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ALCIBIADE


OPERE

DI

FELICE CAVALLOTTI

VOLUME V.

ALCIBIADE

SCENE GRECHE IN DIECI QUADRI
CON NOTE

MILANO
TIPOGRAFIA SOCIALE, E. REGGIANI E. C.
Via Marino, Num. 3.
1884.


PROPRIETÀ LETTERARIA.



INDICE


[v]

 

La mattina del 23 di giugno dell’anno di grazia 1873, pubblicandosi in Milano il volume delle mie Poesie, e nell’aria fiutando che il medesimo non avrebbe forse incontrato i gusti letterarj della Regia Procura; avendo, d’altro canto, ritrovato di mio mediocre soddisfacimento l’alloggio che nel Palazzo di Giustizia alla cella N. 50 mi era stato per parecchi mesi fornito dal Regio Erario negli anni di grazia 1870 e 1871, e non nutrendo che un desiderio languido di ritornarvi: per questi ed altri motivi mi alzai quella mattina con un prepotente bisogno di andare a prendere un po’ d’aria fresca sul lago. E col primissimo treno per Arona me ne venni alla bella Meina, specchiante nel Verbano la verzura de’ suoi clivi e le casette bianche, pulite: e da Meina — visto e considerato che lì, in riva al lago, c’erano troppi villeggianti e curiosi — su, per la montagna, a Ghevio, romito villaggio dell’alto Vergante, — al capo estremo della valle che la Tiasca spumosa, tortuosa, chiassosa attraversa, correndo ver’ Meina alla [vi] foce. Il mio Ghevio, dove bambino venivo, nella casa dello zio, con mio fratello e mia sorella, e i cugini, a passar le vacanze della scuola: dove sono i ricordi della mia fanciullezza e il prato ove piccini si faceano le gare delle corse: e delle corse vincitrice talora era anche lei — la bionda vestita di cielo — che vidi più tardi per le vie del mondo un momento rifulgere e sparire:

la s’è racchiusa di nubi in un velo

la diva bionda vestita di cielo!

il mio Ghevio ove s’andava per greppi e boscaglie e per siepi, in traccia di funghi e ciclamini, e di nidi e topolini color bianco e nocciuola; e sempre vi zampilla la fontanella lungo il sentiero della montagna, che ci vedea su la prim’alba in ispezione furtiva ai lacciuoli nel prato; e su in alto è la chiesuola con dipinto nel soffitto l’arcangelo Gabriele, bellissimo, armato di spada, nell’atto che ammazza il gran drago; il quale attirava la mia attenzione più profonda mentre il vecchio prevosto facea la predica domenicale: e lì accosto il piccolo cimitero... che delle memorie più care oggi tanta parte rinserra...

A Ghevio danno i tralci benigni un vino limpido di collina, secco, frizzante, brioso: interlocutore non isgradito di discussioni teologiche fra me e quel parroco molto reverendo, prima che il Cantico dei Cantici turbasse la cordialità delle nostre relazioni diplomatiche: di più, vi spira un’aria montanina salubre, che risveglia gli spiriti, che allarga i polmoni; ma quel giorno parevami anche più salubre del solito: infinitamente più di quella che per me spirava in quel momento a Milano. Tanto è vero che, il domani, una lettera di mio padre avvisavami come qualmente certe faccie di malaugurio si fossero presentate a chiedere di me a casa mia, e gironzassero tutto il santo giorno su e giù per via San Zeno, come ai bei giorni del 69, coll’aria di gente che aspetta amorosamente un debitore. Il terzo dì infine potei formarmi una convinzione assoluta e precisa dei vantaggi igienici della gita mia; poichè [vii] la Eccellentissima Procura di Milano graziosamente notificava al tipografo l’ordine di sequestro delle mie poesie e il mandato di cattura contro il loro indegno papà.

Il mio preciso dovere di suddito benpensante sarebbe stato, lo so, di andarmi subito a costituire e risparmiare ai vigili tutori dell’ordine la fatica e la noja di lunghe, pazienti ricerche: prevalse in me il pensiero ch’essi sono pagati apposta per questo, e l’esercizio del moto fa bene al fisico; che d’altra parte alla salute delle istituzioni e del Regno non era rigorosamente indispensabile il completo adempimento delle benevole intenzioni del Fisco a riguardo mio. — Aggiungasi che in prigione, come l’esperienza del 69 e del 70 insegnavami, mancano i comodi necessarj per lavorare: non ci è posto per mettere i libri, non ci è luce per chiarire le idee, e tutte queste cose mi bisognavano per iscrivere il mio quarto lavoro drammatico, che andavo accarezzando col desiderio da più mesi — e che doveva intitolarsi: Alcibiade.

***

Come la prima idea di questo lavoro mi sia venuta, e in che ora precisa del tal giorno del tal mese abbia preso alloggio nel mio cervello, non saprei: per quanto oggi sia l’uso fra i poeti di non defraudare il mondo di queste informazioni preziose. Certo — e me lo consentano i giovani autori che improvvisano drammi storici su le notizie dell’Enciclopedia — non mi vi accinsi senza un grande rispetto per il mio eroe: cioè non senza essermi prima ingegnato del mio meglio a studiarlo coscienziosamente, intus et in cute, affinchè dall’isole dei beati ei non tornasse ad intentarmi processo di calunnia: e dopo avere risciacquato alle fonti del secolo d’oro di Atene gli studj di greco prediletti in liceo. Il fatto è che, una volta deciso di ricondurre il figliuol di Clinia sulle scene, e intrattenermi secolui un certo numero di settimane, presi le mie disposizioni [viii] per non essere nei colloquj disturbato. E organizzato giù a Meina, in riva al lago, e dentro la valle, un eccellente servizio... semaforico, per avvisare a tempo la comparsa di corpi... eterogenei sull’orizzonte, ispezionai diligentemente il rustico della casa (poichè nei locali ordinariamente abitati il pericolo di seccature era evidente) per eleggere una stanza da studio... all’altezza dei tempi e delle circostanze.

Ragion per cui la prima visita fu alla legnaja nella soffitta, sotto i tetti, dove togliendo via un po’ di legna, e mettendoci un po’ di buona intenzione della fantasia, il locale poteva benissimo passare per una stanza d’architettura spartana, un po’ primitiva, di quella che piaceva tanto a Licurgo. Detto fatto, per le scale tirai su un tavolino e un pajo di sedie, disposi i libri in bell’ordine simmetrico su la legna — e soddisfatto meco stesso del mio spirito inventivo, m’immersi per guadagnar tempo in profonde elleniche meditazioni.

Nè so dir bene quanto durassero: so che di tutte le meditazioni la più importante fu quella ch’ebbi a fare, a un certo punto, sentendomi qualche cosa di morbido passeggiare e scivolar tra le gambe, e trovandomi colla testa in fiamme tutto grondante di sudore come uscissi allora da una stufa. Nel mio desiderio di solitudine avevo infatti dimenticato che in quella stanza... non ero solo: e poi io, che volevo darmi l’aria di pensar tante belle cose, non avevo pensato ch’eravamo a luglio — il sole della canicola, più rabbioso che mai in quella estate, batteva a piombo sulle tegole — e per non dare alla Regia Procura la soddisfazione di prendermi vivo, io le apparecchiavo la ben più dolce sorpresa di un poeta ribelle cotto arrosto.

Nel mio preventivo, questo non entrava: però ridiscesi le scale — ed oh gioia! nello scendere mi s’offerse all’occhio un granaio, che serviva da stanza per l’allevamento dei bachi da seta. Quella destinazione fu come una rivelazione del genio. Imaginate una stanza rustica, appartata, a primo piano, abbastanza spaziosa, coll’uscio su una loggia di [ix] legno, prospiciente il cortile, adattatissima all’ufficio di osservatorio astronomico: dal lato opposto una finestra sul prato che mette alla valle: finestra alta non più di due metri dal suolo erboso e morbido — ed ottima, in caso di ricerche indiscrete, per isvignarsela a respirare il fresco della campagna. Aggiungi l’uscio serrantesi di dentro con eccellente catenaccio; e le tavole dei bachi da seta per disporvi in bell’ordine i libri: e il pensiero di quelli industri animaletti per imitarne il lodevole esempio. Non occorre più dire che lì fermai finalmente i vagabondi penati.

***

E lì in quella stanza, povero baco da seta, per circa due mesi mangiai la foglia di tutte le astuzie del mio eroe ateniese, e lo condussi al bosco con tutte le regole dell’arte. Cioè, mi sbaglio, siamo esatti nelle date, come la moda vuole — e poi quelle date che belle ore care mi ricordano!: dal 3 al 10 luglio composi la tessera del lavoro distribuendolo in undici parti o quadri: fattomi ben chiaro il disegno nella mente, al dì 11 cominciai dalla coda, e scrissi in due dì l’ultimo quadro: poi feci il 10.º, il 4.º, il 5.º, e via procedendo dal più facile al meno facile, ultimi i primi due, che mi costarono dose di pazienza maggiore.

Lavoravo di lena, le mie sei ore filate, dalle sei di mattina a mezzodì: poi, nel pomeriggio, riscontrar classici, pigliar note, e leggere le novità che da Milano mi mandavano, al finto indirizzo di Luigi Bianco, mio padre ed il burbero Pessimista. Il quale spingea la tenera amicizia sino alla pazienza di scrivere per me un diario minuto quotidiano di tutto quanto succedeva laggiù nel mondo dei viventi all’ombra della mia cara madonnina del Duomo: e ne approfittava per intercalarvi quelle tali sue opinioni artistiche e veriste — ancora in germe allora — che più tardi spaventosamente sviluppandosi doveano contro il mio romanticismo renderlo a tal segno feroce, da levarmi — lui, [x] il migliore degli amici a quei dì — perfino il saluto nella via. Esempio di convinzione artistica meravigliosa in un secolo così scettico come il nostro.

Dopo il pranzo, una giratina per la montagna a prender il fresco della sera — poi, come tutti i bambini savi, a letto all’ora delle galline.

Mercè questo regime, che consiglio a’ miei giovani fratelli d’arte, ai trentuno di agosto alle quattro in punto (i minuti primi e secondi non li ricordo) scrivevo sotto al mio Alcibiade la benedetta parola fine! ch’è quanto dire, a scriverlo, ci avevo speso quaranta giorni di lavoro utile; — perchè ai primi e agli ultimi di agosto il lavoro pur troppo ebbe a subire non prevedute interruzioni.

***

La prima — e assai dolorosa — fu la morte di Antonio Billia. Oggi gli anni corrono veloci, la febbre del domani ange i nati da jeri, e i morti van più in furia che nella ballata del poeta, e i giovani che vengono su non han più tempo di ricordarli. Ma per chi visse le lotte di quel periodo febbrile della nostra istoria italiana, che vide dopo Lissa, Mentana e i fasti della Regìa e i processi al Gazzettino Rosa, le ignominie medicee del processo Lobbia, e Barsanti, fanciullo biondo, fucilato; e la nazione e la fortuna caccianti a spintoni verso Porta Pia i ministri del re nell’ora che firmavano la rinunzia di Roma! — ma chi respirò quell’atmosfera di tempeste, di battaglie, di entusiasmi e di ire, ma gli antichi bohèmes del Gazzettino Rosa non potranno mai dimenticarti, povero Tonio, — tu il loro impavido avvocato dei processi quotidiani, il padrino dei quotidiani duelli, l’affettuoso consigliero, compagno in carcere e fuori di carcere alle gioje, alli sconforti, alli ardimenti — tu dal cuore buono come d’un fanciullo, dalla parola tagliente come d’una spada!

Lo chiamavamo tra di noi l’avvocato Trombone. Con questo nomignolo firmava nel Gazzettino Rosa articoli caustici [xi] come la pietra. Nel 69, il governo lo mise al forte Bormida, con gli altri redattori, sotto chiave: ma durante la custodia amorosa, i liberi elettori di Corteolona e Belgiojoso — il collegio antico di Ruggiero Bonghi — con ischiacciante votazione lo nominarono deputato.

Stette alla Camera quattr’anni. Amato dagli amici, rispettato dagli avversari, presto temuto, il bohème del Gazzettino s’era creato nell’assemblea, ricca in quel tempo d’oratori insigni, una fama di eloquenza caustica, tutta sua. Era poi l’incubo di Giovanni Lanza, presidente del consiglio: e la prontezza di spirito non essendo il forte del medico ministro piemontese, le barzellette di Antonio Billia lo faceano salire sulle furie.

Ed era stata una sera di barzellette gaje quella che fu, per il povero Billia, l’estrema. Trovavasi lassù alle acque di Santa Caterina, in una delle prime sere di quell’agosto 1873: convitato ad un pranzo nell’albergo, proprio lì a fianco di Sua Eccellenza Visconti Venosta, ministro degli esteri, avea supplito della sua vena briosa alle risorse poco divertenti della anemica eloquenza ministeriale. Tutta la sera intorno a sè tenne desta l’allegria: erano sul suo labbro facezie argute e cortesi, riboccanti di humour, era un fuoco di fila di motti di spirito, scoppiettanti fra la nota del cuore... i commensali ridevano, le signore applaudivano...

La mattina dopo era cadavere.

Avea 37 anni.

L’ebbi lassù nel mio nascondiglio, due giorni dopo, la notizia della tua morte, o mio Tonio!... e il momento che mi giunse mi sta qui innanzi come se fosse ora... Nè quel giorno, nè l’altro scrissi dell’Alcibiade una riga.[1]

[xii]

***

Altre interruzioni al lavoro, anzi parecchie me le procurarono le sollecitudini della R. Procura di Milano. La quale non trovava nè regolare, nè discreto che io mi fossi reso per la terza volta latitante, dopo essermi già presa due volte questa libertà nel 69... ed io d’altra parte, non sapevo come farla persuasa che lo facevo non già per me, ma nello interesse esclusivo delle patrie lettere. È vero che su pei giornali io figuravo dimorante in Isvizzera: il difficile stava nel convincerne il Fisco: e il Fisco se ne era convinto così bene... che un bel dì — passeggiando fra Ghevio e Pisano a prendere una boccata d’aria e meditare il miglior modo di far fuggire Alcibiade sulla barca — m’accorsi di due individui in borghese, innanzi a me, i quali ogni tanto di sottecchi si voltavano a squadrarmi, come tra loro si consultassero sull’essere mio. Fossero gli abiti o gli orecchini o il fiuto o una certa qual pratica da répris de justice, lì per lì mi sovvenni di certa sera del novembre 1869, che latitante in Milano, dopo averla scapolata liscia per un mese, mi ero lasciato pigliare come un merlo, da quattro eccellenti persone che mi passeggiavano innanzi, con aria da gnorri, precisamente a quel modo; e per subitanea associazione di idee (dicono che i poeti non sono perspicaci!) rallentato il passo senza farmi scorgere — e rimesso ad altro momento lo studio del metodo di fuga per Alcibiade — lo ripresi provvisoriamente per conto mio — pigliando in via precauzionale, mentre quei signori non guardavano, una scorciatoia di fianco per i campi. L’idea pare non fosse disprezzabile, perchè avvistisi appena della scomparsa, quei due signori tornarono sui passi, precipitosi; e giù nella valle incontrai un messo da Meina che veniva a portarmi l’avviso della comparsa di... uccelli migratori. Infatto, i due viaggiatori per diporto erano scesi a Meina la mattina in compagnia [xiii] di due magnifici carabinieri; e umettata con un cicchetto la gola, s’erano subito informati della strada per Ghevio. — Quella visita mi obbligò a trasferire, per un po’ di giorni, i penati giù nel letto della valle, anzi del torrente, alla Cartiera delli amici carissimi Bedone e Bertoglio, luogo fresco, un po’ malinconico: indi ne viene che il mio Cimoto qua e là in qualche scena si lascia un po' andare alla malinconia. Come piacque finalmente agli incomodi visitatori lasciar libero il lago e la montagna, sugli ultimi d’agosto feci ritorno al nido.

***

E come piacque alli immortali Iddii, venne finalmente quella sera del settembre, che, intorno a un piatto enorme di castagne, cominciai in famiglia la lettura intima delle gesta e miracoli del mio eroe. C’erano i miei zii, mio papà, mia sorella... che dormono ora tutti al camposanto. Il manoscritto era voluminoso anzi che no — e avrebbe, al solo vederlo, spaventato qualunque spirito forte: ma di quali eroismi non è capace l’affetto del sangue? Ho bisogno di dire che la lettura durò due sere — che fu sopportata da anime stoiche — e che l’applauso di quei cari morti fu entusiastico, unanime?

Ah, quei poveri primi giudici non imaginavano che l’Alcibiade avrebbe dovuto, al pari del suo papà, andar intorno ramingo, come persona pregiudicata, per più mesi, prima di essere per grazia ammesso agli onori della scena!...

***

Fatti i tagli per la scena indispensabili, spedito a Milano il manoscritto, aspettavo con qualche impazienza i primi giudizj degli amici... Silenzio su tutta la linea!... Passa [xiv] un dì, passa un altro: finalmente Achille Bizzoni in un passo di una sua lettera mi scrive: «Pessimista m’ha parlato del tuo Alcibiade e ne è entusiasta. Lo trova troppo lungo per la scena, ma mi accerta ch’è un capolavoro. Bravo Felice!»

Laus deo! dico fra me... Se il lavoro arriva a contentare... perfino Pessimista, figuriamoci i Milanesi, che son gente ottimista in generale.

Infatti il lavoro doveva darsi a Milano al Teatro Manzoni in quell’autunno dalla Compagnia Marini e Ciotti, diretta da Alamanno Morelli. Il buon Ciotti — il primo impareggiabile Raul de’ miei Pezzenti — in settembre mi scriveva da Prato: «Fin da ora ti prometto che nulla sarà trascurato e tutto il nostro buon volere sarà messo in opera per dividere teco un colossale trionfo.».... Insomma, li auspicj non poteano esser migliori.

E i giorni passavano... e gli elettori di Corteolona, eleggendomi al posto del povero Billia, obbligavano la Corte d’Appello a revocare il mandato di cattura; sicchè potei finalmente rivedere Milano — correre in Galleria per veder correre il topolino della rotonda — correre al Manzoni per assistere alle prove del figliolo delle mie viscere.

Quale mortificazione aspettava il mio amore paterno! La signora Virginia Marini, gentile sempre quanto brava, mi fe’ del manoscritto un mondo di elogi... ma pareva imbarazzata nel farmeli; Morelli se ne dichiarava contentone... e mi domandava come avevo passata la villeggiatura; Ciotti era entusiasta della sua parte di Alcibiade... e non rifiniva di felicitarmi della Agnese. Al Caffè Manzoni, convegno dei comici, dei critici e degli autori in attività ed in aspettativa, ufficio postale di tutte le chiacchiere di palcoscenico, mi chiedeano del quando cominciavan le prove con una certa aria di interessamento, tra benevola e protettrice, che mi faceva meravigliosamente salire la senapa al naso.... E ogni dì ne passava uno — e le prove non si vedevano venire... O insomma che era successo? [xv] Solo questo: che, dopo la lettura del lavoro, fra i comici era stato sentenziato — e la voce era corsa in un attimo per tutti i crocchi di caffè e di palcoscenico — con grande letizia di certi critici e degli autori... in aspettativa, — che l’Alcibiade era una cosa irrappresentabile e che non sarebbe arrivato in là del primo atto...

Soltanto — come il cuore umano è buono di sua natura — nessuno aveva il coraggio di dirmelo! E poi che io non mostravo la perspicacia di capirlo — e l’impegno con me era formale — alle prove ci si arrivò... in linea di filantropia... tanto per farmi toccare con mano quello che mi ostinavo a non intendere... e rendermi persuaso colle buone, che gli era proprio per risparmiarmi un disinganno... se giunti a metà della seconda prova, lì sul palcoscenico, mi si restituiva il manoscritto!

Proprio così. E i giovanetti autori che oggi si lamentano del sol di luglio e gemono, ravvolti nel manto dei genj incompresi, sulle difficoltà del riuscire a farsi conoscere, e del fare accettar dai capocomici il loro primo capolavoro — sono pregati a consolarsi pensando che quel po’ di mortificazione — coram populo — capitava a me — dopo che avevo già dato alle scene tre lavori — e tutti tre confortati dal plauso dei pubblici italiani.

***

Che fare? Rassegnarsi? Ohibò: natura m’ha fatto più testardo del mulo.

Preso penna, carta e calamajo — scrissi quel dì a Luigi Bellotti-Bon — nome caro e rimpianto finchè l’arte italiana serbi il culto delle sue glorie più belle e delle sue tradizioni più gentili.

A Bellotti-Bon — ch’era a Venezia e veniva al Manzoni nell’imminente carnevale — domandai, nudo e crudo, se era disposto ad assumersi la recita di un lavoro rifiutato alle prove. Ecco la risposta:

[xvi]

Venezia, 18 novembre 1873.

«Carissimo,

«Non ti dico che una parola: Sono a tua disposizione. Vieni qui — e c’intenderemo su tutto — e vedrò contentarti.

«Avvisami del giorno del tuo arrivo onde possa essere tutto per te.

«Rimane ben inteso che sarai il mio futuro avvocato presso la Comune e mi salverai dalla lanterna... ed io non abuserò della mia onnipotenza presso il Tirrrrrrrrannico potere cui sono venduto. Ciao.

«Il tuo affez.
«Luigi Bellotti-Bon.»

Povero gioviale amico!...

Corsi a Venezia. (Cioè, prima, per mandar via l’umor negro, corsi a Roma alla Camera a far arrabbiare l’on. Lioy e la maggioranza e il presidente Biancheri con quel tale affar del giuramento, e a far la scherma di sciabola con Avanzini del Fanfulla al cospetto dell’ombre della via Appia). Nella città delle lagune lessi il lavoro a Bellotti — che volle alla lettura essere solo — finito ch’ebbi, egli mi abbracciò con trasporto, mi baciò... e: «Quel che ti davano Marini e Ciotti, da questo momento te l’offro io.»

Di lì a pochi giorni il cartellone del Manzoni annunciava l’Alcibiade fra le novità della Compagnia Bellotti-Bon N.º 2 — per la stagione di carnevale.

Cacciato dalla porta, l’eroe greco rientrava dalla finestra. Finalmente!... ero in porto. Adagio. Mi correggo. Credevo di esserci.

***

Santo Stefano e carnevale eran giunti, la compagnia Bellotti-Bon era giunta, l’Alcibiade sul cartellone era giunto... solamente le prove non giungevano... e Bellotti-Bon se mi incontrava parea scansarmi e girar largo... come si scansa un creditore...

[xvii]

Ahimè! all’ottimo rimpianto artista — giunto appena da Venezia, entusiasta del lavoro mio — era toccato in proposito udirne di cotte e di crude. Sapeva, sì, e glie lo avevo detto, che nei dintorni del Manzoni il mio eroe godeva cattiva reputazione, ma credeva acqua e non tempesta. Al caffè del teatro, nei crocchi artistici, dappertutto gli davan la baja. «O come! tu hai preso di quella... roba? Come! tu butti i denari a quel modo? E fai di questi servizi a Cavallotti? Così gli sei vero amico? E hai coraggio di far subire ai tuoi artisti una corvée di quella fatta per un lavoro che non arriva al secondo atto? Ma non sai che la Marini qua, ma non sai che Morelli là...» Il pover’uomo avea l’orecchie intronate.

Dubitò di aver preso un abbaglio. Avea sentito una sola lettura alla sfuggita... e la prima impressione, chi sa, poteva averlo tradito. Ma la parola meco era spesa — e Bellotti-Bon era gentiluomo in tutto il rigore del termine. Per levarsi dai fastidi, lasciò Peracchi, direttore, nelle peste — e andò a Firenze.

Con questi belli auspicj lessi il lavoro alla compagnia. Ci volle tutta la deferenza personale delli artisti, di Giovanni Emanuel, e della signora Pia Marchi e di Zoppetti e degli altri, perchè subissero il supplizio con rassegnazione e non tradissero troppo visibilmente la impazienza... Io fingevo non vedere e tacevo.

Però allora parve obbligo di coscienza il tentar meco almeno un’opera di carità; si pregò il buon Lombardi, dirigente il teatro Manzoni di persuadermi, colle buone, a ritirare il manoscritto spontaneamente. Ma di far questa parte delicata il buon Lombardi, sapendomi testardo, non ne volle sapere. Si officiò Emanuel, il protagonista, a darsi per ammalato. Ma Emanuel, a quei dì non avendo con Bellotti buon sangue, non istimò di poterlo fare. Così le prove cominciarono... eppure, per un filo, ancora in extremis, di salvarmi mio malgrado, non si disperò.

Al dì della quinta prova doveva aver luogo nel pomeriggio una mia partita d’onore con Dario Papa. — La mattina, [xviii] pregai Riccardo Castelvecchio — illustre e sempre giovane veterano dell’arte — a venir meco alla prova, per diriger egli in mia vece, in caso di disgrazia, le successive — lasciandogli all’uopo carta bianca, con procura scritta. Castelvecchio accettò ringraziandomi, con fratellanza artistica che riconoscente rammento. Alle quattro, finita la prova, vennero i padrini sul palcoscenico a prendermi: — appena io partito, gli artisti, per me inquieti, farsi intorno a Castelvecchio e consultar seco il modo di risparmiarmi il fiasco imminente. E affetto e desiderio eran sinceri: perchè la convinzione del fiasco e del dolore che mi avrebbe dato era intima: indi, per lo meglio, mi si augurava una piccola ferita leggiera, che mi obbligasse a letto pochi dì e permettesse a Castelvecchio di far uso de’ suoi pieni poteri: si sarebbe rabberciato alla meglio il lavoro, levatane la parte di Cimoto che appariva una grossa stonatura — ed altri tagli eccetera, eccetera, — tanto che si potesse arrivare in fin di recita... Ma il calcolo a nulla approdò... conciossiafossecosachè, proprio in quel momento, a Dario Papa una magnifica spaccata a fondo con analogo colpo di punta non riuscissero sgraziatamente in tempo. E quando viceversa riuscite in tempo le cose a me e toccata a lui contraria la sorte, videro di ritorno me illeso... Giovanni Emanuel mi buttò le braccia al collo e mi promise che da quel momento si sarebbe messo a studiar con amore la sua parte. Imperocchè da quel momento parve che la mia caparbietà avesse il diavolo dalla sua — e che il contrastar oltre fosse tempo perso.

Infatti le tre che seguirono furono le sole vere prove serie. Tutti gli artisti dal primo all’ultimo ci posero un impegno, un affetto, uno zelo di cui serbo il ricordo carissimo. E la sera del 31 gennajo 1874 — dopo cinque lunghi mesi — finalmente l’Alcibiade andò in iscena...

Il teatro rigurgitava.

Al prologo cominciarono gli applausi. — Alla fine del lavoro eran quaranta chiamate.

[xix]

Al successo entusiastico la esecuzione di tutti concorse: e se Angelo Zoppetti fu esilarantissimo Cimoto — Giovanni Emanuel del personaggio di Alcibiade fece una creazione non superata nell’arte.


Trieste e Venezia, per le prime, di lì a poco, ribattezzavano il successo di Milano: e in una sera non cancellata dalla memoria, l’Atene dell’Arno conferivagli la cresima.

La Compagnia Ciotti e Marini mi ridomandava il lavoro, e questa volta pagandolo lautamente, trovò che era rappresentabilissimo.

Infine la Commissione governativa pel concorso nazionale drammatico, in Firenze residente, assegnava all’Alcibiade il primo premio del concorso (2000 lire): e il decreto di conferimento del premio, con analogo mandato di pagamento, portava l’augusta firma di Sua Eccellenza il ministro... Ruggiero Bonghi!

Oh come il cuore battevami di dolce emozione nel recarmi alla regia cassa! Erano (parmi ancora vederli!) due bellissimi biglietti bianchi, da mille... quasi nuovi: e quel che agli occhi non mi sembrava vero, eran proprio denari dello Stato: così per una volta ho potuto provare anch’io la ineffabile consolazione di cibarmi alla greppia del bilancio!

Di quanti soldi per vivere l’arte mi ha fruttato poi — non ne rammento che m’andassero come quelli in tanto sangue.

Quei denari del governo mi rappresentavano il frutto delle persecuzioni governative e il frutto di cinque mesi di prove morali — cinque mesi che per amor dell’arte digerivo in silenzio — io che m’irrito d’una mosca — mortificazioni, compassioni e repulse!

***

Conclusione morale: pei capocomici ed artisti: ricordarsi che Ezechiele, Daniele ed Isaia, se le loro profezie [xx] fossero tutte come quelle che si fanno sui palcoscenici alle prove dei lavori nuovi, non sarebbero quei profeti così in credito che sono, anzi nessuno ai loro tempi li avrebbe presi per persone di proposito.

Per i giovani autori e miei fratelli d’arte, che sognano i successi lì a portata della mano, e si impermaliscono di ogni piccolo inciampo: ricordarsi che l’arte va per sentieri di spine, è battaglia che un dì vuole i forti ardimenti e le ire — e un altro dì vuol sagrificj di amor proprio e pazienze da certosino: e quando la meta nella mente ci ride, bisogna a tempo esser anche filosofi: viene l’ora all’artista che gli ripaga le amarezze e degli esercizj filosofici gli rifonde le spese.

Felice Cavallotti.

Meina, 1 aprile 1884.


[1]

ALLA CARA MEMORIA
DI
MIO PADRE
CHE AMOROSAMENTE CORRESSE
LE PRIME BOZZE
DI QUESTO VOLUME
E NON POTÈ VEDERNE LE ULTIME

8 giugno 1875.


[3]

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE DEL 1875

«Di tutti i popoli della terra, i Greci son quelli che hanno più nobilmente sognato il sogno della vita» — scriveva un dì Goethe. Ma oggi la vita si è ben lontani dal riguardarla come un sogno. Oggi le comunicazioni fra l’Olimpo e la terra sono rotte, gli Dei di Omero non vanno più innanzi e indietro, e la vita publica e la privata non aspettan più nulla dalle nuvole. Il secolo volge al reale e al positivo; i sognatori si chiamano matti e sono messi sotto custodia, per ragioni di sicurezza publica; ai soli poeti in via d’eccezione si permette ancora qualche volta di sognare — a patto, beninteso, che non sognino più in là del ragionevole.

E l’arte, questa grande emanazione della vita, fu invitata anch’ella colle buone a mutar via. Le venne detto ch’era tempo di cessare dal far la visionaria e dal correre dietro alle fantasime; che la vita oramai ha scopi pratici e l’arte deve averli del paro: indi necessità di mettere la testa a partito, e attendere alle faccende di casa; indi, legge unica, il vero; e il vero è tutto quello che è, e che cade, tal qual è, sotto i sensi; ciò che fu è il nulla, cioè un sogno; ciò che è fuor dei sensi, è fuor del mondo, — e fuor del mondo non vi è che l’ideale — un altro sogno.

[4]

E l’arte, docile, non se l’è fatto ripetere. Messe le anticaglie da un canto, lasciati alle lor nebbie i fantasmi, si diè a studiare il presente, a vivere del proprio tempo, a palpitare di realtà. La scoltura rifiutò i profili ideali e scolpì Napoleone in veste da camera. La pittura proscrisse i soggetti eroici e mitologici, e ci regalò dei veri gatti e polli d’India contemporanei, e altre bestie contemporanee al naturale. Fu ammesso, è vero, in via di grazia, il cigno di Leda, vista la possibilità di servirsene a uso d’oca, per i quadretti di roba da cucina.

Ma la drammatica non si fermò alla zoologia. I più delicati problemi sociali furono da lei coscienziosamente esaminati; niente le sfuggì dei varj rami dello scibile, niente dei fenomeni e dei bisogni della vita reale. La economia privata e publica, a cominciar dalla questione essenzialissima dei rapporti fra il lavoro e il capitale; la giurisprudenza sul matrimonio, sulla prole legittima e illegittima, sugli orfani, sui pupilli, sulle vedove, sui contratti e sulle donazioni fra vivi e morti; la medicina legale, la psicologia, la patologia e l’anatomia comparata hanno richiamato la sua più seria attenzione; non senza il debito riguardo alle leggi relative del Parlamento, alle sentenze dei tribunali ed ai pareri medici delle Facoltà.

Evidentemente, siamo alla pienezza dei tempi. Aver fatto servire a scopo così concreto e così utile i diletti più puri dello spirito, è l’ultima parola del progresso.

Questa è vita piena e vera, di cui nulla si perde nell’aria e nel vuoto, nelle caligini del passato, nelle nebbie dell’ideale: dove tutto ci interessa, perchè tutto ci parla direttamente ai sensi, tutto ci riguarda materialmente, tutto ci richiama alla realtà dell’esser nostro, delle nostre occupazioni, delle nostre passioni, delle nostre noje, delle nostre circostanze domestiche e finanziarie: dal profumo de’ gabinetti agli acri vapori delle sale da ballo, dai cicalecci eleganti ai battibecchi conjugali, dalla marsina dell’eroe al panier dell’eroina.

E a questo patto, e quando da questo ambiente così vero non si esca, vada pure per qualche onesta licenza. Perchè anche là dentro in quelle sale la finzione, dicono, qualche volta è di moda, lo spirito non sempre è di rigore, e il buon senso non sempre è di prammatica. Purchè, se si manca alla verità, se si manca di spirito, se si manca di buon senso, gli addobbi e le decorazioni delle scene avvertano sempre che son mancanze contemporanee. In fondo, la questione così detta del realismo [5] riguarda molto l’attrezzista e il guardaroba. Quando i personaggi siano vestiti, ed è ciò che importa, alla maniera del mondo nostro, nulla osta che si facciano dir loro anche delle cose dell’altro mondo.

Così il teatro ha progredito, come tutto il resto, in arte. C’è stata, è vero, qualche protesta nei dietro-bottega dei rigattieri. Le durlindane di Roncisvalle, gli elmi delle crociate e le mandóle dei trovatori, raccoltevi a parlamento, protestarono contro l’ostracismo loro inflitto in nome della verità, e dichiararono formalmente che ai loro tempi si amava e si odiava come al tempo nostro, e si moriva per amore e si accoppava per odio come ai dì nostri; soltanto si amava e si odiava meglio, si moriva con più poesia e si accoppava con più cavalleria. — Le clamidi e le toghe, intervenute all’adunanza, hanno energicamente soggiunto che ai loro bei giorni ci erano poltroni ed eroi come adesso, e tipi drammatici, quali adesso, di furbi e di ingenui, di magnanimi e di furfanti, di tormentatori e di tormentati, e nel dramma umano si rideva e si piangeva come adesso — colla medesima verità — ma più artisticamente di adesso.

Tutte chiacchiere inutili. La sentenza era segnata. Cilindri e cravatte fecero l’ingresso trionfale con accompagnamento di pianoforte — in luogo del romantico liuto — per la festa da ballo dell’atto terzo, e di colpi d’arma da fuoco — in luogo degli esercizi d’arma bianca — per la catastrofe dell’atto ultimo. Tutto fu raggiustato, rimodernato, rimesso a nuovo. L’amore come il delitto assunsero forme meno fantastiche e maniere più incivilite. Il dolore rispettò le convenienze: non imprecò più come Prometeo, non pianse più come Ecuba. Una prosa graziosa, piena di arguzie, di riflessioni filosofiche e di ammonizioni morali, sostituì i lamenti di Edipo come le invettive di Ernani, i delirj di Aristodemo come le bestemmie di Francesco Moor.

Soltanto, in mezzo al nuovo concerto di voci e di suoni moderni, di amori e di delitti moderni, tra il frastuono delle prediche che riformano la società e dei colpi di pistola che ne risolvono i problemi, — tra gli applausi dei buongustai che assaporano le finezze dell’arte nuova e le beffe dei critici irridenti alle scolastiche pedanterie dell’antica, — s’ode levarsi tratto tratto qualche eco di voce solitaria, bizzarra, come portata dal vento di lontano.

Qua, un poeta dal ritmo strano e dal riso amaro, sardonico, scioglie un osanna ai semidei della greca letteratura e con entusiasmo li saluta [6] eterni diletti dell’uman genere, — «sempiterna solatia generis humani!»

Là, un altro poeta dalle canzoni ancor più strane, e dall’aria melanconica come le nebbie del suo paese, manda un inno agli echi ed alle balze del Liakùra: «Ellade vaga! tutto ciò che le Muse finsero, nel tuo grembo mutasi in vero! Per anni ed anni ancora i fanciulli impareranno i tuoi fasti e la tua lingua divina. Orgoglio de’ vecchi, scuola dei giovani, il savio ti onora, a te s’inchina il vate, come al tempo che Pallade ti svelava gli arcani celesti: mentre il tempo sperderà le canzoni dei cento menestrelli ond’oggi levasi il grido!»

Dàlli ai bestemmiatori!

È Heine che sta meditando il Ratcliff, in attesa dell’Intermezzo. È Byron che canta il pellegrinaggio di Aroldo, in attesa del Don Giovanni.

E che!? l’arte antica, questa morta di cui assistemmo le esequie, leverebbe ancora la testa fuor della lapide del suo sepolcro, accamperebbe ancora diritti in faccia alle conquiste dei novatori? I monumenti del genio di questa sepolta, percossi da tanta ala di secoli, avrebbero ancora un linguaggio per noi, avrebbero ancora attrattive e fascini per un poeta dei nostri dì? Vi sarebbe ancora là dentro, in quelle pagine polverose, qualche cosa da cercare, qualche cosa da ammirare, qualche cosa da imparare?

Questo andavo fra me chiedendo un giorno che un critico dal gusto finissimo, entusiasta della Femme de Claude, della Femme de feu e della Petite marquise, mi spiegava saviamente le ragioni per cui ai dì nostri non è più permesso, senza disonorarsi, ad una persona di spirito, di leggere Omero. E la dimostrazione mi avea convinto e mortificato: tant’è che coll’animo contrito, ricordatomi di Alcibiade, il quale le picchiava ai maestri perchè di Omero non ne sapevano, progettai di scrivere un dramma sopra il figliuolo di Clinia.

Narro la genesi — non le ragioni del libro. Le quali sono parecchie; e perciò avevo pensato di preporre, come agli altri lavori miei, così a questo, una prefazione, lunga, lunga, coi fiocchi, dove appunto si discorresse degli intenti del lavoro, dal lato storico, drammatico e letterario, e dell’epoca storica entro cui il dramma si svolge. La benevolenza de’ critici mi costrinse a vuotare il sacco delle ragioni innanzi tempo; e tutto quello che io avevo in animo di dire a mia [7] discolpa mi trovo averlo già detto nella lettera che mandai l’anno scorso alle stampe.[2] Lettera che, tra parentesi, per caso bizzarro, fu dai critici giudicata meno cattiva (e non ci voleva molto!) del dramma che essa studiavasi difendere: forse era più esatto il dirla più lunga che il dramma non ne valesse la pena: lunga certo abbastanza perchè io non abbia per giunta a tornarvi sopra e a ripetere le cose dette già. Tanto più poi, che in quanto la lettera era destinata a drizzar le gambe a certi critici, essa ha già avuto una efficacia superiore alle mie previsioni, ed alla quale proprio non mi aspettavo.

Nella lettera — s’imagini! — facevo la morale agli Aristarchi che sputano sentenze sui lavori altrui, per mettere in mostra la erudizione che hanno lì per lì rubato altrove: bene, di lì a qualche tempo, una bella mattina, un critico scaraventa contro il povero Alcibiade tre lunghissime appendici ove mi regala dell’ignorante a tutto pasto, e dichiara il mio dramma un aborto drammatico e storico: e per dimostrarlo alla presenza de’ suoi lettori, con mia gran mortificazione mi infigge nientemeno che una lezione completa di storia e di critica intorno a Pericle, alla sua politica ed al suo secolo: cita Senofonte, Platone, Aristofane, persino Alcifrone... soltanto la mia lettera non cita, da cui tutto quanto il materiale della sua lezione di storia — non un solo ragguaglio eccettuato — era di pianta stato preso! Anzi, per colmo d’ingratitudine e per far più effetto sui suoi lettori, dal fondo del suo pozzo di scienza quel signore con sussiego mi rimprovera di non aver ben digerito i miei studi: sarà; ma se non altro per avergli fatto tanto comodo, non toccava veramente a lui di dirne male!...

Da quel giorno credo di essere affatto guarito dal ticchio di difendere i lavori miei.

Bensì mi è d’uopo il dir qualche cosa della forma in cui l’Alcibiade esce oggi alla luce nella presente edizione, diversa in qualche parte da quella al publico già nota: m’è d’uopo, cioè, ricordare, infra i varj intendimenti del lavoro, da me accennati nella lettera, quello che in ispecie riferivasi alla publicazione del dramma per le stampe:

[8]

«Offrire agli studiosi una pittura, dei quadri, delle scene, della vita greca del secolo d’oro, colta nella sua fase più caratteristica e culminante: in quel periodo di transizione della guerra peloponnesiaca, che conservava ancora il riflesso delle grandi memorie antiche e di tutti gli splendori del secolo di Pericle e aveva già in sè sviluppati tutti i germi di corruzione, tutti i fenomeni politici che provocarono la caduta della repubblica d’Atene. Presentar quella vita studiata nel linguaggio, nelle idee, nelle leggi, nei costumi — nel linguaggio sopratutto... Perchè la favella viva di un popolo è il prodotto e lo specchio fedele della sua indole, del suo genio artistico, delle sue idee — e la verità del linguaggio è necessaria a far vivere i fantasmi delle età lontane nel mondo della realtà.

Ed è questa, anzitutto, la ragione per cui, nella edizione presente non destinata alle scene, una volta libero dalle esigenze di queste, pensai naturalmente a ristabilire quei più minuti particolari della vita greca, e tutte quelle forme e locuzioni del linguaggio greco, che per le necessità del teatro e dei publici nostri avevo dovuto, alla recita, sopprimere. Non già ch’io riuscissi a sopprimerne tanto, da risparmiare al mio dramma, quale fu rappresentato, la taccia che molti gli apposero, di essere una lezione indigesta e nojosa di lingua, mitologia e archeologia greca: ma coloro che in teatro, tra uno sbadiglio e l’altro, così lo giudicarono, sono certissimo che, a maggior ragione, per pietà delle proprie mascelle, si guarderanno con iscrupolo dal leggere questo volume. Non è dunque per essi che io lo stampo. Bensì gli studiosi probabilmente apprezzeranno le difficoltà di conciliare sempre e dovunque le ragioni sceniche colle letterarie in un tentativo di simil genere: poi che di un modesto tentativo si tratta e nulla più. E per essi non occorre ch’io mi diffonda sulle ragioni di questo studio delle forme. L’egregio Mariotti, nelle note al suo Demostene, disse una cosa non nuova, ma giusta, e non abbastanza da molti avvertita, quando osservò esistere tra la lingua italiana e la greca un’affinità di linee e di genio, tutta speciale ed intima: assai più intima e spiccata che non tra l’italiano ed il latino. Potrebbesi dire, a spiegazione del fenomeno, succedere delle lingue lo stesso che della natura, nelle somiglianze ereditarie fra le generazioni alternate. In quella guisa che i monumenti di Firenze ritraggono assai più della eleganza attica, che non della maestosa grandiosità [9] romana, così il nostro aureo trecento, nella semplicità delle sue grazie native, ricorda assai più gli scrittori del secolo di Pericle che non quelli del secolo di Augusto. Filosofia delle parole e dei modi, snodature dei periodi, pieghevolezza, grazia, armonia, tutto nella favella nostra sembra evitare la maestà asciutta della lingua del Lazio, per richiamarci «all’idioma gentil, sonante e puro» di Alcibiade, di Platone e di Demostene. E ciò spiegherebbe anche, fra parentesi, il perchè latinisti insigni — con riverenza parlando — riescano, pure a’ dì nostri, stentati e plumbei prosatori italiani, intanto che la Grecia rivelava a Foscolo e a Leopardi le bellezze più ascose e il magistero più squisito della lingua dell’Arno.

Scrutare, qua e là, anche più in sotto della superficie, questa intima somiglianza di forme e di indole e di modi, qua e là afferrarne alcuni tratti caratteristici, fu uno naturalmente degli studi di questo lavoro. Studio uggioso ed inutile, a coloro pei quali è di moda ostentare un sovrano dispregio di tutto ciò che riguarda la forma; non inutile per me, che credo la forma essere carne e sangue dell’idea, e la ispirazione dell’artista non essere nulla, finchè il magistero delle parole e delle linee non la faccia vivere nel mondo dell’arte. Oggi, per esempio, dai più si sente e si riconosce la stretta attinenza fra la questione della lingua e lo indirizzo della drammatica; intanto io mi irrito quando sento in che gergo l’arte parli sovente dalle nostre scene, e quando nulla nel suo linguaggio mi ricorda il genio artistico del mio paese, nulla mi rammenta che quella è l’arte di menti italiane. E mi domando, se non sia anche questo, per avventura, uno fra i tanti frutti della sedicente scuola realista; se l’abitudine di fotografare una società che non è la nostra, e parlante un linguaggio che non è il nostro, non abbia fatto passare, a poco a poco, il forestierume dalle parole nelle idee e viceversa; se il vero ci perderebbe in faccia all’arte qualche cosa ad essere riprodotto, qui fra noi in Italia, con linee e con parvenze italiane; e se a tanta invasione di idee e di forme non nostre, non servirebbe di correttivo il contrapporre, di tanto in tanto, qualche po’ di roba nostra, cioè lasciataci in legittima eredità dai nostri nonni. Sì, in una parola, io credo, come dissi altrove, che la influenza classica, associandosi ai nuovi ideali e alle nuove forme dello idioma, possa oggidì riuscire benefica anco al mutato indirizzo dell’arte. Gli è forse un pretendere [10] che questa vada a rinchiudersi e a fossilizzarsi tra gli scaffali delle biblioteche, o faccia parlare i suoi personaggi in greco? Eh via! schiudeteli pure all’arte i suoi nuovi orizzonti; mostratele pure, come il diavolo al Cristo dalla vetta del monte, abbracciando a volo d’aquila il secolo presente e la società, tutti i novelli dominii a lei concessi, pur ch’ella adori, con Enotrio, il Satana moderno, il vero; ma quando ella si sarà posta in cammino per quelle regioni del suo avvenire, non isgridatela se la si fermi tratto tratto per istrada a interrogare sommessamente il ricordo di qualche canzone antica, o a dissetarsi all’acque del rivo disceso di lontano insiem con lei dalle sorgenti della sua terra nativa; perchè il tranquillo suo corso le avrà insegnato il cammino e impeditole di smarrirsi per via; perchè anco laggiù ella avrà bisogno di qualche cosa che le parli della sua patria, di qualche lembo di cielo, fra le nebbie, che le ricordi l’azzurro del suo paese, di qualche armonia che le favelli la voce cara delle memorie e del sangue; — se pur volete che anco laggiù in quei paesi ella si rammenti pur sempre di essere e si conservi sempre italiana.

Punto e a capo. Lascio le metafore, e passo a dir due parole delle note.

Le quali erano anch’esse naturalmente una necessità dell’intento propostomi in questo volume; ch’è quanto dire (e lo dico subito per risparmiare ai critici arguti e benevoli l’incomodo di malignarvi sopra) che non ve le ho poste già nella ridicola idea di illustrar me medesimo, o perchè credessi che il merito del volume valesse proprio la spesa di tante note. Pensai invece (astrazione fatta dalle note filologiche e da quelle apposte per giustificarmi da appunti critici) che valesse la pena di approfittare qua e là delle occasioni offertemi dal dramma, per guardare, insieme col lettore, un po’ più addentro nella vita privata e publica, nelle istituzioni religiose e politiche dell’antica Grecia. So gli anatemi scagliati da Alfonso Karr, in uno sfogo di santa ira agli eruditi: Farisei della scienza, Tartufi delle lettere: ma non è al merito di erudito ch’io aspiro. Bensì a quello assai più modesto di avere, se non con ingegno, studiato almeno con qualche coscienza l’epoca di cui imprendevo a trattare: dacchè questo mi parea per lo artista non merito, ma obbligo: e se alla rievocazione delle età passate, malgrado certi odierni anatemi, è ancora serbato un posto nell’arte moderna, egli è a questo patto solo, che l’artista anzitutto [11] studii di immedesimarsi con quell’età; e alla verità delle passioni — che sono in fondo le stesse in ogni tempo, com’è sempre la stessa la natura umana — ritrovi gli accenti e le corde nella verità completa dello ambiente. Allora l’illusione artistica sarà perfetta; allora le figure che l’artista evocherà saranno vere e vive, rappresenteranno uomini e non nomi, persone e non personaggi; e il publico, trasportato con esse nei secoli remoti, s’interesserà e si commuoverà ai loro casi, nè più nè meno che a quelli della società contemporanea.

Se avessi voluto fare dell’inutile erudizione, nulla mi sarebbe stato più facile del triplicar la mole di questo volume; come certo mi era facile anco ridur le note a proporzioni minime, se non sapessi la stizza che destano spesso ne’ libri certi schiarimenti generici, affatto vaghi e incompleti, i quali sono peggio di nulla; poi che le nozioni indeterminate generano sempre le nozioni false. Cercai stringere il molto in poco; essere breve ma possibilmente preciso; rimandare alle fonti chi volesse studiarne più in là; e sopratutto, spazzar via, dove mi si affacciavano le idee convenzionali e i pregiudizi che intorno all’epoca da me descritta ci vennero tramandati dalle scuole. Ormai la critica storica, ne’ suoi studi sull’antichità, ha fatto tali e tanti progressi, da lasciarsi ben di lunga addietro la ingenuità del giovane Anacarsi; ed è anche vero che nell’ardore delle ricerche innovatrici ella è sovente trascorsa oltre il segno; ma dal buon Barthelemy, il quale accettava tutto, a occhi chiusi, senza analisi nè discussione, sulla fede degli scrittori superficialmente esaminati, a Grote, che occorrendo sagrifica le autorità storiche alla dimostrazione di tesi ingegnose e preconcette, a Ottofredo Müller, questo martire illustre della scienza, che spinge lo scetticismo e l’acutezza dell’analisi fino a negazioni temerarie, per sostituirvi, se bisogna, ipotesi e affermazioni più temerarie ancora, — la distanza è abbastanza grande per lasciar posto ad uno spirito di esame, il quale si contenti modestamente di conciliare le autorità della storia coi risultati certi e irrefragabilmente acquisiti alle moderne indagini della critica.

Detto ciò in generale dello spirito in cui furono scritte le note del libro, mi rimane ad avvertire una cosa semplicissima, ed è che coloro ai quali elle paressero soverchie, non hanno a fare altro che saltarle di piè pari.

[12]

Un’ultima osservazione, infine, mi resta, circa la diversità di proporzioni e divisioni fra il dramma qual esce ora alla luce, e la versione per le scene, che il publico dei teatri conosce già. Era naturale che il lavoro scritto, per la ragione stessa del suo intento, dovesse pigliarsi colla storia un po’ meno di confidenza di quello che in teatro si richiede. L’indole del lavoro, abbracciante un intero ciclo storico, e le esigenze sceniche mi obbligarono qua e là, negli ultimi quadri in ispecie, a variare e stringere l’azione, cumular date e circostanze a beneficio del dramma, lasciar nella vita del protagonista parecchie lacune, che poi, da alcuni di coloro i quali pur trovavano il dramma già troppo lungo, mi vennero benevolmente rimproverate. Nel sesto atto, per esempio, della versione scenica, sono licenze storiche e cronologiche e geografiche evidenti, eppure sfuggite per un caso curioso all’acume dei critici meticolosi, i quali me ne scopersero tante altre che non c’erano. La campagna nell’Egeo e nell’Jonia, la seconda disgrazia di Alcibiade, la sua partenza dalla flotta di Samo, vi son cumulate colla gita in Tracia, e dalla Tracia al campo di Egospotamos: due anni, quasi, in un giorno. In compenso (per quanto, beninteso, si può pretendere da un lavoro povero) l’azione ci guadagna di rapidità e di interesse, la nuova faccia del carattere di Alcibiade esce più spiccata dal contrasto immediato, e la presenza di Timandra aggiunge un elemento drammatico su cui la storia trova a ridire, ma che al dramma torna comodo ed utilissimo.

Nel lavoro destinato alla lettura, la ragione di quelle licenze cessava. Qui perciò gli avvenimenti sono rimessi più a loro posto, il filo cronologico è più continuo, e diverse lacune son ricolmate. Il ritorno di Alcibiade ad Atene mostra qualch’altro lato della fisionomia dell’eroe. La gita in Tracia poi ne presentava ancora qualche altro, e di più offeriva una occasione opportuna di porre a riscontro dei costumi della Grecia civile qualche bozzetto di costumi di quella che potrebbe chiamarsi, per così dire, la Grecia barbara. E dalle scene di Tracia veniva più naturale e più conforme al vero la transazione alla scena di Egospotamos. Insomma, la storia è qui un po’ meno bistrattata e la figura del protagonista ne esce un po’ meno incompleta: che se il sagrificio fatto alla coscienza storica ritorna a scapito della sintesi drammatica e dello interesse complessivo del dramma, egli è che tutti in una volta non si possono contentare. Siccome [13] però, dopo l’esito dell’Alcibiade, qualche compagnia mi domandò di rappresentarlo tutto completo in due sere, ed io ricisamente m’opposi; così non vorrei che la publicazione del volume suggerisse a taluno di tentar mio malgrado l’esperimento. Per risparmiargli l’incomodo ed il fiasco — ora che la legge guarentisce agli autori il diritto di disporre dei loro lavori, siano publicati o no — dichiaro qui formalmente che la presente edizione non è destinata alle scene; che assolutamente non permetto la recita di questo Alcibiade in dieci quadri; che non riconosco, per versione da me autorizzata sulle scene, nessun’altra in fuori di quella che sottoposi al giudizio dei publici, dei teatri italiani e della Giunta per il concorso drammatico nazionale; e che uscirà anch’essa alle stampe fra breve, in apposito volumetto della Galleria teatrale Barbini. Mi pare d’essermi spiegato chiaro.

E qui finisco, se no a poco a poco il proemio mi piglia anch’esso le dimensioni della lettera a Yorick: e dopo che in quella rivendicai per gli autori, contro la critica prosuntuosa e brontolona, il sacrosanto diritto di non essere annojati, è di stretta giustizia riconoscere il medesimo diritto anche ai lettori.

Aprile, 1875.

F. Cavallotti.

[15]

AI GRECI DI TRIESTE[3]

Milano, 9 giugno 1874.

«..... Fra i ricordi, non tutti lieti, della vita dell’arte, questo dei figli della Grecia terrò sempre lietissimo e caro; esso mi parla di una terra che la mia mente visita spesso, con entusiasmo di amore, ne’ poetici sogni: mi parla delle classiche memorie accarezzate negli studî della fanciullezza, assai prima che io pensassi a chieder loro i segreti della scena e le emozioni dell’arte.

«Sì, amo, e non da oggi, la Grecia: questa madre del genio e degli eroi, grande nelle memorie antiche e nelle glorie del secolo presente; un giorno a Maratona, un altro a Missolungi: — questa terra che alla moderna Europa ha dato tutto — una mente e una civiltà, le linee di Fidia e le pagine d’Omero — senza averne in ricambio nulla; e della quale le nazioni colte e superbe, nudrite del suo genio, aspettarono ai dì nostri le ecatombi gloriose, per degnarsi di accorgersi che là, in riva all’eterno Egéo, si dibatteva ancora tra i ceppi qualche cosa di vivo, qualche cosa di somigliante all’anima di una nazione. [16] Amo la terra che fu la patria di Botzaris dopo essere stata quella di Epaminonda.

«Ed io saluto con lieto animo il rinato amore dei classici studî, che da qualche tempo riporta gli ingegni verso i capolavori dell’arte ellenica; perchè esso non può a meno di rendere alla Grecia — a questa culla delle Pierie divine — il posto e la importanza che le spettano nel movimento intellettuale dell’età nostra.

«Oggi, che il senso artistico delle moltitudini si va man mano snebbiando e liberando dalle anticaglie e dalle formule del pedantismo, dalle goffaggini del barocco, dai delirj delle nuove scuole, — oggi si comincia a riconoscere che l’arte greca, calunniata dai sedicenti novatori, è realmente qualcosa di meglio e di diverso da tutto ciò; che quest’arte che dicevasi invecchiata, solo perchè si amava confonderla col convenzionalismo classico, il quale non solo è vecchio, ma decrepito, quest’arte è giovane ancora, come al tempo che Eschilo e Fidia e Platone ne divinavano le forme e i segreti; e che le tendenze mutate del gusto, e i nuovi bisogni e le nuove idee hanno aperto altri mondi ai suoi voli, ma non hanno aggiunto una sola ruga alla freschezza delle sue linee. Ora si comincia a comprendere che essa non merita nè il disprezzo, nè i superbi anatemi dei pseudo-innovatori: perchè essa è più nuova di tutti loro: essa è la imagine, fatta divina, del vero, che è nuovissimo, per la semplice ragione che è eterno.

«E prima dell’immenso Shakespeare, per cui il vero non ebbe segreti, vi è, in ordine di data, un altro verista; il primo dei veristi nella storia delle lettere: il quale chiamavasi Omero.

«A questo nuovo indirizzo dell’arte tentai recare un povero, ben povero tributo, coll’Alcibiade mio; valgano allo artista, se non le forze mancate, la coscienza e lo amore e i lunghi studi; ai quali la fronda dei Greci di Trieste rimarrà, fra tutte le ricompense, la più ambita.

F. Cavallotti.


[17]

ALCIBIADE

[19]

PERSONAGGI

Epoca.Il secondo periodo della guerra del Peloponneso, dal 415 av. l’E. V. (spedizione di Sicilia) al 404 av. l’E. V. (caduta d’Atene).


LE ETÉRE.

Quanta parte della vita ateniese, quante memorie in questa parola! In Atene, ove leggi e costumi creavano alla donna di famiglia, nel chiuso de’ ginecei, posizione poco dissimile da quella che l’Oriente le assegna ancor oggi nel fondo degli harem, — ove il genio del popolo e il cielo e il clima prepotenti portavano al culto del bello e della Venere sensuale, — la cortigiana doveva naturalmente invadere ed occupare essa sola tutto il posto, o quasi, che nella civiltà di un popolo spetta al sesso più gentile. Un posto ben importante, perchè potesse esser degno di Aspasia! Gli affetti della famiglia, santi a Sparta (alla maniera de’ tempi), e santi a Roma, lasciano luogo, fra le tepide notti del cielo jonico, ad affetti più liberi: le Andromache, le Penelopi, le Antigoni già sono d’altri lidi e d’altre età; argomento di meraviglia ai licenziosi figli dell’Attica le mogli spartane, dominatrici dei terribili mariti, giusta il vanto della sposa di Leonida; e la storia che scrive in pagine d’oro i fasti delle madri [21] e delle spose in riva al Tevere e all’Eurota, dimentica e sopprime, come tampoco non esistesse, la donna di famiglia nel quadro della città e del secolo di Pericle. Ella ci conserva cinti d’aureola il nome della madre dei Gracchi e della madre di Bràsida; narra ai secoli la virtù conjugale di Porzia e di Chelonida; ma non si ricorda in Atene della donna di famiglia che, tutt’al più, per tramandarci il tipo della moglie bisbetica e insopportabile, in quella Santippe che il buon Socrate si teneva per esercitarsi alla virtù della pazienza.

Storici, oratori, filosofi, poeti non ci parlan di donne che non sian cortigiane. Cortigiana Aspasia, le cui grazie per quarant’anni governano il genio d’Atene; cortigiana Laide, per cui tutta Grecia traeva a Corinto, e dalla quale, narra Ateneo, era più difficile impetrar udienza, che non dal Satrapo Farnabazo; cortigiana Taide, per cui Alessandro incendiava Persepoli e che Tolomeo re d’Egitto sposava; cortigiana Glicera, che Arpalo in Tarso fa salutar regina; cortigiana Rodope, a cui si innalzano in Grecia palazzi, in Egitto piramidi; cortigiana Frine, che s’offre a rialzare a sue spese le mura di Tebe, purchè vi si scriva: Alessandro le distrusse: Frine le rialzò. Il costumato Teofrasto dipinge i caratteri d’Atene, e fuorchè cortigiane, altre donne non cita; l’elegante Alcifrone, il libero Aristeneto dettan le Lettere e ci intrattengono di cortigiane. Alla cortigiana Glicera regala Alcifrone le grazie del suo spirito e del suo stile, domanda Menandro gli estri della sua Musa; colle cortigiane Teodota e Diotima conversa di filosofia l’austero Socrate nelle pagine di Senofonte e di Platone; colla cortigiana Leonzia vien filosofando Epicuro; e alla fortissima Leena, che coi denti si mozza fra’ tormenti la lingua perchè il dolor non la stringa a rivelare il nome dei patrioti cospiratori, a questa cortigiana drizza Atene monumenti che ne attestino la gloria e la virtù.

Tradizioni di tal fatta intorno ad un tal nome di casta da sè lasciano intendere come ei dovesse suonar ben diverso alle orecchie ateniesi che non alle moderne orecchie pudiche; certamente, non titolo d’onore, ma senza confronto men vituperevole d’oggidì: la lingua stessa designava col dolce nome di etéra — ἑταίρα — ossia compagna, buona amica, quelle alunne di Venere, dal nome di Venere amica — (Athen., Deipnos., XIII, 571) — ad attestare, nella differenza del senso, la differenza della posizione sociale. Certo è ch’elle erano il perno e l’anima della giovine società elegante ateniese; e agli scapoli non solo, ma agli stessi mariti, malgrado i vincoli del matrimonio, poco o niun biasimo veniva dall’uso comunissimo del trescar pubblicamente seco loro: gran mercè se non giungevano a vantarsene, come si narra dello stesso Alcibiade, quando, sposo ad Ipparete, facea di sè esporre ritratti che il mostravano fra le braccia della meretrice Nemea (Andocide, Contro Alcib., 14); anzi nemmeno per le mogli era questo motivo di legge sufficiente a spor querela in giudizio e ad ottenere il divorzio, come Plauto ne fa fede (Merc., IV, 6, 3). «Abbiamo le etére per il piacere dell’animo, le donne legittime per la procreazione della prole» (Demost., C. Neera). Però a qual punto spingesse Atene la libertà del commercio colle meretrici, nulla meglio lo addita di quel giudizio di àrbitri, portato da Demostene in tribunale, ond’è risolta la lite tra Stefano e Frinione, disputantisi i diritti sulla meretrice Neera, col sentenziar la posseggano a vicenda due giorni per ciascuno (Demost., Contro Neera, 46).

[22]

Era oblio delle virtù antiche che avevan fatto grande la città? Era corruzione infiltrata col tempo ne’ costumi? Certamente da altro punto di vista avea considerato Solone il meretricio, quando per il primo pensava a regolarlo per legge, e a organizzarlo, confinato ne’ bordelli, sotto la vigilanza dello Stato. Udiam Filemone ne’ Delfi in Ateneo:

«Solone, tu fosti veramente il benefattore del genere umano! poichè tu per il primo pensasti a una cosa assai vantaggiosa al popolo e alla pubblica salute. Sì, a ragione io dico questo, perchè tu considerasti la nostra città piena di giovani dal temperamento bollente, e che sarebbero quindi trascorsi ad eccessi punibili. Perciò tu comperasti delle donne, e le hai poste in luoghi ove, provviste di quanto è a lor necessario, divengono comuni a quanti le bramano. Eccole nude; perchè non ti ingannino, ispeziona ben tutto. Vieni; la porta è aperta: paga un obolo ed entra: qui non si faranno smorfie, non si farà la ritrosa. Qua, subito, se vuoi, e nel modo che vuoi» (Athen., Deipn., XIII, 569).

Così in Atene (vuoi che Solone ne fosse realmente il primo istitutore o ch’ei ne trapiantasse l’usanza da alcune coste del Peloponneso e dell’Africa, secondo Engel, Kypros., II, 373) — sorgevano i primi bordelli (πορνεί ἃ παιδισκεῖα): eretti a istituzione di Stato, dacchè sappiam da Nicandro che Solone pel primo alzò un tempio a Venere pandemia o cortigiana (Αφροδίτη Πάνδημος, ovvero Εταίρα) col danaro raccolto dalle donne che presiedevano a que’ luoghi (Athen., l. c., cfr. Albert, ad Hesych. I, 1477).

Pur erano i tempi di Atene austera, e il regno delle etére non era ancor sorto.

Ma in fuor delle schiave ne’ bordelli serbate, per ragioni di pubblica igiene, allo ignobile traffico, e dell’altre che privati lenoni, uomini e donne (πορνοδοσκοί) comperavano e mantenevano allo stesso scopo ed uso, per trarne lucro in loro apposite case — l’ironia del linguaggio li chiamava ἐργαστήρια, luoghi di lavoro — (cfr. Demostene, C. Neer. 18, 67; Athen. X, 437, f.; Eschin., C. Timarc., 138; Plauto, Cistell., Asin., ecc.) — veniva sorgendo e moltiplicandosi — da quelle assai distinta — la classe numerosa delle affrancate e delle libere, professanti per proprio conto il culto della Venere volgare. È per queste propriamente che il popolo, con indulgente eufemismo, mutava il nome spregiativo di πόρναι, o παλλακαί, in quello carezzevole di amiche od etére: «Dimmi, chiede Socrate a Teodota, hai tu poderi? — No. — Ma forse hai una casa che ti dà la rendita? — Non ho casa alcuna. — Ma forse hai schiavi manifattori? — Nè anche questi. — E di dove dunque ricavi le cose necessarie alla vita? — Se alcuno fattomisi amico vuol farmi del bene, questo è il mio avere» (Senof., Memor. III, 9). E Antifone: «Avea costui per vicina una giovine cittadina: appena la vide, che la fece sua amante: cosa tanto più facile ch’ella non aveva nè tutori, nè parenti: era una ragazza dalle inclinazioni più virtuose, oneste, d’aurei costumi: insomma quel che può dirsi veramente una meretrice (etéra), diversa da altre che disonorano un nome così bello» (Antifone, presso Athen., XIII, 572). E l’autore di questo dramma, leggendo, pensava alla sua ingenua Glicera.

Del novero di queste cittadine ateniesi che viveano a sé, traendo frutto da’ proprj vezzi, benchè in umile grado, erano le auletridi, e le citarede, e [23] le ballerine (αὐλητρὶδες, κιθαρίστριαι, ὀρχηστριδης), le quali prestavano a prezzo, ne’ sacrificj e ne’ banchetti, l’opera de’ flauti e delle cetre e delle danze: ma associavan di regola l’una all’altra industria, vivendo da etére, e facendo spesso delle loro abitazioni il luogo di convegno della gioventù (Isocr., Areop., 48; Luciano, Dial. delle cortigiane, 5). Non era banchetto che non fosse rallegrato da queste leggiadre sacerdotesse di Calliope e di Tersicore: e spesso, tra i fumi del vino e le armonie de’ suoni, qualche commensale accendéasi per esse di passione violenta. (Menand., Tesoro, pr. Stob., LXIII, 18). E però, molte di costoro, per attrattive di mente e di beltà, dovettero emergere e salire in fortuna: ed eran di queste, parecchie fra le etére più in grido, di cui si narrano i nomi e gli aneddoti in Ateneo. Suonatrice di flauto fu Lamia, la figlia dell’ateniese Cleanore, che innamorò di sè perdutmente il dominatore d’Atene Demetrio Poliorcete (Aten., XIII, 577, c.). Pure, generalmente non fu in Atene, dal grembo di queste, ma dal di fuori che vennero e sorsero quelle apparizioni veramente meravigliose, come Hermann le chiama (Bild. des Griech. Privatleb., II, 60), le quali, colle grazie dello spirito e coll’amabilità assai più ancora che coll’avvenenza esercitarono una influenza così strana e decisiva sulla società del loro tempo, sulle arti e sui costumi. Forestiere (ξέναι) erano Aspasia da Mileto, e Laide da Iccara e Frine. Venian per lo più fanciulle, povere e sole, nelle grandi città, a Corinto e ad Atene, per trovarvi lavoro: ivi i talenti naturali e la bellezza fermavan sovr’esse gli sguardi: e a poco a poco travolgevale il vortice. Libere e cresciute all’aperto, — a differenza delle matrone ateniesi rinchiuse da bimbe in casa, fuor degli occhi degli uomini, a imparar di conocchia e di cucina, e a vegetare più tardi ne’ talami fra la custodia di leggi pressochè claustrali, — nella libertà avean potuto coltivare i ricchi doni di natura e lo spirito; soltanto nella vita libera delle etére, al contatto della società, poteano omai trovarne lo sviluppo. Così circondate dal fiore di Atene, disputanti di scienze e di arti con artisti e filosofi, corteggiate dalle aristocrazie del sangue e del censo, sorgeano datrici delle leggi del buon gusto e dell’eleganza, raffinatrici di ingegni e di studii e di ogni senso del bello nelle piacevoli gare, ispiratrici care alle Muse. Aspasia apriva in Atene la prima sala di conversazione che rammentin le storie; vi cresceva alunne degne di lei; e là in quel circolo leggiadro, dove donne virtuosissime come la moglie di Senofonte non temean di compromettersi frammischiandosi alle etére (Plutarco in Pericle; Cicerone, De Invent., I, 99; Quintil., Instit. Orat., V, 19), veniva Pericle a riposarsi dalle cure della repubblica e dalle burrasche del governo popolare.

Di queste etére di prima classe proverbiali erano il lusso e l’orgie ed il prodigo fasto, — spesso non discompagnati da cauti risparmj e da previdenza del futuro, spesso preparanti una squallida vecchiaja. Talora se n’immischiava, col disinteresse, anco l’amore: e Meneclide allora piangea morta la bella gioconda Bacchide, che esempio di amore e di fedeltà, contenta a’ poveri cenci di lui, avea rifiutato i ricchi doni e l’oro del satrapo (Alcifr., Lett., I, 38): più sovente l’interesse volea la sua parte, e Filumena scriveva a Critone lettere lunghe come questa: «A che col tanto scrivere e piangere martirizzi te stesso? Cinquanta monete d’oro mi fan d’uopo, non lettere. Se è ver che mi [24] ami, mandale: se sei un sordido, non seccarmi altro» (Alcifr., Lett., I, 40). — Era il tempo che Gnaténa domandava mille dramme per una notte: e Laide a Demostene chiamato a Corinto dalla fama di lei, ne domandava diecimila, per udirsi rispondere: Non compro a sì caro prezzo una penitenza.

Sulla fede di Suida pretesero alcuni (Petit, Leg. Att., p. 573-576) che le leggi stesse regolassero il lusso delle etére, prescrivendo loro, per distinguersi dalle matrone, date foggie di vestiario a colori. In ciò questo solo è di vero, che le leggi, rigorosissime nel frenare e punire il lusso delle matrone (Polluce, VIII, c. 9) e punirle se usciano men che modeste e decenti per via — non poneano alle etére prescrizione o freno di sorta (Diod. Sic., XII, 21; Eustath. ad Iliad., XIX); naturalissimo poi ch’elle si valessero, quanto più bramavan piacere, tanto più ampiamente di quella libertà: e all’abbigliamento affatto modesto delle matrone sostituissero lo sfarzo delle vesti di porpora o tessute in oro, o vagamente ricamate a fiori o colori smaglianti, e gli artificj del belletto e i ricchissimi monili e le splendide ricercate acconciature (Luciano, D’una sala; Alessi, presso Athen., XIII, 568 a. e Clem. Al., Paedag., III, p. 218); salvo ai comici di ferirle in pubblico con detti ed epiteti mordaci, e alle pudiche matrone di invidiarle in segreto.

Cfr. Alcifrone; Aristeneto; Ateneo, lib. XIII; Menandro e Comici greci, Frammenti; Luciano, Dialoghi delle cortigiane; Demostene, Contro Neera; Becker ed Ermann, Bild. des Griech. Privatlebens; Cl. Bader, La femme grécque; Laitier, La femme dans la fam. Athen.; Wieland, Lettere di Aristippo, ecc., ecc.

I PARASSITI.

Questo nome fu lontano dall’avere in origine l’ignobile significato che ebbe di poi. Fra gli antichi l’epiteto di parassito significò un ufficio sacro e fu sinonimo di commensale. Così chiamavansi (Aten., VI, 235 c.) coloro che erano nominati a soprintendere alla scelta e alla percezione del frumento sacro (οἴ δ’ἐπὶ τήν τοῦ ἵερου σίτου ἐκλογὴν αἰρούμενοι): e vi era pertanto un collegio ossia curia di parassiti (καὶ ἤν ἀρχεῖον τι παρασίτων). Per il che era scritto nella legge del re: «Il re avrà cura che si creino i magistrati: e dalle varie borgate (demi) sian scelti, a norma delle leggi, i parassiti: i quali dai magazzini di grano della rispettiva classe e tribù scelgano ciascuno un sestiere di orzo, affinchè gli Ateniesi se ne cibino secondo il patrio costume.»

E in Polluce si legge: «Era ad Atene una certa curia o magistratura detta parasition: come sta scritto nella legge del re» (Onomasticon, lib. VI, cap. 7). Dalla qual legge anco rilevasi che vi era una casa sacra destinata e consacrata a questa curia che i parassiti formavano.

Il parasition ebbe dunque il suo nome dal grano (para sitou) sacro di cui vi si deponevano le primizie. E col grano intendevansi in genere anche tutte l’altre offerte fatte da cittadini al tempio ed agli Dei.

La parola parassita, scrive dal suo canto Clearco di Soli, discepolo di [25] Aristotile, nelle sue Vite (Athen., VI, 335), «la qual designa attualmente un uomo pronto a condursi secondo il piacere d’altrui, in altri tempi significava un uomo scelto ad essere commensale dei sacerdoti: anzi la maggior parte delle città annoveravano fra le prime dignità quella dei parassiti, come alcune le annoverano ancora.»

E in Atene al Cinosargo (ginnasio destinato ai poveri e ai bastardi), nel tempio di Ercole era affisso ad una colonna questo decreto di Alcibiade scritto da Stefano figlio di Tucidide: «Che il sacerdote coi parassiti faccia i sagrificii di ogni mese. I parassiti prenderan seco un bastardo e un figlio di bastardo secondo l’uso della patria. Colui che rifiuterà d’essere parassito sarà tradotto ai tribunali.»

Altro decreto affisso a una colonna dell’Anaceo (il tempio di Castore e Polluce): «Dei due più bei bovi che si saranno scelti, la terza parte sarà destinata alla celebrazion dei giuochi; gli altri due terzi si daranno uno al sacerdote, l’altro al parassito.»

E sotto le offerte votive consacrate a Pallene, leggevasi: «Essendo arconte Pitodoro, i magistrati e i parassiti, cinto il capo di corona d’oro, offersero questi doni.» E altrove: «I parassiti della sacerdotessa Filea furono Pericle di Pittea e Carino di Gargetto.» E nella legge del re: «I parassiti d’Acarne sagrificheranno ad Apollo» (Ateneo, l. c.; Meursius, Themis Attica, II, 35).

Fu molto più tardi che quella designazione di coadiutori e commensali dei sacerdoti, passò a significare in genere un’altra specie di commensali assai meno nobile, ma forse altrettanto antica.

Nè si potrebbe meglio spiegare la mutata fortuna del vocabolo che colle parole di un parassita stesso, in una commedia di Diodoro di Sinope: «La mia professione è sempre stata gloriosa ed onestissima. La nostra città che rende grandi onori ad Ercole, fa sagrificii in tutti i borghi, dando a questo dio dei parassiti per queste cerimonie sacre. E non li prende già fra i primi venuti; ma sceglie a ciò dodici cittadini fra i più potenti e ricchi, e di vita intemerata. In seguito di tempo, alcuni cittadini agiati, volendo imitare ciò che faceasi per Ercole, s’impegnarono reciprocamente a prendere un certo numero di parassiti per mantenerli; ma non scelsero già persone veramente ammodo; presero invece adulatori sempre pronti a colmarli di elogi; di modo che, se il padrone rutta loro sul naso dopo aver mangiato del rafano e del pesce stantio, essi lo complimentano per le rose e le violette con cui ha pranzato. O p... egli vicino all’uno o all’altro? quegli gira il naso annusando qua e là, e domanda: Dove prendi tu questo profumo squisito? — È così che i parassiti hanno fatto, di ciò che era onesto e rispettato, una professione ignobile qual è oggi» (Athen., VI, 239 d.).

Secondo Ateneo, Alessi ed Epicarmo furono i primi che introdussero nelle loro commedie il carattere del parassito, quello cioè che oggi da noi si intende comunemente con questo nome. Il personaggio di Epicarmo, nella commedia il Pluto, risponde a chi l’interroga: «Io pranzo con chi vuole: basta invitarmi. Quanto ai festini di nozze, io ci vado senz’esservi chiamato. Faccio ridere a crepapelle e non manco mai di lodare il padron di casa che dà il pranzo. Se qualcuno è di parer contrario al suo, io gli do sulla voce, e mi riscaldo. [26] Infine, dopo aver ben bevuto e ben mangiato, me la cavo. Non ho schiavo che m’accompagni colla lanterna, ma cammino traballando e solo fra le tenebre. Se per caso incontro la ronda, le dico qualche buona parola, rendendo poi grazie agli Dei che a furia di pugni e di staffilate non m’abbia accoppato. Giunto a casa m’addormento e non penso più a quel ch’è stato, fin che il vino è padrone della mia anima» (Athen., VI, 235-6).

Altri volle scorgere il primo tipo del parassito in Omero: «Fra i Trojani era Podete, valoroso e ricco, figlio di Eezione. Ettore lo avea per amico e commensale» (Iliad., 71): e perciò il poeta lo fa ferire al ventre da Menelao, cioè da uno spartano, amico della frugalità.

Il caustico Luciano andò ancora più innanzi: e il parassito de’ suoi dialoghi, che la pretende a letterato, fa di Omero non soltanto lo scopritore, ma anche il primo panegirista di questa casta rispettabile. E cita l’elogio del viver parassitico seduti in fila a convito, quando le mense traboccano di pane e di carni e il coppier versa intorno il pretto vino; e nota che Omero non per nulla il pose in bocca ad Ulisse, cioè al più savio de’ Greci; e trova maliziosamente che parassiti di Agamennone eran nientemeno che Nestore e Idomeneo: e parassito di Achille lo stesso Patroclo (Luciano, Parass.): nella qual citazione è curioso lo scambio tra la classe dei parassiti e quella dei donzelli o degli amanti, secondo il greco costume.

Checchè ne sia delle facezie di Luciano, gli antichi poeti designavano i parassiti col nome di adulatori (κόλακες). In una commedia di Eupoli, che reca appunto quel nome, un coro di adulatori così parla: «Io ho due vesti abbastanza belle che indosso a vicenda, e ne faccio sempre andar l’una o l’altra al mercato; se vi scorgo qualche sciocco riccone, subito io gli sono alle coste. Se egli dice qualche parola, mi sbraccio in elogi, mostro d’andar in estasi a quel ch’egli dice; e il nostr’uomo si vede così assalito da una quantità di adulatori che vengono alla sua tavola: e noi andiamo in panciolle a spese altrui. Là ogni discorso dev’essere adulazione, menzogna: se no, addio tavola: saremmo messi alla porta» (Athen., VI, 236 f.).

Ma il nome propriamente di parassito, usato in questo senso, lo si incontra la prima volta nel comico Araro, da Ateneo così citato: «Mio caro, tu sei necessariamente parassito (παράσιτος), poichè non è forse Iscomaco che ti mantiene alla sua tavola?»

Or ecco il carattere di un parassito, dipinto dal comico Timocle, nel suo Draconzio citato da Ateneo: «E che? Lascerò che si sparli di un parassito? Mainò. È la razza d’uomini più utile. Se vi ha qualcosa d’onesto a fare che possa recar piacere agli amici, il parassito non si mette ei subito all’opera? Hai una passione? il parassito ti seconderà, pronto a tutto quel che ti occorre: e persuaso che è un giusto ricambio ch’ei ti deve per la tavola che gli fornisci. Ma ecco, per finirla, ciò che prova all’evidenza quanto caso si faccia del parassito. Si accordano al loro merito le stesse prerogative che a quelli che furono vittoriosi ad Olimpia, cioè il nutrimento a spese dello Stato: poichè qualsiasi il luogo in cui si mangia senza pagar nulla, non si deve chiamarlo il Pritaneo?» (Athen., VI, 237 d. e.).

E Antifane nei Gemelli: «Un parassita, se ben rifletti, è un uomo che [27] divide con noi e la fortuna e la vita. Nessun parassita mai desiderò veder infelici gli amici; al contrario egli non augura che del bene a tutti. Sa sopportare un trasporto d’ira: se lo pigli a dileggio, ne ride: è propenso all’amore, burlone, gioviale» (Athen., VI, 238 a.).

Altre simili citazioni degli antichi comici greci intorno a questa classe di persone ponno riscontrarsi da chi voglia in Ateneo; il quale prosegue ricordando nomi e aneddoti de’ parassiti più conosciuti ad Atene nel V e nel IV secolo avanti l’êra volgare, cioè: Titimallo, Corido, Cherefonte, Filosseno, Ceribione, Grillione ed altri famosi chi per voracità, chi per la vena inesauribile di facezie, o anche di impertinenze con cui rallegravano i banchetti dei loro Anfitrioni.

Certo è che una tal classe rappresentava nella vita ateniese del secolo d’oro un tipo troppo interessante e caratteristico per non tentar l’estro degli scrittori che più al vivo dipinsero quell’età. Ed ecco Luciano spendervi intorno le arguzie più sottili della sua Musa; e qui far le lustre di impietosirsi sulle piccole disgrazie di quei che vivono alle spalle dei signori (Lucian., XVII), là decantarne le delizie e mostrar come e qualmente la parassitica è un’arte, anzi la prima tra l’arti.

«Il primo punto — osserva il suo parassito — è cercare e discernere chi può essere atto a nutrirti, con chi acconciarti meglio a desinare, senza avere a pentirti poi. Direm noi che il cambiatore ha un’arte con cui distingue le monete false dalle buone, e che uno senz’arte conosce gli uomini quali son falsi e quali buoni? Pure gli uomini è ben più difficile scernerli che non le monete. L’arte del parassita è dunque grande, se a tanto arriva. E a saper dire acconce parolette, a far di quelle cose che ti acquistino la benevolenza di chi ti dà a mangiare, non ci vuol forse prudenza e conoscenza assai? E nei conviti, l’uscirne colla miglior porzione ed avere più carezze degli altri che non hanno quest’arte, credi tu si possa far senza sapienza? E il conoscere le virtù e vizi delle vivande e degli intingoli, ti pare che sia una curiosità da poltrone? Eppure il nobilissimo Platone dice: Chi fa un banchetto e non si intende di cucina, non può mostrare buon giudizio. Arrogi, la parassitica non consiste solo nelle cognizioni ma anco nella pratica. Le altre arti, anche non esercitate per anni, non periscono in chi le possiede: ma se le conoscenze del parassito non sono esercitate ogni giorno, non solo perisce l’arte, ma l’artista. Nelle altre arti il dolce viene all’ultimo, e la via n’è lunga e scabrosa: il parassita solo gode dell’arte sua mentre l’impara, e mentre comincia è già al suo fine... E qual fine utile nella vita è mai il suo! Per me non trovo nella vita niente più utile del mangiare e del bere, e non si può vivere senza di ciò» (Luciano, Parass.).

E questo è precisamente il parere non solo del parassito di Luciano, ma anche degli altri suoi degni predecessori, che vivono ancora nelle lettere del giocondo e pittoresco Alcifrone. E anche qui i parassiti occupano gran parte di quel quadro di costumi così vivo e così vero; e si raccontano a vicenda tra di loro le delizie della loro vita. Sentiamo, per esempio, il rispettabile parassita Misognifo: «Benedetta la nave che portò da Istica in Atene questo meraviglioso mercadante, appetto del quale pajon sordidi li più agiati ateniesi! Non pago di un solo parassito, ci fece venir tutti dalla città: e non solo noi, ma le cortigiane più sfarzose, le cantatrici più belle, e gli istrioni da teatro in tal [28] numero che avresti detto non mancarvene pur uno. Egli ama essere festeggiato da cetre e flauti, il suo conversare è ridondante di grazie e di veneri: fin nell’aspetto è tutto gioviale: ne’ suoi discorsi eloquente sì come quegli

Cui di néttar la musa i labbri asperse.

Anche noi parassiti parliamo alla foggia de’ letterati, chè noi pure siam nativi dell’Attica, ove uomo non trovi che in cotali ciancie non abbia buon gusto» (Alcifr., Lett. III, 65).

Le rose però hanno le spine, ed era tutt’altro che di sole rose la vita del parassito: obbligato ora a far ridere senza sempre riuscirvi, come il povero Filippo del Simposio di Senofonte, ora a rischiar salve di busse o a servir di zimbello ai capricci e alle burle di chi lo invitava, e a starsene alla varia fortuna. Taluno pigliava filosoficamente la sua parte, come il parassita nel Pitagorista di Aristofane: e si tratta di bever acqua? io sono rana. Ci son erbe o radici a rodere? io sono bruco. Bisogna far senza del bagno? io sono il grasso e il sudiciume in persona. Viver l’inverno a ciel sereno? io sono merlo. Sopportare un calor soffocante e cantare di pien mezzodì? sono cicala. Non far uso di olio? son polvere arida. Camminare a piè nudi dall’aurora? sono gru. Non dormire un sol minuto la notte? sono civetta» (Athen., VI, 238 d.).

Non tutti però avevano la stessa filosofia; e allora venìano i lamenti: «O Genio cui son toccato in sorte, quanto maligno sei! Se alcun non mi invita, e’ mi conviene divorar piante selvatiche e conchiglie, ovvero andar cogliendo erbe od empiere il ventre bevendo all’Enneacruno (fontana pubblica di Atene). Finchè ero giovine e in gambe, potevo patir questi disagi; ma ora che son fatto grigio qual rimedio a tanta sciagura? Una fune d’Aliarto mi occorre e penzolerò davanti alla porta Dipila, se la Fortuna ad ajutarmi non pensa» (Alcifr., Lett., III, 49). È il povero parassito Capnosfrante che si dispera.

Ma udiam quest’altro: «Ribaldo di barbiere!... Anzi che radermi egualmente tutto il mostaccio, senza mia saputa lo fece a metà, sicchè restommi la mascella qua pulita, là ispida. Io, ignaro della malizia, recaimi al solito a casa Pasione, benchè non invitato. Come li commensali mi videro, dieronsi a fare le più grasse risa del mondo: ed io non conobbi la cagione di tanto riso se non quando l’un d’essi mosso ver me, mi tirò pei peli rimastimi. Questi mi strappai tosto non senza grave dolore: ed ora vo’ pigliar un bastone delli buoni e darlo sul cranio al mariuolo! Poffar di cielo! Ciò che per burla fanno quei che ci pascono, ardì fare costui che non ci pasce» (Alcifr. III, 66). Questi è il parassita Ginnocheronte a cui sale presto la mosca al naso.

«Oh Dio! — grida un terzo, — crudel giornata che fu quella di jeri! Che non mi fecero soffrir questi ricconi! Essi gareggiarono nel costringermi a tracannare e a mangiare oltre la capacità del mio ventre. Questi mi imbottava di salsiccia e quello per forza mi cacciava un pezzo di pane nelle ganasce; un altro mi riversava nello stomaco, come in una botte, non vino, ma brodetto di senape e di pesce spremuto e di aceto. Se il medico Acesilao vedendomi moribondo non mi facea portar via e non mi soccorreva di rimedj, era finita per me» (Alcifr., III, 7). E la umanità avrebbe perduto innanzi tempo il povero parassito Etoemocóro.

[29]

Allora, co’ guai, veniva il pentimento: e insieme il proposito di mutar vita: Vo’ pormi a far qualche mestiere: andrò al Pireo: farò il facchino. Meglio empir la pancia di cipolle e di polenta, ma goder sicurezza di vita, che gustar manicaretti ed uccelli del Fasi, e ogni giorno stare in bocca alla morte» (Alcifr., III, 7). Ma più spesso i propositi li menava il malanno: e un altro pranzo se li portava via.

Tale era, in Atene, il parassito. Mezzo filosofo, mezzo buffone; con qualche sprazzo di letterato; adulatore di professione, e al bisogno, impertinente; niente invidioso de’ beni altrui, pur di goderne qualche briciolo in compagnia: sempre gaudente per istinto, spesso rassegnato per necessità; pronto a ogni servigio pur di guadagnarsi qualche dramma od un invito; capace, per far servizio, di parecchie azioni cattive, e se il caso gli veniva, persin di qualcuna buona. Un faceto mariuolo, senza l’impossibilità assoluta di cavarne per combinazione un galantuomo. Tutto sommato, una pasta d’uomo niente peggiore — migliore forse — de’ suoi figli e pronipoti della nostra età.

CLASSI DI ATENE.

La popolazione tutta di Atene, ossia dell’Attica, dividevasi in tre grandi categorie: cittadini (πολῖται); meteci o trapiantati o forestieri domiciliati (μέτοικοι); (schiavi) (δοῦλοι). Ai tempi di Alcibiade sommavano nell’Attica i cittadini, all’incirca, ai 20,000; i meteci ai 10,000; gli schiavi ai 400,000.

Gli schiavi erano o Greci prigionieri di guerra, o barbari per lo più di Tracia, di Caria o di Frigia rapiti dai pirati e portati sul mercato d’Atene; o Ateniesi nati di genitori schiavi. Formavano un ramo considerevolissimo di commercio; il prezzo ordinario di uno schiavo variava dalle 300 alle 600 dramme (la dramma valeva 96 centesimi di franco), però poteva salire anche a prezzi straordinarj di affezione. Adoperavansi all’agricoltura, alle miniere, alle manifatture, ai servigi domestici interni; il padrone poteva incarcerarli, incatenarli, interdir loro il matrimonio, separar il marito dalla moglie; non poteva però ucciderli; la legge, in Atene per essi assai più mite che non a Sparta ed a Roma, accordava agli schiavi il diritto di querelarsi dei maltrattamenti ingiusti dei cittadini e dei padroni («chiunque a fanciullo, o a donna o ad uomo, siano liberi o schiavi, farà villania od atto illecito sia accusato ai Tesmoteti...» Demost., Contro Midia); se trattati dai padroni con eccessivo rigore rifuggivansi nel tempio di Teseo e di là, come da asilo inviolabile, chiedevano padrone più umano. Tutti avean diritto di affrancarsi riscattandosi; talvolta per servigi resi li affrancava la Repubblica: e nei bisogni urgenti potean essere armati per la guerra.

I meteci o trapiantati — classe intermedia fra gli schiavi e i cittadini — erano stranieri ai quali il Senato aveva permesso di venire a domiciliarsi nell’Attica ed esercitarvi qualche industria, coll’obbligo di pagare una imposta di 13 dramme annue per ogni capo di famiglia e sottostare agli altri oneri straordinarj, [30] nonchè al servizio militare. Formavano una sola categoria insiem con loro anche gli schiavi affrancati o liberti. — Eran tenuti in conto di liberi; poteano esercitar l’arte che loro piaceva, posseder terre e schiavi; il governo li proteggeva; e questo patrocinio tenea luogo per essi dei diritti politici dai quali erano esclusi. Perciò dovean scegliersi tra’ cittadini un patrono (προστάτης) che guarentisse per loro e li rappresentasse negli atti giuridici. Poteano però in dati casi venir innalzati al grado di cittadini.

Infine eccoci alla categoria dei cittadini, alla quale apparteneasi o per diritto di nascita, da genitori cittadini ateniesi, — o per adozione o per conferimento di cittadinanza; che fu onore ab antico da principi ambito e non potea conferirsi se non per decreto popolare ratificato da 6000 cittadini. Onore caduto in discredito più tardi, perchè a troppi e immeritevoli conferito (Vedi Demostene, Contro Aristocrate e Sintassi).

La divisione più antica dei cittadini dell’Attica fu quella di Teseo: il quale liberato il territorio dalle scorrerie de’ pastori e riuniti in un solo corpo i distretti dell’Attica, ne ripartiva la popolazione in tre classi: eupatrìdi o nobili (εὐπατρίδαι); agricoltori o coloni (γεωμόροι) e meccanici o industriali (δημιουργοί). Grandi disuguaglianze doveano essere tra la prima classe e l’altre due, sebbene Plutarco (in Teseo) ed Euripide (Supplici, v. 46 e seg.) ci presentino Teseo istitutore della eguaglianza politica e lodatore della democrazia. Infatti Pausania, accennando a questa pretesa istituzione della democrazia fin dal tempo di Teseo, soggiunge: simili cose credevan coloro che prestavan fede a tutto che udivano da fanciulli in teatro (Paus., Attic., 1, 3, 2): e dallo stesso Plutarco rilevasi che considerevoli prerogative erano accordate alla nobiltà ereditaria degli eupatrìdi. Della classe degli eupatrìdi furono i re; indi gli arconti o re decennali quando l’autorità regia fu limitata a tempo (753 av. l’E. V.) e quand’essa fu soppressa del tutto (682 av. l’E. V.) ancora fra la classe degli eupatrìdi si stabilì di scegliere i nove arconti annuali.

Questa preminenza dava agio agli eupatrìdi di opprimere le due classi inferiori: e le leggi di Dracone (624 a. l’E. V.), favorevoli all’aristocrazia, la aggravarono: indi turbolenze e lotte intestine fra le tre classi, dalle quali presero origine e nome le tre fazioni politiche dei Pedii, dei Diacri e dei Paralii, ossia degli abitanti della pianura (i nobili oligarchici); dei monti (i poveri coloni, partigiani di democrazia) e delle spiaggie (i ricchi industriali, fautori di governo misto). A cessar la completa anarchia, che fu la conseguenza di queste lotte, venne la costituzione di Solone (594 a. l’E. V.).

Egli sostituì all’antica una nuova ripartizione dei cittadini in quattro classi, secondo il vario ammontare della rendita netta della loro proprietà fondiaria e della corrispondente cifra d’imposta.

1.ª Classe: i pentacosiomedimni — (πεντακοσιομέδιμνοι), cioè i cittadini che raccoglievano annualmente 500 medimni o misure di frutti solidi e liquidi (il medimno corrispondeva a un mezzo ettolitro circa — 2628 poll. cub. parigini — e al valore di una dramma); e pagavano 120 dramme d’imposta del cinquantesimo.

2.ª Classe: i cavalieri (ἱππεῖς), i quali raccoglievano 300 medimni e potevano mantenere un cavallo. Pagavano 60 dramme d’imposta.

3.ª Classe: gli zeugiti o aratori — jugarj — (ζευγίται), i quali raccoglievano [31] annualmente 200 medimni o 150, e possedevano un aratro (ζεῦγος). Pagavano 20 dramme d’imposta.

4.ª Classe: i proletarj o thétescapite censi (δῆτες) che ne raccoglievano di meno od erano nullatenenti.

Di queste nuove quattro classi, la prima sola forniva i cittadini ammessi all’Arcontato e per conseguenza all’Areopago; e le tre prime in generale (pentacosiomedimni, cavalieri, zeugiti) fornivano i cittadini per le altre magistrature. Quelli della quarta classe infine (thètes) concorrevano colle prime tre al diritto di voto nella assemblea popolare e all’ufficio di giudice (Vedi Plutarco in Solone; cfr. Aristof. scol. Caval., v. 627; Polluce, VIII, 129-132; Suida; Hülmann, Costituz. di Solone; Schöman, Antich. greche; Grote, Thiriwall, ecc.).

Così, in luogo della vera aristocrazia ereditaria — base del governo oligarchico — non si ebbe più che una semplice aristocrazia del censo — rappresentata dalle prime due classi de’ pentacosiomedimni e dei cavalieri — naturalmente mutabile nella sua composizione e accessibile alle classi inferiori. Il titolo di eupatrìda continuò a distinguere la antichità e nobiltà del casato, ma non più come distinzione ufficiale di casta, iscritta nel diritto pubblico. E alla democrazia fu spianata la strada — volta che non più la nascita, ma il patrimonio fu la base — e quindi il lavoro potè essere il mezzo dell’ammissibilità di tutti i cittadini alle più alte magistrature.

Dalle prime tre classi eran forniti per l’esercito i capitani, e i trierarchi ossia comandanti delle triremi, i cavalieri (questi in ispecie dalla 2.ª) e gli opliti o fanti di grave armatura (in ispecie dalla 3.ª). Tutti costoro servivano a proprie spese, e a proprie spese fornivano quelli la trireme, questi il cavallo, quest’altri le armi. L’ultima classe poi di cittadini forniva la fanteria leggiera e regolare (arcieri, τοξοται) e gli equipaggi della flotta.

[33]

AVVERTENZA DI CIMOTO AL PUBBLICO

Il prologo... io non sono. Io son Cimoto attore,

Compagno di Alcibiade — e amico dell’autore:

Il qual, tanto per romperla col suo vizio di prima,

Scrivendo un dramma in prosa, — lo ha cominciato in rima.

Quest’è la ragion prima della comparsa mia:

Ve n’è un’altra — e ad esporvela lo stesso autor m’invia,

Pregandomi di volgere sommessa una parola

Al pubblico ed ai critici di questa e quella scuola.

Descrivendo Alcibiade e Atene de’ suoi dì,

E quel ch’era il suo secolo, quand’egli vi fiorì,

È natural che parli l’autor de’ tempi suoi

Diverso che ai dì nostri non parlisi tra noi:

E che di idee più libere sotto il diverso lume

Discordi un po’ l’italico dall’attico costume. —

Però l’autor, vestendo colla pudica scoria

Del dramma le severe nudità della storia,

A mostrar quanto avesse serbato a lei rispetto,

Illustrava di un mondo di note il suo libretto,

Ove cita in appoggio di questo o di quel dato,

O d’una o d’altra usanza, l’autore consultato,

E per tutte e per singole le prese libertà

Invoca il beneplacito di qualche autorità:

Omèro, Éschilo, Sòfocle, Eurìpide, Platone,

Tucìdide, Plutarco, Diodòr, Gellio, Alcifrone,

Aristofane, Andòcide, Pausania e Senofonte,

Trogo Pompeo, Cornelio, Luciano ed Antifonte:

E l’aureo Teofrasto, e il buon cantor di Téo,

E Suìda, ed Aristéneto, Polluce ed Atenéo:

Poi, fra’ moderni, Wieland, Meissner, Meùrsius, Grote,

Peyròn, Becker, Corsini, ed altre fonti note:

E i commenti, — io li ho visti — non finivano lì...

Ma il difficile stava nel recitarli qui.

Come far? Per l’autore restava una via sola:

Pregar pubblico e critici a credergli in parola:

E a quelli che non credono, se non vedon lo scritto,

O a venirlo a vedere — o a rincarargli il fitto. —

[34]

Ciò riguardo alla storia: — in quanto al dramma poi

(L’autor qui non ci sente — diciamola fra noi)

Se sia un dramma possibile — o un dramma che non va, —

Scommetto che l’autore medesimo nol sa. —

Oh, s’ei potuto avesse, con un prodigio strano,

Fondere in un sol tipo l’Antonio, il Coriolano,

E il Cesare; — e il lascivo eroe babilonese,

E il Don Giovanni eterno del novo bardo inglese,

Oh, lo so anch’io, che allora, in un battere d’occhi,

L’autore un Alcibiade v’avria dato coi fiocchi.

Poichè, quale la storia fra i secoli il mandò,

Fra i Greci fu Alcibiade un po’ di tutto ciò. —

Ma l’èra dei miracoli scomparve: — ed il poeta

Tremò, chiedendo indarno scintille alla sua creta,

Quando, scossa la polvere delle cecrópie mura,

Si trovò solo innanzi la gigante figura

Dell’uom, che ai Greci attoniti di un secolo lontano

Mostrò tutte le faccie del poliédro umano.

Di virtù e vizii impasto, qual vide raro il mondo;

Di gloria e delle gioje dei sensi sitibondo;

Guerrier prode, audacissimo, — zerbino effeminato,

All’orgie, al lusso — e agli aspri stenti del campo usato;

Libertin dissoluto, capitan savio e austero,

Tra i calici il più allegro, tra l’armi il più severo;

Matto negli ozii, all’opera calcolator minuto,

Nelle passioni ingenuo, nelle sue azioni astuto;

Or prepotente, or docile; leal, simulatore, —

Nella gloria egoista, nel resto ottimo cuore;

Ingannator di donne; nell’arti di Cupido

Maestro; e a un casto amore sino alla morte fido:

Tribuno e aristocratico; piaggiator della plebe,

Ch’ei d’Asia trasse e d’Éllade a insanguinar le glebe;

De’ suoi vizj sdegnoso; dall’aura popolare

Sbalzato or nella polvere, levato or sull’altare;

Per ambizion colpevole, per ambizion virtuoso,

Di Aristide men nobile, di Marzio più glorioso;

Pronto a mutar costumi, come a mutar di lido,

Or dell’ira seguendo, or della patria il grido,

E ad alternar fra Bacco, Marte ed Amor le cure,

Tranquillo nei dì prosperi, maggior delle sventure.

Tale era l’uom — fra i Greci, segno d’immenso amore

E immenso odio — che al tumulo strappò l’incauto autore,

Sperando, almen per l’ombra del Grande che già fu,

Non odio e non amore... — ma ascolto — e nulla più.

[35]

QUADRO PRIMO

Principio dell’anno 415 av. l’Era Volgare
(2.º della Olimpiade 91.ª, 16.º della guerra del Peloponneso)
Exeneto agrigentino vinse il premio ad Olimpia.

ATENE.

Giardini nella casa di Alcibiade.[4] Viali di piante. La scena e i viali son decorati di figurine (κόραι) di cera, di legno, di argilla e di statue (ἀγάλματα) raffiguranti divinità. Statue di Venere e di Amore. Qualche sedile marmoreo lungo i viali e qualche tavolo marmoreo con sovrapposti un cratere e dei calici di vino. Tratto tratto si odono da lontano concerti di musica. È sera. La luna rischiara la scena. Di lontano si scorgono i riflessi di sale illuminate.

SCENA PRIMA. SOCRATE; ASPASIA,[5] EUFROSINE, GLICÉRA; CIMOTO, più tardi ALCIBIADE.

(Aspasia, Eufrosine, Glicera in ricchi elegantissimi abbigliamenti[6]; Glicera è seduta in disparte pensierosa, scambiando tratto tratto qualche parola con Eufrosine).

Socr. Ora dunque, o dotta Aspasia, poi che mi insegnasti il bello essere unico obbietto dell’amore, tu certo mi sai dire che cosa è bello.

[36]

Asp. Se alcuna cosa è ben fatta per la destinazione che sortì da natura e ben adatta al bisogno, io questa, o Socrate, chiamo bella.

[37]

Socr.[7] O come saviamente mi insegni! E dimmi allora, perchè abbiam noi bisogno degli occhi?

Asp. Per vederci, credo.

Socr. Se è così, o Giunone[8] Aspasia, io dunque ho gli occhi più belli de’ tuoi...[9] (risa fra gli astanti)

Asp. (sorridendo) O come?

Socr. Perchè i tuoi guardan solo per diritto: i miei invece, essendo sgusciati all’infuora,[10] vedono anche per traverso.

[38]

Asp. (ridendo) Ah! ah! Allora, o Socrate, anche più belli dei tuoi saranno gli occhi del granchio...

Socr. Ma nella bocca poi, s’ella è fatta per mordere, sicuramente di bellezza io cedo alla tua... e ad ogni bocca che sia di donna.

Asp. Grazie dello elogio, figliuol di Sofronisco. Male adunque mi sono spiegata. Belle io chiamo le cose in cui non soltanto è armonia col fine che da natura sortirono, ma intima armonia di tutte parti fra loro. Questo è il bello che amiamo.

Socr. A meraviglia parli! E certo allora la gobba del mio amico Glaucone è armonica e bella, poi ch’io so che la sua Eufrosine, qui presente, lo ama.

Eufr. (indispettita) O non avresti, vecchio Sileno,[11] un coccio di Ténedo da mozzarti la lingua?[12]

Asp. (sorridente) Pace, Eufrosine! I gusti sono tanti! Io intesi per intima armonia quella che tale sembra a ciascuno secondo il vario suo gusto.

Socr. Sicchè, se ho bene appreso, una cosa è bella e brutta ad un tempo, secondo piace ad Eufrosine, o dispiace ad Aspasia?...

Asp. Così è.

Cimoto (a parte) Infatti Aspasia trova belli i tuoi discorsi ch’io trovo nojosissimi...

Socr. (lo sente, lo guarda con tranquilla ironia, e senza rispondergli ripiglia il discorso con Aspasia) Infatti jeri, salendo io con Cármide i Propilei[13], egli trovò brutto il quadro di Polignòto, che rappresenta Ulisse scoperto dalla bella Nausicaa.

[39]

Asp. Oh, per gli amori![14] Il tuo amico Carmide è un imbecille. Quel quadro è una meraviglia di Grecia.

Socr. O vi sarebbe allora una bellezza che bella è, senza distinguer di gusti?

Asp. Certo. (Socrate si move per allontanarsi) Ove vai?

Socr. A prendere il mio amico Carmide, perchè tu gli insegni a riconoscerla.

Asp. Ma tu sai bene, o Socrate, che ciò non si insegna! Perderemmo tu il tempo, io il fiato, se già a lui, nascendo, non l’insegnarono i Numi.

Socr. Che! Di una idea di bellezza forse mi parli in noi anteriore alla culla? Per Minerva! deve essere così. Io pure or mi rammento d’aver letto qualcosa di simile.[15]

Asp. E che leggesti, o Socrate?

Socr.[16] Non so dove io lessi che l’anime nostre, alate e immortali, volino, innanzi il nascere, per l’etere immenso... e come la virtù dell’ali le porta più in alto, nella region degli Dei, ivi contemplan la bellezza vera, purissima essenza divina: frammiste a’ cori de’ beati, nel corteggio di Giove, si inebbrian di lei, e via per mari profondi di azzurro, di calma e di luce ne celebrano i santi misteri. Ma poi che Adrastea le precipita, prive dell’ali, quaggiù sulla terra, vi [40] prendon dimora ne’ corpi, loro carcere e loro tomba: e qui ritrovando le imagini riflesse di quella bellezza sì pura di lassù, confusamente si risovvengono di lei. Ed ecco allora, alla vista di forme celestiali, subito l’anima trasale, senza saperne il perchè: contempla l’oggetto vago sì come il simulacro di un Dio; e come a un Dio vorrebbe offrirgli sagrificii. Una specie di febbre la investe, un calore ardente la penetra: a quel calore squagliandosi la durezza della scoria, i germi dell’ali antiche ricominciano a spuntare. E l’anima, sentendosele crescer d’intorno, si agita irrequieta, come il fanciullo, quando i denti fan forza per ispuntar dalle gengive: se appena vede l’oggetto caro, prova una voluttà strana, come fosse lì lì per prendere il volo: se poi nol vede, subito l’ali piccine le si rinserrano, si dibatton rinchiuse, e l’anima ne prova le fitte e le punture; indi, ella dà in ismanie, delira; perde il riposo dei giorni e delle notti; dimentica averi e famiglia e amici e tutto; solo avida cerca la persona cara, perchè solo a lei presso trova a’ suoi strazii sollievo. Questa malattia gli uomini chiamano: Amore — che ha le ali; gli Dei la chiamano: Amore — che le dà.[17] (Alcibiade è entrato da qualche momento in iscena non veduto)

Asp. (stringendo a Socrate la mano con effusione) O Socrate, quando parli, sei pure il potente ammaliatore!

Cim. Per Giove! o Socrate, tu la sai lunga! A me invece l’avean contata più corta.

Asp. (sorridente) Oh! oh! sentiamo Cimoto.

Cim. A me avean contato ch’eran gli uomini un tempo un sesso solo, maschio e femmina insieme: con quattro gambe e quattro braccia e una testa a due faccie per ciascuno.[18] Ma quando essi ebbero l’impudenza di dare la scalata al cielo, Giove per castigarli, e un po’ anche per raddoppiare i suoi [41] sudditi, e co’ sudditi le entrate, li spaccò in due: da quel dì le parti divise si vanno cercando pel mondo ciascuna in traccia dell’altra sua metà, per ricongiungersi insieme: e questo adesso chiamano Amore. Giove poi si riserba, appena gli uomini o le donne ne commettano qualche altra di grossa, di spaccarli in due un’altra volta; sicchè allora cammineremo con una gamba sola, come quei che saltan sugli otri nelle feste di Bacco.[19]

Alcib. (che è entrato, come si disse, durante il discorso di Socrate, cinto il capo di corona di mirto e di piccole bende[20], in atto di uom mezzo brillo, e si è arrestato a udire la fine delle parole del suo maestro, a questo punto si avanza) E allora Giove dovrebbe [42] averla già cominciata su te (a Cimoto) la seconda spaccatura: e s’ei non ci pensa, m’impegno io, Alcibiade, a farti ballare d’una gamba sola sugli otri, poichè hai la impudenza di cianciare quando Socrate parla! tu attento ai discorsi di Socrate, come l’asino al suono della lira,[21] e i Libetrj al canto di Orfeo![22] (Cimoto si ritrae sconcertato. Alcibiade si volge a Socrate) Ma io, o Socrate, son malcontento di te. Tu hai le sirene nelle tue parole[23] ed affascini gli animi coi tuoi discorsi, meglio che Màrsia col suo strumento[24]: io stesso, or ora, in udirti, sentivo il cuore balzarmi più forte che non se fossi agitato dalla danza dei Coribanti[25]. Intanto là nella sala portarono indarno le corone e le bende e [43] i rami di mirto[26], e indarno intonammo, libando, il peàna: l’allegria dei calici langue, e suonatrici di flauto e citarède se ne stan mortificate, poi che i fiori più belli del convito[27] (Cimoto si mette in mostra, Alcibiade s’interrompe volgendosi brusco a lui) — non parlo di te — furono qui attratti dal tuo loto[28] divino. Io ti sequestro, o Socrate!...

[44]

Socr. Alcibiade!...

Alcib. (trascinandolo via seco) Vieni, vieni... (si volge sorridente e cortese ad Aspasia, Eufrosine e Glicera) Porto il delfino con me[29]; così dietro al suo canto, verranno le Nereidi... (esce conducendosi Socrate sotto braccio; Glicera è rimasta, dal discorso di Socrate in poi, in disparte, seduta e meditabonda)

Cim. E poichè trattasi di bere... anche i Tritoni (in punta di piedi s’affretta dietro Socrate ed Alcibiade).

SCENA II. ASPASIA, GLICERA, EUFROSINE.

Eufr. Hai visto, Aspasia, che disinvoltura? Appena mostrò accorgersi di me.

Asp. E di lui ti meravigli?

Eufr. Oh, per Pandróso![30] dopo tanti giuramenti e tante pazzie ch’egli fece perchè lo ricambiassi d’amore!

Asp. Ragione doppia, poichè lo ricambiasti, di non farne più.

Eufr. Ma possibile che Venere nol punisca e Giove vindice degli spergiuri[31] non lo folgori!

Asp. Se lo facessero, te ne dorrebbe! Noi dovrebbe Venere [45] punire, perchè nostra è la colpa, se il di lei sesso patisce simile onta da costui. Usato, dovunque assale, a non trovar resistenza, la debolezza nostra fa costui baldanzoso: e la sua stessa baldanza ora gli agevola e moltiplica i trionfi.

Eufr. Piglia, piglia esempio, Glicera, tu almeno, finchè se’ a tempo, da me! Guai se ti lasci accalappiar da costui!... Ma vo’ recarmi nella sala del convito: e, per la Cipria Afrodìte[32], ch’io non celebri mai più le sacre sue orgie nel dì delle Adonie[33], se costui non lo pago della sua stessa moneta. Vo’ farmi sotto i suoi occhi corteggiare da Eutidemo, e mostrarmi più indifferente e più allegra di lui! (esce stizzita)

Asp. (la segue sorridendo dello sguardo) Così devota di Nemesi![34] Se sempre la faccia fosse garante del cuore!

SCENA III. ASPASIA, GLICERA, poi ALCIBIADE in disparte.

Asp. (vedendo Glicera sempre seduta e pensierosa) Sì mesta e pensierosa la mia Glicera?

[46]

Glic. Penso al discorso di Socrate intorno all’amore.

Asp. E allora, o io m’inganno, o a qualcun altro insieme tu pensi...

Glic. (vivamente) A chi?

Asp. Ad Alcibiade.

Glic. (cercando negare) Che!

Asp. (le si appressa e le parla con voce affettuosa) Perchè infingerti meco? Tu fosti pensierosa tutto il tempo del convito: e più d’una volta sorpresi la direzione de’ tuoi sguardi. Glicera, bada! tu sei una fanciulla poetica e sensibile: la classe di fanciulle più pericolosa, e più esposta a pericolare. Tu ami Alcibiade, e sei mesta, perchè anche con te egli si finse, nella sua gioviale cortesia, indifferente.

Glic. (abbassa gli occhi, confusa, senza rispondere).

Asp. (ripigliando con far sorridente) La lezione di Eufrosine ha giovato molto!... Ecco il destino di noi donne con codesti eterni ingannatori!...

(Alcibiade in questo punto, rientrando distratto pei viali, alla parola ingannatori volge vivamente il capo, vede Glicera e Aspasia che stan discorrendo, e si arresta)

Alcib. (in ascolto a parte) (Parla di me?)

Asp. (seguendo il filo del suo discorso) Mille esempj lampanti ne ammoniscono: invano: ciascuna che non ha provato ancora, si affretta quanto può a crescere il numero delle ingannate. Ciascuna si lusinga di aver fascini nuovi che non ebbero le altre; o sogna per sè la piccola vanità di riuscir meglio di loro; o chiede fra sè curiosamente che sapor novo avranno le labbra che già ebbero i baci di Taide e di Mirrina, di Bacchide e di Cesira. Così, come le pecore, matrone e cortigiane[35], si corrono dietro. Povere folli! Il caso, e nulla più ha dato ad essi talora le prime vittorie: la curiosità, [47] la vanità o l’ingenuità nostra procaccian loro le altre!... E poi che le illuse si son cavate il capriccio dello esperimento, allora invocano come Eufrosine gli Dei vendicatori, perchè hanno scoperto, un po’ tardi, che i baci di Alcibiade sono affatto simili a quelli di un altro, e che non valeva a quel prezzo la pena di accrescere inutilmente i suoi trofei!

Glic. (levando lentamente gli occhi su Aspasia) Ma tu che così ne parli... li hai provati tu... i baci... di Alcibiade?

Asp. Se avessi voluto! Mi chiese amore — e non l’ebbe. Così m’ami Adrastea[36] come io resto sola, finora, in Atene, vendicatrice del mio sesso contro gli inganni di costui, che è più bugiardo di un Cilicio.[37]

Alcib. (sempre in ascolto, in disparte) Buono a sapersi!

Asp. (ripigliando) Da te, mia cara Glicera, se la quiete dell’anima, rugiada alle rose del tuo volto, se la tua bella ed allegra giovinezza ti è cara, da te, Glicera, dipende l’essere tu la seconda.

Alcib. (in disparte) Parla un po’ per tuo conto!

Glic. (con accento, fra mesto e serio, di chi prende una risoluzione ingrata) Lo sarò.

[48]

Asp. Ebbene, allora, sta in guardia! perchè la sua tristezza non è così insidiosa come la sua allegria: e nessuno mai seppe meglio nascondere i suoi disegni sotto la maschera della indifferenza. Dimmi, o Glicera, che cos’è, infine, questo Alcibiade, perchè tu debba lasciarti tradire da lui? Egli è prode, non nego: ma son migliaia in Atene prodi al paro di lui; è bello, ma Autòlico e Càrmide, e Fedro e Critòbulo[38] lo sono del pari; è ricco[39], generoso, prodigo, d’illustre famiglia[40]: Callia, Feace e Mègacle[41] pure lo sono. Forse perchè egli è più dissoluto, più vizioso, più vanitoso [49] di loro? O perchè più di loro sa mentire e spergiurare all’orecchio di una fanciulla? Tu meriti ben meglio. O mia Glicera! quanti dolori e disinganni sarebbero a noi donne risparmiati, se imparassimo per tempo a conoscere l’uomo per quel che è: il nemico naturale del nostro sesso: e a trattarlo come tale. In questa guerra, la natura ci ha armate bastantemente all’offesa; come al toro le corna e l’unghie alla pantera, a noi per assalire diede le grazie e la bellezza:

Beltà che brando od asta

Non valgono a domar,

Che sola a vincer basta

Le folgori e gli acciar,[42]

come un giorno cantava il vecchio Anacreonte. Ma pur troppo, nello armarci per lo attacco, la natura non pensò alle trincere per difenderci. La difesa, o mia Glicera, è il nostro lato debole: e qui ne abbisogna supplir coll’arte a quello che non diè la natura.

Glic. (con fare ingenuo, sospirando) Mi difenderò.

Alcib. (in disparte) Che cara maestra! Preferisco la scolara!

Asp. (ripigliando) I nostri nervi impressionabili, la nostra imaginazione sempre attiva e sempre accesa, ecco i traditori che il più delle volte consegnano al nemico le nostre fortezze. Colpire la fantasia di una fanciulla: è così facile! e di effetto così sicuro! ed è il piano d’attacco di costui. Colpirla, con non importa che cosa: col prestigio del valore, dell’audacia o delle stranezze, col fascino delle vanterie o [50] colla poesia esaltata del sentimento: o col fasto chiassoso, o coi vizî chiassosi: tutto è buono per noi. Vuoi difenderti da Alcibiade? Guarda dalle sue sorprese il tuo cervello fantastico; guardati da’ suoi vanti superbi, dalla sua baldanza artificiosa, dalla menzogna delle sue parole quando parla d’amore. Mentre egli ti parla, abbi presente sempre a te che egli è da meno di quel che si vanta, e che tu sei da più di quel che ti credi. Fuggi, più che la sua tristezza, la sua aria gioviale, di cui scaltro approfitta per dar colore di scherzo alle prime audacie del linguaggio, ed estendere a poco a poco le sue licenze. Che s’egli ti assedia dappresso, ricorri a qualcuna delle tue occupazioni più favorite, e colla distrazione di questa scongiura il fascino delle sue parole! Sopratutto infine, e questo, bada, dei consigli è il più importante... fa di trovarti il meno possibile sola con lui.

Alcib. (in disparte, alquanto ironico) Oh, oh, la lezione comincia a farsi pericolosa!... (tossisce, fa rumore e s’avanza per i viali cantarellando a mezza voce)

«Di unguenti rendere[43]

«L’urne odorose

«Che giova?! e spargervi

«Tanto licor!

«Tutto va al nulla!

«Dammi le rose,

«E una fanciulla

«Recami, Amor!»

Asp. e Glic. Lui! (Alcibiade si avanza ilare verso di loro)

Asp. (sottovoce a Glicera) Te l’avevo detto?! Sta in guardia. Egli ti cerca.

[51]

Glic. (sottovoce ad Aspasia) Rientrerò nella sala.

Alcib. (complimentoso, insinuante, elegantissimo) Inclita Aspasia, vezzosa Glicera, sole, ancor qui? Buon per voi ch’è già sera: se no, da questi alberi v’udrebbero le cicale, messaggiere ed interpreti delle Muse:[44] e andrebbero ad Urania, ad Erato e a Tersicore a dar ben cattive informazioni delle loro alunne e del modo ond’elle defraudano de’ loro sorrisi gli sguardi dei poveri mortali.

[52]

Glic. Non temere per questo, Alcibiade. Stavo appunto per rientrare nella sala del convito. (s’avvia per uscire)

Alcib. Oh, Venere te ne dia premio! Ti verrò compagno. (le offre galante il braccio)

Glic. No, no, grazie, Alcibiade. Rimani pure. Rientro sola. (lo scansa e fugge via)

SCENA IV. ALCIBIADE e ASPASIA.

Alcib. (ritornando verso Aspasia, fra sè) (Allora, a noi, inclita maestra!)

Asp. Ebbene, Alcibiade, famoso cacciatore, par che s’insegua qualche nuova selvaggina.

Alcib. (con fare indifferente ed allegro) Eh! si passa il tempo!...

Asp. Infatti, qui siam presso il fiume: e, se non erro, è precisamente in questi luoghi che il traditore Borea un giorno rapiva la vergine Oritìa...[45]

Alcib. (indifferente, senza guardare Aspasia)... la quale non se n’ebbe troppo a male...

Asp. Il prestigio dei vezzi di Eufrósine è svanito ben presto; e il catalogo de’ tuoi amori vuol essere più lungo di quello di Esiodo[46]. Tu adocchj Glicera.

Alcib. Chi sa! E s’anco ciò fosse, non certo vorresti darmi torto od accusarmi di gusto cattivo. Ell’è un fiore sbucciato [53] appena nei giardini di Venere. Quella età ha fascini strani! e poi, è tanto innocente!... Non ha le tue arti, nè le tue astuzie, o bella Aspasia... (sorridente)

Asp. Per sua sventura...

Alcib. (vivamente) Per sua fortuna! vuoi dire. Poi ch’elle non servono che a sfrondarci la poesia della vita, a inaridir la fonte delle nostre gioie più pure, ad istrapparci ai nostri sogni più cari... Povere fanciulle! per evitare il pericolo incerto di un disinganno, elle affronteran dunque la certezza della noia e del vuoto; per non correre rischio di essere ingannate, ignoreran dunque per sempre che cosa sia la voluttà di credere; di credere ad una parola entusiasta, ad un amor febbrile, ad una passione ardente, al sogno di un minuto che vale mille anni di realtà!... Ma non varrebbe la pena di vivere!...

Asp. (con accento lento, sardonico) Infatti... di questi sogni... a loro spese... tu vivi...

Alcib. (con forza) Ed elle vivono! E che! rinunzierei a cogliere questi fiori leggiadri per ispendere la vita, ch’è sì breve, in imprese di Ercole, nello assedio di cuori adamantini, esperti in ogni astuzia, agguerriti contro ogni attacco, parati ad ogni resistenza!? Fossi pazzo!

Asp. Eppure dicono sian queste, vincendo, le vittorie più dolci e più gradite...

Alcib. (con indifferenza) Sarà!...

Asp. Come a dire?

Alcib. Io non mi ci son mai provato... e non ho voglia di provarmici...

Asp. (sorridendo ironica) Ed è Alcibiade, il conquistatore di donne che parla?

Alcib. Conquistatore o no, lui in persona. Queste battaglie non mi vanno. Non ci trovo gusto. Esigono una posta troppo alta per me. Combattere, durar fatiche e sacrificii, colla certezza di vincere, vada: ma quando di vincere non son sicuro, rinuncio alla battaglia e cedo il campo. (Alcibiade mantiene sempre il suo accento di artificiosa indifferenza)

Asp. (ironica) È più prudente.

[54]

Alcib. Certo. Una prima sconfitta, guai! potrebbe trarmene dietro delle altre. Le donne queste cose non le tacciono... Più di un cuore conosco (getta occhiate espressive sopra Aspasia), il cui possesso saria stato il mio sogno, e al quale rinunziai senza colpo ferire, solo per non urtarmi contro la sua scaltrezza. Imposi ai miei sensi di star quieti, di non sentir nulla, come a quei soldati che la disciplina obbliga oziosi sotto la tenda, mentre la tromba tirrena dà il segnale della pugna.[47] E i sensi obbedirono: benchè di un altro genere, erano sempre vittorie che riportavo su me: m’abituai a riportarle. Perciò, ora, son altri cuori che inseguo: e da buon capitano, non sciupo i miei soldati: non pongo assedio nè ai cuori scaltri, nè alle fortezze inespugnabili.

Asp. Eh, non è poi detto che tutti lo siano...

Alcib. Quasi tutti (fingendo premura). Oh, addio, bella Aspasia. Lasciami inseguir Glicera.

Asp. Non sei cortese, Alcibiade. Che premura! La farfalla già non fugge: il passero ha il volo più lungo...

Alcib. Ma il passero a sua volta non deve incantarsi per aria, perchè il falco potrebbe fargli qualche scherzo.

Asp. (ridendo) Oh! oh! sarei io il falco? Paventeresti di me?...

Alcib. Di te, bella Aspasia? Oh, tutt’altro. Con te mi sento pienamente sicuro.

Asp. (a parte, con dispetto) (Impertinente!)

Alcib. Con te, che sei una di quelle Amazzoni agguerrite di cui parlavo dianzi, so che non vi è nulla a fare...

Asp. (dissimulando con soddisfazione ostentata il malumore) Ah!... manco male che lo sai...

Alcib. Quindi il mio spirito come il mio cuore si trovano in perfetta calma: e ringrazio i Numi che a me ti han fatto conoscere soltanto nella estate de’ tuoi dì...

Asp. Perchè?

[55]

Alcib. Perchè se la tua state è così bella e rigogliosa, penso che la primavera m’avrebbe messo ad una prova troppo dura.

Asp. (con civetteria) Tu vuoi dire che anche la estate mia non sia del tutto scevra di pericoli?

Alcib. Che non lo sia, tu n’hai la prova in tutti quelli che ti fan corona. Poichè tutti tu hai incatenato al tuo carro... tutti...[48] (Alcibiade fa una breve pausa, Aspasia a quelle parole leva gli occhi vivamente e con compiacenza su Alcibiade, il quale, senza mostrare d’accorgersene, termina la frase sospesa) tranne me.

Asp. (a parte, con gesto di dispetto) (Vanitoso!)

Alcib. (complimentoso, galante) Tutto ciò che Atene ha di più eletto, vecchi e giovani, ti fan corona. Socrate discute con te di filosofia, Aristofane ti legge le sue commedie, Euripide le sue tragedie. Ippia ti sottopone i suoi discorsi e il leggiadro Agatone ti dedica le sue odi. Alcamene ti consulta sulle sue statue[49] e Polignòto intorno a’ suoi quadri. Colla bellezza hai soggiogato i cuori; collo spirito esteso il tuo regno assai più in là che alla bellezza non è dato. Oh! le grazie della tua mente! nessuna Venere le pareggia. Invano la bellissima Circe percote della verga magica Ulisse, munito del farmaco del Dio; Ulisse rimane illeso, Circe per lui non è più una maga, ell’è una donna come un’altra! Ma quando le sirene lo invitano alle voluttà dello spirito e gli dicono di sapere tutto quello che fu e che sarà, è allora che Ulisse non è più padrone di sè, e bisogna che i compagni lo leghino più stretto all’albero della nave, perchè non si getti nell’onde, dietro al canto di quelle ammaliatrici...[50]

Asp. Ben trovato il confronto! E allora, io, per Alcibiade, non sono Circe... e non sono neppure una Sirena.

Alcib. (sorridente) Perchè Alcibiade non è Ulisse... Addio, inclita Aspasia. (fa di nuovo per avviarsi)

[56]

Asp. Che fretta!... Eppure, se mal non rammento, fu un tempo che Alcibiade si dilettava al canto della Sirena... (accentando le parole) Rammento di una certa lettera...

Alcib. (vivamente, con sorpresa d’uomo indifferente) Oh, ancora la serbi?! Che mi ricordi mai!... Ah, sì, infatti! Io scherzavo allora... Sapevo benissimo che tutto era inutile...

Asp. Ah!? fu uno scherzo?

Alcib. Sì (coll’accento premuroso di chi si scusa), ma come vedesti, innocente...

Asp. (con dispetto) Alcibiade tratta molto leggermente gli scherzi fatti ad Aspasia! Per cui, se la povera Aspasia invece di andar guardinga, avesse creduto alle parole dette, per ischerzo, da Alcibiade...

Alcib. (interrompendola vivamente) Alcibiade sarebbe stato così felice da morirne... (Aspasia si volge sorridente ad Alcibiade, che subito ripiglia terminando la frase sospesa) e per questo gli Dei non lo permisero!... Oh, ma tu me lo perdoni, n’è vero? Tu devi dimenticare...

Asp. (con malumore) Ebbene, Aspasia non dimentica... gli scherzi...

Alcib. Perdonali dunque! E se non vuoi perdonare lo scherzo, allora...

Asp. Allora?

Alcib. Metti che fu sul serio, e non farmene una colpa! (moto di compiacenza di Aspasia, subito represso dalle parole successive di Alcibiade) poichè ora vedi che son savio e ravveduto.

Asp. (fra sè) Fin troppo...

Alcib. (incalzante) Non farmi una colpa, se i tuoi vezzi furono per un minuto, per un minuto solo, più forti del mio proposito. Non per nulla le Grazie ti guardarono con occhio sì benigno,[51] e non per nulla fosti chiamata novella Onfale, e Giunone e Dejanira.[52] Veder così sovente il tuo viso, udir così sovente la tua voce... era poi così strano ch’io perdessi la testa... un istante? Quanti la avrebbero perduta per [57] sempre! Via, perdonami dunque, dimentica... dammi il bacio fraterno dell’oblio e del perdono...

Asp. Un bacio?! (ridendo) Ah! ah! furbo, Alcibiade!

Alcib. E che vi è di male o di strano? Un bacio fraterno che suggelli la pace?... Una Aspasia vi scorgerebbe un pericolo?...

Asp. Oh, al contrario... ma appunto...

Alcib. Ma appunto, dopo le tue parole di poc’anzi, tu non devi negarmelo, se pur non mi serbi rancore. Ed io voglio pace con te. Tu non puoi negarmelo un bacio, che quanto più sarà cordiale, tanto meglio proverà che non fai caso di quella mia improntitudine di allora; tu sai benissimo che ciò che può offrir pericolo per tutt’altra, non ne offre alcuno per te... perocchè tu sei Aspasia...

Asp. Eh, via, adulatore! taci! poichè lo vuoi, ed io non sono cattiva... sia fatta dunque la pace.

Alcib. Oh, grazie!... (Alcibiade con moto di gioia l’abbraccia e scambia con lei un bacio lungo e appassionato; indi si scioglie mesto dall’abbraccio, come sovrappreso da un pensiero) Ah! che peccato, Aspasia, che il destino ci abbia serbati a non essere altro che amici!

Asp. (fissandolo con sorpresa) Perchè?

Alcib. Perchè, altrimenti, chi sa che cosa sarebbe stato di noi! Figurati, Aspasia, noi, come vedi, non ci amiamo: Nemea, invece, dice di amarmi ardentemente, appassionatamente: e forse lo crede. Ebbene, se è vero che il bacio è l’alito dell’anima, l’anima di Nemea non sa amare: perchè di tutti i suoi baci insieme, nessuno mai fu neppure della metà ardente e appassionato quanto questo tuo... (gesto vivissimo di Aspasia) che è poi un semplice bacio fraterno. (Alcibiade fingendo non accorgersi del moto di risentimento di Aspasia, ripiglia con forza) Tu sì, hai del fuoco!... Addio, addio, Aspasia!... Ah che peccato!... che peccato! (esce lasciando Aspasia non ancora rinvenuta dal dispetto e dalla collera)

[58]

SCENA V. ASPASIA sola.

Asp. L’impudente!... E a che mi irrito?... È Adrastea che mi castiga[53]!... Ed io facevo la lezione a Glicera!... Servirà a me per un’altra volta...! (esce)

SCENA VI. TESSALO e CLEONIMO.

(Entran discorrendo, a voce bassa e concitata, fra di loro)

Tess. E così dunque... domani Alcibiade parlerà all’Assemblea... e se non vi ci mettiam di proposito, vedrai che questo odioso giovinastro la spunterà...

Cleon. Per Ercole, se la spunterà! Gli animi dei giovani[54] sono tutti per lui. Con quanti di loro ho tastato il terreno, eran tutti disposti a dare il voto per la spedizione di Sicilia, e per la nomina di Alcibiade a capitano, insieme a Lamaco e a Nicia...

Tess. (passeggiando concitato) Capitano costui! Per i Numi! Preferirei veder Atene sommersa da un altro diluvio...[55] [59] Ma non tutti i giovani sono Atene... Parlasti con alcuni dei più attempati?

Cleon. Sì... e qui forse il terreno è migliore per noi.

Tess. Bisogna dunque lavorarlo: e non perder tempo. Di molti io so che detestano Alcibiade e la sua insolenza, e che soltanto per paura esitano a dichiararglisi contro[56]. Questi smetteran le esitanze, per poco che l’esempio di altri li incoraggi. I presagi infausti potranno molto giovarci... Per questo importerebbe mandar fra il popolo qualcuno...

Cleon. Oh, guarda là Cimoto! costui potrebbe fare al caso nostro...

Tess. Ma non è amico d’Alcibiade costui?

Cleon. È parassita, e s’adatta a tutti, come il coturno...[57]

Tess. Chiamalo...

Cleon. (avanzandosi verso il fondo dei viali) Cimoto! Cimoto!

[60]

SCENA VII. Detti e CIMOTO, indi ANTIOCO.

Cim. Che c’è?

Cleon. (a Tessalo presentandolo) Quest’è l’uomo.

Tess. (a Cimoto) Mi conosci?

Cim. Per Minerva! Sei Tessalo, figliuol di Cimone Lacìade.[58]

Tess. E tu sei parassita e retore. Come la ti va?

Cim. Eh! si vive.

Tess. Non basta. Bisogna viver bene. Mi han detto che hai la parola pronta...

[61]

Cim. Come il ventre... al tuo servigio...

Tess. Domani c’è l’assemblea popolare allo Pnice...[59]

Cim. Lo so.

(A questo punto Antioco traversa lo sfondo della scena fra le piante. Udendo nominar Alcibiade si arresta, e sta a sentire il colloquio; poi si allontana)

Tess. Alcibiade avrà molti suffragi...

Cim. Sicuro.

Tess. E ti par che ciò sia bene?

Cim. Eh? (È un suo amico...) Benissimo...

Tess. (gettandogli una borsa) Ed io ti dico che ciò è male...

Cim. (con premura, afferrando la borsa) Malissimo... volevo dire... Infatti (fra sè) voleva farmi saltare con una gamba sola...

Tess. E degli augurî e presagi della spedizione che si dice?

Cim. Finora buoni...

Tess. Cattivi!... (con forza)

Cim. (più forte ancora) Perfidi!

Tess. Bisogna dunque dirlo al popolo...

Cim. (con aria d’intelligenza) Lo diremo.[60]

Tess. T’aspetto domattina a casa mia. (fa cenno a Cleonimo di andar seco ed escono insieme entrambi discorrendo a bassa voce)

[62]

SCENA VIII. CIMOTO solo.

Cim. To, to! che scopro mai! Dei complotti contro Alcibiade, in casa sua! E Alcibiade invita questa gente a banchetto! Per Mercurio portator di guadagni![61] Questo si chiama impiegar bene il denaro... (pesa sulle mani la borsa avuta) e questo, se vogliamo... si chiama acquistarlo male. Vada per tutti gli scherzi che costui mi ha fatto! Un giorno per tortelli di latte darmi a rodere ciottoli intrisi nel miele... un altro, farmi bere, per vino, brodetto di senape...[62] (sternuta) Oh ventre, quanti ludibrj ci obblighi a soffrire! Guardalo là il burlone... che arriva. Andiamo, andiamo... (va via riponendo la borsa mentre stava per contarne il contenuto), non è onesto contar questi denari in casa sua. (esce)

SCENA IX. ALCIBIADE e GLICERA.

Glic. (entra discorrendo con Alcibiade) Son meste le tue parole come canto di alcione.[63] Non eri sì mesto poc’anzi, quando m’incontrasti qui con Aspasia...

Alcib. (con aria mestissima, sospirosa) È necessario portar sempre [63] la maschera della gioia sul volto per non dispiacere alla bella e poetica Glicera?[64]

Glic. Oh, non dissi questo: ma...

Alcib. (mesto sospirando) Non è sempre il cuore di chi ride di più, quello che soffre di meno...

Glic. (fra sè a parte) (Infatti, mi par molto mesto. Avrà qualche affanno segreto. Se Aspasia ha detto il vero, in questo momento non dovrebbe essere pericoloso. Posso parlargli.) (si appressa ad Alcibiade con aria affettuosa) Ma tu che rimproveravi agli altri di abbandonare l’allegria del convito...

Alcib. Io erravo solo, cercando un istante di sollievo e di tregua alla triste necessità del fingere, fra i silenzi di queste piante, ove tu certo venisti a confidare agli astri le gioie serene e tranquille della tua anima. Ebbi torto di sturbarti [64] e rattristarti colla mia compagnia. Perdona... mi ritirerò, se lo brami...

Glic. Oh, no, resta pure. (fra sè) (Com’è mansueto! E Aspasia mi diceva di guardarmi dalla sua baldanza!) E qual cosa mai può contristare Alcibiade? Non sei tu l’uomo cui tutto sorride? Non vai ricco di successi e di onori fra tutti i giovani della tua età?

Alcib. Che sono i sorrisi della vita, quando il vuoto è nel cuore? E di che successi, di che onori mi parli? Le mie corone di Olimpia?[65] Ma Gerone e Terone e Agésia di Siracusa e Psàumida di Camarina[66] ne riportarono di uguali e di più belle. Le lodi di Euripide?[67] Ma essi ebbero Pindaro. Le milizie guidate alla battaglia di Mantinea?[68] Ma sono gli Spartani che l’han vinta. La fronda di quercia di Potidea? Ma fu Socrate che la conquistava e fu la sua modestia che me la regalò...[69]

[65]

Glic. Oh! io udii da Socrate stesso che tu la meritasti...

Alcib. E Socrate non ti disse il vero. Fu egli, il prode e generoso vecchio, che a Potidea mi salvò la vita e le armi: e sua di diritto era la corona che dinanzi ai giudici volle rinunziare a favor mio...

Glic. (fra sè) (Non è così superbo come voleva farmi credere Aspasia!)

Alcib. Dove, dove sono dunque, o Glicera, i miei allori? Forse il rumore ed il fasto delle stranezze e delle orgie con cui cerco ingannar me medesimo, e la noja cupa e il disgusto della vita ingloriosa? Ah, quando l’anima sitibonda va in cerca di affetti e amore non la ravviva delle sue rugiade, essa non ha ali per la gloria! Ed è ciò che mi tormenta!...

Glic. Ma tu scherzi, Alcibiade! Tu sei anzi famoso per la facilità con cui li muti gli affetti; da che tua moglie morì, ti chiamano... (abbassando gli occhi, con reticenza ingenua) il marito... di tutte le donne![70] Di amori le donne di Atene non ti lasciarono soffrir penuria.

Alcib. Di amori sì, non di amore. Nessuna seppe intendermi, nessuna seppe amarmi com’io volea. Io aveva... io ho... qui e qui... (si tocca la fronte e il cuore) un certo ideale a cui nessuna corrispondeva. Per questo fui costretto a vagare d’una in altra ramingo, cercando sempre inutilmente la donna [66] de’ miei sogni... (con accento mesto) Triste, affannosa ricerca, seguita finora da più tristi disinganni...

Glic. (fra sè) (Dopo tutto, potrebbe esser vero. Aspasia è sagace, ma non deve averlo capito bene costui) A sentirti, Alcibiade, si direbbe che delle infedeltà tue le donne abbiano per giunta a rendere stretto conto a te e non tu a loro...

Alcib. Così è.

Glic. Ma io sarei ben curiosa di conoscere questo tuo famoso ideale; e di sapere come la vorresti, come dovrebbe essere la donna che ti avesse finalmente a contentare...

Alcib. (vivamente) Come la vorrei?! Oh, anzitutto, si sa, la vorrei bella: morbide e folte e bionde le chiome, adombranti[71] la fronte candidissima (mentre parla, fissa gli occhi amorosamente sopra Glicera); brune le pupille come Minerva, umidette e languide come Citerea[72]; porporine le labbra, che invoglino ai baci; snella la persona, e sparso il volto non di bellezza severa, ma di dolcezza ingenua; non di [67] maestà, ma di candore; la vorrei bella, insomma, come Venere... o... come Glicera...

Glic. Adulatore!...

Alcib. (con inflessione di voce piana e dolcissima) E vorrei che il suo volto fosse lo specchio della sua anima; e che la sua anima vibrasse, per segreto ineffabile accordo, a ogni più piccola oscillazione della mia; che non cercasse al mio affetto, come tutte le altre ch’io conobbi, la soddisfazione di una piccola vanità femminile o di un semplice piacere dei sensi; ma l’estasi divina di due anime confuse in una sola; che sapesse insiem colla mia vagar per gli spazii, e interrogare le mille voci della natura che parlan d’amore; intendere con me la poesia di questi silenzi, di queste notti serene, di questo cielo stellato, di questi profumi dei fiori che l’aure ci portano dalle sponde del ridente Cefiso; e nel tacito volo, venirci spogliando via via di ogni scoria della terra, di tutto ciò che non è nobile e non è puro; divinare le vie della gloria e slanciarvisi; e salire, e salire — verso tutto ciò che è bello, che è grande, verso le regioni calme e luminose di cui Socrate or dianzi parlava, e celebrarvi insieme abbracciati, fra voluttà che non han nome, i santi misteri degli dei! (mentre parla s’è avvicinato a poco a poco a Glicera e l’ha circondata di un braccio).

Glic. (è venuta ascoltando avidamente Alcibiade, con trasporto di ammirazione crescente, quasi affascinata da lui) Ah!... (dopo questa esclamazione di desiderio, di trasporto e di amore, Glicera rimane lì interdetta, e, quasi pentita d’essersi lasciata involontariamente dominare dal suo fascino, si stacca vivamente da lui.)

Alcib. (vivamente, con voce affettuosa, ma come fingendo di non accorgersi dell’impressione delle proprie parole su di lei) Che hai, Glicera?

Glic. Nulla!... (fra sè, staccandosi da Alcibiade) (Ha ragione Aspasia... È un ammaliatore costui. Non bisogna ascoltarle le sue parole. Pensiamo ad altro...) (si leva dalla cintura[73] un rotolo di papiro,[74] lo apre e lo scorre)

[68]

Alcib. Che pensi, Glicera? Che leggi?

Glic. Perdona... Son pochi versi non finiti, che stavo componendo quando m’incontrasti. Le tue parole, per richiamo di idee, mi han ricondotta la mente a continuarli... se permetti...

Alcib. Oh! che Apollo Liceo[75] e che le Muse mi guardino dallo interrompere i carmi di una Saffo così leggiadra. È egli lecito udirli... almeno?

Glic. E perchè no? Se vuoi aiutarmi a finirli... (fra sè) (È men pericoloso che starlo a sentire).

[69]

Alcib. Oh, io non son poeta... Ma leggi... leggi...

Glic. (leggendo)

«Non credere al fiore, se ostenta all’aurora

«Più dolce il profumo, più vago il color:

«Son larve fugaci del regno di Flora...

«Doman più non hanno nè tinte, nè odor.

«Non credere all’albero da l’ombre gioconde,

«Nè all’erba, che molle t’invita a giacer:

«Mortifero è il sonno che piovon le fronde,

«E ascosa è la serpe tra i verdi sentier.

«Non credere al cigno, se il cantico l’ange, —

«Son canti di morte che all’aura darà:

«Non credere al drago se lagnasi e piange...

«Chi accorre al suo pianto, ritorno non fa.»

(Glicera si arresta, avendo finito la lettura, e guarda Alcibiade che le si è di nuovo appressato, e vien leggendo seco, di sopra la spalla di lei) Va avanti tu...

Alcib. (chino dolcemente su la spalla di Glicera, l’occhio fisso sul papiro, come se leggesse, seguita improvvisando)

«Non creder d’astuta Sirena agli inganni,

«Nè a donna che troppo ti voglia insegnar,

«Se, inquieta pei vezzi che sfrondano gli anni,

«Le gioie che invidia — ti insegna a spregiar.

«Ma credi alla voce dell’alma segreta

«Che a scerner ti insegni fra i cantici e i fior;

«Al core che amando diventa poeta,

«Al forte che prega — chiedendoti amor.

(alle ultime parole, Alcibiade, che aveva già circondato di un braccio — sul principio dell’improvvisazione — il fianco di Glicera, si trova alle sue ginocchia. Glicera affascinata dalle parole sue, gli ha già abbandonata una mano, e si china verso di lui per baciarlo, quando un ultimo senso di vergogna, nel trovarsi vinta contro sua voglia, di subito la arresta.)

Glic. Ah! (toglie vivamente la sua mano da quella di Alcibiade; si copre delle mani il volto, e fugge precipitosa.)

[70]

SCENA X. ALCIBIADE solo, poi ANTIOCO.

Alcib. (seguendo ilare dello sguardo Glicera che fugge) Il nemico fugge — dunque è vinto. Diamogli il tempo di arrendersi. (entra affrettato Antioco) Oh, Antioco! dove t’eri cacciato? Da un’ora non ti trovavo più.

Ant. Ero qui poc’anzi...

Alcib. Anche tu? Solo?

Ant. No. Con Tessalo, e Cleonimo e Cimoto.

Alcib. A discorrer con loro?

Ant. A sentire di nascosto i loro discorsi.

Alcib. (sorridendo) Bel mestiere!...

Ant. (serio) Ve n’è uno peggiore...

Alcib. Quale?...

Ant. Approfittare dell’ospitalità per ordir trame ai danni dell’ospite, alle sue spalle, in casa sua...

Alcib. (indifferentissimo) Ah, lo sai anche tu che Tessalo e Cleonimo mi voglion male?

Ant. E te la pigli con tanta indifferenza? E li tieni amici costoro — e li inviti?

Alcib. Certo. Per tenerli d’occhio e sorvegliarli più davvicino. E che cosa hai sentito, demone coricéo?[76]

Ant. Han corrotto Cimoto, che ti aizzi contro la superstizione del popolo, spiegandogli infausti i presagi...

Alcib. (sorridendo) Tu vedi che se io non li invitavo, non avresti potuto sentir nulla. Grazie dell’avviso. Mi regolerò. Va, va, nelle sale — che l’orgia vi è nel punto migliore. Or ti raggiungo.

[71]

Ant. Sta in guardia!

Alcib. Va, va. Un momento. (Antioco avviato ad uscire si sofferma) Perchè ti sei messo quei calzari?

Ant. E lo domandi? Perchè è la moda introdotta da te. Li ho fatti far come i tuoi...[77]

Alcib. (con impeto) Scimia!... Ma io sono Alcibiade! — Va, va... e levali! (Antioco esce)

SCENA XI. ALCIBIADE solo, poi SOCRATE.

Alcib. Così faccian gli Dei che io non abbia mai avversari più pericolosi! Ah, Tessalo, tu sei furbo! ma il Cretese questa volta è incappato in un di Egìna...[78] Ci vuol altro che questa gente per attraversarmi la via!... (si leva dal seno e spiega un rotolo che si suppone la carta geografica della Sicilia — e la osserva; in questo frattempo Socrate è rientrato, e, alquanto in disparte, fermo, le braccia conserte, con aria tra il grave e l’affettuoso, sta osservando Alcibiade) Ecco la Sicilia! il sogno delle mie notti, il mio sogno di gloria! Oh, Atene vedrà se Alcibiade è buono soltanto a corteggiar femmine e a far correre cavalli ad Olimpia![79] E conquistata la Sicilia e aggiunte alle nostre le forze di un’isola sì vasta, ne avrò più del bisogno per abbattere Cartagine; e caduta questa, tutto il suo imperio è nostro dalla Libia all’Iberia: e nostra è l’Italia![80] Che diventa allora la conquista di Grecia? [72] E la guerra contro il gran re?[81] Atene padrona del mondo per opera di Alcibiade — oh, per Adrastea! è qualcosa di più degli allori di Pericle e di Temistocle!... (a questo punto volgendosi, si accorge di Socrate, che lo guarda fisso, le braccia conserte) Socrate! (con malumore) tu ancora qui! che vuoi?

Socr. (immobile, calmo, senza scomporsi) Nulla. Ti guardo.

Alcib. Se vieni a ripetermi, come al solito, i tuoi rimproveri e ammonimenti, non vieni in buon punto.

Socr. (calmissimo) Ti rimprovero io forse, ora?

Alcib. Ma tu fai peggio che rimproverarmi. Quando io più m’innalzo coi desideri oltre le nubi, tu mi trascini sulla terra. Quando parli, non ti so resistere: e allorchè più sono contento di me, sei capace di farmi arrossire e sdegnar contro me stesso.[82] Perciò, mio malgrado, ti fuggo; ti fuggo come le Sirene.[83] Non voglio più sentirti. Non voglio sentirti. (fa per allontanarsi)

Socr. (sempre calmo) Neanco se io ti favelli della gloria?[84]

Alcib. (vivamente soffermandosi) Oh, di quella sì!... ma non d’altro...

Socr. Infatti, se ti dicessero: Alcibiade, che preferisci tu: morir subito, o, contento degli onori che hai, rinunciar per sempre ad acquistarne di maggiori, — io credo che preferiresti morire[85].

[73]

Alcib. (vivissimo) Certamente!...

Socr. E tu vivi, perchè speri divenire maggior di Pericle e di quanti illustri ebbe mai la Repubblica: ma se un Nume ti dicesse che otterrai tutto questo, e che sarai padrone di tutta l’Europa; ma che non passerai in Asia,[86] e non avrai nome...

Alcib. Oh, io non vorrei vivere per così poco!... (con forza)

Socr. E per questo vuoi andare in Sicilia[87] in soccorso a quei di Egesta...

Alcib. Certo. Son nostri alleati. È un debito di onore.[88]

Socr. Bene! per gli Dei! Soccorrere gli amici ed alleati, è un bel principio per la gloria. E il disinteresse è virtù cara ai Numi. Andare, vincere, ritornare — e dire ai cittadini: Abbiam lasciato laggiù 200 talenti[89] e 1000 morti: ma abbiam vinto e soccorso gli amici. Ciò è grande![90]

Alcib. Oh, ma adagio! Quei di Egesta ci faran le spese della guerra. E poi, non andiamo già per ritornare...

Socr. (con fare ingenuo, fingendo sorpresa) Che? vuoi restarci?

Alcib. Sicuro!... e conquistar la Sicilia!

Socr. Allora, non parliamo di servigio di amicizia. Perchè questa parola gli Dei non vogliono che si profani. Ma anche illustrare ed aumentare lo Stato colle conquiste è una gloria non meno grande. Tu avrai già pensato che ci vorrà [74] un’armata ben grossa, perchè la Sicilia è grande, e le sue città sono molte e potenti...

Alcib. Certo. Più forte è il nemico, maggiore la gloria. È una guerra più grossa di quella del Peloponneso...

Socr. (facendo sempre l’ingenuo) Oh, che buona notizia mi conti! Stiam già facendo la pace con Isparta?

Alcib. Non ancora. (con baldanza) Ma la faremo là, in Siracusa.

Socr. Ah!... ma non ti pare — scusa sai, di queste cose io non m’intendo — non ti par egli imprudente affrontare un nemico più grosso e lontano, se ancora non abbiam potuto vincere questo che abbiam qui alle porte?[91]

Alcib. Ma da un pezzo lo avremmo vinto, se i capitani avessero saputo condur bene la guerra. Se ci fossi stato io!

Socr. Perciò parmi peccato che tu ti allontani. In ogni modo, meglio così, se no, senza di te, anche in Sicilia, le cose andrebbero come nel Peloponneso...

Alcib. Senza dubbio...

Socr. E pregherò quindi, per la salvezza dell’esercito e di Atene, gli Dei scacciamali, che tengan quieti gli Spartani fino al tuo ritorno, e là in Sicilia proteggano i tuoi dì...

Alcib. (distratto) Grazie.

Socr. (con fare indifferente) Anzi, siccome degli Dei bisogna fidarsi sino a certo punto, sarà bene tu ti tenga a qualche distanza dal campo di battaglia...

Alcib. (con impeto) Che! ad esser vile mi consigli? Non è Socrate che parla.

Socr. Perdona... ma poichè senza di te tutto laggiù andrebbe a [75] fascio!... E tu convieni che se, dopo conquistata l’isola, non potessimo conservarla, e vi perdessimo tutte le nostre schiere, questo sarebbe per Atene peggior danno dell’esservi andati...

Alcib. Oh questo sì... ma...

Socr. E che Atene allora maledirebbe il primo che ebbe l’idea dell’impresa...

Alcib. Socrate!

Socr. (senza dargli tempo a parlare, uscendo dalla pacatezza serbata fin qui e prorompendo con vivacità ed impeto repentini) Oh, Alcibiade, prega dunque gli Dei che ti facciano immortale! Se no, che gloria ti par questa che giuoca la tua vita contro le sventure della tua città?! E ti parrà gloria, se, teco assente il fiore dei nostri, lo Spartano che spia le occasioni prendesse d’assalto le nostre mura? E ti sarà glorioso, essere laggiù, vincendo, capitano di una città serva?

Alcib. (fatto pensieroso, impressionato dalla parole di Socrate, si riscuote) Ma qui che faccio? E se questa occasione mi fugge, quando la gloria mi sorriderà?

Socr. (con forza) Non hai altri nemici a vincere, quando Sparta non fosse? Guardati intorno per Atene e per la Grecia, se nulla qui siavi da fare, prima di guardar più lontano! Guarda la repubblica cadente, da che le virtù della repubblica se ne andarono! Guarda le discordie dei cittadini, le leggi conculcate, da che Pericle governò: l’ingordigia de’ salarj[92], i rotti e molli costumi che generano l’ignavia nelle tende e sulle navi: le industrie rovinate dalle ciance del foro e della Elièa[93], dai mercenarj[94] e dalle feste[95]: le campagne desolate [76] dall’asta spartana. Tu che agogni essere eroe, comincia ad essere cittadino! Tu che vuoi vincere il mondo, comincia [77] a vincere te stesso![96] (Alcibiade ha gli occhi a terra, fatto mesto, vergognoso e cogitabondo delle parole di Socrate. Col dorso della mano asciuga una lagrima involontaria. In questo punto un servo entra)

Servo. Alcibiade! questa lettera per te.

Alcib. (prende macchinalmente, senza dir parola, il papiro che il servo gli presenta, lo svolge e scorre: scosso improvviso dal suo abbattimento e dalla sua mestizia, dà in esclamazione di gioia) Ah!... Glicera!... (legge concitato)

«Sì, credo alla voce dell’alma segreta,

«Che a scerner mi insegni tra i cantici e i fior;

«Al core che amando diventa poeta,

«Al forte che prega — chiedendomi amor!»

(smettendo di leggere, con esclamazione vivissima) Oh, ma ora io non prego più! (si rivolge, tornato allegro, a Socrate) E ci vorrà del tempo, o Socrate, per riportar questa vittoria che tu dici?

Socr. Certo...

Alcib. In attesa, io ne conosco una, che ne esige assai meno!... O Socrate!... (con voce vibrata, mostrandogli lo scritto) Glicera mi chiama!... (fa una pausa, indi sorridente soggiunge a voce piana, e con accento significantissimo) Una vittoria alla volta!...

Socr. (fa un passo come per trattenere Alcibiade che gli fugge via; lo segue dello sguardo, e quand’egli è uscito, incrocia le braccia e scrolla mestamente il capo) Povera Grecia!...

CALA LA TELA.

[78]

QUADRO SECONDO

ATENE.

Luogo elevato e sassoso in vicinanza dello Pnice
(πνύξ, luogo delle assemblee popolari).

SCENA PRIMA DIOCARE, CARINADE, altri quattro o cinque popolani sdraiati, indi AMINIA.

Dioc. Che furia! (a Carinade, che arriva correndo, ansante) Un uomo di Faléra correr tanto![97] Sembri un di quei che corrono nella festa delle lampade![98] Il gnomòne ancora segna l’ombra di quindici piedi...[99]

[79]

Carin. Davvero? Neanche la terza?! E a me parea di aver dormito le tre notti di Ercole![100] Meglio così! Già due volte, per pochi minuti di ritardo, fui segnato dalla corda rossa,[101] [80] e il Tesmotéta[102] non mi volle dar i tre oboli[103] della paga.

[81]

Dioc. (sorridendo) Ti premono molto i tre oboli![104]

Carin. Eh, perchè tu a vender pecore te la fai bene, e te la [82] intendi co’ sacerdoti. Ma noi, per Cerere! se non ci fossero questi, e i tre oboli della paga di eliasta,[105] sul mestier solo del falegname ti so dir io che in giornata non ci si vive! E ancora, ancora, con quelli si tira là innanzi a stento... le nottole del Laurio in casa mia hanno una paura maledetta a farci il nido.[106] Oh Giove! quando mai verrà la [83] rondinella!...[107] Ma non sono io solo che corre... Guarda Aminia suniese[108] il calzolajo,[109] che viene sbuffando... (entra Aminia) Buon dì, Aminia. Che abbiam di nuovo?[110] Come va?

Amin. Di male in peggio, alla guisa di Mandràbulo.[111] Scarpe non se ne vendono, e cause non se ne giudicano. Da tre dì, [84] vado al mio dicastero, e lo trovo chiuso: e la mia donna, ogni mattina, si dispera, perchè le torno a casa senza i tre oboli in bocca.[112] Per tutti e dodici gli Dei![113] Se domani o dopo l’arconte non tien giudizio, non so come potrò comperarmi da cena...[114] Dovrò ricorrere a quella di Ecate,[115] e ber del vino delle nove cannelle...[116]

Dioc. (ridendo) Un vino molto leggiero! Buon per me, invece, [85] nel tribunale mio si lavora senza perdere un dì: e il bossolo dei voti non istà un momento in ozio. Ieri n’avremo condannati una ventina...[117]

Carin. Il guaio è che anco i tre oboli son pochi; una metà basta appena alla farina, alla legna, al companatico;[118] e tra la tassa del quarantesimo, e l’uno per cento, e le straordinarie,[119] e l’altre imposte, e gli interessi della luna [86] nuova,[120] l’altra metà se la portan via. Intanto costoro che son nelle cariche, e inviati e provveditori e capitani, che non fan mai niente, si piglian le tre e le quattro dramme al giorno: e si intascano di soppiatto i doni degli alleati, e si pappano i tributi[121] e le decime di Minerva,[122] e si fan nutrire [87] a spese pubbliche nel Pritanéo;[123] e noi, veri Ateniesi, Cecrópidi puro sangue, figliuoli della terra,[124] che [88] la mercede ce la siam guadagnata combattendo in campo e sulle triremi, noi che avremmo ormai diritto di consacrar le armi nel tempio,[125] noi si stenta la vita ne’ tuguri e nelle torricciuole,[126] e per quella miseria dei tre oboli par che ne facciano la elemosina!

[89]

Amin. E sì poi che non ci dan nulla del loro! Fa un po’ il conto coi sassolini:[127] siam seimila giudici, fan circa 150 talenti all’anno; le entrate della città son 2000 talenti;[128] non ci dan dunque di paga nemmen la decima parte delle entrate...

Carin. E il resto dove va?

Amin. Lo sai tu?! Va in ispese necessarie, come rispondeva Pericle[129] quando gli domandavano i conti. Va ad ingrassare costoro che tengono il mestolo dello Stato, e vanno in giro vestiti di porpora, mentre io porto da tre anni questi cenci rattoppati, che sarebbe ormai tempo di dedicarli agli Dei.[130] Basta! là in Sicilia voglio anch’io rifarmi il guscio...

Dioc. Sicchè oggi darai il voto ad Alcibiade?...

Amin. Certo.

Carin. Anch’io! Quello è un uomo! E che ama il popolo. E con lui se ne farà del bottino!... Perchè, sai, dicono che la Sicilia è ricchissima... e ci si bevono dei vini squisiti...

Dioc. Oh, oh! (guardando entro le scene) Il sofista[131] Dionisodòro [90] che vien da questa parte! Eccone uno che dei tre oboli non ha bisogno, e all’assemblea scommetto che non viene. In poche ore di lezione costui guadagna delle dramme...

Carin. E che cosa insegna?

Dioc. Tutto.[132] Il talento di costoro è una meraviglia. Son [91] ragionatori incomparabili che ti sanno il dritto e il torto di ogni cosa, e qualunque cosa tu dica, vera o falsa, con un certo parlare che loro hanno, te la confutano lo stesso. Ti insegnano a vincere davanti a’ tribunali tutte le cause, giuste ed ingiuste,[133] e a far comparir nero il bianco, e bianco il nero...

Carin. Ma davvero? Per cui, se io non pagassi a Creméte l’usurajo gli interessi dei debiti alla luna nuova, ed ei mi citasse al tribunale...

Droc. Tu colla scienza di costoro non gli pagheresti più un obolo...

Carin. Per Erméte! Chiamalo, chiamalo...

Amin. Ohe, chiamalo anche per me...

Dioc. Dionisodoro!

SCENA II. Detti e DIONISODORO sofista: indi CLEONIMO, TIMARCO ed altri popolani.

Dionis. Che vuoi?

Dioc. Costoro vorrebbero tu insegnassi loro quel certo parlare che tu sai...

[92]

Amin. Carin. Sì, sì... quello! quello!

Dionis. Ben volentieri. E son tuoi amici costoro?

Dioc. Certo.

Dionis. Allora, la farem per poco: due dramme sole per ciascuno.[134]

Carin. Eh? due dramme? O non le ti paion troppe?

Dionis. Anzi, niente.

Carin. Come? due dramme non sono niente?

Dionis. Ma certo. E se vuoi — te lo provo.

Carin. Oh! oh!

Dionis. Avresti una dramma?

Carin. Per farne che?

Dionis. Per la prova...

Carin. Eccola — ma non sciuparmela, sai.

Dionis. (piglia la dramma e gliela mostra fra le due dita) Rispondi a me. Che cos’è questa?

[93]

Carin. Per Minerva! una dramma.

Dionis. Se è una, non può esser due.

Carin. (guardandolo attonito) Eh? mi pare. Fin qui ci arrivo anch’io.

Dionis. Ma potrebbe anche non essere una dramma.

Carin. Ehi là, dico! Non barattarmela.

Dionis. Quetati. Voglio dire che l’essere dell’uno è una cosa distinta dall’uno: perchè il dire è — non è lo stesso che dire uno...

Carin. Ohe Aminia (lo richiama che venga a sentir Dionisodoro), sta attento come parla bene costui!

Dionis. E non può essere affatto la stessa cosa dell’uno, poichè allora il dire che l’uno è — sarebbe lo stesso che dire uno uno — e uno e uno farebbero due...

Carin. Ah! certo che fan due...

Dionis. E dunque l’uno assoluto — per restar uno e non due — bisogna che non partecipi dell’essere — perchè dal momento che cominciasse ad essere — essendo l’essere, come hai veduto, un’altra cosa, — diventerebbero due cose, e non sarebbe più uno. Non ti par giusto?

Carin. (guardandolo estatico) Giustissimo.

Dionis. E poi, se l’uno non fosse privo dell’essere e se qualcosa dell’essere entrasse nel suo non essere, allora di non essere diventerebbe un essere — e cioè sarebbe una cosa affatto diversa dall’uno...

Carin. E dunque?...

Dionis. Dunque l’uno come uno non è. — Ci son delle altre cose oltre l’uno?

Carin. Eh? (lo guarda con aria di chi non intende)

Dionis. Mi spiego. Tu mi hai dato questa che dici ch’è una dramma. Danne qui un’altra...

Carin. (gli dà esitante un’altra dramma) Oh, ma non farmela sparire, perchè ci voglio bene, io, a questi cùculi del Laurio: son rarità preziose in casa mia.

Dionis. Dà qua. Questa dunque è un’altra da quest’una che m’hai dato...

Carin. Sicuro ch’è un’altra.

[94]

Dionis. Se ci son dunque delle altre cose oltre l’uno, e se l’uno come uno non è, nessuna di queste altre cose può essere uno...

Carin. Sarà benissimo come dici...

Dionis. E neppur due, e neppur tre, perchè la pluralità suppone l’unità, e il due e il tre non sarebbero ancora che l’uno moltiplicato più volte...

Carin. Certo.

Dionis. Dunque se l’uno non è, nessun’altra cosa può essere, nè come uno, nè come più d’uno...

Carin. Per cui...

Dionis. Per cui, queste dramme non possono essere nè una, nè due, nè parecchie... e per conseguenza — son niente affatto. (Risate fra gli astanti. Dionisodoro volge intorno sguardi trionfanti; indi s’avvia per allontanarsi) — Oh addio!... i miei scolari mi aspettano...

Carin. (dopo aver guardato stupefatto Dionisodoro, si volta ad Aminia) Hai capito tu...?

Amin. Io no — e tu...?

Carin. Io sì, qualcosa ho capito...

Amin. Che cosa?

Carin. Ch’egli mi porta via le due dramme... (fa un gesto significante ad Aminia, poi chiama forte Dionisodoro) Ehi là, Dionisodoro! (Dionisodoro si ferma) E tutte queste belle cose tu insegni per così poco?

Dionis. Oh, queste ancora non le sono che bazzecole, a confronto del resto. E per due dramme sole!... Vieni, vieni da me; chiassetto d’oro verso Agnone,[135] la prima casa a destra; vedrai, vedrai...

Carin. (a Dionisodoro) Però scusa. Chiariscimi una cosa che non ho ben capito. Tu dicevi tuttavia da principio che questa che t’ho data è una dramma? (gli ripiglia delicatamente di mano una delle dramme.)

Dionis. Lo dicevo.

Carin. E che questa è un’altra... (gli ripiglia delicatamente l’altra)

[95]

Dionis. Un’altra.

Carin. Ma dunque son proprio due!

Dionis. Appunto.

Carin. E tu dici che due è la stessa cosa che niente?

Dionis. La stessa che niente affatto. (sorridendo di compiacenza, mentre stende la mano a riprenderle)

Carin. Bravo! E allora — poichè è la stessa cosa — ti do niente. (si rimette le due dramme pacificamente in tasca e gli volta le spalle. Grande risata fra gli astanti)

Amin. Bravo Carinade!

Dionis. Ma pagami la lezione.

Carin. Te l’ho pagata! Non è vero, Aminia?

Amin. Verissimo. (Dionisodoro parte incollerito fra le risate. Sopravvengono Cleonimo, Timarco ed altri cittadini) Oh buon dì, Cleonimo... Che faccia scura, Timarco! Sembri uscito dall’antro di Trofonio.[136]

Tim. Fa conto. È tutta la mattina che gli augurii mi perseguitano.[137] Mi alzo da letto, e mi buccinan le orecchie;[138] [96] esco di casa e una dònnola mi attraversa la via; le scaglio dietro tre sassolini per iscongiurare il malaugurio, e non ho fatti dieci passi in là che incontro un epilettico furioso... Qualche disgrazia mi sovrasta...

Dioc. Vuoi un consiglio? Sacrifica subito un’agnella bianca e ben grassa ad Ercole, Apollo e Polluce sgombratori dei mali...[139] Vieni da me... te ne venderò una che è una meraviglia...

Tim. (sospirando) Ci verrò.

Dioc. Anzi veramente, s’io fossi in te, per essere più sicuro, ne sacrificherei una per ciascun dei tre Numi... Vieni, vieni da me...

Amin. Del resto, consolati, non sei solo ad aver cattivi gli augurii... A me stanotte i topi han bucato il sacco della farina...[140]

Tim. E sei stato dall’indovino?

Amin. Sì, certo.

Tim. Che ti disse?

Amin. Che il sacco bisognava farlo rattoppare... e la farina darla a lui.

Dioc. (scrolla il capo e fa scoppiettare la lingua in segno di disapprovazione) Un’agnella ci voleva...

Amin. (battendogli sulla spalla) Sta cheto. Per oggi contentati. Ne hai già contrattate tre...

Cleon. Oh, a proposito di presagi, non dite nulla dei lampi e dei tuoni[141] di stanotte? Mi hanno svegliato mentre [97] sognavo che la statua della Dea Atenapólia[142] dal Partenone scotendo l’égida minacciava la città; e la sfinge del suo elmo, mandando fiamme dalla bocca, aveva disseccato in un attimo il grande ulivo...

Tim. e Amin. Davvero?

Cleon. Com’è vero che mi chiamo Cleonimo. Già dice bene qui, Timarco, qualche malanno per aria ci dev’essere...

Carin. (a Cleonimo) Io, fossi in te, andrei dal vecchio Lampone,[143] quel che tiene esposte le tabelle presso il tempio di Bacco e spiega i sogni...[144]

Dioc. (a Carinade) Bel costrutto! Se il sogno è di malaugurio, l’indovino può borbottare Aski Kataski[145] fin che vuole, ma già non glielo cambia... (a Cleonimo) Dà retta a me. Sacrifica agli Dei scacciamali... E la vuoi sapere la causa di questi segni infausti che della lor collera ci mandano gli Dei?

[98]

Cleon. (affettando aria ingenua) Che sia la spedizione di Sicilia?

Amin. Oh senti questa!

Dioc. Che! che! — Guarda là in fondo (addita verso le quinte). Quella gente là.

Amin. Ma quel che passa laggiù a piedi scalzi,[146] se non erro, è Socrate, di Sofronisco alopecense...

Dioc. Lui in persona. Vedilo che tira dritto, gittando occhiate a dritta e a sinistra con quella sua andatura superba e la sua aria sardonica,[147] come fosse il gran re; tira dritto e all’assemblea non viene.[148] Degli affari dello Stato costui [99] non si occupa; professioni non ne esercita; ma il tempo lo trova per girovagare ozioso[149] nei quadrivj e nelle botteghe, corrompere la gioventù, scrutar le cose sotterranee e quelle al disopra delle nuvole,[150] insegnar che il cielo è [100] un forno che circonda la terra e noi ne siamo i carboni,[151] che il terremoto è il consiglio dei morti[152] e le nubi e non Giove son quelle che mandano il tuono e la pioggia, e che Giove e gli altri Dei non esistono, bensì il turbine[153] e i demonj in vece loro...

Carin. Tali cose insegna costui?

Dioc. Ed altre peggiori. E dacchè costoro vanno spargendo che non ci son gli Dei, alle are fumano più rari i sacrifizii...

Amin. (continuando la frase, con accento un po’ canzonatorio all’indirizzo di Diocare) Di pecore se ne vendono più poche...[154]

Dioc. E i numi si vendicano con noi. Oh, ma un dì o l’altro a costui bisognerà pensarci...

Tim. Oh, ve’ chi arriva! Cimoto!

Carin. (chiamando di lontano) Cimoto! Cimoto!

SCENA III. Detti, e CIMOTO.

Cim. (entrando scambia segni di intelligenza, non visto, con Cleonimo) Buon dì, cittadini... Quanto manca all’assemblea?

Carin. Tre quarti d’ora. I Pritani[155] ancora non son venuti... [101] E anche tu, già, voterai per la spedizione, e per la nomina del valoroso Alcibiade.

Cim. (tentennando il capo con accento di chi dice una cosa contro volontà e persuasione) Sì...

Carin. Oh, non ne sei troppo persuaso? Non ti par egli un eccellente capitano?

Cim. (c. s.) Sì... peccato che sia così giovane per un’impresa di quella fatta!... Soltanto ventinove anni...[156]

[102]

Carin. Maggior merito, per Ercole! Così giovane e già così bravo...

Amin. E che testa quadra!...

Cim. (c. s.) Sì...

Amin. (vivamente, con malumore) Negalo un po’, se hai coraggio!

Cim. Un’ottima testa! Se non fosse così matto, così sventato; e avesse un po’ d’amore allo studio! Peccato! un giovine così promettente, così pieno di meriti, ubbriacarsi tutte le notti, e invece di istruirsi nell’arte del capitano, consumar il tempo fra la crapula e le donne. Eh! che ne dici tu, Cleonimo?

Cleon. (con fare ipocrito) Ah sì, un vero peccato!

Cim. (in tutto questo suo dialogo, Cimoto affetta sempre intenzionalmente un’aria di indifferenza, pure scrutando gli animi degli astanti, e mirando a far impressione su di loro, senza darsene l’aria) Tanto più quando si deve capitanare un’impresa così colossale, e si tratta di affidargli la vita di migliaia di cittadini... E dir che questo ragazzo, col tempo e collo studio, avrebbe potuto fare così buona riuscita...

Carin. Oh, ma noi, per maggior sicurezza, gli daremo Nicia e Lamaco a compagni nel comando...

Cim. (vivamente) Ben fatto, ben fatto, per Giove! Così un po’ per volta imparerà l’arte del capitano, senza esporre troppo l’armata a pericolo...

Amin. (fatto improvvisamente attento dalle sue parole, si volge a Diocare e Timarco, i quali discorrono fra loro) Ehi! Sentite che dice costui...

[103]

Cim. E senza trarla a rovina, perchè, allora, credo, non francherebbe la spesa di nominarlo...

Carin. Oh, certo, non francherebbe la spesa!...

Cim. (fingendo sempre di non accorgersi della impressione delle sue parole sugli astanti) E un po’ di esperienza a questo giovine farà bene...

Cleon. Per Minerva! se farà bene!...

Cim. Perchè di doti naturali ne ha, e l’amor proprio non gli manca: anzi, è quel che lo rovina... perchè ne ha fin troppo: e ciò lo spinge a imprender cose troppo superiori alle sue forze...

Cleon. E a credersi un po’ troppo da più di tutti gli altri...

Amin. (vivamente) Più di tutti noi, si crede?

Cim. (fingendo difendere e proteggere Alcibiade) Fumi giovanili...

Tim. Che dice costui?

Amin. (più vivamente) Che Alcibiade si tiene da più di noi![157] Ma per Ercole! noi non vogliamo! perchè siam noi che lo abbiam portato in alto...

Dioc. (con forza) Certo, che non vogliamo...

Cim. (c. s. fingendo proteggere Alcibiade) Oh, ma vedrete... siccome di buone doti ne ha, e non gli manca che l’esperienza... così alla prima sconfitta, laggiù in Sicilia, si correggerà...

Carin. (vivamente) Alla prima sconfitta?

Cim. Sì, sì... vedrete... Allora imparerà che guidar una guerra è più difficile del sedur femmine e guidar cocchi, e che dal dire al fare c’è di mezzo il mare... E siccome di buone doti, per correggersi, ne ha, così una prima sconfitta di esperimento...

Amin. Ma che sconfitte! Noi non vogliamo sconfitte!

Carin. Ma che esperimento! Noi non siam di quei da Megara! e non siam uomini di Caria[158] da far esperimenti su di noi...

[104]

Cim. Ma via, siete troppo severi! Voler che un giovane inesperto, fin qui abituato solo a darsi buon tempo, diventi di punto in bianco un capitano provetto, sicuro della vittoria!... Un giovane galante che porta per insegna nello scudo un amorino...[159]

Carin. Ah, si! l’ho vista anch’io quella insegna! ma è una insegna da donna, e non da capitano quella!

Amin. E neppure da buon cittadino! I buoni cittadini portano nello scudo emblemi della patria[160] e non amorini.

Cim. (coll’accento benevolo di chi cerca scusare) Leggerezze, leggerezze di gioventù! Come quella dello spendere e spandere e introdur la moda dei calzari di lusso all’Alcibiade,[161] e portar la chioma lunga e cicale d’oro nei capelli come le donne[162] e indossar vesti fastose di porpora ermiónica...[163]

Dioc. Veramente... qui fra noi, diciamo fico al fico,...[164] le son tendenze da tiranno queste....[165]

[105]

Cim. E quell’altra del letto!... Cleonimo, ma sarà poi vera?

Cleon. A me l’avean contata per certa i soldati che l’hanno vista... Ma ne contan tante!...

Amin. Che cosa? che cosa?

Carin. Contala, contala!

Cleon. Che nell’ultima spedizione navale a Fotidea, mentre i soldati sulla sua trireme stavano a disagio, stipati come sardelle, ei s’era fatto tagliar nella nave il tavolato, ove acconciarsi il letto, per non giacere sulle nude tavole, ma su corde ivi distese, da potervi dormir più mollemente.[166]

Amin. (scandolezzato) Ma è una femmina, e non un uomo costui!

Cim. Abitudini! abitudini! Per questo, dicevo, non bisogna esiger troppo... Avete sentito dei presagi?

Carin. Che presagi?

Cim. La notizia da Delfo giunta stanotte...

Carin. Dioc. Amin. (vivamente, con curiosità) Conta, conta!

Cim. Uno stormo di corvi scese colà svolazzando nel recinto del tempio intorno alla nostra palma di bronzo, e a colpi di becco tanto vi lavorò, fin che vi fece cadere tutti i frutti dall’albero...[167]

Amin. Davvero?...

Cim. La notizia è venuta agli Eumòlpidi.[168] E poi...

[106]

Carin. Poi... cosa?

Cim. Che giorni son questi?

Carin. I giorni delle Adonie.

Cim. E non ve ne siete accorti venendo qua? Non avete incontrato per via le processioni funerarie e i simulacri di cadavere esposti? Non avete udito i gemiti e i pianti delle donne d’in sui tetti?

Amin.[169] Così scoppiassero dal piangere una volta, che stamattina m’han rotto il sonno e non m’han lasciato chiuder occhio. Mi volto sur un fianco per dormire, e mia moglie sbraita saltando ubbriaca per la stanza: Ahi! Ahi! Adone! — Oh, sta un po’ zitta, le dico, tu e il tuo Adone insieme! e mi volto sull’altro fianco; e lei colle compagne mi va a ballar sul tetto da far tremare la casa, gridando tutte a squarciagola: Ahi! Ahi! piangete Adone! picchiatevi il petto ch’è morto Adone![170] C’è mancato poco non saltassi su furioso, e a picchiarle, ma proprio in regola, non ci andassi io...

Cim. (con sussiego) Religione! rispetto alla religione! Ma dimmi un po’: credi tu che sia casuale la ricorrenza delle Adonie proprio nel giorno della votazione dell’impresa? E...

Carin. (vivamente) E se non è, che cosa fare? che cosa fare?[171]

Cim. E se non è, lo sai tu che significano questa coincidenza e il presagio dei corvi di Delfo?

Amin. Che significano?

[107]

Carin. Sentiamo, sentiamo!

Tim., Dioc. e altri popolani. (vivissimamente) Parla, parla, Cimoto...

Cim. (assume un’aria grave di mistero e di importanza, mentre tutti i cittadini che son sulla scena si stringono intorno a lui) Significa che...

SCENA IV. Detti ed ALCIBIADE.

Alcib. (fermo, in sull’entrare in iscena, ancor distante dal gruppo che è intorno a Cimoto, chiama a voce forte) Ateniesi! (Cimoto resta interdetto e sconcertato all’udir la voce di Alcibiade)

Carin. ed altri. Alcibiade!!!

Amin. Oh, Alcibiade! bravo! vieni a tempo! Ne abbiam sentite di belle sul tuo conto. Aspetta un momento, e dopo parlerai!...

Carin. Sì, sì, aspetta un momento e poi... (con accento di minaccia verso Alcibiade; indi si volge a Cimoto) Su, su, parla, Cimoto...

Alcib. Una parola sola, e poi taccio.

Carin. No, no, aspetta...

Amin. Via, dilla presto...

Alcib. Avete visto il mio cane?

Carin. O che! del suo cane ci domanda il temerario? Siam noi custodi del suo cane?

Alcib. Ma la sapete la novità?

Amin., Carin. ed altri. Quale? quale?

Alcib. Quel mio magnifico cane di Creta...[172] (fa una pausa di sospensione)

Amin. Sì, sì... quel cane così alto... bianco e nero...

Alcib. Proprio quello... che mi costava settanta mine... (nuova pausa sospensiva)[173]

[108]

Carin. Ebbene?...

Alcib. Con quella stupenda coda tutta bianca...

Amin. (impazientito) Sì, sì... ebbene... ebbene...?

Alcib. Ebbene... non l’ha più. Glie l’ho tagliata.[174]

Carin., Amin., Dioc. e altri in coro. Ah!!

Amin. e Tim. Impossibile!

Carin. e altri. Dov’è? Dov’è?

Alcib. (additando verso l’interno della scena) Eccolo là...

Carin. e gli altri in coro. Ah! Ah![175] (gridando ed esclamando corrono via tutti in folla precipitosamente nella direzione additata da Alcibiade, e la scena in un attimo rimane sgombra, non restandovi che Cimoto, piantato lì solo, confuso e mortificato, — e Alcibiade).

SCENA V. ALCIBIADE e CIMOTO.

Alcib. (seguendo dello sguardo i cittadini che son corsi dietro il cane, esclama forte) Ecco i vincitori di Maratona!![176] (prosegue a voce più bassa, con inflessione di mestizia) Povero popolo! come t’han cambiato! (si avanza sorridente e calmo verso Cimoto, il quale, confuso, tien gli occhi a terra) Ebbene, o Cimoto, par che la coda del mio cane sia più eloquente della tua lingua!... Però non giudicarli severamente... Non han tutti i torti costoro... Per che cosa mai le imposture ridicole [109] di quei che lo ingannano, e i tuoi discorsi e i tuoi presagi dovrebbero aver più importanza della coda del mio cane?... (d’improvviso mutando accento, a voce fredda e calma) Quanto ti han dato per recitar questa parte?

Cim. (confuso, cercando balbettare scuse) Ma... io...

Alcib. (secco e minaccioso) Quanto t’han dato?

Cim. (intimidito) Cento dramme.

Alcib. (ritornato calmo) E la sai la legge?

Cim. Che legge?

Alcib. Chiunque piglia danaro per far danno a un cittadino, infame egli e i suoi figli...[177] Pena la morte.

Cim. (spaventato) Ohimè!

Alcib. Sei onesto tu?

Cim. Per Ercole! se lo sono. Mi offendi a domandarmelo...

Alcib. (pacatissimo) Ebbene... poichè sei onesto — e la legge tu la rispetti — e non hai preso che cento dramme — di duecento ti contenterai... Eccole... (gli dà una borsa che l’altro prende, dopo qualche esitanza) Ma li spiegherò io, a costoro, i tuoi presagi... Intendi?

Cim. Ho inteso.

Alcib. (imperioso) E starai zitto...

Cim. Più zitto di un Areopagìta...[178]

[110]

SCENA VI. ALCIBIADE, CIMOTO: e tutti gli altri che ritornano in frotta. Indi, in disparte, TESSALO.

Carin. (mentre rientra correndo cogli altri) Che cattiveria! povero cane!

Dioc. Vergogna!

Amin. Povero cane! Una così bella coda!

Tim. Vergogna Alcibiade! Così rispetti le leggi?[179] Che cosa dire di te?

[111]

Alcib. Ah tu ameresti meglio si dicesse di me che ho rubato, come Cleone, i danari del popolo?

Amin. Oh, no, no!

Carin. Ben risposto, per Giove!

Alcib. (arringando) Ateniesi! Glorioso,[180] bellissimo popolo del magnanimo Erettèo!...[181]

[112]

Carin. (ad Aminia) Costui sì, parla bene. Quel villan di Cleone ci diceva invece: Infingardi! mangia-oboli! mangia-fave![182]

Alcib. (arringando a voce alta e forte) Eucrate,[183] il mercante di stoppe, governando, lasciò sconfiggere i nostri nella Calcidica[184] e coi tributi del popolo si arricchì...

Amin. È vero, è vero!

Alcib. Governando Callia, il pecorajo, noi perdemmo Platea, vedemmo posti i nostri alleati a fil di spada,[185] e Callia, da povero che era, lasciò un patrimonio...

Carin. Verissimo!...

Alcib. Governando Cleone, il conciapelli, fummo sconfitti dai Beoti a Tanágra,[186] dagli Spartani ad Amfipoli,[187] e Cleone intascando i danari degli alleati, rubando cinquanta talenti allo Stato,[188] si avanzò di che andar in cocchio a tiro due...

Amin. Ah sì, quel ladro di Cleone!

Alcib. Queste belle cose ricordiamo di loro; prego (con voce solenne) gli Dei e le Dee dell’Attica abitatrici[189] e il Pizio [113] Apollo[190] protettor della città, che di me non si possa giammai ricordar nulla di più biasimevole di questo: — che ho tagliato la coda ad un cane — e il cane era mio!

Amin. Bene!

Carin. Bravo![191]

Dioc. e altri in coro. Viva Alcibiade!

Alcib. Ed ora sapete, che cosa testè mi diceva Cimoto qui presente, il quale lo seppe dai sacerdoti, intorno ai presagi della spedizione?

Amin. e Tim. Che cosa?

Alcib. Che i Numi manifestamente ci sorridono; perchè la palma di Delfo, simbolo della potenza e della gloria onde Atene sovrasta a tutti i Greci[192] (segni di approvazione fra i popolani) è rimasta dritta ed illesa dai corvi: ma i frutti, che ricordano le nostre vittorie antiche, son caduti, perchè la fama di quelle sta per essere cancellata da vittorie ben maggiori che ci aspettano laggiù.

[114]

Tess. (entrato in iscena da qualche momento, si avvicina di soppiatto a Cimoto, parlandogli sottovoce) Tu hai detto questo, furfante?

Cim. (guardandolo con disinvoltura) Sì, sì...

Amin. Han detto questo i sacerdoti? È vero, Cimoto?

Cim. Verissimo.

Tess. (minacciando, a Cimoto sottovoce) Ti pagherò...

Cim. (mostrandogli la borsa) Tralascia. Son già pagato.

Tess. (ad Aminia, accostandosegli, sottovoce) Ma non è ancora una ragione per eleggere capitano un che sempre si ubbriaca...

Amin. (a Tessalo) Ah, sicuro! (a voce forte, ad Alcibiade) Ebbene, Alcibiade, poichè i presagi son buoni, noi andremo in Sicilia... ma non ti farem capitano... perchè tu ti ubbriachi troppo...

Cleon. (accostandosi a Diocare, sottovoce) E l’affar del letto?

Dioc. (forte, ad Alcibiade) E sei troppo effeminato! Ti fai fare il letto di corde apposta per dormir comodo sulle triremi!

Tess. (continuando ad aggirarsi di soppiatto tra la folla, egli e Cleonimo, e parlando all’orecchio or dell’uno or dell’altro, sempre cercando non lasciarsi scorgere: s’appressa a Carinade, sottovoce) E l’affar dello scudo...

Carin. (a voce forte ad Alcibiade) E pensi troppo agli amori delle donne! porti fin l’insegna di un amorino nello scudo!...

Alcib. (che in questo frattempo non ha perduto d’occhio Tessalo e Cleonimo) E null’altro? E null’altro? (con forza) Oh, per Giove e per gli Dei![193] o Ateniesi, eleggetemi subito allora!...

Carin. (con compiacenza, ad Aminia) Eh, com’è franco! Mi piace!...

Alcib. (proseguendo) ... e cingetemi le corone che il Dio Tebano ci presenta in segno di libertà![194] Che importa a voi ch’io mi ubbriachi alle mense, se i miei consigli nell’assemblea, per confession vostra, furon sempre da savio? Vada pei tanti savii che vi danno consigli da ubbriaco!

Carin. ed altri. Bravo!

Alcib. Purchè le mie opere siano da uomo, che importa a voi [115] s’io frequento le donne? Furono da donna forse le mie opere a Delio e a Potidea?

Amin. e Carin. No, no!

Tim. e Dioc. No, no, Alcibiade!

Alcib. (rincalzando) A voi che importa del sapere come io dorma i miei sonni, quando queste cicatrici vi rispondono delle mie veglie?

Amin. È giusto. È giusto.

Alcib. Ebbene, sì, sacrifico al figlio di Venere, e porto un amorino nel mio scudo! Voi però, o Ateniesi, mi siete testimonî che il mio scudo nessun nemico me lo ha preso, e l’ho sempre riportato dalle battaglie...

Tim. e Carin. Sì, sì...

Alcib. Invece, il prode Cleonimo, che qui vedo, nel suo scudo effigiò il terribile Teseo colla mazza, ed Ercole furibondo colla clava... (Cleonimo cerca nascondersi tra la folla; Alcibiade lo apostrofa con voce dolce, ironica) O buon Cleonimo... dov’è il tuo scudo?

Amin., Carin. e Dioc. (ridendo cogli altri e gridando) Ah! ah! l’ha gettato via per iscappare![195] ah! ah! l’ha gettato via! Via, via dall’assemblea![196] (Cleonimo confuso si dilegua tra le risa e le fischiate)

[116]

Amin. e Tim. Viva Alcibiade capitano!

Dioc., Carin. ed altri. Sì, sì, Alcibiade capitano! Viva Alcibiade! (Tessalo, in disparte sulla scena, fa gesti di rabbia repressa; mentre le acclamazioni continuano clamorose, entra Timone)

SCENA VII. TIMONE il misantropo, e detti.

Timon. (entra vestito di luridi cenci, con una zappa in ispalla, e fermo in sull’entrare, posata la zappa a terra e su di essa poggiandosi colle due mani, grida con voce più forte, così da coprir quella degli altri) Viva Alcibiade!

Carin. Timone il misantropo!

Alcib. Timone!

Dioc. Ora ne sentirem di belle!

Timon. Bravo, Alcibiade![197] Coraggio! fatti grande, e cammina sulle schiene di questa torma di schiavi! fatti grande, perchè tu possa diventare la peste ed il flagello di costoro, di Atene e della Grecia!

Amin. Dalli all’insolente!

Dioc. Addosso al temerario!

Tim. ed altri. Addosso!

Alcib. (con voce tuonante, imperiosa) Silenzio! E che nessuno lo tocchi! Lasciatelo parlare! (tutti ammutiscono)

Timon. Vedi, come già ben ti obbediscono! Non così docili obbediscon le pecore alla verga del mandriano! Possa essere tu sempre ascoltato così, finchè abbi tratto Atene alla rovina, e la terra, coperta di cadaveri, si penta — ma sia troppo tardi — di averti portato!

Tim. e Dioc. Ma è troppo! è troppo!

[117]

Alcib. Silenzio! (Alcibiade si è fatto scuro in volto e pensieroso: ha gli occhi a terra)

Timon. Lascia ch’io ti abbracci, Alcibiade! Alla folgore di Giove si son rotti i raggi, ed essa non fa più paura ai tristi ed ai bugiardi pari tuoi, che non ne faccia il moccolo d’una lucerna mattutina. Giove, il tonante Giove, ha preso il decotto di mandragora[198] e dorme; qui s’inganna, si corrompe, si spergiura, ed egli non sente; si fan scelleraggini, ed ei non le vede; povero bietolone, è diventato cieco, sordo e barbogio![199] e già in Creta gli preparan la tomba.[200] Su allegro! una buona notizia ti do. La virtù, la fede, il valore, l’onore, l’amicizia, il pudor delle vergini sono scomparsi dalla terra; le donne negano il latte del seno ai loro pargoli,[201] e perfin le lupe hanno abbandonato nella tana i [118] lupicini. Perciò tu sarai grande, o Alcibiade! tu che porti nelle tue vene il latte di Sparta![202] Lascia ch’io t’abbracci! Cresci ed abbindola colle ciance questa turba di cianciatori! rompi la fede a questo popolo di frodolenti e di spergiuri!...

Amin. (a Carinade) Lo senti? Parla con te.

Carin. (ad Aminia) Sta zitto! È con te che parla.

Timon. Spoglia a man salva questi usurai, divoratori di paghe!...[203]

Tim. (a Diocare) Questa poi è per te.

Dioc. (a Timarco) Oibò! è per te.

[119]

Timon. (proseguendo senza interrompersi) Calpesta le loro libertà, porta l’infamia nelle loro famiglie, cambia in meretrici le loro spose! Trascinali alle guerre, e siano ingiuste, perchè le maledizioni li seguano: e siano disastrose, perchè nessuno ne ritorni! (mentre Timone segue le sue invettive, moti d’ira repressa si scorgono fra i cittadini). E quando tutto, anche qui, per opera tua, sia sterminio, ne sopravviva uno solo — e sia il più giusto — per assassinar te a tradimento, poi sprofondi maledetto nella terra anche lui! (Alcibiade si è riscosso vivamente, ma non dice verbo. Timone, rimessa la zappa in ispalla, si allontana, traversando la scena. I popolani si agitano e danno in esclamazioni d’ira)

Carin. e Amin. Dalli allo sfacciato!

Timon. Ateniesi! ho un bellissimo fico laggiù nel mio orto a Colitta:[204] vado a strapparlo per far legna da dar fuoco al Partenone.[205] Il suo tronco è alto, i suoi rami sono robusti, e le sue ombre sono amene. Chi di voi bramasse appiccarvisi, fin ch’è a tempo, s’affretti e venga con me! (esce sghignazzando)

Carin. È troppo, Alcibiade! Egli ha insultato te e noi!

Amin. È troppo! Bisogna castigarlo l’impudente! trascinarlo dal Tesmoteta![206]

Tim. e altri. Sì, sì, castigarlo! (fan per inseguire Timone, già uscito di scena. Alcibiade li arresta, sbarrando loro il passo)

Alcib. Fermate! È già anche troppo castigato, l’infelice, perchè non sa che odiare! Se volete punirlo di più, pregate i Numi lo faccian vivere tanto da vedere in me smentite le [120] sue profezie, e Atene vittoriosa, libera e grande! (odesi la voce del banditore dall’interno)

Bandit. (di dentro a voce lenta) «Cittadini ateniesi, all’assemblea! I Pritani han preso posto, e i purificatori han fatto le lustrazioni. Avanti, avanti, in luogo purificato!»[207]

Carin. (correndo via) All’assemblea! all’assemblea! attenti alla corda rossa!

Tim. Attenti ai tre oboli! alla voce della patria![208]

Amin. (correndo via) All’assemblea! vien la corda rossa! (I cittadini tutti corrono via, mentre nello sfondo della scena due servi pubblici si avanzano tenendo distesa una corda rossa, e mandandosi i più lenti innanzi, al modo che nelle odierne feste da ballo si usa per far posto alle coppie che succedono. — La scena rimane vuota, restandovi soltanto, fuori dello spazio percorso dai servi colla corda tesa, sul davanti della scena, Alcibiade nel mezzo, Tessalo da una parte, Cimoto dall’altra)

SCENA VIII. ALCIBIADE, TESSALO, CIMOTO.

Alcib. (avanzandosi verso Tessalo, con voce ironicamente affabile) E tu, o Tessalo, non vieni all’assemblea? A te i tre oboli non occorrono, ma la tua parola oggi potrebbe esservi utile! Tu, che sei uno di quelli che sanno, fai male, in affari così gravi, a privare il popolo de’ tuoi consigli!... Dianzi, parlavano tutti: tu solo non hai parlato...

Tess. (interdetto, confuso) Io... io... ti ascoltavo...

Alcib. (affabilissimo, con velata ironia) Ah!... e ti pare che io abbia detto cose giuste?...

Tess. (sempre più confuso) Certo... giustissime...

Alcib. (sempre calmo e affabile) Anche tuo padre Cimone avrebbe [121] detto così... Era un uomo giusto e prode tuo padre Cimone... sai... e tu... (fa una pausa)

Tess. (timidamente) E io...?

Alcib. (cambiando repentinamente accento, con voce fatta d’improvviso grave, concitata, severissima)... tu non meritavi di essere suo figlio.

Tess. (risentendosi) Alcibiade!

Alcib. (rincalzando con forza) Tu che attacchi nascosto nell’ombra e alle spalle!

Tess. Alcibiade!

Alcib. (beffardo) Oh, non andare in collera! Sii prudente! Ai tuoi simili non conviene lo adirarsi! hai taciuto fin qui, taci ancora! Men codardo di te, costui (addita Cimoto che, tra pauroso e curioso, in disparte sta osservando la scena) che parlava in pubblico, da te pagato: egli osava almeno!... Io l’uom dissoluto... e tu... il virtuoso... l’onesto... (con iscoppio repentino di voce accennando Tessalo e levando in alto lo sguardo) O terra, o Dei![209] guardate come è fatta l’onestà! (Cimoto a questo punto, alquanto impaurito, fa per allontanarsi quatto, quatto. Alcibiade lo richiama) Cimoto! (Cimoto ritorna, un po’ trepidante, verso Alcibiade, fermandosi a distanza. Alcibiade si avanza verso lui e lo prende per mano) Scusa, sai, Cimoto, se dianzi ti ho chiamato onesto per burla! È sul serio (con forza), è sul serio che parlavo! Non vergognarti!... Su la fronte! Portala alta davanti a costui, perchè tu, nato, — senza tua colpa — dal fango, hai più coraggio di lui, che nacque eupatrìda, dal sangue di Cimone! Su la fronte! e resta con me, onesto Cimoto! poichè, per tutti gli Dei, se tu nol fossi, la infamia non avrebbe nomi per costui! (si conduce via Cimoto, mentre getta uno sguardo fulminante di sprezzo sopra Tessalo annichilito, e si allontana ripetendo a Cimoto) Su, su la fronte, onesto Cimoto!

CALA LA TELA.

[122]

QUADRO TERZO

Anno 415 avanti l’Era Volgare

ATENE

Casa d’Alcibiade. Sala da convito sfarzosamente arredata. Architettura e mobilio ricchissimi. Colonne e statue: soffitto e pareti a dipinti, portiere ad arazzi e tappeti di Persia a figure. Mobili incrostati d’oro e d’avorio. Ricche lucerne pendenti dalla vôlta. Letti coperti di porpora ed oro, già pel convito disposti.

SCENA PRIMA ALCIBIADE e GLICERA.

(Alcibiade in atteggiamento calmo — Glicera agitata, irritatissima)

Glic. Non fingere! non fingere! Risparmia almeno una nuova menzogna! È questa la tua fedeltà? Così giurasti d’amarmi?

Alcib. E il vero giurai. O non abbandonai per te la bellissima Teódota, la affascinante Gnaténa?[210] Non mi diedi io interamente a te con tutto l’abbandono di un’anima ardente? Quei dì passati insieme non trasvolarono sulle nostre teste sereni e lieti come giorni alcionidei?[211] T’avevo promesso — a [123] te d’ogni amore sdegnosa — insegnarti nel mondo una felicità sovrumana di cui avessero invidia gli Immortali... quella promessa, o Glicera... la trovasti bugiarda?

Glic. Oh! così mai non ti avessi dato ascolto! E quando cessai io d’amarti?

Alcib. Troppo, troppo mi amasti! Noi tracannammo troppo avidamente questa tazza che i Celesti ne porsero: soltanto una rugiada di cielo potea perennemente da capo ricolmarla: ma le fiamme della tua gelosia la disseccarono...

Glic. Non la mia gelosia, la mia dabbenaggine, devi dire. Per essa or son fatta oggetto di sprezzo e di scherno a colui che diceva di adorarmi... (piange).

Alcib. Scherno? Disprezzo? Oh Nemesi mi punisca se pur l’ombra di qualcosa di simile è in me! No, no! Allora ti disprezzerei ch’io cercassi fingere teco, per prolungare una illusione fugace di qualche giorno di più. Il nostro fu un sogno di due mesi, di un’ora, — ma splendido; ma degno di noi; lasciamolo là intatto, e andiamone superbi; non profaniamolo con una menzogna. Perchè, o Glicera, quando rientrata nella calma del tuo animo interrogherai te medesima — ti accorgerai che quel sogno esistette nella tua testa e non nel tuo cuore... (gesto vivo di Glicera, di cui Alcibiade finge non accorgersi, proseguendo) Tu credesti di [124] amarmi, o Glicera. Consolati. La tua fantasia, non il tuo cuore fu vinto. Il tuo amor proprio, non la passione in te parla!...

Glic. Oh, il perfido! per difender sè stesso accusa me di non averlo amato! Maledetto l’istante...

Alcib. (vivamente interrompendola) No, no, non mi difendo — e tu quell’istante non maledirlo! Perchè pochi, troppo pochi sono i momenti di gioja che sulla terra ne concessero i Numi: non imprecarlo quel sogno, se ci ha fatto vivere un giorno nella vita; ciò che non a tutti è dato. E poichè, restando uniti, quel giorno non lo ritroveremmo mai più, separiamoci a tempo, oggi, affinchè il ricordo di esso ci segua come una gioia tranquilla e serena; domani il ricordo potria convertirsi in incubo che ne contristi l’anima e i dì. Incerti del presente, nessuno è padron del futuro: tanto meno gli amanti: perciò sta scritto che gli spergiuri degli amanti sono i soli che gli Dei non puniscono.[212] Non rinunziamo ostinati, in traccia di una gioja che non ritorna a quelle che ne attendono ancora: hai provato le voluttà di [125] una febbre della mente e dei sensi: Glicera, ti restano ancora gioje ignote, che io non posso darti: cerca chi ti dia le gioje del cuore...

Glic. E così, Alcibiade mi lascia! e così Glicera la bella, la invidiata Glicera diverrà domani la favola delle sue compagne e di Atene!

Alcib. Alla buon’ora, per Ercole! L’amor proprio ora parla! La parola ti è sfuggita. Io ne aggiungerò un’altra. Tu eri corteggiata da Carmide, ricco e leggiadro: egli fece per te pazzie d’ogni sorta, e tu, che lo avresti amato s’ei ne avesse fatte un po’ meno, perciò lo respingesti. Ora Carmide s’è accorto dell’errore e si mostra gioviale e guarito: pure, giurerei che del tutto in fondo non l’è: e so che il tuo cuore, benchè occupato dalla gelosia a mio riguardo — il cuore di una fanciulla può abbracciar molte cose! — il tuo cuore è più sensibile alla sua finta indifferenza che non lo fosse alle sue smanie. Ieri l’altro tu gli scrivesti (Glicera fa un gesto vivissimo negativo: Alcibiade tranquillissimo trae un rotolo di sotto la tunica). Il tuo servo infedele credendo ingraziarmisi mi portò la lettera. Te la rendo (altro gesto, come di protesta, di Glicera. Alcibiade la tranquillizza). V’è il suggello ancora. Non la lessi...

Glic. (vivissimamente) Ma potevi leggerla! Ma dovevi leggerla perchè non vi è nulla di quel che credi... e... (esibisce la lettera)

Alcib. (calmissimo) No, no..., nulla io credo: e il ciel mi guardi dal leggere! Conosco Glicera. Oggi ciò (additando la lettera) non è nulla, lo so: ma domani potrebbe essere qualche cosa. Perciò questo, o non mai, è il momento opportuno per finir bene il nostro sogno, prima che il mare e le fortune della guerra ci separino. Oggi te ne duole e ci lasciamo amici. Domani potrebbe esser tardi per me...

Glic. E l’avresti meritato...

Alcib. Ah, per Giove! Tu ragioni! Quando si ragiona, il cuore è in calma, o comincia ad esserlo. Approfittane per dar retta ai consigli di un amico: poi che amico vero io ti sono, e vorrei lasciarti qualcosa che giovasse alla felicità [126] del tuo avvenire. Se quella lettera (additando la lettera che ha consegnato a Glicera e che questa ha in mano) è un passo verso Carmide... dà retta a me: non mandarla... (gesto negativo di Glicera. Alcibiade prosegue istessamente) lascia che io mi allontani, e che, non chiamato, venga egli da te...

Glic. (vivamente) Ma io non lo chiamo affatto!... ma io...

Alcib. (colla massima calma e dolcezza) Meglio! meglio!... ma dà retta a me: non mandarla! affretteresti le cose: e se brami conquista duratura, non precipitar nulla. Carmide è degno del tuo amore: è il giovine che potrà farti durevolmente felice: non abbi però premura di farglielo sapere. Verrà il giorno — e sarà giorno avventuroso — che tu cadrai: perchè anche tu, come dice Omero, non sei fatta nè di quercia, nè di rupe:[213] ma, anche allora — bada a me — calma, calma! Attenta a quel che fai!

Glic. (asciugandosi una lagrima) Così con te lo fossi stata!...

Alcib. (calmissimo) Ti giovi adunque l’esperienza! E amalo, sai, il tuo Carmide: amalo di un amor sincero e fervido: ma vedi di nascondergliene la metà. Tutt’al più, di tratto in tratto, lasciagliene balenare un raggio in tutta la sua vivezza, in tutto il suo ardore: ma che tosto scompaja: e sia quanto basta perchè egli si inebrii di quel che possiede, e indovini confusamente quanto più gli manca a possedere. E sia di te e de’ tuoi vezzi lo stesso che de’ tuoi baci. Lascia sempre un margine nella realtà, perchè la fantasia a sua posta vi lavori. Non occorre che egli sappia tutti i segreti della tua bellezza, nè ch’ei viva sicuro di tutti i tuoi pensieri. Sii economa! sii economa! sempre gli resti da sperar qualche cosa, sempre qualche cosa a temere; perchè timore e speranza sono le [127] due ali d’Amore.[214] Perfino i tuoi baci, — sono dolci i tuoi baci, o Glicera! — ma perciò appunto sian rari; e sempre chiesti; perchè il dolce soverchio sazia presto; e le cose che si hanno senza chiedere, perdono presto di valore.

Glic. Pur troppo lo vedo!

Alcib. (ripetendo la frase di prima colla stessa inflessione dolce, piana e calmissima) Ti giovi l’esperienza! E non essere sempre in pace con lui: una volta almeno la settimana cercagli querela e sta sul tuo: perchè il cuore dell’uomo ha bisogno dei contrasti, e il sole non par mai così bello, come quando ritorna dopo le nuvole della tempesta. — Poi non istargli troppo ai panni: Licurgo, che se ne intendeva, affinchè i mariti amasser le mogli, li obbligò a non trovarsi con esse che molto di rado, e molto alla sfuggita;[215] metti il tuo Carmide a mezzo regime di Licurgo. E sopratutto infine, se la gelosia ti affligge, guardati dal lasciarla apparire: essa è la scopa che spazza l’amore dal cuore dell’uomo: esso lo attira alle infedeltà più che il latte non attiri le mosche.

Glic. Per te ora parli...

Alcib. (sorridendo) Ti giovi l’es...

Glic. (vivissimamente interrompendolo e alzandosi) Basta!...

Alcib. (alzandosi a sua volta) E quando un giorno, mercè questi consigli, ti troverai contenta e felice dello amore del tuo Carmide, cresciuto alla prova degli anni, quel giorno ringrazierai Alcibiade di averti procacciato, tuo malgrado, quelle gioje serene e vere, invece del suo amore malfido e tempestoso; quel giorno, invece di piangere, ringrazierai la fortuna di averlo conosciuto — e riconoscerai che Alcibiade... [128] (fa una breve pausa, le si accosta e le dice all’orecchio con volto sorridente e voce lenta e pianissima, appoggiando sulle parole) fu miglior maestro di Aspasia.

Glic. (asciugando un’ultima lagrima, e traendo un sospiro; poi, riscotendosi risoluta in atto di avviarsi) Addio! (voci dall’interno di convitati che arrivano)

Ant. ed altri (dall’interno) Alcibiade! Dov’è Alcibiade?

Alcib. Vengono i convitati. Leggiadra Glicera, vuoi restare con me, e, come due buoni amici che si lasciano, suggellar meco la pace fra i calici?

Glic. (vivamente) Io?... Oh Alcibiade! tu sei maestro erudito, e dopo aver distribuito la sapienza, ti svaghi subito col bicchiere; ma io sono una povera scolara (con accento ironico pronunciato) e ho bisogno di raccogliermi, per meditare sui profondi insegnamenti! Vedo le ghirlande pronte: ma se sono una vittima, non è almeno in tua casa che mi lascerò incoronare di fiori!... Addio!...

Alcib. Parti? ove vai?

Glic. Ove Amore sia meno erudito, meno esperto; s’intenda un po’ meno di proverbj sapienti, e più si inebrj di ignoranze divine; meno precetti di Licurgo abbia in mente, e in cuore più virtù; dove Amore sia meno ambizioso di far invidia ne’ sogni agli Dei, e sia nelle veglie più umano; meno prodigo di consigli e più leale... (gesto di Alcibiade che vorrebbe rispondere: Glicera rincalzando non glie ne dà il tempo) meno poeta e più generoso!... (Alcibiade rimane tra interdetto e confuso, mentre Glicera esce).

SCENA II. ALCIBIADE solo; poi subito ANTIOCO, TRASILLO, altri convitati, indi CIMOTO.

Alcib. (solo, appena uscita Glicera) Povera fanciulla! Perchè urtar nella ruota del destin di Alcibiade? Meritavi di meglio!... (va incontro ai convitati che entrano)

Ant. (entrando, ad Alcibiade) Fummo puntuali?

[129]

Alcib. Grazie; grazie, amici. Mi è caro rivedervi e celebrare con voi l’ultima orgia in Atene. Fra dodici giorni, ai 9 di Munichione entrante,[216] si salpa per la Sicilia. Il tempo [130] necessario per la rassegna delle milizie e per gli ultimi preparativi della flotta. Perciò — da domani — vita nuova. Il buontempone bisogna lasci il posto al capitano. N’è vero, Antioco, mio compagno d’armi?

Ant. Certamente.

Alcib. Sia dunque viva e romorosa di queste ore la gioja — e che Venere e Lièo le rallegrino de’ loro sorrisi, come se fosser l’ultime del viver nostro. Perchè posa il futuro sulle [131] ginocchia dei Numi:[217] e non sappiamo se e quando ci sarà dato celebrare un’orgia simile al nostro ritorno... Ma Socrate non è con voi?

Tras. Lo incontrammo nel Pecile,[218] mentre avviavasi a casa... E lo chiamammo che a noi s’accompagnasse... Non volle...

Alcib. (serio, e un po’ triste) Socrate disapprova l’impresa... Prevedevo che non sarebbe venuto. E me ne duole...

Cim. (entrando) Vengo io per Socrate![219]

[132]

Ant. Oh! Cimoto il parassita! Chi t’ha invitato?

Cim. (con sussiego) Dice il poeta: Vien da sè Menelao.

Ant. Ma non piacque ad Agamennone.[220]

Cim. Piaccio a mia moglie — e basta. N’è vero, Alcibiade, che Socrate ed io... è lo stesso?

Alcib. Sii il ben venuto, Cimoto, benchè non sia precisamente lo stesso...

Cim. Oh, ma tra noi filosofi ci facciam procura.

Alcib. Tu filosofo?

Cim. Certo. E ho sciolto un gran problema: il problema della vita.

Alcib. (sorridendo) Ah, intendo!

Cim. I miei complimenti, Alcibiade! Il fumo della tua [133] cucina[221] lo si vede da porta Dipila[222] e m’ha fatto correre qui: già il fumo cerca i più belli.[223] Alla distanza poi di mezzo stadio manda una fragranza di anguille di Copaide, di raie arrostite e di beccaccie e di uccelli del Fasi[224] (annasando fortemente) che è una consolazione. C’è da far risuscitare tutti i morti gloriosi che dormono al Cerámico...[225]

[134]

Ant. (ridendo) Dove tu non dormirai...

Cim. Vi rinunzio!... Uh! uh! che fragranza! (gira intorno per la stanza annasando)

SCENA III. Detti, BACCHIDE, LAISCA, EUFROSINE.

Bacch. (dall’interno con voce gaja, festosa)

«Viva Bacco, dei cori festanti

«E dei balli e dei carmi l’autor!»

Ant. Oh, l’allegra Bacchide!

Bacch. (proseguendo dall’interno e avvicinandosi)

«Qua le tazze! di Bacco si canti,

«Il compagno di Venere e Amor!»[226]

Salve Alcibiade! (entra)

Alcib. (movendole incontro) E che Venere e Bacco dunque ti guardino! Sempre allegra la nostra Bacchide!

Bacch. Dovrei piangere? per far rider le Parche?

(Gli altri convitati circondano Bacchide, e s’intrattengono a discorrer vivamente con lei, mentre entrano Laisca ed Eufrosine; a cui Alcibiade va incontro)

Alcib. Gentile Laisca, bionda Eufrosine, e a voi pure Venere arrida, poi che consentiste ad onorare quest’ultimo simposio d’Alcibiade...

Laisca. I tuoi simposj sono una festa per noi. Atene sarà morta senza di te.

Alcib. (galante) Oh, no... finchè le Grazie vi abbiano dimora. (accennando a lei e alle compagne)

[135]

Eufr. Temevamo esser venute in ritardo.

Alcib. Ed io temevo che l’amabile Eufrosine non venisse...

Eufr. Oh, Eufrosine non serba rancori!... Ho sentito di Glicera... l’hai già abbandonata anche lei?!

Alcib. (E perciò non mi serba rancore. Carità femminina!)

Eufr. (insistente) Confessalo!... l’hai già abbandonata?...

Alcib. Sì. Ci siamo amati troppo e troppo in fretta. Al contrario di noi mortali, l’Amore — che è un Dio — per rinforzarsi ha bisogno del digiuno. Un altro sogno che se n’è andato! La mia anima sorella non l’ho trovata ancora!...

Eufr. E vuoi durare un pezzo a trovarla, mariuolo!... Povera Glicera! glie l’avevo predetto!...

Alcib. (vivamente) Oh, ma le fui fedele tutto un mese!...

Eufr. Molto infatti!

Alcib. Eh! il giorno che gli Dei han voluto dare la fedeltà al cuor d’Alcibiade, glie l’hanno data così! (si stringono la mano)

Bacch. Oh, sai, Alcibiade!... A momenti verrà Timandra.

Alcib. (vivamente) Verrà? verrà?

Bacch. Me lo ha promesso. Su le prime, quando le ho fatto l’invito a tuo nome, non voleva accettare.

Alcib. Perchè?

Bacch. Perchè la ti conosce appena, non ti ha parlato che una volta o due in casa mia, e assai di rado ella accetta inviti. Non è una etéra come le altre Timandra! Ha un cuor d’oro, ma le abitudini aristocratiche. Quelle volte che vado io da lei, o vien ella da me, formiamo il pajo più bizzarro a immaginarsi. Io allegra e vispa come un cardellino sul ramo; lei pensierosa che pare mediti le dottrine di Eràclito il tenebroso;[227] io alla buona con tutti, lei contegnosa come una regina. Poi, un carattere!... di que’ caratteri [136] risoluti con cui non si scherza! Mah, che cuore! Per questo la si fa voler bene... Oh, ma sai che sul tuo conto le debbono aver dato informazioni non troppo buone?

Alcib. (scherzoso) Davvero? possibile?

Bacch. (maliziosa) E ci sono anche persone le quali pretendono che non le sieno tutte calunnie...

Alcib. (sempre scherzoso) Calunnie! Calunnie!

Bacch. Fra le quali c’è anche una certa piccola Bacchide...

Alcib. (c. s.) Tu?!... ma come dunque...?...

Bacch. Ma la piccola Bacchide è buona, e senza che tu lo meriti troppo, ti ha difeso; e gliene ha dette tante e poi tante in favor tuo, che, se questa volta non l’ha fatta innamorare, giuro alla regina Venere[228] che non è sua colpa... Basta! a furia di dirne la ho indotta finalmente a venire...

Alcib. (complimentoso a Bacchide) Venere forma oratori più facondi di Nestore di Pilo...[229]

Bacch. Oh, parmi aver udito la sua voce... (guardando verso l’interno della scena, poi correndo incontro a Timand.) È lei!!! è lei! Vieni, vieni, Timandra!

SCENA IV. Detti, e TIMANDRA.[230]

Eufr. e convitati. Viva Timandra!

Bacch. (a Timand. presentandole Alcib.) Ti presento quel buon soggetto del quale abbiamo discorso.

Timand. (cortese ad Alcib.) Alcibiade, tu hai degli avvocati molto eloquenti...

[137]

Alcib. E verso i quali (accennando Bacchide) non potrò mai sdebitarmi quanto basti, poi che a tanta eloquenza debbo la fortuna di veder l’inclita Timandra entro le soglie dei penati miei... Alcibiade segnerà questo giorno tra i felici, e fra tutti i presagi terrà questo il più fausto alle sue armi...

Timand. Il tuo valore, Alcibiade, e l’amor della gloria, che solo crea le forti imprese, ti saranno il miglior de’ presagi. Quando parti?

Alcib. Fra dodici dì, col primo soffiar delle Etesie.[231]

Bacch. Così presto?

Alcib. (ai servi) Su, su, ragazzi, servite le mense! (i servi portano le mense innanzi ai letti, una per ciascun letto, e sciolgono quindi le calzature ai convitati che sovra i letti si adagiano — circolano le vivande — Alcibiade con Timandra, seco discorrendo, va a prender posto ad uno dei letti, il primo a destra[232])

[138]

Bacch. (dal suo letto ad alta voce) Per le due Dee![233] tu fai male, Alcibiade, a lasciarci! Che mai ti venne in mente di andar in Sicilia, ad una guerra così lontana?!...

[139]

Timand. Sarà sempre men trista delle guerre che insanguinan la Grecia. Tutti di un solo sangue, in Olimpia e a Delfo spargiamo di un solo vaso d’acqua lustrale gli altari; intanto a Delfo si ostentano i trofei de’ Greci che si scannan fra loro:[234] e i nomi delle stragi fraterne vi sono scritti col sangue di un milione di Greci: e il Dio siede in mezzo ai nostri furori. (con voce mestissima)[235]

Alcib. Lode ai Numi, s’io dunque, veleggiando per la Sicilia, recherò i voti della bella Timandra con me...

[140]

Cim. (ad uno dei servi che portano intorno le vivande) Ehi là, amico!

Servo. Che c’è?

Cim. Questa è la parte di Prometeo![236] (mostrando il contenuto del suo piatto) Tutti ossi m’hai dato!...

Servo. Ma è migliore la carne vicina all’osso...[237]

Cim. Sarà benissimo; ma pesa troppo. Già che è la migliore, mangiala tu per me. Guarda, io son discreto: m’accontento di questa... (gli invola rapidamente dal piatto un grosso pezzo di carne, rimettendovi gli ossi).

Servo. Che fai? Dà qua subito, furfante... quella è la parte mia...

Cim. No, no, per Mercurio! non far complimenti... Tienla per te, quella lì è la migliore... Mangiala, mangiala per amor mio! (si tira il piatto dinanzi e manda via il servo, che parte minacciandolo coi gesti)

Eufr. (dal suo posto chiamando) Alcibiade!

[141]

Alcib. (dal suo letto, interrompendo il discorrere con Timandra) Eufrosine!

Eufr. Per le Grazie te ne prego,[238] fa tacere questo nojoso di Trasillo! (additando il convitato che gli giace accanto) Egli mi parla sospirando come un mantice da fucina e mi minaccia della vendetta di Venere,[239] perchè non do ascolto a’ suoi sospiri. Se di sospiri potesse vivere una fanciulla, e s’ei tenessero posto delle miniere del Laurio... costui m’avrebbe fatto la più ricca di quante etére sono in Atene.[240]

Alcib. (scherzevole) Trasillo! Trasillo! tu pigli una via troppo lunga per riuscire con la vaga Eufrosine!

Eufr. E non sa promettermi che serti di fiori come se anticipasse gli onori al sepolcro di un morto.[241] Ma digli un po’ se si ricorda di aver giurato regalarmi[242] per le feste degli Alòi[243] un bel monile d’oro, e una veste cimbérica collo strascico e una tunica color di croco?[244]

[142]

Alcib. Il fulgor de’ tuoi occhi e il troppo amore, vezzosa Venere bisbigliante,[245] fan perder la memoria...

Eufr. Meglio adunque che mi amasse un po’ meno!... Ma anche de’ giuramenti è lecito dimenticarsi?... Vedi!? a ciò non risponde...

Cim. Risponderò io per lui, col tragico Euripide: «Giurò la lingua... non la mente giurò.»[246]

[143]

Eufr. Ti pigli il malanno... te... ed Euripide!

Bacch. Chi, chi, ha osato nominar Euripide?

Eufr. Cimoto!

Cim. E che male c’è? Povero Euripide! Gli voglio bene io! Gran poeta! Gran concetti!

Uom ricco, il qual non tenga in compagnia

A mangiar gratis tre persone almeno,

In eterno perisca, e mai non sia

Che ricompaja della patria in seno![247]

Che versi! che potenza! che versi! (parla mangiando avidamente)

Bacch. Pregherò (a Cim.) i corvi che ti mangino,[248] se nomini ancora quel perfido diffamator delle donne![249]

Cim. Uh! uh! che collera! lo tratti ben male!

Bacch. Ma sì, per le Tesmòfore![250] difendilo anche se hai coraggio!

Cim. Che cosa ha scritto poi, in fin dei conti, delle donne?! [144] Che sono bugiarde, adultere, lascive, traditrici, pettegole, in cui non c’è nulla di sano, grande sventura per gli uomini, maestre di iniquità, vipere, peste delle case...[251] Che Giove mi fulmini se in tutte le sue tragedie ha detto una sola parola di più!

Bacch. E ch’io non offra mai più colombe ad Afrodite, se non ti cavo gli occhi, brutto muso!... (alzandosi minacciosa contro Cimoto che fa atto di scappare)

Alcib. (trattenendola) Pace, pace! bellissima Bacchide! E tu, Cimoto, non seguir più oltre, che hai torto. Euripide sulle donne ne ha dette dell’altre. Fu lui ad insegnare agli uomini il segreto per renderle fedeli:... non uscire il giorno di casa, senza averle chiuse sotto chiave; far cambiare di spesso le serrature agli usci, e tener cani molossi di guardia per la notte...[252]

Bacch. Quel figlio di un’erbivendola![253] Abbasso Euripide!

Laisca. Sì, sì, abbasso Euripide!

Eufr. E le Euménidi furenti se lo portin via...

Alcib. No, no... lasciam le Euménidi: poichè elle non amano il vino;[254] e non si parli altro di Euripide, infelicissimo già tra i poeti: poichè essere in odio alle Grazie è ben peggio che aver le Furie nemiche. Pure, non toccherebbe alle Cariti pigliarsela coi figli delle Muse...

[145]

Bacch. Già!... per l’aurea Venere![255] li rispetti molto tu i figli delle Muse!... tu che, l’anno scorso, hai fatto fischiare Aristofane...[256]

Eufr. E hai bastonato Taurea che guidava il coro nelle Nubi...[257]

Timand. (seria) Vero, Alcibiade?

Alcib. (vivamente) Oh, non fu odio all’artista! fu ira del veder posto Socrate in burla! Atene non sa chi sia Socrate; ma il pessimo, l’insolente Alcibiade non mai soffrirà che in sua presenza s’insulti colui che i Numi a ragion proclamarono il miglior dei mortali...[258]

Bacch. Ah, dunque Socrate ti preme più di noi...

[146]

Alcib. (sorridente, appoggiando sulla parola) Forse!...[259] Però Evio Bacco, guidatore dei cori notturni,[260] preservi in teatro i poeti da altre disgrazie, così come io qui giuro, per il giuramento grande degli Dei,[261] che Alcibiade d’ora innanzi non batterà più nessuno, fuorchè i nemici in guerra...

[147]

Bacch. No! per Aglauro![262] Ajutami a batter costui, che dice d’amarmi e fa gli occhietti ad Eufrosine... (additando il compagno che le sta al fianco e che le parla calorosamente)

Alcib. Tu scherzi, vezzosa Bacchide! unghie di donna non abbisognan di ajuti. Men terribili di esse le lancie di Ettore e del Pelìde. Ma io m’accontento della gloria degli eroi di Omero... (con esclamazione repentina di entusiasmo volgendosi a [148] Timandra) Oh Timandra! gli eroi d’Omero!...[263] Ettore furibondo che insegue Diomede e gli Achei... Quello, quello (con forza) è il mio sogno!... (recita con enfasi i versi di Omero, cercando ritornarseli a memoria)

«Ettór venia fra i primi, e gli occhi truci

«Mettean lampi e paura. E come veltro

«Terribile, se insegua velocissimo

«Lion fuggente od ispido cignale,

«A tergo il morde, e ogni sua mossa spia,

«Or le cluni addentando, ora la coscia:

«Così innanzi si caccia Ettore i capo —

«Chiomati Achei, sugli ultimi piombando...[264]

e... e... (s’arresta sospeso, come frugando nella memoria)

Timand. (vivissima) Prosegui!

Alcib. Maledizione! non mi ricordo più... (impazientandosi si volge agli astanti) Chi ha un Omero? chi mi dà un Omero...

Ant. I grammatici che han scuola qui rimpetto lo avranno...

Alcib. Chiamali!

Ant. Oh, eccoli là sulla porta!... Ehi là! Grillione! (chiamando verso l’ingresso) Vengono correndo! (intanto Alcibiade passeggia vivamente su e giù per la sala masticando parole, — gli altri seguitano a discorrere)

[149]

SCENA V. Detti, e due GRAMMATICI.

1.º Gramm. Salve, figlio di Clinia!

Alcib. (secco, impaziente) Hai un Omero? Dallo qua...

1.º Gramm. Oh mi rincresce, Alcibiade, non ne ho.[265]

Alcib. (battendolo) Non hai Omero, e fai il maestro?

1.º Gramm. (dibattendosi) Ahi! ahi!

2.º Gramm. Io l’ho! io l’ho![266] (interponendosi) Calmati, Alcibiade!... Eccolo... (gli dà un rotolo)

[150]

Alcib. Ah! (calmandosi lascia andare il primo maestro che si tasta indolenzito la persona; strappa bruscamente di mano al secondo il rotolo, lo spiega, lo sfoglia e a un tratto s’arresta) Che cosa sono queste cancellature e queste note in margine?...

2.º Gramm. (sporgendo dietro di lui il capo e gettando l’occhio sulle carte con aria di sussiego e compiacenza) Ah! sono passi di Omero che ho corretto e migliorato. Là in margine vedrai le note per dimostrare i miglioramenti fatti... Già, quel buon Omero qualche volta è un po’ barbaro...

Alcib. (guardandolo fra sorpreso e sardonico) Ah!

2.º Gramm. Per esempio, quel passo dove Ettore si distacca da Andrómaca alle porte Scee, e dopo aver baciato il pargoletto Astianatte, lo restituisce alla sposa:

Ciò detto, pose in braccio alla diletta

Consorte il bimbo; ella il raccolse al seno,

E lagrimosamente sorridea.[267]

Ma ti pare! È un controsenso! O piangere o ridere! Per essere più sicuro, io non l’ho fatta nè ridere nè piangere: e ho tagliato il passo. «Ciò detto, andò via.» Eh? (con aria di soddisfazione prosuntuosa)

Alcib. E lo reciterai così corretto nelle feste Panatenee?[268]

[151]

2.º Gramm. Sicuro.

Alcib. (velatamente ironico) E Atene non ti ha ancor dato, a te che correggi Omero, nessun ramo d’ulivo,[269] nessuna ricompensa?

2.º Gramm. Finora nessuna...

Alcib. È la sorte del genio! E ridi? (sospirando e guardando con aria benevola il maestro, che ingannato sulla intenzione di lui, sorride di compiacenza) Allora... piglia questa! sfacciato! (Gli assesta un pajo di pugni)

2.º Gramm. Ajuto! ohimè!

Convitati. (ridendo) Ah! ah!

Ant. Che fai, Alcibiade? (trattenendolo)

Alcib. Vendico Omero! (i due maestri spaventati sono scappati via) — e mostro a costui che si può ridere e piangere insieme.

Timand. (alzandosi e accostandosi calma e seria ad Alcibiade) Alcibiade?! [152] (Alcibiade la guarda con aria interrogativa) Tu hai fatto scrivere sulla colonna che gli Spartani violano i giuramenti...[270] Ma gli eroi d’Omero li rispettavano! La tua azione è da spergiuro.

Alcib. (risentito) Timandra!

Timand. Gli eroi d’Omero non inveivano contro i deboli. La tua azione non è da uomo prode... (esclamazione di risentimento di Alcibiade; ma la fermezza severa di Timandra lo domina: Timandra gli si accosta e gli parla a voce più bassa e risoluta) Per gli Dei! Ritorna Alcibiade! (fa cenno ella stessa ad un servo, senza attendere la risposta di Alcibiade) Richiama quei due! (al servo)... Non abbiate paura!... (ai due maestri che rientrano paurosi, spingendosi innanzi a vicenda e cercando appiattarsi l’un dietro l’altro) Alcibiade vuol dirvi qualcosa (guarda fisso Alcibiade, che l’ha lasciata fare, restando silenzioso e immobile)

Alcib. (riscotendosi) Infatti! Passate dal mio maggiordomo.[271] Vi darà duecento dramme a testa...

Cim. (interloquendo comicamente serio...) Per farvi raggiustar le ossa...

Alcib. (con un’occhiata minacciosa lo fa tacere...) Perchè vi comperiate un Omero per ciascuno...

I due Gramm. (vivissimamente) Oh grazie...

Alcib. (imperiosissimo interrompendoli) Silenzio!... (i maestri s’avviano ad uscire, Alcibiade li richiama della voce) Ehi! (i maestri tornano indietro: Alcibiade soggiunge con voce imperiosa, rivolto al correttor di Omero, che precede il suo compagno) Senza note!

2.º Gramm. (si inchina vivamente, e gesticola in segno di promessa e d’obbedienza: poi nell’andarsene dà sulla voce all’altro maestro che è già per uscir dalla porta, facendogli la girata del comando di Alcibiade) Ehi! (l’altro maestro si volge alla chiamata) Senza note! (esce col compagno)

[153]

SCENA VI. Detti, meno i GRAMMATICI.

Alcib. (si volge a Timandra e le stringe cordialmente la mano) Grazie, Timandra!... (fra sè) (Strana donna! È curioso! Mi par di subire un fascino che non ho subito mai!...) (Odesi in questo punto uno squillo di tromba dallo interno della scena)

Ant. Alcibiade! la tromba! a momenti è l’ora della rassegna delle milizie[272] nel Liceo![273]

Alcib. Or su dunque, l’ultimo calice! poichè stiam per separarci e laggiù forse ne aspetta la Parca di lunghi sonni apportatrice.[274] Si colmino le tazze, e giri nel calice dell’amicizia[275] [154] il vino puro,[276] la ricompensa che il buon Genio ne dà...[277]

[155]

Ant. Che il marino Nettuno[278] propizii alle triremi dia i venti ed i flutti...

Bacch. E ricco di spoglie e di allori ti riconduca al Pireo! (Un dei servi reca un cratere d’oro da cui versa per una canna d’argento il vin puro. Entran due giovinette suonatrici di flauto e di cetra inghirlandate. Intanto altri servi portano via le tavole, recano ai convitati le corone di rose e di mirto,[279] dan l’acqua [156] alle mani, spargon di fiori e di unguenti il suolo. Portano quindi in mezzo la seconda mensa su cui vien posto il cratere del vino)[280]

Alcib. Al buon Genio![281] (Alcibiade fa questa libazione, dopo aver [157] versato una parte del licore a terra; bevuto, passa il calice a Timandra, e via di seguito in giro)

Cim. (quando il calice è giunto a lui) Al ritorno di Alcibiade! Che Giove salvatore[282] lo protegga e gli dia gli anni della fenice,[283] per amor di Cimoto il parassita, il quale al suo ritorno vuol bere ancora un po’ di questo vino di Chio![284]

Alcib. (d’un tratto volgendosi all’udir Cimoto) Cimoto! in Sicilia ve n’è del migliore...

Cim. (sospirando) Lo so.

Alcib. E dicono che le torte di Sicilia, inventate da Gelone,[285] sono squisite...

Cim. (mandando di nuovo un sospirone) Infatti, me l’hanno detto... E... (s’arresta, come chi vorrebbe domandar peritante qualche cosa)

Alcib. Che cosa?

Cim. E... a che distanza tirano gli archi dei Siracusani?

Alcib. A uno stadio.[286]

[158]

Cim. Per cui... (con gesto e volto maliziosamente interrogativo)... a uno stadio e mezzo... (Alcibiade lo guarda sorridente)... due al più...?

Alcib. Fa conto! (Cimoto si allontana correndo per uscire)

Bacch. Oh, Cimoto! dove corri?

Cim. Al Liceo, alla rassegna delle milizie.

Bacch. Tu? e quando ci vediamo?

Cim. (con gravità comica) Quando?... quando avremo conquistata la Sicilia!... (esce con passo e portamento comicamente marziale)

SCENA VII. Detti, meno CIMOTO.

Alcib. (sorridente) Ecco un eroe!

Eufr. Ora Alcibiade, devi compiere il rito. Su, su, la canzone del convito![287]

[159]

Bacch. La canzone di Bacco! la canzon delle etére!

Timand. No! quella di Armodio! la canzon degli eroi!

Alcib. A me il ramo di mirto![288] (tiene il ramo di mirto nell’una mano, mentre declama l’Armodio)

Portar voglio il brando di mirto abbellito

Siccome già Armodio quel giorno il portò,

Ch’ei spense il tiranno, di Palla nel rito,

E libera Atene dal giogo tornò!

No, Armodio, tu morto non sei! Diomede

Ti accolse ed Achille dal celere piè:

Con lor dei beati nell’Isole hai sede,

E sempre la terra favella di te![289]

[160] (nel proferir l’ultimo verso, Alcibiade, come improvvisamente rattristato, si interrompe, getta via il ramo di mirto, e si volge melanconico a Timandra) Timandra, non ti pare che la terra abbia già favellato abbastanza di Armodio? Questo Armodio mi annoja...

Timand. A te, figlio di Clinia, il farle cambiare argomento. La Sicilia ti aspetta...

[161]

Alcib. Oh Timandra! per compir quanto basti a vivere eterno ne’ carmi, a me manca ciò che Armodio avea... (sospirando) Fortunato Armodio!... Più fortunato che eroe!

Timand. Perchè?

Alcib. Perchè ebbe una donna che lo amò tanto da sacrificarsi per lui.[290] Oh! quando si può essere amati così, non costa nulla l’essere grandi!

[162]

Timand. E amato non lo sei... tu?

Alcib. (serio) No.

Timand. Vuol dire che non hai amato mai.

Alcib. Timandra!... ti hanno parlato ben male di me.

Timand. Oh, me l’hanno detto, che, mentre amasti Teódota, in prova d’amore, vincesti per lei tre corone — poi la abbandonasti: era vanagloria, non amore; che mentre amasti Glicera, ed ella fu inferma, tu vegliasti un mese al suo letto — poi l’abbandonasti; era rimorso di coscienza, non amore...

Alcib. E che cosa è egli dunque, per gli Dei?

Timand. Io... non lo so; ma tu vai in Sicilia, e là visse ad Iméra un poeta[291] che deve averlo saputo. Sempre, quando son mesta, una sua pagina antica mi ritorna nel core.

Amor non è raggio di vampa fallace

Che scherza e si muta coll’Iri nel ciel:

Amor non è il perfido fanciullo procace,

Sleal, se combatte, — se vince, crudel.

Magnanimo è Amore: non conta con boria

Le povere vittime ch’ei seppe tradir:

È forte, e disprezza la facil vittoria;

È altero, e per vincere, disdegna mentir.

[163]

Non calcola l’ore, nè i passi misura,

Non veglia agli agguati composto a virtù:

Non guarda, non medita, non ciarla, non giura,

Va innanzi alla cieca — non cerca di più.

Non narra le penne tarpate dell’ali...

Le trova e si libra nell’etere e va:

Non piange i sognati contesi ideali...

Ai sogni li strappa — viventi li fa.

E anela alla gloria, bellissima stella,

Ma pura, ma scevra d’ogn’empio baglior:

E cerca la fronda di quercia più bella

Per farne più sante le gioie del cor.

È audace, ed un nulla gli mette spavento:

È timido, timido, ma tutto sa osar:

Mai nulla domanda, di un nulla è contento:

Mai nulla promette — ma tutto sa dar.

(Timandra dice questi ultimi versi con espressione di voce lenta, affettuosa, guardando Alcibiade che è venuto avidamente seguendola)

Alcib. (avvicinatosi a Timandra le parla quasi all’orecchio, con espansione viva ed inflessione lenta, soavissima di voce) E questo è il Dio Amore che tu adori? dev’essere ben dolce l’adorarlo con te! — (Squillo di tromba)

Ant. Alcibiade, il secondo squillo!... Alla rassegna! alla rassegna!

Alcib. Maledizione! vengo...

Bacch. Alcibiade, io ho una piccola agnella tutta nera: vo’ sacrificarla alle due Dee, perchè l’anno prossimo celebriam teco il tuo ritorno e la tua vittoria...

Eufr. Ed io alla cipria Venere immolerò due candide colombe...

Alcib. (esitante a Timandra) E tu... Timandra...?

Timand. Io...? Io ti seguo...

Alcib. Dove?

Timand. In Sicilia.

Alcib. Tu!

Timand. Per veder co’ miei occhi se sai fare qualcosa di meglio che battere i deboli...

[164]

Alcib. (con voce di rimprovero affettuoso) Timandra!... per questo?...

Timand. E per recarmi ad Imera a depor teco una corona sulla tomba del mio poeta...

Alcib. (con iscoppio repentino di voce e di gioja interrompendola e stendendole le braccia) Oh! per i Numi! Timandra vieni! e non ti scostar più dal mio fianco!...

Ant. (a Tim.) Tu sarai il genio della vittoria!

Alcib. Che parli di vittoria?! Laggiù gli allori!... qui... non sono che un vinto!

(In proferir queste parole accoglie nelle braccia aperte Timandra, e la stringe amorosamente al seno.)

CALA LA TELA.

[165]

QUADRO QUARTO

Anno 415 av. l’Era Volgare

SICILIA

Campo di battaglia sulla spiaggia tra Catania e Siracusa — Parte appartata del Campo — In fondo il mare — Escursioni.

SCENA PRIMA. DUE SOLDATI SIRACUSANI, poi altri SOLDATI.

(all’alzarsi della tela entrano fuggendo da parti diverse)

1.º Sold. (correndo) Di qua! di qua! Viene Alcibiade!

2.º Sold. (c. s.) Fuggono tutti i nostri?[292]

1.º Sold. E alla dirotta. Tempesta Alcibiade nelle prime file. Dovunque irrompe fa strage. Niente resiste innanzi a lui. Numi! che folgore di guerra! Di qua! di qua! (fuggono entrambi)

Altri soldati siracusani (traversano sparsi la scena) Viene Alcibiade! fuggiamo! fuggiamo! (escono di scena fuggendo)

[166]

SCENA II. CIMOTO.

(Entra armato da soldato ateniese di fanteria leggera — τοξότης[293]trafelato, sudante per il correre e la pinguedine. Si siede sur un masso, rasciugandosi il sudore)

Cim. Auff! Gran brutto mestiere la guerra! Se non ci fosse [167] quel po’ di gloria attaccata, non varrebbe proprio la pena di farsi alunni di Marte. Non ne posso più. Da due ore non ho preso cibo! (cava da una bisaccia ad armacollo[294] una gallina cotta) e non mi resta che questo avanzo di stamattina! Uff! Che mestiere! (addenta la gallina, poi, tra una boccata e l’altra, ripete:) Se non ci fosse quel po’ di gloria! e questo po’ di vin di Siracusa! (cava dalla bisaccia una fiala e beve, facendo scoppiettar la lingua e assaporando)... Che caldo! (si ripassa la mano sulla fronte asciugandosi il sudore) Ecco finalmente come è fatto quello che chiamano il sudor nobile! per Minerva! mi par lo stesso di quell’altro!... (continua mangiando e parlando fra sè, tra un boccone e l’altro) Vediamo un po’, Cimoto; [168] tu hai lavorato per la fama, oggi; e puoi essere contento di te. Il padrone[295] ne ha compiute delle gesta, ma anche tu non hai scherzato! Già, i Numi non per niente appajano i simili co’ simili![296] Se mi vedesse la mia Filumena, che mi gridava sempre: «Va a fare il ramifero,[297] vecchio Cecropone,[298] buono a niente!» — Eh, sì! il ramifero adesso è diventato un guerriero! Ma!... chi avrebbe mai indovinato che qua dentro (si picchia la testa) ci fosse nascosto l’istinto della gloria! (addenta la gallina) E questa armatura che aria mi dà! (si alza, si osserva da capo a piedi con compiacenza, facendo due o tre passi e piantandosi in atteggiamento marziale) Non mi manca più che la corona di quercia del valore e la mia brava iscrizione sulle Erme...[299] ... Oh! ma l’avrò anche quella... oh! sì che l’avrò... (a questo punto è interrotto da un forte starnuto) Ecco la prova!... Questo starnuto di buon [169] augurio vuol dire che gli Dei me l’assicurano...[300] e... (sternutando di nuovo si ricopre coll’elmo il capo) che non bisogna stare scoperti quando si è sudati... E quando torneremo ad Atene, tutti mi guarderanno a bocca aperta. — «Mira Cimoto! Come? è quello il parassita Cimoto? che faccia abbronzita! che portamento marziale!» — E io dritto, serio, marcerò in capo di fila, facendo le finte di non sentir nulla! Eh, sì, sicuro! i miei cari Chiechenei![301] Il parassita Cimoto che sotto i portici e nell’agora[302] vi facea fuggire per la paura di vedervelo venir a pranzo, adesso, invece, — oh, per Ercole! mette in fuga le falangi di Siracusa... mette in fuga... (entrano altri soldati siracusani fuggendo e traversando la scena).

Soldati siracusani. Salva chi può!

(Cimoto lascia cadere a terra il resto di gallina e scappa precipitoso con loro.)

SCENA III. ALCIBIADE e CIMOTO.

(con Alcibiade entrano soldati ateniesi che traversano lo sfondo inseguendo i Siracusani)

Alcib. (entra dalla parte opposta a quella da cui fugge Cimoto coi Siracusani — e vedendolo fuggire gli dà sulla voce da lontano, mentre Cimoto è già per rientrar nelle quinte) Cimoto! Cimoto!

[170]

Cim. (si ferma di botto udendo la voce di Alcibiade e ritorna rassicurato verso di lui, mandando un sospiro di sollievo) Ah!... sei tu!

Alcib. Da un quarto d’ora ti cerco. Dove correvi così?

Cim. Per Giove fuggitivo![303] inseguivo i nemici! (corre intanto a raccattare furtivamente il resto di gallina da terra, e se lo ripone in bisaccia) Sai che il tuo valore è contagioso e m’ha messo in corpo un ardore... Guarda come fuggono quelle lepri!... Eh! (con gesto di minaccia verso la parte da cui fuggivano i Siracusani) Se tu non mi chiamavi...

Alcib. (secco e serio) Basta! basta! Lasciali fuggire!

Cim. Già, già... poichè lo vuoi... (minacciando ancora del gesto nella direzione dei fuggenti) Ma... l’han scappata bella!...

Alcib. I nostri han già messo il campo. Va ad avvertir Nicia e Lamaco che io qui li attendo. (Cimoto si avvia; Alcibiade lo richiama) Aspetta!... Avvicinati. (gli parla serio, grave, a mezza voce) L’equipaggio della mia nave è a terra?

Cim. Sì, almeno tutti i tranìti. Gli zigìti e i talamj sono a bordo ancora.[304]

Alcib. Dirai al piloto che subito imbarchi anche gli altri e porti la trireme al largo, pronta alla partenza. Poi mi mandi qui alla spiaggia uno schifo. (Cimoto fa segni di stupore) Nessuno [171] stupore. Di là ti reca alla mia tenda ad avvertir Timandra... e se vuoi seguirmi... preparati ad imbarcarti con lei e con me.

Cim. (sempre più attonito) Ma...

Alcib. (impazientito) Che cosa aspetti? Va.

Cim. Vado... (osservandolo nell’allontanarsi) Che sorta di enigma è mai questo? Dei! che faccia scura! (esce)

SCENA IV. ALCIBIADE solo, poi TIMANDRA.

Alcib. (con voce di amarezza profonda) La vittoria è mia... (si cava un rotolo di sotto la tunica) e questo è il compenso!... Dinanzi a me la Sicilia, l’Italia, Cartagine, la Grecia aperte alle mie armi e alla conquista, — dietro le mie spalle la calunnia, l’invidia codarda che mi strappano al mio sogno di gloria mentre sto per tradurlo in realtà. Combatto per rendere grande Atene... e Atene mi richiama!... Stolto! e io sognavo di essere più fortunato di Milziade, di Temistocle, di Aristide, di Cimone! Anch’essi portarono ad Atene trofei... ed Atene li ricambiò coll’esilio!... Ma essi almeno avean già condotto a termine grandi cose — la loro gloria era già assicurata — l’ostracismo non poteva che renderla più luminosa e più pura... (con gesto e voce di rabbia stringendo il pugno) Io... io non ho ancora fatto nulla per la fama!... È la gloria che mi si strappa! Che cosa è la patria per me senza la gloria!...[305] (stringe e spiegazza con moto convulso fra le mani il rotolo, poi legge, con accento lento, sarcastico, amarissimo) «Pitónico, Dióclide, Teucro ti accusarono di aver profanato i misteri,[306] mutilate le erme:[307] e di [172] aver segrete intelligenze con Isparta[308]. Fosti dannato nel capo e nei beni.[309] La nave Salaminia[310] è [173] spedita a richiamarti sotto mentito pretesto. Tessalo portator del messaggio. Provvedi a’ casi tuoi...» [174] (interrompendo la lettura) Onesto Tessalo! La tua mano non poteva mancare qui dentro! O gli Dei sono ingiusti che a [175] tuo padre, Cimone, disonorano con simile prole il sepolcro, — o tu, ombra di Cimone[311] perdonami, hai qualche colpa [176] ignorata da espiare colla ignavia di costui!... No, no, sono ingiusti i Numi!... (riprende a leggere, sedendo sur un masso) [177] «I sacerdoti ti hanno scagliato l’anatema...»[312] (interrompendosi di nuovo con sarcasmo) Mestiere di questa gente! [178] non sa far altro! «Ma Teano, la giovine sacerdotessa di Agraulo...»[313] (ancora interrompendosi mesto) Povera Teano!...

Timand. (è entrata da qualche tempo in iscena, non vista da Alcibiade; porta la corazza sopra la tunica femminile, e l’elmo in testa, disotto al quale le sfuggono i capelli ricadendo sciolti sulle spalle: ha osservato Alcibiade per alcuni istanti con aria tra il mesto e l’affettuoso, se gli è avvicinata, e standogli dietro si china su di lui seduto e gli cinge con un braccio il collo, mentre continua ella stessa con voce affettuosa e dolce la lettura)... la giovane sacerdotessa di Agraulo[314] ricusò, dicendo officio dell’altare benedire e non maledire!»

Alcib. Timandra![315]

Timand. (con voce lenta, dolcissima) Tu vedi, Alcibiade, che non tutti i sacerdoti bestemmiano i Numi!... Alcibiade, fu santa la risposta di costei: compenserebbe essa sola il bando d’Atene. M’avean detto in Atene che un dì tu l’amasti, la giovane Teano...

Alcib. Io?

Timand. Mi fu detto. Vi è male in questo?...

Alcib. Fu il sogno purissimo di un’ora, nel mattino de’ miei [179] dì. Tutta la sua storia fu... un bacio. Ci vedemmo, ci separammo. Io mossi ad Olimpia, ai grandi clamori della vita. Ella all’altare. Povero giglio! Non lo toccai. Era troppo puro per me.

Timand. (con accento di rimprovero) Sei cortese, Alcibiade!...

Alcib. O Timandra, perdona! Non il cuore ti offese. Ma tu sei forte, e la tua anima è ardente come il sole di Grecia. Queste febbri, che sono la mia vita e la tua, non erano per quel gracile fiore. (prendendole una mano, con voce affettuosa) Era un giglio; tu la rosa superba...

Timand. Adulatore...

Alcib. (con voce mesta e commossa) Povera Teano! Il giorno che partii, mi dissero ch’ella era inferma, e non potei salutarla. Dal suo letto di dolore si è ricordata di me. Oh, sì, Timandra, hai ragione! tutte le maledizioni sacerdotali non valgono questa unica voce d’amore! La voce d’una fanciulla pietosa... ecco tutto ciò che resta ad Alcibiade della sua aura popolare e dell’amore di Atene!

Timand. Alcibiade, questo scoraggiamento non è degno di te. Oggi mi hai fatto di te andar superba, quando ti vidi irrompere come leone nel folto della mischia!... Oh, eri bello, eri grande nella vittoria!... Siilo ora nella sventura!

Alcib. (cupo) Grande?... Chi sa!... Timandra, ascolta. Mi ami tu sempre?

Timand. Lo chiedi? (baciandolo in fronte)

Alcib. Ebbene, — là in Atene — te ne ricordi? — fosti tu che chiedesti di seguirmi. Oggi è Alcibiade che lo domanda a te. — Non ho vergogna di confessarlo: ma sento che con te affronterei più ardito il mio destino. Una sorda tempesta rugge qui dentro (porta la mano alla fronte): mille pensieri confusi vi combattono una triste battaglia. Pavento di me. Timandra, vuoi tu accompagnarmi ovunque io ne vada e dividere meco la sorte?

Timand. Alcibiade, per la prima volta, da che ci demmo promessa d’amore, hai per me dei misteri. Mi fai temere. Che pensiero è il tuo?

Alcib. Oh, non domande! per ora. Rispondi. Vuoi tu seguirmi?

[180]

Timand. Sì... e dovunque... in capo alla terra... tra le fiamme e tra le spade...[316]

Alcib. Grazie!

Timand. (terminando la frase e poggiando sulle parole)... fin che Alcibiade sia degno di Alcibiade.

Alcib. Più tardi, più tardi lo saprai.

Timand. No, no, per gli Dei Immortali, dimmi...

Alcib. (vivissimo) Dirti che cosa? Che l’ora del destino di Alcibiade è suonata e la man di un codardo non la arresterà. Sali sulla mia trireme. Cimoto ha i miei ordini. Fra breve ti raggiungerò. Va, va presto! Qui giungono i capi.

Timand. Addio. (si allontana pur volgendosi a guardarlo, e scrollando mestamente il capo) Oh, tristi presagi del core!

SCENA V. ALCIBIADE solo, poi subito LAMACO, ANTIOCO, EUFEMO, indi soldati ateniesi.

Alcib. (appena uscita Timandra, prorompe con voce tonante di collera) Ora della gloria mi fuggi? Venga dunque l’ora della vendetta! (al sopraggiunger di Lamaco e degli altri, immediatamente si padroneggia e va loro incontro colla massima calma)

Lam. (entrando precipitoso e impetuoso) Salve, valoroso Alcibiade! Nicia è alle navi.[317] Ebbene, che è questo? La nave Salaminia è ancorata nel porto.

Alcib. (calmo) Lo so.

[181]

Lam. E Tessalo ne è disceso...

Euf. Con un messaggio per te... del popolo...

Alcib. (sempre calmissimo) Che mi richiama. Lo so.

Lam. Oggi! il giorno stesso della vittoria?

Alcib. Appunto. E sai tu, prode Lamaco, di che sono accusato?

Lam. (concitatissimo) Ne corre una voce pel campo — ma non può essere vera...

Alcib. (c. s.) Anzi, è verissima. Sono accusato di profanazione de’ misteri e di intelligenze con Isparta.

Euf. e Ant. Che?!

Lam. (con impeto) Ma è un’infamia questa!

Alcib. (colla massima calma) Oh, buon Lamaco, sotto la vôlta del cielo vi può star questa... e delle altre! Tu sei un soldato leale e valoroso: io, più giovine, ho imparato da te come si combattono i nemici: ma io, forse, conosco gli uomini meglio di te. La tua anima generosa, che non sa cosa sia invidia, nè menzogna, usa a guardar di fronte i nemici, ignora che vi sono altri metodi di guerra, coi quali si va innanzi più presto e si vincono le battaglie più sicuramente che in campo... Impara, impara, Lamaco!... Non per niente, tu, il più vecchio, il più bravo... e il più ingenuo dei nostri capitani, sei rimasto l’ultimo in grado!

Lam. (impetuoso) Ma tu che conti di fare?

Alcib. Quel ch’è naturale. Ottemperare al richiamo.

Lam. Ma qui ci son io... qui siamo in molti a difenderti...

Euf. e Ant. Sì, sì, Alcibiade!

Lam. Ed io, per gli Dei, posso costringere l’inviato a rifar la sua strada!

Ant. Se tu parti, anch’io parto...

Alcib. No, no, amici, non fate nulla. Tu, Antioco, resta co’ tuoi. Tu, ottimo Lamaco, non far violenza all’inviato. Ti comprometteresti in faccia ad Atene. Se vittime ci hanno ad essere, basta una sola.

[182]

Sold. aten. (entrano correndo alla rinfusa)

1.º Sold. Alcibiade, non vogliamo che tu parta!

2.º Sold. Se tu parti, partiamo anche noi!

Lam. Li senti?

Alcib. (forte ai soldati) No, amici! In nome dell’affetto che ci lega, seguiamo tutti e ciascuno la via del dover nostro. Io provvederò alle mie difese. Voi restate alle vostre bandiere. I Numi, testimoni e campioni della mia innocenza,[318] veglieranno su me! Lasciate agli accusatori la responsabilità della loro opera — e pregate gli Dei che essa non pesi su Atene.

Voci dei sold. Viva Alcibiade!

Alcib. Ed ora — venga l’inviato.

Lam. (brusco e cupo) È qui.

SCENA VI. Detti e TESSALO.

Alcib. (movendogli incontro calmo e sorridente) Salve, Tessalo! Molte cose sono cambiate, sembra, dall’ultimo dì che ci vedemmo.

Tess. Molte infatti. Alcibiade, il popolo ateniese ti prega di venire a discolparti delle accuse contenute in questo foglio. (gli consegna un rotolo)

Alcib. (sempre sorridente e calmo) Mi prega?... Il popolo ateniese è molto cortese con me.[319]

[183]

Tess. Oh, esso spera, esso è certo che tu potrai discolparti...

Alcib. (con ironia sempre dissimulata) Ah! ed è per questa certezza che mi si obbliga ad abbandonar le schiere! Anche tu, n’è vero, Tessalo, ne sei certo? E la tua parola non avrà mancato di alzarsi in mia difesa..

Tess. (imbarazzato) Sì..., Alcibiade...

Alcib. Bene hai fatto, per Ercole! (con ironia coperta) Te ne compensino i Numi! Vedi qui che cosa mi consigliavano? Lamaco, un prode guerriero incanutito sui campi della Calcidica e del Peloponneso, dove tu, o Tessalo, non c’eri; Antioco, il leale ateniese altero della corona di quercia, guadagnata a Mantinea, dove, o Tessalo, non ti vidi; tutti costoro che oggi han rotto le coorti di Siracusa su questo campo dove, o Tessalo, giungesti un po’ tardi, — tutti costoro mi han consigliato a non partire e han messo le loro spade a mia disposizione!... Tu (con calma ironica) che mi consigli, o Tessalo?

Tess. (confuso, guardandosi intorno, spaventato dalle facce scure e minacciose dei capitani e soldati) Alcibiade...

Alcib. (vedendo la sua paura, lo tranquillizza con calma sardonica) No... no... rassicurati. Io li ho sconsigliati. A Nicia ed a Làmaco ho già ceduto il comando e i miei trierarchi[320] hanno [184] ordine di non obbedir più che a loro. Mi arrendo all’invito... e ti seguo... (s’arresta, sospendendo la frase)

Tess. (rifattosi d’animo) Nobile atto!...

Alcib. (completando la frase e poggiandovi sopra) ... sulla mia nave...

Tess. (sconcertato) Perchè non sulla Salaminia?

Alcib. Mi ci trovo meglio! È la mia nave il mio tribunal di Freatte![321] Tu non hai nulla in contrario, n’è vero, buon Tessalo? poichè tu non diffidi di me, tu sei certo che io mi discolperò... (con ironia dissimulata sempre) tu sai che non [185] per nulla, innanzi di bandir l’accusa, avrà imprecato l’araldo a quei che ingannano i giudici...[322] Va dunque tu innanzi colla Salaminia: ti verrò dappresso sulla nave mia. Mandai per uno schifo che mi rechi a bordo... Oh, eccolo già... (approda il palischermo) Addio, prode Làmaco! Antioco, Eufemo compagni d’arme, addio. (con voce profondamente commossa) Triste il lasciarci nel dì della vittoria! Ma lo vuole Atene... Che le sue Dee venerande[323] vi siano propizie... Addio... (Capi e soldati gli fan ressa intorno per istringergli la mano, con tacito dolore; imbarazzo e rabbia di Tessalo, per forza dissimulata in silenzio)

Lam. Non addio! A rivederci, prode Alcibiade!

Alcib. Chi sa?... Domandalo al Fato... e a costui. (Addita Tessalo: stringe la mano ad altri; poi si avvia allo schifo e vi si imbarca. Ritto poi, in atteggiamento fiero, sulla poppa del palischermo, si volge di nuovo agli astanti e chiama ad alta voce) Tessalo!

Tess. (facendo un passo verso lui) Alcibiade!

Alcib. Guarda l’orizzonte! Vola un’aquila a sinistra[324] e sta per sorgere in cielo il Toro.[325] (con voce tonante, terribile) Bada a te! Minaccia tempesta!... Ateniesi! (ai soldati) Alcibiade offerse la sua vita a voi e ad Atene, non agli indegni che tradiscono Atene e voi! Tessalo ha le parole di miele sulla [186] sua bocca, e il decreto di morte contro di me nella sua clamide.

Molti sold. Che?! (esclamazioni, moti di collera e di indignazione di Lamaco ed altri)

Alcib. (continuando colla stessa voce tonante, rivolto a Tessalo) Tessalo, il giorno che partimmo era il dì delle Adonie, ed erano infausti (beffardo) quel giorno gli augurj! Ricordalo agli Ateniesi; e di’ a coloro i quali mi vogliono morto, che Alcibiade — per gli Dei! — MOSTRERÀ LORO DI ESSERE VIVO![326] (parte sulla navicella)[327]

SCENA VII. Detti, meno ALCIBIADE.

Tess. (riscotendosi alle ultime parole di Alcibiade) Egli fugge e minaccia! In nome d’Atene, si insegua il ribelle! Si insegua per i Numi!

Lam. (brusco e risoluto, fermandolo per il petto) I Numi? han fatto anche troppo col darti questa toga che ti protegge. Prega Crateide,[328] non ti colga di peggio!... (a voce sorda, risolutissima, di minaccia) — e sta zitto! Se fai una parola o un passo di più... parola di Lamaco... la toga ti vuol servir poco. (Tessalo rimane immobile, spaventato dalle parole e dall’accento risoluto di Lamaco e dal contegno minaccioso dei soldati. Quadro)

CALA LA TELA.

[187]

QUADRO QUINTO

Anno 412 av. l’Era Volgare.
(1. dell’Olimpiade 92.ª — 19.º della guerra del Peloponneso)
Exagineto agrigentino vinse il premio ad Olimpia.

SPARTA

Abitazione di Alcibiade. Stanza semplicemente e poveramente arredata. Il soffitto a travi greggie: due porte rozzamente lavorate a sega, una d’uscita nello sfondo, ed una interna a destra.[329] In un angolo per terra un giaciglio o strame di foglie, di giunchi e di canne (στιβὰς).[330] In un altro angolo qualche anfora e qualche ciotola laconica da bere (κώθων).[331] Alla parete armi appese (aste, elmo e scudo). Qualche sedile e un tavolo con sopravi papiri, tavolette e stili per iscrivere.

SCENA PRIMA. CIMOTO, CINÈSIA spartano.

(Cimoto entra infuriato e incollerito parlando con Cinesia)

Cim. Non son Cimoto, s’io nol mando a pascer cornacchie[332] quel tristissimo mariuolo! più ladro di Euribate![333]

Cin. O come l’è stata?

[188]

Cim. Tornavo dalla provvista, lungo la via di Ercole, quando innanzi al Platanisto[334] mi imbatto in quel briccone di Gilippo tuo nipote. — «Buon dì, Cimoto! cos’hai lì dentro? — Un po’ di silfio,[335] di maza,[336] e una coscia di montone. — » [189] E il tristaccio guardava la bisaccia con certe occhiate lunghe, amorose, come adocchiasse i tonni.[337] Poi mi si mette a discorrere e m’accompagna per via; qui presso, mi saluta e se ne va. M’avea preso dalla bisaccia il montone... e messovi invece un sasso. Lo scellerato! il ladro!

Cin. Eh via! calma! dillo al Pedònomo,[338] e agli Efori,[339] che [190] ti faran rendere la roba o l’indennizzo, e lo castigheranno colle verghe all’altar di Diana Ortia...[340]

[191]

Cim. Lo castigheranno, dici? Mi renderan la roba? Proprio?...

Cin. Sicuro. Ma come ha fatto a levartela? Non era chiusa la bisaccia?

Cim. E a doppio giro di corda!

Cin. O in che maniera l’ha aperta?

Cim. È quello che non so...

Cin. (mostrando sorpresa) Ma dunque non l’hai visto sull’atto...?

Cim. To’ sentine un altra! Che sì, se lo vedevo, voleva star fresco!

[192]

Cin. (indifferente, stringendosi nelle spalle) Oh, allora è un altro affare.

Cim. (sorpreso) Come? un altro affare?

Cin. Certo. Non se ne fa più nulla.

Cim. E perchè non se ne fa più nulla?

Cin. Perchè tutto è in piena regola.

Cim. (con interrogazione comica di sorpresa) Eh...? cos’hai detto?...

Cin. Che tutto è in piena regola, (tranquillissimo come chi dice la cosa più naturale) T’ha rubato e non ti sei accorto. La roba è ben rubata. È una legge di Licurgo! E approvata dall’oracolo!...[341]

Cim. (dapprima sbalordito, poi si avvicina con serietà comica a Cinesia) Ah!... qui, da voi altri..., c’è la legge che assolve i ladri?

Cin. (coll’accento di chi dice cosa ovvia, naturalissima) Quando rubano bene. E li castiga colle verghe[342] e li obbliga a restituire, [193] se si lascian cogliere sul fatto. Così si abituano i giovani ad essere svelti...

[194]

Cim. (con accento comico) Capisco!... E dimmi: era un onest’uomo... pare... questo vostro... Licurgo?

Cin. Se era! Per i Dioscuri![343] Il fior degli onest’uomini. Tutte le leggi nostre più giuste, più savie, le ha fatte lui...

Cim. Oh Minerva Poliade!...[344] dove è mai venuto il mio padrone!

Cin. Via, via, non pensar altro a Gilippo; e dimmi: Alcibiade verrà presto oggi a casa?

Cim. (comicamente brusco) Non lo so, — concittadino di Licurgo!

Cin. Eppure ho bisogno di saperlo.... (contraffacendo la voce a Cimoto), concittadino di Solone! Io fui ospite in Atene d’Alcibiade quand’era nostro prosséno,[345] ed oggi ho bisogno [195] di lui che mi raccomandi agli Efori per certo affar mio. Dopo le ultime sue vittorie contro Atene, val più in Isparta una parola sua[346] che una parola dei re! Per Castore! è un gran brav’uomo il tuo padrone!

Cim. Bella novità! da noi non si ruba...[347]

Cin. Che in larga scala — lo so. E quelli che non rubano, come Alcibiade, si condannano e si caccian via. Ma questo non c’entra. Alcibiade ha rialzato la fortuna di Sparta — e Sparta lo acclama. Tutti gli vogliono bene: e le donne per via gli lasciano gli occhi dietro... Sóstrata, la bellissima moglie di Stimodóro, ieri raggiava d’orgoglio perchè Alcibiade passando aveva fatto un bacio al piccolo Leógora, il figliuolo suo e di Filurgo...

Cim. Come! come? quella bella giovane bionda è già maritata in seconde nozze...?

[196]

Cin. Oibò! Stimodόro vive ancora, e Filurgo non è suo marito.

Cim. O come è dunque?

Cin. È semplicissima. Nicodìce, la moglie di Filurgo, è sterile e vive divisa da lui: ora Filurgo, bramando aver prole, ed onorata, ricorse alla moglie di Stimodóro...

Cim. (con aria comica, mostrando aver capito) Ah!... e Stimodóro... senza saperlo... (ride con aria furbesca d’intelligenza e fa a Cinesia il segno delle corna)

Cin. (coll’accento più naturale e indifferente) Che! che! Ha domandato a Stimodóro il permesso.

Cim. (sorpreso e scandalizzato) Ma... dunque... è anche... contento! Tò! Io che credevo quello Stimodóro una persona così rispettabile...

Cin. Anzi rispettabilissima...

Cim. E cede la moglie a Filurgo...?

Cin. In prestito, perchè Filurgo non resti senza eredi onorati. Un servizio tra amici. Che male c’è in questo? È una legge di Licurgo.[348]

[197]

Cim. (dà uno sbalzo per lo stupore) Eh...? (fra sè) (E la mia Filumena voleva la portassi a Sparta!)

Cin. Ma sicuro! Eh, le donne non sono qui da noi quel che lassù, da voi altri, ad Atene. Licurgo, sì, ne ha fatto quello che la donna deve essere. Voi altre le adoperate per arredi della casa; noi ne facciamo delle madri di Spartani. Le vostre, rinchiuse da piccole,[349] vengono su marmottine, non [198] ad altro istrutte che a far di cucina, sorvegliar le guattere, lavorar di conocchia e di telaio: sicchè per iscambiare due parole di proposito, vi bisogna andar fra le cortigiane; e imprecate il rigor delle leggi che vi obbligano a dormir colla moglie almeno tre volte al mese![350] Intanto, la malizia del sesso, le vostre pudibonde verginelle la impiegano a fare in privato quel che non possono in pubblico: e mentre le castigate se appena si mostrino la rara volta per via non [199] vestite con tutta la decenza, nel fondo de’ ginecei le si danno a lascivie di ogni sorta, che solo Venere Pandemia[351] le sa. Le nostre, da giovinette, danzano nude, cantano nude in pubblico, in cospetto degli uomini:[352] e crescono più caste [200] e più virtuose delle vostre. Le van libere in giro, si mischiano cogli uomini, attendono ai loro stessi esercizii, alla corsa, alla lotta;[353] e lascian la conocchia alle serve e s’intendon di studj e di affari dello Stato.[354] Voi custodite ad Atene le mogli vostre con sigilli, chiavistelli, chiavi segrete di Laconia e cani molossi per far paura ai drudi:[355] ed elle si vendicano, giocando di furberia per tirarseli in casa:[356] e si ungono d’aglio perchè il marito non pigli sospetto [201] quando torna dalla guardia delle mura e regalan le carni alle mezzane nelle feste Apaturie,[357] dicendo che il gatto le ha portate via. Se poi la moglie è savia, e dolce e casta, e si porta da brava la casa sulle spalle come le lumache, e ama il marito, e non brama farsi veder che da lui, — allora il marito ringrazia gli Dei che gli han dato una moglie così virtuosa... e sbadigliando va da un’etéra a cacciar la noia del matrimonio. Qui i mariti, invece di annoiarsi, cercano al matrimonio le illusioni e la voluttà del primo amore: perchè Licurgo nostro ha provveduto che la luna di miele non la consumin da ingordi: e colle spose non ponno ritrovarsi che di nascosto, e di sotterfugio, e soltanto allo scuro.[358] Ma dei figli delle donne vostre, per un che [202] si chiama Alcibiade, cento si chiamano Clistene, il damerino:[359] i figli delle nostre... (con accento di orgoglio e gravità) si chiamano tutti — Leonida!

Cim. Leonida? già! già! (fa colle dita il gesto mimico di chi ruba) Hai finito? E con questa parlantina sei di Laconia tu — e stai a Sparta?

Cin. Sono di Sparta — ma fui un pezzo ad Atene. E Alcibiade ancora non giunge...

Cim. Sai quel ch’hai a fare? là ci son le tavolette.[360] Lasciagli scritto quel che vuoi — e torna più tardi...

Cin. Grazie, Cimoto! Perchè infatti il tempo corre ed oggi ho a far sacrificio[361] (mostrando una focaccia che ha portato con sè) e ho ancora questa focaccia[362] a portar via.

[203]

Cim. Bene dunque: va là — e scrivi.

Cin. (depone la focaccia: va ad un tavolo ove son tavolette da scrivere, ne prende una, e postasela sulle ginocchia, vi scrive collo stilo, voltando le spalle a Cimoto)

Cim. (appressandosi alla focaccia — fra sè) Che bella focaccia!... (la guarda con aria golosa; poi data un’occhiata a Cinesia che scrive, non visto da lui, ne addenta e mangia un pezzo, e mostra alle smorfie di trovarla assai di suo gusto; poi, ad un tratto, come venutagli un’idea, prende rapidamente la focaccia, e va in punta di piedi a nasconderla. — Cinesia, finito di scrivere, si alza)

Cin. A te mi raccomando — che appena giunge la legga. (gli dà la tavoletta)

Cim. Fidati a me... E adesso tu vai a far sacrificio?

Cin. Sì. Dalla leggiadra Làmpito, la moglie del vecchio Smicinzione. Che cara donna!

Cim. Ah! già! capisco! (ridendo furbescamente) Anche tu sei di quelli che hanno chiesto il permesso...

Cin. Io? tutt’altro. Il vecchio vuol mangiarmi tutte le volte che mi vede...

Cim. E allora?... (sconcertato)

Cin. (con far naturalissimo) E allora... siccome il vecchio ha sessanta inverni suonati, e la vaga Làmpito non ha che venti primavere — e siccome qui le donne hanno anzitutto ad esser madri, — così il vecchio è obbligato a consentire che ella abbia da un giovane dei figli robusti...

Cim. Che restano del giovane?

Cin. Cioè no, del vecchio.

Cim. (sempre più sorpreso) Per obbligo?

Cin. Certo. E quindi, se non foss’io, sarebbe un altro.[363] Così i vecchi, da noi, ci pensano due volte prima di legare alla loro vita acciaccosa dei fiori sbucciati appena; e se lo fanno, i poveri fiori non restan sacrificati.

[204]

Cim. Bravo! dimmi... anche questa è... una legge di...

Cin. Licurgo! s’intende.

Cim. (con vivacità beffarda) Ma era una perla questo vostro Licurgo!

Cin. E che perla!... Oh, addio! me ne vado... (nello andarsene va a riprender la focaccia dove l’ha posta, e la cerca) Dov’è la mia focaccia?

Cim. (facendo lo gnorri) Che focaccia?

Cin. Quella pel sacrificio, che era qui.

Cim. Io non l’ho vista.

Cin. (insistente) Ma era qui.

Cim. E allora il gatto l’avrà portata via.

Cin. (incollerito) Sei tu il gatto!...

Cim. Come puoi dirlo? M’hai visto forse?

Cin. Qui non c’eri che tu.

Cim. (insistendo e poggiando sulla parola) M’hai visto?

Cin. O rendila o ti farò flagellare!

Cim. (con sussiego comico) Dà retta a me. Non farne nulla. Sta alla legge di Licurgo. Era un onest’uomo sai... Licurgo!

Cin. (inviperito) Mariuolo!

Cim. (beffardo) Che perla quel Licurgo! che perla!...

Cin. Per Castore![364] me la pagherai! (va via incollerito minacciando, mentre Cimoto dà in risate)

SCENA II. CIMOTO solo.

(va a riprendere la focaccia dal ripostiglio ove l’ha nascosta)

Cim. Ancora, ancora, di tutte le leggi di Licurgo questa passa... ma le altre! Puh!... E Alcibiade servir questa gente! E far quella vita che fa! un uomo come lui, avvezzo a tutte le delicatezze del lusso! vestir come costoro, dormir come costoro, mangiar le porcherie che mangiano costoro![365] per [205] me, già, non ho potuto ancora farci lo stomaco!... (mangia qualche boccone della focaccia) da che son qui, è il primo boccone da galantuomo che mando giù...: e lo devo a Licurgo. Che Giove gli perdoni tutte quelle altre stramberie! È vero (mangiando) che questo boccone era destinato per gli Dei... ma già, invece degli Dei, se lo mangiavano i sacerdoti... dunque è meglio che lo mangi io. Per quel bene, che han fatto i sacerdoti al mio padrone!... Povero padrone! Da ieri che è tornato dalla flotta, tutti gli fan festa! ma egli è tutt’altro che allegro!... L’abbandono di Timandra lo ha reso ben triste! (va a riporre il resto della focaccia) Questo glielo voglio metter via per lui... se pure lo mangierà: è diventato tanto sobrio! e vuole che lo sia anch’io!... Qui tutti sono sobrii... e un dì sì, un dì no, si patisce la fame di quei di Melo.[366] Non ci sono che i due re che stiano bene!... (mentre parla seguita a far qualche cosa: riporre oggetti, metter [206] ordine alla stanza, ecc.) Oh, i re, quelli sì!... loro qui hanno doppia razione, e su ogni scrofa che partorisce un porcellino da latte è per i re!...[367] Oh quelli sì!... Eh, (sospirando) quei di Atene erano tempi! Se non era quel briccone di Tèssalo e compagnia!... Il bel servigio che han reso ad Atene col farle nemico Alcibiade! Quarantamila uomini e duecentoquaranta navi perdute in Sicilia; il bravo Làmaco morto in campo, Nicia e Demostene presi e giustiziati, l’Attica invasa e mezze le isole perdute!...[368] Bel guadagno! [207] Pensar tutti quei poveri ragazzi lì ad ingrassare i corvi dell’Etna o a marcir di stenti e di fame in fondo alle Latómie![369] Povera gente! (intenerito, asciugando col dorso della mano una lagrima) Per essere giusti, a dirla qui, il padrone s’è vendicato fin troppo!... infin dei conti, Atene è il suo paese!... ma già, gliene han fatte tante!... trattarlo in quel modo... proprio il dì della sua vittoria!... Basta, il tempo è galantuomo... (da qualche momento Cimoto ha smesso di lavorare, e s’è piantato a chiacchierar tra sè, sul davanti della scena: ma a quest’ultima riflessione si riscuote)... e tu, Cimoto, il tempo [208] lo stai qui a perdere... e Alcibiade (guardando fuori) è qui che arriva... (pone in assetto in furia alcune cose, e va incontro ad Alcibiade) Uh! che faccia scura! pare abbia visto il lupo!...[370]

SCENA III. CIMOTO e ALCIBIADE.

(Alcibiade entra vestito da capitano lacedemone)[371]

Cim. Salve, Alcibiade! dacchè s’è saputo il tuo ritorno dalla flotta, qui l’è una processione di gente. Anche or ora fu qui un tal Cinesia, tuo ospite antico. Lasciò per te questo scritto.

Alcib. (presa la tavoletta, letta e depostala — con accento serio ed asciutto) Fra poco verrà alcun degli Efori e Bràsida. Fuor di essi, rimanda chicchessia.

Cim. Alcibiade!

Alcib. Che c’è?

Cim. (appressandosegli con voce affettuosa e insinuante e presentandogli il resto della focaccia) Tu non mangi mai altro che maza e zuppa nera. Se oggi hai molto a discorrere, piglia un po’ di questa che ti ristorerà.

Alcib. (brusco e severo) Porta via!... E sempre non pensi che a ghiottonerie! Non ti vergogni di ingrassare a quel modo?

Cim. (sorpreso, mortificato) O che colpa n’ho io?

Alcib. (severo) Ma lo sai che la pinguedine è punita a Sparta?...[372]

[209]

Cim. (sempre più scandalizzato) Come?!... è punito il diventar grassi? (fra sè) (Questa legge di Licurgo poi non la sapevo!) Ma... ma io...

Alcib. Ma tu ingrassi, ti dico! (minaccioso) Bada a te!... Va...

Cim. Vado... (fra sè allontanandosi) Anche questa! Proibito diventar grassi! Perchè lui, Licurgo, sarà stato magro come uno struzzo! O Minerva Antesignana![373] dove siam mai capitati! (va via esclamando e borbottando)

SCENA IV. ALCIBIADE solo, poi ENDIO, éforo.

Alcib. (solo, cogitabondo) Eccomi ben presto di ritorno!... Città prese, battaglie vinte! vittorie cadmée![374] Ne reco molti a Sparta di allori... (pausa, indi con voce lenta, amarissima) di quelli che non piacciono a Timandra!... Perfino agli omicidi dalla patria banditi vuole la patria concesso nel loro [210] esilio il riposo, e perseguitarli divieta:[375] che cosa è dunque che mi perseguita qui? (si porta la mano al cuore e rimane lungamente e cupamente assorto: entra Endio)

End. Buon dì, Alcibiade!

Alcib. Salve, Endio!

End. Gli efori e il Senato di Sparta si adunan domani a udir da te il racconto degli ultimi fatti di guerra e deliberare sulle ricompense. Venni ad avvisartene.

Alcib. Grazie. Domani Sparta saprà da me che ad Alcibiade è sufficiente compenso non avere smentita la fiducia posta in lui. Quanto al racconto de’ miei fatti sarà breve: Chio, Clazomene, Policna, Lèbedo, Ero, e Tèo, e Milèto ritolte ad Atene: la flotta ateniese messa in fuga da Chio a Samo:[376] conchiusa ai danni di Atene l’alleanza difensiva ed offensiva tra Sparta ed il re.[377]

End. Di già?

Alcib. (secco) Di già.

[211]

End. E la scitála[378] che ti spedimmo colle istruzioni intorno ai patti?

Alcib. (sempre secco nel discorrere) Arrivò tardi. I patti dell’alleanza eran già conchiusi, e... migliori che voi non domandaste. Alcibiade fa gli affari di Sparta meglio che Sparta non chieda.

End. (fissandolo serio in volto) Sei ben superbo, Alcibiade!

Alcib. A te. (gli consegna un papiro arrotolato)

End. (continuando a fissarlo, prende lentamente da lui il papiro, lo spiega, lo legge — e dà in segni improvvisi di sorpresa e soddisfazione) E questo è il trattato che presenterai domani agli efori[379] e all’assemblea?[380]

Alcib. (senza dir parola s’inchina e riprende il rotolo dalle mani di Endio)

End. Sparta può essere contenta di te.

[212]

Alcib. (asciutto, con fierezza) Lo credo! Un tempo, anche Atene lo fu!

End. E la flotta fenicia?

Alcib. L’ho fatta avanzare già sino ad Aspendo. Là attende un mio avviso per procedere oltre e venirsi a congiungere colle navi nostre in Milèto. Oggi stesso, per mezzo di Brásida, lo spedisco da qui. Al mio ritorno, subito dopo il plenilunio,[381] le flotte congiunte faran impeto contro Samo — e in breve avrò finita la guerra.

End. (calmo, senza troppa espansione) Gli Dei salvatori facciano vero l’augurio! e Sparta ti proclamerà suo cittadino, come già fosti suo ospite. Addio.

Alcib. (vivamente, trasalendo) Cittadino di Sparta?!... (con amarezza profonda) È un bel compenso!

End. Ti offende il titolo?[382]

[213]

Alcib. Oh no. (mesto, reprimendo un sospiro) Penso alla fortuna degli eventi — e a ciò che questo titolo significava un giorno per me. Addio. (Endio si allontana: quand’egli è sulla porta, Alcibiade, che è immerso in meditazione cupa, si riscuote d’un tratto e lo richiama indietro) Endio!

End. (si sofferma sulla soglia, serio, senza dir parola, con aria interrogativa)

Alcib. Te ne vai?

End. (asciutto) T’ho salutato.

Alcib. (sottolineando le parole) Sei freddo — oggi.

End. Io? che vuoi dire?

Alcib. (andando vivamente a lui, gli si pianta di fronte e gli stende la mano per prendergli la sua) Endio!... che pensi tu di me?

End. (freddo, ritirando la propria mano) Che sei un valente capitano. Addio. (esce)

SCENA V. ALCIBIADE solo, poi CIMOTO.

Alcib. (partito Endio, rimane alcuni istanti immobile, cupo, cogitabondo) Un valente capitano?... Che ha inteso dire costui?... Questa parola che era per me un giorno il più bel sogno di gloria, potrebbe ella forse (a voce lenta) sulla bocca di un uomo suonare anche insulto? La gloria e il disonore avrebbero confuso, scambiato i loro nomi?... Un... valente... capitano? (dopo sillabata lentamente, come ponderandola fra sè, questa frase, rompe in iscoppio repentino di voce e d’ira) Ma mi disprezza costui! Per i Numi! Questo spartano sarebbe forse così superbo perchè egli ha una patria? ma questa sua patria son io che glie l’ho fatta grande — e che domani posso ancora ridurla quel che era or fa un anno!... ed egli lo sa! (dopo una pausa, calmandosi alquanto, e passeggiando su e giù meditabondo) La mia mente ombrosa, malata, si crea sempre intorno inutili sospetti!... Egli anzi fu cortese con me... Disse che Sparta m’avrebbe fatto suo cittadino... essa non farebbe suo cittadino un uomo che disprezza!... [214] (pausa) Ma... e se nulla di spregevole è in me, perchè Timandra mi ha abbandonato? Ella mi amava! «Ti seguirò dovunque in capo alla terra, fino a che Alcibiade sia degno di Alcibiade!...» È un anno che servo Sparta (sempre più meditabondo) ed è un anno che Timandra mi lasciò!... Non dovevo io dunque vendicarmi? Non fui io vittima della più nera ingratitudine de’ miei concittadini? E coloro che mi condannavano, mentre io conquistavo Catania, non ora ad Atene comandano? Essi, essi sono i veri nemici di Atene![383] Io proscritto non vado contro una patria ancor mia, ma tento riacquistare quella che mia più non è.[384] Che disonore in questo? (riscotendosi) Se Timandra mi lasciò... ebbene... ebbe torto! Cimoto...!

Cim. (entrando alla chiamata) Alcibiade?

Alcib. (prendendolo vivamente per una mano) N’è vero che ebbe torto di lasciarmi, Timandra?... perchè io non vorrei vivere se fossi un vile... io non lo sono un vile...[385]

Cim. E chi lo disse?

Alcib. Chi? Nessuno! per gli Dei!... E nemmeno tu... n’è vero?

Cim. Io?... Che ti salta in mente?

[215]

Alcib. Di’, Cimoto furono molto ingiusti gli Ateniesi con me!...

Cim. Certo!... (con voce di rammarico) ma l’hanno anche pagata ben cara... fin troppo cara...

Alcib. Tu dici? (con ansia interrogativa) Ma avevo ragione!

Cim. Sì... e per colpa di pochi (con accento mesto, lagrimoso) tanta povera gioventù, là in Sicilia...

Alcib. (vivamente insistendo) Ma avevo ragione!?... (siccome Cimoto tace, e serba l’aspetto pensieroso, intenerito, Alcibiade lo afferra e lo scrolla violentemente, gridando con impeto) Ma dillo dunque che avevo ragione!

Cim. Ahi!

SCENA VI. Detti e TIMANDRA, indi ALCIBIADE e TIMANDRA soli.

Timand. (già da qualche momento affacciatasi velata di nero, sulla soglia, alle ultime parole d’Alcibiade si scopre il volto e lo apostrofa con voce vibrata e severa) E che vuoi ch’egli ti risponda quello che la coscienza non risponde a te?

Alcib. e Cim. (tutti e due con istupore) Timandra! (Alcibiade lascia andar Cimoto. Cimoto, a un segno imperioso di Alcibiade, si ritira ed esce)

Alcib. (a Timandra affettuoso, ma imbarazzato) Tu qui?

Timand. (seria, alquanto ironica) Giungo, sembra, importuna! I colloqui delle coscienze non amano testimoni.

Alcib. E perchè venisti?

Timand. (con voce bassa e grave, ma vibratissima) Perchè la misura del disonore è colma ed è tempo che Alcibiade la getti lungi da sè!

Alcib. (cercando ricomporsi in calma risoluta) Inutilmente allora venisti. L’Alcibiade d’Atene non è l’Alcibiade di Sparta.

Timand. (con sarcasmo) Oh, lo so, lo so! e poi, solo in vederti, lo si comprende! Lo so che dormi sulla nuda terra e bevi acqua e mangi la zuppa nera![386] Sei ben trasformato, Alcibiade! [216] Colui che faceva meravigliare Atene delle sue mollezze e delle sue orgie, fa meravigliare oggi Sparta de’ suoi severi costumi! Lo scapestrato, l’effeminato, il dissoluto Alcibiade, è divenuto un Alcibiade sobrio, temperante, costumato, austero... Eppure... (con forza) eppure valeva assai meglio quell’altro... perchè quello almeno era l’Alcibiade ateniese!

Alcib. (risentito) Timandra!

Timand. Oh, hai torto di rubare alla virtù queste apparenze! Vergognati!

Alcib. (con crescente risentimento) Timandra!...

Timand. (incalzante, senza dargli tempo a replicare) Sì, vergognati a tua volta, perchè mi hai fatto piangere di vergogna per te! Ah, tu credi che sia nulla, per una donna che ama, che ha consacrato ad un uomo tutti i suoi affetti, le sue gioie, i suoi dolori, la sua esistenza intera, il saper quest’uomo venduto ai nemici del suo paese; l’udire ogni giorno intorno a sè le imprecazioni al suo nome, vedersi d’intorno nella sua stessa patria le ruine che egli ha seminato, le lagrime che egli ha fatto spargere? Lo sai tu che ognuna di quelle imprecazioni ripiombava sul cuor mio, che ognuna di quelle lagrime vi scendeva come stilla rovente, che da ognuna di quelle rovine mi pareva alzarsi una voce e rinfacciarmi come delitto il mio amore — e domandarne castigo agli Dei?

Alcib. Cessa, Timandra! Tu sai anche quello che gli Ateniesi han fatto a me.

Timand. Io so che nessuna ingiustizia giustifica il tradimento; ma tu giustifichi tutti i giorni l’accusa e la condanna di Atene contro di te. So che eri innocente, e che ora più non lo sei. Potevi essere Aristide — e non sei più che... Pausania! (con iscoppio di voce) Numi! e costui ama la gloria!

[217]

Alcib. (rimasto fin qui come oppresso, accasciato dalle parole di Timandra, a questo punto si riscuote e le parla con voce vibratissima) Ma tu che mi accusi, hai tu letto qui dentro? Hai tu indovinato una sola delle tempeste che vi si scatenarono e mi trabalzarono qui? Ah! tu credevi che Alcibiade si sarebbe umilmente, docilmente rassegnato alla condanna ingiusta che lo colpiva! Che ne sai tu se la mia anima ha la docilità e la rassegnazione di quella di Aristide, per chinarsi come lui alla sentenza del primo venuto e scriverla sul coccio di mio pugno?[387] Aristide si cinse di gloria! Lo chiamarono il giusto! Che m’importa! se per essere gloriosi bisogna essere sommessi, se per essere giusti bisogna curvar la fronte agli ingiusti, — ebbene, che la giustizia non sia più per me che una fola — e che questa gloria vada lungi da me!... Mi parlasti di Pausania![388] E sia!... (con iscoppio di voce e di rabbia) Pur che piangano coloro che mi offesero, ch’io muoja pure come lui! maledetto dalla patria come lui!

Timand. (mutando l’accento severo di prima in accento più mite e mestissimo) Eppure non era così, o pronipote di Ajace,[389] o figlio di Clinia, non era così che morivano i tuoi maggiori!... Là in Atene, al Ceràmico, dove dormono i morti per la patria, han posto, sai, da che fosti assente, la lapide pei morti di Coronea.[390] Fra quei morti... è tuo padre. [218] Passavo dal Ceràmico giorni sono: e su quella lapide recente (con voce che va man mano intenerendosi per l’emozione) fanciulli e giovinette invocavano i Numi, e spargevano le pie libazioni; intorno vi pendevano e ciocche di capelli recisi e cento ghirlande votive;[391] e una turba commossa, riverente, si scopriva a quella pietra modesta, dove erano scritti da una parte i nomi — il nome di tuo padre! — dall’altra una epigrafe pietosa. Di quella epigrafe lessi — e serbai a memoria le parole.

Alcib. (in preda a lotta angosciosa, si è gettato a sedere, nascondendo il volto fra le mani)

[219]

Timand. (con voce lenta, alta, commossa, guardando il cielo). «L’étere accolse le anime di questi, ed i corpi la terra. Caddero presso le porte di Coronea. Questa città e questo popolo di Erettéo rimpiangono codesti uomini, che pugnando fra i primi morirono, Ateniesi, figli di Ateniesi. Abbandonando le loro anime, acquistarono a sè fama di virtù, ed alla patria grande rinomanza.» (La voce di Timandra si è venuta man mano esaltando, nel ripetere la epigrafe; alle ultime parole s’arresta con lunga pausa, fissa lo sguardo su Alcibiade, e gli si avvicina parlandogli a voce bassa e vibrata) E a te cosa porremo?...

Alcib. Lasciami! lasciami, Timandra! Ho data la mia parola. Lasciami al mio destino!

Timand. (con voce affettuosa, e man mano affannosa, piangente, incalzante) No, no, Alcibiade, tu non sei legato da nessuna parola; perchè Giove vindice degli spergiuri non accetta gli sconsigliati giuramenti dell’ira,[392] e ogni parola contro la tua terra è nulla, è nulla davanti agli Dei! Vieni! vieni meco, Alcibiade. È un anno ch’io piango per te; ch’io vivo soffocando qui dentro l’angoscia dell’udirti imprecato da coloro che ti furono cari; costretta, ineffabile strazio, a far voti agli Dei contro di te, senza poter cessare di amarti; a maledire ogni tua vittoria, io che andavo sì altera di saperti prode!... Un dì corse il grido che Atene era salva, perchè tu eri morto; e colla morte nell’anima, dovetti quel dì mostrarmi lieta, — e un rimorso e uno spasimo orrendo fu la gioja del dì appresso nell’udir bugiardo quel grido!... Eppure, cercavo ingannare me stessa, andavo fra me ripetendo: «Cessato l’impeto dell’ira, il mio Alcibiade ritornerà...» Ma tu non ritornavi! e le sventure attirate dalla tua collera seguitavano a piombar sopra Atene. Allora lo strazio fu più forte de’ miei propositi — e lasciai Atene per venire a trovarti ad ogni costo, per ricondurti ad ogni costo da qui. Oh, [220] vieni, vieni, Alcibiade, colla tua Timandra; vieni alla tomba de’ tuoi maggiori; lascia la via del disonore!

Alcib. (in preda a emozione vivissima sta per cedere allo scongiuro di Timandra, e la chiama con affetto, avanzandosi verso di lei, e stendendole le braccia) Timandra! (in questo punto si ode dallo interno la voce di Brasida) Ah!

Bras. (dall’interno) Annunziami ad Alcibiade. Devo parlargli...

Alcib. (all’udir la voce di Brasida si arresta come fulminato) Brasida! è qui a prender gli ordini! Ho data la mia parola! Ho data la mia parola! (a Timandra) Va! non posso!... o resta con me!

Timand. (a quest’ultima frase d’Alcibiade, dà in un gesto vivissimo come di indignazione e di orgoglio ferito, e si drizza fieramente della persona) Che?!... Addio, Alcibiade! (s’avvia per uscire con passo concitato — Alcibiade si è mosso per trattenerla, poi s’è fermato e non la guarda più: ha gli occhi a terra. Timandra dalla soglia s’è volta a gettare un ultimo sguardo su di lui; poi, già sul punto d’uscire, d’improvviso, come chi ha mutato consiglio e presa una risoluzione repentina, si arresta e incrocia le braccia sul petto, in atteggiamento di calma risoluta)

SCENA VII. ALCIBIADE, TIMANDRA, poi BRASIDA.

Alcib. (fra sè, gli occhi a terra, senza accorgersi di Timandra) Ebbene? mi lascerò spaventare dalle parole di una donna? È donna anche la coscienza. Poi il dado è gettato: questi Spartani si son fidati in me. Tradir loro, dopo aver tradito i miei?... Sarei traditore due volte... basta una! (a voce forte, ma sempre cupo ed assorto) Brasida!

Bras. (si affaccia con piglio soldatesco sulla soglia e si avanza verso Alcibiade. È in costume completo di guerriero spartano: lunga asta[393] e siéla,[394] scudo di pelli ampio e rotondo a correggie[395] e [221] recante sull’esterno un Λ iniziale di Lacedemone;[396] veste rossa sotto la corazza di feltro;[397] calotta di feltro in capo).[398] Son qui.

Alcib. (senza guardarlo, gli occhi a terra, come vergognoso del proprio atto, gli stende lentamente col braccio il papiro contenente l’ordine [222] scritto) Eccoti l’ordine per la flotta fenicia. Partirai oggi stesso precedendomi... (alza lo sguardo su di lui nel consegnargli il papiro che l’altro prende, salutando militarmente, e in quel punto si accorge di Timandra, che lo guarda severa, le braccia conserte, quasi in aria di sfida) Tu qui ancora?...

Timand. (con calma sarcastica) M’hai detto di restare!... (cambiando intonazione di voce, e assumendo un accento amorevole, si avanza verso Brasida, mentre Alcibiade rimane visibilmente sconcertato) Brasida, tu porti un nome glorioso.[399] Hai molte cicatrici. Quante campagne?

Bras. (con accento asciutto, laconico) Sette.

Timand. Quante corone?

Bras. Nessuna.[400]

Timand. Il tuo grado?

Bras. Soldato semplice.

Timand. (vivissima) Soltanto?... (fissa severa Alcibiade, che incontratosi nel di lei sguardo abbassa il proprio; e ripiglia a voce lenta, rivolta di nuovo a Brasida) Sparta è ben ingrata con te!... Ami tu qualcuno?

Bras. Sparta e la mia donna.

Timand. E la tua donna ti segue?

Bras. M’aspetta.

Timand. Quando? come?

Bras. (mostrando e stendendo il proprio scudo, prima in atto d’imbracciarlo militarmente, poi rivoltolo in senso orizzontale) O con questo — o su questo.[401]

[223]

Timand. (stringendogli la mano con piglio risoluto, e guardando nello stesso tempo Alcibiade) Va! che sei un valoroso!

(Brasida s’avvia per uscire. — Alcibiade alle ultime parole di Timandra fa un gesto vivissimo, com’uom ferito nel vivo — poi visibilmente dominato da interna violentissima lotta, richiama Brasida, che è già in sulla porta per uscire) Aspetta!... (Brasida ritorna indietro, Alcibiade soggiunge a voce lenta) Lo porterò invece io medesimo... Tu parti pure!... (Brasida saluta militarmente e parte)

SCENA VIII. ALCIBIADE, TIMANDRA, poi CIMOTO.

(Uscito Brasida, Alcibiade e Timandra rimangono per qualche istante a guardarsi l’un l’altro in faccia, muti, immobili. Poi Alcibiade, coll’occhio sempre fisso su Timandra, e senza proferir parola, lacera lentamente il foglio. Gesto vivissimo di gioja di Timandra, alla quale senza dar più tempo di soggiungere altro, Alcibiade corre vivissimamente incontro, gettandosi nelle sue braccia aperte) Grazie, grazie, o Timandra! o mio buon genio!... (Cimoto, entrato da un istante, dopo uscito Brasida, ha assistito con segni di gioja a quest’ultima scena e si stropiccia per contentezza le mani. Alcibiade in questo punto si accorge di lui e lo chiama)

Alcib. Vieni, vieni, Cimoto! (Cimoto accorre a lui. — Alcibiade stende un braccio ad collo di Timandra, l’altro a quel di Cimoto e li guarda entrambi affettuosamente) Torneremo ad Atene! (movimento e grido di gioja di Timandra e di Cimoto, subito repressi da un gesto significantissimo di silenzio di Alcibiade. Quadro)

CALA LA TELA.

[224]

QUADRO SESTO

Anno 407 av. l’Era Volgare (6 giugno, ossia 25 di Targelione)
(2.º della Olimpiade 93.ª — 24.º della guerra del Peloponneso)
Eubato di Cirene vinse il premio ad Olimpia.

ATENE

Le Lunghe Mura, Via di Teseo, lungo il muro boreale, conducente dal Pireo alla città.[402] Davanti alla casa di Alcibiade.

SCENA PRIMA. DIOCARE, AMINIA, CARINADE, altri cittadini da opposte parti. CRITILLA vecchia, MIRRINA sua figlia, poi ANDROCLE.

Carin. (accorrendo, nell’incontrar Diocare) E così?

Dioc. (vien correndo) È sbarcato ora nel Pirèo. O spiriti, o Dei![403] che nuvola di gente! che baccano! che fanatismo!

Carin. E l’hai veduto? l’hai veduto?

Dioc. Per Giove! E come era commosso! parea gli spuntasser le lagrime!

Amin. Stava ritto, esitante sulla prua, mentre tutti l’acclamavano; e se non era Eurittòlemo suo cugino che gli facea segno dalla riva, ancora non sapea, per la emozione, risolversi a scendere![404]

[225]

Dioc. Sono otto anni che non vedeva Atene!

Critil. (accorrendo) Aminia, Aminia, da che parte viene Alcibiade?

Amin. (accennando) Di qua.

Critil. È lontano?

Amin. A st’ora sarà al tempio di Teseo. Mamma Critilla, se vuoi vederlo, non c’è che aspettarlo qui, dinanzi alla sua casa.

Critil. (a sua figlia Mirrina che l’accompagna) Sì, sì, Mirrina, aspettiamolo qui... (si mette intanto a discorrere con altre donne)

Dioc. (ad Aminia) E non ti pare che, da quando partì, si sia fatto più magro?

Amin. Per Ercole, ne ha passate tante! povero giovane!

Carin. E dire che in causa di quei calunniatori, ci siam bisticciati con lui proprio per l’ombra dell’asino![405] e l’abbiam cacciato in bando a quel modo!...

Dioc. E, per gli Dei, ne abbiam pagato il fio! Se non lo condannavamo, le cose in Sicilia non sarebbero finite come finirono...[406]

[226]

Andr. (sopraggiungendo) Però quella d’essere passato a Sparta non fu una buona azione...

Dioc. (ad Androcle) Avrei voluto veder te ne’ suoi panni che cosa di peggio avresti fatto..

Carin. Che ha costui da dire contro Alcibiade?

Amin. Chi parla contro Alcibiade?

Dioc. (accennando Androcle) Costui.

Carin. Sarà uno de’ calunniatori! Dalli al tristo!

Amin. Sì, sì, dalli al sicofante![407]

Dioc. Dalli al filolácone![408] alla spia! (Androcle fugge inseguito dai popolani)

Carin. Duecento navi prese, e le isole riconquistate. Si fa presto a dirlo! E così giovane ancora! Che età avrà Alcibiade?...

Critil. Oh, il conto è subito fatto! Ne avea ventinove [227] quando è andato via; e in quel tempo mi faceva un po’ di corte...

Amin. Egli t’ha fatto la corte?! (ridendo) O care Ore!...[409] Quanti denti avevi?

Critil. Scoppia! — Avevo circa la sua età — ed ero anche più bella di adesso, una volta...

Amin. (canzonandola) E anche i Milesj una volta eran gagliardi...[410]

Critil. Impertinente! (andandogli incontro coi pugni chiusi)

Dioc. (interponendosi) Ma sta zitto, Aminia!... Non la far arrabbiare! Sicchè, mamma Critilla, quanti anni hai?

Critil. Sicchè, dicevo, io ora ne ho trentasette... ne avrà giusto trentasette anche lui...

Dioc. Mamma Critilla, la sai la storia di Giove quando dormì con Alcmena?[411]

Critil. E di tre notti ne fece una.

Dioc. Appunto, mamma Critilla, i tuoi anni son come le notti di Giove.

Amin. e Carin. (ridendo) Ah! ah!

Critil. Che le cornacchie ti mangino!

Amin. Oh! oh! Alcibiade si avvicina! (suon d’istrumenti e voci di popolo ancora in qualche lontananza)

[228]

Carin. (guardando verso l’interno) Egli arriva! Egli arriva! (le grida e gli evviva vanno appressandosi, molti corrono incontro — la scena si riempie di popolo)

SCENA II. CIMOTO, soldati del corteo, popolo, FILUMENA, vecchia. — Un bimbo e detti.

(Cimoto entra vestito da fante leggero, precedendo nel corteo Alcibiade. Distribuisce con serietà comica e affettata modestia, come se gli applausi fossero indirizzati anche a lui, saluti e ringraziamenti a dritta e a manca)

Dioc. E chi è quello là che viene davanti? (guardando colla palma della mano tesa davanti l’occhio) Oh Numi! o Mercurio agorèo![412] guarda, guarda! È Cimoto il parassita! Cimoto vestito da guerriero!

Amin. (chiamando e salutando) Ehi là! Cimoto! Cimoto!

Voci del popolo. Evviva il trionfatore!

Cim. (a Diocare e agli altri che gli fan ressa intorno, con aria di sussiego comicamente modesta, e mimica analoga) Grazie! Nulla! Nulla!... non abbiam fatto che il nostro dovere! (vede sua moglie vecchia, che gli corre incontro facendosi largo tra la folla e la chiama andando verso lei) Mia moglie! O Filumena!

[229]

Filum. O il mio tesoro! il mio amorino! Come ti sei fatto bello! e abbronzato! (lo abbraccia)

Cim. Eh, già! il sole delle battaglie!... E dimmi, o Filumena... (con solennità comica fissandola in volto) mi sei stata... fedele?

Filum. Oh, te lo giuro, per la regina Venere...

Cim. (con forza interrompendola) Giuralo ancora!

Filum. Sì, lo giuro per i misteri santissimi delle Dee!

Cim. Basta. Ora ti credo...

Filum. (accarezzandolo) Oh il mio tesoruccio!

Cim. Ma con voi altre donne non si sa mai! e la casa della virtù è tanto lontana![413] Sai, Filumena (con accento grave, paternale), che è un gran delitto, in odio ai Numi, mentre il marito lontano sui campi della gloria espone la vita e conquista la corona del valore, il preparargli in casa delle altre... corone?

Filum. Che gli Dei le puniscano quelle donnaccie!...

Cim. (sullo stesso tono paternale) E vedi come punirono le Fedre, le Menalippe e le Clitennestre! Oggi, o Filumena, tre quarti delle donne son Clitennestre...[414] Guardati dal malo esempio! e i Numi ti benediranno, così come io, reduce Ulisse al dolce antico letto,[415] ti benedico, deponendo questo bacio sulla tua casta fronte di Penelope...

Voci del popolo. Eccolo! eccolo, Alcibiade! (voci vicine; molti si levano in punta di piedi)

Carin. (drizzandosi sulle punte) Dov’è? dov’è?

Amin. (additando) Il secondo a destra, dopo l’arconte.

Carin. Ah, vedo!

Critil. (cercando farsi innanzi e por sua figlia Mirrina in vista) [230] Fatti in qua (alla figlia), ch’egli ti possa vedere. Aggiustati quel riccio! Su, alta quella testa! Dritta la persona!

Voci. Viva Alcibiade! (Alcibiade spunta col seguito dallo sfondo della scena)

SCENA III. Detti, ALCIBIADE, col seguito di arconti,[416] strategi, ipparchi, tassiarchi[417] ed altri ufficiali e soldati; CALLIA primo arconte; ANDROCLE; un cancelliere, e popolani.

Critil. (a Mirrina) Lo vedi? È quello là, grande.

Mirr. Oh Venere! com’è bello!

Un bimbo. (dietro la folla) Anch’io! anch’io voglio vederlo!

Cim. (avanzandosi verso il bimbo, e pigliandone per sè la curiosità) To’! guardami! sei contento?

[231]

Bimbo. (guardandolo) Sei tu Cibìade?

Cim. Io e lui siam lo stesso.

Bimbo. Va via! Tu sei brutto!

Cim. (indispettito, con aria comica, allontanandosi) E tu una marmotta!

Bimbo. (strillando) Cibìade! voglio veder Cibìade!

Voci di popolo. Viva il vincitore di Sparta! (Alcibiade fa cenno colla mano di voler parlare) Silenzio! silenzio! (silenzio generale)

Alcib. Cittadini ateniesi! Giusta legge fra di voi punisce di morte il mancator delle promesse al popolo ed al Senato.[418] Vengo a mantenere una promessa data, partendo, otto anni or sono, a voi, e una promessa data agli efori di Sparta... (susurro e movimenti di sorpresa fra il popolo)

Carin. e altri. Oh! oh!

[232]

Dioc. Che mai dice?

Voci. Silenzio!

Alcib. Promisi ad Atene riportarle le spoglie di Siracusa. Promisi a Sparta che avrei guidato le sue navi fin dentro il Pireo. Gli Iddii non permisero che la Sicilia fosse nostra; ma sono cento di Siracusa[419] e sono cento di Sparta le triremi dalle nostre prese e rimorchiate che al Pireo navigarono con me. (scoppio generale e fragoroso di applausi)

Voci del popolo. Viva Alcibiade! Viva il trionfatore!

Alcib. Ateniesi, la fortuna che sì a lungo ne separava,[420] sorride ancora a questa città[421] cara a Nettuno e a Pallade Atenea! Ancora nostro è il dominio del mare, al quale ci invitano i destini;[422] nostre ancora quasi tutte le isole e le coste dell’Asia; ancora le triremi di Atene coprono l’Egèo vittoriose da Creta all’Ellesponto!... (nuovi vivissimi applausi)

Voci del popolo. Bravo! evviva!...

Amin. (a Carin.) E neppure una parola ha detto dei torti ricevuti!...

Dioc. E non una parola della sua condanna! Che cuore d’oro!

1.º Arc. Alcibiade, sulla colonna di Diofante sta scritto di premiar come Armodio...

Alcib. (fra sè, con sussulto di gioia) Armodio!

1.º Arc. ... ed Aristogitone chi per la libertà d’Atene affronta danni e pericoli.[423] Cancelliere,[424] leggi il decreto.[425]

[233]

Cancell. (legge) «Sotto l’arconte Callia, il dì sesto di Targelione spirante,[426] pritaneggiando[427] la tribù Leontide,[428] in assemblea convocata dai capitani, così piacendo al popolo e al Senato, Crizia di Callescro Falereo disse: Il Senato e il [234] popolo riconoscendo i servigi di Alcibiade figlio di Clinia Scambónide, han rivocato il suo esilio, gli restituiscono i suoi beni, le sue case, i suoi servi, i suoi diritti di cittadino: lo nominano capitano supremo delle forze di terra e di mare:[429] e gli decretano corona d’oro, con bando nelle Panatenée e nelle Dionisiache,[430] il dì delle nuove [235] tragedie.[431] Il Polemarco e i Tesmotéti, e i Pritáni e gli Agonotéti[432] sono incaricati del bando. Disse Crizia di Callescro Faleréo.»[433] (Alcibiade, terminata la lettura, s’inchina e riceve dall’arconte la corona d’oro)

1.º Arc. Alcibiade, i tuoi nemici e accusatori Tessalo, Cleonimo, Teucro, si sono sottratti a tempo colla fuga alla giustizia del popolo e delle leggi: costui solo dei calunniatori ci restò fra le mani: Atene lo consegna a te; scrivi la [236] pena;[434] faranno gli Undici il resto.[435] (fa avanzare Androcle legato fra arcieri sciti)

Alcib. (vivamente) Costui?! (serio e grave all’arconte) Sapersi ridonato all’amore de’ concittadini è al cuor di Alcibiade risarcimento troppo grande, perchè altri ei ne brami. (si volge ad Androcle) Come ti chiami?

Andr. Androcle.

Alcib. Per gli Dei! M’è nuovo il tuo nome. Sei uno de’ cavalieri?[436]

Andr. Oh no...

Alcib. Certo però paghi almeno venti dramme di imposta e sei scritto fra gli opliti?

Andr. Neppure...

Alcib. Ma avrai almeno servito negli arcieri regolari... o sulle triremi...

Andr. Non ho i requisiti per appartenervi...

Alcib. (vibrato, con sorpresa) Come?! Tu non hai nulla, tu non sei nulla, e sei bastato per rovesciare la fortuna di Alcibiade? (con forza) Oh, per tutti i Numi! è ben umiliante per me!! Degno arconte, è nella legge che a me spetti la mia quota nel bottino de’ nemici?

[237]

1.º Arc. È nella legge.[437]

Alcib. Domando adunque che la mia parte sia data a costui: (additando Androcle e intanto lo slega egli medesimo) perchè io ho bisogno che egli sia qualche cosa! perchè se si venisse a sapere che un simil uomo ha potuto ingannare a mio danno una intera città, senza guadagnarvi nulla,... la razza dei calunniatori si perderebbe, e allora, per Ercole, non ci sarebbe più merito nè ad essere onesti, nè ad essere eroi.

1.º Arc. (inchinandosi). Sarà fatto come Alcibiade desidera. (fa cenno agli arcieri di lasciar libero Androcle)

Cim. (ad Androcle prendendolo in disparte) Una bella fune di Aliarto ti ci voleva![438] Che la lezione ti serva, mariuolo, e ricordati quel che devi alla nostra clemenza!

Alcib. Ora, Ateniesi, precedetemi nello Pnice. Di molte cose ho a rendervi conto, prima di ripormi fra pochi giorni in mare; e dobbiam render l’onore degli elogi funerei ai fortissimi estinti.[439] Io rientro a sciogliere il voto agli Dei [238] tutelari di questa casa ove nacqui, dove ebbi il primo bacio di mio padre Clinia. Fra brevi istanti allo Pnice vi raggiungerò.

Voci del popolo. Sì, sì, allo Pnice!

1.º Arc. Noi, Alcibiade, ti precediamo.

Amin. Corriamo allo Pnice a pigliar posto!

Carin. e altri. Sì, sì, corriamo! Allo Pnice! (gli arconti e i capi salutano Alcibiade ed escono lentamente; i cittadini van via correndo, Alcibiade ed Antioco restano in iscena)

[239]

SCENA IV. ALCIBIADE, ANTIOCO, poi TIMANDRA.

Alcib. (appena uscito il popolo, si volge vivissimamente, a mezza voce, ad Antioco) Oh Antioco! hai visto chi c’era presso il tempio di Teseo?

Ant. Se ho visto! Glicera! E la ti guardava!

Alcib. Come s’è fatta bella! Povera Glicera! Mezzo nascosta, là, tra la folla, colle spalle a una colonna del tempio, la mi fissava in volto quei suoi grandi occhioni... affè di Giove, non ho avuto coraggio di sostenerne l’incontro! Sulle labbra pareva errarle un mesto sorriso, e nell’angolo dell’occhio, ai raggi del sole che la investivano, m’era parso veder luccicare una lagrima... Povera fanciulla! Dei torti... e grossi... ne ho avuti con lei...

Ant. (sorridente) Poichè lo confessi... è già qualche cosa...

Alcib. (quasi fra sè, pensieroso) Mi avesse almeno perdonato!...

Ant. Del resto, io non solo l’ho vista, ma le ho parlato...

Alcib. (con impeto vivissimo) Tu! Come! Quando? Che ti disse? Che ti disse!

Ant. Poi ch’io, vedendola, la salutai per nome, e me le accostai stendendole la mano, ella la strinse e mi rispose: Saluta Alcibiade vincitore, per mio marito Carmide e per me.

Alcib. Questo?... (detta questa parola con impeto vivissimo, soggiunge subito, lento e con malumore) È un po’ poco.

Ant. Confessa che sarebbe indiscreto, ne’ tuoi panni, il pretender di più...

Alcib. (sospirando) È vero! hai ragione! Ma!... Destino!... Foss’ella almeno felice!

Ant. Mi hanno assicurato che col suo Carmide lo sia.

Alcib. Tu dici? Ed io giurerei che non le sono uscito interamente dall’anima. Quegli occhioni! quella lagrima! quel sorriso! Come s’è fatta bella! come s’è fatta bella!... (succede una lunga pausa, durante la quale Alcibiade sembra vada parlando e pensando fra sè, come profondamente assorto)

[240]

Ant. Che pensi, Alcibiade?

Alcib. (riscotendosi e riprendendo il far vivace di prima) Penso che Amore è un Dio bizzarro ed ingiusto: poichè mi dice il cuore che nessuna persona al mondo io sarei stato capace di amar quanto Glicera... ah! (mentre sta per finire la frase, s’accorge in questa punto di Timandra, la quale si è affacciata sulla soglia della casa di Alcibiade: e lo guarda sorridente. Alcibiade corre a lei vivissimamente, con trasporto affettuoso, e l’abbraccia, intanto che rivolto sorridente ad Antioco, continua, correggendola, la frase sospesa)... se non amassi Timandra! (mentre bacia di nuovo Timandra, ancora rivolto ad Antioco, corregge anche l’altra frase di prima) Non mi diceva nulla il cuore, sai! Non mi diceva nulla! (a Timandra) Oh mia Timandra! (in questo punto Cimoto, che era entrato nella casa d’Alcibiade e poi ne è uscito, conduce Antioco via, facendogli intendere un po’ comicamente che è meglio lasciar Alcibiade e Timandra soli).

Timand. Che stavi dicendo ad Antioco, Alcibiade?

Alcib. Oh nulla, nulla! Dicevo (sorridente in viso, e con accento dolce, poetico, amorosissimo) che Amore è vita del mondo, è luce di Olimpo, è fiamma di mille colori, è celeste armonia di mille suoni; e che il prisma del cuor d’Alcibiade ha una faccia per ognuno de’ suoi raggi e la sua anima ha un’eco per ognuna delle sue note divine; risponde capricciosa ora all’una, ora all’altra; riflette, cangiandosi, or l’uno, or l’altro colore, — va scherzando, instabile sempre, di canzone in canzone, di luce in luce; ma che tutti quei suoni diversi si fondon pur sempre qua dentro in una armonia ineffabile e sola, e tutti quei raggi non vi forman che un fascio ed una fiamma sola; l’armonia della tua voce, o mia Timandra, la fiamma del tuo sguardo, anima mia! (abbracciandola con trasporto vivissimo)

Timand. (affettuosa) Cattivo!

Alcib. Fedele, vuoi dire!

Timand. E di’, sei contento, ora, Alcibiade?

Alcib. (con affetto ed espansione di gioia) Oh Timandra! mi hanno parlato di Armodio!

Timand. T’ho preceduto nella casa tua, per essere, non veduta, [241] testimone del tuo trionfo, e gustarne liberamente da sola, nel segreto dell’anima, tutta la gioia. Questi applausi e questi evviva che portavano alle stelle il tuo nome, hanno fatto balzare di ineffabile orgoglio e di voluttà sovrumana il cuore della tua Timandra. Sii benedetto per quest’ora che mi donasti! (lo bacia con trasporto) Era così ch’io ti sognai!... Sei contento?

Alcib. Mel chiedi?! È il dì più bello della mia vita questo, e a te, a te sola, mia Timandra, lo devo...

Timand. E al tuo valore. Guarda chi viene.

Alcib. Che?! I sacerdoti! (guardando verso l’interno)

Timand. Sì, essi: gli Eumòlpidi che vengono a ribenedirti.

Alcib. Ah, infatti! per Cerere! dimenticavo che le maledizioni delle due Dee pesano ancora su di me. È strano! Dal giorno che i sacerdoti mi hanno maledetto, tutto mi è andato a gonfie vele. Che la loro benedizione mi avesse a portare il malaugurio?

Timand. No, no, Alcibiade, non bestemmiare...

Alcib. Io non bestemmio; ricordo. E penso che costoro coi loro anatemi son riusciti a farmi andare a Sparta, e a trarre Atene ad un pelo dalla rovina... Oh, eccoli.

SCENA V. Detti, il GRAN SACERDOTE (gerofante) degli Eumòlpidi,[440] altri sacerdoti.

Gr. Sac. Alcibiade, noi abbiamo immolato alle Dive del profondo Tartaro,[441] e alle loro terribili ministre, le Erinni [242] venerande,[442] un’agnella di pelo nero: gli indizj delle viscere riuscirono fausti, e l’offerta fu gradita dalle Dee. [243] Perciò ti abbiamo ribenedetto...[443] e abbiamo maledetto invece i tuoi accusatori...

[244]

Alcib. (fra sè, a parte) Non c’è verso! Qualcuno costoro bisogna che maledicano!... (si ode un suono lontano)

Gr. Sac. (in ascolto) Senti! per essi suonan già l’aria del fico![444] Quanto a te, in segno della ribenedizione, abbiamo gettato in mare le lapidi su cui furono scritti gli anatemi...[445]

Alcib. (con leggera inavvertita inflessione sardonica) E dite... non ci sarà pericolo che ritornino a galla?...

Gr. Sac. Oh, no. Son di bronzo.

Alcib. A ogni buon conto però, se si potesse fare — a mie spese — un sacrifizio anche a Nettuno, perchè le trattenga ben giù in fondo al mare...? Se si potesse...

Gr. Sac. Oh, si potrebbe...

Alcib. In tal caso vi inviterei alla rinnovazion del sacrificio in casa mia... Preparerei da immolare una magnifica agnella... (interrompendosi con inflessione sardonica dissimulata) o è meglio una giovenca...?

Gr. Sac. Una giovenca.

Alcib. (dissimulando sempre sotto la cordialità l’intonazione sarcastica) Bene!... Una magnifica giovenca dalle corna d’oro... [245] e poichè le libazioni alle Erinni, essendo astemie,[446] avranno inaridito la gola, si inaffierebbero le viscere e i voti al Nume con libazioni di eccellente vino di Chio e di Siracusa... Si può fare? (sottolineando le parole)

Gr. Sac. Oh, si può fare.[447] (gli altri sacerdoti fanno anch’essi segni premurosi di assenso)

Alcib. (sempre cortesissimo nella velata ironia) A domani adunque, in casa mia.

Gr. Sac. A domani! (saluta inchinandosi ed esce cogli altri)

SCENA VI. ALCIBIADE e TIMANDRA, indi SOCRATE.

Alcib. (appena usciti i sacerdoti, dà in iscoppio di risa) Ah! ah! ah!

Timand. (che durante la scena coi sacerdoti è sempre rimasta, tacita spettatrice, in disparte) Sei ben allegro.

Alcib. (prosegue ridendo) E fui bandito sotto l’accusa d’aver posto i loro riti in commedia! Per i Numi! non c’era bisogno di Alcibiade!... (desistendo dal ridere si volge a Timandra ch’è rimasta pensierosa) Tu vedi, Timandra! questi sacerdoti [246] non finiscono di contentarmi: mangiano troppo, e scrivono troppo! ho bisogno di un Nume, che maledica un po’ meno, e parli all’anima un po’ più: se tu ne sai l’ara, e tu guidami ad essa: se sei il suo sacerdote, benedicimi tu! (in questo punto Socrate traversa, lentissimo, con aria grave, lo sfondo della scena)

Timand. (ad Alcibiade) Un sacerdote tu cerchi? (gli addita Socrate) Eccolo.

Alcib. (volgendosi e vedendo Socrate) Socrate!... (corre a lui) Oh, finalmente ti ritrovo! (con voce di affettuoso rimprovero) Tutti gli amici oggi mi vennero incontro; tu solo, il più caro, non ti sei fatto vedere. Ma io di te mi son ricordato, sai!... e ho portato dei doni per te...

Socr. (serio e grave) Grazie. Dalli a qualcun altro.[448]

Alcib. Ma tu verrai oggi meco, e al mio fianco, nell’Assemblea, e al sacrificio e al banchetto e alla festa! Io voglio che tutta Atene sappia come Alcibiade onora il suo vecchio maestro — colui che il Nume di Delfo proclamava il miglior dei mortali.

Socr. No, no! tralascia. Non posso. C’è troppo rumore, c’è troppo baccano laggiù. Il posto di Socrate non è dove si grida, ma dove si soffre. Non è dove si applaudono i trionfatori, ma dove dormono ignorati i vinti. (dette queste parole con voce grave, solenne e mesta, si avvia)

Alcib. (cercando trattenerlo) Ma dove vai? Dove vai?

Socr. (con calma mesta e severa) Al Ceràmico, a deporre questa corona sul cenotafio[449] dei valorosi morti in Sicilia...

[247]

Alcib. (sopraffatto e mortificato dalle parole di Socrate,[450] dopo un momento di pausa, si strappa dal capo la corona avuta dall’arconte e la scaglia con ira a terra; poi, come pentendosi dell’atto, e mutando pensiero, la raccoglie con gesto vivissimo e la presenta a Socrate, dicendogli, a capo chino, sena guardarlo in faccia, con voce mesta e cupa) Deponvi anche questa! (Socrate prende la corona, e senza dir parola, serio, a passo lento, si allontana. Alcibiade e Timandra lo seguono). — Quadro.

CALA LA TELA.

[253]

QUADRO SETTIMO

Anno 407 av. l’Era Volgare.[451] Nel mese di Sciroforione (giugno-luglio).

MILETO (Jonia)

Attendamento d’Alcibiade sulla spiaggia presso Mileto. Dalla tenda aperta nello sfondo vedesi il mare: e scorgonsi le sentinelle. È sera.

SCENA PRIMA. TIMANDRA, CONONE, poi EUFEMO, indi CIMOTO.

(Prima ch’essi entrino in iscena si odono di lontano alcuni brevi suoni di campanello, a cui rispondono voci lontane delle scolte)[452]

Voce di sentinella (lenta e lunga dall’interno, rispondente al suono del campanello). Pallade Atenéa!

Timand. (entra in iscena, accompagnata da Conone e discorrendo secolui, con voce d’ansia e di dolore) Proprio vero dunque l’annunzio?

[254]

Con. Così gli Iddii nol volessero! Eufemo è di ritorno. Da lui saprai tutto. Eccolo. (entra Eufemo abbattuto, addolorato, e stringe senza parlare la mano a Timandra)

Timand. (con ansia) Ebbene?

Euf. Quindici navi perdute, Antioco morto.

Timand. Ma Antioco aveva pur avuto ordine da Alcibiade di non dar battaglia innanzi il suo ritorno...

Euf. L’amor proprio fu in lui più forte della disciplina. Il terzo dì che Alcibiade era partito, affidandogli nel frattempo il comando, impaziente di compiere qualche fatto glorioso di testa sua, navigò da Samo a Nòzio[453] a provocar Lisandro a battaglia: questi, edotto della assenza di Alcibiade, fu addosso di repente al temerario con tutta l’armata:... il resto... lo sai.[454]

[255]

Cim. (esclamando a parte) Ecco i frutti delle imprudenze!

Euf. Antioco espiò colla vita, combattendo da eroe, la sua disobbedienza e la sua folle temerità.

Cim. (con accento intenerito) Povero Antioco!

Timand. Sia dunque perdonato alla sua memoria, e si pensi a questo vivo che oggi ritorna fra noi, e in cui solo ormai riposano le fortune di Atene! Numi! qual dolore lo aspetta!

Euf. Alcibiade è già di ritorno?

Timand. (sospirando) E non sa nulla! e lieto, e pieno di speranze ritorna! Come dare il funesto annuncio a lui! come darlo all’esercito!

Con. Timandra, nessuno più di te conosce le tempeste di quell’anima: nessuno più di te sa blandirne i dolori. Parlagli tu.

Timand. Silenzio. Queste voci! Egli giunge!...

SCENA II. Detti ed ALCIBIADE, seguito da parecchi ufficiali.

Alcib. (entra affrettato, vivacissimo, raggiante di gioja) Eccomi, mia Timandra! Amici! Buone notizie! Tutto, tutto ne sorride, e Atene di me sarà contenta! Porto denaro e bottino, da Coo, da Rodi e dalla Caria;[455] porto rinforzi di uomini [256] e di triremi; porto le spoglie di altre dieci navi spartane prese. Su, su! fra un’ora, seguendo il corso della vittoria, partirem per Samo a congiungerci alla flotta di Antioco...

Con. e Euf. Che!

Alcib. Siete contenti? Sicuro! E riuniti attaccheremo Lisandro, e così mi guardi Adrastea, come io spero finire d’un solo colpo la guerra... Ma che! voi tacete! non mi dite nulla! E mi state lì, come pali, immobili!... Conone, per i Numi! tu sospiri!

Con. Io? oh no... ma...

Alcib. Ma... avresti forse qualche fiamma segreta che ti rincresce di lasciar qui... a Mileto...? Ah, tu taci!... (sorridendo, in quel punto s’accorge anche dell’aria mesta di Eufemo) Oh, oh, Eufemo! anche tu! Sta a vedere che il molle clima di Jonia vi ha già resi più donnajoli di me! Eh via! su allegri! a Samo son fanciulle più belle che a Mileto, e Amore vi divide con Bacco il suo regno al suono delle canzoni del buon veglio di Teo![456]

Timand. (fra sè mestamente) Lo stesso sempre!

Alcib. Fra un’ora daremo al vento le vele! Formione! (chiamando un servo che porta da bere) i calici! i calici! Mesciamo il vino ne’ crateri e facciam le libazioni della partenza![457] A te, o Pallade egidarmata, protettrice della nostra città, consacriamo quest’ora di speranze gioconde... (Cimoto in disparte si asciuga una lagrima) e in bando da noi ogni tristezza!

[257]

Timand. (con voce lenta e grave) Anche allora che la sventura ne colpisse?

Alcib. (vivamente) La sventura? Quando la quercia ed il cedro avran paura del vento, quando il vino di Chio non avrà più profumi, e i baci di donna amata non avran più dolcezze per me, — allora Alcibiade temerà la sventura. Benedetta ella sia! Ce la mandano i Numi, affine di rendere le nostre gioje più sentite e le nostre anime più forti.

Timand. (con voce mesta e grave) Ebbene, allora sii forte, Alcibiade: perchè la sventura è venuta; è venuta ancora a battere alla tua soglia!

Alcib. (fattosi d’improvviso serio, calmo, imperioso) Timandra! spiegati. E se batte... àprile.

Timand. (con voce solenne, commossa) Prosegui dunque il tuo brindisi, e propina agli Dei! Udite, o Ateniesi, e tu alza, Alcibiade, ben coronato il tuo nappo[458] perchè si veda che il tuo braccio non trema e che il tuo polso non batte più dell’usato frequente. Liba agli Dei senza battere di ciglio, perchè si veda che sei ancora l’Alcibiade antico e che Atene è ancor salva fin che le resta la speranza in te! Dieci altre navi tu acquistasti ad Atene: quindici Antioco ne ha perdute a lei.

Alcib. (in un primo scoppio di voce) Ah, tu men... (troncando a mezzo la parola, senz’altro più aggiungere, d’improvviso padroneggiatosi con supremo sforzo, si ricompone in calma cupa e solenne, si fa dare una corona e se la pone in capo, stende risoluto il braccio [258] facendosi versare nel calice fino all’orlo, alza indi il calice lentamente, tenendolo alto e fermo qualche minuto col braccio teso; poi nell’atto di appressarlo alle labbra, addita a Timandra il suolo su cui non si è versata alcuna stilla di vino e le dice a voce grave, pacatissima) Neppure una goccia! (beve d’un sorso, poi di nuovo a Timandra, lento e con calma cupa) Tu vedi, o Timandra, che il mio polso è sicuro. (uscendo a questo punto repentinamente dalla sua calma, gitta con violenza il calice a terra e prorompe con impeto) Ch’io non beva mai più da oggi innanzi il vino puro del buon Genio,[459] finchè io non abbia rovesciato di mia mano il trofeo di Lisandro!...

Timand. Così ti amo, Alcibiade!

Alcib. (con accento concitato, febbrile) Eufemo, raggiungi gli avanzi della flotta d’Antioco e portali a me. Conone, tu naviga a Coo a prendervi di rinforzo le triremi che vi lasciai. Io levo il campo stasera, e parto per Samo. Raggiungetemi là. (Cimoto è uscito un istante e rientra)

SCENA III. Detti e un Messo.

Cim. Alcibiade, un uomo è giunto da Atene con un messaggio per te.

Alcib. Venga. (va incontro al messo) Da Atene? E chi ti manda?

Messo. Socrate.

Alcib. (sorpreso) Lui! Quando riparti?

Messo. Stasera.

Alcib. Avrai la risposta. (Prende il messaggio e lo congeda)

SCENA IV. Detti, meno il Messo.

Timand. (a parte seguendo ansiosa dello sguardo Alcibiade) Numi!... che sarà mai? Io tremo.

Alcib. (spiegando lentamente il papiro) Socrate mi scrive? Bizzarro [259] uomo!... Il dì del mio trionfo, mentre tutti mi acclamavano, egli solo si tenne in disparte: oggi mi scrive. Si fa vivo soltanto nei giorni di sventura, costui?... (legge e dà segni improvvisi di sorpresa, concitazione, ira, dolore: poi si ricompone forzatamente in calma)

Timand. (avvicinandosegli e guardandolo ansiosa) Alcibiade, ebbene?

Alcib. (con calma forzata) Ebbene... nulla è mutato. Noi partirem stanotte. (si volge agli altri) Andate a dar gli ordini. (Conone, Eufemo escono, Cimoto accenna anch’egli di uscire, ma si sofferma esitante sulla soglia, non visto)

SCENA V. TIMANDRA, ALCIBIADE, e in disparte CIMOTO.

Alcib. (Alcibiade segue gli amici dello sguardo fin che sono usciti, poi si volge a Timandra) Quanti dì sono, o Timandra, da che lasciai fra le ovazioni Atene?

Timand. Partimmo alla luna nuova di Targelione. Son sedici dì.

Alcib. (conducendola verso la tenda) Questa dunque che or si leva tranquilla dall’onde del mare di Icaro[460] è ancora la luna del mese. Pare che gli amori del popolo di Atene si mutino più presto della luna... e che un altro Icaro sia giunto a questi lidi. (le porge il foglio a leggere)

Timand. (leggendo concitatissima) «Socrate rifiuta i doni di Alcibiade nei giorni del trionfo per avere il diritto d’essergli amico nei giorni dell’infortunio. La disfatta di Antioco è qui nota: i tuoi nemici ne han versata la colpa su te. Il popolo ti ha deposto dal comando e ti chiama a rendergli conto. Persuaso da’ tuoi successi che tu devi e puoi vincere sempre, se il vuoi,[461] esso ti imputa la sventura [260] a tradimento. Gli inviati del popolo son partiti già.» (Timandra lascia cadere, affranta di dolore, il foglio)

Alcib. (con accento amarissimo) Liba dunque ancora agli Dei! Insegui la gloria! Timandra, sono i vantaggi della gloria, questi!

Timand. Ed ora che pensi?

Alcib. Aspettar gli inviati forse? Subir lo scorno della destituzione in faccia a’ miei soldati? Seder umile sopra gli altari, col ramoscello dei supplici in mano;[462] portar ad Atene, in atto dimesso, questa fronte, che vi apparve or son pochi giorni cinta del lauro de’ trionfatori? Oh, no, per i Numi! questa soddisfazione non l’avranno! Gli oboli della [261] paga ai giudici che devono sentenziar di Alcibiade non son coniati ancora.

Timand. (con accento angoscioso) Oh Alcibiade! ricordati di Catania!

Alcib. Rassicurati. L’ingratitudine e l’invidia mi ritrovano oggi ben più forte di allora. Allora era la fama che mi rubavano: oggi è di questa che mi fanno una colpa. Allora mi toglievano un nome: oggi non possono togliermi più che il comando... o la vita anche; perchè oggi, se anco morissi, ricorderebbe il mondo che c’è stato un Alcibiade. Tu vedi che mi basta, e che non ho più bisogno di una colpa per vendicarmi.

Timand. E dunque?

Alcib. E dunque questa spada che brillò al sole delle battaglie, ne faremo un prosaico spiedo da infilzar selvaggina! Atene non la vuole; non l’avrà più; la cercherà un giorno, e non l’avrà più.[463] (Nel discorrere la voce di Alcibiade è calma e ferma: ma d’una fermezza artefatta e forzata che ha le lagrime in fondo: Alcibiade parla quasi fra sè. Cimoto dal fondo ascolta e asciuga le lagrime) Lascerò la flotta e i compagni d’arme; andrò in luogo dove più nulla di Atene mi tocchi; dove, se è possibile, non oda nemmeno parlarne... Invece di inseguire Spartani, inseguirò camosci; vivrò, non più di gloria e di battaglie... ma di caccia e di pesca, di memorie e di sogni... come un téssalo pastore. In Tracia o in Persia vado..., in terra che d’ingrati non sia.[464]

Timand. Solo?

[262]

Alcib. Anche solo...

Timand. Oh, purchè non sia contro Atene, contro le Erinni e contro le Parche, io ti seguo!

Alcib. E vieni allora! Traverseremo il campo, fino alla spiaggia, frammezzo alle coorti che riposano nel sonno... (Cimoto esce di scena) Addio (guardando fuori della tenda), compagni di fatiche, di gloria e di pericoli, coi quali speravo combatter l’ultima pugna! Addio, limpide noti del cielo di Jonia che ieri ancora sorridevate al mio destino!... Vedi, o Timandra, la sera com’è serena; le stelle risplendono nel profondo azzurro, come se illuminassero, non la caduta di Alcibiade e la fuga di un proscritto, ma la passeggiata felice di due felici amanti... Non ti sembran beffarde, o Timandra, le stelle? (a questo punto la fermezza e l’ironia forzata abbandonano Alcibiade: e la sua voce, già fatta tremante dall’interna emozione, si rompe in uno sfogo di pianto) È troppo! è troppo!

Timand. (accorrendo a lui con voce affettuosa) Alcibiade!...

Alcib. (rasciuga le lagrime e si leva con impeto, come vergognandosi del proprio sfogo) Andiamo! Andiamo! il tempo corre!... in sella e al lido!

Cim. (si affaccia di nuovo, serio, mesto, silenzioso sulla soglia)

Alcib. (con malumore, nel veder Cimoto) Che vuoi?

Cim. (con voce calma, mestamente affettuosa) I cavalli son pronti. Se non ti rincresce... ne ho sellati tre.

Alcib. (dopo un momento di irresoluzione e dopo aver guardato Timandra, che collo sguardo lo prega di lasciar venire Cimoto, si volge a quest’ultimo con voce che vorrebbe esser brusca e non è) E monta su dunque!... (Cimoto rasserenatosi corre innanzi ed esce; Alcibiade ripiglia con voce lenta e mestissima) Se devo ormai vivere ozioso, inutile al mondo, — è giusto che un parassito mi mostri la via!

CALA LA TELA.

[263]

QUADRO OTTAVO

Anno 405 av. l’Era volgare, nel mese di Boedromione.
(4º della Olimpiade 93.ª — 26º e penultimo della guerra del Peloponneso)
Eubato di Cirene vinse il premio ad Olimpia.

ELLESPONTO (Chersoneso di Tracia).

Corte di Seute re di Tracia[465] a Patti sull’Ellesponto[466]. Tenda foggiata a sala di banchetto, mensa nel mezzo e sedili all’ingiro. Pelli distese qua e là per terra. Sulle mense sono posti dei corni per bere: e dei piccoli tripodi, contenenti le vivande, uno dinanzi a ciascun convitato. Armi tracie sospese in giro (targhe o pelte, sciabole, archi, faretre).

SCENA PRIMA. SEUTE re, ALCIBIADE, CIMOTO, BERÌSADE, MEDÒSADE, ODRISIO traci; altri guerrieri e coppieri traci.

(Ad eccezione di Cimoto, il solo vestito alla greca, tutti i convitati, compreso Alcibiade, indossano il costume trace[467]: berrettoni di [264] pelle di volpe (alopéchidi) coprenti il capo e le orecchie[468]; tonache scendenti sulle coscie, e, sopra le tonache, mantelli più corti e screziati (zeire); calzari o coturni di pelle di cerbiatto ricoprenti [265] i piedi e le tibie; corte sciabole o scimitarre, alla cintura[469]. I convitati, a differenza dell’uso greco, son tutti seduti, non su letti, ma sopra scanni; qualcuno accoccolato su pelli distese per terra. [266] Alcibiade siede alla destra del re. Coppieri traci portano in giro, versando da bere, grandi corni di vino. Il re, tratto tratto, fa in piccoli pezzi i pani (grandi e rotondi) e li getta ai convitati. Il banchetto è sul finire e i fumi del vino cominciano a riscaldarne l’allegria.[470])

Seute.[471] Alcibiade, m’avean raccontato molte cose di te: ma tu veramente sei maggior della tua fama. Sai tu che noi Traci abbiam rinomanza di cavalcatori[472] e che il puledro da [267] te oggi domato parecchi fra i nostri più arditi s’eran provati indarno a salirlo?...

Cim. (che mangia avidamente al capo opposto della tavola) Ma tu, o re, non sai che noi abbiamo vinto alle corse di Olimpia[473] e [268] col carro e col celéte,[474] e che n’abbiam portato la prima, la seconda e la terza corona...

[269]

Seute. Che! per Sabàzio![475] tu così pingue ad Olimpia?

Cim. Domandalo ad Alcibiade. N’è vero, Alcibiade, che te le ho portate io le corone?

[270]

Seute. (ridendo con gli altri convitati) Ah, ora meglio ti spieghi! Ebbene, Alcibiade, la tua vittoria d’oggi val bene l’altra d’Olimpia. Il vanto più antico del paese nostro — per Mercurio! — [476] è la prima volta che lo sfronda uno straniero...

Alcib. Ti sembra, o re Seute, che ancora io sia così straniero in Tracia? Qui fra voi ospitato, i miei lari, e i beni, e le castella, e tutte le mie cose son qui.

Seute. Nè la Tracia ebbe mai ospite più degno. Anzi, più che ospite! poichè fra i Traci ed Atene sono vincoli antichi: qui è il granajo dell’Attica vostra,[477] e fu nostro re Téreo che sposò Progne, la figlia del vostro re Pandione...[478]

[271]

Alcib. Tristi cose rammenti! Téreo e Progne e Filomela, mutati in augelli, vanno ancora piangendo a notte scura l’orrida cena per i boschi di Dàulia.[479] Che giova fra i calici discorrer di delitti e di sventure! Non parliamo d’Atene!... (Alcibiade proferisce quest’ultime parole in modo singolarmente accentato; e come cercando cacciare una nube di tristezza, ripiglia subito dopo una forzata ilarità)

Seute. Oh Alcibiade, ma io so qualcos’altro: so che sei nato a Scambónide,[480] proprio là dove Eumolpo di Tracia[481] segnò con Atene il primissimo patto di alleanza e fondò i misteri delle Dee: e là, ov’è la tomba di Eumolpo nostro, ivi è la culla tua. Vero questo, Alcibiade?

[272]

Alcib. Sì: ma a che pro cercare vincoli incerti, se niun vincolo è più caro agli Dei di quello di ospite ed amico! Re Seute, re Seute, non parliamo d’Atene!

Seute. Dell’amicizia nostra dunque si parli...

Cim. (a Berisade che gli siede vicino, nel ricevere in questo punto un pezzettino di pane gettatogli dal re) O perchè il re mi taglia lui e mi gitta il pane e la carne, così a pezzettini? mi ha preso per una formica?

Beris. Così si usa fra noi.[482]

Cim. Ah, è il vostro costume!... Bello, bello! E invece, ad Atene, se tu vedessi come si usa...

Beris. Come?

Cim. Ora ti mostro. Dà qua quel pezzo. (gli addita un grosso pezzo di carne: Berisade glielo porge. Cimoto se lo prende intero, se lo pone sulle ginocchia e se lo mangia a grossi bocconi) Il nostro costume... vedi, di noi altri Chiechenei,...[483] è questo... (parla mangiando)

Alcib. (osservandolo, con voce di rimprovero) Cimoto!

[273]

Cim. (seguendo a mangiare mentre i convitati ridono) Eh?

Alcib. Che fai?

Cim. Mostro qui a Berisade i costumi d’Atene.

Seute. (seguendo il discorso con Alcibiade) E dunque, Alcibiade, poichè mi sei ospite e amico, accettane in pegno il cavallo che oggi domasti; purissimo sangue dei cavalli di Reso.[484]

Alcib. Grazie, o re! Ma tu violi il costume. So che in Tracia è usanza pei re non far doni, ma riceverne.[485] Io qui pur troppo non ho di che ricambiarti il regalo. Solo la spada e il braccio mi restano:[486] poichè (con voce cupa e triste) per altri non m’è dato adoprarli, son tuoi. Tu sei in guerra [274] co’ Traci della montagna:[487] fa conto ch’io sia un Trace del piano.

Seute. Oh, così il sole del Ponto ti avesse visto nascere, come del più perfetto fra i Traci mostri aver veramente le virtù...

Medos. (a voce forte, mezzo brillo) Tranne una, o re, tranne una!... Alcibiade, da noi si giudicano uomini quelli soli che sono potenti a molto mangiare e molto bere![488]

Beris. (dall’altro capo della tavola) Medosade, non hai guardato da questa parte. (indica Cimoto battendogli sulla spalla) Questo è un uomo.[489]

[275]

Cim. (inchinandosi) Grazie! Lo sapevo.

Beris. L’amico qui... (seguendo a batter forte sulla spalla a Cimoto, che coi gesti ringrazia modestamente del complimento)

Cim. (a Berisade che nel parlare gli batte sulla spalla troppo forte) Sì, grazie! Ma un po’ più adagio, se non ti dispiace...

Beris. (ripigliando da capo) L’amico qui ha mangiato per me, per te e per altri due...

Medos. Ma del bevere io parlo! Alcibiade, tu oggi per Trace non ti sei distinto. Ti invito alla sfida di Ercole e di Leprea.[490] Vuoi fare un brindisi meco?

Alcib. (cortese sorridendo) Ah! Il cavallo alla pianura![491] E perchè no?

[276]

Cim. (a parte) Già! anche il porco una volta sfidò Minerva...[492]

Medos. (non ha ben capito le parole di Cimoto, però gli è parso di sentire un’insolenza, e gli si volta brusco e minaccioso) Che cosa hai detto!

Cim. Niente! niente! che sei un uomo!

Medos. (con aria di soddisfazione, calmandosi) Ah! (si volge ad Alcibiade) Bevi questo adunque ch’è vin puro,[493] e di Bibli, alla salute del re nostro. (si alza mezzo barcollante e gli presenta un corno enorme di vino. Alcibiade pure si alza: gli altri si stringono intorno con curiosità)

Cim. Quel po’ di roba! ma son più di quattro cótile![494] No, no, Alcibiade! sei matto?

[277]

Alcib. (sorridendo a Cimoto) Vuoi per te solo la gloria? (a Medosade, freddo) Dà l’esempio: io ti seguo.

Medos. A te, o Seute! ho un fanciullo[495] e due schiave di Mileto: mi costano duemila cizicéni,[496] e forme più belle mai non vide la Jonia. Li dono a te.

Cim. (a parte) Eh, anche qui non c’è malaccio a fare il re! (Medosade tracanna e barcolla sempre più. Alcibiade dopo di lui alza il corno ricolmo)

Alcib. Alla tua salute, o re Seute, e che Sabazio, Marte e Zamolchi protettori della Tracia concedano alle tue armi la vittoria! (tracanna di un fiato: poi depone il corno vuoto, colla tranquillità più serena, mentre i convitati lo guardano con sorpresa)

[278]

Seute. (e altri convitati) Bravo, Alcibiade!

Alcib. (tranquillissimo, batte sulla spalla di Medosade stupefatto e barcollante) Amico!

Medos. Eh?

Alcib. Io ho bevuto da Trace... ma son di Grecia: e fui un pezzo a Sparta. (Medosade lo guarda senza comprendere) Il re ha una sposa, e i Greci onoran le donne. Ti sei dimenticato della regina.

Medos. (sconcertato) Che?!

Alcib. (freddissimo, sorridendo) Bevi meco ora questo alla regina! (fra la sorpresa dei convitati fa ricolmare ancora i corni, e ne presenta uno a Medosade che guarda Alcibiade estatico e prende il corno macchinalmente)

Beris. Sì, sì, Medosade, alla prova! Bravo Alcibiade!

Seute. Ma è Bacco Tebano in persona, costui!...

Alcib. Alla salute della bellissima Stratónica,[497] la fida sposa del re! e che Giunone Ilìtia[498] doni al suo talamo le gioie! (Alcibiade tracanna, poi depone calmo e sorridente il corno fra gli applausi dei convitati.[499] Medosade, senza dir parola, con uno sforzo [279] supremo appressa il suo alle labbra; a metà lascia cadere il corno, barcolla e stramazza. Alcibiade si guarda intorno, come per vedere se qualcun altro si avanzi alla sfida, indi, calmo, ripiglia) La sfida di Ercole e di Leprèa pare finita... (fra sè mestamente sospirando) (Se Timandra mi vedesse!...)

Seute. (levando il corno a sua volta) E noi tutti, ora, Alcibiade, beviamo alla tua! Così ti guardino gli Iddii e ti rallietino i giorni nelle nostre case ospitali!

Cim. (a parte) Case le chiama?! To! to! Le avevo prese per ispelonche![500] Come ci si sta bene!

Beris. (afferrando le ultime parole) Dove?

Cim. (canzonatorio, senza che l’altro se n’accorga) Nelle vostre... case ospitali!

Convit. Viva Alcibiade! (Seute e gli altri, meno Alcibiade, che è sul davanti della scena, tracannano. Poi Seute, quel che resta di licore nel suo corno lo versa addosso al vicino, e così fanno parecchi altri. Berisade, che è presso a Cimoto, versa addosso a lui sulla testa il vino rimastogli nel corno)

Cim. (brusco, incollerito, dando uno sbalzo) Ehi là! cosa fai?

Beris. (grave e dignitoso) Ti verso il vino che m’è rimasto nel corno.[501]

[280]

Cim. Che ti pigli il malanno!

Beris. Non vedi che così ha fatto anche il re? È il nostro costume di Tracia!

Cim. Ah si?... Allora... aspetta... (prende rapidamente il proprio corno per versarne il contenuto addosso a Berisade; ma nell’atto di buttarglielo addosso se ne pente e invece se lo beve) Sarà per un’altra volta.

Seute. Alcibiade, noi Traci sappiamo che le anime dei morti dopo un certo tempo ritornano sulla terra e in altri corpi ripigliano dimora.[502] Per Zamolchi![503] Tu certo prima di essere [281] un Greco dovesti essere un Trace! Se resti a lungo fra noi, diverrai l’idolo delle nostre donne, e romperai i sonni di molti mariti.

Odris. Perdono, o re! Tu fai torto alle donne nostre! Alcibiade, non sai tu nulla delle donne di Tracia?

Alcib. Ben poco. So che in Eritréa han dato le chiome per farne corda e trarre alla riva il simulacro di Ercole,[504] e questa fu un’azione buona: e so che in Dione di Macedonia hanno mangiato a pranzo il poeta Orfeo,[505] e questa, se vogliamo, fu un’azione cattiva.

[282]

Odris. Allor sappi anche questo. Noi di Tracia siamo gagliardi e le nostre mogli sono caste.[506]

Alcib. (sorridendo) Davvero?

Odris. (continuando) E quando il marito muore, è gara fra [283] di esse a scegliere quella che più gli è stata diletta e fedele...

Alcib. E quando è scelta?

Odris. La si accoppa, perchè tenga al marito compagnia.[507]

Alcib. (avvicinandosi ad Odrisio, a voce più bassa) Ebbene allora, amico mio, se anche tu hai mogli e se anch’elle sono caste, vigila! vigila su di loro!...

Odris. (incollerito, portando la mano all’elsa) Per il Vento e per la Scimitarra![508] tu insulti le mie donne e me!

Alcib. Pace, amico! e consenti alla gioia di Bacco qualche libertà di parola. Non le ho vedute mai, le donne di Tracia, alla prova...

Odris. Bada, io non te n’offra, di prove, una, e umiliante per te...

Alcib. L’avrò meritata. L’accetto.

Odris. Re Seute, Alcibiade vorrebbe veder a prova di fedeltà le donne nostre...

Seute. Nient’altro che questo? (a un servo) Vengano mia moglie e le mogli dei convitati.[509]

[284]

Alcib. (vivamente) Tua moglie! Ah no! mai!

Seute. Ella sola temerebbe confronti? (al servo) Va! (il servo esce)

Beris. (a Cimoto) Ora vo’ mostrarti una delle mogli mie ch’è una bellezza.

Cim. O quante n’hai?

Beris. N’avevo dieci; ma sei non le mi servivano più, e dopo un anno, le ho restituite ai parenti.[510] Dell’altre quattro, poi, una è un portento. Mio zio sposandola la pagò a suo padre duecento bei dárici sonanti: è quel che di meglio mi ha lasciato in eredità.

Cim. Eh? In eredità?

Beris. Sicuro: eravam due nipoti soli eredi. Nella ripartizione dell’asse ereditario, la moglie è toccata a me.

Cim. (guardandolo attonito) Ah?... Mi congratulo!

Beris. Esse vengono... Guarda, è la terza!

Cim. (osservandola nell’interno) Bella davvero! (a parte) Povera creatura! toccar in eredità a questo bue!

[285]

SCENA II. Detti, STRATONICA, ELPINICE, ARGIA, DROSO, altre donne.

Straton. Addio, Seute. A che ci hai chiamato?

Seute. Da Alcibiade d’Atene, qui presente, lo saprai. (Stratonica dà segni di inquietudine: le altre guardano con curiosa avidità Alcibiade additandoselo fra loro) Farai quel che egli dice.

Cim. (a parte, a Berisade) Così le comanda?

Beris. O non è sua moglie?

Cim. Non è come a Sparta. Là, le mogli comandano ai mariti...

Beris. E qui i mariti alle mogli.[511] È più sicuro...

Cim. Già! e per questo le vi son fedeli?

Beris. Certo. Ora vedrai. (questo breve colloquio fra Berisade e Cimoto ha avuto luogo rapidamente, mentre Alcibiade e gli altri scambiano qualche parola colla regina e le altre donne)

[286]

Odris. Parlerò io, o re, per Alcibiade. (ad Alcibiade) È nel patto?...

Alcib. (inchinandosi) È nel patto.

Odris. O regina, o donne, sapete di voi che cosa disse Alcibiade di Clinia, ateniese, qui presente?

Straton. Che disse?

Odris. Tristi cose! Che le donne di Tracia non sono caste! (esclamazioni fra le donne)

Argia. Per le colombe di Citerea! Egli ha detto questo?

Alcib. Ma Odrisio!... io non ho...

Odris. Tu non hai libertà di parola, perchè mi hai dato libertà di prove. È nel patto. Tu taci. (alle donne) Egli ha detto questo, e peggio ancora...

Elpin. Peggio? Che cosa?

Odris. Che le donne di Tracia sono brutte.

Straton. (con risentimento maggiore di prima) Alcibiade!

Elpin. O l’impudente! Questo è troppo!

Alcib. (a Odrisio cercando difendersi) Odrisio!... ma...

Odris. Ma tu taci...

Argia. Che Giove gli mozzi la lingua!

Odris. Silenzio! E ha detto ancora...

Tutte le donne ad una voce, indignate. Come? Come? Ancora?

Odris. Che le donne di Tracia giurano il falso...

Argia. Uh! l’iniquo!

Elpin. Vogliam fargli la festa d’Orfeo?

Cim. (a parte) Povero padrone! Quella ci mancherebbe!

Droso. Che Zamolchi lo confonda!

Odris. Confonderlo sta in voi! Giurate sull’onor vostro...

Cim. (a parte, sogghignando) Bella garanzia!

Odris. Di dire il vero (esclamazioni fra le donne: Sì, sì!): e senza riguardo ai mariti, ponga ciascuna in un’urna il nome di colui ch’ella vorrebbe nel talamo... a compagno...[512]

[287]

Seute (alzandosi repente con voce severissima) Odrisio!

Odris. (intimidito) Seute?

Seute. La tua domanda è sleale e temeraria: ringrazia la fortuna che mi trovi di umor lieto: se no, potrei ricordarmi che s’appressa la festa di Zamolchi e ch’egli aspetta il suo ambasciatore! Ma poichè osasti una simile domanda, e voi (ai convitati) la consentiste, sia vostra la pena e sia la domanda più completa. Abbia ciascuna di voi (alle donne) per sempre il compagno ch’ella si avrà scelto, sia o no suo marito: e senza timore lo scelga!... Paventi la mia collera chi ad esse oserà torcere un capello!

Straton. (come volendo parlargli) Seute...

Seute. Per tutte io parlo: e anche per te. Sia schietto e libero il cuore della regina, come quel dell’ultima fra le sue donne. Ho detto. (le donne si ritirano in un lato della sala a scrivere i nomi ciascuna separatamente)

Cim. Bravo il re! Ora vogliam vederne di belle! Coraggio, Cimoto, fatti avanti. Che fossi proprio questa volta venuto in Tracia a far fortuna![513] (Cimoto si rassetta i capelli e gli abiti, e ripassa davanti le donne con aria da bellimbusto che cerchi mettersi in evidenza: i Traci si consultano fra di loro ostentando sicurezza baldanzosa: Alcibiade passeggia solo su e giù per la sala)

Beris. (con boria a Cimoto) Ora vedrai come la mia Argia mi è fedele. La è Penelope in persona.

Cim. Vedremo! E dimmi intanto una cosa... Di che ambasciatore parlava dianzi il re?

[288]

Beris. Ah, sicuro! Ognun di noi, quando muore, va a ritrovare il nostro dio Zamolchi: e per tenerci con lui in buoni termini, ogni anno gli si manda colle debite istruzioni un deputato in ambasciata. Si mettono in tre colle lancie in resta: poi l’ambasciatore nominato lo si butta dall’alto, e lo si ripiglia sulla punta delle lancie...[514]

Cim. Brrrrrrrr!!!

Beris. Se muore, è segno che Zamolchi ha fatto buon viso all’ambasceria; se guarisce, è segno che l’ambasciatore è un furfante; lo si bastona a dovere, e si nomina un altro in sua vece, incaricato di nuove istruzioni...

Cim. (lo guarda spaventato) Ah... sì?... E già... dev’essere un Trace l’ambasciatore...

Beris. (con indifferenza) Oh anche un forestiero può aver diritto alla nomina... Purchè acquisti la cittadinanza... Vuoi ch’io te la faccia avere?

Cim. (abbracciandolo) Ottimo cuore! grazie! tralascia! tralascia! (le donne frattanto han posto le tavolette in un’urna. Odrisio va a prenderle)

Odris. Ecco i nomi.

Seute. E tu leggili forte. (attenzione negli astanti)

Odris. (estraendone una) La regina! Seute, re.

Seute (avanzandosi verso la regina e baciandola) Grazie! Porrò un segno bianco nella mia faretra.[515] Ero ben certo della tua scelta e di te.

[289]

Straton. (con civetteria) E se io avessi scelto... un altro?

Seute. Idolo mio!... (riabbracciandola teneramente e baciandola ancora) T’avrei fatto tagliar la testa.

Straton. (balzando di spavento) Ma... e il tuo decreto?

Seute (a voce bassa). Era per gli altri — s’intende.[516]

Straton. (abbassando la testa fra sè, a parte) Ho fatto bene!

Odris. (estrae un’altra tavoletta: fa un gesto e una pausa di sorpresa, indi con voce di malumore) Alcibiade!

Beris. (e gli altri Traci, guardando con occhio torvo le loro mogli) Che!?

Cim. Bene!

Odris. (estrae un terzo nome; nuovo atto di sorpresa: la sua faccia si fa scura, e la sua voce tradisce l’ira) Alcibiade! (Alcibiade ha rialzato la testa e rimane immoto, sorridente; i Traci guardano alternamente con volti scuri ora lui, ora le mogli, Seute si mostra allegro e ridente)

Seute (ridendo). Ah! ah!

Cim. Benissimo!... Ci ho gusto... Eh già, noi Greci d’Atene!... (con compiacenza ed orgoglio fregandosi le mani) Adesso scommetto che viene la volta mia!

Odris. (estrae la quarta tavoletta: con voce rotta di collera repressa) Al-ci-bia-de!...

Cim. Oh, oh, adesso basta per lui!

Odris. (non più lento come prima, ma con precipitazione crescente estrae altre quattro tavolette fino all’ottava ed ultima e le legge [290] con voce concitatissima) Alcibiade! Alcibiade! Alcibiade! Alcibiade! (all’ultima scaglia l’urna, per ira, a terra. Cimoto, che non ha visto uscire il suo nome, perde alquanto della sua aria soddisfatta)

Beris. e gli altri. Che?! (sbalordimento fra i convitati, che gettano grugniti sordi di minaccia e sguardi truci di collera verso le donne ed Alcibiade; questi rimane sempre muto, immobile, tranquillo e sorridente. Le donne in disparte si mostrano confuse e impaurite)

Cim. (fra sè) A chi troppo e a chi niente! E a sentirle, le innocentine, volevano fargli la festa di Orfeo!... (si accosta a Berisiade che è cupo ed accigliato, e gli batte sopra una spalla) ... Eh... come hai detto che si chiama la tua moglie?... Penelope?

Beris. (si volta inviperito portando la mano all’elsa. Cimoto scappa)

Seute (ad Alcibiade). Costoro l’han voluto, e tu non hai nulla a rimproverarti. Figlio di Clinia, la fortuna ti è molto benigna, e il tuo ginecèo è molto ricco.

Alcib. (vivamente) Oh non già! non già! Nè Alcibiade è da tanto da aver sì splendido ginecèo, nè la scelta è così facile fra bellezze sì rare, perch’egli se l’arroghi! Re Seute, tu fa rispettare il tuo decreto, che nessuno le molesti. Amici, Odrisio ha parlato per ischerzo e certo elle per ischerzo hanno votato... Tornate allo amplesso delle vostre donne fatte prudenti! e tu, Odrisio (accostandosegli a voce bassa), come t’ho detto, vigila, vigila sulla tua!

Odris. (brusco) Non ho bisogno del tuo consiglio.

Alcib. (sempre parlando con Odrisio sottovoce e battendogli amichevolmente sulla spalla) Te ne darò un altro, allora... (gesto interrogativo di Odrisio) Quando vuoi perdere un uomo agli occhi delle donne, guardati dal dipingerlo un perfido! non bisogna nelle donne stuzzicare la curiosità. (Odrisio con un gesto brusco indispettito s’allontana, mentre Alcibiade sorride)

Seute. Addio, Stratonica! (ad un cenno di Seute le donne tutte escono)

[291]

SCENA III. Detti, meno le donne.

Cim. Una su otto! o fedeltà femminina! (si accosta ad Alcibiade) Io, già, al tuo posto, non sarei stato così generoso...

Alcib. Dovevo scegliere in presenza della regina?

Cim. (senza comprendere la risposta d’Alcibiade) Ah! la regina! quella sì è una brava donna!

Alcib. Sì!... poveretta!... E così innamorata di me...

Cim. (attonito) Eh?... e tu?...

Alcib. (con fare naturalissimo) E io ho ricusato. Seute è mio ospite, e Giove ospitale[517] mi guardi, chè io non so fargli offesa. Ma la regina è donna, ed io non potevo posporla, lei presente, ad un’altra. Buon Cimoto, se hai da fare con donne, ammazzale, che ti perdoneranno; ma non ferirle nell’amor proprio, se non vuoi trovar Nèmesi e le Furie meno terribili di loro.

Cim. Lascia fare! Ci regoleremo! Va là che sei furbo! Se Timandra ti vedesse!

Alcib. Non dirle nulla oggi... sai!...

Beris. (guardando verso l’interno) Alcibiade! qualcuno cerca di te.

[292]

Alcib. Di me? Se tu, Seute, permetti... (cenno cortese affermativo di Seute) Venga!

SCENA IV. Detti e TRASILLO.

Alcib. (al veder Trasillo si fa improvvisamente torvo e scuro) Trasillo!

Tras. (accorrendo ad Alcib.) Salve, Alcibiade! Da Atene io vengo.

Alcib. Ad annunciarmi qualche nuova sentenza contro di me? o qualche nuova condanna di capitani vittoriosi?[518]

Tras. No, no, Alcibiade! I tuoi amici d’Atene ti salutano e ti fan sapere che negli animi del popolo rivive il desiderio di te. Ti pregano intanto che tu ti adoperi a rialzare la fortuna depressa di Atene, mentre essi van lavorando al tuo richiamo...

Alcib. (serio e scuro in volto) Questo ti hanno incaricato di dirmi?...

Tras. Sì...

Alcib. (si volge a Seute) Ascolta dunque, o re Seute! Alcibiade ha combattuto per Atene a Potidea, a Delio, a Mantinea, a Catania; e Atene in premio lo ha dannato a morte; pure Alcibiade è tornato a lei, e per lei ha vinto due volte ad Abido, e a Samo, e a Mileto, e a Cizico: ridonatole il dominio dell’isole e del mare, portate ad Atene duecento navi in trofeo: e Atene in premio lo ha condannato una seconda volta!... Ora questa Atene mi manda a salutare!... (si volge a Trasillo e la sua voce sarcastica ridiventa grave e cupa) Ritorna alla città! e di’ a coloro che ti mandarono, che tu hai visto [293] Alcibiade, e che le porte dell’Erebo non son così chiuse dietro le spalle dei morti, come son chiuse le sue orecchie ad ogni voce che gli giunga da Atene! Di’ loro, che tu hai visto Alcibiade, vestito da Trace, ubbriaco come un Trace, e che le sue spoglie e il suo volto erano meno cangiati della sua anima; di’ loro che dall’alto del suo castello egli ha veduto veleggiar per l’Ellesponto le navi di Lisandro che stan preparando le sue vendette; di’ che Alcibiade non ha amici in una città di traditori e di ingrati, ove l’esilio e la morte sono il premio di quelli che combattono e vincono per lei!...

Tras. (annichilito dalla sfuriata di Alcibiade, con voce supplichevole) Alcibiade...

Alcib. Va! va! Annunziami che han profanato il sepolcro di mia madre Dinòmache, sarai meno male accolto che non portandomi i saluti di Atene!... Va!... (con gesto imperioso gli interdice di replicare: Trasillo si allontana mestissimo e mortificato: Alcibiade lo richiama in sull’uscire) Aspetta!... (Trasillo si ferma in sulla soglia. Alcibiade evidentemente combattuto nell’interno dell’animo, vorrebbe dir qualche cosa: ma poi si riprende, e si limita a soggiungere con voce lenta e cupa, senza guardar Trasillo in volto) Salutami Socrate!

SCENA V. Detti meno TRASILLO.

Cim. (è rimasto nel frattempo in disparte con aria pensierosa di rincrescimento: partito Trasillo, si accosta ad Alcibiade e gli parla con voce piana, insinuante) Lo hai accolto molto male... quel povero Trasillo!... (Alcibiade non risponde, in preda a interna violenta lotta; ha il volto scuro, le braccia conserte, lo sguardo a terra. Cimoto incoraggiato dal suo silenzio, e come cercando di scrutarne l’animo, prosegue) È andato via atterrito e mortificato..., e Giove mi renda cieco, se non mi è parso vedergli cader due grosse lagrime dagli occhi... Alcibiade, permetti una parola al tuo buon Cimoto? (Alcibiade non risponde, nè cambia positura. Cimoto, più incoraggiato, prosegue)... Atene ti ha fatto molti torti, ma è pur sempre la terra dove sei [294] nato: e non tutti i perversi sono Atene. Io so che tu l’ami, tuo malgrado... Vedi, tu sei più buono che non vuoi parere, e forse già ti rincresce di esserti lasciato trasportare. (Alcibiade fa un gesto vivissimo, come indispettito d’aver lasciato trasparire la interna commozione) Qualora i tuoi concittadini, ravvedendosi, pensassero...

Alcib. (rompendo bruscamente il silenzio) Qualora pensassero che le tue ciancie han finito per un pezzo di importunarmi, per i fulmini di Giove, avranno detto il vero, se tu mi parli ancora una volta di Atene. (Cimoto si ritrae mortificato e addolorato)

SCENA VI. Detti ed EUFEMO.

Beris. (rientrando) Oh, oh, Alcibiade, ti cercano ancora...

Alcib. (con istizza) Rimanda chiunque! non vo’ veder più nessuno!

Euf. (correndo ad Alcibiade) Tranne me, Alcibiade!... tranne me!

Alcib. Tu qui? (brusco) Anche tu da Atene?

Euf. Non da Atene! Dalla flotta vengo.

Alcib. (sorpreso) Quale flotta?...

Euf. Ma la nostra!... I duci ci han dato facoltà di sbarcare... ed io, sapendoti in questi luoghi, sono corso ad abbracciarti...

Alcib. (fatto improvvisamente attentissimo, a voce lenta, interrotta, che tradisce l’inquietudine) I duci... vi hanno dato... facoltà di sbarcare?... E dove?...

Euf. Alla foce di Egospótamo, rimpetto a Lámpsaco.

Alcib. Ah!... (rompe in un grido fortissimo di ira ed angoscia, che sorprende e spaventa gli astanti; poi prende violentemente per un braccio Eufemo e gli parla con voce soffocata dalla concitazione) E non sapete che a Lampsaco c’è Lisandro appostato in pieno assetto di battaglia; e se restate ad Egospotamo un giorno solo di più siete perduti?! Oh Numi! (con voce rotta, febbrile, tonante di collera) E son capitani, questi! Presto!... a me la corazza, le armi! (Cimoto dà segni di allegrezza e aiuta Alcibiade a vestirsi, associandosi alle sue esclamazioni) Ed è a questa gente che Atene affida le sue navi! Ma vedi, o Seute, se non ho ragione! se non sono traditori! [295] La mia spada!... dove sono i duci? (ad Eufemo, mentre gira impetuoso per la stanza cercando le armi)

Euf. (sbalordito) A terra!

Alcib. Ah! imbecilli! sciagurati!

Cim. (ripete con indignazione comica le parole di Alcibiade) Imbecilli! imbecilli!

Alcib. (pur seguitando a cercare e ad indossar l’armi precipitosamente, alla rinfusa, fra esclamazioni e voci rotte di collera) Cimoto, un cavallo!

Cim. Ce ne sono già pronti![519] (dando segni di gioia, corre per andar via, ma prima di uscire, ritorna indietro verso Eufemo e con voce commossa, che vorrebbe essere brusca, gli dice) Non meritereste un corno! (esce correndo)

Alcib. (mentre si assetta la corazza con precipitazione convulsa) Portar la flotta proprio in bocca al nemico! Ma sono venduti a Lisandro costoro!... Ah! l’elmo... dov’è il mio elmo? (non trovandolo, ne strappa in furia uno appeso)

Seute. Che fai?! È il mio quello!...

Alcib. (badandogli appena) Non fa nulla! (ad Eufemo) Su, su, alla tenda dei duci! In groppa! in groppa! o Atene è perduta! Ah, sciagurati![520] (esce correndo, esclamando, bestemmiando e lasciando tutti attoniti)

Seute. (dopo ch’è uscito, con ammirazione) Due Traci come costui, e conquisto la Grecia!...

CALA LA TELA.

[296]

QUADRO NONO

Anno 404 av. l’E. V., nel mese di Pianepsione (ottobre-novembre)
(1.º della Olimpiade 94ª — 27.º ed ultimo della guerra del Peloponneso)
Crocinas di Larissa vinse il premio ad Olimpia.

EGOSPOTAMO[521]

Campo ateniese presso Egospotamo (nel Chersoneso di Tracia). In fondo il mare (l’Ellesponto). Tende dei capitani da un lato. Scolte nello sfondo, lungo la spiaggia.

SCENA PRIMA. ALCIBIADE, EUFEMO, indi ALCIBIADE solo.

Euf. (entrano trafelati egli ed Alcibiade) I duci, credo, stan banchettando. Attendimi qui. Vado ad annunziarti.

Alcib. (gettandosi stanco sopra un masso) Va, e fa presto. (Eufemo entra nella tenda dei duci, Alcibiade rimane solo) Stan [297] banchettando![522] e ad Atene frattanto sovrasta la ruina!... Coraggio, anima mia!... Via da me, inutile orgoglio!... Si pensi ad Atene.

SCENA II. ALCIBIADE e CARICLE soldato.

Caric. (venendo dalle tende dei duci, con deferenza rispettosa) Salve, Alcibiade! I duci han lasciato ora appunto le mense. Essi ti pregano di attenderli. Fra brevi istanti saranno qui. (Alcibiade lo guarda serio e torvo, senza risponder parola. Il soldato lo osserva) Ma tu devi aver corso per ben lungo cammino: sei trafelato, polveroso, grondante di sudore: sarai sfinito dalla stanchezza e dalla arsura. Questo è licor pretto di Chio, di quello che bevono i duci: qui, al campo, la sete non si patisce. Su, Alcibiade, ristorati... (Alcibiade non risponde, ma scaglia a terra con moto violento d’ira il corno che il soldato gli presenta. Càricle rimane a tutta prima attonito e interdetto: poi tranquillamente va a raccogliere da terra il corno, ne succhia gli ultimi sgoccioli, e si volge ad Alcibiade con accento calmo e rispettoso) Ti sapevo superbo, Alcibiade!... Ma se meco sdegnavi di bevere, perchè sono un povero soldato, invece di gettarlo, potevi lasciarlo per me!... (s’allontana lentamente)

Alcib. (scosso dall’atto calmo e dalle parole calme del soldato) È più savio di me!... E così ti prepari, Alcibiade, a vincere l’orgoglio! Olà!... (forte al soldato, richiamandolo)

Caric. (soffermandosi) Che vuoi?

Alcib. Come ti chiami?

Caric. Càricle, figlio di Agórato, peanéo.

Alcib. (alzandosi e movendo a lui) Càricle, fosti meco cortese, ed io, senza volerlo, ti offesi. Ma quel vino... il banchetto dei duci... mi avevan richiamato pensieri irritanti. Perdonami.

Caric. (intenerito, confuso) Che?!... tu... Alcibiade?...

[298]

Alcib. (affabilissimo) Io Alcibiade, figlio di Clinia, prego te, Càricle, figlio di Agòrato, a perdonarmi, e ad accettare in segno del tuo perdono lo scambio delle nostre spade...

Caric. Ma ti pare! la tua è ricca, di squisito lavoro; la mia, affatto ordinaria! Il baratto di Glauco e Diomede...[523]

Alcib. Sarò allora io Diomede; perchè son io che guadagno nel cambio. L’amicizia d’un valoroso vale ben più che l’oro di quest’elsa. Accettala dunque... o crederò...

Caric. Accetto! accetto!... (fan lo scambio delle spade) E pregherò i Numi che ti salvino!

Alcib. No! no! non pregarli per me! (con voce tristissima) Pregali per Atene che muore!... (s’allontana da lui)

Caric. (seguendolo dello sguardo, con aria di stupefazione) Che cosa dice?... (guarda alternativamente Alcibiade e la daga avuta da lui, e scrolla il capo) L’aria di Tracia gli deve aver dato al cervello... Peccato!... un così bravo capitano!... (va via, guardando Alcibiade e tentennando del capo, mentre Alcibiade si è immerso di nuovo ne’ suoi pensieri)

SCENA III. ALCIBIADE solo.

Alcib. (cogitabondo, sospirando) Terra fatale ed ingrata, potevi risparmiarmi e i tuoi doni e gli oltraggi, se darmi non potevi [299] anche il dono di odiarti! a che crescermi superbo come la rocca della tua dea, se umile oggi devo farmi per te! Umile dinanzi a costoro che mi odiano, perchè in me paventano un rimprovero alla loro ignavia boriosa; umile perchè la loro vanità non si adombri, e perchè Atene (con accento di rabbia, stringendo i pugni) — giusti Numi! — è in mano loro! Coraggio! essi vengono!...

SCENA IV. ALCIBIADE, TIDÉO, ADIMANTO, CONONE. Altri due capitani, che non parlano.

Tid. Tu qui, Alcibiade!? Non era atteso il tuo arrivo. Comunque, sii il benvenuto. Se più presto venivi, avresti potuto fare un brindisi con noi.

Alcib. (serio e grave) In tal caso avrei propinato a Giove Salvatore e ai Numi caccia-mali, perchè aprissero gli occhi a te, valoroso Tidéo, e a’ tuoi compagni.

Tid. E Giove Salvatore e gli altri Numi avrebbero speso male il tempo: perchè vin puro bevemmo e non filtro di mandràgora: e i nostri occhi son benissimo aperti...

Alcib. Ma non vedono l’abisso sotto i vostri piedi. Ben d’altro, o Tidéo, che di far brindisi è tempo!...

Adim. (freddo) Di che dunque?

Alcib. (rinforzando la voce) Di badare alle navi!

Tid. Le navi sono affidate al senno e al valor nostro, e sta pur certo, Alcibiade, ch’elle sono bene affidate.

Alcib. E allora salvate Atene con esse!

Tid. (ironico) Alcibiade s’interessa alla salvezza di Atene? Sparta infatti ne serba la memoria...

Alcib. (gli sfugge un gesto vivissimo d’ira, ma tosto lo reprime e parla con calma) Tidéo!... lasciamo i sarcasmi. Più amaro delle tue parole, mi è il pensiero dei giorni che alla patria sovrastano. Si tratta, ripeto, di salvar lei...

Tid. Pare difatti, che, senza essere da te chiamati, siam qui venuti per questo...

[300]

Alcib. (con impeto) Così non ci foste venuti mai!...

Tid. (prontamente interrompendolo, e terminando la sua frase di prima)... e che tu, Alcibiade, sii venuto, come Menelao ad Agaménnone,[524] consigliero non necessario e non cercato...

Alcib. (nuovo moto di risentimento e nuovo sforzo per reprimersi: si avanza vivamente verso Tidéo, gli prende una mano e gli parla a voce sorda, concitata) Ma lo sapete che Lisandro è a Làmpsaco?

Tid. (tranquillissimo) Lo sappiamo...

Alcib. Con falangi numerose e con un’armata di duecento navi...

Tid. Tanto meglio!... Sarà maggiore il bottino... Per questo lo sfidiamo a battaglia fin sotto Làmpsaco ogni giorno, ed egli non osa uscir da’ suoi ripari...

Alcib. Ma è bugiarda e ingannatrice questa sua calma! Lisandro è capitano abilissimo, e non si mostra che per assalirvi all’impensata!...[525]

Adim. Venga!... sarà ricevuto!...

Alcib. Ricevuto? Ma come, se la flotta vostra è sbandata e gli equipaggi quasi tutti a terra?[526] Ma come riceverlo, qui, [301] dispersi, sovra un lido scoperto, lontani da porti e da città a cui appoggiarvi, vicinissimi ad un nemico vigilante e compatto, esposti a dover combattere alla sprovvista, per terra, contro forze superiori?

Tid. (con calma sarcastica) E son qui tutti i consigli di Alcibiade? e perciò venisti? Affè, mi rincresce ti sii dato tanta pena.

Alcib. (con forza) Oh, non tutti... non tutti!... se io...

Tid. (interrompendolo vivamente, con ironia) Se tu guidassi la flotta — la guideresti meglio di noi — questo vuoi dire?

Alcib. No, Tideo! chiamo gli Dei tutelari di Atene testimoni, che nessun pensiero di ambizione è ora in me. Ma se in voi parla l’affetto della città vostra, uditemi, ve ne scongiuro! Atene vi ha affidato le sue ultime risorse;[527] delle sue navi, delle sue schiere, tutto quel che le resta è qui; qui voi non potete dire, come Spartano alle Arginuse:[528] «Perduta questa [302] flotta se ne armerà un’altra!» Perduta questa, è perduta Atene!... Ascoltatemi. Qui la disfatta vi sovrasta. (La voce di Alcibiade si vien facendo ad ora ad ora insinuante, supplichevole, incalzante, affannosa per l’emozione) In nome d’Atene, partite senza indugio da qui. Imbarcate le truppe: allontanatevi da Lisandro. Portate subito la flotta fra Sesto ed Abido: là tenetela unita, pronta alla pugna. Lisandro evita la battaglia in mare, perchè, più forte di fanterie, aspetta di assalirvi per terra; voi datemi un po’ de’ vostri opliti e di arcieri; con essi, colle mie genti e con un corpo di Traci, io m’impegno ad attaccare lo Spartano nel suo campo di Lampsaco, a ributtarlo in disordine sulle navi, e costringerlo ad accettar su di esse la battaglia, quando più vorrà evitarla e quando alla disfatta non isfuggirà.[529] Questo io farò, per la tomba [303] di mio padre lo giuro; ma salvate Atene — per tutti gli Dei! Salvate Atene!

Con. (a Tidéo, scosso dallo scongiuro di Alcibiade) Tidéo, il consiglio di Alcibiade mi par savio e buono...

Alcib. (vivissimamente) Oh, grazie, Conone!... persuadili tu dunque...

Tid. (ironico) E chi non sa che l’illustre Alcibiade non può dar che sapienti consigli a noi, novizj nell’arte della guerra?! Ma alla buon’ora, Alcibiade, ora ti spieghi più chiaro... è il comando che vuoi...[530]

[304]

Alcib. (con forza) No, non il comando...

Tid. (beffardo, interrompendolo) La gloria dunque, che è meglio; e l’onor della vittoria, in faccia ad Atene, or che la vittoria, mercè nostra, è fatta sicura...

Alcib. (fra sè, a grave stento reprimendosi) Giusti Numi, soccorretemi! (si volge a Tideo) No, no, Tidéo, sii tranquillo. Neppur questo. Se questo solo vi toglie di accettare il mio consiglio, ebbene, colla flotta tragittatemi a Sesto: là scenderò a condurvi la mia gente e n’abbia il comando un di voi. Io combatterò da soldato...

Tid. Per avere di capitano il vanto e non la responsabilità. Tardi ti prende, Alcibiade, il desiderio di risalir le navi d’Atene. Non dovevi abbandonarle come un colpevole ed un fuggiasco!

Alcib. (in un moto violento di collera porta la mano alla daga) Tidéo... bada a te...

Tid. (ponendosi in guardia a sua volta) Minaccie ora?...

Alcib. (padroneggiandosi con supremo sforzo, ritira la mano dall’elsa) Ebbene, no, non minaccie! preghiere! preghiere soltanto. Poichè, è per Atene, ch’io prego. Tidéo, tu ingiurii, ed io non ti ho ingiuriato. Eppure anche il mio passato non è senza qualche gloria: tu vedi, io non ne parlo. Eppure Alcibiade non tollerò mai insulto da persona al mondo: tu vedi, io ti favello cortese. Parlasti di viltà, e sai che vile non sono. Se tu ami la patria e anch’io l’amo; se tu offri a lei la tua vita, ed io son pronto a darla al par di te; ma in attesa di morir per Atene, si tratta di vincere per lei!

Tid. La tua vita! l’hai salvata, sottraendoti alla condanna, laggiù, in Sicilia...

Alcib. (frenandosi sempre, ma con voce oramai fatta tremante per l’interna febbrile commozione, e a volte a volte concitata, angosciosa, quasi avente in fondo le lagrime) E fu consiglio di Numi, perchè io potessi giovare ad Atene in questo dì. Sì, due volte essa m’ha dato l’esilio; ma a te, Tidéo, a voi Filocle, Adimanto, Menandro, Conone, essa non ha fatto nulla, perchè vi debba premere di perderla! (supplichevole a Conone) Conone, [305] tu vincesti con gloria alle Arginuse; tu mi ascoltavi dianzi...

Con. (abbassando mesto il capo) Io son solo.

Alcib. (sempre più incalzante supplichevole) Ma tu, Filocle, hai pugnato meco a Catania; tu, Adimanto, eri a Cizico con me. Parlate voi!... Voi tacete! (con accento di disperazione) E Lisandro è là! Dei, qual cecità, qual delirio dunque è il vostro!...

Tid. (imperioso) E tu dunque tralascia di parlare ai deliranti. E vanne! che a noi soli spetta qui il comandare[531] ed è nostra la responsabilità.

Alcib. (tuonante, aprendo lo sfogo all’ira) E cada essa dunque su di voi, e Nemesi vi faccia sopravvivere tanto, che Atene possa chiedervi conto delle sue sventure! Prega, o Conone, prega per Atene, perchè oggi il cielo è ben irato con lei, se ha permesso che le sue sorti cadessero in tali mani!... (agli altri) Oh, sì, rallegratevi, che Alcibiade si è abbassato a pregarvi; ditelo al mondo, perchè mai più non vi toccherà così alta ventura, che il superbo Alcibiade lo avete visto supplicare e piangere dinanzi a voi!... Anime abiette d’invidia e di livore, no, Alcibiade non vi ruberà nulla della vostra gloria! Non duci, — traditori di Atene, la gloria del tradimento[532] è tutta vostra! (moti d’ira e di minaccia fra i duci. Conone resta in disparte a capo chino)

Tid. (sguainando la spada) Paga tu intanto il fio della impudenza!...

Alcib. (incrocia repentinamente le braccia sul petto, e si pianta risoluto in faccia a Tidéo, squadrandolo in atto di sfida) Ferisci! (Tidéo s’arresta interdetto, mentre Conone ed altri si frappongono. Quadro)

CALA LA TELA.

[306]

QUADRO DECIMO

Anno 404 av. l’E. V. nel mese di Pianepsione (ottobre-novembre)
(1.º della Olimpiade 94.ª — Terminata la guerra del Peloponneso)
Crocinas di Larissa vinse il premio ad Olimpia.

FRIGIA

Capanna presso un villaggio in Frigia (Asia minore).[533] Interno della capanna, rustico, poverissimo, con una sola uscita nel mezzo ed una apertura o finestra laterale.

SCENA UNICA. ALCIBIADE dormente sopra un po’ di paglia; TIMANDRA; poi CIMOTO.

Timand. (sola, in ascolto, guardando fuori) Come è scura la sera, e come fischia il vento per la campagna! Di fuori il lamento della natura, qui dentro (guardando Alcibiade) le tempeste di un’anima! così grande e infelice!... (si picchia alla porta) Ah!... finalmente!... Chi è là?

Cim. (dal di dentro) Io... io... Cimoto... (Timandra apre; Cimoto entra con segni di freddo e di stanchezza e va a buttarsi sopra un sedile)

Timand. (ansiosa) Che nuove?

Cim. Brutte nuove.

Timand. (additandogli Alcibiade dormente) Sssss! piano! egli dorme... Che dici?

[307]

Cim. (a voce abbassata) Dico che bisogna sgombrar da qui. A Sardi ho incontrato Brasida spartano. Costui, quando Alcibiade fu a Sparta, ne ebbe benefizj e gli si affezionò. È venuto in segreto a parlarmi di lui. Appena, dopo la vittoria d’Egospótamo e la caduta d’Atene, Sparta seppe che Alcibiade si recava dalla Tracia qui in Persia, domandò al sátrapo persiano la sua testa: e il sátrapo l’ha promessa.[534] Sparta non si tiene sicura finchè Alcibiade sia vivo...

Timand. (con amarezza profonda) Vigliacchi!

Cim. Povero padrone! eccolo là che dorme, ignaro del pericolo! Ho fatto venti parasanghe[535] in quattro dì e quattro notti, da Sardi fin qui, solo, per dirupi e per boscaglie, affrettandomi e ansando... tremavo di non giungere in tempo.

[308]

Timand. (stringendogli la mano con effusione di gratitudine) Oh, Cimoto!... Alcibiade saprà ciò che hai fatto per lui: questo anello intanto ti sia povero pegno della riconoscenza di Timandra... (si leva una gemma dal dito)

Cim. (serio, commosso) Tieni il tuo anello. Quello ch’io ho fatto, l’ho fatto per amore di lui e di te. Il vecchio Cimoto parassita è morto da un pezzo.

Timand. Oh, le due Dee mi puniscano s’io volli farti offesa! Nè già per compensarti, buon Cimoto, ti pregavo ad accettar questo ricordo.

Cim. Ricordo? La memoria di Cimoto è buona, e non ha bisogno di questo. Tieni, ti prego, il tuo anello! Tu non sai quello ch’io debbo a lui. Un giorno, sono undici anni e mi par come oggi... queste orecchie, abituate a non udire che parole di scherno, udirono per la prima volta una parola amica di conforto: quella parola era la sua. E nota, o Timandra, egli non poteva aver molto a lodarsi di me; ma quel giorno egli mi pose a fronte di quel bel mobile di Tessalo, e mi fe’ comprendere che innanzi agli Dei, scrutatori dei cuori, un povero parassita può valere un nobile discendente da Milziade. Oh, tu non sai, quelle parole che bene m’han fatto! Dividere, io, il disutile, il disprezzato Cimoto, la mia sorte con Alcibiade! Mi parea d’essere come l’erba crisópoli, che attaccandosi all’oro ne piglia il colore.[536] Conobbi sentimenti nuovi per me; Atene cessò di essere per me una parola... Non dico, che l’appetito non mi serva ancora, e alla corte di Seute mi son fatto onore: e quanto a coraggio, non ce n’ho colpa se la natura non m’ha fatto un Tesèo: ma da che vivo con lui, credo di non essere più una lepre. Venendo qui, ne ho fatti tanti degli stadj, e di notte, e allo scuro: e lontano, per la nera solitudine, sentivo gli urli delle bestie feroci: se ne togli un po’ di tremito alle gambe, sull’onor mio, non ho provato altro. Animo, Cimoto! — pensavo [309] nel sentirli — si tratta di farsi onore, di salvare Alcibiade, e... e affrettavo il passo. Sicuro! mi par d’essere diventato perfin coraggioso... E questo, tutto questo lo devo a lui! Oh, per i Numi, tieni il tuo anello! tieni il tuo anello!

Timand. (commossa stringendogli la mano) Leale Cimoto! Ancora ad Alcibiade furono clementi gli Dei, se tale amico[537] gli serbarono nella sventura.

Cim. Te pure gli serbarono.

Timand. E poi ch’essi ne vollero avvinti entrambi al suo destino, la mia... amicizia... la accetti questa... almeno?

Cim. (commosso ringraziando e asciugandosi gli occhi) Lo domandi?

Timand. Di’, conobbero a Sardi la via da noi presa?

Cim. Non credo. Almeno Brasida me l’affermò. Comunque, abbiam quattro giornate di cammino di vantaggio...

Timand. Stasera stessa partiremo con lui... (guarda con affetto Alcibiade) Egli riposa; era sì stanco!... Vegliò tutta la notte! Silenzio: si agita nel sonno... Qualche sogno lo tormenta... (Timandra e Cimoto si appressano ad Alcibiade in punta di piedi e stanno in ascolto)

Alcib. (nel sonno, con voci lunghe) Attenti al segnal dello scudo!...[538] Correte alle navi! Lisandro arriva! Su, su, alle navi! alle navi!... (con un lungo lamento) Oh Atene!

Timand. Atene! sempre Atene! Sogna Egospótamo e la orrenda disfatta che egli indarno previde!... Povera grande anima, quando riposerai? (si china su di lui e lo bacia in fronte) Un mesto sorriso gli sfiora le labbra... or sembra più tranquillo. O sogni, silenziosi figli della Terra,[539] aleggiate almen placidi intorno al suo capo!

[310]

Cim. Pur converrà destarlo. Le ore passano.

Timand. (chinandosi sul dormiente, e chiamandolo a voce dolce e piana) Alcibiade?!

Alcib. (aprendo gli occhi) Ah!... (ravvisa Timandra) Sei tu, Timandra? Perchè mi destasti?

Timand. Cimoto è ritornato...

Alcib. (macchinalmente) Ah, di già? Addio, buon Cimoto... (a Timandra) Mi hai rotto un bel sogno!... Mi parea veleggiar per l’Ellesponto, sulla Pàralo[540] sfuggita allo eccidio di Lisandro; e a schiere a schiere le ombre dei prigioni ateniesi trucidati[541] venìan correndo alla marina, e a me stendevano le scarne braccia dal lido, domandando vendetta e pietà. Poi, la scena mutavasi: e mi trovavo al Pireo, tra una folla festante, traendomi dietro le navi e le spoglie dei vinti Spartani: echeggiavan per l’aria concenti di tibie e cantici di vittoria: il popolo gridava: Salute al vincitore di Lisandro! al vendicatore di Egospótamo! E la turba e le voci via via confusamente si dileguavan lontano, finchè non mi parve più udirne che una sola: era la voce di Timone il misantropo, che seduto alla riva, raspando la terra, mi guardava fisso, come quel giorno che per via mi maledì. Ma la sua voce non era più imprecazione: il suo aspetto non era più d’uom che odia, il suo sguardo pareva sguardo di amore. Timone, io venivo gridandogli, ringrazia gli Dei che ti smentirono! Il giovinastro, che preconizzasti flagello di Atene, n’è divenuto il salvatore. Timone, riconciliati cogli uomini! la virtù [311] e l’espiazione esistono ancora sulla terra, e la legge della terra è amore! Ed io correa verso lui, le braccia aperte: — ma Timone già era scomparso, e il suo volto d’improvviso s’era mutato nel tuo, che mi venivi incontro bella, radiante... e mi toglievi l’armatura;[542] mi inghirlandavi di fiori, mi spargevi le chiome di unguenti e di aromi. E mi abbracciavi e baciavi, ma i tuoi baci eran di fuoco, eran vampa le tue braccia di neve: e tra quelle fiamme io mi sentìa con lunga voluttà consumarmi, come nulla più restar dovesse di me... Qui m’hai destato. Fu sogno di morte, Timandra, questo...[543]

[312]

Timand. (abbracciandolo e chiudendogli la bocca) Oh, non dirlo! fu sogno di vita! E il vero sognasti, Alcibiade, poichè più vivida e perenne della fiamma di Vesta, arde qui dentro la fiamma del mio amore per te...

Alcib. (sorridendo affettuoso) Eppure, Timandra, è quasi sera; siam già ai primi freddi; Pianepsione è già innanzi, e sai che il tempo in cui cascano le foglie[544] è quello in cui la madre terra ci manda i sogni bugiardi fuor dalla porta di avorio...[545]

Timand. Cattivo!... E tu allora non badare ai sogni! Che più di sogni non è tempo. Cimoto è ritornato da Sardi.

Alcib. Ah, sì, me ne scordavo! Ebbene, buon Cimoto, quali notizie?

[313]

Cim. Buone e cattive. Ad Atene, il popolo, fra il terrore della tirannide spartana, sommessamente ti rimpiange e ha riposta ogni speranza in te; i fuorusciti, raccolti in Tebe, aspettano il cenno da te. Ma i tiranni, di te paventando, dichiararono a Sparta che non mai in Atene potranno tenersi sicuri, finchè tu sia vivo...[546]

Alcib. Fin qui, mi pare, han detto giusto.

Cim. Lisandro esitò sulle prime; poi chiese al satrapo la tua morte; e il satrapo... per ingraziarsi Sparta... l’accontentò.

Alcib. (tranquillissimo) Resta a vedere se son contento io. Da quando il decreto?

Cim. Dal dì stesso che lasciai Sardi.

Alcib. E quando la lasciasti?

Cim. Son quattro giorni.

Alcib. Sei venuto colle ali di Pégaso. Abbiamo dunque guadagno di tempo.

Timand. Ma le spie e gli sgherri del satrapo e di Sparta sono molti; importa affrettare la via, prima che le insidie dello Spartano ci raggiungano...

Alcib. Ebbene, prima che Sparta veda il pio desiderio compiuto, [314] io avrò parlato in Persepoli al re Artaserse e mossolo al soccorso di Atene. Tutta la trama di suo fratello Ciro, per isbalzarlo dal trono di Persia, è in mano mia. Avviserò il re del pericolo, me gli offrirò capitano per domar la rivolta, a patto che poi mi ajuti a liberare la mia città; nè mai il nipote di Serse avrà pagato a miglior prezzo più grande servigio a un concittadino di Temistocle.[547] (si volge a Cimoto) E così, mio buon Cimoto, tu hai fatto seicento stadj per venire a portarmi l'avviso...

Cim. Fossero stati altrettanti...

Timand. E di notte ha viaggiato, solo, allo scuro, tra i pericoli... (Cimoto si ringalluzzisce all’elogio)

Alcib. Anche tu dunque, come la mia Timandra, mi vuoi bene ancora! Abbandonato da tutti, povero, proscritto, cercato a morte, due persone dividono spontanee la mia mala ventura: una etéra e un parassito. Ah, no, non era una baja il mio sogno di Timone! La virtù e la fede non sono una vana parola! Qua la mano, mio buon Cimoto. E tu, nobile etéra, porta ben alto il tuo nome, perchè mille matrone della Grecia dovrebbero inchinarsi innanzi a te. Donna dall’anima più nobile e più pura non portò mai canestri [315] nelle feste di Cerere![548] Domani all’alba partiremo per Susa.

Timand. Oh, non domani! non domani! Quest’oggi, Alcibiade! questa sera stessa!

Cim. Sì, sì, Alcibiade! questa sera!

Alcib. Questa sera? impossibile. Tu, Cimoto, sei stanco.

Cim. Oh no... tutt’altro...

Alcib. Sei stanco, ti dico, dal viaggio; — e tu, mia povera e buona Timandra (le prende affettuosamente le mani), hai vegliato [316] il più della notte, e jeri hai camminato tanto con me. È miracolo come ti regga in piedi... Che tu ti ponga oggi in viaggio è impossibile...

Timand. Oh, non dir così! sono assai più forte che tu non pensi! E poi, alla peggio, potrem far sosta a Celène o al Foro de’ Ceramj.[549] Per noi non vi è pericolo... Ma si tratta de’ tuoi giorni. Te ne scongiuro per l’amor nostro...

Alcib. (serio, calmo, imperioso) Per l’amor nostro, Timandra, non una parola di più. Alcibiade, nè ti abbandona, nè può permettere che tu ti ponga oggi in via. Partiremo domani sull’alba (vede Timandra afflitta e le parla con voce ridivenuta affettuosa). E perchè temer tanto? La stella che mi ha scorto tra i pericoli sin qui, vorrebbe essere ben maligna se a questo punto mi abbandonasse. Siam già assai lungi da Sardi e in luogo deserto, appartato. Senza un tradimento, gli sgherri del sàtrapo non potrebbero essere qui nè stanotte, nè domani, nè dopo. Il tuo affetto, e quel di Cimoto, ingrandiscono il pericolo e vi fan presumere delle forze vostre più che a umane forze non è dato: ma io non perdonerei a me stesso di aver abusato in tal guisa della tua abnegazione e della sua. (le prende con affetto una mano e se la pone sul cuore) Senti, Timandra, il cuor mio. Esso traversò tante tempeste, eppure non battè mai così calmo come oggi. Provo un benessere strano, indefinibile: qualcosa di ciò che prova il nocchiero vicino a toccare il porto dopo l’uragano. Un Nume, certo, mi ha mandato quest’ora solenne. Non ero così calmo, sai, fra le orgie e le dissolutezze ateniesi; non lo ero, quando sedevo ai danni di Atene nel consiglio dei capitani di Sparta... (arrestandosi e facendosi mesto) Fui molto colpevole, n’è vero, allora, Timandra?

[317]

Timand. (chiudendogli la bocca) No, taci, Alcibiade! Che pensieri son questi? Ciò che hai fatto per Atene e questi sacrificj e questi stenti a cui volontario ti condanni per trar dal fondo delle sue sciagure la città che ti offese, redimerebbero ben altri falli che i tuoi. Pensa che Atene fra i suoi mali ti chiama: pensa al tuo avvenire... e... qualche volta... al tuo amore...

Alcib. (con tristezza) Il mio amore! Oh Timandra, io sento di non averti mai tanto amato come oggi; eppure viene nella vita il giorno che anche l’amore più fervido e santo non basta a far tacere la voce segreta dell’anima!... (si leva dal petto un pezzetto di papiro lacero e vecchio) Vedi, Timandra, questa lettera?

Timand. Dei versi d’amore?

Alcib. (baciandola) Gelosa! Sì, dei versi d’amore, ma che datano da undici anni!... Furono scritti pochi dì innanzi la funesta impresa di Sicilia, un giorno che Socrate con rimproveri me ne sconsigliava. Quel vecchio m’avea fatto quasi piangere di rimorso e di vergogna: ma questa lettera giunse ed io corsi a dimenticare rimproveri e rimorsi sul seno di neve della bionda Glicera!... Avessi dato ascolto a Socrate! Ora il buon vecchio alza egli solo in Atene la voce contro i tiranni, e osa sfidargli egli solo.[550] Certo, in questi giorni deve aver pensato a me...

Timand. E s’egli fosse ora qui, non sarebbe più per rimproverarti che si alzerebbe, o Alcibiade, la sua voce... Ah!... (una vampa entra da una finestra; Cimoto accorre fuori)

Alcib. (balzando in piedi) Che è questo?

Cim. (accorrendo dal di fuori) Tradimento, tradimento! siam circondati! [318] Le guardie di Lisandro son qui, e han dato il fuoco alla casa.

Alcib. Morte e inferno! (con voce cupa) Son dunque le fiamme del sogno!... Ombra di Leonida, ecco le armi de’ tuoi figli!... L’arme a me! (afferra la daga pendente presso il suo giacilio e la impugna sguainata nella destra, attortigliandosi la clamide intorno alla mano sinistra)[551]

Timand. Ferma, Alcibiade! per pietà! dove corri?

Alcib. (gridando) Lasciami! lasciami!... Cimoto, veglia su lei! (si slancia fuori della capanna)

Timand. (a Cimoto, con accento vibratissimo) Cimoto! un’arme e seguimi! (brandisce un pugnale di Alcibiade e fa per avviarsi fuori della stanza, mentre Cimoto le è corso innanzi, la daga sguainata)

Voci interne di soldati. Fuggiamo! fuggiamo!

Cim. Ferma, Timandra! (guardando fuori) È inutile; fuggono già.

Timand. (verso la soglia, guardando fuori con ansia) Egli torna fra le fiamme! Numi, vi ringrazio!... (cade in ginocchio, mentre Alcibiade riappare barcollante sulla soglia)

Alcib. (dalla soglia, cupo) Troppo presto ringraziasti i Numi!... (cade)

Timand. (con grido acutissimo di angoscia) Ah!... lo han ferito!... (si slancia con Cimoto a sostenere Alcibiade)

Alcib. (continuando con amarezza la frase di Timandra) Come feriscono i vili!... Non osarono attendermi, e una freccia mi colpì di lontano... Timandra, non piangere. Era scritto ne’ Fati! (con voce tranquilla) Sostienmi, circondami delle tue braccia!... così... ora il sogno è compiuto... I campi son verdi e le foglie non cascano ancora. Là... quella corona. (le addita un angolo della stanza: Cimoto va a prender la corona; Alcibiade la prende dalle sue mani e la osserva: il suo volto moribondo componesi a un dolce sorriso) È la mia prima corona, la memoria di Potidea... (con voce fioca e dolcissima, e come assorto fra sè)

[319]

E anela alla gloria, bellissima stella,

Ma pura, ma scevra da ogni empio baglior:

E cinge la fronda di quercia più bella

Per farne più sante le gioie del cor....[552]

(si cinge colla mano tremante la corona) Timandra, un bacio!... (lo bacia appassionatamente) Oh, i tuoi baci sono pur dolci, e tu sei la più bella delle donne di Grecia!... Cimoto, a te la raccomando! (additandole Timandra)... non distaccarti da lei!...

Cim. (piangendo e singhiozzando) Oh, mio padrone! mio padrone!

Alcib. (a Timandra piangente che lo sorregge) Quando tornerai in Grecia, di’ ad Atene che spirai col suo nome sul labbro... e racconta a Socrate come son morto!... Addio... ricordati di Alcibiade! (ricade e muore)

Timand. (con angoscia e pianto, china sul cadavere) Alcibiade! Alcibiade! (d’improvviso con accento disperato) Tornare ad Atene?! E che cosa è Atene, lui morto, per me?! Cimoto! (con voce di risoluzione cupa) A me gli unguenti e gli aromi! (aggiusta la ghirlanda sul capo di Alcibiade e gli compone e ravvia amorosamente le chiome) Dea sotterranea che gli inviasti il sogno, [320] ecco, io compio il tuo presagio ed il rito; abbiti dunque l’olocausto più grande di quanti fumarono a’ tuoi altari!... (Le fiamme crescono; Timandra, pur seguitando ad adornare il cadavere, si volge a Cimoto, con voce calma) Cimoto, vanne! Le fiamme incalzano! Ancora un istante, e non sarai più in tempo...

Cim. (cupo) E tu?...

Timand. (senza guardar Cimoto, sempre intenta amorosamente al cadavere, con voce calma, soave, quasi di donna per dolore impazzita) Io... io compio il sacrificio... ed infioro la vittima... Vanne! Le fiamme son qui.

Cim. Timandra, hai ben sentito ch’egli mi ha detto di non lasciarti?[553] (si avvicina a Timandra, incrocia le braccia sul petto e le parla con voce lenta, ferma e solenne) Dal dì che Alcibiade mi chiamava a sè, egli non offerse mai vittima ai Numi, senza che io ne avessi la mia parte. Qui si fa un sacrificio in suo onore. Sono il suo parassita. Ci resto!

(Cimoto si ravvolge nel suo mantello, ritto e fermo, presso al cadavere e a Timandra inginocchiata. Le fiamme invadono tutta la stanza, mentre cala lentamente la tela. Quadro)

FINE DELL’ALCIBIADE E DEL VOL. V.


INDICE

Introduzione Pag. V
Dedica Pag. 1
Prefazione all’edizione del 1875 3
Ai greci di Trieste 15
Alcibiade 17
Personaggi 19
Le etére 20
I parassiti 24
Classi di Atene 29
Avvertenza di Cimoto al pubblico 33
Quadro Primo 35
Quadro Secondo 78
Quadro Terzo 122
Quadro Quarto 165
Quadro Quinto 187
Quadro Sesto 224
Quadro Settimo 253
Quadro Ottavo 263
Quadro Nono 296
Quadro Decimo 306

NOTE:

1.  Qualche dì appresso Pessimista, mi scriveva dei funebri celebrati al povero amico in Milano... «Milano, 17 agosto... L’hanno calato nella fossa a destra del Cimitero.... al tuo ritorno qui faremo un pellegrinaggio insieme alla tomba del compianto Trombone, che lascia di sè vera eredità d’affetti... Ogni dì più si sente la sua perdita. — Che mente acuta! Che costanza indomita e buona! forse in Billia la giovane democrazia ha perduto il suo Vergniaud.»

2.  Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle, lettera a Yorick figlio di Yorick, di F. Cavallotti — Milano, Rechiedei, 1874. — Farà parte di uno dei volumi successivi della raccolta.

3.  Risposta dell’autore ad un indirizzo della colonia greca di Trieste, che accompagnavagli, dopo la recita dell’Alcibiade in quella città, il ricordo affettuoso di una corona di alloro, recante le parole: τῷ ποιητῇ τοῦ Ἀλκιβιάδου — θαυμασταὶ Ἒλληνης — ἔν Τηργεστῃ, Μαρτιου, 1874.

4.  L’autore ha supposto la casa di Alcibiade nella parte occidentale e più amena di Atene, tra i boschetti ombrosi ed olezzanti delle sponde del Cefiso, presso la via delle Lunghe Mura che conduce dal Pireo alla città e in vicinanza dello Pnice, il luogo delle Assemblee popolari.

5.  All’epoca in cui è supposta questa scena, era Aspasia — bellezza matura in sul tramonto, sebbene ancor lottante contro gli insulti dell’età — da quattordici anni già vedova di Pericle; il quale, come parente ad Alcibiade dal lato della madre Dinomache, gli fu anche tutore, dopo che questi a tre anni restò orfano del padre Clinia, morto alla battaglia di Coronea; e nella casa del quale Alcibiade era cresciuto, sotto gli occhi e le cure di lui e della sua celebre e vezzosa compagna. La vita politica e privata del figliuolo di Clinia provò più tardi che non per nulla egli aveva avuto di tali maestri.

Di Aspasia, che nacque a Mileto, e che tanto affascinò il dominatore di Atene, da indurlo a ripudiare per lei la prima moglie e da averlo, fin ch’ei visse, amante e marito — e della sua vita, delle sue grazie, del suo spirito e della sua dottrina — narra Plutarco nelle vite di Pericle e di Alcibiade, a cui rimandiamo il lettore. I comici del tempo la attaccarono: Platone nel Menesseno la collocò sì alto nella estimazione de’ filosofi, da far porre da Socrate in bocca di lei uno de’ più stupendi squarci di eloquenza che ci abbia tramandato l’antica età. Le proporzioni del dramma e le ragioni del protagonismo non consentirono all’autore che di sbozzare in iscorcio, e in semplici e fugaci contorni, questa eccezionale figura: quanto appena bastasse a compiere il quadro storico e a dare ad Alcibiade, maestro in astuzie d’amore, un avversario degno di lui.

6.  Intorno ai costumi, al vestiario, alle acconciature, ecc., delle donne ateniesi, rimandiamo lo studioso alle opere moderne più note che diffusamente ne trattano (Winkelmann, Opere; Ferrario, Cost. Antico e Mod.; Becker ed Hermann, Bild. des Griech. Privatlebens; Willemin, Costumes; Barthelemy, Anacarsi; Guhl e Körner, Leben der Griechen, ecc.) Qui basti accennare, riguardo al lusso speciale che costumavan le etére, un passo caratteristico di Luciano: «A donna onesta è sufficiente, per rilevar sua bellezza, o una sottile collana intorno al collo, o in dito un anello portabile, o ciondolini agli orecchi, o una fibbia, o un nastro che raccolga la sparsa chioma, e tanto di ornamento aggiunge alla sua leggiadria quanto di porpora alla veste; ma le cortigiane la veste tutta di porpora ed il collo fanno tutto d’oro, cercando di attirare con lo sfoggio e i fregi esterni; perchè credono che il braccio pare più pulito se vi risplende l’oro; che il piede se non è ben fatto si nasconde nel sandalo d’oro, e che la faccia stessa pare più amabile fra tanto splendere d’oro» (Luciano, Di una sala. — Cfr. i dialoghi delle Cortigiane e degli Amori).

E in una lettera di Aristeneto, il galante Ippia canzona Filocoro, perchè vedendo una bella cortigiana riccamente vestita di una tunica di porpora, la scambia per una matrona e non osa avvicinarla. «Per Apollo, sei ben ignorante in cose d’amore! Non senti da lontano l’olezzo degli unguenti ond’è profumata? Nè udisti il suono aggradevole dei braccialetti dolcemente agitati, come soglion fare queste donne?» (Aristen., Lett., I, 4).

7.  Sul conversar frequente di Socrate colle etére, vedi i passi da me citati (nella nota sulle etére, all’elenco de’ personaggi) di Senof., Memorab. III, (colloquio con Teodota) e di Platone, Simposio, nel discorso di Socrate con Diotima: nonchè Ateneo, Deipnos., V, 218, ecc., XIII. Traendo del resto, non senza trepidanza, alle scene il meraviglioso filosofo, l’autore non potea trascurare nè le idee di lui quali ci sono tramandate da’ maggiori fra’ suoi discepoli, Senofonte e Platone: nè la forma ed il metodo del suo dialogare divenuti proverbiali. Ben inteso, che delle idee scelse quelle le quali più pareano convenirgli al quadro; e che le esigenze della scena non poteano conciliarsi collo sviluppo della forma di dialogo socratica in tutta la minuzia, spesso nojosa, de’ suoi avvolgimenti, e delle sue gradazioni e ripetizioni.

Il principio della scena è ispirato da un passo di Senofonte, Simpos., cap. IV; più innanzi il discorso si aggira sopra idee del Fedro di Platone.

8.  Era uno degli appellativi dati ad Aspasia (Plut. in Pericle).

9.  Di Aspasia abbiamo nell’Iconografia del Visconti l’effigie sola a noi pervenuta e ritratta da un’erma dissotterrata sulla spiaggia di Civitavecchia, nel posto dell’antico Castrum Novum e collocata nel Museo Vaticano (Icon. gr., I, tav. XV a.). Essa reca sulla base il nome ACHACIA: ha la testa coperta di un velo, alla foggia di matrona greca, e forse è questo abbigliamento che la fece dare il nome di Giunone: capelli inanellati sul davanti della fronte, in ricci paralleli e verticali: viso ovale; linee stupende. Cfr. Becq de Fonquières, Aspasie.

10.  Οφθαλμοί ἐπιπόλαιοι. Così traduce anche il Ciampi e l’autore delle spiegazioni del Museo Capitolino, inducendone che Socrate era losco. Occhi sporgenti, e naso camuso colle narici larghe, aperte all’insù (Senof., Simpos. IV). Aggiungansi grosse labbra, fronte sporgente e calvizie in cima della fronte, capelli corti arricciati di dietro, e barba arricciata scendente, non molto lunga, sul petto, e si ha l’effigie di Socrate, descritta negli antichi scrittori e pervenuta sino a noi. Un’erma rappresentante Socrate, del Museo Napoleone, è citata e descritta dall’Ennio Quir. Visconti nella Iconografia greca (I, pag. 200; tav. XVIII), siccome l’imagine più autentica del grande filosofo. Vi traspira dagli occhi arguti la finezza dello spirito e dalla fronte serena l’imperturbabilità del carattere: il movimento stesso delle labbra sembra avere qualcosa della sottile ironia de’ suoi discorsi.

Il Visconti nega per altro che Socrate fosse losco: e traduce l’ὀφθαλμοί ἐπιπόλαιοι per occhi a fior di testa.

11.  Socrate veniva spesso paragonato ai Satiri e ai Sileni per la sua figura (Plat., Simpos.; Senof., Simpos., III, e altrove).

12.  Modo proverbiale (Alcifr., Lett. III, 69). Forse le stoviglie di Tenedo, spiega traducendo il Negri, avean grido di essere sottili per modo che i lor frantumi riuscissero taglienti al par di un coltello. Ma più probabilmente la frase non è che una variante dell’altro proverbio, esser mozzato con una scure di Tenedo, derivato dalla favola di Cicno e di Tenne (Vedi Conome, Narr., XXVIII; Eracl., Pont., Repub., VII; Pausan., Focid., lib. X).

13.  Propilei: famosi tra’ monumenti maggiori di Atene e dell’arte greca e del mondo. Erano i vestiboli (προπύλαια) della cittadella a cui mettevano per cinque grandi porte e per vaste gradinate. Pericle li fe’ costruire sotto la direzione di Mausicle architetto, spendendovi intorno da 2200 talenti (quasi 12 milioni di lire). Vedi Pausania; Plutarco in Pericle; Meursius, ecc. Tra i quadri di insigni artisti che li adornavano, questo di Polignoto è ricordato in Pausania, Attic., 22.

14.  νὴ τοὺς ἔρωτας — esclamazione femminile (Aristen., Lett. I, 27).

15.  Questo vezzo di porre in bocca altrui le proprie idee, riscontrasi frequentissimo nei discorsi di Socrate in Platone, e caratterizza l’arguta artificiosa umiltà del suo processo dimostrativo. Così nel Simposio Socrate declina modesto le lodi di Agatone a’ suoi ragionamenti persuasivi e per ispiegarli viemeglio «riferirà il discorso che ha udito da Diotima, una donna di Mantinea, erudita in amore e in molte altre cose.» Nel Fedro Socrate espone al suo giovine alunno, seduto al rezzo dell’acero famoso, la teoria del bello e dell’amore: e comincia: «Il discorso che sto per pronunciare è di Stesicoro, figlio di Eufemo, nato ad Imera...»

16.  Platone, Fedro. Vedi quivi la dottrina socratica che tentai compendiare nel presente discorso.

17.  È in bocca di Omero che Platone mette questi due versi da lui fatti dire a Socrate: «I mortali lo chiamano amore (ἔρως) che ha ali; ma gli Dei lo chiamano pteros (πτέρος) perchè ha la virtù di darne» (Plat., Fedro).

18.  Platone, Simposio. Vedi quivi nel discorso di Aristofane la comica teoria degli androgini (maschi-femmine), qui da me alquanto semplificata pei limiti imposti dalla scena.

19.  Eran le feste Ascolie; celebrate in onor di Bacco tra i villani dell’Attica, e così dette appunto da un otre (ἀσκός) che empivasi di vino e fuori ungevasi d’olio, e sul quale i giovani a gara provavansi a saltare con un sol piede, dando frequenti stramazzate in terra, di che nasceva gran riso fra gli spettatori. Chi riusciva a rimanere col piè fermo sull’otre, guadagnava l’otre e il vino. — Questa usanza ricordata da Platone, Simpos., da Alcifrone Lett., III, 61, e dallo Scoliasta del Pluto, lo è anche dai Latini: atque inter pocula aeti — Mollibus in pratis unctos saliere per utres. Virgil., Georg., II v. 380.

20.  Cfr. in Platone nel Simposio l’arrivo di Alcibiade. — L’Ennio Quirino Visconti nell’Iconog. grec. (I, tav. XVI) riporta diverse effigie d’Alcibiade, delle poche pervenute sino a noi: tutte assomiglianti nelle linee principali benchè ritraenti pallidamente, e in grado diverso, quella bellezza per la quale Alcibiade andò fra i Greci famoso e che lo fece chiamar da Platone il più bello di tutti gli uomini (Plat., Prim. Alc.). La prima (XVI, 1 e 2) è una erma, la cui autenticità è attestata dalle prime lettere del nome ΑΛΚΙΒ: fu scavata sul monte Celio e posta nel Museo Vaticano. Raffigura Alcibiade adulto: fronte bassa, naso diritto, lineamenti pronunciati, espressione energica, baffi unentisi alla barba corta e inanellata, e capelli arricciati. Pare opera di artista volgare: il Visconti la crede una copia di quella che l’imperatore Adriano aveva fatto porre a Melissa in Frigia sulla tomba di Alcibiade. — Un’altra testa (XVI, n. 3) è copiata da una pietra antica del gabinetto di Fulvio Ursino: e riprodotta da Faber (Imag. ex bib. F. Urs. n. 4). È Alcibiade assai più giovane e bello: baffi leggieri staccati dalla barba nascente, capelli arricciati. Ha rassomiglianza con una effigie di Mercurio in alcune medaglie romane e spiegherebbe l’asserto di Clemente Alessandrino, che molte imagini di Mercurio avessero avuto Alcibiade per modello (Admon. ad Gen., 31): asserto confermato anche da Aristeneto, Lett. I, 11. Un’altra effigie nel Visconti (tav. XVI a. 1 e 2) è presa da un’erma appena sbozzata, dal Museo Napoleone. Alcibiade vi ha baffi leggieri e barba arricciata. E un critico si scandalizzò per aver visto sulla scena Alcibiade coi baffi!

21.  Proverbio greco. Applicavasi alle persone prive di gusto e di ingegno, insensibili al bello come il somaro all’armonia di uno stromento. «E non poneva più attenzione a me di quel che l’asino al suono della lira» (Aristen., Lett. I, 17). «La sapienza a lui importa poco: che ha che far l’asino con la lira?» (Luciano, Di quei che stan co’ signori). «E vedendo un asino trattar la cetra, come dice il proverbio, scoppia in una risata» (Luc., Del giorno infausto).

22.  I Libetrj — scrive Mercero — erano un popolo che non avea gusto alcuno nè per la musica, nè per la poesia, nè per la scienza: a tal che ascoltarono senza esserne punto commossi i divini canti d’Orfeo, che morì nel loro paese. Indi la loro ignoranza diventò famosa e proverbiale: e diceasi in proverbio: più ignorante o più rozzo dei Libetrj, ἀμουσότερος Λειβεθρίων — (Aristen., Lett., I, 27; Mercerus, nei Commenti).

23.  Metafora tutta greca. «Quante Sirene erano nelle sue parole!» ὄσαι ταῖς ὁμιλίαις ᾳὺτῆς σειρῆνες ἐνί δρύντο (Alcifr., Lett., I, 38). «Tu mi rapivi colla sirena dolcissima de’ tuoi discorsi, τῇ γλυκείᾳ Σειρῆνι τῶν λόγων. (Sinesio, Lett., 139. E così Aristen., Lett., II, 19; Procop. Sof., Lett., 21).

24.  Plat., Simpos. Vedi quivi nel discorso di Alcibiade (la pittura più artistica e vera che di Alcibiade ci abbia tramandato l’antichità) ciò che Alcibiade dice del suo affetto per Socrate, e delle virtù di quest’ultimo, paragonandolo a Marsia per il fascino della parola.

25.  La similitudine è in Platone. Coribanti chiamavansi, com’è noto, ab origine i sacerdoti di Cibele, che invasati da furor sacro, su pei monti di Frigia saltavano agitando il capo e percotendo ne’ cimbali, e comunicavano agli altri la loro mania. Indi usavasi proverbialmente il verbo κορυβαντιᾶν. — Però che da questi sacerdoti di Cibele proveniva tutta una casta di frati mendicanti (sul genere di quelli del Cattolicesimo) che sotto il nome di questuanti della madre degli Dei, Μητραγύρτης, giravano per Grecia, trafficando di oracoli e di sortilegi, e di porta in porta limosinando per le libazioni a Ecate e a Cibele, e iniziando alle orgie e ai lùbrici misteri di queste dee. Cfr. Plat., Repub., II, p. 364; Menandro, Ἱέρεια.

26.  Le corone (di viole, o di rose, o di mirto) si recavano nei conviti solo al levar delle mense, quando stavasi per propinare al buon genio, dopo di che seguivano il peàna e gli scolii (cantati dai convitati con un ramoscello di mirto in mano) — e le libazioni copiose (Senof., Simpos., II, 1; Ateneo, XV, 685; Plutarco, Disp. Conv., 5; Becker ed Hermann, Bild. Griech. Privatleb., I, 181; II, 263).

27.  Tre erano di regola, nel giorno, i pasti degli Ateniesi, il primo — ἀκράτισμα (detto da Plutarco anche πρόπομα) — cioè l’asciolvere, di buon’ora, al levarsi dal letto: il secondo — ἄριστον — verso il mezzogiorno; il terzo infine — δεῖπνον (l’Omerico δόρπος) — verso sera, corrispondeva alla coena dei Romani ed era il pasto principale. Ma i Greci non usavano mangiare e bere promiscuamente; durante il pasto, non si beveva vino, e perciò alla cena — δεῖπνον — tenea dietro la mensa dei bicchieri, cioè il simposio — σιμπόσιον, πότος — destinato alle libazioni e che appunto cominciava, al levar della mensa dei cibi, colla libazion del buon genio. Sovente questa seconda parte del banchetto risolvevasi in una vera orgia (κῶμος); soventissimo ancora il simposio era dato non come una vera e propria continuazione del banchetto, ma come una riunione a parte, affatto indipendente dal δεῖπνον, di persone convenute insieme al solo scopo di bere e discorrere e divertirsi tra i bicchieri. Ravvivati da concenti musicali, da auletridi e ballerine e saltimbanchi, e da giuochi e passatempi svariati; spessissimo anche fatti pretesto di amene discussioni di filosofia e d’arte, ecc., questi simposj offrivano la pittura più caratteristica e gaja dei piacevoli costumi del tempo. Senofonte, così vero nella sua semplicità, e il fantasioso Platone, coi lussureggianti colori della sua tavolozza di poeta, ci lasciarono dei simposj greci descrizioni che vanno tra i più bei monumenti dell’antica letteratura. Una pittura abbastanza viva ne fece anche Alcifrone in qualcuna delle sue lettere, e Luciano ne’ suoi Lapiti una spiritosissima caricatura. Quanto ai pesanti eruditissimi Simposj di Plutarco e di Ateneo, è necessaria la pazienza di un erudito per affrontarne la lettura.

Nella scena di questo atto trattasi di un simposio sul finire. Nell’atto terzo l’autore intese a dare un’idea complessiva del convito ateniese.

28.  Λωτὸς, chiamavano i Greci un albero di legno duro e nero, del quale faceano flauti di suono dolcissimo: indi poeticamente diceano loto, λωτὸς, il flauto. Così in Luciano: «Com’egli cominciò a parlare, mi riempì di tanta dolcezza di parole, che mi pareva, o amico mio, di udir le Sirene, se mai ve ne furono, o i rosignuoli, o l’antico loto di Omero: sì divine cose diceva» (Luc., Nigrino).

29.  Naso da delfino chiamavano gli Ateniesi quel di Socrate, perchè schiacciato e colle nari aperte all’insù. — È nota poi la credenza mitologica intorno al talento musicale dei delfini. E amatore delle opere delle Muse chiama Luciano il delfino (Dialoghi Mar., 8): lode derivatagli dalla favola di Arione, il famoso citarista di Metimna, che, buttato in mare dai pirati, fu raccolto da un delfino accorso al suo canto, e sul dorso di esso, sonando la cetra, venne in salvo al Tenaro.

.... tergo delphina recurvo

Se memorant oneri supposuisse novo.

Ille sedens citharamque tenet pretiumque vehendi

Cantat et aequoreas carmine mulcet aquas.

(Ovid., Fast., II).

30.  νὴ τὴν πάνδροσον, esclamazione femminile ateniese (Aristof., Lisistr.) Pandroso, una delle figlie di Cecrope, veneravasi nella acropoli di Atene e sacrificavasi a lei nello stesso tempo che a Minerva (Schol. ad Aeschin., I, 20; Lycurg., Fragm., 34; Meursius, Reg. Athen., I, 11).

31.  Giove órcio, vindice degli spergiuri — del giuramento vindice e custode. — Era uno degli appellativi di Giove (Eurip., Ippol., At., IV).

32.  Cipria Afrodite, Pafia Afrodite — appellativi della Venere popolare, o pandemia, spesso invocata nelle esclamazioni delle etére. Da Cipro e da Pafo ove erano templi famosi, sacri alle orgie invereconde della Dea (Aristof., Lisistr.).

33.  Adonie. Queste, di cui si riparlerà nel quadro II, eran feste celebrate con gran pompa dalle donne ateniesi, principalmente dalle etére, in memoria del pianto di Venere per la morte del suo Adone. Le statue dei due divini amanti recavansi in processione su due letti d’oro tra gemiti e grida lamentose delle donne vestite a lutto e picchiantisi il petto. In molti luoghi della città esponevasi il simulacro del cadavere di un giovinetto, raffigurante il morto Adone. Si portavano in giro vasi di terra con fiori e frutta e si adornava ogni cosa di fresche lattughe, credendosi che Venere avesse nascosto sotto quelle il suo amante. La festa poi finiva con allegria, fingendosi Adone risorto a nuova vita. Si direbbe che qualcosa di quelle feste sia rimasto nei riti della nostra settimana santa, seguìti dalla pasqua di risurrezione. — Una descrizione delle feste Adónie si ha in Teocrito (Idillio, XV), la quale appunto ha per titolo le Ἀδονιάζουσαι: ed anche in Aristof. (Lisistr.); e in Plutarco (Alcib.). — Che le meretrici in particolare le solennizzassero si rileva da Alcifrone (Lettere, I, 37), e dal comico Difilo, presso Ateneo (Deipn. VII). — Che però vi partecipassero anche le donne di famiglia si desume dal passo citato di Aristofane nella Lisistrata.

34.  Son devota di Nemesi: προσκυνῶ δε τὴν Νὲμεσιν (Alcifir., Lett., I, 33). Frase greca proverbiale, accennante a propositi vendicativi.

35.  Attesta Senofonte che le conquiste d’Alcibiade, non si limitavano alle cortigiane: ma «per la sua bellezza anche una quantità di donne oneste davano la caccia a lui come ad una fiera.» Ἀλκιβιάδης, δ’ αὕ διὰ μὲν κάλ. λος ὐπὸ πολλῶν καὶ σεμνῶν γυναικῶν θηρώμενος (Senof., Memorab., I, 2. Cfr. Pseudo Andoc., C. Alcib., 10; Ateneo, XIII, 4). Pittoresca e notevolissima questa imagine della caccia ad Alcibiade, quasi caccia alla fiera: imagine che ritroviamo anche in Platone: «Di dove spunti o Socrate? Dalla caccia di quella leggiadra fiera di Alcibiade?» (Platone, Protagora).

36.  Adrastea (soprannome di Nemesi) puniva il parlare arrogante e i falli commessi per superbia o presunzione o brame smodate. Perciò solevasi invocarla nel discorso, e chiederne il perdono, quando stavasi per esprimere qualche pensiero ambizioso, o per dire o promettere di sè alcuna cosa che sentisse di smodato elogio o di orgoglio o di temerità. — Or dico col perdono che me ne dà Adrastea, σὺν δ’Αδραστεὶᾳ λέγω (Eurip., Reso). — Adrastea figlia di Giove, rimovi l’invidia dalle mie parole (Eurip., ibid.). — Adoro Adrastea per quello ch’io sto per dire (Platone, Repub., V). — Così m’ami, così mi perdoni Adrastea!Difendimi pietosa Adrastea da un pensiero troppo ambizioso, ecc., ecc. — Usavano anche: ὢς σὺν θεῷ εἰπεῖν — per dirla col Dio — cioè col perdono del Dio, intendendosi appunto Nemesi, il Dio punitore dei superbi. Vedi in Platone, in Aristeneto, in Luciano e altrove. Così l’autore della lettera ai Pisoni: Si tamen hoc de se cuiquam promittere fas estEt Deus ultor abest.

37.  I Cilicj andavano famosi tra’ Greci per falsità: antico proverbio li chiamava bugiardi. Λόγος ἐστί παλαίος μὴ ῤαδίως Κίλικας ἀληθεύειν — (Dionys. Antioch., Epist., XLVI).

38.  Autòlico e Critòbulo son nominati come bellissimi giovani ateniesi di quel tempo da Senofonte nel Simposio; Carmide e Fedro da Platone, nei dialoghi che recano il loro nome. E Luciano, facendo malignamente ritrovar Socrate, nello inferno, vicino ai garzoni più belli, nomina fra questi «Carmide, Fedro e il figliuolo di Clinia» (Luciano, Dial. dei Morti, 20).

39.  Sulla ricchezza d’Alcibiade, vedi Platone (Primo Alcib.). Ivi Platone la fa valutare da Socrate a 300 pletri di terra. (Il pletro corrispondeva a 100 piedi greci e all’jugero romano: 94 piedi e 5 pollici parigini). 300 pletri di terra potean valer circa una trentina di mila lire. Ma essa era certo maggiore, perchè Alcibiade aveva case in Atene, e imprese industriali. La sua fortuna era valutata oltre 100 talenti: ossia quasi seicentomila franchi: ricchezza enorme, se si tien conto del basso prezzo delle cose e dell’elevatissimo valore del danaro a quei tempi, in cui un ateniese potea vivere con 3 oboli (45 centesimi) ed anche con due (30 centesimi) al giorno. Qualche commentatore invece di 100 talenti attici (d’argento), intende 100 talenti babilonesi: il che porterebbe la fortuna di Alcibiade a quasi sei milioni di franchi (Lisia, De bonis Aristoph., 52; Elian., Var. Hist., IX, 29).

40.  Alcibiade, secondo narra Plutarco (Alcib., I), discendeva, dal lato di suo padre, da Eurisace, che gli ateniesi onorarono di onori divini, e che fu figlio di Ajace, il Telamonio, re di Salamina, l’eroe de’ Greci all’assedio di Troja. Il suo avo, Alcibiade il vecchio, avea con Clistene cacciato i tiranni da Atene e stabilitavi la democrazia; il suo padre stesso, Clinia, si era coperto di gloria comandando una trireme contro i Persiani alla battaglia navale di Artemisio, e cadendo da eroe nella infelice battaglia contro i Beoti a Coronea. Dal lato poi di sua madre Dinòmache (figlia di Megacle e cugina germana di Pericle), Alcibiade apparteneva alla famiglia degli Alcmeonidi, i discendenti di Alcmeone, che organizzò le dieci tribù d’Atene e che fu figlio dell’argonauta Anfiarao; «dei quali narra la fama che, agitatori del popolo contro i tiranni, ne avessero esilio, ma raccolto denaro in Delfo dessero libertà alla patria colla cacciata dei Pisistratidi» (Demostene, Contro Midia). — Demostene, all’opposto di Plutarco, ma con probabile equivoco, fa discendere Alcibiade dagli illustri Alcmeonidi per la linea paterna, e per madre «da Ipponico e da avi chiarissimi per generosi servigi alla patria» (Vedi in Plutarco, Platone, Pausania, Suida, Meursio, ecc).

41.  Callia e Megacle erano ricchissimi ateniesi di quel tempo, che diedero fondo colle prodigalità al loro patrimonio; sono nominati da Aristof. (Nubi), Senof. (Simpos.), Plutarco (in Alcib.). — Feace era un altro distintissimo giovine ateniese, di illustre famiglia, emulator d’Alcibiade (Plut. in Alcib.). — Luciano volendo nominare i più ricchi fra i giovinastri scapigliati di Atene, nomina Callia e Alcibiade (Luc., Giove confutato). Del dissoluto ricchissimo Callia, emulo d’Alcibiade negli scialacqui enormi e nella vita elegante, si parla anco in Platone (Protagora; Ateneo, V, p. 218, c).

42.  Anacreonte, Ode 2.

43.  Anacreonte, Ode 4. — È singolare come i traduttori di Anacreonte si siano per lo più divertiti ad annacquare o caricar di fronzoli l’aurea ed elegante semplicità del poeta di Teo. — A rendere, per esempio, il testo greco da me tradotto quasi letteralmente in queste due strofette, il Marchetti, che pur va fra i migliori, impiega cinque strofe; il Caselli quattro! — Il buon Marchetti poi s’è scandolezzato della frase di Anacreonte «Cingimi di rose e portami una fanciulla,» e per ingentilire (!), com’egli dice, il pensiero, facendo che Anacreonte non parli in generale d’ogni qualunque donna di piacere traduce quella frase così greca, tutta greca, così:

Figlio di Venere,

Fin ch’io respiro

Ah! tu circondami

Di rose il crin!

Quella poi recami

Per cui sospiro,

Quella ch’è l’arbitra

Del mio destin!

Di tutto il corsivo, in Anacreonte non è una parola. Questo è tradire e non tradurre.

44.  Platone, Fedro: «Si dice che le cicale eran uomini innanzi la nascita delle Muse. Quando il canto nacque colle Muse, parecchi uomini di quel tempo ne furono così trasportati dal piacere, che la passion del cantare li fece dimentichi del mangiare e del bevere, e morirono senza accorgersene. Da essi nacque la razza delle cicale, che ricevette dalle Muse il privilegio di non aver bisogno di alcun cibo. Dallo istante ch’elle vengono al mondo, elle cantano senza bere nè mangiare, sino al termine della loro vita; poi se ne vanno a trovare le Muse e fanno loro conoscere quelli dai quali ciascuna di esse è onorata quaggiù: a Tersicore quelli che la onorano nei cori, ad Erato quelli che la onorano coi canti amorosi, ecc., ecc.»

Eliano scrivendo contro coloro che si cibano di cicale, dice che col mangiar di questi insetti, si offendono le Muse figlie di Giove. E venerate dai poeti, care alle Muse e al biondo Apolline, chiama le cicale Anacreonte (Od. 43).

Bisogna creder, del resto, che in fatto di musica i Greci avessero dei gusti speciali, o che le loro cicale fosser diverse dalle nostre, se Anacreonte e Teocrito ne magnificavano il canto, e se per proverbio usavasi dire di un musico eccellente, che canta meglio di una cicala, τέττιγος εὑφωνότερος. Luciano volendo magnificare il canto melodioso di una donna, lo paragona, per dolcezza di melodia, a quello degli alcioni, delle cicale, dei cigni e degli usignuoli (Luc., Immagini). Anzi è scritto che mentre un poeta greco suonava in pubblico la lira, rottasegli una delle corde, fortunatamente una cicala saltò sull’istromento armonico, e occupando il luogo della corda mancante, rese compita l’armonia!

45.  Favoleggiarono i Greci che Oritìa figlia di Erettéo re d’Atene, fanciulla di leggiadrissime forme, veduta da Borea mentre stava cogliendo fiori presso il fiume Cefiso, venisse da lui via rapita per l’aria, e trasportata in Tracia. Così Apollonio Rodio (Argon., I), e il suo scoliaste. Un’altra tradizione più comune la dicea invece rapita da Borea, in riva all’Ilisso. — Su questa favola di Oritìa, vedi Platone (Fedro), Pausania (Attica), Erodoto (VII), Ovidio (Metamorph., VI), Properzio (Eleg., XX), ecc.

46.  «E tu recitandomi da principio l’elenco de’ tuoi amori, lungo come quello di Esiodo...» (Luciano, Degli amori). Suida tra le opere di Esiodo annovera anche un catalogo di donne in cinque libri γυναικῶν καταλόγος ἔν βιβλίοις ἕ.

47.  La tromba, introdotta per segnale di battaglia — in luogo dell’accendere delle faci anticamente usato, — era chiamata dai Greci tirrena, perchè vuolsi che gli Itali pei primi la inventassero (Eurip., Fenicie, At. V; Reso, At. V; Eschilo, Eumen.).

48.  Alcibiade aveva l’abitudine d’interrompersi spesso, a bella posta, nel discorrere (Plutarco, in Alcibiade).

49.  Intorno al poeta Agatone, vedi Platone (Simposio), Aristofane (Tesmoforie). — Alcamene fu scolaro di Fidia, ch’era già morto da molti anni all’epoca del dramma.

50.  Omero, Odiss., lib. X. Cfr. Procopio Sofista, Lett. CXVII.

51.  εὐμενεστέροις ὄμμασιν ἐκείνην αἴ χάριστες εἴδον (Aristen., Lett., I, 11; Alcifrone, Lett.).

52.  Plutarco in Pericle.

53.  Vedi più sopra la nota 33 intorno ad Adrastea punitrice della prosunzione; dea invocata dianzi da Aspasia ne’ suoi vanti con Glicera, e ne’ suoi rimproveri di fragilità all’altre donne, ascoltati, dietro le spalle, da Alcibiade. Al che s’attaglia singolarmente un passo di Luciano: «Ei pare che Adrastea ti stava dietro le spalle quand’eri lodato delle accuse che davi agli altri, e la rideva di te, sapendo benissimo, come Dea ch’ella è, che tu saresti caduto nella stessa fossa...» (Luciano, Apologia di quei che stan co’ signori).

54.  Plutarco in Alcib.; Tucidide, Guer. Pelop., VI, 24.

55.  Il diluvio d’Ogige. Ogige fu il primissimo re dell’Attica (detta dal suo nome anche Ogigia): contemporaneo di Mosè, per quanto asseriscono Giustino Martire, Eusebio, Cedreno ed altri scrittori. Sotto il di lui regno avvenne il primo diluvio ricordato dai Greci, il quale sommerse tutta l’Attica. Cedreno così ne scrive: «Ai tempi di Mosè fu un uomo grande, della prosapia di Giapeto, che tenne il regno dell’Attica per trentadue anni: chiamavasi Ogige. Al tempo di lui vi ebbe un diluvio nella sola Attica: vi perì Ogige stesso e tutta quanta la regione.» E Taziano, contra Graecos: Μνημονεύεται παρ’Αθηναίοις Ὄγυγος, εφ’οὔ κατακλυσμὸς ὄ πρῶτος, è ricordato presso gli Ateniesi Ogige, sotto il quale avvenne il primo diluvio. — Accennano a questo diluvio Platone nel Timeo, Stazio nella Tebaide, Dionisio Alessandrino, Agostino nella Città di Dio, ecc. L’altro dei due diluvii ricordati dai Greci fu quello assai posteriore di Deucalione. Dopo il diluvio d’Ogige, narra Eusebio (Chron., I), l’Attica restò interamente desolata e devastata, e senza altri re, per cento e novant’anni, fino al tempo di Cecrope, che venne dall’Egitto e fondò Atene, di cui fu il primo re (Cfr. Meursius, Reg. Athen., I, 6).

56.  Tucidide, Guer. Pelop., VI, 24.

57.  Modo proverbiale; e usavasi di persona pronta a mutar partito e opinioni secondo i tempi e gli eventi. Indi narra Luciano che un Don Girella di que’ tempi, Teramene, fu soprannominato il Coturno, perchè appunto come il coturno che si calza al piè destro e al sinistro, egli adattavasi a tutti. Quei di Chio e quei di Cio guerreggiavan fra loro; ed egli con quel di Chio dicevasi di Cio, con quei di Cio si diceva di Chio. In fatto era di Cio (Luciano, Amori; Schol., Del giorno infausto, contro Timarco). Più mutabile del coturno, εὐμεταβολωτέρα κοθόρνου, è detto di una donna volubile in Aristeneto, (Lett. I, 28). E un traduttor francese tradusse: più incostante del vento. Oh i traduttori!...

58.  Ossia del borgo di Lacia. Il nome del borgo nativo usavasi comunemente apporre dagli Ateniesi, insiem con quello del padre, al nome proprio delle persone. Spesso aggiungevasi anco il nome della tribù a cui il borgo apparteneva.

Antichissima era la divisione dell’Attica in quattro tribù (φυλὴ). Solone la conservò; più tardi cacciati i Pisistratidi e riuscita a prevalere la parte democratica con Clistene, questi portò le tribù da quattro a dieci, assegnando a ciascuna di esse un certo numero di borghi o demi (δημός) sia urbani, ossia d’Atene città, che suburbani, ossia dell’Attica (Gli urbani corrispondevano ai circondarj, o quartieri, delle nostre città, i suburbani ai nostri comuni rurali. Ma cittadini ateniesi eran tutti i liberi nati nell’Attica, sia nella città che nella campagna). Cento dapprima, poi crebbero sino a 174 i borghi (δημοὶ) ripartiti fra le dieci tribù, ch’erano le seguenti, intitolate dai nomi di eroi e di re ateniesi: Acamantide, Ajantide, Antiochide, Cecropide, Egeide, Eretteide, Ippotoontide, Leontide, Eneide, Pandionide. Ogni tribù poi contava tre curie o confraternite (φρατρία); ogni confraternita, trenta classi o genee. Ma da Clistene in poi, le fratrie e le genee non sussistettero che come semplici corporazioni famigliari e religiose; la tribù invece, come complesso di un certo numero di demi, rappresentava la vera suddivisione politica, militare e religiosa.

I cittadini dello stesso borgo chiamavansi l’un l’altro δημοτης, come noi diciam concittadini o conterrazzani quei che nacquero nel nostro Comune. (Erod., V, 69; Strabone, IX, 10; Ross, Demen von Attica; Schömann, De Comitiis Athen., Praef., p. XV e p. 363; Antiq. Iur. pub. graec., C. XXII, p. 360; Corsini, Fasti attici).

Alcibiade era del borgo di Scambonide, appartenente alla tribù Leontide (Pausania, Attic., 38; Schol. ad Aeschin., 3, 18).

59.  Pnice, πνὺξ, il luogo delle adunanze generali del popolo, le quali vi si tenevano ordinariamente quattro volte per Pritanìa (alli 11, 20, 50, 33): onde il popolo ateniese è detto Pniceo da Aristofane, nei Cavalieri. Lo Pnice era uno spianato elevato e sassoso, stendentesi in semicircolo sul pendio del Licabetto, un quarto di miglio a occidente della città. In giro il semicircolo era chiuso da grosse pietre, presso alle quali stavano i seggi pel popolo; di fronte, sotto un balzo che sporgeva dal colle, era la tribuna o bigoncia degli oratori, βῆμα, alla quale salivasi per gradini dai due lati. E la tribuna, da cui dominavasi dello sguardo Atene, prospettava il mare e l’isola di Salamina; come per invitar gli oratori a più liberi e vasti pensieri, e ricordar loro continuamente che i destini di Atene la chiamavano al mare, culla della sua potenza e della sua libertà. — Sullo Pnice, vedi Suida alla voce Pnyx; Barthelemy, Viag. d’Anac., III, nota VI; Meursius, Del Popolo d’Atene; Wordsworth, Athen and Attica.

60.  «Si tratta d’esser falso testimonio? non si ha che a dirmi una parola,» così un parassita, in una commedia di Antifane, presso Ateneo, VI, cap. IX.

61.  Uno dei numerosi appellativi di Mercurio, col quale era spesso invocato dai parassiti e barattieri (Alcifr., Lett., III, 47; Luciano, Timone). Sui molteplici impieghi e corrispondenti nomi di Mercurio, cfr. Luciano, Dial. degli Dei, 24, e Aristofane in fine del Pluto.

62.  Sui maltrattamenti e le burle d’ogni sorta cui eran soggetti i parassiti alle mense, vedi Alcifrone, Lett., III, 7, 48, nonchè III, lett. 6, 45, 66, 68, 70. — Cfr. Ateneo, Deipnos., lib. VI.

63.  «Che voce è questa, o Socrate, che lontana ci viene dal mare? — È un uccello marino, detto Alcione, che ha questa voce di pianto e di lamento: e intorno ad esso contasi un’antica favola. Dicono che una volta egli era donna, figliuola di Eolo l’Elleno, donzelletta che si struggeva d’amore e disfacevasi in pianto perchè le morì lo sposo Ceice di Trachinia, prole dell’astro Lucifero, di bel padre bel figliuolo: e che di poi essendole spuntate le ali per volere divino, e mutata in uccello, andò scorrendo il mare in cerca del suo diletto, che ella per tutta la terra non avea potuto trovare. — E questo è l’Alcione? Io non ne aveva mai udita prima d’ora la voce. Oh mi lascia veramente un’eco di pianto nell’anima!» (Luciano, L’Alcione). — «L’Alcione se ne fuggì mandando un lugubre lamento» (Luciano, Di una storia vera). — Ed Euripide: «O augello Alcione che intorno agli scogli del mare canti il tuo aspro pietoso destino, e piangi ognora lo sposo, io non alato augello ben t’assomiglio ne’ mesti lai...» (Eurip., Ifig. in Taur.). Vedi ancora sulla tavola di Alcione, Ovidio (Metamorph., XI., 411 seg.; Heroides, XVIII, 81).

64.  Qualche critico credette ravvisare una contraddizione tra il carattere affatto ingenuo di Glicera e la sua condizione di etéra. Veda quel critico il ritratto della virtuosa giovinetta etéra in Antifane (Aten., XIII, 572 a.), quello della dolcissima Bacchide in Alcifrone (Alcifr., Lett., I, 38) da me già citati nella nota sulle etére; e le lodi della leggiadra Pizia in Aristeneto: «Benchè ella sia etéra di condizione, tuttavia conserva la nativa ingenua semplicità, e l’indole irreprensibile, e i costumi assai migliori della di lei condizione: nulla tanto mi fece innamorare di lei quanto la sua innocenza» (Aristen., Lett., I, 12). Altrove nello stesso autore, la cortigianella Filemazio scrive ai galanti che le fan la corte: «Voi credete di agevolmente ingannarmi, perchè sono una fanciulla che non ha alcuna esperienza d’amore e non è ancora iniziata ai misteri di Venere (ὥς ἐρωτικῶν ἀγύμναστον παῖδα, καί παντελῶς ἀμύητον Αφροδίτης) e potermi accalappiar più facilmente che non possa il lupo un’agnellina dormente» (Aristen., Lett., I, 14). — E altri esempj, in Menandro e nei comici della commedia nuova, tralascio.

65.  «Verun altro non fuvvi nè privato, nè re, il quale sette cocchi mandasse ai giuochi olimpici, fuor che egli solo. Lo aver poi riportato quivi la prima, la seconda e la quarta vittoria, al dir di Tucidide e la terza al dire di Euripide, è cosa che supera lo splendore e la gloria di quanti si studiarono adoperarsi in siffatte contese» (Plutarco, in Alcib.; Andocide, Contra Alcib., 26; Tucid., VI, 16; Isocr., De Big., XIV., e Aten., I, 3).

66.  Pindaro, Odi. Vincitori d’Olimpia a cui il poeta Tebano dedicò parecchie delle sue odi.

67.  «Te canterò di Clinia figlio, ecc.» (Eurip., Framm.; Plut. in Alcibiade).

68.  Spedizione del Peloponneso dell’anno 419 av. l’E. V. Fu la terza campagna di Alcibiade e la prima in cui egli ebbe un comando di stratego, e vi acquistò fama di insigni talenti militari. Qui Alcibiade, naturalmente avveduto nello spiegare a Glicera e nello scegliere le ragioni della sua modestia, non attribuisce a sè che impropriamente (come Glicera dee saperlo) il torto della sconfitta di Mantinea, toccata agli alleati ateniesi ed argivi (418 av. l’era volgare).

69.  Platone, Simposio; Apologia XVII; Plut. in Alcib.; Ateneo, Deipnosof., V, 215 e seg. — Plutarco così narra: «Essendo ancor giovanissimo si trovò Alcibiade alla spedizione di Potidea. Egli alloggiò sempre Socrate nella sua tenda, l’ebbe compagno in tutti i combattimenti e nel giorno della grande battaglia, in cui fecero entrambi prodigi di valore. Essendo stato Alcibiade ferito e atterrato, Socrate se gli pose davanti, lo difese, e in cospetto di tutto l’esercito impedì ai nemici di prenderlo e di impadronirsi delle sue armi. Il premio del valore era dunque giustamente dovuto a Socrate; ma i capitani parendo disposti a darlo ad Alcibiade a cagion del lignaggio di lui, Socrate, il qual non cercava che di accendere in lui viemeglio il desiderio della vera gloria, fu il primo a dargli il proprio suffragio, e fu quegli che maggiormente contribuì a fargli decretar la corona e l’armatura completa, che erano il prezzo d’onore.» Ciò avveniva l’anno 431 av. l’E. V.

Più tardi, alla battaglia di Delio (423 av. l’E. V.), Alcibiade ricambiava il beneficio, e combattendo valorosamente salvava Socrate alla sua volta dai nemici, — come narra Platone nel Lachete.

70.  ούκ ὤν ἀνὴρ γὰρ Ἀλκιβιάδης, ὣς δοκεῖ, — ἀνὴρ ἀπασῶν τῶν γυναικῶν ἔστι νῦν. Così il comico Ferecrate (Fragm. Comic. Graec, edizione Didot, pag. 114). — All’epoca dell’azione del dramma, la moglie di Alcibiade, Ipparete — (che d’altronde non ebbe nessuna parte notevole nella vita di lui, e non è ricordata dagli storici che per la scena del divorzio) — era già morta durante un viaggio fatto da Alcibiade ad Efeso, qualche anno prima della impresa di Sicilia (Plutarco, in Alcib., VIII. Cfr. Isocr., De Bigis, XVII).

71.  Massima era l’ambizione che le donne greche e le ateniesi in ispecie, riponeano nella ricchezza e nel color delle chiome, e nella eleganza delle acconciature. Le portavano per lo più bipartite sulla fronte e intrecciate e annodate dietro il capo; però i capelli crespi o ricciuti, per arte o per natura, eran tenuti in gran pregio, giovando l’increspamento ad adombrare e far piccola la fronte, la cui ampiezza, come era un pregio per gli uomini, così ascrivevasi nelle donne a difetto (Aristen., Lett.). Fra i colori poi pregiatissimo il biondo: aurea chiamavano Venere: e quelle che bionde non erano, per lo più si tingeano. Rileviam da’ frammenti di Menandro ch’ei discacciò di sua casa una donna la quale facea pompa di chiome artificiosamente bionde (Clem. Alex., Paedag., III). — Eliano scrive della chioma di Atalanta, ch’ella era bionda e dovea questo colore «alla natura, non all’arte, nè alle droghe di che le femmine fan uso per procacciarselo» (El., Var. St., XIII, 1). — E Luciano: «Il più del tempo e dello studio consuman le donne in acconciar le treccie. Alcune con tinture che hanno virtù di far d’oro i capelli, al sole di mezzodì, a guisa di bioccoli di lana, li ritingono di un biondo fiorito, scontente del color naturale. Quelle poi che si contentano (notisi la parola) della nera chioma, vi spendono la ricchezza de’ mariti e spirano dalle treccie tutti i profumi d’Arabia. Con istrumenti di ferro scaldati a leggier fuoco si increspano e inanellano i capelli, che scendendo in minuti ricciolini fin sopra le sopracciglia lasciano breve spazio alla fronte: di dietro cascano in grandi anella e ondeggian sugli omeri,» (Luc., Amori).

72.  Cfr. Anacreonte, Odi, 28, 29.

73.  Siccome le greche non usavan fazzoletti (le idee d’allora intorno alla pulitezza e alla creanza vietavano ad uomini e a donne di asciugarsi il sudore e di soffiarsi il naso: la siccità del naso era riguardata uno fra i pregi principali della bellezza, comunque da un epigramma di Marziale potrebbe arguirsi che gli antichi si soffiassero colle dita), così non è strano che elle non usassero nè tasche, nè borse. Però la fascia o cintura che stringea loro la tunica sotto le mammelle (strofio) serviva ad esse insieme per riporvi le lor coserelle più care — danaro, biglietti, lettere degli amanti, pegni dolci e furtivi d’amore, ecc., ecc

Senofonte, nella Ciropedia, ricorda pur egli a titolo di lode, e in prova di moderato vivere, come anche i Persiani a’ suoi tempi tenessero per cosa sconcia sia lo sputare che il pulirsi il naso: e ne dà la ragione osservando «che col praticare un vitto temperato e col faticare, essi disseccavano gli umori del corpo così da potersi altrimenti dispergere» (Sen., Cirop., I, 1).

74.  Plinio (Nat. Hist., XIII, c. 10) fa l’invenzione della carta di papiro posteriore di un secolo circa all’epoca del nostro dramma: egli la pone cioè ai tempi di Alessandro, ossia quasi intorno all’epoca medesima che, secondo lui, fu inventata a Pergamo la pergamena pella biblioteca d’Eumene. Ma che l’invenzione del papiro sia assai più antica, e nota ai tempi di Alcibiade, si rileva da Erodoto che già parla del papiro, sotto il nome di βύβλος (lib. V, cap. 8); anzi egli aggiunge che prima che il papiro (βύβλος) fosse comune, si scriveva già sopra pelli di capra o di pecora (lib. V, cap. 58): e se ne formava una specie di libro che diceasi διφθέρα. V’eran di tali libri in pergamena legati anche alla foggia stessa dei nostri — tabellae (Pitt. Herc., tom. II, tav.). Quanto ai manoscritti di papiro trovati ad Ercolano, sono tutti fatti a rotolo — cioè a dire di quelli che i Latini chiamavano volumen.

75.  Liceo o Licio, (λυκαῖος) soprannomi, fra i tanti, di Apollo siccome nato in Licia, nell’Asia minore, o perchè autor della luce (λυκή) o perchè Latona quando lo partorì, al dir d’Eliano, trasformossi in lupa (λύκος). — Sire della licea pendice dal bell’arco d’oro, lo chiama Sofocle, nell’Edipo: — Dio liceo fugator della notte, nella Elettra. Dicevasi perciò anche licogenete, figlio della lupa; e licigenete, padre della luce: εὔχεο δ’Απόλλωνι λυκηγένει κλυτοτόξω, prega Apollo padre della luce inclito per l’arco (Om., Iliad., 4). Ad Apollo Licio consacrò Pisistrato in Atene quel parco che più tardi divenne il celebre Liceo.

76.  Κωρυκαῖος δαίμον. Dicevasi proverbialmente di uomo che inosservato si insinua e ascolta e spia i discorsi e i fatti degli altri. (Vedi Alcifrone, Lett., III, 26). Intorno alla origine del proverbio si narra che in Córico, città marittima di Panfilia, era una razza di gente malvagia, la quale, mischiandosi ai mercatanti, spiava ciò che essi recavano sulle loro navi, per dove dicevano di voler veleggiare e quando: poi ne avvertivano i corsali, e questi, colto il momento opportuno, assaltavan le navi e le predavano. — Vedi Suida, Erasmo ed altri.

77.  Portava (Alcibiade) una foggia di calzari ricchissimi, diversi da quelli degli altri; che dal suo nome furon detti alcibiadei (Ateneo, XII, 534 d. ἀλκιβιᾶδια son detti in Polluce, VII, 89).

78.  Modo proverbiale greco, equivalente al nostro — da galeotto a marinaro (Wieland, Aristip., V, lett. 4). I Cretesi avevan fama di grande furberia; e quei di Egina ancora più. Diceasi anche, per proverbio, di uomo astuto, che facesse l’ingenuo e lo gnorri: Pare un Cretese che non abbia mai visto il mare (Aristen., Lett., II, 18).

79.  Vedi il discorso di Nicia contro Alcibiade, in Tucidide, Guerra Pelop., VI, 12.

80.  Sui vasti ambiziosi disegni di Alcibiade, vedi Plutarco, in Alcibiade; Tucid., Guer. Pelop., VI, 90; Platone, Primo Alcibiade.

81.  Re o gran re chiamavano i Greci per antonomasia il re di Persia. Vedi Senofonte, Anabasi; Aristofane, Plutarco, Demostene, ecc.

82.  ἐγὼ δὲ τοῦτον (Σωκράτη) μόνον αἰσχύνομαι. ξῦνοιδα γὰρ ἐμαυτῷ ἀντιλέγειν μέν οὔ δυναμένῳ, ὤς οὔ δεῖ ποιεῖν ἄ οὔτος κελεύει κ. τ. λ. — Vedi tutto il discorso di Alcibiade nel Simposio di Platone (c. 32 seg.) e Plutarco in Alcib. Confronta Platone, Primo Alcibiade.

83.  βίᾳ οὔν ὤσπερ ἀπὸ τῶν Σειρήνων ἐπισχόμενος τα ωτα οἴχομαι φεύγων (Platone, Simposio).

84.  «Socrate era quello che aveva maggior ascendente sopra Alcibiade, e profittando della buona indole di questo giovine sapeva tenerlo in freno colla forza de’ suoi discorsi, che lo pungevano al vivo, ne mutavano il cuore e gli faceano persino versar lagrime; ma spesse volte altresì Alcibiade gli sfuggiva di mano per darsi in balìa degli adulatori: e allora Socrate a corrergli dietro... Poichè quegli che corrompeano Alcibiade si prevaleano meno della sua inclinazione ai piaceri, che non si servissero della sua ambizione e della sua sete ardente di gloria» (Plutarco in Alcibiade).

85.  δοκεῖς ἂν μοι ἐλέσθαι τεθνάναι (Platone, Primo Alcibiade, 2).

86.  Cfr. Platone, Primo Alcib., 2.

87.  «Sul finir della vita di Pericle, gli Ateniesi si eran posti in capo di conquistar la Sicilia: e sotto pretesto d’inviar di quando in quando soccorsi d’armi o di truppe alle città oppresse e maltrattate dai Siracusani, vi si andavan spianando la via; ma chi accese maggiormente questa brama, chi più fortemente persuase gli Ateniesi ad andare in Sicilia non alla spicciolata, ma in grosse schiere e d’un sol colpo, con una flotta poderosa ed invadere e soggiogar quell’isola, fu Alcibiade, col pascere ch’ei faceva il popolo e sè stesso di grandi speranze...» (Plutarco in Alcibiade).

Dallo stesso Plutarco si rileva che Socrate fu contrario alla impresa, non presagendone nulla di bene: come l’evento provò.

88.  Tucidide, Guerra Pelop., VI, 18. — Vedi quivi il discorso di Alcibiade agli Ateniesi.

89.  Sul valor del talento e sulle monete attiche, vedi atto secondo, nota 7.

90.  Cfr. col processo socratico di questo dialogo anche il dialogo di Socrate e Glaucone, in Senofonte (Memorabili, III).

91.  Questo spirito irrequieto di intraprendenza, di attività febbrile, di temerità che trascinava Atene, d’impresa in impresa, non anco uscita da una guerra in altre guerre più gravi, fu un lato caratteristico della democrazia ateniese: e il temerario intraprendente Alcibiade potè tanto sopra di Atene, perchè appunto anche in ciò fu la sintesi completa del carattere del suo popolo. Così Socrate in questa scena rimprovera ad Alcibiade di spinger Atene alla guerra di Sicilia, mentre quella del Peloponneso le sta ancor sulle spalle, — come più tardi Demostene rimproverava agli improvvidi Ateniesi di pensar a nuove guerre coi Persiani, mentre avevano il Macedone alle porte: «Perchè imaginare nuovi nemici, mentre già li abbiamo palesi? τί τοὺς ὁμολογοῦντας ἔχθρους ετέρο’υς ζητοῦ μὲν; (Demost., Sulla guerra persiana).

92.  Pigro, ciarliero, avaro, ingordo de’ salarj, è chiamato il popolo ateniese in Platone, (Gorgia, p. 515). Vedi poi Aristofane nelle Vespe, commedia tutta intesa a flagellare questa brutta piaga della democrazia ateniese. E Demostene, serbato a vederne a’ suoi tempi ancor più funeste le conseguenze, sclamava: «Ormai tutto come in mercato sta a prezzo: ed è scambiato da passioni che già appestarono e sovvertirono la Grecia. E quali? avara sete di mance; riso per chi la confessa; perdono per chi è convinto, e tutte l’altre necessità di corruzione» (Filipp., III).

93.  Plutarco in Pericle, 9. — Platone, Gorgia; Repub., 6. — Cfr. Peyron, La politica e l’amministrazione di Pericle; § 8.

94.  La riduzione del soldo militare (quattro oboli al giorno per soldato) ordinata da’ demagoghi successori di Pericle per provvedere alle strettezze dello erario, — in un tempo in cui la introduzione delle mercedi del foro e dei tribunali e degli spettacoli avea già sviluppate nel popolo le abitudini dell’ozio e l’avida sete dei pigri guadagni — ebbe per effetto di disamorare a poco a poco i cittadini dall’esercizio della milizia. I popolani, certi di guadagnar tre oboli a casa loro, sedendo nello Pnice, o a teatro o nell’Eliea, meno facilmente si adattarono a scambiare, per un solo obolo di più, la vita beata della città con quella dei campi e delle triremi. Nell’impresa di Sicilia bisognò portar di nuovo il soldo ad una dramma per allettare i cittadini a pigliar l’armi: e ancora l’aumento non sedusse gli opliti agiati delle prime tre classi: ossia i veri opliti di catalogo (ἔκ καταλόγου) iscritti nei ruoli; perchè soli 1500 di questi si contarono nei 5100 opliti raccolti per quella spedizione: il resto degli opliti si dovette formare, come la fanteria leggiera, di proletarj della quarta classe, e alleati mercenarj allettati dall’aumento. Terminata la spedizione di Sicilia, col disamore dell’armi più e più crebbe questa piaga de’ mercenarj: di che Isocrate scriveva: «Noi, mentre vogliamo dominare sopra tutti, ricusiamo di militare, abbiamo eserciti mercenari composti di uomini esuli disertori, malfattori, oltraggiatori de’ nostri figliuoli, che abbandonano noi, se altri dia loro un soldo maggiore. Noi che difettiamo del vitto quotidiano, prendemmo ad alimentar questi forestieri» (Isocr., Sociale, 16). E Demostene: «Non mi si parli di dieci e ventimila forestieri e di eserciti mercenarj; voglio milizie cittadine, voglio 2000 uomini dei quali almeno 500 sieno ateniesi, gli altri sieno pure stranieri; voglio 200 cavalieri, de’ quali almeno 50 siano cittadini» (Dem., Filipp., I). Se Demostene, osserva il Peyron, volendo formare un esercito di 2000 opliti si contentava di soli 500 ateniesi, che mai erano divenuti quei 13,000 opliti cittadini, che Pericle al principio della guerra si riprometteva? Erano registrati nei ruoli, ma per più ragioni si scansavano dalla milizia (Cfr. Peyron, La politica e l’amministrazione di Pericle, § 8).

95.  Ad Atene i popolani, per andare a teatro, ed assistere agli spettacoli, non pagavano, ma al contrario ricevevano un obolo per ciascuno. — «Ed essendo egli incaricato di distribuire alla tribù Eretteide il denaro dello spettacolo, io andai a chiedergli la parte mia» (Luciano, Timone). Indi in Demostene frequentissimi i lamenti per lo sperpero del pubblico denaro nelle feste: «Voi (Ateniesi) per le pubbliche feste ricevete danaro senza che alla repubblica ne derivi utilità» (Dem., Olint., I). «Create legislatori non leggi, che n’avete già troppe: anzi sopprimetene parecchie dannose, quelle cioè che riguardano il denaro degli spettacoli» (Olint., III). «Voi popolo invilito, fiacco, spiantato, siete tenuti schiavi e in nessun conto, e tanto solo che vi snocciolino il denaro degli spettacoli, ne fate gran festa...» (Ibid). — «E d’onde, Ateniesi, che le feste Panatenee e le Dionisiache si celebrano sempre ne’ tempi prefissi, e vi si fa tanto spreco di denari che non si armò mai con altrettanto nessun naviglio e con tale apparato e moltitudine che mai la maggiore?» (Filipp., I. — Cfr. Demost., Della distribuzione del danaro). Vedi il mio opuscolo Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle.

96.  Ho modificato nella forma, non già, credo, di molto, nella sostanza e nel concetto, la sentenza famosa che forma la conclusione del Primo Alcibiade e il fondo della morale socratica: conosci te stesso. Nel dialogo platonico questa sentenza non è infatti presentata da Socrate ad Alcibiade, se non come corollario della incapacità di Alcibiade a governare la cosa pubblica; incapacità di cui Socrate gli strappa a poco a poco la confessione. Perchè è incapace? Perchè parla di cose che ignora. Per governar gli altri bisogna prima governar sè medesimo. Per governar sè medesimo, bisogna prima conoscersi: γνῶθι σαυτὸν (Platone, Primo Alcib., cap. 18, 26; Protag., c. 28; Filebo, c. 29; Carmide, c. 12).

97.  Plat., Simpos., 1. — Quei di Falera (borgo di Atene, della tribù Antiochide) erano proverbiali per la lentezza con cui camminavano nelle cerimonie pubbliche.

98.  E camminiam curvi per la città, come quei che portan le lampade (Aristof., Lisistr.) Della festa o gara delle lampade (lampadeforìa) ch’era celebre in Atene, e solennizzavasi, secondo lo scoliaste di Aristofane, ogni anno il dì 19 del terzo mese attico, così parla Pausania: «Nell’Accademia è l’altar di Prometeo. Da qui si partono le persone e van correndo verso la città con fiaccole accese in mano. La contesa consiste in portar la face così che correndo rimanga accesa. Se si spegne al primo, egli non ha più parte nella vittoria, ma gli sottentra il secondo, e se nè questi ancora la porta accesa, il terzo è vincitore, ma se a tutti si spegnessero le faci, niuno rimarrebbe vittorioso» (Paus., I, Attic. 30. — Cfr. Aristof., Vespe; Senof., Finanze d’Atene, IV; Eschilo, Agam.)

99.  Sull’ombra del gnomone, orologio solare (γνώμον, στοιχεῖον), calcolavansi l’ore. (Ateneo, Deipn., I, 8; VI, 42; Aristof. in Polluce, IX, 46; Aristof., Eccles., v. 652; Alcifr. III, 4).

I primi orologi solari (Erodoto, II, 109, li dice introdotti in Grecia dai Babilonesi; Diogene Laerzio invece ne fa inventore Anassimandro, e Plinio, Hist. Nat., 76, il discepolo di Anassimandro, Anassimene milesio, che avrebbe posto il primo gnomone a Sparta) consistevano in una colonna drizzata sopra uno spazio piano, su cui segnavansi diverse linee: e l’ombra della colonna che riflettevasi successivamente su di esse, segnava le ore. In seguito, e già all’epoca del dramma nostro, usarono per maggiore speditezza piantar un gnomone o stilo di ferro sopra una parete o una colonna; e rendea lo stesso servigio. L’ombra dello stilo accorciandosi o allungandosi col corso del sole indicava le ore col numero dei piedi di lunghezza. Indi, per chieder l’ora, usavasi dire Che ombra fa? Naturalmente di buon mattino l’ombra era lunghissima (Palladio, De re rustica, calcola di 29 piedi l’ombra di un quadrante antico, in gennajo, al levar del sole) e più diminuiva accostandosi al meriggio, per tornare a crescer poi: sicchè l’ore di primo mattino e di sera inoltrata eran segnate dal numero di piedi maggiore. Per altro, sul numero preciso dei piedi, corrispondente fra i Greci alle singole ore, non si hanno che calcoli approssimativi e molto incerti; pare, per esempio che il quadrante di Palladio, costrutto pel clima di Bisanzio, registri la divisione dei piedi in numeri maggiori probabilmente che non si usasse ad Atene: poichè in Aristofane e in Menandro, presso Ateneo, vediam fissata di solito per ora della cena in Atene l’ombra di dieci o di dodici piedi: e si sa che ad Atene la cena (δεῖπνον) aveva luogo ad ora assai tarda, al tramonto del sole o anche dopo. Vero è che in Eubulo, presso Aten. I, 8, troviam menzionata come ora di cena un’ombra di venti piedi: che accenna probabilmente ad un gnomone diviso in 24 piedi.

L’ore poi del giorno erano di due sorta: equinoziali che partivano il dì civile, come da noi, in 24 parti eguali: e artificiali, che dividevano sempre tanto il dì che la notte in dodici parti, più lunghe o più brevi quindi, secondo la lunghezza dei giorni e delle notti nelle varie stagioni. Quest’ore artificiali si designavano sommandole a tre a tre, ossia si ripartivano in quattro divisioni eguali di tre ore ciascuna, tanto pel dì che per la notte. Di giorno, le tre prime ore dal levar del sole dicevansi la prima; le tre seguenti, la terza; poi la sesta e la nona. Di notte, le prime tre ore del tramonto dicevansi prima vigilia, le tre successive seconda vigilia; poi terza e quarta vigilia.

Nella tavola di Palladio sopra ricordata, l’ombra di 15 piedi, qui accennata nel dialogo, corrisponderebbe appunto alla terza ora artificiale: vale a dire siamo sul finir della prima: e la terza di cui parla Carinade più innanzi, non cominciava che alla quarta ora dal levar del sole (Cfr. circa l’ora mattutina dell’assemblea, Aristof., Acarn.; Eccles.).

100.  E dorme, come dice il proverbio, le tre notti d’Ercole (Alcifir., Lett., III, 38). È nota la favola di Giove che giacque con Alcmena, e per goderne più a lungo prolungò il corso di una notte a quello di tre: dal qual concubito nacque Ercole (vedi Plauto, Anfitrione).

101.  Con una corda tinta di rosso e distesa due servi pubblici spingevano alla adunanza i più lenti. Il segno rosso che rimaneva sulle loro vesti li faceva incorrere in una multa ossia nella perdita dei tre oboli, come ritardatarii. Parlando dei ritardatarii, così segnati, Aristofane fa dire a Cremete nelle Aringatrici: «Ed era soggetto di molto ridere nell’assemblea la gran copia di rosso che si era sparsa all’intorno» (Cfr. Aristofane in principio degli Acarnesi).

102.  Tesmotéti: erano gli ultimi sei de’ nove arconti. Quando l’autorità regia fu circoscritta in Atene dopo la morte del re Codro (1092 av. l’E. V.), i suoi eredi e successori della sua stessa dinastia continuarono a tenere sotto il nome di arconti la dignità suprema dello Stato, con obbligo però di dar conto della loro amministrazione al popolo (Paus., IV, 5, 10; Elian., Var. St., VIII, 5): fino a che nel 752 av. l’E. V. gli Eupatrìdi, abbattuto l’arconte Alcmeone, limitarono il potere dell’arconte responsabile, rendendolo da ereditario elettivo, e da vitalizio temporaneo, circoscritto a dieci anni (Dion. Alycarn., I, 72). Più tardi infine, nel 682 av. l’E. V., a prevenire possibili usurpazioni, anche l’ufficio dell’arconte decennale fu abolito, e i poteri supremi dello Stato che si concentravano in lui furono ripartiti fra nove magistrati annuali, che conservarono il titolo di arconti. Scelti ogni anno per suffragi tra la classe degli eupatrìdi, essi avevano la direzione generale degli affari interni ed esterni della città.

Il primo dei nove — ch’era l’arconte per antonomasia e chiamavasi arconte epònimo, perchè dava all’anno il proprio nome — stava a capo dell’amministrazione civile: contratti, donazioni, successioni, matrimonj, divorzj, testamenti, tutela degli orfani, ecc. Il secondo, arconte re o basileo, era sommo sacerdote, presiedeva agli affari del culto; sagrifizi, feste, giudizj di sacrilegio, ecc. Il terzo arconte, ossia il polemarco, aveva il comando supremo delle forze militari e la direzione delle cose spettanti alla guerra. Gli altri sei arconti, designati insieme sotto il nome di Tesmoteti, istruivano i processi criminali più importanti, giudicavano in ultima istanza delle cause civili, e in generale degli affari che non erano di speciale competenza dei primi tre arconti.

Al tempo di Alcibiade però le riforme democratiche avevano diminuito di assai questo potere degli arconti. La creazione de’ dieci strategi avea tolto al polemarco il comando degli eserciti, come i tribunali degli eliasti limitarono il poter giudiziario dell’eponimo e degli altri arconti, ridotto ormai a poco più che alla istruttoria e alla presidenza nei giudizi di loro giurisdizione (Corsini Fasti attici, I; Schömann, Antich. greche, I, 412; Hermann, Antich. polit., 138; Meursius, Arconti, I, 1).

103.  L’obolo (attico) era una piccola moneta in origine d’argento, ma più tardi di bronzo, del valore di circa 15 centesimi italiani. Formava la sesta parte di una dramma (attica) ch’era moneta di argento, del valor di circa 90 centesimi italiani o poco più.

Variano molto i còmputi degli scrittori circa il ragguaglio delle monete ateniesi. Valutando col Boeckh, ch’è fra i più attendibili, la lira ateniese, ossia la dramma attica, 92 centesimi di franco, offro qui, a schiarimento del lettore, alcune indicazioni:

Un obolo valeva 15 centesimi e 33 millesimi.

L’obolo dividevasi in 8 calchi: ossia il calco valeva qualcosa meno di due centesimi; e tre calchi formavano il tricalco, ch’era piccola moneta equivalente al nostro cinque centesimi, o poco più. Dividevasi anche l’obolo in sei denari: ossia il denaro valeva qualche cosa più di due centesimi e mezzo; e ogni denaro in sette terunzj o minuti: cioè ogni terunzio valeva poco più di un terzo di centesimo.

Due oboli formavano il simbolo o diòbolo, la mercede degli spettacoli. Tre oboli erano il famoso triòbolo, la mercede del foro e degli eliasti = L. 0,46. Due trioboli, ossia sei oboli, formavano la dramma = L. 0,92. Quattro dramme formavano la tetradramma = L. 3,68, tipo di monete d’argento, delle quali un buon numero è pervenuto sino a noi. Le tetradramme, di cui le più antiche furono battute al tempo di Pericle, hanno, negli esemplari che ancor ce ne restano, la forma solita quadrata delle monete antiche, e recano da un lato la impronta di Minerva, dall’altra quella di una civetta.

Cento dramme formavano una mina = L. 92. Sessanta mine, ossiano seimila dramme, formavano un talento (attico) — moneta nominale — il quale valeva quindi = L. 5520. E così le entrate di Atene che nel nono anno della guerra peloponnesiaca salivano alla cifra di 2000 talenti, volevano dire la somma di L. 11,040,000. Somma ragguardevole se si ha presente il prezzo altissimo del denaro a quell’epoca in cui il triobolo, ossia i 46 centesimi degli eliasti, rappresentavano una mercede sufficientissima al vitto quotidiano di un cittadino, e in cui i provveditori generali della repubblica erano pagati con due, tre o quattro dramme al giorno (da meno di due a meno di quattro lire).

Oltre le monete attiche, molte altre greche ed asiatiche avean corso sul mercato di Atene. Così la dramma di Corinto e la dramma di Egina che valeva L. 1,53; e l’obolo di Egina che valeva in proporzione la sesta parte, ossia centesimi 25 e mezzo.

Vi era il bue, così detto dall’impronta di un bue, che valeva due dramme, ossia un didramma; il core che valeva quattro dramme, ossia una tetradramma.

Vi era lo statere, moneta d’argento, valutato dal Peyron L. 6,12. Altri fanno lo statere (d’argento) equivalente alla tetradramma.

Lo statere darico, ossia il darico, era il nostro napoleon d’oro. Valeva secondo gli uni 20 dramme = L. 18,40, secondo gli altri 25 dramme = L. 23. Il darico era moneta di conio persiano, di oro purissimo, e recava l’impronta di un saettiere.

Lo statere d’oro, secondo il Volaterrano, valeva quanto la mina, ossia 92 lire.

Il talento babilonico infine valeva un quinto di più del talento attico, ossia invece di 60 valeva 72 mine = L. 6624.

104.  Perchè la povertà non togliesse i proletarj che esercitavano un mestiere e del lavoro di esso campavano, dal frequentar le assemblee del foro e i tribunali; e per servire insieme alle proprie mire di dominio assicurandosi così contro la fazione che lo osteggiava l’appoggio delle classi popolari, Pericle assegnò agli intervenienti alle assemblee la mercede di un triobolo (46 centesimi) per ogni seduta (μισθὸς ἐκκλησιαστικὸς) e così pure stabilì la mercede di un obolo, che venne poi anch’essa elevata a tre, per ogni tornata (μισθὸς δικαστικὸς) a coloro che sedevano giudici nei tribunali o dicasteri della Eliea. In appresso Pericle completò questo suo sistema di largizioni che asciugavan l’erario, ma gli cattivavano il favor popolare, coll’aggiungere anco la mercede di due oboli per li spettacoli (θεωρικὸν) e il soldo militare. — E la smania di passar il tempo nei tribunali e nelle assemblee, non tardò a divenire una caratteristica delle classi povere in Atene, acremente satireggiata da Aristofane nelle sue commedie e specialmente nelle Vespe. In quella de’ Cavalieri Aristofane chiama il popolo confraternita di triobolisti. Indi Senofonte scriveva: «la plebe ambir soltanto quelle magistrature che fruttavanle qualche obolo,» e Aristotile: «Mercedi, ozio e desiderio di assembrarsi esser cose connesse fra di loro» (Senof., Rep. Aten., I, 3; Aristof., Polit., IV, VI): e Socrate infine chiamar, come vedemmo, il popolo, chiacchierone ed ingordo di salarj (Plat., Gorgia).

105.  Eliasti o dicasti erano i giudici cittadini, ovvero i nostri giurati: e giudicavano così delle cause criminali come delle civili. Traevano il nome ἠλιασθαί da ἠλιος cielo, perchè giudicavano a cielo aperto. Si sceglievano ogni anno a sorte in numero di seimila, (ossia in ragione di 600 per ciascuna delle dieci tribù) fra i cittadini di tutte le classi, che avessero raggiunta l’età di trent’anni. Di questi seimila, che formavano complessivamente la Eliea, cinquemila venivano, pure a sorte, ripartiti in dieci dicasteri o corti di giustizia di 500 eliasti ciascuna: gli altri 1000 funzionavano da giurati supplenti pei casi di assenza, morte, malattia, ecc., durante l’anno. Nei dì di seduta, tutti gli eliasti convenivano in piazza, ossia nell’agora, e là il tesmoteta indicava a quale dicastéro o corte era assegnata la tal causa, sicchè alla vigilia del processo gli accusati interessati ignoravano da quali giudici sarebbero giudicati. Le sedute delle corti di giustizia si tenevano sotto la presidenza di uno dei tre primi arconti o di uno dei tesmoteti, secondo la rispettiva sfera di competenza di quei magistrati; per gli affari militari si tenevano sotto la presidenza degli strategi. I magistrati presidenti avevano il carico dell’istruttoria delle cause, su cui il voto dei 500 eliasti, udite le parti e le difese, decideva (Meyer e Schömann, Der attische Prozess).

106.  Nottole del Laurio, civette del Laurio (γλαῦκες λαυριοτικαὶ, Aristof., Uccelli), chiamavan gli Ateniesi, con frase scherzevole, le monete di argento che recavan l’impronta di una nottola, ed erano coniate coll’argento delle miniere del Laurion. Negli Acarnesi Aristofane chiama anche tre cuculi, κοκκυγές τε τρεῖς, i tre oboli della paga del foro.

107.  Modo greco proverbiale nato dall’apparir delle rondini come nunzie della fine dell’inverno e portatrici della bella stagione: con che significavasi il voto di un mutarsi in meglio della sorte. Così Mnesiloco invoca l’apparir della rondinella nelle Tesmoforie di Aristofane.

Ancor oggi la canzone delle rondinelle, di cui parlan gli antichi, viene intonata il primo di marzo, scrive l’Ampère, dai fanciulli greci, e a Rodi i garzoncelli cantano ancora: «È venuta, è venuta la rondinella, che mena la bella stagione! Aprite, aprite la porta alla rondinella!» (Cfr. Ampère, Poesia greca in Grecia).

108.  Ossia del borgo o demo di Sunio. Vedi in proposito la nota 55 dell’atto primo.

109.  La mercede di Pericle aveva sedotto in particolar modo, come accennammo, i cittadini artigiani dell’ultima classe, i quali trovavano più comodo seder nell’assemblea che sudar nella bottega. Senofonte fa dire a Socrate nei Memorabili (III, 7) che il foro riboccava di «lavoratori, calzolaj, fabbri, agricoltori, mercanti, ecc.» E Platone, per bocca ancora di Socrate, annovera fra coloro che dan consigli alla città nell’assemblea architetti, fabbri ferraj, calzolaj, mercanti, nocchieri, ecc. (Protag., X).

110.  Questo chiacchierio sfaccendato dei popolani sciupanti il tempo in piazza a domandarsi le notizie della giornata, dava terribilmente sui nervi al buon Demostene. «Mentre Filippo sfida armi, fatiche, cimenti, non perde occasioni nè tempi, noi Ateniesi invece impigrire e sfaccendati per piazza domandarci l’un l’altro: che c’è di nuovo? ἡμεῖς δὲ... οὐδὲν ποιοῦντες... καί πυνθανόμενοι κατὰ τὴν ἀγοραν εἴ τι λέγεται νεώτερον (Dem. Sulla lettera di Filippo). E altrove: «Volete forse baloccando in giro su per la piazza domandarvi: che nuova c’è? περιιόντες... πυνθάνεσθαι κατὰ τὴν ἀγορὰν λεγεταὶ τι καινὸν. Qual nuova più strana che un uomo macedone debelli gli Ateniesi?» (Demost., Filipp., I).

111.  «Come van sempre peggio i fatti miei, alla foggia, com’è il proverbio, di Mandràbulo» (Alcifrone, Lett., I, 9). Modo proverbiale originato da certo Mandrabulo, il quale avendo trovato un tesoro, offerse il primo anno a Giunone Samia una pecora d’oro, il secondo una d’argento e il terzo una di bronzo, il quarto nulla (Vedi Luciano, De merc. conduct., e Suida).

112.  Usavano mettere in bocca il danaro «Quando torno a casa, la mia figliuola, chiamandomi babbo, mi trae i tre oboli di bocca» (Aristof., Vespe).

113.  Per i dodici Dei. I dodici Dei maggiori, compresi da Ennio nel suo distico:

Juno, Vesta, Minerva, Ceres, Diana, Venus, Mars,

Mercurius, Jovis, Neptunus, Vulcanus, Apollo,

avevano nella piazza Ceramica d’Atene un’ara ad essi dedicata, perciò detta δωδεκάθεον, e invocavansi spesso nelle esclamazioni.

114.  «Dimmi, o padre, se oggi l’Arconte non terrà giudizio, come mai ci compreremo noi da pranzare?» (Aristof., Vespe).

115.  A ogni novilunio, cioè al cominciar d’ogni mese, i ricchi usavano far le lustrazioni, ossia purificar le loro case: e i cibi che si trovavano avere, per non li buttar via, li esponevano nei trivj, dove Ecate adoravasi, in offerta a quella Dea; e diceansi: cene di Ecate, o anche appunto cibi lustrali. Per lo più consistevano tali offerte in uova e in cacio. Appena poi gli offerenti partivano, quelle vivande venivano dai poveri involate. «Si può interrogar Ecate, se sia meglio arricchire od aver fame: poichè ella dice che i doviziosi debbono ogni mese venirle a imbandire la cena, e i poveri rapirla prima che sia imbandita» (Aristof., Pluto, v. 594 seg. Cfr. Luciano, Dial. dei morti, 1, 22; e il Tragitto). Nelle lettere di Giuliano son chiamate cene di Ecate, τῆς Ἑκάλης δεῖπνον, là ove è detto che lo stesso Teseo non disprezzò una cena di Ecale, ossia una magra cena, e contentossi del poco per necessità (Giul., Epist., 40). Ma Ecale dev’esser error di copista. — Il comico Antifane, presso Ateneo, VII, 313, chiama scherzosamente cibi di Ecate, Ἑκάτης βρώματα, alcuni pesciolini minutissimi, tanto minuti da non esserci niente da mangiare.

116.  Le nove Cannelle, ossiano l’Enneacrùno, erano una fontana pubblica di Atene, che dava acqua da nove bocche. Fu fatta costruire da Pisistrato e diceasi da principio fontana di Calliroe; sotto il qual nome è ricordata in Tucidide (III, 15). Di essa si servivano gli Ateniesi per le lustrazioni ed altri usi sacri: e i poveri v’andavano a bere. «Se alcun non m’invita, dovrò andar cogliendo erbe ed empiere il ventre bevendo all’Enneacrùno.» — Così un parassito in Alcifr., Lett., III, 49. Intorno alla storia di Calliroe e all’altra fontana nell’Acaja dov’ella venne ad uccidersi e che da lei prese il nome, vedi Pausania, Acaja, 21.

117.  Sulla mania dei giudici ateniesi di condannare, vedi Aristofane, Vespe.

118.  Cfr. Aristof., Vespe, v. 301.

119.  Imposta principale, e pressochè unica, pei cittadini di Atene (astrazion fatta dalle liturgie, cioè spese dei cori, dei giuochi sacri, delle triremi, ecc., a carico dei ricchi), fu da principio quella sulla proprietà fondiaria, la quale appunto servì di base alla ripartizione solonica delle quattro classi. Era del cinquantesimo sull’estimato, il quale però diminuiva di classe in classe, rendendo così l’imposta in parte progressiva. Prima classe: proprietà fondiaria 6000 dramme (rendita netta 500 dramme, estimo 6000) imposta 120 dramme. Seconda (Cavalieri): proprietà fondiaria 3600 (rendita netta 300 dramme, estimo 3000), imposta 60 dramme. Terza (Zeugìti) proprietà fondiaria 1800 (rendita netta 150, estimo 1000) imposta 20 dramme. Quelli dell’ultima classe pagavano ancor meno o niente, se non possedevano terra.

Il resto delle entrate della città era formato dal tributo degli alleati, dalle rendite delle terre pubbliche date a pigione, dai pedaggi, dazi e tasse di commercio che erano per lo più a carico degli alleati e forestieri, dalle decime sui fondi sacerdotali, dati a usufrutto, dalla tassa di protezione che pagavano i meteci (12 dramme a testa), dalla tassa di tre oboli per ogni schiavo e dal ricavo delle multe giudiziarie.

Ma cresciuti i bisogni per la guerra del Peloponneso, nè i 400 talenti (L. 2,208,000) di entrata interna che davano al tempo di Pericle quelle imposte cittadine, nè gli altri 600 di entrata esterna che si ricavavano dai tributi sulle città confederate, più non bastarono ai vuoti dell’erario: e per la prima volta, nel quarto anno della guerra, i cittadini dovettero imporsi una nuova tassa di 200 talenti (Tucid., III, 19) aumentando verisimilmente insieme anche il tributo de’ confederati. Successivamente altre tasse indirette si introdussero, e così anche quelli dell’ultima classe, che l’imposta solonica non aggravava, portarono la loro parte di pesi. Qui appunto si citano fra i nuovi carichi la tassa del quarantesimo introdotta da un Euripide fratello del tragico e menzionata in Aristof., Eccles.; quella dell’un per cento accennata in Aristof., Vespe: e le straordinarie ossiano le sopradonazioni o giunte (ἐπιδοσεῖς) che votavansi dall’assemblea, in fuori delle consuete, nelle urgenti strettezze dello erario (Teofr., Caratt., XXII; Demostene le chiama προσκαβλήματα, C. Timoc.).

Mercè i nuovi carichi e l’aumento dei tributi sui confederati, le entrate complessive della Repubblica poterono salire, nel decimo anno della guerra del Peloponneso, quando Aristofane scrisse le Vespe (ossia già sei anni prima dell’epoca di questa scena) alla cifra di 2000 talenti (11,040,000), di cui 800 di entrate interne, e 1200 di esterne.

Dalla spedizione di Sicilia soltanto comincia la rovina delle finanze ateniesi; oltrechè la impresa assorbì somme enormi, i disastri che seguirono, portando le defezioni dei confederati, diminuirono ogni dì più le entrate esterne: sicchè più tardi, dopo il governo dei Trenta, si trova Atene in conflitto coi Tebani, perchè non è in grado di pagar loro due talenti dovuti! Ai tempi di Demostene, perduta gran parte dei dominj del mare e perduta l’egemonia, le entrate eran scese sino ai 130 talenti: e Demostene si compiaceva che fossero risalite a 300 e 400 (Demost., Filipp., IV).

120.  Gli interessi dei debiti si pagavano al novilunio, cioè al 30 ed ultimo del mese, il qual tempo era detto «vecchio e nuovo giorno» ἔνη καὶ νέα nelle citazioni dei creditori: cioè l’ultimo di una lunazione e il precursore di un’altra. Vedi Aristof., Nubi.

121.  Sui lamenti dei popolani ateniesi contro le concussioni e i ladronecci dei magistrati e capitani della repubblica, vedi Aristofane nelle Vespe, nei Cavalieri, negli Acarnesi. A questi lamenti non v’era altro ad opporre se non che i venalissimi eliasti popolani erano intinti della stessa pece: chè del resto la corruzione e i brogli e le ruberie nel maneggio dei pubblici affari e dei pubblici denari — di cui parlasi in questa e in altre scene del dramma — e che le leggi soloniche ab antico punivano di infamia e di morte — all’epoca di Alcibiade erano affatto all’ordine del giorno. Indi Isocrate si lamentava: Noi curiam così poco le leggi, che mentre esse puniscono di morte chi fu convinto di corruzione, noi quelli che spargono palesemente il denaro, li facciam generali (Isocr., De pace). Nei Cavalieri Aristofane fa dire dal demagogo Cleone al salsicciajo: Io confesso di esser ladro e tu nol confessi: e il coro a Cleone: tu adocchii i nostri tributi come i pescatori dall’alto di uno scoglio adocchiano i tonni: e poi il coro nelle strofe lamentando i tempi passati: nessun mai de’ condottieri (al tempo degli avi) chiese mai di nutrirsi come ora a spese pubbliche. — Un po’ più tardi udrem Demostene discorrere de’ suoi tempi per nulla dissimili: «Chi più offende la patria, o il bifolco e il tapinello che per figliolanza e domestiche necessità mancarono ai tributi, o chi nelle taglie riscosse e negli averi degli alleati diede di piglio?... Perchè, o malvagio, tu che da più di trent’anni maneggi la repubblica e in questo mezzo la vedesti rubata or da molti capitani, or da molti oratori, non li accusasti?... Ne volete la ragione? perchè tutti si spartono la preda, tutti si divorano le esazioni ed insaziabili pelano e scorticano la repubblica» (Demost., C. Androz.).

122.  A Minerva i capitani eran tenuti ad offerire — e deponeasi nel tesoro della Dea sopra l’Acropoli, — la decima parte delle spoglie prese ai nemici. — «E non son ladri costoro che diedero di piglio nello erario sacro, nelle decime di Minerva, nelle cinquantesime degli altri Iddii? Anzi il lor sagrificio è di tutti più orribile, chè non deposero nell’Acropoli il dovuto denaro» (Demost., C. Timocr.).

123.  «Era il Pritaneo un luogo sacro nella rocca di Vesta, dove era perpetuamente acceso il fuoco. Ivi si conservavano le leggi di Solone, e si forniva vitto quotidiano a coloro i quali avessero ottimamente meritato della repubblica, o che la città volesse onorare, onore giudicato grandissimo tra i Greci» (Ast., Note al Protagora di Platone). Era presso i Greci quello che Tito Livio chiamava il penetrale urbis (XLI, 40), e che noi chiameremmo la casa del Comune, il palazzo municipale. Nel Pritaneo stava l’altare degli Dei patrono della città e il fuoco appunto vi ardeva perpetuamente ad imagine del fuoco acceso nelle case private sul domestico altare agli Dei penati. Oltre alimentarvi coloro ch’eran nudriti a spese pubbliche, nel Pritaneo la città esercitava l’ospitalità verso i forestieri illustri, ed ivi pure radunavansi i Pritani, i magistrati, gli amministratori del Comune. Il Pritaneo insomma era il simbolo esterno della grande aggregazione, della grande famiglia dei cittadini, e significava che una città aveva amministrazione propria e indipendente.

Son note le parole con cui Socrate inviperì i suoi giudici, allorchè, sentenziato colpevole e invitato, a tenor di legge, a dichiarare qual pena ei credesse applicabile a sè, rispose: quella di essere nutrito a spese pubbliche nel Pritaneo (Plat., Apol., 26).

124.  γηγενέις, αὐτόχθονες, autóctoni, indigeni, aborigeni, generati dalla terra: epiteto quasi di nobiltà che davano a sè stessi gli Ateniesi.

Sull’orgoglio degli Ateniesi per la loro origine dal suolo, della quale frequente si vantavano, vedi Platone, Menesseno: «Questa disposizione generosa che vuol la libertà e la giustizia, quest’odio innato dei barbari è inalterabile e radicato fra noi Ateniesi, perchè noi siamo di origine puramente greca, e senza mistura coi barbari. Da noi nessun Pelope, nè Cadmo, nè Egitto, nè Danao, nè tanti altri veri barbari di origine, greci soltanto per la legge. Il puro sangue greco scorre nelle nostre vene, senza mistura di sangue barbaro; da qui nelle viscere stesse della repubblica scorre l’odio incorruttibile a tutto ciò che è straniero» (Ibid.); e Aristofane nelle Vespe: «Attici siamo noi, dalle aguzze diretane parti, di vera nobiltà noi soli ornati, di questo suolo antichi figli» Cfr. Luciano, Anacarsi, — dove Anacarsi dà cortesemente la baja a Solone e agli Ateniesi per questo vanto che si attribuivano di autóctoni, ossia indigeni. — Platone, nel Crizia, narra, che nella spartizione delle terre che fecero gli Dei tra di loro, l’Attica, siccome terra per natura adatta alla virtù e alla sapienza, toccò in sorte a Minerva e a Vulcano, i quali ingenerarono in essa dei buoni uomini autóctoni. — Così un oratore ateniese diceva con boria a Gelone di Siracusa: Noi siamo il più antico popolo di Grecia, e soli fra i Greci non mutammo mai patria (Erod., VII, 161). — Pericle, nell’orazione funebre, vanta come prima lode di Atene l’aver sempre avuto gli stessi abitatori (Tucid., II, 36). — E un Ateniese, in Euripide (citato da Plutarco, De exilio, III): Noi non siamo già un popolo qua trasportato da straniero paese, ma vi nascemmo autóctoni. — L’origine vera poi di questo nome può ritrovarsi nella sottile osservazione di Tucidide, che cioè, mentre le altre contrade della Grecia, come la Tessaglia, la Beozia, l’Argolide, per la ricchezza e fertilità del loro terreno, furono continuo oggetto di contese fra le antiche stirpi guerresche, e quindi più di frequente soggette al variar degli abitanti, l’Attica invece, il cui terreno infecondo non destava la gola a nessuno, fu lasciata in pace; e così «siccome quella che per la sua sterilità andò lungamente immune da rivoluzioni, ebbe mai sempre gli stessi abitatori» (Tucidide, I, 2. Cfr. Pausan., Attic., I, 14).

Vero è che questo vanto di aborigeni attribuitosi dagli Ateniesi sembra singolarmente guastato dalla opinione che Cecrope, il loro primo re e fondatore, fosse uno straniero venuto nell’Attica con una colonia dall’Egitto: per cui il vanto di Cecròpidi che Carinade accoppia all’altro di autóctoni, potrebbe a questo posto parere in bocca sua imprudente od illogico o fuori di luogo. Su di ciò osservo: che l’antica leggenda attica — all’epoca del dramma — considerava tuttora anche Cecrope precisamente come un re indigeno od autoctono (Κέκρωψ αὐτόχθων, Apollod., lib. III), per lo che si favoleggiò di lui che fosse mezzo uomo e mezzo serpente (simbolo della terra). — Viceversa, l’opinione che Cecrope fosse egizio (registrata da Suida, dallo scoliaste di Aristofane, da Tzetzes, da Cedreno), non sorse che assai più tardi dell’epoca di Alcibiade; e cioè non prima del IV secolo av. l’E. V., quando si notarono alcuni caratteri di somiglianza tra la dea Athene e l’egizio Neith e quando i sacerdoti egiziani ebbero accreditata l’opinione che la Grecia andasse all’Egitto debitrice della sua civiltà religiosa e politica. (Cfr. Müller, Orcomenos, pag. 106; Vos., Antisymbolica, II, p. 415; e Meursius, Reg. Athen. Sugli altri nomi di discendenza con cui gli Ateniesi si chiamavano, vedi più innanzi la nota 85 su Eretteo).

125.  «È legge che chi si mostrò valoroso consacri tutte l’armi nel tempio», νόμος τὸν ἀριστα είς ἱερὸν πανοπλὶαν ἀνατιθέναι (Syrianus, Comm. in Hermog. — Consecrata jam dudum arma deposui, Calpurn. Flacc., Decl., XV). Altra legge prescriveva che chi avesse per tre volte dato prova di valoroso in campo, avesse diritto entro trenta giorni a chiedere quel premio che volesse; e non tanto per cagion d’onore quanto per aver di che vivere, dispensato dal servizio militare. Ter vir fortis militia vacet (Calp. Fl., l. c.). Indi la frase del consacrar l’armi.

126.  Aristof., Cavalieri, v. 792.

127.  I Greci s’aiutavano nel far conti, or colle dita, or con pietruzze o sassolini (ψῆφος) detti calculi dai Latini, che distribuiti variamente sul tavoliere rappresentavano le unità, le decine, le centinaia (Teofrasto, Carat., XIV; Alcifrone, Lett., I, 26).

128.  Il calcolo è di Aristof., Vespe, v. 660, e si riferisce all’anno 10.º della guerra del Peloponneso. Cfr. più sopra la nota 23.

129.  Aristof., Nubi, v. 859.

130.  Le vesti che si avevano indosso quando si era iniziati ai misteri, dopochè si erano abbastanza usate, fatte logore ed inservibili, si consacravano agli Dei. — Aristofane accenna a questa usanza nel Pluto, v. 844.

131.  È superfluo avvertire come, all’epoca del dramma, i sofisti avessero parte grandissima nella vita pubblica d’Atene e nella formazione del carattere ateniese. I sofisti avevano invaso, può dirsi, ogni ramo dell’educazione; alla loro scuola si formavano gli oratori e i magistrati della repubblica. Essi avevano particolarmente contribuito a sviluppare quella sterilizzante ginnastica dell’ingegno, che punto curando la sostanza delle idee, si divertiva a giuocar di destrezza sulle parole; quella smania di parlare per parlare, senz’altro scopo che di dar prova di una puerile abilità dialettica poggiata sullo scambio dei vocaboli; quel destreggiarsi pretenzioso e vuoto della mente non più intesa alla ricerca di un’utile verità morale o di uno scopo nobile e pratico della vita, ma a dar spettacolo di sè a sè medesima, in un continuo giuoco di bussolotti del discorso, in confusioni ridevolmente artificiose tra le idee e i loro segni vocali, in un fuoco di artifizio di garbugli di parole e calembourgs. Qui giuocar sulla ambiguità delle parole, là sulle apparenti sinonimie; estendere al senso assoluto il valore accidentale d’una voce; parole a più significati intenderle in una premessa ad un modo, nell’altra ad un altro; dare alle parole che unite hanno un senso, lo stesso disgiungendole e viceversa; tirar conclusioni essenziali dalle più superficiali analogie — e via dicendo. «E più spicca l’assurdo, — scrive lo Zeller (Gesch. der Philos., II) — più ridicola è la tesi, più sguaiata è la scipitaggine in che l’avversario è stato preso, tanto maggiore lo spasso e più sonoro l’applauso degli uditori.» Sicchè chi aveva in pronto parecchi di questi garbugli di parole era certo di chiamar gente a sè in piazza, come oggi farebbe un cavadenti in fiera; e Socrate non per nulla loro affibbiava appunto l’epiteto di ciarlatano, ciurmadore, γὸης (Plat., Repub., X). Naturalmente costoro trovavano spesso anche pan pei loro denti: poichè quelle abitudini ginnastiche del linguaggio generalizzandosi e addestrando insieme le menti a vederne a nudo e impararne gli artificj, era facile trovar nell’uditorio chi ritorcesse i cavilli contro il cavillatore, ripagandolo della stessa moneta.

Questi che abbiamo accennati erano i distintivi caratteristici della filosofia eristica, onde il nome di sofista nel senso nobile e antico della parola era venuto man mano assumendo un altro significato. Filosofia della quale si ponno rintracciar le origini nelle sottigliezze e quisquiglie idealistiche della filosofia eleatica di Zenone e di Parmenide, e che ai tempi di Socrate era venuta specialmente in voga per opera di Gorgia, di Protagora, di Prodico, di Ippia, o meglio di una turba di loro colleghi di mestiere, che da essi ritrassero il cavillare sconclusionato e le ridevoli sottigliezze e la vacuità pretenziosa del metodo, senza possederne lo ingegno. È a questa filosofia, dominante nei tribunali, nel foro, nelle piazze, che Socrate opponeva gli attacchi della sua ironia finissima, del suo squisito senso pratico, di quella sua filosofia informata al culto del retto e del vero, che Platone e Senofonte ci tramandarono e che al grande filosofo procacciarono il bel compenso di essere spesso confuso, come nelle Nubi di Aristofane, con quei medesimi che egli attaccava.

Il sofista da me introdotto a parlare in quest’atto appartiene a quella categoria più volgare degli eristici: egli porta il nome di uno dei due eristici messi alle strette da Socrate nell’Eutidemo; ma i suoi sofismi (qui naturalmente acconciati alla meglio per servire ad un piccolo scherzo comico) accennano alle sottigliezze e negazioni eleatiche sull’essere e sul divenire, di cui abbiamo un saggio nel Parmenide e in altri dialoghi di Platone.

132.  Una caratteristica degli eristici era appunto la loro pretesa scienza enciclopedica. Ed era naturale: le idee, le cose, per essi non essendo nulla, e le parole tutto, niente di più ovvio dello esercitare la loro arte e i loro sproloqui su qualunque ramo dello scibile. Per essi non vi poteva essere nè scienza, nè arte difficile: tutte, per essi, si valevano a un modo, perchè erano tutte eguali davanti alla loro ciarlataneria dialettica: ed essi quindi millantavano di essere dotti in tutte. Alludendo appunto a questo ammasso sconnesso e svariato di cognizioni confuse, Socrate paragonava ironicamente l’arsenale scientifico d’un sofista — ἔμπορος (Plat., Protag.) — ad un emporio. È noto di Ippia che venuto in Olimpia, oltre al vantarsi di insegnare tutto lo scibile umano, e di disputare su qualsiasi argomento, mostrava le sue vesti, l’anello, il sigillo, la profumeria, i calzari, la fascia, e perfino una stregghia, affermando tutto quello essere lavoro delle sue mani (Platone., Ipp. min.; Cicer., de Orat., III, 32). Nell’Eutidemo, Socrate, presentando a Clinia i due eristici Eutidemo e Dionisodoro, dice di loro con velata ironia che essi sono sapienti «in cose non da poco ma grandi; sanno di guerra quanto s’appartiene a un buon generale, e i modi di schierare e comandar gli eserciti; capaci anche di mettere uno in caso di aiutarsi da sè davanti ai tribunali.» — Ma i due sofisti gli dan sulla voce osservando che queste per loro le sono inezie, a cui non si applicano che per passatempo: e ch’essi sanno di meglio, e sono in grado d’insegnare anche la virtù (Plat., Eutid., II).

133.  Cfr. Aristof., Nubi; Plat., Eutidemo, II.

134.  Di Protagora — un de’ sofisti che andavano per la maggiore — nel dialogo di Platone che porta il suo nome, è detto ch’ei fosse il primo de’ sofisti a pigliar una mercede delle sue lezioni (Plat., Protag., II, III, XXIII); altrove nello stesso dialogo, Protagora medesimo dice: «Io credo poter ajutar chi si sia a diventar un valentuomo, in maniera condegna alla mercede che io esigo, anzi a molto maggiore. Per il che appunto alla riscossione della mercede ho posto questa norma. Appena uno abbia appreso da me, sborsa a un tratto, quando ei voglia, la mercede ch’io domando; altrimenti, andando a un tempio e giurando quel prezzo al quale egli stima gli insegnamenti ricevuti, quello depone.» (Ib., XVI). Il che rende inverisimile l’asserzione di Diogene Laerzio (IX, 52) che Protagora riscotesse da ciascun discepolo cento mine (circa 8590 franchi) come l’asserto che Protagora fosse il primo a prender salario è contraddetto dallo stesso Platone, ove narra di Zenone, il sofista eleate, che s’era fatto pagar le lezioni da Pitodoro e da Callia anche lui cento mine ciascuna (Plat., Primo Alcib., XIV): lezioni salate.

Comunque sia, all’epoca del nostro dramma, questa retribuzione del salario, era un altro dei caratteri che distinguevano la profession del sofista, da quella dei filosofi, come Socrate, Platone, Aristotile, i quali distribuivano gratis la loro sapienza. Non esigeva mercede da nessuno, dice, di Socrate, Diogene Laerzio (Socr.). E perciò Socrate nel Protagora affibbia ai sofisti il titolo di κάπελος ed ἔμπορος, ossia mercante al grosso ed al minuto; Senofonte chiama i sofisti gente che vendono la sapienza per danaro a chi la vuole (Memorab., I, 6, 13); e Platone e Aristotile accennano al pagamento di una mercede come ad una specialità distintiva della professione del sofista (ἔμμισθος θηρευτής è chiamato il sofista da Platone nel Sofista, e χρηματιστής da Aristot., Soph., El., I).

135.  Via d’Atene, ricordata ripetutamente in Alcifrone, Lett., I, 39; III, 8. — Agnone era un borgo dell’Attica, della tribù Ajantide.

136.  Dalla famosa e tenebrosa grotta ov’era l’oracolo di Trofonio (presso Lebadia in Beozia) fatta spaventevole a quei che vi entravano dalle fattucchierie dei sacerdoti, era venuto tra i Greci il proverbio che usavasi parlando di uomo scuro in faccia e che non ride mai: Egli ritorna dell’antro di Trofonio. Sull’oracolo di Trofonio, vedi Pausania, Beot., IX, 39.

137.  La superstizione e il culto dei presagi e degli augurj e la fedele osservanza delle pratiche religiose erano anch’esse qualità caratteristiche del popolo ateniese, nel tempo stesso ch’ei tollerava sulla scena si deridessero — purchè non si negassero — gli Dei. Alla superstizione religiosa, Alcibiade dovette in gran parte il suo primo bando, Socrate la sua condanna di morte. Per accuse di reato di religione (di aver profanati i misteri, o messo in dubbio l’esistenza degli Dei, ecc.) furon pure processati e condannati, com’è noto, il tragico Eschilo, e i filosofi Anassagora, Diagora di Melo, e Protagora e Prodico di Ceo. Nè dai pregiudizj religiosi andavano esenti spesso le menti più illuminate, perchè sappiamo di Senofonte che fu superstiziosissimo, e lo stesso seriissimo Tucidide accenna agli eclissi come a segni precursori di disgrazie (Tucid., I, 23). — Vedi ancora su questo proposito dello spirito superstizioso e delle pratiche di superstizione tra gli ateniesi, i frammenti caratteristici che ci restano di diverse commedie di Menandro, in ispecie del Superstizioso (Δεισιδαίμων) presso Clem., Alex., Strom., VII; del Trofonio, presso Stob., 98; del Misogino, presso Strab., VII, 297; della Sacerdotessa (Τέρεια) presso Giustino, Monarch., 29, ecc.

138.  Si accennano alcune superstizioni del volgo ateniese. Il buccinar delle orecchie, l’incontro di una donnola, di un epilettico, di un pazzo, ecc., eran tenuti per infausti presagi (Teofrasto, Caratteri, XVI; Aristofane, Eccles.; Elian., Var. St., IV).

139.  Sgombratori o fugatori o scacciatori dei mali ἀποτροπαῖοι, ἀποπομπαῖοι, ἀλεξίκαια chiamarono i Greci Ercole, Apollo e Polluce siccome divinità incaricate di allontanar dagli uomini i mali imminenti. Erano gli averrunci dei Latini. Si sagrificava loro una agnella; e specialmente ricorrevasi alla lor protezione, se appariva qualche segno o presagio infausto (Senofonte, Simpos., cap. III; Alcifr., Lett., III, 47, 53; Pausan., Corint., II, 11; Platone, Leggi, IX, 854, a.).

140.  Superstizione ateniese (Teofrasto, Caratt., XVI).

141.  Scosse di terremoto, e tuoni e lampi — presagi infausti (Aristof., Eccles.; Eschilo, Sofocle, Omero, ecc.).

142.  Atenapólia, o Minerva Poliade, altro dei soprannomi di Minerva quale protettrice della città di Atene, ove le era dedicato, in cima all’Acropoli, il tempio del Partenone. Ivi era la statua della Dea armata dell’asta e dello scudo, capolavoro di Fidia; alta ventisei cubiti, tutta d’oro e d’avorio, coperto il capo di un elmo sul quale era una sfinge (Vedine la descrizione in Pausan., Attic., I, 24). In faccia al tempio era un antico ulivo che la tradizione popolare voleva piantato dalla stessa Minerva: ed era tenuto per sacro: di ramoscelli di essi si premiavano i vincitori nelle feste Panatenee (Meurs., Them. Att., II, 36).

143.  Lampone, indovino di Turio, menzionato da Aristofane (Uccelli, v. 521, 988).

144.  «Vo’ irmene ad alcun di coloro che appo il tempio di Bacco tengono esposte le tabelle e promettono di spiegare i sogni» (Alcifr., Lett., III, 59). — Anche di Lisimaco, nato da una figlia di Aristide, si narra che con una certa sua tabella interpretava sogni in Atene presso il tempio di Bacco (Plutarco, Arist.). — È nota l’importanza grande che i Greci annettevano ai sogni; indi il gran numero di sogni famosi presso gli scrittori, come il sogno di Aristodemo, il sogno di Socrate, di Alcibiade, di Epaminonda, di Agesilao, ecc.

145.  Sono due di quelle parole magiche che i Greci solevano chiamare lettere efesie — ἐφέσια γράμματα — delle quali usavano indovini e ciurmadori per prendere a gabbo la credulità delle donnicciuole e delle persone superstiziose; sulla derivazione delle quali, e sul cui significato, osserva il Wieland, sono state scritte con molta filologia molte cose vane. Diceansi lettere efesie perchè la cintura e la corona della statua di Diana in Efeso eran tutte sparse di simili parole e segni cabalistici, con cui gli indovini e preti mendicanti e mercanti d’amuleti (προβασκάνια) spacciavano di allontanare i mali spiriti, scongiurar le imprecazioni dei nemici, ecc. Cfr. Platone, Repub., II, 364.

146.  Socrate quasi mai portava sandali (Plut., Simp., II; Aristof., Nubi); austerissimo in tutto il suo vestire. Per altro, come questo era in lui semplicità virtuosa del costume, e non ostentazione, così egli era ben lontano dalla rozzezza e dal sudiciume di Antistene e de’ Cinici: e se recavasi in una casa ammodo, vi andava senza ricercatezza, ma ben vestito — λαμπρά ἠμπίσχετο — (Diog. Laerz., Socr.): e così Apollodoro incontra Socrate che si reca (Simp., II) tutto pulito, lavato e, contro il solito, calzato di sandali — λελουμένον καὶ τὰς βλαύτας ὑποδεδεμένξν — al banchetto di Agatone.

147.  

Ὅτι βρενθύει τ’ἔν ταῖσιν ὀδοῖς καὶ τὼ’ φθαλμὼ παραβάλλεις

Κανυπόδητος κακὰ πολλ’ ἀνὲχει κὰφ’ ἤμιν σεμνοπροσωπεῖς.

(Aristof., Nubi, v. 362-3)

148.  Salvo l’esatto adempimento de’ suoi doveri di cittadino, Socrate astenevasi dalla vita pubblica, dai tribunali e dalle assemblee (Plat., Apol., I, XIX, XX). Il suo solito demone, egli diceva, lo aveva sempre trattenuto dallo immischiarsi nelle brighe di Stato: in fondo egli sentiva dentro di sè che il campo del suo grande apostolato era altrove; e che non era già tra le ciancie e i litigi dei venali Eliasti, nè tra il cozzo delle passioni meno nobili e dei bassi intrighi disputantisi il campo nell’assemblea, ch’egli poteva sperare di far udire utilmente per la repubblica i consigli della sua sapienza e delle sue virtù. — Una sola volta, com’egli potè ricordarlo con orgoglio davanti a’ suoi giudici, egli prese la parola nelle cose della repubblica: e fu per opporsi, indarno, alla iniqua condanna dei capitani vincitori alle Arginuse (Apol., XX).

Un’altra missione nella sua città stava innanzi alla mente di quel giusto. «In un tempo, scrive il Wieland, in cui nessuno sembrava accorgersi come la depravazione sempre crescente degli antichi costumi andava approssimando lo Stato alla sua perdizione; in un tempo in cui il troppo rapido passaggio dall’aurea mediocrità di altra volta al culmine di potenza e di ricchezza a cui Pericle avea spinta la repubblica, apriva agli invaniti Ateniesi prospettive così luminose da farli dimentichi di ogni moderazione, nè più sognar d’altro che di dominio universale, e illimitato aumento di possessioni e di tributi; in un tempo in cui un uomo di vista così lucida e di così sano giudizio, com’egli era, poteva presentir facilmente che una terribile tempesta si andava formando per piombar sopra Atene, e che ben tosto sarebbesi presentata l’occasione in cui l’universale penuria di virtù morali e politiche avrebbe dovuto farsi profondamente sentire colle più funeste conseguenze; — in siffatto tempo offrir sè medesimo, nei pensieri e nelle massime, con la voce e con le opere, qual esempio di tutte le domestiche e civili virtù, per trarre a sè con l’incentivo delle sue maniere soavi la gioventù della classe più cospicua, e formarla a poco a poco a pensamenti e principii conformi, questo innegabilmente era il servizio maggiore che un uomo prestar potesse alla patria: e l’unico uomo che il voleva e lo poteva era, anzi fu... Socrate» (Wiel., Aristippo, I, lett. 6).

149.  In tutta questa parlata di Diocare, il cointeressato de’ sacerdoti, cerca raccogliere i giudizj e le dicerie che correan per Atene sul conto di Socrate, a quest’epoca del dramma (415 av. l’E. V.), cioè nove anni dopo la rappresentazione delle Nubi e quindici anni prima dell’accusa di Melito: giudizi e dicerie che, accreditate, checchè se ne dica, e sia pure involontariamente, dalla satira di Aristofane, avvalorate dalla credulità, dalla ignoranza e dalla sorda guerra dei demagoghi, dei sofisti, dei sacerdoti e di tutti coloro che la ironia di Socrate aveva irritato o pei quali la sua persona era un’accusa e un rimprovero vivente, dovevano preparar lentamente il terreno a quelle prevenzioni che alla fine presero corpo nel processo e furono le cause della condanna del grande filosofo.

Il metodo stesso di vita di Socrate, apparentemente ozioso, pareva fatto apposta per avvalorare i pregiudizi che cominciavano a circolare tra il popolo in odio suo. Le leggi antiche soloniche, severissime contro l’ozio, cui comminavan l’infamia (Plut. e Diog. Laerz. in Solone; Erodoto, II; Polluce, VIII, 6), obbligavano ogni cittadino del terzo e del quart’ordine a esercitare qualche utile ed onesta professione, o a servire immediatamente la repubblica. Nell’opinione degli Ateniesi, Socrate (sebben come soldato avesse fatto il suo dovere a Potidea, ad Anfipoli, a Delio) non faceva nè una cosa nè l’altra: poichè «ch’ei fosse a vedersi ed udirsi giornalmente per tutti i vicoli di Atene e per le pubbliche piazze, e ch’egli andasse da una bottega e da un’officina all’altra a molestar la gente ne’ suoi mestieri con le sue questioni e sottigliezze — come essi le nomavano — ciò non veniva riguardato dal basso popolo e neppure dalla massima parte di quei della prima classe, per una occupazione di veruna specie, e meno ancora di verun merito» (Wieland, Aristippo, II, lett. 28). — Figurarsi se questa non doveva essere un’arma eccellente in mano di coloro che quell’apostolato di Socrate molestava, o che la ironia sottile del vecchio derisore raumiliava.

150.  Come è noto, sono questi i titoli dell’accusa promossa da Melito, Anito e Liccone, pei quali Socrate fu poi condannato. «Socrate delinque perscrutando le sotterranee e le celesti cose, e facendo dritto del torto e insegnando altrui guaste dottrine. — Socrate delinque e corrompendo i giovani e non credendo i Numi che la città crede, bensì altre nuove cose demoniache» Plat., Apol., III, XI. Confr. Senof., Apologia, — e le Nubi di Aristofane, ove quelle due precise accuse (comunque si tenti scagionare Aristofane da ogni responsabilità nella morte di Socrate) si trovavano già da ventiquattr’anni prima nettamente formulate.

151.  Aristof., Nubi, v. 95 seg.

152.  Questa fu veramente opinion di Pitagora (Eliano, V. St., IV, 17), ma il popolo non si occupava di sceverare per sottile quali fossero veramente le opinioni di Socrate.

153.  Aristof., Nubi, v. 379 seg.; 828.

154.  Confronta in Aristofane i lamenti di una donna ateniese, venditrice di corone pei sagrificj, contro Euripide, perchè avendo persuaso gli uomini che non ci son gli Dei, le ha rovinato la sua industria (Arist., Tesmof., v. 450 seg.).

155.  Pritani: i reggenti, per turno, del Senato. L’assemblea del Senato (βουλὴ) istituita da Solone a circoscrivere e controllare, in unione all’assemblea del popolo (ἔκκλησια), l’autorità degli arconti, constò da principio di 400 cittadini che Clistene portò ai 500. Erano scelti a sorte ogni anno fra tutti i cittadini che avessero compito i 30 anni, e rappresentavano nello Stato un potere direttivo e moderatore. Il Senato preparava e dirigeva i lavori dell’assemblea del popolo, studiava in anticipazione gli affari e le leggi da sottoporre al suo voto, vegliava all’esecuzione delle sue decisioni; controllava i conti dei magistrati, compilava i bilanci, ordinava i pagamenti, accordava gli appalti delle imposte e delle opere pubbliche. Nessuna legge o misura di iniziativa privata poteva presentarsi all’assemblea, ed essere ammessa alla discussione, se prima non passava sotto l’esame del Senato. E al Senato infine si portavano le denuncie di alto tradimento, circa le quali, se n’era il caso, esso convocava l’assemblea del popolo, ed esposte le denunzie, deferiva la causa ai Tesmoteti. Uscendo di carica i Senatori dovevano poi render conto della propria condotta, e il Senato stesso puniva le colpe dei proprj membri.

Le attribuzioni del Senato non venivano però tutte esercitate da tutti i senatori insieme. I cinquecento senatori dividevansi in 10 sezioni da 50 senatori l’una, quanti cioè ne contribuiva ciascuna delle 10 tribù o file: e ogni tribù rappresentata dalla rispettiva sezione, si succedeva per turno, nella reggenza del Senato, durante l’anno, il quale restava così diviso in dieci periodi amministrativi di 35 a 39 giorni ciascuno. Pritania dicevasi così la sezione dei 50 senatori della tribù in carica (Pritani) come pure il periodo di tempo entro il quale essi amministravano. E indicavasi nelle leggi, oltre la data del mese, la Pritania: il dì ventesimo quinto di Elafebolione, pritaneggiando la tribù Eretteide, ecc. (Dem., Corona).

I Pritani presiedean le adunanze del Senato, lo rappresentavano in permanenza (gli altri senatori essendo liberi di intervenire o no) e prendevano le decisioni in suo nome: convocavano le assemblee del popolo nello Pnice, ne formulavano l’ordine del giorno, lo pubblicavano alcuni giorni prima nell’agora, e presiedevano l’adunanza: il capo dei Pritani (epistata) — tratto pure a sorte ogni dì — dirigeva le discussioni. Egli custodiva eziandio le chiavi dell’Acropoli, del tesoro e dell’archivio, e il sigillo di Stato.

Nel periodo dei trentacinque giorni di ciascuna pritania avevano luogo ordinariamente quattro assemblee popolari: il che dava quaranta adunanze ordinarie all’anno. I pritani però o gli strategi in casi urgenti convocavano il popolo anche in adunanza straordinaria.

156.  Alcibiade prima dell’età legale entrò nella vita pubblica (Andoc., C. Alcib.). Notisi che ad Atene i cittadini avevano bensì a venti anni il diritto di assistere all’assemblea, come, dai diciott’anni, avevano l’obbligo di servire nella milizia: ma non potevano innanzi i trenta prender la parola nell’assemblea come oratori, come non potevano prima di quell’età seder nel Senato o nei tribunali.

Alcibiade nacque, secondo la versione più accreditata, l’anno 450 av. l’E. V., per cui nell’anno della spedizione di Sicilia (415), all’epoca cioè di questa scena, doveva avere realmente 35 anni. Ma altri autori fanno Alcibiade più giovane, attribuendogli 40 anni (Corn. Nep. in Alcib.) all’età della morte, avvenuta nel 404: secondo il qual cómputo all’epoca della presente scena avrebbe avuto appunto 29 anni. Una ragion drammatica mi fece preferire questa seconda versione all’altra più autentica.

157.  Era questo un tasto debole del popolo ateniese, spesso abilmente sfruttato da coloro che bramavano eccitarlo contro qualcuno. E Demostene stesso non si ristava, occorrendo, dal valersene: «Colui, o Ateniesi, che crede di disonorarsi rispettandovi, non è degno di mille morti? Egli farsi maggior del popolo? Oh rabbia!» (Dem., C. Midia).

158.  «Noi non contiam nulla come se fossimo di quelli da Megara» (Alcifr., Lett., III, 44; Teocr., Idill., XIV). Modo proverbiale originato dalla risposta che diede ai Megaresi l’oracolo di Delfo, il quale, da essi interrogato con doni qual popolo fra i Greci sovrastasse in bravura, rispose qualificandoli come gli ultimi fra i Greci — ὑμεῖς δέ ὦ Μεγαρεῖς οὔτε τρίτοι οὔτε τέταρτοι, ecc., ecc. — «Megarenses neque tertii neque quarti, neque duodecimi, neque in ratione, neque in numero.» Vedi Erasmo a questo proverbio. — «Badate, non è sopra Carii che voi fate i vostri esperimenti» (Platone, Lachete). I Carii erano mercenarj che si esponevano senza scrupolo alla guerra. D’essi parla Strabone, lib. XIV.

159.  Plut. in Alcib. E Ateneo, Deipnos., XII, 534: «Jam dux quum esset exercitus, adhuc formosus esse volebat: itaque scutum habuit ex auro et ebore confectum, in quo pro insigni erat Amor fulmen vibrans

160.  Plut. in Alcib.

161.  Ateneo, Deipnos., XII, 543 d., Plut., Alcib.; Tucidide, VI, 16. Vedi la nota 74 dell’atto primo.

162.  Aristof., Nubi, v. 980; Tucidide, I, 6. Portavano le donne ateniesi cicale d’oro appuntate nei capelli, a significare il solito antico vanto delle origini, siccome di vera stirpe autoctona, nate anch’esse dal suolo, al par delle cicale. I giovani più ricchi ed eleganti imitavano la moda femminile.

163.  Porpora ermiònica, ricordata da Alcifr., Lett., III, 46. Ermione fu città del Peloponneso. La porpora che vi si tingeva era celeberrima e vendevasi a enorme prezzo.

164.  Chiamar fichi i fichi, come dice il proverbio — τά σῦκα σῦκα — Dir pane al pane (Demetr., Della elocuzione, 7; Luciano, Modo di scriver la storia). — La quantità dei fichi, onde l’Attica era proverbiale, forniva al proverbio greco l’imagine più comune.

165.  Sui sospetti contro Alcibiade e sulla tendenza e facilità estrema degli Ateniesi della sua epoca a sospettar disegni di tirannide, in ogni minima cosa, vedi Tucid., VI, 15, 28; Aristofane, Lisistrata, Vespe.

166.  Plutarco in Alcib.

167.  Plutarco in Nicia; Pausania, Focid., X, 15.

168.  Eumòlpidi, ministri del culto di Cerere (Demeter) e di Proserpina nel tempio di Eleusi. Erano in Atene — al pari degli Eteobutadi, che erano i sacerdoti di Minerva — una famiglia sacerdotale antichissima, derivante il nome da Eumolpo di Tracia, che fondò i misteri eleusini: o più propriamente da εὔ μελπέσθαι, cantar bene, per il loro ufficio originario di cantar gli inni sacri: onde il loro antenato Eumolpo fu detto di Tracia, ossia di Pieria, siccome della patria del canto. Gli Eumolpidi costituivano anche un foro sacerdotale privilegiato (gerofanti): in quanto era ad essi deferita l’accusa e il giudizio dei delitti di profanazione dei misteri; contro i quali delitti procedevano col massimo rigore, suggellando la condanna con terribili maledizioni. Fu dagli Eumolpidi che venne maledetto, come profanatore dei misteri, Alcibiade (Lisia in Andoc.; Esichio, a q. v. Cfr. C. O. Müller, St. della letter. gr., cap. 3).

169.  «Essendo tutti pronti per navigare, non si vedevano già cose di buon augurio, specialmente nella sacra solennità che allora correva. Imperocchè correvano appunto in quei giorni le feste di Adone, ecc.» (Plutarco, Alcib.). — Intorno alle feste delle Adonie, la cui coincidenza coi giorni prefissi alla partenza per la Sicilia, era tenuta d’infausto augurio, vedi al quadro primo la nota 30.

170.  Aristof., Lisistrata, v. 393 seg. Cfr. Teocr., Idill., XV; Alcmano, Framm. ap. Hephaest. — Cfr. Menandro, il Misogino, pr. Strab., VII, 297; la Sacerdotessa, pr. Giustin. Monarch., 29.

171.  «E poi che avete l’abitudine di chiedere ogni volta all’oratore: Che s’ha a fare? — τὶ οὔν χρὴ ποιεῖν; — io domanderò: Che s’ha a dire?» (Demost., Cherson.) «Sogliono certi, prima ancora di sentir l’oratore, subito domandargli: Che cosa fare?» (Demost., Filipp., IV).

172.  I cani dell’isola di Creta, e specialmente quei di Gnosso, città cretese, eran famosi e pregiatissimi per grandezza, ardire e vigoria. Di essi è menzione in Oppiano, Cyneg., I; Polluce, V; Alcifr., Lett., III, 47; Teofilatto, Lett., 58. Egualmente reputatissimi nell’antichità erano i cani di Laconia.

173.  Alcibiade aveva l’abitudine nel discorrere, specialmente in pubblico, di interrompersi tratto tratto, e far pause improvvise, il più delle volte a bella posta e per artifizio, come gli venisse mancando la parola (Plut. in Alcib.).

174.  «Avendo egli un cane di meravigliosa grandezza ed avvenenza, il quale gli costava settanta mine, gli troncò la coda che bella era oltremodo, e riprendendolo i di lui famigliari e dicendogli come tutti aspramente il vituperavano per aver fatto ciò, egli ridendo: «La cosa va dunque — rispose — come voglio io, perciocchè voglio appunto che gli Ateniesi parlino di questo, acciò non si mettano a parlar contro di me di cose peggiori» (Plutarco in Alcib.).

175.  Lo stesso Plutarco in Alcibiade narra di lui che «un giorno, facendogli il popolo applauso, egli per la gioja si dimenticò di una quaglia che aveva nella veste; onde quella spaventata volò fuori, e in vederla il popolo si pose a gridare e inseguirla per prenderla.» Mi sono valso a mio modo dei due incidenti del cane e dell’uccello, fondendone insieme e modificandone le circostanze, colla libertà concessami dalla ragion drammatica.

176.  I nepoti dei vincitori di Maratona — avrei dovuto dire: la frase sarebbe stata più esatta: ma anche più lunga e meno drammatica.

177.  Il testo preciso e completo della legge, di cui Alcibiade, per le sue buone ragioni, non dice a Cimoto che una parte sola, e a modo suo, era questo: «Se alcuno degli Ateniesi riceverà (doni o danaro) o ad altri ne darà o con promesse si farà corruttore per far danno al popolo o ad un privato cittadino, qualunque modo o artificio egli tenga, sia infame egli e i suoi figli e tutto che è suo» (Demost., Contro Midia).

Del resto, nell’opuscolo — Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle, — spiegai di già (e la osservazione vale così per questa che per altre leggi menzionate in quest’atto) come le leggi soloniche, ai tempi di Alcibiade, benchè vigenti tuttora in diritto, fossero per la maggior parte cadute, praticamente, in dissuetudine.

178.  Ἀρεοπαγίτου στεγανοίτερος (Alcifrone, Lett., I, 13). Modo proverbiale. — Nel piano legislativo di Solone l’Aeropago era il sostegno e il conservatore della costituzione dello Stato. Composto degli arconti usciti di carica, e di condotta irreprensibile, rotti ai pubblici affari per l’esperienza degli ufficj esercitati, l’Areopago non soltanto funzionava da supremo tribunale nelle più gravi cause capitali, ma era anche rivestito di amplissimi poteri censorj e amministrativi. Vegliava sull’amministrazione dei magistrati, sulle decisioni delle assemblee, perchè nulla si facesse o decretasse contro le leggi; soprintendeva alla pubblica disciplina, ai costumi, alla religione, all’educazione de’ giovani. Puniva i cittadini oziosi, i dilapidatori, i viziosi, indicava ai giovani le carriere da percorrere, ricompensava gli esempj di virtù, ecc. Era in breve il rappresentante degli interessi permanenti, e delle tradizioni politiche, legislative e morali della repubblica.

Ma Pericle, mirando ad abbattere la fazione aristocratica che dall’Areopago traeva forza e prestigio, mutilò d’assai i poteri di questo tribunale. Egli fece passare la legge che toglieva all’Areopago la cognizione di quasi tutte le cause, deferendole invece ai seimila giudici della Eliea. La giurisdizione degli Areopagiti rimase circoscritta alle cause di omicidio premeditato, di incendio, veneficio, empietà, e qualche altro delitto minore: però gli Areopagiti continuarono a essere circondati di quel rispetto e di quella venerazione che incutevano la loro vita austera, l’autorità morale delle loro persone, e la solennità dei loro riti. Nelle cause di omicidio l’Areopago si radunava a giudicare di notte, sul campo di Marte — Ἄρεος πάγος, collina di Marte. — Le due parti, collocate fra le viscere fumanti delle vittime, prestavan prima il giuramento, accompagnato da terribili imprecazioni. Agli avvocati era proibito ogni esordio, ogni digressione dall’argomento, ogni artificio di retorica. Gli Areopagiti ascoltavano silenziosi, e, istrutta la causa, silenziosi deponevano i voti in due urne, una di bronzo, detta della morte, l’altra di legno, della misericordia. A voti pari, l’accusato era assolto, reputandosi aggiunto in suo favore il suffragio di Minerva. Dal silenzio e dal mistero con cui gli Areopagiti giudicavano, venne il proverbio che li riguardava (Meursius, Areopago; Schömann, Antiq. jur. pub., p. 298 seg.; Potterus; O. Müller, ecc.).

179.  Porfirio ricorda delle leggi date agli Ateniesi da Trittolemo, antichissimo tra i legislatori Ateniesi, essersi conservate ad Eleusi queste tre sole: γονεῖς τιμᾶν. θεούς καρποῖς ἀγάλλειν. ζῶα μή σίνεσθαι. Onorare i parenti, offerir frutta agli Dei, non far male agli animali (Porph., De abst., IV; Meursius, Them. Att., I). I popolani ateniesi, fanatici delle quisquiglie forensi e dei battibecchi giuridici dell’Eliea, era naturale avessero le leggi a ogni momento in bocca — salvo sempre infischiarsene, per loro conto, nella pratica.

180.  «Nelle adunanze vi sono grate le lusinghe, dice Demostene agli Ateniesi» (Demost, Filipp., III). «I vostri demagoghi vi inebbriano di tante lodi, che ne’ parlamenti vi gustano le adulazioni, e la repubblica lasciate alle sue estreme miserie» (Demost., Cherson.). E le adulazioni e le lusinghe erano un tasto di effetto così sicuro sui vanagloriosi Cecropidi, che Demostene medesimo, il quale lo rinfacciava, più d’una volta per ispronare il popolo all’opera, era costretto a ricorrervi.

Però questa piaga popolare era assai più antica di Demostene: già da un pezzo le lodi smaccate e le carezze colle quali i demagoghi trascinavano il popolo ateniese a loro posta, avean fornito il soggetto alla satira sanguinosa del Demo nei Cavalieri di Aristofane: poichè, per una contraddizione curiosa, questo popolo così tenero del sentirsi lodare ed adulare, era poi il medesimo che si lasciava dir sulla faccia improperj d’ogni sorta. E vedi, ad esempio, le orazioni di Demostene.

181.  Εὔπρόσωπος γὰρ ὄ τοῦ μεγαλήτορος Ἐρεχθῆος δῆμος — è bello il popolo del magnanimo Eretteo — (Platone, Primo Alcib.).

Δῆμον Ἐρεχθῆος μεγαλήτορος, ὄν ποτ’ Ἀθήνη

θρέψε, Διος θυγάτηρ, τέκε δὲ ζεἴδωρος ἂρουρα.

Popolo del magnanimo Eretteo, cui Minerva figlia di Giove un giorno nutrì, e l’alma terra generò (Omer., Il., II). — Eretteo o Erittonio, figlio di Minerva Betonica e di Vulcano, fu il quarto dei re antichissimi di Atene (dopo Cecrope, Cranao ed Anfizione): nato, secondo la leggenda, dal seme di Vulcano sparso sulla terra (Lucian., Filops.). Per il primo dedicò a Minerva, sulla rocca, sagrificj, e tempio e simulacro: e istituì in suo onore le feste Panatenee, ove fu il primo che corresse sul carro e aggiogasse al carro i cavalli (Si dice che Erittonio figlio della Dea primo degli uomini unisse i cavalli al carro, Aristid., Or. in Minerv.; Virgil., Georg., III). Si volle anche che fosse stato il primo ad introdurre in Atene le monete (Polluce, IX, 6; Plin., VII, 56): e che al suo tempo nascessero le prime api famose sull’Imetto. Regnò cinquant’anni sugli Ateniesi, che da lui furon detti Erettidi, o figli di Eretteo, o popolo Erittonio (Demost., C. Mid. negli oracoli; Eurip., Medea, v. 824; Properz., II, eleg. 6): come Cecropidi diceansi da Cecrope; e anche Cranai, e città di Cranao, città Pandionia, dal re Cranao, e da Pandione, che fu il figlio e successor di Eretteo. Con questo Eretteo od Erittonio non va confuso l’altro Eretteo, suo successore e nipote — figlio cioè di Pandione — che istituì in onor di Cerere i misteri eleusini, e diede il nome alla tribù Eretteide; e sotto il regno del quale i cittadini mutarono l’antico nome di Cecropidi in quello di Ateniesi (Erod., VIII).

182.  Aristofane nei Cavalieri, v. 41, chiama con questo titolo mangiator di fave, κυσμοτρὼξ il popolo ateniese. Intorno all’arroganza del demagogo Cleone, vedi Tucidide; e Aristofane nei Cavalieri.

183.  Volendo annoverare i demagoghi, ossia gli oratori del popolo che si succedettero, dopo Pericle, nel maneggio delle cose della repubblica, gli Ateniesi nominavano in ordine di tempo primo Eucrate negoziante di stoppe, secondo Callia, venditore di pecore, terzo Cleone conciatore (il cuojajo Paflagone dei Cavalieri), al quale Aristofane nella sua commedia, fa succedere Agoracrito, il salsicciajo, ma nella storia succedettero Cleofonte, il formaggiajo, e Iperbolo, fabbricante di lucerne secondo gli uni, vasajo secondo gli altri; il qual ultimo fu fatto cacciare coll’ostracismo da Alcibiade.

184.  Tucidide, Guerra Pelop., II, 79.

185.  Tucidide, III, 52, 68.

186.  Tucidide, IV, 96.

187.  Tucidide, V, 10. Fu nella battaglia di Amfipoli che morì il demagogo Cleone, comandante degli Ateniesi, e morì anche il comandante degli Spartani, il prode Brasida.

188.  Aristof., Tesmof. Cavalieri.

189.  καλῶ δε ἑναντίον ὑμῶν, ὤ ἄνδρες αθηναῖοι, τοὺς θεοὺς ἄπαντας, καί πάσας, ὄσοι τὴν χώραν ἔχουσι τὴν ἀττικὴν, καί τὸν Ἀπόλλω τὸν πὺθιον, ὄς πατρῶός ἔστι πόλει...» (Demost., Corona).

190.  Apollo Pizio — πύθιος — altro dei soprannomi dati a questo Iddio poichè uccise a frecciate il serpente Pitone, nato dal putrefarsi — πύθεσθαι — della terra dopo il diluvio di Deucalione; in memoria di che furono istituiti i giuochi sacri nazionali detti Pizj, celebrantisi ogni quattr’anni, sul luogo della uccisione, nella pianura tra Delfi e Cirra:

Instituit sacros celebri certamine ludos

Pythia de domitae serpentis nomine dictos.

(Ovid., Metamorph., I, v. 446)

Questo mito di Apollo Pitio e dei serpente da lui ucciso, appare una imagine poetica e tutta greca del prosciugarsi della terra, dopo un grande cataclisma, sotto la sferza dei raggi del sole, che ne disperdono le putride esalazioni. E non per nulla gli antichi, come osserva l’Ampère, aveano collocato il tempio di Apollo Pitio a Delfo, al piè delle rupi dette phedriades (sfavillanti), che ancora oggi ripercuotono con tutta forza i raggi solari — ossia le frecce del Nume, che uccisero il mostro.

191.  «La città lo sta ad ascoltare ammirata, a bocca aperta, come dicesi che interveniva agli Ateniesi pel figliuolo di Clinia» (Luciano, Scita).

192.  «Ad Atene è patrio vanto primeggiar tra i Greci nè soffrir eguali — ἤ (πόλει) προεστάναι τῶν Ελλήνων πάτριον, καὶ μηδὲν τοιοῦτον περιορᾶν γεγνόμενον» (Demost., Parapresb.). «Agli Ateniesi è patrio orgoglio non obbedire a nessuno ma prostrar tutti nelle battaglie — Ἀθηναιοις πάτριον ἔστι μηδενός ὑπακούειν, ἄ πάντον δὲ κρατεῖν τοῖς πολέμοις» (Demost., Sulla lettera di Filippo). — Vedi in proposito più sopra la nota 84. Cfr. Meissner, II, 35.

193.  νὴ τόν Δία καὶ πάντας τοὺς θεοὺς (Demost., Cherson.) μὰ τον δία καὶ πάντας τοὺς θεοὺς (Demost., Filipp., IV).

194.  Plutarco, Disp. Conviv., I, 1. — Il Dio Tebano, Bacco.

195.  La viltà di Cleonimo che gettò via lo scudo, è frequentissime volte ricordata da Aristofane, nelle Nubi, nei Cavalieri, nella Pace e altrove.

196.  Le leggi antiche ateniesi (sebbene ai tempi di Alcibiade i rilassati costumi le avesser rese gran parte lettera morta) erano severissime contro i vili. Punito di infamia — e quindi escluso dall’assemblea e dall’esercizio degli altri diritti del cittadino — chi avesse in battaglia cedute l’armi. Καὶ νὸμος τὸν αποδόμενον τὰ ὄπλα, ἄτιμος εἴναι (Syrianus, comm. in Hermog.). Punito di carcere il disertore che usurpasse ufficj di cittadini onorati. Κᾶν ἀστρατεὶας τίς ὄφλῃ, καὶ τι τῶν αὐτῶν τοῖς ἐπιτίμοις ποιῇ, καὶ τοῦτον δέδεσθαι (Demost., C. Timocr.). «Comanda la legge, scrive Aristotile, fare opera d’uom valoroso: cioè non disertar l’ordinanza, non fuggire, non gittar via l’armi.» Προστάττει δὲ ὄ νόμος καὶ τα τοῦ ἀνδρειοῦ ἕργα ποιεῖν, οἴον μὴ λείπειν τὴν τάξιν, μηδὲ φεύγειν, μηδὲ ρίπνειν τὰ ὄπλα (Aristot., Ethic. Nicom., V, 1). E a chi disertasse le schiere, o fuggisse, o gittasse l’armi, era comminata la morte. Νόμος τὸν λιπόντα τὴν τάξιν ἀναιρεῖσθαι (Syrian. in Hermog.; Auct., Problem. Rhet., XL). Νόμος τὸν καταστείχοντα φυγάδα θανάτῳ ζημιοῦσθαι (Marcell. in Hermog.). Νόμος τὸν ῥίψασπιν θανάτῳ ζημιοῦσθαι (Sopater in Hermog.) — Chi anche soltanto per trascuraggine avesse perduto lo scudo, era multato di cinquanta dramme: ε’ ὰν τις ε’ ὶπη, ἀποβεβληκέναι τὴν ἀσπὶδα, πεντακοσίας δρακμὰς ὀφείλειν κελεύει (Lisia in Theomnest.). Altre leggi punivano severissimamente oppignorare o vender l’armi o cederle ad altri (Suida alla voce ἐνέχυρον; Sopater, Syrianus in Hermog., ecc.). — E ai tempi di Alcibiade le risate del popolo e i frizzi di Aristofane erano la sola punizione di Cleonimo!

197.  Plutarco in Alcib. e in Antonio. Cfr. Shakespeare, Timone, atto III, e Meissner, sopra l’incontro di Timone, I, 44; II, 280.

198.  «Il vino irrorando gli spiriti assopisce gli affanni e i pensieri come la mandragora gli uomini» (Senof., Simp., II). Da questa virtù di assopimento attribuita alla mandragora venne in proverbio tra gli antichi bevere la mandragora, prendere la mandragora, per significare dimenticanza del proprio dovere, lentezza nell’operare, letargia. Così Demostene, nella Filippica V, rimproverando l’assopimento insensato degli Ateniesi in faccia al pericolo, somigliano, dice, a chi ha bevuto la mandragora o altra simile pozione — μανδραγὸραν πεπωκόσιν ῇτι φὰρμκαον ἄλλο τοιοῦτον ἐοίκαμεν ἀνθρώποις.

199.  Luciano, Timone.

200.  Era in Creta la tomba di Minosse con sopravi la iscrizione: Μίνωος τοῦ Διὸς τάφος. Cancellata dall’ingiuria del tempo la prima parola, rimasero l’altre: sicchè la tomba di Minosse fu additata come tomba di Giove: — e la cosa passò tra i Greci in proverbio. Luciano la ricorda di frequente: «Risvegliati, o figlio di Saturno, da cotesto sonno profondo!... se non è vero quello che i Cretesi contano di te e della tua tomba» (Timone). «I Cretesi dicono che Giove non solo è nato ed allevato tra essi, ma ne mostrano anche la tomba» (Dei sacrifizj). «Quei che vengon da Creta contano che lì han veduto una tomba e sopravi una colonna con una scritta, che dice che Giove non tuona più, perchè è morto da un pezzo» (Giove tragedo).

201.  Le donne greche, nei tempi più antichi, ascrivevano a primo dei doveri della maternità l’allattare esse medesime i loro bambini (Omero, Iliad., X, v. 83; Odissea, XI, v. 446; Euripide, Ion., v. 1460). Ma in Atene ai tempi di Alcibiade questa usanza era scaduta e le poche donne che allattavano ancora, si provvedevano però anche di una nutrice (Suida alla voce τροφὸς; Aristof., Caval., v. 713; Plut., Educ. dei fanciulli). Rinomatissime erano le nutrici spartane (Plut. in Lic.).

202.  Alcibiade ebbe per nutrice una donna spartana di nome Amicla (Plut. in Alcib.). Gli antenati di Alcibiade erano stati in Atene prosseni, ossia consoli di Sparta e a Sparta la famiglia dell’eforo Endio, pei vincoli di prossenia che a quella di Alcibiade la legavano, alternava in ogni generazione il nome di Endio con quello di Alcibiade (Tucid., VI, 89; VIII, 6). Anzi Alcibiade era esso stesso un nome laconico, come osserva lo scoliaste di Tucidide (Cfr. Meurs., Misc. Lacon., III, 8).

203.  Chi vuol leggere esempj d’insolenze ed invettive che il popolo ateniese si lasciava dire in faccia, persuasissimo in cuor suo di meritarsele e altrettanto deciso di infischiarsene e tirar innanzi a modo suo, non ha che a prender in mano i Cavalieri o le Vespe di Aristofane o qualcuna delle orazioni di Demostene. Ecco la descrizione del popolo sovrano dello Pnice, personificato nel vecchio Demo, che Aristofane nei Cavalieri fa dire da Demostene a Nicia sulla faccia degli spettatori:

Un padron ci toccò rustico, strambo,

Lunatico, iracondo, mangiafave:

Certo Demo Pniceo zotico, sordo,

Borbotton, capriccioso, e vecchio allocco

E Demostene poi, in pieno foro, ne’ suoi trasporti di virtuosa indignazione, non avea penuria di vocaboli. Città di schiavi, non d’uomini nati a maggioranza (C. Androz.); O Ateniesi assonnati in istupidezza e codardìa (Ibid.); cianciatori, imbelli (Olint., I); impigriti nell’ozio, per ignavia degeneri (Ibid.); popolo invilito, fiacco, spiantato, derelitto, non più altro che schiavi e avveniticcia plebaglia (Olint., III); bellicosi ne’ consigli, vigliacchi in guerra (Cherson.); tutto è qui fra voi codardia (Filipp., IV); voi siete, Ateniesi, un vile gentame, plebe pezzente, inerme, scompigliata, divisa di interessi e di voglie: i capitani e tutti conculcano ogni vostro decreto: muti e prostituti i vostri consiglieri: ogni patto indifferente agli affanni della patria... Voi siete bruzzaglia piena di servitù, perduta nel nulla, e d’ogni vile beneficiuolo menate gran festa... (Sintassi). — E parmi che basti per provare... la discrezione di Timone.

204.  Colitta, uno dei borghi dell’Attica, appartenente alla tribù Egeide. Vi nacquero Timone il misantropo e Platone.

205.  Partenone, il tempio famoso di Minerva sull’Acropoli: prodigio dell’arte antica, il genio della Grecia di Pericle parla ancor oggi, traverso ai secoli, dalle sue rovine.

206.  Timone ha insultato Alcibiade. Ora una legge solonica (abbastanza trascurata del resto come l’altre) vietava ingiuriar una persona in pubblico. «Proibì pure (Solone) il dir villania ad alcuno ne’ templi, ne’ luoghi dove si tien ragione, dove si trattano gli affari pubblici e dove si fanno spettacoli; e ciò sotto pena di dover pagare tre dramme a quella persona particolare che fosse svillaneggiata, e due altre all’erario pubblico» (Plutarco in Solone).

207.  Aristof., Acarnesi, v. 43-44. — Si purificava innanzi la seduta il luogo della assemblea spruzzandolo col sangue di un porcellino. Nelle Aringatrici, trattandosi di un’assemblea da burla, Aristofane al porcellino fa sostituire un gatto: Prassagora dice alle donne: Il purificatore porti in giro il gatto (Arist., Eccles., v. 128).

208.  Naturalmente era in altro senso che l’austero Demostene diceva: la voce del banditore è voce della patria, τῆς πατρὶδος γωνὴ (Demostene, Corona).

209.  ῶ γῆ καὶ θνοὶ — Apostrofe usatissima (Aristen., Lett., II, 20; Demost., Corona, e altrove).

210.  Teodota e Gnatena, due delle etére più in voga ad Atene, in quei dì. Intorno a Teodota, con cui Socrate stesso amava intrattenersi, vedi Senof., Memorab., III, 2; Aten., Deipn., V, 220 e. — Ateneo cita pure Teodota e Timandra, come le due amanti più note di Alcibiade: Aten., XII, 535, c. XIII, 574, f. 588 d. — Intorno a Gnatena, vedi Aten., XIII, 558 seg.

211.  ἀλκυονίδαι ἡμέραι — modo proverbiale significante giorni placidi e sereni. Alcionj o alcionidei chiamavano propriamente gli antichi i quattordici giorni del solstizio d’inverno, durante i quali gli alcioni usano deporre le uova in riva al mare: onde il nome stesso di quell’uccello — παρὰ ἔν τῷ ἁλὶ κύειν — (Ovid., Metam., XI, v. 745; Plin., N. Hist., X, 47). — Consideravansi come dì fausti ai naviganti, poichè in questo tempo il mare ritrovasi in perfetta calma: indi l’uso proverbiale della frase. Stando amici con noi, ve la godrete e passerete sempre giorni d’alcione (ossia giorni tranquilli) — ἁλκυονίδας τ’ ἄν ἤγεθ’ ημέρας αεί — (Aristof., Uccelli, v. 1594). — Luciano richiama in proposito la favola di Alcione e di Ceice: «Molto onore ebbe l’Alcione dagli Dei per l’amore che ella portò al marito: chè per farle fare il nido il mondo reca alcuni giorni detti alcionj, placidi e sereni in mezzo del verno: ed oggi è uno di quei giorni. Non vedi come è sereno il cielo e il mare tranquillo e cheto che pare uno specchio?» (Luc., L’Alcione. — Cfr. Alcifr., Lett., I, 1; Teocr., Idill., 7). E il Tasso:

«De l’alcione al desiato parto

È sopito il furor d’orridi venti,

Son quete l’onde tempestose, e ’ntorno

Sgombre le nubi e serenato il cielo:

In sì tranquillo e sì felice aspetto

De’ fidi augelli alla progenie arride.»

(T. Tasso, Mondo Creato, Giorn. V)

212.  «Come si suol dire, ai soli spergiuri degli amanti gli Dei perdonano; perchè il giuramento venereo — ἀφροδίσιξς ὄρκος — non vale» (Plat., Simposio, c. 10). — «Il piacere è la più bugiarda di tutte le cose: e come va per proverbio, nei piaceri di Venere, i quali pur sembrano essere i massimi, anche allo spergiurare è accordato perdono dagli iddii, appunto come se i piaceri, a guisa di fanciulli, non avessero pur un briciolo di cervello» (Plat., Filebo, c. 41). — E in Aristeneto una donna così rinfaccia al suo amante la incostanza maschile: «Fintanto che siete innamorati, voi altri uomini, passate le intere notti ai nostri usci per terra e senza letto, piangendo chiamate in testimonio gli Dei, e avete i giuramenti sulla punta della lingua... Ma tosto che avete a sazietà soddisfatta la vostra libidine, e avete ridotte le amate or dianzi ad amarvi alla lor volta, allora tronfi vi ridete del rapito fiore di quelle, e prendete a ludibrio le misere ch’eran prima l’oggetto delle vostre brame: e dite che i giuramenti non arrivano all’orecchio degli Dei» (Aristen., Lett., II, 20). — E Pavillon, illustrando a sua volta un po’ crudamente la teoria greca della nullità del giuramento degli amanti:

Dès qu’un objet cesse de plaire

Le commerce amoureux aussitôt doit finir,

Le respect des serments n’est plus qu’une chimère

La perte du plaisir qui nous les a fait faire

Nous dispense de les tenir.

213.  Modo di dire omerico (ripetuto anche in Esiodo, Teog., 35) di uso proverbiale antichissimo fra i Greci, e più antico, sembra, di Omero. Οὔ γὰρ ἀπὸ δρυός ἔσσι παλαιφάτου, οὔδ’ ἀπὸ πέτρης. Così Platone: «Per dirla con Omero, neppur io sono nato nè di quercia, nè di pietra, ma d’uomini» (Apolog., 23). — Il Müller lo reputa un detto di antichissimi cantori pierii: nel quale la quercia e la rupe accennano alla semplice vita campestre degli autóctoni greci, che credevano di trarre la loro origine dai monti e dalle selve: e intorno a questi soli oggetti s’aggirava con innocente semplicità il loro pensiero.

214.  «Veloce è Cupido al venire e all’andarsene; se spera prende l’ale: se appena dispera, immediatamente gli cadono. Indi la grand’arte delle etére è in differir sempre il godimento e trattener gli amanti colla speranza» (Aristen., Lett., II, 1). — «Io credo che l’amore grande nasce quando uno si persuade che tu poco lo curi: se è sicuro di possederti egli solo, la passione si smorza» (Luciano, Dial. delle cortigiane, 8). — «Che crudele costui! Ma tu stessa, o Violetta, l’hai guasto col volergli troppo bene e col mostrarglielo. Dovevi non farti vedere troppo accesa di lui: egli ora lo sa, e se ne tiene» (Luc., ibid., 12).

215.  Senof., Repub. Laced., 1; Plutarco in Licurgo e Apoft. Lacon.

216.  Munichione è il decimo mese dell’anno attico, secondo lo Scaligero (aprile-maggio). Qui cadono in acconcio alcuni cenni sul Calendario Attico.

Gli Ateniesi ebbero da principio un anno lunare di 354 giorni diviso in dodici mesi successivamente cavi e pieni, nell’ordine seguente: 1.º Gamelion; 2.º Antesthesterion; 3.º Elaphebolion; 4.º Munychion; 5.º Targelion; 6.º Scirophorion; 7.º Hecatombeon; 8.º Metagitnion; 9.º Boedromion; 10.º Memacterion; 11.º Panepsion; 12.º Posideon.

Ma col tempo risultando quest’anno lunare in arretrato sul ritorno periodico delle stagioni, si consultò l’oracolo; il quale ordinò di regolare i mesi colla luna e l’anno col sole: cioè intercalare il numero di giorni necessario perchè la durata dell’anno corrispondesse meglio all’annua rivoluzione del sole. Si stabilì quindi una intercalazione di un mese di trenta giorni, la quale intercalazione avesse luogo tre volte in otto anni, ossia per ogni due olimpiadi (quadrienni): infatti otto anni di 354 giorni con tre mesi intercalati di trenta, corrispondono appunto ad otto anni di 365 giorni e un quarto. Per tal modo riconducevasi il primo giorno, il primo mese e il primo anno di ciascuna olimpiade verso la luna nuova che veniva dopo il solstizio d’estate. L’ottaetèride, ossia periodo di otto anni, ricominciava infatti verso questa luna e il lunario ateniese seguiva tutte le variazioni derivanti dalla sua singolare struttura. Fu questa la riforma dell’astronomo Metone, introdotta nel calendario civile ateniese appunto all’epoca di Alcibiade e precisamente nel 432 av. l’E. V. (anno 1.º dell’Olimpiade 87.ª): e da quell’epoca il mese di ecatombeone, ch’era il settimo del primitivo ordine, e cominciava appunto col novilunio susseguente al solstizio estivo (16 luglio), diventò il primo mese del calendario olimpico, che fu adottato dalla maggior parte degli Stati greci. Indi i mesi attici, corrispondenti ciascuno (secondo i calcoli del Corsini) dal 16 luglio in avanti, alla seconda metà di un mese nostro, e alla prima metà del successivo, rimasero così distribuiti:

1.º Ecatombeone (luglio-agosto), mese della ecatombe, ossia del sagrificio. Chiamossi in antico ecatombe un sagrificio di cento buoi, più tardi un olocausto in genere.

2.º Metagitnione (agosto-settembre), mese del tragitto. Si celebravano in esso le feste di Apollo Metagitnio, commemorative del passaggio di un popolo dell’Attica da un comune all’altro.

3.º Boedromione (settembre-ottobre), ossia mese del soccorso. Celebravasi in esso la festa Boedromia, in memoria del soccorso recato da Xuto agli Ateniesi, quando questi, al tempo di Eretteo, furono assaliti dagli Eleusini sotto la condotta di Eumolpo trace, figlio di Nettuno. Vi si onorava Apollo perciò detto anch’egli Boedromio; e ai 15 di questo mese stesso ricorrevano in onor di Cerere e Proserpina le feste dei misteri eleusini, la cui celebrazione durava nove dì.

4.º Pianepsione (ottobre-novembre), ossia mese delle fave cotte. Si cuocevano queste nelle feste, perciò dette Pianepsie, istituite in memoria di Teseo, che tornato salvo da Creta, mangionne per allegrezza alla stessa tavola co’ suoi compagni. Ricorrevano pure in questo mese le Tesmoforìe, ossia le feste di Cerere tesmofora, celebrate per sette giorni dalle donne di ingenua nascita, con processioni ad Eleusi, digiuni e solennissimi riti; e le feste Apaturie, o feste delle frodi, commemorative del duello in cui Melanto campione degli Ateniesi vinse per inganno Xanto re dei Beoti; duravan tre giorni, nel terzo dei quali avea luogo la iscrizione dei neonati.

5.º Memacterione (novembre-dicembre), ossia mese di Giove tempestoso — in onor del quale si celebravano le feste Memacterie per implorare il tempo sereno (Il Petavio mette questo mese in luogo del Pianepsione dal quale lo fa precedere).

6.º Posideone (dicembre-gennajo), ossia mese di Nettuno, onorato nelle feste Posidonie, celebrate con solenni abluzioni, specialmente in Egina. Ricorrevano pure in questo mese le Dionisiache rurali, ossiano i Baccanali campestri, celebrati nella campagna colla processione del fallo ritto.

7.º Gamelione (gennajo-febbrajo), ossia il mese delle nozze, sacro a Giunone Gamelia, auspice e tutrice dei vincoli conjugali.

8.º Amtesterione (febbrajo-marzo), ossia floreale. Vi ricorrevano all’11 del mese le feste Lenee, dette anche Antesterie o floreali, e dedicate a Bacco Leneo: le quali duravan tre giorni: il primo, festa delle botti; il secondo, festa delle coe o delle libazioni funerarie; il terzo, festa dei chitri o delle pentole, perchè in tal dì cuocevansi legumi d’ogni specie in una gran pignatta, offerta in suffragio de’ morti a Mercurio.

9.º Elafebolione (marzo-aprile), ossia mese di Diana cacciatrice dei cervi. Le si offeriva nella sua festa una torta raffigurante quell’animale. In questo mese avean luogo le grandi Dionisiache, ossiano i Baccanali della città, celebrati in Atene colla massima pompa e processioni solenni, e gara dei componimenti teatrali.

10.º Munichione (aprile-maggio), ossia mese di Diana Munichia, così detta dal suo tempio famoso in Munichia, borgata e porto di Atene, ove celebravansi in questo mese le sue feste.

11.º Targelione (maggio-giugno), ossia mese scaldaterra. Vi si celebravano le feste Targelie, in onor del Sole e delle Ore, portandosi in giro le primizie dei prodotti. Ricorreva pure ai 25 di questo mese la festa Plinteria, in onor di Minerva e di Aglauro, tenuta per giorno d’infausto augurio.

12.º Sciroforione (giugno-luglio), ossia il mese dell’ombrella, la quale veniva portata ai 12 del mese, nelle feste Scire o Sciroforie, in onor di Minerva, da Atene a Sciro, borgo fra Eleusi ed Atene, ov’era il tempio di Minerva perciò detta Scirade, ossia dall’ombrella.

Il mese intercalare poi, che si aggiungeva, come abbiam detto, tre volte in otto anni, dicevasi Posideone secondo.

Dividevasi il mese in tre decadi: la prima dicevasi del mese cominciante o luna crescente, ἱσταμὲνος μηνὸς — la seconda del mese medio o della luna media, μεσοῦντος μηνὸς — la terza del mese o della luna terminante, φθίνοντος μηνὸς. Si designavano progressivamente dall’uno al dieci i giorni della prima decade; primo, secondo, terzo del mese entrante o cominciante (πρώτη, δευτέρα, τρίτη ἱσταμὲνος); egualmente quei della seconda: primo, secondo, terzo del mese medio, oppure primo dopo dieci, secondo dopo dieci, ecc. (πρώτη, δευτέρα, τρίτη μεσοῦντος, ovvero πρώτη ἐπί δὲκα ecc). Giunti alla terza decade, si contava per sottrazione: ossia il 21 diceasi decimo del mese cadente, il 22 nono del mese cadente, il 23 ottavo, ecc. (δεκάτη, ἐνάντη, ογδόν φθίνοντος). Però talvolta si contavano anch’essi per addizione e dicevasi primo dopo venti, secondo dopo venti, ecc. (πρώτη μετὰ εἴκαδα, δευτέρα μετὰ εἴκαδα, ecc.). Il 30 ed ultimo del mese chiamavasi ἐνη καὶ νέα, vecchia e nuova luna, ossia tra il finir di una luna e il cominciar di un’altra. Il primo del mese dicevasi pure νουμηνία, ossia novilunio.

Quando il mese era di 29 giorni invece di 30, il 21 invece di chiamarsi decimo del terminante dicevasi nono, il 22 ottavo, ecc.

Vedi Scaligero, Petavio, Corsini, Cesarotti, Taylor; Plutarco in Solone, ecc.

217.  Omero, Odissea, e altrove.

218.  Pecile, ossia istoriato, diceasi un portico famoso di Atene, ov’erano rappresentate le gesta degli Ateniesi, dipintevi dal pennello di Polignoto. In questo portico diedero più tardi le lor lezioni i filosofi che si dissero stoici (στοὰ, portico).

219.  Sull’uso del recarsi, specialmente i parassiti, anche non invitati, ai pranzi ed ai simposj, vedi in Ateneo, Deipnos., VI. Ivi Ateneo cita parecchi di simili casi. In una commedia di Apollodoro Caristio, un personaggio dice d’invitare il parassito Cherefonte, perchè se anche non lo invitasse verrebbe ugualmente. In un’altra commedia del medesimo, il parassito va non invitato a un banchetto nuziale col pretesto di portar degli uccelli alla sposa. Altrove Linceo di Samo narra ancora di Cherefonte che va ad un convito senz’esservi chiamato: e siccome egli vi si trova in più del numero normale dei convitati, i gineconomi lo vogliono mandar via: egli risponde: Avrete contato male. Tornate a contare, cominciando da me. — Pure a lungo discorre di questa usanza del presentarsi non invitati ai simposj, Plutarco nelle Disp. Conviv., VII, 6: ov’egli la giudica sconveniente e propria dei soli parassiti od ombre: benchè la vediam praticata anco da filosofi cinici e cirenei (Luciano, Lapiti, 12; Aten., Deipnos., XII, 510): e benchè Plutarco stesso ami derivarla da Socrate che seco condusse Aristodemo non invitato al banchetto di Agatone; e più in su, da Menelao che nel 2.º dell’Iliade si presenta non invitato al convito d’Agamennone. — Ma caratteristico fra tutti, su questo proposito, è un passo grazioso del cantore jonio Asio di Samo (citato in Ateneo), ov’egli con gravità omerica descrive, in tono di parodia, un parassita che accorre sfrontatamente ad un convito nuziale; che è zoppo, grigio il crine, adora il profumo dell’arrosto (κνισοκόλαξ), e coperto d’ignobili cicatrici, giunge non invitato e a un tratto si pianta fra gli ospiti, siccome un eroe che sorge dal fango, ἔν δὲ μέσοισιν — ηρως εἰστήκει. βορβόρου ἐξαναδύς (Aten., III, 125 d.; Callini, Tyrt. As. carm., ediz. Bachius, p. 142). — Nell’eroe di Asio, il cui tipo sembra al Müller (St. lett. gr., X) il più antico esempio di parodia, il lettore potrà ravvisare la genesi del mio Cimoto.

220.  Il noto verso di Omero, nel 2.º dell’Iliade,

αὐτόματος δέ οἴ ἤλθε βοήν ἁγαθὸς Μενελαος

«spontaneo venne (al banchetto d’Agamennone) Menelao valente nella mischia» era passato in proverbio e in barzelletta tra i Greci, applicato in ispecie per ischerzo ai parassiti che venian non chiamati alle mense. Vedine esempio in Luciano, nei Lapiti.

221.  Nel comico Difilo, presso Ateneo, un parassita invitato, guarda per prima cosa non gli ornamenti e l’architettura della sala, bensì il fumo della cucina; e si rallegra se lo vede uscir ben alto e ben denso: ma se lo vede uscir fioco si rattrista, siccome annunzio di un magro desinare (Aten., Deipnos., VI, 236 c).

222.  Porta Dipila o Triasia, o Ceramica, ovvero il Dipilon, era la porta all’angolo nord-ovest d’Atene, conducente dal Ceramico interno al Ceramico esterno e ai giardini dell’Accademia, distante sei stadj. È la sola porta di Atene che tuttora sussista. Seguivano, dopo quella, a settentrione le porte Ippadi (conducente a Colono), d’Acarne e Melitide (conducente a Maratona); a levante la porta Diomeja, conducente al Cinosargo, e la porta Diocari, che metteva al Liceo; più innanzi, nella parte di mezzodì bagnata dall’Ilisso, la porta Egea (sud-est) conducente al tempio di Cerere e al monte Imetto; e la porta Falerea (sud-ovest) unita, per la via del lungo muro australe, al borgo e porto di Falera. Infine, dopo questa, nella parte di ponente, bagnata dal Cefisso, la porta del Pireo, unita dal lungo muro boreale al porto di quel nome, al quale conduceva per la strada di Teseo; indi la porta Sacra, che conduceva ad Eleusi e la porta Itonia, e infine da capo la Dipila.

223.  Proverbio greco popolare, giunto fino a noi. Un parassita lo cita nel Medico di Aristofane: τοὺς καλοὺς πειρᾷν κακνὸς (Aten., Deipnos., VI, 238 c.). — Opinantur mulierculae pulcherrimum quemquam fumum persequi (Victorius, cap. 21, Variarum).

224.  Rinomatissime e ricercate alle mense erano le anguille del lago Copais, in Beozia. Così pure le raje (βάτις, Arist., Vesp., 510; Aten., III, 104) tenute fra i pesci più delicati; e gli uccelli del Fasi, o fasiani (fagiani — φασιανος ὄρνις — Aten., XIV, 654; Alcifr., III, 7). Dalle rive del Fasi, fiume della Colchide ove trovavansi in gran copia, gli Argonauti furono i primi a portarli in Grecia, di dove vennero trasportati in Italia, serbando l’antico nome.

Argiva primum sum transportata carina;

Ante mihi notum nil, nisi Phasis, erat.

(Marziale, XIII, ep. 72)

225.  Ceramico o palazzo delle tegole, era un quartiere famoso della città, che traeva il nome, secondo Pausania (Attic., 3), dall’eroe Ceramo, figlio di Bacco e di Arianna; ma molto più verisimilmente dai lavori in terra cotta (κέραμος, tegola) che vi si facevano. Estendevasi parte fuori e parte dentro della città. Nel Ceramico esterno, che si stendeva dalla porta Dipila sino all’Accademia, erano le tombe degli eroi, caduti in guerra per la patria. «Ceramicus locus Athenis ubi bello peremptos sepeliebant, et funebres orationes habebant: statuis passim erectis, quae, quo quique loco occubuissent, indicarent» (Suida). Nel Ceramico interno che dalla porta metteva alla piazza maggiore (Agorà), radunavansi il bel mondo e le meretrici (V. Suida; Meursius alla voce Ceramicos; Paus., Att., 3, 29).

Avendo l’autore supposto la casa di Alcibiade (quadro I, not. 1) a ponente d’Atene, fuor delle porte, presso la via del Pireo, Cimoto uscendo dalla porta Dipila, a nord-ovest, per venire a trovar Alcibiade, doveva appunto attraversare il Ceramico esterno.

226.  Anacreonte, ode 41.

227.  Eraclito, filosofo di Efeso, era così chiamato per la oscurità del suo stile e della sua dottrina: della quale Socrate, richiesto un giorno del suo parere da Euripide, ebbe a dire: «quel poco che riesco a capirne è buono; e voglio credere che sarà buono anche quello che non capisco: ma per penetrar quell’abisso ci bisognerebbe un palombaro di Delo» (Diog. Laerz. in Socr. e in Eracl.).

228.  Il giuramento o l’attestazione per Venere! per la regina Venere! δέσποινα Ἀφροδίτη — era de’ più usitati fra le etére (Cfr. Alcifr., Lett., I, 32, 36, 39 e altrove; Aristen., Lett., I, 23).

229.  Aristen., Lett., I, 15; Luciano, Imagini; Omero, Iliade; e la poetessa Saffo: «La persuasione è figlia di Venere

230.  Plutarco in Alcib., chiama Timandra la compagna fedele dell’eroe ateniese che lo assistette al momento della sua morte. Collo stesso nome la chiama Ateneo, XII, 535 c., il quale la fa anche madre della famosa Laide di Corinto: più innanzi, al libro XIII, 574 f., Ateneo la chiama Damasandra — ma è evidentemente la stessa persona.

231.  Ετησίαι, venti settentrionali spiranti regolarmente ogni anno, d’estate, nell’Arcipelago, per un determinato numero di giorni. — Appunto venendo dal settentrione, eran favorevoli alle navi che uscendo dal Pireo veleggiassero a mezzodì per la Sicilia (Cfr. Demostene, Filipp., I; Cose del Cherson.) — E Plinio, Nat. Hist.: «Caniculae exortum diebus octo ferme aquilones antecedunt, quos prodromos vocant. Post biduum autem exortus, iidem aquilones constantius perfiant, diebus quadraginta, quos Etesias vocant.»

232.  Nei tempi eroici più remoti, secondo vediamo in Omero, usavano porsi a tavola, come ai dì nostri, seduti: ma all’epoca del dramma nostro e, in generale, nei tempi storici, dalle guerre persiane in poi, troviamo ormai dappertutto sottentrata fra’ Greci l’usanza di coricarsi sdrajati sui letti. Solo faceano eccezione, insiem coi ragazzi, le matrone e le fanciulle, e in genere le donne di famiglia (ἔλευθεραι), le quali sedevano a tavola sopra sedie a spalliera (Welcker, alte Denkm., II, 240) e per lo più lontane dai mariti; invece le etére e le cortigiane in genere, che rallegravano i simposj maschili, usavano coricarsi anch’esse sui letti a fianco degli uomini (Winckelmann, Monum. ined., 200. Cfr. Alcifr., I, 39).

La forma e disposizione dei letti concordava in complesso coll’uso dei Latini: soltanto, a differenza di questi, — e contro l’opinione comunemente invalsa — pare che i letti delle mense, ad Atene, fossero ordinariamente di soli due posti e non di tre. Così opina anche l’Hermann, arguendolo dal convito platonico, ove Agatone invita Socrate per suo compagno di letto, dà Aristodemo per compagno di letto ad Erisimaco, e solo in via di eccezione chiama Alcibiade a seder terzo fra Socrate e lui. A due a due siedon pure i convitati Greci e Persiani (ὁμόκινοι) al banchetto di Attagino in Erod., IX, 16: e anche nelle pitture di vasi antichi questa appare la disposizione numerica più comune: solo più di rado occorre nelle pitture il caso di letti occupati da tre e talora anche da un numero maggiore di convitati, fino a cinque: Graeci quini stipati in lectulis (Cic., Pison., 1040): ciò che per altro l’Hermann attribuisce anche all’angustia dello spazio offerto dai vasi alle figure.

I letti poteano essere anche più di tre: la cena del re Cleomene era detta laconica perchè non vi erano che tre letti.

I letti (κλίνη), nelle case agiate in ispecie, riccamente lavorati e listati di porpora, eran fatti più comodi da tappeti e cuscini. I convitati vi si poneano a giacere appoggiati sul gomito sinistro (ἐπαγκῶονος δειπνεν, Luciano, Lessifane) a cuscini, per lo più rotondi, che sostenevano il dorso (προς κεφάλαιον), avendo così libero il braccio destro e la parte inferiore del corpo stesa in lungo e leggiermente piegata. Per tal guisa trovandosi varj convitati sullo stesso letto, il primo giaceva sporgendo le gambe lungo il dorso del secondo, o meglio lungo il cuscino su cui il secondo si appoggiava (Millin, Peint. des Vases; Tischbein, Recueil; Ferrario, II, pag. 1041, tav. 144).

Se i cibi venissero come tra i Latini portati in giro e deposti sopra un’unica tavola nel mezzo dei letti, o se ciascun letto avesse il suo proprio tavolo, non è ben definito; però questa seconda maniera è, secondo l’Hermann, più verisimile; e infatti nelle antiche pitture di simposj vediam posti uno o più piccoli tavoli (tripodes, trapezai) dinanzi a ciascun letto: i quali tavoli (su cui deponeansi quei piatti che non recavansi in giro) al finir dei cibi venivano dai servi portati via (αφαιρεῖν τὰς τραπέζας).

Ai convitati — che interveniano al banchetto vestiti in bianco — ordinariamente era il padrone di casa che assegnava i posti; fra i quali vi era, come tra noi, distinzione d’onore; «il posto più onorifico, dice Plutarco, è fra i Persiani quel di mezzo ove siede il re, fra i Greci il primo» (in capo dei letti): e il padrone facea seder presso di sè l’ospite che volea maggiormente onorare (Cfr. Plat., Simp.; Plut., Disp. Conv., I, 2, 3).

Prima di porsi a giacer sui letti, i servi toglievan le calzature e lavavano i piedi ai convitati (Plat., Simp., p. 175, 213): al che, nelle case dei ricchi scialacquatori, invece d’acqua, facevasi uso di vino e di essenze odorose (Plutarco, Focione). — L’ordine del banchetto ci vien quindi così riassunto da Aristofane nelle Vespe (v. 1210 seg.): «Fil. Come debbo coricarmi? — Bdelic. Con decoro. — Fil. Come dunque? — Bdelic. Stendi le ginocchia e mollemente come si usa nelle palestre ti adagia sui tappeti. Piglia quindi a lodare alcuno dei vasi di bronzo che ti son posti dinanzi. Si dà l’acqua alle mani. Si portano le tavole. Ceniamo. Ci laviamo. Si fanno le libazioni.»

A tavola non faceasi uso nè di forchette, nè di coltelli. Solo il cucchiajo (μυστίλη) usavasi pei cibi liquidi; pei cibi solidi adopravansi le dita; le quali i convitati si ripulivano durante il banchetto colla mollica di pane, e coll’acqua ch’era data in fin di tavola; non vi essendo del resto alcun uso nè di tovaglie, nè di tovagliuoli.

Insieme alle abluzioni alle mani (ἀπονίψασθαι) e al levar delle tavole, si lavava contemporaneamente il pavimento, spargendolo di unguenti ed essenze; si distribuivano quindi ai convitati le corone e si chiudeva colla libazione al buon genio il pranzo propriamente detto, ossia la mensa dei cibi (Cfr. Aten., Deipn., IX, 408 f.; XV, 665 b. Menandro in Suida, v. αἴρειν): alla quale succedeva la parte più importante del banchetto ateniese, ossia la seconda mensa o mensa dei bicchieri. — Ma di questa più innanzi.

233.  Per le Dee! o per le due Dee! (Cerere e Proserpina) — μὰ τὼ θεώ — Esclamazione ateniese usatissima, propria soltanto delle donne. Cfr. Aristof., Eccles., v. 158; Lisistr., v. 111 e altrove.

234.  Cfr. il lamento sulle guerre civili de’ Greci, posto anche da Aristofane in bocca a una donna ateniese: «Io voglio imprendere a sgridarvi in comune, e giustamente, perchè voi spruzzando con un solo vaso d’acqua lustrale gli altari come uniti di parentela, in Olimpia, a Pilo, a Delfo, mentre avete nemici i barbari, coi vostri eserciti distruggete gli uomini e le città greche» (Lisistr., v. 1128 seg.).

In Olimpia e a Delfo convenivano, com’è noto, i Greci di tutte le città e di tutti gli Stati per la celebrazione dei giuochi olimpici e dei giuochi pizj, feste che segnavano un periodo di tregua alle guerre fra i varj popoli di Grecia. A Delfo poi conveniva la grande adunanza nazionale dei popoli greci (Anfizionia) per celebrar la festa dell’oracolo in comune (Mejer, Giuochi Olimp.; Krause, Giuochi Pizj, Nemei ed Istmici; Grote; Meursius; Corsini, ecc.). Un pensiero simile sulle discordie fraterne de’ Greci è in Demostene: «Gli è vero che dai Lacedemoni e da noi molto soffrirono i Greci; noi però siam tutti d’un sangue, abbiam tutti una patria comune» (Filipp., III).

235.  Nel recinto del tempio di Delfo erano i tesori votivi dei popoli e delle città greche e i doni preziosi da esse inviati al Nume in memoria delle vittorie riportate. I trofei recavano le iscrizioni dei popoli che li offerivano e delle vittorie che rammentavano; per esempio: Brasida e gli Acanzj, delle spoglie degli Ateniesi. — Gli Ateniesi delle spoglie de’ Corinzj, ecc. Del numero di queste offerte votive era la palma di bronzo degli Ateniesi, ricordata nel quadro II (Vedi Plutarco, Lisandro, I; Pausania, Focide. Cfr. Barthel., V. d’Anac., IV, c. 22).

236.  Frase greca proverbiale, derivata dalla burla che Prometeo si permise verso Giove, secondo narrasi in Esiodo. Sagrificò Prometeo a Giove un bue, e poste dall’una parte le ossa nascoste sotto bianco adipe (ὁστέα καλύψας ἀργέτι δημῷ), dall’altra le carni e il buono e il meglio della vittima chiuso nel ventre bovino, disse a Giove di scegliere quale delle due parti volesse, lasciando agli uomini l’altra. O che Giove fosse preso alla burla, come Igino racconta e scegliesse infatti il peggio, o che se ne avvedesse, come finge Esiodo, egli ne concepì tant’odio verso Prometeo, che dimentico dell’amicizia fino allora professatagli, volle punirlo in una cogli uomini da lui protetti (Esiod., Teogon., v. 535 seg. Cfr. Op. e giorni, v. 48; Igin., Poet. Astron., II, 15). — E Luciano fa dire da Mercurio a Prometeo, che si lagna del supplizio: «Non hai fatto alcun male tu che quando avevi l’uffizio di spartire le carni, facesti parti ingiuste e l’inganno di serbare il meglio per te e di mettere innanzi a Giove, come disse Esiodo, ossa nascoste sotto bianco grasso? Di poi hai formato gli uomini, maliziosissimi animali, specialmente le donne: infine hai rubato il fuoco, ecc.» (Luc., Prometeo). — Indi per ischerzo dicevansi parte di Prometeo le ossa. «Se a tavola si trincia porchetto lattante devi una delle due, o avere per amico lo scalco, o se no ti tocca la parte di Prometeo, ossa coverte di grasso» (Luciano, Di quei che stanno coi signori).

237.  Il comico Macone, presso Ateneo così parla del parassita Cherefonte: «Chaerefon carmen emebat aliquando. Ibi cum coquus, ut narrant, ossibus admodum grave frustum illi forte praecideret; Coque, inquit, ne hoc adpende mihi osseum. Ille vero: At suave est, inquit; ajunt sane, vicinam ossibus, suavem esse carnem. Tum Chaerefon: Utique, inquit, o optime: suave illud quidem; sed quod addiicis molestissimum (Aten., Deipn., VI, 243 f.).

238.  πρὸς τῶν χαρίτων — Scongiuro femminile (Aristen., Lett., I, 11).

239.  Modo di minaccia cui ricorreano frequentissimo gli spasimanti inesauditi (Vedi, per esempio, Alcifr., I, 35). Così Orazio invoca da Venere il castigo all’arroganza di Cloe: — sublimi flagello-tange Chloen semel arrogantem., lib. II, od. 26. — Intorno alle vendette di Venere, vedi anco Eurip., Ippol., v. 545-564; Teocr., Idill., I, v. 101.

240.  Cfr. Alcifr., Lett., I, 36, 40; Aristen., Lett., I, 14.

241.  Cfr. Alcifr., Lett., I, 36. Prima di seppellire i morti e celebrar loro le esequie usavasi in Atene tener esposto nel vestibolo della casa per un giorno (e occorrendo, per accertare il decesso, fin tre giorni) il cadavere lavato, profumato, vestito di ricchi abiti e inghirlandato di fiori. In una mano gli si poneva una focaccia per ammansar Cerbero, e nella bocca uno o due oboli per pagar il tragitto a Caronte (Eurip., Ippol.; Aristof, Lisistr., Rane; Luciano, Del Lutto, Dial. dei morti, 11; Polluce, lib. 8). «E tu dopo d’avermi spogliato stamattina, dice Blepiro a sua moglie, te ne andasti lasciandomi come un morto, salvochè non mi inghirlandasti, nè mi ponesti vicino il vaso dei profumi» (Aristofane, Eccles.).

242.  «È al valor dei regali che mi fanno i miei amanti che io giudico il loro amore» (Aristen., Lett., I, 14). Intorno ai doni alle etére, cfr. anche Alcifr., Lett., I; Luciano, Dial. delle cortigiane, 7, 8, 14; Senof., Memor., III, 11.

243.  Gli Aloi, detti anche feste Talisie, celebravansi ogni anno dopo il raccolto dei frutti, in onore principalmente di Cerere; e insieme anche di Bacco e dell’altre divinità, in genere, il cui favore influiva sull’abbondanza dei raccolti. Di queste feste, siccome celebrate precipuamente dalle donne, parla Alcifrone (Lett., I, 35; II, 3); ed anche Teocrito (Idill., 7); e lo scoliaste di Luciano: «Haloa festum est Athenis mysteria Cereris et Proserpinae et Bacchi complectens pro incisione vitium, et gustatione vini aliorumque fructuum. Philocorus vero ait, ita dictum quod homines tunc in areis commorarentur.» Infatti ἄλος significa aja.

244.  L’abbigliamento ordinario delle donne ateniesi consisteva, com’è noto, 1.º in una tunica (κιθῶν) o specie di camicia bianca, per lo più di lino, molto ampia, discendente in ricche pieghe fino ai piedi, congiunta sopra le spalle con bottoni a fermagli, e allacciata sotto le mammelle dallo strofio, ricca cintura, sovente d’oro; 2.º in una sopraveste (διπλοίδιον) che dev’essere la stessa cosa coll’ἔγκυκλον di Aristofane (Tesmof., 261), (mal tradotto dal Cappellina per mantellino) della stessa stoffa del chiton, ma più breve, spesso con maniche sin verso la metà delle braccia, adorna al basso di liste di vari colori; 3.º in un pallio a forma di sciarpa o manto (πέπλον); 4.º in un panno o velo in testa, all’uscire in pubblico (Poll., lib. 7, 14, 15; A. Tazio, Clit. Leuc., 1; Aristof., Tesm., Lisis. — Cfr. Becker, Winkelmann, Ferrario, ecc.). La tunica color di croco o crocata (κροκωτὸς) era veste di lusso; così pure le cimberiche, vesti portate senza cintura (ὁρθοστὰδια) e così chiamate, secondo lo scoliaste d’Aristof., dal luogo in cui si fabbricavano. Cfr. Arist., Lisistr., v. 44, 45.

245.  Αφροδίτη ψιθυρς, Venere bisbigliante, era altro degli appellativi sotto cui Venere adoravasi in Atene, secondo la testimonianza di Suida, dal susurrare che fanno tra di loro a bassa voce gli amanti: il che appunto diceasi, con parola d’efficacia mirabile, tutta greca, ψιθυρίζειν. In Teocrito (Idill., 1) la voce ψιθυρίσμα è egualmente adoperata, con isquisita armonia imitativa, a significare il dolce sibilo o susurro che fa il vento soffiando tra le frondi degli alberi (Cfr. Teocr. Idill., 27; Mosco, Idill., 5). — E vedi senso tutto artistico delle imagini e della proprietà delle parole: ψιθυρίζειν, diceano i Greci, non solo il susurrio degli amanti e il dolce bisbiglio dell’aure tra le frondi, ma anche il calunniare: qualche secolo prima che la calunnia-venticello fosse posta in musica da Rossini.

246.  Eurip., Ippol., v. 612: Ἤ γλῶσσ’ ὡμώμοχ’, ἤ δὲ φρὴν ἀνώμοτος. Questo verso di Euripide era divenuto, come tanti altri dello stesso, famoso e proverbiale tra i Greci. Solevasi citarlo per ischerzo, quando trattavasi di non mantenere un giuramento o una promessa. Per esempio, cfr. Aristof., Rane, v. 1471. Che un parassita citasse Euripide si spiegava poi tanto più facilmente, e per il posar di questa classe di persone a letterati, e per i varj passi in Euripide interpretati a favor de’ parassiti.

247.  

Ἀνὴρ γὰρ, ὄστις, εὖ βίον κεκτημένος,

μὴ τουλάχιστον τρεῖς ἀσυμβόλους τρέφει,

ὄλοιτο, νοστου μὴ ποτ’ εἴς πάτραν τυχών.

(Ateneo, Deipn., VI, 247 c.)

È da una commedia di Difilo, che Ateneo riporta questi versi, siccome attribuiti in detta commedia ad Euripide. E il parassita d’Alcifrone, dopo aver fatto una citazione di poeta, soggiunge con sussiego: «Anche noi parassiti parliamo alla foggia dei letterati» (Alcifr., Lett., III, 65).

248.  Mandare ai corvi, ἔς κόρακας (che tu possa andar tra i corvi! che i corvi ti piglino, ecc.), modo proverbiale usatissimo, significante: mandar in malora! (Cfr. Alcifr., Lett., I, 16; Aristof., Tesmof., v. 868; Vespe, v. 51; Nubi, v. 789; Caval., v. 892. — Vedi Erasm., ad Corvos).

249.  Dell’odio delle donne ateniesi contro Euripide, perchè sparlatore e denigratore di esse nelle sue tragedie, fa menzione ripetutamente Aristofane nella Lisistrata, nelle Rane e altrove. Anzi la maldicenza di Euripide contro il sesso femminile e la vendetta di queste contro di lui formano l’argomento dell’altra commedia di Aristofane, le Tesmoforeggianti. Difilo poi, presso Ateneo, riportando i versi citati sopra alla nota 38, intorno ai parassiti, mette appunto a riscontro la benevolenza di Euripide verso costoro, colla sua maldicenza contro le donne: «E non vedi quanto egli — Euripide — nelle sue tragedie odii le donne, ed ami per contrario i parassiti?» (Aten., VI, 247 b).

250.  Per le Tesmofore! Per le dee Tesmofore! — Cerere e Proserpina — (Arist., Tesmof., v. 282, 1156); lo stesso che l’esclamazione femminile: per le due Dee! (Arist., Lisis., 51), e altre equivalenti: Per le Dee venerande! Per Cerere! Così Cerere m’ami! (μὰ τὴν Δὴμετρα, Arist., Acarn., v. 708); per le deità eleusine e pei loro misterj! pei sacri misterj! (Alcifr., Lett., II, 2, 3). Cerere e Proserpina avean culto, com’è noto, in Eleusi; e ai loro riti assistean solo le donne; chiamavansi anche dee sotterranee. — Θεσμοφόρη, ossia legislatrice, era propriamente lo speciale attributo di Cerere, in memoria delle prime leggi e delle prime nozioni agronomiche date agli Ateniesi da questa Dea.

251.  Eurip., Ippol., 616 seg.; Androm., v. 943 seg.; Cfr. Aristof., Tesmof., v. 389 seg.; dove egli fa ricordare da una donna tutte le ingiurie scagliate da Euripide contro il di lei sesso.

252.  Eurip., Androm., v. 950. — Aristof., Tesmof., v. 415-416.

253.  Così è chiamato Euripide dalle donne, a cagione della professione di sua madre, nelle Tesmof., v. 387; titolo spregiativo che troviamo affibbiato di frequente a quel tragico anche nei Cavalieri, nelle Rane e altrove.

254.  Le libazioni alle Furie od Eumenidi od Erinni erano fatte senza vino — con acqua e mele soltanto; per il che dicevansi in greco ἀοίνοί, (lat. inviniae): come vedesi in Eschilo, Eumen., v. 112. Il Bellotti tradusse: libagioni astemie.

255.  Venere aurea (χρυσὴ Αφροδίτη — Om., Odiss., IX, 14), ornata d’oro (πολυχρύσος, χρυσῷ κοσμηθεῖσα, Om., Inn. a Ven.), dall’aurea corona, dal trono d’oro, ecc. — appellativi usatissimi della Dea. E Luciano: «Omero in tutto il suo poema da capo a fondo dice ch’io son l’aurea Venere» (Luc., Giove Tragedo).

256.  Le Nubi fatte in Atene rappresentar da Aristofane nell’anno 424 av. l’E. V. (ventiquattro anni prima della morte di Socrate) fecero fiasco. Di che lo stesso Aristofane si lamenta nella parabasi della seconda edizione di quella commedia, ch’egli tornò a dare l’anno dopo, collo stesso esito; e nella parabasi delle Vespe.

Wieland nell’Aristippo (I, lett. 9) fa attribuire da Aristofane il fiasco delle Nubi alla influenza di Alcibiade, di cui eran noti l’affetto e la devozione per Socrate suo maestro acremente deriso in quella commedia, e al timore che Alcibiade stesso seppe incutere in teatro col suo partito. Certo Alcibiade si trovava un po’ interessato in causa, per i frizzi frequenti al suo proprio indirizzo nelle commedie di Aristofane (Cfr. Vespe, 44; Acarnesi, 716; Rane, 1422), e per credersi forse satireggiato egli medesimo nel personaggio di Fidippide delle Nubi: e la popolarità e l’influenza del giovine lion ateniese assai probabilmente poterono nuocere al successo della commedia.

Le Nubi, del resto, e gli Acarnesi, ov’è posto in canzone Lamaco, e le Rane ove canzonasi Euripide, provano ch’era caduta in dissuetudine ad Atene l’antica legge che vietava di citare o attaccar alcuno per nome nelle commedie (Meurs., Them. Att., II, 20).

257.  Sulle percosse date da Alcibiade a Taurea, suo anticorégo, in teatro, vedi Demost., C. Midia; Andocide, Contr. Alcib., IV, 20; e Plutarco in Alcib. Qui se ne variarono le cause e le circostanze, collegando il fatto alla rappresentazione delle Nubi.

258.  Ἀνδρῶν ἀπάντων Σωκράτης σοφώτατος — di tutti gli uomini Socrate è il più savio — fu la risposta che l’oracolo di Delfo diede, com’è noto, a Cherefonte, amico e discepolo di Socrate. Vedi Diog. Laerz. in Socr.; e Platone, Apol., 5.

259.  Cfr. il modo vivace con cui Alcibiade prende le parti del suo maestro in Platone, nel Protagora, c. 23, e nel Simposio.

260.  Evio, Bromio, Dionisio, guidatore de’ cori notturni, amatore delle danze, ecc., appellativi di Bacco (Aristof., Tesmof., v. 990, 992; Sofocle, Antig., v. 1265; Edipo Re, ecc.).

261.  θεῶν μέγας ὄρκος (Om., Odiss., 11, v. 377 e altrove). Era il giuramento per la Stige, ossia per l’acqua di Stige, sacro e tremendo agli stessi Immortali. «Siami testimonio la terra, e l’ampio cielo disopra, e la disotto scorrente acqua di Stige, ch’è il massimo e tremendissimo giuramento pegli Dei beati» — così giura Giunone in Omero (Iliad., XV, v. 36-38. Cfr. Iliad., XIV, 271 seg.; Odiss., V, v. 184; Apol. Rod., Argon., II, v. 291; Esiod., Teogon., v. 400).

La favola, raccolta da Esiodo, fa di Stige una figlia dell’Oceano e sposa di Pallante, che Giove volle onorare ordinando che per lei giurassero i Celesti. Pausania ricorda con questo nome una fonte in Arcadia, non lungi dalle ruine di Nonacri; «ivi, egli dice, una parte della montagna elevasi a picco ad altezza così prodigiosa come non ho visto mai; e dal sommo di essa stilla perennemente un’acqua che i Greci chiaman l’acqua di Stige» (Paus., Arcad., 17): al che corrisponde la descrizione che Esiodo fa dell’abitazione della Oceanitide nell’inferno: «Abita quivi la Dea tremenda agli Immortali, la orribile Stige: sola, appartata dagli Dei, abita inclite case coperte di sopra di grandi roccie: e d’ogni intorno sono argentee colonne drizzate fino al cielo» (Teogon., v. 775-779).

Perchè poi la dimora di Stige fu posta nell’inferno, può spiegarsi colla osservazione di Pausania che l’acqua di quella sorgente arcadica era mortifera agli uomini e agli animali. La superstizione aggiungeva che chi fosse accusato, innocente, di qualche grande delitto, e costretto a bere di quell’acqua, poteva farlo senza averne danno, provando così la sua innocenza. Che se taluno degli Dei mentiva o mancava al giuramento dato per l’acqua di Stige, allora Giove mandava Iride a prendere dell’acqua di quella fonte, e il Nume spergiuro, costretto a beverne, preso da malore, giaceva ammutolito, senza respiro, senza poter gustare nettare nè ambrosia, appartato dal consorzio degli altri Dei per nove anni; finchè nel decimo, guarito, tornava fra i suoi compagni di Olimpo: «tale è il grande giuramento degli Dei per quell’acqua perenne di Stige» (Esiod., Teog., 783-805). Nel qual grande giuramento simboleggiavano gli antichi, secondo Bacone, la necessità: come il solo vincolo che a preferenza di tutti gli altri, della nascita, della religione, dell’onore stesso, ecc., — lega i re e i grandi, e mantiene solo la fede dei trattati.

262.  Μὰ τὴν Ἀγλαυρον (Arist., Tesmof., v. 533). Esclamazione ateniese. Aglauro, Erse e Pandroso chiamaronsi le tre figlie di Cecrope primo re di Atene. Ad esse Minerva diede a custodire il neonato Erittonio o Eretteo (figlio di Minerva e di Vulcano) rinchiuso in una cesta di vimini insieme con un serpente postovi a guardia; sotto proibizione alle tre fanciulle di guardar ciò che nella cesta si contenesse. Pandroso obbedì al divieto della Dea, ma l’altre due sorelle, Aglauro ed Erse, prese da curiosità, non seppero resistere alla tentazione d’aprir la cesta; e alla vista di Erittonio, prese, per castigo di Minerva, da subita insania, si precipitarono dalla cima dell’Acropoli in mare. Così Pausania, Attic.; Apollodoro, lib. III, e Igino, Poet. Astron. Ma Ovidio narra, diversamente, che, delle tre sorelle, Pandroso ed Erse obbedirono entrambe la Dea; Aglauro sola fu tratta dalla curiosità ad aprir la cesta — timidas vocat una sorores — Aglaurus nodosque manu deducit. Una cornacchia andò a riferire la sua disobbedienza a Minerva, che legossela al dito; indi a poco tempo, infatti, capitato Mercurio ad Atene mentre le vergini vi celebravano la festa di Minerva, e visto Erse tra quelle, se ne innamorò: avviossi il Dio alla casa di Cecrope per averla in isposa, e fattaglisi innanzi per la prima Aglauro, la pregò di interporre per lui buoni officj presso la sorella: ma Aglauro, per punizione della Dea, presa da amor per Mercurio, e da gelosia ed invidia della sorella Erse, negossi alle istanze del Nume e tentò precludergli l’ingresso: e allora il Dio tramutolla in sasso (Ovid., Metam., lib. II). Indi forse non a caso, in questo punto della nostra scena, Bacchide inquieta delle occhiate del suo compagno ad Eufrosine, invoca il nome della invidiosa figlia di Cecrope.

Secondo un’altra versione di Ulpiano (comm. a Demost., Falsa legaz.), Agraulo era figlia dello stesso re Eretteo; e nella guerra mossa contro lui ed Atene dai Traci condotti da Eumolpo, avendo l’oracolo presagito la vittoria agli Ateniesi ove qualcuno si fosse sagrificato per la città, Agraulo risaputolo si sarebbe spontaneamente immolata alla patria gettandosi dall’Acropoli. — Il Meursius (Reg. Athen., I, 11) contesta questa versione: certo però essa spiega meglio il culto di cui Aglauro era onorata in Atene; ove ella aveva un tempio, e sacerdotesse dette Aglauridi e misteri e feste a lei sacre — ch’eran le feste Plinterie (Erod., VIII; Paus., Attic.; Esichio, ecc.). Nel tempio e bosco sacro di Aglauro o Agraulo, la gioventù ateniese, all’atto di entrar nella milizia, si recava a dare il solenne giuramento di difendere la patria e le sue leggi (Licurg., Leocr., I, 77; Schol. in Demost., ediz. Didot, 438, 15, 17; Plut. in Alcib.; Meurs., Reg. Athen., I, 9).

263.  Alcibiade era ammiratore appassionatissimo di Omero — ἴ σκυρῶσ Ὄμηρον ἐθαύμαζεν (Eliano, Var. Stor., XIII, 38): — ammirazione in cui ebbe a somigliargli più tardi un altro greco famoso, forse non più grande nè più ambizioso di Alcibiade, ma più fortunato di lui, Alessandro il Macedone: al quale le lettere andarono debitrici della famosa edizione omerica della cassetta.

264.  Omero, Iliad., lib. VIII, v. 337-341.

Ecco, di questo passo, la versione del Monti, più libera della mia:

«Iva Ettorre alla testa, e dalle truci

Sue pupille mettea lampi e paura.

Qual fiero alano che ne’ presti piedi

Confidando un cinghial da tergo assalta,

Od un Ilone, e al suo voltarsi attento,

Or le cluni gli addenta, ora la coscia:

Così gli Achivi insegue Ettorre, e sempre

Uccidendo il postremo li disperde.»

265.  Un critico trovò ultra-inverisimile questa difficoltà per Alcibiade di procacciarsi un Omero, dei cui poemi non v’era, a suo dire, libreria di Ateniese che fosse priva. Quel critico si inganna. Sebbene di Pisistrato e di Ipparco si narri, che coll’assistenza di Solone, avessero dato opera alla riordinazione dei canti omerici e vietato ai rapsodi di invertirne l’ordine nella recitazione, tuttavia l’edizione materiale, completa nel proprio senso della parola, dell’Iliade e dell’Odissea, a Pisistrato e Solone attribuita, non è positivamente asserita da nessun antico, sino al tardo e straniero Cicerone: e v’hanno ragioni per revocarla in dubbio. Infatti, il codice ateniese da essi compilato avrebbe dovuto tenersi prezioso siccome più vicino all’origine e avente una certa autorità pubblica: e gli Ateniesi, i quali posero nei loro archivj pubblici le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, v’avrebbero conservato gelosamente anche quelle epopee. Ora, al contrario, nè i sei codici omerici posteriori delle città, nè l’ultima famosa edizione della cassetta, ordinata da Alessandro il Grande, offrono alcuna traccia di codesta edizione ateniese o danno indizio alcuno di aver fatto appoggio su di essa. — Il vero è che fino all’epoca di quei codici, e cioè fino al quarto secolo, l’Iliade e l’Odissea vivevano ancora per la massima parte nella tradizione orale dei rapsodi, e neppure nelle più ricche librerie non se ne trovavano trascrizioni ordinate e complete che in un piccolissimo numero di esemplari. Tutt’al più, la maggior parte dei grammatici e dei privati possedevano trascritti soltanto alcuni frammenti o rapsodie isolate dei poemi omerici, come l’Addio di Ettore ed Andromaca — il valor di Diomede — la morte di Ettore — la strage dei Proci, ecc. (Vedi Pope, Essai sur Homère, p. 41; Wolf, Proleg., p. 143; Cesarotti, Ragion. st. crit. su Omero, I, 5; C. Cantù, St. della lett. gr., cap. 3; Müller, St. lett. gr., cap. 5, ecc.). Ciò può spiegare la risposta del grammatico, e calmar la meraviglia del mio critico, che Alcibiade non si trovasse ad avere in casa il canto che cercava: meraviglia che del resto potrebbe applicarsi anche al passo relativo di Plutarco: oltrechè non è detto che Alcibiade, padron di varie case in Atene, dovesse proprio avere sottomano, lì nella sala del convito, i suoi libri e le sue librerie.

266.  L’aneddoto da cui è tratta questa scena è riferito da Plutarco alla prima giovinezza d’Alcibiade, e da lui così narrato: «Passato ch’ebbe (Alcibiade) l’età puerile, portossi ad un precettor di grammatica, e gli chiese un libro d’Omero; e dicendogli il precettore ch’egli non avea niente di Omero, percossolo di un pugno, sen passò oltre: e dicendogli poi un altro di avere Omero corretto da lui medesimo, — E a che, gli rispose Alcibiade, ti trattieni tu ad insegnare a leggere? Atto essendo ad emendare Omero, non ti dai ad erudire la gioventù?» (Plut., Alcib., 7, e Apoftegmi; Eliano, V. St., XIII, 38).

267.  Omero, Iliade, VI, v. 482 484. Il Monti, meno letteralmente, tradusse:

«Così dicendo, in braccio alla diletta

Sposa egli cesse il pargoletto; ed ella

Con un misto di pianti almo sorriso

Lo si raccolse all’odoroso seno —

dove, con tutto il rispetto al Monti, e a costo di passare per un grammatico anch’io, mi permetto di trovare che il misto di pianti almo sorriso è un’amplificazione di gusto assai discutibile, e assai lontana dalla squisita semplicità della frase di Omero: lagrimosamente sorridendo, δακρυόεν γελάσασα.

268.  Per legge posta da Ipparco, figlio di Pisistrato, i poemi di Omero dovean dai rapsodi recitarsi, ogni cinque anni, in Atene, nelle grandi Panatenee (Licurg. in Leocr.; Platone, Ipparco; Eliano, V. St., VIII, 2).

I Panatenei o feste Panatenee, dette anche semplicemente Atenee (ricorrenti nel mese di Ecatombeone, cioè nel primo mese dell’anno, al solstizio d’estate) furono istituiti ad Atene ne’ tempi più remoti, in onor di Minerva, dal re Eretteo, e ristabiliti da Teseo, in memoria, come lo accenna il nome, della riunione in un solo Stato e dentro un solo recinto di mura, dei popoli dell’Attica che vivevano prima isolati e dispersi per la campagna (Vedi Isocr., Oraz. Paneg., ed Encom. d’El.; Lisia, XXI, 1; Licurgo, I, 103; Scol. in Demost., 740, 1). Erano di due specie: le minori che si celebravano ogni anno; e le maggiori (o grandi Panatenee) che ricorrevano soltanto ogni cinque anni. Celebravansi specialmente quest’ultime tra il concorso di tutti i cittadini dell’Attica con grandissimo sfarzo e solennità; con giuochi ginnastici (stadio, lotta, ecc.) e corse equestri, e pubbliche gare poetiche e musicali; e processioni di giovinette delle più cospicue case di Atene e di cittadini d’ogni classe ed età, recanti in gran pompa il peplo di Minerva al tempio della Dea. Ogni tribù dell’Attica concorreva nelle spese a rendere i giuochi più grandiosi, ogni colonia ateniese vi mandava un bue da sagrificarsi. La sera chiudeasi la festa con grandi conviti, e distribuzioni di premj, e gara delle fiaccole (lampadeforia).

Le grandi Panatenee, le grandi Dionisiache e le Lenee o floreali erano le tre solennità dell’anno nelle quali soltanto avean luogo le gare teatrali delle tragedie e delle commedie (Aristof., Nubi, Pace, ecc.; Senof., Simpos.; Ovid., Metam., II; Suida; Meurs., Panaten.; Corsini, Fasti attici, ecc.).

269.  Ai vincitori nelle gare delle feste Panatenee veniva dato in segno d’onore un ramoscello dell’ulivo sacro a Minerva, che era in faccia al Partenone (Meurs., Lect. Att., IV, 6).

270.  «Gli Ateniesi, per suggerimento di Alcibiade, scrissero sotto alla colonna laconica che i Lacedemoni non aveano osservato i giuramenti» (Tucidide, Guer. Pelop., VI, 56).

271.  Maggiordomo: questa parola ha scandalizzato parecchi. Eppure l’ufficio precisamente rispondente a questa carica esisteva certo fin d’allora nelle case de’ ricchi ateniesi; il Settembrini usa anch’egli senza scrupolo ripetutamente questa parola nella sua versione di Luciano, I, pag. 415, 426 (Di quei che stan coi signori).

272.  Ad Atene quando levavasi un esercito per qualche spedizione, il capitano (stratego) eletto per la medesima recavasi sulla piazza pubblica accompagnato da un tassiarca od intendente, tenente il registro dei cittadini adatti a portar l’armi (dai 18 anni ai 60), i quali eran tenuti a presentarsi tutti indistintamente. Chiamavansi allora uno per uno ad alta voce, e lo stratego sceglieva fra di essi i soldati della spedizione. I nomi dei chiamati a militare venivano affissi alle statue eponime, ossia alle statue degli eroi da cui prendevano nome le singole tribù (Aristof., Pace, Caval.; Lisia, C. Alcib.; Polluce, VIII, 9; Suida; Esichio, ecc.).

273.  Al Liceo, posto in vicinanza della città, avean luogo le rassegne dei soldati innanzi uscire in guerra e gli esercizii militari. «Per lungo tempo fummo rovinati e calpestati, andando e ritornando dal Liceo, coll’asta e collo scudo» (Arist., Pace, v. 357; Suida, alla voce Λύκειον; Paus., Att., 18). Il Liceo, aperto da Pisistrato, il Cinosargo e l’Accademia erano i tre ginnasj destinati alla educazione della gioventù.

274.  τανηλεγὴς θάνατος (Om., Odiss., III, v. 238).

275.  «Essendo già ben avanti il convito e ormai girando assiduamente il bicchier dell’amicizia...» (Alcifr., Lett., III, 55). «Non è lecito invitare alla stessa mensa quelli che trattano queste brutte cose e bere con essi la tazza dell’amicizia e stender la mano alli stessi cibi» (Luciano, Conto senza l’oste. — Cfr. Aristof., Lisistr., 203). κύλιξ φιλοτησία o anche semplicemente φιλοτησία, calice dell’amicizia, chiamavano la tazza, più ampia dell’altre, che veniva fatta girare al finir del pranzo tra i convitati e della quale tutti bevevano, facendosela passare un dopo l’altro; il che diceasi ἔν κύκλῳ πίνειν, propinare in circolo, e fra i latini bibere a summo, cioè a cominciar dal commensale che stava nel luogo più onorevole a quello che stava nell’infimo. Questa cerimonia significava che i commensali partivano dalla mensa buoni amici. Il Negri nei commenti ad Alcifrone fa di essa una propinazione separata e ben distinta dall’altre libazioni e brindisi; però sembra ch’essa dovesse precedere immediatamente o coincidere colla libazione al buon genio che segnava il levar delle mense; di che si dirà più sotto.

276.  ἄκρατος (οἴνος) — Lo si beveva così puro solo appunto nella libazione del buon genio e in altre libazioni sacre; fuor d’esse, nei simposj ateniesi, il vino era di rigore beverlo sempre misto coll’acqua (κεκραμένος). Beverlo puro riteneasi costume de’ barbari: e appunto bevere all’uso degli Sciti dicevasi il bevere vin pretto (Plat., Leg., I, 637; Aten., X). Una legge di Zaleuco, fra i Locresi, puniva persino di morte chi avesse bevuto vin puro senza prescrizione del medico (Elian., V. St., II, 37). Del resto anche in tutta Grecia l’usanza dell’annacquare il vino era generalmente consacrata e fatta risalire sino ad Anfizione. «Filocoro dice che Anfizione re degli Ateniesi fu il primo che imparò da Bacco a temperare mescolandolo la forza del vino» (Aten., II, 38 c.). Più diffusamente Filonide, citato da Ateneo, così spiega l’origine mitica di questo uso: «Poichè Bacco ebbe trasportata la vite dal mar Rosso in Grecia, moltissimi si abbandonarono all’intemperanza bevendo il vino puro; per il che gli uni insanivano come presi dalle furie, gli altri istupiditi dal vino e dalla crapula cadevano come morti. Or avvenne che mentre alcuni banchettavano sulla spiaggia del mare, essendo sopraggiunta la pioggia, i commensali si disciolsero, e il cratere in fondo a cui era rimasto un po’ di vino, abbandonato lì sul luogo, si riempì d’acqua: di poi cessata la pioggia e serenatosi il cielo, i banchettanti ritornarono sullo stesso luogo, e gustando il vino diluito, ne provarono una mite e niente molesta voluttà. Per il che i Greci quando al banchetto vien portato in giro il vin puro, invocano, acclamandolo, il buon genio che lo ritrovò, e che fu Bacco. Quando poi dopo cena vien ministrato il primo bicchiere di vino diluito coll’acqua, acclamano esultanti Giove salvatore, largitor della pioggia, siccome moderatore e autore della gioconda mistura» (Aten., XV, 675 a.). Quest’uso antichissimo durò fin nei tempi più tardi, e il derogare ad esso non solo, ma il non metter nel bicchiere più acqua che vino era tenuto come segno di brutta intemperanza ed estremamente dannoso al corpo ed allo spirito. «Se alcuno beve metà vino e metà acqua, è preso da insania; se beve vino puro, gli si sciolgono le membra del corpo» (Aten., II, 36). E però le proporzioni della mistura variavano; ma il più ordinariamente solevasi mescolare tre parti d’acqua con due od una di vino, o due parti d’acqua con una di vino. Quando la proporzione era da tre ad una dicessi bevere alla maniera delle rane: ma alcuni vini erano abbastanza forti per portarla. La mistura veniva fatta già nel cratere, di dove il vino versavasi nei bicchieri. Indi, allorchè nelle descrizioni antiche dei simposj si parla di vino, οἴνος si sottintende sempre vino misto coll’acqua, a meno che non si nomini espressamente il vin puro, ἄκρατος (Plut., Conjug. praec. — Cfr. Becker ed Hermann, Char., I, p. 166; II, p. 280).

277.  Cfr. Aristof., Vespe, 525: e lo scoliaste a questo verso: era costume al levar delle mense libare al buon genio. Questa libazione, fatta di vino puro (cioè non misto coll’acqua come usavasi durante tutto il pranzo), chiudeva difatti il banchetto propriamente detto, o mensa dei cibi (δεῖπνον), e dava il segno delle abluzioni, del cinger le corone e dello asportarsi delle mense; dopo di che succedeansi altri brindisi e il canto del peana e degli scolii, e si passava alla parte per i Greci la più importante del convito, la mensa dei bicchier ossia il vero simposio (πότος, συμπόσιον), destinato al bere e spesso degenerante nell’orgia (Plut., Disp. Conv., 5; Senof., Simp., 2, 1; Plat., Simp., p. 176; Diod. Sic., IV, 3). Sulla libazione del buon genio, ἀγαθοῦ δαίμονος, scrive più diffusamente Ateneo: «Del vino puro che vien dato in fin di cena, e che chiamasi il bicchiere del buon genio, i commensali ne libano un poco, appena quanto basti per gustarne e ricordare il beneficio del dio. Lo si dà infatti dopo che già sono sazî, perchè ne beano pochissimo: e mentre lo prendono dalla mensa, adorano il dio, quasi lo preghino perchè non abbiano a commetter mai nulla di turpe, nè ad esser mai intemperanti nel bere. E Filocoro dice, esser sancito per legge, che dopo terminati tutti i cibi venga portato il vino puro, tanto appena da gustarne e significare la virtù del buon dio: perocchè si diluiva con acqua il vino che bevevasi prima: e perciò chiamarono ninfe le nutrici di Bacco. Dopo offerto il bicchier del buon genio, si usava rimovere le mense, come mostrò con un atto sacrilego Dionigi di Sicilia: il quale in Siracusa vedendo posta davanti al simulacro di Esculapio una mensa d’oro, offerse al dio la libazione del buon genio, e subito la tavola se la fece portar via» (Aten., Deipn., XV, 693). — In luogo della formula al buon genio, usavasi anche talora l’altra ad Igea (υγιείας), cioè alla dea della salute. Il bicchiere con cui faceasi questa libazione del buon genio o d’Igea, diceasi metaniptro (Cfr. Aten., 486 f. Cfr. Becker, Char., I, 165).

278.  Marino (θαλόττιος, Arist., Pt., 396; αλυκός, Lisis., 403; αλιμὲδων, Tesmof., 323; Ποντοποσειδῶν, Pl., 1050), epiteto di Nettuno (Ποσειδῶν) specialmente come tale invocato nelle esclamazioni dagli Ateniesi (per il marino Nettuno!). — Dicevasi anche equestre (ἵππιος, Nub., 83; Caval., 551). Però che gli Ateniesi vantassero d’aver primamente appreso da Nettuno l’arte della navigazione e dell’addestrare e guidar cavalli (Vedi Sofocle, Edip. a Col., v. 703 seg.).

279.  Le corone, come già si notò, venivano recate soltanto in fine del banchetto (δεῖπνον) al momento di far la libazione al buon genio, con cui lo si chiudeva e si dava principio al bevere (πότος), cioè alla seconda mensa, o mensa dei bicchieri. «La distribuzione delle corone e degli unguenti serviva d’introduzione al simposio della seconda mensa» (Aten., XVI, 685 d.). L’uso delle corone, per liberare appunto il cervello dai fumi delle libazioni del vin puro, faceasi risalire a Bacco; «il quale fu reputato buon medico non solo per aver trovato il vino, soavissimo medicamento, ma altresì per avere insegnato ai presi dal furor baccanale a coronarsi il capo con l’ellera, e per aver onorata questa pianta a cagione di sua virtù contraria al vino; spegnendo l’ellera col suo freddo l’ebbrezza» (Plut., Disp. Conv., l. I, 1). Ma col progredire del lusso, aggiunge Ateneo, si cercò alle corone, oltre il rimedio contro i fumi dell’ebbrezza, anche il diletto degli occhi e delle nari: e allora si introdussero le corone di mirto e le corone di rose, alle quali pure attribuivasi una virtù refrigerante (Aten., XV, 675 e). Queste eran certo le più usate: e perciò Aristofane parla del demo incoronato di rose (Caval., 966): per contrario in Ateneo si vedono proscritte dai conviti siccome nocive le corone di alloro e di viole (Aten., ibid.); nondimeno quest’ultime dovettero anch’elle entrar nell’uso, dacchè l’aggettivo ἱοστέᾳανοι, coronati di viole, ricorre frequentissimo come epiteto proverbiale degli Ateniesi (Arist., Acarn., 636; Caval., 1322; Pind., Framm., 45, 46). Becker cita anche il giacinto; ma questo dovette usarsi particolarmente dai Dori. Del resto Plutarco e Ateneo, nei luoghi sopra citati, discorrono diffusamente delle varie specie di corone adoperate.

280.  L’ordine di questi singoli riti è assai chiaramente e concordemente descritto in Senofonte (presso Aten., XI, 462, d, e), in Plutarco (Conv. Sette Sap., 5), nel comico Platone (presso Aten., XV, 665 b), in Menandro (presso Suida, voce αἴρειν) e in altri autori comici (Aten., IX, 408 e, f; XV, 685 d, e), ai quali rimandiamo per più ampj ragguagli il lettore studioso. Vedi anco più sopra la nota 23 — e cfr. i Simposj di Platone e Senofonte.

281.  Il buon genio o agatodémone (ἀγαθὸς δαίμων, Ἀγαθοδαίμων), era il dio benefico, la cui protezione assicurava alle case, alle terre, alla città la prosperità e l’abbondanza; divinità maschia dell’ordine dei demoni e dei genj, rispondente alla divinità femmina dello stesso ordine, onorata sotto il nome di ἀγαθὴ τύχη, la buona fortuna, alla quale trovasi sovente associata. Così a Lebadia chi voleva consultare l’oracolo di Trofonio, prima di scendere nel famoso antro dovea passare alcuni giorni in una cappella dedicata al Buon Genio e alla Fortuna (Pausania, Beoz., 39): e ad Atene le due divinità aveano pure un tempio in comune. Ai tempi di Plinio vedevansi al Campidoglio due statue di Prassitele rappresentanti l’una il buon genio, l’altra la buona fortuna (Plinio, Nat. hist., 36, 4). Ad Atene era sacro al buon genio, siccome dio fecondatore dei campi, il primo giorno in cui gustavasi il vino nuovo (Plut., Disp. Conv., VIII, 10). Della libazione al buon genio che terminava il convito si è detto più sopra. (Cfr. Becker, Char., II, p. 262). Il buon genio avea per simbolo un serpente e talora anche un fallo, emblemi ordinari della fecondità. Era il Bonus Eventus dei Romani.

282.  Giove salvatore, Ζεύς Σωτὴρ — per il quale spessissimo gli Ateniesi giuravano, νὴ τὸν Δὶα τὸν σωτῆρα (Arist., Rane, 738; Pl., 877) era invocato nelle libazioni in fin di tavola insieme col buon genio: o più precisamente la libazione a Giove salvatore susseguiva a quell’altra — e facevansi entrambe colla medesima tazza (metaniptride). Su di che vedi sopra la nota 68 e il passo citato di Aten., XV, 675 c. E il comico Difilo nella Saffo: «Archiloco, porgimi quella metaniptride colma, che libiamo a Giove salvatore ed al buon genio» (Sulla tazza così detta di Giove salvatore e sulle libazioni allo stesso, vedi pure Aten., XI, 466 e, 471 d, e; XV, 693 f, 693 a-d).

283.  Modo proverbiale esprimente longevità. Vedi Luciano, Ermotimo. Dicevasi anche nello stesso senso campar gli anni di Titone (Luc., Ermot.; Dial. dei morti, 7). Sulla longevità di Titone, sposo d’Aurora, vedi Aten., I, 6; e Orazio: Longa Tithonum minuit senectus.

284.  Era il più pregiato e celebrato tra i vini greci (Aten., IV, 167 e). Altri vini in pregio erano il vino prannio, il vin di Taso, il vin di Lesbo, di Rodi, di Siracusa, ecc. Sui vini greci e loro varie specie, vedi Aten., I; Elian., V. st., XII, 31.

285.  Di queste torte recanti il nome del siculo Gelone (che fu, com’è noto, tiranno di Sicilia) parla Alcifr., Lett., I, 22. Doveano essere la stessa cosa che la torta o focaccia siciliana, σικελικὸς πλακοῦς, menzionata in Ateneo, XIV. Queste torte, πλακοῦς, eran di solito un impasto di farina di segala, cacio e mele (Aten., IX, 17).

286.  Lo stadio era un ottavo di miglio e più precisamente metri 184,26. Due stadj erano il diaulo; quattro stadj, l’ippicon; dodici stadj formavano il dolico.

287.  Scolii diceansi le canzoni convivali che usavansi cantar alla fine dei banchetti ateniesi, dopo fatta la libazione al buon genio, e al recarsi della mensa dei bicchieri. Al qual momento la cetra ed un ramo di mirto venivan fatti girar pel convito, indi porgere a quello dei convitati che meglio sapesse dilettar la brigata con una bella canzone o con una buona sentenza in lirica forma. Su di che Plutarco: «Canterà fosse alcuno le canzoni usate a cantarsi nei conviti, appellate scolia (cioè oblique e torte) quando in mezzo è la mensa con sopravi la coppa da bere, e in testa le corone... Anticamente gl’invitati cantavano dapprima tutti insieme ad una voce la canzone in lode a Bacco, poi ciascuno cantava da sè in disparte prendendo un ramo di mirto: e conveniva cantasse di mano in mano ciascuno che l’avea. Dopo questo, recavasi intorno una lira, e chi sapea sonare la pigliava e vi cantava sopra: ma quelli che non intendean di musica la rifiutavano, e così questa maniera di cantare non comune, nè a tutti agevole, fu detta scolion. Altri dicono che il ramo di mortine non andava intorno, ma portavasi di letto in letto, e dopo che il primo del primo avea cantato lo mandava al primo del secondo letto, e questi al primo del terzo, poi il secondo a quel del secondo: e per questa varietà e torcimento di quel girare intorno fu la canzone nominata scolion» (Plut., Disp. Conv., I. 1. — Cfr. Ateneo, XV, 694 a-d; Arist., Vespe, 1219, dov’è pure corrispondenza fra lo scolio di chi canta primo e di chi gli tien dietro). Ma opinione molto più credibile è che nella melodia su cui cantavansi gli scolii fossero ammesse certe licenze ed irregolarità per le quali si agevolasse la recitazione improvvisa e donde curva o torta si chiamasse la canzone. I ritmi degli scolii rimastici mostrano grande varietà, ma in generale corrispondono a quelli della lirica eolica; solo che l’andamento della strofa è rotto e ravvivato da slanci intermittenti. Infatti, come autori di scolii andaron celebri in ispecie i poeti lesbii: Terpandro (cui Pindaro ne attribuisce la invenzione), Saffo, Alceo: più tardi si distinsero negli scolii Anacreonte e Prasilla di Sicione: e anche alcuni poeti corali come Simonide e Pindaro (Ateneo, XV, 694-696). Aristofane, Diogene Laerzio, Solone ed altri ci trasmisero un certo numero di scolii della greca antichità. La maggior parte contengono gioconde regole di vita o brevi ditirambi, invocazioni a Bacco, a Venere e ad altri numi o lodi degli eroi: ma due di maggior estensione ed importanza ci pervennero, quello dorico di Ibria cretese, «La mia gran ricchezza è la lancia e la spada, ecc.,» e quello ionico, in Atene fra tutti celebratissimo, di Armodio ed Aristogitone; canzone patriottica attribuita a Callistrato e commemorante l’eroica morte dei due giovani ateniesi che liberarono Atene dalla tirannide di Ipparco e di Ippia, secondo narra Tucidide (VI, 54-59). Su di che più innanzi. Vedi anche, intorno agli scolii, Ulrici, Gesch. der hellen. Dichtkunst, II, 376 seg.; C. O. Müller, St. della letter. greca, cap. 13.

288.  «Poscia gli comandai che pigliato in mano il ramo del mirto, mi recitasse qualche cosa di Eschilo» (Aristof., Nubi, 1364). Sull’uso del ramoscello di mirto (μυρρίνη) nel canto degli scolii, vedi la nota sopra, e la canzone di Armodio.

289.  Lo scolio d’Armodio, che diceasi anche semplicemente l’Armodio (Ar., Vespe, 1225) attribuito all’ateniese Callistrato, ci fu conservato da Aten., XV, 695 b. Fu composto verisimilmente non molto dopo le guerre persiane, poichè ai tempi di Aristofane lo troviamo come una canzone popolarissima e universalmente gradita ne’ conviti ateniesi (Vespe, 1225; Lisis., 632; e in Antif. presso Ateneo: Si invocava Armodio; si cantava il peana; veniva portata la gran tazza di Giove Salvatore, XV, 692 f). Già prima d’altronde delle guerre persiane, Armodio ed Aristogitone erano stati come eroi liberatori d’Atene onorati di statue in Atene: era vietato ai servi portare il loro nome (Liban., Ap. Socr.): ed era concessa ai loro discendenti l’immunità dai pubblici pesi (Demost. in Lettine).

Dello scolio d’Armodio ecco la versione letterale:

«Entro a ramo di mirto la spada porterò — come Armodio ed Aristogitone — quando il tiranno uccisero — e libera per uguaglianza di leggi (ἰσονόμους) resero Atene.

«Carissimo Armodio, no, non sei morto: nell’isole dei beati dicono che tu sei, — ove anche il piè-veloce Achille — e, dicono (ci sia) il Tidide Diomede.

«Entro a ramo di mirto la spada porterò — come Armodio ed Aristogitone — quando di Minerva fra i riti sacri (le Panatenee) — l’uomo despota Ipparco uccisero.

«Sempre di voi due la gloria durerà sulla terra — o carissimo Armodio e Aristogitone — poichè il tiranno uccideste — e libera (di leggi uguali) Atene rendeste.»

Come il lettor vede, la traduzione mia, ridotta per le esigenze della scena, comprende le prime due strofe del testo, aggiuntivi i pensieri principali delle ultime due.

Ai dilettanti di questi studj offro qui un altro tentativo di traduzione mia, completa e possibilmente letterale:

Di mirto adorno porterò il brando,

D’Aristogitone, d’Armodio al par,

Quando il tirannico sir trucidando,

Atene a libere leggi tornàr.

No, non sei morto, diletto Armodio!

Ma dei beati l’isole han te:

Dov’è il Tidide Diomede, dicono,

Ed anche Achille celere-piè.

Porterò il brando mirto-vestito,

D’Aristogitone, d’Armodio al par,

Quando di Pallade nel sacro rito

Ipparco il despota prence svenâr.

D’ambo la gloria la terra ognora,

O Aristogitone, o Armodio udrà:

Come il tiranno svenaste allora,

E per voi libera fu la città!

Cattivi versi, d’accordo: però, se non m’illudo, più fedeli alla lettera e allo spirito del testo greco che non la notissima versione del professore Centofanti, la quale va per le scuole:

Su, su, ricuoprasi di mirto il brando,

Brando d’Armodio, d’Aristogitone!

Per lui si sciolsero ceppi fatali,

E Atene è libera con leggi uguali.

Diletto Armodio, no, non se’ morto:

Ma dei beati vivi nell’isole:

E là magnanimi son teco e lieti

Diomede e l’inclito figliuol di Teti.

Su, su ricuoprasi di mirto il brando,

Brando d’Armodio, d’Aristogitone!

Che Ipparco spensero tiranno ardito

Nel sacro a Pallade solenne rito.

Di gloria splendidi sarete ognora,

Tu caro Armodio, tu Aristogitone:

Per voi si fransero ceppi fatali

E Atene è libera con leggi uguali.

Nella qual versione del Centofanti, a parte le parole greche omesse e le forme cambiate, segnai in corsivo le parole aggiunte e i pleonasmi del traduttore, di cui nel greco non è traccia alcuna: e che per un componimento sì breve e caratteristico dell’antica Musa, mi paiono di là di troppi. In ispecie quel verso di stampo tutto moderno: Per voi si fransero ceppi fatali — un poeta ateniese non l’avrebbe mai scritto nè pensato.

290.  Secondo Pausania (Att., 2) la cortigiana Leena fu propriamente l’amante di Aristogitone, ma Ateneo per l’opposto (XIII, 596 f.) la dice amante di Armodio. Comunque, è noto come ella fu coinvolta nella celebre congiura dei due amici; e, dopo il primo tentativo fallito in cui Armodio restò ucciso, fatta porre da Ippia alla tortura, sofferse con fortissimo animo lo strazio, anzichè rivelare i suoi complici, finchè per tema che il dolore potesse strapparle qualche parola, si mozzò da sè stessa coi denti la lingua e la sputò in faccia agli aguzzini. Quando gli Ateniesi ebbero infine rotto il giogo, immortalarono il nome dell’eroica cortigiana drizzandole sull’Acropoli un monumento che raffigurava una leonessa (leaena) senza lingua. Vedi Pausania e Ateneo, l. c.; Beulè, L’Acropole d’Athènes.

291.  Stesicoro: nacque, secondo una tradizione comune, in Sicilia, ad Imera (colonia mista jonicodorica) poco dopo la fondazione di quella città, verso il 640 av. l’E. V.; visse sino al 560. Il suo primo nome era Tisia: fu, dopo Alcmano, il secondo de’ grandi poeti corali dorici: e la poesia corale, dapprima rinchiusa per lo più ne’ soggetti mitici e nella forma tranquilla dell’epopea, assunse con lui forme più schiettamente ed altamente liriche, ispirandosi al linguaggio appassionato degli affetti. Per questo usò sovente ne’ suoi canti non solo del grave metro dorico, ma anche dei ritmi patetici e profondamente appassionati dell’armonia frigia. Si avevano di lui molte poesie erotiche. In qual pregio fosse tenuto come poeta, in Atene, può desumersi dal Fedro di Platone, ove Socrate pone in bocca a Stesicoro la stupenda teoria sull’amore, che fu compendiata nel discorso di Socrate dell’atto primo, scena prima. E il nome di Stesicoro si affacciava qui naturalmente non solo perchè di poeta siciliano, ma perchè l’innamoramento di Alcibiade e di Timandra in questa scena è appunto quell’inconro subitaneo delle anime di cui Socrate, ispirandosi a Stesicoro, sul principio del dramma parlò.

292.  Che Alcibiade avesse già condotto, innanzi il suo richiamo, a buon punto le cose degli Ateniesi in Sicilia, colla presa di Catania, a lui massimamente dovuta, rilevasi da Plutarco in Alcibiade e da Tucidide, VI, 48-51. Di un altro fatto d’armi tra Siracusani e Ateniesi, avvenuto innanzi il richiamo di Alcibiade, e nel quale egli, con una piccola parte de’ suoi, usando di un felice stratagemma, volse in fuga i nemici superiori di numero, facendone scempio, è pur cenno in Polieno (Stratag., I, 40. Cfr. Tucidide, VI, 52). — Indi la supposizione della battaglia, che serve di introduzione a questo quadro, non parmi una licenza storica così temeraria come a qualche critico erudito piacque di ritenere.

293.  Delle quattro classi dei cittadini, stabilite ab antico da Solone, le tre prime in generale (pentacosiomedimni, cavalieri, zeugìti) fornivano all’esercito gli opliti o fanti pesanti, che del proprio somministravano l’armi. La terza classe in ispecie era quasi tutta d’opliti; la seconda, poi, come lo indica il nome, forniva in particolar modo anche i cavalieri, somministranti del proprio, oltre l’armi, il cavallo; della prima classe, come più ricca di censo, erano per lo più i trierarchi o comandanti delle triremi, somministranti del proprio la trireme o la galea. Da queste tre prime classi, infine, uscivano naturalmente gli strategi e gli altri ufficiali dell’armata.

I cittadini poveri della quarta classe (thétes) servivano in piccolo numero come arcieri regolari (τοξόται): tutti gli altri, cioè la massima parte, componevano la ciurma della flotta, che era il nerbo della potenza d’Atene: non ultima questa fra le cause originarie della democrazia ateniese (Cfr. Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle, Opere, IV, 283).

Però i cittadini delle quattro classi non formavano essi soli le forze militari ateniesi: i meteci (forestieri naturalizzati) e gli stranieri mercenarj e gli schiavi vi entravano pure in gran parte; i primi negli opliti di presidio, i secondi come formanti il grosso delle milizie leggiere irregolari (ψιλοὶ): gli ultimi, completanti i quadri delle ciurme. Laonde, nei primordj della guerra del Peloponneso, prendendo per base la enumerazione di Pericle (Tucid., II, 13), le milizie di Atene si potevano così ripartire:

Oplìti (fanteria pesante) d’ordinanza (cittadini delle prime tre classi dai 20 ai 60 anni) 13,000
di presidio oplìti cittadini (dai 18 ai 20 e sopra i 60 anni) 3,500
oplìti metèci 12,500
 
Cavalieri (cittadini della seconda classe) 1,000
 
Arcieri a cavallo (meteci o forestieri) 200
 
Arcieri a piedi (τοξόται) (fanteria legg. regolare) ἀστικοί — cittadini dell’ultima classe (thétes) 400
ξενικοί, stranieri (Sciti, Traci, Cretesi, ecc.) 1,200
 
Flotta Piloti, ufficiali delle triremi, remigatori per 300 triremi — tra cittadini dell’ultima classe, meteci, schiavi e forestieri 48,000
   
      79,800
 
Fanti irregolari (ψιλοὶ) — non contati nell’elenco di Pericle (peliasti, frombolieri, ecc.), tutti stranieri 10,000
   
      89,800

Tale è la cifra più alta cui potessero calcolarsi le forze d’Atene nel fiore della sua potenza. A queste forze poi venivano ad aggiungersi tutte quelle degli alleati tributarj.

Gli oplìti o fanti pesanti avean per armi difensive l’elmo, la corazza, lo scudo, e schinieri coprenti la parte inferiore delle gambe. Per armi offensive la picca e la spada.

I cavalieri portavano anch’essi corazza, scudo, elmo, lancia e spada.

I fanti leggieri regolari (τοξόται) portavano arco, elmo e leggiera armatura.

I fanti leggieri irregolari (ψιλοὶ) erano di quattro specie: peltasti, recanti una lancia corta e un piccolo scudo detto pelta; lanciatori, che gittavano a mano il lanciotto (ἀκόντικον); frombolieri che scagliavano sassi con la fionda; e gittatori di sassi a mano.

Preferendo Atene, per accorgimento politico, impiegare ed addestrare i suoi proprii cittadini nella marineria — (dacchè alla forza marittima appoggiavasi la sua egemonia fra i Greci, e importava che quella fosse ateniese, nazionale, e non precaria) — e a mala pena bastando ai quadri della flotta i thétes dell’ultima classe, così ella assoldava dall’estero tutte le milizie leggiere di cui abbisognava per il suo esercito. Per queste non v’erano nè ruoli, nè ordinamenti che ne prescrivessero le armi e gli esercizii: però Atene li prendeva fra i Greci od i barbari che in uno od altro esercizio si distinguessero. Ella aveva quindi peltasti traci; arcieri di Creta; lanciatori locresi e acarnani; frombolieri di Rodo, ecc. (Vedi Tucidide; Senof., Anabasi e Cose equestri; Arriano, Tattica; Eliano, Tattica; Peyron, note al II e VIII di Tucidide; Boeckh, Econ. pol. at., II; Ferrario, Cost., I, ecc.).

294.  I soldati in guerra portavano seco i viveri per tre giorni — carne salata, cacio, ulive, cipolle, ecc. (Cfr. Arist, Acarn., 197; Pace, 368; Plut., Focione). A quest’uopo ogni soldato aveva una sportella o valigietta di vimini (γυλιον) della forma di un vaso lungo, e nella estremità molto stretto (Vedi Suida, Pottero, Scol. di Aristof.).

295.  Non solo ogni comandante, ma anche ogni oplìte aveva seco in guerra un servo o scudiero (ὑπασπιστὴς) che gli portava lo scudo, e alle volte lo seguiva nel folto della mischia; benchè, di solito, innanzi la battaglia, costoro fossero spediti alla custodia dei bagagli (Eliano, V. St., XI, 9; Senof., Anab., IV; Tucid., III; Polieno, Strat., II; Eliano, Tatt.).

Probabilmente molti di essi erano meteci, che seguivano in quella, qualità il loro patrono (προστάτης): ossia il cittadino dal quale ciascun meteco (obbligato al servizio militare, ma escluso dai diritti politici) dipendeva per farsi da lui rappresentare negli atti giuridici. (De-Leva, Somm. pop. ant., p. 211).

296.  ὄμοιον ὀμοίῳ κατά θεῖον ἀεὶ προσπελάζει (Aristen., Lett., I, 10). Antico proverbio che Aristeneto ha preso da Platone (Simpos.) e da Aristotile (Ethic., VIII) e tutti da Omero: Ὼς αἰεὶ τὸν ὁμοῖον ἄγει θεὀς ὼς τὸν ὁμοῖον.

297.  Ramiferi, o tallofori (θαλλοφόροι) erano bei vecchioni impiegati a portar i rami d’ulivo nella processione delle Panatenee; non potendo per la vecchiezza essere impiegati in altro. Indi diceasi proverbialmente buono a fare il ramifero per significare buono a nulla. «Saremo derisi per le vie e chiamati ramiferi» (Aristof., Vespe, 542. — Cfr. Eust., Odiss., 17; Senof., Simp., III; Etym. M.; Esichio, a q. v.).

298.  Cecrope fu antichissimo re di Atene, vissuto parecchi secoli innanzi la guerra di Troja. Indi in Alcifrone una cortigiana chiama per ischerno Cecropone per la sua antichità un vecchio rimbambito (Alcifr., Lett., I, 28). E in Aristofane il vecchio imbecille Filocleone invoca Cecrope (Arist., Vespe, 438).

299.  Erme, busti di Mercurio, di cui si parlerà più innanzi. La iscrizione sulle Erme dei nomi dei valorosi ch’eransi distinti in guerra, era ricompensa militare anticamente pregiata dagli Ateniesi. «Al tempo degli avi fiorirono molti generosi e stette ognuno contento ad una iscrizione sulle Erme» (Demost., Ad Leptin. — Cfr. Eschine in Ctesif.).

300.  Lo starnuto era tenuto fra gli antichi ora per buono ed ora per cattivo augurio, secondo i casi. Infausti eran quelli della mattina, fausti quelli del mezzodì. Così in Aristeneto una fanciulla, mentre scrivendo si lamenta del suo amore infelice, ad un tratto si rallegra perchè nello scrivere starnutò. «Oh come a proposito starnutai! il mio amante penserebbe egli a me in questo momento?» (Aristen., Lett., II, 5). — E in Teocrito: «Fortunato sposo! a te starnutò qualche fausto genio, quando venisti a Sparta!» (Teocr., Idill., 18). Un esempio, invece di starnuto infausto, si ha in Teocr. Idill., 7.

301.  Chiechenei, bocche aperte, spalancate, sbadiglianti; appellativo derisorio dato da Aristofane agli Ateniesi, per indicare con una sola caratteristica parola la curiosità senza senso e senza scopo, la credulità e la balordaggine della plebe; voce tolta dallo stupido spalancar di becco delle oche, e degli uccelli piccini all’appressarsi dei maggiori (Cfr. Luciano, Scita; Wieland, Aristippo).

302.  Agora era la piazza maggiore di Atene, ove teneasi il mercato; la quale metteva da una parte a settentrione al Ceramico e all’Accademia, e a mezzodì ai Portici (Pecile, Portico Regio, ecc.).

303.  Giove fiscio, ossia fuggitivo (φύξιος Ζεὺς), veniva invocato dai fuggenti (Vedi Licofrone, Cassandra, v. 288, e lo scoliaste a quel verso). A Giove Fiscio sagrificò Deucalione cessato il diluvio (Apollod., Bibl., 1. II): e di un’ara dedicata a questo nume fa menzione Pausania (Corint., 4).

304.  Le triremi, ch’eran le navi da guerra ateniesi (comandate ciascuna da un trierarca) secondo i calcoli del Boeckh (Econ. pol. At., II, 22), portavano ordinariamente da 200 uomini ciascuna. E cioè: 10 soldati di fanteria navale (ἐπιβάται) destinati alla difesa della nave; 40 opliti (truppe di sbarco o combattenti sopra coperta); e 150 tra uffiziali della nave, marinaj e rematori. Questi ultimi erano oltre a cento, ripartiti in tre ordini (indi il nome di trireme). Nel primo ordine, il più alto sopra il livello dell’acqua, erano i traniti, con lunghi remi: nel secondo di mezzo gli zigiti, nel terzo e più basso i talamj, i quali ultimi remando poco più su del livello dell’acqua, avean remi assai corti e sceglievansi quindi fra i più deboli di forza; questi erano spregiati (Ar., Rane, 1106) e non adoperavansi in alcuna fazione. — Questi tre ordini di rematori eran diretti da un regolatore (κελευστὴς), ch’era sulla nave il primo in dignità, dopo il trierarca ed il piloto (κυβερνήτης), (Tucid.; Senof., Rep. At., I, 2; Peyron, Note a Tucid.).

305.  Circa l’ambizione di Alcibiade e la sua sete di gloria, vedi massimamente il Primo Alcibiade di Platone già citato: «La gloria, che tu Alcibiade — gli dice Socrate — desideri più ardentemente di quello che uomo giammai abbia desiderato alcuna cosa» (Pr. Alcib., 124).

306.  I Misteri di Eleusi (o Eleusinie): celebri nella antica Grecia. Potevano dirsi una imitazione de’ misteri di Samotracia, salva la sostituzione del mito di Cerere e Proserpina alla favola e ai riti dei Cabiri. Più in su risalendo, può ritrovarsene l’origine nelle antiche dottrine orfiche dell’immortalità dell’anima e della metempsicosi, raccolte più tardi e sviluppate dalla filosofia pitagorica; colle quali dottrine dovettero avere qualche relazione i riti simbolici egiziani d’Iside e di Osiride, introdotti probabilmente nell’Attica dall’egiziano Cecrope. E però Cecrope potrebbe riguardarsi il vero istitutore de’ misteri eleusini: lo stesso Trittolemo, infatti, a cui Eusebio e Giustino attribuiscono, insieme colla prima seminagione nell’Attica, l’istituzione dei misteri di Eleusi, sembra vissuto poco dopo Cecrope, al tempo di Cranao suo successore.

Diodoro Siculo fa invece istitutore de’ misteri Eretteo, quinto successore di Cecrope, e come lui egizio di nazione: il quale avendo dall’Egitto portato nell’Attica, afflitta da carestia, gran copia di granaglie, gli Ateniesi per gratitudine il fecero loro re; indi dissero Cerere essere venuta nell’Attica con lui; e aver egli perciò portati seco dall’Egitto i riti della Dea (τὰ μυστήρια ποιῆσαι, μετενεγκοντα τὸ περὶ τούτων νὸμινον ἐξ Αἰγύπτου.) e instituiti ad essa in Eleusi i misteri. Ma Pausania negli Attici, parlando della guerra tra Eretteo e gli Eleusini d’Eumolpo riguarda i misteri come già esistenti a quel tempo; e solo è a notarsi nella versione di Diodoro la conferma dell’origine egizia od orientale di quei riti, contemporanea alla venuta delle colonie nell’Attica. Prima d’allora la religione fra’ Greci consisteva, più che altro, in un superstizioso timore delle forze della natura: tutt’al più, se anche prima di Cecrope e di Cadmo gli Dei tutelari di ciascun popolo, i lari e i penati protettori delle famiglie avean vittime e voti, era per assicurarsene la protezione e calmarne lo sdegno, da cui faceansi provenire tutti i mali fisici e morali della vita privata e pubblica. La credenza che Giove fosse il custode dei diritti dell’ospitalità e il punitore degli spergiuri, e che qualunque omicidio anche involontario fosse senza tregua perseguitato dalle Eumenidi, era al più tutto quello che la religione contribuiva di suo allo svolgersi della vita sociale fra quelle orde elleniche primitive. Ma i nuovi colonizzatori e legislatori, venendo in Grecia dai paesi orientali, già mansuefatti alle idee dei governi teocratrici e alla venerazione e al timore delle caste sacerdotali, non tardarono a sentire il bisogno di puntellare con quelle idee l’edificio sociale di quelle loro nuove colonie fra popolazioni indomite e semiselvaggie. Bisognò rinvigorire la fiacca autorità delle leggi col sostegno della fede, diffondendo la credenza che gli Dei prendessero immediata cognizione delle azioni degli uomini; che essi non solo presiedessero alle prosperità e ai mali fisici presenti, ma che non contenti di punire il malvagio e premiare il giusto in questa vita, citassero anche le anime dei trapassati ad un tribunale inesorabile, per essere da questo serbate secondo i meriti o i demeriti ad una nuova vita di delizie o di orribili tormenti. Questa dottrina, inculcata al popolo con la sola esposizione orale, non poteva impressionarlo gran che: ma simboleggiata nei misteri e proposta fra una quantità di apparati incutenti immediato terrore ai sensi, doveva di necessità agire potentemente sullo spirito di uomini eccessivamente sensuali e superstiziosi, che nei sotterranei di Eleusi si trovavano portati, per via di artificiose illusioni, prima nel Tartaro, poi negli ameni boschetti dello Eliso. — Indi colla venuta dell’egizio Cecrope e colla instaurazione dei misteri noi vediam prodursi il contatto più importante e caratteristico fra la deisidemonia, ossia il politeismo materiale, fisiocratico, degli antichi Elleni e lo spiritualismo delle religioni orientali, egizia, israelitica, ecc. E come in queste, così pure nei misteri Eleusini il filosofo scopre, allato ad un intento presunto spirituale e morale, rivolto alla pratica del vero e del giusto, un intento più materiale e più concreto: la brama di dominio e di potenza della casta sacerdotale, volta colle arti dell’impostura ad impadronirsi dell’uomo nella persona, nell’anima e negli averi. Le ricchezze prodigiose accumulate dai sacerdoti del tempio di Eleusi provano come l’intento fosse abbastanza riuscito.

I misteri Eleusini erano di due sorta: i grandi, τά μεγάλα ossiano i veri misteri (μυστήρια) consacrati a Cerere; i piccoli, τά μικρά, ossia inizj dei misteri (τελεταὶ) consacrati a Proserpina. I piccoli celebravansi nel mese di Antesterione, ed erano propriamente una preparazione ai grandi misteri. Durante i medesimi, i candidati alla iniziazione, o iniziati di primo grado (detti misti, μύστης) si purificavano nell’Ilisso, si preparavano con digiuni, preghiere, sacrificj, e sopratutto con offerte alla Dea. Più queste eran ricche e più probabilità si aveva di essere iniziati, e meno terribili eran le prove da subirsi.

Questi misti, ossia iniziati ai piccoli misteri, dopo cinque anni, e per somma grazia dopo un anno, potevano essere ammessi ai grandi — e allora prendevano il nome di epopti (ἐπὸπτης), ossia ispettori, ossia iniziati di secondo grado. La quale iniziazione ai grandi misteri celebravasi ogni tre anni, d’autunno, poco prima delle Tesmoforie, nel mese di Boedromione. Durava nove giorni, dal 15 del mese in poi: le cerimonie avean luogo la notte: e giammai festa sacra fu tanto solennizzata nella Grecia come questa. Tutto che la scienza e l’arte avevan potuto scoprire di più meraviglioso era posto in opera per colpire la fantasia del candidato, già estenuato anticipatamente dai digiuni, dalle macerazioni e da altre pratiche tendenti a debilitare il corpo e la ragione. I primi tre giorni, dei nove, si passavano ad Atene in sacrificj, digiuni, purificazioni, processioni in riva al mare ed altre cerimonie preparatorie. In una di queste un fanciullino di puro sangue ateniese era posto vicino alla fiamma del sacrificio e compiva i riti espiatorj, in nome dei futuri iniziati. — Il quarto giorno, danze sacre, pantomime rappresentanti il ratto di Proserpina e l’invenzione dei processi agronomici di Trittolemo. Portavasi da Eleusi ad Atene il calato (κάλαθος), canestro sacro di Cerere, sopra un carro seguìto da una turba acclamante a Cerere, dea nutrice, dea delle messi. Seguivano vergini, con panieri o ceste (κίστη) di frutta e dolci, che servivano, insieme col ciceone, a rompere il digiuno commemorativo del digiuno di Cerere, giusta la formula degli iniziati: «ho digiunato, ho bevuto il ciceone; ho preso dalla cesta e dopo aver gustato ho deposto nel calato; ho ripreso dal calato e riposto nella cesta.» — Il quinto giorno, cerimonia delle fiaccole, altra imitazione del rito egizio di Sais. Gli invitati sfilano a due a due in gran silenzio, con in mano torcie accese, poi scambiano e si ripassano le torcie di mano in mano. — Il sesto giorno, la statua di Iacco (figlio di Cerere) inghirlandata di mirto, veniva portata con gran pompa in processione, dall’Eleusinio in Atene, per la via sacra, sino all’Anattorio o tempio di Eleusi. Il calato, il rombo, il fallo, seguono la processione, mentre i sacerdoti cantano gl’inni a Iacco e la turba acclama: Iacche! evoè! Iacche! — Il settimo, ottavo e nono giorno, detti mistici, impiegavansi nella cerimonia della iniziazione degli aspiranti o iniziati di primo grado (misti). Gli iniziati indossano lunghe tuniche di lino, colle quali devono essere iniziati. Essi attendono la notte nel Pronao, o vestibolo, che le porte del tempio si aprano: ed ecco, ad un tratto, là, in mezzo alla più profonda oscurità, scoppiar tuoni e folgori, tremar la terra e il tempio tutto, come scrollato dalle fondamenta. Romori spaventevoli e sibili di serpenti e muggiti s’alzano dagli abissi; fantasmi e spettri ributtanti e cadaveri insanguinati sfilano alla luce sinistra dei lampi. Più in là appare Ecate tricipite, circondata da orrendi mostri. Poi tutto ritorna silenzio e buio; poi lo squarciarsi come d’una cortina metallica annunzia nuove apparizioni. È il Tartaro co’ suoi fiumi di fiamma, e i suoi odori sulfurei, i suoi tormenti e tormentati, Sisifo, Tantalo, Issione, le Danaidi, ecc. Ma il Tartaro scompare, e alle scene spaventose succedono le scene gioconde: sono i campi Elisj coi prati smaltati di fiori e il dolce mormorio degli uccelletti e i boschetti profumati, e le ombre amene, rallegrate dai cori e dalle danze delle coppie dei beati, dai banchetti di nettare e di ambrosia, dalle mistiche melodie. Dagli Elisj ecco i novizi passare ad un sotterraneo illuminato da torcie, ove si svolgono ai loro occhi le vicende di Cerere, di Proserpina e di Iacco, più o meno lubricamente, più o meno oscenamente rappresentate. Il novizio là vede dove Iside nascondesse suo figlio Oro dall’ira di Tifone; e quello che mostrasse a Cerere la vecchietta Baubo per far che la dea nel colmo della mestizia si scompisciasse dalle risa; e quel che contenessero i canestri chiusi delle figlie di Cecrope, ecc., ecc. Terminato lo spettacolo, i novizj son condotti nel recinto sacro fuori del tempio: e là trovansi ancora nel buio: quand’ecco ad un tratto le porte del tempio spalancarsi con fracasso; e nella gran navata, immenso spazio capace di cinquemila persone, in mezzo ad un mare di luce e di torcie scintillanti, apparire la statua di Cerere tutta oro e gemme, circondata da’ suoi ministri in ricchissimi paludamenti. È il gerofante (ἱεροφάντης) supremo pontefice di Cerere, ed in pari tempo il gran sacerdote dell’Attica, assistito dal fiaccolifero (δᾳδοῦχος), dall’araldo, o cerice (κήρυξ) recante il caduceo, e dagli altri sacerdoti. All’entrar degli iniziati nel tempio, l’araldo grida: lungi i profani, gli empj e tutti quelli di cui l’anima è macchiata di delitti: e commina pena di morte a chi non iniziato sarà sorpreso nel tempio. Poi ad un segnale dell’jerofante gli Dei olimpici appariscono nel santuario (teofanìa) e da quel punto comincia l’iniziazione, e gli iniziati son proclamati epopti, siccome ammessi alla visione della divinità. Il gerofante li arringa, promettendo loro, dopo morte, le voluttà degli Elisi, negate ai profani e invitandoli a giurare per la triplice Ecate il silenzio più assoluto su tutto ciò che hanno udito ed inteso, sotto minaccie terribili di morte a chi commettesse la menoma indiscrezione. Tutti gli iniziati prestano il giuramento, ed escono dal tempio in gran raccoglimento, per recarsi in processione all’Eleusinio. Il giorno dopo gli iniziati fan festa e si ricreano dalle fatiche dell’iniziazione nelle braccia delle cortigiane; il nono ed ultimo giorno infine si rimandano i pusillanimi che non superarono le prove, e gli epopti celebrano la iniziazione con ricchissime offerte al tempio di Eleusi — magnifica gazzarra pei sacerdoti.

(Diod. Sic., lib. I; Callimaco, Inno a Cerere; Platone, Fedone, Gorgia; Pausan., Att., 38; Giustino, lib II; Meursius, Gr. fer.; Eleusinia; Reg. Ath., lib. II; Wieland, Aristip., IV, 1; Maury, Hist. des relig. de la Gr. ant.; Robinson, Antiq. of Greece; Barthelemy, Anac.; Preller, Demeter und Persephone; Cl. Bader, La femme grecque, I, cap. 6; Debay, Nuits Corinthiennes, ecc.).

307.  Erme (V. sopra, nota 8), così dette da Ἐρμῆς, Mercurio, erano masse di marmo dell’altezza di un uomo, che nella parte superiore ritraevano la testa di Mercurio, e nella inferiore terminavano in colonna tetragona. Di queste Erme ve n’erano molte per le vie, nei vestiboli delle case private e nei templi, — postevi dai privati o per ordine dei magistrati. Anzi una via intera in Atene chiamavasi delle Erme perchè tutta decorata di questi busti. Ipparco, figlio di Pisistrato, ne aveva fatte por molte nel mezzo delle vie tra la città e i singoli demi rurali, con suvvi iscrizioni o precetti morali, per esempio: cura la giustizia — non ingannar l’amico, ecc. (Platone, Ipparco, 228 seg.; Tucidide, VI., 27; Suida, Arpocraz. a q. v.).

Questi simulacri di Ermete eran riguardati dagli Ateniesi come custodi tutelari dei lari domestici, delle vie, della prosperità della città, della pace pubblica e delle istituzioni; e negli Ateniesi, come bene osserva l’Houssaye, l’idea religiosa associavasi siffattamente alla idea politica, che una offesa fatta ad un Dio protettore della città, come quella che poteva attirar su di essa la collera del Dio offeso, consideravasi quale un attacco contro la repubblica. — Indi il crimine di tradimento e di sacrilegio eran fatti sinonimi (Senof., St. Ell., I; Meurs., Them. Att., II, 2. — Cfr. Timeo, Fragm. Hist. gr.; e Houssaye, Hist. d’Alc., II, 42).

Il guasto di queste Erme, che poco innanzi la spedizione di Sicilia furono trovate una bella mattina quasi tutte mutilate nella faccia, fu tenuto in Atene per grave sacrilegio e vi destò un’emozione indicibile, di cui si valsero i nemici d’Alcibiade, per darne la colpa a lui, collegandovi anco l’accusa di avere in un’orgia contraffatto i misteri di Eleusi. Sulla mutilazione di queste Erme, sulle accuse di Pitonico e Andromaco, Dioclide e Teucro, contro Alcibiade, sulla deposizione di Andocide e Tessalo contro il medesimo, e sul processo relativo che provocò, oltre il richiamo e la condanna di Alcibiade, molte esecuzioni capitali di presunti suoi complici, vedi Tucidide, VI, 28, 53, 60, 61; Andoc., Or. dei misteri; Lisia, Contro Andoc., 36; Ps. Andoc., Contro Alcib.; Isocr., De Big., III; Plutarco in Nicia, 13, in Alcib. 18 seg.; Corn. Nep. in Alcib. — Cfr. Grote, tom. XI.

Ma il racconto del coscienzioso Tucidide (VI, 60) intorno al modo con cui fu ottenuta la propalazione d’Andocide, che formò la base della accusa di Tessalo, e la accusa di Lisia contro Andocide stesso (c. 36), danno fondamento a dubitare della verità di quell’accusa riguardo ad Alcibiade. Infatti Tucidide afferma che «niuno nè allora, nè poi potè mai nulla affermare di certo sugli autori del misfatto, e gli Ateniesi medesimi non sapevano se la punizione delle vittime fosse giusta» (ib.).

308.  Tucidide avverte che gli Ateniesi diedero al fatto delle Erme maggior importanza del dovere «giudicandola opera d’una cospirazione tendente ad innovar lo Stato e ad abbattere il governo popolare» (VI, 27). Della facilità degli Ateniesi a sospettare per ogni cosa di mene sovvertitrici contro il governo popolare accennai altrove (V. quadro II; e Alcib. e la crit., Op., IV, 321). A questi sospetti associavasi sempre naturalmente il sospetto di intelligenze coll’aristocratica Sparta: indi le accuse di filolacone (amico degli Spartani) e di cospiratore per introdur la tirannide, dal tempo di Ippia in poi, suonavano in Atene pressochè equivalenti (Cfr. Plut. in Cimone, 18; Nicia, 10; Aristof., Lisis., 619 seg.; Erod., V, 91). Perciò, appena si intese, dopo il fatto delle Erme, che un piccolo corpo di Lacedemoni si era inoltrato fino all’Istmo, si sparse subito la voce per Atene che esso si avanzasse di concerto cogli autori del sacrilegio per istabilire la tirannia (Tucid., VI, 61).

309.  Ecco il testo preciso dell’accusa contro Alcibiade assente in Sicilia, quale ci fu conservato da Plutarco: «Tessalo, figliuol di Cimone Laciade, accusò Alcibiade figliuolo di Clinia Scambonide di aver commessa iniquità contro le due Dee Proserpina e Cerere, avendone contraffatti e mostrati i misteri in sua propria casa a’ compagni suoi, abbigliato con una veste simile a quella che indossa il Gerofante quando appunto mostra le cose sacre, ed avendo nominato Gerofante sè stesso, e Polizione Fiaccolifero, e Teodoro Banditore, e creati gli altri compagni Iniziati ed Ispettori, contro le leggi e gli statuti degli Eumolpidi, dei banditori e dei sacerdoti di Eleusi. — Per il qual delitto il popolo lo ha condannato a morte in contumacia, ha confiscato tutti i suoi beni, e determinato di più che tutti i sacerdoti e le sacerdotesse lo abbiano a maledire» (Plut., Alcib., 22. — Cfr. Tucid., 61).

Il Dacier unisce erroneamente nella sua versione il testo dell’accusa coll’esposizione della condanna, che di quel testo non fa parte. Comunque sta che Alcibiade fu doppiamente condannato, nel capo e nei beni (Cfr. anche Isocr., De Big., 17; Giustino, V, 1; Diod. Sic., XIII, 5; Corn. Nep., Alcib.; Senof., St. Ell., I, 4).

La pena di morte era difatti la pena inflitta tanto ai traditori o rei di lesa repubblica quanto ai sacrileghi (Licurgo in Leocr.; Hermog., Partit. Sect., V); pure il rigore di quella duplice condanna parrebbe eccedere la stessa legge ateniese, che vietava impor doppia pena: «In qualunque giudizio una sola pena si dia: o corporale o pecuniaria: entrambe no» (Demost. ad Leptin.); «l’Etica condanni il convinto a pena corporale o pecunaria» (Demost., C. Timocr.): conseguenza della qual legge era la facoltà di optare fra le pene, data ai rei convinti (Plat., Apol.; Eugraphius, in Andriam, Act. III; Meurs., Them. Att., II, 22). Così Socrate e Focione furono puniti di morte e non colla confisca dei beni. Vuolsi però notare che Alcibiade era stato condannato a morte dopo la sua evasione a Turio, cioè in contumacia, la morte essendo la pena irrogata di diritto al titolo del crimine: l’opzione poi era concessa solo agli accusati presenti al giudicio; la sola parte efficace della condanna di Alcibiade era l’esilio perpetuo, il divieto di esser seppellito nell’Attica, e la confisca dei beni — le quali appunto erano le pene stabilite pei colpevoli di sacrilegio o di tradimento, quando questi non si trovavano in mano della giustizia (Senof., St. Ell., I; Meurs., Them. Att., II, 2).

310.  Nave Salaminia. La Salaminia e la Pàralo (o il Paralio) erano le due principali triremi ateniesi che stavano sempre allestite e pronte a salpare per recar dovunque gli ordini e i messaggi della Repubblica (Tucid., VI, 53), accompagnare, occorrendo, per lo stesso servizio le spedizioni da guerra (Tucid., III, 77), portar le sacre ambasciate o Teorie ai principali giuochi e ai templi più venerati della Grecia, come a Delo, e per tale uffizio chiamavansi anche ambedue navi sacre (Plat., Fedone, 58; Arpocr., Suida). Non eran montate, per il loro servizio geloso di Stato, che da cittadini liberi (Tucid., VIII, 73) ed erano fra le più veloci al corso («Le due velocissime navi Paralo e Salaminia stan per sciogliere dal lido come foriere portando gli inquisitori, i quali devono far noto quando s’abbia ad uscire in guerra.» — Alcifr., Lett., I, 11; Scol. Aristof., Ucc., 1204). La nave Paralo fu la prima che si salvò con Conone dalla disfatta di Egospotamo e portò ad Atene la infausta nuova (Senof., St. Ell., II, 1). La Salaminia (così detta dal suo primo piloto che fu Nausiteo di Salamina) era la nave, in cui, secondo la tradizione popolare, Teseo erasi imbarcato per Creta alla spedizione del Minotauro (Plut., Teseo). Sovr’essa gli Ateniesi mandavano ogni anno la teorìa a Delo a sagrificare ad Apollo, in memoria del sacrifizio fattovi da Teseo quando tornò a Creta vittorioso; e finchè questa nave non era di ritorno, non era permesso in città far giustiziare nessun condannato a morte (Plat., Fedone, p. 43). Perchè la Salaminia cogli anni non si sfasciasse, di quando in quando rappezzavasi: sicchè coll’andar del tempo non serbò più del primo naviglio che la forma. Era una nave di trenta remi — e fu conservata dagli Ateniesi sino al tempo di Demetrio Falereo. — Fu essa che portò ad Alcibiade in Sicilia l’ordine di richiamo (Plut. in Alcib. e Teseo; Tucid., VI, 61).

311.  Intorno a Cimone, vedi Plutarco e Cornelio Nepote nella sua Vita.

312.  Questo anatema fu scolpito su una colonna eretta in una delle piazze della città (Corn. Nep., Alcib., 4).

313.  «Avendolo quindi condannato (Alcibiade) per contumacia e pubblicate avendone le sostanze, determinarono di più che tutti i sacerdoti e le sacerdotesse lo avessero a maledire: fra le quali raccontasi che una sola, chiamata Teano, figliuola di Menone, sacerdotessa del tempio di Agraulo, ebbe il coraggio di opporsi a quel decreto, dicendo: di essere sacerdotessa per benedire e non per maledire» εὐχῶν, οὐ καταρῶν ἱέρειαν γεγονέναι (Plut., Alcib., 22). — Sui riti delle maledizioni, vedi Lisia, Contr. Andoc.; Plut., Arist., 24, 25; Erodoto, V, 165. — Cfr. Maury, Hist. des relig. de la Gr. ant.

314.  Agraulo, sinonimo di Aglauro. Vedi quadro III, nota 53.

315.  Che una Timandra seguisse Alcibiade allo esercito si rileva da Ateneo: «Lo stesso (Alcibiade) partito per l’esercito, conduceva seco in giro Timandra, la madre di Laide Corinzia» (Aten., Deipn., XII, 535).

316.  πάν διὰ πυρὸς ἤ ξιφῶν — anche attraverso i fuochi e le spade!passar si dovesse anche tra il fuoco e le spade! — esclamazione proverbiale di frequente uso (Diog. Sinop., Epist., 30; Cratete, Epist., 6; Chione, Epist. a Plat., 17).

317.  Nicia e Lamaco furono i due capitani eletti a colleghi di Alcibiade nel comando della spedizione di Sicilia. Nicia era abile capitano, ma prudentissimo sino alla paura; Lamaco audace fino alla temerità; Alcibiade radunava in sè, da eccellente capitano ch’egli era, la prudenza del primo e il coraggio del secondo (Plut., Nicia; Alcib.; Tucid., VI).

Sul carattere focoso e impetuosissimo di Lamaco, le cui doti soldatesche appunto lo facevano miglior soldato che condottiero, e il quale del resto visse virtuoso e povero, e morì in Sicilia da prode, vedi Aristof., Acarnesi, Pace, 1290, seg.; Rane, 1039; Tucid., IV, 75; VI, 19, 101; Plut., Alcib., 12, 20; Nicia, 14; Elian., V. st., II, 43. — Aristofane stesso che lo canzonò, facendone il tipo d’un capitan Fracassa de’ suoi tempi, rende omaggio alla sua virtù e ai suoi meriti verso la patria, nelle Tesmof., 841.

318.  «In prima è probabile che i Numi, fortissimi alleati e campioni, ci assisteranno» τούς θεοὺς μεγίστους ἡμῖν ὑπάρχειν συμμάκους κα’ βοηθούς (Demost., Sulla lettera di Filippo).

319.  «Mandò (il popolo) ad esso (Alcibiade) la nave Salaminia, dando avvedutamente ordine agli inviati di non mettergli le mani addosso, nè di fargli violenza alcuna, ma di usar parole moderate, insinuandogli di venir loro spontaneamente dietro per presentarsi in giudicio, e render persuaso il popolo della propria innocenza. Usata fu tale circospezione perchè temevasi altrimenti un qualche tumulto e sedizione nell’esercito, che trovavasi in paese nemico: cosa che Alcibiade suscitar poteva agevolmente se voluto avesse: imperocchè per la di lui partenza i soldati si disanimarono...» (Plut, in Alcib., 24). — E Tucidide: «Mandarono (gli Ateniesi) la nave Salaminia, ordinandole non già di arrestarlo, ma di intimargli che venisse in Atene a discolparsi. Così vollero evitare che si eccitasse qualche moto nelle loro truppe di Sicilia od in quelle nemiche, e che partissero dall’esercito i Mantinei e gli Argivi, i quali, come si credeva, si erano uniti alla spedizione ad istanza di Alcibiade» (Tucid., VI, 61).

Dinanzi a questa doppia testimonianza di Plutarco e di Tucidide, ci sembra nel torto il Grote, il quale non crede che Alcibiade avrebbe potuto così facilmente suscitare una sommossa militare se avesse voluto resistere all’ordine. Oltre che Alcibiade era forte degli alleati, venuti espressamente per lui, e a lui devoti, e che formavano il maggior numero, la popolarità enorme di Alcibiade fra i suoi stessi concittadini ed il suo ascendente fra i soldati erano notissimi; e i primi fatti della guerra, sopratutto la presa di Catania a lui dovuta e la felice riuscita dello stratagemma di cui racconta Polieno (I, 40), non avevano potuto che accrescerli. — Basta del resto raffigurarsi le doti geniali del carattere di Alcibiade e la sua arte squisita di cattivarsi gli animi, per ritenere senz’altro che le simpatie dell’esercito gli erano assicurate: come lo provò chiaramente la sfiducia che subentrò alla sua partenza.

320.  Trierarchi, capitani di trireme (vedi sopra nota 13). Volendo alleviare i pesi dell’erario, Atene accollava ai più ricchi cittadini le spese di alcuni pubblici servizii, detti liturgie. Le liturgie ordinarie erano quattro: la ginnasiarchia, per cui il ginnasiarca provvedeva all’allestimento del luogo pei pubblici giuochi ginnastici, vitto e paghe dei ginnasiasti, ecc. La coregia, che imponeva al corego una parte delle spese dei cori, nelle gare teatrali. La estiasi: il liturgo, a ciò nominato da ogni singola tribù, ne allestiva il banchetto pubblico. Infine la trierarchia, ch’era la più onerosa di tutte. Il trierarca, che appunto sceglievasi tra i più ricchi cittadini, era obbligato a montare e corredare di tutti gli attrezzi una trireme a proprie spese e pagar di suo anche un complemento di soldo ai marinaj della stessa, oltre la paga che avevano dallo Stato. Lo Stato non forniva che il corpo della trireme e l’albero: e malcapitati i trierarchi cui toccavano delle vecchie carcasse da raggiustare ed armare. I trierarchi quindi nella repubblica eran tanti quante le triremi o navi da guerra: Senofonte ai suoi tempi faceva il novero di 400 trierarchi (Senof., Rep. Aten.; Tucid., II, 24; VI, 31). Demostene così cita la legge: «Nessuno sia esente dall’armar triremi, fuorchè i nove arconti. Chi dunque è impotente al carico di trierarca, paga le taglie di guerra: gli opulenti invece danno galee e tributi» (Demost., C. Lept.). Dal che si rileva che i cittadini più doviziosi della prima classe (i pentacosiomedimni) avevano benissimo il modo di soddisfare all’obbligo del servizio militare — obbligo comune per tutti a cominciar appunto dai più ricchi (Aristot., Polit., V, 2) — anche senza servire nella cavalleria, dove per cavarsi d’imbarazzo li colloca erroneamente, insieme coi cittadini di seconda classe, l’Houssaye, a cui quel passo di Demostene sembra essere sfuggito (Vedi Houss., Hist. d’Alcib. et de la rep. Ath., I, pag. 8, nota 1).

321.  Uno dei tanti tribunali d’Atene, il quale adunavasi in un luogo appartato del Pireo detto Freatte (da φρέαρ, pozzo, perchè ivi era un pozzo vicino) lungo la spiaggia del mare; e là dinanzi ad esso potevano venire in sicurezza a discolparsi i cittadini i quali, già sbanditi per qualche fatto dalla patria, fossero stati, mentre durava ancora il bando, accusati di qualche delitto nuovo. «L’accusato facendosi presso, ma non toccando terra, dal bordo della nave si discolpa: i giudici dal lido odono e giudicano: quegli, se convinto, è sentenziato a castigo condegno; se immune, ritorna all’esilio» (Demost., Contro Aristocr.). Narrasi che Teucro fosse stato il primo a discolparsi in questa guisa dell’uccisione di Aiace in presenza di Telamone (Paus., Attic., 28; Poll., VIII, 10; Potter, Arch.).

322.  Imprecazione d’uso che precedeva i pubblici giudizj in Atene. Come è noto, i giudici eliasti e i senatori prestavano giuramento di esercitare secondo coscienza il loro ufficio: «or quando — prosegue Demostene — non ira, non furore, non altra rea passione detta a me giudice il suffragio, io son fedele al giuramento. Fui ingannato? è iniquo punirmi. Ho mentito a posta? Ne andrò maledetto. E perciò l’araldo in ogni adunanza impreca non agli ingannati, ma agli ingannatori o del Senato o del popolo o dei giudici» (Demost., Contro Aristocr.).

323.  Le Eumenidi, od Erinni vendicatrici (Furie), avevano altari in Atene dai tempi antichissimi, ed eran chiamate per antonomasia le Dee Venerande come protettrici della città (Vedi Eschilo, Eumen.; Tucidide, I, 125).

324.  Infausto augurio. Reputavasi invece augurio felice se, mentre faceansi i sacrificj, comparivano aquile volanti a destra (Vedi Omero; Eschilo, Agam.).

325.  «Il mare si va rabbuffando... i venti minacciano metter l’onde sossopra... e gli intendenti degli astri dicono che stia per nascere in cielo il Toro. Per lo che coloro che vogliono evitar i pericoli della burrasca si ritirano in salvo» (Alcifr., Lett., I, 10). Le sette Jadi, che fanno parte della costellazione del Toro, al loro nascere e al loro tramonto apportano piogge e tempeste.

326.  «In progresso di tempo, sentito avendo (Alcibiade) che gli Ateniesi condannato aveanlo a morte, Ma io, disse, mostrerò ben loro che sono ancor vivo,» ἄλλ’ ἐγώ δείξω αὐτοῖς ὄτι ζῷ (Plut., Alcib.).

327.  Nella recita, per l’effetto scenico, cala la tela a questo punto.

328.  Invocar l’aiuto di Crateide, Κράταιιν σωστρεῖν (ἐπικαλέσασθαι), starsene al primo danno, prima che non capiti di peggio (Alcifr., Lett., I, 18). Modo proverbiale, attinto da Omero, dove Circe ammonisce Ulisse che, invece di vendicare i compagni divoratigli da Scilla, il mostro marino, preghi Crateide madre del mostro a interporsi perchè non glie ne siano divorati degli altri (Omero, Odiss., lib. XII, v. 124). Superfluo notare che Lamaco parla sulla spiaggia siciliana, cioè in vicinanza di Scilla.

329.  Rozze e povere eran tutte le abitazioni spartane; poichè Licurgo «cacciò via tutte le arti che troppo squisite erano ed inutili:» sicchè «soltanto i mobili di uso continuo e indispensabile, come le tavole e le sedie, erano presso gli Spartani lavorati con perfetto artificio.» E fra le leggi da Licurgo poste per bandire da Sparta la sontuosità ed il lusso, «altra ve n’era con cui ordinavasi che ogni abitazione avesse i palchi fatti colla scure, e le porte lavorate solamente colla sega, nè che adoprato vi fosse strumento veruno. Imperocchè Licurgo pensava che una sì fatta abitazione non lasciasse luogo nè a lusso, nè a magnificenza. Nè v’ha certo alcuno sì goffo e inconsiderato che in abitazione semplice e triviale portar voglia letti co’ piedi di argento e coperti di porpora e vasi d’oro ed altre sontuose suppellettili a queste corrispondenti: ma è necessario che tutto sia proporzionato e all’abitazione corrispondano gli arredi. Per una tal costumanza dicesi che Leonida il vecchio, cenando in Corinto e veggendo il tetto della casa ben laqueato e di grande spesa, interrogasse l’ospite suo se presso di loro nascevano i legni lavorati e riquadrati» (Plut. in Licurgo. — Cfr. Plut., Reg. apof., p. 125; Lac. ap., 222; Müller, Dorier, lib. IV, c. 1).

330.  στιβάδα chiamavano gli Spartani i giacigli di giunchi e di foglie su cui dormivano: «fatti da loro medesimi, con rompere colle mani e senza servirsi di ferro alcuno, le cime delle canne che nascono lungo le rive dell’Eurota: nel verno poi mescolavano con tali foglie quelle di una specie di cardi, chiamati licofoni, sembrando che tal materia avesse un non so che di calido» (Plut. in Licurgo e Apoft. Lac.).

331.  Il cóton era il bicchiere dei guerrieri spartani: specie di ciotola di terra cotta, ad una sola ansa. «Molto celebre a Sparta era quella ciotola detta cóton laconico, principalmente per l’uso che, al dir di Crizia, ne facea la soldatesca: imperocchè quelle acque che per necessità si beveano, e che al solo vederle erano schifose e recavan disgusto, nascoste venivano dal color di quel vaso» (Plut. in Licurgo. — Cfr. Scoliaste di Aristof. nei Caval. e nella Pace; Polluce, VI, 16; Ateneo, XI, 483; Senof., Cirop. — Meurs., Misc. Lac., I, 14).

332.  Vedi quadro III, nota 39.

333.  Euribate fu ladro astutissimo: messo in prigione, insegnò a rubare perfino a’ suoi carcerieri. Indi passò tra’ Greci il suo nome in proverbio. «Neppure Euribate, quel ladro famoso, osò tanto» (Aristen., Lett., I, 20). Dicevasi anche azione da Euribate, Εὐρυβάτου πράγμα. «Questo è un agire da Euribate, non da cittadini, non da gente onorata» (Demost., Corona). — Ed Eschine: «Nè Frinonda (altro ladro famoso), nè Euribate, nè altri degli antichi furfanti furono prestigiatori e ciurmadori come costui» (Esch., C. Ctesif.) — Cfr. Platone, Protag., c. 16; Alcifr., Lett., III, 20; Lucian., Aless., 4; ed Erasmo, sulla frase proverbiale, εὐρυβατύεσθαι (agire da Euribate).

334.  Platanisto (πλατανιστάς) era a Sparta il luogo di esercizio per la gioventù, derivante il nome dagli altissimi e folti platani che l’ombreggiavano. Il fiume Eurota e il ruscello Euripo vi scorrevano intorno, formandone come un’isola, alla quale mettevano, per un ponte ciascuna, due strade: nell’una era il simulacro di Ercole, nell’altra l’effigie di Licurgo. — Nel Platanisto avevano luogo le manovre e i combattimenti degli efebi (ossia dei giovani spartani dai diciotto ai venti anni) (Paus., Lacon.; Luc., Ginnas.; Teocr., Idill., 18. — Meurs., Misc. Lac., II, 13; IV, 15).

335.  Silfio, erba adoperata dai Greci e in ispecie dagli Ateniesi per condimento comunissimo e quasi indispensabile nelle vivande della loro cucina. La più credibile opinione moderna è ch’ella fosse l’asa fetida dei botanici. Specialmente dal sugo condensato, estratto dai fusti e dalle radici, preparavasi quella specie di gomma resinosa dai Greci chiamata silfio (σιλφιος) e dai Romani laserpitium. Le alture di Cirene erano coperte di questa pianta, che formava un oggetto d’esportazione lucrosissimo pei Cirenei (Vedi Ateneo, I, 28 d; IV, 170, e VII, 311 c; 322 d; XIV, 623 b).

336.  Maza (μᾶζα, o in dorico μὰδδα), specie di pane o di focaccia, di color nero, fatta di farina di frumento: ch’era, insieme col famoso brodo nero, il cibo ordinario nazionale degli Spartani. Infatti ai banchetti pubblici (fidizj) non mangiavasi altro che maza e brodo nero. — La maza rimase anche nei tempi posteriori, del dominio romano, il cibo ordinario delle classi povere di Sparta (Plut. in Agide, in Alcib. e Apoft. Lac., 230 f; Aten., II, 60; IV, 161; III, 115 a; XIV, 636; Aristof., Caval., 1104, 1165; Acarn., 834; Lucian., Timone, Navig., Epist. Sat.; Platone, Repub., II, 372).

337.  Osservare i tonni, θυννοσκοπεῖν, diceasi proverbialmente per adocchiare con avidità ed intenzione molto intensa qualche cosa. — Su alte rupi collocavano i pescatori di tonni le lor sentinelle, a spiar di là attente giù nella marina quando e da che parte i tonni s’accostassero al lido. Indi l’uso metaforico frequente della parola: «Tu che hai conturbata la città, — dice il coro a Cleone nei Cavalieri, e adocchj i nostri tributi come i pescatori dall’alto dello scoglio adocchiano i tonni,» τοὺς φόρους θυννοσκοπῶν (Arist., Caval., 313. — Cfr. Teocr., Idill., 3).

338.  «Licurgo volle che i fanciulli fossero governati con ampia potestà da uno di coloro che sogliono essere eletti ai supremi magistrati: e a costui fu posto nome di pedónomo: e gli diede piena autorità di raunare insieme i fanciulli e di castigarli severamente, se avesse veduto alcun di loro far qualche cosa trista. Gli consegnò pure alcuni di quelli ch’eran vicini a metter barba da portargli dietro le sferze; acciocchè quando faceva bisogno li potessero castigare» (Senof., Rep. Laced., II). — Alla vigilanza del pedónomo (παιδονόμος) eran soggetti i giovani fino all’età dei vent’anni e in altissimo onore era tenuta quella dignità nello Stato (Cfr. Senof., Rep. Lac., IV; Esichio. — Müller, Dorier, II, 297).

339.  Nella costituzione data da Licurgo a Sparta (810 av. l’E. V.) il potere dei due re o arcageti (ἀρχαγέται) (in tempo di guerra esercitanti con facoltà illimitate il comando supremo dell’esercito; in tempo di pace investiti del supremo sacerdozio, presiedenti ai pubblici sagrificj, ai rapporti dello Stato col nume di Delfo, alla custodia degli oracoli, ai giudizî nelle cause civili, ecc.) trovavasi già limitato dalla istituzione del Senato (γερουσία), composto di ventotto cittadini o geronti, maggiori dei sessant’anni, eletti dal popolo a vita tra i vecchi più virtuosi. Il Senato, come potere amministrativo, discuteva insieme coi re le proposte da presentarsi all’assemblea del popolo (αλία, ἐκκλησία) — cui prendeva parte a ciascun plenilunio ogni spartano maggiore dei trent’anni — e le autorizzava con voto preventivo; come tribunale giudicava con diritto di vita e di morte in tutte le cause criminali, ed era anche investito della suprema sorveglianza sui costumi dei cittadini: nel che aveva molta analogia coll’Areopago di Atene. Però il Senato ed i re che di esso eran parte, esercitando insieme il diritto non solo di convocare e sciogliere a proprio grado l’assemblea del popolo, ma anco di annullarne le deliberazioni, — formavano unitamente un solo corpo, una sola aristocrazia dominante; ed erano essi stessi il vero perno della costituzione aristocratica dello Stato. È di fronte al Senato ed ai re che vediam sorgere in tempi posteriori — come un potere di sorveglianza e di controllo in opposizione ad essi ed emanante dal popolo, — il magistrato dei cinque Efori (ἔφοροι). La tradizione volgare vorrebbe assegnarne la origine alla prima guerra messenica (730-710 av. l’E. V.), dove essi sarebbero stati introdotti dallo stesso re Teopompo per provvedere al governo nell’assenza dei re partiti per la guerra. Ma più esatto è il cercare l’origine degli Efori in un antichissimo magistrato popolare, comune ai popoli dorici, ristretto in origine alla giurisdizione sui contratti e mercati, il quale, come è nella tendenza dei magistrati d’origine popolare, si venne man mano allargando, a spese degli altri poteri di origine opposta. Lo stesso modo di elezione degli Efori, scelti fra il popolo, e la loro rinnovazione d’anno in anno e la collisione finale col potere del re, a cui dovettero giungere tosto o tardi, attesta, contro l’opinione che vorrebbe farne istitutore il re Teopompo, la vera natura democratica di questo potere, la cui origine, affine a quella dei tribuni di Roma, segna l’introdursi di un principio di mobilità nel chiuso della costituzione stazionaria, aristocratica di Sparta: principio che riuscirà a scuoterne l’immutabilità secolare e a renderla accessibile alle successive trasformazioni del tempo. Fatto è che gli Efori, da semplici soprastanti ai mercanti e giudici nelle cause civili, crebbero man mano di potere, sino ad esercitare il sindacato ed il controllo su tutti i magistrati (tranne i geronti) con facoltà di sospenderli e destituirli, di chiamare in giudizio e di arrestare gli stessi re. Essi ebbero la sorveglianza sull’educazione della gioventù: e il diritto di convocare il popolo, raccoglierne suffragi, propor leggi: assunsero in ispecie l’alta direzione degli affari esteri e degli affari militari (ricevimento degli inviati dei nemici ed alleati, invio di ambasciatori, stipulazioni di trattati, dichiarazioni di guerra, leva di truppe, destinazione dei comandi dell’esercito, poter disciplinare sul medesimo, istruzioni ed ordini ai comandanti, facoltà di richiamarli a render conto, ecc.), nei quali casi essi agivano non tanto in nome proprio, quanto siccome rappresentanti dell’assemblea popolare. La loro autorità giunse poi al segno da poter condannare a morte chiunque senza assegnarne i motivi: e da essere pareggiata alla tirannia (ἰσοτὺραννος, Plat., Leg., IV). Le conseguenze di un potere così esteso, che modificava dalle basi l’antico ordinamento politico di Licurgo e ne preparava il rovesciamento, apparvero già profonde nelle lotte civili dell’età di Agide e di Cleomene (Vedi Plut., in Lic., Agid. e Cleom.; Senof., Rep. Lac.; St. Ell., 2, 3; Plut., Instit. Lac. — Cfr. O. Müller, Dorier, lib. III, c. 6, 7; Robinson, Antiq. gr.).

340.  In una palude della città (Limneo) era il tempio e l’effigie in legno di Artemide o Diana Ortia (Ὀρθία). Oreste ed Ifigenia recarono, secondo la leggenda, dalla Tauride a Sparta la statua ed il culto della dea: detta Ortia od Ortosia da ὄρθιος, erto, diritto, perchè il suo simulacro fu ritrovato da due spartani (Astrabaco e Alopèco) in un campo, avviluppato fra vetrici per guisa che non piegavasi nè da una parte nè dall’altra. All’atto del ritrovarla i due spartani furon presi da insania. Raccoltisi i cittadini dei varj quartieri di Sparta (di Limna, di Cinosuro, di Mesoa e di Pitane) per sagrificare alla Dea, lo spirito di discordia li invase e vennero a rissa tra di loro. Gli uni cadono uccisi a piedi dell’altare, gli scampati al ferro sono spenti da occulto morbo. Su ciò consultato l’oracolo, rispose doversi sagrificare a Diana vittime. Il barbaro uso durò qualche tempo, fino a che Licurgo lo abolì, ordinando che in cambio si battessero all’ara di Diana Ortia a colpi di sferza alcuni fanciulli spartani, sino a che il sangue ne grondasse. La sacerdotessa presiedeva alla flagellazione, detta diamastigosi, διαμαστίγωσις, tenendo in mano un piccolo e leggiero idoletto della Dea: se gli esecutori, presi da compassione, rallentavano i colpi, la sacerdotessa gridava di non poter più sostenere il peso della statuetta, e allora i colpi rinforzavano. L’educazione addestrava i giovanetti a fare di questi supplizj una prova di fortezza morale, gareggiando fra loro a chi meglio li sopportasse con anima serena e volto allegro. Evidentemente questo rito era la trasformazione elleno-dorica di un rito straniero, originariamente di umane vittime, importato dall’Asia Minore (Vedi sulla diamastigosi, e su Diana Ortia, Pausan., Lacon., 16; Plut., Lic., 18; Inst. Lac., p. 254; Aten., VIII, 350; Luciano, Icaronem. — Cfr. Müller, Dorier, lib. IV, 8).

341.  πυΘώχρηστοι, emanate dall’oracolo, solevano chiamare gli Spartani, a titolo di vanto, le loro leggi, ossia rétre (ρήτραι): dappoichè, per procacciare alle medesime autorità ed obbedienza, circondandole del prestigio religioso, Licurgo le avea poste — alla maniera di Mosè — sotto gli auspicj del Nume di Delfo, l’oracolo nazionale dei Dori, siccome ivi trasmessegli dallo stesso Dio. «E chiamò (Licurgo) le proprie ordinanze col titolo di rétre (ossia detti, responsi) per far credere che fossero state dettate da Apollo medesimo e che fossero piuttosto oracoli che leggi» (Plut. in Lic.). «Avendo (Licurgo) fatta alcuna legge, prima portatala in Delfo, consultava s’ella fosse utile. La sacerdotessa, corrotta con denari, sempre rispondeva che sì. Perciò i Lacedemoni per paura del Dio ubbidirono alle leggi di Licurgo non altrimenti che ad oracoli» (Polien., Strat., I, 16). Così Tirteo nella Eunomia, citato dallo stesso Plutarco: «Avendo udito la voce di Febo, da Pito riportarono i messi nella patria gli oracoli e le certissime parole del Dio» (Plut. in Lic.; Tirt. ediz. mia, Opere, III, p. 79). Nel qual passo di Tirteo si allude ai Pizj, ossia ai quattro ambasciatori che i re ed il Senato di Sparta solevano spedire all’oracolo, e per l’intermediario dei quali i sacerdoti di Delfo conservarono come una specie di continua sorveglianza sulla costituzione lacedemone (Cfr. anche Senof., Rep. Lac., 8; Erod., I, 65: Pausan., Lacon., 2; Cic., Divin., I, 43; Val. Mass., I, 2; Giustino, III, 3).

342.  ἐθίζουσι αὐτοῦς καὶ κλέπτεν καὶ τὸν ἀλόντα κολάζουσι πληγα’’ς (Eracl. Pont., Polit.) — La famosa legge spartana sul furto, troppo spesso travisata dal pregiudizio volgare, non era, in fondo, a Sparta, se non una parte naturalissima dell’educazione militare della gioventù, in perfetta armonia, del resto, colle abitudini e colle idee di una stirpe conquistatrice, costretta a vivere, come i Dori nella Laconia, continuamente sulle difese, a guisa di esercito accampato fra popolazioni assoggettate colla forza dell’armi: e a fare dell’abilità e maestria in ogni arte della guerra la preoccupazione suprema dello Stato. A ciò son intese dalla prima all’ultima tutte le leggi di Licurgo, questa compresa, di cui Senofonte così parla: «Del cibo volle Licurgo che ogni fanciullo maschio avesse tanto da non esser gravato di soverchio, ma piuttosto che imparasse a soffrir qualche poco la fame. Nondimeno acciocchè non fossero molestati dalla fame oltre il dovere, concedette loro di potersi pigliare quel che faceva loro bisogno, ma non senza arte ed industria: permettendo solamente di rubar tanto quanto bastasse a sfamarsi. E son sicuro ch’ei permise questo non ad altro fine se non acciocchè chi non aveva altro modo di procacciarsi il vitto, con questa sorta di industria lo si acquistasse. Perchè è manifesto che colui il quale disegna di rapir alcuna cosa, bisogna di necessità che la notte vegli, il giorno tenda insidie ed inganni: e così egli ammaestrava i fanciulli a divenire più accorti, e per conseguenza più bellicosi. Ma, dirà alcuno, per qual ragione adunque, se egli pensava che il furto fosse un certo che di bene, ordinò che quel tale che veniva colto in fatto si castigasse acerbamente? Perchè, a parer mio, gli uomini castigano coloro che non fanno bene anco le altre cose che vengono loro insegnate; ancor essi punivano costoro che erano colti in fatto, quasi non sapessero rubar bene» (Senof., Rep. Lac.). Ancor più spiccata appare l’indole affatto militare di quella legge da un passo dell’Anabasi, ove Senofonte tien consiglio di guerra coi capi dell’esercito: «Sarà miglior consiglio tentar di occupare, se ci vien fatto, celatamente e senza che i nemici se ne accorgano, una qualche parte non custodita del monte. E parmi altresì che qualora fingiamo di assalirli da questa parte, troveremo il restante del monte sprovveduto... Ma a che parlo io di cose da far di soppiatto? mentre sento, o Chirisofo, che voi Lacedemoni, quanti siete del primo ordine (τῶν ὁμοίων), sin da fanciulli vi esercitate al rubare, e che non è turpe appo voi ma necessario il procacciarsi di furto quello che la legge non vieta: laonde poi, affinchè rubiate quanto più è possibile e vi sforziate di rimaner celati, è legge fra voi di esser battuti qualora siate sorpresi rubando. Or dunque, ti è data una bella opportunità di mostrare la tua educazione, avendo cura che non siamo sorpresi mentre prenderemo di furto la via dei monti» (Sen., Anab., VI, 4). — E Plutarco: «Furano i giovinetti ogni sorta di cibo sul quale possan metter le mani, ben esperti a tendere destramente insidie a quei che dormono o che la guardano con trascuranza: ma se colti sul fatto, oltre le percosse, n’hanno in pena lo star senza mangiare» (Plut., Lic., Apoft. Lac.; Sesto Empir., Contr. Mathem., III, 24; Aul. Gell., II, 18). Importa anco por mente all’idea debolissima che della proprietà avevasi fra un popolo ove delle cose dei vicini, di uso più comune, era lecito servirsi per il bisogno del momento, come di cose proprie, anche senza permesso del proprietario (Plut., Apoft. Lac.), per poter apprezzare al giusto valore quella usanza; usanza derivata probabilmente dall’originario metodo di vita delle tribù doriche sui monti della Tessaglia, ivi costrette a procurarsi il sostentamento lottando di continuo coi fortunati possessori della parte piana e produttiva della contrada. La designazione d’altronde delle cose che poteano esser oggetto di questo esercizio di destrezza, limitata su per giù a quel tanto di cibi che ogni spartano, in caccia o in guerra, aveva già il permesso di prendere dalle provvigioni del suo compagno, toglie alla legge in massima parte il carattere attribuitogli dalle nostre moderne idee (Cragius, Rep. Laced., lib. III; Meurs., Misc. Lac.; Müller, Dorier, lib. IV, c. 5; Peyron, I pari di Sparta, ecc.).

343.  I Dioscuri, o i Gemelli — Castore e Polluce, i due figliuoli di Leda e fratelli di Elena — detti anche Dei Salvatori (Διόσκουροι, Σωτῆρες, σωτῆρες ἄνακτες) — perchè venivano invocati, in soccorso, come liberatori dai mali, nelle burrasche, nelle gravi malattie, nelle pestilenze, nelle battaglie, e in generale da chiunque versasse in pericolo imminente di morte (Teocr., Idill., 22; Eurip., Oreste; Teognide; Omer., Inni; Paus., Lacon.; Oraz., lib. 1, od. III; Artemidoro, Onirocrit., II, 42). Onorati a Sparta di specialissimo culto, per essi i Lacedemoni solevano giurare ed esclamare. La qual esclamazione spartana — per i Dioscuri! — forma preciso riscontro alla esclamazione ateniese per le due Dee! La formula infatti dell’esclamazione era la medesima: per le due Divinità! (νὴ τὼ θεὼ in dorico ναὶ τὼ σιὼ): solo che per esse ad Atene intendevansi Cerere e Proserpina, a Sparta i due gemelli di Leda (Aristof., Pace, v. 214; Lisistr., v. 142; e lo Scoliaste, ibid.; Plut., Apoft. Lac.; Meurs., Misc. Lac., II, 8).

344.  ὤ πολιὰς Αθηνᾶ (Elian., Var. Stor., II, 9), oppure semplicemente ὤ πολιὰς, o Poliade! (Lucian., Pescat., 21). — Così chiamavasi Minerva in Atene, siccome protettrice della città (Cfr. Arist., Nubi, 602; Paus., Arcad., 47).

345.  Ogni Stato greco usava tenere nella principale città degli altri Stati greci un prosseno (πρόξενος) od ospite pubblico: quel che noi diremmo oggi un console; il quale era cittadino della città in cui abitava, ed adempiva gratuitamente al suo uffizio. Così, per esempio, il prosseno di Sparta, in Atene, era non uno spartano, ma un ateniese: egli esercitava l’ospitalità verso i viaggiatori spartani che fossero venuti in Atene, li indirizzava ed assisteva del proprio credito nelle loro commissioni ed interessi, procurava loro tutti i comodi che dipendessero da lui, dava alloggio agli inviati di Sparta, ecc. Avveniva spesso che un prosseno, siccome partigiano della città da lui rappresentata, la sovvenisse nascostamente di consigli e informazioni politiche; così i Mitilenesi, prosseni di Atene, la avvertirono segretamente che Mitilene macchinava una defezione (Tucid., III, 2). Che i maggiori di Alcibiade fossero stati prosseni di Sparta si desume da Tucid., VI, 89: e più avanti Tucidide parla degli «antichi e stretti vincoli di ospitalità che legavano Alcibiade coll’eforo Endio, cosicchè la loro famiglia in grazia dell’ospitalità ebbe anche il nome laconico: quindi questo si chiamava Endio di Alcibiade» (Tucid., VIII, 6. — Cfr. Tucid., I, 29; II, 85; Senof., St. Ellen., IV; Eustaz. in Iliad., 3).

346.  Intorno all’autorità ed all’influenza politica acquistatasi in breve da Alcibiade a Sparta — influenza a cui conferiva in parte anche l’assenza del re Agide, vedi Plutarco in Alcib.; Tucid., VI, 93; VIII, 8.

347.  Rigorosissime ad Atene le leggi contro il furto. Dracone lo puniva di morte indistintamente a pari del sacrilegio e dell’omicidio: Solone statuì contro il ladro la multa del doppio, se il derubato ricuperava il suo; se nol ricuperava, la multa del decuplo, tanto pel ladro che per ciascun dei complici: senza pregiudizio del carcere: mantenuta la pena di morte contro chi rubava ad un privato al di sopra di 50 dramme o rubava nei ginnasi pubblici per l’importo di 10 dramme: lecito a chiunque uccidere il ladro notturno: e chi avesse denunziato tre ladri, riceveva un premio (Plut. in Sol.; Eschine, C. Timarco; Demost., C. Timocr.; Aul. Gell., XI, 18. — Meurs., Them. Att., II, 1).

348.  Egli è certo, nota il Müller (Dorier, t. II, 280) che «il matrimonio a Sparta lo si concepiva sotto una certa naturale nudità, e senza adombrare di alcun velo di sorta lo scopo essenziale del medesimo.» Leonida parte per le Termopili e dice per tutto addio a sua moglie: «Rimaritati a uomo da bene e partorisci molti figli.» Acrotato torna a Sparta vincitore, e le donne lo accompagnano in trionfo gridandogli: «Gioisci colla tua Chelidonia e genera a Sparta prodi figliuoli.» Procrear figli, e robusti: ecco il primo dovere di ogni spartano e di ogni spartana, perchè di soldati e non d’altro abbisogna la città; e però a questo mirano tutte le leggi spartane sul matrimonio; e le prescrizioni sul ratto delle mogli, sull’accoppiamento clandestino, ecc., per ringagliardire l’amor fisico degli sposi; e le pene severe contro i celibi, contro le nozze immature o tardive, o malassortite; e la trasmissione, in dati casi, dei diritti matrimoniali.

«Ordinò (Licurgo) che mentre fossero nel fior della età si maritassero: giudicando che questo dovesse giovar grandemente al perfetto generar dei figliuoli. E se per avventura accadeva che qualche vecchio avesse la moglie giovane, vedendo che per lo più elleno erano custodite diligentissimamente, anco in questa parte ordinò certe cose diverse dagli altri. Perchè volle che questo vecchio conducesse a sua moglie qualcuno che gli paresse eccellente di animo e di corpo e di lui ne ricevesse figliuoli. Ma se ci era chi non volesse abitar colla moglie, e nondimeno bramasse di aver figliuoli onorati, determinò anco questo, che costui, appostando una donna feconda e generosa, e persuaso il marito di lei a consentire alle voglie sue, potesse a questo modo allevarsi poi dei figliuoli. Ed altre cose molte concedette di questa maniera. Per il che le mogli vengono ad aver due case, e li lor mariti acquistano fratelli alli propri figliuoli, i quali partecipano insieme del nascimento e della gagliardia: ma sono esclusi dalla roba. A questo modo, tenendo diversa opinione dagli altri nel generar figliuoli, ognun vede come egli facesse gli uomini di Sparta più eccellenti di grandezza, di corpo e di forze» (Senof., Rep. Lac., 1). E Plutarco: «Era lecito a valentuomo che fosse preso da affetto per alcuna donna saggia e modesta e feconda di bella prole, il persuadere colui che l’aveva in isposa a concedergli di usare con esso lei, onde produrre e ingenerare in quel fruttifero campo figliuoli buoni e valorosi, che de’ buoni e valorosi fossero consanguinei e fratelli» (Plut. in Licurgo. — Cfr. Theodor., Graec. aff., 9).

Il Meursio, nella Themis Attica, I, 7, cita un passo di Sopatro (in Hermog.), da cui arguisce che anche in Atene fosse lecito agli uomini prestar ad altri la propria moglie — juxta leges atticas licebat viro uxorem suam alteri fruendam tradere — ma Sopatro non cita che un esempio eccezionale ed isolato, e se si fosse trattato di un uso generale, se n’avrebbero altre testimonianze, nè Senofonte l’avrebbe notato come legge affatto speciale e caratteristica di Sparta.

349.  κατάκλειστοι, rinserrate, son chiamate da Saffo e da Callimaco le fanciulle joniche, siccome appunto cresciute, a differenza delle doriche, nella più rigorosa clausura domestica (Saffo, Framm., 15, ediz. Wolf). E sembra infatti che le vergini attiche fossero custodite e chiuse negli appartamenti a loro riservati (talamo o partenone, παρθενών) proprio letteralmente sotto chiave «ὀχυροῖσι παρθενῶσι φρουροῦνται» (Eurip., Ifig. Aul., 738); come appare anche dal consiglio di Focilide: «Custodisci la vergine nei talami ben rinserrati (πολύκλειστοις) e non permettere che prima delle nozze la si lasci vedere innanzi alla casa» (Focil., v. 203). E in Aristeneto una fanciulla innamorata si lamenta: «A che amore combatte con una verginella inesperta, ancor rinserrata nel talamo e circondata di sentinelle?» (ἔτι θαλαμευομένη ἔτι φρουρουμένη)? (Aristen., Lett., II, 5). Dall’oscurità del παρθενὼν non uscivano le fanciulle che in quelle poche solennità o feste religiose a cui erano chiamate a prender parte (come portatrici di canestri nelle processioni, ecc.): ed erano quelle le rarissime occasioni in cui potea capitar loro di innamorarsi di un giovane. — Maggiore, ma non di molto, era la libertà concessa alle maritate o matrone (ἐλευθέραι). Anch’esse abitavano nella parte più remota della casa un appartamento riservato o gineceo (γυναικωνίτις) separato affatto dall’androne o appartamento degli uomini (ἀνδρωνίτις): e nel gineceo, di cui l’accesso era vietato rigorosamente a qualunque uomo che non fosse stretto congiunto (Corn. Nep., Pref.), doveano le matrone vivere appartate e ritirate, poichè le porte dell’atrio della casa sono il confine segnato alla matrona (Menand. pr. Stob., Serm., 74:) e non le è permesso varcarle senza soffrirne nell’onore e nella fama (Eurip., Troad. 642). Però rarissime volte poteano uscir di casa il giorno, in date occasioni, e sempre soltanto col permesso del marito (Aristof., Tesmof., 790): nè poteano viaggiar di notte fuorchè in carrozza, precedute da uno schiavo recante una fiaccola (Plut. in Sol.). Uscendo poi dovevano avere il volto coperto di un velo densissimo (Eur., Ifig. Taur., 372), essere accompagnate da eunuchi e da schiave (Terenz., Eunuc.; Teofr. Carat.), e modestissimamente vestite. Al che rigorosamente vegliavano in Atene appositi funzionarj detti ginecònomi (γυναικόνομοι): i quali punivano di multa le matrone che uscissero di casa in toeletta appena men che modesta e decentissima; e i nomi di esse, scritte su tavolette, venivano affissi al platano, destinato a quest’uso, nel Ceramico interno, cioè nel corso più frequentato della città (Polluce, VIII, 9; Aten., Deipn., VI, c. 9). — Pel resto, intorno alla educazione e la vita domestica delle donne di famiglia in Atene vedi Aristof., Lisistr., v. 507 seg., Eccles., v. 214, Tesmof., v. 414 seg., v. 789 seg.; Senof., Econom., VII; Eschilo, Coef.; Sofocle, Edipo a Col., Elettra, Antigone; Eurip., Oreste, Fenisse, Ifig. in Aul., Ifig. in Taur., Jon, Eracl.; Plut. in Solone e in Licurgo; nei Prec. matrim.; e nelle Quest. rom.; Demost. in Evergete; Aristot., Repub., ecc. — Cfr. Becker ed Hermann, Char., II, 250 seg.; Limbourg-Brouwer, Hist. de la Civilis. des Grecs, IV; Meiners, Gesch. des weiblichen Geschlechts, tom. I; Wieland, Aristippo, tom. I, Müller, Dorier, lib. IV, c. 2, 4; Cl. Bader, La femme grecque, t. II, c. 1; Gauvet, Organisation de la famille à Athènes (nella Revue de legistation 1845); Fouquières, Aspasie, cap. 9; Lasaulx, Gesch. und. Philos. der Ehe bei den Griechen; Van Stegeren, De conditione domestica et de conditione civili foeminarum atheniensium; Fickler, Die griech. Frauen im histor. Zeitalter; Barthel., Anac., t. IV, c. 20; Whiston, Matrimonium (Smith’s Dictionn.); Robinson, Antiquities, ecc.

350.  Plutarco, Solone, 20.

351.  Due Veneri distinguevano i Greci: la celeste od Urania (Ἀφροδίτη οὐρανία) e la popolare o volgare o Pandemia (Ἀφροδίτη πάνδημος). La prima, più antica e senza madre, figlia del cielo, presiedente all’amor puro e virtuoso, del bello e dell’onesto, all’amore dell’anime; la seconda, più giovine, figlia di Giove e di Diana, presiedente all’amor sensuale e lascivo, all’amore dei corpi. Luciano distingue una terza Venere, la Venere degli Orti (ἤ ἔν κήποις). Nei sagrificj alla Venere celeste era vietato il vino; e ad essa come a quella degli Orti sagrificavasi una giovenca. Il re Egeo, padre di Teseo, implorandola per aver prole, dedicò per il primo alla Venere Celeste tempio e culto in Atene. Alla Venere Pandemia, altrimenti detta Venere amica o etéra o meretrice (ἐταίρα, πόρνη Ἀφροδίτη), dea tutelare delle cortigiane — il culto della quale fu introdotto in Atene da Teseo, e a cui Solone dedicò nella città il primo bordello — offerivasi in sagrificio una bianca capra. Secondo altri la giovenca offerivasi a Minerva, e a Venere Celeste le colombe. — Vedi la distinzione caratteristica delle due Veneri in Platone, Simp., c. 8, 9. Cfr. Senof., Simp., 5; Aten., XIII, 559, 569, 572; XIV, 659; Polem. ad Tymaeum; Alcifr., Lett., III, 64; Luc., Dial. delle etére; Stobeo, Eclog. Physic., I, 272; Pausan., Att., 14, 22; Cicerone, De nat. deor., III, 23.

352.  «Tolte alle fanciulle le delizie, il vivere all’ombra ed ogni sorta di effeminatezza, Licurgo le assuefece a lottar ignude non men che i fanciulli, e a saltare ed a cantare in certe sacre solennità alla presenza dei giovani che n’erano spettatori... La nudità poi di quelle fanciulle non era già cosa che avesse del turpe, stando sempre quivi il pudore, nè luogo avendovi l’incontinenza: ma produceva un costume semplice e schietto ed una forte emulazione intorno alla buona simmetria e complessione della persona: ed a quel sesso per sè medesimo imbelle gustar faceva pensieri non bassi ed ignobili, partecipe vedendosi anch’esso della gloria che ambiva. Erano queste cose anche incentivi ai maritaggi, voglio dire la pompa che faceano quelle fanciulle, il mostrarsi spogliate (ἀποδύσεις) e il tenzonare sotto gli occhi dei giovani, tratti da necessità amorose» (Plut. in Licurgo). Questa descrizione delle danze delle vergini spartane (danza cariatide, bibasi, ecc.) fu dal Savioli parafrasata nei notissimi versi:

«Sparta, severo esempio

Di rigida virtude,

Trasse a lottar le vergini

In su l’arena ignude:

Nè di rossor si videro

Contaminar la gota:

È la vergogna inutile

Dove la colpa è ignota.

Se poi quella nudità (γύμνωσις) dovesse intendersi proprio nel senso letterale, o riferirsi al più che leggero e cortissimo abbigliamento delle fanciulle spartane, dette appunto fenomeridi (φαινομηρίδες) perchè mostravan le coscie (Cfr. Aristof., Lisist., 150; Eurip., Androm., 588; Poll., VII, 55; Ibico, Framm.) fu a lungo e oziosamente discusso dalla critica moderna (vedi Müller, Dorier, t. II; Manso, Sparta, t. I, 2; Becker ed Hermann, Char., II, 173). Per altro le parole di Plutarco accennano troppo chiaramente a nudità vera: e che proprio affatto nude le vergini di Sparta comparissero, non in tutti, ma almeno in dati esercizj ginnastici, è posto fuor di dubbio, da Plutarco non solo, ma dalla testimonianza concorde di altri scrittori dell’antichità (Cfr. Platone, Leg., VI, p. 771; VII, 806; Ateneo, XIII, p. 566; Teocr., Idill., 18; Marziale, IV, 55). E Properzio:

Multa tuae Spartae miramur jura palestrae:

Sed mage virginei tot bona gumnasii,

Quod non infames exercet corpore ludos

Inter luctantes nuda puella viros. (III, 14)

E Ovidio:

More tuæ gentis nitida dum nuda palestra

Ludis et es nudis fæmina mixta viris. (Heroid., XVI).

353.  Senof., Repub. Laced., 1; Plut., Licurg., 14, Apoft. Lac., p. 223; Aristof., Lisistr., 1297 seg.; Eurip., Androm.; Cicerone, Quaest. Tusc., III, 15. — Cfr. Manso, Sparta, I, 2; Müller, Dorier, lib. IV; Meursius, Misc. Lac., ecc.

354.  Sull’ingerenza ed influenza delle donne spartane negli affari dello Stato ai tempi dell’egemonia di Sparta, vedi Aristot., Polit., II, 6, 5. — Cfr. Plut., Lic.; Plat., Leg., VII, 805. Il Müller, parlando del livello elevato della coltura nelle donne spartane, scrive: «Sta in generale la osservazione che mentre presso gli Jonj le donne venivano considerate puramente come oggetti sensuali e come compagne di letto, e gli Eoli al contrario consentivano alla loro sensibilità un maggiore sviluppo, di cui fanno fede le poetesse erotiche di Lesbo, tuttavia i Dori, quasi soli, a Sparta come nella Magna Grecia, apprezzavano nella donna lo sviluppo delle facoltà superiori dello spirito e dell’intelligenza (νοῦς).» (Dorier, lib. IV, c. 4).

355.  Aristof., Tesmof., 414 seg.

356.  Aristof., Tesmof., 479 seg.; Eccles., 225.

357.  Feste Apaturie o feste delle frodi, da (ἀπαταω, ingannare). Vi si commemorava la frode colla quale Melanto, messenio, campione degli Ateniesi, vinse ed uccise in singolar certame Xantio, re dei Beoti, che avevano invaso l’Attica; e terminò con quel duello la guerra. Mentre i due combattevano, comparve alle spalle di Xantio una larva coperta di pelle caprina: o almeno così finse credere Melanto, il quale gridò non istar bene che venisse un terzo in soccorso dell’avversario. Xantio si volse allora indietro per veder che fosse, ed in quella rimase dall’avversario trafitto. Gli Ateniesi, mostrando di credere che fosse stato Bacco che si era così travestito in lor favore, gli istituirono le feste Apaturie che si celebravano nel mese Pianepsione (parte di ottobre e di novembre) e duravano tre dì. Il primo dicevasi giorno della cena; il secondo, giorno del sagrifizio; mentre celebravasi il quale, molti Ateniesi in ricche vesti giravano intorno l’altare con tizzoni accesi cantando inni a Vulcano; il terzo, festa Cureoti (puellaris), nella quale avea luogo l’iscrizione dei neonati sul registro della tribù e della curia a cui i genitori appartenevano (Platone, Timeo, I; Polieno, Strat., I; Scol. d’Aristof, nella Pace; Etym. M.; Suida. — Cfr. Meurs., Graeca feriata, e Reg. Athen., III, 10).

358.  «Considerando (Licurgo), quando la moglie andava a marito, che alcuni nel principio usavano eccessivamente con esse loro, determinò che fosse vergogna al marito se egli si lasciava vedere nello andare o nel partirsi dalla moglie. Onde seguiva di necessità che accoppiandosi occultamente a questo modo sentissero maggior diletto: e i parti che ne nascevano fossero più gagliardi che non quando si trovassero marito e moglie sazii di star insieme» (Senof., Rep. Lac., 1). «Si procacciavan le mogli per via di rapina; e la rapita consegnavasi alla prònuba, la quale radevale i crini d’intorno al capo, e messole un pallio da uomo e i calzari, la collocava sopra un mucchio di strame sola e senza alcun lume; lo sposo poi se n’andava dentro discioltole il cinto e levatala di peso la trasportava nel letto. Poichè trattenuto erasi non lungo spazio con lei, se ne partiva modestamente per andarsene a dormire dov’egli era usato cogli altri giovani; e così continuava, passando i giorni e le notti coi suoi coetanei, e portandosi di quando in quando alla sposa tutto circospetto e guardingo... Così pure la sposa con ogni arte adopravasi affinchè di nascosto trovar si potessero insieme: e ciò faceano per tanto tempo che alcuni ebbero figliuoli prima che avessero di giorno vedute le loro mogli» (Plut. in Licurgo).

359.  Clistene, cittadino effeminatissimo e lascivo, satireggiato per i suoi molli costumi in molti luoghi delle commedie di Aristofane (Vedi Lisistr., Tesmof., Rane, Nubi, Uccelli, Cavalieri).

360.  Adoperavano i Greci per la scrittura le tavolette od il papiro. Le tavolette (δέλτοι, πίνακες) eran generalmente di avorio e coperte di uno strato di cera sul quale scrivevasi con una punta o stilo (γραφεῖον): avean nel mezzo un bottone perchè non si incollassero insieme nel disporle a foggia di libro. Più comunemente usavano canne (κλαμοι, γραφεῖς) e calamaio (μελανοδόχον) per iscrivere con inchiostro di sostanza colorante sul papiro (βίβλος) che rotolavasi in volumi (διφθέρα), di cui i singoli fogli chiamavansi carte (χάρτης). Questi rotoli applicati su due cilindretti erano scritti in colonna dall’alto al basso. Ogni volume segnato con un numero veniva chiuso in una scatola cilindrica o di forma ottagona; e cavavasi dall’astuccio mediante un cilindro che vi era attaccato (Polluce, VIII, 16; X, 58-61; Plut., Demost., 29; Eum., 1; Erod., V, 58; Demost., A. Stef., 2, ecc. Cfr. Gallus, t. II; Geraud, Sur les livres dans l’antiq., ecc.).

361.  Il popolo in Grecia facea sagrificj secondo le proprie forze: i ricchi sagrificavano animali (bovi, arieti, ecc.), i poveri focaccie di pasta cotte nel forno, talora anche foggiate colla forma degli animali che si solevano offerire al Dio. «Tutti femmo a gara per placare con sagrifizj il cielo: chi offerse un ariete, chi un becco; il povero una stiacciata» (Alcifr., Lett., III, 35. — Cfr. Tucid., G. Pel., I, 127; Aristof., Pluto, v. 138; Erod., II, 47).

362.  κάμμα diceasi dai Lacedemoni una focaccia assai in voga fra di loro, impastata in ispecie di olio e farina, e avvolta in foglie di lauro (Aten., IV; Esich.) — Di altre sorta di focaccie, cibi a Sparta usatissimi, vedi in Meursius, Misc. Lac., I, 12.

363.  Intorno a questa ed altre leggi e all’intento generale della legislazione di Licurgo rispetto al matrimonio vedi più sopra nota 20.

364.  Vedi sopra nota 15.

365.  «Il popolo (a Sparta) era stupefatto del viver suo (d’Alcibiade) e di quel suo conformarsi interamente alle usanze di Lacedemonia: e quelli che il vedevano radersi fin su la pelle, lavarsi con acqua fredda, mangiar comunemente di quel cibo chiamato maza e servirsi anch’egli della broda nera usata dagli Spartani, restavan perplessi e non sapeano darsi a credere che un tal personaggio in casa sua avesse mai avuto cuoco o veduto mai profumiere o toccata mai veste di Mileto. Poichè egli avea fra l’altre molte quest’arte principalmente per cattivarsi gli uomini, l’assomigliarsi cioè e il conformarsi alle altrui inclinazioni ed usanze, avendo maggior abilità di cangiar costumi che non ha di cangiar colore il camaleonte» (Plut, Alcib., 23). «Gli storici narraron di lui che nato in Atene città splendidissima, tutti gli Ateniesi nella splendidezza e nel decoroso vivere superò; e che fra gli Spartani che poneano la virtù somma nella sofferenza, così dura vita menò che nella parsimonia del vino e del trattamento vinse tutti gli Spartani: che fu presso de’ Traci, uomini vinolenti e dediti alle cose oscene, e che questi ancora in cotali disordini superò» (Corn. Nep., Alcib., 11. — Cfr. Ateneo, Deipn., XII, 534 d.).

Intorno al vitto austero e ai costumi rigidissimi dell’educazione spartana, vedi Senof., Rep. Laced.; Plut., Licurg., 10 seg., Agide e Instit. Lac., Aristot., Polit., IV, 9; Ateneo, IV, 8; Eliano, V. St., XIV, 7; Plinio, Nat. Hist., XXXIII, 1. — Cfr. Müller, Dorier, lib. IV; Cragius, Rep. Lac.; Meurs., Misc. Lac.; Manso, Sparta.

366.  Fame melia — λιμός Μὴλιος — era frase divenuta proverbiale, per allusione all’orribile fame sofferta dagli abitanti dell’isola di Melo ribellatisi ad Atene e assediati da Nicia sin che dalla fame furono stretti ad arrendersi nell’anno sedicesimo della guerra del Peloponneso (Tucid., G. Pel., V, 85 seg.) — vale a dire nell’anno antecedente a quello in cui è supposta la presente scena: «Farete morire gli Dei di fame melia» (Aristof., Ucc., v. 186).

367.  Senof., Repub. Laced., 15.

368.  Un critico «erudito» del mio Alcibiade, il signor Stuart, si scandalizzò altamente ch’io avessi nell’opuscolo «Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle,» calcolato a duecentonove navi e sessantaquattromila uomini il totale effettivo delle forze mandate da Atene all’impresa di Sicilia: e scorgendovi la prova ch’io ho scritto l’Alcibiade senza leggere Tucidide, ebbe la bontà fraterna di consigliarmi lo studio del grande storico ateniese. Infatti Tucidide «il quale, — secondo l’arguta osservazione del signor Stuart — ha la pretesa di saperne più del signor Cavallotti,» enumera in sole 136 navi e 5100 soldati (lib. VI, 43) le forze ateniesi della prima spedizione di Sicilia, con Alcibiade, Lamaco e Nicia: e in 73 navi e 5000 soldati il totale della spedizione di rinforzo condotta da Demostene ed Eurimedonte. Ed ecco come la spedizione di Sicilia, a detta di Tucidide, cioè a detta del signor Stuart che dice di averlo studiato, non si componeva che di diecimila e cento uomini in tutto; nel qual numero è veramente un po’ difficile farci stare i 40,000 uomini perduti, di cui parla Cimoto in questa scena: ed ecco come il signor Stuart, tutto trionfante, conclude che «la raccomandazione da lui fattami di leggere Tucidide era tutt’altro che inopportuna.» C’è però un guaio: Tucidide e gli altri classici antichi non basta il leggerli bisogna anche saperli leggere: cioè leggerli con quel corredo di studj classici e di cognizioni sull’antichità, che sono indispensabili per capirli e per non leggerli a rovescio. E a questo per l’appunto non pensò il mio critico egregio: il quale, essendo stato poco tempo addietro colto in flagrante d’ignoranza completa intorno allo storico ateniese, e volendo, pare, liberarsi da quella taccia, credette ingenuamente che bastasse il mettersi a leggerlo senz’altro, per poterlo citare con cognizione di causa. E naturalmente lo ha citato a sproposito: poichè digiuno di studj intorno all’autore che leggeva, il poveretto, non s’accorse che il calcolo mio (ch’è per lo appunto il calcolo di un insigne ellenista, il Peyron) era per lo appunto dedotto dai dati di Tucidide; il poveretto non sapeva che in quella cifra dei 10,100 soldati, Tucidide indica, come è uso indicar sempre, la sola cifra degli opliti, ossia l’effettivo della fanteria pesante d’ordinanza e non già della forza numerica; che ciascun oplite aveva seco in guerra un servo (ὑπασπιστης) non contato nei quadri; che ogni trireme, oltre le truppe di sbarco, portava 200 uomini tra fanteria navale ed equipaggio: e non sapendo tutto questo, il signor Stuart, tutto intento a dimostrare che l’impresa di Sicilia era stata proprio una bazzecola, annunziò al mondo erudito la grande scoperta che Atene aveva mandato a quell’impresa non già 64,000, ma soli 10,100 uomini, i quali in Sicilia avran poi dovuto moltiplicarsi come i pesci della Bibbia, perchè dopo tutte le battaglie e dopo tutti i disastri subìti, e dopo le grandi stragi che ne vennero fatte, ne rimanessero ancora «non meno di quarantamila» (Tucidide, VII, 75) nell’ultima ritirata di Nicia! — E così si parla di storia e così si fa la critica da certi critici eruditi ai giorni nostri!

Ecco dunque la statistica delle forze ateniesi in Sicilia, secondo i dati di Tucidide, illustrati dal Peyron:

1.ª spedizione con Alcibiade (Tuc., VI, 48): 134 triremi, in ragione di 200 uomini d’equipaggio ciascuna, totale uomini 26,800: 3 navi rodie da 50 remi, uomini d’equipaggio 100; opliti 5,100; loro servi 5,100; cavalieri 30; loro servi 30; truppe leggiere 1,300 — totale navi 136, uomini 38,460.

2.ª spedizione (VI, 94): cavalieri 250; loro servi 250; arcieri a cavallo 30. — Totale uomini 530.

3.ª spedizione (VII, 42): triremi 73; loro equipaggio 14,600; opliti 5,000; servi 5,000; truppe leggiere 500 — Totale 25,100.

Totale complessivo delle tre spedizioni 64,000 — con buona pace dell’erudito signor Stuart.

E colla cifra dei 64,000 si spiegano i 40,000 uomini della ritirata, e i 7,000 prigionieri di cui parla Tucidide (VII, 75, 87); e si spiega come sulla sua scorta Isocrate (Sociale, 29) e sulla scorta di entrambi Eliano (V. St., V, 10) — e sulla scorta di tutti e tre il mio Cimoto — calcolassero le perdite ateniesi in Sicilia a 40,000 uomini. Isocrate ed Eliano parlano anzi di 40,000 opliti perduti; è evidentemente un equivoco: gli opliti dell’impresa non erano che 10,100. Ad ogni modo il signor Stuart, che non sa leggere Tucidide, se l’aggiusti almeno con Isocrate e con Eliano!

369.  Tucid., G. Pel., VII, 87; Plutarco in Nicia. Le Latomie erano le cave di pietra, dove i Siracusani gettarono accatastati i prigionieri ateniesi. Esistono ancora presso Siracusa le vestigia di queste cave; la più vasta delle quali, la Latomia, ora detta de’ Cappuccini, dal convento attiguo, credesi quella appunto in cui gli Ateniesi furon gettati.

370.  (λύκον εἴδες); hai visto il lupo? (Teocr., Idil., 14). Proverbio greco giunto sino a noi; diceasi di chi avea l’aria stravolta e taciturna, come succedeva, secondo la tradizione del volgo, a chi avesse veduto un lupo, o ne fosse stato veduto. «Non mi avvenga di vedere nè il lupo, nè l’usurajo» (Alcifr., Lett., I, 26). Specialissima poi degli Ateniesi era la superstizione contro i lupi: ed era assegnato fra loro il premio di un talento a chi uccideva un lupicino, di due a chi ne uccideva uno grande (Scol. d’Aristof., Ucc., v. 368).

371.  Sulle armi e abbigliamento dei guerrieri di Sparta, vedi innanzi, note 64-69.

372.  «Una legge de’ Lacedemoni ordinava che nessuno de’ cittadini dovesse indicar mollezza nel colorito, o tanto fosse pingue di corpo che men atto paresse agli esercizi: perocchè l’una cosa dimostra pigrizia e l’altra non denota maschio valore. Di più era prescritto che ogni giorno gli efebi si presentassero pubblicamente nudi agli efori. Se venivano riconosciuti di gagliarda costituzione fisica, e negli esercizi quasi torniti ed intagliati, avevan lode ed approvazione; ma se in essi discoprivasi alcun membro rilassato o languido per la pinguedine dall’ozio proveniente, erano condannati e battuti» (Eliano, V. St., XIV, 7).

373.  πρόμαχε Αθηνᾶ (Alcifr., Lett., III, 51). — Con un pronome consimile — Minerva promacorma (προμαχόρμα) — quale soccorritrice e protettrice d’Atene, vien la Dea designata in Pausania, Corint., 34. Da quella sua tutela sopra Atene, Minerva era anche, come si vide, soprannominata Poliade (πολιὰς, πολιοῦχος), clavigera o custode delle chiavi della città (κληδοῦχος), signora della rocca, ecc. (Arist., Cav., 581, 763, Tesmof., 1142, Nubi, 602, ecc.). Altri soprannomi proprj di Pallade: alalcomenia (soccorritrice), obrimopatra (figlia di padre potente), persepoli, fobesistrata (devastatrice di città, fugatrice di eserciti), atritonia (invincibile), erganea (madre dell’arti), tritogenia, dea di molti consigli, dagli occhi azzurri, dalla lancia d’oro, ecc., ecc.

374.  Καδμεία νίκη, vittoria cadmea: frase greca proverbiale, equivalente a quella dei Latini, rimasta nell’uso odierno: vittoria di Pirro. Vittoria acquistata a caro prezzo, sia materiale o morale. In quest’ultimo senso Aristeneto: «La mia disfatta val meglio della tua vittoria cadmea: perchè in un combattimento per cosa cattiva il più infelice è chi vince» (Aristen., Lett., II, 6. — Cfr. Platone, Leg., I, 641 c.).

375.  Permetteva la legge di uccidere sul territorio attico gli omicidi sbanditi che rompessero il bando: non però di ucciderli e nemmeno di perseguitarli fuor dei confini. «Chi ucciderà o sarà cagione di morte ad un omicida che s’astiene da’ mercati conterminali (cioè dai paesi confinanti), dai ludi e dai sagrifici anfizionici, sarà colpevole come se avesse spento un Ateniese.» «Chi fuor dei confini travaglierà con persecuzioni o carcere od altra molestia qualche omicida spatriato, che sia immune da confisca, sarà condannato in multa, come se in paese fosse venuto a tali eccessi.» Demost., Contro Aristocr.: «Legge umana e bellissima! — esclama Demostene nel commentarla. — Pensava il legislatore che ben convenisse sbandeggiare l’omicida se scampò trafugandosi: ma ucciderlo ovunque gli parve nefando: perchè l’esempio inciterebbe gli altri, onde l’unico estremo scampo verrebbe meno ai raminghi, il posare in terra da loro non insanguinata... E in verità non è egli atroce che quei fuorbanditi a cui la legge, purchè non tocchino le cose loro interdette, concede riposata vita, sieno invece ludibrio di ferocia e si veggano contesa quella consolazione di cure che tutti, sebbene prosperità ci sorrida, dobbiamo alla sventura, incerti delle sorti a noi serbate dai cieli?» (Demost., ibid. — Meurs., Them. Att., I, 20).

376.  Tucid., G. Pelop., VIII, 14-25.

377.  Tucid., VIII, 18. Il trattato fra la Persia e i Lacedemoni (anno 412 av. l’E. V.), di cui a questo paragrafo Tucidide ci trasmise il testo, dovette, al pari dei principali successi della guerra, esser opera massimamente d’Alcibiade; come si arguisce dallo stesso Tucidide (VIII, 14, 17) e da Plutarco, secondo il quale la voce pubblica in Isparta attribuiva ad Alcibiade «la prospera direzione della maggior parte degli affari» (Plut., Alcib., 25).

378.  Le scitale (σκυτάλη) in uso fra gli Spartani per la corrispondenza segreta di Stato, erano bastoncini di legno nero, rotondo, lungo e levigato. Di due scitale perfettamente uguali l’una si dava al capitano che partiva per la guerra, l’altra era ritenuta dagli efori. Volendo questi scrivere una lettera al capitano o viceversa, che non fosse letta da alcuno, voltolavano intorno alla scitala una striscia lunga e stretta di cuojo o d’altro, bianca, a foggia di spirale, e sovr’essa scrivevano; quindi svolta la banda e piegatala in vari doppi, la davano a portare all’araldo. Il capitano ricevendola spiegava la striscia, la rigirava sulla sua scitala e così i lineamenti delle lettere sparsi sulle varie parti della striscia tornando a combinarsi per la identità del bastoncino, egli potea leggere l’ordine ricevuto (Tucid., I, 131; Pind., Od., VI scol.; Plut. in Alcib.; Ttzetzes., Chil., IX, c. 258; Suida a q. v.; Auson. ad Paul., ep. 23).

379.  Del poter militare e politico degli efori, sopraintendenti in tempo di guerra alla direzione delle operazioni militari, alla conclusione dei trattati, ecc., si è accennato sopra alla nota 11 (Confr. su questi poteri militari e politici, Tucid., V, 19, 36; VI, 88; VIII, 12; Senof., Anab., II, 6; St. Ell., II, 4; III, 1, 2; IV, 2; V, 2, 4; VI, 4; Rep. Lac., 11; Plut. in Lisand., Cleom.).

380.  Si è già notato altrove che nell’esercizio di quella loro autorità militare e politica, gli efori agivano come mandatari e rappresentanti dell’assemblea del popolo (ἐκκλησία), alla quale prendean parte tutti i cittadini, con voto deliberativo, benchè, sembra, solo gli efori e i magistrati vi avessero diritto a parlare; e le cui decisioni approvate si promulgavano come decreti dei magistrati. «Parve agli efori e all’assemblea esser necessario uscire in guerra» (Senof., St. Ell., IV, 6). «Gli efori e il popolo della città» (ib., V, 2). «L’assemblea dei Lacedemoni delibera» (Tucid., V, 77). — Cfr. Müller, Dorier, lib. III, 5.

381.  Essendo gli Spartani nelle cose di guerra osservantissimi dei segni celesti, l’accorto Alcibiade, capitano di Sparta, non era uomo da trascurarli. Una legge di Licurgo vietava uscir ad oste o dar battaglia innanzi al plenilunio «perchè credeva non avesse eguale potenza la luna crescente e la mancante, e che ogni cosa fosse governata dalla luna» (Luciano, Astrol.). — Indi ricordavansi per proverbio le lune laconiche (λακωνικαὶ σελήναι) (Diogenian., Cent., VI; Prov., 30) a proposito del troppo indugiare in una cosa, aspettando l’opportunità. Ricordavano gli Spartani di Eurota loro re, che per aver voluto dar battaglia agli Ateniesi, senza osservare quella legge, e sprezzando i segni astronomici, perdette la battaglia e la vita, e gettossi nel fiume che da lui prese il nome (Plut., De flum.). All’epoca dell’invasione di Dario, Sparta, richiesta da Atene di soccorsi, li indugiò aspettando il plenilunio: onde gli Ateniesi dovettero pugnar soli a Maratona (Pausan., Attic.). Bensì Ermogene riferisce che dopo appunto la battaglia di Maratona gli Spartani trattarono di abolire quella legge (Hermog., De invent., II); ma nè da Ermogene stesso, nè altronde si rileva che l’abolizione seguisse effettivamente (Cfr. Cragius, Rep. Lac., III, 12; Meurs., Misc. Lac., II, 9).

382.  Gelosissima era Sparta nell’accordar l’ambito onore della propria cittadinanza: tanto che Erodoto non ricorda se non in via di eccezione l’esempio di Tisameno e di suo fratello Egia, come dei due soli stranieri ai quali quell’onore venisse, in un caso di suprema importanza, conceduto (Erod., IX). Di altri stranieri che nei tempi più antichi ottenessero la cittadinanza di Sparta, ricordavasi ancora il solo Tirteo: al quale l’abbiam data, diceva re Pausania, affinchè non paja e si dica che abbiam avuto un capitano forestiere (Plut., Apof. Lac.; Plat., Leg., I, 629). La quale osservazione applicavasi esattamente al caso di Alcibiade (Cfr. lo scoliaste di Tucid. al lib. I, 77: e il Meurs., Misc. Lac., IV, 10). Circa i vincoli antichi di ospitalità che già univano Alcibiade a Sparta, vedi sopra nota 17.

383.  «Ibi (Spartae) ut ipse praedicare consueverat, non adversus patriam sed inimicos suos bellum gessit quod iidem hostes essent civitatis» (Corn. Nep., Alcib., 4). Così pure nel discorso agli Spartani, riferito da Tucidide, Alcibiade dice: «Niuno di voi prenda sinistra opinione di me, perchè, riputato una volta amator della patria, adesso di conserva co’ suoi capitali nemici vigorosamente l’assalgo... Esule, sì, io fuggo la nequizia di coloro che mi cacciarono. I nemici peggiori non sono quelli che come voi recarono qualche danno al loro nemico, ma bensì coloro che costrinsero gli amici a diventar nemici» (Tucid., G. Pel., VI, 92).

384.  Nello stesso discorso agli Spartani, Alcibiade prosegue: «La carità di patria io la pongo non dove sono oltraggiato, ma dove con sicurezza godo della cittadinanza: nè credo di andar adesso contro una patria ancor mia, ma di riacquistare quella che non è più mia. Giacchè giusto amator della patria non è quegli che avendola ingiustamente perduta si astiene dall’assalirla, ma chi per desiderio di lei tenta ogni modo di ricuperarla» (Tucid., G. Pel., VI, 92).

385.  Alcib. Io non vorrei neppur vivere se fossi codardo (οὐδὲ ζῆν ἀν ἐγὼ δεξαὶμην δειλός ὦν). — Socr. E ti sembra, n’è vero, la viltà il maggior dei mali? — Alcib. Mi sembra. — Socr. Eguale persino alla morte? — Alcib. Eguale (Platone, Primo Alcib., p. 115).

386.  Plut. in Alcib. — La famosa zuppa o brodo nero (μέλας ζωμός) formava insieme colla maza (vedi nota 8) il principalissimo alimento spartano. Che non dovesse essere un cibo delizioso, è lecito arguirlo dall’aneddoto del tiranno Dionigi di Siracusa, il quale, per curiosità, avendo ordinato ad un suo cuoco, spartano, di fargli la zuppa nera, appena assaggiatala, la sputò fuori nauseato: di che il cuoco gli affermò di non sorprendersi, «dacchè alla zuppa mancava il meglio dei condimenti: cioè la fatica nella caccia, il sudore, i bagni freddi nell’Eurota, la fame e la sete: con tali cose condiscono i Lacedemoni i loro cibi» (Plut., Instit. Lac., Lic., Agide; Stobeo, Serm., 29; Cicer., Tuscul., V).

387.  Plutarco in Arist. — Corn. Nep., Arist.

388.  Intorno a Pausania, re di Sparta, al suo tradimento verso la patria, alla sua morte ignominiosa, vedi la vita di lui in Cornelio Nepote; e Tucidide, I, 95, 128-134.

389.  Vedi quadro I, nota 37.

390.  Alla battaglia di Coronea combattuta dagli Ateniesi contro i Beozj (447 av. l’E. V.) rimase morto il padre di Alcibiade, Clinia: e perciò ai morti di Coronea si riferisce l’epigrafe citata da Timandra in questo punto; la quale propriamente fu tradotta — salve alcune abbreviazioni e modificazioni mie — da quella di una lapide eretta in onor degli Ateniesi morti a Potidea, che fu trovata in una pianura dell’Accademia presso Atene e passò a far parte della raccolta dei marmi di lord Elgin (Boeckh, Corpus Inscript. graec., I, p. 300). Un’altra epigrafe sui morti nella battaglia di Cheronea (contro Filippo il Macedone), meno bella, abbiamo in Demostene, Corona. Intorno all’uso delle iscrizioni sui monumenti sepolcrali fra i Greci, vedi anche Gallus, III, p. 300; Becker, Char., III, 111; Robinson, Anticq.

391.  Sugli onori e sulle offerte che davano i Greci alle tombe — e che erano destinati a placare le divinità infernali e i mani degli estinti, — vedi Esch., Pers., Coef.; Sof., Elett., Antig.; Eurip., Elett., Alcest., Orest., If. in Taur.; Anacr.; Om., Odiss.; Luciano, Del lutto, Caronte, ecc. Consistevano in ciocche di capelli, ed erbe e fiori sparsi sulle tombe — rose, mirti, amaranti, viole, prezzemolo (indi il proverbio abbisognar di prezzemolo, σελίνου δεῖσθαι, Plut., Timol., per indicar persona in punto di morte); in profumi preziosi e in libazioni (ἐνάγισμα, χοαὶ) di sangue, di vino, di latte fresco, di miele, di acqua. In ispecie il miele, come emblema della morte, θανάτου σύμβολον, raramente dimenticavasi nelle libazioni: indi il nome di μέλισσαι dato alle anime dei defunti, e di μειλίχιοι agli dèi infernali. I fanciulli non ancor giunti all’adolescenza, e i morti sotto l’imputazione di delitti commessi o di una condotta disonorante, non avean diritto nè alle libazioni, nè agli altri onori. Queste cerimonie avean luogo il nono e il trentesimo giorno dopo i funerali del morto; ma rinnovavansi in dati giorni del mese di antesterione, consacrati ai morti (μιαραὶ ἡμέραι — Esich.) — e in altri anniversarj detti giorni nemesj (νεμέσια — Suid.) da Némesi, sotto i cui auspicj si celebravano; nei quali giorni credevasi che i mani degli estinti abbandonassero per alcuni istanti le eterne dimore e venissero a raccogliere le lagrime dell’amicizia (Lucian., Caronte). È ad uno di questi giorni che accenna Timandra in questa scena. — Gli Ateniesi si distinguevano poi fra tutti i Greci nell’onoranze agli estinti e nell’osservanza delle sepolture. Sappiamo da Euripide (Suppl.) ch’essi intrapresero una guerra al solo fine di ottener sepoltura ai sette duci di Argo, caduti sotto Tebe; ed è nota la condanna dei capitani ateniesi vincitori degli Spartani alle Arginuse, puniti di morte per non aver ripescato dal mare e seppelliti i cadaveri degli Ateniesi morti nella battaglia (Diod. Sic., XIII, 18). E Demostene vanta gli Ateniesi perchè «soli fra tutti i popoli, agli estinti per la patria diedero onoranza di tombe e di funebri elogi ad eternar le gesta dei forti» (Demost., Ad Leptin.) — Massimi infatti erano, fra tutti, gli onori ai caduti in guerra, ai benemeriti, pei grandi servigi, della patria, eguagliati agli dèi (ἰσόθεοι): sui quali onori funebri vedi Platone, Meness.; Arist., Panaten.; Diod. Sic., XI, ecc.

392.  Questa idea religiosa di Timandra trovava un riscontro non solo nelle idee, ma anche nelle leggi ateniesi, che dichiaravano irrite e nulle le cose fatte nell’ira (Siriano in Hermog.; Sulp. Vict., Instit. Orat. — Meursius, Themis Att., II, 23).

393.  L’asta (δόρυ) era veramente l’arma nazionale laconica; nel cui maneggio la fanteria spartana primeggiava terribile fra tutti i Greci (Plut, in Agesil.; Procopio, ep. ad Musaeum; Greg. Naz., ep. 139). Indi Sparta medesima gloriavasi del titolo: coronata d’aste, δορυστέφανος (Diogen. Laerz. in Chil., 1). L’asta spartana sembra fosse all’epoca del dramma ancor quella dei tempi eroici: lunga, di frassino o altro legno duro, con punta di ferro. Più tardi Cleomene sostituì all’asta spartana la sarissa maneggiabile a due mani (Plut. in Cleom. — Cfr. Meursius, Misc. Lac., II, 1).

394.  La siela (ξυήλη) era la spada spartana: o più propriamente, a differenza della spada propriamente detta (ξίφος), la siela non era che un pugnale di forma ricurva o falcata, e cortissimo: del quale gli Spartani, usi assalire in ordinanza coll’aste, non si servivano che al bisogno, quando trovavansi impegnati nella lotta corpo a corpo (Senof., Anab., IV; Poll., I, 10; X, 6; Esich.). Indi, a un ateniese che scherzava sulla brevità delle siele spartane, dicendole tanto corte che un cerretano le poteva ingojare, il re Agide rispondeva: Eppure con esse noi raggiungiamo i nemici! (Plut. in Licurgo). E Antalcida a chi gli chiedeva perchè i suoi concittadini adoprassero pugnali così corti: Per poter combattere coi nemici più da vicino (Plut., Apoft. Lac.). Fra gli Ateniesi, la siela spartana era nota, come arma speciale, sotto il nome di κνῆστις.

395.  Nello scolio di Ibria lo scudo (ἀσπὶς) dei Lacedemoni e in genere dei Dori è chiamato propriamente λαισηῖον; ch’era una targa fatta di foglie metalliche e pelli di bue non preparate, sovrapposte le une alle altre. Gli Spartani attribuivansi l’invenzione di quest’arma: — usavano servirsene col mezzo di correggie tese e attaccate con anelli; per le quali correggie (τελαμών) sospendevano, nel portarlo seco in marcia, lo scudo dietro le spalle; più tardi dell’epoca del dramma, Cleomene vi sostituì le anse (ὀχάνη) a forma di bracciale (Plut. in Cleom.; Stefano; Meurs, Misc. Lac., II, 2).

396.  Eustazio, ad Iliad, β’. — Pausan., Messen., 28.

397.  Portavano gli Spartani in guerra tuniche rosse (πυτὰ, φοινικὶδες) per ornamento militare e per nascondere il sangue delle ferite (Senof., Rep. Lac.; Plut., Lic.; Elian., V. St., VI, 6; Esichio; — Cragius, Rep. Lac., III, 6; Müller, Dorier, lib. III, 12). Alle tuniche poi sovrapponevano piccole e strette corazze di feltro, cioè fatte di lana costipata, macerata nell’aceto, come arguiscono il Peyron e lo scoliaste di Tucidide al lib. IV, 34.

398.  Il pileo (πῖλος) era la copertura del capo degli Spartani che serviva loro in battaglia da elmo, a riparo dall’aste e dalle frecce (Tucid., IV, 34; Festo; Licofr., Cass.). Lo portavano nella milizia i soli cittadini; e coperti del pileo raffiguravansi i due Dioscuri; onde il loro soprannome di fratelli pileati (Catul., Epigr., 38; Paus., Mess., 27). Il pileo era fatto esso pure di feltro e aveva la forma appunto di una calotta o propriamente di un mezzo uovo: poichè diceasi che Castore e Polluce, generati dall’uovo di Giove trasformato in cigno, si servissero ciascuno del rispettivo mezzo uovo a guisa d’elmo (Tzetzes; Meurs., Misc. Lac., I, 17).

399.  Allude al fortissimo Brasida che sconfisse Cleone e gli Ateniesi nella battaglia di Amfipoli, dove morì (vedi Tucidide, libro V; Plut., Apoft. Lac.).

400.  Oltremodo avari e parchi di ricompense militari addita Demostene gli Spartani: «Per piegarvi (o Ateniesi) a lasciare inonorata ogni azione di merito, mi si contrapporranno i Lacedemoni, maestri di civile sapienza, ed i Tebani, i quali non concedono siffatte onoranze, eppur non mancano di valorosi» (Demost., C. Leptin.). Però come l’infamia accompagnava i codardi, così la gloria e la riverenza universale dei cittadini, erano massima ricompensa ai valorosi (vedi Tirteo, Elegie).

401.  ἤ ταύταν ἤ ἐπὶ ταύταν — così apostrofavano, com’è noto, le madri spartane i loro figli, partenti per la guerra, nel consegnar loro le scudo: perdere il quale in battaglia era massima infamia (Aristot. pr. Stobeo, Serm., VII; Sesto Empir., Pirr. Ipotip., III, 24; Aristen., Lett., II, 17).

402.  Intorno alla pianta e topografia di Atene, vedasi l’opera, fra le tante la più completa, del Wachsmuth, Die Stadt Athen.

403.  Ὅ Φαῖβ’ Ἄπολλον καὶ θεοὶ καὶ δαὶμονες (Aristof., Pluto, v. 81. — Cifr. Alcifr., Lett., I, 20; III, 29).

404.  Plut., Alcib., 32; Senof., St. Ellen., I, 4. — La esitanza di Alcibiade a scendere a terra, era giustificata dal fatto che sebbene egli fosse stato richiamato dal popolo, tuttavia la sentenza di morte contro di lui non era ancora legalmente annullata.

405.  περὶ ονου σκιᾶς, per l’ombra dell’asino — ossia per una inezia, per una causa futile, per una man di noccioli. Proverbio fra i Greci usitatissimo, per significare il bisticciarsi o andar in collera per cose da nulla (Aristof., Vespe, 191; Plat., Fedro; Luciano, Ermot.; Demost., Della pace; Procop. Sof., Lett., 33). Demostene, con arguzia ateniese, fece un dì la storia di questo proverbio (proverbio più antico di lui, siccome già usato da Aristofane e Platone) in una pubblica aringa. E cominciò col narrar la favola di due uomini che facean viaggio insieme, dei quali l’uno conduceva l’asino dell’altro. Essendo cocentissimo il sole, nacque contesa fra i due per l’ombra dell’asino, la quale ciascuno di essi voleva godere per sè. Il padrone dell’asino diceva di aver noleggiato l’opera dell’asino e non già la sua ombra, l’altro replicava che l’ombra era parte dell’opera. Qui, Demostene tace: e il popolo a insistere curioso, chiedendo che narri come la contesa andò a finire: e Demostene subito: Ah dunque a parlarvi dell’ombra dell’asino state attenti ad ascoltare; e quando vi si parla degli affari della Repubblica, non volete saperne! (Plut., 1558).

406.  «Sic enim populo erat persuasum, et adversas superiores et praesentes secundas res accidisse ejus (Alcibiadis) opera. Itaque et Siciliae amissum et Lacedaemoniorum victorias culpae suae tribuebant; quod talem virum et civitate expulissent.... Nam postquam exercitui praeesse ceperat, neque terra, neque mari hostes pares esse potuerant» (Corn. Nep., Alcib., VI). — Cfr. intorno ai mutati sentimenti del popolo ateniese verso Alcibiade, quali si accennano in questa scena, e ai trasporti di entusiasmo popolare succitati dal suo ritorno. — Plut., Alcib., 32; Diod. Sicul., XIII, 68; Senof., St. Ellen., I; Aten., Deipnos, XII, 535 e.

407.  L’azione pubblica era diritto in Atene di ogni cittadino: concesso a chiunque il trarre un cittadino in giudizio, sotto l’accusa di delitti contro la religione o lo Stato, d’infrazione alle leggi, ecc. Sicofanti (συκοφάνται) dicevansi gli accusatori; ai quali, se non riuscivano a provar l’accusa, era inflitta la multa di mille dramme (Plat., Apol., c. 25; Demost., C. Timocr.). Però in origine il nome (da σῦκα φαῖνειν, palesare i fichi) applicavasi propriamente ai denunziatori dei cittadini che esportassero fichi dall’Attica; poichè in tempo di carestia, saliti gli alimenti a prezzi eccessivi, una legge aveva vietato l’esportazione dei fichi e dei prodotti in genere, ad eccezione delle olive, sotto pena di essere maledetto dall’arconte o multato in 100 dramme; e non essendo stata in appresso quella legge revocata, uomini abbietti se ne valsero per denunciare i cittadini che davansi a quel genere di commercio. In seguito il nome significò accusatori in genere: quando poi la manìa dei litigi, sviluppando fra gli Ateniesi la manìa delle denunzie e delle false accuse, moltiplicò fra di loro la razza dei sicofanti di professione, quel nome diventò anche sinonimo di calunniatore e di falso testimonio (Isocr., De permut.; Demost., pro Phorm.; Scol. in Aristof., Pluto, Caval.; Plut., Solone; Ulpiano; Suida).

408.  φιλολὰκων, amico degli Spartani, epiteto sotto il quale la sospettosa democrazia ateniese designava quei cittadini ch’erano in voce di parteggiare segretamente per gli Spartani e di cospirare per ristabilir in Atene la tirannide. Queste due accuse significavano pressochè la stessa cosa: poichè gli uomini del partito aristocratico in Atene erano in generale accusati di simpatizzare per l’oligarchia spartana e di maneggiarsi a introdurre in Atene gli stessi ordinamenti politici. L’epiteto poi di filolácone era divenuto, durante la guerra del Peloponneso, comunissimo e quasi equivalente di traditore (Cfr. quadro IV, n. 16).

409.  νὴ τὰς φίλας Ὥρας — per le care Ore! (Aristea., Lett., I, 11). — Le Ore, ossiano le stagioni (perchè ὡραὶ in Omero non vuol dir altro, e la parola conservò tra i Greci lo stesso significato), aveano tempj e riti e feste proprie in Atene, Corinto ed altre città. Le si imploravano nella lor festa annua in Atene, siccome dee autrici della fecondità o sterilità del suolo, del bel tempo e del sereno; per aver propizie le stagioni e tener lontana la siccità, la grandine, ecc. Libavasi ad esse insieme che alle Grazie ed a Bacco (Omero, Iliad., V; Esiod., Teog.; Orfeo; Aten., II, 36 d.; 38 c.; XIV, 656 a. — Casaub., 933. — Pausan., Attic. Corint., ecc.).

410.  πάλαι ποτ’ ἤσαν ἄλκιμοι Μιλήσιοι (Aristof., Pluto, 1002, 1075; cfr. Vespe, 1060; Sinesio, Lettere, LXXXI). Proverbio significante: non sei più lo stesso d’una volta; son passati quei tempi, ecc. Nella parabasi delle Vespe è il coro dei vecchi ateniesi che adopera, applicandolo a sè stesso, e rimpiangendo la vigoria degli anni giovanili, quella frase del proverbio.

411.  Apoll. Rod., Argon.; Alcifr., Lett., III, 38; Plauto, Anfitrione. Indi l’epiteto di τριέσπερος che in Luciano e in Licofrone è dato ad Ercole perchè generato in tre sere.

412.  Mercurio o Ermete (Ἑρμῆς) era invocato come loro speciale protettore dagli usurai, dai trecconi, dai mercanti, dai barattieri e simil gente. Al che accennano parecchi de’ tanti soprannomi ch’eran dati a questo Dio: lo si chiamava infatti κερδῶς, apportator de’ guadagni (Alcifr., Lett., III, 47); ἐριούνιος, assai giovevole, portator di cose utili (Arist., Rane, v. 1144; Omero); ἀγοραῖος preside dei mercati (Arist., Cav., v. 297), nel qual caso gli si poneva in mano una borsa; στροφαῖος, astuto (Aristof., Pluto, 1153); ἐμπολαῖος, presiedente ai contratti (Aristof., Pluto, 1155); δόλιος, conciliator delle furberie (Aristof., Pluto, 1157; Tesm., 1202). Lo si chiamava pure, secondo gli altri suoi vari attributi ed officj, Mercurio ἀλεξίκακος, stornator dei mali (Aristof., Pace, 422); χθόνιος, terrestre, sotterraneo, guidator delle anime dei morti (Sof., Elet., 110; Aristof., Rane, 1126, 1145; Omero, Odissea, 24); ἔναγώνιος, preside de’ giuochi agonali (Aristof., Pluto, 1161); δίακονος, ministro degli Dei; ἠγεμόνιος, guida nei viaggi (Aristof., Pluto, 1559); πυλαῖος, guardiano delle porte; νόμιος, pastorale (Aristof., Tesm., 977). Cfr. sui molteplici officj di Mercurio, Luciano, Dial. degli Dei; Dial. dei morti; ed Erasmo.

413.  Allusione proverbiale ad alcuni versi di Esiodo (Oper., v. 288 seg.). Così, per esempio, in Luciano: «La casa della virtù sta lontano assai, come dice Esiodo...» (Ermot., 2).

414.  Cfr. in Aristofane: «Nemmeno una delle donne d’oggidì tu potresti chiamar Penelope; Fedre le puoi chiamar tutte» (Tesmof., 549).

415.  Allusione proverbiale al verso di Omero nell’Odissea: Ἀσπάσιον λέκτοριο παλαιοῦ θεσμὸν ἴκοντο. Dello sfoggiar di erudizione dei parassiti in genere, e del nostro Cimoto in ispecie, si è già accennato al quadro III, n. 37, 38.

416.  Sugli arconti, vedi quadro II, nota 6.

417.  Dacchè in Atene s’istaurò il governo popolare, il comando delle milizie fu ripartito fra dieci capitani o strategi (στρατηγοί), eletti dall’assemblea del popolo a maggioranza di suffragi, uno per ciascuna delle dieci tribù. È noto il frizzo di Filippo il Macedone, che diceva di invidiar gli Ateniesi perchè tutti gli anni trovavano dieci uomini capaci di fare il generale, mentr’egli in tanti anni non era riuscito a trovarne che uno solo. Tutti i cittadini, anche dell’ultima classe, meno quelli colpiti d’infamia o morte civile (ἀτιμία), potevano essere eletti a quella carica, purchè provassero in apposito esame (δοκιμασία) di possedere i requisiti voluti dalla legge per l’esercizio di una funzione pubblica (esser nato di genitori liberi ed ateniesi, aver compiuto i doveri figliali verso di loro, venerare gli Dei della città, aver servito onoratamente nell’esercito, non aver commesso azioni disonoranti): e alcuni speciali prescritti per la carica: aver figli e poderi nell’Attica, non aver liti pendenti in giudizio, ecc. — Gli strategi venivano eletti, come tutti gli altri magistrati, per un solo anno; potevano però essere rieletti; avevano potere eguale, con attribuzioni diverse, e ciascuno di essi, per turno quotidiano, avea il comando supremo; decidevano adunati in consiglio di guerra, a maggioranza di voti; in caso di divisione di pareri, a evitar ritardi nelle risoluzioni, aggiungevasi ai dieci capitani un altro magistrato, il polemarco (πολέμαρχος), il cui voto era in tal caso decisivo. Al polemarco spettava pure di diritto il comando dell’ala sinistra dell’esercito. Gli strategi, insieme col comando supremo delle forze di terra e di mare e con tutte le attribuzioni inerenti (liste di leva, congedi, equipaggiamento, tribunali militari, ecc.), avevano anche il diritto di convocare il popolo in assemblea straordinaria: diritto non concesso che ad essi ed ai pritani del Senato. Essi erano poi strettamente responsabili del loro operato in guerra e della loro gestione all’assemblea. — Quanto al grado di capitano supremo (στρατηγὸς, αὐτοκράτωρ), che fu dato ad Alcibiade al suo ritorno, e il quale gli attribuiva la supremazia sugli altri nove strategi, era un grado affatto eccezionale e non conferito che in circostanze straordinarie. Per tutto il tempo che durò la repubblica d’Atene, quattro soli ateniesi ne furono investiti.

Ai dieci strategi erano addetti, uno per ciascuno, e sotto la loro immediata dipendenza, dieci tassiarchi (ταξίαρχοι), che noi diremmo intendenti, incaricati delle riviste, delle provvigioni, ecc. La loro giurisdizione limitavasi alla fanteria.

La cavalleria era comandata, sempre sotto gli ordini degli strategi, da due ipparchi (ἴππαρχοι), i quali avevano alla loro volta sotto i loro ordini dieci filarchi (φύλαρχοι), uno pei cavalieri di ciascuna tribù.

Gli ufficiali inferiori traevano poi il nome dalla specie delle armi o dal numero degli uomini che comandavano. Tali i chiliarchi (che noi diremmo colonnelli), comandanti una chiliarchia (1,000 uomini, oltre 24 subalterni); i pentacosiarchi (grado equivalente a un dipresso al nostro di maggiore), comandanti 512 uomini; gli ecatontarchi (che sarebbero i nostri capitani), comandanti una compagnia, τάξις, di 128 uomini, a ciascuna delle quali era addetto un alfiere o portainsegna, un trombetta e un furiere; i tetrarchi (che diremmo luogotenenti), comandanti una mezza compagnia o pelottone di 64 uomini, divisi in 4 lochi; i locaghi (sergenti), comandanti un loco o squadra di 16 uomini; i pempadarchi (caporali), comandanti una pattuglia di 5 uomini (Vedi Tucidide, Erodoto, Senofonte, Plutarco, Demostene, Polieno, Arriano, Eliano, ecc. — Cfr. Suida, Arpocr.; Potterus, Archeol. gr.; Robinson, Antiq. gr., Grote, ecc.).

418.  Demostene, C. Lettine.

419.  Ad Abido ed a Cizico, dove Alcibiade sconfisse in due gloriose battaglie navali (411 e 410 av. l’E. V.) la flotta spartana di Mindaro, si trovarono a combattere sotto gli ordini di Mindaro e come alleate di Sparta anche le navi siracusane condotte da Ermocrate (Vedi Senof., St. Ellen., I; Diod. Siculo, XIII).

420.  «Raunato il popolo, dei mali sofferti Alcibiade non incolpò che leggermente il popolo stesso, attribuendo la causa di tutto a una qualche cattiva fortuna e a un demone geloso» (τινὶ τύχη πονηρᾷ καὶ φθονερῷ δαίμονι) (Plut., Alcib., 33).

421.  «Si distese poscia a parlare intorno ai nemici, empiendo gli Ateniesi di buone speranze» (Plut., ibid.; Senof., St. Ellen., I; Diod. Sic., XIII, 69).

422.  «Dalle navi, o Ateniesi, dipendono i nostri destini» (Demost., Contro Androz. — Cfr. il mio opuscolo Alcibiade e la critica, Op., IV, 283).

423.  «Ricordatevi, Ateniesi, i tempi in cui la gratitudine ai benefattori della patria era sacra, e la colonna di Diofante, già rammentata da Formione, nella quale è scritto, e voi lo giuraste, di premiare come Armodio ed Aristogitone, chi affronta danni e pericoli per la libertà» (Demost., C. Lett.). Di un decreto simile di ricompense per grandi servigi in guerra, promulgato in favor di Conone, e inscritto dal popolo sopra una colonna o stile, è pur cenno nella stessa orazione: «Conone ruppe in mare i Lacedemoni e ne cacciò dalle isole i magistrati e rialzò le vostre mura, e primo vi fece emuli di maggioranza a Sparta. Perciò a lui solo di tutti nella colonna fu scritto: perchè Conone liberò i confederati di Atene... Donde i contemporanei non pur gli concessero immunità dai pubblici pesi, ma a lui primo, quale ad Armodio ed Aristogitone, posero statue in bronzo: ben giudicando che non aveva spenta piccola tirannide l’oppressore della possa spartana» (Demost., ibid.).

424.  «Sovra tutto impose Solone di pubblicar le leggi innanzi alle statue degli eroi e consegnarle al cancelliere, il quale nelle pubbliche adunanze le legga, affinchè ciascuno, dal frequente udirle, ratifichi sempre il giusto e l’utile» (Demost, C. Lettine). E γραμματεῖς, cancellieri o notaj, dicevansi appunto codesti incaricati della custodia delle leggi e degli atti pubblici, dei quali avean obbligo, in caso di richiesta, di dar copia e lettura al popolo ed al Senato. Se ne nominavano tre: uno scelto dal popolo e incaricato della lettura degli atti; gli altri due, scelti dal Senato e addetti l’uno al protocollo delle leggi, l’altro agli archivi pubblici. Venivano scelti ad ogni pritania: e duravano in funzione trenta giorni, dopo i quali davan conto della gestione. Era, del resto, in Atene una professione disprezzata dai cittadini e abbandonata ordinariamente ai δημόσιοι, o servi pubblici, la maggior parte trascelti tra gli schiavi forniti di qualche istruzione (Polluce, lib. 8; Ulpiano, sulla 2.ª Olint.; Libanio, sull’oraz. Parapresb.).

425.  Il formulario delle leggi e dei decreti (νὸμος, ψήφισμα) presso gli Ateniesi era comunemente quello che vediamo, con poche varianti dall’uno all’altro, nei molti esempj citati nelle orazioni di Demostene e degli altri oratori: e sulla scorta dei quali mi regolai nella redazione del decreto di cui l’arconte ordina in questa scena la lettura. Nelle sue formole più complete, il decreto d’ordinario recava prima il nome dell’arconte epónimo in carica; poi successivamente e per ordine, la data, la pritania, la designazione di chi aveva convocato l’assemblea in cui il decreto era stato votato (se i pritani o gli strategi, o secondo che trattavasi di assemblea ordinaria o straordinaria); il nome di chi avea proposto il decreto; indi il disposto del decreto; infine la indicazione dei funzionari incaricati della esecuzione, e da ultimo la ripetizione del nome dell’autore della proposta (Vedi Demost., Corona; C. Timocr., ecc.).

426.  Ossia il 25 di Targelione (Vedi quadro III, n. 7).

427.  Vedi sulle pritanie, e sull’assemblee del popolo, quadro II, n. 59.

428.  Vedi sulle tribù di Atene, quadro I, n. 55. — Cfr. quadro II, n. 55.

429.  Plut. Alc., 33; Senof., St. Ellen., I, 4; Corn. Nep., Alc., 6; Diod. Sic., XIII. 69.

430.  Delle Panatenée o feste di Minerva, vedi al quadro III, n. 59. Le Dionisiache o Dionisie o Baccanali (Διονύσια, Βακχεῖα), ossia feste di Bacco, celebravansi nell’Attica con maggior pompa di cerimonie e di riti che in tutte l’altre città della Grecia. Una turba farneticante di uomini, gli uni travestiti da Satiri, da Pani e da Sileni, gli altri raffiguranti Bacco, e il suo trionfo dell’India e le sue gesta, inghirlandati di edera e di pampini, percorreva le vie, trascinando capri destinati al sacrifizio, agitando in mano i tirsi, e intrecciando danze disordinate al suon di flauti e di tamburi, e a canzoni licenziose e alle grida di Jacco! Jacco! Evoè! Dietro costoro venivano i portatori di vasi sacri, e i deputati delle tribù, e fanciulle (canèfore) di distinta nascita recanti sul capo canestri d’oro, pieni di frutta; indi una schiera di uomini (fallófori) portanti i falli sospesi a lunghe pertiche; poi altri uomini (itifalli) travestiti da donne, inghirlandati e contraffacenti gli ubbriachi, poi i licnofori o portatori del ventilabro mistico di Bacco. — La processione, sfilando di notte, fermavasi ne’ campi e nelle piazze a offerir vittime a Bacco, tra un concorso immenso di forestieri e popolo accalcato sui tetti e nelle vie, e al chiarore delle migliaia di fiaccole scintillanti. Durante le Dionisiache era grave delitto dar molestia qualsiasi a un cittadino, foss’anche un debitore. — Di tali feste ve n’erano parecchie: le grandi Dionisìache o Dionisìache urbane, fra tutte le più celebrate, si festeggiavano dentro la città, con pompa affatto eccezionale, nel mese di Elafebolione, tra la fine di marzo e i primi d’aprile. Le piccole Dionisìache o Dionìsie rurali, Baccanali campestri, servivano di preparazione alle prime e si celebravano d’autunno alla campagna. — Altre feste infine, dedicate a Bacco, erano le Dionisie Lenée, o Lenée semplicemente (ληναῖα), cioè feste dei torchi o strettoj. Eran dette anche Antesterie o floreali. Festeggiavansi alla campagna, in onor di Bacco Leneo, ossia torchiatore (λήναιος), nel mese di Antesterione (febbrajo-marzo) e duravano tre giorni. Il primo di essi, ch’era l’11 del mese, dicevasi festa delle botti (πιθοιγία), perchè in esso si spillavan le botti; il secondo festa delle coe o cogna (χοεύς), ossia delle libazioni mortuarie, in cui cioncavasi copiosamente, e chi riusciva a bere la misura di un cogno aveva in premio un otre e una ghirlanda. Il terzo, festa dei chitri, ossia delle pignatte (χύτροι), in cui offerivansi legumi cotti entro una gran pignatta, in suffragio dei morti, a Mercurio sotterraneo.

Le Panatenée, le Dionisìache e le Lenée erano le tre solennità dell’anno in cui avean luogo le gare teatrali delle tragedie e delle commedie nuove. Concorrevano al premio i tragici e i comici, presentando le loro composizioni al primo arconte, il quale, dopo approvatele, assegnava al poeta un coro, la spesa del quale e del rimanente apparato era a carico dei più ricchi cittadini (vedi quadro IV, n. 29) e teneasi ad onore grandissimo. Il poeta sceglieva allora tra gli attori quello in cui avea più fiducia per dargli la direzione dello spettacolo, e si adoperava di concerto con lui perchè tutto andasse per il meglio. Venuto il dì della rappresentazione, la sorte fissava l’ordine in cui i drammi dei concorrenti doveano rappresentarsi: e finita la recita, cinque giudici a ciò delegati proclamavano il vincitore in ciascuna delle gare. Tutti i comici e gli istrioni erano obbligati a ritrovarsi per il tempo di queste gare in Atene sotto pena di ammenda: come toccò al comico Atenodoro: tanta era l’importanza che annettevano gli Ateniesi a questi spettacoli, nello allestimento dei quali si profondevano tesori (Cfr. Alcib., la critica e il secolo di Pericle, Op. IV, 294). — (Vedi Aristof., Acarn., Ucc., Rane e scol.; Eurip., Bacc.; Demost., C. Lett., C. Mid., Corona; Alcifr., Lett.; Corsini, Meursius, Potter, Robinson, ecc.).

431.  Vedi in Demostene, nell’orazione per la Corona, intorno al premio della corona d’oro, per servizi militari o politici, e al bando della stessa nei giorni delle gare teatrali, l’accusa di Eschine contro Demostene, il decreto di Aristonico e i decreti di Callia Frearrio e di Ctesifonte Anaflistio, nonchè la legge ivi citata. «Se alcuno è incoronato da un borgo, il bando si faccia nel borgo istesso; ma se la corona è data dal popolo ateniese o dal Senato, sia lecito pubblicarla in teatro ne’ Baccanali» (Cfr. Eschine, C. Ctesif., p. 58).

432.  Vedi in Demostene (Corona) i decreti citati di Aristonico e di Callia Frearrio. — Agonotéti diceansi i magistrati sopraintendenti ai giuochi e agli spettacoli teatrali. Fra le loro attribuzioni era il bando della corona da conferirsi in occasione dei certami drammatici, e la facoltà di punire gl’istrioni che negli spettacoli non rappresentassero convenientemente la loro parte (Demost., ibid. — Cfr. Luciano, Pescatore).

433.  Plutarco (Alcib., 33) nomina espressamente Crizia figlio di Callescro, il medesimo che fu poi uno dei trenta tiranni, come autore del decreto pel richiamo di Alcibiade. Al qual richiamo il popolo aggiunse in favor di Alcibiade le altre disposizioni, revoca della confisca, corona d’oro, ribenedizione, ecc., che in Plutarco si leggono.

434.  Scriveva l’accusatore, o la parte civile, nell’accusa la pena di cui chiedeva l’applicazione. Vedi, per esempio, in Diog. Laerzio, l’accusa di Melito: «Socrate delinque corrompendo i giovani, non credendo i Numi che la città crede, ma sì altre nuove cose demoniache. Pena la morte.» — E in altra legge sul buon costume: «Se un Ateniese farà oltraggio a un libero fanciullo, lo accusi ai tesmoteti chi ha in balia il fanciullo, e scriva la pena. Se condannato nella persona, sia ucciso lo stesso dì» (Esch., C. Tim.).

435.  Gli Undici (οἴ ἔνδεκα), così chiamati dal loro numero, erano una magistratura di dieci cittadini, scelti uno per tribù, cui aggiungevasi per undecimo un cancelliere. Avevano la custodia delle prigioni e sorvegliavano l’esecuzione dei condannati a morte, che ad essi venivano dopo la condanna consegnati; avevano pure il diritto di arrestar le persone sospettate di furto e anche di porle a morte, se rei confessi, e di trascinare davanti agli eliasti quelli che ricusavano il servizio militare o che abbandonavano in guerra i loro posti. Il così detto servitore degli Undici (ὄ τῶν ἔνδεκα ὑπερὲτης) era il carnefice (Plat., Fed., 216; Demost., C. Midia, C. Timoc., C. Lacrit.; Aristof., Vespe; Alcifr., Lett.., III, 22; Lisia, C. Agorat.; Esch., C. Ctesif., ecc.).

436.  Vedi intorno alle classi d’Atene, e alle cifre rispettive del reddito e dell’imposte, la nota 3 all’elenco dei personaggi.

437.  Cfr. quadro II, nota 26. — Nei tempi eroici la ripartizione delle spoglie fu riservata tra i Greci al capitano supremo, che se ne teneva una parte, e distribuiva il rimanente fra i subalterni ed i soldati (Omero, Iliad., 9; Odiss., lib. 9, 14). Al tempo della guerra persiana, vediam le spoglie prese dai Greci a Platea ripartirsi fra i soldati, dopo levatane una parte per i templi degli Dei e una parte per le ricompense ai migliori (Erod., lib. 9; Plut. in Arist.). Più tardi, all’epoca del dramma nostro, benchè la legge attribuisse ai capitani le spoglie (Siriano in Hermog.; Meurs., Them. Att., I, 11), vediamo i capitani depositarle nel tesoro pubblico, dopo trattenutane una parte — qualche volta il terzo — per sè e una parte per i soldati segnalatisi maggiormente (Plut., Cim., Agesil.; Corn. Nep., Timot., Cim., Agesil.; Senof., St.ª Ell., Agesil.; Polieno, Stratag., ecc.).

438.  Modo proverbiale «Una fune d’Aliarto mi occorre, e penzolerò appiccato davanti alla porta Dipila, se la fortuna non pensa ad aiutarmi» (Alcifr., Lett., III, 49). — Aliarto, città in Beozia sul lago Copaide, ove si fabbricavano ottime funi.

439.  L’usanza degli elogi e delle orazioni funebri sembra d’origine antichissima tra i Greci; Cicerone la riguarda come esistente fra loro sin dai tempi di Cecrope (de Legib., II, 25). Ma la legge che prescriveva queste orazioni come appendice ai funebri onori, è dallo scoliasta di Tucidide (II, 35) attribuita propriamente a Solone: vero è che, prima delle guerre persiane non riscontrandosi di pubblici elogi funebri esempio alcuno, Dionigi d’Alicarnasso e Diodoro Siculo ne assegnano al tempo di quelle guerre la introduzione. «Tardi gli Ateniesi aggiunsero alla legge dei funebri onori la orazione funebre, avendo cominciato a recitarla su quelli che per la patria erano morti o ad Artemisio o a Salamina o a Platea o a Maratona» (Dion. Alic., Antiq. Rom., V, 291). Ancor più preciso Diodoro dice l’uso di questi discorsi introdotto dopo la battaglia di Platea (Diod. Sic., XI, 33): e il Peyron (note a Tucidide) si attiene senz’altro a Diodoro. Meglio forse il Bulwer (Atene, lib. V, c. 3) spiega la discordanza in questo senso, che l’usanza dei discorsi funebri andò man mano, dai tempi eroici remotissimi in poi, perdendo d’importanza durante le piccole gare fra gli Stati greci: ma dopo le guerre persiane quella usanza fu rinnovata con solennità per la grandezza della lotta e la dignità e la santità della causa a cui i morti eransi consacrati. Il primo esempio a noi giunto di discorso funebre ateniese è quello di Pericle pei morti di Samo: ove i guerrieri caduti per la patria son pareggiati agli Immortali, e li si piangono così scomparsi dalla città come se dall’anno fosse tolta la primavera (Plut., Peric.; Aristot., Rhetor., III, 10). Ma di tal genere d’eloquenza due modelli perfetti fra tutti rimasero meritamente celebratissimi nell’antichità: il discorso di Pericle pei morti nella guerra del Peloponneso che Tucidide udì e ci trasmise (II, 35), e l’altro sullo stesso argomento che Platone pose in bocca ad Aspasia nel Menesseno. Altri esempj, meno insigni, a noi giunti, sono i discorsi funebri di Lisia sugli Ateniesi andati in soccorso ai Corinzj, di Demostene pei morti di Cheronea, e di Iperide pei morti nella guerra Lamìaca. — Caduta poi la Grecia sotto il giogo dei Romani, e sparita da Atene l’antica dignità dei costumi repubblicani, le orazioni funebri cessarono di essere quello che Demostene (C. Lett.) ricordava come un vanto di Atene, cioè un onore impartito solo ai fortissimi e ai benemeriti della città; ma si moltiplicarono per chicchessia, fino a divenire anche in Atene quel banale e bugiardo esercizio di retorica, che è spesso ai dì nostri fra noi: tanto che a persona spregiatissima e inferiore ad ogni lode si dica per proverbio: οὔκ ἐπαινεθείης οὐδ ἔν περιδείπνῳ — non sarai lodato neppur con orazion funebre — ch’è tutto dire! (Confr. quadro V, n. 60).

440.  Sugli Eumòlpidi, e dignità sacerdotali, vedi quadro II, nota 72; quadro IV, nota 14.

441.  Cerere e Proserpina. In quella guisa ch’elle formavano un ciclo mitico distinto dal resto della mitologia greca, così pure affatto distinto da quello degli altri dèi dell’Olimpo raggruppati intorno a Giove, e presiedenti alla vita degli umani, era il culto che fra i Greci avevano Cerere e Proserpina e in generale tutta quella categoria di divinità dai Greci venerate sotto il nome di ctoniche o sotterranee: Numi presiedenti dall’oscurità profonda, dalle viscere della terra, ai destini d’oltre tomba ed alla vita futura. Da codesto isolamento derivò al culto di queste divinità il carattere di misteri, ossia di riti religiosi, a cui nessuno senza speciale iniziamento poteva assistere: e la dottrina stessa dell’immortalità, su cui questi riti si appoggiavano, aveva appunto nel mito di Cerere e Proserpina, adorate al ritorno di primavera fra i misteri d’Eleusi, la sua simbolica rappresentazione. Proserpina (Persefone) nell’autunno di ogni anno è rapita alla luce del mondo di quassù e trasportata nel tenebroso regno dell’Orco (Αἶδης), ov’è assunta all’impero sulle ombre dei morti; ma ad ogni primavera ella ritorna nel mondo superiore, fra le braccia di sua madre, la terra (Δῆ μήτηρ, γῆ μήτηρ), splendida di rinnovata bellezza giovanile; è il ritorno della vita vegetativa nella vicenda delle stagioni: ma se la dea della morta natura era pur quella che esercitava il dominio sui trapassati, il suo ritorno alla luce dovea significare anche per l’uomo una palingenesi, un rinnovamento di vita. Indi Pindaro celebrando i misteri sacri in Eleusi alle due Dee «Beato, cantava, chi li ha veduti, e poi discende sotto la cava terra: egli conosce il fine della vita, e il principio di essa dato da Dio!»

442.  

.... veggo in supplichevol atto

Là un uom seder, sangue la man grondante,

Nudo il ferro nel pugno... Dorme

Stesa sopra i sedili intorno a lui

Una di donne orribilmente strana

Torma... Donne non già: Gorgoni dico...

Ma nè Gorgoni pur, nè somiglianti

Sono a quell’altre che dipinte vidi

Rapir le cene di Finéo. Senz’ali

Son queste e negre e abominande in tutto.

Russan con ributtanti aliti: un tristo

Umor cola dagli occhi; il vestimento

Qual non lice indossar nè visitando

I seggi degli Dei nè dei mortali

Le case entrando. Una simil genìa

Non vidi io mai: terra non è che possa

Di nutrir cotal razza impunemente

Senza dolor nè lagrime vantarsi.

(Eschilo, Eumen., V, 40-59, trad. Bellotti).

Tale è il terribile ritratto con cui il genio di Eschilo presentava alle fantasie ateniesi le Furie od Erinni, dormenti intorno al matricida Oreste; persecutrici implacabili, secondo l’idee greche, di qualsivoglia misfatto anche involontario, e però simboleggianti non tanto il grado della colpa e del rimorso interno, quanto, e più propriamente, l’orrore che accompagna ogni delitto, siccome quello che, per qualsiasi causa commesso, sconvolge sempre l’ordine di natura (cfr. quadro IV, nota 15). Epperò in Eschilo le Erinni, siccome ministre dello spettro di Clitennestra, vendicano il matricidio senza pur chiedere nè delle cagioni, nè d’altro; ma come per una legge inesorabile del destino, più forte della clemenza stessa dei Numi, indipendente dai tormenti minacciati ai colpevoli nell’Erebo. «È legge che ogni stilla di sangue sparso sulla terra chiami altro sangue: poichè alla vendetta grida l’Erinni e aggiunge morte a morte» (Esch., Coef., 392). Perciò sovr’esse non può nulla, neppure la purificazione che Apollo ha concesso ad Oreste in Delfo; e della quale appunto esse si lagnano accusando il Nume come violatore dei diritti delle Parche. Apollo non ha potuto che immergerle per poco in un sonno leggiero da cui subito, alla chiamata dello spettro dell’ucciso, elle si levano per inseguire Oreste; ed è infine con Apollo stesso, ch’elle non esitano di venir a contesa per i propri diritti sul matricida, dinanzi all’Areopago d’Atene. Ma qui i voti dei giudici si pareggiano, e solo il voto di Minerva decide a favor di Oreste la lite. Allora tocca a Minerva placar di nuovo gli sdegni delle Dee defraudate della preda: finchè da Minerva ammansate, accettano da lei l’invito di fermar dimora in Atene e promettono di esser sempre benefiche a quella città.

Sì, con Minerva accetto

Qui fermar mia dimora, e mai nè spregio

Opporrò nè dispetto

A questo suolo egregio

D’are cultor... e con benigna mente

Che nel futuro vede

Qui pregherò che ognor fulgida e pura

Luce spargendo il sole

Copia produca d’ogni ben natura.

(Eschilo, Eumen., 922 seg.)

Ed ecco come le Furie od Erinni (Εριννύες) — le terribili dive, figlie della terra e della notte (Sofocl., Ed. a Col., v. 39; Esch., Eumen., 424), le ancelle dell’Orco (Plut., De exil.), nate dal sangue di Urano sparso sulla terra (Esiod., Teog., 185), le dee inespugnabili, tremende a nominarsi (Sofocl., Ed. a Col., 124), succhiatrici del sangue dei viventi (Esch., Eum., 258, 269), — si trasformassero in divinità benefiche od Eumenidi (Εὐμενίδες); e ottenessero culto ed are e sacrifici sotto il nome di Dee venerande (σημναί), protettrici di Atene. Eccole fatte pietose allo stesso misero Edipo; e là in Colono, nel bosco sacro e nel santuario di quelle Dee da cui fu sì a lungo perseguitato, Edipo ritrova la pace e la fine dei suoi patimenti (Sof., Ed. a Col.). È all’ara delle Eumenidi che accorsero a cercare misericordia ed asilo Cilone e i suoi complici; e aver violato l’asilo fu tenuto per massimo sacrilegio verso le Dee (Tucid., I, 145. — Cfr. quadro III, n. 45; quadro IV, n. 32).

443.  «Decretarono pure (gli Ateniesi) che gli Eumolpidi e i banditori (cérici) ritrar dovessero le maledizioni che contro lui fatte avevano per commissione del popolo» (Plut., Alcib., 33).

444.  Il cradies nomos, ossia, tradotto, l’aria del ramo di fico (κραδίης νόμος), era una particolare melodia la quale cantavasi nelle feste Targelie. (ricorrente nell’Attica, al mese di Targelione, ch’è appunto il mese in cui avvenne il ritorno di Alcibiade e in cui qui supponesi l’azione): e s’intonava nel momento in cui, durante quelle feste, gli uomini colpiti dalle maledizioni (φαρμακοί) erano discacciati, con rami di fico, dalla città, affinchè questa fosse purificata. — Il poeta elegiaco Mimnermo, verso il 620 av. l’E. V., ne fu l’inventore, secondo attesta Ipponatte (Plutarco, Della musica, 9). — Esichio, alla voce κραδίης νόμος.

445.  Iidemque illi Eumolpidae sacerdotes rursus resacrare sunt coacti, qui eum devoverant: pilaeque illae, in quibus devotio fuerat scripta, in mare precipitatae (Corn. Nep., Alcib., 6). Dell’uso greco di gettare lapidi o masse roventi di ferro in mare, praticato nei riti delle imprecazioni, si hanno parecchi esempi. Così allorquando la confederazione jonica strinse in Delo il patto federale, Aristide lo fece giurare agli altri Greci, lo giurò poi egli stesso in nome di Atene, e quindi fatte le imprecazioni contro chi lo avesse violato, gettò in mare, a suggello delle medesime, le masse di ferro arroventate; a significare che se mai il giuramento degli alleati non durasse più del ferro, la loro vita dovesse spegnersi così presto come il calor del metallo nell’acqua (Erod., I, 165. — Cfr. Callim., Inni).

446.  Vedi quadro III, n. 45.

447.  Qualche critico erudito, credendo dar prova di gusto fino, classificò, arricciando con sussiego il naso, questo dialogo del sacerdote fra le allusioni banali d’attualità, e le solite volgari tirate contro i preti, a cui ricorrono gli autoruzzi per aver gli applausi del popolino. Se i preti al dì d’oggi sian sempre su per giù gli stessi d’una volta, non è questione che mi riguarda; e proprio non ci ho pensato: ma che il sacerdote mio sia fratello carnale dei sacerdoti ed indovini di cui, all’epoca del dramma mio, i comici satireggiavano come proverbiali la rapacità e l’impostura e l’avidità degli inviti a pranzo e dei succulenti sagrificj — di questo basterebbe, ad accorgersene, il dare una scorsa al Pluto, o alla Pace, o agli Uccelli di Aristofane. Taccio degli altri comici; e taccio di Luciano. Senza di che, niente potrebbe immaginarsi di più satirico del racconto che fa ingenuamente il buon Plutarco di questa stessa palinodia delle maledizioni contro Alcibiade revocate; e questo obbligavami a porre in iscena cogli altri tipi caratteristici dell’epoca anche quello dei sacerdoti, il dipingerli diversi da quel che essi erano, e che Aristofane li dipingeva, mi sarebbe parsa una finezza di gusto... che lascio ai critici eruditi dal gusto fino (Cfr. quadro II, n. 53).

448.  Del disinteresse di Socrate, sprezzatore di regali e di ricchezze, e del come egli ricusasse in parecchie occasioni i doni e le liberalità di Alcibiade, è testimonianza in Platone (Simposio, 219 e.; Elian., V. St., IX, 29; Stobeo, 17). Per i quali rifiuti Alcibiade diceva di lui, ch’era più difficile il vincerlo coi doni e coll’oro che non il vincere Ajace col ferro (Plat., ibid.).

449.  Vedi quadro III, n. 16. — È superfluo avvertire che i cenotafj (κενοτάφια ossia tombe vuote) distinguevansi dai veri sepolcri (τάφος, τύμβος) o monumenti sepolcrali (μνημεῖον), per questo ch’essi non contenevano le ceneri del defunto (Eurip., Elen., 1255; Callim., Epigr., 18). V’eran due sorta di cenotafj: quelli innalzati alla memoria dei morti ch’erano sepolti altrove (Pausan., Attic., Messen.) e quelli dedicati ai morti di cui non si era potuto più ritrovare il cadavere. Secondo la credenza volgare, le anime dei morti privi di sepoltura erravano cento anni sulle rive di Stige, senza poter metter piede nell’Erebo; perciò i cenotafj dovevano por fine ai loro patimenti (Senof., Anab., VI; Tucid., II, 34). Indi la cura del sepolcro era tanta che quelli i quali trovavansi in procinto di naufragare si mettevano a bella posta in tasca quant’oro avevano per trovare più facilmente chi si prendesse il pietoso incarico di seppellirli (Sines., Lett., 4. — Cfr. Alcifr., Lett., I, 10). I cenotafj recavano per segno distintivo un frantume di nave (ι᾽κρίον) a significare che le persone a cui erano dedicati erano morte lontano dalla patria (Cfr. quadro V, n. 60; e Robinson, Antiq. gr.; Becker. Char., ecc.).

450.  Vedi quadro III, nota 49. — Dell’affezione e riverenza di Alcibiade per Socrate si è già accennato nella scena prima ed ultima del quadro I e nelle note alle medesime, nonchè nelle note 47-50 del quadro III. Potrebb’essere qui il luogo di toccare la questione troppo più delicata, della natura dei rapporti fra Socrate ed Alcibiade, e della taccia rimasta nella volgare tradizione, siccome una turpe macchia pel nome del grande filosofo. Questione trattata, pro e contro, da parecchi, e assai superficialmente, a parer mio: cioè senza prima risalire alla vera origine e al carattere primitivo dell’amor maschile fra i Greci, considerato come antica istituzione ellenica; sia che di questa istituzione vogliansi già ritrovare, con Eschine (C. Tim.) le traccie nella fratellanza d’armi di Achille e di Patroclo, o con Luciano (Amori, 47) nell’amicizia di Oreste e di Pilade. Luciano stesso, pur riserbando le sue opinioni un po’ diverse sulla materia, fa una pittura vivace e caratteristica (ivi, 46) di quel sentimento primitivo; sentimento in cui di certo avevano parte l’inclinazione sensualmente artistica e il culto tutto proprio de’ Greci per la bellezza fisica, per la giovinezza, per la vigoria: ma che ciò nullameno l’antica civiltà greca concepiva essenzialmente in un senso elevato, come un’intima e pura corrispondenza delle anime, come un vincolo inteso a rafforzare nei giovani il valore e la virtù col cemento dell’affetto e dell’emulazione (Cfr. Plat., Simp., 178 e seg., Rep., III, 403; Senof., Rep. Lac., 2, 13; Plut., Pelop.): vincolo affatto scevro da ogni idea del turpe vizio che i Greci conobbero più tardi con quel nome:

Pudico amore che a virtù congiunto

D’ogni alma esser dovria dolce sospiro —

lo chiama lo stesso Euripide, da Eschine citato (C. Timarc.). Vero è che questa facoltà di astrazione in un sentimento di tal natura, questa facoltà di intenderlo come un sentimento puro ed etereo, in quella guisa che appare assai poco spiegabile e molto equivoca alle idee moderne, così prestava già il fianco agli epigrammi del malizioso Luciano il quale, vivendo all’epoca della corruzione romana, aveva le sue buone ragioni di esser incredulo: ma certo essa esisteva realmente nelle idee e nel costume dell’antica Grecia, se in tempi già corrotti, potè strappare a Filippo il Macedone, dinanzi ai cadaveri del battaglione degli amanti tebani, caduti eroicamente a Cheronea, la famosa apostrofe: Maledetti coloro i quali sospetteranno che siffatti giovani potessero mai commettere o subire alcuna cosa turpe! (Plut., Pelop., 18). E certo astraevano i Greci da ogni idea d’amor turpe, allorchè celebravano come affetto sublime e glorioso l’amor di Achille e di Patroclo, di Ercole e di Jolao, di Armodio e di Aristogitone (Esch., C. Tim.; Plut., Pelop.; Plat., Simp., 179), e attribuivano a quell’amore la potenza di infondere la virtù nell’animo più ignobile, e l’amante esaltavano come uomo divino, più ancor dell’amato, perchè pieno dello spirito di un Dio (θειότερον γὰρ ἐραστὴς παιδικῶν, ἔνθεος γάρ ἔστι — Plat., ib.). È appunto di quella distinzione fra l’amore onesto dei fanciulli e l’amor turpe che parla Callimaco (Framm., 107) raccomandando il primo coll’autorità di Senofonte:

«Voi che ai fanciulli avete gli occhi ghiotti

Se li amaste così come vi dice

L’Erchio (Senofonte) di amarli, la città di prodi

E valenti garzoni fiorirebbe» (πόλιν κεύανδρον ἔχοιτε).

E Callicratide, commentando que’ versi nella disputa degli Amori: «Con questa intenzione o giovani accostatevi modestamente ai buoni fanciulli e non nascondete libidini sotto falsa amicizia, ma adorando l’amore celeste, serbate dalla fanciullezza alla vecchiaia puri e saldi i vostri affetti: quelli che così amano di nessuna disonestà la coscienza li rimorde, e dopo la morte vanno celebrati nel mondo» (Luc., Am., 49). Di fronte ai quali elogi dell’amor puro, appare doppiamente caratteristica la nota di infamia di cui i Greci stessi segnarono la criminosa passione del tebano re Lajo per Crisippo, stimmatizzati da Eschilo e da Euripide come i primi introduttori del vizio abominando (Cfr. Plut. in Pelop.).

Che poi quella distinzione, fra amore e amore, la quale a noi sembra necessariamente strana, esistesse positivamente non soltanto nelle idee, ma anco nelle leggi della Grecia antica, in ispecie dei popoli dorici, ne abbiam documenti in Cicerone, il quale attesta che fra’ Lacedemoni ogni attestato di simpatia era permesso nell’amor dei giovani, tranne lo stupro («omnia concedunt in amore juvenum praeter stuprum.» — Cic., De rep., 4, 4): e in Eliano, che afferma: «l’amore maschile a Sparta nulla conobbe di turpe» (αἰσχρὸν οὔκ οἴδεν. — V. St., III, 12); e documento ancor più irrefragabile in Senofonte: «Licurgo determinò che se un uomo per bene, acceso della bellezza di un fanciullo, bramasse farlosi amico virtuosamente, e conversar seco, si lodasse un tale affetto e si giudicasse questo costume per onoratissimo. Ma se veniva a luce che alcuno desiderasse il corpo del fanciullo, questa cosa parendogli sozza fuor di modo, ordinò che fra’ Lacedemoni gli amanti si guardassero da usare coi fanciulli amati, non altrimenti che ne’ piaceri amorosi i padri si guardino de’ figliuoli, i fratelli dai fratelli» (Sen., Rep. Lac., II. — Cfr. Elian., V. St., III, 10): proprio le stesse parole che Alcibiade adopera nel Simposio di Platone, riguardo a’ proprj rapporti con Socrate (Simp., 219). Un’ultima testimonianza è in Massimo Tirio; ed è fra tutte la più notevole, perchè ritrae mirabilmente qual parte avesse in quell’affetto il senso artistico particolare dei Greci: «Non doveva uno Spartano amare un giovane che come avrebbe amato una bella statua, ἑρᾷν μόνον ᾤς ἀγάλματος καλοῦ. — Infine sappiamo da Plutarco e da Eliano che lo stupro fra gli amanti era a Sparta notato di perpetua infamia (Plut., Istit. Lac.) e punito coll’esilio e colla morte (Elian., V. St., III, 12).

Naturalmente, che rapporti di tal fatta tra uomo e uomo non fossero, pure in mezzo all’austerità e sofrosine dorica, affatto immuni da pericolo e potessero dar luogo ad abusi, queste leggi stesse di Licurgo lo provano: troppo tenue muro, per dirla con Cicerone, separava il lecito dall’illecito (tenui sane muro dissaepiunt — Lacedaemoni — id quod excipiunt. — De rep., 4, 4): e Luciano, che pare la sapesse lunga, trovando che «non è cosa piacevole star gli interi giorni con un garzone e patir le pene di Tantalo» e che «Amore va per una scala di cui la virtù non è che il primo gradino,» si divertì anche a dimostrar in che modo il muro facilmente potesse essere scavalcato. Non è quindi meraviglia se fra popolazioni meno austere delle doriche, e più dedite ai piaceri, lecito ed illecito si confondessero: e dai molli climi della Lidia e della Jonia si propagasse nella Grecia in tempi posteriori la nefanda usanza che Senofonte già ne addita (Rep. Lac., I, c.) invalsa a’ suoi tempi fra gli Elei, e che le leggi ad Atene come a Sparta e in altre parti della Grecia vegliavano severamente a reprimere, fino a che più forte delle leggi divenne la corruzione dei costumi, foriera della conquista macedone e romana.

Ora che Socrate proseguisse d’intenso affetto Alcibiade, rilevasi senz’altro dalle numerose testimonianze di Senofonte e di Platone: e difficilmente si saprebbe, per troppo scrupolo, fare differenza fra quell’amor maschile che Licurgo (l’ideale della scuola socratica) iscriveva nelle sue leggi, che Euripide, che Callimaco, che Plutarco commendavano, e il sentimento che traeva Socrate assiduamente e sempre e in ogni luogo, sulle peste del suo alunno, proprio come «alla caccia della bellezza di lui» fino al punto d’infastidirlo certe volte di quella sua assiduità (Plat., Prim. Alc., 104; Protag., 309). Ma da qui al vizio turpe che fu poi a Socrate attribuito, correa, come vedemmo, nelle idee greche la stessa distanza che dalla virtù all’infamia: ed è un fatto incontrastabile e notevolissimo che quella odiosa accusa contro Socrate non partì da nessuno dei suoi contemporanei, ma solo da scrittori di data assai posteriore, viventi in tempi di corruzione, in cui quella infamia era generalmente penetrata nei costumi. È sulla fede di poche linee del calunnioso Aristosseno (frammenti 25, 27, 28) che quell’accusa fu ciecamente riprodotta senz’esame e ben tardi da Cicerone, da Plutarco e dal caustico Luciano, il quale ci mostra Socrate nell’inferno alla caccia dei bei garzoni: e altrove scherzando sull’assicurazione di Platone, che cioè Alcibiade avesse dormito con Socrate sotto la stessa clamide come dorme un figliuolo con suo padre (Plat., Simp.), tentenna il capo con incredulità maliziosa e objetta malignando che «Socrate era un amadore come ogni altro, e se Alcibiade si corcò con lui sotto la stessa coltre, non se la passò così netta» (Luc., Amori). E altrove ancora: «Socrate giurava di non far cattivi pensieri quando accostavasi ai garzoni: ma molti temevano che Socrate spergiurasse» (Luc., Storia vera). Alcuni aggiunsero agli accusatori Giovenale, in causa d’un suo verso — Inter Socraticos notissima fossa cynaedos (Sat., II, v. 10), — dove probabilmente, secondo molti commentatori, l’error di un copista pose Socraticos invece di Sotadicos — dal nome non di Socrate, ma di Sotade, poeta per lascivie famoso e autore di versi oscenissimi, da Suida qualificati versus cynaedos. Ma per l’opposto, come dissi, sta il fatto che finchè Socrate visse, e nei tempi a lui più vicini, quell’accusa non gli fu mossa da nessuno, neppure (ciò che più importa) da’ suoi stessi nemici. Nè Aristofane nelle Nubi, nè Melito nella sua accusa (Plat., Apol.; Diog. Laerz., Socr. — Cfr. Senof., Apol.) ne fanno menzione. È vero che Melito accusa Socrate di corrompere la gioventù (ἄδικει δὲ καὶ τος νὲους διαφθείρων), ed anzi è da questa frase staccata che si credette poter indurre il maggior argomento a sostegno della turpe taccia. Ma quelle parole non sono se non il commento delle altre dell’accusa a cui immediatamente si legano, che cioè Socrate delinque non credendo gli Dei che la città crede, bensì altre nuove cose demoniache (οὔς μὲν ἤ πόλις νομίζει θεοὺς οὔ νομίζων, ἕτερα δὲ δαιμόνια καινά) e che ciò sia, che cioè l’imputazione di Melito si riferisse puramente e solamente alla dottrina religiosa e politica di Socrate, si rileva in modo irrefragabile, a non dubitarne, dalla risposta di Socrate stesso: «Rispondi, o Melito: Come corrompo io, per tuo dire, i giovanetti? Non forse, siccome dal tenore dell’accusa scritta (ὄτι κατὰ τὴν γραφὴν), insegnando a non credere i Numi che la città crede, sibbene altre cose demoniache nuove? non di’ tu ch’egli è insegnando tai cose (ὄτι ταῦτα διδάσκων) ch’io li corrompo? — Mel. Al tutto dico così» (Plat., Apol., c. 14). Neppure dunque la più piccola, la più lontana allusione allo infame vizio; e sì, Melito non era l’uomo da lasciarsela sfuggire: ed è ben a credersi, che quei suoi nemici implacabili non avrebbero taciuto in simile circostanza, se appena appena fosse stato loro possibile di accusare quell’uomo, il quale erigevasi a modello di virtù e di continenza, di una impudicizia brutale che le leggi attiche, non meno in ciò rigorose delle lacedemoni, severissimamente punivano e d’interdizione da ogni pubblico ufficio e d’infamia e di morte (Eschin., C. Tim.; Demost., C. Androz.; Senof., Simp., 8). E notisi che Eschine, nella stessa aringa in cui cita quelle leggi, non solo nomina Socrate con elogio, ma è il primo a confessare per proprio conto di frequentare i ginnasj e coltivare l’amor puro dei giovanetti e gloriarsene, come di «segno d’animo gentile:» e ricorda in proposito, a titolo di lode, gli esempj non pur di Achille fra gli antichi, ma fra gli stessi Ateniesi suoi contemporanei, di uomini liberi e bellissimi fra tutti i Greci, «onestamente vissuti e alieni da cosa turpe, i quali ebbero amatori molti e modesti e niuno li vituperò mai.» Egli è che appunto non di quell’amore si trattava nelle leggi ateniesi contro l’impudicizia: e non era già contro di esso che stava scritto: «Se un Ateniese farà oltraggio a un libero fanciullo, lo accusi ai tesmoteti chi ha in balìa il fanciullo e scriva la pena. Condannato nella persona, sia ucciso lo stesso giorno... Se un Ateniese si prostituirà non potrà esser uno degli arconti; nè fare ufficio sacro; nè giudicare col popolo; nè esercitare un magistrato, nè dentro nè fuori, nè a sorte nè per suffragio; nè andare araldo, nè dire il proprio parere; nè entrare nei pubblici templi; nè portar corona nelle feste solenni; nè andar nella piazza purificata dall’acqua lustrale. Il trasgressore di questi ordini, convinto di impudicizia, sarà punito colla morte» (Esch., l. c.).

È evidentemente, ripeto, impossibile lo ammettere che i nemici di Socrate, i quali lo ricercavano con tanto accanimento di condanna capitale, non pensassero ad invocare, nelle loro accuse, se appena lo avessero potuto, come Eschine ben li invocò contro Timarco, simili articoli di legge: il cui tenore è talmente esplicito, che, posti a raffronto col testo dell’accusa di Melito, la quale tace completamente di quel reato, basterebbero questi documenti soli a decidere in favore dell’innocenza di Socrate.

Solo alcune espressioni amorose nei dialoghi di Platone si presterebbero ad essere fraintese (come le fraintese di fatti Cornelio Nepote in Alcib.) da chi non abbia una chiara idea di quelle teorie sull’amor delle anime, su le attinenze fra la bellezza fisica e la bellezza spirituale, sull’amore inteso come il bisogno di produzione nella bellezza secondo il corpo e lo spirito, — che formano una delle parti più caratteristiche e più elevate della filosofia socratica (Senof., Simpos., 8; Plat., Simp., 209 seg.; Fedr.; Prim. Acib.; Rep., III, 403). Un bel corpo, diceva Socrate, promette sempre una bell’anima: e se questa non l’è, bisogna che sia stata negletta: indi Massimo di Tiro (Dissert., 9) distingue elegantemente dalla lubrica passione di cui molti antichi filosofi si macchiarono, il virtuoso affetto che Socrate portava a’ suoi discepoli, sopratutto ad Alcibiade, del quale soleva dire che egli era nato per la salvezza o lo sterminio della Grecia, secondo che nel suo spirito sarebbe prevalso il suo buono o il suo mal genio: per cui studiavasi di sviluppare in lui l’amore del bello e del buono e di distorlo cogli amorevoli rimproveri dagli eccessi di ambizione e dalle voluttà (Cfr. quadro II, nota 52). Nello stesso ordine di idee Plutarco narra come Socrate raccomandasse sovente a’ suoi discepoli di guardarsi nello specchio, affinchè se eran belli procurassero non macchiare quella bellezza con nessun vizio: se brutti, si applicassero a riparare alla bruttezza colle virtù (Diog. Laerz., Socr.).

Che se infine da nessuno dei dialoghi di Platone si può indurre alcun fondamento alla calunnia scagliata contro Socrate — abbondano invece le positive affermazioni in contrario, e nei dialoghi stessi, e quel che più monta, negli scritti di Senofonte, fra tutti i discepoli di Socrate il più veridico e il più coscienzioso. Nessuna testimonianza più esplicita di quella che Senofonte nei Memorabili (I, 2, 3) rende all’austerità dei principj e dei costumi di Socrate; e nulla di più severo ed acerbo delle rampogne con cui Socrate ivi cerca appunto distogliere Crizia dall’amore impuro di Eutidemo, di ciò svergognandolo siccome di vizio «servile, laido, bestiale,» e per cagion di tal vizio, paragonando Crizia ai porci (Mem., I, 2). Di che Senofonte aggiunge che Crizia legossela al dito, e prese tal odio a Socrate, che giunto al potere se ne vendicò: per credere poi che Socrate potesse bruttarsi di un costume ch’egli non si peritava di qualificare in altri a quel modo, bisognerebbe inventare un Socrate tutto diverso da quello che la storia ci tramandò, e fare di lui il tipo del più sfacciato tra gli impostori. E leggansi ancora, se non bastasse, in Senofonte, gli altri rimproveri di Socrate a Critobulo per distoglier lui pure dall’immondo vizio (Memor., I, 3); e la ragione che Socrate ci dà nel Simposio senofonteo dell’amor puro delle anime e dell’amor sensuale; e quello esaltare come figlio di Venere celeste, vituperar questo come costume da servo; lo si oda narrare come Giove di quanti mortali amò solo la bellezza fisica, li lasciò mortali com’erano, ma di quanti amò i pregi dell’anima li fece tutti immortali; e all’asserto di Agatone, che un esercito d’amanti sarebbe fortissimo, lo si oda contraddire affermando che quelli che son usi a non aversi più riguardo tra loro, non ponno arrossire di commettere viltà in faccia un dell’altro; lo si veda ammaestrar Callia a meritarsi l’amor di Autolico, studiando con qual’arte Temistocle facesse libera la Grecia, e con quale Pericle facesse grande Atene; — intendasi in Platone stesso, nel Fedro, la confutazione di Socrate contro Lisia intorno all’amore — e nel Filebo la sua definizione della voluttà — e nel Simposio la solenne testimonianza che Alcibiade gli rende, — e si converrà di averne di testimonianze, troppo più del bisogno, per concludere senz’altro alla assoluzione del più grande e virtuoso tra i filosofi antichi nel processo d’immoralità intentatogli dai posteri.

Su codesta questione dei rapporti fra Socrate ed Alcibiade, cfr. Gesner, Socrates sanctus pederasta; Cooper, Life of Socrates; Mendelshon, Fedone (nella vita di Socrate); Hecker, de Alcib. moribus; Schweighauser, Mores Socratis; Houssaye, Hist. d’Alcib.; Wieland, Aristippo, ecc.

451.  Storicamente questa scena che qui vien supposta ancora nel cuor della state del 407, cioè dentro il mese immediatamente successivo al ritorno di Alcibiade in Atene, dovrebbe invece riferirsi a un sei mesi circa più tardi, cioè a Posideone di quell’anno (dicembre 407 — gennaio 406). Alcibiade partì da Atene per la nuova campagna di guerra, quattro mesi dopo il suo ritorno trionfale, cioè agli ultimi di Boedromione (ottobre) del 407: e ottobre e novembre erano scorsi nelle prime operazioni di guerra contro le isole nemiche di Andro, di Rodi, di Coo; intanto la flotta spartana erasi rannodata, sotto gli ordini di Lisandro, ad Efeso, e lì presso avvenne in dicembre la disfatta di Antioco, di cui qui si parla. Qualche settimana dopo, nel gennaio 406, Alcibiade caduto di nuovo in disgrazia, rifugiavasi in Tracia.

452.  A determinate ore di sera e di notte, negli accampamenti greci, gli ufficiali di ronda (περὶπολωι) facevano la visita del campo e dei posti delle sentinelle (φυλακαὶ). Per assicurarsi che queste non dormissero, l’uffiziale portava seco un campanello (κώδων), al suono del quale la sentinella doveva rispondere, dichiarando la parola d’ordine o di riconoscimento. Indi κωδωνίζειμ, scampanellare, diceasi il far la ronda. La parola d’ordine era data dallo stratego: Senofonte nell’Anabasi ne ricorda parecchie, Giove salvatore, Ercole condottiero; Giove salvatore e la Vittoria; spada e pugnale, ecc. Più tardi Ificrate abolì il campanello e stabilì che della parola d’ordine la prima metà fosse data dall’uffiziale, l’altra metà dalla sentinella (Senof., Anab., I, VI, VII; Tucid., IV; Ulpiano in Demost., Parapresb.; Arist., Rane, ecc.).

453.  Nózio, piccola rada dell’Jonia, tra Colofone ed Efeso, presso alla foce del Caistro e quasi rimpetto all’isola di Samo, della quale isola la flotta ateniese aveva fatto in questa campagna la base delle sue operazioni, come gli Spartani se l’erano fatta di Efeso.

454.  Senof., St. Ellen., 1, 5, 6; Diod. Sic., Bibl., XIII, 71-73; Plutarco, Alcib., 35; Corn. Nep., Alcib., 7. Essendo Alcibiade nella nuova campagna navale ancorato colla flotta nella rada di Nózio, trovavasi in grandi angustie per penuria di danaro. Mentre la flotta spartana comandata da Lisandro era fornita di tutto a larga mano dall’oro persiano, e i nocchieri della medesima toccavano quattro oboli di paga, forniti dall’erario di Ciro, quei della flotta ateniese, che a stento potevano averne tre soli, cominciavano alto a mormorare; molti disertavano; il malcontento cresceva ogni giorno; e lo Spartano, che vi faceva assegnamento, tirava in lungo a bella posta la guerra. Alcibiade ben vide che bisognava uscirne al più presto. Decise quindi una spedizione per recarsi a prelevare dalle città alleate del litorale di Jonia e di Caria il danaro che occorrevagli a pagar gli arretrati delle truppe, visitare nello stesso tempo le fortificazioni che lo stratego ateniese Trasibulo stava costruendo a Focea sul golfo ermeo e concertarsi secolui sul modo d’affrettar le operazioni. Si avviò quindi a quella volta, lasciando la cura delle navi ad Antioco, il quale era bensì, dice Plutarco, buon pilota, ma uomo inconsiderato e prosuntuoso. A costui commise espressamente di non dar battaglia in sua assenza, neppur se i nemici fossero venuti a provocarlo. Ma Antioco, trasgredito il comando, con la sua propria trireme e un’altra del corpo della flotta, s’inoltrò sin dentro il porto di Efeso, rasentando le prode delle navi nemiche, con gran petulanza tanto di fatti che di parole. Lisandro, da prima, uscì fuori con poche navi ad inseguirlo; ma vedendo gli Ateniesi venir in soccorso di Antioco con altre navi, mosse pur egli tutte le sue. Così vennero a battaglia; le navi spartane in compatta ordinanza, e le ateniesi uscenti alla sfilata fuor di Nózio una dopo l’altra e andando qua e là sparse finchè perdute quindici galere voltarono le spalle. Lisandro prese quelle navi e molti prigioni, e rimasto ucciso nella mischia Antioco stesso, drizzò in Nózio il trofeo e fe’ ritorno ad Efeso. Gli Ateniesi si ridussero a Samo. — Così Plutarco e Senofonte raccontano il fatto che originò la seconda disgrazia di Alcibiade: e del quale, come dell’altre operazioni di guerra, si modificarono qua e là in questo quadro le circostanze di luogo e di tempo, a seconda delle esigenze drammatiche.

455.  Diod. Sic., Bibl., XIII, 73; Plut., Alcib., 35; Senof., St. Ellen., 1, 4.

456.  È noto che Anacreonte — il cantore di Bacco e degli Amori — era nativo dell’isola di Teo, e visse lungamente alla corte di Policrate tiranno di Samo.

457.  Libazioni della partenza: vedine esempio in Tucidide, nel racconto della partenza della flotta ateniese per la impresa di Sicilia: «... Come le navi furono piene della gente, lo squillo della tromba intimò silenzio e si fecero le preghiere consuete innanzi la partenza... quindi per tutta l’armata si mesceva il vino nei crateri, e i soldati non meno dei capitani libavano con tazze d’oro e di argento... Poichè ebbero cantato il peana e terminate le libazioni, salparono...» (Tucid., Guer. Pel., VI, 32). E in Omero, alla partenza di Telemaco: «Legati i remi ai fianchi della celere nave, incoronarono di vino puro le tazze e libarono agli Dei immortali sempreviventi, ma, sopra tutti, alla figlia occhi-azzurra di Giove» (Odiss. β. 430 seg. — Cfr. Virgil., Aen., III, 118).

458.  Coronare la tazza, κρατῆρα ἐπιστέφειν, diceasi il ricolmarla fino all’orlo: come appunto era uso di rigore nelle libazioni, perchè sarebbesi riguardato come insulto agli Dei il propinare ad essi con tazze non colme, ossia offrir libamenti che non fossero interi e perfetti (τέλειον καὶ ὄλον). (Aten., XV, 674). E coronate di vino, ἐπιστεφέας οἴνοιο (Omer., Odiss. β 431 — cfr. Aten., I, 3 d.) diceansi le tazze dei libamenti, così ricolme; però che il licore sporgesse in su dell’orlo a guisa di corona. Coronarono le tazze colme di vino puro, στήσαντο κρητῆρας ἐπιστεφέας οἴνοιο (Om., l. c.). — Coronò di vino le tazze d’oro, κρυσέους κρητῆρας ἔστεψε (Eurip., Jon.) — «Crateras magnos statuunt et vina coronant» (Virg., Aen., I). — «At pater Anchises magnum cratera corona — Induit implevitque mero» (Virg., Aen., III). — «Coronatus stabat et ipse calyx» (Tibul.).

459.  Aristof., Vespe, 525.

460.  Mare di Icaro o d’Icaria diceasi quel tratto dell’Arcipelago che si stende fra l’isole di Patmo, di Icaria e di Samo, e le coste della Caria, dalla foce del Meandro e da Mileto al golfo di Iaso e ad Alicarnasso. — Fu reso celebre dal volo di Icaro che gli diede il nome.

461.  Fu lo stratego Trasibulo, il maggior nemico che avesse Alcibiade nella flotta, che si affrettò a portar ad Atene la nuova del disastro di Nózio, e accagionandone l’incuria di Alcibiade, lo trasse di nuovo in disgrazia del popolo. Di che Plutarco scrive: «Se mai fu alcuno a cui la sua propria gloria abbia portato ruina, questi fu certo Alcibiade. Perocchè grande essendo questa sua gloria, ed essendo ei riputato pieno di coraggio e di prudenza per le belle imprese che fatte egli avea, se per sorte non ne avesse condotta alcuna a buon fine, si sospettava che ciò fosse perch’egli non vi si fosse applicato con tutta volontà, non potendo credere alcuno che egli non avesse potuto; ma tenendosi per sicuro che a lui non dovesse andar fallita veruna cosa che venisse da lui con premura intrapresa» (Plut., Alcib., 35). E Cornelio: «Nihil enim eum non efficere posse ducebant. Ex quo fiebat ut omnia minus prospere gesta ejus culpae tribuerent, quum eum aut negligenter aut malitiose fecisse loquerentur: sicut tum accidit. Nam corruptum a rege cepere Cymen noluisse arguebant» (Corn. Nep., Alc., 7. — Cfr. Senof., St. Ell., I, 4, 5; Diod. Sic., XIII, 73, 74).

462.  Ramoscello dei supplici, κετῶν ἐγχειρίδιον (Esch., Suppl., 22), κλαδος ικτήριος (Sof., Ed. re, 3), ἰκετηρία (Aristof., Pluto, 383), ecc. Usavano i supplici (ἰκέται), ossia le persone imploranti dagli Dei o dagli uomini soccorso o compassione o grazia o asilo, siccome colpite da sventura o da persecuzioni o sbandite dalla patria, o ricercate di pena per delitti commessi, seder presso gli altari tenendo in mano un ramoscello verde di olivo o di lauro, avvolto in fascie bianche di lana. Il supplice toccava con questi rami le ginocchia del Nume o del mortale di cui implorava il favore. «Veggo nel sacro antro un uomo inviso a Dio, bruttato di sangue, sedente in atto supplichevole, stendendo le mani, e protendendo un alto ramo di olivo, coronato di larghe fascie di lana candidissima» (Esch., Eum., 40 seg.). «Supplice degli Ateniesi, sedea presso gli altari pallido colla rossa sua veste» (Arist., Lisistr., 1140). «Io veggo uno che siederà sopra l’altare tenendo in mano il ramo dei supplici insieme coi pargoli e la moglie» (Aristof., Pluto, 382 seg.). — All’ara di Minerva sull’Acropoli andarono a sedersi supplichevoli, cercando scampo, Cilone e i suoi compagni proscritti dagli Ateniesi (Tucid., I, 126. — Cfr. Omero, Iliad. α; Esch., Suppl.; Eurip., Supp., Jon, Alceste, Eracl., ecc.).

463.  Più tardi — troppo tardi — gli Ateniesi dovevano pentirsi d’essersi un’altra volta privati della spada di Alcibiade (Plut., Alcib., 38). Quanto agli Spartani, essi stessi confessarono che la vittoria di Nózio era da principio in sè stessa ben poco o nulla, ma divenne tutto per loro, poichè trasse seco la caduta di Alcibiade e tolse ad Atene il più formidabile de’ suoi difensori (Plut. Lisand., 5).

464.  Senofonte celebra i Persiani siccome severissimi contro l’ingratitudine. «Puniscono essi quel peccato per cui gli uomini si odiano l’un l’altro sommamente, senza citarsi in giudizio, che è l’ingratitudine: e se vengono a conoscere che alcuno, potendolo fare, non abbia mostrato prova di essere grato, gli danno aspro castigo. Perciocchè pensano che gli ingrati non fan conto nè degli Dei, nè dei parenti, nè della patria, nè degli amici» (Senof., Ciropedia, I, 1).

465.  I Traci, che da Teiras discendente di Giapeto furono chiamati Teíres (Joseph., Ant. Iud., I, 6) e poi Traci (Θρήικες, Θρᾶκες), occuparono anticamente un vasto paese che comprendeva una parte della Macedonia e la regione stendentesi da occidente ad oriente tra il fiume Strimone e il Ponto Eusino; e da settentrione a mezzodì, fra la catena del monte Emo e il mar Egeo. Quest’era la Tracia propriamente detta (ossia l’odierna Romelia): però sotto il nome generico di Traci si chiamarono dai Greci anche i popoli a settentrione dell’Emo, fra l’Emo e il Danubio, come i Geti confinanti cogli Sciti, i Treri, i Triballi, ecc. (Erod., V; Strab., VII; Tucid., II). Erano divisi in varj popoli. Gli uni, come i Bessi, crudeli e feroci, assai temuti e poco noti, non vivevano che di rapina. Gli altri, truppe mercenarie, prestavano soccorso a chi li chiamava, e sotto la condotta di un capo della loro nazione, servivano indifferentemente partiti contrari — come gli Svizzeri dell’Evo moderno. Tali gli Odomanti, di cui parla Tucidide, che fornivano truppe agli Ateniesi: tali quelli che abitavano le montagne, e gli autónomi (Dii, Triballi, ecc.), di cui Sitalce compose il suo esercito: tali ancora tutti quei corpi di Traci che erano al servizio d’Atene, di Lacedemone, e dei re di Macedonia e d’Asia. Infine, i terzi, retti a forma monarchica, eran governati da re. Dai tempi delle guerre di Troja vedonsi menzionati Reso e Polti re di Tracia; poco dopo, uno dei figli di Teseo sposò la figlia di un re di Tracia. La migrazione dei Traci in Asia di cui parlano Erodoto, Strabone ed Eusebio ci dà il nome di alcuni antichi re traci. Omero ne nomina parecchi del Chersoneso e delle altre parti della Tracia: e Reineccio cita gli autori che ne fan conoscere altri (Tucidide, II, V; Polib., V; Erodoto, I, III, VII; Strabone, VII; Euseb., Chron. — Freinshem., Supp., Q. Curio, I, 5).

Ma questo fatto, come quelli che riferisce Diodoro Siculo (lib. III) delle conquiste di Bacco nella Tracia e di alcuni re di questa nazione, appartengono a tempi mitici o tenebrosi; solo alcuni secoli dopo si può tener dietro alla dinastia di questi re, quando cioè la Tracia propriamente detta, sotto la potenza del re degli Odrisj, si stendeva dall’occidente all’oriente, dal fiume Strimone sui confini della Macedonia al Ponto Eusino: e dal settentrione al mezzodì, dall’Emo al mar Egeo, abbracciando dal lato del mare tutta la costa da Abdera sino alla foce dell’Istro o Danubio (Tucid., II, 96). Di questo reame degli Odrisj faceano parte, a occidente lungo lo Strimone, i varj popoli dei Peoni di cui parlano Omero (Iliad., X, 428), Tucidide (II, 96), Euripide (Reso); ad oriente, verso il mar di Marmara, i Tinj, i Tranipsi, i Melandepti, su cui Seute rivendicava la sua signoria (Sen., Anab., VII, 2).

Si vedono, è vero, comparire qua e là altri re traci; ma sia che la loro potenza si limitasse in breve contrada, sia che non fossero che capi di tribù barbare, sono appena nominati nella storia. Solo il regno degli Odrisj, la più considerevole delle dinastie di Tracia, fornisce una successione di re che faccia parte della storia greca e romana. Teres o Tyres (Erod., VII) ne fu il fondatore (da non confondersi con Tereo noto per la favola di Progne e Filomela).

466.  Patti, allo sbocco dell’Ellesponto sulla Propontide, a circa 150 stadj da Egospótamo. Castello di Tracia ove si recò Alcibiade, dopo lasciata la flotta, secondo Diodoro Siculo (XIII, 13).

Gli altri storici nominano invece altre località della Tracia. Plutarco (Alc., 36) dice che Alcibiade rifugiossi ad una sua rocca presso Bisante (sulla spiaggia nord-ovest della Propontide, oggi mar di Marmara). Cornelio Nepote narra ch’ei recossi a Perinto (pure sulla spiaggia settentrionale della Propontide, ma ad Oriente di Bisante) e vi fortificò tre castella: Borno, Bizia, Macrontichos. Senofonte (St. Ell., I, 5) dice semplicemente che Alcibiade recossi ai suoi castelli del Chersoneso. — Tenendo conto di questa indicazione di Senofonte, l’autore qui prescelse la lezione di Diodoro, essendo Patti più vicino all’Ellesponto e ad Egospotamo, vicinanza richiesta dall’ultima scena del quadro.

467.  Intorno al costume trace, cfr. i ragguagli abbastanza concordi di Erodoto sull’abbigliamento dei Traci strimonj nella spedizione di Dario, e di Senofonte sull’abbigliamento dei Traci di re Seute: «I Traci poi combattevano portando alopéchidi (ἀλωπεκεας) in capo, tonache (κιθῶνας) sul corpo, e al disopra delle tonache indossando saj o mantelli variopinti (ζειράς ποικίλας); sui piedi e sulle tibie, calzari di pelle di cerbiatto (πέδιλα νερβῶν); per armi, giavellotti e pelte e sciabole corte» (Erod., VII, 75). «Era tanto il freddo che l’acqua portata alla cena agghiacciò, e così il vino nei vasi: e allora si fece manifesto per qual motivo i Traci portano pelli di volpi sulla testa e sulle orecchie, e tonache non solamente sul petto ma anche sulle coscie, e vesti fino ai piedi quando cavalcano, invece di clamidi» (Senof., Anab., VII, 4). Le alte calzature dei Traci in pelle di cerbiatto, coprenti metà delle gambe, son chiamate embadi (ἐμβαδες) in Polluce (IV, 25). — Questi ragguagli concordano anche col vestiario di un bassorilievo raffigurante il trace Orfeo e descritto da Heuzey nel Diction. des Antiq. gr. et rom. (Paris, 1873), dove il poeta trace porta appunto alla foggia nazionale gli alti calzari di pelle, e l’alopechide, una sciabola curva alla cintura, e al di sopra della tonaca un mantello ch’è probabilmente la zeira (ζειρὰ) di cui parla Erodoto. — Delle armi eran sopratutto nazionali la pelta, scudo piccolo e leggiero, a forma di mezzaluna, o, secondo altri, di foglia d’edera; il giavellotto (pugnabant jaculis Thraces. Ovid., Ibis, v. 135) e l’arco, nel cui maneggio, stando a cavallo, erano celebratissimi (Plut., Alc., 37). Tucidide ricorda popolazioni tracie, di là dall’Emo, tutte di arcieri a cavallo; e Traci montanari (Dii) armati di daga (Tucid., II, 96). Atene aveva corpi mercenari di peltasti traci, armati di pelta e daga (Tucid., IV, 28; VII, 27). Omero (Iliade, X, 428) nomina i traci Peoni «dai curvi archi.» Euripide poi così descrive l’esercito dei Traci del re Reso: «Molti erano i cavalieri, molti i peltasti, e molti gli arcieri; seguiva una gran turba di armati alla leggiera, portanti la lunga tunica (στολή) tracia» (Eurip., Reso, v. 311 seg.). Cfr. anche l’armamento dei Traci di Perseo in Plutarco (Paolo Em.).

468.  L’uso del berrettone di pelle di volpe (ἀλωπηκις), ch’era come l’elmo nazionale dei guerrieri traci e serviva a proteggerli dai geli del loro clima, si perpetuò fino a’ dì nostri in quelle contrade: anzi sembra che di là venisse trasportato nel costume di alcune armi speciali degli eserciti europei. L’alopechide degli antichi Traci aveva la forma di un elmo antico a punta; la coda della volpe penzolava a guisa di criniera dietro il collo insieme colle due zampe posteriori dell’animale, che al bisogno servivano di giugulari per allacciar l’alopechide sotto il mento. — Così osservasi nel bassorilievo citato sopra di Orfeo, e in una pittura di vaso antico raffigurante Reso re dei Traci.

469.  L’uso delle sciabole, o scimitarre, era comune ai Persiani, agli Sciti e ai Traci, come si vede da Erodoto (Polym.) e da Ammiano (Cfr. le note 3 e 44 a quest’atto). Quanto alle ragioni di prudenza e vigilanza che doveano consigliare ai Traci di Seute questo sedersi armati, anche a tavola, vedi più sotto la nota 55. Così pure degli Sciti, viventi alla stessa guisa dei Traci, una vita nomade e battagliera, in lotte continue fra tribù e tribù, Luciano fa dire a Solone: «Fra noi (Ateniesi) è bensì vietato portar ferro in città senza bisogno e uscir armati in pubblico, ma voi Sciti siete scusabili se vivete sempre colle armi alla mano, perchè non abitate tra ripari; le insidie sono facili, i nemici molti, e siete sempre sul sospetto che mentre dormite non vengano ad assalirvi sul carro ed uccidervi. La scambievole diffidenza, il vostro vivere sciolto e senza legge, vi fa sempre necessario il ferro, per averlo pronto alla difesa» (Luc., Ginnas., 34).

470.  Intorno ai costumi e agli usi dei Traci nel banchettare, cfr. specialmente Senofonte nell’Anabasi (VII, 3). — La cena data da Seute a Senofonte e ai suoi compagni d’armi, e da Senofonte ivi narrata, ebbe luogo nel 401 av. l’E. V., anno della spedizione del giovine Ciro: e quindi poco più di tre anni prima dell’epoca della presente scena, che supponesi sulla fine del 405. Vi è quindi completa contemporaneità di costumi.

471.  Superfluo avvertire che questo Seute è il medesimo di cui parlano Senofonte (Anab., VII) e Tucidide (II, 101).

472.  Per il senso storico e drammatico delle prime scene di questo quadro, giova richiamarsi al passo di Plutarco (Alcib., 23) citato al quadro V, n. 37, intorno alla facilità camaleontica di Alcibiade nello adattarsi secondo i vari paesi ai più opposti costumi. E Cornelio Nepote: «Vantarono di lui (Alcibiade) che, in Atene, città splendidissima, vinse tutti nello splendore e nel fasto della vita: indi espulso, fra i Beoti, più prestanti in robustezza di corpo che in acume di ingegno, nessuno potè eguagliarlo in fatiche e in vigoria di membra; poi tra i Lacedemoni, usi ai disagi, nel regime di vita durissimo e in rigidezza di costumi tutti i Lacedemoni vinse; fu anche fra i Traci, uomini vinolenti e dediti ai piaceri venerei, ed essi pure in tali cose superò; andò tra i Persiani, fra i quali è somma lode la bravura nella caccia, e il vivere lussurioso: e ne imitò siffattamente i costumi, da destare fra essi stessi l’ammirazione» (Alcib., 2). — Ateneo ripete le stesse cose, con qualche altro particolare applicabile a questa prima scena del quadro: «... in Thessalia vero (Alcibiades) cum alendis equis et aurigationi vacaret, peritiorem illius artis fuisse (dicunt) quam Aleuades. Spartae vero patientiae et constantiae studens, Spartanos omnes superavit; in Thracia rursus Thracas meri potui antecelluit» (Aten., Deipn., 534). — Ed espertissimi in gittar freccie e cavalcare, son detti i Traci da Plutarco (Alcib., 37). — E allevatori e addestratori di cavalli (ἱπποπόλοι) son chiamati da Omero (XIII, 4. — Cfr. Luciano, Icarom, 11; Strabone, VII, 3; Eurip., Reso).

473.  Quadro I, n. 62, 63, 64. — Quattro furono, com’è noto, i grandi giuochi della Grecia; gli Olimpici, i Pitici, i Nemei e gli Istmici. Celebrati come feste nazionali, accessibili a tutti i popoli greci, da queste solenni radunanze si può ripetere la invenzione della parentela delle schiatte (cfr. quadro III, scena 4; e Aristof, Lisist., 1128 seg.) o l’albero genealogico degli Elleni, che fu poi universalmente accolto come un trovato dei sacerdoti di Delfo dell’ottavo secolo, e valse più di tutto a cementare il sentimento della unità nazionale fra i Greci. Infatti Archiloco, il poeta nazionale dei giuochi olimpici, fu il primo, verso il 700 av. l’E. V., ad usar la voce Elleni come denominazione generale (Framm. 54).

I giuochi Pitici ab antico si celebravano ogni quattro anni nella Focide, nella pianura tra Delfi e Cirra, in onore di Apollo che ivi uccise il serpente Pitone. Euriloco Tessalo cogli Anfizioni, nella guerra sacra contro i Cirrei, profanatori del tempio delfico, dopo l’eccidio di quel popolo, li ripristinarono con nuovo lustro e nuove gare musicali, cui furono poscia aggiunte le gare ginniche ed equestri e dei carri. Aveano luogo durante l’adunanza di primavera del consiglio degli Anfizioni: ai vincitori in origine davasi un premio di danaro (agone pecuniario, χρηματίτης), poi si sostituirono le corone d’alloro (agone coronario, στεφανίτης), dal quale le Pitíadi si cominciarono a contare — fissando la prima Pitíade numerata all’olimpiade 49ª (581 av. l’E. V.).

Dei giuochi Nemei la leggenda attribuiva l’origine ai funebri celebrati dai sette duci di Argo con Adrasto, sotto Tebe (1336 av. l’E. V.), nella selva Nemea, per la morte del fanciullo Archemoro, figlio del re dei Nemei. Ercole li rinnovò e fece rifiorire, dopo ucciso il leone Nemeo; ma la prima Neméade famosa, da cui si cominciarono a contare le altre, ebbe luogo nella olimpiade 72.ª (490 av. l’E. V.) dopo la battaglia di Maratona, ad onore dei Greci in essa caduti. Però n’era funebre il rito: si celebravano in un bosco di cipressi (presso Nemea nell’Argolide); quelli che vi presiedevano indossavano negre vesti: e ai vincitori davansi in premio corone di apio verde, simbolo funereo. Ricorrevano nel secondo e quarto anno d’ogni olimpiade.

I giuochi Istmici furono istituiti, secondo la leggenda, da Sisifo re di Corinto, in commemorazione di Melicerta gettatasi, per disperazione del figlio spento, col piccolo Ino in mare. Celebravasi il funebre agone all’istmo di Corinto, dove era fama che un delfino avesse recato il cadavere di Melicerta. Più tardi, infestato l’istmo dai ladroni, i giuochi decaddero: finchè Teseo, liberata la contrada, li ristabilì, dedicandoli a Nettuno, a cui fu eretto sull’istmo un tempio famoso. Laonde, secondo Plutarco, celebraronsi i giuochi in due forme: di notte per Melicerta, secondo il rito di Sisifo, e avean forma più di funebri sagrifici che di spettacoli; di giorno, in onor di Nettuno, secondo il rito di Teseo; e davasi ai vincitori alternamente o una corona di pino, albero sacro a Nettuno, o di apio secco come funereo ricordo della madre di Ino. — Ricorrevano il primo e secondo anno d’ogni Olimpiade: e che ai tempi di Solone questi giuochi rifiorissero, lo prova la legge che accordava 500 dramme attiche ai vincitori di Olimpia (olimpiònici) e 100 ai vincitori dei giuochi istmici (istmiònici).

Ma sopra tutti celebratissimi i giuochi Olimpici poteano dirsi il più splendido e vero compendio della vita nazionale dei Greci. La leggenda ne chiamava primo istitutore Ercole: il quale inseguendo dal monte Menalo la cerva sacra di Diana, per le foreste di Arcadia, giunse agli Iperborei, ed ivi raggiunta la belva, ne riportò, in segno di vittoria, l’olivastro, affrettandosi nel ritorno alla celebrazione dei sagrifici nell’Elide, ad Olimpia. Decaduti ai tempi della guerra trojana, dovevano tornare a rifiorire col ritorno dei discendenti di Ercole, ossia colla invasione dei Dori nel Peloponneso; infatti Licurgo, insiem con Ifito re dell’Elide, secondo la tradizione, li rinnovò: il rinnovamento fu sancito dall’oracolo dorico di Delfo, e vi accedettero, un dopo l’altro, tutti i popoli della Grecia. Però le olimpiadi non cominciarono a contarsi che un secolo dopo, a datare dall’anno 776 (primo della prima olimpiade) in cui Corebo di Elea riportò il premio dei giuochi. Si celebravano ogni quattro anni verso il solstizio estivo nella magnifica vallata dell’Elide intorno a Pisa, bagnata dall’Alfeo, rallegrata di ombre dal bosco sacro dell’Altis, superbo di templi, di altari e di portici e di statue e di trofei: e torreggiante fra quel popolo di marmi, il miracolo di Fidia: il Giove Olimpico. Prima che cominciassero i giuochi, alcuni inviati degli Elei bandivano una tregua sacra: e tutte le ostilità cessavano in Grecia per tutto il tempo ch’era necessario per andare ai giuochi e ritornarne. Duravano i giuochi cinque giorni dall’11 del mese (cioè dal 1 luglio) in poi: al 16 terminavano con sacrificj e banchetto e processione; e colla proclamazione dei vincitori (Olimpiònici), ai quali veniva dai giudici delle gare (Ellenodici) conferito il premio della corona d’ulivo (κότινος). — Olimpìade chiamavasi il periodo dei quattro anni dall’una all’altra solennità.

I giuochi ginnastici consistettero dapprima soltanto nella corsa a piedi (δρόμος) sullo stadio, di cui gli stadiódromi dovean percorrere l’intera lunghezza (un ottavo di miglio): poi si istituì la corsa del diaulo o doppio stadio; e infine del dólico, in cui i dolicódromi correan dodici volte lo stadio. Alle corse si aggiunse più tardi il pentatlo o quinquerzio (riunente cinque esercizi: salto, gitto del disco e del giavellotto, corsa e lotta) e il pancrazio, esercizio di lotta e pugilato. Più tardi ancora, nel 680, si introdussero i giuochi equestri, delle corse a cavallo (κέλης) od in cocchio (ἄρμα), biga o quadriga. La corsa dei cocchi precedette naturalmente quella degli uomini a cavallo, come anche nella milizia greca l’uso dei carri precedette quello della cavalleria, ed era la parte più splendida dello spettacolo: che se la rarità dei cavalli e la spesa del mantenerli rendeva questa gara accessibile alle sole persone di ricchissimo censo (e fu celebre vanto di Alcibiade l’aver corso nei giuochi con sette carri), — le altre gare erano aperte così al ricco come al povero e al plebeo, e vietavano il monopolio della gloria.

A noi è appena dato di comprendere l’estrema importanza che annettevano i Greci alla vittoria in questi giuochi: e nulla di più caratteristico degli onori tributati dai varj popoli ai vincitori. L’Ateniese acquistava diritto ad un seggio presso i magistrati nel Pritaneo; lo Spartano a un posto eminente in campo, vicino al re. Il vincere in Elide conferiva celebrità per tutta la vita, più gloriosa ad un Greco che non ad un Romano aver gli onori del trionfo (Cic., Pro Flac., 31): onore agognato dai capitani più illustri e dai re. E il premio, una ghirlanda d’olivastro! Ma le acclamazioni della Grecia adunata, la pioggia di fiori, il banchetto appartato pel vincitore, le canzoni di Archiloco e di Pindaro che lo immortalavano, il pubblico registro che ne iscriveva i nomi a memoria dei posteri e li ricordava nelle date degli eventi, il privilegio di una statua nell’Alti, il diritto di ritornare alla propria città passando per una breccia nel muro, a significar che di mura non abbisognava la città che possedeva tali cittadini; il primo posto nei pubblici spettacoli, la gloria, in breve, diffusa per ogni angolo di terra dove giungesse la civiltà greca — quest’era propriamente la corona d’ulivo del vincitore di Olimpia!

E queste splendide radunanze altrettanto libere a tutti i Greci (onde il loro nome di panegirìe o adunanze universali) quanto gelosamente interdette a ogni straniero, non solo rammentavano periodicamente ai Greci le comuni origini e il nome nazionale, non solo alimentavano in ogni classe l’emulazione e il desiderio della gloria; ma erano potenti fattori di progresso intellettuale. Poichè in tempi in cui la pubblicità era nulla, e quasi nulli i mezzi per diffondere le utili cognizioni, dovettero considerarsi per grande beneficio queste solennità che attiravano a Olimpia e magistrati e guerrieri e filosofi e artisti e il fior degli ingegni da ogni parte della Grecia: indi le radunanze olimpiche divennero anche palestre dell’arte e delle lettere: e fu visto allora Erodoto leggere in Olimpia le sue storie e dal suo labbro pendere la Grecia! (Pindaro e Scol.; Tucid., VI, 16; Isocr., de Big.; Pausania, ecc. — Corsini, Dissert. Agon.; Meier, Giuochi Olimp.; Krause, Pizj, Nem., Ist.; Bulwer, Atene; Scaligero, Dodwell, Grote, Gilles, ecc.).

474.  Il celete (κέλης) dianzi nominato, ossia cavallo da sella per le corse, sembra fosse lo stesso che fra i Latini il pullus desultorius (Sveton.), dai cavalieri detti desultores (ἀναβάται), perchè correndo con due cavalli a dorso nudo destramente saltavano dall’uno all’altro. Al che accenna Omero ove descrive il naufragio di Ulisse che per salvarsi dal furore dell’onde si slancia sopra una tavola come se balzasse rapidamente sul dorso al celete, κέληθ’ ὤς ἵππων ἐλαύνων (Odiss. έ. 371). E Aristofane, dove introduce Strepsiade a lamentarsi degli scialacqui di suo figlio Filippide, che getta i danari in cavalli ed in bighe — ἱππάζεται καὶ ξυνορικεύεται (Aristof., Nubi, 15) — sembra che accenni ai puledri celeti e alle bighe per le corse di Olimpia (Cfr. Pind., Olimp. e Scol.). Delle vittorie equestri di Alcibiade alle gare di Olimpia, celebrate da Euripide e da Plutarco, si è già accennato al quadro I.

475.  Sabazio (Σαβάζιος), nome col quale Bacco era chiamato dai Traci (Aristof., Vespe, 9, 10; Ucc., 873; Lisis., 388. — Cicer., De legib., II, 15).

476.  Dei Numi greci, veneravano i Traci specialmente Marte, Bacco (Sabazio) e Diana: i loro re poi veneravano in particolare Mercurio, da cui pretendevano trarre l’origine e giuravano per lui (Cfr. l’autore del Viaggio d’Anten., c. 92).

477.  «Noi Ateniesi più d’ogni altra gente consumiam viveri stranieri e da niun altro emporio ne tiriamo quanto dal Ponto; chè quel paese non solo di biade è ricchissimo, ma inoltre Leucone (re di Tracia) ne sgravò di tasse il trasporto in Atene: e con questa franchigia compensa i beneficii nostri» (Demost. in Leptin.). «Nessuno è così semplice da credere che Filippo non adocchi i porti d’Atene, i suoi arsenali, il naviglio, le miniere, le entrate, la gloria, ma per un po’ di miglio e di spelta custoditi nelle spelonche di Tracia, si accontenti di svernare in quel baratro» (Demost., Filipp., IV).

478.  Notissima la favola di Tereo re di Tracia, che sposò Progne figlia del re ateniese Pandione; e della trasformazione di Tereo in upupa, di Progne in rondine, e di Filomela sua sorella in usignuolo. — E a quel rapporto mitico di parentela fra i Traci e gli Ateniesi sembra infatti alludere Seute, anche in Senofonte (Anab., VII, 2), malgrado che il Tereo della leggenda avesse regnato propriamente non in Tracia, ma nel territorio greco della Focide, secondo Tucid., II, 20, e Strab. VII. Vero è che Seute, in fatto di vincoli fra Atene e la Tracia, poteva alludere anche alla discendenza del trace Eumolpo da Eretteo re d’Atene, ed anche a rapporti più reali e più vicini: cioè la cittadinanza ateniese accordata al figlio di Sitalce re de’ Traci antecessore di Seute e l’alleanza conchiusa fra Sitalce stesso ed Atene, nel terzo anno della guerra del Peloponneso, cioè ventitrè anni prima dell’epoca di questa scena (Tucid., II, 29. — Cfr. Aristof., Acarn., v, 141 seg.). Sulla favola di Tereo, Progne e Filomela (vedi Pausan., Attic., 41, Focid., 4; Esiod., Op. β e scol., Aristof., Ucc. e scol.; Fozio, Narr., 31; Apollod., III, 14; Ovid., Metam., VI, 423 seg.; Marziale, XIV, ep. 73; Varrone, IV; Igin., Fab., 45, ecc.).

479.  «Dal suddetto Tereo re dei Traci differiva Tereo che sposò Progne figlia di Pandione ateniese, anzi neppure alla medesima Tracia apparteneva. Tereo dimorava in Daulia, città del contado ora detto Focide, e a quei tempi abitato dai Traci, dove appunto le donne commisero l’attentato contro Iti: ond’è che molti poeti menzionando l’usignuolo gli danno il soprannome di Daulia» (Tucid., II, 29).

480.  Demo della tribù Leontide (Vedi quadro I, nota 55).

481.  Sull’epiteto di Traci attribuito a Eumolpo, a Orfeo, ecc., vedi avanti, nota 41. «Questo Eumolpo era di Tracia, figlio di Nettuno e di Chione, che nacque dalle nozze di Borea con Oritìa, la figlia di Eretteo re d’Atene» (Paus., Att., 38): Eumolpo era quindi pronipote di Eretteo. Indi la leggenda narrava che per rivendicare i suoi diritti sul regno di Atene, Eumolpo coi Traci avesse invaso l’Attica, venendovi in soccorso agli Eleusini ribellatisi, mentre vi regnava il secondo Eretteo. Venuti a pugna presso Eleusi, il re Eretteo e gli Ateniesi, grazie al sagrificio di Agraulo figlia del re, rimasero vincitori; fu quindi fatta la pace, e quei di Eleusi si sottomisero ad Atene, a patto che essi sarebbero rimasti in possesso dei misteri di Cerere e che il sacerdozio di Cerere e di Proserpina sarebbe riserbato ai discendenti di Eumolpo (Paus., Att., 38; Isocr., Panaten.; Stobeo, Serm., 38; Igin., Fab., 46; Meurs., Reg.; Ath., II, 8-10.) Eumolpo poi fu sepolto nel demo di Scambonide (ove nacque Alcibiade) e il suo sepolcro vi esisteva ancora al tempo di Pausania, per testimonianza di Pausania stesso che lo visitò.

482.  «A tutti poi furono portati dei tripodi, ed erano una ventina, pieni di carni sminuzzate, e insieme colle carni infilzati grandi pani con lievito. Apponevansi sempre le pietanze primamente a’ forestieri: e ciò fece Seute pel primo, il quale, pigliando i pani che stavano dintorno a lui li fece in piccoli pezzi e li gettò a quelli che meglio gli parve, e così anche le carni, riserbandone per sè tanto solo da assaggiarne. E questo medesimo fecero anche gli altri (Traci) presso i quali fossero delle pietanze. Ma un Arcade per nome Aristo, gran mangiatore, non curandosi punto di quello sminuzzamento, e pigliato in mano un pane di forse tre chenici e postasi anche sulle ginocchia la carne, si pose a cenare...» (Senof., Anab., VII, 3). Il chénice era quanto bastava al nutrimento di un giorno: come misura cubica di capacità, equivaleva circa al litro, e come misura di peso al chilogramma, scarso.

483.  Chiechenei (Κεχηναίοι, Aristof., Caval., 1263; Κεχηνότης, Luciano, Scita, 11), ossia bocche spalancate. Su questo soprannome epigrammatico degli Ateniesi, che qui Cimoto, da quel degno parassita filosofo che è, applica alla valentìa delle proprie mascelle, di cui è occupato a dar le prove, vedi il quadro IV, nota 10. Strano che il Cappellina, di solito esatto, abbia così malamente tradotto Κεχηναίων πόλις per città degli Sbadati; aggettivo ch’è appunto il rovescio dell’idea del vocabolo greco: il quale deriva da χάω, aprir la bocca, ed esprime precisamente, coll’idea dello spalancar di becco dei pulcini all’appressarsi della chioccia, quell’attenzione stupida, intensa, a bocca aperta, di chi pon mente avidamente a qualche cosa.

484.  Celebrati da Omero:

Han duce (i Traci) Reso, il figlio

d’Eroneo: e a lui vid’io destrieri

Di gran corpo ammirandi e di bellezza,

Una neve in candor, nel corso un vento.

(Iliade, X, trad. del Monti)

dove, fra parentesi, quest’ultimo verso del Monti, per quanto lodato, mi sembra nella sua cadenza lenta e pesante, assai lontano dal rendere la dolcezza, l’agilità e la rapidità pittoresca del verso greco, uno dei più belli della Iliade:

λευκότεροι χιόνος, θείειν δ’ἀνέμοισιν ὁμοῖοι

sembra sentir il volo dei cavalli. Virgilio s’appropriò anch’egli questo verso:

Qui candore nives anteirent, cursibus auras

che non val neppur esso quello d’Omero. — Anche Euripide celebra i cavalli di Reso, più candidi della neve, χιόνος ἐξαυγεστεροι, Reso, v. 304.

485.  Sull’usanza rigorosa dei re Traci di pigliar doni anzichè di darne, «tanto che nulla far si poteva senza donativi» (vedi Tucid., G. Pel., II, 97; Senof., Anab., VII, 3). Il dono del re ad Alcibiade è qui dunque una eccezione: se ne ha per altro un esempio in Senofonte stesso, nei doni di Seute a Cleanore e Filisco «che Seute avea guadagnato dando all’uno un cavallo, all’altro una donna» (Anab., VII, 2).

486.  Nel capitolo citato dell’Anabasi — poi che gli altri convitati ebbero bevuto e fatti i doni al re, Senofonte ritrovasi in imbarazzo per non aver nulla da donare; e se la cava da pari suo: «Però (avendo già bevuto oltre il solito), si levò (Senofonte) coraggiosamente e, preso il corno di vino, disse: «Io, o Seute, ti dono me stesso e questi miei compagni come tuoi amici fedeli, i quali desiderano di faticare e pericolarsi in pro’ tuo. Con costoro, se gli Dei lo vogliono, tu ricupererai l’ampio paese tuo ereditario, ed altri ne acquisterai...» (Senof., Anab., VII, 3).

487.  Dei Traci montanari, contro i quali fu intrapresa la spedizione di Senofonte in soccorso di Seute, vedi Senof., Anab., VII, 4; VII, 2. — Cfr. Tucid., II, 96; Tacit., Annal., IV.

488.  «ἄνδρας ἠγοῦνται μόνους — τοὺς πλεῖστα δυνατοὺς καταφαγεῖν τε καὶ πιεῖν (Arist., Acarn., 77). Sulla nomea dei Traci come eccessivamente dediti al vino e all’ubbriachezza, vedi i passi citati di Cornelio Nepote (Alc., 11) e Ateneo (XII, 534 b); e così pure Ateneo (X, 442 f); Aristofane (Acarn., 141); Eliano (V. St. III. 13, 15). Indi il loro carattere insolente, violento e sfrenato (Aten., ibid. — Cfr. Luciano, Icarom., 15), pel quale eran venuti in proverbio: e diceasi θράττειν, tracizzare, imitare i Traci, per denotare maniere arroganti e sboccate (Macrob., Saturn.). Celebri, del resto, erano i vini della Tracia e dell’isole ad essa adiacenti, come Lenno: e vino decantato dai comici e dai poeti era il biblino, proveniente da una regione della Tracia, detta di Biblia o dei monti biblini (Acheo, Filino, Epicarmo in Aten., I, 31 a). Oltre il vino d’uva, i Traci faceano pure grandissimo uso del vino d’orzo o radici, detto brito o pino (βρύτον, πῖνον) come in Archiloco e in Ellanico, citati da Ateneo (X, 447).

489.  La parola uomo usata in questo senso di virilità e fortezza — come dall’esempio testè citato di Aristofane (Acarn., 77) — esprimevano i Greci benissimo colla voce ἄνηρ, che significava in senso proprio il maschio nel rapporto sessuale (opposto alla femmina, γυνή) e quindi per metafora anche l’uomo veramente fornito di doti e virtù maschili, il vir dei Latini: a differenza dell’ἄνθρωπος, corrispondente all’homo nel senso generico di persona, di essere umano — sia uomo o donna. Noi abbiamo invece una parola sola pei due distinti significati: e saremmo quindi imbrogliati a tradurre alla lettera la frase, per esempio, di Erodoto: δῆλον δ’εποιοῦντο ὄτι πολλοὶ μεν ἄνθρωποι εὶεν, ὀλίγοι δ’ἄνδρες. «E resero manifesto come molti siano gli uomini (homines), ma pochi gli uomini (viri),» cioè a dire gli uomini di polso, che per virtù e valore meritino di uomini veramente il nome.

Nelle arringhe pubbliche o forensi dei Greci, l’ἄνηρ, inteso nel senso che si è detto, ricorre frequentissimo, come un equivalente del nostro cittadino: ὤ ἄνδρες Αθηναῖοι, ὤ ἄνδρες δικασταὶ, ecc. È un epiteto onorifico, un qualificativo cortese di dignità, aggiunto alla qualifica nuda e cruda di Ateniesi, di giudici, ecc., e affatto proprio e caratteristico dello stile oratorio greco e della urbanità attica: tanto che i traduttori antichi, i quali lo voltavano in signori o messieurs, potevano dirsi — nel loro ordine di idee — molto più fedeli di quei traduttori moderni che, col pretesto della fedeltà, danno di frego a quell’epiteto e lo sopprimono addirittura. Che se il Messieurs les Athéniens dei traduttori diede una cattiva idea di Demostene al generale Foy, egli aveva ragione, perchè imaginavasi Demostene aringante in liberissima repubblica; come mai invece sfuggì all’acume dell’egregio Mariotti che la nostra lingua forense ha precisamente una formola rispondente a capello a quella greca, e su cui il generale Foy non avrebbe trovato a ridire, e che l’ἄνδρες δικασταὶ di Demostene non è altro che i cittadini giurati dei nostri oratori della Corte d’Assise? (Cfr. Mariotti, Oraz. di Demost. nei commenti, t. II, p. 244).

490.  Ercole, irritato contro Leprea (perchè questi aveva suggerito al re Augia di legar Ercole), lo sfidò a vari esercizii: e a lanciare il disco, e ad attinger acqua, e a chi primo mangiasse un bue: e in tutte queste prove Leprea restò vinto. Indi vennero a gara chi di loro potesse bevere di più (ὐπὲρ πολυποσίας ἀγών) e in ciò pure Ercole fu superiore. Leprea, trasportato dall’ira, sfidò allora Ercole a duello e cadde morto nel combattimento (Eliano, V. St., I, 24).

491.  Il cavallo vuole il piano, ἐς πεδίον τὸν ἵππον, diceasi per proverbio, tra i Greci, di chi proponeva una sfida in ciò che per lui era più facile, o in cui si sentiva più sicuro di vincere — in quella guisa che al cavallo è più facile correre sul piano che non sull’erta. — Così Platone, applicando il proverbio alla potenza di Socrate nel disputare: «Tu sfidi i cavalli al piano (ἵππεας εἴς πεδίον προκαλεῖ) e Socrate alle dispute (Plat., Teetet., 183. — Cfr. Luciano, Pescat., 9; Erasm., Adag.). Alcibiade qui applica il proverbio, per cortesia e finta modestia, ai Traci altrettanto famosi bevitori che cavalcatori, e allevatori di razze di cavalli esimie, ἱπποπόλοι (Omero).

492.  ὔς ποτ’ Αθαναίαν ἔριν ἢρισε — il porco una volta sfidò Minerva — (Teocr., Idill., 5). Proverbio greco, usato anche fra i Latini — sus Minervam — a denotare disparità di condizione o di dignità fra due contendenti che si sfidano.

493.  Gli Sciti e i Traci (tra i quali, del resto, era grandissima affinità di costumi) avevano in aborrimento l’uso greco di allungare il vino, e non lo bevevano che puro: indi appunto il bevere vin pretto, diceasi proverbialmente dai Greci bevere alla maniera degli Sciti, all’uso scita ἐπισκυθίσαι (Plat., Leg., I, 637; Aten., X, 427). E Satiro, presso Ateneo, dice di Alcibiade che superò i Traci nel bevere vin puro (Aten., XII, 534). — Sul vin di Bibli, vedi sopra.

494.  La cótila, misura di capacità, così pei liquidi che pei solidi, equivaleva a 27 centilitri scarsi, ossia circa due dei nostri bicchieri da tavola. Ai servi lacedemoni bloccati a Sfatteria, gli Ateniesi concedevano al giorno una cotila di vino e un chenice (misura di quattro cotile) di pane, ch’era la solita razione di un parco vitto quotidiano (Tucid., IV, 16; Elian., V. St., I, 26). Le principali misure greche di capacità pei liquidi erano la metreta, la coa o il congio, il sestario, la cotila, l’osibafo, il ciato, la conca, il mistro. La metreta (o anfora o cado) corrispondente a circa litri 38,76, valeva 12 coe; la coa, o litri 3,23, sei sestarj; il sestario, o litri 0,53, 2 cotile; la cotila, o litri 0,27, dodicesima parte d’una coa, valeva 4 osibafi; l’osibafo, sesto di cotila, ossia 7 centilitri scarsi, valeva un ciato e mezzo; il ciato, 2 centilitri e mezzo, valeva 2 conche; la conca, o dodicesimo di cotila, litri 0,0225, valeva 2 mistri, ossia il mistro era all’incirca il nostro centilitro (litri 0,0112).

Le misure di capacità pei solidi erano in gran parte le medesime (ciato, osibafo, cotila, sestario), oltre alcune speciali: il chenice, equivalente a 4 cotile, ossia all’incirca il nostro litro (litri 1,070); il medimno, equivalente 48 chenici, ossia 192 cotile, ossia litri 51,84, cioè all’incirca il nostro mezzo ettolitro. Un medimno di frutti solidi e liquidi ragguagliavasi al valore di una dramma: così una rendita di 500 medimni, ossia 500 dramme, segnava il censo dei cittadini della prima classe. Vi erano poi parecchie altre misure forestiere, come lo stannio, l’idria (6 coe), l’elefante (3 coe), l’emitio (4 coe), il cofino, misura beota (3 coe), il maristo (6 cotile, o mezza coa), l’artaba, misura persiana ed egizia (1 medimno e 3 chenici), l’emiciprio, misura di Cipro (mezzo medimno), il dadice (6 chenici), la capide (2 chenici), ecc.

495.  Vedi sopra, nota 16, sull’usanza dei doni. — «Mentre poi la coppa andava in giro, entrò un Trace con un cavallo bianco, e toltosi un corno pieno, disse: Bevo, o Seute, alla tua salute e ti dono questo cavallo. Un altro conducendo un fanciullo, lo regalò nello stesso modo, bevendo alla salute di Seute: e un altro, abiti per la moglie, ecc.» (Senof., Anab., VII, 3).

496.  Cizicéno o statere di Cizico, moneta d’oro purissimo, coniata in Cizico (città sulla Propontide) e in uso fra i Traci. — Valeva 28 dramme ateniesi, ossia circa L. 25,75. Era di bellissimo conio e recava da un lato l’impronta di Cibele, dall’altra un leone. — Il re Seute nell’Anabasi stipula in ciziceni il contratto con Senofonte per la paga delle sue truppe. «Promise al soldato un ciziceno (al mese), al capo di coorte il doppio, al comandante quattro» (Sen., Anab., VII, 2).

Sulle monete greche, particolarmente attiche, vedi i ragguagli al quadro II, nota 7. Giova qui aggiungere che le monete di bronzo arrivavano fino ai quattro oboli, ossia 64 centesimi di franco (calco, semiobolo, obolo, diobolo, triobolo, tetrobolo); le monete d’argento cominciavano dalla dramma, ossia 92 centesimi fino alle 5 dramme, ossia lire 4,60 (dramma, didramma, tridramma, tetradramma, pentadramma); le monete d’oro erano il darico di 20 dramme (lire 18,40), lo statere d’oro di 25 dramme (lire 23); il ciziceno di 28 dramme (lire 25,75). Altri pone fra le monete effettive la mina di 100 dramme, benchè Esichio assicuri che le maggiori monete d’oro fra i Greci pesavano 2 dramme e il loro valore s’aggirava tra le 20 dramme e poco più in su. Nel qual caso la mina avrebbe già dovuto essere una moneta nominale.

497.  Seute (succeduto a Sitalce, del cui nipote Spardaco era figlio) ebbe in moglie Stratonica, sorella di Perdicca, re di Macedonia (Tucid., G. Pel., II, 101).

498.  Ilìtia o Lucina — «veneranda Ilìtia» (πτνια Εἰλείθυια — Arist., Lisist., 741, Eccl., 369) era chiamata Giunone (Ἤρα) siccome presiedente ai parti. Chiamavasi anche, come preside delle nozze, Giunone gamelia o telia (Γαμήλιος, Τελεία. — Diod. Sic., V; Arist., Tesm., 973). Giunone dalle bianche braccia (λευκώλενος) è detta da Omero; egofaga (ἀιγόφαγος), (Paus., Lac.) o mangiatrice di capre la chiamavano i Lacedemoni, perchè le erano immolate capre in sacrificio; e Giunone Samia (Aten., XIV, 655) dicevasi dal suo tempio famoso nell’isola di Samo, donde volevasi fossero originarii i pavoni, gli uccelli sacri alla Dea.

499.  Che Alcibiade portasse moltissimo il vino, rilevasi da Platone nel Simposio, dove Alcibiade, dopo aver già bevuto molto, si fa dare e beve d’un fiato un vaso di vino «che poteva contenere più di otto cotile» (πλέον ἤ ὄκτω’ κοτύλας), vale a dire un paio di litri abbondanti; il che non gli impedisce di tener poi il suo magnifico e lucidissimo discorso, così da far dire, quando ha finito di parlare, a Socrate: «Io sospetto, Alcibiade, che tu oggi sei stato sobrio: senza di che non avresti mai parlato così abilmente...» (Plat., Simp., cap. 31, 38). — Vero è che in questa scena Cimoto si scandalizza non di otto, ma di quattro cotile sole (1 litro e 8 centilitri): cosa naturale, perchè qui fra i Traci si tratta di vin puro, e non, come nei simposj di Atene, di vino misto coll’acqua.

500.  Vivevano i Traci in piccole e povere abitazioni, o più propriamente capanne, pochissimo elevate dal suolo (aedificia modice ab humo elevata, B. Aub., III, 5) e cinte all’intorno di grandi palizzate a custodia delle greggie (Senof., Anab., VII, 4). Senofonte stesso non chiama altrimenti che villaggi i paesi traci, ch’eran formati dei piccoli gruppi di quelle capanne, e chiamavansi dai Traci col nome di bria (Strab., VII, 6); onde la desinenza dei nomi di parecchie borgate, Mesembria, Selimbria, ecc. Demostene li chiama addirittura catapecchie o cascinali: «Nessuno sarà così ingenuo da credere che Filippo sia smanioso delle catapecchie della Tracia (τῶν ἔν Θάρκῃ κακῶν) — e come si potrebbero altrimenti chiamare Drongilo, Cabile, Mastira e l’altre terricciuole? — e per conquistarle soffra freddi, fatiche e pericoli: e non pretenda nè i porti di Atene, nè gli arsenali, nè le miniere, ecc., ma solo per un po’ di panico e di veccia serbata nelle spelonche (ἔν τοῖς οἰῥῥοῖς) di Tracia, si accontenti di svernare in un baratro» (ἔν τῷ βαράθρῳ) — (Demost., Filipp., IV, Cose del Chers.). — E allo stesso modo ne parla Giuliano: «O Giove, che gusto vivere nel cuor della Tracia e passar l’inverno nelle sue spelonche!» (σιροῖς) — (Giul., Lett., a Jamblico, 52).

501.  «Levatosi Seute bevve insieme con lui, poi vuotò il corno sopra il suo vicino» (Senof., Anab., VII, 3). Suida parla esplicitamente di questa usanza dei Traci, poco conforme al moderno Galateo, di versare sulle vesti dei commensali il vino rimasto nella tazza (τὸ λοιπόν τοῦ οἴνου καταχέουσι κατὰ τῶν ἰματίων τῶν συμποτῶν). Usanza d’altronde attestata non solo da Senofonte, ma anche da Platone, ove dice che gli Sciti e i Traci fanno uso del vino puro, e ritengono bella e beata consuetudine il versarlo sopra gli abiti, κατὰ τῶν ἰματίων καταχεόμενοι — (Plat., Leg., I, 637 e).

502.  Le idee degli antichissimi Orfici sulla vita avvenire, e sui destini futuri delle anime, coltivate fra i Traci di Pieria e simboleggiate nei misteri di Samotracia, dovettero precedere di molto lo sviluppo delle dottrine pitagoriche, sulla metempsicosi, ecc., colle quali più tardi si mescolarono e si confusero. Su questa unione degli Orfici coi Pitagorici, che il Müller vorrebbe fissare all’epoca della caduta della lega pitagorica nella Magna Grecia (504 av. l’E. V.) e sopra le idee generali della poesia orfica, vedi lo stesso Müller (St. della lett. greca, cap. XVI. — Cfr. l’autore del Viaggio d’Antenore, cap. 92).

503.  Notai già altrove (Alcibiade e la critica, ecc.) — contrariamente a ciò che qualche critico erudito si prese il disturbo di insegnarmi — come Zamolchi fosse da’ Greci riguardato propriamente come un Dio dei Traci. «Imparai questo incantesimo all’esercito da uno di quei medici traci, settarj di Zamolchi, i quali si dice che sappiano anche rendere gli uomini immortali. E diceva quel Trace: Zamolchi re nostro, il quale è Dio, dice che non conviene curare gli occhi senza curare il capo, nè il capo senza il corpo, nè il corpo senza l’anima: ma che questa è la causa per cui ai medici greci sfuggono molte malattie, perchè ignorano ciò che bisogna curare, ecc.» (Plat., Carmide, 156 d.) — «E vidi (nell’Elisio) tra i semidei barbari lo scita Anacarsi, e il trace Zamolchi» (Lucian., Storia vera, 2). «Gli Sciti adorano la scimitarra, i Traci Zamolchi, un fuggitivo di Samo che si riparò tra di loro, i Frigii la luna, gli Etiopi il giorno, gli Assirj una colomba, i Persiani il fuoco, gli Egiziani l’acqua» (Luc., Giove trag., 42. — Cfr. Erodot., IV, 159). Fu questo Zamolchi un discepolo di Pitagora, il quale studiò fra gli Jonj la civiltà greca e i segreti della scienza di Esculapio; e tornato poscia in patria fra i Traci, rozzi ed incolti, diede loro più miti istituzioni e leggi e costumanze; a procacciar credito alle quali, secondo il solito dei legislatori, insegnò ai Traci che le anime di coloro che le avessero fedelmente osservate, sarebbero venute, dopo morte, a trovar lui in un luogo dove ogni sorta di beni le aspettavano. Per il che salito fra i Traci in grandissima venerazione, un bel giorno si sottrasse di mezzo a loro e scomparve, ritirandosi a vivere sur un monte, in una spelonca a tutti inaccessa, e lasciando di sè immenso desiderio fra quei popoli; i quali perciò lo ascrissero fra gli Dei e il monte reputarono sacro (Strabone, VII, 3; XVI, 2. — Cfr. J. Boem. Aub., Mores, leges omnium gentium, 1. III, c. 5).

504.  «La statua di Ercole ad Eritrea (Jonia) è posta sopra una specie di zattera: e quei di Eritrea narrano ch’essa venne così da Tiro in Fenicia, viaggiando per mare. Aggiungono che, entrata la zattera nel mar Jonio, si fermò al promontorio di Giunone, a mezza strada fra Eritrea e Chio. Appena da lontano quei di Eritrea e di Chio scorsero la statua del Nume, tutti si contesero l’onore di trarla a riva e vi impiegarono tutte le loro forze. Un pescatore di Eritrea, di nome Formione, che avea perduta la vista per malattia, fu avvertito in sogno che se le donne di Eritrea consentivano a tagliare i loro capelli e farne una corda, si sarebbe con essa potuto tirar la zattera a riva. Ma neppure una delle donne di Eritrea volle obbedire al sogno; indi alcune donne di Traci, che sebbene nate libere servivano in Eritrea, sacrificarono le loro capigliature: in grazia di che quei di Eritrea ebbero in loro possesso la statua di Ercole, e per ricompensare le donne tracie statuirono che avessero esse sole il diritto di entrare nel tempio del Dio. Ivi si mostra ancora la corda fatta dei loro capelli, che vien conservata gelosamente. Quanto al pescatore che ebbe il sogno, egli ricuperò la vista» (Pausan., Acaia, 5).

505.  Notissima la leggenda di Orfeo, poeta trace, nato fra i Libetrii, e primo istitutore fra i Greci dei riti di Bacco o Dioniso; dei cui canti la fama salì tant’alto che fu riguardato il primo cantore dell’epoca eroica e dato per compagno agli Argonauti; e il quale fu sbranato dalle Ménadi tracie perchè, infastidito delle donne, dopo la perdita di Euridice, ebbe in dispregio il loro sesso e introdusse il turpe amor dei fanciulli; o vuoi perchè attirandosi dietro col fascino del canto e della cetra gli uomini, era causa che questi trascurassero le loro mogli. — La leggenda aggiungeva che la sua testa recisa e la sua cetra, dopo l’immane eccidio, venissero gettate nell’Ebro e le onde di questo ne mandassero armonioso lamento:

.... Medio dum labitur amne

Flebile nescio quid quæritur lyra, debile lingua

Murmurat exanimis; respondent flebile ripae (Ovid.)

poi dal fiume trasportate giù al mare, testa e cetra arrivarono galleggiando a Lesbo; sì che quell’isola divenne fra tutte «la più ricca di canti,» πασεων ἀοιδοτάτη — e in Antissa, città lesbia, ove fu sepolta la testa del poeta, gli usignuoli cantavano più armoniosamente che altrove. Elegante e poetica raffigurazione delle origini di quella poesia eolia che diede alla Grecia i carmi di Terpandro e di Saffo e di Alceo (Vedi Ovid., Metam., XI, 1 seg.: Pausan., Beot., 30; Plat., Simp., 179; Repub., X, 620; Stobeo, LXII, 399; Pindaro, Pit., IV; Apoll. Rod., Argon., ecc.). — Pausania (l. c.) indica Dione città di Macedonia non lungi dal fiume Elicona come il luogo ove Orfeo fu fatto a pezzi dalle donne, d’accordo in ciò colle opinioni moderne che spiegano quel curioso titolo di Traci attribuito nelle leggende ai più antichi cantori della Grecia (Eumolpo, Orfeo, Museo, Tamiri). Infatti la patria di quella tracia poesia è a ricercarsi non già fra le popolazioni incolte della vera Tracia, fra i barbari Odrisj ed Odomanti; ma bensì in quella regione greca di Pieria che si stende ad oriente dell’Olimpo, a settentrione della Tessaglia, e tiene il mezzodì della Macedonia. Quivi eran appunto la città di Libetra, dov’era fama che le Muse cantassero il lamento sulla tomba di Orfeo: e Omero stesso e tutti gli antichi poeti designano la Pieria, non la Tracia, come patria delle Muse. E verisimilmente questa stirpe greca de’ Pierj stendevasi anche in una parte della Beozia e della Focide, d’intorno all’Elicona beotica e alle falde del Parnasso dove era Daulia e dove troviamo con Tucidide (II, 29) la sede del tracio re Tereo: e d’onde con Tereo stesso e con Eumolpo, qualificato pur egli per Trace, fecero irruzione nell’Attica (Strab., VII; VIII; Apollod.; Scol. Sof., Ed. Col.; Licurg., C. Leocr.; Isocr., Panaten.). Solo quando i Pierj ebbero a patir più tardi molestie e persecuzioni nella lor propria contrada dai principi macedoni, si ritirarono nella Tracia propriamente detta, al di là dello Strimone, dove Erodoto (VII, 12; cfr. Tucid., II, 99) ricorda i castelli dei Pierj; e là, confondendosi coi veri Traci, legarono a questo nome dei loro nuovi compatrioti la memoria dei loro canti e il lustro della loro tradizione poetica, che era quella nientemeno delle prime origini della poesia greca (Cfr. Strabone, VII, 7; IX, 2; X, 3).

506.  Ben diversa sembra fosse l’opinione che avevasi delle donne tracie nella Grecia: «dov’elle venivano per far le serve e qualche cosa di peggio» (La Bruyère). Così Teofrasto volendo descrivere una di quelle donne di malaffare «che appostano i giovani sulla pubblica via,» ne fa una donna di Tracia (Teofr., Caratt., 28). Si capisce quindi che il vanto di Odrisio dovesse far sorridere Alcibiade.

507.  Usanza dei Crestonesi, una delle popolazioni di Tracia. «At qui supra Crestonas incolunt ista agunt: singuli plures uxores habent, quorum ubi quis decessit, disceptatio magna fit inter uxores acri amicorum circa hanc rem judicio, quaenam dilecta fuerit a marito præcipue. Quæ talis judicata est, et hunc onorem adepta, ea a viris et mulieribus exornata, ad tumulum a suo propinquissimo mactatur, unaque cum viro humatur: cœteris uxoribus id sibi pro ingente calamitate ducentibus atque lugentibus: nam id eis summo dedecori datur» (J. Boem. Aub., Mores, leges, etc., III, c. 5).

508.  Μὰ τὸν Ἄνεμον καὶ τὸν Ακινάκην — (Lucian., Tossari, 38). Arma nazionale dei Traci e degli Sciti era la sciabola o scimitarra, ἀκινάκην (cfr. sopra, nota 3; e Ammiano, XIII; Luciano, Giove Trag.) — e per essa, e per il vento, ritenuti Iddii, solevano giurare; come sacro era ai Greci il giuramento per le lancie (Giustin., XIII), e come vedesi in Omero giurar Giove per lo scettro. — Del culto degli Sciti per la scimitarra, accennano Clem. Aless., 25 C., e Ammiano XXXI. Solano cita un libro di viaggi in Russia, ove degli Sciti, cioè dei Moscoviti del suo tempo, era detto che conservavano l’antico culto: Arcum et gladium ceteraque arma pro diis habent (Sol., note a Luciano).

509.  Circa la sfida dei bicchieri e quella delle mogli — che mi fornirono l’argomento di questa scena e della precedente — mi riporto al Meissner che le accenna succintamente entrambe (tom. IV, pag. 297, 301). Pensai giovarmene, colla scorta di Senofonte (Anab.), di Strabone, di Eliano, ecc., per una breve pittura dei costumi traci, e quanto al carattere di Alcibiade, per la preparazione drammatica delle ultime scene del quadro.

510.  Leggo in un frammento d’una commedia di Menandro: «Tutti i Traci in generale e noi Geti in particolare non siamo gran fatto temperanti... Poichè nessuno di noi conduce in moglie meno di dieci od undici donne; e molti anche dodici. Che se dopo aver appena condotto in moglie quattro o cinque donne soltanto, muore, egli vien fra noi chiamato celibe (ἄνυμφος), infelice, ignaro d’imeneo (ἀνυμέναιος)» (Men., Framm., pr. Strabone, VII, 3. — fr. 8 ediz. Didot). Ed Eraclide Pontico: «Ciascuno di costoro (Traci) prende tre o quattro mogli, e ve ne ha pur che ne prendono anche trenta, e le trattano come serve. Giacciono con esse periodicamente, e la donna lava e serve il marito, e molte, dopo il congiungimento, dormono sul suolo. E se taluna ciò mal comporta, i genitori, col restituire ciò che han ricevuto, ritirano la figlia, perchè essi le maritano ricevendone il prezzo. Morto il marito, i suoi parenti ne ereditano, come le altre cose, così anche le mogli» (Eracl. Pont., Rep., 27). Che i Traci comperassero le mogli dai genitori, a caro prezzo, è narrato anche da Erodoto, V, 6. — E l’Aubano: «Uxorum pudicitiam solicitius custodiunt (Thraces) easque magno aere a parentibus coemunt, fronte notis quibusdam segnatis: generosum id judicatur, ignobilitatis argumentum sine his esse. Nupturae quae prae ceteris specie valeant, prius subtaxari volunt, et licentia taxaxionis admissa, non minoribus nubunt praemiis. Quas formae dedecus premit, dotibus emunt quibus conjunguntur» (I. Boem. Aub., l. c.).

511.  Eracl., Pont., Rep., 27. — E Platone: «Quale maniera di convivenza cogli uomini prescriveremo alle donne? forse quella per la quale i Traci si servono delle mogli a coltivar i campi e a pascolare i buoi e le pecore e ad altri bassi ufficj in cui nulla differiscono dai servi?» (Plat., Leg., VII, 805). A questa condizione servile delle donne fra i Traci, lo stesso Platone paragona giustamente, nel passo citato, la condizione non molto dissimile, e di poco migliore, della donna fra gli Ateniesi, mantenuta anch’essa nella dipendenza del marito e chiusa in casa ad attendere al lanificio e alle altre faccende muliebri. — A Sparta invece la posizione della donna era precisamente il rovescio. Anche a Sparta, è vero, essa amministrava l’interno della casa, ma in una condizione ben più elevata; e mentre fra gli Joni vediamo la donna dividere col marito il letto e non la tavola, e chiamarlo padrone, i Dori di Sparta, all’opposto, con una galanteria affatto medioevale, chiamavano signora e padrona, δέσποινα, la moglie. E la parola non era già una cortesia vuota di senso o una ironia: ma rispondeva perfettamente all’influenza che avevano le donne spartane nella vita dello Stato e al loro effettivo predominio sopra i mariti, pel quale andavano proverbiali. Indi appunto dalle mogli spartane ebbe origine quel detto: che ridurre le donne all’obbedienza era impresa in cui fallì persino il genio di Licurgo e a cui egli stesso dovette rinunziare. «Le Spartane, diceva una forestiera alla sposa del re Leonida, sono le sole donne che esercitino padronanza sui loro uomini. — Certo, ella rispose: ma sono anche le sole che mettano al mondo uomini» (Plut., Lic., 14, Apof. Lac., e in Numa, 3; Plat., Leggi, I, 637; Aristot., Polit., II, 6; Esich. (δέσποινα). — Cfr. Müller, Dorier, lib. IV, 4).

512.  Cfr. l’Aubano, ove parla delle donzelle di Tracia: «Thraces... nec virgines a parentibus et propinquis adservari, sed quibus libuit cum viris concumbere sinunt» (B. Aub., l. c.).

513.  Andar in Tracia a cambiar fortuna (come noi diremmo: andar in America). — Maniera proverbiale; ossia citazione dei due versi greci

ἔγνωκε πλεῖν εἴς τἀπί Θρᾴκης χωρία,

ἐχεῖ διαλλαγησόμενος πρὸς τὴν τύχην.

(Per far pace colla sorte — Verso Tracia navigò) che si applicavano proverbialmente a coloro i quali, perseguitati dalla miseria in patria o malcontenti della loro condizione, viaggiavano il mondo per cercar fortuna. Vedine un esempio in Sinesio, Lettere, 43. La scelta della Tracia, paese povero e senza risorse (tanto che forniva alla Grecia le fantesche e i mercenari), caratterizzava argutamente la vanità delle speranze di quei cacciatori della fortuna, non mai contenti del proprio stato.

514.  «Ad hunc (Zamolxin) mittunt assidue adhuc cum navi quinque remigum nuncium quempiam ex seipsis sorte delectum, praecipientes ea quibus semper indigent: eumque ita mittunt. Quibusdam eorum datur negotium: ut tria jacula teneant; aliis, ut comprehensis ejus, qui ad Zamolxin mittitur, manibus, pedibusque hominem agitantes in sublime jactent ad jacula: qui si in praesentiarum exstinguitur propitium sibi Deum arbitrantur, sin minus, ipsum nuncium insimulant, asseverantes malum illum esse virum, hoc insimulato alium mittunt, dantes adhuc viventi mandata» — (B. Aub., l. c.).

515.  Uso degli Sciti coi quali i Traci confinanti avevano, come si disse, e come attestano gli scrittori greci, affinità d’indole, di abitudini e gran parte delle costumanze comuni. Aristeneto lo accenna in una sua lettera, I, 12. Filarco narra che gli Sciti ogni giorno innanzi coricarsi si faceano recare la loro faretra e in essa gettavano una marca bianca o nera, secondo che avean passato una giornata felice o rattristata da disgrazie. Quando poi uno Scita moriva, si prendeva la sua faretra e si contavan le marche bianche e nere: e se il numero delle bianche era maggior delle nere, lo si giudicava beato. Indi passò la cosa in proverbio (Cfr. Mercerus, Comm. in Aristen.).

516.  Per la lor maniera comoda di interpretare e mantener i patti e le promesse, venivano i Traci citati dai Greci in proverbio. Eforo narra che pattuitosi una volta, fra Traci e Beoti guerreggianti, un armistizio di più giorni, i Traci, malgrado la tregua, di notte assalirono per sorpresa i Beoti: respinti e rimproverati per aver violata la fede, risposero di non averla violata affatto, perch’essi avevano pattuito la tregua per i giorni e non per le notti. Indi venne fra i Greci il proverbio: interpretazione o commento da Trace, θρακια παρεύρεσις (Strabone, IX, 2). La stessa risposta diede più tardi il re spartano Cleomene agli Argivi, da lui assaliti nottetempo, durante una tregua d’armi (Plut., Apof. Lac.).

517.  Giove ospitale (ξένιος — Esch., Agam., 355) era altro degli attributi di Giove, siccome punitore di chi violasse i diritti e i doveri della ospitalità (νὴ τὸν ξένιον, per l’Ospitale! — cioè, per Giove protettor degli ospiti! — Plat., Leg., XII, 965). Siccome in Giove, del resto, raffigurarono gli antichi lo spirito unico, universale, motore e produttore di tutte le cose, et qui cuncta Creat intelligendo (Porfirio) — così a seconda delle varie funzioni attribuite alla sua potenza fu egli chiamato con varj nomi: tot monstra, quot Jovis nomina (Arnobio, VII): a tal che v’ebbero non meno di trecento Giovi. Così, dalla sua influenza sulle azioni umane, vennero a Giove i soprannomi di protettor dell’amicizia (φιλιος), di protettor dei supplicanti (ἱκέσιος), di onniveggente (διόπτης καὶ κατόπτης), di onnipossente (παγκράτης), di salvatore (σωτὴρ), di Ellanio o protettor della Grecia (Ελλάνιος), di Giove re, ecc. Dalla influenza, invece, sugli elementi gli venivano i soprannomi di pluvio o piovoso (ὄμβιος, ὔετιος), di aduna-nubi (νεφεληγερέτης), di aduna-fulmini, o tuonante, o fulminante, o signor del fulmine (ἀστερόπτης, κεραύνιος, βρονταῖος, τερπικέραυνος, κεραυνοβρόντης, ecc.). Altri nomi gli venivan dai luoghi ov’eran suoi templi famosi, come Giove Idèo, Tesprozio, Nemèo, Dodonèo, ecc.

518.  Allude alla iniqua condanna dei capitani che avevano assunto il comando della flotta ateniese di Samo in luogo di Alcibiade, dopo la sua seconda disgrazia (Protomaco, Aristogene, Pericle, figlio del gran Pericle, Diomedonte, Lisia, Archestrato, Aristocrate, Trasillo ed Erasinide), e i quali, vincitori della flotta spartana di Callicratida presso le isole Arginuse (406), furono puniti di morte (meno Protomaco e Aristogene che si salvarono colla fuga) per aver trascurato di raccogliere i cadaveri dei morti nella battaglia (Senof., St. Ellen., I, 7; Diod. Sic., XIII). La condanna aveva avuto luogo nel novembre del 406 e quindi pochi mesi prima dell’epoca in cui è supposta la presente scena.

519.  Narra Senofonte che essendo stato una volta il re dei Traci, Tere, progenitore di Seute, assalito alla sprovvista dai Tinii, abilissimi nelle sorprese notturne, — il re Seute, a prevenire il rinnovarsi di simili sorprese, stavasi in una torre ben custodita e avea sempre dintorno, già pronti, dei cavalli frenati (Senof., Anab., VII, 2).

520.  «Intanto i capitani Tideo, Menandro e Adimanto, avendo all’Egospotamo tutte le navi che rimaste erano allora agli Ateniesi, passavano l’intera giornata senza tenersi in alcun ordine o darsi veruna cura, siccome quelli che in dispregio avevano il nemico. Alcibiade però, il quale era dappresso, non si mostrò già in questa circostanza negligente e trascurato: ma montato a cavallo andò a ritrovar quei capitani e gli ammonì con far loro vedere che avevan fatto male a fermarsi in quei luoghi...» (Plutarco, Alcib., 36, Lisand., 7; Senof., St. Ell., II, 1; Corn. Nep., Alcib., 7).

521.  Egospótamo (Αἰγὸς ποταμός, ossia fiume della capra), località sulla spiaggia del Chersoneso di Tracia, alla foce di un fiumicello dello stesso nome; e posta quasi dirimpetto a Lampsàco (sulla spiaggia asiatica dell’Ellesponto, non più largo in questo punto di due chilometri circa) ove era ancorata la flotta spartana di Lisandro. Circa una ventina di miglia (162 stadj) a mezzogiorno di Egospótamo, sulla stessa spiaggia europea, là dove l’Ellesponto si restringe viemaggiormente e non misura più che sette stadj, ossia meno di un miglio di larghezza era Sesto, una delle migliori città del Chersoneso, celebre per la torre di Ero e per il poema di Museo; e un miglio più in giù di Sesto, sulla opposta spiaggia asiatica, era Abido, la patria dell’infelice amante di Ero. Tra Abido e Sesto gettò Serse il ponte per traghettare il suo esercito dall’Asia in Europa. La flotta ateniese (comandata da Tideo, Filocle, Conone, Menandro, Adimanto e Cefisodoto) era venuta, risalendo l’Ellesponto, da Sesto ad Egospótamo, per dar battaglia a Lisandro, il quale da Abido aveva risalito anch’egli l’Ellesponto fino a Lampsaco e si era impadronito a forza di quest’ultima città (Cfr. Strabone, Geog., XIII, pag. 883, 884; Scilace, Viaggio; Senof., St. Ellen., II, 1; Plut., Lisand., 11).

522.  «Gli Ateniesi, tenendo dietro a Lisandro, presero posto in Eleunte del Chersoneso con centottanta legni. Quivi, mentre erano a pranzo, ebbero avviso del successo di Lampsaco (assalita e presa da Lisandro). Onde senza alcun indugio navigano a Sesto. E indi si inviano per la dritta ad Egospótamo, borgata rimpetto a Lampsaco: e in quel luogo cenavano» (Senof., St. Ell., II, 1).

523.  Notissimo l’episodio omerico di Glauco, un dei duci Trojani, che in ricordo di antica ospitalità e mutua amicizia, scambiò le sue ricchissime armi d’oro con quelle del greco Diomede che le avea di rame.

Così dicendo, dai corsier discesi,

Strinser le destre e si scambiar le fedi.

Ma nel cambio dell’armi il senno tolse

A Glauco Giove. Aveale Glauco d’oro,

Diomede di bronzo; eran di quelle

Cento tauri il valor, nove di queste.

(Om., Iliad., VI, 233).

Questo scambio, caratteristico dell’antica cavalleria, passò tra i Greci e poi tra i Latini in barzelletta; e, in tempi meno cavallereschi e più positivi, le parole d’Omero — χρύσεα χαλκείων (aurea pro aeneis) — erano da’ Greci adoperate, per proverbio, a significare un baratto ingenuo, da stupido, come stupido appunto è chiamato Glauco da Marziale: Tam stupidus nunquam, nec tu puto, Glauce, fuisti (Mart., IX, epig. 96).

524.  «Menelao mostrò poco senno in venire consigliere ad Agamennone senza invito, talchè se ne fece un proverbio» (Plut., Disp. Conviv., I, 2. — Cfr. Omer., Iliad., III, v. 408).

525.  «Riposavano gli Ateniesi (sulla spiaggia di Egospótamo) sperando venire il dì seguente a battaglia. Ma Lisandro volgeva ben altro in mente... e al levarsi del sole inoltrandosi gli Ateniesi con tutte le loro navi a fronte distesa e provocando a battaglia, egli, quantunque tenesse già volte le prore contro di loro e in pieno assetto di combattimento, ciò nonostante non si avanzava punto; anzi mandò schifi alle navi che erano più innanzi, con ordine di non muoversi, e starsene in ordinanza. Quindi, tornati essendo indietro gli Ateniesi verso la sera, Lisandro licenziar già non volle dalle triremi i soldati se prima due o tre navi da lui stesso spedite a spiare il portamento dei nemici, non ritornarono coll’avviso sicuro, che li avevan veduti discendere sul lido. Nel giorno dopo, nel terzo, e fin nel quarto rinnovossi la stessa cosa, di modo che molto crebbe l’ardimento degli Ateniesi, che ad aver cominciarono in vilipendio i nemici, come se questi così ritirati e ristretti fra loro si stessero per la paura» (Plut., Lisandro, 11).

526.  «Ma Alcibiade (narra proseguendo Plutarco), che trovavasi ne’ suoi presidj del Chersoneso di Tracia, venne cavalcando al campo degli Ateniesi, e si diede ad ammonire i capitani primamente che male accampati si stessero e con pericolo in ispiaggie tutte scoperte; in secondo luogo che commesso avessero un grand’errore coll’essersi dilungati da Sesto, d’onde ricevevano le cose che erano lor necessarie: e dicea che d’uopo era che costeggiando navigasser eglino sollecitamente alla città e al porto di Sesto allontanandosi così da’ nemici, che venivano a farsi lor sopra con un esercito che retto era da un solo comandante, e tutte cose appuntino e con disciplina immediatamente eseguiva a norma del concertato. A queste di lui avvertenze i duci non restarono persuasi. Anzi Tideo ingiuriosamente gli rispose dicendo che non già egli, ma altri eran quelli che governavan l’armata. Alcibiade pertanto sospettando in essi qualche tradimento, si partì da loro» (Plutarco, Lisandro, 11. — Cfr. Plutarco, Alcibiade, 37), ove soggiunge: «... A quei suoi conoscenti che lo accompagnavano fuori del campo, egli (Alcibiade) disse che se stato non fosse così vilipeso da’ capitani, avrebbe costretto fra pochi giorni i Lacedemoni a venir loro malgrado ad una battaglia navale o a dover lasciare le navi. Ad alcuni parve ch’egli allora così parlasse per vana jattanza, e ad altri ch’ei dicesse cose assai probabili, se conducendo esso dalla parte di terra una quantità numerosa di Traci esperti in gettar freccie e cavalcare, ad attaccar fosse venuto il campo di Lisandro. L’effetto comprovò che Alcibiade aveva rettamente compreso il fallo commesso dagli Ateniesi...» (Cfr. anche Senof., Ellen., II; Corn. Nep. in Alcib., 8. — Diod. Sic., XIII, cap. 19).

527.  ὤς οὔν ὑπὲρ τῶν ἐσχὰτγων ὄντος τοῦ ἀγῶνοπς, poichè si ha da combattere per le ultime cose, — dice Demostene (Cherson., Filipp., IV). E l’Anelli traduce: «Pugnar per i penati e gli altari.»

528.  Callicrátida, il navarca spartano che comandava la flotta di Sparta sconfitta dagli Ateniesi nella battaglia delle Arginuse (406 av. l’E. V.) e gloriosamente combattendo vi morì. Il pilota della sua nave lo aveva prima esortato a non impegnar la battaglia, mostrandogli che la flotta ateniese era superiore di numero; egli rifiutò dargli ascolto, reputando vergognoso fuggire in presenza del nemico. Cicerone così ne riferisce le parole: «Lacædemonios classe amissa aliam parare posse: se fugere, sine dedecore non posse» (Cic., De Officiis, I, 48). Senofonte le riferisce alquanto diversamente: «Rispose (Callicrátida) che Sparta per la sua morte non riceverebbe danno alcuno, ma bensì il fuggire sarebbe ignominia per lui (ἤ Σπάρτη οὐδέν κάκιον οἰκεῖται, αὐτοῦ ἀποθανόντος, φεύγειν δὲ αἰσχρόν εἴναι. — Senof., St. Ell., I, 6; Plut., Apoft. Lac.; Diod. Sic., XIII, c. 17).

529.  Secondo il racconto di Senofonte (St. Ellen., II, 1), Alcibiade non fece che suggerire ai capitani ateniesi di abbandonare il luogo deserto e malsicuro dov’erano e di ritornarsene a Sesto «dove avrebbero avuto la comodità del porto e della città, e dove avrebbero potuto aspettare al sicuro che gli Spartani si decidessero a combattere.» Il piano invece che in questa scena Alcibiade suggerisce ai capitani, si accosta, con alcune modificazioni, alla versione di Cornelio Nepote (Alcib., 8) e di Diodoro (XIII, c. 19). Questa versione, preferibile nel rapporto drammatico, combina anche colle parole attribuite ad Alcibiade da Plutarco (Alcib., 37) «ch’egli cioè avrebbe costretto fra pochi giorni i Lacedemoni a venir, loro malgrado, ad una battaglia navale o a dover lasciare le navi:» e non parmi tanto assurda come il Grate, e l’Houssaye sulla sua scorta, mostrano di credere, affermando come fanno (Grote, St. della Gr., t. XII; Houssaye, Hist. d’Alcib., t. II, p. 382), la impossibilità di operare in presenza della flotta di Lisandro uno sbarco di truppe sulla costa asiatica, e l’impossibilità dell’attacco diversivo di terra ferma contro le posizioni spartane di Lampsaco custodite e fortificate. Nè il Grote, nè l’Houssaye avvertono che prima di tutto se Alcibiade consigliava agli Ateniesi di scender giù fino a Sesto, egli è evidentemente di là che egli intendeva operare lo sbarco, cioè non già presso a Lampsaco, ma presso Abido, a ventun miglia e più di distanza da Lisandro e dalla sua flotta; e là dove l’angustia dello stretto rendeva lo sbarco più facile e permetteva alla flotta ateniese di proteggerlo efficacemente; in secondo luogo, che, operato lo sbarco, Lisandro non avrebbe più potuto aspettare a piacer suo, tenendosi sotto mano tutte le forze riunite, l’occasione per lui più propizia di combattere: ma sarebbe stato costretto, per respingere in terra ferma la diversione d’Alcibiade contro Lampsaco, a sguernire le navi in presenza della flotta ateniese operante di concerto; e così veniva esposto, in caso di un successo di Alcibiade dal lato di terra, a rimaner preso in mezzo e ad accettar per forza la battaglia sulle navi. Di più quella diversione di terra ferma era tutt’altro che di esito così impossibile come il Grote e l’Houssaye la riguardano; perchè il corpo d’esercito trace che Alcibiade prometteva era un rinforzo poderoso, e di truppe eccellenti; reso più poderoso dal comando di un tal condottiero; e l’impresa contro Lampsaco che Alcibiade avrebbe tentato alla testa di quel corpo non era se non la medesima che era riuscita felicemente pochi giorni prima, allo stesso Lisandro, il quale avea preso Lampsaco d’assalto, benchè fortificato e difeso ad oltranza con tutte le forze; e colla differenza che questa volta Lisandro non poteva distrarre dalla flotta ed opporre ad Alcibiade se non una parte delle proprie forze, per la difesa della città. E aggiungasi un’ultima circostanza importante: che cioè Alcibiade avrebbe operato in paese amico: perchè Lampsaco, che pure Lisandro avea preso d’assalto «era città in lega cogli Ateniesi» (Senof., St. Ell., II, 1).

530.  Cornelio Nepote e Diodoro Siculo lasciano intendere che il rifiuto dei duci di dar retta ad Alcibiade movesse in loro da un sentimento di invidia; temendo essi il prestigio di Alcibiade fra le schiere, e prevedendo che se il piano di Alcibiade riusciva, se ne sarebbe attribuito a lui tutto l’onore. «Id etsi vere dictum Philocles animadvertebat, tamen postulata facere noluit, quod sentiebat, se, Alcibiade recepto, nullius momenti apud exercitum futurum, et si quid secundi advenisset, nullam in ea re suam partem fore: contra ea, si quid adversi accidisset se unum ejus delicti futurum reum» (Corn. Nep., Alcib., 8; Diod. Sic., XIII, c. 19).

531.  «αύτοὶ γάρ νῦν στρατηγεῖν, οὔκ ἐκεῖνον» (Senof., St. Ell., II, 1).

532.  Questa parola da me qui posta in bocca ad Alcibiade riassume l’opinione che poi prevalse in Atene intorno alla disfatta di Egospótamo: molti scrittori infatti non esitarono ad accusare i capitani ateniesi di tradimento, e di aver volontariamente date le navi in preda al nemico. E sebbene l’Houssaye attribuisca questa accusa al solito vezzo dei popoli di attribuire al tradimento tutte le battaglie perdute, certo è che la leggerezza e l’inqualificabile contegno dei generali ad Egospótamo sembravano fatti apposta per giustificar quell’accusa. Demostene la formula nell’orazione della falsa ambasceria; così pure Lisia (C. Alcib. min., I, 38); e più tardi Plutarco (Lisand., 11); e più tardi Pausania: «Egli è certo che gli Spartani quando si batterono ad Egospótamo corruppero con doni molti officiali della flotta ateniese, e in ispecie Adimanto» (Paus., Mess., 17).

533.  Ateneo designa col nome di Melissa il villaggio di Frigia presso il quale Alcibiade fu assassinato; e narra di aver veduto egli stesso il monumento ivi erettogli dopo la sua morte, al quale immolavasi ogni anno un bue, per ordine dell’imperatore Adriano, che fece anche porre sul monumento la statua di Alcibiade medesimo (Aten., Deipn., XIII, 574 f.). Aristotele dice dal suo canto che Alcibiade fu ucciso in Frigia presso il monte Elofos (Hist. anim., VI, 29).

534.  Dopo la disfatta di Egospótamo e la caduta di Atene, Alcibiade — narra Cornelio Nepote — non tenendosi più abbastanza sicuro ove trovavasi, passò in Asia a Farnabazo, satrapo del re di Persia: «ma ogni suo pensiero era volto a liberar la patria: e vedeva ciò senza il re di Persia non potersi fare; onde avrebbe voluto renderselo amico: e ciò credeva agevolmente potergli venir fatto, quando modo avesse avuto di presentarglisi. Imperciocchè egli sapeva che Ciro fratello del re nascostamente coll’ajuto degli Spartani si apparecchiava a fargli guerra; la qual cosa se egli avesse manifestata al re, vedeva che gli sarebbe entrato molto in grazia. Mentre stava queste cose macchinando, Crizia e gli altri tiranni degli Ateniesi mandarono uomini fidati nell’Asia a Lisandro per avvertirlo che se non avesse tolto di vita Alcibiade, nulla di quanto aveva egli in Atene ordinato, sarebbe stabile rimasto. Di ciò commosso lo Spartano, fece sapere a Farnabazo che i negozj che il re aveva cogli Spartani sarebbero andati vani, se non gli avesse dato in mano Alcibiade o vivo o morto. Laonde il satrapo mandò Sisamitre e Bagoa ad ammazzare Alcibiade nel tempo che egli era in Frigia, e si avviava per portarsi dal re» (Corn. Nep. in Alcib., 9, 10. — Cfr. Eforo nei Fragm. histor. graec., framm. 126.; Plut, Alcib., 38, Lisand., 16).

535.  La parasanga era misura itineraria persiana corrispondente a 30 stadj, e cioè (essendo lo stadio metri 184,26) a circa 6 chilometri e mezzo. Ventidue parasanghe, ossia circa 122 chilometri, erano la distanza, secondo il calcolo di Senofonte (Anab., I, 2), da Sardi capitale della Lidia al fiume Meandro, confine della Frigia, da cui non lunge è qui supposta la capanna di Alcibiade.

Aggiungo qui un cenno sulle principali misure di lunghezza fra i Greci: le quali erano il dattilo o dito (metri 0,0191); il piede o 16 dattili (m. 0,3071); la pigma o 18 dattili (m. 0,3409); il pigone o 20 dattili (m. 0,3838); il cubito (κῆχυς) o un piede e mezzo (m. 0,460); l’orgia, ossia 6 piedi (m. 1,8426); il pletro, ossia 100 piedi (m. 30,71); lo stadio, ossia 6 pletri o 600 piedi (m. 184,26); il diaulo o 2 stadj (m. 368,52); l’ippicon o 4 stadj (m. 737,04); il dolicon o 12 stadj (m. 2210,12).

536.  Di quest’erba, ricordata proverbialmente fra i Greci, fa cenno Aristeneto (Lett., I, 10). La crisópoli, spiega nei commenti lo Tzetzes, è un’erba le cui foglie si attaccano all’oro puro e prendono il colore di quello: se l’oro non è puro, non si attaccano.

537.  Che qualcun altro si trovasse con Alcibiade al momento della sua morte, oltre a Timandra, di cui parla Plutarco, si rileva da Cornelio: «Namque erat cum eo quidam familiaris ex Arcadia hospes, qui nunquam discedere voluerat» (Corn. Nep., Alcib., 10).

538.  Uno scudo di rame levato in alto sulla cima di una picca dalle navi spartane spedite in esplorazione, fu il segnale predisposto da Lisandro per uscir colla flotta da Lampsaco e cogliere impreparata la flotta ateniese ad Egospótamo, nel momento che la maggior parte dei soldati ateniesi trovavasi dispersa a terra (Plutarco in Lisandro, 11; Senof., St. Ell., II, 1).

539.  I sogni figli della Terra, da questa prodotti per vendetta contro Apollo (che le aveva ucciso il drago custode degli oracoli di sua figlia Temide), affinchè predicessero le cose a’ mortali, in luogo degli oracoli di quel Dio. «Poi che Febo scacciò Temide figlia della Terra dai divini oracoli, il suolo generò notturni spettri, che a molti dei mortali le presenti e passate e le future cose palesavano in sogno sotto l’ombra della terra oscura. Perocchè la Terra, per vendetta della figlia, avea privato Febo dell’onor dei vaticini» (Eurip., Ifig. Taur., 1259 seg.). «Veneranda Terra, madre dei sogni dalle negre ali» la chiama altrove lo stesso Euripide (Ecuba, 70).

540.  Sulla nave Paralo, vedi quadro IV, n. 19.

541.  Circa 200 navi e tremila prigioni ateniesi caddero in mano a Lisandro per la disfatta di Egospótamo (da cui Conone appena si salvò colla Paralo e con altre otto navi); tutti i prigioni furono da Lisandro condotti a Lampsaco e posti a fil di spada (Plut., Lisand., 11; Senof., St. Ell., II, 1).

542.  «Vivea per caso allora Alcibiade in un certo villaggio della Frigia, avendo seco Timandra sua concubina; ed ebbe dormendo sì fatta visione. Gli parve di avere intorno le vesti di Timandra, e che questa tenendo fra le braccia il di lui capo, gli adornasse la faccia, dipingendogliela e lisciandogliela come a una donna. Altri dicono che dormendo egli vide Mageo stesso che gli troncava la testa e il proprio suo corpo dato alle fiamme: ma tutti asseriscono che egli ebbe un tal sogno non molto prima del di lui fine» (Plut., Alcib., 39). «Alcibiades quoque miserabilem exitum suum haud fallaci nocturna imagine speculatus est. Quo enim pallio amicae suae dormiens opertum se viderat, eo interfectus, et insepultus jacens, contectus est» (Val. Massimo, I, 7. — Cfr. Cicerone, Divin., 2).

543.  L’importanza che da Omero in poi avevano i sogni nelle idee greche popolari intorno alla divinazione (Cfr. quadro II, n. 48) veniva pur loro attribuita dalla scuola socratica. «A me di far questo venne imposto dal Nume e per vaticinj e per sogni e per ogni mezzo con cui per avventura altra divina sorte comandasse all’uomo di fare alcunchè,» così esprimesi Socrate stesso, il gran maestro di Alcibiade, nell’Apologia, 22. Il sogno poi di Alcibiade parmi che ritrovi un riscontro assai caratteristico nel sogno che Chione, altro discepolo della stessa scuola, narra in una sua lettera a Platone: «Coi cantici di vittoria e coi premj ai vincitori destinati abbandonerò la vita, se prima di partir dal mondo avrò abbattuto la tirannide. Poichè a me i sagrificj e gli augurj e i vaticinj d’ogni sorta presagiscono la morte, dopo che avrò compiuto questa impresa. Io stesso n’ebbi una visione più chiara di quante mai sogliono apparire nei sogni. Pareami vedere una donna di forme e di statura divina, la quale cingevami di corona d’ulivo e di bende, e poi mi mostrava un bellissimo monumento, e mi diceva: Quando avrai faticato e sarai stanco, o Chione, entra in questo monumento e riposa. E però da questo sogno traggo lieta speranza ch’io sarò per morire di bella morte. Imperocchè nessun vaticinio dell’anima reputo essere fallace: tu stesso (o Platone) avendo ciò affermato» (καὶ σὺ οὐτῶς ἐγινωσκες) (Chione, Lett., 17) — Dal suo canto Aristotele, l’altro sommo socratide, affermava: «Quando l’anima per il sonno è isolata dalla compagnia e dal contagio del corpo, allora si ricorda delle cose passate, discerne le presenti, prevede le future.» Sentenza che Cicerone ricopiò (Divin., I): e che Aristotele aveva trovato già in Eschilo: «Quando dormono i sensiIn chiara luce è l’animaE vede aperto de’ mortali i casi» — (Esch., Eumen., 109).

544.  Così i sogni di sera come i sogni d’autunno erano ritenuti bugiardi. «Folle! che prestò fede a un infelice sogno della sera (ὀνείρῳ ἐσπεριῳ), sogno che lusinga nei tetti i miseri mortali, e per dileggio in tutto li inganna» (Quinto Smirneo, Paralip., v. 133). «Perocchè si dice che i sogni sono mal sicuri e fallaci principalmente in quei mesi nei quali cadono dagli alberi le foglie» (Plut., Disp., Conv., VIII, 10). I quali mesi si chiamavano dai Greci con una sola parola φυλλοχόοι: primo di essi il Pianepsione (ottobre-novembre). Similmente in Alcifrone: «Ricordatomi che s’avvicina il tempo in cui le foglie degli alberi cascano, allora proprio m’avvidi che il sogno era stato fallace» (Alcifr., Lett., III, 10).

Per contrario reputavansi veritieri i sogni del cuor della notte e delle ore più vicine all’alba — νυκτός αμολγὸς, noctis conticinium. «E in core ella gioì, poi che sì chiaroQuel sogno erale apparso innanzi all’alba» (Om., Odiss., IV, 841). «Post mediam noctem visus quum somnia vera» (Oraz., Serm., I, 10).

545.  «Hanno due porte i debili sogni, l’una fatta di corno e l’altra d’avorio. Di essi, quei che uscirono per mezzo al tagliato avorio, portando parole imperfette, lasciano le speranze deluse: quei sogni invece i quali per i lisci corni escon fuora, questi son che recano il vero» (Om., Odiss., XIX, v. 562). «Ingannò il dormiente l’immagine d’un sogno uscito dalle fallaci porte d’avorio» (Nonno, Dionis., XXXIV, v. 89). «La notte spalancava al mondo le due porte dei sogni: l’una fatta di corni, ed è la porta della verità, ond’escono le vere voci degli Iddii: l’altra è la porta dell’inganno, dei sogni inutili nutrice» (Coluto, Ratto d’Elena, v. 309). «Ascolta dunque il mio sogno e giudica se è uscito dalla porta d’avorio o dalla porta di corno» (Plat., Carm. — Cfr. Virgil., Aeneid., v. 894).

546.  Vedi sopra, nota 2. — Plutarco anch’egli narra come gli Ateniesi dopo la caduta della lor città rimpiangessero Alcibiade e di nuovo rivolgessero le speranze a lui: «Quando Lisandro ebbe tolta loro anche la libertà, dando la città a governare a trenta personaggi, allora lamentandosi rammemoravano i loro fatti e la loro cecità: e teneano per fallo massimo l’avere scacciato la seconda volta Alcibiade, e aver così privata la città, con maggior loro vituperio, di un forte e bel capitano. Pure nella presente calamità avevano una qualche esile speranza che del tutto non fosse per anche spacciata la repubblica degli Ateniesi, essendo ancor vivo Alcibiade. Poichè si lusingavano che non avendo egli, neppur la prima volta ch’era in esilio, voluto viversi in ozio e senza far qualche impresa, tanto meno il volesse allora: e non volesse, avendo forze bastanti, abbandonar la patria agli oltraggi dei Lacedemoni e alle violenze dei trenta tiranni. Nè era già irragionevole che il popolo volgesse in mente tal cose, quando anche quei trenta stavano per timore spiando sempre con tutta cura i suoi andamenti... Da ultimo Crizia ammoniva Lisandro... e dicevagli che quantunque gli Ateniesi mostrassero allora di stare assai placidamente e modestamente soggetti al governo oligarchico, non gli avrebbe già Alcibiade, finchè vivesse, lasciati posare giammai in una tale costituzione» (Plut., Alcib., 38. — Cfr. Isocr., De Bigis., 16).

547.  Alla corte del re di Persia si aveva bensì qualche sentore degli avvenimenti che Ciro il giovane preparava nella Lidia per quell’impresa la quale doveva immortalare i diecimila di Senofonte: ma Ciro stesso avea avuto cura di far spargere la voce che quegli armamenti fossero diretti semplicemente contro il satrapo Tisaferne (Senof., Anab., I, 1). Però il servizio che Alcibiade disegnava rendere al re mettendolo al chiaro dei disegni di Ciro sul trono di Persia, e offerendogli la propria spada, valeva bene il compenso degli ajuti ch’egli se ne riprometteva per la libertà della sua Atene. Ben diverso da Temistocle, che bandito riparava in Persia per offrire al re di far serva la Grecia, la figura morale di Alcibiade in quest’ultima fase della sua vita, di quanto grandeggia a confronto dell’eroe di Salamina, con cui il figlio di Clinia ebbe pure tali e tanti punti di somiglianza! — Più tardi, un altro grande Ateniese, amantissimo anch’egli della sua città, suggeriva del pari a’ suoi concittadini di ricorrere al re di Persia per proteggere e soccorrere Atene contro Filippo il Macedone. «Spedite dunque, diceva Demostene, legati al re e lasciate lo stupido pregiudizio a voi tanto esiziale ch’egli sia barbaro» (Filipp., IV). E il consiglio era savio nella tristezza dei tempi: ché Maratona e Platea erano già troppo lontane.

548.  Eran queste le feste Tesmoforie (Θεσμοφόρια), istituite da Trittolemo (cfr. quadro IV, n. 15), o, secondo altri, da Orfeo, in onor di Cerere Tesmofora o legislatrice. A queste feste (da non confondersi con quelle dei misteri eleusini, benchè formanti parte dello stesso culto ed ordine di riti) non assistevano se non sole donne (Arist., Tesm., v. 204, 257, 1150); e cioè donne oneste, matrone (ἐλεύθεραι) — di ingenua nascita (εὐγενεῖς γυναῖκες, Arist., Tesm., 330): vale a dire che le etére ne erano rigorosamente escluse (cfr. Iseo, Oraz., V). Dovevano le donne prepararsi a queste feste colla castità e astinenza più assoluta da ogni piacer carnale, per cinque giorni innanzi le medesime: al qual fine praticavano mille superstiziose mortificazioni, mettendo in letto delle piante come l’agnus casto (Elian., V. St., IX, 36) per ammorzare i desiderj impuri, ecc. Indi Wieland fa scrivere da Menandro a Glicera: «Poche matrone assistono all’arcana solennità delle Tesmoforie con una coscienza pura come la tua.» Si celebravano le Tesmoforie in molte città greche, in ispecie a Sparta, a Tebe, a Megara, a Delo, a Mileto, ecc. Ma sopratutto Atene ne era rigida osservatrice. Qui cominciavano alli 11 di Pianepsione, ossia il mese delle fave cotte, e duravano sette dì. I mariti avean obbligo di sovvenire, occorrendo, alle spese delle donne per queste feste, che Alcifrone chiama santissime (Lett., III, 39), e Aristofane «orgie venerande delle Dee» (Tesm., 1151). Soprintendeva alle medesime un sacerdote detto stefanóforo, assistito da vergini giovinette, allevate in rigorosa clausura a spese della città entro un recinto sacro, che diceasi il Tesmoforio. Nel primo dei sette giorni ascendevasi al tempio di Cerere in Eleusi, portando sul capo i libri della legge: indi era detto il dì dell’Ascensione — ἄνοδος (Esich.). Il secondo e terzo erano giorni di preparazione. Nel quarto cominciavansi le solennità; avea luogo la processione dei canestri; i tribunali non giudicavano, e il Senato non teneva seduta (Ar., Tesm., 79). Il sesto era un giorno di digiuno: perciò detto νηστέια. Le donne passavano questa giornata sdrajate per terra, in commemorazione di Cerere che, nel cercar Proserpina, dal gran dolore non prese cibo. Il settimo giorno chiudevasi la festa con un sagrificio a Calligenia, — deità distinta da Cerere e da Proserpina, benchè invocata solo nella festa di queste due dee, e insiem con esse e con Plutone (Tesm., 306). — Al cominciar delle Tesmoforie tutti i detenuti per semplici delitti erano rimessi in libertà.

549.  Celene e Foro de’ Ceramj, città popolose e fiorenti della Frigia, sulla via di Siria che Alcibiade dovea percorrere per recarsi a Susa: distanti la prima 28 e la seconda 42 parasanghe (secondo il calcolo di Senof., Anab., I, 2) dalle rive del Meandro presso cui è qui supposta l’abitazione di Alcibiade. In Celene era una reggia magnifica del re di Persia, alle sorgenti del fiume Marsia, che prese il nome dal satiro competitore di Apollo, ivi scorticato da quel Dio (Apollod., Argon., I, 4; Ovid., Metam., VI, 383 seg.).

550.  Sul coraggio nobilissimo dimostrato da Socrate in faccia ai trenta tiranni, nel tempo che durò il loro dominio in Atene, vedi Senofonte (Memorab., I, 2) e Platone (Apol., c. 20). Onde con giusto e santo orgoglio il grande filosofo potè dire di sè, innanzi ai giudici: «Anche allora — cioè in faccia ai tiranni — io mostrai di nuovo col fatto, e non a parole, che della morte io non mi curo nè punto nè poco, ma sommamente mi prendo pensiero di non far cosa nè ingiusta, nè empia. Perocchè neppur quel governo così terribile potè costringermi a commettere un’ingiustizia» (Plat., ibid.).

551.  Plutarco, Alcib., 39; Cornelio Nepote, Alcib., 10; Giustino, Hist. Phil., V, 8.

552.  Mi capita sott’occhio un altro opuscolo intorno al mio povero Alcibiade, pubblicato ultimamente (A. Tito Persio, sull’Alcibiade di F. Cavallotti — Cagliari, 1875); lavoro di critico egregio, delle cui censure cortesi non mi lamento, perchè accompagnate a molto acume critico, a molto senso dell’arte e a soda erudizione. Fra le censure trovo quella dell’aver fatto morir Alcibiade declamando dei versi, come nei melodrammi. Forse l’egregio critico li udì declamare; il vero è che Alcibiade qui nè declama, nè improvvisa; ma mormora ripetendole nell’agonia, fra le braccia di Timandra, le parole da Timandra udite nel suo primo incontro con lei (Vedi quadro III, scena ultima). A me, nella idea che mi son fatto del carattere e delle passioni di Alcibiade, a me non era parso punto inverisimile che quella reminiscenza cara e lontana avesse a visitare in quel momento la memoria del morente; e che la gloria e l’amore, cioè le due grandi e splendide larve di tutta la sua vita, gli si affacciassero, supreme consolatrici, sul limitare della morte. Timandra è il buon genio d’Alcibiade; il cuore dell’eroe doveva ricordarlo nell’ultimo addio di quel giorno che lo ritrovava sulla via del dovere e della gloria vera, un dì additatagli da lei; indi è la coscienza serena che gli riporta dal cuore al labbro le primissime parole della donna sua, mentre l’anima sposa il ricordo di Potidea ad una ultima dichiarazione d’amore; ma non più l’amore snervante, infecondo; l’amore che purifica, che eleva e che permette finalmente al moribondo di appellarsi con orgoglio al giudizio di Socrate.

553.  La ragione drammatica, secondo me, della morte di Cimoto, l’ho accennata nella mia lettera a Yorick (pag. 97-98). Un’altra ragione morale e storica potrei accennare colle parole stesse di un critico: «Siccome la morte di Alcibiade fa evidentemente prevedere anche la fine di Timandra, chè ormai quei due non potevan esser disgiunti neppur nel sepolcro, così non avverrebbe in sostanza che una morte sola. Ma qualchedun altro finisce con Alcibiade; con lui cade irreparabilmente anche Atene; or dunque anche un cittadino ateniese deve con lui morire, e questi non potea esser altro che Cimoto» (A. T. Persio, op. c.): — il rappresentante nato della plebe ateniese del suo tempo, al pari di lui ora avversa ed ora amica ad Alcibiade, dal costume corrotto e dall’anima non del tutto corrotta ancora, ora capace di bassezze ed ora di eroiche virtù.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare il testo greco è stato trascritto tal quale, e le varianti accentate di numerosi termini sono state mantenute. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice a fine volume.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

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