*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 76369 *** COPERTINA E FRONTESPIZIO Cettina Ajossa Natoli Grifeo LE MIE CINQUE GIORNATE Messina 28 dicembre 1908 - 1º gennaio 1909 NAPOLI Tipografia Cimmaruta della R. Università 1914 SECONDA DI COPERTINA Proprietà letteraria [03] {La p.3, da cui prende inizio il testo, sfoggia un disegno a penna lungo il bordo superiore, ritraente fogliame stilizzato} (Nient’altro che la verità, semplicemente raccontata). Questa tremenda sventura mi ha colpita quando più mi pareva di essere una cosa sola con quella mia povera figlietta! Dopo il matrimonio di Maria e la sua partenza da Messina, l’altra mia creatura aveva raddoppiato le sue attenzioni per me: non voleva farmi sentire l’assenza della sorella; ogni mattina mi dava due volte il buon giorno e, per una di esse, imitava la voce della nostra cara lontana; ogni sera ripeteva l’augurio d’una buona notte, con due inflessioni di voci diverse. Così, nella sera della domenica, mi aveva accompagnata in camera, secondo la sua consuetudine, e mi aveva dato il saluto della sera, ripetendolo teneramente, ed io l’avevo baciata sulla pura fronte, facendovi il segno della croce, benedicendo quell’angelica creatura mia. [04] - Mamma, non mi hai benedetta con la solita tenerezza! - mi disse, scherzosa, ed io sorrisi perchè capivo che voleva chiedermi così un’altra carezza e la baciai ancora, più volte, ripetendo il segno della croce ch’ella riceveva sempre con la bionda testolina chinata, in atto pio, raccolta, tutta commossa nella sua Fede e lieta della carezza materna. - Benedetta, benedetta, creatura mia! Ed ella ripeteva con dolcezza ineffabile: - Mamma, mamma mia cara, cara, cara! (Oh, come la sento in me quella voce, quella soavità d’accento!) E lì, dalla porta, mi mandò ancora un bacio, mi disse ancora «mamma mia cara» e se ne andò tranquilla, lieta, mentre io, nel fondo d’uno specchio di contro, la vedevo allontanarsi, dileguarsi.... Ultima volta che le mie pupille ebbero impressa dal vero quella figurina che era tutta un’armonia di linee. Alle cinque e venti io dormivo. Mi svegliai di soprassalto, ebbi la sensazione di essere trasportata in aria e di ricadere sul letto. In quel punto si aprivano le mura. Pensai di morire e istintivamente mi copersi la testa con le braccia per proteggerla. «Figlie mie!» gridai dentro me stessa; e attesi la fine. [05] Intanto mio marito veniva al mio letto dalla vicina porta; mi afferrava per un braccio, mi trascinava via, mentre la stanza del piano superiore precipitava su quella e l’attigua vi si abbatteva sopra trasversalmente. Trascinata così, ebbi confuso ma rapido il pensiero che tutta la casa sprofondasse, minacciando la nostra vita; ma l’esser passati quasi senza ostacoli per due vani consecutivi - avendo trovato le porte spalancate - ci sviò il pensiero dal pericolo, ritenendolo oramai circoscritto alla mia camera. Sempre dietro a mio marito, io era portata avanti, nella tenebra, cercando di non perdere la direzione nella fitta oscurità, e gridavo alto, nel terrore di quel silenzio, il nome della mia figlietta cara, che supponevo agitata per noi: Alfrida, Alfrida, non temere, siamo qui, non.... Un urto violento: un ostacolo era sorto innanzi a Giovanni, che, battendo indietro, era precipitato su di me. Senza una parola, disperati per la barriera che s’innalzava fra noi e la figlia nostra, ci rialzammo stentatamente, lacerandoci le mani nel cercare appoggio. Mi parve allora come se anche il cuore mi si lacerasse dentro! Una nuova scossa abbattè tutto intorno ed io stavo per soffocare dal nuvolo fumante che si [06] levava, ma un balcone, aprendosi nel tempo stesso, lasciò entrare un po’ d’aria. Non potendo seguire il nostro cammino in quella direzione, voltammo a sinistra, ove una porticina, mettendo in un corridoio che passava dietro ad un salotto, comunicava con la camera della mia figlietta, sebbene ne fosse abitualmente chiusa la porta di fondo; saltammo macerie, scostammo travi, cademmo, ci rialzammo, ci sperdemmo, ci riunimmo, arrivammo finalmente alla porticina, che resisteva ancora. Chiamammo, chiamammo...chiamammo! E il lugubre silenzio ci toglieva coraggio. Giovanni potè, finalmente, abbattere la porta: un urlo - che non mi parve neppure venuto da lui - con le disperate parole «non c’è più nulla!» rintronò nelle mura crollate e si spense fuori nel gran vuoto. Egli, dove ancora avrebbe dovuto trovare due stanze, sentì il vuoto nell’aria fredda che lo colpì: e vide le stelle! Io non seppi comprendere: io credetti che non vi fosse più il piccolo corridoio e che fosse impossibile per ciò di proseguire. Allora seguitai a chiamare la creatura mia con tutte le forze che mi rimanevano e la voce lottava ad uscire fra la calce e la terra che l’arrestavano alla gola. Poi, sempre tenendoci per mano, impigliandoci [07] tra fili elettrici, mobili, legni, vetri, tornammo verso la camera mia, soffermandoci alla porta; allora, allungando le braccia, protendendo il corpo, potemmo prendere sulla tavola vicina una candela e la scatoletta dei fiammiferi. Così, con la debole luce che in quell’istante ci parve un faro splendente, vedemmo tutta la rovina in cui ci dibattevamo da più di un’ora! Tornammo ancora indietro, sormontando nuovi ostacoli, per arrivare al balcone dal quale fra la oscurità esterna appena rischiarata da quella piccola fiamma, potemmo vedere che il vicino angolo della casa esisteva ancora. E credemmo, e volemmo credere che tutto vi fosse salvo dentro. Avrei voluto buttarmi da quel balcone, salire all’altro ed entrare in quella camera ove - forse ferita - chiamava inascoltata la mia Alfrida. Ma come fare? Allora, rasentando una parete di quella stanza ingombra, andammo verso un’altra il cui balcone si apriva sul cortile interno. Pensammo che di là avremmo potuto lasciarci scivolare col sostegno di lenzuola. Ma come averne? Tornammo ancora in camera mia; passando vicino alla piccola porta che avrebbe dovuto comunicare con la parte della casa ch’io credevo soltanto isolata dalla nostra, per lo sprofondamento del passaggio, chiamai [08] ancora il dolce nome, e poi quello della cameriera che dormiva vicina e quello di Tout-doux, il foxterrier a noi caro. Silenzio! Un silenzio profondo che aveva voci sinistre! Mi sentivo mancare, pur non formandosi l’atroce sospetto nel mio cervello confuso, ma subendo incosciente il terrore della immane sciagura. Una voce femminile dalla casa di faccia mi domandò: - Siete tutti salvi? Allora soltanto ebbi il pensiero che la mia Alfrida potesse non esserlo. E se la camera fosse sprofondata internamente? Era tanto naturale ch’io l’avessi pensato già prima; invece, allora soltanto me ne sorgeva la tremenda angoscia, e gridai desolata: - Non lo so! Rientrai: una nuova scossa precipitava l’arco del balcone. Nello spogliatoio potemmo coprirci di due pastrani e calzare due paia di scarpe di mio marito, mentre io trovavo a caso una sottogonna ed egli poteva togliere dalle macerie un paio di pantaloni. Con la candela accesa e un po’ di chiarore che annunziava l’alba, vedemmo dalla porta l’abisso a piede del mio letto. Tentammo di tirar le lenzuola; ma l’armadio a specchio cadutovi [09] sopra faceva resistenza. Allora, sostenuta da mio marito pronto a tirarmi indietro se avessi perduto l’equilibrio, io potei a poco a poco, cedendomi e ripigliandomi, impadronirmi di quelle lenzuola per le quali mi parve già di aver tutto salvato. Infatti, con nuovo coraggio animato dalla fede di raggiungere lo scopo, andammo subito a legarle ai ferri del balcone che oscillava fra i crepacci. Ma al punto di affidarmi nel vuoto, istintivamente mi arrestavo. Anche Giovanni che mi sosteneva dall’alto, non si decideva a lasciarmi. Intanto l’alba avanzava, e noi vedevamo allargarsi in uno spazio di macerie il piccolo recinto del cortile. Scendemmo, attorcigliandoci con le lenzuola, e arrivammo giù insieme ai ferri del balcone precipitati su di noi. Ora bisognava andar sulla via Garibaldi e, fra le rovine, ci trascinammo fino alla porta d’ingresso donde, con molti sforzi, potemmo uscire sulla strada. Corremmo allora verso l’angolo: vi era la facciata, vi era il balcone dal quale si vedeva, purtroppo, attraverso: era il cielo, era lo spazio: tutto dietro era crollato! Corremmo dalla via traversa: l’angolo non esisteva; tutto era sprofondato! [10] Chiamammo, chiamammo ancora, chiamammo sempre, tutto il giorno, scavando, ascoltando, pregando, disperando, e tornando a scavare, credendo di poter giungere a fare qualche cosa di utile. Nulla. Dove, dov’era la mia creatura? Era sprofondato il letto nella stessa direzione nella quale si trovava prima o era saltato più in là ove si vedeva un più grande mucchio di macerie? Come saperlo? Dove cercare con minore difficoltà di riuscita? Ciò che si vedeva sbalzato dall’altra parte doveva essere il piano superiore, ma quello si era forse abbattuto su se stesso e bisognava quindi cercare nel vuoto sottostante, che era una bottega di droghere, ma la porta era sbarrata dagli ostacoli formatisi nell’interno e noi non potevamo far nulla da soli! In quel punto un rumore di passi che si avanzavano in fretta c’incoraggiò ed io pensai: è Nino Pentimalli che viene in nostro aiuto; e lo credetti per un istante vedendo avanzare un tenente con quattro soldati. No, non era Nino; e perchè egli non fosse accorso a noi bisognava bene che il disgraziato fosse perito! I cinque ci passarono accanto indifferenti ed alle nostre preghiere non seppero rispondere che queste terribili e pur giuste parole: - Noi andiamo a scavare i vivi. [11] Era così, dunque! Da noi non appariva alcuna speranza. Passarono altri ed altri e noi supplicavamo piangendo, incitando, promettendo somme e gratitudine eterna. A nulla valevano le nostre lagrime. Finalmente quattro giovani parvero impietosirsi di noi e volenterosi si posero all’opera; ma, appena gettata giù la porta e rotti i vetri che resistevano agli scaffali laterali, fecero bottino di scatolette, di bottiglie e di quanto poterono afferrare nelbreve spazio a portata di mano e scapparono via senza voltarsi. Per la loro fuga si scoperse innanzi a noi il triste spettacolo che quei corpi riuniti sulla preda avevano fino allora nascosto al nostro sguardo. Il pianoforte, gettato di traverso, pendeva sorretto da travi, coperto di calcinaccio. Volevamo introdurci da qualche angolo, ma ogni fessura non permetteva passaggio che ad una mano. Ad una nuova scossa scivolò ai miei piedi la sua scatoletta di colori e poi un volume della Storia Medievale. Mi parve ch’ella venisse a me, così palpitanti di lei erano quelle poche cose sue! Seguendo la direzione degli oggetti, il letto avrebbe dovuto trovarsi a poca distanza, dietro al pianoforte che la cara figlietta aveva desiderato [12] nella sua camera per non vedervi il vuoto lasciato dalla sorella che soleva dormire nella stessa stanza. Ella dunque era là, a tre metri da noi... e non poter far nulla, nulla! E non potere sperare più nulla, più nulla. Eppure, chini su quelle macerie, nella crescente desolazione dei nostri cuori, al cospetto di quella catastrofe, noi seguitavamo a gridare il nome adorato, chiamando, chiamando fra i singhiozzi disperati! A poco a poco qualcuno si avanzava: una guardia, un pompiere, un uomo in camicia, una donna avvolta in una coperta di lana; due, mezzo nudi, portavano un ferito, unʼaltra moriva nel punto che veniva adagiata a terra; una giovane si buttava giù dal terzo piano; un vecchio in camicia correva a perdifiato; una bambina stesa bocconi chiamava disperatamente la madre. Vedemmo qualche autorità cittadina, raccomandandoci per avere aiuto; impartì degli ordini a due guardie, ma quelle si ribellarono affermando che non cʼerano ordini da dare o da eseguire in quei momenti, ognuno aveva i suoi morti e doveva pensare a sè. Passò un marinaio tedesco, lo pregai, accennando a quella rovina che mi stava dinanzi, con una sola parola di dolore: «Meine Tochter» [13] ed egli commosso salì sulle macerie della via traversa, scese in un vuoto che vi si era formato dentro, risalì, guardò da tutte le parti, mi chiese il caro nome e lo gridò forte, forte, con una dolcezza nellʼaccento straniero che mi entrò nellʼanima; e mio marito, che lo seguiva, accennava scrollando il capo e con le braccia aperte, che non vi era nulla! - Nichts, nichts - ripeteva quel buono, che era veramente addolorato, e tàsi allontanò, voltandosi di tanto in tanto a salutarci con la mano. Dʼun tratto ci vediamo innanzi il nostro Nino, il buon Nino di Ganzirri, il fattore affettuoso che ci era caro come parte della famiglia. In quellʼistante egli era per noi il passato e la speranza, e solo per la sua presenza il coraggio ci rinacque in cuore. Egli attribuiva il nostro stato al terrore di quella tragedia, ma quando guardò intorno a noi e non vide... anzi _vide_ lʼassenza... proruppe in pianto. Così, raccolti nel dolore senza conforto, ci abbandonammo di nuovo, alla immensa nostra sciagura. Venne il nostro cocchiere ad unirsi al gruppo. Anchʼegli amava tanto _la signorina piccola_. Dʼun tratto, come per una comune tacita intesa, ci lanciammo tutti negli inutili tentativi. Impossibile! [14] Nino con le braccia protese esclamò: ci vorrebbero otto giorni di lavoro e cinquanta braccia! Uomini e soldati passavano, li fermai, dissi della mia sventura; si guardarono, videro quelle montagne e quelle voragini, mi assicurarono che non restava nulla da fare, che tutto era compiuto. Ripresero la loro via poichè andavano a salvare un ferito che penzolava da una finestra. - Andate, salvatelo, che siano benedette le vostre mani - io dissi; e ricaddi sulla grossa pietra, svelta dal lastricato della via. Vennero poi i Ruffo e gli Ossada ai quali chiesi notizie di comuni amici... Oh! Nino e il cocchiere, tornando dalle infruttuose ricerche dalla casa della mia povera Paolina - lʼamica dilettissima, lasciata la sera innanzi - mi tolsero, anche su quella cara, ogni speranza. Allora pensai a tutte le persone cui da tempo avevo legato il mio cuore, ed una profonda amarezza per quelle vicine ed un atroce dubbio per quelle lontane mi si addensarono nellʼintima trepidazione. Era poi certo che quel disastro fosse avvenuto soltanto in Messina? Era così straordinario tutto che tutto mi pareva disastro. Non era il mondo sprofondato? E Maria? Il pensiero della figlia lontana che fino allora mi seguiva come lʼunico conforto che mi rimanesse nella vita da [15] trascinare ancora, diventava tormento: Era avvenuta una simile catastrofe a Napoli? Non avevo io forse perduta lʼaltra figlia lontana? Dʼun tratto qualcuno accanto a me disse che una voce femminile chiamava: mamma. Mi precipitai da quella parte, scesi, saltai, mʼinerpicai, caddi, chiamai, mʼinginocchiai, pregai. Mi dissero che era una ragazza. Tutto mi parve possibile; mi prostrai distesa, baciando la terra che me lʼaveva risparmiata... Due uomini reggevano la piccola persona sanguinante che ancora diceva: «mamma, mamma» con voce fioca. Non era _lei_. Non poteva esser _lei_! Ed io ripresi la scatoletta dei colori e il volume della Storia Medievale che in quel momento di gioia avevo buttato lontano, credendo lei salva; e me li tenni di nuovo stretti al petto ora che tornavano ad essere tutto per me. Nino, intanto, con una scala tolta ad imprestito per pochi minuti, era salito in casa, aveva potuto prendere qualche vestiario gettandolo dal balcone, aveva trovato una borsetta chʼio solevo portare fuori; in un portagioielli sulla tavola accanto al mio letto aveva preso le perle che portavo sempre e che solo in quella notte mi ero tolte per la rottura del fermaglio, e uno spillo [16] con una data e un ciondolo con delle foglie di rosa: triste ricordo di altri profondi dolori. Aveva tutto riunito nella borsetta e me la portava, lieto di darmi qualche cosa di mio, qualche cosa che restava del passato. Guardai dentro per cercarvi un fazzoletto, vidi invece un piccolo ventaglio che avevo usato due sere prima al teatro: un ventaglietto tutto dipinto da lei, fattomi trovare per sua amorosa cura sotto il tovagliolo, in un pranzo di famiglia, una sera di festa. Fu così grande lʼamara gioia di saperlo là, con me, chʼio non volli aprirlo perchè nessuno assistesse alla mia commozione e chiusi la borsa e me la strinsi al petto con gli altri due tesori. Tutto il mio bene era là: un libro, una scatola, un ventaglio. E a Ganzirri? Che mi rimaneva a Ganzirri? Lo domandai senza speranza a Nino che scosse le spalle: nulla, più nulla. Allora, apprezzai al giusto lʼaffetto del nostro Nino: egli aveva lasciato la famiglia, i piccoli cinque figli che gridavano spaventati, era passato su macerie, aveva scavalcato muri, era arrivato al villaggio di Ganzirri per trovarvi il cognato marinaio e insieme erano andati poi in cerca del fratello dʼun altro cognato; si erano affidati al mare tempestoso e con pericolo in ogni [17] tremenda ondata, erano arrivati a Messina. E a Messina poi i due forti marinai avevano compiuto atti eroici di salvataggio. Quando i Ruffo e i dʼOssada e quanti altri erano in quella piazza avevano preso la loro decisione e ognuno se ne andava per vie diverse, quando i pochi feriti là trasportati morivano ad uno ad uno, quando eravamo rimasti quasi soli e la pioggia cadeva fitta su di noi, che avevamo distribuito qua e là la poca roba ricuperataci da Nino, e che eravamo, come prima, appena coperti, egli che dalla povera Paolina aveva visto come tutto fosse precipitato e non restasse nulla da fare, insistette perchè provvedessimo in qualche modo per la notte che si avanzava. L’oscurità crescente, la pioggia, i ladri dei quali avevamo già visto alcune prodezze e, prima di tutto, la convinzione che nessuna speranza poteva più illuderci sulla triste fine della nostra creatura, ci lasciarono persuadere e ci affidammo a Nino perchè noi non sapevamo pensare a nulla. - A Ganzirri è impossibile, la casa è crollata tutta: dovrebbero stare allʼaperto e, di più, bisognerebbe andarci per mare e la nostra barca è mezza rovinata. È meglio che vadano su qualche vapore per passarvi la notte; domani io tornerò [18] e vedremo se arriveranno aiuti da fuori e scaveremo. Cʼincamminammo, sotto la pioggia che si andava facendo più fitta, verso lo sbarcatoio; salutammo prima il luogo sacro, io baciai quella terra che la nascondeva e, come avevo fatto a lei per venti anni, e la sera innanzi per lʼultima volta sulla purissima fronte, stesi la mano tra le macerie e feci il piccolo segno di croce e, come poche ore prima, dissi e ripetei: Benedetta, figlia mia, figlietta mia, benedetta. Nell’intimo mio risuonò quella voce: Mamma, mamma mia cara, cara, cara. E cʼincamminammo nel dolore immenso, verso lʼignoto. Per salire sul battello mercantile che più vicino era ancorato, avrei dovuto servirmi della scaletta che scendeva perpendicolare sul fianco del legno. Come fare? Con quelle scarpe, con quel pastrano, quel libro, quella scatola, quella borsa che non cedevo neppure per un solo istante! Ci gridarono dallʼalto che non potevano riceverci, che già era tutto pieno. - Per carità - gemetti - soltanto per la notte! - Non si può - rispondevano.- Del resto, stanotte partiremo. [19] E noi, che non volevamo partire, ci avviammo con la barca in cerca di asilo. Finalmente ci accolse il ferry-boat. Ci separammo da Nino, da Francesco, da Peppe, come se ci fossimo staccati da una parte di noi stessi. Vedemmo allontanare la barca, accompagnandola col cuore e col pianto. Ed ora? Eccoci soli, soli, non sapendo se non fossimo per tutta la vita rimasti soli così! Io stringevo al petto i miei tesori: era tutto ciò che di certo mi rimaneva. Entrammo nella piccola sala ove tutti i posti in giro erano occupati, e al centro, per terra, su alcuni sacchi pieni di chissà quale preda accumulata durante quel triste giorno, stavano uomini e donne e bambini in un gruppo che pareva di belve. Soltanto in un angolo, accanto allʼentrata, vʼera un po’ di spazio fra un sedile occupato e la porta aperta, io mi ci costrinsi a stento, fra la manifesta contrarietà generale e la ostilità del vicino. Giovanni sedette a terra, ai miei piedi. Lʼoscurità crescente ci nascondeva i feriti che udivamo lamentarsi. Io soffrivo molto, in special modo alla testa, sulla quale un impasto di sangue, di terra, di capelli, si era formato sotto la pioggia la cui umidità ora mi penetrava tutta. [20] Così abbandonata nellʼombra, posai il mio tesoro in grembo e finalmente pensai: venti anni si svolsero dinnanzi a me; venti anni di cure, di affetto, di premurose attenzioni, di materni orgogli, dʼineffabili tenerezze passarono palpitanti nella mia memoria; e la mia Alfrida ne balzava fuori in ogni sua dolce espressione, nel fulgore della sua intelligenza, nella soavità della sua piccola persona, nella grande saggezza del suo pensiero, nel forte dominio della sua volontà; era là lʼangelica figlietta mia la cui modestia non le aveva permesso di accettare il motto chʼio volevo darle: «Nella soavità sta la mia forza». Era lì con me, intorno a me, dentro di me la bionda figurina che poche ore prima avevo veduto allontanarsi attraverso lo specchio, tutta irradiata nella luce che dalla lampada elettrica vi si rifletteva. Ed ora? Dove, dovʼera la creatura mia? Là, sotto le macerie, sfracellata! Rivedevo la forma della testolina fulgente; era maravigliosamente bella la linea nellʼattaccatura del collo che io ammiravo sempre, stentando a tacere il mio entusiasmo. Ora, forse, quella testa era staccata dal collo che pareva uno stelo. O figlia, o creatura dellʼanima mia! [21] Lʼoscurità fu completa a bordo: nessun lume, neppure quello di segnale sullʼalbero; nessuno del personale manovratore, nessuno dellʼequipaggio; il mare si agitava sempre più; lʼangoscia del buio ci afferrò tutti; voci di sgomento si levarono. Qualcuno poi disse di aver trovato una mezza candela, fu quindi accesa con un grido di sollievo da ogni parte. Mi azzardai di dire che avremmo dovuto calcolare approssimativamente il tempo del consumo per tenerla spenta a intervalli e farla durare così fino allʼalba. In tal modo passavamo dalla oscurità completa alla mezza ombra, guardando tutti a quel poco di luce come al sole. Intanto ognuno faceva il suo tragico racconto. Io tacevo sempre. L’ondulazione del legno si accentuava semprepiù, pareva di essere in alto mare; una guardia marina ferita raccontava gli orrori del maremoto; un brivido correva in ogni fibra. Dʼun tratto, nella oscurità, i finestrini apparvero come grandi occhi di fuoco. Che accadeva? Già da un pezzo si spandeva intorno un lontano odor di bruciato e una leggiera nebbia cominciava ad avvolgerci, prendendoci poi alle narici, alla gola; ma ora ci pareva di soffocare, accumulando quella mancanza dʼaria libera alla calcina che si era arrestata in gola. Tutti, sgomenti, volevano [22] sapere. I più forti si fecero largo a pugni, guardarono dal buttalume e annunziarono lʼincendio nella città distrutta. Noi due tacemmo: io mi strinsi ancor più nel mio dolore per quel nuovo strazio, ma la mia mano cercò quella di mio marito per trovarvi conforto. Qualcuno disse: brucia la casa Crisafulli, brucia la casa Ruffo, brucia lʼHôtel Trinacria... La mia mano ricadde nellʼabbandono dʼogni forza, quasi rifuggendo da ogni conforto. Anche lʼincendio, dunque! Lʼàncora staccata dal fondo sceso di molti metri, dava il legno in balìa delle onde, eravamo andati per ciò vagando di qua e di là ed ora soltanto, per la voltata presa subitamente, eravamo in linea della banchina, a cospetto del fuoco divoratore. Grida di spavento imploravano aiuto. Venne allora da un altro vapore un marinaio che non era macchinista e accese a caso la nostra macchina e lentamente ci portò verso la cittadella. Sʼera fatto un po’ di largo intorno a me; allora tutti e due inginocchiati sul sedile, con la fronte appoggiata al vetro dei finestrini, vedemmo le fiamme allʼHôtel Trinacria. Le seguimmo con gli occhi sbarrati, col cuore lacerato, le vedemmo avanzare da una stanza allʼaltra, là, là, [23] ove lʼanima mia era rimasta sepolta con lei, e udimmo il crepitio sinistro e il crollare delle sconnesse fabbriche! Essendo già abbattuta la facciata dalla parte della marina, noi potevamo vedere in tutti i particolari quel che dellʼedificio, dal lato via Garibaldi ove abitavamo, era rimasto. Ma ecco che quelle lingue fumanti ci toglievano anche quei pochi resti dʼun albergo ove un appartamento corredato dʼogni cosa nostra, ci dava lʼillusione della casa propria. Tutto andava distruggendosi innanzi a noi. Ecco... ora precipita quellʼangolo, quel balcone, tutto quello che restava intorno a _lei_... tutto quel che era la sua spoglia mortale dilegua nel fuoco! Dio! No. Nessuna immaginazione, nessuna pietà può intuire quello che bruciava nellʼanima mia in quellʼora! Senza una parola, senza un lamento, raecolta in quella oscurità che mi isolava dagli estranei, intenta in quella angosciosa fissità che mi arroventava gli occhi, io sentivo tutto crollare, tutto distruggersi dentro di me. E la notte era lunga, interminabile! [24] Martedì. {29 dicembre} La mattina dopo cominciò per noi la triste giornata di vane attese. Nonostante la pioggia, che era tornata a volte lenta a volte a scroscioni impetuosi, salimmo sul ponte di comando, anche per uscire da quella piccola sala ove ammassati in quel modo soffrivamo della immobilità e del cattivo odore addensatosi nella poca aria greve. Triste, triste spettacolo vedemmo di lassù: ovunque fiamme e rovine; copriva la lugubre scena un cielo di piombo. Sotto un paracqua, prestatomi da un dolciere, che lo avrebbe ripreso per restare allʼaperto quando noi saremmo rientrati al nostro posto, cioè al nostro stallo, io potei rimanere una mezzʼora in quella desolante contemplazione. Giovanni mi stava accanto. Allora - finalmente - parlammo di lei, della nostra figlietta che era il centro della nostra piccola famiglia, rifacemmo tutta la via di quella breve esistenza seguendola ad ora ad ora; tutte le sue tenere espressioni, la sua voce colorita dʼintonazioni insinuati, il suo sguardo sereno, la dolcezza del suo volto che pareva dipinto dal Beato Angelico, la sua figura infantile che le faceva dare minor numero [25] di anni della sorella, pur non essendovene che uno e neppur completo di differenza, e che ce la faceva chiamare «la piccola»; tutta lei, nella sua essenza, era fra noi. E ci pareva di dovere attendere da lei il consiglio. Che avremmo fatto? Dove saremmo andati? Come? Con quali mezzi? Eppure una decisione bisognava prenderla. Andare fra le fiamme e le macerie per salvare i sacri resti, se pur ne restassero ancora, era impossibile, nè avremmo avuto modo di scendere: nessuna barca, e quelle che venivano portando feriti nei vicini battelli, se ne andavano senza rispondere alle nostre chiamate. Oh, venisse almeno presto Nino! Ecco, ecco, là, una barca, viene dalla parte di Ganzirri, si avanza... si dilegua! Guardiamo bene, forse riconosceremo qualche amico sul piroscafo meno lontano; ma la distanza non poteva darci tale soddisfazione. Forse troveremo qualcuno del personale di bordo, fra i tanti che conoscevamo per le nostre frequenti traversate nello Stretto; nessuno. Tutti avevano portato a bordo le loro famiglie ed avevano ripreso le imbarcazioni in cerca di viveri. Sempre in attesa di Nino, sperando e disperando, salendo sul ponte sotto la pioggia, scendendo per riprendere il nostro posto che altri [26] intanto occupava, non cedendolo poi senza volgari invettive per la nostra condizione di _signori prepotenti_, passammo tutto il giorno. Nino sarebbe stato tutto il nostro conforto e Nino non era venuto, certo perchè non aveva potuto, ma noi non ne sentivamo meno per ciò la mancanza. E che avremmo fatto noi, così, soli, senza un soldo, senza energia, senza pensiero che non fosse per rimpiangere la nostra diletta! Si levava lʼombra della sera e noi chiudevamo il cuore ad ogni illusione. Con lo sguardo fisso nellʼincendio io pensavo come più nulla mi rimanesse; nulla: gioielli, valori, ricordi, carte, lettere, manoscritti, fotografie, oggetti che ora sarebbero stati memorie sacre: tutto un crescendo di rimpianto si allargava nel mio cuore; nulla, più nulla, nè in Messina nè in Ganzirri nè forse in Calabria. E il fuoco là di faccia seguitava a consumare tutto. Noi non avevamo nulla, non eravamo che noi due, abbandonati in quellʼesilio, sperduti in quellʼangoscia senza confine; senza amici che sapessero, potendo, ove trovarci; senza che la figlia nostra a Napoli e mia suocera in Calabria sapessero la nostra sorte e potessero farci sapere la loro; soli, soli, desolatamente! Forse fu quella la più triste fra le tristissime giornate che seguirono. [27] La sera, tardi, nella oscurità completa, poichè la candela era stata consumata nella notte precedente, e nel giorno non si era potuto provvedere a nulla, udimmo il cadenzato rumore di remi: tutti avremmo voluto vedere e ci trovammo tutti alla porticina dʼuscita e ne fu tale la ressa che nessuno potè farsi strada. Poco dopo una grossa voce annunziò un uomo e la moglie, che era già fra noi, lo chiamò per nome. Egli entrò e tutti credemmo di stargli intorno poichè la grossa voce pareva venire dal centro. Cominciò col tono burbero che doveva essergli abituale: - Tutti morti, non cʼè più nessuno; i pochi rimasti sono feriti e moriranno. Così, meglio per tutti. Io ho perduto i miei figli; (qui la donna, che forse sperava ancora, singhiozzò) avevo la casa nello stesso isolato dellʼHôtel Trinacria, tutto brucia e mio figlio, vivo, vi brucia dentro, chiamando aiuto. Non si può aiutarlo, assolutamente. Egli, spintovi dalle fiamme che hanno bruciato la porta a cui si era potuto afferrare, è caduto fra le macerie del Trinacria, verso lʼangolo di via Garibaldi, dove lʼincendio è più forte. Io sentii quelle parole scottarmi lʼanima. - Impossibile, impossibile! - tuonò ancora. [28] - Sapevo che mia moglie era qui e son venuto, ma domani tornerò giù. - Ma come avete fatto a trovare una barca? - gli fu chiesto da ogni parte. - Mi ci sono buttato dentro ad ogni costo: era lʼimbarcazione del ferry-boat, carico di viveri. Allora vi fu un ammutinamento. Ognuno gridava il suo diritto sulle provvigioni salite a bordo; tutti nel buio gesticolavano, minacciavano: spinti dalla corrente impetuosa noi due ci sentivamo sbalzare di quà e di là. Una voce gridò che i sacchi portati a bordo non contenevano che dei fagioli. E questi sacchi furono a tentoni trasportati nella nostra sala per inutile soddisfazione di possesso dei dimostranti. A notte alta non udimmo più la voce grossa che aveva sempre tuonato parolacce e bestemmie nè i lamenti di un tabaccaio che aveva la testa fasciata e il nudo corpo sotto una lunga giacca da donna. Nessuno se ne chiese spiegazione, soddisfatto di quel silenzio dopo tanta tempesta. Mercoledì {30 dicembre} Allʼalba, quando ognuno credeva di profittare della barca arrivata nella notte, e cercavamo tutti di trovarci i primi sulla scaletta, lʼimbarcazione [29] era sparita col solito personale, che andava a far bottino unicamente per le proprie famiglie, e i due che mancavano dal nostro gruppo. Ancora, dunque, una giornata dʼattesa! lo mi sentivo dʼuna debolezza che mi prostrava, che mi dava il capogiro, sopratutto soffrivo il freddo e la sete che diventava insopportabile. Nella tasca del pastrano che indossavo avevo già trovato una caramella e ne avevo ora succhiato appena per serbarla a lungo, e soffrivo terribilmente. Ricordo con quale cura, dopo avermela staccata a forza di volontà dalle labbra arse, io rimettevo nella carta quella piccola sorgente dʼun momentaneo benessere! Sulla testa mi si era formata una crosta che mi dava unʼacuta sofferenza ogni volta che muovendomi si attorcigliavano al collo i capelli sciolti. Lʼumidità della pioggia che prendevo nel giorno e assorbivo nella notte mi dava un freddo nelle ossa e un brivido continuo mi scuoteva tutta. Ora, a poco a poco, rivedevo nel pensiero tutte le persone care, vicine e lontane, alle quali avrei voluto dire una parola dʼaffetto; mandavo ad ognuna di esse un saluto come se io fossi [30] per morire, mentre tante e tante di quelle erano già morte! E vedevo partire i vapori per Napoli, e il mio desiderio vi correva dietro per raggiungere la mia Maria. Partire, sì, partire per Napoli... Ma come lasciare Messina? Come allontanarsi da quellʼangolo distrutto dellʼHôtel Trinacria ove, forse, poteva esservi ancora qualche reliquia da sottrarre al fuoco? E Nino non veniva! E le navi entravano in porto, e i soccorsi arrivavano, e gli aiuti venivano, ma per noi era inutile: il fuoco teneva tutti a distanza. Un uomo di bordo, che ci aveva riconosciuti, venne sul ponte, con grande segretezza tirò fuori un ramaiolo di latta colmo di paste cotte e ce lʼoffrì raccomandando di non farci scorgere dagli altri. Ringraziammo del pensiero e mio marito portò istintivamente la mano alla tasca.....! No; non avremmo potuto mai avvicinare alla nostra bocca quella pietanza tratta prima da chissà quale rovina, cotta poi in quellʼacqua di mare su cui galleggiavano i cadaveri che circondavano il ferry-boat, e dai quali io cercavo di stogliere la mia attenzione, ma su cui tornavo sempre nella speranza di non riconoscervi almeno degli amici, [31] Dʼun tratto, scorgo una barca dalla parte di Ganzirri; tanti berretti salutavano. Mi guardai intorno per vedere a chi potevano esser rivolti quei saluti: non vʼera alcuno. La barca si avanzava a gran remi, un insieme di berretti e di costumi di Ganzirri mi tolse ogni dubbio. Chiamai Giovanni con un grido di gioia: era tutta la gioia che potevo avere in quelle ore tremende; egli accorse, cadde, nella fretta, aggiungendo una ferita, ma intanto gridava con gioia: Nino, Nino! Era, sì, finalmente, Nino, e con lui suo fratello e i cognati e Vincenzo, il nostro cocchiere. Ci parve di non poter sopportare quella emozione; scoppiai in lagrime. Quella cara gente, quella gente nostra, salita a bordo, si gettava ai nostri piedi, baciandoci le mani, compatendo il nostro misero stato. Nino disse che della mia casa a Ganzirri non rimaneva purtroppo che il ricordo e che fra le macerie non aveva potuto trovare neppure qualche cosa di biancheria e di vestiario da portarci. Ecco, anche nella sua casa soltanto dei fazzoletti di sua moglie aveva potuto prendere. Oh, quei fazzoletti! Potermi, finalmente, asciugare gli occhi! E ci narrò che nel tornare a Ganzirri, la sera [32] del lunedì, quando ci aveva lasciati sul ferry-boat, la barca si era sfasciata nella tempesta, che il martedì non aveva saputo come fare, che si era incamminato a piedi, ma che aveva dovuto rinunziarvi perchè smarriva la strada, ora interrotta, per il lago le fiumane e i torrenti che lʼavevano coperta. Ci disse che in quel giorno, mercoledì, era venuto a piedi con i suoi compagni, per mancanza di barche, facendo un lunghissimo giro; che era andato al Trinacria e che tutti armati dʼogni forza di volontà non avevano potuto affrontare il fuoco; che, per darci un qualche aiuto, era, andato in giro per ottenere un pò di pane e non era stato possibile, soltanto aveva potuto avere del sublimato sciolto nellʼacqua perchè ricordava che avevamo delle ferite. E con un pò di lana, tolta ad una materassa e precedentemente disinfettata, ci lavò le mani e le ferite. Ma ora se ne dovevano andar via tutti subito, altrimenti i marinai li avrebbero lasciati lì; e avevano fatto tanto per ottenere la promessa di esser riportati a Ganzirri. Ci disse che era arrivato il Re. Questa notizia fu un balsamo. Pensai che se il Sovrano veniva direttamente a Messina senza fermarsi a Napoli, era segno evidente che colà nessun pericolo esisteva; e resi grazie a Dio per la incolumità [33] della mia Maria, di suo marito, della famiglia in cui era entrata, di tutti i miei cari di Napoli. Nel mettere i fazzoletti nella borsa volli preservare il ventaglio dal contatto di quelli che sarebbero stati insudiciati dalle mie lagrime e dal calcinaccio delle mie guance; e lo trassi fuori per avvolgerlo nella carta che aveva contenuto i fazzoletti portati da Nino; allora mi accorsi dʼun portabiglietti e dʼun portamonete, trovai così alcune carte da visita, che mi servirono poi per scrivere dei bigliettini di quà e di là in cerca di aiuto, per far sapere di noi a mia figlia, e 750 lire che mi parvero milioni. Di quella enorme ricchezza insperata facemmo subito parte a Nino, al cocchiere, ai marinai, riserbandone anche per noi. Mentre parlavo con Vincenzo mi accorsi che Nino aveva lʼaria di non volermi far sapere ciò di cui egli interessava mio marito in quel momento. Compresi e gridai: - Tu parli della signora Pompeiano! Dimmi, dimmi subito tutto. Oramai nessun dolore mi può colpire impreparata! - No - disse ingenuamente il buon Nino - ma è della gioia che temo per Lei. - Ah, ella dunque vive? Dovʼè? Dove? Voglio andare dalla mia Paolina. [34] - É già stata imbarcata sulla nave russa per Napoli. - È ferita? - Poco. - Ma tu eri già andato da lei in quel giorno e..... - Sì; ma ella era sbalzata in un punto chʼio non avrei potuto supporre. - Ed ora ti ha parlato? Le hai detto di noi? - Ho detto tutto. Ha pianto. E’ sicura che si rivedranno a Napoli dove Loro anderanno certamente per riunirsi alla figlia. Oh, Paolina, Paolina cara, Paolina risorta, ridata al mio affetto! Quella gioia mi fece sentir male. Un profugo scendeva nella barca di Nino per farsi lasciare a terra, partendo per Catania. Gli affidammo due telegrammi da fare passare da quella città: uno per mia figlia, uno per mia suocera. Il pensiero di quelle due care ci teneva in unʼagitazione che a volte diventava spasimo. Ora però mi andavo calmando per Maria, sicura che la sua nuova famiglia, cercando tra i profughi e i feriti che sbarcavano a Napoli, vi avrebbero trovato Paolina e ne avrebbero avuto le nostre nuove. Dopo la partenza di quella barca tornammo [35] nella solitudine e nello scoraggiamento. Verso sera un signore apparve, sollevando in noi - con la sua presenza di persona per bene, vestita di tutto punto - il ricordo del passato. Fra quelle nudità appena coperte, egli fu una visione dʼun tempo lontano. E che il passato ci sembrasse tanto lontano era un’impressione giustificata, poichè le sofferenze e il dolore si addensavano sempre più in noi, assorbendoci nello spasimo di quelle ore di giorno e di notte vissute angosciosamente nellʼanima, tormentosamente nel corpo, facendoci sentire lʼeternità nel tempo. Ci avvicinammo a lui, timidi. - Scusi, signore, ma noi non sappiamo ciò che accade nella città. Si possono fare dei telegrammi? - No, non è possibile, non ci sono fili. - - Sʼella volesse interessarsi a noi potrebbe affidare a qualcuno di sua conoscenza che debba partire per Palermo o per Catania.... - Partirò io stesso per Palermo. - Davvero? Potrebbe mandare un biglietto al signor Schifani che abita.... - Io lo conosco. - Allora! - esclamammo noi due come se unʼàncora di salvezza ci venisse offerta subitamente. - Allora, voglia informarlo di noi pregandolo di telegrafare le nostre notizie al Principe [36] di Monteroduni, a Napoli, perchè le comunichi come meglio crederà a nostra figlia, sua nuora. - Ma loro sarebbero.... - e non osò pronunziare il nostro nome, guardando il nostro viso insudiciato e il vestiario ridicolo e pietoso. Lo pronunziammo noi, mormorandolo appena, umiliati di quella sua reticenza, di quel suo sguardo. - Oh, poveretti, in che stato! - E quellʼignoto che ci compatì e si tolse il cappello innanzi al nostro dolore, ci parve un amico e, nel bisogno di espansione, gli narrammo la nostra sventura. - Mi metto a loro disposizione. Tornerò domani. Li avverto intanto che dovranno decidere il da fare perchè il ferry-boat servirà come sede municipale e dovrà esser libero forse per domani sera. - E dove andiamo? - esclamammo senza unʼidea nel cervello. - Ma, a Napoli, dalla figlia. - E’ vero, ma qui.... - e accennammo, alle fiamme e, intimamente, pensammo pure che non avevamo la somma necessaria per quel viaggio. Egli non insistette, si licenziò, ci stese la mano e ripetè: poveretti! [37] E quella parola ce la sentimmo dentro di noi per tutta la notte come un conforto. Non so sbucato da dove, venne un medico con molto cotone idrofilo e una bottiglia dʼacqua al sublimato; lo pregai di darmene una goccia per togliermi una macchia di sangue sulla guancia. «Non ci mancherebbe altro!» disse bruscamente e mi voltò le spalle. Non lo rividi più. Quellʼuomo burbero, dalla voce grossa, era tornato a bordo misteriosamente, forse col medico, aveva dinanzi un secchio con acqua. Subito, dalla tasca del mio pastrano, che mio marito non aveva più indossato dal nostro ritorno da Taormina (16 dicembre!) tiro fuori lʼastuccio di pelle contenente un bicchiere da viaggio e mi avvicino, con la sete fatta più ardente dalla vista dell’acqua; ma, più pronti di me, molti altri mi gettano da parte, ficcano dentro al secchio le mani sporche e bevono nel concavo delle palme! Rimisi il bicchiere nellʼastuccio, lo riposi in tasca, donde trassi la piccola carta col residuo della caramella alla quale mi avventai col pianto negli occhi. Ricordo sempre lʼacuta sofferenza di quel momento! Così finì la terza giornata. [38] Giovedì. {31 dicembre} Pioveva. Ma andai sul ponte: era il mio rifugio. Tutta quella gente ci era ostile, ci guardava sogghignando, aveva la soddisfazione della nostra sventura; per quellʼodio di classe, che giunge fino ad impietrire il cuore nelle più gravi sciagure, essa assisteva al nostro pianto col sorriso beffardo sulle labbra. «Ora siamo tutti gli stessi» andavano ripetento, guardandoci in faccia come una sfida. Dal vicino pontile vidi agitarsi un fazzoletto: chi era? A chi quel segnale? Una voce mi arrivò «siamo noi, due guardiani di Quarantano; veniamo da Palmi, la signora marchesa madre è viva, nessuna ferita, sta bene, saluta, vuole notizie». - Venite, venite - gridammo noi, nel piacere di quelle parole, senza pensare che non vʼera mezzo di trasporto. Dopo unʼora e più una piccolissima barca, vuota, smarrita, o forse da tempo lasciata volontariamente alle onde per distruggerla del tutto, accostò al pontile spintavi dalla corrente; subito i guardiani e Nino, che era con loro, venendo tutti da Ganzirri ove i due di Calabria si erano fatti lasciare da una barca di Villasangiovanni, lʼafferrarono; uno di essi con Nino vi entrò dentro, facendola affondare a fior [39] dʼacqua e, con i paracqua chiusi e legati con una corda, mettendosi a remare avanzarono lentamente. Quel poveretto ci raccontò quanto lungo e faticoso fosse stato quel viaggio compiuto in tre giorni, a piedi, per strade impraticabili. Mia suocera era scampata al pericolo ed ora era in baracca con i Pentimalli, che non sapevano nulla del figlio Nino, tenente a Messina. Poveretto! Finito anche lui! E di quella fine io avevo acquistato la certezza quando lo avevo atteso inutilmente tutto il lunedì. Intanto Nino mi portava da Ganzirri una maglia chʼio misi subito sulla mia povera testa, legandomi le maniche sotto al mento; ci portava anche un pollo rifreddo. Ci spiegò dinnanzi un foglio di carta e dandomi una matita: «scrivano alla Marchesa a Palmi, poveretta» disse, ed io, sul foglio da Nino spianato e sostenuto ad una parete, scarabocchiai con mano incerta le tremende parole della nostra sciagura. I guardiani sarebbero ripartiti subito. Così anche Nino fu obbligato a lasciarci. Quel giorno fu meno lungo per la nebbia che oscurava lʼorizzonte, ma fu per ciò lunghissima la serata. La tristezza si faceva sempre più fonda nellʼanima mia. Venne quel signore che aveva avuto pietà di [40] noi, ci disse che non sarebbe partito prima del giorno dopo per Palermo, intanto aveva trovato modo di telegrafare allʼavvocato Schifani da una stazione intermedia fra Catania e Messina. Lo ringraziammo con effusione; gli chiedemmo il nome per rammentarlo nella nostra gratitudine. Il signor Genuardi si trattenne a lungo con noi, ma ci annunziò che la mattina dopo, alle otto, bisognava andar via di là, ci fece molte gentili offerte ed ebbe per noi quei riguardi che ci maravigliavano, non sembrandoci di essere più le stesse persone dʼuna volta. Quella notizia di dover abbandonare il ferry-boat ci aveva sgomentati. Perchè? Eppure, se non altro, avremmo cambiato sofferenze; forse avremmo anche potuto partire per Napoli! Ma no, no, noi non volevamo allontanarci di là, volevamo vedere quelle fiamme che bruciavano le ultime tristi speranze, ma che ci indicavano nel vuoto, nella distruzione, il luogo ove _ella_ era stata colpita a morte, ovʼella forse aveva avuto il tempo di pensare a noi mentre si compiva il suo destino! Nel dubbio del domani io piansi per tutta la notte. [41] Venerdì. {1º gennaio 1909} Mi pareva che quellʼalba non sorgesse mai, tanto lunga e penosa ne era lʼattesa. Credo che a certo punto io abbia per poco perduto i sensi, perchè Giovanni mi scosse con la voce di allarme, ripetendo il mio nome, insistendo: che ti senti, che hai? Mi sentivo male e pensai che poteva anche contribuirvi la fame. Egli intanto doveva avere lo stesso sospetto perchè disse: è da domenica sera che non prendiamo neppure un sorso dʼacqua! Allora ricordò il pollo portato da Nino, lo prese dallʼangolo del sedile ove lo aveva dimenticato, svolse cautamente il tovagliolo che lo conteneva, ruppe, tirò, squarciò, me ne dette un pezzo. Io meditavo sulla difficoltà di far passare quella roba secca dalla mia gola arsa, quando dʼun tratto, delle dita si posano sul mio braccio, strisciano incerte della direzione ma decise alla preda, scendono alla mano, afferrano.... Non dissi nulla a mio marito per non far nascere complicazioni. Egli intanto susurrava al mio orecchio «ne ho mangiato appena, serbo il resto, chissà!». Lʼalba ci spiegò il lento misterioso rumore delle ultime ore: quasi tutti avevano mangiato qualche cosa, se ne vedevano le briciole, se ne calpestavano [42] i resti. Donde era venuto quel cibo? Non lo sapemmo mai. Vedemmo una vecchietta, poi una bambina, poi unʼaltra donna che guardavano insistentemente là a terra, pensai che non avevano avuto nulla e offersi il resto del nostro pollo. Quelle due donne erano le più accanite contro di me, una di esse mi canzonava sempre; quando il singhiozzo irrompeva contro la mia volontà che non voleva darlo in pascolo a quegli estranei ad ogni sentimento pietoso, essa me ne rifaceva il verso. Quando offersi il pollo, mi guardò come se avesse voluto fulminarmi, per quellʼobbligo di gratitudine di cui vagamente intuiva il dovere e, ciò nonostante, afferrò con tutte e due le mani il cibo desiderato e mi voltò le spalle. Era giorno, il primo giorno dellʼanno nuovo. Quanti ricordi! Chi cʼera più degli amici con i quali salutavamo lʼentrare del nuovo anno, riunendoci sempre nellʼultima sera? Oh, come la dolce creatura mia sapeva comprendere il vuoto del mio cuore in quelle riunioni! Ella sapeva che io pensavo ai miei due figlioletti perduti, al piccolo Franz, al caro Alberto; essi mi avevano lasciato unʼamarezza profonda, solo confortata dalla costante memoria del loro passaggio sulla terra accanto a me, memoria sempre [43] così viva che spesso mi dava la dolce illusione di vedermeli ancora attorno. Ella che, lʼanno precedente, quando Maria era fidanzata, mi aveva detto: Mamma, questʼaltra volta sarò io sola vicino a te nel saluto allʼanno nuovo, ma avrò saputo già circondarti di tante maggiori tenerezze che non rimpiangerai troppo lʼassente. Ora mi mancavano tutte: lei, Maria, Paolina di cui ignoravo la gravità delle ferite (1). Adele, la buona e cara istitutrice delle mie figlie che si trovava ad Acireale e della quale nulla potevo prevedere (2). E ricordavo i cari Ainis, Giovannina Crisafulli, Genzina dʼUrso con tutti i suoi, e di tutti, purtroppo, non avevo che la certezza della misera fine! Una voce annunziò che si doveva scendere. Strinsi al seno il mio bagaglio: guardai, come se avessi voluto entrarvi dentro, quelle fiamme che da tre giorni e quattro notti erano il punto fisso del mio dolore, salutai ciò che della mia creatura non era più che nella mia memoria, chiamai sommessamente, teneramente, misteriosamente il caro nome e attesi: in quel punto (1) Il 5 gennaio Paolina moriva a Napoli, nellʼOspedale di Marina. (2) Non vi furono vittime ad Acireale. [44] mi parve come se le nostre anime si fossero incontrate, la sua veniva a me ed io sentii che ancora, che sempre, noi saremmo state unite. La convinzione ne aveva una fonte sicura: fra lei e me vi era, soprattutto, la comunione delle anime; e lʼanima è immortale. Questo conforto immenso penetrò nel mio spirito e valse a darmi la forza di quella materiale separazione. Salutai Messina, la Messina della mia infanzia, dei miei genitori, dei miei primi affetti, dei miei primi dolori; la Messina mia, quella che non era più, che non sarebbe stata mai più, ma che io avrei portato sempre nellʼanima, immutata. Salutai gli amici che dormivano il sonno eterno sotto quelle macerie, piansi tutti quelli che forse si dibattevano ancora nel profondo di quelle rovine e mandavano lʼultimo sospiro di rassegnazione o lʼultima parola disperata! Una grande barca andava e veniva prendendo dal ferry-boat tutta quella gente che, riunita per quattro giorni da una comune tremenda sventura, non aveva potuto fondersi in una reciproca simpatia. Scendemmo anche noi, dirigendoci verso la vicina stazione. Io non mi reggevo dritta e i pochi tesori che stringevo mi parevano dʼun peso schiacciante. Sedetti a terra mentre Giovanni [45] sʼinformava del treno per Catania; tornò poi in fretta perchè subito ne sarebbe partito uno e cercammo di affrettarci; ma io non potevo andare avanti, anche per lʼimpaccio di quelle scarpe da uomo. Sopraggiunse Vincenzo il cocchiere, e sorretta da lui e da mio marito potei arrivare al treno... che vedemmo andare avanti e indietro e allontanarsi poi sotto al nostro sguardo disperato! Ora, bisognava aspettare che un altro treno si formasse. Pioveva. Mi sentivo sfinita. In un carro della Croce Rossa vidi un soldato che beveva, mi avvicinai col mio bicchiere ed ebbi acqua ed una arancia. Bevvi, finalmente! Bevvi, bevvi ingoiando quel nodo che mi si era arrestato in gola e che tanta sofferenza mi aveva recato in tutto quel tempo. Affidai lʼarancia a Giovanni per serbarla alla sete che avremmo avuto più tardi e lo pregai di portarla in mano: la mia paura che ci fosse tolta di tasca non era infondata! Restammo sul binario, in attesa, sotto la pioggia, fino alle diciassette! Quando si avanzò il treno vuoto che doveva ripartire, fu tale una ressa nellʼassalto ai posti che noi due stavamo per disperderci; ma un tenente, Di Martino, a noi mandato dal caro [46] amico Colonnello Giardina, cui avevo potuto far arrivare un biglietto, avendo saputo che la sua dimora era in un vagone là fermo, saltò - e non so come - sulla folla, ed entrò in uno scompartimento facendosi seguire da un suo soldato per tenerci il posto. Ma, nello stesso tempo chʼio stavo per salire, un urto mi rimanda indietro e altra gente sale. Dallʼaltro sportello gruppi umani salivano e quando, sollevati dallo stesso impeto della folla, ci trovammo nella vettura, eravamo pigiati in modo da perdere il fiato. Allora sʼimpegnò una lotta fra il nostro tenente, il suo soldato e un soldato trovato là - che poi sapemmo essersi vestito di quella uniforme, presa chissà dove, per avere libero il passo. - Questo personaggio sospetto, a certo punto, tirando pugni a destra e a sinistra per darsi liberi movimenti estrae una rivoltella; il tenente al colmo delle furie si dibatteva per sguainare la sciabola. Io mi sentivo morire, tanto più perchè quel povero tenente si trovava in quel tafferuglio per causa nostra. Lo supplicai con lo sguardo, mettendo la testa fra uno spiraglio formatosi nella calca di quei corpi accatastati. Allora, giacché in ogni modo noi oramai eravamo dentro e che qualcuno aveva dovuto cedere al numero esorbitante ed uscirsene dal finestrino, anche il tenente [47] si stese orizzontalmente sulla massa ed uscì dallo sportello, seguito dal suo soldato. Giovanni stava per gridargli un ringraziamento ma io feci a tempo a frenarlo con una stretta al braccio, per impedire di mettere a conoscenza altrui il riguardo avuto. Restammo in ventiquattro. Impossibile respirare. Cercammo di combinarci alla meglio: sul sedile dal lato nostro erano due grossi sacchi molto diligentemente sorvegliati da alcuni dei nostri compagni; salita sul sedile cercai di sedermi - per così dire - su un sacco, ma ci stavo tanto male che dovevo sorreggermi aggrappandomi alla reticella sulla mia testa. La scomodità non mi permetteva di resistere a lungo. Mio marito chiese il permesso di appoggiarsi al sacco vicino per essermi così di sostegno. Fu concesso con qualche parola da bettola. Fra i miei piedi, che si appuntavano sul cuscino del sedile, un macellaio aveva preso posto in modo che il coltellaccio che gli stava attaccato alla cintura di cuoio tormentava il mio piede e il cappellaccio unto mi sfiorava il viso. Il sacco andava abbassandosi ed io piegavo da quel lato, cercando di rimettermi in equilibrio, ma le proteste espressivamente volgari del mio macellaio mʼimpedivano ogni movimento. [48] I bimbi piangevano, le madri gridavano per calmarli, un vecchio beveva di continuo in un fiasco che di tanto in tanto girava per tutte le bocche, soffermandosi anche dinanzi a noi che non accettavamo perchè non avevamo sete!! E per questo rifiuto, molto aspramente commentato, dovemmo poi privarci di bere per tutto il viaggio, anche quando alle stazioni trovammo delle signore che ci offrirono del marsala. Del resto, in quello stato, forse ci saremmo ubbriacati. Sulla rete, sotto la quale io dovevo tener piegata la testa per non urtarvi, una mezza forma di maiorchino - il più acuto odore di formaggio - mandava il suo sgradevole profumo su di me, che ero oppressa da quel corpo che mi stava dinnanzi, agitandosi sempre, e la cui testa al livello della mia, ora che ero scesa più in giù insieme ad un lato del sacco, mʼimpediva anche di vedere al di là. Partimmo, dunque, dopo più di unʼora, già stanchi, già sofferenti, già incapaci di poter continuare così. Alla mossa del treno, Vincenzo, che ci aveva guardati in silenzio, alzatosi sulla punta dei piedi per meglio vederci attraverso lo sportello, non potè frenarsi e, malgrado le nostre precedenti raccomandazioni, gridò, correndo, nel [49] dolore di quel distacco: Coraggio, coraggio signor Marchese, coraggio signora marchesa. Tutta la gente che ci attorniava parve sollevarsi in una voce sola: Ah - esclamò in coro. - Ancora qualcuno si crede qualche cosa? Tutti uguali siamo ora, tutti, non cʼè più nulla; non cʼè più nessuno; tutti poveri siamo, tutti miserabili siamo. Ah, che marchesi, che signori, niente cʼè più, niente. E noi assentimmo: sì, non cʼera più nulla, poichè i cuori erano infranti o impietriti. Intanto, dopo la lunga attesa della partenza, quel movimento ci parve un sollievo per le membra stanche dʼimmobilità; ma la corsa rallentava sempre più nel timore che cedessero i ponti. Alle stazioni gruppi di studenti, di signori, di forestieri venivano a chiedere se vi fossero feriti e i nostri compagni dicevano sempre di sì e domandavano latte, uova, marsala, e bevevano e mangiavano, per ricominciare a far lo stesso allʼaltra fermata, mentre in altre vetture i veri feriti aspettavano con ansia che il treno si rimettesse in moto, nella speranza di arrivare presto a Catania per avere i soccorsi necessari. Noi non prendevamo nulla e ne avevamo le beffe dai nostri compagni, felici del nostro abbattimento morale e fisico. Era intanto sopraggiunta la notte [50] e lʼoscurità si addensava e il piccolo lume a petrolio che tentennava dallʼalto non riesciva ad accendersi e affumicava lʼambiente greve di odori malsani e ci pigliava alla gola. Nella oscurità io ebbi una paura terribile di essere strangolata: quella era una riunione di malfattori; ora, nel buio, mi sarebbe rubata la borsetta, io farei resistenza e sarei uccisa. A volte mi pareva che il coltello fosse ritirato a poco a poco dal mio piede sul quale mi pareva di non sentire più quello strofinio del manico che, attraverso la scarpa, mʼirritava la ferita. Ecco, pensavo, ora mi assassinano credendo chʼio porti dei valori in questa borsetta che avrei salvata senza aver neppure pensato a coprirmi bene. Era logico che supponessero dei tesori. Allora piano piano cercai di aprirla per tirarne fuori gli oggetti cari e mettermeli in tasca ove mi parevano meglio custoditi poichè vi avrei sempre tenuto le mani a baluardo; ma il macellaio dette un pugno sui miei ginocchi, esclamando rudemente: Ma statevi ferma, per tutti i diavoli! Io non mi mossi più, ma tremai sempre, in preda alla grande agitazione interna. Soltanto nelle fermate prendevo riposo di quella paura, ma si ripeteva la scena della ingorda avidità e mi sentivo fremere di ribellione, pensando che [51] ciò che era preso da quegli avvoltoi veniva tolto a chi ne aveva veramente bisogno e forse languiva di fame nelle vetture vicine alle nostre! Così fu compiuto il nostro viaggio, arrivando a Catania verso la mezzanotte. Nel rallentare del treno, prima chʼio avessi potuto afferrarmi ad un appoggio, qualcuno tirò dʼun tratto il sacco ed io caddi su un fianco, risentendomi di quellʼurto per molto tempo ancora, dopo. Lentamente, il treno lungo, pesante, sovraccarico, entrò nella stazione, in un silenzio lugubre. E cominciò il triste passaggio dei feriti, dei moribondi, dei vivi disperati. Aspettammo che i nostri compagni scendessero e aspettammo ancora a lungo, per sgranchirci, per evitare quella confusione. Quando ci avviammo lentamente, senza forza per affrettare il passo, tutto era silenzio intorno a noi. Appoggiata, anzi appesa al braccio di mio marito, con lʼaltra mano stringendomi al petto i cari ricordi, muovendomi a stento nelle grandi scarpe umide diventate più pesanti, pensavo che forse dai miei cugini Grimaldi avremmo trovato la porta chiusa a quellʼora! E dove saremmo andati? - Siamo vicini, eccoci alla voltata del Corso Vittorio Emanuele. - mʼincoraggiò mio marito. [52] - Ho freddo, ho freddo! - io gemevo. Al palazzo Grimaldi di Serravalle il portone era socchiuso; entrai avviandomi verso le scale. - Ohè, brava donna, dove andate, chi siete? - mi gridò il portiere chʼio chiamai a nome; il pover uomo mi guardò, si buttò in ginocchio, esclamando: O Dio, in che stato! Ci accompagnò per le scale dicendoci che eravamo attesi. - È da quel giorno che il signor Barone ha dato ordine di tenere sempre aperto il portone, di non coricarci a turno, perchè era sicuro che se loro non partivano per Napoli venivano qui. Sono cinque giorni e cinque notti che aspettiamo. Il Barone col fratello erano andati in cerca di loro a Messina, ma non li hanno trovati e son tornati molto afflitti. Commossi ma non sorpresi dellʼaffetto di quei cari parenti, seguitavamo a salire, quando la voce dʼun antico cameriere di casa, gridò forte: eccoli, eccoli, signor Barone. Tutti ci corsero incontro. Fu una scena di commozione grandissima. Francesco e Giovanni Grimaldi, i buoni cugini miei, mi adagiarono in una sedia a sdraio portandola vicino al caminetto, mʼimposero di tacere, sedettero quasi inginocchiati accanto a me, mi lavarono adagio, [53] con cura, con tenerezza, carezzandole, quelle mie povere mani che si erano congiunte in preghiera, che si erano alzate in disperazione, che avevano scavato, che erano rimaste macchiate di sangue e che ora essi tenevano fra le loro per riscaldarle, mentre io mi sentivo riscaldare lʼanima dal loro affetto fraterno. Uguali cure amorose furono apprestate a mio marito. Con tenera previdenza ci dettero un brodo, a sorso a sorso.... dopo cinque giorni di assoluto digiuno. Nessuna parola sul nostro grande dolore, ma tutto il loro affetto vi girava attorno discreto e profondo. Io che avevo una domanda da fare, alla quale avevo pensato incessantemente, ora non osavo: avevo paura. Francesco indovinò e disse, quasi con indifferenza per non farmi attardare sulla grande emozione: - Rispondo al telegramma di Maria e le annunzio il vostro arrivo - ed uscì dalla stanza. Ora, finalmente, sapevo che mi restava ancora una figlia. _Napoli, maggio 1909. Hôtel Britannique._ QUARTA DI COPERTINA Disegno a penna di iconografia siciliana: testa decorata e maschera Note della Trascrittrice 1) I giorni del terremoto: Cettina Natoli, madre sotto shock, tralascia di dire che il 28 dicembre 1908 era un lunedì. Lo si evince, in qualche modo, andando molto avanti nella lettura della cronaca. Sebbene il titolo scelto, in pubblicazione postuma, sia imperniato intorno all’idea del tempo, nel testo il solo riferimento al giorno della settimana trasmette vaghezza e confusione. Ho deciso, quindi, di corredare il testo originale di una parentesi graffa che contiene data e mese esatti. In breve: Martedì. {29 dicembre} Mercoledì {30 dicembre} Giovedì. {31 dicembre} Venerdì. {1º gennaio 1909} 2) Gli errori sono stati lasciati, rimanendo fedeli al testo originale per come fu stampato allʼinizio del XX secolo. Errori di stampa: Riga 214: droghere, leggi _droghiere_ Riga 319: tutto che tutto mi pareva, leggi _tutto, che tutto mi pareva_ Riga 523: raecolta, leggi _raccolta_ Riga 549: insinuati, leggi _insinuanti_ Riga 651: sopratutto, leggi _soprattutto_ Riga 692: amici, leggi _._ (_punto e a capo_) Riga 721: per il lago le fiumane, leggi _per il lago, le fiumane_ Riga 764: _É_ richiede l’accento grave Riga 776: _E’_ richiede l’accento grave Riga 840: _E’_ richiede l’accento grave Riga 875: ripetento, leggi _ripetendo_ Riga 952: susurrava,leggi _sussurrava_ Riga 1093: ubbriacati, leggi _ubriacati_ Le congiunzioni _perchè_ e _poichè_, e la negazione _nè_ vengono stampate, di frequente, con l’accento grave quando, invece, richiedono sempre l’accento acuto. Sull’avverbio quà, usato e stampato solo due le volte nel testo, non occorre apporre alcun accento. L’avverbio _pò_ viene riportato 2 volte con un accento grave che non gli si addice. Quattro volte, invece, ricorre con il corretto apostrofo di troncamento _’_, per _poco_. I puntini di sospensione sono di norma tre. Il testo fornisce 7 esempi in cui i puntini sono quattro e 2 esempi in cui diventano, addirittura, cinque. La norma viene rispettata in tutti i restanti 12 casi. Vi ringraziamo di avere letto questa cronaca. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 76369 ***