quattro soli ateniesi ne furono investiti. Ai dieci strategi erano addetti, uno per ciascuno, e sotto la loro immediata dipendenza, dieci _tassiarchi_ (ταξίαρχοι), che noi diremmo _intendenti_, incaricati delle riviste, delle provvigioni, ecc. La loro giurisdizione limitavasi alla fanteria. La cavalleria era comandata, sempre sotto gli ordini degli strategi, da due _ipparchi_ (ἴππαρχοι), i quali avevano alla loro volta sotto i loro ordini dieci _filarchi_ (φύλαρχοι), uno pei cavalieri di ciascuna tribù. Gli ufficiali inferiori traevano poi il nome dalla specie delle armi o dal numero degli uomini che comandavano. Tali i _chiliarchi_ (che noi diremmo _colonnelli_), comandanti una chiliarchia (1,000 uomini, oltre 24 subalterni); i _pentacosiarchi_ (grado equivalente a un dipresso al nostro di _maggiore_), comandanti 512 uomini; gli _ecatontarchi_ (che sarebbero i nostri _capitani_), comandanti una compagnia, τάξις, di 128 uomini, a ciascuna delle quali era addetto un alfiere o portainsegna, un trombetta e un furiere; i _tetrarchi_ (che diremmo _luogotenenti_), comandanti una mezza compagnia o pelottone di 64 uomini, divisi in 4 lochi; i _locaghi_ (_sergenti_), comandanti un loco o squadra di 16 uomini; i _pempadarchi_ (_caporali_), comandanti una pattuglia di 5 uomini (Vedi Tucidide, Erodoto, Senofonte, Plutarco, Demostene, Polieno, Arriano, Eliano, ecc. — Cfr. Suida, Arpocr.; Potterus, _Archeol. gr._; Robinson, _Antiq. gr._, Grote, ecc.). [418] Demostene, _C. Lettine_. [419] Ad Abido ed a Cizico, dove Alcibiade sconfisse in due gloriose battaglie navali (411 e 410 av. l’E. V.) la flotta spartana di Mindaro, si trovarono a combattere sotto gli ordini di Mindaro e come alleate di Sparta anche le navi siracusane condotte da Ermocrate (Vedi Senof., _St. Ellen._, I; Diod. Siculo, XIII). [420] «Raunato il popolo, dei mali sofferti Alcibiade non incolpò che leggermente il popolo stesso, attribuendo la causa di tutto a una qualche cattiva fortuna e a un demone geloso» (τινὶ τύχη πονηρᾷ καὶ φθονερῷ δαίμονι) (Plut., _Alcib._, 33). [421] «Si distese poscia a parlare intorno ai nemici, empiendo gli Ateniesi di buone speranze» (Plut., _ibid._; Senof., _St. Ellen._, I; Diod. Sic., XIII, 69). [422] «Dalle navi, o Ateniesi, dipendono i nostri destini» (Demost., _Contro Androz._ — Cfr. il mio opuscolo _Alcibiade e la critica_, Op., IV, 283). [423] «Ricordatevi, Ateniesi, i tempi in cui la gratitudine ai benefattori della patria era sacra, e la colonna di Diofante, già rammentata da Formione, nella quale è scritto, e voi lo giuraste, di premiare _come Armodio ed Aristogitone, chi affronta danni e pericoli per la libertà_» (Demost., _C. Lett._). Di un decreto simile di ricompense per grandi servigi in guerra, promulgato in favor di Conone, e inscritto dal popolo sopra una colonna o _stile_, è pur cenno nella stessa orazione: «Conone ruppe in mare i Lacedemoni e ne cacciò dalle isole i magistrati e rialzò le vostre mura, e primo vi fece emuli di maggioranza a Sparta. Perciò a lui solo di tutti nella colonna fu scritto: _perchè Conone liberò i confederati di Atene_... Donde i contemporanei non pur gli concessero immunità dai pubblici pesi, ma a lui primo, quale ad Armodio ed Aristogitone, posero statue in bronzo: ben giudicando che non aveva spenta piccola tirannide l’oppressore della possa spartana» (Demost., _ibid._). [424] «Sovra tutto impose Solone di pubblicar le leggi innanzi alle statue degli eroi e consegnarle al cancelliere, il quale nelle pubbliche adunanze le legga, affinchè ciascuno, dal frequente udirle, ratifichi sempre il giusto e l’utile» (Demost, _C. Lettine_). E γραμματεῖς, _cancellieri_ o _notaj_, dicevansi appunto codesti incaricati della custodia delle leggi e degli atti pubblici, dei quali avean obbligo, in caso di richiesta, di dar copia e lettura al popolo ed al Senato. Se ne nominavano tre: uno scelto dal popolo e incaricato della lettura degli atti; gli altri due, scelti dal Senato e addetti l’uno al protocollo delle leggi, l’altro agli archivi pubblici. Venivano scelti ad ogni pritania: e duravano in funzione trenta giorni, dopo i quali davan conto della gestione. Era, del resto, in Atene una professione disprezzata dai cittadini e abbandonata ordinariamente ai δημόσιοι, o servi pubblici, la maggior parte trascelti tra gli schiavi forniti di qualche istruzione (Polluce, lib. 8; Ulpiano, sulla 2.ª _Olint._; Libanio, sull’oraz. _Parapresb._). [425] Il formulario delle leggi e dei decreti (νὸμος, ψήφισμα) presso gli Ateniesi era comunemente quello che vediamo, con poche varianti dall’uno all’altro, nei molti esempj citati nelle orazioni di Demostene e degli altri oratori: e sulla scorta dei quali mi regolai nella redazione del decreto di cui l’arconte ordina in questa scena la lettura. Nelle sue formole più complete, il decreto d’ordinario recava prima il nome dell’arconte epónimo in carica; poi successivamente e per ordine, la data, la pritania, la designazione di chi aveva convocato l’assemblea in cui il decreto era stato votato (se i pritani o gli strategi, o secondo che trattavasi di assemblea ordinaria o straordinaria); il nome di chi avea proposto il decreto; indi il disposto del decreto; infine la indicazione dei funzionari incaricati della esecuzione, e da ultimo la ripetizione del nome dell’autore della proposta (Vedi Demost., _Corona_; _C. Timocr._, ecc.). [426] Ossia il 25 di Targelione (Vedi quadro III, n. 7). [427] Vedi sulle pritanie, e sull’assemblee del popolo, quadro II, n. 59. [428] Vedi sulle tribù di Atene, quadro I, n. 55. — Cfr. quadro II, n. 55. [429] Plut. _Alc_., 33; Senof., _St. Ellen_., I, 4; Corn. Nep., _Alc_., 6; Diod. Sic., XIII. 69. [430] Delle Panatenée o feste di Minerva, vedi al quadro III, n. 59. Le _Dionisiache_ o _Dionisie_ o _Baccanali_ (Διονύσια, Βακχεῖα), ossia feste di Bacco, celebravansi nell’Attica con maggior pompa di cerimonie e di riti che in tutte l’altre città della Grecia. Una turba farneticante di uomini, gli uni travestiti da Satiri, da Pani e da Sileni, gli altri raffiguranti Bacco, e il suo trionfo dell’India e le sue gesta, inghirlandati di edera e di pampini, percorreva le vie, trascinando capri destinati al sacrifizio, agitando in mano i tirsi, e intrecciando danze disordinate al suon di flauti e di tamburi, e a canzoni licenziose e alle grida di _Jacco! Jacco! Evoè!_ Dietro costoro venivano i portatori di vasi sacri, e i deputati delle tribù, e fanciulle (_canèfore_) di distinta nascita recanti sul capo canestri d’oro, pieni di frutta; indi una schiera di uomini (_fallófori_) portanti i falli sospesi a lunghe pertiche; poi altri uomini (_itifalli_) travestiti da donne, inghirlandati e contraffacenti gli ubbriachi, poi i _licnofori_ o portatori del ventilabro mistico di Bacco. — La processione, sfilando di notte, fermavasi ne’ campi e nelle piazze a offerir vittime a Bacco, tra un concorso immenso di forestieri e popolo accalcato sui tetti e nelle vie, e al chiarore delle migliaia di fiaccole scintillanti. Durante le Dionisiache era grave delitto dar molestia qualsiasi a un cittadino, foss’anche un debitore. — Di tali feste ve n’erano parecchie: _le grandi Dionisìache_ o _Dionisìache urbane_, fra tutte le più celebrate, si festeggiavano dentro la città, con pompa affatto eccezionale, nel mese di Elafebolione, tra la fine di marzo e i primi d’aprile. Le _piccole Dionisìache_ o _Dionìsie rurali_, _Baccanali campestri_, servivano di preparazione alle prime e si celebravano d’autunno alla campagna. — Altre feste infine, dedicate a Bacco, erano le _Dionisie Lenée_, o _Lenée_ semplicemente (ληναῖα), cioè _feste dei torchi_ o strettoj. Eran dette anche _Antesterie_ o _floreali_. Festeggiavansi alla campagna, in onor di Bacco Leneo, ossia _torchiatore_ (λήναιος), nel mese di Antesterione (febbrajo-marzo) e duravano tre giorni. Il primo di essi, ch’era l’11 del mese, dicevasi festa delle _botti_ (πιθοιγία), perchè in esso si spillavan le botti; il secondo festa delle _coe_ o _cogna_ (χοεύς), ossia delle _libazioni mortuarie_, in cui cioncavasi copiosamente, e chi riusciva a bere la misura di un cogno aveva in premio un otre e una ghirlanda. Il terzo, festa dei _chitri_, ossia delle pignatte (χύτροι), in cui offerivansi legumi cotti entro una gran pignatta, in suffragio dei morti, a Mercurio sotterraneo. Le _Panatenée_, le _Dionisìache_ e le _Lenée_ erano le tre solennità dell’anno in cui avean luogo le gare teatrali delle tragedie e delle commedie nuove. Concorrevano al premio i tragici e i comici, presentando le loro composizioni al primo arconte, il quale, dopo approvatele, assegnava al poeta un coro, la spesa del quale e del rimanente apparato era a carico dei più ricchi cittadini (vedi quadro IV, n. 29) e teneasi ad onore grandissimo. Il poeta sceglieva allora tra gli attori quello in cui avea più fiducia per dargli la direzione dello spettacolo, e si adoperava di concerto con lui perchè tutto andasse per il meglio. Venuto il dì della rappresentazione, la sorte fissava l’ordine in cui i drammi dei concorrenti doveano rappresentarsi: e finita la recita, cinque giudici a ciò delegati proclamavano il vincitore in ciascuna delle gare. Tutti i comici e gli istrioni erano obbligati a ritrovarsi per il tempo di queste gare in Atene sotto pena di ammenda: come toccò al comico Atenodoro: tanta era l’importanza che annettevano gli Ateniesi a questi spettacoli, nello allestimento dei quali si profondevano tesori (Cfr. _Alcib., la critica e il secolo di Pericle_, Op. IV, 294). — (Vedi Aristof., _Acarn., Ucc., Rane_ e scol.; Eurip., _Bacc_.; Demost., _C. Lett., C. Mid., Corona_; Alcifr., _Lett_.; Corsini, Meursius, Potter, Robinson, ecc.). [431] Vedi in Demostene, nell’orazione per la _Corona_, intorno al premio della corona d’oro, per servizi militari o politici, e al bando della stessa nei giorni delle gare teatrali, l’accusa di Eschine contro Demostene, il decreto di Aristonico e i decreti di Callia Frearrio e di Ctesifonte Anaflistio, nonchè la legge ivi citata. «_Se alcuno è incoronato da un borgo, il bando si faccia nel borgo istesso; ma se la corona è data dal popolo ateniese o dal Senato, sia lecito pubblicarla in teatro ne’ Baccanali_» (Cfr. Eschine, _C. Ctesif_., p. 58). [432] Vedi in Demostene (_Corona_) i decreti citati di Aristonico e di Callia Frearrio. — _Agonotéti_ diceansi i magistrati sopraintendenti ai giuochi e agli spettacoli teatrali. Fra le loro attribuzioni era il bando della corona da conferirsi in occasione dei certami drammatici, e la facoltà di punire gl’istrioni che negli spettacoli non rappresentassero convenientemente la loro parte (Demost., _ibid._ — Cfr. Luciano, _Pescatore_). [433] Plutarco (_Alcib_., 33) nomina espressamente Crizia figlio di Callescro, il medesimo che fu poi uno dei trenta tiranni, come autore del decreto pel richiamo di Alcibiade. Al qual richiamo il popolo aggiunse in favor di Alcibiade le altre disposizioni, revoca della confisca, corona d’oro, ribenedizione, ecc., che in Plutarco si leggono. [434] Scriveva l’accusatore, o la parte civile, nell’accusa la pena di cui chiedeva l’applicazione. Vedi, per esempio, in Diog. Laerzio, l’accusa di Melito: «Socrate delinque corrompendo i giovani, non credendo i Numi che la città crede, ma sì altre nuove cose demoniache. _Pena la morte_.» — E in altra legge sul buon costume: «Se un Ateniese farà oltraggio a un libero fanciullo, lo accusi ai tesmoteti chi ha in balia il fanciullo, _e scriva la pena_. Se condannato nella persona, sia ucciso lo stesso dì» (Esch., _C. Tim_.). [435] Gli _Undici_ (οἴ ἔνδεκα), così chiamati dal loro numero, erano una magistratura di dieci cittadini, scelti uno per tribù, cui aggiungevasi per undecimo un cancelliere. Avevano la custodia delle prigioni e sorvegliavano l’esecuzione dei condannati a morte, che ad essi venivano dopo la condanna consegnati; avevano pure il diritto di arrestar le persone sospettate di furto e anche di porle a morte, se rei confessi, e di trascinare davanti agli eliasti quelli che ricusavano il servizio militare o che abbandonavano in guerra i loro posti. Il così detto _servitore degli Undici_ (ὄ τῶν ἔνδεκα ὑπερὲτης) era il carnefice (Plat., _Fed._, 216; Demost., _C. Midia, C. Timoc., C. Lacrit._; Aristof., _Vespe_; Alcifr., _Lett._., III, 22; Lisia, _C. Agorat._; Esch., _C. Ctesif._, ecc.). [436] Vedi intorno alle classi d’Atene, e alle cifre rispettive del reddito e dell’imposte, la nota 3 all’elenco dei personaggi. [437] Cfr. quadro II, nota 26. — Nei tempi eroici la ripartizione delle spoglie fu riservata tra i Greci al capitano supremo, che se ne teneva una parte, e distribuiva il rimanente fra i subalterni ed i soldati (Omero, _Iliad_., 9; _Odiss_., lib. 9, 14). Al tempo della guerra persiana, vediam le spoglie prese dai Greci a Platea ripartirsi fra i soldati, dopo levatane una parte per i templi degli Dei e una parte per le ricompense ai migliori (Erod., lib. 9; Plut. in _Arist_.). Più tardi, all’epoca del dramma nostro, benchè la legge attribuisse ai capitani le spoglie (Siriano in _Hermog_.; Meurs., _Them. Att_., I, 11), vediamo i capitani depositarle nel tesoro pubblico, dopo trattenutane una parte — qualche volta il terzo — per sè e una parte per i soldati segnalatisi maggiormente (Plut., _Cim., Agesil_.; Corn. Nep., _Timot., Cim., Agesil_.; Senof., _St.ª Ell., Agesil_.; Polieno, _Stratag_., ecc.). [438] Modo proverbiale «Una fune d’Aliarto mi occorre, e penzolerò appiccato davanti alla porta Dipila, se la fortuna non pensa ad aiutarmi» (Alcifr., _Lett_., III, 49). — Aliarto, città in Beozia sul lago Copaide, ove si fabbricavano ottime funi. [439] L’usanza degli elogi e delle orazioni funebri sembra d’origine antichissima tra i Greci; Cicerone la riguarda come esistente fra loro sin dai tempi di Cecrope (_de Legib_., II, 25). Ma la legge che prescriveva queste orazioni come appendice ai funebri onori, è dallo scoliasta di Tucidide (II, 35) attribuita propriamente a Solone: vero è che, prima delle guerre persiane non riscontrandosi di pubblici elogi funebri esempio alcuno, Dionigi d’Alicarnasso e Diodoro Siculo ne assegnano al tempo di quelle guerre la introduzione. «_Tardi gli Ateniesi aggiunsero alla legge dei funebri onori la orazione funebre, avendo cominciato a recitarla su quelli che per la patria erano morti o ad Artemisio o a Salamina o a Platea o a Maratona_» (Dion. Alic., _Antiq. Rom_., V, 291). Ancor più preciso Diodoro dice l’uso di questi discorsi introdotto dopo la battaglia di Platea (Diod. Sic., XI, 33): e il Peyron (_note_ a Tucidide) si attiene senz’altro a Diodoro. Meglio forse il Bulwer (_Atene_, lib. V, c. 3) spiega la discordanza in questo senso, che l’usanza dei discorsi funebri andò man mano, dai tempi eroici remotissimi in poi, perdendo d’importanza durante le piccole gare fra gli Stati greci: ma dopo le guerre persiane quella usanza fu rinnovata con solennità per la grandezza della lotta e la dignità e la santità della causa a cui i morti eransi consacrati. Il primo esempio a noi giunto di discorso funebre ateniese è quello di Pericle pei morti di Samo: ove i guerrieri caduti per la patria son _pareggiati agli Immortali_, e li si piangono _così scomparsi dalla città come se dall’anno fosse tolta la primavera_ (Plut., _Peric_.; Aristot., _Rhetor_., III, 10). Ma di tal genere d’eloquenza due modelli perfetti fra tutti rimasero meritamente celebratissimi nell’antichità: il discorso di Pericle pei morti nella guerra del Peloponneso che Tucidide udì e ci trasmise (II, 35), e l’altro sullo stesso argomento che Platone pose in bocca ad Aspasia nel _Menesseno_. Altri esempj, meno insigni, a noi giunti, sono i discorsi funebri di Lisia sugli Ateniesi andati in soccorso ai Corinzj, di Demostene pei morti di Cheronea, e di Iperide pei morti nella guerra Lamìaca. — Caduta poi la Grecia sotto il giogo dei Romani, e sparita da Atene l’antica dignità dei costumi repubblicani, le orazioni funebri cessarono di essere quello che Demostene (_C. Lett._) ricordava come un vanto di Atene, cioè un onore impartito solo ai fortissimi e ai benemeriti della città; ma si moltiplicarono per chicchessia, fino a divenire anche in Atene quel banale e bugiardo esercizio di retorica, che è spesso ai dì nostri fra noi: tanto che a persona spregiatissima e inferiore ad ogni lode si dica per proverbio: οὔκ ἐπαινεθείης οὐδ ἔν περιδείπνῳ — _non sarai lodato neppur con orazion funebre_ — ch’è tutto dire! (Confr. quadro V, n. 60). [440] Sugli Eumòlpidi, e dignità sacerdotali, vedi quadro II, nota 72; quadro IV, nota 14. [441] Cerere e Proserpina. In quella guisa ch’elle formavano un ciclo mitico distinto dal resto della mitologia greca, così pure affatto distinto da quello degli altri dèi dell’Olimpo raggruppati intorno a Giove, e presiedenti alla _vita_ degli umani, era il culto che fra i Greci avevano Cerere e Proserpina e in generale tutta quella categoria di divinità dai Greci venerate sotto il nome di _ctoniche_ o _sotterranee_: Numi presiedenti dall’oscurità profonda, dalle viscere della terra, ai destini d’_oltre tomba_ ed alla vita futura. Da codesto isolamento derivò al culto di queste divinità il carattere di _misteri_, ossia di riti religiosi, a cui nessuno senza speciale iniziamento poteva assistere: e la dottrina stessa dell’immortalità, su cui questi riti si appoggiavano, aveva appunto nel mito di Cerere e Proserpina, adorate al ritorno di primavera fra i misteri d’Eleusi, la sua simbolica rappresentazione. Proserpina (Persefone) nell’autunno di ogni anno è rapita alla luce del mondo di quassù e trasportata nel tenebroso regno dell’Orco (Αἶδης), ov’è assunta all’impero sulle ombre dei morti; ma ad ogni primavera ella ritorna nel mondo superiore, fra le braccia di sua madre, la terra (Δῆ μήτηρ, γῆ μήτηρ), splendida di rinnovata bellezza giovanile; è il ritorno della vita vegetativa nella vicenda delle stagioni: ma se la dea della morta natura era pur quella che esercitava il dominio sui trapassati, il suo ritorno alla luce dovea significare anche per l’uomo una palingenesi, un rinnovamento di vita. Indi Pindaro celebrando i misteri sacri in Eleusi alle due Dee «_Beato_, cantava, _chi li ha veduti, e poi discende sotto la cava terra: egli conosce il fine della vita, e il principio di essa dato da Dio!_» [442] .... veggo in supplichevol atto Là un uom seder, sangue la man grondante, Nudo il ferro nel pugno... Dorme Stesa sopra i sedili intorno a lui Una di donne orribilmente strana Torma... Donne non già: Gorgoni dico... Ma nè Gorgoni pur, nè somiglianti Sono a quell’altre che dipinte vidi Rapir le cene di Finéo. Senz’ali Son queste e negre e abominande in tutto. Russan con ributtanti aliti: un tristo Umor cola dagli occhi; il vestimento Qual non lice indossar nè visitando I seggi degli Dei nè dei mortali Le case entrando. Una simil genìa Non vidi io mai: terra non è che possa Di nutrir cotal razza impunemente Senza dolor nè lagrime vantarsi. (Eschilo, _Eumen._, V, 40-59, trad. Bellotti). Tale è il terribile ritratto con cui il genio di Eschilo presentava alle fantasie ateniesi le _Furie_ od _Erinni_, dormenti intorno al matricida Oreste; persecutrici implacabili, secondo l’idee greche, di qualsivoglia misfatto anche involontario, e però simboleggianti non tanto il grado della colpa e del rimorso interno, quanto, e più propriamente, l’orrore che accompagna ogni delitto, siccome quello che, per qualsiasi causa commesso, sconvolge sempre l’ordine di natura (cfr. quadro IV, nota 15). Epperò in Eschilo le Erinni, siccome ministre dello spettro di Clitennestra, vendicano il matricidio senza pur chiedere nè delle cagioni, nè d’altro; ma come per una legge inesorabile del destino, più forte della clemenza stessa dei Numi, indipendente dai tormenti minacciati ai colpevoli nell’Erebo. «_È legge che ogni stilla di sangue sparso sulla terra chiami altro sangue: poichè alla vendetta grida l’Erinni e aggiunge morte a morte_» (Esch., _Coef._, 392). Perciò sovr’esse non può nulla, neppure la purificazione che Apollo ha concesso ad Oreste in Delfo; e della quale appunto esse si lagnano accusando il Nume come violatore dei _diritti delle Parche_. Apollo non ha potuto che immergerle per poco in un sonno leggiero da cui subito, alla chiamata dello spettro dell’ucciso, elle si levano per inseguire Oreste; ed è infine con Apollo stesso, ch’elle non esitano di venir a contesa per i propri diritti sul matricida, dinanzi all’Areopago d’Atene. Ma qui i voti dei giudici si pareggiano, e solo il voto di Minerva decide a favor di Oreste la lite. Allora tocca a Minerva placar di nuovo gli sdegni delle Dee defraudate della preda: finchè da Minerva ammansate, accettano da lei l’invito di fermar dimora in Atene e promettono di esser sempre benefiche a quella città. Sì, con Minerva accetto Qui fermar mia dimora, e mai nè spregio Opporrò nè dispetto A questo suolo egregio D’are cultor... e con benigna mente Che nel futuro vede Qui pregherò che ognor fulgida e pura Luce spargendo il sole Copia produca d’ogni ben natura. (Eschilo, _Eumen._, 922 seg.) Ed ecco come le _Furie_ od _Erinni_ (Εριννύες) — le _terribili dive, figlie della terra e della notte_ (Sofocl., _Ed. a Col._, v. 39; Esch., _Eumen._, 424), le _ancelle dell’Orco_ (Plut., _De exil._), _nate dal sangue_ di Urano sparso sulla terra (Esiod., _Teog._, 185), le dee _inespugnabili, tremende a nominarsi_ (Sofocl., _Ed. a Col._, 124), succhiatrici del sangue dei viventi (Esch., _Eum._, 258, 269), — si trasformassero in divinità benefiche od _Eumenidi_ (Εὐμενίδες); e ottenessero culto ed are e sacrifici sotto il nome di _Dee venerande_ (σημναί), protettrici di Atene. Eccole fatte pietose allo stesso misero Edipo; e là in Colono, nel bosco sacro e nel santuario di quelle Dee da cui fu sì a lungo perseguitato, Edipo ritrova la pace e la fine dei suoi patimenti (Sof., _Ed. a Col._). È all’ara delle Eumenidi che accorsero a cercare misericordia ed asilo Cilone e i suoi complici; e aver violato l’asilo fu tenuto per massimo sacrilegio verso le Dee (Tucid., I, 145. — Cfr. quadro III, n. 45; quadro IV, n. 32). [443] «Decretarono pure (gli Ateniesi) che gli Eumolpidi e i banditori (_cérici_) ritrar dovessero le maledizioni che contro lui fatte avevano per commissione del popolo» (Plut., _Alcib._, 33). [444] Il _cradies nomos_, ossia, tradotto, l’_aria del ramo di fico_ (κραδίης νόμος), era una particolare melodia la quale cantavasi nelle feste Targelie. (ricorrente nell’Attica, al mese di Targelione, ch’è appunto il mese in cui avvenne il ritorno di Alcibiade e in cui qui supponesi l’azione): e s’intonava nel momento in cui, durante quelle feste, gli uomini colpiti dalle maledizioni (φαρμακοί) erano discacciati, con rami di fico, dalla città, affinchè questa fosse purificata. — Il poeta elegiaco Mimnermo, verso il 620 av. l’E. V., ne fu l’inventore, secondo attesta Ipponatte (Plutarco, _Della musica_, 9). — Esichio, alla voce κραδίης νόμος. [445] _Iidemque illi Eumolpidae sacerdotes rursus resacrare sunt coacti, qui eum devoverant: pilaeque illae, in quibus devotio fuerat scripta, in mare precipitatae_ (Corn. Nep., _Alcib._, 6). Dell’uso greco di gettare lapidi o masse roventi di ferro in mare, praticato nei riti delle imprecazioni, si hanno parecchi esempi. Così allorquando la confederazione jonica strinse in Delo il patto federale, Aristide lo fece giurare agli altri Greci, lo giurò poi egli stesso in nome di Atene, e quindi fatte le imprecazioni contro chi lo avesse violato, gettò in mare, a suggello delle medesime, le masse di ferro arroventate; a significare che se mai il giuramento degli alleati non durasse più del ferro, la loro vita dovesse spegnersi così presto come il calor del metallo nell’acqua (Erod., I, 165. — Cfr. Callim., _Inni_). [446] Vedi quadro III, n. 45. [447] Qualche critico erudito, credendo dar prova di gusto fino, classificò, arricciando con sussiego il naso, questo dialogo del sacerdote fra le allusioni banali d’attualità, e le solite volgari tirate contro i preti, a cui ricorrono gli autoruzzi per aver gli applausi del popolino. Se i preti al dì d’oggi sian sempre su per giù gli stessi d’una volta, non è questione che mi riguarda; e proprio non ci ho pensato: ma che il sacerdote mio sia fratello carnale dei sacerdoti ed indovini di cui, all’epoca del dramma mio, i comici satireggiavano come proverbiali la rapacità e l’impostura e l’avidità degli inviti a pranzo e dei succulenti sagrificj — di questo basterebbe, ad accorgersene, il dare una scorsa al _Pluto_, o alla _Pace_, o agli _Uccelli_ di Aristofane. Taccio degli altri comici; e taccio di Luciano. Senza di che, niente potrebbe immaginarsi di più satirico del racconto che fa ingenuamente il buon Plutarco di questa stessa palinodia delle maledizioni contro Alcibiade revocate; e questo obbligavami a porre in iscena cogli altri tipi caratteristici dell’epoca anche quello dei sacerdoti, il dipingerli diversi da quel che essi erano, e che Aristofane li dipingeva, mi sarebbe parsa una _finezza di gusto_... che lascio ai critici _eruditi_ dal _gusto fino_ (Cfr. quadro II, n. 53). [448] Del disinteresse di Socrate, sprezzatore di regali e di ricchezze, e del come egli ricusasse in parecchie occasioni i doni e le liberalità di Alcibiade, è testimonianza in Platone (_Simposio_, 219 e.; Elian., _V. St._, IX, 29; Stobeo, 17). Per i quali rifiuti Alcibiade diceva di lui, ch’era più difficile il vincerlo coi doni e coll’oro che non il vincere Ajace col ferro (Plat., _ibid_.). [449] Vedi quadro III, n. 16. — È superfluo avvertire che i _cenotafj_ (κενοτάφια ossia _tombe vuote_) distinguevansi dai veri sepolcri (τάφος, τύμβος) o monumenti sepolcrali (μνημεῖον), per questo ch’essi non contenevano le ceneri del defunto (Eurip., _Elen_., 1255; Callim., _Epigr_., 18). V’eran due sorta di cenotafj: quelli innalzati alla memoria dei morti ch’erano sepolti altrove (Pausan., _Attic_., _Messen_.) e quelli dedicati ai morti di cui non si era potuto più ritrovare il cadavere. Secondo la credenza volgare, le anime dei morti privi di sepoltura erravano cento anni sulle rive di Stige, senza poter metter piede nell’Erebo; perciò i cenotafj dovevano por fine ai loro patimenti (Senof., _Anab._, VI; Tucid., II, 34). Indi la cura del sepolcro era tanta che quelli i quali trovavansi in procinto di naufragare si mettevano a bella posta in tasca quant’oro avevano per trovare più facilmente chi si prendesse il pietoso incarico di seppellirli (Sines., _Lett._, 4. — Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 10). I cenotafj recavano per segno distintivo un frantume di nave (ι᾽κρίον) a significare che le persone a cui erano dedicati erano morte lontano dalla patria (Cfr. quadro V, n. 60; e Robinson, _Antiq. gr._; Becker. _Char._, ecc.). [450] Vedi quadro III, nota 49. — Dell’affezione e riverenza di Alcibiade per Socrate si è già accennato nella scena prima ed ultima del quadro I e nelle note alle medesime, nonchè nelle note 47-50 del quadro III. Potrebb’essere qui il luogo di toccare la questione troppo più delicata, della natura dei rapporti fra Socrate ed Alcibiade, e della taccia rimasta nella volgare tradizione, siccome una turpe macchia pel nome del grande filosofo. Questione trattata, pro e contro, da parecchi, e assai superficialmente, a parer mio: cioè senza prima risalire alla vera origine e al carattere primitivo dell’amor maschile fra i Greci, considerato come antica istituzione ellenica; sia che di questa istituzione vogliansi già ritrovare, con Eschine (_C. Tim._) le traccie nella fratellanza d’armi di Achille e di Patroclo, o con Luciano (_Amori_, 47) nell’amicizia di Oreste e di Pilade. Luciano stesso, pur riserbando le sue opinioni un po’ diverse sulla materia, fa una pittura vivace e caratteristica (_ivi_, 46) di quel sentimento primitivo; sentimento in cui di certo avevano parte l’inclinazione _sensualmente artistica_ e il culto tutto proprio de’ Greci per la bellezza fisica, per la giovinezza, per la vigoria: ma che ciò nullameno l’antica civiltà greca concepiva essenzialmente in un senso elevato, come un’intima e pura corrispondenza delle anime, come un vincolo inteso a rafforzare nei giovani il valore e la virtù col cemento dell’affetto e dell’emulazione (Cfr. Plat., _Simp._, 178 e seg., _Rep._, III, 403; Senof., _Rep. Lac._, 2, 13; Plut., _Pelop._): vincolo affatto scevro da ogni idea del turpe vizio che i Greci conobbero più tardi con quel nome: _Pudico amore che a virtù congiunto_ _D’ogni alma esser dovria dolce sospiro — _ lo chiama lo stesso Euripide, da Eschine citato (_C. Timarc_.). Vero è che questa facoltà di _astrazione_ in un sentimento di tal natura, questa facoltà di intenderlo come un sentimento puro ed etereo, in quella guisa che appare assai poco spiegabile e molto equivoca alle idee moderne, così prestava già il fianco agli epigrammi del malizioso Luciano il quale, vivendo all’epoca della corruzione romana, aveva le sue buone ragioni di esser incredulo: ma certo essa esisteva realmente nelle idee e nel costume dell’antica Grecia, se in tempi già corrotti, potè strappare a Filippo il Macedone, dinanzi ai cadaveri del battaglione degli amanti tebani, caduti eroicamente a Cheronea, la famosa apostrofe: _Maledetti coloro i quali sospetteranno che siffatti giovani potessero mai commettere o subire alcuna cosa turpe!_ (Plut., _Pelop_., 18). E certo astraevano i Greci da ogni idea d’amor turpe, allorchè celebravano come affetto sublime e glorioso l’amor di Achille e di Patroclo, di Ercole e di Jolao, di Armodio e di Aristogitone (Esch., _C. Tim_.; Plut., _Pelop_.; Plat., _Simp_., 179), e attribuivano a quell’amore la potenza di _infondere la virtù nell’animo più ignobile_, e l’amante esaltavano come _uomo divino, più ancor dell’amato, perchè pieno dello spirito di un Dio_ (θειότερον γὰρ ἐραστὴς παιδικῶν, ἔνθεος γάρ ἔστι — Plat., _ib_.). È appunto di quella distinzione fra l’amore onesto dei fanciulli e l’amor turpe che parla Callimaco (_Framm_., 107) raccomandando il primo coll’autorità di Senofonte: «_Voi che ai fanciulli avete gli occhi ghiotti_ _Se li amaste così come vi dice_ _L’Erchio_ (Senofonte) _di amarli, la città di prodi_ _E valenti garzoni fiorirebbe_» (πόλιν κεύανδρον ἔχοιτε). E Callicratide, commentando que’ versi nella disputa degli Amori: «Con questa intenzione o giovani accostatevi modestamente ai buoni fanciulli e _non nascondete libidini sotto falsa amicizia, ma adorando l’amore celeste,_ serbate dalla fanciullezza alla vecchiaia _puri_ e saldi i vostri affetti: quelli che così amano di nessuna disonestà la coscienza li rimorde, e dopo la morte vanno celebrati nel mondo» (Luc., _Am_., 49). Di fronte ai quali elogi dell’amor puro, appare doppiamente caratteristica la nota di infamia di cui i Greci stessi segnarono la criminosa passione del tebano re Lajo per Crisippo, stimmatizzati da Eschilo e da Euripide come i primi introduttori del vizio abominando (Cfr. Plut. in _Pelop_.). Che poi quella distinzione, fra amore e amore, la quale a noi sembra necessariamente strana, esistesse positivamente non soltanto nelle idee, ma anco nelle leggi della Grecia antica, in ispecie dei popoli dorici, ne abbiam documenti in Cicerone, il quale attesta che fra’ Lacedemoni ogni attestato di simpatia era permesso nell’amor dei giovani, tranne lo stupro («_omnia concedunt in amore juvenum praeter stuprum_.» — Cic., _De rep_., 4, 4): e in Eliano, che afferma: «l’amore maschile a Sparta _nulla conobbe di turpe_» (αἰσχρὸν οὔκ οἴδεν. — _V. St_., III, 12); e documento ancor più irrefragabile in Senofonte: «Licurgo determinò che se un uomo per bene, acceso della bellezza di un fanciullo, bramasse farlosi amico virtuosamente, e conversar seco, si lodasse un tale affetto e si giudicasse questo costume per onoratissimo. Ma se veniva a luce che alcuno desiderasse il corpo del fanciullo, questa cosa parendogli sozza fuor di modo, ordinò che fra’ Lacedemoni gli _amanti si guardassero da usare coi fanciulli amati, non altrimenti che ne’ piaceri amorosi i padri si guardino de’ figliuoli, i fratelli dai fratelli_» (Sen., _Rep. Lac._, II. — Cfr. Elian., _V. St._, III, 10): proprio le stesse parole che Alcibiade adopera nel _Simposio_ di Platone, riguardo a’ proprj rapporti con Socrate (_Simp_., 219). Un’ultima testimonianza è in Massimo Tirio; ed è fra tutte la più notevole, perchè ritrae mirabilmente qual parte avesse in quell’affetto il senso artistico particolare dei Greci: «Non doveva uno Spartano amare un giovane che _come avrebbe amato una bella statua_, ἑρᾷν μόνον ᾤς ἀγάλματος καλοῦ. — Infine sappiamo da Plutarco e da Eliano che lo stupro fra gli amanti era a Sparta notato di perpetua infamia (Plut., _Istit. Lac_.) e punito coll’esilio e colla morte (Elian., _V. St_., III, 12). Naturalmente, che rapporti di tal fatta tra uomo e uomo non fossero, pure in mezzo all’austerità e _sofrosine_ dorica, affatto immuni da pericolo e potessero dar luogo ad abusi, queste leggi stesse di Licurgo lo provano: troppo _tenue muro_, per dirla con Cicerone, separava il lecito dall’illecito (_tenui sane muro dissaepiunt — Lacedaemoni — id quod excipiunt_. — _De rep_., 4, 4): e Luciano, che pare la sapesse lunga, trovando che «_non è cosa piacevole star gli interi giorni con un garzone e patir le pene di Tantalo_» e che «_Amore va per una scala di cui la virtù non è che il primo gradino_,» si divertì anche a dimostrar in che modo il muro facilmente potesse essere scavalcato. Non è quindi meraviglia se fra popolazioni meno austere delle doriche, e più dedite ai piaceri, lecito ed illecito si confondessero: e dai molli climi della Lidia e della Jonia si propagasse nella Grecia in tempi posteriori la nefanda usanza che Senofonte già ne addita (_Rep. Lac_., I, c.) invalsa a’ suoi tempi fra gli Elei, e che le leggi ad Atene come a Sparta e in altre parti della Grecia vegliavano severamente a reprimere, fino a che più forte delle leggi divenne la corruzione dei costumi, foriera della conquista macedone e romana. Ora che Socrate proseguisse d’intenso affetto Alcibiade, rilevasi senz’altro dalle numerose testimonianze di Senofonte e di Platone: e difficilmente si saprebbe, per troppo scrupolo, fare differenza fra quell’amor maschile che Licurgo (l’ideale della scuola socratica) iscriveva nelle sue leggi, che Euripide, che Callimaco, che Plutarco commendavano, e il sentimento che traeva Socrate assiduamente e _sempre_ e _in ogni luogo_, sulle peste del suo alunno, proprio come «_alla caccia della bellezza di lui_» fino al punto d’infastidirlo certe volte di quella sua assiduità (Plat., _Prim. Alc_., 104; _Protag_., 309). Ma da qui al vizio turpe che fu poi a Socrate attribuito, correa, come vedemmo, nelle idee greche la stessa distanza che dalla virtù all’infamia: ed è un fatto incontrastabile e notevolissimo che quella odiosa accusa contro Socrate non partì da nessuno dei suoi contemporanei, ma solo da scrittori di data assai posteriore, viventi in tempi di corruzione, in cui quella infamia era generalmente penetrata nei costumi. È sulla fede di poche linee del calunnioso Aristosseno (frammenti 25, 27, 28) che quell’accusa fu ciecamente riprodotta senz’esame e ben tardi da Cicerone, da Plutarco e dal caustico Luciano, il quale ci mostra Socrate nell’inferno alla caccia dei bei garzoni: e altrove scherzando sull’assicurazione di Platone, che cioè Alcibiade avesse dormito con Socrate sotto la stessa clamide come dorme un figliuolo con suo padre (Plat., _Simp_.), tentenna il capo con incredulità maliziosa e objetta malignando che «_Socrate era un amadore come ogni altro, e se Alcibiade si corcò con lui sotto la stessa coltre, non se la passò così netta_» (Luc., _Amori_). E altrove ancora: «_Socrate giurava di non far cattivi pensieri quando accostavasi ai garzoni: ma molti temevano che Socrate spergiurasse_» (Luc., _Storia vera_). Alcuni aggiunsero agli accusatori Giovenale, in causa d’un suo verso — _Inter Socraticos notissima fossa cynaedos_ (Sat., II, v. 10), — dove probabilmente, secondo molti commentatori, l’error di un copista pose _Socraticos_ invece di _Sotadicos_ — dal nome non di Socrate, ma di _Sotade_, poeta per lascivie famoso e autore di versi oscenissimi, da Suida qualificati _versus cynaedos_. Ma per l’opposto, come dissi, sta il fatto che finchè Socrate visse, e nei tempi a lui più vicini, quell’accusa non gli fu mossa da nessuno, neppure (ciò che più importa) da’ suoi stessi nemici. Nè Aristofane nelle _Nubi_, nè Melito nella sua accusa (Plat., _Apol_.; Diog. Laerz., _Socr_. — Cfr. Senof., _Apol_.) ne fanno menzione. È vero che Melito accusa Socrate di _corrompere la gioventù_ (ἄδικει δὲ καὶ τος νὲους διαφθείρων), ed anzi è da questa frase staccata che si credette poter indurre il maggior argomento a sostegno della turpe taccia. Ma quelle parole non sono se non il commento delle altre dell’accusa a cui immediatamente si legano, che cioè Socrate delinque _non credendo gli Dei che la città crede, bensì altre nuove cose demoniache_ (οὔς μὲν ἤ πόλις νομίζει θεοὺς οὔ νομίζων, ἕτερα δὲ δαιμόνια καινά) e che ciò sia, che cioè l’imputazione di Melito si riferisse puramente e solamente alla dottrina religiosa e politica di Socrate, si rileva in modo irrefragabile, a non dubitarne, dalla risposta di Socrate stesso: «Rispondi, o Melito: Come corrompo io, per tuo dire, i giovanetti? Non forse, _siccome dal tenore dell’accusa scritta_ (ὄτι κατὰ τὴν γραφὴν), insegnando a non credere i Numi che la città crede, sibbene altre cose demoniache nuove? non di’ tu _ch’egli è insegnando tai cose_ (ὄτι ταῦτα διδάσκων) ch’io li corrompo? — Mel. _Al tutto dico così_» (Plat., _Apol_., c. 14). Neppure dunque la più piccola, la più lontana allusione allo infame vizio; e sì, Melito non era l’uomo da lasciarsela sfuggire: ed è ben a credersi, che quei suoi nemici implacabili non avrebbero taciuto in simile circostanza, se appena appena fosse stato loro possibile di accusare quell’uomo, il quale erigevasi a modello di virtù e di continenza, di una impudicizia brutale che le leggi attiche, non meno in ciò rigorose delle lacedemoni, severissimamente punivano e d’interdizione da ogni pubblico ufficio e d’infamia e di morte (Eschin., _C. Tim_.; Demost., _C. Androz._; Senof., _Simp._, 8). E notisi che Eschine, nella stessa aringa in cui cita quelle leggi, non solo _nomina Socrate con elogio_, ma è il primo a confessare per proprio conto di frequentare i ginnasj e coltivare l’amor puro dei giovanetti e gloriarsene, come di «_segno d’animo gentile:_» e ricorda in proposito, a titolo di lode, gli esempj non pur di Achille fra gli antichi, ma fra gli stessi Ateniesi suoi contemporanei, di uomini liberi e bellissimi fra tutti i Greci, «_onestamente vissuti e alieni da cosa turpe_, i quali _ebbero amatori molti e modesti e niuno li vituperò mai_.» Egli è che appunto non di quell’amore si trattava nelle leggi ateniesi contro l’impudicizia: e non era già contro di esso che stava scritto: «Se un Ateniese farà oltraggio a un libero fanciullo, lo accusi ai tesmoteti chi ha in balìa il fanciullo e scriva la pena. Condannato nella persona, sia ucciso lo stesso giorno... Se un Ateniese si prostituirà non potrà esser uno degli arconti; nè fare ufficio sacro; nè giudicare col popolo; nè esercitare un magistrato, nè dentro nè fuori, nè a sorte nè per suffragio; nè andare araldo, nè dire il proprio parere; nè entrare nei pubblici templi; nè portar corona nelle feste solenni; nè andar nella piazza purificata dall’acqua lustrale. Il trasgressore di questi ordini, convinto di impudicizia, sarà punito colla morte» (Esch., _l. c_.). È evidentemente, ripeto, impossibile lo ammettere che i nemici di Socrate, i quali lo ricercavano con tanto accanimento di condanna capitale, non pensassero ad invocare, nelle loro accuse, se appena lo avessero potuto, come Eschine ben li invocò contro Timarco, simili articoli di legge: il cui tenore è talmente esplicito, che, posti a raffronto col testo dell’accusa di Melito, la quale tace completamente di quel reato, basterebbero questi documenti soli a decidere in favore dell’innocenza di Socrate. Solo alcune espressioni amorose nei dialoghi di Platone si presterebbero ad essere fraintese (come le fraintese di fatti Cornelio Nepote in _Alcib_.) da chi non abbia una chiara idea di quelle teorie sull’amor delle anime, su le attinenze fra la bellezza fisica e la bellezza spirituale, sull’amore inteso come il bisogno di produzione nella bellezza secondo il corpo e lo spirito, — che formano una delle parti più caratteristiche e più elevate della filosofia socratica (Senof., _Simpos_., 8; Plat., _Simp_., 209 seg.; _Fedr.; Prim. Acib_.; _Rep_., III, 403). Un bel corpo, diceva Socrate, promette sempre una bell’anima: e se questa non l’è, bisogna che sia stata negletta: indi Massimo di Tiro (_Dissert_., 9) distingue elegantemente dalla lubrica passione di cui molti antichi filosofi si macchiarono, il virtuoso affetto che Socrate portava a’ suoi discepoli, sopratutto ad Alcibiade, del quale soleva dire che egli era nato per la salvezza o lo sterminio della Grecia, secondo che nel suo spirito sarebbe prevalso il suo buono o il suo mal genio: per cui studiavasi di sviluppare in lui l’amore del bello e del buono e di distorlo cogli amorevoli rimproveri dagli eccessi di ambizione e dalle voluttà (Cfr. quadro II, nota 52). Nello stesso ordine di idee Plutarco narra come Socrate raccomandasse sovente a’ suoi discepoli di guardarsi nello specchio, affinchè se eran belli procurassero non macchiare quella bellezza con nessun vizio: se brutti, si applicassero a riparare alla bruttezza colle virtù (Diog. Laerz., _Socr._). Che se infine da nessuno dei dialoghi di Platone si può indurre alcun fondamento alla calunnia scagliata contro Socrate — abbondano invece le positive affermazioni in contrario, e nei dialoghi stessi, e quel che più monta, negli scritti di Senofonte, fra tutti i discepoli di Socrate il più veridico e il più coscienzioso. Nessuna testimonianza più esplicita di quella che Senofonte nei _Memorabili_ (I, 2, 3) rende all’austerità dei principj e dei costumi di Socrate; e nulla di più severo ed acerbo delle rampogne con cui Socrate ivi cerca appunto distogliere Crizia dall’amore impuro di Eutidemo, di ciò svergognandolo siccome di vizio «_servile, laido, bestiale_,» e per cagion di tal vizio, paragonando Crizia _ai porci_ (_Mem_., I, 2). Di che Senofonte aggiunge che Crizia legossela al dito, e prese tal odio a Socrate, che giunto al potere se ne vendicò: per credere poi che Socrate potesse bruttarsi di un costume ch’egli non si peritava di qualificare in altri a quel modo, bisognerebbe inventare un Socrate tutto diverso da quello che la storia ci tramandò, e fare di lui il tipo del più sfacciato tra gli impostori. E leggansi ancora, se non bastasse, in Senofonte, gli altri rimproveri di Socrate a Critobulo per distoglier lui pure dall’immondo vizio (_Memor_., I, 3); e la ragione che Socrate ci dà nel _Simposio_ senofonteo dell’amor puro delle anime e dell’amor sensuale; e quello esaltare come figlio di Venere celeste, vituperar questo come _costume da servo_; lo si oda narrare come Giove di quanti mortali amò solo la bellezza fisica, li lasciò mortali com’erano, ma di quanti amò i pregi dell’anima li fece tutti immortali; e all’asserto di Agatone, che un esercito d’amanti sarebbe fortissimo, lo si oda contraddire affermando che quelli che son usi a non aversi più riguardo tra loro, non ponno arrossire di commettere viltà in faccia un dell’altro; lo si veda ammaestrar Callia a meritarsi l’amor di Autolico, studiando con qual’arte Temistocle facesse libera la Grecia, e con quale Pericle facesse grande Atene; — intendasi in Platone stesso, nel _Fedro_, la confutazione di Socrate contro Lisia intorno all’amore — e nel _Filebo_ la sua definizione della voluttà — e nel _Simposio_ la solenne testimonianza che Alcibiade gli rende, — e si converrà di averne di testimonianze, troppo più del bisogno, per concludere senz’altro alla assoluzione del più grande e virtuoso tra i filosofi antichi nel processo d’immoralità intentatogli dai posteri. Su codesta questione dei rapporti fra Socrate ed Alcibiade, cfr. Gesner, _Socrates sanctus pederasta_; Cooper, _Life of Socrates_; Mendelshon, _Fedone_ (nella vita di Socrate); Hecker, _de Alcib. moribus_; Schweighauser, _Mores Socratis_; Houssaye, _Hist. d’Alcib_.; Wieland, _Aristippo_, ecc. [451] Storicamente questa scena che qui vien supposta ancora nel cuor della state del 407, cioè dentro il mese immediatamente successivo al ritorno di Alcibiade in Atene, dovrebbe invece riferirsi a un sei mesi circa più tardi, cioè a Posideone di quell’anno (dicembre 407 — gennaio 406). Alcibiade partì da Atene per la nuova campagna di guerra, quattro mesi dopo il suo ritorno trionfale, cioè agli ultimi di Boedromione (ottobre) del 407: e ottobre e novembre erano scorsi nelle prime operazioni di guerra contro le isole nemiche di Andro, di Rodi, di Coo; intanto la flotta spartana erasi rannodata, sotto gli ordini di Lisandro, ad Efeso, e lì presso avvenne in dicembre la disfatta di Antioco, di cui qui si parla. Qualche settimana dopo, nel gennaio 406, Alcibiade caduto di nuovo in disgrazia, rifugiavasi in Tracia. [452] A determinate ore di sera e di notte, negli accampamenti greci, gli ufficiali di ronda (περὶπολωι) facevano la visita del campo e dei posti delle sentinelle (φυλακαὶ). Per assicurarsi che queste non dormissero, l’uffiziale portava seco un campanello (κώδων), al suono del quale la sentinella doveva rispondere, dichiarando la parola d’ordine o di riconoscimento. Indi κωδωνίζειμ, _scampanellare_, diceasi il far la ronda. La parola d’ordine era data dallo stratego: Senofonte nell’_Anabasi_ ne ricorda parecchie, _Giove salvatore, Ercole condottiero; Giove salvatore e la Vittoria; spada e pugnale,_ ecc. Più tardi Ificrate abolì il campanello e stabilì che della parola d’ordine la prima metà fosse data dall’uffiziale, l’altra metà dalla sentinella (Senof., _Anab_., I, VI, VII; Tucid., IV; Ulpiano in _Demost_., _Parapresb_.; Arist., _Rane_, ecc.). [453] Nózio, piccola rada dell’Jonia, tra Colofone ed Efeso, presso alla foce del Caistro e quasi rimpetto all’isola di Samo, della quale isola la flotta ateniese aveva fatto in questa campagna la base delle sue operazioni, come gli Spartani se l’erano fatta di Efeso. [454] Senof., _St. Ellen_., 1, 5, 6; Diod. Sic., _Bibl_., XIII, 71-73; Plutarco, _Alcib_., 35; Corn. Nep., _Alcib_., 7. Essendo Alcibiade nella nuova campagna navale ancorato colla flotta nella rada di Nózio, trovavasi in grandi angustie per penuria di danaro. Mentre la flotta spartana comandata da Lisandro era fornita di tutto a larga mano dall’oro persiano, e i nocchieri della medesima toccavano quattro oboli di paga, forniti dall’erario di Ciro, quei della flotta ateniese, che a stento potevano averne tre soli, cominciavano alto a mormorare; molti disertavano; il malcontento cresceva ogni giorno; e lo Spartano, che vi faceva assegnamento, tirava in lungo a bella posta la guerra. Alcibiade ben vide che bisognava uscirne al più presto. Decise quindi una spedizione per recarsi a prelevare dalle città alleate del litorale di Jonia e di Caria il danaro che occorrevagli a pagar gli arretrati delle truppe, visitare nello stesso tempo le fortificazioni che lo stratego ateniese Trasibulo stava costruendo a Focea sul golfo ermeo e concertarsi secolui sul modo d’affrettar le operazioni. Si avviò quindi a quella volta, lasciando la cura delle navi ad Antioco, il quale era bensì, dice Plutarco, buon pilota, ma uomo inconsiderato e prosuntuoso. A costui commise espressamente di non dar battaglia in sua assenza, neppur se i nemici fossero venuti a provocarlo. Ma Antioco, trasgredito il comando, con la sua propria trireme e un’altra del corpo della flotta, s’inoltrò sin dentro il porto di Efeso, rasentando le prode delle navi nemiche, con gran petulanza tanto di fatti che di parole. Lisandro, da prima, uscì fuori con poche navi ad inseguirlo; ma vedendo gli Ateniesi venir in soccorso di Antioco con altre navi, mosse pur egli tutte le sue. Così vennero a battaglia; le navi spartane in compatta ordinanza, e le ateniesi uscenti alla sfilata fuor di Nózio una dopo l’altra e andando qua e là sparse finchè perdute quindici galere voltarono le spalle. Lisandro prese quelle navi e molti prigioni, e rimasto ucciso nella mischia Antioco stesso, drizzò in Nózio il trofeo e fe’ ritorno ad Efeso. Gli Ateniesi si ridussero a Samo. — Così Plutarco e Senofonte raccontano il fatto che originò la seconda disgrazia di Alcibiade: e del quale, come dell’altre operazioni di guerra, si modificarono qua e là in questo quadro le circostanze di luogo e di tempo, a seconda delle esigenze drammatiche. [455] Diod. Sic., _Bibl._, XIII, 73; Plut., _Alcib._, 35; Senof., _St. Ellen._, 1, 4. [456] È noto che Anacreonte — il cantore di Bacco e degli Amori — era nativo dell’isola di Teo, e visse lungamente alla corte di Policrate tiranno di Samo. [457] _Libazioni della partenza:_ vedine esempio in Tucidide, nel racconto della partenza della flotta ateniese per la impresa di Sicilia: «... Come le navi furono piene della gente, lo squillo della tromba intimò silenzio e si fecero le preghiere consuete innanzi la partenza... quindi per tutta l’armata si mesceva il vino nei crateri, e i soldati non meno dei capitani libavano con tazze d’oro e di argento... Poichè ebbero cantato il peana e terminate le libazioni, salparono...» (Tucid., _Guer. Pel._, VI, 32). E in Omero, alla partenza di Telemaco: «Legati i remi ai fianchi della celere nave, incoronarono di vino puro le tazze e libarono agli Dei immortali sempreviventi, ma, sopra tutti, alla figlia occhi-azzurra di Giove» (_Odiss._ β. 430 seg. — Cfr. Virgil., _Aen._, III, 118). [458] _Coronare la tazza_, κρατῆρα ἐπιστέφειν, diceasi il _ricolmarla fino all’orlo_: come appunto era uso di rigore nelle libazioni, perchè sarebbesi riguardato come insulto agli Dei il propinare ad essi con tazze non colme, ossia offrir libamenti che non fossero _interi e perfetti_ (τέλειον καὶ ὄλον). (Aten., XV, 674). E _coronate di vino_, ἐπιστεφέας οἴνοιο (Omer., _Odiss._ β 431 — cfr. Aten., I, 3 d.) diceansi le tazze dei libamenti, così ricolme; però che il licore sporgesse in su dell’orlo a guisa di corona. _Coronarono le tazze colme di vino puro_, στήσαντο κρητῆρας ἐπιστεφέας οἴνοιο (Om., _l. c._). — _Coronò di vino le tazze d’oro_, κρυσέους κρητῆρας ἔστεψε (Eurip., _Jon._) — «_Crateras magnos statuunt et vina coronant_» (Virg., _Aen._, I). — «_At pater Anchises magnum cratera corona — Induit implevitque mero_» (Virg., _Aen._, III). — «_Coronatus stabat et ipse calyx_» (Tibul.). [459] Aristof., _Vespe_, 525. [460] _Mare di Icaro_ o d’Icaria diceasi quel tratto dell’Arcipelago che si stende fra l’isole di Patmo, di Icaria e di Samo, e le coste della Caria, dalla foce del Meandro e da Mileto al golfo di Iaso e ad Alicarnasso. — Fu reso celebre dal volo di Icaro che gli diede il nome. [461] Fu lo stratego Trasibulo, il maggior nemico che avesse Alcibiade nella flotta, che si affrettò a portar ad Atene la nuova del disastro di Nózio, e accagionandone l’incuria di Alcibiade, lo trasse di nuovo in disgrazia del popolo. Di che Plutarco scrive: «Se mai fu alcuno a cui la sua propria gloria abbia portato ruina, questi fu certo Alcibiade. Perocchè grande essendo questa sua gloria, ed essendo ei riputato pieno di coraggio e di prudenza per le belle imprese che fatte egli avea, se per sorte non ne avesse condotta alcuna a buon fine, si sospettava che ciò fosse perch’egli non vi si fosse applicato con tutta volontà, non potendo credere alcuno che egli non avesse potuto; ma tenendosi per sicuro che a lui non dovesse andar fallita veruna cosa che venisse da lui con premura intrapresa» (Plut., _Alcib._, 35). E Cornelio: «_Nihil enim eum non efficere posse ducebant. Ex quo fiebat ut omnia minus prospere gesta ejus culpae tribuerent, quum eum aut negligenter aut malitiose fecisse loquerentur: sicut tum accidit. Nam corruptum a rege cepere Cymen noluisse arguebant_» (Corn. Nep., _Alc._, 7. — Cfr. Senof., _St. Ell._, I, 4, 5; Diod. Sic., XIII, 73, 74). [462] Ramoscello dei supplici, κετῶν ἐγχειρίδιον (Esch., _Suppl._, 22), κλαδος ικτήριος (Sof., _Ed. re_, 3), ἰκετηρία (Aristof., _Pluto_, 383), ecc. Usavano i _supplici_ (ἰκέται), ossia le persone imploranti dagli Dei o dagli uomini soccorso o compassione o grazia o asilo, siccome colpite da sventura o da persecuzioni o sbandite dalla patria, o ricercate di pena per delitti commessi, seder presso gli altari tenendo in mano un ramoscello verde di olivo o di lauro, avvolto in fascie bianche di lana. Il supplice toccava con questi rami le ginocchia del Nume o del mortale di cui implorava il favore. «Veggo nel sacro antro un uomo inviso a Dio, bruttato di sangue, _sedente in atto supplichevole, stendendo le mani, e protendendo un alto ramo di olivo, coronato di larghe fascie di lana candidissima_» (Esch., _Eum._, 40 seg.). «_Supplice degli Ateniesi, sedea presso gli altari pallido colla rossa sua veste_» (Arist., _Lisistr._, 1140). «_Io veggo uno che siederà sopra l’altare tenendo in mano il ramo dei supplici insieme coi pargoli e la moglie_» (Aristof., _Pluto_, 382 seg.). — All’ara di Minerva sull’Acropoli andarono a sedersi supplichevoli, cercando scampo, Cilone e i suoi compagni proscritti dagli Ateniesi (Tucid., I, 126. — Cfr. Omero, _Iliad._ α; Esch., _Suppl._; Eurip., _Supp., Jon, Alceste, Eracl._, ecc.). [463] Più tardi — troppo tardi — gli Ateniesi dovevano pentirsi d’essersi un’altra volta privati della spada di Alcibiade (Plut., _Alcib._, 38). Quanto agli Spartani, essi stessi confessarono che la vittoria di Nózio era da principio in sè stessa ben poco o nulla, ma divenne _tutto_ per loro, poichè trasse seco la caduta di Alcibiade e tolse ad Atene il più formidabile de’ suoi difensori (Plut. _Lisand._, 5). [464] Senofonte celebra i Persiani siccome severissimi contro l’ingratitudine. «Puniscono essi quel peccato per cui gli uomini si odiano l’un l’altro sommamente, senza citarsi in giudizio, che è l’_ingratitudine_: e se vengono a conoscere che alcuno, potendolo fare, non abbia mostrato prova di essere grato, gli danno aspro castigo. Perciocchè pensano che gli ingrati non fan conto nè degli Dei, nè dei parenti, nè della patria, nè degli amici» (Senof., _Ciropedia_, I, 1). [465] I Traci, che da Teiras discendente di Giapeto furono chiamati _Teíres_ (Joseph., _Ant. Iud_., I, 6) e poi _Traci_ (Θρήικες, Θρᾶκες), occuparono anticamente un vasto paese che comprendeva una parte della Macedonia e la regione stendentesi da occidente ad oriente tra il fiume Strimone e il Ponto Eusino; e da settentrione a mezzodì, fra la catena del monte Emo e il mar Egeo. Quest’era la Tracia propriamente detta (ossia l’odierna Romelia): però sotto il nome generico di Traci si chiamarono dai Greci anche i popoli a settentrione dell’Emo, fra l’Emo e il Danubio, come i Geti confinanti cogli Sciti, i Treri, i Triballi, ecc. (Erod., V; Strab., VII; Tucid., II). Erano divisi in varj popoli. Gli uni, come i Bessi, crudeli e feroci, assai temuti e poco noti, non vivevano che di rapina. Gli altri, truppe mercenarie, prestavano soccorso a chi li chiamava, e sotto la condotta di un capo della loro nazione, servivano indifferentemente partiti contrari — come gli Svizzeri dell’Evo moderno. Tali gli Odomanti, di cui parla Tucidide, che fornivano truppe agli Ateniesi: tali quelli che abitavano le montagne, e gli _autónomi_ (Dii, Triballi, ecc.), di cui Sitalce compose il suo esercito: tali ancora tutti quei corpi di Traci che erano al servizio d’Atene, di Lacedemone, e dei re di Macedonia e d’Asia. Infine, i terzi, retti a forma monarchica, eran governati da re. Dai tempi delle guerre di Troja vedonsi menzionati Reso e Polti re di Tracia; poco dopo, uno dei figli di Teseo sposò la figlia di un re di Tracia. La migrazione dei Traci in Asia di cui parlano Erodoto, Strabone ed Eusebio ci dà il nome di alcuni antichi re traci. Omero ne nomina parecchi del Chersoneso e delle altre parti della Tracia: e Reineccio cita gli autori che ne fan conoscere altri (Tucidide, II, V; Polib., V; Erodoto, I, III, VII; Strabone, VII; Euseb., _Chron_. — Freinshem., _Supp_., Q. Curio, I, 5). Ma questo fatto, come quelli che riferisce Diodoro Siculo (lib. III) delle conquiste di Bacco nella Tracia e di alcuni re di questa nazione, appartengono a tempi mitici o tenebrosi; solo alcuni secoli dopo si può tener dietro alla dinastia di questi re, quando cioè la Tracia propriamente detta, sotto la potenza del re degli Odrisj, si stendeva dall’occidente all’oriente, dal fiume Strimone sui confini della Macedonia al Ponto Eusino: e dal settentrione al mezzodì, dall’Emo al mar Egeo, abbracciando dal lato del mare tutta la costa da Abdera sino alla foce dell’Istro o Danubio (Tucid., II, 96). Di questo reame degli Odrisj faceano parte, a occidente lungo lo Strimone, i varj popoli dei Peoni di cui parlano Omero (_Iliad_., X, 428), Tucidide (II, 96), Euripide (_Reso_); ad oriente, verso il mar di Marmara, i Tinj, i Tranipsi, i Melandepti, su cui Seute rivendicava la sua signoria (Sen., _Anab_., VII, 2). Si vedono, è vero, comparire qua e là altri re traci; ma sia che la loro potenza si limitasse in breve contrada, sia che non fossero che capi di tribù barbare, sono appena nominati nella storia. Solo il regno degli Odrisj, la più considerevole delle dinastie di Tracia, fornisce una successione di re che faccia parte della storia greca e romana. Teres o Tyres (Erod., VII) ne fu il fondatore (da non confondersi con Tereo noto per la favola di Progne e Filomela). [466] _Patti_, allo sbocco dell’Ellesponto sulla Propontide, a circa 150 stadj da Egospótamo. Castello di Tracia ove si recò Alcibiade, dopo lasciata la flotta, secondo Diodoro Siculo (XIII, 13). Gli altri storici nominano invece altre località della Tracia. Plutarco (_Alc._, 36) dice che Alcibiade rifugiossi ad una sua rocca presso Bisante (sulla spiaggia nord-ovest della Propontide, oggi mar di Marmara). Cornelio Nepote narra ch’ei recossi a Perinto (pure sulla spiaggia settentrionale della Propontide, ma ad Oriente di Bisante) e vi fortificò tre castella: Borno, Bizia, Macrontichos. Senofonte (_St. Ell_., I, 5) dice semplicemente che Alcibiade recossi ai suoi castelli del Chersoneso. — Tenendo conto di questa indicazione di Senofonte, l’autore qui prescelse la lezione di Diodoro, essendo Patti più vicino all’Ellesponto e ad Egospotamo, vicinanza richiesta dall’ultima scena del quadro. [467] Intorno al costume trace, cfr. i ragguagli abbastanza concordi di Erodoto sull’abbigliamento dei Traci strimonj nella spedizione di Dario, e di Senofonte sull’abbigliamento dei Traci di re Seute: «I Traci poi combattevano portando alopéchidi (ἀλωπεκεας) in capo, tonache (κιθῶνας) sul corpo, e al disopra delle tonache indossando saj o mantelli variopinti (ζειράς ποικίλας); sui piedi e sulle tibie, calzari di pelle di cerbiatto (πέδιλα νερβῶν); per armi, giavellotti e pelte e sciabole corte» (Erod., VII, 75). «Era tanto il freddo che l’acqua portata alla cena agghiacciò, e così il vino nei vasi: e allora si fece manifesto per qual motivo i Traci portano pelli di volpi sulla testa e sulle orecchie, e tonache non solamente sul petto ma anche sulle coscie, e vesti fino ai piedi quando cavalcano, invece di clamidi» (Senof., _Anab_., VII, 4). Le alte calzature dei Traci in pelle di cerbiatto, coprenti metà delle gambe, son chiamate _embadi_ (ἐμβαδες) in Polluce (IV, 25). — Questi ragguagli concordano anche col vestiario di un bassorilievo raffigurante il trace Orfeo e descritto da Heuzey nel _Diction. des Antiq. gr. et rom._ (Paris, 1873), dove il poeta trace porta appunto alla foggia nazionale gli alti calzari di pelle, e l’alopechide, una sciabola curva alla cintura, e al di sopra della tonaca un mantello ch’è probabilmente la _zeira_ (ζειρὰ) di cui parla Erodoto. — Delle armi eran sopratutto nazionali la pelta, scudo piccolo e leggiero, a forma di mezzaluna, o, secondo altri, di foglia d’edera; il giavellotto (_pugnabant jaculis Thraces_. Ovid., _Ibis_, v. 135) e l’arco, nel cui maneggio, stando a cavallo, erano celebratissimi (Plut., _Alc_., 37). Tucidide ricorda popolazioni tracie, di là dall’Emo, tutte di arcieri a cavallo; e Traci montanari (Dii) armati di daga (Tucid., II, 96). Atene aveva corpi mercenari di _peltasti_ traci, armati di pelta e daga (Tucid., IV, 28; VII, 27). Omero (_Iliade_, X, 428) nomina i traci Peoni «_dai curvi archi_.» Euripide poi così descrive l’esercito dei Traci del re Reso: «Molti erano i cavalieri, molti i peltasti, e molti gli arcieri; seguiva una gran turba di armati alla leggiera, portanti la lunga tunica (στολή) tracia» (Eurip., _Reso_, v. 311 seg.). Cfr. anche l’armamento dei Traci di Perseo in Plutarco (_Paolo Em_.). [468] L’uso del berrettone di pelle di volpe (ἀλωπηκις), ch’era come l’elmo nazionale dei guerrieri traci e serviva a proteggerli dai geli del loro clima, si perpetuò fino a’ dì nostri in quelle contrade: anzi sembra che di là venisse trasportato nel costume di alcune armi speciali degli eserciti europei. L’alopechide degli antichi Traci aveva la forma di un elmo antico a punta; la coda della volpe penzolava a guisa di criniera dietro il collo insieme colle due zampe posteriori dell’animale, che al bisogno servivano di giugulari per allacciar l’alopechide sotto il mento. — Così osservasi nel bassorilievo citato sopra di Orfeo, e in una pittura di vaso antico raffigurante Reso re dei Traci. [469] L’uso delle sciabole, o scimitarre, era comune ai Persiani, agli Sciti e ai Traci, come si vede da Erodoto (_Polym_.) e da Ammiano (Cfr. le note 3 e 44 a quest’atto). Quanto alle ragioni di prudenza e vigilanza che doveano consigliare ai Traci di Seute questo sedersi armati, anche a tavola, vedi più sotto la nota 55. Così pure degli Sciti, viventi alla stessa guisa dei Traci, una vita nomade e battagliera, in lotte continue fra tribù e tribù, Luciano fa dire a Solone: «Fra noi (Ateniesi) è bensì vietato portar ferro in città senza bisogno e uscir armati in pubblico, ma voi Sciti siete scusabili se vivete sempre colle armi alla mano, perchè non abitate tra ripari; le insidie sono facili, i nemici molti, e siete sempre sul sospetto che mentre dormite non vengano ad assalirvi sul carro ed uccidervi. La scambievole diffidenza, il vostro vivere sciolto e senza legge, vi fa sempre necessario il ferro, per averlo pronto alla difesa» (Luc., _Ginnas._, 34). [470] Intorno ai costumi e agli usi dei Traci nel banchettare, cfr. specialmente Senofonte nell’_Anabasi_ (VII, 3). — La cena data da Seute a Senofonte e ai suoi compagni d’armi, e da Senofonte ivi narrata, ebbe luogo nel 401 av. l’E. V., anno della spedizione del giovine Ciro: e quindi poco più di tre anni prima dell’epoca della presente scena, che supponesi sulla fine del 405. Vi è quindi completa contemporaneità di costumi. [471] Superfluo avvertire che questo Seute è il medesimo di cui parlano Senofonte (_Anab._, VII) e Tucidide (II, 101). [472] Per il senso storico e drammatico delle prime scene di questo quadro, giova richiamarsi al passo di Plutarco (_Alcib._, 23) citato al quadro V, n. 37, intorno alla facilità camaleontica di Alcibiade nello adattarsi secondo i vari paesi ai più opposti costumi. E Cornelio Nepote: «Vantarono di lui (Alcibiade) che, in Atene, città splendidissima, vinse tutti nello splendore e nel fasto della vita: indi espulso, fra i Beoti, più prestanti in robustezza di corpo che in acume di ingegno, nessuno potè eguagliarlo in fatiche e in vigoria di membra; poi tra i Lacedemoni, usi ai disagi, nel regime di vita durissimo e in rigidezza di costumi tutti i Lacedemoni vinse; _fu anche fra i Traci, uomini vinolenti e dediti ai piaceri venerei, ed essi pure in tali cose superò_; andò tra i Persiani, fra i quali è somma lode la bravura nella caccia, e il vivere lussurioso: e ne imitò siffattamente i costumi, da destare fra essi stessi l’ammirazione» (_Alcib._, 2). — Ateneo ripete le stesse cose, con qualche altro particolare applicabile a questa prima scena del quadro: «... _in Thessalia vero_ (Alcibiades) _cum alendis equis et aurigationi vacaret, peritiorem illius artis fuisse_ (dicunt) _quam Aleuades_. Spartae vero patientiae et constantiae studens, Spartanos omnes superavit; _in Thracia rursus Thracas meri potui antecelluit_» (Aten., _Deipn._, 534). — Ed espertissimi _in gittar freccie e cavalcare_, son detti i Traci da Plutarco (_Alcib._, 37). — E _allevatori e addestratori di cavalli_ (ἱπποπόλοι) son chiamati da Omero (XIII, 4. — Cfr. Luciano, _Icarom_, 11; Strabone, VII, 3; Eurip., _Reso_). [473] Quadro I, n. 62, 63, 64. — Quattro furono, com’è noto, i grandi giuochi della Grecia; gli _Olimpici_, i _Pitici_, i _Nemei_ e gli _Istmici_. Celebrati come feste nazionali, accessibili a tutti i popoli greci, da queste solenni radunanze si può ripetere la invenzione della parentela delle schiatte (cfr. quadro III, scena 4; e Aristof, _Lisist._, 1128 seg.) o l’albero genealogico degli Elleni, che fu poi universalmente accolto come un trovato dei sacerdoti di Delfo dell’ottavo secolo, e valse più di tutto a cementare il sentimento della unità nazionale fra i Greci. Infatti Archiloco, il poeta nazionale dei giuochi olimpici, fu il primo, verso il 700 av. l’E. V., ad usar la voce _Elleni_ come denominazione generale (Framm. 54). I giuochi _Pitici_ ab antico si celebravano ogni quattro anni nella Focide, nella pianura tra Delfi e Cirra, in onore di Apollo che ivi uccise il serpente Pitone. Euriloco Tessalo cogli Anfizioni, nella guerra sacra contro i Cirrei, profanatori del tempio delfico, dopo l’eccidio di quel popolo, li ripristinarono con nuovo lustro e nuove gare musicali, cui furono poscia aggiunte le gare ginniche ed equestri e dei carri. Aveano luogo durante l’adunanza di primavera del consiglio degli Anfizioni: ai vincitori in origine davasi un premio di danaro (_agone pecuniario_, χρηματίτης), poi si sostituirono le corone d’alloro (_agone coronario_, στεφανίτης), dal quale le Pitíadi si cominciarono a contare — fissando la prima Pitíade numerata all’olimpiade 49ª (581 av. l’E. V.). Dei giuochi _Nemei_ la leggenda attribuiva l’origine ai funebri celebrati dai sette duci di Argo con Adrasto, sotto Tebe (1336 av. l’E. V.), nella selva Nemea, per la morte del fanciullo Archemoro, figlio del re dei Nemei. Ercole li rinnovò e fece rifiorire, dopo ucciso il leone Nemeo; ma la prima Neméade famosa, da cui si cominciarono a contare le altre, ebbe luogo nella olimpiade 72.ª (490 av. l’E. V.) dopo la battaglia di Maratona, ad onore dei Greci in essa caduti. Però n’era funebre il rito: si celebravano in un bosco di cipressi (presso Nemea nell’Argolide); quelli che vi presiedevano indossavano negre vesti: e ai vincitori davansi in premio corone di apio verde, simbolo funereo. Ricorrevano nel secondo e quarto anno d’ogni olimpiade. I giuochi _Istmici_ furono istituiti, secondo la leggenda, da Sisifo re di Corinto, in commemorazione di Melicerta gettatasi, per disperazione del figlio spento, col piccolo Ino in mare. Celebravasi il funebre agone all’istmo di Corinto, dove era fama che un delfino avesse recato il cadavere di Melicerta. Più tardi, infestato l’istmo dai ladroni, i giuochi decaddero: finchè Teseo, liberata la contrada, li ristabilì, dedicandoli a Nettuno, a cui fu eretto sull’istmo un tempio famoso. Laonde, secondo Plutarco, celebraronsi i giuochi in due forme: di notte per Melicerta, secondo il rito di Sisifo, e avean forma più di funebri sagrifici che di spettacoli; di giorno, in onor di Nettuno, secondo il rito di Teseo; e davasi ai vincitori alternamente o una corona di pino, albero sacro a Nettuno, o di apio secco come funereo ricordo della madre di Ino. — Ricorrevano il primo e secondo anno d’ogni Olimpiade: e che ai tempi di Solone questi giuochi rifiorissero, lo prova la legge che accordava 500 dramme attiche ai vincitori di Olimpia (_olimpiònici_) e 100 ai vincitori dei giuochi istmici (_istmiònici_). Ma sopra tutti celebratissimi i _giuochi Olimpici_ poteano dirsi il più splendido e vero compendio della vita nazionale dei Greci. La leggenda ne chiamava primo istitutore Ercole: il quale inseguendo dal monte Menalo la cerva sacra di Diana, per le foreste di Arcadia, giunse agli Iperborei, ed ivi raggiunta la belva, ne riportò, in segno di vittoria, l’olivastro, affrettandosi nel ritorno alla celebrazione dei sagrifici nell’Elide, ad Olimpia. Decaduti ai tempi della guerra trojana, dovevano tornare a rifiorire col ritorno dei discendenti di Ercole, ossia colla invasione dei Dori nel Peloponneso; infatti Licurgo, insiem con Ifito re dell’Elide, secondo la tradizione, li rinnovò: il rinnovamento fu sancito dall’oracolo dorico di Delfo, e vi accedettero, un dopo l’altro, tutti i popoli della Grecia. Però le olimpiadi non cominciarono a contarsi che un secolo dopo, a datare dall’anno 776 (primo della prima olimpiade) in cui Corebo di Elea riportò il premio dei giuochi. Si celebravano ogni quattro anni verso il solstizio estivo nella magnifica vallata dell’Elide intorno a Pisa, bagnata dall’Alfeo, rallegrata di ombre dal bosco sacro dell’Altis, superbo di templi, di altari e di portici e di statue e di trofei: e torreggiante fra quel popolo di marmi, il miracolo di Fidia: il _Giove Olimpico_. Prima che cominciassero i giuochi, alcuni inviati degli Elei bandivano una tregua sacra: e tutte le ostilità cessavano in Grecia per tutto il tempo ch’era necessario per andare ai giuochi e ritornarne. Duravano i giuochi cinque giorni dall’11 del mese (cioè dal 1 luglio) in poi: al 16 terminavano con sacrificj e banchetto e processione; e colla proclamazione dei vincitori (_Olimpiònici_), ai quali veniva dai giudici delle gare (_Ellenodici_) conferito il premio della corona d’ulivo (κότινος). — _Olimpìade_ chiamavasi il periodo dei quattro anni dall’una all’altra solennità. I giuochi ginnastici consistettero dapprima soltanto nella _corsa a piedi_ (δρόμος) sullo stadio, di cui gli stadiódromi dovean percorrere l’intera lunghezza (un ottavo di miglio): poi si istituì la corsa del _diaulo_ o doppio stadio; e infine del _dólico_, in cui i dolicódromi correan dodici volte lo stadio. Alle corse si aggiunse più tardi il _pentatlo_ o _quinquerzio_ (riunente cinque esercizi: salto, gitto del disco e del giavellotto, corsa e lotta) e il _pancrazio_, esercizio di lotta e pugilato. Più tardi ancora, nel 680, si introdussero i giuochi equestri, delle corse a cavallo (κέλης) od in cocchio (ἄρμα), biga o quadriga. La corsa dei cocchi precedette naturalmente quella degli uomini a cavallo, come anche nella milizia greca l’uso dei carri precedette quello della cavalleria, ed era la parte più splendida dello spettacolo: che se la rarità dei cavalli e la spesa del mantenerli rendeva questa gara accessibile alle sole persone di ricchissimo censo (e fu celebre vanto di Alcibiade l’aver corso nei giuochi con sette carri), — le altre gare erano aperte così al ricco come al povero e al plebeo, e vietavano il monopolio della gloria. A noi è appena dato di comprendere l’estrema importanza che annettevano i Greci alla vittoria in questi giuochi: e nulla di più caratteristico degli onori tributati dai varj popoli ai vincitori. L’Ateniese acquistava diritto ad un seggio presso i magistrati nel Pritaneo; lo Spartano a un posto eminente in campo, vicino al re. Il vincere in Elide conferiva celebrità per tutta la vita, più gloriosa ad un Greco che non ad un Romano aver gli onori del trionfo (Cic., _Pro Flac_., 31): onore agognato dai capitani più illustri e dai re. E il premio, una ghirlanda d’olivastro! Ma le acclamazioni della Grecia adunata, la pioggia di fiori, il banchetto appartato pel vincitore, le canzoni di Archiloco e di Pindaro che lo immortalavano, il pubblico registro che ne iscriveva i nomi a memoria dei posteri e li ricordava nelle date degli eventi, il privilegio di una statua nell’Alti, il diritto di ritornare alla propria città passando per una breccia nel muro, a significar che di mura non abbisognava la città che possedeva tali cittadini; il primo posto nei pubblici spettacoli, la gloria, in breve, diffusa per ogni angolo di terra dove giungesse la civiltà greca — quest’era propriamente la corona d’ulivo del vincitore di Olimpia! E queste splendide radunanze altrettanto libere a tutti i Greci (onde il loro nome di _panegirìe_ o _adunanze universali_) quanto gelosamente interdette a ogni straniero, non solo rammentavano periodicamente ai Greci le comuni origini e il nome nazionale, non solo alimentavano in ogni classe l’emulazione e il desiderio della gloria; ma erano potenti fattori di progresso intellettuale. Poichè in tempi in cui la pubblicità era nulla, e quasi nulli i mezzi per diffondere le utili cognizioni, dovettero considerarsi per grande beneficio queste solennità che attiravano a Olimpia e magistrati e guerrieri e filosofi e artisti e il fior degli ingegni da ogni parte della Grecia: indi le radunanze olimpiche divennero anche palestre dell’arte e delle lettere: e fu visto allora Erodoto leggere in Olimpia le sue storie e dal suo labbro pendere la Grecia! (Pindaro e _Scol_.; Tucid., VI, 16; Isocr., _de Big_.; Pausania, ecc. — Corsini, _Dissert. Agon._; Meier, _Giuochi Olimp_.; Krause, _Pizj, Nem., Ist_.; Bulwer, _Atene_; Scaligero, Dodwell, Grote, Gilles, ecc.). [474] Il _celete_ (κέλης) dianzi nominato, ossia _cavallo da sella per le corse_, sembra fosse lo stesso che fra i Latini il _pullus desultorius_ (Sveton.), dai cavalieri detti _desultores_ (ἀναβάται), perchè correndo con due cavalli a dorso nudo destramente saltavano dall’uno all’altro. Al che accenna Omero ove descrive il naufragio di Ulisse che per salvarsi dal furore dell’onde si slancia sopra una tavola come se _balzasse rapidamente sul dorso al celete_, κέληθ’ ὤς ἵππων ἐλαύνων (_Odiss_. έ. 371). E Aristofane, dove introduce Strepsiade a lamentarsi degli scialacqui di suo figlio Filippide, che getta i danari in cavalli ed in bighe — ἱππάζεται καὶ ξυνορικεύεται (Aristof., _Nubi_, 15) — sembra che accenni ai puledri celeti e alle bighe per le corse di Olimpia (Cfr. Pind., _Olimp_. e Scol.). Delle vittorie equestri di Alcibiade alle gare di Olimpia, celebrate da Euripide e da Plutarco, si è già accennato al quadro I. [475] _Sabazio_ (Σαβάζιος), nome col quale Bacco era chiamato dai Traci (Aristof., _Vespe_, 9, 10; _Ucc_., 873; _Lisis._, 388. — Cicer., _De legib_., II, 15). [476] Dei Numi greci, veneravano i Traci specialmente Marte, Bacco (Sabazio) e Diana: i loro re poi veneravano in particolare Mercurio, da cui pretendevano trarre l’origine e giuravano per lui (Cfr. l’autore del _Viaggio d’Anten._, c. 92). [477] «Noi Ateniesi più d’ogni altra gente consumiam viveri stranieri e da niun altro emporio ne tiriamo quanto dal Ponto; chè quel paese non solo di biade è ricchissimo, ma inoltre Leucone (re di Tracia) ne sgravò di tasse il trasporto in Atene: e con questa franchigia compensa i beneficii nostri» (Demost. in _Leptin_.). «Nessuno è così semplice da credere che Filippo non adocchi i porti d’Atene, i suoi arsenali, il naviglio, le miniere, le entrate, la gloria, ma per un po’ di miglio e di spelta custoditi nelle spelonche di Tracia, si accontenti di svernare in quel baratro» (Demost., _Filipp_., IV). [478] Notissima la favola di Tereo re di Tracia, che sposò Progne figlia del re ateniese Pandione; e della trasformazione di Tereo in upupa, di Progne in rondine, e di Filomela sua sorella in usignuolo. — E a quel rapporto mitico di parentela fra i Traci e gli Ateniesi sembra infatti alludere Seute, anche in Senofonte (_Anab_., VII, 2), malgrado che il Tereo della leggenda avesse regnato propriamente non in Tracia, ma nel territorio greco della Focide, secondo Tucid., II, 20, e Strab. VII. Vero è che Seute, in fatto di vincoli fra Atene e la Tracia, poteva alludere anche alla discendenza del trace Eumolpo da Eretteo re d’Atene, ed anche a rapporti più reali e più vicini: cioè la cittadinanza ateniese accordata al figlio di Sitalce re de’ Traci antecessore di Seute e l’alleanza conchiusa fra Sitalce stesso ed Atene, nel terzo anno della guerra del Peloponneso, cioè ventitrè anni prima dell’epoca di questa scena (Tucid., II, 29. — Cfr. Aristof., _Acarn_., v, 141 seg.). Sulla favola di Tereo, Progne e Filomela (vedi Pausan., _Attic_., 41, _Focid_., 4; Esiod., _Op._ β e scol., Aristof., _Ucc._ e scol.; Fozio, _Narr_., 31; Apollod., III, 14; Ovid., _Metam._, VI, 423 seg.; Marziale, XIV, ep. 73; Varrone, IV; Igin., _Fab_., 45, ecc.). [479] «Dal suddetto Tereo re dei Traci differiva Tereo che sposò Progne figlia di Pandione ateniese, anzi neppure alla medesima Tracia apparteneva. Tereo dimorava in Daulia, città del contado ora detto Focide, e a quei tempi abitato dai Traci, dove appunto le donne commisero l’attentato contro Iti: ond’è che molti poeti menzionando l’usignuolo gli danno il soprannome di Daulia» (Tucid., II, 29). [480] Demo della tribù Leontide (Vedi quadro I, nota 55). [481] Sull’epiteto di _Traci_ attribuito a Eumolpo, a Orfeo, ecc., vedi avanti, nota 41. «Questo Eumolpo era di Tracia, figlio di Nettuno e di Chione, che nacque dalle nozze di Borea con Oritìa, la figlia di Eretteo re d’Atene» (Paus., _Att._, 38): Eumolpo era quindi pronipote di Eretteo. Indi la leggenda narrava che per rivendicare i suoi diritti sul regno di Atene, Eumolpo coi Traci avesse invaso l’Attica, venendovi in soccorso agli Eleusini ribellatisi, mentre vi regnava il secondo Eretteo. Venuti a pugna presso Eleusi, il re Eretteo e gli Ateniesi, grazie al sagrificio di Agraulo figlia del re, rimasero vincitori; fu quindi fatta la pace, e quei di Eleusi si sottomisero ad Atene, a patto che essi sarebbero rimasti in possesso dei misteri di Cerere e che il sacerdozio di Cerere e di Proserpina sarebbe riserbato ai discendenti di Eumolpo (Paus., _Att_., 38; Isocr., _Panaten._; Stobeo, _Serm_., 38; Igin., _Fab_., 46; Meurs., _Reg.; Ath._, II, 8-10.) Eumolpo poi fu sepolto nel demo di Scambonide (ove nacque Alcibiade) e il suo sepolcro vi esisteva ancora al tempo di Pausania, per testimonianza di Pausania stesso che lo visitò. [482] «A tutti poi furono portati dei tripodi, ed erano una ventina, pieni di carni sminuzzate, e insieme colle carni infilzati grandi pani con lievito. Apponevansi sempre le pietanze primamente a’ forestieri: e ciò fece Seute pel primo, il quale, pigliando i pani che stavano dintorno a lui li fece in piccoli pezzi e li gettò a quelli che meglio gli parve, e così anche le carni, riserbandone per sè tanto solo da assaggiarne. E questo medesimo fecero anche gli altri (Traci) presso i quali fossero delle pietanze. Ma un Arcade per nome Aristo, gran mangiatore, non curandosi punto di quello sminuzzamento, e pigliato in mano un pane di forse tre chenici e postasi anche sulle ginocchia la carne, si pose a cenare...» (Senof., _Anab._, VII, 3). Il _chénice_ era quanto bastava al nutrimento di un giorno: come misura cubica di capacità, equivaleva circa al litro, e come misura di peso al chilogramma, scarso. [483] _Chiechenei_ (Κεχηναίοι, Aristof., _Caval_., 1263; Κεχηνότης, Luciano, _Scita_, 11), ossia _bocche spalancate._ Su questo soprannome epigrammatico degli Ateniesi, che qui Cimoto, da quel degno parassita filosofo che è, applica alla valentìa delle proprie mascelle, di cui è occupato a dar le prove, vedi il quadro IV, nota 10. Strano che il Cappellina, di solito esatto, abbia così malamente tradotto Κεχηναίων πόλις per _città degli Sbadati_; aggettivo ch’è appunto il rovescio dell’idea del vocabolo greco: il quale deriva da χάω, _aprir la bocca_, ed esprime precisamente, coll’idea dello spalancar di becco dei pulcini all’appressarsi della chioccia, quell’attenzione stupida, intensa, a _bocca aperta_, di chi pon mente avidamente a qualche cosa. [484] Celebrati da Omero: _Han duce_ (i Traci) _Reso, il figlio_ _d’Eroneo: e a lui vid’io destrieri_ _Di gran corpo ammirandi e di bellezza,_ _Una neve in candor, nel corso un vento._ (_Iliade_, X, trad. del Monti) dove, fra parentesi, quest’ultimo verso del Monti, per quanto lodato, mi sembra nella sua cadenza lenta e pesante, assai lontano dal rendere la dolcezza, l’agilità e la rapidità pittoresca del verso greco, uno dei più belli della _Iliade_: λευκότεροι χιόνος, θείειν δ’ἀνέμοισιν ὁμοῖοι sembra sentir il volo dei cavalli. Virgilio s’appropriò anch’egli questo verso: _Qui candore nives anteirent, cursibus auras_ che non val neppur esso quello d’Omero. — Anche Euripide celebra i cavalli di Reso, _più candidi della neve_, χιόνος ἐξαυγεστεροι, _Reso_, v. 304. [485] Sull’usanza rigorosa dei re Traci di pigliar doni anzichè di darne, «tanto che nulla far si poteva senza donativi» (vedi Tucid., _G. Pel._, II, 97; Senof., _Anab._, VII, 3). Il dono del re ad Alcibiade è qui dunque una eccezione: se ne ha per altro un esempio in Senofonte stesso, nei doni di Seute a Cleanore e Filisco «che Seute avea guadagnato dando all’uno un cavallo, all’altro una donna» (_Anab._, VII, 2). [486] Nel capitolo citato dell’_Anabasi_ — poi che gli altri convitati ebbero bevuto e fatti i doni al re, Senofonte ritrovasi in imbarazzo per non aver nulla da donare; e se la cava da pari suo: «Però (avendo già bevuto oltre il solito), si levò (Senofonte) coraggiosamente e, preso il corno di vino, disse: «Io, o Seute, ti dono me stesso e questi miei compagni come tuoi amici fedeli, i quali desiderano di faticare e pericolarsi in pro’ tuo. Con costoro, se gli Dei lo vogliono, tu ricupererai l’ampio paese tuo ereditario, ed altri ne acquisterai...» (Senof., _Anab._, VII, 3). [487] Dei Traci montanari, contro i quali fu intrapresa la spedizione di Senofonte in soccorso di Seute, vedi Senof., _Anab._, VII, 4; VII, 2. — Cfr. Tucid., II, 96; Tacit., _Annal._, IV. [488] «ἄνδρας ἠγοῦνται μόνους — τοὺς πλεῖστα δυνατοὺς καταφαγεῖν τε καὶ πιεῖν (Arist., _Acarn._, 77). Sulla nomea dei Traci come eccessivamente dediti al vino e all’ubbriachezza, vedi i passi citati di Cornelio Nepote (_Alc._, 11) e Ateneo (XII, 534 b); e così pure Ateneo (X, 442 f); Aristofane (_Acarn._, 141); Eliano (_V. St._ III. 13, 15). Indi il loro carattere insolente, violento e sfrenato (Aten., _ibid._ — Cfr. Luciano, _Icarom._, 15), pel quale eran venuti in proverbio: e diceasi θράττειν, _tracizzare_, imitare i Traci, per denotare maniere arroganti e sboccate (Macrob., _Saturn._). Celebri, del resto, erano i vini della Tracia e dell’isole ad essa adiacenti, come Lenno: e vino decantato dai comici e dai poeti era il _biblino_, proveniente da una regione della Tracia, detta di Biblia o dei monti _biblini_ (Acheo, Filino, Epicarmo in _Aten._, I, 31 a). Oltre il vino d’uva, i Traci faceano pure grandissimo uso del vino d’orzo o radici, detto _brito_ o _pino_ (βρύτον, πῖνον) come in Archiloco e in Ellanico, citati da Ateneo (X, 447). [489] La parola _uomo_ usata in questo senso di virilità e fortezza — come dall’esempio testè citato di Aristofane (_Acarn._, 77) — esprimevano i Greci benissimo colla voce ἄνηρ, che significava in senso proprio il _maschio_ nel rapporto sessuale (opposto alla femmina, γυνή) e quindi per metafora anche l’uomo veramente fornito di doti e virtù maschili, il _vir_ dei Latini: a differenza dell’ἄνθρωπος, corrispondente all’_homo_ nel senso generico di persona, di essere umano — sia uomo o donna. Noi abbiamo invece una parola sola pei due distinti significati: e saremmo quindi imbrogliati a tradurre alla lettera la frase, per esempio, di Erodoto: δῆλον δ’εποιοῦντο ὄτι πολλοὶ μεν ἄνθρωποι εὶεν, ὀλίγοι δ’ἄνδρες. «_E resero manifesto come molti siano gli uomini_ (homines), _ma pochi gli uomini_ (viri),» cioè a dire gli uomini di polso, che per virtù e valore meritino di uomini veramente il nome. Nelle arringhe pubbliche o forensi dei Greci, l’ἄνηρ, inteso nel senso che si è detto, ricorre frequentissimo, come un equivalente del nostro _cittadino_: ὤ ἄνδρες Αθηναῖοι, ὤ ἄνδρες δικασταὶ, ecc. È un epiteto onorifico, un qualificativo cortese di dignità, aggiunto alla qualifica nuda e cruda di _Ateniesi_, di _giudici_, ecc., e affatto proprio e caratteristico dello stile oratorio greco e della urbanità attica: tanto che i traduttori antichi, i quali lo voltavano in _signori_ o _messieurs_, potevano dirsi — nel loro ordine di idee — molto più fedeli di quei traduttori moderni che, col pretesto della fedeltà, danno di frego a quell’epiteto e lo sopprimono addirittura. Che se il _Messieurs les Athéniens_ dei traduttori diede una cattiva idea di Demostene al generale Foy, egli aveva ragione, perchè imaginavasi Demostene aringante in liberissima repubblica; come mai invece sfuggì all’acume dell’egregio Mariotti che la nostra lingua forense ha precisamente una formola rispondente a capello a quella greca, e su cui il generale Foy non avrebbe trovato a ridire, e che l’ἄνδρες δικασταὶ di Demostene non è altro che i _cittadini giurati_ dei nostri oratori della Corte d’Assise? (Cfr. Mariotti, _Oraz. di Demost._ nei commenti, t. II, p. 244). [490] Ercole, irritato contro Leprea (perchè questi aveva suggerito al re Augia di legar Ercole), lo sfidò a vari esercizii: e a lanciare il disco, e ad attinger acqua, e a chi primo mangiasse un bue: e in tutte queste prove Leprea restò vinto. Indi vennero a gara chi di loro potesse bevere di più (ὐπὲρ πολυποσίας ἀγών) e in ciò pure Ercole fu superiore. Leprea, trasportato dall’ira, sfidò allora Ercole a duello e cadde morto nel combattimento (Eliano, _V. St._, I, 24). [491] _Il cavallo vuole il piano_, ἐς πεδίον τὸν ἵππον, diceasi per proverbio, tra i Greci, di chi proponeva una sfida in ciò che per lui era più facile, o in cui si sentiva più sicuro di vincere — in quella guisa che al cavallo è più facile correre sul piano che non sull’erta. — Così Platone, applicando il proverbio alla potenza di Socrate nel disputare: «_Tu sfidi i cavalli al piano_ (ἵππεας εἴς πεδίον προκαλεῖ) _e Socrate alle dispute_ (Plat., _Teetet._, 183. — Cfr. Luciano, _Pescat._, 9; Erasm., _Adag._). Alcibiade qui applica il proverbio, per cortesia e finta modestia, ai Traci altrettanto famosi bevitori che cavalcatori, e allevatori di razze di cavalli esimie, ἱπποπόλοι (Omero). [492] ὔς ποτ’ Αθαναίαν ἔριν ἢρισε — _il porco una volta sfidò Minerva_ — (Teocr., _Idill._, 5). Proverbio greco, usato anche fra i Latini — _sus Minervam_ — a denotare disparità di condizione o di dignità fra due contendenti che si sfidano. [493] Gli Sciti e i Traci (tra i quali, del resto, era grandissima affinità di costumi) avevano in aborrimento l’uso greco di allungare il vino, e non lo bevevano che puro: indi appunto il bevere vin pretto, diceasi proverbialmente dai Greci _bevere alla maniera degli Sciti, all’uso scita_ ἐπισκυθίσαι (Plat., _Leg._, I, 637; Aten., X, 427). E Satiro, presso Ateneo, dice di Alcibiade che _superò i Traci nel bevere vin puro_ (Aten., XII, 534). — Sul vin di Bibli, vedi sopra. [494] La _cótila_, misura di capacità, così pei liquidi che pei solidi, equivaleva a 27 centilitri scarsi, ossia circa due dei nostri bicchieri da tavola. Ai servi lacedemoni bloccati a Sfatteria, gli Ateniesi concedevano al giorno una cotila di vino e un _chenice_ (misura di quattro cotile) di pane, ch’era la solita razione di un parco vitto quotidiano (Tucid., IV, 16; Elian., _V. St._, I, 26). Le principali misure greche di capacità pei liquidi erano la _metreta_, la _coa_ o il _congio_, il _sestario_, la _cotila_, l’_osibafo_, il _ciato_, la _conca_, il _mistro_. La _metreta_ (o _anfora_ o _cado_) corrispondente a circa litri 38,76, valeva 12 coe; la _coa_, o litri 3,23, sei sestarj; il _sestario_, o litri 0,53, 2 cotile; la _cotila_, o litri 0,27, dodicesima parte d’una coa, valeva 4 osibafi; l’_osibafo_, sesto di cotila, ossia 7 centilitri scarsi, valeva un ciato e mezzo; il _ciato_, 2 centilitri e mezzo, valeva 2 conche; la _conca_, o dodicesimo di cotila, litri 0,0225, valeva 2 mistri, ossia il _mistro_ era all’incirca il nostro centilitro (litri 0,0112). Le misure di capacità pei solidi erano in gran parte le medesime (_ciato, osibafo, cotila, sestario_), oltre alcune speciali: il _chenice_, equivalente a 4 cotile, ossia all’incirca il nostro litro (litri 1,070); il _medimno_, equivalente 48 chenici, ossia 192 cotile, ossia litri 51,84, cioè all’incirca il nostro mezzo ettolitro. Un medimno di frutti solidi e liquidi ragguagliavasi al valore di una dramma: così una rendita di 500 medimni, ossia 500 dramme, segnava il censo dei cittadini della prima classe. Vi erano poi parecchie altre misure forestiere, come lo _stannio_, l’_idria_ (6 coe), l’_elefante_ (3 coe), l’_emitio_ (4 coe), il _cofino_, misura beota (3 coe), il _maristo_ (6 cotile, o mezza coa), l’_artaba_, misura persiana ed egizia (1 medimno e 3 chenici), l’_emiciprio_, misura di Cipro (mezzo medimno), il _dadice_ (6 chenici), la _capide_ (2 chenici), ecc. [495] Vedi sopra, nota 16, sull’usanza dei doni. — «Mentre poi la coppa andava in giro, entrò un Trace con un cavallo bianco, e toltosi un corno pieno, disse: _Bevo, o Seute, alla tua salute e ti dono questo cavallo_. Un altro conducendo un fanciullo, lo regalò nello stesso modo, bevendo alla salute di Seute: e un altro, abiti per la moglie, ecc.» (Senof., _Anab._, VII, 3). [496] _Cizicéno_ o _statere di Cizico_, moneta d’oro purissimo, coniata in Cizico (città sulla Propontide) e in uso fra i Traci. — Valeva 28 dramme ateniesi, ossia circa L. 25,75. Era di bellissimo conio e recava da un lato l’impronta di Cibele, dall’altra un leone. — Il re Seute nell’_Anabasi_ stipula in ciziceni il contratto con Senofonte per la paga delle sue truppe. «Promise al soldato un ciziceno (al mese), al capo di coorte il doppio, al comandante quattro» (Sen., _Anab._, VII, 2). Sulle monete greche, particolarmente attiche, vedi i ragguagli al quadro II, nota 7. Giova qui aggiungere che le monete di bronzo arrivavano fino ai quattro oboli, ossia 64 centesimi di franco (_calco, semiobolo, obolo, diobolo, triobolo, tetrobolo_); le monete d’argento cominciavano dalla dramma, ossia 92 centesimi fino alle 5 dramme, ossia lire 4,60 (_dramma, didramma, tridramma, tetradramma, pentadramma_); le monete d’oro erano il _darico_ di 20 dramme (lire 18,40), lo statere d’oro di 25 dramme (lire 23); il _ciziceno_ di 28 dramme (lire 25,75). Altri pone fra le monete effettive la _mina_ di 100 dramme, benchè Esichio assicuri che le maggiori monete d’oro fra i Greci pesavano 2 dramme e il loro valore s’aggirava tra le 20 dramme e poco più in su. Nel qual caso la mina avrebbe già dovuto essere una moneta nominale. [497] Seute (succeduto a Sitalce, del cui nipote Spardaco era figlio) ebbe in moglie Stratonica, sorella di Perdicca, re di Macedonia (Tucid., _G. Pel._, II, 101). [498] _Ilìtia_ o _Lucina_ — «veneranda Ilìtia» (πτνια Εἰλείθυια — Arist., _Lisist._, 741, _Eccl._, 369) era chiamata Giunone (Ἤρα) siccome presiedente ai parti. Chiamavasi anche, come _preside delle nozze_, Giunone _gamelia_ o _telia_ (Γαμήλιος, Τελεία. — Diod. Sic., V; Arist., _Tesm._, 973). Giunone dalle _bianche braccia_ (λευκώλενος) è detta da Omero; _egofaga_ (ἀιγόφαγος), (Paus., _Lac._) o _mangiatrice di capre_ la chiamavano i Lacedemoni, perchè le erano immolate capre in sacrificio; e Giunone _Samia_ (Aten., XIV, 655) dicevasi dal suo tempio famoso nell’isola di Samo, donde volevasi fossero originarii i pavoni, gli uccelli sacri alla Dea. [499] Che Alcibiade portasse moltissimo il vino, rilevasi da Platone nel _Simposio_, dove Alcibiade, dopo aver già bevuto molto, si fa dare e beve d’un fiato un vaso di vino «_che poteva contenere più di otto cotile_» (πλέον ἤ ὄκτω’ κοτύλας), vale a dire un paio di litri abbondanti; il che non gli impedisce di tener poi il suo magnifico e lucidissimo discorso, così da far dire, quando ha finito di parlare, a Socrate: «_Io sospetto, Alcibiade, che tu oggi sei stato sobrio: senza di che non avresti mai parlato così abilmente_...» (Plat., _Simp._, cap. 31, 38). — Vero è che in questa scena Cimoto si scandalizza non di otto, ma di quattro cotile sole (1 litro e 8 centilitri): cosa naturale, perchè qui fra i Traci si tratta di vin puro, e non, come nei simposj di Atene, di vino misto coll’acqua. [500] Vivevano i Traci in piccole e povere abitazioni, o più propriamente capanne, pochissimo elevate dal suolo (_aedificia modice ab humo elevata_, B. Aub., III, 5) e cinte all’intorno di grandi palizzate a custodia delle greggie (Senof., _Anab._, VII, 4). Senofonte stesso non chiama altrimenti che _villaggi_ i paesi traci, ch’eran formati dei piccoli gruppi di quelle capanne, e chiamavansi dai Traci col nome di _bria_ (Strab., VII, 6); onde la desinenza dei nomi di parecchie borgate, _Mesembria, Selimbria_, ecc. Demostene li chiama addirittura _catapecchie_ o cascinali: «Nessuno sarà così ingenuo da credere che Filippo sia smanioso delle catapecchie della Tracia (τῶν ἔν Θάρκῃ κακῶν) — e come si potrebbero altrimenti chiamare Drongilo, Cabile, Mastira e l’altre terricciuole? — e per conquistarle soffra freddi, fatiche e pericoli: e non pretenda nè i porti di Atene, nè gli arsenali, nè le miniere, ecc., ma solo per un po’ di panico e di veccia serbata nelle spelonche (ἔν τοῖς οἰῥῥοῖς) di Tracia, si accontenti di svernare in un baratro» (ἔν τῷ βαράθρῳ) — (Demost., _Filipp._, IV, _Cose del Chers._). — E allo stesso modo ne parla Giuliano: «O Giove, che gusto vivere nel cuor della Tracia e passar l’inverno nelle sue spelonche!» (σιροῖς) — (Giul., _Lett., a Jamblico_, 52). [501] «_Levatosi Seute bevve insieme con lui, poi vuotò il corno sopra il suo vicino_» (Senof., _Anab._, VII, 3). Suida parla esplicitamente di questa usanza dei Traci, poco conforme al moderno Galateo, di versare sulle vesti dei commensali il vino rimasto nella tazza (τὸ λοιπόν τοῦ οἴνου καταχέουσι κατὰ τῶν ἰματίων τῶν συμποτῶν). Usanza d’altronde attestata non solo da Senofonte, ma anche da Platone, ove dice che gli Sciti e i Traci fanno uso del vino puro, e ritengono bella e beata consuetudine il _versarlo sopra gli abiti_, κατὰ τῶν ἰματίων καταχεόμενοι — (Plat., _Leg._, I, 637 e). [502] Le idee degli antichissimi _Orfici_ sulla vita avvenire, e sui destini futuri delle anime, coltivate fra i Traci di Pieria e simboleggiate nei misteri di Samotracia, dovettero precedere di molto lo sviluppo delle dottrine pitagoriche, sulla metempsicosi, ecc., colle quali più tardi si mescolarono e si confusero. Su questa unione degli Orfici coi Pitagorici, che il Müller vorrebbe fissare all’epoca della caduta della lega pitagorica nella Magna Grecia (504 av. l’E. V.) e sopra le idee generali della poesia orfica, vedi lo stesso Müller (_St. della lett. greca_, cap. XVI. — Cfr. l’autore del _Viaggio d’Antenore_, cap. 92). [503] Notai già altrove (_Alcibiade e la critica_, ecc.) — contrariamente a ciò che qualche critico erudito si prese il disturbo di insegnarmi — come Zamolchi fosse da’ Greci riguardato propriamente come un Dio dei Traci. «Imparai questo incantesimo all’esercito da uno di quei medici traci, settarj di Zamolchi, i quali si dice che sappiano anche rendere gli uomini immortali. E diceva quel Trace: Zamolchi re nostro, il quale è Dio, dice che non conviene curare gli occhi senza curare il capo, nè il capo senza il corpo, nè il corpo senza l’anima: ma che questa è la causa per cui ai medici greci sfuggono molte malattie, perchè ignorano ciò che bisogna curare, ecc.» (Plat., _Carmide_, 156 d.) — «E vidi (nell’Elisio) tra i semidei barbari lo scita Anacarsi, e il trace Zamolchi» (Lucian., _Storia vera_, 2). «Gli Sciti adorano la scimitarra, i _Traci Zamolchi_, un fuggitivo di Samo che si riparò tra di loro, i Frigii la luna, gli Etiopi il giorno, gli Assirj una colomba, i Persiani il fuoco, gli Egiziani l’acqua» (Luc., _Giove trag._, 42. — Cfr. Erodot., IV, 159). Fu questo Zamolchi un discepolo di Pitagora, il quale studiò fra gli Jonj la civiltà greca e i segreti della scienza di Esculapio; e tornato poscia in patria fra i Traci, rozzi ed incolti, diede loro più miti istituzioni e leggi e costumanze; a procacciar credito alle quali, secondo il solito dei legislatori, insegnò ai Traci che le anime di coloro che le avessero fedelmente osservate, sarebbero venute, dopo morte, a trovar lui in un luogo dove ogni sorta di beni le aspettavano. Per il che salito fra i Traci in grandissima venerazione, un bel giorno si sottrasse di mezzo a loro e scomparve, ritirandosi a vivere sur un monte, in una spelonca a tutti inaccessa, e lasciando di sè immenso desiderio fra quei popoli; i quali perciò lo ascrissero fra gli Dei e il monte reputarono sacro (Strabone, VII, 3; XVI, 2. — Cfr. J. Boem. Aub., _Mores_, _leges omnium gentium_, 1. III, c. 5). [504] «La statua di Ercole ad Eritrea (Jonia) è posta sopra una specie di zattera: e quei di Eritrea narrano ch’essa venne così da Tiro in Fenicia, viaggiando per mare. Aggiungono che, entrata la zattera nel mar Jonio, si fermò al promontorio di Giunone, a mezza strada fra Eritrea e Chio. Appena da lontano quei di Eritrea e di Chio scorsero la statua del Nume, tutti si contesero l’onore di trarla a riva e vi impiegarono tutte le loro forze. Un pescatore di Eritrea, di nome Formione, che avea perduta la vista per malattia, fu avvertito in sogno che se le donne di Eritrea consentivano a tagliare i loro capelli e farne una corda, si sarebbe con essa potuto tirar la zattera a riva. Ma neppure una delle donne di Eritrea volle obbedire al sogno; indi alcune donne di Traci, che sebbene nate libere servivano in Eritrea, sacrificarono le loro capigliature: in grazia di che quei di Eritrea ebbero in loro possesso la statua di Ercole, e per ricompensare le donne tracie statuirono che avessero esse sole il diritto di entrare nel tempio del Dio. Ivi si mostra ancora la corda fatta dei loro capelli, che vien conservata gelosamente. Quanto al pescatore che ebbe il sogno, egli ricuperò la vista» (Pausan., _Acaia_, 5). [505] Notissima la leggenda di Orfeo, poeta trace, nato fra i Libetrii, e primo istitutore fra i Greci dei riti di Bacco o Dioniso; dei cui canti la fama salì tant’alto che fu riguardato il primo cantore dell’epoca eroica e dato per compagno agli Argonauti; e il quale fu sbranato dalle Ménadi tracie perchè, infastidito delle donne, dopo la perdita di Euridice, ebbe in dispregio il loro sesso e introdusse il turpe amor dei fanciulli; o vuoi perchè attirandosi dietro col fascino del canto e della cetra gli uomini, era causa che questi trascurassero le loro mogli. — La leggenda aggiungeva che la sua testa recisa e la sua cetra, dopo l’immane eccidio, venissero gettate nell’Ebro e le onde di questo ne mandassero armonioso lamento: .... _Medio dum labitur amne_ _Flebile nescio quid quæritur lyra, debile lingua_ _Murmurat exanimis; respondent flebile ripae_ (Ovid.) poi dal fiume trasportate giù al mare, testa e cetra arrivarono galleggiando a Lesbo; sì che quell’isola divenne fra tutte «_la più ricca di canti_,» πασεων ἀοιδοτάτη — e in Antissa, città lesbia, ove fu sepolta la testa del poeta, gli usignuoli cantavano più armoniosamente che altrove. Elegante e poetica raffigurazione delle origini di quella poesia eolia che diede alla Grecia i carmi di Terpandro e di Saffo e di Alceo (Vedi Ovid., _Metam_., XI, 1 seg.: Pausan., _Beot._, 30; Plat., _Simp._, 179; _Repub._, X, 620; Stobeo, LXII, 399; Pindaro, _Pit._, IV; Apoll. Rod., _Argon._, ecc.). — Pausania (_l. c._) indica Dione città di Macedonia non lungi dal fiume Elicona come il luogo ove Orfeo fu fatto a pezzi dalle donne, d’accordo in ciò colle opinioni moderne che spiegano quel curioso titolo di Traci attribuito nelle leggende ai più antichi cantori della Grecia (Eumolpo, Orfeo, Museo, Tamiri). Infatti la patria di quella tracia poesia è a ricercarsi non già fra le popolazioni incolte della vera Tracia, fra i barbari Odrisj ed Odomanti; ma bensì in quella regione greca di _Pieria_ che si stende ad oriente dell’Olimpo, a settentrione della Tessaglia, e tiene il mezzodì della Macedonia. Quivi eran appunto la città di Libetra, dov’era fama che le Muse cantassero il lamento sulla tomba di Orfeo: e Omero stesso e tutti gli antichi poeti designano la Pieria, non la Tracia, come patria delle Muse. E verisimilmente questa stirpe greca de’ Pierj stendevasi anche in una parte della Beozia e della Focide, d’intorno all’Elicona beotica e alle falde del Parnasso dove era Daulia e dove troviamo con Tucidide (II, 29) la sede del tracio re Tereo: e d’onde con Tereo stesso e con Eumolpo, qualificato pur egli per _Trace_, fecero irruzione nell’Attica (Strab., VII; VIII; Apollod.; Scol. Sof., _Ed. Col._; Licurg., _C. Leocr._; Isocr., _Panaten._). Solo quando i Pierj ebbero a patir più tardi molestie e persecuzioni nella lor propria contrada dai principi macedoni, si ritirarono nella Tracia propriamente detta, al di là dello Strimone, dove Erodoto (VII, 12; cfr. Tucid., II, 99) ricorda i castelli dei Pierj; e là, confondendosi coi veri Traci, legarono a questo nome dei loro nuovi compatrioti la memoria dei loro canti e il lustro della loro tradizione poetica, che era quella nientemeno delle prime origini della poesia greca (Cfr. Strabone, VII, 7; IX, 2; X, 3). [506] Ben diversa sembra fosse l’opinione che avevasi delle donne tracie nella Grecia: «dov’elle venivano per far le serve e qualche cosa di peggio» (La Bruyère). Così Teofrasto volendo descrivere una di quelle donne di malaffare «_che appostano i giovani sulla pubblica via_,» ne fa una donna di Tracia (Teofr., _Caratt._, 28). Si capisce quindi che il vanto di Odrisio dovesse far sorridere Alcibiade. [507] Usanza dei Crestonesi, una delle popolazioni di Tracia. «At qui supra Crestonas incolunt ista agunt: singuli plures uxores habent, quorum ubi quis decessit, disceptatio magna fit inter uxores acri amicorum circa hanc rem judicio, quaenam dilecta fuerit a marito præcipue. Quæ talis judicata est, et hunc onorem adepta, ea a viris et mulieribus exornata, ad tumulum a suo propinquissimo mactatur, unaque cum viro humatur: cœteris uxoribus id sibi pro ingente calamitate ducentibus atque lugentibus: nam id eis summo dedecori datur» (J. Boem. Aub., _Mores, leges, etc_., III, c. 5). [508] Μὰ τὸν Ἄνεμον καὶ τὸν Ακινάκην — (Lucian., _Tossari_, 38). Arma nazionale dei Traci e degli Sciti era la sciabola o scimitarra, ἀκινάκην (cfr. sopra, nota 3; e Ammiano, XIII; Luciano, _Giove Trag_.) — e per essa, e per il vento, ritenuti Iddii, solevano giurare; come sacro era ai Greci il giuramento _per le lancie_ (Giustin., XIII), e come vedesi in Omero giurar Giove _per lo scettro_. — Del culto degli Sciti per la scimitarra, accennano Clem. Aless., 25 C., e Ammiano XXXI. Solano cita un libro di viaggi in Russia, ove degli Sciti, cioè dei Moscoviti del suo tempo, era detto che conservavano l’antico culto: _Arcum et gladium ceteraque arma pro diis habent_ (Sol., _note_ a Luciano). [509] Circa la sfida dei bicchieri e quella delle mogli — che mi fornirono l’argomento di questa scena e della precedente — mi riporto al Meissner che le accenna succintamente entrambe (tom. IV, pag. 297, 301). Pensai giovarmene, colla scorta di Senofonte (_Anab_.), di Strabone, di Eliano, ecc., per una breve pittura dei costumi traci, e quanto al carattere di Alcibiade, per la preparazione drammatica delle ultime scene del quadro. [510] Leggo in un frammento d’una commedia di Menandro: «Tutti i Traci in generale e noi Geti in particolare non siamo gran fatto temperanti... Poichè nessuno di noi conduce in moglie meno di dieci od undici donne; e molti anche dodici. Che se dopo aver appena condotto in moglie quattro o cinque donne soltanto, muore, egli vien fra noi chiamato celibe (ἄνυμφος), infelice, ignaro d’imeneo (ἀνυμέναιος)» (Men., _Framm._, pr. Strabone, VII, 3. — fr. 8 ediz. Didot). Ed Eraclide Pontico: «Ciascuno di costoro (Traci) prende tre o quattro mogli, e ve ne ha pur che ne prendono anche trenta, e le trattano come serve. Giacciono con esse periodicamente, e la donna lava e serve il marito, e molte, dopo il congiungimento, dormono sul suolo. E se taluna ciò mal comporta, i genitori, col restituire ciò che han ricevuto, ritirano la figlia, perchè essi le maritano ricevendone il prezzo. Morto il marito, i suoi parenti ne ereditano, come le altre cose, così anche le mogli» (Eracl. Pont., _Rep_., 27). Che i Traci comperassero le mogli dai genitori, a caro prezzo, è narrato anche da Erodoto, V, 6. — E l’Aubano: «Uxorum pudicitiam solicitius custodiunt (Thraces) easque magno aere a parentibus coemunt, fronte notis quibusdam segnatis: generosum id judicatur, ignobilitatis argumentum sine his esse. Nupturae quae prae ceteris specie valeant, prius subtaxari volunt, et licentia taxaxionis admissa, non minoribus nubunt praemiis. Quas formae dedecus premit, dotibus emunt quibus conjunguntur» (I. Boem. Aub., _l. c._). [511] Eracl., Pont., _Rep_., 27. — E Platone: «Quale maniera di convivenza cogli uomini prescriveremo alle donne? forse quella per la quale i Traci si servono delle mogli a coltivar i campi e a pascolare i buoi e le pecore e ad altri bassi ufficj in cui nulla differiscono dai servi?» (Plat., _Leg_., VII, 805). A questa condizione servile delle donne fra i Traci, lo stesso Platone paragona giustamente, nel passo citato, la condizione non molto dissimile, e di poco migliore, della donna fra gli Ateniesi, mantenuta anch’essa nella dipendenza del marito e chiusa in casa ad attendere al lanificio e alle altre faccende muliebri. — A Sparta invece la posizione della donna era precisamente il rovescio. Anche a Sparta, è vero, essa amministrava l’interno della casa, ma in una condizione ben più elevata; e mentre fra gli Joni vediamo la donna dividere col marito il letto e non la tavola, e chiamarlo _padrone_, i Dori di Sparta, all’opposto, con una galanteria affatto medioevale, chiamavano signora e _padrona_, δέσποινα, la moglie. E la parola non era già una cortesia vuota di senso o una ironia: ma rispondeva perfettamente all’influenza che avevano le donne spartane nella vita dello Stato e al loro effettivo predominio sopra i mariti, pel quale andavano proverbiali. Indi appunto dalle mogli spartane ebbe origine quel detto: che _ridurre le donne all’obbedienza era impresa in cui fallì persino il genio di Licurgo_ e a cui egli stesso dovette rinunziare. «_Le Spartane_, diceva una forestiera alla sposa del re Leonida, _sono le sole donne che esercitino padronanza sui loro uomini. — Certo_, ella rispose: _ma sono anche le sole che mettano al mondo uomini_» (Plut., _Lic_., 14, _Apof. Lac_., e in _Numa_, 3; Plat., _Leggi_, I, 637; Aristot., _Polit_., II, 6; Esich. (δέσποινα). — Cfr. Müller, _Dorier_, lib. IV, 4). [512] Cfr. l’Aubano, ove parla delle donzelle di Tracia: «Thraces... nec virgines a parentibus et propinquis adservari, _sed quibus libuit cum viris concumbere sinunt_» (B. Aub., _l. c_.). [513] _Andar in Tracia a cambiar fortuna_ (come noi diremmo: _andar in America_). — Maniera proverbiale; ossia citazione dei due versi greci ἔγνωκε πλεῖν εἴς τἀπί Θρᾴκης χωρία, ἐχεῖ διαλλαγησόμενος πρὸς τὴν τύχην. (_Per far pace colla sorte — Verso Tracia navigò_) che si applicavano proverbialmente a coloro i quali, perseguitati dalla miseria in patria o malcontenti della loro condizione, viaggiavano il mondo per cercar fortuna. Vedine un esempio in Sinesio, _Lettere,_ 43. La scelta della Tracia, paese povero e senza risorse (tanto che forniva alla Grecia le fantesche e i mercenari), caratterizzava argutamente la vanità delle speranze di quei cacciatori della fortuna, non mai contenti del proprio stato. [514] «Ad hunc (Zamolxin) mittunt assidue adhuc cum navi quinque remigum nuncium quempiam ex seipsis sorte delectum, praecipientes ea quibus semper indigent: eumque ita mittunt. Quibusdam eorum datur negotium: ut tria jacula teneant; aliis, ut comprehensis ejus, qui ad Zamolxin mittitur, manibus, pedibusque hominem agitantes in sublime jactent ad jacula: qui si in praesentiarum exstinguitur propitium sibi Deum arbitrantur, sin minus, ipsum nuncium insimulant, asseverantes malum illum esse virum, hoc insimulato alium mittunt, dantes adhuc viventi mandata» — (B. Aub., _l. c._). [515] Uso degli Sciti coi quali i Traci confinanti avevano, come si disse, e come attestano gli scrittori greci, affinità d’indole, di abitudini e gran parte delle costumanze comuni. Aristeneto lo accenna in una sua lettera, I, 12. Filarco narra che gli Sciti ogni giorno innanzi coricarsi si faceano recare la loro faretra e in essa gettavano una marca bianca o nera, secondo che avean passato una giornata felice o rattristata da disgrazie. Quando poi uno Scita moriva, si prendeva la sua faretra e si contavan le marche bianche e nere: e se il numero delle bianche era maggior delle nere, lo si giudicava beato. Indi passò la cosa in proverbio (Cfr. Mercerus, _Comm._ in _Aristen._). [516] Per la lor maniera comoda di interpretare e mantener i patti e le promesse, venivano i Traci citati dai Greci in proverbio. Eforo narra che pattuitosi una volta, fra Traci e Beoti guerreggianti, un armistizio di più giorni, i Traci, malgrado la tregua, di notte assalirono per sorpresa i Beoti: respinti e rimproverati per aver violata la fede, risposero di non averla violata affatto, perch’essi avevano pattuito la tregua per i giorni e non per le notti. Indi venne fra i Greci il proverbio: _interpretazione_ o _commento da Trace_, θρακια παρεύρεσις (Strabone, IX, 2). La stessa risposta diede più tardi il re spartano Cleomene agli Argivi, da lui assaliti nottetempo, durante una tregua d’armi (Plut., _Apof. Lac._). [517] _Giove ospitale_ (ξένιος — Esch., Agam., 355) era altro degli attributi di Giove, siccome punitore di chi violasse i diritti e i doveri della ospitalità (νὴ τὸν ξένιον, _per l’Ospitale!_ — cioè, per Giove protettor degli ospiti! — Plat., _Leg._, XII, 965). Siccome in Giove, del resto, raffigurarono gli antichi lo spirito unico, universale, motore e produttore di tutte le cose, _et qui cuncta Creat intelligendo_ (Porfirio) — così a seconda delle varie funzioni attribuite alla sua potenza fu egli chiamato con varj nomi: _tot monstra, quot Jovis nomina_ (Arnobio, VII): a tal che v’ebbero non meno di trecento Giovi. Così, dalla sua influenza sulle azioni umane, vennero a Giove i soprannomi di _protettor dell’amicizia_ (φιλιος), di _protettor dei supplicanti_ (ἱκέσιος), di _onniveggente_ (διόπτης καὶ κατόπτης), di _onnipossente_ (παγκράτης), di _salvatore_ (σωτὴρ), di _Ellanio_ o protettor della Grecia (Ελλάνιος), di Giove _re_, ecc. Dalla influenza, invece, sugli elementi gli venivano i soprannomi di _pluvio_ o _piovoso_ (ὄμβιος, ὔετιος), di _aduna-nubi_ (νεφεληγερέτης), di _aduna-fulmini_, o _tuonante_, o _fulminante_, o _signor del fulmine_ (ἀστερόπτης, κεραύνιος, βρονταῖος, τερπικέραυνος, κεραυνοβρόντης, ecc.). Altri nomi gli venivan dai luoghi ov’eran suoi templi famosi, come Giove _Idèo, Tesprozio, Nemèo, Dodonèo_, ecc. [518] Allude alla iniqua condanna dei capitani che avevano assunto il comando della flotta ateniese di Samo in luogo di Alcibiade, dopo la sua seconda disgrazia (Protomaco, Aristogene, Pericle, figlio del gran Pericle, Diomedonte, Lisia, Archestrato, Aristocrate, Trasillo ed Erasinide), e i quali, vincitori della flotta spartana di Callicratida presso le isole Arginuse (406), furono puniti di morte (meno Protomaco e Aristogene che si salvarono colla fuga) per aver trascurato di raccogliere i cadaveri dei morti nella battaglia (Senof., _St. Ellen._, I, 7; Diod. Sic., XIII). La condanna aveva avuto luogo nel novembre del 406 e quindi pochi mesi prima dell’epoca in cui è supposta la presente scena. [519] Narra Senofonte che essendo stato una volta il re dei Traci, Tere, progenitore di Seute, assalito alla sprovvista dai Tinii, abilissimi nelle sorprese notturne, — il re Seute, a prevenire il rinnovarsi di simili sorprese, stavasi in una torre ben custodita e avea sempre dintorno, già pronti, dei cavalli frenati (Senof., _Anab._, VII, 2). [520] «Intanto i capitani Tideo, Menandro e Adimanto, avendo all’Egospotamo tutte le navi che rimaste erano allora agli Ateniesi, passavano l’intera giornata senza tenersi in alcun ordine o darsi veruna cura, siccome quelli che in dispregio avevano il nemico. Alcibiade però, il quale era dappresso, non si mostrò già in questa circostanza negligente e trascurato: ma montato a cavallo andò a ritrovar quei capitani e gli ammonì con far loro vedere che avevan fatto male a fermarsi in quei luoghi...» (Plutarco, _Alcib._, 36, _Lisand._, 7; Senof., _St. Ell._, II, 1; Corn. Nep., _Alcib._, 7). [521] _Egospótamo_ (Αἰγὸς ποταμός, ossia _fiume della capra_), località sulla spiaggia del Chersoneso di Tracia, alla foce di un fiumicello dello stesso nome; e posta quasi dirimpetto a Lampsàco (sulla spiaggia asiatica dell’Ellesponto, non più largo in questo punto di due chilometri circa) ove era ancorata la flotta spartana di Lisandro. Circa una ventina di miglia (162 stadj) a mezzogiorno di Egospótamo, sulla stessa spiaggia europea, là dove l’Ellesponto si restringe viemaggiormente e non misura più che sette stadj, ossia meno di un miglio di larghezza era Sesto, una delle migliori città del Chersoneso, celebre per la torre di Ero e per il poema di Museo; e un miglio più in giù di Sesto, sulla opposta spiaggia asiatica, era Abido, la patria dell’infelice amante di Ero. Tra Abido e Sesto gettò Serse il ponte per traghettare il suo esercito dall’Asia in Europa. La flotta ateniese (comandata da Tideo, Filocle, Conone, Menandro, Adimanto e Cefisodoto) era venuta, risalendo l’Ellesponto, da Sesto ad Egospótamo, per dar battaglia a Lisandro, il quale da Abido aveva risalito anch’egli l’Ellesponto fino a Lampsaco e si era impadronito a forza di quest’ultima città (Cfr. Strabone, _Geog._, XIII, pag. 883, 884; Scilace, _Viaggio_; Senof., _St. Ellen._, II, 1; Plut., _Lisand._, 11). [522] «Gli Ateniesi, tenendo dietro a Lisandro, presero posto in Eleunte del Chersoneso con centottanta legni. Quivi, mentre erano a pranzo, ebbero avviso del successo di Lampsaco (assalita e presa da Lisandro). Onde senza alcun indugio navigano a Sesto. E indi si inviano per la dritta ad Egospótamo, borgata rimpetto a Lampsaco: e in quel luogo cenavano» (Senof., _St. Ell._, II, 1). [523] Notissimo l’episodio omerico di Glauco, un dei duci Trojani, che in ricordo di antica ospitalità e mutua amicizia, scambiò le sue ricchissime armi d’oro con quelle del greco Diomede che le avea di rame. Così dicendo, dai corsier discesi, Strinser le destre e si scambiar le fedi. Ma nel cambio dell’armi il senno tolse A Glauco Giove. Aveale Glauco d’oro, Diomede di bronzo; eran di quelle Cento tauri il valor, nove di queste. (Om., _Iliad._, VI, 233). Questo scambio, caratteristico dell’antica cavalleria, passò tra i Greci e poi tra i Latini in barzelletta; e, in tempi meno cavallereschi e più positivi, le parole d’Omero — χρύσεα χαλκείων (_aurea pro aeneis_) — erano da’ Greci adoperate, per proverbio, a significare un baratto ingenuo, da stupido, come stupido appunto è chiamato Glauco da Marziale: _Tam stupidus nunquam, nec tu puto, Glauce, fuisti_ (Mart., IX, epig. 96). [524] «_Menelao mostrò poco senno in venire consigliere ad Agamennone senza invito, talchè se ne fece un proverbio_» (Plut., _Disp. Conviv._, I, 2. — Cfr. Omer., _Iliad._, III, v. 408). [525] «Riposavano gli Ateniesi (_sulla spiaggia di Egospótamo_) sperando venire il dì seguente a battaglia. Ma Lisandro volgeva ben altro in mente... e al levarsi del sole inoltrandosi gli Ateniesi con tutte le loro navi a fronte distesa e provocando a battaglia, egli, quantunque tenesse già volte le prore contro di loro e in pieno assetto di combattimento, ciò nonostante non si avanzava punto; anzi mandò schifi alle navi che erano più innanzi, con ordine di non muoversi, e starsene in ordinanza. Quindi, tornati essendo indietro gli Ateniesi verso la sera, Lisandro licenziar già non volle dalle triremi i soldati se prima due o tre navi da lui stesso spedite a spiare il portamento dei nemici, non ritornarono coll’avviso sicuro, che li avevan veduti discendere sul lido. Nel giorno dopo, nel terzo, e fin nel quarto rinnovossi la stessa cosa, di modo che molto crebbe l’ardimento degli Ateniesi, che ad aver cominciarono in vilipendio i nemici, come se questi così ritirati e ristretti fra loro si stessero per la paura» (Plut., _Lisandro_, 11). [526] «Ma Alcibiade (narra proseguendo Plutarco), che trovavasi ne’ suoi presidj del Chersoneso di Tracia, venne cavalcando al campo degli Ateniesi, e si diede ad ammonire i capitani primamente che male accampati si stessero e con pericolo in ispiaggie tutte scoperte; in secondo luogo che commesso avessero un grand’errore coll’essersi dilungati da Sesto, d’onde ricevevano le cose che erano lor necessarie: e dicea che d’uopo era che costeggiando navigasser eglino sollecitamente alla città e al porto di Sesto allontanandosi così da’ nemici, che venivano a farsi lor sopra con un esercito che retto era da un solo comandante, e tutte cose appuntino e con disciplina immediatamente eseguiva a norma del concertato. A queste di lui avvertenze i duci non restarono persuasi. Anzi Tideo ingiuriosamente gli rispose dicendo che non già egli, ma altri eran quelli che governavan l’armata. Alcibiade pertanto sospettando in essi qualche tradimento, si partì da loro» (Plutarco, _Lisandro_, 11. — Cfr. Plutarco, _Alcibiade_, 37), ove soggiunge: «... A quei suoi conoscenti che lo accompagnavano fuori del campo, egli (Alcibiade) disse che se stato non fosse così vilipeso da’ capitani, avrebbe costretto fra pochi giorni i Lacedemoni a venir loro malgrado ad una battaglia navale o a dover lasciare le navi. Ad alcuni parve ch’egli allora così parlasse per vana jattanza, e ad altri ch’ei dicesse cose assai probabili, se conducendo esso dalla parte di terra una quantità numerosa di Traci esperti in gettar freccie e cavalcare, ad attaccar fosse venuto il campo di Lisandro. L’effetto comprovò che Alcibiade aveva rettamente compreso il fallo commesso dagli Ateniesi...» (Cfr. anche Senof., _Ellen._, II; Corn. Nep. in _Alcib._, 8. — Diod. Sic., XIII, cap. 19). [527] ὤς οὔν ὑπὲρ τῶν ἐσχὰτγων ὄντος τοῦ ἀγῶνοπς, poichè si ha da combattere per le ultime cose, — dice Demostene (_Cherson._, _Filipp._, IV). E l’Anelli traduce: «_Pugnar per i penati e gli altari._» [528] Callicrátida, il navarca spartano che comandava la flotta di Sparta sconfitta dagli Ateniesi nella battaglia delle Arginuse (406 av. l’E. V.) e gloriosamente combattendo vi morì. Il pilota della sua nave lo aveva prima esortato a non impegnar la battaglia, mostrandogli che la flotta ateniese era superiore di numero; egli rifiutò dargli ascolto, reputando vergognoso fuggire in presenza del nemico. Cicerone così ne riferisce le parole: «_Lacædemonios classe amissa aliam parare posse: se fugere, sine dedecore non posse_» (Cic., _De Officiis_, _I_, 48). Senofonte le riferisce alquanto diversamente: «Rispose (Callicrátida) che _Sparta per la sua morte non riceverebbe danno alcuno, ma bensì il fuggire sarebbe ignominia per lui_ (ἤ Σπάρτη οὐδέν κάκιον οἰκεῖται, αὐτοῦ ἀποθανόντος, φεύγειν δὲ αἰσχρόν εἴναι. — Senof., _St. Ell._, I, 6; Plut., _Apoft. Lac._; Diod. Sic., XIII, c. 17). [529] Secondo il racconto di Senofonte (_St. Ellen._, II, 1), Alcibiade non fece che suggerire ai capitani ateniesi di abbandonare il luogo deserto e malsicuro dov’erano e di ritornarsene a Sesto «dove avrebbero avuto la comodità del porto e della città, e dove avrebbero potuto aspettare al sicuro che gli Spartani si decidessero a combattere.» Il piano invece che in questa scena Alcibiade suggerisce ai capitani, si accosta, con alcune modificazioni, alla versione di Cornelio Nepote (_Alcib._, 8) e di Diodoro (XIII, c. 19). Questa versione, preferibile nel rapporto drammatico, combina anche colle parole attribuite ad Alcibiade da Plutarco (_Alcib._, 37) «_ch’egli cioè avrebbe costretto fra pochi giorni i Lacedemoni a venir, loro malgrado, ad una battaglia navale o a dover lasciare le navi_:» e non parmi tanto assurda come il Grate, e l’Houssaye sulla sua scorta, mostrano di credere, affermando come fanno (Grote, _St. della Gr._, t. XII; Houssaye, _Hist. d’Alcib._, t. II, p. 382), la impossibilità di operare in presenza della flotta di Lisandro uno sbarco di truppe sulla costa asiatica, e l’impossibilità dell’attacco diversivo di terra ferma contro le posizioni spartane di Lampsaco custodite e fortificate. Nè il Grote, nè l’Houssaye avvertono che prima di tutto se Alcibiade consigliava agli Ateniesi di scender giù fino a Sesto, egli è evidentemente di là che egli intendeva operare lo sbarco, cioè non già presso a Lampsaco, ma presso Abido, a ventun miglia e più di distanza da Lisandro e dalla sua flotta; e là dove l’angustia dello stretto rendeva lo sbarco più facile e permetteva alla flotta ateniese di proteggerlo efficacemente; in secondo luogo, che, operato lo sbarco, Lisandro non avrebbe più potuto aspettare a piacer suo, tenendosi sotto mano tutte le forze riunite, l’occasione per lui più propizia di combattere: ma sarebbe stato costretto, per respingere in terra ferma la diversione d’Alcibiade contro Lampsaco, a sguernire le navi in presenza della flotta ateniese operante di concerto; e così veniva esposto, in caso di un successo di Alcibiade dal lato di terra, a rimaner preso in mezzo e ad accettar per forza la battaglia sulle navi. Di più quella diversione di terra ferma era tutt’altro che di esito così impossibile come il Grote e l’Houssaye la riguardano; perchè il corpo d’esercito trace che Alcibiade prometteva era un rinforzo poderoso, e di truppe eccellenti; reso più poderoso dal comando di un tal condottiero; e l’impresa contro Lampsaco che Alcibiade avrebbe tentato alla testa di quel corpo non era se non la medesima che era riuscita felicemente pochi giorni prima, allo stesso Lisandro, il quale avea preso Lampsaco d’assalto, benchè fortificato e difeso ad oltranza con tutte le forze; e colla differenza che questa volta Lisandro non poteva distrarre dalla flotta ed opporre ad Alcibiade se non una parte delle proprie forze, per la difesa della città. E aggiungasi un’ultima circostanza importante: che cioè Alcibiade avrebbe operato in paese amico: perchè Lampsaco, che pure Lisandro avea preso d’assalto «_era città in lega cogli Ateniesi_» (Senof., _St. Ell._, II, 1). [530] Cornelio Nepote e Diodoro Siculo lasciano intendere che il rifiuto dei duci di dar retta ad Alcibiade movesse in loro da un sentimento di invidia; temendo essi il prestigio di Alcibiade fra le schiere, e prevedendo che se il piano di Alcibiade riusciva, se ne sarebbe attribuito a lui tutto l’onore. «Id etsi vere dictum Philocles animadvertebat, tamen postulata facere noluit, quod sentiebat, se, Alcibiade recepto, nullius momenti apud exercitum futurum, et si quid secundi advenisset, nullam in ea re suam partem fore: contra ea, si quid adversi accidisset se unum ejus delicti futurum reum» (Corn. Nep., _Alcib._, 8; Diod. Sic., XIII, c. 19). [531] «αύτοὶ γάρ νῦν στρατηγεῖν, οὔκ ἐκεῖνον» (Senof., _St. Ell._, II, 1). [532] Questa parola da me qui posta in bocca ad Alcibiade riassume l’opinione che poi prevalse in Atene intorno alla disfatta di Egospótamo: molti scrittori infatti non esitarono ad accusare i capitani ateniesi di tradimento, e di aver volontariamente date le navi in preda al nemico. E sebbene l’Houssaye attribuisca questa accusa al solito vezzo dei popoli di attribuire al tradimento tutte le battaglie perdute, certo è che la leggerezza e l’inqualificabile contegno dei generali ad Egospótamo sembravano fatti apposta per giustificar quell’accusa. Demostene la formula nell’orazione della _falsa ambasceria_; così pure Lisia (_C. Alcib. min._, I, 38); e più tardi Plutarco (_Lisand._, 11); e più tardi Pausania: «Egli è certo che gli Spartani quando si batterono ad Egospótamo corruppero con doni molti officiali della flotta ateniese, e in ispecie Adimanto» (Paus., _Mess._, 17). [533] Ateneo designa col nome di _Melissa_ il villaggio di Frigia presso il quale Alcibiade fu assassinato; e narra di aver veduto egli stesso il monumento ivi erettogli dopo la sua morte, al quale immolavasi ogni anno un bue, per ordine dell’imperatore Adriano, che fece anche porre sul monumento la statua di Alcibiade medesimo (Aten., _Deipn._, XIII, 574 f.). Aristotele dice dal suo canto che Alcibiade fu ucciso in Frigia presso il monte Elofos (_Hist. anim._, VI, 29). [534] Dopo la disfatta di Egospótamo e la caduta di Atene, Alcibiade — narra Cornelio Nepote — non tenendosi più abbastanza sicuro ove trovavasi, passò in Asia a Farnabazo, satrapo del re di Persia: «_ma ogni suo pensiero era volto a liberar la patria:_ e vedeva ciò senza il re di Persia non potersi fare; onde avrebbe voluto renderselo amico: e ciò credeva agevolmente potergli venir fatto, quando modo avesse avuto di presentarglisi. Imperciocchè egli sapeva che Ciro fratello del re nascostamente coll’ajuto degli Spartani si apparecchiava a fargli guerra; la qual cosa se egli avesse manifestata al re, vedeva che gli sarebbe entrato molto in grazia. Mentre stava queste cose macchinando, Crizia e gli altri tiranni degli Ateniesi mandarono uomini fidati nell’Asia a Lisandro per avvertirlo che se non avesse tolto di vita Alcibiade, nulla di quanto aveva egli in Atene ordinato, sarebbe stabile rimasto. Di ciò commosso lo Spartano, fece sapere a Farnabazo che i negozj che il re aveva cogli Spartani sarebbero andati vani, se non gli avesse dato in mano Alcibiade o vivo o morto. Laonde il satrapo mandò Sisamitre e Bagoa ad ammazzare Alcibiade nel tempo che egli era in Frigia, e si avviava per portarsi dal re» (Corn. Nep. in _Alcib._, 9, 10. — Cfr. Eforo nei _Fragm. histor. graec._, framm. 126.; Plut, _Alcib._, 38, _Lisand._, 16). [535] La _parasanga_ era misura itineraria persiana corrispondente a 30 stadj, e cioè (essendo lo stadio metri 184,26) a circa 6 chilometri e mezzo. Ventidue parasanghe, ossia circa 122 chilometri, erano la distanza, secondo il calcolo di Senofonte (_Anab._, I, 2), da Sardi capitale della Lidia al fiume Meandro, confine della Frigia, da cui non lunge è qui supposta la capanna di Alcibiade. Aggiungo qui un cenno sulle principali misure di lunghezza fra i Greci: le quali erano il _dattilo_ o dito (metri 0,0191); il piede o 16 dattili (m. 0,3071); la _pigma_ o 18 dattili (m. 0,3409); il _pigone_ o 20 dattili (m. 0,3838); il _cubito_ (κῆχυς) o un piede e mezzo (m. 0,460); l’_orgia_, ossia 6 piedi (m. 1,8426); il _pletro_, ossia 100 piedi (m. 30,71); lo _stadio_, ossia 6 pletri o 600 piedi (m. 184,26); il _diaulo_ o 2 stadj (m. 368,52); l’_ippicon_ o 4 stadj (m. 737,04); il _dolicon_ o 12 stadj (m. 2210,12). [536] Di quest’erba, ricordata proverbialmente fra i Greci, fa cenno Aristeneto (_Lett._, I, 10). La crisópoli, spiega nei commenti lo Tzetzes, è un’erba le cui foglie si attaccano all’oro puro e prendono il colore di quello: se l’oro non è puro, non si attaccano. [537] Che qualcun altro si trovasse con Alcibiade al momento della sua morte, oltre a Timandra, di cui parla Plutarco, si rileva da Cornelio: «_Namque erat cum eo quidam familiaris ex Arcadia hospes, qui nunquam discedere voluerat_» (Corn. Nep., _Alcib._, 10). [538] Uno scudo di rame levato in alto sulla cima di una picca dalle navi spartane spedite in esplorazione, fu il segnale predisposto da Lisandro per uscir colla flotta da Lampsaco e cogliere impreparata la flotta ateniese ad Egospótamo, nel momento che la maggior parte dei soldati ateniesi trovavasi dispersa a terra (Plutarco in _Lisandro_, 11; Senof., _St. Ell._, II, 1). [539] I sogni _figli della Terra_, da questa prodotti per vendetta contro Apollo (che le aveva ucciso il drago custode degli oracoli di sua figlia Temide), affinchè predicessero le cose a’ mortali, in luogo degli oracoli di quel Dio. «Poi che Febo scacciò Temide figlia della Terra dai divini oracoli, il suolo generò notturni spettri, che a molti dei mortali le presenti e passate e le future cose palesavano in sogno sotto l’ombra della terra oscura. Perocchè la Terra, per vendetta della figlia, avea privato Febo dell’onor dei vaticini» (Eurip., _Ifig. Taur._, 1259 seg.). «_Veneranda Terra, madre dei sogni dalle negre ali_» la chiama altrove lo stesso Euripide (_Ecuba_, 70). [540] Sulla nave _Paralo_, vedi quadro IV, n. 19. [541] Circa 200 navi e tremila prigioni ateniesi caddero in mano a Lisandro per la disfatta di Egospótamo (da cui Conone appena si salvò colla _Paralo_ e con altre otto navi); tutti i prigioni furono da Lisandro condotti a Lampsaco e posti a fil di spada (Plut., _Lisand._, 11; Senof., _St. Ell._, II, 1). [542] «Vivea per caso allora Alcibiade in un certo villaggio della Frigia, avendo seco Timandra sua concubina; ed ebbe dormendo sì fatta visione. Gli parve di avere intorno le vesti di Timandra, e che questa tenendo fra le braccia il di lui capo, gli adornasse la faccia, dipingendogliela e lisciandogliela come a una donna. Altri dicono che dormendo egli vide Mageo stesso che gli troncava la testa e il proprio suo corpo dato alle fiamme: ma tutti asseriscono che egli ebbe un tal sogno non molto prima del di lui fine» (Plut., _Alcib_., 39). «_Alcibiades quoque miserabilem exitum suum haud fallaci nocturna imagine speculatus est. Quo enim pallio amicae suae dormiens opertum se viderat, eo interfectus, et insepultus jacens, contectus est_» (Val. Massimo, I, 7. — Cfr. Cicerone, _Divin_., 2). [543] L’importanza che da Omero in poi avevano i sogni nelle idee greche popolari intorno alla divinazione (Cfr. quadro II, n. 48) veniva pur loro attribuita dalla scuola socratica. «_A me di far questo venne imposto dal Nume e per vaticinj e per sogni e per ogni mezzo con cui per avventura altra divina sorte comandasse all’uomo di fare alcunchè_,» così esprimesi Socrate stesso, il gran maestro di Alcibiade, nell’_Apologia_, 22. Il sogno poi di Alcibiade parmi che ritrovi un riscontro assai caratteristico nel sogno che Chione, altro discepolo della stessa scuola, narra in una sua lettera a Platone: «Coi cantici di vittoria e coi premj ai vincitori destinati abbandonerò la vita, se prima di partir dal mondo avrò abbattuto la tirannide. Poichè a me i sagrificj e gli augurj e i vaticinj d’ogni sorta presagiscono la morte, dopo che avrò compiuto questa impresa. Io stesso n’ebbi una visione più chiara di quante mai sogliono apparire nei sogni. Pareami vedere una donna di forme e di statura divina, la quale cingevami di corona d’ulivo e di bende, e poi mi mostrava un bellissimo monumento, e mi diceva: _Quando avrai faticato e sarai stanco, o Chione, entra in questo monumento e riposa_. E però da questo sogno traggo lieta speranza ch’io sarò per morire di bella morte. Imperocchè nessun vaticinio dell’anima reputo essere fallace: _tu stesso_ (o Platone) _avendo ciò affermato_» (καὶ σὺ οὐτῶς ἐγινωσκες) (Chione, _Lett_., 17) — Dal suo canto Aristotele, l’altro sommo socratide, affermava: «Quando l’anima per il sonno è isolata dalla compagnia e dal contagio del corpo, allora si ricorda delle cose passate, discerne le presenti, prevede le future.» Sentenza che Cicerone ricopiò (_Divin_., I): e che Aristotele aveva trovato già in Eschilo: «_Quando dormono i sensi_ — _In chiara luce è l’anima_ — _E vede aperto de’ mortali i casi_» — (Esch., _Eumen_., 109). [544] Così i sogni di sera come i sogni d’autunno erano ritenuti bugiardi. «_Folle! che prestò fede a un infelice sogno della sera_ (ὀνείρῳ ἐσπεριῳ), _sogno che lusinga nei tetti i miseri mortali, e per dileggio in tutto li inganna_» (Quinto Smirneo, _Paralip_., v. 133). «_Perocchè si dice che i sogni sono mal sicuri e fallaci principalmente in quei mesi nei quali cadono dagli alberi le foglie_» (Plut., _Disp_., _Conv_., VIII, 10). I quali mesi si chiamavano dai Greci con una sola parola φυλλοχόοι: primo di essi il _Pianepsione_ (ottobre-novembre). Similmente in Alcifrone: «_Ricordatomi che s’avvicina il tempo in cui le foglie degli alberi cascano, allora proprio m’avvidi che il sogno era stato fallace_» (Alcifr., _Lett_., III, 10). Per contrario reputavansi veritieri i sogni del cuor della notte e delle ore più vicine all’alba — νυκτός αμολγὸς, _noctis conticinium_. «_E in core ella gioì, poi che sì chiaro_ — _Quel sogno erale apparso innanzi all’alba_» (Om., _Odiss_., IV, 841). «_Post mediam noctem visus quum somnia vera_» (Oraz., _Serm_., I, 10). [545] «Hanno due porte i debili sogni, l’una fatta di corno e l’altra d’avorio. Di essi, quei che uscirono per mezzo al tagliato avorio, portando parole imperfette, lasciano le speranze deluse: quei sogni invece i quali per i lisci corni escon fuora, questi son che recano il vero» (Om., _Odiss_., XIX, v. 562). «Ingannò il dormiente l’immagine d’un sogno uscito dalle fallaci porte d’avorio» (Nonno, _Dionis_., XXXIV, v. 89). «La notte spalancava al mondo le due porte dei sogni: l’una fatta di corni, ed è la porta della verità, ond’escono le vere voci degli Iddii: l’altra è la porta dell’inganno, dei sogni inutili nutrice» (Coluto, _Ratto d’Elena_, v. 309). «Ascolta dunque il mio sogno e giudica se è uscito dalla porta d’avorio o dalla porta di corno» (Plat., _Carm_. — Cfr. Virgil., _Aeneid_., v. 894). [546] Vedi sopra, nota 2. — Plutarco anch’egli narra come gli Ateniesi dopo la caduta della lor città rimpiangessero Alcibiade e di nuovo rivolgessero le speranze a lui: «Quando Lisandro ebbe tolta loro anche la libertà, dando la città a governare a trenta personaggi, allora lamentandosi rammemoravano i loro fatti e la loro cecità: e teneano per fallo massimo l’avere scacciato la seconda volta Alcibiade, e aver così privata la città, con maggior loro vituperio, di un forte e bel capitano. Pure nella presente calamità avevano una qualche esile speranza che del tutto non fosse per anche spacciata la repubblica degli Ateniesi, essendo ancor vivo Alcibiade. Poichè si lusingavano che non avendo egli, neppur la prima volta ch’era in esilio, voluto viversi in ozio e senza far qualche impresa, tanto meno il volesse allora: e non volesse, avendo forze bastanti, abbandonar la patria agli oltraggi dei Lacedemoni e alle violenze dei trenta tiranni. Nè era già irragionevole che il popolo volgesse in mente tal cose, quando anche quei trenta stavano per timore spiando sempre con tutta cura i suoi andamenti... Da ultimo Crizia ammoniva Lisandro... e dicevagli che quantunque gli Ateniesi mostrassero allora di stare assai placidamente e modestamente soggetti al governo oligarchico, non gli avrebbe già Alcibiade, finchè vivesse, lasciati posare giammai in una tale costituzione» (Plut., _Alcib_., 38. — Cfr. Isocr., _De Bigis_., 16). [547] Alla corte del re di Persia si aveva bensì qualche sentore degli avvenimenti che Ciro il giovane preparava nella Lidia per quell’impresa la quale doveva immortalare i diecimila di Senofonte: ma Ciro stesso avea avuto cura di far spargere la voce che quegli armamenti fossero diretti semplicemente contro il satrapo Tisaferne (Senof., _Anab_., I, 1). Però il servizio che Alcibiade disegnava rendere al re mettendolo al chiaro dei disegni di Ciro sul trono di Persia, e offerendogli la propria spada, valeva bene il compenso degli ajuti ch’egli se ne riprometteva per la libertà della sua Atene. Ben diverso da Temistocle, che bandito riparava in Persia per offrire al re di far serva la Grecia, la figura morale di Alcibiade in quest’ultima fase della sua vita, di quanto grandeggia a confronto dell’eroe di Salamina, con cui il figlio di Clinia ebbe pure tali e tanti punti di somiglianza! — Più tardi, un altro grande Ateniese, amantissimo anch’egli della sua città, suggeriva del pari a’ suoi concittadini di ricorrere al re di Persia per proteggere e soccorrere Atene contro Filippo il Macedone. «_Spedite dunque_, diceva Demostene, _legati al re e lasciate lo stupido pregiudizio a voi tanto esiziale ch’egli sia barbaro_» (_Filipp_., IV). E il consiglio era savio nella tristezza dei tempi: ché Maratona e Platea erano già troppo lontane. [548] Eran queste le feste _Tesmoforie_ (Θεσμοφόρια), istituite da Trittolemo (cfr. quadro IV, n. 15), o, secondo altri, da Orfeo, in onor di Cerere _Tesmofora_ o _legislatrice_. A queste feste (da non confondersi con quelle dei misteri eleusini, benchè formanti parte dello stesso culto ed ordine di riti) non assistevano se non sole donne (Arist., _Tesm_., v. 204, 257, 1150); e cioè donne oneste, matrone (ἐλεύθεραι) — di ingenua nascita (εὐγενεῖς γυναῖκες, Arist., _Tesm_., 330): vale a dire che le etére ne erano rigorosamente escluse (cfr. Iseo, _Oraz_., V). Dovevano le donne prepararsi a queste feste colla castità e astinenza più assoluta da ogni piacer carnale, per cinque giorni innanzi le medesime: al qual fine praticavano mille superstiziose mortificazioni, mettendo in letto delle piante come l’_agnus casto_ (Elian., _V_. _St_., IX, 36) per ammorzare i desiderj impuri, ecc. Indi Wieland fa scrivere da Menandro a Glicera: «_Poche matrone assistono all’arcana solennità delle Tesmoforie con una coscienza pura come la tua_.» Si celebravano le Tesmoforie in molte città greche, in ispecie a Sparta, a Tebe, a Megara, a Delo, a Mileto, ecc. Ma sopratutto Atene ne era rigida osservatrice. Qui cominciavano alli 11 di Pianepsione, ossia il mese delle _fave cotte_, e duravano sette dì. I mariti avean obbligo di sovvenire, occorrendo, alle spese delle donne per queste feste, che Alcifrone chiama _santissime_ (_Lett_., III, 39), e Aristofane «_orgie venerande delle Dee_» (_Tesm_., 1151). Soprintendeva alle medesime un sacerdote detto _stefanóforo_, assistito da vergini giovinette, allevate in rigorosa clausura a spese della città entro un recinto sacro, che diceasi il _Tesmoforio_. Nel primo dei sette giorni ascendevasi al tempio di Cerere in Eleusi, portando sul capo i libri della legge: indi era detto il dì dell’_Ascensione_ — ἄνοδος (Esich.). Il secondo e terzo erano giorni di preparazione. Nel quarto cominciavansi le solennità; avea luogo la processione dei _canestri_; i tribunali non giudicavano, e il Senato non teneva seduta (Ar., _Tesm_., 79). Il sesto era un giorno di digiuno: perciò detto νηστέια. Le donne passavano questa giornata sdrajate per terra, in commemorazione di Cerere che, nel cercar Proserpina, dal gran dolore non prese cibo. Il settimo giorno chiudevasi la festa con un sagrificio a Calligenia, — deità distinta da Cerere e da Proserpina, benchè invocata solo nella festa di queste due dee, e insiem con esse e con Plutone (_Tesm_., 306). — Al cominciar delle Tesmoforie tutti i detenuti per semplici delitti erano rimessi in libertà. [549] _Celene_ e _Foro de’ Ceramj_, città popolose e fiorenti della Frigia, sulla via di Siria che Alcibiade dovea percorrere per recarsi a Susa: distanti la prima 28 e la seconda 42 parasanghe (secondo il calcolo di Senof., _Anab._, I, 2) dalle rive del Meandro presso cui è qui supposta l’abitazione di Alcibiade. In Celene era una reggia magnifica del re di Persia, alle sorgenti del fiume Marsia, che prese il nome dal satiro competitore di Apollo, ivi scorticato da quel Dio (Apollod., _Argon._, I, 4; Ovid., _Metam._, VI, 383 seg.). [550] Sul coraggio nobilissimo dimostrato da Socrate in faccia ai trenta tiranni, nel tempo che durò il loro dominio in Atene, vedi Senofonte (_Memorab._, I, 2) e Platone (_Apol._, c. 20). Onde con giusto e santo orgoglio il grande filosofo potè dire di sè, innanzi ai giudici: «Anche allora — cioè in faccia ai tiranni — io mostrai di nuovo col fatto, e non a parole, che della morte io non mi curo nè punto nè poco, ma sommamente mi prendo pensiero di non far cosa nè ingiusta, nè empia. Perocchè neppur quel governo così terribile potè costringermi a commettere un’ingiustizia» (Plat., _ibid._). [551] Plutarco, _Alcib._, 39; Cornelio Nepote, _Alcib._, 10; Giustino, _Hist. Phil._, V, 8. [552] Mi capita sott’occhio un altro opuscolo intorno al mio povero _Alcibiade_, pubblicato ultimamente (A. Tito Persio, sull’_Alcibiade_ di F. Cavallotti — Cagliari, 1875); lavoro di critico egregio, delle cui censure cortesi non mi lamento, perchè accompagnate a molto acume critico, a molto senso dell’arte e a soda erudizione. Fra le censure trovo quella dell’aver fatto morir Alcibiade declamando dei versi, come nei melodrammi. Forse l’egregio critico li udì declamare; il vero è che Alcibiade qui nè declama, nè improvvisa; ma mormora ripetendole nell’agonia, fra le braccia di Timandra, le parole da Timandra udite nel suo primo incontro con lei (Vedi quadro III, scena ultima). A me, nella idea che mi son fatto del carattere e delle passioni di Alcibiade, a me non era parso punto inverisimile che quella reminiscenza cara e lontana avesse a visitare in quel momento la memoria del morente; e che la _gloria_ e l’_amore_, cioè le due grandi e splendide larve di tutta la sua vita, gli si affacciassero, supreme consolatrici, sul limitare della morte. Timandra è il buon genio d’Alcibiade; il cuore dell’eroe doveva ricordarlo nell’ultimo addio di quel giorno che lo ritrovava sulla via del dovere e della gloria vera, un dì additatagli da lei; indi è la coscienza serena che gli riporta dal cuore al labbro le primissime parole della donna sua, mentre l’anima sposa il ricordo di Potidea ad una ultima dichiarazione d’amore; ma non più l’amore snervante, infecondo; l’amore che purifica, che eleva e che permette finalmente al moribondo di appellarsi con orgoglio al giudizio di Socrate. [553] La ragione drammatica, secondo me, della morte di Cimoto, l’ho accennata nella mia lettera a Yorick (pag. 97-98). Un’altra ragione morale e storica potrei accennare colle parole stesse di un critico: «Siccome la morte di Alcibiade fa evidentemente prevedere anche la fine di Timandra, chè ormai quei due non potevan esser disgiunti neppur nel sepolcro, così non avverrebbe in sostanza che una morte sola. Ma qualchedun altro finisce con Alcibiade; con lui cade irreparabilmente anche Atene; or dunque anche un cittadino ateniese deve con lui morire, e questi non potea esser altro che Cimoto» (A. T. Persio, _op. c._): — il rappresentante nato della plebe ateniese del suo tempo, al pari di lui ora avversa ed ora amica ad Alcibiade, dal costume corrotto e dall’anima non del tutto corrotta ancora, ora capace di bassezze ed ora di eroiche virtù. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare il testo greco è stato trascritto tal quale, e le varianti accentate di numerosi termini sono state mantenute. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice a fine volume. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 76035 ***