OLIMPIA
OSSIA
L’ORFANA DELLA SELLEIDE
ROMANZO
DI
ADOLFO MEZZANOTTE
PERUGINO
Milano
PER G. TRUFFI E COMP.
M.DCCC.XXXIV.
[3]
AL SUO PADRE AMATISSIMO
ANTONIO MEZZANOTTE
L’AUTORE
Se Tu già un tempo colla vita naturale altra in me potesti infonderne di prezzo assai più estimatile; se io da Te con tanta cura al Bello delle Lettere e delle Arti educato, crescendo negli anni conobbi che un cuore non incapace di gentili affezioni palpitavami nel seno, era d’uopo che prima a Dio, quindi a Te dessi prova delle acquistate cognizioni, l’esempio fuggendo dell’uomo ingrato che [4] tace sempre ed occulta il ricevuto benefizio. A Te pertanto con ingenua compiacenza ora intitolo questo mio tenue lavoro nato nelle ore all’ozio tolte, mentre Tu co’ versi celebravi le memorande geste degli Elleni moderni. Abbiti in ciò una pubblica ben dovuta testimonianza della stima, dell’amore, e della filiale mia gratitudine. Qual mai cosa più dolce per ambedue!
[5]
Non molto lungi di Margariti, a quasi dieci leghe da Giannina, sul confine dell’Epiro sorgono le montagne della Selleide nella Grecia occidentale. Quel sentimento che abborre la schiavitù, e che fu sempre connaturale al classico terreno abitato dai figli degli Elleni, represso a forza nelle pianure e nelle città dalle numerose orde ottomane, rifugiato erasi più energico sulle altere cime delle montagne dell’Ellade, dove una selvaggia natura univasi coi magnanimi abitatori a sdegnare costantemente il tirannico giogo del Successore dei Califfi. Questa dolce libertà col puro aere che li nudriva respiravano i generosi montanari della Selleide, d’Agrafa, dell’Etolia, dell’Olimpo, e del Pindo: altrove la [6] Grecia esposta da ogni banda alle incursioni de’ barbari, ed oppressa dal numero, curvata erasi, benchè fremendo, sotto il ferreo scettro de’ suoi oppressori. Così nella schiavitù dell’Epiro, gli intrepidi Suliotti mai non deposero le armi in faccia ai desolatori della bella lor patria; ma con quella energia che è propria del loro carattere, difesero sempre l’assoluta loro indipendenza. Possessori di alcuni villaggi alle falde delle loro montagne, li abbandonano in caso di attacco per ripararsi sugli alti piani ad essi soltanto accessibili: quivi aspettano i Turchi che vengono lor sopra per soggiogarli: e quivi è da più secoli che i Turchi sono pienamente battuti e respinti con gravi perdite fino alle loro città. Un Senato composto di vecchi padri della patria regge il governo de’ bellicosi figli di Suli: sacri alla Croce fumano gl’incensi sui loro altari; mentre alcuni eremiti che posero le loro celle su taluna di quelle aeree rupi, pregano per la prosperità dei loro compatriotti, e per la conservazione della loro indipendenza.
Alessio capitano di una compagnia di dugento Suliotti era stato spedito dal Senato di Suli contro un corpo di Turchi, che occupar tentavano in una delle loro escursioni la inespugnabile rocca di [7] S. Veneranda, primo baluardo della Selleide. I Maomettani erano in numero ragguardevole; ed i pochi prodi guidati da Alessio sarebbero certamente periti sotto il fuoco delle artiglierie, quando venuti fossero ad aperta campagna col nemico: oltredichè avendo già trovato i Turchi trincerati al loro arrivo, aveano pure lo svantaggio del terreno. Alessio pertanto, dopo pochi colpi di fucile tratti ad intervalli e con poco effetto, temendo di compromettere la patria quando ostinato si fosse a perire alla spicciolata co’ suoi, comandò loro la ritirata, onde serbare il valore e le braccia a momenti più opportuni.
Frattanto il Governo di Suli meglio informato delle forze nemiche, spediva in ajuto di Alessio un corpo di quattrocento Suliotti: questi seco loro ricondussero al nemico molti di quelli che già marciavano in ritirata: coll’ajuto di alcuni pezzi di artiglieria fulminando il centro de’ Turchi, portato aveano il terrore in mezzo alle loro file, che aprendosi in disordine, e penetrar lasciandovi gl’intrepidi montanari, si dispersero, o caddero sotto i lor colpi. La fortuna delle battaglie si dichiarò per la Croce, ed i Suliotti si coprirono di gloria: ma Alessio che disperando del felice esito del combattimento non avea voluto prendervi [8] parte, ritornando con alcuni dei suoi fra le native montagne, sembrò vile agli occhi de’ Suliotti avvezzi da più secoli a non mai ritirarsi in faccia al nemico. Vile adunque dichiarato dai suoi compatriotti, ai quali antica costumanza prescriveva il fuggire il commercio di coloro che tali pubblicamente si rendevano, Alessio, perduta la comune estimazione, ed oscurata quella fama che è l’anima del soldato, viveva una vita peggiore di morte.
Sua moglie Evantìa, la bella Evantìa ch’egli amava teneramente, e dalla quale era con pari amore corrisposto, portava già nel seno da alcuni mesi il dolce pegno dell’imeneo. Costretta per le leggi di Suli ad esser l’ultima ad attinger l’acqua alle pubbliche fonti, e ad occupar nelle chiese gli ultimi posti, struggevasi in lagrime. Esposta alle amare derisioni delle spose de’ valorosi, le quali pubblicamente cantavano le lodi de’ loro mariti, per colmo di sciagura veder dovea l’infelice Alessio languire di giorno in giorno, e sorbir lentamente l’acerbo calice del dolore e della disperazione; poichè, morto lo sventurato alla vita civile, poteva affatto contarsi fra gli estinti, in mezzo ad un popolo che nell’onore e nel coraggio trova la propria esistenza. Attaccato da una lenta febre che condurlo [9] doveva al sepolcro, privo d’amici, abbandonato da tutti, la sola Evantìa vegliava le notti al suo fianco, e tutte quelle cure prodigavagli di che l’amor conjugale è capace in una tenera sposa: ma invano. Scritta era nel libro dei destini la morte dello sventurato, ed il potere degli uomini non è tale da cambiare i decreti del cielo: Alessio spirò fra le braccia di sua moglie, ed essa sentì di non potergli lungamente sopravvivere. La perdita di un uomo che adorava, e che forse più caro le si rendè nella sventura, giacchè sempre questa avvicina maggiormente fra loro le anime virtuose, talmente influì sulla vedova d’Alessio, che dopo averla esausta affatto di forze, ne provocò il parto non per anco maturo.
In una di quelle notti autunnali in cui rovesci di pioggia precipitano sulle rupi di Suli, ed in cui minacciosi venti contro spingendosi le addensate nubi annunziar sembrano la sovversione dell’universo, aprì gli occhi alla vita la fanciulletta Olimpia, mentre sua madre li chiudeva per sempre nel sonno della morte. — Sventurata creatura! tua madre perisce, e tu rimani pressochè sola sulla terra!
Alcune pietose donne, che, compassionando la misera Evantìa, accorse erano [10] onde assisterne al parto, piansero sulla sorte della sventurata Orfanella: una di esse cui la recente perdita di un figlio appena nato più commovente rendea la situazione della fanciulla, stringendola al seno, si offrì a nutrirla del proprio latte; ed ecco che la povera Olimpia da una madre non sua riconoscer dovette la seconda sua vita. Ah, guai a colui che perde bambino i suoi genitori!.... egli è l’essere il più infelice della terra! — Sofia, che tale era il nome della generosa donna, oggetto facea l’Orfanella di tutte quelle cure amorose che la pietà più tenera suggerisce. Olimpia dunque accorgersi non dovea d’aver perduta una madre: ma chi non sa che la sola pietà, per quanto grande esser possa, non porta seco i vincoli di natura e di sangue, ed è sempre più debole dell’affetto materno?
Non peranco a spuntar cominciava sulle labbra di Olimpia il primo sorriso della infanzia, che i dolci suoi lineamenti, l’amabile sua fisonomia attraevano gli sguardi d’ognuno. Mirar non poteasi senza amarla: e tale per lei cresciuto era col tempo l’affetto dell’ottima Sofia, che già stabilito avea di adottarla per figlia, quando un vecchio di veneranda maestà, vantando dei diritti sull’orfana, venne a reclamarli. Era questi Atanasio, [11] fratello dell’estinto padre di Olimpia, ed abitatore di un eremo già eretto dagli antenati di sua famiglia in una delle rupi di Suli; il quale ritornando dopo lunga assenza da devoto pellegrinaggio, e saputo il funesto avvenimento che portato avea la desolazione nella infelice casa d’Alessio, unir voleva al suo, qualunque fosse per essere, il destino della nipote. Non era Atanasio uno di quegli uomini, che, disgustati di una società che li disprezza, ritiransi sdegnosi nelle solitudini, declamando poi altamente contro di essa: ma impiegata avendo nell’utile de’ suoi simili la vigorosa gioventù, dedicava a Dio solo il resto di una vita virtuosa.
Olimpia, benchè questo incidente separarla dovesse da Sofia che amava teneramente, si volse pure con gioia alla conoscenza dello zio: sentì i moti del sangue: udì imperioso il linguaggio della natura, e si abbandonò piangendo fra le braccia del vecchio eremita. Folta e candida barba scendeva a questi sul petto, lambendo l’azzurra clamide che gli si avvolgeva sugli omeri: i suoi occhi, placidi come la calma del cuore, s’inumidirono dolcemente; ed il soave sorriso del conforto apparendo sulle sue labbra, sparse su tutto il volto di lui un’aria di celeste bellezza.
[12]
— Creatura infelice! egli disse stringendo infra le sue le tenere mani d’Olimpia; la tua sorte sarà d’ora innanzi la mia, ed in me troverai l’amore di quel padre che non hai conosciuto. Quanto a voi, eccellente Sofia, io non vi renderò grazie di quanto faceste per mia nipote: mi sembrerebbe così togliervi la più bella di tutte le ricompense; ma la gratitudine nostra non avrà fine che dopo la tomba.
Così disse: e la scena intanto faceasi sempre più commovente; poichè la buona Sofia, che fino allora stata era in silenzio, non potè più resistere alla piena degli affetti, e diè in un pianto dirotto. A sè trasse l’amabile oggetto del suo dolore; e come se più non volesse distaccarsi da lei, al seno avvinsela fortemente: quindi ad un tratto respingendola, baciolla in fronte: poscia nuovamente fra le braccia del vecchio, e con voce soffocata dai singulti rapidamente le disse:
— Addio, caro oggetto da me amato siccome mia figlia! il Cielo protegga la tua innocenza, e ti renda felice quanto io lo desidero! Nel sacro orrore de’ solitarii luoghi che t’attendono ricorda sovente il mio nome, dicendo che da questo seno suggesti un giorno il nutrimento della vita.
[13]
Ciò detto, baciolla nuovamente; e per non più prolungare così dolorosa separazione, prontamente si ritirò. Il vecchio Eremita stendeva intanto la mano all’Orfanella di Suli, invitandola a partire: ed Olimpia col ciglio ancor molle di pianto, seguiva nella solitudine l’unico appoggio della sua giovinezza, il fratello di suo padre.
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Ad una lega di distanza dal villaggio che vide nascere Olimpia, dopo il Picco Kunghi, la cui cima è coperta di eterne nubi, sorge la più sublime delle rupi della Selleide. Direbbesi dall’Onnipotente creata per sollevare altamente lo spirito del mortale che la contempla, e portarlo infino a Lui. Un enorme ammasso di pietre gittate alla rinfusa dalle divine sue mani, pendendo minacciose sulla sottoposta vallata, sfidano da più secoli la ingiuria delle stagioni: il solo musco germoglia in copia sulla cima di quelle balze scoscese; e le sole capre silvestri ardirono finora d’inerpicarvisi. Sotto quest’orribile padiglione, alla metà della rupe, ove la natura si mostra in [15] aspetto più mite, ergesi sopra uno scoglio l’eremo di Atanasio: è questo il loco della penitenza e della pace, dove il servo del Signore prega per la prosperità della Selleide, e questo sarà d’ora innanzi l’asilo della sventurata Orfanella.
Dessa intanto, non ancora bilustre, vi giungeva col vecchio suo zio. Prima di porvi piede, egli la prese per mano; e con la destra in lontano additando, le disse: «Vedi tu quella Croce che s’innalza fitta sul terreno!.... Rallegrati, povera Olimpia! sotto l’ombra sua protettrice si allevieranno i tuoi mali. Ad essa innanzi prostrati, noi pregherem pace alle ossa de’ tuoi genitori: mentre il favore del Cielo scendendo sull’innocente tuo capo, farà forse obliarti d’esser nata infelice!» L’Orfana non rispose: fise le ciglia sull’augusto Segno della Redenzione, un raggio di gioja penetrandole per la prima volta nel fondo del cuore, ne sopiva gli affanni, e ne ravvivava la dolce fisonomia.
L’interno dell’eremo perfettamente corrispondeva alla esteriore sua forma. Angusto, ma fabbricato della bianca pietra della rupe, offriva l’idea stessa della solidità: due piccole camerette servivano comodamente ai domestici bisogni dei suoi abitatori, mentre la vicina cappella [16] destinata ne era alle fervide preci, posta sotto la invocazione della Vergine Coronata. Sopra un’altare di marmo ne sorgeva il Simulacro; e ad esso innanzi una lampada, alimentata dalla pietà dei fedeli, diffondeva e costantemente il suo lume. Una selva di abeti che fiancheggiava la cappella, levando al cielo le superbe sue cime, avriasi creduto toccare le nubi, se le bianche pietre della rupe che più elevate si mostravano scoperto non avessero l’inganno de’ sensi. Una sorgente di dolce acqua cadendo dall’alto della roccia in un capriccioso bacino di sassi, formava una fonte necessaria ai bisogni dell’eremo; e perdendosi quindi nella foresta, univa il grato suo mormorio al monotono frascheggiare degli alberi.
— È verità incontrastabile che l’uomo sempre pago ritrovasi di quello stato, qualunque esso sia, che più si conforma alle naturali sue disposizioni. Visitando per la prima volta il loco che servirle doveva d’asilo, il tenero animo della giovinetta temprato alle più nobili affezioni, sentì in tutta la sua forza quel sacro misterioso orrore che sempre nasce in uno spirito estremamente dilicato alla vista della solitudine consacrata alla Divinità: la scosse da principio, ma non le dispiacque; giacchè quella continua [17] impressione, che dovea peraltro rendersi più debole col tempo, era perfettamente all’unisono colla dolce sua melanconia.
Presso l’umile cello, esposto ai piacevoli aliti di Favonio, giaceva l’orticello dell’eremo; che oggetto addivenuto delle indefesse cure dell’Orfana, ne formava la delizia più bella. La rosa silvestre, il lauro sempre verde, ed il bianco fiore dello spino coltivati dalle tenere sue mani, fornivano ne’ giorni festivi l’ornamento della cappella; mentre il buon vecchio soltanto occupavasi della cultura dell’erbe, e delle piante destinate a provvedere la mensa. Disimpegnando con somma attività le donnesche incombenze, vi univa talora la penetrante armonia della pieghevole sua voce, o ripetendo le popolari canzoni udite al villaggio nella casa di Sofia, o cantando la pietà di lei che la nudrì del suo latte, o narrando coll’accento del dolore agli inanimati esseri che la circondavano la morte di sua madre. — Ahimè! (esclamava) dessa non è più. La vedova infelice non sopravvisse alla perdita del suo diletto: come raggio di Sole che tramonta, dileguossi per sempre alla vista degli uomini... Salve, o colomba della Selleide! sia leggera la terra che ti ricopre!! — Dotata di raro [18] ingegno, familiarizzata colla sventura, Olimpia formato erasi un discernimento ben raro nella sua ancor tenera età. Aveva più volte riflettuto che sua madre era morta nel darle la vita: ed in seguito di queste dolorose considerazioni, che bene spesso reiterava, perchè anche il dolore ha talvolta la sua voluttà, avea concepito un tale affetto per la memoria d’Evantìa, che giammai non ricordavala senza lagrime.
Non appena il primo albòre che precede l’aurora ad imbiancar cominciava le cime della rupe dell’eremo, che le aquile uscite dai loro nidi udivansi stridere dall’alto sul capo della giovinetta, allora essa levavasi dall’umile letticciuolo, onde dar principio alle domestiche occupazioni. Una greggia di capre, dopo aver somministrato in abbondante copia di latte il giornaliero tributo all’amabile sua governatrice, usciva dell’ovile per ritornarvi poi spontaneamente all’imbrunir della sera. A lei affidata era la cura dell’ordine nell’interno del romitaggio; e l’attiva sua vigilanza provveder sapeva al durevole mantenimento di una metodica vita. Quella elegante semplicità che ammiravasi in tutto che usciva dalle sue mani, modellava pure le sue vestimenta; ed una corona di silvestri rose da lei stessa educate, intrecciata a’ suoi biondi [19] capelli, era l’unico ornamento che permetteasi. Allorquando il Sole, compiuto il diurno suo corso, era vicino a nascondersi fra le rupi di Suli, la vide sempre col Solitario nell’eremo prostrata innanzi al Simulacro della Vergine nel silenzio della cappella: era quello il momento ch’essi, colla innocenza del giusto, porgevano voti per la salute della dolce lor patria; mentre le loro preghiere, siccome fumo di purissimo incenso, salivano sull’ale degli Angeli al trono dell’Eterno. Frattanto Atanasio mai non levavasi dal nudo terreno se non dopo versate molte lagrime sulla memoria dell’amato fratello, laddove Olimpia non cessava di pregar pace alle ossa di sua madre. Stretti per mano uscivano quindi ambedue dal sacro asilo della Divinità, per restituirsi a quello della innocenza. Quivi dopo gustato il necessario alimento, prima di coricarsi, il fratello di Alessio trattenevasi a coltivare lo spirito di sua nipote, colla pratica di quelle morali istruzioni che formano i giovinetti cuori alla virtù, e nel possesso ne rafforzano gli adulti: abituata ad udirne ogni giorno le lodi, la figliuola d’Evantìa tenevala costantemente a norma delle proprie azioni: tanto può una educazione saggia e religiosa in un docile animo disposto ad apprenderla!
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Il puro acre che respirava, ed il metodico tenore di vita condotto avendo la pace nel cuore di Olimpia, crescere ne faceva le giovani membra in bellezza, ed in florida salute. Mirando sempre al bene de’ suoi simili, non appena sapeva che qualche montanaro nelle vicinanze dell’eremo caduto era infermo, o di soccorso abbisognava nello squallore della indigenza, che all’istante portavasi dall’infelice: e premurose attenzioni usate senza affettazione, ed una elemosina largita senza fare apparire il beneficio, restituivano la salute e la tranquillità della vita a coloro che poco fa disperavano di più riacquistarla. Il sollievo de’ miseri era per l’Orfana un vero bisogno: poichè, chiamata da una interna forza a quegli atti generosi che onorano la umanità, poteva naturalmente dirsi come fuori del suo centro quando mancavale occasione di praticarli.
Adorata pertanto da tutti i poveri da lei beneficati, giammai non offrivasi al loro sguardo ch’essi non la incontrassero colle più energiche espressioni della riconoscenza e della gioia: chiamata il Sorriso della provvidenza, il Genio tutelare dell’eremo, l’Angelo della Selleide: superba di poter formare nella vigorosa sua giovinezza l’appoggio del vecchio suo benefattore, nulla più ormai sembrava [21] dovere attristarla tranne la memoria di sua madre. Ma il tempo che cangia d’aspetto a tutte le cose, scemato avea pure nel cuore di Olimpia la energia di quegli affetti che la rimembranza di Evantìa vi destava una volta. Ora, cresciuta in età, conosceva pur troppo che per forza di lagrime non rivivono dal sepolcro gli estinti: pensava che la sposa di Alessio guardavala forse dall’alto delle sfere; mentre lunge dall’attristarsene consolavasi invece, ponendo piuttosto ogni cura nel rendersi degna di lei.
Era dunque profeta il vecchio Eremita quando all’Orfana predisse che all’ombra della Croce, nel sacro asilo della rupe, dimenticato avrebbe d’esser nata infelice? Sì certamente: collocata in uno stato che perfettamente le si addiceva, essa non sentiva il peso della propria sventura, e respirar credette una vita novella... sventurata! I giorni della pace e del contento sparir dovevano fra breve, e succeder nuovamente quelli dell’affanno e del dolore.
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Mentre Olimpia col rispettabile vecchio pregavano nella cappella della rupe per la prosperità de’ loro compatriotti, Alì Tebelèn, Pascià di Giannina, si apparecchiava alla conquista di Suli. Questo Satrapa a ragione appellato il Tiberio del secolo XVIII, che in nome del Sultano Selim III opprimeva con iscettro di ferro i miseri Greci dell’Epiro, trasportato da cieca ambizione aspirava a rendersi indipendente, rinnuovar volendo così una di quelle tante ribellioni che frequentissime furono in ogni tempo nel dispotico governo de’ Turchi. Eragli d’uopo per altro di prima aumentare la sua potenza, tutto soggiogando l’Epiro; ma ben conosceva che impossibile ciò era senza il possesso di Suli. Facendo leva pertanto [23] di una ragguardevole armata, risolse di condurla egli stesso alla conquista di questo invitto propugnacolo della ellenica libertà, che veduto non avea giammai sventolar sulle sue rupi l’abborrita bandiera della Mezzaluna. Allorquando parvegli giunto il favorevole istante dell’aggressione, riunite le sue truppe, e fatto giurar loro sul Korano di vincere o morire, incamminossi con un esercito di quindicimila soldati contro gl’intrepidi discendenti degli antichi Selleni.
Questi dal canto loro, dietro i militari apparecchi del Tiranno, disponevansi con tutte le forze ad una vigorosa resistenza. Abbandonando, come è antica loro costumanza, i villaggi all’avvicinarsi del nemico; e radunati i loro guerrieri nel debole numero di mille e trecento, si afforzarono nelle strette gole delle rupi, aspettando a piè fermo di essere attaccati dai Turchi.
Primo fra gl’illustri capitani de’ montanari della Selleide distinguevasi il giovine Demetrio. Fiorente di una maschia bellezza, ricco delle più belle doti dell’animo, accoppiava a tanti pregi un sorprendente valore: le più avvenenti donzelle di Suli sospirando per lui, ne ambivano l’onore del talamo; ma geloso egli della sua libertà, avea sempre sdegnato i lacci dell’imeneo. Pronto sempre a versare tutto [24] il sangue in difesa dell’altare, e della sacra patria de’ suoi maggiori; dividendo tutti gli affetti suoi fra questa ed una madre che sola restavagli; lusingavasi di viver sempre ribelle al dominio di una passione, che è la delizia insieme ed il tormento della vita. — Vane speranze! Fra poco dovea persuadersi che un anima tenera e generosa non mai sfugge agli strali d’amore.
Frattanto l’armata del Satrapa di Giannina avanzavasi rapidamente. Ebbri i Turchi di furore tra le orribili continuate grida che metter sogliono sempre prima di cominciare la zuffa: animati alla strage del fanatismo de’ loro Dervis, che’, invocando Aliali, e Maometto, spargevano pugni d’arena incontro ai Cristiani: fatti audaci per qualche leggero vantaggio dalla sola maggioranza del numero ottenuto ai primi posti, e ripromettendosi una piena vittoria, attaccano su tutti i punti i Suliotti, ed incalzandoli vivamente colla sciabla alla mano, li respingono in mezzo all’urto generale fin sotto la rocca di S. Veneranda. Non eransi i Maomettani mai più cotanto inoltrati. Desolati all’aspetto di tanta sciagura che minacciava per sempre i destini della loro patria, i Greci misero un grido di raccapriccio e di orrore; e l’eco della Selleide, prolungandolo nelle più remote parti delle montagne, [25] annunziava nella rupe agli ospiti dell’eremo il comune periglio, mentre guidava le giovani spose al soccorso dei loro mariti. Queste valorose donne, radunatesi in considerevole numero, prendevano parte al combattimento, rotolar facendo enormi sassi giù per la china del monte; i quali movendo col loro urto infinite altre pietre, giunsero a schiacciare il centro de’ vili Osmanli aggressori.
Frattanto la vanguardia composta di Maomettani Albanesi, affatto ignorando quanto accadevale alle spalle, e sicura di essere energicamente sostenuta dal resto dell’armata, si batteva ostinatamente, lusingandosi di presto inalberare sulle rupi di Suli lo stendardo del despotismo. Ma i valorosi montanari, saputa la strage che il coraggio delle loro mogli facea de’ nemici, eransi già rianimati: e l’intrepido Demetrio alla testa de’ suoi prodi, traendo i barbari d’inganno: «Infedeli! (gridò loro con una voce che li arrestò), la vostra armata perisce in massa sotto l’urto di queste nude pietre che c’invidiate: voi siete soli, e perirete per le nostre mani!» Ciò detto, tolta in pugno la sacra insegna della Croce, piombò su loro come l’Angelo dello sterminio.
I Maomettani vedendosi ridotti alle sole lor forze, opponevano quella salda [26] resistenza che è figlia della disperazione: ma indarno: Demetrio trionfava di tutto; tutto cadeva all’impulso del divino fuoco che agitavalo; e tale era il suo furore, che in brevi istanti il terreno rimase ingombro di cadaveri. Cacciandosi innanzi i pochi nemici sottrattisi ai colpi della sua spada, incontrava egli per via la retroguardia dell’esercito in piena ritirata. Sempre circondato dai più ardenti guerrieri, ed audace renduto dal successo, precipitossi sui nemici che fuggivano; e dopo aver tolto loro tutti i foraggi, le munizioni da guerra, e molti cannoni, pienamente li sconfisse, ripigliando quindi co’ suoi la strada delle native montagne.
Frattanto il Tiranno furibondo per l’infelice esito di una impresa ch’egli creduto aveva sicura, ritiravasi precipitoso alla volta di Giannina, con un migliajo di soldati a stento raccolti. Giunto nella capitale de’ suoi dominii, affrettossi a seppellire in fondo al serraglio il proprio dolore, e la rabbia che lo divorava: ed ivi giurando un’eterno odio ai Cristiani di Suli, meditava a lor danno una più felice invasione.
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Ma già ai terribili momenti dell’allarme e del pubblico pericolo era succeduta l’ora della calma, e della comune sicurezza. La patria esultava, ed i giovani guerrieri copertisi di gloria erano l’oggetto della generale ammirazione: i vecchi animati da nuovo vigore, rallegravansi di essere vissuti cotanto; e le rispettabili madri di quel popolo d’eroi al seno stringevansi i figli carichi delle spoglie dei debellati aggressori. Nulla però era comparabile all’entusiasmo che destava la vista di Demetrio. Salutato da tutti aquila della Selleide, scudo della pallia, Genio della vittoria, le mani stesse di sua madre tremanti per la gioja gli cingevano al crine la meritata corona; [28] mentre i fanciulli e le donzelle spargendo di fronde di lauro la via che percorrer doveva il vincitore, cantavano inni di lode al trionfante Vessillo della Redenzione.
Olimpia col vecchio suo zio trovavasi presente a questa scena commoventissima. Nel fatale istante, in cui si videro in forse i destini di Suli, essi pregavano piangendo nella cappella dell’eremo: l’ottenuta vittoria era appunto lo scopo delle loro preghiere; ed Atanasio a sè ed all’Orfana negar non volle la innocente soddisfazione di vedere co’ proprii occhi il trionfo della Croce. — La figlia d’Evantìa toccava allora il terzo suo lustro. Il bianco giglio e la rosa, simboli della verginale innocenza, fiorivano sulle sue guancia: due negre pupille che tutta l’anima appalesavano giravansi languidamente sotto le grandi sue palpebre; mentre le turgidette labbra tinte di viva porpora, leggiadro contrasto formavano colla candidezza del collo e del seno.
Demetrio intanto, segno allo sguardo di tutti, vedeva per la prima volta l’amabile Orfana, allora che una lagrima di gioja chiamatale sul ciglio dalla tenera sua sensitività, la rendea mille volte più bella. Vederla, ed accendersi di lei fu l’opera d’un solo momento: quel cuore fino allora straniero alla più dolce [29] fra le passioni, trovava alla fine chi doveva interamente soggiogarlo. Nulla omai più scorgendo sulla terra tranne l’amabile oggetto che lo colpiva; dimentico della trionfale scena di cui formava gran parte, a null’altro aspirar sembrava se non che a trasfondere tutta la passione che investivalo nella interessante verginella di Suli. Ma già il primo raggio dell’amore, più rapido del baleno, penetrato aveva ad un tempo i due giovani cuori: animati questi da un medesimo sentimento, di già intendevansi fra loro perfettamente; ed un solo sguardo per parte di Olimpia, ma che tutto disse in quell’istante, bastò ad assicurare il fortunato Demetrio della sua felicità.
Intanto la pubblica festa avvicinavasi poco a poco al suo termine; ed il pomposo corteggio giunto al maggior tempio di Suli, già ne entrava le porte fra l’universale acclamazione. Semplice, ma vasto è l’antico edifizio: colossali pilastri in giro a doppia fila collocati ne sostengono l’ampia volta; ad essi in mezzo nella eterna sua maestà ergesi l’ara della Croce; ed un’aura santa, leggermente fremendo all’intorno, annunzia al mortale la presenza della Divinità.
— Salve o glorioso Vessillo vincitore dell’averno e della Morte! «(intuonavano i ministri del Signore.) — Inni di [30] lode al Dio degli eserciti! (rispondevano i guerrieri); innanzi a Lui, sole di giustizia raggiante sull’alto delle nostre montagne, dileguaronsi gl’infedeli come la nebbia dal piano. — A Te sian grazie, o Maria! (cantava un coro di vergini); brilli sempre a Suli propizia il tuo lume, o fulgida stella del mattino! difendi la patria, e perano i nemici del tuo nome! — Lode all’Eterno! vittoria alla Croce! esclamavano battendo le palme i fanciulli ed i vecchi.»
Ma un istante di silenzio succeduto era alle espressioni della gratitudine e del giubilo comune: Demetrio allora circondato dai venerandi Senatori, ed ispirato dagli ardenti affetti che agitavanlo «a Te (disse) o Dio de’ forti, che reggesti il braccio del Pastorello nella valle di Terebinto a danno dell’orgoglioso: a Te sovrano reggitore dei destini di Suli: a Te, nella cui ira tremenda annientaronsi gl’impuri Islamiti, consacra Demetrio il brando della vittoria! Egli in voto lo appende al tuo altare: ma innanzi a Te, Onnipotente, ed in faccia a tutti i suoi concittadini qui giura di ripigliarlo, tostochè i nemici della religione e della patria, tenteranno nuovamente di opprimerla!»
Replicate grida di acclamazione, e lagrime di tenerezza uscivano dal labbro [31] e dagli occhi di tutti: le ampie volte del santuario n’echeggiarono; ed il cannone tuonando ad intervalli dalla rocca di S. Veneranda, annunziava alla Selleide il giorno della pubblica gioja. In rendimento di grazie all’Eterno cantossi quindi dai sacerdoti il Trisagio celeste: e, finita la ceremonia, la Croce per le mani del ministro del Signore benedisse l’accolta moltitudine, che poi, romoreggiando come le onde del mare dopo la burrasca, si sciolse, e dileguossi.
Invano frattanto i cupidi occhi di Demetrio ricercavano nel villaggio l’amabile figlia d’Evantìa: dessa più non v’era; unita al vecchio suo zio, già la via ricalcava che all’eremo mena della rupe.
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Ritornava Olimpia trilustre al dolce asilo dell’innocenza... ma quanto diversa da quando il fece, la prima volta, decenne! Non più quella trista apatìa che accompagnava allora i lenti suoi passi; un solo oggetto, ma con tutta la energia, ora le occupa l’anima, mentre una forza soprannaturale sembra costantemente richiamarla al villaggio. — Loco fatale! per te l’Orfana perdendo una pace a stento ornai racquistata, sente pur troppo di non esser nata che a soffrire. — Quella sacra solitudine che tanto un tempo contribuiva a raddolcirle l’amara impressione del dolore, non ha più forza sul suo spirito: una diversa cagione ne forma ora la inquietudine, ed anche il dolore è insanabile, quando insanabile è la ferita che lo produce.
[33]
Sonovi sulla terra degli esseri di sì delicata natura pe’ quali lo stesso amare è una pena. Questa passione infatti sconosciuta finora ad Olimpia, agiva su lei per la prima volta con una veemenza, e con un impeto che la straziavano. Lontana da colui che adorava; priva della speranza di rivederlo nelle selvaggie balze dell’eremo, delle quali non era supponibile ch’egli la credesse abitatrice; ignorando affatto di essere corrisposta; la fredda ragione avria potuto svellerle certamente questo affetto dal seno, se troppo profonde state non ne fossero le radici. Benchè una vana rimembranza non potesse che vieppiù inasprire il suo male, riandava sovente col pensiero gl’incantati istanti trascorsi nel villaggio innanzi al valoroso. Allora fissavasi immobile: lampeggiavano alla sua fantasia quegli sguardi di fuoco che Demetrio le dirigeva: penetrandone tutto il sentimento, lasciavasi cadere delle lagrime sulle guancie... nulla più udiva; anzi nulla più esisteva per lei immersa nella contemplazione di un oggetto che occupava tutte le sue facoltà, e ch’essa chiamava Demetrio... sventurata! non era questo talora che un tronco, od un sasso.
Intanto il figliuolo di Eutimia non era meno infelice dal canto suo. In braccio alla più violenta delle passioni, dopo [34] mille infruttuose ricerche onde rivederne l’oggetto, mal sopportando la vita senza colei che sola potea fargliela amare, e perduto il fiorente vigore della gioventù, giacevasi infermo nel letto del dolore, gravemente dubitar facendo di sua vita. Un’ardente febre unitasi all’eccessivo calore della stagione lo manteneva quasi sempre in uno stato di delirio, che interrompendosi soltanto per dar luogo ad una quiete sovente foriera di mortali svenimenti, era anche più pernicioso. Negli accessi più forti le rotte parole ch’ei pronunziava, analoghe ad una folla d’idee vaghe e disperate, null’altro a travedere lasciavano che l’impeto del male: ma nei meno veementi, allorquando un più mite delirio traevalo a parlare, l’amabile donzella era sempre l’oggetto delle sue querele.
«Adorabile fanciulla! (esclamava passionatamente). Bella come il primo raggio del mattino.... piegossi nel tempo ch’io lo feci al sentimento dell’amore... ah! quello sguardo... quel fatale sguardo me ne convinse, e... non mai partirà dalla mia mente.» Un breve silenzio succedendo a questi detti, con languida voce ripigliava: «Ma se tanto buona, perchè abbandonarmi?... perchè fuggire per sempre da me?... Ah! lo conosco: io non era degno di lei. La celeste creatura [35] quaggiù discesa per beare un istante i mortali, non poteva rimanervi lungamente: il cielo la richiamava... ed essa, come il baleno, dileguossi da’ suoi... Ma fra poco io spero raggiungerti... sgombro allora dai lacci terreni... sì... potrò amarti senza arrossire!» Qui un sospiro tratto dal profondo del cuore sembrava spingere leggermente all’alto il suo voto; mentre le negre pupille umide di pianto, elevandosi languidamente, tentavano accompagnarlo.
La lebbre intanto aumentando sempre più, era per giungere al colmo; e l’infermo spossato per lunghe vigilie, annunziava co’ sintomi più funesti la terribile crisi che si avvicinava. Ma le tenere indefesse cure di sua madre, e più il vigore della gioventù, che sebbene oppresso non era per anco spento del tutto, fecero sì che Demetrio, dopo aver lungamente lottato colla morte, superasse il pericolo, e si avviasse quindi a gran passi ad una totale guarigione. Restituito dopo qualche tempo alla primiera salute, non respirava però la primiera tranquillità: e siccome senza il prezioso dono di questa non può l’uomo viver lieto fra i suoi simili, così il figliuolo d’Eutimia, di allegro e sommamente vivace ch’egli era, cangiossi tosto in melanconico e taciturno. Quella dolce mestizia [36] che sparge su tutti gli oggetti la lugubre tinta del dolore, signoreggiava il suo spirito; e nulla, in mancanza di lei che adorava, facevagli amar più della solitudine e del silenzio.
Spinto da queste inclinazioni dell’animo, considerandosi come adatto solo sulla terra, invano sua madre e colle ragioni e colle preghiere tentava ricondurlo al primiero tenore di vita: Demetrio a tutto indifferente, non trovava interesse se non che in que’ luoghi solitarii che soli addir si poteano al suo stato. Un folto bosco non mai penetrato dai raggi del sole, una roccia impraticabile, un profondo burrone, una folta quercia che scorrer vide più secoli, erano i soli oggetti che fermar potessero la sua attenzione. Frattanto in queste solinghe passeggiate, in mezzo ad una selvaggia natura, l’immagine dell’amabile verginella offrivasi sempre al suo pensiero: figlie della tenerezza, e di quel soave sentimento che può ben provarsi da alcune anime gentili, ma non adequatamente descriversi, spargeva allora in copia delle lagrime; queste peraltro non avevano l’amarezza del pianto: procurando sovente uno sfogo ben necessario al suo cuore, cadevano dolcemente senza ch’egli sapesse di versarle.
[37]
In un giorno in cui la sua tristezza era forse maggiore del solito, egli prese soprappensiero una strada diversa dia quelle fino allora praticate. Serpeggiava questa nel piano, in mezzo a verde campagne coronato all’intorno dalle rupi di Suli, presentando all’occhio la più gradevole scena. Demetrio l’andava percorrendo a lenti passi; e tutto penetravalo una dolce commozione, allorchè avvidesi che il terreno cominciava a salire sotto i suoi piedi. Un limpido ruscello giù scendendo per la china di una rupe, lentamente avviavasi al piano: l’edera ed il musco abbarbicandosi sulla cima degli scogli, grato pascolo fornivano alle capre silvestri, che mostrandosi dall’alto arditamente inerpicate sull’angolo di un sasso, la romita eco svegliavano cogli spessi [38] belati. Il sublime incanto di questa scena piacque oltremodo al figliuolo di Eutimia, che, inoltrandosi sempre più nella rupe, trovossi giunto finalmente nel più folto di una selva. Quivi tutto cangiava d’aspetto: il solo ruscello che servito avevagli di guida scorreva ancora mormorando a’ suoi piedi, attraverso un verde terreno smaltato di fiori. Abeti di gigantesca statura elevavansi al cielo maestosamente; ed il piacevole alito di un venticello, mitigando i cocenti raggi del sole, coll’alterno incurvare de’ rami stormir faceano leggermente le foglie.
A vista così bella il figliuolo di Eutimia si assise sul verde suolo a piè d’un abete: poggiato il destro cubito sul ginocchio, e sulla mano la fronte, compiacevasi di sviluppar colla immaginazione i patetici sentimenti che provava, quando ad un tratto una languida voce interrompendo il silenzio della foresta, dolcemente lo scosse.
Sacro bosco, ermo, e segreto,
Aura pia, chiaro ruscel,
Mie querele a voi ripeto
Che ne foste eco fedel.
Ah! qual suol lampo fugace
Che fa un guizzo e muor, così
Dal mio sen la cara pace
Rapidissima sparì.
[39]
Per me pur ridente un giorno
Una stella in ciel brillò:
Ma fatal Amor d’intorno
L’ali stese, e l’eclissò.
Crudo Amore! or che mi resta
Sull’aurora dell’età?...
D’aspri guai dote funesta,
E il piacer di far pietà.
Così cantava dolcemente una voce femminile; e Demetrio intanto rapito quasi fuori di sè, levatosi sui piedi, percorreva col guardo all’intorno quel luogo incantatore. Ma nulla scorgendo fra la moltitudine delle piante, e sicuro tuttavia di non essersi ingannato, fece alcuni passi e giunto dietro un folto cespuglio, senza esser veduto, scoperse a caso in qualche distanza una giovane donna, che, attingendo l’acqua ad un fonte, di copiose lagrime irrigava il volto quasi celeste. — Sorpreso a quella vista da un tremito convulsivo, i suoi occhi si copersero d’un negro velo: un sudor freddo corsegli per la fronte; le sue ginocchia piegaronsi sotto di lui, e cadde barcollando sul terreno. — Chi vedeva egli mai!!
Era colei, la bellissima Olimpia. In quei momenti che una veemente passione rende più crudeli e terribili ad un giovane cuore, ella narrar soleva le sue pene al silenzio della foresta dell’eremo: i venticelli [40] raccoltisi fra i rami degli alberi, immoti starano ad udirla; il limpido ruscello leggermente increspando le sue onde, gorgogliava appena fra le rive; mentre i mesti gorgheggi dell’usignuolo dir pareano all’Orfanella di Suli ch’essa non era la sola a lagnarsi sulla terra.
Demetrio non anco perfettamente ristabilito dalla lunga sua malattia, rivedendo un oggetto che già credeva perduto per sempre, sicuro quasi di essere amato quanto amava egli stesso, cedendo a mille moti violenti, caduto era privo di sensi. Tostochè egli si riebbe, diessi subito a riguardar nuovamente fra gl’intricati virgulti del cespuglio, ma invano: senza potersi accorgere che un ente umano languiva non lungi da lei, erasi Olimpia partita mentre ei si giacque svenuto. Questo infausto contrattempo costò forse qualche sospiro a Demetrio... ma rinvenuto, avea finalmente l’amabile donna del cuor suo, ogni altro pensiero dileguossi in faccia a questo; ed un raggio di gioja, simile a quello del sole dopo la tempesta, rasserenar parve un istante quell’abbattuta fisonomia.
Accompagnate pertanto dalle più lusinghevoli idee, rivolse il passo al nativo villaggio, fermo di ricondursi nella stessa ora del giorno seguente alla foresta della rupe.
[41]
Allorquando una profonda tristezza ha lungamente signoreggiato il cuore dell’uomo, e l’animo di lui si è poco a poco abituato ad una costante melanconia, può ben questa rendersi più mite per la improvvisa sopravvenienza della gioja; ma non è già che dileguisi del tutto. Di fatto, benchè il fausto avvenimento contribuir dovesse a far rivivere in Demetrio la primiera vivacità (quel dolce invidiabile sentimento che devesi quasi sempre alla perfetta inesperienza de’ grandi mali) pure egli non anco aveala racquistata; e la lugubre tinta dell’antico dolore, benchè più leggera al presente, ottenebrava pure il cuor suo, — Non si dia in braccio ad una passione, chi brama conservarsi nella gioconda serenità dello spirito; perduta che sia questa una volta, non mai si ricupera interamente.
[42]
Era già il sole pervenuto alla metà del diurno suo corso, diretti raggi vibrando sulle rupi di Suli, quando l’amabile figlia d’Evantìa alle fresche ombre si ricondusse della foresta dell’eremo. L’ardente luglio percuoteva con una sferza di fuoco la terra: l’erbe ed i fiori languivano sui campi; cercavano gli augelli nella verdura dei boschi un più gradevole asilo; mentre le importune cicale, sotto un cielo privo di nubi, faticavano nel canto.
È ben vero che nella sventura è per l’uman cuore assai consolante soddisfazione il narrare le proprie pene anche agli inanimati oggetti che ne circondano; queste allora, se non meno amare, rendonsi pure più facilmente sopportabili, ed a ragione: poichè l’anima sovente al vivo dipingendo colle parole la terribile passione da cui trovasi agitata, col sovente ricopiarla viene a rendersi meno odiosa la immagine dell’originale. Assisa pertanto sulla fresca sponda del ruscello, ripigliava Olimpia il flebile suo canto.
Sacro bosco, ermo, e segreto,
Aura pia, chiaro ruscel,
Mie querele a voi ripeto
Che ne foste eco fedel.
Ah! qual suol lampo fugace...
[43]
— Ma donde questa dolce armonia che i sensi rapisce? essa accompagnasi soavemente alla mia voce.
Così Olimpia esclamava, tendendo acutamente l’orecchio; e guardandosi stupefatta all’intorno: ma di nulla accorgendosi, e punto non dubitando di essersi ingannata, già a riprender faceasi la usata canzone, allorquando una grata melodia interruppe nuovamente il silenzio della selva.
Demetrio ritornato al loco dell’amoroso incanto, attendeva tacitamente dietro il folto cespuglio l’arrivo della giovinetta: quando questa comparve, e la flebile cantilena riprese, le dolci note di un flauto univa egli alle pieghevoli modulazioni della sua voce. — Attonita Olimpia, e come in dolce estasi rapita, pendeva intanto dagli amorosi concenti che uscir sembravano dal folto degli alberi. Ma svanita appena la prima illusione della sorpresa, ed accortasi che un ente umano era non lunge da lei, in un loco ove dessa erasi sempre creduta perfettamente sola, non curando di conoscerlo, fuggiva atterrita alla volta dell’eremo.
Demetrio perder non volendo sì bella occasione per manifestarlesi, confidando interamente sul proprio onore, e null’altro scorgendo in quella fuga precipitosa [44] se non che gli effetti di un mal concepito terrore, o di troppo selvaggia educazione, sperando disingannarla, seguìa velocemente i suoi passi. Sentendosi inseguita, la innocente fanciulla ebbe appena il coraggio di rivolger lo sguardo sulle proprie orme: ma quale non fu il suo sbigottimento, quando in lui che teneale dietro riconobbe Demetrio! Proruppe in un grido che le morì sulle fauci: coprì gli occhi con ambe le mani; ed ignorando ella stessa quanto faceva, entrò barcollando la soglia della vicina cappella.
Colpito come dal fulmine a scena così inaspettata, tutte le circostanze della quale sembravano dirgli ch’erasi egli ingannato, e che la giovinetta non avealo amato giammai, Demetrio era rimasto immobile, e quasi fuori di sè. Rispettando la santità del loco in cui trovavasi, non ardì penetrare nella cappella: ricalcò rapidamente la strada percorsa; e si allontanò dalla foresta, pensando ai più espedienti mezzi onde meglio assicurarsi del vero.
[45]
Allorquando Olimpia entrò sbigottita nel sacro loco dell’orazione, vi rinvenne il vecchio Eremita prostrato a piè del simulacro della Vergine. — Egli è desso... (furono queste le sole parole ch’ella pronunciò tremante, additando la porta, e non accorgendosi che suo zio era quegli a cui dirigevasi:)... egli è desso... — e cadde semiviva sulla gradinata dell’altare. Spaventato Atanasio per l’estremo turbamento che leggevasi nel volto della nipote, fra mille incerti dubbj ondeggiando, e temendo lo scoprimento di una terribile verità, uscì, esitante, la soglia della cappella. Guardò attentamente all’intorno, ma nessuno scoperse. Ritornatovi finalmente onde assistere al sventurata, sorreggendola sul suo braccio, giunse a ricondurla nelle celle dell’eremo.
[46]
«Ah, mio zio! quanto sono colpevole agli occhi vostri!» — A queste prime voci che Olimpia proferì languidamente, e che nascondevano al certo un profondo mistero, il Vecchio rabbrividì: fissò gli occhi immobili sul terreno, e senza rimuoversi da situazione così dolorosa... «ebbene, che hai tu fatto?» le disse con voce soffocata. — «Costretta a svelarvi un segreto che fino ad ora avrei voluto nascosto a me stessa, veggo quanto mal feci a non palesarvele prima... ma voi fremete: giusto Cielo! sarei forse cotanto infelice, che poteste voi credermi un solo istante capace di colpa? — Scosso da questo rimprovero «no, mia figlia» rispose il vecchio sorridendo placidamente, ed intanto l’ombra del sospetto dileguavasi dalla fronte di lui, come dileguasi la nebbia al primo raggio di Sole.
Giustificata Olimpia agli occhi dello zio, e vedendolo pienamente disposto ad ascoltarla, tutta narragli la commovente storia delle proprie pene. Non si valse di ricercate maniere per trasfondere l’anima sua in quella del vecchio generoso. La nuda verità esposta coi modi più ingenui splendè sola in quel patetico racconto; e tale eloquenza, che sempre è quella di una grande passione, giunse perfino a strappar delle lagrime [47] dal ciglio di un uomo, il quale fino allora creduto aveane già inaridita la vena. Consapevole Atanasio delle grandi virtù che adornavano il giovine valoroso, e dell’alta stima che questi godea presso i suoi compatrioti, assentì ad un amore così innocente, e si dolse soltanto che Demetrio si fosse allontanato dall’eremo, — «Semplice che fosti: (disse ad Olimpia) colla fuga tua precipitosa non ti avvedesti che reo il supponevi di colpevoli intenzioni: l’onor suo fu punto da questo dubbio insultante; ed egli, a pienamente giustificarsi, rapido allontanossi da te... Se ti ama peraltro non andrà a lungo che tu lo rivedrai: ed io, anzichè oppormi ad unione sì bella, stringerò colle mie mani medesime l’indissolubile nodo.»
Queste soavi parole piovvero sul tenero cuore della figliuola d’Evantìa, siccome fresca rugiada in grembo a vergine rosa. Sopraggiunta la notte, coricossi ella nell’umile letticciuolo; ma brevi ed interrotti essendo stati i suoi sonni, ne sorse coll’alba, e ad aspettar si pose impaziente l’ora in cui portar solevasi ordinariamente alla foresta. Arrivò questa alla fine, ed ambidue vi s’incamminarono. Nel più leggero stormir di fronda, nel più piccolo moto all’intorno, credeva dessa anuunziarlesi l’arrivo di Demetrio; [48] ma egli non appariva giammai. Indarno sforzavasi il vecchio di rassicurarla: l’ardente animo di lei, tutta a sè attribuendo la infausta cagione di tale tardanza, e forse di un totale allontanamento, abbandonavasi in preda al dolore. Finalmente dopo più ore d’inutile attenzione, disperando omai di più rivederlo, a lenti passi e pensosa riconducevasi collo zio alle celle dell’eremo, allorchè questi, rivolgendo a caso lo sguardo sopra una gran pietra che serviva di sedile presso la cascata della sorgente «ecco qui un foglio: (esclamò,) «Demetrio ve l’ha posto senza dubbio.» — Rapidissima Olimpia glie lo strappò dalle mani; e leggendolo con tremante voce, trovollo concepito così — «Amabile creatura! — A voi che nel villaggio foste testimone del mio turbamento, e della impressione che in me fecero le amabili vostre attrattive, a voi in mia vece manifesta questo foglio i teneri sensi ch’io nutro. Dopo avervi amato finora con tutta la forza dell’anima, dopochè udii dal labbro vostro medesimo le pietose querele dell’amore, io pensai che potessero a me riferirsi, e mi credetti felice... ma voi fuggiste; inorridiste quasi al vedermi, ed il disinganno succedette alla soave illusione. Pure un raggio di speranza mi resta tuttora, nè io ho cuore di spegnerlo: [49] pronunciate voi stessa sulla mia sorte, ed un vostro foglio si trovi qui domani all’ora medesima. Questa grazia io chieggo vivamente: e questa spero ottenere da quell’adorabile oggetto, ch’io credei nato per la mia felicità.
Atanasio frattanto vivamente commosso, «Giovine valoroso! (sclamò) se tutto tu sapessi, ah, non diresti così!» — Olimpia nulla soggiunse: dalle labbra al cuore portò rapidamente i caratteri dell’amante; e fissandosi immobile alcun poco, misurar parve col pensiero la forza di quella passione, e confrontarla quindi colla propria.
[50]
Demetrio lusingar non potendosi di un abboccamento colla giovinetta, dopochè fuggir se la vide dinanzi, nel giorno appresso avea su quella pietra lasciato il foglio per assicurarsi della propria sorte. Nascosto dietro un folto cespuglio, avea veduto l’amabile Orfana ed il Vecchio, che lessero la lettera, e si partirono, senza ch’ei per la lontananza del loco in cui stavasi, avesse potuto udire una sola parola: ma viste avea le lagrime dell’uno, ed il passionato atto dell’altra; e ciò bastò, perchè la speranza tornasse dolcemente a vivere nel suo cuore. Presago di un felice successo, erasi quindi ricondotto al villaggio ad aspettar la comparsa del giorno novello.
[51]
Era una delle più placide mattine di luglio; e già l’aurora stendeva il roseo velo per gl’immensi spazii del firmamento, quando il giovine amante per cui soverchiamente lunga era stata la notte, balzò dalle piume, e si pose in cammino. Temprato l’animo ad insolita gioja, contemplava egli per via l’imponente spettacolo del nascere del Sole. Gli parve che il sorriso dell’Eterno in quell’istante brillasse sulla terra: la natura animossi; ed il festivo canto degli augelli sparsi per la campagna e pe’ boschi salutò l’astro portatore del giorno. Mai più questo sorto non era sì bello per Demetrio: le sue ciglia s’inumidirono; il tenero suo cuore ne rimase commosso, e palpitò dolcemente all’augurio felice. Giunto nella foresta dell’eremo, prima di ricovrarsi dietro l’usato nascondiglio, portossi un istante presso la cascata della sorgente. Non prima d’allora erasi accorto il figliuolo d’Eutimia che, per la soverchia impazienza, di più ore anticipato avea l’appuntamento: più ore dunque eragli forza lasciar correre prima d’essere informato della propria sorte; e chi non sa che il tempo, a seconda dalle occasioni, è talora troppo rapido, troppo tardo talora per un amante? Godendo in quel lungo intervallo di assidersi egli stesso nel beato suolo su [52] cui già veduto avea riposarsi le membra della sua bella, volse a caso lo sguardo alla gran pietra della fontana: ma quale non fu la sua sorpresa, allorquando un foglio vi discoperse! Un piccolo sasso ch’eravi sovrapposto, impediva al vento di altrove trasportarlo.
«Se la risposta racchiuder dovesse la mia sventura (esclamò Demetrio con trasporto) quell’anima pietosa non sariasi così affrettata di parteciparmela.» Tremante come quei che sta per assicurarsi della propria felicità, diè un’occhiata rapidissima al foglio: percorso in un istante tutti i gradi che passano dal dubbio alla certezza; poi tornò a leggerlo con mente più pacata, e mille baci vi impresse.
«Demetrio! (gli si diceva). Se la vostra Olimpia è capace di rasciugarvi le amare lagrime versate finora; se un costante amore per sua parte può rimarginarvi le ferite del cuore, voi da qui innanzi contar potete liberamente sulla vostra guarigione. Se già credeste esser da me corrisposto con pari tenerezza, non v’ingannaste certamente; chè se poi la mia insensata fuga potè farvi dubitare del contrario, ed io potò affliggervi cotanto, rammentatevi che vi hanno alcuni momenti sulla terra ne’ quali noi non siam padroni di noi stessi, e [53] perdonate generoso ad una eccessiva sensitività che mi fece travedere. — Mio zio, il rispettabile mio zio annuisce pietosamente alla innocenza dell’amor nostro, e promette egli stesso renderne felici. Venite dunque fra le sue braccia, o Demetrio! egli vi attende nell’eremo vicino: qui troverete pure colei che vi adora; quivi le sue labbra vi rinnoveranno le proteste di un affetto indelebile, e quivi a voi daccanto respirar potrà una vita novella la fino ad ora sventurata
Olimpia.»
Bisognerebbe aver sofferto tutte le amarezze di una passione, ed averne poi ad uno istante gustate le più soavi delizie, per ben sentire la situazione di Demetrio in quel punto. Egli, quasi fuori di sè per la gioja, avviossi rapidamente alla volta dell’eremo: tutti gli oggetti che allo sguardo se gli presentarono, furono come non esistenti per lui; i suoi occhi non si fermarono che alla vista dell’amabile Orfana del vecchio. Penetrato allora da quell’aria di celeste maestà che splendeva nel volto di lui, il figliuolo d’Eutimia cadde in ginocchio a’ suoi piedi.
«O voi (disse), uomo divino, che pietoso de’ mali da me finora sofferti, vi degnaste generoso strapparmi alla sventura, colla promessa di un felice avvenire, [54] deh, non isdegnate queste calde lagrime che a me chiama sul ciglio un amore riconoscente! Son desse l’unica cosa ch’io posseggo di voi meritevole, la sola offerta ch’io farvi possa in contraccambio di opera sì grande.»
«Ed io le accetto: (risposegli il vecchio sollevandolo dal terreno) umida n’è tuttor la mia mano, e l’impressione ch’io ne sento, non mai si cancellerà dalla mia memoria. Eccoti intanto, o giovine virtuoso, colei che potrà farti felice: i vostri cuori nacquero per amarsi, e voi sarete uniti fra breve.»
Si trattenne Demetrio nell’eremo tutto il rimanente del giorno, narrandosi a vicenda con Olimpia le proprie pene: ognuno di essi confrontolle colle proprie; un nuovo interesse si destò nel grado più eminente; e fra le proteste di un eterno amore più e più volte ripetute, sentirono alfine che la sola morte avrebbe avuto sulla terra la forza di separarli. Allorquando gli ultimi raggi del Sole cadente annunziarono vicina la notte, Demetrio allontanossi dall’eremo per restituirsi alla casa di sua madre. Commovente fu oltremodo l’addio: finchè la distanza il permise, Olimpia seguì coll’occhio l’amante che partiva; mentre, avvezza al pianto da lungo tempo, avrebbe certamente versato delle lagrime, se [55] trattenuta non l’avesse il consolante pensiero che a lei ritornato sarebbe nel giorno seguente.
La festa della Erosantìa che si celebra fra i Greci al principio della primavera, ossia la festa delle rose novelle, è fra i Suliotti alle nozze consecrata. Le giovinette spose, coronate il crine dell’amabile fiore della stagione, condotte vengono dai loro amanti a piè dell’ara della Croce: quivi il ministro del Signore unisce le loro destre, e chiama il lavoro del Cielo sulle coppie felici. Questa era l’epoca fissata dallo zio alle nozze di Olimpia: questa sospirava continuamente il figliuolo d’Eutimia; e questa attendevasi pure con impazienza nell’eremo della rupe.
Demetrio frattanto non lasciava di portarvisi ogni giorno, dove più ore passava in compagnia degli ospiti diletti: occupavasi talora con Atanasio della cultura dell’orticello, e sovente con Olimpia divideva il peso delle domestiche cure. Ogni loro azione, ogni moto, animato era da quel soave sentimento che è la delizia di tutti gli esseri che respirano: un dolce sorriso accompagnava sempre l’incontro de’ loro sguardi: ed intanto il buon vecchio, riandando col pensiero ai primi tempi della gioventù, godeva d’un affetto di cui egli stesso altra volta creduto [56] sarebbesi capace, e sorrideva dolcemente ad un amore che apparecchiar sembrava la durevole felicità di sua nipote.
Giorni così avventurati, nella espettazione di altri più belli, traeva intanto nella rupe l’Orfana di Suli; ma, appunto perchè dolci e tranquilli, parevano non potersi lungamente convenire a colei, che fin dalla cuna familiarizzata erasi colla sventura. Sparirono difatto nella adulta sua giovinezza, colla rapidità stessa con cui altra volta il fecero nella infanzia: poichè allorquando la nemica fortuna abituossi a perseguire costantemente un infelice, ben di raro succede che si arresti dal crudele esercizio: se tuttavia lo sospende, non è che per brevi intervalli; e questi rendono più acerba la novella sopravvenienza del dolore, siccome quei baleni che in mezzo al turbine rischiarando per un istante la terra, riconducono quindi più terribile la oscurità.
[57]
Cessavano frattanto gli ardori della state: l’equinozio autunnale appressavasi rapidamente; e già le pioggie, che in quell’epoca precipitar sogliono copiose sulle rupi di Suli, il ritorno annunziavano de’ bei giorni d’ottobre. Il vecchio Eremita vedea con gioja sempre più dileguarsi quegli intervalli di tempo che frapponevansi ancora alla novella primavera: dipingevasi sovente al pensiero il fortunato istante della nuziale ceremonia; ed ivasi prefigurando tutti i più dettagliati godimenti che sarebbe questa per arrecargli. Ma l’uomo, che nasce nella perfetta ignoranza di quanto potrà succedergli fra i suoi simili, indarno fa dei proponimenti a sè stesso. Il libro dei divini decreti non è aperto qui in terra [58] agli sguardi del mortale: un velo impenetrabile lo ravvolge nella più densa oscurità; ed egli, trascinato da una forza superiore, a cui inutile sarebbe resistere, segue ciecamente la propria carriera, senza saper ove sarà per fermarsi.
In mezzo al furore d’una terribile bufera, essendosi svelto dall’erta di una rupe enorme macigno, fracassato avea nel cadere la capanna di una povera famiglia di montanari, di cui le meschine possidenze perite erano sotto l’impeto della grandine e dei torrenti che strariparono. Era già qualche tempo che gli sventurati, ridotti nella estrema mendicità, viveano di quel solo che loro somministrava la pietà de’ vicini. Commosso a sì trista situazione, un giorno alcune ore innanzi il tramonto del Sole, il generoso Atanasio, dato di piglio al noderoso bastone, fido compagno de’ suoi piccoli viaggi, e caricatosi di alcuni pomi, di varie erbe, e di latte, avviavasi al sollievo degli infelici. Dimoravano questi a non poca distanza dall’eremo: ed Olimpia che nel soccorso de’ poveri trovava anch’essa le soddisfazioni più belle, avrebbe senza dubbio seguito lo zio nella pia opera, e nel dirupato cammino, se una leggera indisposizione di salute, ma che obbligavala al ritiro, non l’avesse impedito: frattanto l’uomo veramente [59] filantropo allontanossi dalla nipote, promettendole un pronto ritorno innanzi sera. Ma alcune ore dopo la partenza di lui, quel superbo Sole che limpido e puro poco fa sfavillando nel cielo, lunga serie prometteva di bellissime giornate, cominciò a velarsi d’oscura caligine: le eterne nubi che coronano le inaccessibili cime del Picco di Kunghi, spinte da un vento gagliardo, si stesero minacciose sulle minori rupi di Suli: gli spessi lampi che le solcavano, più orribile ne rendeano la oscurità; mentre un vento secco ed infiammato, sollevando in giro le paglie leggere, annunziava imminente un terribile temporale.
Olimpia nata appunto in uno di quei momenti ne’ quali la natura in convulsione, lottando con tutto ciò che tende a sovvertirne l’ordine, soffre, e combatte per respingere la sua dissoluzione; assuefatta a vederli costantemente rinnuovare in ogni anno, ben conoscevane la tremenda imponenza e l’orrore. Palpitante sulla sorte dello zio, che l’uragano poteva sorprendere per via, vide in tutta l’estensione l’orribile scena di lutto che offrir potevate il funesto avvenimento. Spinta da un interno presagio, simile a quello che d’ordinario preceder suole una grave sciagura, la figliuola d’Evantìa recossi nel silenzio della cappella: [60] quivi prostrata a piè della Vergine, implorava con tutta l’anima l’allontanamento di sì gran male; mentre le sue lagrime, accompagnando le fervide preghiere, ivano in copia cadendo sulla gradinata dell’altare.
In quell’istante giungeva Demetrio all’eremo della rupe. Erano già parecchi giorni ch’egli, per urgenza di pubblici affari, dimoravane assente: ora, condotta a fine con amorosa sollecitudine la propria missione, ritornava all’amante, quando questa supponevalo ancora ben lunge. All’annunzio del periglio di Atanasio, un gelo di morte corsegli per le vene: ma, pietoso del dolore di Olimpia, fu ben cauto di nasconder sulle prime il proprio turbamento; che anzi pose ogni cura in rassicurarla, ponendole in vista tutti i mezzi di scampo dei quali il vecchio potuto avrebbe valersi per via. Ma i frequenti lampi che sempre più vivi si faceano, persuadevan tutt’altro: il tuono avvicinavasi fortemente romoreggiando; e la terra avvolta nella più grande oscurità, non era che ad intervalli rischiarata da una luce sanguigna e funesta.
Commosso dalle strazianti querele di Olimpia; atterrito ad una idea ch’egli stesso cercava invano allontanare dalla mente; Demetrio, senza sapere ove sarebbesi [61] rivolto, usciva per correre sulle orme di Atanasio... ma non era più tempo. Un terribile baleno che tutta illuminò la cappella, fu seguito da uno strepito orrendo di tuono che la scosse fin dalle sue fondamenta; l’aere ne gemette, e la terra sembrò provare una violenta commozione. Nel tempo stesso un diluvio di pioggia precipitava dal cielo: i minacciosi venti equinoziali curvando a forza i grandi abeti della foresta, mugghiavano cupamente; ed i replicati scoppi della folgore annunziavano la totale confusione degli elementi fra loro. La povera Olimpia nulla ormai più vedeva di quanto avvenivale intorno: il solo Atanasio occupava tutte le sue facoltà. Demetrio istesso gemea fra i dubbj più crudeli: inorridiva al pensiero di dover forse scoprire una terribile verità, e tuttavia attendeva impaziente il termine della bufera per tosto assicurarsene.
La pioggia frattanto veniva poco a poco cedendo: men frequenti e men vivi succedevansi i lampi; ed il tuono, sordamente mormorando, pareva allontanarsi. Quanto tremendi e fatali, altrettanto rapidi e di breve durata sono gli uragani nelle rupi di Suli. Colla facilità stessa con cui vi si addensano, dileguarsi ad un tratto le nubi che il Picco di Kunghi sembra richiamare alle inaccessibili [62] sue cime: la caligine sparisce, e torna nuovamente a respirarsi l’aria più pura. Sdegnando forse la vista dell’orrida scena, il Sole frattanto era già sceso al tramonto: e la crescente luna sorgendo allora sul rischiarato orizzonte, rallegrava della blanda sua luce la oppressa natura.
[63]
Il figliuolo d’Eutimia escì finalmente dalla cappella, per incamminarsi sulle tracce del vecchio. Co’ più caldi detti pregò Olimpia, perchè desistesse dal pensiero di accompagnarlo; ma invano; con qual coraggio poteva essa vivere incerta un solo istante di più sulla sorte dello zio? Si avviarono dunque ambedue: ma a misura che i loro passi allontanavansi dall’Eremo, nuove immagini si moltiplicavano di desolazione e di lutto. Eran sovente enormi scogli, che caduti dall’alto delle roccie ingombravan la via: alberi sradicati dalla furia dei venti giacevano attraverso il terreno su cui poco fa vegetarono: cadaveri di morti animali galleggiavano sulle acque radunate entro le cavità dei burroni; ed il fragore dei [64] torrenti che dalle rupi udivansi precipitare in distanza, misto alle funebri grida degli augelli notturni, era il solo suono che interrompesse quello spaventevole silenzio. Invano la languida voce dell’orfana a nome chiamava talvolta il vecchio eremita: Demetrio ed esse erano i soli esseri viventi che animavano allora quel loco deserto. — Atterriti per le inutili ricerche, raccapricciando d’orrore ad ogni volta che l’idea della morte di Atanasio a loro rappresentavasi, proseguivano taciturni il dirupato sentiero, allorchè giunsero alle ripe di un torrente, il quale, attraversando spumoso la vallata, trascinava seco tronchi d’alberi e sassi. Non ritrovandolo guadabile, già indietro ritornavano dolenti di aver perduto senza frutto un tempo prezioso; allorquando Demetrio, rivolgendo ad un sol punto lo sguardo, proruppe in un grido improvviso: all’istante gli occhi d’Olimpia, postisi nella direzione medesima, ricercarono naturalmente l’oggetto che avealo cagionato... ahimè! di quale scena erano mai spettatori! Il corpo dell’estinto vecchio, seguendo la rapida corrente, si ravvolgeva fra i vortici di un gorgo profondo. — Sorpreso per via dall’orribile uragano, affrettato erasi l’infelice d’attraversare il torrente tuttora guadabile, onde asilo cercarsi sotto [65] la roccia vicina: ma sopraggiunta la piena delle acque, ed avendolo improvvisamente investito, seco il trasse ed il sommerse.
A vista così luttuosa, che gelar fece da capo a piedi la povera Olimpia, richiamò Demetrio tutte le forze dell’animo: lanciossi precipitoso nell’onda; riguadagnò nuotando la riva, e vi ricondusse fra le robuste sue braccia la innocente vittima della carità. — La luna che in quel puntò già in alto mostravasi, velossi pietosa di leggiere nubi: ed i venticelli della notte, inorriditi al miserando spettacolo, sembraron fremere attraverso gli scogli, ed il cardo selvaggio.
Interrompendo finalmente il cupo silenzio che fino allora conservato avea, perchè mute sono sempre in sulle prime e grandi passioni, l’Orfana diè libero sfogo alle lagrime, ed alle querele più commoventi. Prostesa sul cadavere di suo zio, chiamandolo a nome altamente sembrava far forza alla stessa natura: imprimeva le sue labbra su quelle guancie fredde e scolorate; riscaldavale coll’infiammato alito de’ suoi sospiri; ed avriasi detto ch’essa tentava rianimarle, se possa umana capace fosse di richamare a vita gli estinti. Invano frattanto con dolci parole studiavasi Demetrio di [66] consolarla, e di toglierla ad una situazione che la straziava: essa nulla più udiva; e quella voce sì cara, che in altro tempo richiamato avrebbe tutta la sua attenzione, penetravale appena in quell’istante le orecchie.
Ma quanto più forte e violento è nell’uomo l’impeto del dolore; altrettanto è più rapido e breve nella sua durata: la ragione vi sottentra; ripigliano il loro vigore le oppresse facoltà, e non rimane che un sentimento ingrato e deprimente sì, ma più mite d’assai. — Le lagrime versate in copia dalla sventurata, recando un necessario sollievo al suo cuore, calmata pure ne avevano la mortale angoscia: Demetrio profittò del momento per isvellerla dalle fredde spoglie del vecchio; e caricando gli omeri egli stesso del dolce e funesto peso, ripigliarono finalmente la strada dell’eremo. Qual terribile viaggio! Prolungati sospiri tratti dal profondo del cuore, ed accompagnati ad intervalli da gemiti languidi ed indistinti, univansi tristamente al monotono calpestio de’ loro passi.
— Già l’aurora novella appariva sul balzo d’oriente, quando l’afflitta coppia diè principio alla funebre ceremonia. Ravvolto entro candido lino, il corpo di Atanasio fu deposto dietro le mura della cappella: ivi l’Orfana e Demetrio, [67] rinnovando in copia le lagrime, onorarono pietosi la memoria di lui, e solennemente si promisero la loro unione all’epoca stessa in cui egli aveala desiderata. In quel punto, testimone de’ loro giuramenti, comparve il Sole sull’orizzonte: il raggio di lui consolatore, rallegrando la natura, sembrò animare un istante quella scena funesta.
«Addio, misera vittima della vera filantropia! (esclamò Olimpia energicamente). Tu che fosti già un tempo l’unico appoggio della prima mia giovinezza trascorsa nella sventura e nel pianto, sperasti pure vedermi felice fra le braccia del virtuoso che amavi... ah, la morte nemica de’ buoni troncò in sul nascere speranze per te così belle! Ma ad onta del crudele destino io saprò farle rivivere: nel loco istesso che tu abitasti vivente, qui sulla spenta tua salma giuro non esser d’altri che di Demetrio: egli solo sarà il dolce compagno della mia vita, e tu dal Cielo esulterai alla vista di un nodo da te stesso formato!
«Salve, o generoso figlio della Selleide! (riprese Demetrio intenerito). Riposa tranquillo nel sonno de’ giusti: ed accogli propizio i puri voti di due cuori, i quali non avranno d’ora innanzi che un palpito solo! — Addio per sempre, venerando vecchio! Addio!! Addio!!!»
[68]
Queste parole che, pronunciate con tutto il calore del sentimento, procurarono un grande sfogo alla loro passione, fecero pure che straziati meno ed oppressi compir potessero quindi gli estremi uffizii dell’amicizia e dei dovere. Umile monumento della eremitica povertà, sopra l’angusto loco in cui giaceva l’estinto cressero un monticello di terra: sparsi sovr’esso gli ultimi fioretti della state, vi collocarono sulla cima una Croce, ad annunziare che ivi un uomo, pagando alla natura il necessario tributo, restituito aveva alla madre comune la mortale sua spoglia.
[69]
L’adorabile provvidenza dell’Onnipotente mancar non fa mai di compenso l’infelice che provò i colpi della disgrazia: se ad esso in questo pelago di affanni chiuder sembrò una volta la via dello scampo, non è però che ridurre il voglia alla totale disperazione: una strada novella sottentrando alla prima, additagli di nuovo quel porto che disperava omai di più rivedere. — Priva dell’unico suo sostegno, del solo congiunto a cui fosse debito lo interessarsi di lei; isolata affatto sulla terra; quale sciagurata esistenza tratto non avrebbe la misera figliuola d’Evantìa? Ma la pietosa consolatrice de’ mortali non abbandonolla in sì crudele momento: togliendole lo zio, lasciavala nel tempo stesso fra le braccia di uno sposo adorato, che cangiar prometteva per lei il tenore di nemica fortuna.
[70]
Incamminandosi col suo Demetrio al villaggio nella casa d’Eutimia, allontanavasi Olimpia dai solitari luoghi testimoni de’ primi anni della sua giovinezza. Ogni pianta, ogni tronco, ogni sasso rammentava all’Orfana alcuna delle passate vicende: queste intanto, dolorose per loro stesse, grate riuscivano tuttavia al tenero animo di lei; giacchè tale è la natura del cuore umano che vicino a respirare una novella vita di gioja, non può indifferentemente rimembrar senza amarli que’ mali medesimi che sì l’afflissero una volta. Attraversando in silenzio la foresta dell’eremo, i suoi occhi si gittarono furtivamente sulla tomba d’Atanasio, che sorger vedevasi in distanza: il cuore palpitavale nel seno, e la più glande commozione leggevasi nel suo volto. Ravvisandovi allora Demetrio qualche cosa di straordinario, su lei rivolse uno sguardo che dolcemente chiesene la cagione; l’Orfana nulla disse; accennò col dito il loco funesto; poi spirando, chiese all’amante l’affrettamento de’ suoi passi.
Ma già agli ultimi raggi del Sole nascosto dietro l’ardue cime del Pico di Kunghi succedute erano le vespertine ombre a ricoprire la terra, allorchè si presentarono i giovani amanti alla casa d’Eutimia. Ad onta dell’avanzata età [71] sua conservava tuttora quell’amabile dolcezza, e quelle ingenue maniere, che ne formavano il morale carattere nella prima gioventù. Vedova già da più anni, il conjugale amore soffocato, per così dire, nel suo seno dopo l’epoca fatale che le tolse un amato consorte, riunito erasi più energico e più bello all’affetto materno, per un figlio che ricco di fama, e delle più rare virtù; la delizia formava di sua vita. Dopo la viva e vantaggiosa pittura che della sua Olimpia sovente fatto aveale Demetrio, sentivasi la vedova di amarla siccome propria figliuola: aspettava anch’essa impaziente la novella erosantia, e spaziava colla immaginazione in un felice avvenire. — Sorpresa ora per l’improvviso ritorno del figlio, dolente pel funesto avvenimento che portato avea la desolazione nell’eremo della rupe, non lasciossi sopraffar così dallo stupore e dalla pena da farsi inabile a confortare di dolci affettuose parole la giovane sventurata; la tolse per mano, e stringendola al seno, le disse: «Rasserenati virtuosa donzella! se tu perdesti i cari parenti e lo zio, Eutimia ti rimane ancor sulla terra. La madre del promesso tuo sposo sarà pur la tua madre: quivi alle mie le tue cure si uniranno nel governo della piccola famiglia, mentre io stessa e Demetrio [72] veglieremo costantemente alla tua felicità.» Ad espressioni così amorevoli, e tutta addimostranti la dolce natura del cuore che le dettava, l’Orfana penetrata vivamente non trattenne le lagrime, ed abbandonossi fra le braccia di lei: Demetrio intanto spettatore di sì tenera scena provava quella soave emozione che sempre ci nasce nel cuore allorquando un oggetto da noi amato vivamente, attirandosi l’altrui benevolo interesse, sembra giustificare la scelta e gli affetti nostri.
È tale sovente il carattere della sventura, che a forza riscuote dagli uomini quella dolce pietà, che poi cangiasi quasi sempre in amore: Olimpia d’altronde assuefatta a dividere con Eutimia le domestiche occupazioni, e gl’innocenti sollievi, e fino il letto medesimo; ravvisando comuni seco lei i pensieri e le naturali inclinazioni dell’animo; consideravala perfettamente come la madre più amorosa: tante erano le premure d’ogni genere, e le dimostrazioni di affetto di cui era ogni giorno ricolma!
La casa d’Eutimia annessa non era al villaggio: sorgeva però non lungi da quello, a’ piedi d’un poggio dove la natura si mostra nell’aspetto il più florido e seducente. Lo Zàgura da una parte, scorrendo placidamente, attraversa con mille tortuosi giri la feconda pianura, [73] e gettasi quindi nelle rapide acque dell’Acheronte: dall’altra ad occidente una catena di amenissime colline accerchia l’orizzonte: antiche selve di quercie e di frassini cupamente verdeggiano in distanza dalla parte di mezzodì; mentre le ardue rupi di Suli levando alle nubi le superbe lor cime, difendono l’amabile loco dal gelato soffio dell’aquilone. Ogni gleba all’intorno è qui diligentemente coltivata: numerose viti in lungo ordine disposte fan bella mostra de’ lor dolci tesori: carichi del prezioso frutto stendonsi i freschi uliveti sul declivio de’ colli: pingui greggie di pecore e di buoi vagano pascolando pel piano. Tutto appalesa la ridente ubertà del terreno; tutto la dolce indole operosa di un popolo, che ne’ soli prodotti della campagna fa consistere le proprie ricchezze.
L’orticello, ed i fertili campi che circondano la villereccia abitazione, furono un giorno i dotali pegni nelle nozze d’Eutimia: ritornatane or questa nell’assoluto dominio, non doveva abbandonarli se non quando formato avrebbero il retaggio della coppia felice. Un così dolce soggiorno che perfettamente addicevasi alla giovane Olimpia, era pur l’unico, presso il clamore del popolato villaggio, che in parte compensar la potesse della perduta sua solitudine. Quivi [74] quella pace rinveniva ormai addivenutale indispensabile: quivi in occupazioni esercitavasi pressochè simili a quelle dell’eremo: quivi finalmente la coltivazione de’ fiori, la libertà del passeggio, la domestica economia, insensibilmente la richiamavano alle antiche abitudini. Adorata sempre più dal fedele Demetrio, che di null’altro occuparsi sembrava fuori del pensiero di piacerle: amata da Eutimia con quella indefessa sollecitudine che tende costantemente a raddolcire le amarezze della vita, la bella figliuola d’Evantìa chiamar potevasi assolutamente felice; e lo era diffatto in tutti quei momenti ne’ quali la memoria della morte di suo zio a velar non veniva di fosche nubi la serenità de’ suoi piaceri.
[75]
Cessate già le operose fatiche della vendemmia, il tempo avvicinavasi di affidare agli arati terreni le più belle speranze dei futuri ricolti. Tutto cangiato aveva di aspetto; chè più non udivansi gli operosi agricoltori ripetere le usate canzoni mentre le viti spogliavano dei grappoli maturi: nè più stridevano all’intorno i rustici carri, che carichi del dolce vino tratti eran da’ buoi ai villerecci abituri; e soltanto il silenzio delle campagne interrompevano le grida del pastorello che le mandre allontanava dai seminati, e gli spessi colpi del cacciatore che la vita insidia degli innocenti abitatori dell’aria. L’inverno frattanto, più di ogni altro rigido e prematuro, avvicinavasi rapidamente.
[76]
È egli vero che le diverse vicende alle quali nel periodico suo corso soggiace immutabilmente la natura, rendono pure diverse le impressioni nell’animo nostro? Il creato che si ravviva, e si veste di leggiadre forme sulla superficie della terra, svegliando in noi la idea di un vigoroso risorgimento, ne tempra ai più dolci moti di gioja e di gioconda ilarità: ma allorquando non ci presenta che la immagine di una spossata decadenza; allorchè contempliamo rendersi sempre più deboli i suoi sforzi per evitarla, è allora che noi, per quella analogia che ci avvicina in origine a tutte le creature, soffriamo egualmente, perchè egualmente illanguidiscono in noi le fisiche nostre facoltà.
Un giorno, dopo esser caduta grande quantità di neve, l’aquilone levandosi improvviso dissipate aveva le nubi, e ricondotto il sereno nel cielo; ma il freddo era eccessivo; e la terra coperta di un bianco uniforme lasciava appena distinguere la traccia delle vie attraverso i campi. Olimpia intanto dal pacifico tetto di Eutimia spettatrice era di questa scelta: il sole erasi già involato al nostro emisfero, quand’essa, in mezzo all’universale silenzio, vide un ente umano, che in distanza affaticavasi onde aprirsi una strada fra la neve che veniva agghiacciando. [77] Compassionandone la trista situazione, la virtuosa figliuola d’Evantìa auguravasi il modo di potere adoperarsi al soccorso dell’infelice, allorquando questa sconosciuta persona che avviarsi pareva al villaggio, come intorpidita dal freddo, si ristette un momento; poi mettendo un debole gemito, cadde barcollando sul terreno. Atterrita insieme e commossa, l’Orfana chiamando gente in soccorso, precipitossi fuori di casa: Demetrio ed Eutimia non tardarono a raggiungerla, e così uniti al loco si portarono ove giacea l’infelice. Era questa una donna di non molto avanzata età: le sue guancie smunte erano e scolorite: la fronte solcata dagli affanni; lacere e rozze le vestimenta; ma la dolce e nobile sua fisonomia sembrava annunziare ch’essa non era sempre vissuta nello squallore della indigenza. Sepolta sotto la neve che d’ogni parte circondavala, e caduta in mortale svenimento, i suoi occhi più non sarebbersi aperti alla luce, se la generosa famiglia accorsa non fosse a salvarla; la tolsero essi diffatto sulle loro braccia; e semiviva in casa la condussero. Quivi, un fascio di aridi rami di quercia svegliando una fiamma necessaria ai bisogni della sventurata, ne rasciugarono all’istante le umide vesti, ed al loro uso ne richiamarono i sensi smarriti.
[78]
Allorchè essa si riebbe, le prime parole che pronunciò si volsero in segno del più vivo ringraziamento ai pietosi suoi liberatori; ed i primi suoi sguardi si fissarono sul volto dell’Orfana, che accanto le stava ad apprestarle soccorso. Quasi che i dolci lineamenti della giovinetta destassero nella incognita delle antiche rimembranze, non cessava mai di contemplarli nell’atteggiamento di quei che si affatica richiamare alla mente le idee più lontane: mentre Olimpia dal canto suo, scorgendo in quel volto un non so che di attraente che dolcemente turbavala, nel prodigarle le premure più tenere secondar non faceva che i moti del cuore. Alla fine dopo alcuni istanti di scambievole attenzione, quasi che un lampo improvviso rischiarata le avesse la memoria del passato, l’incognita levossi in piedi: i suoi occhi e tutta la sua fisonomia si animarono rapidamente: le sue braccia si levarono sul capo dell’Orfana; ed aspettando una sola parola di questa per precipitarvisi sopra, esclamò «Olimpia!... m’inganno io... o siete voi la figliuola d’Evantìa?» — Queste tronche voci con tutta la forza proferite bastarono alla giovinetta per renderle ragione dei moti fino allora provati; e di quelle non ignote sembianze: colle mani giunte, e colle pupille immote [79] sul volto della sconosciuta, in essa riconobbe Sofia... «Ah, mia madre! (rapidamente proruppe) vi riveggo io finalmente!!! — Ciò detto, le loro braccia si avvinghiarono fortemente, ed il silenzio successe per un istante al primo impeto della gioja.
[80]
Giunta nella casa di Eutimia dopo la morte dello zio, le prime cure dell’Orfana si volsero al ricercamento della generosa donna che nudrita aveala del suo latte: ma quale non fu il suo stupore allorchè le fu detto che ivi più non era, e che da qualche tempo non avevasi più novella alcuna di lei! — Per uno di quei rovesci di fortuna indipendenti affatto dall’opera d’uomo, e dei quali è quaggiù assolutamente inesplicabile la causa, la povera Sofia da un comodo stato, che nulla faceva desiderarle, trovossi ridotta in breve tempo all’estrema mendicità. Venduti i pochi effetti che le restavano, deliberato avea con suo marito di altrove migliorare, se stato fosse [81] possibile, la propria condizione; e di allontanarsi così da quel villaggio che veduti aveali nascendo, e che nella presente miseria destava loro troppo amara rimembranza. Partiti di fatto per la campagna, nascosti sotto finto nome allo sguardo di tutti, si fermarono nel mezzo di una vallata che formano le rupi di Suli dalla parte di mezzodì. Orrido era il loco, e perfettamente addicevole alla solitaria vita che si erano proposta. L’Acheronte volgendo le mugghianti sue acque attraverso un letto pieno di enormi scogli, diffondeva all’intorno un fragore che, ripetuto dall’eco dei burroni, somigliar potevasi alla romba di un tuono che di continuo romoreggi: l’angusto orizzonte circoscritto dalle nevose cime delle rupi della Selleide nascondeva il loro ricovero al rimanente della terra; ed avriasi detto che l’occhio solo dell’Eterno penetrar poteva dall’alto delle nubi in quell’oscuro recesso della natura. Quivi renduto fecondo per forza di assidua cultura lo sterile terreno, ritrovavano gl’infelici quanto loro bastava per la sussistenza: ma i versati sudori, il novello tenore di vita affatto diverso dalle primiere abitudini troncarono ad un tratto anche queste ultime speranze. Cedendo agli urti di tanta sventura, la delicata fisica costituzione del marito di [82] Sofia andava ogni dì più deteriorando; e tale fu lo stato di languore a che finalmente si ridusse, che assalito da lenta febbre, spirò nelle braccia della misera consorte. L’idea di un pronto allontanamento da que’ luoghi ove egli avea cessato di esistere ebbe più forza nell’animo di lei che il pensiero, per quanto spiacevole fosse, di far prova nel villaggio nativo della pietà dei conoscenti: oltredichè sfinita anch’essa per le fatiche e pel dolore, come mai sola seguìto avrebbe nella solitudine la incominciata carriera? Immersa pertanto nella più cupa melanconia, sostenendosi appena sulle ginocchia, ritornava la povera Sofia fra i testimonii della felice sua giovinezza, allorquando sorpresa per via dalla neve e dal freddo che imperversava, caduta era priva di sensi presso la casa di Eutimia.
Olimpia frattanto udita la dolente istoria dal labbro stesso di Sofia, e fino alle lagrime commossa, implorava vivamente da Demetrio e da Eutimia che presso loro si ritenesse la donna sventurata, alla quale era essa debitrice della seconda sua vita; ma non v’era d’uopo: i generosi ospiti inteneriti a vicende così luttuose, stabilito già avevano di accrescere di sì degno individuo la piccola loro famiglia. Lieta oltremodo l’ottima [83] figliuola d’Evantìa di restituire così alla sua madre d’adozione le tenere premure che a sè già un tempo fanciulla aveva ella prodigate, saziarsi non potea d’abbracciarla. Narrolle mille volte le proprie avventure nell’eremo della rupe: rivestì de’ più vivi colori il racconto della morte di suo zio; e brillò di gioja in partecipandole i suoi amori, e le vicine sue nozze col valoroso Demetrio. Pianse intanto, e rallegrossi con lei la buona Sofia, ringraziando il cielo d’averla riunita a sua figlia.
Giunta a quel grado di felicità che permettesi all’uomo di godere sulla terra, l’amabile Olimpia aspettava impaziente la novella primavera. Vedeva con gioja farsi l’atmosfera ogni giorno più mite e più pura: udiva con quel dilatamento di cuore che è figlio del piacere il lontano fragore de’ torrenti prodotti dalle nevi che già incominciavano a disciogliersi, sotto il peso delle quali preparato aveva la natura il suo risorgimento. Giunse finalmente questa amabile stagione di cui tale è il magico incanto, che richiama un istante anche l’uomo più invecchiato nella sventura al vigore ed alla gioja della prima gioventù: tornò invocata da mille anime amanti fra le rupi della Selleide, e seco ricondusse l’animatore sorriso dell’universo. [84] Il tiepido fiato degli zeffiri succedendo al gelato soffio dell’aquilone, fecondava le piante ed i fiori: erravano le greggie lungo le smaltate rive dei ruscelli; e l’eco de’ boschi il suono lietamente ripeteva delle pastorali sampogne. Il bisogno dell’amore riuniva la innocente turba de’ musici volatori: leggiadri e vivaci come la gentile passione che gli animava, spargevansi questi nuovamente per le valli e pel piano; mentre il tenero cantore delle selve narrando coll’accento della natura le proprie pene alla dolce compagna, interrompeva per la prima volta i lunghi silenzii dell’inverno. Tutto all’intorno temprava l’animo alle più soavi affezioni, e tutto spirava la più pura voluttà.
Con tale incantato apparecchio annunziavasi alla Selleide la festa della Erosantia. Balzava intanto il cuore nel seno alle più avvenenti donzelle, ed ai più ardenti amatori: una nuova gioja brillava in tutto il villaggio, ove di festiva verdura e di vaghe ghirlande ornavasi il maggior Tempio per la celebrazione dei vicini imenei. Non frapponevasi ormai che il breve intervallo di un giorno ad un’epoca desiderata cotanto; ed Olimpia, all’appressarsi di questo grande momento, non era men tenera, nè meno amante di prima; Demetrio adoravala; [85] egli solo interessarla potea vivamente; nel possesso di lui era dunque riposto per essa l’apice d’ogni felicità.
Le ombre che preceder doveano il giorno avventurato scese già erano chetamente a ricoprire la terra. Nell’atto che ciascuno si ritirava per coricarsi, gli sguardi dell’Orfana, nei quali tutto appariva il sentimento ed il candore dell’anima, s’incontrarono con quelli di Demetrio... un dolce sorriso che ne seguì, annunziò loro che quell’incontro non erasi perduto: tornarono a guardarsi, e quindi si separarono. Sonovi, è vero, dei momenti nei quali il tempo troppo rapido scorre per un amante: ma ve ne sono pure di quelli in cui sembra ch’esso rallenti a bella posta il suo volo. Quanto lunghe di fatto non furono le ore per Olimpia! Preoccupata da tanti e sì dolci pensieri, non chiuse mai palpebra in sulle prime: e fu soltanto a notte avanzata che la stanca natura, ad onta di quella inquietezza che impedivalo, la immerse quasi a forza nel sonno.
Non appena l’alba comparve, che Demetrio balzando dalle piume, fecesi a battere alla camera di sua madre. Ivi ancora tranquillamente dormiva la tenera giovinetta; ed egli non potè sottrarsi ad un certo moto di leggiero rammarico, [86] in pensando che una stessa impazienza destata non l’avesse insieme con lui!... ma quale stata non sarebbe la sua gioia s’egli avesse saputo ch’ella vegliava tuttora nel tempo in che altri abbandonavasi al riposo? — L’ora frattanto si avvicinava della ceremonia e della pubblica festa, e già Olimpia disponevasi ad esser condotta al maggior Tempio di Suli. Un’azzurra veste le scendeva fino al ginocchio, ed a questa sovrapponevasi in vaga foggia un manto di porpora: leggiadri calzari le abbracciavano il piede, e la nuziale corona di rose novelle intrecciata dalle mani stesse di Demetrio le circondava la chioma: modesto e proprio d’una vergine era il suo sguardo, composto e grave il portamento; ma la interna gioja e l’amore trasparivano da tutti i moti di lei. Sorgeva appunto il Sole sull’orizzonte, allorquando accompagnata da Eutimia, e dalla buona Sofia, incamminossi col suo Demetrio al compimento delle proprie brame: non mai più così limpido e bello apparso erale il mattino; tutto le sorrideva all’intorno, tutto sembrava seco lei rallegrarsi della sua felicità.... ma questa non era peranco assicurata, e l’avverso destino stanco non era di perseguitarla!
Vicini ad entrare nel villaggio, un improvviso [87] romore s’udì levarsi in mezzo al popolo, che, radunato dapprima, sbandavasi allora nel massimo disordine. Colpita come da fulmine, l’Orfana sventurata sentì che qualche nuovo colpo preparavasi per lei, e che indarno spera felicità sulla terra chi nacque sotto l’influsso di maligna fortuna. Il tumulto intanto cresceva: le vie erano ingombre di vagante moltitudine, e terribile intorno risuonava il grido dell’allarme. — «Non v’ha riparo: abbandoniamo il villaggio, e ritiriamoci sulle rupi; (esclamava una voce): i Turchi sono alle porte!»
[88]
Sdegnato il feroce Satrapa di Giannina contro i valorosi difensori della Selleide per l’infelice esito della prima sua spedizione, meditava già da lungo tempo la caduta di questo rispettabile baluardo della ellenica libertà. Fatto girare nei varii cantoni del suo pascialaggio un proclama che imperiosamente chiamava tutti i sudditi alle armi, gli agà ed i bey, scossi dall’autorevole tuono di quelle parole, obbligaronsi di proprio pugno a conquistar la Selleide a qualunque prezzo, oppure a seppellirsi combattendo sotto quelle rupi scoscese che la rendono sì formidabile. In questa guisa il tiranno vide in breve tempo sotto le sue insegne un esercito di oltre dodicimila Maomettani: e siccome queste reclute dicevansi [89] fatte per la spedizione di Parga, (oggetto dell’odio d’Alì) e tutt’altro a divedere lasciavano fuorichè servir dovessero a combattere i Suliotti, così questi, sebbene naturalmente sospettosi e vigilanti, non previdero l’attacco. Conoscevano i Turchi pur troppo che l’unico mezzo di riportar vantaggio sugli intrepidi montanari era quello di sorprenderli, prima ch’essi avesser tempo di ritirarsi nelle gole: perciò, guidati da’ più esperti capitani, tragittavano l’Acheronte col favore delle tenebre; ed osservato nella marcia il più rigoroso silenzio, comparivano la mattina in faccia al villaggio; mentre alcuni pastori, vedutili in distanza, portato avevano a Suli il terrore, ma non lo scoraggiamento.
La libertà, che ingrandisce l’uomo nella sventura, raddoppiò la energia de’ valorosi, che, svanito il primo tumulto dell’allarme, si prepararono a respingere la forza colla forza: tutti gli uomini atti a portare le armi si riunirono ad un istante; ed il generoso Demetrio che altra volta trionfato avea de’ nemici, fu proclamato ad unanime voce Capo de’ suoi compatriotti. Costretto a recarsi alla difesa della patria nel punto che coll’amata donzella incamminavasi all’altare, il figliuolo d’Eutimia tutte richiamò le forze dell’animo ed in guardia al cuore le mise. [90] Nella urgenza del pericolo le prime sue cure volgevansi a porre in salvo sulle rupi le atterrite donne.... ma non era più in tempo. I Barbari non trovando resistenza bastevole alle porte del villaggio, le avevano già fra mille grida oltrepassate, tutto ponendo a soqquadro. Indarno i magnanimi Suliotti ridotti alla disperazione, tentavano far argine de’ lor petti alla piena de’ nemici: nella vastità del loco, erano questi in numero troppo imponente a fronte delle poche lor file: vecchi, donne, fanciulli, tutti infine coloro che armi non ebbero alla mano, o che fuggir non poterono a salvamento, cadeano sotto gli spietati lor colpi.
Animata frattanto dal successo, e ripromettendosi piena vittoria, una turba di Maomettani osa precipitarsi nel più folto de’ prodi difensori di Suli, e gli sbaraglia. Forzato ad opporsi al torrente che straripava, Demetrio non vede altra via di salvezza se non in quella che mena alle gole: ordina pertanto la ritirata; combatte corpo a corpo cogli infedeli; e loro cedendo regolarmente un terreno comprato a forza di sangue, giunge alla fine ad afforzarsi in quelle formidabili strette, d’onde tutte le forze nemiche bastato non avrebbero a cacciarnelo. Ma pervenuto in sicuro, dopo aver riserbato le proprie braccia e quelle de’ suoi concittadini a [91] tempi più opportuni, si avvide, ahi lasso! che Olimpia più non era al suo fianco. — Nel calore della prima zuffa, dopo averle fatto cadere daccanto Eutimia e Sofia, i Barbari che rispettato avevano in lei le amabili grazie della giovinezza, la rapirono, e seco loro la trascinarono.
La mischia intanto impegnata erasi più terribile ed ostinata all’ingresso dei posti fortificati, e Demetrio, prevista irreparabile la propria disgrazia, sfogava sui Turchi la rabbia e la disperazione che l’opprimeano. I suoi occhi torbidi erano ed infuocati: feriva, uccideva, e conto chiedeva ai cadenti nemici dell’amante e della madre. Non così furibonda rugge nelle foreste della Ircania la lionessa cui rapiti furono i figli. Ruotando in giro velocissimamente la spada, avventavasi Demetrio sulle serrate file dei Barbari, che atterriti mirandone il lampo simile a sanguigna cometa foriera di morte, al suolo cadevano come cadono le spiche sotto la falce che le recide. Un lago di nero sangue attraversava orribilmente l’angusto terreno; e gli ammonticchiati cadaveri degli infedeli formata avendo una barricata vantaggiosa pei Greci, sgominati alfine retrocedettero i Turchi, cercando in precipitosa fuga lo scampo.
[92]
Liberi pertanto dalla odiata presenza dei nemici, i montanari della Selleide, ai mezzi di difesa che loro prestava la natura, aggiunsero quelli dell’arte: si fortificarono stabilmente nelle gole delle rupi, finchè le orde de’ Barbari sgombrato avessero affatto dal piano ove ritiravansi: vi eressero dei bivacchi; e vi formarono un piccolo campo trincerato, d’onde osservar potevano in sicuro tutte le mosse nemiche. — Demetrio intanto abbattuto e dolente, ritirato erasi nella rustica sua tenda: quivi nascosto allo sguardo di tutti, colla fronte china sulle palme, spargeva amare lagrime sulla sorte della perduta donzella. «Gli scellerati! (esclamava:) nel punto in che io credeva a me unirla per sempre... la strapparono alle mie braccia. Assetati tutt’ora di sangue, e delusi nel loro progetto, essi la conducono in ischiavitù, ed ora, forse in questo istante medesimo... vittima la fanno di loro brutalità... Oh rabbia! ed io resto qui inerte, e tutto non abbandono per salvarla, o perire con lei?»
Ciò detto, giugnendo con forza le mani, scorreva la tenda a gran passi: alterali erano i suoi lineamenti; tremante il corpo e lo spirito vicino al delirio. Poi, calmatosi alquanto l’impeto della passione, un muto dolore vi sottentrava: [93] il suo cuore erane lacerato; ed unite a qualche stilla di pianto proferiva allora delle interrotte parole.
«Ah, madre mia! (ripeteva sovente quasi presago del vero).» Tu forse or più non sei sulla terra, ed i vili assassini rispettar non seppero in te quella virtù che sola animavati. — Mia cara madre!! Era forse questo il felice avvenire che il figliuol tuo ti prometteva?... questo l’avventurato giorno dell’imeneo?... — Ah! se dall’alto delle sfere, di quaggiù odono i beati le voci dei mortali; se la povera Olimpia fra i lacci della servitù respira ancora l’aure della vita, tu la difendi dalle ingiurie degli empii; tu la salva dall’obbrobrio: e se io non giunsi a divider seco lei la mia sorte, scenda, ah, scenda almeno inviolata alla pace della tomba!!!»
Amareggiato dalla sventura, rivolto ognor col pensiero all’amante perduta, il capo de’ Suliotti non destavasi dal suo letargo, se non per dure quegli ordini che il grand’uopo esigeva: quel tempo che rimanevagli, impiegato era da lui, solo nella sua tenda, nella rimembranza e nel pianto.
Il giovane Eugenio, il di cui grado militare, quello seguendo di primo Capitano, più d’ogni altra persona avvicinavalo a Demetrio, ben commosso [94] pareva a sì trista situazione. Discendente d’una delle più illustri famiglie del villaggio, di coraggioso e tenero animo ad un tempo, la bella Irene oggetto era dell’amor suo: ma dal fatale momento in che egli correndo alle armi separato erasi da lei, udito più non aveane novella. Dolente per sì grave perdita, e più terribile forse perchè non bene ancor certa, osservato aveva non senza interesse la cupa mestizia che esprimeva il figliuolo d’Eutimia, e che questi tuttavia in faccia a’ suoi fratelli d’arme cercava sempre nascondere. La pietà, quel nobile sentimento che gli uomini onora, insinuossi con profonde radici nel generoso petto di Eugenio: i mali che straziavano l’infelice addivennero, per così dire, suoi proprii: e tale affetto per lui concepì, che fin d’allora giurò rattemprarli con quel balsamo soave che l’amicizia sempre versa sulle ferite del cuore.
I Turchi frattanto i quali credendo sorprendere i Suliotti, eransi pure lusingati di salire una volta su quelle rupi formidabili, ritiratisi in disordine, lasciato aveano più centinaja di morti, molti feriti, e grande quantità di fucili, che tutti caddero in potere dei valorosi; i quali colla perdita di pochi fratelli sostenuto aveano la gloria degli antichi [95] figli della Selleide. Questo infelice esperimento chiamando il Pascià a più moderati consigli, ei risolvette di chiedere una breve tregua per dar sepoltura agli estinti, e riscatto ai prigionieri. Il Sole, testimone di quella orribile giornata, già cadeva all’occaso: e la colma luna sorgeva dell’opposto orizzonte, allorquando il parlamentario Turco presentossi ai posti avanzati. Introdotto nella tenda di Demetrio, l’oggetto espose della propria missione: e fu concluso che al giorno novello redimer potrebbero gl’infedeli i loro compagni prigionieri, e seppellire gli estinti; intantochè nel corso della notte compiuto avrebbero i Suliotti il doloroso uffizio verso i loro fratelli. — Il Maomettano scortato da alcune guardie ritornossene al campo: ed il silenzio delle tenebre successe finalmente allo strepito ed al tumulto del giorno.
[96]
Alta scorreva la notte per gli spazii del firmamento: seguivala, fedel compagna, placidamente la quiete; ed i venticelli usciti dai boschi qua e là spargevansi a rallegrare dolcemente la terra: allorquando Demetrio accompagnato da Eugenio, e seguito da un corpo di Suliotti, incamminossi alla funebre ceremonia, dirigendosi al villaggio ove già succeduti erano tremendi il conflitto e la strage. Deserte quivi erano le case: una moltitudine di cristiani cadaveri misti a quelli degl’infedeli ingombrava la via: splendea tacitamente la luna nell’alto del cielo: i lenti passi dei pietosi guerrieri, e lo stridere di alcuni carri che li seguivano, risuonavano soltanto [97] in mezzo a quella solitudine. Inorridì il figliuolo d’Eutimia a scena così luttuosa: e quasi cercar volesse i perduti oggetti della sua tenerezza, stese furtivo lo sguardo da un punto all’altro di quel vasto sepolcro. — Tra la folla degli estinti sformati dalle ferite, e dal sangue che gli lordava, una donna di dolce e maestosa fisonomia, anzichè spenta, dormir sembrava placidamente: i candidi raggi dell’astro notturno la rischiaravano, ed un leggiero venticello agitava di tratto in tratto la scomposta sua chioma. Un solo istante bastò per convertire il dubbio in certezza: Demetrio rapidamente le si avvicinò, ed in essa riconobbe sua madre! Una larga e profonda ferita nel seno, intorno a cui ancor rappreso era il sangue, spinta aveala nel sepolcro; e le ultime sue voci chiamato avevano il figlio.
Raccapricciò d’orrore Demetrio; e, prostratosi sul terreno, portò tremando alle labbra la gelata mano materna, bagnandola di amare lagrime. — «Madre mia! come io ti riveggo, Madre mia!! — e null’altro disse; perchè il dolore gli chiuse le fauci, e lo tolse ai sensi. Riebbesi finalmente; e rivolgendo da una parte lo sguardo, additò dall’altra il cadavere a quei che il seguivano, e trasportar lo fece nei carri. — A pochi passi [98] di distanza, svisata per le moltiplici ferite riconobbe pure Sofia... la madre di colei ch’egli adorava, giacca distesa attraverso un’ammasso di estinti: Demetrio volse sovr’essa uno sguardo di compassione, e l’affanno non permisegli che di proseguire il cammino.
Lusingavasi l’infelice di ritrovare anche Olimpia fra le vittime della morte. Tale era il colmo della sciagura, tale l’atrocità del pensiero ch’ella viva caduta fosse nelle mani dei Barbari, che astretto vedeasi a desiderare almeno quest’ultimo conforto; ma invano. Più e più volte trascorse egli quel funesto recinto: vecchi, fanciulle, donzelle confusi fra loro ingombravano il terreno; ma giammai fra queste ultime la figliuola d’Evantìa se gli offerse allo sguardo. Alfine dopo mille inutili ricerche, gli fu forza assicurarsi che dessa era schiava; a sì orribile idea, un tremito convulsivo s’impadronì poco a poco di tutte le sue membra; il suo respiro divenuto era frequente, e gli agitati palpiti del cuore trasparivan fin sopra le sue vesti. Forse un pianto copioso versato in quel punto ammollito avrebbe un’angoscia sì fiera... ma il nemico destino toglievagli pur anco la dolce voluttà delle lagrime.
Un flebile grido lo riscosse improvvisamente da sì penosa agonìa; si volse [99] egli al loco d’onde partiva, e vi scorse Eugenio prostrato sul corpo d’una vergine estinta. — Era quella l’amabile Irene: i Barbari spenta l’aveano d’un colpo, tutte così troncando le dolci speranze del suo giovine amante: testimone lo sventurato della propria disgrazia, non trattenne le lagrime, e l’aere echeggiar fece de’ suoi lamenti.
«Irene mia! (esclamò coll’accento del dolore): a che mai teneramente mi amasti? a che il Cielo ci lusingò di renderne uniti e felici, se in un punto doveva io perderti per sempre?... Oh, quanto sangue sta rappreso sulla tua ferita!... quanto ne ha bevuto il terreno!!... Innocente vergine, dovea dunque su te sfogarsi la rabbia degl’infedeli?... Oh come contraffatte sono le belle tue forme! quelle labbra che mille volte per me s’apersero al più dolce sorriso dell’amore, chiudonsi ora livide e scolorate: quelle vivaci pupille che tutta l’anima appalesavano, coperte sono dal denso velo di morte... ah! se scritto è nel Cielo che io sopravviver debba alla tua perdita, obbedirò ai decreti di quel supremo destino che ne governa: ma qui, su questa mano istessa che sperai stringere un giorno in più felice momento, Irene! io ti prometto non esser d’altre che tuo: la tua memoria mi sarà guida dovunque; [100] ed io passerò i giorni che mi restano nella sventura e nel pianto... Vi sarà altri sulla terra più infelice di me?»
— «Sì, che vi sarà: ed eccolo a te dinanzi: (risposegli Demetrio con voce soffocata, ed afferrandolo vivamente per mano). La sventura non ha altri colpi per l’uomo cui tolse in un punto la madre, e l’amante! Tu la perdesti: la piangi qui, estinta.... ma io non posso teco piangerla così! Ah, felici coloro che più non sono!! l’obbrobrio ed i mali non ne accompagnano almeno la malaugurata esistenza: nella pace della tomba essi non sentono l’orrore della schiavitù: non lasciano dei viventi sulla terra in angoscie mortali e continue!!... io sono uno di questi. In me l’orfano tu vedi, cui il ferro de’ nemici privato ha di una madre: pure essa è qui spenta fra noi, ed io sparger posso di lagrime la sua spoglia. Ma... la mia Olimpia che invano fra questi cadaveri ricercai, geme ora fra le catene dei Barbari: un crudele diritto la pone irrevocabilmente fra loro, ed io privo ne resto per sempre. — A che dunque ti vanti il più infelice sulla terra? A me (ed in così dire, invaso dalla passione, batteasi il petto a riprese), a me solo si dee questo nome. Qui sta: è qui nel mio cuore profondamente radicata; qui versa il suo veleno [101] una crudele disperazione: qui essa giganteggia.... intantochè questo.... si restringe... s’annienta...»
Ciò detto, cadde tremando fra le braccia di Eugenio. Commosso il pietoso giovane a storia così funesta, mescolò le sue alle lagrime di Demetrio: e da questo interessante momento ebbe principio fra loro, quella tenera amicizia, che poi la sola morte doveva un giorno disciogliere.
[102]
Colpiti dalle avvenenti forme e dalla fiorente giovinezza di Olimpia, i Barbari rispettata aveanla in mezzo alla strage generale, fissando avidamente su lei scelerate mire di lucro. Immerse frattanto in un lago di sangue spiravanle dappresso Eutimia e Sofia: l’Orfana gemeva; e prostrata a piè degli assassini, con languente voce implorava almeno di seguirle nel sepolcro... ma invano. La vile cupidigia dell’oro ceder non poteva alle lagrime della innocenza fra persone macchiate di delitti, ed in mezzo a cui, per uso detestabile, s’apre tuttora infame mercato dell’uomo, a scorno dell’umanità.
Vedendo allora a quale sciagurata vita riserbavasi; esausta affatto di forze, dopo [103] avere inutilmente tentato di strappare un pugnale dal fianco de’ suoi rapitori, e trafiggersene, la figliuola d’Evantìa caduta era priva di sensi. Questo favorevole istante fu colto per involarla suo malgrado al villaggio, ed a quel Demetrio ch’essa avea continuamente reclamato: toltala sulle loro spalle, gl’infami Turchi la trasportarono alle tende del vile Mouctar che comandava alle forze Ottomane contro i Suliotti, e che la novella aspettava della totale sconfitta de’ Cristiani, per inoltrarsi più sicuramente sulle loro montagne.
Deposta la giovane schiava a’ suoi piedi, il figliuolo d’Alì incantato rimase a vista così bella; chè un dolce pallore cagionato dal lungo suo svenimento, spargendosi su quella amabile fisonomia, la rendea mille volte più interessante. Mouctar, che già amavala ardentemente, andava all’acquisto di lei; e contro ogni divino ed umano diritto fu a prezzo d’oro venduta la sacra libertà della sventurata. Era dessa presente a quest’atto che degrada la nobile natura dell’uomo, riducendolo alla vil condizione de’ bruti: ma non isparse una lagrima, ed intrepida rimase all’aspetto della novella sciagura; mentre gli sguardi suoi sdegnosi e tranquilli ad un tempo, dir sembravano ch’essa non annuiva all’infame [104] contratto, e che tuttora rimanevale una libera volontà.
Temendo peraltro che il ritenersi sì bella schiava nel campo risvegliar potesse la indignazione di suo padre, che più volte tacciato avevalo di vile e di effemminato, Mouctar, a cui severi ordini intimavano di non pensare ad altro che alla conquista della Selleide a qualunque costo, risolvette d’inviare la greca donzella al castello del lago di Giannina, per poi raggiungervela tosto al fine della campagna. Prima però di farla partire, con quell’orgoglio proprio de’ Turchi, e che nemmeno l’amore può in essi abbassare, pomposamente le disse. «O tu, che sola ottieni il vanto di aver soggiogato il mio cuore, e che tuttavia corrisponder non sembri all’onore cui t’innalzo, non creder già che se ora da me ti allontano rinunziar voglia all’amor mio, ed a quei diritti che su te la ragione del più forte mi dona: le gravi cure, ed i pericoli della guerra lo esigono per mia e tua tranquillità. — Va: ritroverai nella magnificenza del loco che ti attende un degno albergo di te: ne sarai la signora, ed il mio cuore non cesserà mai di adorarti... ma non abusare di tanti favori ch’io mi degno concederti. Preparati d’ora innanzi a corrispondere, come io lo merito, alla [105] mia tenerezza: fra non molto, carico di gloria e di trofei, io tornerò a riposarmi fra le tue braccia.»
Ciò detto, fisò in lei le ardenti pupille, aspettando quasi una risposta: ma il nobile animo della greca donzella ne inorridiva al solo pensiero; ed uno sguardo minaccioso e sprezzante fu tutto quello che al più senti di potergli concedere. — Allorchè gli spietati carnefici le uccisero a lato i cari oggetti dell’amor suo, Olimpia pregò, pianse, perchè non fosse risparmiata nella strage comune: ma poichè li vide sordi alle sue lagrime seguir barbaramente il vile impulso di lucro infame; quando come in un quadro delineata scôrse la dolorosa prospettiva di un inevitabile avvenire, trattenne il corso dell’inutile pianto; e la irrevocabilità stessa del proprio destino sembrò ridonarle la perduta forza dell’animo. — Sperando tuttavia di vincere col tempo questa risoluta fermezza, Mouctar si ritirò; e l’Orfana allontanossi dalle native montagne.
Le grandi fabbriche, e le alte cupole delle moschee di Giannina che indorate dal Sole cadente ad apparir cominciavano in distanza, creder le fecero un istante che forse a questa città conducevasi: ma improvvisamente i condottieri di Olimpia cangiarono direzione, [106] ed alle sponde fermaronsi del lago vicino: ad un cenno di essi, una barca che intenta alla pesca solcava placidamente quell’onde, avvicinossi alla riva; vi entrarono tutti ed a forza di remi si diressero al castello. — Il Satrapa di Giannina, la cui macchiata coscienza pingevalo a sè stesso oggetto di esecrazione e di orrore, seguendo il costume dei grandi colpevoli che non tengonsi sicuri ne’ luoghi popolati, eretta erasi nella isoletta del lago una rôcca formidabile; la quale, oltre il provvedere alla personale sua sicurezza, tenea pure in freno, per la vantaggiosa posizione, la vicina città. Fabbricata è al settentrione dell’isola; una numerosa fila di cannoni ne guarnisce i baluardi; ed un angusto ponte levatojo, sostenuto da pesanti catene di ferro, è il solo a permettervi l’ingresso. Nell’interno di questo loco inespugnabile vive senza tema di tradimento la famiglia di Tebelen: quivi Alì ed i colpevoli figli suoi hanno i loro serragli; e quivi racchiusa esser dee la sventurata figliuola d’Evantìa.
[107]
Ma già le vespertine ombre cadendo poco a poco dal cielo annunziavano il ritorno della notte, allorchè l’Orfana giunse al Castello del lago, trascinatavi dai ministri della tirannide. Condotta negli appartamenti del superbo Mouctar, fu data in particolar cura a Selim, capo degli Eunuchi del Serraglio, e molte schiave ebbero ordine di riguardarla siccome loro padrona. Già queste, spinte da quella invidia che alligna nel petto delle vili femmine vendute al piacere dei molli despoti d’Oriente, col pretesto di servirla, le si affollavano intorno, quando Olimpia chiese d’esser lasciata nella quiete; il suo desiderio fu legge; tutti si ritirarono, ed essa rimase perfettamente sola.
[108]
Libera alfine dagli odiosi testimonj del suo dolore, nuove sue lagrime corsero sulla traccia delle tante sparse per lo passato, ed abbandonossi su di un sofà nel più profondo abbattimento: la memoria della estinta Eutimia e di Sofia, tornò assai dolorosa al suo pensiero; ma quanto non fu crudele la rimembranza di Demetrio! «Oh, voi felici, (esclamava) che nel sonno della morte rinveniste il dolce oblio degli affanni! Ah! così pur dato mi fosse un eguale destino! io vi seguirei là dove il potere dell’uomo perdè ogni forza; ed a voi unita, pregherei perchè presto anche Demetrio ne raggiungesse. Colà almeno, spiriti indivisi, gustata avremmo quella piena felicità, di cui quaggiù la sola ombra si vide: ed io fra le catene della schiavitù non sarei qui vittima di un Maomettano orgoglioso... Ah! ma prima scagli su me l’avverso destino tutti i fulmini suoi! mettasi ad ogni prova, a qualunque tormento, la mia povera esistenza, anzichè io, dimentica dell’onore, e della sacra religione de’ padri miei, ceda un solo istante al tiranno! — Perduta (è vero) ho la mia libertà sulla terra; ma se più non ho quella d’involarmi a questi luoghi d’orrore, mi resta pure la mia volontà. Questa mi sarà scudo contro lo scelerato carnefice dei [109] Suliotti; ed egli conoscerà suo malgrado che una greca donzella atterrir non lasciasi dalle minaccie, e che preferire sa sempre al disonore la morte.»
Queste generose parole, pronunciate da Olimpia in tuono solenne e religioso, ricondur parvero in lei le smarrite forze dell’animo. Meno affannoso le addivenne d’allora in poi la propria prigionia: confortolla il consolante pensiero che in breve liberata ne l’avrebbe la morte, e che inviolata tuttora scender potea nel sepolcro. Piena pertanto di quella grata soddisfazione, che in un cuore bennato ispira sempre la bella determinazione di sottrarsi ad ogni costo al disonore ed all’obbrobrio; sicura che il dolore e gli affanni che la disgrazia le procurava, riunita ben presto l’avrebbero ai perduti oggetti della sua tenerezza, l’Orfana apparentemente tranquilla, si pose da quel magnifico appartamento a riguardar sul lago soggetto. — Sereno e puro era l’aere all’intorno: le onde leggermente increspate dal venticello della notte in tuon sommesso flottavano lungo le mura del castello; e la luna che colma splendeva nell’alto del cielo, rischiarando in silenzio le rive lontane, specchiavasi tranquillamente sulla cerulea superficie delle acque. — Infelice! era pur quello il momento [110] in cui, guidato da quel lume istesso, indarno fra gli estinti del villaggio ricercava Demetrio la diletta donzella.
Dessa intanto all’aspetto di scena così imponente scender sentiva una dolce commozione nel cuore: questa per altro figlia non era della gioja; partir sembrava piuttosto dalla rimembranza delle sofferte vicende. Assorta ne’ suoi pensieri, Olimpia non avvedevasi che le ore fuggivano rapidamente, e che malgrado la generale inazione delle cose, ed il sonno della natura, non arrestava il tempo neppur d’un istante il veloce suo corso. L’orologio del castello accennò la metà della notte: alcune voci, ed un leggero tumulto nella rôcca, accompagnarono la muta della guardia ai baluardi: tutto quindi si ricompose, e tutto rientrò tosto nel primiero silenzio. Fu allora che la prigioniera infelice cedette al bisogno della natura: coricata sulle morbido coltri, ricercar tentò nel soave abbandono dei sensi la dimenticanza de’ mali: ma Demetrio le fu sempre presente: Demetrio solo vide essa ne’ sonni brevi ed interrotti, e nelle lunghe dolorose vigilie.
Al mattino novello le schiave tutte del serraglio si portarono a lei, ed offrironsi a servirla: Olimpia le ringraziò; e pregolle d’allora in poi a non toglierle [111] il solo unico bene che rimanevale, la solitudine. Era questa di fatto un vero conforto per l’Orfana; se non che talmente accresceva la cupa sua melanconia, che sovente facendo l’infelice a tutto insensibile, stranieri anche rendeale gli oggetti stessi che la circondavano. Era in questi crudeli momenti che i suoi occhi in alto fissati, coprivansi di quell’umido velo che precede il pianto: tremanti erano le sue membra; alterati i suoi lineamenti: alcune grosse lagrime giù correndole per le pallide guancie, bagnavano il pavimento... ma dessa non iscorgevale; non sentiva più nulla: l’anima sua sorpassava allora quella immensa linea che divide la terra dal soggiorno della Divinità. Ivi nelle braccia dell’Eterno rivedea più belli i perduti oggetti dell’amor suo: a piè di Lui che è lo scrutinatore de’ cuori, deponeva i tormenti che laceravanla: la grazia celeste scendeva intanto sull’innocente suo capo; ed essa, riavendosi da quel dolce letargo, piena sentivasi di soave conforto, e di forza novella.
Al mezzogiorno dell’isola, non lungi dalla rôcca, circondato di mura, giace il giardino del serraglio; che destinato al passaggio delle donne racchiusevi, e dalla più raffinata eleganza fatto adorno per ogni dove. Spaziosi viali fiancheggiati [112] da ombrose piante distendonsi in lungo: brillano le ajuole nel mezzo di mille fiori diversi che una leggiadra simmetria vi ha collocati: un piccolo boschetto, perpetuo albergo degli zeffiri, cupamente verdeggia nel fondo, mentre alcune grandi aperture nelle mura, difese da doppie inferriate, libera lasciano in distanza la prospettiva del lago.
La prima volta che Olimpia vi discese fu in un momento in cui deserto era il loco, e che le vili schiave dimentiche della perduta libertà, celebravano tranquillamente una festa nell’interno del serraglio. Si assise in un sedile di bianca pietra a piè d’una inferriata: quindi, poggiato il cubito sui gradini di essa, e sulla mano la guancia, a riguardar si pose la riva all’intorno. Il Sole circondato da leggere nuvolette era al tramonto; i raggi di lui tremolanti sulle acque indoravano per l’ultima volta l’orizzonte: ed una languida luce, dileguandosi poco a poco dalla terra, spargeva di melanconica tinta gli oggetti tutti del creato. Le sole cime di un alto monte da lungi mostravano tuttora la presenza dell’astro: e su quelle rupi inaccessibili, inseguito dalle tenebre nemiche, rifugiarsi pareva il giorno morente. Per naturale movimento rivolse Olimpia a quel punto lo sguardo: quelle canute roccie, quelle [113] balze scoscese non le furono ignote: richiamò ad esse un’istante l’alienata attenzione, ed alle eterne nubi che le coronano riconobbe il Picco di Kunghi. — La più sublime delle native montagne, la sacra terra degli avi suoi ricomparivale dunque finalmente dinanzi! Spinta da una soprannaturale commozione, ella cadde sulle sue ginocchia: sparse lagrime di tenera gioia; e benedisse l’Onnipotente, che sì dolce conforto arrecavale in mezzo a tante amarezze.
Lieta per sì bella scoperta, non mancava Olimpia di portarsi ogni sera al giardino. Era questo il loco che solo addir le si poteva nella trista sua situazione: trovava in esso un sollievo altrove sconosciuto; e vi si tratteneva delle ore intere senza pure avvedersene: giacchè sempre di brevissima durata ne appaiono que’ felici momenti, che talora il corso interrompono delle nostre afflizioni.
[114]
Se a quella dolce inclinazione di natura che talor lega soavemente l’un uomo ad un altro, la reciproca confidenza essi vi aggiungano delle proprie disgrazie, è allora che nasce, e sovra solida base si conferma, la più tenera la più sincera amicizia. Dopo la commovente scena del villaggio, dopochè una quasi uguale sventura avvicinati gli ebbe fra loro, Demetrio ed Eugenio non eransi più separati: una stessa tenda, un tetto stesso li accoglieva nel campo: i più grandi pericoli li vedevano insieme; ed insieme essi eran sempre ovunque l’esigeva il bisogno. Di vero cuore amava Eugenio l’amico suo: ravvisava in esso le più belle doti dell’animo, le affezioni più gentili, e tutto quel vivo interesse che [115] desta sempre la virtù sfortunata: oltredichè Irene più non era; giurato egli aveva sul freddo cadavere di lei non esser mai d’altre sulla terra, ed il figliuolo d’Eutimia non compreso in questo giuramento, era il solo che amar da lui si poteva senza tema di violarla. Demetrio d’altronde corrispondea vivamente a tanta tenerezza: ad essa donava tutti quei momenti che liberi gli restavano dalle cure di guerra; ed in questi amichevoli trattenimenti la perduta Olimpia era costantemente l’oggetto de’ loro discorsi.
Un giorno in cui Demetrio, più forse abbattuto del solito, solo sedeva nella sua tenda; lieto in sembianza, e come quei che apportatore ne viene di felice novella, a lui comparve il giovine Eugenio: fattosegli accanto, e stretto per mano lo sventurato Capo de’ Suliotti, esclamò. «Amico! non abbandonarti più a lungo a questa angoscia crudele: giunto è forse il momento in che io restituirti posso la pace, e la tranquilla serenità dello spirito.» — Demetrio si scosse: balzò in piedi rapidamente, e fissò i suoi sugli occhi di Eugenio, come per assicurarsi ch’ei non mentiva. — «Sì: (soggiunse egli) io voglio ridonarti la pace: ho promesso alla sacra amicizia di adoperarmi costantemente per te, e tu sai [116] che io non manco ai miei giuramenti. — Demetrio! Io non sono mai stato freddo spettatore delle tue pene: non mi sfuggirono, mel credi, le tue lagrime; e la tua confidenza per me, l’abbandono tuo nelle mie braccia là fra gli estinti del villaggio, son tuttora scolpiti nel mio cuore. Io ho sempre bramato raddolcire i tuoi mali: sperai che il tempo, e più i soavi conforti dell’amicizia, rimarginata avrebbero la tua ferita... ma mi sono ingannato: essa è troppo profonda; e senza un rimedio un solo rimedio che io conosco; e voglio a costo della vita procurarti, fra poco condurti potrebbe al sepolcro. Tu, rivestito del supremo comando de’ tuoi concittadini, non puoi di qui allontanarti: io peraltro non sono così necessario alla mia patria, e lo posso. — Demetrio! amami, e fa cuore. Io parto all’imbrunir della notte pel lago di Giannina. Colà, (io lo seppi da un Turco da me guadagnato coll’oro) colà nel serraglio del castello trovasi ora la povera Olimpia: Mouctar sdegnato alle sue prime ripulse, ivi l’ha confinata, riservandosi ad occuparsi di lei al fine della campagna. — Scelerato! Tu più non la rivedrai: non sarà l’infelice contaminata fra le impure tue braccia: tu fremerai di rabbia, ed essa intanto volerà sicura fra quelle del fedel suo!!»
[117]
— «Eugenio! Posso io crederti veramente, (soggiunse allora Demetrio) od è questa una pietosa lusinga per istrapparmi un istante al dolore? M’inganneresti tu forse?»
«No: (rispose) io non mentisco: tu ben devi conoscermi per viver sicuro sulla mia parola. Parto; ed a te dinanzi lo giuro, in faccia al Cielo che testimone è di tutto, io qui vivo non tornerò che con lei: o potrò strapparla alle catene dei Barbari, o perirò io stesso vittima della bell’opera che l’amor tuo ha saputo ispirarmi... ma tolga il Cielo l’augurio funesto! Già tutto è disposto per un esito felice. Non manca se non che tu mi consegni una lettera, la quale informando Olimpia del nostro progetto, e di me che non conosce, mi assicuri altresì della sua confidenza, e de’ suoi sforzi per secondarmi.»
Non così dolci cadono le estive pioggie sulle arse campagne, come soave discese nell’oppresso cuore di Demetrio la inaspettata novella. Lanciossi egli fra le braccia dell’amico, bagnandolo di quelle lagrime che la più viva riconoscenza chiamogli in copia sul ciglio: rinvigorir parvero allora le abbattute sue facoltà, e tornò il riso finalmente a brillare sulle sue labbra. Pure sembrava non potersi persuadere della promessagli felicità: [118] vedeva che troppi ostacoli dovevano in prima superarsi; e che quando per Eugenio altra difficoltà non vi fosse che quella di oltrepassar sicuro la linea del blocco, grande era questa sola per rendere inutile la impresa. Il giovine generoso dileguar cercò questi dubbii: esposegli minutamente tutti i dettagli dell’ardito progetto, ed esortollo a confidare nella giustizia della causa, e nel favore del Cielo. — Comparve frattanto la notte: Demetrio accompagnar volle per qualche tratto di strada il raro amico suo: salirono a cavallo, ed in silenzio si allontanarono dalle tende.
— Battuti i Turchi e sconfitti nella grande giornata del villaggio, deposto avevano ogni pensiero di attacco novello: che anzi, conoscendo che l’unico mezzo d’impossessarsi di quelle rupi formidabili era nel ridurre i Suliotti ad arrendersi per fame, risoluto avevano di circondarli all’intorno, d’impedir loro ogni comunicazione coll’esterno, e di tenerli così rigorosamente bloccati. Mouctar destinato era da suo padre a comandar sulla linea le forze ottomane: queste ingrossavano ogni giorno per la sopravvenienza di nuove reclute, ed ivasi così preparando la perdita dei generosi figli della Selleide.
[119]
Giunti al fine delle gole, Demetrio ed Eugenio a scuoprir cominciarono in distanza i fuochi del campo nemico: udirono pure confusamente da lungi le voci di alcune sentinelle; ed il figliuolo d’Eutimia raccapricciò d’orrore in pensando che fra quelle avventurarsi doveva l’amico. Qui fu dove Eugenio non permise che altri il seguisse; la difficoltà dell’impresa era somma, ed evitarsi doveva il più leggero romore. Più lagrime di tenerezza accompagnarono il loro addio che fu commovente oltre modo: si abbracciarono scambievolmente: e reciproca fu chiesta e data la promessa di un pronto ritorno: il giovine generoso si allontanò dalle rupi native; e Demetrio ritornò lentamente alle tende.
Eugenio vestito di abiti turchi, montava un cavallo tolto ai Barbari nella giornata del villaggio: conosceva perfettamente bene il linguaggio nemico, ed ognuno creduto l’avrebbe Maomettano. Con questi vantaggi il magnanimo Suliotto non paventò di esporsi al pericolo: che anzi seco stesso gratulandosi della nobile opera che intraprendeva, seguì lieto a percorrere la strada. Placida era la notte: ma non ancor sorta la luna, e regnava dovunque la più grande oscurità. Per trarsi più facilmente d’impaccio, scelto egli aveva un [120] sentiero scabroso e dirupato, l’unico forse che meno rigidamente guardato era dai Turchi: ma vicino al confine del blocco, allorquando in mezzo al generale silenzio delle cose lusingavasi del più felice successo, fu sorpreso da un primo moto di terrore in udendo da sè non lungi alcune voci indistinte. — Era quella un’orda nemica, che destinata ad invigilare sui posti di guardia, fermata erasi dentro un piccolo casolare. Al romore di un cavallo che attraversar sembrava francamente la strada, il capo de’ Barbari chiamò alle armi, ed addimandò all’istante chi fosse quei che passava: e già preparavasi a far fuoco sull’incognito, allorchè questi, senza sgomentarsi, risposegli in Turco con voce bassa, ma risoluta. «Taci, disgraziato! parto dal quartier generale di Mouctar per una segreta spedizione.». — Il Maomettano uso a tremare al solo nome de’ suoi padroni, appagato di questa risposta tornò tranquillamente al casolare; ed Eugenio a spron battuto giunse senza altro ostacolo ad oltrepassare la linea.
[121]
L’Orfana frattanto iva lentamente cedendo alla piena dei mali che l’opprimevano. Il soggiorno del castello, la vista di quegli odiati luoghi mille volte testimoni delle sue lagrime, eranle di un peso insoffribile: le mura istesse, e le dorate pareti, destavanle le idee più funeste, e tutto in tutta la sua forza ravvisava all’intorno il luttuoso aspetto della schiavitù. Riguardando sovente dall’alto degli appartamenti sul lago soggetto, misuravane ad un colpo tutta la estensione; e percorreva quindi la grande distanza che frapponevasi da quel carcere alla cara terra degli avi suoi. Ritraevasi [122] allora l’infelice da una vista che troppo deprimevala; ma non da quella ritraevasi, che seguìta da lunga schiera di dolorosi pensieri: essi non l’abbandonavano un istante; e, quasi goder potessero nel tormentarla, in mille guise diverse le si moltiplicavano in mente.
Conforto unico era ad essa il dolce trattamento che riceveva da Selim, capo degli Eunuchi del serraglio. Costui si diportava in maniera tutta diversa da quella che a’ suoi pari si conveniva: studiavasi di alleggerire alla sventurata il peso della schiavitù; e con parole di consolazione, e con atti di officiosa urbanità, lasciava in ogni incontro travedere il più grande interesse a vantaggio di lei.
Una volta che Olimpia, ringraziandolo di tanta pietà, parve meravigliarsi come in un uomo, a sì vile impiego destinato, generosi modi apparissero. «Signora! voi non mi conoscete: (le rispose Selim). Una fatale sventura che mi pose fanciullo fra gli schiavi d’Alì, mi ha ora in questo grado collocato: del resto io non nacqui figlio dei Turchi, nè straniero nome è la compassione per me. Anch’io ho cuore ed affetti: anch’io... sappiatelo alfine; ho nelle vene il sangue dei Greci.»
[123]
— Olimpia rabbrividì: si fece indietro d’un passo, e fissandolo in volto, «che? (disse) voi? voi Greco... e vestite l’abito degli infedeli?»
— «Ah, signora! (riprese egli) non aggiungete l’amarezza de’ vostri rimproveri a quella del rimorso che mi lacera. Fanciullo di due lustri, fui tolto per sempre alla mia famiglia: si volle indebolirmi lo spirito per forza di continue minaccie: fui consegnato al carnefice... misero! che far doveva in faccia a mille tormenti?»
— «Morire» (rispose Olimpia severamente).
— «È vero: pur troppo è questa la mia colpa; la conosco, l’abborro. Oh, dato mi fosse degnamente espiarla! involato a queste mura contaminate di delitti, oh, potess’io purificarmi con tutto il mio sangue, all’ombra santa del perdono di Dio!!»
Tremante era la voce di Selim, ed i suoi occhi bagnati di lagrime; quelli di Olimpia rivolti erano al suolo.
— «Ma intanto (riprese egli) io qui schiavo, come voi siete, di vano desiderio mi pasco; non mi è dato liberarvi; offrirvi non posso che una sterile compassione... vorrete sdegnarla questa unica cosa che io m’abbia degna di voi?... potete odiarmi?
[124]
— «No, vi compiango: (rispose Olimpia con un sospiro). Veggo che siete anche più infelice di me.»
Dopo ciò si separarono: ma da quel giorno in poi Selim addivenne per l’Orfana il solo nel serraglio che meritasse la sua confidenza: narrogli la commovente storia delle sue pene: ed egli in ricompensa, poichè non altro poteva, cercando sempre prevenire i suoi desiderj ed appagarli, si volse costantemente a raddolcirle la trista amarezza della schiavitù. — Ma intanto le labbra di lei languide e scolorate più non aprivansi che al sospiro: umide sempre erano le sue ciglia di pianto: delirante talora lo spirito. Sventurata! Nelle più tarde ore della notte, allorquando in mezzo al generale silenzio delle cose anche la pallida luna tramonta, e le cadenti stelle invitano al sonno, sola aggiravasi per le vuote sale, Demetrio invocando coll’acuto accento del dolore... — ma il solo nome ripetevane l’eco sommessamente, ed egli non appariva a confortarla giammai.
In questa guisa dileguavansi poco a poco nel castello del lago la fiorente giovinezza e la salute di Olimpia: vedeva essa non lungi la fine della vita, ed invece di rifuggirne l’idea, anelarla sembrava piuttosto: la sola spoglia mortale [125] così lasciato avrebbe allo scelerato carnefice dei Suliotti; mentre lo spirito, leggero come fiamma che in alto tende a sollevarsi, riunito sarebbesi ai perduti oggetti della sua tenerezza. Piena di questa dolce speranza, la sola omai che alimentar poteva nel cuore, non trascurava l’infelice di portarsi ogni sera al giardino del serraglio: ivi collo sguardo immobile sulle lontane cime del Picco di Kunghi, passava gl’istanti meno amari di sua vita... Orfana infelicissima!!! Anch’essi fra poco sparir doveano come il lampo.
Un giorno, oppressa forse più che mai dalle sue dolorose rimembranze, affrettossi a ricorrere all’usato mezzo di conforto, e discese al giardino. — Vergeva il Sole al tramonto: limpidissimo era il cielo, e l’aure appena spiravano. — Il primo pensiero di Olimpia fu quello di assidersi sul sedile di marmo a piè della grande inferriata: nell’atteggiamento del dolore, i suoi occhi pregni di lagrime riguardavano languidamente quel lontano punto sì noto e sì caro; mentre gli ultimi raggi dell’astro cadente placidi rifletteano sulla tranquilla faccia del lago. Tutto era silenzio in quella remota parte dell’isola: ed i sospiri dell’infelice i soli erano ad interromperlo; allorquando ad udir cominciossi in lontano [126] un confuso romore simile al gemito d’onda percossa da’ remi. Immersa Olimpia nel suo dolore, non vi abbadò sulle prime: ma allorchè quello fecesi poco a poco più distinto, rivolse naturalmente lo sguardo al loco donde partiva. Era di fatto un giovine Turco che, montato su piccola barca da pescatore, sembrava avvicinarsele: nobile era il suo portamento; ed una folta e negra barba nascondea parte de’ suoi lineamenti oltremodo espressivi. L’Orfana che fino allora veduto non avea legno alcuno su quelle acque, attonita rimase all’inconsiderato ardire del giovine pescatore, che forse caro pagato avrebbe il fio della colpa, qualora le guardie del castello avessero potuto scoprirlo. Egli frattanto inoltrato erasi fin sotto la inferriata del giardino: e già Olimpia avvertiva l’imprudente del pericolo che soprastavagli, allorchè lo sconosciuto, guardatosi prima cautamente d’intorno, sommessamente in greco le disse: — «Signora! se lecito mi fosse interrogarvi, potrei chiedere se vive tuttora nel serraglio Olimpia, la giovine schiava Suliotta?»
L’Orfana si turbò. — «A che mi fate una tale domanda?
— «Nulla, ve l’assicuro, null’altro mi muove che una generosa compassione. — Vive forse tuttora?
[127]
— «Sì: vive, ed io son l’infelice. Ma che vi cale di me?...»
— «Oh divina Providenza!!! (sclamò l’incognito). Se dunque voi siete la figliuola d’Evantìa, rapita alle braccia di Demetrio nella grande giornata del villaggio, confortatevi, o sventurata! v’ha chi veglia sulla vostra salvezza.»
— «Che parlate voi?» (replicò l’Orfana sbigottita).
— «La verità. — Ditemi: havvi fra i custodi del serraglio chi per voi s’interessi? Potreste fidarvi d’alcuno?
— «Selim, il capo degli Eunuchi; egli greco è d’origine, è qui il solo che mi compianga. Ma voi chi siete? che pensate tentare?... — Tutto: non conoscete forse il cuore de’ Suliotti? Olimpia, addio! Se propizio n’è il Cielo; se domani aver potrete un foglio dell’amante vostro, ove tutto vi sarà svelato, trovatevi qui sull’imbrunir della notte: io venni a liberarvi.»
Ciò detto, cautamente allontanandosi, poco a poco disparve. — Olimpia sopraffatta dalla meraviglia rimase per qualche istante fuori di sè: ondeggiava fra mille incerti dubbii sull’incognito misterioso che promesso aveale libertà; e siccome avviene sovente in cose desiderate sì, ma non isperate giammai, prestar non sapea fede a’ suoi occhi medesimi. [128] Riprese animo finalmente: lanciò furtivo uno sguardo all’intorno, per accertarsi se alcuno avesse potuto osservarla; poi, lasciando il giardino, si ritirò nel silenzio de’ suoi appartamenti.
[129]
Prima di esporsi al difficile rapimento di Olimpia, Eugenio stabilito avea di bene accertarsi se essa viveva, onde inutile non riuscisse il generoso tentativo. A tal uopo, per forza d’oro, anima e vita di un paese in cui tutto è venale, noleggiato avendo barca e vesti da pescatore, inoltrato erasi fin sotto il giardino del serraglio, onde, con istudiato pretesto, chieder notizie di Olimpia a colei ch’egli spesso da lungi veduto aveva sedente a piè della grande inferriata: volle la Providenza che nella stessa Orfana ei s’incontrasse: ed informato da questa, e della condizione e del nome del pietoso Selim, ritirato erasi cautamente, maturando nel pensiero l’ardito progetto, ed i mezzi più opportuni ad eseguirlo.
[130]
All’apparire pertanto del mattino novello, Eugenio rivestì gli stessi mentiti abiti co’ quali allontanato giù erasi dalle native montagne, e si presentò francamente al castello, annunziandosi siccome spedito dal quartiere generale di Mouctar. Calato il ponte, ed introdottovi, addimandò tosto del capo degli Eunuchi Selim, cui disse di dover parlare segretamente. Racchiusi ambedue in camera appartata, il custode del serraglio che già disponevasi ad udire dal messaggero gli ordini del suo padrone, rimase assai meravigliato, quando offrir si vide una borsa accompagnata da queste parole sommessamente profferite.
— «Se io parlar dovessi ad un Turco, temerei, ed a ragione, che poco fosse l’oro che qui si chiude; ma poichè mi sono ad uomo rivolto che nacque figlio dei Greci, veggo che è forse anche troppo, e che tutto mi lice sperare dal nobile carattere della sua nazione. Generoso Selim! la mia vita, la pace di due sventurati, sono nelle vostre mani. (L’Eunuco guardò l’incognito da capo a piedi). Tutto peraltro mi è noto: so quanto vi commuova la infelice sorte di Olimpia: so ch’essa ed io qui di voi solo possiamo fidarci. (Turbossi Selim, e tentò replicare; Eugenio l’interruppe). Udite. — Un sentimento di tenera amicizia mi [131] persuase a venire dalla Selleide nel castello del lago, e, sprezzando ogni pericolo, a ricondurre Olimpia al suo amante, o morire... avete così conosciuto che io son Greco, e che finte sono le vesti che mi coprono. Ora siccome senza l’opera vostra è inutile ogni mio tentativo, è per questo ch’io vi prego d’ajuto. Non vi spaventi l’avvenire: io vi prometto mezzi tali da porvi in salvo, e garantirvi dalla pena barbaramente dovuta alla pietosa vostra condiscendenza.»
Qui tacque: e Selim, fissatolo in volto nuovamente, appressollo più davvicino.
— «Signore! (gli disse): il vostro coraggio, la interessante vostra fisonomia, e più le generose parole che m’indirizzaste dileguano ogni mio dubbio: voi esser non potete un vile emissario che a tentar venga la mia fedeltà coll’oggetto di perdermi.»
— «No: (risposegli Eugenio dignitosamente) ve lo giuro per il Dio de’ miei padri; e voi sapete quanto prezzano i Greci i loro giuramenti.» (Qui gli porse la mano: Selim la strinse nella sua):
— «Ebbene: prometto favorir questa fuga, ma ad un patto: anch’io verrò in salvo con voi. Poichè noti vi sono i miei natali, e la involontaria mia colpa, sappiatene pure i rimorsi. — Oh! quante [132] volte ho desiderato espiarla versando il mio sangue per la patria!! Infelice!!!... nacqui anch’io Suliotto.»
— «Lo veggo: la nobile vostra risoluzione chiaramente il palesa. Noi partiremo insieme: ed or che la guerra arde nella Selleide, racquistar potrete coll’armi la fama perduta.»
— «Lo voglia il Cielo! — Ma Olimpia intanto?...
— «Jeri la vidi sotto la inferriata del giardino, ove su piccola barca mi era condotto: poche ed oscure parole mi permise indirizzarle il breve istante che mi trattenni: ma questo foglio che le darete potrà tutto svelarle. Intanto voi con essa sull’imbrunir della notte vi troverete nel giardino: in quella parte ove più basse sono le mura condurrò io la mia barca; e questa breve scala di corda servirà per discendervi. — Basta, per ora io m’allontano dal castello: e voi, per giustificare il nostro abboccamento, fingerete aver ricevuto per mio mezzo un qualche ordine di Mouctar. Prudenza vi raccomando, e sollecitudine.»
— «Fidatevi di me. Addio!»
— «Sì: oggi sull’imbrunir della notte.»
Ciò detto, Eugenio, abbandonò il castello, entrò nella barca che lo attendeva [133] per tragittarlo alla riva del lago: quivi giunto riprese la strada di terra, fingendo ricondursi al quartier generale dei Turchi.
Selim intanto rientrato nel serraglio, portossi agli appartamenti dell’Orfana, che sbigottita ancora per l’accaduto del giorno innanzi, sedea mesta e pensosa. — «Finalmente (le disse) mi è pur dato giovarvi: posso io stesso recarvi una lieta novella! Leggete!» — Olimpia prese quel foglio palpitando: l’aperse, e trovollo concepito in questi termini.
«Olimpia!
«La celeste Providenza che sempre protegge gli sventurati non si è scordata di noi: essa mi ha fatto sperare di racquistarti; e superando tutti gli ostacoli, ha rinvenuto il mezzo di farti giungere questo mio foglio fin dentro il carcere tuo. Un amico, un raro amico, che io amerò teco fino all’ultimo mio respiro, è quegli che tutto sprezzando viene a liberarti. Celato sotto l’abito degli infedeli onde meglio diminuire la difficoltà dell’impresa, tutto ti farà noto appena sarai fuori del castello: nascosta allora anche tu sotto vesti mentite, ritornerai finalmente alle mie braccia. Olimpia mia! Io non istarò quivi a narrarti tutte le pene da me sofferte; desse sono [134] innumerabili, infinite, ed io darne non posso la più debole immagine: il mio cuore per altro di cui tu conosci i palpiti più segreti, agitandosi un giorno più fortemente incontro al tuo, sarà l’interprete verace de’ miei lunghi travagli. Oh! quanto è mai lusinghiera la felicità che ne attende! Ah, possa almeno essere stabile una volta!... ma sì: lo spero. Quella forza superiore che mi ha sempre preservato fra i nemici da una morte mille volte cercata, quella stessa che sembra avermi lasciato la vita per dividerla teco, coprirà pure di pietoso velo la tua fuga. Olimpia mia!... abbandonati a sì bella speranza: il mio n’è il più fausto presentimento.
«Mouctar, l’infame assassino de’ nostri confratelli, cinge tuttora di stretto blocco le nostre montagne: ma il contagio che a serpeggiar comincia tra le file nemiche, privando il superbo Maomettano della necessaria energia, sarà forse il nostro più tremendo alleato. Ad ogni modo le rupi di Suli sono ben formidabili: e gl’Infedeli conoscono d’assai quanto possano i Greci adunati sotto la insegna della Croce.
«Olimpia vieni! il fedel tuo ti attende con tutta la impazienza dell’amore. Non ti spaventi il pericolo: fa cuore! affidati al prudente coraggio dell’amico, e sii [135] certa della tua liberazione! Ah, una volta che tu mi sarai restituita, forza umana non potrà più svellerti da me!!
Demetrio.»
— «Ebbene (le disse allora Selim); voi questa sera partirete; ed abbandonando questo carcere infame, anch’io vi seguirò nella fuga.»
L’Orfana non poteva rispondergli; tanta era la forza dell’inaspettato piacere, tanta l’agitazione dell’animo suo. Onde lasciarle libero campo a ricomporsi, Selim da lei si licenziò. — «Addio, dunque; mi troverete al giardino sull’imbrunir della notte.»
[136]
Rimasta sola, l’Orfana non ancor persuasa di tanta felicità, tornò a rileggere il foglio dell’amante: lo baciò quindi con entusiasmo, e vivamente esclamò: — «Oh Dio! Non è dunque un sogno: Demetrio stesso è quegli che mi scrive: queste cifre sì conosciute e sì care vengono a rendermi alfine la speranza e la vita!» Ciò detto le lagrime della gioja larga strada si aprirono sulle sue guance, scorrendo così dolci per lei, come il fine della sventura al principio della felicità. — Ogni volta che l’orologio del castello coi misurati colpi le ore accennava che fuggivano «ed anche una di meno: (esclamava Olimpia): poco ancora, e Demetrio mi rivedrà. Dio [137] immortale che presiedi ai destini degli uomini, volgiti dall’alto delle sfere a questa infelice che è pur figlia tua! Deluse non restino le mie speranze! proteggi la mia fuga! ed involami per sempre a questo carcere odiato, ove ogni giorno profanasi dagli Infedeli il Nome tuo!»
Finalmente la estiva vampa diurna lasciato avea poco a poco di sferzare la terra: il Sole era già sceso al tramonto. Con gioja vide Olimpia il ritorno della notte: uscendo da’ suoi appartamenti, gittò un ultimo sguardo su quelle superbe pareti testimonj di tante sue lagrime, e tacita e sola scese palpitando al giardino. Quivi attendevala Selim: appena vi giunse, egli incontrolla sorridendo, ed ambedue ad aspettar si posero a piè della grande inferriata. Oh, quanto lunghi sono gl’istanti per chi attende con impazienza un qualche bene! Ad ogni momento la figliuola d’Evantìa rivolgeva gli sguardi sul lago: ed il più debile fiotto dell’onda, il più lieve venticello, pareva dovesse annunziarle la barca liberatrice.
S’udì finalmente l’agitarsi del remo che appressavasi; ed al chiarore della luna riconobbe l’Orfana il generoso amico di Demetrio. Ad un segno di questi, cui rispose Selim, fermossi la barca sotto [138] il giardino. La scala di corda raccomandata prima nell’interno alle grosse spranghe della inferriata, e gittata quindi all’infuori, additò il mezzo di scendere: ajutata da Selim, Olimpia vi si appese, salendo fin sopra al muro, ove aspettò ch’egli la raggiungesse: discendendolo quindi all’esterno, giunsero l’un dopo l’altra a toccare la barca. Il primo moto della gratitudine di lei fu quello di stringere vivamente la salvatrice mano di Eugenio: le sue ginocchia poi si piegarono: i suoi occhi si volsero al Cielo, e «grazie o Numi di pietà! (esclamò sommessamente). Libera alfine son io dai vili lacci della schiavitù; ritorno pure a’ tuoi altari, alla sacra patria degli avi miei!»
Eugenio frattanto a forza di remo allontanato erasi da quella remota parte dell’isola: tutto pareva assicurato; se non che rimaneva peranco buon tratto di via, ed un vento sciroccale levatosi all’improvviso, perigliosa rendeva la navigazione dell’alto lago. La barca pertanto dei fuggitivi radeva leggermente la costa dell’isola, ove l’onda era più cheta d’assai: e già il fragile legno oltrepassava non visto sotto il cannone del forte, allorquando una guardia, che fumando stavasi seduta sui baluardi, lo scoperse. — «Olà: chi siete?» (gridò minacciosa). — «Pescatori» [139] (risposegli Eugenio in lingua turca, con voce franca e risoluta: Olimpia agghiacciava di spavento). — «Allontanati dunque di qui: a che radi le mura? — «Mi vi spinge il vento; ma ormai l’ho guadagnato, e m’allontano.»
Parve il Maomettano appagato di questa risposta perchè nulla più soggiunse: ritornò tranquillamente alla sua pipa, e la barca senza altro ostacolo giunse felicemente alla riva. Sbarcati che furono, Olimpia vestita degli abiti turchi che Eugenio aveale procurati onde patria e sesso mentisse, salì insieme con esso e con Selim, sui cavalli che rinvennero presso alcuni salci, ai quali Eugenio annodati li aveva nella sera medesima, poco prima di portarsi per la concertata fuga sotto il giardino del serraglio. A spron battuto si allontanarono dalle vicinanze del lago: e ad evitare ogni altro pericolo, percorsero strade scoscese e deserte durante tutto il resto della notte. Fu in mezzo al silenzio di questo viaggio che Eugenio narrò all’Orfana tutta la storia dell’accaduto, incominciando dall’istante in cui egli, piangente sul freddo cadavere d’Irene, unito erasi a Demetrio con i più saldi vincoli di amichevole affetto. Pianse Olimpia di tenerezza e di gratitudine, al racconto del [140] suo liberatore: e l’anima sua, assuefatta a calcolare tutti i gradi della sventura, conobbe anche allora che non può essere vero amico di un infelice se non colui che egualmente soggiacque ad avversa fortuna.
La notte frattanto era al suo termine; e già l’aurora spargeva di rosea luce le immense vie del firmamento, allorchè la figliuola d’Evantìa coi primi raggi del Sole nascente scoperse in lontano le indorate cime delle rupi native. Quale straordinaria commozione fu in quell’istante la sua! Lagrime di gioja cadevano in copia sulle pallide sue guance: ed il sorriso brillando sulle sue labbra, con dolce contrasto opponevasi a quell’aria di melanconia che segnava da lungo tempo ogni traccia del suo volto. I generosi destrieri secondavano l’ardente desiderio de’ giovani Suliotti, divorando col veloce corso la via: scoprivansi omai vicinissime le minori rupi della Selleide: e di già apparecchiavasi Eugenio ad internarsi in una scoscesa gola incognita forse ai nemici, allorchè udir sembrogli in distanza il romore del cannone. Affrettarono il passo anche più, e videro finalmente attraverso una densa nube di fumo che un fiero combattimento impegnato erasi fra i Greci ed i Turchi. Non giunse nuova ad Olimpia questa disgrazia: [141] nella giovane sua età passato avea forse un intero giorno tranquillo? Non doveva dunque meravigliarsi; l’animo suo era da lungo tempo assuefatto a soffrire: ma in un momento in cui lusingata erasi di respirar nuova vita; allorquando, rapita alla schiavitù, ritornar credeva alle braccia del fedel suo... sentì certamente ben grave il peso della propria disgrazia.
Vedendo Eugenio che impossibile saria stato tradurre l’infelice alle gole nel calore del combattimento, risolvette collocarla in luogo sicuro, finchè, cessato il tumulto delle armi, Demetrio medesimo avesse potuto più opportunamente ricondurla alle rupi. Divergendo pertanto dal già preso cammino, giunsero sotto la rocca di S. Veneranda, primo baluardo della Selleide, fortissima posizione difesa da imponente presidio. Ad un noto segno ch’egli fece, le scôlte calarono il ponte, e tutti vi entrarono. Eugenio manifestò col proprio il nome di Selim, e quello della travestita donzella: raccomandolla ai capi del presidio siccome sposa di Demetrio; e dopo averle promesso un pronto ritorno appena finita, la pugna, Selim ed egli indossarono greche vestimenta, ed a spron battuto corsero a prender parte alla mischia.
[142]
Fin dalla giornata memorabile del villaggio, quando con eterna vergogna sulle proprie file ripiegarono in faccia alla bandiera della Croce, i Turchi giurato aveano nuovamente l’esterminio totale de’ Cristiani della Selleide. A fine pertanto di guadagnare una volta quelle rupi formidabili di cui non v’era pietra che macchiata non fosse di sangue infedele, Mouctar le stringeva di blocco rigoroso, ingrossandone la linea coi ragguardevoli contingenti di truppe che suo padre ogni giorno spedivagli dalla capitale dell’Epiro. La viltà di quei Maomettani incapaci di aperta forza, ed avvezzi ad operare soltanto con mezzi indiretti, aspettava così tranquillamente in sicuro la necessaria caduta di Suli: numeravansi [143] con tripudio i giorni che passavano; ed avrebbesi pur voluto che il tempo accelerato avesse il proprio corso, onde più presto pascere i feroci sguardi sulle vittime infelici, che consunte dalla fame attendevansi al campo a deporre le armi, e ad implorare indarno dai vincitori pietà. Quale immensa carneficina sarebbesi allor fatta degli inermi! Quante piramidi di umane teste offerte all’onore del culto di Maometto!! Quali smodate grida di barbara gioja innalzato avrebbero, lordi di sangue, gl’impuri settatori del fanatismo!!!
Ma il contagio che, nato dalle mefitiche esalazioni delle paludi e dai fetidi miasmi delle stivate orde dei Barbari sotto la sferza di un sole cocente, iva poco a poco mietendo l’esercito Infedele, parve diminuire sì nobili speranze. La mano dell’Onnipotente aggravavasi sui Turchi ogni dì più minacciosa. Una ardente febbre, ed una sete inestinguibile, spingevano i soldati ad eccessi di furore. Alcuni di essi ammorzar tentando il fuoco che loro serpeggiava nelle vene, gittavansi disperati entro le tiepide paludi, e vi si annegavano. Altri cui violento spasmo lacerava le viscere, giaceano bocconi sull’arida sabbia: quivi in mille guise dibattendosi, e franti i negri buboni della peste, perivano miseramente [144] in mezzo ad orribili grida, ed al sangue che denso sgorgava in copia dalle piaghe. Altri, traendo a forza un affannoso respiro, morivano soffogati: ed altri più coraggiosi, cui il contagio allora assaliva, prevenivano tanti mali col darsi la morte!... O divina Giustizia! come tremenda punisci chi fra la strage ed il sangue rovesciar tenta gli altari dell’Onnipotente!!
Avvilito per sì grave sciagura che minacciava la totale ruina dell’esercito, Mouctar risolvevasi a togliere il blocco, e ad allontanarsi dal teatro della morte, riserbando a tempi più opportuni la vendetta ed il giurato sterminio dei Suliotti: e già d’ira pieno e di dispetto preparavasi a partire, allorquando l’aria che fino allora stata era irrespirabile, temperassi ad un tratto, e fresca addivenne. Il Picco di Kunghi allontanato avea dalle sue cime un gruppo di dense nubi, che stendendosi minacciose sulle minori rupi, e sul campo degli Infedeli, tutto coprirono il cielo: s’udì tremendo il fragore del tuono; scoppiò sanguigna la folgore, e rovesci di pioggia precipitarono sulla terra, durando un intero giorno sempre dirotti ed eguali. Strariparono i torrenti: e seco trascinando i cadaveri degli estinti, tutto dilavarono quell’infetto terreno. Cedettero finalmente [145] le acque: spinte da un vento impetuoso sgombrarono le nubi dall’aria purificata, ed il contagio disparve.
In questo frattempo giunto era da Giannina al campo de’ Turchi un ragguardevole rinforzo condottovi da Velì secondo figlio del Satrapa: surrogato al fratello nel comando dell’esercito, aveva ordine dal padre di conquistare ad ogni modo la Selleide, ed esterminare coloro pe’ quali sofferta erasi tanta sciagura. Comandò pertanto ai Dervis di preparare colla preghiera il generale attacco dei nemici nel giorno seguente; ed a tal uopo si offrì il courban, ossia sacrifizio di cinquanta pecore nere, ad Azraele, Genio dei sepolcri, succeduto nella orientale mitologia al Mercurio condottiero delle anime.
«L’onore delle vostre armi (esclamava Velì animando i soldati) vi chiama a quelle formidabili rupi tenute finora dagli schiavi, e che create furono per voi. Su, dunque: si vada a conquistarle, e si uccidano coloro che ardirono opporvisi, e cagionarvi tanti mali: non si rispetti nè sesso, nè età. La vittoria è sicura: Allàh ve l’addita dall’alto di quelle montagne: correte ad ottenerla!»
[146]
Il fanatismo de’ Maomettani si scosse, ed i superstiziosi Dervis non cessarono di mantenerlo. Ognuno preparò le proprie armi, e si dispose al Sole novello pel generale attacco su tutti i punti nemici.
[147]
Non appena pertanto la prima alba del mattino usciva in cielo ad impallidire le stelle, che le orde de’ Barbari, marciando in silenzio, si appressarono alle gole. I posti avanzati de’ Greci furono i primi ad essere attaccati; alle replicate scariche dei fucili si sparse il grido dell’allarme; ed accorsa tutta la truppa de’ Suliotti: il combattimento si fece generale. Tre volte i nemici sforzar tentarono le strette, e tre volte respinti furono dai valorosi discendenti degli antichi Selleni. Finalmente un grosso corpo di assoldati maomettani Albanesi, i meno vili fra i Barbari, decidere volendo ad onore della Mezzaluna la incerta vittoria, serrarono le loro file; e così ordinati [148] marciarono in avanti, risoluti di conquistar Suli, o perire. Un parco di volante artiglieria da campagna che li precedeva apriva loro la strada; mentre una selva di bajonette qualunque ostacolo allontanava dai lati. Gl’intrepidi montanari diretti dal generoso Demetrio, prodigii faceano di valore: ma i nemici moltiplicavansi ovunque; e se cento di essi cadeano, altri cento giungean subito a rimpiazzare gli estinti. Cedettero i Greci finalmente al numero dieci volte maggiore: e lo stendardo di Maometto lordò per la prima volta l’inviolato terreno sacro alla Croce.
Fu in questo momento tremendo che Selim ed Eugenio giunsero di tutto corso alle gole, dalla fortezza di S. Veneranda. Gli occhi di quest’ultimo cercarono più volte l’amico in mezzo al bollore della mischia, ma non mai vennegli fatto di rivederlo: avrebbe voluto narrargli la fuga di Olimpia, ed il sicuro loco ove trovavasi... infelice! anche questo unico conforto mancargli doveva in tanta sciagura.
Frattanto il prolungato urlare de’ Barbari, che da un eco all’altro delle rupi diffondevasi minaccioso, ed il cannone che udivasi tuonare ognor più, annunziavano alla Selleide il giorno estremo delle battaglie. Il corpo degli Albanesi [149] maomettani erasi già impadronito degli interni posti fortificati; il resto dell’armata nemica chiudeva l’uscita delle gole, e gli sventurati Greci si stavano in mezzo a due fuochi. Inevitabile ormai erane la perdita. Combattevano essi con quel valore di cui sempre sono capaci uomini risoluti per la difesa dell’altare e della patria: ma a che pro? Una ostinata mitraglia consumavali poco a poco, piovendo su loro in un fondo basso e scosceso, dove i piccoli parchi non potevano agire. Tuonavano è vero da lungi i cannoni di S. Veneranda; ma i Turchi sicuri omai della vittoria gli disprezzavano, e trincerati fra i burroni, tutte le forze volgevano alla conquista delle rupi. Miseri Greci! desolata Selleide!! Le insegne nemiche, inalberate sulle tue montagne, sventolano superbe, e t’insultano: la morte spargesi ovunque: ed il grido della disperazione sollevandosi prolungato dal centro de’ figli tuoi, soave scende al cuore dei Barbari, siccome pegno sicuro della sanguinosa vittoria!
— Un bianco lino levato in alto sulla punta di una greca bajonetta annunziò che gl’infelici capitolavano. Tosto il cannone si tacque: le orde nemiche si adunarono in folla intorno ai vinti, e, per ordine di Velì, le trattative incominciarono.
[150]
Condiscendevano i pochi superstiti Greci a cedere una patria che più figli non avea per di difenderla: volevano peraltro bastanti viveri fino a Parga, ove avrebbero avuto un asilo presso i loro fratelli di religione. Acconsentirono i Turchi alla dimanda, e la capitolazione fu conclusa col reciproco giuramento. — Incauti! non avevano essi mille volte conosciuta la fede dei Barbari?
Ben fatto avea Demetrio a non fidarsi di loro. Sdegnando egli di vilmente sottoporsi ad una ingannevole trattativa, insieme coi più valorosi, avanti che questa cominciasse, aperta erasi a viva forza una via, ove un minor numero di Barbari se gli opponea. Allontanavasi dalla patria cadente: ma armato tuttora ritiravasi a Parga, colla speranza almeno di riserbarsele co’ suoi in tempi meno infelici.
Frattanto gli sventurati figli della Selleide, religiosi osservatori del giuramento, emigravano piangendo dalla cara terra natìa: e già oltrepassavano avviliti le strette gole delle loro montagne, allorquando i Barbari, che vi si erano appiattati, contro ogni divino ed umano diritto, d’ogni parte piombarono sopra gl’inermi come tigri affamate. Quale orrendo spettacolo! quale indicibile strazio fecesi allora dell’umanità! I voti del [151] pietoso Selim, che mille volte desiderato aveva espiar col sangue la propria colpa, coronati furono da una morte gloriosa. Egli cadde fra i primi: tutti quindi (tranne que’ pochi, ed Eugenio con essi, che scampando dal generale sterminio raggiunsero poi Demetrio entro Parga) tutti perirono fino all’ultimo; ed un fiume di sangue innocente corse spumante attraverso le rupi della Selleide. — Fu questa la luttuosa fine d’un popolo d’eroi sacrificato sotto la scure de’ Barbari! questa la tremenda libazione, che i figli de’ Greci sul sepolcro fecero della spenta lor patria!!
[152]
Racchiusa Olimpia entro la fortezza di S. Veneranda, atterrita dallo strepito delle artiglierie che, tuonando sui baluardi ad intervalli, portar tentavano la morte ai nemici combattenti in mezzo alle gole, giacevasi in preda al dolore, e struggevasi in pianto. Infelice! Immaginavasi Demetrio, ed il suo liberatore, allora allora spiranti nel conflitto: udiva le estreme loro voci: chiamavali a nome altamente; e gelava quindi d’orrore, allorchè sola consideravasi rimasta sulla terra.
Un vecchio Eremita amico dell’estinto Atanasio, e che l’Orfana conosciuto avea nell’eremo della rupe, trovavasi allora ministro del culto nella rôcca. Questo [153] venerando vecchio penetrato dalle sciagure della sventurata, delle quali ella stessa narrata aveagli la storia, addivenuto era l’unico confidente delle pene di lei. Versava egli in quel cuore lacerato il balsamo salutare della Religione: e dolcemente istillandovi la speranza di un più felice avvenire, molcere ne tentava le profonde ferite. La figliuola d’Evantìa, portata per naturale inclinazione ad amare coloro che buoni e virtuosi compatir sembravano i suoi mali, non allontanavasi da lui: in quella barba canuta, ed in quelle ruvide lane, raffigurar pareale la immagine dell’estinto suo zio; e ringraziava la Previdenza, che in lui pure le lasciasse fra tanti affanni un conforto.
Giunse finalmente alla rôcca la funesta notizia della presa di Suli, e della violata capitolazione. — Ah, che taciuta almeno si fosse ad Olimpia!... Ma come era ciò possibile in mezzo alle grida del presidio, che desolato piangea la cara patria perduta? — Il soffio dell’aquilone sublime quercia così non isvelle fin dalle profonde radici, come la novella del generale eccidio dei Suliotti anche le più lievi speranze strappò dal cuore della infelice. Dessa cadde tramortita: ed a ragione dubitato sariasi che cedendo alla violenza de’ mali perduto avesse la [154] vita, se un sospiro che alfine sollevò fortemente il suo seno, mostrato non avesse che tuttora abitava un’anima in quel corpo abbattuta.
«Demetrio mio! (esclamò allora col soffocato accento della desolazione). Demetrio! Demetrio mio!! A che il cielo ne lusingava riunirci? A che un generoso liberatore strapparmi alle catene de’ Barbari, quando io non dovea più rivederti? — Che mai, che farò, sola sulla terra?... dove mi volgerò, sventurata? A tutti sconosciuta, il pane della elemosina alimentar dovrà i pochi giorni della vita che mi restano!... O madre mia! in quale stato crudele geme ora tua figlia! quale orrendo quadro di novelli mali se le appresenta!! dessa è infelice... mille volte infelice: e la disperazione, ultimo colpo della sventura, già già le piomba nel cuore!...
— «Ah! non è questo, (risposele allora il venerando Solitario) non è questo il linguaggio di un’anima religiosa. — Olimpia! un cuore virtuoso come il vostro perder non deve giammai la speranza animatrice della vita. La cieca disperazione è contraria alle massime del culto in cui nasceste: e la Divinità, quella stessa che il più grande sacrificio fece per la umana salvezza, si offende vivamente quando voi discacciar tentate ogni [155] confidenza su lei. Siete afflitta; siete infelice: ma appunto perchè tale, ottener potete un diritto maggiore alla pietà sulla terra, ed alla protezione del Cielo... Confidate, Olimpia, nella Providenza: se questa è un mare da cui ogni giorno attinge conforto la umanità sventurata, è pure inesauribile, e ne avanza anche per voi. Che se Demetrio, vittima del tradimento, è morto sotto le rupi della cara sua patria: se spenti sono coloro a cui vincoli di amicizia e di sangue vi legavano dapprima, dessi tutti vi riguardano ora dall’alto delle stelle. Il fedel vostro, spirito disciolto dalla salma corporea, ed ardente per voi di più nobile amore, non vi abbandona un istante su questo basso esilio in cui, miseri, ci aggiriamo. Nella vostra solitudine, egli, aura leggera ed invisibile vi asciugherà le lagrime del dolore; e implorerà per voi l’assistenza dell’Onnipotente, finchè a Lui piaccia (il che sarà forse fra poco) di porre un termine con la morte ai vostri mali!»
Queste parole che in sè racchiudeano quanto di più soave conforto ha la Religione sul cuore degli uomini, scesero dolcemente in quello di Olimpia, come il candido raggio della luna tra il folto orrore delle foreste. Dessa determinossi a sopportare in pace la propria sciagura, [156] e ad aspettare tranquilla il momento in cui, sciolta dai lacci terreni, riunita sarebbesi a Demetrio per sempre. Quest’ultima idea della morte, che le profetiche parole del Solitario aveano predetto vicina, confortavala oltre modo: e se il suo fisico oppresso dai mali cedeva ad ogni giorno, l’anima invece iva sempre acquistando la calma più pura.
[157]
Frattanto i Maomettani, compiuta nel corso della notte vegnente la orrenda carnificina, della quale il Sole tramontando sdegnò forse vedere la fine, impadronivansi di tutta la Selleide. Un ragguardevole corpo di truppe restava al presidio delle conquistate rupi; mentre l’altra parte dell’esercito ritornava all’indietro per cingere di stretto assedio la fortezza di S. Veneranda, entro cui ancor rimanevano liberi Greci, e nuove vittime da immolarsi.
Sull’ampia riva del romoroso Acheronte (fiume cotanto noto all’antica mitologia) s’erge la inespugnabile rôcca, fabbricata di rozza ma durissima selce: larghe e profonde fosse, al suo piede, [158] difficile oltremodo ne rendono l’assalto; ed una numerosa fila di cannoni sopra i suoi baluardi destinata è a spargere la morte su chi tentasse avvicinarsele. Quattro grandi lati presenta, ognuno dei quali rivolto ad uno de’ venti principali: ed in mezzo ad essi sorge maestoso l’acropolo, torre di grande altezza, in cima a cui ancor temuto sventolava allora il sacro Vessillo della Redenzione.
Era intorno a questo formidabile asilo che i Barbari, fatti più arditi dalla sanguinosa vittoria, si accampavano minacciosi. Sapevano dessi che molto scarseggiavano di vittovaglie i generosi difensori racchiusivi: e così, risparmiandosi il sangue, risoluto aveano di aspettarne sicuri entro un campo trincerato la vicina resa inevitabile.
In tale miseranda situazione era già lungo tempo che gli sventurati Greci soffrivano le privazioni più dure. Vuotate già erano le arche del pubblico frumento: troncato dai nemici il corso delle sorgenti che dal seno delle rupi entravano nella rôcca; e tutto il presidio immerso negli orrori della fame e della sete. Ad estenuare sempre più gl’infelici Cristiani, i Barbari ogni giorno chiamavangli sui baluardi con nuove scaramuccie: sempre varii attacchi fingeano su punti diversi per instancarli; ed allorquando la notte [159] avvicinavasi, ritornavano al loro campo dove l’abbondanza gli attendea. I Greci al contrario assai più bisognosi di ristoro, nulla ritrovavano che li confortasse. Privi di tutto, la dura necessità avea loro insegnato a profittare degli estremi rimedii. La buccia degli arboscelli che cresceano sulle arenose sommità delle mura venìa macinata, e formavasene una specie di negro pane; mentre a rinfrescare le arse fauci calavansi delle spugne sulle torbide acque dell’Acheronte, e succhiavansi quindi avidamente.
Era a tale stato ridotto il presidio di S. Veneranda, allorchè i capi di esso si adunarono a consiglio, onde deliberare sulle risoluzioni da prendersi in tanta pubblica calamità. Scendeva appunto la notte; ed i Turchi ritirati eransi nel campo, quando tutti si raccolsero in un grande atrio terreno. Era questo il deposito delle polveri: parecchie centinaja di cassoni disposti erano da una banda; buon numero di palle di grasso calibro ammucchiavansi dall’altra; ed un fanale nel fondo, illuminando il sotterraneo, degradata diffondea la sua luce fra i colossali pilastri. In mezzo ai principali capitani sedeva Samuele, Greco di straordinario coraggio, che giurato avea di salvar la rôcca, o perire. Tutti pendevano [160] dal tuo labbro: ed ognuno disposto era a farsi legge d’ogni suo parere, allorchè egli, prendendo la parola, così disse:
«La caduta estrema della Selleide che, privandoci di patria, ne avvolse fra mali inenarrabili; e la precaria esistenza di questa fortezza, ultima sede della nostra indipendenza, or qui a consesso vi appellano, o valorosi fratelli! Privi di vittovaglie, senza speranza che mano amica ne provveda, (poichè tutti i Suliotti perirono traditi nella orrenda giornata alle gole di Suli, tranne i pochi che tuttora vivono separati e dispersi entro amiche città), ad uscire una volta da tanta sciagura due soli e tremendi partiti ne restano: o qui soccombere d’inedia, o renderci a discrezione del nemico. Il vostro senno e coraggio vi guidino nella scelta: parlate, ed abbia esecuzione il partito dei più.»
Così disse: ed un istante di silenzio succeduto essendo a’ suoi detti, un giovine Suliotto propose una sortita dei più valorosi; i quali, aprendosi a forza una via nel campo nemico, e caricandosi di viveri, ricondurrebbero abbondanza nella rôcca. Appunto per la grande arditezza piacque a molti il progetto: e già un sommesso mormorio, ed un inchinare di teste, accennava ch’erasi pronti [161] ad abbracciarlo, allorchè un guerriero venerando, incanutito sotto il peso della armi, lo disapprovò.
«Lode al Cielo, (egli disse) non manca ancora il coraggio nel petto dei pochi figli sopravvissuti alla patria! dessi hanno il cuore de’ Greci, entro cui vivente io veggo tuttora la sventurata Selleide. Ma qual vero utile omai sperar si può dal valore? Qui noi non siam che dugento: è questo numero un punto inosservabile in faccia al poderoso campo dei nemici che ne circondano, superbi, ed incoraggiati dagli ottenuti vantaggi. Quando poi da questo pugno d’uomini detratta si fosse una parte per la necessaria custodia della rôcca, che mai avverrebbe dell’altra avventuratasi ad una imprudente sortita, composta di uomini valorosi sì, ma esausti quasi di forze, ed appena reggenti le armi, a petto di vigorosi nemici abbondanti di tutto? E non saria questo un esporsi a sicuro macello, senza che dal sangue risultar potesse il più lieve vantaggio?»
Tutti rimasero convinti, e si tacquero. Videro che inutile saria stata l’impresa, e che altro partito omai non restava se non quello di perire con gloria, difendendosi fino all’ultimo dai Barbari. — Ma questi non tentavano mai un vero attacco: aspettavano al sicuro, finchè tutto [162] il presidio soccombesse d’inedia. Questa idea era terribile invero: rifuggivano gli animi alla vista degli orrori che la fame iva già, preparando con lugubre prospettiva; il freddo terrore spargevasi poco a poco nel consesso, ed alcune voci osarono pronunziare... capitolazione. — Samuele allora levatosi in piedi sdegnosamente, e seco lui tutti, ad alla voce esclamò:
«E dopo la sanguinosa carnificina de’ nostri fratelli, i cadaveri de’ quali orribilmente mutilati giacciono tuttora insepolti attraverso le gole della Selleide, non si conosce ancora la fede dei Barbari? Chi è qui di voi tanto amico di una morte ignominiosa, che trattative propone co’ nemici? Dessi già stanchi di aspettare, ed anelanti alla perdita nostra, accetterebbero ogni patto: ma, esciti appena da questo sacro loco che ne difende, mille pugnali penderebbero sulle nostre gole. Conoscono essi forse i Barbari religione, umanità, diritto inviolabile delle genti? Padroni essi di tutta la Selleide, l’abborrito loro stendardo sventolerebbe allora trionfante sull’acropolo di S. Veneranda, mentre gli squallidi avanzi delle vostre membra, ammonticchiati alla rinfusa sul terreno, d’esecrando pasto servirebbero ai cani ed agli avvoltoj delle rupi. — Sdegnate [163] voi gli orrori della fame? perir volete gloriosi?... eccolo il mezzo: io ve l’addito. Son questi tremila barili di polvere che ne circondano: una sola scintilla... e siam liberati dall’obbrobrio — Sì; uditemi, fratelli, e sovvengavi pur che siam Greci! Allorquando questi Barbari nei finti loro attacchi s’innoltreranno fin sotto le mura, noi tutti ci uniremo in un punto; e ad un prolungato grido, che sarà l’ultimo nostro addio alla patria infelice, salterà in aria questa rôcca, avvolgendo con noi sotto le sue ruine gran parte degli implacabili nemici nostri. — Ecco la fine gloriose dei dugento; l’ultimo, il solo partito che ne resta: la morte!»
A questa formidabile parola all’intorno cupamente ripetuta dall’eco moltiplice di quel sotterraneo, i Greci sollevarono un grido di unanime consenso: si abbracciarono tutti fra loro; e, disciolto il congresso, ad aspettar si posero intrepidi la memoranda lor fine.
[164]
Mentre tale magnanima risoluzione prendevasi dai generosi difensori di S. Veneranda, la salute di Olimpia, cedendo sempre più, avvicinata erasi ad una totale decadenza. L’infelice avea notabilmente dimagrito: un tremito convulsivo impadronito erasi delle sue membra; ed alla fresca rosa della giovinezza, dileguatasi per sempre dalle sue gote, succeduto era il tetro pallore della morte. Il buon Solitario non perdeva mai di vista questa amabile creatura, che rapidamente avvicinavasi al termine della sua dolorosa carriera: spesso parlavale della instabilità delle umane vicende: e facendole un luttuoso quadro dei mali della terra, dipingevale coi più vivi colori la felicità immensa del Cielo.
[165]
«Quanto mai stolto (le diceva) è colui che un’ombra di vero bene quaggiù ravvisa fra noi! ma non è tutto caduco, tutto apparente? Voi lo sapete, Olimpia: in questa bassa valle di pianto non mai le labbra schiudeste al sorriso della gioja, se non che per gustar quindi più amaro il nappo delle avversità. Dal momento stesso in che gli occhi apriste alla luce incominciaste a soffrire: vi mancò la madre nel darvi la vita: uno zio che solo rimasto vi era fra quelli a cui vincoli di natura e di sangue vi legavano, lasciovvi nella prima vostra giovinezza; e gl’implacabili nemici de’ nostri altari vi tolsero prima una benefattrice, ed una saggia amica, quindi uno sposo... Ma non vi rattristate, no: rallegratevi, Olimpia! non siete ancor sola sulla terra, a Dio piace riguardarvi dall’alto. Voi gli siete cara: la vostra virtù vi rende ben meritevole dinanzi a Lui: il premio vi è preparato immenso, immutabile, eterno, e pochi giorni vi mancano per conseguirlo... ah! sì. Egli disse nella sua giustizia. — Ritorni alla sua stella quest’anima a me diletta! abbandoni finalmente una terra, ove io non la trattenni che per farla quassù rivivere più meritevole e pura. — Oh, voi felice! Sciolta finalmente dalla grave salma mortale, volerete bellissima in seno [166] all’eternità: nel dipartirvi da noi piangerete anche una volta sulla nostra miseria; mentre il globo della terra disparirà poco a poco dai vostri occhi, come dispare il lido alla nave che lo abbandona!»
A queste soavi parole confortatrici Olimpia sorrideva dolcemente: e le sue pupille rivolgendosi verso il Cielo, anelar parevano a sì beato momento.
Per lenta febbre che serpeggiando nelle sue vene tolto aveale ogni resto di forze, giaceva ella entro piccola cameretta nel più appartato luogo della rôcca: quivi omai rapidissima toccava il termine la sua vita, ed il buon Solitario non mancava di portarvisi più volte nel giorno. Vedeva egli con un certo moto di nobile invidia quell’amabile tranquillità che leggevasi in tutti i lineamenti del volto di lei: e tanta era la sua ammirazione per essa, che più volte veder parvegli un raggio del Cielo brillar tremolante sulla pallida sua fronte.
Avvolta finalmente fra la nebbia de’ sepolcri, picchiò l’ora fatale all’albergo della innocenza. L’udì l’Orfana, ma non turbossi: le labbra schiudendo al più dolce sorriso. «Padre mio! (disse al venerando Solitario) la voce dell’Onnipotente giunge alle mie orecchie: Egli mi chiama colassù. — O madre mia!... [167] oggetti i più cari della mia tenerezza!... come siete voi belli!... quanta luce vi circonda!!...
«Ah, che Dio le apre i Cieli! (esclamò allora piangendo il buon Solitario). Ella è vicina a trapassare da noi: i suoi occhi si sono in alto fissati, e la sua anima è fuori de’ sensi. — Olimpia!... Olimpia! non udite voi la mia voce?
— «Sì: (rispose l’Orfana languidamente) sì: l’odo ancora, ma per poco: essi mi chiamano... ed io... vado... a loro...»
— «Ah! se dunque (riprese il vecchio) il momento è venuto in cui lo spirito vostro separare si debbe dalla inerte materia, io ministro degli altari, lo raccomando a Colui che lo creò. Nel tuo bacio lo lascio, o Regina Coronata: ad esso incontro venga per gli spazii immensi del firmamento lo stuolo delle vergini, che esultando lo accolga qual novello concittadino della patria Celeste! — Che mai sono i nostri giorni, o Signore? nebbia, polvere, fumo, che rapidi si disperdono col solo tuo soffio. Ma la vita dello spirito non è la terrena: questa è fragile e caduca, ed esso è creato per la immortalità. — Riunisciti dunque, Olimpia, al tuo Principio: parti da questa valle di pianto, e la mia voce ti benedica nel Nome di Dio!»
[168]
Pronunziava appena queste parole il venerando Solitario, allorchè, preceduta da un prolungato grido, videsi ad un tratto una tetra luce, che tutto all’intorno rischiarò il loco come un vivido lampo: ad essa rapidissimo seguì un orribile scoppio... tremò la terra fin dai cardini suoi, e tutto crollò quindi con istrepito orrendo.
Più non esisteva la rôcca di S. Veneranda. Un solo istante ridotta aveala un mucchio di rovine: dei famosi dugento, ma insieme di più migliaja di Barbari, memorando sepolcro!
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Colla caduta della fortezza di S. Veneranda, ultima sede della Ellenica indipendenza nell’Epiro, Alì Pascià di Giannina videsi finalmente padrone di tutta la Selleide. Ad oggetto di compiere quanto la sua cieca ambizione si era da gran tempo proposto, egli popolò di soldati quelle rupi formidabili, e ne formò tanti posti fortificati: dopo di che, reclutando nuove truppe cogl’immensi tesori che possedeva, e completando un ragguardevole esercito, non appena l’opportunità lo permise, che inalberò sulle mura di Giannina lo stendardo della ribellione. Irritato il Sultano contro questo suo [170] schiavo che aspirava a rendersi indipendente, spedì delle truppe per mare e per terra, onde ridurlo alla obbedienza: il ribelle stretto d’ogni parte si afforzò nella capitale dell’Epiro, procurandosi intanto all’intorno delle favorevoli diversioni. Fu allora che il Barbaro videsi costretto a valersi de’ Greci, onde far fronte all’armata nemica. Di fatto propose loro di liberarsi per sempre dal giogo del Sultano: li fornì di armi, munizioni e danaro; e così, spingendoli alla insurrezione, egli stesso si fece la prima causa della emancipazione di quel popolo generoso. In seguito di tempo, le vicende della guerra portarono la morte del crudele Pascià, e la dispersione delle sue truppe: ma i Greci che trovavansi di già avanzati con luminosi progressi nella nobile carriera del politico loro risorgimento, non si perdettero d’animo: che anzi, aumentandosi sempre più fra di loro l’amor della patria e della indipendenza, e le isole ed il continente si unirono per mare e per terra a rivendicar colla forza la giustizia dei proprj diritti. Nel corso de’ molti anni ne’ quali durò questa guerra memorabile fecero gli Elleni prodigii di valore. Versarono fiumi di sangue, ma sempre vincitori: la gloria delle loro armi, impugnate a difendere l’altare e la patria, si diffuse [171] per tutta la terra: le grandi potenze della civile Europa interposero l’alta loro mediazione; e, cessando finalmente le stragi, fu la Grecia proclamata indipendente, ed aggiunta al novero delle Nazioni.
Demetrio rifugiatosi entro Parga con Eugenio, e cogli altri pochi Suliotti sfuggiti al pugnale de’ Barbari nella funesta giornata della capitolazione, ed informato della tragica fine dei difensori di S. Veneranda, caduto era nel più profondo abbattimento. La sola speranza che in qualche modo confortavalo, era quella di presto seguir nella tomba la cara amante perduta: ma allorquando vide la Grecia tutta insorgere per la propria emancipazione, le forze di lui si rianimarono, ed impugnò nuovamente le armi, dedicandole alla vendetta della patria e di Olimpia. Coronata finalmente dal felice successo la generosa intrapresa, e ridonata la pace alla propria Nazione, egli, a tutti ignoto, consacrar volle al ritiro il resto de’ suoi giorni: lasciate quindi per sempre le armi, ed abbandonate le fiorenti città che si andavano ripopolando, il passo rivolse alle native rupi della tanto amata Selleide. La ferocia dei Barbari rispettato avea l’eremo che un giorno trascorrer vide la prima giovinezza di Olimpia: quivi tutto era [172] intatto, e le domestiche celle, e la sacra cappella; il limpido ruscello cadeva tuttora nel suo bacino di sassi, e perdevasi mormorando nella grande foresta degli abeti. In questo sacro asilo della pace fermossi il figliuolo di Eutimia; ed indossatevi le lane di Atanasio, l’Eremita addivenne della rupe.
L’amico Eugenio sovente portavasi a visitarlo in questo nuovo soggiorno: confortarlo cercava delle più soavi parole: spesso parlavagli di Olimpia; ed allora gli occhi di Demetrio, bagnandosi di lagrime, ripigliar sembravano un istante la perduta vivacità. L’amore di lui per l’Orfana non erasi punto diminuito: quei luoghi dell’eremo che una più viva rimembranza gli ridestavano di lei, erano ad esso i più cari. Così trovava egli ogni suo bene nelle umili celle, entro cui tante volte trattenuto si era con Atanasio ed Olimpia; mentre sacro eragli quel cipresso, posto su di una eminenza della rupe, a piè del quale seduta essa mille volte aspettato avealo sorridendo dalla sottoposta vallata. Ma nulla era così caro per lui quanto la cascata della sorgente nella foresta, presso cui, sopra la bianca pietra che serviva di sedile, ritrovato aveva una volta la prima dichiarazione dell’amore di Olimpia. Ora di questa stessa pietra formato egli avea [173] un rustico monumento sacro alla memoria di lei che tanto amò sulla terra. Il nome di «Olimpia» vi era inciso a grandi lettere, e due teneri salici vi erano guidati a pianger sopra dolcemente. Quivi egli stesso ogni giorno portavasi a versarvi anche una volta le lagrime dell’amore, ed a pregarvi la pace dei secoli.
In questa guisa aspettava Demetrio il termine della vita, che un interno presentimento del cuore non additavagli lontano.
Un giorno ritornando Eugenio dall’Arta ove privati interessi l’aveano chiamato, e non lungi passando dalle rupi della Selleide, visitar volle Demetrio che da lungo tempo più non avea riveduto. Legato il cavallo ad un albero, picchiò alle celle dell’eremo, ma inutilmente: chiamò a nome più volte l’amico della sua giovinezza... niuno risposegli: entrò nella cappella... ed era questa deserta. Sperando tuttavia di ritrovarlo presso la cascata della sorgente, s’incamminò alla foresta degli abeti. — Scendeva il Sole al tramonto, ed il venticello della sera stormir facea leggermente le foglie, allorchè Eugenio vide a qualche distanza il Solitario prostrato sul terreno: avvicinossi a lui palpitando. — Le sue braccia stringeano con forza il monumento [174] di Olimpia, e la sua fronte riposava sul sasso. — Chiamollo a nome anche una volta... tentò sollevarlo... — Vane cure! Quegli occhi erano chiusi per sempre. —
FINE
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.